Deep inside she knew

di Neverland Moony
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lene e i fantasmi ***
Capitolo 2: *** colpi e narcisisti ***
Capitolo 3: *** La parola più difficile ***
Capitolo 4: *** Chiavi, lucchetti e scrigni. ***
Capitolo 5: *** Quello splendido sorriso ***
Capitolo 6: *** Come ali di farfalla ***
Capitolo 7: *** Bianco pallido, bianco morte ***
Capitolo 8: *** Gli eroi partono dalle situazioni più svantaggiose ***
Capitolo 9: *** Cantare come solo un uccello canoro sa cantare ***
Capitolo 10: *** Nel profondo lei sapeva ***



Capitolo 1
*** Lene e i fantasmi ***


Il profumo dello zucchero filato mi stava inebriando. Le grida dei ragazzi sulle montagne russe, quelle nemmeno le sentivo. Sembravano quasi un rumore di sottofondo. Le luci, le vedevo con la coda dell’occhio. Erano tante, e di mille colori diversi, accompagnate da musica da discoteca al massimo volume.
Io restavo immobile davanti all’entrata del Luna Park, mentre fumi rosa non ben definiti mi ricoprivano.
Mi mordicchiavo le labbra, senza ricordarmi nemmeno il motivo per cui ero arrivata fin lì. E fissavo un piccolo ciuffo d’erba umida sul terreno.
Intorno a me, pareva che girassero mille ombre, fantasmi del passato.
Era la seconda volta, in tutta la mia vita, che mettevo piede in quel posto.
La prima volta, mi ci aveva portata mio padre, quando ero molto piccola, per cercare di distrarmi dopo la morte di mamma. Io ero stata molto male. Ero un personaggio piuttosto asociale, da bambina.
Con il passare degli anni avevo imparato a vivere nella solitudine.
Più volte mio padre aveva provato a portarmi fuori, ma senza ottenere alcun successo.
La maggior parte del tempo lo avevo passato chiusa in camera mia, a leggere e studiare.
Quando mi era arrivata la lettera da Hogwarts e avevo iniziato a frequentare quindi la scuola di magia, avevo semplicemente imparato ad indossare una maschera, sempre, con tutti.
Ma quando papà mi aveva portata al Luna Park, tutto mi era parso diverso. Avevo guardato tutte quelle giostre come se fossero il paradiso.
Sinceramente non ricordo cosa ci avessi trovato di tanto meraviglioso, ora a guardarlo con gli occhi di una diciassettenne sembrava una noia mortale, come tutto il resto.
Mi grattai una spalla, e abbassai di poco lo sguardo notando il modo in cui mi ero vestita. Un classico, maglietta larga da uomo, jeans stretti e scarpe da ginnastica.
I capelli mossi finivano con delle punte quasi a spirale. Il potere dell’invisibilità era sempre stato dalla mia parte con quel travestimento.
Probabilmente ero l’unica in tutta la scuola a non aver mai avuto un ragazzo, ma poco mi importava.
In fondo a che serviva stare insieme a qualcuno? A questa età poi! Mi facevano venire la nausea le coppiette che si sussurravano di amarsi e di restare insieme per sempre, tanto si lasciavano due settimane dopo.
Mi distinguevo dalle mie coetanee anche per i sogni. Io non sognavo mai.
A parte rarissime volte in cui mi appariva mentre ero in dormiveglia la mia immagine che precipitava nel vuoto nero, ma non ero molto sicura che si trattasse di un sogno.
Mi dava semplicemente la vomitevole sensazione di cadere e le vertigini. Durante quei casi mi svegliavo di soprassalto, col fiatone, il cuore che batteva violentemente, e non riuscivo ad addormentarmi per ore.
Invece le mie compagne facevano un sacco di sogni interessanti, e ogni giorno non mi risparmiavano la tortura di raccontarlo alla classe come se fosse uno scoop.
Sentii una mano posarsi sulla mia spalla, bloccandomi le dita che la grattavano. Mi voltai con un’espressione annoiata.
Chiunque fosse si sarebbe beccato un bel cazzotto se non mi avesse lasciato stare.
Quando il mio sguardo incrociò il suo mi resi conto che si trattava di un ragazzo alto, dai capelli neri come la pece e gli occhi color nocciola. Erano penetranti, ma se sperava di far colpo su di me si sbagliava di grosso.
Il Luna Park era pieno di gente come lui, palloni gonfiati che di concreto avevano ben poco. Alzai un sopracciglio guardandolo storto, ma per tutta risposta mi fece un sorriso smagliante come se lo conoscessi da una vita.
«Hai una paralisi facciale o cosa?» chiesi con acidità. Ero intenzionata a togliermelo dai piedi il prima possibile. Lui non rispose, ma quello che fece mi lasciò a bocca aperta.
Allontanò la mano dalla spalla e iniziò ad arretrare. Solo che i suoi piedi non stavano toccando terra, in realtà non aveva dei piedi, ma del fumo nero.
In pochi attimi scomparve tra la nebbia. Mi stropicciai gli occhi per assicurarmi di non essermi immaginata tutto. Sicuramente era solo parte del divertimento del Luna Park. Era la notte di Halloween, la gente si divertiva a fare scherzi, tutto qui.
Mi convinsi di questo e mi massaggiai il collo. Tirai fuori dalle tasche una sigaretta piuttosto spiegazzata, l’ultima che mi era rimasta, e l’accendino color rosso fuoco che portavo sempre con me.
Mi poggiai la sigaretta tra le labbra e con un clic feci uscire la piccola fiamma dall’accendino. Aspirai profondamente per poi farmi scivolare rapidamente l’oggetto scarlatto di nuovo nella tasca.
Mio padre naturalmente non sapeva che fumavo, non lo aveva nemmeno mai sospettato. A dire il vero, per molti anni dopo la morte di mamma la gente non poteva fumarmi accanto senza che io iniziassi a gridare e agitarmi come una pazza, ma con il tempo quel gusto e quella sensazione nei polmoni mi faceva sentire più vicina a lei, a mamma; mi faceva sentire il suo profumo.

