Sola contro il freddo

di Lupz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La vita non è un film. La vita forse è un palcoscenico, in cui tutti recitano, più o meno bene, la parte che il destino o loro stessi hanno scelto. Ma la vita sfugge al controllo, scivola dalle mani, prende una direzione a caso e da lì tocca ricostruire tutto. La vita cambia i piani, scombina gli eventi. Non si sa mai quello che vuole, non si sa mai cosa potrà far accadere. Rende gli uomini più vulnerabili. È per questo che va presa controcorrente. Non basta lasciarsi trasportare dove lei decide. In questo modo chissà poi dove si va a finire. Servirebbe trovare il coraggio e risalire la corrente, servirebbe che la gente trovasse la voglia di affermare se stessa oltre la forza della corrente. Servirebbe la capacità di non arrendersi, anche quando la corrente sembra troppo impetuosa.
La vita non va guardata da lontano. La vita non va affrontata come una guerra persa in partenza. La vita va affrontata come una sfida, la sfida più importante, la sfida del passato, del presente e del futuro. C’è chi vince e c’è chi perde. C’è chi sfida la corrente e chi si lascia abbattere. Il problema di chi perde è che la vita non offre un’altra possibilità. Chi la spreca ha perso e non può tornare indietro. Ogni scelta, dopo che è stata presa, non può più essere revocata. Per questo la vita è così pericolosa.
Il segreto è andare controcorrente, non lasciarsi condizionare dal caso, dal caos. Il segreto è andare oltre alle barriere che si impongono innanzi agli occhi, che condizionano i pensieri e si innalzano come invalicabili stop. Che si fermi, chi ha paura già dal principio. Che si fermi, chi non capisce cosa voglia dire saper stringere i denti e proseguire ad ogni costo, per vedere realizzarsi un sogno, un’idea, un concetto in cui davvero si crede. Già, perché il segreto è disegnarsi un percorso, e combattere per vederlo completo. Il segreto è un progetto e la voglia di realizzarlo. Solo in questo caso si sfida la sorte. Solo in questo caso si va controcorrente. Se la vita non ha un senso, non ha senso nemmeno lottare per realizzarlo. Se la vita non ha un senso, non ha senso andare controcorrente. Il significato sta nel trovare un senso per cui valga la pena, davvero, risalire quella corrente e poter dire: io ce l’ho fatta.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Era una giornata fredda, come ormai tutte le altre. Della serie che il gelo ti si conficcava nelle ossa, e non ti lasciava mai. Ma non mi faceva più effetto, camminavo con le mani congelate nelle tasche e nemmeno lo sentivo più, il freddo. Perché mi ero abituata, come ci si abitua a tutto. Prima o poi impari a farti scivolare le cose addosso, con una noncuranza paurosa. C’è solo una cosa a cui è più difficile abituarsi, quelle ferite che restano sempre aperte dentro te. O almeno, io non ci sono ancora riuscita. Sono le più crudeli, e quando sembra che si siano chiuse tornano a farsi sentire, per forza. E ti tolgono tutto, ti lasciano un vuoto, una voragine, un abisso. Un vuoto freddo. Ma poi forse, alla fine, mi stavo abituando anche a quelle: le sentivo, sempre, ma arriva un momento in cui tutto finisce di fare male. E così me le portavo insieme, senza badarci più. Che me ne importava.
Era una domenica mattina, ed era tardi. Non avevo voglia di fare niente, come al solito, e camminavo con lo sguardo basso, senza pensare. Mi sentivo tranquilla, quasi in pace con me stessa. Bene, stranamente bene. Dopo la settimana che mi ero lasciata alle spalle sarei dovuta crollare, ma non mi andava nemmeno più di perdere tempo inutilmente a piangermi addosso. Avevo sopportato tanto fino a quel momento, non potevo mollare a quel punto, ma ero consapevole di non poter nemmeno continuare a portare tutto sulle spalle. Non lo so, cosa avevo intenzione di fare, cosa avevo intenzione di pensare. A quel punto, niente. Era arrivato il momento di fermarsi un attimo, così, stop, e riprendersi se stessi. Perché mi ero persa, chissà dove, chissà quando, chissà come.
In quel momento mi guardavo intorno, osservavo la gente, e non ci trovavo niente nelle persone. Tutte così uguali e insignificanti. Solite maschere, solita apparenza, niente di più, come tutti, come sempre. E dietro le maschere, il vuoto. Le persone si nascondono perché non sono altro che finzione, se non ci fosse quella non ci sarebbero neanche loro. Le persone non sono, come il non essere di Parmenide, nella realtà non esistono. Ma in fondo non me ne frega niente. Quella mattina ero un po’ troppo insensibile, mentre di solito non lo sono mai, ma che ne so, sarà stato il freddo di quella giornata, forse aveva intorpidito anche ogni mio sentimento. Che poi era strano, strano che non mi importasse niente, che mi fosse scivolato tutto addosso. Non accadeva mai. Di solito le cose mi si incastravano nella testa, tra i pensieri, nell’anima e rimanevano lì bloccate. Non riuscivo mai a passare oltre, e me le portavo dentro per sempre, sepolte da qualche parte, pronte a riaffiorare a loro piacimento. Invece quella volta no, era stato diverso. Gli avvenimenti mi avevano colpita con una forza inaudita, una bomba che aveva minato la mia instabile calma apparente, ma poi, dopo l’esplosione, calma piatta. Le ferite si erano riaperte, una volta ancora, ma non facevano più male come una volta, ed ogni giorno sempre meno. Non perché si stessero chiudendo, forse perché dopo che me le ero portate addosso da una vita non sentivo più lo stesso dolore di prima, ecco tutto. Ed io quella mattina camminavo così, con tutte le ferite scoperte e sanguinanti, ma senza che mi accorgessi della loro presenza. Per di più, dopo che ero stata ferita così tante volte, ormai anche i colpi inflitti con più cattiveria, quelli che prima mi facevano crollare, adesso avevano perso il loro potere.
Ma basta, adesso basta. Questo tipo di pensieri è capace soltanto di generare il caos nella mia testa. Le parole sono dannose, quando non si riesce ad esprimerle, e rimangono bloccate in gola, ma anche quando le si utilizza nel modo sbagliato. Ultimamente stavo cercando di raggiungere  una conclusione, di darmi una risposta alla domanda che sempre mi martellava: ma a cosa servono così tante parole, tutte queste cazzate che spara la gente? A cosa servono le parole, se non ad usarle come schermo, per nascondersi dietro? Penso che avrebbero un valore inestimabile, ad esser utilizzate nel modo giusto, se rispecchiassero la realtà di una persona e non la sua apparenza, se esprimessero quello che davvero si sente, si prova, se aiutassero a liberarsi quando si ha bisogno di dire qualcosa. Invece le parole ormai sono semplici parole, buttate al vento per caso, senza più alcun valore, senza più nessuno scopo, se non quello di ferire, taglienti e affilate, più di tutto il resto. Purtroppo è stato superato ogni limite, chi parla lo fa per offendere, chi resta zitto ha un mondo che gli esplode dentro, ma preferisce non esprimersi, forse per paura di non essere capito, forse per paura che tutto ciò che conta venga calpestato dagli altri, confuso nel rumore e disperso nella nebbia del nulla più assoluto. Forse appartenevo al secondo di questi due gruppi, pur sapendo bene che a volte ferire con le parole era necessario, l’unico modo per difendersi. A questo punto, perciò, avevo deciso di cambiare un po’, o almeno provarci. Avevo deciso che non valeva la pena: era del tutto inutile perdere tempo a dover studiare ogni situazione, cercare di comprenderla, perché tutto quello che vedevo intorno a me era la rappresentazione più spregevole della falsità che regnava sovrana; era del tutto inutile tentare di spiegare a persone che non si degnavano di capire. In questo modo non si arriva da nessuna parte, se non a perdersi tra cose che non esistono, e sinceramente, a me non va più.
 
Quella domenica mattina non sapevo nemmeno perché fossi uscita. Voglia di confondermi tra gli altri, fingendo di essere come loro, forse. Oppure no, forse ero stranamente allegra, senza sapermi spiegare il motivo. Dovevo aver lasciato tutti i miei problemi da qualche altra parte, dimenticati. Per questo motivo camminavo da circa mezz’ora, senza sapere verso dove, con la musica nelle orecchie e gli occhi bassi. Intanto restavo da sola con me stessa, respiravo libertà a pieni polmoni. Mentre camminavo cominciai a riflettere, sempre riguardo la gente, era quella la questione che in quel momento mi interessava. A questo pensavo: sai qual è il problema, che la gente non sa più chi è, cosa vuole veramente, tutti non fanno altro che scappare da se stessi, perché tutti vengono confusi da un mondo che ti spinge ad essere chi sei, e poi ti distrugge se sei diverso dagli altri. La gente quando resta sola con se stessa si toglie la maschera e finisce di recitare la propria parte. La gente quando resta sola con se stessa ha paura, paura di scoprirsi diversa da ciò che finge di essere, di essere diversa da quell’ideale di cui recita il copione. È questo il vero dramma. Che la gente ha paura, e si nasconde perfino a se stessa. La gente. Odio quella parola, ‘la gente’ è solo un modo come un altro per omologarsi al resto. Ed io, non so se alla fine sono diversa questa massa di persone tutte uguali, che tanto critico, o se sono solo un fantoccio, impaurito di mostrarsi per quello che è, pilotato da mille fili invisibili, mai davvero libera, e come tutti gli altri. Non volevo saperlo, almeno per quella mattina volevo fingere di essere libera, perciò facevo quello che mi pareva, senza che mi importasse niente di ciò che avrebbero pensato gli altri, di me, della vita, del mondo. Tutti criticano tutto, ma in quel momento potevano parlare quanto volevano, potevano usare tutte le parole che conoscevano, potevano esprimersi in ogni lingua, attraverso ogni tipo di espressione, non mi avrebbero raggiunto in alcun modo. Dopo tutto il veleno che mi ero presa, ero estranea e lontana da ciò. Okay, non mi era passato del tutto, a volte, anzi spesso, ancora mi faceva male, perché l’incomprensione è il modo più terribile per farti capire quanto sei lontana, da tutto il resto del mondo, quanto sei sola. Però ci stavo lavorando, stavo cercando di convincermi che anche quando si è soli non bisogna arrendersi. Non è mai detta l’ultima parola, anche se diventa un po’ più difficile. Ma come detto prima, ci si abitua a tutto prima o poi. Anche se l’abitudine spesso è un danno.
 
Me ne tornai a casa con tutta la confusione che avrei voluto lasciarmi alle spalle. Non ci riesco mai, a non pensare. Ma tralasciamo. Avevo tante di quelle cose da fare che per fortuna mi sarei distratta un po’ da tutti questi pensieri astratti e insidiosi. Avevo in mente una sola cosa in quel momento, greco. Era capace di farmi impazzire più di tutto il resto. Il greco è assurdo, chi non l’ha mai provato non può capire, è la materia che fa uscir di senno tutti gli studenti. Me ne stavo alla scrivania con il libro di versioni davanti agli occhi, e il vocabolario alla mano, e mi dicevo che ce la potevo fare. In fondo il greco è difficile, ma non impossibile. Prendiamola da questo punto di vista: ci sono cose più complicate. Ci sono situazioni così contorte che non sai come uscirne fuori, ci sono persone che non riuscirai a capire in nessun modo, perché non ci sarà mai un vocabolario pronto a spiegartene i significati. Queste sono le imprese che non riesco mai ad affrontare. Magari è anche più semplice di quanto creda, magari è più semplice di una versione di greco, ma mi sembra di avere un blocco in alcuni casi. Un muro che è ancora invalicabile. Dopo questi pensieri non vedevo più il greco come un mostro. Soltanto, continuava ad irritarmi quando qualcosa non aveva senso. Già nella mia vita non trovavo un senso a niente, non poteva mettersi anche lui contro di me. Perciò alla fine mi misi di impegno, e non fu nemmeno così tanto tremendo. Ci impiegai poco più di un’ora e soddisfatta chiusi tutto. Nella vita un’ora non bastava mai per niente.
Avevo ancora sonno, ovvio, io ho sempre sonno: troppi impegni, troppa stanchezza accumulata sulle spalle, tutti che mi chiedono sempre troppo. Mi serviva un momento di riposo, staccare un po’ la spina, allontanarmi dal resto delle cose. Lo stress, la mia rabbia verso il mondo, lo stato di allerta e di inquietudine, la completa diffidenza, tutto contribuiva a distruggermi. Ed infine, sentivo di non essere mai appoggiata da nessuno, le mie scelte dovevo prenderle da sola e a volte barcollavo, perché, sempre assalita dai dubbi, non avevo idea di quale fosse la strada più sicura, e troppo spesso finivo per sbagliare, e dovermi attribuire tutte le colpe dei miei infiniti errori. Non stavo mai tranquilla insomma.
