Festina lente

di BlueSkied
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Epifania ***
Capitolo 2: *** L'incontro ***
Capitolo 3: *** Gli esiliati ***
Capitolo 4: *** Il duca di Carnevale ***
Capitolo 5: *** Montemurlo ***
Capitolo 6: *** La futura duchessa ***
Capitolo 7: *** Le ansie del matrimonio ***
Capitolo 8: *** I nani e l'idra di Lerna ***
Capitolo 9: *** Madre ***
Capitolo 10: *** Per grazia ricevuta ***
Capitolo 11: *** Vendetta! ***
Capitolo 12: *** Principi ***
Capitolo 13: *** I sassi di Siena ***
Capitolo 14: *** Il tiranno ***
Capitolo 15: *** Scannagallo ***
Capitolo 16: *** Principesse ***
Capitolo 17: *** No m'aharvex, mi madre ***
Capitolo 18: *** Per la famiglia ***
Capitolo 19: *** L'ampolla ***
Capitolo 20: *** De profundis ***
Capitolo 21: *** Innsbruck ***
Capitolo 22: *** Venezia ***
Capitolo 23: *** Il sangue ***



Capitolo 1
*** Epifania ***


Comincio questa storia con la speranza di riuscire a concluderla con successo, visto che si prefigura come un qualcosa di particolarmente impegnativo. Cercherò in ogni modo di evitare gli strafalcioni e gli errori storici in ogni modo.
Grazie a chiunque leggerà e magari lascerà una piccola recensione.
BlueSkied

 




1.





Durante la notte dell’Epifania la città era in festa. Benché fosse da un pezzo passata la mezzanotte, dai vicoli e dai palazzi arrivavano ancora sporadici suoni di baldoria: musica, qualche risata, tintinnio di calici, ma le strade erano deserte. Troppo freddo per stare fuori. 
Nessuno notò i tre uomini che cavalcavano verso la Porta San Gallo. Il primo dei tre stringeva sotto il mantello il lasciapassare appena ottenuto dal vescovo Marzi.
Il vecchio non aveva fatto domande, né si era stupito di vedere Lorenzino de’Medici a quell’ora. Come tutti, a Firenze, conosceva la fama del giovane. Lo aveva squadrato alla luce della candela, e gli era parso pallido, ansioso. Gettò uno sguardo ai due che lo accompagnavano, ma firmò i lasciapassare, senza commenti di sorta. Naturalmente, non poteva sapere di aver lasciato fuggire un assassino, ma lo scoprì assai presto.
Le guardie ducali arrivarono a mattina inoltrata. 
Il vescovo dormiva, e gli ci volle qualche minuto per comprendere il motivo di tutto quel trambusto. 
Un ufficiale pretese l’elenco di coloro che erano usciti dalla città quella notte, così in vestaglia e ancora assonnato, il vescovo consegnò gli unici tre nomi che aveva. Qualcosa, nell’espressione dell’ufficiale gli fece comprendere che c’erano grossi problemi in vista per tutti.


Albeggiava, quando l’Ungaro, guardia personale del Duca, si decise ad andare dal suo signore. 
I suoi ordini erano stati chiari: starsene alla larga, ma a tiro di voce, finché lui non avesse sbrigato quel suo affare, un affare sposato e dagli occhi che avrebbero reso dolce la bile. Sbadigliò e si stiracchiò, ancora leggermente confuso dal vino, e diede un colpo sulla spalla del suo compare:
- Avanti, muoviamoci. Ormai il Moro si sarà divertito abbastanza – disse, infilandosi il pugnale nel cinturone. L’altro annuì e guardò fuori dalla finestra: la caligine del mattino già offuscava la strada. Fece una smorfia:
- Farà un freddo dannato. Accidenti a te e a lui- imprecò – Doveva essere fuori ore fa. Che la donzella l’abbia avvelenato?- ridacchiò, ma l’altro non era divertito, anzi si preoccupò:
- Dì, sei pazzo? Ma che l’Inferno mi inghiotta se non hai ragione. Deve essere successo qualcosa – concluse, con sguardo arcigno rivolto al non lontano palazzo- Sbrigati, questa faccenda non mi piace- esortò il suo compare, che si calcò in testa il berretto, e insieme uscirono in fretta. Dovevano solo attraversare la strada. Trovarono solo i servi svegli a quell’ora. 
L’Ungaro fermò una donna che passava con un braciere di ceneri fredde:
-Dì, donna, il Duca s’è già svegliato? È uscito? – le chiese, con veemenza. Quella mise un’espressione spenta, perplessa:
- Non è uscito nessuno…- mormorò, confusa, guardando un’altra che si strinse nelle spalle e intervenne:
- è salito su con Ser Lorenzino, ma non s’è ancora visto- raccontò. 
I due uomini si fecero indicare la stanza e corsero a controllare.La stanza aveva le imposte chiuse, il camino era spento da ore, non si vedeva niente. L’Ungaro entrò a tentoni, cercando il letto, e ordinò all’altro di aprire la finestra. 
Quando tirò i corteggi distinse una figura, ma poteva essere addormentata. Con uno schiocco di cardini, le imposte furono aperte e la luce debole e biancastra cadde sul materasso.
Alessandro de’Medici era chiamato dai fiorentini “il Moro” per via del suo incarnato scuro. C’era chi diceva che sua madre fosse una schiava nera, ma in quel momento il pallore cereo della morte vanificava qualunque soprannome. 
Il Duca era riverso tra le lenzuola con le spalle alla porta, un drappo buttato a caso sul suo corpo, forse un tentativo degli assassini di celarne le spoglie. Un tentativo piuttosto idiota, pensò l’Ungaro, visto che il sangue imbrattava il letto, parte del pavimento, e una spada corta era infitta nel petto del Duca di Firenze, dritta come una freccia nel corpo di un fagiano. Le due guardie del corpo si precipitarono a chiamare i magistrati, la guardia cittadina. Proprio un bel giorno di festa, quel sei di Gennaio del 1537 per  Firenze.
 
 

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Capitolo 2
*** L'incontro ***


2.



La torre del Palazzo dei Priori svettava nel cielo cupo come un dito ammonitore, gettando la sua lunga ombra sulla piazza. 
Studiandone l’imponenza dal basso in alto, il volto del giovane Cosimo non mostrava nessuna particolare espressione. Il suo cavallo grattò impaziente con uno zoccolo sul lastricato, quasi provasse il nervosismo che il padrone avrebbe potuto o dovuto sentire. Ma Cosimo era tranquillo, perlomeno esteriormente. 
Non doveva mostrare di temere quegli uomini smarriti, avidi, opportunisti. In fondo, non aveva motivo di provare paura. Aveva già deciso di agire con cautela, gli era sembrata la mossa migliore da fare. Se n’era reso conto qualche ora prima, quando, mescolato alla folla, aveva seguito il corteo funebre del Duca. Teneva il cappuccio alzato, per non attirare l’attenzione su di sé, anche se erano in pochi a conoscere il su aspetto e la sua identità, ma non aveva voluto rischiare. 
Non erano state onoranze addolorate, comunque. Cosimo sapeva che i fiorentini avevano parecchi difetti, ma l’ipocrisia non era da annoverarsi in quell’elenco.
I “ Laude” erano stati spesso e volentieri sovrastati da “ Il Diavolo si porti l’animaccia sua!” e benedizioni simili. 
Alessandro de’ Medici non era stato amato dalla sua gente. A essere onesti, aveva fatto ben poco per esserlo. C’erano troppi parenti di fuoriusciti e di gente da lui condannata in quel seguito, perché lo onorassero con parole di cordoglio. Ancora di più, padri, mariti e fratelli di donne da lui insidiate, insieme a quel suo cattivo compagno, Lorenzino ben più noto come Lorenzaccio. 

Cosimo de’Medici s’incupì, rievocando nella mente i giorni passati con quest’ultimo tra la villa del Trebbio, nel freddo Mugello e Venezia. A quel tempo, Lorenzino era ancora un ragazzo svagato e amante dei libri. Non si capiva mai bene cosa gli passasse per la testa, era inquieto in modo misterioso, molto diverso da Cosimo, che tempo per le fantasticherie proprio non ne aveva. Poi era andato a Roma, e là, protetto e viziato da gente molto più ambiziosa di lui, tra cui lo stesso papa Clemente, aveva conosciuto il gusto, forse prima solo sopito, per la baldoria, per le donne e gli eccessi. 
Cosimo ebbe una smorfia di disprezzo. Il ragazzo s’era fatto cacciare con disonore da Roma per aver spaccato arti e teste ad alcune statue antiche. Idiota. Doveva essere ubriaco come un ciuco per aver deturpato qualcosa che aveva amato così tanto, in anni più innocenti. Ma non c’era posto per l’innocenza nei giochi di potere, riconobbe Cosimo, e non c’era niente che corrompeva più del potere. 
Alessandro, invece, era già marcio di suo, fin da fanciullo. Sempre arrogante, pronto a prevaricare e a fare a botte, sprezzante di tutto e tutti. Come doveva essersi sentito tronfio, quando aveva avuto il benestare di papa e imperatore per governare Firenze, subito dopo l’assedio del Trenta. Era proprio il tipo giusto da manovrare, come un bimbo lagnoso a cui si conceda un balocco nuovo, perché la smetta di piantar grane. E da capriccioso e dispotico qual era, aveva fatto del ducato quel che voleva, fino a trovarsi una spada nel petto, affondata dalla mano di suo cugino e migliore amico. 
Cosimo de’ Medici non avrebbe ripetuto i suoi errori, questo era certo. Si trovava a camminare su una lama, e se non voleva tagliarsi, doveva misurare bene ogni suo passo. 
Un altro sbuffo del cavallo lo riscosse e insieme, parve farlo decidere. Fece cenno ai suoi di seguirlo e spronò il destriero in avanti, verso l’incontro che stava per decidere il suo destino e quello di molti.

Il Consiglio dei Duecento e il Senato dei Quarantotto avevano in mano Firenze, in quel momento. Come la stragrande maggioranza dei loro cittadini, anche molti di loro erano impazziti di gioia alla notizia della morte di Alessandro de’ Medici. 
Il problema della successione, però si era rivelato da subito un osso assai duro. Il Duca aveva dei figli illegittimi, ancora bambini, e c’era chi premeva che fosse scelto il maschio, Giulio, un fanciullo di cinque anni. 
La posizione dei Medici e dei loro sostenitori, in quei pochi giorni, era stata difficilissima. Da una parte Carlo V che premeva perché si prendesse una decisione, dall’altra i fuoriusciti che, tolto di mezzo il Moro, speravano di poter tornare a Firenze e instaurare di nuovo la Repubblica. 
Francesco Guicciardini era stato al servizio di Alessandro. Lo aveva servito bene, riservandosi di biasimare la sua condotta solo nei suoi propri pensieri. Per quanto riguardava il suo successore, egli credeva fosse una follia far rientrare gli esiliati. Avrebbe significato sommosse, forse, guerra civile. 
Lo aveva fermamente ribadito più e più volte in quello stesso salone, e adesso, se qualcuno avesse sollevato obiezioni, era pronto a rifarlo. 

Il Salone dei Cinquecento era animato da un brusio costante, carico di attesa, diffidenza e curiosità. Guicciardini vide Rucellai confabulare con un capannello di suoi amici, dall’altro lato della sala. Erano i più vicini agli Strozzi, la famiglia a capo dei fuoriusciti, e il politico sapeva che per loro questo giovane che stava per arrivare era fumo negli occhi. 
Il chiacchiericcio ebbe un brusco calo improvviso, quando venne annunciato il nome di Cosimo de’Medici. 
A Guicciardini, come ad altri che l’avevano conosciuto molto tempo addietro, il ragazzo sembrò il padre miracolosamente redivivo. Ma Giovanni dalle Bande Nere era stato di ben altro temperamento. Un condottiero, un capitano di ventura sanguigno e ribelle, di enorme coraggio. 
Suo figlio lo rievocava solo nell’aspetto: alto per i suoi diciassette anni, di spalle ampie e portamento sicuro, con gli stessi capelli scuri tagliati cortissimi e gli stessi occhi castani, solo che in questi non c’era fuoco, c’era terra. Un giovane equilibrato ed educato, così apparve. 
Molti consiglieri e senatori si rilassarono, a qualcuno spuntò anche un sorrisetto tra il sarcastico e il compassionevole. E loro che si erano tanto preoccupati! 
Il giovane Medici era malleabile, nulla c’era in lui di suo padre o ancora peggio di sua nonna, l’intrepida Caterina Sforza. 
Il capo del Consiglio era di questo avviso. Informò Cosimo della loro proposta: essendo l’unico discendente maschio di entrambi i rami dei Medici, era loro preghiera che accettasse la nomina a nuovo Duca di Firenze che intendevano offrirgli. Il ragazzo rispose con cortesia e modestia perfette. Si riservò pochissimi giorni per trasferirsi in pianta stabile in città e si disse a disposizione del volere del Consiglio, del Senato e anche dell’imperatore Carlo V. 
Quando se ne andò, erano certi di averlo in pugno. Palla Rucellai sghignazzò apertamente con un suo compare, quando Cosimo fu uscito dalla sala:
- Non sarà un bimbo di cinque anni, ma poco ci manca. Un ragazzo di quell’età non pensa certo agli affari di Stato. Sarà facile tentarlo con donne e svaghi, soprattutto se la sua natura è così quieta come ci ha dimostrato- dichiarò, facendo ridere l’altro. Francesco Guicciardini lo sentì:
- Magari avete ragione, messer Rucellai, o magari no- intervenne – Ma un vecchio detto del popolo ricorda che sono le acque chete a far crollare i ponti, messeri- concluse, cancellando il sorriso dalle facce di quei due. 
Sì, Cosimo de’Medici poteva anche dar l’idea di uno facile a piegarsi, a un’occhiata frettolosa. Ma bastava solo qualche attimo di attenzione per accorgersi che la sua anima doveva essere di granito.

Donna Salviati era stata in ansia per tutto il giorno. Era quello che aveva sperato, ma anche temuto. Ora il momento di suo figlio era finalmente arrivato, e del tutto inaspettatamente. Sarebbe stato in grado di reggerlo? 
Maria lasciò vagare lo sguardo nel camino acceso, il cucito abbandonato sulle ginocchia. Solo una madre con un'unica creatura poteva provare quell’angoscia. Una delle serve la chiamò, piano. Maria alzò lo sguardo, per scoprire che Cosimo era finalmente tornato. 
Congedò rapidamente donne e servitori e si alzò dal suo sedile, le mani strette in grembo. 
Suo figlio la guardò in quel modo che le ricordava tanto il suo defunto marito, uno sguardo duro e determinato, ma pieno di fierezza.
- è successo quel che credevamo, madre- esordì Cosimo – Mi è stato chiesto ufficialmente e ho accettato-
- Dunque, vi hanno scelto come successore del Duca. A quali condizioni?- volle sapere la donna.
Cosimo fece un cenno vago con la testa:
- Nessuna, per ora. Appena mi avranno posto le insegne addosso incominceranno, ma so già cosa fare, madre- replicò. 
Intrecciò le mani dietro la schiena e misurò la stanza a grandi passi, un’abitudine data dalla sua indole malinconica:
- Li ho convinti di essere entrato con garbo nella loro trappola, ma ho letto i loro volti- proseguì, serio e puntuale – Credono di potermi muovere a loro uso, e lascerò che lo credano, almeno per un po’. La mia posizione è incerta, quello è un covo di amici degli esiliati. Dovrò trovare un modo di sistemarli, ma la prima cosa da fare è rendere Lorenzino inoffensivo- spiegò.
- Parlerò io con i fuoriusciti- decise Maria – Se le cose si mettessero effettivamente in pericolo per voi, scriverò allo Strozzi. Deve darmi retta, la mia famiglia e la loro non hanno avuto mai di che contendere-
Il figlio la osservò, poi annuì:
- Potreste aver ragione, madre, ma ci penseremo a tempo debito. Devo farmi conoscere dalla città, farmi benvolere. Se i fiorentini mi approveranno, appoggeranno la mia causa contro i nemici dei Medici- dichiarò. 
Sospirò, guardando fuori da una delle finestre. Si volse verso la madre e disse:
- Il mio maestro mi raccontò che una volta mio padre vi ordinò di lanciarmi dalla finestra, tra le sue braccia. Voi obbediste, e io non piansi né urlai. Mio padre disse che sarei stato coraggioso- ricordò, con triste orgoglio.
La donna gli si fece vicina:
- Lo siete, e molto. La strada che dovrete affrontare è dura, figlio, ma so che non vi smarrirete- gli disse, prendendogli una mano. 
Cosimo era un ragazzo introverso, si lasciava andare assai raramente a manifestazioni d’affetto, ma non la respinse:
- Devo sapervi al sicuro, madre. Tornate alla villa di Castello, nessuno deve avere mezzi per colpirmi o distrarmi. Impareranno che so danzare la gagliarda del potere bene quanto loro- promise, rivelando quello che Consiglieri e Senatori non avevano voluto vedere, lo spirito di un condottiero.      

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Capitolo 3
*** Gli esiliati ***


3.


Non si poteva farci l’abitudine. Per quanto si sforzassero, nessun luogo poteva sostituire quello che erano stati costretti ad abbandonare. Sebbene fossero passati anni, non molti in realtà, la nostalgia tornava a mordere il cuore degli esiliati con la stessa cieca ferocia di un cane rabbioso. 
C’erano stati tanti pronti ad accoglierli, essi s’erano creati una nuova patria a Lione e in diversi altri luoghi, ma nessuna città del mondo poteva essere messa a pari con Firenze. Ma molti non osavano tornare neppure adesso. 
La maggior parte di loro non aveva mosso un dito, quando la situazione s’era fatta propizia. Una volta morto Alessandro, quel figlio di serva traditore e ingannatore, avrebbero potuto agire. Invece, l’incertezza li aveva dominati. Ma non era troppo tardi. Erano passati solo pochi mesi, e il potere di Cosimo non era affatto assicurato. Questa era l’unica certezza che consolava e rinvigoriva l’animo di Filippo Strozzi. 
Il calore di quel giorno e il sole che ardeva sui tetti di Roma erano insopportabili, parevano quasi fatti apposta per attizzare le fiamme di quel desiderio di vendetta mai spento. Il primo dei suoi nemici era morto, il secondo aveva artigli smussati come quelli di un gattino. 

Il mercante rilesse per l’ennesima volta la lettera inviatagli da Maria Salviati. Diceva d’aver pazienza e fiducia, spergiurava che suo figlio avrebbe sistemato le cose. Ma Cosimo era un Medici, e come lo Strozzi sapeva, dei Medici non ci si poteva fidare affatto, tranne qualche rarissima eccezione. 
Lorenzino era fra queste. Non il giovane migliore che si potesse desiderare, Filippo lo riconosceva, ma a differenza del suo indegno cugino aveva una certa raffinatezza, un certo modo di usare la sua intelligenza, che Alessandro non avrebbe mai potuto nemmeno sperare di avvicinare. 

Un servitore interruppe le sue elucubrazioni. Piegò la lettera e la ripose nelle profondità del farsetto, mentre suo figlio Piero e Lorenzino entravano, con aria di grande urgenza. 
Da quando era fuggito da Firenze, Lorenzino aveva sempre l’aspetto spaurito del coniglio braccato: i suoi occhi erano sempre in movimento, sospettava di tutto, persino della propria ombra. Anche in quel momento, tra gente amica, si torceva le mani e continuava a far saettare lo sguardo tra la porta e la stanza, come per essere certo che non ci fosse nessun altro. 
Piero era di un’altra pasta. Più freddo e determinato, esibiva l’espressione cupa e mortifera che gli veniva spontanea ogni volta che sentiva nominare i loro avversari.
- Padre, - esordì, senza attendere un invito – Abbiamo saputo della lettera da voi ricevuta da parte di donna Salviati-.
Filippo annuì e si alzò:
- Non avete bisogno, figlio, che ve ne riveli il contenuto- replicò, fronteggiandolo. 
Il ragazzo fece un cenno secco con la testa:
- Immagino che ella pianga perché noi lasciamo al suo bastardo il comando di Firenze, senza smaniare troppo- intuì. Il padre annuì ancora:
- Né più né meno che questo. Egli farà giustizia, queste sono le sue parole- precisò. Piero sbuffò, incredulo:
- Ella intende che farà giustizia su di noi, padre, lo sapete. Il momento di agire è giunto, lo vedete meglio di chiunque altro. La nostra occasione di tornare a Firenze e di governarla è arrivata- disse, in fretta, quasi in un sussurro.
- Nessun momento è migliore di questo, ne convengo con voi- approvò Filippo – La Francia è al nostro fianco, chiunque in Italia e in Europa sa che la ricchezza degli Strozzi è ben superiore a quella dei Medici. Il tempo della cautela è finito, figlio-
Piero sorrise, in modo impaziente:
- La principessa Caterina, pur essendo una Medici, detesta l’idea che Cosimo sia duca. Ci aiuterà, padre- spiegò.
Lo Strozzi scambiò con il figlio uno sguardo d’intesa, poi si volse a Lorenzino:
- Ebbene, voi non dite niente? Se Iddio e la fortuna ci assistono, il vostro giusto crimine sarà annullato e voi tornerete a essere un uomo libero, Lorenzino-  gli assicurò. Quello esitò, poi trovò una replica:
- Vi devo così tanto, messer Strozzi. L’avermi protetto e consigliato. Io mi fido di voi, eppure…- s’interruppe, timoroso di continuare.
- Eppure?- lo incalzò Piero.
- Eppure, io credo che Cosimo de’Medici non sia da sottostimare. Lo conosco, quando eravamo ragazzi siamo stati allevati insieme. 
Ho sentito dire che a Firenze già il popolo prega per lui e lo benedice e che egli ha già radunato un esercito interno. Sta solo aspettando che noi facciamo il primo passo- dichiarò, già pentendosi dei suoi dubbi. Piero fece per rimbeccarlo aspramente, ma Filippo alzò la mano, interrompendolo:
- Ma Lorenzino, voi sapete che il favore del popolo è una brezza passeggera. Cosimo è giovane e può rievocare nel cuore di qualche vecchio avvizzito l’antica gloria della sua famiglia, ma un nome solo è poca cosa.- disse, posando una mano sulla spalla del giovane, con fare paterno – Su chi può contare? Sul Consiglio e sul Senato della città? Ma essi hanno noi nel petto, noi e l’unica, vera forma di libertà, la repubblica che intendiamo instaurare. Oppure sull’imperatore? Ah, l’Asburgo è troppo impegnato a controllare i suoi infiniti domini per preoccuparsi della Toscana. Una volta ripreso il nostro legittimo posto, basterà assicurargli fedeltà. Che vi sia un Medici o chiunque altro, quel che importa all’imperatore è che gli si pieghi il collo dinnanzi. Non dovete temere nulla, Lorenzino. Cosimo è solo, ed ha la testa calda dei ragazzi. Lo sconfiggeremo, e Firenze sarà nostra. Lo prometto- concluse Filippo Strozzi, con una mano sul petto. 
Il sole stava per tramontare per sempre sui Medici, lui stesso c'impegnava la propria vita.

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Capitolo 4
*** Il duca di Carnevale ***


4.
 
Il campanello tintinnava sommessamente, attirando l’attenzione della fanciulla, che, dopo averne seguito i movimenti a bocca aperta, ma con gli occhi ben puntati sull’oggetto, allungò le piccole mani nel tentativo di afferrarlo, ma non fu abbastanza rapida: con una risata, il padre sollevò il giocattolo fuori dalla sua portata e lei reagì imbronciandosi. Non si dette per vinta: cercò di nuovo con lo sguardo il campanello e alzò le braccia, tendendosi verso di esso. Il padre tornò ad abbassarlo, e questa volta Bia riuscì a prenderlo, scuotendolo subito con allegria, quasi a voler annunciare d’aver vinto la sfida. 
Donna Salviati e la balia si scambiarono un sorriso, mentre Cosimo prendeva la figlioletta sulle ginocchia e le diceva:
- Madonna Bianca ha conquistato il trofeo, ossequi a voi!-
La bimba si lasciò dondolare per un po’, poi cominciò a dar segni di protesta, forse per sonno o fame. 
Cosimo la baciò sui ricci ramati e la passò alla balia, che si congedò rispettosamente con un cenno del capo. 

Il volto del giovane tornò a incupirsi immediatamente. Solo la figliola riusciva a rischiararlo un po’ dalle sue preoccupazioni. Maria lo guardò alzarsi e andare alla finestra, con lo sguardo apparentemente fisso al parco della villa e l’orecchio teso al canto delle cicale. Attese che fosse lui a parlare, perché sapeva che chiedergli qualcosa o sollecitarlo l’avrebbe irritato e basta. 
Cosimo stette a lungo in silenzio, roso dagli stessi pensieri che lo tormentavano da mesi, poi esordì:
- Sapete, madre, qualcuno riesce a fare persino di Bia una colpa di cui vergognarmi- disse, in tono vago. Maria non replicò, vedendo che non aveva finito.
- Non ho un attimo di tregua- proseguì, infatti, con amarezza frustrata - La gente che mi è stata imposta con le insegne da duca mi sta attorno ogni momento, come una torma di api indaffarate. 
Il Guicciardini mi consiglia prudenza, il Vettori equilibrio, il Niccolini senno, l’Acciaiuoli giudizio e ognun di loro tira uno dei miei fili, costringendomi a fare un passo piuttosto che un altro. 
In Firenze c’è chi mi chiama “ Duca di Carnevale”, e vostro fratello mi rimprovera di dipendere dagli altri per tutto- aggiunse, volgendosi alla madre. 
Donna Salviati si alzò e gli si avvicinò:
- Figlio mio, che altro potreste fare, adesso? Io, da donna che sono e da madre, posso solo consigliarvi di tenervi gli amici in casa e di affrontare le minacce che vengono da fuori. Filippo Strozzi non m’ha risposto, e le voci di un’ armata che dalla Francia si raduna verso Firenze sono giunte anche a me- replicò, in tono fermo ma comprensivo. Per quanto fosse saggio, suo figlio restava un ragazzo esposto alla tempesta e doveva capire quando proteggersi e quando attaccare.
- Abbiate pazienza, figlio- gli raccomandò – Queste persone vi servono e lo sapete. Essere un ribelle ha portato Alessandro a morire di congiure e voi non siete della sua schiatta- osservò, con l’intento di risvegliare in lui l’orgoglio. 
Funzionò a meraviglia: Cosimo alzò la testa quasi con rabbia:
- No!- esclamò – No, che nessuno mai abbia a confondermi con il mio predecessore, o abbia da dire che fui sventato in qualche occasione. 
Mi piegherò, se è quel che serve per l’immediata sopravvivenza, ma poi troverò la strada per far udire ed eseguire il mio volere, senza ingerenze. Avete ragione, madre, se si ha una gamba rotta è necessità dover sopportare le stampelle per un certo tempo, ma vi assicuro, non andrò zoppicando a lungo- dichiarò, sicuro. Doveva continuare ad essere misurato, se voleva ottenere qualcosa. 
Maria parlò di nuovo:
- E riguardo alla duchessa Margherita vi sono giunte novità?- chiese.
Cosimo scosse la testa, seccato:
- No, l’imperatore si rifiuta di decidere sulla questione, come su molte altre cose- replicò, stizzito. 
Margherita era la giovanissima vedova di Alessandro, che Cosimo aveva chiesta in sposa più volte, principalmente allo scopo di dimostrare fedeltà a Carlo V e legarsi alla sua casata, visto che la giovane era sua figlia illegittima. Ma l’imperatore temporeggiava. 
Non aveva ancora opposto un rifiuto, ma di certo non s’era mostrato sollecito a dare il suo consenso, così come a proclamare Cosimo ufficialmente duca. 
Il titolo che ancora aveva, dopo sei mesi, era di “ capo della città”. 
Ora Cosimo era minacciato dagli esiliati, ostacolato dai suoi stessi consiglieri e ignorato dall’imperatore, che almeno sulla carta, avrebbe dovuto offrirgli supporto. Ma non c’era più tempo da perdere: le truppe dei fuoriusciti si stavano radunando in Romagna, e Cosimo poteva contrastarli solo con poche centinaia di milizie che, sebbene si fossero dimostrate preparate e fedeli, forse non sarebbero state sufficienti. 
Gli serviva un buon condottiero, e sapeva già a chi rivolgersi. 

Alessandro Vitelli si era distinto sette anni prima a fianco di Carlo V, proprio durante l’assedio di Firenze. Nei giorni immediatamente successivi alla nomina di Cosimo, aveva preso a nome dello stesso imperatore la Fortezza di San Giovanni, anche a scopo di proteggere il duca neoeletto dall’incertezza serpeggiante in città. Il giovane Medici si fidava di lui, il Vitelli ne era certo, e in realtà, non poteva fare altrimenti. 
Per questo motivo, quando il duca lo convocò in quella sera soffocante, non ne fu affatto sorpreso. Da alcune settimane seguiva i movimenti delle truppe dei fuoriusciti e aveva capito che non avevano alcuna speranza di riuscita. In più, sua Maestà l’imperatore gli aveva raccomandato di tener d’occhio il ragazzo Medici e fare in modo che niente disturbasse inutilmente Firenze o la Toscana. L’Asburgo aveva problemi più pressanti altrove, per doversi anche preoccupare troppo dell’Italia. 
Il condottiero fu introdotto nello studio privato del duca, dove già il giovane sedeva davanti a una mappa e immancabilmente circondato dai suoi consiglieri. Come da sua abitudine, appariva perfettamente calmo, ma Vitelli si accorse da un certo guizzo nei suoi occhi della sua preoccupazione e del suo fastidio. Chinò appena il capo e attese che gli fosse rivolta la parola. 
Appena lo vide entrare, Cosimo si alzò in fretta, imponendo il silenzio ai consiglieri con un gesto della mano:
- Don Vitelli, vi ringraziamo della vostra sollecitudine- esordì. Fece il giro del tavolo e gli si pose davanti:
- La situazione è grave e incerta e necessitiamo della vostra esperienza- proseguì, senza mettere tempo in mezzo – Già qualche mese fa ci avete reso grande servizio, e noi sappiamo che anche questa volta verrete in aiuto alla nostra città, in nome di sua Maestà e nostro. I nostri nemici si approssimano e serve la guida di un valente condottiero alle nostre truppe-
Il Vitelli attese qualche attimo, prima di replicare, poi disse, con sicurezza:
- I vostri timori sono giusti ma amplificati, mio signore. Le truppe dello Strozzi e dei suoi figli sono grandi, ma assai male in arnese e indisciplinate come un’orda di barbari. Sono certo di sconfiggerli, anche nel giro di una giornata-
Cosimo non si fece impressionare, ogni condottiero era un po’ spaccone, l’avevano detto pure di suo padre, tuttavia il Vitelli aveva detto quello che gli interessava sapere.
- Siamo lieti e rincuorati da ciò- replicò, dunque – E certi che il vostro valore ci supporterà e ci darà aiuto nel difendere la città…-  ma fu interrotto dal Guicciardini, che intervenne:
- Tuttavia, Vitelli, voi capite che per l’importanza da egli ricoperta e per la sua giovane età, riteniamo poco saggio che il duca partecipi alle azioni-
Cosimo gli scoccò un’occhiata, ma fu con voce controllata che disse:
- Sì. Se i nostri consiglieri lo ritengono il partito migliore da prendere, allora noi resteremo in città, nel caso i nemici riuscissero a penetrarvi-
Il condottiero scosse la testa:
- Non ci riusciranno- promise. Il duca lo scrutò a lungo, certo per volere far sua quella sua sicurezza, poi lo congedò, per delineare la propria condotta nei giorni a seguire. La battaglia o la guerra, se guerra doveva essere, era prossima. Non doveva farsi cogliere impreparato.   

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Capitolo 5
*** Montemurlo ***


5.


Le pecore corsero via dalla strada con gran fracasso, mentre gli armati attraversavano il gregge a rotta di collo. Nessuno dei cavalieri badò alle invettive dei pastori. Filippo Strozzi, in testa al gruppo, spronava e frustava il cavallo, come a voler scacciare il senso di disastro imminente che provava, sempre più incalzante. 

