Donne - True colors (La verità)

di Ciribiricoccola
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Peace of mind ***
Capitolo 2: *** Heartbreaker - Part 1 ***
Capitolo 3: *** Heartbreaker - Part 2 ***
Capitolo 4: *** I enjoy being a girl ***
Capitolo 5: *** Through the barricades ***
Capitolo 6: *** No big deal ***
Capitolo 7: *** The hero of my dreams ***
Capitolo 8: *** It's time we all reach out for something new (that means you too) ***
Capitolo 9: *** Baby Jane ***
Capitolo 10: *** I make my way through this darkness ***
Capitolo 11: *** Knowing me, knowing you ***
Capitolo 12: *** You don't bring me flowers anymore ***
Capitolo 13: *** Face it all together ***
Capitolo 14: *** Come undone ***



Capitolo 1
*** Peace of mind ***


peace AVVISO IMPORTANTE!!!

Ragazzi/e, questo è il pubblico della mia raccolta aggiornato al 5/11/12:  
http://i47.tinypic.com/11jsw0i.jpg

Seriamente, ho bisogno del vostro supporto.
E' demoralizzante scrivere con il cuore e ricevere così poco riscontro.
Ditemi che sono brava, ditemi che faccio schifo, ditemi qualsiasi cosa, ma vi prego di dirmela!


PEACE OF MIND*

“Vaffanculo, tu e i tuoi capelli rossi di merda.”

 

Non sono una paladina della tolleranza, ma lavoro a contatto con la gente ogni giorno, perciò tutte le mattine scendo dal letto con addosso una maschera di pazienza e gentilezza, lo faccio da cinque anni e ormai non mi pesa più.
Sopporto di tutto, in primis l’ignoranza: la gente arriva e mi chiede della roba con cui al massimo ci si può pulire il culo, di certo non è letteratura, e qualcuno ha l’ardire di lamentarsi se le schifezze richieste non sono in negozio; per tutta risposta, io devo replicare con fare rassicurante che quel certo titolo di quel certo pulitore di cessi che scrive a tempo perso si può ordinare e/o prenotare, dopodiché fornisco un biglietto da visita e una data più o meno precisa, affinché l’ignorante di turno possa venire a ritirare lo scempio cartaceo.
Sempre che la momentanea assenza di quest’ultimo nel mio rispettabile negozio non lo abbia traumatizzato a vita.
In tal caso, affari suoi. Come dovrei stare, io? Reprimo attacchi d’ilarità isterica un giorno sì e l’altro pure, andiamo…

Oggi ho “ceduto”, mettiamola così.
Anzi, no!
Sono sempre troppo buona, lo riconosco, dovrei darci un taglio…
Non ho ceduto, ho semplicemente detto quello che pensavo a chi se lo meritava.
Non me ne pento affatto.
Anzi…

A Sally piacevo, e anche molto.
La cosa sarebbe anche potuta diventare reciproca.
Peccato che lei fosse irrimediabilmente stupida.
Un mondo in mano agli stupidi è un mondo condannato, che la si smetta di additare gli stronzi, coloro che mangiano sui soldi e sulle disgrazie altrui.
Quelli almeno sono furbi!

Sally aveva cominciato a bazzicare il negozio par una lunga serie di ordini, tutti libri, anzi, tomi di psicologia, per la maggior parte importati dall’Europa e tutti incentrati sulla psicologia infantile; mi spiegò che le servivano per la tesi di laurea, ma anche per semplice interesse personale, in quanto lei non era solo una studentessa di psicologia, ma anche un’amante dei misteri che vagavano inesplorati nel cervello di un lattante.
Trovavo discutibili le sue idealizzazioni del marmocchio medio, ma al tempo stesso la ammiravo per la sua inesauribile energia mescolata ad una passione davvero notevole ed innata per i propri studi.
Incredibile ma vero, la trovavo intelligente e brillante. Oh, Cristo…

Terminato il giro di ordini e acquisti, Sally mi prese in simpatia e continuò a spuntare dagli scaffali, di mattina o di pomeriggio, approfittando della tranquillità del negozio per studiare al bancone, oppure portandomi il caffè e trattenendosi per due chiacchiere, ma anche quattro o otto…
È stato allora che ho smesso di credere di essere la persona più logorroica del mondo.
Non solo la sua testolina color fuoco mi ronzava perennemente attorno, piena di parole sparate a raffica, ma i suoi discorsi erano sempre, SEMPRE gli stessi.
“Sai” mi disse un pomeriggio mentre io, ignara, bevevo il mio caffè “Mettendo su i primi capitoli della tesi, ho intuito una cosa: credo che Freud e Schulz** siano filosoficamente e psicologicamente molto vicini nei loro lavori!”
Ricordo ancora che automaticamente gettai una rapida occhiata al cartonato gigante di Snoopy e Charlie Brown piazzato vicino agli scaffali dei libri per l’infanzia.
Mi convinsi che il “buon vecchio” Charlie Brown stesse guardando proprio me con la sua tipica aria triste e rassegnata, come se potesse capirmi…
“Dici… per come analizzano la figura del bambino?” osai chiedere con un sorriso mentre dentro stavo già imprecando.
E lei cominciò a spiegarmi che Charlie Brown altro non le sembrava se non la rappresentazione concreta dell’adulto freudiano che agognava inconsciamente la libertà e la spensieratezza dell’infanzia.
Tirò fuori una miriade di esempi e teorie, ma come al solito dopo cinque minuti io avevo messo il pilota automatico e pensavo ai beati affari miei, alla bambina non molto freudiana nascosta dentro di me che mi pregava di strozzarla, quella svitata ridondante e pedante.  
Chissà, se le rivelassi adesso questo piccolo aneddoto sarebbe in grado di tirarne fuori l’ennesima panzana, magari una legata a stronzate come il fatto che non ho mai giocato con le Barbie da piccola.

Per farla breve, fu proprio con questa cosa dell’innocenza e delle chiacchiere che Miss Chioma Infuocata mi inculò nel giro di un paio di mesi, in silenzio e con grande disinvoltura, come la migliore delle insospettabili.
L’oggetto dei nostri comuni desideri, la posta in gioco… era un ragazzo. Jake.
Per la cronaca, se tutto fosse andato secondo i miei piani, non ci avrei guadagnato granché; certe cose si capiscono soltanto dopo.
Ma è per principio, sì, è per principio che io mi sono inviperita.

Jake era un mio cliente.
No, non è morto, solo che… non credo si farà più vivo in libreria neanche lui.
Sembrava un tipo a posto, ne ero praticamente certa ogni volta che passavo in rassegna i suoi (frequenti) acquisti: letteratura americana, legal thriller alla vecchia maniera, e in estate qualche giallo della divina Agatha*** da divorare durante le vacanze.
Poteva sembrare il ritratto del topo da biblioteca, ma due chiacchiere con lui ti facevano capire che la sua era solo la maschera di un bravo ragazzo che beveva due o tre birre il venerdì sera con pochi intimi amici, si manteneva da solo senza troppe difficoltà…
E che era davvero carino senza occhiali da vista.
Insegnava francese.
La combinazione occhi azzurri + bel sorriso + lingua francese mi aveva convinta pienamente dopo neanche cinque ingressi nel mio negozio (più una sessantina di dollari spesi per libri davvero buoni).

Me lo stavo morbidamente lavorando da un mesetto, tra una parola amichevole e una frase in francese, solitamente un aforisma di qualche poeta (il suo preferito: Rimbaud): lui me lo diceva in lingua per poi farmi indovinare il significato e io, aiutandomi con le rimembranze del liceo, qualche volta ci azzeccavo, spesso invece dovevo prendere lezioni in pillole.
Non che la cosa mi dispiacesse… e neanche a lui, dato che a volte usciva senza comprare nulla, ma non senza prima aver parlato con me…

E poi è arrivata Sally! Vacca ladra (qui lo uso sia come intercalare colorito che come aggettivo qualificativo).

Inizialmente, lo salutava soltanto per poi tornare dal suo Sigmund, la testa immersa nei libri (ahimè, non vi è mai annegata dentro)…
E poi, non lo so…
Che abbia origliato? Che abbia involontariamente sentito qualcuna delle nostre “lezioni” improvvisate?
Fatto sta che nel giro di due settimane ha iniziato a tralasciare sempre di più le sue psicologiche letture per intervenire nelle nostre conversazioni. E per parlare con Jake.
Ovviamente è venuto fuori che lei ha sempre adorato i suoni “dolci e regali” della lingua francese e che molti libri gialli l’hanno agevolata nello studio di molteplici patologie presenti nel suo ramo di studi…

Potrei quasi dirvi che “il resto è storia”, perché il finale di questo teatrino è più che palese a questo punto, ma… io sono una che ai particolari ci tiene.

Non serve avere una laurea in psicologia per capire che Jake, come molti uomini (che non sono tutti uguali, ma quasi), ci ha messo poco per dare spago a Sally, tanto quanto ne aveva dato a me, e per gloriarsi con falsa modestia dei complimenti di vario genere che sia lei che io gli riservavamo più o meno velatamente, quasi facendo a gara…

Due più due, nel 99% dei casi, fa quattro.
Il mio caso non fa eccezione.

La chioma rossa con la fissa per la psicologia infantile e il santino di Freud nel portafogli ha conquistato il cuore del giovane insegnante di francese dagli occhi blu, e la scintilla tra di loro è scoccata due giorni fa, proprio davanti ai miei occhi, al di là del bancone, mentre servivo una signora anziana che aveva scelto un volume di cucina etnica.

“Conosco un bistrot niente male dove ogni mese tengono letture di poesia… Se ti va, sabato pomeriggio possiamo andarci e sentir recitare Verlaine. Non è proprio come Rimbaud, ma…”
Sally ha sorriso come una bambinetta davanti all’ultima Barbie uscita sul mercato.
“Adoro le merende! E poi sai che adoro ancora di più il francese! Vengo più che volentieri!”

Ho battuto lo scontrino alla signora, ho imbustato il suo libro, l’ho salutata augurandole buona giornata con un sorriso e ho aspettato che sparisse dalla mia vista prima di assumere quell’espressione tremendamente seria e intontita che parla da sola.

“Oh, cazzo”

Mi sentivo come uno di quei tanti ragazzi sfigati di turno menzionati in triliardi di canzoni rock-pop : “Guardate come il nemico si fotte la mia donna mentre io me ne sto qui con il culo per terra. Come cazzo è successo non lo so”.
I due futuri piccioncini si sono scambiati i numeri per poi separarsi con un bacio sulla guancia; a me è toccato un gran sorriso condito da un “Ci vediamo, bella!”, roba da Vaffanculo immediato in risposta.
E poi il suo bel culo si è congedato dal negozio per quella che sarebbe stata l’ultima volta.


Ho incassato la sconfitta con qualche ferita nell’orgoglio, ma apparentemente senza grandi sofferenze o drammi.
Poi la Jessica Rabbit degli strizzacervelli ha voluto confidarsi con me e puntualizzare, non senza una punta di insopportabile candore, che lei e Jake si stavano sentendo per telefono, ma senza intenzioni particolarmente serie o impegnative.
“Ho capito da subito che ci stava provando con entrambe, perciò l’ho quasi bacchettato, diciamo, ma non tanto per sottrarlo a te, ci mancherebbe! È che… gli uomini sono tutti uguali, lo sai, no? Se non glielo diciamo noi, di chiarirsi le idee…!”

 
Fidatevi se vi dico che io sono per la pace.
Fidatevi se vi dico che mi piace starmene nel mio angolino, senza rompicoglioni intorno, senza creare problemi ad anima viva…
Ma davanti a tanta stupidità concentrata in un solo corpo, ci ho visto rosso.
Rosso come i suoi capelli, come il colore tabù per il toro.
E ancora più rosso quando ho capito che, recitando da stupidotta, stava cercando di infinocchiarmi ancora una volta, di farmi fare la figura della credulona.

Che gran presa per il culo.
E che grande sbaglio aver puntato al MIO culo…!

 
“Vaffanculo, tu e i tuoi capelli rossi di merda.”

Non le avevo rivolto la parola per quasi quarantott’ore, ma in fondo credo di aver sempre desiderato di dirle solo questo, fin dal primo momento.

Devo averla turbata in un modo forse sconosciuto perfino al suo fedele Sigmund, perché incredibilmente se n’è andata senza dire una parola, con gli occhioni dolci lucidi, dopo aver raccattato le sue cose.

 

Levate le tende e la discordia, devo dire che adesso sto molto meglio.
Sì, ok, un po’ mi brucia per quel paio di belle chiappette filofrancesi, ma…
Siamo seri e mettiamo da parte il rodimento di fegato.
Uno che esce con un’infante cresciuta e probabilmente disposta a cedere le proprie grazie per un profilo psicologico completo e definitivo di tutti i personaggi dei Peanuts…

Sono d’accordo con voi: non ho perso granché, a parte tante grasse risate.
E sì, Charlie Brown è solo un tenero bambino che ragiona sul senso della vita con il suo beagle.
E no, non cambierò idea sul conto di Sally.

È sempre una stupida ai miei occhi, nonostante tutto, e il perché lo potete intuire da soli, senza lauree in psicologia, è logico…

THE END

Note:

* "Peace of mind" (pace della mente/dei sensi) come racconto trae ispirazione da un brano omonimo dei Boston. No scopo di lucro.

** Charles M. Schulz è il "papà" dei Peanuts.

*** La divina Agatha è ovviamente l'autrice di gialli Agatha Christie!

 

 

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Capitolo 2
*** Heartbreaker - Part 1 ***


donne

HEARTBREAKER

Part 1

 

 

Ogni venerdì sera, musica dal vivo.
E si poteva essere sicuri che almeno due venerdì al mese Eric avrebbe suonato.

Le pareti del Rock Set avevano visto passare, mangiare, bere, ma soprattutto suonare molta gente.
Musicisti, soprattutto giovani band, passavano di lì per una sorta di battesimo: se riuscivano a riscuotere successo su quel palco, uno dei migliori di East NY* e forse anche di tutta Brooklyn… tutto poteva accadere!
Da anni, Eric sedeva lassù, dietro alla batteria, e intratteneva un pubblico di profani musicali e non, con tre band diverse che si alternavano ogni settimana, band popolari a livello locale di cui lui era la spina dorsale.

Al Rock Set si parlava di Eric come di una sorta di leggenda: attorno a lui giravano molte voci e si creava sempre un alone di mistero, come se fosse una rockstar di fama mondiale; l’unica differenza stava nel suo carattere che, a dispetto di tutte le chiacchiere, era socievole, allegro e sempre ben disposto.
Julia lavorava nel locale da poco meno di un anno e non aveva mai avuto modo di parlarci in modo approfondito, perciò lo identificava con ciò che la gente diceva sul suo conto…
Era vero che gli piaceva parlare e bere in compagnia.
Era vero che suonava in modo magistrale, e si diceva che non avesse mai preso lezioni.
Era vero che molte donne cadevano ai suoi piedi.
Era vero che lui stesso sapeva di avere un certo ascendente sulle persone, sul palco e fuori.
Lei provava sempre molta soggezione ogni volta che lui le rivolgeva la parola, anche solo per salutarla quando la vedeva dietro al bancone.
Era abituata alle cose semplici da sempre, quel lavoro si era presentato come la sua prima fortunata esperienza dopo la fine del liceo; da appassionata di musica, aveva amato da subito il suo posto al Rock Set, con le orecchie invase da canzoni su canzoni praticamente ogni sera, circondata da colleghi e clienti divertenti e simpatici, gli stessi che per primi le avevano parlato di Eric e della sua fama.
Era così che, senza saperlo, il batterista si era guadagnato un piedistallo immaginario nella sua mente, in gran segreto a causa della timidezza.

 

Quel venerdì sera faceva un freddo polare, un freddo che s’insidiava pungente e molesto all’interno del locale ogni volta che qualcuno apriva la porta principale.
Julia aveva il raffreddore e cercava sempre di trattenere gli starnuti, limitandosi a soffiarsi il naso ogni dieci minuti, mentre preparava boccali e bottiglie in vista del concerto, l’ultimo prima delle feste natalizie.
Blake, la sua datrice di lavoro insieme al marito Mick, la rimbrottò in tono bonario.
“Julia, ti avrò detto mezz’ora fa che devi prendere un’aspirina, te l’ho lasciata sul banco!”
“Sì, scusami Blake, grazie…”
Con un sorriso riconoscente, la ragazza obbedì e prese la sua aspirina effervescente in un bicchiere d’acqua, dopodiché fece per tornare alle stoviglie.
“Già che sei qui, July, fammi un favore” le disse Blake, intenta ad affettare fettine su fettine d’arancia per i cocktail “Chiama Eric e digli che tra mezz’ora arrivano i ragazzi, anzi, Harry è già qui…”
Julia annuì e raggiunse il telefono vicino alla cucina, ma la donna la fermò con una risata.
“Intendevo dire… vallo a chiamare, gioia! Dev’essere in giro da qualche parte, sicuramente in bagno a radersi o a pettinarsi…”
L’altra si irrigidì per un istante all’idea di entrare nel bagno degli uomini, per quanto a quell’ora fosse ancora vuoto, o quasi, ma acconsentì senza fiatare: la pazienza di Blake aveva un limite.


Camminando lesta verso i bagni, inspirò ed espirò un paio di volte e si schiarì la gola prima di spingere piano la porta della toilette maschile…
“Eric, sei qui…?”

Per un secondo le rispose solo il silenzio, poi sentì un mugolio confuso dietro l’angolo e infine, finalmente, la sua voce.
“Julia, sì, arrivo subito! Mi daresti una mano?”

Timidamente la ragazza si fece avanti, pescandolo davanti alla specchiera con la schiuma da barba spalmata disordinatamente su mezza faccia, il rasoio in una mano ed un flacone di lacca nell’altra.
“… Buffo!” pensò sorridendo mentre gli chiedeva di cosa avesse bisogno, guardandolo nel riflesso dello specchio.
“Me la metti, per favore? Sono in ritardo e sento già Mick che mi blatera cose senza senso nell’orecchio!”
Julia sorrise al pensiero del suo panciuto boss che rimproverava Eric per i ritardi, per i volumi e per chissà cos’altro, e prese una fascia di spugna colorata.
“Tirati su questa… questa capanna con una mano, poi ci penso io!”
Mentre con una mano sollevava parte dei suoi folti e lunghi capelli ricci, con l’altra riuscì a fissare la chiusura in velcro della fascia appena sopra il collo, su cui diede un lieve colpetto. “Ho finito, lascia pure…”
Lui si stava finendo di radere e lei indugiò per qualche momento dietro la sua schiena, che era coperta da una T-Shirt, ma ancora per poco, il tempo di un paio di assoli…
Se nessuno glielo avesse detto, non avrebbe mai pensato che aveva dieci anni più di lei: non era molto alto e aveva un’espressione giovanile, da eterno ragazzino.
“Fatto!” esclamò Eric prima di aprire l’acqua del rubinetto, umettarsi le guance lisce e pulire il lavandino; Julia gli passò cautamente una salvietta di carta dal dispenser a muro e lui le fece l’occhiolino.
“Ti ringrazio, dì pure al boss che tra trenta secondi sono in postazione. Ok?”
“Ok, vado subito!”
Con lo stesso passo svelto che l’aveva portata lì, uscì presa da una lieve frenesia e riferì le informazioni del caso a Blake, che asserì con un severo “Mh!” che mal celava l’impazienza.

