L'incantesimo della pioggia di Aurore (/viewuser.php?uid=144679)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inseguendo chi lo fugge, fuggendo chi l'insegue ***
Capitolo 2: *** Paradiso perduto ***
Capitolo 1 *** Inseguendo chi lo fugge, fuggendo chi l'insegue ***
Inseguendo chi lo fugge,
fuggendo chi l'insegue
L'amore
fugge come un'ombra l'amore reale che l'insegue,
inseguendo chi lo fugge, fuggendo chi l'insegue.
WILLIAM SHAKESPEARE,
Le
allegre comari di Windsor
Era un palazzo come tutti gli altri.
Alto cinque piani, scandito da finestre a ghigliottina, dall'aria
vecchia e trascurata, ma
solida. La pioggia colpiva la facciata, lasciando ampie chiazze qua e
là, e sembrava lavare via il rosso sbiadito dei mattoncini
che
rivestivano l'edificio. Un tempo doveva essere stata la dimora di una
famiglia
appartenente alla buona società, come suggerivano alcuni
dettagli: la ringhiera in ferro battuto della scala decorata da curve e
ghirigori, gli spigoli dei gradini di pietra elegantemente stondati, la
forma elaborata della maniglia del portone, le raffinate lampade in
vetro e ferro appese ai lati dell'ingresso, ormai sporche, malconce e
arrugginite.
Il n. 85 di Charles Street¹ non aveva proprio niente di
speciale.
Eppure, quell'uomo era lì, sul marciapiedi opposto, a
fissarlo
da un pezzo, con un'espressione stranissima: era come se stesse
osservando qualcosa di meraviglioso e terribile allo stesso tempo, come
se avesse davanti un cataclisma naturale che ti toglie il fiato per la
bellezza e la paura contemporaneamente. I suoi occhi sgranati, di un
azzurro intenso e limpido, erano carichi di gioia e di aspettativa, ma
le labbra serrate in una linea dritta e dura rivelavano un doloroso
tormento interiore. Qualunque cosa vedesse in quella vecchia palazzina,
simile a mille altre del West Village, doveva essere molto importante
per lui.
Se ne stava fermo sotto la pioggia, privo di ombrello e incurante degli
abiti e dei capelli che si infradiciavano. Aveva un aspetto piuttosto
trasandato: indossava dei jeans, una camicia di flanella, scarponi
logori e una giacca di pelle che sembrava averne passate parecchie. In
spalla portava una vecchia borsa di tela verde punteggiata da gocce di
pioggia. I pochi passanti che percorrevano quel tratto di strada gli
gettavano occhiate rapide, a volte curiose, a volte indifferenti, a
volte vagamente preoccupate. Chi gli passava davanti e poteva guardarlo
in viso si accorgeva che in realtà era ancora un ragazzo:
probabilmente non aveva più di venticinque anni. Ma lui non
notava nulla. Sembrava consapevole soltanto dell'edificio che aveva
davanti.
All'improvviso si mosse. Molto lentamente, attraversò la
strada,
senza preoccuparsi di controllare che non ci fossero auto in
arrivo, raggiunse l'altro marciapiedi e, dopo aver esitato
ancora
per qualche secondo, salì i gradini con passo incerto. Il
portone era solo accostato e l'uomo aveva già teso una mano
tremante verso la maniglia, quando la porta fu spalancata di colpo
dall'interno. Qualcuno fece per uscire, ma trovandosi di fronte un
ostacolo si bloccò con un lieve sussulto. Era una
giovane
donna, bionda, minuta, con indosso una tuta da ginnastica e un
impermeabile grigio scuro; dal collo pendevano delle cuffiette.
«Oh!» esclamò, sorpresa alla vista
dell'uomo.
Lui la fissò altrettanto stupito. Sembrava che stesse
guardando
un dinosauro o qualcosa del genere. «Mi scusi»
mormorò,
facendosi da parte.
La ragazza varcò il portone rivolgendogli un sorriso educato
che
lo sconosciuto non notò affatto. La sua aria smarrita la
incuriosì. «Cerca qualcuno?»
indagò con tono
gentile.
Il giovane esitò un poco, infine rispose, focalizzando
finalmente l'attenzione sulla sua interlocutrice.
«Veramente...
io... sì. Sto cercando...». Tacque all'improvviso
e alla
ragazza parve che volesse pronunciare un nome senza riuscirci.
Inarcò le sopracciglia, mentre lui deglutiva nervosamente.
«... la signora Fray» aggiunse.
«Ah, Jocelyn?» esclamò la biondina,
sorridendo. «Certo,
abita qui. Quinto piano. Niente ascensore, purtroppo».
Lui rimase impassibile. Si limitò ad annuire.
«Grazie».
«Di nulla».
La ragazza scese i gradini, poi voltò la testa per
lanciargli
un'ultima occhiata curiosa, prima di infilarsi le cuffiette nelle
orecchie, tirarsi sulla testa il cappuccio dell'impermeabile e iniziare
a correre a ritmo sostenuto.
L'uomo entrò, chiudendosi la porta alle spalle, e
iniziò
a salire lentamente le scale buie, strette e con il tipico odore degli
ambienti chiusi. Gli sudavano i palmi delle mani, aveva la sensazione
che le gambe lo reggessero a malapena e che il cuore potesse
scoppiargli nel petto da un momento all'altro, tanto batteva veloce.
Continuò a salire fino in cima e, giunto sull'ultimo
pianerottolo, si trovò davati un'unica porta chiusa. Si
avvicinò barcollando. Dall'interno proveniva il tipico
vociare
della televisione. Sembrava che qualcuno stesse guardando un cartone
animato. La targhetta era bianca, ma sollevò comunque il
braccio, sentendolo pesantissimo, e bussò. Poi rimase in
attesa,
ascoltando il battito martellante del suo cuore nelle orecchie.
Udì un rumore di passi leggeri e veloci e una voce
di
donna.
«Clarissa!»
La riconobbe all'istante e si sentì morire. Era lei.
Jocelyn. Fu preso dallo spasmodico desiderio che quella porta si
aprisse.