Ancora fino a quella mattina, era sicuro di aver pianificato l’attacco alla perfezione. Tutto volgeva in loro favore: i Francesi erano pronti a invadere il Piemonte, distraendo la Spagna dalla Toscana, avevano seimila uomini capaci comandati da uomini più che fidati e sul versante di Pistoia i Cancellieri, da sempre avversi ai Medici, avevano giurato di far strage dei Panciatichi, palleschi fino alle ossa. Si era chiesto cosa davvero potesse andare storto. Ma la risposta era arrivata a domanda appena formulata. 
Era l’ultimo giorno di Luglio, quando erano ormai pronti, ma i Francesi non si erano mossi. Lo Strozzi aveva intimato ai suoi d’aver pazienza, ma non aveva fatto i conti con le teste più calde del suo schieramento. Con Anton Francesco Albizi si poteva anche ragionare, ma con Baccio Valori era un’impresa impossibile. Fin da quando si era unito alla causa dei fuoriusciti aveva insistito e strepitato per avere un ruolo di prima linea nell’impresa, scontrandosi inevitabilmente con l’Albizi, che voleva la stessa identica cosa. C’era voluto del bello e del buono agli Strozzi, per tener calmi quei due, e sembrava ci fossero riusciti. 
Ma quel mattino, Valori e il suo reparto erano spariti. Avevano lasciato solo uno scudiero, che raccontò che il suo signore era partito alla volta di Prato, dove intendeva darsi al saccheggio. Quindi, l’unica cosa che lo Strozzi e l’Albizi avevano potuto fare era stato corrergli dietro. La rocca di Montemurlo era prossima: là si era accampato il Valori, nell’attesa del resto dell’esercito e dei rinforzi di Piero Strozzi e là lo trovarono, intento a bere e a giocare d’azzardo con i suoi. L’Albizi non trattenne le furiose imprecazioni che masticava da ore, ma Valori si limitò a fissarlo con espressione bovina. Si alzò pesantemente e si rivolse a Filippo:
- Eh, messere, fate la cortesia di dire a questo gentiluomo che non urli tanto, perché sordo non sono. Ho avuto un messaggio di vostro figlio Piero, dice che ha messo in fuga un gruppo di vecchie Bande Nere- annunciò, sprezzante. Tra le truppe corse un mormorio entusiasta, e Filippo si convinse che non tutto era perduto. Quel colpo di testa non era che uno sciocco imprevisto. Potevano farcela. Dovevano farcela, erano dalla parte del giusto.

I preparativi furono lenti, quasi rilassati. Piero e i suoi s’erano accampati nella piana, in vista delle mura della rocca. Era quella una vecchia fortezza non più in uso, ma abbastanza solida per parare gli assalti, secondo l’opinione del giovane Strozzi. 
Lui e suo padre s’incontrarono poco prima del tramonto, già progettando l’entrata in Firenze per il giorno dopo. Il ragazzo avanzò sul suo baio, senza mostrare il minimo segno di paura.
- Padre- Ossequiò il genitore con un rispettoso cenno del capo – La battaglia è nostra. È appena giunto un messaggero da Firenze, la città è nel panico, gli Spagnoli si sono ritirati. All’alba potremo procedere con la presa- raccontò, la voce vibrante di eccitazione . Filippo si sentì più sicuro, molto più speranzoso:
- Dunque, le voci sulle loro forze erano amplificate per spaventarci- replicò. Piero annuì:
- All'imperatore non importa chi governa Firenze, non aiuterà Cosimo. Questa volta i Medici se ne andranno da Firenze per sempre- aggiunse.
- E quelle vecchie Bande Nere che vi hanno affrontato a Prato?- volle sapere ancora lo Strozzi. Suo figlio sbuffò:
- Nostalgici di cartapecora. Se questo è il meglio che Vitelli può mandarci contro, la Repubblica risorgerà prima del sole- affermò, con una risata secca. 
Non avevano nulla da temere.

Alessandro Vitelli sorrise, estremamente soddisfatto, quando le sue spie gli riferirono l’umore al campo dei repubblicani. L’aver diffuso quell’ingannevole senso di sicurezza era stata una delle sue strategie migliori, riconobbe fra sé. Pochi fra quei ribelli erano veri soldati. Credevano che un colpo di stato potesse essere portato avanti come la contrattazione su un’oncia d’oro. Ricompensò le spie e andò a fare un ultimo, rapido giro delle truppe. 
Secondo i suoi calcoli, loro erano all’incirca la metà degli avversari, ma avevano organizzazione ed equipaggiamenti assai migliori. Le armerie dell’imperatore avevano assai aiutato. 
Il condottiero notò il duca a cavallo, nonostante l’ora tarda, in un angolo del cortile, che seguiva ogni movimento degli armati. Gli si avvicinò.
- Abbiamo buone notizie, mio signore. L’esercito dei ribelli è accampato a Montemurlo, dove la rocca può essere ben difesa, ma non hanno preso nessuna precauzione. Intendiamo coglierli di sorpresa- spiegò. Cosimo annuì, con aria grave:
- Saremo di pattuglia in città, ma crediamo che il vostro valoroso intervento renderà vana la nostra attesa- replicò. Era davvero difficile intuire cosa gli passasse per la testa. Suo padre Giovanni era molto più incline all’azione che al pensiero, molto più chiaro nelle espressioni. Questo giovane restava sempre nell’ombra. Il Vitelli si riscosse da quelle osservazioni inutili, indossando il cimiero:
- Ve li porteremo legati come un sacco di rigaglie- giurò. 
Fece un breve inchino e si mise in testa alle sue truppe. Cosimo de’Medici guardò quella concentrazione di uomini e morte lasciare la Fortezza di San Giovanni e restò a fissare la porta anche dopo che l’ultimo fu sparito. Poi, senza una parola, accennò alle sue guardie di seguirlo.  

Il temporale scoppiò all’improvviso, pesante e violento come quasi sempre in estate, affogando l’erba riarsa e trasformando la terra secca e crepata in una fanghiglia scivolosa. La sentinella fissò accigliata la muraglia d’acqua, tendendo una mano nell’oscurità ormai fitta: macché non riusciva a vedere neppure le sue dita. In più, lo scroscio continuo e i tuoni impedivano di sentire alcunché. 
Intorno, l’accampamento dell’ avanguardia era quasi tutto immerso nel sonno e mentre prendeva un sorso generoso da un fiasco di vino, il soldato si augurò, con rancore, che dormissero bene, almeno loro. Doveva essere mezzanotte passata, ma era impossibile dirlo. Di certo nessun campanile si sarebbe udito in quel trambusto. Si sistemò meglio l’archibugio in spalla e ricominciò a misurare a grandi passi l’ingresso dell’accampamento. 
L’uomo non si avvide del gruppetto che avanzava il più silenziosamente possibile, con gli zoccoli dei cavalli fasciati. Ebbe appena un sussulto di sorpresa, poi il pugnale gli affondò nella gola, impedendogli qualsiasi suono. Si afflosciò lentamente ai piedi di Pirro Colonna, luogotenente del Vitelli, che gettò uno sguardo ai suoi uomini e sbuffò d’incredulità:
- Una sola sentinella. Sono dei pazzi- commentò. 
Prese una torcia da uno dei suoi e la sventolò per segnalare il via libera al suo superiore. Poco lontano, Alessandro Vitelli vide la fiamma muoversi tremula nell’aria annacquata e diede il via al suo reparto. 

Piombarono sul piccolissimo accampamento come un’ondata di piena, spazzando l’avanguardia dei ribelli in pochi battiti di cuore. Colonna si avvide di un soldato che cercava di sgattaiolare verso l’accampamento maggiore e lo abbatté rapidamente. Non avevano ancora perso l’effetto sorpresa e ne approfittarono subito. 
L’appostamento di Piero Strozzi era più sorvegliato, ma nemmeno loro se l’aspettavano: i tremila medicei si abbatterono su di loro con il favore del temporale, buttando giù dalle brande uomini insonnoliti e impreparati. Prima che potessero organizzare un contrattacco, i nemici gli furono addosso, facendoli fuggire come formiche impazzite. 
Il giovane Strozzi corse fuori dalla sua tenda senza neppure l’elmo: sbraitò a un manipolo dei suoi di seguirli e si lanciò in una disperata difesa. Urla e bestemmie riecheggiavano mescolate alla pioggia e allo scalpitio dei cavalli, scoppi di archibugio e colpi di spada risuonavano cupi e metallici ogni volta che uno di loro era abbattuto. Piero tentò di resistere: sgusciò fra due cavalieri e ne abbatté un terzo, incurante dei compagni che gli cadevano intorno. Il suo obiettivo era Vitelli: se l’avesse raggiunto, forse avrebbe potuto volgere la battaglia a proprio favore. Ma la sorte non lo aiutò. 
Proprio mentre era in vista della sua preda, il fango fece scivolare il suo cavallo. Animale e cavaliere slittarono lontano, nel bel mezzo di una mischia. Il giovane parò colpi a destra e a manca, ma mentre alzava rabbiosamente una mano per pulirsi dal viso uno schizzo di sangue, fu raggiunto da una schioppettata che gli uccise il cavallo, trascinandolo a terra. 
Impigliato nei finimenti, scalciò per liberarsi e riuscì a scivolare via dalla rissa. Slittando e cadendo, corse alla cieca, riflettendo febbrilmente: era appiedato, senza spada e stavano inequivocabilmente perdendo. Si fermò al limite dell’accampamento, dove una fitta macchia boscosa nascondeva una serie di bassi dirupi. Non ebbe tempo di riflettere, sentì gente che lo inseguiva. Senza pensarci più, si gettò in un dirupo e scappò. 
Il Colonna, che era fra gli inseguitori, tese un braccio per fermare gli altri e sputò nella sua direzione:
- Lasciate che il coniglio torni alla tana. Non possiamo lanciarci fra le rocce a cavallo- disse, con disprezzo. Un secco cenno del capo e tornarono alla battaglia. Nel frattempo, tutto stava volgendo al termine: il comandante stava radunando i superstiti al centro dell’accampamento. Quelli erano in ginocchio e già imploravano pietà, mentre il Vitelli li interrogava. Quando vide apparire Colonna, si volse in fretta verso di lui:
- Preso?- chiese. L’altro scosse la testa e lui imprecò fra i denti:
- Dannazione! Non ci voleva, ma almeno sappiamo che alla rocca c’è il padre. Se le voci sono vere, non hanno aggiunto fortificazioni, ma dobbiamo agire velocemente. Se abbiamo fortuna, riusciremo a cogliere anche loro nel sonno- dichiarò. Lui e il luogotenente si scambiarono uno sguardo d’intesa e si affrettarono a riorganizzare le truppe.

Il condottiero non si sbagliava: la rocca di Montemurlo era quieta come una chiesa, quando arrivarono a ridosso delle sue mura. 
Dettero inizio all’assalto concentrandosi sulla porta principale, mentre un altro manipolo gettava rampini e corde sulle mura. 
Gli assaliti si fecero prendere dal panico, uscirono sugli spalti anche loro del tutto impreparati, tirando addosso ai nemici tutto quello che capitava. Vitelli evitò di un soffio un ferro di cavallo scagliato dritto contro la sua testa. Lui e i suoi si gettarono sugli avversari,e intanto Pirro Colonna era riuscito a incendiare la porta: i medicei cominciarono a defluire all’interno della rocca, mentre i difensori lasciavano cadere su di loro pezzi di legno infuocati, pietre e colpi d’archibugio. 

Uno dei pochi veri militari dei ribelli, Altoviti, ordinò a gran voce di alimentare le fiamme, perché i nemici non potessero entrare, ma la pioggia si faceva beffe dei loro sforzi. 
Filippo Strozzi, come gli altri buttato giù dal letto, afferrò una spada e scese in camicia su uno dei bastioni: l’esercito mediceo era già dentro le mura e il vento, l’acqua e i fulmini infuriavano come una tempesta in mezzo al mare. Udì Valori strillare come un maiale preso al laccio, mentre lo scalpitio degli assedianti riempiva ogni scala, ogni stanza. Si sentì in trappola, come un topo, e la spada gli sfuggì di mano, cadendo pesantemente sulla pietra dura.

Cosimo fermò il cavallo all’improvviso, come se una voce gli avesse urlato chiaramente nell’orecchio di farlo. 
Era sorta da poco un’alba lattiginosa e già calda su Firenze, la luce tenue illuminava l’Arno di vaghi bagliori opachi. 
Il duca si guardò intorno, lasciando correre lo sguardo lungo il ponte di Santa Trinita che aveva appena attraversato, sul fiume e verso la facciata della basilica dei Santissimi Apostoli, chiedendosi cosa l’avesse indotto ad arrestarsi tanto di colpo. 
La risposta arrivò inaspettata, nella persona di un messaggero che percorreva il ponte di gran carriera, cercando senza dubbio lui. L’uomo frenò il destriero a un passo dal suo e dopo un’affrettata riverenza, gli porse un dispaccio. I ribelli erano sconfitti e prigionieri nella rocca. 
Cosimo ricompensò il messaggero e corse a palazzo, a raccogliere dettagli più precisi. Scoprì che Piero Strozzi era riuscito a riunirsi alla sua retroguardia, ma poi quelli si erano rifiutati di tentare un altro attacco, quindi con tutta probabilità lui ormai stava riparando in Francia, e che i Cancellieri erano stati duramente sconfitti.  

Poco dopo, entrando nella piazza della Santissima Annunziata per assistere alla messa, sul momento si spaventò: una folla immensa si era raccolta davanti al luogo sacro e gridava da spaccare i timpani. Le sue guardie gli fecero ala intorno, per farlo passare, ma quando il giovane Medici udì cosa urlavano, ordinò di essere lasciato libero allo sguardo dei fiorentini. 
Da ogni angolo risuonava: “ Palle! Palle!” l’antico inno dei sostenitori dei Medici, e lui capì che in quel momento, come mai prima di allora, la sua gente lo riconosceva duca e vero erede della famiglia. Con ancora l’eco nelle orecchie, s’inginocchiò davanti all’altare e sorrise fra sé. 
Durante la funzione, uno dei suoi uomini gli passò un altro comunicato che lo informava della traduzione dei prigionieri a palazzo. Voleva vederli assolutamente, lo Strozzi più di ogni altro e si fece scortare in fretta.

Se Cosimo de’Medici si era aspettato qualcosa di glorioso o dignitoso negli sconfitti, fu assai deluso. Si trovò davanti una ridda di piangenti incatenati e sporchi di sangue, che imploravano pietà e perdono. I consiglieri del duca erano là, a guardare la scena patetica, ma mentre l’attenzione degli altri era concentrata sui traditori, il Guicciardini rimase a fissare il duca: non c’era traccia d’incertezza o di malleabilità negli occhi del ragazzo, solo una durezza sprezzante e altera e un disgusto profondissimo. Le sue labbra si strinsero, mentre contemplava quello spettacolo, e quando parlò si rivolse solo a Filippo Strozzi, l’unico che fino ad allora non aveva aperto bocca:
- Sarà fatta giustizia, ve lo garantiamo, perché mai si dica che abbiamo agito contrariamente alle leggi di Dio o degli uomini, messer Strozzi. Avrete tutti regolari processi e riscatti, secondo quanto i magistrati decideranno. Ma a voi, vogliamo dire di essere saldo e forte di cuore, come lo foste nel prendere le armi contro la patria vostra- dichiarò, in tono freddo e spietato. 
Il mercante alzò gli occhi nei suoi, e per un lungo istante, si scrutarono. Ma infine, si arrese. Per la seconda volta. 

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Capitolo 6
*** La futura duchessa ***


6.
1539
 
Nonostante fosse l’alba e la mattina fosse gelida, i giovani erano già in addestramento da ore. Il cortile risuonava dei colpi secchi dei bastoni, dell’impatto dei corpi con il terreno e di qualche lamento o imprecazione occasionale. 
Il duca si liberò in rapida successione dei primi due avversari, poi lottò brevemente con il terzo, un ragazzo ben più grosso di lui, ma che infine cadde pesantemente sulle natiche. Si udì qualche risata, ma Cosimo evitò qualsiasi dileggio:
- Molto bene, sei riuscito a tenermi testa più di tutti gli altri- disse all’altro, aiutandolo ad alzarsi. Quello fece una riverenza impacciata e replicò:
- Grazie, Vostra Eccellenza-  
- Avete fatto tutti un buon lavoro, potete andare- aggiunse Cosimo, rivolto a tutti, congedandoli. 
Mentre uscivano chiacchierando e lui prendeva dal suo attendente una pezzuola pulita, scorse una figura familiare tra le colonne del loggiato.
- Madre- salutò donna Salviati, andandole incontro con un sorriso un po’ colpevole. Sapeva di non essere andato a trovare lei e Bianca spesso quanto avrebbe dovuto. Maria sembrò non badarvi: gli restituì il sorriso e lo riverì:
- Vostra Eccellenza, sono lieta di trovarvi in salute- disse, e non era un vuoto complimento: negli ultimi mesi suo figlio aveva completato il suo sviluppo, crescendo di un buon paio di palmi e facendosi parecchio più largo di spalle. Sembrava quasi che l’aumento delle responsabilità fosse coinciso con un rafforzamento generale del fisico. 
L’anno trascorso era stato intenso. I processi e le condanne ai fuoriusciti ribelli sarebbero stati sufficienti già di per sé. 
Lei non avrebbe dimenticato molto in fretta la durezza sul volto di Cosimo mentre guardava decapitare i suoi nemici. Non aveva tremato, non aveva distolto lo sguardo in nessun modo, ma una volta solo con lei si era preso la libertà d’impallidire. “ Non posso mostrarmi debole, madre, o tutti crederanno che io sia ancora un re di pezze” le aveva detto, in un sussurro. 
Poi, finalmente, Carlo V si era deciso a riconoscergli la nomina ufficiale a Duca di Firenze, dandogli l’autorità che ancora gli mancava. Da quel momento, il giovane non era stato fermo un giorno, intraprendendo i primi viaggi in tutta la Toscana e cominciando a prendere provvedimenti per affrancarsi prima dal suo Consiglio, poi dai nobili della città. Era appena all’inizio, e la donna sapeva che erano quei pensieri a oscurare il suo volto. 
Non dava ascolto ai maligni, e ce n’erano molti, che affermavano che il duca era tormentato dallo spettro di Filippo Strozzi, morto qualche mese prima nella sua cella, suicida. Ma voci del genere erano inevitabili, riconobbe.
- Come state? E la piccola Bia?- le chiese, riscuotendola dalle sue riflessioni.
- Entrambe molto bene, Vostra Eccellenza. La bambina chiede sempre di voi- rispose Maria. Cosimo annuì, sentendosi ancora più in colpa:
- Verrò a trovarvi presto, madre. In verità, sto progettando di farvi trasferire in città a breve, se una questione che mi preme molto sarà risolta- replicò. 
La madre lo guardò interrogativa: non aveva mai fatto cenno all’idea di far venire lei e Bianca a Firenze, almeno, così aveva detto, non prima di essersi sposato. Maria sapeva che, alla fine, anche la trattativa per la mano di Margherita d’Austria era andata in fumo: la fanciulla era stata promessa a un altro, oltretutto, nemico di Cosimo.
- Volete dire che avete ricevuto delle proposte, Vostra Eccellenza?- domandò. Lui fece un cenno vago con la testa:
- Il papa Farnese continua a volermi propinare sua nipote, Vittoria, ma non intendo dargli un’occasione di espandere il suo controllo sul mio territorio. No, ho deciso di rimettere la cosa nelle mani dell’imperatore. Voglio dimostrare fedeltà e al contempo legarmi per via di sangue con qualcuno che sia nelle sue grazie. Spero che questo mi darà molta più libertà- spiegò. 
Donna Salviati capì, e seppur non volesse contraddire il suo signore, non poteva non esprimere perplessità:
- Immagino proporrà famiglie spagnole - osservò, in tono che sperava non fosse troppo polemico. Il figlio sentì comunque l’inespresso nella sua voce:
- Non preoccupatevi, madre, non è mia intenzione cucirmi da solo le briglie con le quali domarmi- la rassicurò – La mia posizione è ancora troppo precaria, ho bisogno di un appoggio forte. Ma questo non significa che li lascerò disporre di me a loro piacimento- aggiunse. 
Erano davvero pochi quelli di cui poteva fidarsi e doveva rinsaldare le sue alleanze in modo duraturo.

Il suo inviato presso l’imperatore, ser Bandini, era un uomo efficiente. Solo pochi giorni prima gli aveva affidato l’incarico di trovargli una fanciulla nobile, ricca, bella e di parte spagnola, ed eccolo lì, nel suo studio, con pronto un elenco di nomi. 
Cosimo sedette, impaziente di sentire il suo rapporto, e con un cenno l’invitò a iniziare. Giovanni Bandini s’inchinò profondamente e non perse altro tempo:
- Sono in molti a desiderare un’unione con il vostro nobile casato, Vostra Eccellenza- esordì, con zelo – Ma la proposta migliore pare essere quella di don Pedro Alvarez da Toledo, il viceré di Napoli  – precisò, ma il duca lo interruppe:
- Sì, mi ricordo di lui. Accompagnai il mio predecessore a una visita presso la sua corte – osservò. Bandini annuì:
- Sì, Vostra Eccellenza: egli è un uomo di valore, molto ricco e vicinissimo a Sua Maestà- proseguì – Ha quattro figliole, due troppo giovani per essere prese in considerazione, ma è suo onore proporre la primogenita, donna Isabella-.
Cosimo fece un vago cenno d’assenso:
- Vidi una delle sue figlie durante la visita, e la ricordo assai graziosa, ma non mi pare il suo nome fosse Isabella- commentò, pensieroso. 
L’inviato scorse rapidamente i suoi appunti:
- Probabilmente, Vostra Eccellenza parla di Eleonora, la secondogenita- gli venne in aiuto. Il giovane annuì con più vigore:
- Credo abbiate ragione, Bandini. Fate così- e gli fece cenno di avvicinarsi – Con la discrezione che vi appartiene, informatevi riguardo queste nobildonne e in seguito prenderò una decisione- disse. L’emissario s’inchinò ancora una volta e promise la massima cura nell’affare.

I risultati della sua indagine non furono promettenti. Fu con un certo timore che, circa una settimana dopo, si ripresentò al suo signore. 
Bandini s’impose un contegno il più dignitoso possibile, ma in realtà, temeva che il duca ne sarebbe stato assai scontentato. Il ragazzo era ben lungi dal carattere lunatico e tirannico di Alessandro de’Medici, ma già s’era assistito a un paio di sue terribili sfuriate, di cui l’emissario non voleva certo essere il prossimo destinatario. Cosimo stava rientrando dalla messa in San Lorenzo: forse avrebbe accolto le notizie con animo migliore, sperò il poveretto. 
Il duca lo ricevette, in compagnia della madre, e non volendo mettersi ulteriormente nei guai, Bandini gli passò la lettera che aveva ricevuto, accompagnandola con poche parole:
- Vostra Eccellenza, il vostro inviato a Roma ha indagato per mio conto riguardo la questione di Don Pedro- disse, rimanendo poi in trepida attesa. 
Cosimo scorse la missiva, poi, con sorpresa sia di Bandini che di donna Salviati, rise. Alzò lo sguardo sul viso perplesso della madre e si affrettò a spiegare:
- Sembra che l’onorabile don Pedro voglia rifilarci merce guasta. Ascoltate: “ Per il dovere e l’amore che porto all’Eccellenza Vostra, devo riferirvi le voci da me udite da gente la quale lo può ben testimoniare, che parlano di donna Isabella da Toledo come di fanciulla bruttissima e di cervello il ludibrio di Napoli intera.”- S’interruppe, alzando un sopracciglio in gesto esplicito, poi continuò la lettura:
- Di contro, donna Eleonora, sua sorella, m’è stata vivamente descritta come bella e ornata di ogni grazia e virtù che si possano desiderare in una fanciulla.”
Concluse e ripiegò la lettera, alzandosi:
- L’alleanza con don Pedro ci serve, questo è fuori di dubbio. Egli ha denaro, potere e la stima dell’imperatore- esordì, rivolto a entrambi i presenti – Se la donna fosse stata solo poco avvenente, si poteva anche far correre, ma non intendo prendermi una sciocca in moglie. Sarà per Eleonora, non per Isabella, che tratteremo, fatelo sapere al viceré. Insistete, se dovete, Bandini, e se rifiuterà, vaglieremo altre proposte- decise, volgendosi al suo funzionario, che interiormente, sospirò di sollievo. La faccenda poteva ancora concludersi felicemente, e con gran vantaggio per tutti.

Eleonora lisciò le pieghe della gonna all’altezza del ginocchio e tornò a intrecciare le mani in grembo. Il mormorio intorno a lei dava l’impressione che si trovassero sotto una brezza leggera, non in una sala del palazzo vicereale. 
In realtà, la principessa diciassettenne avrebbe voluto solo pochi presenti a quell’incontro con i fiorentini, ma l’etichetta di corte quasi pretendeva quello stuolo di parenti donne, fra cui le sue tre sorelle, di dame di compagnia, più la sua balia e il confessore. 
La ragazza si trattenne dal sospirare, impaziente, e lanciò un’occhiata fugace a una delle molte specchiere, sincerandosi per l’ennesima volta di essere in ordine. Aveva chiesto quale fossero i colori dello stemma del suo pretendente e si era fatta fare, in tempi rapidissimi, quell’abito di seta cremisi con i ricami in fili d’oro e perle, piuttosto semplice, ma elegante, come segno della sua buona volontà di entrare a far parte di quella famiglia. 
Suo padre era stato schietto sia con lei, sia con Isabella, quando nei primi tempi era stata la prescelta: i Medici non avevano più la grandezza di un tempo e in fondo, questo Cosimo non era che un uomo nuovo nella politica europea, in cerca di alleati potenti e di ricchezza. Quale di loro fosse andata in moglie al duca di Firenze, non dovevano dimenticare la loro discendenza dal ducato d’Alba e la loro appartenenza al glorioso impero spagnolo, e proprio per questo dovevano sentirsi onorate dell’interessamento di Sua Maestà in persona, che cominciava a tenere il giovane Medici da conto. 
Ma, allo stesso tempo, dovevano capire che si sarebbero trovate in un luogo ostile, ad essere duchesse di una città che era stata in tempi recentissimi una repubblica. Quindi, don Pedro aveva ordinato alle sue figlie di mantenere sempre un atteggiamento ben disposto e diplomatico con i fiorentini. 
Isabella, da sciocca che era, all’idea di poter finire sposata a un nobile di così oscura estrazione, si era disperata. Eleonora si era sorbita giorni di lamentazioni da parte di sua sorella, aspettando pazientemente che il duca si decidesse. 
Quando era venuta a sapere che egli insisteva nel chiedere la sua mano, aveva ricordato gli avvertimenti del viceré, e si era regolata di conseguenza. Non fece storie, anche perché era lieta della fortuna toccatale. Da secondogenita, credeva che il suo destino sarebbe stato un matrimonio minore o il convento. 
A differenza di Isabella, era convinta che Cosimo de’ Medici valesse molto più di quanto sembrasse a prima vista, e benché Firenze fosse una città molto più piccola e meno importante di Napoli, pensava che avrebbe potuto salire in prestigio. Forte di queste convinzioni, la principessa si rilassò e riuscì a dipingersi sul viso un’espressione di perfetta serenità. 
Il chiacchiericcio nella sala s’interruppe di colpo all’ingresso del viceré con i tre dignitari ducali. Eleonora si alzò e s’inchinò, imitata da tutto il seguito, e don Pedro le fece segno di avvicinarsi:
- Signori, - disse in spagnolo, rivolto ai tre – Mia figlia, Eleonora – 
La giovane riverì gli ospiti, che risposero con cortesi cenni del capo, e in cuor suo fu felice di venire a sapere che parlavano spagnolo. Il suo italiano era piuttosto debole, in verità. 
Il padre la fece sedere al tavolo al centro della stanza, accanto a lui, con i funzionari fiorentini dall’altro lato e i suoi dietro, e le trattative poterono aver inizio.
- Signora, - esordì uno dei toscani, Ridolfi – Come già saprete, Sua Eccellenza il duca Cosimo de’Medici ci ha inviato qui per rinnovare la sua proposta di matrimonio, con la speranza di un felice esito – spiegò, rivolgendosi direttamente alla fanciulla. 
Si trattava di una pura formalità: i termini, anche economici, del contratto erano già stati fissati, con gran divertimento di tutta la corte vicereale. Era ormai noto che il duca, da vero mercante, fosse riuscito a dimezzare la somma richiesta per lei adducendo la motivazione che “ la figlia di un viceré non valeva lo stesso denaro della figlia di un imperatore” cosa che, invece di offendere don Pedro, gli aveva fatto fare grasse risate alla faccia tosta del giovane, ma intraprendente Medici. 
Eleonora si raddrizzò impercettibilmente con la schiena e replicò, con modestia:
- L’offerta di Sua Eccellenza lusinga il mio cuore e onora la mia persona, e con il benestare di Sua Eccellenza il viceré, la grazia e la volontà di Dio e la letizia del mio spirito, io accetto –
Si volse verso il padre, che annuì in segno di approvazione, e Ridolfi riprese, estraendo una busta sigillata:
- Questa è per noi una grande gioia, mia signora- dichiarò, rompendo il sigillo e mostrando il contenuto alla ragazza:
- L’anello che Sua Eccellenza v’invia, per celebrare la prima promessa di matrimonio. Con il consenso di Sua Eccellenza il viceré, il rito è stato concordato per domani. Con la grazia di Dio, vi accompagneremo a Firenze nelle prossime settimane, perché possiate unirvi al vostro augusto consorte- l’informò. 
Eleonora chinò il capo, in segno di comprensione, e don Pedro si alzò, imitato da tutti gli altri, invitando gli ospiti a seguirlo, ma uno di quelli che fino ad allora aveva taciuto, chiese la cortesia di un attimo. 
Porse alla principessa un oggetto avvolto con cura in una fodera di velluto e disse:
- Di grazia, mia signora, Sua Eccellenza ha molto desiderato farvi pervenire un suo ritratto, così che possiate conoscere e cominciare ad aver cara la sua immagine. Il duca vi prega anche di voler ricambiare con un vostro ritratto –
Lei accettò il dono e lo strinse con garbo al seno:
- Di certo esaudirò il desiderio di colui che presto potrò chiamare mio signore. Di cuore lo ringrazio, e farò eseguire il ritratto il prima possibile – assicurò, arrossendo un poco sulle guance. 
I fiorentini rinnovarono i loro omaggi e seguirono il viceré fuori dalla sala. 
Dopo aver atteso in totale silenzio fino ad allora, le fanciulle del suo seguito, con in testa le sue sorelle, attorniarono la promessa sposa, invitandola con risatine e squittii a mostrare l’effige del duca fiorentino. 
La ragazza si accigliò, imponendo seccamente loro un contegno e liberò il ritratto dal suo involto. Appena ebbe esaminato l’immagine, Eleonora si rese conto di ricordare Cosimo de’ Medici, anche se piuttosto debolmente. Essi s’erano visti alcuni anni prima, quando lui aveva accompagnato il duca precedente a Napoli. Cercò di farsi tornare in mente la sua voce o i suoi modi, ma la memoria non l’aiutò. 
Il suo animo di fanciulla provò un certo sollievo, comunque: la sua persona comunicava modestia e fierezza allo stesso tempo, in una parvenza fisica tutt’altro che sgradevole. 
La principessa spagnola trattenne il sorriso che le salì alle labbra e lasciò che l’emozione per il giorno seguente la pervadesse. 
Com’ era sua abitudine prima di un’occasione importante, decise di raccogliersi in preghiera e congedatasi da tutti, volle rimanere sola nella cappella di palazzo. 

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Capitolo 7
*** Le ansie del matrimonio ***


7.


