L'incantesimo della pioggia

di Aurore
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inseguendo chi lo fugge, fuggendo chi l'insegue ***
Capitolo 2: *** Paradiso perduto ***



Capitolo 1
*** Inseguendo chi lo fugge, fuggendo chi l'insegue ***


Inseguendo chi lo fugge,  fuggendo chi l'insegue





L'amore fugge come un'ombra l'amore reale che l'insegue,
inseguendo chi lo fugge, fuggendo chi l'insegue.


WILLIAM SHAKESPEARE,
Le allegre comari di Windsor





Era un palazzo come tutti gli altri. 
Alto cinque piani, scandito da finestre a ghigliottina, dall'aria vecchia e trascurata, ma solida. La pioggia colpiva la facciata, lasciando ampie chiazze qua e là, e sembrava lavare via il rosso sbiadito dei mattoncini che rivestivano l'edificio. Un tempo doveva essere stata la dimora di una famiglia appartenente alla buona società, come suggerivano alcuni dettagli: la ringhiera in ferro battuto della scala decorata da curve e ghirigori, gli spigoli dei gradini di pietra elegantemente stondati, la forma elaborata della maniglia del portone, le raffinate lampade in vetro e ferro appese ai lati dell'ingresso, ormai sporche, malconce e arrugginite.
Il n. 85 di Charles Street¹ non aveva proprio niente di speciale. Eppure, quell'uomo era lì, sul marciapiedi opposto, a fissarlo da un pezzo, con un'espressione stranissima: era come se stesse osservando qualcosa di meraviglioso e terribile allo stesso tempo, come se avesse davanti un cataclisma naturale che ti toglie il fiato per la bellezza e la paura contemporaneamente. I suoi occhi sgranati, di un azzurro intenso e limpido, erano carichi di gioia e di aspettativa, ma le labbra serrate in una linea dritta e dura rivelavano un doloroso tormento interiore. Qualunque cosa vedesse in quella vecchia palazzina, simile a mille altre del West Village, doveva essere molto importante per lui.
Se ne stava fermo sotto la pioggia, privo di ombrello e incurante degli abiti e dei capelli che si infradiciavano. Aveva un aspetto piuttosto trasandato: indossava dei jeans, una camicia di flanella, scarponi logori e una giacca di pelle che sembrava averne passate parecchie. In spalla portava una vecchia borsa di tela verde punteggiata da gocce di pioggia. I pochi passanti che percorrevano quel tratto di strada gli gettavano occhiate rapide, a volte curiose, a volte indifferenti, a volte vagamente preoccupate. Chi gli passava davanti e poteva guardarlo in viso si accorgeva che in realtà era ancora un ragazzo: probabilmente non aveva più di venticinque anni. Ma lui non notava nulla. Sembrava consapevole soltanto dell'edificio che aveva davanti.
All'improvviso si mosse. Molto lentamente, attraversò la strada, senza preoccuparsi di controllare che non ci fossero auto in arrivo, raggiunse l'altro marciapiedi e, dopo aver esitato ancora per qualche secondo, salì i gradini con passo incerto. Il portone era solo accostato e l'uomo aveva già teso una mano tremante verso la maniglia, quando la porta fu spalancata di colpo dall'interno. Qualcuno fece per uscire, ma trovandosi di fronte un ostacolo si bloccò con un lieve sussulto.  Era una giovane donna, bionda, minuta, con indosso una tuta da ginnastica e un impermeabile grigio scuro; dal collo pendevano delle cuffiette.
«Oh!» esclamò, sorpresa alla vista dell'uomo.
Lui la fissò altrettanto stupito. Sembrava che stesse guardando un dinosauro o qualcosa del genere. «Mi scusi» mormorò, facendosi da parte.
La ragazza varcò il portone rivolgendogli un sorriso educato che lo sconosciuto non notò affatto. La sua aria smarrita la incuriosì. «Cerca qualcuno?» indagò con tono gentile.
Il giovane esitò un poco, infine rispose, focalizzando finalmente l'attenzione sulla sua interlocutrice. «Veramente... io... sì. Sto cercando...». Tacque all'improvviso e alla ragazza parve che volesse pronunciare un nome senza riuscirci. Inarcò le sopracciglia, mentre lui deglutiva nervosamente. «... la signora Fray» aggiunse.
«Ah, Jocelyn?» esclamò la biondina, sorridendo. «Certo, abita qui. Quinto piano. Niente ascensore, purtroppo».
Lui rimase impassibile. Si limitò ad annuire. «Grazie».
«Di nulla».
La ragazza scese i gradini, poi voltò la testa per lanciargli un'ultima occhiata curiosa, prima di infilarsi le cuffiette nelle orecchie, tirarsi sulla testa il cappuccio dell'impermeabile e iniziare a correre a ritmo sostenuto.
L'uomo entrò, chiudendosi la porta alle spalle, e iniziò a salire lentamente le scale buie, strette e con il tipico odore degli ambienti chiusi. Gli sudavano i palmi delle mani, aveva la sensazione che le gambe lo reggessero a malapena e che il cuore potesse scoppiargli nel petto da un momento all'altro, tanto batteva veloce. Continuò a salire fino in cima e, giunto sull'ultimo pianerottolo, si trovò davati un'unica porta chiusa. Si avvicinò barcollando. Dall'interno proveniva il tipico vociare della televisione. Sembrava che qualcuno stesse guardando un cartone animato. La targhetta era bianca, ma sollevò comunque il braccio, sentendolo pesantissimo, e bussò. Poi rimase in attesa, ascoltando il battito martellante del suo cuore nelle orecchie. Udì un rumore di passi leggeri e veloci  e una voce di donna.
«Clarissa!»
La riconobbe all'istante e si sentì morire. Era lei. Jocelyn. Fu preso dallo spasmodico desiderio che quella porta si aprisse. All'interno, qualcuno stava armeggiando goffamente con la maniglia, come se avesse difficoltà. Poi ci fu uno scatto e la porta si schiuse appena, lasciando uscire una lama di luce che tagliò il buio del pianerottolo e ferì gli occhi dell'uomo. Finalmente la porta si spalancò con un cigolìo. All'inizio credette che non ci fosse nessuno. Poi abbassò lo sguardo e incontrò quello attento di una bambina. Era minuta, così piccola che arrivava a malapena alla maniglia a cui era aggrappata, con due ricche treccine rosse alte sulla testa e gli occhi verdi dal taglio leggermente allungato. Guardò il suo viso, piccolo e un po' spigoloso, e inspiegabilmente fu come se qualcuno gli avesse tirato un pugno nello stomaco. Era mezza nascosta dietro la porta, forse un po' intimidita, ma fissava il nuovo arrivato con aria curiosa.