All'interno, qualcuno stava armeggiando goffamente con la maniglia,
come se avesse difficoltà. Poi ci fu uno scatto e la porta
si
schiuse appena, lasciando uscire una lama di luce che tagliò
il
buio del pianerottolo e ferì gli occhi dell'uomo. Finalmente
la
porta si spalancò con un cigolìo. All'inizio
credette che non ci fosse nessuno. Poi abbassò lo sguardo e
incontrò quello attento di una bambina. Era minuta,
così
piccola che arrivava a malapena alla maniglia a cui era aggrappata, con
due ricche treccine rosse alte sulla testa e gli occhi verdi dal taglio
leggermente allungato. Guardò il suo viso, piccolo e un po'
spigoloso, e inspiegabilmente fu come se qualcuno gli avesse tirato un
pugno nello stomaco. Era mezza nascosta dietro la porta, forse un
po' intimidita, ma fissava il nuovo arrivato con aria curiosa.
«Sei uno sconosciuto?» domandò, la
vocetta sicura e squillante.
Lui aprì la bocca per rispondere, ma gli uscì
soltanto un suono indistinto. «Ehm...»
In quel momento una giovane donna sbucò precipitosamente nel
corridoio da una porta sulla destra.
«Clarissa!» sbottò, con il tono
spazientito di chi
sta
pronunciando una frase che ha già ripetuto mille volte.
«Quante volte ti ho detto che non devi aprire la porta se
non...»
Quando scorse l'uomo sulla soglia, si fermò come se avesse
sbattuto contro un muro e spalancò i grandi occhi blu. Le
sue
mani e la vecchia salopette di jeans che indossava erano coperte di
chiazze di pittura di vari colori e aveva perfino una lieve striscia
bianca sulla guancia sinistra. I lunghi capelli rossi e ricci erano
raccolti in uno chignon disordinato. Non si mosse, nè disse
una
parola. Fissava l'uomo con un'espressione di autentico shock in viso.
Anche lui taceva, mentre i suoi occhi schizzavano come impazziti da un
punto all'altro del viso della ragazza, avidi di ogni dettaglio.
Forse spaventata dalla reazione della madre, la bambina
indietreggiò, la raggiunse e si aggrappò alla sua
mano
quasi nascondendosi dietro di lei. La donna sembrò non
accorgersene nemmeno.
«Pensavo che fossi morto» esalò
all'improvviso con un filo di voce.
Nel sentirla parlare, lui sorrise in modo strano, quasi disperato, come
un condannato a morte al quale giunge un'inaspettata salvezza. Come se
gioia e dolore lottassero furiosamente dentro di lui senza che l'una
riuscisse ad avere la meglio sull'altro.
«Lo ero» mormorò.
«Allora non sei uno sconosciuto» esclamò
la bambina,
rompendo il silenzio. Continuava a sbirciare verso di lui da dietro la
madre con l'aria di chi si aspetta una spiegazione da un momento
all'altro.
Soltanto allora gli altri due sembrarono ricordarsi di lei. Lui
abbassò lentamente lo sguardo, osservandola con espressione
indecifrabile, mentre Jocelyn si riscosse, si girò e la
prese in
braccio.
«Andiamo di là, tesoro»
disse, a voce bassa.
Lanciò un'occhiata all'uomo, ancora impalato sulla soglia,
distogliendo subito lo sguardo. «Aspettami in cucina, per
favore».
Percorse velocemente il corridoio, stringendosi la bambina al petto. La
piccola non staccò gli occhi dall'uomo neanche per un
secondo,
osservandolo oltre la spalla di sua madre, finchè non
scomparvero varcando la porta da cui era arrivata Jocelyn. E anche
dopo, lui continuò a sentirsi addosso quello sguardo e la
sensazione di qualcosa che lo colpiva allo stomaco. Chiuse la porta e
si addentrò nell'appartamento, un po' esitante. Ai lati del
corridoio stretto e buio si aprivano due porte: quella di sinistra dava
su una piccola cucina, quella di destra su un salottino. Lì
era
entrata la ragazza. Si fermò sulla soglia e
guardò
dentro, con discrezione, ma senza riuscire a resistere a quell'impulso.
Jocelyn aveva messo la bambina a sedere sul pavimento, davanti a un
basso tavolino ricoperto di fogli, matite e pastelli. La televisione
era accesa e trasmetteva un cartone animato.
«Stai qui, Clary, va bene? Continua a disegnare»
stava
bisbigliando Jocelyn, accarezzando i capelli della figlia.
«Io sono
di là, se hai bisogno di me arrivo subito. Però
non
muoverti se non è necessario, okay? Me lo
prometti?»
L'uomo vide la testolina rossa annuire. «Sì,
mamma».
«Brava, piccola».
Jocelyn si alzò.
«Mamma?»
«Sì, amore?»
«Chi è quello?»
La donna dava le spalle alla porta e lui non poteva vederne il viso, ma
l'amarezza della sua voce gli disse tutto.
«Nessuno» rispose. Poi
prese il telecomando per alzare un po' il volume della televisione.
Altro pugno nello stomaco. Il giovane si voltò bruscamente ed entrò nella cucina,
aspettando. Provò a deglutire per mandare via il groppo che
sentiva in gola, ma con scarsi risultati. C'era solo una finestra
stretta che affacciava sul muro del palazzo accanto e nell'insieme
tutto l'ambiente appariva piuttosto povero. Più si guardava
intorno, più il groppo peggiorava. E più gli
veniva
voglia di prendersela con sè stesso. Un rumore di passi lo
spinse a girarsi. Jocelyn entrò, accostando subito la porta
alle
sue spalle. Si fronteggiarono in silenzio per qualche istante. Lei lo
osservava con un miscuglio di paura e felicità, ma il suo
atteggiamento era rigido, sulla difensiva, come se si aspettasse un
attacco.
«Lucian» proruppe, con voce bassa e tesa. Sembrava
in lotta con sè stessa. «Che ci fai qui?»
Lui esitò prima di rispondere. «Io... volevo
vederti» mormorò. Le sue parole suonarono come una
confessione.
Jocelyn era evidentemente confusa. «Dopo tutto questo
tempo... come hai fatto a trovarmi?»
Lucian fece un passo avanti e quasi tese inconsciamente le braccia per
toccarla. «Ti ho trovata soltanto oggi pomeriggio. Passavo
per caso
in Broome Street e ho visto un paesaggio... in una galleria... l'ho
riconosciuto subito». Deglutì nervosamente.
«E c'era il
tuo nome. Ti ho trovata sull'elenco telefonico e... e sono venuto. Ma
ti cerco da anni, Jocelyn. Anni».
Quelle ultime parole e il carico di dolore e desiderio che le
accompagnava sembrarono colpire Jocelyn: la sottile maschera di
controllo che si era sforzata di mantenere fino ad allora si ruppe a
poco a poco, liberando un profluvio di sentimenti. Gioia. Paura.