 

Poco dopo, Eric era dietro alla batteria e si stava accordando con il fonico, Harry.
Ma Julia non prestò attenzione alla scena.

Con la coda dell’occhio notò una ragazza in minigonna uscire dal bagno degli uomini, intenta a rimirarsi in uno specchietto per sistemarsi con le dita il rossetto, sbavato sulle labbra.
“Io mi domando, a volte… se questo benedetto ragazzo non ce l’abbia, una casa, per le sue donne! O anche una macchina, alla peggio!”
Mick era emerso dalla cucina e aveva brontolato una frase diversa dalle sue solite lamentele rivolte a tutti e a nessuno, poi si era attaccato al telefono per sollecitare aspramente i tempi di certe consegne.
Julia, per una volta, non rise bonariamente del suo principale grassottello e bellicoso.

 

Un’ora dopo, tutti gli strumentisti e i vocalist erano pronti e avevano ordinato da bere.
Julia servì a ciascuno una pinta di birra, anche a Eric, e la tastierista alzò il boccale per salutarla.
“Goditi lo show, bella! Abbiamo una nuova scaletta!”
“Sasha, in bocca al lupo!”
La ragazza alzò gli occhi al cielo con un sorriso: “Crepi e ricrepi, quello stronzo! Stasera è la prova del nove… Un nuovo chitarrista dopo quattro che abbiamo mandato a fanculo, nuovi pezzi e anche la nuova scopata di Eric nel pubblico, tanto per non farsi mancare niente! Se sopravviviamo a questa serata, possiamo fare praticamente qualsiasi cosa…!”
Julia arrossì violentemente, ma Sasha non fece in tempo a notarlo, perché subito dopo starnutì, portandosi immediatamente l’ennesimo fazzoletto al naso.
“Salute!” le disse Eric.
La ragazza sistemò alcune ciocche spettinate dietro le orecchie e ringraziò nervosamente prima di tornare al bancone.
“E’ beneducato il nostro energumeno stasera!
Sentì Sasha canzonare il batterista mentre ancora stava dando loro le spalle.
“Trombatore e gentiluomo!” rincarò Harry ad alta voce, facendo ridere tutti.

 

Il concerto filò liscio, persino quel puntiglioso di Mick si dichiarò soddisfatto e non ebbe di che recriminare; Blake confidò a Julia in tono scherzoso che quello era l’effetto che lo spirito natalizio aveva sul marito.

Dal canto suo, la ragazza si concentrò sul lavoro e ascoltò poco la musica, limitandosi ad applaudire in automatico quando non aveva le mani occupate. Per un pelo non servì la ragazza che aveva visto uscire dalla toilette maschile un paio d’ore prima, quella che Eric si era scopato. Una delle tante, senza dubbio, e non solo in quel bagno.
Mick le allungò un cocktail e scosse il capo, in disappunto, una volta che la tipa ebbe pagato senza un “Grazie”, un saluto o anche solo un sorriso.
Datore di lavoro e barista si scambiarono un’occhiata rassegnata, dopodiché Julia tornò a servire ai tavoli, cortese ma seria con tutti.

 

Dopo lo show, Blake si chiuse in cucina per preparare un pasto rigenerante e sostanzioso ai ragazzi della band, che non avevano cenato; Mick si fece aiutare da Harry e Sasha a sistemare gli strumenti sul furgone di Harry e Julia rimase al banco a servire gli ultimi clienti.

“Julia, posso avere un paio di birre?”
La ragazza prese due boccali medi, ma Eric la fermò: “No, no, per me basta una corona, e Tony vuole una Beck’s…”
“Ah, ok… arrivo subito!”
Un brivido di soddisfazione la portò a sorridere mentre prendeva le birre dal frigo.
Tony voleva la seconda birra, Tony, non la ragazza del bagno, Tony. Tony ed Eric volevano due birre, senza ragazze tra i piedi.
“Ecco la beck’s… e nella Corona ci vuoi il limone?”
Il ragazzo le sorrise. “Tu sì che mi capisci!”
E Julia inserì una fettina di limone lungo il collo della bottiglia prima di appoggiarla sul banco.

“Cretino, se bastasse una fetta di limone…” pensò mentre ricambiava il sorriso senza dire niente.
In quel momento arrivò Tony, il cantante, che salutò Julia prima di iniziare a bere.
“La vuoi un’anteprima, July?”
“Di cosa?”
“Di un nuovo pezzo in scaletta! Abbiamo deciso di inserire una cover, una ballata, a partire dal prossimo anno!”
“E di che si tratta?”
Eric bevve un sorso della Corona, lanciò un’occhiata a Tony e gli diede il tempo battendo due dita sul banco. Al quattro, il cantante intonò una canzone famosa…

**Julia, Julia
Sleeping sand, silent cloud
Touch me…

Lusingata, Julia sorrise e tirò su con il naso.
Poi Eric si unì al coro…

So I sing a song of love for Julia…


La ragazza sentì il suo sorriso allargarsi e il suo naso pizzicare…

 
Ooohh ooohh… calls me…
So I sing a song of love for Julia,
Julia, for Julia…

 
Successe tutto molto velocemente.

§§§ CONTINUA...§§§


* East NY è un quartiere di Brooklyn
** "Julia" è un brano dei Beatles

Per il titolo di questo racconto, ho preso in prestito "Heartbreaker" dei Bee Gees!

No scopo di lucro!

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Capitolo 3
*** Heartbreaker - Part 2 ***


donne

HEARTBREAKER

 

Part 2

 

 

 

Julia fece per applaudire, al settimo cielo, ma le scappò uno starnuto improvviso e tanto forte da farla arretrare bruscamente contro la parete.

 “Almeno ho messo le mani davanti alla faccia!” pensò in preda all’imbarazzo mentre avvertiva una fitta di dolore al fondoschiena: aveva sbattuto contro uno spigolo della cassa.

“Salute!” esclamò Tony, sorpreso “Sei allergica alla voce di Eric?!”
“Ti sei fatta male?” s’informò l’altro, sporgendosi oltre il bancone.
Afferrato un tovagliolo di carta da un dispenser, la ragazza rispose in fretta e furia: “No no, non è niente! Cioè, la canzone è bella, davvero, volevo dire che… non mi sono fatta male!”
Dopodiché si soffiò il naso vigorosamente, ma si accorse da un paio di grosse macchie sulla salvietta che stava perdendo sangue…

“Guarda su, guarda in alto!” le ordinò Eric.
“… Sangue!” gemette lei, sentendo montare la nausea.
Tony le propose di andare in bagno e mettere il naso sotto l’acqua fredda, ma il batterista optò alla svelta per un’altra soluzione.
“Tony, vai a cercare la cassetta del pronto soccorso, dev’esserci del cotone, la porto io in bagno!”
“Oddio!” esclamò la ragazza, rossa in viso, senza smettere di guardare il soffitto, il naso in su.
“Vieni, non aver paura …”
Lui le cinse la vita con un braccio e la condusse fino alla toilette delle donne.
“Non è niente, è solo qualche goccia di sangue, credo che tu possa abbassare la testa…”
“Ehm… no, ancora no…” si oppose l’altra, che però non pensava già più al sangue.

 

Seduta sul water chiuso in una delle cabine, teneva la porta spalancata con un piede mentre si tamponava freneticamente il naso con della carta igienica, temendo di macchiarsi i vestiti. Era in attesa di Eric, che le aveva detto di aspettarlo lì; pochi istanti dopo era tornato con un sacchetto pieno di batuffoli di cotone.

“Eccomi, arrivo subito!” annunciò “Bagno il cotone e sono da te!”
“Mh, ok…” replicò lei guardandolo, in un pericoloso equilibrio tra l’eccitazione e la tachicardia lì, sul WC, con un uomo nel bagno delle donne.
“Guarda su!” la riprese il batterista, e subito obbedì, timorosa di perdere altro sangue.

Se lo ritrovò davanti, in ginocchio, pochi secondi più tardi, intento a infilarle delicatamente il cotone bagnato nelle narici.
“Ti faccio male?”
“No, figurati…” rispose con voce nasale “Anzi, grazie… Questo raffreddore stasera sta… dando il peggio di sé…”
“E noi ci mangiamo sopra, così ti sentirai meglio!” concluse l’altro prima di alzarsi.
“Dammi questa roba, è meglio se non la guardi troppo da vicino!”
Le prese la carta igienica sporca di sangue dalle mani per poi gettarla nel bidone più vicino.
“Andiamo?”
Julia abbassò finalmente il capo, con cautela, e si alzò. “Sì, va bene!”
E mentre uscivano notò il contenuto della pattumiera, da cui distolse in fretta lo sguardo.
“Eric… ho davvero perso tutto quel sangue…?”
“Non pensarci più!”
E la portò via tenendola per mano.

 


Scoprì di avere più appetito di quanto non credesse di fronte agli spaghetti di Blake.
Seduta tra Sasha e Tony, mangiò in silenzio, serena, e si tolse con discrezione i tamponi dal naso nel giro di pochi minuti, dato che il naso aveva smesso di sanguinare.
Si sentiva ingenua ed imbranata, ma anche euforica, pur sapendo che non aveva un motivo davvero valido per esserlo: Eric si era dedicato a lei per cinque minuti con gentilezza, in un momento “critico”, dato che lei non poteva nemmeno soffrire la vista del sangue, ma di certo non era stata una parentesi romantica!

Starnuti, culi doloranti, sangue, tamponi nel naso, toilette pubbliche.
No, sapeva più di film comico…
Ma lui era stato davvero carino…

“Vuoi altra pasta, July?” le chiese Sasha con la pentola semivuota tra le braccia.
“Sì, grazie, ma solo due forchettate!”
“La nostra barista si è ripresa bene dalla terribile emorragia!” commentò divertito Tony, al suo fianco.
“L’infermiere allora è stato bravo…!” rincarò Harry.
“Piantatela… maiali…” li apostrofò Sasha con un mezzo sorriso.
“Abbiamo detto qualcosa di male?!” ribatté il vocalist, che già ridacchiava alla vista delle gote rosse di Julia.
Eric scosse la testa, divertito, mentre ancora mangiava, e non replicò alcunché; Harry ne approfittò ancora.
“Un vero professionista non si vanta mai in pubblico del proprio operato…!”
“Ci pensano gli altri per lui… nello specifico, le altre!” aggiunse Tony.
“Dio, ma quanto siete scemi!”

Avrebbe voluto fare uscire un tono scherzoso, ridanciano, così avrebbe potuto dire la sua in modo ironico.
E invece si sentì chiaramente una punta di malumore nelle sue parole.
Subito se ne vergognò e abbassò gli occhi, ma dall’improvviso silenzio che lei stessa aveva fatto esplodere, intuì di essersi esposta troppo.
Fu Blake a rianimare la situazione, annunciando l’arrivo della sua torta fatta in casa.

 

Alle due passate, dopo che tutti se ne furono andati, Mick chiuse il Rock Set e fissò sospettoso Julia che stava sistemandosi una grossa sciarpa intorno al collo, sopra il cappotto.
“July, non è che sei a piedi?”
La ragazza rispose serenamente, tirando su con il naso: “Stasera sì! Non ha piovuto né nevicato per tutto il giorno, e-“
“Tu non vai a casa a piedi con questo freddo, e con il raffreddore!”
“Ma sono solo tre isolati…”
“Salta in macchina!”
“Mick, è tardi, ti porterei fuori strada, guarda che-“
“Posso accompagnarti io, se ti va.”

Eric si fece avanti, alle spalle di Mick.

La ragazza incrociò il suo sguardo, poi quello del suo datore di lavoro, vagamente contrariato.
Prima ancora che il marito ricominciasse ad imporsi, Blake disse da dentro la loro auto: “Sì, Eric, sii un tesoro, dalle tu un passaggio… Mio marito sta crollando dal sonno, come me, e sarà un miracolo se ci arriviamo noi, a casa!”
Il batterista acconsentì e fece tintinnare le chiavi della sua macchina.
Una Porsche.
“Vieni, July, ho parcheggiato qui dietro…”


 

Radio spenta, getto d’aria calda dalle bocchette frontali, abitacolo claustrofobico,vetri appannati, un Arbre Magique al pino appeso allo specchietto retrovisore, nuovo di zecca, e l’odore dei sedili in pelle.
Julia non aveva nemmeno allacciato la cintura, anzi, si era immediatamente messa alla ricerca delle chiavi di casa dentro la borsa; appena lui avrebbe accostato, lei si sarebbe lanciata fuori da quell’auto che, era pronta a giurarlo, aveva visto, sentito e “consumato” tante donne, in ogni angolo, in ogni posizione, possibilmente ogni notte.
Eccezione fatta per lei, per quella notte.

Non appena rallentò davanti a casa sua, come lei gli aveva indicato, spalancò lo sportello, mise un piede fuori dall’abitacolo e non lo lasciò neanche parlare.

“Grazie del passaggio, Eric, non dovevi, e grazie anche dei tamponi, hanno funzionato e… oh, complimenti per lo show e… già, Buon Natale se non ci vediamo prima delle feste! Buonanotte!”
A malapena lo sentì, sovrastato dal rumore secco dello sportello sbattuto… forse la chiamò, forse le augurò la buonanotte, fatto sta che non ebbe il tempo di chiarirlo, perché non si era accorta della neve ghiacciata vicino al marciapiede e l’aveva calpestata con lo stivale, scivolando e cadendo rovinosamente in avanti.
E così, mentre l’imbarazzo s’impossessava di lei per l’ennesima volta in quella serata, tentò goffamente di rialzarsi e si sentì afferrare saldamente per i fianchi.
“Bambolina, se continui a fracassarti contro qualsiasi cosa ovunque tu vada, dubito che arriverai a Natale!”
Forse per il “Bambolina”, forse per l’ironia nella sua voce, Julia si divincolò e protestò: “Sto bene! Grazie! Sono solo inciampata!”
“Lo so!” 
“Non avevo visto la… cosa, lì, la neve, ma non è successo niente!”
“Lo so!”
“… Ok, scusa, è stata una giornata lunga, sono esausta, non volevo essere maleducata…”
“Lo so!”

E scandalizzata, drastica, brusca, colpevole… e anche un po’ alterata.

“E come mai sapresti tutto, tu?!”
Gli lanciò un’occhiata torva da sotto la lunga sciarpa, maledicendolo in silenzio per il batticuore che le aveva provocato, di nuovo.
Lui, dal canto suo, rise di gusto.
“Ti accompagno alla porta” disse, prendendola sotto braccio “Sono pochi passi, ma se cadi di nuovo e ti arrabbi di più, potrei sentirmi responsabile!”
“Spiritoso…”
“Eccoci arrivati, di già!”
Julia riafferrò prontamente le chiavi di casa, ma esitò subito dopo.

“Io… scusa, Eric…”
“E di cosa?”
“Per…”

Prese il coraggio a quattro mani…

“… Per la serata un po’ imbarazzante.”

E rincarò la dose per puro senso di autolesionismo.

“Mi sono comportata un po’ da pazza…”
Il ragazzo le sorrise, comprensivo, e replicò: “Magari non ne sei consapevole, ma sai essere molto divertente…!”
L’altra sprofondò nelle spire della propria sciarpa e ridacchiò, imbarazzata ma decisamente sollevata.
“Sai… dovremmo uscire, io e te, una di queste sere!”

Il suo sorriso si spense e gli occhi si spalancarono, tutto in un sol colpo.

“Non… non sei d’accordo?” tentò d’incalzarla Eric, perplesso.
E Julia sbatté freneticamente le palpebre per poi replicare, sorpresa: “Sì, ma… è che… niente, io sono solo… pensavo che…”

“Pensavo che non mi avresti mai notata”
Lo pensò, forte e chiaro, ma lo tenne per sé: era troppo contenta per confessarglielo e compromettere tutto.

“Allora ti va? Devo prenderlo per un sì?”
La ragazza rispose scandendo bene le parole e con un gran sorriso stampato sulle labbra: “Certo, se ti comporterai come si deve…!”
Non sapeva da dove era uscita quell’improvvisa pretesa, tanto lecita quanto sfacciata; continuò a sorridere in attesa di una risposta, quasi fiera di se stessa.
E lui la sorprese piacevolmente.
“Sì, con te sì, mi comporterò come si deve… promesso!”
Julia gli diede il proprio numero di telefono, scrivendoglielo sul dorso della mano, e solo allora entrambi si accorsero del freddo tremendo che faceva.
“Sarà meglio che rientri, prima che il tuo raffreddore peggiori…”
“Sì, e poi è molto tardi… Attento al ghiaccio mentre guidi…”
“Certo, ho imparato da te!”
La fece ridere, e una parte della sciarpa le ricadde lungo il fianco, lasciando il viso scoperto.
Colse al volo l’occasione e si spostò più vicino a lei, per tentare di baciarla.
Ma rimase a bocca asciutta: Julia risistemò con uno scatto la sciarpa davanti al viso, colpendolo in piena faccia coi peneri lanosi.
“Comportati bene, Eric…!”
Stupito, ma non infastidito, il batterista incassò il colpo con diplomazia.
“Ok, ok, obbedisco!” disse ridacchiando prima di raggiungere la sua auto.
“Buonanotte! Chiamami tu!” cinguettò lei di rimando con un sorriso sornione prima di chiudersi la porta alle spalle.

 

 

THE END

 

 

Nel giorno del suo compleanno, questo racconto è dedicato a Alice, che mi legge sempre e mi motiva!! Tanti auguri!

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Capitolo 4
*** I enjoy being a girl ***


donne

I ENJOY BEING A GIRL *

 

 

A metà tra la civettuola sensazione di farfalle nello stomaco e piedi a tre metri da terra, un po’ retrò ma mai fuori moda per le romantiche come lei…
… E una discreta ma costante voglia di spoglarsi, saltargli addosso e “attendere l’inevitabile”, come avrebbe detto una sentimentale casalinga degli anni ’50 pensando al marito.

Più si guardava allo specchio, più Christine vedeva una brava ragazza, piuttosto carina, niente da dichiarare. Come una tela bianca che poteva diventare un’opera d’arte, se dipinta con i colori e lo stile giusti.

Christine non faceva sesso da quattro anni, un po’ per scelta e un po’ per la scarsa qualità della merce, più quella altrui che la propria.
Ma che diamine, finalmente un degno pretendente aveva bussato alla sua porta!

Alto, moro, occhi grandi e scuri, belle mani, e tanto bastava per farle girare la testa e portarla a mordicchiarsi il labbro inferiore con fare malizioso.
Erano alla loro terza uscita insieme e i progressi c’erano, per quanto piccoli: lei non aveva più bisogno di consultarsi con le amiche per telefono vagando nervosamente per la propria stanza, e lui aveva imparato a darle orari più umani, seguendo la sua tabella di marcia: non alle sette e mezzo, ma alle otto, forse anche otto e un quarto, e non allo spettacolo delle nove, bensì a quello delle nove e tre quarti, al cinema davano i film a rotazione per un motivo…!

