In her shoes

di HappyCloud
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


ADL

In Her Shoes.




Capitolo I.


La sua città le era sempre piaciuta. 
A qualsiasi ora del giorno e della notte, ai suoi occhi, Verona conservava quell'aura magica e romantica che Shakespeare e il suo Romeo Montecchi avevano contribuito a farle apprezzare; l'Arena, piazza delle Erbe, palazzo Barbieri e il Castelvecchio erano solo alcuni dei luoghi che Cecilia non si sarebbe mai stancata di ammirare, con lo sguardo emozionato ed entusiasta di una bambina che osserva il mondo per la prima volta. 
Il suo posto preferito era la Casa di Giulietta, un palazzo medievale ormai completamente ristrutturato, con un cortile sempre colmo di turisti, giunti per rispettare la tradizione nel profano gesto di toccare un seno alla statua dell'eroina. Ci avrebbe perso delle giornate a sbirciare i biglietti lasciati dai giovani innamorati nell'antro dell'edificio, talvolta per ridere delle frivolezze di cervelli lasciati troppo a macerare nel brodo dell'amore, talvolta per trovarsi a desiderarle, quelle sciocchezze. 
La verità era che Cecilia non voleva saperne di relazioni; quando l'unico modello di riferimento che hai sono due genitori divorziati da anni che si odiano e che non fanno nulla per venirsi incontro, non è facile immaginare cosa significhi avere un rapporto serio e duraturo con qualcuno, basato su affetto e rispetto. Se fosse cresciuta in una famiglia come quelle delle pubblicità, dove la cosa più brutta che possa capitare è macchiare la tovaglia con del succo d'arancia, le cose sarebbero state diverse, e lei non si sarebbe trovata a fuggire ogni contatto umano come si fa con la peste. Ecco, allora sarebbe più corretto dire che lei non è che non volesse saperne di relazioni; semplicemente, non sapeva nemmeno cosa fossero.

Dalla poca esperienza che derivava dai suoi ventun anni, l'unica certezza che possedeva era che sarebbe vissuta dei suoi scritti e della sua fantasia, a costo di finire a vivere come una bohémienne in un quartiere malfamato di Parigi, innamorata di un ballerino di can-can malato di tisi. D'accordo, lei non era Satine e quella non era e mai sarebbe stata la sua storia, però Cecilia aveva anche quello da imparare: accantonare per qualche volta la finzione, fedele e al tempo stesso illusoria compagnia, perché quella racconta, sì, tante avventure e tante vite diverse, ma mai la propria. 
La passione per la letteratura era un'eredità di suo padre, insieme ai sottili capelli mossi castano chiaro e gli occhi azzurro cielo. Della madre poteva vantare solo il metro e settanta di altezza e la spruzzata di lentiggini che le ravvivavano il viso dal colorito rosato. La scarsa pazienza e l'acredine delle battute sarcastiche che non raramente si concedeva erano, invece, lignaggio della matrigna, Maria Carolina, una trentenne convinta di saperne molto più di chiunque altro della vita. Nonostante Cecilia non avesse fatto nulla per innescarla, una cerca tensione si era creata tra le donne di papà Ferdinando, dovuta più che altro ad un bisogno di accaparrarsi quante più attenzioni e regali possibili. 
C'era stato un periodo in particolare di cui Cecilia non andava fiera: il periodo nel quale aveva ceduto alla tentazione di sfruttare i sensi di colpa di suo padre per circondarsi di cose inutili, a colmare il vuoto lasciato dall'assenza di entrambi i genitori. Si era fermata solo quando aveva capito che Ferdinando non avrebbe avuto il coraggio di farlo, il giorno in cui si era presentato da lei e le aveva comunicato di aver già contattato l'agenzia di viaggi per sapere se era possibile fare un'escursione al Polo Sud per vedere i pinguini, così come richiesto per scherzo da lei. Quella volta, Cecilia aveva capito tre cose di lui: era davvero molto ricco, aveva un pessimo senso dell'umorismo ed era disposto a fare carte false pur di comprarsi l'affetto della figlia. Da quel momento, lei aveva deciso che non gli avrebbe chiesto mai più soldi che non fossero per i libri o la retta dell'università, perché era davvero troppo avvilente avere un rapporto del genere con colui che aveva contribuito a metterla al mondo.

Era qualcosa che non la faceva dormire di notte e ci stava pensando anche quella mattina, mentre camminava a passo svelto su via Ponte Aleardi, osservando l'Adige che scorreva tranquillo qualche decina di metri sotto i suoi piedi. Un lembo della sciarpa bianca che aveva attorno al collo stava svolazzando nell'aria, insieme alle due piccole ciocche di capelli chiari che erano sfuggite dalla coda di cavallo. Poche centinaia di metri e sarebbe arrivata alla facoltà di lettere per seguire le lezioni mattutine insieme a Lisa, l'unica vera persona fidata in un branco di compagni di corso arrivisti e pronti a vendersi la madre pur di prendere il voto più alto agli esami.
Cecilia preferiva di gran lunga uscire con gli amici del liceo, soprattutto Carlo e Gianluca, due idioti patentati che però erano sempre in grado di strapparle un sorriso. Uno aveva miracolosamente passato il test di medicina – e c'era da credere che suo padre, primario di ginecologia all'Ospedale Civile Maggiore "Borgo Trento", ci avesse messo lo zampino –, l'altro, invece, si era iscritto a ingegneria edile e architettura, ma Cecilia mai si sarebbe fidata a farsi progettare la casa da lui. Finché giocava con i Lego non c'erano problemi, ma quando si trattava di vivere nelle bat-caverne e abitare nella sua personalissima visione di Metropolis, beh, le cose cambiavano decisamente. 
L'aspettavano tutti e tre al L'attimo caffè per una colazione veloce, come ogni mercoledì. Lisa era all'entrata e fumava una sigaretta, i ricci scuri ben definiti ad incorniciarle il volto e un paio di occhiali neri, come sempre pieni di ditate. Indossava dei jeans stretti che le fasciavano le gambe magrissime e una giacca di pelle color cuoio, perfetta per il clima ancora quasi estivo che stava riservando l'inizio di ottobre. 
- Alla buon'ora, – si limitò a dire e lanciò il mozzicone qualche metro più avanti a sé. L'altra sorrise, abituata al malumore mattutino dell'amica, e la raggiunse al tavolino dove i due maschi si erano già accomodati ed avevano ordinato per tutti.
- Ciao decerebrato. – Lisa riservò come al solito un'accoglienza molto calorosa a Carlo, con il quale era guerra aperta praticamente dal primo giorno in cui c'erano state le presentazioni. Gli altri due ragazzi cominciarono a blaterare tra loro, lasciandoli ai loro battibecchi.
- Oh, è arrivata la festaiola. La madre superiora ti ha concesso di uscire stasera?  la sfidò lui in risposta.
- Rastrelli, te l'ho già detto mille volte che devi smetterla di scriverti le battute a casa. È abbastanza patetica come cosa, sai?  lo prese in giro, per poi girarsi verso gli altri due.  Di che parlavate? 
- Stasera c'è una festa da Franzoni,  esclamò entusiasta Gianluca, divorando in pochi bocconi una brioche al cioccolato.
- Bene,  intervenne Cecilia, senza staccare gli occhi dal giornale.  Allora film da me? Shutter Island?
I tre ragazzi la guardarono rassegnati. Che l'amica non fosse particolarmente socievole non era certo una novità, ma quando si trattava di ex compagni del liceo diventava addirittura sorda, muta e cieca. Li evitava in tutto e per tutto, soprattutto le ragazze, con cui non era mai andata d'accordo. C'era stato una specie di tacito accordo nel gruppetto di donne della terza liceo sezione B del Maffei: rapporti civili e collaborativi fino all'esame di Stato, dopodiché tanti cari saluti e ognuno per la propria strada. Tutte si erano attenute al patto e ora ignoravano qualsiasi dettaglio delle reciproche esistenze che andasse al di là del nome e cognome. 
A Cecilia erano rimasti solo Rastrelli e Lamberti, e soltanto perché lei, Molinari, era restata incastrata  alfabeticamente parlando  tra di loro il primo giorno di scuola, quando la professoressa Vallanzano aveva avuto la grandiosa idea di far sistemare i nuovi ragazzi secondo l'ordine del registro. 
Filippo Franzoni, per quanto non fosse così distante da loro nella piantina dell'aula, era molto lontano dal modo di pensare del resto della classe. Era uno spocchioso figlio di papà con un bel caschetto nero e il naso a patata che pensava di essere il re del mondo, dal momento che il padre era uno degli avvocati più in vista della città. Era solito guardare gli altri dall'alto in basso, ma non disdegnava la plebe  come la chiamava lui  quando si trattava di organizzare feste e riempire casa per dimostrare ai soci del Rotary Club di non essere uno sfigato senza amici, quale invece era.
- No, Ceci, non ci guardiamo un film a casa tua; andiamo alla festa,  s'impose Gianluca. La ragazza lo squadrò con finto disprezzo e rispose stizzita.
- Se non ti piace Leondardo DiCaprio basta dirlo, eh! V for Vendetta?
Lisa roteò gli occhi e non riuscì a trattenere un sonoro sbuffo.
- Ce lo hai fatto vedere fino alla nausea,  brontolò.  Stavolta ti prepari in tempo e vieni. Discussione terminata.
- Non ci vengo da Filippo, non ci penso nemmeno. Saranno anni che non lo vedo e sono stata così dannatamente bene! Perché rovinare questo mio equilibrio interiore?  provò a protestare, ma l'intervento deciso di Carlo stroncò sul nascere ogni tentativo.
- Molinari, non rompere il cazzo, dai. Ogni volta è la stessa solfa. Stasera ti metti una parrucca in testa, ti metti l'ombretto, la cipria e quel cavolo che ti pare e ci divertiamo.
La biondina spalancò gli occhi incredula: se c'era qualcosa che odiava ancor più di Franzoni e la sua cricca erano sicuramente le feste in maschera. Halloween e Carnevale erano solo due stupidi giorni come gli altri, con la differenza che la gente si sentiva autorizzava a truccarsi in modo orribile per farsi ridere dietro. Piuttosto stupido, no?
- Dopo che ho saputo che mi dovrei pure travestire, dite addio alla mia presenza. Ma voi andate, io starò a casa con Van Gogh.
Il suo pesce rosso, unico sopravvissuto su cinque alla moria avvenuta nell'acquario, non era certo un abile conversatore e le rare volte in cui si approssimava al pelo dell'acqua per boccheggiare sulla superficie era per farle capire che aveva fame. Aveva la testa e la lunga coda arancioni e lungo il corpicino, di un bianco opalescente, si estendeva una striscia dorata piena di riflessi che le aveva sin da subito ricordato il giallo dei campi di grano di Van Gogh. Purtroppo la dura legge di Darwin non aveva lasciato scampo a Matisse, Monet, Rénoir e, per ultimo, Raffaello, deceduto in circostanze misteriose il giorno di Pasqua. Voci di corridoio davano per maggior sospettato Lillo, il figlio di quattro anni del vicino, colpevole di averlo riempito di cioccolato dell'uovo appena scartato.
- Mi offende il fatto che tu preferisca restare tutta sera a fissare l'acquario, piuttosto che uscire a divertirti con noi,  esclamò Carlo, con l'intenzione di farla sentire in colpa.
- Non si tratta di voi. E lo sapete!  Cecilia si bruciò la lingua nel goffo tentativo di bere d'un sorso l'intera tazza di cappuccino.  'Azzarola, quanto scotta!
- Giustizia divina,  sentenziò Lisa, godendosi intelligentemente piano il suo caffè al ginseng.  Ce', da cosa ci vestiamo?
I visi di Gianluca e del compare s'illuminarono in un sorriso d'intesa.
- Noi da Teletubbies.
- Non avevo dubbi,  riprese la ragazza,  i coglioni si muovono sempre in coppia.
Lamberti ridacchiò della battuta, mentre Rastrelli le regalò la sua solita espressione da idiota alla disperata ricerca di una frecciatina altrettanto efficace da pronunciare all'istante. Tentativo vano.
- Mi avete sentita? Non ci vengo!  urlò Cecilia.  Non ho nessuna intenzione di farmi vedere da Franzoni; cinque anni in sua presenza sono più che sufficienti, no?! 
Lisa, seduta accanto a lei, si stava chiedendo quando realmente la ragazza sarebbe riuscita a dire quale fosse l'ulteriore e principale motivo per cui preferisse la compagnia di un pesce a quella dei suoi amici.
- Non c'entra niente il fatto che ci potrebbe essere anche Niccolò stasera, vero?
Gianluca calamitò su di sé tutti gli occhi dei presenti: aveva, sì, dato voce ai pensieri degli amici  tranne quelli di Carlo, che da quando era uscito di casa non riusciva a ricordare se avesse chiuso o meno la finestra di YouPorn sul computer della sorella , ma nominando colui-che-non-doveva-essere-nominato aveva infranto numerose regole. 
Niccolò Mannino era il Voldemort di Verona, almeno per loro quattro. Cecilia aveva la strana mania di saltare al collo di chiunque osasse pronunciare anche solo le iniziali del suddetto soggetto in sua presenza e diventava particolarmente manesca con il primo che le capitasse a tiro.
Nico era il ragazzo con cui aveva condiviso la sua prima volta, a diciassette anni, a casa sua, quando ancora viveva con sua madre e lei era 'fuori città per lavoro' 
 un modo carino per dirle che se la stava spassando con qualche giovanotto venticinquenne. Lui era stato gentile e premuroso, in quell'occasione e nei nove mesi successivi, mesi durante i quali tutti al Maffei sapevano che facevano coppia fissa. O forse non proprio tutti, perché Clara Orpella  che da quel momento in poi sarebbe diventata Clarabella  avrebbe giurato e spergiurato di non esserne a conoscenza, perché altrimenti mai, mai!, avrebbe osato fare da concubina a Mannino. Eh certo, agli altri ragazzi della scuola sì, ma a lui proprio no: questione di onore, e che diamine!
Cecilia non ci voleva credere: si era fidata completamente e ciecamente di lui, che l'aveva pure presentata alla famiglia e che, cosa che più le faceva ribollire il sangue, l'aveva tradita per chissà quanto con una che non valeva nemmeno un millesimo di lei. Quello era un chiaro esempio del 
grande potere delle gambe aperte di una donna e Cecilia l'aveva imparato a proprie spese. 
Dopo una decina di giorni passati in un profondo sconforto, con la rabbia che si mescolava allo sdegno e ad un briciolo di nostalgia, si era imposta di smettere di pensare al viso squadrato di Niccolò, ai suoi occhi scuri, alle sue labbra... aveva cercato disperatamente di trovare un difetto, una falla in quell'ammasso di ricordi che l'aveva inondata come un fiume in piena: un atteggiamento che l'aveva sempre infastidita, una parola fuori luogo, quella volta che proprio l'aveva trattata male... In quel momento non aveva trovato nulla. Per quanto si fosse sforzata, non ci era riuscita. Forse era troppo presto, forse era ancora nella fase in cui tutto era ancora troppo doloroso per essere analizzato con razionalità. Poi Gianluca e Carlo avevano preso in mano la situazione e avevano fatto ciò che ogni vero amico è tenuto a fare in casi come questi: avevano trovato il modo di demolire e demitizzare 
 con calma, passo dopo passo  la figura perfetta di Mannino che esisteva solo nella testa di Cecilia ed ora, a distanza di quattro anni, la sola cosa che ancora la disturbasse era la consapevolezza di non poter cancellare il ricordo di Nico, che l'aveva portata ad un grado di felicità mai toccato prima, salvo poi farla sprofondare in una triste solitudine.
- Certo che c'entra Niccolò! 
 ammise, senza paura di apparire vulnerabile.  Non voglio frequentare gli stessi posti in cui va lui. Ho già depennato quattro anni fa la voce umiliazione pubblica dalla lista di cose che mi ha fatto.
I tre ragazzi seduti di fronte a lei trassero un respiro di sollievo.
- Non è detto che ci sia... 
 tentò Carlo, conscio che le probabilità di non trovare il ragazzo alla festa di Franzoni erano le stesse per cui lui fosse candidato al Nobel per la fisica.
Lisa parve assorta nei meandri della sua mente per qualche istante, poi si riscosse.
- Ce', non esiste che tu ti faccia ancora condizionare da 
quello. E comunque non ti rivolge la parola da quando è accaduto quel casino, mica ricomincerà proprio stasera!
Il cinismo freddo e drammaticamente realistico dell'amica colpì Cecilia come una secchiata d'acqua gelida in faccia; Lisa sapeva essere cruda e diretta fino al punto di ferire le persone, senza averne l'intenzione. Ma aveva ragione: Niccolò non aveva più avuto il coraggio di chiamarla o di cercarla, quando la notizia del suo doppio gioco era diventata pubblica. Si era limitato a scomparire dalla sua vita, dandole una dolorosa conferma della fondatezza della pulce che le era stata messa nell'orecchio.
- Andiamo, 
 si ritrovò a dire, quasi non raccapezzandosi che fosse stata proprio la sua voce a pronunciare quella parola. 
Si stava scavando la fossa da sola e l'unica speranza che aveva per quella serata era di non dover mettere una crocetta accanto ad un punto già cancellato di una vecchia lista.

Okay, ho pubblicato. Non so nemmeno io cosa aspettarmi da questa storia, al momento mi è solo chiaro che sarà sotto i sei capitoli e che la stesura è quasi ultimata. È diversa da C'eral'acca, non solo in quanto ad impegno (praticamente sei volte meno lunga), ma anche riguardo allo stile. Ho voluto provare qualcosa di diverso, a partire dalla narrazione in terza persona che è un po' più 'riflessiva', meno istintiva di quella in prima.
Credo che la pubblicazione sarà puntuale, ogni due settimane. 
Non mi sono dimenticata dell'ultimo capitolo di C'eral'acca, ma voglio prendermi del tempo perché voglio che riesca esattamente come progettato; è l'ultimo, perciò ci tengo. Comunque, è mia intenzione pubblicare verso la fine di febbraio, quando gli esami sono finiti e ho voglia/tempo/energie per concentrarmi sull'epilogo.
Voglio ringraziare SunshinePol e nes_sie per consulti vari e betaggio.
Per quel che concerne questa di storia, prendiamola tutte come un esperimento, nulla di più.

S.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo II.


Lisa non fece altro che parlare della festa in maschera di Franzoni per tutta la mattina: cosa avrebbero indossato, come si sarebbero truccate e pettinate, che scarpe avrebbero scelto. Cecilia provava disperatamente a seguire la lezione di storia contemporanea, ma con un borbottio continuo di sottofondo, persino il professore faceva fatica a spiegare, lanciando di continuo occhiatacce alle due ragazze. 
- Ci divertiremo, me lo sento. Ah, giusto; non sai nemmeno cosa voglia dire 
divertirsi!  le mormorò in un orecchio, provocando uno sbuffo irritato dell'amica.
- Ora basta, 
 sussurrò Cecilia, che prese a riordinare le poche penne sparse sul piccolo tavolino a scomparsa davanti a sé. Racimolò i fogli mezzi scarabocchiati nel tentativo di prendere appunti e li ficcò nella tracolla colorata. Due ragazzi la guardarono con astio, mentre li costringeva ad alzarsi per uscire dalla fila, ed era certa che il suo movimento repentino non sarebbe passato inosservato nemmeno al docente, che detestava vedere gli studenti abbandonare la lezione anzitempo. Pazienza, perlomeno si era liberata del chiacchiericcio fastidioso di Lisa e dei suoi vaneggiamenti su trucco e parrucco per la serata.
Il chiostro dell'università era ampio, soleggiato e soprattutto poco frequentato, eccezion fatta per gli studenti di passaggio. Era il posto perfetto per ripassare prima di un esame, per gustarsi un libro nelle pause pranzo... o per fare spiacevoli ed inattesi incontri. Melissa Cedreo e Gisella Ferris rappresentavano al meglio l'espressione 
cervelli in fuga, con l'unica e determinante differenza che i loro neuroni non erano espatriati all'estero, ma semplicemente si erano dissolti nell'aere, polverizzati da un'inalazione intensa e prolungata di solvente per unghie o di fissante per capelli. Entrambe ventiduenni di belle speranze  un marito vecchio e ricco sarebbe stato il top , trascorrevano le giornate in facoltà alla ricerca di volantini di feste universitarie, trovando il tempo di sedersi in aula solo nei momenti in cui la stanchezza di camminare su trampoli s'impossessava dei loro corpi martoriati da lampade solari e diete dimagranti. Melissa, poi, aveva un ulteriore tarlo: era la sorella di Maria Carolina, l'adorabile compagna di Ferdinando, padre di Cecilia. Questo creava tra le ragazze una specie di vincolo parentale indesiderato da ambo le parti, una sorta di rapporto zia-nipote che era al limite dell'incredibile. Inutile precisare che nessuno avesse interesse nel rendere pubblica una tale complicata situazione familiare, perciò la miglior cosa da fare era ignorarsi il più possibile e sperare che, alla prossima cena a casa Molinari, l'altra non ci fosse.
- Ti sei fatta scaricare persino dalla tua amica stracciona?
La voce fastidiosamente acuta di Gisella la raggiunse, ma lei finse di non coglierla. Scendere al livello delle loro provocazioni sarebbe stato troppo nocivo per l'umore già terribilmente provato del suo lunedì mattina.
- Lasciala perdere, Gis, 
 la rimproverò Melissa, turbata dal dover anche solo parlare con una persona tanto indesiderata.
- Sarà meglio che non ci siate da Fil stasera, non vorrei che ci fosse odore di rotture di scatole sin dall'entrata, 
 la minacciò l'altra.
Benissimo, ora Cecilia poteva dire di avere un'altra ragione per volere disertare la festa: un'intera nottata in compagnia delle due vipere con cui Lisa e lei erano in aperta lotta praticamente da sempre era da considerarsi suicidio o quanto mento eutanasia. L'inimicizia e l'acredine che intercorrevano tra le quattro ragazze avevano origine così lontano nel tempo 
 probabilmente si erano azzuffate per la prima volta mentre la cicogna le smistava alle rispettive madri  da risultare difficile persino dire quali fossero le vere ragioni che le avevano spinte a detestarsi; differenti stili di vita, opposto approccio alle persone e la presenza o meno di materia grigia erano, a grandi linee, le diversità che le portavano ad un reciproco odio.
Le due se ne andarono presto, ancheggiando sui tacchi e lasciando uno sgradevole ricordo della loro presenza nella giornata della ragazza che se ne stava a gambe distese sotto il pergolato, arresa alla serataccia che l'aspettava.
Un turbine colorato arrivò trafelato fino a lei, non prima di aver urtato una decina di persone: Lisa l'aveva raggiunta di nuovo, piena di idee ed indirizzi per trovare un costume a buon mercato per la sera. Aveva deciso che si sarebbero travestite da cortigiane ottocentesche, possibilmente con una grande maschera a celare il viso per scongiurare la malaugurata ipotesi di incontrare Niccolò o le due galline appena schivate.
Cecilia capì che il proprio pomeriggio di studio sarebbe saltato, non appena Lisa trasse dalla tasca una lista stropicciata di negozi da vedere. Tra una piega e l'altra, si potevano leggere siti internet da consultare e la bozza di una mappa per raggiungere una piccola bottega nella città antica, il quartiere che corrisponde grossomodo alla Verona di epoca romana. 
- 
Sale in zucca, vicoletto della Polvere 13, - lesse la biondina ad alta voce. Non aveva mai sentito di quel negozio e nemmeno di quella stradina dal nome curioso.  Lo conosci?
L'amica alzò le spalle e scosse la testa, ma consultò il piccolo schizzo che aveva scarabocchiato sul foglio, spiegando come avesse trovato tutte le indicazioni su di una pergamena ingiallita attaccata alla bacheca della facoltà.
- Sembrerebbe vicino a vicolo San Sebastiano, sono solo dieci minuti a piedi da qui, 
 proseguì.
S'incamminarono, una sorridente ed iperattiva, l'altra che avrebbe volentieri attinto ad un po' della sua energia per trovare la voglia di travestirsi. Era solo una stupida festa in maschera, che prendeva a tutti?
La giornata era calda e tranquilla, il traffico scorreva senza intoppi tra i semafori e le strade affollate del centro e l'atmosfera autunnale 
 le foglie colorate a foderare i marciapiedi, le prime brezze fredde a solleticare il viso  sembrava essere rimandata almeno di un paio di settimane. 
La parte vecchia di Verona era quanto di più bello e suggestivo Cecilia avesse mai visto nella vita; ogni edificio, ogni finestra e persino ogni sampietrino per terra aveva da raccontare qualcosa, un evento, una persona, una storia. Non poteva frenare la propria immaginazione di fronte a tanti spunti e allora la fantasia correva ad altre epoche, dove un'altra lei, 
 magari stretta in un corsetto ricamato ed una gonna ampia, i capelli arricciati in boccoli dorati schiacciati da un cappellino e un ombrellino a proteggerla dal sole  stava passeggiando piano, godendosi il tenero calore del pomeriggio.
La gomitata nelle costole di Lisa la fece tornare al presente. La guardò con stizza, mentre, sempre senza aprire bocca, le indicava un vicoletto che non ricordava di aver mai visto prima, nonostante passasse di frequente da quelle parti. 
Una piccola insegna lilla recitava 
Sale in zucca, ma la scritta era poco visibile, coperta da una folta edera rampicante che cadeva da entrambi i lati del cartello rettangolare. C'era una sola vetrina, dove due ampi costumi, uno da ranocchio e uno da principe azzurro, erano stati stipati con malagrazia sopra due grucce. Entrarono un po' timorose, accolte da un parquet scricchiolante e da una fragranza di lavanda, spruzzata da due angioletti appesi alle pareti. Non appena mossero un passo all'interno del modesto spazio, sovrabbondante di costumi di ogni sorta  da Batman a Pippi Calzelunghe, da un dragone cinese a due candelieri  la loro vista fu sopraffatta da tutto quell'affascinante disordine di stoffe, nastri, pizzi e merletti. Una grande cassettiera occupava un'intera parete ed alcuni tiretti erano rimasti aperti, traboccanti di bottoni e cerniere che ne impedivano la chiusura.
- Ti ho trovato, canaglia!
Una signora cicciottella, alta poco più di un metro e quaranta, balzò in piedi da dietro il bancone, lanciando per aria una striscia di tulle e centinaia di paillettes color bronzo e stringendo tra l'indice e il pollice di una mano una gemma verde.
Cecilia fece un balzo all'indietro spaventata e Lisa afferrò l'unico appendino disponibile come arma di difesa. Si calmarono solo quando la donna regalò loro uno splendido sorriso rassicurante sul volto paffuto. La osservarono meglio: indossava un maglione azzurro acceso e una sottana scura, sotto un grembiule bucherellato da aghi e spilli; in testa, i capelli rossicci erano raccolti in uno chignon arrangiato rapidamente, sostenuto da uno spillone di legno un po' più lungo di quelli che le ragazze avevano sempre visto in commercio. Al collo portava un medaglione rotondo con dei ghirigori floreali che le poggiava sul seno prosperoso. 
- Ehilà! 
 le salutò cortese.  Sono Fatima, buongiorno.
- S-salve, 
 tentò Cecilia.  Vorremmo dei costumi.
- L'avevo capito, sapete? 
 strizzò loro l'occhio e allargò le braccia, come a dire che non aveva altro che vestiti da offrire alla clientela.  Tu, Lisa, da cosa vorresti travestirti? Un procione a quadri, un unicorno arancio, un panda a pois...? No, aspetta, forse sei più tipo da pipistrello rosa con le ali cosparse di brillantini?
Cecilia era esterrefatta, avevo un mucchio di domande da fare a proposito di quella stramba signora: come diamine faceva a sapere il nome della sua amica? Dove diavolo era stato quel negozio negli ultimi vent'anni e, cosa più importante, chi mai poteva comprare un costume da pipistrello rosa pieno di glitter?
Lisa, però, non sembrava altrettanto scossa dall'alone di mistero che attorniava la figura di Fatima; al contrario, si era fatta coinvolgere dal modo di fare disinvolto e non convenzionale della negoziante, che la stava facendo piroettare da un lato all'altro della bottega. Le mostrò con cura tutto ciò che poteva offrirle, a seconda della sua corporatura e dei suoi tratti somatici; la ragazza risolse di affittare un lungo abito verde acqua con dei volants attorno al collo ad abbellire una severa giacca chiusa da cinque bottoni. Dietro la schiena e ai due polsi dei piccoli fiocchetti arricchivano la stoffa, leggermente più chiara sull'ampia gonna, che presentava dei drappeggi appena accennati.
Fatima insisté perché Cecilia ne affittasse una copia quasi identica, azzurra come i suoi occhi, con l'unica variante di un semplice corpetto a vista, sotto un elegante bolero blu. La biondina non ne era molto convinta, ma quando la donna le propose una maschera argentata con un bordino celeste e due farfalle ai lati, non ebbe più dubbi: ciò che più le interessava era far sparire la sua faccia dalla festa, per evitare Niccolò, Gisella, Melissa e l'eventuale presenza di ex compagni di liceo. Non le era chiaro chi altro potesse rimanere 
 viste le scarse conoscenze di Franzoni , ma avrebbe passato tutto il tempo con Gianluca, Carlo e Lisa, perciò non valeva nemmeno la pena di pensare ad altre persone.
Pagarono ciascuna il proprio costume e salutarono educatamente la proprietaria del negozio, prima di voltarle le spalle e raggiungere la porta.
- Riportatemeli prima di mezzanotte, mi raccomando, o rimarrete nude, 
 urlò Fatima dal bancone. Le due ragazze si voltarono verso di lei e si scambiarono un'occhiata perplessa; Lisa, la più razionale delle due, pensò alla tempistica: come avrebbero mai potuto riconsegnare i vestiti puliti e stirati solo un'ora dopo l'inizio della festa? Cecilia, invece, sprofondò nello sconforto, immaginandosi la scena di se stessa nuda di fronte a Niccolò. Beh, non che fosse proprio una fantasia, era più un ricordo; c'era già stata in passato e non era finita bene, perché purtroppo anche qualcun'altra aveva avuto la stessa idea.  Oh, suvvia, sto scherzando!
La signora ridacchiò sotto i baffi, mentre Lisa si sforzava di sorriderle, sistemando gli occhiali che le erano scivolati lungo il naso. Quella Fatima era davvero strana, non c'erano dubbi. Le salutò con un bacio volante e lanciò loro, nel vero senso della parola, un biglietto da visita. Cecilia lo afferrò al volo e lo guardò, mentre la porta si richiudeva alle sue spalle.


"Sale in zucca"

di Fatima Turchetta
Vicolo della Polvere, 13
Quando c'è il bel tempo, Verona.


Seguiva una piccola miniatura del faccione rotondo della proprietaria, il cappuccio di quello che pareva un mantello lilla in testa e un bel sorriso materno.
Quando c'è il bel tempo? Pensò la ragazza, sempre più perplessa, girando il cartoncino per vedere se anche sull'altro lato ci fossero delle stranezze. Rimase quasi delusa nel constatare che il retro era candido come la neve, intonso. Lo passò all'amica che lo reclamava e ripresero a camminare verso vicolo San Sebastiano per arrivare alla fermata dell'autobus.
- Fa molto 
Ok, il prezzo è giusto la posa della signora, non credi?  commentò Lisa, sghignazzando e restituendole il foglietto. Cecilia fece per cacciarlo in uno scomparto della borsa, ma si raggelò quando vide che nella stampa ora Fatima le stava facendo l'occhiolino, un pollice della mano verso l'alto. Ma non stava sorridendo fino a qualche istante prima? Che c'era ora, la festa di Franzoni le dava pure le allucinazioni?
I vestiti, impacchettati da uno strato di cellophane per preservarli, pesavano una tonnellata ed erano molto più voluminosi di quello che avevano pensato. Le ragazze s'infilarono a fatica dentro il bus ed andarono filate verso casa di Lisa, perché quest'ultima era davvero molto inquieta riguardo l'ultimo problema da affrontare in previsione del party: la questione 
scarpe.
Cecilia non aveva nulla di adatto da indossare sotto un costume da dama ottocentesca e la sua amica di certo non le avrebbe permesso di fare una ricostruzione storica approssimativa, abbinando al pregiato damasco del corpetto ricamato, un paio di ballerine del 2011 grigio metallizzate. Nemmeno le babbucce di Scooby Doo le sarebbero piaciute, probabilmente...
Trascorsero tutto il pomeriggio a passare in rassegna mentalmente ciò che era sistemato e ciò che ancora era da perfezionare. Cecilia passò da casa solo per lavarsi veloce; di recente, meno restava in quell'appartamento da sola, meglio stava. Sua madre non c'era mai, troppo impegnata tra lavori ed amante, e Van Gogh ormai si rifiutava di sorbirsi le sue continue paranoie, rifugiandosi in un angolino dell'acquario. Cosa poteva esserci di peggio di non essere ascoltata da un dannato pesce?
Si fecero i boccoli a vicenda, incastrando i capelli tra le forcine e l'elastico della maschera, perché di certo non correvano il pericolo di volersele togliere. L'unico inconveniente rimaneva ancora la decisione circa le calzature.
- Ho trovato! Saranno perfette per te! 
 strillò dal nulla un'entusiasta Lisa. Aprì due ante del grosso armadio in ciliegio della sua camera e prese a trafficare nella caotica moltitudine di vestiti e accessori.  Eccole! Sei fortunata, a me non vanno più. 
Cecilia guardò la scatola che l'amica le porgeva, pensando che evidentemente non condividevano lo stesso concetto di 
fortuna. Non aveva bisogno di togliere il coperchio per ricordare quale orribile paio di scarpe fossero state accuratamente sistemate all'interno. Due stivaletti color cuoio, alti qualche centimetro sopra la caviglia, stringati, con un insulso tacchetto di due dita. Lisa aveva gridato al miracolo quando li aveva scovati in un mercatino vintage, durante un viaggio a Roma, ma il solo miracolo che aveva visto Cecilia era che qualcuno avesse avuto il coraggio di indossarli. Era proprio un tiro mancino quello che il destino le stava facendo: sarebbe stata lei a calzare quei... cosi, perché di sicuro non avrebbe mai avuto il fegato di dire a Lisa che quelle scarpe erano quanto di più brutto ci fosse al mondo. Non che temesse di ferire i sentimenti dell'amica  non era nemmeno sicura ce li avesse, i sentimenti , ma avrebbe fatto la parte dell'ingrata, considerato come l'altra si fosse prodigata per la riuscita della serata.
- G-grazie, 
 disse quindi, in un tono a metà tra una domanda ed un'affermazione. Cercò di mantenere un sorriso smagliante anche nel momento in cui fu costretta ad aprire la scatola; non era mai stata brava a fingere, però si fece forza e lasciò l'aria schifata ad altre occasioni dove, era certa, non sarebbe stata così condiscendente con il vestiario di Lisa.
Impiegò il maggior tempo possibile ad infilarsi quei dannati scarponcini, crogiolandosi nella magrissima consolazione che li avrebbe utilizzati solo per una sera e, tutto sommato, forse gli altri nemmeno li avrebbero notati, sotto tre strati di stoffa pesante. Purtroppo, Lisa finì di truccarsi alla svelta e la costrinse a sfoggiare gli stivaletti con qualche minuto di anticipo. E ora se ne stavano lì, splendidi nel loro aspetto orripilante – visivo e olfattivo, perché sapevano di pelle vecchia, tattile e persino uditiva, perché scommetteva che quelle suole dell'anteguerra avrebbero cigolato a meraviglia sul pavimento di prezioso marmo di villa Franzoni. In compenso, il vestito le stava discretamente, le metteva in risalto gli occhi e la scollatura, e i capelli sembravano tenere la piega.
Tinky Winky e Dipsy  rispettivamente Gianluca e Carlo  passarono a prenderle con i canonici dieci minuti di ritardo. Erano semplicemente ridicoli in quei costumi da Teletubbies e ciò che più faceva sganasciare le due ragazze era che i due sembravano a perfetto agio, conciati da mostriciattoli.
Lisa impiegò tre secondi esatti per far evaporare Rastrelli dal sedile anteriore, con la scusa del vestito ingombrante e la minaccia di fare di lui
un novello Farinelli. La faccia perplessa del ragazzo la indusse a fornire ulteriori chiarimenti.
- Cielo, dimentico sempre la tua ignoranza. Carlo Broschi, in arte Farinelli, è il più famoso cantante lirico castrato della storia, 
 gracchiò acida, ma l'espressione confusa non sparì dal volto del suo interlocutore.
- Vuoi trasformarmi in un cantante lirico? 
 chiese, ingarbugliato tra i concetti mal spiegati, a suo dire, di Lisa.
Cecilia appoggiò la fronte sul vetro freddo del finestrino e roteò gli occhi: sapeva con certezza che la lentezza di comprendonio dell'uno e l'alterigia dell'altra avrebbero presto portato ad una discussione di ben poco spessore culturale.
- Ti voglio castrare, idiota! 
 sbottò infatti lei, dandogli a fatica uno scappellotto sulla nuca. Finalmente, il concetto chiaro e tondo raggiunse l'unico neurone solitario rimasto ad abitare il cervello di Carlo, che ridusse gli occhi a due fessure e fece correre veloce il criceto per rispondere all'offesa.
- Vai a cagare, saputella del cavolo! 
 sbraitò infine. E la trivialità fu servita.
Lisa, come al solito, non si scompose ed attinse al suo vasto repertorio di curiosità inutili saccheggiate da ogni singola pagina di Wikipedia.
- Martin Lutero ha scritto le 
95 tesi sul water; soffriva di costipazione cronica, poverino. Perciò, mi risulta difficile intendere questa tua frase come un'offesa. Rastrelli... andrà meglio la prossima volta, dai!  lo canzonò. 
Carlo la guardò in tralice e se i suoi occhi avessero potuto ucciderla, lo avrebbero fatto: Lisa sarebbe morta incenerita in un nanosecondo. Fortunatamente per lei, la mole imperiosa di casa Franzoni era comparsa nel campo visivo dei quattro nell'auto, ricordando loro che era arrivata l'ora di scendere e godersi la festa. 
La villa era fastidiosamente opulenta, nell'architettura pretenziosa di stile neoclassico e nell'entrata degna di un palazzo reale. Nel curatissimo giardino, i fiori estivi tardivi e i primi boccioli d'autunno riempivano l'aria di un fresco e delicato profumo. All'interno, l'arredamento era costoso e lussuoso in ogni dettaglio, dal caminetto antico impreziosito da intarsi elaborati, ai quadri d'arte moderna e contemporanea. Era stomachevole l'aura di superiorità intrisa in ogni muro, nel lampadario di cristallo che creava effetti colorati a contrasto con le luci artificiali, nel divano di pelle italiana su cui ci sarebbero state comodamente sdraiate almeno sei famiglie. Ma ormai le due damigelle e i due Teletubbies erano giunti a destinazione, nell'immenso salotto colmo di gente, e il gioco di maschere e costumi stava per iniziare. Non rimaneva che ballare.

