I cavalieri di San Giorgio

di allegretto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Come tutto ebbe inizio. ***
Capitolo 2: *** Primo capitolo ***
Capitolo 3: *** Secondo Capitolo ***
Capitolo 4: *** Terzo Capitolo ***
Capitolo 5: *** Quarto capitolo ***
Capitolo 6: *** Quinto capitolo ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 8: *** Settimo Capitolo ***
Capitolo 9: *** Ottavo Capitolo ***
Capitolo 10: *** Nono Capitolo ***
Capitolo 11: *** Decimo Capitolo ***



Capitolo 1
*** Prologo: Come tutto ebbe inizio. ***


Prologo

 

Uao, questo era proprio forte!”, esclamò Michela, quando il tuono esplose fragoroso sopra le nostre teste. Tutti sobbalzammo atterriti.

Dai, Dani, chiudi il computer. Se no, si fuma tutto!”, esclamai, preoccupata.

Erano due ore che infuriava un temporale davanti a casa. Dapprima era al largo sul mare e poi, piano piano si era avvicinato. Le saette disegnavano nel cielo rette spezzate di incredibile bagliore.

Mentre Daniele stava effettuando la procedura di spegnimento del computer, un altro lampo illuminò la stanza come se fuori fosse stato giorno. Istintivamente tutti noi ci abbassammo nell'attesa del susseguente tuono che, però, non avvenne. Trattenemmo tutti il respiro ma nulla accadde. Il silenzio si impadronì della città.

Poi saltò la corrente e tutto attorno a noi divenne buio.

Ah, bene...”, esclamò Francesca, guardando fuori dalla finestra. “E' tutto completamente scuro...”, aggiunse poi.

Anche le luci del porto?”, le chiesi, avvicinandomi.

Si. Non c'è un'illuminazione a pagarla oro...”

Strano, di solito, se succede una cosa di questo genere si accendono le luci di emergenza”, borbottai, mentre armeggiavo nel cassetto della scrivania per cercare una torcia. L' azionai non appena la trovai ma il chiarore che emanava era debole. Cercai di ricordare dove avevo messo le candele.

Chiama un po' tuo papà, Fra!”, esclamò Daniele, agitato.

Si, ok”, ribattè la ragazza, tirando fuori il suo cellulare. “Strano, mi si è spento”, esclamò subito dopo, osservando sconsolata il suo telefono.

Non ti sarai accorta che era scarico”, disse Marta, comparendo nella stanza, dopo essere stata in cucina a prendere dell'acqua.

No, sono sicura che la batteria era al massimo!”, esclamò Francesca, innervosita.

Fra, usa il mio telefono”, le dissi, indicando il portatile posato sulla scrivania.

Ah, ok”, esclamò lei, afferrandolo.

Strano che mia mamma non abbia ancora chiamato!”, esclamò Marta, aprendo la sua borsa per cercare qualcosa.

Anche questo non funziona!”, esclamò Francesca.

Ma come è possibile! Non credo sia scarico anche quello...Fammi vedere...”, disse Daniele, togliendo dalle mani della ragazza il telefono.

Urgh, non va proprio!”

Aspetta, forse non essendoci corrente, non riesce a trovare la linea”, dissi poi, illuminata da un'idea. “Tieni il mio cellulare. E' carico. Era attaccato alla presa, quando è andata via la luce”, dissi, guardando lo schermo del telefono.

Mi resi subito conto che anche quello era spento. Provai ad accenderlo ma non ci riuscii.

Ragazzi, i cellulari non vanno proprio!”, esclamai, cercando di stare calma per non spaventarli ma con poco successo.

Vidi Daniele armeggiare con il suo Iphone, come se solo lui potesse risolvere la situazione perchè dotato di un telefono ultimo modello, in grado anche di pensare e parlare. Scosse il capo, incapace di capire il motivo di quel mutismo elettronico. Anche Marta non riuscì ad avviare il suo e poco dopo, mentre io avevo acceso una candela per illuminare un po' la stanza, ci guardammo tutti in viso. Nei loro occhi vidi solo smarrimento e paura.

Che cavolo sta succedendo?”, chiese Michela, con una flebile vocina e quello fu la misura della sua paura che ci preoccupò ancora di più, visto che di solito la sua voce baritonale era percepita a metri di distanza.

Non lo so”, dissi io, sconfitta.

Andiamo a piedi a casa. Per fortuna non piove!”, esclamò Daniele, afferrando la giacca.

No, aspetta. Non potete uscire. Non ho pile da darvi e fuori non c'è luce. Dovremo aspettare o che torni la corrente o domani mattina...”, esclamai, cercando di essere rassicurante e positiva.

Se mi fossi fatta prendere dal panico, non sarei riuscita a trattenerli in casa. Non sapevo il motivo ma sentivo che se fossero usciti, sarebbe accaduto qualcosa di irreparabile.

Può darsi che tuo papà venga giù a prenderti a piedi. Stessa cosa vale per Marta e Daniele”, dissi io rivolta ai tre ragazzi che osservavano il panorama, desolatamente buio, fuori dalla finestra.

Michela, vuoi andare a vedere se i tuoi hanno qualche torcia?”, chiesi alla ragazza che abitava nel mio stesso palazzo ma in un'altra scala.

Si, va bene”, rispose lei, prontamente. “Francesca, vieni con me?”, domandò, mentre cercava le chiavi di casa.

No, vai piuttosto con Daniele”, dissi io, passando al ragazzo la luce tascabile. “Mi raccomando. Non uscite dal palazzo. Non chiedetemi perchè ma fate come vi ho detto!”, esclamai, mentre i due ragazzi uscivano di casa.

Dieci minuti dopo, Michela e Daniele tornarono con due torce e alcune pile per sostituire le batterie esaurite. Anche i genitori di Michela non si spiegavano il mancato funzionamento di cellulari e telefoni di linea fissa ma diedero il permesso alla figlia di rimanere con noi fino al mattino successivo.

Provai a fare un po' di tè caldo per tutti. Il gas funzionava e ne approfittammo per scaldarci e rilassarci un po'. Fuori le nubi erano sempre minacciose e si era alzato anche un vento imperioso e freddo. Tirai fuori un paio di coperte e aprimmo il divano nello studio, improvvisando un accampamento in stile campeggio.

Dopo aver letto loro un paio di capitoli del 'Signore degli Anelli' crollarono addormentati. Io, incapace di dormire e troppo preoccupata per quello che era successo, mi sistemai nella mia postazione, chiamata familiarmente 'pensatoio' accanto alla finestra della mia camera da letto, e, guardando fuori da essa, cercai di dare un senso a quello che era accaduto.

Intorno alle due di notte mi venne un'idea. Senza elettricità, l'unico contatto con il mondo esterno era la radio a onde corte. Cercai di ricordarmi dove avessi messo quell'apparecchio, vecchio ormai di ventanni. Quando lo trovai, lo accesi e con un paio di cuffiette, iniziai la ricerca di un canale che trasmettesse notizie.

Quello che sentii, mi raggelò il sangue....

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Capitolo 2
*** Primo capitolo ***


Primo capitolo

 

Vivi come se dovessi morire domani. Impara come se dovessi vivere per sempre”

Gandhi

 

I punti di raccolta sono alla Foce, presso l'entrata della Fiera. A Bolzaneto, presso il mercato ortofrutticolo all'ingrosso. A Sampierdarena, nei giardini della Fiumara. A Voltri e a Nervi dai caselli autostradali. Ripetiamo, ci sono state due esplosioni a Roma e a Napoli. Non si hanno notizie sul numero di morti e feriti. E' stato decretata l'emergenza nazionale e si crede che altre città possano subire la stessa sorte. Per questo motivo tutta la popolazione di Genova deve essere evacuata in zone più tranquille”, ripeteva senza sosta la radio e io rimasi a bocca aperta a osservare l'apparecchio come se, da un momento all'altro, avesse potuto esplodermi tra le mani.

Non riuscivo a capacitarmi di quanto fosse successo. Continuavo a ripetermi che era impossibile. Mentre tentavo di trovare un senso a quanto udito e a cercare di delineare un futuro così pieno di incertezze, soprattutto carente di punti di riferimento come la mia casa, i miei libri e la mia carriera, pensai ai miei studenti ai quali avevo dedicato anni di lavoro e dedizione. Ero stata ricambiata ampiamente, visto che anche quelli che avevano terminato gli studi regolari, continuavano a frequentare la mia casa, ma cosa ne sarebbe stato di loro? Se ci fossero stati campi di raccolta, sicuramente ci saremmo persi e quel pensiero mi intristì profondamente.

Alle sei decisi di svegliare i ragazzi. Preparai loro un po' di caffè e diedi loro un paio di biscotti a testa. Nessuno si lamentò, né del fatto che il latte fosse poco né della qualità dei frollini. Mentre albeggiava, decisi di far ascoltare loro il messaggio che continuava a essere divulgato da una radio locale, ma non di getto. Non erano più bambini, era vero. La più piccola era Michela, 17 anni, carattere esuberante, chiacchierona all'inverosimile, un po' sbadata ma in grado di far fronte alle difficoltà con arguzia, molto paziente con i bambini; Marta, 18 anni, seria, sensibile e riflessiva, perennemente con un libro in mano, sempre pronta a citare massime filosofiche e amante degli animali; Francesca, 20 anni, studentessa di scienze naturali e appassionata di zoologia, dallo spirito straordinario, consolatrice, un po' testarda ma con un raffinato senso dell'umorismo;
Daniele, 20 anni, il MacGyver del gruppo, soprattutto in informatica, studente di legge, intelligente, buon osservatore, altruista e anche lui dotato di ottimo senso dell'umorismo. Erano ragazzi maturi per la loro età e io ne ero fiera.
In quella notte, però, la loro vita era cambiata, forse per sempre ed era giusto dar loro il tempo di piombare nell'età adulta con gradualità.

Ho captato con la radio un messaggio che va avanti da tutta la notte. Spiega un po' cosa è successo. E' abbastanza sconvolgente. Ora ve lo faccio sentire. Poi, quando lo avrete assimilato, vi accompagno a casa. Prima Marta, poi Francesca e poi Daniele. Ok?”, spiegai, mentre bevevo l'ultimo sorso di caffè.

Sconvolgente? Cosa vuol dire?!”, chiese Marta, con pallore crescente.

E' avvenuta una cosa che non avrei mai pensato accadesse....la nostra vita è cambiata stanotte e non so se sarà più la stessa d'ora in poi...”, provai a spiegare, cercando di stare calma ma mi si era formato un nodo alla gola che mi impediva di parlare chiaramente.

Daniele dava segni di insofferenza. Voleva andare a casa. Di certo non lo biasimavo affatto. Anche io avrei voluto sapere come stavano i miei cari. Francesca non tradiva alcuna emozione. Era impassibile ma sapevo che dentro di sé era tutta un tremito e agitazione. L'unica tranquilla era Michela. Lei, i suoi genitori, li aveva visti la notte prima. Marta voleva risposte e mi incitò a prendere la radio e a far sentire loro questa notizia così incredibile. Quasi come se io avessi ingigantito la notizia per far torto a loro.

Il messaggio era identico. Lo ascoltarono più volte con crescente ansia e inquietudine. Alcuni con la bocca spalancata dalla sorpresa e dal terrore crescente. Altri con gli occhi inondati di lacrime e il respiro affannoso. Erano stati aggiunti alcuni particolari. “E' obbligatorio recarsi ai punti di raccolta. Chi verrà sorpreso a vagare in città, sarà portato via con la forza. Gli sciacalli saranno passati per le armi non appena sorpresi a rubare. E' stato decretata la legge marziale. Chi vi parla è un funzionario dello stato maggiore”

Ci guardammo tutti in faccia senza parlare. Incapaci di reagire. La parola che girava nelle nostre teste era una sola: 'è un incubo! Qualcuno mi svegli!'

Poi come se qualcuno avesse dato il via, tutti iniziammo a parlare, a fare domande e a disperarci.

Roma? Napoli? Esplosioni?”, chiese Daniele, concitato, iniziando ad andare su e giù per la cucina.

Punti di raccolta? Ma allora dobbiamo andare perché saranno tutti là”, esclamò Marta, pratica.

Dani, cosa è la legge marziale?”, chiese Michela, ad un tratto, mentre si asciugava le lacrime che le scivolavano giù lungo le guance.

Il governo della città e forse del paese è passato in mano militare. Sono loro che decidono!”, spiegò lui, fresco di esame universitario in diritto alla facoltà di legge.

Sciacalli? Passati per le armi?”, chiese Francesca, rivolta sia a me che al suo amico.

Chi ruba nelle case e nei negozi abbandonati viene fucilato!”, risposi io.

Cosa facciamo?”, chiese poi Francesca, alzandosi in piedi, lasciando trasparire una certa agitazione.

Mettiamo in atto quanto detto prima. Magari i vostri genitori vi hanno aspettato o stanno venendo qui. Proviamo ad andare loro incontro. Tanto poi andremo tutti al punto di raccolta”, esclamai. In quel momento sentii passare vicino alle mie gambe il mio gatto e mi resi conto che non sarei mai potuta andare al centro di raccolta senza di lui. Non lo avrei mai lasciato in casa da solo. Piuttosto sarei morta!

Decisi così che dopo aver accompagnato i ragazzi dai loro rispettivi genitori, sarei tornata a casa dal mio micio e aspettato lì il mio destino.

Michela, vai a casa e chiedi ai tuoi cosa hanno intenzione di fare. Semmai potete vedervi tutti alla Fiumara. Ti aspettiamo nel portone. Vai!”, la incitai, dopo essermi ricomposta un attimo.

Lei annuì ed uscì di casa. Gli altri raccolsero i loro effetti personali e iniziarono a mettersi le giacche. Controllammo ancora una volta se il telefono di casa, i vari cellulari e il portatile funzionassero. Nulla. Erano morti.

L'unica cosa che causa il non utilizzo di strumenti elettronici è il contraccolpo di un'esplosione nucleare!”, disse Marta ad un certo punto.

Solo tu potevi saperlo, vero, enciclopedia ambulante!”, esclamò Francesca, prorompendo in una risatina isterica.

Credo lo sapesse anche Claudia ma si è guardata bene dal dircelo. Forse se fossi stata zitta, sarebbe stato meglio!”, replicò Marta, guardandomi, contrita.

Prima o poi dovevamo dirlo. Hai fatto bene!”, la incoraggiai, con un buffetto sulla guancia.

Stavo per aprire la porta di casa, quando udii bussare con veemenza.

Era Michela. “In casa non c'era nessuno. Mi hanno lasciato un biglietto. Sono andati a prendere mia sorella”, disse con difficoltà, visto il fiatone dopo le scale percorse in salita di corsa,

In braccio aveva Artù, il suo cane. “Posso lasciarlo qui?”, chiese Michela.

Annuii, pensando che appena i genitori di Michela fossero tornati, lo avrebbero ripreso.

Uscimmo poco dopo. Michela con noi. Aveva paura a stare da sola. In fila indiana sul marciapiede, nonostante l'assenza di traffico, percorremmo la strada fino a casa di Marta. Non incontrammo nessuno. Il silenzio era assordante. Alcune macchine erano abbandonate sulla carreggiata. Guardai dentro. Tutte con le chiavi inserite nel quadro accensione. Nonostante non fosse freddo per quella mattina di inizio maggio, avevo la pelle d'oca. Giunti al suo portone, dissi alla ragazza di andare su e poi dalla finestra di casa avrebbe dovuto comunicarci quando e dove vederci al punto di raccolta.

Passarono alcuni minuti. Eravamo tutti sotto il suo poggiolo, ognuno perso nei propri pensieri, quando, improvvisamente, la vidi spuntare fuori dal portone. Marta, uno scricciolo di ragazza, magra ma non filiforme, in grado di scalare una montagna e mangiarsi una pentola intera di pasta, era, se possibile, ancora più minuta ed emaciata.

Non c'è nessuno in casa. Ho trovato la porta aperta. Non sembra sia stato toccato nulla ma non è normale che la porta non sia stata chiusa. I miei non lo farebbero mai. Cosa sarà successo?”, chiese con le lacrime agli occhi e il labbro inferiore tremante.

Ok, Marta. Facciamo così. Adesso andiamo su insieme, ti aiuto a prendere un ricambio di abiti e poi torniamo a casa mia. Lasciamo un biglietto ai tuoi così sanno dove trovarti. Ok?”, le dissi, cercando di non far trasparire l'inquietudine che mi stava avvolgendo come un sudario. Lei scoppiò in singhiozzi e io non potei far altro che stringerla fra le mie braccia.

Daniele, per favore, accompagna Francesca a casa. Se non trovate nessuno neanche voi, fatevi una sacca con vestiti comodi e caldi e tornate da me. Lasciate un biglietto con su scritto dove siete. Ok?”, spiegai loro, cercando di essere positiva.

Il giovane annuì. Le ragazze si abbracciarono fra di loro prima di separarsi. Mentre Marta, Michela ed io entravamo nel portone, salutai con un gesto della mano i due che si allontanavano.

La casa era in ordine. Tutto era al suo posto. Mentre Marta riempiva una sacca con delle tute, scarpe da ginnastica e biancheria intima, controllai se la radio in cucina avesse le batterie, poi la accesi e iniziai a cercare la stazione che avevo captato la notte precedente.

C'era sempre lo stesso messaggio. La lasciai accesa, mentre cercavo nei cassetti della credenza batterie, candele e torce.

Posso anche io prendere Asia e portarla da te?”, chiese Marta, in tono supplichevole, mentre teneva in braccio la sua micia.

'Come avrei potuto dirle di no. Come?', pensai, prima di risponderle.

Certo, Marta. Non possiamo certo lasciarla qui, no? Prendi anche la sua lettiera e se ci sono delle scatolette per darle da mangiare!”, esclamai, cercando di essere positiva.

Michela, cerca dei sacchetti, e metti dentro delle coperte e anche dei cuscini”, istruii la ragazza. “Dovremo fare una sorta di accampamento...”, mormorai, poi.

All'improvviso sentii un rumore in strada. Un motore. Potente. Una frenata brusca.

Afferrai al volo Michela che stava andando verso il poggiolo della cucina: “Aspetta, Michela! Possono prenderci per sciacalli!”, riuscii a dirle nell'orecchio. “Continua a cercare le coperte e aiuta Marta. Non fate rumore!”, le dissi concitata, riuscendo anche a spegnere la radio.

Andai dalla finestra del bagno e sbirciai giù di sotto da una fessura della tapparella. Vidi un camion militare. Dei soldati erano scesi giù dal cassone di dietro. Imbracciavano dei mitra. Si aggiravano sospetti come se si aspettassero un'imboscata. In via dei Landi. Certo!

Ad un tratto una donna andò verso di loro. Diceva qualcosa del marito che stava male e per quello che non era ancora andata al punto di raccolta. Un soldato le chiese dove fosse il marito. Lei indicò un palazzo di fronte a quello dove eravamo noi. E poi gli disse l'interno. Il militare le ordinò di salire sul camion e che sarebbe andato lui e un compagno a prendere l'uomo. La donna non parve essere convinta ma il comando perentorio del soldato non le lasciò altra strada che obbedire.

Cinque minuti dopo una raffica di mitra mi fece sobbalzare. Le ragazze accorsero in bagno, spaventate. Feci segno loro di non parlare. Rivolsi la mia attenzione alla strada e al portone davanti al nostro. Vidi uscire i due soldati. Erano impassibili. In quel momento mi resi conto che la situazione era compromessa. La mia vocina interna continuava, imperterrita, a sussurrarmi: 'Non è quello che ci vogliono far credere...'

Che diavolo sta succedendo?”, esclamarono all'unisono le due ragazze, di nuovo sull'orlo delle lacrime.

Non parlate! Finite quello che stavate facendo....”, risposi loro. “Dobbiamo aspettare che se ne vadano”, aggiunsi, poi, sottovoce.

Quando il camion si allontanò con il sottofondo delle urla della donna che non si capacitava della morte del marito in quel modo così violento, decidemmo di uscire. Marta riuscì a trovare il suo paio di chiavi e chiuse così la porta, dopo essersi accertata che le giacche e i documenti dei genitori fossero assenti dalla casa. Segno che loro due fossero usciti dalla casa di loro spontanea volontà. Nel trasportino, perfino, Asia, era tranquilla. Come se avesse compreso che il miagolare sarebbe potuto essere pericoloso.

Rifacemmo la strada velocemente, nonostante i sacchetti pesanti che avevamo con noi. Nel passare accanto a una latteria, fui tentata di entrare e prendere del latte e altri biscotti. Non avevo tante scorte alimentari in casa. Se i ragazzi si fossero fermati per un po' a casa mia, cosa avrei dato loro da mangiare?

Marta, Michela, state qui e osservate la strada ma soprattutto non parlate e ascoltate in modo da sentire se dovesse arrivare il camion di prima. Vado dentro a prendere del latte. Ok?”, spiegai loro, mentre posavo una borsa di tela in terra.

La vetrina era già stata sfondata da qualcuno che aveva avuto la mia stessa idea. Trovai del latte a lunga conservazione. C'era del latte fresco ma sicuramente era già andato a male, visto già le dodici ore di black-out passate. Presi dei biscotti, delle fette biscottate, della marmellata e dei barattoli di verdura sotto olio. Misi tutto dentro a una borsa che trovai dietro al bancone e tornai fuori.

Le ragazze erano terrorizzate. Non volevano stare da sole. Era comprensibile. Ci incamminammo alla svelta e ben presto arrivammo dal mio portone. Avrei voluto andare incontro a Francesca e Daniele ma sapevo che se la sarebbero cavati anche da soli. Dovevo, solo, avere pazienza e attendere fiduciosa.

Troppo abituati all'uso dell'ascensore, arrivare al quinto piano, tramite le scale, fu un'impresa ardua ma alla fine riuscimmo a farcela con un po' di fatica.

Artù si era acciambellato sul divano mentre Mr Churchill (ebbene sì, il mio gatto dal nome altisonante) dormiva accanto a lui. Mi venne improvvisa la voglia di far loro una foto ma poi mi ricordai che il mio cellulare era inservibile!

Decidemmo di trasformare la mia camera da letto in un immenso accampamento, fatto di coperte distese per terra e cuscini messi alla meno peggio. Lo studio doveva rimanere intatto per permettere un certo senso di libertà a coloro che volessero leggere, scrivere o comunque rilassarsi un attimo. La cucina e il bagno con la loro funzione originaria. Impiegammo più di due ore a mettere a posto e mentre ci rilassavamo, sorseggiando una tazza di tè, sentimmo bussare alla porta.

Aprii la porta, trovandomi davanti Daniele e Francesca. Erano sconvolti. Dai loro bagagli, compresi che non avevano trovato nessuno nelle loro case. Non dissi nulla. Li feci sedere in cucina, diedi loro un po' di quella bevanda fumante che stavamo bevendo noi con tanto zucchero e aspettai che mi raccontassero cosa avevano visto. Sperai, in cuor mio, che non fossero stati testimoni di quello che era accaduto a noi ma dalle loro espressioni, avrei giurato che avessero assistito ad eventi ben peggiori dei nostri!

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Capitolo 3
*** Secondo Capitolo ***


Secondo Capitolo


 

'Nel corso di un incendio nella foresta, tutti gli animali fuggivano tranne un colibrì che volava in senso contrario con una goccia d'acqua nel becco.

“Cosa credi di fare, tu?”, gli chiese il leone.

“Cerco di spegnere l'incendio!”, rispose il piccole volatile.

“Con una goccia d'acqua?”, ribatté il leone con un sogghigno d'irrisione.

Il colibrì, proseguendo il volo, rispose: “Io faccio la mia parte!”

(da una favola africana)'


 

 

“E quando ho visto quell'orda di ragazzini dentro al supermercato...”, si interruppe Francesca, sorseggiando il suo tè, preparato con un scaldavivande a candela, che dapprima ammuffiva in uno sportello della credenza e invece, in quel momento, era diventato prezioso quanto l'oro.

“Vai avanti, Fra!”, la incalzai, curiosa di sapere cosa avesse visto.

“Stavano buttando giù gli scaffali! Ti rendi conto? Quella roba ci potrebbe servire nel caso fosse accaduto davvero l'imponderabile!!”, si infervorò Francesca, in un modo che non l'avevo mai vista. Certo, ancora stentava a credere a quanto accaduto, ma già il fatto che cominciasse ad avere una simile reazione era un passo avanti.

“Cosa hai fatto tu?”, le chiese Michela, incredula.

“Quando ho visto uno di loro, aprire le bottiglie dell'acqua e spargerle per terra, l'ho preso per la giacca e gli ho detto di smetterla!”, rispose lei. “E' come se avessi parlato al vento. Non mi ha neanche degnato di uno sguardo! E' tornato dentro a prendere altre bottiglie....”, aggiunse, poi, sconsolata.

“Ma in quanti erano?”, chiese Marta, allibita.

“Non lo so, Marta. Forse una cinquantina...”, rispose lei, incerta.

“Una cinquantina?!”, esclamammo Michela, Marta ed io all'unisono.

“Si, vi dico che tutta la strada era piena di ragazzini che saltavano, ballavano, come se avessero detto che la scuola era finita per sempre! Beh, in effetti è così...”, replicò la ragazza, cercando di dare un senso a quello che aveva visto.

“Io sono andato dentro. Era tutta una devastazione. Lo scaffale dei liquori completamente saccheggiato e alcuni ragazzi erano sdraiati in terra. Chiaramente ubriachi!”, esclamò Daniele, incapace di comprendere.

“Ma questo è un incubo!”, sbottò Michela.

“Continuate a raccontare, ragazzi”, li incalzai nuovamente.

“Sono andata su verso casa mia. La strada è intasata da macchine, lasciate in mezzo alla strada, molte con gli sportelli aperti come se le persone fossero uscite di corsa. In una ho visto un bambino piccolo che piangeva. Era legato a un seggiolino. Non sapevo cosa fare...”, rispose Francesca, in un crescendo di ansia e terrore.

“Lo hai lasciato lì?”, chiese Michela, con orrore.

“E cosa dovevo fare?”, replicò lei, stupita per quella domanda. “Non potevo di certo prenderlo. E se fossero arrivati i suoi genitori? E dove lo mettevo, poi?”, aggiunse poi.

“Giusto. Magari si può andare a vedere se qualcuno lo ha preso oppure no”, dissi io, cercando di capire quell'immenso caos che era diventata quella situazione.

“Poi, lui ed io ci siamo lasciati”, spiegò la ragazza indicando il suo amico che annuì.

“Il mio palazzo è deserto...anche qui molte porte aperte....in casa mia non ho trovato nessuno...”, spiegò Francesca, con fatica. “Quando sono tornata indietro, ho incontrato Matteo. Il ragazzino di terza media. Aveva lo zaino pieno zeppo di lattine di coca-cola e merendine. Mi ha detto che i suoi genitori, quando è passata la macchina con l'altoparlante, invitando tutti ad andare alla Fiumara per essere evacuati, sono scesi in strada. Tornati a casa, si comportavano in modo strano, come se fossero caduti in una sorta di ipnosi, e gli hanno detto di non muoversi di lì e che sarebbero tornati subito. Non li ha più visti. Lui ha detto che ha cercato di andare giù ma in Via Cantore ci sono i camion dell'esercito e si è trovato paura ed è tornato su...”

“Ha fatto bene. Sapessi cosa fanno quelli dell'esercito...”, disse Marta, con lo sguardo atterrito da quello che aveva visto prima.

“Ma cosa c'entra l'esercito? E dove sono finiti tutti?? Non è possibile che i nostri genitori se ne siano andati di loro spontanea volontà, abbandonando noi qui e soprattutto i bambini, vero???”, chiese Francesca, lasciandosi travolgere dall'emozione.

Michela e Marta, d'impeto, la abbracciarono e anche loro si fecero prendere dallo sconforto. Le lasciai un attimo sfogarsi. Era naturale. Le loro famiglie, le loro vite, tutto era cambiato.

“Daniele, tu, cosa hai visto?”, chiesi a lui, mentre le ragazze piangevano.

“Fino a casa mia la stessa scena. Macchine abbandonate, valigie, borse lasciate sui marciapiedi, e alcuni bambini che vagavano in cerca della loro madre. Scene strazianti. Ho visto un paio di miei amici. Mi sono fatto forza e ho detto loro di radunare tutti quei bambini nel cortile della scuola elementare, nel caso fosse stata chiusa di spaccare le vetrate per farli entrare dentro”, esclamò lui, con lo sguardo perso nel ricordo.

“Casa mia era deserta. Né i miei genitori, né i miei nonni”, aggiunse poi, sconsolato. “Ho preso quello che avevi detto. Ho riempito uno zaino. Poi ho chiuso a chiave e sono uscito”, terminò infine.

“Hai visto se quei tuoi amici hanno fatto quello che gli avevi chiesto?”, gli domandai.

“Quando sono uscito, quei due bimbi non li ho più visti. Non c'era nessuno per la strada e così ho pensato che mi avessero dato retta”, rispose lui.

Erano le due del pomeriggio. C'era un bel sole caldo e invitante. Decisi quindi di avventurarmi fuori e cercare di capire cosa diavolo fosse successo.

“Ragazze, su, adesso basta. Dobbiamo cercare di capire se altri ragazzi della vostra età sono vivi e se si, come organizzarci”, cercai di farle smettere di piangere e dare loro un senso a quella nuova vita.

“Quando siete venuti giù avete visto altro?”, chiesi ai due ragazzi, mentre passavo a Michela dei fazzoletti di carta.

“Ho visto Marco fuori dal bar, quello vicino al giornalaio. Era insieme a degli altri ragazzi che conosco. Stavano bevendo. Gli abbiamo detto se facevano qualcosa per evitare che tutta l'acqua dell'emporio fosse sprecata, ma non mi è sembrato molto ricettivo. Ho aggiunto che stare lì ad ubriacarsi non aveva molto senso ma ha replicato che finalmente poteva fare quello che voleva!”, rispose Francesca, cercando di ricomporsi. “Non so perché ma non gli abbiamo detto che venivamo da te”, aggiunse Daniele, mentre finiva di bere il suo tè.

