You and I'll be Safe and Sound

di _Rockstar_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cosa sarebbe successo... ***
Capitolo 2: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 3: *** Corrette previsioni e ultimi abbracci ***
Capitolo 4: *** Perchè non io ***
Capitolo 5: *** La stessa vecchia canzone ***
Capitolo 6: *** Promesse ***
Capitolo 7: *** Fare colpo ***
Capitolo 8: *** Ho paura ***
Capitolo 9: *** L’unica cosa che resta da fare ***
Capitolo 10: *** Distinguere la differenza ***
Capitolo 11: *** Inganno ***
Capitolo 12: *** Catene ***
Capitolo 13: *** Mattine bianche come diamanti ***
Capitolo 14: *** May the odds be ever in your favor ***
Capitolo 15: *** Stelle ***
Capitolo 16: *** Era la morte ***
Capitolo 17: *** Invincibile, immortale ***
Capitolo 18: *** Raggio di sole ***
Capitolo 19: *** In petto soltanto un pugnale ***
Capitolo 20: *** Sulla Cresta dell’onda ***
Capitolo 21: *** Basta che siamo insieme ***
Capitolo 22: *** Resa dei conti ***
Capitolo 23: *** Bianco ***
Capitolo 24: *** Rosa Rossa ***



Capitolo 1
*** Cosa sarebbe successo... ***


You and I’ll be Safe and Sound

Just close your eyes
The sun is going down
You'll be alright
No one can hurt you now
Come morning light
You and I'll be safe and sound.
Safe and Sound – Taylor Swift

 

- Teniamo un’altra edizione degli Hunger Games coi bambini di Capitol City – spiega la Coin.
- Sta scherzando?- chiede Peeta.
- No. Vi dico inoltre che se alla fine i Giochi si terranno davvero, verrà reso noto che la cosa è stata fatta con la vostra approvazione, mentre i singoli voti saranno mantenuti segreti per la vostra stessa sicurezza – chiarisce la Coin.
-  L’ha avuto Plutarch, quest’idea? – chiede Haymitch.
-  L’ho avuta io – risponde la Coin – Mi è parso che compensasse il bisogno di vendetta con il minor numero di vittime. Potete votare.
- No! – esclama Peeta. – Io voto no, naturalmente! Non possiamo avere altri Hunger Games!
- E perché no? – ribatte Johanna. – A me sembra molto giusto. Snow ha persino una nipote. Io voto si.


 
Che cosa sarebbe successo se i 76esimi Hunger Games fossero stati istituiti veramente? Cosa sarebbe successo se la ghiandaia imitatrice non avesse ucciso la Coin e il loro malvagio progetto fosse andato a buon fine? Cosa sarebbe successo se ventiquattro ragazzi di Capitol City fossero stati gettati in una nuova arena soltanto per vendetta da parte degli altri distretti?

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Capitolo 2
*** L'inizio della fine ***


Capitolo I – L’inizio della fine


Il sole splendeva forte, illuminando tutta la piazza centrale della città.  La piazza era grande e ormai completamente affollata. Tutti i giorni festivi essa ospitava il mercato in cui si poteva trovare di tutto, almeno tutto ciò che interessava agli abitanti di Capitol City. Dai tessuti al grano; dai gioielli al make-up, che tanto caratterizzava gli abitanti di quella città. Il suolo era stato ricoperto da mattonelle molto sottili ed elaborate, di un colore grigio ardesia e altre di colore avorio, che formavano tredici punti, le quali si incontravano al centro, dove era stato eretto un monumento ai caduti durante la guerra dei giorni bui. Per le occasioni speciali, in quella stessa piazza, veniva allestito un piccolo palco, sempre circondato da molte decine di pacificatori, da cui il presidente parlava ai cittadini. Quel giorno era stato allestito un palco più grande del solito e il numero delle guardie era stato aumentato. La brezza, che ora si era trasformata in un più impetuoso e freddo vento, si stava alzando sempre di più. La folata faceva in modo che i capelli coprissero il viso dei bambini e svolazzare i vestitini delle bambine, che si stavano avvicinando sempre più alla piazza. Sul palco, ancora vuoto, erano stati posizionate appositamente ventiquattro ampolle, ognuna contenenti duecento nomi, ripetuti solamente una volta. La massa di ragazzi, seguiti dalle loro rispettive famiglie, si stava avvicinando sempre più al luogo dove si sarebbero estratti i nome dei ventiquattro fortunati. Quando tutti i ragazzi, di ètà compresa dai dodici ai diciotto anni, si furono sistemati in riga, divisi per età e per sesso, ecco che la presidente del quasi nuovo stato, si presentò per prima sul palco, seguita dal gruppo che, insieme a lei, aveva acconsentito questa nuova ed ultima edizione degli Hunger Games. Si avvicinò al microfono e lo toccò due volte per controllare il suo funzionamento. Era la Coin, la presidente del distretto tredici il quale, durante i giorni bui, nei quali tutti i distretti si ribellarono contro la capitale, venne completamente raso al suolo. Dopo tanti anni e dopo altrettanti sforzi di ristrutturazione e costruzione, il distretto tredici risorse dalle sue stesse ceneri e invece di essere ricostruito sulle proprie macerie, si trasferì nel sottosuolo dove, con regole ferree, nacque una nuova città. Per questo motivo, per molti e lunghi anni, non si seppe nulla del tredici ed esso poté autogovernarsi senza dover sottostare al potere di Capitol City. Dopo la recente ribellione, fu proprio questo distretto, quello che risultò essere il più potente e ricco, a prendere il potere quando il regno del presidente Snow andò in frantumi.

- Benvenuti, cari ragazzi, a questa settantaseiesima edizione degli Hunger Games! – disse con un tono molto calmo e pacato
– E possa la fortuna sempre essere dalla vostra parte. – concluse così il discorso.
– Avrei tante parole per raccontare il perché di questi nuovi ed ultimi giochi, ma credo che un video, direttamente dal distretto tredici, sia più esaustivo di quanto lo possono essere le mie parole – disse con un sorriso in volto, mentre con il braccio destro indicava il maxischermo, da cui ora partì un video.
Si susseguivano varie immagini delle situazioni di vita precarie nei vari distretti prima della ribellione. Una bambina, di non più di sei anni, che mendicava in mezzo alla strada sotto la pioggia scrosciante nel distretto dodici, un uomo che veniva frustato per non aver concluso in tempo il suo lavoro, nel distretto undici. Poi, varie clip prese da vecchie edizioni dei giochi. Brutali uccisioni e vincitori incoronati. Poi venne la ribellione. Il distretto dodici dato completamente alle fiamme, i superstiti della settantacinquesima edizione che facevano esplodere l’arena e che venivano prelevati dagli hovercraft del distretto tredici. La ghiandaia imitatrice, Katniss, l’immagine di quella ribellione, che aiutava i malati di un ospedale. I ribelli che penetrano della città di Capitol e che sfuggono dai pacificatori e dagli ibridi mandati dal presidente. La città, impazzita e messa sottosopra, viene bombardata dagli hovercraft del presidente. Poi venne la pace. Ed è proprio con queste parole che si concluse il video. L’attenzione torna sulla Coin, che sempre con la sua caratteristica voce posata, invita il gruppo, che guidò la ribellione, sul palco. Ognuno di loro si posizionò davanti ad ogni ampolla, pronti per estrarre il nome di un ragazzo o di una ragazza. E quello fu l’inizio della fine. Uno dopo l’altro, presero ognuno un foglietto a testa. La Coin fu la prima a parlare.
– Fallon Abrahams – disse a voce alta e ferma. Il tempo si era fermato, il freddo aveva congelato i cuori, il vento aveva smesso di soffiare. Un ragazzo, di diciassette anni, dalla muscolatura robusta, si fece avanti, con gli occhi spenti, e si avviò verso il palco. Ogni suo passo si faceva sempre più pesante più si avvicinava alla presidente. E fu così, per altre ventitré volte. Ogni nome che veniva chiamato, un’anima volava via. Fu la volta del volto della ribellione. Katniss, la ragazza in fiamme, che con audacia ed eroismo, aveva condotto i distretti alla vittoria. Era lei che, tutti il popolo, al di fuori di capitol city, amava; era lei che aveva detto l’ultimo si alla istituzione degli ultimi giochi. La ghiandaia mise la mano all’interno dell’ampolla e ne estrasse l’ultimo nome.
E con voce alta ma tremante annunciò – Roseleen Snow. -   
 

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Capitolo 3
*** Corrette previsioni e ultimi abbracci ***


Capitolo II – Corrette previsioni e ultimi abbracci

Il vento si era alzato. Le fronde degli alberi, fuori dalla città, avevano ripreso a muoversi, ma gli uccelli aveva smesso di cantare. Dentro la città non si udiva nessun suono. Il respiro di tutto si era fermato, proprio come quello di una ragazzina. I suoi lunghi capelli biondo miele svolazzavano mossi dall’impetuoso vento, ma i suoi occhi erano spenti. Indossava un vestito color pesca e tra i capelli, a fermare la coda di cavallo, un fiore rosa.  Mosse avanti ed indietro l’anello che teneva all’anulare destro e si lisciò il vestito, facendo scomparire le pieghe che si erano formate. La folla, intorno a lei, si aprì, lasciando un immenso divario, mentre le telecamere inquadravano il suo volto. Dal momento in cui sentì il suo nome venir estratto, non aveva ancora alzando il volto. Aveva continuato a guardare il terreno sotto i suoi piedi, come se si rifiutasse di credere a ciò che era appena successo, cercando di dimenticare in più in fretta possibile quel momento. Poi alzò il volto. Le telecamere catturarono il suo primo piano. Dai suoi occhi blu non c’era segno di alcuna lacrima, la sua espressione era imperturbata e sulla fronte ricadeva un piccolo ricciolo ribelle. Si scostò quella ciocca di capelli e la lasciò dietro all’orecchio sinistro. Il passaggio per il palco, ormai si era fatto libero e la ragazza potò camminare senza ostacoli verso di esso. I suoi passi non erano pesanti e la sua postura era piena di orgoglio. Un passo dopo l’altro, salì sul palcoscenico, dove la presidente, con fare gentile e spudoratamente falso, la fece accomodare a fianco di Katniss. Messa a confronto, era facile notare la differenza tra l’altezza di una rispetto all’altra. L’altezza di Roseleen sottolineava ancora maggiormente il suo portamento fiero. La Coin riprese nuovamente la parola, mentre tutto gli occhi del pubblico e della gente che seguiva gli avvenimenti dai vari distretti, erano ancora fissi sull’ultima ragazza. Interiormente, Rose, era  molto turbata da tutto ciò, ma era soltanto troppo orgogliosa per mostrarlo ad altri. Strinse il pugno destro sempre più forte per darsi coraggio, mente la presidente si rimpossessava del microfono.
– Benissimo. – cominciò con il suo caratteristico sorriso falso – Facciamo un applauso ai nostri ventiquattro fortunati.
– Un applauso poco convinto si alzò dal pubblico, mentre l’unica davvero esultate era appunto la Coin, che fu l’unica a mettere in scena un applauso fragoroso. Un brivido corse su per la schiena di Rose, che si fece scappare il primo vero segno di paura.
– Felici Hunger Games! E possa la fortuna sempre essere a vostro favore. – concluse poi la presidente.
Mentre il pubblico confluiva verso le proprie abitazioni, i ventiquattro ragazzi e i rispettivi mentori seguirono la Coin all’interno del palazzo di giustizia della capitale. Katniss provò, in qualche modo, a rassicurare la sua ragazza appoggiandole una mano sulla spalla destra. Questa però, disgustata da quel gesto, scrollò, con un sapiente gioco di spalle, la mano venuta a confortarla e aumentò il passo, lasciando la mentore qualche metro più indietro. Katniss sospirò. Aveva trovato un osso davvero duro. Rose venne chiusa in una enorme stanza e la fecero accomodare su un piccolo divano di pelle rosso, che si intonava perfettamente al resto della sala. Era una sala molto spaziosa e con un soffitto molto alto. Sulla parete di destra vi erano le finestre, che davano sulla piazza, ornate da splendide e lussuose tende di seta di un colore rosso antico. Dal soffitto pendevano tre lampadari di cristalli, che illuminavano tutta la sala di una luce calorosa e piena di energia. Mentre la parete di destra era arricchita da un affresco raffigurante  una donna, che piangendo asciugava il volto di suo figlio. Rimase qualche minuto immobile a contemplare l’opera, fino a quando fu distratta dal rumore di due porte che si spalancavano. Sua madre, già piangendo, si fece largo tra i due pacificatori che si erano bloccati davanti all’entrata e corse verso la figlia, abbracciandola. Rose rimase un po’ interdetta, poi si sciolse nel suo abbraccio.
– Piccola mia – riuscì soltanto a dire, mentre la sua gola delle donna veniva bloccata dalla tante lacrime
– Mamma… - la rimproverò invece la figlia. Non le piaceva i piagnistei, soprattutto quelli della madre.
– Non ti voglio perdere – le confessò Enya, così si chiamava la madre
– Non mi perderai, te lo prometto – le rispose infine Rose. Non poteva ancora credere a ciò che era successo. Le sembrava tutto così surreale. Come se fosse caduta in un orribile sogno e non sapesse come svegliarsi. Aveva provato a pizzicarsi il braccio, ma non aveva funzionato. In un secondo momento, però, non si sorprese così tanto, a pensarci bene. Poteva aspettarselo. Quale sarebbe mai potuto essere il destino della nipote del presidente tiranno che, per anni, aveva trascinato nella miseria più assoluta il suo popolo, se non quello di morire per vendetta? La sua era una corretta previsione, più che perfetta.
– Mamma, dov’è papà? – chiese la ragazza con una strana voce innocente, che non la caratterizzava affatto. La madre non rispose. Sembrava di essere tornati indietro di almeno dieci anni quando, una piccola bambina di nome Rose, chiedeva alla sua mamma il motivo per cui suo padre non era tornato a casa, quel giorno. Si era sempre chiesta, soprattutto negli anni avvenire, il perché delle assenze croniche del padre. Sua madre non le aveva mai spiegato il motivo e lei non era mai andata oltre la prima domanda.
– Promettimi una cosa, mamma. – le chiese infine, mentre la madre rizzava le orecchie come fosse un piccolo gattino che aveva appena sentito l’odore del cibo.
– Promettimi che non permetterai di buttarti giù – le disse stringendole le spalle
– Tu sei forte, vero? Promettimi che non lo farai – la madre annuì, quasi ipnotizzata da quelle parole. Si guardarono negli occhi per qualche secondo, poi si sciolsero nell’ultimo abbraccio.
Sentirono la porta aprirsi nuovamente e due pacificatori trascinare, quasi a forza, la madre fuori dalla stanza. La porta si richiuse alle loro spalle con un fragoroso colpo. Era sicura che nessun’altro sarebbe venuto a farle visita, per l’ultima volta. Si sedette nuovamente sul divanetto rosso e, avvicinando le ginocchia al petto, si diede al più completo sconforto.  

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Capitolo 4
*** Perchè non io ***


Capitolo  III – Perché non io

Il rapporto con il padre non era mia stato uno dei migliori. Rose era  ormai abituata alle sue bugie. Tutta la loro vita era una menzogna. Le rare volte in cui suo padre si presentava a casa, era per restare poco più di venti minuti, cercare chissà che cosa nel ripostiglio vicino alle camere da letto, per poi scomparire nuovamente. Per anni, la ragazza, aveva provato a scoprire cosa di così importante fosse celato dentro a quella stanza, ma la porta era sempre chiusa a chiave. Non avrebbe mai avuto il coraggio di chiedere al padre poiché si presentasse da loro così raramente, figurarsi chiedergli che cosa ci fosse dietro a quella porta. La famiglia Snow era famosa per le loro menzogne e per i molteplici scheletri negli armadi, che loro stessi si nascondevano a vicenda. Rose aveva imparato una lezione: Se non è dato sapere, è meglio non chiedere. I ventiquattro ragazzi vennero trasferiti al centro di addestramento, il luogo in cui per anni si erano svolti gli allenamenti e i preparativi agli Hunger Games. Non era molto lontano dal palazzo di giustizia, per questo motivo il loro viaggio durò meno di mezz’ora. Il centro era stato costruito in maniera da ospitare due ragazzi dai dodici distretti insieme al loro gruppo di preparatori e al loro mentore. Aveva dodici piani, uno per ogni distretto. Il piano sotterraneo era costituito dalla palestra per gli allenamenti, mentre il piano principale ospitava la sala da pranzo, che si estendeva anche sulla terrazza, con vista sulla città. Rose fu prelevata da due pacificatori e portata fino ad un auto che l’avrebbe lasciata, insieme alla sua mentore, davanti al centro di addestramento. Katniss aveva ormai rinunciato a confortare la povera ragazza. Dopo l’episodio della mietitura, aveva capito che tra loro non avrebbe mai corso buon sangue. D’altronde, considerando il fatto che fu proprio lei, a dare l’ultima approvazione ai quei giochi, come poteva pretendere che Rose la ritenesse una sua alleata? Era oltremodo impossibile, che fra quelle due ragazze si potesse istaurare una relazione di reciproca fiducia, figurarsi d’amicizia. Rose seguì Katniss dentro al centro, senza mai guardarla in volto veramente. Quando una alzava lo sguardo per osservare, l’altra lo abbassava. Un silenzio tombale era l’unico suono che caratterizzò il loro intero viaggio, dalla palazzo di giustizia all’arrivo all’ultimo piano del centro, quello che avrebbe condiviso con Peeta e l’altro ragazzo sorteggiato. Appena le porte dell’ascensore si aprirono, Rose scivolò velocemente fuori e in men che non si dica, le porte della sua stanza da letto erano già serrate. Katniss sospirò mentre si lasciava andare sul divano del soggiorno. Peeta si sedette accanto a lei e in silenzio aspettarono fino a quando Declan  sarebbe stato fuori portata e non avrebbe potuto sentire ciò che si sarebbero detti.
– Non capisco – confessò sconsolata lei, mentre il ragazzo la faceva accomodare sul suo petto e con il braccio destro le cingeva le spalle.
– Che cosa non capisci? – le chiese invece lui.
– Non capisco il motivo di tanta freddezza. – rispose lei mentre Peeta si lasciava andare in una fragorosa risata
– Che c’è? – le chiese nuovamente lei, scocciata da quell’ultimo gesto.
– Io sono la persona che le potrebbe salvare la vita – continuò piena di orgoglio nella voce.
– Certo, ma tu sei anche quella che l’ha condannata a morte – le rispose allora lui, prendendosi una di quelle occhiate assassine che tanto piacevano a lei, ma Katniss non rispose.
– Anche io ce l’avrei a morte con te, in una situazione analoga – Katniss non poteva credere a ciò che aveva sentito.
Forse Peeta non si ricordava cosa Capitol City aveva fatto? Non era stata forse la gente di quella città a volerli nell’arena a combattere, non era forse lei ad aver cercato di ucciderli ed aver fatto il completo lavaggio del cervello a lui? Come poteva soltanto pensare di stare dalla parte di quelle persone. Loro erano nel giusto, ne era sicura. Peeta osservò l’espressione stupita ed incredula di lei, così in attesa di capire meglio ciò che avesse voluto dire, che lui non poté far e a meno di darle spiegazioni.
– Pensaci bene. Sei così sicura che tutta la colpa di ciò che ci è successo, sia di quella ragazza? Sei così… – le disse allora lui.
– Non sto dicendo questo – lo interruppe lei
–Si, questo è esattamente ciò che stai dicendo. Per te è giusto far patire loro la nostra stessa sfortuna? – Katniss ci riflettè un attimo, poi parlò.
– Certo! – disse più convinta che mai – Occhio per occhio, no? – Peeta sapeva già che con lei non si poteva discutere.
Infine si rassegnò. Si alzò dal divano, diretto in camera da letto.
– Occhio per occhio e il mondo diventerà cieco, Katniss – concluse infine, lasciandola da sola con i suoi pensieri.

Appena la porta della camera fu chiusa, Rose si gettò a capofitto sul grande letto matrimoniale e pianse tutte le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento. Non le sembrava ancora possibile. Non poteva essere accaduto. Perché era stata scelta proprio lei, pensava. Ma  poi si chiese, perché non lei? Rose era forse l’unica persona, che i distretti desideravano voler vedere morire. Era una vendetta indiretta. Una legge della faida. Suo nonno aveva ucciso tutti i loro cari, ora toccava a lei pagare.

Riponde l'autore
Eccomi qui per la prima volta a parlarvi faccia a faccia...schermo a schermo più che altro.
Innanzitutto voglio ringraziare calorosamente chi ha recensito questi primi capitoli, vi prego continuate a farlo.
Poi, voglio ringrazire chi segue la mia storia e chi l'ha adirittuta aggiunta tra le preferite. Beh, wow. Grazie.
Questo piccolo spazio, che da ora in poi mi ritaglierò, è stato fatto per rispondere a tutti voi, cari lettori.
Quindi vi prego, recensite e recensite così potrò sapere se la storia vi piace oppure no. Se avete suggerimenti da darmi, li accetterò volentieri.
Un bacio _Rock_

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Capitolo 5
*** La stessa vecchia canzone ***


Capitolo IV – La stessa vecchia canzone

Deep in the meadow, under the willow.
A bed of grass, a soft green pillow.
Lay down your head, and close your eyes
and when they open, the sun will rise.
Deep in the Meadow – Sting

 

Erano passate ormai più di cinque ore dalla mietitura e già stavano trasmettendo le repliche in tv. Era sempre stato così. Fin dalla prima edizione, tutti gli abitanti di Panem, soprattutto quelli dei distretti, erano obbligati a seguire il reality alla tv e nessuno poteva sottrarsi a questa regola. Ma creata la regola; creato l’imbroglio. E’ risaputo che molti cittadini, coloro che non potevano sopportare la vista di innocenti morti o che si rifiutavano di obbedire alle regola della capitale, puntualmente, durante il programma si rifugiavano da qualche parte, cosicché i pacificatori non potessero scovarli e punirli duramente. Gli unici che molto volentieri assistevano allo show erano, ovviamente, gli abitanti della capitale che, forse, non subendo direttamente quelle crudeltà, trovano piacere nel guardarlo. Rose non era tra questi. Fin da quando era nata, era stata costretta da sua padre, fin troppo vicino ai piani crudeli del nonno, ad assistere al programma. Lei non  capiva realmente cosa stesse succedendo negli schermi di quella piccola tv, ma col tempo, iniziò a comprendere e a farsi delle idee tutte sue. Quella che più capiva il malcontento della bambina, era la madre. Anche lei condivideva le idee della figlia, ma era troppo codarda per ammetterlo. Rose no. Molto spesso era incappata in discussioni con il padre, che molto spesso finivano con maltrattamenti fisici, molto rincorrenti in quella casa. Lei non era la tipica ragazza sottomessa, era tutt’altro. Per niente al mondo si sarebbe fatta mettere i piedi in testa e nemmeno permesso di farsi cambiare idea con un lavaggio del cervello che, a quanto pare, era molto di moda in quella città. Ormai a nessun cittadino della capitale importava niente di quello che succedeva al di fuori delle loro quattro mura. Le uniche cose che davvero detestavano interesse erano gli abiti, il make-up e la chirurgia, che erano arrivati oltremodo più lontani dall’essere definiti orridi. Più Rose si guardava in giro, più era sicura di essere nata nel luogo sbagliato. Come faceva, una come lei, a essere davvero figlia di quella città così tremendamente rifatta e falsa? Questa fu una delle cause della solitudine e dell’inadeguatezza, che caratterizzarono l’infanzia e la giovinezza della ragazza. Rose si rigirò sul letto, su un fianco ed aprii gli occhi, ancora gonfi e rossi per il recente pianto. Si asciugò le ultime lacrime con il lenzuolo del letto e guardò l’orologio olografico posato sul comodino affianco a lei. Ne aveva uno simile a casa, ma invece di essere grigio metallizzato come quello, era di colore lilla, il suo preferito. Era formato da una lastra di metallo da cui, attraverso degli speciali ed innovativi led, l’orario veniva proiettato in alto. Ci passò la mano in mezzo, ma naturalmente non successe nulla. Con un enorme sforzo di rialzò dal letto e, nonostante mancasse poco all’ora di cena, si chiuse in bagno gettandosi nella doccia. Si tolse gli abiti , che gettò dentro ad un cestello, collegato a dei tubi, che gli avrebbero fatto arrivare direttamente alla lavanderia ai piani sotterranei. Chiuse le porte della doccia intorno a sé ed impostò la temperatura dell’acqua, il tipo di bagnoschiuma e di shampoo, che a tempo debito, sarebbero stati rilasciati. Fece una doccia, non estremamente lunga, ma abbastanza duratura per riuscire a pensare a come avrebbe agito da quel momento in poi. Decise che se c’era in gioco la sua vita, avrebbe fatto di tutto per imparare a giocare. Uscii dal bagno e lentamente prese giù un altro vestito per la serata. Si stupì quando vide che tutti i sui vestiti erano stato trasferiti in quell’armadio. Questa gentilezza le diede un senso di famigliarità e protezione di cui tanto aveva bisogno in quel momento. Si legò i capelli in una treccia laterale e si rigettò nuovamente sul letto. Nonostante tutte le buone intenzioni, non ce la faceva proprio a trovare la voglia e la forza per alzarsi e dirigersi verso la sala da pranzo. Sentì delle voci provenire dal salotto ed immaginò che appartenessero a Peeta e a Katniss, che si stavano dirigendo di sotto. Il solo pensiero di dover dividere il tavolo da pranzo con lei, le fece venire il voltastomaco. Non sapeva precisamente il motivo per cui la odiasse tanto, era sicura che lei fosse una delle prime persone ad aver detto sì a quei stupidissimi giochi. In un certo senso, era l’artefice della sua morte e per questo la odiava. I suoi pensieri vennero interrotti da qualcuno che, alla porta, aveva cominciato a bussare. L’unico che poteva essere rimasto negli appartamenti era sicuramente Declan. Non lo conosceva molto bene, andavano a scuola insieme, ma non gli rivolgeva la parola molto spesso. Sapeva soltanto che proveniva da una famiglia molto ricca e che suo padre era morto, niente di più.
– Vattene, Declan! – urlò di rimando. Non riusciva proprio a trovare la forza di alzare la schiena da letto e con un passo dopo l’altro, dirigersi verso la sala da pranzo.
– Sono io, Katniss – Si girò immediatamente verso la porta. Aveva paura che lei potesse intuire e sapere a cosa stava realmente pensando.
– Oh. – si limitò a dire – Vattene, Katniss – finì poi.
Voleva soltanto essere lasciata in pace, perché nessuno voleva capirlo? Alzò gli occhi al cielo, realizzando che la ragazza fuori dalla porta era, sì, colei che aveva acconsentito alla sua morte, ma anche colei che aveva il potere di salvarla. Molto lentamente si alzò dal letto e andò verso la porta. Alzando nuovamente gli occhi al cielo, aprì la porta trovandosi Katniss appoggiata allo stipite destro, mentre guardava verso l’alto. Abbassò lo sguardo e per qualche secondo si guardarono negli occhi. Era entrambe così orgogliose da riuscire a sostenere lo sguardo a vicenda. Così simili, ma così diverse.
– E’ stato davvero rude quello che hai fatto, lo sai? – esordì lei in modo scherzoso. Rose prese la battuta in tutt’altro modo. Senza neanche risponderle, sorpassò la mentore e se ne andò, camminando più in fretta che potesse
– Parli come mia madre! – le urlò quando ormai era arrivata agli ascensori.
Katniss la seguì fino alla sala da pranzo con uno strano sorriso in volto. La cena andò avanti senza particolari problemi. Fu costretta a sedersi al tavolo con Declan, Peeta e purtroppo anche con Katniss. Spezzò una lancia a favore della verità e dovette ammettere a se stessa che Peeta era davvero simpatico. Sembrava essere davvero turbato da tutta quella storia, ma cercava sempre di tirarti su il morale. Era convinta che lui fosse uno di quelli che aveva votato no, se mai ce ne fossero stati alcuni. Sorrideva sempre e faceva delle battute a cui nessuno, neanche Rose, poteva evitare di ridere. Le più divertenti furono quelle a proposito del loro vecchio mentore, che, quanto pare, erano le sue preferite. Rose seguì la loro edizione con maggior attenzione e voglia di quanto abbia mai fatto. Erano poche, pochissime, le edizione che Rose aveva trovato lontanamente “interessanti”. L’ultima nella lista fu la 71esima edizione. Lo show si svolse in uno dei più grandi e meravigliosi laghi rimasti al mondo. Il lago era circondato da pareti rocciose, le quali erano le uniche fonti di cibo. I pesci erano molto abbondanti, ma l’acqua era disseminata da ibridi che furono la causa della morte di molti tributi. Il vincitore, Mason Flint, del distretto due. Fin dall’inizio dei giochi, fece parte del gruppo dei Favoriti. Si chiamano favoriti, il gruppo di tributi provenienti dai distretti 1, 2 e 4, i quali, per la maggior parte delle volte, sono i vincitori. Quando il gruppo incominciò a diminuire, lui ruppe l’alleanza e uccise l’ultima ragazza e poi scappò via. Grazie alla sua esperienza nella arrampicata, scalò le pareti rocciose e uccise l’ultimo gruppo di tributi rimasti prima che loro potessero accorgersene. Fu lui, durante la 74esima edizione, la quale vide vincitori per la prima volta due concorrenti, Katniss e Peeta, a fare da mentore ai ragazzi del distretto due Cato e Clove. Lui fu il migliore amico del ragazzo e non si era mai odiato tanto fino a quando lo vide morire sotto gli artigli degli ibridi. Non si perdonò mai, poiché fu proprio lui a suggerire a Cato di offrirsi volontario per partecipare ai quei giochi. Quell’edizione colpì molto Rose per la stupenda e reale ambientazione (molto spesso le Arene venivano ricostruite dagli Strateghi ed ispirate da paesaggi realistici) e per la lealtà e la furbizia dimostrata dal ragazzo. A differenza di molti tributi provenienti dai distretti più ricchi, Mason, fu uno dei pochi che riuscì a tenere la mente lucida e non farsi sopraffare dalla capitale, che spesso e molto volentieri ricattava i vincitori in cambio di salvezza e protezione per le loro famiglie. L’unica edizione che appassionò veramente la ragazza fu quella di Katniss e Peeta. Si era accorta fin dall’inizio, che la storia degli innamorati fosse una messa in scena creata dal loro mentore, ma questo fu uno dei motivi che la costrinsero a seguire meglio quella edizione. Aveva sempre desiderato essere come la sua eroina. Esatto, Katniss era il suo modello di comportamento, la sua ispirazione. La ammirava e la stimava. Nel momento in cui venne a sapere che Katniss aveva dato l’approvazione a quell’ultima edizione, gli occhi di Rose si aprirono alla verità. Fu in quel momento che capì quanto quella battaglia contro la capitale era stata inutile. Katniss e i ribelli avevano lottato tanto per la libertà e appena avevano bevuto un assaggio del potere, avevano rifatto l’errore che ai sui tempi aveva commesso anche il presidente. Non erano così diversi, infondo. Per questo la odiava. Aveva distrutto in un solo momento le sue aspettative, i suoi sogni, il mondo migliore ch tanto desiderava. Non scambiò parola con lei per tutta la durata della cena. Si concentrò soprattutto su Peeta e le sue battute e sul ragazzo, Declan, che le sedeva accanto. Era un ragazzo taciturno e forse non tanto sveglio.

