Hope's

di Sidney Rotten
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto (FINE) ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Non credevo che l’avrei più rivisto.
Dicono che chi lo vede una volta, probabilmente non lo rivede più. E invece eccolo lì, davanti a me. Di nuovo, come qualche giorno fa. Mi guarda, sorride, probabilmente lo fa ridere l’espressione sognante che ho sul volto.
Si accende una sigaretta, fa due note, poi si chiude il giubbotto di pelle con le borchie, tirando su la cerniera. Titubante si avvicina alla panchina dove sono seduta-anzi, rannicchiata.
Quando è a un passo da me, non riesco definitivamente a smettere di guardarlo. La mia mente è assente. Non penso a nulla, i peniseri si confondono, impedendomi di articolare una frase sensata.. Quindi sto zitta, mi limito a cercare di darmi un contegno, provo a spostare lo sguardo altrove, ma sono ipnotizzata. 
Mi accorgo di essere ingorda di dettagli.
Guardo ogni piccolo particolare di quel volto, del suo corpo. 
I capelli neri, pettinati con gli spike; gli occhi color ghiaccio, freddi, oscuri; le fossette appena accennate e il trucco calato; il corpo magro, malcelato sotto jeans neri strappati e il giubbotto leggero.
Nonostante sia solo metà ottobre, il freddo e la nebbia hanno già avvolto la città. Mi chiedo come faccia a non avere freddo. Io ho un piumino e batto violentemente i denti, mentre lui nella sua giacchetta quasi inesistente, sembra perfettamente a suo agio. 
La mia contemplazione viene interrotta dalla sua voce, profonda, a tratti inquietante.
“Ciao” mi dice, con il sorriso stampato sul volto.
Mi risveglio dal coma e rispondo al suo saluto, ma la mia voce mi arriva estranea e balbetto. Dannazione-penso.
Lui sembrta non farci molto caso. Quindi si siede affianco a me.
Torno definitivamente alla realtà, come se la bolla che mi si era formata intorno, scoppiasse.
“Piacere, Jimmy” continua, senza semttere di sorridere. Ma la curva della sua -perfetta- bocca ora è un ghigno. Il ghigno di chi sa di poter avere qualsiasi cosa.
“Oh, so chi sei. Sei tipo... Una leggenda!” rispondo, con voce leggermente spezzata. 
Lui si fa una risata, si volta verso di me e mi guarda per qualche secondo. Io avvampo.“Bene, allora sono famoso” fa una breve pausa, torna a guardare il panorama desolante della spessa coltre di nebbia che grava sul piccolo parco e sui ragazzi buttati sulle panchine davanti a noi.”Vuoi?” mi offre la sigaretta, porgendomela. Acetto, faccio due tiri, poi gliela restituisco.
Poi mi suona il cellulare. Rispondo. E’ Beth, la mia più grande amica, nonché mia coinquilina. Mi dice di tornare immediatamente alla comune, perché Samuel sta di nuovo male. Allora mi giro verso Jimmy e gli dico, senza guardarlo negli occhi “Devo andare, un mio amico sta male. E’ stato un vero... Onore conoscerti. Ah, io sono Hope.”
Neanche aspetto la risposta. , mi sono già voltata, ma mi sento prendere per un polso. Mi volto. Mi chiede dove può trovarmi e gli rispondo “Alla comune, sulla quarta strada”. Mi lascia e corro via.

Quando arrivo alla comune, Beth è in lacrime. Mi corre incontro e mi abbraccia. Rispondo all’abbraccio, poi la scosto dolcemente e vado verso la camera di Sam e Phe, mio fratello. Trovo la porta chiusa, busso e Phe mi apre, scuro in volto. Entro e vedo Sam nel letto, bianco come il muro, con la fronte imperlata di sudore. E’ rannicchiato su lui stesso, sotto il piumone. Sembra ancora più magro di quel che già è.

“Che è successo?” chiedo.
Mio fratello risponde che qualche ora fa lui e un suo amico sono arrivati alla comune e Sam già non stava molto bene; ha vomitato, più volte e poi è salita la febbre.
Esattamente come le altre volte. Anche se lui nega, imperterrito, tutti sappiamo che si fa. Non so di cosa, nessuno alla comune lo sa.
“Credo sia di nuovo in astinenza” dico.
Phe annuisce. 
Improvvisamente sento Beth, alle mie spalle, che urla mi di stare zitta, che non è vero, che non si droga.
Mi giro, neanche mi ero accorta che era entrata, prima che si mettesse a gridarmi contro. E’ una scena che ho già visto fin troppe volte.
Ha gli occhi arrossati dal pianto, che paiono più chiari del solito, è stretta in un cappotto immenso per lei e, con la cresta bionda abbassata, sembra un pulcino. Faccio per abbracciarla, ma si sposta, guardandomi con rabbia e ripete, questa volta sussurrando “Lui non si droga”
Credo lo stia dicendo più a sè stessa che a me, perché continua a dirlo, a voce bassa, facendolo sembrare un rantolo. Provo ad allungare un braccio per circondarle le spalle. Questa volta non si sposta, ma è assente, non si accorge nemmeno che la sto toccando, probabilmente. E’ intenta a guardare quel fantoccio inanimato che Sam è diventato.