 
Quando Marlene McKinnon si svegliò da quell’incubo era tutta sudata in viso.  Si era alzata di scatto da letto con il cuore che batteva all’impazzata come se volesse uscirle fuori dal petto. Scese dal letto del dormitorio per recarsi in bagno a sciacquarsi il viso, ma inutile dire che la sua goffaggine la portò ad inciampare sulla propria valigia, che aveva lasciato disordinatamente sul pavimento, così da svegliare la sua migliore amica, Lily Evans, che si svegliò stropicciandosi gli occhi. Quel rumore non l’aveva spaventata, perché dopo sette anni conosceva fin troppo bene Marlene. 
«Ancora quel sogno, Lene?» mormorò Lily con tono materno e protettivo.
«S-sì…» mormorò la ragazza mezzosangue.
«Tremi come un fuscello.» constatò Lily alzandosi dal letto facendo attenzione di poggiare i piedi all’interno delle sue comodissime pantofole. Fece uno sbadiglio e si avvicinò alla compagna abbracciandola dal dietro e poggiando una guancia sulla sua schiena.
«Vedi di non addormentarti addosso a me.» era bastato quel piccolo gesto di Lily per far abbozzare un sorriso a Marlene, che adesso almeno non  pareva più sul punto di avere una delle sue tremende crisi.
«E’ più probabile che mi addormenti ora che ti sei calmata, che prima.» mormorò Lily per non svegliare le altre, dopo aver fatto un lungo e riflessivo sbadiglio.
«Lasciami indovinare, perché ci tieni a me e ti preoccupi se io non sto bene?» ridacchiò Lene, che già si aspettava una risposta negativa da parte dell’amica, la quale pareva sì dolce e smielata, ma che con Marlene riusciva a tirar fuori la parte più maligna di se stessa.
«Affatto. Stavi tremando peggio di un vibratore!» esclamò Lily, rendendosi però conto di aver parlato con voce fin troppo alta e adesso un paio di ragazze si erano rigirate nei loro letto, per fortuna senza svegliarsi. Sia Marlene che Lily strozzarono una risata, ma la prima di loro tornò subito ad avere un tono serio. Si staccò da quell’abbraccio e scese silenziosamente le scale che davano al salottino della loro Sala Comune, davanti al caminetto, perennemente ardente. Lily in un primo momento rimase immobile, stupita: era la prima volta che la sua migliore amica non tornava a letto dopo essersi calmata. La raggiunse qualche istante dopo e andò a sedersi con lei sul comodissimo divano. Sapeva che qualcosa era diverso da tutte le altre volte. Il silenzio regnò su di loro. Ma non era quel genere di silenzio imbarazzante che si crea spesso tra due persone che si conoscono da poco, ma più che altro quel silenzio abissale e profondo, che conferiva a quel momento un’importanza altisonante. Fu Lily a rompere il silenzio, pur sapendo che si trattava di un argomento delicato. Ma sapeva anche che l’unico modo per aiutarla era andare a toccare lì dove il dente duole.
 «Sai Lene, non mi hai mai voluto raccontare questo tuo sogno che fai ormai da sette anni…» aveva pronunciato quella frase con tono pensieroso, per cercare di farle pesare il meno possibile il significato che si celava dietro quelle parole.
«Hai ragione. Vorrei davvero potertelo raccontare, e ho intenzione di farlo, ma…» Marlene fece una lieve pausa deglutendo. Non era da lei avere quel viso pallido e quella debolezza nella voce. Di solito lei era la ragazza costantemente sicura di sé e in grado di affrontare qualsiasi difficoltà. No. Quella non era la vera Marlene McKinnon, ma solo la maschera che indossava. «Ad una condizione. Dovrai prima rispondere a delle domande.» terminò così la frase, senza aspettarsi che Lily le desse una risposta a parole. Difatti si limitò a fissarla negli occhi.
«Noi siamo streghe. Passiamo ad Hogwarts gran parte della nostra vita. Conviviamo con fantasmi di ogni genere. Ma non hai mai l’impressione che tutto questo sia surreale? Non ti sembra mai di guardare quello che ci accade intorno attraverso una finestra? Non…» era la frase più difficile da pronunciare per lei, perché conteneva in quelle poche parole l’incubo che ormai faceva ripetutamente e senza minimi cambiamenti almeno una volta al mese da anni «N-Non hai mai avuto paura del fantasma del tuo passato?»
Forse era per questa ragione che Marlene era sempre apparsa così forte e coraggiosa. Questa la ragione per cui il Cappello Parlante l’aveva smistata in Grifondoro ritenendola degna di indossare la divisa nera ornata da bordi rossi. Il fatto che a Marlene i Dissennatori, i Mangiamorte, i lupi mannari, come qualsiasi altra cosa, paragonati al suo passato, parevano briciole di sabbia al Polo Nord.
Lily, che subito intuì questa cruda realtà le strinse forte la mano. Queste domande in verità l’avevano scossa. Si era imposta come principio il non guardare mai indietro e ora che Marlene la stava costringendo a farlo il sangue le si raggerò nelle vene. Annuì col viso, mentre pensieri oscuri si crearono nella sua testa, che iniziò a roteare e roteare, portandola in una dimensione assai lontana da loro, finché i ricordi non presero vita e le sue labbra non iniziarono a muoversi spiegando a Marlene quegli astrusi pensieri che volteggiavano nella sua testa come foglie bloccate nel letale vortice di un tornado.

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Capitolo 2
*** colpi e narcisisti ***


Da lontano udì Piton urlarle contro, umiliato e furente, le parole imperdonabili: «Schifosa Mezzosangue».
La scena cambiò...
«Mi dispiace».
«Non mi interessa».
«Mi dispiace!»
«Risparmia il fiato».
 Era notte, Lily, in vestaglia, era davanti al ritratto della Signora Grassa, a braccia incrociate, all'ingresso della Torre di Grifondoro.
«Sono uscita solo perchè Mary mi ha detto che minacciavi di dormire qui».
«L'avrei fatto. Non volevo chiamarti “schifosa Mezzosangue”, mi è...»
«...scappato?» Non c'era pietà nel tono di Lily. «Troppo tardi. Ti ho giustificato per anni. Nessuno dei miei amici riesce a capire come mai ti rivolgo la parola. Tu e i tuoi cari mangiamorte...vedi, non lo neghi nemmeno! Non neghi nemmeno quello che volete diventare! Non vedi l'ora di unirti a Tu-Sai-Chi, vero?»
 Lui aprì la bocca, ma la richiuse senza aver parlato.
«Non posso più fingere. Tu hai scelto la tua strada, io la mia».
«No...senti, io non volevo...»
«...chiamarmi schifosa Mezzosangue? Ma chiami così tutti quelli come me, Severus. Perchè io dovrei essere diversa?»
Piton stava per ribattere, ma con uno sguardo sprezzante lei si voltò e varcò il buco del ritratto...
 
[Tratto da “Harry Potter e i Doni della Morte”- Cap. 33]
 
 
Quella era stata l’ultima volta in cui Lily aveva rivolto la parola a Severus Piton. Ormai non le dispiaceva nemmeno un po’ quando James e gli altri Malandrini lo maltrattavano. Eppure era rimasto il suo fantasma del passato più grande. Avrebbe tanto voluto descrivere a Marlene la rabbia e il dolore che aveva provato nei confronti di Piton, ma non esistevano vocaboli appropriati per riuscirci.
In confronto James Potter le sembrava la perfezione fatta persona.
Eppure se non fosse stato per Severus dove si sarebbe trovata ora? Lui l’aveva aiutata con i compiti, con gli amici, con i pensieri.
Anche se non era mai stata una persona studiosa lui l’aveva aiutata a trovare la strada giusta per lei, gli incantesimi.
Per questo eccelleva in Difesa Contro Le Arti Oscure.
Prima lei e Sev erano quasi complici, ora rivali, anche in quella materia della quale entrambi avevano sempre condiviso la passione. Adesso persino James stava ben attento a tenerli separati.
Lily stava raccontando la sua storia a Marlene, quando dei forti colpi si udirono all’ingresso della Sala Comune.
«Non dovresti essere qui. Senza parola d’ordine per giunta. Ti avverto ragazzo un solo altro colpo sulla mia belliss... Aaaaah insomma!» Chiunque fosse non si era minimamente interessate della Signora Grassa che custodiva l’ingresso alla Sala Comune dei Grifondoro perché continuava a tirare colpi a raffica sul dipinto che la ritraeva.
Nella mente di ily già si era creata la possibilità, e con essa la paura, che si potesse trattare di Severus, ad ogni passo che Marlene attuava in direzione della porta d’ingresso. Marlene fece una lieve pressione con il palmo sul retro del dipinto della Signora Grassa tenendo le dita libere pronte ad estrarre la bacchetta. Uno scricchiolio.
Si udì a malapena la Signora Grassa borbottare: «Visto? Hai svegliato tutti, razza di maleducato. La notte dovrebbe essere sacra.»
In realtà quell’ultima parola era andata persa alle orecchie di Marlene, e ancora meno parole era riuscita a percepire Lily, che aveva le orecchie che le fischiavano per la tensione.
La porta si aprì di scatto. Le due ragazze sussultarono e contemporaneamente posarono una mano sul petto a causa dello spavento, che aveva procurato loro un battito cardiaco talmente accelerato da far sembrare che il loro cuore volesse schizzare fuori.
Ma dall’ombra dei corridoi bui non apparve Severus Piton, con i suoi lineamenti duri e spinosi, ma un Dedalus Lux esuberante che corse all’interno della Sala Comune Grifondoro, iniziando a saltellare sul posto una volta giunto al centro della stanza, nello spazio compreso fra il divanetto e il camino. Fortunatamente sotto ai piedi aveva l’antico grande e spesso tappeto, altrimenti avrebbe svegliato tutti, senza distinzione tra maschi e femmine.
«Lux che diavolo stai facendo?» Marlene avrebbe volentieri urlato, ma la sua voce apparve fioca e strozzata per via di quello shock che la situazione le aveva provocato.  Lily era rimasta paralizzata, con la bocca e gli occhi spalancati.
«L’ho visto! L’ho visto! Ho…» ma le proteste di Dedalus vennero immediatamente azzittite dal palmo di Marlene , che si era affrettata a premergli sulle labbra.
«Abbassa la voce o sveglierai tutti!»
Ma quelle parole giunsero troppo tardi, perché già arrivavano dai dormitori i lamenti e i passi dei ragazzi che si erano svegliati pe ril trambusto e che stavano andando a controllare a cosa era dovuto. In un batter d’occhio attorno ai tre ragazzi si era formata una piccola folla piena di borbottii.
«Oh vi prego, non ancora…»
«Chiamiamo il preside!»
«Qualcuno va avvertito.»
«E’ malato di mente.»
«Questa è la dimostrazione che i purosangue non sono tutti così perfetti come dicono.»
«Poveretto…»
Persino la Signora Grassa si era unita al coretto, balbettando ad alta voce diversi “Quello è tutto pazzo” e “Sono una povera vecchia che non può nemmeno riposarsi un po’… Oh, però le rughe ancora non si sono presentate! Riconosco essere piuttosto affascinante!”. Aveva iniziato a fare la narcisista quando agitando le braccia quasi convulsamente aveva notato il suo riflesso sul piccolo specchio che tiene sempre in mano.
Inutile dire che questa confusione, come un’esplosione a catena, aveva svegliato a “caduto domino”, prima tutti gli altri quadri, poi persino i professori.
Ma solo Lumacorno, preso da un’estrema curiosità, aveva adagiato l’orecchio ad una parete per ascoltare ciò che veniva detto dai quadri e, ancora nel suo buffo pigiama, aveva risalito i sotterranei in un baleno, piombando nella Sala Comune Grifondoro, senza il minimo accenno di stanchezza.
«Che cosa accade qui dentro? C’è forse un party a cui non sono stato invitato, per caso?»
Tutti si misero a ridere per quella esclamazione, ma subito dopo si azzittirono allargando il cerchio in modo da poter mostrare al professore di pozioni la curiosa scena di Dedalus.
Lumacorno non parve minimamente sorpreso quando vide il ragazzo steso sul pavimento a pancia in su che scuoteva braccia e gambe come se si trovasse sulla neve e cercasse di fare sul terreno nevoso un angelo.
«Ragazzo mio, avanti alzati. Hai dimenticato la pillola magica che ti ho prescritto stasera, non è così?» disse gonfiando il petto, come per vantarsi della sua grande capacità intuitiva e della sua esperienza.
«No! L’ho visto davvero! L’ho visto davvero, le dico!» continuava a urlare Dedalus.
«Lui chi, signorino Lux? Raccontami.» gli disse Lumacorno facendo apparire una tazza di thè e iniziando a sorseggiarlo dopo essersi messo comodo sul divano.
La folla iniziò a diminuire, poiché i ragazzi più assonnati tornarono a letto.
«Lui, professore! Il fantasma!» Dedalus balzò in piedi, stringendo le spalle di Lumacorno con così tanto vigore da far tremare la tazza che quest’ultimo teneva in mano.
«Lo dici come se fosse la prima volta che vedi un fantasma in questa scuola!»
«Non quel genere di fantasma, professore!»
Erano ormai rimasti solo Lily e Marlene a vista nella stanza, anche se Sirius Black e James Potter stavano origliando dai dormitori.
«Il fantasma di Severus Piton. Sì, proprio lui, professore! Non mi guardi così, le assicuro che l’ho visto, trasparente e freddamente inconsistente.» spiegò Dedalus sotto la sorpresa di tutti «Come se Severus Piton sia già morto.»