 
Terzo appuntamento. Ok.

Christine la carina poteva iniziare a farsi da parte, anche se non del tutto, non ancora.
Non aveva troppa fretta di far emergere l’altra sua metà. Di lasciarsi andare un po’ di più, ma era senz’altro curiosa di vedere come avrebbe reagito lui davanti alla sua “metamorfosi”.
Non avrebbe bruciato le tappe, no affatto!
E sarebbe stata attenta nelle conversazioni e nei gesti, a cena, durante il film, davanti a un caffè o un gelato…
Ma sopra ogni cosa, sarebbe stata attenta ai preparativi.

Un regalo sembra sempre più bello quando è nella confezione più appropriata.

 

Ore 16

 

Con i capelli appena lavati e avvolti in un asciugamano, Christine cominciò a passare in rassegna il proprio guardaroba, mettendosi in testa una volta per tutte che avrebbe trovato qualcosa da mettere, perché aveva ragione sua madre: c’erano vestiti per un reggimento, in quell’armadio.

Scartati subito dolcevita, camicie e minigonne, perché già tutti usati per i primi due appuntamenti; squadra che vince non si cambia, ma rischiare un po’ sarebbe stato innocente e magari anche produttivo…

Provò a buttarla sul casual, con dei jeans, delle magliette e un paio di candide scarpe da tennis, ma… no. Non stava andando a fare da babysitter al bambino dei vicini, né ad una scampagnata.

Eliminò in egual modo gli abiti da sera più formali, per salvare la reputazione, per evitare di spaventare il poveretto e poi perché… era solo una cena con cinema, e nessuna a parte la Marilyn di “Quando la moglie è in vacanza” poteva osare un vestito troppo elegante per un’occasione informale.

“Non ci siamo” sospirò sconfitta dopo aver sparpagliato la maggior parte dei vestiti per tutta la stanza; le parole di sua madre non avevano funzionato granché, ma forse era vero che per ogni cosa ci vuole il suo tempo, così decise di lasciare da parte per un po’ la scelta del look.

 

 
Ore 17

 

La crema profumava di vaniglia e menta, la confezione ne vantava le proprietà idratanti ed energizzanti, e raccomandava a Christine di lasciarla agire sul viso per circa un quarto d’ora.
“Perfetto.”

Mentre quella tonnellata e mezzo di impiastro benefico e verdognolo s’impegnava a renderla più carina (presumibilmente), lei si occupò dei capelli, asciugandoli a testa in giù per renderli più voluminosi, e vivacizzandoli con la schiuma per esaltare le sue onde naturali.

“No, sciolti no. Sembro una Madonna addolorata…”

“Questa treccia fa schifo…”

“Con il cerchietto mi scambierà per un’educanda!”

“Oddio, ho tirato troppo, mi fa male la testa, no no, niente mezza coda… ahi…”

“E se me li lisciassi…?”

“Ma che ore sono? Non riesco a muovere la faccia…”

“Ok, basta, vada per la coda di cavallo, ma non c’è un fermaglio decente…?”

E dopo quaranta lunghi ma prolifici minuti, uscì dal bagno con i capelli raccolti in una coda alta, tenuti insieme da un fiocco di seta nera; il viso era ancora leggermente arrossato a causa degli strofinamenti a cui lo aveva sottoposto per scrostare via la maschera (letteralmente!), ma un po’ di crema lenitiva mescolata al fondotinta avrebbe riparato i danni…

 

 
Ore 18

 

A volte, il meno è più
Quella era la volta giusta.
Un trucco neutro, elegante, ma discreto e poco appariscente.

Seduta davanti allo specchio nella sua stanza, Christine aprì una delle tante trousse che possedeva e setacciò speranzosa i colori più sobri, scegliendo infine quelli più versatili: il “panna”, il “tortora”, lo “champagne”, il “marron glacé”.
Mentre stendeva il fondotinta unito alla crema con entrambe le mani sulle guance, si accorse che i nomi di quegli ombretti le avevano fato venire un certo languorino prima dell’ora di cena…


Il make up “facile, veloce, adatto per ogni occasione” riuscì solo al quarto esasperato tentativo, maledette riviste femminili ingannevoli e civettuole! Ma almeno il risultato era più che accettabile e lei era ancora in perfetto orario sulla sua tabella di marcia.
“Capelli, fatti… trucco, ok… oddio, sono ancora in mutande…”
Solo allora si accorse che le restava un’ora scarsa per trovare l’abito adatto.

 

 
Ore 19

 

Christine tentò di farsi forza. “Hai fatto 30, puoi fare anche 31!
Ritornò davanti al proprio armadio, il cui contenuto era stato in parte trasferito sul letto.
Con la testa tra le mani, s’impose un po’ di sano self control per evitare di cadere nel panico, che l’avrebbe solo fatta ritardare (anche se già a cose normali prevedeva un accademico quarto d’ora di indugio, per eventuali  ritocchi, e anche perché qualche minuto d’attesa in più era piacevole, in fondo!).

“Pensa, Chrissy, pensa a lui…”

Oh…

“No, concentrati, pensa a come ti vorrebbe vedere lui…”

… Oh!

“A quella parte ci arriveremo!!! Mantieni la calma e pensa! È un tipo da jeans, da righe, da fiori, da tinta unita, diamine, avrà pure qualche preferenza nell’inconscio, anche se agli uomini non frega notoriamente nulla di tutto ciò!”

La soluzione al dilemma giunse brillante ed improvvisa, come un’epifania!

“Il vestitino nero!”

Il little black dress.

Sobrio come una lieve scia di profumo, sofisticato come la camminata di una diva di Hollywood, popolare come la pizza e versatile come solo un buon abito poteva essere.
E anche sexy, sì, ovvio. Audrey Hepburn l’avrebbe senz’altro confermato.
Lo aveva indossato così poche volte – chissà poi perché – che quasi se n’era dimenticata!

Spalancò una delle ante e lo trovò appeso a una delle grucce più in disparte, neanche fosse in punizione!
Una volta che lo abbe indossato, trovò subito le scarpe giuste – decolleté nere e vertiginose, non avrebbe camminato granché quella sera! – e la borsetta più adatta – rosa, di vernice, con dentro l’essenziale, più un preservativo.

 

 
Ore 20

 

David aspettava in macchina sotto casa sua, lo aveva visto sbirciando dalla finestra.

Avrebbe aspettato ancora un po’, magari non quei quindici minuti di rito, ma cinque sì: era bello farlo, ogni tanto, specie quando lui sapeva aspettare, perché sapeva che ne valeva la pena, per lei.
E anche Christine lo sapeva, sì, quella sera sì.

Quattro ore per prepararsi, ed era solo un appuntamento con un ragazzo.
Ma era stato anche un pomeriggio per se stessa, anzi, era stato soprattutto quello!
Quattro ore tutte per lei, per coccolarsi e volersi un po’ più di bene, più di quanto non gliene avessero voluto gli altri, forse anche per poter civettare in pace davanti allo specchio, perché non c’era niente di male…!
Gli uomini, del resto, non avrebbero mai potuto capire…

 

Christine uscì, chiuse a chiave la porta di casa e salutò David con la mano mentre andava incontro alla sua auto con i finestrini abbassati.
“Ciao! È molto che aspetti?” gli chiese aprendo lo sportello del passeggero.
Lo vide sorridere e scuotere la testa.
“Sei davvero molto carina stasera” le disse guardandola con occhi grandi, molto grandi.
Lei sorrise di rimando, con modestia.
“Grazie, ho messo la prima cosa che ho trovato nell’armadio!”

 

THE END

*Il titolo prende spunto dall'omonima canzone del musical "Flower drum song" (1958). No scopo di lucro.

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Capitolo 5
*** Through the barricades ***


donne

THROUGH THE BARRICADES

 

 

 

 

 Si sveglia piena di fatica e d’angoscia.
Avrebbe voluto correre via da quel brutto sogno, ma il sangue la faceva scivolare, le si appiccicava ai vestiti, sembrava quasi scorrere vischioso lungo le sue gambe, ma AL CONTRARIO, dal pavimento alle sue caviglie, arrampicandosi su per le cosce, come un paio di lunghe braccia viscide e desiderose d’imprigionarla.

Quando riapre gli occhi, Kathy è spaventata a morte, d’istinto si ripara sotto le coperte fin sopra la testa e respira forte con il cuore che le pulsa mastodontico nelle orecchie.
“Che brutto sogno, che brutto sogno” non fa che ripetersi in un sussurro mentre lentamente il suo corpo torna a rilassarsi sul materasso.

Paul era morto, di una morte orribile, e lei vedeva le fotografie scattate dalla polizia sul luogo del delitto, grandi rettangoli di carta satinata che le mostravano quell’orrore in bianco e nero, spacciando il sangue per innocue chiazze grigie sparse un po’ ovunque, come piume di gallina in un pollaio.
Paul era senza testa e completamente privo delle gambe, del bacino, erano rimasti solo il busto e le braccia, intorno a lui un semicerchio di teste mozzate di gente sconosciuta, morta come lui in quell’anonimo androne insanguinato.
“E la testa, la testa?!” gridava disperata al poliziotto, che però non le rispondeva e, anzi, continuava imperterrito a mostrarle quelle terribili fotografie, una più atroce dell’altra.
“Dovremo ricucirgli la testa, la testa per la camera mortuaria, non si fa il funerale se non ha la testa” pensava in preda all’orrore mentre iniziava a correre, perché dalle foto aveva incominciato a scorrere sangue, così come dalla bocca del poliziotto, aveva iniziato a sgorgare persino dal pavimento, e strisciava, scorreva, si ampliava in un lago in cui sarebbe affogata…

Fortuna che si era svegliata appena in tempo.

“Devo dirlo a Paul” pensa man mano che il cuore va calmandosi e la stretta delle dita intorno ai lembi del lenzuolo si allenta.
Parlarne con lui senz’altro la farà star meglio…
Anche se…

“Che stupida…”

Per un attimo se n’era dimenticata.

Paul non c’è più, da almeno dieci anni.
Se n’è andato dopo una lunga malattia.
È morto davvero. Non in quel modo violento e spaventoso che ha sognato, ma è morto.
Kathy lo sa bene: le manca moltissimo, non passa giorno in cui non pensi a lui, una volta al mese va a trovarlo al cimitero, innaffia i fiori freschi e sostituisce quelli secchi con altri, acquistati all’apposita bottega.
Paul riceve sempre molti fiori sulla sua tomba, era un uomo pieno di amici…
Kathy ricade in un sonno profondo e più sereno, pensando a Paul, al suo sorriso, al bene che lei gli vuole…

 

La mattina seguente è immersa nel sole.
Fa caldo, ma è un caldo secco, buono, che lascia presagire un’ottima giornata.
Kathy s’incontra con Maddie nella caffetteria, sorseggiano del succo di frutta accompagnato da biscotti. Oggi persino Maddie, che è sempre troppo occupata a criticare e a lamentarsi di tutto e tutti, è di buon umore, e Kathy non potrebbe chiedere di meglio.

“Quest’anno sono fortunata” sospira con un sorriso “Il suo compleanno cade oggi, nel giorno della mia visita!”
L’altra la fissa disorientata per un attimo, con il bicchiere a mezz’aria, dopodiché esclama: “Ah! È vero, è oggi, non me lo ricordavo… Vai a trovare… tuo fratello… al cimitero. Ma… come…?”
“Mi accompagna Bethany, in teoria” l’anticipa Kathy  “E se lei non può, ci sono sempre David e Trevor…”

Non ha la patente, e per orgoglio non ammetterà mai che ogni tanto le piacerebbe saper guidare per essere più indipendente, per non doversi sempre raccomandare agli altri.
Paul le avrebbe insegnato volentieri a guidare la sua Porsche, anche se ci teneva molto, anche se lui stesso non aveva guidato granché negli ultimi anni, poco prima di ammalarsi.

“Non andrai con questo sole?! Si scoppia dal caldo!” l’avverte Maddie, che nel frattempo si sventola una mano davanti al viso, infastidita dalla canicola.
Kathy scuote la testa e la rassicura: “Vado dopo le sei, così trovo anche meno gente per comprare i fiori!”
“Ah, ecco…! Bè, salutamelo… Ma proprio non ce l’hai una sua foto?”
Sono mesi che le chiede una foto di Paul, ma lei, gelosa com’è, non ha nessuna intenzione di accontentarla.
“No, te l’ho detto… le ho perse tutte durante il trasloco…” mente per l’ennesima volta, pensando all’album di fotografie che si è costruita e aggiornata da sola nel corso degli anni, e che giace in fondo all’armadio della sua stanza, sotto i maglioni invernali, al riparo di sguardi indiscreti.
Qualche volta lo sfoglia in silenzio, con cura e tanta nostalgia negli occhi, prima di dormire.

 

 

“Andiamo insieme e io ti aspetto all’angolo, come sempre. D’accordo, Kathy?”
“Va bene, Beth, ti ringrazio!”

Bethany le sorride gentilmente dallo specchietto retrovisore e continua a guidare.
Seduta tra David e un ragazzo mai visto prima – Trevor dev’essere malato – Kathy si passa una mano sui capelli per controllare che non siano in disordine, e con l’altra stringe nervosamente la borsetta: non si è dimenticata proprio niente?
Le sembra di no: il rossetto, lo specchietto, l’inalatore per l’asma che ogni tanto le da fastidio, i fazzoletti, cinque dollari, la carta d’identità…
È che va sempre un po’ in paranoia quando si tratta di Paul, di andare a trovare Paul al cimitero.


Una volta parcheggiata l’auto, Bethany scende per prima con un tranquillo “Eccoci arrivati”, dopodiché è il turno del ragazzo nuovo, che tende la mano a Kathy per aiutarla; è gentile, sembra aver notato che in quel vestito leggero e con i tacchi (bassi, appena cinque centimetri) non è troppo a suo agio… Lei gli sorride, una volta sul marciapiede, e aspetta che anche David sia sceso, prima che tutti insieme la accompagnino dal fioraio.

“Buonasera…”
“… Oh, buonasera! Ehm… Catherine?”
“Kathy! C’era quasi…!”
“Giusto, Kathy! Mi deve scusare, sto invecchiando! Buonasera anche a lei, Bethany…”
“Salve, John. Kathy vorrebbe dei fiori speciali oggi…”
“E’ il compleanno di Paul!”
“… Paul?”
“Suo fratello, Paul. Se lo ricorda?”
Dietro ai suoi spessi occhiali da vista, John increspa per un istante le sopracciglia per poi spalancare gli occhi e annuire sorridente.
“Ma certo! Lo vede, glielo dicevo che stavo invecchiando! Mi dica, Kathy, ha qualche preferenza?”
Lei si guarda un po’ attorno e domanda, incerta: “Non so, vorrei qualcosa di diverso, un po’ speciale… Cosa può darmi per cinque dollari?”
John scambia un’occhiata fulminea con Bethany e risponde tranquillamente: “Non si preoccupi del prezzo, sa che non è il caso!”
“Ma…”
“Perché non porta a suo fratello un bel girasole? L’altro ieri me ne sono arrivati tantissimi, e guardi come si mantengono bene!” la sovrasta il vecchietto indicandole i grandi fiori gialli, floridi e sgargianti in grandi vasi ai piedi del bancone.
A Kathy brillano gli occhi per la meraviglia; stringendo a sé la borsetta chiede esitante: “Può… darmene uno, magari… decorato?”
“Certo che sì! Glielo confeziono subito!”

Mentre John lavora con gesti lenti e sapienti al suo girasole, Kathy si volta sorridendo verso Bethany e le dice: “Siamo nella stagione giusta, penso che questo gli piacerà!”
“E’ ovvio” concorda l’altra, sorridendole di rimando.
“Che cosa gli avevo regalato l’anno scorso? Margherite?”
“Sì, erano margherite!” mente l’altra, che non ricorda.
La ragazza annuisce soddisfatta e scherza: “Ha ricevuto più fiori lui di me! E un uomo di solito li regala, i fiori!”
“Proprio vero!” ridacchia Bethany, assecondandola in automatico.

In un paio di minuti, John le consegna il girasole, e mentre Kathy fa per estrarre il portafogli dalla borsetta, le dice con gentilezza: “Offre la casa!”
Lei protesta educatamente: “Ma mi ha detto la stessa cosa anche il mese scorso!”
L’uomo allarga il suo sorriso sotto i baffi bianchi: “Ho un debole per le ragazze gentili che scelgono sempre il fiore giusto!”
Davanti a quel complimento inaspettato, Kathy arrossisce e acconsente a non pagare.
“Lei è davvero troppo disponibile…”
“Kathy, adesso però andiamo… John fra poco deve chiudere…”
“Giusto… Allora mille grazie ancora! Ci rivediamo in Agosto!”
“Molto volentieri! Passi una buona serata, Kathy…”
“Anche lei, arrivederla!”
“Grazie, John, ci vediamo presto…”
“Sì… a presto, Bethany…”

 

“David e l’altro ragazzo…?”
“Sono rimasti ai cancelli, si fumano una sigaretta, non preoccuparti… Tu stai bene?”
“Sì, scusa, è solo un po’ d’ansia…”
“… Capisco…”

 

Camminano fianco a fianco, lanciando davanti a sé le proprie ombre, lunghe, nere e sottili, stese sul selciato chiaro, diventato celeste con la luce del sole calante.
Arrivate quasi in fondo a uno dei viali principali del cimitero, Kathy gira la testa verso destra e annuncia a bassa voce: “Ci siamo, Beth…”
La donna annuisce e si allontana di qualche passo dicendole: “Mi siedo sulla panchina qui vicino e ti aspetto. Quando hai finito, giri l’angolo e mi trovi subito. Va bene?”
“… Va bene. Grazie, Beth.”
E se la lascia alle spalle, ogni volta con quell’aria solenne che le da tanto a cui pensare.

 

Segno della croce, acqua per i fiori nuovi, quelli secchi nel cestino, in ginocchio di fronte alla lastra di marmo incastonata nella parete, in basso, proprio all’altezza della sua testa.
Si schiarisce la gola per scacciare il nervosismo e quando lo sguardo cade sul girasole riesce a cogliere un po’ di coraggio.

“Ciao, Paul. Buon compleanno. Guarda cosa ti ho portato… spero ti piaccia…”
Sistema la piccola composizione in un vaso a collo lungo e intanto continua a parlare.
“Mi sono anche fatta carina… non mi va che tu mi veda sempre in tuta. Però stai tranquillo, non mi vesto praticamente mai così, non c’è nessuno che mi importuni! Oggi ti hanno portato tantissimi fiori, guarda che belli…!
Anche stavolta il signor John ha voluto fare il galante, sai? Fiori gratis! Ma sono mesi che vorrei dargli quei benedetti cinque dollari… è proprio un brav’uomo, hai visto come lo ha reso bello, il mio girasole?”
Senza aspettarsi una risposta, Kathy alza gli occhi verso la lapide e sorride con tristezza, lamentandosi intimamente del fatto che non ci sia una foto da guardare, a cui mandare un bacio, o che la osservi mentre sistema i fiori. La famiglia ha scelto una tomba semplice e spoglia.
Ma in fondo va bene così: Paul è nella sua mente, nei suoi ricordi, e là il suo volto non sbiadirà mai, è questo che conta.