Marta e Michela raccontarono, poi, cosa era accaduto durante la nostra parte di avventura e gli sguardi atterriti degli altri due furono eloquenti. La scena dell'uccisione dell'uomo suscitò in tutti noi un brivido e anche al coriaceo Daniele spuntò una lacrima.

“A questo punto preferirei fosse un incubo davvero!”, esclamò Michela. Non potemmo fare altro che essere d'accordo con lei.

Cercai di lasciarli un po' soli, a scambiarsi opinioni e sensazioni. Quelle dodici ore erano passate troppo in fretta e quello che era successo era stato talmente tanto repentino che non eravamo ancora in grado di comprenderlo o assimilarlo del tutto. Misi a posto nello studio e sistemai un plaid sul divano dove si accoccolarono tutte le bestiole che avevamo raccolto fino a quel punto. Nessuno di loro si ribellò alla presenza degli altri. Già quello era indice di qualcosa di strano nell'aria,

Tornai in cucina una mezz'ora dopo. Erano più tranquilli i ragazzi come se essere in quel luogo così a loro familiare ed essere tutti insieme gli avesse fatto dimenticare l'orrore appena visto o sentito.

Francesca tirò fuori dal suo zaino la foto che aveva fatto con i suoi attori preferiti qualche settimana prima a Roma, ricordo di un passato ormai perso per sempre, la lisciò perché stropicciata e la guardò con espressione sconsolata. “Chissà cosa è successo negli Stati Uniti?”, mormorò poi.

“Coraggio, Fra. Vedrai che riusciremo a scoprire cosa è accaduto!”, affermai, risoluta. “Adesso, andiamo a vedere se possiamo convincere quelle teste d'uovo dei più grandi a darsi da fare piuttosto che stare tutto il giorno a fare baldoria!”, aggiunsi, prendendo la giacca e le chiavi.

Daniele decise di rimanere in casa. Troppo sconvolto per poter venire con noi. Disse che avrebbe provato a cercare qualche stazione radiofonica estera e solo lui avrebbe potuto trovarla. Gli raccomandai di provare a dormire un po' e tenere d'occhio il nostro piccolo zoo.

Mentre scendevano le scale, sentii un bambino piangere. Cercai di ricordarmi tutti i piccoli che abitavano nella mia scala o nell'altra. Mi girai per chiedere a Michela se nella sua scala ci stessero altri bimbi, quando sentii venire su qualcuno per le scale. Non parlammo. Agimmo di impulso. Andammo su abbastanza velocemente da non fare rumore. Giunti al mio pianerottolo, bussai piano alla porta. Daniele la aprii lentamente ed entrammo dentro. Era percepibile una persona che saliva le scale con difficoltà. Michela, nella fretta di entrare, diede un colpo alla porta, la quale si aprì di scatto e andò a sbattere contro il muro. Fu inevitabile il suo mugolio di dolore che, però, si sparse per tutta la scala, e susseguente fu la sua imprecazione: “Cacchio!”

Rimanemmo basiti. Quando riuscii a ritrovare un attimo di consapevolezza, chiusi la porta ma riuscii a sentire il nome 'Michela' echeggiare nella scala. La voce la riconobbi subito e mi si allargò il cuore.

Uscii sul ballatoio e vidi Federico, in fondo al primo pezzo di rampa che costituiva l'impianto della scale tra un piano e l'altro. Mai visione di quel ragazzo fu più paradisiaca. Anche lui con un trasportino, uno zaino e un cane a guinzaglio.

Federico aveva 20 anni e i suoi capelli castano chiari come il pizzetto, mettevano in risalto i suoi occhi verdi. Era molto ammirato dalle ragazze, soprattutto Michela e Marta che gli avevano dato l'appellativo di 'Maestro' per accentuare le sue conoscenze accademiche.

“Lo sapevo! Lo sapevo che tu eri rimasta! Non poteva essere altrimenti!”, esclamò lui, facendo gli ultimi scalini di corsa, quasi l'avermi visto gli avesse dato il dono di poter volare!

“Vieni dentro!”, dissi, esterrefatta.

Dopo essersi calmato e aver sistemato un po' la sua roba e soprattutto ridacchiato al vedere il nutrito gruppo di gatti e cani che aveva preso possesso del mio divano, Federico si accinse a spiegare la sua parte di storia.

“Dovrei intitolarla 'Cronache dalla parte bassa di Sampierdarena!', esclamò, quando gli chiedemmo come era la situazione giù.

“Un delirio! Ecco cosa è...”, iniziò. “Non so come dirlo ma sembra che ogni adulto sia sparito o meglio quasi tutti, visto che tu”, indicando me “sei ancora qui con noi. E io lo speravo ardentemente”

“Secondo te, cosa è successo?”, gli chiesi.

“Non ne ho la minima idea. Ho sentito cosa dice la radio. Se fosse stata un'esplosione nucleare, a quest'ora non ci saremmo più. Roma sarà anche a seicento chilometri ma in pochi minuti le radiazioni sarebbero arrivate qui”, rispose, sconsolato.

“Che è accaduto stanotte?”, chiese Daniele.

“C'era un camion dell'esercito che girava per via Walter Fillak e con un altoparlante diceva di andare alla Fiumara. Tutti dovevano andare tranne bambini e ragazzi fino a 21 anni che, invece, dovevano rimanere in casa, per la loro sicurezza. Ho provato ad andare giù ma hanno voluto vedere i documenti e quando hanno visto che non avevo ancora compiuto gli anni mi hanno rimandato su. Chi aveva i bambini piccoli li hanno fatti salire sui camion ma mentre venivo su ho incontrato alcune ragazze che uscivano dal supermercato qua sotto, dalle scalette. Avevano carrelli pieni zeppi di bottiglie d'acqua, pannolini e omogeneizzati e mi hanno detto che i giardini della Fiumara sono diventati un enorme asilo nido”, spiegò il ragazzo, concitato.

“Perchè lasciare qui i bambini? Non ha senso!”, esclamò Marta. “Moriranno se nessuno si occuperà di loro”, aggiunse poi, alzandosi in piedi e andando verso la finestra. Il suo sguardo era fisso sulle tre torri che costituivano il lotto dove sorgeva il centro commerciale, noto appunto, come la Fiumara.

Michela iniziò a piangere. Silenziosamente. “Mia nipote....sicuramente sarà giù alla Fiumara....ha due anni. Non può stare da sola....Devo andare giù....”, cercò di dire tra le lacrime. Poi si alzò in piedi di scatto. “Chi viene con me?”, chiese, prendendo la giacca.

“Veniamo tutti, Michela!”, esclamai io.

“Aspetta, Claudia. Dal bar, qui vicino, ho incontrato Simone. Sta in negozio per evitare che venga saccheggiato. Ha detto che ha pile e torce e il bar è dotato di bombole di gas per cui se abbiamo bisogno di fare da mangiare lui lo mette a disposizione. Bisognerebbe avere un po' di rifornimento di acqua e viveri. Magari Daniele ed io possiamo occuparci di questo mentre voi andate giù a vedere. Ok?”, disse Federico, girandosi verso Daniele per avere la sua approvazione e poi verso di me.

Annuii. “Si, Fede, perfetto. Bisogna organizzarci”, esclamai ma poi mi bloccai. Si sentiva chiaramente un altoparlante giù nella strada.

Dalle 20 fino alle 6 di domani mattina ci sarà il coprifuoco. Chiunque verrà sorpreso all'esterno sarà portato via. Rimanete in casa. Chiunque venga sorpreso nei negozi a rubare sarà arrestato!”, continuava a dire la voce amplificata dal megafono.

“Come pensano possiamo mangiare, se non andiamo a rubare nei negozi?”, sbottò Francesca, esasperata.

“Non capisco proprio! Perché portare via gli adulti e lasciare i bambini a morire di fame...”, ribatté Marta. “Come se fosse più semplice se la morte fosse causata dall'inedia e non dalla mano dell'uomo...”, aggiunse poi.

“Mi ricorda quel film che abbiamo visto al cinema a gennaio”, esclamò Michela. “La chiave di Sarah...”, spiegò poi.

“La deportazione degli ebrei francesi”, disse Federico, colpito dalla rivelazione. “Portavano via i genitori e strappavano loro i bambini per non doverli accudire durante il viaggio fino ai campi di concentramento, per non rallentare la loro marcia...”, concluse poi, guardando me. Io annuii scioccata da quella scoperta.

“Ma noi non permetteremo che ciò accada. Vero?”, disse, con forza, Daniele.

“Se riusciremo a fare un piano degno di questo nome, no. Non lo consentiremo!”, esclamò Francesca con determinazione.

“E allora diamoci da fare!”, replicò Marta, abbracciando le sue amiche e andando verso la porta per uscire incontro alla loro nuova vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Terzo Capitolo ***


Terzo Capitolo

 

"Per me si va ne la città dolente,per me si va ne l’etterno dolore,per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore: fecemi la divina podestate, la somma sapienza e ’l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose createse non etterne, e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate".

(vv. 1-10 Canto III – Inferno)

 

 

Avevamo appena passato il ponte della ferrovia e stavamo attraversando la strada per andare dai portici, in direzione della Fiumara, quando sentimmo un forte brusio. Come di numerose api in piena attività. Accelerammo il passo. Il rumore si fece sempre più forte, finché dall'attraversamento pedonale regolato da un semaforo, ormai inutile, fummo travolti da un vocio assordante.

La drammaticità della situazione ci apparve in tutta la sua magnificenza. Migliaia di bambini vagavano per i giardini del complesso commerciale. La maggior parte di loro non erano neanche in grado di stare in piedi. Rimanemmo impalati davanti a quello spettacolo, incapaci di proferire parola. L'istinto ci suggeriva di scappare a gambe levate e nessuno ci avrebbe biasimati per tale atto.

Ci guardammo un attimo. Leggevo nei loro occhi paura, smarrimento ma anche e soprattutto determinazione. Non ci fu bisogno di incoraggiarle. Francesca, Michela e Marta si mossero all'unisono ed entrarono in quel girone infernale!

Cominciammo a vagare tra quei bimbi, la maggior parte di loro ben al di sotto dei due anni. Molti erano sdraiati, alcuni dormivano, molti piangevano o si dondolavano catatonici. Era uno strazio!

“Come faccio a trovare Aurora? Sono troppi e abbiamo solo un paio d'ore prima del coprifuoco!”, esclamò Michela disperata, continuando a guardare tutte le bimbe con i capelli biondi.

“Continua a cercare, Michela!”, la incoraggiai.

“Vado a vedere dentro. Magari c'è qualcuno che ci può dare una mano!”, disse Francesca.

“Ok, noi continuiamo a guardare qui”, dissi io, indicando quella marea di piccoli esseri. “Chissà da quanto è che non mangiano e non vengono cambiati. Come facciamo stanotte a lasciarli qui....”, singhiozzò, ad un tratto, Marta.

“Non so come faremo, ma dobbiamo trovare un modo!”, esclamai, abbracciando la ragazza.

Michela si era un po' allontanata. All'improvviso si mise a gridare. La vidi afferrare una bambina ma poi la rimise giù, girandosi verso di noi e scrollando la testa in segno di diniego. Era chiaro, non era sua nipote!

“Forse potremmo metterli tutti dentro. Sicuramente dovremmo trovare coperte dentro nei vari negozi. Se stanotte staranno qui fuori, non sopravviveranno!”, esclamò Marta.

In quel mentre uscì Francesca.

“Ci sono dei ragazzi dentro. Alcuni di loro sono fratelli o sorelle dei bimbi qui fuori. Non sanno cosa fare. Hanno cercato di portare alcuni bambini dentro ma non sanno dove metterli, non sanno cosa dar loro da mangiare o come cambiarli. Ci vuole qualcuno che li coordini. Che ne dici se me ne occupo io?”, chiese la ragazza, risoluta.

“No, nessun problema, Francesca. Anzi, secondo me, sei la persona adatta a questo ruolo!”, esclamai, sicura.

“Marta, che ne dici, le dai una mano?”, chiesi poi rivolta all'altra ragazza.

“Si, certamente. Aiuto, adesso, Michela a cercare la sua nipotina, poi la raggiungo!”, rispose lei, decisa.

Ok. Andate. Faccio il giro di tutto il perimetro. Voglio vedere questo delirio fin dove si estende...”, esclamai, prima di allontanarmi.

Il parco urbano che era stato costruito attorno al centro commerciale si estendeva per quasi ventiseimila metri quadrati ed era stato la prima area verde costruita a Genova dopo cento anni. Snodato lungo una parte della ferrovia verso il ponente, le varie zone erano collegate da vialetti pedonali e piazze tematiche, con ricca e accurata vegetazione, fontane e giochi d’acqua, in modo tale che creasse un unico elemento paesaggistico tra il parco e gli spazi aperti dei vari settori. Un'opera urbanistica non indifferente.

In quel momento mi sembrò proprio di essere Dante che iniziava il suo viaggio nel mondo dell'oltretomba. Tutto il perimetro era invaso di bambini più o meno piccoli, abbandonati al loro destino e incapaci di comprendere che se qualche anima pia non si fosse accollata quel problema assai spinoso, molti di loro non sarebbero arrivati al giorno dopo.

Sperai ardentemente che Francesca, la quale aveva già dimostrato in passato doti di organizzatrice di eventi, fosse in grado di diventare il 'Virgilio' dell'occasione, in quanto guida e ispiratrice carismatica di altri giovani, e riuscisse nell'intento di salvare più vite umane possibili.

Tornai indietro. Cercai di non fermarmi ogni tre secondi a confortare ogni piccolo per risparmiare tempo prezioso. Erano le quattro e mezza. Avevamo più o meno tre ore per cercare di portare dentro al centro commerciale più bambini possibile. Sapevo in cuor mio che non ci saremmo riusciti ma non avevo scelta. Dovevamo provare.

Sul piazzale antistante l'entrata est del centro commerciale, vidi alcuni ragazzi che andavano e venivano. Chi entrava aveva due bambini in braccio, chi usciva nessuno. Segno dell'inizio dello spostamento dei piccoli.

La voce squillante di Michela sovrastava tutti. Sentivo che stava parlando concitata con qualcuno. Il suo tono era raggiante. Forse aveva trovato Aurora. Seguii le voci. Erano nel corridoio più interno. Questo era a forma di una grande C dove nel braccio più corto verso l'uscita da dove ero entrata io, c'era una grande scrivania bianca, una sedia, una grande lanterna a luce solare e Francesca che dava istruzioni a numerosi ragazzi. Indicava loro cosa prendere dai negozi, dove mettere i bambini e dove posizionare i vari oggetti. Insomma quello che avevo sperato. Mi sentii rincuorata. Forse ce l'avremmo fatta!

Stavo per chiedere a Francesca come potevo aiutare, quando fui assalita da Michela.

“Claudia! Claudia! Ho trovato Aurora! Ho trovato Aurora!”, gridò la ragazza allegra

“Fantastico, Michela! Te l'avevo detto che l'avresti ritrovata!”, esclamai, felice.

Mi girai per abbracciarla, quando dietro di lei, vidi Valeria. La sorella di Michela. Una donna adulta! Il primo adulto che vedevo da più di dodici ore....

“Valeria! Che piacere!”, le dissi, commossa. “Ti sei salvata! Come hai fatto?”, aggiunsi, stringendola tra le braccia.

“Mio marito mi ha spinto qui dentro. Con la bambina...Ci siamo rifugiate in un bagno e abbiamo atteso finché i camion dei militari non sono andati via...si è sacrificato per me e sua figlia!”, raccontò fra le lacrime.

“Ci sono altre persone con te?”, le chiesi, quando si ricompose un poco.

“Due madri sono riuscite a nascondersi, dove ero io. Non so se ce ne sono altre. Stanno dando una mano ai ragazzi a sistemare dei giacigli per i più grandi!”, rispose lei.

Annuii, sollevata.

“Fra, come è la situazione?”, chiesi alla ragazza.

Stiamo liberando i negozi che sono i più grandi vicino all'entrata. Lì sistemeremo i più piccoli. Cinque ragazzini sono nei negozi di puericultura a cercare lettini e box per metterli a dormire. Bisognerebbe che tutti quelli che ho visto su in c.so Martinetti venissero giù ad aiutare, invece di stare là a fare i cretini...”, esclamò Francesca, esasperata. ”Sto cercando di fare un elenco di nomi e cognomi dei bambini o almeno di chi li conosce e in base a dove li mettiamo, registro l'identità”, spiegò lei. “C'è un altro problema, però. I pannolini che sono qui non bastano. Valeria e le altre signore li avevano già presi. Tra quelli recuperati qui nel centro riusciremo a coprire solo fino a domani mattina. Poi non so cosa useremo...”, aggiunse, sconsolata.

“Bisognerebbe andare a cercare negli altri supermercati qui vicino”, dissi io, cercando di ragionare. “Vado a vedere in quello che si trova qui a due passi...”, aggiunsi.

“Claudia, una cosa importante. Probabilmente non avete incontrato militari venendo qui. Gli adulti vengono sistematicamente portati via. Se si rifiutano, vengono fucilati sul posto. Ho visto un sacco di persone oggi fare quella fine lì per la strada. Se esci fuori e non ti accorgi di loro...”, esclamò Valeria, concitata.

“Il rumore dei camion lo conosco bene, se lo sento mi nascondo. Tranquilla. Grazie”, le dissi, rassicurandola.

“A volte vanno anche a piedi...sono in due, massimo in tre. E' strano. Oggi, hanno visto i ragazzi che cercavano di organizzarsi e iniziavano a portare dentro i bambini. Hanno chiesto loro di non portare fuori la roba dal centro perché se no potevano essere considerati sciacalli ma non li hanno ostacolati. Invece se vedono adulti li costringono ad andare con loro oppure gli sparano...non capisco proprio il senso di lasciare qui tutti 'sti bambini...”, replicò lei, sconcertata.

“Valeria, rallentano la marcia i bambini. Sono d'impaccio, costringono i militari a dar loro assistenza e gli adulti sono più restii a fare le cose se devono stare a dietro ai bimbi...perciò è molto più semplice abbandonarli al loro destino!”, spiegò Michela a sua sorella con una calma e una lucidità impressionante.

“Non ho parole. Come sei giunta a questa spiegazione così inaudita?”, chiese lei, allibita.

“I nazisti agivano così...”, rispose la ragazza.

La paura stravolse il viso della donna. Nei suoi occhi passò un velo di terrore. Cercò di non darlo a vedere ma lo avevo percepito. Aveva capito che da quella situazione difficilmente ne saremmo usciti indenni.

Cominciai a fare un giro fra i vari negozi per vedere quello che sarebbe stato utile alla bisogna. Rimpiansi di non poter avere un cellulare funzionante per comunicare con Federico e Daniele, quando nel passare davanti al negozio di elettronica, desolatamente pieno di roba inservibile, fui fulminata da un'idea. Se andavano le radio a transistor, forse potevano funzionare le rice-trasmittenti.

Mi fiondai dentro e iniziai a cercare su tutti i vari scaffali. In fondo le trovai. Ce n'erano di molti tipi. Iniziai ad aprire le confezioni e a usare gli apparecchi per vedere se funzionavano. Quelle meno sofisticate, si accendevano. Andavano a batterie. Cercai un contenitore per metterne dentro quante fosse possibile. Poi presi tutte le pile e le torce che trovai ed uscii.

Raggiunsi le ragazze e feci vedere loro come usarle. Cercai un canale tranquillo, lontano da quelli ufficiali. Nella guida all'interno di una scatola c'era un serie di codici e canali da evitare, in quanto usati dalla polizia o dai militari. Ringraziai mentalmente quel tecnico scrupoloso che aveva redatto quella lista. Ne tenni alcune con me per poterle consegnare poi ai ragazzi quando li avrei visti quella sera.

“Fra, io torno su. Tu sei vuoi rimani qui con le ragazze, Valeria e le altre donne. Finite di sistemare. Ci vediamo domani mattina appena finisce il coprifuoco. Ok?”, le dissi, guardando l'orologio. Mancava un quarto alle sei. Forse sarei riuscita ad andare fino in c.so Martinetti a comunicare a quegli scellerati di andare a dare una mano lì dove c'era bisogno!

Lei annuì. “Preferirei venire su con te ma so che il mio posto è qui!”, rispose lei, un po' titubante.

“Lo so. Sei coraggiosa e preziosa. Domani ti farai dare il cambio da qualcuno e verrai su a darti una rinfrescata e a dormire qualche ora. Ok?”, le dissi, dandole un buffetto sulla guancia.

Annuì ancora, un po' più convinta. Mentre andavo via, incrociai Marta e Michela che trasportavano un lettino. Erano stanche, accaldate ma con uno cipiglio che se un soldato avesse detto loro qualcosa, lo avrebbero incenerito con lo sguardo. Dopo averle salutate, e abbracciate, andai via ghignando pensando a quel povero soldato.

Stabilii un record di percorrenza, arrivando in quella strada che mi ero prefissata di raggiungere, in meno di mezz'ora. Genova, con così tanti posti da dove godersi un meraviglioso panorama, era purtroppo ricca di salite più o meno ripide e per chi doveva fare in fretta, stare accorto e guardingo, non era proprio il massimo.

Il saccheggio era terminato. Forse non c'era rimasto nulla da portare via o da scolarsi. Davanti al bar, menzionato da Francesca, stava Marco con altri ragazzi.

“Se non sapete cosa fare, andate giù alla Fiumara. Ci sono migliaia di bambini da portare dentro al centro commerciale prima che inizi il coprifuoco. Non possono stare là fuori stanotte. Moriranno di freddo”, dissi loro, cercando di far breccia nel loro cuore.

“E a noi che ce ne viene in tasca?”, esclamò uno di loro.

“Nulla. Almeno avrete la coscienza pulita per aver fatto del bene...”, risposi.

“La coscienza non paga...”, ribatté un altro.

“Certo, ma almeno ti fa dormire la notte!!, replicai io, allontanandomi.

“Cosa dobbiamo fare?”, mi chiese Marco.

Mi girai a guardarlo. Sapevo che era l'unico ad avere un cuore....

“C'è da cercare un po' di roba nei supermercati vicino alla Fiumara. Mancano pannolini e omogeneizzati. Serve un mezzo di locomozione anche se, non so se l'esercito ve lo farà usare....potreste farlo di notte...ovviamente a vostro rischio e pericolo....magari ci sarà da menar le mani o usare qualche arma non convenzionale...”, spiegai loro, cercando di far leva su tutto quello che potesse piacere loro. Sapevo anche che Marco aveva la passione per le armi bianche, soprattutto quelle di origine giapponese. Forse era giunto il momento di metterle in uso.

“Francesca sta coordinando la situazione. E' lei il capo. Quindi dovrai prendere ordini da lei, Marco, anche se so che non ti piacerà molto. Tu sarai responsabile degli approvvigionamenti. Tu non interferirai su quello che fa lei e lei non si chiederà dove hai trovato la roba e chi hai dovuto far fuori per trovare anche un singolo pannolino. Ok?”, aggiunsi, sapendo che fra i due ragazzi non correva buon sangue.

Lui annuì, solleticato dall'idea di diventare il Tony Curtis della situazione (riferimento al film 'Operazione Sottoveste”, dove l'attore Curtis impersona il secondo ufficiale incaricato di trovare i pezzi mancanti del sottomarino in modi non proprio consoni a un ufficiale di marina degli Stati Uniti).

“Allora andate giù prima delle otto e mettetevi d'accordo”, esclamai, dando a Marco una rice-trasmittente con il codice della frequenza per stare in contatto.

Feci un giro veloce nel supermercato o meglio quello che ne era rimasto e presi qualche scatola per il mio piccolo zoo in miniatura che mi attendeva a casa. Mi incamminai verso casa che erano già le sette e mezza. Ero quasi in fondo al ponte e già vedevo il mio palazzo, quando sentii il rumore inconfondibile di un camion dietro le mie spalle che frenava.

Avevo due scelte. O mi buttavo in terra o mi mettevo a correre. Non è che a 46 anni uno sia vecchio ma essendo titolare di una protesi al ginocchio e non proprio un essere filiforme, scelsi l'ipotesi numero uno. Mi buttai a terra e strisciai sotto una macchina. Mi venne in mente la scena vista in una delle tante serie televisive che avevo guardato durante l'inverno precedente con i ragazzi, dove un gruppo di sopravvissuti cercavano di non essere mangiati vivi da un'orda di morti viventi, nascondendosi proprio sotto le auto. Solo che questi non erano zombies. Questi erano vivi e vegeti.

Sentii che stavano scendendo dal camion. Sentii con orrore che uno di loro diceva agli altri che mi aveva visto andare dove mi ero nascosta. Iniziai a pregare inconsciamente. Poi sentii uno sibilo, un grido strozzato. Un altro suono simile seguito da lamento straziante e così via finché non ne contai cinque. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Poi avvertii uno scalpiccio accanto a me. Il mio cuore perse un battito.

“Claudia, ok, puoi uscire. Pericolo eliminato!”, una voce proruppe da sopra l'auto dove mi ero rifugiata.

Non ci potevo credere. Non riuscivo a capacitarmi di quello che era accaduto.

Con lentezza e qualche tentennamento uscii dalla mia tana e mi ritrovai davanti al mio salvatore. “Antonio, mio eroe!”, esclamai, prima di abbracciarlo.

Antonio, venticinque anni, era un ragazzo alto e snello, altruista, dotato di forza fisica non indifferente e che finalmente poteva utilizzare le armi medievali di cui era tanto appassionato ed era un piacere usarle contro coloro che osavano avere solo intenzione di fare del male alle persone a lui care, soprattutto a Claudia o ai ragazzi.

Mezz'ora dopo, seduta sulla mia poltrona con accanto una tazza di tè fumante, circondata da un'orda di gatti e cani e con un audience formata da Antonio, Daniele e Federico venni a sapere che il nostro arciere, finalmente, aveva potuto utilizzare la nobile arte dei Balestrieri del Mandraccio e mi aveva salvato la vita. Raccontai loro cosa era accaduto alla Fiumara e loro mi misero al corrente dei loro tentativi di stivare un po' di vettovaglie nel magazzino del negozio dei genitori di Simone.

Passammo la notte a fare piani per mettere in salvo tutti quei bambini e ragazzi allo sbando e anche per scoprire la verità. Le teorie erano tante. Poche le certezze. Dovevamo fare anche lo sforzo di trovare dove erano stati portati tutti gli adulti e il motivo per cui era stata fatta quella divisione.

“Ahaha, mi verrebbe da fare una citazione dal quinto libro di Harry Potter”, esclamò Federico, alzandosi in piedi e con una candela andare verso la mia libreria. Iniziò a cercare tra i miei libri, finché non tirò fuori il quinto della saga inventata dalla Rowling.

Iniziò a leggere:Credo che dovremmo darci un nome”, rispose Hermione allegramente con la mano ancora alzata. “Aumenterebbe lo spirito di gruppo e l'unità, non credi?”

“Ve lo ricordate sto passo?”, chiese poi, posando il libro.

Annuimmo tutti.

“Si, certo. Ricordo che parlavano di trovare un nome che potesse essere usato liberamente al di fuori delle riunioni e che non facesse sospettare nulla”, esclamò Antonio, prendendo in mano il libro e iniziando a sfogliarlo.

“Mi pare che iniziarono a usare il nome 'Esercito di Silente', no?, disse Daniele.

“Proprio così!”, esclamai io.

“Allora saremo l'Esercito di Claudia!”, esclamò Antonio, posando di scatto il libro e girandosi a guardarmi.

“Grazie Anto, ma ci vorrebbe qualcosa di più significativo”, risposi, assorta.

“In pratica non solo dovremmo salvare tutti quelli che sono sopravvissuti ma anche Genova, in modo che non faccia la fine delle altre città. In passato questa città non si è fatta mettere i piedi in testa da nessuno: Impero, Papato, Francesi o Tedeschi che fossero...”, esclamò Federico, studente di Beni Culturali e appassionato della storia della nostra città.

“Siamo ripiombati nel medioevo e quindi è a quella storia che ci rifaremo. Quale fu il periodo di massimo splendore della città, Fede?”, chiese Antonio.

“Dal 1090 al 1329”, rispose, pronto, Federico.

“Quale era il simbolo della città, cioè quando voleva far paura al nemico, cosa usavano?”, chiese Daniele, illuminato da un'idea.

“Se voleva minacciare qualcuno, mandava le missive con un sigillo particolare. Un grifone che uccide un'aquila, che era il simbolo imperiale, e una volpe, simbolo di Pisa. Ciò significava che Genova aveva sconfitto quelle due realtà del tempo e non si sarebbe fatta troppe domande nello sconfiggere qualcun altro!”, spiegò Federico.

“Peccato. Difficile ormai rappresentare quel sigillo senza computer. Qualcosa di più semplice?”, chiese ai suoi due amici.

“La croce di San Giorgio. Non era il simbolo dei Crociati?”, chiese Antonio.

“Si, è la bandiera di Genova!”, esclamò Federico.

“Cavalieri di San Giorgio e tutti quelli che aderiranno dovranno indossare una maglia bianca con una croce rossa sopra!”, esclamai io, all'improvviso. “Che ne dite?”, chiesi loro, quando vidi le loro espressioni assorte.

“Gran bella idea, Claudia. Aggiudicato!”, disse Federico e anche Antonio e Daniele si dichiararono entusiasti.

“Bisognerebbe darci, però, una parvenza di inquadramento, tipo militare, se no quei mocciosi, liberi dalle grinfie genitoriali e scolastiche, non ci daranno retta. Io posso addestrarne un po' a usare la balestra e l'arco. Magari i più piccoli, quelli di dodici-tredici anni. Gli altri a ripulire i negozi e a fare scorte di cibo e materiali”, esclamò Antonio, infervorato.

“Si, direi di si. Se no, non ne usciamo!”, replicò Daniele. “Sarà dura, cavolo. Molto dura!”, aggiunse poi.

“Che la danza abbia inizio....”, esclamò Fede, sfregandosi le mani.

