Another Chance to Live

di Sophia Holloway
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Boulevard of Broken Dreams ***
Capitolo 2: *** Collide ***
Capitolo 3: *** The Only Exception ***
Capitolo 4: *** Euphoria ***
Capitolo 5: *** Leave Out All The Rest ***
Capitolo 6: *** Undisclosed Desires ***
Capitolo 7: *** Tonight ***
Capitolo 8: *** Only One ***
Capitolo 9: *** Afterlife ***



Capitolo 1
*** Boulevard of Broken Dreams ***


Another Chance to Live

 

Like walking into a dream, so unlike what you've seen
so unsure but it seems, 'cause we've been waiting for you
Fallen into this place, just giving you a small taste
of your afterlife here so stay, you'll be back here soon anyway
I see a distant light, but girl this can't be right
Such a surreal place to see so how did this come to be
Arrived too early
And when I think of all the places I just don't belong
I've come to grips with life and realize this is going too far
I don't belong here, we gotta move on dear
Escape from this afterlife
'Cause this time I'm right to move on and on, far away from here
A place of hope and no pain, perfect skies with no rain
Can leave this place but refrain, 'cause we've been waiting for you
Fallen into this place, just giving you a small taste
of your afterlife here so stay, you'll be back here soon anyway
 
Oh Lord I'll try so hard but you gotta let go of me
Unbreak me, unchain me, I need another chance to live

[Afterlife, Avenged Sevenfold]



Prologo.
Boulevard of Broken Dreams


Sono in un lungo viale. Un sentiero sterrato taglia in due quello che sembra un bosco; agli alberi grigiastri dai rami ampi sono appese delle lucine dorate, simili a quelle di Natale, ma rotte e dall’aria vecchia. La maggior parte sono fulminate.
Sono in un lungo viale, e non so come ci sono finita.
Dietro di me c’è un cancello di ferro battuto nero, alto almeno sei metri, che abbraccia tutto il bosco e sparisce oltre gli alberi, dove probabilmente continua ancora. Capisco che è un anello. Il cancello serve a tenermi dentro. Non vedo cosa c’è fuori, anche se sono sicura che qualcosa ci sia; è come nei sogni, indistinti e sfocati ma dannatamente reali.
Nei sogni sai tutto; io non so nulla.
Un vento forte ma né caldo né freddo prende a soffiare, e muovo un passo lungo il viale. Poi un altro, e un altro, finché non mi lascio alle spalle quel bosco di alberi che sembrano ossa. Ho camminato in salita, e ora sono su una collina. Il bosco si estende tutt’intorno, e una sottile nebbia impedisce di vedere l’orizzonte. In mezzo alla nebbia emerge un suono, le note di un pianoforte, e poi balugina una luce dorata, quadrata. Una finestra.
Quando avanzo ancora riesco a vederlo: è un saloon, un saloon del vecchio west, fatto dello stesso legno bianco sporco degli alberi della foresta, e dall’aria cadente; l’insegna tarlata è avvolta dalla nebbia.
Spingo la porta a due ante, che mi lascia passare e torna al suo posto, alle mie spalle, ondeggiando senza emettere suono.
Dentro tutto è in rovina e coperto da uno spesso strato di polvere, da un tavolo rotondo rovesciato sul pavimento ai lampadari di vetro, al bancone, alle bottiglie di liquore stipate sulle mensole subito dietro. L’unica cosa intatta è il pianoforte.
Un ragazzo sta suonando. Indossa una giacca rosso scuro con il colletto ed il bordo delle maniche nere; i pantaloni, le scarpe lucide e il cravattino che penzola sciolto sulla camicia immacolata sono dello stesso colore. Ha i capelli ricci, quasi a molle, a ciocche rosso scuro, color rame e nero fuligginoso. Suona una melodia lenta, e non solo. Canta. Sta cantando a voce bassa.

«Hide my head I want to drown my sorrow
No tomorrow,
No tomorrow.
 
And I find it kinda funny
I find it kinda sad
The dreams in which I'm dying
Are the best I've ever had
I find it hard to tell you
I find it hard to take
When people run in circles
It's a very, very Mad World,
Mad World…».


Smette quando faccio cigolare un’asse del pavimento con la punta di un mio stivale. Penso che non ho mai avuto stivali così: sono grigi, alti, pieni di lacci che li stringono fin sotto il ginocchio, con un piccolo tacco. Non ho mai avuto nemmeno il vestito. È azzurro spento, stretto all’altezza delle costole, finisce dove iniziano gli stivali; ha le maniche corte a sbuffo ed un colletto stretto che però è un po’ sbottonato.
Rialzo lo sguardo e vedo il pianista che mi guarda. Mi ero fatta avanti per vederlo in viso, ma vengo delusa. Non posso. È coperto da una maschera bianca, rigida, dalle sopracciglia fino a lasciare scoperte le labbra. Gli occhi che mi tengono inchiodata sono di un brillante azzurro ghiaccio, a tratti grigi. Sono bellissimi ma inquietanti, gelidi. Per un attimo ho l’impressione di essere totalmente trasparente, per lui. Poi mi sorride, girandosi del tutto verso di me.
«Ciao, Juliet» dice. È il mio nome, Juliet. Fino a un attimo fa non sapevo nemmeno questo. Non gli rispondo.
Si alza e si avvia verso il bancone da bar. «Vieni», mi dice. Mi siedo su uno degli sgabelli alti, mentre lui armeggia con le bottiglie di liquore. Le osserva con aria critica, poi sbatte due volte una mano sul bancone, facendomi sussultare. La polvere sul banco e sugli scaffali si solleva a mezz’aria e rimane lì, a un metro scarso dalle nostre teste, come nuvole scintillanti e argentee. Il ragazzo sceglie una bottiglia e due bicchieri, li riempie con due dita di liquido ambrato e me ne porge uno. Senza pensarci troppo bevo, e il sapore forte mi brucia la gola.
Ma è solo un sogno, mi dico.
«Chi sei?» chiedo dopo aver svuotato metà del mio bicchiere.
«Non ho un nome» risponde, osservando il bicchiere ancora intatto. La sala è illuminata da poche candele, che gettano una luce troppo forte e chiara per essere normali.
«Tutti hanno un nome» replico.
«Infatti non ho un nome. Ne ho tanti». Lo guardo, scettica, e lui m’ignora.
«Com’è andato il viaggio?» chiede invece.
«Che viaggio?».
«Ah. Sei una di quelli» capisce con un sorrisetto e uno scintillio negli occhi. Io non capisco nulla.
«Quelli quali?».
«Quelli che non ricordano».
«Cosa dovrei ricordare?».
Mi fissa per un lungo attimo. «Tu sei morta».
«Non è vero» dico, sicura.
«È verissimo. Sei morta. Sei stata investita da un’auto». Nel momento in cui lo dice, ricordo il rumore prolungato di un clacson, un dolore bruciante in tutto il corpo. E il vuoto. Il vuoto oltre i cancelli.
Capisco che oltre quel vuoto c’è la vita, la mia vita.
Prima che possa rendermene conto sono di nuovo di fronte al cancello, a scuoterlo, a spingere e tirare, ma quello non fa una piega, non tremola neppure. Lui è dietro di me, a osservare i miei patetici tentativi, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni. «Non funzionerà», dice.
«E io ci provo lo stesso!».
«Non mi pare che sia la filosofia che hai adottato nel corso della tua vita» osserva, pacato.
«E che ne sai?» ringhio. «Chi sei?».
«Qualcuno che ti ha osservata bene in tutto questo tempo».
«E che vuoi da me?».
«Aiutarti».
Faccio una risata amara e torno a dedicarmi al cancello; esasperata, gli tiro un calcio. Solo ora noto che ha una serratura. E che lui ne sta sventolando la chiave, facendola penzolare davanti a me, invitante. «Posso rimandarti indietro, se vuoi».
Irrigidisco la mascella, combattuta e diffidente. «Perché dovresti?».
«Pietà» mormora, liquidando le sue parole alzando le spalle.
«Non voglio la tua pietà» sputo, irritata.
«E allora prendilo come un favore. Torna indietro, metti le cose a posto… realizza i tuoi sogni, che ne so».
Sbuffo, quasi divertita. «Non ho grandi sogni».
«Siete strani, voi dell’altra parte» borbotta. «Pensate che le cose grandi siano solo quelle impossibili. Torna lì e fai quello che ti pare».
«Perché mi fai andare via?» chiedo, ancora dubbiosa. «Che t’importa?».
Si stringe nelle spalle, sorridendo sornione. «Io ti ho fatta entrare, io ti faccio uscire. E qui non c’è molto da fare».
Non voglio prendere in considerazione l’idea, perché so che è impossibile. Ma non posso evitarmi di ordinare: «Allora fallo».
«Ci sono delle condizioni».
«Quali?».
«Ti rispedirò nel momento in cui sei morta, ma cambierò le cose. Avrai altro tempo a disposizione, ma sarà limitato, e non potrai sprecarne un solo attimo, perché prima o poi dovrai tornare qui, e la morte non ama lasciare andare le sue vittime. Non avrai una seconda possibilità».
Mi lancia la chiave e io non esito a metterla nella toppa. I cancelli si spalancano e il nulla, simile a denso vapore grigio perla, inizia a inghiottirmi.
«Vivi ogni attimo del poco tempo che ti rimane come se fosse l’ultimo: perché presto uno sarà l’ultimo» mi raccomanda, suadente, mentre la nebbia mi si avvolge attorno come se avesse dei tentacoli.
Quando mi è rimasta fuori solo la testa, mi saluta toccandosi la fronte con due dita. «Ricordati, però, che chi ha molto ha anche molto da perdere», avverte. Troppo tardi.
La frase mi fa scendere un brivido freddo lungo la schiena. Inizio a dibattermi, tentando di liberarmi dal vapore che, se prima sembrava l’accesso a una seconda chance, ora mi appare come una trappola. Una forza misteriosa mi trattiene, mi riporta indietro a forza.
«Chi sei?» urlo, e stavolta pretendo una risposta. «Chi sei?!».
Fa una risata bassa e inquietante, e quando il fumo arriva ad appannarmi la vista sono convinta che non lo saprò mai. Poi, però, sento la sua voce forte e chiara, come se stesse sussurrando al mio orecchio.
«Sono Thanatos, sono Tod, sono Shi, sono Muerte, sono Mewt, sono Death» elenca. «Tu mi chiami Morte».




--
Angolo dell'autrice

Salve a tutti *agita la mano*
Non so assolutamente cosa dire quindi salto subito al punto:
questo è solo il prologo, ha uno stile lievemente diverso da quello dei capitoli
successivi, e soprattutto serve soltanto ad introdurre la vicenda.
Anche se è poco, spero che serva a intrigarvi abbastanza da farvi tornare a leggere questa storia.
Se vi va, o se non avete nulla da fare, mi farebbe piacere ricevere qualche
vostra recensione, positiva o negativa che sia.
Alla prossima,
Soph.

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Capitolo 2
*** Collide ***


Capitolo Uno.
Collide

Quella mattina non avrei mai potuto dire che sarebbe successo qualcosa di speciale. La sveglia non suonò, la mia sorellina entrò nel bagno prima di me e mi ritrovai a correre in strada per andare a scuola solo alle otto e dieci. Tutto normale, insomma.
Poi, quando ero a metà strada lungo il viale in discesa che portava alla Newton High, sentii un prolungato stridore di freni, un clacson e uno spaventoso rumore di metallo su metallo, mentre mi giravo appena in tempo per vedere una vecchia Volkswagen azzurro sporco che andava fuori strada e sbatteva con violenza contro un palo della luce.
Rimasi a metà di un passo, sbalordito; l’auto era solo una decina di metri dietro di me. Il guidatore si muoveva debolmente, l’impatto attutito dal grosso airbag. Poco più in là c’era una ragazza, apparentemente illesa ma dall’aria sconvolta, in piedi a forse un metro dall’auto. Sembrava non essere stata colpita per un soffio. Tornai sui miei passi, finché non le arrivai vicino. «Ehi, stai bene?» le chiesi.
Era più bassa di me di quasi tutta la testa, i capelli castano ramato tagliati in un caschetto disordinato e grandi occhi nocciola spalancati in un’espressione di terrore e puntati davanti a lei, verso il ciglio della strada. Stringeva una cinghia dello zaino nero con forza tale da far sbiancare le nocche.
«Ehi» ripetei quando vidi che non reagiva, sfiorandole una spalla. «Va tutto bene?».
Lei sobbalzò e parve riscuotersi, ma i suoi occhi si posarono su di me senza vedermi «No, voglio dire, sì!» farfugliò quando riuscì a mettermi a fuoco. Tornò a rivolgersi verso l’auto. «Va tutto fin troppo bene! Cristo, sono viva!». Sollevò le braccia al cielo, poi si mise le mani nei capelli tirandoseli all’indietro, sul viso un’espressione che non riuscii a decifrare. Gioia e paura insieme, forse.
«Hai bisogno che chiami qualcuno?» dissi, preoccupato.
«No, certo che no…» mormorò guardandomi, poi riprese a borbottare tra sé e sé. «Diavolo, adesso vorrà qualcosa in cambio… che bastardo…».
«Scusami, come?». Sentii le sirene dell’ambulanza che stava arrivando in lontananza, probabilmente chiamata dalla donna che ora stava parlando a bassa voce col guidatore dell’auto, un uomo di mezza età. Magari sarei riuscito a farla andare all’ospedale comunque, per un controllo…
Quasi mi avesse letto nel pensiero, la ragazza si sistemò lo zaino sulla spalla e si avviò in direzione contraria alla Newton. Imprecai a mezza voce e le andai dietro.
«Che stai facendo? Sei scioccata! Dovresti andare all’ospedale!».
«Sto benissimo, grazie» si girò a mezzo verso di me, continuando a camminare. «E poi non posso sprecare tempo».
«Tempo di cosa? Ma che vai dicendo?» la superai in due falcate e la bloccai davanti a me, mettendole le mani sulle spalle. «E chi vuole qualcosa in cambio?».
Mi fissò negli occhi, soppesandomi. «Non mi crederesti» decise infine, quindi mi scansò e riprese a camminare. Chissà perché, mi diede fastidio essere giudicato così in fretta da una perfetta sconosciuta. Teoricamente, proprio perché non la conoscevo avrei dovuto lasciarla perdere e andare a scuola, sempre se non era troppo tardi. E invece la affiancai di nuovo, guardandola torvo mentre una pioggerella leggera cominciava a scendere.
«Cosa te lo fa pensare?».
«Intuito femminile?» ironizzò, stringendo attorno al corpo il sottile cardigan grigio scuro che indossava.
Alzai gli occhi al cielo, irritato dal fatto che quella conversazione fosse sfociata in una specie di litigio tra bambini. «Che ti costa dirmelo?».
Si fermò di nuovo, le mani sui fianchi e una ciocca di capelli incollata alla fronte; la scostò con un gesto secco. «Se te lo dico mi lascerai stare?».
Annuii. La vidi esitare per qualche istante, poi puntò gli occhi nei miei.
«Devo morire» annunciò.
«Che novità. Anch’io devo morire. Spero a novant’anni, magari dormendo» ironizzai. Vidi le sue labbra muoversi in fretta ma senza rumore, e fui quasi sicuro che mi avesse insultato.
«Io però non morirò a novant’anni, magari dormendo. Morirò a breve, perché la Morte ha deciso di divertirsi ancora un po’ con me, invece di farmi riposare in pace facendomi stirare sull’asfalto da un’auto».
La fissai, non capendo. Anzi, desiderando con tutto me stesso di aver capito male. Poi però vidi che continuava a fissarmi con aria spavalda e dovetti constatare che lei a quello che aveva detto ci credeva davvero.
«Senti» le dissi, con tutta la cortesia e la cautela che riuscii a racimolare. «Tu non stai per morire, ok? Il fatto che tu abbia evitato la morte per un soffio non vuol dire che… che la Signora con la Falce, o che so io, si è offesa e adesso ti verrà a cercare… Non finirai impiccata con il filo interdentale o… o…». Vidi che mi fissava con aria interrogativa, come se il pazzo fossi io e non lei. «”Final Destination”» spiegai. «Il film. Mai sentito..?». Non mi rispose. «Beh, comunque nella realtà queste cose non succedono. Hai avuto fortuna, sii felice e vivi la tua vita…». Chissà perché, le mie parole sembrarono indurire ulteriormente la sua espressione.
«Te l’avevo detto, che non mi avresti creduto» disse, fredda, quasi offesa o delusa. Poi girò i tacchi e tornò a camminare su per la salita.
La fissai, il cardigan che ondeggiava per le raffiche di vento.
Lasciarla andare sarebbe stato semplicissimo. Quello sarebbe diventato un aneddoto da raccontare ogni tanto agli amici o alle feste squallide dove nessuno si diverte. “Ehi, una volta ho assistito a un incidente e c’era questa ragazza, sì, totalmente pazza… Credeva di essere condannata a morte!”
Sarebbe stato semplice. Ma chissà perché, avevo sempre disprezzato le cose semplici. E anche quelle razionali. Invece, a far polemiche ero bravissimo.
«Come puoi pretendere che uno creda a una storia del genere?» sbottai, alzandomi la giacca di pelle fino al mento per evitare che l’acqua gelida che cadeva sempre più insistentemente scivolasse giù per la mia schiena. Tornai a inseguirla, ma lei stavolta non sembrava avere la benché minima voglia di fermarsi.
«Io non ho preteso nulla. Sei tu che hai iniziato a seguirmi per chissà quale motivo» ribatté, acida.
«Sai com’è, un’auto si è appena schiantata a pochi passi da te e mi sono sentito in dovere di darti una mano». Mugugnò qualcosa che non riuscii ad afferrare. Ormai camminavamo fianco a fianco, in fretta, ma mentre io provavo – con scarsi risultati – a non bagnarmi, lei camminava con le mani affondate nelle tasche del cardigan, che copriva una maglietta a mezze maniche che una volta doveva essere gialla, ma che adesso a causa dell’acqua sembrava arancione; i capelli le si erano divisi in ciocche scomposte e lievemente arricciate.
«Grazie» ripeté più forte, quasi di malavoglia. «Il tuo dovere da bravo scout… o quel che è, l’hai fatto. Puoi andare, adesso», si sentì in dovere di aggiungere poi.
«Bella gratitudine» sbuffai a mezza voce. «Non ti lascio andare da nessuna parte. Sei sconvolta!».
«E chi ti dice che lo sono?».
Inarcai le sopracciglia. «Non è una colpa. Hai tutto il diritto di essere scioccata».
Si morse le labbra. «Diavolo, in effetti sono appena morta e resuscitata…».
Ignorai quell’ultimo pezzo, aggiunto a voce tanto bassa che forse credeva non l’avessi sentito. «Comunque, me lo dice il fatto che stai praticamente scappando! ...da cosa, poi?».
Sbuffò. «Non sto scappando. Sto correndo e basta».
«A che pro? Piove, fa freddo. Prenditi una pausa». La presi per un gomito, la sentii irrigidirsi attraverso le dita e poi rilassarsi leggermente. Parlò senza guardarmi negli occhi.
«Ho già… perso troppo tempo. Non posso… non voglio sprecarne altro».
La fissai mentre si tormentava una ciocca di capelli, arricciandola attorno a un dito, con lo sguardo basso. Non riuscivo a crederla pazza nemmeno usando tutta la mia immaginazione. E non riuscivo a lasciarla sola, mi sembrava troppo vulnerabile.
La tirai per la manica, facendole rialzare lo sguardo. Accennai un sorriso. «Sediamoci un momento, ti va? Così magari mi spieghi la tua… teoria. Magari non ti crederò lo stesso, ma quando diventerò un grande sceneggiatore Hollywoodiano userò la tua storia e insieme faremo milioni». La vidi sul punto di ribattere qualcosa, ma l’ignorai e indicai un bar poco distante, in una piazzetta. «Ti offro una cioccolata calda. La cioccolata calda non è mai tempo perso».