Intanto Phe ha chiamato il migliore amico di Samuel. 
Io cerco di consolare Beth, ma i suoi singhiozzi sono così forti che coprono la mia voce. Provo a dirle che andrà tutto bene, ma non mi ascolta.
Poco dopo, bussano alla porta. Vado ad aprire e mi ritrovo davanti Jimmy.
In altre situazioni sarei svenuta, ma ora mi limito a balbettare e diventare un peperone. “Ciao. L-ll-lui è.. è nel letto, lì.” abbasso lo sguardo. Cazzo, perché mi fa questo effetto? Io non sono così, io non credo nell’amore e in queste cazzate-penso.
Sono di nuovo catturata dai suoi occhi. Mi sposto per farlo passare e mi sorride, poi torna serio e va verso il letto. E’ girato di spalle, ma vedo che tira fuori una siringa e e un laccio di gomma. 
Prendo Beth per le spalle e la porto fuori dalla camera. Subito prova a liberarsi dalla mia presa, ma con ben poca convinzione. Mi siedo a terra, con la schiena contro il muro e lei fa lo stesso; ora ha smesso di singhiozzare e le lacrime si sono finalmente fermate, ma ha losguardo perso nel vuoto,  e con gli occhi arrossati, stretta su lei stessa, mi sembra solo un cucciolo impaurito. Non so dire niente per consolarla. Mi limito a tirarle una pacca sulla spalla. Non sono tipa da baci, abbracci e smancerie; odio qualsiasi tipo di contatto fisico e con Beth faccio già un grande sacrificio. Più mi si sta lontani, meglio è.
Rimaniamo così, immobili e zitte, per una decina di minuti, poi escono Phe e Jimmy, che ci dicono che è tutto okay. Beth corre dentro e si chiude la porta alle spalle.
Jimmy mi fa ciao ciao con la mano, sorridendo in quel modo così inquietante e se ne va, fischiettando, con le mani in tasca come se niente fosse.
Rimango perplessa dal suo comportamento, ma -è Jimmy!- penso.
La giornata passa veloce, Sam si riprende del tutto e non si parlerà più dell’episodio, specialmente in presenza della mia amica, come succede sempre.

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Arriva la sera.
Stasera suonerò in un pub e magari riuscirò a fare un po’ di soldi., se no anche questo mese sarà dura tirare avanti. L’assegno che mi manda mia madre di 300$ non basta quasi mai, non per come vivo io. Non devo pagare l’affitto pieno, è vero, ma la manutenzione della chitarra, l’erba, la benzina e il cibo costano davvero tanto.Dell’erba posso fare a meno, ma non del resto, specialmente della chitarra, visto che è grazie a quella che posso pagare le spese alla comune.
Alle sei e mezza, arrivano le ragazze della band. Mi passano a prendere con il furgoncino nero dipinto con il nostro logo. Entro da dietro; Joan, la batterista, guida e Alyson, la seconda chitarra, è seduta a terra che controlla uno spartito.
Ci fermiamo pochi minuti dopo, nel parco dov’ero stamattina. Rimaniamo nel furgone, accendiamo gli amplificatori, attacchiamo microfoni e strumenti e proviamo. Senza Beth, quindi senza basso, non siamo un granchè, ma so che al locale spaccheremo. Poco prima delle sette, andiamo a prendere Beth, al negozio dove lavora, il Kiosko e guido io.
Quando sale sul furgone ha ancora la divisa del lavoro. Si cambia in fretta. Ora siamo tutte insieme, ora siamo le My Chronic Bitchface.
Arriviamo al pub dove dobbiamo suonare, ci fanno entrare dal retro e ci aiutano a portare dentro glii strumenti. Siamo pronte. Siamo sul palco, che è un po’ piccolo, ma ci basta.
A questo punto, tutto scompare. Sento solo più il brusio della gente, di sottofondo e gli occhi puntati su di noi.
Le mani si muovono da sole, il suono della mia chitarra elettrica riempie l’ambiente. Poi partono Beth e Joan, infine Alyson.
Ora canto. Prima traccia: Cover dei Green Day, Warning.
‘this is a public service announcement
this is only a test...’
Fortunatamente quasi tutti nel locale la conoscono e la cantano.
Andiamo aventi con cover dei Nirvana, dei Sex Pistols, dei Ramones.
Una piccola folla si è radunata sotto il palco e sembra apprezzare. Per un secondo mi sembra di vedere anche Jimmy, tra il pubblico, ma poi mi dico che, probabilmente, la mente mi gioca brutti scherzi, quindi vado avanti come se nulla fosse. Finita Lithium, facciamo una pausa di cinque minuti, giusto per prendere fiato. Siamo tutte e quattro cariche, siamo felici siamo nel nostro habitat naturale. Batto una pacca sulla spalla di Joan, che mi sorride. 