Lo so, nessuna traccia di Matteo, ma, già dall'inizio del prossimo capitolo, il protagonista sarà lui.
Preciso una cosa: forse qualcuna storcerà il naso di fronte all'uso di parolacce e situazioni ambigue (che leggere da qui in avanti). È una fiaba, ne sono conscia. Ma è anche una rivisitazione in chiave moderna e i protagonisti sono ragazzi. Perciò, sì, dicono parolacce, oltre a fare 'cose normali', come uscire in compagnia e andare all'università. Trovo più realistico che abbiano anche atteggiamenti 'negativi', piuttosto che proporvi dei personaggi che sono perfetti. Se non è quello che cercate, mi dispiace. Questa è la mia scelta, voi siete liberi di fare la vostra.
Ringrazio Nessie e SunshinePol per l'aiuto con la stesura e il betaggio, IoNarrante per il bellissimo banner e voi che avete letto e recensito.

P.S.Non abituatevi ad aggiornamenti fuori programma: ho idea che questo rimarrà un caso isolato.

 Buona serata, 

S.


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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo III.


Matteo Maestri era ben poco interessato al design di casa Franzoni, che aveva visto decine di volte, e molto più concentrato sulla sua birra. Bevve l'ultimo sorso della bottiglia che aveva in mano e l'appoggiò annoiato sul davanzale della finestra, lasciata aperta per il ricambio d'aria. Dalla cassa nell'angolo della stanza fuoriusciva una musica infernale e le sue orecchie ne avevano abbastanza da almeno una buona mezzora. Aveva fumato una sigaretta, era andato in bagno, era uscito ad accogliere persone sconosciute solo per potersi allontanare da quel pandemonio; certo, Filippo era un amico, ma le sue feste erano sempre una grandissima rottura d'anima: il deejay  ogni volta lo stesso  era un incompetente e non bastava tutto il Ferrari del mondo per annegare la seccatura di sentirlo straziare i suoi poveri timpani per l'intera serata. Franzoni, poi, diventava nevrastenico nel controllare che nessuno vomitasse sugli arazzi del padre o che gli ospiti nemmeno si avvicinassero alla collezione di centinaia di animaletti Swarovski di sua madre. Era uno sfigato, lo sapeva bene, ma quello gli si era attaccato come una cozza al didietro sin dalla prima elementare e Matteo non aveva davvero il buon cuore di mandarlo a quel paese. Se ne faceva ben poco della sua amicizia, però gli faceva un po' pena, sempre e solo in compagnia dei suoi soldi. Chi davvero non gli faceva pena era l'improbabile Marilyn Monroe che si stava scapicollando dal giardino per acciuffare proprio lui, nell'ennesimo tentativo di abbordarlo, per sé o addirittura per la sua amica, Melissa. Dio, che disgrazia di ragazza.
Gisella Ferris si fece largo tra gli invitati, calpestando chiunque la separasse da Maestri, solo accanto alla porta, con quel costume da Superman che gli metteva in mostra tutto ciò che Madre Natura gli aveva donato. Si compiacque con se stessa per aver tanto insistito con lui perché infilasse il suo bel corpicino forgiato da anni di calcio in quella tutina blu attillata che lasciava ben poco all'immaginazione. Nonostante la maschera nera gli coprisse gli occhi, il naso e parte delle guance, quei capelli biondi corti erano riconoscibili da almeno mezzo chilometro, soprattutto per un'attenta osservatrice come lei. Eh sì, cinque lunghi anni di appostamenti e pedinamenti del povero Cristo in questione stavano dando i loro frutti: mica tutti sapevano della voglia rossastra sulla natica sinistra che sembrava una macchia di pittura!
Raggiunse Matteo e lo abbracciò di slancio. Lui si scostò contrariato, imprecando ancora una volta verso il tessuto sintetico del costume che aveva indosso che gli si era appiccicato alla pelle, neanche ci avesse messo la colla. Per non parlare del mantello rosso legato al collo, con cui rischiava di strozzarsi ogni qual volta uno di quegli ospiti idioti v'inciampava e dei boxer, stretti in quella specie di sospensorio che gli comprimeva pericolosamente i gioielli di famiglia.
La musica alta gli consentiva almeno di sottrarsi dalla conversazione con Gisella; riuscì a placcare Franzoni con entrambe le braccia e lo costrinse con una stretta vigorosa a prendere il suo posto accanto alla ragazza, quella sera particolarmente in vena di moine e complimenti, grazie a qualche cocktail alcolico di troppo. Fece per avanzare di un passo, verso la libertà  e di ciò era particolarmente fiero: in pochi potevano vantarsi di essere sfuggiti indenni dalle grinfie della signorina Ferris , ma il suo collo rimase indietro, avviluppato da due lacci tesi. 
Era accaduto di nuovo: qualche imbecille gli aveva pestato per l'ennesima volta il dannato mantello e lui stava per soffocare. Ancora. Si voltò irato verso la persona evidentemente priva di cervello che lo teneva in ostaggio, con tutta l'intenzione di rifilargli un pugno, o quanto meno redarguirlo con una serie di improperi e appellativi assai poco cortesi. Quando vide quegli occhi azzurri dispiaciuti, però, non riuscì a proferire parola; la sua bocca rimase spalancata davanti alla ragazza che, il volto nascosto dietro una maschera argentata decorata da due farfalle, si teneva una mano sulle labbra, non sapendo come scusarsi dell'incidente. Lei sollevò il piede dal mantello rosso e Matteo sentì la morsa attorno alla carotide attenuarsi, il sangue e l'ossigeno che cominciavano a fluire normalmente.
- Scusa, scusa, scusa! 
 disse lei, mentre lui cercava di riprendere fiato. Era più sconvolto dalla vista di quella specie di principessa bionda di un'epoca remota, piuttosto che dal dolore al collo.
- Ciao,  disse soltanto, imbambolato. Cecilia lo guardò meravigliata, forse aveva capito male; con la musica a tutto volume, era probabile che le avesse sussurrato un insulto con il sorriso sulle labbra per confonderla. Lei, nel dubbio, tacque, disorientandolo. Lui allora le posò una mano sulla schiena e la spinse verso di sé. Voleva solo parlarle nell'orecchio, ma la ragazza si trasse indietro, restia a farsi avvicinare così presto da uno sconosciuto. Probabilmente aveva pensato che fosse solo un marpione alticcio in cerca di compagnia. Si accorse dei due Teletubbies  Teletubbies?!  dietro di lei che parevano pronti ad attaccarlo da un momento all'altro. Spostò la mano dalla ragazza e la lasciò ricadere lungo il fianco; ci mancava solo di essere assaliti da Tinky Winky e socio: una gran bella pubblicità per la propria reputazione.
- Volevi uccidermi?  le bisbigliò, quindi, a distanza di sicurezza. La biondina sorrise divertita, più rilassata: lui sembrava sobrio e non le aveva messo la mano sul sedere; coi tempi che correvano, era già un risultato notevole. 
- Non immaginavo fosse tanto facile ammazzare Superman. Lo dirò a Brainiac.
Matteo non aveva la minima idea di chi fosse questo 
Breniac, ma se l'aveva aiutato a rompere il ghiaccio con la damigella, tanto valeva ringraziarlo mentalmente e augurargli buona fortuna nello sconfiggere Superman. Naturalmente quello vero.
Il silenzio regnò nelle menti di entrambi per qualche istante, mentre tutt'intorno a loro l'assordante vociare degli altri invitati e della musica riempiva il vuoto lasciato dall'imbarazzo tra loro. Si studiarono a vicenda per pochi secondi, senza parlare, finché Cecilia abbassò lo sguardo, a disagio.
Dì qualcosa. Pregò se stessa e il ragazzo perché almeno uno dei due parlasse di un qualsiasi argomento e togliesse d'impaccio entrambi. Si sentiva una ragazzina, mentre si torturava la stoffa della gonna tra le dita, sollevandola di qualche centimetro, e picchiettava nervosamente la punta delle scarpe sul pavimento. Oh cielo, le scarpe: non poteva rischiare che qualcuno le vedesse, sarebbe scappato a gambe levate. Liberò il vestito dalla morsa in cui l'aveva imprigionato e, per fortuna, gli stivaletti scomparvero di nuovo sotto l'ampio tessuto azzurro.
Nemmeno Matteo se la stava passando bene. Nonostante sapesse di essere un bel ragazzo, non si era mai sentito troppo a suo agio nel ruolo di 
tombeur de femmes. Anzi, piuttosto erano le donne che si prodigavano per conquistarlo; lui semplicemente stava spaparanzato comodo comodo sul proprio piedistallo  eretto dalle stesse che tanto si davano da fare per corteggiarlo  e aspettava che fossero loro a decidere, con regole a lui ignote, chi fosse la prescelta per provarci con lui.
Ed ora che si trovava davanti la timidezza fatta persona, una che non pareva il tipo da faide interne al sesso femminile per accaparrarsi il suo
scettro, una che sembrava stesse aspettando una sua mossa... magari avrebbe dovuto semplicemente scappare. O voluto. Sarebbe stato sufficiente girarsi e trovarne un'altra in mezzo al folto gruppo d'invitate, una che facesse al posto suo tutto il lavoro di corteggiamento. Perché, diciamoci la verità: lui non era proprio in grado di farlo, non era il suo campo. Il suo campo era fatto di zolle di erba. Magari le donne fossero facili da decifrare come una partita di calcio! Lì l'obiettivo è fare goal, poche storie. Ma nell'amore, qual è l'obiettivo? Un suo amico gli avrebbe di sicuro detto farsela dare; sua sorella di nove anni gli avrebbe risposto vivere per sempre felici e contenti; Gisella e Melissa avrebbero urlato farsi Matteo Meastri e vivere per sempre felici e contenti... 
E lei, la ragazza sconosciuta, cosa avrebbe risposto?
Meglio cambiare domanda.
- Ehm... 
 cominciò, titubante.  Ti va di bere qualcosa?
Cecilia lo seguì al tavolo lungo una parete, traboccante di cibo, vino e alcolici. Armeggiò con alcune bottiglie e le mise tra le mani un bicchiere tumbler in cui aveva preparato un Long Island artigianale, che lei reputò abbastanza buono da indurla a chiedergli dove avesse imparato a fare i cocktail. Le disse che lavorava saltuariamente come barman in un locale del centro molto frequentato, il 
Firefly, dove lei si ricordò di essere entrata qualche volta in compagnia di Lisa e degli altri. 
- Potresti passare di nuovo. Prometto di offrirti un drink come si deve.
A giudicare dal sorriso sincero di lei, Matteo stava facendo centro; certo, non era comunque Giacomo Casanova, ma si complimentò con se stesso perché non stava utilizzando tecniche trite e ritrite e non si stava lasciando andare a facili complimenti, soprattutto dal momento che la dama pareva il tipo da imbarazzarsi anche per un semplice 
mi piace trascorrere del tempo con te.
Cecilia rispose che avrebbe pensato alla sua offerta, ma in cuor suo sapeva già di volerci andare il più presto possibile, nella speranza che ci fosse lui dietro il bancone. 
Parlarono per l'intera serata di tutto ciò che veniva loro in mente, s'impegnarono a fondo perché non ci fossero scomodi momenti di silenzio a rovinare l'atmosfera tranquilla duramente creata da entrambi; lei accantonò la propria timidezza, lui cercò di superare l'inadeguatezza e l'inesperienza dei gesti e delle parole da destinarle. Cecilia tentò di non essere scostante e fredda come al solito e Matteo si concentrò per non strapparle di dosso la maschera e baciarla platealmente di fronte a tutti, nonostante il desiderio di farlo lo stesse torturando da parecchio. Temeva di spaventarla e fare la parte dell'arrapato cronico ed era l'ultima cosa che voleva che lei pensasse. Ah, odiava nel profondo il ruolo del corteggiatore!
Maestri approfittò di un momento di distrazione della ragazza, intenta in una conversazione con una tizia vestita quasi come lei, e riuscì a mandare di soppiatto un messaggio a quel cretino del deejey, perché mettesse una canzone più lenta di quelle elettroniche che da ore stava sparando fuori dalle casse; aveva bisogno di un contatto con la ragazza, di toccarla, di parlarle occhi negli occhi e il David Guetta de noantri non stava aiutando.
Di sicuro, però, Matteo non si aspettava di doverla invitare a ballare sulla colonna sonora de 
Il tempo delle mele. Quel deficiente scratcha-dischi gliel'avrebbe pagata.
- Balliamo? 
 propose Cecilia, anticipandolo. Lui non si avvide del rossore che le colorava le guance e lei mascherò abilmente lo slancio di coraggio, attribuendo ogni colpa al Long Island che lui le aveva preparato.
Superman le afferrò la mano e la condusse in un angolo del salotto che si stava popolando di coppiette più o meno credibili, lanciate in un lento, con mani strategicamente poggiate a metà tra la schiena e il sedere.
Maestri le poggiò dolce la mano ben più su, per non creare equivoci e metterla in fuga; non c'era fretta, non voleva accelerare troppo le cose... no, in realtà le cose le avrebbe volute alla velocità della luce, ma le donne erano strane, necessitavano dei loro tempi.
Tuttavia Matteo era arrivato al punto di non farcela più, fisicamente e mentalmente. Averla così vicina, tra le sue braccia, il suo profumo nelle narici lo stava mandando in tilt. Si trasse un po' indietro e la guardò in viso; l'azzurro tranquillo dei suoi occhi lo spronò a fare ciò che sognava da un po'. 
Cecilia era nervosa. Si stava mordicchiando il labbro inferiore con urgenza e apprensione. Cosa stava aspettando a baciarla? L'attesa la stava facendo impazzire. Quasi le leggesse nel pensiero, Superman le sorrise, la spinse verso di sé e la baciò. Un bacio a stampo, breve, giusto il tempo d'imprimersi il sapore dell'altro sulle labbra. Non appena lui si allontanò, Cecilia aprì gli occhi: Matteo non c'era più. Lo ritrovò qualche metro più in là, braccato per una manica da Gisella Ferris vestita da Marilyn Monroe 
 costume che proprio non le donava  e Lady Gaga, alias Melissa Cedreo.
Lui le guardava con insofferenza e dopo qualche secondo le mandò al diavolo, evidentemente scocciato. Tornò così dalla sua dama.
- Scusa, eh, mi hanno praticamente rimosso dalla mia posizione. Dov'eravamo?
Fece per riavvicinarsi, conscio che ormai alcune prerogative della situazione di poco prima si fossero perse. Solo, sperava non per sempre. Cecilia assecondò i suoi movimenti meccanici, dimentica del disagio della situazione: il misero bacio che le aveva dato non le era bastato.
- Ehi, Matti, ti cercavo! 
 Una voce maschile li interruppe ancora prima potessero sfiorarsi.  Sai dov'è Franzoni? 
Matteo emise un ringhio rabbioso, mentre la ragazza non poté esimersi dal ridacchiare della tragicomicità della scena. Poi, però, vedendo il Danny Zuko che aveva messo una mano sulla spalla di Superman, smise di sorridere.
Niccolò. Cecilia trattenne il respiro per qualche istante quando la mano di lui, nel gesticolare, le sfiorò accidentalmente il braccio. Tentò di contenere le diverse emozioni che quell'incontro inaspettato le suscitava: rabbia, malinconia, disgusto, freddezza. Vestire i panni di una donna dell'Ottocento la stava rendendo ipersensibile al contatto fisico, come una delle protagoniste della Austen o della tanto odiata Charlotte Brontë. Se le avesse toccato una coscia, cosa avrebbe fatto? Chiamato Ferdinando o i Teletubbies a vendicare l'ardire del baldo giovane? Per fortuna era una ragazza del 2011, indipendente come Elizabeth Bennet, determinata come Catherine Earnshaw e... 
vergine quanto Emma Bovary. Oh, buffo come ogni cosa riconducesse inevitabilmente a Niccolò. 
Superman fece spostare il ragazzo dalla sua stessa parte ed indicò Franzoni, dall'altra metà della sala, dietro le spalle di Cecilia. Lo sguardo di Mannino si posò per una frazione di secondo sugli occhi azzurri della dama che ballava con Maestri, prima di seguire la direzione del dito. Tornò a fissare la fanciulla con aria stupita, dimenticandosi di Matteo e di Filippo.
- Ci conosciamo?  le chiese dubbioso.
Cecilia venne presa di contropiede. Si morse la lingua, quando un moto di rabbia le stava per far fare un gesto avventato 
 per la cronaca, alzarsi la gonna, abbassarsi gli slip e urlare: ora ti ricordi?  di cui si sarebbe pentita all'istante, anche perché c'era il serio rischio che la risposta di Niccolò fosse a sì, giusto. Marta? Laura? Francesca? 
Non era pronta ad affrontarlo e, ad essere onesti, nemmeno aveva voglia di farlo. Ne era passata di acqua sotto i ponti da allora, non avrebbe avuto senso rivangare qualcosa che, seppur dolorosamente, era morto e sepolto.
Accantonò la reazione orgogliosa ed indignata e abbracciò l'altra, più ponderata e pacata; decise di rifilargli un secco e snob 
no e di volgere la propria attenzione altrove, ad esempio a ricercare la testa ricciuta di Lisa, che mancava all'appello da ormai trenta minuti, o controllare che quella perfida di Melissa non fosse nelle vicinanze.

Entrambi i ragazzi avevano bevuto troppo e, si sa, la cosa più saggia da fare in questi casi è farsi accompagnare a casa, mettersi a letto e dormire, dormire, dormire. In alternativa, per i più coraggiosi, esiste un'altra opzione: infilarsi due dita in gola e vomitare  in qualsiasi posto, ma non sugli arazzi del signor Franzoni, ovviamente. Ma se c'è un'azione da non compiere quando l'alcool ti ha tolto i freni inibitori è quella di chiudersi in un bagno per una sveltina, soprattutto quando si indossa un abito ingombrante e una maschera copre metà faccia del partner.
La situazione, però, era ormai fuori controllo; lui era eccitato e sudato e lei non era da meno, nonostante la gonna le limitasse gran parte dei movimenti. Semplicemente si tirò l'orlo fino alla vita, ingolfandosi tra la stoffa e lasciando fare a lui il grosso del lavoro.
Tutti e due pensavano di non essere nemmeno lì; sembrava un sogno, i corpi che si stavano unendo con frenesia e spasmodico desiderio parevano appartenere ad altri. Non si guardarono mai negli occhi, figuriamoci se almeno uno dei due si ricordò di usare il cervello e le precauzioni.
Due minuti dopo 
 c'era una ragione se l'avevano entrambi intesa come una sveltina  uscirono ammaccati dalla stanza, lei con un gomito contuso a causa di uno scontro con il lavello, lui con una botta alla natica, dopo aver preso in pieno il portasciugamani. 
Nell'antibagno fecero un incontro imprevisto: altri due ragazzi, visi noti, si stavano baciando, ansimanti e su di giri, contro lo specchio. Si fermarono nel momento in cui due paia di occhi sbalorditi li fissarono.
I quattro si studiarono a vicenda, a coppie. Era un momento imbarazzante per tutti e dovevano abbandonare il bagno, prima che qualcun altro li beccasse.
- Non ci siamo mai visti qui, chiaro? Tutto ciò non è mai successo. 
 Una delle due ragazze impose al gruppetto tale versione, ma nessuno ebbe da ridire alcunché. Ognuno prese la sua strada, rigorosamente solo.

Cecilia riuscì ad individuare Lisa. E anche Melissa. Erano uscite contemporaneamente dal bagno, una a destra della parete di cartongesso che nascondeva la toilette, l'altra a sinistra. Avevano tutte e due l'aria schifata e barcollavano come due alberi travolti dalla Bora. Non aveva idea di quanto avessero bevuto, ma, a giudicare dalle loro espressioni assenti, doveva essere molto di più di qualche bicchiere.
 
Anche lei era un po' scombussolata; dopo l'interruzione di Niccolò, non era più riuscita nemmeno a scambiare una parola con Matteo. Franzoni aveva ridotto ad un sibilo la musica e imbracciato un megafono, mandando sgarbatamente tutti a casa, nelle loro umili e sporche dimore, così come se le era sempre immaginate lui, dove sperava di non mettere mai piede; la puzza di povertà doveva essere un tanfo insopportabile per chiunque, figuriamoci per uno abituato a vivere nel lusso come lui... Per questo rifiutava tutti gli inviti a case altrui. Non che comunque ce ne fossero molti da respingere.
Perlomeno la serata era andata a gonfie vele e si era appena chiusa in un modo alquanto interessante...
- Forza, la festa è finita, 
 urlò, mentre fermava Maestri che pareva aver perso qualcosa.  Vieni con me.
Qualcuno bloccò anche Cecilia. Un braccio l'afferrò in malo modo, forzandola a bloccarsi. Sperava di trovarsi di fronte uno dei ragazzi con cui era arrivata, oppure Superman, che era riuscito a riacciuffarla tra la folla per chiederle il numero di telefono, o quanto meno il nome. E invece si ritrovò l'espressione dura e furba allo stesso tempo di Niccolò. La stava guardando perplesso, alla ricerca di qualche particolare che gli avrebbe permesso di capire definitivamente a chi appartenessero quegli occhi azzurri così famigliari.
- Sicura che non ci conosciamo? 
 Le chiese, di nuovo. Cecilia sentiva di essere in procinto di perdere la pazienza una volta per tutte. Davvero le sfuggiva tanta insistenza da parte di Mannino, e la cosa la infastidiva da morire.
- Sicura, 
 replicò dura, divincolandosi dalla presa del ragazzo. Lui la lasciò libera di girargli le spalle e andare verso l'ingresso. Non fece nemmeno a tempo a muovere un passo, che una voce la raggiunse dalle scale all'entrata.
- Cecilia! 
 Gianluca la stava chiamando per chiederle una mano nel trasporto di Lisa, che a mala pena stava in piedi, fino alla macchina. 
La ragazza strizzò gli occhi e sperò che Niccolò non avesse sentito il suo nome. Si voltò piano verso dove prima c'era lui e con sguardo inorridito constatò che, per sua sfortuna, era ancora lì, intento a fissarla con aria scioccata.
- Cecilia? 
 ripeté confuso, la bocca socchiusa dallo stupore.
Il suo corpo era nascosto da almeno quattro strati di tessuto, eppure la ragazza si sentiva nuda, esposta e vulnerabile. Avrebbe tanto voluto dare retta a Fatima, riportandole il vestito prima di mezzanotte e risparmiarsi una figuraccia con quello scherzo che ora assumeva un sapore di predizione. E, oh come l'avrebbe pagata cara quel tesoro di Gianluca Lamberti, reo di aver svelato la sua identità, proprio quando si era illusa di essersi salvata dall'interrogatorio di Mannino. Avrebbe pure fatto due chiacchiere con Ferdinando e Marina, i suoi genitori, per ringraziarli sentitamente per la scelta del suo nome; si fosse chiamata 
Anna o Elisa, magari sarebbe stato possibile un caso di omonimia, ma quel Cecilia non era poi così comune e l'aveva condannata senza possibilità di appello. E cosa dire del nonno Molinari? Neppure l'ottantenne Pietro sarebbe stato risparmiato dalla rabbia cieca dell'amata nipotina. Tutta colpa di quegli occhi azzurri maledettamente inconfondibili che avevano fin troppo facilitato il compito a Niccolò.
- Cecilia? 
 ripeté quest'ultimo.
La ragazza fu costretta ad interrompere la lista mentale di ammonimenti da compiere in un futuro 
molto prossimo e lo guardò stancamente.
- Che vuoi?

Franzoni aveva trascinato Maestri al primo piano, dalla cui ringhiera era possibile avere una perfetta visuale sulla sala sottostante in cui era svolta la festa. Stava esponendo con entusiasmo la sua teoria, per cui se fossero uscite circa venti persone al minuto, la stanza si sarebbe svuotata in meno di cinque minuti. Matteo era ormai abituato alle inutili idee di Filippo, ma ogni volta non poteva esimersi dal pensare a quanto dovesse essere triste la sua vita, se si riduceva ad elaborare quelle idiote ipotesi scientifiche ad ogni singola di festa.
In realtà, aveva accettato di accompagnarlo al piano superiore solo per vedere se fosse riuscito ad individuare la ragazza con l'abito blu con cui aveva trascorso l'intera serata. Era stato talmente imbranato nei panni inediti di corteggiatore, che si era dimenticato persino di chiederle il nome. Un perfetto idiota. Almeno era riuscito ad avvistarla, a qualche metro dai gradini d'entrata; stava già per partire a razzo giù per le scale per raggiungerla, ma rimase fermo quando vide che non era sola. Non erano i suoi amici Teletubbies a tenerle compagnia, ma bensì Danny Zuko. Prese a tamburellare nervoso sul parapetto in ferro battuto. Non poteva davvero credere che Mannino stesse ignorando ogni tipo di codice maschile, provandoci con la stessa ragazza con cui lui aveva maldestramente tentato di fare altrettanto per tutta la festa. Insomma, già con la scusa del 
Ma ci conosciamo? di prima, aveva davvero esagerato; non che Matteo se ne intendesse molto di tecniche di seduzione, ma quella gli pareva fosse uscita da uno di quei romanzetti rosa che sua madre leggeva in certi periodi del mese  chissà perché , quando si chiudeva in camera a singhiozzare per ogni singola pagina di presunti amori fuori da ogni realtà.

- Niente, 
 si affrettò a rispondere Niccolò, scrollando le spalle. Il suo sguardo dispiaciuto cozzava con l'espressione da spaccone che avrebbe assunto uno dei ragazzoni di Grease. Improvvisamente, le parti tra loro si erano invertite: lui era quello timido, lei quella agguerrita e determinata a non concedergli troppo spago.
- Bene. Buona serata, 
 disse lapidaria.
- Aspetta! - la bloccò lui, quando lei ormai si stava già dirigendo verso la porta. Cecilia si fermò, ma continuò a dargli le spalle. 
 Mi dispiace... per quello che ho combinato, dico.
- Sei in ritardo di quattro anni. 
 Cecilia si accorse che Mannino non aveva intenzione di accontentarsi della sua risposta, così decise di pronunciare altre parole, in verità assai poco sentite - Ma accetto le tue scuse.
Niccolò conosceva bene la biondina; l'aveva osservata per alcuni mesi, prima di farsi avanti con lei. Era schiva, riservata e avrebbe detto qualsiasi cosa pur di togliersi uno scocciatore di torno. Anche affermare di aver perdonato qualcosa che lui sapeva bene non sarebbe mai riuscita a superare. Gliel'aveva detto sin da subito, sin dall'inizio: 
guai a te se mi tradisci. Mentre pronunciava quella frase, aveva sempre avuto il sorriso sulle labbra, ma era chiaro che non ci sarebbe stato proprio nulla da ridere, se lui avesse infranto l'unica promessa su cui Cecilia si fosse incaponita: la fedeltà. E lui aveva rovinato tutto per una come Clara. Una facile, una da tutto e subito, una che avrebbe dovuto essere per una volta e basta. Poi, però, c'era stata una seconda volta, una terza, una quarta... aveva perso il conto. Aveva diciotto anni e la mente occupata dall'Inter e dal sesso e, per quanto Cecilia potesse essere un buona compagnia, lui non aveva intenzione di fare coppia fissa, né tanto meno privarsi delle uscite per soli uomini organizzate dai suoi amici in locali di dubbio gusto. Erano ragazzi ed erano convinti di farla sempre franca. Però la Orpella aveva parlato e se lo sarebbe dovuto immaginare: bocca larga almeno quanto le gambe.
Niccolò tornò al presente, passando accanto a Cecilia e parandosi davanti a lei. Non aveva idea di che avrebbe fatto, ma sapeva di non volere che lei se ne andasse, non senza averle parlato ancora.
- Ti conosco, Ceci. 
 Lei lo guardò sprezzante: perché e come osava chiamarla con il suo soprannome? Non erano amici, non lo erano stati in passato e che il diavolo la maledicesse se mai lo sarebbero stati da quel momento in poi.  Tu non mi perdonerai mai.
La biondina si sentì in trappola: ammettere che lui avesse ragione significava fargli sapere che tutta quella storia le bruciava ancora e non poteva permetterselo. Non poteva concedergli altri poteri, oltre quello inequivocabilmente palese della sua avvenenza che la stava già mettendo in crisi. 
- Ti sbagli, è acqua passata, 
 mentì. Niccolò non se la bevve nemmeno al secondo tentativo. Però sorrise e Cecilia divenne ancora più nervosa; conosceva bene la malizia nascosta dietro quelle file di denti bianchi come la neve e sapeva che quando lui la guardava in quel modo, non c'era nulla di buono all'orizzonte. Infatti, Mannino si fece ancora più vicino, con lo sguardo ora decisamente coerente con l'aspetto da bulletto T-Birds di cui vestiva i panni. Si abbassò per mettersi alla sua altezza e le sussurrò delle parole nell'orecchio, nonostante non ci fosse alcuna necessità di farlo, dal momento che la musica aveva un volume bassissimo.
- Allora siamo a posto, 
 le mise la mano sinistra sul collo e impresse le sue labbra sulla guancia destra.  Notte, Ceci.

L'aveva appena baciata. Aveva baciato 
lei. 
Le sinapsi di Matteo Maestri stavano friggendo come non mai. Tra tutte le ragazze presenti a quella dannata festa, quello stronzo aveva scelto proprio la biondina, la 
sua biondina. E ora se la stava squagliando, lasciandola ad un passo dall'ingresso, con un'espressione fissa nel vuoto che lui sperava tanto non fosse una conseguenza del gesto di Niccolò. Poteva essere solo sorpresa, stupita... Matteo desiderava che non lo fosse in modo piacevole.
Abbandonò Franzoni al piano superiore e scese rapidamente gli scalini. Rimanevano ormai poche persone nella grande sala della villa e la dama in blu era tra quelle, nonostante avesse raggiunto 
Tinky Winky e stesse per uscire dall'abitazione.
Le picchiettò piano due dita sulla spalla e lei si voltò, con uno sguardo a metà tra lo scocciato e l'impaurito. Cecilia temeva fosse ancora quella strana versione di Niccolò Mannino che le si era palesata davanti agli occhi poco prima e stavolta era determinata a cacciarlo con un bel calcio negli stinchi, ma invece si sentì sollevata e inspiegabilmente felice, nel constatare che si trattava di Superman.
- Ehi, 
 esordì Maestri, tornato ad essere impacciato e goffo come prima.
- Ehi, 
 rispose lei, stupendosi della sua voce quasi... civettuola?!
- Ehm...  Il ragazzo si grattò la testa nervosamente e cercò disperato di trovare le parole giuste da dire.  Volevo dirti che... cioè, io sono Matteo. 
Cecilia gli strinse la mano con vigore. Non c'era bisogno che lui si presentasse: sapeva bene chi fosse, le era bastato notare le occhiatacce e assistere alla sceneggiata di Marilyn Monroe e Lady Gaga, per capire che il proprietario di quei capelli biondi altro non era che il loro
protetto, Matteo Maestri. Lo vedeva spesso in università e non le mai capitato di desiderare così ardentemente di trovarsi in facoltà per poterlo incrociare di nuovo  lontano da Franzoni e le galline, lontano da sguardi indiscreti  nei corridoi.
- Io sono... 
- Allora? Lisa! 
 urlò Gianluca, spazientito, guardando Cecilia ed indicando con le braccia la Zanin. L'aveva già chiamata almeno cinque minuti prima e lei ancora non si decideva a raggiungerlo; in più, Lisa si era accasciata drammaticamente a terra e aveva avvinghiato le proprie dita sulle gambe di Lamberti. 
- Devo andare. Ci vediamo, Matteo. 
Maestri rimase interdetto, mentre lei si smaterializzava di fronte ai suoi occhi per correre verso i suoi amici. Non voleva fare l'insistente ed, inoltre, tutto ciò di cui aveva bisogno, l'aveva appena ottenuto: la dama era una ragazza per cui valeva la pena tirar fuori gli attributi; non l'avrebbe lasciata a Mannino senza combattere.
Gianluca accolse Cecilia con uno sguardo di ammonimento ed astio, a ricordarle che era parecchio che erano stati lasciati al loro destino, proprio da lei. 
- Carlo? 
 chiese, timorosa di doversi occupare anche del recupero di Dipsy.
- È già a casa, si è fatto dare uno strappo da Lele,  rispose Lamberti.
Lisa le si attaccò con una scimmia allo stivaletto tanto odiato e non aveva intenzione di staccarvisi. Continuava a mugugnare frasi sconnesse nella direzione di Cecilia, accusandola di averle rubato le preziosissime scarpe. L'amica l'accarezzò compassionevole: credeva davvero che si sarebbe sprecata a rubare quegli anfibi preistorici? La lasciarono ai suoi sproloqui e tentarono a svariate riprese e in diverse tecniche a sollevarla dal pavimento. Sentivano il fiato di Filippo sul collo, che premeva perché tutti sloggiassero da casa sua; erano già le tre, lui aveva sonno e doveva chiudere la casa, prima che qualche topo di fogna tentasse di rubargli l'argenteria da sotto il naso.
- Franzoni, non credi che se avessimo voluto, l'avremmo fatto prima, in mezzo alla confusione? 
Il padrone di casa s'indispettì ulteriormente; una vocina nella sua testa continuava sibillina a suggerirgli che quei poveracci erano proprio furbi: avevano già pensato al modo di compiere un furto nella sua villa. E magari lo avevano pure fatto, quei maledetti! Il giorno dopo avrebbe contato 
personalmente che non mancasse nulla tra i suppellettili e le posate. Se fosse mancato anche solo un cucchiaino, avrebbe scatenato l'inferno.
La sala s'era svuotata e ora non rimanevano che Cecilia, Gianluca, Lisa e Franzoni, ad attendere che la Zanin riuscisse a muoversi 
 o ad essere mossa, molto più probabile  fino alla macchina.
Matteo comparve dal nulla, sgranocchiando un salatino che cominciava a sentire di stantio. Guardò incuriosito il gruppetto, riunito attorno ad una figura spalmata sul pavimento. Sorrise nel vedere che la sua dama era ancora lì, inchiodata dalla tizia a terra che le stritolava la caviglia. Il loro amico stava cercando di rimuoverla dal pavimento, ma i risultati parevano piuttosto scarsi. Inutile dire che Filippo non li stava aiutando; forse pensava di correre il rischio di prendersi qualche malattia infettiva di cui solo i comuni mortali che non navigano nell'oro sono portatori. 
Maestri si fece avanti e coordinò con Lamberti le operazioni per alzare Lisa, sotto lo sguardo ammirato e riconoscente della 
sua ragazza dagli occhi azzurro cielo. Scollarono Lisa dal piede di Cecilia, che fu costretta a togliersi una scarpa per placare la rabbia dell'amica, che la chiamava continuamente ladra. Trasportarono la Zanin fino all'auto di Gianluca, dove venne sistemata sul sedile posteriore. 
- Grazie, 
 gli sussurrò Cecilia.
- Non merito un premio? 
 tentò lui.
Lei si alzò sulle punte e si poggiò a lui 
 con un piede scalzo era piuttosto sbilanciata  e premette la sua bocca contro quella di Superman, come nel miglior film di fantascienza. 
- 'Notte, 
 gli sorrise sulle labbra.
Matteo rispose al sorriso e fece un inchino buffo con il mantello, simbolo e causa del loro incontro. Poi, la ragazza salì a bordo dell'auto dei suoi amici, si levò anche l'altra scarpa e si allacciò la cintura.
Sul sedile posteriore giaceva Lisa, mezza assopita, ma ancora ben sveglia per affacciarsi al finestrino aperto e lanciarsi in una filippica di ringraziamento allo sconosciuto cavaliere che l'aveva condotta alla macchina. Cecilia le lanciò l'altro stivaletto per zittirla, ma quest'ultimo venne malamente parato e rispedito fuori dal finestrino, nell'erba del vialetto di Franzoni. 
I suoi amici non se ne accorsero e nemmeno badarono alle sue lamentele; le archiviarono come vaneggiamenti da sbronza, fecero salire il vetro dello sportello e partirono, sgasando sulla ghiaia.
Fu Maestri a raccogliere la scarpa dal selciato, ridacchiando fra sé.
Due baci a stampo e una sua scarpa: 
prendi questa Mannino.