“Sono passata solo… per farti gli auguri, tutto qui. Io sto bene, lo sai… mi annoio un po’, ma vado avanti! E ti penso sempre, ogni giorno!
Sai… volevo raccontarti un brutto sogno che ho fatto stanotte, ma… me lo sono dimenticato! Meglio così!”
Kathy ride tra le lacrime, che ormai scendono senza che lei possa trattenersi.
Ma non è poi così avvilita. Non nel giorno del compleanno del suo Paul.
“Adesso devo andare, prima che Beth venga a cercarmi…” dice asciugandosi goffamente gli occhi con il palmo della mano “E’ sempre così gentile a darmi un passaggio… Bè… allora… ci vediamo il mese prossimo, no? Anche se farà caldissimo, non m’importa, verrò in ogni caso, come sempre!
Ti voglio bene, Paul. Mi manchi davvero tanto.”

Tira su con il naso e manda un bacio al girasole per poi rialzarsi e tornare da Beth, che l’aspetta pazientemente seduta sulla panchina e non le fa nessuna domanda, anche se la vede con gli occhi arrossati dal pianto.

Beth è davvero gentile, la tratta quasi come un’amica.

 

“Trevor mi aveva accennato qualcosa…”
“Allora sai che è bipolare.”
“Sì, e che è peggiorata dopo la morte della madre, vero? Aveva… solo lei?”
“Già, niente padre… Dopo, è cresciuta dagli zii, se non ricordo male, ormai sono passati anni!”
“E come mai è finita in istituto?”
“… Niente. Ha cominciato a dare segni preoccupanti nel ’92. Gli zii non ci hanno pensato due volte e l’hanno spedita da noi. Non conosco la versione ufficiale, ma in sintesi… sosteneva di vedere il fantasma di un fratello che non ha mai avuto.”
“E cosa viene a fare al cimitero?”
“Viene a trovare quello che pensa sia suo fratello!”
“E chi sarebbe?”
“Un musicista… un tipo di una band che le piaceva e che è morto, non ricordo chi…”
“Ma non è suo fratello, vero?”
“No, scemo! Lo ha visto in concerto, ci si è fatta un sacco di foto insieme, andava a tutte le date che poteva, ma tutto qui!”
“Ah…”
“Le conserva ancora, quelle foto, ha voluto portarsele dietro quando siamo andati a prenderla. Tutte le altre… della madre, degli zii, degli amici… le ha lasciate dov’erano. Ma quelle con lui, guai a chi gliele tocca. Ci ha provato tempo fa una delle pazienti del suo reparto, gliene ha strappata una di mano per scherzo… ed è finita con una rissa, tre punti al labbro inferiore della stronzetta infame e una settimana di sedativi per lei. Era diventata una belva, l’abbiamo dovuta portare via in quattro.”
“Cristo santo…”
“Arrivano. Fai finta che non ti abbia detto niente…!”

 

 

THE END

 

 
***

 

“Through the barricades” è il titolo di un brano degli Spandau Ballet. No scopo di lucro.

 

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Capitolo 6
*** No big deal ***


donne

AVVISO:

Cari lettori, fino a settembre non pubblicherò altri racconti, poiché andrò in vacanza.
Spero sia una sosta produttiva che mi permetta di scrivere tanto e bene!
Vi auguro una buona estate!

 

 

 

 

 NO BIG DEAL

 

 

Caffè, ok, caffè.
Ho qui davanti la mia bella tazza di caffè.
Me ne sto qui, sulla sedia, con il mio diario e il mio caffè. In mutande. E mi accendo pure una sigaretta.
Che palle, sono appena le dieci. Di solito, la domenica mi sveglio a mezzogiorno perché  tanto inizio il turno alle quattro.
Sto fissando senza un perché la porta d’ingresso da diversi minuti.

Lei se n’è andata più o meno mezz’ora fa.
… Tulisa, mi pare. Un nome strano, esotico, forse da Sud America.
L’ho guardata camminare via, ondeggiando come al rallentatore su un paio di tacchi che io neanche guarderei.
E prima di chiudere la porta mi ha sorriso; credo di aver ricambiato, anche se il sonno e la bava alla bocca non mi avranno certo aiutato ad assomigliare a un sex symbol.
Penso di aver fatto un paio di belle cosette con quel culo sodo e sporgente al punto giusto.

Oh. Dio.

Avevo quasi dimenticato la goduria da sigaretta post-scopata.
Perché sì, signori, io me la sono scopata.
I win.
Gonfio il petto e dico con orgoglio alle pareti di casa mia che sì, io mi sono scopata quella moretta da competizione, oh sì.
E lei si è scopata me, ben bene e con un gran senso dell’altruismo; non so se ora si stia vantando con se stessa della cosa, ma… io sì, e con orgoglio!

 
Avevo sperato d’incontrare qualcuno ieri sera, in discoteca, chiunque a parte lei.
È sbucata quasi dal nulla e per poco non mi ha fatto il bagno con il suo drink mentre ballavamo. Si è scusata più volte, ma l’abbiamo subito buttata sul ridere.
Susan e il suo ragazzo, nel frattempo, si erano imboscati chissà dove, mollandomi sulla pista da ballo – odio e odierò sempre le coppie agli albori delle loro esplosioni ormonal-sentimentali – ma sul momento non me n’è importato granché, in quanto avevo Tulisa che sculettava a cinque metri di distanza, e che mi venga un colpo se non l’ho vista ammiccare proprio verso di me.

Ma chi ci ha pensato, all’inizio? Chi ci poteva arrivare? Non io! Pensavo fosse solo molto estroversa, giuro…
Che ne so, io, di come funzionano certe cose…
La guardavo e pensavo: “Sì, ti darei volentieri due o tre colpi, però non credo tu sia abbastanza sobria, e comunque non sei il mio tipo!”

Non mentirò: avevo bevuto e la testa mi girava un po’; ballavo, ridevo, ero in grado di sostenere una conversazione, ma credo sia stata una fortuna che nessuno sia venuto a dirmi cose del tipo “Mettiti le mutande in testa e ti pago il prossimo giro”, perché per come stavo… l’avrei fatto.
Non so quanto lei avesse bevuto, ma sembrava piuttosto “allegra”, come me.
L’ho guardata, mi ha guardato, avanti così per un bel po’, forse mezz’ora, sia dentro che fuori dalla pista.
Non m’intendo granché di seduzione, ma aveva quegli occhi predisposti al sesso, di quello spensierato e possibilmente violento. Un po’ come quelle conigliette di Playboy, quelle brave, quelle maiale nell’animo; davanti a lei, infatti, quasi sparivo perché non sapevo come comportarmi, così mi limitavo a inarcare le sopracciglia e sorridere come l’imbecille che sono, “Oh, e così vorresti sbattermi un po’? Dici sul serio?! Ma chi sei?!”

 
L’ho scoperto più tardi, chi fosse. Nel bagno. Al riparo da sguardi indiscreti.

Mi è venuta dietro e… SLAM! Ha chiuso la porta del cesso, e da lì…
Mi ha lasciato riprendere fiato giusto per le presentazioni.

“Mi chiamo Tulisa, e tu?”
Io ho farfugliato il mio nome, sudavo come un caimano con lei addosso.
“Baci molto bene, hai una bella bocca, complimenti…!”
Molto più di una coniglietta patinata sul paginone centrale di Playboy, molto più di una pornostar fatta di pixel su YouPorn.
Ha cominciato a mordicchiarmi le labbra e a infilare le mani dappertutto, così l’ho imitata, andando un po’ alla cieca ma con un sacco di voglia, roba da mutande fradice! E lei, a quanto pare, ha gradito…

 
Ripensandoci adesso, mi sorprendo: non credo che… a “cose normali” avrei impiegato un quarto d’ora scarso per conoscere e portarmi a letto la prima che capita.
Voglio dire, io sono una persona seria, o se non altro provo a comportarmi come tale; inoltre, non ho mai fatto una cosa del genere.
È anche vero che… non era mai capitata, una cosa del genere.
Non so se farmi i complimenti o insultarmi, ma suppongo sia troppo presto per razionalizzare.

Prima di stanotte, non avevo mai veramente realizzato il concetto di godimento, neanche vivendolo: per me le persone godevano perché venivano toccate nei punti giusti dalla gente giusta. Tutto qui, tutto era quasi automatico, molto fisico, tutta una questione di chimica.
Sì, ok, la mia vita sessuale ha visto più ombre che luci, ora lo sappiamo. Ma ho avuto la mia rivincita…
Io, responsabile di tre orgasmi (non credo abbia finto). È una bella soddisfazione, non avevo idea di essere tanto competente!

 
Ricordo di aver dato un’occhiata là in basso e… toh, qualcosa di familiare!

Ora capisco perché la adorano così tanto da sempre.
Sembra un frutto, un frutto maturo caduto a terra e spaccato a metà, con il succo che fuoriesce.

(Cosa cazzo sto scrivendo…?)

È praticamente impossibile starle lontano, la devi assaggiare, e sai che finirai per divorarla.

 
Quando avevo più o meno quattro o cinque anni, impazzivo per l’anguria e ogni volta che ne mangiavo una fetta finivo per imbrattarmi la faccia di succo e semi; mia madre allora mi fotografava e ancora oggi conserva quegli scatti in cui sono il volto della soddisfazione, con il viso sporco e zuccheroso e i resti dell’anguria stretti tra le mani. 


… Mi faccio quasi schifo per questo paragone, ma è proprio così che è andata: me ne stavo lì, culo all’aria, a godermi la vulva altrui – chiamiamola per quello che è, direi che i paragoni ortofrutticoli si possono considerare superati – e… vuoi per l’alcol ingerito, vuoi per la curiosità, vuoi per il contesto, insomma, mi stavo divertendo da matti a toccarla, a sentire com’era fatta, con le dita, con la lingua, era uno spasso e non mi ha causato nessun imbarazzo, anzi! Era tutto un “Ok, ora la tocco qui e cosa succede…?”
Gemiti!

“Bello! E ora provo a mettere dentro la lingua…”
Altri gemiti!
Come giocare ai videogames e vincere sempre, solo senza vestiti addosso.

 
Non ho fatto tutto io, per la cronaca! Lei è stata davvero generosa: sapeva che avevo un debole per le sue tette, dato che non perdevo occasione di palpargliele, e mi ci ha lasciato giocare un po’, mentre mi accarezzava i capelli…
Che carina.
Sapeva ESATTAMENTE cosa fare con le mie parti basse e non ha lesinato con la lingua, che dopo le tette e il culo è la parte di lei che più ho apprezzato.
Devo anche dire che è stata brava ad insegnarmi cose che non sapevo, il tutto in modo spontaneo e sempre incentivandomi con dei baci niente male!

 
È vero, è vero, è vero quello che dicono: la donna è naturalmente predisposta al bacio; t’incoraggia con il sorriso, sa arricciare le labbra come se fosse nata apposta per quello, e poi è morbida, molto più di un uomo, la puoi mordicchiare e succhiare senza barba o baffi che diano fastidio, ed è bello vedere che dopo la sua bocca è turgida e rossa, senza rossetto, bella così, al naturale, seducente perché… ci è nata.
L’uomo è… rozzo, in confronto, e parlo dell’uomo in generale! Non ha niente a che vedere con la seduttività e la delicatezza femminile, è come accostare una torta panna & fragole e una crostata sbruciacchiata.
Magari sono un po’ di parte se la penso in questo modo, ma chi se ne frega, del resto è anche troppo se a quest’ora e in questo stato il mio cervello funziona…!

 

Dopo aver fatto…
Non dico “l’amore”, perché col cazzo che era amore…
Non dico “sesso” per non appesantire il quadro generale e far passare lei come la puttana da due soldi che non è. Almeno che io sappia…
Insomma, una bella sforbiciata, e dopo… ha dormito.
Si è girata su un fianco e si è addormentata senza nemmeno coprirsi con le lenzuola.
Oddio, che bellezza!!! Niente appiccicume, nessuna richiesta di stronzate sdolcinate, niente dialoghi surreali sui sentimenti!
Si è messa a dormire sul suo lato del letto, e di conseguenza ha permesso anche a me di dormire della grossa, come il nipote di Nonna Papera dopo una bella scorpacciata.

 
Al mio risveglio, paradossalmente è stato naturale provare una vaga repulsione per quel corpo da coniglietta nudo accanto al mio: avevo giocato abbastanza, ormai non mi andava più quel trastullo.
In compenso, avevo un’incredibile fame di zuccheri.

 

A volte le cose sono belle e memorabili proprio perché non diventano abitudini, nessuno altrimenti nominerebbe le cose da fare almeno una volta nella vita come le più desiderate.

Quando Tulisa se n’è andata, ringraziandomi per l’ospitalità – devo averle sorriso in modo davvero intelligente, perché non ha più proferito parola fino all’uscita – ho deciso che non sarebbe più accaduta una cosa simile: è già andata più che bene una volta, la successiva potrebbe essere una serata da dimenticare, e poi non sono il tipo da rimorchio occasionale, anche se me la sono cavata egregiamente.
È successo una volta, sono felice così, stop.

 
Non conosco il suo cognome, non mi ha lasciato un numero o un indirizzo, non so se e quando la rivedrò.
Non m’importa, non ora che sto così bene, con le mutande cambiate, la sigaretta a metà e il caffè caldo, di domenica mattina.

 
Sinceramente mi viene un po’ da ridere se penso all’erezione che dovrei trascinarmi per casa fino a pranzo.
Se fossi un uomo.

 

THE END

 

 

“No big deal” (per chi non lo sapesse, “niente di che”) sono le parole che mi hanno ispirato per questo racconto, captate mentre ascoltavo “I kissed a girl” di Katy Perry. Nessuno scopo di lucro.

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Capitolo 7
*** The hero of my dreams ***


donne

THE HERO OF MY DREAMS

 

 

Nessuno là dentro avrebbe mai pensato a lei, lei che si faceva acconciare i capelli dalla sorella parrucchiera, lei con l’abito bianco e, sotto il tulle, un velo di cipria a coprire le gote rosse per l’emozione e le lentiggini, sbiadite con il tempo.
Nessuno l’avrebbe mai immaginata come madre, una madre fiera del suo Matt, impeccabile e serio nel giorno della prima comunione, con lei che dalla prima fila in chiesa lo osservava, commossa nel suo tailleur sobrio, color blu scuro.

Là dentro era la donna sciatta e annoiata che spingeva la grossa idropulitrice, non troppo silenziosa, ingombrante quanto bastava per far apparire al suo passaggio una smorfia di fastidio sui volti dei clienti e, occasionalmente, scatenare il pianto di qualche bambino.

“Permesso”, “Scusate”, “Attenzione” erano le parole-chiave, le uniche che costituivano il suo rapporto con il pubblico e che, come una formula magica, le aprivano un varco nella folla; al mattino le pronunciava con un mezzo sorriso, discreta e professionale… Man mano che le ore passavano e le gambe cominciavano ad appesantirsi, da discreta diventava semplicemente invisibile e la sua professionalità risentiva della fatica, dei capelli raccolti in uno chignon disordinato, delle occhiaie che da tempo non venivano più camuffate dal trucco, del resto come tutto il viso.
Finiva spesso per sentirsi come l’idropulitrice che adoperava tutti i giorni: ingombrante, brutta, fastidiosa.

Dentro l’ipermercato raramente le facce erano sempre le stesse, ma qualche veterano spuntava regolarmente dagli scaffali, quasi sempre erano quelle dieci o quindici signore anziane scese dalla navetta gratuita che tutti i giorni era al servizio di chi non aveva i mezzi per spostarsi; lei stessa prendeva la prima corsa, quella delle sei, ogni volta che la vecchia station wagon le dava problemi con il motore, specialmente in inverno.


 
Quei visi sconosciuti eppure familiari, lei li guardava tutti, ma ne vedeva solo uno, di nascosto, in silenzio e senza farsi vedere a sua volta.

Era sposato, lo aveva visto con moglie e figli, due bambini piccoli, biondi come lui, e sembrava felice, felice come un tempo lo era stata anche lei con il suo ex marito.

Forse se lo avesse visto da vicino o avesse anche solo sentito la sua voce oltre la confusione quotidiana delle corsie, avrebbe smesso di sentirsi tanto serenamente e inutilmente innamorata di lui, che certamente non l’aveva mai notata e mai l’avrebbe fatto.

Si sentiva stupida e infantile, e si vergognava dei suoi quarant’anni che diventavano quindici con una velocità assolutamente ridicola ogni volta che lo vedeva passeggiare con la giovane moglie guardando le vetrine o leggendo il retro della scatola di qualche prodotto, senza sapere neanche il suo nome.

Si rideva in faccia allo specchio da un paio d’anni per questo, ma non poteva, né voleva smettere.

 

Mentre ogni sabato pomeriggio, ad almeno venti metri da lui e dalla sua famiglia, spingeva svogliatamente l’idropulitrice lungo i corridoi, seguendo sempre il proprio percorso previsto dal turno, pensava e pensava…

 
Sono conciata proprio male.
Ma anche se avessi tutto l’oro del mondo, o mi presentassi qui vestita e truccata come si deve… continuerei a volermi sentire speciale come te e come chi ti sta accanto.
Magari, chi lo sa, se mi guardassi anche solo un attimo… però ho paura, non voglio avvicinarmi.
E va bene così.
Io non sono speciale, non faccio niente di speciale.
Posso solo guardarti mentre tu lo sei.
Perché mi ricordi un po’ me, e anche un po’ lui.
Tanto tempo fa.
Continua a venire qui con la tua bella moglie, i tuoi bei bambini.
Se c’è una cosa che chiedo, credimi, è soltanto questa.

 

Lo superava con il suo passo stanco e il suo grosso apparecchio grigio, a volte rivolgendogli uno sguardo fugace, se lui era impegnato a fare altro.
E anche se sapeva benissimo che era solo un’illusione, si sentiva appagata, felice per quello che lui riusciva a farle con la sua bellezza.

 

Grazie. Grazie per i ricordi.

 

 

THE END

 

 

Per il titolo di questo racconto, le parole provengono da un verso di una canzone degli ABBA, “Our last summer”. No scopo di lucro.

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Capitolo 8
*** It's time we all reach out for something new (that means you too) ***


donne

It's time we all reach out for something new
(That means you too)

 

 

Davanti alla finestra spalancata sulla città, in piedi, con le braccia conserte sotto il seno e un’espressione concentrata. Gli occhi puntavano lontano, al di là del ponte.
Non ricordava di essere mai stata tanto seria in vita sua.
E solo in quel momento le parve una cosa inconcepibile da constatare.

 
Si trattava di lei, di una cosa molto importante; il pensiero non la spaventò, ma le fece alzare la guardia, e addirittura credette di percepire come uno scatto dentro di sé, un guizzo di prudenza e responsabilità.
I soldi, le agiatezze, un lavoro prestigioso, le raccomandazioni, una famiglia dal portafogli sempre aperto, un appartamento pluriaccessoriato per la sua bella vita.