 

Here it's safe and here it's warm.
Here the daisies guard you from every harm.
Here your dreams are sweet and
tomorrow brings them true
Here is the place where I love you.
Deep in the Meadow – Sting


 

Dopo cena, tutti e quattro ritornarono ai loro appartamenti. Katniss e Peeta si ritirarono nei loro appartamenti, mentre Declan, dopo aver provato a fare conversazione con Rose e uscendone sconfitto, ritornò anche lui in camera da letto. Rose si tolse le scarpe, si disfò la treccia e si sedette sul divano, distrutta. Osservò per qualche minuto il soffitto e poi iniziò a guardarsi intorno. Quella stanza era così simile a casa sua, ma anche così diversa. La sua casa aveva sempre un profumo di cannella che svolazzava nell’aria, grazie alle piante che coltivava la madre. Quel posto, invece, aveva il terrificante odore di solitudine, desolazione e di morte. Scacciò quel pensiero e si ritrovò a fissare il pianoforte che, imponente, occupava il lato destro della sala. Da piccola, sua madre le aveva insegnato a suonare qualche strumento. I suoi preferiti erano la chitarra e il pianoforte. Aveva un repertorio molto vasto con la chitarra, ma al pianoforte sapeva suonare solamente una ninna nanna, vecchia forse quanto il tempo. Sua madre la chiamava la canzone delle valle. Si alzò e timidamente si sedette davanti al pianoforte. Si legò i capelli e intonò il canto.
 

Deep in the meadow, hidden far away.
A cloak of leaves, a moonbeam ray.
Forget your woes and let your troubles lay.
And when it's morning, they'll wash away.
Deep in the Meadow – Sting

 

La sua voce risuonò calma e intonata. Cantava a voce più bassa possibile. Non voleva disturbare nessuno, ma soprattutto non voleva che qualcuno la sentisse cantare. Lo detestava. Percepiva il canto e la musica in generale come una via di fuga da tutto ciò che la circondava. Quando suonava, il mondo esterno non esisteva e le paure volavano via. Katniss era uscita dalla sua stanza perché aveva sentito le note di una canzone così tanto famigliare che non poteva non sapere chi fosse ad intonarla. Suo padre, prima di andarsene, le aveva insegnato quella canzone. Ormai era l’unica cosa che le restava di lui. Spesso, quando la notte sua sorella si svegliava dopo aver avuto gli incubi, lei le cantava quella canzone e insieme a Prim, si addormentava. Prim era morta a causa di un attacco di Capitol City, durante la ribellione. Non si seppe mai se l’hovercraft che fece precipitare a terra i pacchi esplosivi era veramente appartenuto alla città. Non c’è giorno in cui, Katniss, non si faccia questa domanda e non c’è giorno in cui non pianga per la scomparsa della sorella. Tutto era iniziato quando, tre anni prima, si offrì volontaria al posto di Prim per partecipare agli Hunger Games. Katniss promise alla sorella che avrebbe provato a vincere per lei e così fece. Non c’è giorno in cui non indossi la spilla della ghiandaia imitatrice che regalò alla sorella proprio quel fatidico giorno. Rose finì l’esecuzione e Katniss non poté fare a meno di applaudire. Rose si girò di scacco e rossa in viso, si alzò velocemente dalla sedia
– Che cosa ci fai tu qui? Non è carino origliare! – le urlò contro.
Katniss non sembrò farci troppo caso, Rose sì. Aveva appena violato la sua privacy e questo non le stava affatto bene.
– Dove hai imparato quella canzone? – le chiese con tono calmo e dolce. Rose era sempre più infuriata
– Me l’ha insegnata mia madre. Perché sei qui, Katniss? – le chiese accentando in malo modo il nome Katniss.
– Ti ho sentita cantare e non ho potuto fare a meno di ascoltare più da vicino – le rispose
– Non avresti dovuto. Non mi piace che la gente mi ascolti. Mi dà fastidio … - continuò quasi balbettando Rose.
– Scusa se ti ho interrotta o fatta infastidire, non era mia volere. Hai una voce davvero stupenda – Rose non credeva a ciò che stava sentendo
– Grazie … - la chiacchierata stava diventando davvero ambigua.
- Potresti cantarla di nuovo. Mi piace molto come la canti tu. – ammise Katniss con lo stesso tono di voce che aveva mantenuto dall’inizio
– Chi altro la canta? – chiese curiosa l’altra
– Mio padre la cantava quando ero piccola. Per favore, canta di nuovo – disse avvicinandosi al pianoforte e sedendosi accanto a Rose.
Lei, un po’ interdetta, ricominciò a cantare.


 

Here it's safe, and here it's warm
Here the daisies guard you from every harm
Here your dreams are sweet and tomorrow brings them true
Here is the place where I love you.
Deep in the Meadow - Sting


Risponde l'autore
Ok, so che questo capitolo può sembrare un po' lungo, ma dopo qualche giorno di vacanza, un po' per riprendere attenzioni
e un po' perchè avevo molto da dire, ho dovuto scrivere di più. In questo capitolo si capisce il rapporto che c'è tra questo due ragazze.
Per me è molto importante per capire veramente chi sono e perchè si comportano così e per fare questo c'è bisogno di un po' di
background dei personaggi. Se per caso, nella storia, trovaste qualche imprecisione,vi prego di farmelo notare in modo da risolverlo

al più presto. Spero vi sia piaciuto il capitolo perchè nel pressimo ci sarà più azione.
Se vi è piaciuta la canzone della valle, la potete ascoltare cliccando su uno dei link qui sotto.
Mentre potete anche leggervi alcuni passati hunger games da cui ho preso la storia della 71esiama edizione.
Un bacio _Rock_
http://www.youtube.com/watch?v=bcE4tZ9aBB8&feature=related

http://www.youtube.com/watch?v=mD-CBSBe9OQ
http://peetaismyhero.tumblr.com/tagged/pimh:PG




 

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Capitolo 6
*** Promesse ***


Capitolo V – Promesse


Quella notte, Rose la passò senza concedersi alla braccia di Morfeo. Dopo aver vissuto quello strano ed imbarazzante  momento con la persona che, in teoria, avrebbe dovuto odiare più di se stessa, tutte le convinzioni, i suoi punti fermi, stavo cedendo. La destra non era più la destra e il basso non era più il basso. Era come se tutto ciò in cui aveva sempre creduto si fosse trasformato in qualcosa di diverso, in qualcosa di nuovo. Era rimasta tutta la notte stesa sul letto con le braccia dietro alla testa a pensare. A cosa? A tutto. Aveva ripensato a quella mattina e a come già sapeva che il suo nome sarebbe uscito da quella ampolla. Aveva ripensato alla madre e aveva cercato di comprendere il motivo per cui suo padre non fosse venuto a salutarla, ma questo rimase un punto di domanda. Aveva ripensato alla sua mentore, nonché ex – eroina, la quale l’aveva delusa così tante volte che ormai il suo nome era il primo nella lista dei traditori di Rose. Che cosa era davvero successo, poche ore prima, in quella sala in cui erano risuonate quelle note, così famigliari ad entrambe? Così simili e così diverse. Certo, non avevano mai avuto l’occasione di parlare, ma Rose aveva compreso benissimo che aria tirasse tra loro due. Rose detestava Katniss; Katniss detestava Rose. O forse no? Poco importava. Rose era in una situazione critica e Katniss era l’unica che avrebbe potuto aiutarla ad uscirne. Aveva appena finito di pensare alla canzone della valle quando dalle finestre della sua camera iniziarono ad entrare i raggi di sole. Le tende si alzarono automaticamente e la luce non le permise di aprire gli occhi per qualche momento. Sapeva che giorno era arrivato. Era il primo giorno, il primo di tanti, in cui sarebbe stata costretta ad allenarsi ad uccidere i suoi amici. Ma Rose non aveva amici e questo forse sarebbe stato un vantaggio. Girò la testo e guardò attentamente l’orologio: segnava le otto in punto. Non era abituata ad alzarsi così presto. A Capitol City la vita iniziava verso le dieci di mattina, non prima. Si misi a sedere e osservò i malinconicissimi granelli di polvere che alleggiavano nell’aria messi in evidenza dai raggi solari. Li sfiorò con una mano, ma proprio come le sue speranze di vita, volarono via.

Si fiondò nella doccia e ci restò per un lungo lasso di tempo. Era uno degli unici posti in cui riusciva a pensare. Sì, era inusuale, ma il rumore dell’acqua e le gocce che le correvano lungo il corpo le davano una sensazione di calma e serenità, che la aiutavano a tenere la mente ben aperta. Uscita dal bagno si diresse verso l’armadio, colmo dei suoi vestiti di sempre. Aprii le ante ma non tirò fuori un abito. Si nascose dentro ad esso e cominciò ad urlare. Le erano rimasti soltanto un pezzo di vestito di seta per smorzare il suono e tutte le sue ansia, insicurezze e paure che, fino a quel momento, non era riuscita ancora ad eliminare. Passò lì dentro qualche minuto e poi, come se niente fosse, uscii e dopo essersi vestita si diresse verso la sala da pranzo, stranamente piena di energia, pronta per iniziare quella giornata. Appena spalancò la porta della sua camera si ritrovò davanti l’altro ragazzo, che avevano confinato insieme a lei in quel piano, Declan.

-Oh, ciao – disse con troppa euforia
– …Ciao – rispose spiazzato il ragazzo.
Era abituata a vedere una Rose silenziosa e solitaria, quella Rose lo lasciò un po’ perplesso
– Come stai? Spero bene. – Quella era la conversazione più strana che avesse mai avuto con lei.
Non avevano mai parlato molto, loro due. Quasi tutti stavano lontani dalla strana nipote del presidente, Roseleen. Lui, poi, se questo fosse stato possibile, era ancora più strambo di lei. Era una ragazzo davvero solitario e timido. Passava la maggior parte del suo tempo a leggere, soprattutto libri di avventura in posti meravigliosi ed immaginari,che non avrebbe mai potuto visitare, ammesso che esistessero, oppure giocava con delle strane carte in cui l’unico scopo era uccidere dei mostri immaginari e collezionare quelli con poteri e abilità maggiori, tipo quelle che nell’antichità i ragazzi giovani usavano molto spesso per divertirsi. Si, era parecchio strano. Non era neanche un esemplare di bellezza. Era piuttosto basso per un ragazzo di diciassette anni e fin troppo magro. In giro si diceva anche che Declan avesse degli amici immaginari con cui molto spesso parlava. Non era molto difficile capire il perché di questa voce, poiché era vero: qualche volta poteva essere capitato che questo ragazzo avesse seriamente parlato da solo. Non si sa nulla, però, sulla vera esistenza degli amici immaginari.  
– Bene… - rispose lui. Rose gli sorrise e lo invitò a scendere con lui in sala da pranzo.
Era la cosa più strana che fosse mai successa a quel ragazzo e l’unica cosa che voleva in quel momento era scappare dalla grinfie di quella pazza lunatica. In ascensore calò il silenzio. Nonostante Rose volesse avere una conversazione con lui, non sapeva nemmeno da che parte cominciare. Non sapendo quasi nulla di lui, stava facendo molta fatica a trovare un argomento di cui parlare. Gli Hunger Games, poi, erano fuori questione. Già le dava fastidio soltanto il pensiero di ciò che le stava succedendo, non avrebbe mai e poi mai potuto parlarne con qualcun altro. Aveva paura di poter rimettersi a piangere ed ad urlare come aveva fatto poco tempo prima.
– Insomma… - iniziò così il discorso lasciandolo, però, in sospeso subito dopo
– Insomma… - ripeté lui. L’imbarazzo si poteva sentire anche nell’aria.
– Ti volevo solo dire che… beh ecco… non so cosa… - ricominciò lei – Si, certo. Capisco, neanche io so.. sì, insomma – continuò Declan
– Il fatto è che… - Il ragazzo annui in consenso mentre le porte si aprivano mostrando la sala da  pranzo. Erano arrivati.
– E’ stato bello parlare con te. – continuò lui
– Anche per me. – concluse lei, seguendolo a qualche passo di distanza fino al loro tavolo.
Al tavolo erano già seduti sia Peeta che Katniss e stavano chiacchierando amorevolmente tenendosi la mano. Rose si gettò a peso morto sulla sedia. Era stanca a causa del poco sonno, una pessima idea considerando quello che avrebbe dovuto affrontare quel giorno e non aveva per niente fame. La tavola era allestita con qualsiasi leccornia immaginabile, cose a cui Rose era perfettamente abituata, ma che in quel momento non aveva nessuna voglia di toccare. Declan si sedette affianco a Rose, ma certamente non le avrebbe rivolto la parola nuovamente, almeno non ora.
– Buongiorno dormiglioni, sapete che giorno è oggi? – chiese Peeta in un tono troppo divertito e gioioso per i gusti di Rose
– Natale? – ripose ironica la ragazza. Peeta rise e Declan si limitò ad un sorriso. Katniss non sembrò neanche farci caso
– E’ il primo giorno degli allenamenti – continuò
– Evviva! – rispose Rose del tutto senza entusiasmo alzando anche un pugno.
Katniss sbuzzò, forse un po’ troppo platealmente che Rose non poté non accorgersene, ma non disse nulla. Non riusciva a capire come Peeta potesse essere così felice di dover allenare due ragazzi per poi vederli morire soltanto poche settimane dopo. Preferiva decisamente l’atteggiamento di Katniss: silenzioso e menefreghista. Non le importava molto né dei giochi né dei ragazzi. Voleva soltanto la giustizia. Lo doveva a sua sorella.
– Declan, tu ti allenerai con me, in privato – disse  Peeta rivolto al ragazzo
– Mentre tu, Roseleen ti… - stava dicendo il ragazzo
-  Rose – lo interruppe però lei
– Mentre tu, Rose, ti allenerai con Katniss, come da specifiche istruzioni di lei stessa – finì
- E se io non volessi allenarmi? – Katniss sembrò risvegliarsi dall’apparente stato di coma che l’aveva inghiottita fino a quel momento.
– Beh, se non vuoi allenarti, inizia con il dire addio alla tua vita – le rispose non tanto gentilmente, alzando anche la voce, forse fin troppo perché molte persone nella sala si girarono verso il loro tavolo.
– Si, esatto Rose, inizia a dire addio alla tua vita perché non durerai un solo secondo là dentro –
Un ragazzo alto, muscoloso e dai capelli neri si intromise nel discorso. Era Fallon, uno dei ragazzi più odiosi ed intollerabili che Rose avesse mai conosciuto. Fallon aveva diciassette anni e proveniva da una delle famiglie più ricche di Capitol City. Suo padre era un membro molto importante ai tempi del governo di Snow e nonostante il crollo dell’ impero, la famiglia di Fallon era riuscita a mantenere comunque la sua ricchezza. Frequentavano la stessa scuola, anche se Rose era spesso l’oggetto si scherno di quel ragazzo. Fallon era maleducato, irascibile e davvero animalesco. Erano pochi i giorni in cui non scatenasse una lite nei corridoi della scuola. Provocatore, aggressivo e anche poco intelligente, il tipico ragazzo da cui bisogna stare alla larga. Rose già era di malumore, non avrebbe sopportato le schifose battutine di quell’idiota. Si alzò in piedi, trascinando con se la sedia che fece un rumore davvero assordante. Ora tutti stavano davvero guardando loro. Rose chiuse gli occhi e prese un bel respiro, pronta a conciarlo per le feste.
– Senti Fallon, perché non provi a stare un po’ zitto?! – cominciò ma non il ragazzo non ebbe nemmeno il tempo di rispondere che qualcuno afferrò il braccio di Rose e la trascinò velocemente fuori dalla sala. Katniss chiuse la porta e assicuratasi di essere abbastanza lontano, continuò il discorso in privato
– Perché mi hai trascinata fuori? – le urlò Rose in faccia, mentre con un brusco gesto lasciava andare la presa che Katniss aveva sul suo polso.
– Perché non è questo di cui hai bisogno. Non hai bisogno di litigare con un qualsiasi idiota che ti ritrovi davanti. Devi stare concentrata sul tuo obiettivo, ecco perché. – rispose lei furente
– Quale obiettivo, morire? – Katniss prese un respiro profondo cercando di non prenderla a schiaffi
– Il tuo obiettivo e vivere. Uscire da quell’arena – le rispose
– Non ce la farò mai, lo so. Non c’è bisogno di illudermi – disse con le stesse lacrime di quella mattina che le rigavano nuovamente il volto
– Certo, che ce la farai. E’ una promessa che ti faccio – rispose cercando di contenere la rabbia che provava dentro di sé.
– Me lo prometti come hai promesso di mettere fine a questi assurdi giochi? – la incalzò nuovamente Rose.
Sapeva perfettamente che la ragazza che aveva di fronte fosse una delle prima ad aver acconsentito alla creazione di quegli ultimi giochi. Sapeva benissimo che il sentimento che le legava andava più in là del semplice odio, era indifferenza. Katniss non seppe cosa rispondere e si limitò a guardarla negli occhi. Sapeva che ciò che aveva detto Rose era vero. Soltanto tre anni prima aveva giurato di mettere fine a quella tortura ma le erano successe tante di quelle cose dolorose che aveva perso di vista il suo obiettivo. Doveva ritornare sulla retta via.
– Scusa – Rose si scusò per l’ultima cosa che aveva detto. Sapeva perfettamente di aver ferito Katniss e molto spesso una parola può ferire più di una lama.
– No, hai ragione. Ho sbagliato. Tutto ciò in cui ho creduto, tutto ciò che ho fatto è sbagliato. Credevo di farlo per mia sorella, ma non è questo ciò di cui ha bisogno. Se lei fosse stata qui, sarebbe stata la prima a dirmi di non farlo. Devo rimediare – Ormai anche il viso di Katniss era rigato dalle lacrime.
Rose sorrise e si asciugò le lacrime. Era tornata. La persona in cui aveva creduto per tutto quel tempo era tornata. – Vieni, abbiamo molto lavoro da fare –


Risponde l'autore:
Sì, ho impiegato molto tempo per questo capitolo perchè non sapevo esattamente cosa scrivere.
Avevo promesso un capitolo più d'azione, ma mi è saltato fuori questo qui e non potevo eliminare questa parte cruciale.
Qui, si iniziano a conoscere meglio alcuni dei personaggi che saranno importanti più tardi. Teneteli d'occhio ;D
Ora che Katniss e Rose sembrano andare d'accordo, vi rifaccio la stessa promessa. Nel prossimo capitolo ci sarà più azione.
Ho creato il trailer di questa fan fiction e mi piacerebbe tanto se chi la leggesse provasse a guardarla.
Qui il video, buona visione e non dimenticate di ricensire!
http://www.youtube.com/watch?v=N7BTOOFMmOM&feature=youtu.be

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Capitolo 7
*** Fare colpo ***


Capitolo VI – Fare colpo


Erano ormai le undici di mattina e Rose era ferma davanti allo specchio nella sua camera da letto. Dopo aver concluso la colazione, in cui era soltanto riuscita a mangiare un misero pezzo di pane con marmellata, era tornata in camera sua e si era preparata per la seduta di allenamento. Le sue due ore mattutine erano state fissate da Katniss in persona ed iniziavano in quel momento. Aveva raccolto i lunghi capelli biondi in una coda di cavallo alta e aveva indossato la tuta d’allenamento che aveva casualmente trovato sul letto appena avevo aperto la porta della camera, probabilmente deposita lì da una senza voce o forse dalla sua mentore. Fece un lungo respiro ed uscii, pronta per una lunga e interminabile lezione. Rose non era esattamente l tipo di persona che avrebbe potuto scatenare una lotte o ancora peggio, uccidere. Era una ragazza pressoché calma e pacifica, non avrebbe fatto male nemmeno ad una mosca. Aveva praticato molti sport nel corso della sua giovane vita, ma nessuno di questi l’avrebbe sicuramente mai aiutata nell’arena. Prese l’ascensore e per la prima volta in assoluto si trovò al piano più sotterraneo del centro d’addestramento. Le porte si aprirono su di un lungo corridoio poco illuminato. Le pareti, costruite in cemento armato erano state ridipinte di un grigio scuro, molto assomigliante al colore del metallo, che di certo non aiutavano ad illuminare il posto. Le uniche fonti di luce erano dei punti luminosi disseminati sulle pareti e sul pavimento alla stessa e rigorosa distanza. Rose attraversò lentamente il corridoio e si bloccò davanti alla porta d’ingresso della sala d’addestramento, la quale si aprii immediatamente. A lato della sala, appoggiata con i gomiti ad un lungo tavolo di metallo scuro, c’era Katniss intenta ad osservare una scheda. Rose dovette far finta di tossire per conquistarsi la sua attenzione.
– Oh, eccoti. – Rose si guardò intorno. Dovunque posasse l’occhio poteva vedere attrezzi che avrebbero potuto causare la sua morte. Sulla parete destra erano appesi dei pannelli su cui erano messi in bella vista tutte le possibili armi immaginabili. Rose le guardò attentamente ed era certa di riuscire a nominarle soltanto tre o quattro. La sala era anche addobbata con manichini sui cui erano stati disegnati i bersagli ed alcuni di essi si muovevano anche. Rose non aveva mai maneggiato un arma e questo sarebbe andato a suo sfavore.
– Sei pronta? – La voce molto dolce di Katniss, che non s’addiceva proprio a lei, riportò Rose alla realtà.
–Insomma… - confessò poco sicura. Katniss rise.
– Non ti preoccupare. Allora, dimmi che cosa sai fare – Rose rimase muta per qualche minuto pensando a qualche sua abilità
– So dipingere scenari di montagne su chicchi di riso… - rispose Rose con la mente annebbiata dall’ansia. Katniss rimase perplessa.
– Ok, no. Dimmi che cosa sai fare che potrebbe aiutarti nell’arena – Rose tornò pensierosa.
Non aveva capito bene che cosa avesse voluto dirle Katniss. In effetti, ripensandoci, era strano che le avesse chiesto se avesse delle abilità artistiche
– Non lo so. Forse niente – rispose impaurita.
Per la prima volta si ritrovò davanti alla vera prova che forse non avrebbe avuto speranze là dentro.
– E’ impossibile che tu sappia fare niente. Passi per caso le tue giornate in uno stato vegetativo? –  continuò Katniss ironica
–  Eh, più o meno… - ripose invece Rose ironica e realistica allo stesso tempo.
A Capitol, era risaputo, che i ragazzi non amassero darsi troppo da fare. Era piuttosto pigri, se così si suol dire. Non amavano impegnarsi troppo e faticare ancor meno. Le giornate passavano spesso guardando la televisione, che a Capitol, a differenza degli altri distretti, trasmetteva trasmissioni “interessanti”, andando in giro per la città senza fare nulla o ancora peggio a curarsi del suo aspetto. Rose di certo non era abituata a procurarsi del cibo da sola durante le battute di caccia nel bosco.
– Dai Rose, sii seria. In questi allenamenti ti insegnerò le basi della sopravvivenza, le basi dell’uso delle armi, ma tu devi darmi la materia prima. – disse Katniss unendo le mani.
– Ok, ehm. Una volta sono arrivata seconda ad una gara di corsa – Una corsa organizzata dalla sua scuola, per precisione.
Rose rimase qualche secondo zitta
– Stupido Fallon – disse fra sé e sé ricordando che fu proprio lui a vincere quella competizione e dopo la disputa di quella mattina lo odiava ancora di più.
– Bene, questo vuol dire che sei veloce e mai sottovalutare la strategia della fuga. Altro? – Rose ci pensò un attimo
– Ho fatto ginnastica artistica per qualche tempo da piccola – Katniss rimase perplessa.
Sapeva che la vita a Capitol City era migliore di quella dei distretti, ma quando parlava con Rose le sembrava di arrivare da due pianeti diversi.
– Tu hai fatto cosa? – le chiese
– Ehm, ginnastica artistica. Non la conosci? – Katniss feci segno con il capo di non saper di cosa Rose stesse parlando
– Si, è tipo salti, giravolte in aria e cose del genere. Si diventa più elastici, forti, e precisi dei movimenti… almeno credo – Katniss annui
– Beh, bene. Mi sembra una cosa positiva. – fece una pausa e si mise a sedere sul tavolo di metallo facendo segno a Rose di fare lo stesso
– Però, le abilità non sono tutto durante gli Hunger Games e io l’ho dovuto imparare a mie spese. – Rose era sempre più perplessa e spaventata
– Cosa vuoi dire? – le chiese
– Voglio dire che devi imparare a fare colpo – fece una pausa ad effetto e continuò subito il discorso
– L’idea base è questa: è uno show ed uno show ha bisogno di spettatori. Come si conquistano gli spettatori? Con alte aspettative per il programma. E sai che cosa fanno alzare le aspettative? – Rose scosse il capo
– I personaggi dello show. – Rose prese un lungo respiro
– Più personaggi affascinanti ed avvincenti ci sono, più il programma attrae gli spettatori, ovvio no? – Rose annui.
– Ora veniamo a te. E’ chiaro che tu parti svantaggiata. – Un  pugno nello stomaco per Rose parevano quelle parole
– Sai, la storia di tuo nonno, che ha ucciso tante persone innocenti, tutti ti odiano… - altre pugni nello stomaco
– Ho capito. Vai avanti – la interruppe Rose stizzita ed irritata.
– Insomma, dobbiamo ricrearti una nuova immagine. La gente non ti vedrà più come la nipotina di Snow, no. Ti vedrà come Rose, Rose e basta. – Rose sorrise
– E’ esattamente ciò che voglio – anche Katniss sorrise
– Bene, allora cominciamo! – Scese dal tavolo e si portò al centro della sala
– Ok, in questi allenamenti individuali ti insegnerò tutto ciò che so a proposito di vari campi, quali sopravvivenza, armi e combattimento. – Rose annuì
– Mimetizzazione? – Katniss scosse la testa
– No, quello è il campo di Peeta. Io non saprei nemmeno da dove cominciare. – Rose mosse il capo in assenso.
– Da cosa vuoi cominciare? – Rose si guardò in giro
– Sopravvivenza? – Katniss fece segno di seguirla verso all’area dove erano posti tutti gli attrezzi specifici per quel tipo di disciplina.
Katniss spiegò a Rose cosa era opportuno fare quando ci si ritrovava in certe tipo di situazioni, ad esempio come cercare l’acqua e come capire quando si è vicini ad una fonte, come osservare attentamente il paesaggio che ci sta intorno e come usufruirne, come cercare un riparo o, eventualmente, come crearsene uno. Rose cercava di assimilare più che poteva. La memoria non era mai stato un suo problema, le bastava ascoltare qualcosa di importante e che le interessasse per ricordarsela anche per molto tempo. Era passati soltanto quaranta minuti dall’arrivo di Rose alla sala di allenamento, ma decisero comunque di cambiare disciplina, in modo da sapere quanto basta di tutto. Passarono alle armi. Rose non ne aveva mai impugnata una e questo sembrò risultare un problema. Katniss fece fatica a capire quale fosse l’arma adatta a Rose. Ci sono specifiche caratteristiche che un uomo deve possedere per usare al meglio un’arma. L’arco era per le persone dal sangue freddo e calcolatrici. Una freccia era precisione, non forza. La spada era per i valorosi, per chi non fosse stato spaventato da un combattimento corpo a corpo.
– Rose, prova con questi – disse Katniss mostrandole un set di pugnali
– I coltelli sono solo per i guerrieri più veloci e coraggiosi. Non hanno la forza di una spada, ma sono facili da nascondere e riescono sempre a trovare i punti deboli del nemico. Ci vuole una persona intelligente per usare un coltello e ho la sensazione che tu lo sia –
Rose ammirò soltanto da lontano il set di coltelli che scintillava grazie alle luci della sala. Non sapeva esattamente che fare. Quei coltelli l’attiravano e la spaventavano allo stesso tempo. Aveva questa paura irrazionale per le ferite, per il sangue e per qualsiasi cosa che potesse procurare dolore, armi annesse.
– Io non so… - disse impaurita
– Forza, non ti ucciderà. – Katniss si accorse un secondo dopo di ciò che aveva appena detto e cerco di rimediare
– Non ti ucciderà se imparerai ad usarli e a schivarli… - Visto che Rose non si faceva avanti ne prese uno lei e a forza lo mise in mano alla ragazza.
–  Posizionati davanti al bersaglio e alza lentamente il braccio destro – Rose eseguì perfettamente i comandi
– Regola numero uno: trova il punto esatto in cui vuoi che il pugnale arrivi – Rose annuì mentre fissava intensamente il centro del bersaglio
– E poi devi tirare, semplice no? – Rose avrebbe voluto ribattere ma era troppo concentrata sul da farsi. Prese un respiro profondo e dopo aver chiuso gli occhi per pochi secondo, tirò il coltello verso il bersaglio davanti a lei. Il coltello roteò molte volte su se stesso, diretto proprio al centro. Il coltello scansò di parecchi centimetri il bersaglio fallendo miserabilmente.
– Regola numero due: mirare – concluse Katniss.  
Rose, dopo il suo primo, orribilmente e misero tiro era più delusa che mai.
– Voglio fare qualcos’altro – Katniss intuita la sua delusione la accontentò. Prese un arco e le mostrò come si tirasse e come doveva essere la posizione del corpo prima del tiro.
– Gambe leggermente aperte e braccio destro all’altezza della spalla, non più su, non più giù – le spiegò prima di scagliare una freccia e colpire perfettamente il bersaglio.
Katniss faceva sembrare il tiro con l’arco la cosa più semplice del mondo.
– Ok, voglio provarci – le passò l’arco e Rose cercò di posizionarmi meglio che poteva
– Per me funziona così: devi cercare il tuo posto felice. Un posto dove tutto è perfetto, meraviglioso, dove ti senti sicura – Rose annuì
– Per me, ad esempio, è il bosco del distretto dodici. Spesso, tempo fa, passavo le mie giornate a cacciare insieme al mio amico.. – la voce si smorzò per i troppo ricordi che ormai le davano solo dolore. Rose  pensò a sua volta al suo posto felice. Era difficile. La felicità mancava da un bel po’ di tempo nella sua vita. Si ricordò dell’albero del suo giardino, quello che aveva piantato sua madre quando Rose era nata. Avevano la stessa età ed erano cresciuti insieme. Lei passava molti dei suoi pomeriggi lì sopra a leggere o a suonare la chitarra, senza essere disturbata. Quello era il suo posto felice. Ripensò a tutti i suoi momenti che aveva passato tra quei rami e scoccò la freccia… che non andò a segno.
- Ovviamente servono anni e anni di pratica – disse Katniss smorzando il silenzio.  

Risponde l'autore
Devo dire che sono molto fiera di questo capitolo. Già mentre lo scrivevo sentivo che l'avrei amato.
Qui, Rose ha la prima vera prova di quanto sia complicata la situazione in cui si trova.
Non è mai stata abituata ad impugnare armi o a cercarsi del cibo ma prometto che migliorerà.
E' anche un capitolo che, spero, faccia ridere perchè ho voluto tenere su il morale in una situazione così buia per Rose.
Mi raccomando recensite!