Lisa si addormentò quasi subito, cullata dall'andatura costante dell'auto. Cecilia l'avrebbe volentieri ospitata da lei, ma purtroppo quella era una delle rare sere in cui sua madre Marina sarebbe tornata a casa. Non voleva avere problemi, soprattutto se si potevano evitare. Aiutò l'amica ad entrare in casa, a cambiarsi e a tuffarsi nel letto, cercando di fare il meno rumore possibile per non svegliare i genitori. Trovò solo uno stivaletto, che lasciò in un angolo sul pavimento e poi tornò in macchina con Gianluca, avvisandolo di cercare sui sedili posteriori l'altro obbrobrio, in un momento di migliore lucidità. Lamberti annuì e la riportò fino al suo appartamento. 
Sua madre stava dormendo beatamente nel proprio letto e nemmeno i cannoni le avrebbero disturbato il sonno. Si svestì con calma, avendo cura di riporre l'abito da dama e la maschera sulla gruccia, senza rovinarli. Si struccò e lavò i denti, prima di mettersi sotto le coperte leggere.
Sorrise al soffitto e si perse nei pensieri: non era mai stata così contenta di aver quasi strozzato qualcuno.
 Avvertiva un senso di assoluta libertà e scioltezza, una condizione che da troppo le mancava, dopo la separazione dei suoi, la maturità, gli esami, Niccolò. E ora Mannino era ricomparso, ma lei non gli avrebbe dato corda; lui era il passato, e lei adesso voleva guardare ai capelli biondi del futuro.
Matteo Maestri, dall'altra parte della città, fissò per un'ultima volta lo strano, per non dire orribile, stivaletto che era stato lanciato fuori dal finestrino e che sapeva appartenere alla biondina  infatti, era uguale a quello che si era sfilata davanti ai suoi occhi per accontentare l'amica; aprì il borsone del calcio che era sotto la scrivania e ce lo infilò dentro.
Smise i panni aderenti di Superman per calzare un ampio paio di boxer e una maglietta a mezze maniche. Sdraiato sul proprio letto, osservò il soffitto. Si sentiva 
strano. Forse era stanco. Gli sembrava di aver appena finito allenamento, uno di quelli tosti a cui era obbligato ad andare settimanalmente; aveva il fiato corto, la salivazione azzerata e il battito accelerato, come dopo una partita giocata di corsa per novanta minuti. Peccato che l'ultimo match risalisse ad una decina di giorni prima. 
D'un tratto, la verità gli apparve nitida; era così evidente quel che stava succedendo al suo cuore che rimase sorpreso di non averlo intuito prima: stava per avere un infarto. Se si concentrava bene, poteva sentire un pizzicore al braccio...
Corse in camera dei suoi ed espose a sua madre l'accurata autodiagnosi; lei gli fece una limonata e si fermò a chiacchierare con lui in cucina.
- Sei il solito ipocondriaco, Matti, 
 lo rimbrottò.  Non è che hai conosciuto una ragazza, stasera?
Ecco, ci risiamo, pensò lui. Ecco che Adriana tornava ad usare i suoi superpoteri di mamma. Come le donne sappiano sempre le cose, per gli uomini rimarrà sempre un mistero. 
- Può darsi, 
 fece il vago, consapevole che tanto lei avrebbe capito la verità. Infatti, sorrise a trentadue denti e gli diede due colpi sulla schiena.
- Allora è tutto a posto. 'Notte, tesoro!
Si rimisero entrambi a letto, Adriana colma di orgoglio materno per il suo pulcino con il batticuore, Matteo sempre più convinto dell'imminente collasso cardiaco.
Ripensandoci, se avere un infarto lo rendeva così leggero, quasi quasi l'idea lo solleticava. Era felice e non vedeva l'ora di ritrovare la sua dama blu. L'avrebbe cercata ovunque, in facoltà, in ogni strada, edificio o città. 
Ora, infatti, grazie a 
Tinky Winky, sapeva anche il suo nome: Lisa.

Buona sera!
Pubblico ora perché altrimenti non ho idea di quando riuscirei a farlo, dal momento che devo concentrarmi sull'ultimo capitolo di CLH e ho zero tempo libero.
Visto che il capitolo è lungo, note finali brevi.
Brainiac effettivamente esiste, nel mondo dei fumetti. Ammetto di non saperne nulla, Wikipedia è la fonte di tutte quante le informazioni - pochissime! - in mio possesso. Ho scelto lui come antagonista di Superman perché Lex Luthor mi sembrava un po' banaluccio...
Sono citate tre protagoniste della letteratura ottocentesca:
Elizabeth Bennet, Catherine Earnshaw e Emma Bovary, rispettivamente appartenenti a Jane Austen ("Orgoglio e pregiudizio"), Emily Brontë ("Cime tempestose") e Gustave Flaubert ("Madame Bovary").
Ringrazio nes_sie che ha gentilmente e pazientemente betato... in realtà è lei che dovrebbe ringraziare me, vista la quantità di neologismi che le propongo ogni volta!
Ringrazio anche chi legge e chi si ferma a lasciare un commento: ora ho sonnissimo, domani sarò fuori fino a sera, ma poi giuro che vi rispondo.
Potrei aver dimenticato qualcosa: date colpa al sonno.
Mi sto dilungando. Stop.
S.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV


Gisella non si dava pace. Era preoccupata, 
molto preoccupata, persino peggio di quella volta in cui era venuta la polmonite al bimbo della governante il giorno prima della mega festa per il suo diciottesimo compleanno. Non era riuscita a dormire né a pensare ad altro per tutta la notte. Quel bambino così piccolo, obbligato a riposare febbricitante nei freddi vani asettici di un ospedale... e sua madre, costretta a vegliarlo. E chi diavolo ci avrebbe pensato a stirare il suo vestito di Gucci in tempo per la serata? La servitù sapeva essere così egoista, alle volte! In quale stupida scala gerarchica un naso colante precedeva della seta pura impreziosita da corallini?
A distanza di quattro anni, ancora le bruciava; quella filippina portoricana, o qualunque cosa fosse, doveva ancora pagare cara per aver fatto stirare quell'incapace della signora Ferris, che si era provocata un'ustione di secondo grado ad una mano.
La ragazza scacciò con una mano quei brutti pensieri, mentre passava davanti alla Biblioteca di facoltà e girava, quasi incespicando sui tacchi, per attraversare il chiostro.
Quella mattina, due grossi problemi l'affliggevano: il primo riguardava, ovviamente, Matteo Maestri. Il party di Franzoni non aveva portato i frutti che lei aveva sperato e seminato ed era tutta colpa di quella biondina insignificante, amica della stracciona. Non era servito il favoloso costume di Marilyn ed, anzi, forse era stato addirittura un errore, perché Maestri sembrava così disgustosamente votato a fare del volontariato – e il fatto che fosse amico di Filippo ne era la prova lampante –, che impersonare una ricca attrice di Hollywood, seppur in modo magistrale, si era rivelato controproducente.
La seconda questione era strettamente legata alla prima; sconvolta com'era dall'aver visto il suo futuro marito confabulare e ballare con quello stecchino rinsecchito della Molinari, aveva dimenticato di prendere la pillola dimagrante. E ora eccolo, lo vedeva anche lei: il pasticcino che si era concessa la notte precedente – l'
unico, lungamente agognato e sniffato e, infine, strafogato mentre Melissa era dispersa chissà dove – aveva preso residenza sul suo sedere. Il bastardo non aveva avuto nemmeno il buon gusto di spandersi uniformemente sulle due natiche, maledetto!
Non appena arrivò al secondo piano, Gisella spintonò un gruppo di ragazze e si sedette alla prima sedia disponibile, temendo che qualcuno potesse indovinare la bravata del party, direttamente dal suo fondoschiena. Prese in mano l'agenda e consultò il programma della giornata: socializzare con quelli del terzo, flirtare con il rappresentante degli studenti, procurarsi due prevendite gratuite per la festa della facoltà... dannazione, che vita infernale! Trasse dalla borsa l'ultimo numero di 
Vanity Fair e lo sfogliò fino all'arrivo di Melissa. La Cedreo non era al top della propria forma: occhiali da sole calati sugli occhi, outfit total black e niente tacchi.
- Tuo padre è di nuovo scappato con l'istruttore di tennis? – le chiese, perché... seriamente, non aveva nemmeno un po' di fard sulle guance!
- Non fare domande idiote, per favore, Gis, – l'ammonì scocciata l'altra. – Sai perfettamente che ora abbiamo assunto una donna, per non farlo cadere in tentazione.
- E allora che succede? Voglio dire, – Gisella si guardò in giro con aria circospetta e abbassò drasticamente la voce, – non indossi neanche sette centimetri di tacco!
- Sto cercando di mimetizzarmi con la plebe per la mia sicurezza. È per via della festa, – disse secca.
Alla Ferris prese un colpo. Si appoggiò allo schienale della sedia e spalancò gli occhi: Melissa sapeva. Sapeva del cannoncino e ora si vergognava di essere vista insieme a lei, una debole, una che si era lasciata concupire da un dannato pasticcino ripieno di crema alla vaniglia.
- Ascolta... – cominciò, sperando di fare ragionare l'amica.
- No, ascolta tu, – la bloccò Melissa, mentre si sfilava gli occhiali da sole e si avvicinava all'amica. – Se gli altri lo sapessero, sai che fine faremmo? Abbiamo un certo status da mantenere, che abbiamo impiegato anni a costruire e non posso permettere che lo sbaglio di una volta ci trascini nell'anonimato, o peggio, nell'oblio! Farò quello che è nelle mie possibilità per tentare di tenerci a galla.
E, detto questo, si alzò dalla sedia e camminò in punta di piedi fino alla tromba delle scale, dove indossò nuovamente gli occhiali e si confuse tra gli altri studenti.
Gisella rimase interdetta, pensando a quale idiota fosse stata; nell'ipotetico scenario apocalittico che si stava prefigurando nella sua mente, qualche collega cattivo le avrebbe trovato un nomignolo altrettanto meschino da diffondere come l'aviaria. Già se li immaginava mettersi in coda o indire un'elezione per sceglierlo. Sarebbe stato degradante, lo prevedeva, e soprattutto quegli avvoltoi avrebbero acquisito più potere e notorietà di quanti ne fossero in suo possesso in quel momento. E solo perché la gente era perfida. Lei si era sempre guadagnata tutto da sola e né Gambadilegno, né Brufolo Bill e, che Dio ce ne scampasse!, nemmeno Eva la Ciofeca l'avrebbero affondata.
Si alzò in piedi, facendo stridere la sedia, quando improvvisamente una lampadina le si accese nel cervello. In realtà era un raggio di sole fuori dalla finestra, ma le sembrò sufficiente come segno divino. 
Divino come colui sulla cui nuca la luce si era posata. Matteo stava studiando a qualche tavolo di distanza, annoiato e distratto. Gisella gli si avvicinò con passo militare e l'abbracciò da dietro. Maestri prima si spaventò, poi, appurato che non era nessun pazzoide del lunedì mattina, ma la sua solita stalker di tutti i giorni, tentò di contenere il disappunto dovuto a quell'eccesso di affetto.
- Ciao, Matt! – gracchiò la ragazza, in estasi.
- Ciao, – rispose laconico.
- Divertito alla festa di Fil? – Cercò di attaccare bottone, prontamente bloccata da una ragazza bruttina che sedeva di fronte ad entrambi.
- Scusate, ma se dovete far conversazione, andate alle macchinette. Qui si studia, – affermò risentita, scatenando l'ira di Gisella.
Maestri provò ad intromettersi tra le due, affinché si potesse scongiurare una lite tra donne per colazione. Aveva assistito una volta ad un litigio tra sua madre e un'altra signora al supermercato per l'ultimo fustino di detersivo in offerta e gli era bastato. Aveva dovuto tappare orecchie e occhi a sua sorella e ficcarle in bocca un leccalecca per distrarla, prima che la sua genitrice tornasse a comportarsi da tale.
- Scusa, hai ragione. Niente chiacchiere, – tagliò corto, ma Gisella ormai era partita in quarta.
- Eva, tesoro, dimmi perché mai dovrei ascoltarti, quando sono due anni che ti dico di fare qualcosa per le tue sopracciglia e non mi pare proprio che tu mi sia stata a sentire, – berciò rabbiosa, zittendo la ragazza. – Dicevamo, Matt? Ah, sì. Carina la tizia con cui hai ballato... – lanciò l'esca, in attesa che il pesce abboccasse.
- Non sei stata molto simpat... cosa? – Matteo dimenticò in fretta le scuse che stava per porgere ad Eva per i modi bruschi della Ferris e, da bravo pesce lesso, cascò nella sua rete. – La conosci?
Lasciò cadere la matita smangiucchiata a metà del libro e si voltò verso di lei, guardandola – per la prima volta in vita sua – con interesse. Aveva passato il week-end a tentare di rintracciare la sua dama blu, ma le ricerche che aveva condotto non avevano portato a nessun risultato utile. Franzoni si era rivelato, come al solito, inutile, affermando di non non conoscere nessuna Lisa e di non aver riconosciuto alcuno dietro la maschera e Matteo non aveva avuto il coraggio di chiamare Mannino per chiedere informazioni.
Gisella annuì e lo trascinò sul balcone, mentre Matteo la seguiva mansueto come un cagnolino, stupito che il tanto atteso giorno in cui la Ferris si sarebbe rivelata utile fosse arrivato, dopo millenni di torture.
- Chi è? Come si chiama? Hai il suo numero? – cominciò a sparare domande come una mitragliatrice.
- Calma, calma! – lo redarguì lei. – So bene chi è lei e, anzi, mi stupisce il fatto che tu non l'abbia riconosciuta. Fa questa facoltà, ma probabilmente senza quel ridicolo costume è più insulsa di un bastoncino dei ghiaccioli.
Lui registrò nella mente solo le parole 
fa questa facoltà. I giudizi di Gisella su di lei non avevano grande importanza, perché trovava difetti a qualunque ragazza con cui lui volesse uscire, a meno che non fosse lei stessa.
- E allora? Io so solo che si chiama Lisa, – la incalzò. 
Lisa? Che c'entrava ora la stracciona? – Ho sentito un suo amico chiamarla così.
Dopo un attimo d'indecisione, Gisella decise di sfruttare quel malinteso a suo favore. Doveva riconquistare la fiducia di Melissa, in un modo o nell'altro, e se questo comportava perdere 
temporaneamente il diritto di prelazione su Matteo, tanto valeva rischiare. 
- La conosco, ma Lisa è la sua amica. Lei si chiama Cecilia. – Il ragazzo parve confuso da questo caos sui nomi, ma era troppo eccitato all'idea di averla trovata, per dare rilevanza ad un particolare così superfluo. – E conosco anche il suo fidanzato.
Maestri smise il sorriso che aveva stampato in viso, lasciando posto ad un concentrato di delusione mista a sgomento.
- Credo tu l'abbia scambiata per un'altra, – provò a ragionare. – Ha passato l'intera serata con me e ci siamo persino baciati.
Gisella ingoiò il rospo – no, troppo calorico! – ...ehm, diciamo che mal digerì l'idea della stupida Molinari avvinghiata al futuro signor Ferris e proseguì con il suo piano, ancor più determinata ad eliminare la concorrenza. 
- Mi spiace, Matt, – lo avvicinò e gli avvinghiò un braccio, sfruttando il suo momento di smarrimento. – È un gioco perverso che fanno sempre lei e Mannino per tenere vivo il rapporto. Sai, dopo tanti anni che si sta insieme, è necessario un po' di pepe e loro si divertono così, a giocare con i sentimenti delle persone. 
Matteo era a dir poco frastornato; aveva sussultato nel sentire il cognome di Niccolò e tutto gli era sembrato così assurdo da avere senso. Lei che gli calpestava 
accidentalmente il mantello di Superman, Mannino che, tra tutti, aveva scelto di rivolgersi proprio a lui per domandare di Franzoni, poi sempre lui che la baciava nei pochi istanti in cui Matteo era al piano di sopra, visibile solo a Filippo...
- Ne sei sicura? – chiese, pur continuando a sperare che Gisella avesse preso un abbaglio.
- Prova a parlarne con Fil, se non mi credi. Tutti sanno della storia tra Cecilia e Niccolò. 
Certo, tutti ne erano a conoscenza, e se Maestri avesse effettivamente domandato chiarimenti a Franzoni, lui non avrebbe fatto altro che confermare che sì, la sua ex compagna di liceo aveva una liaison con Mannino. Il piccolo particolare che non rendeva totalmente veritiera la versione di Gisella era che la relazione era morta e sepolta da almeno un paio d'anni.
Matteo non poteva crederci; era già capitato in passato che la Ferris avesse inventato balle su altre persone, ma, in questo caso, tutto sembrava coincidere. Strinse forte i pugni e cominciò a bollire di rabbia; la dama blu e quel bellimbusto del suo fidanzato l'avevano preso in giro. E lui ci era cascato come un cretino, usato per ingelosire il ragazzo. Chissà, probabilmente quei due avevano anche riso alle sue spalle, della sua goffaggine, di quei timidi tentativi di provarci con lei... 
Piantò in asso Gisella sul terrazzo e ritornò al tavolo, solo per racimolare le proprie cose e ficcarle tutte nello zaino. Mentre scendeva velocemente i gradini per uscire dal palazzo, prese dalla tasca il cellulare e chiamò Filippo. Quando rispose, non tentò nemmeno di essere educato o gentile.
- Sapevi di Niccolò Mannino e una certa Cecilia? – ringhiò, tenendo a bada il volume della voce.
- Cecilia chi? Molinari? 
- Rispondi, – lo esortò. Non era certo che il cognome fosse quello, ma con un nome così particolare, non c'erano molti margini di errore.
- Certo, facevamo tutti e tre il Maffei. Tutti lo sapevano. Ma... 
- E che cazzo aspettavi a dirmelo? – lo interruppe.
Franzoni non capiva che diavolo c'entrasse in quel momento quella storia. E soprattutto perché Matteo ora gli stesse gridando contro, riportando alla memoria un fatto che risaliva ad anni prima. Aveva fatto un incidente e aveva perso la memoria? Perché in tal caso meglio ricordargli che Renzo stava con Lucia, Carlo con Camilla, Brad con Angelina e Maurizio con Maria.
- Dirti cosa? Che stavano insieme? – azzardò.
- Pensavo fossimo amici. Ti sei divertito a farmi fare la parte del cretino?
Forse era impasticcato. Oppure aveva bevuto e ora aveva la sbronza triste e stava cercando di far riaccoppiare Cecilia – alias la nuova arricchita – e quel deficiente sbruffone di Mannino.
- Matti, ma che stai dicendo?
- Vaffanculo, Franzoni.
E spense il cellulare.

La sveglia era suonata puntuale alle sette e dieci, come ogni lunedì mattina, ma non era stata necessaria: Cecilia aveva già gli occhi aperti almeno da qualche ora, forse non aveva neppure dormito. Aveva passato giovedì e venerdì, liberi dalle lezioni, a badare al figlio dei vicini con la febbre ed era stato un ottimo diversivo, perché almeno le aveva permesso di tenere i piedi per terra e di non pensare ogni istante alla festa di mercoledì.
Non vedeva l'ora di parlare con Lisa, ma questa non rispondeva alle sue chiamate e si era limitata a mandarle un sms sintetico per comunicarle che sarebbe andata per il fine settimana in Toscana con i suoi a trovare i nonni. Era strano, visto che lei odiava sua nonna e, più di tutto, odiava spendere del tempo insieme a sua madre, ma se Lisa voleva rendersi irreperibile, significava che era meglio starle alla larga. Probabilmente era talmente nervosa per dover passare il week-end con quelle due streghe, da voler evitare di discutere con chiunque altro. 
Venerdì sera, Cecilia era stata incastrata ad una cena con Marina, sua mamma, che pareva miracolosamente essersi ricordata dell'esistenza della figlia in occasione della riunione mensile delle Bisbetiche del bridge, così come erano state ribattezzate da Lamberti. Marina adorava esporla come una bambola dentro ad uno dei suoi abiti lussuosi, con qualche gioiello di famiglia ad abbellirle quel viso troppo acqua e sapone. Era il suo trofeo, il suo orgoglio, la sua perla... ovviamente una volta ogni cinque mesi, quando toccava a loro ospitare la serata. Per il resto, era la coinquilina fastidiosa che le impediva di vivere al massimo la sua vita di donna quarantenne single e di bell'aspetto, colei che l'aveva costretta a rinunciare alla sua giovinezza per rincorrere biberon e pannolini e l'aveva ricompensata con smagliature e chili di troppo. Come se avesse deciso Cecilia di venire al mondo. Eppure la ragazza si prestava a quelle buffonate periodiche, rispondendo a tutte le domande idiote che le amiche di Marina le sottoponevano, a tutti i consigli di chirurgia estetica che le davano, a tutti i discorsi superficiali sul trovarsi un marito vecchio e ricco da spennare. Le detestava, perché erano solo un branco di donne insoddisfatte e frustrate che riponevano inutili speranze su figli altrettanto sciocchi e opportunisti; non era un caso che anche la signora Franzoni e la signora Ferris facessero parte dell'esclusivissimo circolo. E per quanto la biondina fosse consapevole di ciò, partecipava ad ogni incontro in casa sua, perché quello era l'unico modo, l'unico momento in cui si sentisse accettata dalla madre.
Sabato sera, invece, Gianluca e Carlo l'avevano obbligata ad uscire con loro. Dopo aver bevuto qualcosa in periferia, Cecilia, casualmente, aveva voluto arrivare fino al centro per entrare in un altro locale, il Firefly, ma non c'era traccia di Matteo. Aveva persino mandato Lamberti a chiedere di lui ad un altro barman – la reticenza di Gianluca era presto svanita quando lei gli aveva ricordato di averla smascherata di fronte a Niccolò – e il tizio gli aveva confermato che era il suo giorno libero.
A quel punto l'atmosfera si era rilassata. Un po' troppo, in realtà, perché era diventata una noia: uscire con due maschi non era divertente se non c'era Lisa a stuzzicarli. Ci fosse stata, sarebbero bastati una seduta e un pacchetto di popcorn per gustarsi la scena di quei due strapazzati dai suoi modi spicci e dalle sue battute al vetriolo. 
La domenica era stata l'apice della pigrizia; aveva acceso il portatile e si era guardata l'ultima serie di Grey's Anatomy per ingannare il tempo. Alla sera aveva due occhi rossi come melograni e un mal di testa memorabile. Si era gettata sotto la doccia e poi dritta nel letto. Ed era arrivato il lunedì. Finalmente avrebbe rivisto Lisa. E voleva solo essere abbastanza fortunata da incontrare Maestri in università.

I fogli di appunti stavano volteggiando nell'aria come uno sciame di insetti impazziti. I suoi fogli di appunti.
Gli occhi infuriati di Lisa riemersero da quel tornado bianco sporcato d'inchiostro e guardarono con astio il giovane accovacciato che cercava maldestramente di fare ordine in quel marasma cartaceo. Li aveva spiegazzati, impilati in un blocco un po' in un verso, un po' nell'altro, porgendoglieli infine nel vano tentativo di scusarsi della gomitata accidentale.
- Scusa, ero al cellulare, non ti ho vista arrivare, – si giustificò.

- Questo era evidente, – gli rispose glaciale, strappandogli di mano il plico disordinato.
Il ragazzo la fissò incuriosito, come se cercasse di collocare il suo viso in una situazione o in un luogo già visto.
- Ci conosciamo?
- Sì, – si affrettò a dire lei, – in un'altra vita io ero un leone e tu una gazzella. Ti ho sbranato e poi ho lasciato la tua carcassa dilaniata alla mercé di un branco di iene. E indovina un po'? Fammi cadere di nuovo il faldone e vedrai che replicheremo la scena.
Lui rimase senza parole, confuso da tanta aggressività. Lisa continuò imperterrita a controllare di non aver perso nient'altro, oltre che del tempo prezioso.
- Eri alla festa di Filippo Franzoni, mercoledì. Giusto? – La ragazza s'irrigidì. Non aveva molti ricordi di quella serata e tra gli stralci che il suo cervello aveva memorizzato, non c'era la faccia di quello sconosciuto. C'era ben altro, a dire il vero, ed era altrettanto scomodo e fastidioso come quella conversione in atto. – Ci siamo divertiti...

Ci siamo divertiti? Parla per te, emerito signor Nessuno, pensò Lisa. Poi un dubbio l'assalì: che quel plurale non fosse casuale? Che fosse lui il tizio del bagno, colui che le aveva lasciato una noiosissima irritazione laggiù che da giorni non le dava tregua? In tal caso era meglio approfondire la conoscenza. Respirò a fondo e cambiò atteggiamento, abbozzando un sorriso ed inaugurando un nuovo modo di fare.
- Sì, ero proprio io, – ammise, senza riuscire a trattenere una risatina isterica. – Ehm, sono Lisa, comunque. Piacere".
Il ragazzo rimase come intontito per qualche istante, mentre fissava con stupore la mano tesa verso di lui. Alla fine la strinse forte e completò la sua presentazione.
- Matteo.

Sto facendo delle fotocopie. Ci vediamo in chiostro alla pausa.
Cecilia lesse il messaggio di Lisa mentre l'insegnante cominciava la lezione di Letteratura latina, la più noiosa del terzo anno. Levò la borsa dalla poltroncina accanto che aveva tenuto per l'amica e iniziò a scrivere diligentemente e in bella grafia alcune nozioni. Dopo cinque minuti, desiderò essere rimasta a letto perché, se proprio avesse voluto dormire, almeno sarebbe stato più confortevole sul suo materasso a due piazze, invece che in un'aula con la voce piatta della professoressa in sottofondo. I tre quarti d'ora più lunghi della sua vita. Lasciò borsa e quaderni nella stanza e si precipitò giù in chiostro, illuminato parzialmente da un caldo sole autunnale. Ma Lisa non c'era. In compenso, c'era Matteo, quel Matteo, che si stava dirigendo a passo spedito proprio verso di lei. Il portamento elegante, i capelli indisciplinati e un libro in una mano, le sorrideva con gli occhi e con le labbra. Si sentiva patetica a contare i passi che li separavano, ma quando se lo trovò davanti con lo sguardo un po' confuso e un indice puntato contro, per poco non dovette reggersi alla colonna dietro di lei.
- Claudia, vero?
Il viso della ragazza si contrasse in una smorfia di stupore: non era proprio un inizio col botto, ma come biasimarlo? La sera della festa c'era la musica, il rumore delle chiacchiere degli altri invitati, il tintinnio di bottiglie e bicchieri e nemmeno era sicura di avergli comunicato il suo nome. Aveva azzeccato l'iniziale e le due finali: la biondina si ritenne quasi del tutto soddisfatta. Era già assai elettrizzante il fatto che l'avesse trovata e, prima ancora, cercata. Sorrise indulgente di fronte allo sbaglio e lo corresse.
- Cecilia.
Matteo si picchiò il palmo della mano contro la fronte, ridacchiando della propria studiata sbadataggine. Era più bella di quanto si ricordasse; aveva lo sguardo ingenuo e pulito e, per un attimo, si rese conto del perché fosse stato tanto facile lasciarsi ingannare da quegli occhi chiari.
- Scusa. Sono pessimo con i nomi. Sono Matteo, ricordi? Ci siamo conosciuti da Filippo mercoledì scorso.
La ragazza cominciò ad annuire ancor prima che lui avesse finito la frase. Non erano necessari tutti quei preamboli, quell'introduzione per preparare il terreno per chiederle di uscire. Lui sembrava sguazzare a suo agio in quelle inezie, ma per lei era solo un doloroso procrastinare il momento in cui l'avrebbe finalmente invitata fuori. 
E poi comparve Lisa, chissà da che diavolo di parte era saltata fuori, nel momento meno opportuno; erano quattro giorni che non si vedevano e ora doveva materializzarsi proprio in quel frangente così delicato? 
- Ehi, Ce' – la salutò, ignorando rozzamente Matteo.
- Ciao, – rispose, perplessa in quella strana situazione. Lisa non aveva salutato Maestri; Maestri sembrava a proprio agio con ciò, ed entrambi guardavano Cecilia in attesa. Forse aspettavano di essere presentati. – Ehm, Lisa, lui è Matteo...
L'amica stroncò il suo intervento sul nascere, facendole intuire che non era necessario.
- Ci siamo già presentati, – le spiegò.
Ora la biondina non capiva più nulla. Presentati quando? E dove? E perché? Possibile che in quei giorni di silenzio stampa della Zanin si fosse persa qualcosa di così importante? Rimase rigida come un baccalà per un paio di minuti d'imbarazzante silenzio, finché Maestri tolse d'impaccio tutti, rivelando il mistero.
- Le ho appena chiesto di uscire.

Non era stato facile come aveva progettato. Non era stato facile punto e basta. Matteo credeva che la vendetta lo avrebbe fatto sentire meglio, pensava che vedere la ragazza che lo aveva preso in giro rimanere spiazzata e sorpresa lo avrebbe ripagato della ferita nell'orgoglio, ma la delusione malcelata nello sguardo di Cecilia gli aveva fatto provare l'esatto contrario; nonostante si fosse sforzata di sorridere e di augurar loro che l'appuntamento fosse un successo, le si leggeva in faccia che il suo entusiasmo non era sincero. 
Dopotutto, però, non era nemmeno giusto che si sentisse male per lei; non era stato lui a cominciare quel gioco sporco, si stava semplicemente attenendo alle regole stabilite da Niccolò e Cecilia e non era di certo colpa sua se ora qualcuno ne rimaneva scottato. Nessuno si era preoccupato per lui, perché lui avrebbe dovuto farlo? In più, Lisa era simpatica. Stramba, quello di certo, e pure un po' acida e perennemente sulla difensiva, ma nella mezzoretta in cui avevano preso un caffè al bar, erano stati abbastanza abili da mantenere la conversazione viva e frizzante. Se anche non si fossero trovati a proprio agio ad uscire insieme come una coppia, sarebbe stato divertente averla come amica.

Amica. Cecilia non si capacitava di cosa fosse successo alla sua; l'intera storia le pareva paradossale: Matteo aveva ballato con lei per quasi l'intera festa, aveva baciato lei, a lei aveva chiesto il nome... e perché ora lui aveva chiesto un appuntamento a Lisa? 
Quando Maestri aveva pronunciato quella frase, le era venuto un colpo. Non che la Zanin non fosse degna di attenzioni maschili nel suo modo contorto di essere, ma tra tutti gli uomini, proprio lui? Ed era in parte colpa della stessa Cecilia e del suo stupido incoraggiamento a lasciarsi andare con i ragazzi, invece che fare la solita inflessibile in cerca dell'uomo perfetto. E Lisa, a sorpresa, aveva proprio deciso di sospendere le ricerche con Matteo. La sfiga.
D'altro canto, Cecilia non si era sentita di dire nulla all'amica, anche perché uscirsene con un Ma perché cavolo ha invitato te, quando è sempre stato con me? non le sembrava molto carino. Lei era fatta così: i sentimenti degli altri prima dei suoi e non dubitava che questo suo lato del carattere fosse un'eredità di quanto successo con Niccolò. Lì, aveva abbassato la guardia, aveva ragionato con il cuore e non con la mente ed era rimasta impantanata in una trappola di bugie e sotterfugi, da cui si era liberata solo grazie all'aiuto di Carlo e Gianluca. Perciò, ora l'amicizia aveva la priorità su tutto e per il momento – e proprio per preservarla, quell'amicizia – sapeva di aver bisogno di restare sola; non sarebbe riuscita ad ascoltare Lisa e i suoi discorsi su quanto sarebbe stato eccitante uscire con Matteo. Il suo Matteo. Dannazione, questo non era esattamente ragionare con la mente.
Si offrì di portare entrambi i vestiti in tintoria e di riconsegnarli al negozio in Vicolo della Polvere. Lisa le chiese più volte se volesse essere accompagnata, ma lei declinò sempre. Era brutto da dire e difficile da ammettere, ma sapeva perfettamente perché tutto ad un tratto le fosse sparita la voglia di fare quattro chiacchiere e quattro passi con l'amica: Matteo. Seppur con una gran confusione in testa, la ragazza entrò nel lavasecco e vi lasciò entrambi i vestiti. Pagò un'extra perché li potesse ritirare entro qualche ora, dopo aver fatto una passeggiata a piedi tra le vie del centro a rimuginare sulla sera precedente e a sperperare un po' di soldi con del buon shopping terapeutico.
Anche Lisa era decisa a fare un po' di compere, in vista dell'appuntamento con Maestri. Ancora non aveva capito il motivo per cui lui fosse spuntato dal nulla con quella proposta, ma la ragazza non escludeva che lui c'entrasse con il nauseante risvolto della festa di Franzoni, tra quanto accaduto nel bagno padronale di Filippo e poi di casa sua. Mah, era tutto strano ultimamente. Persino Cecilia, che la spronava in continuazione a concedere più chance ai rari baldi giovanotti che avevano il fegato di offrirle di uscire, quella mattina non si era rivelata molto entusiasta, quando Matteo le aveva detto di loro due. E la cosa un po' le puzzava.
Cecilia detestava il profumo delle tintorie, troppo dolce e floreale per non farle venire il mal di testa nel giro di pochi minuti.
 Cercò di restare nel negozio meno tempo possibile, poi svoltò in una via e si diresse verso il vicoletto nascosto in cui si trovava Sale in zucca. Non appena entrò, carica come un mulo, la proprietaria l'accolse calorosamente, insieme all'ormai familiare sorriso gioioso.
- Cecilia, buongiorno! – la salutò, al settimo cielo.
- Salve Fatima, – rispose lei, decisamente qualche piano più in basso, mentre poggiava i vestiti sul bancone.
- Qualche cosa non va?
Allora ce l'aveva proprio scritto in faccia che non stava bene! Tentò di liquidare l'argomento con una fallimentare mezza smorfia che avrebbe dovuto rassicurare la donna, ma che non riuscì a convincere nemmeno per un attimo gli occhi verdi ed indagatori della signora.
- Problemi di cuore, – ammise infine, sconvolta da quanto poco ci fosse voluto per confessare tutto ad una perfetta sconosciuta, soprattutto per lei che era sempre stata una persona riservata. O forse riservata e chiusa in se stessa lo era diventata per forza di cose, perché sua madre non c'era mai e le rare volte in cui si faceva trovare a casa era troppo impegnata per ascoltarla. Prima di Cecilia c'erano l'estetista, il parrucchiere e l'amante. Ferdinando, invece, divideva il suo tempo tra il lavoro e Maria Carolina; sua figlia era grande ormai ed era persuaso che non avesse più bisogno di un padre che la coccolasse e le dimostrasse di esserle vicino, nonostante abitassero in due case diverse. C'era solo Van Gogh a farle compagnia, ma era così poco incline a comunicare con lei...
E invece Fatima era lì, preoccupata per lei, in tutto il suo discernimento materno. Lei la capiva. 
La fece accomodare su di un'antica poltroncina imbottita e la esaminò attentamente.
- Oh, cielo! Cos'hai? Aritmia, uno scompenso cardiaco, un'ipertensione arteriosa...? – Okay, forse non è che la capisse così bene.
Cecilia rimase intontita per un attimo, mentre quei termini medici mezzi sconosciuti la investivano. 
- No, no, – si affrettò a precisare, prima che quell'altra chiamasse un'ambulanza o le facesse trangugiare l'intruglio contenuto in un bicchiere, comparso magicamente dietro il bancone. – Problemi... d'amore, – ammise, arrossendo.
Fatima tirò allora un sospiro di sollievo e si posò una mano sul cuore, sorridendo. Ridacchiò per un attimo rivolta al pavimento, poi volse nuovamente lo sguardo verso la ragazza.
- Tesoro, sei così giovane! – Le diede un buffetto sulla guancia. – E i giovanotti della tua età sanno essere tanto sciocchi! Hanno proprio una testa di legno. Ma ora non ti preoccupare: una volta ho trasformato un ragazzo di legno in un bambino, questa sarà una passeggiata! 
- Ha trasformato un ragazzo di legno in un bambino? – Cecilia aveva gli occhi sgranati.
Fatima esitò prima di rispondere, mentre lo spillone che aveva tra i capelli pareva agitarsi. Cecilia rifletté su quanto aveva creduto di vedere: uno spillone che si agitava? E ora non stava forse tossendo scintille?
- Maledetta boccaccia! – borbottò la donna. – Sì, volevo dire che ho aiutato un bimbo con la testa di legno, metaforica eh!, a diventare un uomo, ecco cosa intendevo. Il caro Pinoc... ehm, Pino. Lo conosci? – continuò, farneticando. – Ad ogni modo, come sono riuscita con Pino, così sarà con Matteo.
Cecilia era così abbattuta – e francamente così scettica – da non badare al fatto che Fatima sapesse il nome del giovanotto in questione, pur non avendolo lei mai menzionato.
- Pino? No, mi spiace, non ho idea di chi sia, – si scusò.
Purtroppo, però, aveva ben chiaro in mente chi fosse Matteo Maestri.