«Sei uno sconosciuto?» domandò, la vocetta sicura e squillante.
Lui aprì la bocca per rispondere, ma gli uscì soltanto un suono indistinto. «Ehm...»
In quel momento una giovane donna sbucò precipitosamente nel corridoio da una porta sulla destra.
«Clarissa!» sbottò, con il tono spazientito di chi sta pronunciando una frase che ha già ripetuto mille volte. «Quante volte ti ho detto che non devi aprire la porta se non...»
Quando scorse l'uomo sulla soglia, si fermò come se avesse sbattuto contro un muro e spalancò i grandi occhi blu. Le sue mani e la vecchia salopette di jeans che indossava erano coperte di chiazze di pittura di vari colori e aveva perfino una lieve striscia bianca sulla guancia sinistra. I lunghi capelli rossi e ricci erano raccolti in uno chignon disordinato. Non si mosse, nè disse una parola. Fissava l'uomo con un'espressione di autentico shock in viso. Anche lui taceva, mentre i suoi occhi schizzavano come impazziti da un punto all'altro del viso della ragazza, avidi di ogni dettaglio.
Forse spaventata dalla reazione della madre, la bambina indietreggiò, la raggiunse e si aggrappò alla sua mano quasi nascondendosi dietro di lei. La donna sembrò non accorgersene nemmeno.
«Pensavo che fossi morto» esalò all'improvviso con un filo di voce.
Nel sentirla parlare, lui sorrise in modo strano, quasi disperato, come un condannato a morte al quale giunge un'inaspettata salvezza. Come se gioia e dolore lottassero furiosamente dentro di lui senza che l'una riuscisse ad avere la meglio sull'altro.
«Lo ero» mormorò.
«Allora non sei uno sconosciuto» esclamò la bambina, rompendo il silenzio. Continuava a sbirciare verso di lui da dietro la madre con l'aria di chi si aspetta una spiegazione da un momento all'altro.
Soltanto allora gli altri due sembrarono ricordarsi di lei. Lui abbassò lentamente lo sguardo, osservandola con espressione indecifrabile, mentre Jocelyn si riscosse, si girò e la prese in braccio.
«Andiamo di là, tesoro» disse, a voce bassa. Lanciò un'occhiata all'uomo, ancora impalato sulla soglia, distogliendo subito lo sguardo. «Aspettami in cucina, per favore».
Percorse velocemente il corridoio, stringendosi la bambina al petto. La piccola non staccò gli occhi dall'uomo neanche per un secondo, osservandolo oltre la spalla di sua madre, finchè non scomparvero varcando la porta da cui era arrivata Jocelyn. E anche dopo, lui continuò a sentirsi addosso quello sguardo e la sensazione di qualcosa che lo colpiva allo stomaco. Chiuse la porta e si addentrò nell'appartamento, un po' esitante. Ai lati del corridoio stretto e buio si aprivano due porte: quella di sinistra dava su una piccola cucina, quella di destra su un salottino. Lì era entrata la ragazza. Si fermò sulla soglia e guardò dentro, con discrezione, ma senza riuscire a resistere a quell'impulso. Jocelyn aveva messo la bambina a sedere sul pavimento, davanti a un basso tavolino ricoperto di fogli, matite e pastelli. La televisione era accesa e trasmetteva un cartone animato.
«Stai qui, Clary, va bene? Continua a disegnare» stava bisbigliando Jocelyn, accarezzando i capelli della figlia. «Io sono di là, se hai bisogno di me arrivo subito. Però non muoverti se non è necessario, okay?  Me lo prometti?»
L'uomo vide la testolina rossa annuire. «Sì, mamma».
«Brava, piccola».
Jocelyn si alzò.
«Mamma?»
«Sì, amore?»
«Chi è quello?»
La donna dava le spalle alla porta e lui non poteva vederne il viso, ma l'amarezza della sua voce gli disse tutto. «Nessuno» rispose. Poi prese il telecomando per alzare un po' il volume della televisione.
Altro pugno nello stomaco. Il giovane si voltò bruscamente ed entrò nella cucina, aspettando. Provò a deglutire per mandare via il groppo che sentiva in gola, ma con scarsi risultati. C'era solo una finestra stretta che affacciava sul muro del palazzo accanto e nell'insieme tutto l'ambiente appariva piuttosto povero. Più si guardava intorno, più il groppo peggiorava. E più gli veniva voglia di prendersela con sè stesso. Un rumore di passi lo spinse a girarsi. Jocelyn entrò, accostando subito la porta alle sue spalle. Si fronteggiarono in silenzio per qualche istante. Lei lo osservava con un miscuglio di paura e felicità, ma il suo atteggiamento era rigido, sulla difensiva, come se si aspettasse un attacco.
«Lucian» proruppe, con voce bassa e tesa. Sembrava in lotta con sè stessa. «Che ci fai qui?»
Lui esitò prima di rispondere. «Io... volevo vederti» mormorò. Le sue parole suonarono come una confessione.
Jocelyn era evidentemente confusa. «Dopo tutto questo tempo... come hai fatto a trovarmi?»
Lucian fece un passo avanti e quasi tese inconsciamente le braccia per toccarla. «Ti ho trovata soltanto oggi pomeriggio. Passavo per caso in Broome Street e ho visto un paesaggio... in una galleria... l'ho riconosciuto subito». Deglutì nervosamente. «E c'era il tuo nome. Ti ho trovata sull'elenco telefonico e... e sono venuto. Ma ti cerco da anni, Jocelyn. Anni».
Quelle ultime parole e il carico di dolore e desiderio che le accompagnava sembrarono colpire Jocelyn: la sottile maschera di controllo che si era sforzata di mantenere fino ad allora si ruppe a poco a poco, liberando un profluvio di sentimenti. Gioia. Paura. Nostalgia. Senso di perdita. Impazienza. Desiderio. Fece un passo avanti, poi un altro, e un attimo dopo si ritrovò stretta a lui, tra le sue braccia. Lasciò sfuggire un singhiozzo mentre abbandonava la testa sulla sua spalla forte. Per molto tempo nessuno dei due pronunciò una parola. Non ce n'era alcun bisogno. Lucian accarezzò le spalle strette della ragazza, così piccole sotto le sue mani, e premette il viso sui suoi capelli soffici, aspirandone il profumo, un profumo che sapeva di ricordi felici e lontani. Di casa. Finalmente.