Accettò di sedersi ad un tavolino all’interno, appartato e vicino ad un termosifone; lei ci poggiò sopra il cardigan perché si asciugasse, e vidi che sulla maglietta gialla c’era stampata un’auto, la DeLorean di Ritorno al Futuro. Cosa per cui in un altro momento avrei potuto sposarla.
Ordinammo due tazze di cioccolata, e quando arrivarono ancora non avevamo aperto bocca. Il silenzio mi faceva sentire stupido, quindi decisi che parlare della sua teoria del Sto-Per-Morire non poteva essere tanto peggio.
«Allora» iniziai. «Tu dici che… che la Morte – non potei impedirmi di gesticolare in modo un po’ sarcastico – tornerà a prenderti presto, perché… perché…».
«Perché la mia vita finora ha fatto cagare» disse, concentrata sulla cioccolata calda. «Oddio, lui è stato un po’ più gentile di così, ma il succo è questo».
«Lui?».
«La Morte. Era un ragazzo. Si è manifestata come un ragazzo coi ricci rossi» spiegò, stropicciandosi le palpebre; il trucco si era sciolto, probabilmente per la pioggia, e così finì col disegnarsi due grossi archi neri sotto agli occhi. Presi un fazzoletto dal distributore sul tavolino e glielo porsi.
Il discorso già mi sapeva di nonsense. La morte non avrebbe dovuto essere una donna? Magari una vecchia? O anche bella, giovane, armata di falce, vestita interamente di nero. Da dove diavolo usciva un ragazzo coi ricci rossi?
Premetti due dita sulla base del naso. «Senti, che ne dici di raccontarmi tutto dall’inizio?».
Lei finì di ripulirsi gli occhi, e quando del trucco nero rimase solo un leggero alone grigiastro, annuì. «Ero in un viale. Non sapevo come ci ero arrivata, e ricordo che ho avuto l’impressione di sentirmi come Alice nel Paese delle Meraviglie» abbozzò un minuscolo sorriso. «Ho percorso il viale e ho trovato questa specie di saloon, dove c’era… lui. Abbiamo parlato. Mi ha detto che ero morta, e anche se prima non lo sapevo poi mi è tornato in mente. Incidente d’auto. Poi lui si è fatto strano, mi ha detto che potevo avere una seconda possibilità, anche se breve, per fare quel che avrei voluto, per non lasciare… affari in sospeso. Mentre me ne andavo ha detto che però avrebbe… avrebbe…». Chiuse forte gli occhi e si coprì il viso con le mani. «Non lo so. Credo che mi abbia minacciata. Ha detto che chi ha molto, ha anche molto da perdere. E che avrei fatto meglio a vivere ogni momento come se fosse l’ultimo, perché uno sarà l’ultimo». Sospirò e prese un altro sorso di cioccolata bollente. Io la stavo ancora mescolando col cucchiaino, pensieroso.
«Non mi torna» dissi infine. «Perché la Morte dovrebbe dare una seconda possibilità a te? Senza offesa» aggiunsi in fretta «ma se avesse questo potere, perché non farlo con tutti? O con più persone, almeno».
«Magari lo fa» ipotizzò. «Ma nessuno viene a dircelo. Io te l’ho detto, ma solo perché mi hai quasi costretta» mi fissò, ma sul suo viso aleggiava un sorriso. «E poi nemmeno mi credi. Quindi non è una cosa che ha pubblicità».
Annuii, infilandomi in bocca un cucchiaino di cioccolata. «Già». Non potevo dirle che le credevo. Non era vero. «Scusa se non sono stato proprio gentilissimo» dissi invece.
«Lo sei stato» ribatté. «Chi altri avrebbe inseguito una povera pazza sotto la pioggia per assicurarsi che stesse bene? Io forse no» ammise.
Esitai, poi le porsi una mano. «Io sono Nate». Mi fissò, forse sorpresa, e la strinse. «Juliet».
«Piacere di conoscerti, Juliet».
«Sì?» chiese, divertita. «Anche se sostengo di avere la Morte alle calcagna?».
«Tanto anche i miei amici sono strani. Uno più, uno meno…» scherzai, e lei rise.
Scese di nuovo il silenzio, forse un po’ meno pesante di prima. La osservai mentre intingeva un biscotto nella cioccolata, pensieroso.
Era pazza e non le credevo. Ma non m’importava. In quel momento era solo una ragazza spaventata con tanta voglia di vivere. In fondo, pensandoci bene, avevo preso la mia decisione quando l’avevo seguita.
«Proviamo a… a mettere da parte per un attimo il lato della vendetta della Morte, ok?» dissi, tra un sorso di cioccolata e l’altro. «Mettiamo che stamattina ti sei svegliata e hai realizzato che… che…» tentai di trovare un modo di essere gentile.
«Che non mi piace come ho vissuto la mia vita finora» suggerì lei, e annuii.
«Ecco, esatto. Questo posso crederlo» le sorrisi.
Mi fissò. «Perché ti stai applicando tanto?».
«Non lo so. Perché mi interessa sapere come va a finire la storia. E perché non si può sopportare di sapere di dover morire a breve senza dirlo a nessuno. Vero o falso che sia ».
«Grazie» disse, un po’ più rilassata.
«Beh, allora? Che vuoi fare?».
Sgranò gli occhi. «In che senso?»
«Prima di morire».
«Ah. Non ci ho mai pensato» ammise.
«Puoi farlo adesso. Tanto, ormai abbiamo ufficialmente bigiato». Le indicai l’orologio, che segnava le nove meno cinque, e sorrise.
Ordinammo due fette di torta e, pescati un foglio e una penna dal suo zaino, cominciò a fare un elenco. Io tirai fuori l’iPod dalla tasca della giacca e m’infilai una cuffietta, tenendo basso il volume.
La vidi mordicchiare la penna, scrivere un paio di cose, fermarsi, cancellare e fermarsi ancora, per poi infilarsi una mano nei capelli e scuoterli; erano ancora umidi di pioggia. «Non so che scrivere. E mi sento incredibilmente stupida» ammise. Poi aggiunse, a bassa voce, come se si vergognasse: «Puoi aiutarmi? Per favore».
«Non credo di essere la persona migliore per aiutarti. Insomma, non ti conosco».
«Già. Strana situazione, non ti pare?» sorrise. Alzò la testa verso l’orologio, che era quasi alle mie spalle. «Mi chiamo Juliet Collins, ho quasi diciassette anni, dovrei compierli a febbraio. Ho una sorella minore e… il mio colore preferito è il rosso. E in genere non sono così estroversa».
«Il mio nome completo è Nathan Lewis, ho diciotto anni, una sorella di nove, e il mio colore preferito è… il verde. E in genere non vado in giro a perseguitare povere ragazze sotto la pioggia».
«E tutto questo mi aiuta in qualche modo?» commentò, seccata. «Direi di no». Sospirò e fece per alzarsi.
«Aspetta» le dissi, non sapendo bene perché l’avessi fermata.
«Perché?» mi chiese, infatti.
«Te l’ho detto».
«Seriamente, stavolta».
Esitai. «Perché se mi capitasse, vorrei che qualcuno lo facesse per me».
Mi scrutò ancora, scannerizzandomi con i suoi occhi nocciola. Il suo cellulare vibrò, mettendo fine a quell’esame. «Devo andare» disse, alzandosi di nuovo.
Annuii, senza sapere cosa pensare di quella breve conversazione.
Lei si alzò dal tavolino, prese il cardigan e lo zaino e si avviò verso la porta. Si fermò a metà strada, scarabocchiò qualcosa su un pezzetto di carta e me lo passò. Era un numero di cellulare.
«Nel caso poi ti vada di sapere come va a finire» spiegò. «Grazie di tutto, Nate».

Intorno all’una, appena uscì di scuola, il mio migliore amico Steve mi chiamò. Io ero tornato a casa da un pezzo, senza nemmeno provare a entrare lo stesso.
«Nate, che fine hai fatto oggi?» fu il suo saluto.
«Ho avuto… dei problemi» dissi, sperando che gli bastasse. Girai un’altra pagina del fumetto che stavo leggendo.
«Che tipo di problemi?» chiese invece.
Sbuffai. «Ho assistito a un incidente».
«Oh merda! È grave?».
«Credo che solo il guidatore dell’auto si sia fatto male, ma neanche tanto. Deve aver perso il controllo».
«E allora perché hai fatto tardi?». Mi chiesi da quando Steve fosse diventato peggio di un agente della CIA.
«Perché una ragazza non è stata colpita per un soffio, era sconvolta e ho deciso di darle una mano».
«Come sei cavaliere!» esclamò Steve teatralmente. «E lei com’è?».
«Non ho avuto modo di conoscerla granché in un’ora scarsa» gli risposi. Poi ci pensai su. «Aveva una maglietta di Ritorno al Futuro».
«OH MIO DIO! Nate!» esclamò.
«Steve, mi hai distrutto un timpano!» protestai, ma lui m’ignorò.
«Nate, amico mio, non farti scappare quest’occasione» tentò di persuadermi Steve. «Probabilmente una così non l’incontrerai mai più».
«Non posso chiamare una ragazza e… e dirle… “Ehi, ho notato che avevi la maglietta di Ritorno al Futuro. È il mio film preferito. Forse è anche il tuo. Ti va di uscire insieme?”. Ma per favore, Steve. Anche perché non mi è parsa…» trovai un modo leggero di dirlo. «Molto in sé, in quel momento».
«Ci credo, ha evitato la morte per un soffio!» mi rimproverò lui, facendomi sobbalzare per quel riferimento così chiaro. «Aspetta… chiamare? Ti ha dato il suo numero?».
«Ehm… sì, ma…» balbettai, tentando di distrarlo, ma ormai era troppo tardi.
«È fatta, Nate! Ti abbiamo trovato una ragazza!» gioì.
«Tu sei pazzo» l’apostrofai. «Non ho la benché minima intenzione di… di…» balbettai, ma non mi ascoltò nemmeno.
«Fantastico, fantastico! Poi dimmi come va a finire, io devo chiudere o perdo il pullman. A dopo!».
Non mi diede nemmeno il tempo di salutare che aveva già riattaccato, mandando a quel paese i miei propositi di dimenticare quella ragazza e farmi i fatti miei.
Non per i motivi di Steve, ovviamente. Sembrava strano, ma il fatto che lei fosse stata catapultata nella mia vita così bruscamente non mi sembrava un caso. Pensandoci bene, io al caso credevo ben poco.
Lasciai il fumetto aperto a metà sul pavimento, stendendomi sul letto. Sentii mia madre e mia sorella tornare poco dopo. Quest’ultima aprì la porta della mia camera e venne ad abbracciarmi.
«Ciao, Nate!» mi salutò, entusiasta. Aveva i capelli castano chiaro lisci e tenuti all’indietro da un cerchietto, le guance rosa e la bocca aperta in un sorriso.
«Ehi, Maggie» la salutai, dandole un bacio sulla guancia.
«Com’è andata oggi?» chiese mia madre, comparendo sulla porta. Aveva i miei stessi identici capelli neri, ma i suoi erano ricci e tenuti in una coda alta.
«Bene» mentii.
«Hai visto? Qui vicino c’è stato un incidente». Spalancai gli occhi, sorpreso che lo sapesse già. Quando ero tornato, intorno alle nove e mezza, c’era già il carro attrezzi pronto a recuperare i rottami. «Davvero?».
«Già. Me l’ha detto la signora Williams». La nostra vicina con dozzine di gatti. «È successo stamattina presto, quindi pensavo che magari avessi visto qualcosa visto che sei uscito dopo di noi».
«No, deve essere successo ancora più tardi» ipotizzai.
«Meglio così» commentò, sollevata. «Pare che invece una ragazza sia stata quasi investita. Maggie, vieni a lavarti le mani, tra poco si mangia» chiamò, cambiando discorso e uscendo, senza notare che ero impallidito.
No, decisamente il caso non esisteva.

Passai la serata e la mattina successiva a pensare a se chiamarla o no, il suo numero conservato nella tasca esterna del mio zaino a tracolla.
”Se la incontro, la invito a uscire” mi dissi mentre ero a scuola, ma in quel poco tempo che stetti fuori dalla classe non l’incrociai, anche perché saltai l’intervallo per colpa del compito di matematica. Alla fine della giornata non ero riuscito nemmeno a fare una chiacchierata decente con Steve. Quest’ultimo mi affiancò solo subito prima che entrasse in metropolitana. «Ci vediamo stasera, mezz’ora prima come al solito» mi disse.
«Cosa?».
Mi guardò come se fossi stupido. «Stasera suoniamo da Tom, ricordi?».
«Oh, certo» mentii, anche se me l’ero totalmente dimenticato.
«Bene. A dopo, allora». Attraversò la strada di corsa, facendo ondeggiare il codino di capelli lunghi e castani, finché non scomparve nella moltitudine di studenti.
Mi avviai su per la salita, in silenzio e con passo lento; riconobbi all’istante il punto dove l’auto si era schiantata, perché aveva piegato un paletto stradale e ammaccato un lampione. Sbuffai e mi sedetti su un muretto poco distante, prendendo il cellulare e frugando alla ricerca del numero di Juliet. Lo composi in fretta, prima che potessi ripensarci.
“Se risponde, la invito” mi dissi. “Altrimenti sarò soddisfatto del tentativo”.
Se fosse scattata la segreteria telefonica, chiedendomi di lasciare un messaggio, non avrei avuto idea di che fare. Squillò a vuoto quattro o cinque volte, finché non mi dissi che era stupido continuare.
«Pronto?».
«Pronto» sospirai.
«Chi parla?».
«Juliet? Sono Nate. Quello di ieri» aggiunsi poi.
«Oh sì. Ciao!».
«Ciao» ripetei.
«…Perché mi hai chiamata?».
«Oh, ehm… volevo chiederti se… se hai trovato un desiderio».
«Più o meno» disse. Sentii dei rumori di sottofondo, probabilmente stava cucinando. «Vorrei andare a un concerto. Non ci sono mai stata».
«Diavolo, se non è destino questo…» borbottai.
«Cosa?».
«Volevo invitarti a un concerto. Suonano gruppi emergenti, fanno sia cover che pezzi originali. Se ti fa piacere ti mando un messaggio con le informazioni. Porta un paio di amici, se ti va».
Ci pensò su. «Quando?».
«Stasera».
«Per me va bene. Mandami quel messaggio, ora devo andare. Ci vediamo stasera, quindi?».
«Sì, certo».
«Bene, allora ciao».
«Ciao» mormorai, chiudendo la telefonata. Impiegai pochi secondi a scrivere e inviare il messaggio.
Era fatta.



--
Angolo dell'autrice
Come al solito non ho idea di cosa dire.
Innanzitutto ringrazio chiunque deciderà di leggere/seguire/recensire questa storia.
Come avevo detto, lo stile di questo capitolo (e dei successivi) è diverso da quello presente nel prologo.
So che è strano, ma io mi sono trovata meglio così. Spero che vi intrighi lo stesso, e che vogliate dirmi cosa ne pensate.
In tutta la storia ci saranno riferimenti ai miei interessi, ad esempio la mia passione smodata per
Ritorno al Futuro, ma soprattutto per i miei assurdi gusti musicali. Già nel prologo ho inserito i testi di
due canzoni, la prima, Afterlife degli Avenged Sevenfold, è quella che mi ha ispirato questa storia e il titolo stesso;
la seconda è Mad World di Gary Jules. Poi, ogni capitolo è chiamato come il titolo di una canzone.
Per maggiori informazioni chiamate il numero in sovrimpressione lasciate un commento, positivo o negativo o neutro che sia.
Alla prossima,
Soph.

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Capitolo 3
*** The Only Exception ***


Capitolo Due.
The Only Exception
 
Il Music Box era un locale ricavato da una specie di capannone, appena fuori città. Il proprietario, Tom Griffiths – un quarantenne che secondo Tara somigliava a Brad Pitt, ma più magro e con la barba a punta – l’aveva aperto sei anni prima e, chissà come, sembrava aver avuto successo nonostante fosse fuori dal mondo.
Quando spinsi le doppie porte per entrare, alle nove, ancora non c’era nessun cliente, ma i camerieri, il barista e qualche gruppo.
«Ehi, Nate» mi salutò Steve, che era seduto ad uno dei tavolini rotondi disseminati attorno al palco rialzato. Lo salutai con un cenno e mi sedetti con lui.
«Come va?» gli chiesi, e lui scrollò le spalle. Continuava a dire di non sentire la tensione, ma durante le nostre serate diventava stranamente taciturno.
«Se l’altra metà del nostro gruppo non arriva, non andrà affatto» borbottò, proprio mentre le porte si spalancavano di nuovo, lasciando entrare una ragazza coi capelli di un rosso acceso, tendenti all’arancione, diritti e lunghi fino alle spalle, e un ragazzo poco più basso di lei, coi capelli castani corti e l’aria nervosa.
«Eccovi qui» disse Steve, facendo loro un cenno. Tara si lasciò cadere pesantemente su una sedia accanto a me, togliendosi la giacca di pelle e lasciandola sulla sedia.
«Scusate, sono stata… trattenuta».
«Uno dei tuoi ragazzi?» chiese Steve, curioso. Lei fece una smorfia.
«Non ho alcun ragazzo».
«Uno dei tuoi spasimanti, allora?» corressi.
Sbuffò. «Sì».
«Quale dei tanti?».
«Quello che ho conosciuto due sere fa, John, Joey o come si chiama. È venuto da me giurandomi eterno amore, dicendo che ero la sua anima gemella e cazzate del genere».
«Ah, la nostra piccola seduttrice» sospirò Steve, sognante. «Ma da quando dai il tuoi indirizzo alle tue vittime?». Lei gli lanciò un’occhiata tale che temetti che potesse colpirlo con la mia chitarra elettrica, appoggiata in equilibrio precario al tavolino. Invece si limitò a dire, sprezzante: «Si dà il caso che non tutti siano incivili come te, e che l’altra sera lui si sia offerto di riaccompagnarmi a casa visto che tu eri andato via senza avvertirmi».
«Avevo da fare» borbottò, tentando di liquidare la questione con un gesto della mano.
«Ho visto cos’avevi da fare. Mangiare la faccia a quella ragazza… com’è che si chiamava?».
«Che c’è nel nome? Quella che noi chiamiamo “rosa”, anche con altro nome avrebbe il suo profumo».
«Cos’è, un modo poetico per dire che non ti ricordi?».
Io e Kevin ci guardammo, avviliti, sapendo che quando quei due cominciavano a litigare potevano andare avanti per ore.
«Come va?» gli chiesi, notando che era pallido come un cencio.
«Bene» disse, dubbioso, ma non insistetti. Era l’ultimo acquisto del nostro gruppo, e quella sarebbe stata la sua prima esibizione.
L’idea di creare un gruppo era venuta a me e Steve tre anni prima, perché entrambi sapevamo suonare, e io anche cantare. Non avevamo mai fatto nulla in pubblico, ma un anno e mezzo prima Steve aveva trovato uno dei volantini che Tom aveva sparso in città, un po’ per pubblicità e un po’ per trovare nuove attrazioni. Il giorno delle audizioni avevamo incontrato Tara, e avevamo deciso che in tre il nostro gruppo sarebbe stato migliore. Certo, nessuno l’avrebbe mai detto, vedendo i continui battibecchi tra lei e Steve.
Alle nove e venti Tom fece cenno ai musicisti di entrare dietro le quinte, una zona che comprendeva gli uffici, un magazzino per gli strumenti e un paio di salottini in tutto simili a stanze d’attesa di un qualche medico, con le sedie di plastica addossate alle pareti.
Tara andò a prendere il suo basso elettrico nel magazzino, che lasciava lì perché veniva in moto; poco dopo, quando Tom aprì ufficialmente il locale e i primi spettatori cominciarono ad entrare, Kevin annunciò che sarebbe andato a bere qualcosa.
«Speriamo non ci molli a metà canzone» mormorai, osservandolo andare via. «Così com’è sembra sul punto di svenire».
Steve sbuffò, divertito. «Ma per favore. Piuttosto, veniamo a noi». Mi girai verso di lui con sguardo interrogativo. «Com’è andata a finire con la ragazza misteriosa?».
«Oh» mormorai, distogliendo lo sguardo. «Ehm, l’ho invitata qui, stasera».
Steve scoppiò a ridere. «Cos’è, speri che il famoso “fascino del musicista” ti aiuti a far colpo su di lei?».
«Io non voglio… far colpo su di lei» dissi. «E nemmeno le ho detto che suono, quindi…».
«E perché no?» chiese, curioso. Mi strinsi nelle spalle. «Non so. Mi è passato di mente».
«E come no, Nate» sbuffò. «Torna in platea, vai a vedere se arriva».
«Devo cambiarmi, Steve. Se salgo sul palco con questa vecchia maglia non so se mi ucciderà prima Tom o Tara».
Roteò gli occhi. «Allora prima cambiati e poi scendi in platea a vedere se arriva. Datti una mossa». Mi fece alzare e mi spinse nel bagno degli uomini, sbattendomi la mia sacca col cambio di vestiti sul petto e chiudendomi dentro.
«Idiota» l’apostrofai, ma sorridevo.
Tolsi una vecchissima maglietta dell’Hard Rock Café, e indossai una semplice maglietta nera a mezze maniche. Tom aveva poche pretese, e una di queste era che fossimo presentabili. Sia Steve che Kevin avrebbero indossato la stessa cosa; Tara, chissà perché, aveva molta più scelta.
«È perché è una ragazza, mio caro» mi disse Steve quando me ne lamentai con lui. «Non sa cantare e deve compensare il talento col suo bel faccino».
«Ti ho sentito!» sibilò la diretta interessata, appena uscita dal bagno delle donne. Indossava un jeans blu e un semplice top nero. Stessa divisa.
Li lasciai a discutere e scappai in platea, accomodandomi su uno degli sgabelli del bar. Non avevo idea di cosa le avrei detto. Non sapevo nemmeno perché l’avevo invitata. Però, quando alle dieci ancora non l’avevo ancora vista entrare, cominciai a gettare occhiate furtive all’orologio appeso alla parete, a intervalli sempre più brevi. Quando capii che così avrei avuto parecchie possibilità di non vederla, e soprattutto che mi stavo comportando da stupido, mi limitai a fissare le doppie porte, tenute aperte dalla fiumana di persone che si stava ancora riversando all’interno. Un paio di gruppi avevano già cantato, facendo piombare nell’oscurità il locale, altrimenti illuminato dalle innumerevoli lampade sui tavolini e attaccate alle pareti, che dipingevano tutto di un alone rossastro.
Alle dieci e mezza mi convinsi che non sarebbe venuta. Scollai gli occhi dall’entrata, e vidi Tom che si sbracciava per attirare la mia attenzione. Diavolo, toccava a noi.
Lasciai in fretta a furia la mia postazione al bar e corsi dietro le quinte, mentre Tom mi guardava con aria disperata e il resto del gruppo attorno a me preparava gli strumenti. Steve giocherellava con le bacchette della batteria, tenendo un ritmo tutto suo, con i capelli raccolti in un codino basso. «Come siamo agitati, eh, Nate?» mi urlò quando mi vide entrare. E poi aggiunse, facendo il finto tonto: «È per quella ragazza che hai invitato?».
Fu solo l’occhiata ammonitrice di Tom ad impedirmi di scagliargli contro la bottiglia d’acqua che avevo in mano. Privarci del batterista a tre minuti dallo spettacolo sarebbe stato problematico.
«Il cinico Nate ha invitato una ragazza?» chiese Tara, sistemando i capelli rosso scuro in una coda altissima e scompigliata.
«Che c’è di strano?» bofonchiai, irritato, mentre mi ravviavo i capelli specchiandomi in una porta a vetri. «Voi invitate i vostri amici quasi tutte le sere».
«Ma tu no» puntualizzò Kevin, che sembrava stare parecchio meglio.
«Sciocchezze. E sono agitato solo perché ho accettato di far suonare Kevin al posto mio» replicai.
«Perché sono più bravo».
«Aspetta e spera, Wood».
«Piantatela di starnazzare» ci richiamò Tom. «Due minuti e siete in scena».
Mi avvicinai a Steve. «Dopo lo spettacolo ti ammazzo» lo minacciai, ma lui si mise a ridere.
«Però, l’ultima volta che ti ho visto in imbarazzo è stato al primo anno, quando ti sei seduto su quella sedia bagnata e sembrava che…» notò la mia occhiata torva e si interruppe. «E va bene. Però dopo voglio conoscere questa Miss Mistero».
«Sarà difficile visto che non è venuta» buttai lì, ma purtroppo Steve mi conosceva fin troppo bene.
«Ecco perché sei stato intrattabile quasi tutta la sera…».
«Io non sono stato affatto intrattabile!» protestai.
«Solo perché sei sempre intrattabile, magari non te ne sei accorto». Gli tirai un pugno scherzoso sulla spalla.
Quando l’orologio appeso alla parete scattò sulle dieci e quaranta, ci alzammo e salimmo sul palco immerso nel buio, senza essere visti dagli spettatori.
«Com’è fatta?» mi chiese Steve mentre afferravo il microfono, poggiato di fianco alla batteria.
«Capelli castani corti, bassina» biascicai.
«Ciò restringe il campo a solo un miliardo o due di persone nel mondo. Gli identikit non fanno proprio per te» sbuffò.
«E tu proprio non sai farti i fatti tuoi».
«È solo per il tuo bene, Nate» mi rimbrottò, mentre la voce di Tom annunciava il nostro gruppo. «Tu non saresti mai capace di accorgerti se una ragazza è interessata a te o meno».
Le luci si alzarono, accecandomi per qualche istante, e alzai una mano per salutare il pubblico, confuso in decine di sagome nere. La voce di Tom ricomparve, diffusa dagli altoparlanti. «La canzone che ci cantano stasera è Whispers in the Dark, degli Skillet!». Probabilmente in pochi la conoscevano, ma tutti batterono le mani.
Gli altoparlanti diffusero l’introduzione, poche note del basso di Tara; le luci si abbassarono, al punto che si potevano vedere solo i tavoli più vicini al palco.
Respirai profondamente prima di cominciare a cantare.

«Despite the lies that you’re making
Your love is mine for the taking
My love is just waiting
To turn your tears to roses».


La musica esplose, e così fece parte del pubblico. Mi voltai a mezzo per vedere come se la stesse cavando Kevin, e nonostante tutte le mie battutacce dovetti ammettere che era bravo. Poi Steve attirò la mia attenzione con un cenno del capo, e allo stesso modo ammiccò verso un tavolino a destra del palco, in seconda fila. Non avevo la benché minima idea di come fosse riuscito a trovare Juliet in mezzo a quel casino, con il buio e l’attenzione rivolta alla batteria. E soprattutto come avesse fatto a capire che era proprio lei. Chissà perché, ma dubitavo che fosse per la mia fantastica descrizione.
Rise nel notare la mia espressione; per poco non persi la battuta d’inizio, ma provavamo da talmente tanto tempo che avrei potuto cantarla in automatico, anche nel sonno.

«Despite the lies that you’re making
Your love is mine for the taking
My love is just waiting
To turn your tears to roses
I will be the one that’s gonna hold you
I will be the one that you run to
My love is a burning, consuming fire».