Non appena uscì dagli spogliatoi, Matteo notò che c'era qualcosa di strano: il campo del centro sportivo era stranamente affollato. E la casacca verde evidenziatore che Luca gli stava porgendo gli fece intuire di essersi dimenticato qualcosa, sopraffatto dai pensieri su Lisa, Cecilia, Mannino e quel riccone traditore di Franzoni.
- Merda, la partita! – imprecò, indossando la giubba.
Si accodò agli altri che stavano ascoltando le istruzioni del mister Barcellandi, un cinquantenne dal fisico tonico e il pugno di ferro.
- Abbiamo rimandato il più possibile questo momento, sperando che le cose si risolvessero, ma così purtroppo non è stato. Il nostro centro non ha più soldi e presto chiuderà. Per nostra fortuna, mister Amato e i suoi ragazzi hanno acconsentito a farci allenare con loro, fondendo ovviamente le due squadre. Perciò, da oggi diamo il via all'esperimento. 
Prese allora la parola l'altro allenatore, dal forte accento meridionale.
- Siamo coscienti del fatto che non sarà facile, dovete imparare a conoscervi e a collaborare. Siete tanti, come potete vedere, quindi cerchiamo di venirci incontro. Vi abbiamo divisi in due gruppi, è solo un test. Ora quattro giri di campo, forza.
Matteo lo osservò attentamente: sembrava abbastanza in gamba da gestire un branco di ragazzoni col testosterone a mille e piuttosto inclini a menare le mani, oltre che i piedi. Li stava sollecitando a correre e Maestri obbedì; ne aveva bisogno, per il fisico e per la mente. Il calcio, per lui, era sempre stato soprattutto una valvola di sfogo, prima che un divertimento e un modo per tenersi in forma. Svolsero altri esercizi per un'ora intera, poi entrambi i coach stabilirono che fosse tempo per una partitella informale.
Barcellandi braccò Maestri per la maglia.
- Muovi il culo e vedi di giocare decentemente. È una delle ultime volte che giochiamo qui, fammi fare bella figura, – gli strizzò l'occhio. – E non pensare che non ti abbia beccato, – lo ammonì. – Sempre in ritardo. Per fortuna non sei l'unico. 
Il giovane ridacchiò e gli fece cenno di aver capito, mentre si girava a guardare chi fosse così folle da presentarsi un'ora dopo l'orario stabilito. Smise di sorridere, quando Niccolò Mannino lo avvicinò e gli diede una pacca sulla spalla.
- Ehi, Matti.
Vennero interrotti da mister Amato, che porse al nuovo arrivato una casacca arancione e lo esortò a sbrigarsi, se non voleva finire a pulire i bagni degli spogliatoi. E Dio solo sapeva che diamine ci facessero quei ragazzi là dentro, al di là delle innocenti scudisciate sul sedere con le salviette e della pipì negli scarpini altrui.
- Ti sei divertito alla festa di Franzoni? – chiese all'improvviso Matteo. Non era il masochismo a spingerlo, semplicemente voleva scoprire se quel pallone gonfiato sapeva che il suo gioco era stato scoperto. 
Niccolò si sistemò i parastinchi sotto ai calzettoni, inginocchiato, e alzò lo sguardo sull'altro con un ghigno compiaciuto.
- Finché riesci a scopartene una, ci si diverte, no? 
Clara Orpella aveva aperto le gambe per lui per l'ennesima volta, non che fosse una novità. Sarebbe stata una vera notizia se fosse riuscita a tenerle serrate per più di ventiquattro ore di fila. Ogni volta si riprometteva di farlo, di non cedere alle lusinghe a parole e a fatti di Niccolò, ma poi bastava che lui si offendesse per un tale affronto, che lei e il suo nobile animo da crocerossina ninfomane si sentivano in dovere di accontentarlo. Perché lui sapeva essere un angelo per convincerla e un diavolo tentatore per il restante tempo. E né lei né i suoi ormoni erano fisicamente in grado di dirgli di no.
Maestri fece un passo verso di lui, deciso ad affrontarlo a viso aperto; Mannino era così vile e sfacciato da non conoscere il senso del pudore. Prima lui e la sua degna compagna Cecilia lo avevano usato come un giocattolo per tenere vivo il loro rapporto, ora gli stava confessando quanto si fossero divertiti tra le lenzuola. E non aveva nemmeno il buon gusto di parlare della sua fidanzata in termini più lusinghieri di una scopata. Quattro, cinque anni insieme – neanche gli interessava saperlo con precisione – con lo stesso ragazzo per sentirsi trattare come una puttana. Non sapeva dire quanto tutto lo disgustasse, a partire da lei, disposta a subire in quel modo; e, nel caso remoto in cui quel trattamento fosse reciproco, la situazione era ancora peggiore. Semplicemente si meritavano, quei due.

Il fischio di Barcellandi fece scemare per qualche istante ogni istinto bellicista. Ciascuno andò ad occupare la propria posizione, Matteo in quella di terzino sinistro e Niccolò più avanzato, da centravanti. Non li separavano tanti metri e non passò molto prima che la squadra arancione s'impossessasse del pallone e tentasse di sfondare la difesa avversaria. Mannino e il numero nove s'intendevano piuttosto bene, erano affiatati, si notava che era da parecchio che giocavano insieme. Maestri era rimasto indietro a fare copertura insieme al due e al quattro, Federico e Fabio; non gli interessava che l'attacco non andasse in porto, lo allettava l'idea di poter terminare il faccia a faccia con Niccolò. Quando quest'ultimo si propose in avanti, stoppando di petto la palla su suggerimento del nove, Fabio lo placcò efficacemente e Matteo non riuscì a fare altro che sfiorargli la caviglia.
- Matti, attento! Quella mi serve, – rise.
Per saltare sul materasso con lei? Si ritrovò a pensare Matteo con stizza.
Dopo venti minuti di partita, stavano 1-1. I verdi non stavano giocando particolarmente bene ed entrambi i coach si stavano sgolando per stimolarli a provare qualche soluzione migliore. E l'occasione tanto attesa arrivò; Maestri non si sentì fiero di se stesso, mentre entrava a gamba tesa sul polpaccio di Mannino. In un moto di coscienza, cercò di rendere meno violento l'impatto, ma non poté impedirsi di provare un certo piacere e sollievo a colpirlo.
I lamenti di Niccolò e le urla di entrambi gli allenatori non tardarono ad arrivare. Maestri lo stava ancora guardando contorcersi dal dolore, indeciso se dargli o meno il colpo di grazia – l'umiliazione –, quando Barcellandi gli si avvicinò. 
- Fossi in te, tratterrei quello sputo, – gli sussurrò a bassa voce, mentre lo costringeva a spostarsi di qualche metro per lasciare che Amato portasse del ghiaccio al ferito. – Non so che cazzo sia successo tra voi, ma sai bene che i problemi fuori dal campo rimangono fuori dal campo.
Matteo ricacciò il fiotto di saliva in gola. Aveva profondo rispetto per il mister e, dal momento che era conscio di non essere abbastanza lucido da sapere quale fosse la cosa giusta da fare, decise di fidarsi. Si passò il dorso della mano sulla bocca e disse la cosa sbagliata.
- Non sono pentito.
L'uomo lo guardò, colpito dalla sua ostinazione.
- Lo so, te lo si legge in faccia. Solo non dirlo a voce alta. So che siete diventati tanti, ma questo non è il modo di distruggere la concorrenza, – scherzò per sdrammatizzare. – Vai a farti una doccia e tornatene a casa. Non farti vedere prima di settimana prossima. E fingi che ti abbia dato una bella strigliata. Capito, Maestri? – alzò la voce cosicché lo potessero sentire tutti. – Levati dalle palle, ora!
Non l'avevano mai cacciato dal campo. Non si era mai comportato slealmente al punto da meritarsi un cartellino rosso. Eppure quel giorno se n'era preso uno virtuale. Per una ragazza. No, non per quello. Lui l'aveva fatto per il suo orgoglio. O almeno lo sperava.
Si lavò in fretta, sotto un getto d'acqua fredda che sperava potesse aiutarlo a placare il caldo rabbioso che lo scontro con Niccolò gli aveva provocato. Non appena arrivò a casa, lasciò cadere il borsone con un tonfo sul pavimento dell'ingresso, senza far nulla per attutirne il rumore. 
Adriana, sua madre, comparve con grembiule e mestolo dalla cucina, da dove proveniva un invitante profumo di arrosto. Stava morendo di fame; non immaginava che tentare di spaccare uno stinco a qualcuno richiedesse tante energie.
- Ha chiamato il tuo allenatore, – esordì la donna. – Si può sapere dove hai la testa?
E Matteo sentì che stava per arrivare la paternale. O maternale, o comunque si chiamasse, non sarebbe stata piacevole. Quindi decise di giocare d'anticipo, di nuovo. Ma per dimostrare di essere cresciuto in quell'ultima mezzora, stavolta non avrebbe nemmeno cercato di infortunare sua madre: un gigantesco passo in avanti!
- Dio mio, ma quanti anni crede che abbia? Tre? Non credo ci fosse bisogno di telefonare alla mamma, – si lamentò. Un tradimento del genere da parte di coach Barcellandi non se l'aspettava proprio.
- È stato gentile, invece, – replicò Adriana, agitando il mestolo per aria.
- Mamma, ero solo un po' nervoso, tutto qua, – sbuffò, sedendosi sul divano e togliendosi le scarpe. – Quel deficiente s'è beccato solo qualche botta, la sua gamba è ancora integra, purtroppo. 
La donna cercò di fermarlo.
- Ma...
- No, so già quel che mi vuoi dire, – si oppose lui. – Matteo, hai ventidue anni, e che diamine!, per quanto ancora hai intenzione di comportarti come un ragazzino? Hai ragione. – Si alzò e le si avvicinò, nell'opportunistico tentativo di giocarsi la carta del cucciolo bastonato. – Però mi hai anche insegnato a non farmi mettere i piedi in testa da nessuno ed è esattamente quello che ho fatto.
A quel punto sua madre aggrottò le sopracciglia e lo trascinò con sé in cucina.
- Hai dimenticato le scarpe da calcio al centro sportivo, – spiegò Adriana, rivelando la ragione della chiamata del mister. – Ora, però, mi racconti quello che è successo. 

Gisella compose il numero del destinatario sul suo I-Phone ultimo modello con la custodia rosa glitterata e attese che qualcuno rispondesse alla chiamata dall'altro capo del telefono. Al quarto squillo, termine massimo della sua pazienza, udì finalmente una voce maschile.
- Pronto? 
- Vuoi riavere indietro il tuo agnellino? – domandò maliziosa. Le era uscito bene, dopotutto. Aveva fatto bene a provare la battuta per dieci minuti davanti allo specchio. 
- Chi parla?
- Gisella Ferris, – Quello doveva essere sufficiente a spiegare al fortunatissimo ragazzo in linea con chi aveva a che fare. 
- Chi? – chiese invece lui, scaraventandola nello sconforto. La sua fama stava già dando segni di cedimento, era necessario attuare il suo piano e sperare che tutto filasse liscio. E lei avrebbe avuto notorietà e gloria. E Matteo, dopo Melissa però. 
- T'interessa ancora fare un giro con Cecilia Molinari, sì o no? – tagliò corto, mandando all'aria ogni prudenza.
- Cecilia? Certo che m'interessa ancora.
Gisella sorrise soddisfatta: finalmente qualcuno lassù aveva deciso di darle una mano. E, forza!, che quel qualcuno lasciasse un po' di posto per lei tra le divinità, perché lei stava per diventarne una.
- Perfetto. Ti aspetto alle dieci al Firefly. A dopo, Niccolò".

Ehm, sono forse un po' in ritardo? Scusate, ma è stato un periodo un po' impegnativo con l'università e ho pensato fosse giusto dare la precedenza all'ultimo capitolo dell'altra storia, prima di contuinuare questa. Proverò ad essere più puntuale, tanto ora c'è solo la sessione estiva, no? No comment.
Grazie delle letture e delle recensioni. Sono lenta a rispondere, ma apprezzo sempre!
S.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Capitolo V.
 
- Allora?
Niccolò era impaziente. Quella tale Gisella l’aveva fatto scapicollare al Firefly e ora se ne stava zitta a fissare con aria critica chiunque varcasse la soglia del locale. Proprio lei, che indossava un miniabito inguinale leopardato e degli stivali stile sadomaso: Mannino pensava che fosse perfetta… per fare la domatrice di elefanti al circo Orfei.
La ragazza distolse lo sguardo dall’entrata e lo posò su di lui, lisciando con la mano la striscia di pelle della fronte poco sopra l’attaccatura del naso, dove si era formata una piccola ruga d’espressione dovuta a paralisi da buongusto. Tutti quei plebei l’avrebbero costretta a ricorrere al botulino entro i venticinque, se non si fossero decisi a vestirsi come Dio – Giorgio Armani – comandava.
- Perdona la distrazione, – si affrettò a dire, frugando nella borsa alla ricerca di uno specchietto, – il mio compito di fashion police è terribilmente arduo. Se solo la gente spendesse di più in abiti: tirate fuori i soldi, sfigati!
 - Veniamo al dunque, – tagliò corto lui. – Sono venuto per parlare di Cecilia, non per discutere delle ultime tendenze, né di moda né del PIL.
PIL? Doveva essere qualche strano acronimo anglofono, di quelli che tanto si usavano; qualcosa tipo LOL, WTF, BTW, FYI o AKA. Appena arrivata a casa, la Ferris si promise di guardare su Internet e contribuire alla diffusione di questo PIL.
- Prendete qualcosa?
Una cameriera alta e slanciata con una lunga coda di cavallo rosso fuoco li interruppe, preparandosi ad appuntare le eventuali ordinazioni su un taccuino elettronico. Niccolò la guardò interessato, in viso l’espressione da predatore pronto a scattare che assumeva ogni volta si trovasse in presenza di qualche bell’esemplare femminile.
- Per me una Coca, – le  ammiccò. – Oggi sono imbottito di medicine perché mi hanno quasi distrutto una tibia: niente alcool.
Gisella roteò gli occhi e osservò come la finta aria da cucciolo ferito di Mannino stesse facendo incredibilmente effetto sulla povera e stupida sprovveduta ragazzina da cinque euro all’ora. Aveva sentito tanto parlare di lui, ma non aveva mai avuto il privilegio di vederlo all’opera; aveva, sì, il classico fascino mediterraneo, con la mascella pronunciata e profondi occhi neri, però gran parte del merito del suo successo era attribuibile alla impenitente faccia tosta e all’immenso ego. Tutto gli era dovuto e le ragazze non erano che una minima frazione di quel tutto.
- Io prendo un mojito, – Gisella s’intrufolò nel vomitevole contatto visivo tra i due, – così magari, se sono fortunata, riesco a dimenticare l’orrenda uniforme sintetica che indossi, cara.
Il sorriso scemò rapidamente dal volto della cameriera che prese nota delle ordinazioni e si spostò ad un tavolo accanto. Niccolò guardò contrariato Gisella, rea di avergli fatto perdere un’occasione d’oro, e tornò a concentrarsi sulla questione in sospeso.
-  Dicevamo di Cecilia…
- Hai appena flirtato come un animale in calore con quella tizia e ora vuoi parlare del tuo agnellino? – lo schernì di rimando la Ferris.
- Non sono affari tuoi. O mi dici come hai intenzione di farmi tornare con Cecilia, oppure me ne vado, – ringhiò alterato. Lo snodo cruciale della questione era che in verità nemmeno lui aveva ben chiaro il motivo per cui tanto gli interessasse la sua ex. Era bella, simpatica e nemmeno troppo rompipalle; lo faceva uscire con gli amici, non si era mai dimostrata troppo gelosa ed era pur sempre un bel giochino da mostrare agli amici. Ripensandoci, doveva essere per via di quel volto angelico, da bambina, da innocente. Non era un caso se persino quella gallina patentata di Gisella amava chiamarla agnellino. Sebbene potesse già annoverarla da anni nel lungo elenco di conquiste con cui era arrivato in quarta base, non gli sarebbe dispiaciuto tornare sui suoi passi, infangare di nuovo quel candore opprimente che traspariva da quegli occhi azzurri. Era passato troppo tempo dall’ultima volta che l’aveva fatto e, da quando l’aveva vista alla festa di Franzoni, gli era scattata l’improvvisa voglia di un ritorno ai vecchi tempi.
- Sarà un danettes, ovviamente, – gli spiegò tranquilla e saccente Gisella. Niccolò alzò un sopracciglio, confuso, domandandosi che diavolo c’entrassero dei budini nella conquista della Molinari. – Nessuno fa niente per niente.
Do ut des, si rispose da solo, quando Gisella si spiegò meglio. Era sconcertato dal livello di stupidità che quella testa ossigenata poteva raggiungere. Decise di rendersi di compassione e non la corresse, temendo di dover affrontare una lunga e complicata discussione sul latino di cui aveva solo una vaga reminiscenza, dopo la ormai piuttosto lontana maturità.
- Cosa dovrei fare? – s’informò lui.
La ragazza gli sorrise affabile.
- Solo una piccola cosuccia: dire a tutti che tu e lei state insieme da un bel po’.
Mannino poggiò i gomiti sul tavolo e incrociò le dita delle proprie mani tra di loro, scrutando Gisella pensieroso: era davvero una piccola cosuccia quella che gli veniva chiesta.
- Che ci guadagneresti, tu?
Questo era ciò che gli interessava di più: cosa poteva importare ad una sconosciuta come Gisella di accoppiarlo con Cecilia?
- Non hai visto che la tua amata ha trascorso l’intera festa di Fil con una persona in particolare? – ribatté l’altra, mentre la cameriera portava loro due bicchieri colmi, senza soffermarsi né sull’avvenenza di lui, né sull’arroganza acida di lei. Svuotò veloce il vassoio e levò i tacchi.
- Maestri? – tentò lui, ricordando di aver sorpreso Cecilia insieme a Matteo.
- Esatto, – sorrise compiaciuta la Ferris. – E pare che si siano trovati parecchio bene. Sfortunatamente per loro, lui è mio e non starò con le mani in mano ad aspettare che una sciatta biondina me lo soffi da sotto il naso.
- Come pensi di riuscire a tenerli lontani?
- Devi essere stato baciato dalla sorte, Mannino caro, – ridacchiò Gisella, preparandosi al grande momento di trionfo dettato dal suo piano geniale. – Sono già intervenuta e ho fatto in modo che Matteo creda che tu e la Molinari stiate insieme e che quella piccola parentesi di mercoledì altro non sia che un gioco vostro per alimentare il fuoco della passione. Penso proprio che ci sia cascato.
Niccolò cominciò piano piano a riordinare i pezzi di quel pomeriggio al campetto, tra Matteo che dispensava calci a destra e manca, neanche fosse un ninja, e quella strana ed inusuale freddezza tra loro. Non erano mai stati grandi amici, ma c’era una bella differenza fra avere rapporti civili e tentare di rompere una gamba a qualcuno!
- Questo te lo posso assicurare; sai come ho fatto a quasi spaccarmi la tibia? – Gisella non capì come la cosa potesse riguardarla. – Maestri mi ha dato un calcio in allenamento. Non avevo capito il perché fino ad ora, ma immagino che dopotutto non sia altro che un piccolo danno collaterale.
- Siamo d’accordo, quindi? – sintetizzò. – Tu ci guadagni Cecilia, io ci guadagno Matteo. Direi che è il massimo del ricavo con il minimo dello sforzo.
La ragazza prese il suo mojito e lo sollevò in aria, in attesa del brindisi. Niccolò si limitò a far tintinnare delicatamente il proprio bicchiere contro quello di Gisella, siglando tacitamente un’alleanza che sapeva di complotto.
 
Ignaro di quanto avvenuto la sera precedente in un famoso bar del centro, il giorno del fatidico appuntamento tra Matteo Maestri e Lisa Zanin giunse indisturbato.
E lei era agitata, aveva dormito male e mangiato poco. Non immaginava fosse tanto stressante la fase di preparazione… soprattutto dal momento che la stava vivendo da spettatrice. Per Cecilia, fare l’amica in quel momento era la cosa più difficile che le fosse mai capitata da quando conosceva Lisa; doveva cercare di mantenere l’obiettività, pur sapendo di non avere alcuna voglia di farlo. Doveva dirle che il rosso le stava male, che l’eye-liner le appesantiva lo sguardo, che non era il caso di indossare degli stivaletti stile militare… avrebbe dovuto. Eppure le parole erano ancora lì, incastrate in gola, intrappolate tra il desiderio di uscire e quello di scivolare giù e morire.
- Mi stai ascoltando?
Cecilia abbassò il giornale che stava leggendo e alzò lo sguardo sull’amica. Si stava dannando nel tentativo di evitarla, di non sentirla ripetere per la centesima volta quanto fosse strano l’invito di Maestri. Perché lei sapeva perfettamente il motivo di quella stranezza, ed era così ingiusto non poterlo condividere!
- Certo che ti ascolto, – mentì.         
Lisa la guardò perplessa; che diavolo le prendeva? L’aveva spronata in ogni modo per farla uscire con qualcuno, erano state sul punto di litigare decine di volte appunto per questo, e ora che aveva accettato di farlo con un ragazzo gentile, simpatico e carino, lei non sembrava approvare. E la cosa peggiore era che non diceva nulla, non faceva commenti o dava consigli. Si limitava a stare come un vegetale sul letto, a leggere vecchie riviste di sua madre.
- Verde o rosso? – le chiese, mostrandole due vestiti simili.
Verde. Era la risposta d’amica che avrebbe dato normalmente, quella disinteressata, onesta.
Rosso. Era la risposta razionale che avrebbe dato quel giorno, quella interessata eccome, non del tutto sincera.
Lisa era la sua migliore amica e il suo più grande ostacolo. Da una parte ci teneva davvero ad aiutarla a prepararsi per l’appuntamento, perché la Zanin lo meritava eccome: era sveglia, a suo modo simpatica, generosa e l’aveva sempre capita con uno sguardo, senza bisogno di parole. Però l’uscita era con Matteo, l’unico ragazzo che dopo tanto tempo avesse permesso a Cecilia di provare un interesse autentico verso il genere maschile che andasse ben oltre il semplice aspetto estetico.
I due colori le stavano davanti, impressi su quei due abitini che Lisa teneva tra la mani. Verde e rosso, come un semaforo; il primo per zittire la vocina diabolica nella testa e dare il via libera all’appuntamento, il secondo per bloccarlo, mandare al diavolo ogni buona intenzione e commettere un’infrazione al codice dell’amicizia.
Cecilia prese un profondo respiro e alla fine decise da che parte stare.
- Verde.
 
Matteo indossò per la decima volta una maglietta pulita e si guardò allo specchio; no, non lo convinceva nemmeno questa. Non gli stava bene nulla addosso quella sera. Se la tolse, gettandola con stizza sul pavimento e passandosi una mano nei capelli ancora bagnati.
- L’ho appena stirata, quella, – Adriana gli rifilò un’occhiataccia attraverso lo specchio. Le parole non dette delle donne: raccoglila subito e piegala decentemente e forse fingerò di non aver appena assistito alla distruzione del mio lavoro.
Matteo la prese da terra e seguì le linee tracciate dalla madre col ferro rovente per cercare di sistemarla.
- Contenta? – sbuffò, riponendola nell’armadio.
- Lo sarei se lo facessi anche con le altre ventimila che hai ammassato sul letto. E guai a te se mi dici che lo farai domani: questo domani non s’è mai visto, – lo ammonì.
- Prima devo trovare qualcosa da mettermi…
- Oppure potresti uscire così, tesoro, – ridacchiò Adriana, riferendosi al torso nudo del figlio. – Sono sicura che Cecilia apprezzerebbe.
Il lapsus le uscì sbadatamente dalla bocca, mentre cercava di ricordare dal racconto di Matteo i nomi delle ragazze coinvolte. E, a giudicare dalla faccia tesa di lui, doveva aver sbagliato.
- Lisa, mamma, – la corresse lui.
- Scusa! – si difese sua madre. – Sarà che forse questa cosa è proprio una stupidaggine. Mi dispiace dirtelo, ma ti sei comportato come un bambino. Invece di vendicarti, non potevi semplicemente parlare a quattrocchi con Cecilia?
Ancora con quel nome? Maestri non volevo più sentirlo pronunciare da nessuno, figurarsi da sua madre. Sapeva di aver commesso un errore spiegandole la situazione, ma nel concitamento del post allenamento della sera precedente, aveva avuto un disperato bisogno di parlarne e purtroppo Adriana era parsa l’unica persona interessata ad ascoltarlo a disposizione. E ora, naturalmente, glielo stava rinfacciando.
- So cosa sto facendo, – ostentò una sicurezza fittizia, perché in quel momento non si poteva dire certo di nulla. Di Lisa. Dell’uscita. Del calcio. Di Franzoni. Di Mannino. Di Cecilia… però decise di aver fatto bene, chiedendo alla Zanin di uscire. Ma se anche così non fosse stato? Basta fare sempre le scelte giuste, basta fare sempre il bravo ragazzo, basta seguire sempre la retta via come un bambino troppo diligente. Aveva tutto il diritto di sbagliare.
- Come credi, tesoro. Però almeno mettiti una camicia; è pur sempre un appuntamento! – la donna gli diede le spalle e cominciò a frugare nel suo armadio, traendone una camicia azzurra che s’intonava sui calzoni beige che lui già indossava. Poi, mentre usciva dalla stanza, mormorò sottovoce: – Anche se con la persona sbagliata.
Non si voltò più nella direzione del figlio, ma lo sentì sbuffare per quell’ennesima frecciatina antipatica. Matteo la osservò lasciare la camera: proprio non ce la faceva a tenere la bocca chiusa.
Si allacciò i bottoni e cacciò l’orlo inferiore della camicia nei pantaloni. Di nuovo lo specchio gli restituì un’immagine insoddisfacente di sé stesso. Matteo fissò per un attimo le sue labbra riflesse, tese e mordicchiate: lo sapeva, non era colpa dell’abbigliamento.
 
- Quel braccialetto ha un rumore odioso. Pensi di rimorchiare con quel coso?
Carlo si stravaccò sulla poltroncina del Firefly accanto a Gianluca, un bicchiere mezzo pieno di un liquido ambrato e cubetti di ghiaccio tra le mani. Lisa, la destinataria della lamentela, non si lasciò scappare l’opportunità di  irritarlo ulteriormente, agitando in aria il polso per far cozzare tra di loro i ciondoli del bangle dorato incriminato.
- Purtroppo, Rastrelli, ho chiesto a tua madre il fischietto che richiama gli uccelli, ma mi ha detto che glielo avevi già domandato tu, – rispose piccata.
Prima che il ragazzo potesse replicare, Cecilia s’interpose nel battibecco, già intuendo come la situazione sarebbe rapidamente evoluta in un crescendo di insulti e trivialità. Non aveva abbastanza energie per affrontare anche una discussione tra quei due, era sufficiente il pensiero di veder arrivare un Maestri in ghingheri e osservarlo uscire con un’altra al suo fianco. Qualcuno avrebbe definito masochista la sua risposta affermativa alla richiesta di Lisa di trovarsi tutti al Firefly – territorio pseudo neutrale, dal momento che Matteo aveva la serata libera – , invece che aspettare che lui la passasse a prendere a casa, da perfetto cavaliere. Masochismo e forse un briciolo di volontà di controllarli, per assicurarsi – no, per sperare – che la serata fosse un completo fiasco. Cielo, che tristezza: stava per vincere il premio Patetica dell’anno. O del secolo. Probabilmente era questo il significato di toccare il fondo: tentare di boicottare l’appuntamento della propria migliore amica con il ragazzo perfetto. Per se stessa, non per l’amica.
- Devo bere qualcosa, – disse ad alta voce, alzandosi di scatto dalla sedia come un soldatino efficiente e portandosi vicino al bancone. Non aveva intenzione di esagerare, ma solo di sciogliere un po’ di tensione dovuta a tutta la frenetica preparazione del pomeriggio e all’attuale snervante attesa di Matteo.
- Posso offrirti qualcosa? – Cecilia sollevò la testa verso il barman, un debole sorriso sul viso, più per educazione che per reale voglia di farlo. Ma lui non la stava guardando; al contrario, sembrava completamente preso nell’operazione di pestare delle fettine di lime in un bicchiere contenente zucchero. – Bevi ancora Long Island, pesciolino?
Niccolò Mannino e il suo profumo la sorpresero e la stordirono, più infestanti di un’erbaccia persistente in un giardino perfetto. Rimase interdetta di fronte a tanta furbizia e audacia; utilizzare i loro trascorsi per lusingarla coi ricordi era stato un gesto scaltro, ma non si poteva dire altrettanto del soprannome che lui aveva coniato per lei anni prima e che la biondina non escludeva appartenesse anche ad altre frequentatrici delle mutande di Niccolò.
- Sono più da Bloody Mary, ora, – rispose di getto con il primo nome di cocktail che riuscì a leggere su listino affisso alla parete. Dimostrare di sapere ancora ciò che lei amava bere un tempo non bastava a farle dimenticare le ferite e il silenzio di anni. Ma lui non si arrese e si rivolse direttamente al barista.
- Allora un Bloody Mary e un Long Island, – gli ordinò, insistendo per pagarli entrambi. Cecilia si oppose fermamente, anche perché concederglielo avrebbe significato dover trascorrere altri minuti con lui, ma Mannino non sentì ragioni e lei si dovette arrendere.
- Beh, grazie allora.
Si portò alla bocca il bicchiere che lui le stava porgendo e assaggiò il gusto intenso della vodka, mischiata con succo di pomodoro e limone: l’insieme era forte e speziato, tanto più con quella specie d’insalata che il barista le aveva rifilato dentro. Cecilia si trattenne dal fare un’espressione disgustata, ma il retrogusto acidulo del cocktail le impedì di mascherarla del tutto. Mannino sorrise sotto i baffi, soddisfatto, e pregustò l’aroma trionfale della vittoria.
- Bleah, questo Long Island è troppo dolce… – mentì, riponendo il bicchiere sul bancone. – Ti spiace regalarmi un goccio di Bloody Mary?  
Lei gli allungò il cocktail e lui spinse verso di lei il proprio, che lo sorseggiò rapidamente, giusto per togliersi quel saporaccio dal palato.
Adorava la sua innocenza, il suo pensare sempre il meglio della gente. Era pur sempre un agnellino, il suo agnellino e, volente o nolente, Cecilia doveva capire di aver bisogno di un leone come lui per non soccombere in questo mondo. Lui doveva proteggerla dai tipi come lui.
- Grazie per avermi offerto un drink. Buona serata, Niccolò.
Cecilia girò su se stessa alla cieca con il proprio bicchiere in mano e per poco non si scontrò con la figura imponente di Matteo Maestri. Lui inchiodò di colpo, prima per schivare gli eventuali schizzi di liquido provenienti dal bicchiere, poi per schivare le eventuali e sfuggenti occhiate provenienti dalla ragazza che gli stava davanti. Si studiarono reciprocamente, lei quasi intimorita dallo sguardo turbato di lui, che si ostinava a guardarle oltre le spalle.
La biondina fece per salutarlo, o più realisticamente per bofonchiare un goffo ciao, quando Niccolò si alzò dallo sgabello su cui sedeva e fece capolino da dietro la sua testa e la precedette.
- Matteo, buonasera. Non mi avrai mica seguito per finire quello che non hai iniziato ieri, vero?
Maestri digrignò i denti e strinse i pugni, le braccia distese lungo i fianchi. Non riusciva a pensare ad altro che alle almeno venti possibilità di fare male a quell’imbecille: la bottiglia di rum che Davide, un suo collega, stava facendo roteare in aria avrebbe potuto casualmente abbattersi su quella testa di cazzo, oppure una delle cannucce lunghe avrebbe potuto, altrettanto accidentalmente, avvolgersi attorno al suo collo e stringersi, stringersi, stringersi… ma anche un bel calcio a terminare l’opera incompiuta durante l’allenamento sarebbe andata più che bene. Tutto, pur di farlo tacere e togliergli quell’espressione di sfida dalla faccia.
Invece, si costrinse a sorridere, anche quando Mannino alzò il tiro e sfruttò il passaggio di un gruppo di ragazzi accanto a loro per appoggiare delicato una mano sul fianco di Cecilia e farla arretrare di una decina di centimetri. Senza schiodare quelle luride dita dai suoi jeans.
Si concesse un attimo di distrazione prima di rispondere, facendo un cenno a Davide che gli porse prontamente una birra in bottiglia.
- Seguire te? Per quale motivo? Ho un appuntamento con una ragazza. E ci lavoro qui.
- Sentito, Ceci? – ridacchiò Niccolò, torcendo il collo per soffiare le parole direttamente nell’orecchio della ragazza. Lei, in risposta, si ritrasse infastidita e continuò a guardare il volto turbato di Matteo.
- Lo sapevo già. È una mia amica, quella ragazza.
Abbassò gli occhi, perché ricordare quel particolare agli altri e soprattutto a se stessa non era mai cosa facile. E la presenza del suo ex, così vicina e a lei così tediosamente non indifferente, non aiutava. Ma non cambiava la realtà: Lisa e Matteo. Nessun Cecilia e Matteo, sebbene le sembrassero più armonici insieme.
- Davvero? Bene. Stasera tutti ottengono ciò che vogliono: lui con la tua amica, io con te... – sorrise audace Niccolò, ora affondando il naso nei capelli della Molinari.
Respira, Matteo. Pensa ad un campo di fiori – piante carnivore che gli staccano la testa –; un cielo stellato – un asteroide che lo colpisce in testa –; un mare azzurro sconfinato – e uno squalo che lo riduce in poltiglia –… no, non funziona.
Mannino sapeva quali fossero i tasti dolenti e non solo li toccava in continuazione, ma addirittura li pestava a piè pari, li martellava con quanto di più pesante ed appuntito potesse ferire l’altro ragazzo. Il tutto condito con un sorriso spavaldo che suggeriva solo di essere colpito.
Nemmeno i dvd di yoga per principianti di sua madre sarebbero riusciti a tenere calmo Matteo.
 