 

 

 

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Capitolo 8
*** Ho paura ***


Capitolo VII – Ho paura


Ormai le due ore di allenamento erano scadute. Dopo lo sconfortante fallimento, Rose trascinò le sue stanche membra fino alla camera da letto. Mancavano pochi minuti al pranzo e purtroppo non avrebbe potuto mancare. Si gettò sotto la doccia e non poté far altro che ripensare a ciò che era successo qualche minuto prima. Non avrebbe mai pensato di far così schifo, insomma, aveva passato la vita a guardare dei ragazzini che si uccidevano a vicenda e lei invece non sapeva fare niente? Dove avevano imparato a fare ciò che avevano fatto quei poveri ragazzi? Avevano imparato tutto in quelle due poche settimane oppure provenivano da un mondo totalmente diverso da quello in cui era sempre vissuta? Probabilmente il solo fatto di aver avuto la fortuna di una vita agiata, le sarebbe costato la vita. Questo era altamente ingiusto, pensava Rose. Ma d’altronde, non esisteva la giustizia in quel mondo, non più. Si rivestì molto velocemente rinfilandosi il vestito di quella mattina. Senza nessuna voglia di pranzare si avviò verso la sala, fortunatamente senza incontrare nessuno. La sala era nuovamente affollata e a causa dei troppi brusii e delle voci troppo alte, Rose non riusciva nemmeno a sentire i propri pensieri. Al solito tavolo erano già seduti sia Declan che Peeta, ma di Katniss non c’era nessuna traccia. I due ragazzi erano assorti in una intensa e poco interessante discussione sulle armi, almeno era questo che Rose, nella sua poca voglia di ascoltare, aveva compreso. Non si accorsero subito di lei, preferirono prima finire di parlare. Rose fece in tempo a farsi servire il cibo, niente di tanto pensate e complicato, quando finalmente anche Katniss si presentò nella sala con uno strano sorriso in volto. Dopo quella mattina l’aveva completamente riconsiderata.
– Buon Pranzo, ragazzi – esordì lei mentre concedeva un leggero bacio a Peeta
– Ciao – rispose Rose distogliendo lo sguardo da quella scena.
Declan sembrava pensieroso, perso nel suo mondo, insomma nessuna novità.
– Come è andata Rose? – chiese Peeta rivolgendosi verso la ragazza, ma non ricevendo nessuna risposta si girò verso la suafidanzata.
Katniss si lasciò andare ad una leggera risata. Rose per un momento rimase offesa, poi non disse nulla.
– Sono sicura che migliorerà - concluse infine.
Rose ricambiò il suo sorriso, mentre il biondo sembrava davvero sorpreso
– Aspetta, aspetta, aspetta… Da quando voi due andate d’accordo?  - chiese davvero sbalordito da quella scena.
Katniss e Rose risero contemporaneamente, tanto che destarono anche l’attenzione di Declan
– Katniss, amore, tu devi avere la febbre -  scherzò appoggiando una mano sulla sua fronte.
Lei si limitò a scacciare la sua mano e continuare a mangiare, poi il silenzio calò nuovamente. 
– Tu, invece Declan, come sei andato? – chiese Rose smorzando quel momento imbarazzante.
Per un secondo lui non rispose, era ancora più sorpreso di quando avevano parlato nell’ascensore
– B-bene, credo –  rispose insicuro.
– E’ molto bravo, soprattutto con la spada. Mi chiedo da chi abbia imparato… Non da me sicuramente! -  rispose Peeta ridendo alla sua stessa battuta, ma nessuno lo imitò. Declan non rispose ma si limitò ad arrossire.
Rose aveva lo sguardo fisso sul piatto, ma sentiva che qualcun’ altro la stava osservando. Alzò gli occhi, ma sia Katniss che Peeta stavano guardando il timido ragazzo seduto affianco a lei, così iniziò a guardarsi in giro. Anche gli altri tavoli erano pieni di ragazzi, che stranamente sembravano felici. Riconobbe la sua migliore amica, Abigail, una ragazza dai capelli rossi, infuocati proprio come il suo temperamento, nel tavolo più in là vedeva dei suoi compagni di scuola con i quali non aveva mai parlato, ma era del tavolo dietro il loro, che Fallon la osservava intensamente. Per un momento i loro sguardi si incontrarono e l’aria sembrava essersi congelata. L’elettricità che si poteva sentire non era nemmeno paragonabile a quella scaturita da una centrale elettrica. Il cuore di Rose perse un battito. Gli occhi di Fallon erano blu, ma di un blu davvero agghiacciante, sì, ecco, erano azzurri come il ghiaccio, così avrebbe potuto definirli. Gelidi, proprio come il suo cuore. Se non fosse stato attento, dal suo freddo cuore avrebbe potuto prendersi il raffreddore. Si girò immediatamente. Non si erano parlati, ma Rose sapeva benissimo che cosa volevano comunicarle quegli occhi. Tu sarai la mia prima preda, è una promessa. Ecco, che cosa dicevano. Avrebbe voluto urlare e scappare, ma non sarebbe servito a niente. Continuò a mangiare con l’amaro in bocca, ma infondo che cosa ci poteva fare? Che cosa aveva fatto di male a quello stupido ragazzo tanto da volerla morta? Questo restava ancora un mistero per Rose. Quel pomeriggio avrebbe avuto ancora degli altri allenamenti, ma quelli che temeva di più, quelli collettivi. Tutti i tributi si sarebbe incontrati nella stessa sala e avrebbero continuato il loro allenamento senza mentori, questa volta. Temeva quel momento per due motivi, perlopiù: Uno, avrebbe fatto vedere a tutti quanto sarebbe stato facile ucciderla. Due: avrebbe dovuto incontrare, più ravvicinatamente, Fallon. Dopo pranzo ebbe qualche ora di pausa e libertà. Tornò in camera e restò sdraiata sul letto ad osservare il soffitto, ormai non faceva nient’altro. Finalmente, però, si concesse un po’ di sonno, ne aveva davvero bisogno. Appoggiò la testa al guanciale e piano chiuse gli occhi.

 

All’inizio era il nulla. Successivamente c’erano le tenebre. L’oscurità caratterizzava quell’immagine. L’unica luce in quello scenario era quella della luna che da qualche parte illuminava i profili dei lunghi alberi, che minacciosi si stagliavano verso il buio cielo. Gli arbusti erano spezzati come se fossero stati colpiti da un qualche fulmine che era appena caduto dalla volta celeste. Ad ogni passo i rami spezzati risuonavano sotto i suoi piedi producendo un rumore ancora più spaventoso del vento che sembrava sussurrare il suo nome. Era in piedi sulla riva di un piccolo fiume. Lo spettro d’acqua era nero proprio come quella notte e l’acqua era immobile, congelata. Faceva molto freddo. Attraversò correndo il fiumiciattolo e si addentrò nella fitta foresta di alti arbusti. Ogni albero che vedeva era esattamente identico a quello precedente. Si era persa. Si fermò per un secondo, ma riprese velocemente la sua corsa. Sapeva che qualcuno la stava seguendo, nascosto tra le tenebre, poteva sentirlo, ma non vederlo. Era come un’ombra minacciosa che non riusciva a seminare. Un altro ramo si spezzò sotto suoi piedi, non a quelli della ragazza, ma a quelli dell’ombra. La ragazza aveva dei lunghi capelli rossi e sul viso, oltre alla paura, aveva delle ferite che continuavano a sanguinare incessantemente. Aveva tagli ed altre escoriazioni anche sulle mani e sulle braccia e i suoi abiti erano sporchi e a brandelli. Si era fermata, in mezzo ad uno spiazzo vuoto, circondato da fitti cespugli e altri alberi spogli e si guardava intorno. La stava aspettando. Era lì, dietro di lei. Fece qualche passo avanti mentre la ragazza riuscì finalmente a vederlo. Non era molto lontano da lei, ma dovette comunque correre per raggiungerla. La ragazza non si mosse. Si limitò a chiudere gli occhi aspettando quel momento. Sapeva di non poter scappare oltre, era in trappola. L’uomo l’aveva raggiunta. Alzò la scure di metallo e la piegò orizzontalmente, pronto a colpire.

Rose si svegliò si soprassalto. Respirava a fatica e la sua fronte era tutta sudata. Non sapeva veramente cosa fosse successo. Quel sogno era stato così reale, così vivido, sembrava di averlo vissuto sulla propria pelle. Dopo qualche colpo di tosse e dopo essersi calmata un po’, si girò verso l’orologio. Erano le quattro di pomeriggio, esattamente l’orario in cui sarebbero iniziati gli allenamenti pomeridiani. Era in ritardo. Scese subito dal letto e si rivestì con la tuta della mattina, più in fretta che potesse. Corse fuori dalla stanza cercando di infilarsi una scarpa, mentre ancora stava cercando di dimenticare l’incubo di prima. Prese l’ascensore ed esattamente come poche ore prima, la porta si aprii sullo stesso corridoio buio. Entrò nella sala dove già tutti gli altri ventitre ragazzi erano arrivati e si stavano allenando. La mattina aveva trovato quella sala silenziosa e anche piuttosto rilassante, se una stanza piena di armi poteva essere chiamata così. Sarà stato il silenzio con cui era più facile concentrarsi, ma ora tutta quella confusione dava proprio alla testa. Aveva già compreso che non sarebbe riuscita a concludere niente quel giorno. Alla sua destra, nella piccola stanza sospesa e racchiusa da un campo di forza, erano seduti tutti i mentori che aveva già visto sia la mattina nella piazza che nella sala da pranzo. La prima che le saltò agli occhi era una irrequieta Katniss che faceva avanti e indietro in quella saletta di due metri di lunghezza. Sapeva già perché era preoccupata. Era in ritardo di un quarto d’ora e l’unica ad aver notato la sua assenza era proprio lei. Appena Katniss vide Rose entrare si lasciò andare ad un lungo sospiro, ma subito dopo le lanciò una delle sue speciali ed omicide occhiate. Con le labbra mimò quello che doveva essere un ma dove ti eri cacciata? o qualcosa del genere. Rose non era mai stata brava nell’antica arte del leggere le labbra, ma aveva compreso ugualmente. A sua volta mimò un scusa alzando anche le spalle, prima di dirigersi a testa bassa per evitare un’altra di quelle orribili occhiatacce. Si portò al centro della sala, ma era davvero persa. Non sapeva cosa fare e non voleva mostrare a nessun’altro quanto davvero facesse schifo. Si lasciò cadere in un angolino facendo finta di allacciarsi una scarpa, così da prendere un po’ di tempo e riuscire a pensare al da farsi.
– Oh guarda, la pecorella smarrita è riuscita a ritrovare la strada per l’ovile – una voce maschile interruppe i suoi pensieri, già ormai incasinati così com’erano.
Alzò uno sguardo ed un’alta figura si stagliava minacciosa di fronte a lei. In un primo secondo provò un po’ di paura, ma poi guardò meglio il ragazzo. Era molto alto, più di un metro e ottanta di sicuro. Aveva i capelli castani ma molto scuri e occhi che sembravano grigi. Era muscoloso e aveva uno strano profumo di legna. Rose rimase un po’ perplessa ma si alzò comunque in piedi. Non sapeva davvero cosa dire. Aprii la bocca come per parlare ma non ne uscii niente. Il ragazzo, notata l’assenza di parole, tagliò il silenzio
– Sei arrivata, finalmente – tradusse la frase di prima e Rose comprese subito.
– Ah, si. – tagliò corto lei cercando di allontanare il gigante e ritornare al centro della sala, ma lui la bloccò con un braccio.
–Che c’è? – gli chiese spazientita
– Sai cosa c’è? C’è che non hai il permesso di arrivare in ritardo ad una seduta di addestramento importante come questa – le rispose lui in tono severo.
Rose non sembrava così preoccupata da quell’uomo che sembrava di aver appena finito il suo lavoro da boscaiolo nella foresta
– Si, bene. Ciao – tagliò corto lei senza nemmeno interessarsi a ciò che aveva appena finito di dire l’altro.
– Ferma – la bloccò nuovamente lui
– Senti chi cavolo sei? – disse quasi arrabbiata.
Era stanca, voleva soltanto togliersi da quell’angolo e non fare niente, stare ferma a guardare gli altri immaginando i mille modi in cui avrebbero potuto ucciderla.
– Lui è un mio amico, Gale – disse una voce che non proveniva dall’uomo delle caverne davanti a lei.
Era la voce di Katniss, che dopo essere scesa dalla saletta sospesa, era arrivata vicino a loro. Rose non sapeva bene che fare. Non era stata molto gentile con lui e immaginava già come sarebbero andati i loro rapporti: male, malissimo.
– Lui è l’insegnate che vi seguirà in queste sedute di addestramento. Farai meglio a seguire alla lettera tutte le direttive che ti darà. – lo disse come se avesse sentito la loro conversazione precedente.
– Si, va bene – cercò di rimediare a tutto ciò che aveva detto prima.
Tentò un sorriso ma non era sicura di quanto sarebbe sembrato vero.
– Trattala bene – disse Katniss dando una pacca abbastanza forte al braccio di quel Gale, ma lui sembrò non farci nemmeno caso.
– Come vuoi – le rispose poco motivato mentre già lei si stava allontanando per tornare da dove era venuta.
– Non arrivare in ritardo – le ordinò nuovamente 
- Certo capo – disse riuscendo ad allontanarsi e a dirigersi verso il posto in cui alcuni dei ragazzi stavano tirando dei coltelli contro a figure in movimento.
Era proprio lì che vidi nuovamente Abigail, la sua amica. Si avvicinò a lei. Era ferma immobile e stava guardando Fallon tirare tutti quei pugnali e non sbagliare nemmeno un colpo. Sembrava terrorizzata, come biasimarla.
– Abigail -  esordì Rose.
L’amica si girò e subito la strinse, quasi stritolandola, tra le sue braccia. Rose faceva fatica a respirare ma almeno era il primo gesto davvero affettuoso che le si rivolgeva da un po’ di tempo a questa parte. Abigail era davvero preoccupata mentre osservava il mostro davanti a lei.
– Terrificante, eh? – chiese a Rose.
Sì, eccome se lo era, ma lei non lo avrebbe mai ammesso.
– Nah, per niente – dissi molto sicura di sì. In realtà, dentro di lei, stava già urlando di dolore.
Abigail, la ragazza dai lunghi e ricci capelli rossi, scacciò il pensiero dalla testa. Aveva così paura che in quella sola notte in cui erano stati qui, non era riuscita nemmeno a dormire. Era così terrorizzata che gli incubi li viveva anche di giorno.
– Vedo che hai conosciuto Gale – disse indicando con la testa il ragazzo alla postazione del tiro con l’arco
– Carino, eh? – Rose non riusciva a credere a ciò che aveva appena sentito.
– Che cosa stai dicendo? Il tipo che odora di legno? Hai per caso sbattuto la testa recentemente? – disse con poca gentilezza
– Rose, non essere così cattiva! – le rispose offesa Abigail
– Oh, scusa. Hai per caso sbattuto la testa recentemente, amica mia? – rispose in tono gentile, ma contemporaneamente sarcastico.
Abigail non rispose. Si limitò a girarsi e a vedere la conclusione dell’esercizio di Fallon. Il ragazzo posò i coltelli e ancora per una volta, andandosene,  la osservò nello stesso modo in cui l’aveva guardata a pranzo. Il cuore di Rose perse un’altro battito.
–E’ il tuo turno – disse Rose indicando il set di pugnali e poi i bersagli che ora si erano fermati.
– Ho paura, Rose – le svelò Abigail
–Non  immagini quanto- continuò
– Si che lo immagino… - 

Risponde l'autrice:
Scusatemi ancora se ho impiegato molto tempo per questo capitolo.
Avete potuto notare anche voi che è piuttosto lungo e ho messo insieme un po' di situazioni diverse.
La mensa, il sogno e il nuovo allenamento. Ho inserito nuovi personaggi che spero vi piacciano.
Quindi, continuate a recensire perchè mi fa sempre piacere e io sarò molto felice di rispondervi.

 

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Capitolo 9
*** L’unica cosa che resta da fare ***


Capitolo VIII – L’unica cosa che resta da fare


Abigail afferrò il set di coltelli davanti a lei e prendendo un respiro profondo iniziò a lanciarli contro i bersagli mobili a quattro metri di distanza da lei. Era raro che uno dei suoi tiri andasse a segno, ma almeno la ragazza riusciva a centrare il bersaglio. Non era bravissima, ma avrebbe migliorato molto in fretta. Era comunque sempre più brava di Rose e questo aveva abbattuto il suo umore già più nero del solito. Rose sospirò rassegnata, mentre osservava distrattamente l’esercizio dell’amica. Da qualche giorno aveva come l’impressione che fosse stata rinchiusa in una bolla per tutta la sua vita. Aveva vissuto sempre meravigliosamente, ma ora capiva quanto quella felicità fosse fittizia e finta. Mentre gli altri vivevano nel mondo reale, lei stava lì, immobile nel suo regno di sogni ad occhi aperti, era davvero frustante arrivare a quel punto e scoprire che tutte le sue convinzioni, i suoi punti fissi erano sempre stati errati. Abigail finì il suo sufficiente esercizio e rimise a posto i coltelli dove li aveva presi poco tempo prima. Ora toccava a lei, sapeva di dover trovare tutte quelle energie, tutto quel coraggio e convinzione che aveva perso da un po’ di tempo. Preso un respiro molto profondo e con la mano che le tremava afferrò il primo coltello. Nessuno la stava osservando, ma sentiva come se tutti gli occhi fossero puntati su di lei. Si posizionò davanti ai bersagli, aspettando che il primo si illuminasse, pronta a lanciare il suo pugnale. Una luce rossa arrivò dall’ultima sagoma infondo a sinistra, Rose prese la mira ricordandosi velocemente tutti i consigli che aveva appreso la mattina. Alzò il braccio e scagliò il coltello, preciso e veloce. Non aveva molto tempo per assicurarsi che il tiro andasse a segno, ma riuscì solo a scorgere il pugnale schiantarsi contro la sagoma a forma d’uomo, non esattamente al centro, ma era un buon’inizio. Preso il coltello successivo e questa volta lo lanciò contro la sagoma posta proprio di fronte a lei. I bersagli si illuminavano molto velocemente e non aveva molto tempo per pensare o guardare dove il coltello precedente fosse arrivato. L’avrebbe capito poi a fine esercizio, dal punteggio ottenuto. Prese il terzo pugnale e lo scagliò senza neanche pensarci troppo contro il bersaglio a destra, poi di nuovo a sinistra e così via. Le rimanevano soltanto gli ultimi due coltelli. La sagoma di fronte a lei si illuminò due volta, segno che avrebbe dovuto lanciare contemporaneamente entrambi i pugnali. Li prese e nuovamente li scagliò contro la figura in movimento. I bersagli si bloccarono improvvisamente e le luci che aveva visto fino a quel momento si spensero. Il primo training era terminato. Per la prima volta dall’inizio dell’esercizio prese un altro respiro e corse a recuperare i pugnali dai bersagli. Li appoggiò sul piano alla sua destra e andò ad osservare il suo punteggio. Vi erano sei bersagli in totale, di cui tre erano mobili. Il computer calcolava la velocità del tiro e della reazione alla luce rossa, la mira ed infine il bersaglio colpito e creava una media dell’esercizio. Rose aveva una buona velocità di reazione, ma una scarsa mira, ovviamente da migliorare. Sospirò e guardò Abigail, che l’aveva osservata fino a quel momento. Le sorrise e senza dire niente, la rossa le diede una pacca sulla spalla. Non capì mai se quel gesto significava un”farei meglio la prossima volta” o un “brava, vai così!”, ma non le importava tanto. Rimase in piedi al centro della stanza e dopo qualche secondo di pausa, si girò ad osservare la stanza sopraelevata alla sua destra. Katniss sorrideva felice e con le mani applaudiva leggermente, senza farsi notare. Rose non sapeva bene se lo faceva per pietà o se lo faceva perché era stata realmente brava, ma non le importava molto. Sorrise a sua volta.
– Bell’esercizio, fiocco di neve – una acuta e stridula voce femminile irruppe nei suoi pensieri.
Alla sua destra, una ragazza non molto alta, ma dai capelli neri come la notte le aveva appena rivolto la parola.
– Grazie – rispose non sicura se quelle frase fosse stata sarcastica oppure no.
La ragazza in questione era Nita, ovviamente un’altra compagna di scuola. Non era mai stata simpatica a Rose e di sicuro lei non ricambiava. Non si erano mai dette nulla, ma l’odio tra di loro era una cosa che andava oltre le parole. Come descriverla? In poche parole: la versione femminile di Fallon. Oh, povera Rose, con chi si stava mettendo contro. Nita era una ragazza davvero determinata e forte di carattere. Non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, doveva sempre aver ragione ed era molto furba, forse troppo. Sapeva come girare le situazioni sfavorevoli a suo favore e purtroppo era molto intelligente. Nita stava per replicare, ma Rose fece appena in tempo ad andarsene roteando gli occhi, non voleva un’altra lite come quella della mensa. Si portò alla postazione del tiro con l’arco, sperando di avere la fortuna di essere almeno un po’ più decente. Non c’era molta fila, a quanto parte molti smaniavano per avere una spada o dei pugnali. C’erano altri due ragazzi davanti a lei, ma non sapeva molto di loro. Erano più piccoli di lei e probabilmente erano anche fratelli. Avevano entrambi i capelli castano chiaro e gli stessi occhi verdi. La bambina era molto brava con l’arco, molto più del fratello. Rose si chiese da dove avesse imparato. Non se ne accorse subito, ma quando arrivò il suo turno, cominciò a tremare e non ne sapeva bene il motivo. Era ormai normale, per lei, provare timore in quei giorni e non riusciva a comprendere perché ne dovesse provare così tanto proprio in quel momento.
– Guarda chi si rivede – esordì Gale appena la vide.
Rose si lasciò andare ad una leggera risata, ma non capiva nemmeno perché quella battuta l’avesse divertita così tanto
– Sì, ti sono mancata? – chiese sorridendo, ma questa volta fu Gale a sorridere
– Forza prendi quell’arco. Non capisco perché tu voglia seguire le lezioni di tiro dell’arco da me quando hai la più brava tiratrice come mentore – disse mentre Rose impugnava un arco
– Credevo che le tue lezioni fosse obbligatorie. -  rispose lei mettendosi in posizione
–Almeno questo è quello che ho capito quando ti ho visto, prima. “Non fare arrabbiare questo tipo” mi sono detta – continuò afferrando una freccia.
– Hai capito bene – rispose lui. Rose si posizionò proprio come le aveva insegnato Katniss quella mattina: gambe leggermente aperte e braccio in linea con la spalla, né più su né più giù. Gale si avvicinò a lei dopo averla osservato per qualche secondo.
– La tua posizione è molto buona – disse smorzando il silenzio che si era creato
– Però sei troppo tesa. Lasciati andare – continuò mentre con le mani andava ad ammorbidire e abbassare le spalle rigide di Rose.
Rose si limitò ad annuire soltanto.
– E poi raddrizza la schiena, sembri gobba – Rose si sentì leggermente offesa, ma decise di prendere alla lettera il consiglio.
Ora che era posizionata in maniera corretta, doveva soltanto scagliare la freccia. Prese un lungo e profondo respiro e chiuse per qualche secondo gli occhi. Tornò con la mente al suo albero del giardino dietro casa. Scagliò la freccia. Quando ebbe riaperto gli occhi, vide che il bersaglio era stato colpito, sì nel punto esatto, ma non perfettamente. Un sorriso si stampò sul suo viso. In fondo non era così pessima come credeva.
– Brava – si congratulò Gale dandole una pacca sulla spalla.
Rose non rispose, ma continuò a scagliare altre freccia, sempre nello stesso modo, cercando di migliorare sempre di più la mira. Le due ore passarono molto in fretta, forse anche troppo. Tutti i ragazzi si erano ritirati nelle loro camere, si erano riposati e si erano rincontrati nella sala da pranzo per gustare tutti insieme un’ottima cena. Katniss parlò quasi tutta la sera del fatto di quanto fosse stata brava Rose quel pomeriggio, Peeta non smetteva di congratularsi, mentre Declan sembrava vagamente felice, ma non troppo. Il giorno dopo sarebbe stato un giorno molto, molto importante per i ventiquattro ragazzi. Ero solito, durante il regno di Capitol, che prima di iniziare i veri giochi, i ragazzi si sarebbero dovuto sottoporre a prove molto “difficili”: l’indomani ci sarebbe stata la parata dei tributi a cui, amaramente tutti i cittadini della capitale e felicemente i cittadini dei distretti, avrebbero assistito. Se ne parlò molto a pranzo, ma nessuno ne sembrava entusiasta, nemmeno Rose. Sapeva di essere uno dei personaggi più odiati, soprattutto dai dodici distretti e farsi vedere in pubblico le avrebbe causato soltanto tanto dolore, ma cosa ci poteva fare? Nulla. L’indomani si sarebbe sottoposta a tutti quei trattamenti di bellezza senza fiatare e la sera avrebbe sfilato su quel carro senza dire nulla. Punto. Non c’era nient’altro fa fare. Era finita a malincuore sulla pista da ballo e l’unica cosa da fare era ballare.


Risponde l'autore:
Devo ammetterlo: è un capitolo un po' corto. Ho voluto proseguire con gli allenamenti e questo è ciò
che è saltato fuori. Ho inserito un nuovo personaggio e un veterano. Spero vi piacciano.
Nel prossimo capitolo come spero abbiate capito, ci sarà la parata dei tributi e questo sarà un grosso ostacolo per la nostra Rose.
Spero vi sia piaciuto e vi ringrazio per le scorse recensioni e vi incoraggio a scriverne ancora.

 

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Capitolo 10
*** Distinguere la differenza ***


Capitolo IX – Distinguere la differenza


Quella notte, fortunatamente, nessun incubo venne a bussare alla sua porta. Era una delle poche notti in cui finalmente era riuscita a dormire. Si risvegliò non molto presto, circa verso le nove, o almeno così diceva l’orologio olografico sul comodino. Svelta si preparò meglio che potesse. Quella sera stessa, ci sarebbe stata la parata dei tributi a cui a malincuore tutti i cittadini di Capitol City e molto gioiosamente quelli di Panem, avrebbero assistito. Ma non voleva pensarci troppo. Già le dava fastidio alzarsi tutte le mattine e doversi presentare a pranzo o alle sessioni di allenamento, figurarsi farsi vedere in mondovisione.  Era sicuro che tutti le avrebbero riso dietro, o forse peggio. Raccolse tutto il suo coraggio e si diresse verso la sala da pranzo pronta per un’abbondante colazione che non avrebbe sicuramente finito. Prese l’ascensore, ma non incontrò nessuno. Ormai probabilmente tutti si erano abituati a vederla arrivare in ritardo e nessuno si fermava più ad aspettarla, ma questo non le dette molto fastidio. La musica dell’ascensore era davvero snervante, a chi si sarebbe dovuta rivolgere per chiedere di farla cambiare? Poi quelle quattro notte da carillon di mattina erano davvero terrificanti. Sospirò pesantemente mentre le porte dell’ascensore si aprivano sulla sala da pranzo. I tavoli, come sempre erano già tutti pieni. Poteva vedere da lontano la testa rossa di Abigail indecisa su cosa prendere da mangiare, Nita che azzannava voracemente un croissant, Fallon che rubava il cibo dal piatto di un indifeso ragazzino di dodici anni, lo stesso che aveva visto ieri alla postazione del tiro con l’arco ed infine Gale che conversava allegramente con Peeta al loro tavolo. Non credeva che quei due ragazzi potessero andare d’accordo dopo tutto quello che era successo. Si avvicinò al loro solito tavolo e si sedette quasi senza farsi notare. Declan, sempre seduto alla sua destra fu il primo a vederla.
– Buon giorno Rose – esordì più pimpante che mai
– Giorno – rispose lei ancora un po’ assonnata.
Katniss, accortasi di lei, la salutò con un sorriso che Rose ricambiò subito.
– Dormito bene? – le chiese Gale, dopo aver finito il suo discorso con Peeta, sedendosi con lo schienale della sedia rivolto verso il tavolo, proprio alla sinistra di Rose. – Abbastanza – le rispose.
– Meglio, perché oggi sarà un giorno davvero…stressante per voi due, ragazzi – concluse Peeta indicando prima Rose poi anche Declan.
E quanto aveva ragione. Di solito Rose non curava molto il suo aspetto esteriore, non le importava, almeno non di più nel necessario. Le piaceva indossare dei vestiti carini, lontani dallo stile di Capitol, le piaceva vedersi con qualche velo di trucco, ma non troppo e a volte acconciava i suoi capelli, ma niente di spettacolare ed esagerato. Niente di tutto ciò.
– Non vedo l’ora – rispose Rose sarcasticamente
– Rose, non dire così. Imparare a rapportarsi con il pubblico e un passo molto importante, soprattutto in questi giochi. Qualcuno ha dovuto impararlo molto in fretta, vero Katniss? – disse Gale appoggiando una mano sulla spalla della ragazza.
Peeta sembrò non apprezzare completamente, ma non lo dette a vedere.
– Gale ha ragione, Rose. Vedi, la tua situazione è un po’…critica, sì diciamo così e le tue occasioni per far capire agli altri chi davvero sei sono davvero poche, non sprecarle. – continuò Peeta
– …Grazie – rispose nuovamente sarcastica Rose dopo una piccola pausa di silenzio
– Non la prendere male, ma dobbiamo far capire agli altri che tu non sei prepotente e senza pietà proprio come era tuo nonno –
Rose non aveva mai adorato molto la sua famiglia, ovviamente esclusa la madre, ma cosa ci poteva fare? I genitori, o i nonni, non si possono scegliere. Aveva avuto la sfortuna di capitare in una famiglia così, era allora giusto farle pagare per qualcosa che non aveva fatto? 
- Wow, credo di averla presa male – rispose allora la ragazza.
– Rose, non ascoltare questo stupido, ascolta me. Se oggi farai esattamente ciò che io o il tuo stilista ti diremo,vedrai che andrà tutto bene. E’ una promessa che ti faccio. – la rincuorò Katniss con un sorriso in volto.
Molti si erano stupiti in quei giorni del suo nuovo comportamento. Forse all’inizio le due ragazze avevano avuto qualche incomprensione, ma alla fin fine tiravano fuori il meglio da entrambe. Fecero tutti quanti una veloce colazione, quasi non riuscendo a parlare a causa del tanto cibo che si stavano mettendo in bocca. Poi Katniss e Rose, seguiti a ruota da Peeta e Declan si precipitarono nuovamente nei loro appartamenti dove, seduta compostamente sul divano di pelle bianca, una donna con dei buffi capelli verde smeraldo, il colore che andava di moda nella capitale in quel momento, li attendeva.
– Bene, eccovi qui. Siete in ritardo di ben dieci minuti – esordì la donna stizzita.
Peeta, con un sorriso in volto le si avvicinò e la abbraccio, apparentemente si conoscevano.
– Effie, quanto ci sei mancata! – Effie, così si chiamava allora.
La donna era una vecchia amica, se così si poteva chiamare, di Katniss e Peeta. Era stata la loro accompagnatrice durante tutte due le edizioni a cui avevano partecipato e non solo. Era usuale per lei, forse anche controvoglia, accompagnare ogni tributo del distretto dodici a Capitol City insieme al vecchio mentore Haymitch. Era una donna davvero particolare, devota a Capitol City, almeno fino ai tempi della ribellione. Aveva uno stile in tutto e per tutto simile agli standard di quella città, come anche Rose poteva notare. Quell’anno aveva dei capelli ricci e cotonati di un colore verde smeraldo, la sua immancabile pelle pallida, ciglia finte impreziosite da vere pietre preziose, rossetto verde e un vestito a tubino di un colore erba fatto di seta. Si alzò elegantemente dal divano e abbracciò cercando di non sciupare il vestito, prima Peeta poi anche Katniss. Si scambiarono dei finti baci volanti e alla fine mise occhio sui due ragazzi, osservandoli attentamente.
– Così questi sono i vostri ragazzi… - disse sorridendo avvicinandosi a Rose e pizzicandole la guancia con la sua pallida ed esile mano
– Roseleen Snow, giusto? – le chiese.
Rose annuì cercando sforzatamente di sorridere. Non le piaceva essere chiamata con il suo nome intero, soprattutto per via del cognome.
– Tu invece dei essere Declan… - continuò rivolgendosi al ragazzo sperando che fosse lui a concludere la frase, visto che in pochi, quasi nessuno, le avevano parlato di lui.