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Capitolo 3
*** La parola più difficile ***


«Dovresti smetterla con questi scherzi, Piton; spaventano i ragazzi più sensibili.»
«Le assicuro, preside, che a quell’ora dormivo tranquillamente nel mio letto.» Cercò di spiegare Severus. Il suo viso era spento e pallido. Non aveva paura, pur sapendo di rischiare l’espulsione dalla scuola.
«Dedalus Lux insiste col dire che ha visto il tuo fantasma. Quale altra spiegazione puoi dare a questa visione?»
Severus e il preside si guardarono negli occhi per lunghi istanti, senza che nessuno dei due abbassasse lo sguardo.
«Rischi di non mettere più piede qui dentro. Spero che questo tu lo capisca. La situazione è grave.»
«Allora mi espelli.» quelle parole, pronunciate quasi con disprezzo, crearono altro silenzio tra i due. Lo stesso tipo di silenzio che in precedenza c’era stato tra Lily e Marlene.
«Sei un ottimo studente, Piton. Non ti caccerò dalla scuola. Ma se questo fatto, o uno simile, si verificherà nuovamente…»
«…Allora dovreste trovare un vero colpevole e avere delle prove, invece di dare una tale importanza alle parole di un folle!» lo interruppe bruscamente Piton, alzandosi dalla sedia e sbattendo le mani con forza sulla scrivania.
«Non ammetto tale comportamento da parte tua, Piton. Cosa ti è capitato? Perché è chiaro che sei cambiato. Fino all’anno scorso eri uno studente così brillante. Pra la tua luce si sta spegnendo, come se fossi una candela ormai al suo termine.»
Severus si morse il labbro inferiore a quelle parole. Ci pensò un po’ su, per poi tornare seduto sulla sedia guardando i propri piedi.
«Ne parlerò solo col professor Lumacorno.» Disse poi volgendo il capo al professore di pozioni, che fino a quel momento era rimasto in piedi silenziosamente accanto al ragazzo.
Il preside acconsentì a quella condizione. Si alzò dalla sua poltroncina e si allontanò da loro, pescando un libro a caso tra quelli dell’immensa libreria. Intanto Lumacorno fissava Severus, turbato.
«Ho studiato duramente durante questi anni professore.» mormorò il ragazzo con un tale modo da dimostrare profondo rispetto verso Lumacorno e i suoi insegnamenti passati.
«Questo lo riconosco, ma…» iniziò Lumacorno, ma subito Severus allungò in avanti una mano, per fargli cenno di lasciarlo continuare.
«Adesso so come evocare un perfetto patronus, come volare virtuosamente sulla mia scopa, conosco tutti i segreti svelati dalla storia della magia. Non temo il mio Molliccio per il semplice motivo che nella forma in cui si presenta non mi fa paura, ma mi provoca piuttosto il bisogno di venerarla, tale forma. Ma se il Molliccio si presentasse in altra maniera, so che non riuscirei mai ad affrontarlo.»
Lumacorno apparve senz’altro molto incuriosito, poiché si chinò sulle ginocchia per avere il viso alla stessa altezza di quello di Piton, che parlava così a bassa voce che il suono fuoriuscito dalle sue labbra era a malapena udibile.
«E’ sempre difficile affrontare le proprie paure, specialmente quelle più grandi. Ma dimmi, qual è il tuo Molliccio, caro ragazzo?»
«L’amore, temo. Nessuno, né lei né altri professori mi hanno mai spiegato il significato di tale parola. Mi sono sempre domandato perché qui come in qualsiasi altra scuola, anche babbana, non ci sia un’ora dedicata alla Vita. Ho dovuto scoprirla da solo, e tutt’ora la sto scoprendo. L’amore è arrivato colpendomi di sorpresa, mi ha colto impreparato, e mi ha travolto con tutte le sue conseguenze.»
Mai più nessuno sentì parlare Severus Piton, ragazzo fino a quel momento tanto riservato ed impacciato con le parole, parlare in maniera così sincera e aperta. E mai più nessuno vide tale dolcezza negli occhi del professor Lumacorno, fino a quel momento troppo dedicato a “collezionare” talenti per provare dolcezza e malinconia per le parole di qualcuno.
Era stato un avvenimento quello di tale sera che aveva donato qualcosa a entrambi, qualcosa che sempre sarebbe vissuto nella memoria e che magari ad anni di distanza sarebbero andati a rispolverare. Ma nessuno dei due avrebbe trovato il coraggio di ammettere e di dire all’altro o a chiunque altro quella scintilla, quella comprensione, che c’era stata tra di loro e che li aveva arricchiti così tanto.

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Capitolo 4
*** Chiavi, lucchetti e scrigni. ***


