Donne - True colors (La verità) di Ciribiricoccola (/viewuser.php?uid=31922)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Peace of mind ***
Capitolo 2: *** Heartbreaker - Part 1 ***
Capitolo 3: *** Heartbreaker - Part 2 ***
Capitolo 4: *** I enjoy being a girl ***
Capitolo 5: *** Through the barricades ***
Capitolo 6: *** No big deal ***
Capitolo 7: *** The hero of my dreams ***
Capitolo 8: *** It's time we all reach out for something new (that means you too) ***
Capitolo 9: *** Baby Jane ***
Capitolo 10: *** I make my way through this darkness ***
Capitolo 11: *** Knowing me, knowing you ***
Capitolo 12: *** You don't bring me flowers anymore ***
Capitolo 13: *** Face it all together ***
Capitolo 14: *** Come undone ***
Capitolo 1 *** Peace of mind ***
peace
AVVISO
IMPORTANTE!!!
Ragazzi/e, questo è il pubblico della mia raccolta
aggiornato al 5/11/12:
http://i47.tinypic.com/11jsw0i.jpg
Seriamente, ho bisogno del vostro supporto.
E' demoralizzante scrivere con il cuore e ricevere così poco
riscontro.
Ditemi che sono brava, ditemi che faccio schifo, ditemi qualsiasi cosa,
ma vi prego di dirmela!
PEACE OF MIND*
“Vaffanculo, tu e i tuoi capelli rossi di
merda.”
Non sono
una paladina della tolleranza, ma lavoro a contatto con la gente ogni giorno,
perciò tutte le mattine scendo dal letto con addosso una maschera di pazienza e
gentilezza, lo faccio da cinque anni e ormai non mi pesa più.
Sopporto
di tutto, in primis l’ignoranza: la gente arriva e mi chiede della roba con cui
al massimo ci si può pulire il culo, di certo non è letteratura, e qualcuno ha
l’ardire di lamentarsi se le schifezze richieste non sono in negozio; per tutta
risposta, io devo replicare con fare rassicurante che quel certo titolo di quel
certo pulitore di cessi che scrive a tempo perso si può ordinare e/o prenotare,
dopodiché fornisco un biglietto da visita e una data più o meno precisa,
affinché l’ignorante di turno possa venire a ritirare lo scempio cartaceo.
Sempre che
la momentanea assenza di quest’ultimo nel mio rispettabile negozio non lo abbia
traumatizzato a vita.
In tal
caso, affari suoi. Come dovrei stare, io? Reprimo attacchi d’ilarità isterica
un giorno sì e l’altro pure, andiamo…
Oggi ho
“ceduto”, mettiamola così.
Anzi,
no!
Sono sempre
troppo buona, lo riconosco, dovrei darci un taglio…
Non ho
ceduto, ho semplicemente detto quello che pensavo a chi se lo meritava.
Non me
ne pento affatto.
Anzi…
A Sally
piacevo, e anche molto.
La cosa
sarebbe anche potuta diventare reciproca.
Peccato
che lei fosse irrimediabilmente stupida.
Un mondo
in mano agli stupidi è un mondo condannato, che la si smetta di additare gli
stronzi, coloro che mangiano sui soldi e sulle disgrazie altrui.
Quelli almeno
sono furbi!
Sally aveva
cominciato a bazzicare il negozio par una lunga serie di ordini, tutti libri,
anzi, tomi di psicologia, per la maggior parte importati dall’Europa e tutti
incentrati sulla psicologia infantile; mi spiegò che le servivano per la tesi
di laurea, ma anche per semplice interesse personale, in quanto lei non era
solo una studentessa di psicologia, ma anche un’amante dei misteri che vagavano
inesplorati nel cervello di un lattante.
Trovavo
discutibili le sue idealizzazioni del marmocchio medio, ma al tempo stesso la
ammiravo per la sua inesauribile energia mescolata ad una passione davvero
notevole ed innata per i propri studi.
Incredibile
ma vero, la trovavo intelligente e brillante. Oh, Cristo…
Terminato
il giro di ordini e acquisti, Sally mi prese in simpatia e continuò a spuntare
dagli scaffali, di mattina o di pomeriggio, approfittando della tranquillità
del negozio per studiare al bancone, oppure portandomi il caffè e trattenendosi
per due chiacchiere, ma anche quattro o otto…
È stato
allora che ho smesso di credere di essere la persona più logorroica del mondo.
Non solo
la sua testolina color fuoco mi ronzava perennemente attorno, piena di parole
sparate a raffica, ma i suoi discorsi erano sempre, SEMPRE gli stessi.
“Sai”
mi disse un pomeriggio mentre io, ignara, bevevo il mio caffè “Mettendo su i
primi capitoli della tesi, ho intuito una cosa: credo che Freud e Schulz** siano filosoficamente
e psicologicamente molto vicini nei loro lavori!”
Ricordo
ancora che automaticamente gettai una rapida occhiata al cartonato gigante di
Snoopy e Charlie Brown piazzato vicino agli scaffali dei libri per l’infanzia.
Mi convinsi
che il “buon vecchio” Charlie Brown stesse guardando proprio me con la sua
tipica aria triste e rassegnata, come se potesse capirmi…
“Dici…
per come analizzano la figura del bambino?” osai chiedere con un sorriso mentre
dentro stavo già imprecando.
E lei
cominciò a spiegarmi che Charlie Brown altro non le sembrava se non la
rappresentazione concreta dell’adulto freudiano che agognava inconsciamente la
libertà e la spensieratezza dell’infanzia.
Tirò fuori
una miriade di esempi e teorie, ma come al solito dopo cinque minuti io avevo
messo il pilota automatico e pensavo ai beati affari miei, alla bambina non
molto freudiana nascosta dentro di me che mi pregava di strozzarla, quella
svitata ridondante e pedante.
Chissà,
se le rivelassi adesso questo piccolo aneddoto sarebbe in grado di tirarne
fuori l’ennesima panzana, magari una legata a stronzate come il fatto che non
ho mai giocato con le Barbie da piccola.
Per farla
breve, fu proprio con questa cosa dell’innocenza e delle chiacchiere che Miss Chioma
Infuocata mi inculò nel giro di un paio di mesi, in silenzio e con grande
disinvoltura, come la migliore delle insospettabili.
L’oggetto
dei nostri comuni desideri, la posta in gioco… era un ragazzo. Jake.
Per la
cronaca, se tutto fosse andato secondo i miei piani, non ci avrei guadagnato
granché; certe cose si capiscono soltanto dopo.
Ma è
per principio, sì, è per principio che io mi sono inviperita.
Jake era
un mio cliente.
No, non
è morto, solo che… non credo si farà più vivo in libreria neanche lui.
Sembrava
un tipo a posto, ne ero praticamente certa ogni volta che passavo in rassegna i
suoi (frequenti) acquisti: letteratura americana, legal thriller alla vecchia
maniera, e in estate qualche giallo della divina Agatha*** da divorare durante le
vacanze.
Poteva sembrare
il ritratto del topo da biblioteca, ma due chiacchiere con lui ti facevano
capire che la sua era solo la maschera di un bravo ragazzo che beveva due o tre
birre il venerdì sera con pochi intimi amici, si manteneva da solo senza troppe
difficoltà…
E che
era davvero carino senza occhiali da vista.
Insegnava
francese.
La combinazione
occhi azzurri + bel sorriso + lingua
francese mi aveva convinta pienamente dopo neanche cinque ingressi nel mio
negozio (più una sessantina di dollari spesi per libri davvero buoni).
Me lo
stavo morbidamente lavorando da un mesetto, tra una parola amichevole e una
frase in francese, solitamente un aforisma di qualche poeta (il suo preferito:
Rimbaud): lui me lo diceva in lingua per poi farmi indovinare il significato e
io, aiutandomi con le rimembranze del liceo, qualche volta ci azzeccavo, spesso
invece dovevo prendere lezioni in pillole.
Non che
la cosa mi dispiacesse… e neanche a lui, dato che a volte usciva senza comprare
nulla, ma non senza prima aver parlato con me…
E poi è
arrivata Sally! Vacca ladra (qui lo uso sia come intercalare colorito che come
aggettivo qualificativo).
Inizialmente,
lo salutava soltanto per poi tornare dal suo Sigmund, la testa immersa nei
libri (ahimè, non vi è mai annegata dentro)…
E poi,
non lo so…
Che
abbia origliato? Che abbia involontariamente sentito qualcuna delle nostre “lezioni”
improvvisate?
Fatto sta
che nel giro di due settimane ha iniziato a tralasciare sempre di più le sue
psicologiche letture per intervenire nelle nostre conversazioni. E per parlare
con Jake.
Ovviamente
è venuto fuori che lei ha sempre adorato i suoni “dolci e regali” della lingua
francese e che molti libri gialli l’hanno agevolata nello studio di molteplici
patologie presenti nel suo ramo di studi…
Potrei quasi
dirvi che “il resto è storia”, perché il finale di questo teatrino è più che
palese a questo punto, ma… io sono una che ai particolari ci tiene.
Non serve
avere una laurea in psicologia per capire che Jake, come molti uomini (che non
sono tutti uguali, ma quasi), ci ha messo poco per dare spago a Sally, tanto
quanto ne aveva dato a me, e per gloriarsi con falsa modestia dei complimenti
di vario genere che sia lei che io gli riservavamo più o meno velatamente,
quasi facendo a gara…
Due più
due, nel 99% dei casi, fa quattro.
Il mio
caso non fa eccezione.
La chioma
rossa con la fissa per la psicologia infantile e il santino di Freud nel
portafogli ha conquistato il cuore del giovane insegnante di francese dagli
occhi blu, e la scintilla tra di loro è scoccata due giorni fa, proprio davanti
ai miei occhi, al di là del bancone, mentre servivo una signora anziana che
aveva scelto un volume di cucina etnica.
“Conosco
un bistrot niente male dove ogni mese tengono letture di poesia… Se ti va,
sabato pomeriggio possiamo andarci e sentir recitare Verlaine. Non è proprio
come Rimbaud, ma…”
Sally ha
sorriso come una bambinetta davanti all’ultima Barbie uscita sul mercato.
“Adoro
le merende! E poi sai che adoro ancora di più il francese! Vengo più che
volentieri!”
Ho battuto
lo scontrino alla signora, ho imbustato il suo libro, l’ho salutata augurandole
buona giornata con un sorriso e ho aspettato che sparisse dalla mia vista prima
di assumere quell’espressione tremendamente seria e intontita che parla da
sola.
“Oh, cazzo”
Mi sentivo
come uno di quei tanti ragazzi sfigati di turno menzionati in triliardi di
canzoni rock-pop : “Guardate come il
nemico si fotte la mia donna mentre io me ne sto qui con il culo per terra. Come
cazzo è successo non lo so”.
I due
futuri piccioncini si sono scambiati i numeri per poi separarsi con un bacio
sulla guancia; a me è toccato un gran sorriso condito da un “Ci vediamo, bella!”,
roba da Vaffanculo immediato in
risposta.
E poi
il suo bel culo si è congedato dal negozio per quella che sarebbe stata l’ultima
volta.
Ho incassato
la sconfitta con qualche ferita nell’orgoglio, ma apparentemente senza grandi
sofferenze o drammi.
Poi la
Jessica Rabbit degli strizzacervelli ha voluto confidarsi con me e
puntualizzare, non senza una punta di insopportabile candore, che lei e Jake si
stavano sentendo per telefono, ma senza intenzioni particolarmente serie o
impegnative.
“Ho
capito da subito che ci stava provando con entrambe, perciò l’ho quasi
bacchettato, diciamo, ma non tanto per sottrarlo a te, ci mancherebbe! È che…
gli uomini sono tutti uguali, lo sai, no? Se non glielo diciamo noi, di
chiarirsi le idee…!”
Fidatevi
se vi dico che io sono per la pace.
Fidatevi
se vi dico che mi piace starmene nel mio angolino, senza rompicoglioni intorno,
senza creare problemi ad anima viva…
Ma davanti
a tanta stupidità concentrata in un solo corpo, ci ho visto rosso.
Rosso come
i suoi capelli, come il colore tabù per il toro.
E ancora
più rosso quando ho capito che, recitando da stupidotta, stava cercando di
infinocchiarmi ancora una volta, di farmi fare la figura della credulona.
Che gran
presa per il culo.
E che
grande sbaglio aver puntato al MIO culo…!
“Vaffanculo,
tu e i tuoi capelli rossi di merda.”
Non le
avevo rivolto la parola per quasi quarantott’ore, ma in fondo credo di aver
sempre desiderato di dirle solo questo, fin dal primo momento.
Devo averla
turbata in un modo forse sconosciuto perfino al suo fedele Sigmund, perché
incredibilmente se n’è andata senza dire una parola, con gli occhioni dolci
lucidi, dopo aver raccattato le sue cose.
Levate le
tende e la discordia, devo dire che adesso sto molto meglio.
Sì, ok,
un po’ mi brucia per quel paio di belle chiappette filofrancesi, ma…
Siamo seri
e mettiamo da parte il rodimento di fegato.
Uno che
esce con un’infante cresciuta e probabilmente disposta a cedere le proprie
grazie per un profilo psicologico completo e definitivo di tutti i personaggi
dei Peanuts…
Sono d’accordo
con voi: non ho perso granché, a parte tante grasse risate.
E sì,
Charlie Brown è solo un tenero bambino che ragiona sul senso della vita con il
suo beagle.
E no, non
cambierò idea sul conto di Sally.
È sempre
una stupida ai miei occhi, nonostante tutto, e il perché lo potete intuire da
soli, senza lauree in psicologia, è logico…
THE END
Note:
* "Peace of mind" (pace della mente/dei sensi) come racconto trae ispirazione da un brano omonimo dei Boston. No scopo di lucro.
** Charles M. Schulz è il "papà" dei Peanuts.
*** La divina Agatha è ovviamente l'autrice di gialli Agatha Christie!
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Capitolo 2 *** Heartbreaker - Part 1 ***
donne
HEARTBREAKER
Part 1
Ogni
venerdì sera, musica dal vivo.
E si
poteva essere sicuri che almeno due venerdì al mese Eric avrebbe suonato.
Le
pareti del Rock Set avevano visto passare, mangiare, bere, ma soprattutto
suonare molta gente.
Musicisti,
soprattutto giovani band, passavano di lì per una sorta di battesimo: se
riuscivano a riscuotere successo su quel palco, uno dei migliori di East NY* e
forse anche di tutta Brooklyn… tutto poteva accadere!
Da
anni, Eric sedeva lassù, dietro alla batteria, e intratteneva un pubblico di
profani musicali e non, con tre band diverse che si alternavano ogni settimana,
band popolari a livello locale di cui lui era la spina dorsale.
Al Rock
Set si parlava di Eric come di una sorta di leggenda: attorno a lui giravano
molte voci e si creava sempre un alone di mistero, come se fosse una rockstar
di fama mondiale; l’unica differenza stava nel suo carattere che, a dispetto di
tutte le chiacchiere, era socievole, allegro e sempre ben disposto.
Julia
lavorava nel locale da poco meno di un anno e non aveva mai avuto modo di
parlarci in modo approfondito, perciò lo identificava con ciò che la gente
diceva sul suo conto…
Era
vero che gli piaceva parlare e bere in compagnia.
Era
vero che suonava in modo magistrale, e si diceva che non avesse mai preso
lezioni.
Era
vero che molte donne cadevano ai suoi piedi.
Era
vero che lui stesso sapeva di avere un certo ascendente sulle persone, sul
palco e fuori.
Lei
provava sempre molta soggezione ogni volta che lui le rivolgeva la parola,
anche solo per salutarla quando la vedeva dietro al bancone.
Era
abituata alle cose semplici da sempre, quel lavoro si era presentato come la
sua prima fortunata esperienza dopo la fine del liceo; da appassionata di
musica, aveva amato da subito il suo posto al Rock Set, con le orecchie invase
da canzoni su canzoni praticamente ogni sera, circondata da colleghi e clienti
divertenti e simpatici, gli stessi che per primi le avevano parlato di Eric e
della sua fama.
Era
così che, senza saperlo, il batterista si era guadagnato un piedistallo
immaginario nella sua mente, in gran segreto a causa della timidezza.
Quel
venerdì sera faceva un freddo polare, un freddo che s’insidiava pungente e
molesto all’interno del locale ogni volta che qualcuno apriva la porta
principale.
Julia
aveva il raffreddore e cercava sempre di trattenere gli starnuti, limitandosi a
soffiarsi il naso ogni dieci minuti, mentre preparava boccali e bottiglie in
vista del concerto, l’ultimo prima delle feste natalizie.
Blake,
la sua datrice di lavoro insieme al marito Mick, la rimbrottò in tono bonario.
“Julia,
ti avrò detto mezz’ora fa che devi prendere un’aspirina, te l’ho lasciata sul
banco!”
“Sì,
scusami Blake, grazie…”
Con un
sorriso riconoscente, la ragazza obbedì e prese la sua aspirina effervescente
in un bicchiere d’acqua, dopodiché fece per tornare alle stoviglie.
“Già
che sei qui, July, fammi un favore” le disse Blake, intenta ad affettare
fettine su fettine d’arancia per i cocktail “Chiama Eric e digli che tra
mezz’ora arrivano i ragazzi, anzi, Harry è già qui…”
Julia
annuì e raggiunse il telefono vicino alla cucina, ma la donna la fermò con una
risata.
“Intendevo
dire… vallo a chiamare, gioia! Dev’essere in giro da qualche parte, sicuramente
in bagno a radersi o a pettinarsi…”
L’altra
si irrigidì per un istante all’idea di entrare nel bagno degli uomini, per
quanto a quell’ora fosse ancora vuoto, o quasi, ma acconsentì senza fiatare: la
pazienza di Blake aveva un limite.
Camminando
lesta verso i bagni, inspirò ed espirò un paio di volte e si schiarì la gola
prima di spingere piano la porta della toilette maschile…
“Eric,
sei qui…?”
Per un
secondo le rispose solo il silenzio, poi sentì un mugolio confuso dietro
l’angolo e infine, finalmente, la sua voce.
“Julia,
sì, arrivo subito! Mi daresti una mano?”
Timidamente
la ragazza si fece avanti, pescandolo davanti alla specchiera con la schiuma da
barba spalmata disordinatamente su mezza faccia, il rasoio in una mano ed un
flacone di lacca nell’altra.
“… Buffo!” pensò
sorridendo mentre gli chiedeva di cosa avesse bisogno, guardandolo nel riflesso
dello specchio.
“Me la
metti, per favore? Sono in ritardo e sento già Mick che mi blatera cose senza
senso nell’orecchio!”
Julia
sorrise al pensiero del suo panciuto boss che rimproverava Eric per i ritardi,
per i volumi e per chissà cos’altro, e prese una fascia di spugna colorata.
“Tirati
su questa… questa capanna con una mano, poi ci penso io!”
Mentre
con una mano sollevava parte dei suoi folti e lunghi capelli ricci, con l’altra
riuscì a fissare la chiusura in velcro della fascia appena sopra il collo, su
cui diede un lieve colpetto. “Ho finito, lascia pure…”
Lui si
stava finendo di radere e lei indugiò per qualche momento dietro la sua
schiena, che era coperta da una T-Shirt, ma ancora per poco, il tempo di un
paio di assoli…
Se
nessuno glielo avesse detto, non avrebbe mai pensato che aveva dieci anni più
di lei: non era molto alto e aveva un’espressione giovanile, da eterno
ragazzino.
“Fatto!”
esclamò Eric prima di aprire l’acqua del rubinetto, umettarsi le guance lisce e
pulire il lavandino; Julia gli passò cautamente una salvietta di carta dal
dispenser a muro e lui le fece l’occhiolino.