Nonostante le buone intenzioni e le promesse, a causa di svariati motivi, ultimo dei quali la morte dell'imperatrice Isabella del Portogallo, il matrimonio ufficiale di Cosimo ed Eleonora venne procrastinato per mesi. Benché il duca mostrasse alla corte l'usuale impassibilità, quelli più vicini a lui conoscevano la sua impazienza e i dignitari fiorentini alla corte napoletana riferivano la stessa ansia da parte della duchessa.
I due sposi per procura s'erano scambiati una gran quantità di lettere, nelle quali, anche se con tono composto e formale, ognuno a suo modo dichiarava già di provare affetto per l'altro. Finalmente, alla fine di Giugno, passato un mese di rispetto per il lutto di Sua Maestà imperiale, Eleonora ebbe il permesso di partire per la Toscana.
La duchessa credette di morire dal caldo, stretta nell'abito di seta, mentre attendeva di essere imbarcata sulla nave ammiraglia della piccola flotta che avrebbe accompagnato lei e il suo numeroso seguito. Il sole picchiava forte, benché la mattina fosse ancora alta, e l'aria salmastra e densa non aiutava affatto.
La ragazza si mosse appena, sventolandosi con garbo, per guardare la sua famiglia, riunita sul molo.
Suo padre stava dando ultime istruzioni a suo fratello Garcia, che sarebbe venuto con lei, parlando rapidamente e a bassa voce. Di certo gli stava racccomandando come comportarsi alla corte del duca. Poco più in là, Isabella, Anna e Giovanna, le sue sorelle, piangevano nei loro pannicelli, circondate dalle loro dame. Sua madre non c'era: la sua salute le permetteva assai pochi spostamenti. S'erano salutate la sera prima, con grande commozione. Ripensandoci, Eleonora si sentì torcere il cuore. Aveva il presentimento che non si sarebbero più viste. Scosse impercettibilmente la testa, per impedirsi di scoppiare in lacrime. Non voleva dare l'impressione di avere paura o di essere dispiaciuta del luogo dove stava andando. Anzi, in cuor suo non vedeva l'ora. Sapeva bene che una figlia non è fatta per restare in casa dei genitori, e la figlia di un uomo di rango ha il doppio compito di compiacere il padre con un matrimonio consono. Guardò per un po' i marinai e gli uomini di fatica caricare sulle navi gli averi suoi e del suo seguito, e il dispicere si mutò sensibilmente in emozione. Stava finalmente partendo: una nuova corte, un marito, una futura famiglia. In quelle lunghe settimane aveva fantasticato continuamente su Cosimo, com'era normale che fosse. Se l'immagine che si era creata di lui dalle lettere corrispondeva alla realtà, allora sarebbe stata la moglie più felice d'Italia, aveva confidato alla sua balia.
Federigo, il maggiore dei suoi fratelli, le si avvicinò, riportandola alla realtà. Insieme, si avviarono verso il resto della famiglia, per il congedo.
- Sua Eccellenza ricordi le mie parole- le disse il padre, prendendole le mani - E abbia ogni benedizione Nostro Signore vorrà concedervi-
La figlia si limitò a chinare il capo, con obbedienza e gratitudine. Baciò le principesse, raccomandandosi che portassero onore al loro nome, e i principi, dichiarando loro affetto infinito.
Garcia la precedette, e quando furono a bordo, i sudditi venuti a salutare la loro principessa in partenza, gridarono benedizioni e lode al viceré e all'imperatore.
 I due fratelli restarono sul ponte a guardare la costa che si allontanava, finché non sparì. Solo allora Eleonora di Toledo si rese conto di stare abbandonando per sempre quella parte della sua vita. Non era più principessa di Napoli, figlia del marchese di Villafranca e nipote del duca d'Alba. Adesso, poteva considerarsi duchessa di Firenze.

Sebbene il numeroso corteggio che l'aveva seguito fin da Pisa, stesse dando segni d'irrequietezza per la lunga attesa sotto al sole, Cosimo de' Medici non mosse un muscolo, dritto sul suo cavallo, gli occhi fissi all'orizzonte. Il messaggio era stato breve e chiaro, sarebbero arrivati a momenti e lui avrebbe aspettato anche fino a sera, fosse stato necessario.
Il protocollo, in realtà, avrebbe voluto che lui rimanesse a Firenze, ma a dispetto della sua consueta impassibilità, non aveva resistito alla curiosità di vedere la fanciulla con i suoi occhi il prima possibile. Intanto, aveva messo al lavoro un'immensa squadra di artisti, musicisti, architetti e dignitari di corte in modo da organizzare nozze fastose e in linea con un preciso intento diplomatico.
Stava ripassando mentalmente ogni singolo aspetto delle celebrazioni, quando uno scudiero gli si avvicinò con deferenza:
- Vostra Eccellenza, arrivano- annunciò.
Il duca fece un cenno ai suoi dignitari e spronò avanti il cavallo. Una lunga colonna avanzava, sollevando una gran quantità di polvere sulla strada inaridita, e da essa si staccò un singolo individuo, che procedette con sicurezza in sella a un cavallo baio. Cosimo intuì di chi si doveva trattare e gli andò incontro.
Garcia Alvarez da Toledo aveva circa cinque anni più di lui, ma sembrava ancora un ragazzo ben più giovane, dal sorriso pronto e gli occhi scuri e scintillanti. Il genero accostò il cavallo al suo e lo salutò con compostezza, chinando il capo:
- Vostra Eccellenza- lo apostrofò, attendendo che fosse l'altro a parlare per primo.
Cosimo chinò il capo a sua volta e strinse la mano del giovane spagnolo:
- Don Garcia, finalmente c'incontriamo per unire le nostre famiglie in lieta concordia- dichiarò.
- Per grazia di Dio, così sia, Vostra Eccellenza- fu la replica. Garcia fece segno ai suoi di far venire avanti sua sorella e aggiunse:- Ecco la vostra sposa, Eccellenza-.
La duchessa era in sella a un piccolo cavallo chiaro, vestita di cremisi e oro. Si affiancò al fratello e riverì lo sposo con un piccolo sorriso. Cosimo la omaggiò con parole cortesi, ma non insincere. Qualcosa, dentro di lui, si rilassò. Quantomeno, l'artista che le aveva fatto il ritratto non era un imbrattatele: la fanciulla era bella quanto e più l'immagine prometteva. I colori delle vesti esaltavano il suo incarnato alabastrino e i grandi occhi castani, tutto nella sua posa indicava dignità e grazia. Tuttavia, nonostante i lineamenti delicati e l'aspetto mite, il duca ebbe l'impressione di non trovarsi di fronte a una fanciulla timida o sprovveduta, anzi. Ma questo l'avrebbe constatato solo con il tempo.
Il duca diede l'ordine a tutta la colonna di muoversi, per condurre gli ospiti a Pisa, prima di partire per Poggio a Caiano, dove Eleonora sarebbe stata presentata ufficialmente alla corte.

Durante il breve viaggio, Cosimo non la lasciò mai per un attimo, parlandole con entusiasmo della villa di Poggio di cui, era certo, lei avrebbe finito per innamorarsi. I giovani scoprirono assai presto di avere una comune passione per la caccia, e il duca promise che avrebbe senza dubbio organizzato una battuta nel parco ricco di lepri e fagiani.
Eleonora aveva avuto paura di non sapere di cosa parlare, o di vedere deluse le sue aspettative nei confronti del marito, ma nulla di tutto questo accadde. Quando lui fu distratto da uno dei suoi uomini, lei ne approfittò per voltarsi verso il fratello, ma non riuscì a esprimere quello che provava, e si limitò a sospirare e sorridere. Garcia capì ugualmente e si piegò verso di lei:
- Sarete felice con lui, cara sorella- affermò. La ragazza annuì, vagamente, riflettendo sulla sua fortuna. Fanciulle nella sua posizione assai di rado si sposavano per loro volontà, e ancor più raramente i loro matrimoni promettevano così bene già fin dall'inizio. Eleonora non era una giovane civettuola o piena di fantasie e di certo non amava esprimere i suoi sentimenti. Decise che avrebbe atteso ancora, prima di valutare se la sua fosse fortuna o meno.
La settimana in villa, per buona sorte, non contribuì a darle foschi presagi sul suo immediato futuro, anche se non tutto filò liscio come lei avrebbe voluto.
Le giornate trascorsero piacevolmente tra passeggiate, concerti, spettacoli di acrobati e nani e banchetti, i due sposi sempre in compagnia l'uno dell'altro. Cosimo aveva preso molto in simpatia il cognato, e si trovava assai bene anche con il numeroso seguito spagnolo della moglie. Aveva un carattere socievole e disponibile, nonostante amasse la solitudine e la meditazione e non aveva problemi a farsi apprezzare dagli altri, anche per una sua certa dialettica spiritosa e affabile.          
Eleonora, invece, per indole, era molto più distaccata. Conosceva bene l'ostilità generale nei confronti degli spagnoli, e sapeva che la corte fiorentina non faceva eccezione. Dimostrò eccellenti maniere con i suoi futuri collaboratori toscani, ma non era tanto ingenua da non sentire i mormorii delle dame. Scoprì presto che la pietra dello scandalo era il suo modo d'abbigliarsi.
Una sera, passeggiando nella loggia con il fratello gli confidò le sue perplessità, e Garcia, ridendo, le rivelò che le nobildonne fiorentine trovavano sconvolgenti i suoi lobi forati e gli orecchini, dato che in quelle zone erano distintivi delle meretrici. Eleonora non si lasciò scoraggiare: un buon tocco di testardaggine e di orgoglio la rese decisa a farsi accettare così com'era, a costo di lasciare le nobili fiorentine pallide dallo sgomento.
Il penultimo giorno prima del rientro a Firenze, Cosimo annunciò a Eleonora la battuta di caccia che le aveva promesso, e la ragazza ne fu lietissima. Si preparò con cura particolare, fece sellare il suo cavallo migliore e si affrettò a raggiungere il duca e Garcia che l'aspettavano all'ingresso della villa.
Camminò a testa alta fra due ali di dame che non celarono la sorpresa e non tennero nemmeno troppo bassi i sussurri, ma lei si fermò davanti al marito, per farsi ammirare. In barba a quelle delicate damigelle, la duchessa indossava una zimarra alla turca color tané sopra un paio di calzoni dello stesso colore infilati in un paio di stivali da equitazione. A coronare il tutto, portava i capelli scuri legati in una treccia e semi-nascosti da un cappello piumato. Naturalmente, non aveva rinunciato ai suoi orecchini a goccia preferiti.
- Sono pronta, mio signore- dichiarò, fieramente.
I suoi timori si dissiparono. Pensava che Cosimo si sarebbe arrabbiato, ma dopo solo un istante di meraviglia, lui sorrise e le porse la mano, accompagnandola fuori. Mentre lo superava, il duca si piegò leggermente verso il cognato:
- Lasciate che ve lo dica, don Garcia, non vedo l'ora di sposarla ufficialmente- bisbigliò, bene attento a non farsi udire da altri. Chiaramente, i lobi forati di lei non lo turbavano minimamente.

Quella domenica ventinove giugno, Firenze si svegliò pervasa da un'insolita immobilità. Gli apparati effimeri, i paramenti, le decorazioni disseminate lungo le vie della città parevano congelate nell'attesa. Nel palazzo di Via Larga e in San Lorenzo, naturalmente l'atmosfera era ben diversa. Da anni non si assisteva alla celebrazione di un matrimonio così importante, e i luoghi chiave in cui si sarebbe svolto brulicavano di attività. All'interno del cortile del palazzo vennero affisse le tavole celebrative in onore da un lato dell'imperatore, dall'altro del duca, sulla facciata era un fiorire continuo dello stemma Medici e di quello Toledo uniti, le palle rosse in campo oro intrecciate alla scacchiera bianca e azzurra, motivo ripetuto anche nei paramenti all'interno della chiesa.
Eleonora però non pensava a tutto questo. Si era svegliata con l'orribile sensazione di avere un nido di serpi al posto delle viscere, e non riusciva a smettere di parlare velocissimo in spagnolo e gesticolare, mentre le sue dame la vestivano e le dicevano frasi rassicuranti. Era normale, disse la sua vecchia balia, aver paura il giorno delle nozze, affermazione che tutte le altre sottoscrissero vigorosamente, ma che non l'aiutò a calmarsi.
Anzi, sobbalzò, quando qualcuno sfrecciò nella stanza ridendo allegramente, seguito da qualcuno che entrò con passo molto più composto. La sposa, che era voltata, sul momento non vide di chi si trattava, ma quando si girò comprese anche l'improvviso silenzio del suo corteggio.
Le visitatrici inaspettate erano una donna avanti in età in abiti vedovili e una fanciulla di due o tre anni, che fece una bella riverenza alla duchessa e le augurò il buon giorno. Eleonora s'inchinò a sua volta, con un sorriso e salutò con rispetto la suocera, che ancora non aveva incontrato:
- Mia signora- disse - Sono lieta di fare finalmente la vostra conoscenza-
Donna Maria la riverì e chiese perdono per l'irruenza della piccola Bianca, ma Eleonora scosse il capo, con indulgenza. Visto che era praticamente pronta, congedò le dame e invitò donna Maria a sedersi. Il suo nervosismo era mutato. Per rispetto all'età, attese che fosse l'altra a parlare.
- Vostra Eccellenza, mi scuso di non essere venuta a colloquio da voi prima, ma assai di rado lascio il mio domicilio- spiegò. Fece una pausa, osservandola, poi aggiunse:
- Io credo che Sua Eccellenza il duca vi abbia parlato di Bianca- Eleonora annuì.
- Vedete, Sua Eccellenza ha grande affetto per questa sua figliola- proseguì - E amerà con ugual misura ogni figlio Vostra Signoria gli darà-
Non fu esplicita, ma la ragazza capì lo stesso e volle rassicurarla:
- Non temete, Donna Maria. Bianca è una fanciulla, e come ogni fanciulla è innocente e incolpevole delle sue origini. Sarei una sciocca, lontana dalla grazia di Nostro Signore, se mostrassi odio per lei. Le porterò invece affetto, come se fosse uscita dal mio grembo, perchè Sua Eccellenza la ama, e io non farò mai niente contrario ai suoi desideri- dichiarò.
Donna Salviati le sorrise e le augurò fortuna, uscendo con la piccola. Ora la sposa non aveva più paura, per qualche motivo.

Eleonora visse quella lunga giornata quasi in sogno. Il corteo la scortò lungo le vie principali della città, tra ali di folla in festa, sotto apparati effimeri con figure allegoriche che alludevano alla virtù, al pudore, alla bellezza e sopra ogni altra cosa, alla fecondità. L'interminabile cerimonia nuziale parve volare via in un soffio, e quasi prima che se ne accorgesse, aveva pronunciato il giuramento e la fede infilata al dito.   
Mano nella mano al suo signore, era certa di non avere più cuore, scomparso per la troppa emozione e non godé del magnifico banchetto o dei sontuosi spettacoli. Apprezzò con le giuste parole gli splendidi e abbondanti doni, ma non li vide davvero. La sua mente era protratta al momento che desiderava e paventava in egual modo. E presto, prestissimo, lo affrontò.
Seduta sul letto coniugale, in camicia da notte, le cortine tirate e appena mosse da una calda brezza notturna, la duchessa attendeva. Le sue dame l'avevano lavata di nuovo e profumata, e una era stata a lungo a spazzolarle i capelli, che ora ricadevano come una cascata di seta color ebano. A Eleonora non piacevano i suoi capelli, troppo lisci e scuri per essere considerati belli, così li teneva raccolti in preziose retine. Ed era certa non sarebbero piaciuti nemmeno a lui.
All'improvviso si trovò brutta, non adatta, e pensò che il suo sposo l'avrebbe odiata e rifiutata. Probabilmente, avrebbe dovuto sopportare l'umiliazione di qualche favorita, a tutte le mogli di rango succedeva.
Per un attimo, considerò di fingere un'indisposizione, ma un secondo dopo si diede della stupida. Era di sangue troppo nobile per tremare la sua prima notte di nozze. Avrebbe compiuto il suo dovere e messo al mondo bellissimi, piccoli duchi. Per farsi coraggio, respirò a fondo e giunse le mani sul petto, in preghiera.
Era tanto assorta da non accorgersi dell'arrivo di suo marito.
Cosimo sedette piano sul materasso, per non disturbarla, e si segnò a sua volta, recitando una breve preghiera. Restò qualche istante a contemplarla, angelica nella sua devozione, poi la chiamò, con delicatezza. Lei aprì gli occhi e per la prima volta da quando si erano incontrati, arrossì. Il suo sposo le pareva ancora più bello, e il modo in cui la guardava la convinse che non la odiava, tuttaltro.
Il duca tese una mano e le sfiorò i capelli:
- Ero assai curioso di vederli- rivelò - Li tenete sempre nascosti, mia signora-
- Li mostrerò solo a voi, allora- replicò la duchessa, strappandogli un sorriso. Lui non allontanò per un attimo gli occhi dai suoi:
- Avete paura?- le chiese, avvicinandosi. Lei annuì, sentendo il cuore battere più rapido, ma non si sottrasse al bacio, che fu un accenno lieve.
Quando si separarono, lui l'indusse a guardarlo:
- Fidatevi di me, mia signora- le disse e qualcosa in lei si sciolse. Chiuse gli occhi e si lasciò andare sui cuscini, la pelle che si accapponava via via che veniva esposta all'aria notturna.              

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Capitolo 8
*** I nani e l'idra di Lerna ***


8.

1543

 Un chiacchierare sommesso, quasi impercettibile, si levava dalle estremità della piccola sala, ma l'uomo non sentiva altro che il raschiare soffice del pennello sulla tela.
- Vostra Eccellenza- disse, a un certo punto - Vi prego, voltate leggermente il viso verso destra-
La duchessa obbedì, senza cambiare d'un ciglio espressione. Gli altri artisti di corte che l'avevano già ritratta in quei quattro anni concordavano tutti nel ritenere la Signora Duchessa il soggetto ideale da immortalare, per la sua capacità di stare ore immobile, senza lamentarsi affatto, e ora Agnolo Bronzino vedeva bene che questo era più che vero.
Aveva lavorato alle tele per le nozze dei duchi, aveva ritratto da poco Sua Eccellenza in armatura, e stava quasi per terminare gli affreschi nella cappella privata della duchessa, ma se avesse dovuto dire di conoscere la voce di quella donna, avrebbe mentito. La Signora Duchessa gli rivolgeva il buon giorno quando veniva per la posa, o se lo incrociava, per i corridoi del palazzo, ma mai più di quello.
Per questo, quando Eleonora parlò, lui lasciò quasi cadere il pennello dalla sorpresa:
- Maestro Agnolo, è dovuto al colore dei vostri capelli il soprannome con cui siete noto?- chiese, come se stesse pensandoci da lungo tempo. Parlò in fiorentino, altra cosa insolita, visto che con tutti, tranne il duca e i dignitari italiani, usava lo spagnolo.
Il pittore si fermò, abbassando lo strumento, e gettando un'occhiata fugace a quegli incomprensibili occhi castani, facili da riprodurre, ma impossibili da leggere.
- Così è, Vostra Eccellenza- rispose, in tono leggero - Un nomignolo faceto che mi affibbiarono da ragazzo-
Lei ricambiò il suo sguardo, e gli parve d'intravedere l'ombra di un sorriso sul suo volto, ma così fugace che fu certo d'averlo immaginato. Pochi giorni prima, lavorando alla cappella, aveva ascoltato, senza averne l'intenzione, la conversazione di due servette. Una aveva confidato all'altra di non aver mai visto la duchessa sorridere, e che l'idea di contrariarla l'atterriva. In questo, Eleonora e Cosimo erano molto simili, brevi scoppi d'ira, passeggeri ma spaventosi, però là dove il duca conosceva per nome ogni sottoposto ed era sempre pronto a scambiare una parola con tutti, sua moglie agiva in modo opposto.
Probabilmente, solo il suo confessore, la sua dama di compagnia più fidata e il marito sapevano realmente cosa le passasse per la testa, e forse con loro e con pochi altri si scioglieva in atteggiamenti più spontanei alla tavola da gioco o alle corse dei cavalli, ma per tutti gli altri rimaneva una fortezza d'impenetrabile austerità.
Anche in quel momento era silenziosa, e pareva soppesare la risposta ricevuta dal pittore. Lui, non aspettandosi un proseguimento alla conversazione, riprese a dipingere, ma una risata sbracata lo distrasse: il nano di corte entrò con il suo bizzarro seguito di bestie ammaestrate, una scimmietta, due o tre cani che camminavano in punta di zampe e un pappagallo ciarliero. Le dame presenti interruppero il chiacchiericcio e squittirono deliziate, invitando il nano a esibirsi. Quello si piazzò nel mezzo della stanza e fece un inchino tutto svolazzi alla duchessa, che tornò a rivolgersi all'artista:
- Vedete, maestro Bronzino, anche le facezie sono necessarie nella cupezza della vita- disse.
- Oh, la saggezza della mia buona senőra!- esclamò il nano, mentre la scimmia gli rubava il berretto e correva in grembo a una delle dame.
Questa volta Eleonora sorrise in modo appena appena più convincente:
- Immaginavo che convenissi con me, Morgante. Non hai tu il dominio delle facezie, fra queste mura?- commentò. Morgante fece un altro inchino ridicolmente profondo, estraendo dal giubbone colorato un secondo berretto:
- Mia senőra, se il Signor Duca ha il dominio di Firenze e Pisa e tanti altre città da qui al mare, ebbene, io sono il duca dei lazzi- replicò, in tono pomposo.
Prese a imitare un re che impartiva ordini ai cani e al pappagallo, ricevendo solo l'abbaiare dai primi e insulti dal secondo. Le donne risero, ma la duchessa intervenne:
- Suvvia, mio duca delle burle, devi spostare la tua corte. Stai disturbando l'opera di maestro Agnolo- disse. L'artista si schermì, dicendo che poteva lavorare comunque, ma un secondo ingresso vanificò la questione. Tutti i presenti s'inchinarono all'arrivo del duca Cosimo, tranne il nano, che a dispetto della sua mole abbondante, zampettò con agilità verso il suo signore, esclamando:
- Vostra Eccellenza! Sappiate che adesso sono duca quanto voi!-
Cosimo rise e lanciò un'occhiata interrogativa alla moglie:
- Come? Mia signora, avete sentito? Ho un rivale dentro casa e neppure lo sospettavo- ribatté, scherzosamente.
- C'è poco da temere in un rivale come lui, mio signore- replicò Eleonora, rialzandosi - Il suo ducato è fatto d'aria. Messer Morgante s'è nominato da sé duca delle facezie-
- Di certo, è una terra che non necessita di soldati a sorvegliarla e si difende già da sé- osservò Cosimo, con una pacca affettuosa sulla testa di Morgante, che si gonfiò come una gallo:
- Vedrete, Vostra Eccellenza, che nessun nemico oserà dare l'assalto alle mie mura- dichiarò.
-Questo è poco ma sicuro- fu la risposta, accompagnata da un'altra risata. Il duca tese la mano alla duchessa e si rivolse ad Agnolo, guardando la tela con interesse. Il pittore aveva ritratto Eleonora su uno sfondo blu, con indosso un abito cremisi con ricami d'oro e una rete di perle a coprirle le spalle. I capelli erano raccolti in una cuffia ricamata e la donna posava con la mano destra sul cuore, in segno di virtù coniugale, visibile fino al sottoseno. Era stata proprio lei a chiedere di non sottolineare la gravidanza, comunque ancora acerba.
Cosimo parve soddisfatto:
- Chiedo venia per aver interrotto il vostro lavoro, maestro Bronzino, ma altre questioni necessitano la presenza di Sua Eccellenza- disse.
- Un'opera squisita, come sempre- commentò, prima di augurargli la buona giornata e uscire con tutto il seguito.
Agnolo chinò il capo con reverenza, e solo quando fu solo riprese a dare gli ultimi tocchi al dipinto. Il frusciare del pennello tornò ad essere l'unico rumore.


Congedato quel seguito ciarliero, il duca condusse la moglie fino a una delle terrazze che chiudevano i suoi appartamenti privati, dove di solito la metteva a parte di argomenti importanti o riservati. Eleonora ormai sapeva bene che Cosimo ponderava ogni discorso a lungo, prima d'iniziare a parlare, quindi attese con tranquilla curiosità, ascoltando i rumori e le chiacchiere che provenivano dalle sale sale adiacenti del palazzo, gremite di maestri e garzoni da quando la coppia ducale ne aveva preso possesso, tre anni prima.
Già pochi giorni dopo il matrimonio, Cosimo de' Medici si era reso conto che il pur elegante e spazioso palazzo di Via Larga non era più sufficiente ad ospitare la sua corte, allargatasi a dismisura quasi da un giorno all'altro. Aveva dunque dato disposizione di risistemare a scopo di abitazione il centrale Palazzo dei Priori. La sua non era solo un'esigenza di comodità, ma soprattutto una mossa politica: insediandosi nel cuore amministrativo e governativo di Firenze, il duca voleva fare una precisa dichiarazione d'intenti a sudditi, alleati e nemici. Attese che la duchessa partorisse la loro primogenita, prima di trasferirsi, nel giorno della celebrazione del Santo Spirito del 1540. Intanto, l'antico palazzo di bugnato era stato notevolmente allargato nella parte posteriore e uno squadrone di botteghe artistiche era stato assunto per decorare gli appartamenti privati e di rappresentanza.
Cosimo volle che le prime sale ad essere affrescate rappresentassero la gloria della propria famiglia. Dedicò i vari ambienti a Leone X, il papa figlio di Lorenzo il Magnifico, a Cosimo il Vecchio, il pater patriae e a Giovanni dalle Bande Nere, e questi erano già a un buon punto di realizzazione. Nei quartieri privati suoi e della moglie i lavori erano cominciati da poco. Per quanto Vasari fosse un grande artista, neppure lui poteva fare miracoli, e il programma decorativo previsto era complesso e mirato.
Con gli anni il duca era riuscito a mantenere i suoi propositi di dipendere sempre meno da consiglieri e organi governativi. Aveva spedito la magistratura nell'antico palazzo del Bargello, e Consiglio e Senato svolgevano solo ruoli consultivi. In tre anni, Cosimo aveva emanato una grande quantità di leggi di natura penale e civile per poter avere sotto controllo ogni aspetto della vita del ducato. Le pene per assassinio, stupro e indecenza si erano inasprite, ma si erano anche regolate le leggi commerciali, istituendo un organismo apposito per agricoltura e allevamento.
Cosimo non aveva nessuna fiducia nella nobiltà cittadina, a cui aveva affidato incarichi limitanti e di poco conto. Preferì elevare magistrati di estrazione borghese, e quindi più fidati. Naturalmente, era consapevole che per questo metà dei suoi aristocratici lo volevano morto. La minaccia degli esiliati era una nube nera all'orizzonte, meno pericolosa ma sempre incombente e gli altri signori d'Italia lo consideravano ancora un inesperto, manipolabile.
Alcuni di essi, quelli di fedeltà imperiale, avevano cambiato opinione dopo le nozze con la fanciulla Toledo, e questo aveva dato al ducato di Firenze un certo credito, ma nessuno poteva negare che l'Asburgo fosse ancora una presenza ingombrante ma necessaria nella vita del duca.
Eleonora era certa che fosse una di queste la questione di cui il suo signore volesse discutere, ma non si aspettava una notizia positiva.
Dopo aver osservato per un po' le sue guardie personali che battevano ordinatamente la piazza, infatti, Cosimo si voltò verso la moglie e disse:
- Ho buone notizie, qualcosa in cui non osavo sperare per non macchiarmi di slealtà. Pare che il nostro nobile imperatore abbia fallito la sua campagna africana- raccontò.
A differenza della maggior parte dei regnanti, Cosimo pretendeva la presenza della sua duchessa a ogni consiglio di Stato, riservandosi sempre la decisione finale, ma non mancando mai di chiedere la sua opinione.
Per questo motivo Eleonora capì subito i risvolti di quell'annuncio:
- Se dunque ho ben compreso- intuì - Sua Maestà avrà bisogno di...aiuto economico-
- Proprio così, mia signora- confermò Cosimo - E sapete questo cosa significa per noi?-
- Credo che il mio signore intenda fare parte di quell'aiuto- replicò lei.
Il duca annuì, compiaciuto, e come faceva spesso, prese a misurare la stanza a grandi passi, ragionando a voce alta:
- La nostra lealtà non è mai venuta meno, Eleonora, questo Sua Maestà lo sa molto bene. Per questo egli detiene ancora guarnigioni sempre più piccole di suoi soldati dentro le mura di Firenze. Quando avrà completa fiducia in noi, le ritirerà, rendendoci padroni del nostro Stato- illustrò- Il giorno che unì me e voi al cospetto di Dio e degli uomini, vostro padre mi donò oltre alla vostra insostituibile persona, anche una cospicua dote- proseguì- Se noi comprassimo le fortezze e le guarnigioni, per la nostra libertà, e Sua Maestà ne ricevesse un guadagno considerevole, le perdite subite dalla sconfitta sarebbero risanate, egli ci saprebbe alleati fedeli e noi non avremmo più ingerenze-
Effettivamente, non faceva una piega, ammise la duchessa fra sé.
- Mio signore, credete che accetterà?- obiettò, per maggiore chiarezza.
Cosimo annuì con vigore:
- Non ha altra scelta, se non chiedere prestiti o tartassare i suoi sudditi d'imposte- replicò - Le guarnigioni qui non gli sono affatto necessarie, gli scudi d'oro sì. Approvate la mia strategia, Eleonora?- le chiese.
Lei, nel suo intimo, si stupiva sempre molto di quanto lui la tenesse in considerazione anche per quegli affari così delicati, ma era assai lieta che non la ritenesse solo una giumenta da riproduzione. Di figli ne aveva già avuti tre, ed era in attesa del quarto. Stava assolvendo bene quel ruolo. Non intendeva mancare d'assolvere anche il resto. Annuì:
- Mio signore, io sono poca cosa, ma per l'amore e la stima che vi porto, appoggio liberamente le vostre decisioni. Per quanto debba la mia lealtà all'imperatore, voi siete il primo a cui devo dare tutto il mio supporto e la fedeltà- disse.
Lui sorrise, nel modo in cui sorrideva solo a lei, e la baciò rapidamente:
- Dunque è deciso. Scriverò a Bandini, che faccia la proposta a Sua Maestà. Presto, mia signora, le nostre leggere catene cadranno, e noi regneremo liberi- promise.
Pochi mesi dopo, le sue parole si rivelarono veritiere. Attraversando la città, per andare a seguire messa in San Lorenzo, un'enorme folla di cittadini si riversò nelle strade per acclamarlo. Appena una settimana prima, infatti, i fiorentini avevano visto i soldati spagnoli sgombrare la Fortezza di San Giovanni, e non c'era niente che i fiorentini amassero di più che vedere gli invasori lasciare le loro mura.
Mentre il duca salutava i suoi sudditi, il suo segretario, che cavalcava a fianco a lui, gli si fece vicino e osservò:
- Vostra Eccellenza oggi è come Ercole vittorioso sull'Idra-
Ma Cosimo scosse la testa:
- Può essere come dite, ma non ho avuto bisogno di clave per liberare il mio ducato, solo di oro e parole. E poche cose valgono quanto l'oro e le parole. Forse solo la libertà di cui mi ringraziano- replicò.  


Note

Intanto, mi scuso per il ritardo, ma ho davvero poco tempo per scrivere, in questo periodo
Poi, come nota iconografica, inserisco il link al ritratto di Eleonora da Toledo da me descritto in questo capitolo:


http://www.storiadifirenze.org/wp-content/uploads/2012/07/3.-Bronzino-Ritratto-di-Eleonora-di-Toledo1543-Praga-N%C3%A1rodn%C3%AD-Galerie.jpg

Grazie a tutti coloro che leggeranno
BlueSkied

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Capitolo 9
*** Madre ***


9.