A tutto ciò, forse come conseguenza necessaria e indesiderata, si aggiunse un’altra spiacevole situazione: stavo iniziando a fare le cose senza più convinzione, cioè mi chiedevo sempre più spesso, ma perché sto ancora qua a fare qualcosa di cui non mi frega più niente? E succedeva per tutte le attività che prima avevo affrontato con entusiasmo e con passione. Portavo avanti tutto senza crederci, solo perché dovevo, e nemmeno mi interessava più. Fredda e distante, lontana, così mi sentivo da ogni punto di vista, in ogni situazione. Troppo distaccata e passiva, come non mi piaceva essere: avevo sempre ritenuto che se non ci credevo davvero in una cosa era inutile che la facessi, e adesso mi ritrovavo a comportarmi come una macchina, programmata per una certa operazione, senza trovare un senso, un motivo valido che mi spingesse a continuare. Non trovavo soluzioni, trovavo solo il problema, ed il problema ero io. Mi ero spenta all’improvviso, non riuscivo a provare alcun interesse o desiderio, e l’abitudine mi stava logorando, con i suoi ritmi distruttivi e sempre uguali. Io sono una che ci mette il cuore nelle cose, in tutto quello che fa, che dice, e se dico una cosa, una qualsiasi parola che esce dalla mia bocca, non è mai per caso, ma perché la sento. Perciò mi domandavo perché. Per difendermi, forse? Già, per far finta che non mi interessassero i colpi che mi venivano inflitti, perché tanto agivo soltanto costretta da un obbligo opprimente e ininterrotto; per fronteggiare gli insuccessi, avendo già la giustificazione pronta, anche se voleva dire non impararci niente. Io non sono questa. Che significato aveva tutto ciò? Che mi ero arresa perché sapevo di combattere una guerra già persa in partenza? Che avevo subito deposto le armi e l’avevo data vinta così facilmente a chi voleva vedermi crollare? Probabile, e non mi stava bene. Ma era un periodo, un periodo particolarmente negativo. Ok, non bastava come giustificazione, ma cosa altro avrei dovuto fare? Mollare tutto, non fare più niente perché non mi andava di fare più niente e avevo perso ogni interesse? Perché a ritrovare la passione in qualcosa, proprio non ci riuscivo.
Non era il momento giusto per pensare a questo, credo. Non volevo chiedere a me stessa di rispondere a tutte quelle domande, perchè le soluzioni non sapevo trovarle da nessuna parte, e sicuramente non le avrei trovate bombardandomi con interrogativi che per me stessa restavano grandi dilemmi. Ok, stop anche a questo. A volte nella mia mente c’è tanta di quella confusione che mi ci perdo dentro. E a volte affogo.
 
Trascorsi tutta la domenica in questo stato di indecisione, senza riuscirne a trovare una via d’uscita. Che giornata triste. E il giorno dopo non sarebbe andato tanto meglio. Il pensiero di dover andare a scuola di certo non influisce in modo positivo su di me, mai. Quei nove mesi sono sempre un inferno, sono solo un’attesa lunghissima, la sopravvivenza per raggiungere ancora illesi le prossime vacanze. Ogni singolo giorno di scuola uccideva parte del mio interesse, parte della mia curiosità verso il mondo. Il pensiero di dover fare tante cose che non mi interessano minimamente, questo mi distruggeva, tanto che mi sentivo già sfinita, stanca, soltanto immaginando quello che mi aspettava. Andai a dormire disperata, pensando che odiavo il lunedì, o meglio, che odiavo tutto, tutti e anche di più.
E il giorno dopo mi svegliai davvero incazzata. Luna storta. Probabilmente avevo avuto qualche incubo strano quella notte, o se anche così non fosse stato, la situazione non sarebbe ugualmente cambiata di molto, incazzata ero e tale rimanevo. Per prima cosa non avevo nessuna intenzione di alzarmi, volevo restarmene tranquilla sotto le coperte ancora per un po’, fingendo che tutto il resto intorno a me fosse perfetto. Però, maledetta sveglia, mi ricordò che si trattava di un sogno irrealizzabile, e che intorno a me niente era perfetto, ma tutto faceva schifo, la realtà era un incubo, caos e rumore. Se l’inferno esisteva, doveva essere quello, perché non pensavo che potesse esistere di peggio. Quindi mi alzai. Entrai in classe portandomi dietro tutta la mia luna storta. Era una giornata che non prometteva nulla di buono. Il cielo era del tutto coperto da una cappa grigia di nubi, che contribuivano a far accrescere il mio mal di testa e a rendere tutto ancora più monotono e noioso. Quando il tempo è così fosco, ha un certo influsso su di me: sa farmi diventare più nervosa e più cupa di quanto già sia per natura. Perciò quel giorno non ero nelle migliori condizioni. Per di più, immancabilmente, avevo sonno. La ripetitività del paesaggio che vedevo attraverso le finestre non mi aiutava affatto, non faceva altro che contribuire a farmi sentire gli occhi pesanti, e per di più non mi comunicava nessun sentimento. Indifferenza. Non la sopporto.
Alla fine, le cinque lunghissime ore trascorsero più velocemente di quanto temessi, accompagnate dal mio odio verso quel cielo muto, che attraverso il suo orribile colore grigio non riusciva a dirmi niente. Prima di scappare da quella classe così insignificante, mi fermai un attimo a riflettere, e pensai che quel giorno, caso strano, le solite spiegazioni erano state sostituite da qualcosa di più interessante. Non in assoluto, ovvio, ma almeno in minima parte. I prof erano cambiati tutti rispetto all’anno precedente, un po’ di diffidenza, dovuta penso alla poca conoscenza, ancora si respirava. Ma forse quei nuovi volti avrebbero potuto darmi qualcosa di più, quel qualcosa che cercavo da anni in un sistema scolastico corrotto e sbagliato, che per il momento non aveva saputo offrirmi niente di meglio che nozioni grigie e appiattite, appiccicate ai libri e al massimo rimaste a galleggiare nel vuoto della mia mente annoiata. Niente che mi fosse arrivato davvero. Avevo bisogno di una scossa potente, e quel giorno la mia attenzione era stata attirata dai discorsi puliti e precisi della nuova prof di italiano. Si vedeva, fin da subito, che poteva davvero aiutarmi. Quante cose aveva detto in una sola ora, e non le solite balle che alla fine è capace di dirti chiunque. Concetti che in un libro di scuola non si trovano mai, perché i libri di scuola sono come quel cielo che entrava nella stanza attraverso la finestra, cupi, nuvolosi, pieni di parole di cui niente arriva davvero. Suonò la campanella mentre ancora ascoltavo gli ultimi frammenti del discorso, e ben presto mi infilai tra i corridoi e le scale, per tornarmene a casa. La casa è sempre la casa, c’è quell’aria che fa stare meglio solo a respirarla, aria di famiglia, di sicurezza, di libertà. Tornai a piedi, come sempre. Abito a due passi dalla scuola ma, nonostante ciò, percorro quei due minuti di strada sempre con la musica nelle orecchie. La musica è l’unica cosa che non mi fa mai schifo, e mi aiuta a pensare. È che a volte non riesco a capirmi nemmeno io, e ho bisogno di ritrovarmi in qualcosa.  

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Bla, bla, bla, quanto cazzo parla la gente, ma cos’ha tanto da dire, perché hanno tutti sempre tanto da dire? Non si possono stare zitti, per una volta? Non sanno che il silenzio è molto più bello di tutte le cazzate che sparano loro? No, non lo sanno, e vogliono per forza riempirlo questo silenzio. Ma non dovrebbero, perché le parole non sono altro che un insieme di inutile rumore assordante, un ronzio capace di coprire tutto il resto, e di non far sentire più quello che conta. Detesto quando qualcuno vuole riempire il silenzio a tutti i costi, ma chi ve l’ha detto che gli altri vogliono stare ad ascoltare voi e le vostre futili, inutili, insignificanti parole vane e prive di senso, piuttosto che ascoltare il suono quasi impercettibile della vita, della vita che scorre, di quella che vivono e di quella che vorrebbero vivere?
Eppure a volte hai bisogno che tutto il silenzio che ti circonda scompaia, per non impazzire, è un silenzio così assordante che fa male alla testa. Perché resta zitto sempre e soltanto chi abbiamo bisogno di sentire, e a questo punto tutto il rumore intorno non ha più senso, e continua ad essere solo un rumore, niente in più, e anche il silenzio diventa un rumore assordante. Parlano sempre tutti quando non glielo chiedi e non te ne frega niente, sembra che sappiano tutto e che possano risponderti a qualsiasi interrogativo. Quando poi parlare ha un senso, quando si deve rispondere, nessuno sa più niente, tutti restano muti, cambiano discorso piuttosto che affrontare in faccia la realtà. Ma sto imparando, che quando si cercano delle risposte, anche con tutto se stesso, diventa impossibile trovarle, in questo disordine. A volte non esiste la risposta giusta. A volte non esiste nemmeno la domanda giusta, e quando c’è, si teme di pronunciarla, per paura delle risposte, delle reazioni, per paura dell’incomprensione. Domande che, fisse, restano punti interrogativi nella mente di chi se le pone, senza avere mai abbastanza coraggio per esporle. E poi muoiono. Si tratta di un problema che mi tocca in prima persona: mi capita spesso di comportarmi così, purtroppo, e di restarmene in bilico tra un dubbio e un altro, senza mai una certezza, senza mai le spiegazioni di cui avrei bisogno, almeno una volta. Ma non so come porre rimedio.
 
Era un venerdì sera, ed ero arrivata a fine giornata come al solito stanca, in entrambi i sensi della parola, stanca fisicamente, ma, peggio, ero stanca anche psicologicamente, cadevo a pezzi. Dovevano essere le dieci e me ne stavo seduta sul letto, chiedendomi ogni perché di questo mondo. Mi perdevo sempre tra i miei pensieri. Quella sera in specifico stavo pensando a tutto quello che avevo sbagliato con le persone. Premettiamo che sbaglio sempre io, e anche questo è vero, sono un po’ difficile, sono troppo brava a rovinare le situazioni. Sono brava solo in questo. Il problema più grande è però un altro, è che non so mai rimediare ai maledetti errori, mi manca il coraggio, e alla fine lascio andare tutto al caso, senza reagire come vorrei. Stavo pensando alle persone che avevo perso, per colpa mia, per colpa loro, per l’orgoglio o per le ferite, ai muri che le rendevano così tanto lontane, al freddo che aveva preso così facilmente il posto di ogni sorriso. Stavo pensando a quello che sarei stata disposta a dare ancora, stavo pensando che non so abbandonare mai una speranza, che ancora dopotutto continuo a crederci, fino alla fine, ma che non ho abbastanza fermezza per portare a termine una decisione. Preferisco aspettare un segnale, di qualsiasi tipo, pur sapendo che non arriverà. Stavo pensando che in fondo sono solo io a farmi problemi, a interessarmi ancora, agli altri non gliene frega mai niente, e, lasciandosi sempre tutto alle spalle, si allontanano senza provare niente, dimenticando tutto in fretta. A volte mi sento così stupida, perché rimango intrappolata in un passato che mi divora, e non so proseguire guardando avanti, ma voltandomi ancora una volta indietro. Perché io non mi lascio mai niente alle spalle? Perché non sono capace di farmi scivolare le cose addosso con la facilità con cui sanno farlo tutti? Non lo so. Ancora una volta stavo cercando una soluzione, una risposta. La realtà è che le persone non bisogna trattenerle quando vogliono andarsene da te, ma bisogna lasciarle libere di scegliere, scegliere se restare o se uscire dalla tua vita. Il problema nasce quando ti accorgi che non vuoi che alcune persone se ne vadano, ma non puoi fare altro che guardarle mentre si allontanano. Per poi vederle troppo lontane, da non poterle raggiungere più. È distruttivo rendersi conto di quanto si possa essere impotenti in alcuni casi, quando non si può più fare niente, pur volendolo con tutto se stesso. Ed io, lo so benissimo quello che voglio fare, ma volere non è potere. È davvero una grande cazzata questa. Avere un sogno non vuol dire che si avvererà, volere qualcosa non vuol dire ottenerla. Anzi la realtà non è proprio questa, non illudiamoci con frasi fatte. Anche se lotti con tutte le tue forze non è detto che sarai tu a vincere. È più difficile di quello che si crede di solito, o forse il problema sono io, ancora una volta. Perché agli altri riesce tutto così facile? Perché, invece, per me, volere significa solo illudersi di poter ottenere qualcosa, metterci tutta me stessa, e alla fine rincorrerlo e non raggiungerlo mai? Quanto fiato sprecato, e poi? Tutto inutile, tutto buttato al vento. Ecco tutto. Mi svegliai il giorno seguente che ancora non ero arrivata a una conclusione e non sapevo cosa fare. Mi tenevo tutto dentro, come al solito. Però dovevo far qualcosa, nonostante tutte le indecisioni. Andai a scuola un po’ prima del solito, quel giorno non mi dispiaceva nemmeno così tanto. Meglio la scuola di quella mia mente così disastrata.
 
Mi chiamo Lavinia, e questa è la mia situazione, questo è quello che mi galleggia nella testa, a volte troppo piena, a volte troppo vuota.
Era una giornata di pioggia, come in fondo lo sono tutte in inverno. Mi ero accorta che piovesse soltanto quando ero scesa di casa, non che questo evento mi importasse particolarmente. Però pioveva piano, e in fondo mi piaceva quella pioggia sottile che cadeva quasi senza rumore sulla strada, sul mondo, avvolgendo tutta la gente che procedeva distrattamente, senza fermarsi un attimo ad osservare, sempre troppo indaffarata per qualsiasi cosa, sempre di fretta. La gente era spenta come il cielo, e non si curava delle gocce che scendevano. Nessuno si interessa mai di niente, ma non è una grande novità. Restai qualche secondo a contemplare la situazione che appariva ai miei occhi, cercando di interpretare gli sguardi disattenti dei passanti e cercando di capire, di entrare nei loro pensieri per vedere cosa catturava tutta la loro attenzione, impedendogli di andare oltre. In realtà, a pensarci bene, mi resi conto che non si trattava di un comportamento da me lontano, a dirla tutta mi apparteneva, perché, succede sempre, ogni volta che c'è qualcosa che non va, siamo abituati, io per prima, a impuntarci soltanto verso questa, dimenticandoci di tutto il resto, come se non esistesse altro. E questo è un errore. Che non si deve commettere. Non si può buttare via tutto quello che si è costruito durante la propria vita soltanto perché qualcosa è andato storto. Sarebbe come perdersi sapendo di non poter tornare indietro, e proseguire per una strada che un’uscita non ce l’ha. Perciò me ne andai a scuola a piedi sotto la pioggia, con il solito ombrello che mi portavo sempre in cartella. La mattina a quell'ora faceva sempre freddo, ma quel giorno era tutto un po' diverso, non so spiegarmi il perché, e nonostante avessi le mani gelate sentivo un calore confortante dentro.Non mi spiegai cosa mi fosse accaduto, cosa mi avesse rischiarato la mente, mostrandomi luminoso e chiaro tutto ciò che prima vedevo nero e contorto, anche perché di fatto non era successo niente, sarà che sono lunatica e imprevedibile, e i miei cambiamenti repentini non hanno mai un senso, non sono dettati da qualche ragione valida: avvengono senza che nemmeno me ne renda conto, così, da un giorno all'altro, da un momento all’altro, da un secondo all’altro. Fatto sta che non mi importava tanto il motivo, in quanto mi accorsi che quando sei felice l'unica cosa che vuoi è restarlo il più possibile. Entrai in classe quando mancavano ancora cinque minuti all'inizio delle lezioni, che era presto si notava anche dai banchi ancora quasi totalmente vuoti. Il deserto al posto della classe. Calma piatta prima della tempesta. Non mi andava molto di parlare, non parlo mai tanto, specialmente di mattina, però mi piace ascoltare, quindi mi misi a sentire i discorsi degli altri, in quel caso senza nemmeno troppa attenzione.