Note.
1. L'indirizzo si trova nel West Village, il quartiere dove abitano Jocelyn e Clary quando arriva Luke. Non compare nei romanzi, è un'informazione inventata da me.






Spazio autrice.
Ciao a tutti! Prima parte di questa breve fanfiction incentrata, come avrete già capito, su Luke e Jocelyn e il momento in cui lui la ritrova. Per la verità questa coppia non è la mia preferita, ma all'improvviso ho avvertito l'impulso di buttare giù questa storia che "galleggiava" nella mia testa e... l'ho seguito. Spero di aver fatto bene. La seconda e ultima parte sarà pubblicata tra pochi giorni.
Il titolo di questa prima parte deriva dalla citazione all'inizio del capitolo. È una sorta di gioco di parole basato sul concetto "in amore vince chi fugge": l'amore insegue le persone che scappano, mentre scappa esso stesso da coloro che lo inseguono. Mi sembra molto appropriata per Luke e Jocelyn e la loro vicenda: dopotutto, lui l'ha inseguita per tutta la vita mentre lei continuava a sfuggirgli. Ora si sono finalmente ritrovati dopo anni di separazione, ma, come sappiamo, Jocelyn continuerà a scappare dall'amore che Luke prova per lei ancora per un bel po', mentre lui continuerà a starle dietro. A presto!




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Capitolo 2
*** Paradiso perduto ***