 
Settembre-Dicembre 1543


Benchè ci fossero cinque stanze tra la camera privata della duchessa e l'anticamera, le grida si udivano chiaramente fin là.
Sua Eccellenza era in travaglio dalla sera prima, e le prime luci dell'alba cominciavano a filtrare dalle alte e strette finestre, senza che ci fossero grandi progressi.
Il duca lanciò uno sguardo attorno, sveglissimo, nonostante la notte insonne. Da una parte, un gruppetto di cortigiani pregava sommessamente, poco più in là stavano alcuni dignitari spagnoli, tra cui suo cognato don Garcia, a Firenze in quei giorni per alcune questioni di Stato. Proprio lui gli si avvicinò con deferenza, ma senza nascondere la sua ansia:
- Vostra Eccellenza, nessuna notizia?- chiese, in tono fermo ma desideroso di una risposta positiva. Cosimo dovette deluderlo: scosse la testa e replicò:
- Nulla da qui a due ore fa. Non dovete temere per vostra sorella, mio buon amico, ella è forte- lo rassicurò, tranquillizzando al contempo anche sé stesso. Garcia annuì, più fiducioso, e tornò a unirsi ai suoi compagni. Il duca tornò a rivolgere lo sguardo verso le altre stanze, aspettando di sentire dei passi, ma non udì nulla. S'incupì, riflettendo.
Le ultime due gravidanze per Eleonora erano state alquanto sofferte, aveva patito nausee e malesseri per entrambe, e il suo terzo parto era stato difficoltoso e lungo. Questo si stava rivelando ancora più ostico. Lui, ai tempi, c'aveva scherzato su, dichiarando che quei turbamenti dovevano essere manifesti della fierezza della figlia, e gli avvenimenti non gli stavano dando torto. Le nutrici raccontavano che, a dispetto del suo anno di età, la principessa Isabella si dimostrava più inquieta e orgogliosa di qualsiasi fanciulla avessero visto prima. Il bimbo che stava per nascere pareva esserle affine.
Cosimo de'Medici si soffermò su questi pensieri, con la speranza di allentare la preoccupazione. Quelle che aveva detto a Garcia non erano mere parole di circostanza, lui credeva nella ferrea costituzione fisica e spirituale della moglie.
Eleonora non mancava mai, anche se incinta, di seguirlo nelle numerose visite che lui faceva regolarmente a tutte le città del ducato, né si sottraeva a battute di caccia e pesca, banchetti e occasioni ufficiali. Il duca riteneva che sua moglie non dovesse avere solo il semplice ruolo di madre, ma la voleva accanto come sua compagna nella condivisione del potere. Un parto non poteva abbatterla, giovane e in salute com'era.
Forte di questa convinzione, attese ancora, con animo più sereno, fin quando il suo segretario e incaricato della gestione dei principi, Riccio, finalmente chiese la sua presenza alla camera della duchessa.
- Vostra Eccellenza- esordì, in tono calmo - Il principe è nato, un maschio sano e robusto- annunciò. Cosimo annuì, in segno di approvazione, e lo invitò ad andare avanti: - La Signora Duchessa sta bene?-
Riccio parve ponderare molto bene ogni parola, prima di replicare, abbassando la voce:
- Sua Eccellenza si riprenderà presto, ma non vi negherò che questa è stata una prova assai dura per lei. Le levatrici mi dicono ch'ella abbia molto sanguinato, e che ci vorranno diversi giorni per una sua completa ripresa. Se posso ardire, consiglierei alle Vostre Eccellenze di passare del tempo lontano dal Palazzo, in campagna, dov'ella potrà riposare- disse.
Cosimo si fermò davanti alla soglia e si voltò verso di lui:
- La vostra lealtà sarà ben ricompensata, e i vostri consigli non rimarranno parole sterili- lo ringraziò, posandogli una mano sulla spalla e congedandolo con cortesia.

I sussurri nella stanza s'interruppero di colpo al suo ingresso. Levatrici e servette lo omaggiarono timidamente, prima di sfilare fuori dalla camera. Alcune delle sue parenti s'intrattenero ancora pochi attimi, congratulandosi e raccomandandogli di non far stancare la puerpera.
Quando Cosimo si sedette accanto al letto e studiò la sua giovane moglie bene in viso, capì quello che il fedele segretario voleva dirgli.
Eleonora era mortalmente pallida, le labbra esangui stese in un debole sorriso, mentre il bimbo poppava. Era l'unica volta in cui poteva allattare e non vi aveva mai rinunciato. Si voltò verso il marito, come a volergli dire qualcosa, ma pareva far fatica a parlare. Cosimo scosse la testa:
- Riposate, mia signora. Sarò io a parlarvi - disse. Lei annuì, gli occhi scuri che parevano enormi in quel pallore, fissi sul suo volto.
- Riccio mi ha raccomandato di farvi riguardare, quindi, appena potrete alzarvi dal letto, andrete a Castello. Con i bambini e la compagnia di mia madre vi sentirete subito meglio - le assicurò. Eleonora annuì ancora, ma sapeva che non aveva finito.
- Poi, stavo pensando che per qualche tempo...- il duca esitò - Sarebbe meglio non facessi visita alle vostre stanze. Un'altra gravidanza potrebbe nuocervi- spiegò. Quella decisione, in verità, dispiaceva a entrambi per diversi motivi. A lui, perché la sua natura sensuale gli avrebbe reso assai difficile rinunciare ai doveri coniugali, a lei perché la sapeva incredibilmente gelosa, e avrebbe cominciato a temere qualsiasi donna gli ronzasse intorno, e ce n'erano a frotte, quasi tutte arriviste che ambivano ad essere l'amante del duca, carica, per quanto difficile a credersi, mai ancora ricoperta da nessuna.
Come Cosimo si aspettava, Eleonora si accigliò. Probabilmente era ancora troppo debole per arrabbiarsi a dovere, quindi si limitò a stringere più forte il bambino e a mordicchiarsi nervosamente un labbro.
Lui sapeva che qualsiasi cosa avesse detto, in quel momento, sarebbe stata inascoltata, dunque pazientò. La sua duchessa non era facile di carattere, anche se lui conosceva tutte le chiavi per accedere ai suoi recessi, il che era decisamente reciproco. Forse era per questo che i loro figli avevano quei caratteri fumantini e indomabili. La cosa lo fece ridere fra sé, senza potersi trattenere. Eleonora mantenne il broncio ancora per un po', ma vedendolo allegro, innalzò bandiera bianca e abbandonò il risentimento. Tossì e parlò, anche se flebilmente:
- Io mi fido di voi, mio signore. Qualche tempo lontani l'uno dall'altro, anche se solo intimamente, unirà i nostri intelletti ancora di più. Voi sapete che non ho occhi che per voi, e anche se la mia è una vanagloriosa speranza, vorrei fosse lo stesso nei miei confronti- disse.
Il duca fece mille promesse, ma sapeva di poterle mantenere. Placata quella tempesta passeggera, i genitori si dedicarono alla scelta del nome della creatura, che venne chiamato Giovanni, come suo nonno paterno.

E proprio Giovanni dalle Bande Nere, sopra ogni altra, aveva amato la villa di Castello, dove da sei anni la sua vedova si occupava dei principini.
Donna Salviati aveva ormai quarantaquattro anni, e da tempo la sua salute era in declino, ma questo non le aveva impedito di assolvere con zelo e preoccupazione i suoi impegni di nonna. La notizia dell'arrivo di un nuovo nipote la rallegrò e la mise in ansia nella stessa misura. Non era certa di avere più le forze per badare ai bimbi come avrebbe voluto.
Ma non era sola. Una schiera di nutrici e servitori provvedevano in ogni istante al benessere dei fanciulli, sempre sotto le attente direttive della signora e i precisi ordini della duchessa, che, circa due settimane dopo il parto, diede atto agli ordini del duca e si trasferì in villa con il neonato.
L'autunno non sviliva la bellezza del parco: i cipressi svettavano cupi e torniti contro il cielo grigio, le siepi di bosso erano ben potate e le molteplici fontane gorgogliavano lievi sotto al frusciare di abiti e lo scricchiolio di foglie calpestate.
Eleonora omaggiò con deferenza e rispetto la suocera, dandole il bimbo da tenere in braccio, ma il pallore della matrona non le sfuggì. S'informò con tatto riguardo la sua salute, e finse di credere alle sue rassicurazioni, mentre Cosimo le raggiungeva. Alla duchessa bastò un'occhiata per capire che neppure il marito era cieco alle condizioni della madre. Per delicatezza, li lasciò soli, andando a trovare i figli.
Donna Salviati la guardò uscire dalla stanza, poi ebbe un sorriso incerto:
- Dopo quattro anni, ancora ho difficoltà a capire cosa dice- confidò al duca, che rise:
- Alle volte mescola fiorentino e spagnolo senza rendersene conto. Per le sue fantesche è un incubo, ma agli ambasciatori stranieri piace: una volta uno mi disse che pareva un canto- raccontò.
Sua madre lo osservò, con occhi pieni d'affetto:
- è una buona moglie, e voi mi sembrate un buon marito- constatò. Lui annuì:
- Il mio cuore non avrebbe motivo di sgomentarsi, se non vi vedessi così abbattuta e triste, madre- replicò, sommessamente. La guardò, con serietà:
- Non mentitemi, vi prego. Le vostre condizioni di salute sono peggiorate dall'ultima vota che vi feci visita- dichiarò.
Maria non volle negare né confermare:
- Dovete pensare al vostro ducato e alla vostra famiglia, Vostra Eccellenza, non stare in pensiero per me- tentò di tagliare corto, ma il figlio non desistette:
- Non siete voi la mia famiglia, madre? L'unica famiglia che conobbi nei miei anni d'infanzia, quando, orfano di padre, non avevo che la vostra saggia guida, ed è grazie ad essa che oggi sono quel che sono- ribatté, accoratamente.
- Deve essere come dite, ma questo è passato. Ora siete un duca, il capo di un grande e nobile Stato- Donna Salviati si torse le dita, come a voler cercare l'intensità giusta delle parole che doveva pronunciare:
- Adesso, sarà vostra moglie a sostenervi, i vostri figli coloro su cui riversare affetto e speranza. Siete l'unica cosa che amo al mondo, perché sono vostra madre. Ma il volere di Dio mi chiamerà presto a sé, ed è giusto così. Nessun genitore dovrebbe sopravvivere ai suoi figli- disse, in tono amaro, ma convinto. La ferita era fresca e anche se si odiava per avervi fatto leva, capì dallo sguardo di Cosimo di aver avuto ragione su di lui.
Entrambi stavano ovviamente pensando al grande dolore che li aveva colpiti il passato inverno: la piccola Bianca, di soli cinque anni, era morta per uno dei tanti malanni che affliggono l'infanzia, nobile o miserabile che sia. L'intera corte l'aveva pianta, e la salute della nonna ne aveva ricevuto un danno irreparabile. La disperazione del giovane duca era stata immensa.
Egli levò lo sguardo su di lei, afflitto ma vinto:
- Una moglie non è una madre- replicò - Ma avete ragione, come sempre. Però non vi lascerò arrendervi così, avrete i miei dottori ed Eleonora sarà qui per alcune settimane. La sua compagnia vi gioverà- le assicurò. Non c'erano stati mai veri screzi tra suocera e nuora, ed era certo che il carattere energico della duchessa avrebbe aiutato la sua dimessa e timida madre a svagarsi un po'. Maria annuì, più per compiacerlo che per vera convinzione. Chi è vicino alla morte può avvertirla distintamente, anche se lo nasconde agli altri.

Una pioggia gelida picchettava insistentemente da ore sulle alte finestre. Quel Dicembre era stato umido e fastidioso fin dall'inizio. I cipressi e i bossi parevano ombre nere e incombenti nella nebbia che invadeva l'ampio parco.
La duchessa provava nostalgia per gli inverni molto più miti di Napoli: il mare color acciaio era bello a vedersi, e il vento non era mai così spietato e freddo. Con un sospiro impercettibile, distolse lo sguardo dalla finestra e lo lasciò vagare in giro per la stanza. Un gruppo di dame cuciva quieto in un angolo vicino al grande camino, a un passo da lei, le nutrici badavano ai principi, che ruzzavano allegramente, giocando, costretti a star dentro dal cattivo tempo e beatamente ignari della tristezza e della malattia. Erano lontani dall'ala della villa in cui avrebbero potuto infastidire l'inferma, così la madre aveva ordinato di lasciarli fare. D'altra parte, costringerli a star buoni sarebbe stato un inutile spreco di energia. Meglio che facessero i bambini, finché potevano.
Eleonora osservò per un po' Maria e Francesco che giocavano a moscacieca, mentre Isabella, che a malapena si reggeva sulle piccole gambe, cercava d'insinuarsi nel gioco, con l'unico risultato di cadere ripetutamente sul sedere, avvolto in strati di fasce. A un certo punto, stanca di fallire e doversi rialzare, quasi per dispetto, afferrò il fratello per un lembo dell'abito e lo tirò a terra con sé. Francesco scoppiò in un piagnucolio acuto, che fece scattare in piedi tutte le nutrici: una lo prese e cominciò a consolarlo, mentre un'altra costringeva Isabella nel girello, ma apparve subito chiaro che i bambini non avevano sùbito alcun danno.
La duchessa non si mosse da dov'era, ma aggrottò la fronte e sospirò ancora, un po' più forte di prima:
- Che duca sarà mai, uno che si fa sottomettere dalla sorella più piccola? - osservò, rivolta a donna Rainosa, la sua prima dama di compagnia e responsabile delle nutrici, seduta alla sua destra.
- Non è che un bambino, Vostra Eccellenza - replicò questa, ragionevolmente, ma l'altra scosse la testa:
- Dovrà dimenticarsi di esserlo fin troppo presto - concluse, con amarezza.
Uno dei dottori entrò con discrezione, passando quasi non visto nel consesso di donne, ma Eleonora rivolse immediatamente tutta la sua attenzione a lui. Quello s'inchinò brevemente e cominciò a parlare, in tono ansioso:
- Temo che la nostra arte non possa fare più nulla per la signora. Ella chiede di voi, Eccellenza - snocciolò, con evidente fretta di terminare l'ingrato compito e sarebbe letteralmente scappato, se la duchessa, per un attimo dimentica dell'etichetta, non l'avesse agguantato per un braccio:
- Volete fuggire così la mia presenza? - sibilò, ben più glaciale del temporale.
Con gesto imperioso comandò a tutti di lasciare la stanza, e non mollò la presa finché l'ordine non ebbe completa esecuzione.
Solo allora si alzò e affrontò il dottore, con volto di pietra:
- " La vostra arte ", così chiamate l'infernale sequela di mignatte e pozioni con cui pretendete di riparare i nostri corpi imperfetti. V'arrogate poteri che spettano a Dio solo e c'ingannate con parole distorte - disse, in un sussurro irato e pieno di disprezzo. Il dottore provò a giustificarsi:
- Vostra Eccellenza, noi facciamo quel che possiamo... - ma Eleonora lo interruppe, lanciandogli un'altra occhiata tagliente:
- Fate quel che potete! - esclamò - Solo tre giorni fa assicuraste al mio signore e a me ch'era solo una febbre quartana e che donna Maria ne sarebbe uscita completamente risanata. Mentiste, sapendolo? -
Il dottore alzò le mani, quasi a difendersi:
- Vostra Eccellenza, mai per la mia vita! - balbettò.
- E allora, adesso cosa vi suggerisce la vostra arte? - domandò la duchessa, con sarcasmo disperato. Quello scosse la testa, non sapendo cosa dire. Lei lo afferrò di nuovo per un braccio, guardandolo dritto negli occhi:
- Ve lo dico io: mandate a chiamare Sua Eccellenza, foss'anche nelle Indie, e pregate che il cavallo del messaggero non fallisca come voi e la vostra banda di assassini - concluse, lasciandolo con uno strattone e uscendo dalla stanza con fredda dignità.

Ogni camera di moribondo, alla fine, finisce per somigliare a tutte le altre. L'attesa stagnante e il dolore sospeso non cambiano mai.
Eleonora di Toledo sedette al capezzale di Maria Salviati non solo come nuora, ma anche come figlia acquisita. L'ammalata aprì gli occhi, avvertendo la nuova presenza, e il viso le si contrasse per l'impazienza:
- Eccellenza, il duca verrà? - chiese, debolmente, ma con la stessa ansia degli ultimi tre giorni.
- L'abbiamo fatto chiamare, signora madre. Vi prego, non vi agitate. Egli verrà - le assicurò, sperando fosse la verità. Quando Cosimo era in viaggio, sia solo, sia con la corte, non indicava mai il percorso che avrebbe fatto, per timore di spie nemiche. Poteva essere, in effetti, dovunque.
Maria le prese una mano e la strinse con la poca forza che aveva:
- Vi prego, portategli il mio amore, e ditegli che accetto la volontà di Dio, e anch'egli lo farà, diteglielo - supplicò.
Eleonora annuì, con convinzione:
- Faremo ogni cosa ci ordiniate - promise. Si fece dare da una delle fantesche presenti la bacinella con l'acqua e una pezza di lino:
- Lasciate che vi dia un poco di sollievo, signora madre - la pregò, bagnando la pezza, strizzandola e posandola sulla fronte rovente. La donna parve rilassarsi e allentò la presa sulla mano della nuora.
- Starò con voi fino all'arrivo di Sua Eccellenza - assicurò - Pregate - disse a tutti i presenti e anche lei iniziò a pregare, per uno strano desiderio, in spagnolo, come quando era bambina:

- Padre nuestro que estás en los Cielos, santificado sea tu nombre, venga tu reino, hágase tu voluntad, como en el Cielo, así también en la tierra. Danos hoy nuestro pan de cada día y perdona nuestras deudas así como nosotros perdonamos a nuestros deudores y no nos dejes caer en tentación, mas líbranos del mal, Amén
-    
 -   
Non si accorse della lingua che si seccava, né della gola che bruciava, continuò fino a che non sentì fredda la mano che la stringeva.

Cosimo de' Medici aveva battuto il cavallo fino a farlo schiumare. Mai come in quel momento aveva temuto di vedere la sagoma della villa amata dai suoi genitori.
Non chiese nulla al garzone che, sollecito, lo aiutò a smontare, non parlò con nessuno, benché il Riccio avesse provato a rivolgergli parola. Era arrivato troppo tardi, stavolta.  Attraversò la camera con gambe di piombo, appena conscio della presenza di sua moglie, una statua accanto alla salma.
Sembrava ancora così giovane, nonostante tutto, e sana. Non aveva l'aspetto sofferto dei morti di malattia, ed era strano. Non era diversa dalla donna che vent'anni prima sedeva da sola, in attesa di uno sposo che non sarebbe mai tornato. Il tempo l'aveva fissata per sempre in quell'epoca della sua vita: era vissuta aspettando, e così era morta.
Suo figlio sedette accanto alla sua, di sposa, che si voltò appena verso di lui, irrigidita dalle ore di veglia, ma non osò toccarlo, ben sapendo che adesso lui era in un luogo dove lei era superflua.
La sorprese, la sua voce ferma:
- Soffrì?- fu la domanda, netta.
- No, mio signore -
- E morì conformata in Dio?-
- Ricevette ogni sacramento, e mi disse che accettava la volontà di Nostro Signore, e mi pregò che voi faceste lo stesso -
- Dunque, non disperiamoci. Adesso ella è contenta e dobbiamo provare ad esserlo noi -
Non disse più altro, ed Eleonora capì di dover andare. Forse quella notte avrebbe voluto dormire con lei, e forse allora si sarebbe sciolto in lacrime. Adesso, voleva solo essere per l'ultima volta un figlio.





Note: i bambini, nel sedicesimo secolo, avevano una specie di gabbia di legno in cui le nutrici li infilavano, qualcosa veramente assimilabile a un girello, ma non ne so il nome preciso.

Ho tradotto in spagnolo con Google Translator, non avendo altri mezzi a disposizione immediata. Se ci fossero errori mi scuso e prego di segnalarli

Mi scuso per la lentezza e il ritardo, ma davvero ho avuto un sacco di questioni da risolvere

Grazie a chi leggerà

BlueSkied

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Capitolo 10
*** Per grazia ricevuta ***


10.



Autunno 1545



Il telo venne rimosso rapidamente, ma con attenzione, e un silenzio noto riempì per qualche momento la stanza.
Il duca lo interruppe per primo, naturalmente:
- Davvero un'opera mirabile, maestro Agnolo - commentò, dando al contempo il tacito permesso ai presenti di parlare, con discrezione.
Benedetto Varchi, in fondo alla stanza tra i suoi compari all'Accademia fiorentina, Giambullari e il Lasca, sentì quest'ultimo sbuffare:
- Che dite, Lasca? - gli chiese, a mezza voce - Il ritratto vi pare male eseguito? - Ma quello ridacchiò, bene attento a non farsi udire da chicchessia:
- Male eseguito? No, non direi " Male eseguito", sempre ammesso che a Sua Eccellenza compiaccia veder la Signora duchessa e il Principe impagliati come volpi - dichiarò, sarcastico, come i suoi versi.
Varchi sorrise, ma Giambullari si accigliò:
- Lasciate che ve lo dica, Lasca, non v'intendete poi un granché di pittura - commentò, severo. Per tutta risposta, il poeta rise ancora:
- Sia mai! - esclamò - Questo è un compito che delego volentieri agli spiriti eletti, quale il vostro - ribatté, pungente.
Giambullari assunse un contegno che riteneva dignitoso, accigliandosi ancora di più, e Varchi ritenne essere il momento di placare la piccola tempesta:
- Suvvia, non turbiamo questo momento con sciocchezze. Secondo me, il ritratto è bellissima cosa, seppur risulti...come dire, rigido - disse, per acquietare gli animi.
- Rigido come l'effigiata - replicò il Lasca, in un soffio. Varchi non replicò, ma lanciò un'occhiata alle Loro Eccellenze, ancora intente a studiare l'opera.
Al collo del duca scintillava il collare del Toson d'Oro, la riconoscenza imperiale molto desiderata e da pochi mesi ottenuta, che era il movente per l'esecuzione del ritratto, una sorta di coronamento artistico a un periodo variamente travagliato. Per Cosimo, senza dubbio, rappresentava un tentativo di pacificazione con la Santa Sede, con il quale aveva avuto da contendere per via dei monaci di San Marco, ancora troppo piagnoni, e nemmeno segretamente. 
Questo era il motivo per cui aveva fatto ritrarre, insieme alla moglie, il figlio Giovanni, di soli due anni, ma già destinato alla carriera ecclesiastica. Comunque, quali ne fossero i retroscena diplomatici, il quadro era bello, anzi, sublime:
La duchessa Eleonora spiccava sul nebuloso fondo blu, illuminata a giorno nell'ambientazione notturna. L'abito bianco, dai complessi ricami arabescati neri e dorati, sembrava insieme uno smalto e una stoffa veramente cucita sulla tela, così come i gioielli brillavano preziosi e corporei. La melagrana, infine, era come uno scudo impresso sul suo corpo, richiamo insieme alla sua Spagna natìa e alla sua fecondità, ancora una volta onorata, proprio quell'anno, di un'altra figlia, Lucrezia.
Osservandosi, Sua Eccellenza annuiva ai commenti del duca e si rivolgeva cortesemente al pittore, evidentemente lieta del lavoro svolto.
- La Signora duchessa forse è severa come una monaca, ma di grazia, sono felice che sia contenta. Ho da intercedere presso di lei, e non vorrei farlo quand'ella ha l'animo contrariato - riprese Varchi, in confidenza al Lasca, che sogghignò, furbescamente:
- O Benedetto, ché altre lingue vi scagliano infamie? Volete che Sua Eccellenza vi salvi ancora il collo? - sussurrò, maligno.
In verità, c'era poco da ridere: Benedetto Varchi s'era trovato in brutti guai poco tempo prima, e solo la benevolenza dei duchi l'aveva risparmiato da gravi conseguenze.
Tuttavia, il letterato incassò il colpo con buona grazia:
- Non è per me che devo pregare, Lasca. C'è una gentildonna, tale Tullia d'Aragona che forse conoscerete, che vuole entrare nella cerchia di questa corte. Essendo io suo buon amico, ho promesso d'aiutarla - spiegò. Il poeta capì al volo:
- La conosco, anche se solo di fama. Dicono componga rime squisite - commentò, omettendo il però che gli ronzava nella testa.
Il però era che la gentildonna in questione era stata una cortigiana, e come tale, doveva ancora sottostare a certe legge suntuarie, sebbene fosse sposata e ora conducesse una vita più che onesta.
Il rumorio nella sala annunciò il termine dell'esposizione, e tutti i presenti s'inchinarono al passaggio delle Loro Eccellenze. Rialzandosi, Varchi ringraziò il Lasca per il suo tatto:
- Sono felice della vostra comprensione, mio buon amico. Mi raccomando, fino a che non conosceremo l'esito della mia impresa, acqua in bocca - si raccomandò. Il poeta promise di tenere il segreto e insieme uscirono, mentre il telo veniva calato un'altra volta.        
          
Gli affreschi ingentilivano le pareti, senza dubbio, ma ciò non toglieva a quel palazzo l'aria della fortezza. Anche lì, negli eleganti appartamenti della duchessa ci si sentiva quasi opprimere dalle pareti di bugnato e le strette finestre.
Tullia d'Aragona attribuì al proprio nervosismo quel senso di soffocamento, e cercò di darsi un contegno. Seduto al suo fianco, suo marito Silvestro giocherellava distrattamente con un guanto, preoccupato quanto lei: quel colloquio era veramente importante.
La donna lanciò occhiate alle poche altre persone presenti, perlopiù nobildonne che chiedevano l'intercessione della duchessa per familiari caduti in disgrazia, o che desideravano raccomandare una figlia alla corte o a qualche prestigioso convento. Si domandò se avessero saputo il motivo per cui lei era lì, cosa avrebbero pensato.
Udì le guardie all'ingresso della sala fare entrare qualcun altro e si voltò per vedere chi era, illuminandosi: il suo vecchio maestro Varchi si stava dirigendo verso di lei.
Si salutarono con calore, poi lei ne approfittò per sfogare il dubbio che le picchiava nella mente da tutto il giorno:
- Ditemi, Varchi - esordì - Sua Eccellenza mi ascolterà? La descrivono di morale irrreprensibile -
Varchi mise un'espressione non compromettente:
- Non temete - disse, dopo una pausa - Sua Eccellenza è più comprensiva di come la si dipinga. In più, ella non nega nulla a chi sente suo connazionale - assicurò.
In realtà, le origini spagnole della poetessa erano una finzione letteraria, ma lei parlava fluentemente la lingua e conosceva gli usi di quel paese. Secondo Benedetto, questo poteva esserle assai utile.
- Poi - aggiunse il letterato, con più determinazione - Voi non avete nulla di cui rammaricarvi -
Tullia annuì, vagamente più rinfrancata, ma quando il cameriere della duchessa fece segno al trio di avanzare, si sentì di nuovo insicura.
La persona di cui aveva tanto timore, in verità, aveva l'aspetto più innocuo del mondo: Sua Eccellenza era piccola di statura, impeccabilmente drappeggiata in un abito pregiato, ma semplice, con un viso dai lineamenti dolci e forse malinconici. Nei suoi occhi, però, si vedeva bene come quelle parvenze delicate nascondessero una volontà ferrea.
Tullia sentì precisamente quegli occhi seguirla, imperturbabili, mentre s'inchinava e prendeva il posto assegnatole. Poteva bene immaginare cosa avesse attratto lo sguardo della duchessa. Ella, infatti, continuò a scrutarla per un attimo, prima di rivolgersi al Varchi:
- Signor Varchi, por mi vida, sono lieta di rivedervi. Non ho molto tempo per seguire le vostre letture petrarchesche, temo - disse.
- Vostra Eccellenza, la presenza delle Loro Eccellenze ci è mancata, ma comprendiamo gli importanti obblighi verso lo Stato - rispose il Varchi, con deferenza.
La duchessa annuì e si voltò verso la coppia:
- Presentatemi queste persone, signor Varchi. Credo che sia per loro che avete chiesto  udienza - invitò il letterato, che obbedì prontamente:
- Vostra Eccellenza, essi sono Silvestro Guicciardi e sua moglie, Tullia d'Aragona. Ella è un'apprezzata poetessa romana, alla quale io stesso ho il piccolo merito di aver impartito qualche lezione - spiegò.
- D'Aragona? - chiese la duchessa, apparentemente sorpresa - Avete origini spagnole? -
- Vostra Eccellenza, son detta figlia di don Luigi d'Aragona - rispose la poetessa - Parlo spagnolo e ho dimestichezza con i costumi del vostro paese, se vi compiace -
Sua Eccellenza la squadrò per un secondo, poi si rivolse al Varchi, con un'espressione di divertito rimprovero:
- Varchi, siete una volpe. Fate leva sul mio amor patrio per strappare la mia benevolenza! - esclamò, con un sorriso indulgente. - E immagino - proseguì - Che la vostra richiesta abbia a che fare con quello - e indicò con un cenno del capo il velo giallo di Tullia, ch'essa era ancora costretta ad indossare per legge, e che la qualificava per ciò che non era più.
Il letterato scoprì le sue carte:
- Mi avete stanato, Vostra Eccellenza - ammise, umile.
- Siete una donna sposata, donna Guicciardi - dichiarò la duchessa, dopo un momento di riflessione - E vostro marito può senz'altro garantire per la vostra onestà -
L'uomo annuì, immediatamente.
- Sua Eccellenza il duca è ben disposto ad essere magnanimo con chi se ne mostra degno, e stima voi, signor Varchi, in quanto uomo d'ingegno e a noi fedele - proseguì Sua Eccellenza. Era chiaro e lampante che stesse pensando anche alle accuse mosse contro Benedetto.
Tamburellò appena sul bracciolo della sedia, decidendo il da farsi, poi si alzò:
- Dunque, sarà fatto così: donna Guicciardi sarà raccomandata da voi, Varchi, che ben la conoscete e potete garantire per lei, magari aggiungendo alla lettera qualche verso di sua composizione, per provare il suo valore, e io unirò la mia eloquenza alla vostra. State sicura, nessuno potrà più guardarvi con occhio storto - promise.
Tullia d'Aragona la ringraziò mille volte, baciandole le mani, sentendosi addosso dieci anni di meno.



Note:
Il Lasca (A. Grazzini), Giambullari, B. Varchi e T. D'Aragona sono stati poeti e intellettuali realmente presenti alla corte di Cosimo I nel periodo da me descritto.

Per "Piagnoni" intendo seguaci del pensiero di Savonarola, fortemente antimediceo, e incentrato sull'idea di una repubblica teocentrica, in cui Gesù era stato dichiarato Re di Firenze, durante la prima cacciata della famiglia dalla città, dopo il 1494.

Il quadro da me descritto è il famoso Ritratto di Eleonora di Toledo col figlio Giovanni esposto agli Uffizi:
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/f0/Bronzino_-_Eleonora_di_Toledo_col_figlio_Giovanni_-_Google_Art_Project.jpg
 

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Capitolo 11
*** Vendetta! ***


11.


Febbraio 1548



La nota giunse a tarda sera.
Il duca rilesse un paio di volte le poche righe consegnate dal suo fedele cameriere, Sforza Almeni. Nel ricevere la lettera, Cosimo aveva alzato lo sguardo sul servitore, che innegabimente ne conosceva il contenuto. Si era chiesto se lo stesse giudicando, in cuor suo, e si era detto che era un vero peccato non poter indagare nel pensiero, come si faceva con le azioni.
Per quanto avesse desiderato quella notizia, si accorse di non provare nessuna gioia. Era un successo che non dava vera soddisfazione. Però, andava fatto, ammise, ragionando logicamente, come sempre faceva. La logica voleva che lui, il duca, anteponesse l'onore e lo Stato anche a sé stesso.
Lorenzino era un traditore: da Medici, aveva versato, impunemente, il sangue di un altro Medici per consegnare lo Stato ai nemici della famiglia. In questo caso, il suo assassinio si poteva definire giustizia, non vendetta.
Il duca ripiegò la lettera e la unì al resto del carteggio giornaliero. Aveva imparato presto il valore delle parole, e di quanto di quelle troppo ornate si dovesse diffidare, e " Giustizia " non era che un ornamento di " Vendetta ", questa volta. Sapere Lorenzino ancora libero dopo undici anni era insopportabile. Non certo per affetto verso il morto Alessandro, ma per tacitare possibili accuse, prima ancora che potessero prendere forma.
Il suo potere nasceva dal sangue versato, questo non poteva dimenticarlo. Se non avesse agito contro il traditore, si sarebbe potuto pensare che lui c'entrava qualcosa col vecchio delitto.
- Siete stati due idioti - disse fra sé, a voce alta, come se li avesse davanti, Alessandro e Lorenzino, entrambi trafitti dalle spade che avevano posto termine alle loro esistenze.
Il secondo, se possibile, era stato più idiota del primo: si era atteggiato a difensore della libertà e aveva scritto una apologia per sé stesso. Ancora parole, che non gli erano servite a nulla. Perché nessun Medici poteva spargere di sua mano il sangue di un altro Medici.
Ed era scappato, come una lepre tallonata dai cani, era corso nelle braccia dei nemici della casata, traditore, traditore del proprio sangue!
Come poteva, adesso, Cosimo nobilitare col nome di giustizia la sua vendetta?
Aveva fatto promesse, si era affidato a due disgraziati e ai suoi legatari, perché compissero quell'ordine. Doveva difendere lo Stato e la famiglia, queste erano le sue intenzioni e questo sarebbe stato detto e pensato, ma lui, nella sua coscienza, sapeva com'era la reale disposizione dei suoi intenti.
Lorenzino era stato un idiota, abbagliato dagli ideali e dalle false rassicurazioni dei suoi protettori, avversi al suo nome ma non a lui, che aveva reso loro quel piccolo favore. Ma poi nessuno si era speso per difenderlo, perché nessuno vuole mai veramente sporcarsi le mani con gli esecutori materiali dei misfatti. Idiota, idiota mille volte.
- Così bravo con i versi e con la poesia, così ingenuo da fidarti di chi ti manovra. Ti sei ammazzato da solo - lo rimproverò Cosimo, sperando davvero che lo sentisse, dalle profondità dell'Inferno.
Anche quando erano ragazzi, Cosimo spesso riprendeva il cugino di cinque anni più grande, per quella sua volatilità di cervello, quel suo affidarsi ai palpiti del cuore e alla passione. Mai poteva immaginare che un giorno egli sarebbe stato ucciso per suo ordine, per mettere i conti a pari. Vendetta, nient'altro.
Cosimo de'Medici guardò fuori dalla finestra delle sue stanze e si chiese se fosse troppo tardi per far visita alla moglie a quell'ora. Non poteva pregare, per non commettere ipocrisia, quindi doveva affidare la sua anima alla sua ancora terrena. Ma Eleonora odiava essere svegliata nel mezzo della notte. Nessuna notizia che si nasconde alla luce può essere buona, gliel'aveva detto spesso.
L'aveva imparato qualche mese dopo essersi sposata, quando nella notte era arrivata una lettera che le annunciava la morte di sua madre, l'aveva ribadito l'estate prima, quando una serva, nella notte, le aveva detto che il loro bambino, Pedricco, si era addormentato e non più svegliato. Era il suo primo figlio perduto, e solo la nascita di Garzia, un mese dopo, l'aveva consolata. In effetti, aveva ragione: solo le cattive nuove si presentano con le tenebre.
Decise di lasciarla tranquilla: le avrebbe raccontato tutto l'indomani. Che almeno il suo sonno potesse essere sereno.