In realtà ero ancora abbastanza persa nei miei pensieri, perciò restai un paio di minuti seduta sul banco fissando il vuoto e ascoltando frammenti di conversazioni che mi pervenivano. Quando la campanella suonò, fui costretta ad uscire dal mio mondo delle idee, in attesa dell'arrivo della prof, sempre puntuale. La classe era ancora semideserta, immersa in un silenzio innaturale. La mia compagna di banco, come al solito, era in ritardo, non che la notizia mi fosse nuova. Azzurra. Lei era sempre in ritardo, si trattava del suo stile di vita, che non aveva nessuna intenzione di cambiare, nonostante sapesse che detestavo stare ad aspettarla in ogni occasione. A parte questo, devo ammettere che la consideravo una delle poche persone di cui potevo davvero fidarmi, una spalla su cui avrei potuto poggiarmi, quasi sempre. Il problema era quel quasi: la nostra incolmabile distanza. Troppo diverse in tutto e per tutto, e penso che per capirsi fino in fondo bisogna essere almeno un po’ uguali. Credo che non mi capisse mai fino alla fine, come del resto tutti gli altri, ma sono anche certa che come tutti gli altri non era. Inutile dire il contrario, se due persone sono troppo diverse non troveranno mai un punto d'incontro, ma non è detto che per questo debbano odiarsi, o che non possano instaurare un rapporto, che sia più forte rispetto ad ogni altro. Sarebbe un discorso troppo generalizzato, dire semplicemente che se due persone non si capiscono non hanno niente in comune, e non possono averlo, e sarebbe anche noioso. Ciò che intendo è che per volersi davvero bene non basta né conoscersi né capirsi, bisogna per un attimo andare oltre. Questo è il mio modo di vedere le cose: non tutte le persone che incontri fanno parte della tua vita. La differenza sta in quelli che io chiamo legami, quei fili sottili che collegano due persone senza che possano sceglierlo, o senza che possano evitarlo. È così strano, però per me è vero, non puoi scegliere le persone che faranno parte della tua vita, in base a quanto ti conoscono o ti capiscono, perché sono già scritte dentro di te, e quando le incontri non puoi fare altro che accorgertene. È qualcosa che va oltre tutto, oltre le parole, è qualcosa che senti dentro.E in effetti lo sentivo, ma sentivo anche un freddo glaciale che ci divideva ogni volta che non eravamo capaci di raggiungerci. A volte eravamo così diverse che anche i nostri legami si spezzavano, e poi tornare indietro non era sempre facile. E i legami che si spezzano tra le persone possiedono la stessa energia cinetica degli atomi, soltanto che la utilizzano per separare, e basta. Nonostante tutto, per me Azzurra rappresentava un punto stabile, su cui potevo poggiarmi ogni volta che non trovavo più le mie forze, che barcollavo e rischiavo di cadere. Lei c'era sempre, con tutta la sua sicurezza e l'allegria che si portava dietro, e non potevo chiedere di meglio.
La prof era ormai arrivata, si erano fatte le otto e un quarto e la classe si stava pian piano popolando. Avevano tutti la stessa espressione, la mia espressione, volti stanchi, occhi assonnati e sguardi distanti, ognuno perso ancora nel proprio mondo dei sogni. La prima ora è un trauma per tutti gli studenti, sempre, qualunque essa sia; quella mattina l’arduo compito della prima ora era affidato a storia. Non male, si trattava di una materia che ancora potevo tollerare, a volte mi affascinava. Quel giorno la prof decise di interrogare, e l’interrogazione non è mai nulla di gradito, specialmente alla prima ora. Lasciò scorrere lo sguardo lungo i nomi scritti sul registro, e si soffermò su un paio, con sguardo quasi minaccioso. Sperai che non mi chiamasse, perché stavo dormendo sul banco e avevo un buco nero in testa al posto del cervello.
- Dai, De Marco e Piccinni, venite voi. Iniziamo dall’Impero Germanico.
Bene. Non avevo nessuna voglia di ascoltare, perciò me ne stetti tranquilla con la testa poggiata sul banco a sonnecchiare, mentre scarabocchiavo sul diario annotazioni di frasi di qualunque genere che mi venissero in mente in quell'orario di prima mattina, insieme ad alcuni disegni orrendi e senza alcun significato. E aspettavo ancora Azzurra, la solita; intanto riflettevo sui miei disegni. Prima di tutto, disegnavo ancora come i bambini di terza elementare. Ma poi feci caso ad altro: ho due diversi modi di disegnare: quando sono nervosa e confusa rappresento linee spezzate, quando sono allegra sgorbi di ogni tipo, ma specialmente alberi e casette, che tutto sembrano, tranne che alberi e casette. Forse in questo modo butto giù quello che mi sento nella mente. Insomma, rispecchia la mia personalità, per alcuni tratti spezzata, spigolosa e di difficile interpretazione, per altri versi più spensierata e allegra. In effetti quella mattina non mi veniva in mente nessun pensiero capace di irritarmi, mi sentivo abbastanza bene, a parte il vuoto cosmico causato dal sonno. In quel tipo di situazione, a volte mi veniva da ridere, senza che debba spiegarmi necessariamente il perché: ovviamente ciò in quel caso era un po’ fuori luogo, per di più mi capitava di non riuscire a trattenermi, ma poco mi importava. Quando mi gira bene ho la risata fin troppo facile, ma in fondo questo mi piace, e poi non stavo dando fastidio a nessuno. Gli interrogati se la stavano cavando, sparando ogni tanto qualche cazzata, ma ci si poteva sorvolare; gli altri mandavano messaggi o si facevano un giro su internet, e qualcuno spettegolava amabilmente di qualcun altro. Erano circa le otto e mezza, quando la porta della classe fu spalancata, e oltre di essa sbucò il volto di Azzurra, capelli neri e occhi verdi.
- Buongiorno, scusi prof, non è suonata la sveglia stamattina.
La prof mostrò tutto il suo disappunto, per il ritardo e per la pessima scusa, e le disse in modo chiaro che non aveva alcun diritto di arrivare a scuola, ogni giorno, almeno venti minuti più tardi rispetto agli altri.
- Lo so, ha ragione, cercherò di non farlo accadere più.
Ripeteva sempre quella frase, ma si trattava soltanto di parole gettate al vento: il giorno successivo entrava minimo alle otto e venti, e la storia si ripeteva. Azzurra prendeva sempre tutto alla leggera, forse fin troppo. Tutto. Per non parlare poi della scuola. Nella sua mente assumeva un ruolo marginale, relativo, minimo, e non si sforzava assolutamente di ottenere qualche risultato. Non le importava niente, riteneva che tutto fosse inutile lì dentro. Non le interessava di arrivare in orario, né dei giudizi dei professori, non le faceva né caldo né freddo alcun compito in classe o interrogazione. Era proprio così, non le fregava mai di niente. Si trattava di un suo aspetto che non comprendevo appieno, mi chiedevo come riuscisse a volte ad essere così superficiale. Si venne a sedere accanto a me, ed io, notai subito tipo qualcosa di strano in lei, sarà stato nello sguardo, e non riuscii a capire cosa ci fosse che non andava. Non mi guardava negli occhi, né in faccia. Strano. Trascorsero circa altri venti minuti, in cui non mi disse una sola parola. Strano. Di solito non si comportava in questo modo. Non sapevo proprio cosa pensare. Mancavano dieci minuti alla fine della lezione, e Azzurra, dopo aver chiesto il permesso di uscire dalla classe alla prof, che prima di concederglielo la fulminò con lo sguardo, se ne andò chissà dove. Subito la seguii, volevo capire se le fosse successo qualcosa, o se si trattava semplicemente di una giornata iniziata male. A volte, anche se raramente, capitava anche a lei di avere la luna storta. A volte era strana, anche più di me. Era fatta così. Azzurra aveva un’intelligenza fuori dal comune, che sapeva sfruttare a meraviglia; era una di quelle classiche persone che fanno sempre quello che pare a loro, e che in ogni caso riescono ad arrivare dove vogliono, in un modo o nell’altro. Forse si trattava di un’abilità innata, fatto sta che sapeva sempre come volgere la situazione a proprio favore, senza mai scomporsi minimamente e senza mai vacillare. Rarissime le volte in cui qualcosa le era andato storto, ma anche in quelle occasioni non aveva avuto niente di cui preoccuparsi, perché, abile manovratrice, era stata capace di condurre, proprio come una stratega, qualsiasi situazione, seppur inizialmente avversa, a proprio favore. E, come avevo potuto notare personalmente, si era tirata fuori indenne da numerose circostanze spinose, con semplici parole inserite al posto giusto e nel momento opportuno. Genio indiscusso, troppo scaltra per lasciarsi spaventare da qualcosa. Per non tralasciare poi il suo sguardo furbo, sveglio e attento, attraverso cui esaminava con circospezione tutto ciò che le capitava a tiro, senza lasciarsi sfuggire alcun particolare. Muta predatrice, osservava tutto in silenzio, per poi riportare alla luce ogni particolare ogniqualvolta le tornasse utile. Memoria impeccabile, una macchina da guerra: per certi versi, davvero terribile. Ma Azzurra non era soltanto questa. Azzurra splendeva, di luce propria, e, estremamente solare, brillante ed estroversa, aveva sempre quel qualcosa in più, sapeva essere sincera e non aveva mai bisogno di nascondersi, dietro ad una maschera o dietro il fantasma sbiadito di se stessa. Spesso incostante, a volte troppo superficiale e un po’ crudele, a volte glaciale, vero, ma bastava andare un po’ oltre, per capire chi fosse davvero. Si, potevo confermare che anche lei era strana, e tra tutta quella sicurezza che si mostrava dietro i suoi occhi verdi, possedeva anche altro. Qualcosa che forse preferiva non svelare. Che avesse anche lei un punto debole? Questo non era dato saperlo.
Uscita dalla classe, la intravidi mentre scendeva le scale che portavano all’ingresso, e, immaginando che la sua intenzione fosse quella di dirigersi verso il cortile, presi la sua stessa strada. Fuori il vento soffiava forte, e su di tutto dominava un freddo glaciale che faceva rabbrividire. Dannazione, avevo i brividi, e nemmeno una giacca a proteggermi dagli attacchi costanti di quel vento insidioso. Si sedette sulle scale, fumando una sigaretta, ed io rimasi sulla cima della scalinata, a congelare, senza muovere un passo. Ero indecisa, e mentre riflettevo sul da farsi, se andare a parlarle o tornare dentro, mi lasciavo sferzare da quel vento tagliente, che mi scompigliava i capelli, e che, nonostante l’incontrastabile violenza, o forse proprio grazie a quest’ultima, dava un senso assoluto di libertà: sembrava che con la sua potenza selvaggia potesse spazzare via tutte le barriere, annullare ogni differenza, cancellare gli sbagli ed eliminare le incomprensioni. Nonostante queste sensazioni positive, non trovai il coraggio di parlarle e tornai in classe, un po’ pensierosa. A volte Azzurra si ritirava sulle scale della scuola a riflettere, non si sa su cosa, e quando accadeva non voleva nessuno che la disturbasse. Non capitava quasi mai, ma quando capitava, voleva dire che qualcosa stava andando storto. Provai a capire cosa le stesse prendendo, ma mi era impossibile sapere.
Tornò in classe soltanto quando era già suonato il cambio dell’ora, e a quel punto le chiesi cosa avesse, guardandola negli occhi mentre lei teneva i suoi abbassati, e pretendendo una risposta, che non arrivò. Ormai ne avevo la certezza, qualcosa non andava. Era fin troppo facile per me interpretare quel suo comportamento un po’ enigmatico. Finalmente si decise a parlare: - Lavi, ma cosa dovrei dirti? È tutto apposto e la vita procede come sempre. Semplicemente non voglio parlarne, o almeno non con te, perciò lascia stare.
Rimasi un po’ spiazzata, ed era facile da notare; tuttavia annuii, e la lasciai di nuovo da sola con se stessa. Non capivo, non capivo il perché di quella risposta, ma non mi interrogai più di tanto. Però si fece largo dentro di me una piccola, nuova ferita, e ancora non potevo sapere che con il tempo si sarebbe estesa, prendendomi parte dell’anima, e avrebbe bruciato tanto.