Paradiso perduto





I veri paradisi sono i paradisi perduti.
MARCEL PROUST, Il tempo ritrovato





«Tua figlia è bellissima. Ed è sveglia» disse Lucian, rompendo il silenzio dopo parecchi minuti. Erano seduti al tavolo, ciascuno molto impegnato a tenere a bada i propri sentimenti, in un'atmosfera carica di tensione. Jocelyn accennò un sorriso. Aveva gli occhi bassi e le mani in grembo e sembrava stanca, come se quelle emozioni l'avessero spossata. Lucian fece una breve pausa. «È sua, vero?» aggiunse un attimo dopo.
Anche lui fissava il pavimento, temendo di incrociare gli occhi della ragazza, ma lei non lo guardò.
«Certo che è sua» rispose Jocelyn, a voce bassissima, ma ferma.
Lui annuì lentamente. «Lo sapevo. L'ho capito appena l'ho vista» mormorò. Il suo tono era intriso di amarezza. «Quanti anni ha?»
«Quattro. Appena compiuti».
Lucian fece un sospiro pesante. «Quattro anni. Sono già passati quattro anni¹».
«Che cosa hai fatto in tutto questo tempo?» chiese Jocelyn, un po' esitante.
«Be', io... dopo che... ci siamo separati... sono tornato nel mio branco per un poco, a Idris» iniziò Lucian. «Stavo bene, con loro, però... la verità è che mi mancavi». Tacque per un secondo. Lei rimase impassibile, o almeno così parve. «Era come se... come se ti fossi portata via un pezzo del mio cuore. Non riuscivo a sopportarlo.Ho provato, ma non me la cavavo molto bene. Così me ne sono andato e ormai sono più di tre anni che ti cerco. Sono stato a Parigi, a Londra, a Boston... Cercavo delle tracce. Alla fine, sono arrivato a New York quasi per caso».
Jocelyn accennò un sorriso mesto. «Anch'io ci sono arrivata quasi per caso. A Parigi presi il primo volo che trovai ed era diretto qui».
«E... ti trovi bene? Tu stai... Voi state... bene?». Lucian sollevò lo sguardo carico d'ansia e lo puntò sulla donna.
Lei alzò appena le spalle. «New York ha un grande vantaggio, anche se ci ho pensato solo in un secondo momento: una città così grande e caotica ti permette di sparire con facilità».
«È vero. Se oggi non fossi passato per SoHo, non ti avrei mai trovata».
Jocelyn non rispose. Quella tensione che non l'aveva abbandonata neanche per un attimo, visibile nello sguardo inquieto, nella linea dura della bocca, nelle spalle contratte, s'intensificò. «Lucian, anche tu mi sei mancato» disse, la voce che tremava leggermente. «Da morire. Ti voglio bene, lo sai quanto te ne voglio».
Sul volto di Lucian comparve un sorriso così amaro da sembrare una smorfia. «Lo so».
«E sono felice di rivederti, davvero. Ma... qualcuno sa che mi hai trovato?»
Lui scosse il capo. «No, nessuno. Negli ultimi tempi ho avuto contatti solo con qualche Nascosto per chiedere informazioni su di te».
«E Idris?»
«Non metto piede a Idris da quando ho lasciato il mio branco».
Jocelyn non parve affatto tranquillizzata dalle sue risposte. Si alzò, andò alla finestra e si sporse per guardare in strada, oltre i vetri bagnati dalla pioggia. «E se qualcuno ti avesse seguito?» aggiunse, tesa.
Lucian la fissava con una sorta di calmo stupore. «Nessuno mi ha seguito, Jocelyn» mormorò.
«Ne sei sicuro?» lo incalzò lei, in tono tagliente. «Devi esserne sicuro, Lucian, altrimenti non è il caso che tu stia qui».
L'ultima frase lo colpì e la sua espressione cambiò. Si alzò in piedi. «Perchè dici questo? Di cosa hai paura...»
Prima che potesse finire, Jocelyn si girò verso di lui con uno scatto felino, il corpo in tensione, l'aria determinata. In quel momento gli ricordò la giovane, abile, forte Cacciatrice di demoni del passato. «Lo sai benissimo!» sbottò con veemenza, ma un attimo dopo aveva già ripreso il controllo. Abbassò la voce, lanciando un'occhiata veloce alla porta accostata. Con un sussulto, Lucian ricordò che la bambina era nella stanza di fronte. «Sai benissimo che Valentine è ancora vivo».
Lucian si era chiesto quando uno di loro due avrebbe pronunciato quel nome. Adesso che finalmente era accaduto, fu come se quelle quattro sillabe rimanessero sospese tra loro, vibranti nell'aria. «Davvero credi che lo sia?» domandò, calmo.
Anche lei sembrava calma, ma al di sotto di quel velo di autocontrollo premeva l'angoscia. «Te l'ho detto cinque anni fa e te lo ripeterò ancora: è vivo».
Altra pausa. Si fissarono negli occhi in silenzio, l'enormità di quell'affermazione che aleggiava su di loro come una cappa di nuvole nere e minacciose.
«Ma allora dov'è? Cosa sta facendo? Perchè non...»
«Non m'interessa dov'è e cosa sta facendo, mi interessa quello che succederebbe se mi trovasse, se trovasse Clarissa! Non posso permettere che venga a sapere della sua esistenza, non posso, capisci?»
«Lo capisco» rispose lui. Il panico di Jocelyn gli stringeva il cuore in una morsa insopportabile. Avrebbe voluto avvicinarsi di più, toccarla, stringerla ancora tra le braccia e rassicurarla, ma aveva la sensazione che qualcosa li separasse. Qualcosa di invisibile ed insormontabile. «Ma come potrebbe scoprirlo? Te l'ho detto, sono quasi quattro anni che provo a rintracciarti senza riuscirci. Non c'è più niente che possa collegarti a quel mondo, Jocelyn».
Lei lo guardò senza parlare per diversi secondi, valutando le sue parole. «Ci sei tu, adesso» disse infine.
Lucian sussultò come se lo avesse schiaffeggiato, l'aria incredula e ferita. «Io?» ripetè. «Che vuoi dire... che significa... che cosa credi? Pensi che ti consegnerei a lui, che gli consegnerei tua figlia? Tu sai cosa mi ha fatto Valentine, come puoi pensare...»
«Abbassa la voce» l'interruppe Jocelyn. Continuava a lanciare sguardi preoccupati in direzione della porta. «Clarissa potrebbe sentire». Lucian dovette mordersi la lingua per non gridare ancora più forte. Osservò la donna con un misto di rabbia e incredulità, mentre lei sospirava, passandosi le mani sul viso. Poi tornò lentamente a sedersi. «Non intendevo questo. So che posso fidarmi di te. Ma io ho chiuso con quella parte della mia vita e non posso nè voglio tornare indietro. Per niente e per nessuno. Neanche per te». La voce le tremò come una foglia nel vento. «Lo devo a mia figlia».
Lucian rimase zitto a lungo, gli occhi fissi in quelli di Jocelyn. Forse le sue parole avrebbero dovuto ferirlo ancora di più, ma mentre si guardavano fu come se qualcosa andasse improvvisamente al suo posto e capì. Si insultò mentalmente per non esserci arrivato prima. Sedette di nuovo davanti a lei.
«Hai ragione. Io non ti chiederei mai di tornare indietro. Quando ho bussato alla tua porta, oggi... non avevo la minima intenzione di... sconvolgerti o riaprire vecchie ferite. Te lo giuro. Volevo soltanto rivederti. Anch'io ho chiuso con quella vita e lo sai. L'unica cosa cosa con cui non riesco a chiudere sei tu».