“Ti
ringrazio, dì pure al boss che tra trenta secondi sono in postazione. Ok?”
“Ok,
vado subito!”
Con lo
stesso passo svelto che l’aveva portata lì, uscì presa da una lieve frenesia e
riferì le informazioni del caso a Blake, che asserì con un severo “Mh!” che mal
celava l’impazienza.
Poco dopo,
Eric era dietro alla batteria e si stava accordando con il fonico, Harry.
Ma Julia
non prestò attenzione alla scena.
Con la
coda dell’occhio notò una ragazza in minigonna uscire dal bagno degli uomini,
intenta a rimirarsi in uno specchietto per sistemarsi con le dita il rossetto,
sbavato sulle labbra.
“Io mi
domando, a volte… se questo benedetto ragazzo non ce l’abbia, una casa, per le
sue donne! O anche una macchina, alla peggio!”
Mick era
emerso dalla cucina e aveva brontolato una frase diversa dalle sue solite
lamentele rivolte a tutti e a nessuno, poi si era attaccato al telefono per
sollecitare aspramente i tempi di certe consegne.
Julia,
per una volta, non rise bonariamente del suo principale grassottello e
bellicoso.
Un’ora
dopo, tutti gli strumentisti e i vocalist erano pronti e avevano ordinato da
bere.
Julia servì
a ciascuno una pinta di birra, anche a Eric, e la tastierista alzò il boccale
per salutarla.
“Goditi
lo show, bella! Abbiamo una nuova scaletta!”
“Sasha,
in bocca al lupo!”
La ragazza
alzò gli occhi al cielo con un sorriso: “Crepi e ricrepi, quello stronzo! Stasera
è la prova del nove… Un nuovo chitarrista dopo quattro che abbiamo mandato a
fanculo, nuovi pezzi e anche la nuova scopata di Eric nel pubblico, tanto per
non farsi mancare niente! Se sopravviviamo a questa serata, possiamo fare
praticamente qualsiasi cosa…!”
Julia arrossì
violentemente, ma Sasha non fece in tempo a notarlo, perché subito dopo
starnutì, portandosi immediatamente l’ennesimo fazzoletto al naso.
“Salute!”
le disse Eric.
La ragazza
sistemò alcune ciocche spettinate dietro le orecchie e ringraziò nervosamente
prima di tornare al bancone.
“E’ beneducato
il nostro energumeno stasera!
Sentì Sasha
canzonare il batterista mentre ancora stava dando loro le spalle.
“Trombatore
e gentiluomo!” rincarò Harry ad alta voce, facendo ridere tutti.
Il concerto
filò liscio, persino quel puntiglioso di Mick si dichiarò soddisfatto e non
ebbe di che recriminare; Blake confidò a Julia in tono scherzoso che quello era
l’effetto che lo spirito natalizio aveva sul marito.
Dal canto
suo, la ragazza si concentrò sul lavoro e ascoltò poco la musica, limitandosi ad
applaudire in automatico quando non aveva le mani occupate. Per un pelo non
servì la ragazza che aveva visto uscire dalla toilette maschile un paio d’ore
prima, quella che Eric si era scopato. Una delle tante, senza dubbio, e non
solo in quel bagno.
Mick le
allungò un cocktail e scosse il capo, in disappunto, una volta che la tipa ebbe
pagato senza un “Grazie”, un saluto o anche solo un sorriso.
Datore di
lavoro e barista si scambiarono un’occhiata rassegnata, dopodiché Julia tornò a
servire ai tavoli, cortese ma seria con tutti.
Dopo lo
show, Blake si chiuse in cucina per preparare un pasto rigenerante e sostanzioso
ai ragazzi della band, che non avevano cenato; Mick si fece aiutare da Harry e
Sasha a sistemare gli strumenti sul furgone di Harry e Julia rimase al banco a
servire gli ultimi clienti.
“Julia,
posso avere un paio di birre?”
La ragazza
prese due boccali medi, ma Eric la fermò: “No, no, per me basta una corona, e
Tony vuole una Beck’s…”
“Ah, ok…
arrivo subito!”
Un brivido
di soddisfazione la portò a sorridere mentre prendeva le birre dal frigo.
Tony voleva
la seconda birra, Tony, non la ragazza del bagno, Tony. Tony ed Eric volevano
due birre, senza ragazze tra i piedi.
“Ecco
la beck’s… e nella Corona ci vuoi il limone?”
Il ragazzo
le sorrise. “Tu sì che mi capisci!”
E Julia
inserì una fettina di limone lungo il collo della bottiglia prima di
appoggiarla sul banco.
“Cretino, se bastasse una fetta di limone…”
pensò
mentre ricambiava il sorriso senza dire niente.
In quel
momento arrivò Tony, il cantante, che salutò Julia prima di iniziare a bere.
“La
vuoi un’anteprima, July?”
“Di
cosa?”
“Di un
nuovo pezzo in scaletta! Abbiamo deciso di inserire una cover, una ballata, a
partire dal prossimo anno!”
“E di
che si tratta?”
Eric bevve
un sorso della Corona, lanciò un’occhiata a Tony e gli diede il tempo battendo
due dita sul banco. Al quattro, il cantante intonò una canzone famosa…
**Julia,
Julia
Sleeping
sand, silent cloud
Touch me…
Lusingata,
Julia sorrise e tirò su con il naso.
Poi Eric
si unì al coro…
So I
sing a song of love for Julia…
La ragazza
sentì il suo sorriso allargarsi e il suo naso pizzicare…
Ooohh
ooohh… calls me…
So I
sing a song of love for Julia,
Julia,
for Julia…
Successe tutto molto velocemente.
* East NY è un quartiere di Brooklyn
** "Julia" è un brano dei Beatles
Per il titolo di questo racconto, ho preso in prestito "Heartbreaker" dei Bee Gees!
No scopo di lucro!
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Capitolo 3 *** Heartbreaker - Part 2 ***
donne
HEARTBREAKER
Part 2
Julia fece
per applaudire, al settimo cielo, ma le scappò uno starnuto improvviso e tanto
forte da farla arretrare bruscamente contro la parete.
“Almeno ho messo le mani davanti alla faccia!” pensò
in preda all’imbarazzo mentre avvertiva una fitta di dolore al fondoschiena:
aveva sbattuto contro uno spigolo della cassa.
“Salute!”
esclamò Tony, sorpreso “Sei allergica alla voce di Eric?!”
“Ti sei
fatta male?” s’informò l’altro, sporgendosi oltre il bancone.
Afferrato
un tovagliolo di carta da un dispenser, la ragazza rispose in fretta e furia:
“No no, non è niente! Cioè, la canzone è bella, davvero, volevo dire che… non
mi sono fatta male!”
Dopodiché
si soffiò il naso vigorosamente, ma si accorse da un paio di grosse macchie
sulla salvietta che stava perdendo sangue…
“Guarda
su, guarda in alto!” le ordinò Eric.
“…
Sangue!” gemette lei, sentendo montare la nausea.
Tony le
propose di andare in bagno e mettere il naso sotto l’acqua fredda, ma il
batterista optò alla svelta per un’altra soluzione.
“Tony,
vai a cercare la cassetta del pronto soccorso, dev’esserci del cotone, la porto
io in bagno!”
“Oddio!”
esclamò la ragazza, rossa in viso, senza smettere di guardare il soffitto, il
naso in su.
“Vieni,
non aver paura …”
Lui le
cinse la vita con un braccio e la condusse fino alla toilette delle donne.
“Non è
niente, è solo qualche goccia di sangue, credo che tu possa abbassare la
testa…”
“Ehm…
no, ancora no…” si oppose l’altra, che però non pensava già più al sangue.
Seduta
sul water chiuso in una delle cabine, teneva la porta spalancata con un piede
mentre si tamponava freneticamente il naso con della carta igienica, temendo di
macchiarsi i vestiti. Era in attesa di Eric, che le aveva detto di aspettarlo
lì; pochi istanti dopo era tornato con un sacchetto pieno di batuffoli di
cotone.
“Eccomi,
arrivo subito!” annunciò “Bagno il cotone e sono da te!”
“Mh,
ok…” replicò lei guardandolo, in un pericoloso equilibrio tra l’eccitazione e
la tachicardia lì, sul WC, con un uomo nel bagno delle donne.
“Guarda
su!” la riprese il batterista, e subito obbedì, timorosa di perdere altro
sangue.
Se lo
ritrovò davanti, in ginocchio, pochi secondi più tardi, intento a infilarle
delicatamente il cotone bagnato nelle narici.
“Ti
faccio male?”
“No,
figurati…” rispose con voce nasale “Anzi, grazie… Questo raffreddore stasera
sta… dando il peggio di sé…”
“E noi
ci mangiamo sopra, così ti sentirai meglio!” concluse l’altro prima di alzarsi.
“Dammi
questa roba, è meglio se non la guardi troppo da vicino!”
Le
prese la carta igienica sporca di sangue dalle mani per poi gettarla nel bidone
più vicino.
“Andiamo?”
Julia
abbassò finalmente il capo, con cautela, e si alzò. “Sì, va bene!”
E
mentre uscivano notò il contenuto della pattumiera, da cui distolse in fretta
lo sguardo.
“Eric…
ho davvero perso tutto quel sangue…?”
“Non
pensarci più!”
E la
portò via tenendola per mano.
Scoprì
di avere più appetito di quanto non credesse di fronte agli spaghetti di Blake.
Seduta
tra Sasha e Tony, mangiò in silenzio, serena, e si tolse con discrezione i
tamponi dal naso nel giro di pochi minuti, dato che il naso aveva smesso di
sanguinare.
Si
sentiva ingenua ed imbranata, ma anche euforica, pur sapendo che non aveva un
motivo davvero valido per esserlo: Eric si era dedicato a lei per cinque minuti
con gentilezza, in un momento “critico”, dato che lei non poteva nemmeno
soffrire la vista del sangue, ma di certo non era stata una parentesi
romantica!
Starnuti,
culi doloranti, sangue, tamponi nel naso, toilette pubbliche.
No,
sapeva più di film comico…
Ma lui
era stato davvero carino…
“Vuoi
altra pasta, July?” le chiese Sasha con la pentola semivuota tra le braccia.
“Sì,
grazie, ma solo due forchettate!”
“La
nostra barista si è ripresa bene dalla terribile emorragia!” commentò divertito
Tony, al suo fianco.
“L’infermiere
allora è stato bravo…!” rincarò Harry.
“Piantatela…
maiali…” li apostrofò Sasha con un mezzo sorriso.
“Abbiamo
detto qualcosa di male?!” ribatté il vocalist, che già ridacchiava alla vista
delle gote rosse di Julia.
Eric
scosse la testa, divertito, mentre ancora mangiava, e non replicò alcunché;
Harry ne approfittò ancora.
“Un
vero professionista non si vanta mai in pubblico del proprio operato…!”
“Ci
pensano gli altri per lui… nello specifico, le altre!” aggiunse Tony.
“Dio,
ma quanto siete scemi!”
Avrebbe
voluto fare uscire un tono scherzoso, ridanciano, così avrebbe potuto dire la
sua in modo ironico.
E
invece si sentì chiaramente una punta di malumore nelle sue parole.
Subito
se ne vergognò e abbassò gli occhi, ma dall’improvviso silenzio che lei stessa
aveva fatto esplodere, intuì di essersi esposta troppo.
Fu
Blake a rianimare la situazione, annunciando l’arrivo della sua torta fatta in
casa.
Alle
due passate, dopo che tutti se ne furono andati, Mick chiuse il Rock Set e
fissò sospettoso Julia che stava sistemandosi una grossa sciarpa intorno al
collo, sopra il cappotto.
“July,
non è che sei a piedi?”
La
ragazza rispose serenamente, tirando su con il naso: “Stasera sì! Non ha
piovuto né nevicato per tutto il giorno, e-“
“Tu non
vai a casa a piedi con questo freddo, e con il raffreddore!”
“Ma
sono solo tre isolati…”
“Salta
in macchina!”
“Mick,
è tardi, ti porterei fuori strada, guarda che-“
“Posso
accompagnarti io, se ti va.”
Eric si
fece avanti, alle spalle di Mick.
La
ragazza incrociò il suo sguardo, poi quello del suo datore di lavoro, vagamente
contrariato.
Prima
ancora che il marito ricominciasse ad imporsi, Blake disse da dentro la loro
auto: “Sì, Eric, sii un tesoro, dalle tu un passaggio… Mio marito sta crollando
dal sonno, come me, e sarà un miracolo se ci arriviamo noi, a casa!”
Il
batterista acconsentì e fece tintinnare le chiavi della sua macchina.
Una
Porsche.
“Vieni,
July, ho parcheggiato qui dietro…”
Radio
spenta, getto d’aria calda dalle bocchette frontali, abitacolo claustrofobico,vetri
appannati, un Arbre Magique al pino appeso allo specchietto retrovisore, nuovo
di zecca, e l’odore dei sedili in pelle.
Julia
non aveva nemmeno allacciato la cintura, anzi, si era immediatamente messa alla
ricerca delle chiavi di casa dentro la borsa; appena lui avrebbe accostato, lei
si sarebbe lanciata fuori da quell’auto che, era pronta a giurarlo, aveva
visto, sentito e “consumato” tante donne, in ogni angolo, in ogni posizione,
possibilmente ogni notte.
Eccezione
fatta per lei, per quella notte.
Non
appena rallentò davanti a casa sua, come lei gli aveva indicato, spalancò lo
sportello, mise un piede fuori dall’abitacolo e non lo lasciò neanche parlare.
“Grazie
del passaggio, Eric, non dovevi, e grazie anche dei tamponi, hanno funzionato
e… oh, complimenti per lo show e… già, Buon Natale se non ci vediamo prima
delle feste! Buonanotte!”
A
malapena lo sentì, sovrastato dal rumore secco dello sportello sbattuto… forse
la chiamò, forse le augurò la buonanotte, fatto sta che non ebbe il tempo di
chiarirlo, perché non si era accorta della neve ghiacciata vicino al
marciapiede e l’aveva calpestata con lo stivale, scivolando e cadendo
rovinosamente in avanti.
E così,
mentre l’imbarazzo s’impossessava di lei per l’ennesima volta in quella serata,
tentò goffamente di rialzarsi e si sentì afferrare saldamente per i fianchi.
“Bambolina,
se continui a fracassarti contro qualsiasi cosa ovunque tu vada, dubito che
arriverai a Natale!”
Forse
per il “Bambolina”, forse per
l’ironia nella sua voce, Julia si divincolò e protestò: “Sto bene! Grazie! Sono
solo inciampata!”
“Lo
so!”
“Non
avevo visto la… cosa, lì, la neve, ma non è successo niente!”
“Lo
so!”
“… Ok,
scusa, è stata una giornata lunga, sono esausta, non volevo essere maleducata…”
“Lo
so!”
E
scandalizzata, drastica, brusca, colpevole… e anche un po’ alterata.
“E come
mai sapresti tutto, tu?!”
Gli
lanciò un’occhiata torva da sotto la lunga sciarpa, maledicendolo in silenzio
per il batticuore che le aveva provocato, di nuovo.
Lui,
dal canto suo, rise di gusto.
“Ti
accompagno alla porta” disse, prendendola sotto braccio “Sono pochi passi, ma
se cadi di nuovo e ti arrabbi di più, potrei sentirmi responsabile!”
“Spiritoso…”
“Eccoci
arrivati, di già!”
Julia
riafferrò prontamente le chiavi di casa, ma esitò subito dopo.
“Io…
scusa, Eric…”
“E di
cosa?”
“Per…”
Prese
il coraggio a quattro mani…
“… Per
la serata un po’ imbarazzante.”
E
rincarò la dose per puro senso di autolesionismo.
“Mi
sono comportata un po’ da pazza…”
Il
ragazzo le sorrise, comprensivo, e replicò: “Magari non ne sei consapevole, ma
sai essere molto divertente…!”
L’altra
sprofondò nelle spire della propria sciarpa e ridacchiò, imbarazzata ma
decisamente sollevata.
“Sai…
dovremmo uscire, io e te, una di queste sere!”
Il suo
sorriso si spense e gli occhi si spalancarono, tutto in un sol colpo.
“Non…
non sei d’accordo?” tentò d’incalzarla Eric, perplesso.
E Julia
sbatté freneticamente le palpebre per poi replicare, sorpresa: “Sì, ma… è che…
niente, io sono solo… pensavo che…”
“Pensavo che non mi avresti mai notata”
Lo
pensò, forte e chiaro, ma lo tenne per sé: era troppo contenta per
confessarglielo e compromettere tutto.
“Allora
ti va? Devo prenderlo per un sì?”
La ragazza
rispose scandendo bene le parole e con un gran sorriso stampato sulle labbra:
“Certo, se ti comporterai come si deve…!”
Non
sapeva da dove era uscita quell’improvvisa pretesa, tanto lecita quanto
sfacciata; continuò a sorridere in attesa di una risposta, quasi fiera di se
stessa.
E lui
la sorprese piacevolmente.
“Sì,
con te sì, mi comporterò come si deve… promesso!”
Julia
gli diede il proprio numero di telefono, scrivendoglielo sul dorso della mano,
e solo allora entrambi si accorsero del freddo tremendo che faceva.
“Sarà
meglio che rientri, prima che il tuo raffreddore peggiori…”
“Sì, e
poi è molto tardi… Attento al ghiaccio mentre guidi…”
“Certo,
ho imparato da te!”
La fece
ridere, e una parte della sciarpa le ricadde lungo il fianco, lasciando il viso
scoperto.
Colse
al volo l’occasione e si spostò più vicino a lei, per tentare di baciarla.
Ma
rimase a bocca asciutta: Julia risistemò con uno scatto la sciarpa davanti al
viso, colpendolo in piena faccia coi peneri lanosi.
“Comportati
bene, Eric…!”
Stupito,
ma non infastidito, il batterista incassò il colpo con diplomazia.
“Ok,
ok, obbedisco!” disse ridacchiando prima di raggiungere la sua auto.
“Buonanotte!
Chiamami tu!” cinguettò lei di rimando con un sorriso sornione prima di
chiudersi la porta alle spalle.
THE END
Nel giorno del suo compleanno, questo
racconto è dedicato a Alice, che mi legge sempre e mi motiva!! Tanti auguri!
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Capitolo 4 *** I enjoy being a girl ***
donne
I ENJOY BEING A GIRL *
A metà
tra la civettuola sensazione di farfalle nello stomaco e piedi a tre metri da
terra, un po’ retrò ma mai fuori moda per le romantiche come lei…
… E una
discreta ma costante voglia di spoglarsi, saltargli addosso e “attendere l’inevitabile”,
come avrebbe detto una sentimentale casalinga degli anni ’50 pensando al
marito.
Più si
guardava allo specchio, più Christine vedeva una brava ragazza, piuttosto
carina, niente da dichiarare. Come una
tela bianca che poteva diventare un’opera d’arte, se dipinta con i colori e lo
stile giusti.
Christine
non faceva sesso da quattro anni, un po’ per scelta e un po’ per la scarsa qualità della merce, più quella
altrui che la propria.
Ma che
diamine, finalmente un degno pretendente aveva bussato alla sua porta!
Alto,
moro, occhi grandi e scuri, belle mani, e tanto bastava per farle girare la
testa e portarla a mordicchiarsi il labbro inferiore con fare malizioso.