A scuola giravano voci che Dedalus Lux fosse pazzo.
Ma la verità è che tutto era tranne che pazzo, o stupido, o malato.
Era solo difficile comprenderlo.
Se era finito in Corvonero un motivo c’era. Il Cappello Parlante non sbaglia mai, mai.
Penso che sia più semplice dire che qualcuno è pazzo, piuttosto che provare a comprenderlo e a cercare di capire perché potrebbe essere un genio. Ci si sente degli stupidi quando non si capiscono appieno le persone. O meglio, più che capire, userei il verbo “comprendere” che può sembrare molto simile, ma in verità è assai diverso.
Era chiaro a tutti che Dedalus non potesse davvero aver visto il fantasma di Piton, in quanto Severus era ancora vivo. Persino Dedalus lo sapeva.
Allora perché ci teneva così tanto a ripetere quell’affermazione in continuazione e con così tanta decisone? Perché si era recato proprio da Lily per farlo?
Non era un caso.
Ma per capire cosa davvero è accaduto, per entrare nella mente apparentemente folle e astrusa di Dedalus dobbiamo spostarci nella Stamberga Strillante, luogo che tutti ritenevano inquietante, ma che per lui era come una seconda casa, dopo Hogwarts.
Andava lì quando aveva bisogno di sfogarsi.
Lì poteva urlare, strepitare, agitarsi, piangere, qualsiasi cosa. E nessuno poteva sentirlo o interromperlo. Quello era l’unico luogo in cui riusciva ad essere davvero se stesso.
«SEVERUS CHE TI HANNO FATTO?!» strillò Dedalus non appena chiuse con il catenaccio la vecchia porta mordicchiata dai tarli di una stanza totalmente vuota della Stamberga.
Le pareti un tempo bianchi avevano preso un colorito giallognolo e qua e là c’erano macchie di sangue.
Ma la storia delle macchie di sangue ve la racconterò in un secondo momento.
«Mi hanno ucciso. Mi hanno ucciso, Ded.» ovviamente a parlare non era stato Piton. Piton si trovava a riposare nel suo letto nel dormitorio quel pomeriggio in cui non aveva lezione e in cui voleva evitare i dispetti e gli scherzi pesanti di James Potter e la sua combriccola.
«Spiegami come! Come ti hanno ucciso?» ma Dedalus non ottenne alcuna risposta a quelle domande. Si era messo davanti all’angolo formato da due pareti e aveva iniziato a tirarci sopra colpi con i palmi di entrambe le mani.
«Dimmelo Sev! Ho bisogno di saperlo! Non posso aiutarti altrimenti!» Ad ogni parola un colpo faceva vibrare le pareti. Dedalus aveva gli occhi da pazzo. Ma non era pazzo. Stava ragionando ad alta voce.
«Salvami Lux, salvami…» Ancora quella voce. Di fatto nella stanza non c’era nessuno, nessuno a parte Dedalus, era infatti lui a parlare con quella vocina stridula, rispondendo da solo alle proprie domande. Era il suo modo di pensare. Un po’ da pazzo, forse. Ma immaginarsi davanti a sé qualcuno e riportare a voce il dialogo che potrebbe esserci tra i due, aiutava a visualizzare la scena e a trovare una possibile causa e di conseguenza anche una soluzione.
«Non posso aiutarti se non mi racconti!» adesso Dedalus scuoteva il capo. Teneva i pugni serrati e il volto chino verso il basso. La puzza di quella stanza lo pietrificava. Ma ormai era diventato una parte di lui. Aveva imparato a conviverci.
Sapeva Lily era la chiave di tutto, questo gli era chiaro fin dall’inizio. Aveva notato il modo in cui tutti i giorni da un anno a questa parte quando Severus Piton incrociava Lily Evans da qualche parte abbassava il capo e il suo volto vuoto si riempiva di una nuova malinconia più forte della precedente. Ma sapeva altrettanto bene che parlare con lei direttamente non avrebbe portato a niente.
Ed è qui che ebbe un’illuminazione, una piccola lampadina immaginaria che si accese sopra il suo capo.
Abbozzò un sorrisino. Lily non era la chiave di tutto. Lily era il lucchetto. Il lucchetto che chiudeva il cuore di Severus Piton in quello scrigno. La chiave era un’altra. Ed era l’unica che poteva aprire quel lucchetto e liberare Piton dal suo tormento. E questa chiave aveva un nome. Un nome che riecheggiò per secondi che parvero un’infinità nella mente di Dedalus, come se lo avesse urlato dalla cima della montagna più alta. Marlene McKinnon.

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Capitolo 5
*** Quello splendido sorriso ***


Nessuno seppe mai cosa si dissero Dedalus e Marlene, quando si incontrarono al famosissimo pub “I Tre Manici Di Scopa” durante la gita annuale ad Hogsmeade.
E non riporterò nemmeno a voi la loro conversazione.
Vi basta sapere che entrambi ne uscirono diversi, e consapevoli di questa loro diversità.
Marlene in effetti era piuttosto scossa per via di questa sua nuova consapevolezza. Aveva l’estremo bisogno di parlare con Lily, di raccontarle tutto. Ma anche lei, come tutti gli altri, si persero la narrazione di quella misteriosa conversazione.
Il motivo? Un incontro che inizialmente era partito piuttosto male.
Lene non aveva molta voglia di andare a giro per locali, come stavano facendo i loro compagni. Aveva intravisto James e Lily entrare per mano Da Madama Piediburro. Era stata questa la ragione per cui si era trattenuta dal correrle incontro e chiederle un momento per spiegare.
Era risaputo da tutti che quel posto era adatto alle coppiette e Marlene sorrise, perché sapeva che quello era il piccolo momento di felicità di Lily, che era in fondo la sua migliore amica.
A quanto pare James si era deciso a chiederle un appuntamento, dopo anni in cui non ha fatto altro che fissare la Evans dalla parte opposta della classe. In realtà Marlene aveva capito che James era interessato a Lily durante il terzo anno, quando Lily a pranzo si era seduta accanto ad un ragazzo chiamato Pete. James lo aveva fissato male tutto il tempo con quello sguardo che stava certamente a dire “avvicina il tuo visino ancora un po’ a Lily e lo farò diventare una frittata”.
Ma non mi soffermerò ancora a parlarvi di questo evento, o su chi sia Pete. Perché abbiamo cose ben più importanti di cui parlare.
Insomma. Alla fine Marlene aveva preferito lasciare ai due piccioncini la loro privacy e si era allontanata dal villaggio di Hogsmeade, sedendosi sull’unico tronco non innevato che aveva trovato a pochi passi dalla Stamberga Strillante.
Stava per immergersi nei suoi pensieri quando una palla di neve la colpì in pieno al centro del petto, bagnandole il cappotto.
Alzò la testa per maledire qualunque moccioso del primo anno colpevole dell’atto.
Immaginava che fosse qualcuno del primo anno perché ricordava che anche lei quando aveva la loro età si divertiva a giocare a palle di neve in quel luogo.
Ma davanti a lei non c’era un primino, bensì quello sbruffone insopportabile di Sirius Black, piegato in due dalle risate.
«Vattene, Black.» sbruffò la ragazza scuotendo il capo e distogliendo lo sguardo da lui. In sette anni che frequentava la scuola non era proprio mai riuscita a farglielo andare a genio. Non riusciva a capire come facessero tutte le ragazze a cadere ai suoi piedi.
Lene si chiese se il ragazzo fosse sordo o lo facesse apposta (se lo domandò anche se sapeva già che la risposta era la seconda), perché Sirius anziché andar via fece uno scatto nella sua direzione, accucciandosi davanti a lei.
«Sei radiosa questo pomeriggio, ne sei consapevole?» mormorò il ragazzo in tono fin troppo dolce.
«E tu dovresti smetterla di riciclare frasi da usare per i tuoi milioni di flirt, ne sei consapevole vero?» era davvero nervosa per quella situazione. Ma non nervosa come quando hai un appuntamento per la prima volta con un ragazzo che ti piace, no. Piuttosto quel nervosismo che ti sale in gola quando qualcuno che odi si appiccica come una sanguisuga, come nel suo caso.
«Non sono qui per fare lo scemo, anche se immagino che sia l’impressione che ho dato.» si affrettò a dire Sirius, scaturendo una strana curiosità in Marlene. Lei si aspettava una battutina squallida classica di Sirius, che non arrivò.
«Ho notato che c’è qualcosa che non va. Sembri scossa.»
«Non penso che ti interessi.»
«Pensi male allora.» Sirius fece una lieve pausa facendo scorrere il pollice sul suo labbro inferiore. Per poi riprendere dopo una rapida riflessione «Senti Lene, so che può sembrare strano. Ma dopo questi sette lunghi anni in cui non abbiamo fatto altro che odiarci e prenderci in giro, mi sono reso conto che… Beh, se ho preso di mira te più di tutti gli altri c’è una ragione precisa.»
Marlene alzò gli occhi e lo fissò. Era la prima volta che sentiva Sirius Black parlare così. Aveva paura che cercasse di ingannarla per un altro dei suoi stupidi scherzi, però conosceva bene quel ragazzo e non era affatto da lui parlare in quel modo, con quel tono. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma nella sua mente c’era così tanto caos, che le sue labbra si richiusero immediatamente senza dire niente. Così fu nuovamente Sirius a prendere la parola, dopo aver dolcemente poggiato le dita sulla coscia della gamba che Marlene aveva accavallato sull’altra.
«Tu mi piaci, Marlene. Ma voglio che tu sappia che non mi piaci come mi sono piaciute tutte le ragazze che ho attratto in precedenza, che altro non avevano che bellezza fisica. Tu mi attrai come il positivo attrae il negativo in una calamita. Mi piaci come mi piace vedere l’arcobaleno dopo un giorno piovoso.»
Marlene a quelle parole rimase a bocca aperta. E in un frammento di secondo si rese conto che anche per lei era lo stesso. Quell’odio in fin dei conti era pur sempre qualcosa. Era quel senso di malinconia per quanto sbruffone e irraggiungibile fosse quel dannato Sirius Black che tutta la scuola amava.
Ora, potrei stare qui a riportarvi questa, di conversazione, ma oggi sono malefica quindi non lo farò e lascerò alla vostra immaginazione cosa accadde poi.
Ovviamente tra i due ci fu un bacio, e poi un altro e un altro ancora.
Spesero tutta la giornata insieme.
Per Marlene era così strano. Ma strano in senso buono.
Non si sarebbe mai aspettata da parte di Sirius qualcosa del genere.
Probabilmente era stata la prima con cui aveva parlato in maniera tanto dolce in modo sincero.
E vi assicuro, che è stata anche l’ultima.
Perché dopo Marlene, nemmeno una ragazza aveva più sfiorato la sua mente e il suo corpo.
Un ultimo bacio, prima di congedarsi per andare nei rispettivi dormitori a dormire.
Era stata una giornata faticosa per tutti, di conseguenza tutti erano stanchi e tutti si erano affrettati ad andare nei rispettivi letti.
Sirius Black era stata la causa per la quale in un attimo la conversazione avuta con Dedalus era volata via dalla mente sognante di Marlene.
Come al solito Lily e Marlene si addormentarono parlando.
Lily parlava del suo appuntamento romantico con James.
Marlene parlava dell’accaduto con Sirius.
Non sono ben sicura che capissero una parola di ciò che l’altra diceva, perché parlavano insieme, con frasi che non avevano senso se non nelle proprie menti, ancorate agli avvenimenti vissuti proprio in quel giorno.
Lily fu la prima a crollare tra le braccia di Morfeo.
Marlene si sentiva troppo eccitata per addormentarsi.
Lo fece solo dopo un paio d’ore, dopo aver passato in rassegna ogni gesto fatto quel giorno.
Quando si ricordò di quanto accaduto da “I Tre Manici di Scopa” era ormai tardi.
Fece una smorfia facendo sprofondare il capo sul cuscino.
Non aveva importanza, non c’era alcuna fretta.
Avrebbe parlato con Lily di Dedalus il giorno seguente, prima di andare a colazione.
Quella notte Marlene si addormentò con uno strano sorriso, un sorriso così raggiante e pieno di vita.
Da tanto non si vedeva un tale sorriso sulle labbra della ragazza, troppo tempo perché qualcuno lo potesse ricordare.
Probabilmente Sirius Black era stato l’unico ad averne un assaggio. L’unico e anche l’ultimo.
Perché Marlene, quando cadde addormentata con quel suo splendido sorriso ancora ad adornarle le labbra e con quella meravigliosa gioia che le batteva nel petto, non sapeva che quella stessa notte avrebbe esalato il suo ultimo respiro. 