Riuscii a girarmi nella sua direzione, cosa non facile visto che era proprio di lato al palco. Al suo tavolo erano in tre, due ragazze e un ragazzo. Lei si rigirava tra le mani un cappello nero, i capelli castani spettinati come sempre… beh, come ogni volta che l’avevo vista. Quando notò che la stavo guardando mi fece un sorriso, e di rimando le strizzai un occhio.

«No,
You’ll never be alone
When darkness comes I’ll light the night with stars
Hear my whispers in the dark
No,
You’ll never be alone
When darkness comes you know I’m never far
Hear my whispers in the dark».


Le lanciai un’altra occhiata, mentre lei era girata a parlare con i suoi amici, sempre col sorriso stampato sulle labbra, e mi chiesi come diavolo avesse fatto ad entrare senza che io la vedessi. La mia solita sfiga si era messa in mezzo, probabilmente. Mi sarebbe piaciuto salutarla prima dello spettacolo, anche se forse sarei stato poco naturale, agitato com’ero.
Non che in quel momento fossi calmo, anzi. Strinsi il microfono con più forza e lo staccai dalla base.

«You feel so lonely and ragged
You lay here broken and naked
My love is just waiting
To clothe you in crimson roses
I will be the one that’s gonna find you
I will be the one that’s gonna guide you
My love is a burning, consuming fire...
No,
You’ll never be alone
When darkness comes I’ll light the night with stars
Hear my whispers in the dark
No,
You’ll never be alone
When darkness comes you know I’m never far
Hear my whispers in the dark».


Ci fu un lungo assolo in cui Kevin poté dar prova della sua abilità, e fui felice che quella sera stesse suonando lui. In quel momento non sarei mai riuscito a concentrarmi abbastanza da suonare e cantare al tempo stesso.
Mi voltai di nuovo, e mentre i suoi due amici guardavano il chitarrista bisbigliando, Julie stava ancora guardando me, tenendo il ritmo battendo un piede per terra.
Diavolo, in quel momento forse avrei voluto essere intento a suonare la chitarra, distratto dai suoi occhi scuri.
Se Steve avesse potuto leggermi nella mente, mi avrebbe chiesto da quando ero diventato così romantico. Assurdo.
Ma anche se era assurdo, volente o nolente, cantai l’ultimo pezzo voltato più o meno nella sua direzione. Quasi nemmeno me ne accorsi.

«No,
You’ll never be alone
When darkness comes I’ll light the night with stars
Hear my whispers in the dark
No,
You’ll never be alone
When darkness comes you know I’m never far
Hear my whispers in the dark
Whispers in the dark…».


Ripetei l’ultima frase altre due volte, a voce sempre più bassa, e quando ammutolii Steve e Tara diedero il meglio di loro, chiudendo la canzone mentre anche le luci si abbassavano.
Il pubblico applaudì con vigore, alcuni dei più entusiasti o estroversi strillarono qualcosa. Ora, al buio totale, non riuscivo più a vedere Juliet; ma non potevo ancora scendere dal palco.
Diedi un cinque a Tara, che lasciò il suo basso in un angolo mentre io imbracciavo la mia chitarra e la collegavo all’amplificatore. Kevin era sparito dietro le quinte a riposarsi, o due esibizioni in una serata avrebbero potuto ucciderlo. La voce di Tom tornò a farsi sentire, annunciando la nostra prossima canzone.
Le luci si riaccesero, e il pubblico già entusiasta pendeva dalle labbra di Tara, in piedi davanti al microfono con aria decisa.
Io e Steve attaccammo a suonare, e fui molto, molto felice di avere una scusa per non alzare lo sguardo sul pubblico.

«She lives in a fairy tale
Somewhere too far for us to find
Forgotten the taste and smell
Of the world that she's left behind…»
cantava, ma io ero talmente assorto che mi persi il resto delle parole. Mi chiesi invece se lei avesse perso di vista questo mondo, visto quanto andava dicendo…
Mi distrassi ancora più in fretta, e mi misi a pensare a cosa avrei potuto dirle quando la canzone fosse finita.
Mi ricordai per un pelo che io e Steve dovevamo cantare un pezzetto durante la fine, poi il ritmo finalmente crebbe di intensità e la canzone finì, le luci si spensero e gli applausi riempirono il silenzio.
«Ce l’abbiamo fatta anche stasera» gioì Steve, dandomi sonore pacche sulle spalle mentre sgattaiolavamo dietro le quinte.
«Vero» mugugnai, stiracchiandomi. «Steve, come diavolo hai fatto a capire che quella era… lei?».
I suoi occhi si accesero. «Ci ho azzeccato, eh? Ebbene… non te lo dirò mai» rise, malandrino, scappando verso la stanza dove avevamo lasciato la nostra roba.
«Vai da lei, Nate!» strillò quando feci per seguirlo, facendomi ciao-ciao con la mano.
«Dio, lo detesto» mormorai a mezza voce. Poi però tornai sui miei passi, attraversai lo stretto corridoio che passava dietro il palco e tornai in platea.
Guardai in direzione del suo tavolo, ma la folla si era alzata in piedi nello spacco tra un gruppo e l’altro, e adesso era impossibile trovarla.
Sospirai, e prima di iniziare la ricerca mi diressi al bar. Feci cenno a Tony, il barista, perché mi passasse qualcosa, qualunque cosa, e lui mi allungò un bicchiere colmo di un liquido che non riconobbi ma che scolai d’un fiato, lieto che fosse freddo.
La mano di una ragazza comparve nel mio campo visivo per richiamare Tony. «Il drink all’artista lo offro io!».
Quasi mi strozzai con l’ultimo sorso quando mi accorsi che la ragazza era Julie. In realtà non aveva nulla che m’impedisse di capire che era lei, non era nemmeno più particolare di molti altri nel locale. Forse era il fatto che prima di allora l’avevo vista solo una volta, sconvolta e bagnata fradicia. Sì, doveva essere proprio questo.
Indossava una maglietta rossa leggera, corta e ampia, un jeans blu scuro pieno di strappi e un paio di anfibi. Continuava a rigirarsi tra le mani un cappello nero con la visiera rigida, una coppola.
«Ciao!» esclamai non appena ritrovai la voce, e lei mi sorrise ancora. Poi aggiunsi la cosa più intelligente che trovai frugando in tutto il mio cervello. «Per me è gratis, sai?».
Mi sarei volentieri preso a schiaffi.
«Oh» mormorò lei. «Dovevo immaginarlo. Deve essere merito vostro se il locale è così pieno».
«Naah. Non siamo gli unici a esibirci, chiunque piaccia a Tom può farlo» sorrisi. «Tom è il proprietario. Vuoi qualcosa da bere?».
Annuì, facendo piroettare ancora il cappello. Fu lei a dare indicazioni a Tony, che la fissava con aria divertita.
Quando finalmente ottenne un bicchierino di liquido rosato, notò qualcosa alle mie spalle. «Ti presento i miei amici» mi disse, poi mi afferrò per un polso e mi condusse poco più in là, al loro tavolo, ormai facilmente raggiungibile.
«Loro sono Kim Jester» indicò la ragazza, con lunghi capelli neri e lisci e occhi lievemente allungati «e James Wilson», un ragazzo alto, capelli neri ricci e occhi scuri. Entrambi mi rivolsero un cenno di saluto.
«Lui è Nate» aggiunse. «Nate…».
«Lewis» completai io.
«Sei bravo» commentò Kim, ammirata. Accennai un sorriso storto.
«Davvero» annuì Juliet. «Non me lo sarei mai aspettata».
La fissai, divertito. «E perché no? Così mi offendi».
«Tu mi hai invitata a un concerto, non al tuo concerto…».
«Non è mio» puntualizzai. «È un posto dove possiamo esibirci. L’ha trovato Steve un paio d’anni fa».
«Steve?» ripeté lei.
«Giusto… appena li trovo, ti presento…» non riuscii a finire la frase, perché trovai tutti i componenti della mia band che stavano ad appena pochi passi da noi, apparentemente ignari della mia presenza. Ma non appena Steve catturò il mio sguardo torvo, sfoderò un ampio sorriso e trascinò gli altri verso di noi.
«Ho il dispiacere di presentarvi Steve Anderson, Tara Monroe e Kevin Wood» annunciai teatralmente. «Loro sono… Kim, James e… Julie».
«Juliet» mi corresse lei, guardandomi storto.
«Juliet, eh?». Steve si fece avanti e la salutò con un baciamano, facendola scoppiare a ridere. «Stephen John Anderson, per gli amici Steve. E anche per la ragazza che fa sospirare il mio miglio…» non riuscì a finire la frase che gli pestai violentemente un piede. Tara lo afferrò per il colletto della camicia e lo tirò indietro. «Scusalo, è caduto dal seggiolone. Due giorni fa. Ora tenta di nascondere il bernoccolo con tutti quei capelli». Le tese una mano con le unghie perfettamente laccate di nero. «Io sono Tara, in teoria seconda chitarra e seconda voce, in pratica balia di questi tre idioti». Julie le sussurrò qualcosa e lei cominciò a sghignazzare.
«Sei stata fantastica in quella canzone» intervenne Kim. «Era dei Paramore, non è vero?».
Finimmo tutti e sette allo stesso tavolo, Tara e Kim a parlare fitto fitto di musica, James, Kevin e Steve a discutere sul drink migliore o chissà cos’altro, anche se purtroppo il mio migliore amico trovava sempre il tempo per rompere le scatole a me e Julie.
«Piaciuto lo spettacolo?» chiesi, tanto per dire qualcosa. Lei annuì.
«È stato fantastico. Il miglior primo concerto che potessi avere» sorrise. «Anche perché Whispers in the Dark è una delle mie canzoni preferite».
Sgranai gli occhi. «Non l’avrei mai detto».
Lei rise. «Sono un sacco le cose che non sai di me, mister Lewis».
«Già. Strano, non ti pare?».
«Un po’» ammise, osservando i miei amici e i suoi che si amalgamavano.
«Allora…» ripresi. «Perché ti piace Whispers in the Dark?».
Ci pensò su. «Perché racconta una storia con varie interpretazioni».
«Cioè?» chiesi, stupito di non averci mai pensato.
Tenne il conto sulle dita. «Una storia d’amore, una storia sovrannaturale o un thriller».
Trattenni a stento una risata. «Un thriller?».
«Perché, “ascolta i miei sussurri nel buio” non ti sa di frase da psicopatico? Almeno un po’?».
Scoppiammo a ridere entrambi, e Steve non perse l’occasione di mettersi in mezzo. «Ma guardateli, Nat-nat e Jul-jul».
«Ma guardalo, Ste-ste che sbava davanti a Kim. Tanto non sei il suo tipo. Troppi capelli, tanto per cominciare» scattò Julie, apparentemente quasi distratta, rilassata e intenta a bere il suo drink. Scoppiai a ridere.
«Uno a zero per Julie!» esclamai.
«Juliet» mi corresse ancora. «E comunque, quello era un velato riferimento a Harry Potter?».
«Non dirmi che sei una potterhead» si stupì lui. Io non mi ero perso a “potterhead” solo perché conoscevo Steve da parecchio e mi aveva costretto a leggere tutta la saga del mago quando avevo circa quindici anni.
Per tutta risposta lei sollevò una lunga collana, affondata tra le pieghe della maglietta, che altro non era che il simbolo in nero dei Doni della Morte. Lo trovai alquanto ironico.
«Caspita, Nate, approvo la vostra unione» sghignazzò, e gli tirai un altro pugno.
Girai la sedia in modo da dargli le spalle. «Scusalo, in genere non lo facciamo uscire la sera, è pericoloso».
«Poveraccio» mormorò lei. «Si vede che gli volete bene».
«Eeh, abbastanza. Quando non ci mette in imbarazzo con la sua esistenza».
«Guarda che ti ho sentito!» esclamò lui, ma Tara tirò fuori una serie di insulti degni di un camionista che lo convinsero a lasciarci perdere.
«L’hai fatto apposta?» le chiesi dopo un sorso di birra, indicando la sua collana.
«Non proprio» disse. «L’ho sempre indossata, da quando l’ho comprata l’anno scorso. Stasera mi è parsa… adatta».
«Non lasci molte cose al caso, eh?» osservai. Puntò i suoi occhi nei miei con un’aria più seria, smettendo di tormentare il cappello.
«Secondo te perché....» parve cambiare la frase mentre parlava, riducendo la voce a un bisbiglio. «…perché ho avuto una seconda possibilità? La mia vita finora è stata molto peggio di così. Ho lasciato troppe cose al caso, ho fatto davvero schifo se… se non mi hanno voluta nemmeno… là». Ammutolì e si mise a fissare la sua amica Kim che rideva di Tara e Steve, intenti a litigare come sempre. «Kim non si spiega questo mio cambiamento, anche se ne è felice. Non capisce come mai mi sia venuta voglia di cambiare solo adesso. “Meglio tardi che mai” ha detto quando l’ho invitata a uscire stasera. Ma è intelligente, diamine».
L’osservai mordicchiarsi l’unghia di un pollice, corrucciata, mentre realizzavo lentamente una cosa. «Vuoi dire che… che sono l’unico che sa della tua… situazione?». Lei annuì, guardandomi come se mi fossero spuntate le antenne. In effetti, di tutto ciò che aveva detto io andavo a notare questo?
Tuttavia una minuscola parte di me, quella che non considerava la sua teoria totalmente folle, non poté fare a meno di esserne lusingato.
Mi schiarii la voce. «Per quello che vale… non sei male, in questa versione “viva la vida”» dissi, gesticolando come un idiota. «E poi mica la si dà a tutti quest’occasione, no? Devi avere qualcosa di… speciale, non credi?».
Mi guardò di sottecchi e sbuffò, pur sorridendo. «Nessun mago oscuro ha tentato di uccidermi all’età di un anno, non ho nessuna cicatrice a forma di saetta e non ho alcun potere sovrannaturale. Non sono per nulla “speciale”».
Ridacchiai, accostando la mia sedia alla sua. «Non hai bisogno di essere La Ragazza Che È Sopravvissuta per essere speciale». Poi feci toccare il mio bicchiere con il suo, a mo’ di brindisi.

-- 

«Posso avere l’onore di accompagnarti a casa?» chiesi a Juliet un paio di ore dopo, mezzo rincretinito dalla musica quasi non-stop delle varie band – “Nessuna alla vostra altezza” aveva detto lei, supportata dai suoi amici – e da quello che avevo bevuto.
Lei fece una smorfia, infilandosi la giacca nera e il cappello. «Io e Kim abbiamo organizzato una notte in bianco. Ti inviterei, ma mi sa che sarebbe complicato».
«Notte in bianco?» chiesi.
«In teoria, vado a dormire da lei. In pratica, dubito che chiuderemo occhio. In genere intorno alle quattro o le cinque crolliamo, ma stanotte ho intenzione di resistere».
«Cos’è, un altro desiderio?».
Annuì. «Non sono mai stata sveglia una notte intera. È una cazzata, ma sto lavorando su desideri migliori».
«Del tipo?».
Mi fissò per un attimo. «Domani io e i miei amici andiamo al mare. Ti va di venire?».
«Al mare?» chiesi, sconcertato.
«Sì, al mare».
«Non fa un po’ freddo?».
Si strinse nelle spalle. «Se non ti va non fa nulla».
Ci pensai su. L’alternativa era trascorrere il sabato a non far nulla, trascinandomi dal divano fino al frigorifero e poi di nuovo al divano, per vedere le repliche di Friends.
«No, va bene, vengo».
«Davvero?» disse, sorpresa, e fece un gran sorriso.
«Sì, certo. Ti passo a prendere io in macchina?».
«Va bene. Domani alle tre e mezza. Trovo un pezzo di carta e ti do l’indirizzo. Un secondo che vado a dirlo agli altri».
Corse dai suoi amici, appoggiati a una Mercedes grigio metallizzato; quando finì di parlare, Kim sgranò gli occhi e si mise a ridere. Mi avviai per andare da loro, e Steve mi si affiancò.
«Allora, che intenzioni hai?».
Lo guardai con la cosa dell’occhio. «In che senso?».
«Lei ti piace, vero?».
Alzai gli occhi al cielo, infilando le mani nelle tasche dei jeans. «Potrebbe piacermi, sì».
«Ma?» incalzò lui.
«Non c’è nessun “ma”».
«E allora? Qual è il problema?».
Il problema è che quella ragazza sostiene di dover morire da un momento all’altro. «Non c’è nessun problema».
«Allora è fatta!» gioì lui, saltellando sul posto. «Non usare il condizionale! Ti piace, niente “ma” né “se”!».
«Abbassa la voce» mugugnai, visto che eravamo a portata d’orecchio.
«E va bene, anche se una notizia simile andrebbe urlata al mondo intero» gongolò.
«Trattieni i tuoi istinti, se non vuoi ritrovarti spiaccicato sotto la mia auto».
«Magari è masochista» intervenne Tara alle nostre spalle, facendomi sobbalzare. «Sennò non si spiega perché continua a prendermi in giro per i miei capelli. Che ti è successo, Nat? Ti ha morso la tarantola?».
«Infatti i tuoi capelli sono arancioni!» la stuzzicò Steve, mentre balbettavo: «Che… che tarantola? Sto benissimo!».
Tara mi gettò una lunga occhiata indagatrice prima di gettarsi anima e corpo contro Steve, che barcollò quando lei gli si appese alla schiena urlando «I miei capelli sono rossi. ROSSI!».
«Io stimo quella ragazza» esclamò James, in mezzo alle risate collettive.
«Ha anche una moto. E non intendo un motorino. Una Kawasaki» gli disse Kevin.
«Io stimo molto quella ragazza» si corresse James, e Kim gli tirò una gomitata. «E bravo Jamie!».
«Oh, dannazione» sussurrò Julie, al mio fianco. «Quando questi due cominciano con le questioni sentimentali non li sopporto più nemmeno io».
«Stanno insieme?» le chiesi, curioso, abbassando la voce.
«No, anche se secondo me succederà, presto o tardi».
«Dagli tempo. Tanto Tara ha intenzione di restare single per parecchio… certo, divertendosi lungo la strada però» riflettei.
Gli altri cominciarono a salutarsi; Kevin riuscì a strappare un passaggio a Steve, mentre Kim e James sembravano aver fatto una tregua.
«Com’è che avete fatto tardi?» chiesi.
«Oh, te ne sei accorto?» disse, imbarazzata. «Beh, James si è perso. Abbiamo passato più di un’ora in macchina a cercare il locale. Mi dispiace».
«Non importa. Almeno non vi siete persi lo spettacolo» la tranquillizzai.
«Dovevi dirmi che suonavi tu! Perché non l’hai fatto?».
Mi strinsi nelle spalle. «Non so» ammisi. «Volevo che fosse una sorpresa».
«Beh, ci sei riuscito. A sorprendermi, intendo».
«Ne sono felice».
Mi porse un foglietto piegato in quattro. «Ci vediamo domani, allora?».
Annuii. «A domani».
Non avevo idea di come salutarla, ma prima che potessi pensarci lei mi diede un bacio su una guancia; poi si scostò e corse dai suoi amici, lasciandomi solo a guardarla andare via, chiedendomi perché con lei fosse tutto così facile. Lei era l’eccezione.



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Angolo dell'autrice
Salve, stavolta ho anche meno da dire quindi sarò breve.
Come avevo annunciato, i miei interessi personali sono decisamente ovunque; e visto che Harry Potter è in cima
alla classifica, non poteva mancare. Per chi non lo conoscesse, fatevi una cultura questo è il simbolo dei Doni della Morte.
Per quanto riguarda le canzoni presenti in questo capitolo sono:
- Whispers in the Dark degli Skillet, quella che canta Nate assieme al gruppo a cui non ho mai dato un nome;
- Brick by Boring Brick dei Paramore, ossia quella che canta Tara (per il suo aspetto mi sono ispirata
proprio a Hayley Williams, se vi può interessare) e di cui ho inserito un pezzettino;
- The Only Exception, sempre dei Paramore, è il titolo del capitolo.
Ora, ringrazio chiunque legga/recensisca/segua questa storia, sì, anche quelli che l'hanno aperta
per sbaglio e sono stati tanto incauti da arrivare fin qui. Mi piacerebbe che lasciaste un commento,
non importa se positivo o negativo, anzi, questi ultimi mi interessano di più perché vorrei una mano per migliorare.
Quindi, se trovate che io abbia scritto un'immensa sciocchezza, fatemelo sapere.
Come sempre, alla prossima.
Soph.