Erano alla
loro terza uscita insieme e i progressi c’erano, per quanto piccoli: lei non
aveva più bisogno di consultarsi con le amiche per telefono vagando
nervosamente per la propria stanza, e lui aveva imparato a darle orari più
umani, seguendo la sua tabella di marcia: non alle sette e mezzo, ma alle otto,
forse anche otto e un quarto, e non allo spettacolo delle nove, bensì a quello
delle nove e tre quarti, al cinema davano i film a rotazione per un motivo…!
Terzo appuntamento.
Ok.
Christine
la carina poteva iniziare a farsi da
parte, anche se non del tutto, non ancora.
Non aveva
troppa fretta di far emergere l’altra sua metà. Di lasciarsi andare un po’ di
più, ma era senz’altro curiosa di vedere come avrebbe reagito lui davanti alla
sua “metamorfosi”.
Non avrebbe
bruciato le tappe, no affatto!
E sarebbe
stata attenta nelle conversazioni e nei gesti, a cena, durante il film, davanti
a un caffè o un gelato…
Ma sopra
ogni cosa, sarebbe stata attenta ai preparativi.
Un regalo sembra sempre più bello quando è
nella confezione più appropriata.
Ore 16
Con i
capelli appena lavati e avvolti in un asciugamano, Christine cominciò a passare
in rassegna il proprio guardaroba, mettendosi in testa una volta per tutte che avrebbe
trovato qualcosa da mettere, perché aveva ragione sua madre: c’erano vestiti
per un reggimento, in quell’armadio.
Scartati
subito dolcevita, camicie e minigonne, perché già tutti usati per i primi due
appuntamenti; squadra che vince non si
cambia, ma rischiare un po’ sarebbe stato innocente e magari anche
produttivo…
Provò a
buttarla sul casual, con dei jeans, delle magliette e un paio di candide scarpe
da tennis, ma… no. Non stava andando a fare da babysitter al bambino dei
vicini, né ad una scampagnata.
Eliminò
in egual modo gli abiti da sera più formali, per salvare la reputazione, per
evitare di spaventare il poveretto e poi perché… era solo una cena con cinema,
e nessuna a parte la Marilyn di “Quando la moglie è in vacanza” poteva osare un
vestito troppo elegante per un’occasione informale.
“Non ci
siamo” sospirò sconfitta dopo aver sparpagliato la maggior parte dei vestiti
per tutta la stanza; le parole di sua madre non avevano funzionato granché, ma
forse era vero che per ogni cosa ci vuole
il suo tempo, così decise di lasciare da parte per un po’ la scelta del
look.
Ore 17
La crema
profumava di vaniglia e menta, la confezione ne vantava le proprietà idratanti
ed energizzanti, e raccomandava a Christine di lasciarla agire sul viso per
circa un quarto d’ora.
“Perfetto.”
Mentre quella
tonnellata e mezzo di impiastro benefico e verdognolo s’impegnava a renderla
più carina (presumibilmente), lei si occupò dei capelli, asciugandoli a testa
in giù per renderli più voluminosi, e vivacizzandoli con la schiuma per esaltare
le sue onde naturali.
“No,
sciolti no. Sembro una Madonna addolorata…”
…
“Questa
treccia fa schifo…”
…
“Con il
cerchietto mi scambierà per un’educanda!”
…
“Oddio,
ho tirato troppo, mi fa male la testa, no no, niente mezza coda… ahi…”
…
“E se
me li lisciassi…?”
…
“Ma che
ore sono? Non riesco a muovere la faccia…”
…
“Ok,
basta, vada per la coda di cavallo, ma non c’è un fermaglio decente…?”
…
E dopo
quaranta lunghi ma prolifici minuti, uscì dal bagno con i capelli raccolti in
una coda alta, tenuti insieme da un fiocco di seta nera; il viso era ancora
leggermente arrossato a causa degli strofinamenti a cui lo aveva sottoposto per
scrostare via la maschera (letteralmente!), ma un po’ di crema lenitiva
mescolata al fondotinta avrebbe riparato i danni…
Ore 18
A volte,
il meno è più…
Quella era
la volta giusta.
Un trucco
neutro, elegante, ma discreto e poco appariscente.
Seduta
davanti
allo specchio nella sua stanza, Christine aprì una delle tante
trousse che
possedeva e setacciò speranzosa i colori più sobri,
scegliendo infine quelli
più versatili: il “panna”, il “tortora”,
lo “champagne”, il “marron glacé”.
Mentre stendeva
il fondotinta unito alla crema con entrambe le mani sulle guance, si accorse
che i nomi di quegli ombretti le avevano fato venire un certo languorino prima
dell’ora di cena…
Il make
up “facile, veloce, adatto per ogni occasione” riuscì solo al quarto esasperato
tentativo, maledette riviste femminili ingannevoli e civettuole! Ma almeno il
risultato era più che accettabile e lei era ancora in perfetto orario sulla sua
tabella di marcia.
“Capelli,
fatti… trucco, ok… oddio, sono ancora in mutande…”
Solo allora
si accorse che le restava un’ora scarsa per trovare l’abito adatto.
Ore 19
Christine
tentò di farsi forza. “Hai fatto 30, puoi
fare anche 31!”
Ritornò
davanti al proprio armadio, il cui contenuto era stato in parte trasferito sul
letto.
Con la
testa tra le mani, s’impose un po’ di sano self control per evitare di cadere
nel panico, che l’avrebbe solo fatta ritardare (anche se già a cose normali
prevedeva un accademico quarto d’ora di indugio, per eventuali ritocchi, e anche perché qualche minuto d’attesa
in più era piacevole, in fondo!).
“Pensa,
Chrissy, pensa a lui…”
Oh…
“No,
concentrati, pensa a come ti vorrebbe vedere lui…”
… Oh!
“A
quella parte ci arriveremo!!! Mantieni la calma e pensa! È un tipo da jeans, da
righe, da fiori, da tinta unita, diamine, avrà pure qualche preferenza nell’inconscio,
anche se agli uomini non frega notoriamente nulla di tutto ciò!”
La soluzione
al dilemma giunse brillante ed improvvisa, come un’epifania!
“Il
vestitino nero!”
Il little black dress.
Sobrio come
una lieve scia di profumo, sofisticato come la camminata di una diva di
Hollywood, popolare come la pizza e versatile come solo un buon abito poteva
essere.
E anche
sexy, sì, ovvio. Audrey Hepburn l’avrebbe senz’altro confermato.
Lo aveva
indossato così poche volte – chissà poi perché – che quasi se n’era
dimenticata!
Spalancò
una delle ante e lo trovò appeso a una delle grucce più in disparte, neanche
fosse in punizione!
Una volta
che lo abbe indossato, trovò subito le scarpe giuste – decolleté nere e
vertiginose, non avrebbe camminato granché quella sera! – e la borsetta più
adatta – rosa, di vernice, con dentro l’essenziale, più un preservativo.
Ore 20
David aspettava
in macchina sotto casa sua, lo aveva visto sbirciando dalla finestra.
Avrebbe
aspettato ancora un po’, magari non quei quindici minuti di rito, ma cinque sì:
era bello farlo, ogni tanto, specie quando lui sapeva aspettare, perché sapeva
che ne valeva la pena, per lei.
E anche
Christine lo sapeva, sì, quella sera sì.
Quattro
ore per prepararsi, ed era solo un appuntamento con un ragazzo.
Ma era
stato anche un pomeriggio per se stessa, anzi, era stato soprattutto quello!
Quattro
ore tutte per lei, per coccolarsi e volersi un po’ più di bene, più di quanto
non gliene avessero voluto gli altri, forse anche per poter civettare in pace
davanti allo specchio, perché non c’era niente di male…!
Gli uomini,
del resto, non avrebbero mai potuto capire…
Christine
uscì, chiuse a chiave la porta di casa e salutò David con la mano mentre andava
incontro alla sua auto con i finestrini abbassati.
“Ciao! È
molto che aspetti?” gli chiese aprendo lo sportello del passeggero.
Lo vide
sorridere e scuotere la testa.
“Sei
davvero molto carina stasera” le disse guardandola con occhi grandi, molto
grandi.
Lei sorrise
di rimando, con modestia.
“Grazie,
ho messo la prima cosa che ho trovato nell’armadio!”
THE END
*Il titolo prende spunto dall'omonima canzone del musical "Flower drum song" (1958). No scopo di lucro.
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Capitolo 5 *** Through the barricades ***
donne
THROUGH
THE BARRICADES
Si
sveglia piena di fatica e d’angoscia.
Avrebbe
voluto correre via da quel brutto sogno, ma il sangue la faceva scivolare, le
si appiccicava ai vestiti, sembrava quasi scorrere vischioso lungo le sue
gambe, ma AL CONTRARIO, dal pavimento alle sue caviglie, arrampicandosi su per
le cosce, come un paio di lunghe braccia viscide e desiderose d’imprigionarla.
Quando
riapre gli occhi, Kathy è spaventata a morte, d’istinto si ripara sotto le
coperte fin sopra la testa e respira forte con il cuore che le pulsa
mastodontico nelle orecchie.
“Che
brutto sogno, che brutto sogno” non fa che ripetersi in un sussurro mentre
lentamente il suo corpo torna a rilassarsi sul materasso.
Paul
era morto, di una morte orribile, e lei vedeva le fotografie scattate dalla polizia
sul luogo del delitto, grandi rettangoli di carta satinata che le mostravano
quell’orrore in bianco e nero, spacciando il sangue per innocue chiazze grigie
sparse un po’ ovunque, come piume di gallina in un pollaio.
Paul
era senza testa e completamente privo delle gambe, del bacino, erano rimasti
solo il busto e le braccia, intorno a lui un semicerchio di teste mozzate di
gente sconosciuta, morta come lui in quell’anonimo androne insanguinato.
“E la
testa, la testa?!” gridava disperata al poliziotto, che però non le rispondeva
e, anzi, continuava imperterrito a mostrarle quelle terribili fotografie, una
più atroce dell’altra.
“Dovremo
ricucirgli la testa, la testa per la camera mortuaria, non si
fa il funerale se non ha la testa”
pensava in preda all’orrore mentre iniziava a correre, perché dalle foto aveva
incominciato a scorrere sangue, così come dalla bocca del poliziotto, aveva
iniziato a sgorgare persino dal pavimento, e strisciava, scorreva, si ampliava
in un lago in cui sarebbe affogata…
Fortuna
che si era svegliata appena in tempo.
“Devo
dirlo a Paul” pensa man mano che il cuore va calmandosi e la stretta delle dita
intorno ai lembi del lenzuolo si allenta.
Parlarne
con lui senz’altro la farà star meglio…
Anche
se…
“Che
stupida…”
Per un
attimo se n’era dimenticata.
Paul
non c’è più, da almeno dieci anni.
Se n’è
andato dopo una lunga malattia.
È morto
davvero. Non in quel modo violento e spaventoso che ha sognato, ma è morto.
Kathy lo
sa bene: le manca moltissimo, non passa giorno in cui non pensi a lui, una
volta al mese va a trovarlo al cimitero, innaffia i fiori freschi e sostituisce
quelli secchi con altri, acquistati all’apposita bottega.
Paul
riceve sempre molti fiori sulla sua tomba, era un uomo pieno di amici…
Kathy
ricade in un sonno profondo e più sereno, pensando a Paul, al suo sorriso, al
bene che lei gli vuole…
La
mattina seguente è immersa nel sole.
Fa
caldo, ma è un caldo secco, buono, che lascia presagire un’ottima giornata.
Kathy
s’incontra con Maddie nella caffetteria, sorseggiano del succo di frutta
accompagnato da biscotti. Oggi persino Maddie, che è sempre troppo occupata a
criticare e a lamentarsi di tutto e tutti, è di buon umore, e Kathy non
potrebbe chiedere di meglio.
“Quest’anno
sono fortunata” sospira con un sorriso “Il suo compleanno cade oggi, nel giorno
della mia visita!”
L’altra
la fissa disorientata per un attimo, con il bicchiere a mezz’aria, dopodiché
esclama: “Ah! È vero, è oggi, non me lo ricordavo… Vai a trovare… tuo fratello…
al cimitero. Ma… come…?”
“Mi accompagna
Bethany, in teoria” l’anticipa Kathy “E
se lei non può, ci sono sempre David e Trevor…”
Non ha
la patente, e per orgoglio non ammetterà mai che ogni tanto le piacerebbe saper
guidare per essere più indipendente, per non doversi sempre raccomandare agli
altri.
Paul le
avrebbe insegnato volentieri a guidare la sua Porsche, anche se ci teneva
molto, anche se lui stesso non aveva guidato granché negli ultimi anni, poco
prima di ammalarsi.
“Non
andrai con questo sole?! Si scoppia dal caldo!” l’avverte Maddie, che nel
frattempo si sventola una mano davanti al viso, infastidita dalla canicola.
Kathy
scuote la testa e la rassicura: “Vado dopo le sei, così trovo anche meno gente
per comprare i fiori!”
“Ah,
ecco…! Bè, salutamelo… Ma proprio non ce l’hai una sua foto?”
Sono
mesi che le chiede una foto di Paul, ma lei, gelosa com’è, non ha nessuna
intenzione di accontentarla.
“No, te
l’ho detto… le ho perse tutte durante il trasloco…” mente per l’ennesima volta,
pensando all’album di fotografie che si è costruita e aggiornata da sola nel
corso degli anni, e che giace in fondo all’armadio della sua stanza, sotto i
maglioni invernali, al riparo di sguardi indiscreti.
Qualche
volta lo sfoglia in silenzio, con cura e tanta nostalgia negli occhi, prima di
dormire.
“Andiamo
insieme e io ti aspetto all’angolo, come sempre. D’accordo, Kathy?”
“Va
bene, Beth, ti ringrazio!”
Bethany
le sorride gentilmente dallo specchietto retrovisore e continua a guidare.
Seduta
tra David e un ragazzo mai visto prima – Trevor dev’essere malato – Kathy si
passa una mano sui capelli per controllare che non siano in disordine, e con
l’altra stringe nervosamente la borsetta: non si è dimenticata proprio niente?
Le
sembra di no: il rossetto, lo specchietto, l’inalatore per l’asma che ogni
tanto le da fastidio, i fazzoletti, cinque dollari, la carta d’identità…
È che
va sempre un po’ in paranoia quando si tratta di Paul, di andare a trovare Paul
al cimitero.
Una
volta parcheggiata l’auto, Bethany scende per prima con un tranquillo “Eccoci
arrivati”, dopodiché è il turno del ragazzo nuovo, che tende la mano a Kathy
per aiutarla; è gentile, sembra aver notato che in quel vestito leggero e con i
tacchi (bassi, appena cinque centimetri) non è troppo a suo agio… Lei gli
sorride, una volta sul marciapiede, e aspetta che anche David sia sceso, prima
che tutti insieme la accompagnino dal fioraio.
“Buonasera…”
“… Oh,
buonasera! Ehm… Catherine?”
“Kathy!
C’era quasi…!”
“Giusto,
Kathy! Mi deve scusare, sto invecchiando! Buonasera anche a lei, Bethany…”
“Salve,
John. Kathy vorrebbe dei fiori speciali oggi…”
“E’ il
compleanno di Paul!”
“…
Paul?”
“Suo
fratello, Paul. Se lo ricorda?”
Dietro
ai suoi spessi occhiali da vista, John increspa per un istante le sopracciglia
per poi spalancare gli occhi e annuire sorridente.
“Ma
certo! Lo vede, glielo dicevo che stavo invecchiando! Mi dica, Kathy, ha
qualche preferenza?”
Lei si
guarda un po’ attorno e domanda, incerta: “Non so, vorrei qualcosa di diverso,
un po’ speciale… Cosa può darmi per cinque dollari?”
John
scambia un’occhiata fulminea con Bethany e risponde tranquillamente: “Non si
preoccupi del prezzo, sa che non è il caso!”
“Ma…”
“Perché
non porta a suo fratello un bel girasole? L’altro ieri me ne sono arrivati
tantissimi, e guardi come si mantengono bene!” la sovrasta il vecchietto
indicandole i grandi fiori gialli, floridi e sgargianti in grandi vasi ai piedi
del bancone.
A Kathy
brillano gli occhi per la meraviglia; stringendo a sé la borsetta chiede
esitante: “Può… darmene uno, magari… decorato?”
“Certo
che sì! Glielo confeziono subito!”
Mentre
John lavora con gesti lenti e sapienti al suo girasole, Kathy si volta
sorridendo verso Bethany e le dice: “Siamo nella stagione giusta, penso che
questo gli piacerà!”
“E’
ovvio” concorda l’altra, sorridendole di rimando.
“Che
cosa gli avevo regalato l’anno scorso? Margherite?”
“Sì,
erano margherite!” mente l’altra, che non ricorda.
La
ragazza annuisce soddisfatta e scherza: “Ha ricevuto più fiori lui di me! E un
uomo di solito li regala, i fiori!”
“Proprio
vero!” ridacchia Bethany, assecondandola in automatico.
In un
paio di minuti, John le consegna il girasole, e mentre Kathy fa per estrarre il
portafogli dalla borsetta, le dice con gentilezza: “Offre la casa!”
Lei
protesta educatamente: “Ma mi ha detto la stessa cosa anche il mese scorso!”
L’uomo
allarga il suo sorriso sotto i baffi bianchi: “Ho un debole per le ragazze
gentili che scelgono sempre il fiore giusto!”
Davanti
a quel complimento inaspettato, Kathy arrossisce e acconsente a non pagare.
“Lei è
davvero troppo disponibile…”
“Kathy,
adesso però andiamo… John fra poco deve chiudere…”
“Giusto…
Allora mille grazie ancora! Ci rivediamo in Agosto!”
“Molto
volentieri! Passi una buona serata, Kathy…”
“Anche
lei, arrivederla!”
“Grazie,
John, ci vediamo presto…”
“Sì… a
presto, Bethany…”
“David
e l’altro ragazzo…?”
“Sono
rimasti ai cancelli, si fumano una sigaretta, non preoccuparti… Tu stai bene?”
“Sì,
scusa, è solo un po’ d’ansia…”
“… Capisco…”
Camminano
fianco a fianco, lanciando davanti a sé le proprie ombre, lunghe, nere e
sottili, stese sul selciato chiaro, diventato celeste con la luce del sole
calante.
Arrivate
quasi in fondo a uno dei viali principali del cimitero, Kathy gira la testa
verso destra e annuncia a bassa voce: “Ci siamo, Beth…”
La
donna annuisce e si allontana di qualche passo dicendole: “Mi siedo sulla
panchina qui vicino e ti aspetto. Quando hai finito, giri l’angolo e mi trovi
subito. Va bene?”
“… Va
bene. Grazie, Beth.”
E se la
lascia alle spalle, ogni volta con quell’aria solenne che le da tanto a cui
pensare.
Segno
della croce, acqua per i fiori nuovi, quelli secchi nel cestino, in ginocchio
di fronte alla lastra di marmo incastonata nella parete, in basso, proprio
all’altezza della sua testa.
Si
schiarisce la gola per scacciare il nervosismo e quando lo sguardo cade sul
girasole riesce a cogliere un po’ di coraggio.
“Ciao,
Paul. Buon compleanno. Guarda cosa ti ho portato… spero ti piaccia…”
Sistema
la piccola composizione in un vaso a collo lungo e intanto continua a parlare.
“Mi
sono anche fatta carina… non mi va che tu mi veda sempre in tuta. Però stai
tranquillo, non mi vesto praticamente mai così, non c’è nessuno che mi
importuni! Oggi ti hanno portato tantissimi fiori, guarda che belli…!
Anche
stavolta il signor John ha voluto fare il galante, sai? Fiori gratis! Ma sono
mesi che vorrei dargli quei benedetti cinque dollari… è proprio un brav’uomo,
hai visto come lo ha reso bello, il mio girasole?”