Nostalgia. Senso di perdita. Impazienza. Desiderio. Fece un passo
avanti, poi un altro, e un attimo dopo si ritrovò stretta a
lui,
tra le sue braccia. Lasciò sfuggire un singhiozzo mentre
abbandonava la testa sulla sua spalla forte. Per molto tempo nessuno
dei due pronunciò una parola. Non ce n'era alcun bisogno.
Lucian
accarezzò le spalle strette della ragazza, così
piccole
sotto le sue mani, e premette il viso sui suoi capelli soffici,
aspirandone il profumo, un profumo che sapeva di ricordi felici e
lontani. Di casa. Finalmente.
Note.
1. L'indirizzo si trova nel West Village, il quartiere dove abitano
Jocelyn e Clary quando arriva Luke. Non compare nei romanzi,
è
un'informazione inventata da me.
Spazio autrice.
Ciao a tutti! Prima parte di questa breve fanfiction incentrata, come
avrete già capito, su Luke e Jocelyn e il momento in cui lui
la
ritrova. Per la verità questa coppia non è la mia
preferita, ma all'improvviso ho avvertito l'impulso di buttare
giù questa storia che "galleggiava" nella mia testa e...
l'ho
seguito. Spero di aver fatto bene. La seconda e ultima parte
sarà pubblicata tra pochi giorni.
Il titolo di questa prima
parte deriva dalla citazione all'inizio del capitolo. È una
sorta di gioco di parole basato sul concetto "in amore vince chi
fugge": l'amore insegue le persone che scappano, mentre scappa esso
stesso da coloro che lo inseguono. Mi sembra molto appropriata per Luke
e Jocelyn e la loro vicenda: dopotutto, lui l'ha inseguita per tutta la
vita mentre lei continuava a sfuggirgli. Ora si sono finalmente
ritrovati dopo anni di separazione, ma, come sappiamo, Jocelyn
continuerà a scappare dall'amore che Luke prova per lei
ancora
per un bel po', mentre lui continuerà a starle dietro. A
presto!
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Capitolo 2 *** Paradiso perduto ***
Paradiso perduto
I
veri paradisi sono i paradisi perduti.
MARCEL PROUST, Il tempo
ritrovato
«Tua
figlia è bellissima. Ed è sveglia»
disse Lucian,
rompendo il silenzio dopo parecchi minuti. Erano seduti al tavolo,
ciascuno molto impegnato a tenere a bada i propri
sentimenti, in un'atmosfera carica di tensione. Jocelyn
accennò
un sorriso. Aveva gli occhi bassi e le mani in grembo e sembrava
stanca, come se quelle emozioni l'avessero spossata. Lucian fece
una breve pausa. «È sua, vero?» aggiunse
un attimo dopo.
Anche lui fissava il pavimento, temendo di incrociare gli occhi della
ragazza, ma lei non lo guardò.
«Certo che è sua» rispose Jocelyn, a
voce bassissima, ma ferma.
Lui annuì lentamente. «Lo sapevo. L'ho capito
appena l'ho
vista» mormorò. Il suo tono era intriso di
amarezza. «Quanti anni ha?»
«Quattro. Appena compiuti».
Lucian fece un sospiro pesante. «Quattro anni. Sono
già passati quattro anni¹».
«Che cosa hai fatto in tutto questo tempo?» chiese
Jocelyn, un
po' esitante.
«Be', io... dopo che... ci siamo separati... sono tornato nel
mio
branco per un poco, a Idris» iniziò Lucian.
«Stavo bene,
con loro, però... la verità è che mi
mancavi».
Tacque per un secondo. Lei rimase impassibile, o almeno così
parve. «Era come se... come se ti fossi portata via un pezzo
del mio
cuore. Non riuscivo a sopportarlo.Ho provato, ma non me la cavavo molto
bene. Così me ne sono andato e ormai sono più di
tre anni
che ti cerco. Sono stato a Parigi, a Londra, a Boston... Cercavo delle
tracce. Alla fine, sono arrivato a New York quasi per caso».
Jocelyn accennò un sorriso mesto. «Anch'io ci sono
arrivata
quasi per caso. A Parigi presi il primo volo che trovai ed era diretto
qui».
«E... ti trovi bene? Tu stai... Voi state...
bene?». Lucian sollevò lo sguardo carico d'ansia e
lo
puntò sulla donna.
Lei alzò appena le spalle. «New York ha un grande
vantaggio,
anche se ci ho pensato solo in un secondo momento: una città
così grande e caotica ti permette di sparire con
facilità».
«È vero. Se oggi non fossi passato per SoHo, non
ti avrei mai trovata».
Jocelyn non rispose. Quella tensione che non l'aveva abbandonata
neanche per un attimo, visibile nello sguardo inquieto, nella linea
dura della bocca, nelle spalle contratte, s'intensificò.
«Lucian, anche tu mi sei mancato» disse, la voce
che
tremava
leggermente. «Da morire. Ti voglio bene, lo sai quanto te ne
voglio».
Sul volto di Lucian comparve un sorriso così amaro da
sembrare una smorfia. «Lo so».
«E sono felice di rivederti, davvero. Ma... qualcuno sa che
mi hai trovato?»
Lui scosse il capo. «No, nessuno. Negli ultimi tempi ho avuto
contatti solo con qualche Nascosto per chiedere informazioni su di
te».
«E Idris?»
«Non metto piede a Idris da quando ho lasciato il mio
branco».
Jocelyn non parve affatto tranquillizzata dalle sue risposte. Si
alzò, andò alla finestra e si sporse per guardare
in
strada, oltre i vetri bagnati dalla pioggia. «E se qualcuno
ti
avesse seguito?» aggiunse, tesa.
Lucian la fissava con una sorta di calmo stupore. «Nessuno mi
ha seguito, Jocelyn» mormorò.
«Ne sei sicuro?» lo incalzò lei, in tono
tagliente.
«Devi esserne sicuro, Lucian, altrimenti non è il
caso che
tu
stia qui».
L'ultima frase lo colpì e la sua espressione
cambiò. Si
alzò in piedi. «Perchè dici questo? Di
cosa hai
paura...»
Prima che potesse finire, Jocelyn si girò verso di lui con
uno
scatto felino, il corpo in tensione, l'aria determinata. In quel
momento gli ricordò la giovane, abile, forte Cacciatrice di
demoni del passato. «Lo sai benissimo!»
sbottò con
veemenza, ma un attimo dopo aveva già ripreso il controllo.