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Capitolo 4
*** Euphoria ***


Capitolo Tre.
Euphoria

La mattina dopo la trovai seduta ad aspettarmi sui gradini davanti a un palazzo, in pantaloncini di jeans, una maglietta bianca leggera e una larga camicia azzurra come giacca.
«Siamo sicuri che non morirai prendendoti una polmonite?» dissi a mo’ di saluto, aprendole lo sportello del passeggero.
Si strinse nelle spalle. «Tanto vale divertirmi. Hai portato il costume?».
Annuii, crucciato. «Ma non mi farò il bagno. Ho freddo anche vestito».
«Ma dai, è solo il quattro novembre».
«Quasi estate» ironizzai, e lei rise.
Imboccammo lo svincolo dell’autostrada che portava alla costa, senza trovare quasi nessuna auto. In effetti, la data e il cielo grigio perla contornato di nuvole scoraggiavano chiunque fosse talmente pazzo da andare al mare. Tranne noi, ovviamente.
«Come hai convinto i tuoi amici a venire?».
«Abbiamo fatto parecchie cose strane insieme. Una volta tanto, una l’ho proposta io».
«Cose strane… del tipo?» chiesi, curioso.
Si mise ad armeggiare con l’autoradio, cercando una stazione decente. «Vediamo. Una volta a Kim è piaciuto un ragazzo che nemmeno conosceva. Questo però non ha impedito a me e lei di raccogliere informazioni su di lui. Siamo arrivate a sapere il suo nome e cognome, data di nascita, nomi dei suoi amici, abitudini e persino dove abitava. L’abbiamo seguito sotto casa, cosa non facile perché lui prendeva la metropolitana e non sapevamo dove dovesse scendere. La prima volta ci siamo perse, la seconda l’abbiamo trovato. Abbiamo anche scoperto a che piano stava il suo appartamento».
«Com’è finita?».
«Lui e Kim si sono conosciuti. E poi lei ha deciso che in realtà non le piaceva».
Scoppiai a ridere. «Che sfiga» commentai.
«Sì, ma è stato divertente». Pausa. «Un’altra volta siamo andati tutti e tre – io, Kim e James – a una fiera in un paesino vicino al mare. C’era un baracchino che vendeva dolci e caramelle di tutti i tipi, avevamo bevuto e… beh, non ci andava di pagare». Sorrise al ricordo. «Io e James inscenammo un litigio piuttosto acceso, e mentre tutti erano distratti Kim rubò tre sacchetti già pronti di dolci assortiti. Se li avessimo comprati non sarebbero stati altrettanto buoni».
«Non so perché, ma avevo l’impressione che a Kim venisse più facile litigare con James».
«In effetti sì» ammise. «Si vogliono un gran bene, sono quasi fratello e sorella, e come tali litigano. Una volta ho dovuto impedire a Kim di fargli seriamente del male». Fece un lungo sospiro. «Comunque Kim non sa recitare. Sarebbe scoppiata a ridere a metà della sceneggiata».
«Tu invece sai recitare?».
«Sì… beh, diciamo che mi piace». La vidi fare un sorriso e girare la testa verso il proprio finestrino; non avevo ancora capito se era decisamente timida o poco incline a mettere in mostra le sue qualità. Sospettavo fosse la seconda. «Una volta facevo teatro, ma ho smesso quando avevo dodici anni».
«Perché?».
Scrollò le spalle. «Non so. All’inizio volevo fare altro, alla fine non ho fatto nulla».
Per un po’ continuò a regolare le manopole della radio, poi, finalmente, si lasciò ricadere sul sedile, soddisfatta.
«Jazz?» esclamai, quando sentii le note di un sassofono invadere l’abitacolo.
«Non ti piace?».
«Mai ascoltato» ammisi.
«È un peccato. Ad alcuni può sembrare pesante, ma è rilassante senza annoiare. Qual è il tuo genere di musica preferito?».
«Rock, metal, alcune cose non classificabili. Perché?».
«Perché in questi giorni mi stai conoscendo più di quanto Kim e James abbiano fatto in anni. È assurdo». Scosse la testa, sbuffando. «Tutta la questione è assurda. Magari sono pazza davvero e non me ne rendo conto».
«Allora siamo in due» tentai di rassicurarla, probabilmente con scarsi risultati. Ero una frana con i sentimenti umani. E detestavo dal profondo parlare di me. Quel primo giorno era stato stranamente facile, forse perché ero convinto che non l’avrei mai più rivista…
«Fino all’anno scorso portavo i capelli lunghi» confessai poi. Lei girò la testa di scatto e mi fissò con tanto d’occhi. Per la prima volta, notai che alla luce forte erano più chiari, quasi dorati, con tante piccole pagliuzze del colore del sole. Quel giorno sembrava molto più felice di quanto lo fosse stata gli altri giorni. Anche la sera prima sembrava assente, distratta, o forse solo poco partecipe.
«Oh mio Dio, davvero? Come Steve?».
«Già. L’avevamo deciso insieme» strinsi il volante, cercando i miei Ray-Ban neri per ripararmi dal sole che cominciava a filtrare tra le nuvole; Julie abbassò il finestrino e si stiracchiò, come un gattino, facendomi sorridere. «Io e Steve siamo praticamente fratelli da che ci conosciamo. Mia madre è abituata ad averlo in giro per casa, ormai rimane a cena almeno due volte a settimana. Lui e Maggie si coalizzano sempre contro di me» ridacchiai. «Una volta per svegliarmi hanno sollevato il materasso dal letto e mi hanno fatto cadere sul pavimento».
«Mia sorella una volta mi ha spinta giù dal letto a castello. Direi che ti batto».
«Era una gara?» chiesi divertito, perché si strinse nelle spalle e mi fece una linguaccia.
«Non hai spirito di competizione» mi provocò, mentre tentava di farsi un codino coi capelli troppo corti.
«Ah sì? Una volta i miei amici hanno catturato me e Steve e ci hanno vestiti da donna». Non sapevo se fossi scoppiato a ridere per la sua espressione sconvolta, o perché mi ero reso conto di averle rivelato qualcosa che io e Steve avevamo giurato di tenere nascosto a costo della vita. Pian piano si unì a me, e poco dopo ci ritrovammo a tenerci la pancia dalle risate. Fui costretto a rallentare per non andare a sbattere.
«E va bene, hai vinto!» ansimò, e avrei potuto giurare di averla vista asciugarsi una lacrima. «I miei amici non sono così bastardi. Diavolo, che spettacolo mi sono persa!» esclamò poco dopo, ancora col sorriso stampato sul volto.
«Ho le foto, se ti interessa». Questa frase la fece scoppiare a ridere ancora più forte, e mi chiesi se gliele avrei mai fatte vedere. Decisi di no. Piuttosto, le avrei mangiate.
«Diavolo, ma come mi esce di dire certe cose?» borbottai, imbarazzato, mentre svoltavo sulla strada costiera. Ormai il mare era ben visibile, una distesa d’acqua di un azzurro scuro, ancora un po’ grigiastro per il riflesso del cielo, ma piatto come una tavola.
Mi diede una gomitata scherzosa, tentando di smettere di ridere. «Ti giuro che non lo dirò a nessuno».
«Se lo fai ti affogo, è diverso» la minacciai, restituendole la gomitata.
«Per farlo dovresti entrare in acqua, quindi accomodati pure».
«Mi sottovaluti. Posso affogarti anche a distanza». Alzò gli occhi al cielo, nascondendo un sorriso girando la testa verso il finestrino.
«Ehi, siamo arrivati!» esclamò, facendomi inchiodare bruscamente.
«Che? Davvero?».
«Meno male che guidavi tu» osservò, sconcertata.
«Pensavo ci volesse di più» mi giustificai, cercando un parcheggio con lo sguardo. Maledizione, per essere autunno inoltrato c’erano un sacco di auto posteggiate lungo i marciapiedi.
«Infatti ci abbiamo messo circa due ore. Sono quasi le cinque, Nate».
Spalancai gli occhi. «Il tempo è volato» osservai. Aggiungere “con te” ci sarebbe stato bene, molto bene, ma non l’avrei mai detto. Quello avrebbero dovuto tirarmelo fuori con le pinze.
Io non ero il ragazzo delle favole, il principe azzurro. E nemmeno lo strano tipo dark e figo che si atteggia a schivo e riservato quando tre minuti dopo sta raccontando la storia della propria vita alla bella di turno. Non lo facevo apposta, anzi, in realtà detestavo essere così chiuso. Io ero quello che durante l’intervallo rimaneva in classe, o al massimo subito fuori con Steve o, volendo esagerare, che scendeva fino al bar e risaliva in un lampo. Quello che il sabato sera stava a casa, oppure andava al suo concerto. Avevo Steve e Tara, tanto mi bastava. Mi bastava da parecchio. Uscivamo qualche volta, scherzavamo, l’estate prima eravamo andati tutti e tre a Barcellona. Ma io non ero facilmente avvicinabile, assolutamente no. Non era un caso se mi chiamavano “il cinico Nate”.
Lei aveva cambiato le regole. Ma non l’avrei mai ammesso. Neppure a Steve. Neppure a me stesso.

Trovammo un parcheggio e scaricammo i nostri pochi bagagli, lei una sacca nera e io uno zaino quasi identico. Poi aprii il portabagagli e ne estrassi la mia chitarra.
«Oddio!» esclamò Julie quando la vide. «Che… come…?» balbettò.
Me la misi sulle spalle. «Ho pensato ti facesse piacere. Ho fatto male?».
«No!» quasi strillò. «Oddio, è… è bellissimo! Grazie! È da quando ho cinque anni che sogno un falò attorno al fuoco con i miei amici, una chitarra e tutto il resto». Fece un ampio sorriso, e si coprì la bocca con la mano. Presi lo zaino per una cinghia, chiusi il portellone dell’auto e mi feci guidare attraverso il paesino, che altro non era che un minuscolo ammasso di case a parer mio intricatissimo.
«Toglimi una curiosità» dissi, constatando che faceva semplicemente troppo caldo per essere inizio novembre. Forse il bagno si poteva anche fare, ma io comunque non avrei messo piede in acqua. «Non ti piace che la gente ti veda sorridere, o cosa? L’hai fatto anche prima, in macchina».
La vidi tendersi e rilassarsi dopo pochi istanti. «Oh, ehm, l’hai notato?» chiese, imbarazzata.
«Quando passi la vita a stare zitto, devi pur trovarti qualcosa da fare. Quando non canto, osservo».
«Come sei acuto» mormorò a bassa voce, piccata. «Non mi piace come sorrido, okay? Sorrido… male».
«Non si può sorridere male» puntualizzai. Mi fermai per togliermi la felpa e rimasi con una maglia nera a mezze maniche. «Avanti, fa’ vedere».
«Ma dai, è tardi… quella è la Mercedes del padre di James! Sono già arrivati!». Fece per avviarsi, ma io rimasi fermo dov’ero, a braccia incrociate.
«Questo tentativo di distrarmi è patetico» commentai.
«È vero, quella è la loro auto!». Mi fece un cenno con la mano, ma non mi mossi. Tornò fino al muretto dove mi ero appoggiato. «E dai, Nate!».
«Ti giuro che se non sorridi adesso ti faccio il solletico finché non ti metti a piangere» minacciai, facendole sfuggire una risata. Scosse la testa, esitante, poi fece un pallido sorriso.
«Bene, hai ragione, sorridi male» dissi. «Quello non è nemmeno l’ombra dell’ombra di un sorriso».
«Sono totalmente incapace di sorridere a comando» protestò. «Ora, ci muoviamo?».
«Va bene, ma non credere che finisca qui» avvertii.
Arrivammo fino al lungomare, un’ampia strada contornata da alberi e lampioni; scendemmo delle ripide scalette e ci avviammo verso la spiaggia, una duna oltre la quale c’era il mare. Camminammo affondando nella sabbia sottilissima per quello che mi sembrò un quarto d’ora, ma probabilmente era solo perché la mia maglia nera attirava il calore del sole facendomi arrosto.
Oltre la duna c’era una striscia di sabbia lunghissima; e vicino al mare gli amici di Julie aspettavano, stravaccati sugli asciugamani.
«Ragazzi!» urlò lei, correndo avanti.
«Juliet Annah Collins! Mi spieghi perché cazzo…?». Kim fece partire una serie di imprecazioni che non scalfì minimamente Julie, anzi, la fece correre più veloce fino ad arrivarle accanto. Fui costretto mio malgrado ad aumentare il passo.
«Ciao, ragazzi» salutai quando arrivai abbastanza vicino da poggiare la chitarra e il mio zaino per terra, vicino la pila di bagagli che si era formata nel frattempo. James venne a salutarmi, dandomi una pacca sulla spalla. «Scappa finché puoi» mi suggerì. «Kim detesta i ritardatari. Ieri sera ha tentato di uccidermi». Risi, ma per tutta risposta mi mostrò dei graffi su una mano che avevano tutta l’aria di essere opera della mora, che ora stava ridendo assieme a Julie. Erano entrambe piene di sabbia, sia nei capelli che nei vestiti.
«Noi in genere la chiamiamo Kitty. Sai, come “gattino”» intervenne una voce che non conoscevo. Mi girai e mi trovai… beh, no, non faccia a faccia. Era una ragazza ancor più minuta di Julie, i capelli biondo scuro raccolti in una treccia disordinata, e gli occhi grigi. Stese una mano in avanti. «Emily. Tu sei Nate, giusto?». Annuii, e le strinsi la mano.
Uno strillo acuto venne da Kim, visto che Julie le stava facendo il solletico tenendola incollata a terra. «Mi arrendo! Mi arrendo!».
«Finalmente!» sospirò Julie trionfante, rimettendosi in piedi. Mi fissò per un attimo, imbarazzata, poi spostò lo sguardo su Emily. «Già fatte le presentazioni?» chiese, e quando annuimmo lei sorrise soddisfatta. «Perfetto! Io vado a fare il bagno, allora!».
Kim la fissò scuotendo la testa, poi però anche lei iniziò a togliersi i jeans.
«Diavolo, vogliono farlo davvero» mormorò James, preoccupato quanto me.
«Esattamente! E tu verrai con noi!».
«Scordatelo, Jules».
«E sennò perché saresti venuto con noi? Dai, Jamie!».
«Sono venuto solo perché avevo paura che Kitty mi staccasse un braccio» disse, quindi andò a sedersi sul suo asciugamano.
«Ma così non è divertente» commentò Kim assieme all’amica.
«Giusto. Allora andiamo a prendere qualcosa al bar, così magari cambi idea» propose Julie.
«Ne dubito».
Lei alzò gli occhi al cielo, sbuffando. «Nate, tu che fai?».
«Rimarrò in stato vegetativo su questo asciugamano fino a stasera, probabilmente». E per rafforzare il concetto mi sistemai meglio sulla sabbia, stiracchiandomi.
«Peggio per voi» disse Kim con noncuranza, e assieme si avviarono indietro verso le scalette da cui eravamo scesi, dove c’era un baracchino di legno, probabilmente il bar. Emily andò a vedere com’era l’acqua, lasciando i suoi sandali accanto alla nostra roba e arrotolandosi i jeans fino alle ginocchia.
«Davvero, perché siamo venuti?» chiesi dopo qualche minuto passato in silenzio, mentre i gabbiani si fiondavano verso il mare passando sopra le nostre teste.
«Beh, facile. Perché ce l’hanno chiesto loro». Mi girai verso di lui. «Non dire che l’ho detto, d’accordo?» rise.
«Mi chiedo come fai a sopportarle» dissi.
«Naah, tu le hai viste nei loro momenti di sclero più puro. In genere sono molto più serie». Ci pensò su. «Però in effetti Kim è violenta sempre».
«Come le hai conosciute?».
«Ho incontrato prima Kim, quando avevamo io tredici e lei dodici anni. Abitiamo vicini, quindi facevamo spesso la strada insieme» spiegò. «Un anno dopo mi ha presentato Juliet. Emily l’abbiamo conosciuta in seconda liceo a una festa».
«Quindi vi conoscete da… da cinque anni?» capii. Feci un fischio sommesso.
«Eh già. Mi stupisco di essere ancora vivo».
«E fai bene, Wilson!».
Uno scroscio d’acqua ghiacciata gli piovve in testa, appiattendo i ricci in ciocche scomposte. Lui si tirò su, individuò Kim che se la rideva con un secchiello vuoto poco più in là, e cominciò a inseguirla urlando cose davvero poco carine.
«Allora, che hai deciso?». La voce di Juliet era tranquilla e cantilenante, e la cosa mi fece voltare di scatto verso di lei. Stringeva il manico di un secchiello pieno d’acqua fino all’orlo.
«Oh, dannazione» imprecai. «Ma dove diavolo li avete presi?».
«Il bar li presta». Liquidò la questione con un gesto della mano. «Allora, il bagno te lo fai o no?».
Mi voltai per vedere James, la sabbia incollata alla maglietta bagnata, che ancora non era riuscito ad acchiappare l’orientale. Decisi che la scelta più indolore era cedere.
«Ehm… sì, lo faccio» dissi, e subito mi arrivò uno scroscio d’acqua gelida in pieno petto, bagnandomi anche parte dei capelli e il viso. Fissai Julie con una faccia che lei dovette trovare ridicola, perché si mise a ridere.
«Perché l’hai fatto?!».
«Hai detto che il bagno te lo volevi fare, no? Se questo non è un bagno…».
«Ti faccio vedere io cos’è un bagno» minacciai, e prima che potesse scappare me la caricai su una spalla.
«Mettimi giù» strillò.
«Ma quanto pesi?» la presi in giro, anche se era fin troppo facile portarsela appresso in quel modo. Per tutta risposta cominciò a scalciare.
«Nate! Devo ricordarti che mi hai confessato di esserti vestito da…».
Mi fermai i botto. «Non oseresti!» esclamai.
«Oh sì che oso! Mettimi giù!».
«Dove? Qui?». La gettai nell’acqua, in cui ero immerso fin quasi alle ginocchia, nonostante i jeans.
Lei riemerse guardandomi malissimo, si tolse la maglietta che ancora indossava lanciandola sulla spiaggia, poi mi prese per un braccio e cominciò a tirarmi.
«Peso almeno cinque chili più di te!» risi. Poi cambiò tattica e mi abbracciò, inzuppandomi.
«Ma che diavolo!» protestai. Cominciai a farle il solletico, finché non si staccò ridendo.
«Visto che sorridi bene?» le dissi, e lei subito si coprì il viso con le mani. Sbuffai e gliele presi, staccandole. «Oh, mi credi?» chiesi.
«No. Mi stai imbrogliando» disse, e poi mi spinse in acqua. Barcollai e finii dentro fino al petto, tremando per il freddo – che comunque non era tanto quanto mi aspettavo.
«Stronza, tu mi hai imbrogliato!» La tirai per la mano che ancora tenevo stretta, e lei mi spinse la testa sott’acqua. Riemersi tossendo e stropicciandomi gli occhi, mentre lei mi osservava divertita. «Stai bene?» chiese, tenendosi a galla muovendo le braccia e le gambe.
«Sorridi» chiesi. Sbuffò, contrariata, ma poi lo fece. «Adesso sì».
Hai bevuto acqua di mare, per caso?
Dovevo essere impazzito, sì, totalmente pazzo. Fortunatamente Kim cominciò a chiedere il suo aiuto, perché James ed Emily avevano cominciato a schizzarla. Julie cominciò a nuotare verso di loro, lasciandomi a mollo, ancora vestito e stupito da quella mia uscita.
Sì, probabilmente l’acqua salata mi aveva fatto male. O forse ero posseduto. Perché io, quello che durante i film romantici cambiava canale, non potevo aver detto davvero una frase tanto melensa.
Scossi la testa e mi trascinai fuori dall’acqua. Avevo maglietta, jeans e scarpe totalmente zuppi, quindi dovetti lasciarli ad asciugare sul mio asciugamani, rimanendo in costume.
«Nate!» mi chiamò Julie, e mi fece cenno di tornare in acqua. Ora la guerra sembrava essersi trasformata in un “tutti contro James”.
Guardai Julie, in acqua fino alla pancia, che buttava acqua addosso a James con qualunque mezzo disponibile. Non potevo credere che una così credesse di non aver vissuto.
E poi capii che non mi sentivo strano o sbagliato a dirle cose sdolcinate. Che non mi sentivo stupido, anzi, era stranamente naturale essere gentile con lei. E non perché l’avevo conosciuta che sembrava un pulcino bagnato, stravolto e un po’ folle; perché quella era la cosa giusta per me da fare.
«Amico, dammi una mano!» urlò James, tentando di combattere tutte e tre le ragazze, coalizzate contro di lui.
«Arrivo» dissi piano, anche se non poteva sentirmi, e mi avviai a passo lento verso il mare.

Non uscimmo dall’acqua che alle sei e mezza, quando il sole tramontò. Le ragazze spedirono me e James dal vicino McDonald’s per prendere la cena, consegnandoci una lista della spesa piuttosto complicata.
«Come fanno tre ragazze a mangiare così tanto?» mi chiesi, scorrendo la lista.
«Si vede che non conosci Kim. È la reincarnazione di Homer Simpson».
Prendemmo la sua Mercedes e arrivammo fino al McDrive chiacchierando del più e del meno, in particolare di musica. Scoprii che sia lui che Kim erano fan sfegatati dei 30 Seconds To Mars, e fu contento di sapere che una volta avevamo suonato anche una loro canzone.
«Ho una curiosità» mi disse dopo aver elencato la lunga lista di panini alla cassa.
«Spara».
«Come hai fatto a diventare amico di Jules in così poco tempo? Io ci ho messo una vita».
«Più che un incontro è stato uno scontro» dissi, sperando che gli bastasse. Ma ovviamente non fu così.
«Juliet va a sbattere contro dozzine di persone, ma non ce ne ha mai fatta conoscere nessuna» replicò James.
Sospirai, grattandomi la testa. Avevo ancora i capelli incollati dal sale e lievemente umidi. «Non lo so» ammisi. «È stato un caso. Né io né lei siamo inclini a conoscere o a farci conoscere, però è successo».
«Curioso» commentò.
«Perché? Insomma, non è una cosa dell’ altro mondo conoscere gente nuova».
Mi fissò come se fossi scemo. «Parliamo di Juliet. Io e lei abbiamo impiegato anni per arrivare a fidarci l’uno dell’altra. Non perché non volessimo» aggiunse dopo un po’. «Ma perché lei pretende il meglio da tutto, anche dagli amici. Mi stupisco di aver passato la selezione» fece una risata stanca. «Io invece ero confuso. Non è come tutti gli altri, non le bastava un rapporto superficiale fatto di “Come va? Che fai?” e risposte scontate. All’inizio pensavo fosse decisamente rompicoglioni» ammise. «Poi però ho capito che non era affatto male. Credo che se Kim non fosse stata la migliore amica di entrambi, costringendoci a rimanere in contatto, dopo un po’ mi sarei stancato».
«Forse è cambiata» ipotizzai. «L’hai vista ieri sera, con Steve e gli altri. Era spigliata, allegra».
«Lei è gentile con tutti. Ti pare che Steve o Tara o Kevin siano qui ora?» scosse la testa. «No. Ed è perché questa è una delle sue serate-da-migliori-amici, o qualcosa del genere. Ne organizzavamo parecchie, due o tre anni fa, senza sapere nemmeno che fossero speciali. Non facevamo niente di che, vedevamo un film o giocavamo ai videogames. Però Juliet ci tiene molto, perché tiene a noi e alla nostra compagnia. Anche a te» disse, serio. Poi cambiò discorso con scioltezza. «Aiutami a prendere queste buste, pesano un quintale».
Passai il viaggio di ritorno a riflettere. Ero entrato nella cerchia più stretta dei suoi amici in appena tre giorni. Forse perché eravamo entrambi a conoscenza del suo segreto, o… non sapevo perché. Mi passò per la testa anche che mi stesse tenendo buono in modo che non andassi a dire ai quattro venti che stava per morire. O che era pazza. Il pensiero stranamente mi fece venire un peso sullo stomaco. Sarebbe stato legittimo controllarmi, visto che in sostanza non mi conosceva. Legittimo, eppure doloroso. Ma secondo James, lei teneva a me.
«Grazie» gli dissi mentre scaricavamo la roba dalla macchina. Mi aspettavo di dovergli spiegare perché lo stavo ringraziando, ma non fu così.
«Di niente. Avrei voluto avere io una mano con lei, quattro anni fa». Arrancammo sulla sabbia, adesso sollevata da un vento fresco. «Anche adesso per me è complicato avere a che fare con lei» aggiunse dopo un po’. «Certe volte ho l’impressione di conoscerla meglio di me stesso, altre che debba ancora scoprire un mondo di cose. Ma va bene così. Se sapessi tutto fin da subito, l’avventura sarebbe piuttosto noiosa».
Mi piaceva che definisse conoscere Julie “un’avventura”. Soprattutto perché ebbi la prova poco dopo di quanto fosse vero che di lei c’era parecchio da scoprire.
Oltre la duna, scoprimmo che mentre non c’eravamo le ragazze si erano date da fare: un grande falò scoppiettava di rosso e oro all’interno di un semicerchio formato dagli asciugamani, su cui erano sedute.
«Buonasera, signore» salutammo. «Qualcuno ha ordinato la cena?».
Spartimmo i panini, e in breve l’unico rumore a parte il crepitare del fuoco fu quello delle mandibole al lavoro, interrotto solo dai commenti di Julie e Kim riguardo una vacanza che avevano fatto insieme tempo prima. C’entrava in qualche modo il McDonald’s, ma non capii come.
«Come avete fatto ad accendere il fuoco?» chiesi a Juliet, che era alla mia sinistra.
«Sono stata io» disse, tra un morso e l’altro. «Nella mia casa delle vacanze abbiamo un caminetto. Ho imparato da piccola».
Feci un fischio sommesso, facendola ridere, e Kim l’abbracciò di slancio. «La mia piccola maschiaccia! Come faremmo senza di te?!». E poi aggiunse, a bassa voce: «Invece so benissimo come faremmo senza James».
«Nulla!» esclamò lui, offeso. «Io ho la macchina e il portafogli».
«Allora ti teniamo» lo rassicurò Emily. «Solo per questo».
«Di bene in meglio» ironizzò lui. «Adesso sono stato retrocesso ad autista e banca privata. Fantastico».
«Non ti ci vedevo proprio come maschiaccio» dissi sottovoce a Julie, mentre gli altri continuavano a battibeccare.
«Oh, davvero?» sorrise. «Pensavo si notasse. Sono il figlio maschio che mio padre non ha mai avuto. Io sono quella che lo aiuta ad accendere il camino, a caricare la macchina per i viaggi, a rifare l’impianto elettrico… solo io, visto che mia sorella è molto più pigra di me. O forse più furba» rifletté.
«Io avrei detto che il maschiaccio tra voi è Kim».
Sgranò gli occhi. «Oh, no! Lei è solo violenta. Il resto delle volte è molto femminile. Immagino sia anche il fascino orientale».
«A proposito: ha davvero origini orientali?» domandai, curioso.
Scosse la testa. «Capelli neri e lisci e occhi allungati sono spuntati dal nulla. Nessuno nella sua famiglia è nemmeno mai stato più a est della Grecia. Però lei è un’otaku, quindi le fa piacere. Io l’ho convinta a farsi crescere i capelli, sai, per rafforzare l’effetto».
«Buona idea» commentai, quando Kim c’interruppe. «Nate, ho visto che hai portato la chitarra. Ci canti qualcosa? Emily ieri sera non è potuta venire a sentirvi».
Io ed Emily arrossimmo quasi in contemporanea, lei perché era stata chiamata in causa, io perché… beh, sembrava paradossale, ma non mi piaceva cantare se non ero sul palco. E soprattutto da solo.
Quando lo dissi, Kim liquidò le mie proteste con un gesto della mano. «Sciocchezze, sei bravissimo». Mi trattenni dal seppellire il viso tra le mani per conservare un minimo di dignità.
«Ma non suonavi la chitarra elettrica?» mi chiese James.
«Sì, ma ho imparato prima con la classica» borbottai.
«Sai, anche Emily sa suonare la chitarra» buttò lì Julie, apparentemente per caso. «E canta, anche».
«Juliet!» sibilò Emily di rimando, ma ormai l’attenzione di Kim si era spostata su di lei.
«Che canzone hai detto che stavi preparando per il saggio, Emy?».
«Safe and Sound» mugugnò. «Ma la sto preparando, appunto! Non sono pronta!».
«Ma me le trovo tutte io le persone timide?» si chiese Kim, crucciata. «Avanti, è una delle tue canzoni preferite, so che la canterai benissimo».
Bisognava ammettere che le doti persuasive di Kim erano davvero efficaci, perché pochi minuti dopo Emily mi stava umilmente chiedendo se potevo prestarle la chitarra.
Gliela passai; lei si sistemò sulla sua sacca per stare più comoda, controllò se era accordata, si schiarì la gola, finché Kim non le intimò di smetterla di perdere tempo.
«Grazie per averla distratta» sussurrai all’orecchio di Julie, che sorrise e mi fece cenno di ascoltare.