- Dove cavolo è finita Cecilia? – Carlo cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di una testa bionda in mezzo al bar affollato. – È un’eternità che la stiamo aspettando. Mi sembra di essere… aspetta, chi era? Quella che tesseva la tela col fuso di giorno e la disfaceva di notte aspettando il marito, finché tre fate e dei maiali la pungevano sempre con il fuso e arrivava il principe a salvarla e la sposava. Un attimo, ma non era già sposata?
Gianluca e Lisa si guardarono, increduli che la mente bacata di Rastrelli fosse riuscita ad elaborare una confusione tale da mischiare l’epica con Perrault. Non che lui ne conoscesse la differenza, naturalmente.
- Certo, Carlo. Era l’adultera de La bella addormentata nell’Odissea, non ricordi? – lo prese in giro Lamberti.
- Sapete che nella versione originale lei, Zellandine, è una principessa e lui, Troilo, un baldo giovane messo alla prova dal re prima di concedergli la mano della figlia? Quando lui parte per un viaggio, lei cade in un sogno incantato, durante il quale Troilo la ingravida e…
Ed ecco la Zanin partire in quarta con uno dei milleuno aneddoti da enciclopedia online.
- Mi è già venuto il vomito, basta cos... – la interruppe Gianluca, zittito improvvisamente dalla visione di un inedito terzetto di persone immerso in una chiacchierata nei pressi del bancone. Cecilia, Matteo Maestri e l’Innominabile parevano tre estranei presi a caso tra una folla e messi l’uno accanto all’altro ad intrattenersi a vicenda; a giudicare dalle loro facce, però, nessuno sembrava particolarmente contento di trovarsi in quella situazione. Doveva forse intervenire? Ricordava ancora quanto arduo fosse stato fare guarire l’amica dall’amore acuto per Mannino; credevano che non ne sarebbe mai uscita, che il ricordo e le ferite sarebbero rimaste sempre in profondità, senza riuscire a rimarginarsi, guarire e infine sparire, ma un bel giorno era stata lei stessa a mettere una grossa croce scarlatta sul caso Mannino-Orpella, a rimettere insieme i cocci e a ricominciare a sorridere. E ora quel rifiuto della società aveva la faccia tosta di tentare di gettarla di nuovo nel tunnel, con i suoi modi ammalianti e plastificati da perfetto burattinaio qual era.
- Arrivo subito. – Lamberti decise di disinnescare quella gigantesca bomba ad orologeria in atto a qualche metro da lui, prima che succedesse l’irreparabile.
Percorse veloce la breve distanza che lo separava da Cecilia e dai due ragazzi e avvertì subito con chiarezza l’aria viziata di acredine che regnava in quell’angolo del Firefly; sorrisi tirati, tensione palpabile, sguardi taglienti come coltelli affilati.
- Ehi, ragazzi, che ci fate tutti qui?
Era chiaro che Gianluca avrebbe dovuto lavorare meglio sulle proprie capacità attoriali, perché nessuno – proprio nessuno – credette che lui fosse da quelle parti per caso. L’amica, però, gli regalò una smorfia di gratitudine, mentre gli altri due erano troppo impegnati a guardarsi in cagnesco per badare troppo al nuovo arrivato.
- Facevamo quattro chiacchiere… – rispose infine Cecilia, cercando di mantenersi sul più vago possibile.
- E allora perché non continuare al tavolo? – Il gruppetto si voltò di scatto verso la voce acuta di Lisa, spuntata dietro le spalle di Lamberti con la proposta più balzana e malaugurata che un essere dotato di buon senso avrebbe mai potuto avanzare. – Voglio dire, perché stare qui in piedi, quando possiamo discorrere amabilmente con i deretani ben assestati su una di queste graziose poltroncine?
Detto ciò, prese a braccetto una pietrificata Cecilia – la cui mascella sembrava non voler più ritornare nella posizione naturale – ed indicò con il braccio ai ragazzi la via più breve per raggiungere Carlo al loro solito tavolino. Matteo, Niccolò e Gianluca esitarono qualche istante, nella vana ricerca di un pretesto per defilarsi dalla nefasta piega della serata, ma di fronte alla silenziosa, ma ugualmente temibile, insistenza di Lisa, non poterono che abbandonare momentaneamente gli istinti bellici, abbassare lo sguardo e sedersi.
- Mi ringrazierai dopo, – sussurrò la Zanin all’orecchio di Cecilia. – E no, non mi scoccia usare parte del tempo destinato al mio appuntamento a salvare la mia migliore amica dalle grinfie di un ex fidanzato che sembra più arrapato di un avvoltoio in calore.
Ringraziarla? E di cosa, di preciso? Avrebbe preferito un catetere in corpo o due dita negli occhi, piuttosto che raccogliere in un angolo di un locale un gruppo di persone con nulla in comune, se non la voglia di azzuffarsi.
La biondina si lasciò trascinare come un fantoccio verso il tavolo, dove tutti i ragazzi si erano già sistemati, a debita distanza l’uno dall’altro. C’erano infatti entrambe le sedie libere a separare Maestri da Mannino, ma non appena Lisa si accorse di quanto vicino potessero finire l’avvoltoio e l’agnellino, decise d’intervenire, rivoluzionando i posti a sedere. Relegò l’amica sul fondo della panchina poggiata al muro, incastrandola tra Rastrelli e lo stesso Matteo.
Sei persone attorno allo stesso tavolo e il silenzio assoluto. Una vecchia canzone di Ligabue di sottofondo, a coprire il rumore di dita tamburellate sul vetro del bicchiere di un Bloody Mary, gambe tremanti e labbra torturate.
- Ehm… è mio cugino, quello? – Carlo si alzò così velocemente da non lasciare il tempo agli altri di digerire l’informazione. Bisognava ammetterlo: per una volta tanto, Rastrelli si era dimostrato abbastanza veloce da defilarsi da una situazione scomoda. E senza inventare avvistamenti UFO o il fantasma di un bisnonno… perché era già successo.
- Quindi, di che parlavate? – Lisa fissò negli occhi Mannino, attraverso le lenti degli occhiali, la cui montatura sembrava conferirle un aspetto ancora più arcigno e severo di quanto la rigidezza dei suoi lineamenti non suggerisse.
Il ragazzo sorrise affabile, con il suo solito charme da predatore incallito.
- Del più e del meno. Immagino sia tu la fortunata che stasera ha un appuntamento con il nostro caro Matteo. Ceci mi stava giusto accennando qualcosa, vero pesciolino?
La biondina gli concesse solo un lieve assenso con il capo, poi ritornò a piegare la testa verso il basso e a guardare il ghiaccio sciogliersi lentamente nel suo cocktail. Non aveva né la forza né la voglia di opporsi a lui, ai suoi nomignoli così fuori tempo e fuori luogo. Che diavolo le era saltato in mente di uscire? Van Gogh sarebbe stato più che lieto di farle compagnia, con il suo mutismo rassicurante. Magari poteva utilizzarlo come scusa per tornare a casa… scusate, ho dimenticato di dargli da mangiare. Oppure, il mio pesce soffre di solitudine e lo psicologo vuole che rimanga con lui la sera. Perfetto, le sue scuse cominciavano ad essere più pietose di quelle di Carlo, ma per sfortuna lei non aveva la sua stessa faccia tosta.
- Già, – rispose infine la Zanin, – sono io il suo appuntamento.
Cecilia non resistette un attimo di più, scattando in piedi così celermente da incappare nel bordo del tavolo, che vibrò per qualche secondo. Proprio quando pensava di essere riuscita a salvare capre e cavoli – nello specifico, cocktail e una punta di dignità – la sua borsa urtò il Bloody Mary, che si riversò inesorabilmente sulla camicia di Matteo.
- Cazzo! – all’interessato sfuggì un’imprecazione.
- Oh, scusa, mi dispiace, sono davvero un’imbranata! – si scusò subito lei, senza sapere dove mettere le mani per aiutarlo.
Nonostante lo scatto tempestivo di Matteo, la macchia rosso sangue svettava nel mezzo del suo petto e quel pezzo di sedano incastrato su un bottone era la ciliegina sulla torta delle beffe.
- Lo accompagni tu in bagno? – chiese Cecilia a Lisa, mentre Niccolò ridacchiava dell’accaduto.
La Zanin rifletté qualche istante, prima di risponderle; se lei e Maestri fossero andati in bagno, era matematico che quel porco di Mannino avrebbe avuto campo libero e avrebbe fatto di tutto per portare Cecilia a casa con sé. C’era pur sempre Gianluca, che era ancora seduto con loro, ma non era una protezione adeguata e sufficiente; un piatto di patatine fritte davanti ai suoi occhi e avrebbero potuto persino asportargli un rene senza che lui se ne accorgesse. No, non poteva andare in bagno.
- Perché non ci vai tu? – Cecilia e Matteo rimasero entrambi sorpresi da quella decisione; in cuor loro, nessuno dei due aveva pensato neppure per un secondo che la ragazza avrebbe rifiutato l’occasione di trovarsi chiusa in un bagno con il suo appuntamento. – Sei stata tu a sporcarlo, mica io! – rincarò la dose.
Ci pensò Maestri a cercare di stemperare l’imbarazzo.
- Non è necessario, faccio da solo.
- Non mi sembra giusto, ho combinato io il casino ed io ti aiuterò a sistemarlo.
Sul momento le era parsa una buona occasione per parlargli in privato qualche minuto, anche se davvero non aveva la più pallida idea di come poter chiarire il malinteso maturato alla festa di Franzoni, senza rovinare l’uscita di Lisa. Ciò che la spaventava e la elettrizzava allo stesso tempo era la reazione che avrebbe avuto Matteo: avrebbe mandato all’aria il suo appuntamento e l’avrebbe baciata in bagno seduta stante o avrebbe semplicemente continuato come previsto? A prescindere da questo, comunque, la mossa di Cecilia rimaneva comunque una pugnalata alle spalle di Lisa e forse le conveniva rimanere in silenzio a rodersi il fegato e a rovinarsi le unghie con i denti.
Il bagno era pieno, neanche avessero allungato i cocktail con del diuretico. Aspettarono una trentina di secondi, ma la fila sembrava non muoversi di un solo centimetro, perciò Matteo – spazientito e a disagio, così vicino a lei – le indicò lo spogliatoio dei baristi, una stanzetta con la targhetta Privé, proprio accanto al bagno. Lo seguì con lo sguardo, mentre accendeva la luce e arrivava fino in fondo alla fila di armadietti che occupavano una parete. C’era il suo nome sopra, scritto con una calligrafia femminile, tondeggiante, e accanto un piccolo cuoricino rosso. Continuarono a non parlarsi anche quando lui girò la piccola chiave nella serratura dell’armadietto e ne trasse una maglietta nera uguale a quella di tutti i suoi colleghi, la stampa del logo del Firefly davanti e MATTEO in stampatello sul retro. 
- Problema risolto, – disse infine, allargando le braccia. Cecilia tirò un sospiro di sollievo, quel silenzio la stava uccidendo. – Mi metto questa, non sarà il massimo dell’eleganza, ma al momento non ho altro.
- Potrei provare a togliere la macchia e asciugarla… – propose lei, avvicinandosi cautamente al ragazzo, ma lui la interruppe quasi subito.
- Non ce n’è bisogno. Sono certo che Lisa non ci baderà troppo, – esclamò rigido. Cominciò rapido a sbottonarsi la camicia sporca, più in fretta che poteva. Lo metteva a disagio stare da solo nella stessa stanza con lei, gli mancava l’aria, come quella volta appena tornato da casa di Filippo, dopo aver passato la serata con lei. Forse ora, però, c’era altro: la consapevolezza di essere stato usato, preso in giro e canzonato aggravava la situazione. La sola presenza di lei lo faceva impazzire, da ogni punto di vista; non era così immaturo – anche se sul suo orgoglio ciò pesava come un macigno – da non sapere e riconoscere di essere soggetto a certe reazioni in compagnia di Cecilia. Non gli era indifferente ed era la cosa che più lo infastidiva: nonostante tutto, c’era una parte, purtroppo non solo anatomica, che lei era in grado di risvegliare, con quel visino angelico e i suoi modi pacati. Ma era anche arrabbiato e stava facendo di tutto per rimanere aggrappato a quel lembo di amor proprio che gli impediva di riversarle addosso la frustrazione e l’ira causate dai suoi giochetti con Mannino.
Si tolse la camicia e la gettò con rabbia nell’armadietto, che si chiuse con un rumore stridulo di ferraglia. Indossò la maglia della divisa del bar, ignorando il rossore che colorava le guance di Cecilia davanti al suo torso nudo. Nonostante avesse cercato di girarsi per non dargli l’impressione di fissarlo mentre si cambiava, il grande specchio sulla parete le aveva garantito una visuale perfetta, seppur di profilo, del fisico di Matteo. Finse di giocherellare con la collana che aveva al collo, ma il tempo sembrava trascorrere a rallentatore da quando erano entrati in quella stanza. Pur di dire qualcosa, decise di sbilanciarsi e tirare fuori l’argomento scottante.
- Possiamo parlare un attimo? – si pentì di averlo detto non appena Matteo, che perlomeno si era rivestito totalmente, la guardò quasi con disprezzo, avanzando verso la porta dalla quale erano entrati. Che cosa mai gli aveva fatto di male per meritarsi di essere trattata così, indegna persino di una risposta? Quella domanda fu un’iniezione di fiducia, che la spinse a frapporsi, con il poco di coraggio di cui ogni agnellino è dotato, tra Maestri e l’uscita. Il ragazzo parve sorpreso e infastidito, ma non fece nulla per scapparle. Anzi, incrociò le braccia al petto, dando tutta l’impressione di essere pronto ad ascoltarla.
- Che c’è? – la esortò, notando che esitava.
- L-Lisa… – biascicò,  le parole sembravano sfuggirle, scivolose come sapone tra le mani. E gli occhi severi di Matteo non facevano altro che fermare ed alimentare la volontà di farle uscire. – Perché Lisa?
Il ragazzo non rispose. Nella sua testa si stavano affollando così tanti pensieri, dubbi, domande, accuse, parolacce che avrebbe urlato per mezzora a squarciagola e preso a pugni lo specchio, la panca, qualsiasi oggetto nel raggio di due metri. Perché lei non poteva avergli appena chiesto quello, non poteva avergli chiesto il motivo per cui lui avesse scelto Lisa. Non poteva, non ne aveva diritto.
- Dici sul serio? Perché Lisa? – ripeté, quasi incredulo, lasciandola di stucco. Aveva alzato la voce, era avanzato di un paio di passi e ora la stava sovrastando fisicamente e psicologicamente. Lei indietreggiò d’istinto, come se mettere un po’ di distanza tra loro potesse aiutarla a schivare il tono duro ed inflessibile di lui. Si trovò con le spalle contro lo specchio, senza via d’uscita, ma fu lo stesso Matteo a spostarsi di lato. Si era reso conto di aver esagerato: non intendeva spaventarla, quello era soltanto il modo in cui era abituato ad affrontare i problemi nello spogliatoio, dove prevaleva la voce grossa e i muscoli più forti. Da tempo si era arreso all’evidenza che non sapeva trattare con le donne, figurarsi se sapeva destreggiarsi con una situazione intricata come quella in cui si era cacciato.
Cecilia lo guardò e nel suo viso lesse solo stanchezza. E non capì. Ma qualcosa le era scattato dentro, voleva sapere tutto ciò che le stava sfuggendo ed era pronta a sacrificare la propria innata umana compassione verso il prossimo, pur di venire a capo di quel groviglio spinoso che lui stesso aveva creato.
Afferrò il ragazzo per un braccio, riscuotendolo dal torpore in cui sembrava fluttuare.
- Perché questa uscita, perché lei? – stavolta lo ripeté in modo più dolce, per non risvegliare l’aggressività di Maestri, ora apparentemente domata. Non riuscì a pronunciare le ultime tre parole che aveva pensato: …e non me? Per quanto quel momento tra loro fosse intimo e privato, non volle sbilanciarsi. Sentiva di essersi già esposta abbastanza e non immaginava come lui avrebbe reagito ad una richiesta così diretta. Continuarono a comunicare con gli occhi e con i gesti, più che a voce. Matteo si lasciò avvicinare, stordito dalla disarmante delicatezza con cui lei si stava facendo avanti verso di lui. Avrebbe voluto allontanarla, mandarla al diavolo per l’ennesima volta, afferrarla per le spalle e scuoterla finché non gli avesse detto che cavolo di problema avessero lei e Mannino, perché il loro stupido gioco si stava spingendo troppo oltre: l’avevano ferito, umiliato, indotto a ripagarli con la stessa moneta e lui non era quel genere di persona, non lo era mai stato e mai avrebbe voluto esserlo. Ma le gambe gli si erano irrigidite al punto che non riusciva a fare un passo indietro da lei, da quegli occhioni azzurri lucidi che, dannazione, avrebbe giurato fossero sinceri. Poteva un essere così piccolo avere la capacità di mandarlo totalmente in cortocircuito?
Si osservarono, due guerrieri indecisi tra il combattersi a vicenda per il proprio orgoglio e lo sventolare bandiera bianca per qualcosa di più grande, ma potenzialmente molto più temibile della sconfitta.
Matteo inclinò piano la sua testa verso quella di Cecilia e lei si lasciò trascinare dal braccio di lui, che la spingeva verso di sé. Ansimarono entrambi per qualche secondo, come se stare così vicini – ma per certi versi così lontani – costasse fatica fisica, oltre che mentale. Labbra vicine, socchiuse, respiro corto e affannoso. Di nuovo la sensazione di aver fatto un allenamento spossante al campo da calcio, pur non avendolo fatto. O stava diventando ipocondriaco o c’era qualcosa in Cecilia che lo disturbava profondamente: forse era una reazione allergica al suo profumo, al suo deodorante, o magari addirittura a lei! Eppure no, non ce la faceva a spostarsi, non poteva, stava lì a boccheggiare, dimentico di            quanto male gli avesse fatto. Voleva solo un bacio, era sicuro che poi si sarebbe sentito meglio, le cose si sarebbero sistemate come d’incanto.
La biondina gli fissò le labbra con il suo stesso identico desiderio e decise di osare. Per una volta l’agnellino si sarebbe comportato da cacciatore, invece che da preda. Si sollevò sulle punte dei piedi per raggiungere l’altezza di Matteo, in una manciata di secondi che a lui parvero eterni. Lei gli sfiorò una guancia con le dita sottili, cercando nei suoi occhi un silenzioso consenso che non tardò ad arrivare. Lo volevano entrambi.
Si erano giusto sfiorati, quando sentirono un rumore secco, che li fece scattare immediatamente l’uno lontano dall’altra.
- Oh, caz… ops! Merda, scusate! – Era Davide, il collega di Matteo che li aveva serviti circa venti minuti prima al bancone, vistosamente più rosso in viso per via dell’imbarazzo, ma quella condizione pareva essere molto gettonata in quel momento nello spogliatoio. – Non pensavo ci fosse qualcuno qui dentro. Giuro che mi cambio e sparisco!
Ma l’atmosfera di distensione se n’era andata nell’istante esatto in cui Davide aveva abbassato la maniglia della porta, aprendo virtualmente la stanza di nuovo sulla realtà, e cioè che Cecilia era impegnata con quel deficiente – sì, dal verbo latino deficere, perché era palese che il soggetto mancasse di intelligenza, dignità e di attributi – e lui, Matteo, aveva un appuntamento con un’altra, che lo stava aspettando.
- Non c’è problema, sono rimasto qui dentro anche troppo, – grugnì, lanciando un’occhiataccia a Cecilia, prima di superare Davide e uscire.
Il disprezzo era tornato, insieme alla freddezza e al distacco che lui non riusciva mai a nasconderle quando le parlava e che, in verità, non le appariva mai davvero intenzionato a celare.
La ragazza sorrise all’unico ragazzo rimasto nella stanza e poi lasciò a sua volta lo spogliatoio, sentendo gli occhi inumidirsi. Dopo aver richiuso la porta alle sue spalle, camminò veloce fino al bagno, di Matteo ormai non c’era più traccia. Per fortuna la coda si era smaltita e lei non dovette attendere che pochi minuti per poter entrare alla toilette. Si guardò allo specchio e si lavò la faccia, non le importava che il poco mascara che indossava le colasse sulle guance. Voleva togliersi il rossore intenso dell’imbarazzo, del disagio e quello più intenso della foga, del desiderio. E di certo non si sentiva meglio nei confronti di Lisa per essersi gettata nelle braccia del ragazzo con cui lei doveva uscire… maledetta festa di Franzoni!
Ritardò il più possibile il ritorno al tavolo, ma il momento critico fu inevitabile. Erano ancora tutti seduti e nulla era cambiato; Lisa che guardava in tralice Mannino, Mannino che guardava in tralice Maestri e Maestri che se avesse potuto sarebbe diventato cieco, pur di non sopportare la vista fastidiosa di Niccolò e quella dettata dai sensi di colpa rivolta alla Zanin. Cecilia si domandò perché fossero ancora lì, perché non se ne fossero ancora andati. Ci provava gusto a farla soffrire, a mostrarle che l’aveva illusa per una sera? Lei era come tutte le altre, niente di speciale.
- Ehi, Pesciolino, finalmente!
Mannino le fece l’occhiolino e approfittò dell’assenza di Carlo per farla accomodare accanto a sé. La ragazza seguì meccanica il suo invito, davvero non le importava il posto a sedere. Anzi, paradossalmente, il suo ex era la persona vicino alla quale meno si sarebbe sentita a disagio. Infatti, neanche Gianluca sembrava una spalla fidata, distratto com’era dalla ciotola di tortillas che aveva davanti.
- Andiamo a fare un giro?
La voce concitata di Matteo pose fine al silenzio e rese ancor più tesa la situazione. Ad eccezione di Lamberti, ora i quattro avevano tutti una ragione per odiare almeno un’altra persona seduta a quel tavolo.
Lisa venne presa in contropiede, ma il suo sorriso fece intuire ai presenti che era ben lieta di trascorrere del tempo con Maestri. Maledisse per l’ultima volta – in quella serata, chiaramente – quello sciagurato di Mannino e si alzò da tavolo, lanciando una raccomandazione virtuale a Cecilia.
Fai in modo che non ti sfiori nemmeno con un bastone per la pentolaccia o quello che finirà per essere preso a mazzate sarà lui.
Matteo si alzò, le afferrò la borsa e gliela porse. Cecilia si scoprì irritata da ogni minimo cenno di riguardo che il ragazzo aveva nei confronti della propria amica e sentì la necessità di pareggiare i conti.
- T-ti scoccia darmi un passaggio, Niccolò? – Ecco: la frittata era fatta. Ora ci sarebbe stata la fila per decidere chi l’avrebbe ammazzata: Lisa era senza dubbio in pole position, ma non si poteva dire che gli occhi di Matteo o di Gianluca fossero più comprensivi. L’unico che stava sghignazzando sotto i baffi era Mannino, che già pregustava il sapore delicato del suo agnellino sotto ai denti. E alle mani.
- Sono qui apposta, pesciolino.
Niccolò bevve avidamente l’ultimo sorso di Long Island dal suo bicchiere e lo fece sbattere di nuovo sulla superficie grezza del tavolo, cercando lo sguardo di Maestri. Era stato fin troppo facile, non dubitava che presto si sarebbe trovato – di nuovo – tra le lenzuola di Cecilia. E chissenefrega se si era dovuto avvalere di qualche piccolo mezzuccio alternativo fuori programma, tutto si era rivelato dannatamente semplice e ancora una volta avrebbe ottenuto quel che voleva.
Matteo, quindi, capì di dover rilanciare: prese la mano di Lisa e l’aiutò a districarsi tra il percorso disseminato di sedie attorno al tavolo, sulla via dell’uscita.
- Ci vediamo in facoltà, Ce’. Non fare cose di cui ti potresti pentire con persone poco raccomandabili che non meritano le tue attenzioni, perché sono degli sporchi bugiardi traditori che amano far espatriare il loro minuscolo pisellino verso mutandine femminili altrui. Ripetutamente. Ogni riferimento ai presenti non è da ritenersi casuale.
Mannino fece spallucce e aiutò un’imbarazzata Cecilia a indossare la giacca di pelle. La biondina e Maestri si scambiarono solo un’occhiata frettolosa, poi si lasciarono trascinare dai rispetti compagni. Sfortuna volle che i due ragazzi avessero parcheggiato a qualche auto di distanza, perciò dovettero fare il breve tragitto insieme, anche se Matteo faceva di tutto per evitare Niccolò, il quale, al contrario suo, trovava particolarmente divertente passeggiare al fianco della Molinari, speranzoso d’incontrare qualche amico con cui sfoggiarla subito. Esattamente come Marina, forse non era un caso se a sua madre Mannino era sempre piaciuto: erano uguali.
E mentre salivano in macchina, augurandosi con finta cordialità una buona serata, Matteo non poté fare a meno di restare per qualche secondo in più a fissare Cecilia, pronta ad allacciarsi la cintura di sicurezza sull’auto dell’altro. Magari era destino che andasse così, non c’erano né il tempo né lo spazio per loro. Perché semplicemente lei non era la dama blu che aveva conosciuto da Franzoni e che forse era esistita solo nella sua testa. Sarebbe uscito con Lisa e avrebbe imparato a dimenticare Cecilia, ad odiare lei e quel suo atteggiamento arrogante di chi è disposto a tutto pur di avere ciò che desidera; si meritava di stare con Mannino punto e basta.
Doveva a Davide un grosso favore.
 
Soltanto quando se ne furono andati tutti e quattro, Gianluca si riscosse dallo stato di apatia totale da tortillas. Il piatto vuoto, le sedie altrettanto vuote, cominciò a far lavorare i pochi neuroni rimasti funzionanti: Cecilia era uscita con Niccolò, Lisa con Matteo.
Eppure…
Si alzò in piedi, dimenticandosi di essere rimasto solo al tavolo e di avere la bocca ancora piena di briciole di patatine.
- Ma se Maestri aveva baciato Ceci da Franzoni… perché cazzo esce con la Zanin, allora? – continuò a borbottare.
Purtroppo non c’erano più spettatori pronti ad ascoltarlo e il quesito sollevato dalla sua domanda era destinato ad assumere la medesima rilevanza di un anticoncezionale di fronte ad una donna incinta: inutile e tardivo.
Lamberti alzò le spalle e si avventò sulla ciotola di patatine lasciata incautamente incustodita dai loro vicini di tavolo. Che ci pensassero gli altri a sistemare le cose; per come vedeva lui la situazione, nemmeno una magia avrebbe potuto sistemare le cose.
Forse.
 

  
  
Sono un caso disperato, lo sapete. Ma tra esami, lavoro e vacanze, non ho mai tempo! 
Sono di fretta, perciò questo è quanto. 
Grazie delle letture e delle recensioni, a cui ho già risposto! 
Un bacione, 
S.

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI
 
Lisa era l’essere più strano con cui Matteo avesse mai avuto a che fare.
Non stava ferma un secondo; ora fumava una sigaretta, ora si perdeva tra le bancarelle etniche della piazza, trascinandolo con sé in quel labirinto di passanti, ambulanti e cani al guinzaglio dei padroni per il loro giro serale. Era un vulcano d’idee e di parole, tante parole, sembrava non prendere nemmeno fiato per continuare a chiacchierare, tanto che Maestri era riuscito a dire solo poche frasi nella mezzora trascorsa da soli, dopo il Firefly. Lisa era travolgente, ma nel modo più divertente possibile: lo faceva ridere, avvolta in quel vestito verde, così lontano dal suo stile da renderla ancora più buffa. E quegli stivaletti da biker poi! Cecilia non era riuscita nell’intento di farle indossare un normalissimo paio di ballerine nere, la Zanin riteneva che già l’abito fosse un’ampia concessione per l’appuntamento e non voleva rischiare di modificare troppo il proprio look.
Matteo non credeva fosse tanto spigliata, pensava di dover trascorrere l’intera serata a cercare di toglierle il broncio che aveva avuto sin dal loro primo incontro-scontro con gli appunti volati per aria, ma, al contrario, lei si era rivelata parecchio rilassata e decisamente propensa al dialogo. Aspetto molto positivo, visto che erano rari i momenti in cui lui riusciva ad abbattere timidezza e goffaggine e ad affrontare una normale conversazione senza diventare ancora più impacciato di prima.
- Ti va un gelato? – propose infine lui, bloccando per qualche istante l’imperitura danza di Lisa tra la folla.
- Perché no? – rispose lei – Lo sai che il gelato ha origini antichissime? Già l’uomo di Neanderthal ne faceva una sua personale versione, nascondendo tra la neve bacche selvatiche, frutta secca e carne di cervide…
Tutto ad un tratto la magia di morbide onde di crema e cioccolato svanì, lasciando spazio a deliziosa carne di cervide con granella di bacche e nocciole.
 - Interessante…? – si sforzò di constatare Maestri, nonostante il tono vagamente interrogativo.
Si fermarono ad una piccola gelateria in via Mazzini, accanto ad un gruppetto di turisti dall’aria smarrita. Presero entrambi un cono, che Matteo pagò prontamente tra le lamentele di Lisa sulla parità dei sessi e l’arcaicità della galanteria, mista alla crisi economica. La rassicurò che non sarebbe finito sul lastrico per tre euro, ma lei tentò invano per svariati minuti di infilargli nelle tasche almeno la sua quota.
S’incamminarono verso la Casa di Giulietta, in direzione opposta rispetto a Piazza delle Erbe, sperando di trovare meno marasma di quello che riempiva la zona di giorno, tra stranieri curiosi e residenti occupati a sovrintendere i lavori pubblici.
Lisa si soffermò qualche istante su Vicolo San Sebastiano, ricordando per un attimo il vicino Sale in zucca, il polveroso negozio di Fatima Turchetta, ma quando una goccia di gelato cominciò a colarle sulla mano, si dimenticò di abiti e merletti e tornò a torturare le orecchie di Matteo. Lui, nel frattempo, si era goduto la breve quiete e le luci della città di notte, sgranocchiando la parte superiore del cono.
- Mi pare che abbiamo fatto le cose al contrario… – irruppe Lisa, proseguendo con un discorso mentale chiaro solo a lei.
Matteo, infatti, si voltò verso di lei, in viso un’espressione confusa.
- In che senso?
- Sai, – spiegò lei con una verve da maestra navigata, – prima è successo ciò che è successo, poi lo scontro in università e ora a passeggiare sul Lungadige. Insomma, abbiamo bruciato un po’ le tappe, o quantomeno ne abbiamo confuso l’ordine.
Maestri continuò a camminarle al fianco, ruotando la testa verso di lei per tentare di comprendere se lei lo stesse prendendo in giro con uno strano scherzo.
- Continuo a non capire… – ammise.
- Parlo di quello che è accaduto alla festa di Franzoni.
Lisa gli restituì un’occhiata eloquente. Sapeva che era un argomento un po’ imbarazzante per i ragazzi, ma non c’era proprio nulla di cui vergognarsi, dal momento che entrambi erano a conoscenza dell’accaduto.
- Oh. – Lui realizzò finalmente ciò a cui lei alludeva. – Te ne ricordi? Perché eri parecchio sbronza, io ti ho solo aiutato…
- Beh, – lo interruppe lei, – diciamo che ci siamo aiutati a vicenda… è stata una collaborazione. È stato divertente, no?
Divertente non era proprio la prima parola che gli veniva in mente per descrivere la situazione, ma in fin dei conti poteva concederle che il lancio dell’orribile stivaletto avesse avuto un certo risvolto umoristico.
- Sì. Di certo non ti sarai sentita molto bene dopo.
- Non è una cosa abituale, se è quello che intendi. È capitato. Certo, sarebbe stato meglio se non ci fossero stati gli altri due in mezzo alle scatole. Saremmo potuti uscire insieme subito ed indisturbati.
- Già. – Cecilia e Niccolò gli stavano facendo venire ulcera, gastrite, bruciore di stomaco, reflusso esofageo, colon irritabile. Il documentario che aveva visto in tv nel pomeriggio era stato illuminante, in tal senso. – Quella festa mi ha provocato non pochi problemi, ma d’ora in poi spero che si risolvano, a partire dal fatto che non parlerò mai più con Franzoni.
- Addirittura? – La Zanin alzò un sopracciglio, sorpresa. D’accordo, non era stato il massimo trovarsi a tu per tu in bagno con Melissa e il padrone di casa, soprattutto per le circostanze e le condizioni in cui il tutto era avvenuto, ma troncare ogni rapporto con Filippo a causa di quello le sembrava un’esagerazione.
- Avrebbe potuto dirmi di loro due, prima che la situazione mi sfuggisse di mano.
Lisa, di nuovo, si trovò a discordare con lui: forse non era premeditata la liaison tra quei due, era probabile fosse frutto di una momentanea euforia alcolica, ma decise di lasciar perdere. Dopotutto, non le importava un accidente di quella papera col cervello pieno d’aria, figuriamoci se si doveva preoccupare di difenderla con Maestri. Che annegasse nel suo profumo costoso e marcisse nella sua antipatia.
- Inutile piangere sul latte versato. Piuttosto dobbiamo affrontare le conseguenze: hai qualche malattia venerea? – A Matteo andò di traverso il gelato. Divenne paonazzo e prese a tossire furiosamente. Si autodiagnosticò un attacco di tubercolosi, ma Lisa non era tipo da farsi intimidire nemmeno da quella. – Hai dolori, pruriti, ingrossamenti? Sii sincero, niente battutine sulle dimensioni del tuo armamentario.
Maestri cercava di riprendersi, ma i discorsi imbarazzanti della Zanin non lo stavano aiutando per niente. Ora il suo viso era di un rosso tisico e di disagio, combinazione potenzialmente mortale, secondo le sue nozioni mediche.
- Quindi, è un sì o un no? – lo incalzò lei, impassibile anche di fronte alla tua precarissima condizione psicofisica. – Perché dal giorno della festa accuso qualche problemino e volevo capire se tu fossi la fonte di tutto.
Matteo si voltò verso l’Adige e cominciò a fare dei profondi respiri, tentando di non far cadere ciò che era rimasto del cono.
- Io? – riuscì a pronunciare, tra un colpo di tosse e l’altro.
Lisa non si fece impietosire e continuò come un treno.
- Sì, siamo nel 2011, possiamo parlare liberamente di queste cose. Ogni anno ci sono 340 milioni di nuovi casi registrati nel mondo per malattie sessualmente trasmissibili, AIDS escluso.
Pensava forse di tranquillizzarlo e di metterlo a proprio agio con quelle premesse?
- Ammettendo che avessi qualcosa,– cercò di ragionare, – come te l’avrei trasmesso?
La ragazza strabuzzò gli occhi, avvicinandosi a lui e spingendo gli occhiali sul naso.
- Non sai come si trasmettono le malattie sessualmente trasmissibili? Matteo, sicuro di avere la quinta elementare?
Lui arrossì per l’ennesima volta e appoggiò entrambi i gomiti sul Ponte delle navi, dando le spalle all’Adige.
- Certo che lo so! – controbatté.
- Quindi, me l’hai trasmesso quando abbiamo fatto sesso.
Il pollice della mano di Matteo per la sorpresa si conficcò nel cono del gelato, aprendo un varco che fece implodere l’intera struttura su se stessa, prima di riversarsi con un rumore secco sul marciapiede.
- Lisa, non è mai successo! – si difese.
- Maestri, ne abbiamo parlato finora! Hai l’Alzheimer forse? Io, te, Franzoni e la Cedreo in bagno. – lo fissò con insistenza negli occhi. – No, non fare quella faccia, non tutti insieme, idiota.
Matteo lasciò che due ragazzine sghignazzanti li sorpassassero, prima di cambiare posizione e voltarsi verso di lei.
- Ma io credevo stessimo discutendo del fatto che ho aiutato Cecilia e Lamberti a trascinarti in macchina!
Per la prima volta nella serata, Lisa si prese qualche secondo per pensare.
- Dopo essere stato in bagno con me? – tentò.
- Non sono mai stato in bagno con te. – le rispose lentamente, come per farle digerire pian piano tutte le parole.
- E allora perché cavolo mi hai invitato ad uscire?
Perché voglio fare ingelosire la tua migliore amica, lo pretendo, perché non mi posso essere immaginato tutto quello che è successo a casa di Franzoni.
Questa sarebbe stata la risposta sincera, quella che avrebbe voluto darle, ma non poteva permettersi di esporsi, di ammettere pubblicamente di essere stato fregato e di essere rimasto incastrato in quella intricata situazione da allora.  
- Perché… mi andava! – mentì.
- Dunque non perché pensavi di avermi trasmesso una malattia…
Matteo le sorrise bonario, rassegnato alla caparbietà con cui la ragazza sembrava rimanere ancorata all’assurda convinzione di essere stata con lui.
- No.
- Tutto ciò è molto confuso. – continuò Lisa, che ancora non era persuasa del tutto. – Ma ora non pensare che io sia una poco di buono, che va a letto col primo che capita e poi neanche si ricorda chi è lui. Perché io lo sapevo, che eri tu… anche se poi, in effetti, non eri tu.
Matteo si lasciò sfuggire un sospiro, esausto: Lisa gli faceva girare la testa, ma non nel modo in lui avrebbe voluto.
 