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Capitolo 6
*** Come ali di farfalla ***


Molti di voi avranno pensato che Marlene è il protagonista di questa storia. Ma non è così. Per questo ho intenzione di allontanare l’attenzione da Lene (e di conseguenza farvi aspettare per sapere cosa le accadrà) e passare ad un altro personaggio. Nemmeno lui è il protagonista, ma è stato tutto questo tempo ad osservare la situazione e mi sembrava giusto raccontarvi qualcosa anche di lui.
Remus Lupin.
Era anche lui al settimo anno con James Black. E anche lui faceva parte della sua combriccola.
Sinceramente, anche lui frequentava la Stamberga Strillante.
Gli aveva concesso Albus Silente quel luogo, perché Lupin è sempre stato un tipo un po’ strano.
Ma non penso sia necessario creare suspense per dirvi che Lupin è un lupo mannare, perché penso sia noto a tutti che dopo che è stato morso da Fenrir Greyback, il lupo mannaro più feroce della Gran Bretagna, ha dovuto fare la sua stessa fine.
Ma Lupin e Greyback non hanno niente a che fare l’uno con l’altro.
Lupin è mansueto, Greyback è violento.
Lupin è dolce, Greyback è volgare.
Lupin è colto, Greyback è un ignorante.
Lupin sa ascoltare, Greyback l’unica cosa che ascolta è la sua pancia che brontola quando ha fame.
Per questo Remus, dopo aver spiegato la situazione al professor Albus Silente, diventato preside già da diversi anni, era riuscito ad entrare ad Hogwarts, nonostante questo suo piccolo… come dire, “handicap”.
Si era sempre sentito a disagio per colpa della sua trasformazione, ma le cose erano migliorate quando Silente gli aveva mostrato un passaggio segreto che lo conduceva nella Stamberga Strillante, dove poteva passare le notti di luna piena.
Queste trasformazioni erano per lui atroci.
Non abbandonava del tutto la sua coscienza umana.
Si rendeva conto di cosa faceva, nel momento stesso in cui la metteva in atto.
E se ne pentiva.
Così dopo aver ucciso qualche animale ed esserselo divorato, all’interno della Foresta Proibita (che teoricamente era “proibita” anche per lui), tornava nella Stamberga e si feriva.
Era capace di farsi scorrere gli artigli in profondità per tutta la lunghezza di un arto.
Gemeva, piangeva, soffriva, ma non si fermava.
La credeva l’unica giusta punizione per le sue azioni e per quella maledizione.
Quindi, se eravate interessati a cosa erano dovute quelle macchie di sangue che abbiamo trovato in precedenza durante il soggiorno di Dedalus nella stanza della Stamberga Strillante, ora lo sapete.
Fortunatamente Remus Lupin andava in quel luogo solo di notte, quando c’era la luna piena.
Così lui e Dedalus non si erano mai incrociati.
Non avevano la più pallida idea che entrambi condividessero quel luogo così spettrale.
Ma quella sera, fu diverso.
Dedalus Lux si era svegliato nel cuore della notte dopo un incubo orribile, che non riusciva però a ricordare se non per poche immagini.
Gli aveva lasciato uno strano senso di inquietudine.
Tutto ciò che sapeva era che doveva alzarsi dal letto e uscire dalla sua Sala Comune, anche se questo gli avrebbe causato grossi guai.
Ricordava che nel sogno c’era una ragazza, ma non riusciva a ricordarsene i lineamenti.
E con lei un uomo, che faceva raggelare il sangue solo guardandolo.
Aveva bisogno di pensare, di risistemare i pensieri.
Doveva ricordarsi i dettagli di quel sogno, perché sapeva che non si trattava di un semplice sogno.
Il cuore gli batteva a mille.
Stava risalendo i corridoi di Hogwarts nel bel mezzo della notte.
Non era la prima volta che lo faceva.
Ma certo non gli era mai capitato di dover uscire fuori dal castello.
Come avrebbe fatto ad aprire la porta d’ingresso?
Poi si ricordò di aver visto James Potter e Sirius Black sparire dietro ad una statua una volta e non fare ritorno per almeno un’ora.
Si trovava proprio vicino all’ingresso, così decise che ternar non avrebbe nociuto.
Quando Dedalus camminava i suoi passi sembravano battiti di farfalla. Ma “Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo“[1], quindi Lux temeva che nonostante la leggerezza dei suoi passi non sarebbe mai riuscito ad uscire e rientrare senza farsi notare dalla scuola.
Proprio quando era arrivato nei dintorni del punto in cui i due Malandrini erano svaniti, notò con la coda dell’occhio un rapido movimento alle sue spalle.
Si voltò ma non vide niente.
Non ebbe il tempo di fare un altro passo che qualcuno o qualcosa gli sgusciò di lato.
«Odio i giochetti.» mormorò Dedalus Lux a denti stretti.
«Non dovresti trovarti fuori dal letto, in un posto del genere, a quest’ora.» era una voce giovanile, ma che in un primo momento non riuscì a riconoscere. Non era certamente un prefetto, perché avevano l’ordine di controllare i corridoi fino alle undici e poi di andare a letto con tutti gli altri.
E non ricordava che un prefetto avesse mai infranto la regola.
«Qualcosa mi dice che nemmeno tu dovresti essere qui.»
«E invece sì. Ho l’autorizzazione da Sil…» ma in quel momento spezzò la frase a metà. Stava per dire troppo.
In ogni caso per Dedalus aveva detto abbastanza da capire che quella voce era quella di Remus Lupin. All’inizio non l’aveva riconosciuta perché era il più silenzioso tra i Malandrini.
«Lupin!» esclamò allora Dedalus. Voleva vederlo in faccia.
Odiava parlare con qualcuno che non riusciva a vedere. Dietro di sé una figura gli si avvicinò. Lux si voltò e allora lo riconobbe anche dai lineamenti, a malapena intravisibili nel buio.
«Per favore, non fare domande. E t-torna a dormire.» la voce di Remus era tremante. Dedalus pensò che fosse per paura che lui dicesse qualcosa a un professore. Ma perché avrebbe dovuto farlo, quando lui stesso sarebbe finito in seri guai?
«VATTENE!» urlò allora Lupin, visto che Dedalus non aveva alzato un muscolo da dove si trovava.
Gli corse incontro dandogli una spinta con una spalla.
In un attimo Lux si ritrovò a terra, con la testa contro la statua dietro la quale erano spariti Sirius Black e James Potter una volta.
Non aveva mai pensato che in un ragazzo così silenzioso e timido come Lupin ci potesse essere tanta forza.
La vista gli si appannò.
Gli occhi lentamente si stavano chiudendo.
Si sentiva stanco e pesante.
Riuscì a fatica a portarsi una mano sul retro del capo, sentendola immediatamente bagnata.
E un attimo dopo perse i sensi, mentre piccole gocce di sangue scendevano, colandogli persino sul collo, vicino all’orecchio.
E fu un vero peccato. Una vera sfortuna. L’essere nel posto giusto al momento sbagliato.
Perché se quella non fosse stata una notte di luna piena, e se non avesse trovato Remus Lupin a fermarlo, probabilmente Dedalus sarebbe riuscito a capire tutto. A capire chi fosse la misteriosa ragazza del sogno. E a salvarla.
Perché lui era l’unico a sapere che qualcosa di strano e malvagio stava per accadere, e lui era l’unico che poteva fermarlo.           