Lentamente, temendo che lei si ritraesse, tese una mano e afferrò la sua. Poi esitò, ma Jocelyn non si mosse. Anzi, gli strinse la mano con forza, quasi aggrappandosi ad essa. I suoi occhi blu erano più grandi del solito, luccicanti di lacrime, e Lucian pensò che avrebbe potuto perdersi in quella notte sconfinata.
«Non è mai semplice chiudere con il passato» mormorò la ragazza con voce carica di tristezza. «A volte penso di aver costruito un castello di carte che potrebbe crollarmi addosso da un momento all'altro. Ho sostituito una vita di morte e distruzione con una vita di inganni e bugie e ho paura che non durerà a lungo».
Lucian le accarezzava delicatamente il dorso della mano con il pollice. «Clarissa che cosa sa?»
«Nulla» rispose Jocelyn in un sospiro tremante. «Da un paio d'anni ha cominciato a domandarmi di suo padre ed io le rispondo che è morto, ma so che un giorno non sarà più sufficiente, che avrà altre domande, che vorrà capire... Che cosa le dirò, allora? Non faccio che mentirle e non lo sopporto... lo detesto...»
La sua voce si spense tra le lacrime. Lui la fissava sentendo quella stretta al cuore farsi sempre più dolorosa. Non aveva mai sopportato vederla piangere, neanche quando erano bambini e Jocelyn cadeva sbucciandosi un ginocchio mentre si rincorrevano sui prati di Idris. Provava ancora lo stesso atroce, dilaniante desiderio di dare qualunque cosa, anche sè stesso, per asciugare quelle lacrime e farle tornare il sorriso.
«Lo stai facendo per il suo bene, non avercela con te stessa. Ma... prima o poi dovrai dirle chi è veramente: quando svilupperà la Vista non potrai farne a meno».
La ragazza gli lanciò un'occhiata fugace prima di abbassare di nuovo lo sguardo sulle loro mani intrecciate.«Veramente l'ha già sviluppata. Da più di due anni».
«Così presto?» esclamò Lucian, meravigliato. «Ma allora come fai...»
«Ho trovato una soluzione» rispose Jocelyn, un po' bruscamente.
«Cioè?»
Lei tacque per un pezzo, mordendosi il labbro inferiore, come indecisa se rispondere o meno. Quando parlò, parve che lo facesse controvoglia. «Mi sono rivolta ad uno stregone che... in un certo senso... ha bloccato la sua Vista».
Lucian era sbalordito. Aprì e richiuse la bocca un paio di volte, cercando di parlare. «Hai fatto... cosa?»
«Hai capito benissimo, non farmelo ripetere».
Nella cucina scese l'ennesimo silenzio di tomba. La musica allegra che proveniva dall'altra stanza sembrava decisamente fuori luogo e rendeva la situazione quasi surreale. Soltanto dopo un paio di minuti Lucian parlò ancora.
«Esiste un incantesimo abbastanza potente...»
«No, non esiste. In realtà Clarissa... dimentica tutto ciò che vede... qualunque cosa... nello stesso momento in cui lo vede. E non è un incantesimo permanente: va rinnovato ogni due anni, altrimenti scompare».
Il volto di Lucian era così pallido e perfettamente immobile da sembrare una maschera di cera.
«Ogni due anni?» ripetè. «Ogni due anni le viene fatto questo?». Jocelyn annuì. Sfilò le mani da quelle di Lucian e le intrecciò tra loro con forza tale che le nocche sbiancarono. «Non è giusto» aggiunse l'uomo, un attimo dopo.
Lei lo guardò con aria di sfida, poi scattò in piedi. «Non giudicarmi, Lucian. Non osare giudicarmi! È l'unico modo per proteggerla! Non può entrare in quel mondo, non può, o lui la troverà! È un rischio troppo grosso». Mentre parlava, allargò le braccia, come se ammettesse una sconfitta. «Tu non sai cosa significa.... Quando ami una persona, quando la ami con tutto te stesso, faresti qualsiasi cosa, distruggeresti qualunque verità, pur di proteggerla». Scosse lentamente la testa e le lacrime che rigavano le sue guance scintillarono come piccole perle. «Non puoi capire».
«Lo capisco, invece» ribattè Lucian. Lei sgranò gli occhi mentre lo fissava, colpita, ma rimase in silenzio. «Lo capisco. Senti, Jocelyn...» di nuovo si alzò in piedi e le si accostò, come se stessero giocando ad inseguirsi «... hai ragione. Forse è davvero l'unico modo per proteggerla. Non dico di essere d'accordo, ma... mi rendo conto che hai dovuto prendere delle decisioni difficili e che eri da sola e... posso soltanto immaginare quanto sia stata dura. E mi sento in colpa, per questo» disse tutto d'un fiato.
«Cosa... ? No, non è stata colpa tua» protestò Jocelyn, perplessa.
«Non avrei dovuto lasciarti, cinque anni fa» proseguì Lucian, la voce appassionata e addolorata, l'espressione intensa fissa su di lei. «Avrei dovuto insistere e scongiurarti di farmi venire con te, avrei dovuto strapparmi il cuore per convincerti... Eri vulnerabile ed io ho lasciato che ci separassimo nel momento in cui avevi più bisogno di me. Avrei dovuto lottare di più, essere al tuo fianco in questi anni, aiutarti in ogni modo e mi dispiace di non averlo fatto».
«Era quello che volevo» l'interruppe Jocelyn, con calma. «Avevo bisogno di stare da sola».
«A volte le persone vogliono le cose sbagliate» ribattè Lucian. «Però ci sono adesso e non ti lascerò di nuovo. Jocelyn, io... voglio restare qui. Voglio te, voglio tua figlia, voglio tutte e due».
L'uomo fece ancora un passo avanti e ormai erano così vicini che avrebbe potuto baciarla. Si trattenne a stento dall'assecondare quell'impulso, ma la ragazza intuì cosa stava per succedere. «Lucian, no» balbettò, scuotendo il capo.
«Jocelyn... la mia proposta è sempre valida. Sposami» aggiunse Lucian, deciso. Sembrava che per lui quella parola racchiudesse il significato dell'universo. Rimase fermo a guardarla dritto negli occhi, come sospeso, aspettando.
«Anche la mia risposta è sempre valida» mormorò la ragazza lentamente. Aveva ancora le guance bagnate di lacrime e gli occhi rossi, eppure, mentre la fissava, Lucian non riuscì a non pensare che non era mai stata così bella. «Mi dispiace».
Poi Jocelyn colmò la piccola distanza che li separava e lo abbracciò di slancio. Lui rimase immobile per alcuni istanti, lottando contro la lama di dolore che sentiva penetrare lentamente nel petto. Il suo rifiuto faceva male ancora come la prima volta, ma averla tra le braccia appagava un desiderio che lo aveva tormentato giorno e notte in quegli anni di lontananza. Incapace di respingerla, ricambiò la stretta e le accarezzò dolcemente i capelli. La capiva, in fondo. Aveva capito cinque anni prima e capiva ancora, come soltanto un vecchio amico d'infanzia riesce a fare.
«Permettimi comunque di restare» balbettò. Jocelyn si irrigidì appena contro di lui, senza parlare. «Voglio prendermi cura di voi. Per favore, lasciami restare».
La ragazza si allontanò appena per guardarlo in faccia. Appariva stupita e incerta in ugual misura. «Non... non lo so, Lucian...»