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Capitolo 5
*** Quarto capitolo ***


Quarto capitolo

 

Una volta deciso che la cosa può e deve essere fatta, bisogna solo trovare il modo”.

Abraham Lincoln

 

 

“Allora, generalessa, di cosa hai bisogno?”, chiese Marco a Francesca, comparendole davanti all'improvviso.

“Ah, contrammiraglio!”, scherzò lei, vedendo questo ragazzo, con gli abiti trasandati, un cappellino verde militare in testa, dallo sguardo truce e poco amichevole, con una spada che gli spuntava da una spalla e un'altra corta e tozza agganciata alla cintura, quando in realtà era sempre stato ben vestito e poco appariscente. “Ben arrivato”, aggiunse, poi, lieta di vederlo lì ad aiutare. “Allora ho bisogno di tutti i pannolini che riesci a scovare, salviettine umidificate, omogeneizzati di carne, latte in polvere, biberon e rotoli di scottex”, esclamò infine la ragazza, leggendo una lista che si era preparata nella speranza che qualcuno si fosse palesato per dare una mano.

“Uh, uh, aspetta un attimo. Vediamo di capirci. Intanto io i pannolini non so neanche come siano fatti e neanche dove cercarli”, esclamò lui, cercando di comprendere in quale girone infernale fosse capitato. “E poi perché tutti 'sti bambini piangono? Non potete farli smettere?”, aggiunse poi, tentando di capire cosa stesse dicendo Francesca con la voce sovrastata dalla cacofonia di quel momento.

“Bisognerebbe cullarli, poveri. Vuoi provarci?”, chiese lei.

“No, grazie. E non potete farlo voi?”, rispose lui, confuso.

“Duecento bambini al di sotto di un anno....poi vediamo....centocinquanta tra i dodici e i ventiquattro mesi.....quattrocento fino a tre anni.....Devo continuare?”, rispose la ragazza sarcastica.

“No, ho compreso la situazione”, rispose Marco, che non vedeva l'ora di uscire da quel manicomio, anche se doveva andare a scovare quelle mercanzie non propriamente adatte a un guerriero, armato di una forchetta, in mezzo a un esercito equipaggiato con l'armamentario del soldato moderno.

“Bene. Un'altra cosa. Le confezioni le devi prendere di queste taglie. Te l'ho scritte qui sulla lista...”, disse lei, allungandogli un foglietto di carta.

“Perché non posso prendere i pacchi e basta? Devo anche controllare la misura?”, chiese Marco, sbirciando quel lungo elenco di numeri. “Non è che andiamo a fare una passeggiata. Se ci beccano a portar fuori la roba, ci sparano addosso....”, aggiunse, poi, sospirando.

“A me non interessa dove e come la trovi. Ho solo bisogno di averla per domani mattina, se no qui non so come far cambiare i bambini e cosa dar loro da mangiare”, replicò la ragazza, ormai stanca e sfiduciata. Sapeva che era rischioso per Marco e i suoi sgherri andare a cercare quella roba ma non c'era altro modo.

In quel mentre si avvicinò una ragazza. Alta, magra, con i capelli lunghi, ondulati e neri. “Fra, per favore, avrei bisogno di qualcuno che andasse nella farmacia qui vicino. Ho una decina di bambini con la febbre”, esclamò, allarmata.

“Mademoiselle, cosa le serve?”, esclamò Marco, con fare galante.

“Chiara, lui è Marco. Un mio ex-compagno di classe delle medie. E' stato tanto gentile da offrirsi come volontario per andare a fare rifornimento”, spiegò Francesca alla ragazza.

“Chiara sta facendo infermieristica all'università. Per fortuna, è venuta a darci una mano. Senza di lei, saremmo perdute”, continuò Francesca.

“Bene. Ogni sua richiesta è per me un ordine”, replicò il giovane, con un gran sorriso stampato sul viso.

“Ahaha, grazie. Dovresti cercare delle supposte pediatriche di Tachipirina. Se trovassi le gocce sarebbe meglio. Ho un bimbo di sei mesi con la temperatura a 40 gradi e non so come fare. Magari se riuscite, anche del ghiaccio secco....”, disse, speranzosa la 'quasi' infermiera.

“Vedo che dovrò reclutare molta più gente. Siamo in quattro e non so se riusciremo a fare tutto stanotte”, esclamò il ragazzo, scrivendosi le medicine suggerite da Chiara e passando l'elenco a un ragazzino alto, che dimostrava più dei suoi 'quasi' quindici anni, in piedi accanto a lui. “Matte, tieni un po' queste liste”, gli disse.

“Si, sarà meglio. Anche perché avrete bisogno del cambio. Dovrete dormire ogni tanto...”, replicò Francesca, mostrando un po' di simpatia verso quel gruppetto di temerari. “per questo possiamo chiedere aiuto a Michela. Lei sa cosa prendere e così non perdete tempo nel cercare le misure. Ok?”, aggiunse poi.

“Michela? Mhmm, potrebbe andare bene se non fosse per un piccolo particolare che quando sussurra la sentono in Africa e di solito cade, scivola, urta da tutte le parti, facendo un fracasso infernale!”, esclamò Marco, scettico.

“Michela? Quella Michela?”, chiese Matteo, che conosceva la ragazza. “Che Iddio ci protegga!”

“Qui c'è sua nipote. Sa quanto sia importante trovare questa roba. Sii positivo Marco per una volta!”, replicò Francesca. “E Matteo, se Michela viene con voi, è meglio per tutti!”

“Positivo? Michela? Va bè, cercherò....”, sbuffò il ragazzo, già vedendosi circondato dai soldati perché la figliola aveva fatto cadere qualche scaffale.

“Intanto che vado a cercare la vostra compagna di avventure, venite con me, così vi faccio vedere come ci siamo sistemate e quello che dovete prendere”, disse la ragazza, alzandosi dalla sedia.

I bimbi piccoli erano stati messi nei lettini e nei box anche in due o tre per volta. Alcune ragazzine cercavano di ninnarli per farli dormire ma molti erano ancora spaventati e piangevano cercando la loro madre. Una scena straziante.

“Chi sono quelle donne? Pensavo che gli adulti li avessero portati via tutti...”, chiese Marco ad un certo punto vedendo delle signore con in braccio dei bimbi.

“Qualcuna si è salvata correndo dentro al centro commerciale e nascondendosi nei vari negozi. Chi è arrivata su al terzo piano ce l'ha fatta...”, rispose Francesca, mentre si chinava giù ad accarezzare un bimbo in lacrime.

Lo prese e lo strinse a sé, cercando di confortarlo. Mentre lo cullava. Matteo e Marco si sentirono tirare per la giacca. Due bimbetti di tre anni volevano essere tenuti in braccio. I due ragazzi guardarono i piccoli, e poi si girarono per volgere lo sguardo verso le giovani e infine li tirarono su e si lasciarono stringere al collo con una forza incredibile. Poi finirono di visitare la stanza, ovvero il negozio accanto, dove stavano i più grandicelli, che avevano voglia di dormire e quindi si erano accontentati di coperte e piumoni messi alla rinfusa e ora giacevano là, quasi uno sopra l'altro in segno di protezione e sicurezza.

In un altro negozio era stato stabilito il posto di primo soccorso dove lavorava Chiara e un'altra ragazza con alcune nozioni infermieristiche. Fece vedere a Marco le gocce che doveva cercare e altre medicine che avevano recuperato in un edificio accanto al centro commerciale che serviva da clinica diurna per visite ambulatoriali.

“Se trovaste queste, sarebbe fantastico”, esclamò Chiara. “E anche il ghiaccio secco”, aggiunse poi, facendo vedere le scatole al ragazzo.

“Sei proprio tenero, Marco, con quel bimbo in braccio”, esclamò Marta, arrivando con due bambini di quattro-cinque anni per mano.

“Quello è Alessandro. Non parla da quando lo abbiamo trovato di fuori sotto un albero. Aveva una borsa con alcuni effetti personali e un biglietto, credo scritto dalla mamma, dove diceva come si chiama, quanti anni ha e cosa gli piace mangiare. C'è una foto allegata. E' in braccio a suo padre, credo. E ti assomiglia paurosamente. Forse è per questo che ti vuole stare vicino”, spiegò Chiara, facendo una carezza al bimbo.

Al capannello di ragazzi, si aggiunse anche Michela. Era tanto stanca che non parlava neanche. “Aurora e gli altri cinque bambini a cui dovevo stare a dietro si sono finalmente addormentati e io sono esausta”, esclamò, sedendosi di schianto su una sedia. “Ah, ciao Marco....ah, bene, anche tu Matteo? Non ti facevo così caritatevole!”, disse poi, notando i due giovani.

“Mi conosci poco...”, replicò Matteo, vagamente offeso.

“La generalessa, qui, dice che devi venire con noi per farci vedere cosa prendere. Te la senti o sei troppo stanca?”, chiese Marco, dapprima indicando Francesca, poi l'uscita.

“Ahaha, generalessa! Noi la chiamiamo 'boss' ma il tuo nomignolo non è proprio male. Ahahah...”, rise di gusto la ragazza, alzandosi in piedi con un po' di sforzo.

“Magari mangia qualcosa. Vai dal supermercato del centro e prenditi dei panini che abbiamo fatto prima, bevi un po' di Coca-cola e poi vai con loro. Ok?”, le disse Chiara, incoraggiandola un po'. “Anche te, Marco, Matteo e gli altri ragazzi, sgranocchiate qualcosa prima di andare. Abbiamo già problemi con i bimbi malati. Se prendete anche voi la febbre, non saprei proprio come fare!”, terminò la ragazza, sconsolata.

“Nessuno di voi è andato su a guardare dall'ospedale?”, chiese Marco.

“No, non ancora. Pensavamo di utilizzare un'ambulanza, parcheggiata qui fuori dagli ambulatori, perché abbiamo provato con le auto del parcheggio ma non ne funziona neanche una. Poi due ragazze stasera sono arrivate qui con una macchina dell'era preistorica, credo una vecchia Cinquecento che, a quanto pare, era l'unica che si mettesse in moto. Ci hanno detto che i soldati le hanno fermate, fatte scendere e poi sparato alle gomme. In pratica possiamo fare quello che vogliamo, ma non possiamo usare mezzi di locomozione o asportare le cose dai negozi”, spiegò Chiara agli astanti. “Lo so, lo so, sembra proprio strano ma è così!”, aggiunse poi, vedendo gli sguardi allibiti degli altri.

“Quindi auto, stile Antenati, da usare solo di notte o quando non pattugliano?”, chiese Marco, assorto.

“A quanto pare, si!”, rispose Chiara.

“Strano, molto strano. Ah, poi, una delle mamme che si sono salvate ci ha raccontato che stamattina c'erano dei morti qui fuori”, spiegò Francesca. “Già, purtroppo!”, esclamò, vedendo le espressioni contrite di tutti. “Ma quando i ragazzi sono usciti per portare dentro i bimbi più piccoli, non c'erano più. Hanno visto chiaramente che i soldati passano con dei furgoncini e li raccolgono. Inoltre tutti concordano su una cosa: sono impassibili. Non mostrano alcuna emozione. Ti dicono cosa devi fare, senza enfasi o reazione alcuna”, terminò poi, con espressione assorta.

“Come se fossero dei robot?”, domandò Marco, incuriosito da quelle rivelazioni.

“Si, bravo. Come se non fossero umani...”, rispose la ragazza ma, subito dopo aver esternato quella frase, si fermò a riflettere, rabbuiandosi in viso.

“Si lo so che ultimamente abbiamo visto troppi telefilm apocalittici ma potrebbe essere una spiegazione, vero?”, chiese Marta.

“Invasi dagli alieni?”, replicò Matteo, ridacchiando. “perché no...”

“Bene, molto bene. Allora dovremo cercare di avere qualcosa di più utile per difenderci e soprattutto per organizzarci al meglio”, ribattè Marco, rendendosi conto che da quell'incubo se ne usciva solo con un piano degno di quel nome.

Dopo essersi rifocillati Marco, gli altri tre ragazzi e Michela si avviarono verso il supermercato che distava poche centinaia di metri ma che in quel frangente sembrava lontana mille miglia.

“Allora prima vediamo se altri lo hanno saccheggiato, per cui avrà le vetrine in frantumi. Se sì, passiamo di lì, se no scoviamo un altro modo per infilarci dentro”, spiegò Marco agli altri. “Andrea e Luigi stanno qui fuori a fare da palo. Se arriva un camion militare, con la rice-trasmittente dite, in codice, Apocalisse. Se sono a piedi, Valchiria. Ok?”, chiese ai componenti della sua squadra. “Raga, non combinate casini. Non fatevi sgammare perché se ci salviamo per il rotto della cuffia, vi faccio fuori!”, aggiunse poi, serio.

“Io vado dentro con Matteo e Michela. Facciamo presto. Massimo quindici minuti. Se dovessero arrivare con i camion, o a piedi, passate dal parcheggio, saltate la recinzione e correte a perdifiato dentro al centro commerciale. Noi rimaniamo dentro finché non se ne vanno. OK? Niente eroismi, please!”

“Ok, boss”, esclamarono i ragazzi.

“Bene, andiamo dentro a prendere 'sti benedetti pannolini. Michela, tappati la bocca e se devi dire qualcosa, piuttosto scrivila invece di azionare il megafono. OK?”, sibilò Marco alla ragazza che lo guardava con astio.

“Io non grido!”, esclamò poi, lei, offesa.

“Infatti. Urli!”, rincarò la dose lui.

Dentro era buio come la pece. Avevano delle torce frontali che avevano sgraffignato dal centro commerciale. Erano attaccate a una specie di cerchietto che ti mettevi sulla fronte e illuminavano il tuo cammino tenendoti le mani libere. Presero ognuno un carrello e giunti nel reparto infantile, iniziarono a riempirlo di pannolini, salviettine e tutto quello che era sulla lista. Michela controllava e poi faceva segno ai ragazzi di prendere quello che le serviva. Il tempo passava veloce. Marco si era prefissato di stare al massimo un quarto d'ora ma quando la lancetta dei minuti dell'orologio a corda di Marco segnò i fatidici quindici minuti, non erano neanche a metà dell'opera. Dalla rice-trasmittente tutto taceva, perciò il ragazzo decise di andare avanti ancora dieci minuti.

Con i carrelli pieni zeppi di roba uscirono fuori nel parcheggio. Dei due ragazzi neanche l'ombra.

“E dove cacchio sono finiti quei due? Chi gli ha detto di allontanarsi!”, sbottò Marco, guardandosi intorno. Poi il ragazzo, sbuffando, si diresse verso il parcheggio. “Voi, state lì e non muovetevi!”, ordinò a Matteo e Michela.

“Avranno sentito qualcosa e si saranno allontanati a vedere se c'era qualcuno”, disse Michela a Matteo, sottovoce, controllando di nuovo quello che avevano preso.

“Non lo so. Spero solo che se ne siano andati per un buon motivo. Perché altrimenti se li mangerà vivi....”, esclamò, Matteo, preoccupato.

“Come facciamo a spostare tutta questa roba fino alla Fiumara?”, chiese Michela, ansiosa.

“Bel problema. I carrelli fanno un casino di inferno....”, mormorò Matteo. “Magari alla vecchia maniera”, aggiunse poi, sovrappensiero.

“In che senso?”, chiese Michela, incerta.

“Come facevamo la spesa fino a due giorni fa, no? Con i sacchetti...”, rispose lui, tornando dentro.

“Ah, ho capito. Ma aspetta non andartene. Non lasciarmi qui da sola!”, fece lei andandogli a dietro.

“No, stai lì e aspetta Marco così quando arriva gli dici che non mi sono eclissato anche io ma che sono andato a prendere un po' di sporte dentro”, ribatté il ragazzo, correndo dentro all'emporio.

C'erano cinque carrelli, tutti stipati fino all'orlo e alcuni anche con dei pacchi in bilico. Michela iniziò a fare un calcolo mentale e si rese ben presto conto che quel materiale sarebbe bastata, forse, solo per un cambio. Quello era il supermercato più vicino e già avevano tutti quei problemi. Per quelli più lontani, come facevano? Usavano un'astronave, stile Star Trek?

“Dove è andato Matteo?”, la apostrofò Marco, comparendole davanti ad un tratto. “Un moto di codardia repentino?”, chiese, ironicamente.

“No, tranquillo. Non è scappato. E' andato dentro a prendere delle borse per trasportare tutta sti oggetti al di là della strada! Non possiamo di certo, allertare tutti i soldati, con i carrelli, no?”, spiegò lei, dopo essersi ripresa dallo spavento.

“Ah, bene. Allora ha anche un cervello, il figliolo! Buono a sapersi...”, replicò il ragazzo più grande.

In quel mentre comparve Matteo con una decina di sacchetti più o meno grossi. Iniziarono così a stipare tutte le confezioni ma ben presto le buste di plastica terminarono.

“Non finiremo mai!”, esclamò Marco, guardandosi intorno, nervosamente.

“E se togliessimo le scatole di cartone e ficcassimo tutto dentro senza involucro?”, disse Michela.

“Per gli altri articoli viene bene, ma per i pannolini, no! Non saprebbero poi le misure e noi non possiamo di certo fare la cernita di tutte le scritte su ogni singolo contenitore”, disse Matteo, assorto.

“Raga, cerchiamo di risolvere questo problema perché mi sembra strano che non siano ancora venuti a controllare questa zona...”, disse Marco, sempre più agitato.

“Allora, io porto gli astucci dei Pampers, voi gli omogeneizzati e le altre cose. Semmai faccio più viaggi. Sono abituato a correre e sono molto veloce. Giocando a calcio lo devi essere per forza. Il mio mister è peggio di un sergente dei marines...”, esclamò Matteo, prendendo due sacchetti ricolmi di pannolini e iniziando a correre verso il parcheggio.

“Va bene, io porto i vasetti di vetro. Tu porta il resto. Ok?”, esclamò Marco rivolto a Michela che annuì. “Non andare lenta. Vai veloce e se ti dico Apocalisse, corri con quanto fiato hai in gola!”, aggiunse Marco, lasciando andare avanti la ragazza.

A metà della strada, poco dopo essere passati sotto il ponte della ferrovia, sentirono lo stridore di freni di un camion e ordini perentori a scendere e a iniziare la perlustrazione.

“Apocalisse, Michela! Apocalisse!”, urlò e la ragazza si mise a correre perché anche lei si era resa conto del pericolo imminente.

Matteo stava ritornando, quando vide arrivare Michela di corsa e le chiese trafelato: “Cosa succede?”

“I camion! Prendi questa roba, svelto. Così posso tornare indietro!”, esclamò lei, concitata, mollando le borse nelle mani del ragazzo e tornando sui suoi passi.

“Aspetta! Aspetta”, gridò Matteo, invano.

La giovane corse fino a farsi scoppiare i polmoni. Sentiva le urla dei militari e il tonfo dei loro scarponi chiodati.

“Michela, che cavolo ci fai qui? Maledizione...”, esclamò Marco, vedendo arrivare la ragazza.

“Dammi tutta quella mercanzia. Dai!”, Michela incitò Marco a passarle gli approvvigionamenti, con il respiro affannoso e un filo di voce.

“Ma sei matta? Ti farai sparare addosso!”, esclamò Marco, tirandola giù per un braccio.

“Non sono ancora nella strada. Secondo me, sono dal supermercato. Se andiamo, ora, ce la possiamo fare...”, esclamò Michela, guardando nella strada, illuminata parzialmente dalla luce lunare, cercando di recuperare un po' di fiato.

“Ok, vai. Ti copro io”, esclamò Marco, tirando fuori la sua lunga lama scintillante.

“Se ti sparano con un mitra, non è che con quella ci puoi far molto...”, esclamò Michela divertita.

“Porco diavolo, vuoi andare?”, le sussurrò con impazienza il ragazzo all'orecchio.

“Va bene, stai calmino!”, mormorò la ragazza, alzandosi in piedi, afferrando le numerose e pesantissime buste che le passava il giovane e iniziando a muoversi verso la strada.

Aveva già varcato i cancelli che delimitavano la proprietà, quando le passò accanto Matteo. Invece di darle una mano, si mise a correre verso Marco e la ragazza non seppe decidersi se inveire contro di lui perché non l'aveva aiutata o lodarne il coraggio.

Quasi giunta dalle porte dell'immenso centro commerciale, sentì sparare. Uno, due colpi di pistola e poi una lunga raffica di mitra. Poi il silenzio avvolse, nuovamente, quella parte di città con il suo carico di incertezza sulla sorte dei due coraggiosi ragazzi.

 



 

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Capitolo 6
*** Quinto capitolo ***


Quinto Capitolo

 

C'è una forza motrice più forte del vapore, dell'elettricità e dell'energia atomica: la volontà”

Albert Einstein

 

 

Ignari dei drammatici avvenimenti accaduti alla Fiumara nella notte, la mattina dopo Fede, Antonio, Daniele ed io raggiungemmo Simone, strenuo difensore del negozio di tabaccheria di via G.B. Monti e la sorella di Antonio, Desirée, nonché fidanzata del ragazzo. Avevano perfino messo delle barricate davanti alle vetrine, aiutati dalla cugina di Simone, Giada, appena undicenne e dagli altri due cuginetti più piccoli, erano riusciti ad allestire un posto di ristoro attrezzato e pronto per ogni emergenza". Insomma due sedicenni niente male!

“Ciao Simo, come è la situazione?”, esclamò Antonio, entrando nel bar, annesso alla tabaccheria e abbracciando sua sorella.

“Ehi, Antonio. Tutto calmo. Stanotte ho sentito sparare ma qui non è venuto nessuno, per fortuna!”, esclamò il ragazzo. “Volete un po' di caffè? La bombola del gas è piena. Mio padre l'aveva appena sostituita”, ci chiese. Non rifiutammo, anzi, ci avventammo sopra quelle tazzine come se fosse stato nettare divino. Addirittura a me preparò il cappuccino, usando un marchingegno a pile, e andai, per dieci minuti, in estasi!

Dopo esserci rifocillati con alcuni biscotti, iniziammo a discutere su come rifornire quel negozio e renderlo una base di riferimento per tutti i ragazzi della zona.

“Nella curva qua sotto c'è un camion fermo. Ha la chiave inserita. Gli ho dato ieri sera un'occhiata e penso di essere in grado di portarlo su. Se ci riesco, potremmo usare quello come veicolo per rifornire il negozio. Che ne dite?”, esclamò Simone.

“Direi ottima idea”, risposi io e anche gli altri annuirono.

“Magari se lo fai tu e non un adulto non ti dicono niente i militari...”, esclamò Antonio.

“Direi allora di fare così oggi: Antonio ed io iniziamo a svuotare il supermercato dalle scalette, Simone tu fai partire il camion qui sotto e cerchi di portarlo davanti al magazzino così lo carichiamo. Claudia e Desi iniziano a guardare nei palazzi qui intorno se ci sono bambini o ragazzi e li conducono qui. Diamo loro qualcosa da mangiare e poi decidiamo se rimandarli a casa o scovare un posto sicuro dove metterli. Magari troviamo qualche adulto che si è salvato”, spiegò Federico. Poi si girò verso Daniele e gli chiese:” Tu vieni con noi o vai con Claudia?”

“Non so, magari vado con Simone e gli do una mano. Poi quando abbiamo portato da voi il veicolo, raggiungo loro”, esclamò lui, incerto.

“Ok, perfetto”, esclamò Simone.

“Va bene, Diamoci da fare”, esclamò Antonio, voglioso di fare qualcosa di utile.

“Delle ragazze hai notizie, Claudia?”, mi chiese poi Desirée, mentre le davo una mano a spostare delle casse.

“No, non ancora. Devo usare la rice-trasmittente ma devo farlo con un po' di spazio intorno libero se no non prende. Da casa non ci sono riuscita. Ora, mi metto là fuori”, dissi, indicando la strada “e provo a chiamarle”, le risposi.

Dieci minuti più tardi iniziai la mia personale battaglia con le onde corte. In piedi in mezzo alla via, provai più volte a chiamare Francesca sul canale che le avevo indicato la sera prima. I nomi in codice erano tutti un programma, o meglio facevano riferimento a più serie televisive di cui quasi tutti eravamo appassionati.

“ SteveMcGarret da BobbySinger...cambio...?”, dissi nel ricevitore dell'apparecchio.

Udii solo una serie di scariche elettrostatiche e niente più. Riprovai più volte senza successo.

Forse non prendeva dentro al centro commerciale. Sperai che Francesca uscisse fuori dal complesso con la trasmittente in modo che si collegasse da sola. La lasciai accesa e la agganciai alla cintura dei pantaloni e mi avviai con Desirée a fare il giro dei palazzi. Iniziammo dal mio. Prima la scala dove abitavo io, partendo dall'alto.

“C'è nessuno? Sono Claudia. Abito nella scala. State tutti bene? Nel bar qui vicino c'è un po' di caffè latte caldo e dei biscotti per tutti”, ripetei alla noia.

Al quarto piano mi rispose un bambino. Lo conoscevo. Mi aprì piano la porta e quando mi vide mi si buttò tra le mie braccia. Era spaventato.

“Ok, piccolo. Tranquillo. Ci sono qui io. Tua sorella dove è?”, gli chiesi.

“Di là. Sta leggendo un libro di fiabe”, rispose lui, sollevato.

“Mamma? Papà?”, gli chiesi, entrando in casa.

“Non ci sono. Sono andati via ieri mattina!”, rispose lui. “Sara! Sara! Vieni qui. Guarda c'è Claudia!”, gridò, rivolto alla sorella che arrivò subito.

“Andiamo giù a fare un po' di colazione. Poi vediamo cosa fare. Se tornare qui o trovare un'altra sistemazione”, gli dissi io. “Magari Luca fammi vedere la tua stanza. Riempiamo un zaino per te e uno per tua sorella con abiti comodi e un cambio di biancheria. Ok?”, dissi al ragazzino.

Poi rivolta a Desi, le dissi: “Dai un'occhiata in casa e prendi delle coperte, cuscini e delle borse grandi per mettercele dentro”

“Luca, prendete delle medicine particolari, tu e tua sorella?”, chiesi, all'improvviso.

“Mia sorella è asmatica. Si, sono in bagno. Stamattina gliel'ho fatta prendere io la pastiglia”, disse lui con orgoglio.

“Bravo, Luca. Proprio bravo!”, esclamai io, sorridendogli.

“Desi, svuota anche l'armadietto dei medicinali e mettili in busta con il cognome che trovi sulla porta”, dissi alla ragazza. “Guarda anche se trovi dei documenti con i nomi dei bimbi e dei genitori e mettili anch'essi in una busta”.

“Ok”, disse lei. “Certo che se fossimo di più, sarebbe meglio. In due non è che possiamo fare molto”, aggiunse Desi, sconsolata.

“Già, bisognerebbe che ci fosse anche qualcuno giù al bar per fare mangiare tutti 'sti bambini. Non credo che la cugina di Simone, per quanto in gamba a sufficienza, possa reggere l'ondata. E sicuramente qualcuno che possa darci una mano qui...”, dissi, mentre finivo di riempire due zaini dei bimbi.

Desi portò giù i bambini al bar e li lasciò là, mentre Giada dava loro del latte caldo con delle brioches.

Quando tornò indietro, io avevo trovato degli altri bambini e rifacemmo la stessa procedura di prima. Nello svuotare sistematicamente edificio dopo edificio, ci accorgemmo che non c'era solo il problema dei bambini, già grandicelli per sapersi gestire da soli ma non in grado di andarsi a cercare il cibo e trovare un riparo sicuro in autonomia, ma anche la questione di tutti quei cani, gatti, conigli e altri animali domestici lasciati nelle case. Ci sarebbe voluta un'altra squadra di volontari....

Nel radunare tutti i bambini e ragazzini della via, mi tenni tutti quelli che avevano più di undici anni. Gli altri dovevano tenere a bada i più piccoli. Li facemmo sedere sulla scalinata di fronte al mio palazzo a recitare tabelline con una ragazzina. Lì per lì non mi venne in mente altro da fargli fare.

Mentre stavo mangiando un panino, sentii lo sferragliamento familiare del 59 che arrancava su per la salita. Rimasi sconcertata per un attimo e poi iniziai a correre verso il mio portone perchè pensai fosse pericoloso l'avvicinarsi di quel particolare veicolo. Forse non era un autobus ma qualche veicolo militare. Poi sentii urlare. Erano voci di gioia. Mi girai a guardare e rimasi a bocca aperta quando vidi al volante Simone che urlava come un dannato e Daniele che saltava su e giù come un forsennato. Era veramente un 59, un autobus piccolo, adatto a risalire le stradine collinari di Genova. Era un veicolo molto vecchio però. Dove diavolo lo avevano scovato, mi chiesi, mentre mi avvicinavo a loro. Comunque avevano ragione a essere così contenti. Guidare 'quel coso' su per quella stradina così ripida, non era normale per un sedicenne e il suo istruttore, quasi ventenne.

Quando parcheggiò il veicolo in mezzo alla strada, tutti i bambini gli corsero incontro e ballarono e gridarono come se fosse arrivato il Messia! In effetti era così. Era stipato fino all'inverosimile di scatole, bottiglie d'acqua, pacchi di pasta, piatti e bicchieri di plastica, latte Uht, e altro ancora. Facemmo una catena umana. Dal mitico 59 fino al negozio di Simone. Così ogni bambino aveva un incarico e non si annoiava neanche.

"Dove lo avete trovato?", chiesi a Daniele, quando scese dal trabicolo.

"Diamine, non c'era nulla che andasse. Siamo andati giù fino in via Carlo Rolando. Abbiamo provato ogni macchina. veicolo a due, quattro ruote ma niente. Solo un scassata Panda si è messa in moto", spiegò Daniele a me e agli altri.

"Tra l'altro ora vado giù a prenderla. Poi a Simone è venuto in mente di provare nella rimessa degli autobus. Abbiamo scartato i mezzi più nuovi perchè era chiaro che non si sarebbero messi in moto. Lui cercava qualcosa che fosse vecchio di più di trentanni. E poi nell'angolo più remoto del deposito lo abbiamo visto!", continuò il ragazzo, infervorato nel discorso.