– Blackbourne – concluse. Effie sorrise ed invitò tutti e quattro a sedersi sul divano e a prendere una tazza di tè
– Ma abbiamo appena finito di mangiare… - cercò di ribattere Rose
–Signorina Roseleen, il tè  non è opzionale – le rispose Effie interrompendola.
A quel punto Rose fu costretta a sedersi sul divano e gustarsi un tè verde che nessun’altro, tranne la donna, sembrò apprezzare.
– Bere il tè sedute ad un tavolino e alzando il mignolo destro è una pratica che ogni donna con una buona educazione deve sapere fare –
Nessuno sembrò apprezzare il vano tentativo di Effie nell’insegnare il bon ton, ma lei era fatta così, non ci si poteva fare nulla. Rose approfittava del momento in cui la donna era girata per versare il rimanente tè nella pianta affianco a lei, Declan bevve tutto, ma il suo tentativo nel praticare le buone maniere fallì. In effetti aveva seguito per tutto il tempo Effie girovagando per la stanza, tenendo la tazza con la mano sinistra e il dito destro alzato. La donna dalla capigliatura esagerata notando il suo errore, si arrese allo sconforto e continuò con le sue lezioni che nessuno ormai stava ascoltando. Dopo aver finito il tè Effie tirò fuori da una scatola un paio di scarpe tacco dodici e costrinse Rose, già molto alta di per sé, ad indossarle. La ragazza non andava matta per le scarpe troppo elaborate, ma soprattutto troppo alte, ma quelle superavano tutti i suoi limiti. Erano di un colore noir notte con il tacco a spillo. Indossate, Rose, misurava più o meno un metro e ottanta e si sentiva davvero fuori luogo. Non aveva mai indossato scarpe del genere perché per prima cosa non le piacevano, per seconda cosa non ne aveva mai avuto bisogno.
– Seriamente? – chiese piuttosto contraddetta quando si vide allo specchio
– Io dovrei seriamente indossare questi trampoli?! – continuò indicando quelle assurde scarpe.
– Ma certamente, ti stanno benissimo e sotto un vestito lungo sarebbero perfette. Ti fanno due gambe magnifiche – Rose sospirò esasperata 
- Pensavo che con queste lezioni ci avrebbero insegnato a sembrare favolosi magari mentre si uccide qualcuno… o qualcosa del genere. Non intendo indossare dei trampoli e rischiare di rompermi una gamba prima ancora di entrare in una Arena –
Katniss si mise a ridere, ma si fermò subito dopo aver incrociato lo sguardo attonitoe vagamente omicida di Effie.
– Quelle scarpe sono la rappresentazione visiva di ciò che c’è nel tuo cuore. Per essere favolosa all’interno, devi essere favolosa all’esterno. – le rispose con voce calma, un po’ troppo in contraddizione con il suo umore in quel momento
– Cosa? – Effie sospirò pesantemente un’altra volta, non smetteva di fare altre da un bel po’ di tempo.
Chiese a Rose di camminare un po’ avanti e indietro, giusto per abituarsi alle scarpe, che a quanto pare avrebbe obbligatoriamente dovuto indossare e poi rimise le scarpe all’interno della loro scatola. Effie restò con Katniss e Rose ancora per qualche quarto d’ora. Insegnò alla ragazza come camminare con la schiena dritta portando tre libri sulla testa, le spiegò come parlare con voce ferma e decisa e anche qualche principio di retorica, che nessuno immaginava che la donna conoscesse, per cavarsela nelle interviste. Dopo tutto, nonostante l’apparente superficialità, Effie era una donna molto intelligente, ma per qualche motivo nessuno la prendeva in considerazione. Sopravalutare le persone era pericoloso, ma sottovalutarle ancora di più. Rose e Katniss ricontrarono Peeta e Declan, che se n’erano andati proprio prima di vedere Rose con le scarpe col tacco per parlare con il loro stilista, a pranzo, al loro solito tavolo al quale ora si era definitivamente aggiunto anche Gale. Il pomeriggio Rose ebbe la prima occasione di incontrare il suo stilista, Senan, un uomo molto alto, con la pelle pallida, molto simile a quella di Effie, i capelli neri corvini sempre ben pettinati con quintali di gel, gli occhi verdi e una voce molto roca. Le due ragazze erano sedute sulle confortevoli poltrone dei loro appartamenti quando lo videro uscire dall’ascensore
- Buon pomeriggio, mademoiselles – esordì. Era un uomo di mezz’età, non molto giovane ma anche molto arzillo e molto atletico.
Nessuna delle due l’aveva mia visto, quindi fu una sorpresa per
entrambe. Katniss era abituata al suo vecchio stilista, Cinna che era stato crudelmente ucciso per aver disubbidito agli ordini del presidente Snow e aver fatto invece di testa sua. Entrambe si alzarono per salutarlo, ma lui preferì un fragoroso abbraccio, uno di quelli che ti lascia senza respiro. Guardò attentamente la figura di Rose e dopo qualche minuti di imbarazzate silenzio, si schiarì la voce 
– Meravigliosa – Rose sorrise, a quanto pare quel complimento si riferiva a lei.
Dal guardare la ragazza da lontano ora era passato al lisciarle i capelli biondi e ogni tanto le alzava il volto muovendolo un po’ a destra e un po’ a sinistra. Rose venne portata in una stanza molto ampia e del tutto fatta da pareti bianche e scintillanti che quasi accecavano. Fu posata su un piedistallo, anch’esso bianco e rivolta verso il grande ed immenso specchio. Si guardò attentamente. I suoi capelli biondi le ricadevano perfettamente morbidi sulle piccole spalle. Il suo corpo magro, ora soltanto in intimo, avrebbe dovuto, tra poco, aderire perfettamente all’abito che le avrebbero mostrato. Non amava molto questo genere di cose, ma ogni tanto sentirsi coccolata, sopratutto in quel momento, la rendeva felice. Una donna dall’incarnato pallido e vestita con una stretta ed aderente tuta di pelle bianca entrò nella stanza e l’aiutò ad infilarsi il suo abito. Era un normalissimo abito da sera stile a sirena di seta nero. Non aveva le maniche ma un elegante scollo a cuore. Scendeva aderente lungo il magro corpo di Rose e si apriva in una corolla all’orlo sempre dello stesso nero. La porta si spalancò e Senan vece la sua seconda apparizione. Guardò prima da lontano Rose e il suo abito, poi si avvicinò a lei. 
–Direi che è magnifico. Sapevo che ti sarebbe andato alla perfezione – Rose rimase un po’ stupita dalla affermazione.
Come faceva davvero a sapere che le sarebbe andato “alla perfezione”? Era un modo di dire o l’aveva già vista di recente?
– Come fai a dirlo? – le chiese con un tono molto calmo ma anche molto dubbioso
– Conoscevo già le tue misure. Hai presenti gli abiti che hai nell’armadio? – Rose annuì ripensando ai vestiti che il primo giorno aveva trovato nell’armadio, i suoi vestiti di sempre
– Sono i miei – Gli occhi di Rose si illuminarono
– Tu sei quel Senan! Quello della targhetta dei miei vestiti! – L’uomo scoppiò a ridere
– Sì, essere l’uomo della targhette dei tuoi vestiti era sempre stato il mio sogno… sto scherzando – a quel punto anche Rose si mise a ridere.
Non le era mai importato della moda o di tutti gli stilista, ma se adesso ci pensava meglio, tutti i suoi abiti erano stati firmati da lui.
– Quello che hai indosso non sarà il tuo vestito per la parata. Volevo soltanto fartelo provare. Il vestito per la parata è questo qui -  disse indicando la donna con un altro abito in mano. Lo stilista lo tolse cautamente dalla sua custodia e lo mostrò a Rose. Era un abito di un colore arancione pesca, alquanto largo in fondo, ma comunque non gonfio. A differenza dell’altro, questo aveva le spalline impreziosite da cristalli luccicanti. Il particolare più bello erano le rose che erano state cucite lungo l’abito. Le uniche rose che non erano presenti erano quelle bianche.
– Meraviglioso, Senan – ammise Rose appena lo vide.
– Il tuo nome significa “rosa”, confido che questo abito ti rappresenti al meglio – le rispose sorridendo.
La ragazza provò l’abito e notò che lo stilista aveva davvero ragione. Katniss diceva che avrebbe dovuto mostrare al mondo chi era veramente e quell’abito ci andava molto vicino.Appena l’abito fu indossato, a Rose parve di essere appena uscita da un tappeto di rose, come se queste continuassero a crescere sul suo abito. – E’ meraviglioso, Senan, non ho davvero parole – disse con una voce molto emozionata.
– Non vedo l’ora di indossarlo, stasera – e questo era parecchio strano.
Fino a poche ore prima avrebbe preferito farsi infilare degli spilli negli occhi piuttosto che partecipare alla serata, ora invece non vedeva l’ora. Sarà stata la magia di quell’abito a farle cambiare idea? A malincuore Rose dovette posare il vestito nella sua custodia originale e infilarsi i suoi vecchi abiti, che a confronto non sapevano di niente, erano insulsi. Lo stilista riportò la ragazza nei suoi appartenenti facendola promettere di non dire nulla a nessuno a proposito degli abiti, sarebbe stato il loro piccolo segreto. Rose passò il resto del pomeriggio a giocare a dama nel soggiorno insieme a Declan, mentre Peeta e Katniss guardavano le repliche della mietitura che ormai avevano annoiato tutti. La sera arrivò molto in fretta e dopo aver consumato una abbondante cena, tutti si erano preparati per la parata. Rose, molto segretamente, era stata portata al luogo dove si sarebbe svolto l’evento. Indossava già il suo vestito e per la gioia di Effie delle scarpe col tacco abbinate. Katniss, Peeta e Declan si erano molto complimentati per il vestito e avevano detto ripetutamente a Rose quando fosse bella. La ragazzo era arrossita, non era brava a ricevere i complimenti. Sfamati i cavalli, i tributi vennero aiutati a salire sui propri carri, che per la prima volta avrebbero ospitato soltanto un tributo. Al segno d’inizio, il primo carro guidato dall’immancabile Fallon, prese il via, seguito poi da tutti gli altri. Rose era tanto nervosa, quasi da scorticarsi inconsciamente le dita delle mani. Il suo carro prese velocità e dopo aver chiuso per qualche secondo gli occhi ed aver preso un lungo respiro, li riaprì trovandosi davanti una folla urlante. Poteva intravedere il pubblico di Capitol City, ma nascosti tra loro erano presenti anche le famiglie più ricche e potenti degli altri distretti, una vera e propria novità insomma. Si spaventò un po’ davanti alla sua immagine riflessa nei teleschermi e temeva che da un momento all’altro il pubblico potesse tirarle addosso chissà quelli tipi di vegetali e urlarle frasi offensive sul suo conto. Aveva il cuore che batteva al mille, ma la sua espressione non lo mostrava affatto. Sul suo volto era apparso un sorriso raggiante, divertito e con la mano destra salutava tutto il pubblico in delirio, forse soltanto per lei. Il suo carro si fermò esattamente al centro, proprio sotto il palco rialzato che era stato ricreato sotto ordine della Coin. Ed eccola lì, nello stesso punto in cui fino a poco tempo prima stava in piedi anche suo nonno. Era proprio quella donna che ora appariva in tutta la sua maestosità sui teleschermi di tutta la nazione di Panem.
– Benvenuti -  esordì acclamata da tutta la folla
– Benvenuti tributi. Voglio subito ringraziarvi per il vostro immenso coraggio, che avete dimostrato venendo qui… e al vostro grande sacrificio per la vostra città. Vogliamo tutti rendervi onore, proprio qui e proprio in questo momento perché un giorno…sarete ricordati. – il pubblico andò in delirio un’ ennesima volta.
Tutti applaudivano e urlavano di gioia. L’unica che di gioioso non aveva nulla era proprio lei, Rose. Erano stati loro a costringere ventiquattro ragazzi a partecipare agli Hunger Games, erano stati loro a mandarli in una Arena per combattere fino alla morte.
Vedeva la Coin e poi vedeva il presidente Snow. Spostava lo sguardo da una all’altro, ma era già impossibile distinguere la differenza. 


Risponde l'autore :
Sì, è vero: questo capitolo è molto lungo, ma ho dovuto raccontare tutti i preparativi, la nostra cara Effie che è sempre la solita, poi c'è Senan, il nuovo stilista.
Insomma è un capitolo molto pieno di nuovi fatti. Nel prossimo vi prometto che dopo qualche giorno di allenamento ci sarà la prova con gli sponsor!
Voglio chiedervi una cosa: A che volti, a che attori, pensate quando leggete dei personaggi? Chi ci vedete bene per il ruolo di Rose oppure di Declan o di tutti gli altri? Sono molto curiosa, quindi fatemelo sapere proprio nelle recensioni. Io ovviamente non vi dirò a chi penso, non vi voglio condizionare =D

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Capitolo 11
*** Inganno ***


Capitolo X -  Inganno

Guardate che nessuno vi inganni;
molti verranno nel mio nome, dicendo:
Io sono il Cristo, e trarranno molti in inganno.


Più guardava la Coin e più si rendeva conto di quanto fossero stati stupide tutte quelle persone che le avevano creduto. Lei non sapeva bene la vera storia. Suo nonno o suo padre non amavano parlare con lei di queste faccende. “Sei ancora troppo piccola. Un giorno capirai” le dicevano ogni volta che saltava fuori quell’argomento. Tutto ciò che era riuscita a scoprire di suo pugno era questo: il distretto tredici è sempre esistito e non è mai stato distrutto. La Coin ha stretto un patto con Snow in base al quale dichiaravano che il la donna non avrebbe cercato di distruggere Capitol City soltanto se il presidente avesse promesso di “dimenticare” il distretto tredici. Il resto era soltanto un insieme di supposizioni e intuizioni che nessuno avrebbe mai ascoltato. Tutti credevano che la Coin fosse arrivata per salvare la popolazione di Panem dall’oppressivo dittatore. E per ora andava bene così. Finita la parata, Rose rincontrò Katniss e tutti gli altri nei loro appartamenti. Era davvero esausta e aveva una leggera emicrania. Forse il troppo pensare ai piani malvagi della Coin l’aveva fatta stancare troppo. Ovviamente non avrebbe mai potuto parlare a qualcuno di ciò che pensava a proposito della nuova presidente. Tutti ora credevano alla Coin e chi era lei per dire che la donna è una bugiarda? Nessuno e questo la Coin lo sapeva. La donna vedeva molte caratteristiche simili al presidente Snow in Rose e proprio per questo motivo la temeva. Tanto. Rose, dopo aver ricevuto tanti altri complimenti per la sua performance alla parata, decise che sarebbe stata una bella idea andare a letto. Si precipitò in camera e si tolse quel meraviglioso abito e lo ripose nella custodia all’interno dell’armadio. Forse l’indomani qualcuno sarebbe venuto a prenderlo. Si fiondò in bagno e si tolse tutto quel trucco che ormai iniziava ad irritarle gli occhi. Si legò i capelli e dopo essersi infilata un pigiama si gettò in quel comodo letto.
 

All’inizio era il nulla. Successivamente c’erano le tenebre. L’oscurità caratterizzava nuovamente quell’immagine. Un ragazzo correva con uno strano e malefico sorriso in volto. Aveva dei capelli scuri, quasi neri e degli occhi blu come l’oceano. Nella mano destra impugnava saldamente un’ascia. Si muoveva circondato da una fitta foresta di alti alberi senza fronda. I suoi passi erano leggeri, inudibili. L’unica luce visibile, quella della luna, gli illuminava il volto. Stava inseguendo qualcuno. Ma chi? Ed ecco che alla sua destra sente un rumore diverso, non è il vento. E’ la sua preda. La insegue invisibile da qualche metro di distanza. E poi la vede, è là. E’ una ragazza dai lunghi capelli rosso fuoco e sapeva che per lei non c’era speranza. Il ragazzo cominciò a correre, furente. Ormai l’aveva raggiunta. Alzò la scure di metallo e la piegò orizzontalmente, pronto a colpire.
 

Rose si svegliò urlando anche quella volta. Si accasciò nuovamente sul morbido cuscino, appena si rese conto che era tutto soltanto un sogno, un orribile sogno. Chi erano quelle due persone che continuava a sognare? Chi era quella ragazza dai capelli rossi che non riusciva mai a vedere in volto? E chi era il ragazzo dagli occhi blu oceano? Guardò l’orologio accanto al suo letto. Dava le otto di mattina. Sospirò perché la notte era passata. Ripensò alla giornata che era appena passata. Aveva guardato negli occhi quella donna e per un attimo avrebbe potuto giurare di aver sentito la voce di suo nonno, strano vero? Non avevano mai avuto un meraviglioso rapporto, ma le uniche volte in cui aveva passato dei momenti con lui, era sicura che l’uomo aveva provato ad insegnarle qualcosa, darle lezioni di vita. “Non lasciare che qualcuno ti inganni.” era una delle sue famosi frasi. Rose aveva molti ricordi di un piccola bambina che passava qualche ora della sua giornata insieme al nonno. Passavano i giorno che ormai per Rose si erano trasformati in routine. Dopo il successo della parata tutti parlavano di lei e proprio come avevano previsto, tutti la paragonavano a suo nonno, ma di lei correvano soltanto buone voci, alcune delle quali fecero molto spaventare la presidente. Rose si trovava in quel corridoio buio, che ormai le era diventato famigliare; quel corridoio che portava dritto all’interno della sala degli allenamenti. Quel giorno avrebbe dovuto sostenere la prova per i suoi sponsor, che a quanto pare aveva già, almeno era ciò che dicevano tutti. Si stava torturando le mani pensando ardentemente a ciò che avrebbe potuto fare. Aveva avuto tanti giorni per capire cosa mostrare, ma non le era venuto in mente nulla. Intanto era diventata ottima nel lancio dei pugnali, brava nel tiro con l’arco, sopratutto grazie a Gale, sapeva come accendere un fuoco e distinguere le erbe buone da quelle nocive e per gentile concessione di Peeta, aveva imparato qualche elemento base della mimetizzazione. Una voce di donna metallica annunciò il suo nome da un altoparlante posto proprio alla sua destra. Lei si alzò cautamente e a grandi ma lenti passi si avviò dentro la sala. Ora sapeva che cosa avrebbe potuto fare. Nella stanza sopraelevata i mentori erano stati rimpiazzati da comuni abitanti di Capitol, i più famosi sponsor degli Hunger Games e insieme a loro era presente anche l’ex stratega Plutarch Heavensbee, nominato dopo la guerra capo delle comunicazioni, ma rientrato in quel ruolo per l’ultima edizione dei giochi.
– Roseleen Snow – annunciò a gran voce appena entrata nella sala.
Appena vide che l’attenzione degli uomini era su di lei, si avvicinò piano a due manichini, distesi su di un piano di metallo, due di quei manichini che vengono usati per la lotta. Afferrò due spesse corde e proprio come fece due anni prima anche Katniss, decise di prendere ispirazione e impiccare anche lei quei due pupazzi, uno davanti all’altro, rivolti con il loro volto inespressivo nella stessa direzione. Si tolse poi la piccola rosa bianca che aveva tra i capelli, fiore che il suo stilista l’aveva quasi obbligata ad indossare prima di scendere per la prova. La fissò perfettamente sul cuore del manichino per poi intingere l’indice della mano destra dentro a della tintura color viola, il primo barattolino che aveva trovato su di un tavolo. Scrisse lentamente e molto in vista, proprio sul petto di entrambi i manichini, corrispondentemente due semplici nomi: Snow e Coin. Il primo sul manichino con la rosa bianca al petto, il secondo su quello retrostante. Mentre si godeva silenziosamente i volti stupiti e imbambolati degli sponsor, afferrò un arco e una freccia, non le sarebbe servito altro. Si posizionò a poca distanza dal primo manichino e repentina scagliò la sua unica freccia, la quale trapassò esattamente il punto in cui era stata fissata la rosa, passò attraverso il cuore del secondo manichino ed infine si va a fermare al centro del bersaglio più in fondo. Aveva visto tante volte in tv la scena in cui Katniss, la grande ghiandaia imitatrice, aveva ucciso il presidente Snow trafiggendolo con una freccia nell’esatto punto in cui gli avevano appuntato una rosa bianca: al cuore. Rimise l’arco al suo posto e davanti agli sponsor fece un profondo inchino, non diverso da quello di Katniss ai tempi dei suoi primi giochi. Non seppe se le sue azioni avessero colpito veramente gli strateghi, almeno fino al giorno dopo, quando annunciarono i risultati. Nei suoi appartamenti si erano riuniti tutti: Katniss, Peeta, Declan, Rose stessa, anche Gale ed Effie. Si erano tutti comodamente seduti sul largo e bianco divano di pelle, mentre Caesar Flickerman, anche lui tornato in carica dopo la guerra, stava annunciando i risultati di tutti i ventiquattro tributi. Fallon e Nita conquistarono entrambi un meritato dieci, non c’era da stupirsi. Erano delle vere macchine per uccidere. Enya e Kevin, i due ragazzini di dodici anni che aveva visto alla postazione di tiro con l’arco il primo giorno degli allenamenti, avevano preso un generoso sette, Abigail conquistò un nove, in quell’arco di tempo era diventa tata davvero brava con i pugnali, mentre Declan arrivò soltanto ad un misero, ma assolutamente non meritato, otto. Rose era convinta che avrebbero potuto dargli molto di più, ma infondo non l’aveva mai visto allenarsi. Alla fine, dallo schermo della tv, apparse il volto di Rose. Un momento di suspense precedette il suo inaspettato undici…undici. Come era possibile? Tutti si alzarono in piedi alla vista del suo numero che le vorticava intorno alla testa nel teleschermo, soltanto Rose non sembrava particolarmente emozionata. Non credeva fosse possibile. Era riuscita a colpire così nel profondo quegli sponsor? Credeva di averli soltanto fatti infuriare, nient’altro. Tutti si congratularono con lei, ma la ragazza non stava davvero ascoltando.
– Ti devo parlare – le annunciò Katniss portandola un po’ più lontano dalla festicciola, per stare sole.
– So che cosa hai combinato in quella sala e so che non li è piaciuto. Sono davvero arrabbiati con te – Rose era perplessa, ma non stupita.
– Chi è arrabbiato con me? – le chiese
– Tutti. Il capo stratega, gli sponsor…la Coin stessa – Al suono di quel nome le orecchie di Rose si raddrizzarono.
Solo in quel momento capii cosa aveva fatto. La loro chiacchierata fu interrotta dal suono di uno spumante che veniva stappato da Effie e dall’arrivo di un uomo che Rose non aveva ancora conosciuto. Avendo sentito l’odore dei festeggiamenti, Haymitch si presentò nei loro appartamenti, ovviamente già ubriaco. Quell’uomo fu per tutte e due le edizioni il mentore salvavita di Katniss e Peeta, fu lui a proporre all’ex capo stratega un cambio di regolamento che permise a due tributi dello stesso distretto di vincere. Era un ubriaco cronico ma nonostante tutto fu un ottimo alleato e un’ottima fonte di saggezza per quei due ragazzi.
– Ma brava ragazzina – si rivolse battendo ironicamente le mani a Rose.
– Sai dare del filo da torcere ai capi a quanto pare. Katniss deve averti insegnato molto, vero dolcezza? – continuò mettendo un braccio intorno ad una irritata Katniss. – Smettila Haymitch – lo ammonì Effie con la sua solita voce irritante.
Lui, stranamente, non replicò al tono della donna, ma si limitò a lasciare andare la presa e ad avvicinarsi un po’ traballando verso Rose. Quell’uomo iniziava davvero a spaventarla e poi puzzava d’alcol in una maniera assurda.
– Hanno paura, lo sai ragazzina? – disse avvicinandosi in maniera paurosa al volto di Rose
- Paura di chi? – le chiese fermamente lei
– Della ghiandaia imitatrice – le risposi ponendola di fronte allo specchio che era presente nella sala.
La ragazza lo respinse brutalmente e si allontanò più che potesse, quell’uomo non le stava affatto simpatico. Si diceva che fosse lo stesso mentore di Abigail, che gran fortuna aveva avuto la sua amica.
– Di cosa stai blaterando, Haymitch? – gli chiese stizzita Katniss, con il suo caratteristico tono di voce.
L’uomo le fece segno di lasciar perdere con un ampio gesto della mano
– Guarda quei capelli color oro. Legali in una treccia e scatenerai una nuova rivoluzione – riuscì soltanto a dire prima che venisse spinto fuori dalla stanza da Peeta.
– Per oggi è abbastanza – disse il ragazzo chiudendogli la porta in faccia.
A volte quell’uomo sapeva come far saltare i nervi a tutti. Haymitch fu il vincitore della cinquantesima edizione, la seconda edizione della memoria per la precisione. Quell’anno, per ricordare ai ribelli che morì un abitante di Capitol City ogni due di loro, i 12 distretti di Panem avrebbero dovuto inviare il doppio dei tributi. Lui era uno di questi. L'Arena era costituita da un prato in fiore, circondato da foreste di alberi da frutto e montagne. Pressoché ogni cosa, tuttavia, risultò velenosa: ogni forma di cibo non proveniente dalla Cornucopia, l'acqua e persino il profumo di alcuni fiori (se respirati direttamente). Anche gli animali, scoperti poi essere ibridi, apparentemente innocui, come gli scoiattoli, si comportavano da predatori attaccando in gruppo. Haymitch vinse per aver trasformato il campo di forza che circondava l’Arena in un arma. Questo, non diversamente dalle bacche di Katniss, fece arrabbiare molto il presidente. Era come prendere in giro gli strateghi stessi, ribellandosi contro la capitale, in altre parole, inaccettabile. Rose era davvero distrutta. Fra due giorni, soltanto due, sarebbero cominciati gli Hunger Games e ora non aveva il tempo e l’umore giusto per ripensare alle parole di quel pazzo. Solo una particolarità non aveva considerato Rose: In vino veritas.

Risponde l'autore:
Forse questo è un capitolo corto, ma molto significativo. Qui Rose mostra quali sono realmente i suoi pensieri verso la Coin: E' identica al presidente Snow. Non vi dico altro, voglio che proviate a indovinare cosa potrebbe succedere ora. Perchè è un voto così alto? Che cosa vuole dire Haymitch?
Vi prego di rispondermi a queste domande proprio nelle recensioni. Avete capito bene, mancano soltanto due giorni all'inzio dei giochi, ovvero due capitoli o forse meno, chissà... Vi prego, continuate a dirmi quale sarebbe il vostro dreamcast di questa fan fiction, perchè mi interessa molto.

 

 

 

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Capitolo 12
*** Catene ***


Capitolo XI – Catene

Non riuscì bene a capire il motivo per cui avesse fatto ciò che aveva fatto. Era comunque cosciente che una azione simile, troppo vicina a idee per così dire differenti da quelle dei potenti, poteva rivelarsi davvero fatale. Ma per chi? Per lei? No, era praticamente già morta. Per sua madre? Probabilmente dopo una esistenza così tragica come quella che aveva vissuto quella donna, forse morire non le sarebbe sembrata una idea così sbagliata. Aveva sempre visto suo padre trattare molto male la madre ed era fermamente convinta che il motivo per cui la donna non fosse ancora scappata da quella casa o peggio, fosse proprio la figlia, Rose. Si chiese su chi quella sua stupidaggine si sarebbe ripercossa. Su suo padre? Forse, ma era meglio così. Non aveva mai avuto un vero rapporto con suo padre, in un certo senso si sopportavano a vicenda e il fatto che lui non si fosse fatto vedere il giorno dell’estrazione, ne dava la conferma. Sui suoi amici? Non ne aveva. Suo nonno? No, era morto. Rose non aveva davvero niente da perdere e se il suo gesto fosse stato l’inizio di qualcosa, sarebbe stata felice di aver acceso la scintilla. Ma poi, tutti la pensavano come lei? Questo non lo sapeva davvero. Si iniziava a chiedere se tutto il popolo di Panem fosse davvero così ottuso da non vedere la differenza, ma quale differenza? Perché non ce n’era. Mancavano soltanto due giorni all’inizio dei giochi e il terrore si stava insinuando sempre più in lei. Aveva paura delle persone contro cui avrebbe dovuto combattere, aveva paura della’Arena, aveva paura di essere vista da tutta la nazione, aveva paura della morte. Rose si addormentò come ogni sera ma ancora una volta gli incubi vennero a bussare alla sua porta. Era sempre lo stesso sogno. La foresta, la luna, il buio, la ragazza dai capelli rossi e il ragazzo con la scure. Ogni volta c’era soltanto un particolare diverso: il punto di vista. La prima volta era la ragazza, poi il suo cacciatore, quella sera non era nessuno dei due. Era una terza persona che stava osservando da lontano la scena. L’incubo terminava sempre allo stesso modo, il ragazzo dai capelli neri alzava la scure e lei si svegliava urlando, di nuovo. Questa volta a spaventarla ulteriormente fu il suono della sveglia che fino a quella mattina non aveva ancora suonato. Rose si chiese chi l’avesse puntata, si era spaventata sul serio. Ancora con gli occhi mezzi chiusi la spense e si diresse come ogni mattina verso la doccia. Aveva smesso di piangere da quando era arrivata, il primo giorno. Ora era arrivata nella fase della rabbia e della negazione. Non poteva ancora credere di essere veramente in quella situazione, avrebbe tanto voluto svegliarsi e scoprire che era tutto un sogno, purtroppo non era così. Quella mattina avrebbe come ogni giorno dovuto presentarsi agli allenamenti, quel giorno in particolare si sarebbe dovuta sottoporre ad un vero e proprio test in cui avrebbe dovuto mostrare alla sua mentore cosa aveva imparato in quei pochi giorni. Il tutto era stato messo in piedi da Katniss, ma aveva fatto giurare a Rose di non dirlo a nessuno, a quanto pare era una cosa “illegale” durante i giochi. Scese nella sala da pranzo e come ogni mattina fece svogliatamente colazione. Latte, biscotti, le solite occhiate glaciali di Fallon e poco altro. Ormai era abituata. Dopo essersi cambiata si diresse per l’ultima volta nella sala d’addestramento. Si sentiva davvero di malumore e quel giorno non avrebbe voluto vedere nessuno. Si appoggiò al tavolo di metallo aspettando Katniss che arrivò circa un quarto d’ora dopo.
– Scusa il ritardo. Ho dovuto fare un’altra cosa – Rose non aveva ma minima voglia di ribattere impuntandosi sul fatto che fosse in ritardo
– Non ti preoccupare – rispose assonnata sbadigliando.
– Vedo che sei molto sveglia ed arzilla, vero Rose?  – la ragazza lasciò perdere, aveva dormito male e non riusciva nemmeno a connettere bene.
– Ok, oggi proveremo la tua prontezza di riflessi e la tua capacità di adattamento, il tuo istinto , le tue abilità e eccetera. - Rose si diede un leggero schiaffo sulla guancia provando a svegliarsi e saltellò un po’ sul posto.
– Rose aspetta… cosa stai facendo? – La ragazza stremata dal sonno e dalla poco voglia di fare qualsiasi cosa si portò le mani al volto
– Non lo so. Cosa sto facendo? – rispose allora lei
– Adesso siamo ipoteticamente all’interno di una Arena, ci potrebbe essere qualsiasi cosa, fiamme che divampano, ibridi che stanno per attaccarti e tu vuoi affrontare tutto questo con le scarpe slacciate? Ok, fai come ti pare. – le rispose indicandole i lacci delle scarpe ma Rose era troppo nervosa per darle ascolto
– Attenta! Ipotetica scossa di terremoto! – esclamò spingendo Rose alle spalle, la quale cadde inciampando sui lacci slacciati delle sue scarpe.
– E questo è il motivo per cui avresti dovuto allacciarti le scarpe – continuò poi afferrando una cartella sul tavolo aspettando che Rose si rialzasse e finalmente si allacciasse le scarpe.
Era giorni che la vedeva distrutta, nervosa, rispondeva male a tutti, quasi come non le importasse di nessuno. Quella era soltanto la sua punizione. Il resto delle ore seguenti passarono molto in fretta. Rose dopo la caduta si era svegliata, ma il suo umore non era cambiato, anzi era nettamente peggiorato. Quello scherzo l’aveva resa ancora più nervosa ed arrabbiata. La ragazza aveva passato il tempo a lanciare coltelli o frecce contro bersagli in movimento che apparivano dal nulla, a battere ogni volta il proprio record di corsa, ad arrampicarsi su finti alberi di metallo oppure in una nuova ed innovativa simulazione dell’Arena in cui la ragazza avrebbe dovuto effettivamente scegliere le sue azioni e mosse in modo da superare le difficoltà che le si presentavano dinnanzi. Alla fine del tutto era davvero stremata. Avrebbe voluto uccidere la sua mentore ma non lo fece per due validi motivi: uno non le sarebbe servito a niente e due probabilmente Katniss, vedendosi attaccata, avrebbe ucciso prima lei. Dopo aver dormito per un bel po’ di tempo, quasi tutto il pomeriggio, saltando anche il pranzo, si diresse nuovamente verso la sala, non pronta per la cena. In grandissimo ritardo si presentò al solito tavolo.
– Perché stai mettendo sei bustine di zucchero nel tuo caffè? – le chiese Declan dopo che tutti  ebbero finito di cenare.
Non riusciva davvero a stare sveglia, anche nonostante avesse oziato per tutto il pomeriggio. Quei giochi la stavano disintegrando.
– Perché qui non si trovano delle bustine di metamfetamine -  gli rispose molto permalosamente.
– Ho sentito che stamattina ti sei dovuta sottoporre a quel test di Katniss… - iniziò chiedendo Peeta
– Sì, come sei andata? – continuò invece chiedendo Gale
– Vi dico io esattamente come è andata – rispose Katniss arrivata proprio in quel momento ancora con in mano la stessa cartellina della mattina
– Prontezza: Insoddisfacente. Capacità di seguire direttive: Scarsa. Atteggiamento: Decisamente eccessivo. Conclusioni: Non solo è facile che muoia in un inferno di fuoco all’interno di una qualsiasi Arena, ma il suo incessante lamentarsi rovinerà quasi sicuramente la giornata di tutti gli altri. – Rose aveva portato nuovamente le mani sul volto cercando di non ascoltare proprio niente di quello che aveva detto.
Più si avvicinava il giorno X più il suo umore deteriorava.
– Sapete cosa? Sono troppo stanca, ritorno in camera. Ciao – disse cercando di alzarsi dalla sua sedia. 
– Aspetta – la fermò Katniss
– Stasera ci sarà il grande annuncio della Coin, non puoi non guardarlo – Quella sera la presidente avrebbe tenuto un importante discorso a proposito di questa speciale edizione, probabilmente qualcosa a proposito dei giochi o dell’Arena, insomma qualche direttiva generale e importante.
All’udire il nome della Coin, le orecchie di Rose si drizzarono come quelle dei gatti. Ma restava comunque troppo stanca
– Si, va bene. Voi finite qui, quando inizia chiamatemi. – disse alzandosi sul serio e dirigendosi verso l’ascensore.
Avrebbe avuto almeno un quarto d’ora di pausa. Meglio che niente. Si ritagliò qualche momento solitario da passare sul letto ma non fece nulla di particolare. Restò lì, immobile lasciandosi trasportare dalla corrente dei suoi pensieri che vertevano su molti sentimenti diversi. Voleva soltanto rilassarsi e spegnere per qualche istante il cervello, in quei giorni non aveva fatto altro che usarlo ed esattamente come un computer, quando la memoria si sovraccarica di informazioni diverse, il sistema crasha.  E lei si sentiva esattamente così. Sentii le voci di Declan, Peeta e di tutti gli altri attraversare il salone e intuì che era il momento di uscire dalla tana. Sentii qualcuno bussare e così andò ad aprire la porta
– Sta per iniziare – le annunciò Declan davanti all’uscio della sua camera .
– Si, eccomi – rispose lei con il sorriso più sincero che riuscì a tirare fuori.
Entrambi si sedettero sul comodo divano di pelle bianca, proprio affianco a tutti gli altri
– Secondo voi di che cosa vuole parlarci la Coin? – chiese Declan quando tutti si erano accomodati.
Ecco, questa era una delle domande che pochi minuti prima anche Rose si era posta. Lei era arrivata alla conclusione che la presidente volesse chiarire a tutti i ventiquattro ragazzi i motivi per cui erano stati scelti e altre cose simili.
– Stiamo a vedere – rispose Katniss proprio quando lo schermo del salone si accese.
E lei era lì. In piedi davanti ad un ambone sopraelevato da cui anche l’ex presidente era solito fare i suoi discorsi, non diverso da quello da cui aveva parlato il giorno della parata dei tributi. Aveva un completo blu scuro che quasi si confondeva con il nero, i suoi classici capelli canuti erano raccolti in una piccolo ma elegante chignon, perfettamente intonato con la sua mise che stava indossando, i suoi occhi erano freddi come al solito e le sue labbra, se si guardavano con attenzione parevano screpolate, quasi come se il nervosismo le rendessero così.
– Popolo di Panem, cittadini di Capitol City e tributi – esordì con voce ferma,  molto caratteristica
– Oggi sono qui, dinnanzi a voi tutti, per fare un annuncio molto importante in quanto, fra brevissimo tempo, avranno inizio gli ultimi Hunger Games – continuò poi.
Già arrivata a questo punto, Rose, non poteva più sopportare la sua voce. Era come delle unghie su una lavagna, parole come coltelli, spade ed armi che venivano usati contro di lei.
Per ricordare al popolo della capitale a quante edizioni, gli abitanti dei dodici distretti di Panem, hanno dovuto sottoporsi, in questa ultima rivisiteremo le antiche Arene; le Arene più importanti e significative della nostra storia, una dopo l’altra finché soltanto un vincitore sarà incoronato.-