«I remember tears streaming down your face
When I said “I’ll never let you go”
When all those shadows almost killed your light
I remember you said "Don’t leave me here alone"
But all that’s dead and gone and passed tonight
Just close your eyes
The sun is going down
You’ll be alright
No-one can hurt you now
Come morning light
You and I’ll be Safe and Sound».


Era una canzone lenta, simile a una ninnananna degli orrori, dove fuori il mondo brucia e si tenta di rassicurare… qualcuno, di dirgli che andrà tutto bene. Era una canzone complicata, piena di modulazioni della voce che né io né, forse, Tara, saremmo mai riusciti a fare.
«Sei brava» le dissi quando finì e mi restituì la chitarra. «Dovrei presentarti al padrone del locale dove mi esibisco in genere. Gli piaceresti». Lei mi fece un sorriso e tornò ad accoccolarsi sul suo asciugamano, poggiando la testa sulle ginocchia.
«Ma dove avete trovato questa canzone?» chiesi.
«È la colonna sonora del nostro – mio e di Emily – film preferito. Che è tratto dal nostro libro preferito» spiegò Julie.
«Ma scusa, il tuo libro preferito non era Harry Potter?».
Mi guardò, beffarda. «Ho talmente tanti libri preferiti che messi l’uno sull’altro sono molto più alti di me».
«Non ci vuole molto» borbottai, beccandomi una gomitata nel fianco.
Scoprimmo ben presto che James aveva portato altri viveri, che comprendevano qualche bottiglia di birra e una busta di marshmellows. Lui, Kim ed Emily tentarono di arrostirli sul fuoco come si vedeva fare nei film, ma qualcosa andò storto perché si sciolsero, cosa che fece morire Julie dalle risate, stesa sull’asciugamano a tenersi la pancia, mentre gli altri decidevano di mangiarli direttamente dalla busta con aria insoddisfatta.
A un certo punto Kim raccolse una bottiglia di birra vuota e, tenendola per il collo, cominciò a farla ondeggiare, cantilenando: «Chi vuole giocare?».
James si prese la testa tra le mani, e io mi preparai al peggio.
«È un ibrido del "Gioco della bottiglia" e "Obbligo o Verità", hai presente?» spiegò Julie. «L’abbiamo messo a punto in numerose serate di noia. Si fa girare la bottiglia. Il primo che viene “colpito” decide se è Obbligo o Verità; la bottiglia gira di nuovo, e il secondo estratto deve fare quello che il predecessore ha scelto. Capito?».
Annuii, incerto, mentre James ancora protestava. «Mi rifiuto! L’ultima volta mi hai fatto mangiare… che diavolo di roba era?».
«Non te lo dirò mai. Ricetta segreta Jester» disse Kim serafica, mentre prendeva un pezzo di legno più piatto degli altri e ci piazzava sopra la bottiglia.
Quella girò fino a fermarsi su James, che sgranò gli occhi. «E va bene, gioco!».
«Sei un baro!» sibilò Kim. Lui l’ignorò bellamente. «Scelgo Obbligo!».
La bottiglia girò di nuovo e si fermò proprio su Kim, che impallidì. «Questa bottiglia è truccata! Stai barando! Non so come, ma stai barando!» strillò.
«Ah, serve una punizione adeguata» sospirò James, soddisfatto.
«Si chiama Obbligo, non Vendetta!» gli ricordò Julie.
«E l’omicidio è ancora un reato» aggiunsi io.
«Anche se forse, per lei, potrebbero chiudere un occhio» rifletté Emily.
«Banda di bastardi traditori!» sbottò lei.
«Ci sono!» esclamò James. «Spogliati».
Kim, che stava bevendo, cominciò a tossire fino a diventare rossa. «Che?!».
«Spogliati. Mettiti in costume».
«Sei un maniaco, Wilson!» protestò lei, incrociando le braccia al petto.
«Non sai perdere, Kitty» la canzonò Emily, che ricevette un’occhiata assassina.
«Avanti, Kitty-Cat, sei stata in costume tutto il giorno» rincarò la dose Juliet.
«Se non ti togli i vestiti tu, te li tolgo io» minacciò James, e questo la fece cedere. Camminò fino ad arrivare fuori dalla zona illuminata dal fuoco, e dopo poco una maglietta e un jeans appallottolati arrivarono tra le braccia di Julie. «Giuro su Dio, se fate qualcosa ai miei vestiti vi perseguiterò fino alla morte!».
«Come no» sbuffò James, alzandosi. Nonostante il buio lo vedemmo camminare verso di lei, che ancora protestava, e prenderla in braccio come in un qualche cartone della Disney.
«Conto fino a cinque!» lo sentimmo urlare, e Kim per tutta risposta cominciò a minacciarlo con le morti più atroci. Cosa che non sembrò spaventarlo minimamente, dato che la lanciò al “due”, facendola strillare. Quando uscì dall’acqua tossendo lo abbracciò anche lei per vendetta – più o meno come Julie aveva fatto con me – solo che lei gli si abbarbicò alla schiena, probabilmente rischiando anche di strozzarlo. Riuscirono a tornare accanto al fuoco in mezzo alle risate generali, e Julie passò il suo asciugamano all’amica perché si asciugasse. James fu costretto a togliersi la maglietta e io gli prestai la caldissima felpa che mi ero tolto quella mattina e non avevo più rimesso.
Facemmo qualche altro giro, decisamente più tranquillo. L’unico altro obbligo fu fatto da Emily, costretta da James a finire di mangiare la confezione gigante di patatine del McDonald’s – di cui aveva lasciato più di metà. Kim, non soddisfatta di aver inzuppato James, si vendicò chiedendogli se gli piacesse qualcuno; lui si limitò a stare zitto, cosa che fece esultare la sua presunta migliore amica. A me chiesero da quanto suonassi – da quando avevo undici anni.
La bottiglia si fermò su di me, che istintivamente dissi «Verità». Poi si fermò su Julie.
«Tranquilla Julie, non ci andrò giù pesante» la rassicurai, guadagnandomi un’occhiataccia.
«Quante volte ti devo ripetere che mi chiamo Juliet? Ju-li-et».
«Ecco, esatto!» esclamai schioccando le dita, come se fossi un cartone animato. «Perché detesti quando ti chiamo Julie?».
«Perché non è il mio nome».
«Ma è un vezzeggiativo. È carino».
«Continua a non essere il mio nome». La fissai insistentemente, finché non alzò gli occhi al cielo e cedette. «E va bene! Perché è Juliet, come quella di Shakespeare» ammise.
Tutto potevo aspettarmi tranne quello. «Ti avevo detto che mi piaceva recitare» mi canzonò, sistemandosi meglio e appoggiando la schiena alla sua sacca.
Tre turni più in là, dopo che Juliet ebbe costretto Emily a dirle come stesse andando la storia che stava scrivendo, toccò di nuovo a noi due, a ruoli invertiti.
«Perché mi hai richiamato?» chiese, facendomi crollare una valanga di macigni sul petto.
«Eh?» chiesi, facendo il finto tonto.
«Perché, dopo che ci siamo incontrati, hai deciso di richiamarmi?». I suoi amici sembravano curiosi quanto lei.
«Io ti avevo detto che sarei stato gentile» protestai.
«Appunto, tu, non io» replicò.
Sbuffai. «Per la maglietta».
Lei e gli altri fecero la stessa identica espressione di smarrimento. «Che maglietta?».
«Quella di Ritorno al Futuro» dissi. «Quel pomeriggio ho detto a Steve di aver conosciuto una che aveva una maglietta di Ritorno al Futuro, e lui ha detto che non potevo farmi scappare un’occasione così».
Kim, Emily e James si misero a ridere, e Julie fece un ampio sorriso, scuotendo la testa. «Ricordami di ringraziare Steve» mi sussurrò mentre gli altri cercavano la prossima coppia. Capitò a Kim e Juliet. Io mi aspettavo che tra loro fossero gentili, visto che entrambe dovevano avere anni di segreti da custodirsi a vicenda. E invece, no.
«Perché in questi giorni sei così strana?» chiese la mora, scostandosi una ciocca di capelli bagnati dalla fronte.
La vidi irrigidirsi, anche se era ancora stesa contro la sua sacca. «Strana come?».
«Partecipe. Fino a una settimana fa se ti avessi chiesto di andare al mare a novembre tu mi avresti fatto mettere una camicia di forza». Mi gettò un’occhiata talmente veloce che credetti di essermela sognata.
Juliet si tirò su. «Hai sempre insistito sul fatto che dovessi rilassarmi un po’, vivere la mia vita con allegria. Beh, lo sto facendo».
«Ma perché ora?» insistette l’altra.
Inspirò per calmarsi. «Perché ho scoperto di dover morire a breve e voglio vivere il tempo che mi rimane al mio meglio». Mi girai verso di lei talmente in fretta che mi feci male al collo.
«Questo è Obbligo o Verità, Jules» le ricordò James. «Non Obbligo o La-Prima-Panzana-Che-Trovi-Per-Toglierti-Dai-Casini». Lei fece per dire qualcosa, ma poi parve rinunciare e ammutolì.
Kim la fissò intensamente per un altro minuto, poi sospirò e lasciò perdere. «Ho capito. Dimmelo quando ne hai voglia». Juliet si morse le labbra, evitando di guardare chiunque negli occhi.
Il giro ripartì come se nulla fosse successo; poco dopo Kim e Juliet si ritrovarono ad abbracciarsi, ridendo, perché avevano costretto James a far loro un mix tra una sfilata e uno spogliarello. Lui, dopo aver camminato ancheggiando per un po’, arrivò persino a togliersi la mia felpa, poi però scoppiò a ridere anche lui, rovinando l’effetto.
«Sei negato!» si misero a urlare, lanciandogli pezzetti minuscoli di patatine. «Tornatene a casa!».
«Ridete finché potete» disse, infilandosi la sua maglietta verde militare. «Ma giuro che alla prima occasione lo spogliarello lo faccio fare io a voi». Questo le fece ridere ancora più forte.
Nel turno di dopo toccò a me, scelsi «Obbligo», poi capitò Kim.
«Ti offro tutto quello che ho se le fai fare quel maledetto spogliarello» mi disse James, serio, beccandosi una cascata di insulti. «Ti piacerebbe, eh, Jamie?» lo sfotterono Emily e Juliet.
Lui le ignorò. «Ti prego, amico, fratello, sarò in debito con te per sempre».
«SEI UN PORCO!».
«Ho solo il senso degli affari!» ribatté lui.
Ci pensai su, poi decisi: «Kim, mettiti in ginocchio e chiedigli scusa per tutte le cose che gli hai detto o fatto oggi».
James ululò, trionfante, balzando in piedi e aspettando che lei si prostrasse davanti a lui.
«COSA?!» ringhiò lei. «Cosa diamine gli avrei fatto?». Questa frase fece scoppiare a ridere Juliet, Emily e me, mentre James si fingeva pensieroso e cominciava ad elencare le sue colpe.
«Mi hai insultato ripetutamente, bagnato, schizzato, oltraggiato…».
«Nemmeno sai cosa vuol dire, oltraggiato!».
Lui l’ignorò. «…Offeso, dicendomi che valgo quanto un banale autista…».
«E una banca».
«…giusto, una banca. Grazie, Emily. Poi mi hai ferito, sia moralmente che fisicamente, rotto le scatole, sfruttato…».
«Imbarazzato» intervenne Juliet.
«…imbarazzato… no, questo non è vero!» disse, arrossendo.
«Secondo me ti stai inventando la metà delle cose» protestò Kim, quasi annoiata.
«Zitta e inginocchiati!».
Lei obbedì, alzando gli occhi al cielo. «Così va bene?».
«C’è di meglio ma mi accontenterò. Ora chiedimi scusa per tutti i motivi che ho elencato prima…».
«Scusa» borbottò lei, guardando un punto imprecisato verso il mare.
«…citandoli uno per uno».
Lei sgranò gli occhi, fissandolo. «E come diavolo dovrei fare a ricordarmeli?».
«Prestando più attenzione la prossima volta. O magari da ora in poi ti ricorderai di non trattarmi come una pezza».
Lei roteò gli occhi e cominciò a elencare alcuni punti. Quando ne aggiunse uno che lui non aveva citato scoppiammo tutti a ridere di nuovo.
«La prendo come un’ammissione di colpa, ti abbuono il resto» disse James tra le risate. Si lasciò cadere di nuovo per terra, accanto a lei, e le passò un braccio attorno alle spalle.
«Come sei magnanimo, Wilson» disse, dandogli una gomitata scherzosa, senza però allontanarlo.
Fecero partire la bottiglia, che si fermò di nuovo su di me. Scelsi di nuovo «Verità», ma poi quei due si misero a litigare di nuovo, coinvolgendo anche Emily, e non notarono che la seconda estratta era ancora Juliet. Ero sicuro che altrimenti avrebbero osservato il tutto come se fosse una sit-com.
«Mi sa che questa bottiglia è davvero truccata» mormorò Juliet, assottigliando le labbra.
Pensai a una buona domanda da farle, e mi tornò in mente la conversazione con James.
«Julie…t» dissi, correggendomi appena in tempo. «Perché quando ho insistito per sapere cos’avevi, invece di mandarmi a quel paese mi hai risposto e permesso di romperti le scatole?».
Arrossì e si mise a guardare il fuoco, raccogliendo le ginocchia contro il petto. Sapevo che non avrebbe liquidato la mia domanda, e che non mi avrebbe mentito.
«Perché» disse, a voce così bassa che dovetti avvicinarmi, strisciando su un fianco. «Non era la prima volta che ti vedevo».
Sgranai gli occhi, e controllai che i suoi amici fossero ancora distratti. «Come?» chiesi, certo di aver capito male.
«E sapevo anche che avevi i capelli lunghi. Però non la storia del travestimento».
La guardai con tanto d’occhi, e nascose una risata sbuffando.
«Ti ho incrociato in un corridoio, a scuola… più di un anno fa» iniziò a raccontare. «Avevi i capelli lunghi e lisci, e un cappotto lungo. Kim ti ha notato e ha detto che somigliavi a Severus Piton. Io invece ho pensato che eri diverso dagli altri».
Deglutii a vuoto. «Più sfigato, vorrai dire». Mi guardò storto. «Più figo, semmai. Comunque, quando ti ho riconosciuto l’altro giorno, mi sono ricordata di quello che avevo pensato di te. Ho pensato che forse avresti capito».
Ammutolimmo entrambi, evitando di guardarci negli occhi. Kim aveva cominciato a starnutire a ripetizione, probabilmente per colpa del suo ultimo bagno, così decidemmo di raccogliere la nostra roba e andare a casa. Kim si affiancò a Juliet e cominciarono a parlare sottovoce, io mi concentrai per trovate tutta la roba sparsa, tentando di non pensare al fatto che io e lei avremmo dovuto passare tutto il viaggio di ritorno insieme.
Eppure quando mi si affiancò per chiedermi, a occhi bassi, se preferivo che tornasse con James e gli altri, mi ritrovai a rispondere di no.



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Angolo dell'autrice
Uhm, saaalve.
Non ho molto da dire.
Anche qui ho inserito due canzoni (come ho già fatto e continuerò a fare). Stavolta sono:
- Safe and Sound, di Taylor Swift, che è la colonna sonora di The Hunger Games, uno dei libri preferiti di Juliet;
- Euphoria, di Alex Band, è il titolo del capitolo. So già che non la conoscete, ma credo che
conosciate lui perchè è il frontman dei The Calling. Quelli che cantano "Wherever you will go".
Non vi dice nulla? Niente-niente? Beh, andatela a sentire.
Spero di non essere scesa nel melenso, perchè sul serio mi odierei.
Il punto è, se da una parte ho cercato di rendere graduali i sentimenti e i pensieri che nascono
nei miei amati protagonisti, dall'altra, come ben saprete, a quanto pare
Juliet non ha molto tempo e ho dovuto accelerare le cose. Spero solo che non ne sia uscito uno schifo.
Ringrazio moltissimo BlueSapphire e Gaea per le loro bellissime recensioni, spero che qualcun altro voglia lasciare il suo parere.
Sul serio, non m'importa se è negativo, io cerco costantemente di migliorare, e gradirei il vostro aiuto.
Mi pare che sia tutto quindi, uhm, ci vediamo alla prossima.
Soph.

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Capitolo 5
*** Leave Out All The Rest ***


Capitolo Quattro.
Leave Out All The Rest

Arrivammo alla macchina senza parlare, accompagnati dal chiacchiericcio degli altri che avevano parcheggiato poco più in là. Juliet entrò subito in macchina, mentre io sistemavo nel portabagagli il mio zaino e la chitarra. Sapevo che stavo solo cercando di guadagnare tempo prima di entrare in auto; quando gli altri ci passarono accanto salutandoci con un colpo di clacson, decisi che dovevo smetterla. Stavo rimandando l’inevitabile.
«Posso chiederti un favore?» disse quando mi sedetti sul sedile del guidatore.
«Certo».
Estrasse dalla sua sacca un pacchetto di fogli tenuti insieme da un pezzo di spago e me lo porse.
Erano lettere. Sette lettere sigillate, con un nome scritto in stampatello su ognuna.
«Sono per… beh, per dire tutto quello che non riuscirò a dire» spiegò, esitante, anche se l’avevo già capito.
Ce n’era una per Kim, per James, per Emily, per suo padre, per sua madre, per Rose.
«Chi è Rose?».
«Mia sorella».
Spalancai gli occhi quando vidi che sull’ultima c’era scritto “Nate”.
Feci per aprirla, ma mi fermò afferrandomi la mano. «Per favore, aprila… dopo. Consegnale a tutte quelle persone dopo che… che…». Non riuscì a dirlo. Dopo che sarò morta.
Mi venne voglia di gettare le lettere dal finestrino. Era una sensazione atroce, tenere tra le mani le ultime parole di una persona. Quelle che non sarebbe mai riuscita a dire. Fu ancor più terribile costatare che la busta più pesante, che conteneva più fogli, era quella per la sorella.
Strinsi la mia lettera fin quasi ad accartocciarla nel pugno. Le mollai tutte e sette sul cruscotto e mi girai verso di lei, fissandola negli occhi. Riuscivo a vederle solo metà del viso, quello illuminato da un lampione.
«Sentimi bene» dissi. «Tu non morirai, è chiaro?».
Distolse lo sguardo, sospirando, la bocca piegata in un sorrisino triste. «Ancora non mi credi, eh?».
La presi per le spalle, costringendola a girarsi di nuovo. «Certo che ti credo!» sbottai, facendola sussultare; ed era vero. Le lettere erano state l’ultima goccia. In effetti le credevo già da parecchio: da quando aveva provato a dire ai suoi migliori amici la verità, e dal dolore nei suoi occhi quando loro non le avevano creduto. «Ed è proprio per questo che non puoi… non devi morire!» continuai. «Non puoi lasciare me e queste persone da sole, con una lettera a tappare i buchi!».
Abbassò lo sguardo e le sollevai il mento con due dita, con più gentilezza. «Tu non morirai, okay? Ti giuro che farò qualunque cosa in mio potere perché tu non muoia».
«Grazie» sussurrò, passandosi una mano sulla guancia in ombra. Ero sicuro che stesse piangendo, ma non ebbi il tempo di accertarmene perché si allontanò dicendo: «Metti in moto. Ti faccio vedere un posto».
Seguii le sue istruzioni, allontanandoci di qualche chilometro dalla spiaggia dove avevamo passato la giornata, fino ad arrivare su una sorta di collinetta sul mare, coperta da un misto di terra, sabbia e sterpaglie.
«Siamo arrivati» mi disse, dopo qualche minuto che percorrevamo un sentiero sterrato.
Sgranai gli occhi. «Ma siamo in mezzo al nulla!».
«Fidati, so esattamente dove siamo».
Si slacciò la cintura di sicurezza e scese dall’auto, allontanandosi; la seguii, in fretta.
Guardai giù, e vidi la schiuma formata dalle onde che si infrangevano contro gli scogli. Quando vidi Juliet prendere un minuscolo sentiero che puntava verso il basso, sussultai.
«Non si può scendere!» le dissi, tentando di fermarla, ma lei si girò verso di me e sorrise, tranquilla.
«Fidati di me. Stai attento a dove metti i piedi».
Aggirammo la collina, scendendo per un ripido sentiero che era fatto solo di polvere e sassi. «Credo che una volta fosse un torrente o qualcosa del genere. Attento a quella radice» disse. Ci inciampai lo stesso, e mi tenni in piedi solo aggrappandomi a un albero rinsecchito e nodoso. Juliet nascose una risata con un colpo di tosse.
«Ma dove stiamo andando?».
«Ancora pochi passi… ecco!» gioì. Oltre l’ultima curva c’era una spiaggia larga forse una decina di metri, una mezzaluna perfetta. Le pareti di roccia tutt’intorno rendevano impossibile vederla dalla strada.
«È fantastico!» esclamai, stupito. «Come l’hai trovata?».
«Ci sono caduta dentro» arrossì. «Quando avevo otto anni. Mia sorella era a casa con la febbre, era estate, e mio padre voleva portarmi al mare. Ci siamo fermati un attimo sulla collina e… sono inciampata». Si grattò la testa, sorridendo al ricordo.
«Fantastico» ripetei, non sapendo che altro dire. «Perché mi hai portato qui?» chiesi dopo un po’.
«Beh questo posto lo conosciamo solo io e mio padre. Mi dispiacerebbe se non ci venisse più nessuno dopo…» ammutolì. «E poi volevo fare una cosa».
Si guardò in giro, sembrò trovare ciò che cercava e si avvicinò a una roccia che sembrava essersi staccata da una parete e poi levigata dal mare. Vi s’inginocchiò accanto, e si mise a frugare nella sua borsa. In quel momento le squillò il cellulare ma lo ignorò bellamente, lasciando che la canzone spezzasse il silenzio.
«È la tua canzone preferita?» chiesi, curioso.
«Cosa?» chiese, distratta. «Wherever you will go? Beh, sì, è una di quelle che mi piacciono di più».
«Aspettami qui» le dissi. «Ci metto solo un secondo».
Non le diedi tempo di fare domande, che schizzai verso la macchina, rischiando di scivolare ad ogni passo su quel miscuglio di polvere e pietruzze.
Scendere con la chitarra sulle spalle fu ancora più difficile.
«Che hai fatt… oh!» esclamò quando la vide.
«Una delle gioie della vita è avere un concerto privato» dissi, imbarazzato. «Anzi, veder suonare la tua canzone preferita dal vivo. Visto che non credo di riuscire a contattare Alex Band, dovrai accontentarti di me».
Mi lasciai cadere sulla sabbia, appoggiandomi con la schiena alla roccia su cui stava armeggiando. «Che fai?» chiesi, curioso.
«Oh» mormorò. «Beh, se qualcun altro troverà questa spiaggia, voglio che sappia che non è il primo». Si scostò, mostrandomi ciò che aveva fatto: inciso nella pietra c’era il suo nome, Juliet, un po’ incerto ma ben definito.
La fissai. «Stai mentendo» dissi.
Sbuffò, contrariata. «E va bene!» sbottò, appoggiandosi anche lei. «Te lo dico, ma adesso mi prenderai per una narcisista del cazzo». Sospirò profondamente. «Mi chiedo cosa lascerò dopo la morte. Se qualcuno si ricorderà di me». Feci per protestare, ma lei m’interruppe. «Non dico voi… insomma, so che vi ricorderete di me. Però anche nel vostro caso, mi piacerebbe sapere di avervi lasciato qualcosa di importante. Insomma, non voglio essere dimenticata. E voglio che se qualcuno verrà qui si chieda chi diavolo era Juliet».
Le strinsi velocemente la mano, non sapendo cosa dire. Poi cominciai quell’arpeggio con la chitarra che in passato mi aveva dato tanti problemi. Pregai di non sbagliare, quella volta.