Trascorsi le altre quattro ore apatica, facendomi scivolare tutto addosso senza che nemmeno mi accorgessi del tempo che trascorreva e di cosa succedeva attorno a me. Cosa me ne importava? Mancavano cinque minuti al termine delle lezioni, e tentavo invano di risolvere un paio di esercizi che la prof di matematica ci aveva assegnato per verificare se avessimo capito. Guardavo quei numeri, cercandoci dentro risposte più grandi di me, e li trovavo così distanti, freddi e inutili. In quel momento a cosa potevano servirmi? Allontanai sdegnata il libro e i suoi problemi, e mi preoccupai piuttosto di trovare un modo per risolvere i miei, ma niente, non c’era.
Suonò la campanella, e Azzurra immediatamente scomparve tra la folla del corridoio, senza una sguardo o una parola. Se ne andò così, e neanche io mi trattenni un secondo di più. Non mi andava di incontrare nessuno.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Ci sono certi giorni in cui davvero mi viene soltanto da buttare tutto all'aria e urlare quello che mi sono accumulata mentre gli altri, del tutto ignari della mia situazione, incapaci di capire, non fanno altro che calpestarmi più e più volte fino a lasciare il segno. Perché ci devono essere questi giorni in cui mi sembra tutto così sbagliato, vedo tutti così lontani, capaci solo di ferire, con cattiveria o senza accorgersene, ma ferire? Giorni in cui cado a pezzi senza sapere se alla fine riuscirò a ricompormi o dovrò continuare a fingere che tutto vada bene mentre sono dilaniata da graffi sottili, e sempre più profondi. Sai che dico? Ma vaffanculo, a te, a voi, a tutti. Mi sono estremamente stancata di essere presa in giro, in ogni situazione, di essere usata e poi buttata come se non esistessero i miei sentimenti. Poi alcuni si chiedono perché sono tanto difficile, perché sono così chiusa e irraggiungibile. Fatto sta che quando le cose vanno male non c'è mai modo per riportarle in ordine senza rimanerne coinvolti, senza che lascino un segno. E invece io mi sono stancata. Lascio tutto e resto immobile a guardare quello che accade, a vedere come le persone giocano con i sentimenti degli altri e si divertono anche molto. E continuo a non capire come si possa essere tanto perfidi. Ho sempre pensato che alcune persone abbiano il veleno che scorre nelle vene al posto del sangue. Quale odio immenso. Adesso non so più cosa pensare, non so più niente. Non so perché, ma non riesco mai a parlare delle persone che mi hanno ferito, ho come un blocco che me lo impedisce. Un allarme che si attiva dentro di me. Fatto sta che ad un certo punto riconosci che non puoi farcela a portarti tutto addosso, hai bisogno di buttare via il dolore per non soffocarci dentro. La delusione è come una luce tanto forte da accecarti, che illumina situazioni rimaste per troppo tempo al buio, mostrandoti quello che non eri riuscito a vedere e che all'improvviso scopri, che ti abbaglia, ti coglie alla sprovvista. E quella luce fa male agli occhi, più di quanto ti saresti aspettato.
 
La mattina seguente mi svegliai malissimo, con la testa che esplodeva, gli occhi che bruciavano, e svogliata più del solito; il mio unico pensiero era quello di maledire tutto il mondo, qualsiasi cosa o persona mi circondasse, e di farli sparire dalla mia vista. Mi rigirai tra le coperte, e non mi alzai fin quando mia madre venne in camera mia spalancando porta e finestra, e ordinandomi di sbrigarmi. Mi preparai con estrema lentezza, cercando di riattivare il mio cervello, che da un po’ era rimasto chiuso in se stesso, ma gli ingranaggi erano rotti, bloccati sempre sullo stesso problema. La verità era una e semplice, e la conoscevo bene: Azzurra, dopo la discussione che ci aveva allontanate, non aveva voluto più trovare un punto di incontro, ma piuttosto aveva preferito evitarmi, in qualsiasi modo. Io e lei, due estranee che si conoscevano da sempre. Fingere di essere due sconosciute, forse questa era la cosa che mi faceva più male. Avrei preferito discutere, parlare, urlarle contro, litigare, anche per il motivo più futile, sarebbe stato sempre meglio che guardarla da lontano e non riconoscerla più, fingere di non aver mai avuto niente a che fare con lei, e abbassare lo sguardo quando andava ad incrociarsi con il suo. Stava accadendo tutto così in fretta, la nostra amicizia si stava sgretolando, erosa dal muro di silenzio che aveva eretto attorno a sè, e ormai era ridotta a brandelli di dolore, che non si reggevano più insieme, ma crollavano, come stavo crollando io.
La situazione per me era davvero insostenibile, e avrei voluto agire per cambiare qualcosa, ma non sapevo come comportarmi, e perciò rimanevo immobile, nella mia indecisione. Più del resto mi sentivo tradita, trafitta, pugnalata alle spalle, per questo non riuscivo a darmi pace. Mi ero fidata, io, e nella mia mente fidarsi vuol dire affidare se stesso a qualcuno. E mi faceva male sapere che avevo affidato me stessa ad una persona a cui non importava niente di me. Come al solito sbaglio, perché qualsiasi situazione nella realtà è diversa da come appare nella mia mente: forse perché mi lascio ingannare dalle parole, dagli sguardi e da giuramenti infrangibili, che alla fine nessuno si preoccupa di mantenere; forse perché, nonostante tutto, sono portata a vederci del bene nella gente, per poi scoprire, sempre, che di buono non c'è niente in nessuno, rimanendone anche stupita, quando invece dovrei averlo già imparato. Dicono che sbagliando si impara, ma è una cazzata, l’ho sperimentato fin troppe volte sulla pelle, perché io sbaglio da una vita, ma continuo imperterrita a commettere sempre gli stessi errori, senza trarre da essi alcun beneficio, ma solo dolore. E non è vero neanche che il dolore fa crescere, o che prima o poi si supera. Il dolore è puro male, è una sensazione straziante di sofferenza, è pianto, e basta. Ancora una volta mi ero illusa, stupida illusa, di aver trovato qualcuno diverso, per una volta, dalla massa informe di perfidia e cattiveria da cui mi vedevo attorniata. Ma io mi illudevo, continuavo a illudermi, e illudendomi mi ero convinta che la cattiveria avesse un limite, che la gente avesse qualcosa da dare, non solo da sottrarre, e che l’amicizia esistesse sul serio e durasse per sempre. Non avevo affatto ragione, e adesso che l’avevo scoperto mi sentivo sempre più sola. Ogni giorno morivo un po’ dentro.
Andavo a scuola soltanto per la forza dell’abitudine, e nessuno si chiedeva perchè tenessi sempre lo sguardo basso, perché fossi così distante. A volte mi perdevo tra un pensiero e l’altro, osservando, vaga, il resto del mondo, che sentivo non mi appartenesse più. La mia mente era imprigionata tra sbarre troppo forti, e non cercava nessun modo per sfuggire da quella prigione in cui io stessa la stavo rinchiudendo. Mi veniva in mente soltanto che come persona non valessi niente: tutti, nessuno escluso, dopo un po’ si stancavano di me, forse perché ero più vuota di quanto potessi immaginare. Ero una persona sbagliata in un mondo da schifo, valevo meno di quegli oggetti rotti e inutilizzati che giacciono chiusi in cantina, accatastati tra la polvere, pronti ad essere buttati via, o ad essere lasciati per sempre lì, inutili e dimenticati. Da sola non ce la facevo, da sola contavo meno di niente, da sola avevo paura, perché chi è solo nel silenzio assordante della solitudine trova soltanto tristezza, e cocci rotti, da cui non si può ricostruire niente. Camminavo nel buio più cupo, barcollando ad ogni passo, perché non si mostrava nemmeno una piccola luce davanti a me, che mi indicasse dove stessi andando. Era difficile procedere così. Ora, avevo sempre saputo che non bisogna mai fare affidamento in particolare su qualcuno, che tutti ti abbandonano prima o poi, e mi ero sempre aspettata tutto da tutti, qualsiasi colpo. Ma da lei no.
 
Quella mattina mi sentivo ugualmente uno schifo, ma mi stavo imponendo di reagire, di affrontare il prima possibile quella situazione, per non farla degenerare completamente. Volevo guardarla dritta in faccia e chiederle il perché, senza cedere davanti ai suoi occhi di ghiaccio. Era tenuta a darmi una spiegazione, ed io ero tenuta a chiedergliela. Perciò le avrei parlato, perché con tutte le esperienze lasciate alle spalle avevo imparato che è meglio affrontarle subito le difficoltà e le incomprensioni: più tempo passa più si ingigantiscono, diventano senza soluzione, dividono così tanto da non poter più trovare un punto d'incontro, come il binario di un treno che si biforca, prendendo due strade opposte e separate. Poi non si ricongiunge più, se non guardando indietro, da lontano. Ed è così brutto, quando accade con una persona che è parte di te, e che possiede una parte di te. Durante la prima ora, non riuscii a mantenere la promessa che mi ero fatta, mi lasciavo troppo contrastare dai miei pensieri. Perciò alla fine mi lasciai guidare dal mio istinto, e mi presentai davanti al suo sguardo. Dapprima non mi considerò, poi mi chiese cosa volessi.
- Ti permetti di chiederlo? Perché da sola non ci arrivi a capirlo, vero. Non prendermi in giro, Azzurra. C'è che non sei più quella di prima. C'è che sei cambiata, da un momento all'altro, senza motivo, senza spiegazione, non ti trovo più. C'è che sei di ghiaccio, fredda, distaccata, lontana, c'è che non sei te, ma che sei come tutti gli altri. Non ti capisco più, in un attimo sei diventata un'estranea. È cambiato tutto troppo in fretta, e io non sono riuscita a seguirti, o non lo so. Fatto sta che mi ignori, mi eviti e mi allontani, senza che ci sia un motivo. Quindi adesso spiegami il perché.
Speravo che avrebbe capito, ma che capire, mi era sfuggito un piccolo particolare, mi era sfuggito che nessuno ha un attimo di tempo in più per fermarsi e chiedersi perché, i perché delle persone, dei loro modi di agire e di pensare. Si limitano a risolvere la questione con un sorriso di disappunto, quel sorriso ironico da presa per il culo, senza mai mettersi in discussione, senza mai dubitare di se stessi piuttosto che degli altri, con quella sicurezza dipinta nello sguardo che verrebbe voglia di cancellare urlando contro tutta la merda che in realtà sono. Che dire quindi, che non me l'aspettavo? Già, ma Azzurra, è una persona come tutte le altre, con le sue convinzioni infondate e la sua superficialità. Non avrei dovuto stupirmi, ma non avrei mai previsto nulla del genere, mai.
 - Senti, ma che vuoi da me adesso, che mi vieni a fare questa sparata? Cosa pretendi, ma soprattutto ti rendi conto di quello che dici? Parli tanto di me, ma sei tu ad essere diversa. Sono io che non ti riconosco, e davvero non capisco in questo modo dove tu voglia arrivare. Ma non è il momento giusto per parlarne.
No, davvero, non mi ero accorta di essere cambiata. Non ero cambiata per niente. O forse si? Quando una persona cambia è l'ultima ad accorgersi del proprio cambiamento. Ma non mi importava al momento, semplicemente non volevo buttare all'aria in un attimo quello che avevamo costruito in tutti questi anni. Volevo risolvere, trovare un rimedio. A me importava. A me importa sempre, ma nessuno se ne accorge mai. Ci pensai un po' su, non riuscivo a trovare una risposta. Mi avevano colpita con forza, le sue parole, ma niente mi aveva stupita quanto il suo disinteresse. Non gliene fregava niente, a questo stentavo a credere. Ma che stava succedendo? Perché sono sempre un problema per le persone, e mai una soluzione? Perché una cosa nella mia vita ogni tanto non decide di prendere la strada giusta, ma preferisce portarmi sulla rotta sbagliata? Sarà che ho bisogno di un navigatore, in modo da fargli prendere le decisioni al posto mio, per farmi portare al posto giusto senza incorrere in migliaia di vicoli ciechi e strade sbarrate, senza uscite. Dritti al traguardo, senza le maledette indecisioni, le incertezze, i disastrosi incidenti di percorso: godersi il viaggio, da buon passeggero, e nient'altro, perché il resto complica soltanto le cose. Alla fine le risposi.
- Forse un momento giusto per te non esiste. Ma ti rendi conto di quello che dici? Sei tu che non vuoi parlarmi, che hai tagliato ogni dialogo, che mi ignori in ogni modo possibile.
Non mi disse più nulla, semplicemente se ne andò. Rimasi senza parole. Restai in quella situazione perlopiù tutto il giorno. Mentre tornavo a casa ancora mi chiedevo perchè, avevo la mente del tutto annebbiata e confusa, niente sembrava quello che era, l'unica cosa chiara che mi appariva era quella sensazione di vuoto cosmico, la consapevolezza di essere un puntino al centro del vuoto, così lontana anni luce da quel tutto che piano stavo scoprendo essere niente, se non dolore. Il dolore che nasce dai mille problemi che mi faccio sempre e solo io, mentre gli altri sono occupati solo ad accusare, per farmi sentire ancora più in colpa di quanto già non mi senta da sola. In colpa per tutte le occasioni sprecate, per gli imperdonabili e irreparabili errori, per le possibilità che mi passano accanto e non riesco a cogliere, per tutta l'indecisione che mi porto nelle vene e che mi fa restare ferma quando non dovrei fare altro se non agire. Ma che parlo a fare. L'unica preoccupazione stava diventando un'ossessione. La verità era semplice, avevo bisogno di aiuto, perché da sola non ce la facevo, da sola stavo annegando in un mare di tristezza. Volevo trovare una soluzione al più presto, ma non riuscivo a pensare con tutti i relitti che galleggiavano nella mente.