L'amore aveva tradito Lorenzino, come in una tragedia.
Viveva a Venezia già da qualche anno, sospettando di essere seguito e spiato dagli agenti del duca di Firenze, così si faceva chiamare messer Marco, e usciva sempre accompagnato, e mai se non era necessario.
La sua dannazione si presentò nelle sembianze della moglie di ser Zantani, un musicista, donna Elena Barozzi.
Così bella da essere diventata ispirazione per poeti, artisti, e intellettuali, folgorò Lorenzino de'Medici, che dimenticò ogni prudenza e cominciò a farle la corte.
Era riuscito a conquistarla, dopo grande fatica, e questo gli metteva i paraocchi. Non gli importava più dell'ira del suo lontano cugino, entrava e usciva dal palazzo dell'amata, ignaro degli occhi che lo seguivano.
Quella mattina del 26 Febbraio 1548, fu con animo scevro di devozione che Lorenzino s'inginocchiò davanti all'altare della chiesa di San Polo. Sapeva Elena sola in casa, e smaniava per correre da lei. Quasi non ascoltò le parole di salvezza, l'animo proteso nell'inganno dei sensi e nel richiamo da sirena della passione.
Appostati sotto un portico di fronte a San Polo, i sicari attendevano, anche loro in tumulto. Ebbri del coraggio vile che precede l'omicidio, non si guardavano fra loro: temevano di perdere la decisione, e quel compito era tutto.
Non sognavano le grazie di una nobildonna, Cecco e Bebo, ma una torre, quella che svettava nel cuore della loro città, Volterra.
Lontani da casa da troppo tempo, per colpe che li avevano inimicati alla giustizia ducale, potevano riscattare le loro vite, compiendo quell'atto di vendetta. Avevano il perdono assicurato, e uccidere non era poi così difficile. Si illusero anche di stare compiendo un'azione valorosa: assassinare un assassino. Le loro mani non tremarono più nello stringere l'impugnatura delle spade corte. Le campane iniziarono a suonare, annunciando la fine della messa.
Lorenzino era insieme a suo zio, Alessandro Soderini. Ancora assorto nei suoi vagheggi d'amore, non vide i due strisciargli alle spalle.
Suo zio fu più pronto, e accortosi del pericolo, s'intromise. Cecco gli urlò di togliersi di mezzo, ma l'uomo volle lottare: afferrò l'assassino per la giubba e gridò a Lorenzino di scappare. Cecco si fece prendere dal panico e accoltellò chi lo tratteneva.
- Salvati, Lorenzo! - esalò Soderini, scivolando a terra, sanguinante. Il giovane si voltò, atterrito e disarmato, poi si mise a correre, verso la casa di Elena. Bebo lo atterrò, facendolo cadere in ginocchio, ma Lorenzino riuscì a rialzarsi.  I sicari gli furono addosso insieme, trafiggendolo in un istante.
Lorenzino de'Medici sentì i loro passi dileguarsi in tutta fretta, mentre cadeva e gli occhi gli ri rovesciarono indietro. Il cielo era coperto di nubi.

Elena sentì le urla.
Incurante della gravidanza, corse al balcone, e poi giù, in piazza. Non c'era nessuno, tranne due corpi a terra e una manciata di persone loro intorno. Una donna in età reggeva tra le braccia uno dei cadaveri. Era l'unica a non piangere, benché il sangue del morto macchiasse il suo abito vedovile. Stringeva il corpo dell'unico figlio con lo sguardo perso nel vuoto e lo alzò solo quando sentì l'altra donna avvicinarsi.
Maria Soderini non sapeva che quella fosse l'amante di Lorenzino, ma non si chiese perché era lì. Non gl'importava più nulla, ormai.
Lasciò che Elena si chinasse accanto a lei. La giovane non trattenne le lacrime: coprì il viso dell'amante con il suo velo, e rimase in silenzio.

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Capitolo 12
*** Principi ***


12.


1550



Isabella soffocò uno sbadiglio e gettò un'occhiata apprensiva verso il fondo della panca. Sua madre guardava dritto davanti a sé, il rosario stretto nella mano sinistra, la mano destra posata sulla spalla di Maria. Non s'era accorta di nulla, per fortuna.
La principessa si agitò appena, cercando una posizione più comoda, ma era stretta fra Giovanni e Lucrezia, che non stavano fermi un attimo e si prendevano di continuo i rimbrotti secchi delle levatrici. Era un vero strazio venire in chiesa, pensò Isabella, forse per la decima volta.
Si guardò intorno, seriamente annoiata, poi decise che avrebbe ascoltato il coro. Non capiva nulla di quel che dicevano, era Maria quella più brava in latino, ma la musica era bella. Se non altro, copriva le voci delle levatrici e i piagnistei dei bimbi più piccoli, che era già costretta ad ascoltare tutto il giorno.
La duchessa pretendeva che loro fossero sempre presenti: prima di montare a cavallo o salire in carrozza, li disponeva in fila e li passava in rassegna, sistemava una cuffia, lisciava un farsetto, e guai se si fossero mostrati in disordine: " Siete i figli del duca, non un branco di marmocchi di strada " ripeteva loro, rigorosamente in spagnolo. Sua madre era sempre stata severa, poche carezze, niente abbracci da una certa età in poi, piccoli regali frequenti e abbondanti punizioni. Isabella si guardò le mani, per vedere se si notava il segno delle bacchettate: se l'era prese per aver tirato i capelli a Giulia, ma lei era così antipatica!
Dal basso dei suoi otto anni, Isabella si sentiva molto più obbediente della cugina quindicenne, che non faceva altro che discutere con la duchessa e la sfidava, alzando il mento e guardandola dritto negli occhi.
La balia aveva spiegato a Isabella che Giulia si comportava così perché anche lei era figlia di un duca, quello morto, che c'era stato prima del babbo.
" Ma non è più suo padre il duca, è il mio! " aveva ribattuto la fanciulla, orgogliosamente, senza davvero capire perché la cugina si comportasse così male. La duchessa le bacchettate le aveva date anche a lei, quando faceva qualcosa di sbagliato, ma Giulia non aveva smesso di essere altezzosa e arrogante. Una sera, a letto, Maria aveva detto a Isabella che Giulia era triste perché non aveva i genitori, e già faceva finta d'essere una donna fatta per non mostrarlo. Questo la bambina l'aveva compreso: anche a lei, forse, non sarebbe piaciuto farsi governare da qualcuno che pretendeva d'essere tua madre, e poi non lo era.
Invece, col duca era sempre stata irreprensibile: lo chiamava " padre " e non gli disubbidiva mai, ma Isabella sapeva che al babbo era più facile voler bene. Quando era più piccola, per gioco, a volte la prendeva e la sollevava, e lei si sentiva così in alto che credeva di poter toccare il soffitto. Lui non alzava mai la voce con i bambini, e quando la madre li rimproverava, provava a consolarli.
Isabella era corsa dal padre anche dopo l'ultima volta che era stata punita: lui l'aveva ascoltata e poi aveva detto:
" Hai fatto male, Isabellina, tua madre ti ha castigato a ragione, anche se è sempre tanto rigida. Non arrabbiarti con lei, ma prega Nostro Signore di farti diventare una buona bambina. Vedrai che tua madre non ti castigherà più ". E Isabella, anche se ci aveva messo un po', aveva capito cosa intendesse. Cominciò a pregare Gesù Bambino di farla essere più simile a Maria, che non si prendeva mai né una sgridata né una bacchettata.
Tutti amavano Maria perché era graziosa, brava nello studio e sempre composta. Non giocava quasi mai con i fratelli, non correva e non si agitava. Era molto simile a Francesco, entrambi guardavano i genitori e ne imitavano i modi, consapevoli che si aspettassero tanto da loro. Sicuramente, Maria attendeva con trepidazione l'arrivo di Giulia, per imparare come comportarsi quando anche a lei sarebbe toccato di sposarsi e Francesco non aspettava altro che vedere il padre in una simile circostanza: quando fosse stato duca a sua volta, anche lui avrebbe accompagnato una delle sue figlie all'altare. Isabella, con lo stomaco che brontolava, voleva solo tornare a palazzo.
Finalmente, la sposa e il suo padre adottivo comparvero in fondo alla navata di San Lorenzo. La duchessa scattò in piedi, imitata dai figli e dall'ampio corteggio presente.
Giulia de' Medici aveva ricevuto un'ampia dote e un bellissimo abito, fatto fare su modello di quello indossato per le proprie nozze dalla duchessa Eleonora. Fu a lei che la ragazza rivolse lo sguardo, quasi con espressione d'affronto, mentre passava. Pareva volerle sciorinare davanti tutta la sua giovinezza, quasi a voler dimostrare che erano passati i tempi in cui Eleonora poteva entrare in un vestito del genere. L'ultima, vana ripicca contro la donna che credeva usurpasse la sua autorità. Ma intanto, la sua ventottenne madre adottiva, seppur con i fianchi allargati dalle nove gravidanze, restava la moglie del duca di Firenze, mentre Giulia andava a sposarsi con l'oscuro conte di Pepoli.

Cosimo conosceva il cattivo sangue che correva fra sua moglie e la figlia di Alessandro. Fu con sollievo che condusse la giovane verso lo sposo, la baciò sulla fronte, benedicendola, e tornò dalla sua famiglia. Di figlie sue ne aveva tre, ed era certo che il giorno delle loro nozze sarebbe stato ben più piacevole. Dispose l'animo a Dio, mentre si levavano le note del Credo, pensando che gestire uno Stato non era nulla in confronto a star dietro alle figlie adolescenti o quasi.
Non era solo la sterile disubbidienza della figliastra a turbare Eleonora, scoprì poco dopo.
A cerimonia finita, la duchessa portò, come faceva d'abitudine anche dopo la messa,  i bambini nella cripta, a presentare gli omaggi alla nonna e agli altri defunti di famiglia. Cosimo si unì a loro, prendendosi in braccio Lucrezia e tenendo per mano Isabella, mentre la madre indicava a Francesco i nomi dei suoi antenati, chiedendogli di ripetere le loro gesta. Era un esercizio abituale anche dei suoi maestri, per inculcargli orgoglio dinastico e consapevolezza. Il piccolo erede, con sicurezza, snocciolava fatti e date, senza sbagliare quasi mai.
A un certo punto, arrivando di fronte all'ossario dov'erano contenuti i resti dei suoi fratelli, Pedricco e Antonio, scomparsi nell'infanzia, si fermò e giunse le mani, imitato da Maria, che lo seguiva da breve distanza. Recitò una breve preghiera, poi alzò lo sguardo verso la madre:
- Prego ogni giorno perché Nostro Signore non si prenda nessun altro dei miei fratelli - confidò, nel tono serio che gli era già proprio. Eleonora sussultò impercettibilmente, e rivolse un'occhiata fugace al duca: aveva gli occhi lucidi, ma non permise che i suoi figli la vedessero piangere.
- è una buona speranza, Francesco mio, ma tu dovresti chiedere al Signore Iddio che ti dia la forza di affrontare la perdita. Non siamo che strumenti nelle Sue mani, e il nostro volere in confronto al Suo, non è nulla - replicò la duchessa, fermamente, ma con tenerezza insolita.
Il marito la studiò per tutto il ricevimento nuziale e il resto della giornata, ma lei, immersa nelle occupazioni d'intrattenere gli ospiti e organizzare il banchetto, non diede più mostra di tristezza, celandola sicuramente.
- Non sono così forte, mio signore - gli confessò quella sera, nella segretezza del letto nuziale - Solo una donna può sapere cosa significa amare la creatura che ti cresce in grembo, sopportarne il peso e la sofferenza che causa, e la gioia che dà nel nascere. Per quanto cerchi di non pensarci, non posso fare a meno di chiedermi quale dei nostri figli ci sarà tolto la prossima volta, e non so se potrei resistere, mio signore, perché morirei mille volte per ognuna delle loro vite -
Cosimo restò un po' in silenzio, poi sospirò:
- Temo che la vostra sia una giusta paura, mia signora, ma come avete detto a don Francesco, dobbiamo rassegnarci al supremo volere di Dio. Però dovreste pensare piuttosto a come sarete felice vedendo i ragazzi sposarsi, aver figli a loro volta. Siete giovane, e forse dovrete farlo anche per me - replicò.
- Non dite questo, mio signore - ribatté lei, con passione - Darei la mia vita un milione di volte, in cambio della vostra-
Fece una pausa, poi aggiunse:
- Devo fare qualcosa per loro, mio signore. Sarei una madre snaturata se non cercassi di agire - decise, all'improvviso.

Il duca non aveva idea di cosa lei intendesse, fino a poche settimane dopo.
Ancora assorbito da un lungo consiglio, durante il quale i suoi ministri si erano accapigliati riguardo le fortificazioni e la posizione vacillante della repubblica di Siena, sedette a tavola per la cena con la moglie e i figli, ignorando quasi completamente i soliti capricci dei piccoli. Era troppo concentrato per accorgersi che Eleonora non li stava rimproverando. Fu la quantità di rumore che non accennava a diminuire, che lo distrasse, finalmente: alzò lo sguardo sulla duchessa, all'altro capo del tavolo, per chiedere spiegazioni, e scoprì che lei lo scrutava, insolitamente ansiosa.
La invitò a parlare e lei gettò alle ortiche ogni indugio:
- Mio signore, c'è qualcosa che vorrei comprare - esordì. Cosimo si stupì non poco di quella titubanza: Eleonora sapeva che ogni sua richiesta era puntualmente accontentata.
- Ditemi - la incalzò, incuriosito.
- Ho visto un palazzo, oltre l'Arno, e vorrei davvero averlo, mio signore - dichiarò la duchessa, con negli occhi la stessa ostinazione di quando si metteva in capo di volere qualcosa.
- Abbiamo già tante di quelle ville e palazzi, mia signora - replicò il duca, perplesso, ma lei scosse la testa con impazienza:
- Sì, ma i palazzi sono piccoli, e anche la villa più vicina è fuori dalle mura. Non credete, per il rango che ormai occupate, sia il caso di possedere un palazzo degno del vostro nome, con un giardino regale, e in più, vicinissimo a questa dimora? - insisté, pericolosamente invitante. Sapeva bene su quali leve forzare la mano, per convincerlo.
Lui si arrese, suo malgrado tentato:
- Parlatemene - l'invitò.
Era un antico palazzo posseduto dalla famiglia Pitti, appena oltre il fiume, in una zona meno popolata e più salubre, con la disponibilità di grandi appezzamenti di terra inutilizzati. In effetti, Cosimo non lo poté negare, era l'ideale. Eleonora non aveva mai particolarmente amato l'aria da fortezza del Palazzo dei Priori.
- E sia - concesse, rassegnato. Non sapeva ancora che sua moglie gli stava per regalare la più magnifica delle residenze.



Note:
Giulia de' Medici (1535-1588) era figlia naturale di Alessandro de' Medici, cresciuta insieme ai figli di Cosimo, e pare che nutrisse una certa invidia nei confronti di Eleonora. Sposò nel 1550 il conte di Pepoli, e poco dopo, rimasta vedova, un suo lontano cugino, Bernardetto de' Medici, dando poi origine al ramo dei Principi d'Ottaiano, ancora esistente.

Non vi stupite per il "babbo" (cioè papà, per chi non lo sapesse): benché fosse un'espressione familiare, era usata anche fra i potenti, a Firenze.

Palazzo Pitti fu effettivamente acquistato da Eleonora di Toledo nel 1550 e allargato e migliorato negli anni successivi. Fu per suo volere che furono realizzati i fastosi giardini, detti poi di Boboli.

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Capitolo 13
*** I sassi di Siena ***


13.

Luglio 1552


Vedendola per la prima volta, si aveva l'impressione che la Torre del Mangia somigliasse a una dama che indossava un sontuoso abito rosso mattone e un velo bianco sui capelli raccolti. La placida e dorata città di Siena non aveva nulla di minaccioso, nulla di spaventoso.
Eppure, adesso, don Diego de Mendoza vedeva come la bella dama fosse sdegnosa e feroce come il leone neméo: chiuso nel Palazzo Comunale insieme a un drappello di soldati male in arnese, il diplomatico imperiale fissava le porte sprangate frettolosamente e sentiva ordini misti a imprecazioni provenire sia dall'interno che dall'esterno, dove la guarnigione, colta alla sprovvista, si preparava a un'improvvisata difesa.
Come avrebbe potuto aspettarsi una rivolta? L'idea di costruire quella fortezza era parsa la migliore, sul momento. Ora non aveva la più pallida idea di cosa fare.
Non conosceva quella gente, e in verità, non si era affatto preoccupato di conoscerla. Parlamentare era escluso, non avrebbero ascoltato, e lui non avrebbe saputo come convincerli. Un pezzo di selciato lanciato dalla piazza sfondò una finestra, facendo bestemmiare un paio di soldati e sussultare don Diego.
Sua Maestà Imperiale andava allertata, certo, e andavano chiesti rinforzi, e anche subito. Ma quanto ci avrebbero messo per arrivare, e soprattutto, la cosa che più l'atterriva, quanti sarebbero effettivamente intervenuti, non poteva saperlo. Aveva un solo alleato disponibile, e pregò intensamente che non si rivelasse un traditore. Fuori, la folla imbestialita gridava e sacramentava, mentre le milizie della repubblica attaccavano i punti scoperti del Palazzo. Non si poteva competere con chi in quella città era nato e sempre vissuto.

I ministri del duca lo attorniavano come una torma di galline intorno al gallo, o almeno, questa fu l'immagine che ne ebbe il cameriere Sforza Almeni, immobile con gli altri attendenti lungo un lato della sala, in discreto ascolto. Gettò distrattamente un'occhiata a una finestra vicina, da dove si scorgeva la tranquillità del pomeriggio estivo nella piazza. Era difficile immaginare che in quelle ore Siena fosse in tumulto.
Tornò a scrutare il consiglio, con preoccupazione. Sforza conosceva a menadito ogni espressione sul volto del suo signore, e quella che aveva in quell'istante non prometteva niente di buono. Oltretutto, i ministri non facevano che parlare tutti insieme, creando un intollerabile chiasso, e il duca detestava la confusione.
- Adesso, basta! - ordinò, seccamente, facendo segno a tutti di tornare al loro posto e fare silenzio. Quelli obbedirono immediatamente, ma egli rimase in piedi, considerando la situazione con gravità e fastidio crescente:
- Non possiamo ignorare la richiesta di soccorso da Siena - esordì - Ma - e si rivolse al messo, in spagnolo - Siamo assai contrariati dalla condotta di don Diego e non mancheremo di dolercene con Sua Maestà - avvisò. Scrutò l'uomo con stizza evidente, poi proseguì:
- Fate che sia inviato subito un drappello nel Senese, solo di rinforzo, e allertate le Bande nei territori confinanti, così da arginare i rinforzi francesi su Siena - comandò a due dei suoi, che s'inchinarono e corsero ad eseguire l'ordine.
- Fino ad ulteriori comandi di Sua Maestà, non agirò oltre - dichiarò, sciogliendo l'assemblea.
Sforza osservò i ministri e i dignitari sfilare fuori dalla sala, cogliendo sussurri e commenti di disapprovazione. Non era una sorpresa, un po' di malcontento.
Indirizzò gli attendenti di camera negli appartamenti ducali, e li seguì dopo un momento, aspettando di essere chiamato, cosa che avvenne poco più di un'ora più tardi.

Trovò Sua Eccellenza in uno dei suoi terrazzi privati, seduto in profonda meditazione e intento a fissare gli dei affrescati sul soffitto. Pareva essersi accorto a malapena del suo ingresso. Si voltò lentamente verso di lui e si alzò, prendendo a misurare la stanza con passo apparentemente calmo.
C'era qualcosa nella sua persona che trasmetteva sempre e comunque incredibile fermezza: alto e non ancora appesantito dai banchetti, come ad altri signori della sua ancora giovane età capitava, sembrava saldo come una colonna, anche se nella sua mente, Almeni l'avrebbe giurato, imperversava una tempesta. Il guizzo quasi impercettibile degli occhi lo rivelava, come lampi che precedevano un tuono.
Era certamente preda di un penoso conflitto: da sempre sperava di annettere Siena ai suoi territori, e vedeva senza dubbio come questa fosse un'occasione da poter sfruttare. Ma alle sue ambizioni s'interponevano gli interessi di Spagna e Francia, che non avrebbero esitato a far della Toscana la scacchiera dei loro conflitti. Già da tempo Cosimo aveva paventato possibili invasioni dal mare rafforzando le difesa della costa, ma capiva bene che la sua lotta sarebbe stata diplomatica, più che militare. Doveva cercare di ottenere ciò che voleva, senza che il suo ducato fosse risucchiato nella rovina.
- Maledetti senesi! - imprecò, all'improvviso - Vogliono essere liberi? Bene, hanno scelto la peggior via per farlo. Perché non si sono contentati di mettersi sotto la mia protezione? Li avrei lasciati indipendenti, senza chiedere nulla di più rispetto alle altre città, e invece no, questi idioti repubblicani -
Fece una pausa, poi si rivolse al fedele cameriere, in tono amarissimo:
- Ricorda le mie parole, Sforza: hanno pestato la coda al serpente e il serpente li morderà. Correranno a chiedere alleanza ai francesi e Caterina li aiuterà, solo per mettere spine nel fianco a me, e l'Asburgo mi costringerà ad attaccarli, e io non avrò scelta. Non sono un uomo d'armi, avrei preferito una strada più conveniente, ma tant'è -
Sforza non aveva nessun modo per rassicurarlo o consigliarlo.
- Vostra Eccellenza, agirete secondo la misura e la saggezza che vi sono propri - provò a replicare, in modo tranqillizzante, ma non servì a molto.
- La misura e la saggezza non m'eviteranno il biasimo, per quanto m'importi del biasimo altrui - ribatté Cosimo, ancor più amaramente - Non potrò scansarmi dalle contese dei grandi, ma cercherò di ricavarne meno danno possibile: ho miei casi, il dominio e la famiglia a cui pensare per primi. Ho aspettato Siena per anni, e aspetterò ancora -
Il cameriere capì facilmente perché Sua Eccellenza parlasse in quel modo: intanto, non si faceva illusioni sulla facile resa di Siena che, se si fosse effettivamente arrivati alla guerra, sarebbe stata lunga e sofferta. In secondo luogo, la guerra era una faccenda dispendiosa di mezzi e risorse, e in ultimo, il duca era seccato di essere usato come pedina dall'imperatore. Sforza non riusciva proprio a rimproverare la prudenza del suo signore.
Questi rimase in silenzio a lungo, dopo quello sfogo, poi parlò di nuovo, cambiando argomento:
- La duchessa ha vomitato ancora? - chiese, in tono più familiare. Sua Eccellenza stava male da diversi giorni, e solo quella mattina s'era risolta a farsi visitare.
Almeni scosse la testa:
- No, Eccellenza, ma la causa del suo male è lieta. Il dottore è certo di una nuova attesa - rispose, sperando di portare un po' di sollievo al duca, che in effetti, si rischiarò:
- Grazie a Dio - replicò, evidentemente più calmo. La duchessa aveva avuto l'ultimo figlio tre anni prima, e si pensava non potesse più averne, dato che la sua salute si era fatta più incerta.
Cosimo sospirò, cosa rarissima per lui:
- Cosa non si fa per la famiglia. Anche montare quel cavallo pazzo che è il potere - osservò.
Il servitore non disse niente, ma in cuor suo, avrebbe dato chissà cosa per aiutare il suo signore a reggere quelle briglie.



Note:

Don Diego de Mendoza era il diplomatico spagnolo a cui Carlo V aveva affidato il controllo di Siena, comunque ancora una repubblica libera. Si comportò in modo tirannico e impose la costruzione di una fortezza per la guarnigione spagnola in città, cosa che causò la rivolta a cui accenno a inizio capitolo. In verità, in quei giorni egli era a Roma, ma l'ho inserito a fini do trama.

Sforza Almeni era il fedele cameriere segreto di Cosimo. L'ho inserito come voce narrante, che probabilmente tornerà come personaggio anche più avanti.

Allora, questo èil primo dei prossimi capitoli, due o tre al massimo, dedicati all'episodio centrale della guerra di Siena (1552 circa - 1554). Non entrerò nei dettagli, ma cercherò di dare un quadro generale. Visto che la faccenda è complessa, non aggiornerò in modo regolare, quindi vi chiedo un po' di pazienza.

Come sempre, ringrazio chi leggerà.

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Capitolo 14
*** Il tiranno ***


14.

Attenzione, questo capitolo contiene dei passaggi violenti
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Inverno 1553 - Primavera 1554


Il silenzio della cripta, di solito portatore di pace, in quel momento le parve opprimente. La duchessa rabbrividì, più per l'inquietudine che per il freddo invernale, ma non si mosse dalla sua posizione di fronte al piccolo altare. Le mani giunte erano intirizzite, ma il suo cuore sussultava, spingendo terrore e rabbia bollenti nelle sue vene.
Se solo avesse potuto, avrebbe urlato e imprecato, come nemmeno il suo signore si era abbandonato a fare. Da donna, pensava che esprimere le proprie passioni le sarebbe stato scusato, ma da duchessa non poteva permetterselo. Eppure, fin da quando erano sposati, lei e Cosimo si erano trasmessi i sentimenti l'uno dell'altra, come se a provarli fossero stati ognuno in prima persona, scambiandosi patimenti e gioie.
Così lui aveva avuto il cuore spezzato per tutti e tre i bambini che avevano perso, e lei aveva odiato visceralmente tutti coloro che lui detestava.
Adesso le stava accadendo la stessa cosa, ne era certa: quell'ira insopprimibile non era sua, ma lo era diventata. Il duca aveva parlato con calma, come suo solito, non si era lasciato a nessuna esternazione eccessiva, ma lei sentiva, fin sotto la pelle, che dentro schiumava. Da spirito indomabile qual era, Cosimo non sopportava l'umiliazione, la sottomissione, ed era stato costretto a entrambe le cose.
I francesi gli avevano teso la trappola, Sua Maestà e i suoi alleati, tra cui lo stesso padre di Eleonora, ce l'avevano spinto dentro. Il duca aveva ignorato le accuse di don Diego, quel pavido coniglio, aveva finto di piegarsi a quel patto di non belligeranza con re Enrico, ma poi, don Pedro s'era fatto prendere dal panico. I turchi, alleati dei francesi, sciamavano con le loro flotte intorno alle sue coste, e lui aveva insistito con ogni mezzo con il genero perché Siena fosse liberata dai francesi, ma Cosimo s'era rifiutato.
Eleonora ebbe, involontariamente, gli occhi colmi di lacrime. Pensava di aver già pianto fino allo sfinimento per la morte del padre. La sua impresa contro Siena era durata un soffio di vento: consunto dalle febbri, se n'era venuto a morire a Firenze, lasciando l'esercito allo sbando e la città nemica più in mano dei francesi che mai. La duchessa aveva adorato il genitore, ma ora non poteva perdonarlo: la sua avventatezza aveva sbriciolato ogni muro di prudenza il duca aveva costruito, gettandolo nei sospetti dell'imperatore e nella mire dei francesi. Cosimo non aveva potuto evitare di spedire rinforzi alla Corsica, proprietà dei Doria e invasa dai turchi, e questo aveva innescato la fiamma della guerra, che ora cominciava ad ardere in Siena con sempre maggiore insistenza. Come se non bastasse, la regina Caterina aveva messo a capo delle proprie forze da inviare in Toscana  i peggiori nemici del duca, Piero e Leone Strozzi, che andavano spergiurando di voler strappare Firenze al tiranno.
Cosimo aveva lanciato uno strano sguardo a sua moglie, quando furono loro riferiti quei discorsi, una smorfia a metà tra la rassegnazione e un' implacabile risolutezza:
- Il tiranno - aveva commentato, semplicemente, la voce ferma e venata di furia imbrigliata.
La duchessa amava il suo signore per le molte virtù, ma sapeva che egli non era generoso, non era magnanimo, non perdonava né dimenticava, e lei non cercò di placarlo, né ci avrebbe mai provato. Non si poteva vuotare il mare con un cucchiaio.

La lupa è più fiera del lupo, quando deve proteggere i suoi cuccioli, questo lo sapevano tutti. Piero Strozzi la trovava una bella immagine, la considerò molto pertinente, mentre il gruppo di soldati nemici gli veniva gettato ai piedi. Siena era un mezzo, una via lastricata d'oro per raggiungere i suoi scopi, e per ora era meravigliosamente dritta. Le parole stavano funzionando efficacemente quanto le armi, e lui aveva maledettamente ragione, lo sapeva. E più induceva il duca di Firenze a comportarsi crudelmente, più lui era vicino alla vittoria.
Non gli importavano le beghe fra Enrico e Carlo, quelle erano cose che i ministri avrebbero aggiustato, a tempo debito. Condurre le proprie milizie attraverso i territori di Cosimo, che lui considerava così ben difesi, era già per lo Strozzi una mezza ricompensa. Le fortezze gli si piegavano davanti, i soldati gettavano le armi e si davano alla fuga o imploravano il perdono. Certo, non tutto filava così liscio, c'era chi resisteva, chi credeva in quel fantoccio d'un Medici, e perdeva la testa. Ma erano piccolezze, piccolezze! Lui era dalla parte della ragione e della libertà, per quale motivo avrebbe mai dovuto fallire?
Piero sorrise fra sè, impercettibilmente, ordinando che metà dei prigionieri fosse risparmiata. Così dimostrava la sua superiorità rispetto allo spietato nemico, che faceva strage indiscriminata di chiunque prestasse aiuto ai francesi e ai rinforzi di fuoriusciti fiorentini, soldati, contadini, vecchi, donne e ragazzi. Fin dall'inizio di quell'anno 1554, con l'acuirsi e l'esplodere della guerra in Toscana, quei carnai si erano susseguiti, da una parte e dall'altra. Anche lo Strozzi sapeva bene come essere privo di pietà. Ogni guerra valeva il sacrificio di tutti, per qualcosa di più nobile ed elevato. Sentì la legittimità della sua causa come un secondo scudo al braccio. La cittadella fortificata nella piana pistoiese che avevano appena conquistato fumava appena, gli abitanti e la difesa avevano ceduto subito.
Per quanto fosse uomo di mondo e d'azione, che si vantava di conoscere l'animo degli esseri umani, Piero Strozzi non notò gli sguardi di quella gente. Non capì che si erano arresi non perché convinti dai suoi ideali, ma solo per sopravvivere. Anche loro avevano sentito parlare di mucchi di cadaveri, di messi devastate, di donne crocifisse alle porte delle città, e non distinguevano un colpevole dall'altro, non era cosa che gli interessasse. Il pastore voleva solo ritrovare almeno parte delle sue pecore, il contadino almeno una delle sue vacche. Che i potenti giocassero pure a dividersi la terra come se partissero il pane. I loro incubi sarebbero stati comunque meno tormentosi dei loro.