Abbassò la voce, lanciando un'occhiata veloce alla porta
accostata. Con un sussulto, Lucian ricordò che la bambina
era
nella stanza di fronte. «Sai benissimo che Valentine
è ancora
vivo».
Lucian si era chiesto quando uno di loro due avrebbe pronunciato quel
nome. Adesso che finalmente era accaduto, fu come se quelle quattro
sillabe rimanessero sospese tra loro, vibranti nell'aria.
«Davvero
credi che lo sia?» domandò, calmo.
Anche lei sembrava calma, ma al di sotto di quel velo di autocontrollo
premeva l'angoscia. «Te l'ho detto cinque anni fa e te lo
ripeterò ancora: è
vivo».
Altra pausa. Si fissarono negli occhi in silenzio,
l'enormità di
quell'affermazione che aleggiava su di loro come una cappa di nuvole
nere e minacciose.
«Ma allora dov'è? Cosa sta facendo?
Perchè non...»
«Non m'interessa dov'è e cosa sta facendo, mi
interessa
quello che succederebbe se mi trovasse, se trovasse Clarissa! Non posso
permettere che venga a sapere della sua esistenza, non posso,
capisci?»
«Lo capisco» rispose lui. Il panico di Jocelyn gli
stringeva il
cuore in una morsa insopportabile. Avrebbe voluto avvicinarsi di
più, toccarla, stringerla ancora tra le braccia e
rassicurarla,
ma aveva la sensazione che qualcosa li separasse. Qualcosa di
invisibile ed insormontabile. «Ma come potrebbe
scoprirlo? Te l'ho detto, sono quasi quattro anni che provo a
rintracciarti senza riuscirci. Non c'è più niente
che
possa collegarti a quel mondo, Jocelyn».
Lei lo guardò senza parlare per diversi secondi, valutando
le sue parole. «Ci sei tu, adesso» disse infine.
Lucian sussultò come se lo avesse schiaffeggiato, l'aria
incredula e ferita. «Io?» ripetè.
«Che vuoi dire... che
significa... che cosa credi? Pensi che ti consegnerei a lui, che gli
consegnerei tua figlia?
Tu sai cosa mi ha fatto Valentine, come puoi
pensare...»
«Abbassa la voce» l'interruppe Jocelyn. Continuava
a lanciare
sguardi preoccupati in direzione della porta. «Clarissa
potrebbe
sentire». Lucian dovette mordersi la lingua per non gridare
ancora
più forte. Osservò la donna con un misto di
rabbia e
incredulità, mentre lei sospirava, passandosi le mani sul
viso.
Poi tornò lentamente a sedersi. «Non intendevo
questo. So che posso
fidarmi di te. Ma io ho chiuso con quella parte della mia vita e non
posso nè voglio tornare indietro. Per niente e per nessuno.
Neanche per te». La voce le tremò come una foglia
nel vento. «Lo devo a mia figlia».
Lucian rimase zitto a lungo, gli occhi fissi in quelli di Jocelyn.
Forse le sue parole avrebbero dovuto ferirlo ancora di più,
ma
mentre si guardavano fu come se qualcosa andasse improvvisamente al suo
posto e capì. Si insultò mentalmente per non
esserci
arrivato prima. Sedette di nuovo davanti a lei.
«Hai ragione. Io non ti chiederei mai di tornare indietro.
Quando ho
bussato alla tua porta, oggi... non avevo la minima intenzione di...
sconvolgerti o riaprire vecchie ferite. Te lo giuro. Volevo soltanto
rivederti. Anch'io ho chiuso con quella vita e lo sai. L'unica cosa
cosa con cui non riesco a chiudere sei tu».
Lentamente, temendo che lei si ritraesse, tese una mano e
afferrò la sua. Poi esitò, ma Jocelyn non si
mosse. Anzi,
gli strinse la mano con forza, quasi aggrappandosi ad essa. I suoi
occhi blu erano più grandi del solito, luccicanti di
lacrime, e
Lucian pensò che avrebbe potuto perdersi in quella notte
sconfinata.
«Non è mai semplice chiudere con il
passato»
mormorò la ragazza con voce carica di tristezza.
«A volte
penso di aver costruito un castello di carte che potrebbe crollarmi
addosso da un momento all'altro. Ho sostituito una vita di morte e
distruzione con una vita di inganni e bugie e ho paura che non
durerà a lungo».
Lucian le accarezzava delicatamente il dorso della mano con il pollice.
«Clarissa che cosa sa?»
«Nulla» rispose Jocelyn in un sospiro tremante.
«Da un paio
d'anni ha cominciato a domandarmi di suo padre ed io le rispondo che
è morto, ma so che un giorno non sarà
più
sufficiente, che avrà altre domande, che vorrà
capire...
Che cosa le dirò, allora? Non faccio che mentirle e non lo
sopporto... lo detesto...»
La sua voce si spense tra le lacrime. Lui la fissava sentendo quella
stretta al cuore farsi sempre più dolorosa. Non aveva mai
sopportato vederla piangere, neanche quando erano bambini e Jocelyn
cadeva sbucciandosi un ginocchio mentre si rincorrevano sui prati di
Idris. Provava ancora lo stesso atroce, dilaniante desiderio di dare
qualunque cosa, anche sè stesso, per asciugare quelle
lacrime e
farle tornare il sorriso.
«Lo stai facendo per il suo bene, non avercela con te stessa.
Ma...
prima o poi dovrai dirle chi è veramente: quando
svilupperà la Vista non potrai farne a meno».
La ragazza gli lanciò un'occhiata fugace prima di abbassare
di
nuovo lo sguardo sulle loro mani intrecciate.«Veramente l'ha
già sviluppata. Da più di due anni».
«Così presto?» esclamò
Lucian, meravigliato. «Ma allora come fai...»
«Ho trovato una soluzione» rispose Jocelyn, un po'
bruscamente.
«Cioè?»
Lei tacque per un pezzo, mordendosi il labbro inferiore, come indecisa
se rispondere o meno. Quando parlò, parve che lo facesse
controvoglia. «Mi sono rivolta ad uno stregone che... in un
certo senso... ha bloccato la sua Vista».
Lucian era sbalordito. Aprì e richiuse la bocca un paio di
volte, cercando di parlare. «Hai fatto... cosa?»
«Hai capito benissimo, non farmelo ripetere».