Senza
aspettarsi una risposta, Kathy alza gli occhi verso la lapide e sorride con
tristezza, lamentandosi intimamente del fatto che non ci sia una foto da
guardare, a cui mandare un bacio, o che la osservi mentre sistema i fiori. La
famiglia ha scelto una tomba semplice e spoglia.
Ma in
fondo va bene così: Paul è nella sua mente, nei suoi ricordi, e là il suo volto
non sbiadirà mai, è questo che conta.
“Sono
passata solo… per farti gli auguri, tutto qui. Io sto bene, lo sai… mi annoio
un po’, ma vado avanti! E ti penso sempre, ogni giorno!
Sai…
volevo raccontarti un brutto sogno che ho fatto stanotte, ma… me lo sono
dimenticato! Meglio così!”
Kathy
ride tra le lacrime, che ormai scendono senza che lei possa trattenersi.
Ma non
è poi così avvilita. Non nel giorno del compleanno del suo Paul.
“Adesso
devo andare, prima che Beth venga a cercarmi…” dice asciugandosi goffamente gli
occhi con il palmo della mano “E’ sempre così gentile a darmi un passaggio… Bè…
allora… ci vediamo il mese prossimo, no? Anche se farà caldissimo, non
m’importa, verrò in ogni caso, come sempre!
Ti
voglio bene, Paul. Mi manchi davvero tanto.”
Tira su
con il naso e manda un bacio al girasole per poi rialzarsi e tornare da Beth,
che l’aspetta pazientemente seduta sulla panchina e non le fa nessuna domanda,
anche se la vede con gli occhi arrossati dal pianto.
Beth è
davvero gentile, la tratta quasi come un’amica.
“Trevor
mi aveva accennato qualcosa…”
“Allora
sai che è bipolare.”
“Sì, e
che è peggiorata dopo la morte della madre, vero? Aveva… solo lei?”
“Già,
niente padre… Dopo, è cresciuta dagli zii, se non ricordo male, ormai sono
passati anni!”
“E come
mai è finita in istituto?”
“… Niente.
Ha cominciato a dare segni preoccupanti nel ’92. Gli zii non ci hanno pensato
due volte e l’hanno spedita da noi. Non conosco la versione ufficiale, ma in
sintesi… sosteneva di vedere il fantasma di un fratello che non ha mai avuto.”
“E cosa
viene a fare al cimitero?”
“Viene
a trovare quello che pensa sia suo fratello!”
“E chi
sarebbe?”
“Un
musicista… un tipo di una band che le piaceva e che è morto, non ricordo chi…”
“Ma non
è suo fratello, vero?”
“No,
scemo! Lo ha visto in concerto, ci si è fatta un sacco di foto insieme, andava
a tutte le date che poteva, ma tutto qui!”
“Ah…”
“Le
conserva ancora, quelle foto, ha voluto portarsele dietro quando siamo andati a
prenderla. Tutte le altre… della madre, degli zii, degli amici… le ha lasciate
dov’erano. Ma quelle con lui, guai a chi gliele tocca. Ci ha provato tempo fa
una delle pazienti del suo reparto, gliene ha strappata una di mano per
scherzo… ed è finita con una rissa, tre punti al labbro inferiore della
stronzetta infame e una settimana di sedativi per lei. Era diventata una belva,
l’abbiamo dovuta portare via in quattro.”
“Cristo
santo…”
“Arrivano.
Fai finta che non ti abbia detto niente…!”
THE
END
***
“Through the barricades” è il
titolo di un brano degli Spandau Ballet. No scopo di lucro.
|
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Capitolo 6 *** No big deal ***
donne
AVVISO:
Cari lettori, fino a settembre non pubblicherò altri racconti,
poiché andrò in vacanza.
Spero sia una sosta produttiva che mi permetta di scrivere tanto e bene!
Vi auguro una buona estate!
NO BIG DEAL
Caffè, ok, caffè.
Ho qui
davanti la mia bella tazza di caffè.
Me ne
sto qui, sulla sedia, con il mio diario e il mio caffè. In mutande. E mi
accendo pure una sigaretta.
Che
palle, sono appena le dieci. Di solito, la domenica mi sveglio a mezzogiorno
perché tanto inizio il turno alle
quattro.
Sto
fissando senza un perché la porta d’ingresso da diversi minuti.
Lei se
n’è andata più o meno mezz’ora fa.
…
Tulisa, mi pare. Un nome strano, esotico, forse da Sud America.
L’ho
guardata camminare via, ondeggiando come al rallentatore su un paio di tacchi
che io neanche guarderei.
E prima
di chiudere la porta mi ha sorriso; credo di aver ricambiato, anche se il sonno
e la bava alla bocca non mi avranno certo aiutato ad assomigliare a un sex
symbol.
Penso
di aver fatto un paio di belle cosette con quel culo sodo e sporgente al punto
giusto.
Oh.
Dio.
Avevo
quasi dimenticato la goduria da sigaretta post-scopata.
Perché
sì, signori, io me la sono scopata.
I win.
Gonfio
il petto e dico con orgoglio alle pareti di casa mia che sì, io mi sono scopata
quella moretta da competizione, oh sì.
E lei
si è scopata me, ben bene e con un gran senso dell’altruismo; non so se ora si
stia vantando con se stessa della cosa, ma… io sì, e con orgoglio!
Avevo
sperato d’incontrare qualcuno ieri sera, in discoteca, chiunque a parte lei.
È
sbucata quasi dal nulla e per poco non mi ha fatto il bagno con il suo drink
mentre ballavamo. Si è scusata più volte, ma l’abbiamo subito buttata sul
ridere.
Susan e
il suo ragazzo, nel frattempo, si erano imboscati chissà dove, mollandomi sulla
pista da ballo – odio e odierò sempre le coppie agli albori delle loro
esplosioni ormonal-sentimentali – ma sul momento non me n’è importato granché,
in quanto avevo Tulisa che sculettava a cinque metri di distanza, e che mi
venga un colpo se non l’ho vista ammiccare proprio verso di me.
Ma chi
ci ha pensato, all’inizio? Chi ci poteva arrivare? Non io! Pensavo fosse solo
molto estroversa, giuro…
Che ne
so, io, di come funzionano certe cose…
La
guardavo e pensavo: “Sì, ti darei
volentieri due o tre colpi, però non credo tu sia abbastanza sobria, e comunque
non sei il mio tipo!”
Non
mentirò: avevo bevuto e la testa mi girava un po’; ballavo, ridevo, ero in
grado di sostenere una conversazione, ma credo sia stata una fortuna che
nessuno sia venuto a dirmi cose del tipo “Mettiti le mutande in testa e ti pago
il prossimo giro”, perché per come stavo… l’avrei fatto.
Non so
quanto lei avesse bevuto, ma sembrava piuttosto “allegra”, come me.
L’ho
guardata, mi ha guardato, avanti così per un bel po’, forse mezz’ora, sia
dentro che fuori dalla pista.
Non
m’intendo granché di seduzione, ma aveva quegli occhi predisposti al sesso, di
quello spensierato e possibilmente violento. Un po’ come quelle conigliette di
Playboy, quelle brave, quelle maiale nell’animo; davanti a lei, infatti, quasi
sparivo perché non sapevo come comportarmi, così mi limitavo a inarcare le
sopracciglia e sorridere come l’imbecille che sono, “Oh, e così vorresti sbattermi un po’? Dici sul serio?! Ma chi sei?!”
L’ho
scoperto più tardi, chi fosse. Nel bagno. Al riparo da sguardi indiscreti.
Mi è
venuta dietro e… SLAM! Ha chiuso la porta del cesso, e da lì…
Mi ha
lasciato riprendere fiato giusto per le presentazioni.
“Mi
chiamo Tulisa, e tu?”
Io ho
farfugliato il mio nome, sudavo come un caimano con lei addosso.
“Baci
molto bene, hai una bella bocca, complimenti…!”
Molto
più di una coniglietta patinata sul paginone centrale di Playboy, molto più di
una pornostar fatta di pixel su YouPorn.
Ha
cominciato a mordicchiarmi le labbra e a infilare le mani dappertutto, così
l’ho imitata, andando un po’ alla cieca ma con un sacco di voglia, roba da
mutande fradice! E lei, a quanto pare, ha gradito…
Ripensandoci
adesso, mi sorprendo: non credo che… a “cose normali” avrei impiegato un quarto
d’ora scarso per conoscere e portarmi a letto la prima che capita.
Voglio
dire, io sono una persona seria, o se non altro provo a comportarmi come tale;
inoltre, non ho mai fatto una cosa del genere.
È anche
vero che… non era mai capitata, una cosa del genere.
Non so
se farmi i complimenti o insultarmi, ma suppongo sia troppo presto per
razionalizzare.
Prima
di stanotte, non avevo mai veramente realizzato il concetto di godimento, neanche vivendolo: per me le
persone godevano perché venivano toccate nei punti giusti dalla gente giusta.
Tutto qui, tutto era quasi automatico, molto fisico, tutta una questione di
chimica.
Sì, ok,
la mia vita sessuale ha visto più ombre che luci, ora lo sappiamo. Ma ho avuto
la mia rivincita…
Io,
responsabile di tre orgasmi (non credo abbia finto). È una bella soddisfazione,
non avevo idea di essere tanto competente!
Ricordo
di aver dato un’occhiata là in basso e… toh, qualcosa di familiare!
Ora
capisco perché la adorano così tanto da sempre.
Sembra
un frutto, un frutto maturo caduto a terra e spaccato a metà, con il succo che
fuoriesce.
(Cosa
cazzo sto scrivendo…?)
È
praticamente impossibile starle lontano, la devi assaggiare, e sai che finirai
per divorarla.
Quando
avevo più o meno quattro o cinque anni, impazzivo per l’anguria e ogni volta
che ne mangiavo una fetta finivo per imbrattarmi la faccia di succo e semi; mia
madre allora mi fotografava e ancora oggi conserva quegli scatti in cui sono il
volto della soddisfazione, con il viso sporco e zuccheroso e i resti
dell’anguria stretti tra le mani.
… Mi
faccio quasi schifo per questo paragone, ma è proprio così che è andata: me ne
stavo lì, culo all’aria, a godermi la vulva altrui – chiamiamola per quello che
è, direi che i paragoni ortofrutticoli si possono considerare superati – e…
vuoi per l’alcol ingerito, vuoi per la curiosità, vuoi per il contesto,
insomma, mi stavo divertendo da matti a toccarla, a sentire com’era fatta, con
le dita, con la lingua, era uno spasso e non mi ha causato nessun imbarazzo,
anzi! Era tutto un “Ok, ora la tocco qui
e cosa succede…?”
Gemiti!
“Bello! E ora provo a mettere dentro la
lingua…”
Altri gemiti!
Come
giocare ai videogames e vincere sempre, solo senza vestiti addosso.
Non ho
fatto tutto io, per la cronaca! Lei è stata davvero generosa: sapeva che avevo
un debole per le sue tette, dato che non perdevo occasione di palpargliele, e
mi ci ha lasciato giocare un po’, mentre mi accarezzava i capelli…
Che
carina.
Sapeva
ESATTAMENTE cosa fare con le mie parti basse e non ha lesinato con la lingua,
che dopo le tette e il culo è la parte di lei che più ho apprezzato.
Devo
anche dire che è stata brava ad insegnarmi cose che non sapevo, il tutto in
modo spontaneo e sempre incentivandomi con dei baci niente male!
È vero,
è vero, è vero quello che dicono: la donna è naturalmente predisposta al bacio;
t’incoraggia con il sorriso, sa arricciare le labbra come se fosse nata apposta
per quello, e poi è morbida, molto più di un uomo, la puoi mordicchiare e
succhiare senza barba o baffi che diano fastidio, ed è bello vedere che dopo la
sua bocca è turgida e rossa, senza rossetto, bella così, al naturale, seducente
perché… ci è nata.
L’uomo
è… rozzo, in confronto, e parlo dell’uomo in generale! Non ha niente a che
vedere con la seduttività e la delicatezza femminile, è come accostare una
torta panna & fragole e una crostata sbruciacchiata.
Magari
sono un po’ di parte se la penso in questo modo, ma chi se ne frega, del resto
è anche troppo se a quest’ora e in questo stato il mio cervello funziona…!
Dopo
aver fatto…
Non
dico “l’amore”, perché col cazzo che era amore…
Non
dico “sesso” per non appesantire il quadro generale e far passare lei come la
puttana da due soldi che non è. Almeno che io sappia…
Insomma,
una bella sforbiciata, e dopo… ha dormito.
Si è
girata su un fianco e si è addormentata senza nemmeno coprirsi con le lenzuola.
Oddio,
che bellezza!!! Niente appiccicume, nessuna richiesta di stronzate sdolcinate,
niente dialoghi surreali sui sentimenti!
Si è
messa a dormire sul suo lato del letto, e di conseguenza ha permesso anche a me
di dormire della grossa, come il nipote di Nonna Papera dopo una bella scorpacciata.
Al mio
risveglio, paradossalmente è stato naturale provare una vaga repulsione per
quel corpo da coniglietta nudo accanto al mio: avevo giocato abbastanza, ormai
non mi andava più quel trastullo.
In
compenso, avevo un’incredibile fame di zuccheri.
A volte
le cose sono belle e memorabili proprio perché non diventano abitudini, nessuno
altrimenti nominerebbe le cose da fare
almeno una volta nella vita come le più desiderate.
Quando
Tulisa se n’è andata, ringraziandomi per l’ospitalità – devo averle sorriso in
modo davvero intelligente, perché non
ha più proferito parola fino all’uscita – ho deciso che non sarebbe più
accaduta una cosa simile: è già andata più che bene una volta, la successiva
potrebbe essere una serata da dimenticare, e poi non sono il tipo da rimorchio
occasionale, anche se me la sono cavata egregiamente.
È
successo una volta, sono felice così, stop.
Non
conosco il suo cognome, non mi ha lasciato un numero o un indirizzo, non so se
e quando la rivedrò.
Non
m’importa, non ora che sto così bene, con le mutande cambiate, la sigaretta a
metà e il caffè caldo, di domenica mattina.
Sinceramente
mi viene un po’ da ridere se penso all’erezione che dovrei trascinarmi per casa
fino a pranzo.
Se
fossi un uomo.
THE
END
“No big deal” (per chi non lo sapesse, “niente
di che”) sono le parole che mi hanno ispirato per questo racconto, captate
mentre ascoltavo “I kissed a girl” di Katy Perry. Nessuno scopo di lucro.
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Capitolo 7 *** The hero of my dreams ***
donne
THE
HERO OF MY DREAMS
Nessuno
là dentro avrebbe mai pensato a lei, lei che si faceva acconciare i capelli
dalla sorella parrucchiera, lei con l’abito bianco e, sotto il tulle, un velo
di cipria a coprire le gote rosse per l’emozione e le lentiggini, sbiadite con
il tempo.
Nessuno
l’avrebbe mai immaginata come madre, una madre fiera del suo Matt, impeccabile
e serio nel giorno della prima comunione, con lei che dalla prima fila in
chiesa lo osservava, commossa nel suo tailleur sobrio, color blu scuro.
Là
dentro era la donna sciatta e annoiata che spingeva la grossa idropulitrice,
non troppo silenziosa, ingombrante quanto bastava per far apparire al suo
passaggio una smorfia di fastidio sui volti dei clienti e, occasionalmente,
scatenare il pianto di qualche bambino.
“Permesso”,
“Scusate”, “Attenzione” erano le parole-chiave, le uniche che costituivano il
suo rapporto con il pubblico e che, come una formula magica, le aprivano un
varco nella folla; al mattino le pronunciava con un mezzo sorriso, discreta e
professionale… Man mano che le ore passavano e le gambe cominciavano ad
appesantirsi, da discreta diventava semplicemente invisibile e la sua
professionalità risentiva della fatica, dei capelli raccolti in uno chignon
disordinato, delle occhiaie che da tempo non venivano più camuffate dal trucco,
del resto come tutto il viso.
Finiva spesso
per sentirsi come l’idropulitrice che adoperava tutti i giorni: ingombrante,
brutta, fastidiosa.
Dentro l’ipermercato
raramente le facce erano sempre le stesse, ma qualche veterano spuntava
regolarmente dagli scaffali, quasi sempre erano quelle dieci o quindici signore
anziane scese dalla navetta gratuita che tutti i giorni era al servizio di chi
non aveva i mezzi per spostarsi; lei stessa prendeva la prima corsa, quella
delle sei, ogni volta che la vecchia station wagon le dava problemi con il
motore, specialmente in inverno.
Quei visi
sconosciuti eppure familiari, lei li guardava tutti, ma ne vedeva solo uno, di
nascosto, in silenzio e senza farsi vedere a sua volta.
Era sposato,
lo aveva visto con moglie e figli, due bambini piccoli, biondi come lui, e
sembrava felice, felice come un tempo lo era stata anche lei con il suo ex
marito.
Forse se
lo avesse visto da vicino o avesse anche solo sentito la sua voce oltre la
confusione quotidiana delle corsie, avrebbe smesso di sentirsi tanto
serenamente e inutilmente innamorata di lui, che certamente non l’aveva mai
notata e mai l’avrebbe fatto.
Si sentiva
stupida e infantile, e si vergognava dei suoi quarant’anni che diventavano
quindici con una velocità assolutamente ridicola ogni volta che lo vedeva
passeggiare con la giovane moglie guardando le vetrine o leggendo il retro
della scatola di qualche prodotto, senza sapere neanche il suo nome.
Si rideva
in faccia allo specchio da un paio d’anni per questo, ma non poteva, né voleva
smettere.
Mentre ogni
sabato pomeriggio, ad almeno venti metri da lui e dalla sua famiglia, spingeva
svogliatamente l’idropulitrice lungo i corridoi, seguendo sempre il proprio
percorso previsto dal turno, pensava e pensava…
Sono conciata proprio male.
Ma anche se avessi tutto l’oro del mondo, o
mi presentassi qui vestita e truccata come si deve… continuerei a volermi sentire
speciale come te e come chi ti sta accanto.
Magari, chi lo sa, se mi guardassi anche
solo un attimo… però ho paura, non voglio avvicinarmi.
E va bene così.
Io non sono speciale, non faccio niente di
speciale.
Posso solo guardarti mentre tu lo sei.
Perché mi ricordi un po’ me, e anche un po’
lui.
Tanto tempo fa.
Continua a venire qui con la tua bella
moglie, i tuoi bei bambini.
Se c’è una cosa che chiedo, credimi, è
soltanto questa.
Lo superava
con il suo passo stanco e il suo grosso apparecchio grigio, a volte
rivolgendogli uno sguardo fugace, se lui era impegnato a fare altro.
E anche
se sapeva benissimo che era solo un’illusione, si sentiva appagata, felice per
quello che lui riusciva a farle con la sua bellezza.
Grazie. Grazie per i ricordi.
THE
END
Per il titolo di questo racconto, le parole
provengono da un verso di una canzone degli ABBA, “Our last summer”. No scopo
di lucro.
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Capitolo 8 *** It's time we all reach out for something new (that means you too) ***
donne
It's time we all reach out for something new
(That means you too)
Davanti alla finestra spalancata sulla città, in piedi, con
le braccia conserte sotto il seno e un’espressione concentrata. Gli occhi
puntavano lontano, al di là del ponte.
Non ricordava di essere mai stata tanto seria in vita sua.
E solo in quel momento le parve una cosa inconcepibile da
constatare.
Si trattava di lei, di una cosa molto importante; il pensiero
non la spaventò, ma le fece alzare la guardia, e addirittura credette di
percepire come uno scatto dentro di sé, un guizzo di prudenza e responsabilità.