Un bicchiere cadde, qualche pensiero espresso troppo forte, brusii stupiti e lamentele amare volteggiavano ora gravi in quella stanza. Rose aveva gli occhi fissi sul teleschermo che ora aveva cambiato immagine. Questo fu il suo colpo di grazia, la goccia che fece traboccare il vaso pieno di disperazione che Rose portava dentro. Si appoggiò lentamente allo schienale del divano chiudendo gli occhi. La sua mente stava elaborando il messaggio che aveva appena ricevuto. Non avrebbe dovuto affrontare una sola ed unica Arena, no, ne avrebbe dovuto affrontare molte di più. Per la prima volta, da quando era arrivata, sentiva le lacrime bagnarle nuovamente gli occhi mentre una mano di Gale appoggiata su una spalla provava ma senza riuscire a confortarla.
– Non ci posso credere – riuscì soltanto a dire Peeta, stupito come tutti gli altri.
Katniss era troppo contrariata per rispondere, Declan non si muoveva da qualche minuti, sarebbe stato meglio controllare se stesse respirando ancora, Effie aveva fatto cadere il bicchiere di champagne per terra e proprio in quel momento un senza-voce stava raccogliendo i vetri infranti, Peeta era di suo una persona ottimista ma quella notizia aveva fatto vacillare anche lui, Gale aveva prova a consolare la ragazza accanto a sé, ma Rose era inconsolabile. Vedeva questa notizia come migliaia di potenziale arene in cui sarebbe potuta morire. Avrebbe dovuto ripercorrere tutto gli incubi a cui sin dalla sua infanzia era stata costretta ad assistere. Ragazzi, anche della sua età, che venivano uccisi brutalmente, famiglie che piangevano i loro figli e vincitori troppo accecati dalla fama e dalla ricchezza per accorgersi di ciò che era ingiusto. E tutto questo soltanto per un antica promessa che suo nonno, ai tempi non ancora presidente, aveva fatto per vendicare la morte del padre. L’immagine ora si era spostata su Claudius Templesmith, l’ex commentatore di tutte le vecchie edizioni dei giochi, anche lui tornato in carica. Toccò a lui la vera descrizione di quei giochi. Ci saranno in totale sei Arene, le quali saranno state rivisitate e modificate in modo da non ricreare giochi uguali a quelli che già furono giocati. La tipologia rimarrà misteriosa fino all’effettiva entrata dei tributi, i quali dovranno affrontare le varie Arene una dopo l’altra. In queste sarà presente soltanto un’ unica uscita dalla quale, soltanto dopo che si saranno verificate almeno sei morti nell’arco di un certo periodo di tempo che potrà variare, le porte saranno aperte. Tra un’Arena e un’altra i tributi avranno la possibilità di riposarsi soltanto per tre ore, dopo le quali dovranno affrontare l’Arena successiva. Come al solito, sarà incoronato soltanto un vincitore. Il silenzio era ora calato nella sala, così come in tutta la nazione di Panem. Restava soltanto un giorno e le catene cominciavano a stringersi sempre di più.

Risponde l'autore :
Scusate per il tempo che ho impiegato a scrivere questo capitolo. E' iniziata la scuola e purtroppo, nonostante sia soltanto la seconda settimana, sono stata molto impegnata, mi dispiace. Ho notato che forse lo scorso capitolo non vi è piaciuto molto, quasi nessuno ha recensito e l'unico modo per sapere se la fan fiction vi piace è proprio quello, quindi questo mi ha fatto capire che non avete gradito l'ultimo capitolo, che peccato. Spero vi piaccia questo. Vi è piaciuto l'idea di questa edizione? Ahi ahi, sarà dura per Rose. Continuate a dirmi a queli VIP pensate quando leggete di questi personaggi, mi raccomando! Manca solo un capitolo all'entrata nell'Arena, esatto, soltanto uno!

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Capitolo 13
*** Mattine bianche come diamanti ***


Capitolo XII – Mattine bianche come diamanti

 

Tutti andarono a letto con l’amaro in bocca e con l’ansia del giorno che doveva venire, soprattutto Rose. Per non cadere nuovamente in un angoscioso incubo come tante notti precedenti, preferì forse sbagliando, non andare a dormire. Restò sdraiata sul suo comodo letto nella sua così non più confortante camera ad osservare il soffitto che ad ogni ora che passava diventava sempre più scuro, proprio come il cielo nero e rabbioso che sovrastava tutta Panem. Ormai era arrivata al quel punto in cui si era così nervosi da avere paura anche della propria ombra, la ragazza aveva smesso di passare davanti agli specchi con il terrore che qualche immagine riflessa alle sue spalle potesse aggredirla o forse aveva solamente timore di se stessa. Si rigirò nel letto ancora e ancora, ma il sonno proprio non ne voleva sapere. Forse era meglio così, non avrebbe sopportato un altro dei suoi sogni. Per un secondo provò ad immaginare, con tutta la lucidità che le rimaneva alle tre di notte, alle Arene che era più probabile dover affrontare attraverso la sua strada verso l’Inferno. La ipotesi matematica più plausibile le faceva escludere le Arene che nel corso della storia era risultate le più noiose, quindi quelle tra i ghiacci o nei deserti. Era quasi sicura che avrebbe dovuto affrontare la foresta dei settantaquattresimi Hunger Games, forse come punizione per Katniss più che per lei. L’unica cosa che sapeva e che non sapeva nulla e questo la spaventata. Aveva sempre avuto paura di ciò che le era sconosciuto, ciò che non apparteneva alla sua quotidianità e questa esperienza andava contro a tutto ciò che le era più famigliare. Sperò soltanto che mettessero fine alla sua vita molto in fretta. Guardò i raggi solari alzarsi lentamente dalla ampia finestra della sua camera ormai diventata il suo carcere e la sua tomba. Stette ore e ore a guardare il lieve e graduale cambiamento del colore della luce e le nuvole che spinte dal vento passavano davanti ai suoi occhi azzurri.
 

“Ho conosciuto delle mattine

bianche come diamanti,

presidiate da una notte fredda

come la quiete.

Calma come il gufo

e le nostre vite sepolte nella neve”

Quella era una poesia vecchia quasi come il tempo che la madre di Rose le raccontava quando si mostravano i primi raggi del sole dopo una notte buia e burrascosa. Esaltava la bellezza della vita in confronto della morte, descriveva quanto era meraviglioso rivedere la luce del giorno dopo che erano passate le tenebre. Guardava le nubi volare e trasformarsi in figure sempre diverse. Ora vedeva una piccola margherita da campo, con un folta e bianca corolla e un caldo pistillo color sole, ora un cagnolino che correva felice per il giardino, cercando magari qualche osso, infine un piccolo volatile che spiegava le sue ali per la prima volta contro il volere di tutti e prendeva il volo trasportato dal soffio del vento. Nessuno avrebbe pensato che ce l’avrebbe fatta, ma eccoli lì a vibrarsi in aria libero. – Come state oggi? – chiese Peeta a colazione, era un domanda generale non dedicata a qualcuno in particolare. Tutto stettero muti per qualche secondo, pensando alle parole esatte da dire. Katniss si sentiva davvero contrariata, Declan provava un sentimento molto vicino alla rabbia e al rancore, mentre Rose era solamente impaurita. Tutti quanti impiegarono così tanto tempo per rispondere che la domanda si cancellò dalle loro menti e restò lì, invisibile nel flusso dei pensieri di tutti i presenti. Quella mattina, sia Peeta che Katniss avevano lasciato l’intera mattinata libera ai quei due poveri ragazzi, volevano che cercassero di dimenticare ciò che era accaduto la sera precedente e si godessero forse il loro ultimo momento sereno. Rose passò la maggior parte della mattinata sulla terrazza della sala da pranzo, seduta su una comoda poltrona, non dissimile da quelle dei loro appartamenti e con un buon libro che le avevano dato il permesso di portare con sé, forse una eccezione per la nipote del presidente. Declan passò invece le sue ore libere davanti al grande schermo della loro stanza, osservando ogni minimo particolare di tutti i ragazzi che avrebbe dovuto affrontare soltanto ventiquattro ore dopo, ogni parola di ogni discorso pronunciato dalla presidente e ogni inutile battuta di Caesar Flickerman, tutto. Si ritrovarono tutti insieme all’ora di pranzo e in un certo senso le ore di pausa era servite veramente. Rose ora si sentiva decisamente meno spaventata, ma sapeva che la paura che aveva dimora ancora dentro di lei, era pronta ad affiorare da un momento all’altro. Passò il resto del pomeriggio intrappolata come un topino bianco da laboratorio nelle mani dei suoi preparatori. Le acconciarono i capelli in un elegantissimo chignon che lasciarono molto morbido, mentre qualche ciuffo di capelli ribelle le incorniciava il visto, la pettinatura era completata un raffinatissimo e costosissimo pettino che le avevano aggiunto tra la chioma bionda. Il trucco era molto semplice ma di grande impatto. I suoi preparatori avevano optato per un trucco smockey eyes, o almeno così l’avevano definito loro, ma Rose non sapeva nemmeno cosa volesse dire o se fosse una parola che esistesse davvero. L’abito fu la parte che la ragazza preferì in assoluto. Era lo stesso abito che aveva indossato qualche giorno prima, quello che il suo stilista le aveva fatto provare ma non indossare, almeno fino a quel momento. Le infilarono un paio di tacchi vertiginosi e Rose era sicura che Effie ne sarebbe andata matta, sorrise al pensiero. Aveva il terrore di quella intervista, aveva paura di risultare un completo fallimento e di deludere tutti. Aveva paura di cominciare a balbettare, non era una persona molto diplomatica ed eloquente, non lo era mai stata. Detestava essere al centro dell’attenzione e non aveva idea di come si parlasse ad un pubblico e l’avrebbe dovuto imparare in poche ore, troppe poche ore. Camminava avanti indietro per quella stanza in cui l’avevano rinchiusa insieme a Senan che la osservava sbraitare.
– Rose, per l’amore del cielo, calmati – le disse con molta gentilezza
– Sai, dire di stare calma ad una persona che non è calma non aiuta! – gli rispose stizzita fermandosi per qualche secondo
– Vieni qui, devo darti l’ultimo ritocco – la fece girare su se stessa molto lentamente e con ago e filo le sistemò meglio l’orlo dell’abito
– Hai presente il favoloso abito che Cinna, lo stilista di Katniss all’epoca, aveva confezionato per lei? – la ragazza annuì dubbiosa, certo che se lo ricordava.
Fu uno dei momenti migliori di quella edizione. L’epiteto di Katniss, la ragazza in fiamme, derivava soprattutto da quell’abito.
– Beh ho voluto fare una modifica all’ultimo secondo –spiegò abbassando il tono di voce
– nessun’altro lo sa, tranne io e te – continuò facendo avvicinare Rose ancora di più
– Quando sarai sul palco fai vedere a tutto il pubblico come sai piroettare bene – concluse molto enigmaticamente e forse facendole anche l’occhiolino.
Voleva forse dire che aveva aggiunto delle fiamme anche a quel vestito? Sarebbe stato davvero magnifico per una ammiratrice di Katniss come lo era lei, ma anche altrettanto pericoloso, tanto non le importava. Rose si limitò a sorridere, aveva perfettamente compreso cosa quel’uomo le stava comunicando. Venne accompagnata fino al dietro le quinte del palco dove Caesar stava già presentando. Fu proprio nella fila di tributi che attendava il proprio turno di entrata che Declan la raggiunse.
– Stai benissimo Rose – le sussurrò nell’orecchio
– Anche tu – gli rispose ed entrambi si sorrisero.
Quel ragazzo, nonostante tutto, era diventato uno delle persone di cui si fidava di più. Era come se lui comprendesse a pieno ciò che lei sentiva dentro, proprio perché erano gli stessi sentimenti che anche lui provava a sua volta. Quasi tutti i ragazzi erano ormai saliti sul palco, mancavano soltanto loro due e Rose stava veramente tremando
– Rilassati, andrà tutto bene – la tranquillizzò lui mentre tutto il pubblico acclamava il suo nome.
Rose salì lentamente i gradini e si ritrovò catapultata su un enorme palcoscenico, davanti a milioni di spettatori. Cercò di sorrise e mostrarsi meravigliosa e stranamente felice. Salutò con un ampio gesto il pubblico e si sedette sulla poltrona accanto a Caesar. Guardò con attenzione il pubblico, le sembrava così famigliare ma contemporaneamente così anonimo. Detestava lo stile della sua città,  nonostante l’estroso abbigliamento alla fine tutti si assomigliavano, non c’era differenza tra uomo, donna, bambino o cane da borsetta. Erano tutti unici; unici come una pecora in un ovile. Sentiva la folla schiamazzare così forte che quasi non sentiva la voce di Caesar, era davvero impressionante.
– Roseleen – cominciò lui
– Rose, chiamatemi Rose – lo interruppe lei sorridendo
– Rose, cara, quando ti ho visto per la prima volta, mi hanno colpito particolarmente i tuoi occhi azzurri, dico davvero. Sono di un colore davvero particolare, non se ne vedono molti di questi giorni – riprese lui la parola sorridendole a sua volta
– Sì, gli ho ereditati da mia madre. Concordo con te , li adoro anche io. Credo che mi rappresentino molto – gli rispose lei.
Era strano parlare del colore sei suoi occhi, ma era una cosa che le succedeva spesso. Quasi tutti gli abitanti di quella nazione, ormai avevano gli occhi di un colore molto scuro, quasi nero come il carbone. Vedere degli occhi azzurri così chiari era una cosa molto rara.
– E’ proprio vero. A proposito di tua madre, è venuta a salutarti? – le chiese con il suo solito tono di voce caldo, incoraggiante e amichevole, forse anche un po’ drammatico
– Si è venuta – rispose semplicemente Rose
– E che cosa vi siete dette? – alla fine le domande erano poi sempre le stesse, Caesar non aveva un repertorio molto vasto.
Infondo i tributi condividevano lo stesso destino, perché non potevano condividere anche le stesse interviste?
– All’inizio era veramente triste e distrutta per me, ma poi credo che abbia compreso che ogni qual volta che qualcuno commette un errore, è giusto che questo qualcuno abbia il dovere e l’obbligo di rimediare– mentì.
Non si erano mai dette cose del genere e di sicuro la madre non ha mai concepito i giochi come il pagare il debito di un sbaglio che si è fatto. Li vedeva come hanno sempre fatto tutto il resto della nazione di Panem: una ingiustizia. –
Certo, certo – le rispose prendendole la mano.
– Ma ora parliamo di una persona in particolare. Katniss Everdeen, la tua mentore – Rose era convinta che l’uomo stesse per aggiungere qualcosa, ma compreso l’argomento non aspettò a parlare
–Sì, diciamo che all’inizio tra di noi ci sono state un po’ di incomprensioni, ma alla fine abbia imparato ad andare d’accordo – gli rispose con una certa gioia nella voce, era un argomento che la stimolava molto.
– Incomprensioni dici, ma ci sono dei punti in comune che vi hanno aiutato a capirvi? – le chiese lasciando finalmente la mano di Rose.
La ragazza sapeva perfettamente cosa fare. – Certamente ma… c’è n’è uno in particolare… - disse lasciando la frase in sospeso ed avvicinandosi sempre più al presentatore come se gli stesse raccontando un segreto
-  Quale? – le rispose lui curioso, proprio come tutto il pubblico.
La ragazza gli sorrise e con molta eleganza si alzò dalla sedia e proprio come le aveva suggerito Senan, cominciò a piroettare. Dall’orlo del suo abito nero scaturirono delle affascinanti e ipnotizzanti fiamme di fuoco che cangiavano colore passando dal rosso intenso fino al tenebroso nero di una notte priva di stelle. Tutto il pubblico, compreso Caesar, rimase senza fiato per qualche secondo. Poi cominciarono ad applaudire, proprio come era successo ai tempi di Katniss. Rose si fermò e insieme a tutti gli spettatori si lasciò andare ad una lunga risata, in quel momento le sembrava di essere davvero felice. L’uomo intanto aveva cominciato ad applaudire, seguito poi da tutti gli altri. Rose in modo un po’ civettuolo fece qualche inchino e tornò a sedersi.
– Meraviglioso, davvero meraviglioso – la ragazza tornò seria. Non voleva farsi ricordare come la stupida ragazzina che faceva svolazzare il suo abito
– Come hai reagito al grande annuncio che ha smosso tutta la critica di Capitol City? – le chiese tornando al vero succo del discorso
– All’inizio non sapevo cosa pensare, sinceramente. Poi ragionandoci meglio su ho capito che gli strateghi di quest’anno hanno avuta una idea davvero…originale, assolutamente adatta a questa edizione – mentì un’altra volta.
Non avrebbe sicuramente svelato i suoi veri pensieri a proposito di quell’argomento. Infondo era un show, a chi interessava la verità?
– Ho un ultima domanda per te, Rose. Parlaci del tuo punteggio, un undici, non capita spesso. – disse mantenendo molto viva l’attenzioni di tutta la gente presente.
Si potevano dire molte cose su quell’uomo, ma mai che non sapesse fare il suo lavoro.
– Sono davvero stupita, Caesar. Non credevo di aver fatto una impressione così…buona, insomma mi sono allenata duramente, voglio davvero riuscire nei miei scopi, quindi sono felice di essere stata ricompensata – le rispose sorridendo. Ovviamente non citò il fatto di aver fatto arrabbiare la presidente e che probabilmente qualcuno stava già pensando a come ucciderla. Il suono acustico che segnalava la fine dei tre minuti risuonò per tutto lo studio, il calvario di Rose era terminato.
– Signori e signore, Rose, la nuova ragazza in fiamme! – annunciò a gran voce alzando in aria il pugno della ragazza, come in segno di vittoria.
Questo davvero non se lo aspettava, questo non andava bene; non andava assolutamente bene; andava di male in peggio. Guardò impaurita a destra e a sinistra ma non vide nessun volto amico che fosse lì a rassicurarla. Non sentì molto della intervista di Declan. Tutto lo staff dei preparatori, Senan, Katniss, Peeta, Gale, Haymitch e pure Effie si erano riuniti nel dietro le quinte del palco e stavo discutendo, anche urlandosi contro, a proposito di tutto ciò che era appena successo. La cosa era più grave di quanto Rose pensasse. I suoi pensieri si stavano via via sempre più confondendo tra loro, gli schiamazzi e la paura si facevano largo nel suo petto, non sapeva per quanto tempo sarebbe potuta andare avanti. Sentiva le lacrime bagnarle nuovamente gli occhi, corse via fino alla sua camera, ormai piangendo, tutto questo la stava realmente distruggendo dall’interno. Non voleva più sentire una parola sugli Hunger Games, su Katniss Everdeen, su sua madre, sulla guerra e la ribellione, sulla Coin, su suo nonno e sulla ragazza in fiamme. Si chiuse violentemente la porta alle spalle e gettò piena di rabbia le scarpe dall’altra parte della stanza. Si disfò senza cura la capigliatura e il trucco, già ampiamente rovinato dal pianto ed infine distrusse con le sue stesse mani quell’ abito, che di bello non aveva proprio più nulla. Si sedette infine sul pavimento e sfogò tutto ciò che aveva tenuto dentro fino a quel momento. La rabbia, la disperazione, la paura, l’ansia e la confusione. Dopo qualche mezz’ora buona di lacrime, riprese un poco del controllo che ancora aveva di se stessa. Piangere non sarebbe servito a niente, nessuno l’avrebbe risparmiata dentro all’Arena, nemmeno se le lacrime le avessero rigato il volto, nessuno sarebbe stato clemente con lei. Si infilò un vecchio maglione, uno di quelli che usava a volte in autunno, quando le stagioni iniziavano a farsi sempre più fredde, il vento soffiava forte e le foglie iniziavano a cadere. Senza farsi vedere da nessuno salì le scale che la dividevano dal tetto del palazzo e si chiuse la porta alle spalle. Dal quel punto poteva vedere un bellissimo scorcio della sua città che nonostante tutto amava. Il sole era mai calato e aveva lasciato il posto alle tenebre, ma in una metropoli come quella il buio ormai non esisteva più. Le strade e le abitazioni erano così tanto illuminate che già da molti anni si faceva fatica  a vedere la luna e le stelle. A destra poteva rivedere gli spezzoni di tutti gli avvenimenti di Capitol in quei giorni sui mega schermi, il giorno dell’estrazione, la parata, l’annuncio ed infine le repliche di quella sera che già stavano mandando in onda. Si andò a sedere sul ciglio del tetto, proprio a qualche metro dall’invisibile campo di forza che non permetteva a nessuno di buttarsi da quel punto. Il fatto che avessero escogitato una soluzione del genere faceva pensare alla ragazza che qualche tributo si fosse veramente gettato di sotto, ma come biasimarlo? Aveva sempre sofferto l’altezza ma evitando di guardare in basso, poteva resistere.
– Sei scappata – disse una voce alle sue spalle. Rose si voltò immediatamente
– Non ti abbiamo più visto – continuò Katniss andandosi a sedere a fianco a lei
– Ero stanca – mentì lei ma la donna non le credette nemmeno per un secondo
– Non ti preoccupare, non mi devi spiegazioni – le rispose, era vero.
Poteva perfettamente comprenderla perché infondo era esattamente ciò che avrebbe fatto anche lei se fosse stata nei panni di Rose.
– Come facevi a sapere dove fossi? – le chiese la ragazza dopo qualche minuti di silenzio passato a guardare l’orizzonte
– Anche io venni qui la notte prima dei miei giochi -  ricordava con dolore quei momenti ma sapeva che facevano parte della sua storia, quei momenti l’aveva resa la Katniss che era oggi. Rose non rispose
– Ti manca casa? – le chiese allora l’altra. Casa, ma cos’era casa per lei? Quella città era il luogo in cui era nata ma non si era mai sentita di chiamarla in quel modo
– Non credo di aver mai avuto una cosa del genere. Io intendo come “casa” le persone a cui sono affezionata, ma io non ho nessuno… -  fece una piccola pausa
– Mio padre, beh dire che mi piacerebbe vederlo morto è riduttivo, mia madre... l’unica sua sfortuna è aver avuto una figlia come me. – finì sospirando pesantemente. Forse era brutto da dire ma non le mancava nessuno delle persone che conosceva, né la madre, né il padre, nessuno.
– Sai, da quando ti ho conosciuta ho subito capito che non due fossimo una l’opposto dell’altra. Tu sei nata nella città dove tutti hanno tutto ciò che desiderano ma non ciò che è davvero importante. Mentre io sono nata nel luogo dove ogni giorno ti svegli sapendo che potresti non rivedere più la tua famiglia o i tuoi cari, ma tutti sono felici o almeno si accontentano di quel poco che hanno. Non capisco come facciano a paragonarci – quanto aveva ragione
–  A volte mi sento come se fossi nata nel luogo sbagliato – Katniss sorrise.
Come faceva quella ragazza a non capire quanto fosse fortunata?
– Io invece non capisco come la Coin se la sia presa con te soltanto perché la tua famiglia ha fatto quello che ha fatto, tu non c’entri nulla infondo – ormai stavano dando sfogo a tutte le loro frustrazioni e svelando ogni loro intimo segreto
– Io sì. Insomma pensaci un po’. Tu, Katniss, hai scelto di combattere dalla parte dei “buoni” perché sapevi che avevano ragione o perché erano la tua famiglia? – le chiese quasi retoricamente, era chiaro che a quella domanda non servisse una risposta e infatti Katniss non disse nulla.
– Ho una cosa per te – le disse infine tirando fuori una scatola da chissà dove, non l’aveva notata prima.
La donna le allungò un piccolo cofanetto di color bianco adornato con un elegante fiocco di color nero, su di esso era stato scritto con una stupenda calligrafia corsiva due semplici parole “fiocco di neve”. Questo fece ridere Rose, non si sentiva offesa, anzi molti spesso la chiamavano in quel modo e non sempre era da considerare un dispregiativo. La ragazza tentò di afferrarlo e aprirlo ma Katniss lo tolse dalle sue mani.
– Aspetta. Farò in modo che tu possa aprirlo domani mattina – le disse sorridendole.
Rose era molto emozionata ma stavolta in senso buono, non vedeva l’ora di sapere cosa ci fosse all’interno di quella scatolina.
– Devo andare, c’è qualcuno che vuole parlarti – concluse infine guardando alle loro spalle un ragazzo che aveva appena richiuso la porta.
– Ciao Rose, ci vediamo domani – la salutò per poi scomparire già per le scale del palazzo
– Hey Rose – la chiamò allora Declan dopo aver gentilmente aperto la porta alla donna
– Anche tu non riuscivi a dormire? – gli chiese mentre anche lui si andava a sedere a fianco alla ragazza.
– No, neanche io. Ci ho provato ma… - Rose le sorrise, le dispiaceva non aver potuto vedere la sua intervista, le sarebbe piaciuto molto
– Mi dispiace non averti visto su quel palco oggi, la tua intervista deve essere stata una delle migliori, vero?! – disse, era sicura che fosse così.
Declan rise con una voce chiara e davvero contagiosa
– Certo, se tu consideri inciampare negli scalini del palco una ottima figura, allora si -  in quel momento anche la ragazza si misi a ridere
– No! Non ci credo, oddio che imbarazzo! – gli rispose lei coprendosi il viso con le mani, se fosse successo a lei sarebbe sicuramente morta di vergogna.
– Fa niente. Sono cose che capitano – rispose lui sorridendole.
– Hai paura? – gli chiese Rose, Declan ci pensò su per qualche secondo
– No…si. – disse prima scuotendo il capo e poi annuendo –
Anche io e tanto – disse allora lei.
–  Più che altro ho paura di morire nei primi trenta secondi, insomma sarebbe davvero… - Rose non trovava le parole. Imbarazzante? Certo. Deludente? Sicuro.
Ma infondo che cosa le sarebbe importato, lei  sarebbe stata morta.
– No, andrà tutto bene, ne sono sicuro al 99% - la rassicurò allora il ragazzo
–  Quindi ammetti l’esistenza di un 1% di probabilità che andrà male! – disse lei con un tono di voce più alto
– No, l’uno percento è soltanto la percentuale d’errore statistico – concluse lui.
Passarono qualche minuto in contemplazione del panorama notturno, sentivano le acclamazioni della gente di Capitol e le voci proveniente dagli schermi, ma a che ora andavano a dormire in quella città?
– Alleati? – gli chiese improvvisamente Rose allungandogli una mano
– Perché vuoi me come alleato? – le rispose lui dubbioso ed insicuro
– Perché tu sei l’unico di cui mi fido – disse Rose sorridendole.
Declan era l’unico che ne giro di quei giorni si era degnato di scambiare qualche parola con lei ed era uno dei pochi che non la consideravano una stramba.