«So lately, been wondering
Who will be there to take my place
When I'm gone you'll need love
To light the shadows on your face
If a greater wave shall fall
And fall upon us all
Then between the sand and stone
Could you make it on your own?
If I could, then I would
I'll go wherever you will go
Way up high or down low
I'll go wherever you will go
And maybe, I'll find out
A way to make it back someday
To watch you, to guide you
Through the darkest of your days
If a great wave shall fall
And fall upon us all
Well then I hope there's someone out there
Who can bring me back to you
If I could, then I would
I'll go wherever you will go
Way up high or down low
I'll go wherever you will go
Run away with my heart
Run away with my hope
Run away with my love
I know now, just quite how
My life and love might still go on
In your heart, in your mind
I'll stay with you for all of time
If I could, then I would
I'll go wherever you will go
Way up high or down low
I'll go wherever you will go
If I could turn back time
I'll go wherever you will go
If I could make you mine
I'll go wherever you will go
I'll go wherever you will go…».


Non osai guardarla in faccia per tutta la durata della canzone. Invece notai, per la prima volta, che forse il testo parlava di qualcuno che stava per morire e desiderava restare. Che ironia.
«Ti ha… mai detto nessuno che canti benissimo?» disse dopo un po’.
«Beh, non esageriamo» mi schernii, posando la chitarra e passandomi una mano tra i capelli. «Alex Band continua ad essere…oh». Mi abbracciò di slancio, passandomi le braccia attorno al collo e seppellendo il viso nella mia spalla.
«Grazie, Nate» mormorò. «Sei anche meglio di Alex Band».
Ridacchiai e, un po’ incerto, restituii l’abbraccio. «Se Alex ti conoscesse, direi che farebbe le stesse cose che faccio io». Si mise a ridere anche lei.
Le passai una mano tra i capelli, scompigliandoli; quando finalmente mi accorsi che la stavo tenendo tra le braccia, dannazione!, la lasciai andare e mi sistemai a poca distanza da lei, a gambe incrociate.
«Hai trovato qualche altro desiderio da realizzare?» chiesi, tentando di iniziare un discorso.
Si stiracchiò, guardando il cielo buio. «In effetti ne ho qualcuno».
«Spara».
«Vediamo… voglio dire alle persone, specialmente quelle che mi stanno sulle palle, cosa penso di loro».
«Cominciamo da ora. Dimmi cosa c’è scritto nella mia lettera» le chiesi.
Fece una smorfia. «Tanto sono tutte cose che sai già. Le ho scritte perché così non te le dimenticherai».
«Oh, ascoltami» dissi, serio. «Non potrei mai dimenticarmi di te, capito?».
«Beh, in effetti io sono quella che ti ha convinto che la morte è una gran burlona… e che ti ha fatto fare il bagno a novembre».
«Non per questo. Per lo stesso motivo che tu hai notato me, a quanto dici. Sei diversa». Probabilmente in quelle bottiglie che aveva portato James doveva esserci qualcosa di peggio che semplice birra, perché tutta quella schiettezza non era proprio da me.

«Ma tu non mi hai notata».
«C’è da dire che era impossibile non notare me. Insomma, ero un incrocio tra un emo e un hippie!».
«Anche questo è vero» rise. «Ti sei rovinato da solo».
«Che ci vuoi fare, sono dotato di grande autoironia». Le diedi una gomitata leggera. «E dai, che c’è in quella lettera?».
Sbuffò. «Che mi ha fatto piacere conoscerti, che probabilmente nessun’altro avrebbe fatto quel che tu hai fatto per me, che hai realizzato almeno un terzo dei miei desideri… cose così» minimizzò.
La guardai male. «E va bene, mi accontenterò di sapere questo. Davvero ho realizzato un terzo dei tuoi desideri?» riflettei poi.
«Sono andata a un concerto: merito tuo. Ho avuto un concerto privato con la mia canzone preferita: merito tuo. Ho avuto un falò attorno al fuoco con una chitarra: merito tuo. Ho fatto il bagno a novembre: non è merito tuo, ma c’eri. Sei mancato solo alla notte in bianco mia e di Kim, scommetto che ti sarebbe piaciuta».
«Una serata passata a spettegolare e a prendersi a cuscinate? No, grazie».
«Ma che spettegolare e spettegolare. Siamo state fino alle tre a giocare a Dead Space, cosa che ci ha procurato un mezzo collasso nervoso, poi abbiamo visto tutti e tre i film di Ritorno al Futuro di fila, fino alle dieci. Abbiamo fatto colazione con torta fragole e panna e me ne sono tornata a casa».
«…Diavolo, la prossima volta vengo anch’io».
«Te l’avevo detto» sorrise, compiaciuta.
«Allora, altri desideri?».
«Ehm… vorrei provare a guidare».
«Sai farlo?» chiesi.
«All’incirca. È da quando ho dieci anni che mio padre mi fa lezioni di guida, sia teorica che pratica».
«Allora, andiamo».
Le diedi una mano ad alzarsi, raccattai la chitarra e c’inerpicammo fino all’auto. Lasciai la chitarra nel portabagagli e mi accomodai sul sedile del passeggero.
«Sei sicuro?» mi chiese mentre metteva in moto. «Potrei distruggerti la macchina».
«Non sarebbe una gran perdita. È una vecchia Volkswagen del ’99 di seconda o terza mano, comprata per una miseria perché a parte me la voleva solo lo sfasciacarrozze, il cui colore è quasi del tutto sostituito dalla ruggine».
«Wah, sei proprio gentile con la tua auto» constatò.
«Quando diventerò ricco grazie alle mie sceneggiature, la prima cosa che farò sarà comprarmi una Ferrari» sospirai, sognante.
«Ma intanto hai solo quest’auto, e se te la faccio cadere giù da una scogliera non sarà proprio una bella cosa».
«Poco male, torneremo in autostop. E magari costringerò mia madre e mio padre a regalarmene una migliore. Non nuova, ma magari non così usata».
«Secondo me esageri. Io non vedo nemmeno ruggine».
«Beh, io sì. Dai, parti» la incoraggiai.
Fece un respiro profondo, ma qualcosa andò storto perché l’auto andò su di giri.
«Fai con calma» la rassicurai. «Fidati di me, se uccidi definitivamente questo vecchio catorcio mi fai un favore». Le strappai una risata nervosa.
Riprovò; stavolta l’auto sobbalzò un paio di volte e si spense. Fece la stessa cosa un altro paio di volte, finché non tirò un pugno sul volante. «Dannazione!» sbottò.
«Ehi, ehi, ehi». Girai le chiavi per riaccendere il motore. «Provaci un’ultima volta. Rilassati, ok? Non ti corre dietro nessuno».
Riuscì a far partire la macchina, poi però si spense di nuovo.
«Riprova» le dissi.
«L’ultimo tentativo era questo».
«Ma ce l’avevi fatta. Poi ti sei spaventata, ma ce l’avevi fatta» insistetti.
Alzò gli occhi al cielo. «E va bene…».
Fissò il volante, poi accelerò lentamente. La macchina cominciò a muoversi in avanti. «Ce l’hai fatta!» esultai. «Ora, don’t worry. Gira a sinistra, verso la strada». Obbedì, rimettendo la macchina sullo sterrato. Proseguì finché non tornammo all’incrocio con la strada principale.
«Mi sa che ora devo tornare a guidare io» dissi e lei annuì, tesa come una corda di violino. Tirò il freno a mano e scese dall’auto.
«Brava» le dissi, battendole un cinque, quando ci scambiammo di posto.
Passammo gran parte del viaggio di ritorno in compagnia della radio, sulla stessa stazione di jazz della mattina, e dovetti ammettere che aveva ragione: non era così male. Ogni tanto riflettevamo su qualche altro desiderio da realizzare, ma Juliet stava praticamente dormendo in piedi.
«Nate, ma tu cosa vorresti fare prima di morire?» mi chiese a un certo punto, sbadigliando.
«Non lo so» ammisi. «Passerei il tempo che mi rimane con i miei amici, la mia famiglia… anche con la mia ragazza, se ne avessi una. Mi piacerebbe suonare a un grande concerto, e diventare sul serio sceneggiatore… in realtà non ho grandi desideri».
«Ho detto la stessa cosa alla morte. Lei ha ribattuto che noi umani consideriamo “grandi” solo i desideri complicati». Rimase in silenzio per un po’. «Comunque sia, ti invidio».
Mi lasciai sfuggire una risata. «E perché?».
«Perché comunque hai già cominciato a realizzare i tuoi sogni. Suoni in un locale. Fai quello che ti piace fare quando ti viene voglia».
«Però sono una specie di depresso che passa le serate a casa a pensare a un film da girare, a una canzone da scrivere o a… niente. Insomma, non è che mi diverta tanto nella vita. Comunque volevo dirtelo già da prima: secondo me tu hai vissuto».
«Stai scherzando? Nemmeno quel gran figo della Morte mi ha voluta».
«Su, non essere melodrammatica… aspetta, “gran figo”? Come sarebbe “gran figo”?!». Lei scoppiò a ridere, sprofondando nel sedile. «Seriamente, come puoi definire la Morte “un gran figo”?» domandai, crucciato.
«Un ragazzo coi ricci rosso scuro, gli occhi azzurro ghiaccio, per di più vestito come il Cappellaio Matto? Stai scherzando?».
«Anch’io ho gli occhi azzurri» ribattei, piccato. Lei rise ancora più forte.
«Geloso, Nate? Tranquillo, non sono una necrofila. No, aspetta… forse non è necrofilia…» ci rifletté su un secondo. «Qualunque cosa sia, non potrei mai innamorarmi della Morte. Insomma, non è umano. E poi mi farebbe schifo».
«Mi sa che ora sì che siamo fottuti. Entrambi» risi. «La morte si vendicherà».
«Sai cosa? ‘Sti cazzi. In fondo mi ha fatto un favore. Se non fossi tornata indietro mi sarei persa un sacco di cose. E comunque tu hai gli occhi blu, non azzurri».
«Ma dai, sono quasi grigi, certo che sono azzurri…».
«Ti dico che sono blu!».
«Sono azzurro scuro. E i tuoi sono dorati».
Sgranò gli occhi. «Questa è una bugia bella e buona».
«Invece è vero. Alla luce sono proprio dorati» replicai, ma lei non mi sentì nemmeno.
«Guarda guarda» mormorò invece, fissando fuori dal finestrino. Ormai eravamo tornati in città, ed eravamo fermi ad un semaforo nel bel mezzo di una strada piena di ragazzi e ragazze della nostra età. «Ricordi quello che ti avevo detto sul dire le cose come stanno a chi mi sta sulle palle?».
«Sì, ma che c’entra?».
«Aspettami qui, torno subito».
Prima che potessi fare qualcosa più che un’espressione confusa, lei scese dall’auto e attraversò la strada, dirigendosi verso un gruppo di persone. In quel momento scattò il verde, e lasciai la macchina pochi metri più avanti, in divieto di sosta, tornando indietro di corsa.
Riuscii a ritrovare Juliet, che stava parlando con un ragazzo biondo poco più alto di me.
«…quindi sei un bello stronzo, non ti pare?» stava dicendo lei, le mani sui fianchi. Lui la guardava con scherno.
«E perché mai? Mi sono solo divertito un po’».
«Ti sei divertito un po’ nel modo sbagliato e con la persona sbagliata. Non sei altro che un puttaniere».
«Oh, ma che cazzo vuoi? Manco avessi fatto qualcosa a te». Fece un sorrisetto sarcastico, a beneficio dei suoi amici che assistevano alla scena.
«Hai fatto qualcosa alla mia migliore amica. Questo è anche peggio» sputò, rabbiosa, ma lui si limitò a ridere.
«Vediamo se indovino: sei gelosa che abbia riservato attenzioni a lei e non a te?».
«Mi hai preso per una di quelle troie che ti porti a letto?» disse, palesemente schifata.
«Invece secondo me è andata proprio così…» disse, soddisfatto. Ebbi la tentazione di andare lì e picchiarlo. Che potesse solo insinuare qualcosa tra lui e Juliet mi mandava il sangue alla testa. Non lo conoscevo, ma già mi stava antipatico. Per non dire sulle palle.
Juliet mi batté sul tempo. Non gli diede uno schiaffo, come qualunque altra ragazza avrebbe fatto. Gli diede un pugno, talmente forte che vidi il sangue uscirgli dal naso.
Si girò, avviandosi nella mia direzione massaggiandosi la mano destra. Quando mi vide arrossì, ma non si fermò. Mi prese per un braccio e mi trascinò via, per non rimanere lì troppo a lungo.
«Scusami» disse. «Ma è una soddisfazione che volevo togliermi da tempo. Ha preso in giro i sentimenti di Kim. È un bastardo».
La fissai. Era stanca, senza trucco e coi capelli appiccicati e spettinati dal sale. Si era precipitata in un covo di serpi per prendere a pugni un coglione qualunque, al diavolo la femminilità, perché aveva fatto del male alla sua migliore amica. Pensai che fosse bellissima.
«Non devi chiedere scusa a nessuno» sussurrai. «Hai fatto bene».
Mi sorrise, e non potei fare a meno di attirarla a me e baciarla, al diavolo le conseguenze.
In teoria, quello non era il momento giusto. Qualunque altro lo sarebbe stato. Quando le avevo chiesto di sorridermi; quando mi aveva abbracciato, bagnandomi; quando mi aveva confessato di avermi già notato prima; quando le avevo giurato che non sarebbe morta; dopo che avevo cantato Wherever you will go. Persino quando mi ero dimostrato geloso della Morte. L’intera giornata sembrava aver cospirato per farci raggiungere quel momento. E io, come al solito, avevo scelto quello sbagliato. Ma non m’importava.
«Scusami» dissi, staccandomi, dopo qualche secondo. «Io…».
«Certo che sei lento, eh, Lewis?» mi rimproverò lei, alzandosi sulle punte per baciarmi di nuovo.
Le passai le braccia attorno alla vita. «Adesso sì che la Morte vorrà farmi fuori. Si odierà per ciò che si è fatta scappare».
 
La riaccompagnai a casa, perdendo un sacco di tempo con ogni scusa possibile. Quando finalmente parcheggiammo sotto casa sua la guardai, non potendo fare a meno di sorridere. «Hai da fare domani mattina?» le chiesi, felice quando lei scosse la testa. «Perché?».
«Vedrai» dissi, enigmatico.
Mi sorrise di rimando, poi si adombrò, notando l’ora sul cruscotto dell’auto. «Merda, devo andare».
Annuii, avvicinando il suo viso al mio mettendole una mano sul collo. «Domani mattina alle nove, ok?».
«Va bene».
La baciai di nuovo, sorridendo contro le sue labbra.
«Perché stai ridendo?» chiese lei, aggrottando la fronte.
«Perché in genere non sono così intraprendente. Non ho una ragazza da secoli».
«Meglio per me» disse, arrossendo lievemente. Mi diede un altro bacio leggerissimo, poi aprì lo sportello e scese dall’auto. La osservai mentre armeggiava con le chiavi, finché non entrò nel palazzo. Ci salutammo con un cenno della mano. Quando il portone si richiuse alle sue spalle mi lasciai andare all’indietro contro il sedile, estrassi il cellulare dalla tasca e feci il numero di Steve.
«Pronto?».
«Steve».
«Nate? Hai idea di che ore sono?».
«Le dieci e mezza. Quando mai questo per te è “tardi”?».
«Giusto. Com’è andata oggi, amico?».
«Bene» dissi, non potendo evitare di sorridere.
«Nate?».
«Niente. Posso chiederti un favore?».
«Spara».
«Domani abbiamo le prove, giusto?».
«Perché stasera parli per enigmi?» si lamentò. «Sì, abbiamo le prove, e allora?».
«Cambiamo canzone» lo pregai.
«Come, cambiamo canzone?».
«Cambiamo. Facciamo quella dei Muse».
Sbuffò, scocciato. «Mah, visto che in genere di favori non ne chiedi mai, e che sospetto che c’entri la signorina Collins…».
«Non è vero!» mentii, e lui m’ignorò. «…Allora sarò magnanimo e chiamerò Tara e Kevin per avvertirli. Non serve che ti spertichi in ringraziamenti, faccio solo il mio dovere».
«Grazie, Steve» sospirai, chiudendo la telefonata.
Guardai le lettere, ancora sparse sul cruscotto, e le raccolsi di nuovo in una pila ordinata. Fissai quella col mio nome scritto sopra, chiedendomi cosa ci fosse scritto dentro, ma decisi che non m’importava. Io volevo Juliet, non una lettera. La morte non me l’avrebbe portata via.



--
Angolo dell'autrice
Salve, incauto lettore che sei arrivato fino a qui.
Spero davvero di non essere caduta nella melensaggine. Il punto è, questa è una dannata storia d'amore,
e prima o poi il signor Lewis doveva svegliarsi (magari prima che
quel gran figo della Morte si ricordi di avere un affaruccio in sospeso, ecco).
Le canzoni in questo capitolo sono:
- Leave out all the rest, dei Linkin Park. Magari come titolo non c'entra molto,
però la canzone mi piace parecchio e volevo metterla.
- Wherever you will go, dei The Calling. Nel capitolo precedente l'avevo citata, ricordate?
L'avete ascoltata? Beh, non dite che non vi avevo avvertito.
Alex Band (avevo già detto anche questo ma lo ripeterò) è il frontman dei The Calling, che ora canta da solista.
Il suo genere non mi entusiasma ma la sua voce è fantastica, quindi se voleste sentire la versione acustica di Wherever you will go, la trovate QUI.
Non mi sembra di avere altro da dire. Come sempre ringrazio chi segue questa storia, e soprattutto
chi l'ha recensita (anche più di una volta, cosa che mi sconvolge).
Sarei molto felice se mi lasciaste il vostro parere, perché in questa storia ho messo molto
(anche se forse non vi sembra), e vorrei sapere cosa ne è uscito fuori.
Come sempre, alla prossima,
Soph.