Cosimo era rimasto sveglio fino a tardi, come spesso accadeva in quei mesi. Aveva letto rapporti dai suoi generali, il Colonna e il conte di Marignano, e aveva studiato la traduzione di una lunga lettera del generale spagnolo. Tutto procedeva lentamente, troppo lentamente, e niente riusciva a frenare l'avanzata di Piero Strozzi verso Firenze. Ma era impossibile, che riuscisse anche solo a vedere le luci della città, impossibile.
Leggermente confuso dalla stanchezza, attraversò lo studio e si diresse verso le proprie stanze, ma nell'oltrepassare le doppie porte, non trovò le due guardie che stavano sempre al loro posto. Si meravigliò, e chiamò un paio di attendenti, per una spiegazione. Nessuna risposta. Le camere erano, oltretutto, immerse nella più completa oscurità, e questo lo fece infuriare: afferrò una torcia e l'accese a una candela posata sul suo scrittoio, poi si avventurò attraverso le tenebrose sale del palazzo. La luce tremula colpì le grottesche sulle pareti, facendole somigliare agli spettri dei racconti da balie, le figure allungate di ninfe e dei negli affreschi erano ombre nere. Il duca scacciò dalla mente con impazienza quelle suggestioni infantili, ma alla rabbia per la disobbedienza del servidorame si era sostituito il dubbio: perché sembrava non esserci anima viva? A quel punto, si accorse che dentro il palazzo non s'udiva un solo rumore, ma fuori c'era un chiasso da festa. Anche il bagliore aranciato che proveniva dalle finestre faceva pensare a falò e fuochi colorati. Spalancò la finestra più vicina, e il cuore gli si fermò: la città bruciava.
Sul momento, non riuscì a capire, pensò a un incendio o a un disgraziato incidente, ma la totale assenza di chiunque nel palazzo lo trasecolava. Mentre cercava un appiglio logico per capire cosa dovesse fare, udì delle voci, un concitato biascicare in francese, e comprese: quel demone incarnato e traditore dello Strozzi era penetrato nelle mura, dunque, e tutto era perduto. Non lasciò che la paura e l'odio lo sconvolgessero, doveva correre dalla duchessa e dai principi e cercare di salvare almeno le loro vite.
Per percorsi segreti e nascosti, attraversò rapido il palazzo, fino alla parte più antica, dove erano gli appartamenti della moglie, e là, a terra, sulle scale, scorse i corpi senza vita di fantesche, servitori e soldati, crollati sotto colpi di spada e archibugio. Dominò l'orrore e li superò, raggiungendo la scala che portava alle camere dei figli. Fece gli scalini a tre a tre, boccheggiando, ignorando i polmoni brucianti, e spalancò le porte con veemenza.
Solo la sua anima urlò, distinguendo le figure cadute tra i letti e il pavimento: Maria, la dolce Maria, aveva tentato di trascinarsi fino alla porta, stringendo fra le braccia il più piccolo dei fratelli, Ferdinando. Francesco era stato colpito mentre cercava di far scudo a loro e a Lucrezia, raggomitolata dietro di lui. Isabella giaceva accanto a Garzia, aggrappato alla sua camicia e a una mano di Giovanni. Balie e serve erano state uccise e trascinate vie per prime, senza poter far nulla.
Avrebbe voluto cadere in ginocchio e piangere su quei resti amatissimi, ma non poteva perdere altro tempo. Alimentato da una debolissima, bruciante speranza, tornò sui suoi passi, con quanta velocità glielo concessero le gambe e la mente stravolta.
Le stanze della duchessa parevano più buie di tutto il resto, ma non c'erano i cadaveri delle sue cameriere, forse si erano salvate o erano state risparmiate. Non c'erano neppure segni di lotta, e quella sembrava l'unica camera dove la devastazione non era penetrata. Eppure, le tende del letto erano tirate, come se la signora dormisse ancora, indisturbata. Credendolo vuoto, il duca le scostò, già pronto a cercare sua moglie da qualche altra parte, quasi rassicurato.
Il dolore doveva distorcergli la percezione. Eleonora sembrò giovanissima nella morte, stesa su un fianco, con i capelli sciolti che fluivano in una massa oscura fra le lenzuola macchiate di sangue. L'avevano spogliata e forse oltraggiata, prima di sgozzarla. Come ultimo affronto, sulla schiena le erano state incise delle parole in punta di coltello, Chienne Hispanique, cagna spagnola.
Non aveva più niente, ormai. Rimase immobile per un tempo che gli parve infinito. Non si voltò, quando sentì dei passi, ma riconobbe la voce:
- Crepa, porco de'Medici - sibilò Piero Strozzi, tagliandogli la gola.
Il duca spalancò gli occhi, trovando solo il reale, meravigliosamente concreto, baldacchino del letto. Tutto era tranquillo, niente fuochi, niente silenzio di morte. E la duchessa dormiva accanto a lui. Non si mosse, ascoltandone il respiro per pochi istanti. I sogni erano inganni da vecchie megere, cose di cui non tenere conto. Quelle orribili scene non erano che una febbre passeggera: i ragazzi erano al sicuro, Giovanni a Roma, e se lo Strozzi si fosse avvicinato alla città, lo avrebbe saputo con largo anticipo. Ma non poté riprendere sonno, con brani di quelle suggestioni impresse dentro gli occhi. Nessuno più di lui sapeva che in guerra nessuno poteva avere il lusso di non tremare.

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Capitolo 15
*** Scannagallo ***


15.



Nostra Signora in Maestà aveva uno sguardo severo, ammonitore, forse. I santi guardavano a lei, piccoli e reverenti, come i cittadini senesi assiepati nel duomo. Il sole infuocava il fondo dorato della pala d'altare, che quasi s'accendeva un po' di più a ogni eco di cannone. Quei colpi, alle orecchie di Piero Strozzi, affogavano i Vespri, ma avevano il vantaggio di far risuonare meno violentemente i suoi pensieri più dolorosi.
Suo fratello Leone era morto, pochi giorni addietro, e con lui erano svaniti metà dei loro successi. Quanto ai rinforzi promessi da re Enrico di Valois, non erano mai arrivati. La vittoria, prima così vicina, pareva sfuggirgli dalle dita come un pesce fradicio.
Molte delle terre del Medici si erano piegate agli Strozzi, ma ancora il conte di Marignano assediava Siena, e da mastino rabbioso che era, si rifiutava di mollare la presa, togliendogli tempo prezioso e affamando la città. Sarebbe bastato un soffio di vento a farli crollare, ma Piero non aveva nessuna intenzione di gettare i suoi sforzi e il sacrificio di Leone alle ortiche. Fissò negli occhi dipinti la Madonna di Duccio e si segnò con devozione, prima di uscire dalla chiesa a grandi passi.
La sera sembrò arrivare con lentezza esasperante, poi le spie sui bastioni gli riferirono della ritirata per la notte degli assedianti. Senza indugiare, Piero diede gli ultimi ordini al suo luogotenente De Monluc, poi fece scivolare le sue truppe, un manipolo per volta, fuori dalle mura. Lanciato al galoppo attraverso la campagna, il generale si sentì caricare di nuova determinazione: presto i medicei e gli imperiali si sarebbero messi al loro inseguimento, lasciando libera Siena di ricevere approvigionamenti, e intanto lui, Piero, avrebbe stretto ancora la sua morsa attorno al duca di Firenze. La sua meta era Arezzo. Là, la guerra sarebbe finita, in un modo o nell'altro.

Gian Giacomo de'Medici, conte di Marignano, non aveva nulla a che fare con i signori di Firenze, tranne per il fatto che comandava il loro esercito. Il duca Cosimo l'aveva assoldato per le sue provate qualità in battaglia, e per quel fittizio legame familiare, che a buon esito di quell'impresa, sarebbe anche potuto essere legittimato, ma sapeva di servirsi di un pazzo. Discutere con lui equivaleva molto a maneggiare della polvere da sparo in un campo di sterpaglie in piena estate. Ne temeva la ferocia cieca, ma non aveva esitato a sguinzagliarlo contro lo Strozzi, e con ragione.
 Il soldato che portò al conte la notizia della partenza di Strozzi e del suo esercito ne provò il motivo. Gettando un'occhiata di disprezzo al poveretto scalciante sulla forca, il Marignano sbraitò ai suoi scudieri di spicciarsi a vestirlo, poi, rinfoderando la sua enorme spada a due mani, marciò davanti alle truppe schierate:
- Non m'importa quanto ci metteremo o se dovremo stanarlo dalla sua tana come un ratto, andiamo a prendere quel figlio di puttana! - gridò ai suoi, che risposero con un boato assordante.
I senesi guardarono con timore e sollievo fiorentini, spagnoli e tedeschi allontanarsi dalle loro mura. Non tutto era perduto.

Gli uomini seduti attorno al lungo tavolo sobbalzarono, quando il pugno si abbatté sul suo ripiano lucido. Fu l'unica manifestazione d'ira che il duca si concesse, dopodiché rilesse il dispaccio passandosi le dita sulla barba rossiccia, con misura controllata.
- Lucignano, Marciano, e ora anche Foiano. Monte San Savino, Civitella e Oliveto - elencò, alzandosi e rivolgendosi a tutti i suoi ministri - Tre castelli presi, tre borghi isolati. Quando diavolo si deciderà Marignano ad affrontare Strozzi sul campo? Non voglio le sue rassicurazioni, voglio i fatti, voglio sapere se mi devo aspettare quel vile sotto le mura -
Quelli si scambiarono delle occhiate incerte, poi uno intervenne:
- Non accadrà, Vostra Eccellenza. Il conte ha accerchiato l'esercito senese intorno a Foiano. La questione si risolverà a giorni -
- Staremo a vedere come si risolverà - ribatté Cosimo, senza aggiungere altro.
Congedò il suo Consiglio e si ritirò nelle sue stanze, con la sola compagnia di Sforza Almeni. Con gran stupore di quest'ultimo, tirò una sedia davanti a sé e versò di sua mano due coppe di vino:
- Siediti e bevi - gli ordinò, vuotando la sua coppa in un sorso solo. Il cameriere obbedì.
- Questo è il prezzo dell'ambizione, sangue amaro e bile in bocca - esordì il duca, in tono stanco - Non è da cristiani, ma non ho mai voluto qualcuno morto come Piero Strozzi, e questo non è un segreto. In verità, io lo temo, come a volte temo me stesso, perché in lui è parte del mio sangue, e mi odia e ha tradito il nome di sua madre. L'imperscrutabilità del volere di Dio! Quale febbre di delirio ci spinge a massacrarci fra fratelli?
Se io e te fossimo filosofi, davvero te lo chiederei, Sforza, ma le elucubrazioni non portano mai da nessuna parte. L'unica cosa che so per certo, è che la mia strada è segnata e pure la sua, come un bivio le cui biforcazioni non s'incontreranno mai. La battaglia segnerà la mia fine o la sua. Quel che voglio è che sia la sua. Rendimi un servigio, manda qualcuno a Foiano che mi riferisca ogni mossa dei nostri e loro. Io non avrò più idea di cosa sia la pace - concluse, enigmaticamente.
Sforza eseguì, con un groppo in gola: i segreti dei potenti sono difficili da digerire.


2 Agosto 1554


La piana scelta per lo scontro, ai piedi del castello di Foiano, era chiamata dai villici in uno strano modo, " Scannagallo", dal torrente in secca che l'attraversava. Per i medicei quel nome aveva un che di profetico, e le notizie che arrivavano dal lato francese non potevano essere più incoraggianti. Piero Strozzi aveva fatto indietreggiare lo schieramento verso le colline, sperando di spiazzare il nemico, ma nel contempo si era tagliato la via di fuga sul retro, e pareva non essersene ancora reso conto.
Il Marignano sentì le prime gocce di pioggia tintinnare contro le placche metalliche dell'armatura, ma non se ne curò: lo sbattere degli stendardi con le palle medicee e l'aquila asburgica mossi dal vento era un suono molto più interessante. Significava vendetta. Troppe volte in quei pochi giorni lo Strozzi l'aveva umiliato, scappandogli sotto il naso come una talpa. Le loro forze erano pari, ma solo uno avrebbe prevalso. L'idea di scoprire chi dei due gli faceva ribollire il sangue.
Osservò le truppe schierarsi ai lati del torrente e mentre guardava senesi e francesi indietreggiare, ridacchiò fra sé. Il suo secondo, Sforza da Santafiora l'udì e gliene chiese il motivo.
- Si ride sempre prima di una battaglia - spiegò Marignano, sempre ridendo - Per non far vedere alla Comare Secca che si ha paura di lei -
Il corno quasi cancellò le sue ultime parole. La pioggia ora cadeva più forte, come a dare il ritmo. Con pochi segnali ai suoi ufficiali, Marignano diede il via all'attacco, scaricando gli archibugi sulle retrovie francesi.
Piero fu attraversato da una scossa elettrica, mentre l'acqua che gl'invadeva gli occhi lo accecava. Si era sbagliato. Sapeva il Marignano per ostinato e spietato, ma non l'aveva considerato come stratega. Pieno di rabbia e confusione per la propria avventatezza, il generale voltò il cavallo verso le ultime linee, che digradavano velocissime verso il torrente, spingendo tutto lo schieramento dalla parte opposta. Urlando a pieni polmoni, Piero costrinse gli uomini a tornare in formazione, ma ormai avevano oltrepassato la secca, trovandosi completamente in svantaggio. Senza permettere cedimenti al proprio valore, impugnò la spada e si lanciò fra i nemici, tra scoppi d'archibugio e il nitrito impazzito dei cavalli.
Il Santafiora e il suo reparto tedesco piombarono da un lato, proprio come un'aquila: schiacciarono il contingente francese e lo obbligarono ad arretrare. I fanti cadevano come spighe, i cavalieri erano abbattuti e scivolavano sotto i corpi inerti o frenetici dei loro destrieri. Più si allungavano le ore, più il mondo pareva a rovescio.
Piero non vedeva più né cielo né terra, fra le masse di corpi e armature, ma come tanti anni prima, cercava il generale nemico: affondare la spada nella gola del Marignano poteva salvargli la vita, la causa. Allontanò con una gomitata un lanciere spagnolo, disarcionò un cavaliere tedesco e imprecò in fiorentino contro un altro fiorentino, ma del generale nessuna traccia, e il suo braccio cominciava a tremare per la fatica.
Il Marignano aveva lo stesso proposito dello Strozzi. Macellava inermi picchieri a colpi di spada, mentre dava la caccia all'altro, poi lo vide: in mezzo a una mischia, si difendeva a pugni e testate, la spada chissà dove. Marignano ne recuperò una da un morto e si fece largo a spintoni:
- Strozzi! - gridò, lanciandogliela. Quello si voltò, sorpreso e l'afferrò, pronto a combattere. I soldati fecero rapidamente spazio, e i due si scagliarono l'uno contro l'altro. Le lame s'incrociarono una decina di volte, senza che nessuno potesse prevalere, poi una schioppettata interruppe il duello: Piero Strozzi cadde da cavallo, ferito forse mortalmente e il Marignano bestemmiò.
Non ci fu tempo di verificare cosa fosse successo: lo schieramento di Santafiora era tornato alla carica dei francesi che si lasciarono sopraffare, battendo disordinatamente in ritirata. I soldati senesi urlarono di porci e traditori agli alleati, ma non servì a nulla: l'ondata di nemici li travolse, costringendoli a fuggire a loro volta.
Piero si rialzò a fatica da sotto il suo cavallo ucciso. Premette una mano sul fianco e la ritirò coperta di sangue. Un fante senese lo vide e gli diede la spalla, aiutandolo ad allontanarsi dal cuore della battaglia. Insieme alle forze, lo Strozzi sentì andar via tutto il suo essere: l'impresa era fallita, e Cosimo de'Medici era vincitore. Di nuovo.

Le campane di Santa Maria del Fiore iniziarono a suonare fuori orario. Subito, seguirono quelle di Santa Croce, della Santissima Annunziata, di Santa Trinita, della Badia, di tutte le chiese, i conventi e gli oratori di Firenze. La voce correva di casa in casa, e la gente cominciò a scendere in strada, abbracciandosi e ridendo.
La duchessa scese dal letto quasi con un salto, mentre lo scampanio invadeva la sua camera. Si fece vestire in gran fretta, e per la gioia, finì per dare un bacio a tutte le sue ragazze. Ordinò che i principi fossero preparati senza altro indugio, e si fece accompagnare alle stanze del duca.
Cosimo sentì Eleonora entrare, e in barba a ogni compostezza, la prese per mano e la portò fuori, sulla terrazza:
- Ascoltate - l'esortò. Insieme tacquero e udirono il grido festante dalla piazza:
- Palle! Duca! Piero Strozzi in una buca! -
Si lasciarono sfuggire una risata liberatoria, poi lui scoppiò a piangere sulla spalla di lei.



Note:

Qui è un link alla Maestà di Duccio, l'opera citata a inizio capitolo:

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/eb/Maest_0_duccio_1308-11_siena_duomo.jpg


Quando Cosimo allude alla consanguineità con Piero Strozzi, s'intende il fatto che la madre di Piero fosse una Medici, Clarice, figlia di Piero di Lorenzo il Magnifico e moglie di Filippo Strozzi.

Il grido festante della folla è documentato da cronache dell'epoca.


Mi sono accorta troppo tardi di aver fatto un errore, anche nel capitolo precedente: Gian Giacomo de' Medici non era conte di Marignano, bensì marchese. Mi scuso del buco di memoria.

BlueSkied


 


 

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Capitolo 16
*** Principesse ***


16.


Febbraio 1557


- Sono arrivati?-
Isabella si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo e rispose, meccanicamente: - No, Maria -. Da tempo non vedeva sua sorella così nervosa, anzi forse Maria non era mai stata nervosa in tutta la sua vita. Ancora più pallida del solito, sedeva rigidamente, torcendo fra le dita le perle del suo braccialetto, e nel giro di un'ora le aveva fatto la stessa domanda almeno quattro volte. Quando udì l'ennesimo responso negativo, sospirò e tornò a guardare l'agitazione intorno a lei come se non la vedesse affatto. Fantesche e damigelle si affannavano tra le stanze e i corridoi, bisbigliando fra loro e correndo ad eseguire i vari ordini per quella sera. Dai saloni al pianterreno della villa provenivano voci e rumori che testimoniavano lo stesso fermento.
Nessuno era stato più fermo un attimo, da quando si era saputo il giorno esatto dell'arrivo del duca di Ferrara, Alfonso II d'Este, da poco alleato di Cosimo de'Medici e promesso sposo di Maria. La corte era stata spostata da Pisa a Poggio a Caiano in tutta fretta, e i preparativi per l'accoglienza dell'ospite erano cominciati senza indugio né riguardo al tempo né riguardo alle spese. Donna Isabel, la nutrice dei principi, aveva confidato loro che non si era più visto tanto sfarzo dal matrimonio dei duchi. Sul momento, i ragazzi erano stati entusiasti nel ricevere abiti e paramenti per i cavalli nuovi, nel vedere la bella dimora di campagna tirata a lucido e ornata a festa, nell'assistere al lavoro del servidorame di corte o assunto per l'occasione. Poi quell'atmosfera gioiosa si era un po' spenta: i piccoli si annoiavano presto e i grandi erano assillati dalle continue raccomandazioni e istruzioni di precettori, nutrici e sopra ogni altro, della madre. Sempre severissima, in quei giorni si era fatta assolutamente inflessibile: la minima mancanza da parte dei figli sfociava subito in un castigo, anche quelle volte che di solito lei riteneva meno gravi e quindi scusabili. Il padre, dal canto suo, non interveniva a favore dei ragazzi, troppo impegnato nei trattati di pace con la Francia, dei quali quel matrimonio era parte integrante.
Di tutto questo alle principesse importava in realtà poco. Maria si era chiusa nella sua preoccupazione da sposa in itinere, Lucrezia, solo dodicenne, era l'unica a provare un po' di eccitazione per la festa, e Isabella pensava che quando sarebbe toccato a lei, probabilmente non avrebbe retto né a tutta quell'aspettativa, né alle ansie tiranniche della duchessa sua madre. Guardando dalla finestra verso le case accoccolate del paese e le morbide colline verdi, la ragazza dette una secca tirata al colletto alto dell'abito di damascato argento: un colore da lutto che la mamma aveva scelto perché lei era già fidanzata.
Come si aspettava, Paolo Giordano non sarebbe stato presente a quei festeggiamenti, ma questo non le impedì d'incupirsi: si erano conosciuti per il contratto di nozze, quattro anni prima, lei undicenne, lui dodicenne, entrambi ragazzini annoiati dalle lunghe chiacchiere degli adulti, fidanzati senza nemmeno capire bene cosa significasse, diversissimi nell'aspetto e nel temperamento. Isabella era una fanciulla vivace, dai capelli rossi e la lingua pronta, Paolo era un adolescente scuro, pingue e timido. Nulla di più incompatibile, ma si erano scritti, negli anni, e Isabella poteva anche credere di avere una piccola infatuazione per quel futuro marito, che però poi aveva rivisto solo di sfuggita durante qualche visita ufficiale, e niente di più.
Probabilmente, pensò, a Maria e Alfonso non sarebbe accaduto lo stesso, visto che ormai sua sorella era abbastanza grande per sposarsi e andare nella città del marito. Lucrezia e Garcia avevano pianto, quando avevano saputo che Maria sarebbe andata via di casa, e neppure Isabella aveva saputo trattenere la tristezza.
Sebbene le dividessero solo due anni, Maria era sempre stata un esempio per sua sorella minore: differente da tutti loro, pur avendo la stessa mescolanza di caratteristiche dei genitori, era bella come una Vergine Annunciata, con la pelle chiara e i capelli in onde scure che circondavano il volto a forma di cuore, in magnifico contrasto con gli occhi nocciola pallido, così trasparente da sembrare celeste.
L'età della crescita non l'aveva turbata troppo, lasciandole il temperamento delicato e modesto che l'aveva sempre contraddistinta, che a Isabella faceva pensare a una versione più dolce della loro madre.
La duchessa, senza farne mistero, aveva sempre smoderatamente preferito la primogenita alle altre femmine, felice che fosse cresciuta bella, saggia e pia come aveva voluto.
Eppure, nonostante quella sua aria da regina, Maria non disdegnava divertimenti più movimentati. Amava cacciare e correre a cavallo, cose che l'avevano resa carissima al babbo.
Insomma, Isabella non faticava a credere che sua sorella sarebbe stata una duchessa perfetta per Ferrara, e se suo marito l'avesse anche amata, non se ne sarebbe stupita. Osservandola preoccuparsi nella sottana cremisi scuro tempestata di piccoli vezzi d'oro e perle, si disse che qualsiasi uomo a posto con la testa non avrebbe potuto altro che amarla.
Un colpo secco alla porta fece sobbalzare entrambe le ragazze, ma l'intruso si rivelò essere solo Lucrezia, che già costretta nel suo sottanino verde e con la cuffia che minacciava di scivolare giù dai ricci, corse nella camera e si buttò sulle ginocchia di Maria, strillando come una bimbetta:
- Oh, Maria, Isabella, la mamma viene qui! -
Questa notizia mise in grande allarme la schiera di damigelle e donne, che si affrettarono a ricomporre donna Lucrezia in uno stato accettabile e a controllare che tutto in donna Maria fosse perfetto. Isabella, dal canto suo, si limitò a lisciare le pieghe sul busto e a spingere una forcina un po' più dentro nell'acconciatura a cercina.
La duchessa Eleonora arrivò dopo pochi secondi, accompagnata dalle sue rigide donne e dal fruscio della ricca zimarra di velluto che indossava. Mentre s'inchinava brevemente, Isabella si stupì per l'ennesima volta di come sua madre riuscisse a scintillare pur portando pochissimi gioielli. Non aveva nemmeno gemme cucite sull'abito, ma bastavano minimi movimenti per far brillare il lungo filo di perle sul petto, gli orecchini e gli anelli alle dita. Da quando aveva messo su peso, il corpo gravato dai molti parti, sembrava ancora più imponente del solito, e pure ora che potevano guardarla negli occhi le figlie si sentirono piccole davanti a lei.
- Mi querida - disse con insolita tenerezza, entrando e avvicinandosi a Maria. La esaminò e lisciò invisibili imperfezioni delle maniche:
- Questo mi ricorda quando mia madre, Dio l'abbia in gloria, mi vestì per le mie nozze - raccontò, decisamente commossa - Sua Eccellenza il duca di Ferrara è qui, e non vede l'ora di vederti, figlia mia. Non avere paura, e non tremare. Sii graziosa e sorridi, ma con garbo. Isabella, Lucrezia, venite qui - aggiunse, rivolta alle altre, e indicò loro di mettersi ai fianchi della sorella.
- Mostriamo a questi Este i fiori più belli del giardino dei Medici -


Del ventiquattrenne Alfonso, un giovane alto ma non allampanato, Cosimo apprezzò la prestanza fisica, del buon cavalcatore, ma qualcosa, nel viso lungo e cereo, gli dava l'idea di poca virilità. Gli gettò l'ennesima occhiata da sopra il bicchiere di Chianti, e non poté fare a meno di confrontarlo con la figliola: sembravano stare bene insieme, mentre le poche parole di lui, nello strano accento dell'Emilia, accendevano le guance di Maria di un rossore timido e divertito. Coperti dalla musica, dalle chiacchiere e dall'acciottolare delle posate, non si udiva affatto cosa si stessero dicendo, ma non era difficile immaginarlo. Frasi di cortesia e di giovanile ardore.
Lo stesso che, più che evidentemente, brillava negli occhi di Francesco, intento da tutto il banchetto a studiare una fanciulla bionda del seguito ferrarese. Accanto a lui, Isabella e Giovanni, tornato da Roma, ridevano fra loro, assistendo ai lazzi dei nani e facendo pungenti osservazioni sugli ospiti. Il ragazzo, tuttavia, cercava di darsi un contegno, per rispetto alla pesante croce che portava appesa al collo. Lucrezia, Garzia e Ferdinando giocherellavano col cibo e buttavano avanzi ai cani, fissando con occhi un po' spersi tutto quel corteggio estraneo che parlava in quel dialetto misterioso, di cui non capivano uno zero.
Il duca Alfonso si era sorpreso nell'apprendere che anche i bambini più piccoli del Medici partecipavano ai banchetti ufficiali, ma non aveva fatto commenti. Fino a quel momento, si era dimostrato un perfetto nobiluomo, complimentando a più riprese la duchessa e mostrando vivo interesse per la passione del duca per le antichità e le arti.
Mentre raggiungevano la villa, Cosimo gli aveva ampiamente descritto la sua collezione di bronzetti, vasi greci e statue etrusche, incontrando il suo entusiasmo. Sapeva che Alfonso era protettore di poeti e artisti, e questo glielo rendeva affabile.
Gli Este gli servivano, e Alfonso era l'ultimo fra loro. Maria gli avrebbe dato uno stuolo di bambini mezzo sangue Medici e il potere della Toscana sarebbe stato consolidato. Questo Eleonora lo sapeva, ma non le aveva impedito di arricciare il labbro in un gesto d'immenso fastidio.
" Herejìco " aveva mormorato, quando era stato appena lontano dalla sua voce. Sua madre, Renata di Francia, era stata allontanata da Ferrara per la sua fede calvinista, e sebbene il figlio fosse ancora piccolo, lei temeva che potesse aver assorbito alcune delle blasfeme credenze della madre.
Cosimo era certo che ci stesse ancora pensando, e infatti, quando i convitati cominciarono ad alzarsi per aprire le danze, non si sorprese nel sentirla sbuffare:
- La mia povera Maria, promessa a questo azzimato eretico - sussurrò, segnandosi con circospezione. Il duca si trattenne dal ridere, non volendo rischiare di offenderla, anche perché da una parte condivideva i timori della moglie, ma la vedeva in modo più elastico:
- Sono compromessi che dobbiamo accettare, mia signora - la redarguì - E poi Sua Eccellenza ha provato la sua fedeltà alla Chiesa Cattolica Romana - assicurò. Eleonora si strinse nelle spalle:
- Dev'essere come voi dite, mio signore - convenne - Ma non posso impedire al mio cuore di veder sposata una delle mie figlie a un principe spagnolo - confessò.
Teneva la testa posata sulle dita piegate, l'altra mano che reggeva il fazzoletto prossimo alle labbra. Ogni tanto un piccolo accesso di tosse la coglieva, ma il caldo della sala doveva mitigare quel malessere che la tormentava già da più di un inverno.
I ragazzi, bontà loro, scoppiavano di salute: Francesco danzava con la florida bionda che aveva silenziosamente corteggiato, Giovanni aveva accettato una danza con un'elegante signora e Isabella volteggiava con grazia da un compagno all'altro, leggiadra come una farfalla e allegra come una puledra.
Maria e Alfonso formavano una bella coppia, al centro della sala, composti in una trattenuta ammirazione. Il duca e la duchessa non poterono fare a meno di rivedere sé stessi in loro, altrattanto giovani e fiduciosi:
- Da quanto non danziamo, mia signora? - chiese Cosimo alla moglie, con una punta di nostalgia. Lei sorrise, in modo scherzosamente severo:
- Signore, non sta bene per noi neppure pensarlo. Comunque, da quando si sposarono Sua Maestà Filippo e la regina Maria d'Inghilterra - replicò.
- Oh, sì, ora ricordo, e voi avete avuto tutto il tempo paura di cadere da quelle terrificanti scarpe francesi - ribatté Cosimo. Eleonora si accigliò:
- Vorrei sapere dove sta scritto che solo le Francesi sanno vestire bene - sbuffò, ma era divertita.
- Voi le smentite - affermò il duca, conciliante - Maria porterà a Ferrara il modo di vestire fiorentino, e vedremo chi vincerà la tenzone -
- Spero che sarà felice almeno la metà di quanto lo sono io - dichiarò la duchessa, con improvvisa apprensione.
- La metà? Perché solo la metà? - volle sapere il marito, curioso e commosso insieme.
Lei lo guardò, con rara intensità:
- Perché nessuno, mio signore, potrà essere mai felice quanto lo sono io con voi -
Guardando i loro figlioli, allegri e splendenti come non mai, lanciati verso un destino di gloria, Cosimo la comprese e si sentì come lei.



Note

Paolo Giordano Orsini sposò Isabella de'Medici nel 1558.

Per SOTTANA intendo un abito cinquecentesco, con le maniche applicate o staccabili, prima capo che si portava sotto l'abito principale, poi divenuto indumento autonomo.

Filippo II d'Asburgo e Maria Tudor si sposarono nel 1555.



 

 

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Capitolo 17
*** No m'aharvex, mi madre ***


  17.


13 Settembre  - 19 Novembre 1557



Spesso, durante le battute di caccia, capitava che la brigata si fermasse a riposare sugli argini dei torrenti. Durante gli afosi pomeriggi estivi erano l'ideale.
Il duca Cosimo si rese conto di stare sognando, quando percepì nel sonno il bagliore tremulo di una candela e la voce insolitamente ansiosa del suo cameriere, che lo chiamava. Spalancò gli occhi all'improvviso e incontrò i familiari motivi damascati del baldacchino e poi lo spessore della tenda di velluto. Eppure, oltre i rumori prodotti dai presenti nella stanza, presumibilmente valletti e guardie, il suono dell'acqua che scorreva era ancora persistente nelle sue orecchie, ma non era il ticchettio della pioggia. Si drizzò a sedere, perfettamente sveglio, e ordinò sbrigativamente a un paggio la vestaglia:
- Che succede, Sforza? - domandò, vestendosi e scrutando l'altro con volto accigliato. La candela tremolò ancora nelle mani del perugino:
- Il fiume, Vostra Eccellenza. Ha passato gli argini e sta invadendo le strade - rispose, con urgenza nella voce affannata. Il duca imprecò sottovoce e si alzò in fretta, comandando gli abiti, tra cui in special modo una delle zimarre impermeabili che usava per la pesca, e luce, per guardare fuori dalla finestra. I paggi lo prepararono in pochi momenti, ed egli si affacciò, illuminato dalle candele e dalle torce dei suoi sottoposti.
Ora che la finestra era aperta, lo scroscio dell'acqua arrivava chiaramente anche fino al secondo piano del palazzo, dov'erano gli appartamenti ducali. Il livello di piena non era ancora molto alto: valutò che potesse essere un braccio e mezzo, ma l'avevano già visto negli anni precedenti, l'Arno non tendeva a limitarsi a così poco.
Cosimo ringraziò Dio fra sé che la duchessa e i principi fossero ancora alla Petraia, fuori città e ben elevata in collina, ma si doveva allertare la popolazione. Chiamò alcuni fra i suoi uomini più coraggiosi e ordinò di far passare parola a tutte le chiese di suonare le campane a oltranza. Appena furono partiti, rimase con gli occhi ostinantamente fissi su via della Ninna, ormai un ruscello che separava il palazzo dalla chiesa di San Pier Scheraggio, dirimpetto. I propietari delle botteghe sotto il livello della strada, chi viveva sui ponti e sul lungofiume doveva già essere corso a ripararsi ai piani alti delle case, ma chi abitava nelle zone più interne probabilmente era ancora ignaro del disastro. Con una punta di sollievo, il campanile della piccola chiesa eruppe finalmente in uno scampanio allarmato e insistente. Attaccarono anche i frati di Santa Croce, la torre del Bargello, Orsanmichele,  la campana di palazzo e più in lontananza quella di Santa Maria del Fiore. Mentre ogni chiesa della città si accendeva in quella cacofonia, il duca si voltò verso i presenti e diede secche istruzioni di portare tutti i viveri e gli approvvigionamenti ai piani superiori del palazzo, di far salire tutti e di tenerlo aggiornato su ogni mutamento della piena. A questo scopo, fece accorrere i suoi ingegneri che lavoravano a palazzo, fece predisporre barche per lo spostamento di piccole squadre e si arrischiò personalmente a uscire sulla piazza, con l'acqua che già gli arrivava fino alla vita. I flutti scendevano a cascata dalla loggia e sobbollivano intorno alle forme lucide del Perseo, affogando l'eroe di Benvenuto che, impassibile, alzava la testa della nemica tra gli spruzzi.