Nella cucina scese l'ennesimo silenzio di tomba. La musica allegra che
proveniva dall'altra stanza sembrava decisamente fuori luogo e rendeva
la situazione quasi surreale. Soltanto dopo un paio di minuti Lucian
parlò ancora.
«Esiste un incantesimo abbastanza potente...»
«No, non esiste. In realtà Clarissa... dimentica
tutto
ciò che vede... qualunque cosa... nello stesso momento in
cui lo
vede. E non è un incantesimo permanente: va rinnovato ogni
due anni, altrimenti scompare».
Il volto di Lucian era così pallido e perfettamente immobile
da sembrare una maschera di cera.
«Ogni due anni?» ripetè. «Ogni
due anni le viene fatto
questo?». Jocelyn annuì. Sfilò le mani
da quelle di
Lucian e le intrecciò tra loro con forza tale che le nocche
sbiancarono. «Non è giusto» aggiunse
l'uomo, un attimo
dopo.
Lei lo guardò con aria di sfida, poi scattò in
piedi.
«Non giudicarmi, Lucian. Non osare giudicarmi! È
l'unico
modo
per proteggerla! Non può entrare in quel mondo, non può,
o lui la troverà! È un rischio troppo
grosso».
Mentre
parlava, allargò le braccia, come se ammettesse una
sconfitta.
«Tu non sai cosa significa.... Quando ami una persona, quando
la
ami
con tutto te stesso, faresti qualsiasi cosa, distruggeresti qualunque
verità, pur di proteggerla». Scosse lentamente la
testa e
le
lacrime che rigavano le sue guance scintillarono come piccole perle.
«Non puoi capire».
«Lo capisco, invece» ribattè Lucian. Lei
sgranò gli
occhi mentre lo fissava, colpita, ma rimase in silenzio. «Lo
capisco. Senti, Jocelyn...» di nuovo si alzò in
piedi e le si
accostò, come se stessero giocando ad inseguirsi
«... hai
ragione. Forse è davvero l'unico modo per proteggerla. Non
dico
di essere d'accordo, ma... mi rendo conto che hai dovuto prendere delle
decisioni difficili e che eri da sola e... posso soltanto immaginare
quanto sia stata dura. E mi sento in colpa, per questo» disse
tutto
d'un fiato.
«Cosa... ? No, non è stata colpa tua»
protestò Jocelyn, perplessa.
«Non avrei dovuto lasciarti, cinque anni fa»
proseguì
Lucian, la voce appassionata e addolorata, l'espressione intensa fissa
su di lei. «Avrei dovuto insistere e scongiurarti di farmi
venire con
te, avrei dovuto strapparmi il cuore per convincerti... Eri vulnerabile
ed io ho lasciato che ci separassimo nel momento in cui avevi
più bisogno di me. Avrei dovuto lottare di più,
essere al
tuo fianco in questi anni, aiutarti in ogni modo e mi dispiace di non
averlo fatto».
«Era quello che volevo» l'interruppe Jocelyn, con
calma. «Avevo bisogno di stare da sola».
«A volte le persone vogliono le cose sbagliate»
ribattè Lucian. «Però ci sono adesso e non ti
lascerò di nuovo. Jocelyn, io... voglio restare qui. Voglio
te, voglio tua figlia, voglio tutte e due».
L'uomo fece ancora un passo avanti e ormai erano così vicini
che
avrebbe potuto baciarla. Si trattenne a stento dall'assecondare
quell'impulso, ma la ragazza intuì cosa stava per succedere.
«Lucian, no» balbettò, scuotendo il capo.
«Jocelyn... la mia
proposta è sempre valida. Sposami» aggiunse
Lucian,
deciso. Sembrava che per lui quella parola racchiudesse il significato
dell'universo. Rimase
fermo a guardarla dritto negli occhi, come sospeso, aspettando.
«Anche la mia risposta è sempre valida»
mormorò la
ragazza lentamente. Aveva ancora le guance bagnate di lacrime e gli
occhi rossi, eppure, mentre la fissava, Lucian non riuscì a
non
pensare che non era mai stata così bella. «Mi
dispiace».
Poi Jocelyn colmò la piccola distanza che li separava e lo
abbracciò di slancio. Lui rimase immobile per alcuni
istanti,
lottando contro la lama di dolore che sentiva penetrare lentamente nel
petto. Il suo rifiuto faceva male ancora come la prima volta, ma averla
tra le braccia appagava un desiderio che lo aveva tormentato giorno e
notte in quegli anni di lontananza. Incapace di respingerla,
ricambiò la stretta e le accarezzò dolcemente i
capelli.
La capiva, in fondo. Aveva capito cinque anni prima e capiva ancora,
come soltanto un vecchio amico d'infanzia riesce a fare.
«Permettimi comunque di restare»
balbettò. Jocelyn si
irrigidì appena contro di lui, senza parlare.
«Voglio
prendermi cura di voi. Per favore, lasciami restare».
La ragazza si allontanò appena per guardarlo in faccia.
Appariva
stupita e incerta in ugual misura. «Non... non lo so,
Lucian...»
«Potrei proteggervi».
Jocelyn fece un verso simile ad uno sbuffo di amarezza.
«Nessuno può proteggerci da lui».
«Ma sareste comunque più al sicuro»
insistè Lucian.
Questa volta era deciso a non arrendersi su tutta la linea e lei lo
percepiva benissimo.
Il viso della giovane donna era una maschera di desiderio e
indecisione. «Vorrei che tu potessi restare. Lo vorrei
più di
ogni altra cosa... Mi sei mancato così tanto».
Sollevò
una mano e gli accarezzò il viso segnato, quasi ad
accertarsi
che lui fosse davvero lì, in carne ed ossa, e che non fosse
solo
un sogno. «Ma se ti dicessi di sì, se ti
accogliessi nelle
nostre vite, sarebbe come costruire un ponte tra noi e tutto quello da
cui sto scappando da cinque anni» aggiunse, a labbra strette.
«Perchè tu ne fai ancora parte».
Lucian la fissò a lungo, in silenzio, riflettendo,
stringendo le
sue spalle tra le mani, quelle piccole spalle che sopportavano un peso
immenso. Non voleva più che fossero da sole a sopportarlo.
Non
lo avrebbe permesso. «E se ne uscissi anch'io?»
propose.
Jocelyn sussultò e dai suoi occhi trapelò
un'assoluta sorpresa. «Non posso chiederti questo».
«Non sarebbe una tua scelta. Decido io cosa fare della mia
vita,
giusto?» ribattè il giovane con fare spavaldo.