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Capitolo 6
*** Undisclosed Desires ***


Capitolo Cinque.
Undisclosed Desires

Quando la mattina dopo parcheggiai sotto casa sua, alle nove meno cinque – stranamente in anticipo – mi chiesi come avrei dovuto salutarla. Abbracciandola? Baciandola? Sarebbe stata la cosa più normale, solo che avevo passato la notte tentando di convincermi che quello non era stato un sogno, con scarsi risultati. In più mi sembrava poco naturale.
Dandole una pacca sulla spalla? Ma per favore.
Quando alle nove e cinque il cancello si aprì e ne uscì lei, con una semplice maglietta dell’Hard Rock Café e un paio di jeans scoloriti, non ci fu alcun dubbio che baciarla fosse la mossa migliore, per non dire che era quello che volevo. Lei sembrava indecisa quanto me, perché per prima cosa venne ad abbracciarmi.
«Buongiorno» le dissi, avvicinando le labbra alle sue.
«Ehi» mi salutò. «Allora, che si fa?».
«Per prima cosa, si va a fare colazione, ti va?». Lei annuì con vigore, sorridendo.
Ci avviammo a piedi, il mio braccio attorno alle sue spalle, fino a un bar con i tavolini all’esterno. Ci sedemmo e ordinammo due brioches e due caffè.
«Da quanto tempo non ti fai una dormita decente?» le chiesi, notando la sua aria stanca.
«Da un po’, in effetti. Vediamo… da quando ti ho conosciuto» calcolò, poi si accorse del doppio senso che mi aveva fatto spuntare un sorrisetto. «Oh, non tutto il tempo per te! Solo stanotte». Il mio sorriso si allargò, e lei si sbatté una mano sulla fronte. «Dannazione, la mancanza di sonno mi sta atrofizzando il cervello».
«Se può consolarti stanotte non ho dormito nemmeno io» ammisi. «Dicevamo?».
«Oh, sì… a parte stanotte e la serata passata con Kim, non ho dormito nemmeno la notte dopo l’incidente, perché avevo paura che la Morte ci ripensasse troppo presto».
«Dovrà passare sul mio cadavere, per venirti a prendere» la rassicurai, e lei fece una smorfia per la mia pessima battuta.
«In sostanza sono… settantadue ore che non dormi?» dissi, sconcertato.
«Beh, non esageriamo, un pisolino qua e là l’ho fatto. Comunque sono piuttosto resistente» assicurò, prendendo un altro sorso di caffè.
«Non ne dubito. Soprattutto contando che ieri hai preso a pugni quel poveraccio…».
Lei arrossì e distolse lo sguardo. «A frequentare Kim alla fine si diventa violenti».
«Diavolo, devo ricordarmi di non mettermi mai contro di te» borbottai.
«Sei sulla buona strada, però» sorrise.
«Come non detto» dissi in fretta.
«Ti perdono se mi dici cosa facciamo dopo».
«Eh no, è una sorpresa».
«E dai, Nate».
«Tanto lo vedrai tra poco» sbuffai, sorridendo. «Anzi, quando finisci andiamo».
Tornammo indietro a prendere la macchina, e per distrarla dalla strada che stavamo facendo le diedi il mio iPod.
«Credi che mi distragga così, come i bambini?» protestò, anche se si divertì molto a vedere tutte le canzoni che avevo, soprattutto quelle che ascoltavo quando avevo quattordici anni e non avevo mai eliminato. Alla fine mise una vecchissima canzone dei Black Eyed Peas e si limitò a cantare a voce bassissima, tenendo gli occhi chiusi. «Nate, se mi addormento svegliami subito, ok?».
«D’accordo» dissi, ma in realtà la feci ronfare beatamente per mezz’ora, finché non arrivammo.
«Juliet…» sussurrai a pochi centimetri dal suo orecchio, dandole un bacio sulla guancia.
Mormorò qualcosa, poi aprì un occhio. «Siamo arrivati?».
«Eh già».
«Ti avevo detto di svegliarmi» sbuffò, tirandosi a sedere e stiracchiandosi.
«A che pro? Dai, vieni».
Scesi dalla macchina e andai ad aprirle lo sportello, mentre lei si guardava intorno. «Ma questo è… il locale dove vi esibite» capì.
«Esattamente».
«E che ci facciamo qui?».
«Secondo te?».
Mi guardò aggrottando la fronte, e poi spalancò gli occhi. «Un altro concerto privato?» azzardò, e quando annuii fece un gran sorriso, passandomi le braccia attorno al collo e baciandomi con trasporto. La abbracciai con forza tale che quasi la sollevai dal pavimento, cosa che fece ridere entrambi, senza però staccarci.
«Che ti avevo detto, Kevin?».
«Dannazione!».
Sia io che Juliet sussultammo e lei si staccò bruscamente, rimanendo tuttavia ancorata a me dal mio abbraccio.
«Steve, quando smetterai di rompere le scatole nei momenti meno opportuni?» mi lamentai, guardandolo torvo.
«Mai, amico» mi rassicurò, tornando poi a parlare con Kevin. «Mi devi dieci bigliettoni, mio caro».
«Ma voi due non potevate mettervi insieme tra qualche giorno?» si lamentò lui, frugandosi nelle tasche dei jeans per trovare il portafogli.
«Fatemi capire… voi avete scommesso su quando saremmo finiti insieme?» sbottai, imbarazzato.
«Tra parentesi, noi stiamo insieme?» mi sussurrò Juliet, ancor più rossa di me.
«Se… se non ti scoccia…». Deglutii a vuoto. «…Mi farebbe molto felice».
Mi sorrise. «Anche a me».
Sia Steve che Kevin si misero a fischiare, ed entrambi ricevettero due sonori schiaffi sulla nuca da Tara. «Volete piantarla di rompere le scatole a questi due poveracci?» sbottò.
«Finalmente qualcuno che non scommette sulla mia vita privata» gioii.
«In realtà ho scommesso anch’io. Credevo che vi sareste messi insieme ieri sera» sospirò, triste.
«Se può consolarti, tecnicamente è stato ieri sera» puntualizzò Juliet, facendomi spalancare gli occhi.
«Ma Julie..!» protestai, senza che nessuno mi prestasse attenzione.
«Allora ho vinto io!» esclamò la rossa.
«Non scherziamo» disse Steve, seccato. «Stanno insieme ufficialmente da oggi».
«Ma praticamente da ieri».
«Ieri non stavano insieme, erano solo… amici con benefici!».
«Stephen!» urlai, spingendolo all’interno del locale. «Ho invitato la mia ragazza…». Il mio cuore accelerò a quella parola. «…ad assistere alle nostre prove. Ora, se non vuoi che ti strappi i capelli uno a uno o che ti vesta di nuovo da donna e ti costringa a servire qui come cameriera, sali su quel palco e datti da fare con quella batteria».
Lui, Tara e Steve salirono sul palco, ancora battibeccando sottovoce; feci accomodare Juliet ad un tavolino e tornai in un lampo in macchina a prendere la mia chitarra elettrica.
Quando rientrai rivolsi un sorriso a Juliet, poi mi girai verso i ragazzi. «Per favore, evitiamo di fare i cretini come al solito, ok? Prendetela come una prova generale» pregai.
«Certo, Nate» mi rassicurò Tara.
«Ho già detto che approvo la vostra unione, amico. E ho anche vinto la scommessa» gongolò Steve, beccandosi un’occhiataccia da Tara.
«Tranquillo, Nate. Anche se aspettare tre giorni non vi avrebbe fatto male…».
«Dopo facciamo i conti» li rassicurai.
Tom, che era comparso da chissà dove, fece partire la base registrata, accomodandosi sul bancone del bar.
Respirai profondamente, puntando gli occhi su di lei.

«I know you suffered
But I don't want you to hide
It's cold and loveless
I won't let you be denied
Soothe me
I'll make you feel pure
Trust me
You can be sure
I want to reconcile the violence in your heart
I want to recognize your beauty is not just a mask
I want to exorcise the demons from your past
I want to satisfy the undisclosed desires in your heart
You trick your lovers that you're wicked and divine
You may be a sinner
But your innocence is mine
Please me
Show me how it's done
Tease me
You are the one
I want to reconcile the violence in your heart
I want to recognize your beauty is not just a mask
I want to exorcise the demons from your past
I want to satisfy the undisclosed desires in your heart
Please me
Show me how it's done
Trust me
You are the one
I want to reconcile the violence in your heart
I want to recognize your beauty is not just a mask
I want to exorcise the demons from your past
I want to satisfy the undisclosed desires in your heart…».


La musica sfumò pian piano, cedendo il posto al silenzio. Sia Juliet che Tom applaudirono con vigore, e io e i ragazzi ci demmo il cinque.
«Grazie» sussurrai loro, sinceramente grato.
«Corri da lei, Nate, ti abbuoniamo il resto della giornata» disse Tara dandomi una pacca sulla spalla.
«Grazie, Rossa» ammiccai, infilando in fretta la chitarra nel fodero.
«Se mi chiami di nuovo Rossa potrei cambiare idea!» minacciò ma l’ignorai, saltando giù dal palco.
Juliet venne ad abbracciarmi, e stavolta ai fischi di Steve e Kevin si unì anche Tom.
«Da te non me l’aspettavo» dissi, scioccato,
«Che ci vuoi fare, a furia di frequentare quei due…» disse, a mo’ di scusa.
Uscimmo dal locale in silenzio, sempre abbracciati. Quando vidi che non spiccicava parola neppure in macchina, anzi, che si limitava a fissare per terra, cominciai a preoccuparmi.
«Jules?» dissi, utilizzando il nomignolo che le aveva dato James. «Va tutto bene?».
«Sì» disse, tirando su col naso. «Dannazione».
«Juliet, che succede?».
Mi ignorò, stropicciandosi gli occhi, e le porsi un fazzoletto di carta.
«Ehi, Julie, parlami».
«Va tutto bene» tentò di rassicurarmi. «È solo che…».
«Che?» l’incoraggiai.
«Che nessuno ha mai fatto così tanto per me. E che non voglio andarmene, dannazione. Non voglio morire!».
«Oh, no, Julie» le sussurrai, azzerando la distanza che ci divideva e abbracciandola. «Non morirai, te l’ho detto».
Fece una risata beffarda. «Nate, la morte non è una cosa che si può evitare semplicemente non volendo morire, o la Terra sarebbe decisamente sovrappopolata» tentò di fare dell’ironia, con scarsi risultati. «Insomma, se… se dovessi morire sul serio». Notai che disse “se”, non “quando”, ma sospettavo fosse più per tranquillizzarmi che per reale convinzione. «Non fartene una colpa, ok? Insomma, non si può promettere di non morire».
Non potei far altro che abbracciarla forte, in silenzio, cosa che parve farla sciogliere in singhiozzi.
«Avrei voluto fare un… un sacco di cose» disse, asciugandosi le lacrime e tirando su col naso. «Ma non mi frega nemmeno di quelle. Non voglio perdere voi».
«Nemmeno noi vogliamo perdere te, Juliet. Ti vogliamo bene».
«Così non mi aiuti, Nate».
Fu strano che persino in quel momento riuscisse a strapparmi una risata. «Beh, vediamo… se non mi sbaglio, qualcuno ha detto che non bisogna preoccuparsi della morte, perché finché ci sei tu non c’è lei, e se c’è lei non ci sei tu».
«L’ho sentita anch’io» disse, risollevandosi. Poi abbassò lo sguardo sul mio petto. «Diavolo, ti ho distrutto la maglia».
Sulla mia maglietta grigia ora c’era una macchia nera, probabilmente di mascara. «Sai quanto m’importa, Jules?». Le presi il viso tra le mani. «Ti giuro che non ti lascio fin proprio alla fine. Questo posso promettertelo».
Annuì. «E mi sa anche molto di Harry Potter».
Scoppiai a ridere e le diedi un bacio veloce, di riflesso. Stava diventando facile.
«Allora, troviamo qualche altra cosa da fare, ti va?».
«Voglio andare a una festa» disse in automatico. «Una di quelle feste come si vede nei film, dove la ragazza sfigata di turno fa l’entrata spettacolare che fa ricredere tutti quelli che avevano pensato che fosse sfigata. Tipo Cenerentola, sai».
«E che festa sia» dissi. «Ce n’è una stasera. Mi sa che è una discoteca e non il castello di un principe, ma almeno si chiama Palace. Può andare?». Lei annuì, divertita. Fui felice di vedere il suo sorriso spuntare di nuovo.
«Bene. Allora ti passo a prendere stasera alle dieci e mezza. E per la cronaca…» iniziai, chiedendomi per l’ennesima volta cosa mi avesse fatto quella ragazza per farmi diventare così melenso. «Per me non hai bisogno di una festa per essere spettacolare».


--

Angolo dell'autrice
Bentornati, miei amati lettori.
Penso che io debba scusarmi perchè questa storia negli ultimi due capitoli è scivolata in una melensaggine tale
che me ne vergogno, ma volevo farvi sapere giusto come va a finire perché per quanto
una storia possa essere pessima non sopporto di lasciarla a metà.
Trovo questo breve capitolo particolarmente inutile, ma volevo inserirlo sia come tributo personale ad
Undisclosed Desires, dei Muse, che è la canzone che mi ha introdotto alla "vera" musica, sia perché
credo che un collasso nervoso di Juliet ci volesse. Insomma, se io sapessi di dover morire darei di matto un giorno sì e l'altro pure.
Tra parentesi, ho scelto "Undisclosed Desires" come titolo anche se non c'entra molto
perché quel che ha fatto Juliet in tutto questo tempo - con l'aiuto di Nate e dei suoi amici - non è stato altro che realizzare i suoi "desideri nascosti".
La frase che Nate dice, "
Ti giuro che non ti lascio fin proprio alla fine" è un riferimento ad Harry Potter
(come Juliet non esita a fargli notare), precisamente a questa frase.

Volevo ringraziarvi per le vostre recensioni e per la vostra fedeltà a questa storia, visto che tornate
sempre qui per dire la vostra. Apprezzo molto i vostri complimenti e consigli, sappiatelo.
Ora, un attimo di attenzione.
La prossima volta posterò due capitoli insieme, perché li avevo plottati in modo che fossero
strettamente connessi l'uno all'altro; poi il secondo è spaventosamente breve, quindi farvi
aspettare per leggere due righe sarebbe una crudeltà.
Spero che continuiate a seguire e commentare questa storia, alla prossima,
Soph.

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Capitolo 7
*** Tonight ***


Capitolo Sei.
Tonight

Per la terza volta in due giorni, mi ritrovai ad aspettare Juliet sotto casa sua, stavolta agitato come non mai. Non si poteva dire che fosse il nostro primo appuntamento. A ben pensarci, ci eravamo ritrovati da soli almeno tre volte, esclusi i viaggi in macchina. Forse il nostro primo appuntamento ufficiale era stato quello della mattina… ma allora perché ero così dannatamente agitato?
Avevo anche comprato un fiore, come si fa nei film. Una rosa di un pallidissimo arancione, con delle sfumature bianche qua e là, dal gambo lungo e pieno di spine. Ingannai il tempo spezzandole e buttandole via.
Ebbi la tentazione di buttare anche il fiore – Dio, se mi sentivo stupido – ma il portone si aprì e ne uscì… Kim.
«Ciao» esclamai, confuso.
«Ehi». Mi squadrò con aria critica, e fui felice di essermi messo una camicia grigia invece di una maglietta a caso. «Sì, puoi andare» decise infine, facendomi tirare un sospiro di sollievo. «Ora sentimi bene: Juliet sta scendendo. Sembra essere felice come una Pasqua, con te, ma io ti giuro che se le farai versare una sola lacrima…». «Kim!» la interruppi. «Kim, non potrei mai, mai fare del male a Juliet in qualunque modo possibile e immaginabile. Mai, capito?». Non mi sentii di fornirle altre spiegazioni, ma non sembrò volerle.
«Bene. Divertitevi» disse, sorridendo, poi si allontanò a piedi.
«E io che credevo di avere amici strani» commentai, ma sorridendo. Era fantasticamente strana.
«Ehi, Nate».
Mi girai di scatto. «Cosa?».
Davanti a me c’era Julie. E se avevo pensato che fosse bellissima quando era stravolta e appena tornata dal mare, cosa potevo mai pensare di lei in quella versione?
Indossava un vestito aderente, senza spalline, che le arrivava parecchio sopra il ginocchio. Era grigio chiaro sopra, e man mano che scendeva sfumava prima nel blu scuro e poi nel nero nell’ultimo pezzo. Aveva i capelli scompigliati, raccolti in ciocche arricciate ad arte, in modo da sembrare casuali. Le unghie erano laccate di nero, gli occhi truccati dello stesso colore in modo da sembrare più grandi e allungati, una frangetta nuova di zecca, altrettanto scompigliata, a coprirle un pezzo della fronte. Non potei fare a meno di fischiare, come quegli idioti dei miei amici avevano fatto prima di me.
«Spiritoso» borbottò, infilandosi una giacca leggera e larga, con le maniche a tre quarti, e la sua inseparabile coppola.
«Non ti sto prendendo in giro. Sei più che bellissima».
Fece una smorfia per nascondere un sorriso. «Merito di Kim. È venuta a darmi una mano».
«Vuol dire che la materia prima è di prim’ordine» commentai. Le porsi una mano, cavallerescamente, per farla entrare in macchina. Notai che sembrava più alta.
«Ma che..?». Ai piedi aveva delle scarpe nere con il tacco così alto che mi ripromisi di non farla cadere per nessun motivo, o si sarebbe rotta una gamba.
«Lo so» sospirò. «Kim ha insistito. I tacchi slanciano le gambe, sono eleganti e bla-bla-bla… io avrei preferito le Converse».
«Ha ragione, le gambe stanno benissimo» constatai, ricevendo uno schiaffo su un braccio. «E ora che sei alta quanto me, sei facilmente… avvicinabile».
«Un modo pudico per dire baciabile?» chiese, imbarazzandomi.
«Esattamente», confermai, dandogliene dimostrazione.
Il viaggio in macchina durò relativamente poco, nonostante la discoteca fosse lontana.
«Se Kim sapesse che mi sono messa questo cappello mi ucciderebbe» mi confidò a un certo punto. «Sì è applicata tanto per far uscire allo scoperto il mio lato femminile, e butto al cesso il suo lavoro in questo modo». Si morse le labbra, piccata. «Dannazione, questo vestito scende!».
A questa sua uscita cominciai a tossire, cosa che la fece morire dalle risate. «Nate, non ti facevo così… puro» commentò. «E nemmeno così romantico. È per me?» chiese, sollevando con due dita la rosa che avevo mollato sul cruscotto perché la sua migliore amica non la vedesse.
«Se anche volessi metterti le mani addosso, Kim mi spezzerebbe ogni dito che posseggo se solo lo pensassi» ribattei. «Tornando a noi, il vestito ti sta benissimo, ti consideravo molto femminile anche prima di stasera, e perché ti ostini a metterti quel cappello? Comunque sì, è per te» le sorrisi.
«Grazie. Beh… il cappello è originale. Un sacco di ragazze avranno tacchi vertiginosamente alti e vestiti vertiginosamente corti, e io voglio… un segno distintivo».
«Non potrei confonderti con una di quelle là dentro nemmeno volendo» le dissi, indicandole la porta del locale. Ormai erano le undici.
Parcheggiammo in fretta ed entrammo, mostrando i pass che un mio amico ci aveva procurato. Non andavo da così tanto tempo in discoteca che quando l’avevo chiamato aveva insistito per regalarmeli.
«Eccoli qui, i Ragazzi Innamorati! Beata gioventù!» urlò Steve per farsi sentire sopra la musica e il rumore della folla.
«Oh dannazione» mormorai, stringendo una mano a Juliet. «Che diavolo ci fai qui?».
«Tara è andata a farsi dare un bonus da Danny, e lui le ha detto che tu ne avevi presi due e pensava che uno fosse per lei» spiegò, scrollando le spalle. «Così abbiamo deciso di farvi un’improvvisata. Sai, per festeggiare».
«Ma festeggiare che?» brontolai.
«Dai, Nate, non è la fine del mondo» mi sussurrò Juliet.
«Ti ho già detto che l’abilità principale di Steve è mettere in imbarazzo il prossimo?».
«Se si mette male tagliamo la corda» promise. «In fondo, è pur sempre il tuo migliore amico».
«In fondo, sì» borbottai. «Avete un tavolo, almeno?» gli chiesi.
«Come Nate comanda! Da questa parte, prego».
Ci guidò ai lati della pista d ballo, sgomitando tra la folla, finché non trovammo un tavolo rotondo, ampio e basso, attorniato da poltroncine bianche, dove erano seduti Kevin e Tara, intenta a parlare con un paio di ragazzi.
«Guardate chi è arrivato!» esclamò Steve, attirando l’attenzione dei presenti. Repressi il desiderio di strozzarlo.
Un coro di saluti ci accolse, e Juliet andò a salutare Tara. Mi accorsi che conoscevo uno dei due ragazzi, e lo andai a salutare.
«È la tua ragazza?» mi chiese dopo un po', indicando nella direzione della mora e della rossa, che si stava provando il suo cappello. Mi chiesi perché fossero tutti quanti così attenti alla mia vita privata.
«Ehm… sì» dissi. «Sì, lo è». Lei ci raggiunse proprio in quel momento. Si era liberata anche della giacca, rimanendo solo col vestito. «Sono Juliet» si presentò, sicura.
«Robert» replicò, e poi scomparve in mezzo alla folla.
Io e Juliet ci sedemmo su un divanetto, passando il tempo a scherzare assieme agli altri, bevendo, prendendo in giro i vestiti più orribili e osservando tutti i tradimenti e le relazioni che si stavano intrecciando nel corso della serata tra quelle quattro pareti.
«Vieni a ballare, ti va?» chiesi a un certo punto, benché non fossi di certo un asso, e Juliet annuì. Ci saremmo limitati a tenerci più o meno abbracciati e muoverci a ritmo, come molte altre coppie lì in mezzo.
La nostra discesa in pista scatenò gli applausi di Steve, che però si beccò un’occhiataccia tale da Tara che smise all’istante.
Arrivammo fino a un punto della pista da cui loro non potevano più vederci, e misi le mani sui fianchi di Juliet. «Ti avverto, non so assolutamente ballare».
«Sai suonare. Sai cantare. Se sapessi anche ballare direi che sei finto».
 
“We've only just begun
Hypnotized by drums
Until forever comes
You'll find us chasing the sun
They said this day wouldn't come
We refused to run
We've only just begun
You'll find us chasing the sun”


La canzone che gli altoparlanti stavano sparando a mille sulla folla in movimento mi sembrava stranamente azzeccata. Fissai Julie, le mani sulle mie spalle, intenta a muoversi a ritmo e a cantare a bassa voce. Avrei voluto che quel momento durasse per sempre. Anche se eravamo in una schifosa discoteca con altre centinaia di persone, schiacciati come sardine e mezzi assordati, non m’importava. Eravamo insieme e al sicuro, e tanto bastava.
 
“I'm never, I'm never down
Lying here staring up
And you're looking down
I'm never, I'm never down
Live forever, forever
With you around”

 
L’abbracciai più forte, smettendo di ballare. Si mise a ridere, sorpresa.
«Ti va se andiamo a… a prenderci un gelato?» suggerì. Esitai, poi annuii.
Tornammo a prendere la sua roba, e fortunatamente Steve era occupato a far conoscenza con una biondina e non tentò di fermarci. Anche quando andai a salutarlo, mi degnò di un semplice “ciao”.
Tenendoci per mano arrivammo fuori dal locale. L’impatto con l’aria fredda mi stordì, facendomi barcollare.
«Oddio» mormorò lei, probabilmente per lo stesso motivo.
Cominciammo a setacciare il parcheggio, alla ricerca della mia vecchia Volkswagen.
«Voglio togliermi uno sfizio e provare il gelato a gusto Puffo» diceva intanto lei. Camminavamo piano, a braccetto, poco interessati al fatto che ci stavamo congelando.
«Puffo?» chiesi, divertito. «Non è liquirizia?».
«Credo di sì, ma non l’ho mai provato. Mi fa senso» ammise, facendomi ridere.
«E io prenderò… caffè» decisi.
«Mi sa che serve a entrambi, un caffè».
«Eh già».
Si fermò e, mantenendosi al mio braccio, si slacciò prima una scarpa, poi l’altra.
«Ma che fai?» le chiesi.
«Mi tolgo questi strumenti di tortura». Tornò eretta, tenendo in mano le scarpe. «Giuro che la prossima volta che Kim mi consiglia di mettermi ‘ste scarpe, la ammazzo».
«Non hai freddo ai piedi?» le chiesi, preoccupato.
«Ma no. Stanno molto meglio così che con queste cose».
Ci addentrammo sempre più nel parcheggio, guardandoci in giro. Era pieno zeppo di auto argento, grigie, blu e nere. Ce n’era anche una verde, persino una gialla, ma nessuna rossa. «Mi sa che abbiamo sbagliato strada» osservai, e cominciammo a tornare indietro.
«Nate» cominciò Juliet, intrecciando le dita alle mie.
«Sì?».
«Grazie. Per tutto».
«Perché mi ringrazi adesso?».
Si strinse nelle spalle. «Perché prima o poi dovrò farlo».
«Mi pare che tu l’abbia già fatto, qualche volta. Invece io non ho ringraziato te».
«Per cosa?».
Ci fermammo. «Per avermi fatto passare dei giorni indimenticabili. Era da una vita che non ero così felice» le sorrisi.
Mi sorrise di rimando, passandomi le braccia attorno al collo. Adesso doveva di nuovo alzarsi sulle punte.
«Sei una tappa» l’apostrofai, stringendola a me.
«Ah, mi piaci anche per questo, Nate».
Le mie labbra trovarono le sue con naturalezza inaspettata, e probabilmente fu per questo che non vidi i fari dell’auto che si avvicinavano.
Ci staccammo all’improvviso.
L’impatto col terreno mi colse alla sprovvista.

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Capitolo 8
*** Only One ***


Capitolo Sette.
Only One

L’auto grigio scuro viene verso di noi alla velocità della luce. Mentre i fari ci illuminano, penso di avere la stessa espressione di un coniglio sull’autostrada.
La vita non mi scorre davanti agli occhi. Nemmeno quei quattro fantastici giorni.
Non penso a niente, tranne alla cosa giusta da fare.
Non possiamo morire entrambi, decido.
Un secondo prima che l’auto mi tolga la vita, vedo il ragazzo con i ricci rossi, ancora mascherato e vestito da Cappellaio.
«Che ti avevo detto? Vivi ogni attimo come fosse l’ultimo… perché è l’ultimo».