Judy si morse il labbro inferiore con stizza, irritata con se stessa.
Si decise, per la prima volta, ad essere spietata con se stessa.

“Hai quarant’anni e guarda dove sei. Stronza egoista incosciente. Hai fatto proprio un bel lavoro.”

Lo disse ad alta voce al proprio riflesso nel vetro e non abbassò lo sguardo, anzi, lo indurì ancora di più e sospirò, sollevata.

“Finalmente l’hai ammesso.”

 

Si accorse che di quella sua vita avrebbe potuto morire, in tutti i modi possibili ed immaginabili.
La sua coscienza era sempre stata annientata da tutto, da sempre: a cosa serviva avere rimorsi quando un assegno poteva comprarti un nuovo obiettivo?  E perché restare fermi a contemplare la felicità quando potevi permetterti il lusso di mille modi per divertirti?

Come i suoi genitori: una macchina metropolitana, una cacciatrice di fortuna, un predatore scattante, agile e letale nella sua città.
Con il cuore ingrigito. Sì, perché aveva ancora un cuore, ce l’aveva. Aveva pompato a vuoto per troppo tempo, ma non l’aveva ancora abbandonata.


Judy si mise a sedere sulla cassapanca, a ridosso della finestra, e appoggiò la testa contro il vetro chiudendo gli occhi. Chissà se così il mondo si sarebbe fermato per un attimo intorno a lei, per permetterle di schiarire le idee.
Si sforzò, respirò a fondo per qualche secondo e le parve di riuscirci: sentì il lieve rumore del suo corpo al lavoro, dal respiro lungo le narici alla saliva che scendeva con un rumore liquido lungo la gola, fino allo stomaco che brontolava lievemente e al cuore che batteva.

“Cosa devo fare?” bisbigliò sull’orlo delle lacrime nel silenzio di casa sua, perché conosceva già la risposta.

Mettersi in discussione. Rischiare. Sbagliare. Sentirsi dire “no”.
Ma non poteva andare sempre e solo così, lo sapeva. Cioè, lo aveva sentito dire, anche se non ci aveva mai fatto troppo caso.
Si poteva essere felici con poco, no? Si poteva ridere di se stessi, dei propri errori, ma anche dei propri successi.
Succedeva a tutti da sempre, perché non anche a lei?

Mai un cambiamento in quarant’anni, ed ecco come ci si sentiva anche solo a progettarne uno.


Judy riaprì gli occhi, lanciò un’occhiata al ponte di Brooklyn e silenziosamente si disse che sì, ce la poteva fare.
Riuscì a sorridere, sorpresa: non sapeva di poter ragionare in modo tanto umano e sensato. Non l’aveva mai fatto prima.

Si ricordò di quando, molti anni prima, una sua compagna di college, una dell’alta società di Manhattan come lei, aveva dichiarato scandalizzata: “Oggi come oggi, non capisco come possa ancora esistere la pista pedonale sul ponte! Anche se fossi una turista, col cavolo che percorrerei due chilometri a piedi,  praticamente è impossibile! Diamine, esistono i taxi, paghiamoli quei poveracci che li guidano!”
Quella tipa era particolarmente stupida, ma il suo ragionamento aveva permesso a Judy di mostrarsi superiore a lei e a tutti quelli della sua stessa cerchia.

“Ma perché, scusa? Percorrere il ponte a piedi è possibile, un passo alla volta!”
E poi forse aveva aggiunto che erano 1852 metri e non due chilometri, che inoltre il percorso della Via Crucis ogni anno si svolgeva là… *
Un passo alla volta, era sicura di averlo detto, soprattutto di averlo pensato con una logica e una forza che per un attimo l’avevano estraniata da tutto il suo mondo di eccessi e futilità.

 
Si rialzò in piedi, rasserenata, e mentre iniziava a piovere si voltò per raggiungere il telefono sul mobile vicino alla porta d’ingresso.
Il primo passo lo aveva fatto. Aveva scelto.
Il secondo passo, paradossalmente il più difficile, doveva ancora compierlo.

“Chiama, Judy. Chiama e finiscila. Non hai più debiti e non hai più scuse. Pensaci tu, nessun altro lo farà e lo sai.”

 

“Pronto?”
“Papà. Sono io.”
“Oh, Judy. Allora, hai vinto la causa? Ti avrò lasciato almeno tre messaggi in segreteria.”
“Mi occuperò della causa appena starò meglio.”
“Come sarebbe a dire?”
“Sono incinta, papà.”

 
L’aveva detto. Si stupì ancora una volta. E sorrise.

 
“Come sarebbe a dire?”

Non lo aveva mai sentito così, preso in contropiede. Con una sfumatura di disappunto. Ma non si sorprese, neanche un po’.

“Sono incinta, e intendo tenere il bambino.”
“Judy, non fare questi scherzi con me. E soprattutt-“
“Io terrò il bambino. Diseredami, sbattimi fuori dallo studio, disconoscimi, fa’ ciò che vuoi. Mi conosci, e sai che ho tutto sotto controllo, come sempre. Me l’avete insegnato tu e la mamma. Di questo devo ringraziarvi.”
“Io non credo di capire dove vuoi arrivare, Judy…”

Sarcasmo nelle sue parole. Adesso sì che lo riconosceva.

“Lo sai benissimo dove voglio arrivare. Ci ho messo vent’anni per fare questa telefonata, e ci è voluto un buon pretesto, come hai potuto notare.”
“Già, e lo chiami un b-“
“Non ti azzardare. No, papà, no.
Vi ho ridato tutto quello che vi devo. Non chiederò più nulla. So che anche se lo facessi, non lo otterrei.”
“Bugiarda.”
“No, sto dicendo la verità. E tu stai andando nel panico perché stai perdendo la tua figlioletta da competizione.”
“Mi pare di capire che tu abbia bisogno di aiuto, non di…”
“Lo so io di cosa ho bisogno. Né tu né mia madre lo avete mai saputo. E adesso questa conversazione si chiude qui. Perché prima di tutto ho bisogno di finirla con voi due.”
“Judy, non-“

 

Riattaccò in faccia a suo padre. Suo padre, con cui non aveva mai giocato, scherzato, parlato. Suo padre, che l’aveva sguinzagliata per vent’anni nei tribunali di fronte a cause penali di tutti i tipi.
Per un istante il pensiero andò a sua madre, a come avrebbe potuto reagire alla notizia, ma fu facile figurarsela indignata, snobista e fredda, come sempre.

Avrebbe comunicato la grossa novità, quella importante, alle persone a lei più care. Lea e Morris erano in cima alla lista e di sicuro sarebbero stati felici di diventare “nonni”, di aiutarla a crescere il bambino come se fosse stato loro, come tanti anni prima, quando avevano cresciuto lei, in casa sua.

 
Il resto sarebbe venuto un po’ alla volta, senza troppa fretta, con la consapevolezza del tempo che passava.

Judy si accarezzò il ventre e pensò di sentirsi forte, pronta, finalmente realizzata e libera.

Dopo quarant’anni avrebbe imparato, un passo alla volta, a camminare da sola.

 

 

THE END

 

Note:

*  Le informazioni sul Ponte di Brooklyn sono verificabili su Wikipedia

Il titolo del racconto è tratto da un verso di “Purple rain”, brano di Prince. Nessuno scopo di lucro.

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Capitolo 9
*** Baby Jane ***


donne

BABY JANE

 

 

Quando Gary mi scaricò, in qualche modo compresi la sua scelta, anche se all’inizio non fu facile.

Gli ottimisti dicono che l’amore non conosce barriere e che una storia può nascere anche da un momento breve e banale, ma io sono realista e dico che sono tutte stronzate; lo dico serenamente, senza rimpianti, ma con la solida consapevolezza di chi ha avuto un’esperienza spiacevole.

 

Il momento fu effettivamente breve, ma non direi banale: ero al centro commerciale con mia sorella, stavamo facendo le compere natalizie e ci eravamo fermate davanti ad un negozio per guardarne la vetrina; quando Christine si è girata ha visto Gary da lontano e lo ha salutato con un gran vociare, un grande sventolio di mani…
Stavo giusto per chiederle cosa avesse da starnazzare, ma quando mi sono voltata l’ho capito.

Gli altoparlanti del negozio stavano facendo riecheggiare “One vision” dei Queen, come se avessero voluto dar voce ai miei pensieri.

Un figo da paura.

E a giudicare da come stava ricambiando volentieri i baci sulla guancia di Christine… sapeva di essere un gran figo.

Non ho mai saputo se la sua ostentata figaggine fosse il risultato di un’adolescenza da “brutto anatroccolo” riscattata nell’età adulta, o se così ci fosse nato. Di lui, effettivamente, ho sempre saputo ben poco.
A parte che era andato a letto anche con Christine, che si era fatta ben pochi problemi.
Un dettaglio che mia sorella mi riferì innocentemente pochi giorni dopo avermelo presentato.

“Gary, questa è mia sorella. Sorella, questo qui è Gary! Andavamo in palestra insieme!”
Giusto in quell’istante compresi perché quella pigra cronica che è Chris avesse frequentato una palestra per ben sei mesi di fila.
Gli strinsi la mano e gli dissi “Ciao” senza far trapelare il mio nervosismo – un grande sforzo – ma lui sconvolse il mio equilibrio faticosamente raggiunto con una frase giustamente ironica e un sorriso impossibile da ignorare.
“Sorella, suppongo che anche tu abbia un nome!”
Tra una risatina idiota e una vampata improvvisa di calore glielo borbottai, il mio nome, e ritirai educatamente la mano.

Non sono mai stata brava nel mantenere la calma di fronte a tanto ben di dio. Ed era vestito, per la miseria.

Dopo essersi aggiornati brevemente e con grandi sorrisoni sui rispettivi “Che fai adesso?”, “Hai più visto Tizio o Caio?”, con me nel mezzo che sorridevo senza capire, arrivarono i saluti e gli auguri di un Buon Natale.
Inaspettatamente arrivò anche un invito da parte sua, uno di quelli che nessuno prende mai sul serio.
“Dobbiamo rivederci una sera di queste! Beviamo qualcosa, ci facciamo due risate!”
Mentre io lo guardavo come per dire “Non ho alcuna intenzione di ridere con te”, Christine cinguettò che sarebbe stato fantastico e che aveva sempre il suo numero, alla prima sera libera lo avrebbe chiamato.
“Va bene se porto anche mia sorella?”
Io non ero d’accordo, ma non dissi niente.
Gary mi disse che DOVEVO unirmi, senz’altro, lo disse con quel pizzico di malizia che…
Come dicevo, non me la sono mai cavata molto bene con cose di questo genere.

 

“Sai, Gary ci sa fare con le ragazze…”

Una volta a casa, Christine cominciò a snocciolarmi le cose più ovvie e prevedibili su quel monumento di ormoni che avevo giusto adocchiato, ma che non avrei avuto voglia di conoscere più approfonditamente, se solo lei fosse stata zitta e buona.
Mi disse che era un tipo da una botta e via, che non si era mai fatto vedere con la stessa ragazza per più di una settimana, che a letto era un toro e che sapeva come conquistare qualunque donna, ma anche come liberarsene con disinvoltura e soprattutto senza farsi detestare dalla malcapitata, dopo, onde evitare ripercussioni sgradevoli.
Io conoscevo bene quella fiera delle ovvietà ancor prima di essere messa in guardia da mia sorella.
Gary era un gran bel figlio di puttana, si vedeva.
Ma dopo il quadro che lei mi aveva fatto ero interessata più che mai; non volevo fare niente, ero solo curiosa di vederlo all’opera, se sarei caduta anch’io nella sua trappola.

Ovviamente ci finii con tutte le scarpe.

 

La famosa “sera libera” arrivò quando Christine, esasperata dai miei continui  e subdoli punzecchiamenti, gli telefonò per incontrarsi in un locale in cui io non ero mai stata, un disco-bar da lui proposto, piuttosto caotico come ambiente.
Recuperai un vestito corto dall’armadio, mi truccai, stetti attenta ai capelli, ma mi sentivo a disagio, specie accanto a Christine, che ballava, rideva e beveva come se non avesse mai fatto altro nella vita.
Io, da brava pantofolaia, me ne stavo in disparte e parlavo poco, disturbata dal volume indecente della musica (schifosa) del posto, nonché dalla parlantina a ruota libera e alcolica di mia sorella.
Sentii puzza di guai nel momento in cui proprio lei mi mollò da sola con Gary e se ne andò a ballare; era a dieci metri da me, potevo vederla, mi avrebbe sentito se avessi urlato il suo nome, ma mi sentii improvvisamente vulnerabile, una preda fin troppo facile da catturare per il paio d’occhi che mi stavano guardando con sorridente sicurezza.
Lo maledissi intensamente con il pensiero per qualche secondo, ma mi rimangiai tutto quando prese in mano la situazione e mise in piedi una conversazione piacevole, per quanto sbraitata e non sempre comprensibile.
Al suo “Mi dispiace, la prossima volta ti porto in un posto più tranquillo, qui c’è troppo casino anche per me stasera!” probabilmente arrossii: si notava così tanto il mio disagio? E ci sarebbe stata una prossima volta, senza mia sorella?
Non volli mai sapere niente al riguardo, mi bastò crogiolarmi nel piacere che mi dava quel dubbio, o quell’illusione.
Dopo una mezz’ora, lasso di tempo in cui Christine non era ancora tornata al nostro tavolo, Gary mi chiese di ballare.

Adoro il ritmo, mi piace muovermi liberamente, e non so assolutamente ballare.

Rifiutai garbatamente, anche per vedere se avrebbe insistito, e così fu, al punto che mi lasciai trascinare in pista al suono di un medley dei successi degli ABBA, finalmente giunti dopo un’ondata house orripilante. Il DJ doveva essere ubriaco o pazzo.

Mamma mia.

Più cercavo di improvvisare delle (discutibili) coreografie ad ogni ritornello, cantando in playback, e più lui mi si avvicinava, le braccia sempre tese nella mia direzione, impegnato a sfiorarmi il punto- vita o a farmi piroettare.
Avevo bevuto troppo poco per ridere a crepapelle e cadere tra le sue braccia, così mi limitai ad assecondarlo con discrezione e soprattutto con un’ammirevole paresi della bocca, sorridevo come un’idiota e lui lo sapeva, lo sapeva…

Quella sera non accadde niente di che, a parte quel primo approccio danzereccio, che comunque aveva avuto un effetto tumultuoso su di me, in quanto non vedevo l’ora di rivedere Gary, magari senza musica, con un po’ più d’intraprendenza.

 

Da tempo immemore non avevo un ragazzo, o anche solo un’avventura.
Motivo in più per cui decisi che mi sarei divertita con lui.
Seguii d’istinto il profumo del suo dopobarba, della novità, diedi retta i miei ormoni, mentre Christine faceva la scettica e mi sconsigliava di incasinarmi troppo la vita.
Giuro che credevo fosse invidiosa di me, gelosa di lui.
Avrei dovuto ricordarmi che era la mia sorella maggiore e che, come sempre, stava tentando di proteggermi.

 

Agli amici non dissi niente, trascorremmo un capodanno tranquillo ma divertente, come al solito.

Dopodiché, il mio compleanno.

Mi regalai un appuntamento dall’estetista e uno dal parrucchiere, disboscando tutto ciò che c’era da disboscare… e cambiando colore dei capelli: il mio castano che credevo anonimo divenne un ramato deciso.

Sul mio profilo Facebook trovai gli auguri di tutti, compresi quelli di Gary, “Tanti auguri!”, e tanto bastò per farmi venire la voglia di comprarmi anche un vestito nuovo.

Due giorni dopo, un suo messaggio privato:

“Come va, bella? Hai trascorso un bel compleanno? Adesso che sei un po’ più vecchia mi piacerebbe portarti a cena fuori, sarebbe il mio regalo per te, ti porterei in un bel posto dove potresti assaporare del buon semolino! ;) Fammi sapere se l’idea ti piace!”

E io risposi che sì, certo che mi piaceva l’idea, e risposi al suo umorismo in tono divertito, il più appropriato, anche se non me ne fregava niente.
Non volevo che mi facesse ridere…

 

La cena non me la ricordo.
Mangiai senza gustare nulla in particolare, tanto ero presa da lui.
Risposi alle sue domande o alle sue battute in modo quasi automatico, e mi fermavo sempre nel momento esatto in cui lui riprendeva fiato per parlare, non lo interruppi mai.
Fingevo di gettare delle occhiate al contenuto del mio piatto e intanto mi soffermavo sulle sue mani, che erano sul tavolo oppure impegnate ad animarsi in aria.
Dissi che anche a me piacevano lo sport, i film drammatici, il rock anni ‘80 – tutte cose non vere – e per più di una volta ci guardammo negli occhi, parlando o stando in silenzio.
Forse ci stavamo dicendo un sacco di cazzate, ma entrambi eravamo liberi di saperlo e di lasciar correre. Sapevamo dove saremmo andati a finire, e io non vedevo l’ora. Avevo i brividi, ma non vedevo l’ora.

 

Quando sei in una relazione stabile e felice, il sesso completa quello che è il bel quadro della vita di coppia: lo si fa volentieri, le mosse sono tutte giuste, il risultato è assicurato e sempre positivo.
Il sesso con uno che conosci a malapena è un’incognita: può essere un successo, un fiasco o ordinaria amministrazione.

Il sesso con Gary fu una scoperta.
Io brava a letto? Boh, forse, ancora oggi non lo so. Ma certamente mi sentii bella quella notte, una vera e propria pantera, probabilmente il frutto di una grande repressione sessuale durata troppo a lungo.
Non una singola ciocca fastidiosa davanti al viso, la mia chioma si sparpagliò per intero e in modo quasi scenografico sul cuscino; nessun movimento brusco, non un solo momento di irrigidimento o d’incertezza, mi mossi quasi come se conoscessi il suo corpo nudo a memoria, non mi ero mai sentita così sicura di me stessa e dell’altro durante una scopata.
Senza dubbio Gary si rivelò superlativo, ma da parte mia mi diedi molto da fare, e con un riscontro più che positivo, visto che sembrò apprezzare molto.

Quando dico “scoperta”, intendo il senso stretto della parola…

Se, per esempio, una volta mi dedicavo completamente al suo uccello, in un altro momento gli massaggiavo ben bene la schiena…

Quando avevo le mestruazioni sorgevano i problemi.
Non che lui volesse farlo nonostante il ciclo… è che ci vedevamo ugualmente.
La prima volta andammo al cinema a vedere una commedia che entrambi giudicammo mediocre; successivamente passammo numerosi pomeriggi a casa sua.
Parlavamo del più e del meno sul divano, senza scontri, con lui che diceva la sua e io la mia…
E quando finivamo le parole capitava che volessimo toccarci, ci spingevamo fin dove potevamo.
Se fingeva, fingeva bene.
Diventava molto dolce e accomodante e mi faceva sciogliere, ero come gelatina, specialmente quando finivamo per guardarci ; almeno, io mi sentivo in difficoltà, così ripiegavo in fretta sul suo torace, lo baciavo e lo leccavo sui capezzoli, oppure gli facevo direttamente un pompino.

 

Battemmo i nostri record personali.