– Alleati – rispose lui stringendole la mano.
Rose finalmente riuscì a passare una notte senza incubi o ansie. Dormì come non aveva mai dormito prima, profondamente e felicemente, niente almeno in quel momento sarebbe mai riuscito a turbarla. Si risvegliò la mattina dopo con uno strano sorriso in volto, forse poteva non sembrare ma infondo era sempre stata una persona ottimista. Si ricordò di una frase che la madre le ripeteva molto spesso quando era soltanto una bambina, nei momenti più insicuri della sua infanzia. “Ci sono sempre fiori per chi li vuole vedere” e la ragazza in quel momento di fiori ne vedeva, tanti. Quella mattina non permisero a nessuno di riunirsi per fare colazione tutti insieme come era diventato ormai usuale. Era il giorno dell’inizio dei giochi e l’atmosfera era davvero carica di elettricità. I due ragazzi vennero prelevati insieme ai loro mentori e scortati da due pacificatori di Capitol City fino all’hangar da cui avrebbero preso l’hovecraft diretto all’Arena. Katniss e Rose si trovavano all’interno di un ascensore che le avrebbe portate al piano interrato. Nessuna delle due parlava, ma non ci sarebbero state parole che potessero descrivere cosa stessero provando in quel esatto momento. La porta di aprì su un lungo ed isolato spiazzo
– Un ultimo consiglio? – chiese Rose molto frettolosamente, erano gli ultimi momenti e voleva usufruirne totalmente.
– Resta viva -  la ragazza rimase perplessa ma non ebbe abbastanza tempo per riflettere che subito venne portata all’interno dell’hovercraft.
Una donna alquanto ambigua inserì, attraverso un congegno che assomigliava ad un siringa ma dall’ago molto più spesso e doloroso, un chip che sarebbe servito agli strateghi per localizzare in tributi all’interno dell’Arena. Il viaggio durò purtroppo molto poco; troppo poco. Rose fu prelevata singolarmente e accompagnata verso una piccola stanza, la camera di lancio. All’interno trovò il suo stilista Senan e appena ebbe varcato l’entrata non poté far altro che abbracciarlo.
– Non ti preoccupare, Rose, andrà tutto bene – esordì lui sorridendole.
Quel sorriso le dava conforto e sollievo, necessario in quel momento
– Sarai affamata… – continuò porgendole una pagnotta appena sfornata che Rose mangiò quasi voracemente, subito dopo aver bevuto un intero bicchiere d’acqua. L’uomo le aggiustò gli abiti, dei normali pantaloni color nero, una canottiera color panna e una giacca a vento, poi da un piccolo cassettino alla loro destra tirò fuori la stessa scatolina che le aveva donato Katniss la sera prima. Ci era riuscita veramente! Finalmente avrebbe potuto scoprire cosa ci fosse al suo interno
– Da parte di Katniss – disse porgendola a Rose che non esitò ad aprirla. Sfilò cautamente il filo di raso e infine aprì il coperchio. Al suo interno, appoggiata su un soffice tessuto di seta bianco, una spilla; la spilla giaceva maestosa. Era la sua spilla, la ghiandaia imitatrice che ispirò la ribellione contro Capitol, il simbolo di pace e libertà. Solo un piccolo particolare era cambiato: l’anello di metallo che circondava l’esemplare di volatile era avvolto da un filamento d’oro, vero oro.
– Ha voluto rappresentare anche te nella spilla. Tu sei il filamento d’oro – disse sfiorandole leggermente una ciocca di capelli, proprio come aveva fatto la prima volta che si erano incontrati. Rose capì. Il filamento rappresentava una ciocca dei suoi capelli che alcuni avevano definito d’oro. Sul suo volto si formò un sorriso. La spilla non era mai stata così bella. 60 secondi annunciò una voce metallica femminile, rimaneva soltanto un minuto. Senan le appuntò la spilla alla giacca e la riabbracciò
– Conosci le regole, mi troverò ad ogni uscita dalla Arena, ti aspetterò nelle sale di lancio proprio come ora. – 30 secondi
– Non ti preoccupare, andrà tutto alla meraviglia –  Rose si limitò ad annuire 20 secondi
Credi in te stessa, Rose. Tutto è possibile per chi crede – 10 secondi
Ma ricorda, puoi contare soltanto su te stessa – concluse mentre Rose dovette avvicinarsi alla camera di lancio che l’avrebbe sollevata nell’Arena.
Non aveva mia creduto veramente nelle sue capacità, forse perché non sapeva di possederle. E il quel momento, avrebbe giurato di poterlo fare.

 

10…9…8…7…6…5…4…3…2…1…

 

Risponde l'autore:
Dal prossimo capitolo, quello in cui inizieranno i giochi, ho deciso di cambia punto di vista e rendere la stessa Rose come narratore, questo vi permetterà di immedesimarvi maggiormente in lei e quasi provare i suoi sentimenti all'interno dell'Arena. Vi è piaciuto questo capitolo forse un po' lungo? All'interno ci sono molti fatti concatenati che spero abbiate apprezzato. Mi raccomando, recensite recensite recesite! =D


 

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Capitolo 14
*** May the odds be ever in your favor ***


May the odds be ever in your favor
 

Don't you dare look out your window,
darling everything’s on fire.
The war outside our door
keeps ranging on.
Hold on to this lullaby
Even when the music’s gone.
Safe and sound - Taylor Swift


 

La improvvisa e forte luce mi annebbiava completamente la vista. Non mi permetteva di vedere ciò che mi circondava, davanti ai miei occhi avevo soltanto il silenzioso e il vasto nulla. Portai una mano al volto a coprirmi gli occhi dal sole e dopo svariati secondi finalmente potei intravedere qualcosa. Innanzitutto mi affidai al mio orecchio e al mio olfatto, in mancanza della vista che ancora non mi era perfettamente tornata, riuscii a capire più o meno il luogo dove potevo trovarsi. Potevo sentire un vento freddo ma poco impetuoso, molto simile a quella brezza che si può incontrare vicino al mare in un giorno particolarmente piovoso. Poi cominciai a sentire il suono delle onde che si infrangevano sugli scogli o la risacca su di una spiaggia. Finalmente potei vedere bene il luogo in cui mi trovavo, i miei sensi non mi avevano tradito. Ero un piedi sulla classica piattaforma di inizio, circondata dagli altri ventitre tributi disposti in un cerchio che poteva avere un diametro di circa trenta metri. Aldilà, proprio di fronte a me, potevo vedere all’orizzonte un mare non poco impetuoso e dietro di me una foresta lussureggiante fatta di alti, frondosi e fitti alberi. Tutto intorno a me aveva un colore allegro e luminoso. Dall’erba in cui erano state posizionate le piattaforme era nata della vegetazione di tutti i tipi, soprattutto fiori dalle più svariate tinte da cui potevo perfettamente sentire, anche a distanza di qualche metro, il profumo. Dalla foresta retrostante potevo sentire distintamente il canto degli uccelli e vedere qualche coraggioso animaletto che si era avvicinato troppo. Era strano come quei piccoli esseri dall’animo geneticamente pauroso si potessero avvicinare tanto a noi senza un apparente motivo. Poi cominciai ad osservare gli atri tributi, mancavano soltanto pochi secondi alla fine del countdown e non mi rimaneva molto tempo per pensare ad una strategia. Mi avevano detto di non rischiare alla cornucopia ma gli zaini e le armi erano disposti così perfettamente a pochi metri da me. Ragionai un attimo, pensando a tutte le possibili probabilità, pro e contro. Se fossi corsa all’interno della foresta senza non prendere niente molto probabilmente sarei morta pochi giorni dopo, non potevo contare più di tanto su il mio istinto di sopravivenza e sulla mia capacità di procacciarmi cibo. Mentre se avessi preso anche soltanto uno zaino non avrei dovuto preoccuparmi di questo problema per almeno una settimana. L’idea di correre alla cornucopia si faceva sempre più invitante. Osservai i tributi al mio fianco. Proprio alla mia destra si trovava la ragazzina di dodici anni che avevo visto tirare con l’arco durante uno dei tanti allenamenti, alla mia sinistra un ragazzo che mi risultava ancora indifferente, non avevo fatto molto amicizia in quei giorni. Notai Abigail a qualche postazione alla mia sinistra, i suoi capelli rosso fuoco erano riconoscibili da chilometri di distanza, poi vidi Declan alquanto lontano da me, non sapevo bene se sarebbe corso via o si sarebbe fatto affascinare anche lui dalla cornucopia. Unica nota positiva era che sia Fallon che Nita fossero molto distanti, quindi non mi sarei dovuta occupare di loro, non ancora almeno. Il tempo era davvero agli sgoccioli e dovevo ammettere che la mia ansia stava salendo sempre di più, soprattutto a colpa della voce femminile che ci annunciava il tempo restante, che nervi! 10, 9, 8… mi misi in posizione, pronta a correre più forte di quanto abbia mai fatto 7,6,5,4… presi infine un lungo ed intenso respiro 3,2,1… al suono che annunciava l’inizio dei giochi saltai senza nemmeno pensarci troppo giù dalla piattaforma e corsi in meno di dieci secondi verso il primo zaino che avevo visto qualche secondo prima. Nessuno sembrava averlo notato, così fortunatamente non dovetti lottare troppo per averlo. Non feci quasi nemmeno in tempo di afferrarlo come si doveva che ripresi la mia corsa, stavolta verso la foresta che ora avevo davanti, sperando che nessuno mi avesse seguito, ma non volevo ancora guardare indietro. Corsi attraverso quella selva di fitti rami bassi che intralciavano la mia via, facendomi cadere ed inciampare anche ripetute volte, ma non mi sarei fermata fino a quando qualcosa dentro di me mi avrebbe detto che fossi abbastanza lontana dalla cornucopia. Mi guardai finalmente indietro ma nessuno mi aveva seguito. Avevo sentito poco prima dei passi venire verso di me ma mi ero limitata a cambiare direzione ed allontanarmi il più possibile fino a quando potei udire soltanto i miei sul terreno umido e i battiti del mio frenetico cuore. Mi appoggiai ansimante ad un albero molto alto, non diverso da tutti gli altri e iniziai ad aprire il mio zaino. All’interno non c’era niente di spettacolare, soltanto delle effimere gallette di riso, accidenti io mangiavo soltanto quelle al mais, ma in quel momento forse era un pensiero troppo superficiale considerando il luogo in cui mi trovavo, qualcosa di essiccato, non saprei ben dire cosa, il sacco a pelo che era agganciato sopra lo zainetto, una borraccia piena di acqua, non male, qualche benda, un coltello, e qualche soluzione liquida di indecifrabile uso. Insomma non mi era andata male. Da dove mi trovavo davvero pochi raggi solari riuscivano a penetrare le fitte fronde e quindi non riuscii bene a capire che ore fossero, probabilmente un tardo pomeriggio. Non mi importava poi di tanto l’ora, ero stanca e l’unica cosa che volevo in quel momento era riposare. Mi guardai attorno ma nessun’albero sembrava adatto per una arrampicata, i rami erano troppo alti e deboli, non avrebbero mai retto il mio peso. Così a malincuore ricominciai il mio pellegrinaggio verso un luogo migliore per dormire, forse avrei avuto più fortuna. Dopo circa una mezz’ora arrivai a quello che potrei chiamare la fine della foresta e l’inizio di una stranissima distesa collinare, senza alberi o altro, chilometri e chilometri…di niente. Mi appoggiai con un braccio all’ultimo alto arbusto della selva osservando ciò che avevo di fronte. Non riuscivo a capire cosa ci fosse aldilà di quella pianura, perché probabilmente si estendeva oltre l’orizzonte. L’unico modo per capirlo era attraversarla tutta, forse da qualche parte avrei trovato un lago o  un fiume, chissà. Ormai si faceva sempre più buio, la luce del sole che finalmente potevo vedere si stava affievolendo, segno che stava per arrivare la notte. Dovevo cercare un luogo dove ripararmi. Ritornai qualche metro indietro, sempre all’interno della foresta che ormai era diventata la mia culla protetta dall’ignoto che rappresentava quella valla davanti ai miei occhi. Forse la fortuna era veramente a mio favore perché riuscii a trovare una piccolissima grotta che era stava ricavata precedentemente in un ammasso di rocce. Tagliai quei pochi rami che potei trovare e con quelli cercai di mimetizzare al meglio la mia tana, non ottenni ottimi risultati ma non potevo lamentarmi. Non avevo molta fame, l’ansia e la paura me la facevano passare sempre, ma costrinsi me stessa ad assaggiare qualche morso di quella cosa essiccata che avevo nello zaino, non era male. Fortunatamente non era esageratamente freddo, le fronde alta riuscivano a trattenere il caldo ma l’umidità si faceva sentire. Mi strinsi nella mia giacca a vento e senza nemmeno accorgermene crollai nel sonno, per qualche momento. Venni risvegliata dall’inno di Capitol City, ormai a me troppo famigliare, seguito dai volti dei tributi deceduti. Otto in totale, ma sembravano comunque troppo pochi. Nessuno dei volti delle persone che conoscevo apparve nel cielo quella notte e con questa sicurezza mi riaddormentai nuovamente.

La mattina dopo mi svegliai di soprassalto ma senza un vero motivo apparente, forse potevo aver udito un rumore sospetto e i miei sensi mi avevano avvertito, chissà. Rimangiai qualche pezzettino della cena della scorsa sera per poi costringermi ad alzarmi e a lasciare il mio rifugio sicuro. Mi immaginai come sarebbero andati i miei giochi se avessi deciso di passarli lì dentro. Probabilmente appena finito il cibo sarei dovuta uscire fuori e proprio come un coniglio bianco indifeso qualche predatore mi avrebbe catturato. Sentii nuovamente un rumore, questa volta era vero però, non l’avevo immaginato. Corsi cautamente fuori e ritornai nello stesso punto in cui ieri mi ero fermata ad osservare la valle. Mi guardai intorno, prima a destra e poi a sinistra. Sentii un altro rumore, passi affannosi ma lontani. Ora sentivo delle voci, urla quasi disperate ma comunque non vicine al luogo in cui mi trovavo. Infine trovai la soluzione al mio enigma. Vidi la ragazza di dodici anni sfrecciare proprio davanti a me, ad almeno trenta metri di distanza, seguita poi dal fratello anche lui estremamente terrorizzato. Ma da chi scappavano? Mi nascosi dietro all’albero alla mia destra e continuai ad osservare la scena. Il ragazzino di cui non ricordavo nemmeno il nome era ferito, lo vedevo da come zoppicava ma cercando comunque di correre. Dalla sua testa colavano fiottoli e fiottoli di sangue, era stato ferito al capo. Cavolo doveva fare davvero male. Poi lavidi. La morte fatta in persona che correva verso i due fratelli, pronta a portarli con sé. Era Nita, la ragazza più brutale e sanguinaria che avessi mai incontrato e stava predando come una leonessa quelle due indifese prede. Indietreggiai per qualche secondo, se solo mi avesse visto…ero combattuta tra la mia testa che mi ordinava di correre più lontano che potessi e il mio cuore. La osservai ancora. Alzò la scure di metallo e la piegò orizzontalmente, pronta a colpire. E colpì. Colpì il ragazzo proprio nel punto in cui l’aveva ferito precedentemente, quasi come se l’avesse fatto apposta, per infierire, per rigirare il coltello nella piaga. Poi lo vidi cadere, la sua prima preda. Lo vidi sdraiato a terra mentre la sorellina ferma ora stava osservando quella orribile scena. Non potevo starmene lì con le mani in mano, che razza di persona dovevo essere per permettere a quella leonessa di infierire su quei poveri ragazzi. Avevo quasi incominciato a correre che qualcosa o qualcuno mi trascinò per terra, afferrandomi per le braccia e facendomi rotolare giù per un piccolo dirupo. Me lo levai di tornò molto ferocemente, quasi aggredendolo. Sapevo però che era arrivata la mia fine. Mi alzai velocemente, il mio zaino era a qualche metro di distanza da me ma per fortuna avevo avuto il buon senso di nascondere il mio coltello nei miei stivali, in un luogo dove non l’avrebbe trovato nessuno. Poi alzai lo sguardo.
– Perché l’hai fatto?! – urlai contro quell’idiota di Declan andandogli contro e spingendolo a terra con tutta la forza che possedevo.
– Perché?! Potevo fermarla! – mi riferivo a Nita, ormai ero sicura che avesse già ucciso tutti e due i ragazzi. Ero davvero furiosa.
– No, invece. Non potevi! – mi urlò di rimando lui mentre cercava di alzarsi e cercando di contenere la mia troppa rabbia bloccandomi contro la parete rocciosa dalla quale eravamo appena caduti. Cercavo di liberarmi ma la sua presa era davvero stretta.
– Calmati. – mi ordinò con voce ferma e chiara e così feci.
Restammo per qualche secondo lì fermi a guardarci negli occhi mentre la mia rabbia sfumava sempre di più. Quando lui ebbe compreso la mia calma lentamente mi lasciò andare. Mi sistemai la maglietta.
– Come facevi a sapere dov’ero? – gli chiesi con voce molto dura. Avevo appena imparato a cavarmela da sola e trovarmi davanti qualcuno in un certo senso, ma anche stranamente, mi dava fastidio.
- Ti ho seguita – forse era lui il rumore che avevo sentito stamattina appena sveglia
– Da quando? – gli chiesi, ma dal mio tono assomigliavo di più al braccio dell’inquisizione che interroga un sospettato
– Da ieri -  odiavo le risposte a monosillabi, si, no, forse. Le detestavo
– Dove hai dormito? – Declan fece fatica  a rispondere, il suo volto si rabbuiò
– In una grotta nella foresta? – gli chiesi, provando a smuoverlo
– No! No…Ho dormito in un…buco…che ho scavato nel terreno…a mani nude – rimasi a bocca aperta.
Non potevo credere che l’avesse fatto veramente, io non ci sarei mai riuscita. Eravamo stati abituati troppo bene
– E ad un certo punto durante la notte, un armadillo è scivolato dentro e…credo abbia amoreggiato con me - … n-non sapevo davvero cosa pensare… era così…imbarazzante
– Oh mio dio, povero te.  – ero davvero contrariata.
Non volevo veramente intrattenere quella discussione con lui
– Ma sono sopravissuto, almeno per una notte! Poi, quando è arrivata quella piccola tempesta dall’oceano, ho tirato su il cappuccio della giacca sulla mia testa e ho aspettato la morte – Non avevo sentito nessuna tempesta, probabilmente la grotta mi aveva riparato da essa.
– Ma in qualche modo, mentre me ne stavo lì, credo di aver ritrovato quello spirito primitivo dell’essere umano che vuole continuare a vivere, non importa a quale costo – non capivo bene il motivo per cui mi stesse dicendo quelle cose, ma in qualche modo lo ammiravo
– Cosa posso dire? Sei stato molto coraggioso ed impavido, io non ce l’avrei mai fatta – lui annuì alla mia risposta.
Solo ora lo notavo, i suoi occhi sembravano spenti, distrutti e ora capivo perché.
– Ho mangiato una farfalla… - Ora capivo perché tutti pensassero che lui fosse un pazzo, soltanto il suo sguardo lo confermava.
Mi sentivo a metà tra il ridere a crepapelle e l’essere spaventata a morte dalla sua scelta ambigua e non del tutto condivisibile.
– Lei era così piccola e meravigliosa… ed io ero così affamato – ed ecco nuovamente il Declan che avevo sempre visto a scuola: stralunato credo sia la parola esatta. – Stai piangendo? – gli chiesi.  Mi sbagliavo o i suoi occhi erano lucidi?
– No, non credo sia possibile. Sono altamente disidratato – Così gli porsi la restante carne essiccata e tutta l’acqua che mi rimaneva.
– Forza, andiamo a cercare un fiume o un lago – gli dissi rimettendomi lo zaino in spalla e aiutandoci a vicenda a risalire il piccolo pendio.
Ritornammo nel punto in cui avevo visto Nita aggredire i due fratelli ma ora non c’era traccia di nessuno dei tre, probabilmente avrei rivisto i volti di quei due poveri ragazzi quella stessa notte. Attraversammo insieme la valle che si rivelò estendersi per parecchi chilometri. Non ne capii il motivo ma Declan preferì viaggiare a qualche metro di distanza dietro di me. Di cosa poteva avere paura, di me? Io non avrei fatto male nemmeno ad una mosca. Di qualcun altro? Probabilmente dopo aver sentito questo qualcuno arrivare se la sarebbe data a gambe lasciando me da sola a combattere, non ne sarei rimasta di certo stupita. Qualche ora dopo arrivammo finalmente ad un lago, non molto vasto ma quanto bastava per rifocillarsi e raccogliere un po’ d’acqua. Buttai la mia roba sotto un albero proprio lì accanto ed entrambi ci sedemmo per la fatica che avevamo appena compiuto. Ricominciai finalmente a respirare come si doveva, con dei lunghi e profondi respiri. Ero in pace, almeno per qualche momento. Mi guardai attorno, una lieve brezza marina arrivava fino al luogo in cui mi trovavo e ora mi stava scompigliando i capelli, le fronde dell’arbusto sopra di noi si muovevano a tempo con essa come fosse una danza di cui non ricordavo i passi. Tutto di un tratto, alzando gli occhi al cielo, vidi qualcosa avvicinarsi sempre di più a noi.
– Guarda lassù! – esclamai richiamando l’attenzione di Declan che si era appena alzato per andare a riempire la mia boraccia.
Quel qualcosa si incastrò proprio sui rami dell’albero così, con un aiuto del ragazzo, fui costretta a salire su lassù e riportare giù il piccolo paracadute, perché è di quelle che si trattava. Lo aprii ma l’unica cosa che vi era all’interno era una borraccia piena di acqua. Cos’era questo, uno scherzo per prenderci in giro? A che cosa diamine stavano pensando Peeta e Katniss quando decisero di mandarci questo insulto alla nostra intelligenza, avevamo una fonte praticamente infinita di acqua proprio ai nostri piedi. Mi sedetti nuovamente a pensare. Ripensai all’acqua del mare che avevo visto ieri alla cornucopia, quell’essere che si era avvicinato troppo a noi senza un motivo, come non avesse paura, poi ripensai all’eccessivo profumo che avevano tutti i fiori e le piante che ci circondavano, un sapore quasi soporifero a dirla tutta, poi ripensai alla farfalla di Declan…mi si gelava il sangue soltanto al pensiero ed infine quel dono mandato proprio nel momento in cui avevamo trovato dell’acqua. I nostri mentori non poteva essere così stupidi, ci doveva essere un segnale nascosto dietro a quello letterale, avrei dovuto leggere tra le righe. Infine il mio sguardo tornò su Declan che stava per bere il primo sorso dalla borraccia che aveva appena riempito
– No, non farlo! E’ avvelenata!  - gli gridai. 

Risposta dell'autore:
Sono stata brava questa volta, eh? Ho aggiornato immediatamente! E' un capitolo molto veloce che ho scritto in due giorni, non c'è niente di particolarmente complicato da dire, c'è molta azione e pochi dialoghi. Sono iniziati gli Hunger Games e Rose e Declan, finalmente alleati, stanno per scorpire in quale arena sono capitati. Lo dirò nel prossimo capitolo ma voi riuscireste a indovinare di quale potrebbe trattarsi?

 

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Capitolo 15
*** Stelle ***


Capitolo XIII – Stelle


Mi gettai su di lui cercando di riappropriarmi della boraccia avvelenata, non avrei mai e poi mai permesso che la bevesse. Non potevo rimanere da sola, non ora. Fortunatamente riuscii a rovesciare completamente il contenuto proprio un secondo prima che Declan potesse assaggiare una sola goccia di quel liquido, sarebbe bastata solo quella per ucciderlo, ne ero certa. Guardai attentamente l’acqua incriminata creare un piccolo lago proprio ai nostri piedi. Al contatto, l’erba e tutte le piante circostanti, quasi come per magia, una magia oscura, appassirono. Era uno spettacolo davvero terrificante, quella natura prima rigogliosa era ora diventata schiava e vittima delle orripilanti modificazione genetiche di Capitol City. In un solo instante, mentre fissavo quella scena, mi sentivo come se tutta la felicità del mondo fosse sparita e il cemento avesse preso il posto della natura. Era per questo motivo che nessun animale si era avvicinato alla fonte, loro sapevano dell’agguato preparato dagli strateghi, se non fossimo stati attenti, ora ed in futuro, ci avremmo lasciato le penne molto presto. Rovesciai il resto del veleno nel lago da cui proveniva, ma ora ero indecisa se tenere quella boraccia oppure abbandonarla lì, avevo paura che qualche goccia di malvagità potesse sporcare anche la purezza e la limpidità.
– Che cosa ce ne facciamo di questa boraccia? Sicuramente del veleno si sarà depositato sul fondo, non vorrei che aggiungendo dell’acqua buona poi… - iniziai a pensare ad alta voce
– No, ho una idea. Raccogliamo dell’acqua da quel lago e rimettiamola nella borraccia, magari qualcuno potrebbe essere assetato quanto noi.. – sapevo che cosa volesse dire e gli davo ragione.
Era un arma, per così dire, gratis. Non si poteva sapere quando o se sarebbe tornata utile, quindi…Gli sorrisi e così si avvicinò alla fonte e riempì d’acqua la seconda borraccia.
– Dobbiamo stare attenti però, non dobbiamo rischiare di confonderci. – Saremmo stati troppo stupidi a cadere nella nostra stessa trappola
– Hai ragione. Ecco, distinguiamola con questo pezzo di stoffa – suggerì lui strappando un striscia della sua maglietta e legandola al collo della borraccia.
Da ora in poi avremmo saputo che quella boraccia non doveva assolutamente essere bevuta. Guardai attentamente il sole, era quasi il tramonto, ero sicura che l’uscita per l’arena era già stata aperta e perché no, forse qualcuno l’aveva già trovata. Dovevamo muoverci.
– Forza, andiamo. Se partiamo ora potremmo arrivare all’uscita prima che faccia notte – esclamai io mettendomi lo zaino in spalla e inserendo la boraccia d’acqua avvelenata in esso.
Era strano ma non ero per niente stanca. L’adrenalina probabilmente non mi aveva permesso di stancarmi, sarei potuta andare avanti per ore. E così partimmo, avevamo ancora chilometri e chilometri da percorrere. Non sapevamo bene dove andare, insomma l’uscita poteva essere ovunque. Camminammo e camminammo per le lunghe distese senza una vera meta precisa. Ci addentrammo ancora una volta in una piccola foresta, diversa da quella che avevo visto il primo giorno. Gli alberi erano più bassi e l’umidità era decisamente minore, faceva un po’ freddo ma in fondo era quasi notte. Attraversammo un piccolo fiumicello, non più largo di tre passi d’uomo e dalle rapide non troppo veloci, probabilmente portava ad una cascata, ma non ci fidammo nemmeno delle sue acque. Passammo oltre.
– Sono stanca, Declan. Fermiamoci! – annunciai io lamentandomi. Si è vero, avevo detto di non esserlo ma mi sbagliavo di grosso.
– No, andiamo avanti – mi impose quasi con voce molto dura
–Perché? Fermiamoci due secondi, non chiedo tanto. Poi, comunque non sappiamo neanche dove siamo o dove stiamo andando! – esclamai di rimando mentre lui aveva continuato a camminare, sembrava davvero irritato ed arrabbiato.
– Ok senti qua, Rose. Smetti di lamentarti! Vuoi o no cercare questa diamine di uscita?! – Era decisamente arrabbiato.
Questa arena doveva dargli alla testa, cambiava umore da un secondo all’altro.
– E sentiamo, dove vorresti cercare questa uscita? Sai già dove si trova, eh?! -  Mi piantai sotto un albero e non mi sarei mossa fino a quando non mi avrebbe dato un valido motivo per muovermi e seguirlo
– Sono convinto che sia nel punto più estremo possibile, insomma, questa arena dovrà pur finire da qualche parte, no? – non sapevo bene cosa pensare, forse aveva ragione, in fondo ormai tutti sapevamo che le arene era circondate da campi di forza ma nessuno sapeva capire dove fossero realmente.
Senza fiatare decisi di rialzarmi, non volevo veramente litigare con lui, così lo seguii. Nel tempo che impiegammo ad uscire dalla foresta era iniziato a piovere a dirotto. La temperatura era calata di almeno dieci gradi e il vento era diventato sempre più impetuoso. Iniziammo a correre attraverso i rami che si facevano man mano più bassi e finalmente riuscimmo a veder le stelle. Ormai era notte e lo spettacolo che vidi dinnanzi ai miei occhi non era paragonabile a nessun’altro. Ero lì ferma a rimirar il cielo quando sentii un rumore provenire dalle nostre spalle. Mi voltai circospetta ma non vidi nulla. Poi lo risentii, ancora ed ancora. Sentivo nervosamente dei passi, dei passi umani avvicinarsi sempre di più a noi. Rimanemmo immobili e senza respiro fino a quando un ragazzo non troppo alto si fece spazio tra i cespugli e gli arbusti, con in mano una spada, pronta a trafiggerci entrambi. Era lo stesso ragazzo che avevo visto proprio accanto a me il giorno prima e ora era lì, di fronte a noi due ed era pronto ad ucciderci. Eravamo in due contro uno, ma Declan non aveva nessun’arma e si sa, l’uomo con la pistola che incontra l’uomo con il fucile è un uomo morto. Bastava sostituire la parola pugnale a pistola e spada a fucile, la soluzione dell’equazione sarebbe stata comunque inevitabile. Sfoderai  il mio coltello, ma quel ragazzo mi faceva tremare il sangue nelle vene e nei polsi. Lo vidi lanciarsi contro di noi, la sua preda sarebbe stata sicuramente Declan e io non potevo permetterlo. Mi gettai anche io contro di lui e dopo essere fortunatamente riuscita a schivare il suo colpo alto abbassandomi soltanto, riuscii a colpirlo nella schiena con un colpo ben assestato che permise al mio compagno di battaglie di colpirlo nuovamente, prima allo stomaco ed infine sul volto. Il ragazzo traballò per qualche secondo ma poi si scagliò nuovamente verso di me, stavolta però non mi andò così bene. Immaginai che avesse provato a colpirmi un’altra volta dall’alto, ma prevista la mia mossa non lo fece. Così, in meno di cinque secondi mi ritrovai la sua lama conficcata nel mio fianco destro. Il dolore era atroce e non riuscii a non lasciar andare un grido di dolore. Lasciai cadere il pugnale dalla mia mano, che era andata a toccare la ferita appena ricevuta. Il respiro cominciava a mancarmi e il mio corpo cominciava a tremare. Cercai di tamponare la ferita ma non sarebbe servito a nulla, non ora. Dovevo dimenticarmi del dolore e continuare a combattere. Declan, mentre io mi lasciavo andare alla disperazione dovuta alla sofferenza che stavo provando, era riuscito, non so nemmeno come, a togliergli la spada dalle mani e farlo cadere a terra. Dovevo dire che avevo sottovalutato quel ragazzo, non era così tanto stupido come tutti pensavano. Corsi ad aiutare il mio alleato, anche lui proprio come me aveva riportato delle ferite, non profonde come la mia, ma ero convinta che stesse provando delle fitte anche lui. Mi sostenne per qualche secondo fino a quando non riuscii a reggermi in piedi da sola, dovevo stringere i denti ma potevo sopportare il dolore. Poi lo guardai negli occhi ma lui non ricambiò, stava attentamente osservando un punto lontano. Così alzai anche io lo sguardo e vidi esattamente ciò che aveva visto lui. Non potevo crederci ma mi sembrava di scorgere, tra gli alberi fitti e i cespugli di bacche velenose, una piccola porta di legno non troppo levigato, perfettamente celata tra gli arbusti e i roghi di rose spinate che circondava quella zona. Vidi Declan correre verso l’uscita ma non feci in tempo a raggiungerlo che due cose accaddero troppo ravvicinatamente tra loro. Una dolorosissima fitta al fianco mi fece gridare nuovamente, mi ero mossa troppo presto, ma non feci quasi in tempo ad alzare gli occhi che vidi l’altro ragazzo, riuscito a rialzarsi, afferrare il mio pugnale e con una velocità spaventosa lanciarlo nella mia direzione. La mia vista si fece buia. Caddi a terra dal dolore. Guardai il coltello volare oltre la mia testa e cadere giù per il dirupo che avevo alle mie spalle, quello da cui avevo guardato forse per l’ultima volta le stelle. I miei sensi stavano per abbandonare il mio corpo quando, inginocchiata a terra rividi la stessa arma ritornare indietro e con mia e sua grande sorpresa, scontrarsi contro il petto del ragazzo che aveva purtroppo cantato vittoria troppo presto. Presi un respiro profondo mentre lo vidi accasciarsi proprio ai miei piedi.
– Rose! – sentii gridare Declan.
Con le mie fragili membra cercai di correre o almeno traballare verso quell’uscita tanto agognata e la raggiunsi. Poi svenni.    