"Tutto impolverato e sporco. Gli abbiamo un po' pulito i vetri davanti. Abbiamo spillato un pò di benzina dagli altri e riempito il serbatoio e cercando nei vari cassetti della segreteria, abbiamo anche trovato le chiavi. Quando si è messo in moto, siamo saltati dalla gioia", concluse, raggiante Daniele.

"Come avete fatto a venire su? Quell'affare ha le marce?", chiesi, ancora stupita dall'immane impresa.

"Si, per ben due volte abbiamo rischiato di andare a sbattere contro altre macchine o contro un muro. Poi dal supermercato, Federico è salito su e, grazie al suo anno di patente e senza farci domande, ha fatto manovra per accostarsi al piccolo parcheggio dell'emporio. Infine abbiamo iniziato a caricare gli scatoloni", esclamò Simone che si era avvicinato a noi.

"Cavolo, venire su, è stato un parto plurigemellare! Non so ancora come abbiamo fatto. Quel cambio è rigido come un bastone cementato. Mi sono quasi slogato una spalla...", disse, poi, massaggiandosi la zona dolorante.

"Ce la fai ad andare giù di nuovo?", chiesi io, preoccupata.

"Si, penso di si. Semmai guiderà Daniele", rispose lui, perdendosi l'occhiata piena di scetticismo dell'amico più grande.

"Sono sicura che lui ne sarà all'altezza!", esclamai io, sicura.

Quando l'antiquato 59, sparì oltre la curva per andare a raccogliere un altro carico, Desi ed io tornammo al nostro lavoro.

Intorno all'una decisi di provare a usare di nuovo la rice-trasmittente. Iniziavo a preoccuparmi. Non avevo margine per andare giù. Dovevamo trovare una sistemazione a tutti quei bambini e il tempo stringeva.

“SteveMcGarret da BobbySinger...cambio...”, esclamai nell'apparecchio.

Lo ripetei un paio di volte ma non ricevetti risposta.

“Chi è SteveMcGarret?”, mi chiese Antonio che si era avvicinato a me.

“Sto cercando di mettermi in contatto con Francesca ma non riesco a farlo. Managgia a 'ste scatole!”, esclamai al culmine della tensione, dando un colpo alla trasmittente.

“Probabilmente non prenderà giù o non riusciranno a farle funzionare”, replicò lui, prendendo in mano l'aggeggio.

“Marco mi aveva detto che sapeva usarle”, ribattei io, guardandomi intorno, indecisa sul da farsi.

“Vedrai che si faranno vivi. Stai tranquilla”, mi disse lui, calmo. “Senti, tutti questi bambini dove li mettiamo stanotte? Li rimandiamo nelle loro case o cosa?”, chiese poi, guardando i bimbi mentre davano una mano a sistemare i viveri nel negozio e cantare una filastrocca che aveva insegnato loro Desirée.

“Bella domanda, Antonio. Proprio una bella domanda!”, esclamai, sbuffando. “Non ne ho la minima idea”, aggiunsi poi. “Certo sarebbe la soluzione migliore quella di rimandarli nelle loro case ma ci sono troppi pericoli e ho paura che andrebbero a girare di notte”, conclusi io, andando verso il bar.

Quando entrai, vidi Federico e Daniele che finivano di stipare i pacchi di pasta su un ripiano. Erano stravolti. “Ragazzi, andate su a casa mia a darvi una pulita e a riposarvi un po'. Non reggerete a lungo con quel ritmo”, esclamai.

“Tra qualche ora scatterà il coprifuoco e ci potremo riposare”, replicò Federico, spostando con un piede uno scatolone ricolmo di lattine di pelati.

“Appunto, il coprifuoco!”, dissi, pensierosa. “Vado un attimo su a dare un'occhiata al piccolo zoo! Mi farò venire un'idea su come e dove sistemare tutti 'sti bambini”, aggiunsi, prendendo del latte a lunga conservazione, del caffè e delle confezioni di brioches, prima di uscire dal negozio e avviarmi verso il mio portone.

In casa trovai cani e gatti acciambellati gli uni vicini agli altri e rimpiansi nuovamente di non avere più alcun mezzo per scattare loro una foto. Artù, uno schnauzer nano, tutto nero e appartenente a Michela, stava sul fianco sdraiato intorno a Daisy, appartenente a Federico, una Yorkshire molto intelligente e di buona indole. Intorno a loro il mio micione bianco, Mr Churchill, Asia una gattona bella pasciuta di Marta e Juliet, una micetta dal pelo grigio-bianco, assai vivace che dormiva sul maglione del suo padrone accanto alla sua 'sorellina' canina Daisy.

Diedi loro da mangiare e passai un po' di tempo a fargli le coccole. Il pensiero delle ragazze alla Fiumara mi portò dalla finestra prima e poi sul poggiolo. La vista che si godeva dal mio palazzo era mozzafiato. Si poteva osservare quasi tutto il quartiere, il porto, il centro commerciale e addirittura il simbolo di Genova: la Lanterna. Fui assalita da un'ondata di malinconia. Non sapevo dove fossero finiti i miei familiari, i miei amici, le persone a me care e sentivo il peso di tutti quei bambini e ragazzi che contavano su di me, mentre in quel momento me ne sarei andata in cima a una montagna per fuggire da tutto quel caos e mistero. Dire che ero terrorizzata era un eufemismo ma non potevo esternare quel sentimento con loro. Dovevano credere nella speranza, dovevano avere la volontà di trovare una soluzione ed io rappresentavo la loro àncora di salvezza.

Mentre sfogavo a calde lacrime la mia frustrazione, colsi un movimento in basso. Un pezzo di tessuto nero mi riportò alla dura realtà. Sotto il mio palazzo si estendeva un grande spazio occupato da un convento di suore le quali gestivano una scuola materna ed una elementare. Un grande giardino completava l'area. Quel lembo scuro non poteva essere altro che un pezzo di velo di una tonaca. Forse avevo trovato una soluzione. Misi il guinzaglio ad Artù e a Daisy e andai giù. Nel portone incontrai tre ragazze, mie ex-allieve e anche loro erano venute a cercarmi.

“Sapevamo che non ci avresti lasciato da sole”, esclamò Ilaria, abbracciandomi.

“Che piacere Ila!”, dissi, veramente contenta di vedere quella ragazza così minuta ma assai tenace e coraggiosa. “Cosa ti ha dato la sicurezza che non fossi stata portata via?”, le chiesi, mentre abbracciavo anche Valentina e Claudia, sorella di Marco.

“Abbiamo saputo da un gruppo di ragazze che sono state stamattina alla Fiumara che su da queste parti c'è un gruppo che ha organizzato una sorta di resistenza con l'aiuto della loro insegnante!”, rispose Ilaria che si era abbassata per accarezzare i due cagnolini.

“E chi poteva essere se non tu, Cla?”, esclamò Valentina, con un'espressione divertita ma allo stesso tempo sollevata, dipinta sul volto.

“Oddio, resistenza è una parola grossa”, sorrisi, imbarazzata. “Stiamo radunando un po' di bambini, togliendoli dalle case e dando loro qualcosa da mangiare”

“Fidati, questa parola ha dato molta fiducia a tanti ragazzi sbandati che girano per strada. Non sono abituati a vivere così e anche se sono passate neanche quarantotto ore da quello che è successo, è come se per loro fosse passata un'intera era geologica”, replicò Claudia, degna sorella di Marco.

Le sue parole mi rattristarono ma al contempo mi diedero nuova carica.

“So che avete organizzato un posto di soccorso giù alla Fiumara. Le ragazze che abbiamo incontrato stamattina hanno detto che ci sono centinaia di bambini piccoli giù”, esclamò Valentina, amica dall'infanzia di Ilaria, alta, castano chiaro, dolce con i bambini ma che sapeva tenere testa ai prepotenti.

“Queste ragazze ne venivano dal centro commerciale?”, chiesi loro.

“Si, avevano dato una mano ma cercavano una farmacia perché molti bambini hanno la febbre alta. Queste stavano cercando anche qualcuno che avesse nozioni mediche ed è per quello che le abbiamo viste dall'ospedale”, spiegò Ilaria.

“Claudia, tu hai notizie di tuo fratello?” chiesi all'altra ragazza.

“No, volevo andare giù a vedere. Mi aveva detto che sarebbe poi venuto su in giornata ma non l'ho ancora visto”, rispose lei, ansiosa.

“Allora, ragazze, fate una cosa. Andate giù alla Fiumara e date il cambio a Francesca, Michela e Marta che sono giù da ieri pomeriggio, così vengono su e si danno una rinfrescata e dormono un po'. Dite anche a Marco di venire qui. E' più vicino e più sicuro”, spiegai, mentre cercavo nelle mie tasche un pezzetto di carta e una matita per scrivere i nomi in codice per la trasmittente. “Cercate di organizzare dei turni in modo di dare tempo a tutti di riposarsi. Vorrei però che almeno che voi due, Ilaria e Claudia, tornaste su domani e trovaste qualcuno che vi sostituisca perché ho bisogno di organizzare una squadra di recupero animali. Nelle case ne abbiamo trovato molti e non possiamo lasciarli là. Moriranno e potrebbero scatenare delle epidemie. Dobbiamo trovare una sistemazione anche per loro”, aggiunsi poi, con fare concitato.

“Come rimaniamo in contatto?”, chiese Valentina. “Cavolo, mi ero appena comprata il cellulare nuovo”, aggiunse, poi, sconsolata, tirando fuori il telefonino ormai inutilizzabile.

“Abbiamo le rice-trasmittenti. Ora ti faccio vedere come funzionano”, le dissi, tirando fuori l'apparecchio e spiegandole come parlare, che tipo di linguaggio usare e soprattutto ribadendo più volte di azionarlo all'esterno.

Ne consegnai uno a lei con la lista dei codici, spiegandole che avrebbe dato il cambio a Francesca ed eleggendola così capo del presidio alla Fiumara nelle sue ore di competenza. Lei rimase sorpresa ma non disse nulla. Sapevo che ce l'avrebbe fatta. Era un leader nato tanto quanto l'altra ragazza, solo che non lo sapevano ancora di esserlo.

Dopo aver visto andare via le tre ragazze, andai verso il bar. Erano state organizzate delle partite di calcio lungo la strada che portava a casa di Marta, perciò i bambini giocavano ed erano spensierati. Solo i più grandicelli avevano quel tipico sguardo spento e spaurito di chi ha capito che la situazione è cambiata in peggio e potrebbe peggiorare ancora di più.

“Anto, Fede, Dani, ho trovato una soluzione!”, esclamai, entrando nel bar. L'aroma del caffè appena fatto mi inebriò e per un attimo dimenticai tutto. Come un automa mi fiondai sulla tazzina che mi veniva offerta da Simone, che oltre a essere un grande appassionato di autobus e treni, era anche un ottimo barista.

“So dove dormiranno i bambini stanotte e dove staranno per un po'!”, dissi, dopo aver bevuto quel concentrato di forza e azione che era la caffeina per me.

“Bene. E dove, donna dalle mille risorse?”, mi chiese Federico, curioso e al tempo stesso divertito, mentre teneva in braccio la sua cagnolina e la accarezzava con sommo piacere.

“So che la soluzione non vi piacerà ma credo sia l'unica possibile....”, dissi, ben sapendo quanto a loro stessero antipatiche le monache e i conventi in generale. “La scuola sotto il mio palazzo. Prima ero sul poggiolo e ho visto, per una frazione di secondo, una suora. Gli edifici hanno ambienti grandi, ha una cucina e l'edificio, dove un tempo c'era il collegio, ha sicuramente tante stanze”, aggiunsi, trionfante.

“Per Giove, hai ragione!”, esclamò Daniele. “Quando li sbologniamo là sotto?”, chiese, poi, ansioso di liberarsi dalla marmaglia.

“Prima dovremo vedere se ci lasciano entrare, poi se acconsentono e poi...”, iniziai a spiegare ma fui interrotta da alcune urla.

“I camion. I camion. Stanno venendo su”, sentimmo alcuni ragazzi gridare nella strada.

“Claudia! Antonio! Andate.... Se vi vedono qui, vi portano via”, esclamò Federico, rientrando nel bar, dopo che era uscito per vedere cosa stava succedendo.

Uscimmo fuori e di corsa raggiungemmo il portone. Con gran fatica raggiunsi il mio piano e poi ci chiudemmo in casa. Le finestre del mio appartamento non davano sulla strada, per cui non riuscimmo a vedere nulla di quanto stesse succedendo giù. Avrei voluto osservare, avrei voluto studiare quei militari che avevo già spiato il giorno prima. Mi erano apparsi diversi dai soliti soldati che avevo visto in passato. Anche qui il mio sesto senso, la mia vocina interna mi continuava a dire che quelli non erano quello che volevano far sembrare. Dovetti desistere dal desiderio di andare giù fino al portone per colmare la mia curiosità.

Un'ora e mezza dopo fummo raggiunti da Daniele e Federico, i quali ci diedero il via libera per poter di nuovo muoverci in libertà. “Cosa hanno fatto?”, gli chiesi, mentre mi preparavo per scendere.

“Hanno controllato i documenti dei più grandi. Ci hanno detto di portarli sempre appresso e di non dimenticarli perché chi non ce li ha, verrà portato via”, rispose il ragazzo.

“Hanno anche voluto vedere i documenti di Simone in relazione al bar, se veramente fosse stato dei suoi genitori o no. Pensa, gli ha offerto il caffè ma loro non l'hanno voluto. Erano una decina. Accaldati e stanchi, a mio avviso. Ma nessuno di loro ha manifestato una pur minima volontà di bersi quel liquido nero così invitante e a me è parso proprio strano!”, esclamò Federico, mentre liberava i due cani dal guinzaglio.

“Dobbiamo organizzare un rete di sentinelle, lungo la strada per evitare che succeda di nuovo”, esclamò Antonio.

“Si, credo tu abbia ragione e sicuramente dovrai addestrare un po' di ragazzini a usare la balestra e l'arco, così da tenerli occupati e pronti a ogni evenienza. Te la senti, Anto?”, esclamai io, guardandolo sicura del suo assenso.

“Si, assolutamente si. Stare fuori è pericoloso per noi e credo che, come incarico, mi piacerà sicuramente. Con i ragazzini ci so fare, no?”, chiese lui, cercando l'approvazione.

“Preferirei che tu ci dessi una mano qui”, esclamò Federico “ma mi rendo conto che abbiamo bisogno anche di un certo livello di difesa. Purtroppo non possiamo farne a meno!”, aggiunse Federico. Anche Daniele fu d'accordo.

Stavamo uscendo dal bar per andare giù dal convento delle suore, quando sentii gracchiare la radio.

“BobbySinger da SteveMcGarret...cambio...”, sentii in lontananza la voce di Francesca.

“Avanti SteveMcGarret, qui BobbySinger...cambio...”, esclamai, sollevata.

“Stiamo per metterci in movimento verso Charlie Papa....cambio...”, disse la voce che andava e veniva ma che si riusciva a percepire senza grosse difficoltà.

“Charlie Papa libero e disponibile...vi aspettiamo....cambio..”

“SteveMcgarret in movimento con DeanWinchester e Camusdell'Acquario...cambio...”

“Roger, SteveMcGarret. BobbySinger, quando arrivate andate da Bravo Alpha Romeo, chiudo”, dissi io.

“Roger, BobbySinger. SteveMcGarret, chiudo”, replicò Francesca, chiudendo il contatto.

Giunti davanti alla grande porta verde del passo carrabile all'esterno del convento, iniziammo a bussare. Dapprima in modo discreto e poi, via via, sempre più insistentemente.

“E dove sono andate a rifuggiarsi, quelle tipe....”, mormorò Daniele, scocciato.

“Andate via.....andate via....ci avete già controllato”, esclamò una vocina, ad un certo punto.

Federico mi fece segno di parlare. Forse ero l'unica che la potesse convincere ad aprirci la porta.

“Sorella, la prego, abbiamo tanti bambini e non sappiamo dove metterli. Per favore, ci faccia entrare così le spieghiamo la situazione”, dissi, cercando di essere calma ma convincente allo stesso modo,

Attendemmo ancora un paio di minuti e poi il grosso portone verde si aprì un pochino, lasciando intravedere una suora molto giovane, dalla carnagione olivastra.

“Tutti gli adulti sono stati portati via. Come fa, lei, ad essere ancora in giro?”, mi chiese, poi, incerta.

“Sono rimasta a casa. Non sono andata a nessun punto di raccolta e nessuno mi è ancora venuto a cercare”, risposi io. “E' sola?”, chiesi, poi, cercando di sbirciare dentro nel cortile.

“Un'altra consorella, giovane quanto me e una molto anziana che siamo riuscite a nascondere”, rispose lei.

“Possiamo allora portare giù i bambini? Promettiamo che vi riforniremo di cibo e quant'altro vi servirà ma non sappiamo dove metterli stanotte. Lasciarli in casa da soli è pericoloso!”, esclamò Federico, concitato.

“Quanti sono?”, chiese un'altra suorina, appena sopraggiunta. Anch'essa di origine indiana, come tutte le suore giovani di quel convento e sicuramente anche degli altri.

“Più di un centinaio...”, risposi io. “Sono quasi tutti sopra i cinque anni. I più piccoli sono alla Fiumara”, aggiunsi.

Le due suorine si guardarono un attimo e poi, all'unisono, esclamarono: “E sia. Portateli giù. Però non sappiamo dove metterli. Non abbiamo letti a sufficienza....”

“Per questa notte si arrangeranno su coperte e piumoni vari. Domani mattina partiremo alla volta di Decathlon a Campi a prendere sacchi a pelo e tende”, esclamò Daniele e la sua decisione mi stupì non poco, visto che era stato sempre un ragazzo schivo e poco amante delle azioni azzardate. Pensai che avevo sempre avuto un Indiana Jones a portata di mano e solo ora lo scoprivo...

Anche Federico era rimasto esterefatto dalla presa di posizione del suo amico ma sapeva che era l'unico modo per risolvere quella situazione. Come avrebbero fatto, lo avrebbero sicuramente affrontato quella sera in casa mia.

Il convento delle suore divenne così la nuova localizzazione per i bambini e a capo di ciò fu posta Desirée che con la sua esperienza di capo scout era perfettamente in grado di gestire tutti i problemi derivanti da quell'incarico. Inoltre quella struttura era perfetta per poter immagazzinare tutte le scorte possibili che riuscivamo a trovare e abbastanza difendibile in caso di attacco.

Iniziammo così a fare la spola tra la via sotto casa mia e il convento per accompagnare giù tutti i bambini. Sarebbe stata una serata molto lunga e faticosa ma lo spirito era buono e la volontà tanta e questo mi soddisfece non poco!

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Capitolo 7
*** Capitolo Sesto ***


Capitolo sesto

 

“Il destino mescola le carte ma siamo noi a giocarci la partita”

A. Schopenhauer

 

“Che ci fai qui, tu?”, chiese, sottovoce Marco a Matteo.

“Chissà...a bermi una birra, secondo te?”, rispose l'altro, accucciandosi vicino al suo amico.

“Quanti sono e soprattutto dove sono?”, aggiunse poi, guardando verso la strada dall'entrata del supermercato.

“Non ne ho la più pallida idea...”, rispose Marco.

“Andiamo bene. Della serie che siamo proprio in una botte di ferro”, esclamò il ragazzo più giovane. “Che armi hai, oltre la katana?”, domandò poi.

“Ho un Tanto appeso alla cintura. Se sai cosa è, ovviamente!”, replicò il più grande, esperto in armi bianche giapponesi.

“Ne ho sentito parlare. Ottimo per tagliare gole!”, ribattè Matteo.

“Senti, possiamo anche stare qui a fare conversazione ma mi sa che la continueremo in paradiso se quelli ci scovano. Cerchiamo di andare verso la Fiumara. Scavalchiamo il muro per andare sulla strada parallela al centro commerciale. Ok?”, propose Marco.

“Perfetto. Dammi un po' il coltellino svizzero. Non si sa mai...”, esclamò Matteo, stendendo la mano destra per farsi consegnare il Tanto.

“Spiritoso!”, replicò l'altro ragazzo, consegnando però il coltello ninja.

Scavalcarono la recinzione ma nella suddetta strada erano fermi due camion militari. La via d'accesso alla Fiumara era chiusa.

“Che facciamo ora?”, chiese Matteo, iniziando ad avere paura. La scarica di adrenalina provata prima si era già dissolta e aveva lasciato il campo all'incertezza e alla disperazione.

“Torniamo indietro e passiamo da dietro il supermercato. Dovremmo sbucare dal ponte della ferrovia”, rispose Marco, accortosi del tono incrinato del ragazzino.

Matteo annuì e seguì l'amico. Quasi a gattoni, arrivarono dal cavalcavia ferroviario e stavano quasi per attraversare per accedere al centro commerciale, quando udirono, di nuovo, sparare. Si buttarono in un'aiuola ben sapendo che erano completamente allo scoperto.

Poi udirono gridare. Una voce femminile. Entrambi rabbrividirono pensando alle loro amiche all'interno della Fiumara. Sentirono dei passi di corsa e un respiro affannoso. Si alzarono in piedi e Matteo riuscì ad afferrare il braccio di quella che era una ragazza poi tutti e tre si rifugiarono in una galleria a lato del ponte.

“Ehi, ehi, tranquilla. Non vogliamo farti del male”, disse, sottovoce, Matteo, alla ragazza che singhiozzava disperata per cercare di calmarla.

“Falla tacere, Matteo. Maledizione! Ci farà scovare!”, esclamò, furioso, Marco, cercando di sbirciare fuori da quel tunnel, chiamato, familiarmente, 'passaggio dei drogati'.

“Sh! Sh!”, mormorò Matteo, abbracciando la ragazza.

“La conosci?”, chiese Marco, ben sapendo la nomea di 'dongiovanni' che aveva Matteo.

“No!”, rispose l'altro, cullando la ragazza che continuava a piangere ma in modo silenzioso.

“Ma pensa....ti sarà sfuggita!”, esclamò, ironico, il più grande.

“Eh, spiritoso”, replicò il più piccolo. “Vedi qualcosa?”, aggiunse, poi.

“No, ma sono qua fuori. Ne sono sicuro!”, rispose Marco.

“Che facciamo?”, chiese Matteo. “Ci vorrebbe un piano...”, aggiunse, sovrapensiero.

“L'importante è che non sia alla Dean...”, affermò Marco.

“Ahaha, anche tu con questa frase. Sei stato contagiato anche te dalle ragazze, vedo!”, esclamò Matteo. “Che poi devo ancora sapere a cosa si riferisce...”

“A un malefico telefilm che vedono loro. Anche io devo farmelo spiegare...”, replicò Marco.

Dopo alcuni minuti di silenzio, Marco si avvicinò a Matteo e bisbigliandogli in un orecchio, gli disse: “Mi sembra ce ne siano tre qua fuori. Vado all'esterno e mi arrendo. Mentre loro sono intenti a guardarmi, sgattaiola da dietro e corri con la ragazza verso il centro commerciale. Io ho la katana, in qualche modo ce la dovrei fare. Ci vediamo dopo”

“Tu sei matto. Non ti lascio qui a farti prendere. Avrai anche la spada lunga ma quelli hanno il mitra!”, esclamò il ragazzo, tirando fuori il Tanto e togliendogli il fodero. “Fai finta di arrenderti e io gli passo da dietro. Quando tiri fuori la spada lunga, io gli taglio la gola con questo”, aggiunse, poi, agitando il pugnale.

“Possiamo prenderne uno solo in questo modo e gli altri due?”, domandò, serio, Marco.

“Non ti preoccupare. In qualche modo faremo!”, rispose il ragazzino.

“Ah, certo, tutta questa baldanza, per via della figliola! Dove è finito il ragazzino tremante di poco prima?”, mormorò Marco, mentre usciva dal tunnel.

“Ok! Ok! Mi arrendo! Mi avete preso! Bravi! Bravi!”, gridò Marco, con le braccia in alto, facendo più baccano possibile per coprire i movimenti degli altri due ragazzi.

Sapeva che non era in un videogioco ma si sentiva tanto l'eroe di turno di quel determinato livello. E poi sostenevano che quei giochi erano malsani e troppo violenti. Se non si fosse allenato per così tanti anni non avrebbe mai avuto il coraggio di scovare un piano tanto audace. Come diceva Francesca, sperava solo che fosse un piano di Sam!

“In ginocchio! In ginocchio!”, esclamò uno dei tre soldati.

“Ok! Ok! Tranquilli. Tanto cosa volete che possa fare. Le armi le avete voi...”, esclamò, ironico, inginocchiandosi a terra, mentre gli altri due gli avevano puntato i fucili addosso.

Prima di uscire dalla galleria, si era sistemato la spada dietro la schiena con la punta nei pantaloni e l'elsa proprio sotto la nuca in modo da estrarla senza impedimenti. Mise le mani dietro la testa e con la destra, tastò il manico della spada. Pregò ardentemente che tutti quei soldi sborsati per quell'affare ne valessero veramente la pena, visto che si trattava della sua vita e quella di altri due ragazzi.

Non appena vide che i soldati si erano rilassati un pochino, con un veloce scatto della mano, tirò fuori la katana e con un colpo deciso e violento, tagliò di netto le gambe al sodato più vicino a lui, il quale urlò dal dolore e stramazzò a terra, in un lago di sangue.

Nell'attimo di incertezza nel quale gli altri due erano piombati, Matteo si materializzò dietro a uno di loro e mettendogli una mano sulla bocca, con l'altra gli tagliò la gola con il Tanto. Il terzo uomo fu subito addosso al ragazzo, ma si afflosciò a terra esanime quando Marco gli centrò la testa con un sasso raccolto prima nell'aiuola.

“Uao!”, esclamò Matteo. “Niente male come squadra d'assalto!”

“Già! Ottimo lavoro, Matteo!”, replicò Marco, battendo il cinque con l'altro ragazzo. “Svelto, prendi la ragazza e filiamo alla Fiumara!”, ordinò Marco.

Mentre Matteo andava a recuperare la ragazza, Marco raccolse le armi dei soldati. Un mitra, due fucili e tre pistole. Cercò nelle tasche i proiettili e mentre lo faceva si rianimò quello centrato dalla pietra. Senza pensarci due volte, Marco lo trafisse con la katana, non provando alcun rimorso. Gli venne in mente la citazione latina, di origine medievale, studiata durante gli anni del liceo scientifico 'mors tua vita mea'. Anche il latino serviva, se volevano sopravvivere a quel caos!

Corsero a perdifiato nel centro commerciale e giunti dalle porte, dovettero bussare affannosamente sulle vetrate per farsi aprire dalle ragazze spaventate. Solo quando si ritrovarono al riparo, tirarono un sospiro di sollievo e si resero conto di quello che avevano fatto. Non provavano alcun rimpianto ma erano consapevoli di aver appena attraversato un punto di non ritorno, ma poco importava in fondo: avrebbero ucciso e ucciso ancora per sopravvivere e per proteggere i propri amici.

 “State bene? Siete feriti?”, chiese Chiara, avvicinandosi a loro e vedendo i loro abiti macchiati di sangue

“Non è sangue nostro, se è a quello che ti stai riferendo!”, esclamò Matteo, rendendosi conto che aveva tutta la maglietta, le mani e il viso insanguinato. “Non ci posso credere. Ce l'abbiamo fatta!”, aggiunse poi il ragazzo, sedendosi di schianto su una sedia.

“Direi, a tutti gli effetti, che era un piano di Sam!”, replicò Marco, quando vide arrivare Francesca.

“E se siete qui, tutti e due, direi proprio di si!”, esclamò lei, ridendo.

“Andatevi a dare una ripulita e poi cercatevi degli abiti puliti nel mucchio che trovate in fondo alla galleria principale. Lì abbiamo stivato tutto quello c'era dentro ai negozi che abbiamo svuotato”, disse loro Chiara, sollevata per non dover ricucire nessuno.

“Crocerossina, non mi sono dimenticato della farmacia”, esclamò Marco. “Domani mattina, andiamo a ripulirla. Va bene?”, aggiunse poi.

“Grazie. Non ne dubitavo affatto, visto il vostro coraggio!”, replicò lei, sorridendo.

La mattina successiva, come aveva predetto Michela, tutto quello preso dal supermercato nella notte, era già finito; dopo aver cambiato, lavato e alimentato tutti i bambini presenti nel centro. Il problema rifornimento era più urgente che mai.

Marco e Matteo dormirono profondamente fino oltre le dieci del mattino. Era stato allestito un letto confortevole nel negozio di una nota marca di lenzuoli e complementi d'arredo e nessuno aveva avuto rimostranze da fare, visto che era l'unico letto presente in tutti i negozi. Quei due ragazzi, oltre che essere due eroi, erano anche gli unici in grado di andare a razziare i supermercati e tornare anche vincitori. La ragazza che era stata salvata, Camilla, si era rilevata preziosa in quanto anche lei allieva infermiera e dopo aver giurato eterno amore a Matteo, il quale aveva sancito quel momento con un bel bacio appassionato davanti a tutti gli astanti, ora era diventata parte integrante di quel punto di soccorso e coordinamento.

Francesca, Marta e Michela erano esauste. Non avevano dormito un granchè, troppo occupate a coordinare, cullare i bimbi e rassicurare quei pochi adulti rimasti, e non vedevano loro di tornare a casa di Claudia. Francesca non riusciva a far funzionare quel marchingegno della rice-trasmittente. Non vedeva l'ora che si svegliasse Marco per farsi spiegare il funzionamento di quel malefico aggeggio. Sapeva che la sua ex-insegnante sarebbe stata preoccupata per l'assenza di informazioni ma non poteva farci niente. Se solo avesse potuto avere un telefonino funzionante...

“Buongiorno, principesse!”, esclamò Matteo, entrando in un negozio adibito a enorme asilo nido. Un sacco di bambine stavano giocando con abiti da donna che le facevano assomigliare a tante piccole Biancaneve. Gli fecero l'inchino e qualcuna riuscì anche a stampare sul suo viso un sonoro bacio.