Lui impiegò quattro mesi prima di stancarsi di me, contro l’ordinaria settimana concessa a qualunque altra ragazza arrivata prima di me – o forse anche mentre c’ero anch’io…
Personalmente, scopare liberamente per quattro mesi fu un traguardo inaspettato e soddisfacente, dato che ero abituata alle “toccate con fuga” o al rapporto sessuale di rito prima della presunta relazione stabile che poi, puntualmente, si rivelava disastrosamente instabile.

La sto buttando sul materiale, ma la verità è che io ho visto qualcosa di più.
Ho solo avuto paura, e me ne pento, sì.

Gary è un ragazzo molto intelligente e, chissà, forse in passato è stato anche più sensibile e meno impostato di quanto non lo sia stato con me e con tante altre.
Non mi sorprenderei : anche io, un tempo, ero più spontanea ed ingenua.
Già, ingenua.

Nonostante la mia perspicacia, feci la figura dell’ingenua quel pomeriggio in cui lui mi guardò, fece un sorriso triste e sospirò.
Mi schiarii la gola, leggermente disorientata.
“… Non va, vero?” mi domandò, retorico da morire.
Lo squadrai lentamente e pensai che era così bello che niente in lui avrebbe mai potuto risultarmi rivoltante o anche solo fastidioso come in altri uomini, compresi i calzini maleodoranti e i peli in mezzo alle chiappe.
Mi limitai a scuotere la testa e a dire: “No, hai ragione. Me n’ero accorta anch’io.”
Un’ultima bugia prima di andarmene, quasi un colpo di coda prima di crollare, sferrato per ripicca in risposta al suo attacco.

 

Non l’ho più visto e non so dove sia finito. Il suo numero non l’ho mai avuto, non l’ho nemmeno chiesto a Christine.
L’ho cancellato dalla lista degli amici di Facebook, onde evitare che lui lo facesse per primo o che non si curasse affatto di eliminarmi dal suo elenco.
Mi dispiace ancora oggi di essere stata tanto drastica, è che non volevo più cadere in tentazione, e con lui sarebbe stata troppo forte.
Amavo il suo corpo, così come lui amava il mio, ma l’innamoramento nonché l’amore… no, non erano cose per noi e per la nostra attrazione.
Anche se io… uno spiraglio aperto l’avrei lasciato.
Un momento di debolezza.

 

Se oggi incontrassi Gary per la strada lo saluterei senza problemi per poi passare oltre, ma mi divertirei a notare in un attimo, nonostante i vestiti, questa o quella parte del corpo che ho toccato o che mi ha fatta godere.

Tante ragazze compunte e frustrate come me vorrebbero scopare con uno come Gary almeno una volta nella vita, se non addirittura farci coppia fissa.
Io ho avuto la mia occasione e me la sono giocata piuttosto bene, credo.
Ogni tanto mi faccio le solite domande complicate e noiose, “E se…?”, ma solo ogni tanto, poi mi passa.

 

 

THE END


Il titolo di questo capitolo si rifà alla canzone “Baby Jane” di Rod Stewart, sulla quale ho basato le personalità di entrambi i protagonisti della storia.
Nessuno scopo di lucro.

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Capitolo 10
*** I make my way through this darkness ***


donne

I MAKE MY WAY THROUGH THIS DARKNESS

 

 

 “Mi scusi?”

Si voltò, abbassando la macchina fotografica a malincuore, e vide una signora anziana, il viso luminoso e i capelli bianchi raccolti in uno chignon; le sorrideva, mostrando la dentiera e un rossetto rosa acceso che non le donava granché.

“Le dispiace se le chiedo di spostarsi di un passo o due? Qui sopra c’è il nome di mio figlio…”

A malapena riuscì a capirla sopra il rumore della città, ma ricambiando il sorriso annuì e rispose nella sua lingua: “Venga pure, anzi, mi scusi!”
La lasciò passare e si spostò alla sua destra, allontanandosi di qualche passo per concederle un po’ di privacy.

Sospirò e tornò a concentrarsi sulla sua macchina fotografica, ma quando arrivò a guardare nell’obiettivo, l’inquadratura non le piaceva più così tanto: troppa ombra ricopriva l’acqua che scorreva nella fontana, e la luce del sole non si rifletteva più neanche sul granito scuro; fece una smorfia delusa e cominciò a guardarsi attorno per vedere se sarebbe riuscita a trovare un altro angolo per una fotografia in prospettiva.
Con la coda dell’occhio notò i capelli candidi della signora anziana e non poté fare a meno di tornare a guardarla: con suo grande stupore, la vide mentre stava strofinando un panno bianco sul bordo della fontana, su quel piccolo spazio da lei prima occupato, in quanto ci si era appoggiata sopra con i gomiti.

“Oddio…” sussurrò riavvicinandosi, e un nodo in gola per poco non le spezzò la voce mentre tornava a parlarle.

“… Scusi…”
La donna si girò a guardarla e da dietro i grandi occhiali da vista i suoi occhi luccicarono, commossi e accoglienti.
“Sì?”

 
Perché era voluta tornare indietro a parlarle?
Non lo sapeva di preciso, semplicemente aveva voluto farlo.


“Io… mi perdoni, non volevo, non sapevo che stavo prendendo il suo posto…”

 
Era ovvio che non lo sapeva, come avrebbe potuto?

 
L’altra sorrise, stavolta più calorosamente. Una lacrima le scese lungo la guancia sinistra.

“Non fa niente, si figuri! Anche lei conosceva qualcuno qui?”
“No… no, io sono solo una turista…”
“Oh, davvero?! Da dove viene?”
“Dall’Italia…”
“Ma parla un inglese molto corretto, complimenti! Io mi chiamo Janice, molto piacere di conoscerla…”
Le strinse la mano: era tiepida, morbida, aveva una bella stretta, vigorosa ma dolce. Nella sinistra reggeva il panno con cui aveva ripulito il nome di suo figlio inciso sulla pietra.
“… P-piacere, io sono… mi chiamo Silvia…”
Si rese conto che stava piangendo, e che non sarebbe riuscita a fermarsi facilmente.

La donna non disse niente, semplicemente la abbracciò, mantenendo il suo sorriso rosa increspato dalle rughe e dal lutto.
Mentre Silvia la stringeva e singhiozzava piano, con il cuore che le batteva a mille, sentì che le sussurrava: “Il mio Mark era a metà della sua vita ed era accorso in aiuto a tutte quelle povere persone…
È morto qui, a pochi metri da dove siamo noi adesso. E io, piuttosto che rimanere a casa a morire di crepacuore e pensare alla mia rabbia, preferisco venire qui, ogni giorno, e onorare il suo nome, raccontare la sua storia.”

Silvia riprese fiato e abbracciò più forte la signora, accarezzandole piano lo chignon bianco, come se all’improvviso la conoscesse da sempre.

Senza vergognarsi delle proprie lacrime, scorse lo sguardo lentamente lungo il perimetro della fontana.

Quello che fino a vent’anni anni prima era stato il perimetro della seconda torre.

“Quanti nomi” disse con la voce rotta dal pianto “Quante persone…”
“Lo so, cara… Lo so…”
“Da quando sono arrivata in questa zona… è come se… non so, mi sentivo un macigno sulla testa…” tentò di spiegarle mentre si staccava dolcemente per guardarla e asciugarsi le lacrime.
Janice scosse la testa e si tolse gli occhiali. “Chiunque passi di qui ha provato la stessa cosa. È un grande peso, sai… e una vita umana pesa molto di più delle due torri messe insieme. Qui sono morte quasi tremila persone. Immagina…”
Silvia annuì gravemente, continuando a fissare i nomi sparsi sul granito.
“C’è del conforto però” continuò l’anziana donna, abbozzando un sorriso mentre le appoggiava una mano sulla spalla “Sono tutti qui davanti a noi, e se la pietra resiste davvero al tempo… allora nessuno di loro verrà mai dimenticato. Non trovi?”
Reprimendo un ultimo singhiozzo, l’altra rispose: “Forse ha ragione… Non l’avevo mai pensata così, ma forse perché non ero mai stata qui prima… E’ come vedere due cuori enormi con dentro… tutti loro. È un’immagine un po’ banale, ma è così che mi piace vederla…”
“Io sono davvero contenta e orgogliosa che una donna giovane come lei sia venuta fin qui a condividere le sue emozioni, e con me.”

Si sorrisero. Silvia si sentiva molto meglio.

“Grazie, anche a me ha fatto molto piacere… e scusi ancora se l’ho disturbata…”
“Non se ne preoccupi! Anzi, continui pure con le sue fotografie” le suggerì Janice, indicando l’apparecchio appeso al collo della ragazza “Ognuno qui ha il suo modo di rendere omaggio…!”

 

Si salutarono con un ultimo abbraccio, più sobrio e controllato del precedente, con un “Arrivederci” in italiano, da parte di entrambe, che però suonava come “Addio”.

 

Silvia esitò prima di riprendere in mano la macchina fotografica, ma una volta trovato l’angolo giusto, ricominciò a camminare e scattare, quasi senza rendersi conto di farlo con un sorriso rilassato.

 

 

THE END

 

 

Per il titolo di questo racconto, è stato di grande aiuto un pezzo di Bruce Springsteen, “The rising”. No scopo di lucro.

 

A causa dell’intensità con cui personalmente percepisco la tragedia dell’ 11 settembre 2001, ho sentito di dover mettere il mio nome in questa storia, che comunque resta di fantasia, e ambientata nel futuro perché non sono ancora mai stata a New York, ma spero di poterci andare un giorno.

Il luogo citato esiste davvero, è il National September 11 Memorial & Museum, situato esattamente nel punto in cui sorgevano le Torri Gemelle. Le fondamenta dei due edifici sono attualmente due fontane sui cui parapetti sono incisi i nomi delle vittime dell’attacco.

Mark, inoltre, è un uomo realmente esistito: un paramedico di nome Mark Schwartz morto a 50 anni al momento del crollo della seconda torre; è sul parapetto della rispettiva fontana che ho notato il suo nome, in mezzo a molti, troppi altri.

 

Per me Mark rappresenta tutte le 2977 vittime dell’11 settembre. È il mio modo di rendere omaggio, oggi come sempre, a tutti quegli innocenti morti ingiustamente per una causa inutile e troppo grande per loro.

 

 

Foto delle fontane del National 09/11 Memorial http://it.123rf.com/photo_10592489_new-york-2011-09-17-world-trade-center-memorial-weekeknd-di-apertura-al-pubblico.html

 

Info su Mark Scwhartz

http://edition.cnn.com/SPECIALS/2001/memorial/people/1728.html

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Capitolo 11
*** Knowing me, knowing you ***


donne

KNOWING ME, KNOWING YOU

 

 

Quando nonna Mae morì, nessuno seppe esattamente cosa dire o fare, almeno non subito.
Perché era morta a centodue anni, superando più di una guerra, la tubercolosi e un cancro al seno.
Ma era inciampata nei gradini davanti a casa sua, quelli pressoché invisibili da quanto erano bassi e ben mimetizzati con il vialetto lastricato del giardino.
Aveva fatto una capriola su se stessa e PUM! aveva sbattuto il cervelletto. Si era spenta proprio così, come se avesse avuto un interruttore e noi non ce ne fossimo mai accorti.

Al telefono, papà si limitò a esclamare “Oh, fanculo!”, colto di sorpresa, prima di mettersi a piangere pieno di sensi di colpa perché aveva detto una parolaccia, anche se involontariamente, riferendosi alla propria madre.

Quanto a me, fu Todd a dirmelo quando venne a prendermi all’aeroporto.

“La nonna è andata, Rosie. Ha lasciato il mondo dei vivi in grande stile, si dice con un volo carpiato!”
E io non potei fare a meno di reprimere una risata mentre tornavamo a casa in macchina; certo, poi mi misi a piangere e Todd mi imitò mentre alla radio passavano “Copa Cabana” di Barry Manilow *, il cantante preferito di nonna Mae.

 

Una volta seduti in salotto, ci guardammo tutti nelle palle degli occhi. Io mi sentivo piuttosto a disagio perché avevo zia Virginia accanto, e come al solito puzzava di pipì di gatto. Una cosa inspiegabile, dato che non aveva mai posseduto animali.
“Amore, calmati. Pensa che non ha sofferto…” sussurrò mia madre a papà, che però non riusciva a smettere di piangere.
“Era il caposaldo della famiglia!” belò brandendo il suo fazzoletto di stoffa bianco, che però era diventato giallastro per via del muco spiaccicato sopra “Mi sembra impossibile che non sia più tra noi!”
“Ma tesoro, devi anche capire che… cominciava ad avere un’età…”
La mamma si stava aggrappando ad ogni singola frase di circostanza che conosceva, io e Todd la compativamo in silenzio con lo sguardo e papà scambiò quelle occhiate pietose per dolore da lutto abiatico.
“Come vorrei che aveste potuto conoscerla meglio, ragazzi…” ci disse drammaticamente mentre le lacrime continuavano a scorrergli lungo le guance arrossate.
Todd alzò le sopracciglia, allibito, e io sospirai: “Papà, dài…” per tentare di liquidarlo.

In realtà io conoscevo molto bene la nonna.
Dopo la sua seconda vedovanza, si rivelò fantastica.
Avevo sedici anni.

 

“Rosanna, com’è andata a scuola?”
“Bene, nonna, ho preso una A nel compito di storia!”
“Brava, tesoro, brava… E il ragazzino?”
“Lo sai che non sono fidanzata…”
“Quanti anni hai, bambina mia?”
“Sedici…”
“Ah, già, è vero…”
“…”
“… E allora? Ancora non scopate né tu, né tuo fratello?”

 

La nonna era fatta così. Una donna concreta, di sani principi, premurosa a modo suo.
Lei aveva avuto lo zio Frank a sedici anni, perciò…

 

“Nonna? Pensi mai a nonno Peter?”
“Quando non lo penso di giorno, è sempre nelle mie preghiere serali, bambina mia!”
“Guarda com’eravate belli in questa foto! Dev’essere stato un bel matrimonio!”
“Oh, sì, fu bellissimo!Il vicario era un amico comune e venne al ricevimento con noi! Sapeva un sacco di barzellette e ci fece ridere fino al mal di stomaco… Ah, Flynn… me lo ricordo come se fosse ieri!”
“Nonna, non è che hai avuto una storia anche con lui, vero?!”
“No, con lui no!”
“Ahahah, meno male!”
“… Solo una palpatina, ma quando ancora non frequentavo seriamente tuo nonno, e poi lui non era mica un prete…”

 
In cerca di una foto adatta alla lapide, ci ritrovammo sottomano centinaia di fotografie della nonna da giovane.
Era molto bella.
Papà non capiva perché molte delle foto fossero tagliate a metà e per lungo a partire dalla spalla o dal braccio. Io, Todd, mamma e la zia sì, ma non dicemmo niente.

 
“Todd, cos’è questa storia che mi ha raccontato tuo padre? Fumi erba?”
“L’ho fatto solo una volta, nonna, te lo giuro!”
“E’ vero, e gli ha anche fatto schifo! Non te la prendere, nonna, dài…”
“No, e chi se la prende?! D’altronde non bisogna giudicare una persona basandosi solo su questi episodi isolati… Anche io ho fumato la cannabis molti anni fa! Ero poco più grande di voi…”
“E chi te l’aveva data?!”
“Vostro nonno Abraham, per capodanno!”
“…. Nonna… A capodanno…?”
“Sì! Mi ficcò quella sigaretta tra le labbra e mi disse «Tieni duro, Mae, e fatti un tiro mentre io chiamo la levatrice». E difatti il travaglio non fu quasi per niente doloroso! Ricordo che anche Lucinda si fece un tiro, dopo!”
“NONNA!!!”
“Si può usare come medicinale, lo sanno tutti! Ma non ditelo a vostro padre… se scopre la vera causa per cui è così rincoglionito, non me lo tolgo più dai piedi…!”

 
Il secondo nome di papà, nato il primo giorno dell’anno 1948, è Haze **; Todd e io lo scoprimmo quel pomeriggio mentre mangiavamo pasticcini fatti in casa.

 
Zia Virginia optò per una foto francamente scialba che ritraeva Nonna Mae felice ma visibilmente stanca durante un cenone natalizio - sicuramente organizzato e arrangiato totalmente da lei - con la famiglia, molto prima che io, Todd o tutti i miei cugini nascessero.
Persino papà, solitamente un remissivo, si mostrò contrario alla sua scelta, al che la zia si giustificò dichiarando con aria altezzosa: “Questa era nostra madre dopo aver avuto tutti noi, con il suo secondo marito, e per giunta dopo essere sopravvissuta alla tubercolosi. Non è una brutta foto, anzi, è il ritratto di una donna molto forte”.
Ma in realtà la zia lo aveva fatto apposta, perché era sempre stata gelosa di nonna Mae, del suo bell’aspetto, sfiorito solo in tarda età, e del suo carisma…

 

“Cos’è quel muso lungo, piccina? È successo qualcosa a casa?”
“Niente, le solite paranoie…”
“Hai combinato qualcosa a scuola…?”
“No, no! È che… è mamma. Ogni volta che sto per uscire con Greg o con le mie amiche di sera vuole farmi sentire per forza uno schifo!”
“Cos’ha da ridire, scusa?”
“Non le piaccio quando metto la minigonna, anche se ho i collant… e se porto un vestito, mi chiede perché me lo metto se devo solo andare al cinema, non si fa mai gli affari suoi e riesce sempre a condizionarmi! Un giorno la mando a f-“
“Rosanna, fregatene! Ascolta tua nonna, fregatene! Se ti vuoi mettere la minigonna, mettitela, Cristo santo! Non fare come tua zia…”
“Zia chi?”
“Virginia! Sai come la passò lei l’adolescenza? Tutti i santi giorni a cercare di compiacere suo padre, tuo nonno! Non si è truccata fino al momento della sua morte, e ancora oggi si veste di merda, sembra che nell’armadio abbia solo sacchi di juta!”
“Ma nonna…  mi hai sempre detto che nonno Abraham era…”
“Un gran rompicoglioni!”
“… Severo…”
“Appunto, un rompicoglioni! Lui aveva il terrore che sua figlia facesse la mia stessa fine, deflorata in tenera età, però non mi era sembrato così timoroso quando era stato lui a ingropparmi nel fien-!”
“Cazzo, nonna!”
“E’ la verità! Io ho sempre cercato di incoraggiare tua zia a tirare fuori la sua femminilità nei tempi e nei modi giusti! Ho provato di tutto: vestiti prestati, nuovi, trucco, riviste, appuntamenti dal parrucchiere, niente! Non ne ha mai voluto sapere! Tutte le volte la stessa cantilena: «Papà non approverebbe, lasciami stare». E guarda com’è adesso: vecchia, acida, con i baffi, puzzolente e sola come un cane! Come quel rompicoglioni di suo padre quando l’ho conosciuto io!”
“Zia Virginia non è vecchia, e non dovresti parlare così di non-“
“Tesoro mio, apri bene le orecchie: tua nonna, qui, ha fatto tanti errori nella sua vita; ma finché ha avuto un corpo da usare, lo ha usato, e con gli uomini migliori che ha trovato. Tua zia lo sa e le rode, ma ormai è troppo tardi per accorgersi che il giudizio altrui non vale niente. Non fare il suo stesso errore e ragiona con la tua testa.”
“… Ok, se lo dici tu…”
“Ce li hai i preservativi? Altrimenti passo in farmacia domattina e te li compro io. Devi sempre averli con te, lo sai, no?”