«Be', se mi
vuoi, naturalmente» aggiunse un attimo dopo.
La ragazza accennò un sorriso tirato. «Se ti
voglio? Io...»
Fu interrotta dallo squillo del telefono. Sobbalzarono entrambi e si
allontanarono di colpo, guardandosi intorno con aria imbarazzata e un
po' confusa, come se
avessero volato chissà dove e quel suono li riportasse alla
realtà.
«Devo rispondere, probabilmente è la
galleria»
mormorò Jocelyn. Si passò le mani sul volto con
gesto
stanco. «Torno subito».
Uscì dalla cucina e scomparve. Rimasto solo, Lucian prese
ad andare su e giù per la stanza, inquieto,
incapace di
stare fermo, la mente che lavorava a tutta velocità. Senza
pensarci, varcò la soglia, uscendo nel corridoio, e si
trovò davanti la porta socchiusa del salottino. Si
fermò.
C'era la bambina, lì dentro. Clarissa. Uno strano e
fortissimo
desiderio di vederla, di osservarla con attenzione e scovare le
somiglianze una per una, ogni somiglianza un pugno allo stomaco, con
una vena di masochismo che aveva sempre saputo di possedere, si
impadronì all'improvviso di lui. Spinse leggermente la porta
con
una mano ed entrò, facendo meno rumore possibile. La
televisione
era accesa, ma la piccola si era addormentata seduta sul pavimento, la
testina appoggiata sul tavolo, le braccia intrecciate a formare una
sorta di cuscino. Lucian smise quasi di respirare nel timore di
svegliarla. Era così piccola e indifesa. E c'era una tale
aura
di pace e tranquillità intorno a lei che per un attimo
desiderò vegliare sul suo sonno, perchè nessuno
potesse
turbarlo. Si accostò rapido alla televisione e spinse il
tasto di spegnimento. All'improvviso udì un rumore dietro di
sè, si girò e vide
Jocelyn entrare nella stanza.
«Sei qui» disse, lanciandongli una strana occhiata.
Poi vide Clarissa
addormentata e sospirò. «Finalmente... mi chiedevo
quando
sarebbe crollata. Era esausta, oggi, ma non ha voluto dormire. Ha
disegnato tutto il pomeriggio. A volte è così
testarda».
«Testarda, eh?» mormorò Lucian, a voce
così bassa
che probabilmente lei non sentì, oppure fece finta di nulla,
mentre si chinava per prendere la bambina in braccio.
«Vuoi... vuoi
una mano?» aggiunse l'uomo, sentendosi inutile e impacciato
da
morire. Non sapeva nulla di bambini, lui.
«No, tranquillo, ce la faccio» rispose brevemente
Jocelyn.
Clarissa aveva appoggiato la testa sulla sua spalla e lei
l'accarezzò in un gesto istintivo. Lucian si accorse che lo
stava fissando con aria esitante. «Ascolta... si è
fatto
tardi e immagino che tu non abbia un posto dove andare.
Perchè
non... non rimani qui? Puoi dormire sul divano».
Lucian spostò lo sguardo sul divano verde scuro quando lei
lo
nominò, con gli occhi socchiusi e la fronte aggrottata, come
se stesse studiando il più complesso dei
problemi. Poi guardò di nuovo la ragazza. «Sei
sicura?»
Jocelyn annuì. «Certo. E domani potremmo...
riparlare con calma di tutto».
«Okay» balbettò Lucian.
«Ehm... grazie».
Lei fece un piccolo sorriso. Sembrava sinceramente felice che avesse
accettato. «Bene. Allora... buonanotte».
«Sì, buonanotte».
Jocelyn uscì portandosi dietro Clarissa. Lucian si
guardò
intorno nel piccolo salotto, incredulo al pensiero di trovarsi
lì, con Jocelyn, di nuovo sotto lo stesso tetto dopo anni,
Jocelyn e... sua figlia. Il suo sguardo corse al tavolino e ai disegni
di Clarissa. Erano una miriade. Doveva piacerle molto, disegnare.
Questo, senza ombra di dubbio, l'aveva preso da sua madre. Lucian
sorrise. La ricordava perfettamente, gli sembrava di averla davanti in
quel momento, la piccola Jocelyn, sdraiata sui costosi tappeti persiani
di Adele Fairchild o sui prati della tenuta di famiglia, a dipingere
con le mani su un'infinità di fogli di carta. Aveva sempre
amato
colorare con le dita.
Un disegno in particolare, tra quelli sparsi sul tavolino, lo
colpì. Si chinò per prenderlo e sedette sul
divano. Era
un semplice paesaggio tracciato da una mano palesemente infantile, ma
anche piuttosto abile e precisa per essere quella di una bambina. A
colpire il suo sguardo era stata la somiglianza con il dipinto di
Jocelyn che aveva visto quel pomeriggio alla galleria, raffigurante la
vista della campagna di Idris dalla tenuta di Valentine. Probabilmente
Clarissa l'aveva visto e aveva cercato di imitarlo. Quel pensiero gli
gettò addosso una tale, inspiegabile malinconia che
continuare ad
osservare il disegno divenne insopportabile.
Con un pesante sospiro, rimise il foglio sul tavolo e si
allungò
sul divano. Era esausto, come se all'improvviso sentisse nelle gambe
tutti i chilometri che aveva percorso negli ultimi anni per trovare
Jocelyn, centinaia di migliaia. Chiuse gli occhi, lasciando che la
mente vagasse, e i suoi
pensieri corsero spontaneamente al passato. Il verde brillante dei
prati di Idris, il luccichio del sole sulle torri anti-demoni di
Alicante, la sensazione di una spada angelica tra le dita, il bruciore
dello stilo sulla pelle, i riflessi tra i riccioli rossi di Jocelyn
contro il nero della tenuta da Cacciatrice mentre li raccoglieva dietro
la testa per un allenamento, le sue piccole dita che tracciavano segni
colorati sulla carta, la sua risata cristallina, lo sguardo d'intesa e
assoluta fiducia di Valentine pochi secondi prima di scendere in campo
e combattere insieme, il suo mezzo sorriso dopo una vittoria...
Lentamente scivolò in un sonno inquieto e profondo.