“Ma che ci fai tu alle donne?”, chiese Michela, responsabile di quel particolare angolo della Fiumara.

“Me lo sono sempre chiesto...”, rispose lui, cercando di svignarsela prima che tutte quelle bambine se lo mangiassero vivo. “Hai per caso visto Camilla?”, le chiese, poi, guardandosi in giro.

“Eh, già, Camilla!”, sospirò Michela. “E' con Chiara. Stanno facendo il giro dei bambini malati!”, aggiunse poi Michela, prendendo in braccio Aurora, sua nipote.

“Ah, giusto. La farmacia. Appena quell'orso che ha russato per tutta la notte, assordandomi un orecchio, si sarà svegliato, andiamo dalla farmacia. Vado a vedere se posso fare colazione!”, esclamò, prima di svanire oltre la porta.

Nella zona ristoro, dove prima c'erano piccoli ristoranti e tavole calde, ora c'erano solo tavoli desolatamente vuoti tranne alcuni, dove Francesca aveva stabilito il suo regno fatto di fogli, penne e quaderni, dove catalogare tutto quello che c'era all'interno del centro commerciale e soprattutto ciò che serviva ai bambini per ogni cambio e a ogni pasto. Doveva tenere presente anche le esigenze di quelli che lavoravano in quel posto e organizzare i turni. Si lamentava del caldo, dell'immane lavoro che c'era da fare e del fatto che le mancasse la foto del suo beniamino, un attore americano. Di altro non le importava.

“Non hai dormito per niente stanotte?”, la rimproverò Marta, andandole vicino con una tazza di caffè liofilizzato, scaldato con quelle meravigliose scaldavivande a candela scovate in un negozio di casalinghi. “Mettici tanto zucchero. Ok?”, aggiunse la ragazza, preoccupata per il pallore della sua amica.

“Grazie Marta. Sei un'amica preziosa. Senza di te o Michela, sarei persa qui dentro!”, esclamò, accettando con gratitudine, la tazza offertale dalla ragazza.

Marta, come al solito, si schermì, dicendo che erano tutti nella stessa situazione e perciò aiutarsi a vicenda faceva parte del loro modo di sopravvivere. Non era così. La loro amicizia era duratura e sincera e si facevano coraggio e forza una con l'altra. Se non fossero state tutte e tre assieme in quel frangente, non ce l'avrebbero mai fatta!

Neanche a farlo apposta, arrivò Michela. Con la sua irruenza fece subire scattare il sorriso nelle altre due. Senza la sua ilarità contagiosa e il suo modo di affrontare le difficoltà, la depressione l'avrebbe fatta da padrona!

“Ho appena visto Matteo. Ragazze, che figo che è!”, esclamò Michela, sedendosi di fronte a Francesca.

“Come al solito Michela, guardi sempre il lato sexy della faccenda, vero?”, la sgridò Marta, bonariamente.

“Oh, Marta, su, non si può sempre fare le serie...”, sbottò la ragazza più piccola, dando un colpo sul tavolo e provocando un terremoto sulla superficie. Caddero a terra, penne e fogli vari.

“Ahaha, è arrivata Michela!”, rise Francesca, rassicurata, dalla presenza della sua amica.

“Cosa facciamo adesso?”, chiese Michela, dopo aver tirato su tutto quello che aveva fatto cadere.

“Dovrei riuscire a mettermi in contatto con Claudia. Spero che Marco si svegli al più presto, così gli faccio vedere la cosa diabolica perchè io non riesco proprio a farlo funzionare”, esclamò la ragazza più grande. “Spero mi mandi giù qualcuno per il cambio! Ho proprio bisogno di una doccia. Mi sento i capelli uno schifo”, aggiunse poi Francesca, facendo una smorfia, mentre si toccava la testa.

“Ah, non mi parlare dei capelli che i miei sembrano delle serpi. Unti e bisunti...”, replicò Michela, cercando di legarsi i capelli con una matita.

“Non dobbiamo fare una sfilata di moda, Michela”, esclamò Marta, sospirando.

“No, certo che no, ma essere in ordine mi fa sentire più a mio agio. E poi non dobbiamo lasciarci andare....”, ribattè la ragazza. “Va bene, andrò a vedere cosa fanno le ragazzine che ho lasciato a dare un'occhiata alle bimbe”, aggiunse Michela, alzandosi in piedi.

“Michela, senti, un'idea mi è venuta. Organizza un gruppo di aiutanti, quell più intramprendenti e istruiscili su come cambiare i bimbi e su cosa dar loro da mangiare. Una sorta di tutor. Organizzali come se foste una gerarchia. Tu, il capo, poi quella che ti sembra più promettente, la promuovi vice e così via. Organizza i turni e poi me lo comunichi. Ok?”, esclamò Francesca, all'improvviso.

“Si, certo, idea geniale. Così non mi annoio e riusciamo a fare un lavoro migliore. Vado subito. Grazie, Francesca!”, esclamò Michela, entusiasta. Si sentiva utile e con un lavoro di responsabilità.

“Sono sicura che farai un ottimo lavoro!”, disse Francesca, convinta che la ragazza fosse adatta per quel lavoro. D'altronde, con la nipotina così piccola, era l'unica che sapeva qualcosa di pannolini e biberon vari. “Michela, però, tieniti a disposizione. Se Marco si decidesse a svegliarsi, andrai con lui in farmacia. Il tuo compito è doppio!”, aggiunse Francesca.

“Ok, Frutta. Per un po' di azione sono sempre disponibile!”, gridò Michela, ormai dall'altra parte del centro commmerciale.

“Perchè dovrà chiamarmi Frutta, poi?”, mormorò Francesca, tornando alle sue carte.

Intorno all'una, dopo che Marco, Matteo e Michela erano andati a visitare un paio di farmacie della zona e nel centro regnava la calma più assoluta, visto che i bimbi facevano il riposino pomeridiano, arrivarono alcuni ragazzi.

“Ci hanno detto che tu sei il capo, qui!”, disse uno di loro avvicinandosi a Francesca.

“Così dicono... Di cosa avete bisogno?”, chiese lei sulla difensiva. Rimpianse di non aver dato ascolto a Marco il quale aveva insistito che portasse a dietro sempre una pistola. Anche se non la sapeva usare, era un deterrente a qualsiasi bellimbusto si fosse presentato lì a far razzie. Non tutti erano disponibili a fare le crocerossine o ad avere un buon cuore.

“Abbiamo sentito che avete bisogno di un po' di ragazzi per andare a cercare la roba nei supermercati. Ebbene ci offriamo volontari!”, replicò quello.

“Bravi. Trovatevi un posto dove aspettare Marco. E' lui il capo in questo settore. E' fuori a cercare nelle farmacie. Quando arriva vi mettere d'accordo con lui e il suo secondo, Matteo. Ok?”, disse Francesca, lieta che non ci fosse bisogno di tirare fuori armi o quant'altro. La sua anima da pacifista si stava sciogliendo come neve al sole. Decise così di andare negli uffici della vigilanza dove erano state riposte le armi e prendersi una pistola. Sapeva che con quel gesto, la Francesca di un tempo, (solo qualche giorno prima) non esisteva più!

Alle due e mezza arrivarono i cambi. Valentina, Claudia e Ilaria fecero il loro ingresso in quel santuario del consumismo, assunto in quel particolare frangente a ultimo baluardo della loro civiltà.

Valentina, 20 anni, era una ragazza riservata, un bel po' chiusa tanto che a volte sembrava non interessata a quello che la circondava. Ricordava, per certi versi, il carattere di Marta. Aveva un avversione particolare verso le ingiustizie e si dannava per tutti quegli esseri indifesi come bambini maltrattati, anziani e animali. Non si fidava subito delle persone ma quando lo faceva, avrebbe fatto qualsiasi cosa per loro. Claudia, con il soprannome di D'Alex, sorella di Marco, 19 anni, era una ragazza sicura di sé e determinata. Insomma una combattente nata. Le piacevano molto i bambini e aveva una particolare predilezione per tutto quello che era legato ai manga giapponesi. Li amava talmente tanto da seguire la moda dei cosplay. Inoltre aveva l'invidiabile abilità di saper sparare e di conoscere un po' le armi, visto che il suo ex-ragazzo era un soldato e le aveva insegnato a usarle. Perciò tutti sapevano che non dovevano farla arrabbiare. Marco, compreso!

Ilaria, 19 anni, era la paladina degli animali. Tutte le attività che riguardavano la salvaguardia di cani, gatti e quant'altro la vedevano in prima fila. Era testarda ma dal cuore grande come una casa. Altruista e generosa come poche. Niente la smuoveva se non un paio di zampine e quei meravigliosi cuscinetti rosa sotto di essi appartenenti a un gatto!

“Fra, ciao, sono arrivata a darti il cambio. Claudia è molto preoccupata perchè non ti ha più sentito,. Problemi con le rice-trasmittenti?”, chiese Valentina, appena vide la ragazza.

“Oh, fantastico, Vale! Si quelle trappole infernali!”, rispose Francesca, rincuorata dalla presenza della ragazza.

“Vieni che ti faccio vedere, così puoi dire a Cla che stai bene e state per andare su!”, eslcamò Valentina, accompagnando la sua amica fuori dal centro.

“Michela, ciao”, disse D'Alex, avvicinandosi alla ragazza ma poi si avvide che stava spiegando ad alcune dodicenni o giù di lì, come cambiare un bimbo e visto la sua calma e pazienza nello svolgere quel particolare compito, rimase ad osservarla con attenzione rapita.

“Ciao, D'Alex! Che piacere. Anche tu, qui a dare una mano. Fantastico!”, esclamò Michela.

“Vorrei dart una mano. Ti va bene se ci diamo il cambio in questo lavoro?”, chiese la ragazza più grande, un po' titubante.

“Certo, sei la benvenuta! Vieni, ora ti spiego cosa mi ha chiesto di fare Francesca”, disse Michela, con entusiasmo.

Ovviamente Marta e Ilaria si lanciarono in appassionati discorsi, dopo che Ilaria l'aveva messa al corrente che serviva una squadra di recupero animali. Dove trovare posti per accudirli, dar loro da mangiare e proteggerli.

Dopo un'ora Francesca, Marta e Michela poterono lasciare il forte in mani sicure e tornare al loro nido o quello che ormai era diventata la loro casa. Erano riuscite a comunicare a Claudia il loro rientro ed erano contente di aver dato una mano a salvare quei piccoli indifesi. Lungo la strada, ognuna di loro era persa nei loro pensieri. Ognuna nel progetto che voleva portate avanti. Ognuna sicura che aveva contribuito a salvaguardare quel po' di civiltà che era rimasta, nonostante tutto!

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Capitolo 8
*** Settimo Capitolo ***


Settimo Capitolo

 

Il cane è la virtù che non potendo farsi uomo, si è fatta bestia”

Victor Hugo

 

La sera passò tra il trasferimento dei bambini nella struttura scolastica messa a disposizione dalle due giovani suore e il coordinamento di un minimo di protezione da attuare attorno alla stessa struttura e al palazzo dove si trovava il 'nido', cioè la casa di Claudia. Luogo che era stato eletto come centro di riferimento per tutti quelli che volevano far parte di quel nucleo di temerari che si opponevano all'inevitabile.

Rendere agevole il pernottamento a quel centinaio di bambini e adolescenti in una scuola, dotata solo di duri pavimenti, con poche coperte e qualche raro cuscino, fu sfiancante per tutti.

“Fino a otto anni i bambini sono in tutto e per tutto dipendenti dai propri genitori”, esclamò Chiara, detta Mo, una ragazzina di quindici anni che ci aveva raggiunto in serata. Capelli biondi, occhi verdi, era considerata carina ma brillante e astuta. Unico neo, la sua fobia degli insetti.

“Di certo non abituati a dormire in terra su una coperta, senza alcun comfort”, replicò Federico, cercando di convincere alcuni pargoli a sdraiarsi su quei giacigli improvvisati.

“E se li convincessimo che è tutto un gioco?”, chiese Desirèe, quando fu chiaro che la situazione stava degenerando.

“E come, di grazia?”, fece Daniele, confuso

“Bè, se ci facciamo vedere così nervosi e spaventati, capiscono che c'è qualcosa che non va”, rispose Desi “cominciamo a giocare noi...”, aggiunse poi, l'intraprendente ragazzina dando una cuscinata a Federico.

Il ragazzo dapprima non capì il gesto e stava per inalberarsi, poi si accorse del sorriso sornione stampato sul volto di Desi e capì tutto. A quel punto diede anche lui un colpo a Desi e da lì iniziò una battaglia epica fra ragazzi e bambini. Seguirono dieci minuti di urla, risate e caos collettivo.

“Madonna benedetta dell'Incoroneta!”, esclamò Antonio, affacciandosi all'aula, dominata da candele tremolanti, figure evanescenti e piume d'oca sparse ovunque. “Ma che vi ha preso?”, chiese, poi, entrando dentro.

“Errore, Antonio! Errore!”, esclamarono all'unisono Federico e Daniele, colpendolo all'improvviso.

E la battaglia ricominciò!

Alla fine i bimbi crollarono tutti addormentati e fu facile metterne cinque o sei uno vicino all'altro e ricoprirli con le coperte rimanenti.

Desirèe e Antonio furono lasciati a presidiare la struttura e a pensare a come organizzare la giornata successiva. “Se ci fossero problemi, vi faccio una segnalazione in alfabeto morse con la torcia qui fuori dal giardino verso i poggioli del nido. Ok?”, disse Desi, mentre i ragazzi stavano per tornare al nido.

“Alfabeto Morse?”, chiese Federico, dubbioso. “Posso farti una traduzione dal latino di una miniatura del 1100 ma quella serie di punti e linee non è il mio forte”, aggiunse, poi, sconsolato.

“Claudia, dovrebbe saperlo”, rispose Desirèe, sicura. “Ve lo insegnerà lei”

“Bene, pensavo che la scuola fosse defunta”, affermò Chiara Mò, triste. “Dovremo ancora studiare altre cose, invece...”, disse afflitto Daniele.

Era mezzanotte. Il ritorno a casa fu veloce per evitare pattuglie, in ogni caso il pensiero di tutti era quello di una doccia e un letto soffice e caldo.

Li sentii venire su per la salita nonostante non parlassero, in quanto il silenzio della città accentuava ogni rumore e così, dopo un po', uscii sul pianerottolo, aspettando quella parte di Cavalieri. Nel frattempo Francesca, Michela e Marta dormivano nella mia stanza, tenendosi abbracciate le une alle altre come se avessero paura che una di loro potesse essere portata via a loro insaputa. Anche il piccolo agglomerato di cani e gatti riposava placidamente.

Il primo che comparve dalle scale fu Daniele, tutto sudato, scarmigliato. Lui sempre tutto preciso, mi fece allarmare subito.

“Cosa è successo?”, esclamai.

“Niente. Tutto a posto!”, rispose lui. Lo guardai in volto. Era stanco ma stranamente calmo.

Poi arrivarono tutti gli altri. Tra di loro anche due ragazzini. Li conoscevo bene. Venivano a fare i compiti da me: Matteo e Ilaria. Dodici anni il primo e otto la seconda. La piccola non riusciva proprio a smettere di piangere e così i ragazzi li avevano portati su nella speranza che la bimba potesse dormire in un luogo che conoscesse. Infatti quando mi vide mi saltò in braccio e smise immediatamente di singhiozzare, stringendomi al collo.

"Voglio la mamma! Voglio la mamma!", continuava a ripetere, ossessivamente.

"Lo so, piccola. Vedrai che la ritroviamo la tua mamma!", le dissi io, cercando di tranquillizzarla.

Quella frase gettò nello scompiglio tutti gli altri, però.

"E' vero, cavolo, ci siamo presi la briga di aiutare i bambini degli altri, ma per i nostri genitori non abbiamo fatto niente", esclamò Daniele, improvvisamente esagitato.

"Già, chissà dove gli avranno portati. Bisogna, al più presto, chiedere informazioni ai soldati su dove hanno portato gli adulti e per quanto tempo dovremo stare qui. Se corriamo dei pericoli, perchè siamo ancora qui?", ribattè Federico, dando corda a Daniele.

Stavano gridando e parlavano tutti insieme. MI venne l'impeto di dir loro di non far rumore come se fosse una delle solite nostre serate sabatali quando venivano da me a vedere i film. Poi, ricordai che i vicini rompiscatole non c'erano più. Purtroppo!

“Ragazzi, per favore, avete ragion!. Ne parliamo domani mattina e fare un piano su come trovare queste informazioni. Anche io vorrei sapere se mio zio o mia sorella stanno bene e se sono stati portati via, dove li hanno trasferiti. Ora, però, dobbiamo decidere dove dovete dormire. Su, che è tardi!”, dissi loro, con il mio tono da mamma – chioccia. Si zittirono tutti.

“Bene. Voi maschi starete nell'appartamento accanto al mio. Ci abitava il cugino di Michela, così con le chiavi che i suoi genitori tenevano in casa, siamo potuti entrare, senza scassinare la porta e abbiamo sistemato un po' per farvi riposare. La doccia la potete fare ma solo fredda. Se volete lavarvi i denti o farvi la barba ci sono le bottiglie d'acqua. Non fidatevi dell'acqua che viene giù dai rubinetti. Non bevetela. Non è più controllata alla fonte e potrebbe essere inquinata”, spiegai loro, mentre aprivo la porta e facevo vedere loro un letto matrimoniale in una camera e un divano preparato nella sala. "Ah, dovreste anche fare dei turni di guardia", aggiunsi, poi.

“Allora io faccio il primo”, esclamò Daniele. “Mi metto dal poggiolo della cucina”, aggiunse, andando sul balcone per vedere cosa si riuscisse a vedere da lì. “Perfetto. Entrambe le strade. Farò fino alle quattro. Poi sveglio Fede...”, disse il ragazzo, ma fu interrotto dalla mia voce.

“No, turni di due ore. Siamo troppo stanchi. Potremmo addormentarci. Alle quattro lo faccio io dal poggiolo della mia camera. Se ci sono problemi bussate sul muro nella sala d'ingresso”, esclamai io.

“Si, ma da te non si vede la strada qui sotto”, esclamò Federico.

“Allora il turno lo faccio io”, disse Matteo piccolo.

Lo guardammo tutti come se fosse comparso all'improvviso. Lui ci osservava con quell'espressione fiera che gli avevo visto tante volte quando raccontava come si allenava per passare di livello a kung fu.

“Non sei un po' piccolo per stare di guardia?”, chiese Daniele, scettico.

“E dimmi, tu dove ce l'hai l'esperienza per farlo?”, ribattè il ragazzino.

“Uh, lingua saccente anche...”, replicò Federico, ridacchiando. “Allora il figliolo dorme con noi e alle quattro fa il turno con te, Claudia. Tu guardi dalla parte di Via G.B.Monti bassa e corso Martinetti, mentre lui controllerà qua sotto. Alle sei lo faccio io da solo. Ok?”, spiegò il ragazzo.

Annuimmo tutti.

Detto ciò, i maschi presero possesso dell'appartamento indicato, mentre Chiara, detta familiarmente Mo, si accontentò di stare su una poltrona, avvolta da un plaid di pile nella mia casa.

Sfinita per gli eventi drammatici degli ultimi giorni, mi addormentai sul divano dello studio, assieme a Ilaria e circondate da quei piccoli esseri pelosi che avevano bisogno, anche loro, di affetto e presenza. Alle quattro mi sedetti su una sedia sul balcone della cucina. Tutto era tranquillo. Quando iniziò ad albeggiare, me ne tornai sul divano. Faticai un po' a trovare spazio tra zampe, code e braccia ma alla fine riuscii a trovare il modo di accocolarmi tra la bimba e gli amici pelosi.

Fui svegliata da un meraviglioso aroma di caffè che aleggiava in casa. Per un attimo pensai di aver avuto un incubo e non mi stupii un granchè di non essere su un letto. Non era la prima volta che venivo colta dal sonno nello studio magari mentre leggevo un bel libro. Poi, quando aprii la porta e uscii in corridoio, sentii un certo brusio provenire dall'altro appartamento e infatti in cucina trovai un biglietto che mi diceva dove erano i ragazzi e una caffettiera ricolma di caffè caldo sul fornelletto a gas mi aspettava. Mi servii di una generosa dose, mi feci una doccia veloce e mi cambiai. Mentre mi vestivo, mi sforzai di trovare una soluzione al drammatico problema del lavaggio degli abiti. Lo aggiunsi alle altre innumerevoli questioni irrisolte. Il mio arrivo nella cucina dell'appartamento attiguo fu accolto da un coro di ' Buongiorno, ben svegliata' ,

“Buongiorno anche a voi, ragazzi. Grazie per il caffè. Era buonissimo. Aggiornatemi, per favore!”, dissi loro, mentre mi sedevo guardando con attenzione i presenti. Federico, Daniele, Simone MatteoTi assieme a Francesca, Michela, Chiara Mo e Ilaria. Tutti ben svegli e animati da una gran volontà di fare qualcosa di importante.

“Per quanto ne sappiamo la notte è stata tranquilla dalla Fiumara. Marco e Matteo stanno venendo su. Hanno trovato un gruppo che può dare loro il cambio. Così avranno il tempo per riposarsi.”, spiegò Federico.

“Io sto per andare alla Fiumara con Michela, così le altre possono venire su. Marta è andata giù da Desi a dare una mano.”, continuò Francesca. “Simone, Federico ed io volevamo andare dalla Decathlon per cercare tende e brande”, concluse Daniele.

“Perfetto. Avete già trovato il modo di andare fino là?”, chiesi loro, mentre scrivevo su un foglio le varie mansioni di ogni membro in modo che tutti sapessero cosa facevano gli altri e soprattutto dove trovarli in caso di emergenza. Lo avrei affisso sulla porta dell'ascensore nell'atrio del palazzo.

"Ci stiamo lavorando", disse Simone, assorto, mente guardava una cartina,

“Per quanto riguarda il rifornimento?”, chiesi, poi, aggiungendo quella voce al foglio.

“Lo faranno Marco e Matteo nel pomeriggio”, disse Federico, mentre guardava Simone che, con un dito percorreva il tragitto che avrebbero dovuto compiere per portare a termine quella missione.

"Ah, una cosa importante, per favore, tutti, oggi, dovranno chiedere ai soldati, se li incontrate, dove sono i vostri genitori. Mi raccomando, chiedetelo a tutti. Magari uno non vi risponderà ma può darsi che qualcuno lo faccia. Fatelo con insistenza anche a costo di chiederlo in lacrime. Forse susciterete un po' di compassione!", esclamai, cercando di far capire loro che era venuto il momento di risovere quella situazione.

In quel mentre si sentirono rumori dal pianerottolo. Ci irrigidimmo tutti. Alcuni colpi risuonarono sulla porta del mio appartamento e poi la risatina di Matteo ci rasserenò tutti.

“Cavolo! Dobbiamo anche organizzare i turni di guardia per oggi!”, esclamò Federico.

“Dobbiamo avvertire Antonio così può cercare qualche ragazzino che faccia questo lavoro”, dissi io, mentre andavo ad aprire la porta.

“Ma pensa... Bussiamo da una parte e tu esci dall'altra. Ciao, Claudia...”, esclamò Marco sorpreso.

“Mi hanno raccontato grandi imprese su voi due, ragazzi!”, replicai, mentre abbracciavo entrambi i ragazzi.

“Così dicono...”, ribattè Matteo imbarazzato per l'accoglienza calorosa ricevuta, visto che anche gli altri fecero loro i complimenti. “Bè, con noi c'era anche Michela...”, aggiunse il più giovane degli eroi. La ragazza si imporporò e desiderò ardentemente sparire da tutti quegli sguardi ammirati. “Non ho fatto nulla io...”, cercò di schermirsi la ragazza.

“Si, si, dicono tutti così...”, esclamò Federico, stringendole la mano per complimentarsi con lei.

“Ok, allora vediamo un po' di metterci d'accordo sui turni di guardia....”, aggiunse il ragazzo, ottenendo così l'attenzione di tutti gli astanti.

"Mi raccomando, cominciate a raccogliere informazioni. Guardatevi attorno e assimilate ogni informazione. E chiedete ai militari. Ogni più piccolo particolare è fondamentale. Dobbiamo assolutamente trovare dove sono stati portati i vostri familiari. Poi, stasera, vaglieremo quello che avete raccolto!", esclamai, prima di tornare nel mio appartamento.

******************

Nel frattempo Marta che aveva accettato di andare giù da Desirèe e Antonio ad accompagnare due bimbetti che Simone aveva trovato vagare per la strada, stava rientrando al nido, quando incrociò due ragazze che venivano giù di corsa dalla scalinata.

“Ehi, succede qualcosa?”, chiese loro, incuriosita dal loro atteggiamento.

“Siamo andate su a Belvedere dagli scouts per vedere se c'era qualcuno dei capi ma non abbiamo trovato nessuno, ma poi un cane ci ha rincorso e siamo corse giù per questa stradina”, esclamò una di loro.

“Hanno trascorso tre giorni senza cibo, sono sicuramente denutriti, ma rabbiosi?! Avevano perfino la bava alla bocca...”, spiegò l'altra ancora spaventata, visto che continuava a voltarsi indietro.

Marta guardò la scalinata e poi si volse verso il palazzo, sede del 'nido', indecisa sul da farsi. Era tentata di andare su a vedere perchè i cani fossero così inferociti. 'Strano, molto strano. La fame poteva essere una spiegazione ma non quadrava del tutto!', pensò la ragazza. Non poteva però allontanarsi senza avvisare qualcuno. “Sentite, andate dal bar dove c'è il grattacielo”, disse Marta, indicando loro dove si trovava il locale, “troverete un ragazzo. Si chiama Simone. Mi conosce. Ditegli che Marta è andata a Belvedere e se possono mandarmi qualcuno ad aiutarmi. Ok?”, spiegò alle due ragazze. Mentre stava già salendo i primi scalini, ripetè il suo nome e quello di Simone.

In poco tempo Marta arrivò sul piazzale davanti all'antico santuario di Nostra Signora di Belvedere. Chiesa edificata nel XIII secolo ha un prezioso piccolo chiostro aperto e affreschi molto preziosi dietro l'altare. Vide molti ragazzini, appartenenti agli scouts, che tentavano di organizzare un campo di accoglienza nel campo da calcio lì vicino.

“Chi è il vostro capo?”, chiese Marta a un giovane che sembrava essere il più grande.

“Sono io. Non c'è nessun altro. I grandi non si sono presentati al raduno né ieri e né oggi. Abbiamo segnalato con il fischietto l'adunata ma nessuno si è fatto vivo”, spiegò il ragazzino, con un espressione a metà tra l'arrabbiato e il rassegnato.

“Per grandi, cosa intendi?”, chiese Marta, confusa.

“Intendo i nostri capi. Ragazzi più grandi, di sedici o diciotto anni”, rispose quello. “Se capita qualcosa, viene indetta una riunione e per chiamare tutti, viene suonato il fischietto che ha una portata molto lunga, anche qualche chilometro. In modo che tutti lo sentano...ma a quanto pare non sono a casa...”, spiegò lui, incerto.

“Senti, mi hanno detto che da queste parti ci sono dei cani affamati. Sai mica dove potrei trovarli?”, chiese Marta.

“Sono su al Forte Crocetta”, rispose sicuro il neo capo-scout. “Stai attenta. Sono riunchiusi dentro. Nei giorni scorsi ne sono scappati alcuni e hanno morsicato molte persone”, aggiunse poi. “Sai mica cosa possiamo fare per renderci utili?”, chiese poi alla ragazza, con tono supplichevole. “Dovrei saperlo ma ero solo vice-capo prima e il mio compito era solo quello di montare tende”, disse, poi, imbarazzato.

“Andate giù per salita Belvedere finchè non giungete in Via G.B.Monti. Là, dal grattacielo, c'è un bar e una tabaccheria accanto. Chiedete di Simone. Lui sicuramente saprà cosa farvi fare. Vedrai, vi renderete utili”, esclamò la ragazza, allontanandosi.

Marta si incamminò lungo la strada che l'avrebbe portata al sentiero, attraverso il quale, inerpicandosi su una ripida salita, sarebbe giunta davanti al forte Crocetta. 'Questo forte, edificato su un vecchio convento e fortificato una prima volta nel 1747 durante l'assedio austriaco e nel 1815 fu ricostruito ed ampliato con un piano sopraelevato. Entrando dal portone principale della fortezza si accede a uno stretto cortile, dove a sinistra vi era collocato il corpo di guardia e di fronte l'alloggio del comandante. Al centro di sviluppa un largo corridoio che porta ad un terrapieno rivolto verso l'interno e a sinistra si trovava il deposito delle munizioni e delle polveri. Nello stesso ambiente si trova una scala che conduce al piano superiore. Nel 1849 i genovesi si arresero senza combattere ai Piemontesi di Lamarmora. Il forte a sua volta venne utilizzato per rinchiudere i rivoltosi e coloro che furono catturati nel forte Tenaglia e Belvedere. Nella seconda guerra mondiale è stato adoperato come rifugio per gli sfollati a causa dei bombardamenti', le ritornò alla mente la spiegazione del Maestro, durante una escursione che avevano fatto tutti insieme qualche anno prima. Sospirò, pensando a come erano cambiate radicalmente le cose. Probabilmente per sempre.

Abituata a fare trekking, la ragazza percorse il tragitto senza accusare alcuna fatica e non si fermò finchè non giunse davanti al gran cancello chiuso della struttura. Non appena si accostò per vedere come entrare dentro, sentì abbaiare furiosamente. Era più una serie di latrati rabbiosi e fu naturale per lei ritrarsi indietro, impaurita. Non si lasciò spaventare, però. Si era accorta che una catena, chiusa da un lucchetto, teneva ferme le due ante del cancello. Riflettè sul come aprire la serratura.