 
Mentre papà e la zia bisticciavano, Todd prese un’altra foto e me la mostrò commosso: la nonna con noi in braccio, io avevo quattro anni, lui appena due, era estate ed eravamo nel porticato di casa sua, seduti sulle sue ginocchia, all’ombra del suo enorme cappello bianco a tesa larga.
“Io me lo ricordo a malapena, quel giorno…” disse mio fratello, al che io gli toccai affettuosamente un braccio replicando: “Una gran bella giornata…”

 

“Nonna?”
“Sì, rosellina?”
“Todd fa la pipì in piedi e io no, perché?”
“Perché Todd ha una cosina chiamata pene e tu no, amore della nonna. Lo sai cos’è un pene?”
“No!”
“E’ un involtino. Sai, gli involtini che ti fa la nonna di domenica?”
“Sì…”
“Ecco, il pene è fatto come un involtino, e serve ai bambini e agli uomini grandi per fare la pipì e tante cose belle e utili che capirai quando sarai più grande…”
“E perché io non ce l’ho?”
“Perché tu hai una vagina, amore mio, come tutte le femminucce. Hai una vagina per fare la pipì da seduta, e la vagina è fatta come… hai presente le frittelle?”
“Sì…”
“Ecco. Un giorno, sempre quando sarai più grande, qualche maschietto verrà a chiederti un assaggio della tua frittella.”
“E io gliela devo dare?”
“Prima chiedigli se è ricco, piccola mia.”

 

“Preferirei che usassimo una sua foto più recente, è così che tutti la ricordano!”
“Sono foto orribili, non hai gusto! La mamma era molto più bella di così!”

Quei due non accennavano a smettere di starnazzare per una foto di una lapide che ancora nemmeno esisteva, e io avevo una tremenda voglia di buttare entrambi fuori dal salotto della nonna. La mamma notò il mio malumore e decise di intervenire.
“Perché non ci calmiamo tutti quanti? Siamo sconvolti, non siamo in grado di parlare di queste cose adesso!”
“Se permetti, Abigail, io ho sepolto mio padre e adesso vorrei poter fare lo stesso anche con mia madre, che-“
“Ma stai zitta, sei davvero senza vergogna! Come se io, Frank e Fiona non ti avessimo aiutato! Non sai dire altro! Io, io, io, io!” sbottò mio padre, che subito dopo scoppiò nuovamente a piangere.
Fu allora che io e mio fratello ci alzammo di scatto dal divano e fuggimmo al piano di sopra, non senza prima aver guardato tutti con un certo disprezzo.

 

“Mi sa che nonna Mae si è confidata solo con noi…”
“Puoi starne certo! Ed è meglio così!”

Stare seduti sul letto della nonna inizialmente ci fece uno strano effetto, ma con un’occhiata panoramica della sua stanza disordinata e piena di oggetti capimmo che, in fondo, lei era sempre lì, tra le vestaglie di seta, i barattoli della cipria, l’odore di borotalco, i vestiti ben ripiegati nell’armadio, i cassettoni pieni di biancheria, fermagli per capelli, ventagli, persino un doppiofondo sotto il quale si trovava una pistola insieme al porto d’armi.

“Mi sento come se… non so, me lo aspettassi da tempo…” confessò Todd guardando per terra; aveva una voce triste.
“Aveva più di cent’anni. Conoscendola, non vedeva l’ora di morire. Puoi pensarla così, no?” proposi io, cercando di sopperire anche alla mia tristezza.
“Sì, ma ci mancherà lo stesso…”
“Perché era l’unica in famiglia ad essere davvero avanti…”
“Al funerale piangeremo come dei bambini anche se ora siamo così tranquilli, lo sai, vero?”
“Non farmici pensare…”

Per sfuggire ai pensieri tristi iniziammo a gironzolare nella stanza, curiosi di vedere se tutto era ancora come l’avevamo lasciato, se la nonna avesse buttato via qualcosa o comprato altri oggetti bizzarri a noi sconosciuti. L’ultima volta che io e Todd c’eravamo rifugiati in camera di nonna Mae avevamo diciassette e quindici anni, e io me la facevo addosso per via del diploma.

Trovammo quasi tutto: il frigobar a forma di lattina di Coca-Cola (pieno di succhi alla pera e bottigliette di brandy) sotto la TV; la spazzola con il manico di madreperla con cui si spazzolava sempre i capelli; due nostre foto conservate gelosamente tra le pagine della Bibbia nel cassetto del comodino; il contenitore di latta per le merendine, quelle da trafugare in preda a un’improvvisa fame di zuccheri mentre era a letto e guardava la TV.

“Guarda, Rosie!”
Mi voltai e notai la scatola dei piccoli peccati gola con un sorriso.
“Era sotto il letto come sempre?” domandai avvicinandomi.
“Sì, e… aspetta, c’è un’altra cosa…”
Todd si accucciò e allungò un braccio per poi tirarne fuori un bauletto di legno.
Ci scambiammo un’occhiata interrogativa.
“Una volta sotto il letto c’entravamo solo noi…” gli feci notare.
“Apriamola, no?” propose mio fratello. E io non mi feci certo pregare.

 
Attoniti per la seconda volta in due giorni.
Non parlammo, a malapena respirammo davanti a quello che sembrava un vero e proprio piccolo tesoro.

C’erano delle foto, scelte appositamente e dotate di didascalia sul retro: Mae & Abraham, 1926; Mae, Abraham & Frank, 1927; Famiglia Ross, 1939…
C’erano tutti, dal vecchio zio Frank fino a zia Fiona, nata nel 1950, e c’erano i ritratti di nonno Abraham e nonno Peter… Nonno Abraham durante la Seconda Guerra Mondiale, bellissimo in uniforme, e prima di partire volontario per il Vietnam…
E ancora, Mae & Peter in California, 1970; Mae & Peter, Capodanno 1982; Mae, Peter & Chuckles, 1994…
Ricordavamo a malapena il Jack Russel di nonno Peter, ma piangemmo come vitelli al ricordo di quel piccolino che si lasciò morire dopo che il suo padrone se n’era andato nel sonno.
Un aneurisma, in entrambi i casi. Allucinante.

Le ultime foto erano quelle con noi, viste più volte nei vari album di famiglia, ma sempre bellissime; le arraffammo e le stringemmo al petto come se fossero i nostri figli, e in cuor mio giurai di non mostrarle a nessuno che non lo meritasse.
“Questa foto è di nonna soltanto” disse Todd frugando ancora in quella scatola che sembrava non avere un fondo “Guarda com’è bella…”

Ed era bella davvero: era seduta sul pouf davanti al ripiano della toeletta, i capelli raccolti in uno chignon grigio e luminoso, gli occhi lievemente truccati che guardavano dritti dritti nell’obiettivo – forse una foto scattata da nonno Peter poco prima della sua morte – e un sorriso appena accennato, reso sensuale da un velo di rossetto scuro; la luce giallastra dell’abat-jour insieme all’effetto della carta fotografica opaca le davano un’aria regale.

“Credo che lei vorrebbe che mettessimo questa sulla sua lapide, Todd…” azzardai a bassa voce; lui di rimando annuì e mi disse: “Dobbiamo imporci. Mi raccomando.”
Ancor prima che potessi concordare, spuntò fuori l’ennesima scoperta dal baule, ma stavolta non era foto, bensì una lettera. La leggemmo insieme in silenzio.

 

Carissimi Rosanna & Todd,

mi rivolgo a voi, bambini miei, perché so benissimo che solo voi potreste trovare questo piccolo cofanetto. Siete sempre stati i miei piccoli impiccioni preferiti, e ci sono cose che nel tempo non cambiano.

Con la presente, vi annuncio che è da poco passato il mio centoduesimo compleanno e che sono stata molto contenta, come sempre, di poterlo festeggiare con voi. Non con tutti, ma con voi, i miei preferiti.
Ma c’è un problema: nonna Mae si è rotta le palle, e lo sapete di che cosa; non lo scriverò, perché siete molto sensibili e potreste rimanerci male.
Centodue anni sono troppi per me che mi annoio in fretta, vi basti sapere questo. E poi, diciamolo, io qui ho fatto tutto quello che dovevo fare, e a volte anche quello che NON dovevo fare.

Scrivo a voi per coerenza, perché con voi mocciosetti ho sempre parlato a cuore aperto, e voi lo avete sempre fatto con me. È stata un’esperienza davvero… figa, come dite voi. Ed è una delle poche cose che mi spiacerà lasciarmi alle spalle, anche se credo che in un modo o nell’altro non ci perderemo mai veramente di vista.

Le foto che troverete insieme a questa lettera dovranno finire in un bell’album di famiglia, uno fatto come si deve, con delle foto decenti e decorose; mi affido al vostro buon gusto e, vi prego, non lasciate che vostro padre interferisca, perché lui di fotografie non ha mai capito un cazzo e nel suo portafogli conserva sempre una mia foto scandalosa, di quando avevo trent’anni… ero spettinata, senza trucco e con gli occhi da fattona. Non escludo di aver fumato qualcosa, può darsi, non mi ricordo, ero in ansia per vostro nonno che era al fronte e dovevo calmarmi in qualche modo…
Non dite niente di tutto questo a quel pusillanime, per carità. Piuttosto, dategli l’unica foto in cui sono da sola, magari si rifà gli occhi.

Per quanto riguarda le nostre foto, so che ci tenete molto, perciò vi autorizzo a tenerle. Siamo davvero bellissimi.

Siete così giovani, bambini miei, e io ho avuto a malapena un ventennio per godermi la vostra compagnia… ma non importa, anzi, è stato bello,  fantastico, e vi ringrazio: avete salvato una vecchietta come me dalla follia, dalla solitudine, dalla malinconia, dalla tristezza.
Siete riusciti a fare ciò in cui i miei figli hanno sempre fallito, ed è per questo che ho in serbo una grossa sorpresa per entrambi nel mio testamento. Parlate pure con il mio avvocato e ammirate il modo in cui tutti cominceranno a scannarsi tra di loro. Tutti ma non voi. Mi sembra quasi di vedervi…

Sapete, adesso che sono arrivata alla fine di questa lettera mi sento molto meglio, meno malinconica e più leggera. Penso che mi farò un bicchierino di brandy in attesa dell’inevitabile…

Vi ho amati molto, nipotini adorati. E sento che sarò in grado di farlo per l’eternità, senza mai stancarmi. Spero che ricambierete.

Un bacio dalla vostra nonna

Mae

 PS:

Rosellina, lo sai che il tuo nome trae origine da un episodio davvero simpatico?

I tuoi genitori erano in casa mia per il week-end quando ti concepirono, e si sentivano in vena di trasgressioni: cominciarono a darci dentro come conigli sopra la lavatrice, con la porta chiusa e la radio accesa a tutto volume, perché a quanto pare “Rosanna” dei Toto *** aveva su di loro un effetto afrodisiaco! Credevano che io non fossi ancora rientrata, e invece ero al di là della porta con le borse della spesa in mano… spalancai l’uscio, incazzata come una iena per il casino che stavano facendo nella mia lavanderia, e il resto è storia…

E tu, Todd, ti chiami così per un’altra ragione che mi piace sempre ricordare…

Quando Rosanna aveva un anno, partimmo tutti insieme per una vacanza nel Montana, e durante un picnic sul prato una famigliola di volpi spuntò fuori da un basco vicino, attirata dall’odore del cibo. Tutti si misero in fuga, io compresa, ma Peter aveva in braccio Rosie e non poteva fare movimenti troppo bruschi…
Ebbene, tua sorella cominciò a ridere e a dimenarsi dalla gioia indicando il volpacchiotto più piccolo ****.

Neanche un anno più tardi, la mamma aspettava te, e io m’imposi per il nome che porti, tesoro mio.

 

Ridemmo tra le lacrime, spalla contro spalla, sopraffatti da tante emozioni che quella lettera aveva amplificato e reso ancora più autentiche di prima.
Ci sdraiammo sul letto per riprenderci, dopodiché Todd ruppe il silenzio per primo.
“Dovremmo andare tutti dall’avvocato, ma senza parlare di questo scrigno. Non subito, almeno…”
“Sì, hai ragione. Nemmeno io voglio dire niente per adesso…”

 

 

Pensandoci bene, nonna Mae è davvero rimasta con noi: ha voluto essere cremata, e le sue ceneri sono state sparse dal tetto della sua casa. Sicuramente è qui, da qualche parte, e non posso negare di sentirmi rasserenata all’idea, per quanto suoni anche inquietante.

A zia Virginia è andato tutto il guardaroba, più i cosmetici, molti dei quali nuovi di zecca, quasi come se fossero stati comprati apposta per lei. Se non ricordo male, c’era un biglietto che accompagnava tutto il corredo, e recitava più o meno così: “Ti voglio bene, zitella mia. Prendi in mano la tua vita.”

A papà e mamma sono andati alcuni antichi mobili – di valore, che io sappia - e gli oggetti d’infanzia di papà. Non vi dico i pianti che si è fatto quando ha riconosciuto il suo primo bavaglio, i suoi pannolini di stoffa, i suoi biberon di vetro…

Non ricordo più cosa abbiano ereditato gli altri parenti, ma forse non era niente di importante.

Il nostro incontro con l’avvocato fu molto breve perché sia io che Todd scappammo a gambe levate una volta informati della nostra fetta di eredità; fu la mamma a farci il resoconto e sì, la nonna aveva ragione: fu un massacro.

La cerimonia funebre non fu niente di che, dato il rito molto breve della cremazione, ma contrariamente ai nostri stessi pronostici, io e Todd non versammo una lacrima: eravamo completamente sereni in mezzo a quelle facce fintamente contrite e luttuose quanto bastava per la buona creanza.

 
Adesso la casa di nonna Mae è la casa delle nostre vacanze, praticamente qualsiasi vacanza: Natale, Pasqua, Giorno del Ringraziamento, ferie estive, week-end liberi, insomma, ci rifugiamo lì da soli o con mamma e papà non appena ne abbiamo l’occasione.
È tutta per noi, solo per noi, e non l’abbiamo cambiata quasi per niente.
È un bel posto, si presenta davvero bene nonostante abbia quasi quarant’anni, ed è in campagna, ma non troppo lontano dalla città.

Mi piace pensare a nonna Mae che sorride da chissà dove mentre mi vede arrivare qui con la mia auto, da sola o con Todd, e mi piace ancora di più pensare a lei che a più di novant’anni ancora percorreva queste strade sterrate e piene di curve con l’acceleratore premuto quasi fino in fondo e le braccia attorcigliate mentre aggrediva il volante e se ne infischiava del servosterzo e del cicalio esasperato della spia della cintura da agganciare…

 

 THE END

 

 

Note:

* : Barry Manilow e il suo pezzo, “Copacabana”, vengono citati senza alcuno scopo di lucro. Se non conoscete la canzone, godetevela qui, è proprio un brano malinconico :P… http://www.youtube.com/watch?v=qEqXtkDT9uM
** : Haze non è solo un nome proprio, significa anche “foschia” ed è un tipo specifico di cannabis.
*** : “Rosanna” dei Toto viene citata senza nessuno scopo di lucro. E’ famosissima, ma ve la linko ugualmente…
http://www.youtube.com/watch?v=z7FoyMek568
**** : il nome “Todd”, di origini britanniche, in passato significava “volpe”.

Il titolo della storia è tratto da una canzone omonima degli ABBA. No scopo di lucro!

Dedico questa storia, scritta di getto e con tanta allegria, a mia nonna Giovanna, che forse non era così trasgressiva come Nonna Mae, ma di sicuro era una grande, mi manca un sacco e mi ha ispirato moltissimo.

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Capitolo 12
*** You don't bring me flowers anymore ***


donne

YOU DON’T BRING ME FLOWERS ANYMORE

 

 

“Jason.
Lo sai che io non vado matta per i fiori. Non ho nemmeno un fiore che mi piaccia più di altri.
Ma se ogni tanto ricevessi un mazzo di rose o di girasoli… non mi dispiacerebbe. Sarebbe un gesto carino che mi farebbe contenta.
Tu mi conosci, no? Me lo dicevi sempre, «Hai un bel caratterino!»…
E allora perché non hai più fatto niente per me?
Sì, è vero, io non sono una persona facile con cui stare: mi ribello, mi divincolo, sono sfuggente, ma faccio tutto questo solo perché ho paura, lo sai che ho paura.
Se solo tu avessi potuto darmi un po’ di conforto anche quando non ero io a chiedertelo…
Se solo mi avessi abbracciata all’improvviso senza che io ti dicessi niente, ma solo perché avevi incrociato il mio sguardo e non ti era piaciuto…
Ti ho sempre fatto trovare un cioccolatino a tavola, ti ricordi? Sapevo che dopo cena ne volevi sempre mangiare uno, perché sei goloso, e io allora mi sono sempre preoccupata di comprare una scatola di quei cioccolatini e di lasciartene uno accanto al bicchiere ogni sera. Avevo tante cose da fare, tante cose a cui pensare, ma il cioccolatino per te non avrei mai potuto dimenticarlo.
Perché io ti voglio bene, Jason, io ti amo. Ti amo e mi prendo cura di te, del nostro rapporto.
Tu non lo fai più.
Non guardarmi così, sai che è vero quello che dico.
Non sono mica stupida, io ho occhio per certe cose.
Io ho occhio per tutte le cose brutte. Non sbaglio mai.
Perché mi hai data per scontata? Quando hai iniziato? Uno, due anni fa? Perché?
Mentre io continuavo a darti tutto di me…
Eppure lo sapevi, lo hai sempre saputo.
Ti dicevo di no, mantenevo le distanze; in realtà volevo che mi stessi vicino e che mi facessi sentire al sicuro.
Mi hai lasciata sola. Hai deciso che eri stanco, che non valeva più la pena chiedermi come stavo e di che cosa avessi bisogno.
Mi hai lasciata qui, a soffrire di solitudine, e guarda a che punto siamo adesso.
Ho continuato a farti avere il tuo cioccolatino del dopo-cena fino a ieri, e potrei ripetere lo stesso gesto anche stasera, con lo stesso piacere di ieri.

 
Ma adesso basta, Jason.
Non pensavo fosse possibile, ma mi sono stancata.
Fa molto male dirlo, mi si spezza il cuore, ma non ho scelta.

 
Tu non mi vuoi più bene.
Hai trovato qualcun altro a cui affezionarti più che a me.
Mi hai messa in disparte.
Mi sento come se fossi in una stanza al buio, una stanza in cui tu hai spento la luce.
E adesso ho freddo, ho paura, sono stanca.

 
Devo decidere se… spegnere la luce, come hai fatto tu con me… o se invece è il caso di gridare più forte, così magari ti renderai conto una volta per tutte del male che mi hai fatto e tornerai ad essere più premuroso con me.

 
Ma chi nasce tondo non muore quadrato.
Si dice così, no?”