I soldi, le agiatezze, un lavoro prestigioso, le
raccomandazioni, una famiglia dal portafogli sempre aperto, un appartamento
pluriaccessoriato per la sua bella vita.
Judy si morse il labbro inferiore con stizza, irritata con se
stessa.
Si decise, per la prima volta, ad essere spietata con se
stessa.
“Hai quarant’anni e guarda dove sei. Stronza egoista
incosciente. Hai fatto proprio un bel lavoro.”
Lo disse ad alta voce al proprio riflesso nel vetro e non
abbassò lo sguardo, anzi, lo indurì ancora di più e sospirò, sollevata.
“Finalmente l’hai ammesso.”
Si accorse che di quella sua vita avrebbe potuto morire, in
tutti i modi possibili ed immaginabili.
La sua coscienza era sempre stata annientata da tutto, da
sempre: a cosa serviva avere rimorsi quando un assegno poteva comprarti un
nuovo obiettivo? E perché restare fermi
a contemplare la felicità quando potevi permetterti il lusso di mille modi per
divertirti?
Come i suoi genitori: una macchina metropolitana, una
cacciatrice di fortuna, un predatore scattante, agile e letale nella sua città.
Con il cuore ingrigito. Sì, perché aveva ancora un cuore, ce
l’aveva. Aveva pompato a vuoto per troppo tempo, ma non l’aveva ancora
abbandonata.
Judy si mise a sedere sulla cassapanca, a ridosso della finestra,
e appoggiò la testa contro il vetro chiudendo gli occhi. Chissà se così il
mondo si sarebbe fermato per un attimo intorno a lei, per permetterle di
schiarire le idee.
Si sforzò, respirò a fondo per qualche secondo e le parve di
riuscirci: sentì il lieve rumore del suo corpo al lavoro, dal respiro lungo le
narici alla saliva che scendeva con un rumore liquido lungo la gola, fino allo
stomaco che brontolava lievemente e al cuore che batteva.
“Cosa devo fare?” bisbigliò sull’orlo delle lacrime nel
silenzio di casa sua, perché conosceva già la risposta.
Mettersi in discussione. Rischiare. Sbagliare. Sentirsi dire
“no”.
Ma non poteva andare sempre e solo così, lo sapeva. Cioè, lo
aveva sentito dire, anche se non ci aveva mai fatto troppo caso.
Si poteva essere felici con poco, no? Si poteva ridere di se
stessi, dei propri errori, ma anche dei propri successi.
Succedeva a tutti da sempre, perché non anche a lei?
Mai un cambiamento in quarant’anni, ed ecco come ci si
sentiva anche solo a progettarne uno.
Judy riaprì gli occhi, lanciò un’occhiata al ponte di
Brooklyn e silenziosamente si disse che sì, ce la poteva fare.
Riuscì a sorridere, sorpresa: non sapeva di poter ragionare
in modo tanto umano e sensato. Non l’aveva mai fatto prima.
Si ricordò di quando, molti anni prima, una sua compagna di
college, una dell’alta società di Manhattan come lei, aveva dichiarato
scandalizzata: “Oggi come oggi, non
capisco come possa ancora esistere la pista pedonale sul ponte! Anche se fossi
una turista, col cavolo che percorrerei due chilometri a piedi, praticamente è impossibile! Diamine, esistono
i taxi, paghiamoli quei poveracci che li guidano!”
Quella tipa era particolarmente stupida, ma il suo
ragionamento aveva permesso a Judy di mostrarsi superiore a lei e a tutti quelli
della sua stessa cerchia.
“Ma perché, scusa?
Percorrere il ponte a piedi è possibile, un passo alla volta!”
E poi forse aveva aggiunto che erano 1852 metri e non due
chilometri, che inoltre il percorso della Via Crucis ogni anno si svolgeva là… *
Un passo alla volta, era sicura di averlo detto, soprattutto di averlo pensato
con una logica e una forza che per un attimo l’avevano estraniata da tutto il
suo mondo di eccessi e futilità.
Si rialzò in piedi, rasserenata, e mentre iniziava a piovere
si voltò per raggiungere il telefono sul mobile vicino alla porta d’ingresso.
Il primo passo lo aveva fatto. Aveva scelto.
Il secondo passo, paradossalmente il più difficile, doveva
ancora compierlo.
“Chiama, Judy. Chiama e finiscila. Non hai più debiti e non
hai più scuse. Pensaci tu, nessun altro lo farà e lo sai.”
“Pronto?”
“Papà. Sono io.”
“Oh, Judy. Allora, hai vinto la causa? Ti avrò lasciato
almeno tre messaggi in segreteria.”
“Mi occuperò della causa appena starò meglio.”
“Come sarebbe a dire?”
“Sono incinta, papà.”
L’aveva detto. Si stupì ancora una volta. E sorrise.
“Come sarebbe a dire?”
Non lo aveva mai sentito così, preso in contropiede. Con una
sfumatura di disappunto. Ma non si sorprese, neanche un po’.
“Sono incinta, e intendo tenere il bambino.”
“Judy, non fare questi scherzi con me. E soprattutt-“
“Io terrò il bambino. Diseredami, sbattimi fuori dallo
studio, disconoscimi, fa’ ciò che vuoi. Mi conosci, e sai che ho tutto sotto
controllo, come sempre. Me l’avete insegnato tu e la mamma. Di questo devo
ringraziarvi.”
“Io non credo di capire dove vuoi arrivare, Judy…”
Sarcasmo nelle sue parole. Adesso sì che lo riconosceva.
“Lo sai benissimo dove voglio arrivare. Ci ho messo vent’anni
per fare questa telefonata, e ci è voluto un buon pretesto, come hai potuto
notare.”
“Già, e lo chiami un b-“
“Non ti azzardare. No, papà, no.
Vi ho ridato tutto quello che vi devo. Non chiederò più nulla. So che anche se
lo facessi, non lo otterrei.”
“Bugiarda.”
“No, sto dicendo la verità. E tu stai andando nel panico perché
stai perdendo la tua figlioletta da competizione.”
“Mi pare di capire che tu abbia bisogno di aiuto, non di…”
“Lo so io di cosa ho bisogno. Né tu né mia madre lo avete mai
saputo. E adesso questa conversazione si chiude qui. Perché prima di tutto ho
bisogno di finirla con voi due.”
“Judy, non-“
Riattaccò in faccia a suo padre. Suo padre, con cui non aveva
mai giocato, scherzato, parlato. Suo padre, che l’aveva sguinzagliata per
vent’anni nei tribunali di fronte a cause penali di tutti i tipi.
Per un istante il pensiero andò a sua madre, a come avrebbe
potuto reagire alla notizia, ma fu facile figurarsela indignata, snobista e
fredda, come sempre.
Avrebbe comunicato la grossa novità, quella importante, alle
persone a lei più care. Lea e Morris erano in cima alla lista e di sicuro
sarebbero stati felici di diventare “nonni”, di aiutarla a crescere il bambino
come se fosse stato loro, come tanti anni prima, quando avevano cresciuto lei,
in casa sua.
Il resto sarebbe venuto un po’ alla volta, senza troppa fretta,
con la consapevolezza del tempo che passava.
Judy si accarezzò il ventre e pensò di sentirsi forte,
pronta, finalmente realizzata e libera.
Dopo quarant’anni avrebbe imparato, un passo alla volta, a
camminare da sola.
THE END
Note:
* Le informazioni sul Ponte di Brooklyn sono
verificabili su Wikipedia
Il titolo del racconto è
tratto da un verso di “Purple rain”, brano di Prince. Nessuno scopo di lucro.
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Capitolo 9 *** Baby Jane ***
donne
BABY
JANE
Quando
Gary mi scaricò, in qualche modo compresi la sua scelta, anche se all’inizio
non fu facile.
Gli
ottimisti dicono che l’amore non conosce barriere e che una storia può nascere
anche da un momento breve e banale, ma io sono realista e dico che sono tutte
stronzate; lo dico serenamente, senza rimpianti, ma con la solida
consapevolezza di chi ha avuto un’esperienza spiacevole.
Il
momento fu effettivamente breve, ma non direi banale: ero al centro commerciale
con mia sorella, stavamo facendo le compere natalizie e ci eravamo fermate davanti
ad un negozio per guardarne la vetrina; quando Christine si è girata ha visto
Gary da lontano e lo ha salutato con un gran vociare, un grande sventolio di
mani…
Stavo
giusto per chiederle cosa avesse da starnazzare, ma quando mi sono voltata l’ho
capito.
Gli
altoparlanti del negozio stavano facendo riecheggiare “One vision” dei Queen,
come se avessero voluto dar voce ai miei pensieri.
Un figo
da paura.
E a
giudicare da come stava ricambiando volentieri i baci sulla guancia di
Christine… sapeva di essere un gran figo.
Non ho
mai saputo se la sua ostentata figaggine fosse il risultato di un’adolescenza
da “brutto anatroccolo” riscattata nell’età adulta, o se così ci fosse nato. Di
lui, effettivamente, ho sempre saputo ben poco.
A parte
che era andato a letto anche con Christine, che si era fatta ben pochi
problemi.
Un
dettaglio che mia sorella mi riferì innocentemente pochi giorni dopo avermelo
presentato.
“Gary,
questa è mia sorella. Sorella, questo qui è Gary! Andavamo in palestra
insieme!”
Giusto
in quell’istante compresi perché quella pigra cronica che è Chris avesse
frequentato una palestra per ben sei mesi di fila.
Gli
strinsi la mano e gli dissi “Ciao” senza far trapelare il mio nervosismo – un
grande sforzo – ma lui sconvolse il mio equilibrio faticosamente raggiunto con
una frase giustamente ironica e un sorriso impossibile da ignorare.
“Sorella,
suppongo che anche tu abbia un nome!”
Tra una
risatina idiota e una vampata improvvisa di calore glielo borbottai, il mio
nome, e ritirai educatamente la mano.
Non
sono mai stata brava nel mantenere la calma di fronte a tanto ben di dio. Ed
era vestito, per la miseria.
Dopo
essersi aggiornati brevemente e con grandi sorrisoni sui rispettivi “Che fai
adesso?”, “Hai più visto Tizio o Caio?”, con me nel mezzo che sorridevo senza
capire, arrivarono i saluti e gli auguri di un Buon Natale.
Inaspettatamente
arrivò anche un invito da parte sua, uno di quelli che nessuno prende mai sul
serio.
“Dobbiamo
rivederci una sera di queste! Beviamo qualcosa, ci facciamo due risate!”
Mentre
io lo guardavo come per dire “Non ho alcuna intenzione di ridere con te”,
Christine cinguettò che sarebbe stato fantastico e che aveva sempre il suo
numero, alla prima sera libera lo avrebbe chiamato.
“Va
bene se porto anche mia sorella?”
Io non
ero d’accordo, ma non dissi niente.
Gary mi
disse che DOVEVO unirmi, senz’altro, lo disse con quel pizzico di malizia che…
Come
dicevo, non me la sono mai cavata molto bene con cose di questo genere.
“Sai,
Gary ci sa fare con le ragazze…”
Una
volta a casa, Christine cominciò a snocciolarmi le cose più ovvie e prevedibili
su quel monumento di ormoni che avevo giusto adocchiato, ma che non avrei avuto
voglia di conoscere più approfonditamente, se solo lei fosse stata zitta e
buona.
Mi
disse che era un tipo da una botta e via, che non si era mai fatto vedere con
la stessa ragazza per più di una settimana, che a letto era un toro e che sapeva
come conquistare qualunque donna, ma anche come liberarsene con disinvoltura e
soprattutto senza farsi detestare dalla malcapitata, dopo, onde evitare
ripercussioni sgradevoli.
Io
conoscevo bene quella fiera delle ovvietà ancor prima di essere messa in
guardia da mia sorella.
Gary
era un gran bel figlio di puttana, si vedeva.
Ma dopo
il quadro che lei mi aveva fatto ero interessata più che mai; non volevo fare
niente, ero solo curiosa di vederlo all’opera, se sarei caduta anch’io nella
sua trappola.
Ovviamente
ci finii con tutte le scarpe.
La
famosa “sera libera” arrivò quando Christine, esasperata dai miei continui e subdoli punzecchiamenti, gli telefonò per
incontrarsi in un locale in cui io non ero mai stata, un disco-bar da lui
proposto, piuttosto caotico come ambiente.
Recuperai
un vestito corto dall’armadio, mi truccai, stetti attenta ai capelli, ma mi
sentivo a disagio, specie accanto a Christine, che ballava, rideva e beveva
come se non avesse mai fatto altro nella vita.
Io, da
brava pantofolaia, me ne stavo in disparte e parlavo poco, disturbata dal
volume indecente della musica (schifosa) del posto, nonché dalla parlantina a
ruota libera e alcolica di mia sorella.
Sentii
puzza di guai nel momento in cui proprio lei mi mollò da sola con Gary e se ne
andò a ballare; era a dieci metri da me, potevo vederla, mi avrebbe sentito se
avessi urlato il suo nome, ma mi sentii improvvisamente vulnerabile, una preda
fin troppo facile da catturare per il paio d’occhi che mi stavano guardando con
sorridente sicurezza.
Lo
maledissi intensamente con il pensiero per qualche secondo, ma mi rimangiai
tutto quando prese in mano la situazione e mise in piedi una conversazione
piacevole, per quanto sbraitata e non sempre comprensibile.
Al suo
“Mi dispiace, la prossima volta ti porto in un posto più tranquillo, qui c’è
troppo casino anche per me stasera!” probabilmente arrossii: si notava così
tanto il mio disagio? E ci sarebbe stata una prossima volta, senza mia sorella?
Non
volli mai sapere niente al riguardo, mi bastò crogiolarmi nel piacere che mi
dava quel dubbio, o quell’illusione.
Dopo
una mezz’ora, lasso di tempo in cui Christine non era ancora tornata al nostro
tavolo, Gary mi chiese di ballare.
Adoro
il ritmo, mi piace muovermi liberamente, e non so assolutamente ballare.
Rifiutai
garbatamente, anche per vedere se avrebbe insistito, e così fu, al punto che mi
lasciai trascinare in pista al suono di un medley dei successi degli ABBA,
finalmente giunti dopo un’ondata house orripilante. Il DJ doveva essere ubriaco
o pazzo.
Mamma
mia.
Più
cercavo di improvvisare delle (discutibili) coreografie ad ogni ritornello,
cantando in playback, e più lui mi si avvicinava, le braccia sempre tese nella
mia direzione, impegnato a sfiorarmi il punto- vita o a farmi piroettare.
Avevo
bevuto troppo poco per ridere a crepapelle e cadere tra le sue braccia, così mi
limitai ad assecondarlo con discrezione e soprattutto con un’ammirevole paresi
della bocca, sorridevo come un’idiota e lui lo sapeva, lo sapeva…
Quella
sera non accadde niente di che, a parte quel primo approccio danzereccio, che
comunque aveva avuto un effetto tumultuoso su di me, in quanto non vedevo l’ora
di rivedere Gary, magari senza musica, con un po’ più d’intraprendenza.
Da
tempo immemore non avevo un ragazzo, o anche solo un’avventura.
Motivo
in più per cui decisi che mi sarei divertita con lui.
Seguii
d’istinto il profumo del suo dopobarba, della novità, diedi retta i miei
ormoni, mentre Christine faceva la scettica e mi sconsigliava di incasinarmi
troppo la vita.
Giuro
che credevo fosse invidiosa di me, gelosa di lui.
Avrei
dovuto ricordarmi che era la mia sorella maggiore e che, come sempre, stava
tentando di proteggermi.
Agli
amici non dissi niente, trascorremmo un capodanno tranquillo ma divertente,
come al solito.
Dopodiché,
il mio compleanno.
Mi
regalai un appuntamento dall’estetista e uno dal parrucchiere, disboscando tutto
ciò che c’era da disboscare… e cambiando colore dei capelli: il mio castano che
credevo anonimo divenne un ramato deciso.
Sul mio
profilo Facebook trovai gli auguri di tutti, compresi quelli di Gary, “Tanti
auguri!”, e tanto bastò per farmi venire la voglia di comprarmi anche un
vestito nuovo.
Due
giorni dopo, un suo messaggio privato:
“Come
va, bella? Hai trascorso un bel compleanno? Adesso che sei un po’ più vecchia
mi piacerebbe portarti a cena fuori, sarebbe il mio regalo per te, ti porterei
in un bel posto dove potresti assaporare del buon semolino! ;) Fammi sapere se
l’idea ti piace!”
E io
risposi che sì, certo che mi piaceva l’idea, e risposi al suo umorismo in tono
divertito, il più appropriato, anche se non me ne fregava niente.
Non
volevo che mi facesse ridere…
La cena
non me la ricordo.
Mangiai
senza gustare nulla in particolare, tanto ero presa da lui.
Risposi
alle sue domande o alle sue battute in modo quasi automatico, e mi fermavo
sempre nel momento esatto in cui lui riprendeva fiato per parlare, non lo
interruppi mai.
Fingevo
di gettare delle occhiate al contenuto del mio piatto e intanto mi soffermavo
sulle sue mani, che erano sul tavolo oppure impegnate ad animarsi in aria.
Dissi
che anche a me piacevano lo sport, i film drammatici, il rock anni ‘80 – tutte
cose non vere – e per più di una volta ci guardammo negli occhi, parlando o
stando in silenzio.
Forse
ci stavamo dicendo un sacco di cazzate, ma entrambi eravamo liberi di saperlo e
di lasciar correre. Sapevamo dove saremmo andati a finire, e io non vedevo
l’ora. Avevo i brividi, ma non vedevo l’ora.
Quando
sei in una relazione stabile e felice, il sesso completa quello che è il bel
quadro della vita di coppia: lo si fa volentieri, le mosse sono tutte giuste,
il risultato è assicurato e sempre positivo.
Il
sesso con uno che conosci a malapena è un’incognita: può essere un successo, un
fiasco o ordinaria amministrazione.
Il
sesso con Gary fu una scoperta.
Io
brava a letto? Boh, forse, ancora oggi non lo so. Ma certamente mi sentii bella
quella notte, una vera e propria pantera, probabilmente il frutto di una grande
repressione sessuale durata troppo a lungo.
Non una
singola ciocca fastidiosa davanti al viso, la mia chioma si sparpagliò per
intero e in modo quasi scenografico sul cuscino; nessun movimento brusco, non
un solo momento di irrigidimento o d’incertezza, mi mossi quasi come se
conoscessi il suo corpo nudo a memoria, non mi ero mai sentita così sicura di
me stessa e dell’altro durante una scopata.
Senza
dubbio Gary si rivelò superlativo, ma da parte mia mi diedi molto da fare, e
con un riscontro più che positivo, visto che sembrò apprezzare molto.
Quando
dico “scoperta”, intendo il senso stretto della parola…
Se, per
esempio, una volta mi dedicavo completamente al suo uccello, in un altro
momento gli massaggiavo ben bene la schiena…
Quando
avevo le mestruazioni sorgevano i problemi.
Non che
lui volesse farlo nonostante il ciclo… è che ci vedevamo ugualmente.
La
prima volta andammo al cinema a vedere una commedia che entrambi giudicammo
mediocre; successivamente passammo numerosi pomeriggi a casa sua.
Parlavamo
del più e del meno sul divano, senza scontri, con lui che diceva la sua e io la
mia…
E
quando finivamo le parole capitava che volessimo toccarci, ci spingevamo fin
dove potevamo.
Se
fingeva, fingeva bene.
Diventava
molto dolce e accomodante e mi faceva sciogliere, ero come gelatina,
specialmente quando finivamo per guardarci ; almeno, io mi sentivo in
difficoltà, così ripiegavo in fretta sul suo torace, lo baciavo e lo leccavo
sui capezzoli, oppure gli facevo direttamente un pompino.