 
È così che mi sento, come se avessi una maschera che non riesco a togliere mai del tutto. Ma perché, me lo chiedo anche io, fatto sta che rimane sempre incollata al viso, anche quando vorrei strapparla e mostrare quello che davvero sono sotto, urlare al vento quello che sento, senza più dovermi nascondere dietro quella maledetta maschera che è il mio continuo silenzio, di cui adesso non posso fare a meno. Sono così chiusa, bloccata in me stessa, distrutta tra le pareti del mio essere e del mio apparire, e non ci riesco a sembrare ciò che sono. E a volte davvero non so cosa pensare, di me, della mia vita, perché sono sempre così distante dalle situazioni, perché mi sento sempre così distante, perché mi ci fanno sentire così distante? Ecco che me lo chiedo ancora, ma sono io il problema? Perché devo esserlo sempre e solo io? E sbaglio, sbaglio, sulle situazioni, ma soprattutto sulle persone, che non si capisce mai cosa vogliono. Di solito niente, semplicemente si divertono a giocare, prendendo ogni cosa come capita e abbandonandola più distrutta di come l’avevano trovata. Ma boh, questi pensieri mi vengono così, straripano come un fiume nella mia testa rompendo qualsiasi argine, e non posso controllarli né bloccarli. Quando vengono devo lasciarli scorrere, non c'è altro modo.
Avevo bisogno di parlare con qualcuno, avevo bisogno di essere ascoltata, volevo che le parole uscissero facilmente dalla bocca, senza aggrapparsi ad ogni dubbio, restando ancorate dentro di me, fino a marcire, rinchiuse. Volevo riuscire a svuotarmi invece di buttare tutto indietro, già sapendo che non sarei riuscita a dimostrare davvero i miei sentimenti. Ho bisogno nella mia vita di persone che siano capaci di ascoltarmi. Ma tutti preferiscono parlare, parlare e parlare, mentre io resto zitta e centinaia di parole mi muoiono dentro. Quando mi manca una persona non riesco mai a farglielo capire, non riesco mai a dimostrare quanto sia importante per me, e allora rimango ferma, senza parlare, e mi perdo anche l'ultima occasione di tornare, di farla tornare, di recuperare in qualsiasi modo possibile. Sono fatta così, e non trovo un modo per cambiare, anche se a volte vorrei. Perché le persone poi le perdo, e mi mancano ancora di più, ma sono troppo distanti per riportarle indietro, e non ce la farei mai. Non ce la faccio mai, alla fine lascio andare tutti quelli che vorrei far restare. Già, perché mi esplodeva il cuore per tutto il bene che le volevo, ma dalla bocca non uscivano le parole giuste per farglielo capire, ed ero troppo insicura. Allora rimanevo sempre zitta, e sentivo dentro un boato nel silenzio, incontenibile, spaccava le pareti ma rimaneva compresso.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Ci sono alcune, rare volte, in cui riesco a credere in me. Succede che stacco dalla solita tristezza, smetto di farmi capitare qualsiasi cosa addosso senza reagire, forse quando sono così disperata da non avere altra scelta se non raccogliere il poco che mi resta e andare avanti così, senza portarmi addosso tutte le indecisioni che di solito mi bloccano, prendendo coraggio e portando avanti le mie decisioni, senza mandare tutto in fumo per una stupida paura. Infondo mi chiedo, ma cosa ho da perdere adesso? Niente, e arrendersi sarebbe troppo facile. Era circa mezzanotte, la fine di una giornata disastrosa. Il mondo continuava a crollarmi addosso, e non riuscivo a trovare un modo per impedire questa caduta libera. Nel letto non riuscivo a prendere sonno, continuavo a ripetermi di essere una fallita, in tutto e per tutto, sempre. Ero stanca, crollavo a pezzi, non potevo restare in quella situazione. Sono fragile, troppo, e ogni minimo particolare è capace di ferirmi, specialmente i dettagli. Ma non resto a piangermi addosso io, nonostante le difficoltà, nonostante le ferite spalancate e le voragini aperte nell'anima, lascio tutto come sta per andare avanti senza cancellare il resto. Restai ad osservare il soffitto buio e a ripetermi mille volte nella testa che non si può buttare tutto solo per un errore, che l'importante è mettere tutti se stessi nelle imprese da portare avanti, e io l'avrei fatto. Non abbandono le mie convinzioni, anche se nel seguirle rischio di farmi male. Io non mi arrendo per così poco, e sono pronta a riparare a tutti quei maledetti errori. Andare avanti non vuol dire guardare in là dimenticando tutto ciò che c'è prima, non vuol dire cancellare quello che è andato male e cominciare di nuovo. Vuol dire tornare indietro, nonostante faccia male, accettare le proprie cadute, le proprie sconfitte, ed essere pronti a rialzarsi, a ripartire da quello che si è sbagliato. Altrimenti sarebbe come nascondersi da se stessi, fingendo che vada tutto bene quando invece tutto crolla.
Fu con questa convinzione che mi addormentai. La mattina dopo avevo semplicemente un sonno pazzesco, a causa di queste mie riflessioni notturne. La giornata era più gelida del solito, resa ancora più cupa dai nuvoloni neri che sovrastavano dall'alto la città e dal vento che ululava minaccioso. Davvero un grande risveglio. Avevo deciso che avrei trovato in qualche modo una soluzione, ma ero consapevole della necessità di un aiuto. Avrei abbattuto il mio eterno muro, avevo bisogno di fidarmi di qualcuno sperando di non essere delusa, ancora una volta. Una soluzione l’avevo trovata nella mia mente, e tentavo invano di scacciarla e tentare di sostituirla, ma era l’unico pensiero fisso e per di più mi impediva di riflettere su altro, quindi mi convinsi a percorrere quella strada. Così all’uscita di scuola mi feci coraggio, tanto quanto non ne avevo mai avuto, e decisi di compiere la mia missione. L’idea era semplice. Avevo intenzione di andare a parlare con Erik, il migliore amico di Azzurra, che la conosceva molto meglio di quanto la conoscessi io, per chiedergli di aiutarmi in qualche modo. In teoria, nessun  problema. La questione era però alquanto complessa da portare a termine, in special modo per un soggetto come me. Parlare con Erik era impossibile, perché era sempre circondato dalla schiera dei suoi amici e da ragazzine che gli andavano dietro, veniva considerato inarrivabile, si sentiva superiore al resto del mondo, bello, biondo e impossibile, e nonostante lo conoscessi da anni non sapevo nemmeno se si sarebbe ricordato della mia esistenza o se ci avrei fatto una gran figura di merda presentandomi così e chiedendogli aiuto. Fino all’ultimo secondo rimasi interdetta sul da farsi, analizzando i pro e i contro della situazione, cercandolo intanto con lo sguardo. Quando lo individuai, come al solito stava con il suo branco. Non avendo minima idea di quello che avrei dovuto fare, mentre dissimulavo il panico cercando un modo per attaccare il discorso, mi accorsi che mi stava guardando, e che ovviamente anche tutti i suoi seguaci stavano facendo la stessa cosa. Non feci in tempo nemmeno a rendermene conto, e il mio istinto mi precedette, quindi lo salutai senza avere nemmeno il tempo di accorgermi di quello che stavo combinando. Così quando poi ripresi pieno possesso delle mie facoltà imprecai tra me e me, celando la consapevolezza di aver fatto una cazzata dietro un sorriso idiota. Maledissi anche Azzurra, era sempre colpa sua. Erik abbandonò stranamente il suo clan, e mi si avvicinò per qualche motivo indecifrabile, mentre intanto mi chiedevo cosa lo spingesse a compiere tale gesto, dato che non ci vedevamo da un bel po’ e che non avevamo mai avuto chissà quali rapporti.
- Ehila Lav, da quanto tempo non ci si vede. Tutto bene?
- Ciao Erik. Si tutto bene, cioè in realtà no, ma è una lunga storia. Se hai tempo vorrei parlartene. Ho bisogno del tuo aiuto.
Mi scrutò con sguardo interrogativo.
- Non mi aspettavo una richiesta del genere da te però se vuoi si. Dimmi, di che si tratta?
- È Azzurra. Mi sembra diversa dal solito, almeno nei miei confronti. La vedo assente, distante, troppo occupata in altri affari, e mi sento lontana dal suo mondo, come se si fosse annoiata di me e mi avesse chiusa fuori. È diventata indecifrabile, non ho idea di cosa fare per riportare la situazione com'era prima, perché non riesco nemmeno a parlarle. Non so cosa le sia preso, ha deciso che non vado più bene da un momento all’altro. Insomma, mi capisci? Ti prego almeno tu dimmi cosa fare, perché non ho nessuna idea, e sono un po’ scoraggiata. Forse soltanto tu puoi sapere cosa fare.
Ok, mi ero totalmente fidata di lui, e non sapevo fin quanto si trattasse della scelta migliore. Ma non avevo nessuna alternativa, e soprattutto non avevo altro da perdere.
- Non so che dirti adesso, non mi aspettavo niente di simile. Azzurra non mi sembra cambiata ultimamente, forse mi sbaglio, ma mi sembra la solita. Però vedo cosa posso fare, e ti faccio sapere presto, ci penso un po' su.
- Va bene grazie, e davvero scusa per il disturbo, ma lo sai che per me è importante. Sono certa che qualcosa si sia spezzato tra noi, e non riesco ad accettarlo.
- Posso capirti, farò il possibile per aiutarti.
Ci salutammo così, poi lui tornò dai suoi amici e io me ne andai a casa. Era stato fin troppo gentile, non che di solito non lo fosse, ma mi venne ugualmente qualche sospetto; temevo che le avrebbe riferito tutto e si sarebbe preso gioco di me, mi chiesi se davvero avessi fatto bene a fare quella scelta. Poi però pensai che era sempre meglio di rimanere sospesa tra le mie indecisioni. Adesso non potevo fare altro che aspettare.
 
In realtà c'era qualcosa che volevo dimenticare e omettere: infatti, un paio di anni addietro, mi ero innamorata di lui; non mi ricordavo nemmeno come e perché, ma era successo. Ovviamente Erik non lo aveva mai saputo, a causa della mia capacità di incatenare i sentimenti nell'anima senza riuscire in nessun modo a scoprirli e a mostrarli, perciò dopo esserci persi di vista il mio interesse era passato. Tra i vari problemi, gli impegni, le infinite giornate che trascorrevo senza un attimo di respiro, ero riuscita a dimenticare qualcosa che, se avessi ricordato, mi avrebbe fatto solo male. Meglio così, ma a dirla tutta avevo paura che non fosse finito tutto lì. Era una trappola, per riparare da una parte ero andata a creare un intoppo dall'altra. Ma dovevo mantenere la calma, perché ormai consideravo Erik solo come un amico, niente di più, e così sarebbe restato. O almeno ci era restato fino a quel momento credo, perché non mi aveva fatto nessun effetto. Insomma, non potevo innamorarmi di lui, di nuovo, in fondo non aveva niente di più rispetto agli altri, e mi sembrava così tanto legato al suo personaggio, alla sua maschera e al suo solito copione, recitato a perfezione, sempre uguale per anni senza saper cambiare mai, nemmeno una virgola, da convincermi che dietro tutto questo apparire ci fosse una voragine, un vuoto incolmabile, il niente che in realtà era.
Mi dissi nuovamente che dovevo mantenere la calma, si sarebbe visto anche questo. Purtroppo la soluzione che avevo quella era, aspettare finché fosse successo qualcosa, e aspettare senza poter fare niente non mi aiutava di certo a mantenere la calma. Perciò mi rassicurai da sola, ripetendomi che tutto sarebbe andato per il verso giusto, ma quale fosse questo verso giusto, non mi era dato saperlo: l'importante era il raggiungimento del fine, il mezzo per raggiungerlo diventava poco rilevante a questo punto della questione. Per evitare altre riflessioni pericolose, preferii occupare la mente con la scuola, e mi decisi a studiare un po' di tutto per il giorno dopo. E feci proprio benissimo. Il giorno dopo venni interrogata in tutto, e terminai le mie battaglie sempre da vincitrice. Almeno una minima soddisfazione l'avevo, che poi non mi bastasse per niente, tralasciamo. Perché mi sentivo il vuoto dentro e non sapevo come riempirlo, ed ero così vuota che anche le parole si erano inabissate e non riuscivo più a cavarle dall'abisso che mi stava divorando. Così mentre i professori si dicevano soddisfatti di me, io avrei voluto urlare che non c'era niente da essere soddisfatti. La scuola è importante, fondamentale, necessaria, e tutto, ne sono consapevole, ma a volte diventa davvero inutile, priva di valore e significato, perché la vita è una voragine aperta verso ciò che non si conosce e non si può conoscere, è un continuo andare verso l’ignoto, superando limiti invalicabili senza accorgersene, da cui si torna sempre mancanti di qualcosa, mutilati di un pezzo di sé che se ne va con il dolore, più consapevoli, più insensibili ai colpi che possono essere inflitti, ma più fragili, meno pronti a fidarsi di qualcuno, sapendo che prima o poi, inevitabilmente si verrà feriti. Una sfida più difficile di qualunque altra, un viaggio pieno di pericoli, che qualcuno si decide ad affrontare, solcando le onde di un mare in tempesta anche su una piccola nave, e senza equipaggio, pronto a fronteggiare qualsiasi rischio pur di raggiungere i propri obiettivi; qualcun altro, invece, non ha la stessa forza, non vuole tentare la sfida, e rimane sulla terraferma, soggiogato da un destino che non sa più contrastare. Siamo tutti un po’ come Ulisse, costretti ad un viaggio più grande di noi stessi per ritrovare ciò che ci è stato strappato via; ma solo alcuni riescono ad intraprendere questo tipo di viaggio, ed ancor meno sono quelli che non si perdono mentre scoprono davvero a cosa vanno incontro, ma che proseguono, fino alla fine, combattendo anche contro se stessi per trovare un senso a quello che fanno. I più restano a riva, guardando con nostalgia e malinconia il mare dalla costa, senza mai sfidarlo, sconfitti troppo presto dal timore di morire, che li costringe a non vivere mai davvero. Ed io avevo paura di non saper partire per il viaggio che mi spettava, e di rimanere su quella costa per sempre. O di rischiare, di partire andando incontro ad un destino non ancora del tutto stabilito, e di naufragare in una tempesta.