«Potrei proteggervi».
Jocelyn fece un verso simile ad uno sbuffo di amarezza. «Nessuno può proteggerci da lui».
«Ma sareste comunque più al sicuro» insistè Lucian. Questa volta era deciso a non arrendersi su tutta la linea e lei lo percepiva benissimo.
Il viso della giovane donna era una maschera di desiderio e indecisione. «Vorrei che tu potessi restare. Lo vorrei più di ogni altra cosa... Mi sei mancato così tanto». Sollevò una mano e gli accarezzò il viso segnato, quasi ad accertarsi che lui fosse davvero lì, in carne ed ossa, e che non fosse solo un sogno. «Ma se ti dicessi di sì, se ti accogliessi nelle nostre vite, sarebbe come costruire un ponte tra noi e tutto quello da cui sto scappando da cinque anni» aggiunse, a labbra strette. «Perchè tu ne fai ancora parte».
Lucian la fissò a lungo, in silenzio, riflettendo, stringendo le sue spalle tra le mani, quelle piccole spalle che sopportavano un peso immenso. Non voleva più che fossero da sole a sopportarlo. Non lo avrebbe permesso. «E se ne uscissi anch'io?» propose.
Jocelyn sussultò e dai suoi occhi trapelò un'assoluta sorpresa. «Non posso chiederti questo».
«Non sarebbe una tua scelta. Decido io cosa fare della mia vita, giusto?» ribattè il giovane con fare spavaldo. «Be', se mi vuoi, naturalmente» aggiunse un attimo dopo.
La ragazza accennò un sorriso tirato. «Se ti voglio? Io...»
Fu interrotta dallo squillo del telefono. Sobbalzarono entrambi e si allontanarono di colpo, guardandosi intorno con aria imbarazzata e un po' confusa, come se avessero volato chissà dove e quel suono li riportasse alla realtà.
«Devo rispondere, probabilmente è la galleria» mormorò Jocelyn. Si passò le mani sul volto con gesto stanco. «Torno subito».
Uscì dalla cucina e scomparve. Rimasto solo, Lucian prese  ad andare su e giù per la stanza, inquieto, incapace di stare fermo, la mente che lavorava a tutta velocità. Senza pensarci, varcò la soglia, uscendo nel corridoio, e si trovò davanti la porta socchiusa del salottino. Si fermò. C'era la bambina, lì dentro. Clarissa. Uno strano e fortissimo desiderio di vederla, di osservarla con attenzione e scovare le somiglianze una per una, ogni somiglianza un pugno allo stomaco, con una vena di masochismo che aveva sempre saputo di possedere, si impadronì all'improvviso di lui. Spinse leggermente la porta con una mano ed entrò, facendo meno rumore possibile. La televisione era accesa, ma la piccola si era addormentata seduta sul pavimento, la testina appoggiata sul tavolo, le braccia intrecciate a formare una sorta di cuscino. Lucian smise quasi di respirare nel timore di svegliarla. Era così piccola e indifesa. E c'era una tale aura di pace e tranquillità intorno a lei che per un attimo desiderò vegliare sul suo sonno, perchè nessuno potesse turbarlo. Si accostò rapido alla televisione e spinse il tasto di spegnimento. All'improvviso udì un rumore dietro di sè, si girò e vide Jocelyn entrare nella stanza.
«Sei qui» disse, lanciandongli una strana occhiata. Poi vide Clarissa addormentata e sospirò. «Finalmente... mi chiedevo quando sarebbe crollata. Era esausta, oggi, ma non ha voluto dormire. Ha disegnato tutto il pomeriggio. A volte è così testarda». 
«Testarda, eh?» mormorò Lucian, a voce così bassa che probabilmente lei non sentì, oppure fece finta di nulla, mentre si chinava per prendere la bambina in braccio. «Vuoi... vuoi una mano?» aggiunse l'uomo, sentendosi inutile e impacciato da morire. Non sapeva nulla di bambini, lui.
«No, tranquillo, ce la faccio» rispose brevemente Jocelyn. Clarissa aveva appoggiato la testa sulla sua spalla e lei l'accarezzò in un gesto istintivo. Lucian si accorse che lo stava fissando con aria esitante. «Ascolta... si è fatto tardi e immagino che tu non abbia un posto dove andare. Perchè non... non rimani qui? Puoi dormire sul divano».
Lucian spostò lo sguardo sul divano verde scuro quando lei lo nominò, con gli occhi socchiusi e la fronte aggrottata, come se stesse studiando il più complesso dei problemi. Poi guardò di nuovo la ragazza. «Sei sicura?»
Jocelyn annuì. «Certo. E domani potremmo... riparlare con calma di tutto».
«Okay» balbettò Lucian. «Ehm... grazie».
Lei fece un piccolo sorriso. Sembrava sinceramente felice che avesse accettato. «Bene. Allora... buonanotte».
«Sì, buonanotte».
Jocelyn uscì portandosi dietro Clarissa. Lucian si guardò intorno nel piccolo salotto, incredulo al pensiero di trovarsi lì, con Jocelyn, di nuovo sotto lo stesso tetto dopo anni, Jocelyn e... sua figlia. Il suo sguardo corse al tavolino e ai disegni di Clarissa. Erano una miriade. Doveva piacerle molto, disegnare. Questo, senza ombra di dubbio, l'aveva preso da sua madre. Lucian sorrise. La ricordava perfettamente, gli sembrava di averla davanti in quel momento, la piccola Jocelyn, sdraiata sui costosi tappeti persiani di Adele Fairchild o sui prati della tenuta di famiglia, a dipingere con le mani su un'infinità di fogli di carta. Aveva sempre amato colorare con le dita.
Un disegno in particolare, tra quelli sparsi sul tavolino, lo colpì. Si chinò per prenderlo e sedette sul divano. Era un semplice paesaggio tracciato da una mano palesemente infantile, ma anche piuttosto abile e precisa per essere quella di una bambina. A colpire il suo sguardo era stata la somiglianza con il dipinto di Jocelyn che aveva visto quel pomeriggio alla galleria, raffigurante la vista della campagna di Idris dalla tenuta di Valentine. Probabilmente Clarissa l'aveva visto e aveva cercato di imitarlo. Quel pensiero gli gettò addosso una tale, inspiegabile malinconia che continuare ad osservare il disegno divenne insopportabile.
Con un pesante sospiro, rimise il foglio sul tavolo e si allungò sul divano. Era esausto, come se all'improvviso sentisse nelle gambe tutti i chilometri che aveva percorso negli ultimi anni per trovare Jocelyn, centinaia di migliaia. Chiuse gli occhi, lasciando che la mente vagasse, e i suoi pensieri corsero spontaneamente al passato. Il verde brillante dei prati di Idris, il luccichio del sole sulle torri anti-demoni di Alicante, la sensazione di una spada angelica tra le dita, il bruciore dello stilo sulla pelle, i riflessi tra i riccioli rossi di Jocelyn contro il nero della tenuta da Cacciatrice mentre li raccoglieva dietro la testa per un allenamento, le sue piccole dita che tracciavano segni colorati sulla carta, la sua risata cristallina, lo sguardo d'intesa e assoluta fiducia di Valentine pochi secondi prima di scendere in campo e combattere insieme, il suo mezzo sorriso dopo una vittoria... Lentamente scivolò in un sonno inquieto e profondo