- Dios - mormorò la duchessa, vedendo entrare il marito nella sala principale della villa. Anche se non l'aveva mostrato, si era mangiata le mani per giorni, nell'attesa. Egli l'abbracciò brevemente, con il distacco dovuto in presenza del servidorame, ma le bastò un'occhiata per capire quanto fosse sfinito. L'intera faccenda era stata una catastrofe, ben peggiore degli anni prima: l'esondazione aveva buttato giù il ponte di Santa Trinita e alcuni palazzi, coperto di fango l'interno di Santa Croce e ucciso almeno un centinaio di poveri disgraziati. Solo quando l'acqua si era ritirata, il duca aveva ordinato di raccogliere i corpi e bruciarli, e commissionato il restauro delle chiese al Vasari, ma aveva perso fior di quattrini e a Firenze dilagava un' insidiosa epidemia, anche se erano state fatte arrivare derrate dalle altre città dello stato.
Le raccontò delle misure prese e ritenne che la cosa migliore per lei e i ragazzi fosse spostarsi ancora, finché le cose non si fossero sistemate in modo decente. Sulla costa, il clima dell'autunno incipiente era più mite, così la corte fu dirottata su Livorno.
I principi erano quasi beatamente ignoranti riguardo all'alluvione. I bimbi videro la faccenda come una vacanza prolungata, visto che erano i soli a divertirsi nei lunghi spostamenti in carrozza, ma i grandi si preoccuparono: Francesco, pallido, ma con ben più determinazione del solito, pregò il padre di portarlo con lui nelle visite in città, ritenendo che come erede fosse suo compito, ma nonostante l'opposizione della madre, fu esaudito. Isabella pianse quando le dissero che quasi tutti i cavalli nelle scuderie di palazzo erano annegati e Maria s'incupì. Certo sensibile alla tragedia, era però contrariata che la questione procrastinasse ancora le sue nozze.
L'Este non si decideva: rimandava di continuo anche solo il matrimonio per procura, al quale non era obbligato a presenziare, per problemi interni al suo ducato. Da Febbraio, Maria  non l'aveva più visto, anche se lui le aveva scritto qualche lettera cortese ma formale. Contrariamente al suo carattere, divenne uggiosa e un po' lunatica, e di tutti questi suoi stati ondivaghi e umorali, facevano le spese le sorelle, che scoprirono presto che la causa del suo nervosismo non era la sola che tutti immaginavano.

Una sera di fine Ottobre, Maria, Isabella e Lucrezia se ne stavano annoiate a ricamare nella loro stanza alla Fortezza, davanti al camino acceso. Ignorando i rimproveri della balia, Isabella ciarlava a voce alta, il cucito abbandonato sulle ginocchia inquiete.
Compiuti da non molto quindici anni, la principessa si era fatta assai più spigliata e maliziosa delle altre due, indulgendo spesso in argomenti che avrebbero fatto infuriare la duchessa, se ne fosse stata a conoscenza. Ma le balie non facevano la spia per il suo bene, anche se provavano invano a correggerne il tiro.
Scrutando fuori dalla finestra, verso il porto illuminato da fiaccole, Isabella sospirò rumorosamente e se ne uscì:
- Chissà come sarebbe conoscere un marinaio! -
Lucrezia alzò gli occhi dal cucito con aria ingenua, ma Maria si arrabbiò:
- Isabella! Non fare discorsi del genere - la riprese, seccamente. Sua sorella, però, si divertiva a stuzzicarne la suscettibilità, così, dopo una pausa, riprese:
- Devono essere giovani e affascinanti come alcuni dei valletti del babbo - insinuò, maligna.
Maria arrossì e gettò il ricamo a terra, balzando in piedi:
- Sei una pettegola! - strillò, con le lacrime agli occhi, e sarebbe corsa via, se la balia non l'avesse fermata. Era una donna bassa e in carne, che aveva sostituito donna Isabel, quando era diventata troppo vecchia per badare a loro:
- Basta con queste scempiaggini! - rimproverò entrambe - Donna Maria, sedetevi, donna Isabella, vi prego di non turbare vostra sorella con sciocchezze. Ella è già molto agitata -
Ricompose la ragazza asciugandole gli occhi con il proprio fazzoletto, poi le lasciò con una giovane cameriera per andare a preparare un decotto per la principessa.
Libere dalla sorveglianza, Maria fulminò Isabella con lo sguardo:
- Dì, vuoi che nostro padre mi butti alle Murate? - sibilò, tra il terrorizzato e il rabbioso. Isabella, com'era suo solito, non se ne curò e ridacchiò:
- Dai, Maria, chi vuoi che se ne accorga? - sussurrò in risposta, il rombo del fuoco che copriva la sua voce - E se ti fidassi di me,  potresti vedere Malatesta qualche volta di più - aggiunse, complice.
Maria sgranò gli occhi e si voltò verso la cameriera che, contrariamente alle sue istruzioni, ignorava completamente le ragazze e sonnecchiava. Tornò a rivolgersi a Isabella, con ansia sospettosa, ma meno spaventata:
- Come lo sai? - chiese.
La sorella si strinse nelle spalle:
- Le tue cameriere sono delle beccacce, per un nastro colorato spifferano tutto - raccontò, con noncuranza - Ascolta - riprese, abbassando ancora la voce, tanto che Maria dovette appressarsi, per sentire - Io ti capisco, non ti devi vergognare di un bacio o due, o di qualche parola carina. Non puoi arrivare sposata senza sapere proprio niente, come la figlia del re di Francia che sognava -la redarguì. Poi le illustrò come riuscire a incontrarsi con il paggio che le faceva la corte, senza che nessuno lo sapesse.
Per un paio di settimane, le cose andarono a meraviglia. Ma uno dei servi della duchessa, in qualche modo, notò i movimenti di Maria e del giovane Malatesta, e corse a riferirli alla padrona. Eleonora, per il bene della figlia, non fece parola dell'affare con il duca, ma punì Maria con una severissima lavata di capo, sollevata comunque dal fatto che non si fosse disonorata.
Maria uscì tristemente da quella sua piccola ballata d'amore, ma fu facile far passare la sua malinconia per nostalgia del promesso sposo.
La madre, tuttavia, si preoccupò seriamente, vedendo la primogenita ogni giorno più pallida e svogliata, e si agitò moltissimo quando svenne uscendo dalla messa.
La ragazza febbricitava, e in breve comparvero sul suo corpo piccole macchie. I dottori dissero che era febbre portata dai pidocchi, e cominciarono a farle salassi e a riempirla di beveroni amarissimi.
Cosimo escludeva in ogni modo che la figlia non guarisse: era forte come lui e una banale febbre non poteva nuocerle, assicurò la famiglia, ma Isabella ed Eleonora piombarono nello sconforto: nessuna delle due lasciava il letto della malata, se non per mangiare qualcosa in fretta e dormire brevi sonni agitati. La madre pregava, sommessamente, in una nenia continua, la sorella cantava piano, soffocando il senso di colpa, anche se non aveva ragione di attribuirsi la causa di quella disgrazia.
Poi Maria cadde in un sonno profondo, da cui non uscì. Senza potersi essere confessata e comunicata, la fanciulla morì la sera del diciannove di Novembre, scagliando genitori e fratelli nel più nero degli abissi di dolore.


Note:

Il 13 Settembre 1557 Firenze fu colpita da una delle peggiori alluvioni della sua storia: il livello delle acque fu di poco inferiore di quanto sarebbero state nel 1966.  L'elenco delle strutture danneggiate è reale.

Maria di Cosimo I de' Medici morì il 19 Novembre dello stesso anno, si è supposto o di febbre malarica o di febbre petecchiale (causata dal morso dei pidocchi). La storia di un suo possibile innamoramento nei confronti di tale Malatesta dei Malatesti, uno dei paggi del duca, è una leggenda, che ha dato adito alla diceria che la ragazza fosse stata uccisa dal suo stesso padre.
Non ci sono prove che questo sia vero, ma ho ripreso solo la parte relativa alla storia d'amore, chiaramente platonica.

Il Perseo di Benvenuto è la statua di Benvenuto Cellini ancora oggi visibile nella Loggia dei Lanzi.

http://www.teladoiofirenze.it/wp-content/uploads/2012/11/Il-Perseo-di-Benvenuto-Cellini-nella-Loggia-de-Lanzi-a-Firenze.jpg

Il riferimento che Isabella fa a " La figlia del re di Francia che sognava" e il titolo del capitolo, l'ho ripreso da un'antica ballata in spagnolo sefardi. La balia della duchessa Eleonora di Toledo era una nobildonna spagnola di religione ebraica, quindi ho immaginato che le sue figlie conoscessero una canzone in quella lingua. La canzone parla di una ragazza che, addormentatasi al cucito, sogna il suo futuro marito.

Un link alla canzone:

http://www.youtube.com/watch?v=5Z0TmH478nA



 

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Capitolo 18
*** Per la famiglia ***


18.



Ferrara, 1560



- Mi fa male la schiena -
Si lamentò Lucrezia, per la terza volta nel giro di forse mezz'ora. Francesco de'Medici si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo e si voltò pazientemente verso la sorella:
- Siamo quasi arrivati, sopporta ancora un po' - la blandì. Si era girato di nuovo per assicurarsi meglio alle briglie, quindi non notò l'accigliarsi della ragazzina, ma poté bene immaginarlo. Minuta com'era, pareva una bambola imbronciata e legata su un grosso cane da punta, invece che una sposa in sella a un destriero tutto bardato. Francesco non riuscì ad evitare di paragonarla a Isabella, il cui matrimonio si era celebrato poco più di un anno prima: splendida come un vezzo di diamanti, la principessa aveva percorso la navata di San Lorenzo impettita e sicurissima di sé, adombrando completamente il paffuto Paolo Giordano Orsini, che riuscì in quella giornata a guadagnarsi un po' d'ammirazione solo vincendo alle corse dei cavalli. Mentre assistevano ai giochi dalla terrazza privata della duchessa, con il suo instancabile e allegro chiacchiericcio Isabella aveva persino strappato un sorriso alla madre, con buona pace dell'Orsini, che in quel momento frustava il cavallo sul ponte alle Mosse per conquistare la stima di suoceri e fiorentini.
Quella festa di matrimonio era stata una boccata d'aria, dopo il tristissimo inverno che aveva sottratto Maria alla famiglia. Il duca, come suo solito, non aveva indugiato nel dolore, ma si era rimesso al lavoro appena dopo le esequie. In quel periodo intercorrevano fra i potenti d'Europa missive e ambasciate tutte volte all'annunciata e sperata pace fra Enrico di Francia e Filippo di Spagna, accordo che fu felicemente concluso nel 1559 a Cateau-Cambresis. La maggior parte degli Stati italiani si trovò ad essere ancora più inglobata nell'egemonia spagnola, ma l'attenta politica del duca Cosimo aveva tenuto fuori la Toscana da quell'ingerenza. Occupato com'era, il padre non si era abbandonato al lutto. La duchessa sì.
La si vedeva spegnersi giorno dopo giorno, sprofondata nella piccola e smaltata oscurità della sua cappella. Proprio poco prima che Lucrezia partisse per Ferrara, Eleonora aveva ordinato al Bronzino di rimettere mano al luogo sacro. Le storie di Mosé sulle pareti laterali non erano state toccate, e San Michele, San Girolamo e San Francesco continuavano a fissare l'orante dalle vele del soffitto, in una nuvola di putti estremamente umani. Ma ai lati della Deposizione, sull'altarino, la scena precedente era stata sostituita da un'Annunciazione: l'Arcangelo a sinistra, la Vergine a destra, una Vergine con il volto della principessa defunta. Nessuno riusciva a staccare Eleonora dal suo freddo inginocchiatoio prima di  notte fonda, compromettendo ancora di più la sua salute, sempre meno salda.Nei mesi che avevano preceduto le nozze, Lucrezia era stata tenuta da sua madre chiusa nei propri appartamenti, e aveva udito chiaramente i penosi accessi di tosse che le toglievano il respiro per lunghi minuti, l'aveva vista costringersi in busti di ferro appositamente modellati e ingoiare ampolle d' olio di legno santo.
Per questo, salutandola, Lucrezia aveva avuto l'orribile presentimento che fosse l'ultima volta che la vedeva, ma di questo a Francesco non fece parola. Lei e suo fratello si somgliavano nell'aspetto, più scuro e sottile di quello degli altri, e nel carattere eccessivamente riservato. Pure per questo, si comprendevano anche senza aprire bocca.
La sua nuova città, Ferrara, di cui era appena stata nominata duchessa consorte, le parve un luogo piatto e spaventosamente alieno, non molto diversa da Alfonso, fidanzato di Maria e ora suo marito. Al vederlo ben eretto sul suo destriero, all'entrata del Palazzo Ducale, alla fanciulla si strinse lo stomaco. A quel ragazzo non importava un fico di sposare lei o sua sorella, era solo parte di una clausola. Nella nebbia ingenua dei suoi quindici, inesperti anni, Lucrezia lo capì, ma una stretta lieve sul suo polso parve farla tornare in sé. Francesco stava cercando di consolarla, come poteva. Prima di cedere il passo a lei e al suo fastoso corteggio, mormorò:
- Ricorda, Lucrezia: noi non apparteniamo a noi stessi -
E la lasciò scorrere via, lontano da lui e dai Medici, verso le paludi estensi.

Roma era il caos, il caos allegro e vizioso che attrae qualunque ragazzo, anche se porta la tonaca sacerdotale, e Giovanni de'Medici non rifuggeva a questa regola, ma tornare nella quiete di Firenze gli piaceva. Soprattutto se portava buone notizie con sé. Con la sua energia da diciassettenne, il ragazzo smontò da cavallo come se avesse le molle, scompigliò i capelli al suo paggio e si avviò fischiettando su per gli scaloni di Pitti, fra i cantieri aperti nel palazzo e superando i finestroni che aprivano scorci incredibili dei bellissimi giardini. Prima di entrare nella sala dove era atteso, si riavviò tonaca e mantello e sistemò il berretto sui ricci.
Trovò suo padre chino su certi incartamenti con le planimetrie del palazzo, circondato da un paio di architetti e mastri carpentieri, Appena lo udì entrare, sollevò lo sguardo e il suo volto s'illuminò:
- Oh, Giovanni mio, vieni! - esclamò, accogliendolo a braccia aperte. Con nessuno dei suoi altri figli maschi il duca usava mostrare il suo affetto. Lo abbracciò, per poi scostarlo brevemente e studiarlo: ormai lo raggiungeva in altezza e il suo vigore lo dichiarava ampiamente sangue del suo sangue. In cuor suo, Cosimo preferiva lo spiritoso e ardente quartogenito a Francesco, cupo e umorale, specialmente ora che stava per aspirare a un'importante vetta.
Gli tolse il berretto e gli passò le dita fra i folti riccioli ramati, molto simili a quelli che lui stesso aveva avuto da bambino:
- Cardinale, figlio mio! - lo complimentò, sinceramente felice. Giovanni sorrise, fiero dell'entusiasmo paterno:
- Sì, babbo. Sua Santità vi convocherà per presenziare alla mia nomina - annunciò. Il duca fece un gesto di sufficienza:
- Tutto a tempo debito, come il Santo Padre vorrà. Vieni - gli mise un braccio attorno alle spalle e lo accompagnò fuori, verso i giardini - Andiamo a dirlo a tua madre. Attendevo te per parlarle -
Padre e figlio attraversarono terrazze e sentieri, fra gli inchini dei lavoranti. Le siepi e gli alberi ancora bassi lasciavano libero agli sguardi il panorama della città stesa sotto il colle, l'Arno dipanato come un nastro grigio fra le case, con le sole vette dei campanili, della cupola e della torre.
La duchessa sedeva su una panca di marmo, con le dame raccolte discretamente a pochi passi, in compagnia del figlio più piccolo, Pietro, e della nipote, chiamata come lei, ma per tutti Dianora, una graziosa bimba di sette anni, che da qualche tempo viveva a corte. I bambini canticchiavano una filastrocca in spagnolo, mentre la duchessa accarezzava distrattamente un suo cagnolino da camera e di tanto in tanto correggeva la pronuncia del figlio. Vedendo approssimarsi lo zio e il cugino, Dianora si alzò sulle punte e fece un bell'inchino, attirando l'attenzione della zia. Eleonora quasi corse incontro a Giovanni e lo strinse in un abbraccio soffocante:
- Mi niño - mormorò, baciandolo sulle guance e guardandolo come fosse un angelo sceso dal cielo. Il ragazzo si vedeva a Firenze sempre meno spesso, e ogni visita aveva sempre uno scopo. Metà preoccupata, metà sentendosi osservata, la duchessa si ricompose in fretta, senza smettere però di tenere una mano del figliolo fra le sue. Balenò un rapido sguardo fra lui e il marito, poi chiese:
- Dunque, che succede? -
Giovanni non riuscì a trattenere un altro sorriso e le raccontò in breve della sua prossima nomina a cardinale, al che la madre lo abbracciò ancora e bisbigliò:
- Oh, Dio mi ha ascoltato! Giovanni, tu fai balsamo al mio dolore -

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Capitolo 19
*** L'ampolla ***


19.


La cornacchia gracchiò stridula, quando l'uomo la colpì per cacciarla via dai resti di un congiurato. Un Ridolfi, o forse lo stesso Pucci, chissà.
Il servo del palazzo del Bargello osservò cupamente lo sgraziato uccello levarsi in volo, poi sputò dalla finestra e proseguì il suo macabro lavoro, sciogliendo dalla corda quello che fino a qualche settimana prima era stato il corpo di un cristiano, proprio come il suo. Il compare afferrò il cadavere per gli stracci che lo coprivano e insieme lo tirarono dentro, insieme agli altri.
- Guarda tu questo! - esclamò il tizio della cornacchia, mentre avvolgeva il morto in un lenzuolo - Bella fine ha fatto, un giorno alla tavola del duca, il giorno dopo a farsi prendere a beccate negli occhi. Umpf! - sbuffò, tra i denti mancanti.
Il compare scoppiò in una risata asmatica, si segnò per scaramanzia e replicò:
- Se il duca hai cercato di mandarlo a gambe per aria, amico, è l'unica fine che puoi fare -
- Amen - ribatté l'altro, andando a recuperare l'ultimo corpo. Mentre li ammucchiavano tutti su una portantina improvvisata, osservò:
- Se vuoi sapere la mia, compare, sparare al duca da una finestra è l'idea più fessa che sia venuta in mente mai a questo giovanotto qua-
- In special modo perché adesso dorme con questi altri pendagli da forca - ribatté l'amico, ma il primo scosse il capo:
- No, compare, stai dietro al mio ragionamento - Tirò su con il naso e cominciò a gesticolare, per spiegarsi meglio: - Se, Dio non voglia, ci fosse riuscito, adesso ci cascherebbe fra capo e collo un altro duca, magari peggio di questo -
Il compare fece spallucce:
- Almeno questo non è peggio di quello che c'era prima - convenne. Ci pensò un attimo e aggiunse:
- Certo, ci storce le tasche a forza di tirarne via quattrini e Dio ce ne scampi dalle Stinche, ma fame non ne ha fatta mai patire nemmeno all'ultimo disgraziato, e le donne possono girare per la strada in pace - elencò.
- Appunto - insistette il primo - Pensa solo se questo bischero qui avesse davvero ammazzato il duca - e lanciò un'occhiataccia al sacco di cadaveri, come a rimproverare il capo della congiura, Pandolfo Pucci:
- Un padrone severo è meglio di un padrone cattivo - concluse, segnandosi a sua volta. Il compare annuì con vigore:
- E anche meglio di nessun padrone, se lo vuoi sapere -
- Amen - ripeté il primo, issando sulle spalle il triste carico e cominciando a scendere le scale.

Il corteo ducale era già nelle vicinanze di Siena, ben lontano dal ricordo di quella minaccia. Anche se Cosimo de' Medici, da una parte, aveva subìto più una cocente delusione che un reale pericolo da tutta la faccenda. Pandolfo Pucci era un giovane irrequieto, poco raccomandabile sotto molti aspetti, ma la sua famiglia aveva sempre sostenuto il partito mediceo, e lui, in fondo, sembrava un ragazzo onesto. Era amico di Francesco, aveva persino affascinato la duchessa con la sua ironia. Ma il duca di Firenze non era noto per la sua propensione al perdono. Non aveva infierito sulle famiglie dei congiurati, ma non aveva avuto nemmeno esitazione nel condannare i colpevoli. Era spiacevole rendersi conto per l'ennesima volta di non potersi fidare quasi di nessuno.
Mentre cavalcavano, partecipò a malapena alla conversazione fra i suoi segretari, assorbito dalle sue riflessioni, quando qualcuno sfrecciò accanto a Francesco, che gli era a fianco, rubandogli il berretto. Il duca riconobbe la risata di Giovanni e il suo sospetto fu confermato dal grido della moglie:
- Juan!
Il ragazzo lanciò il maltolto al fratello, con un ghigno, e corse in testa al corteo, prontamente inseguito da Garzia, che cercava di imitarlo in tutto quel che faceva, sperando sempre di farlo meglio. Francesco non si unì al gioco, ma si limitò a ricomporsi, sia del copricapo sia della solita espressione ombrosa. Cosimo immaginò che i loro pensieri non fossero molto diversi, Pandolfo gli era stato vicino, ma tra lui e il suo primogenito era difficile allacciare una conversazione che non sfociasse in una lite.
Abbastanza sorprendentemente, fu Francesco a iniziare a parlare:
- Anche mio fratello si prende gioco di me - mormorò, più rivolto a sé stesso che al padre.
- La prossima volta vagli dietro e tiragli una manata, non importa se è cardinale - suggerì questi, ma il ragazzo si accigliò ancora di più:
- Penso di non poterlo fare con qualunque suddito ribelle, padre - replicò.
- No, quelli devi spiccargli la testa dal collo o appenderli per la gola - ribatté il duca.
I loro sguardi s'incrociarono per un attimo, distanti come sempre. La risolutezza di uno si scontrava immancabilmente con i dubbi dell'altro.
- Non voglio fare come voi, non voglio passare la vita con una cotta di maglia sotto la camicia e un pugnale negli stivali - esclamò Francesco.
- Dovrai - fu la replica, nuda e cruda - Se non accetti questo, tutto quello che comporta il governo, non potrai mai prendere il mio posto - lo ammonì severamente il padre, ma il giovane scosse la testa:
- è troppo per me. Guardarmi da tutti, temere persino la mia ombra. Non sarò mai come voi -
Il duca si spazientì, ma s'impose di non perdere la calma:
- No di certo, se anche il minimo compito che ti affido tu lo lasci svolgere ad altri. No - lo interruppe, prima che potesse ribattere - Abbiamo già discusso a sufficienza della faccenda delle grazie, non torniamoci su. Quello che voglio dirti, è che governare significa essere soli la maggior parte del tempo. Puoi ascoltare consigli, puoi chiedere consigli, ma gli unici a cui devi rendere conto, alla fine, sono il Signore Iddio e te stesso. Tendi la mano all'amico, ma non lasciargli il braccio. Ama la tua famiglia, ma non lasciare che moglie e figli ti trattengano per le ginocchia. Sorridi, misura le parole, sii magnanimo, ma non farti prendere per fesso, figliolo mio. A te spetta il ducato, dopo di me, non è una cosa che puoi cambiare. Così come Giovanni non può dare via il suo cappello cardinalizio, o Garzia sfuggire al mestiere delle armi. Io ho fatto quel che dovevo e finché Dio me lo concederà, lo farò. Ma poi toccherà a voi -
Francesco rimase a lungo in silenzio, a riflettere sul discorso paterno, poi quest'ultimo riprese:
- Ascoltami, da tempo hai desiderio di andare in Spagna, alla corte di Filippo. Io e tua madre abbiamo deciso di farti partire. Ho bisogno che tu mi cresca un po' Francesco, che perda queste tue paure da bambino. Non giovano né a te né a nessuno. Dimentichiamo la storia delle grazie e confido di poter avere più fiducia in te, quando tornerai -
Nel frattempo, avevano raggiunto Siena. La città era stata sontuosamente decorata con apparati fittizi e opere celebrative, per festeggiare la presa di possesso del duca di Firenze e Siena.
Mentre il corteo scorreva fra ali di sudditi esultanti, sotto arcate cariche di insegne e scritte inneggianti alla pace, alla grazia e all'abbondanza, Cosimo tornò a rivolgersi al figlio:
- L'ultimo uomo qui darebbe ogni cosa in suo possesso per vedermi morto. Guarda, io sorrido e do la mia graziosa benevolenza, loro mi vogliono odiare, ma amano lo splendore, le belle livree, l'avvenenza delle dame. Il potere è un alambicco, Francesco: un fragile contenitore di morte. Impara a maneggiarlo -

Non troppo diversa, ma meno ipocrita, fu la visita a Roma. Per giorni e giorni nella Città Eterna erano circolati questo e quel pettegolezzo su quel duca di Toscana di cui tanto si era sentito parlare. La Curia lo conosceva bene, per i sottili maneggi che aveva organizzato per far salire al trono di Pietro quel Medici finto, il Medici milanese Pio IV, che nulla aveva a che fare con la famiglia fiorentina, ma da quando era Papa sì.
Per questo accolse il duca con tanta benevolenza e ricoprì lui e i suoi familiari di onoreficienze e favori. Tanto che, sul sempre sincero Pasquino, nei giorni della visita apparve la scritta: " Cosmus Medices Pontifex Maximus".
Isabella lo raccontò al padre, mentre insieme sedevano nei giardini del Vaticano, e gli strappò una risata:
- L'ultima volta che sono stato a Roma ero un bimbo, a mendicare con mia madre i favori di un papa che mi era cugino - osservò il duca, con una punta di amara ironia. La figlia lo osservò a lungo, poi disse:
- Adesso è lui a favorirti spontaneamente. è un bell'elevarsi -
Egli annuì, poi la studiò a sua volta:
- Mi pare di vederti ben colorita. Le frequenti assenze di Paolo non ti turbano, vedo -
Lei fece un gesto di sufficienza:
- Oh, Bracciano è una tristezza, con o senza di lui, quindi mi rallegro come posso - replicò, facendo scintillare con grazia i costosi anelli che portava.
- Direi di sì - assentì Cosimo, con un mezzo sorriso. Gli piaceva la spregiudicatezza della figliola, almeno finché non si fosse macchiata di scandalo. Ma era troppo intelligente per commettere legerezze del genere.
Mentre osservavano il tramonto, gli scuri occhi liquidi di lei si appannarono appena:
- Lucrezia mi scrive, babbo - riferì, ogni allegria scomparsa dal tono della voce.
Egli annuì, gravemente:
- Scrive anche a me -
- Tu non pensi che possa essere incinta, vero? - chiese Isabella, con una punta di debole speranza, subito spenta dallo scuotere del capo di lui:
- No, figliola. Di bambini ne ho avuti tanti, e nessuno dà quei sintomi che lei descrive. Le ho mandato il mio dottore, ma non so a che servirà - spiegò, seriamente.
Isabella rimase in silenzio, e suo padre proseguì:
- Non dire nulla a tua madre, a meno che la malattia non s'aggravi. Lasciala alla fede, alla gioia per Giovanni. Ho paura che avremo a patire ancora -


Note:

La congiura di Pandolfo Pucci fu organizzata da questo nobile fiorentino, assai vicino a Cosimo, che per rancore a causa di una vecchia accusa per sodomia, aveva radunato certi avversari del duca e progettato di sparargli mentre passava per la strada per andare a messa. Il piano fu scoperto e i colpevoli ondannati a morte. Tra via de'Pucci e via dei Servi a Firenze si può ancora vedere la finestra del palazzo murata, da dove il sicario avrebbe dovuto sparare.

Ora, Giovanni fu fatto cardinale nel gennaio 1560, ma a quel che ho letto, la cosa si estese su più fasi (fu nominato prima, poi ufficializzato in seguito, e ancora dopo gli venne consegnato il cappello cardinalizio). La parte di storia narrata nel capitolo si deve intendere nell'autunno di quell'anno, quando è documentata una visita della famiglia ducale a Roma, per una di queste fasi.

Spero di non dovervi spiegare per cosa sta "Bischero" e spero che l'accenno popolaresco non sia spiacevole.

La faccenda delle grazie di cui si parla, riferita a Francesco de'Medici, è in soldoni questa: Cosimo aveva affidato al figlio il compito di esaminare le richieste di grazia che gli pervenivano e accettarle o meno, ma in cità si diffuse la voce che queste grazie si potevano comprare. Chiaramente, per la reputazione sua e del figlio, Cosimo gli ritirò l'incarico e gli fece una lavata di capo unica

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Capitolo 20
*** De profundis ***


20.


Livorno - Pisa, Novembre - Dicembre 1562


Giovanni


Mi ricordo una volta, dopo una giornata come questa, io e Isabella ci siamo messi a ballare nel mezzo della sala, in villa.
Non importa quanto fossimo stanchi, e con le gambe indolenzite dalla sella: lei aveva imparato quella danza francese, e più di ogni cosa voleva far vedere al babbo quanto era brava.
" Se ci sarai anche tu" mi disse, con tutta la serietà dei suoi dieci anni " La mamma non mi sgriderà". Non faceva poi tanta differenza, nostra madre è sempre stata severa con tutti, ma in effetti, con un complice accanto, quella sua piccola trasgressione poteva sembrare meno colpevole. Così accettai. 
Il camino ardeva, e le serve facevano arrostire sulla fiamma viva delle bruciate per i signori riuniti attorno al tavolo da gioco. Una scena che ho visto uguale per anni, con le risate, l'abbaiare dei cani, le battutacce sguaiate di Morgante che dileggiava i perdenti. E fra questo, la voce di mia sorella quella sera si levò all'improvviso: " Babbo, mamma, guardateci!" e la sua piccola mano si strinse attorno alla mia, guidandomi nei passi e nei saltelli. Un gioco nuovo, nient'altro che questo. I nostri genitori ci osservavano, le balie ci guardavano mezze nella disapprovazione, mezze nel divertimento, i signori fecero qualche complimento di circostanza. Alla fine, il duca nostro padre ci accarezzò e regalò un dolcetto a testa, e noi eravamo felici, di aver scampato i rimproveri e di essere stati così bravi.
Era un giorno identico a oggi, ma di almeno dieci anni fa, e non so perché proprio questo ricordo mi si è affacciato alla mente, guardando i boschi cupi che inframezzano questa piatta distesa dorata dall'autunno, umida come ogni palude, ma ogni anno sempre meno. Una mantellina porpora non fa di me qualcuno di diverso, ma le cose sono ugualmente cambiate. Nessuno di noi ancora sapeva che i tempi della spensieratezza sarebbero finiti a breve. Isabella danza ancora nel suo castello, nei suoi palazzi, inattaccabile dal dolore, ma io non ho più potuto unirmi a lei. Sono cresciuto, mio malgrado, e i giorni identici uno all'altro non esistono più.
Devono essere questi i pensieri che affollano il letto di un malato, idee malinconiche più adatte a un vecchio, che a un ragazzo. Deve essere la febbre a rendermi tanto triste.  