 
“Cassie… Perché non ne parliamo e non cerchiamo di risolvere la cosa insieme, come abbiamo sempre fatto…?”

 
“…
Jason.
Sei uno stupido…”

 
“No, non è vero, tesoro… Adesso sei arrabbiata e lo capisco…”

 
“Sono incazzata nera, Jason, Cristo di un Dio.”

 
E così Cassie premette il grilletto.
Lo fece con una sicurezza e una determinazione maggiori rispetto alle sue stesse aspettative.

 

“Quando in una coppia qualcuno dice «Parliamo» non è mai un buon segno.”

 

 

THE END

 

 

Il titolo del racconto è stato “rubato” da una canzone di Neil Diamond e Barbra Streisand. No scopo di lucro.
È stato inoltre di grande aiuto un pezzo dei Flyleaf, “Cassie”, che mi ha dato lo spunto per la protagonista di questa breve storia. Anche in questo caso, nessuno scopo di lucro.

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Capitolo 13
*** Face it all together ***


donne

FACE IT ALL TOGETHER

 

 

Kimberly se ne andò sbattendo la porta, senza neanche aspettare che Keith le chiamasse un taxi.

Marissa fece capolino dalla cucina, le braccia incrociate sotto il seno e l’aria annoiata.
Lui la guardò e dopo qualche istante scrollò le spalle.

“Ok, non era poi questo granché.”
“Ah, tu dici…?”
“Sei tremenda, pulcino, davvero tremenda. Se non avessi ragione ti sgriderei a dovere per la tua sconsideratezza.”
“Non lo fai perché sai che non sarebbe giusto.”
“Infatti, ma in compenso ti chiedo di mostrarti un po’ più disponibile la prossima volta… per favore…”
“Sai già che ci sarà una prossima volta?”
“Per la miseria, Marissa, adesso esageri…”
“Io sono solo prevenuta e ritengo di avere dei buoni motivi per esserlo! È la terza volta in due mesi che porti in casa la donna sbagliata!”
“Ne stai parlando come se avessi fatto entrare dei satanisti in chiesa!”
“Ne sto parlando nel modo più adeguato possibile!”
“Hai quindici anni, non puoi sapere cos’è adeguato e cosa non lo è!”
“Questa poi!!!”

Marissa si irrigidì e lo fissò in cagnesco con il fiato corto e le narici dilatate: si stava trattenendo dal piangere, senza troppo successo.
Keith se ne accorse e automaticamente si sentì in colpa: gli aveva dato il colpo di grazia dopo averlo messo in serie difficoltà nel giro di trenta secondi.

Nessuno a parte lei riusciva a renderlo così vulnerabile.
Ma del resto anche lui conosceva qualche tattica valida per contrattaccare…

“Pulcino? Vieni a sederti qui? Accanto a me?” le chiese gentilmente indicando il divano di pelle su cui si era accasciato poco prima.
Marissa non rispose, si limitò a muoversi verso di lui conservando il suo sguardo truce e pieno di lacrime.
Quando furono seduti l’uno accanto all’altra, Keith la stuzzicò mettendole un braccio intorno alle spalle e avvicinandola a sé con un sorriso; Marissa mugugnò contrariata di fronte al suo ghigno strafottente.
“Il bastone della mia vecchiaia!” scherzò “Non essere arrabbiata, dài…”
“E tu non dire cretinate!” lo apostrofò di rimando la ragazza, inviperita.
“Ok, ok, adesso ci provo… Quanti anni ha il tuo vecchio, Marissa?”
“Cosa?”
“Hai sentito…”
Marissa sospirò alzando gli occhi al cielo.
“Quarantacinque…”
“Esatto. E tu stai cominciando ad essere… una giovane donna, mettiamola così…”
“Papà, ti prego!”
“Dài, fammi finire!” si lagnò lui “Devi sempre interrompermi?!”
L’altra si girò a guardarlo e replicò: “Sei ripetitivo, ti avverto!”
“E tu sei acida, aggressiva e senza un briciolo di umorismo, come tutte le ragazze della tua età che vogliono sembrare più grandi!”
“Ok, basta, oggi ce l’hai con i miei quindici anni!”

Marissa si alzò di scatto dal sofà, si sistemò sgraziatamente il vestito e fece per andarsene in camera sua.
A quel punto Keith fu costretto ad alzare la voce.

“Signorina, ferma dove sei! In questa casa nessuno è mai andato a dormire senza prima aver risolto i suoi problemi!”
Lei obbedì ma alzò la voce a sua volta.
“Io sarò anche acida e stupida e tutto quello che pensi tu, ma la questione è che stasera potevamo essere al cinema o al ristorante o in qualunque altro posto, e invece tu hai voluto farci perdere tempo con una mezza tacca che se n’è andata senza neanche finire la cena!”
“Io non ti ho mai detto che sei stupida!” ribatté l’uomo, alzandosi per andarle incontro.
“Non fai che ripetere che ho quindici anni, come se fosse una malattia, una maledizione!” attaccò lei, respingendo malamente le sue mani che volevano abbracciarla e farla smettere di piangere.

 

Marissa era stata una bambina riflessiva, sorridente con pochi, ma mai aveva avuto la lacrima facile, salvo durante i (tremendi) periodi delle colichette, dei primi dentini e dopo la prima caduta dalla bicicletta.
Una volta iniziata la scuola, aveva cominciato a distinguersi dai propri coetanei per un ingegno fuori dal comune e un senso innato della logica, caratteristiche che comunque non annientavano il suo lato più sensibile.
Un giorno Keith era andato a prenderla a scuola e lei, che allora aveva sette anni, gli aveva raccontato di aver visto “Bambi” in classe e che molti dei suoi compagni avevano pianto al momento della morte della madre del cerbiatto.
“Anch’io ero triste per mamma cerva, papà, ma non ho pianto, lo sai?”
Fiero della sua bambina, la domenica seguente lui l’aveva portata a visitare una riserva naturale, mostrandole famiglie intere di cervi che correvano tra gli alberi o brucavano nei prati.
“Vedi? La mamma di Bambi è qui, non è morta, pulcino mio…”

Papà aveva sempre una soluzione, conosceva tutti i modi immaginabili per renderla felice.

Peccato che da un paio d’anni Marissa, ormai adolescente, avesse cominciato a rattristarsi, arrabbiarsi e piangere assai più frequentemente e facilmente.
E la maggior parte di quegli (apocalittici) episodi si verificavano per colpa di suo padre. Almeno stando alla versione della figlia.

 

Dopo aver rinunciato a prenderle le mani, che non volevano saperne di smettere di schiaffeggiarlo un po’ ovunque, Keith strinse Marissa all’altezza delle braccia, immobilizzandola e facendola arrabbiare ancora di più.
Se solo non fosse stata così minuta – come sua madre – avrebbe potuto contrastarlo e magari sbaragliarlo.
Comunque dovette quasi sgolarsi per sopraffarla mentre protestava sonoramente per essere lasciata in pace.

“I TUOI QUINDICI ANNI MI FARANNO DIVENTARE MATTO! NON CI CAPISCO PIÙ NIENTE!”
La ragazza ammutolì, sbigottita, e lo guardò confusa. Fu allora che lui capì che poteva abbassare i toni per farsi ascoltare.
“Marissa, il tempo passa e io a malapena me ne accorgo… Tu stai crescendo e io sono qui, impotente, all’improvviso non ho più nessuno strumento che mi permetta di avere con te il rapporto che c’era una volta… Inoltre, sono solo. Permetti che ogni tanto voglia ricordartelo?”
“Ma… ma questo cosa c’entra con stasera?” singhiozzò l’altra di rimando.
Keith allentò la presa sulle sue braccia e le appoggiò cautamente le mani sulle spalle, rispondendo: “C’entra, pulcino, perché… tu stai andando avanti e… voleva provarci anche papà, tutto qui.”

Marissa, dopo un istante di esitazione, si lasciò andare ad un pianto liberatorio e abbracciò suo padre, che sorrise intenerito e sollevato.
“Su, su… E’ tutto ok, ce la caviamo ancora piuttosto bene, anche senza la mamma…”
E proprio quando pensava che sarebbe riuscito ad ammansirla…
“Hai provato a sostituire un’ex-borghese nonché neo-hippy con una cameriera biondo platino, una paranoica gelosa e una tua studentessa, papà…”
Glielo disse senza guardarlo, con il viso affondato nell’incavo della sua spalla, infradiciandogli di proposito la camicia.
“Ex studentessa” la corresse lui, pentendosene subito “… Si è laureata sei mesi fa!”
“Smettila!!!”
“Ok, ok! Bè, in effetti avrei potuto essere più giudizioso e selettivo, lo riconosco…”
“Perché hai voluto presentarmele? Sapevi che le detestavo ogni volta…”
“E’ questo il punto, Marissa: avevi dei pregiudizi e volevo tentare di liberartene.”

Si guardarono negli occhi, seri e preoccupati.

“Mia madre mi ha messa al mondo per poi scaricarmi nel giro di tre anni, in nome di una vita in camioncino, guidato da un fattone come lei, con uno spinello in una mano e due neonati di padre ignoto in braccio. Permetti che io abbia qualche riserva sul genere femminile, dato questo scenario squallido?”

Keith fissò sua figlia e le accarezzò una guancia, contento che avesse il suo stesso sguardo.

“Lo so che non è stato facile. Credo che neanch’io la perdonerò mai. Ma al mondo esistono tante persone, tante donne con buone intenzioni e che…”
“Con i tuoi soldi? Con il loro quoziente intellettivo? Qui a Manhattan? Sicuro, papà?”

Da lui aveva preso anche l’ostinatezza e la capacità di avere sempre la risposta pronta.
La sua intelligenza ipersviluppata, in compenso, rimaneva un mistero nelle sue origini, ma ogni tanto tendeva ad attribuirsi il merito anche per quella dote.

“Hai ragione, pulcino” le disse, serenamente sconfitto “Portarti al cinema o al ristorante sarebbe stato più bello e produttivo stasera.”
“Lo so. Ma facciamo un’altra volta: ormai è tardi e abbiamo lasciato la cena a metà…”
“Kimberly non ha nemmeno toccato la carne. Almeno avresti potuto aspettare la frutta prima di cominciare a tartassarla…”
“Papà, era repubblicana e convinta che l’aumento del prezzo del petrolio avrebbe salvato il Paese dal collasso economico. Non meritava neanche una fetta di pane.”
“Almeno nella sua commissione di laurea io non c’ero…”

 

Dopo aver cenato, lavato i piatti e rimembrato insieme i pochi ma intensi momenti della serata con Kimberly, condita dal sarcasmo di lei e dall’imbarazzo di lui, Marissa sbadigliò e disse: “Vado a togliermi questo vestito prima che mi ci addormenti dentro… E’ già un miracolo che lo abbia sfoggiato stasera!”
“Pensavo ti piacesse! Non è quello che ti ho regalato l’anno scorso a Natale?” ribatté Keith.
“Sì, e infatti mi piace, ma ci vuole l’occasione giusta per indossarlo. Una cena con un’idiota non era una di quelle, tutto qui, e infatti credevo che sarei diventata enorme e verde come Hulk per la frustrazione.”
“Allora sarebbe scappata a gambe levate subito dopo gli antipasti!”
“Non sei divertente!”

 

Quando passò di fronte alla sua stanza, con la porta aperta, notò che stava leggendo sotto le coperte alla luce della lampada da notte.
Come ogni sera, entrò e le allungò un bacio sulla fronte.

“Buonanotte, pulcino. Dormi bene…”
“Notte, pà…”

Fece per uscire e lasciarla assorta nella lettura, ma sulla soglia si voltò e tornò indietro per poi accucciarsi al lato del letto; sua figlia lo fissò con un piccolo sorriso, in attesa.

“Allora possiamo dichiarare ufficialmente che… è finito il periodo delle presentazioni forzate.”
“E repentine.”
“E repentine.”
“E sbagliate.”
“Sbagliatissime.”
“Promesso?”
“Prometto, sì” e nel dirlo si mise la mano destra sul cuore, aggiungendo: “Scusami, è che papà è sempre stato un impulsivo, lo sai…”
“Certo che lo so, io stessa sono frutto dei tuoi impulsi giovanili…”
“Uno di quei pochi che ripeterei subito se potessi tornare indietro, sì, l’hai detto!”

Si sorrisero divertiti.

“Tranquillo, papà” lo rassicurò lei, chiudendo il libro senza smettere di guardarlo “Non ti lascio solo nei tuoi casini. Prima o poi entrambi sistemeremo le cose.”

Keith le prese il libro dalle mani per poggiarlo sul comodino, poi spense la luce e nella penombra rimboccò le coperte alla figlia, come sempre, anche se forse stava cominciando ad essere troppo grande per certe cose…

“Grazie, tesoro. Sono d’accordo con te.”

Si scoprì a tossire lievemente per camuffare un insolito tremolio nella voce, ma Marissa aveva già capito che si era commosso e così sorrise al buio, in silenzio, mentre lo sentiva lasciare la stanza.

 

 

THE END

 

 

Per il titolo di questo racconto ho utilizzato una piccola parte del ritornello di “Skyfall”, canzone di Adele su cui, come sempre, non ho alcuna intenzione di lucro!

Postilla opzionale che non mi concedo quasi mai: GRAZIE per aver letto! Mi piacerebbe che vi soffermaste a scrivere un’opinione su questi miei deliri, la prossima volta!

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Capitolo 14
*** Come undone ***


donne

COME UNDONE

 

 

Seduti in casa sua.

Lei finisce il suo lungo discorso, si alza, va vicino alla vetrata che dà sul vuoto e sulla città, scuote il capo, allarga le braccia e ha finito le parole.
Vorrebbe piangere, ma non le riesce. Si limita a piegare le labbra in giù, in una smorfia dubbiosa e disorientata.
Neanche guardare fuori serve a qualcosa.
“Io… non lo so…”

Lui la fissa dal divano e le domanda ingenuamente: “È successo qualcosa? Al lavoro, non lo so, o con le tue amiche…”
“Non è questo il punto!”  lo interrompe l’altra, cercando di mantenere la calma almeno nella propria voce, senza però girarsi a guardarlo.
“Una volta avrei… tirato su un casino per cambiare le cose. Mi sarei persa anima e corpo in una roba come questa! Adesso… non lo so, non ti so spiegare, è come se non volessi più sentire.”
“Ma hai sempre detto di non essere il tipo per queste paranoie, che la tua personalità era troppo forte…”
“Dio, e tu mi sei anche stato ad ascoltare…”
Si mette una mano davanti alla bocca con un gesto stanco e si sente in colpa.

“Non avrei mai voluto farlo anche con te. Mi sa che neanche me ne sono accorta. È peggio di quanto credessi…”
“Ci ragioni troppo sopra, dovresti darci un taglio e pensare positivo!”
Nauseata, si accascia su una sedia vicino al tavolo della sala da pranzo, a pochi passi da lui e dal divano.


“La questione è questa. Per favore, ascoltami bene, perché non ho più voglia di ripeterlo.
Mi sto accorgendo di un cambiamento che non mi piace.
Non ci metto più il cuore. In niente.
Mi sono come stancata. Mi sono chiusa.
Ne avevo abbastanza di soffrire, perciò ho preso e ho fatto una cosa che nessuno si sarebbe mai aspettato da me.
E mi va bene così. È questa la cosa brutta.
Ti rendi conto?”

Lui annuisce lentamente, ma si capisce che è spiazzato.
Lei rincara la dose, animandosi.

“Se io ora uscissi e m’imbattessi in una sparatoria o in una rapina, non avrei paura.
Se qualcuno m’invitasse a cena, non sentirei il sapore di un singolo piatto che ingurgiterei, e risponderei a chi mi parla senza stare veramente ad ascoltarlo, in automatico, mettendo su la faccia più adatta alle circostanze.
Se mi telefonassero per aiutarmi, per parlare di questa merda, io direi di no, rifiuterei, perché non vedo la merda, dove sta il problema? Io non lo vedo. Non lo vedo più.”

Alzando la voce si è fatta rossa in viso, ha contorto le mani e afferrato l’aria con scatti rabbiosi, e senza accorgersene ha iniziato a piangere.
È furiosa.
Lui non dice niente.

 
“Ho paura, ho paura per me” affermò, quasi a voler giustificare il suo pianto “Non me ne frega nulla degli altri, mi importa solo di me. Perché non lo avevo mai fatto prima, e ora non voglio più saperne di nessuno. A parte te. Non voglio più che nessuno si azzardi a prendermi e accartocciarmi. Come se fossi un pezzo di carta. Non voglio più.”

 
Non era così quando l’aveva conosciuta, ma una cosa era rimasta: tutto quello che faceva, lo faceva con il cuore.
L’aveva vista affrontare situazioni e persone, ogni volta con un esito diverso.
L’aveva vista gonfiarsi per la gioia, ma anche avvilirsi per la tristezza, e procedere sicura verso una serena stabilità, per poi cadere, farsi male e raccattare i cocci, suoi e di altri.
Di chi fosse la colpa non lo aveva mai saputo con esattezza, ma di una cosa era certo: i suoi tentativi erano sempre appassionati e sinceri, e finivano sempre per evolversi in una sentenza definitiva e irremovibile.
Avrebbe per sempre amato o odiato con tutte le sue forze, senza mai rendersene pienamente conto.

 
Si alza e l’abbraccia senza dire una parola, perché non ce n’è bisogno, è tutto chiaro.
Sta andando in pezzi, un po’ più in fretta e un po’ più forte delle altre volte, non riesce a rincollarsi da sola.
Lei non ricambia la sua stretta ma ci si rifugia dentro singhiozzando debolmente, irrigidita per la tensione e la rabbia.
Le sembra che piangere sia roba da vittime.

Lei non è una vittima, perché una vittima è sconfitta, è inerme ed è indifesa.
Non è come lei.
Lei è solo molto arrabbiata e frustrata, vorrebbe stare in cima al mondo per dare una bella lezione a chi di dovere, altro che vittima indifesa.

“Non ho voglia di uscire” dichiara guardandolo, scossa ma determinata “Non sono dell’umore adatto e credo che non lo sarò per un po’. Scusami.”
“Se non vuoi uscire, restiamo a casa e facciamo quello che vuoi, stai tranquilla…”
“Scusami se faccio così. Ti giuro che non sono io a volerlo…”
“Lo so…”
“No, non lo sai…”
“Mi fido.”

La cosa più bella di stare con lui – lui il ragazzo, lui il fidanzato, lui la persona – è che non gliene importa niente di avere di fronte una come lei, una che non è quella che sembra, una imprevedibile, una complicata.
L’ha accettata da subito, e amarla è venuto naturale.

Lei prova a sorridergli, si sente un po’ meglio, ha solo bisogno di mangiare e di stare con lui sul divano.
Al resto penserà dopo, con più calma, con il suo aiuto.
Riattaccherà ancora una volta quello che si è rotto e si rialzerà senza sapere cosa fare, a parte che lo farà senza compromessi.

 

 

THE END

 

 

Il titolo del racconto è tratto dal brano “Come undone” di Robbie Williams. No scopo di lucro.

Questo capitolo è dedicato a Mattia. Nessuno sa riattaccare insieme i miei pezzi così bene come lui.

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