****
Si
svegliò di soprassalto, parecchie ore dopo, e per un istante
credette di trovarsi ancora in un sogno. Davati a lui c'era Jocelyn da
bambina. La sua vista era un po' appannata, ma l'alone rosso dei
capelli era inconfondibile. Era lei. Stupito, sbattè
più
volte le palpebre e la vista si schiarì. Allora si rese
conto
che non era Jocelyn. Era sua figlia. Indossava un pigiama azzurro, la
cascata di capelli rossi sparsa sulle spalle, era inginocchiata al
tavolino, ancora ingombro di fogli, e lo stava osservando con una buffa
espressione seria e concentrata, la testa inclinata da un lato e una
matita in mano, come se stesse cercando di cogliere un grande mistero.
«Clarissa» balbettò Lucian.
«Mi chiamo Clary» lo corresse la piccola,
imperturbabile.
«Oh» fece lui. «Clary,
d'accordo». Si mise a sedere,
passandosi una mano sul viso e cercando di scrollarsi il sonno di
dosso. Si sentiva ancora più frastornato di quando aveva
chiuso
gli occhi per addormentarsi. Dalla luce fredda e grigia
intuì
che doveva essere l'alba. Abbassò lo sguardo sulla bambina,
che
ora stava tracciando linee su un foglio bianco con grande impegno.
«Che cosa fai?»
«Ti disegno».
Lucian fece un sorriso stanco. «Davvero? Be', ci sono cose
molto
più belle e interessanti di me da disegnare,
piccola».
«Tu non sei tanto male» rispose Clary con
semplicità,
scrollando le spalle, e a Lucian scappò una mezza risata,
simile
ad uno sbuffo trattenuto, senza neanche rendersene conto. La bambina
sollevò gli occhi per osservarlo con aria sorpresa, come se
sentirlo ridere fosse la cosa più strana e improbabile del
mondo. «Chi sei?» domandò, tutta seria.
Il sorriso gli si congelò sulle labbra. E adesso? Mentre
guardava il visetto affilato di Clarissa, sentì una drastica
consapevolezza farsi strada dentro di sè: quel momento aveva
il
potere di cambiare tutto. Poteva lasciare che accadesse, oppure
fermarsi prima di andare oltre. Ma nello stesso istante, si rese conto
anche di
un'altra cosa: non c'era traccia di indecisione, in lui. Non ne
trovò neanche una briciola. Nemmeno per un istante
sentì
il bisogno di chiedersi quale sarebbe stata la scelta migliore. Quegli
occhioni verdi spalancati decisero al suo posto.
«Io sono... un vecchio amico della tua mamma»
rispose lentamente, ma senza esitare. «Mi chiamo...
Luke».
Luke. Luke? Nessuno lo aveva mai chiamato così. Non avrebbe
saputo dire da dove fosse sbucato quel nomignolo, ma gli parve una
buona idea. Luke, Lucian... che importava, in fondo? Tese la
mano
alla bambina. Per un lungo istante Clary lo esaminò in
silenzio attraverso le lunghe ciglia, con sguardo acuto e penetrante,
come per valutarlo.
All'improvviso Lucian ricordò l'espressione di Valentine
quando
lo guardava, a volte: un'espressione che sembrava trapassarti da parte
a parte e sfidarti a nascondergli qualcosa. Non avrebbe mai pensato di
rivederla, nella sua vita. Sentì un brivido, ma lo represse
e
si sforzò di sorridere. Finalmente anche Clary sorrise, un
sorriso timido
e bellissimo che le formò due fossette sulle guance, e si
allungò per stringere la sua manina in quella dell'uomo.
Quando
si separarono, Lucian ebbe la vaga sensazione che nell'atmosfera della
stanza fosse cambiato qualcosa.
«Allora... ti piace disegnare, eh?»
Clary aveva ricominciato a tracciare linee sul foglio con la matita.
«Sì. Voglio diventare brava come la
mamma».
«Lo diventerai, ne sono sicuro» mormorò
il ragazzo. Lo
sguardo gli cadde su un mazzo di carte per bambini sparpagliato sul
pavimento che la sera prima non aveva notato. «Ti piace anche
giocare a carte?»
Clary alzò le spalle. «Sì, mi
piace».
Lucian esitò un istante. «Ti andrebbe... vorresti
vedere un
giochino²? Sono sicuro che non lo conosci. Alla tua mamma
piaceva
molto quando aveva la tua età».
«Va bene» rispose la piccola, incuriosita.
Lui raccolse le carte e le mescolò un paio di volte. Si
accorse
di sentirsi stranamente in ansia. Voleva fare qualcosa per quella
bambina. Anche una cosa banale e sciocca come insegnarle il giochino di
carte più amato dai bambini di Idris. Forse quella cosa
banale e
sciocca sarebbe stato l'unico legame che Clarissa Fray avrebbe mai
avuto con il mondo a cui apparteneva. Deglutì per scacciare
il
nodo che aveva in gola.
«Vieni qui, piccola. Vicino a me, così puoi vedere
bene».
Clary si alzò, lo raggiunse trotterellando e sedette sul
pavimento, ai suoi piedi, lo sguardo attento fisso sul mazzo di carte.
Lucian iniziò a disporre le carte sul tavolino, parlandole
sotto
voce. Qualche minuto dopo, erano nel pieno del gioco quando un lieve
scricchiolio delle assi di legno del pavimento distolse l'attenzione di
Lucian. Sollevò lo sguardo e vide un'ombra ferma sulla
porta,
intenta ad osservarli: era Jocelyn, con indosso una vestaglia e i
lunghi capelli raccolti in una coda. Ebbe la sensazione che fosse
lì già da un po'. Smise di parlare e strinse
forte la
carta che aveva in mano, preoccupato.
Clary sollevò la testa, facendo ondeggiare i riccioli.
«Mami!» esclamò, allegra.
«Ciao, mami! Luke mi
ha fatto
vedere un gioco!»
Lui esitò. Temeva la reazione di Jocelyn nel vedere che si
era
spontanemente avvicinato alla bambina. «Il gioco delle
quattro
carte³» mormorò. «Te lo
ricordi?»
Guardava ansioso verso di lei, ma il suo viso era in ombra. Poi la
donna fece un passo avanti e la luce che
entrava dalle finestre la colpì, svelando i lineamenti
contratti
e gli occhi pieni di tristezza. «Sì,
ricordo» rispose in
un sussurro. Teneva le braccia incrociate e strette al corpo.
«Luke?»
aggiunse, dopo qualche secondo.
Lui capì che stava chiedendo una spiegazione.
Abbozzò un sorriso. «Ti piace?»
Jocelyn non rispose. Per un po' rimase in silenzio, lo sguardo teso
fisso su
di lui. «Hai riflettuto bene su quello che...»