 
Questi pensieri mi assalirono prepotentemente, e mi folgorarono. Forse stavo già viaggiando in balia delle onde, e dovevo stare attenta a chi ponevo a capo della mia nave: il capitano dovevo essere io, e non potevo dare a nessun altro la possibilità di condurre la mia vita verso una rotta sbagliata. Non ero abbastanza salda, ma dovevo resistere. Debole ma risoluta, presi in mano la situazione e, fingendo che fosse tutto apposto, eliminai ogni traccia di tristezza dal mio viso, mantenendola soltanto dentro, e mi trattenni all’uscita a fare chiacchiere con alcune mie amiche, indossando il sorriso più falso che avessi. Soltanto in quel momento notai che Erik stava discutendo con Azzurra su qualcosa, e mi chiesi se fossi io la causa. Non era possibile, non potevo rovinare sempre tutto, anche ciò che non mi riguardava. Perciò rimasi ad osservare la situazione da lontano, con la coda dell’occhio, cercando invano di capirci qualcosa di più. Dopo un paio di minuti Azzurra, concludendo il discorso con un ‘E adesso lasciami stare’, si allontanò con occhi di fuoco e con passo fermo, andando via infuriata. Erik mi vide, mentre lo fissavo incredula, e mi chiamò. Io, dopo essermi congedata dalle altre ragazze, rimaste altrettanto stupefatte dalla scena a cui avevano appena assistito, lo raggiunsi, con il cuore che martellava, a causa della paura di essere l’unica colpevole di tutta quella spiacevole situazione. Rimasi muta, con la testa bassa e gli occhi puntati a terra aspettando che lui parlasse.
- Non devi sentirti in colpa se io e Azzurra abbiamo litigato. Sai, non mi ero accorto di quanto tu avessi ragione. Azzurra è cambiata tanto, e senza che me ne sia reso conto. Credo che la colpa per buona parte sia mia, e lo ammetto, ho sbagliato. Sono stato troppo occupato nei miei milioni di impegni, e in tutto ciò ho messo da parte la sua amicizia, si tratta di un errore che non mi perdonerò mai. E solo adesso mi rendo conto di quanto sia degenerata la situazione, della distanza che si è creata tra noi da un momento all’altro, distruggendo quel legame che avevamo saldato giorno per giorno, la fiducia che ci eravamo guadagnati. Il bene reciproco, che pensavamo indissolubile, si è spento al primo soffio di vento, sostituito dalle fiamme più alte e più forti della diffidenza e della lontananza. Sai, penso che soltanto tu mi possa capire in questo momento. Mi sembra di dover combattere da solo contro una mancanza, e combattere contro qualcosa che non c’è è già una battaglia persa in partenza. Forse non sembra, ma in questo momento sono più fragile che mai, e allora ti chiedo di combattere insieme questa folle guerra.
Quando Erik terminò il suo discorso rimasi per un attimo interdetta, e al principio non seppi rispondergli. Mi sentivo coinvolta in quello che aveva detto, perché aveva saputo esprimere a voce quelle parole che dalla mia bocca non sarebbero uscite mai. Non riuscii nemmeno a pensare che avesse pronunciato quelle parole guidato da altri sentimenti, perché glielo si leggeva nell’espressione del viso, un po’ assente e un po’ ferita, che non stava mentendo. Pensai che avevo sbagliato tutto su di lui, definendolo un fantoccio biondo privo si personalità e sensibilità, superficiale e pieno di sé: probabilmente mi ero fatta un’idea negativa su di lui per difendermi, perché sapevo che altrimenti sarei caduta di nuovo nell’inganno e sarei di nuovo rimasta affascinata da lui, dalla sua gentilezza, che lo distingueva dal resto delle persone qualunque. Mi lasciai ammaliare dalle sue parole, nonostante fossi consapevole che le parole, senza una reale dimostrazione, sono solo fiato al vento. Di solito le parole non mi bastano, ma mi convinse, sarà stata colpa degli occhi che brillavano di rabbia e delusione, o sarà stato che a volte le parole sono l’unica cosa a cui si può credere. Quando sono sentite dentro, quando trovano con difficoltà la strada per uscire dall'anima, quando sono sbagliate perché non si sa come esprimerle, quando non vengono capite, in questi casi sono le più importanti, le più forti, le più sincere, perché fanno fuoriuscire una parte di chi le pronuncia, in questi casi assumono più valore di qualsiasi altra cosa, e non si può non credere che siano nobili. Ed io vidi tutto questo nelle sue parole. Mi decisi ancora una volta a dargli la mia fiducia, senza sapere se stessi facendo la scelta giusta o stessi rischiando ancora di ferirmi, questa volta anche da sola. Solo dopo questa riflessione gli risposi.
- E allora combatteremo, e faremo quello che si può fare. Però ancora non ho ben capito quello che è successo, se vuoi spiegami.
- Si, adesso ti spiego. Ieri, dopo che tu mi hai parlato, ho un po’ riflettuto, e mi sono accorto di aver perso il rapporto di prima con Azzurra, ormai tutta la nostra amicizia si era ridotta a qualche saluto, di sfuggita: non potevo in effetti sapere se tu avessi ragione. Perciò ho deciso di verificare se la situazione fosse come tu me l’avevi descritta, ed anche di rimediare a questo allontanamento, vedendolo come un piccolo inconveniente che con poco si sarebbe potuto saldare. Avevo bisogno di rivederla, di parlarci e di capire. Ma ho potuto constatare che il problema era più grande di quanto credessi. Quindi ieri sera, dopo averla chiamata e aver parlato un po’ al telefono, le avevo chiesto di andare a farci un giro insieme. Tutto sembrava normale, tutto troppo facile, fin quando sono passato a prenderla con la moto da casa. Mi osservava, con uno sguardo accusatore, ed era fredda e controllata nei gesti e nelle parole. All’inizio provai a sorvolare, ma non andava bene così, perciò le ho chiesto il motivo. Da quel momento abbiamo iniziato a discutere, litigare e accusarci. Mi ha addossato tutta la colpa. Ha detto che con il passare del tempo mi ero dimenticato di lei e lei, stanca di venirmi a cercare sempre per prima, prendendo atto del mio disinteresse nei suoi confronti, aveva soltanto lasciato perdere, perché non voleva star male, né dare tutta se stessa a chi, come me, non ricambiava. Non le ho neanche risposto, l’ho riportata a casa e sono andato via, senza parole. Inutile dirti che la situazione reale non è come lei l’ha descritta.
Si fermò un attimo, forse in attesa che gli dicessi qualcosa, mentre la mia mente passava da un pensiero all’altro, senza sosta, per elaborare qualcosa che potesse essere utile.
- Si.
Risposi, ancora sovrappensiero. Mi guardò un po’ male, non capendo a cosa si riferisse la mia risposta.
- Niente, intendevo dire che nel mio caso è accaduto qualcosa di analogo, anche se a me non ha nemmeno fornito qualche spiegazione. Mi sembra una presa in giro, ma lei non scherza, non so cosa vuole e dove vuole arrivare in questo modo.
- Non lo so nemmeno io, ma non è finita qui. Stamattina, dopo che ieri aveva reagito in quel modo nei miei confronti, sono andato nuovamente io incontro, a chiedere spiegazioni, pensando magari che si sarebbe resa conto di aver esagerato. Ma niente.
 - Ti giuro che non la capisco più. Lei non parla. Al massimo spara addosso. Non so che ha, non so perché reagisce così, non so cosa le sia successo. Vedremo.
- Si vedremo proprio. Ma ti dico che non mi fermo qui. Quando voglio una cosa nessuno mi può fermare, tanto meno lei.
Annuii, e poco dopo tornai a casa.
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Arriva un momento in cui non riesci più a parlare, perché ci sono i pensieri che ti divorano tutto quello che hai dentro. Non sai più che dire, non sai come esprimerti e rischi di scivolare nel buio e soffocare, senza mai vedere la luce.Ecco cosa mi succede ogni tanto, mi blocco, come un disco rotto, mi fermo e non so più ripartire. A volte sento qualcosa che mi si rompe, a volte mi sento così sbagliata in questo mondo da non sapere più cosa fare, da restare sola con le spalle al muro, lottando con tutti i fantasmi della mia mente senza riuscire a sconfiggerne neanche uno. Sono così lontana e nessuno può arrivare a capirmi, nessuno è capace di abbattere la mia barriera. Nessuno nota tutta la fatica che faccio, tutto l'impegno che ci metto, a nessuno importa se dentro scoppio e muoio, se ho freddo nel cuore perché resto sola e zitta quando avrei bisogno di urlare a qualcuno tutta la rabbia, la delusione e l'immenso dolore che restano compressi in ogni parte di me. Così rimango sveglia fino a tardi, con ricordi e pensieri che mi perforano l'anima, senza sapere come fare a metterli a tacere una volta per tutte, quei maledetti. E se fingo di star bene, nessuno si accorge mai di tutto quello che mi tengo dentro, nessuno mi chiede mai sul serio come sto, e non mi resta che aspettare fino a quando tornerà quel poco di calma, pronta a scomparire in un attimo con la prossima insicurezza. Ma no niente, va tutto bene.
Tutto è relativo qua, ed è vero, ma molti prendono questa affermazione come una scusa. Capiscono quello che vogliono capire, sentono quello che vogliono sentire, interpretano qualunque cosa come pare a loro. Il problema reale è uno solo, semplice. Il problema è che io mi affeziono troppo facilmente a chi non dovrei. Alcune persone dovrei solo odiarle, per tutto il male che mi fanno, e invece mi affeziono, pur sapendo che sbaglio, che sono un'autolesionista. Non avrei mai potuto pensare che sarei arrivata a questo punto. Sono sola, circondata da tutti quei finti amici che mi pugnalano con parole affilate come coltelli, così tanto per gioco, e mi permetto anche di affezionarmi. Sono caduta troppo in basso, ma non ci riesco io a odiare, alla fine c'è sempre qualche maledetta cosa che mi frega. Ecco perché ci sto male, ma il peggio è che non riesco a evitarlo. Pur sapendo che in cambio avrò solo pugnalate, io riesco solo a voler bene, e a sentirlo nel cuore. E questo bene fa più male di ogni male, perché fatica ad uscire, rimane incastrato e sconosciuto. Perché non è ricambiato e mai lo sarà.E tutta questa indifferenza uccide. Succede che quando gira male una singola cosa, tutto il resto si adegua a girare male, e il contrario mai. Si può dire che ne abbia fatto l'abitudine, ma a certe cose non ci si abitua, più che altro si finge. Ormai è l'unica soluzione che mi resta. Non posso mostrarmi a tutti così come sono, così fragile, così debole, allora fingo anche io. A spiegare cosa sia successo, non ne sono capace, fatto sta che lo sento, c'è qualcosa che non va, forse in me, perché mi sembra di essere un'estranea, estranea da tutto il mondo, da ogni persona che passa, qualunque cosa faccia, io sono distante. A volte voglio cambiare tutta me stessa, perché non riesco a convivere con la persona che sono, ma non ne sono capace, e tutto rimane sempre uguale. Ecco perché tutto questo, queste frasi a metà, queste spiegazioni inconcludenti. Vorrei darmi un senso, vorrei dare un senso a quello che faccio, ma non lo trovo mai. Vorrei capire perché non vengo capita, a volte nemmeno da me. Vorrei capire perché tutti mi danno per scontata, pur senza sapere niente su di me. Vorrei capire perché non faccio altro che perdere persone e aspettare invano il loro ritorno, avendo già la convinzione che nessuno tornerà, ma ugualmente restando ad aspettare con una speranza che è spenta, ma che resta viva, nascosta nel profondo. Ma forse è proprio questa speranza a rendere tutto più difficile, perché in fondo resterà tale, un’effimera speranza, niente di meglio, niente di più. Ne sono consapevole, e questa consapevolezza è ciò che mi distrugge, unita all'impossibilità di spegnerla, la speranza, che come un fuoco arde, ma soprattutto brucia. E le fiamme, specialmente nell'anima, sono indelebili.
Era un sabato pomeriggio e pioveva a dirotto. Di solito detestavo la pioggia, ma da un po' di tempo mi trovavo a mio agio, le gocce che cadono in silenzio mi ricordano me stessa. Mi piace guardare la pioggia, immagini che scivolano sotto lo sguardo e si confondono. La pioggia mi fa sentire meno sola. Quella sera sarei dovuta uscire con i miei amici, ma mi sembrava tutto troppo buio e spento dalla prospettiva da cui guardavo le cose per poter riuscire a fingere con persone che in ogni caso non avrebbero capito. Scelta ardua, considerando che l'alternativa fosse restare a casa a proseguire le mie riflessioni inconcludenti e che io fossi più propensa verso quest'ultima scelta.
Ci voleva un miracolo.