[1] “The Butterfly Effect”, 2004

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Capitolo 7
*** Bianco pallido, bianco morte ***


Era tutto gelido.
Non perché facesse freddo e fosse notte, anche se in effetti era così.
Marlene aveva freddo per qualcosa che la disturbava.
Era uscita dal letto verso le due di notte.
Questa volta non aveva svegliato nessuno, nemmeno Lily.
Non era cosciente di star camminando, e di essere uscita dalla scuola in qualche modo.
Si muoveva, ma era addormentata.
Sonnambula.
I piedi scalzi si posavano sull’erba gelida.
Si stava ormai addentrando nella Foresta Proibita.
Un sussurro le arrivò alle orecchie, indicandole la direzione da prendere.
«Vieni da me…Ti sto aspettando.» continuava a ripetere la voce, spettrale e gelida.
E lei la seguiva.
Anche se sapeva che l’avrebbe portata solo ad una cosa.
Non riusciva a svegliarsi.
Pensava fosse uno dei suoi incubi.
Da qualche parte dentro di lei era anche felice.
Perché per lo meno il sogno era cambiato, era per una volta diverso da quello che faceva da sette anni.
Sudava freddo.
«Sono qui. Prendimi.» mormorò Lene.
«Venuta a seguire la stessa fine dei suoi genitori, la giovane Marlene McKinnon.»
Davanti a lei c’era il Signore Oscuro in persona.
Era stato lui ad uccidere sua madre, anni prima.
E quella sera si era preso la briga di uccidere anche suo padre, perché faceva parte dell’Ordine Della Fenice.
Ora era giunto per portarsi via anche la giovane vita.
Perché i suoi genitori avevano riferito lei cose che nessuno avrebbe dovuto scoprire.
I McKinnon erano quasi degli scienziati.
Entrambi mezzi-sangue, avevano scoperto di essere maghi solo all’età di undici anni, con l’arrivo della lettera.
E furono i primi ad avere dei sospetti riguardo gli Horcrux che Lord Voldemort aveva creato. Ma furono anche uccisi prima che queste informazioni arrivassero alle orecchie di altri.
E ora anche Marlene, la loro figliola, avrebbe dovuto seguire la loro fine.
Sulle spalle di Voldemort strisciava Nagini, il suo amato e inseparabile serpente.
Scivolò rapido lungo una mano del Signore Oscuro, strisciando meschino sull’erba, fino ad arrivare ai piedi di Marlene.
Lei era immobile.
Quello sarebbe dovuto essere il momento in cui l’incubo sarebbe terminato e lei si sarebbe svegliata tranquilla nel suo letto e Lily l’avrebbe calmata con uno dei suoi adorabili abbracci.
Riusciva quasi a sentire la voce della sua migliore amica che la tranquillizzava.
Ma non si svegliò.
Non era un incubo.
Era tutto vero.
Un balzo. Un dolore acutissimo. La vista che diventò bianca per un nanosecondo.
E poi tutto si fece nero.
Nagini continuava a morderla, strappandole quasi la carne dal collo.
Marlene era a terra, impassibile.
Il colore sul suo viso iniziava a degenerare in un bianco pallido, un bianco morte.
Il suo respiro si era fermato, il suo cuore anche.
La sua pelle chiara si macchiò del rosso acceso del proprio sangue.
Ma lei non era capace di sentire quella sensazione di bagnato e di caldo. E di dolore.
Non più, almeno.
Ormai la vita l’aveva abbandonata, senza nemmeno salutarla.
Non aveva nemmeno avuto il tempo di salutare Sirius con un ultimo bacio, o di dire a Lily quanto le volesse bene.
Non era riuscita a ringraziare Dedalus per ciò che le aveva detto.
E nemmeno suo padre per tutte le volte in cui da bambina le raccontava le fiabe, accarezzandole dolcemente i capelli, per farla addormentare dopo che sua madre era morta.
Aveva lasciato tutte le persone che più amava, così, all’improvviso.
Senza nemmeno rendersene conto.
Le parve quasi di sentire una voce che sussurrava:
«Addio, Lene.» ma non seppe mai se era stato solo frutto della sua immaginazione o se effettivamente l’aveva pronunciata Voldemort con disprezzo.
Sperava soltanto che da qualche parte, dovunque sarebbe andata, ci sarebbe stato un mondo migliore.
Un mondo dove Marlene McKinnon non avrebbe avuto bisogno di corazze, solo di amore.
Un amore che aveva iniziato a darle Sirius Black, la persona da cui meno se l’aspettava, e che non avrebbe mai più ricevuto da nessun altro.
Un sorriso andò a formarsi sulle labbra del cadavere di Marlene.
Ma se fosse causato dall’irrigidimento del suo corpo, dal non voler dare soddisfazione al Signore Oscuro, o se dalla felicità per quell’ultimo ricordo di Sirius, questo lo lascio alla vostra immaginazione.

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Capitolo 8
*** Gli eroi partono dalle situazioni più svantaggiose ***


Quando Dedalus Lux aprì gli occhi si rese subito conto che era ormai tardi, perché qualcosa di grosso era accaduto.
Sentiva voci, urla, pianti.
Non riusciva a percepire cosa di preciso dicessero quelle voci, ma a lui bastò come prova che aveva fallito.
Aprì leggermente gli occhi, tenendoli assottigliati.
C’era qualcuno chinato davanti a lui.
Sentiva le sue mani calde sulla propria pelle fredda.
Probabilmente si erano accorti che Ded aveva perso i sensi solo ora.
Sentì delle braccia tirarlo su, tenendolo per i piedi e per le mani.
Salirono delle scale.
Erano in due a portarlo, ma non parlavano. Né tra di loro né con Ded.
La sua vista era tutta sfocata.
Trovò la forza di deglutire e poi richiuse gli occhi, cadendo addormentato.
 