Bevo un sorso d’acqua, poi dico “Ragazze..”, si girano verso di me.
Immediatamente l’idea che subito mi è parsa geniale, mi sembra una grandissima idiozia. E dirla ad alta voce mi provoca anche un certo imbarazzo e sono quasi tentata dal non dire nulla. Ma le parole escono, la voce è più veloce della mente “Se facessimo le nostre canzoni?”. Alyson quasi cade dall’amplificatore su cui è seduta, Beth mi guarda male e a Joan va la birra per traverso. Quando si riprende dalla tosse io sto per dire di fare come se non l’avessi detto, ma lei arriva prima e esclama “Ci sto, cazzo!” seguita a ruota dalle altre.
I cinque minuti di pausa finiscono e ora è il nostro momento.
“Bene, ora faremo canzoni nostre, completamente inedite. Speriamo vi piacciano” chiudo la frase con il più grande sorriso che io abbia mai esibito.
Prima canzone. La scrissi due anni fa. Non l’ho mai cantata in pubblico, se non daventi alla band, nel garage dove proviamo. Sono emozionata, sento le gambe molli, ma le parole sgorgano dalla mia bocca, nemmeno devo pensarci troppo. Quei tre minuti scarsi di canzone, sono tra i migliori della mia vita. Mentre la mia chitarra suona e la mia voce canta, il pubblico applaude e ogni tanto arriva qualche urlo.
Allora continuiamo, andiamo avanti con le nostre canzoni e di alcune chiedono addirittura il bis. 
E’ questo quello che ho sempre sognato: il pubblico adorante, che scandisce il nostro nome, che fa delle nostre canzoni emozioni e ricordi da portarsi nell’anima, come io ho fatto con le mie band preferite. E’ questo il mio destino, me lo sento.
Saremmo andate avanti tutta la notte, se non fosse che a mezzanotte, il proprietario ci comunica che il nostro tempo è finito, che ora si deve esibire la band stabile, gli Out 24.
Quando diciamo al pubblico che li dobbiamo lasciare, tutto il locale, o quasi, applaude e urla il nostro nome. Scendiamo dal palco, andiamo sul retro, da dove siamo entrate e ci portano gli strumenti. Sono stanca, quasi senza voce, ma felice, felice come non ero da tanto, troppo tempo.
Carichiamo tutto sul furgoncino e torniamo alla Comune. Ovviamente qui sono tutti svegli.
Non vedo Phe e penso che è in giro con Sam, quando mi sento qualcuno saltarmi sulle spalle. Giro di scatto la testa e mi ritrovo mio fratello aggrappato a me come una scimmi, che mi dice in un orecchi “Sei stata incredibile”. Lo guardo di sbieco, mentre viene davanti a me e lui continua “volevamo solo vedere come andavate!” alzando le braccia come per giustificarsi. 
“Tu e chi?!” sono incazzata, ora “Non voglio che ci..” 
Non finisco la frase, perché dietro Phe ci sono Sam e Jimmy.
Jimmy mi ha sentita cantare-penso. Sto per mettermi a urlare contro quell’idiota di mio fratello, chissà cosa penserà ora di me, non ero pronta a farmi sentire da persone che conosco. Dannazione!
Ma Jimmy mi toglie tutti i dubbi “Siete brave. Hope, hai una bellissima voce e le tue canzoni sono all’altezza dei più grandi del Punk”. Sembra sincero, ma non ne sono sicura al cento per cento, quindi rispondo con un grazie sommesso.
Beth salta addosso a Sam, nel vero senso della parola, riempiendolo di baci. Il ragazzo è ancora un po’ pallido e smunto, ma sta meglio e non è neanche troppo fatto.
Intanto io tiro fuori dalla tasca una scatoletta di metallo tutta colorata, incredibilmente innocente, la apro e prendo un po’ di erba. L’ho comprata ieri da Gab, un mio grande amico, che mi fa sempre un po’ di sconto. Appena arrivate in città, lui è stato il primo ad accoglierci e a portarci poi alla Comune, dandoci un tetto sotto cui vivere. Gli dobbiamo molto. Non lo vedo spesso, ma gli voglio un bene dell’anima.
Mi faccio la canna, la accendo e boom, mi rilasso. Tutto sembra più lento, tranquillo, ovattato. Vedo a malapena Jimmy che me la prende dalle mani e fa un tiro, poi un altro. 
Quando me la passa, mi accorgo di volergli raccontare tutta la mia vita, la mia storia, gioie e dolori, dall’inizio ad ora. E poi una lacrima. Una lacrima calda, insensata attraversa la mia guancia e subito ne arriva un’altra, che fa a gara con la prima per arrivare al mento, ma incontrano un ostacolo: Jimmy sta raccogliendo quelle due goccioline salate con l’indice freddo come il ghiaccio.