Fuori dal Firefly, in una Classe A vecchia di qualche anno, Cecilia osservò i movimenti di Niccolò con una certa circospezione. Seduta quasi a ridosso della portiera del lato passeggero, con le mani in grembo, cominciò a chiedersi se davvero fosse valsa la pena di ritrovarsi nell’auto del suo ex, da soli, soltanto per fare un dispetto a Matteo… Che era ad un appuntamento con la sua migliore amica, magari sbaciucchiandola con trasporto in uno dei luoghi spudoratamente romantici di Verona. Ah, la sua città non le era mai piaciuta. 
La mano di Mannino si posò sul poggiatesta del sedile del passeggero e il suo viso si sporse esageratamente verso quello di Cecilia; quella non sembrava una retromarcia, era una gigantesca accelerata.
Niccolò completò la manovra con agilità e imboccò la stradina, racchiusa tra due file di auto parcheggiate. Percorsero per qualche minuto alcune delle vie strette e lastricate del centro, illuminate dai lampioni e dai fari delle poche auto in circolazione in una sera di un giorno feriale. La biondina si accorse subito che quella che non era la corretta direzione per tornare a casa. Quantomeno non la sua: quella, infatti, era la più che corretta direzione per raggiungere l’abitazione dei signori Mannino. C’era stata una decina di volte in tutto, giusto per conoscere i suoceri e frequentare le lenzuola del loro unicogenito.
- Vorrei tornare a casa, se non ti dispiace. – Il tono inflessibile con cui aveva pronunciato quelle parole aveva smorzato il tentativo di non risultare troppo infervorata; dopotutto, lui le stava facendo un favore. Ad ogni modo, decise di non dargli la soddisfazione di aver immediatamente riconosciuto il percorso che portava alla sua villetta e non aggiunse altro.
- Pensavo ti avrebbe fatto piacere rivedere Ned, ci vorranno pochi minuti, dai. – Ecco che Niccolò tornava all’attacco, con l’astuzia di sempre, giocandosi la carta del cucciolo: emotivo, come l’espressione che si era appena stampato in faccia, e fisico, quello che avevano scelto insieme al canile quattro anni prima. E Cecilia non era in grado di resistere a nessuno dei due; al musetto di quella cagnolina grigia che l’aveva subito colpita in quella gabbia anonima e grigia, al viso compassionevole di Mannino. Il silenzio della ragazza valse quanto un assenso, sebbene a Niccolò non servisse affatto; aveva deciso che lei sarebbe ritornata ad essere sua, non gli serviva di sapere – e volere – altro.
- Moll.
- Come? – Lui finse di non capire. Tenera, dolce, ingenua Cecilia. Forse era persino troppo facile irretirla, non gli sarebbe dispiaciuto che lei si dimostrasse un po’ più restia a cedere: conquistarla sarebbe stato una sfida maggiormente intrigante.
- Si chiama Moll Flanders, non Ned. – ripeté lei, spiegando l’equivoco.
Il nome del cane l’aveva scelto lei, ispirandosi all’omonimo romanzo di Daniel Defoe e alla vita della protagonista, tanto travagliata quanto quella del cucciolo, abbandonato in un cassonetto ad appena qualche mese di nascita. Ma a Niccolò questa metaforica scelta a lungo ponderata non era sembrata affatto divertente, perciò l’aveva ribattezzata Ned, salvando solo il cognome; poco importava che il cane fosse una femminuccia e che il religiosissimo vicino de I Simpsons nulla avesse a che spartite con lei, se non una fastidiosa voce acuta.
- Ormai si è abituata ad essere chiamata Ned… – Mannino stava per riportare alla memoria ricordi che era meglio mantenere nel passato al fine dei suoi stessi scopi. Si accorse dello scivolone e proseguì con la nonchalance di cui era capace. – Sarà molto felice di vederti, ha sempre preferito te a me.
Almeno il cane! Lo avesse fatto anche il padrone…
Cecilia abbozzò un sorriso e spostò lo sguardo davanti a sé, ai lampioni che diventavano sempre più rari, nella periferia che conduceva a casa di Niccolò. Lui poggiò un gomito sullo sportello dell’auto e continuò a guidare tranquillo fino al viale antistante la villetta dei suoi genitori. Il cancello ora si apriva con il telecomando, era di un grigio più scuro di quanto Cecilia si ricordasse; nel giardino non c’era più la grande quercia a cui il signor Mannino tanto teneva, al suo posto ora svettava un ulivo dai rami sporgenti e pieno di frutti da raccogliere, sparsi anche sul cemento del cortile.  
Niccolò parcheggiò l’auto fuori dal cancello e scese dall’abitacolo, seguito dalla biondina. In lontananza scorsero la sagoma di un cane che giunse abbaiando fino ai loro piedi.
Beh, Moll era decisamente cresciuta. L’ultima volta che l’aveva vista, non pesava che qualche chilo, mentre ora era grande il triplo e superava i venticinque chili. La ragazza l’accarezzò e lei, in risposta, le leccò la mano con qualche esitazione.
- Ne è passato di tempo, eh Ned? – le scompigliò il folto pelo sulla testa, arricciandolo tra le dita, prima che lei decidesse che era il momento di fare le feste al proprio padrone.
Mannino si abbassò e si lasciò riempire di attenzioni. Cecilia lo guardò coccolare Moll, che per lui si rotolava sull’asfalto, scodinzolava furiosamente, si alzava sulle zampe posteriori per cercare di poggiare quelle anteriori sulle sue ginocchia. Dopo qualche minuto, lui si alzò, stufo di essere travolto da tante manifestazioni d’affetto. La ragazza non poté fare a meno di pensare a quanto era successo durante gli anni del liceo: anche lei si era comportata come Ned, anche lei aveva fatto di tutto per stare vicino a Niccolò, gli aveva sempre dimostrato fedeltà e amore. E lui si era semplicemente stancato di lei.
- Possiamo andare? – chiese veloce. Non si sentiva più a suo agio, quella scena sapeva di déjà-vu e lei non era pronta per affrontarlo. Aveva seppellito i ricordi del Maffei in fondo alla mente, non voleva rischiare di riportarli a galla.
Niccolò fu sorprendentemente di parola: la visita durò in effetti durata qualche minuto, lui si era premurato di offrirle qualcosa da bere e qualche snack, rinfrescarle la memoria su dove fosse il bagno, senza risultare impacciato a causa dei trascorsi e dei traumi che lei avrebbe potuto rammentare. Cecilia lo aveva sempre invidiato per quella sua caratteristica abilità nel destreggiarsi in situazioni critiche con assoluta disinvoltura e prontezza. Quelle peculiarità, però, erano probabilmente anche la causa del suo successo nel mantenere più relazioni sentimentali – sentimentali? – allo stesso tempo.
Risalirono in macchina, Niccolò accese la radio ed entrambi lasciarono allo speaker di una stazione nazionale il compito di parlare. Tanto nessuno dei due stava ascoltando.
Quando l’auto sterzò per fermarsi sotto casa di Cecilia, lei non fece in tempo a salutarlo frettolosamente – come aveva programmato per la maggior parte del viaggio –, perché lui l’anticipò. 
- So di aver fatto un casino in passato. – Oh-oh. La biondina sperò con tutto il suo cuore che lui non avesse intenzione d’intraprendere di nuovo quel discorso. – Ma Ceci, non succederà più.
Lei si sganciò la cintura di sicurezza e lo guardò sorridendo.
- Lo so che non accadrà più. – Niccolò rimase spiazzato. Ah, lei lo sapeva? Curioso, lui aveva detto quella frase soltanto perché in quel momento sembrava la cosa giusta da dire, ma non ne era molto sicuro di riuscire a non tradirla nuovamente. – Perché non avverrà mai più nulla tra me e te.
Quella risposta non gli piacque per nulla e gli fece comprendere che il manico del coltello stava lentamente scivolando nelle mani della ragazza.
Cecilia aprì la portiera per uscire, ma lui si allungò verso di lei, la sorpassò e richiuse lo sportello.
- Aspetta, aspetta, parliamone. – Lei si appoggiò stancamente al sedile, fissando la tappezzeria sul tettuccio. – Io tengo ancora a te. Sei pur sempre il mio pesciolino, no?
Sorrise debolmente e le sfiorò una guancia con due dita. La ragazza rimase immobile, respirando regolarmente. Si compiacque dell’effetto che quel contatto le provocava: nulla. Non ne era esaltata, non ne era nemmeno infastidita. Sentiva solo una grande stanchezza, dovuta alla sveglia suonata alle 6.30 per andare a correre, alla mattinata in università, al pomeriggio da Lisa, all’incontro con Matteo…
Niccolò interpretò quella sua rilassatezza come un invito a proseguire le carezze, lungo il collo scoperto e poi verso il braccio. Cecilia gli bloccò il polso, giusto un attimo prima che lui continuasse la scia – ribadendole la più assoluta mancanza di pudore – sul suo seno.
- Buonanotte, Niccolò.
Uscì dalla macchina, ma il ragazzo si sbrigò a fare altrettanto, non volendosi dare per vinto. La sua reticenza era esattamente ciò che lui desiderava. E lui la voleva di nuovo nel suo letto, il più presto possibile.
- Non mi dai nemmeno il bacio della buonanotte?
Cecilia avvertì il tono scherzoso, perciò si limitò a voltare la testa, mentre ancora proseguiva a camminare verso la porta di casa. Mannino non diede cenno di cedere e trotterellò fino a raggiungerla e a piazzarsi davanti a lei.
- Non mi va di giocare, dai… – provò a protestare.
- Solo un bacino e prometto che ti lascerò andare a dormire. – Posò  l’indice sulla guancia per farle capire che non aveva intenzione di forzare la mano, almeno non quella sera.
La biondina ci rifletté: era esausta, Matteo era uscito con Lisa, voleva togliersi Niccolò di torno, Lisa era uscita con Matteo, era arrabbiata, Matteo aveva scelto Lisa.
Accantonò i pensieri con stizza e si avvicinò a Mannino, poggiandogli le mani sulle spalle. Non sarebbe stato altro che un bacio innocente, atto a accontentare lui, a liberarsi di lui, a irritare un inconsapevole – e magari indifferente – Maestri.
Niccolò gongolò nel vedere l’espressione della Molinari, ormai persuasa a concedergli un buffetto, fosse anche per sfinimento. Doveva complimentarsi con se stesso, era sempre stato bravo a lavorare ai fianchi. Soprattutto quelli femminili. Cecilia tenne gli occhi aperti, con il suo ex non c’era da fidarsi, la sua tendenza a fare il provolone persino durante il sonno non andava sottovalutata. Gli depositò un bacetto sulla guancia, sollevata che lui non avesse fatto gesti avventati e infantili per deviare la sua bocca direttamente sulla sua. Niccolò non ci aveva provato. Quasi quasi si commuoveva. Ma non fece in tempo a finire il suo pensiero che lui le afferrò la testa tra le mani, premendole le labbra contro le sue con veemenza e sfruttando la sorpresa che le aveva spalancato la bocca per introdurvi la lingua. Cecilia si scoprì molto più forte di quanto non pensasse, mentre respingeva le labbra di Mannino al mittente, con maggiore grazia e delicatezza del necessario, visto il soggetto.
Fu abbastanza lesto ed accorto da ritirare la lingua subito, perché Cecilia serrò la mascella, facendo cozzare i denti tra loro, pur di sbarrargli l’accesso. Non insisté oltre e le lasciò libera la testa.
Lo schiaffo che lo colpì in pieno viso, dopo appena qualche frazione di secondo, gli intorpidì la guancia e lo stordì.
- Non cambierai mai, – esclamò lei delusa, girando i tacchi e risalendo il vialetto per entrare in casa e abbandonare il cretino sul ciglio della strada.
Niccolò rimase solo a massaggiarsi il volto dolente, gradevolmente sorpreso dalla reazione di Cecilia. Oh, sì, quello che aveva visto gli era piaciuto molto: il suo agnellino si era trasformato in una lottatrice. Non gli restava che procurarle una tutina attillata, un po’ di fango e farla arrabbiare di nuovo. 
 
Matteo si schiarì la voce e cambiò canzone del cd per la centesima volta, schiacciando a rallentatore i tasti dell’autoradio. Lisa Zanin era zitta da circa due minuti e lui non sapeva come interpretare quel silenzio: non ne era abituato, ignorava come fronteggiarlo e soprattutto si chiedeva perché fosse tanto imbarazzante.
La ragazza stava fissando con autentico interesse le proprie mani poco curate e le unghie cortissime, attendendo il modo adatto per concludere l’uscita. Ma Maestri non dava cenni di voler accelerare il processo o quantomeno di iniziarlo; anzi, il suo sguardo perso le faceva intendere che avrebbe preferito piantare una tenda nel suo giardino e passare la notte lì, arrostendo marshmallows e carne di cervide da congelare.
- Beh, esclamò lei di punto in bianco: aveva sempre odiato il campeggio, – grazie della serata. E per avermi trasportato nella macchina di Lamberti dopo la festa da Franzoni. E per non avermi trasmesso malattie durante il rapporto sessuale che non abbiamo mai avuto.
- Ehm, – Matteo avvolse le dita attorno al freno a mano, giusto per tenersi occupato e nascondere il disagio che le parole smaliziate di Lisa gli procuravano, – prego.
La Zanin lo fissò, incredula da tanta imbranataggine e si affrettò risoluta a proseguire col discorso.
- Senti, Maestri, ad essere completamente onesta, io ho accettato di uscire con te per la questione del bagno. Sei carino, sei abbastanza sveglio, – stava mentendo, però lui le aveva offerto il gelato e lei non se la sentiva di ammazzare il suo ego, – ma non credo che tra di noi possa funzionare. Sai, non credo di essere la ragazza giusta per stare con un calciatore.
Matteo finse di non accusare il colpo al proprio orgoglio e si concentrò sulla sensazione di sollievo che avvertì; trascorrere del tempo con lei era stato divertente, ma anche un pochino pesante e… troppo strano! E lui di certo non poteva negare di non aver avuto un doppio fine.
- Ad essere completamente onesto, ti ho chiesto di uscire per fare ingelosire un’altra, – ammise a sua volta, sentendosi più leggero.
- Oh, – non era certo la risposta che Lisa si era aspettata, però in fin dei conti non le importava poi molto. A conti fatti era quasi lusinghiero essere scelte per quello scopo… – almeno siamo pari. Ha funzionato?
Maestri afferrò con entrambe le mani il voltante e ruotò i polsi ripetutamente, trattenendo a stento una risata assai poco divertita.
- Vuoi la verità? Non lo so. Forse dovrei solo dimenticarla e guardare avanti, senza drammi o paranoie.
Lisa annuì, senza saper bene cosa dire. Evitò con accuratezza di approfondire l’argomento e puntò a definire il loro rapporto.
- Amici?
- Certo. Ci vediamo la settimana prossima in facoltà.
Matteo finalmente sorrise, dispiaciuto solo che il suo ingegnoso piano per infastidire Cecilia si fosse rivelato tanto fallimentare.
 
Quella notte, in una Verona assopita e intorpidita dal primo vero freddo della stagione invernale, quattro persone, legate fra loro da un singolare destino, tornarono alle loro case con umori e sentimenti contrastanti.
Cecilia era furiosa. Con Niccolò, con Lisa, con Matteo, con sua madre che l’aveva messa al mondo e poi si era scoperta inadatta a farle da genitore, con suo padre che l’amava troppo e male, con Van Gogh, il pesce rosso, che pur aprendo la bocca in continuazione, non aveva mai una parola di conforto…
Matteo era confuso. Aveva creduto che la serata sarebbe servita a chiarirgli le idee, magari divertendosi e provando a costruire qualcosa a piccoli passi con un’altra ragazza. Beh, era evidente che l’obiettivo fosse sfumato. Sbadigliò, mentre s’infilava sotto la trapunta e ridacchiava tra sé. Avrebbe dovuto saperlo: cercare di dimenticare qualcuna, uscendo con la sua migliore amica, era proprio un piano del cavolo.
Niccolò era ormonale quanto una donna in gravidanza. Aveva i boxer in subbuglio e la gamba un po’ dolorante, in seguito all’incidente al centro sportivo a causa di quell’idiota di Maestri. Ridacchiò rumorosamente, ripensando a quello che aveva sempre considerato un amico; aveva appena trovato un ulteriore motivo per cui spassarsela con Cecilia e sarebbe stato divertente: avrebbe avuto il piacere di farla sotto al naso di Matteo.
Lisa era irritata. Fisicamente, perché il prurito tra le gambe la stava facendo ammattire e la crema lenitiva di sua madre non sembrava funzionare, ed emotivamente, perché ancora non sapeva chi fosse l’artefice di un tale fastidioso pasticcio.
Il bip di un messaggio in arrivo le ricordò che non aveva ancora tolto la suoneria al cellulare. Provvide subito, leggendo poi l’sms. Era di Cecilia.
- Com’è andata?
Lisa compose in fretta la risposta, non conscia dell’ansia che impediva alla sua amica di restare seduta sul letto. Infatti, la biondina non riusciva a rimanere ferma, passeggiando nervosamente su e giù per la stanza.
- Tutto okay. Appena ci vediamo, ti spiego; non mi va di raccontartelo così. Tu, piuttosto?
Tutto okay. Che cavolo significava? Moderatamente positivo, fondamentalmente inutile e privo di contenuti.
Cecilia si morse d’istinto un labbro, perché quello era proprio la risposta che più aveva temuto di ricevere, quella che in fin dei conti le sembrava la peggiore, dal momento che la segregava in uno stato di consapevole ignoranza da cui non poteva uscire, almeno fino al giorno in cui si sarebbero incontrate. Il che significava passare una notte d’inferno, a tormentarsi mente e stomaco per immaginare i diversi modi con cui quei due avevano passato la serata.
Fece un ultimo disperato tentativo, strizzando gli occhi per lo sforzo che le costava farle quella patetica domanda.
- Non mi anticipi nulla?
Tamburellava le dita sul comodino ed era sul punto di mangiarsi persino i gomiti per la paura d’insospettirla. Era sempre stata molto discreta sulle vite private altrui, non amava il gossip – anche se doveva ammettere che era pronta a cambiare idea, in caso le fosse servito a scoprire qualcosa in più su Matteo –, adesso stava divenendo improvvisamente curiosa.
Lisa, ora sdraiata e coperta fino al naso dal piumone, aggrottò la fronte perplessa; la stranezza di Cecilia in quei giorni proseguiva e lei non era sicura di come andasse affrontata.
- Da quando sei così impicciona? Te l’ho detto, Matteo è un tipo a posto, rimarremo in contatto. A proposito di contatti, mi daresti il nome di un ginecologo?
A proposito di contatti? Contatti? Di che genere, in 3D?
Nonostante il groppo alla gola, non riuscì a chiederle nient’altro a riguardo e le digitò laconica l’unico dottore che le sovveniva.
- Guido Rastrelli.
- Il papà di Carlo? Qualcosa mi dice che mi sentirei a disagio a mostrare Priscilla al padre del mio peggior nemico. Grazie comunque, buonanotte.
Cecilia si sedette alla scrivania, i gomiti poggiati sulla scrivania e le mani incastrate tra i capelli. Dell’appuntamento di Lisa e Matteo non sapeva nulla. L’unica cosa di cui era certa era che quella non sarebbe stata una buona notte.
 
Le lezioni della facoltà di lettere non si protendevano mai oltre il mercoledì, perciò, quel giovedì, Cecilia si ritrovò a pretendere di studiare, assonnata, il pensiero che correva in alternanza alla propria disastrosa vita sentimentale e alla cena che quella sera l’avrebbe costretta a sedere al tavolo con Ferdinando, la sua fidanzata Maria Carolina e la di lei deliziosa sorella Melissa. Una vera e propria tortura ciclica, a cui si sottoponeva quasi ogni settimana per poter dire che anche nella sua famiglia esisteva una tradizione; c’era chi pranzava con nonni e zii la domenica mattina, chi il sabato sera mangiava sempre pizza e c’era lei, con i suoi terribili giovedì sera a casa di suo padre, dalla quale tornava costantemente con il mal di testa da sovraesposizione di acidità da matrigna.
Per questa ragione, si preparava sempre come se dovesse andare al patibolo: si vestiva bene – perché Maria Carolina esigeva che lei indossasse un abbigliamento adeguato alla sua presenza –, pregava – soprattutto che Maria Carolina fosse di buonumore – e accettava il proprio crudele ed ineluttabile destino – Maria Carolina era una un’autentica punizione divina.
Quella sera indossò un abito che sua madre aveva scartato, dal momento che le andava decisamente troppo largo, come si era premurata di dirle almeno una decina di volte, nonostante fosse almeno di due evidentissime taglie più piccolo. Cecilia aveva taciuto e ringraziato per la generosa concessione materna, senza osare ribattere l’ovvio.
Arrivata a destinazione, spense il motore della macchina, cercando di perdere tempo e trovare una scusa per fuggire o quantomeno trovare il coraggio per affrontare la routine: fingere di apprezzare cibo, compagnia e atmosfera per più di due ore richiedevano un allenamento costante ed intenso, al quale purtroppo era abituata. Quelle serate a casa Molinari-Cedreo le ricordavano tanto il corso di danza classica che sua madre le aveva fatto frequentare in prima elementare, quando ancora sognava di farla diventare un’étoile de La Scala; lo detestava, le riusciva piuttosto bene – nonostante la pignola maestra la rimbeccasse ogni tre secondi per correggere qualche posizione –, ma se poteva evitare di andarci, lo faceva molto volentieri.
Tolse le chiavi dal quadro e scese dall’auto; sapeva di non avere alcuna possibilità di scampare alla finta cortesia di Maria Cretina, al diabete da complimenti fraterni di Melassa e all’assoluta imparzialità di Ferditonto. E lei, Cepigliaescappa, avrebbe come al solito trattenuto l’impulso di inforcare la via della porta, recitando l’ormai consueto copione di figlia e ospite modello. Condizione, quest’ultima, che Maria Carolina pareva sempre dimenticare, dal momento che a fine cena amava confinarla in cucina a lavare i piatti, mentre lei si godeva il meritato riposo. Riposo da cosa esattamente non era dato sapersi: la cena era preparata dalla gastronomia, la tavola rassettata da Ferdinando, la cucina lustrata da Cecilia… forse erano le sei ore settimanali di lavoro nella profumeria dei suoi a renderla così inesorabilmente stanca, ragion per cui aveva ritenuto necessario assumere una donna delle pulizie che riordinasse la casa, facesse il bucato e innaffiasse le tre pianticelle spelacchiate che popolavano il giardino.
Cecilia non si capacitava di come suo padre, un uomo acculturato, sveglio e dinamico, potesse sopportare anche la sola presenza di una donna come Maria Carolina. Tutte le volte che si poneva questa questione, però, doveva anche ricordare che Ferdinando Molinari era lo stesso che qualche decennio prima aveva sposato sua madre, Marina, che di certo non era l’emblema della brava mamma e moglie. Il problema era che proprio non sapeva scegliersele, le compagne. Avrebbe dovuto considerare l’eremitaggio.
L’oggetto dei suoi pensieri si materializzò davanti ai suoi occhi, ancor prima che lei potesse suonare il campanello; faceva sempre così suo padre, precedendola di qualche secondo. Probabilmente se ne stava appostato alla finestra a controllare che lei arrivasse, per poi salutarla e guardarla con gli occhi di chi non se l’aspettava di vederla arrivare di nuovo al proprio cancello. Forse si stupiva pure lui di trovarla ancora lì, pronta a sopportare un’altra noiosa serata con lui.
D’altronde, Cecilia non ci avrebbe mai rinunciato. Benché tutto ciò le costasse fatica, quei giovedì sera costituivano gli unici momenti disponibili da trascorrere con Ferdinando e avrebbe continuato a rispettare l’impegno settimanale, anche se ciò comportava fare da sguattera alle sorelle Cedreo. Non poteva permettere che il suo rapporto con suo padre si riducesse alla consegna dell’assegno mensile degli alimenti.
- Ceci, sempre puntuale, eh? – le depositò un bacio sulla guancia e se ne stette a fissarla per una manciata di istanti, con le mani in tasca. Sua figlia gli sorrise con una punta di amarezza: era davvero così difficile riuscire a parlare con lei? Il loro rapporto sarebbe sempre stato così freddo e imbarazzato? – Vieni dentro, comincia a far buio. Allora, l’università?
La biondina aveva appena iniziato a raccontare l’andamento flemmatico delle prime lezioni dell’anno accademico, quando Maria Carolina le si avvicinò sgambettando sulle sue mezzo tacco di vernice. Tanta impazienza davvero non le si addiceva. Interruppe il discorso padre-figlia – con sollievo da parte dei presenti –, mentre si risistemava un ciuffo di capelli dietro le orecchie.
- Oh, cara, finalmente sei qui! Ti spiacerebbe andare in cucina a mescolare le patate? Non vorrei si bruciassero.
Calò il silenzio per qualche secondo, il tempo necessario perché Cecilia assimilasse la domanda e se ne ponesse un’altra: perché diavolo non lo fai tu?
- Tesoro, lo posso fare io… – s’intromise Ferdinando, che si proponeva sempre di difendere la figlia, ma che finiva sempre col fare la figura dell’uomo senza attributi.
- Amore, sono certa che alla tua Ceciliuccia non dispiacerà aiutarmi, visto che è qui tutti i giovedì a mangiare. Sai dov’è la cucina, cara. – Appunto.
La ragazza si avviò mesta verso i fornelli, mentre il rumore del campanello rimbombava per dieci secondi consecutivi nel salone centrale: Melissa era arrivata.
La conferma le giunse quando la voce strascicata della ragazza cominciò a parlare a raffica, come di consueto.
- La macchina si è rotta. Ho dovuto prendere un taxi, ma non avevo idea che avrei speso una tale cifra! Ho dovuto scegliere tra pagare la corsa e comprarmi domani una nuova pochette. Il tassista è ancora qui fuori che aspetta! – ridacchiò e sua sorella si unì allo starnazzio.
- Ferdy, ti dispiace?
Cecilia si sporse dalla cucina, giusto in tempo per assistere alla scena. L’uomo mise prontamente mano alla tasca posteriore dei pantaloni e ne trasse il portafoglio, dirigendosi verso il vialetto esterno. Sua figlia osservò con rassegnazione tutto il concatenarsi di azioni, ormai priva di commenti silenziosi da fare; il problema di suo padre era sempre lo stesso da cinquant’anni a questa parte: la mancanza totale di spina dorsale. Così era stato con Marina, dalla quale era stato prosciugato – economicamente ed emotivamente – e poi gettato come uno straccio vecchio, così era con Maria Carolina, che in quanto a spessore emotivo era l’equivalente di un pizzocchero della Valtellina.
Ed eccolo, dopo un matrimonio fallito, una figlia semi estranea, una convivenza quadriennale, ancora a elemosinare amore alle donne sbagliate, donne che al cui confronto il Sahara sembra un’immensa piscina olimpionica.
- Bene. Ora raccontami tutto di questa nuova pochette che vuoi comprare.
Le due sorelle Cedreo ben presto si dimenticarono di Cecilia, lasciata in sala da pranzo a finire di apparecchiare e sistemare il centrotavola.
Quando Ferdinando rientrò dal giardino, a fatica riuscì a radunarle tutte e tre attorno alla tavola. Sua figlia, però, riuscì a rilassarsi; solitamente, la parte più indigesta della cena era, per paradosso, quella che non riguardava il cibo. Melissa e Maria Carolina, infatti, avevano l’abitudine di conversare fittamente tra di loro durante il pasto, lasciando gli altri due a scambiarsi imbarazzate occhiate di sottecchi e sorrisi che entrambi amavano illudersi fossero di complicità. Quella sera, invece, Melissa apparve determinata a voler approfondire il rapporto con i parenti acquisiti. A modo suo, certamente.
- Allora Cecilia, qualche novità? – La biondina bloccò il braccio che reggeva la forchetta a mezz'aria, facendo cadere un pezzo di lasagna di nuovo nel piatto. Perché le stava rivolgendo la parola? Fece per farfugliare qualcosa, ma l’altra ricominciò a parlare. – Io sì. Io e Matteo Maestri usciremo insieme.
Stavolta fu l’intera posata a cadere, stridendo all’impatto con la ceramica della fondina, causando un brivido alla povera Caro. Se quella marmocchia avesse osato rovinare il servizio nuovo di Richard Ginori, le avrebbe spezzato le ossicina delle mani una ad una.
Cecilia non riuscì a reagire per qualche secondo, paralizzata da quel nome che sembrava emergere in qualsiasi posto o situazione, come un campo minato tutt’intorno a lei. Matteo Maestri sembrava essere sulla bocca di tutti, tranne che sulla sua.
- Ceci, stai bene?
No!
- Ce-certo, papà, – si sforzò di sorridere e Ferdinando fece altrettanto, tornando a mangiare, sollevato di non dover affrontare una crisi figliale senza aver assolutamente idea di come farlo.
- Oddio, quel Matteo? Brava Mely!
Maria Carolina scordò in fretta il buon Richard e si concentrò sulla sorella, con l’intenzione di celebrare il momento come una di quelle party mamas della tv. Certo, Maestri non era esattamente il sultano del Brunei, ma compensava le assenti abbondanze finanziarie con un aspetto fisico niente male e un possibile futuro da calciatore. Tutto sommato, poteva rivelarsi un buon investimento.
Melissa era in fissa per lui dalla prima elementare e aveva riempito la camera che condividevano con foto sue, intere, a mezzo busto, di arti,  di frammenti non ben identificabili di corpo, scattate ai giardini, in classe, a casa, al centro sportivo, stampate sul giornalino della scuola, della parrocchia… il ragazzo doveva considerarsi fortunato a ricevere tante attenzioni da parte di una Cedreo. E Melissa era una ragazza fortunata: all’epoca non esisteva ancora il reato di stalking.
Cecilia fissò le due sghignazzare per la presunta conquista e si immaginò come sarebbe potuta cambiare la loro faccia nel momento in cui avessero scoperto che il loro castello in aria si stava sgretolando ad opera di niente meno che Lisa. Si sentì un po’ dispiaciuta per entrambe – sapeva bene cosa significasse desiderare qualcosa, qualcuno, e non poterlo avere –, ma era stufa di starsene zitta e inerme. In fondo, stava facendo loro un favore, le stava informando!
- Davvero? – domandò con un sopracciglio alzato. – Strano, l’ho visto uscire con un'altra.
Riprese in mano la forchetta e infilzò un ricco boccone di lasagne. Se lo ficcò in bocca e assaporò con gusto, mentre i visi delle donne che la circondavano impallidivano e si contraevano in una smorfia di stizzito stupore.
- Ti sarai sbagliata, – sentenziò la maggiore delle Cedreo che mosse in un gesto secco il braccio per afferrare il bicchiere e scolarsi d’un fiato il vino rosso che Ferdinando le aveva versato.
- Non credo. Ci ho anche scambiato due parole, – E mezzo bacio.
Melissa la osservò inorridita, pronunciando, con un filo di voce, vagamente isterica, le tre parole che più temeva in quel momento.
- Lei chi è?
Non appena finì la frase, intuì la risposta: la lesse direttamente nell’espressione serafica di Cecilia, che le confermò ogni cattivo presagio.
- Lisa Zanin.
La stracciona. No, tutte, ma la stracciona no! Come aveva potuto non prevederlo? Non avrebbe potuto, ecco perché! Chi diavolo considerava la Zanin parte della concorrenza? Persino Eva la Ciofeca era meglio di… quella! Almeno lei aveva il monociglio, Lisa che aveva di tanto speciale da renderla più attraente di una vasca colma di letame?
Melissa optò per un cambio rapidissimo di argomento, ma parve palese a tutti gli altri commensali che, nonostante lei e Maria Carolina discutessero di accessori e cachemire – escludendo una più che contenta Cecilia –, il pensiero fosse rimasto fisso su Matteo Maestri.
La minore delle Cedreo pretese che Ferdinando l’accompagnasse a casa, mentre Cecilia veniva invitata a prendere il suo posto in cucina, tra le stoviglie sporche e il pavimento da spazzare.
Perlomeno, ora sapeva che Melissa, con l’onta subita, non le avrebbe rivolto la parola per una quindicina di cene.
 
Fatima Turchetta stava passeggiando placidamente lungo un infinito viale alberato del centro città, in compagnia di un bel bassotto color cioccolato al guinzaglio con una mantellina verde e gialla. In testa portava una vivace berretta arancione con delle stelline iridescenti ricamate che lasciavano una strana scia luminosa nell’aria che si lasciavano alle spalle. Stava camminando da quasi un chilometro, quando la donna si fermò in prossimità di un grande tiglio, dietro al quale si nascose. Fece sporgere solo la testa, e gli occhi corsero ad osservare una finestra illuminata, al secondo piano di un bel palazzo ristrutturato di recente. L’ombra familiare di Cecilia si distinse da dietro la tenda e sostò per quasi un minuto davanti al vetro, prima di sparire nel buio che oscurò l’intera stanza.
Fatima scosse la testa, corrucciando la bocca. Lanciò un’occhiata al bassotto, che le restituì uno sguardo torvo e accigliato.
- Lo so, lo so. È il momento d’intervenire. Penserò a qualcosa. E tu smettila di fare il broncio, te lo sei meritato! Azzardati a mangiare di nuovo tutto il formaggio nel frigorifero e ti trasformo in un pidocchio, la prossima volta. Capito, GasGas?
 


Non so che dire, ormai lo sapete che sono una ritardataria cronica, senza margini di miglioramento.
Purtroppo, ciò che del prossimo e ultimo capitolo avevo già scritto (mancava solo un paragrafo T___T ) è andato perso quando mi si è rotto l'hard disk. Sarebbe stato troppo furbo da parte mia salvare il tutto su un una chiavetta, naturalmente.
Vi ringrazio comunque della pazienza e delle recensioni, a cui risponderò ora.
Grazie  a Nessie di aver betato, spero di tornare presto con il capitolo 7.
Buona giornata!
S.