Ci sarebbe voluto un tronchesino. Si guardò intorno alla ricerca di una soluzione. Lo sguardo le cadde su una pietra. La raccolse. La soppesò nelle mani. Forse ci sarebbe riuscita. Iniziò a colpire la parte superiore con il sasso. Si rendeva perfettamente conto che l'impresa era ardua. Solo con un colpo di fortuna ci sarebbe riuscita ma la determinazione non le mancava. Per proteggersi la mano, tirò giù la manica della maglia e se l'avvolse fino a quasi a coprire le dita e continuò a colpire la chiusura. Accanto ai latrati, sentiva distintamente anche guaiti e questo la spronava ancora di più a cercare di aprire quel marchingegno. Poi con un urto più violento, disintegrò la parte frontale del lucchetto che cadde a terra assieme alla pesante catena.

Aprì lentamente una parte del cancello, aspettandosi di essere travolta da qualche cane famelico. Niente di tutto ciò. Vide un gran cortile. Deserto. I guaiti venivano da un edificio basso alla destra della ragazza con alcune finestre protette dalle inferriate. Vide una porta di accesso. Si augurò che non fosse anche quella chiusa. Non aveva più forza per aprirne un'altra. Appena mise la mano sulla maniglia, quella cedette immediatamente, spalancandosi. Un antro scuro le si stagliò davanti. Fu subito colpita da una zaffata maleodorante. Un misto di escrementi, odore dolciastro e sudiciume. Si ritrasse disgustata. un conato di vomito le squassò il ventre. Avrebbe avuto bisogno di un fazzoletto da mettersi davanti al naso. Si tastò le tasche alla ricerca di uno di carta. Non trovò nulla se non la torcia che Claudia aveva voluto che ognuno di loro portasse a dietro.

L'accese e con quel fascio di luce le si rivelò un mondo fatto di orrore, sofferenza e atrocità che solo l'umanità poteva perpretare contro esseri viventi più deboli e indifesi.

******************

Nel frattempo, mentre Daniele, Federico e Simone si apprestavano a recarsi verso il grande magazzino dove avrebbero trovato tende e brande e il necessario per costruire un campeggio degno di questo nome, al nido era giunta Chiara, la nostra infermiera. Aveva bisogno di flebo e antibiotici che non era riuscita a trovare nelle farmacie. Urgeva una visita all'ospedale.

“Allora istruisco un po' di ragazzini dai dodici anni in su. Non so se fidarmi o no ma non possiamo farci nulla. Magari all'inizio li terrò d'occhio e se vedo che stanno attenti e non si addormentano o non fanno gli sciocchi li addestrò con la balestra e l'arco”, esclamò Antonio, uscendo dallo studio e salutando con un cenno la ragazza.

“Ok, Anto. Adesso di guardia, dal balcone della casa qui a fianco c'è Matteo, quello piccolino. Lo chiamiamo Matti, così lo differenziamo da 'Matteo grande', Lo ha già fatto stanotte e Federico che lo ha sorvegliato, ha detto che è attento e voglioso di dare una mano”, esclamai, facendo uscire Antonio e salutando con un abbraccio Chiara, invitandola poi ad entrare nello studio.

“Ciao Claudia. Devo andare in ricognizione all'ospedale. Mi servono delle medicine. Ho bisogno che Michela venga con me. Mi può coprire, mentre cerco quello che mi serve e magari un'altra ragazza, se è disponibile”, mi disse, sedendosi stancamente sulla sedia di fronte a me.

La guardai in viso. Era stanca morta. “Hai dormito stanotte?”, le chiesi mentre guardavo nel foglio che avevo preparato per vedere chi fosse disponibile.

“Una ventina di bimbi hanno la febbre. Pensiamo sia un'epidemia di varicella. Devo idratarli ma non riesco a trovare delle flebo di Ringer o soluzione fisiologica. Perciò l'unica opzione è l'ospedale. Dovremo girare tutti i reparti per cercare più farmaci possibili. E' per quello che ho bisogno di paio di ragazze in più”, rispose lei, ignorando la mia domanda.

“Chiara, se non mi rispondi non vai da nessuna parte!”, le dissi, seria.

“No, sono due notti che non dormo. Non posso farlo. L'altra ragazza non è in grado di far nulla senza di me. Mi verrebbe a svegliare ogni cinque minuti. Tanto vale rimanere sveglia”, mi rispose lei, sincera.

“Ok. Allora mentre io cerco le ragazze e organizzo una spedizione, ti vai a fare una doccia e ti metti giù di là in camera un paio d'ore e ti riposi. Ti sveglio quando sono tutti pronti. Ok?”, dissi io, alzandomi in piedi. “Ti scaldo un piatto di minestra e ti mangi un panino con la carne in scatola, dopo che ti sei fatta la doccia”, aggiunsi, mentre lei andava in bagno.

Lei annuì, troppo stanca per ribattere. Le diedi due asciugamani puliti, e una maglietta e un paio di jeans che avevamo trovato in alcuni negozi del circondario.

Mentre Chiara dormiva, andai giù dal bar. Simone era già partito con Federico e Daniele. Avevano deciso di andare a piedi e poi là avrebbero cercato un veicolo antecedente agli anni ottanta per tornare indietro. Al bancone trovai Giada e Ilaria, la sorellina di Matti. Trovai anche numerosi scouts che si erano accampati fuori dal bar e parlavano con Michela e Mo.

“Avete visto Marta, per caso? Antonio mi ha detto che ha lasciato la scuola più di due ore fa ma su non è tornata?”, chiesi, un po' preoccupata.

“No, qui non l'abbiamo vista”, esclamò Michela. “Pensavo fosse venuta su da te”, aggiunse la ragazza, girandosi a guardare il negozio e poi me con espressione smarrita.

“Marta? Conoscete una ragazza di nome Marta?”, mi chiese una fanciulla che si avvicinò a me.

“Perchè?”, le domandai, sorpresa.

“Ne abbiamo incontrata una dalla scalinata. E' lei che aveva detto di venire qui asserendo di cercare un certo Simone. Però quando siamo arrivate qui non lo abbiamo trovato e poi ci siamo dimenticate di dirlo finchè non abbiamo sentito il nome della ragazza”, esclamò la nuova venuta.

“Sai per caso dove è andata?”, chiesi io, agitata.

“Si. Quando le abbiamo detto che eravamo state rincorse da un cane incontrollabile, ci ha chiesto dove lo avevamo visto e poi si è diretta nel posto che le abbiamo indicato!”

“Un cane idrofobo?”, esclamai a voce alta. “Quale direzione?”, chiesi poi.

“Belvedere!”, rispose uno degli scout. “L'abbiamo vista anche noi questa ragazza. Ci ha chiesto dove poteva trovare quei cani...”.

“Ma cosa le è girato per la testa di andarci da sola??”, urlai in mezzo alla strada. Poi cercai di controllarmi e iniziai a pensare a chi mandarle incontro. L'unica persona disponibile ero io...però era troppo pericoloso per me circolare!

Mentre elucubravo su chi fosse disponibile, arrivò Chiara. Era quasi mezzogiorno. Le ragazze dovevano andare verso l'ospedale. Magari se qualcun altro si fosse palesato...

“Michela, Mo, per favore, dovete accompagnare Chiara a cercare farmaci e attrezzature all'interno dell'ospedale”, dissi alle ragazze.

“E Marta?”, mi chiese Michela, sorpresa. “Pensavo che dovessimo andarla a cercare!”

“No. Devi assicurare la protezione a Chiara”, risposi, facendo segno alla nostra infermiera di avviarsi.

“Protezione con che cosa?”, chiese Michela, scettica.

“Bella domanda...Ragazze, non saprei. Sinceramente se non vi prendete una spada o qualche coltello...”, replicai, ironica.

“Coltelli? Bene....Dove li trovo?”, chiese Michela, andando verso il bar.

La guardammo tutti come se avesse pronunciato la formula della bomba atomica. Era capace di tutto. Se diceva che voleva i coltelli, li avrebbe trovati e usati. Infatti, poco dopo, uscì fuori con un coltellaccio infilato in una tasca dei jeans e la situazione era talmente tanto buffa che scoppiammo tutti quanti a ridere.

“Michela, mi raccomando, non farti male. Devi solo usarlo in caso di necessità e senza mettere in pericolo nessuno....”, esclamai, ancora ansante, per la risata.

“E ricordatevi, raccogliete informazioni. Magari in ospedale qualcuno ha qualche notizia su dove poter trovare tutte le persone a noi care!”, esclamai, ritornando seria.

Si incamminarono verso il ponte. L'ospedale non era distante da lì. In dieci minuti ci sarebbero arrivate comodamente. Sperai che la loro incursione fosse breve e di successo. Avevo già da preoccuparmi di dove si fosse cacciata Marta.

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Capitolo 9
*** Ottavo Capitolo ***


Capitolo Ottavo

 

Dicono che gli animali non hanno un'anima... bè, io non ci credo. Se avere un'anima significa essere in grado di provare amore, fedeltà e gratitudine, allora gli animali sono migliori di tanti esseri umani.

(J. Herriot )

 

 

Al centro della grande stanza una fossa era stata scavata e tutto intorno correva uno steccato. Da un lato della sala una serie di gabbie racchiudevano un mondo di orrore che solo l'uomo aveva potuto perpretare in quel luogo. In ogni minuscolo contenitore di ferro un agglomerato di pelo, ossa e disperazione attendeva il proprio destino con rassegnazione.

Marta, già provata dal fetore e dal caldo opprimente di quell'ambiente, alla vista di quello scempio, scoppiò a piangere. Ben pochi cani erano sopravvissuti: non tanto alla fame o alla disidratazione ma piuttosto per le profonde ferite e mutilazioni che avevano sul loro corpo.

La ragazza, in quel momento, realizzò che quel luogo dimenticato da Dio, era un'arena per far combattere i cani. Cercò di avvicinarsi alla gabbie per vedere chi fosse ancora vivo e chi no. Con la torcia ne vide quattro che manifestavano visibili segni vitali. Lottando con le lacrime che le offuscavano la vista e il bisogno impellente di vomitare, cercò con le dita tremanti, di slegare le corde che tenevano chiusi i varchi di quelle prigioni.

Gli occhi degli animali non la perdevano di vista un istante, come se sapessero che con quel gesto, la loro fine fosse vicina. Il duro addestramento a cui erano stati sottoposti, le percosse subite, le privazioni e le droghe somministrate da persone senza cuore, avevano ridotto questi animali in perfetti strumenti di morte e macabro divertimento e non più in grado di discernere se Marta rappresentasse la libertà e non la morte sicura. Chissà quante altre volte avevano assistito a quell'azione con la speranza della loro liberazione, naufragata, poi, nella lotta fra la vita e la morte!

Un pastore tedesco, un pitbull, un mastino e un rottweiler erano ancora vivi. Gli altri erano immobili, già ricoperti da mosche. Dopo aver aperto le gabbie, gli animali non si mossero, Forse troppo provati anche solo per fuggire.

Marta mormorava parole di incoraggiamento con un tono di voce dolce e lieve per non spaventarli. Si rendeva conto che se non li avesse portati fuori di lì al più presto e non avesse trovato qualcuno per aiutarla, sarebbero morti entro poche ore. Non sapeva cosa fare. Si guardò intorno alla ricerca di un po' acqua per farli bere. Vide un rubinetto in un angolo del stanza così si diresse in quella direzione. Prese una bacinella, la riempì di acqua fresca e raccolse uno straccio. Poi andò diritta dalla gabbia del pastore tedesco, intinse completamente il pezzo di tessuto nel liquido, lo strizzò non del tutto e poi portandolo sopra il muso dell'animale ne fece cadere qualche goccia tra le sue fauci. Dapprima il cane non si mosse, poi aprì piano piano la bocca e iniziò a leccare le gocce che scendevano dallo straccio. Marta fece la stessa cosa con il mastino e il pitbull. Poi andò a cambiare l'acqua e risciacquare lo straccio ma quando tornò indietro, si accorse che il rottweiler era uscito dalla gabbia e la stava guardando con espressione indecifrabile.

La ragazza aveva letto da qualche parte che non bisognava mai guardare fisso negli occhi questi animali quando ti puntano con quello sguardo. Cercò di non farlo ma fu inutile. Il cane emise un ringhio sordo e prolungato e poi si lanciò sulla fanciulla, la quale riuscì, con difficoltà, a rimanere in piedi, nonostante l'impeto del cane. Le azzannò subito una mano e poi si avvinghiò sulla gamba, affondando i suoi canini nel quadricipite e non mollò la presa.

Marta urlò dal dolore e dallo spavento. Cercò di non crollare a terra. Se fosse successo, sarebbe stata la fine. Disperatamente cercò, attorno a sè, un bastone o un'arma per far staccare quell'animale dalla sua gamba. Il rottweiler continuava a ringhiare ma non mollava la presa. Il sangue colava lungo l'arto e il dolore era ormai intollerabile. La ragazza temette per la propria vita e rimpianse di essersi avventurata là dentro da sola e senza un'arma. Non molto credente, iniziò a pregare quel Dio che aveva permesso quegli atti barbarici affinchè la salvasse, in modo che potesse portare in salvo quegli animali e far conoscere loro l'amore e l'affetto.

Quando, ormai, la ragazza non aveva più speranze e le forze la stavano abbandonando, un altro cane emerse da un'altra gabbia. Era il pastore tedesco. Un po' traballante, si avvicinò a lei. La fiutò quasi come se fosse stata una preda. Leccò il sangue che gocciolava a terra e poi si avventò contro il rottweiler, il quale, miracolosamente, mollò la presa.

I due cani lottarono aspramente uno contro l'altro, azzanandosi a vicenda, ringhiando e ululando. Marta cercò di allontanarsi verso la porta. Aveva bisogno anche di un laccio da stringere attorno alla gamba per fermare l'emorragia. Un guaito più forte sancì la fine della lotta. La ragazza si girò a guardare. Il rottweiler giaceva esanime a terra in un lago di sangue mentre il pastore troneggiava sopra di lui. Marta doveva uscire di lì al più presto. Non sapeva se era diventata o meno la nuova succulenta preda del pastore tedesco. Il cane si avvicinò nuovamente a lei con lente movenze. Da quello che sapeva sul comportamento canino non le sembrava un atteggiamento di rabbia o di attacco. L'animale le si accostò e poi dopo averla guardata, le leccò la mano ferita. Poi con il muso la spinse verso l'uscita, quasi come se avesse capito l'urgenza delle sue ferite.

Marta raccolse uno dei lacci che servivano per chiudere le gabbie e se lo strinse a monte della ferita, provacata dai denti aguzzi del rottweiler, annodando strettamente i due capi del filo. La manovra le provocò un dolore acuto che le strappò un urlo. Mentre cercava di respirare per evitare di svenire, sentì delle voci nel cortile. Sembravano di ragazzi. Sicuramente Federico e Daniele erano venuti a cercarla. Si immaginava già i loro rimbrotti per quella stupida azione. Li avrebbe ascoltati con gioia. Mai sgridata sarebbe stata più lieta.

Ritrovarsi all'aperto, alla luce del sole, assaporando quell'aria fresca e odorosa di fiori fu un toccasana per la ragazza. Il suo piacere di essere sopravvissuta a quella terribile esperienza fu però smorzato dal fatto che là fuori non c'erano i suoi amici bensì due ragazzi sconosciuti che la guardavano con ostilità e sorpresa.

Il cane accanto a lei iniziò a ringhiare e a mostrare loro i denti.

Chi diavolo sei tu e cosa fai nella nostra proprietà?”, chiese uno di loro.

Marta li guardò come se fossero stati dei marziani.

Vostra proprietà? Non credo proprio!”, rispose lei, cercando di avvicinarsi all'uscita. Il pastore tedesco la seguì, affiancandola.

Ehi, tu, bestiaccia! Dove credi di andare?”, chiese l'altro, alzando un bastone e cercando di colpire l'animale.

Ehi, stai fermo....”, esclamò la ragazza, lanciandosi verso quel giovane per evitare che colpisse il cane.

Quel bastardo è nostro. Non può venire con te!”, ribattè quello, scartando di lato per evitare la ragazza.

Marta, a quel punto, si rese conto, che quell'orrore visto prima, era di responsabilità di quei due sciagurati. “Siete voi allora i responsabili di tutti quei cani morti là dentro, vero?”, chiese Marta, sconvolta.

Si, perchè? Che c'è di male?”, chiese uno dei due, riacchiando. “E ora è anche meglio. Non più vecchiette e animalisti a rompere le scatole su quello che facciamo e un sacco di cani e gatti a nostra completa disposizione che ci aspettano nelle case disabitate!”, aggiunse, compiaciuto.

Mi fate schifo!”, urlò Marta.

Ahaha, sono solo cani. Senza anima, né parola, né pensiero. Perchè sfamarli? A che pro? Che si scannino fra di loro, se vogliono vivere...”, continuò uno di loro, ridendo sguaiatamente.

Il pastore continuava a ringhiare, standole davanti come protezione. Marta comprese che se non si fosse messa a correre verso il cancello non sarebbe mai uscita di lì viva. Se non avevano remore a uccidere quei poveri esseri indifesi, di certo non ne avrebbero avuto con lei.

Magari potremmo divertirci un po' con te!”, disse uno di loro, avvicinandosi a lei. “Tutto quel sangue che ti cola dalla gamba mi sta eccitando...”, aggiunse lo stesso.

Si, si, è un bel bocconcino!”, esclamò l'altro, dando man forte al suo amico.

Quando i due si misero davanti a Marta e uno di loro la prese per un braccio, strattonandola, il pastore tedesco si scagliò su questo. L'altro, sorpreso, non reagì subito. E fu un bene perchè venne travolto dal mastino che era comparso all'improvviso nel cortile.

Marta avrebbe voluto godersi la scena e già si immaginava le loro suppliche ma si rese conto che la gamba le pulsava e si sentiva debole. Doveva tornare giù al 'nido' e al più presto. Non voleva però andarsene senza il pastore tedesco. Le aveva salvato la vita. Voleva ricambiarlo con l'affetto e il rispetto reciproco che dovrebbe esserci tra un animale e un essere umano.

Poi uno sparo echeggiò nell'aria. Fu sorpassata dal pastore che correva verso il cancello aperto. Verso la libertà tanto agognata. Non si girò indietro ma capì che uno dei due aveva sparato al mastino e si rammaricò di non poter correre incntro a quell'animale che aveva contribuito a restituirla alla vita. Si augurò di riuscire a tornare indietro con i suoi amici per portare aiuto a lui e agli altri ancora riunchiusi e in pericolo in quel luogo.

Il pastore tedesco era andato in direzione opposta a dove doveva andare lei. Ancora una volta l'istinto le suggerì di seguire il cane e zoppicando si avviò verso la direzione dove era sparito il suo salvatore.

 

*************************************

 

L'ospedale Villa Scassi fu edificato nel lotto occupato dal Giardino della Villa Imperiale che per ben quattro secoli aveva rappresentato la zona più aristocratica di Genova con i suoi viali alberati, le statue, le fontane con i giochi d'acqua e i laghi artificiali. Fu inaugurato nel 1915, poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale ed era per quell'epoca, un'opera colossale, in quanto era dotato di comforts ultra moderni per quei tempi. Il progetto, poi ultimato, alcuni anni dopo, prevedeva sette padiglioni separati (per contenere eventuali epidemie e contagi in assenza di antibiotici), di tre piani ciascuno, riscaldamento centrale assicurato da una centrale termica imponente, ascensori, cucine e lavanderia autonoma. L'edificio principale era ancora decorato da un imponente e maestoso festone floreale con al di sotto, dipinto, un sole nascente sulla bandiera di Genova e questo stavano contemplando le ragazze mentre stavano decidendo da quale parte era meglio avventurarsi per portare a termine quella missione.

Alle loro spalle, l'unica porzione di quei magnificenti giardini che erano rimasti dalla massiccia urbanizzazione della zona. I Giardini di Villa Scassi non avevano più nulla in comune del loro antenato parco ma rimanevano l'unica zona verde di quella parte di città e offrivano una oasi di relax e di gioco per i bambini e gli anziani del quartiere. Infatti proprio quello le ragazze sentirono alle loro spalle. Grida, risate e voci di bambini che giocavano. Magari chiudendo gli occhi si poteva immaginare di essere in un normale pomeriggio di tarda primavera.

Chiara, cosa facciamo?”, chiese Michela, incerta sul da farsi.

La strada tra l'ospedale e i giardini era deserta così come lo era il pronto soccorso. In quel mentre sbucarono fuori dal cancello alcuni bambini che si diressero verso la scuola elementare che era posizionata lì vicino. Chiara ne fermò uno e gli chiese se ci fosse qualche adulto nella scuola. Questo le rispose di no ma che erano presenti alcune ragazze che avevano radunato tutti i bambini della zona in quei locali.

Passiamo dal pronto soccorso e vediamo se troviamo qualcosa là dentro. Ok?”, esclamò Chiara, attraversando la strada.

Michela e 'Mo annuirono e la seguirono.

Stavano per aprire una delle porte per accedere alla struttura quando una voce le fece voltare indietro. “Aspettate! Dove state andando?”

Michela si mise sulla difensiva, infilò la mano nella tasca della giacca a vento dove aveva il coltello e poi si posizionò davanti alle due sue amiche.

Dall'altra parte della strada due ragazze le stavano per raggiungere. “State attente là dentro. Stamattina alcuni latinos hanno saccheggiato il pronto soccorso e non vorrei che alcuni di loro siano rimasti dentro”, disse una di loro, la quale poi spalancò la bocca dalla sorpresa. “Michela?”, aggiunse poi.

Eleonora! Che bello!!”, ribattè Michela, abbracciandola.

Come mai qui? Avete bisogno di qualcosa?”, chiese la ragazza, ricambiando il suo abbraccio, guardando le altre ragazze.

Michela si girò verso Chiara e 'Mo: “Eleonora, è una mia compagna di scuola e vive qui vicino!”

Poi si rivolse alla sua amica e le spiegò: “Stiamo cercando delle medicine per dei bimbi malati che abbiamo radunato giù alla Fiumara. Nelle farmacie non abbiamo trovato un granchè e allora abbiamo pensato all'ospedale”

Noi li abbiamo messi qui nella scuola i bambini e da qui stamattina abbiamo assistito al saccheggio. Sono arrivati i soldati ma quelli se ne erano già andati. Li abbiamo informati ma non mi sembravano molto interessati. Hanno fatto un giro con le jeep all'interno dell'ospedale e poi si sono allontanati!”, spiegò l'altra ragazza.

Dove vi siete sistemati voi?”, chiese Eleonora.

Da Claudia. Per fortuna lei non è andata a nessun posto di raccolta e quindi è ancora con noi!”, rispose Chiara che però fremeva per entrare nell'ospedale. “Sai, per caso, se anche il resto dell'ospedale è stato razziato?”, chiese poi, guardando l'orologio.

Claudia? C'è ancora? Uao, grande. Bè, lei ci può dare una mano. Meno male...”, esclamò sollevata Eleonora.

Noi abbiamo visto solo il pronto soccorso e comunque non sono stati qui molto tempo. Può darsi che abbiano intenzione di ritornare. E' per questo che non dovreste andare da sole o comunque non in tre”, rispose la ragazza più grande che era con Eleonora.

Magari Ele potresti venire con noi. Diamo un'occhiata nei padiglioni vicini all'uscita posteriore dell'ospedale così se arriva qualcuno possiamo scappare da là. Che ne dici?”, esclamò Michela.

La ragazza sembrò titubante. La sua amica le disse che poteva unirsi alle tre ragazze e che sarebbe stato meglio che fossero di più ma lei doveva tornare alla scuola. “Ok. Avverti tu i miei cuginetti?”, chiese Ele, preoccupata.

Si, tranquilla. Vai e se riesci prendi anche tu qualcosa per la scuola. Ok?”, le disse la ragazza più grande, prima di riattraversare la strada verso l'atrio della scuola.

Ok. Allora passiamo da dietro il pronto soccorso e ci infiliamo nel padiglione numero quattro. Lì c'è chirurgia. Sicuramente ci sarà quello che cerchiamo”, esclamò Chiara. “Procedura di sicurezza, tenente Michela?”, chiese poi guardando la ragazza che era responsabile del settore sicurezza.

Stai scherzando Chiara, vero? Da quando sono diventata un ufficiale dei marines?”, sbottò Michela, ridacchiando.

Da adesso. Ho bisogno di poter cercare la roba sapendo che c'è qualcuno che mi guarda il culo e mi avverte se devo mettermi a correre...”, replicò Chiara, seria.

Ah, bè, strano ufficiale dei corpi speciali sono....armata di un solo coltello....ok, fammi pensare!”, ribattè Michela, assorta. “Ele, tu stai con Chiara. 'Mo, sta con me. Noi due entriamo, verifichiamo se il luogo è libero e poi in radio ti dico se potete entrare o no. Mentre prendete la roba, ci assicuriamo che nessuno ci disturbi o che sia un pericolo”, spiegò Michela. “Se mi vedete che alzo un braccio con il pugno chiuso, vi abbassate. Se mi siedo in terra o, peggio, mi metto a cantare, uscite di corsa!”, continuò Michela.

Cantare, cosa?”, chiese Chiara, dubbiosa.

Highway to hell!”, rispose Michela. “Mi sembra piuttosto indicata...La conosci, Chiara?”, rispose Michela, rendendosi conto che non tutte le ragazze della sua età erano patite degli AC/DC.

Highway to hell, I'm on the highway to hell and I'm go in down all the way, way down, I'm on the highway to hell”, rispose Chiara, iniziando a canticchiarla anche lei, seguita poi anche da Michela. Eleonora e 'Mo le guardarono abbastanza stupite.

Non dovrei stupirmi più di niente quando si tratta di Michela, ma tant'è...”, esclamò Eleonora, sorridendo, rivolta a 'Mo.

La conosco poco, ma diamine ha un coraggio da leoni...”, ribattè 'Mo. “Spero anche io di dimostrare il suo stesso valore!”, aggiunse poi, seguendo Chiara e le altre.

Costeggiando il pronto soccorso, Michela e 'Mo percorsero una breve salita che le portò proprio davanti all'entrata principale del padiglione.

Entriamo a dare un'occhiata. Se è tutto a posto, ti do il via libera via radio”, esclamò Michela rivolta a Chiara, la quale annuì.

Dopo aver varcato le porte a vetri ed aver attraversato l'atrio, si diressero verso destra. Michela fece segno all'altra ragazza di aprire la porta di ferro, appoggiando il fianco contro la barra anti-panico, mentre lei tirava fuori l'unica arma a sua disposizione. “Cosa darei per avere un mitra a tracolla!”, sussurrò la ragazza.

Ma dove hai imparato tutte queste cose? Come diamine fai a sapere come si ci deve muovere in silenzio o quali sono i gesti da fare mentre si deve mettere in sicurezza un luogo?”, chiese 'Mo, ammirata.

Guarda, sinceramente, non me l'ha insegnato nessuno. Sono solo un'accanita spettatrice di telefilm polizieschi, soprannaturali e catastrofici”, rispose sincera la ragazza, mentre controllava se nelle varie stanze ci fosse qualcuno. “A quanto pare non so solo le battute a memoria, ma mi sono rimaste impresse anche le scene”, aggiunse, poi.

Ahaha, poi dicono che alla televisione ormai danno solo programmi spazzatura...”, replicò 'Mo, aprendo gli armadi della sala infermieri per vedere il loro contenuto.

Già, ma la maggior parte li scaricavamo dalla rete perchè in effetti la nostra televisione faceva abbastanza schifo....”, ribattè Michela, azionando la radio. “Bravo Charlie, qui Dean Winchester, via libera, passo”, sussurrò, poi, nel ricevitore.

La risposta non si fece attendere. “Dean Winchester, qui Bravo Charlie, roger”

Bravo Charlie, passo e chiudo”

Dopo quindici minuti di ricerca capillare nel reparto fu chiaro che era già stato depredato. Presero comunque bende, cerotti, disinfettanti, siringhe e qualche farmaco ma di poco conto. Tutti gli antidolorifici, compresi quelli potenti, erano stati razziati. Trovarono anche flaconi di salina ma Chiara continuava a dire che gliene servivano molti di più. Avvolsero ogni bottiglia in lenzuoli e le posizionarono negli zaini che ognuna di loro aveva portato e poi si diressero verso gli altri reparti.

Due ore dopo stavano verificando il magazzino all'ultimo piano del padiglione numero sei, dove c'erano le sale operatorie, quando 'Mo, di guardia a una delle finestre sul retro dell'edificio, vide un movimento a una delle finestre della costruzione di fronte.

Chiara ed Eleonora stavano ammassando flaconi di vetro, attrezzature per le flebo e scatole di farmaci davanti alle porte stagne che conducevano alle camere operatorie, mentre Michela sorvegliava la parte principale. All'improvviso sentirono 'Mo fischiettare la sua canzone preferita, Summer Paradise degli Simple Plan. Ciò voleva dire solo una cosa: guai!

Michela corse verso la ragazza, facendo segno a Chiara ed Eleonora di radunare tutta la roba in modo di andare via immediatamente.

Problemi, 'Mo?”, le chiese, avvicinandosi alla sua vice, la quale era rannicchiata sotto la balaustra.

Nel padiglione sette c'è qualcuno. Ho visto chiaramente un movimento da quella finestra”, rispose la ragazza, sporgendosi un attimo e indicando la direzione dell'avvistamento.

In effetti non ci abbiamo pensato ma lì c'è la nursery. Potrebbero esserci rimasti dei neonati con delle infermiere o magari delle mamme che devono partorire”, spiegò 'Mo.

Ok, chiedo a Chiara come è messa con il rifornimento e se riesce a venire con noi, se no andiamo tu ed io a dare un'occhiata. Ok?”, replicò Michela, mentre già si allontanava.

Dopo aver radunato e stivato tutte quelle preziose attrezzature, le ragazze si divisero. Chiara ed Eleonora verso l'uscita, mentre Michela e 'Mo verso il reparto maternità, rimanendo d'accordo che le prime due, dopo aver lasciato tutta la roba all'interno della scuola sarebbero rientrate nell'ospedale per rintracciare le altre due.