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Lo guardo e lui tende le braccia verso di me. Non capisco subito che cosa voglia fare, poi mi prende le spalle e mi tira dolcemente verso il suo petto e mi abbraccia. 
Allora scoppio in lacrime, singhiozzo violentemente contro di lui e intanto mi chiedo perché diavolo io stia piangendo, come sia possibile che sono davvero tra le SUE braccia. 
Non so quanto passi prima di riuscire a calmarmi. 
Quindi mi stacco, gli sorrido; devo avere il volto devastato, perché lui mi passa il pollice sotto gli occhi come per togliermi il trucco colto e ride. Poi mi da un lieve bacio sulla fronte, sfiorandomi appena e mi sussurra all’orecchio “Vieni cone me”. Probabilmente è l’effetto del fumo, ma non mi interessa, decido di fidarmi e lo seguo, cosa che in altre circostanze avrei fatto con più riluttanza. Mi prende la mano e mi porta via da lì.
Vaghiamo per non so quanto, poi improvvisamente si ferma. Ora presto attenzione a ciò che mi sta attorno, mentre quando camminavamo, l’unica cosa che riuscivo a guardare erano le nostre mani intrecciate. Siamo davanti ad un cancello in ferro battuto, alto tre metri circa.
Mi lascia la mano e per un secondo mi sembra di perdere l’equilibrio. Si arrampica e scavalca il cancello e mi invita a fare lo stesso, con un cenno del capo. Ora che ci penso, parla davvero pochissimo. Si fa capire con il solo sguardo; i suoi ochhi sono i più espressivi che io abbia mai visto. 
Rimango così, incantata da quel suo sguardo così misterioso e oscuro, mi riprendo, scuotendo la testa. Titubante e impacciata, dopo un primo tentativo fallito, riesco anche io a scavalcare e così sono di nuovo al suo fianco. 
E’ buio pesto e non vedo quasi nulla, tranne che per qualche cerchio di semiluce soffusa dei lampioni sparsi. Nonostante si veda ben poco, intuisco che siamo nel cortile della vecchia fabbrica di stoviglie abbandonata. Non ci ero mai stata, ma sapevo che l’avevano rimessa a posto dentro e ne avevano fatto un luogo d’incontro di writers. Non guardo dove metto i piedi e tiro un calcio a una bomboletta vuota e, per il rumore, mi spavento, Jimmy si gira e io quasi gli salto addosso. Mi metto a ridere e lui mi sorride, poi mi prende di nuovo per mano e continuiamo a camminare. Forse, anzi, probabilmente, le mie percezioni sono sballate, perché mi sembra di camminare per delle ore, mentre il tragitto dal cancello all’ingresso è relativamente corto. 
Ma tutto inizia e finisce nel caldo contatto delle nostre mani incrociate, nella sua pelle screpolata dall freddo, nelle nocche arrossate e una sbucciata, probabilmente a causa di una rissa, nelle ossa sporgenti del polso così magro, nel pallore della sua carnagione.
Da fuori la fabbrica, non è niente di speciale: un capannone di cemento armato con i finestroni rotti, che si sarebbe detto completamente abbandonato a se stesso, vuoto come le orbite di un teschio, se non fosse che da quelle orbite vuote, arrivi un po’ di flebile luce. Jimmy, senza lasciare la mia mano, apre il grande portone di ferro mezzo mangiato dalla ruggine e il calore dell’interno ci investe. Dopo la penmbra dell’esterno, la luce e i colori che ora ho davanti, mi fanno strizzare gli occhi.
Poi, quando i miei occhi si abituano alla luce, vedo che dentro è bellissimo; tutte le pareti sono ricoperte di graffiti fosforescenti, c’è una rampa da skate e un ring da boxe, dove una band sta facendo le canzoi dei Sex Pistols. Ci saranno una cinquantina di persone; alcuni vanno sullo skate, altri stanno riempiendo i pochi spazi vuoti sui muri, altri ancora sono semplicemente svaccati a terra. Jimmy va verso la rampa e uno skater, vedendolo, scende dalla rampa e ci viene incontro. E’ poco più alto di me, quindi abbastanza basso, con i capelli di almeno 15 cm nera con le punte rosse e un fisico scolpito e muscoloso. Penso abbia 22 anni al massimo, ha un viso simpatico. Si chiama Alex. Mi presento e lui mi prende la mano e me la bacia. Poi si mette a ridere, allora rido anche io, ma non so bene perché. Torna al suo skate e Jimmy si siede a terra, contro un muro e mi tira giù con lui. Anche mentre siamo seduti, non lascia la mia mano e devo ammettere che non mi dispiace. 
Improvvisamente le palpebre si fanno pesanti e senza dire nulla, mi accoccolo con la testa sulla sua spalla.