 
 

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


 

Capitolo VII

 


Cecilia correva. Correva talmente veloce e da così tanto che le gambe sembravano ormai andare per conto loro, mentre i polmoni le bruciavano, a corto d’aria, ma la ragazza non dava cenni di volersi fermare, né tanto meno di rallentare. Doveva arrivare a casa di Lisa a tutti i costi e al più presto possibile, e il footing mattutino le era parsa la scusa migliore.
Aveva passato la notte precedente quasi insonne, rigirandosi tra le lenzuola, controllando in continuazione la sveglia sulla scrivania, nella speranza che segnasse finalmente un orario accettabile per alzarsi, infilare le scarpe da tennis e fare una corsetta per le vie di una Verona appena accarezzata dalle prime luci dell’alba. Quando erano state le sette, aveva indossato un paio di pantaloncini e una felpa non troppo pesante, aveva sgranocchiato una barretta energetica e aveva preso il cellulare e l’i-pod dalla scrivania. La musica la rilassava, l’aiutava a tenere il ritmo, a non pensare allo sforzo e a continuare a correre. Quella mattina, però, era tutto fuorché rilassata ed era stata una sofferenza raggiungere il cancellino dell’abitazione di Lisa, che pure non distava che un paio di chilometri dalla sua. Ogni passo le era costato una fatica immensa, perché le doleva ogni dannato singolo muscolo, era stanca, il cattivo riposo le faceva percepire le gambe pesanti come macigni, ma non si voleva arrendere. Non era da lei rinunciare a qualcosa che desiderava, salvo ricevere schiaffi in piena faccia, come il disprezzo malamente nascosto da Matteo Maestri, ad esempio, che le spezzava le gambe, il fiato, il cuore.
Cecilia strinse con una mano una lancia del cancello di casa Zanin e con quella si sorresse, nella testa la voce del professore di educazione fisica delle medie che le ricordava che il fisico recupera molto più in fretta, se si sta in piedi. Forse erano soltanto idiozie, lei voleva solo sdraiarsi sul marciapiede e dormire, ma s’impose di allungare un dito e raggiungere il campanello. Stava per premere il pulsante, quando l’occhio le cadde sull’orologio da polso.
Merda, 7.15.
Avrebbe fatto venire un infarto a tutta la famiglia, oltre che procurarsi una scarica d’insulti. Ignorò il professor Golia e si sedette sul gradino che dava accesso al vialetto: perché cavolo non ci aveva pensato prima?
Prese il cellulare e mandò un messaggio a Lisa, sperando che fosse sveglia o che almeno avvertisse il rumore dell’arrivo dell’sms.
Sono sotto casa tua. Ti va di fare colazione insieme?
Dio, quanto doveva suonare disperata! Stazionare fuori dalla porta della casa della propria migliore amica di venerdì mattina, praticamente all’alba, con il cuore che batteva all’impazzata – e non solo per la corsa –, per raccogliere uno straccio d’informazione sull’appuntamento, conclusosi nemmeno quarantotto ore prima. D’altronde, non sapeva che altro fare.
Rimase immobile su quel gradino per tutti i venti minuti che Lisa impiegò ad affacciarsi alla finestra, nonostante la pelle d’oca per il freddo sulle gambe scoperte dai pantaloncini e la frequenza cardiaca che faticava a normalizzarsi.
- Sei ubriaca? Che cavolo ci fai qui? – le urlò dal secondo piano.
Cecilia si alzò con un balzo e le sorrise.
- Volevo fare due chiacchiere.
La Zanin alzò sospettosa un sopracciglio e cominciò a ragionare: sette di mattina. Ceci. Chiacchiere. Appuntamento… No. No. No. Mannino. No.
- Santissimo Legolas Verdefoglia. Porta il tuo culo disgraziato in casa. Adesso.
L’amica non ebbe neppure il tempo di chiedere il motivo di tanto disappunto, perché Lisa chiuse la finestra sbattendola, e un secondo più tardi le aprì il cancello. Cecilia entrò in casa e salutò un’assonnata signora Zanin, intenta a preparare la moka del caffè. Lei le rispose con un cenno della mano e sparì in camera.
- Sai quanti sono gli abitanti dell’Europa? 819.263.819. – Lisa comparve dal bagno in una vestaglia verde militare, ciabatte di Homer Simpson e capelli arruffati. E un evidente malumore. – Ammesso che la popolazione sia per metà maschile e metà femminile, ci sono 409.631.909 uomini e altrettante donne. Togliendo i tuoi parenti, all’incirca centocinquanta, otteniamo 409.631.759 persone. Sottrarrei un 65% tra sposati, fidanzati e simili, perciò… tre col riporto di due, sette per quattro, ehm… 143.371.115, più o meno. Eliminando i troppo giovani e i troppo vecchi, direi il 70%, restano… 43.011.334 maschi.
Cecilia la guardò senza capire, in religioso silenzio, sedendosi davanti al tavolo della cucina.
- Quindi…? – chiese, nella speranza che l’altra si spiegasse meglio.
- Scusa, errore mio. 43.011.333 maschi.
Beh, ora è tutto molto più chiaro, pensò la biondina.
- Quindi…? – riprovò.
Lisa sbuffò contrariata, infastidita e anche un po’ stupita dalla poca perspicacia dell’amica.
- Quindi, – le disse, cercando di mantenere la calma, nonostante né la situazione né il fatto di non aver ancora mangiato nulla la stessero aiutando, – esci di qua e accoppiati con uno di quei 43.011.333 uomini. Espatria, se necessario. Utilizza pure le 409.631.909 donne. Vai ad un appuntamento con un procione. Fatti suora. Tutto quello che ti pare. Ma non osare rimetterti con l’unico essere non adatto a te.
Cecilia la fissò stralunata, finalmente cominciando a riordinare le idee e leggendo tra le contorte righe di Lisa.
- Niccolò?
- No, mio padre, – le rispose l’altra sarcastica, mentre si avvicinava al fornello per spegnere la fiamma sotto la caffettiera. Prese due tazze da un armadietto e le appoggiò sul tavolo.
- Peccato, ho sempre pensato fosse un tipo affascinante, – scherzò, provocando una smorfia di disgusto sulla faccia dell’amica. – Comunque, non c’è pericolo che succeda altro tra me e Mannino: non lo rivedrò mai più. Non dopo che mi ha baciato a tradimento.
Lisa smise di versare il caffè nelle tazzine e sbatté la moka sul tavolo, facendo fuoriuscire delle gocce del liquido scuro, che macchiarono la tovaglia.
- Lo sapevo! – urlò. – Tu di certo non l’hai dissuaso, chiedendogli uno strappo a casa... A proposito, che ti è saltato in mente?
- V-volevo solo fare ingelosire un altro ragazzo che era nel locale, un tizio del corso di Storia greca, – si era premurata di citare uno dei corsi che frequentava da sola. – Probabilmente ero solo brilla.
- Comunque, nulla toglie al fatto che sia un idiota! Quello non si arrenderà nemmeno quando avrai la fede al dito e cinque marmocchi a cui badare.
- Tu, piuttosto? – Cecilia cambiò bruscamente argomento. – Com’è andata con Maestri?
Le tremò per un attimo la mano, mentre pronunciava quel nome e afferrava la tazzina che l’altra le stava porgendo allo stesso tempo. Il suo cellulare prese a suonare proprio in quel momento all’interno della tasca della felpa.
- È un bravo ragazzo. Ma non rispondi? – Lisa le fece un cenno per indicare il telefonino, dopo il terzo squillo.
La biondina appoggiò il malefico affare sul tavolo, sbirciando chi fosse il possessore di un tale tempismo e buon senso da chiamare alle 7.45, oltretutto nel bel mezzo di una conversazione su Matteo.
- È Gianluca, risponderò dopo. – Rimise il cellulare nella tasca, sperando di poter proseguire il discorso in pace. – Dicevi?
- Ci siamo divertiti, però… ti prego, rispondi! La tua suoneria mi dà sui nervi!
- Che c’è, Gianlu? – Lamberti prese a parlare così forte e veloce che per un attimo Cecilia si chiese se non si fosse trasformato in uno di quei cinesi sul treno che conversano fitto per ore, rendendoti nolente partecipante di chiamate intercontinentali. – Calmati, non ho capito nulla!
- Un disastro, Ceci, un disastro!
Gianluca le fece un rapido riassunto di come lui e il suo degno compare fossero tornati a casa ubriachi alle 5 dopo un shot party universitario e si fossero accampati nella taverna di casa Rastrelli, svegliati due ore dopo dai latrati del cane. In mezzo ad una pozza rosso sangue. Purtroppo era risultato che non avevano tentato di ammazzarsi a vicenda in una competizione tra galli, ma avevano solo fatto cadere una bottiglia di Bolgheri Sassicaia del 1997, di proprietà del padre di Carlo, il cui valore di mercato – secondo alcuni siti specialistici – si aggirava attorno al mezzo migliaio di euro. Che i due pirla ovviamente non avevano.
- Non vedo cosa potrei fare, ma sì, venti minuti e arrivo. – Riattaccò e guardò sconsolata Lisa. – Scemo e Più Scemo hanno combinato un pasticcio, come al solito. E ora chiamano me per risolverlo, come al solito.
La Zanin sorrise soddisfatta.
- Mi vesto e vengo anch’io.
Cecilia le restituì un’occhiata dubbiosa: che interesse poteva avere lei ad aiutare i due Teletubbies? Soprattutto Carlo, con cui da sempre era in atto una faida.
- Sicura?
- Rastrelli ha fatto un casino, vorrai mica che perda l’occasione di prenderlo per il culo, no?
Come non detto. Mentre aspettava che l’amica si vestisse nella camera al piano di sopra, la biondina s’imbatté nel padrone di casa, protagonista involontario di una battuta qualche minuto prima. Naturalmente, stava scherzando; il signor Zanin era quasi del tutto calvo e aveva da sempre una pancia pronunciata che sporgeva dalla cintura dei pantaloni, tanto che Lisa da bambina andava dicendo che lui stava per dare alla luce un bimbo. Questo, ovviamente, le aveva dato spunto per fare una ricerca sulle gravidanze maschili sulla rete e cominciare a raccontare aneddoti ad amici scettici e parenti scandalizzati.
- Buongiorno, – lo salutò. – Non ha una bella cera, sa?
L’uomo, infatti, aveva un colorito pallido e malaticcio e dava l’impressione di dover rimettere da un momento all’altro.
- ‘Giorno Cecilia, – bofonchiò, una mano sullo stomaco, come a trattenere tutto ciò che il suo corpo pareva intenzionato a voler espellere per vi orale. – Il cinese di ieri ha messo l’intera famiglia ko.
- Oh, mi dispiace. Lisa, però, mi è sembrato stesse bene.
- Ha preso qualcosa stanotte per digerire. Avrei dovuto imitarla.
Detto ciò, si precipitò in bagno ad abbracciare il water, avendo almeno la premura di chiudere la porta. Purtroppo la casa non aveva i muri insonorizzati.
Lisa giunse in tempo per storcere il naso davanti all’espressione schifata dell’amica.
- Sicura di star bene? – le domandò Cecilia.
- Non c’è miglior medicina che aiutare gli amici. E ridere di loro.

 

Matteo allungò una mano sul comodino per spegnere l’odioso rumore che da dieci minuti gli stava disturbando il sonno. Fece per premere il pulsante, ma si accorse che la sveglia non era inserita. Alzò la faccia dal cuscino e rimase in ascolto: l’odioso rumore era una dannata voce femminile! Di nuovo una di quelle cornacchie pettegole amiche di sua madre alle… 8 di mattina, lesse sull’orologio, mentre grugniva contrariato. L’unica nota positiva era che portavano sempre qualcosa da mangiare per lui: biscotti, brioches fresche di pasticceria, torte fatte in casa… non lesinavano su nulla, perché sapevano che in quel modo si sarebbero guadagnate il diritto di sottoporlo ad almeno un paio delle loro domande.
Maestri fece pipì, si lavò faccia e denti, indossò pantaloni e felpa della tuta e provò a sorridere allo specchio, in preparazione al terzo grado per il quale non si sentiva mai davvero pronto. Ma per una brioche al cioccolato, questo e altro.
Restava solo da capire l’identità della comare in questione. C’erano quattro possibilità, ciascuna con un diverso grado di pericolosità: livello uno, Annamaria. Malata di shopping, lo squadrava da capo a piedi per controllare che anche il suo colore di capelli non stonasse con l’abbigliamento. Lo costringeva a cicliche sedute di acquisti compulsivi, atti a fargli comprare più roba inutile possibile. Al momento, Maestri possedeva due sombreri, un paio di pantofole provenienti con tutta probabilità dalla collezione privata di Flavio Briatore, degli stivali pitonati, una casetta per uccelli e dei paradenti fluo, perché Anna aveva stabilito fossero degli accessori indispensabili. Non aveva mai capito se lo pensasse davvero o avesse solo dei seri problemi a tener chiuso il portafoglio, oltre che la bocca.
Livello due, Rosita. Di lei, Matteo ricordava svariati episodi dell’infanzia, quando per disgrazia sua madre lo aveva abbandonato – perché era così che si sentiva – a casa sua e quella donna gli aveva messo lo smalto sulle unghie per fare pratica. Adriana aveva riso, inconsapevole del grandissimo trauma che il piccolo Matteo avrebbe potuto riportare e, ancora oggi, lui era convinto che se mai avesse avuto una minuscola parte omosessuale di sé – l’avevano detto in tv, ma era certo che la cosa non lo riguardasse. Lui era un uomo vero! –, quella gli doveva essere stata inculcata da quella pazza ossessionata dalla nail-art.
Livello tre, assolutamente Martina. L’unica parola che gli venisse in mente per descriverla era: cougar. A quarant’anni suonati, lei ancora vestiva come una ventenne e, soprattutto, rincorreva ragazzi che a quel punto potevano essere tranquillamente i suoi figli. Per questo, con lei non si sentiva mai troppo sicuro; dopo il venticinquenne brasiliano Pedro, temeva di essere la prossima preda.
Livello di allarme assoluto numero quattro, Venera. Adriana gli raccontava spesso di come la sua amica avesse in origine pensato di farsi suora. Era una decisione presa all’età di otto anni, poi a tredici, tornando dal catechismo domenicale, aveva trovato per terra vicino ad un cassonetto un calendario pieno di nudi maschili, e lì aveva avuto una visione: no, non la Madonna, ma un modello ariano che gli aveva parlato con i propri addominali. In quel momento, Venera si era resa conto di aver appena ricevuto una vocazione più grande della precedente. Non poteva rinchiudersi in un posto in solitudine, quando tanti poveri uomini con muscoli tonici e pochi vestiti avevano bisogno di lei! Ed ecco che aveva aperto una piccola agenzia di moda a Milano, dove, guarda caso, le sue amiche organizzavano mensili brunch per offrire consulenze gratuite.
Questi quattro soggetti erano la ragione per cui Matteo aveva paura di svegliarsi ogni mattina. Pregava che ci fosse Annamaria con i muffins o Rosita con i biscotti, Martina che gli dava tutte le brioches perché lei era in perenne dieta, ma non Venera, che era solita mangiarsi il regalo destinato a lui ancor prima di varcare la soglia di casa Maestri.
Matteo si fece coraggio ed entrò in salotto, dove, di fronte a sua madre, c’era una schiena sconosciuta.
Oh, no.
Fin troppo conosciuta.
- Che cazzo ci fai qui?
Adriana lo guardò come un’ancora di salvezza dopo anni di pericoli, ma si costrinse comunque a rimproverarlo per il linguaggio. L’ospite però sovrastò la sua voce.
- Matti! – Melissa Cedreo si voltò sorridente verso di lui. – Stavo giusto dicendo a tua madre della nostra imminente uscita!
Dov’erano le amiche di sua madre, quando lui ne aveva bisogno?

 

Cecilia si prese il tempo di passare da casa per farsi una doccia veloce e mettersi qualcosa di più comodo e caldo, prima di raggiungere casa Rastrelli insieme a Lisa. Carlo e Gianluca le accolsero con una smorfia di dolore e panico, la chiazza rossa ancora sul pavimento chiaro e l’odore intenso del vino che riempiva la stanza. E Lisa che scattava una foto.
I tre la guardarono in cagnesco.
- Che c’è? – brontolò lei. – Mica è colpa mia se voi siete talmente idioti da non aver neanche pulito nel frattempo! E poi questa situazione urla ricatto. Rastrelli, la prossima volta che mi rompi le palle, questa fotografia finisce dritta dritta nelle mani di tuo padre…. Sempre ammesso che non scopra il danno prima.
- Lisa, da’ loro un po’ di tregua, – la ammonì Cecilia, ma lei fece spallucce.
- Carlo, a proposito di tuo padre. Non sai se ha qualche amico vaginologo – rise sotto i baffi del rossore che colorò le guance dei due ragazzi, – che faccia al caso mio? Perché vedi, ho un certo prurito…
Si stava molto prodigando affinché le guance di Tinky Winky e Dipsy raggiungessero le tonalità di un bel tramonto serale.
- Prova con un veterinario, Zanin, – rispose piccato Rastrelli.
Gianluca s’intromise subito: la situazione era già abbastanza tragica, non voleva aggiungere del sangue vero al macello già sulle piastrelle.
- Carlo, non mi sembri nella posizione di fare dell’umorismo. E tu, Lisa, se non hai intenzione di aiutare, puoi anche evaporare, grazie.
La ragazza bofonchiò un suscettibili! a denti stretti, avendo cura di farsi udire. Cecilia si sentì stranamente fiera di Lamberti, che una volta tanto si era dimostrato maturo.
- Fingiamo un furto! – esclamò subito dopo, smontando uno ad uno i complimenti che affollavano i pensieri dell’amica.
Lisa si guardò attorno e individuò ciò che stava cercando; si avvicinò a Gianluca e gli mise in mano un panno.
- Comincia a pulire, genio. Qui dentro c’è una puzza nauseabonda. Bleah.
Si coprì il naso con una mano e si appoggiò con il sedere al tavolo in legno massiccio che occupava gran parte della taverna. Il tanfo intenso del vino rovesciato le stava facendo rivoltare nello stomaco gli involtini primavera e il pollo alle mandorle della sera precedente, conditi con il caffè della mattina.
I ragazzi e Cecilia, però, non le stavano prestando attenzione, i primi intenti a salvare il possibile e la seconda ad impedire loro di strizzarsi le spugne in bocca per assaggiare il vino.
- È una bottiglia da cinquecento euro da buttare, almeno lasciaci sentire com’è! – Gianluca provò a perorare la causa, ma Cecilia stroncò sul nascere ogni protesta.
- Vi rendete conto che questo liquido è sul pavimento da ore? Non potete nemmeno accampare la scusa dei tre secondi, perché è tutto talmente antigienico che mi fa venire i brividi.
Carlo avrebbe voluto aggiungere che una volta aveva mangiato uno scarafaggio morto da giorni e non gli era successo niente, ma qualcosa lo dissuase: in qualche modo, non credeva che la cosa avrebbe convinto l’amica a far loro bere il vino da terra. E come mai la Zanin non li aveva ancora presi in giro per questo?
Alzò lo sguardo verso la ragazza e la trovò pallida come un cencio, gli occhi spalancati, non proprio uno dei suoi momenti migliori. Stranamente gli venne da sorridere.
- Se stai per morire, dillo subito. Vorrei fare una foto.
Lisa fece in tempo ad indirizzargli un assai raffinato dito medio, prima di correre verso il piccolo bagno che ricordava ci fosse nello scantinato. Cecilia la raggiunse dopo qualche istante, aiutandola a reggersi i capelli sulla testa, mentre vomitava.
- Meglio? – le chiese, sorridendo comprensiva.
- Vo-voglio andare a casa, – sussurrò l’altra.
- Mi sembra un’ottima idea.
La biondina le cedette la propria giacca e fece sedere Gianluca e Carlo sul divano per istruirli, affinché sistemassero almeno fisicamente il disastro in sua assenza; avrebbe accompagnato l’amica a casa e poi sarebbe tornata a raccogliere i cocci. Tanto era certa che i due si sarebbero messi a giocare alla playstation, non appena lei avesse chiuso la porta di casa.
Si sbagliava: Rastrelli recuperò i joystick da dietro il cuscino ancora prima che lei finisse di parlare.
- Certo che la Zanin poteva pure evitare di venire; è arrivata solo per rompere i coglioni e vomitare, – si lagnò Carlo, ridacchiando.
- Beh, capiscila. – gli rispose Gianluca distrattamente.
- Capire cosa?
- Non l’hai capito? Uffa, Rastrelli, non capisci mai un cazzo. A noi non ha detto niente, ma forse è perché vuole che rimanga un segreto, perciò non diremo nulla. Però il prurito, il ginecologo, il vomito… Lisa è incinta.

 

Paleografia latina. Mh, interessante… qualunque cosa fosse. Sembrava essere interessante e sembrava anche l’ultima possibilità per Matteo Maestri di incontrare Lisa Zanin. Aveva già controllato tutti gli altri corsi opzionali, ma della ragazza nessuna traccia. Perciò, doveva essere paleografia latina. Non riusciva a pensare ad una lezione meno attraente, ma non vedeva soluzioni alternative.
Ripensandoci, dopo quarantacinque minuti di disquisizione sulla scrittura in caratteri latini colta e svariati tentativi di datazione e interpretazione delle principali forme di testimonianze manoscritte in alfabeto latino, qualcosa gli sarebbe venuto in mente. Qualsiasi cosa.
Quasi gli venne da piangere dalla contentezza, quando la professoressa annunciò la tanto agognata pausa. Aveva rintracciato la testa di Lisa nelle prime file dell’aula, decisamente lontano dalla sua posizione, molto più defilata, nei pressi della porta. Aspettò che si alzasse e che fosse nelle sue vicinanze e poi la salutò, fingendo stupore.
- Oh, ciao Lisa. Che coincidenza, anche tu frequenti paleologia?
La ragazza aggrottò la fronte e, naturalmente, non lasciò correre.
- Paleografia, Maestri. Non sapevo l’avessi scelto anche tu, non ti ho mai visto a lezione prima d’ora.
- Mi sto guardando intorno, – la fece breve. – Ti va un caffè?
Lisa annuì, uscì dall’aula e si girò verso l’agognata area macchinette, dando un’occhiata alla fittissima folla che la circondava. Cercò di farsi largo tra la massa eccitata di genitori, amici, nonni, zii, fidanzati, bisnonni centenari, prozii provenienti dall’America e tutto il restante e variegato parentado, accorso a festeggiare la laurea dei propri cari… e ad intasare corridoi, bagni, chiostro, spazi vitali degli altri studenti.
Odiava le sedute di laurea: l’università era gremita, puzzava di fiori e colonie delle nonne, le persone tendevano ad urlare, dimentichi di non essere al circo né tanto meno ad un matrimonio in Africa.
Matteo seguì la scia di Lisa, che come un carro armato stava abbattendo chiunque le fosse d’intralcio. Non riuscì a fermarla e la vide inserire una moneta per entrambi.
- Dovevo sdebitarmi per il gelato, – disse laconica lei, intuendo il disappunto di lui. – Caffè o tè?
- Caffè amaro, grazie. – Le sorrise e soppresse la volontà di ribattere, ormai aveva cominciato a capire qualcosina di Lisa e sapeva che se avesse osato dire qualsiasi cosa a riguardo, si sarebbe innescata una disputa infinita su una sua presunta misoginia e lui non era interessato. Almeno non a quello.
Gli consegnò il suo bicchierino di plastica in mano e selezionò il tasto del tè caldo al limone per lei.
- Lo sapevi che nel 1700, il re Gustavo III di Svezia prese due gemelli da una prigione e li costrinse a bere rispettivamente tre tazze di caffè e tre di tè? Invecchiò meglio il gemello obbligato a bere tè, morì a 83 anni.
A dire il vero no, Matteo non lo sapeva, ma non poteva davvero affermare di essere interessato. Nemmeno a quello.
- Beh, potevi dirmelo prima che bevessi il caffè! – le mostrò il bicchierino vuoto, che ben presto terminò nel cestino, insieme a tutti gli altri.
Lisa si limitò a scrollare le spalle, fissando in cagnesco la folla, che non accennava a fluire verso l’esterno, nonostante fosse una bella giornata e i primi neolaureati stessero già uscendo dalle aule. La Zanin si soffermò a contemplare un padre particolarmente apprensivo che, preso dalla foga del momento, era deciso ad immortalare la figlia – con tanto di corona d’alloro appena lanciatale in testa da un’amica – davanti alla porta del bagno degli uomini. Perché andare in giardino o in chiostro quando puoi avere un molto più che suggestivo sfondo in legno scadente e una piccola insegna con un omino stilizzato, prontamente trasformato in donna da qualche bontempone?
Matteo la vide assorta nei suoi pensieri e decise di agire: era il momento di farle la fatidica domanda. Semplice, chiara, diretta, dritta al punto.
- Allora… tutta sola stamattina?
Ecco, magari meglio partire con un giro più ampio.
- Sì, Cecilia non frequenta questo corso.
- Oh, giusto, Cecilia… – disse distrattamente, ringraziando che fosse stata lei a tirare fuori l’argomento. – Come sta?
- Potrebbe stare meglio, soprattutto se Mannino le girasse più lontano.
Oh Lisa, così gli stava rendendo tutto così facile!
- Hanno litigato?
Matteo si stava sforzando di risultare naturale e disinvolto, celando il suo più che evidente interesse col tentativo di fare una banalissima conversazione.
- Non me ne intendo molto di queste cose, ma credo che quando uno ti spezza il cuore, tu nutra del risentimento nei suoi confronti.
- … spezzato il cuore?
Matteo rimase in fremente attesa della risposta: desiderava che lui l’avesse ferita, che l’avesse fatta soffrire, perché sapeva che Cecilia lo meritava. O forse perché in quel modo lei avrebbe lasciato Mannino.
- L’ha tradita, – gli spiegò Lisa. – In più di un’occasione. E lei non l’ha perdonato, ovviamente, anche se finge di averlo fatto. Ma Niccolò non è uno abituato ad arrendersi, perciò ora le sta addosso come un koala. Ceci non sa più come dirgli di tenere manacce e boccaccia al loro posto. Questa storia è durata anche troppo.
Maestri si prese un attimo per riflettere; gli sfuggiva ancora qualcosa.
- Però l’altra sera al Firefly è stata lei a chiedergli un passaggio…
- Ha parlato di voler far ingelosire un tizio del corso di Storia greca… a quanto pare avete qualcosa in comune: un amante segreto.
Il ragazzo sorrise debolmente.
- Già. Quindi tra lei e Mannino…?
Lisa bevve l’ultimo sorso di tè dal bicchiere di plastica, che finì coll’essere accartocciato dalla sua mano, nello stesso modo in cui avrebbe fatto con la testa di un certo Niccolò.
- Credo che stavolta la questione sia chiusa definitivamente. Torno in aula.
Il ragazzo la guardò andarsene, spintonando un gruppo di amici eccitati attorno ad una neolaureata trasformata in mucca della Milka. Era un po’ stordito, non sapeva cosa dire e soprattutto cosa fare: Cecilia si era sbarazzata di Niccolò, il che significava che ora era single. Ma lui non poteva dimenticare ciò che era successo, il suo orgoglio si rifiutava categoricamente di metterci una pietra sopra e fingere che di non sentirsi ancora umiliato.
E la lezione di paleoqualcosa non l’avrebbe aiutato a fare chiarezza: capiva del latino quanto ne capiva di donne.
Nulla.

 

La taverna di Rastrelli odorava di ammoniaca e di un fragile retrogusto di pesca nocchiera. Nonostante le numerose ore passate a strofinare il pavimento e a spruzzare deodoranti per ambienti nell’aria, quello scantinato puzzava di Bolgheri Sassicaia del 1997. Ormai, i tre ragazzi avevano esaurito le idee per rimediare al danno; Cecilia – E se confessassi a tuo padre? – era stata tacciata di essere troppo responsabile. Gianluca – E se comprassimo solo la bottiglia e la riempissimo di Tavernello? – era stato invitato a chiudere il becco, possibilmente per sempre. Carlo – Fuggiamo all’estero! – si era premurato di risultare inutile come di consueto.
- Facciamo finta di nulla, okay? Fingeremo di non aver mai visto quel vino – propose infine Rastrelli, dopo estenuanti ore di trattative.
- Tuo padre ha milioni di bottiglie, vedrai che neanche se ne accorgerà! – gli diede corda Lamberti.
Cecilia si rifiutò di rispondere. Aveva la sensazione di aver speso gli ultimi quattro giorni a parlare con un muro, implorandoli di fare le persone mature per una volta e di prendersi le loro responsabilità.
Loro le avevano risposto con una pernacchia.
- Bene, visto che avete raggiunto una così brillante conclusione, io me ne andrei, – li informò.
Sul viso di Carlo comparve un’espressione dispiaciuta.
- No, non puoi! Dobbiamo fare le prove, prima! – la guardò con degli occhioni da cucciolo bastonato. – Tu fai mio padre, va bene? Gianlu fa Gianlu e io… io faccio io.
Lei li osservò, sperando che fosse uno scherzo, ma naturalmente, quando si trattava di quei due, sulle idiozie non scherzavano mai.
- Ti prego… – la implorò Lamberti, in ginocchio e con le mani giunte.
Cecilia riappoggiò sul divano la borsa che aveva appena raccolto da terra, in previsione di andarsene. Si sedette a sua volta sul sofà, conscia di aver ceduto alle stupide pretese dei suoi amici.
- Buongiorno, figlioli, – esclamò, cercando di imitare la voce del signor Rastrelli.
- Mio padre non dice ‘figlioli’… – brontolò Carlo.
- Sta’ zitto e recita.


Al primo piano del polo Zanotto di via San Francesco, Matteo Maestri era rimasto apparentemente solo, in mezzo a centinaia di sconosciuti. Mancavano ancora cinque minuti alla fine della pausa di metà lezione, e lui non aveva ancora deciso se tornare in aula per altri quarantacinque minuti di tortura latina, o per raccogliere le proprie cose e andare a casa a dormire.
Non appena avvertì una morsa arpionargli un braccio, capì di non avere più scelta. L’anello grosso quanto una palla da golf che svettava sulla mano che lo stava stringendo apparteneva solo ad una persona, la stessa che aveva sbattuto a fatica fuori casa quella stessa mattina: Melissa Cedreo.
- Ciao, tesoro! – gli stampò un bacio sulla guancia, lasciandogliela appiccicaticcia di un nauseante lucidalabbra alla fragola. Matteo si ripulì in fretta con il dorso della mano e si liberò dalla presa. – Allora, quando mi porti a cena?
- Melissa, ti ho già detto di non insistere. Smettila, non costringermi a diventare maleducato.
Sì, aveva deciso. Paleografia latina. La cultura era l’unico mezzo a sua disposizione per combattere la sorella più piccola delle Cedreo. Chissà, magari anche la materializzazione a sorpresa davanti a loro di Filippo Franzoni poteva rivelarsi utile allo scopo.
- Oh, guarda guarda chi c’è! – ridacchiò il nuovo arrivato, in un impeccabile spezzato, completato da dei guanti che lo rendevano un perfetto gentiluomo del 1800.
Melissa improvvisamente si fece mesta e composta.
- Franzoni, che diavolo ci fa qui? – Maestri si strofinò gli occhi con le dita, rimpiangendo le amiche di sua madre: almeno loro gli portavano i dolci, prima di rovinargli la giornata!
- A quanto pare una vecchia prozia di cui non conoscevamo nemmeno l’esistenza si laurea oggi. – Filippo si sistemò meglio i gemelli su entrambi i polsi. – Meglio coltivare le parentele, non credi? Così quando morirà, si ricorderà del caro nipotino che è venuto a sentirla discutere la tesi.
- Il tuo attaccamento alla famiglia è lodevole, – lo canzonò Matteo. – Ora scusatemi, ho una lezione.
- Fermo dove sei, – lo bloccò l’altro, – devo parlare con entrambi.
- Non ho alcuna intenzione di parlare con te.
Franzoni fissò con disgusto il vestiario di alcuni passanti: 100% poliestere, di sicuro. La cosa lo scosse fin nei boxer di cachemire.
Invece lo farai, - ribatté, finita la radiografia, – visto che ancora mi sfugge il motivo per cui hai smesso di farlo. Ti ho lasciato del tempo per sbollire la rabbia e anche perché mamma dice che è poco aristocratico essere il primo a farsi sentire dopo un litigio. Melissa, – si rivolse alla ragazza, insolitamente zitta, – poi toccherà a te.
- M-m-me? – tartagliò lei, con un risolino isterico. – Per quale assurdo motivo cerchi me? Cosa avremmo da dirci io e te, eh? Niente!
Franzoni raccolse le idee per qualche istante, cercando di ricordare le parole esatte da pronunciare a Melissa.
- Ho lottato contro la mia volontà, le aspettative della mia famiglia, l’inferiorità delle tue origini, il mio rango e il patrimonio, tutte cose che voglio dimenticare e chiederti di mettere fine alla mia agonia…
- Allora sparati, Franzoni, – gli rispose lapidaria.
Dannazione, era convinto che citare la dichiarazione di Orgoglio e pregiudizio avrebbe steso la sua preda. E invece era la sua preda a volerlo steso. Morto, però.
D’accordo, Filippo, disse a se stesso, forse è meglio passare a qualcosa di più pragmatico.
- Perché non mi hai chiamato dopo la festa a casa mia? – piagnucolò senza ritegno.
- Avrei dovuto? – urlò lei, scansandolo con una mano. – Ora scusaci, ma io e Matti abbiamo un appuntamento.
Purtroppo per lei, Maestri non era dell’idea di portarla da alcuna parte, ma era parecchio curioso di sapere cosa ci fosse stato di preciso tra Franzoni e la Cedreo.
- Che è successo a casa di Fil? – domandò sospettoso.
- Melissa ed io ci siamo baciati in bagno.
Maestri strabuzzò gli occhi, spalancò la bocca e scoppiò a ridere. La stessa reazione non si poté leggere sul viso di Gisella Ferris, sopraggiunta con la borsa di Melissa, insieme ad un possibile mancamento.
- Cosa? – pronunciò con un fil di voce.
- Quindi eravate voi due!
Matteo li indicò senza smettere di ridacchiare e cominciò a percorrere un filone di ragionamento chiaro solo a se stesso: dunque, ora era a conoscenza di tre membri su quattro del piccolo party privato avvenuto nel bagno di Villa Franzoni. L’unica incognita era il tizio che si era dato da fare con Lisa, il responsabile del prurito intimo che tanto lo aveva fatto arrossire durante l’appuntamento.
- Se tu hai baciato Franzoni, – rifletté a voce alta Gisella, – allora Matti è mio.
E che cavolo! Si era fatta remore e aveva addirittura accantonato – temporaneamente – il proprio diritto sul ragazzo in questione, ma una pomiciata in toilette ribaltava le carte in tavola!
- Scordatelo, – Melissa le si avvicinò con intenzioni bellicose, – lui mi appartiene!
- Prova a ripeterlo, gallina!
Qualcuno avrebbe potuto ritenersi onorato di scatenare tanto fervore in due giovani donzelle, ma ciò che Maestri provava in quel momento di fronte a quella scena era uno strana sensazione di paura, perché entrambe possedevano un certo grado di follia omicida negli occhi e ciò era sufficiente a renderlo inquieto. Perciò, spinto da puro spirito di autoconservazione e amore per il prossimo, afferrò per un braccio Franzoni e lo portò con sé dietro l’angolo, al riparo da capelli tirati e appellativi degni di Jersey Shore.
- Questo significa che siamo di nuovo amici? – gli chiese l’altro, sistemandosi il punto della giacca in cui Matteo l’aveva toccato, sgualcendo la preziosa stoffa.
L’altro ignorò la sua domanda, arrivando dritto al punto che più gli premeva.
- Alla festa, hai visto che sono stato quasi tutto il tempo con una ragazza.
Franzoni sbuffò, contrariato all’idea di spendere tempo, fiato e parole per discutere di una così insignificante persona.
- Sì, la Molinari.
- Perché non mi hai detto che stava con Mannino? – sbottò Matteo.
- Non credevo t’interessasse, – si difese Filippo, intuendo dove l’altro volesse arrivare, ma continuando a sperare che fosse tutto un gigantesco malinteso.
- Lei m’interessa! – si era sforzato di mantenere la calma e un tono di voce basso, ma di fronte a quell’affermazione di Franzoni, non era riuscito a contenersi.
- Che pessimo gusto, Matteo, – commentò l’amico. – Ad ogni modo, dal momento che ci tieni, ti dirò quello che so, che ad essere onesti è molto poco. Si sono messi insieme al quarto anno di liceo, credo, hanno fatto coppia fissa per un po’, baci e abbracci, sai, quelle cose da plebei, fino a quando lui non ha preso a frequentare corpi altrui…
Filippo era molto più che poco informato, si nutriva di gossip come le classiche vecchie vicine di casa impiccione e pettegole. Era necessario, per tenere sotto controllo il popolo, per carpire in tempo l’arrivo di un’eventuale e insopportabile rivoluzione della plebaglia. Non si era mai troppo all’erta con i poveri.
- Sì, d’accordo, basta… – l’interruppe Matteo, pentendosene subito, – no, aspetta, lui l’ha tradita quattro anni fa?
- Lo sapevano tutti al Maffei. Beh, tutti tranne lei.
Per la prima volta, Maestri si sentì completamente dispiaciuto per Cecilia.
- E lei ha continuato a stare con lui, nonostante lui si sia sempre fatto i suoi porci comodi?
- Non sono esattamente il fan numero uno della Molinari, ma di due cose sono convinto: la prima è che sia una borghese della peggior specie, i nuovi arricchiti; l’altra è che sia abbastanza intelligente da non farsi mettere i piedi in testa da un imbecille come Mannino.
Dispiaciuto e felice.
- Che stai cercando di dirmi, esattamente?
- Dopo la scoperta del tradimento e soprattutto dopo aver saputo che l’intera scuola ne era al corrente, ha strisciato lungo i muri come un fantasma per un po’ e un giorno è tornata quella di sempre.
Dispiaciuto, felice e speranzoso.
- Quindi non stanno insieme?
- Non ne ho la certezza assoluta, ma direi proprio di no.
Dispiaciuto, felice, speranzoso e felice. L’aveva già detto?