Battemmo
i nostri record personali.
Lui
impiegò quattro mesi prima di stancarsi di me, contro l’ordinaria settimana
concessa a qualunque altra ragazza arrivata prima di me – o forse anche mentre
c’ero anch’io…
Personalmente,
scopare liberamente per quattro mesi fu un traguardo inaspettato e
soddisfacente, dato che ero abituata alle “toccate con fuga” o al rapporto
sessuale di rito prima della presunta relazione stabile che poi, puntualmente,
si rivelava disastrosamente instabile.
La sto
buttando sul materiale, ma la verità è che io ho visto qualcosa di più.
Ho solo
avuto paura, e me ne pento, sì.
Gary è
un ragazzo molto intelligente e, chissà, forse in passato è stato anche più
sensibile e meno impostato di quanto non lo sia stato con me e con tante altre.
Non mi
sorprenderei : anche io, un tempo, ero più spontanea ed ingenua.
Già,
ingenua.
Nonostante
la mia perspicacia, feci la figura dell’ingenua quel pomeriggio in cui lui mi
guardò, fece un sorriso triste e sospirò.
Mi
schiarii la gola, leggermente disorientata.
“… Non
va, vero?” mi domandò, retorico da morire.
Lo
squadrai lentamente e pensai che era così bello che niente in lui avrebbe mai
potuto risultarmi rivoltante o anche solo fastidioso come in altri uomini,
compresi i calzini maleodoranti e i peli in mezzo alle chiappe.
Mi
limitai a scuotere la testa e a dire: “No, hai ragione. Me n’ero accorta
anch’io.”
Un’ultima
bugia prima di andarmene, quasi un colpo di coda prima di crollare, sferrato
per ripicca in risposta al suo attacco.
Non
l’ho più visto e non so dove sia finito. Il suo numero non l’ho mai avuto, non
l’ho nemmeno chiesto a Christine.
L’ho
cancellato dalla lista degli amici di Facebook, onde evitare che lui lo facesse
per primo o che non si curasse affatto di eliminarmi dal suo elenco.
Mi
dispiace ancora oggi di essere stata tanto drastica, è che non volevo più
cadere in tentazione, e con lui sarebbe stata troppo forte.
Amavo
il suo corpo, così come lui amava il mio, ma l’innamoramento nonché l’amore…
no, non erano cose per noi e per la nostra attrazione.
Anche
se io… uno spiraglio aperto l’avrei lasciato.
Un
momento di debolezza.
Se oggi
incontrassi Gary per la strada lo saluterei senza problemi per poi passare oltre,
ma mi divertirei a notare in un attimo, nonostante i vestiti, questa o quella
parte del corpo che ho toccato o che mi ha fatta godere.
Tante
ragazze compunte e frustrate come me vorrebbero scopare con uno come Gary
almeno una volta nella vita, se non addirittura farci coppia fissa.
Io ho
avuto la mia occasione e me la sono giocata piuttosto bene, credo.
Ogni
tanto mi faccio le solite domande complicate e noiose, “E se…?”, ma solo ogni
tanto, poi mi passa.
THE
END
Il titolo di questo capitolo si rifà alla
canzone “Baby Jane” di Rod Stewart, sulla quale ho basato le personalità di entrambi
i protagonisti della storia.
Nessuno scopo di lucro.
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Capitolo 10 *** I make my way through this darkness ***
donne
I MAKE MY WAY
THROUGH THIS DARKNESS
“Mi
scusi?”
Si
voltò, abbassando la macchina fotografica a malincuore, e vide una signora
anziana, il viso luminoso e i capelli bianchi raccolti in uno chignon; le
sorrideva, mostrando la dentiera e un rossetto rosa acceso che non le donava
granché.
“Le
dispiace se le chiedo di spostarsi di un passo o due? Qui sopra c’è il nome di
mio figlio…”
A malapena
riuscì a capirla sopra il rumore della città, ma ricambiando il sorriso annuì e
rispose nella sua lingua: “Venga pure, anzi, mi scusi!”
La lasciò
passare e si spostò alla sua destra, allontanandosi di qualche passo per
concederle un po’ di privacy.
Sospirò
e tornò a concentrarsi sulla sua macchina fotografica, ma quando arrivò a
guardare nell’obiettivo, l’inquadratura non le piaceva più così tanto: troppa
ombra ricopriva l’acqua che scorreva nella fontana, e la luce del sole non si
rifletteva più neanche sul granito scuro; fece una smorfia delusa e cominciò a
guardarsi attorno per vedere se sarebbe riuscita a trovare un altro angolo per
una fotografia in prospettiva.
Con la
coda dell’occhio notò i capelli candidi della signora anziana e non poté fare a
meno di tornare a guardarla: con suo grande stupore, la vide mentre stava strofinando
un panno bianco sul bordo della fontana, su quel piccolo spazio da lei prima
occupato, in quanto ci si era appoggiata sopra con i gomiti.
“Oddio…”
sussurrò riavvicinandosi, e un nodo in gola per poco non le spezzò la voce
mentre tornava a parlarle.
“…
Scusi…”
La donna
si girò a guardarla e da dietro i grandi occhiali da vista i suoi occhi
luccicarono, commossi e accoglienti.
“Sì?”
Perché era
voluta tornare indietro a parlarle?
Non lo
sapeva di preciso, semplicemente aveva voluto farlo.
“Io… mi
perdoni, non volevo, non sapevo che stavo prendendo il suo posto…”
Era ovvio
che non lo sapeva, come avrebbe potuto?
L’altra
sorrise, stavolta più calorosamente. Una lacrima le scese lungo la guancia
sinistra.
“Non fa
niente, si figuri! Anche lei conosceva qualcuno qui?”
“No…
no, io sono solo una turista…”
“Oh,
davvero?! Da dove viene?”
“Dall’Italia…”
“Ma
parla un inglese molto corretto, complimenti! Io mi chiamo Janice, molto
piacere di conoscerla…”
Le strinse
la mano: era tiepida, morbida, aveva una bella stretta, vigorosa ma dolce. Nella
sinistra reggeva il panno con cui aveva ripulito il nome di suo figlio inciso
sulla pietra.
“… P-piacere,
io sono… mi chiamo Silvia…”
Si rese
conto che stava piangendo, e che non sarebbe riuscita a fermarsi facilmente.
La donna
non disse niente, semplicemente la abbracciò, mantenendo il suo sorriso rosa
increspato dalle rughe e dal lutto.
Mentre Silvia
la stringeva e singhiozzava piano, con il cuore che le batteva a mille, sentì
che le sussurrava: “Il mio Mark era a metà della sua vita ed era accorso in
aiuto a tutte quelle povere persone…
È morto
qui, a pochi metri da dove siamo noi adesso. E io, piuttosto che rimanere a
casa a morire di crepacuore e pensare alla mia rabbia, preferisco venire qui,
ogni giorno, e onorare il suo nome, raccontare la sua storia.”
Silvia
riprese fiato e abbracciò più forte la signora, accarezzandole piano lo chignon
bianco, come se all’improvviso la conoscesse da sempre.
Senza vergognarsi
delle proprie lacrime, scorse lo sguardo lentamente lungo il perimetro della
fontana.
Quello
che fino a vent’anni anni prima era stato il perimetro della seconda torre.
“Quanti
nomi” disse con la voce rotta dal pianto “Quante persone…”
“Lo so,
cara… Lo so…”
“Da
quando sono arrivata in questa zona… è come se… non so, mi sentivo un macigno
sulla testa…” tentò di spiegarle mentre si staccava dolcemente per guardarla e
asciugarsi le lacrime.
Janice scosse
la testa e si tolse gli occhiali. “Chiunque passi di qui ha provato la stessa
cosa. È un grande peso, sai… e una vita umana pesa molto di più delle due torri
messe insieme. Qui sono morte quasi tremila persone. Immagina…”
Silvia annuì
gravemente, continuando a fissare i nomi sparsi sul granito.
“C’è
del conforto però” continuò l’anziana donna, abbozzando un sorriso mentre le
appoggiava una mano sulla spalla “Sono tutti qui davanti a noi, e se la pietra
resiste davvero al tempo… allora nessuno di loro verrà mai dimenticato. Non trovi?”
Reprimendo
un ultimo singhiozzo, l’altra rispose: “Forse ha ragione… Non l’avevo mai
pensata così, ma forse perché non ero mai stata qui prima… E’ come vedere due
cuori enormi con dentro… tutti loro. È un’immagine un po’ banale, ma è così che
mi piace vederla…”
“Io sono
davvero contenta e orgogliosa che una donna giovane come lei sia venuta fin qui
a condividere le sue emozioni, e con me.”
Si sorrisero.
Silvia si sentiva molto meglio.
“Grazie,
anche a me ha fatto molto piacere… e scusi ancora se l’ho disturbata…”
“Non se
ne preoccupi! Anzi, continui pure con le sue fotografie” le suggerì Janice,
indicando l’apparecchio appeso al collo della ragazza “Ognuno qui ha il suo
modo di rendere omaggio…!”
Si salutarono
con un ultimo abbraccio, più sobrio e controllato del precedente, con un “Arrivederci”
in italiano, da parte di entrambe, che però suonava come “Addio”.
Silvia
esitò prima di riprendere in mano la macchina fotografica, ma una volta trovato
l’angolo giusto, ricominciò a camminare e scattare, quasi senza rendersi conto
di farlo con un sorriso rilassato.
THE
END
Per il
titolo di questo racconto, è stato di grande aiuto un pezzo di Bruce
Springsteen, “The rising”. No scopo di lucro.
A causa
dell’intensità con cui personalmente percepisco la tragedia dell’ 11 settembre
2001, ho sentito di dover mettere il mio nome in questa storia, che comunque
resta di fantasia, e ambientata nel futuro perché non sono ancora mai stata a New
York, ma spero di poterci andare un giorno.
Il
luogo citato esiste davvero, è il National September 11 Memorial & Museum,
situato esattamente nel punto in cui sorgevano le Torri Gemelle. Le fondamenta
dei due edifici sono attualmente due fontane sui cui parapetti sono incisi i
nomi delle vittime dell’attacco.
Mark,
inoltre, è un uomo realmente esistito: un paramedico di nome Mark Schwartz
morto a 50 anni al momento del crollo della seconda torre; è sul parapetto
della rispettiva fontana che ho notato il suo nome, in mezzo a molti, troppi
altri.
Per me
Mark rappresenta tutte le 2977 vittime dell’11 settembre. È il mio modo di
rendere omaggio, oggi come sempre, a tutti quegli innocenti morti ingiustamente
per una causa inutile e troppo grande per loro.
Foto
delle fontane del National 09/11 Memorial http://it.123rf.com/photo_10592489_new-york-2011-09-17-world-trade-center-memorial-weekeknd-di-apertura-al-pubblico.html
Info su
Mark Scwhartz
http://edition.cnn.com/SPECIALS/2001/memorial/people/1728.html
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Capitolo 11 *** Knowing me, knowing you ***
donne
KNOWING ME, KNOWING YOU
Quando
nonna Mae morì, nessuno seppe esattamente cosa dire o fare, almeno non subito.
Perché
era morta a centodue anni, superando più di una guerra, la tubercolosi e un
cancro al seno.
Ma era
inciampata nei gradini davanti a casa sua, quelli pressoché invisibili da
quanto erano bassi e ben mimetizzati con il vialetto lastricato del giardino.
Aveva
fatto una capriola su se stessa e PUM! aveva sbattuto il cervelletto. Si era
spenta proprio così, come se avesse avuto un interruttore e noi non ce ne
fossimo mai accorti.
Al
telefono, papà si limitò a esclamare “Oh, fanculo!”, colto di sorpresa, prima
di mettersi a piangere pieno di sensi di colpa perché aveva detto una
parolaccia, anche se involontariamente, riferendosi alla propria madre.
Quanto a
me, fu Todd a dirmelo quando venne a prendermi all’aeroporto.
“La
nonna è andata, Rosie. Ha lasciato il mondo dei vivi in grande stile, si dice
con un volo carpiato!”
E io non
potei fare a meno di reprimere una risata mentre tornavamo a casa in macchina;
certo, poi mi misi a piangere e Todd mi imitò mentre alla radio passavano “Copa
Cabana” di Barry Manilow *, il cantante preferito di nonna Mae.
Una
volta seduti in salotto, ci guardammo tutti nelle palle degli occhi. Io mi
sentivo piuttosto a disagio perché avevo zia Virginia accanto, e come al solito
puzzava di pipì di gatto. Una cosa inspiegabile, dato che non aveva mai
posseduto animali.
“Amore,
calmati. Pensa che non ha sofferto…” sussurrò mia madre a papà, che però non
riusciva a smettere di piangere.
“Era il
caposaldo della famiglia!” belò brandendo il suo fazzoletto di stoffa bianco,
che però era diventato giallastro per via del muco spiaccicato sopra “Mi sembra
impossibile che non sia più tra noi!”
“Ma
tesoro, devi anche capire che… cominciava ad avere un’età…”
La mamma
si stava aggrappando ad ogni singola frase di circostanza che conosceva, io e
Todd la compativamo in silenzio con lo sguardo e papà scambiò quelle occhiate
pietose per dolore da lutto abiatico.
“Come
vorrei che aveste potuto conoscerla meglio, ragazzi…” ci disse drammaticamente
mentre le lacrime continuavano a scorrergli lungo le guance arrossate.
Todd
alzò le sopracciglia, allibito, e io sospirai: “Papà, dài…” per tentare di
liquidarlo.
In
realtà io conoscevo molto bene la nonna.
Dopo la
sua seconda vedovanza, si rivelò fantastica.
Avevo
sedici anni.
“Rosanna, com’è andata a scuola?”
“Bene, nonna, ho preso una A nel compito di storia!”
“Brava, tesoro, brava… E il ragazzino?”
“Lo sai che non sono fidanzata…”
“Quanti anni hai, bambina mia?”
“Sedici…”
“Ah, già, è vero…”
“…”
“… E allora? Ancora non scopate né tu, né tuo
fratello?”
La nonna
era fatta così. Una donna concreta, di sani principi, premurosa a modo suo.
Lei
aveva avuto lo zio Frank a sedici anni, perciò…
“Nonna? Pensi mai a nonno Peter?”
“Quando non lo penso di giorno, è sempre nelle mie
preghiere serali, bambina mia!”
“Guarda com’eravate belli in questa foto! Dev’essere
stato un bel matrimonio!”
“Oh, sì, fu bellissimo!Il vicario era un amico
comune e venne al ricevimento con noi! Sapeva un sacco di barzellette e ci fece
ridere fino al mal di stomaco… Ah, Flynn… me lo ricordo come se fosse ieri!”
“Nonna, non è che hai avuto una storia anche con
lui, vero?!”
“No, con lui no!”
“Ahahah, meno male!”
“… Solo una palpatina, ma quando ancora non
frequentavo seriamente tuo nonno, e poi lui non era mica un prete…”
In cerca
di una foto adatta alla lapide, ci ritrovammo sottomano centinaia di fotografie
della nonna da giovane.
Era
molto bella.
Papà non
capiva perché molte delle foto fossero tagliate a metà e per lungo a partire dalla
spalla o dal braccio. Io, Todd, mamma e la zia sì, ma non dicemmo niente.
“Todd, cos’è questa storia che mi ha raccontato tuo
padre? Fumi erba?”
“L’ho fatto solo una volta, nonna, te lo giuro!”
“E’ vero, e gli ha anche fatto schifo! Non te la
prendere, nonna, dài…”
“No, e chi se la prende?! D’altronde non bisogna
giudicare una persona basandosi solo su questi episodi isolati… Anche io ho
fumato la cannabis molti anni fa! Ero poco più grande di voi…”
“E chi te l’aveva data?!”
“Vostro nonno Abraham, per capodanno!”
“…. Nonna… A capodanno…?”
“Sì! Mi ficcò quella sigaretta tra le labbra e mi
disse «Tieni duro, Mae, e fatti un tiro mentre io chiamo la levatrice». E
difatti il travaglio non fu quasi per niente doloroso! Ricordo che anche
Lucinda si fece un tiro, dopo!”
“NONNA!!!”
“Si può usare come medicinale, lo sanno tutti! Ma
non ditelo a vostro padre… se scopre la vera causa per cui è così
rincoglionito, non me lo tolgo più dai piedi…!”
Il
secondo nome di papà, nato il primo giorno dell’anno 1948, è Haze **; Todd e io
lo scoprimmo quel pomeriggio mentre mangiavamo pasticcini fatti in casa.
Zia
Virginia optò per una foto francamente scialba che ritraeva Nonna Mae felice ma
visibilmente stanca durante un cenone natalizio - sicuramente organizzato e
arrangiato totalmente da lei - con la famiglia, molto prima che io, Todd o
tutti i miei cugini nascessero.
Persino
papà, solitamente un remissivo, si mostrò contrario alla sua scelta, al che la
zia si giustificò dichiarando con aria altezzosa: “Questa era nostra madre dopo
aver avuto tutti noi, con il suo secondo marito, e per giunta dopo essere
sopravvissuta alla tubercolosi. Non è una brutta foto, anzi, è il ritratto di
una donna molto forte”.
Ma in
realtà la zia lo aveva fatto apposta, perché era sempre stata gelosa di nonna
Mae, del suo bell’aspetto, sfiorito solo in tarda età, e del suo carisma…
“Cos’è quel muso lungo, piccina? È successo qualcosa
a casa?”
“Niente, le solite paranoie…”
“Hai combinato qualcosa a scuola…?”
“No, no! È che… è mamma. Ogni volta che sto per
uscire con Greg o con le mie amiche di sera vuole farmi sentire per forza uno
schifo!”
“Cos’ha da ridire, scusa?”
“Non le piaccio quando metto la minigonna, anche se
ho i collant… e se porto un vestito, mi chiede perché me lo metto se devo solo
andare al cinema, non si fa mai gli affari suoi e riesce sempre a
condizionarmi! Un giorno la mando a f-“
“Rosanna, fregatene! Ascolta tua nonna, fregatene!
Se ti vuoi mettere la minigonna, mettitela, Cristo santo! Non fare come tua
zia…”
“Zia chi?”
“Virginia! Sai come la passò lei l’adolescenza?
Tutti i santi giorni a cercare di compiacere suo padre, tuo nonno! Non si è
truccata fino al momento della sua morte, e ancora oggi si veste di merda,
sembra che nell’armadio abbia solo sacchi di juta!”
“Ma nonna… mi
hai sempre detto che nonno Abraham era…”
“Un gran rompicoglioni!”
“… Severo…”
“Appunto, un rompicoglioni! Lui aveva il terrore che
sua figlia facesse la mia stessa fine, deflorata in tenera età, però non mi era
sembrato così timoroso quando era stato lui a ingropparmi nel fien-!”
“Cazzo, nonna!”
“E’ la verità! Io ho sempre cercato di incoraggiare
tua zia a tirare fuori la sua femminilità nei tempi e nei modi giusti! Ho
provato di tutto: vestiti prestati, nuovi, trucco, riviste, appuntamenti dal
parrucchiere, niente! Non ne ha mai voluto sapere! Tutte le volte la stessa
cantilena: «Papà non approverebbe, lasciami stare». E guarda com’è adesso:
vecchia, acida, con i baffi, puzzolente e sola come un cane! Come quel
rompicoglioni di suo padre quando l’ho conosciuto io!”