Risponde l'autore:

Capitolo corto, eh? Si è vero, mi stupisco anche io. Volevo chiudere questa arena e far iniziare la seconda. Nel prossimo capitolo ci saranno un po' di considerazioni di Rose e l'inizio appunto della seconda arena. Vi è piaciuta questa? Si, era quella di haymitch, quella dei 50esimi hunger games, Rose lo capirà nel prossimo capitolo. Quale pensate sia la prossima arena, invece?

 

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Capitolo 16
*** Era la morte ***


Capitolo XIV – Era la morte


Quando riaprii nuovamente gli occhi mi ritrovai sdraiata su di un lettino, simile a quelli di un ambulatorio di Capitol City, il cuscino sotto la mia testa era stato rimboccato da poco mentre le lenzuola erano quasi del tutto stropicciate sul pavimento. Vedevo tutto bianco. La mia pelle era bianca, la branda era di colore bianco pallido, le pareti ed il soffitto erano intonacati di bianco, le persone che si muovevano frettolosamente a fianco a me indossavano lunghe tuniche bianche. Provai a muovere lentamente la mano destra e per mia grande sorpresa non avevo perso sensibilità in essa, così provai con tutti gli arti che avevo. Sembravo stare bene, mi sentivo bene. Cercai di alzarmi ma uno degli uomini bianchi mi vide e con parole che feci fatica a comprendere mi obbligò a restare sdraiata. Ma dove mi trovavo, cosa era successo? L’ultima cosa che mi ricordavo erano dei frammenti disconnessi di una stessa immagine: una piccola porta ricoperta di rose rosse. Il mio cuore batteva forte, il freddo mi faceva tremare e la testa mi pulsava. Guardai nuovamente il soffitto chiaro cercando di ricordare cosa era successo, a piccoli passi. Mi ricordavo di essere entrata in un’arena, ricordavo di aver visto Nita uccidere due ragazzini, ricordavo di avere scoperto il segreto che si celava dietro all’acqua di quel luogo e avevo un vago ricordo su di un ragazzo steso ai miei piedi, sperai non fosse Declan, la mia memoria era davvero confusa. I medici, presupponendo che lo fossero davvero, mi aiutarono ad alzarmi molto lentamente. Indossavo ancora gli abiti che avevo nell’arena, ma la chiazza di sangue sul fianco destro era sparita, così come la ferita. Al suo posto si trovava un bendaggio che mi circondava tutto il busto, quasi a sorreggermi. Avvicinai cautamente una mano alla benda ma non sentii nessun dolore, probabilmente nel periodo in cui rimasi svenuta quei tizi dal camice bianco erano riusciti a far rimarginare la lacerazione che mi aveva procurato la spada del ragazzo. Ora mi ricordavo, non era Declan. Fortunatamente. Gli uomini uscirono dalla stanza ma qualche secondo dopo vidi apparire sull’uscio della porta un volto a me molto famigliare. Era Senan.
– Rose, cara – esordì abbracciandomi.
Io rimasi lì immobile, avevo passato quei due giorni praticamente da sola e non avevo mai pensato a quanto potesse mancarmi un po’ di calore umano, la compagnia di un amico.
– Senan – sussurrai io di rimando. Ero davvero felice di rivederlo, non avrei mai pensato di poterlo rincontrare nuovamente.
– Sono felice di poterti rivedere – continuò accarezzandomi dolcemente una guancia. Ora lo capivo. Era il padre che non avevo mai avuto, ecco perché mi ero affezionata così tanto a lui.
– Anche io – gli risposi dolcemente
– C-cosa è successo? – continuai subito dopo.
Non avevo ancora ben chiaro cosa realmente fosse accaduto poco tempo prima, mi servivano degli aggiornamenti.
– Sei stata ottima, hai compreso alla perfezione il messaggio della tua mentore e sei riuscita a trovare l’uscita in un attimo. Ci sono molte persone, là fuori, che tifano per te – mi rispose sorridendo.
Non sapevo se esserne felice oppure no. Potevo accogliere il primo merito, ma forse non il secondo. E poi, avevo veramente bisogno della gente là fuori che mi idolatrava?
– Declan ha trovato l’uscita, non io. A proposito, come sta?  - chissà da quanto tempo non lo vedevo, erano passati giorni, mesi, oppure anni?
– Sta bene, ha riportato qualche ferita ma niente di grave – disse serrando la mascella e con voce più dura del solito ma non ci feci caso.
– Che Arena era quella? Non mi sembra di averla mia vista prima – confessai, non l’avevo ancora capito.
– Era l’Arena della cinquantesima edizione, la seconda della memoria. Il vincitore fu Haymitch Abernathy, distretto dodici, l’uomo che hai incontrato quel giorno dei punteggi degli sponsor, ricordi? – annuì. Mi era sembrato un uomo davvero spaventoso, mi dicevano che fosse sempre e perennemente ubriaco ma a quanto pare  si rivelò molto utile a Katniss e Peeta, chissà…
- E ora cosa succederà? – gli chiesi timorosa. La risposta che mi aspettavo suonava più o meno così: “ Ora puoi tornare a casa, Rose. E’ tutto finito”
– Dovrai affrontare la seconda Arena, ma ricorda i consigli che ti ho dato due giorni fa e nulla andrà storto, te lo prometto – Oh, erano passati due giorni.
Mi porse poi i nuovi abiti, quelli che avrei dovuto indossare ora i quali non erano molto differenti dai precedenti ma almeno erano puliti e profumati. Non potevo e non volevo credere di dover affrontare quell’inferno nuovamente ma che altro potevo fare? Nulla, esatto. Mi vestii molto lentamente, quasi a rallentatore. Stavo cercando di fermare il tempo forse. Non volevo che quel momento arrivasse, non ero pronta e probabilmente non lo sarei mai stata. Due pacificatori mi accompagnarono nella seconda sala di lancio. Bevvi nuovamente un bicchiere d’acqua. Le mie labbra erano davvero secche e screpolate e non vedevano l’ora di essere bagnate, me ne accorgevo soltanto ora. Senan mi applicò nuovamente la spilla alla maglietta, non l’avevo notato ma probabilmente me l’avevano tolta subito dopo essere uscita dall’arena. Il mio stilista l’aveva presa, forse per non rischiare che la confiscassero.
– Sei pronta? – mi chiese sussurrando. Io annuii poco convinta. Dovetti risentire nuovamente la voce della donna che annunciava i secondi rimanenti, ah quanto la detestavo, mi dava sui nervi. Mancavano dieci secondi così a piccoli e lenti passi mi posizionai sulla stessa piattaforma su cui avevo appoggiato i piedi due giorni fa, o almeno una identica. Presi un profondo respiro e chiusi gli occhi. Quando gli riaprii non vidi ciò che mi aspettavo di vedere. Non vidi la luce del sole come in precedenza, vidi il buio. Il buio totale. Mi guardai intorno ma lo spazio che avevo per muovermi non era abbastanza sufficiente. Dove diamine di trovavo? Qualcosa mi diceva che non ero nemmeno in piedi perché le mie mani potevano sentire del terreno freddo e bagnato proprio sotto la mia schiena. Portai le mani in avanti ma vennero subito bloccate da una barriera, come se una lastra di legno fosse stata posizionata sopra il mio corpo.  L’unica piccola luce che vedevo proveniva da un piccolo forellino che era stato lasciato aperto, largo più o meno quanto il mio indice. La cosa che mi traumatizzò di più fu l’udire il countdown dell’inizio dei giochi ma non vedere da dove il suono provenisse. Avevo paura che sarei rimasti ferma lì per tutta la durata dei giochi e probabilmente sarei morta senza riuscire a rivedere la luce. Appena ebbi sentito il fischio di inizio cominciai a battere furiosamente sulla parete di legno, non causando danni relativamente gravi. Con le mani cercai nel mio piccolo spazio qualcosa che avrebbe potuto rompere quella lastra e lo trovai. Afferrai qualcosa che basandomi soltanto sul mio tatto poteva assomigliare ad un chiodo di lunga fattezza e con esso cercai di rompere la lastra, iniziando proprio dall’unico spiraglio di luce, aiutandomi anche con le mie stesse mani e unghie se fosse stato necessario. Dopo qualche minuto di intenso nervosismo, paura e ansietà, sentii la prima asse cominciare a muoversi, così continuai a colpirla ripetutamente ancora ed ancora, finché essa non saltò via. Adesso potevo vedere uno scorcio molto più ampio del paesaggio, ma l’unica cosa che vidi fu un ombra che tornò a coprire lo spazio che mi ero ricavata. Lo sentivo respirare, sentivo il suo cuore battere e avevo sentito i suoi passi avvicinarsi. Era la morte. Chiusi gli occhi e qualche secondo dopo sentii il rumore delle assi restanti che si disintegravano. Poi rividi la luce. Qualcuno mi afferrò per un braccio e con molta forza mi tirò fuori dal quel terrificante luogo.
– Sei tu! – urlai di gioia abbracciando Declan che era venuto a salvarmi.
Mi guardai intorno. Era notte e l’unica fonte di luce era la luna, pallida e fioca. Ci trovavamo in un antico cimitero, dietro, a fianco e davanti a me potevo vedere soltanto lapidi e macabre statue a perdita d’occhio. Mi portai le mani al volto, non potevo credere di essere stata seppellita viva. Mi venne quasi da piangere ma non feci nemmeno in tempo ad urlare che il ragazzo mi tirò su quasi di peso e mi trascinò correndo fuori di lì, lontano da quell’incubo. Mi girai indietro e in lontananza potevo vedere delle braccia che si facevano spazio tra la terra e le assi di legno, gli altri tributi che cercavano di uscire dalle loro bare. Avevamo poco tempo prima che ci venissero incontro. Corremmo giù per una lunga scalinata che ci portò direttamente all’interno in una cripta oscura, la cornucopia. Gli zaini e le armi erano state poste proprio lì, affianco a tombe di persone di cui non volevo nemmeno leggere il nome
– Prendi tutto ciò che puoi, non abbiamo molto tempo – mi sussurrò in grande fretta Declan mentre racimolava zaini su zaini.
Io mi addentrai nelle armi, ce n’erano di tutti i tipi, dalle spade, alle asce, ai pugnali, all’arco…l’arco. Lo vedevo scintillante proprio davanti a me, ve n’era soltanto uno, forse fatto apposta per me. Lo afferrai e con un mezzo sorriso sul volto me lo rigirai in mano ancora ed ancora.
– Rose, muoviti! – mi gridò Declan con un tono decisamente più alto del sussurro.
Afferrai la faretra e senza nemmeno pensarci afferrai il primo zaino che vidi. Potevo chiaramente sentire dei passi avvicinarsi, erano sicuramente gli altri tributi. Inseguii Declan fuori dalla cripta ritornando sulla collina sulla quale erano sparse le lapidi. Iniziai ad osservare ed ad ascoltare attentamente i passi e ciò che vedevo all’orizzonte. Poi ad un tratto vidi il primo ragazzo avvicinarsi anche lui correndo… anzi mi correggo: era una ragazza. Più la vedevo avvicinare e più la riuscivo a distinguere. Fui felice di comprendere che fosse Abigail ad arrivarci incontro. Probabilmente si era accorta di noi perché ora aveva aumentato il passo e stava correndo felice verso di me per abbracciarmi o per uccidermi, l’avrei scoperto molto presto. Ci abbracciammo purtroppo per troppo poco tempo. Potevo considerarla la mia migliore amica e non potrei mai trovare le parole per descrivere quanto mi fosse mancata e quanta paura avevo di perderla.
– Sei qui, sei qui…- ripeteva lei sussurrando mentre mi stringeva quasi a stritolarmi, ma ne ero felice
– Si e anche tu. Questo è l’importante – eravamo entrambe vive, non mi importava d’altro.
– Non hai molto tempo Abby, prendi tutto ciò che riesci e corri via – la implorai quasi, lei annuì.
Declan sembrava non gradire le nostre chiacchiere, lo potevo notare dalla sua impazienza che stava mostrando proprio in quel momento
–Rose, dobbiamo muoverci – mi spronò lui. Abigail mi lasciò subito andare, non gradendo particolarmente la maleducazione del ragazzo, probabilmente. Però potevo capirlo, non avevamo molto tempo per i convenevoli
– Stai attenta Rose – mi sussurro all’orecchio in modo che nessun’altro potesse sentire.
La osservai poi allontanarsi e scendere verso la cripta. Chissà quando l’avrei rivista. Seguii allora Declan dalla parte opposta da cui eravamo arrivati. Il cimitero sembrava non terminare mai, vi erano tombe e tombe a perdita d’occhio. Ormai ci eravamo allontanati abbastanza. Qualche metro più avanti del luogo in cui ci eravamo fermati due secondi a respirare, trovammo una piccola catapecchia malandata e abbandonata, probabilmente l’abitazione del custode del cimitero, se mai ce ne fosse stato uno. Declan riuscì con un solo calcio a sfondare la porta e con una torcia che avevamo trovato negli zaini entrammo all’interno. Non avevo mai amato particolarmente il buio, anzi lo detestavo e ne avevo paura. A casa ero solita dormire con una piccola lucina. Solo ora mi rendevo conto di quanto potessi essere infantile e vigliacca a volte. Era difficile descrivere quella casa perché non vi era nulla di particolare, nulla di diverso che qualcuno si aspetterebbe di trovare all’interno di una catapecchia come quella. Le pareti e il soffitto erano costituite da assi di legno ormai derose completamente dal tempo, le tende erano polverose e stracciate, così come le sedie e le poltrone. La sala principale era stranamente piena di specchi, in alcuni punti del salotto potevi vedere la tua immagine rispecchiata in più punti. Dopo aver dato un’occhiata a tutta l’abitazione decidemmo che almeno per una notte saremmo potuti restare lì. Quelle stanze, quelle porte, quelle finestre, quegli specchi mi rendevano alquanto inquieta, come biasimarmi però. Non era esattamente il posto dove avrei voluto passare una notte, ecco. Ci sistemammo in una piccola sala quasi completamente vuota, al suo interno vi era soltanto uno specchio, immancabile, e una finestra, nient’altro. Da quando incontrammo Abigail, Declan non mi aveva ancora rivolto la parola, doveva essere arrabbiato con me, ma per cosa, cosa avevo fatto? Non lo capirò mai.
–Sei arrabbiato? – gli chiesi innocentemente, lui non mi rispose.
Si limitò a rigirarsi nel suo sacco a pelo dall’altra parte e non dire niente.. gentile, davvero. Roteai gli occhi e mi misi anche io a dormire. Era strano come da quando fossi entrata nell’arena quegli incubi che mi avevano infestato la testa le settimane precedenti fossero del tutto svaniti, ero sollevata, un problema in meno a cui pensare. La mattina sarei stata riposata e in piena forma, pronta per combattere. A dire il vero però, feci un po’ di fatica ad addormentarmi, non per la paura dei brutti sogni ma per il terrore di qualcosa di più reale. Avevo l’impressione che qualcuno fosse entrato ora e pronto ad ucciderci, ne sentivo i passi ed il respiro, ma era tutto frutto della mia immaginazione. Mi rigirai e rigirai nel mio sacco a pelo ma finalmente presi sonno. Mi svegliai poi nel mezzo della notte e cominciai a pensare a quanti colpi di cannone avevo udito nella strada per arrivare lì. La battaglia alla cornucopia era probabilmente cominciata dopo la nostra fuga. Cinque tributi erano morti e ora eravamo soltanto in undici e se la conoscenza della matematica mi assisteva, l’uscita dall’arena era a distanza di un solo unico tributo.  Sentii il suono dell’inno di Capitol City provenire attraverso quelle finestre dai vetri rotti, così senza svegliare Declan mi precipitai cautamente e attentamente fuori. Nel cielo non apparve nessun volto di ragazzi a me particolarmente famigliari. Il mio pensiero si rivolse poi ad Abigail che per mia gioia era ancora viva. Sorrisi, sapevo che ce l’avrebbe fatta. Mi sarebbe mancata molto ma ripensandoci avrebbe davvero importato se fossimo morte entrambe? Ritornai a piccoli e leggeri passi all’interno della catapecchia ma fui sorpresa e terrorizzata contemporaneamente nel vedere che Declan era sparito. Fu proprio in quel momento, appoggiata allo stipite della porta, che sentii un altro colpo di cannone.   


Risponde l'autore:
Ok, avete già indovinato di che Arena stiamo parlando e chi fu il vincitore? Ve lo dirò nel prossimo capitolo. Vi ricordo che mancano soltanto altre due arene alla fine dei giochi, chi pensate potrebbe essere il vincitore? Pensateci bene ;D Spero vi sia piaciuto il capitolo, mi raccomando recensite.

 

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Capitolo 17
*** Invincibile, immortale ***


Capitolo XV – Invincibile, immortale


Corsi fuori spaventata di non rivederlo mai più. Ero così terrificata che la mia mente non riusciva a produrre un pensiero corretto e coerente, la paura si faceva spazio nella mia testa, sempre di più. Corsi fuori dalla catapecchia, trovandomi davanti soltanto un paesaggio collinare che svaniva a perdita d’occhio, ma di lui nemmeno l’ombra. Girai intorno a quella abitazione ma non sentivo nulla, nessun rumore o suono, niente. Iniziai a chiamare il suo nome ma lui non rispose. Ormai non mi importava più se qualcuno avesse sentito la mia voce e mi avesse trovato, avrei preferito morire piuttosto che non rivederlo più. La morte sarebbe stata molto più dolce della sua mancanza. Iniziai disperata ad addentrarmi nella terrificante e sinistra boscaglia che era situata alla sinistra di quella baracca. I rami degli alberi erano spogli e ovunque mi girassi formavano strane ed inquietanti figure, non vi era molta luce lì dentro, soltanto quella della luna. Correndo completamente circondata dalle tenebre avrei potuto giurare di aver superato un piccolo fiumiciattolo ma di lui ancora nessuna traccia. Mi stavo spaventata girando indietro, a ritroso dei miei passi, quando andai a sbattere contro qualcosa, forse un albero. Accidenti, quanto ero stupida, forse mi ero anche persa. Poi aprii gli occhi ormai rigati da lacrime.
– Declan! – urlai abbracciandolo e asciugandomi il volto con la manica della camicia.
Ora oltre che sollevata mi sentivo arrabbiata.
– Dov’eri? Mi hai fatto prendere paura! -  gli urlai nuovamente, quasi isterica. Stavo diventando pazza, lo sapevo.
– Stai tranquilla – mi rispose lui accarezzandomi i capelli dolcemente.
Quello era il primo gesto gentile che mi rivolgeva da quando eravamo entrati in quella Arena.
– Ti stavo cercando – mi rivelò lui
– Mi sono svegliato e non ti ho visto, così sono venuto a cercarti qui, poi ho sentito il cannone e… - non lo lasciai finire, non mi importava più ormai.
Fu così che, non ne capii mai il motivo, avvicinai il mio volto al suo e molto lentamente gli lasciai un piccolo bacio sulle sue calde e morbide labbra.
– Non farlo mai più – gli sussurrai però all’orecchio. Lui sorrise.
Potrebbe suonare strano e un po’ stupido, ma quello fu il mio primo bacio che mai potrò dimenticare. In quel momento avrei potuto giurare di sentirmi invincibile, immortale. In un secondo momento però ripensai al fatto che tutta la nazione di Panem stava ora guardando quegli schermi ed ecco che in un solo attimo avrei preferito morire. Il mio viso era diventato completamente rosso d’imbarazzo, le mie mani avevano cominciato a sudare e il mio cuore batteva furiosamente, forse per entrambi i motivi. Sperai che tra l’oscurità e la selva non si fosse visto molto. Osservai di sfuggita Declan pulirsi le mani nella maglietta, così guardai anche le mie. Avevo corso per tutta la foresta, mi ero appoggiata a tronchi e avevo toccato terra, fango e fogliame vario. Ritornammo alla nostra per niente accogliente catapecchia che era ormai notte inoltrata se non già quasi l’alba. Nel giro di quelle dodici ore passate quasi tutte all’aperto avevo notato che la temperatura non si era abbassata più di tanto, ma forse non avendo visto ancora il sole non potevo saperlo. Avrei rivisto la luce della mattina o gli strateghi avrebbero preferito un Arena sempre avvolta dall’oscurità? Un cimitero di giorno non faceva molta paura.
–Sei uscita senza un’ arma? – mi chiese d’un tratto lui. Mi accorsi solo ora quanto ero stata stupida
– Si… sono stata presa dall’ansia e non ci ho pensato. Ero venuta fuori a vedere i tributi – quanto ero felice di non aver visto nessuna faccia amica
– Qualcuno…? – mi chiese subito dopo, intendeva sicuramente dire “E’ morto qualcuno che conosciamo?”
– Fortunatamente no – sembrava sollevato, io ero sollevata. Stavo per aprire la porta quando la mano di Declan mi fermò
– Aspetta –  non riuscivo a capirne il motivo ma poi sentii dei rumori provenire dall’interno, come se qualcuno stesse freneticamente cercando qualcosa mettendo sottosopra tutto la casa.
Mi fece segno di seguirlo sul retro, dove riuscimmo ad entrare dalla finestra della stanza in cui ci stavamo addormentando poche ore prima. Fortunatamente chiunque fosse entrato lì non aveva ancora cercato in quel luogo, le nostre armi e i nostri zaini erano ancora lì. Afferrai senza fare nessun rumore l’arco e la faretra dalla quale estrassi una freccia che incoccai subito. Non ci avrebbe importato molto degli zaini, in caso di pericolo probabilmente avremmo corso verso l’uscita dell’Arena ormai già aperta, dovevamo soltanto trovarla. Declan aprii cautamente la porta ma io insistetti ad andare per prima. L’unica nota negativa era il rumore che le assi di legno producevano ad ogni nostro singolo passo. Il buio sicuramente non ci aiutava ad essere più sicuri o a vedere meglio ma sentivo di essere sempre più vicina al nostro nemico. Fu in quel momento, proprio quando mi ero incautamente allontanata troppo da Declan e abbassato per un secondo la guardia che qualcuno mi aggredì apparendo chissà da dove. Fui abbastanza pronta per schivare il colpo ma quella ragazza, i suoi capelli lunghi e castani legati in una lunga coda di cavallo era l’unica cosa che ero riuscita a vedere, riuscii comunque a disarmarmi e a farmi cadere a terra. La colpì con un calcio serrato, l’unica cosa che sarei riuscita a fare in quella posizione. Approfittai del tempo che lei impiegò a rialzarsi per correre verso il mio arco ma la ragazza si aggrappò ai miei piedi e riuscì a trascinarmi nuovamente verso di lei. Il mio arco doveva aspettare. Solo ora riuscivo a vederla bene. Aveva appunto dei lunghi capelli castani con riflessi biondi, gli pupille di un azzurro particolare con qualche sfumatura verde e nocciola e una espressione davvero spaventata. Provava una di quelle paura più spaventose, forse la più pericolosa. Era così spaventata che per salvarsi avrebbe fatto di tutto, non era più in se stessa, lo si vedeva negli occhi quasi vitrei. La colpì nuovamente con un pugno al naso doloroso sia per me che per lei. Non feci però in tempo ad assicurarmi dei danni che aveva subito, sapevo solo di aver udito un crack provenire da lei, probabilmente le avevo rotto il naso. Mi alzai di corsa e mi diressi verso il mio arco che per mia grande sorpresa era sparito. Ora ero davvero terrificata, sapevo di aver una ragazza che avrebbe provato ad uccidermi alle mie spalle e che probabilmente si stava ora rialzando e stava correndo verso di me con un pugnale in mano e il mio arco era scomparso. Presa dall’ansia e dalla frustrazione decisi di salire freneticamente le scale e dirigermi ai piani superiori, stavo letteralmente scappando. Lei era la cacciatrice ed io la sua preda. Sentivo i suoi passi salire velocemente e quasi raggiungermi quando giunsi alla fine della mia fuga. Ero arrivata ad un punto morto, le scale erano finite, ero arrivata all’ultimo piano. Mi guardai frettolosamente prima a destra e poi a sinistra ma ero intrappolata in una prigione di legno decadente senza via d’uscita. Poi guardai in alto, da una piccola botola scendeva una catena di ferro arrugginito che mi bastò tirare lievemente per aprire. Feci leva sulle mie braccia aiutandomi con la ringhiera del pianerottolo sollevandomi a fatica, poi finalmente rividi la luce della luna. Ero ora arrivata sul tetto di quella catapecchia che probabilmente si sarebbe disintegrato al mio primo passo, ma cos’altro potevo fare? Richiusi la botola e mi incamminai avanti, la tettoia non era molto ampia ma si poteva comodamente camminare su di essa, ovviamente rischiando di cadere. La ragazza di cui nemmeno conoscevo il nome non era di certo stupida e sicuramente sarebbe salita da un momento all’altro. Non sembrava ma lo spazio che intermediava tra il tetto e il terreno non era di certo minimo e da sottovalutare, se mi fossi buttata avrei rimediato soltanto la mia stessa morte. L’unica cosa che mi restava da fare era quella di combattere per la mia vita, proprio lì sopra ed in quel momento, avevo finito di scappare. Sentii la botola muoversi e successivamente aprirsi, non dovetti aspettare nemmeno pochi secondi per vedere prima i lunghi capelli castani e poi il viso della ragazza spuntare e senza nemmeno tanta fatica poggiare i propri piedi sulla tettoia. Appena mi vide non si fece di certo aspettare e mi corse incontro urlando tutta la sua rabbia e paura con in mano soltanto un pugnale. Lei aveva paura, io stranamente no. La calma e la ragione vincono sempre sul terrore, o almeno la maggior parte delle volte. Riuscii a toglierle di mano l’arma in pochissime mosse, si vedeva che non aveva nessuna base di lotta a corpo libero, le sue azioni erano spesso non ragionate ed istintive. Il pugnale volò giù e quasi senza fare rumore si schiantò sul terreno, ora eravamo pari. Mi distrassi per un secondo e lei ne approfittò per colpirmi prima allo stomaco e poi al volto. Certo, faceva male ma non le avrei mai permesso di cavarsela. O io o lei, e in quel momento non avrei accettato la mia sconfitta. Più lei mi colpiva più io mi arrabbiavo; più io mi arrabbiavo e più la colpivo. Era uno scontro ad armi pari, entrambe riuscivamo ad eguagliare l’altra ma mai a superarla di abilità, fino a quando non ebbi un colpo di fortuna. Lei era riuscita a bloccare le mie braccia che teneva stette in un morsa ma non si era di certo preoccupata dei piedi che erano ancora liberi di agire ad ogni mio comando. Notai velocemente le sue gambe appena aperte, così mi ricordai di un consiglio che mi era stato dato durante una seduta di allenamento a Capitol City, non tanto tempo prima. “Usa la forza del tuo avversario a tuo vantaggio” ed era proprio quello che avevo intenzione di fare. Repentina gli disarcionai il piede dalla sua posizione originaria facendole perdere l’equilibrio e fu proprio in quel momento che approfittai della sua instabilità per colpirla e purtroppo per lei e per la mia anima, lasciarla cadere. Ero sempre stata convinta che ogni volta che si uccidesse qualcuno la propria anima si dividesse in tanti pezzi che pian piano se ne andassero, proprio come la vita delle tue vittime, e ti lasciassero il vuoto dentro, colmato da così tanto dolore e rimpianti che ti avrebbero portato alla pazzia e successivamente alla morte. Era così che mi sentivo in quel momento. Poi sentii il cannone che rappresentava soltanto una cosa: ero diventata una assassina. Scesi con lo sguardo basso verso i piani inferiori, ritrovai il mio arco nascosto dietro ad un angolo e mi precipitai fuori dove incontrai nuovamente Declan
– Dove sei stato? – gli chiesi seria e furiosa ma non con lui, con quello che era appena successo. Non mi piaceva sentirmi così
– Non era da sola. C’era qualcun altro. L’ho seguito e appena mi ha visto quel codardo è scappato. Sono tornato indietro e tu non c’eri –
Non volevo nemmeno ascoltarlo, non mi interessava più di niente
– Andiamo, voglio andarmene da qui, ora! – affermai camminando a grandi passi verso l’uscita di quella dannata Arena.