Quando mi risveglio, Jimmy sta giocando con una ciocca dei miei capelli, facendosela passare tra le dita, arricciandola e poi rimettendola a posto. Il sole sta per sorgere, lo vedo guardando fori da uno dei finestroni. Le luci sono tutte spente, tutti dormono, alcuni a terra, altri sul ring, tra chitarre e bassi, tranne Jimmy. E me. Quando apro gli ochhi, mi sorride; rispondo cercando di sorridere a mia volta, ma riuscendo a fare solo una smorfia che, però, potrebbe essere immaginata come un sorrisino compiaciuto. 
Devo tornare alla comune-penso. Quindi mi alzo, ma lui mi trattiene, mi tirà a se, gli cado addosso, sorride e mi sfiora le labbra con le sue. E’ un bacio lieve, ma intenso. Ora non sorride più. Mi mordo il labbro inferiore, mi alzo e mandandogli un ultimo sguardo, me ne vado.
Mentre cammino, per tornare a casa, non so davvero che cosa pensare. Perché mi ha portata lì, perché proprio a me e soprattutto cosa significa quel bacio, sono le domande a cui non riesco a trovare risposta.
Quando arrivo alla comune, tutti dormono.
Entro in camera mia, facendo attenzione a non far rumore, per non svegliare Beth, ma non è nel letto. Sarà con Sam-penso.
Sono contenta che non ci sia.
Mi butto sul letto, neanche mi svesto, mi copro e mi addormento in mezzo secondo. 
Quando mi sveglio, guardo l’orologio sulla parete e vedo che sono le quattro e mezza del pomeriggio. C’è il sole fuori, ma le nuvole nella mia testa non se ne sono ancora andate.
Non ho molta voglia di alzarmi e indugio a uscire dal caldo e confortevole mondo dei sogni. Rimango sotto le coperte per altri cinque minuti, poi mi costringo ad alzarmi.
Non ho nulla da fare, a quest’ora la comune è quasi completamente vuota. Vago per un po’ nei corridoia, strisciando i piedi, senza badare a dove vado. Devo proprio sembrare una cocainomane. Sento ancora le palpebre pesanti, quindi torno in camera e mi faccio una lunga doccia calda. Quando esco e mi guardo nel piccolo e sporco specchio sopra al lavandino, la prima cosa che noto, sono le profonde occhiaie. Eppure ho dormito-mi dico fra me e me.
Mi strucco gli ochhi e ora, senza trucco, al naturale, assomiglio un po’ meno ad un panda denutrito e un po’ di più a me stessa. 
Ho il viso leggermente scavato, posso contarmi tutte le costole e ho le ossa di gambe e braccia sporgenti; devo decisamente mangiare di più.
E devo trovarmi un lavoro, dannazione. Quelli del pub ci hanno dato 500$, che se divisi in quattro non sono molti. 125$ non mi bastano per andare a trovare mia madre, visto che non ci vediamo da quasi otto mesi. Ma mi manca, anche se molto meno rispetto a una volta. Dopo quattro anni c’ho fatto l’abitudine, a quel quel dolore sordo allo stomaco, provocato dalla lontanza. Ma non mi pento di essermene andata. 
Mi vesto ed esco. Ormai sono le cinque e trentacinque e il cielo si è già fatto più scuro. L’aria è pungente, un refolo di vento freddo mi investe. Sorrido: amo l’inverno.
Non so ancora cosa fare, quindi mi guardo intorno, ciondolando. Decido di andare a trovare Beth a lavoro. Metto le cuffie e mi estranio dal mondo.
Per strada non c’è nessuno e mi sembra di stare in un film postapocalittico, quando il vento porta a spasso un giornale di fianco a me. Rabbrividisco e mi stringo ancora di più nel mio piumino.
Quando finalmente arrivo a destnazione, è piacevole il calore dell’interno.
Appena Beth mi vede, mi viene incontro e mi stampa un bacio sulla guancia. “Che ci fai qui?” mi chiede sorridendo.