Il pianterreno del reparto maternità era costituito da ambulatori, per cui le due intrepide ragazze si diressero direttamente al primo piano. Nel momento in cui varcarono l'onnipresente pesante porta di ferro furono colpite dal pianto incessante di alcuni bambini e mentre Michela si girava per fare cenno a 'Mo di seguirla, si susseguirono due eventi improvvisi e drammatici: un urlo lacerò l'aria e si propagò nel corridoio mentre fuori si percepì lo stridore di un camion e si sentirono delle voci perentorie dei soldati. Michela e 'Mo sbiancarono. Il loro pensiero andò immediatamente alle loro amiche che si erano appena allontanate giù per i viali dell'ospedale.

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Capitolo 10
*** Nono Capitolo ***


Capitolo Nono

 

'L'opera umana più bella è di essere utile al prossimo'

(Sofocle)

 

Chi ha avuto la brillante idea di andare a piedi?”, piagnucolò Daniele, mentre lui e i suoi due amici attraversavano il ponte sul torrente Polcevera.

Eravamo tutti e tre d'accordo, mi pare”, ribattè Federico, fermo davanti alla Madonnina, posta sulla spalletta del ponte. Si asciugava il sudore con un gran fazzoletto di cotone bianco.

Certo che doveva essere proprio oggi la giornata più calda dell'anno...”, aggiunse, poi, alzando lo sguardo verso il cielo terso.

Manca poco, dai, ragazzi”, esclamò Simone, impaziente di arrivare al grande magazzino.

Che strada facciamo, Livingstone?”, chiese Daniele all'amico più giovane che lo guardò in modo interrogativo.

Livingstone era un esploratore britannico che scoprì le cascate Vittoria in Africa e la sorgente del Nilo”, spiegò, poi, Daniele, sbuffando. “Per cui è un nomignolo adatto a te, Simone”, aggiunse, ridacchiando.

No, non è corretto. Lui pensava fosse il Nilo, in realtà era il fiume Congo!”, esclamò Federico, interrompendo l'amico.

Ma voi due i libri ve li mangiate a colazione o cosa?”, sbottò, incredulo, Simone.

Si, li usiamo come dessert!”, ribattè, piccato, Federico. “Uno non deve solo sapere cosa gli insegnano a scuola ma deve anche farsi una propria cultura personale!”, aggiunse il ragazzo più grande.

In questo momento credo servirebbe di più sapere cosa diavolo è successo qui e come faremo a uscirne fuori!”, esclamò Simone, improvvisamente turbato e quasi in lacrime.

Federico e Daniele non dissero nulla. Offrirono all'amico più giovane il loro sostegno fatto da un sorriso di incoraggiamento e una pacca sulla spalla e poi si incamminarono lungo la strada nuova verso la zona commerciale chiamata Campi.

La zona era deserta. Alcune auto erano state abbandonate lungo la careggiata. Un silenzio irreale permaeva la zona. Niente di inaspettato per i tre giovani esploratori. Il sole era implacabile e li faceva sudare copiosamente. Più volte imprecarono per non essersi portati delle bottiglie d'acqua.

Alla prima traversa la imbocchiamo e ci dirigiamo verso la strada principale. Lì sicuramente troveremo qualche locale con ancora dell'acqua imbottigliata. Ho assoluto bisogno di bere”, esclamò, all'improvviso, Federico.

Gli altri annuirono. Anche loro iniziavano a essere disidratati.

Quando svoltarono nella via alberata che costituiva la parte prettamente commerciale, rimasero impalati a osservare lo scempio che era stato messo in atto. Tutta la carreggiata era ingombra di tutto quello che era stato asportato dai negozi che si affacciavano lungo il viale e completamente distrutta come se ci fosse passato sopra un carroarmato.

Che diamine è successo qui?”, chiese Daniele allibito

"Chi ha fatto tutto scempio?", domandò Federico, attonito.

Che senso ha? Perchè rompere e spaccare tutto?”, continuò Simone la litania di domande retoriche.

Credo proprio che la nostra generazione sia fondamentalmente inutile e dannosa”, affermò, laconico, Federico.

Cercarono poi di attraversare quel cumulo di macerie che provenivano quasi sicuramente dal negozio di elettrodomestici là nelle vicinanze senza farsi male.

Però come hanno fatto a ridurli così a brandelli?”, domandò Simone, mentre osservava stupito ciò che era rimasto di una lavatrice.

Ottima domanda”, rispose Daniele, mentre, sconsolato, raccoglieva da terra un portatile della Apple, rimasto miracolasamente intatto ma altrettanto inservibile quanto un frigorigero spiaccicato al suolo.

Dani, comunque, potresti tenerlo quell'affare. Magari, con un generatore di corrente e armeggiandoci un po', potresti farlo funzionare”, esclamò Simone, incoraggiando l'amico.

Giusto, Simone. Solo tu, Daniele, ci puoi riuscire”, rincarò la dose Federico.

Ci vorrebbe un miracolo”, rispose il ragazzo, sconsolato, anche se i suoi amici avevano percepito un luccichio di interesse nei suoi occhi.

Speriamo che abbiano risparmiato il posto dove siamo diretti...”, borbottò Simone, guardando oltre la curva dove avrebbe dovuto esserci il grande magazzino di attrezzatura sportiva per lo sport e il tempo libero, obiettivo della loro missione.

Se si sono divertiti a svuotare questi, lo avranno fatto anche con gli altri. Se becco qualcuno di quei poppanti, gli faccio il culo a strisce”, ribattè, minaccioso, Federico.

Nah, vedrai che sarà intatto. Anche un ritardato mentale capirebbe che là c'è roba utile...”, replicò Daniele, avviandosi a passo svelto, dopo aver riposto con cura il notebook nel suo zaino.

Giunti davanti al grande magazzino esalarono un sospiro di sollievo. Nulla era stato tirato fuori o peggio ridotto a brandelli!

Notarono alcuni ragazzi seduti in terra accanto all'entrata. Stavano bevendo birra e fumando. All'unisono, i tre indomiti cavalieri pensarono a come facessero quelli là a bere birra calda. Era risaputo che a temperatura ambiente quella bevanda fosse imbevibile...

Scusate, dove l'avete trovata quella birra? Sembra fredda...”, chiese, guardingo, Daniele.

Laggiù”, rispose uno di loro, indicando il magazzino di mobilio svedese. “Ci sono i generatori nel self-service e di conseguenza funzionano i frigoriferi. Basta inserire benzina ogni 12 ore e il gioco è fatto!”, rispose uno di quelli.

Bella idea. Cosa volete in cambio di una birra gelata?”, chiese Simone, andando subito al sodo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per scolarsene una bottiglia.

Portatemi una tanica da cinque litri piena di benzina e avrete il diritto di mettere nel frigo la birra e quello che volete per un paio d'ore”, rispose lo stesso, ammiccando.

D'accordo. Tanto dobbiamo cercare un auto per tornare indietro”, esclamò Federico, pensando alla sensazione che avrebbe provato nel bere dell'acqua fresca lungo la sua gola riarsa. Lui, astemio, in quel momento avrebbe bevuto anche della vodka, se fosse stata fredda!

Non so se ve ne siete accorti ma le macchine non vanno!”, li canzonò un altro giovane.

Non quelle prima del 1983. Le vecchie 500 o i furgoncini Ape funzionano, per fortuna!”, esclamò Simone, avviandosi verso l'entrata.

Mmm, interessante notizia. E tu come fai a saperlo, pivello?”, chiese uno di loro, improvvisamente interessato.

E' il sistema elettronico...”, rispose Simone ma si interuppe quando vide l'occhiata di Daniele. Forse era meglio tacere e non scoprire troppo le carte.

Entrarono nel grande magazzino. Alcune ragazze stavano riempiendo un carrello di borracce e zaini ma per il resto il posto era deserto. Diedero un'occhiata al reparto abbigliamento. Claudia aveva detto loro di cercare scarponcini da trekking e giacche a vento. Trovarono k-way in abbondanza e ne presero di più taglie, riversando il tutto in capienti borse di tela. Poi si diressero verso il reparto camping. Alcune tende erano aperte, come dimostrazione. Le osservarono attentamente. Guardarono come erano montate e quali accessori dovevano prendere. Confabularono fra di loro su quale era la migliore e poi, trovatala, la fissarono per alcuni minuti. Erano talmente assorti da far pensare che stessero per disinnescare una bomba.

Questa è perfetta. Da otto posti...”, mormorò Federico, meditabondo.

Secondo me, bisognerebbe prima trovare il mezzo di locomozione”, esclamò Simone.

Giusto. Compito tuo, novello Livingstone”, replicò Daniele, ironico.

Ok. Inizio dal concessionario qui sopra e poi via via, tutti i parcheggi qui in zona”, rispose Simone, elettrizzato. “Iniziate ad accatastare tutta la roba qui fuori, giovani cavalieri. A costo di usare i piedi, tipo Fred Flinstone, un mezzo lo trovo!”, aggiunse il ragazzino, ridacchiando, mentre si dirigeva verso le scale per salire al piano superiore.

I due ragazzi più grandi lo guardarono allibiti. “Ma dove lo trova tutto quell'entusiasmo?”, si chiese, a mezza voce, Daniele.

E meno male che è così eccitato, se no non riusciremmo a portare a termine la missione”, esclamò Federico, sospirando.

Dai, cerchiamo le tende più grandi ancora confezionate, così sono più facili da trasportare. Hai la lista di Desi?”, aggiunse, poi, il ragazzo più grande.

Si. Ci sono dei nomi impronunciabili, però...”

Tipo?”

Telo coim...ben...dante...”, lesse Daniele, con sforzo.

Che diavolo è?”

Che ne so io?”, replicò il ragazzo più giovane, leggendo i cartellini di alcune scatole riposte accanto alle tende.

Va bè, tu prendili comunque, anche se non sai a cosa servono. Tanto sarà Desi che dovrà montarle o meglio a dirci come farlo e l'idea non mi solletica affatto. Bleah, dover prendere ordini da una ragazzina...”, replicò Federico, iniziando a spostare i pacchi.

Già, hai ragione. Però, poi, penso che è la sorella di Antonio e allora...”, mormorò Daniele.

Managgia...Antonio....”, ghignò Federico.

Mezz'ora dopo il lavoro procedeva alacremente. Molte casse e pacchi erano stati radunate all'ingresso del grande magazzino. I ragazzi si erano rifocillati con alcune barrette energetiche trovate tra gli scaffali e niente turbava la loro attività. Ciò finchè un urlo non rieccheggiò nella struttura.

Ahhhhhh!!!!”

Poi si sentì un tonfo. Passi di corsa. Infine qualcuno che scendeva a precipizio le scale.

Fede! Daniele! Aiuto!!”, la voce si alzò di tono, rivelando loro l'identità.

Simone!”, esclamarono all'unisono i due ragazzi, precipitandosi verso le scale.

 

************************

 

Marco, Desirèe e Ilaria percorrevano a passo svelto il sentiero che li avrebbe portati davanti al forte Crocetta. Il cielo si era rannuvolato e soffiava un vento forte, umido, carico di pioggia e forse sventura. Erano gli unici che si erano resi disponibili a quella bisogna e si erano avventurati su per la collina di Belvedere solo dopo molte ore dalla scomparsa di Marta.

Ognuno di loro avvertiva l'urgenza di trovare la loro amica, consci che più passavano le ore senza che questa si fosse palesata e più era alto il rischio che non facesse più ritorno.

Nessuno di loro tre parlava. Camminavano in silenzio, in fila indiana con Marco davanti, armato di katana e con l'aria truce, quella che si 'conviene a un cavaliere alla ricerca della donzella in pericolo', avrebbe detto Antonio vedendolo arrampicarsi lungo il sentiero. Non c'era da scherzare, purtroppo. Quella era diventata la triste realtà e il tempo dei giochi e degli scherzi era tramontata , forse, per sempre. Ormai Marco, dopo quella notte, appena passata, non lo spaventava più nulla.

Giunti davanti al grande cancello che sbarrava l'accesso al forte, sentirono abbaiare i cani. Tutti e tre rabbrividirono. Poi, insieme, gridarono: “Marta! Marta”, senza alcun esito.

Ripeterono le grida un'altra volta.

State indietro. Provo a rompere il lucchetto con la katana”, esclamò ad un tratto il ragazzo.

Desirèe ed Ilaria arretrarono mentre Marco iniziava a colpire il dispositivo metallico con il manico della spada.

I latrati dei cani si fecero ancora di più forti e agguerriti. Poi con un colpo ben assestato il lucchetto si ruppe e la pesante catena crollò a terra. I battenti del cancello si aprirono, facendo riversare all'esterno una decina di cani rabbiosi che, per fortuna, non degnarono di uno sguardo i tre ragazzi, troppo impegnati a riprendersi l'agognata libertà.

Marco indicò a Desirèe e a Ilaria di non muoversi e si avventurò nel cortile. Il cielo era diventato plumbeo ma lui aveva visto delle gocce di sangue. A Marco si seccò la bocca, presagendo il peggio, anche se non era sicuro che fossero di Marta o no. Sapeva solo che era sangue coagulato ma non secco e quindi qualcosa lì era accaduto.

Desirèe e Ilaria si lanciarono un'occhiata carica di orrore quando balenò un lampo e poco dopo risuonò un tuono. Era ancora chiara nella loro mente cosa era successo quella notte, solo qualche giorno prima, durante un violento temporale. Ilaria abbracciò l'amica più giovane ed entrambe cercarono di scambiarsi calore e sicurezza. Poi iniziò a piovere. Calde e grosse gocce di pioggia bagnarono loro il viso. Corsero a ripararsi sotto una tettoia di una casetta posta davanti al forte. I tuoni erano sempre più forti e ravvicinati ma il frastuono non impedì loro di sentire qualcuno che si stava avvicinando..

I passi provenivano dal bosco. Sembrava qualcuno di corsa. Era distinto il respiro affannoso e rantolante.

Temendo di trovarsi davanti a qualche soldato, Ilaria spinse Desirèe verso gli alberi dietro la casa e mentre cercava rifugio anche lei, si ritrovò davanti un'ansante Marta, con accanto un pastore tedesco che le stava praticamente incollato addosso.

Oh, santo cielo! Marta!”, esclamò, stupita.

La ragazza, pallida per il sangue perso e la gran corsa, riconobbe Ilaria. Fece un sorriso stiracchiato e poi si afflosciò a terra, svenuta.

Desi! Desi! Vai a cercare Marco!”, esclamò Ilaria, cercando di sorreggere il corpo della ragazza.

La ragazza più grande, dalla corporatura esile e mingherlina, racimolò tutta la sua forza e volontà per trascinare Marta al coperto. Le prese poi il polso per sentire i battiti. Erano lenti e poco percettibili. Aveva sangue sulle braccia e sulle gambe dei pantaloni. La tastò per cercare di capire dove fosse ferita e si accorse così di un profondo squarcio in una coscia. Prese un laccio dalle scarpe da ginnastica di Marta e lo strinse a monte della ferita, dove già la ragazza aveva fatto un tentativo per arginare l'emorragia ma la corsa lo aveva allentato. Il cane, accanto a Marta, era guardingo. Si accucciò accanto a lei e ogni tanto con il muso le spingeva il braccio come se anch'esso volesse che si svegliasse. Poi prese a leccarle il viso.

Mentre cercava di rianimarla, vide, con la coda dell'occhio, arrivare Marco e Desirèe.

Marco, presto, si sta dissanguando. Devi portarla giù al nido. Io non sono in grado di fare più di così!”, esclamò, trafelata, Ilaria.

Ok, la porto giù in braccio”, esclamò lui, iniziando a muoverla per issarla su.

In quel mentre un forte tuono si abbatté su di loro. Quando Desi rivolse lo sguardo all'amica sdraiata a terra, vide che aveva gli occhi aperti e mormorava qualcosa.

Marta! Marta! Come ti senti? Ora ti portiamo in salvo. Stai tranquilla!”, esclamò la ragazzina, concitata.

Marco mise un ginocchio a terra e mise le braccia di Marta attorno al collo. Poi le afferrò la cinta dei pantaloni e la issò sopra la spalla, con la classica presa del 'pompiere'. Il movimento aveva del tutto risvegliato Marta che iniziò a dire a voce alta quelle che sembravano parole senza senso.

La moto...i soldati...la luce...un muro tremolante, trasparente...una finestra deformata...”

Oddio, sta delirando!”, gridò Desi, disperata.“Marco, ti prego, sbrigati!”, aggiunse, poi, in lacrime.

No, no, dovete ascoltarmi. Non sto delirando!”, ribatté Marta, dando pugni alla schiena del ragazzo. “Ho visto una scena incredibile!”, continuò la ragazza. “Fatemi scendere!”

Marta, smettila! Racconterai tutto quando ti avrò portato giù al nido. Stai perdendo troppo sangue e io, per nessun motivo al mondo, mi fermerò!”, esclamò, perentorio, il ragazzo.

Allora, sbrigati Marco. Non mi importa se morirò. L'importante è che gli altri sappiano chi sono in realtà i soldati o meglio da dove vengono...”, ribatté Marta, ansante.

Ilaria, senti, nel forte ci sono molti cani morti e alcuni sono agonizzanti. Devi trovare qualcuno che torni su con te per aiutare quei poveri animali. Adesso venite giù con me. Appena possibile organizzeremo una squadra di recupero. Ok?”, esclamò Marco, prima di iniziare a scendere a passo di carica.

Ilaria era tentata di rimanere lì ma il buio ormai si era impadronito della campagna e senza attrezzatura e soprattutto con solo una torcia non avrebbe potuto essere di alcun aiuto. Sospirando si avviò anch'essa, iniziando a pensare a come si sarebbe mossa il giorno dopo.

 

*******************************

Riepiloghiamo la situazione prima che mi venga un accidente”, disse Chiara, sull'orlo di una crisi di nervi. “Quattro neonati nella nursery, una donna con le doglie, quattro ragazze che non hanno un minino di esperienza né in campo medico né in quello militare e un gruppo di soldati che stanno circondando l'edificio”, aggiunse poi, con voce tremolante. “Qualcuno mi svegli!”, concluse, infine, urlando. Eleonora e lei erano tornate subito indietro, quando si erano accorte che, nei viali dell'ospedale, vi erano soldati di pattuglia. Era sicura che non le avessero viste ma il sapere di essere in trappola le faceva torcere lo stomaco.

Calma, Chiara. A tutto c'è rimedio”, affermò, risoluta, Michela, mentre osservava con interesse un armadietto dei medicinali.

Ma come fai ad essere così calma e rilassata? Hai capito in che guaio ci troviamo?”, chiese la ragazza più grande allibita davanti a tanta tranquillità.

Finché non devo fare verifiche o studiare elenchi di date o verbi latini noiosissimi, per me ogni situazione è rimediabile”, rispose Michela. “Ora, secondo il telefilm 'Supernatural', qui dentro c'è il materiale utile per fare le bombe molotov. Alcol, bottiglie di vetro, polistirolo e stracci...”, continuò la ragazza, iniziando a tirare fuori l'occorrente appena elencato.

Tu non sei normale, Michela! Ringrazio, però, il cielo che tu sia con me!”, disse Chiara, ridacchiando. “Almeno uno spiraglio di speranza me la dai!”, aggiunse, poi. “Ti chiamo Eleonora così ti dà una mano. Ok?”, esclamò, infine, prima di uscire dalla stanza.

Si, grazie”, rispose Michela, assorta, ormai in modalità 'fratelli Winchester'.

Chiara si recò nella sala parto, dopo aver dato un'occhiata ai quattro bimbi che dormivano tranquilli nelle loro culle, dopo essere stati cambiati, alimentati e cullati dalle ragazze. La donna, una trentenne, era al primo parto. Si chiamava Monica ed erano dodici ore che era in travaglio. Era stata , dapprima, portata via dall'esercito, poi riportata in ospedale e lasciata lì senza alcuna assistenza. Mentre Monica raccontava le sue peripezie alle ragazze, una frase pronunciata fece spalancare gli occhi dalla sorpresa a tutte. Disse loro di aver appreso che non poteva affrontare il viaggio in nave e infatti aveva riconosciuto la Stazione Marittima quando l'avevano portata via dall'ospedale la prima volta. Là aveva visto centinaia di persone che si stavano imbarcando su una grande nave, tipo quelle delle crociere. Non aveva saputo fornire altri dettagli, ma quel particolare aleggiava nella mente di tutte quante.

Questa è un'informazione importantissima. Dobbiamo assolutamente farlo sapere a Claudia. Ora sappiamo dove sono stati tutti portati e quindi possiamo andare là e liberarli!”, aveva esclamato Michela, non appena appresa tale informazione.

Certo, Michela. Veni, vidi et vici!”, esclamò Chiara, ridacchiando.

Perché?”, ribatté Michela.

Stiamo con i piedi piantati per terra. Prima forse dobbiamo uscire di qui indenni, poi trovare qualche arma decente, fare un piano degno del suo nome e poi forse immolarci per la causa...”, replicò Eleonora, sospirando.

Appunto, pensiamo al presente!”, disse Mò, rivolgendo l'attenzione alla donna sofferente accanto a lei.

Chiara, giunta nella sala parto, vide la futura neo-mamma tutta scarmigliata e sudata, adagiata su una lettiga ginecologica, mentre cercava di respirare dopo aver subito un'altra contrazione.

Monica, come ti senti?”, chiese, sedendosi su uno sgabello davanti alla sue gambe aperte, coperte da un lenzuolo. Poi rivolta a Mò le chiese ogni quanto avesse le doglie. Lei rispose, prontamente, dopo aver dato un'occhiata a un quadernetto, che quelle arrivavano ogni quindici minuti.

Chiara annuì. “Direi che l'olio di ricino e un po' di movimento hanno giovato. Lo avesse fatto qualcun altro prima, il bimbo sarebbe già nato”, esclamò, la ragazza.

Grazie, Chiara. Senza di te e le altre ragazze non saprei proprio come avrei fatto!”, disse la donna, con gratitudine.

Dovere. E poi te l'ho detto prima, non sono un'infermiera. Non ancora almeno. Io, almeno, studio al primo anno di infermieristica; loro vanno ancora a scuola. Ma siamo volenterose e vogliamo aiutarti, per cui dove manca la pratica e la teoria, ci mettiamo il buon senso e quel poco di nozionismo che conosciamo sulla materia. Speriamo basti!”, esclamò Chiara, sorridendo. “Ora controlliamo la dilatazione. Va bene?”, chiese, poi, togliendo il lenzuolo.

Monica non rispose, dilaniata da un'altra contrazioni.

Chiara valutò manualmente una dilatazione di circa cinque centimetri. “Ci siamo. Stiamo entrando nella fase attiva. Teoricamente dovrebbe dilatarsi di un centimetro all'ora ma noi non abbiamo tutto questo tempo. Potrei provocare la 'rottura delle acque' ma credo si debba arrivare vicino ai dieci centimetri per usare tale procedura”, disse Chiara, riflettendo sulla situazione.

Non c'è nulla che tu possa darmi per accelerare il travaglio?”, chiese Monica, affannata per il dolore, mentre Mò le passava una pezzuola bagnata sul viso per asciugare il sudore.

Si ci sarebbe”, ammise Chiara, “ma non so le dosi. L'ossitocina dovrebbe far aumentare la dilatazione ma potrebbe essere pericolosa per il bambino. Senza ecografo non posso stabilire dove sia il feto e soprattutto in quale posizione sia”, rispose Chiara, spaventata dalle implicazioni.

Magari guardando sul foglietto dentro la scatola del farmaco, c'è scritto la dose da dare in questi frangenti”, disse Mò, rivolta a Chiara. La ragazzina si rendeva conto che la sua omonima era in uno stato di stress emotivo non indifferente e forse un po' di senso pratico le avrebbe giovato. Chiara volse il viso verso la sua 'assistente' che l'aveva aiutata senza risparmiarsi o lamentarsi per tutte quelle ore. Si rese conto che il suo aiuto era stato prezioso e quell'osservazione ne era la precisa conferma.

Un genio sei, Mò. Un genio!”, esclamò Chiara, abbracciando la ragazza e uscendo di corsa dalla sala.

Entrò poi in infermeria trovando Michela ed Eleonora che lavoravano alacremente. Una decina di bottiglie erano già pronte su un carrello e altre cinque stavano per essere terminate.

Come è la situazione di là, Chiara?”, chiese Eleonora, asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica della felpa.

Lenta. Mostruosamente lenta!”, rispose Chiara, iniziando a rovistare tra le scatole dei farmaci.

Grandioso!”, esclamò Michela, iniziando a portare fuori le bottiglie. “Ne metto qualcuna fuori e le altre le porte in sala parto. Ok?”, chiese a Chiara.

Quella annuì, troppo occupata per rispondere, mentre rovistava nell'armadio dei medicinali.

Poi si fermò, proruppe in un gioioso urlo:”Alleluia! Trovato!”

Afferrò la scatola e andò dalla finestra per vedere meglio le istruzioni sul bugiardino. “Una fiala intramuscolo o in infusione lenta, a seconda della necessità”, lesse la ragazza lentamente.

Mentre rifletteva, le cadde lo sguardo sul ripiano inferiore di una libreria, ingombra di scatole e riviste polverose. Là giaceva il 'Manuale dell'Ostetrica'. Lo afferrò con uno scatto felino e lo sfogliò avidamente.

Eleonora, vieni con me, per favore!”, disse Chiara, prima di uscire dalla stanza.

Fuori incrociò Michela che finiva di sistemare le bottiglie incendiarie accanto ai loro zaini dalle porte. Là avevano messo anche i porta-enfants dove sistemare i quattro bimbi della nursery, mentre il quinto lo avevano già portato in sala parto assieme alla borsa di Monica con il cambio del nascituro.

Michela, lascia stare tutto e vieni anche tu in sala parto. Ho bisogno di tutte e quattro di là!”, ordinò loro.

Giunte in sala parto, Chiara chiese ad Eleonora di leggere attentamente e con calma tutto quello che c'era scritto sul manuale, in modo che lei potesse operare senza dover continuamente cercare il segno sul libro.

Ok, Per verificare, senza l'uso dell'ecografo, la posizione del feto, occorre inserire le dita della mano nel canale vaginale fino a che non si tocca il collo dell'utero. Lì, se vi è la testa, si sentirà una superficie molla ma sferica; se si sente una parte dura, il feto potrebbe presentarsi di spalla o peggio di piedi”, lesse Eleonora, scandendo le parole.

Ok, verifichiamo e speriamo sia di testa. Speriamo che in tutto questo casino, almeno una cosa vada per il verso giusto”, esclamò Chiara, accingendosi a inserire le dita della mano destra nel canale.

In un silenzio assoluto e allo stesso tempo assordante, Chiara verificò la situazione.

Non mi sembra podalico. Non ne sono sicura al cento per cento ma credo che non potrei mai esserlo senza strumentazione”, affermò Chiara, ritraendosi.

Mentre Monica lottava con un'altra contrazione, aiutata da Mò, Chiara disse ad Eleonora di indossare dei guanti di lattice e mettersi un camice usa e getta.

Ora ti faccio l'iniezione intramuscolo, Monica. Così entri nell'ultima fase del travaglio e io posso romperti le acque manualmente. Ok?”, chiese la ragazza, già con la siringa in mano.

Dopo aver proceduto, chiese ad Eleonora di procurarle delle forbici e un bisturi, contenuti in una specie di forno a microonde, dove si sterilizzavano i ferri. 'Forse se erano ancora lì, erano sterili', pensò Chiara.

In quel mentre, entrò Michela. La sua compagna di scuola le diede guanti e camice ed entrarono scoppiarono a ridere. “Eh bè, dalle disequazioni di Bazzurro, direttamente alla sala operatoria”, esclamò Michela, mentre lottava con un guanto.

Nessun telefilm con scene di parto in condizioni critiche, Michela?”, chiese Chiara, speranzosa.

Qualcuno”, rispose Michela.

Bene. Allora se ti viene in mente qualcosa, non esitare a parlare, Michela. Qui siamo tutti analfabeti e ogni aiuto è prezioso”

Forse ci vorrebbero degli asciugamani per avvolgere il pargolo e qualcosa per lavarlo e l'immancabile acqua calda, tipica di ogni telefilm e film che si rispetti”, dichiarò Michela.

Giusto. Hai ragione”, disse Eleonora. “Bè, per l'acqua calda vedo degli intoppi...”, borbottò poi la ragazza.

Cercate delle salviette umidificate”, esclamò Mò. “Si può togliere il grosso qui e poi fargli un bagnetto quando arriviamo da Claudia”, continuando ad asciugare il volto della partoriente e a sussurrale parole di incoraggiamento.

Qualche minuto dopo l'iniezione, le contrazioni accelerarono. Ormai erano l'una distante dall'altra solo pochi minuti.

Monica, spingi! Spingi, ci siamo!”, gridò, ad un certo punto, Chiara. “Vedo la testa!”

Eleonora stava leggendo avidamente il manuale per cercare ogni informazione e ogni tanto urlava qualche comando a una o all'altra ragazza, cercando di superare le urla della donna.

Michela, tieniti pronta. Non appena vedi la testa che esce fuori, posizionati con le braccia sotto il bacino della donna. Il bimbo scivolerà giù in fretta. Non perderlo, mi raccomando”

Mò, non appena il bimbo è fuori, devi premere sulla pancia di Monica. Deve uscire la placenta. Non può stare dentro e poi dovrai, inserire dentro delle garze in modo che fermino l'emorragia!, istruì la ragazza, neanche fosse il primario ginecologo.

Dai, ragazze, un ultimo sforzo!”, esclamò poi.

Lavorarono tutte e cinque per alcuni minuti. Chi a spingere, chi a incitare, chi ad aspettare di essere utile. Poi il vagito di un nuovo essere vivente irruppe prepotente nella sala. Un toccasana per tutte!!

E' un maschietto!”, annunciò Chiara, con orgoglio, accertandosi che fosse sano e forte, mentre il piccolo urlava tutta la sua infelicità per essere capitato in un mondo così caotico.

Mentre Michela lo teneva in braccio, avvolto dall'asciugamano, Chiara eseguiva il taglio del cordone, seguendo le indicazioni di Eleonora, imparate velocemente a memoria.