«E’ stato fortunato. Se fosse uscito più sangue sarebbe morto.» sentì dire a qualcuno, mentre si svegliava nuovamente.
«In quanto tempo si rimetterà?» era chiaramente la voce del professor Lumacorno.
«Dovrebbe svegliarsi da un momento all’altro, ma non deve affaticarsi.» immaginò di essere nell’infermeria di Hogwarts e che quella fosse la voce della dottoressa. Non sapeva mai come chiamarla.
Dottoressa, infermiera, per lui era uguale. Non sapeva nemmeno il suo nome.
«Vorrei solo avere due parole in privato con lui. Per fargli delle domande.»
«Le concedo cinque minuti, professore. Ma poi lei come tutti gli altri dovrete lasciarlo risposare.»
I due stavano per continuare a discutere, ma in flebile suono proveniente dalla voce di Dedalus catturò la loro attenzione.
Si voltarono entrambi verso il ragazzo, senza dire una parola.
Dopo pochi attimi il professor Lumacorno corse da lui con le braccia spalancate parlando con voce fin troppo alta per le orecchie di un ragazzo che si erano appena riprese:
«Caro ragazzo! Finalmente ti sei svegliato! Come ti senti? La testa ti duole molto?»
Dedalus scosse il capo.
Cercò di mettere a fuoco la vista, fino ad ora molto sbiadita e confusa.
Era la prima volta, ora che li aveva così vicini ai propri occhi, che notava quanto quei baffi facessero sembrare Lumacorno un tricheco.
«E’ sparita una ragazza, non è così professore?» domandò Dedalus accarezzandosi il capo dove si era procurato la ferita, adesso fasciata da una benda che gli passava sopra le orecchie e andava a chiudersi sulla fronte.
Lo sguardo di Lumacorno si fece cupo. Si sedette sul letto. E fece un respiro profondo.
«In verità Marlene McKinnon è stata trovata. Nella foresta proibita. Sbranata da chissà quale creatura. Oh povera anima. Si è voluta addentrare in orario proibito in luogo proibito.»
“Chissà quale creatura”? Allora non avevano capito niente.
Ovvio.
Non avevano la mente che Dedalus Lux aveva.
Ma si sarebbero mai fidati delle parole di qualcuno che consideravano pazzo?
No. Non lo avrebbero fatto. E ora lui era troppo debole per provare a spiegare.
Ma qualcosa avrebbe dovuto dire. Si aspettavano qualcosa da lui, volevano spiegazioni.
«Remus Lupin. Lui era…» ci pensò un attimo prima di aggiungere «Strano.»
Sia Lumacorno che l’infermiera lo guardarono malissimo.
Giusto. Dedalus quasi dimenticava. Per loro lo strano era lui stesso.
Poi Dedalus notò una cosa.
Mentre Lumacorno aveva un volto stravolto, e quasi aveva le lacrime agli occhi, l’infermiera era impassibile.
Aveva notato già da un po’ il comportamento freddo della donna, ma in un primo momento aveva pensato che fosse dovuto dall’esperienza.
Ma una ragazza morta, in piena notte, in una foresta, sbranata. Beh, non ci può esattamente definire “normale”, nemmeno per un medico.
Lumacorno si scusò e uscì correndo dalla stanza.
Probabilmente voleva essere informato su quanto accaduto.
E in quel momento ci fece caso.
Non solo la dottoressa aveva uno strano sorrisino sul viso, ma era anche pieno di compiacenza.
Il sorriso lasciò intravedere un dente d’oro.
Dedalus Lux spalancò gli occhi.
«Mangiamorte…» mormorò con un filo di voce.
Non abbastanza piano da non essere sentito, però.
Accidenti a lui e al suo vizio di ragionare ad alta voce.
Sulla pelle della dottoressa iniziarono a crearsi delle strane bolle, sembrava così, viscida.
E in breve mutò aspetto.
Non era davvero il medico della scuola.
Era un omone di almeno un metro e novanta, con pochi capelli neri sul capo e gli occhi neri come la pece.
Sorrise a Dedalus tirandosi su le maniche della divisa da infermiere.
Il marchio nero era lì, davanti agli occhi di Dedalus.
Il ragazzo reagì istintivamente. Poggiò la propria mano sulla tasca posteriore dei jeans, dove soleva tenere la bacchetta, ma il suo tatto non trovò niente.
«Stavi cercando questa per caso?» disse l’uomo con un vocione che quasi faceva vibrare i vetri delle finestre, mentre sventolava con la mano sinistra la bacchetta di Dedalus sopra la sua testa.
Merda.

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Capitolo 9
*** Cantare come solo un uccello canoro sa cantare ***


L’esplosione era stata devastante.
Una parte era venuta giù a pezzi. Proprio addosso al Mangiamorte.
I soccorsi da parte dell’Ordine Della Fenice erano stati immediati. Fortuna che almeno Albus Silente si fidava della sua parola.
Dedalus tastò il pavimento con le mani.
Era stato scaraventato contro una parete, vicino al letto dove era disteso.
La ferita alla testa si era aperta nuovamente, e questo non era un bene.
Fece una smorfia di dolore e assottigliò gli occhi guardando fuori dalla stanza, tramite la parete in gran parte crollata.
Oramai si era fatta l’alba, eppure il cielo era scuro.
Non c’erano nuvole, ma un freddo più glaciale del normale si era impossessato dell’aria che circondava il castello di Hogwarts.
Il Mangiamorte sotto le macerie era svanito del nulla.
Si trovava solo nella stanza.
Gli unici suoni provenivano dall’esterno, ed erano quelli che caratterizzavano una guerra.
Dedalus si trascinò fino a dove il Mangiamorte aveva fatto cadere la bacchetta che apparteneva a Ded in persona.
Non poteva restare lì impalato a vedere tutto quello accadere.
Provò a ricordare un vecchio incantesimo curativo per le ferite superficiali che gli aveva insegnato il padre da bambino.
Non aveva bisogno di pronunciarlo ad alta voce.
Dedalus riusciva a evocare incantesimi non-verbali egregiamente.
In un batter d’occhi la ferita si era rimarginata. Restava solo il sangue rinsecchito a contornarla.
Il ragazzo si morse il labbro e aiutandosi con le braccia si tirò su.
Scendere le scale in quelle condizioni sarebbe stato impossibile. Avrebbe impiegato troppo tempo.
Si ricordò che l’Infermeria si trovava nelle vicinanze della parte di campo che circondava l’edificio scolastico in cui facevano lezione di volo.
Una scopa lì ci sarebbe stata di sicuro.
Stese una mano fuori dalla finestra.
«SU!» gridò.
Ma ovviamente era troppo distante perché una scopa prendesse il volo verso di lui.
Un’altra esplosione poco distante da lui gli fece raggelare il sangue nelle vene.
Con la coda dell’occhio riuscì ad identificare una scopa poggiata sul campo, che qualche ragazzo aveva dimenticato di mettere apposto.
La puntò con la bacchetta e fece una pausa.
Fare un incantesimo non-verbale con così poche energie su un oggetto così distante sarebbe stato inutile.
Deglutì sperando che funzionasse.
«Accio scopa!»
Un istante dopo la scopa si era alzata da terra e si era fiondata verso la sua direzione.
Dedalus l’afferrò grazie ai suoi ottimi riflessi e si mise a cavalcioni su di essa.
Non era mai stato un asso nel volo. Questo aveva offerto un’altra scusa per prenderlo in giro ai ragazzi della scuola, specialmente Serpeverde.
La verità era che a livello teorico era certamente un asso. Ma quando si trattava di volare, aveva sempre finto di essere impacciato a farlo.
Soffriva di vertigini.
Ma questo non lo aveva mai detto a nessuno.
Respirò profondamente. Voleva essere coraggioso.
Coraggioso non perché non avesse paura, ma perché nonostante il terrore che lo stava divorando dentro voleva riuscire a fare la scelta giusta e a volare su quella scopa.
“Non guardare in basso”, si disse mentre ordinava mentalmente alla scopa di alzarsi.
Questa seguì l’ordine e un attimo dopo, senza che lui se ne rendesse conto, stava volando.
Fece il giro della scuola.
Dissennatori ovunque. Mangiamorte anche.
Lui riusciva a malapena a schivarli. Rischiava grosso, ma doveva capire e doveva trovare i suoi amici. Ad ogni costo.
Vide d’un tratto Andromeda Black. Un troll stava per colpirla in pieno.
«NO!»
Il panico si stava impossessando sempre di più di lui.
Ma agì d’istinto.
Indirizzò verso il basso la scopa andandosi a schiantare contro la testa del troll.
Dedalus pensava che avrebbe perso il controllo e si sarebbe sfracellato al suolo, ma così non accadde.
Il troll perse l’equilibrio e cadde a terra, mentre Dedalus riuscì a bilanciarsi dopo l’impatto con la fronte della bestia.
Fece una piroetta in aria per poi afferrare al volo Andromeda e farla montare dietro di lui.
«Dedalus, che sta succedendo?» la ragazza aveva un’espressione confusa in volto. Non si sarebbe mai aspettata aiuto dalla persona che fino al giorno prima era considerata dalla maggior parte della scuola un pazzo.
«Ti porto al sicuro.» si limitò a dire brevemente Ded.
Scortò con la scopa Andromeda fino ad Hogsmeade. Almeno lì, in mezzo alla gente, sarebbe stata più protetta.
Per tutto il tragitto non le aveva dato uno straccio di informazione, non le aveva rivolto la parola.
Questo non perché lui la odiasse per come l’aveva trattato in tutti questi anni.
Ma perché aveva bisogno di pensare, e per una volta a bocca chiusa.
Lui non odiava Andromeda Black, affatto. Le voleva bene.
Un “bene” un po’ strano, come l’avrebbero definito gli altri.
Gli stava venendo la nausea da quanto era teso.
Si sentiva così impotente.
Voleva fare qualcosa per proteggere Hogwarts.
Gli venne in mente una storiella. Era una storiella davvero buffa.
Una volta, era andato a visitare Marlene nella Londra babbana.
E insieme avevano visto un film. Faceva piangere, ma era davvero bello.
Parlava di una ragazza malata di tumore al cervello alla quale non restavano altro che tre mesi di vita.
Questa ragazza era una amante degli uccelli. E la sua razza preferita era un uccello canoro.
Non sapeva perché, ma gli era saltata alla mente una frase ben precisa del film.
E poi c'è questo uccello canoro che pensa di morire ogni volta che cala il sole.
E la mattina quando si sveglia è così contento di essere vivo che si mette a cantare la sua melodiosa canzone.
Io canto ogni mattina da quando ti conosco[1].”, recitava il film.
Dedalus non si era mai innamorato di nessuno.
Non aveva mai provato la gioia di amare. E di essere amato.
Lui aveva sempre ripetuto che non ne aveva bisogno, che stava bene così.
Ma nessuno sta bene da solo.
Scosse il capo e cacciò quel pensiero dalla mente.