“Zia Virginia non è vecchia, e non dovresti parlare
così di non-“
“Tesoro mio, apri bene le orecchie: tua nonna, qui,
ha fatto tanti errori nella sua vita; ma finché ha avuto un corpo da usare, lo
ha usato, e con gli uomini migliori che ha trovato. Tua zia lo sa e le rode, ma
ormai è troppo tardi per accorgersi che il giudizio altrui non vale niente. Non
fare il suo stesso errore e ragiona con la tua testa.”
“… Ok, se lo dici tu…”
“Ce li hai i preservativi? Altrimenti passo in
farmacia domattina e te li compro io. Devi sempre averli con te, lo sai, no?”
Mentre
papà e la zia bisticciavano, Todd prese un’altra foto e me la mostrò commosso:
la nonna con noi in braccio, io avevo quattro anni, lui appena due, era estate
ed eravamo nel porticato di casa sua, seduti sulle sue ginocchia, all’ombra del
suo enorme cappello bianco a tesa larga.
“Io me
lo ricordo a malapena, quel giorno…” disse mio fratello, al che io gli toccai
affettuosamente un braccio replicando: “Una gran bella giornata…”
“Nonna?”
“Sì, rosellina?”
“Todd fa la pipì in piedi e io no, perché?”
“Perché Todd ha una cosina chiamata pene e tu no,
amore della nonna. Lo sai cos’è un pene?”
“No!”
“E’ un involtino. Sai, gli involtini che ti fa la
nonna di domenica?”
“Sì…”
“Ecco, il pene è fatto come un involtino, e serve ai
bambini e agli uomini grandi per fare la pipì e tante cose belle e utili che
capirai quando sarai più grande…”
“E perché io non ce l’ho?”
“Perché tu hai una vagina, amore mio, come tutte le
femminucce. Hai una vagina per fare la pipì da seduta, e la vagina è fatta
come… hai presente le frittelle?”
“Sì…”
“Ecco. Un giorno, sempre quando sarai più grande,
qualche maschietto verrà a chiederti un assaggio della tua frittella.”
“E io gliela devo dare?”
“Prima chiedigli se è ricco, piccola mia.”
“Preferirei
che usassimo una sua foto più recente, è così che tutti la ricordano!”
“Sono
foto orribili, non hai gusto! La mamma era molto più bella di così!”
Quei due
non accennavano a smettere di starnazzare per una foto di una lapide che ancora
nemmeno esisteva, e io avevo una tremenda voglia di buttare entrambi fuori dal
salotto della nonna. La mamma notò il mio malumore e decise di intervenire.
“Perché
non ci calmiamo tutti quanti? Siamo sconvolti, non siamo in grado di parlare di
queste cose adesso!”
“Se
permetti, Abigail, io ho sepolto mio padre e adesso vorrei poter fare lo stesso
anche con mia madre, che-“
“Ma stai
zitta, sei davvero senza vergogna! Come se io, Frank e Fiona non ti avessimo
aiutato! Non sai dire altro! Io, io, io, io!” sbottò mio padre, che subito dopo
scoppiò nuovamente a piangere.
Fu
allora che io e mio fratello ci alzammo di scatto dal divano e fuggimmo al
piano di sopra, non senza prima aver guardato tutti con un certo disprezzo.
“Mi sa
che nonna Mae si è confidata solo con noi…”
“Puoi
starne certo! Ed è meglio così!”
Stare
seduti sul letto della nonna inizialmente ci fece uno strano effetto, ma con
un’occhiata panoramica della sua stanza disordinata e piena di oggetti capimmo
che, in fondo, lei era sempre lì, tra le vestaglie di seta, i barattoli della
cipria, l’odore di borotalco, i vestiti ben ripiegati nell’armadio, i
cassettoni pieni di biancheria, fermagli per capelli, ventagli, persino un
doppiofondo sotto il quale si trovava una pistola insieme al porto d’armi.
“Mi
sento come se… non so, me lo aspettassi da tempo…” confessò Todd guardando per
terra; aveva una voce triste.
“Aveva
più di cent’anni. Conoscendola, non vedeva l’ora di morire. Puoi pensarla così,
no?” proposi io, cercando di sopperire anche alla mia tristezza.
“Sì, ma
ci mancherà lo stesso…”
“Perché
era l’unica in famiglia ad essere davvero avanti…”
“Al
funerale piangeremo come dei bambini anche se ora siamo così tranquilli, lo
sai, vero?”
“Non
farmici pensare…”
Per
sfuggire ai pensieri tristi iniziammo a gironzolare nella stanza, curiosi di
vedere se tutto era ancora come l’avevamo lasciato, se la nonna avesse buttato
via qualcosa o comprato altri oggetti bizzarri a noi sconosciuti. L’ultima
volta che io e Todd c’eravamo rifugiati in camera di nonna Mae avevamo
diciassette e quindici anni, e io me la facevo addosso per via del diploma.
Trovammo
quasi tutto: il frigobar a forma di lattina di Coca-Cola (pieno di succhi alla
pera e bottigliette di brandy) sotto la TV; la spazzola con il manico di
madreperla con cui si spazzolava sempre i capelli; due nostre foto conservate
gelosamente tra le pagine della Bibbia nel cassetto del comodino; il
contenitore di latta per le merendine, quelle da trafugare in preda a
un’improvvisa fame di zuccheri mentre era a letto e guardava la TV.
“Guarda,
Rosie!”
Mi
voltai e notai la scatola dei piccoli peccati gola con un sorriso.
“Era
sotto il letto come sempre?” domandai avvicinandomi.
“Sì, e…
aspetta, c’è un’altra cosa…”
Todd si
accucciò e allungò un braccio per poi tirarne fuori un bauletto di legno.
Ci
scambiammo un’occhiata interrogativa.
“Una
volta sotto il letto c’entravamo solo noi…” gli feci notare.
“Apriamola,
no?” propose mio fratello. E io non mi feci certo pregare.
Attoniti
per la seconda volta in due giorni.
Non parlammo,
a malapena respirammo davanti a quello che sembrava un vero e proprio piccolo
tesoro.
C’erano
delle foto, scelte appositamente e dotate di didascalia sul retro: Mae &
Abraham, 1926; Mae, Abraham & Frank, 1927; Famiglia Ross, 1939…
C’erano
tutti, dal vecchio zio Frank fino a zia Fiona, nata nel 1950, e c’erano i
ritratti di nonno Abraham e nonno Peter… Nonno Abraham durante la Seconda
Guerra Mondiale, bellissimo in uniforme, e prima di partire volontario per il
Vietnam…
E
ancora, Mae & Peter in California, 1970; Mae & Peter, Capodanno 1982;
Mae, Peter & Chuckles, 1994…
Ricordavamo
a malapena il Jack Russel di nonno Peter, ma piangemmo come vitelli al ricordo
di quel piccolino che si lasciò morire dopo che il suo padrone se n’era andato
nel sonno.
Un aneurisma,
in entrambi i casi. Allucinante.
Le
ultime foto erano quelle con noi, viste più volte nei vari album di famiglia,
ma sempre bellissime; le arraffammo e le stringemmo al petto come se fossero i
nostri figli, e in cuor mio giurai di non mostrarle a nessuno che non lo
meritasse.
“Questa
foto è di nonna soltanto” disse Todd frugando ancora in quella scatola che
sembrava non avere un fondo “Guarda com’è bella…”
Ed era
bella davvero: era seduta sul pouf davanti al ripiano della toeletta, i capelli
raccolti in uno chignon grigio e luminoso, gli occhi lievemente truccati che
guardavano dritti dritti nell’obiettivo – forse una foto scattata da nonno
Peter poco prima della sua morte – e un sorriso appena accennato, reso sensuale
da un velo di rossetto scuro; la luce giallastra dell’abat-jour insieme
all’effetto della carta fotografica opaca le davano un’aria regale.
“Credo
che lei vorrebbe che mettessimo questa sulla sua lapide, Todd…” azzardai a
bassa voce; lui di rimando annuì e mi disse: “Dobbiamo imporci. Mi raccomando.”
Ancor
prima che potessi concordare, spuntò fuori l’ennesima scoperta dal baule, ma
stavolta non era foto, bensì una lettera. La leggemmo insieme in silenzio.
Carissimi Rosanna & Todd,
mi rivolgo a voi, bambini miei, perché so benissimo
che solo voi potreste trovare questo piccolo cofanetto. Siete sempre stati i
miei piccoli impiccioni preferiti, e ci sono cose che nel tempo non cambiano.
Con la presente, vi annuncio che è da poco passato
il mio centoduesimo compleanno e che sono stata molto contenta, come sempre, di
poterlo festeggiare con voi. Non con tutti, ma con voi, i miei preferiti.
Ma c’è un problema: nonna Mae si è rotta le palle, e
lo sapete di che cosa; non lo scriverò, perché siete molto sensibili e potreste
rimanerci male.
Centodue anni sono troppi per me che mi annoio in
fretta, vi basti sapere questo. E poi, diciamolo, io qui ho fatto tutto quello
che dovevo fare, e a volte anche quello che NON dovevo fare.
Scrivo a voi per coerenza, perché con voi
mocciosetti ho sempre parlato a cuore aperto, e voi lo avete sempre fatto con
me. È stata un’esperienza davvero… figa, come dite voi. Ed è una delle poche
cose che mi spiacerà lasciarmi alle spalle, anche se credo che in un modo o
nell’altro non ci perderemo mai veramente di vista.
Le foto che troverete insieme a questa lettera
dovranno finire in un bell’album di famiglia, uno fatto come si deve, con delle
foto decenti e decorose; mi affido al vostro buon gusto e, vi prego, non
lasciate che vostro padre interferisca, perché lui di fotografie non ha mai
capito un cazzo e nel suo portafogli conserva sempre una mia foto scandalosa,
di quando avevo trent’anni… ero spettinata, senza trucco e con gli occhi da
fattona. Non escludo di aver fumato qualcosa, può darsi, non mi ricordo, ero in
ansia per vostro nonno che era al fronte e dovevo calmarmi in qualche modo…
Non dite niente di tutto questo a quel pusillanime,
per carità. Piuttosto, dategli l’unica foto in cui sono da sola, magari si rifà
gli occhi.
Per quanto riguarda le nostre foto, so che ci tenete
molto, perciò vi autorizzo a tenerle. Siamo davvero bellissimi.
Siete così giovani, bambini miei, e io ho avuto a
malapena un ventennio per godermi la vostra compagnia… ma non importa, anzi, è
stato bello, fantastico, e vi ringrazio:
avete salvato una vecchietta come me dalla follia, dalla solitudine, dalla
malinconia, dalla tristezza.
Siete riusciti a fare ciò in cui i miei figli hanno
sempre fallito, ed è per questo che ho in serbo una grossa sorpresa per
entrambi nel mio testamento. Parlate pure con il mio avvocato e ammirate il modo
in cui tutti cominceranno a scannarsi tra di loro. Tutti ma non voi. Mi sembra
quasi di vedervi…
Sapete, adesso che sono arrivata alla fine di questa
lettera mi sento molto meglio, meno malinconica e più leggera. Penso che mi
farò un bicchierino di brandy in attesa dell’inevitabile…
Vi ho amati molto, nipotini adorati. E sento che
sarò in grado di farlo per l’eternità, senza mai stancarmi. Spero che
ricambierete.
Un bacio dalla vostra nonna
Mae
PS:
Rosellina, lo sai che il tuo nome trae origine da un
episodio davvero simpatico?
I tuoi genitori erano in casa mia per il week-end quando
ti concepirono, e si sentivano in vena di trasgressioni: cominciarono a darci
dentro come conigli sopra la lavatrice, con la porta chiusa e la radio accesa a
tutto volume, perché a quanto pare “Rosanna” dei Toto *** aveva su di loro un
effetto afrodisiaco! Credevano che io non fossi ancora rientrata, e invece ero
al di là della porta con le borse della spesa in mano… spalancai l’uscio,
incazzata come una iena per il casino che stavano facendo nella mia lavanderia,
e il resto è storia…
E tu, Todd, ti chiami così per un’altra ragione che
mi piace sempre ricordare…
Quando Rosanna aveva un anno, partimmo tutti insieme
per una vacanza nel Montana, e durante un picnic sul prato una famigliola di
volpi spuntò fuori da un basco vicino, attirata dall’odore del cibo. Tutti si
misero in fuga, io compresa, ma Peter aveva in braccio Rosie e non poteva fare
movimenti troppo bruschi…
Ebbene, tua sorella cominciò a ridere e a dimenarsi
dalla gioia indicando il volpacchiotto più piccolo ****.
Neanche un anno più tardi, la mamma aspettava te, e
io m’imposi per il nome che porti, tesoro mio.
Ridemmo
tra le lacrime, spalla contro spalla, sopraffatti da tante emozioni che quella
lettera aveva amplificato e reso ancora più autentiche di prima.
Ci
sdraiammo sul letto per riprenderci, dopodiché Todd ruppe il silenzio per
primo.
“Dovremmo
andare tutti dall’avvocato, ma senza parlare di questo scrigno. Non subito,
almeno…”
“Sì, hai
ragione. Nemmeno io voglio dire niente per adesso…”
Pensandoci
bene, nonna Mae è davvero rimasta con noi: ha voluto essere cremata, e le sue
ceneri sono state sparse dal tetto della sua casa. Sicuramente è qui, da
qualche parte, e non posso negare di sentirmi rasserenata all’idea, per quanto
suoni anche inquietante.
A zia
Virginia è andato tutto il guardaroba, più i cosmetici, molti dei quali nuovi
di zecca, quasi come se fossero stati comprati apposta per lei. Se non ricordo
male, c’era un biglietto che accompagnava tutto il corredo, e recitava più o
meno così: “Ti voglio bene, zitella mia. Prendi in mano la tua vita.”
A papà e
mamma sono andati alcuni antichi mobili – di valore, che io sappia - e gli
oggetti d’infanzia di papà. Non vi dico i pianti che si è fatto quando ha
riconosciuto il suo primo bavaglio, i suoi pannolini di stoffa, i suoi biberon
di vetro…
Non
ricordo più cosa abbiano ereditato gli altri parenti, ma forse non era niente
di importante.
Il nostro
incontro con l’avvocato fu molto breve perché sia io che Todd scappammo a gambe
levate una volta informati della nostra fetta di eredità; fu la mamma a farci
il resoconto e sì, la nonna aveva ragione: fu un massacro.
La
cerimonia funebre non fu niente di che, dato il rito molto breve della
cremazione, ma contrariamente ai nostri stessi pronostici, io e Todd non
versammo una lacrima: eravamo completamente sereni in mezzo a quelle facce
fintamente contrite e luttuose quanto bastava per la buona creanza.
Adesso
la casa di nonna Mae è la casa delle nostre vacanze, praticamente qualsiasi
vacanza: Natale, Pasqua, Giorno del Ringraziamento, ferie estive, week-end
liberi, insomma, ci rifugiamo lì da soli o con mamma e papà non appena ne
abbiamo l’occasione.
È tutta
per noi, solo per noi, e non l’abbiamo cambiata quasi per niente.
È un bel
posto, si presenta davvero bene nonostante abbia quasi quarant’anni, ed è in
campagna, ma non troppo lontano dalla città.
Mi piace
pensare a nonna Mae che sorride da chissà dove mentre mi vede arrivare qui con
la mia auto, da sola o con Todd, e mi piace ancora di più pensare a lei che a
più di novant’anni ancora percorreva queste strade sterrate e piene di curve
con l’acceleratore premuto quasi fino in fondo e le braccia attorcigliate
mentre aggrediva il volante e se ne infischiava del servosterzo e del cicalio
esasperato della spia della cintura da agganciare…
THE END
Note:
* : Barry Manilow e il suo pezzo, “Copacabana”, vengono
citati senza alcuno scopo di lucro. Se non conoscete la canzone, godetevela
qui, è proprio un brano malinconico :P… http://www.youtube.com/watch?v=qEqXtkDT9uM
** : Haze non è solo un nome proprio, significa anche
“foschia” ed è un tipo specifico di cannabis.
*** : “Rosanna” dei Toto viene citata senza nessuno
scopo di lucro. E’ famosissima, ma ve la linko ugualmente… http://www.youtube.com/watch?v=z7FoyMek568
**** : il nome
“Todd”, di origini britanniche, in passato significava “volpe”.
Il titolo della storia è
tratto da una canzone omonima degli ABBA. No scopo di lucro!
Dedico questa storia, scritta di getto e con tanta allegria,
a mia nonna Giovanna, che forse non era così trasgressiva come Nonna Mae, ma di
sicuro era una grande, mi manca un sacco e mi ha ispirato moltissimo.
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Capitolo 12 *** You don't bring me flowers anymore ***
donne
YOU DON’T BRING ME
FLOWERS ANYMORE
“Jason.
Lo sai che io non vado matta per i fiori. Non ho nemmeno un
fiore che mi piaccia più di altri.
Ma se ogni tanto ricevessi un mazzo di rose o di girasoli…
non mi dispiacerebbe. Sarebbe un gesto carino che mi farebbe contenta.
Tu mi conosci, no? Me lo dicevi sempre, «Hai un bel
caratterino!»…
E allora perché non hai più fatto niente per me?
Sì, è vero, io non sono una persona facile con cui stare: mi
ribello, mi divincolo, sono sfuggente, ma faccio tutto questo solo perché ho
paura, lo sai che ho paura.
Se solo tu avessi potuto darmi un po’ di conforto anche
quando non ero io a chiedertelo…
Se solo mi avessi abbracciata all’improvviso senza che io ti
dicessi niente, ma solo perché avevi incrociato il mio sguardo e non ti era
piaciuto…
Ti ho sempre fatto trovare un cioccolatino a tavola, ti
ricordi? Sapevo che dopo cena ne volevi sempre mangiare uno, perché sei goloso,
e io allora mi sono sempre preoccupata di comprare una scatola di quei
cioccolatini e di lasciartene uno accanto al bicchiere ogni sera. Avevo tante
cose da fare, tante cose a cui pensare, ma il cioccolatino per te non avrei mai
potuto dimenticarlo.
Perché io ti voglio bene, Jason, io ti amo. Ti amo e mi
prendo cura di te, del nostro rapporto.
Tu non lo fai più.
Non guardarmi così, sai che è vero quello che dico.
Non sono mica stupida, io ho occhio per certe cose.
Io ho occhio per tutte le cose brutte. Non sbaglio mai.
Perché mi hai data per scontata? Quando hai iniziato? Uno,
due anni fa? Perché?
Mentre io continuavo a darti tutto di me…
Eppure lo sapevi, lo hai sempre saputo.
Ti dicevo di no, mantenevo le distanze; in realtà volevo che
mi stessi vicino e che mi facessi sentire al sicuro.
Mi hai lasciata sola. Hai deciso che eri stanco, che non
valeva più la pena chiedermi come stavo e di che cosa avessi bisogno.
Mi hai lasciata qui, a soffrire di solitudine, e guarda a che
punto siamo adesso.
Ho continuato a farti avere il tuo cioccolatino del dopo-cena
fino a ieri, e potrei ripetere lo stesso gesto anche stasera, con lo stesso
piacere di ieri.
Ma adesso basta, Jason.
Non pensavo fosse possibile, ma mi sono stancata.
Fa molto male dirlo, mi si spezza il cuore, ma non ho scelta.
Tu non mi vuoi più bene.
Hai trovato qualcun altro a cui affezionarti più che a me.
Mi hai messa in disparte.
Mi sento come se fossi in una stanza al buio, una stanza in
cui tu hai spento la luce.
E adesso ho freddo, ho paura, sono stanca.
Devo decidere se… spegnere la luce, come hai fatto tu con me…
o se invece è il caso di gridare più forte, così magari ti renderai conto una
volta per tutte del male che mi hai fatto e tornerai ad essere più premuroso
con me.