Dopo aver posizionato le forbici a monte e a valle di dove doveva tagliare, eseguì la procedura, facendo poi un piccolo nodo a quel lembo di cordone che aveva mantenuto in vita quel bimbo per quei nove mesi.

Michela, senza che nessuno le dicesse nulla, posò delicatamente il neonato tra le braccia della sua mamma che lo accolse con gioia. “Come hai deciso di chiamarlo?”, le chiese poi.

Se fosse stata una bimba, le avrei dato i vostri nomi! Mi accontenterò di chiamarlo Gabriele, come l'arcangelo, perché si ricordi sempre che senza voi quattro non sarebbe mai nato, miei angeli custodi!”, esclamò la donna, scoppiando a piangere.

Benvenuto, Gabriele!”, esclamarono le ragazze, in coro.

Chiara si tolse i guanti e il camice e decise di uscire fuori per prendere una boccata d'aria, dopo aver verificato che non ci fossero grosse perdite di sangue dalla puerpera, poi diede istruzioni alle ragazze di pulire e vestire il bimbo e la madre e ti tenersi pronte per andare via. Doveva andare a prendere i quattro neonati nella nursery e lì si diresse non appena uscì dalla stanza.

Ancora prima di vederlo, percepì una presenza nell'atrio, reso oscuro dalla penombra.

E' nato il bambino?”, le chiese un soldato, avvicinandosi a lei.

Chiara rimase immobile, incapace perfino di respirare. Annuì soltanto.

Bene. Allora lei e la donna verrete via con noi!”, replicò lo stesso.

Io non sono una vera e propria infermeria. Non ho neanche 20 anni”, balbettò la ragazza, terrorizzata.

Ce l'hai i documenti?”, chiese quello.

Si, sono nel mio zaino nella sala parto”, rispose Chiara, cercando di perdere tempo per pensare a una soluzione.

Allora vengo con te, me li fai vedere, così prendiamo la donna e ce ne andiamo”

La puerpera non è ancora in grado di muoversi e comunque devo preparare il bambino”, esclamò Chiara.

Il bambino non serve. Rimarrà qui”, rispose il militare.

Come sarebbe a dire che non serve? Non serve a cosa?”, chiese, ora più battagliera la ragazza.

La rieducazione viene fatta agli adulti. I bambini e i ragazzi sono irrecuperabili, merce avariata!”, spiegò il tizio in mimetica, con voce inespressiva.

Vai a prendere la donna e se non vuoi essere portata via anche tu, ricordati i documenti!”, le ordinò poi, spintonandola verso il corridoio.

Chiara, sconvolta, tornò indietro, cercando una soluzione possibile. Entrò in sala parto, trovando Monica in piedi ma con un'espressione dolorante e distrutta. Stava appoggiata alla lettiga, respirando affannosamente, mentre Mò l'aiutava a vestirsi.

Ci sono brutte notizie. C'è un soldato qui fuori. Vogliono portare via Monica senza il suo bambino. Fatevi venire un'idea e al più presto!”, esclamò Chiara, concitata.

Monica spalancò gli occhi dalla paura e dalla sorpresa. “Io, senza Gabriele, non vado da nessuna parte!”, esclamò la donna risoluta.

Dovranno passare sul mio cadavere!”, ribatté Michela, porgendo il piccolo tra le braccia di Eleonora. Si guardò intorno un attimo e poi disse: “Ho un piano. Seguitemi!”

Detto ciò, si diresse verso la portafinestra, sotto lo sguardo incredulo di tutte le altre.

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Capitolo 11
*** Decimo Capitolo ***


CAPITOLO DECIMO

 

“La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia”

(Gandhi)

 

Sono passati tre giorni ed ancora siamo tutti sotto shock. Una serie di avvenimenti, uno più tragico dell'altro, ha contraddistinto la giornata.

In ventiquattro ore siamo passati dalla consapevolezza di sapere con chi dobbiamo confrontarci, grazie a Marta che ha rischiato la vita per riuscire a carpire tale informazione, a quello che hanno scoperto Simone, Daniele e Federico e, infine, al dramma consumato all'interno dell'ospedale.

Ora nell'Istituto Pietrine, ex scuola elementare e più recentemente casa di riposo, collocato strategicamente accanto al mio palazzo, nel quale abbiamo stabilito il presidio armato della zona, si tiene una riunione informativa. Tutti i vari capi dei gruppi della resistenza, formatisi nei giorni precendenti sotto il mio comando, sono riuniti per prendere delle decisioni, frutto di quello che siamo venuti a conoscenza nei giorni appena trascorsi.

“Riepiloghiamo, così capiscono anche quelli che sono arrivati in ritardo”, esclamo, lanciando un'occhiataccia a Matteo, Daniele e Simone, appena entrati e alla ricerca spasmodica di una sedia dove sedersi.

“Alla luce delle importanti notizie che ci ha portato Marta”, dichiaro, indicando la ragazza, la quale arrossisce per essere stata nominata davanti a tutti “e di quello che è avvenuto all'ospedale, abbiamo deciso di modificare alcune priorità che ci sembravano importanti nei giorni scorsi ma che ora hanno perso la connotazione dell'urgenza”, continuo, osservando tutti i convenuti che ascoltano con attenzione ciò che sto dicendo.

“Vorremmo da parte vostra dei suggerimenti su quanto è stato deciso e inoltre in questa sede verranno nominatii comandanti di ogni gruppo con i relativi vice-capi. E' di fondamentale importanza che ognuno di voi sia inserito nel gruppo adatto per le proprie attitudini e aspirazioni. Solo chi è motivato, può svolgere un ottimo lavoro. Di conseguenza, adesso Federico ci illustrerà come intendiamo muoverci nei prossimi giorni”, concludo, facendo segno al ragazzo di raggiungermi sulla pedana.

Il giovane si alza dalla sedia e con pochi passi mi raggiunge e dopo avermi salutata con un cenno della testa, si accinge a spiegare.

“Allora, questa alle mie spalle è la cartina della zona qui attorno. Ovviamente abbiamo dovuto ricalcarla a mano e non è venuta un capolavoro ma è chiara quanto basta. La zona strategica è via G.B.Monti e via dei Landi assieme al ponte di quota Quaranta. Tutti gli accessi devono essere controllati sia di giorno che di notte da guardie armate e all'inizio delle due mulattiere, ovvero la salita che va giù in corso Martinetti e quella che va su al Belvedere”, continua a spiegare Federico, indicando sulla cartina i vari punti, aiutandosi con un righello, “verranno costruiti degli sbarramenti per impedire a chiunque di accedere a questa zona. Inoltre abbiamo deciso di non prestare più il nostro aiuto giù alla Fiumara. E' troppo lontana e troppo pericoloso per noi andare avanti e indietro. Un dispendio di energie e tempo. Sono stati trovati dei ragazzi che possono tenere i bambini sotto controllo e dar loro tutto quello di cui hanno necessità. Ora Antonio vi parlerà della questione sicurezza e armamenti”, conclude Federico, facendo cenno ad Antonio a unirsi a lui sul palco.

Il giovane, alto e longilineo, scatta su dalla sedia con rinnovata energia. Dopo aver dato una pacca sulla schiena a Federico, tira fuori un foglietto dalla tasca dei jeans e si accinge a leggere ciò che ha scritto.

“I nomi che adesso leggerò sono i nominativi dei capi gruppo del settore sicurezza. Vi spiego dopo cosa dovranno fare e in che modo. Va bene?”, esclama con calma, guardando tutti con uno sguardo penetrante. Tutti annuiscono, timorosi. E' risaputo che se Antonio ti fa una domanda o una richiesta tu devi acconsentire immediatamente. Non perchè il ragazzo sia particolarmente violento o irascibile ma solo perchè la sua postura richiede obbedienza immediata. Fa quell'effetto...

“Marco, D'Alex, Daniele. I vice-capo sono Matteo, Michela, Simone”, spiega, fermando con un'occhiata le mani alzate dei nominati. “Ragazzi, a tempo debito le domande. Ora non abbiamo tempo. Devo finire di spiegare. Marco e Matteo sono responsabili della ricerca dei viveri, medicinali e di tutto quello di cui abbiamo bisogno. D'Alex e Michela si occuperanno di addestrare all'uso delle armi e a fare servizio di guardia. Daniele e Simone si occuperanno della logistica. Quindi Marco è nominato 'ufficiale all'approvvigionamento'; D'Alex, 'ufficiale agli armamenti'; Daniele, 'ufficiale della logistica'; Matteo, Michela e Simone sono i vice e possono agire in assenza del loro diretto superiore. Marco, D'Alex e Daniele devono riferire a me. Domande?”, chiede poi Antonio, vedendo un mare di mani alzate.

“In che senso ufficiale della logistica? Cosa dovrei fare?”, chiede Daniele dubbioso.

“Devi trovare luoghi sicuri dove stivare le vettovaglie, sarai responsabile di tutti i materiali e mezzi che verranno utilizzati dagli altri e dovrai fornire l'elenco di tutto quello che serve a Marco in modo che la procuri nel più breve tempo possibile”, risponde prontamente Antonio.

Daniele scrolla la testa, cercando di assimilare l'immane compito che gli è stato assegnato. Poi si gira a guardare Simone, il quale, anche lui con lo sguardo attonito, inizia a valutare i pro e i contro della situazione.

“Ufficiale agli armamenti? Bene, ma Antonio ho cinque fucili e quattro pistole. Mi dici che ci faccio io con quelle? Avrò circa una trentina di ragazzi da addestrare....”, esclama la sorella di Marco, sospirando.

“Si, D'Alex hai ragione. Cercheremo di trovarti più armi e comunque sto già insegnando io ai ragazzini come usare arco e balestra. Solo i grandi potranno usare le armi da fuoco!”, risponde Antonio.

“Cosa intendi per grandi?”, chiede Matti, dall'alto dei suoi tredici anni.

“Ahahah, Matti, direi dai quindici anni in su. Tu sei ancora un po' piccolo....”, ridacchia Antonio.

“Uffa!”, replica il piccolo ma coraggioso cavaliere.

“Adesso se non avete altre domande da fare”, dice Antonio, a discapito delle numerose mani ancora alzate “do la parola a Francesca”, indicando la minuta ragazza dai capelli neri che siede in prima fila.

Lei si alza, raccoglie una grossa agenda, zeppa di fogli, e si dirige verso la pedana.

“Sono stata nominata 'ufficiale territoriale' e anche se mi è stato spiegato più volte di cosa mi debbo occupare, ho ancora qualche dubbio in merito. Intanto ho pensato di suddividere il mio compito in settori con a capo un responsabile: Minori, Animali, Infrastrutture, Equipaggiamento. Per quanto riguarda gli ufficiali incaricati, le persone saranno scelte tra Ilaria, Marta, Michela e Desirèe. Vorrei che le ragazze che ho nominato, decidessero loro stesse dove essere collocate. Per quanto riguarda il centro di coordinamento della Fiumara è stato nominato ufficiale responsabile Valentina”, spiega con calma, consultando la sua agenda ricolma di nomi e rapporti.

“Domande?”, chiede poi, vedendo le espressioni sorprese di Marta e Michela.

“Perchè è stato deciso di utilizzare i gradi dell'esercito?”, chiede Marta, agitandosi sulla sedia, a causa del suo nervosismo e dei postumi della ferita alla gamba.

Francesca, non riuscendo a rispondere alla domanda, si gira verso di me, con sguardo interrogativo.

“Perchè seguire una struttura gerarchica di tipo militare facilita il compito di chi deve eseguire gli ordini e per chi li deve dare. Siamo in una situazione di emergenza e, a volte, sottostare a degli ordini in condizioni di pericolo, può essere utile far leva sull'obbedienza e sulla fedeltà al gruppo”, spiego io, alzandomi dalla sedia dove mi ero seduta in prima fila.

“I bambini piccoli che sono giù alla Fiumara li lasciamo giù? Ce ne siamo occupate fino a ieri e ora improvvisamente li abbandoniamo?”, chiede Ilaria, preoccupata.

“Si capisco, è stata una decisione sofferta ma non possiamo occuparci di loro. Prenderemo soltanto quelli che hanno una parentela con quelli più grandi che sono già qui”, spiega Francesca.

“Ma non possiamo lasciarli giù. Sono in pericolo ed è una zona non difendibile!”, ribatte Desirèe.

Altri ragazzi iniziano a protestare.

“A tale proposito, vorrei che tutti voi veniste a conoscenza di quello che è accaduto tre giorni fa ed è per questo che siamo arrivati a prendere queste decisioni. Forse sapere esattamente quello che è successo dalla viva voce delle nostre protagoniste, vi farà comprendere che è necessario rivedere le nostre priorità”, spiego, cercando di far sentire la mia voce, in mezzo alla cacofonia della sala.

“SILENZIO”, urla Antonio.

Tutti si zittiscono.

“Marta, per favore, vieni qui e racconta a tutti cosa hai visto sulla collina sopra Belvedere”, esclamo io, guardando la ragazza in questione.

Lei avvampa sentendo tutti gli sguardi addosso a lei. “Chi? Io?”, replica poi, incerta.

“Si, Marta. Voglio che sia chiaro a tutti quali siano le implicazioni!”, dichiaro, mentre le faccio cenno di raggiungermi.

“Ah, va bene, ma...io non...credo di...”, balbetta nervosamente Marta, avvicinandosi a me. Respira velocemente per la tensione ma piano piano si calma, iniziando a parlare:

“Ho seguito Ira, il pastore tedesco che è sempre con me in questi giorni, fino al ciglio della collina. Lei era ferma. Seduta come se mi stesse aspettando. A fatica l'ho raggiunta. Mi faceva male la gamba e continuavo a perdere sangue, così mi sono seduta a terra, accanto a lei. E ho guardato giù in direzione della barriera autostradale di Genova-Ovest”, spiega Marta, dapprima con voce incerta poi via via sempre più sicura.

“Continua, Marta”, la incito ad andare avanti.

“Si. Improvvisamente c'è stato un bagliore tra la galleria e la barriera. Poi uno stridio e poi un altro lampo di luce abbagliante. Nel momento in cui la luce si è affievolita, è comparso un motociclista. E' come se fosse passato attraverso una tenda o una finestra deformata. In pratica è apparso dal nulla!”, spiega la ragazza. “Poco dopo ne sono arrivati altri cinque nello stesso modo. E non erano moto normali e sì, io sarò anche ignorante in fatto di motociclette, ma in questi giorni mi sono letta tutte le riviste in materia e niente di quello che ho visto esiste in realtà. Con i miei ricordi e l'aiuto di Matti che ha fatto lo schizzo, siamo arrivati a produrre questo disegno”, dice Marta, facendo segno al piccolo Matteo di darle il cartoncino con su disegnata una moto. “Sembra uscita da 'Guerre Stellari'”, esclama Daniele, guardando il disegno. “Si, sembra proprio il veicolo che guidavano i soldati di Darth Vener inseguendo Luke e Han Solo nel sesto episodio...”, aggiunge poi il ragazzo.

“E non è tutto. Quelli che sono scesi dalle moto avevano una specie di armatura addosso. Una tuta li ricopriva, come se fossero stati dei robot. Ma quando si sono tolti i caschi, erano umani. O almeno a me sembravano tali!”, conclude la ragazza, davanti a una platea attonita.

“Grazie, Marta. La tua testimonianza è stata preziosissima!”, esclamo, abbracciando la ragazza. “Ma non è tutto. Un altro particolare ci ha fatto decidere di abbandonare il centro commerciale giù alla Fiumara e sì, abbiamo preso tutte le precauzioni del caso. Daniele o Simone volete spiegare cosa avete visto?”, chiedo dopo ai due ragazzi.

Daniele fa cenno a Simone di andare sul palco. Simone annuisce e si alza, avvicinandosi al palco. Dopo aver preso posto, inizia a raccontare: “Stavo cercando un mezzo di locomozione, in un autosalone sopra il grande magazzino per il tempo libero a Campi, quando da una vetrata, ho visto un carroarmato venire verso di me. Mi sono messo a gridare, cercando di raggiungere Federico e Daniele che erano al piano di sotto. Quell'affare continuava imperterrito ad avanzare verso di noi e quando siamo riusciti a uscire a rotta di collo all'esterno, quello ha iniziato a sparare sull'edificio. Ha continuato a farlo finchè tutto non è crollato. Dentro, per fortuna, non c'era nessuno ma tutto quello di cui avevamo bisogno è rimasto sotto. In pratica, per usare un'espressione di Claudia, stanno facendo 'terra bruciata'”, afferma, con voce tremolante, il ragazzo.

“In questo momento tutti i bimbi della Fiumara stanno per essere spostati dentro l'istituto Don Bosco. Sono stati reclutati tutti i ragazzi che vagavano per il quartiere per svolgere questo lavoro ma noi abbiamo altre priorità. Intanto dobbiamo sopravvivere noi e tutti i ragazzini che abbiamo in gestione e poi, se possibile, trovare dove hanno portato gli adulti e capire se c'è una remota possibilità di risolvere questa immane catastrofe”, continuo a spiegare.

Gli animi sono più calmi. Tutti stanno vagliando quelle nuove informazioni e valutando i cambiamenti. Sono certa, però, che quello che starà per essere raccontato dalla viva voce di Michela farà pendere la bilancia dalla nostra parte.

“Michela, te la senti di raccontarci, ciò che è accaduto all'ospedale?”, chiedo alla ragazza, seduta in un angolo con un neonato in braccio a cui sta dando un biberon colmo di latte caldo.

Si alza e viene sul palco. Si siede accanto a me. Le faccio una carezza sul viso. Sono tre giorni che non parla e non dorme. Piange a tratti e ovunque vada porta con sé quel bimbo, da cui non si vuole staccare.

Francesca le si siede accanto e le tiene la mano. Le sussurra che le starà vicina e non la lascerà andare ma è importante che racconti quello che ha visto tre giorni prima. Lei annuisce e inizia a raccontare i fatti fino all'arrivo dei soldati nel padiglione della maternità. Il silenzio irreale della sala accoglie la nascita del bimbo con un sospiro di sollievo che si infrange quando la ragazza inizia a raccontare ciò che è avvenuto dopo:

“Il piano era buono: passare dal cornicione, rientrare dalla nursery e calarsi dal montacarichi della biancheria sporca. Mi ero accorta prima che c'era una scaletta che portava al piano di sotto.

Da lì, ci siamo rese conto che non ci saremmo mai potute inoltrare per i viali dell'ospedale fino all'uscita: erano invasi da camion militari e soldati. Di certo non potevamo stare lì: i locali erano freddi e umidi. Con quattro neonati e una puerpera bisognosa di cure era necessario spostarsi ma la via di uscita era chiusa”, narra Michela e il racconto è talmente particolareggiato che è come se stessimo seguendo un film, come se quel disgraziato giorno tutti quanti fossimo stati in quel malefico ospedale.

…....

Michela e Mò uscirono approfittando del buio per cercare un modo per arrivare al cancello di uscita. Passando in mezzo alle aiuole si erano ben presto accorte che era impossibile. Erano in troppe. Un minimo rumore e i soldati di guardia le avreebero sentite. L'opzione 'farsi prendere come prigioniere' era tramontata nel momento in cui, con un altoparlante, un tizio le aveva informate che farsi trovare all'esterno equivaleva a morte certa. E il trovare il corpo di un'infermiera crivellata di colpi in un cespuglio di rigogliose ortensie, ne era la macabra conferma.

Tornate nel magazzino, informarono le compagne di sventura che, oltre alla possibilità di ritornare in reparto e farsi catturare così vive, non c'erano altre alternative.

Monica non la prese bene. Si mise a piangere, stringendo a sé il bimbo appena nato, farfugliando che si sarebbe immolata, piuttosto che abbandonare suo figlio. Le ragazze cercarono di farla ragionare. L'unica che riuscì a calmarla un po' fu Michela. Con il suo modo scanzonato e a volte un po' irriverente, era sempre in grado di trovare lati positivi anche quando non ce n'erano.

Nell'aggirarsi fra quei cumuli di biancheria sporca, Eleonora scovò una piantina dell'ospedale. Con la luce della torcia, riuscì a trovare il punto in cui si erano rifugiate e poi ebbe un'illuminazione.

“Michela! Michela! Vieni qui, ho trovato il modo di uscire!”, esclamò, cercando di farsi sentire, benchè sussurasse.

“Cosa hai trovato?”, le chiese la ragazza, accorrendo.

“Guarda”, disse, indicando con un dito un condotto che si apriva dietro al padiglione otto e sbucava dietro al pronto soccorso.

“Bisogna però arrivarci al padiglione otto”, replicò Chiara, dopo aver raggiunto le ragazze.

“Non so neanche dove sia questo reparto”, ammise Michela, sconcertata.

“In linea d'aria è qui dietro ma bisogna fare un pezzo di strada allo scoperto...”, disse Chiara, cercando di ricordarsi la strada.

“C'è un sentiero qui dietro che porta a un giardino creato per le partorienti, da lì un viottolo porta al parcheggio per i medici e al padiglione in questione”, esclamò Monica, quando le ragazze la informarono della scoperta.

Michela e Mò uscirono dal magazzino alla ricerca del sentiero.

Dopo dieci minuti di ricerca infrutttuosa, Michela riuscì a trovare una rampa per carrozzine che portava a un piccolo spiazzo con delle panchine e aiuole fiorite, il cui profumo inebriava l'aria.

Mò rimase fuori a illuminare il cammino, semi-nascosto da un folto gruppo di verbena, piccoli fiorellini rosa-lilla, la cui fioritura dava un ampio margine di protezione e il cui profumo faceva per un attimo dimenticare la tragicità della situazione.

Con Michela in testa ed Eleonora in fondo a chiudere il piccolo drappello di temerarie, ognuna con un marsupio dove avevano messo un neonato a testa, riuscirono ad arrivare nel piccolo giardino. Mò si diresse verso il viottolo per esplorarlo, mentre le ragazze facevano del loro meglio per non far piangere i bimbi. Il tempo stringeva. Ben presto avrebbero iniziato a reclamare di essere sfamati e cambiati. Anche Monica non stava bene: l'emorragia aveva ripreso il suo corso e doveva essere arrestata al più presto. Se non avessero trovato quel condotto, la conclusione sarebbe stata scontata...

Al parcheggio ci arrivarono senza difficoltà, ma ovviamente era stato usato anche dai soldati che ormai brulicavano per l'area come formiche alla ricerca di briciole di pane. Nascoste dai rami degli oleandri, guardavano l'attività frenetica di quegli uomini in uniforme che impedivano loro di arrivare al tunnel e alla libertà tanto agognata.

“Michela, tu e Chiara, andate con Monica e i bimbi dal padiglione. Ele ed io rimaniamo indietro e vi copriamo”, esclamò Mò, risoluta.

“Ci coprite? E con che cosa?”, chiese Chiara, stupita.

“Le bombe incendiarie che abbiamo fatto prima. Ne abbiamo un po' negli zaini. Creiamo un diversivo...”, spiegò la ragazzina, iniziando a tirare fuori le molotov.

“E da quale telefilm hai tirato fuori questo piano?”, chiese, poi, Chiara, sorridendo compiaciuta al coraggio della sua amica.

“Me lo ha raccontato Michela prima...”, rispose lei, indicando la ragazza più grande.

“X-Files”, replicò Michela, passando le sue bombe incendiarie ad Eleonora.

“E ci vorrebbe Mulder qui, adesso...”, mormorò Monica, sofferente ma con un lieve guizzo di interesse negli occhi. “Se me lo fossi ricordato prima, avrei chiamato mio figlio William...”, aggiunse poi, facendo una carezza al piccolo, accocolato tra le sue braccia.

“Sei ancora in tempo, Monica, per cambiare nome a tuo figlio. Lo sai?”, disse Chiara alla donna.

“Ero una bambina quando vedevo quella serie e quando nacque quel bambino, giurai a me stessa che se avessi avuto un maschio, lo avrei chiamato così...”, spiegò la donna.

“Per quale motivo?”, chiese Eleonora, curiosa.

“Era un miracolo. Nato da una donna sterile e frutto di un amore intenso e clandestino, mi aveva appassionata forse di più di tutta la storia narrata dal telefilm”, spiegò la donna, abbandonando per un attimo la tragedia nella quale era capitata.

“Sarà meglio muoverci”, disse Chiara a Michela. “Monica non ha più molto tempo. Se non intervengo subito, quel bimbo rimarrà orfano”, aggiunse l'infermeria, sospirando e poi passandosi una mano sugli occhi stanchi e arrossati.

La manovra diversiva permise alle tre giovani di arrivare all'imboccatura del tunnel incolume. Si fermarono ad aspettare le altre due ragazze mentre attorno a loro risuonavano esplosioni e raffiche di mitra. Gli obiettivi della retroguardia erano i serbatoi dei camion e quelli stavano saltando in aria. Tutto andava secondo i piani...

“Perchè ci mettono così tanto. Maledizione!”, sbottò Chiara, rivolta a Eleonora e Mò che non le avevano ancora raggiunte e con lo sguardo fisso al volto sempre più pallido di Monica.

“Vado a vedere!”, esclamò Michela, alzandosi in piedi e posando il marsupio con uno dei bimbi al suo interno.

Chiara saltò in piedi e inpedì fisicamente alla ragazza di mettere in pratica il suo intendimento. Nonostante la minutezza del suo fisico, riuscì nell'intento. Era un suicidio e il ritardo delle due ragazze significava che erano rimaste intrappolate e tornare verso di loro era troppo pericoloso. Michela ne era consapevole ma il pensiero di lasciare indietro Eleonora, sua compagna di scuola e amica di lunga data, e Mò era inconcepibile.

Nonostante il pianto irrefrenabile e le suppliche, Chiara sospinse la ragazza verso il condotto con i marsupi dei neonati, mentre lei sollevava quasi di peso Monica, ormai allo stremo delle forze.

A metà del tunnel, accadde l'inevitabile. La donna scivolò a terra, esangue.

“Michela, prendi in braccio il piccolo William e mettiti tutti i marsupi che puoi sulle spalle”, Chiara istruì la ragazza.

“Non ti lascio qui. Scordatelo!”, esclamò Michela, risoluta. “Di qui non mi muovo!”

“No, invece vai e cerca di raggiungere la fine del tunnel in cerca di aiuto. Se vedi che non sono ancora arrivata, mi mandi incontro qualcuno. I bambini prima di tutto. Sono troppo importanti!”, esclamò la ragazza, inginocchiata accanto alla puerpera, la quale respirava a mala pena.

“MICHELA! Porta via William!”, gridò Monica, con le sue ultime forze.

Quel grido scosse la ragazza dal torpore. Come un automa, raccolse i marsupi, se li sistemò addosso e poi, accosciandosi accanto alla donna, le prese il bimbo dalle braccia, non prima che sua madre avesse potuto dare un bacio in fronte al bimbo.

“Ti affido mio figlio. Fai in modo che cresca forte e coraggioso come sei tu, figlia mia!”, mormorò la donna, facendo una carezza sul viso della ragazza.

“Vai, ora, Michela. Vedrai che andrà tutto bene!”, esclamò Chiara

“Torno indietro appena posso, Chiara. Non fare brutti scherzi. Mi raccomando. Abbiamo...ho bisogno di te!”, disse Michela, ricambiando l'abbraccio e dopo un ultimo sguardo verso quelle due donne, si volse verso il tratto di tunnel che doveva percorrere e a passo svelto si avviò verso l'uscita.

Giunta al termine di quella lunga e stretta galleria, Michela si guardò attorno timorosa di trovarsi davanti qualche altro soldato. Quando le sembrò che tutto fosse silenzioso e la via sgombra, uscì fuori. Fece però pochi passi, visto che andò a scontrarsi contro il corpo solido di Antonio.

“Michela! Grazie al cielo! Sono ore che ti cerchiamo!”, esclamò lui, avendola riconosciuta subito. Accanto a lui si materializzarono Marco e Matteo.

La ragazza, senza fiato e sconvolta, spaventata dal trovarsi davanti a tre esseri tutti vestiti di nero e con il volto annerito, crollò addosso a Marco, il quale fece fatica a sorreggerla.

“Dove sono le altre ragazze?”, chiese Antonio, mentre gli altri due ragazzi cercavano di prendere i bambini in braccio.

“Chiara è nel tunnel. Le altre sono tutte morte e la colpa è solo mia!”, farfugliò la ragazza.

“Come sono morte? Michela, cosa dici?”, chiese Antonio, sconcertato. “Matteo, portala al nido! Marco ed io andiamo a dare un'occhiata”, ordinò Antonio, armando la balestra, con una freccia.

In silenzio come due gatti predatori giunsero a metà del tunnel dove trovarono una donna riversa a terra. Era morta. Accanto a lei un bimbo. Morto anch'esso. Era finto sotto il corpo della donna, soffocato, probabilmente. Sentirono sparare alla fine del condotto e poi alcune voci li spronarono a tornare sui loro passi e alla svelta. Riuscirono a raggiungere Matteo e lo aiutarono a portare i bimbi sopravvissuti mentre un neonato rimaneva saldamente tra le braccia di Michela che continuava a ripetere come se fosse una litania. “William è mio figlio e lo tengo io... William è mio figlio e lo tengo io...”, sconcertando non poco i tre ragazzi.

….

La sala è immersa nel silenzio più assoluto, se non si tiene conto di quelli che si soffiano il naso oppure di molti che singhiozzano o piangono.

“Credo che siate perfettamente in grado di capire che non si può più scherzare su questo fatto e che dobbiamo assolutamente fare in modo di creare una zona sicura per evitare in futuro di dover contare delle perdite umane o registrare sacrifici di persone a noi care”, affermo, cercando anche io di trattenere con immenso sforzo le lacrime.

“Possiamo quindi contare sul vostro aiuto e appoggio?”, chiede Federico, raggiungendomi sul palco.

Tutti annuiscono, convinti. Il sacrificio di tre eroiche ragazze e la morte di molti innocenti convince i più che solo uniti e solo combattendo si arriverà alla verità!

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