[1] Frase tratta dal film di cui ho parlato nella FanFiction, "L'amore che resta" 

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Capitolo 10
*** Nel profondo lei sapeva ***


Quando arrivò ad Hogwarts era già tutto finito.
Solo le macerie del castello e i fumi provocati dagli incendi appena spenti facevano capire quale terribile tragedia fosse appena avvenuta.
La guerra era stata vinta. Gli uomini di Voldemort momentaneamente sconfitti.
Ma a quale prezzo?
Gemiti di dolore ovunque. Cadaveri ovunque. Di amici e di nemici.
Dedalus aveva il cuore in gola.
Voleva comportarsi da eroe, per una volta nella sua vita.
Voleva che gli altri lo vedessero con occhi diversi.
Ma lui non era un eroe. Un eroe non avrebbe mai permesso che questo accadesse.
Avrebbe affrontato tutto da solo.
Dedalus invece era riuscito a mettere in salvo solo una persona.
E nemmeno sapeva perché aveva scelto proprio lei.
O meglio, in fondo lo sapeva, ma non lo avrebbe mai ammesso.
Okay, forse vi dovrei un po’ parlare del rapporto che correva tra Dedalus Lux e Andromeda Black.
Quindi scusate se inserisco questa brevissima digressione nella narrazione.
Dedalus trovava Andromeda decisamente affascinante.
La incontrava spesso in biblioteca.
Non aveva mai sostenuto con lei, però, una vera e propria conversazione.
Ogni tanto in classe lei gli aveva chiesto un po’ di inchiostro per il calamaio, ma lui si era limitato a rispondere con un cenno positivo del capo.
Pendeva totalmente dalle sue labbra.
Non solo per la bellezza fisica, quanto per quella interiore.
Passava giornate ad osservarla, tanto che aveva imparato a conoscerla.
Era forse l’unica che non l’aveva mai preso in giro, anzi, erano gli altri che diffamavano lei.
Era sorella di Bellatrix e Narcissa Black, due donne molto potenti e di famiglia nobile e ricca. Purosangue, Serpeverde.
Ma Andromeda faceva eccezione.
Il Cappello Parlante l’aveva smistata in Tassorosso e questo per ovvi motivi.
Le differenze caratteriali con il resto della famiglia Black saltavano immediatamente agli occhi.
Tanto per cominciare Andromeda era solare e dolce con tutti.
Si impegnava a scuola e odiava far parte dei gruppetti contro qualcuno.
Amava passare un po’ di tempo da sola e dipingere, arte che ormai tra i maghi si era quasi estinta grazie alla magia.
Queste sono solo pochissime delle ragioni che avevano portato Dedalus Lux a perdere la testa per lei.
Tornando quindi alla nostra storia.
Dedalus Lux entrò nella Sala Grande. Di morti non ce n’erano stati fortunatamente.
Ma di feriti ce n’erano molti.
Quelli che lui conosceva stavano bene.
Almeno sperava.
Non aveva fatto molta attenzione alle persone stese sui tappeti della Sala Grande perché era uscito fuori correndo e aveva afferrato nuovamente la scopa.
Era diretto nel punto esatto in cui aveva lasciato Andromeda.
La trovò esattamente dove l’aveva lasciata.
Lei era senza parole, paralizzata dalla paura.
E lui, che fino a quel momento non era riuscito a dire a Meda ciò che sentiva, si buttò, così, all’improvviso.
Le raccontò di Lupin e del suo strano comportamento, dell’amore travagliato tra Lily e Severus, tutte cose che a lei più di tanto non sarebbero dovute interessare.
Eppure questo la fece riprendere un po’.
Si sedette a gambe incrociate sull’erba umida del primo mattino e iniziò ad ascoltare la storia di Dedalus.
Il ragazzo le spiegava dei suoi buoni propositi, di quanto avesse voluto comportarsi da eroe e apparire diverso agli occhi degli altri, tutto.
«…Ma la cosa più strana che mi è capitata in tutto questo tempo,» terminò Dedalus tutto d’un fiato, prima di pentirsi di quello che stava per dire «è di essermi reso conto di essere follemente innamorato di te, senza un apparente motivo logico.»
A quelle parole Dedalus temeva che la ragazza si sarebbe sentita quasi offesa e sarebbe scappata via.
Ma non fu quello che accade.
Andromeda si mise in ginocchio e gli prese teneramente il viso tra le mani.
«Oggi tu sei stato il mio eroe.» con queste parole gli baciò la fronte.
Non si baciarono. Né si misero insieme. Mai.
Ma rimasero ottimi amici.
Dedalus a volte stava male per questa semplice amicizia. C’erano momenti in cui tornava alla Stamberga Strillante solo per prendere a calci le pareti e urlare e piangere.
Eppure sapeva che ne valeva la pena, che era il giusto prezzo da pagare.
In fondo non aveva mai nemmeno avuto un’amica, qualcuno con cui poter parlare e sfogarsi.
Questa ragione lo aveva spinto col tempo a pensare a voce alta, in modo da poter intraprendere quanto meno un discorso con se stesso.
Ora, non vi so dire esattamente se da quel giorno Dedalus Lux visse per sempre felice e contento, ma di sicuro il suo pizzico di follia non lo abbandonò mai, e il sorriso non sparì mai dalle sue labbra.
Sono certa che anche Marlene McKinnon, dopo aver parlato con lui dai “Quattro Manici Di Scopa”, nel profondo lo sapeva, quanto Dedalus Lux fosse speciale.







NOTA DELL'AUTRICE:

Sì. Ahimè la storia è finita.
Mi rendo conto che molti di voi siano delusi.
Mi rendo conto che non ci sia una trama precisa, in questa storia.
Mi sento quindi in dovere di dover spiegare le motivazioni di questa fanfiction.
Ho iniziato a scrivere questa storia senza sapere dove mi avrebbe portato.
Avevo bisogno di scriverla per sfogarmi.
Quando ho fatto morire il personaggio di Marlene, potrete trovarlo stupido, ma ho pianto.
Quando Dedalus ha trovato Andromeda, ho esultato.
Questa FF è una piccolissima parte di me, e del travagliato momento che purtroppo sto passando.
Ho voluto parlare di amori, di amicizie, ma soprattutto di un giovane ragazzo considerato pazzo da tutti, ma che sapeva nel profondo quanto valesse.
E questo perché ho conosciuto una persona simile.
Ovviamente il carattere di questa persona è stato portato all’esagerazione nel personaggio di Dedalus Lux.
Ma speravo che arrivasse voi un piccolo messaggio che io ritengo fondamentale.
 
Non sottovalutate mai qualcuno perché è diverso.
Spesso la diversità non è sinonimo di stranezza, ma di genialità.
Cercate sempre di conoscere affondo qualcuno, di scavare nella sua anima.
Perché persino un carciofo in apparenza è duro e spinoso, ma nasconde un cuore tenero e dolce.
 
Vi prometto che la prossima storia che scriverò avrà una trama ben precisa e la rispetterò al massimo.
 
Con affetto,
la vostra autrice.
 
Ps. “Persona speciale”, se stai leggendo avrai capito che questa storia è dedicata a te e al piccolo genio che nascondi dentro. Aspetterò anche in eterno, ma prima o poi ti sentirò urlare le parole “io sono bella e merito amore” con così tanta convinzione e sincerità che tutti cadranno ai tuoi piedi. Devi solo credere in te. Perché io so che persona meravigliosa tu sia, dentro e fuori, ma finché non vedrai allo specchio quello che vedo io quando ti guardo, non potrai mai sperare che anche gli altri lo vedano…

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