Feci un breve riepilogo della mia situazione, giusto per rendermi conto se come al solito ero troppo drastica o se il mio pessimismo fosse motivato. Mi accorsi che tutto sommato poteva andare anche peggio, anche se la mia situazione non si potesse definire il top. Insomma, Azzurra era come se non esistesse più, con Erik mi si stava riaprendo una ferita, tutti gli altri erano troppo superficiali e invadenti, facevano domande a cui sapevano che non avrei voluto rispondere invece di guardarmi negli occhi per un attimo e capire tutto da lì. Per poi non ricordare altre situazioni che cercavo di tenere a bada, nascoste e rinchiuse nella stanza più piccola di me, ma che così strette non ci restavano a lungo. Situazioni che dovevo lottare per non far tornare alla luce, perché avrebbero spalancato voragini troppo vaste, a cui non avevo trovato ancora rimedio, che ci avevo impiegato troppo tempo per seppellire, e che non conoscevo nessun modo per chiudere definitivamente. Cosa avrei dovuto fare? Non ne avevo idea. Forse è qui che sbaglio, nel tenere dentro quello che non voglio far conoscere fuori, ma che in qualche modo dovrei, devo estrarre dall'anima. Invece ci resta, e ciò comporta che quando un vecchio abisso si riapre è ancora più profondo di prima, ed è ancora più difficile cercare di nasconderlo, fingendo che non ci sia. Perché lo so che c'è, e lo sento, e questo ammasso di dolore permane anche quando dovrebbe da tempo essere andato via. Sarà che sbaglio troppo, e con una facilità estrema, ma chi c'è, chi, pronto ad ascoltarmi, a salvarmi da me stessa? Chi? Mai nessuno, e da sola non so fare meglio di così. Dovrei provare a farmi forza, a non arrendermi per ogni ferita, a lottare senza mai smettere. Magari ci proverò, ma inizio domani.
Avevo una stanchezza pesante sulle spalle, e ancor più nella testa, volevo solo dormire, dormire fino a svegliarmi senza ricordare più niente. Invece cominciai a guardare fuori dalla finestra: dovevano essere massimo le sei di pomeriggio, ed era già così buio, e io detestavo guardare fuori dalla finestra e trovarci il buio, detestavo il buio in tutte le sue forme, quel buio che invade la stanza fino a far sentire la sua presenza oscura su di me, incombente e minaccioso. Volevo la luce, una luce che mi abbagliasse gli occhi e il cuore, che mi aiutasse a fare qualcosa, e non quel buio che mi induceva a restare ferma, e a piangermi addosso.
Ok, lo so, sono la solita esagerata. E perciò decisi che quella sera sarei uscita, e avrei trovato una soluzione immediata a questa sensazione di vuoto. La vita è questa, credo, non ci si può arrendere al primo fallimento. È necessario andare avanti, ricominciare se è tutto distrutto, e non vivere nel ricordo o nella speranza, perché non bastano. E allora, decisi che non mi sarei fermata per queste cose, per quanto potessero influire sulla mia persona. Sono solo io che decido per me. Dovetti ripeterlo un paio di volte, ma alla fine mi convinsi.E fui io a decidere per me.Fatto sta che ero pronta e sorridente, quando controllai il telefono per vedere a che ora mi sarebbero venuti a prendere. Ci trovai un bel messaggio, che annunciava con gioia il loro cambiamento di programma. Non si usciva più, il motivo non lo sapevo e non me ne fregava, piuttosto mi venne da ridere: cosa avrei dovuto fare io in quel momento? Lanciai il telefono sul letto: un paio di idee mi erano venute in mente, ma non le avrei portate a termine, perciò evitai di pensarci. Misi un po' di musica, giusto perché non ci so vivere senza, e mi concentrai sulla partita che avrei giocato il giorno successivo. Già, perché io gioco a pallavolo, e l'amo la pallavolo. A volte mi fa benissimo, a volte fa un po' male anche lei. Ma per il momento tralasciamo questo doppio aspetto.
Fatto sta che dopo un po’ mi rassegnai all’idea di dover restare a casa a guardarmi la pioggia che cadeva fuori dalla finestra, senza nient’altro da fare. Almeno sarebbe stato rilassante, niente da obiettare, meglio trovare i lati positivi in ogni situazione, và, altrimenti chissà dove si finisce.
E quindi, non avendo niente da fare, andai in camera di mio fratello a giocare alla play, l'unica cosa rilassante e divertente che avessi trovato. 
Mentre giocavo la solita partita a Fifa, sentii il cellulare squillare e perciò, piuttosto infastidita per il disturbo, risposi alla chiamata. Era Erik.
- Ou, che vuoi?
- Ehi Lav, ti disturbo?
- No, dimmi.
- Senti, qualche novità?
- Cosa dovrei dirti? Per il momento niente, e tu?
- Si, qualcosa, ma non mi va di parlarne adesso.
- Perché mi hai chiamata?
- Non lo so nemmeno io.
- Benissimo allora.
- Hai qualche impegno per stasera?
- Non proprio.
- Ok allora ti passo a prendere tra dieci minuti in moto.
- Certo, e andiamo a farci un giro sotto la pioggia vero?
Nessuna risposta, aveva già chiuso. Questo è matto, pensai, e vedendomi costretta a interrompere la partita di Fifa, lasciai la mia Juventus a malincuore in attesa che quel pazzo arrivasse. Che cosa voleva adesso da me? Il suo comportamento mi sembrava un po' troppo strano, e non mi fidavo. Però non avevo altro da fare, e non mi costava niente, specialmente se davvero aveva qualcosa da dirmi. Per la verità non mi dispiaceva affatto come stava andando a finire la serata. Però non ero convinta. Sempre la solita indecisa.
Quando mi inviò il messaggio, scesi, e senza ombrello. Per fortuna pioveva piano e, tranne per i capelli, non si trattò di un grande problema. Mi porse il casco e poi partì, per chissà quale destinazione, senza nemmeno una parola. E mi convinceva sempre di meno, però restai tranquilla. Lo conoscevo abbastanza, non avrebbe mai fatto cazzate, ma ugualmente non capii cosa volesse, avrei dovuto aspettare. Arrivammo dopo non molto in un posto che non avevo mai visto, doveva essere un bar. Entrati, ci sedemmo ad un tavolino, mentre continuava il silenzio. Erik aveva gli occhi bassi, puntati a terra, e lo sguardo un po' perso di chi pensa a qualcosa senza saper trovare una soluzione. Non sapevo quale ruolo mi fosse stato attribuito in quella circostanza, perciò preferii restare in attesa, guardando lui che fissava il niente. Dopo un paio di minuti si ricordò di non trovarsi da solo con il proprio ego in ritiro spirituale, e si accorse della mia espressione un po' impaziente.
- Si scusa hai ragione, adesso ti spiego.
Disse soltanto, poi finalmente mi guardò negli occhi, e decise di iniziare il suo discorso. Era un ragazzo strano, non me lo sarei mai aspettato così enigmatico.
- Oggi pomeriggio è successo tutto quello che poteva e non doveva succedere. Era presto, nemmeno le tre credo, ma non riuscivo a darmi pace. Perciò l'ho chiamata, le ho chiesto se potevo passare un attimo sotto casa sua. Mi ha risposto che no, aveva altro da fare. Le ho chiesto se almeno aveva cinque minuti per parlare, mi ha detto di si, ma che non aveva niente da dire né bisogno di ascoltare. Le ho detto che non capivo, che era assurdo per me rinunciare così alla mia migliore amica. Non ha voluto sentire ragioni. Ha risposto che la colpa era mia, che da quando l’avevo abbandonata era cambiata, ed erano cambiate le sue priorità, e che perciò dovevo farmene una ragione. Mi ha chiuso il telefono in faccia.
Dopo queste parole solo il silenzio. Non riuscivo a parlare, ogni parola mi moriva in gola, non sapevo fare ordine tra i pensieri, non potevo essere di alcuna utilità, ero solo confusa. Lui d'altra parte era triste, ferito, non riusciva a continuare il discorso e bruciava per l'ira ma soprattutto per il dolore che si sente quando un amico pugnala alle spalle con tanta noncuranza.
- Poi.. Poi niente. Sono stato ad impazzire in ogni modo per avere altre notizie, ma nessun risultato. E ora sono qui, in queste condizioni, mentre potrei essere in qualsiasi altro posto a ridere, scherzare e fregarmene. Ecco qual è il risultato. Sono stanco di tutto questo, ho bisogno di staccare un po'. Ora, scusa se in tutto questo coinvolgo te, ma credo di non poter trovare qualcun altro capace di capirmi, e non ce la faccio a star zitto e comportarmi come se niente fosse quando ho così tanto bisogno di buttare fuori quello che mi tormenta, perché altrimenti mi dilania.
Ancora una volta rimasi zitta. Non riuscivo davvero a rispondergli, semplicemente per me era lo stesso e quasi tremavo perché lui era stato capace di esprimere quella marea di sensazioni che io invece non avevo mai avuto il coraggio di esporre. Calò il silenzio, e non feci altro che fissarlo, incredula e incapace di compiere qualsiasi altra azione. Lo guardavo negli occhi e lui sosteneva il mio sguardo. Erano sinceri, gli occhi, sinceri come non avevo mai visto, e mentre gli leggevo tutti i tormenti che attraverso di essi si mostravano dall'anima, lui rimaneva immobile, forse in attesa che parlassi, che gli dicessi qualcosa. Ma niente. Fui io la prima ad abbassare lo sguardo, non riuscivo a sostenere i suoi occhi dentro i miei. Bruciavano. Erano stupendi, un castano incendiato dal fuoco della delusione. Erano vivi. Vivi come è difficile trovarli.
- Scusa ma.. Davvero non ho parole, perché per me è esattamente lo stesso, e mi sento come se per una volta qualcuno sia in grado di capire quello che provo senza bisogno che glielo debba spiegare con parole inutili.
Allora fu lui a rimanere zitto, e dopo una pausa, in cui regnò soltanto il silenzio, mi prese una mano tra le sue, e mi sorrise.
- Ok dai, adesso sto meglio, e abbiamo ancora tempo per non lasciare che questa serata sia rovinata in questo modo. Proponi qualcosa?
Ma che voleva da me? Che voleva che gli dicessi? Ero rimasta stregata, prima dai suoi occhi, poi dal suo sorriso, e cercavo in qualunque modo di non farglielo notare. Improvvisai, sorrisi anche io. Stavo bene, stavo benissimo anche lì, in quel momento, senza nient’altro di cui avessi bisogno.
- Non so, vedi un po' tu.
Risposi soltanto alla fine.
- Possiamo restare qui se non ti dispiace, sono onesto e ti dico che non ho voglia di vedere nessuno. La falsità per una volta teniamola lontana. È meglio stare tra sconosciuti piuttosto che soli tra un mare di conoscenti che non ti conoscono affatto. Almeno con i primi c'è il vantaggio che non ti rompono.
- Per me non ci sono problemi, davvero.
Restammo seduti davanti ad un tavolino per ore, a parlare, nient'altro che parlare, fino all'una di notte. Ero stanca morta, ma non mi ero mai sentita così bene con qualcuno come quella notte. Mi riportò a casa che erano le due, forse, e nessuno ancora era tornato. Subito andai a letto, sfinita, ma con un sorriso in più dove prima c'era solo tristezza.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Che settimana, che settimana da incubo mi aspettava. Affogavo tra tutti gli impegni e, ancora peggio, si trattava di attività che poco mi interessavano, e le portavo avanti per obbligo e abitudine. Ero nauseata ogni volta che mi sentivo costretta a continuare qualcosa solo perché dovevo, la mia vita era incatenata nella frenetica routine e non conoscevo modo per uscirne. Ormai i miei desideri irrealizzati e irrealizzabili erano rimasti chiusi nei cassetti, in cui non guardavo nemmeno più per paura di ritrovarci qualcosa che mi mancava e che in nessun modo avrei potuto ottenere. Concentravo tutte le mie forze per gli impieghi necessari, sperando che nemmeno un pensiero riuscisse a giungere nella zona dei desideri impossibili, che tenevo rinchiusi chissà dove.
Ed ero infinitamente stanca. Mi districavo con fatica tra i mille impegni, ed ero sempre più pallida, da fare paura, sembravo uno zombie a tutti gli effetti. Me lo ricordavano tutti, mia madre, i miei amici, lo specchio. A volte mi facevo paura da sola, e mi stupivo di me stessa, di come riuscivo a portarmi tutto sulle spalle senza cedere mai. La cosa più entusiasmante consisteva nel fatto che tutti si accorgevano della mia instabile situazione, e tutti, imperterriti, continuavano a far affidamento su di me ogni volta che ne avevano bisogno. Ed io, troppo buona, mi adoperavo in ogni modo per accontentare sempre tutti, per non deludere nessuno. Un'ingenua, soltanto questa ero. Ma poi una domanda mi tormentava: perché per gli altri sono capace di trovare una soluzione, e per me non trovavo mai niente, se non continui dubbi, migliaia di indecisioni? E alla fine mi ero data anche una risposta. La verità era che avevo urgente bisogno di qualcuno che esistesse solo per me, che condividesse i miei sentimenti, che stesse ad ascoltare per ore i miei discorsi non sempre logici, che mi sorridesse anche con il mondo che intorno cadeva a pezzi. Avevo bisogno di aiuto, un aiuto sincero, ma lo negavo a me stessa, e mi ripetevo che potevo farcela da sola. E non lo so, io lo sentivo di aver bisogno di qualcuno, ma accanto a me, così accanto da far conoscere tutto di me e da fidarmi completamente, non volevo nessuno. Non ce la facevo a sapere che qualcuno potesse conoscere quello che mi passava dentro. Ero troppo fragile.
Forse si trattava semplicemente dell'aria di febbraio, mese che peggio non si può. Il freddo, la pioggia, la scuola, queste le uniche cose a venirmi in mente. Che noia e che stress. Questi pensieri bui furono interrotti da un messaggio, Erik. Altro tasto dolente: non capivo né cosa volesse lui, né cosa volessi io stessa. Sicuramente provavo interesse, ma ero confusa, troppo confusa, e sentivo che non bastava.
Ma che ne so, ero stanca di questa solita vita, che trascinavo a stento nella mie giornate buie e tutte noiosamente uguali.