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


Le rispondo che sinceramente non lo so nemmeno io. Poi mi fa la domanda riguardante il pensiero che sto cercando di evitare dal momento stesso in cui ho aperto gli occhi. E’ uno di quei pensieri che sono come un ronzio, che si fa via via più insistente, che mira a farmi crollare. Non posso più far finta di non sentire, devo affrontarlo. “Dove sei finita ieri sera?” mi domanda, sorridendo. Subito, però, la sua espressione cambia, vedendo che mi sono rabbuiata di colpo. Dice allora a Rob, il suo collega, che esce un secondo; una volta fuori, le racconto tutto della scorsa notte, le racconto della fabbrica abbandonata, dei graffiti, di Alex. Poi arriva il momento di dirle del bacio e esito. “Mi sono svegliata che lui giocava con i miei capelli. Avrei voluto restare, ma era meglio se tornavo alla Comune, quindi mi sono alzata, ma lui mi ha ritirata giù, e.. insomma.. mi ha baciata.- faccio una breve pausa, per riprendere fiato.-Però è stato un bacio lieve, delicato, ci siamo appena sfiorati le labbra, ma è stato incredibile. Mi ha scaldata dentro, con la sua leggerezza, mi ha fatto sussultare. Poi sono tornata a casa e ho cercato, fino ad ora, di non pensarci, perché non so come interpretarlo e mi faccio 104586377543455 paranoie.” Vedo che beth incespica nel parlare: non sa cosa dirmi. Anche io, fossi in lei, non saprei cosa diavolo rispondermi. E’ una siuazione a dir poco strana. Jimmy è “famoso” tra noi ragazzi delle Comuni, perché è considerato il nuovo Gesù della Periferia, proprio come Saint Jimmy. Porta anche lo stesso nome. Penso sia solo una coincidenza. Alcuni dicono persino che abbia una sua Bibbia, cioè un piccolo libricino, dove annota tutti i suoi pensieri, le sue canzoni, la sua filosofia, ma sono solo voci, non so se è vero oppure no. Comunque si capisce che non è un ragazzo “normale”. Ha quell’aura leggermente mistica e ipnotizzante di chi ha tutte le ripsoste a portata di mano. Lui sa cose, risposte di cui io neanche conosco le domande. Non ho mai letto nulla di ciò che ha scritto nel suo libricino, in pochi l’hanno fatto. A questo punto mi chiedo come sia possibile che l’ho conosciuto solo ora, visto che è il migliore amico del ragazzo di Beth. Forse Phe già lo conosceva, gira sempre con Sam, d’altronde.. Il filo dei miei pensieri viene interrotto da Beth, che mi dice qualcosa, ma non afferro subito. Ho il cervello appannato e le chiedo di ripetere. “Sono felice per te. Voglio dire, in poche possono vantarsi di ricevere attenzioni da.. Lui.” Sorrido, poi esce Rob che richiama la mia amica, che è arrivato un cliente. Mentre torno indietro, mi accendo una sigaretta. Passo davanti alla fabbrica abbandonata, mi fermo a conteplare l’edificio. Ora, sembra molto ppiù abbandonato, senza nessuna luce ad illuminare quelle orbite vuote. Chissà dov’è ora Jimmy- penso. Sto per andarmene, ma qualcuno mi prende la mano. Mi giro, pensando di trovare Beth, invece ci sono Phe, con la mia mano tra le sue e affianco a lui, Jimmy e Sam. “Ehilà” escalma mio fratello. Rispondo al saluto, poi guardo Jimmy e lui mi fa giusto un cenno con la testa, abbassando lo sguardo. A pensarci, non credevo davvero che l’avrei mai visto abbassare lo sguardo. Fino ad ora, sono sempre stata io, nelle occasioni in cui mi ha guardata negli occhi, ad abbassare lo sguardo per prima. “Noi andiamo a bee qualcosa di caldo al CBGB, vieni anche tu?” mi propone Sam. Accetto, quindi andiamo alla Comune a prendere la macchina di Phe e andiamo in centro-città. Davanti, Phe guida e difianco a lui c’è Sam, mentre io e Jimmy finiamo nei sedili posteriori e non proferiamo parola. Mentre io mi limito a guardare fuori dal finestrino, lui è molto interessato a guardarmi, scrutarmi, come se volesse leggermi nel pensiero e ogni volta che lo guardo di nascosto, lui si gira verso la strada, come se non volesse farsi scoprire. Quando arriviamo al locale, ci sediamo nel solito tavolino, in un angolo. Da quando vengo qui penso di non essermi mai seduta ad un altro tavolo. Ordino un tè caldo, mentre gli altri ordinano una cioccolata calda. Probabilmente, chiunque, qui dentro, vedendoci, si aspettava ordinassimo alcolici, invece siamo così.. normali. E’ vero, siamo punk e viviamo in una Comune, ma siamo più “regolari” di tanti altri, considerati persone per bene, che in realtà si ubriacano un giorno si e l’altro pure, si imbottiscono di droghe. Mentre io, a quasi vent’anni, mi sono ubriacata solamente una volta e la cosa più contro la legge che faccio è fumare. E’ una delle tante, troppe cose che mi fanno schifo della società in cui viviamo. Mentre il fottuto figlio di papà che tutti stimano e a cui i tuoi genitori ti dicono che dovresti assomigliare, si fa di coca e sniffa persino la colla, io, la sregolata punk con in capelli verdi, da cui tutti ti dicono di stare lontano perché ti porterei sulla brutta strada, ordino un maledetto tè caldo. Un normalissimo tè caldo. I miei pensieri sociomicidi, vengono bruscamente interrotti dall’arrivo del cameriere che ci porta le ordinazione. Il mio tè è bollente e lo bevo a piccolissimi sorsi e quasi mi va per traverso quando Jimmy si alza di scatto, facendo cadere la sedia su cui era seduto. Come sempre, i suoi occhi dicono tutto e anche questa volta mi parlano di qualcosa che non capisco molto bene, a metà tra l’indecisione e la volontà di fare qualcosa che non si dovrebbe fare. Tutti lo stiamo guardando con aria interrogativa, anche gli altri clienti del CBGB. Noto che il suo sguardo è puntato all’esterno, su una donna, fuori dal locale. E’ bionda, bassa, emanciata, con il viso bianco come il muro, scavato all’eccesso, con gli occhi grandi e sporgenti spalancati verso Jimmy. Penso che sia sulla quarantina, anche se profonde rughe segnano il suo volto. Rimangono così, ad osservarsi, poi lui raccoglie la sedia e e le dice, muovendo solo le labbra “Vai via”, allora la donna sembra riprendersi dalla trance e se ne va, a testa bassa. Lui si risiede, ma è scuro in volto. Sam da voce ai nostri pensieri: “Amico, chi era?”, Jimmy esita a rispondere, quindi si limita ad un gesto con la mano, come per dire “lascia perdere”. Finchè non usciamo dal locale, nessuno dice più nulla. Torniamo alla Comune che teoricamente è ora di cena, ma nessuno di noi ha fame e rimaniamo in camera mia, svaccati sul mio letto a guardare la tv. Sam e Phe, verso le nove, ci dicono che escono, allora rimaniamo io e Jimmy; siamo vicini e la sua mano sfiora la mia. Stiamo zitti per un po’, poi lui, senza girarsi verso di me, senza guardarmi, dice: “Era mia madre”.