****




Si svegliò di soprassalto, parecchie ore dopo, e per un istante credette di trovarsi ancora in un sogno. Davati a lui c'era Jocelyn da bambina. La sua vista era un po' appannata, ma l'alone rosso dei capelli era inconfondibile. Era lei. Stupito, sbattè più volte le palpebre e la vista si schiarì. Allora si rese conto che non era Jocelyn. Era sua figlia. Indossava un pigiama azzurro, la cascata di capelli rossi sparsa sulle spalle, era inginocchiata al tavolino, ancora ingombro di fogli, e lo stava osservando con una buffa espressione seria e concentrata, la testa inclinata da un lato e una matita in mano, come se stesse cercando di cogliere un grande mistero.
«Clarissa» balbettò Lucian.
«Mi chiamo Clary» lo corresse la piccola, imperturbabile.
«Oh» fece lui. «Clary, d'accordo». Si mise a sedere, passandosi una mano sul viso e cercando di scrollarsi il sonno di dosso. Si sentiva ancora più frastornato di quando aveva chiuso gli occhi per addormentarsi. Dalla luce fredda e grigia intuì che doveva essere l'alba. Abbassò lo sguardo sulla bambina, che ora stava tracciando linee su un foglio bianco con grande impegno. «Che cosa fai?»
«Ti disegno».
Lucian fece un sorriso stanco. «Davvero? Be', ci sono cose molto più belle e interessanti di me da disegnare, piccola».
«Tu non sei tanto male» rispose Clary con semplicità, scrollando le spalle, e a Lucian scappò una mezza risata, simile ad uno sbuffo trattenuto, senza neanche rendersene conto. La bambina sollevò gli occhi per osservarlo con aria sorpresa, come se sentirlo ridere fosse la cosa più strana e improbabile del mondo. «Chi sei?» domandò, tutta seria.
Il sorriso gli si congelò sulle labbra. E adesso? Mentre guardava il visetto affilato di Clarissa, sentì una drastica consapevolezza farsi strada dentro di sè: quel momento aveva il potere di cambiare tutto. Poteva lasciare che accadesse, oppure fermarsi prima di andare oltre. Ma nello stesso istante, si rese conto anche di un'altra cosa: non c'era traccia di indecisione, in lui. Non ne trovò neanche una briciola. Nemmeno per un istante sentì il bisogno di chiedersi quale sarebbe stata la scelta migliore. Quegli occhioni verdi spalancati decisero al suo posto.
«Io sono... un vecchio amico della tua mamma» rispose lentamente, ma senza esitare. «Mi chiamo... Luke».
Luke. Luke? Nessuno lo aveva mai chiamato così. Non avrebbe saputo dire da dove fosse sbucato quel nomignolo, ma gli parve una buona idea. Luke, Lucian... che importava, in fondo? Tese la mano alla bambina. Per un lungo istante Clary lo esaminò in silenzio attraverso le lunghe ciglia, con sguardo acuto e penetrante, come per valutarlo. All'improvviso Lucian ricordò l'espressione di Valentine quando lo guardava, a volte: un'espressione che sembrava trapassarti da parte a parte e sfidarti a nascondergli qualcosa. Non avrebbe mai pensato di rivederla, nella sua vita. Sentì un brivido, ma lo represse e si sforzò di sorridere. Finalmente anche Clary sorrise, un sorriso timido e bellissimo che le formò due fossette sulle guance, e si allungò per stringere la sua manina in quella dell'uomo. Quando si separarono, Lucian ebbe la vaga sensazione che nell'atmosfera della stanza fosse cambiato qualcosa.
«Allora... ti piace disegnare, eh?»
Clary aveva ricominciato a tracciare linee sul foglio con la matita. «Sì. Voglio diventare brava come la mamma».
«Lo diventerai, ne sono sicuro» mormorò il ragazzo. Lo sguardo gli cadde su un mazzo di carte per bambini sparpagliato sul pavimento che la sera prima non aveva notato. «Ti piace anche giocare a carte?»
Clary alzò le spalle. «Sì, mi piace».
Lucian esitò un istante. «Ti andrebbe... vorresti vedere un giochino²? Sono sicuro che non lo conosci. Alla tua mamma piaceva molto quando aveva la tua età».
«Va bene» rispose la piccola, incuriosita.
Lui raccolse le carte e le mescolò un paio di volte. Si accorse di sentirsi stranamente in ansia. Voleva fare qualcosa per quella bambina. Anche una cosa banale e sciocca come insegnarle il giochino di carte più amato dai bambini di Idris. Forse quella cosa banale e sciocca sarebbe stato l'unico legame che Clarissa Fray avrebbe mai avuto con il mondo a cui apparteneva. Deglutì per scacciare il nodo che aveva in gola.
«Vieni qui, piccola. Vicino a me, così puoi vedere bene».
Clary si alzò, lo raggiunse trotterellando e sedette sul pavimento, ai suoi piedi, lo sguardo attento fisso sul mazzo di carte. Lucian iniziò a disporre le carte sul tavolino, parlandole sotto voce. Qualche minuto dopo, erano nel pieno del gioco quando un lieve scricchiolio delle assi di legno del pavimento distolse l'attenzione di Lucian. Sollevò lo sguardo e vide un'ombra ferma sulla porta, intenta ad osservarli: era Jocelyn, con indosso una vestaglia e i lunghi capelli raccolti in una coda. Ebbe la sensazione che fosse lì già da un po'. Smise di parlare e strinse forte la carta che aveva in mano, preoccupato.
Clary sollevò la testa, facendo ondeggiare i riccioli. «Mami!» esclamò, allegra. «Ciao, mami! Luke mi ha fatto vedere un gioco!»
Lui esitò. Temeva la reazione di Jocelyn nel vedere che si era spontanemente avvicinato alla bambina. «Il gioco delle quattro carte³» mormorò. «Te lo ricordi?»
Guardava ansioso verso di lei, ma il suo viso era in ombra. Poi la donna fece un passo avanti e la luce che entrava dalle finestre la colpì, svelando i lineamenti contratti e gli occhi pieni di tristezza. «Sì, ricordo» rispose in un sussurro. Teneva le braccia incrociate e strette al corpo. «Luke?» aggiunse, dopo qualche secondo.
Lui capì che stava chiedendo una spiegazione. Abbozzò un sorriso. «Ti piace?»
Jocelyn non rispose. Per un po' rimase in silenzio, lo sguardo teso fisso su di lui. «Hai riflettuto bene su quello che...»
Non la lasciò finire. «Non c'è niente su cui riflettere, Jocelyn» rispose in tono definitivo.
«Sei sicuro
«E tu, sei sicura?» rilanciò il giovane.
Ancora una volta, lei non rispose. I suoi occhi luccicavano di lacrime, ma Lucian non riusciva a capire cosa stesse pensando.
«Mami, l'ho imparato!» esclamò Clary all'improvviso. Tutta presa dalle carte, non aveva prestato la minima attenzione alle parole di sua madre e di Lucian. «Luke, giochiamo ancora? Per favore!»
«Certo, Clary. Mescoliamo di nuovo le carte» mormorò Lucian, con un lieve sussulto. Sperò che la bambina non si accorgesse del tremito che aveva alle mani.
«Preparo un caffè» disse Jocelyn. «Ti va, Luke?»
Lui sollevò la testa di scatto e la guardò di nuovo. Jocelyn resse il suo sguardo, tentando di fargli un sorriso. Lucian sembrava impassibile, pensò, ma i suoi occhi azzurri brillavano, luminosi come stelle. Non ricordava l'ultima volta che aveva visto quello scintillio. Una vita fa, forse.
«Certo. Grazie» rispose Lucian, la voce calma e controllata. Poi tornò a concentrarsi sulle carte, almeno in apparenza, ma Clary dovette chiamarlo più volte per attirare la sua attenzione.
Sorridendo tra sè, Jocelyn raggiunse la porta, poi si fermò per osservarli ancora una volta, l'uomo e la bambina, le teste vicine, presi dal gioco. Erano la cosa più bella che avesse mai visto. Andò in cucina, prese il barattolo del caffè e quando si voltò verso la finestra vide che stava ancora piovendo. Da giorni e giorni, quasi senza sosta, cadeva una pioggerellina fitta e sottile simile a piccole gocce di luce. Si accostò al vetro bagnato, osservando il cielo, una distesa di nuvole grigie, mentre dall'altra stanza giungeva uno scoppio di risate, e all'improvviso le tornò in mente una storia, una favola che sua madre le raccontava quando era bambina. Narrava di un principe e di una principessa sovrani di un paese molto lontano, costretti all'esilio e a separarsi a causa di uno stregone malvagio che aveva distrutto il loro regno. Ma la principessa aveva chiesto l'aiuto di uno stregone buono per ritrovare il suo principe e lo stregone aveva evocato un antico incantesimo appellandosi ad uno dei quattro elementi, l'acqua, potente, inarrestabile, capace di crearsi un varco ovunque, travolgente, come il vero amore: la prima pioggia dopo l'estate avrebbe ricondotto il suo amato da lei. La principessa aveva atteso con trepidazione l'arrivo della stagione delle piogge e quando finalmente le prime gocce di un temporale avevano bagnato il suo viso, sulla soglia dell'autunno, davanti a lei era apparso il principe. Tornava tra le sue braccia, come lo stregone le aveva promesso
.
Sua madre chiamava quella storia L'incantesimo della pioggia ed era sempre stata la preferita di Jocelyn. Da anni e anni, ormai, non credeva più alle favole. Un tempo aveva creduto che alcune di esse potessero avverarsi, ma le sue favole si erano concluse tutte nel peggiore dei modi. Cinque anni prima aveva perso Lucian, il migliore amico che avesse mai avuto. Ora la pioggia gliel'aveva restituito. E un giorno, forse, le avrebbe restituito anche tutto il resto.