Non riuscivo ad accontentarmi, volevo di più, ma ero io stessa incostante, un giorno allegra e piena di speranze, il giorno dopo spenta e disillusa. Non è semplice dover combattere anche contro la propria totale indecisione, che forse era ancora così presente perché non riuscivo a trovare qualcosa verso cui volgere tutti i pensieri e tutte le forze. Una cosa era certa, volevo cambiare città, vedere volti nuovi, cercare persone diverse, trovare altre opportunità, ricominciare tutto. Ma poteva rimanere soltanto un sogno, mentre l'incubo era reale ogni giorno. L'incubo di imbattersi sempre negli sguardi che si vorrebbero evitare, avere la consapevolezza che questo avverrà, in ogni caso.
Quindi alternavo momenti di tranquillità a momenti di tristezza, momenti in cui sentivo di poter fare qualunque cosa e momenti in cui sentivo che i miei miliardi di sforzi valevano circa zero.
Mi trovavo in uno dei periodi neri, in cui la mia mente era capace di concentrarsi su qualsiasi cosa negativa mi capitasse o mi potesse capitare. Colpa del tempo? Sempre nuvoloni grigi, umidità, pioggia. Si, anche colpa sua, ma soprattutto mia. Mi lascio condizionare troppo dalle circostanze, ma fatto stava che mi sentivo tremendamente sola. Circondata da una marea di persone, e per questo ancora più sola. Non facevo altro che conoscere nuova gente, in qualsiasi occasione, ma questo accresceva la mia inquietudine, perché mi sembrava di sdoppiarmi, in Lavinia x e Lavinia. Lavinia x era quella persona qualsiasi, che si adeguava alle circostanze, che cambiava per diventare come gli altri la volevano, che stava a suo agio tra la gente. Lavinia ero io, quella che si sentiva spezzata dentro, sempre fuori posto, e che non conosceva più i propri sogni, i propri reali sentimenti: il mio scopo era quello di piacere agli altri per quello che non ero, perché non sapevo più piacere a me stessa per quello che ero. In questi periodi neri, sempre più frequenti, imparavo ad annullarmi, a eliminare i miei pensieri, le mie sensazioni, ogni parte soggettiva di me, perché non mi serviva più. E quando mi riprendevo mi chiedevo come facessi a precipitare così spesso in quegli abissi, ma dopo un po' di tempo ci ricadevo, era inevitabile. Volevo scappare da me stessa.
Perciò, per trovare una qualsiasi soluzione, davo tutta me stessa quando trovavo qualcosa per cui valesse la pena lottare. Almeno in questo modo mi sentivo meglio, almeno finché il mio interesse non si spegneva.
 
Una mattina di febbraio mi svegliai completamente congelata e abbastanza tranquilla. Sarei dovuta andare a scuola, ma piuttosto mi rimisi a dormire, al caldo sotto le coperte, perché mi ricordai di avere la febbre alta. In effetti era strano che mi fossi svegliata tranquilla, non poteva essere altro se non l'effetto di una malattia. Non riuscii a prendere sonno per diverse ore, a causa di un mal di testa assillante che non mi lasciava pace. Unico lato positivo, non riuscivo a pensare ad altro. Mentre mi trovavo in quello stato incosciente e semidelirante mi venivano in mente flashback della mia vita passata, di quando ero felice e sentivo di esserlo sulla mia stessa pelle. Mi dissi perciò che era inutile bruciare nel proprio dolore e poi spegnersi lentamente, l’unico scopo doveva essere per me quello di lasciarmi andare alla felicità, perchè se l’avessi cercata con attenzione, l’avrei trovata proprio dietro l’angolo. Forse per lo stato convulso e febbrile in cui versavo quella mattina, sul serio ero convinta che la soluzione fosse quella e che non esistesse niente di più semplice. Quando nelle mie utopie mentali mi sentii quindi tranquillizzata, riuscii anche ad addormentarmi. Quando mi ammalo, di solito riesco ad essere un vero tormento per me stessa, ancora peggio del solito. In effetti il mio sonno fu disturbato e tormentato da continue interruzioni. Ma quando mi svegliai mi sentii davvero meglio, e ricordando l’idea che avevo avuto, mi sembrò un ragionamento logico, che forse avrei dovuto intraprendere. Certo non è possibile che pensieri come questi mi vengano soltanto in momenti il senno e la ragione non possano influire sulla mia mente. Si vede che per aiutarmi davvero ho bisogno soltanto di liberarmi da questi obbligati meccanismi, perché spesso sono soltanto capaci di trasformare le situazioni più semplici in ardue imprese. Perché se davvero facessimo tutto ciò che vorremmo, se avessimo il coraggio di parlare, di dire la verità, di svuotare quei tormenti che ci nascono dentro, senza paura delle conseguenze, forse le persone, ed io in primis, smetterebbero di inventarsi gli alibi, ormai indispensabili, dietro cui nascondersi. Perché a pensarci, soltanto la ragione è capace di imporre alla mente certi blocchi, creando l’immagine di alcune temute conseguenze che potrebbero non verificarsi mai. La verità è che troppo spesso temiamo qualcosa che non esiste, e preferiamo nasconderci considerando questa finzione della nostra testa come l’unica possibile, piuttosto che rischiare, e verificare come le cose andrebbero nella realtà se noi ci decidessimo ad agire. Troppo spesso manca il coraggio, è questa la chiave del mondo, e chi ne ha, ne abusa, come vale per ogni altra cosa. E chi ne ha poco perde ogni altra libertà, perdendo per prima cosa la possibilità di esprimere se stesso.
I miei pensieri febbrili furono interrotti da una chiamata. Ancora Erik, in effetti non gli rispondevo da un po'.
- Ciao Erik..
- Ehi Lav, tutto bene? Ti sento un po' strana.
- No, niente di grave, ho la febbre ma sto bene. E tu? Qualche novità?
- Si, mi dispiace, stasera volevo portarti a fare un giro in moto così parlavamo ma mi sa che non è il caso.
- No, in effetti no, ma domani torno a scuola, perciò ci vediamo all'uscita e mi dici tutto, ok?
- Va bene, aspetterò fino a domani. Sempre colpa tua deve essere.
- Ovvio, sempre.
- Va bene, allora a domani. Riprenditi, sei assurda.
- Nemmeno mi posso ammalare più ormai, non ho parole.. A domani.
Che noia dover trascorrere tutte quelle ore sapendo che c'era qualcosa da sapere. Sono un po' troppo curiosa, il giorno dopo sarei andata a scuola anche con la febbre a quaranta pur di sapere cosa mi dovesse dire. 
Rimasi nel letto accompagnata dal mio mal di testa per almeno un'altra ora, davvero non mi veniva voglia di fare niente. Girovagai un po' per casa come uno zombie, poi mi arresi al mio triste destino di studentessa e mi sedetti alla scrivania per studiare un po'. Non ero abbastanza concentrata, mi sfuggivano parole e concetti dalla mente prima ancora di entrarci, ed ero capace di rileggere per tre volte lo stesso paragrafo, senza capirci nulla.
La giornata alla fine passò, e la sera mi accorsi di avere ancora la febbre. Presi qualche medicina e andai a letto, fingendo che fosse tutto apposto: non potevo restare un’altra giornata chiusa in casa ad impazzire. E così il giorno seguente, con la testa che esplodeva e bruciava, mi avviai verso la scuola. Fu una follia, ma davvero in quel periodo ero totalmente fuori di me. Le cinque ore furono un’agonia straziante, lenta e prolungata. Tutti si accorsero che non mi trovavo al top delle condizioni, ma riuscii bene a mascherare il dolore, evitando di far ricadere troppa attenzione su di me. Quando il tormento finì, di corsa mi diressi nel cortile, in attesa di conoscere le varie novità.
Dovevo ammettere che da quando avevo riallacciato i rapporti con Erik mi si era aperto un mondo davanti: tutti i suoi amici vip mi consideravano una di loro, nonostante fossi così distante dal loro modo di agire e di pensare, avevo avuto la possibilità di conoscere una marea di nuove amiche, per cambiare aria dalla falsità che da sola aveva regnato in me durante troppi anni, e potevo essere solo contenta di ciò, perchè con tutti, nonostante le innumerevolidivergenze, stavo sempre bene, a mio agio, mi divertivo. Ma non era la stessa cosa, e lo sapevo, e soprattutto non era quello che cercavo. Non c’era nessuno capace di prendere il posto di Azzurra, e colmare almeno un po’ il suo vuoto. Intanto facevo il possibile per allontanare da me ogni traccia della nostra vecchia amicizia. Il passato, quando è passato ma ancora fa male, lo si deve lasciare alle spalle, dimenticare del tutto. Non deve avere più spazio nella mente o nel cuore. Il suo tempo è finito, punto e basta. Facendomi forte di questa convinzione, in quel periodo andavo avanti così.
Insomma, in attesa di Erik, intavolai un discorso con Lorenzo, uno dei suoi amici più stretti, a riguardo di alcuni gossip scolastici, di cui lui, non si sa come, era sempre il più informato. Erik arrivò con tutta calma, come suo solito, e fece un paio di battute sulla mia condizione instabile. Dopo che l’ebbi fulminato diverse volte con lo sguardo, smise di prendermi in giro e mi comunicò la famosa notizia.
- Non posso esserne sicuro, ma ho saputo che Mauro e Valeria si stanno lasciando dopo più di un anno perché qualcuno si sta mettendo in mezzo, e pare che lui si stia sentendo con un’altra da un mese a questa parte.
Non era possibile. Mauro e Valeria erano perfetti insieme, nessuno poteva avere il potere di dividerli. E Valeria, mia amica da sempre, non meritava che accadesse qualcosa del genere, era una delle pochissime persone che avevo visto amare veramente, e dare fiducia al suo amore. Ma al giorno d’oggi, l’amore quanto può contare? Quanta forza gli è rimasta? Niente. Perché nessuno sa amare, e se qualcuno ama davvero, senza condizioni e senza pretese, viene preso in giro, usato, prosciugato. L’amore dovrebbe dare forza, e adesso invece la toglie, lascia disarmati contro l’esercito del dolore, che con le sue frecce colpisce e si infila dappertutto, fino a lasciar morire dentro. Che schifo, non avevo altre parole. A che serve amare, dare tutto se stesso senza alcun limite, a chi usa i sentimenti come passatempo, a chi ti fa sentire calpestato, devastato, così tremendamente vuoto, freddo e solo? A Valeria tutto questo, no.
- Mauro è uno stronzo, davvero non ci sono altri modi per descriverlo.
- Sapevo che lo avresti pensato, ma non siamo noi che dobbiamo giudicarlo. Non possiamo sapere cosa lo spinga verso questa scelta, ma ti dirò che anche io ho reagito nel tuo stesso modo quando ho sentito questa notizia. Comunque tu, pazza, hai ancora la febbre. Vai a casa, non prendere freddo, stasera ti faccio sapere per sabato.
- Ai suoi ordini capitano, ci sentiamo dopo.
Tornata, mi buttai sul letto e lì rimasi per tutto il giorno. Maledetta febbre, mi stava demolendo del tutto. Pensai un po’ anche a quanto mi aveva detto Erik, era assurdo, e non mi piaceva.
Non credevo che Valeria fosse a conoscenza di tutta questa storia. Veniva in classe con me, e non l’avevo mai notata preoccupata, o almeno non più del solito, ma secondo me c’era qualcosa di vero, non si trattava di una pura invenzione. Mauro lo conoscevo poco, ma non mi era mai sembrato poi così tanto fantastico, come me lo aveva sempre descritto Valeria. Eppure, notando che la situazione procedeva bene, che lei era felice come non l’avevo mai vista, e che sembravano fatti l’uno per l’altra, avevo messo da parte i miei dubbi. Considerai l’ipotesi di farle capire in qualche modo come stavano le cose, ma non era proprio il caso: non potevo immischiarmi in faccende che non mi riguardavano. Piuttosto, volevo sapere ad ogni costo chi fosse la ragazza che si era messa in mezzo a questa storia. Per tutto il pomeriggio costruii castelli mentali riguardanti quella vicenda, cercando quasi disperatamente un nesso tra lui e qualche altra.
La sera poi parlai un po’ al telefono con Erik, che non mi volle svelare altri particolari, facendomi bruciare tra l’indecisione delle varie ipotesi che mi venivano in mente. Disse soltanto: ‘Non pensare che io sappia più di quanto ti ho già detto, perché la questione per il momento stanno cercando di tenerla nascosta. Se so qualcosa, te lo riferirò’. Dopo di ciò, cambiammo argomento. Durante quelle settimane, dopo il famoso sabato del bar che era rimasto impresso indelebile nella mia mente come un ricordo dolce e prezioso, io e lui avevamo iniziato a stringere un rapporto che proprio di amicizia non era. Erik, il solito enigmatico, non mi lasciava minimamente comprendere le sue intenzioni, ed io ero sempre più confusa. Non sapevo cosa volere da me stessa, cosa aspettarmi da lui, ed ero quasi convinta che da parte sua non ci fosse alcun interesse. Sapevo che avrei sofferto se davvero così fosse stato, ma non riuscivo a distaccarmi dai suoi occhi, dal suo sorriso e dal suo sguardo. Tentavo di mascherarmi dietro qualche parola, con qualche scusa, per non perdere totalmente il controllo di me, ma era troppo difficile tenere a freno il cuore che picchiava, aumentando ad ogni colpo di intensità.
Potevo impazzire, ma non gli avrei mai detto niente. Sono una persona incapace di esprimersi, a gesti o a parole, in qualsiasi contesto, e a maggior ragione in una situazione come quella, mi capita di entrare nel panico più totale, di non sapere da dove e né come iniziare. Perciò preferivo rimanere sua amica, nascondendo ciò che con il tempo cominciavo a provare, pur di non espormi così direttamente, mostrandogli tutte le mie debolezze. Anche perché, a mio parere, si vedeva già fin troppo dall’esterno ciò che tentavo di rinchiudere dentro. E lui, temevo che l’avesse capito, e che avesse fatto finta di niente, perché non gli importava, e non voleva altri impicci, basta. 

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