Non la lasciò finire. «Non c'è niente
su cui riflettere, Jocelyn» rispose in tono definitivo.
«Sei sicuro?»
«E tu, sei sicura?» rilanciò il giovane.
Ancora una volta, lei non rispose. I suoi occhi luccicavano di lacrime,
ma Lucian non riusciva a capire cosa stesse pensando.
«Mami, l'ho imparato!» esclamò Clary
all'improvviso. Tutta
presa dalle carte, non aveva prestato la minima attenzione alle parole
di sua madre e di Lucian. «Luke, giochiamo ancora? Per
favore!»
«Certo, Clary. Mescoliamo di nuovo le carte»
mormorò
Lucian, con un lieve sussulto. Sperò che la bambina non si
accorgesse del tremito che aveva alle mani.
«Preparo un caffè» disse Jocelyn.
«Ti va, Luke?»
Lui sollevò la testa di scatto e la
guardò di nuovo.
Jocelyn resse il suo sguardo, tentando di fargli un sorriso.
Lucian sembrava impassibile, pensò, ma i suoi occhi azzurri
brillavano, luminosi come stelle. Non ricordava l'ultima volta che
aveva visto quello scintillio. Una vita fa, forse.
«Certo. Grazie» rispose Lucian, la voce calma e
controllata. Poi tornò a concentrarsi sulle carte, almeno in
apparenza, ma Clary
dovette chiamarlo più volte per attirare la sua attenzione.
Sorridendo tra sè, Jocelyn raggiunse la porta, poi si
fermò per osservarli ancora una volta, l'uomo e la bambina,
le
teste vicine, presi dal gioco. Erano la cosa più bella che
avesse mai visto. Andò in cucina, prese il barattolo del
caffè e quando si voltò verso la finestra vide
che stava
ancora piovendo. Da giorni e giorni, quasi senza sosta, cadeva una
pioggerellina fitta e sottile simile a piccole gocce di luce. Si
accostò al vetro bagnato, osservando il cielo, una distesa
di
nuvole grigie, mentre dall'altra stanza giungeva uno scoppio di risate,
e all'improvviso le tornò in mente una storia, una favola
che
sua madre le raccontava quando era bambina. Narrava di un principe e di
una principessa sovrani di un paese molto lontano, costretti all'esilio
e a separarsi a causa di uno stregone malvagio che aveva distrutto il
loro regno. Ma la principessa aveva chiesto l'aiuto di uno stregone
buono per ritrovare il suo principe e lo stregone aveva evocato un
antico incantesimo appellandosi ad uno dei quattro elementi, l'acqua,
potente, inarrestabile, capace di crearsi un varco ovunque,
travolgente,
come il vero amore: la prima pioggia dopo l'estate avrebbe ricondotto
il suo amato da lei. La principessa aveva atteso con trepidazione
l'arrivo della stagione delle piogge e quando finalmente le prime gocce
di un temporale avevano bagnato il suo viso, sulla soglia dell'autunno,
davanti a lei era apparso il principe. Tornava tra le sue braccia, come
lo stregone le aveva promesso.
Sua madre chiamava quella storia L'incantesimo
della pioggia
ed era sempre stata la preferita di Jocelyn. Da anni e anni, ormai, non
credeva più alle favole. Un tempo aveva creduto che alcune
di
esse potessero avverarsi, ma le sue
favole si erano concluse tutte nel peggiore dei modi. Cinque anni prima
aveva perso Lucian, il migliore amico che avesse mai avuto. Ora la
pioggia gliel'aveva restituito. E un giorno, forse, le avrebbe
restituito anche tutto il resto.
Fine
Note.
1. Il riferimento temporale è stato stabilito da me. Nei
romanzi
non viene mai specificato dopo quanto tempo esattamente Luke riesce a
trovare Jocelyn. Sappiamo che Clary è piuttosto piccola, ma
non
piccolissima, quindi quattro anni mi sembra un'età adatta.
2. Nella Storia di
Jocelyn, una versione ampliata del racconto che Jocelyn fa
a Clary in Città
di vetro
e disponibile online nel sito di Cassandra Clare, lei racconta di aver
fatto dormire Luke a casa loro, quella notte, e di averlo trovato la
mattina dopo mentre insegnava a Clary un gioco di carte di Idris.
3. Nome scelto a caso da me, tanto per indicare questo gioco. Se non
sbaglio, nella realtà esiste un "gioco delle quattro carte",
ma
ovviamente non è lo stesso gioco. Non ho grande fantasia, lo
so
xd. Scusate...
Spazio autrice.
Salve! Ecco la seconda ed ultima parte di questa fanfiction. Le cose
vanno come sappiamo: Jocelyn permetterà a Luke di restare e
di
fare da padre a Clary. Ho sempre pensato che vederli giocare insieme
l'avesse spinta a lasciarlo rimanere con loro, proprio
perchè ha
visto la possibilità di dare un padre a sua figlia.
Sicuramente
era felice di riavere Luke al suo fianco, ma forse questo è
stato decisivo. Anche se il finale è già noto,
quello che
mi interessava era mostrare, analizzare il modo in cui ci si arriva e
spero di esserci riuscita.
Il titolo di questa seconda parte è preso, ancora una volta,
dalla citazione che accompagna il capitolo. Esistono varie
interpretazioni della frase di Proust, ma quella che a me piace di
più è la seguente: l'unico, vero paradiso
è
ciò che vive soltanto nella nostra memoria, i nostri
ricordi,
perchè le cose belle accadute nel passato sono ormai
sottratte
allo scorrere del tempo e possiamo conservarle per sempre; la gioia
provata nel momento presente, invece, potrebbe finire da un momento
all'altro e proprio il timore che giunga la fine riduce la gioia che
proviamo. La citazione può fare riferimento sia a Jocelyn
sia a
Luke e al modo in cui entrambi hanno vissuto negli ultimi anni:
cioè nel ricordo di un passato felice e ormai perduto per
sempre, l'unico, vero paradiso a loro disposizione, insomma.
È
vero che Jocelyn ha Clary e questo la rende felice, ma ha anche un
immenso dolore con cui fare i conti tutti i giorni ed è
normale
rifugiarsi nei ricordi sereni quando siamo tristi. Ora,
però, si
sono ritrovati e finalmente hanno riguadagnato una parte del loro
"paradiso perduto", proprio come la principessa della favola
(totalmente inventata da me) ritrova il suo amore.
Spero che la fanfiction vi sia piaciuta. Grazie.
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