--
Angolo dell'autrice
Beh, rieccomi qui.
Come vi avevo avvertiti, stavolta ho aggiunto due capitoli, perché mi pareva una crudeltà farvi aspettare per
questo sputo di sei righi. Ma comunque non è finita qui, cari miei, e vi toccherà aspettare
(un po' meno del solito, giuro) per l'epilogo. È il mio piccolo cliffhanger (seh, come no) personale.
Per quanto riguarda il settimo capitolo, sono consapevole di essere ancora tragicamente nel melenso, però ormai non
posso farci nulla. Spero vivamente di non avervi deluso (io un po' lo sono), ma questa è nata come una storia
d'amore e morirà come... no, vabbè, pessimo gioco di parole. E poi non vi dico come finisce, mica sono stupida.
Per quanto riguarda quel fattore melensissimo della rosa che Nate regala a Julie... Beh, chiedo perdono, perché
riconosco che è una solenne cavolata che farà venire le carie a metà di voi. Però se proprio volessi ricevere un regalo da un ragazzo sarebbe o un libro o un fiore, quindi... insomma, avrete capito che questa storia ha portato a galla il mio lato romantico che, decisamente
non credevo di avere. E ciò mi fa venire i brividi, quindi passiamo oltre.
La canzone che dà il titolo al settimo capitolo è Tonight, di Alex Band (seh, ero in fissa anche con lui nell'oscuro periodo
in cui ho scritto questa storia. Ma tranquilli, ora mi sono evoluta), che non ci azzecca niente in sé e per sé
ma vuol dire "stanotte", una specie di gigantesco spoiler di quel che sta per succedere.
O forse no. Insomma, per me lo è, ma io non faccio testo.
La canzone che mettono in discoteca (io ci sono stata tipo quattro volte nella vita, perché detesto l'ambiente,
quindi se trovate qualche palese incongruenza con la realtà vi chiedo scusa, ma siate clementi
e considerate che questa storia è appunto messa nella sezione "sovrannaturale") è Chasing the Sun dei The Wanted,
genere che non mi sconfinfera quasi per niente ma azzeccata al contesto, perché
il mio cervellino malato ci ha sempre visto un qualcosa di apocalittico.
Nell'ottavo "capitolo" non c'è molto da dire. Cioè, qualcosina ci sarebbe, ma sarebbe uno spoiler colossale, quindi taccio.
Vi dico al massimo che il titolo è dato da Only One, di Alex Band (sì, sempre lui), che ho piazzato qui per due motivi:
il primo è per la frase "We've got one life to live, one love to give, one chance to keep from falling",
che poi è un po' il senso di tutta la storia, perché in genere si ha una sola possibilità e invece quella gran culo di Julie ne ha due;
il secondo è forse un po' spoiler, o forse no visto che l'ho anche scritto chiaro-chiaro, quindi ve ne accorgerete da soli.
O mal che va, ve lo dirò la prossima volta.
Intanto, ringrazio tutti quelli che hanno commentato o aggiunto la storia alle seguite, preferite o ricordate,
e ringrazio in anticipo quelli che (forse) lo faranno. Vi ringrazio davvero.
Vabbè, vi sto salutando come se non ci vedessimo mai più, e invece ho ancora un po' di tempo per tediarvi.
Alla prossima, come sempre,
Soph.

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Capitolo 9
*** Afterlife ***


Epilogo.
Afterlife

La sensazione è di nuovo quella di essere Alice nel Paese delle Meraviglie. Solo che non c’è nessun Paese delle Meraviglie. Invece, c’è un cimitero.
Un prato verde brillante, umido di pioggia, disseminato di lapidi bianche e sormontato da un cielo grigio perla.
Stavolta non ho nessun vestito azzurro. Ho lo stesso vestito che avevo alla festa, ma ha delle maniche lunghe e ampie, bianche, ed ha una gonna larga e lunga, con uno spacco sul davanti. Le scarpe sono semplici e comode ballerine nere.
«Ma che carino» commento ad alta voce. «E poi c’è chi dice che non sei gentile».
Il ragazzo è seduto su una lapide, scalcia i piedi in modo infantile, fissando l’erba. «Puoi chiamarmi Thanatos» sembra decidere. «Dei nomi che mi avete dato voi umani, è quello che suona meglio».
Mi avvicino a lui, appoggiandomi con la schiena alla stessa lapide. «Ora puoi spiegarmi perché l’hai fatto?».
Sospira, poi salta giù e infila le mani in tasca. «Sì. Intanto vieni, o faremo tardi».
Comincia a guidarmi per il cimitero, che mi sembra troppo grande per essere reale. «Vedi, io non sono umano. Tutte quelle chiacchiere assurde su gente che si innamora della morte… puah. E io non amo. Ne sono totalmente incapace, e non ne sento la mancanza. Troppi problemi. Però a furia di traghettare umani da una parte all’altra ho capito cos’è la cosa peggiore per voi… il rimpianto. Soprattutto come quando, nel tuo caso, è quasi del tutto inutile».
Arriviamo nei pressi di una folla vestita a lutto, alcuni con gli ombrelli già aperti contro la pioggia imminente. Mi rendo conto di non sentire né caldo, né freddo, né fame, né il rumore del mio cuore che batte. Nemmeno quello dei capelli che frusciano per il vento, in realtà. So che c’è, ma non ci sono io. Sono solo un fantasma.
«Non sei un fantasma» mi corregge Thanatos, leggendomi nel pensiero. «Arriverò anche a questo. Una cosa per volta».
Aggiriamo la folla lentamente, per trovare un varco da cui passare. «Riflettici» continua lui. «In questi quattro giorni cos’hai fatto di nuovo? Nulla. Hai passato del tempo con i tuoi migliori amici, come hai sempre fatto. Non importa se è stato al mare, giocando ai videogiochi o a un concerto. Non hai fatto nulla da sola, in questi giorni. E poi c’è lui. Nate».
Troviamo un buco tra le persone in nero e ci infiliamo tra loro, finché non arriviamo davanti a una tomba riempita di fresco, con la terra ancora smossa e un sacco di rose bianche su di essa. Tra loro ce n’è anche una molto più piccola, di un pallidissimo arancione, forse un po’ rovinata e secca ma ancora bellissima. È quel particolare a farmi alzare gli occhi sulla lapide, su cui c’è scritto:
 
Juliet Annah Collins
7/02/1995 – 5/11/2012

 
Ancor più in fretta il mio sguardo scorre la folla. Ci sono i miei e mia sorella, tutti e tre abbracciati; Rose si è fatta i capelli come piacciono a me, a boccoli, e il nero la fa sembrare ancora più piccola.
Poco più in là ci sono Kim e James, anche loro abbracciati, la guancia di lei appoggiata al petto di lui. Noto con stupore che lei indossa la mia coppola.
«Magari quei due finiranno insieme, finalmente» rifletto per distrarmi. Mi accorgo di voler piangere, perché scioglierebbe il peso che ho nel petto, ma non ci riesco. Probabilmente non posso: era una prerogativa di quel corpo fatto di organi, sangue e ossa che ora giace almeno tre metri sottoterra.
Un passo dietro di loro c’è Emily, i capelli chiari che sembrano quasi bianchi, acconciati nella sua solita treccia e le guance rigate di lacrime. Kevin le porge un fazzoletto e lei fa un minuscolo sorriso tremulo, tirando su col naso.
Mi chiedo per un secondo cosa ci faccia Kevin qui, quando noto Steve e Tara, i suoi capelli una macchia di colore brillante nel nero che li circonda, anche se lei ha tentato di nasconderli nel cappuccio della felpa. Mi rendo conto di non aver mai visto Steve così serio. Ha persino legato i capelli con un elastico nero, abbinato alla sua camicia e alla giacca elegante.
È fantastico vederli lì. Non per me, ovviamente, ma per Nate. Perché anche se abbiamo scambiato sì e no tre parole, sono lì per lui.
Nate è in piedi, le mani affondate nelle tasche dei cappotto lungo, lo stesso che indossava la prima volta che l’ho visto. Ha i suoi soliti capelli un po’ troppo lunghi, che si arricciano leggermente dietro il collo e che gli finiscono davanti agli occhi, gli stessi occhi grigio-blu di sempre, ora puntati verso il cielo nuvoloso, come se pensi che io sia lì.
Vorrei urlargli che in realtà sono a pochi passi da lui, ma non credo possa sentirmi, quindi non lo faccio. Aspetto che Thanatos continui la sua spiegazione.
«Regalandoti altri quattro giorni ho salvato due vite. La tua e la sua».
«Beh, non mi pare» dico, sarcastica e aggressiva. «O tutte queste persone non sarebbero qui».
«Ci sono tante definizioni di vita, Juliet. Tu stessa hai detto di essere tornata indietro perché non avevi vissuto. Tecnicamente parlando, non è vero: hai passato più di sedici anni su questo pianeta svolgendo le tue funzioni vitali. Questo è solo uno degli aspetti della vita».
«Scusa, tu mi hai detto che avevo una seconda possibilità per vivere al meglio e… e…» sgrano gli occhi, mentre lui annuisce. «Era solo un optional» comprendo. «Non ero io quella da salvare».
«Sì e no» dice. «Il giorno che sei stata investita da quell’auto, lo è stato anche lui. Ti si è rotta una cinghia zaino, sparpagliando la tua roba, e lui si è fermato per aiutarti. Proprio dove l’auto si è schiantata.
«Lui sarebbe stato il tuo più grande rimpianto, perché non avevi mai nemmeno fatto un tentativo, ma credo che ce l’avresti fatta comunque a passare oltre. Lui invece no. Anche se non gli sembrava, finché non sei arrivata tu con la tua “teoria della morte” si era dimenticato cosa volesse fare. E che non ha tutto il tempo del mondo». Fa un sospiro stanco. «Voi umani siete arroganti. Siete la specie che ha vissuto per meno tempo su questo pianeta e spadroneggiate come se tutto fosse vostro di diritto, anche il tempo. E invece persino io ho delle regole da rispettare».
«Spiegami questo fatto del… passare oltre» gli chiedo. Ci sono moltissime persone, al mio funerale, che non mi sarei mai aspettata di vedere. Un sacco di parenti, la mia classe al gran completo, i miei vicini di casa – anche quello del settimo piano, con cui non ho mai parlato ma incrociavo tutte le mattine, mentre io andavo a scuola e lui portava a spasso il cane. Mi rendo conto di aver usato il passato in automatico, e mi mordo le labbra; non sento nemmeno quel flebile dolore.
Ci sono alcuni dei miei insegnanti, vecchi amici che non vedevo da anni, persino un’amica di mia sorella, che frequenta casa nostra da quando entrambe portavano il pannolino. Anche nel suo caso, sono grata che sia qui, per Rose.
Ma di tutta quella gente m’importa poco, alla fine. Mi importa solo di quelle sette persone a cui ho scritto una lettera, affidando a stupidi pezzi di carta cose che avrei voluto dire a voce, o dimostrare.
«Conosci la leggenda egizia secondo la quale per accedere all'Aldilà il cuore doveva essere pesato?». Scuoto la testa, distratta. «Il dio dei morti Anubi usava una bilancia a due piatti; metteva su un piatto il cuore del defunto, e sull’altro una piuma. Se il peso del cuore, aumentato dai misfatti compiuti in vita, era superiore a quello della piuma, allora l’anima veniva distrutta. In realtà è tutta una panzana, perché Anubi dovrei essere io e decisamente non ho una testa di sciacallo». Mi osserva di sottecchi. «In realtà un’anima per passare avanti non deve avere requisiti particolari, ma può venire in qualche modo appesantita dalle cose successe in vita. Nella mia carriera ho imparato che non sono né le ingiustizie né i peccati a trattenere un’anima nel mondo dei vivi, bensì i rimpianti. In sostanza ho fatto in modo che entrambi, arrivato il momento, poteste passare oltre, invece che rimanere in un mondo che non vi appartiene più, sotto forma di quelli che voi chiamate “fantasmi”».
«Quindi i fantasmi esistono» osservo, colpita.
«Sì, ma non come li intendete voi. Non hanno nessun potere distruttivo o vendicativo, non sono percepibili in alcun modo, non esistono nemmeno i cosiddetti medium. Voi avete inventato i fantasmi per essere rassicurati del fatto che i cattivi non riescono ad arrivare nell’Aldilà. Falso anche questo, ma non posso dirti altro. Però bisogna ammettere che con le “questioni in sospeso” non siete arrivati tanto lontano».
«Come puoi pensare che non avrò rimpianti, dopo aver visto i miei cari che piangono la mia morte?» chiedo, sconvolta.
«Ce la farai. Senza contare che hai praticamente orchestrato la tua morte, lasciando quelle lettere nelle mani di Nate. Bel gesto, comunque, salvargli la vita».
«Era la cosa giusta da fare» dico. «A lui non basterà» aggiungo poi. «A Nate. Me l’ha detto. Non gli basterà una… una lettera a tappare i buchi».
«Guardalo» mi dice Thanatos invece.
Sta ancora guardando verso il cielo, distratto da tutto il resto. Ha gli occhi rossi ma asciutti, segno che deve aver già pianto le sue lacrime, o che non dorme da parecchio.
«Cosa sta pensando?» gli chiedo. Thanatos pare esitare. «Trasgressione più, trasgressione meno…» mormora, poi si mette a fissarlo ancor più intensamente di quanto stia facendo io. «Gli dispiace averti perso così presto, ma sa che tu non hai nessun rimpianto, perché ha passato gli ultimi giorni ad aiutarti a realizzare i tuoi desideri. Sa che starai bene. E…» sorride. «Ti sta preparando un’altra sorpresa».
Spalanco gli occhi. «Che sorpresa?» chiedo.
«Te lo faccio vedere. Tanto, ormai…».
Ho giusto il tempo di dare un ultimo sguardo ai miei cari, che il cimitero e l’aria carica di pioggia scompaiono. Siamo nel locale dove si esibiscono, il Music Box; Thanatos, stranamente, non sembra troppo fuori posto in quel luogo. Arrivano attutiti il rumore della pioggia battente e dei tuoni occasionali.
Nate è sul palco illuminato, solo, seduto su uno sgabello alto, ancora vestito a lutto ma con una camicia nera e dei jeans scuri. Ha una chitarra acustica e un microfono davanti. Prima di cominciare a cantare si schiarisce la voce. Ma poi non canta lo stesso; il pubblico è confuso, perché i tutti sono abituati a vederlo esibirsi e basta, troppo imbarazzato per aggiungere altro. Strano per uno che fa il cantante.
«Vorrei dedicare questa canzone a una ragazza molto speciale che… che purtroppo stasera non è qui. Non l’aveva nemmeno mai sentita, ma sono sicuro che le sarebbe piaciuta, e credo che rappresenti bene quello che c’è stato tra di noi. E vorrei dirle che non la dimenticherò mai. Non potrei nemmeno volendo. È indimenticabile. Speciale».
Le luci si spengono, non rimangono accese nemmeno le classiche lampade sui tavolini o dietro il bancone del bar; l’unica cosa visibile è Nate al centro di un cono di luce che canta, da solo, davanti al pubblico.

«And I'd give up forever to touch you
'Cause I know that you feel me somehow
You're the closest to heaven that I'll ever be
And I don't want to go home right now
And all I can taste is this moment
And all I can breathe is your life
And sooner or later it's over
I just don't wanna miss you tonight
And I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd understand
When everything's meant to be broken
I just want you to know who I am
And you can't fight the tears that ain't coming
Or the moment of truth in your lies
When everything feels like the movies
Yeah you bleed just to know you're alive
And I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd understand
When everything's meant to be broken
I just want you to know who I am
And I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd understand
When everything's meant to be broken
I just want you to know who I am
And I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd understand
When everything's meant to be broken
I just want you to know who I am
I just want you to know who I am…».


Di nuovo, desidero piangere e non ce la faccio. «Quando sono morta e lui era lì, ha avuto delle conseguenze?».
«Nessuna. È stato scagliato a terra anche lui, anche se da te, sbattendo violentemente con la spalla, ma sta bene».
«La tua famiglia non ce l’ha con lui» dice in fretta, anticipando la mia prossima domanda. «E nemmeno i tuoi amici. È tutta colpa del pirata della strada ubriaco che ti ha investito. Mi dispiace dirtelo, ma sei una delle “morti del sabato sera”».
«Peccato che era domenica» replico. «È stato un tocco di classe uccidermi come la prima volta che sono morta» commento poi.
«Che ci vuoi fare, volevo che il tutto fosse… indimenticabile».
«E riguardo alle lettere?» chiedo poi, mentre Nate esce dal palco passando dietro le quinte e Tara e gli altri vi salgono. Gli hanno dato la serata libera.
«Si sono fatti qualche domanda, ma non hanno detto niente a lui. Se l’è giocata bene. Ha detto che dopo il primo incidente sei rimasta scossa e hai deciso di prendere delle precauzioni. Kim si è un po’ offesa perché non le hai affidate a lei, ma nulla di grave».
«So che è stupido da chiedere ma… prenditi cura dei miei cari, ok?» gli dico. Lui fa un sorriso stanco.
«Non dipende da me. Non orchestro tutte le morti. Ho degli obblighi anch’io».
«Per questo parlavi di trasgressioni?».
«Già. A proposito, tempo scaduto. Dobbiamo andare».
Con un gesto del suo braccio, le doppie porte del Music Box si spalancano verso l’interno, come divelte dal vento, ma nessuno ci fa caso. Fuori non c’è traccia del temporale, ma al suo posto c’è il lungo viale che mi aveva accolta durante il mio primo viaggio nell’Aldilà. Solo che adesso gli alberi sono rigogliosi e sani, è un bellissimo tramonto, con il cielo azzurro scuro striato di rosso dal sole morente. Le vecchie lucine di Natale hanno lasciato il posto a delle autentiche lucciole, che si muovono tra un albero e l’altro. Non c’è traccia di nebbia, e nemmeno del saloon dove ho incontrato Thanatos. Solo un lungo viale che va avanti. «Dove andrò ora?» chiedo, più per curiosità che per paura.
«È top secret, piccola, mi dispiace».
Un vento fresco mi raggiunge, solleticandomi la pelle scoperta. Un altro segno che non appartengo più a questo mondo, ma a quello.
Mi giro di nuovo verso Nate, che è in piedi con le mani in tasca, girato per osservare l’esibizione dei suoi amici. Sposto lo sguardo su Thanatos, che alza gli occhi al cielo e annuisce.
Gli rivolgo un sorriso grato e corro da Nate. Nonostante non possa sentirmi e lo sappia benissimo, gli metto una mano su una spalla, l’altra su una guancia, mi alzo sulle punte e poggio le mie labbra sulle sue. Dove la mia pelle – che non è più pelle – incontra la sua, sento come se uno strato d’aria calda ci divida. Mi chiedo se lo senta anche lui.
Mi scosto dopo poco e torno dalla Morte, che mi aspetta già dall’altra parte. Attraverso anch’io il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti e il locale scompare, lasciando posto al cielo contornato di soffici nuvolette. Solo dove ci sono i cancelli, che si stanno chiudendo senza un cigolio, riesco ancora a vedere la sala piena di persone, corpi caldi e vita.
Al centro di tutto c’è Nate, non più voltato verso il palco ma verso di me, con forza tale che credo possa vedermi, guardarmi negli occhi. Si sfiora le labbra con le dita.
Un attimo prima che il cancello si chiuda lo sento mormorare: «Juliet?».




--
Angolo dell'autrice
Beh, sì, insomma, questa storia è finalmente giunta al termine.
Voglio ringraziarvi tutti, sia che abbiate letto questa storia per noia e ve la siate dimenticata dopo un'ora, sia che l'abbiate seguita
fin proprio alla fine, mettendola nelle seguite, preferite o ricordate, magari lasciando anche un commento.
Mi ha fatto felice sapere che questa storia vi ha in qualche modo colpito. E spero (esattamente come lo sperava Juliet)
che questa storia vi abbia lasciato qualcosina, anche solo quella stupida morale del "si vive una volta sola!".
Sì beh, Juliet vive due volte, ma sfortunatamente non so se questo sia minimamente possibile nella realtà, quindi... vedete di vivere.
Spero di non avervi deluso con questo finale. Non credo di avervi stupito perché io stessa, ideando questa storia,
credevo che potesse finire in un modo solo, esattamente così (Juliet non è un'eroina, salva Nate non perché è figa o cose simili, ma più che altro per istinto,
come credo che farei io se avessi la consapevolezza che una persona a me cara sta per morire e io posso fare qualcosa per salvarla).
Per quanto riguarda Nate che sembra vedere Juliet alla fine, non so che dirvi. Non credo di avere intenzione di inventarmi un sequel di questa storia,
perché cadrebbe nel fantasy più totale e demenziale (cosa potrebbe mai essere, un viaggio nell'Aldilà per recuperare
la nostra cara Jules? Dubito). Quindi, perché l'ho scritto? Non per essere cattiva con voi, al massimo per farvici pensare
un pochino su e non far cadere la storia nel dimenticatoio, e perché amo i finali aperti e ad effetto.
Non so se vi interessa, ma il fatto di vedere il mio funerale è una mia piccola fissa, che non potevo
mancare di inserire (così come ho già fatto con i miei numerosi interessi).
Le canzoni presenti in questo - ultimo - capitolo sono:
- Afterlife, degli Avenged Sevenfold, per l'ennesima volta. Tutto è partito da questa canzone
e tutto finisce con questa canzone, il cerchio si è chiuso;
- Iris, dei Goo Goo Dolls, una delle mie canzoni preferite in assoluto. Non so ben dirvi perché io l'abbia associata alla storia d'amore di
Nate e Juliet, ma posso provare a spiegarvelo con qualcosa che non sia un secco "perché mi piaceva, e che questo vi basti!".
"And I'd give up forever to touch you/'Cause I know that you feel me somehow/You're the closest to heaven that I'll ever be/
And I don't want to go home right now/And all I can taste is this moment/And all I can breathe is your life/And sooner or later it's over/
I just don't wanna miss you tonight" dovrebbe essere la parte che "dice" Nate: sapeva che prima o poi sarebbe finita, e sa anche che in
qualche modo lei può sentirlo (e viceversa);
"And I don't want the world to see me/'Cause I don't think that they'd understand/When everything's meant to be broken/
I just want you to know who I am" dovrebbe essere invece la parte "di Juliet": sa che il mondo non capirebbe il suo pazzo
"appuntamento con la Morte", e come dice poi Thanatos stesso il suo più grande rimpianto sarebbe stato non aver mai
provato nemmeno a conoscere Nate, quindi "I just want you to know who I am".
Per il resto, beh, sul momento mi sembrava avesse un senso ma ora non ci trovo nulla di significativo,
quindi lo lascio alla vostra immaginazione, e grazie per avermi ascoltato durante questo mio - non tanto - breve sproloquio.
Tra parentesi, Thanatos vuol dire, appunto, "morte" in greco; ed era appunto il dio greco personificazione della Morte.
Dei suoi tanti nomi gli ho affibbiato questo perché suona bene e perché, da brava classicista, mi ci sentivo obbligata.
Ancora una volta, vi ringrazio moltissimo, e non so dirvi quanto mi abbiate resa felice con i vostri commenti.
Immagino che se riuscirò a superare il blocco dello scrittore ci rivedremo ancora. E lo spero.
Soph.

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