Il cardinale aveva solo una febbre passeggera, così sembrò, così dissero. I suoi compagni l'avevano visto distratto, depresso nel morale durante la caccia, ma egli aveva replicato d'essere solo stanco. Ciononostante, la sera era stato allegro come sempre, spensierato nei suoi diciannove anni, e si era messo a letto chiacchierando con i suoi fratelli. La mattina rivelò quella febbre, non alta, ma fastidiosa. Il ragazzo accettò un salasso, certo di essere in piedi per il giorno dopo. Il duca gli fece compagnia, per distrarlo dalla noia, la duchessa lo accudì, ignorando il proprio cronico malessere, ma Giovanni stava peggio ogni ora che passava.
Conscio del suo dovere, chiese la comunione e si confessò. Ai fratelli fu vietato di fargli visita, mentre il duca tratteneva la furia che gli montava dentro verso i dottori, che continuavano a salassare il ragazzo e a ripetere che era solo febbre. Ma arrivarono il delirio e l'incoscenza. La notte del quinto giorno di malattia, il cardinale Giovanni diede l'ultimo respiro, in un sonno inconsapevole.

Garzia


Volevo una spada nuova. Sono andato dal mastro armaiolo e gliel'ho ordinata, tutta istoriata, adatta per combattere sulla tolda di una nave. Mi piace il mare, grande e incontrollabile. La prima volta che l'ho visto, ero talmente piccolo da non riuscire a vedere al di là del finestrino della carrozza. Così la mamma mi ha alzato sulle ginocchia e mi ha mostrato quella striscia blu, che a me pareva  una distesa di montagne piatte. Mi ha detto che era acqua salata, e che le navi ci viaggiavano sopra. Era un' immagine magnifica, come cavalli che correvano velocissimi su nuvole scure. A bordo di una di esse, pensavo, sarei stato più veloce e forte sia di Francesco, sia di Giovanni, un pensiero che non mi ha mai abbandonato.
Anche quando i miei maestri mi hanno messo in mano i primi stocchi di legno, diventati poi spade da addestramento, io sognavo le navi, e non mi sono mai sentito più in alto di quando mio padre mi portò a vedere quelle della flotta in costruzione. Nemmeno quando in chiesa, davanti a ufficiali e cavalieri investiti, il duca mi ha nominato Generale dell'Ordine di Santo Stefano. Sono il capo della marineria, adesso, e un giorno solcherò veramente il mare, ricoprendomi di una gloria che Francesco non conoscerà, che Giovanni...che Giovanni non potrà più conoscere.

A quindici anni, Garzia si era già rivelato difficile da gestire. Un'indole orgogliosa e incline alla violenza, accentuata ancora di più dall'età, aveva dato non pochi pensieri a suo padre. Ma era il terzo dei suoi maschi, la carriera militare spettava a lui. Forse la vita in mare avrebbe addomesticato la sua tempra.
Cominciò a star male quando suo fratello era prossimo a rendere l'anima. Altri del seguito si stavano ammalando, ma molti guarivano, e anche presto. Cosimo de'Medici non aveva ragione di credere che anche suo figlio non dovesse salvarsi. Con ancora la fascia nera del lutto intorno al braccio scrisse a Francesco, in Spagna, assicurandogli che Garzia e anche Ferdinando, malato come lui, si sarebbero ripresi.
La discesa di Garzia fu lenta, lasciando nei suoi occhi solo l'ardore malsano della febbre. Poi si arrese.

Eleonora


" Perdonéme, padre, porque..."  Non posso andare avanti. Non riesco quasi più a respirare, ogni boccata d'aria brucia come il fuoco e ho il petto a pezzi a furia di tossire. Il sapore metallico del sangue m'impasta la bocca, ma è troppo importante parlare. Sputo nel catino e ci riprovo, ma ho la voce flebile, tanto che il mio buon padre confessore deve chinarsi verso di me, il pannicello ben premuto sul viso. Gli dico che ho peccato: peccato di vanità, ira e superbia. Sono stata avida, non ho mai saputo perdonare, sono stata ambiziosa.
Ma gli dico anche che ho sempre confidato in Dio, e il respiro mi tradisce di nuovo e tutto il resto rimane nel profondo, solo per gli occhi e le orecchie del Signore. Lui vede e sente i volti e i nomi dei miei figlioli, sa che non ho vissuto che per loro, ch'Egli ha chiamato a Sé fin troppo presto. Pedricco, Anna e Antonio, volati al cielo prima ancora di alzarsi sulle gambe, la mia Maria, Lucrezia, sposa  morta prima di maturare un frutto suo,
il mio bel Giovanni e la luce dei miei occhi, Garzia.
Così Tu punisci le mie mancanze, mi Dios,e strappi la mia anima dall'albergo del suo bene terreno. Lo sento camminare fuori da questa stanza: mi ha lasciato col gesuita perché mi confessassi, ma è come se fosse davanti a me. Gli anni hanno gravato sulla sua figura, dei folti ricci non resta che una stempiatura, ma egli è forte, nulla si è spento nel suo sguardo.
Ora comprendo, Dio Onnipotente, perché mi vuoi per prima al tuo cospetto.


La duchessa era uno spettro, di quelli di cui vociferavano le vecchie invasate. Lo era da mesi, forse da anni, ma adesso suo marito la vedeva, con terribile chiarezza. La carne pareva svanita dal corpo che s'indovinava sotto le coltri, il viso era scavato e grigiastro, gli occhi infossati come pozzi oscuri. Giaceva malata da venti giorni, definitivamente abbattuta dal suo male e dalla morte del cardinale. Non le aveva detto di Garzia, ma la sera che era morto, ignara di tutto, era scoppiata in lacrime sfinite.
Da allora era diventata quieta, quieta e lucida come solo chi è già steso nella tomba. Con le poche forze che le restavano si confessò e comunicò, poi fece testamento. La morte era l'ultimo affare da sbrigare, una tenuta da amministrare, un ordine da impartire. Vegliandola in questa disposizione d'animo, Cosimo comprese ragionevolmente di doverla perdere.
Quando uno dei dottori gli disse, con molto rispetto, che Sua Eccellenza non avrebbe visto l'alba del giorno dopo, il duca si limitò ad annuire. Sedette al capezzale della moglie e le prese la mano, sentendole il polso ormai debolissimo.
- Eleonora - la chiamò, visto ch'ella teneva lo sguardo al baldacchino sopra di lei, ma si voltò subito.
- Dovete affidarvi a Dio, mia signora. Lasciate senza angoscia questa vita, i figlioli e me, perchè Nostro Signore, nella Sua misericordia, vi accoglierà e vi renderà la salute e la pace - le disse, con delicata fermezza.
- Così sia - rispose lei, con calma rassegnazione. Mosse appena le dita scheletriche nella mano di lui, quasi ad assicurarsene la presenza, e rinsaldò la presa sul crocefisso che stringeva al petto. Mise sé stessa nelle braccia delle sue uniche guide. Fu sveglia e presente fino all'ultimo momento, quando l'estremo spasmo di vita le sfuggì dalle labbra in un sospiro.
Cosimo precipitò. Sentì distintamente la sua esistenza scivolare verso il basso come una cappa male allacciata, ma niente sul suo volto cambiò, né nei suoi atteggiamenti. Fissò a lungo, con compostezza, le spoglie inerti dell'amata consorte, cosìcché i presenti credettero che pregasse. In realtà, ricordava. Ricordava la ragazza che aveva sposato, non la duchessa. Quella che sapeva ridere delle peggiori scurrilità e amava il gioco d'azzardo, che era contenta come una bimba quando acquistava un nuovo gioiello, che faceva smorfie ai bambini per farli ridere, che coi capelli sciolti e in camicia avrebbe fatto invidia alle cortigiane oneste di Tiziano.
Il dolore che provò fu talmente profondo da non poter essere espresso. Per questo non pianse e non sacramentò.
L'opera di Dio era sempre intesa al bene, e il duca confidò in una speranza: sarebbero stati riuniti, tutti, un giorno.




Note:

Oddio, che parto è stato questo capitolo. Ho cambiato lo stile narrativo perché mi pareva adatto alla circostanza. Devo confessare che è stata dura lasciare andare tre personaggi in un colpo solo così, ma è storia.
Nell'autunno 1562 Cosimo si recò con i figli Giovanni, Ferdinando, Garcia e Isabella e la moglie in Maremma, per controllare i lavori di bonifica da lui ordinati. Nel giro di un mese i maschi e la duchessa, già affetta da tubercolosi, si ammalarono, probabilmente di malaria. Solo Ferdinando si salvò.
Ho cercato di raccontare l'evento con precisione, avendo letto diversi documenti, tra cui lettere autografe, che lo riportano. Ho voluto mettere le parti in prima persona per dare una specie di addio a questi personaggi. Forse lo farò ancora, non so, ma spero il salto di stile non sia fastidioso.

Le bruciate sono le caldarroste.



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Capitolo 21
*** Innsbruck ***


21.



Poggio a Caiano, Dicembre 1565



Con un ultimo, ennesimo sussulto, finalmente la carrozza si fermò nel parco della villa. Il primo pomeriggio aveva sollevato la foschia del mattino, ma quella della sera già incombeva fra i cipressi. Il cardinale Ferdinando de' Medici sospirò e ringraziò intimamente il Cielo per essere arrivato prima del freddo. Scese goffamente a terra, per via delle pellicce in cui era avvolto, e diede qualche sbrigativa istruzione ai suoi valletti, che corsero ad eseguirle. Il ragazzo gettò un'occhiata nostalgica al parco e sospirò di nuovo: da troppo tempo era lontano dalla Toscana, e Roma era troppo caotica, per i suoi gusti.
Il fruscio di uno strascico di velluto sui ciottoli lo fece voltare. Isabella lo accolse con un sorriso affrettato e un brivido:
- Benvenuto, Eminenza -
- Buonasera, Eccellenza - replicò lui. Per una frazione d'istante riuscirono a rimanere seri, poi scoppiarono a ridere, i respiri che si condensavano in improvvise nuvolette.
- Oh, per carità di Dio! - esclamò sua sorella - Hernando, sembri un cardinale quanto io la regina delle Indie -
- Temo che tu abbia troppa ragione, Isabella - convenne lui, mentre si avviavano all'interno della villa, seguiti da facchini carichi di bagagli.
Attraversarono la corte ingombra di carrozze, vetture e bardature contraddistinte dalle insegne imperiali, mentre qualche occasionale parola in tedesco affiorava fra il nitrire dei cavalli e i suoni di chi lavorava.
- Ebbene, l'invasione è cominciata - mormorò il cardinale alla sorella, che ridacchiò:
- è solo apparente - lo rassicurò - L'arciduchessa è in tutto assai poco appariscente -aggiunse, dopo un attimo di riflessione. Ferdinando fu felice di quell'occasione per abbordare subito la questione spinosa:
- Dunque, che me ne puoi dire? - chiese, senza porre altro tempo in mezzo.
Isabella si trattenne visibilmente dallo stringersi nelle spalle:
- Non molto di più di quello che tu stesso mi hai scritto da Roma. Non so come siano le sue sorelle, ma se lei è la più bella, allora comprendo perché tre di loro si siano fatte monache - dichiarò, con la schiettezza prevedibile in una giovane nobildonna di lignaggio e fulgida avvenenza, quale lei era.
- Ma è in salute? Ha buon carattere? - incalzò lui.
- è ingobbita, come Francesco non ha mancato di notare l'anno scorso, ed è magra, ma i diplomatici degli Asburgo assicurano sia fertile. E non ho mai visto una ragazza più quieta - rispose Isabella.
Tutto ciò prometteva assai poco:
- Francesco starà già danzando dalla gioia - commentò il cardinale, amaramente. La duchessa di Bracciano rise, appena più forte di prima:
- Di sicuro sta danzando, e che sia gioioso, lo credo bene - commentò, smaliziata.
- Quindi è vero, me lo confermi - arguì il ragazzo, se possibile ancora più amaramente. Isabella annuì:
- Oh, sì, non c' sasso in Firenze che non conosca questa storiella - affermò - Ma temo - aggiunse - Che non la vedrai con i tuoi occhi. Nostro padre ha minacciato Francesco di mandarlo a elemosinare, se la Bianca si fosse fatta vedere in giro per la città, in questi giorni -
- Lo spero bene - commentò Ferdinando, comunque per nulla sollevato. Non era sua intenzione, veramente, biasimare suo fratello per quell'amorazzo. Anche lui stesso, sedicenne e cardinale, conosceva la tentazione delle grazie femminili. Però Francesco giocava una partita pericolosa: la fanciulla che stava per sposare era figlia dell'imperatore. Per quanto fosse quieta, avrebbe assai maltollerato l'ingerenza di quella possibile cortigianella.
- è pericolosa? - volle sapere, senza mezzi termini. Isabella lo fissò per un  momento, prima di rispondere:
- Stare a Roma ti fa del male, fratello. Vedi intrighi dappertutto - commentò.
- Tu rispondimi - insistette lui.
La ragazza si morse un labbro:
- Sì - decise, alla fine - Ma non credo che Francesco se la terrà, dopo sposato -
Dal suo tono era evidente che non ci credesse lei per prima. Ferdinando le scoccò un'occhiata in tralice, ma lasciò cadere l'argomento. Avevano appena passato il salone maggiore, da dove i recenti affreschi del Pontormo li occhieggiarono fra le fronde primaverili. Il soffitto a botte era trapunto dello stemma mediceo, e il cardinale notò, ancora fresca di pittura, l'insegna di Giovanna d'Austria, aggiunta evidentemente da pochi giorni. La sua portatrice li attendeva oltre le doppie porte. Un valletto in tenuta assai severa li accompagnò e annunciò.
A Giovanna erano stati assegnati gli appartamenti occupati per anni dalla loro madre, ma non avrebbe potuto fgurarvi più diversamente. Sul momento, il cardinale ebbe difficoltà a individuarla, visto che i suoi abiti erano semplici quasi quanto quelli delle sue dame di compagnia.
In effetti, come testimoniato da Isabella, l'arciduchessa d'Austria, non era graziosa: minuta e pallida, era evidente in lei la lieve stortura della schiena, e ancora peggio, la mascella sporgente degli Asburgo. Molte delle sue donne, erano ampiamente più gradevoli di lei, nell'aspetto.
Appena le fu annunciato il cardinale si alzò, e almeno nel portamento egli poté notare che non difettava. La giovane gli s'inchinò devotamente:
- Eminenz - lo riverì, in tono timido e dimesso.
Una volta che la poté osservare più da vicino, Ferdinando notò con ancora più evidenza la deformità della bocca. Ella aveva occhi piccoli e celesti, privi di vivacità, ma una bella chioma di riccioli biondissimi, che probabilmente dovevano fare la loro figura, liberi e bene acconciati. Parevano l'unico pregio estetico di Giovanna, ma erano costretti in un parrucco assai castigato, quindi assolutamente inefficaci.
Con sconforto, il cardinale si trovò a dare ragione al poco entusiasmo del fratello maggiore, ma con l'arciduchessa fu affabile: scambiò con lei qualche parola di cortesia nel suo passabile tedesco, poi si congedò, insieme alla sorella.
Appena le porte si chiusero alle loro spalle, Isabella gli si rivolse, ansiosa:
- Dunque, hai visto con i tuoi occhi -
Ferdinando annuì:
- Purtroppo sì. Ma è inutile che Francesco faccia storie, l'alleanza con l'Austria ci serve, e lui lo sa - dichiarò.
- Perfino troppo bene - fu d'accordo Isabella.
Percorsero  poche sale per raggiungere gli appartamenti ducali. Il cardinale riceveva abbondanti lettere dal padre, ma non sapeva realmente come l'avrebbe trovato. Nei suoi scritti c'erano consigli e direttive, ma praticamente nulla su di sé.
Quando lo raggiunsero, dava le spalle alla porta, mentre guardava fuori dalla finestra e dettava una lettera al suo segretario, con la fida e discreta compagnia di Sforza Almeni in un angolo della stanza, e quella annoiata del suo erede in un altro. L'aria svagata di Francesco si dissolse un po', appena vide apparire il fratello sulla soglia:
- Ecco torna il cardinale! - esclamò, in tono strascicato, alzandosi dalla sedia, dove era stato mollemente appollaiato fino a quel momento. Alto e allampanato, Francesco dimostrava i suoi ventiquattro anni solo nel fisico. Il suo sguardo scuro e ribelle non lo distaccava in maturità dal fratello più giovane. Lo salutò con una pacca sulla spalla e commentò:
- Avrai visto la mia presto sposa, il fiore delle Alpi -
- Francesco, piantala, di grazia - si levò la voce del duca, in tono stanco, non certo l'unica cosa stanca in lui. Ferdinando lo abbracciò e riverì, come un bravo figliolo, ma non gli sfuggì quanto il duca Cosimo fosse cambiato nei quasi tre anni della sua assenza. Imbolsito e completamente stempiato, la barba cosparsa abbondantemente d'argento, pareva assai più vecchio dei suoi quarantasei anni, e pure la sua energia doveva averne risentito. Quel lampo di terribilità che appariva così spesso nei suoi occhi, e che aveva riempito il piccolo Hernando di ammirazione e timore, era spento, quasi del tutto.
Si era dedicato con tutta la sua attenzione alla scelta di una moglie per Francesco, e all'organizzazione delle nozze, e pur avendo lasciato al figlio le redini del governo, aveva ancora in ballo diverse spinose questioni. Conoscendolo, Ferdinando sapeva che non era lontano da nessuna di esse, ma la veemenza con cui se ne sarebbe occupato anni prima, era chiaramente svanita. Aveva, sostanzialmente, un ultimo progetto in mente, e una volta concluso, se ne sarebbe stato per i fatti suoi.
Non riuscì al cardinale di parlare decentemente con Francesco, perché dopo quella rimbeccata, se ne andò stizzito, ma la conversazione col padre fu piuttosto lunga, anche se non disse tutto.A quello ci pensò Isabella, poco più tardi.
- I Corsi volevano entrare a far parte del ducato, ma per l'opposizione della Francia, il babbo ha dovuto lasciarli a Genova. Una volta avrebbe rivoltato le tavole, adesso si è limitato a un calcio a un sasso. Forse lo sai meglio di me, l'Inquisizione ha predisposto l'arresto di Carnesecchi, perché protestante. Ci andrà a parlare, ma se si ostinerà " a fare l'idiota ", così ha detto, non sono affari che lo riguardano. E infine, vuole quel titolo regio, non parla d'altro. Per il resto, se potesse, starebbe tutto il giorno nei giardini, a guardare potare gli alberi, a gettare bocconcini ai cani. Pitti è troppo grande, non gli piace, così gira per le ville. Tornerà a Firenze per il matrimonio, ma penso ci starà poco. C'è una ragazza che gli fa compagnia. è una sciocchina, ma non è né abbastanza intelligente, né abbastanza bella per creare noie. Se ne stuferà presto. Si stufa presto di tutto - concluse, infine, amareggiata.
A Ferdinando fu troppo chiaro che l'astro del padre stesse tramontando. Sperò solo che quello di Francesco brillasse a sufficienza.


Note:

Ferdinando de' Medici fu fatto cardinale in tempi record, mentre ancora era a letto per la malaria nel 1562.

Francesco de'Medici fu promesso e sposò Giovanna d'Austria nel dicembre 1565. Lei era figlia dell'imperatore Ferdinando I d'Asburgo, divenuto imperatore della parte "orientale" dell'impero dopo la morte di Carlo V, di cui era fratello minore. Al figlio di Carlo, Filippo II, andò la parte occidentale, la Spagna e le Americhe.


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Capitolo 22
*** Venezia ***


22.


Firenze, Dicembre 1565



Sperò che il mantello la celasse a dovere. Si era sporcata il viso a bella posta e aveva costretto i capelli in una retina. Era certa che tutti sarebbero stati distratti a sufficienza, per badare a una donna qualsiasi, perlopiù vestita così modestamente. Solo qualche minuto, si disse, solo il tempo di vederla, e magari, di rivedere lui.
Bianca si costrinse nella folla che stipava la piazza di Palazzo, ignorando le gomitate involontarie, e il fatto di avere l'orlo della gonna zuppo di fango. Aveva preso in prestito quegli abiti da una lavandaia che abitava di fianco alla casa di Pietro, suo marito. Non era questo che le aveva promesso, le balenò di nuovo in mente, suo malgrado. Le diede una fitta al cuore ricordare come aveva sognato quel giovane fiorentino che l'avrebbe portata via di casa e la fuga attraverso i canali, su una gondola di fortuna.
" Ti porterò a Firenze, dove sarai la signora di una grande casa. Nessuna dama splenderà più di te ". Promesse, quante promesse e quante menzogne. La grande casa si era rivelata un rudere abitato da vecchi malfermi, e ora anche l'ultima delle pescivendole splendeva più di lei. La ragazza si vergognò della sua ingenuità, una volta di più.
L'improvviso vociare della calca la distrasse: passarono un corteo di cinquanta giovani vestite di bianco, che anticipavano la sposa, ed eccola, finalmente: Johanna. L'orgoglio di Bianca fece un salto, nonostante la persistente infelicità che l'invadeva. La principessa era brutta, anche agghindata come una torta e candida come una colomba. Pure conciata come una serva, Bianca si sentì bella, e ogni volta che si rammentava di essere bella, si sentiva anche forte. Non ne aveva paura, con tutto il suo lignaggio e il suo sangue imperiale, Giovanna non era da temere.
Francesco sfilò poco dopo, anche lui bello come la città l'aveva mai visto. I suoi tratti ombrosi erano rischiarati dalla luminosità delle vesti e in quella parvenza di lietezza egli appariva quasi gaio e solare. Ma in lui, ben sapeva Bianca c'era un fuoco  che non dava luce, ma che bruciava infinitamente. Un ardore quasi demoniaco, che lasciava la sua giovane amante sfinita e quasi spaventata nel loro letto segreto. Lasciò che i Fiorentini credessero al loro principe d'inverno. Lei, nei suoi sogni, lo chiamava duca delle tenebre.
Le chiacchiere diffondevano in giro che loro si fossero conosciuti perché lei aveva gettato una rosa dalla sua finestra. Niente di più sciocco. Si erano visti per la prima volta di sfuggita, nel Salone dei Cinquecento ancora in fase di ampliamento. Sotto le glorie militari del padre, il figlio aveva trionfato in amore. Non era un uomo semplice, era pieno di oscurità. Ma di quelle ombre, Bianca era diventata la regina.
Lo guardò, appena appena desiderando che egli si voltasse e la scorgesse, ma la presenza del vecchio duca la fece tremare: abbassò lo sguardo e indietreggiò fra le gente, pronta ad andarsene.
- Eravate l'ultima che mi aspettassi di vedere, donna Bonaventuri - l'apostrofò una voce giovane, ma non flebile. Bastò un rapido sguardo per riconoscerlo, anche se non si erano mai visti: il sangue dei Medici era forte nei suoi lineamenti, che dietro l'aspetto di un adolescente paffuto, celavano una mente calcolatrice.
Ferdinando si era nascosto al pari di lei, sperando di trovarla. Non aveva resistito alla curiosità, doveva vedere la debolezza di suo fratello. Bianca scorse un lampo di sorpresa nei suoi occhi, e comprese che, a dispetto del suo travestimento, la sua avvenenza dovesse essere ancora palese. Il cardinale scorse qualcosa visto di sfuggita a Roma, in cornice: occhi azzurri, pelle come crema, una bocca disegnata da un demone. In due parole, Bianca Cappello, sposata Bonaventuri, di ricca famiglia veneziana, che aveva sputato sul nome di suo padre e ora era nota per essere l'amante del principe Francesco de' Medici.
- Eminenza - replicò la tentatrice, nel suo morbido accento lagunare. Ferdinando non si lasciò stregare:
- Non temete, non dirò di avervi vista. La mia era solo una curiosità oziosa - dichiarò.
Lei lo fissò, cercando di capire da che parte stesse l'inganno:
- Spero di aver soddisfatto la vostra curiosità - ribatté, strappandogli un sorriso saturnino:
- Per Dio, sì. Ritengo mio fratello uno scorbutico ombroso, ma l'occhio per le donne non l'ha perduto - commentò, in tono volutamente amabile.
- Non penso mi abbiate cercata per fare conversazione, Eminenza - rilevò la ragazza. Il sorriso sul volto di Ferdinando si trasformò nel ghigno di un mascherone:
- Ho paura per voi - confessò. Bianca sentì le labbra tremare:
- E perché mai, di grazia? -
- Pare che sia nel sangue dei Medici, l'ammirazione per la bellezza. Sarei dolente di dovervi distruggere, signora. Ma se renderete il principe un pupazzo, non esiterò a schiacciare quel vostro delizioso visino - spiegò il cardinale, dolce come un veleno.
Non diede alla donna il diritto di replica: tornò a coprirsi con il cappuccio che aveva celato a Bianca il suo arrivo, chiamò a sé con un cenno uno dei suoi sgherri, e un attimo dopo fu come se non fosse mai esistito.
Intorno, scoppiava la festa. Dentro Bianca Cappello germogliava l'odio.

Capitolo breve dopo una lunga assenza. Chiedo scusa, l'università mi assorbe.

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Capitolo 23
*** Il sangue ***


23.


Villa di Castello, Firenze, 1566



La stava ascoltando, ma non reagì alla notizia. Suo padre continuò ad accarezzare il cane che gli aveva poggiato pigramente la testa sulle ginocchia, lo sguardo distrattamente perso in qualche profondità del giardino di Castello. Isabella ripiegò la lettera e la consegnò al valletto, che si tolse dai piedi in gran fretta.
- Non si può fare più nulla per lui, ora che Giulia Gonzaga è morta. Le lettere che lei conservava gli taglieranno la testa - commentò, sperando di suscitare nel duca qualche interesse. Egli, in effetti, si alzò dalla panca di marmo e disse:
- Ho sempre lasciato che gli altri scegliessero il loro destino. Che Pietro segua il suo, e del Carnesecchi non si faccia più parola - comandò, in tono definitivo. Solo sua figlia notò l'intenso dolore che gli attraversò il volto. Quell'uomo era stato parte della famiglia, prima che Cosimo fosse costretto a consegnarlo all'Inquisizione. " Un atto pio ", si chiamava, ma i sussurri parlavano di " Laido tradimento ". Entrambe le definizioni erano false: quella vera era " Mezzo giustificato ". La duchessa di Bracciano sapeva fino a che punto suo padre potesse arrivare per ottenere ciò che voleva. Gli camminò al fianco, con calma, mentre rientravano in villa.
- La bambina sta bene, la febbre è passata del tutto - lo informò, cambiando argomento. Il duca annuì, esattamente nel modo in cui avrebbe approvato la buona salute di un puledrino nelle stalle. Pure, quella figliolina illegittima e inaspettata la amava, Isabella ne era certa. La bimba era un po' il sollievo di tutti, nella ristretta corte del vecchio duca: lei stessa l'aveva cullata e coccolata, mentre la madre si riprendeva dal parto.
Come aveva detto a Ferdinando, la ragazza non era né troppo intelligente, né troppo bella, però era dolce e graziosa. E con il nome sbagliato.
- Lei come sta? - chiese Cosimo, ancora una volta incapace di associare quel nome a un'altra donna. Sua figlia lo fece per lui, un po' per provocazione, un po' per scuotere la sua coscienza:
- Eleonora sta benissimo, e sarà rimessa a breve anche lei dalla febbre - replicò, con cautela. Il duca colse la sfida, ed ebbe un sorriso che pareva più una smorfia:
- Sei la Virtù venuta a pungolarmi, duchessa di Bracciano - ribattè, con un lampo dell'antica fierezza. Si fermò e la guardò con intensità, in un modo che la fece tornare di colpo fanciulla:
- I tuoi fratelli mi danno il tormento, la mia anima cristiana mi dà il tormento, i ricordi mi danno il tormento. Non lo fare anche tu, per la pietà che devi al tuo padre amorevole. Non prendermi per uno di quei vecchi che perdono la saviezza dietro a una gonna. Onorerò la figliola che m'ha data, e altri, se li avrà, come farei con ogni creatura del mio sangue. Non vi ergete a miei giudici, perché non ho altri cui rendere conto se non me stesso e Dio Onnipotente - dichiarò.
Nonostante tutto, Isabella fu felice di averne risvegliato l'amor proprio: per un attimo, era tornato l'uomo capace di far tremare tutti con uno sguardo, e a cui non si poteva rispondere che - Sì, Eccellenza - come lei si affrettò a fare.
Per il resto della giornata, Eleonora degli Albizi cessò di essere un problema. A sera, con l'arrivo chiassoso di un corteo di carrozze, tornò drammaticamente ad esserlo.

Francesco entrò in villa senza nemmeno farsi annunciare, attraversando le sale a grandi passi, dando mostra di essere fermamente indignato. Isabella riuscì a intercettarlo appena prima delle stanze paterne, subodorando l'ennesima, furiosa lite in vista:
- Lascia passare, fratello, se t'è cara la serenità di questa casa - lo ammonì, inutilmente. Il giovane la scostò con uno strattone:
- Sempre a mettere becco negli affari altrui, tu! - l'apostrofò, sgarbatamente - Stavolta l'ha combinata bella, duca o non duca. Glielo farò passare bene io, questo capriccio! - esclamò, intimando alle guardie di allontanarsi dalla porta. Quelli, però, esitarono, dando modo a Isabella di cercare di trattenere ancora suo fratello:
- Francesco, dammi ascolto, cosa c'è di così grave? E proprio tu parli! - lo rimbeccò. Franesco parve vicino a colpirla, ma si contenne:
- Sei mia sorella, e per questo ti devo rispetto, ma taci e lasciami andare, se non mi vuoi crudele - sibilò, freddamente:
- Nemmeno per fantasia, sei fuori di te e potresti far danno. Come pensi di muovere rimprovero al babbo, nella tua situazione? Lasciagli un po' di pace - lo pregò, ma lui scosse la testa:
- Sembra che non t'importi un fico del nostro onore, ma a me sì, e non lascerò che una infelice qualsiasi pensi di poter sedere al posto di nostra madre - replicò, rabbioso come un bambino. Nonostante l'agitazione, Isabella non riuscì a reprimere una risata di scherno:
- Come pensi che potrebbe, che qualcuna potrebbe mai? Lo valuti troppo leggermente - disse, ma lui la interruppe:
- Che sia egli stesso a dirmelo! - esclamò, riuscendo finalmente a forzare le guardie e ad entrare. La duchessa di Bracciano non poté che restare lì fuori, ad ascoltare la concitazione del diverbio. A un certo punto, Francesco uscì di gran carriera, e Isabella credette fosse tutto finito, ma poi egli rientrò, accompagnato dal vecchio Almeni, preoccupato ma risoluto.
Quando riemersero dalla stanza, Francesco se ne tornò in carrozza senza una parola, acceso d'ira come non mai e il maggiordomo fedele era in lacrime:
- Signora, ho agito per il bene, solo per il bene - spiegò - Sua Eccellenza mi confidò di voler sposare la giovane Albizi, ora ch'ella è gravida di nuovo, e io lo dissi al principe. L'ho fatto solo per il bene - ripeté, stravolto. Il duca l'aveva privato di titoli e privilegi, e mandato lontano da Firenze, ma Sforza non poteva desistere:
- Per l'amore della vostra famiglia, signora mia, ragionate con Sua Eccellenza e pregatelo di cambiare partito. Non voglio nulla di robe e denari, ma che mi perdoni, quanto meno - supplicò.
Isabella promise di fare del suo meglio, e una volta entrata nelle camere di suo padre ci provò, ma lui non ascoltava: tremava di rabbia, incontrollato quanto lei l'avesse mai visto:
- Non potevate lasciarmi cheto, ognuno fa di me quel che vuole e sparla! Questa è la misura in cui mi si conta! - esclamava, incapace di star fermo. Isabella dava le spalle alla porta, cercando invano di calmarlo, ma quando si voltò di scatto e gridò:- Come osi mostrarmiti dinnanzi! - lei sussultò, spaventata per la prima volta.
Sforza Almeni era entrato per difendersi da sé, ma non ebbe tempo di dire una parola. Come in sogno Isabella udì il duca gridare: " Traditore! " e spiccare una spada da sopra il camino. La ragazza fremette di un terrore antico e sconosciuto, quando il vecchio servo fedelissimo si accasciò, trafitto, e il sangue si allargò a lambirle la gonna.


Chiedo venia, venissima, per il ritardo di mesi, ma sono straoccupata.


L'uccisione di Sforza Almeni da parte di Cosimo de'Medici e il movente sono reali, ma di mia invenzione sono la presenza di Isabella e l'ambientazione.


" Cheto " in dialetto toscano sta per " Calmo, tranquillo "


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