 

Il momento di serenità e spiegazioni esclusivamente maschile finì nel momento stesso in cui Melissa e Gisella si resero conto che il loro amato ragazzo dei sogni le aveva abbandonate all’area macchinette, sole e spettinate in mezzo a sconosciuti che le stavano fissando come fossero state animali da circo. C’impiegarono diversi minuti, prima di individuarlo, abbattere la folla circostante e raggiungerlo, cercando di ostacolarsi a vicenda.
- Matti, scegli me! – gli gridò la Ferris sull’orlo delle lacrime.
Matteo, in risposta, le rifilò un’occhiata gelida. Non era necessario possedere una mente eccelsa per comprendere da chi fosse partito il gigantesco malinteso che aveva coinvolto Cecilia, Mannino e lui stesso; era sufficiente una buona memoria. Era stata Gisella a mettere in piedi tutta quella sceneggiata e lui era stato così cieco, stupido e ingenuo da crederle.
- Girami a largo per almeno un anno.
- A-ha, te l’avevo detto che avrebbe scelto me! – gioì Melissa.
- Che ho fatto? – finse di piangere l’altra.
Matteo le concesse l’ultima opportunità per essere sincera, ma Gisella era troppo presa dall’inscenare un piagnisteo memorabile che mancò l’unica chance di uscire da quella situazione perlomeno in modo dignitoso.
- Cecilia sta con Mannino? – le chiese piano, affinché il criceto eremita nel suo cervello potesse elaborare bene le parole.
- Sì! – tentò disperata Gisella.
- No!
La voce di una donna adulta svettò su quelle degli altri, facendo voltare i visi sbigottiti degli astanti nella sua direzione. Era una signora bassa e cicciottella, con un imponente medaglione dalla fantasia floreale al collo. Solo uno tra loro la conosceva. Più o meno.
- Prozia Fatima!
Filippo le si avvicinò con un sorriso smagliante e le braccia teatralmente aperte. Non era certo che fosse lei – e chi cavolo l’aveva mai vista? –, ma il libricino rilegato che fuoriusciva dalla borsa di maglia aveva tutto l’aspetto di una tesi. Quante vecchie potevano laurearsi in quella giornata?
La donna gli restituì un saluto tiepido, con due pacche sulle spalle.
- E lei cosa ne sa?
Lo stridore nella voce di Gisella tradì un’eccessiva dose di apprensione, che non passò inosservata.
- Ne so più di te, signorina! – la riprese Fatima. – Conosco Cecilia e so che è innamorata di un ragazzo. E non sto parlando di Niccolò.
Melissa comprese tutto prima degli altri. Doveva essere per via di quell’acutezza che l’aveva sempre distinta.
- OMG! – gracchiò. – La Molinari è innamorata di Franzoni! Posso twittarlo?
Matteo e gli altri guardarono prima lei, poi Fatima, aspettando di ricevere un’illuminazione su quel groviglio nebuloso creatosi alla festa in maschera.
- Flora, Fauna e Serenella, aiutatemi voi! – implorò la donna, rivolta la cielo. O, meglio, al soffitto. – No, tesoro, non si tratta di Filippo.
Okay, non è nemmeno Franzoni, si ripeté Maestri, allora chi cavolo è?
Per un attimo smise di respirare: merda, il tizio del corso di Storia greca. Ecco chi era.
Si sentiva talmente demoralizzato che non si accorse neppure che Lisa stava ringhiando in mezzo al corridoio, chiedendo silenzio.
- Ehi, volete stare zitti? C’è chi vorrebbe fare lezione qui! – urlò arrabbiata, ma subito si distese, riconoscendo la proprietaria di Sale in zucca. – Fatima?
Un campanello d’allarme risuonò nella mente di Filippo Franzoni. Arrampicatrice sociale, cacciatrice di dote ed eredità, plebea all’attacco della vecchia! Non valeva, lui era arrivato prima!
- Conosci la prozia? – si affrettò a chiedere alla ragazza, senza aspettare però che rispondesse. – Ti prego, cara zietta, di considerare il fatto che io sono venuto per te, pur non conoscendoti. Ogni tipo di ricompensa sarà accetta.
Ma Fatima ormai stava già accorrendo verso la Zanin per abbracciarla con i suoi soliti modi di fare materni, che naturalmente stavano mettendo a dura prova quel ghiacciolo di Lisa.
- Oh, raggio di sole, come stai? – le chiese.
Matteo tentò di non essere scortese, ma aveva esaurito ogni scorta di pazienza quella mattina stessa a casa sua, quando aveva cacciato Melissa dalla porta.
- S-scusate se interrompo questa rimpatriata, – disse con dolcezza, – ma stavamo cercando di capire di chi cavolo è innamorata Cecilia.
Doveva saperlo. Che fosse il nerd sfigato e brufoloso – era ovvio che il tizio in questione fosse brutto e pure antipatico – di Storia greca o il cantante dei Duran Duran, lo doveva sapere.
- Perché parlate di Ce’? – s’informò Lisa.
- Tu sei uscito con la stracciona e non vuoi uscire con me? – gracchiò Melissa al culmine dell’indignazione.
- Io voglio uscire solo con Cecilia! – urlò Matteo esasperato.
Lo gridò talmente forte che l’intero corridoio si voltò verso il gruppetto, in assoluto silenzio. Lui arrossì come mai in vita sua, mentre i suoi amici reagivano con mille diverse espressioni facciali e verbali. Solo Fatima sfoderò un largo sorriso gongolante.
- Bene, Matteo, – gli disse, strizzandogli le guance. – E allora credo dovresti dirglielo, tesoro.
- E il tizio di Storia greca? – chiese sconsolato.
- Conosci mica un certo Pino? Perché avete la stessa testa di legn… dura, testa dura.

 

Meno di un minuto dopo, Matteo Maestri veniva spedito quasi a calci nel sedere sul ballatoio delle scale della facoltà di Lettere. Fatima gli aveva messo in mano la sua borsa con tutti i libri e la giacca lasciate nell’aula di Paleografia, Lisa gli aveva scritto il numero di Cecilia sul braccio – perché non avevano tempo di cercare il cellulare – e Franzoni si era limitato al nobile gesto di tenergli aperta la porta mentre veniva spronato con cori da stadio a correre.
E lui stava correndo alla macchina, per gettare i quaderni alla rinfusa sui sedili posteriori, per trovare il maledetto telefonino nelle tasche – perché di nuovo non aveva il tempo per cercarlo –, per chiamarla e parlare con lei. Ovviamente non ricordava neanche dove fossero le chiavi dell’auto. Appoggiò tutto sul tettuccio, i libri caddero insieme alle penne, ma non gliene fregava nulla in quel momento. Frugò dappertutto, finché non le scovò sul fondo della tracolla, incastrate in quello strappo della fodera che sua madre avrebbe voluto riparare da tempo, ma che lui aveva sempre rifiutato, sbagliando. Adriana aveva sempre ragione, dannazione. Tirò forte, fino a quando non senti la stoffa cedere ulteriormente e fu libero di trarre le chiavi da quel disordine di fogli e block notes spiegazzati. Raccolse i libri e li gettò in macchina, già cominciando a cercare il cellulare. Grazie al cielo, era nella tasca dei pantaloni. Lesse frenetico il numero che Lisa gli aveva scritto sull’avambraccio e lo digitò veloce.
Rispondi, rispondi, rispondi.
La voce gentile di una signorina gli annunciò che il cliente chiamato non è al momento raggiungibile. Lui riattaccò e ci provò di nuovo, ma rispondeva solo la segreteria. Al decimo tentativo fallito, Matteo mollò provvisoriamente la spugna. Non avrebbe potuto reggere un’altra volta la tizia della compagnia telefonica che lo informava che Cecilia non era disponibile. Perché ora, mia cara signorina, Cecilia era disponibile; finalmente lontana da Mannino. Ma anche da ogni campo di ricezione.

 

- Proviamo così. Ehm… vedi papà, la verità è che quella bottiglia non è mai esistita. È sempre stata solo ed unicamente nella tua mente.
Cecilia ascoltò scettica l’ultima trovata di Rastrelli e si decise di aver sopportato anche troppo. Si era ripromessa di rimanere solo mezzora, ma i Teletubbies l’avevano convinta a restare per le due ore seguenti e ciò che avevano concluso era lo zero assoluto.
- Bene, dopo questa io me ne vado, – esclamò. – Devo passare in università e mi avete già fatto perdere troppo tempo.
Gianluca si alzò dal divano ed espresse con dovizia di particolari cosa sarebbe andato a fare in bagno, senza che i presenti peraltro fossero minimamente interessati. Cecilia lo guardò procedere con la sua andatura strascicata e si domandò se mai sarebbe cresciuto e, soprattutto, se mai avrebbe incontrato qualche ragazza votata al martirio così intrepida da prenderselo. La risposta era no: già la signora Lamberti era una santa, lui non poteva essere così fortunato da averne due nella vita.
- Aspetta, Ce’. – Carlo la bloccò sulla porta. – Ma Lisa sta bene?
Lei si girò e si chiese se per l’ennesima volta la volesse costringere a stare con loro.
- Penso di sì, perché?
Rastrelli si strinse nella spalle, facendo il vago. Ci mancava solo che ora facesse il misterioso!
- No, curiosità.
- Dimmi la verità. – Lo guardò sospettosa.
- Gianlu mi ha detto una cosa…
Cominciò a fissarsi con insistenza le punte dei piedi e a giocherellare con le dita delle mani.
- Cosa? – lo incalzò Cecilia.
- Non posso dirtela, – si affrettò ad aggiungere.
- E allora perché mi hai detto che ti ha detto una cosa, se non puoi dirmela? – Il ragazzo fece una faccia confusa. – Lascia perdere, Carlo. Cercate di non rompere nient’altro, e se lo fate, non chiamate me!

 

Quando finalmente mise il naso fuori da quel tugurio dall’odore di vino, Cecilia dovette attendere qualche istante, prima che i suoi occhi si abituassero alle luce del sole. Era una splendida giornata, ventosa ma tiepida. C’erano migliaia di foglie sui marciapiedi, ai lati delle strade, nei parchi. Prese l’autobus, percorse qualche chilometro e poi cambiò idea, scese e decise di raggiungere l’università a piedi, con il fedele i-pod già nelle orecchie. Solo quando mise la mano in tasca, si ricordò del cellulare e lo controllò. Un messaggio. La segreteria la informava che un numero non presente in rubrica aveva cercato di contattarla, mentre lei era nella taverna di Rastrelli. Le era capitato più volte che sua madre non avesse credito e che la chiamasse col numero del fidanzato di turno, perciò non si stupì e premette il tasto di richiamata senza pensarci.
Udì una voce maschile dopo nemmeno due squilli.
- Cecilia?
La ragazza rimase interdetta; di solito, era Marina stessa a rispondere o, molto più di rado, l’uomo con cui si intratteneva, che puntualmente dimenticava il suo nome e le parlava con tono scocciato. Stavolta, invece, il tono era dolce. E il nome giusto.
- Sì? – disse cauta.
- Sono Matteo. Maestri.
D’istinto si fermò sul marciapiede su cui stava camminando. Nella sua mente iniziarono a profilarsi diversi scenari catastrofici per cui Matteo Maestri si fosse abbassato a chiamare lei: loro erano gli unici rimasti sulla Terra – ma era piuttosto sicura di essere circondata da altra gente –, a Lisa era successo qualcosa – ma le avrebbe telefonato qualcuno come i signori Zanin, Gianluca o Carlo –, oppure stava soltanto sognando – ma le pareva di essere del tutto sveglia.
- Sì… – l’unico monosillabo in grado di non compromettere la situazione.
- Possiamo vederci? Magari… ora?
No, era ufficiale: era un sogno che potenzialmente poteva trasformarsi in un incubo, a seconda di ciò che Maestri le avrebbe detto. Melissa, doveva c’entrare qualcosa Melissa. Ecco, aveva capito: la stava prendendo in giro. Quell’arpia della Cedreo aveva ragione quando le aveva spiattellato in faccia che sarebbe uscita con lui, e ora entrambi stavano ridendo di lei.
- C-certo. Dove?
Brava Cecilia, via il dente, via il dolore.
- Io sono appena uscito dall’università. Ho parcheggiato sul Lungadige Porta Vittoria. Ci vediamo lì.
- A tra poco, allora.
Pochi minuti e sarebbe giunta a destinazione. La tentazione di prendere un giro più lungo e arrivare dopo era forte, ma non le avrebbe comunque permesso di evitare la conversazione. Un incidente stradale però… Si diede della scema e cominciò a camminare più velocemente. Chi cavolo pensava di essere quel pallone gonfiato di Matteo Maestri per prendersi gioco di lei?
Si scorsero in contemporanea; lui era appoggiato alla sua macchina, dall’altro lato della strada, giocherellava nervosamente con le chiavi dell’auto e si guardava intorno come se stesse facendo da palo ad una rapina. D’altronde, lei non aveva specificato dove si trovava e lui non poteva sapere da che direzione sarebbe arrivata.
Lei aspettò che attraversasse la strada, dopo infiniti secondi in cui nessun automobilista sembrava intenzionato a fermarsi e farlo passare, nonostante fosse sulle strisce pedonali. Cecilia gli diede le spalle, si rivolse verso l’Adige, con quell’acqua torbida che però su di lei aveva sempre avuto un effetto rassicurante.
Maestri si mise accanto a lei, senza appoggiarsi al muretto, in attesa che si girasse. Quando lei lo fece, lui si accorse che il vento le stava scompigliando i capelli, glieli faceva incastrare nelle ciglia e tra le labbra. Matteo stette in silenzio; erano stati entrambi vittime di una rete di bugie, omissioni, incomprensioni e lui l’aveva allontanata, accusata ingiustamente di un doppiogioco che non era mai esistito se non nella testa bacata di Gisella Ferris e Niccolò Mannino. E ora che ce l’aveva lì davanti non sapeva cosa dirle e come. Avrebbe voluto soltanto baciarla, ma lei aveva bisogno di spiegazioni, gliele doveva.
- Ehi, – biascicò, grattandosi la nuca.
- Ciao. – Cecilia mantenne le distanze e lui esitò. – Allora?
Non intendeva essere rude o maleducata, ma se proprio dovevano sbeffeggiarla, che almeno lo facessero in modo rapido, perché non sarebbe stato di certo indolore.
- Allora… – iniziò lui.
- Sai una cosa? – lo interruppe aggressiva. – Risparmia il fiato, lo so già.
Non poteva fingere, non voleva. Non era abituata a nascondersi dietro un dito, quello era il modo di fare di Gisella e Melissa, non il suo. Questa storia si era protratta anche troppo e lei era immensamente stufa di sottostare ai loro stupidi giochetti.
- Lo sai già?
Matteo la guardò stralunato. Era evidente che qualcuno tra Franzoni, la Ferris, la Cedreo e Lisa le avesse raccontato quanto accaduto nel corridoio poco prima.
- Sì, me l’ha detto Melissa. – Melissa? Matteo avrebbe puntato tutto su Lisa. – So che uscirete insieme.
- Cosa? No! – La ragazza rimase con la bocca socchiusa per qualche istante. Se Maestri non doveva comunicarle quello, per quale altro motivo l’aveva cercata? – Cecilia, ascolta, ho sempre saputo che eri tu la dama vestita di blu della festa di Franzoni. Non sapevo il tuo nome, credevo ti chiamassi Lisa, ma questa è un’altra storia. Il giorno dopo, Gisella mi ha detto che eri fidanzata con Niccolò e che mi avevi solo preso in giro…
Lei restò ad ascoltarlo in silenzio, finché tutta la verità non venne a galla. Non riuscì a trattenersi solo dopo l’accusa infamante di aver giocato con i suoi sentimenti.
- Ma non è vero! – si difese.
- Ora lo so, però fino ad oggi, tutto mi aveva fatto credere il contrario, – le spiegò Matteo. – il vostro passato insieme e la sera al Firefly, tra Mannino che compare a sorpresa, tu che mi segui in bagno e poi te ne vai con lui…
- È per questo che hai chiesto alla mia migliore amica di uscire? – gli chiese brusca.
C’era un pizzico di rimprovero nel modo in cui Cecilia aveva puntualizzato sul termine migliore amica, ma Matteo era preparato.
- Sì. Sono stato avventato, stupido ed infantile, ne sono consapevole. Ero arrabbiato, umiliato e volevo vendicarmi. Se ti consola, sappi che non mi ha fatto sentire meglio e l’uscita con Lisa è stata una delle cose più imbarazzanti della storia. – Sorrise e non si lasciò sfuggire quello che le labbra di Cecilia avevano solo accennato. – Hai detto qualcosa?
Lei sollevò lo sguardo e ripeté ad alta voce.
- Ho detto che te lo meritavi. Però ti capisco, forse l’avrei fatto anche io, nei tuoi panni. Magari siamo partiti col piede sbagliato.
- Da quel che ricordo, eravamo partiti benissimo, io e te, – la corresse. – Sono gli altri che ci hanno messo i bastoni tra le ruote. Sai una cosa? Aspettami qui. E chiudi gli occhi!
- Cosa? – domandò lei sorpresa.
- Chiudi gli occhi! – le disse di nuovo, aspettando che lei obbedisse. – Così, brava.
Cecilia non poteva vedere nulla, ma aveva sentito chiaramente che quell’ultima frase era venuta da vicino, molto vicino; gliel’aveva quasi soffiata sulle labbra. Salvo poi sparire.
Rimase per un paio di minuti così, cieca, immaginando le facce stupite dei passanti e fregandosene completamente. Ebbe un po’ di paura quando due braccia la presero da sotto le ascelle e la issarono sopra il muretto; stava per aprire gli occhi, ma la mano di Maestri glieli coprì e lei riuscì solo ad intravedere il suo sorriso.
- Sta’ buona, dai. – la rimproverò. – Prometto di non buttarti giù.
Lei rise e decise di fidarsi, nonostante non fosse per nulla rassicurata dal fatto che lui le stesse allentando i lacci di una scarpa da tennis, prima di toglierla. Le fece indossare qualcos’altro, duro e scomodo.
Cecilia aprì di scatto gli occhi, quando realizzò cosa fosse.
- È veramente lo stivaletto più brutto che io abbia mai visto. – commentò Matteo, ridendo.
- Concordo, sono terribili! – gli rispose, osservando ciò che la Zanin l’aveva costretta ad indossare come calzature alla festa di Franzoni. – Però me li ha regalati Lisa, non posso buttarli…
- Non ti ho mai detto di buttarli, – fece una pausa e si sforzò di non arrossire come un cretino, – spero solo che indosserai dell’altro, quando ti chiederò di uscire.
Cecilia avrebbe potuto cogliere il significato dietro quelle parole, ma dopo il trattamento scostante e a tratti sgarbato ricevuto da parte di Maestri, non aveva alcuna intenzione di facilitargli le cose.
- Quando mi chiederai di uscire, ci penserò, – si limitò a dire, spostando lo sguardo altrove.
- Te lo sto chiedendo ora.
- Cosa? – fece la finta tonta.
Matteo capì che lei non avrebbe accettato a meno di una richiesta esplicita, cosa che lui non aveva mai fatto. Era sempre stato circondato da ragazze come Melissa e Gisella, che si preoccupavano di fargli comprendere le proprie intenzioni, a costo di sembrare petulanti e insistenti. Non era nato per fare il corteggiatore, ma in caso di necessità...
- Esci con me. Per favore, – le disse.
Non era il massimo del romanticismo usare un imperativo, ma Cecilia stabilì che si sarebbe accontentata, totalmente conquistata da quel dolcissimo per favore imbarazzato appena sussurrato.
Si alzò in piedi, gli afferrò due lembi della felpa e li tirò verso di sé. Matteo si lasciò trascinare contro il corpo di Cecilia e non aspettò neanche un secondo in più per appoggiare la bocca sulla sua, dopo settimane passate a provare a ricordarla, poi a maledirla, a dimenticarla. Strinse la ragazza a sé, mentre le dischiudeva gentilmente le labbra, mordicchiandole perché lei concedesse libero accesso alla sua lingua. Cecilia non si fece pregare, felice come non era da troppo tempo. Annullarono il mondo attorno a loro per brevissimi istanti o lunghi minuti, nessuno dei due se ne stava davvero preoccupando.
Si staccarono soltanto quando un gridolino di Cecilia la fece sussultare. Matteo, infatti, le aveva sollevato giacca e maglione sulla schiena, per poi spingerla contro il muretto. La pietra era troppo fredda per non far sobbalzare il corpo accaldato di lei.
Risero entrambi, imbarazzati e divertiti.
- Devo proprio passare in facoltà, – si ricordò lei, poggiando la fronte sul mento di Maestri.
- Mmm… – brontolò lui. – Io ho allenamento, – controllò l’orologio, – cinque minuti fa.
Barcellandi l’avrebbe ammazzato. Pazienza.
- Dobbiamo andare, – gli sussurrò lei.
- Lo so. Ma, a proposito di calcio, avrei una richiesta da farti, visto e considerato che reputo il tuo assalto nei miei confronti un sì…
- Reputi bene, Maestri. – gli disse, sistemandogli la giacca. – Spara.

 

Non era mai stata al centro sportivo. All’apparenza sembrava il tipico luogo maschile: non troppo pulito, disordinato, pieno di testosterone. Matteo poteva averla convinta ad andare a vederlo giocare una partita, ma non sarebbe riuscito a farle mettere piede nello spogliatoio.
Le tribune erano abbastanza piene di genitori esaltati, qualche sporadica fidanzata annoiata attaccata al cellulare e amici pronti a prendere a male parole gli avversari anche gratuitamente. Cecilia si sedette in un angolo da sola, con un sorriso idiota stampato in faccia; il calcio non le dispiaceva, il tempo era clemente e, nonostante avesse trovato la proposta un po’ bizzarra per essere un primo appuntamento, in fondo non le importava più di tanto. Anzi, perlomeno era un’idea originale. E avere un pretesto per fissare un’ora e mezza Matteo era pura genialità.
Purtroppo, le luci del campo facevano pena e Cecilia non era sempre in grado di individuarlo, soprattutto quando erano tutti ammassati dietro al pallone, ma nulla le avrebbe rovinato la serata, nemmeno lo scadente impianto d’illuminazione.
Alla fine del primo tempo, la squadra di casa era sotto di due gol, però Maestri non sembrava particolarmente dispiaciuto. Al contrario, continuava a sbirciare verso un angolino della tribuna e a sorridere, benché il mister Barcellandi lo avesse invitato più volte – e con assai poca gentilezza – a guardare la stramaledetta porta.
- Maestri, che cazzo stai fissando, le farfalle?
Lui ci provava a concentrarsi su quei tre pali e la rete, ma il pensiero che ci fossero due occhi azzurri – quegli occhi azzurri – sugli spalti era sufficiente per distrarlo.
Durante l’intervallo, puntuale come un orologio svizzero, arrivò la strigliata di entrambi i coach. Amato fu più pacato, invitò tutti a tirare fuori l’orgoglio e a cercare di combinare qualcosa di positivo, un passo alla volta. Barcellandi li prese ad uno ad uno e quasi li appese al muro, nel tentativo di spronarli, pena un giro della vergogna nudi per il campo. Nessuno sapeva con certezza se avrebbe mai avuto il coraggio di farlo davvero, oltre che prometterlo, ma non vi era anima viva che ci tenesse a sfidare la sorte.
C’era anche Niccolò Mannino, seduto sulla panca, in disparte. Si era lamentato di avvertire ancora molto dolore, dopo il colpo subito in allenamento la settimana precedente. Naturalmente era una scusa per non dover alzare il fondoschiena, ancor più dal momento che stavano perdendo. Questo gli avrebbe dato l’occasione di poter dire che la squadra senza di lui non valeva nulla. Se ne sarebbe andato volentieri a casa, ma Amato lo teneva sott’occhio affinché imparasse i meccanismi della nuova squadra. Inutile dire che lui avrebbe preferito oliare i meccanismi della vecchia e cara Orpella.
Nella ripresa, le cose migliorarono lievemente: Matteo cercò d’impegnarsi di più e così fecero anche gli altri – le minacce di Barcellandi davano sempre i loro frutti – e in breve riuscirono a recuperare lo svantaggio. La partita finì con un pareggio.
Maestri entrò nello spogliatoio prima dei compagni. Aveva bisogno di una doccia subito, non aveva tempo per gli aggiornamenti settimanali delle misurazioni genitali.
Si lavò, vestì e pettinò come meglio poté e in fretta, ma non abbastanza da precedere Niccolò Mannino e il suo radar. Clara Orpella poteva tranquillamente aspettare, se c’era la possibilità di ritornare tra le gambe di Cecilia Molinari.
- Oh, pesciolino, che sorpresa! – le disse, avvicinandosi.
Lei alzò lo sguardo annoiata. Stava cominciando a detestare quel nomignolo, oltre colui che continuava a ricordarglielo.
- Ciao, Niccolò, – rispose per mera cortesia.
Ma lui aveva tutto un suo modo d’interpretare le cose: Cecilia stava palesemente facendo la preziosa e lei sapeva quanto tutto questo lo facesse andare su di giri.
- Mi stavi aspettando? Vuoi un altro passaggio?
Si fece ancora più avanti e si abbassò versò di lei, leccandosi le labbra, ma la biondina ci mise pochi secondi per sgusciargli via e alzarsi in piedi.
- Veramente stavo aspettando… – si sporse oltre la figura di Niccolò e incrociò lo sguardo di Matteo che stava arrivando sorridente, borsa in spalla, – lui.
- Maestri, – sbuffò l’altro. – Ma certo.
- Sai, Mannino, – aggiunse Matteo, – le bugie hanno le gambe corte. E quasi rotte. Mettiti di nuovo in mezzo tra me e lei e vedrò di far sparire il quasi.
Non aveva utilizzato un tono di voce molto minaccioso, anche perché quello non era il suo scopo: voleva che semplicemente lui lo vedesse insieme a Cecilia e che capisse che non sarebbe stato così fortunato da riuscire a separarli un’altra volta.
- Rilassati, Maestri, – ridacchiò Niccolò. – Me la sarei scopata una volta e te l’avrei restituita subito dopo. Non sono fatto per le cose serie.
Si premurò di fissare gli occhi di Cecilia mentre pronunciava quelle parole. Stava deliberatamente cercando di ferirla, di riportare a galla vecchie ferite del cuore e dell’orgoglio che sapeva lei aveva ancora difficoltà a digerire. Ma, al contrario, la ragazza sorrise: non poteva modificare il passato, non poteva tornare indietro e cambiare le cose; si era innamorata di lui, era stata con lui, era stata tradita da lui. Non esistevano formule magiche per cancellare quanto successo, e, a onore del vero, lei non le avrebbe nemmeno volute. Mannino era stato un errore necessario, per crescere, per capire cosa non desiderare in un ragazzo. Rappresentava l’uomo perfettamente sbagliato che ogni donna ha avuto almeno una volta nella vita, grazie al quale comprendi ciò di cui hai bisogno e ciò di cui puoi fare tranquillamente a meno. Cecilia ora sapeva di poter tranquillamente fare a meno di lui e vivere serena.
- E, invece, io vorrei che qualcosa di serio di noi ti rimanesse…
Cecilia fece un passo in avanti, gli appoggiò le mani sulle spalle, così come aveva fatto dopo il Firefly, e avvicinò la testa alla sua. Per un attimo, Matteo vacillò, confuso dall’espressione eccitata e di sfida di Mannino, ma quando udì il rumore secco del ginocchio della biondina che urtava l’inguine del ragazzo, non riuscì a trattenere una risata. Soprattutto per la smorfia di dolore sulla faccia dell’idiota.
- Ahia! Cazzo… porca… ah! – Niccolò si resse ad un albero, blaterando frasi senza senso, mentre Cecilia gli sussurrava in un orecchio.
Un danno permanente, ad esempio. Salutami Clara.
Lo lasciò lì, ad inveire sottovoce contro di lei, e raggiunse Matteo, che la osservava sbalordito, ma compiaciuto. Le circondò le spalle con un braccio, attirandola a sé.
- Sei piccola, ma picchi forte! – le disse, prima di posarle un bacio sui capelli. – Pensavo fossi il classico tipo che aspetta che il karma faccia il suo corso…
- Beh, qualche volta il karma ha bisogno di una mano. – O di una ginocchiata. – Tu, piuttosto, immagino sia un caso che il nostro appuntamento sia cominciato proprio davanti a Niccolò.
- Un caso, esatto, – si finse serio.
- Hai molte cose da spiegare, mio caro, – lo redarguì.
- Taci, Molinari, ti conviene. Mi devi ancora chiarire chi cavolo sia questo sfigato di Storia greca.

 

Quella settimana scorse rapidissima. Cecilia aveva programmato di cominciare ad informarsi per la scelta della laurea specialistica, ma l’unica cosa in cui si applicò tenacemente in quei sette giorni fu trovare il modo di saltare quante più lezioni possibili per trascorrere del tempo nel giardino o nel chiostro dell’università o semplicemente a ronzo per Verona. In compagnia di Matteo, s’intende. Ma anche quando si riprometteva di frequentare un corso, la sua testa era altrove. Persino Gianluca se ne era accorto e cominciava a lamentare una certa insofferenza a tanta felicità. Il suo problema, in realtà, era l’assenza di Carlo, in settimana bianca con la famiglia; quella, infatti, era stata l’idea finale che i Teletubbies avevano avuto per guadagnare altro tempo prezioso e sostituire la defunta bottiglia di Bolgheri Sassicaia: allontanare il signor Rastrelli. Carlo odiava la montagna, ma si era dovuto sacrificare per la causa. Ad ogni modo, quel giovedì sera sarebbe finalmente tornato. Gli altri lo stavano aspettando da quasi mezzora, seduti in un piccolo bar del centro.
Avevano chiesto al cameriere di ripassare più tardi già tre volte per attendere lui e Lisa ormai aveva un diavolo per capello: stava morendo di sete e quel cretino sembrava non arrivare più. Si chiedeva davvero perché dovessero sempre portarselo appresso… un barboncino sarebbe stato più bello da vedere e meno rompiscatole. La Zanin continuò a battere il piede sul pavimento, sbuffando, ma nessuno sembrava abbastanza attento per darle corda; Matteo e Cecilia si stavano lanciando sguardi diabetici dalle due estremità del tavolo e Lamberti si stava facendo una sigaretta con cartine e tabacco. Ebbe tutto il tempo di fumarla in tranquillità, di Carlo nemmeno l’ombra. Fu soltanto quando avvertirono il rumore di una Vespa scassata che stava risalendo il vialetto che capirono che Lisa poteva smettere di martellare i sanpietrini con la scarpa.
Rastrelli scese quasi al volo dal motorino e lasciò che cadesse, battezzando anche il lato buono, quello sul quale non aveva ammaccature da cancello e dissuasori stradali. Di sicuro una bella strisciata sul cemento avrebbe dato quel quid alla carrozzeria.
Cecilia e gli altri lo guardarono sbalorditi correre verso di loro, sganciarsi di tutta lena il casco e quasi lanciarlo nello stomaco a Matteo.
- Ma che cavolo…? – Lisa era già in prima linea per rimbrottarlo.
- Stai zitta, parlo io, – le urlò, stupendo tutti. – Sono pronto a prendermi le mie responsabilità. Non ti lascerò crescere il bambino da sola. Io ti ho messo in questo casino, io ti aiuterò.
Nessuno fiatò per i primi cinque secondi, poi ci fu solo un gigantesco marasma.
- Tu l’hai fatto con Carlo? Quando, dove, perché?
- Ecco chi era allora!
- Tu? Tu? TU? No. No. NO.
- Ditemi che lo chiamerete Gianluca!
- Silenzio!
Fu Rastrelli ad urlare disperato per cominciare a riordinare le idee, oltre il terzo grado di Cecilia, le scoperte di Matteo, i monosillabi di Lisa e le richieste idiote di Lamberti. Lui stava per diventare papà, e che cavolo! Lui, papà. In un primo momento aveva pensato di dirlo a suo padre, di chiedergli di visitare la Zanin, di aggiustare lei e la sua… capito, no?
- Come hai osato toccarmi con le tue manacce? – gli si scagliò contro proprio Lisa.
- Fermati! – le bloccò il polso. – Non arrabbiarti, pensa al bambino!
Carlo riuscì solo nell’intento di farla infuriare ulteriormente.
- Ma che bambino e bambino? Non sono incinta, imbecille! Avevo solo un prurito intimo!
Cecilia sbarrò gli occhi, quando per la prima volta nella sua vita vide Lisa Zanin in autentico imbarazzo. Era rossa come un peperone. Eh sì, la scoperta di essere stata a letto con niente meno della sua decerebrata nemesi, doveva fare davvero male all’orgoglio.
- Ma il vomito… Gianluca mi ha detto… – cercò di spiegare Rastrelli.
- Ehi, fratello, – lo interruppe Lamberti, che sembrava in uno stato catalettico peggiore del solito. Forse non era solo una sigaretta quella di poco prima… – calmati. Avrò toppato, che ti devo dire?
- Era solo cibo cinese avariato, – gli spiegò Cecilia bonaria.
- Quindi non diventerò papà?
Rastrelli non era mai stato particolarmente sveglio, perciò nessuno si stupì che avesse bisogno di rassicurazioni in merito all’improvvisa interruzione di gravidanza mentale.
- No, Carlo, – gli rispose Matteo.
- Allora offro da bere a tutti!
Il cameriere si affacciò da dentro il locale, attirato dalle voci concitate dei ragazzi. Mostrò loro una busta di cartone dalla quale spuntava un enorme fiocco dorato con delle stelline glitterate.
- A dire il vero, è appena passata una signora cicciottella con un medaglione strano e ha lasciato questo per voi.
Cecilia prese in mano il dono misterioso e lo sfilò dalla borsa. Strappò la carta regalo e scoprì una cassetta di legno. All’interno, vi era adagiata una bottiglia di Bolgheri Sassicaia del 1997.
Maestri – che era stato messo al corrente del fattaccio da Gianluca, alla ricerca di menti fresche per risolvere il problema – diede una pacca sulla spalla a Carlo.
- Sembra che sia la tua giornata fortunata, Rastrelli: non diventerai padre e non dovrai vendere un rene per ricomprare il vino.
Il mancato papà era troppo contento delle buone novelle, – chiaro segnale dell’esistenza di un nuovo dio di sua invenzione che aveva a lungo pregato –, per pensare di formulare la domanda più intelligente in quei casi.
- Ma chi l’ha mandata? – domandò al posto suo Lisa.
Cecilia trovò la risposta in un biglietto da visita nascosto sotto la bottiglia.

 

"Sale in zucca"

della Fata Turchina

Vicolo della Polvere della tua scrivania, lato sud-est

Quando avrai bisogno, verrò.

Fatima.
Cecilia guardò Matteo ridere con Lamberti, Lisa lanciare maledizioni a Carlo e sorrise: era tremendamente fortunata. Poteva avere dei genitori immaturi, una futura matrigna odiosa, due arpie e un ex fidanzato pronti a complicarle l’esistenza, ma aveva anche un pesce rosso saggio e muto, tre amici insostituibili, un angelo custode con uno strano medaglione e un Superman biondo strizzato in una tutina aderente.
La sua vita le piaceva da morire.
La perfezione meglio lasciarla alle fiabe.




Carrellata di note: Legolas è ovviamente un personaggio de “Il Signore degli Anelli”. Il Bolgheri Sassicaia è un vino esistente, scelto del tutto a caso tra i più pregiati d’Italia. “Scemo e  Più scemo” è un film del 1994 con Jim Carrey e Jeff Daniels. Le amiche della madre di Matteo NON sono assolutamente inventate e le potete trovare, secondo il grado di pericolosità qui: _CalineSYLPHIDE88,IoNarrantenes_sie. L’aneddoto sul re Gustavo III di Svezia è vero e indovinate dove l’ho trovato? La “dichiarazione” di Franzoni a Melissa è, come scritto, una citazione del film “Orgoglio e pregiudizio” del 2005 con Keira Knightley e Matthew MacFadyen. Flora, Fauna e Serenella (Serena) sono le tre fate madrine de “La bella addormentata nel bosco”. 
Detto questo, vi ringrazio di avermi accompagnato fino alla fine di questo strano esperimento, che credo rimarrà unico perché non ho in programma – per il momento – di scrivere altre storie del genere. Però sto già lavorando su parecchie cose, ma presto comincerà la sessione, ergo al massimo pubblicherò one-shot originali o fanfiction.
 
Bene, grazie delle recensioni (a cui ho già risposto), grazie a Nessie di aver betato e a Laura del bellissimo banner (che vedrete prossimamente) :)
 
Baci!
 
S. 

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