Ma chi nasce tondo non muore quadrato.
Si dice così, no?”
“Cassie… Perché non ne parliamo e non cerchiamo di risolvere
la cosa insieme, come abbiamo sempre fatto…?”
“…
Jason.
Sei uno stupido…”
“No, non è vero, tesoro… Adesso sei arrabbiata e lo capisco…”
“Sono incazzata nera, Jason, Cristo di un Dio.”
E così Cassie premette il grilletto.
Lo fece con una sicurezza e una determinazione maggiori
rispetto alle sue stesse aspettative.
“Quando in una coppia qualcuno dice «Parliamo» non è mai un
buon segno.”
THE END
Il titolo del racconto è
stato “rubato” da una canzone di Neil Diamond e Barbra Streisand. No scopo di
lucro.
È stato inoltre di grande
aiuto un pezzo dei Flyleaf, “Cassie”, che mi ha dato lo spunto per la
protagonista di questa breve storia. Anche in questo caso, nessuno scopo di
lucro.
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Capitolo 13 *** Face it all together ***
donne
FACE IT ALL TOGETHER
Kimberly se ne andò sbattendo la porta, senza neanche
aspettare che Keith le chiamasse un taxi.
Marissa fece capolino dalla cucina, le braccia incrociate
sotto il seno e l’aria annoiata.
Lui la guardò e dopo qualche istante scrollò le spalle.
“Ok, non era poi questo granché.”
“Ah, tu dici…?”
“Sei tremenda, pulcino, davvero tremenda. Se non avessi
ragione ti sgriderei a dovere per la tua sconsideratezza.”
“Non lo fai perché sai che non sarebbe giusto.”
“Infatti, ma in compenso ti chiedo di mostrarti un po’ più
disponibile la prossima volta… per favore…”
“Sai già che ci sarà una prossima volta?”
“Per la miseria, Marissa, adesso esageri…”
“Io sono solo prevenuta e ritengo di avere dei buoni motivi
per esserlo! È la terza volta in due mesi che porti in casa la donna
sbagliata!”
“Ne stai parlando come se avessi fatto entrare dei satanisti
in chiesa!”
“Ne sto parlando nel modo più adeguato possibile!”
“Hai quindici anni, non puoi sapere cos’è adeguato e cosa non
lo è!”
“Questa poi!!!”
Marissa si irrigidì e lo fissò in cagnesco con il fiato corto
e le narici dilatate: si stava trattenendo dal piangere, senza troppo successo.
Keith se ne accorse e automaticamente si sentì in colpa: gli
aveva dato il colpo di grazia dopo averlo messo in serie difficoltà nel giro di
trenta secondi.
Nessuno a parte lei riusciva a renderlo così vulnerabile.
Ma del resto anche lui conosceva qualche tattica valida per
contrattaccare…
“Pulcino? Vieni a sederti qui? Accanto a me?” le chiese
gentilmente indicando il divano di pelle su cui si era accasciato poco prima.
Marissa non rispose, si limitò a muoversi verso di lui
conservando il suo sguardo truce e pieno di lacrime.
Quando furono seduti l’uno accanto all’altra, Keith la
stuzzicò mettendole un braccio intorno alle spalle e avvicinandola a sé con un
sorriso; Marissa mugugnò contrariata di fronte al suo ghigno strafottente.
“Il bastone della mia vecchiaia!” scherzò “Non essere
arrabbiata, dài…”
“E tu non dire cretinate!” lo apostrofò di rimando la ragazza,
inviperita.
“Ok, ok, adesso ci provo… Quanti anni ha il tuo vecchio,
Marissa?”
“Cosa?”
“Hai sentito…”
Marissa sospirò alzando gli occhi al cielo.
“Quarantacinque…”
“Esatto. E tu stai cominciando ad essere… una giovane donna,
mettiamola così…”
“Papà, ti prego!”
“Dài, fammi finire!” si lagnò lui “Devi sempre
interrompermi?!”
L’altra si girò a guardarlo e replicò: “Sei ripetitivo, ti
avverto!”
“E tu sei acida, aggressiva e senza un briciolo di umorismo,
come tutte le ragazze della tua età che vogliono sembrare più grandi!”
“Ok, basta, oggi ce l’hai con i miei quindici anni!”
Marissa si alzò di scatto dal sofà, si sistemò sgraziatamente
il vestito e fece per andarsene in camera sua.
A quel punto Keith fu costretto ad alzare la voce.
“Signorina, ferma dove sei! In questa casa nessuno è mai
andato a dormire senza prima aver risolto i suoi problemi!”
Lei obbedì ma alzò la voce a sua volta.
“Io sarò anche acida e stupida e tutto quello che pensi tu,
ma la questione è che stasera potevamo essere al cinema o al ristorante o in
qualunque altro posto, e invece tu hai voluto farci perdere tempo con una mezza
tacca che se n’è andata senza neanche finire la cena!”
“Io non ti ho mai detto che sei stupida!” ribatté l’uomo,
alzandosi per andarle incontro.
“Non fai che ripetere che ho quindici anni, come se fosse una
malattia, una maledizione!” attaccò lei, respingendo malamente le sue mani che volevano
abbracciarla e farla smettere di piangere.
Marissa era stata una bambina riflessiva, sorridente con
pochi, ma mai aveva avuto la lacrima facile, salvo durante i (tremendi) periodi
delle colichette, dei primi dentini e dopo la prima caduta dalla bicicletta.
Una volta iniziata la scuola, aveva cominciato a distinguersi
dai propri coetanei per un ingegno fuori dal comune e un senso innato della
logica, caratteristiche che comunque non annientavano il suo lato più
sensibile.
Un giorno Keith era andato a prenderla a scuola e lei, che
allora aveva sette anni, gli aveva raccontato di aver visto “Bambi” in classe e
che molti dei suoi compagni avevano pianto al momento della morte della madre
del cerbiatto.
“Anch’io ero triste per mamma cerva, papà, ma non ho pianto,
lo sai?”
Fiero della sua bambina, la domenica seguente lui l’aveva
portata a visitare una riserva naturale, mostrandole famiglie intere di cervi
che correvano tra gli alberi o brucavano nei prati.
“Vedi? La mamma di Bambi è qui, non è morta, pulcino mio…”
Papà aveva sempre una soluzione, conosceva tutti i modi immaginabili
per renderla felice.
Peccato che da un paio d’anni Marissa, ormai adolescente,
avesse cominciato a rattristarsi, arrabbiarsi e piangere assai più
frequentemente e facilmente.
E la maggior parte di quegli (apocalittici) episodi si
verificavano per colpa di suo padre. Almeno stando alla versione della figlia.
Dopo aver rinunciato a prenderle le mani, che non volevano
saperne di smettere di schiaffeggiarlo un po’ ovunque, Keith strinse Marissa
all’altezza delle braccia, immobilizzandola e facendola arrabbiare ancora di
più.
Se solo non fosse stata così minuta – come sua madre –
avrebbe potuto contrastarlo e magari sbaragliarlo.
Comunque dovette quasi sgolarsi per sopraffarla mentre
protestava sonoramente per essere lasciata in pace.
“I TUOI QUINDICI ANNI MI FARANNO DIVENTARE MATTO! NON CI
CAPISCO PIÙ NIENTE!”
La ragazza ammutolì, sbigottita, e lo guardò confusa. Fu allora
che lui capì che poteva abbassare i toni per farsi ascoltare.
“Marissa, il tempo passa e io a malapena me ne accorgo… Tu
stai crescendo e io sono qui, impotente, all’improvviso non ho più nessuno
strumento che mi permetta di avere con te il rapporto che c’era una volta…
Inoltre, sono solo. Permetti che ogni tanto voglia ricordartelo?”
“Ma… ma questo cosa c’entra con stasera?” singhiozzò l’altra
di rimando.
Keith allentò la presa sulle sue braccia e le appoggiò
cautamente le mani sulle spalle, rispondendo: “C’entra, pulcino, perché… tu
stai andando avanti e… voleva provarci anche papà, tutto qui.”
Marissa, dopo un istante di esitazione, si lasciò andare ad
un pianto liberatorio e abbracciò suo padre, che sorrise intenerito e
sollevato.
“Su, su… E’ tutto ok, ce la caviamo ancora piuttosto bene,
anche senza la mamma…”
E proprio quando pensava che sarebbe riuscito ad ammansirla…
“Hai provato a sostituire un’ex-borghese nonché neo-hippy con
una cameriera biondo platino, una paranoica gelosa e una tua studentessa, papà…”
Glielo disse senza guardarlo, con il viso affondato nell’incavo
della sua spalla, infradiciandogli di proposito la camicia.
“Ex studentessa” la corresse lui, pentendosene subito “… Si è
laureata sei mesi fa!”
“Smettila!!!”
“Ok, ok! Bè, in effetti avrei potuto essere più giudizioso e
selettivo, lo riconosco…”
“Perché hai voluto presentarmele? Sapevi che le detestavo ogni
volta…”
“E’ questo il punto, Marissa: avevi dei pregiudizi e volevo
tentare di liberartene.”
Si guardarono negli occhi, seri e preoccupati.
“Mia madre mi ha messa al mondo per poi scaricarmi nel giro
di tre anni, in nome di una vita in camioncino, guidato da un fattone come lei,
con uno spinello in una mano e due neonati di padre ignoto in braccio. Permetti
che io abbia qualche riserva sul genere femminile, dato questo scenario
squallido?”
Keith fissò sua figlia e le accarezzò una guancia, contento
che avesse il suo stesso sguardo.
“Lo so che non è stato facile. Credo che neanch’io la
perdonerò mai. Ma al mondo esistono tante persone, tante donne con buone
intenzioni e che…”
“Con i tuoi soldi? Con il loro quoziente intellettivo? Qui a
Manhattan? Sicuro, papà?”
Da lui aveva preso anche l’ostinatezza e la capacità di avere
sempre la risposta pronta.
La sua intelligenza ipersviluppata, in compenso, rimaneva un
mistero nelle sue origini, ma ogni tanto tendeva ad attribuirsi il merito anche
per quella dote.
“Hai ragione, pulcino” le disse, serenamente sconfitto “Portarti
al cinema o al ristorante sarebbe stato più bello e produttivo stasera.”
“Lo so. Ma facciamo un’altra volta: ormai è tardi e abbiamo
lasciato la cena a metà…”
“Kimberly non ha nemmeno toccato la carne. Almeno avresti
potuto aspettare la frutta prima di cominciare a tartassarla…”
“Papà, era repubblicana e convinta che l’aumento del prezzo del
petrolio avrebbe salvato il Paese dal collasso economico. Non meritava neanche
una fetta di pane.”
“Almeno nella sua commissione di laurea io non c’ero…”
Dopo aver cenato, lavato i piatti e rimembrato insieme i
pochi ma intensi momenti della serata con Kimberly, condita dal sarcasmo di lei
e dall’imbarazzo di lui, Marissa sbadigliò e disse: “Vado a togliermi questo
vestito prima che mi ci addormenti dentro… E’ già un miracolo che lo abbia
sfoggiato stasera!”
“Pensavo ti piacesse! Non è quello che ti ho regalato l’anno
scorso a Natale?” ribatté Keith.
“Sì, e infatti mi piace, ma ci vuole l’occasione giusta per
indossarlo. Una cena con un’idiota non era una di quelle, tutto qui, e infatti
credevo che sarei diventata enorme e verde come Hulk per la frustrazione.”
“Allora sarebbe scappata a gambe levate subito dopo gli
antipasti!”
“Non sei divertente!”
Quando passò di fronte alla sua stanza, con la porta aperta,
notò che stava leggendo sotto le coperte alla luce della lampada da notte.
Come ogni sera, entrò e le allungò un bacio sulla fronte.
“Buonanotte, pulcino. Dormi bene…”
“Notte, pà…”
Fece per uscire e lasciarla assorta nella lettura, ma sulla
soglia si voltò e tornò indietro per poi accucciarsi al lato del letto; sua
figlia lo fissò con un piccolo sorriso, in attesa.
“Allora possiamo dichiarare ufficialmente che… è finito il
periodo delle presentazioni forzate.”
“E repentine.”
“E repentine.”
“E sbagliate.”
“Sbagliatissime.”
“Promesso?”
“Prometto, sì” e nel dirlo si mise la mano destra sul cuore,
aggiungendo: “Scusami, è che papà è sempre stato un impulsivo, lo sai…”
“Certo che lo so, io stessa sono frutto dei tuoi impulsi
giovanili…”
“Uno di quei pochi che ripeterei subito se potessi tornare
indietro, sì, l’hai detto!”
Si sorrisero divertiti.
“Tranquillo, papà” lo rassicurò lei, chiudendo il libro senza
smettere di guardarlo “Non ti lascio solo nei tuoi casini. Prima o poi entrambi
sistemeremo le cose.”
Keith le prese il libro dalle mani per poggiarlo sul
comodino, poi spense la luce e nella penombra rimboccò le coperte alla figlia,
come sempre, anche se forse stava cominciando ad essere troppo grande per certe
cose…
“Grazie, tesoro. Sono d’accordo con te.”
Si scoprì a tossire lievemente per camuffare un insolito
tremolio nella voce, ma Marissa aveva già capito che si era commosso e così
sorrise al buio, in silenzio, mentre lo sentiva lasciare la stanza.
THE END
Per il titolo di questo
racconto ho utilizzato una piccola parte del ritornello di “Skyfall”, canzone
di Adele su cui, come sempre, non ho alcuna intenzione di lucro!
Postilla opzionale che non
mi concedo quasi mai: GRAZIE per aver letto! Mi piacerebbe che vi soffermaste a
scrivere un’opinione su questi miei deliri, la prossima volta!
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Capitolo 14 *** Come undone ***
donne
COME
UNDONE
Seduti
in casa sua.
Lei
finisce il suo lungo discorso, si alza, va vicino alla vetrata che dà sul vuoto
e sulla città, scuote il capo, allarga le braccia e ha finito le parole.
Vorrebbe
piangere, ma non le riesce. Si limita a piegare le labbra in giù, in una
smorfia dubbiosa e disorientata.
Neanche
guardare fuori serve a qualcosa.
“Io…
non lo so…”
Lui la
fissa dal divano e le domanda ingenuamente: “È successo qualcosa? Al lavoro,
non lo so, o con le tue amiche…”
“Non è
questo il punto!” lo interrompe l’altra,
cercando di mantenere la calma almeno nella propria voce, senza però girarsi a
guardarlo.
“Una
volta avrei… tirato su un casino per cambiare le cose. Mi sarei persa anima e
corpo in una roba come questa! Adesso… non lo so, non ti so spiegare, è come se
non volessi più sentire.”
“Ma hai
sempre detto di non essere il tipo per queste paranoie, che la tua personalità
era troppo forte…”
“Dio, e
tu mi sei anche stato ad ascoltare…”
Si mette
una mano davanti alla bocca con un gesto stanco e si sente in colpa.
“Non
avrei mai voluto farlo anche con te. Mi sa che neanche me ne sono accorta. È
peggio di quanto credessi…”
“Ci
ragioni troppo sopra, dovresti darci un taglio e pensare positivo!”
Nauseata,
si accascia su una sedia vicino al tavolo della sala da pranzo, a pochi passi
da lui e dal divano.
“La
questione è questa. Per favore, ascoltami bene, perché non ho più voglia di
ripeterlo.
Mi sto
accorgendo di un cambiamento che non mi piace.
Non ci
metto più il cuore. In niente.
Mi sono
come stancata. Mi sono chiusa.
Ne
avevo abbastanza di soffrire, perciò ho preso e ho fatto una cosa che nessuno
si sarebbe mai aspettato da me.
E mi va
bene così. È questa la cosa brutta.
Ti
rendi conto?”
Lui annuisce
lentamente, ma si capisce che è spiazzato.
Lei rincara
la dose, animandosi.
“Se io
ora uscissi e m’imbattessi in una sparatoria o in una rapina, non avrei paura.
Se
qualcuno m’invitasse a cena, non sentirei il sapore di un singolo piatto che ingurgiterei,
e risponderei a chi mi parla senza stare veramente ad ascoltarlo, in
automatico, mettendo su la faccia più adatta alle circostanze.
Se mi
telefonassero per aiutarmi, per parlare di questa merda, io direi di no,
rifiuterei, perché non vedo la merda, dove sta il problema? Io non lo vedo. Non
lo vedo più.”
Alzando
la voce si è fatta rossa in viso, ha contorto le mani e afferrato l’aria con
scatti rabbiosi, e senza accorgersene ha iniziato a piangere.
È
furiosa.
Lui non
dice niente.
“Ho
paura, ho paura per me” affermò, quasi a voler giustificare il suo pianto “Non
me ne frega nulla degli altri, mi importa solo di me. Perché non lo avevo mai
fatto prima, e ora non voglio più saperne di nessuno. A parte te. Non voglio
più che nessuno si azzardi a prendermi e accartocciarmi. Come se fossi un pezzo
di carta. Non voglio più.”
Non era
così quando l’aveva conosciuta, ma una cosa era rimasta: tutto quello che
faceva, lo faceva con il cuore.
L’aveva
vista affrontare situazioni e persone, ogni volta con un esito diverso.
L’aveva
vista gonfiarsi per la gioia, ma anche avvilirsi per la tristezza, e procedere
sicura verso una serena stabilità, per poi cadere, farsi male e raccattare i
cocci, suoi e di altri.
Di chi
fosse la colpa non lo aveva mai saputo con esattezza, ma di una cosa era certo:
i suoi tentativi erano sempre appassionati e sinceri, e finivano sempre per
evolversi in una sentenza definitiva e irremovibile.
Avrebbe
per sempre amato o odiato con tutte le sue forze, senza mai rendersene
pienamente conto.
Si alza
e l’abbraccia senza dire una parola, perché non ce n’è bisogno, è tutto chiaro.
Sta
andando in pezzi, un po’ più in fretta e un po’ più forte delle altre volte,
non riesce a rincollarsi da sola.
Lei non
ricambia la sua stretta ma ci si rifugia dentro singhiozzando debolmente,
irrigidita per la tensione e la rabbia.
Le
sembra che piangere sia roba da vittime.
Lei non
è una vittima, perché una vittima è sconfitta, è inerme ed è indifesa.
Non è
come lei.
Lei è
solo molto arrabbiata e frustrata, vorrebbe stare in cima al mondo per dare una
bella lezione a chi di dovere, altro che vittima indifesa.
“Non ho
voglia di uscire” dichiara guardandolo, scossa ma determinata “Non sono
dell’umore adatto e credo che non lo sarò per un po’. Scusami.”
“Se non
vuoi uscire, restiamo a casa e facciamo quello che vuoi, stai tranquilla…”
“Scusami
se faccio così. Ti giuro che non sono io a volerlo…”
“Lo
so…”
“No,
non lo sai…”
“Mi
fido.”
La cosa
più bella di stare con lui – lui il ragazzo, lui il fidanzato, lui la persona –
è che non gliene importa niente di avere di fronte una come lei, una che non è
quella che sembra, una imprevedibile, una complicata.
L’ha
accettata da subito, e amarla è venuto naturale.
Lei
prova a sorridergli, si sente un po’ meglio, ha solo bisogno di mangiare e di
stare con lui sul divano.
Al
resto penserà dopo, con più calma, con il suo aiuto.
Riattaccherà
ancora una volta quello che si è rotto e si rialzerà senza sapere cosa fare, a
parte che lo farà senza compromessi.
THE END
Il titolo del racconto è tratto dal brano
“Come undone” di Robbie Williams. No scopo di lucro.
Questo capitolo è dedicato a Mattia.
Nessuno sa riattaccare insieme i miei pezzi così bene come lui.
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