Fine








 
Note.
1. Il riferimento temporale è stato stabilito da me. Nei romanzi non viene mai specificato dopo quanto tempo esattamente Luke riesce a trovare Jocelyn. Sappiamo che Clary è piuttosto piccola, ma non piccolissima, quindi quattro anni mi sembra un'età adatta.
2. Nella Storia di Jocelyn, una versione ampliata del racconto che Jocelyn fa a Clary in Città di vetro e disponibile online nel sito di Cassandra Clare, lei racconta di aver fatto dormire Luke a casa loro, quella notte, e di averlo trovato la mattina dopo mentre insegnava a Clary un gioco di carte di Idris.
3. Nome scelto a caso da me, tanto per indicare questo gioco. Se non sbaglio, nella realtà esiste un "gioco delle quattro carte", ma ovviamente non è lo stesso gioco. Non ho grande fantasia, lo so xd. Scusate...  






Spazio autrice.
Salve! Ecco la seconda ed ultima parte di questa fanfiction. Le cose vanno come sappiamo: Jocelyn permetterà a Luke di restare e di fare da padre a Clary. Ho sempre pensato che vederli giocare insieme l'avesse spinta a lasciarlo rimanere con loro, proprio perchè ha visto la possibilità di dare un padre a sua figlia. Sicuramente era felice di riavere Luke al suo fianco, ma forse questo è stato decisivo. Anche se il finale è già noto, quello che mi interessava era mostrare, analizzare il modo in cui ci si arriva e spero di esserci riuscita.
Il titolo di questa seconda parte è preso, ancora una volta, dalla citazione che accompagna il capitolo. Esistono varie interpretazioni della frase di Proust, ma quella che a me piace di più è la seguente: l'unico, vero paradiso è ciò che vive soltanto nella nostra memoria, i nostri ricordi, perchè le cose belle accadute nel passato sono ormai sottratte allo scorrere del tempo e possiamo conservarle per sempre; la gioia provata nel momento presente, invece, potrebbe finire da un momento all'altro e proprio il timore che giunga la fine riduce la gioia che proviamo. La citazione può fare riferimento sia a Jocelyn sia a Luke e al modo in cui entrambi hanno vissuto negli ultimi anni: cioè nel ricordo di un passato felice e ormai perduto per sempre, l'unico, vero paradiso a loro disposizione, insomma. È vero che Jocelyn ha Clary e questo la rende felice, ma ha anche un immenso dolore con cui fare i conti tutti i giorni ed è normale rifugiarsi nei ricordi sereni quando siamo tristi. Ora, però, si sono ritrovati e finalmente hanno riguadagnato una parte del loro "paradiso perduto", proprio come la principessa della favola (totalmente inventata da me) ritrova il suo amore.
Spero che la fanfiction vi sia piaciuta. Grazie.

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