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


Capisco al volo a cosa si riferisce. Non so cosa rispondere, ma lui continua a parlare.
“Quando avevo quattro anni, mi portarono via da lei. Si drogava, beveva, quindi mi misero in una specie di famiglia provvisoria. Stavo bene, con quelle persone, ma mi mancava la mia vera mamma. Dopo due anni, mi affidarono ad un’altra famiglia, di punto in bianco, senza nessuna spiegazione.
Credo fossi io il problema. E’ sempre stato così: chiunque mi si avvicini, scappa via terrorizzato. Lo farai anche tu, vedrai.” mi rivolge uno sguardo fugace, poi torna a fissarsi le mani. “Fatto sta che poco dopo anche questa nuova coppia, si è ritirata, lasciandomi al mio destino. Dai dieci ai sedici anni ho vissuto in una specie di collegio. Ero sempre solo, senza amici, senza famiglia” un sorriso malinconico gli attraversa il volto, poi torna serio “Lì cominciai a scrivere. Sono otto anni che lo faccio e ho ancora così tanto da scrivere, dei pensieri che mi frullano per la testa. Quando me ne andai, o meglio, quando sono potuto finalmente andare via, scoprii il punk e me ne innamorai perdutamente. Ora vivo in un appartamento poco fuori cittàe di tanto in tanto incrocio mia madre. Lei vorrebbe ricominciare ad avere un rapporto con me, ma finché non smette di farsi, io non le voglio nemmeno parlare. E non vedo l’ora che lo faccia sul serio.”
Cerco le parole giuste nella mia testa, ma l’unica cosa che riesco a pensare è che, in confronto, la mmia vita è stata così facile e non dovrei lamentarmi. Rimango zitta e l’istinto mi spinge ad abbracciarlo. Lo faccio e lui mi circonda a sua volta con le sue braccia. Stiamo così, io chiudo gli occhi e cerco di imprimere nella memoria ogni cosa: il suo profumo, la sensazione dei nostri corpi vicini, il calore che propaghiamo.
Si sposta, lasciandomi. Sorride, sincero e mi bacia la fronte, allora ricambio, sorridendo a mia volta. Mi prende la mano, ma poi mi prende per le spalle e mi tira a giù, quindi mi accoccolo affianco a lui, che copmincia a giocare con i miei capelli, come ieri sera. Sembra passato davvero tanto tempo, sebbene sia in realtà molto poco.
Ci addormentiamo abbracciati, sul mio letto.
Mi sveglio e quasi mi spavento, rendendomi conto che lui è davvero qui, che non è stato solo un sogno, un frutto molto dolce della mia immaginazione.
Non ho idea di che ora sia e neanche mi interessa; Sto lì fera a guardarlo dormire. Deve sentirsi osserveto, perché apre gli occhi. Neanche faccio finta di niente, neanche sposto lo sguardo. Si tira su, mi sorride e mi da il buongiorno. Si stiracchia, io continuo a stare ferma, a guardarlo. Come sempre, non riesco a staccargli gli occhi di dosso. 
Credevo se ne sarebbe andato, invece rimane qui, con me. Non parliamo, ci guardiamo negli occhi. Studiamo l’uno i movimenti dell’altro, cercando di indovinare quello seguente, seguiamo con le dita i nostri corpi; gli sfioro le labbra screpolate, le guance pallide, la clavicola sporgente a causa della sua magrezza, le braccia sottili, color della neve. Lui fa lo stesso con me, ma non segue nessuna traiettoria precisa, passando dalla mia bocca ai capelli, poi giù, lungo i fianchi, per poi tornare ai capelli, con i quali, a quanto pare gli piace giocare. E ad ogni tocco io fremo, ad ogni tocco un brivido nasce dal punto che le sue dita sfiorano, irradiandosi in tutto il corpo. Ma alla fine le nostre mani si di ritrovano, facendomi riprendere l’equilibrio che la distanza mi aveva fatto perdere.
Il tempo, lo spazio intorno a noi, si annullano, siamo in un limbo in cui niente ha senso, un limbo in cui l’unica cosa su cui riusciamo a concerntrarci è la presenza dell’altro al proprio fianco. La vicinanza mi scalda; quasi non lo conosco, ma è come se ci conoscessimo da sempre. Andiamo avanti così, a conoscerci senza parlare, sin quando il sole, ormai alto nel cielo, ci accarezza i volti, e ancora oltre, finché le nostre mani e i nostri occhi conosco a memoria ogni dettaglio del corpo che ci sta davanti. E’ tutto surreale, è tutto ovattato, più simile ad un sogno che alla realtà.
La prima parola che dico, la prima parola che riesco a pronunciare è un “grazie” leggermente soffocato a cui Jimmy risponde con un sorriso dei suoi. 
Il tempo si è dilatato a tal punto che non so nemmeno se è mattino, pomeriggio o sera, allora guardo l’ora sul cellulare e vedo che sono le nove e mezza e calcolo che ci siamo svegliati verso le sette, ma non ne sono così sicura. A dirla tutta, non sono sicura di niente, sono frastornata, faccio fatica a fare un ragionamento logico.
Decidiamo di rimanere ancora un poco a letto, ma ora siamo sotto le coperte. Siamo ancora vestiti, ovviamente, ma ho un po’ di freddo. Mi appoggio al suo petto e ben presto il nostro respiro è sincronizzato.
Alzo la testa per guardarlo.
Ora i nostri volti sono così vicini, che mi basta un minimo movimento, per assaggiare nuovamente le sue labbra.
Sono indecisa sul da farsi, ma lui mi precede, avvicinandosi per primo, sfruttando il mio momento d’indecisione. Non è un bacio lieve, appena accennato, questa volta. Questa volta è un bacio violento, affamato, incredibilmente dolce. E’ un bacio che mi fa venir voglia di averne un altro, immediatamente, quindi mi giro, per stare più comoda e lo bacio ancora. 
Le nostre lingue continuano a danzare, le sue mani mi prendono il viso, poi corrono alla schiena, mi stringono, mi procurano lividi il cui dolore fisico, cura il mio dolore mentale, il vuoto che mi sta inghiottendo. Non mi vuole lasciare, non vuole che io scappi via, non vuole che io faccia come hanno fatto gli altri. Non vuole più rimanere solo.

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Capitolo 6
*** Capitolo sesto (FINE) ***


A malincuore decidiamo di alzarci.
Faccio una doccia veloce, poi mi riversto, in bagno.
Quando esco, Jimmy mi dice “Facciamo colazione insieme?” 
Sono le prime parole che pronuncia, da quando ieri sera mi ha raccontato la sua storia.
Accetto, quindi usciamo. Andiamo in un baruccio qua vicino, dove spesso pranzo. Alec, il proprietario, è un mio cugino, molto alla lontana.
Prendiamo entrambi un caffè lungo e facciamo metà di un muffin al quale, però, do solo un morso, poi cincischio, giocandoci un po’ per poi lasciarlo lì. Ho lo stomaco chiuso, già bere il caffè è un patimento e quel muffin proprio non vuole andare giù.
Fuori si congela e il nostro fiato crea nuvolette nell’aria fredda.
Non abbiamo una meta precisa, vaghiamo, così, dove ci portano le gambe.Niente parole, solo sguardi. Niente parole, solo gesti.
Ci prendiamo per mano, mi accarezza una guancia, gli rivolgo un sorriso, lui risponde allo stesso modo.
Escludo il resto: siamo io e lui. Io, lui e, ora, la necessità di avere un altro bacio, che mi sale dallo stomaco, portandomi a spingermi contro di lui e aggredire le sue labbra con le mie. Penso si sposterà, invece no, rimane e risponde al mio azzardo con altrettanto furore e vogliosità. 
Passano le ore, passano i giorni.
Siamo sempre insieme, le nostre mani sempre intrecciate, unite.
Improvvisamente non mi importa più del resto del mondo.
Ci siamo io e lui, nient’altro.
Il cibo, l’acqua, le altre persone, problemi, soluzioni, gioia e dolore, sembrano essere usciti dai miei pensieri. Pian piano le mie priorità riguardano sempre meno la sopravvivenza e sempre di più la nostra relazione.
C’è un momento in cui credo addirittura di aver smesso di respirare.

FINE.

Grazie alle persone che hanno letto tutta la storia. Ve ne sono molto grata e spero vi sia piaciuta (:
Potrebbe esserci un sequel, quindi di tanto in tanto, fate un salto a trovarmi!

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