Risponde l'autore:
Capitolo un po' corto, non credete? Avete ragione ma almeno avvengono molti fatti, alcuni buoni e alcuni cattivi. Sapete che quel momento (si proprio quello ;D) lo avrei inserito primo o poi, lo avevate già immaginato suppongo. Bene, nel prossimo capitolo usciranno da questa spaventosa Arena e entreranno nella prossima, la penultima. La fina si avvicina sempre più, credo di potervi dire che i capitoli diventeranno, spero, un po' più lunghi d'ora in poi. Quale pensate sarà la prossima arena? Continuate a recensire, mi raccomando ;D

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Capitolo 18
*** Raggio di sole ***


Capitolo XVI – Raggio di sole


Camminavo spedita attraverso la foresta che avevo visitato poco tempo prima ma essa continuava comunque a terrorizzarmi, quei rami, il buio, il suono macabro che produceva il vento, tutto. Ripensai al volto di quella ragazza e mi sarebbe tanto piaciuto sapere come si chiamasse, se fossi tornata viva a casa la prima cosa che avrei fatto sarebbe stato andarmi a scusare con la sua famiglia, almeno questo glielo dovevo. Non potevo non fare paragoni tra me e lei, pensare cosa avrei fatto io se fossi stata lei, se lei avesse avuto pietà con me perché io non l’avevo avuta. Quei giochi ti trasformano, ti fanno diventare qualcuno che non sei. Molti potrebbero dire che se avessero dovuto morire, sarebbero rimasti loro stessi. Ma io ero troppo attaccata alla mia vita per pensarla come loro. Più mi guardavo intorno e più iniziavo a rendermi conto che quella non era la strada giusta, non ci avrebbe portato da nessuna parte, stavamo sbagliando. Così mi bloccai
– Declan, stiamo sbagliando strada – affermai smorzando il silenzio che si era creato tra noi e continuando a guardare verso l’orizzonte.
– Come fai a dirlo? – mi chiese lui dubbioso.
Non avevo una propria vera risposta, ma lo sentivo, era difficile da spiegare, come un sesto senso, ecco. Tentennai un attimo –
Sesto senso – gli risposi ma forse lui non ci credeva nemmeno
– Ti ricordi, nella scorsa Arena, quando mi hai detto che secondo te l’uscita era al limite ed io non ti credevo? Ecco, la stessa cosa. – chiarii poi il concetto 
-Devi soltanto fidarti di me, io mi sono fidata di te. – conclusi poi sorridendo e lui sorrise a sua volta
– Mi fido – mi rispose.
Lo abbracciai stretta, tra le sue braccia mi sentivo protetta, era una strana sensazione, come se ci fossero delle farfalle che svolazzavano allegre nel mio stomaco. Facemmo retromarcia e tornammo sui nostri passi, sentivo che quella era finalmente la strada giusta. Dopo poche ore di camminata ci ritrovammo nuovamente al punto da cui eravamo partiti, la catapecchia. Il corpo della ragazza era fortunatamente sparito, non avrei sopportato rivederlo e di certo non sarei stata in grado di dare spiegazione sull’accaduto. Avevo deciso che saremmo tornati verso la cornucopia, era lì che l’altro ragazzo, così mi aveva detto Declan, si era diretto fuggendo.  Da quel punto ci mancava davvero poco strada, fortunatamente. Quella notte non avevo dormito e ora cominciavo a sentire la stanchezza. Camminammo e camminammo ancora per quella desolata e nebbiosa pianura fino a vedere in lontananza il cimitero dal quale eravamo scappati soltanto poco tempo prima. Ci addentrammo in quella necropoli che sembrava non terminare mai, illuminata dalla fievole luce della luna.
-D-declan… - lo chiamai con l’amaro in bocca e la voce tremolante.
Non avevo ancora dato un’occhiata alle lapidi disseminate in quel campo ma in quel momento desiderai non averlo mai fatto. Lui si avvicinò e con il terrore in volto non riuscì a non contemplare il nome di una donna scritto su quella pietra tombale. Maire Blackbourne, la madre di Declan. Il tempo sembrò fermarsi. Maire non era morta…almeno non lo era fino alla nostra entrata nelle’Arena. Il tempo sembrò congelarsi. Potevo perfettamente sapere cosa quale paura si stava facendo spazio nella sua mente, perché era lo stesso timore che provavo anche io
– E’ uno scherzo, Declan. Gli strateghi ti stanno solo prendendo in giro. E’ ancora viva – cercai di consolarlo ma nemmeno io ero sicura di quello che stavo dicendo. Avevo davvero paura di aver torto. Lo trascinai a forza verso la cornucopia, io stessa avevo paura di guardare le altre pietre sacrali, non volevo scoprire che altri nomi avessero inciso, Declan non era dello stesso avviso. Stavo speditamente camminando con lo sguardo basso per non essere ulteriormente tentata quando in lontananza mi sembrò di notare delle ombre avvicinarsi lentamente verso di noi. Prima uno, poi due, tre e quattro, fino a quando non diventarono quasi due dozzine. Ma non delle ombre, erano dei corpi umani, o almeno quello che rimaneva di loro. Dei ragazzi… io non avevo mai creduto alle storie che parlavano di zombie e non morti, ma in quel momento avrei tanto voluto sapere molto di più sul loro conto. Ci bloccammo immediatamente, congelati, persino il mio respiro si fermò per qualche secondo.
– Cosa dovrebbero essere quelli? – chiese tremolante indicando quell’esercito che stava per travolgerci.
– Sono zombie. Davvero non sai cosa sono?! – l’avevo intuito ma ne volevo una conferma, perché mi guardava così male?
– Scusa, ma non mi sembra di aver mai incontrato un zombie in vita mia! -   gli risposi scontrosa, ero davvero agitata in quel momento.
Lui inspirò profondamente, forse un metodo per non cominciare ad insultarmi visto il momento di pericolo in cui ci trovavamo.
– Qual è il nostro piano allora? – Stavamo avendo una conversazione parecchio longeva ma quel gruppo di zombie si avvicinava molto lentamente, non sembravano avere la totale facoltà deambulatoria, avevamo tempo.
– Sono sicura che l’uscita sia all’interno della cripta, dobbiamo ritornare lì – risposi indicando la cornucopia proprio alle spalle dell’orda di non morti. Lui annuì.
– Non risparmiare frecce, se arriviamo vivi all’uscita non ti serviranno – non aveva torto. Questa volta fui io ad annuire.
Più i nostri nemici si avvicinavano più potevo distinguere i loro volti nitidamente. Erano così famigliari, quegli occhi azzurri così limpidi. Fu in quel momento che realizzai che la ragazza con la quale avevo combattuto recentemente mi stava venendo in contro, pronta a vendicarsi di me. Presi un respiro profondo, estrassi una freccia e la incoccai immediatamente. La distanza che ci divideva da loro era nettamente diminuita, erano a pochi metri da noi. Inizia ad avanzare ma sentivo l’ansia crescere dentro di me. Chiusi gli occhi, presi la mira e tirai la mia prima freccia, essa colpì perfettamente il petto del primo zombie che mi ero trovata davanti, mostrandone alle sue spalle ancora altri due. Mi avvicinai ulteriormente, quasi immischiandomi tra le loro file, ma quasi nessuno sembrò fare caso a me, soltanto quelli che mi ritrovai di fronte sembravano vedermi. Gli zombie avanzavano ma sembravano essere fatti soltanto per spaventarci non per ucciderci. Incoccai la secondo freccia e la scagliai, poi feci la medesima cosa con la seconda. Ognuna sorprendentemente arrivò a destinazione senza nemmeno fare molta fatica. Avevo quasi oltrepassato l’ultima fila quando mi voltai indietro. Oltre a Declan ora ci avevano raggiunti anche altri due tributi, non conoscevo nessuno dei due fortunatamente. Una ragazza dai capelli biondi e corti, circa della mia età e un ragazzo più grande dai capelli neri e occhi di un grigio molto particolare. Quei due ragazzi non mi avevano distratto nemmeno per pochi attimi che già un non morto mi aveva raggiunto e stava per attaccarmi. Non ebbi il tempo materiale per ucciderlo con una freccia ma usai comunque il legno dell’arco per colpirlo. Quell’ibrido, perché sicuramente si trattava di questo, cadde a terra e dopo neanche un minuti di lui non rimase nulla. Soltanto fumo e qualche schifoso liquame cancerogeno color verde ai miei piedi. Ormai avevo superato l’ultima delle loro file e avevo abbastanza spazio per correre via e scappare verso l’uscita.
– Declan!- urlai richiamandolo.
Lui si fece spazio tra gli zombie e in pochi secondi fu al mio fianco. Purtroppo notai la sua ferita alla gamba e il fatto che non si reggesse quasi in piedi. Perché quegli esseri non avevano provato ad attaccarmi? Ero forse troppo brava? Non credo proprio. Riuscii a trascinarlo fino all’interno della cripta dalla quale tutte le armi e gli zaini erano spariti, rimanevano soltanto le lapidi ed il silenzio.
– Rose dovresti venire qui – disse con voce flebile che quasi feci fatica a sentire
– No, smettila di guardare. – insistetti tirandolo ancora per i vestiti ma lui sembrava non volersi muovere così seguii il suo dito che indicava una tomba famigliare, alzai lo sguardo e vidi ciò che non avrei mai voluto vedere. Nella lapide centrale erano state incise cinque semplice parole:

 

Roseleen Snow
Traditrice della Patria

 

Oltre al terrore che mi faceva tremare il sangue e i polsi, la rabbia che avevo trattenuto fino a quel momento stava cominciando ad affiorare. Sapevo esattamente l’autrice di quello scherzo di cattivo gusto
– Coin – sibilai tra i denti.
La guerra era cominciata. Poteva provare a spaventarmi in tutti i modi, ma non le avrei mai dato la soddisfazione di vedermi in ginocchio. Inoltre potevo contemplare anche tutte le lapidi della mia famiglia, morti e non. Mia madre, mio padre, mio nonno e tutti gli altri. La Coin, quella stupida donna, non sapeva contro chi si stava mettendo contro. Stavo ancora cercando di contenere la mia rabbia quando qualcuno irruppe nella cripta, il ragazzo di prima, a quanto pare ce l’aveva fatta anche lui. Avevo il volto spaventato, terrorizzato da tutto ciò che gli stava accadendo. Tentennò un po’, subito dopo senza nemmeno dire parola fece retromarcia e cercò di scappare, lontano da noi, da me, dalla traditrice della patria. Ma non arrivò lontano, non fece in tempo a fare due passi che una mia freccia gli aveva trafitto da parte a parte la gola. Declan mi guardò malissimo, stupito quasi deluso ma non era colpa mia, quella donna tirava fuori il peggio di me. Mi faceva sentire in colpa di qualcosa che non avevo fatto, come se fossi colpevole di tutti gli orrori che la nostra nazione aveva subito soltanto per colpa di mio nonno, perché si era sempre trattato di questo. Tutti mi avevano sempre paragonato a lui, tutti mi vedevano come Rose Snow, la nipote del presidente e nessuno aveva mai provato a conoscere la vera me. Odiavo la mia famiglia e forse quello che tutti noi meritavamo era proprio quello di finire sottoterra, almeno questo era ciò che la nuova presidente voleva. Stavo letteralmente impazzendo, camminavo nervosa avanti e indietro sotto l’occhio spaventato di Declan che non diceva nulla forse per la paura di finire come quel ragazzo. Mi avvicinai nuovamente alla mia lapide e presa da un momento di pura follia la colpii furiosamente con un pugno, frantumandola completamente. All’interno ovviamente non vi era nulla, non ancora almeno. Guardai poi la mia mano sanguinante, la stringevo sempre più strettamente, atto che mi procurava ancora più dolore ma per la prima volta non me ne importava niente.
– E’ qui! – esclamai tutto d’un tratto
– Qui cosa? – mi chiese lui mettendosi al mio fianco e guardando a sua volta la tomba
– L’uscita dell’Arena. Aiutami. – gli spiegai mentre aiutandoci con tutto ciò che avevamo a disposizione cercavamo di sgretolare anche tutte le altre lapidi.
Fu proprio quando anche l’ultima cadde a terra che finalmente ritrovammo la luce, la via di fuga. Cominciammo a correre verso quello spiraglio di speranza che ancora ci teneva stretta alla vita.
Mi svegliai nuovamente su un lettino, continuavo a vedere bianco e gli stessi medici mi correvano intorno freneticamente. Osservai il mio pugno e tutte le ferite che avevo riportato. Ancora una volta erano scomparse, o almeno quasi del tutto. Mi alzai dal lettino e dopo aver assicurato i dottori che mi sentissi bene ed averlo quasi pregati di andarsene, fui lasciata sola. Camminai a piedi nudi nel mio camice avanti e indietro per quella ampia stanza fino a quando non vidi nuovamente Senan varcare la porta. Mi abbracciò ancora, come faceva sempre e io per un momento fui felice. Sapevo che lui non mi avrebbe mai giudicato per quello che avevo fatto, non mi avrebbe mia considerato un mostro.
– Sono felice di vederti – gli confessai io questa volta
– Sono felice anche io, riccioli d’oro – mi rispose.
Questo era offensivo. Lo guardai seria ma poi non potei lasciarmi andare ad una fragorosa risata, seguito poi da lui
– Non chiamarmi più così, promesso? – gli dissi allungando il mignolo verso di lui, volevo una vera promessa.
– Promesso – mi strinse a sua volta il dito e mi sorrise
– Sai, è stato offensivo… - continuai a voce bassa, non mi era piaciuta molto come battuta, proprio no
– Che Arena era? – gli chiesi subito dopo
– Era la replica della 69sima edizione. La vincitrice fu Johanna Mason, forse la conosci – mi rispose. Io scossi la testa
– Ha fatto da mentore anche quest’anno…la ragazza che hai incontrato quella notte nella casa abbandonata… - sapevo cosa voleva dire.
La ragazza dagli occhi azzurri, la ragazza che avevo ucciso, la ragazza che avevo visto trasformata in un ibrido era un suo tributo. Probabilmente quella donna doveva odiarmi.
– Come si chiamava la ragazza? – gli chiesi.
Avevo bisogno di sapere il suo nome, l’avrei rimpianta per sempre e non volevo ricordarla soltanto come “la ragazza dagli occhi azzurri”
- Leah – mi rispose.
Quando ero piccola avevo una gattina che avevo chiamato così. Aveva soltanto qualche mese, il pelo bianco con qualche macchia grigia e nera e dei stupendi occhi azzurri, non diversi da quelli della ragazza. Mio madre mi spiegò anche l’etimologia di quel nome. Leah, raggio di sole.

 

 

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Capitolo 19
*** In petto soltanto un pugnale ***


Capitolo XVII – In petto soltanto un pugnale


Annuì tristemente e per un minuto lasciai che il silenzio mi riempisse il cuore, lo feci in sua memoria. In quei pochi secondi ripensai a quanto fosse precaria e corta la vita. L’ho sempre immaginata come un viaggio, un viaggio di cui non si conosce la meta ma si sa che prima o poi si arriverà perché infondo la felicità si trova nel cammino. La morte invece l’ho sempre pensata come un eterno sonno, come se  nella notte più scura, della giornata più stancante si andasse a dormire per non risvegliarsi mai più. Sono sempre stata convinta che dopo di essa non ci fosse un paradiso, perché il vero paradiso si può trovare anche sulla terra, se solo si sa cercare bene; se solo si conosce il modo per vedere la realtà, la vera realtà. Più precisamente immaginavo la mia nascita con un inizio melodioso, dai toni soffici e lenti, come la ninna nanna che mia madre mi cantava quando ero piccola. Mi immaginavo poi la mia crescita come una armonia sempre più ritmata, fresca ed energica, come una di quelle canzoni quasi senza senso che cantavo insieme alle mie amiche mentre saltavamo la corda. Infine la mia intera vita sarebbe stata una canzone d’amore con sfumature di speranza per un futuro migliore. Al principio c’è il mistero, al termine la conferma, ma nel mezzo ci sono le emozioni, che sono la vera ricchezza. La mia vita, ora lo capivo, assomigliava ad una canzone.
- Stai bene? – mi chiese Senan mentre mi aiutava ad infilarmi gli abiti profumati di lavanda, freschi e puliti.
Annuì poco sicura, io stavo bene ma ad altri non era andata allo stesso modo, dovevo sentirmi fortunata. Mi accarezzo nuovamente i capelli e mi appuntò delicatamente la spilla alla mia giacca. Sospirai pesantemente buttando fuori tutta la mia ansia, ero sopravissuta per due volte, potevo farcela. Ne ero sicura. Sembrava strano ma le mie possibilità di vincere stavano contemporaneamente aumentando poiché sempre meno tributi erano rimasti e diminuendo perché era maggiore la probabilità di essere uccisa. Ma perché mi fissavo con questi pensieri che mi rendevano sempre più ansiosa, dovevo davvero smettere di pensare. Appena fui pronta salii per la terza volta nella camera di lancio e per la terza volta sapevo che avrei potuto non tornare fuori viva.
– Spero che tu sappia…  – mi disse Senan proprio nel momento in cui le pareti trasparenti si chiusero davanti ai miei occhi.
La camera era insonorizzata e io non avevo udito niente di quello che mi aveva appena detto. Cominciai a battere contro il vetro ma lui non sembrava avere intenzione di ripetermi nulla. “Spero che tu sappia” cosa? Non ebbi abbastanza tempo per pensare che la luce del sole accecò la mia vista. Tirava un vento forte proveniente da ovest e c’era tanta umidità. Quando finalmente ripresi controllo dei miei sensi mi guardai attentamente intorno. Innanzitutto ero felice di scoprire che finalmente non ero sepolta sotto il terreno ma soltanto all’aria aperta, poi la prima cosa che osservai fu lo schermo davanti ai miei occhi, i numeri del conto finale scorrevano velocemente e una voce femminile metallica rimbombava nella mia testa senza lasciare tanto posto al pensiero razionale. Guardai prima alla mia destra e poi alla mia sinistra i ragazzi rimasti che mi circondavano. Non ne capirò mai il motivo ma gli strateghi avevano lasciato che le piattaforme dei tributi morti fossero lasciate al loro posto, forse per infierire maggiormente sulla nostra sanità mentale e paura. Davanti a me il profilo scintillante della cornucopia gettava lunghe e inquietanti ombre sulla piana argillosa e sassosa su cui ci ritrovavamo. Alla mia destra iniziava una valle lussureggiante fatta di una fitta boscaglia mentre alla mia sinistra vi era soltanto un precipizio. Cominciai ad osservare attentamente i tributi rimasti, troppo pochi. Per mio immenso dispiacere proprio a due piattaforme di distanza da me potevo intravedere la figura estremamente slanciata e veloce di Nita, mentre Declan, dalla parte opposta a me, era stato altrettanto sfortunato poiché alla sua destra si ergeva fiero Fallon con i pugni serrati pronto al combattimento. Non riuscii a fissarlo per molto tempo, avevo ancora paura che i suoi occhi potessero incenerirmi soltanto con uno sguardo. Chiusi gli occhi e trasportata dal vento saltai giù dalla mia piattaforma. Fui incerta in un primo momento ma proprio quando vidi i due favoriti appropriarsi per primi di qualche arma, voltai le spalle alla cornucopia e scappai. Correvo veloce ma altrettanto spaventata, sfrecciavo giù dalla valle e m’immergevo nella fitta foresta dagli alti rami e dalla vegetazione fiorente. Con me non avevo nulla, ero stata troppo codarda da affrontare il bagno di sangue ma sapevo che in quel momento era la cosa giusta da fare. Katniss, molto probabilmente, avrebbe approvato. I miei pensieri mi portarono a chiedermi se in quel momento mi stesse guardando, se capisse cosa provassi e se fosse fiera di me. Alla fine non eravamo poi così diverse ed ero sicura che non mi avrebbe giudicato per quello che avevo fatto. Forse sarebbe stata l’unica a non farlo, lei mi capiva, ne ero sicura. Oltrepassai il limite della foresta ma fui costretta a fermarmi quando qualcosa di inaspettato mi si mostrò davanti. Un lungo fiume largo circa dieci metri mi si era parato davanti. La sua corrente era forte e furiosa come un uragano che travolge qualsiasi cosa che si trova sul suo cammino. Incrociai le braccia e cominciai ad analizzare la situazione. Dovevo arrivare dall’altra parte, questo era sicuro, ma come? Mi guardai intorno, non mi sentivo di affrontare a nuoto quelle raffiche e vicino a me non c’era nessun oggetto che avrebbe potuto aiutarmi, o forse c’era. Solo in quel momento notai le rocce lisce allineate perfettamente lungo il letto del fiume, avevo trovato la mia strada. Mi avvicinai sempre di più alla riva e con un lungo e non troppo faticoso salto mi ritrovai in equilibrio sulla prima pietra che ora mi risultava un po’ troppo scivolosa. Con cautela appoggiai la seconda gamba e mi diedi nuovamente la spinta per poi atterrare pochi attimi dopo sulla seconda. Senza troppi problemi ripetei la stessa azione per altre otto volte fino a quando arrivai all’altra riva. A quel punto ricominciai la mia corsa ma realizzando che nessuno mi stava seguendo rallentai. Mi fermai a riprendere fiato appoggiandomi ad un albero mentre iniziavo a pensare dove avrei potuto dormire e dove avrei trovato del cibo. La prima volta ero stata fortunata a trovare una confortevole grotta ma quella volta non mi sarebbe andata così bene. La temperatura da quando erano iniziati i giochi non era eccessivamente diminuita così sperai che la cosa valesse anche per la notte e che per un po’ di tempo mi sarebbe bastata soltanto la giacca che avevo indosso. Fu quando ripresi il mio viaggio che sentii la fine del bagno di sangue, suonò soltanto un cannone. Cominciavo a vedere il sole tramontare così decisi di fermarmi. Trovai un albero dai rami abbastanza larghi da sostenere il mio peso e da permettermi di passarci una notte. Cercai lì a torno qualche bacca e frutti del genere, ne raccolsi un po’ e li mangiai nell’arco di davvero troppo tempo ma sarebbero bastati, mi accontentai. Scalai l’arbusto e trovai una postazione abbastanza confortevole che non mi avrebbe permesso di muovermi eccessivamente durante il sonno. Appoggiai la schiena al tronco e cominciai a guardare il cielo ormai quasi completamente oscurato. Tra le fronde s’illuminò il simbolo di Capitol City seguito subito dopo dalle note dell’inno nazionale. Quella sera apparve il volto soltanto di una ragazza della mia età, non avevo avuto il piacere di conoscerla e quindi non sapevo come si chiamasse. Ma ero così piena di sonno a quel punto che poco me ne importò. Era strano come da quando ero entrata nell’Arena quegli incubi che mi avevano tanto assillato sembravano completamente svaniti. Nella realtà che stavo vivendo avevo trovato dei punti in comune con quei sogni, l’oscurità spezzata dalla sola luce della luna, il ruscello e i rami spezzati ma non riuscivo a ricollegarli insieme. Fui di colpo risvegliata da un urlo femminile che proveniva da non troppo lontano. Mi arrampicai ancora più in alto per una maggiore visuale ed ecco che la vidi. Una ragazza bionda di circa diciotto anni stesa a terra agonizzante, in petto soltanto un pugnale. Non seppi perché lo feci ma velocemente discesi e corsi in suo aiuto, pronta a riscattare la mia anima. Mi guardai bene dal non farmi trovare dal suo uccisore ma lui era scappato ormai da qualche tempo, doveva  avere molta fretta, come se non si volesse far trovare. Mi gettai a terra accanto al suo corpo mentre lei voltava il capo verso di me. Mi sorrise.
–Sono qui, non ti preoccupare – la confortai stringendole la mano.
Non sapevo bene cosa fare, non ero mai stata brava in queste cose…ero una frana, ecco.
– O-ok, adesso tolgo questo pugnale…- dissi con la voce tremolante, volevo che non avesse paura ma come biasimarla.
Appoggiai lentamente la mia mano sinistra sul suo petto e con quella libera, in un solo colpo ben fermo, le sfilai il coltello gettandolo malamente lontano. I suoi lamenti s’intensificavano sempre di più e io non potevo fare altro che spaventarmi maggiormente, avevo forse la possibilità si salvarla e non sapevo cosa fare. Lei m’indicò il suo zaino che notai proprio in quel momento. Mi alzai velocemente e cominciai a tirare fuori ciò che c’era all’interno. Cibo, una borraccia d’acqua, fortunatamente delle bende e una crema che sarebbe potuta servire. Era stata molto fortunata. Le spalmai lentamente la medicina sul petto e le fasciai il busto con le bende. Per un po’ di tempo sarebbe potuto andare bene. Lei respirava a fatica ma da quando l’avevo trovata sembrava stare meglio, qualunque cosa le avessi messo stava funzionando e anche molto velocemente. Dopo pochi minuti si sentii abbastanza bene da tirarsi su e mettersi a sedere e così feci anch’io.
– Sono Rose – le dissi sorridendo
–So chi sei – mi rispose non esattamente gentilmente.
Sapevo dove sarebbe andata a finire quella discussione. Tra noi calò il silenzio per un po’ di tempo, nessuna di noi due sapeva cosa dire, c’era imbarazzo
– Grazie – bisbigliò lei con mia grande sorpresa
– Di niente – le risposi io.
Le avevo salvato la vita, un grazie almeno me lo meritavo.
–Chi è stato? – chiesi mentre la vedevo chiudere gli occhi e respirare lentamente e profondamente
– Non lo so, non lo conosco. – era chiaro che non voleva parlare con me, ma io sì
– Descrivilo – la obbligai quasi, lei girò il volto verso di me e sbuffando ricominciò a parlare
– Era buio, non l’ho visto alla perfezione ma so per certo che aveva dei capelli scuri – Il primo ragazzo che mi venne in mente e che avrebbe potuto fare del male fu Fallon
– Era da solo? – Lei annuì.
Strano, probabilmente si era sbagliata. Nita doveva essere stata nascosta da qualche parte. Questo voleva significare che probabilmente erano ancora qui vicino, qualcosa mi diceva che dovevo andarmene e in fretta. Insieme guardammo la luce del sole nascere all’orizzonte, stava cominciando il secondo giorno.

Risponde l'autore
Scusate l'attesa per questo capitolo. Ho recentemente cambiato pc quindi ho dovuto trasferire tutti i miei lavori, programmi e quanto altro nel nuovo computer e non ho avuto tanto tempo per scrivere. Grazie per le recenti recensioni e scusate se nell'ultimo capitolo non ho inserito le considerazioni che faccio sempre alla fine, piccola dimenticanza. Sapreste quindi dirmi di che tipo di Arena si tratta? Indizio... il fiume... Concludendo, grazie a tutti e continuate e recensire.

 

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Capitolo 20
*** Sulla Cresta dell’onda ***


Capitolo XVIII – Sulla Cresta dell’onda


Guardai il sole nascere all’orizzonte. Il cielo aveva preso colori che variavano al trascorrere dei minuti, dal nero della notte passò all’arancio dell’aurora per concludersi con un azzurro della mattina più splendente e calda. Osservavo il paesaggio intorno a me mentre… solo in quel momento mi resi conto che ero stata davvero sgarbata a non chiedere il nome della ragazza a cui avevo salvato la vita, o almeno lei era stata maleducata a non dirmelo. Avrei rimediato più tardi. Guardai le sue spalle alzarsi ed abbassarsi seguendo il suo respiro ormai diventato calmo e il suo capo crollare di tanto in tanto di lato. Sorrisi tra me e me e mi alzai. Non sapevo bene se il cibo che avevamo sarebbe bastato per due o se lei avrebbe deciso di condividerlo con me, in ogni caso avremmo dovuto migrare e cercare un luogo più sicuro dove sfamarci. In quel momento mi mancò tanto il mio arco. Ne avevo visto uno alla Cornucopia ma molto probabilmente ora era in mano di un qualche altro tributo, non mi piaceva immaginare che il suo possessore fosse Nita. Vagai avanti e indietro per quella non molto vasta distesa con le braccia incrociate aspettando che la mia alleata si svegliasse. Sentivo gli uccelli cantare felici nei loro nidi e qualche volta intravidi degli stupendi esemplari di scoiattolo sgattaiolare su per gli altri rami degli alberi. Tutto sembrava così calmo, ma perché non mi sentivo al sicuro?
– Pensierosa? – mi chiese la ragazza vedendomi camminare e camminare. Il tono sembrava quasi canzonatorio
– Tu non lo sei? – le chiesi di rimando io. Lei sorrise.
Sembrava quasi uno scambio di battute sarcastiche, come se volessimo offenderci senza dircelo apertamente
– Chi non lo è – disse lei a me.
– Ti sei risposta da sola – conclusi io. Non mi andava veramente di parlare con lei.
– Non ti ho nemmeno chiesto come ti chiami – continuai subito dopo.
Lei temporeggiò per qualche secondo, era chiaro che non si fidasse di me, non mi importava
– Cary – mi rispose quasi come se l’avessi obbligata. Un po’ di riconoscenza, non chiedevo molto.
– Cary, credo che dovremmo muoverci. Qui non è più sicuro – affermai con voce convinta.
Lei si alzò un po’ tremolante, aveva subito una ferita molto profonda e le mie cure non sarebbe bastate a lungo ma almeno era viva.
– Non credo di poter andare molto lontano ma ci proverò – mi rispose determinata
– Questo è lo spirito! – risposi mettendomi il suo zaino in spalla e nascondendo il suo pugnale nel mio stivale, a lei non sarebbe servito, o forse si, in ogni caso ora era mio. Non mi sentivo sicura senza un’arma, ci avrei pensato io alla sua protezione. Ci incamminammo per la foresta fino a giungere al suo limite, proprio sulla riva del fiume che avevo visto il giorno prima. Seguimmo il suo letto per molti chilometri, circa per tre ore ma non arrivammo da nessuna parte, quell’Arena era tutta uguale. Acqua e foresta, nient’altro. Riempimmo la boraccia molto spesso, in due la svuotammo numerose volte e durante il cammino finimmo quasi tutto il cibo a nostra disposizione. Man mano che ci avvicinavamo alla sorgente del fiume, la salita aumentava mentre la portata d’acqua diminuiva visibilmente ad ogni metro. Il paesaggio fluviale e collinare si era trasformato ora in uno montano, vedevo stambecchi saltellare felici su per i pendii rocciosi più alti, alberi muschiati e percepivo la temperatura abbassarsi. Eravamo circondate da entrambi i lati da fitte foreste di conifere. Il mio stomaco cominciava a brontolare e molto sicuramente Cary si trovava nella mia stessa situazione.
– Hai fame? – le chiesi premurosa. Lei annuì. Mi guardai attorno.
– Potremmo provare a cacciare qualcosa, va bene? - Annuì nuovamente.
Quella ragazza era davvero di poche parole. Mi sembrava di parlare con un muro, era davvero frustrante. Mi seguii nel bosco ed insieme riuscimmo ad uccidere qualche povero ed indifeso scoiattolo. Cary si offrì di pulire la carne mentre io, disubbidendo a tutti gli ordini che mi erano stati dati, accesi un piccolo fuoco, niente di esagerato, sarebbe servito a cuocere molto velocemente e non avrebbe prodotto molto fumo. Sperai in bene. Riscaldammo tutto il nostro animaletto e ci affrettammo a spegnere ed ad andarcene. Molto probabilmente qualcuno era già alla nostra ricerca.
– Togliamoci le scarpe e camminiamo nell’acqua, faremo perdere le nostre tracce – consigliai a Cary e lei sembrò essere d’accordo.
Il fiume in quel punto non aveva una alta portata e l’acqua non era molto alta. Mi tolsi le scarpe e immersi i miei piedi fino alla caviglia. Era una sensazione direi unica. Sentivo la freschezza e potevo vedere degli stupendi pesci di piccola taglia nuotarmi spensierati intorno. Passai tutto il tragitto ad osservare l’acqua trasparente ai miei piedi. Da quando ci eravamo incontrate non avevamo avuto una vera conversazione, io e Cary. Sapevo che non le stavo davvero simpatica e di certo non dimostrava il contrario. Ma ci trovavamo in quella situazione non per fare amicizia ma per sopravvivere quindi poco importava.
–Davvero non ti ricordi chi ti ha aggredito la scorsa notte? – le chiesi innocentemente.
Lei si bloccò con il volto basso e corrucciato. Sospirò profondamente.
– Te l’ho detto, era buio e non ho visto bene. So soltanto che aveva dei capelli castano scuro, ecco – mi rispose. Era inutile. Lasciai perdere.
Comunque ero sempre più convinta che fosse stato Fallon. Anche se, d’altro canto, non mi sarei mai aspettata da lui un lavoro così frettoloso e superficiale. Se lui avesse deciso che Cary sarebbe dovuta morire, Cary sarebbe morta. Uscimmo dall’acqua e cominciammo a nostro malgrado a salire un pendio alquanto ripido. Il sentiero era roccioso e non molto facilmente percorribile, non mancarono le volte in cui inciampammo in sterpaglie o buche disseminate qua e là. Ci immergemmo nuovamente in una fitta foresta, ormai a noi così famigliare. Per un primo momento ebbi anche paura di essermi persa. Il paesaggio era tutto identico, non variava mai. Un lungo fiume circondato da fitta boscaglia. Mi chiesi che tipo di Arena fosse, dovevo essere piccola quando furono giocati questi giochi perché non mi sembrava di aver mai visto qualcosa del genere nella mia memoria più recente.
– Dove siamo? – mi chiese Cary esausta.
– Non lo so… - le risposi sconsolata gettando malamente lo zaino a terra.
Non sapevo più dove andare. Il cibo era terminato da qualche ora, così come l’acqua e più vagavamo e più eravamo stanche, se qualcuno ci fosse venuto incontro in quel momento sicuramente non ce la saremmo cavata.
– Vuoi fermarti? – le chiesi. Lei annuì. La aiutai a stendersi, la sua ferita stava peggiorando nuovamente.
Le tolsi le vecchie bende, completamente insanguinate e dopo aver medicato la ferita ne usai delle nuove. Tutto questo vagare le stava davvero facendo male, forse non avrei dovuto obbligarla a muoversi o forse non avrei dovuto allearmi con lei. Mi rallentava e mi rendeva più debole di quanto già non fossi. In quel momento avrei preferito abbandonarla al suo destino ma non potevo di certo farlo. Mi sentii in colpa soltanto a pensarlo.
– Stai meglio? – le domandai ancora.
–Si, grazie – mi rispose lei sorridendo. Io ricambiai
– Sai, credo di averti giudicata male, Roseleen Snow- continuò Cary – Tu non sei come lui – terminò.
Era la prima persona che finalmente riusciva a vedere la Rose che era stata fino a quel momento invisibile.
– Grazie  - le risposi io  – Significa molto per me – continuai
– Mi hai salvato la vita, ti devo tutto – scossi la testa
– Mi basta questo – guardai il cielo che si stava dipingendo di tramonto. – Vado a vedere dove siamo – le si alzò immediatamente impaurita
– No, non me ne vado. Voglio guardare da un’altra prospettiva -  interpretai i suoi pensieri indicando poi l’albero sopra le nostre teste. Ho sempre voluto ringraziare Katniss per avermi insegnato tutto ciò che ora so, senza di lei non sarei andata molto lontano. Grazie.
Scalai quanto velocemente potei afferrandomi ai rami più robusti. Impiegai circa dieci minuti ad arrivare alla sommità. Lo spettacolo era mozza fiato. Potevo avere una quasi perfetta e totale visione dell’intera Arena. Alla mia sinistra la cornucopia ormai deserta, di fronte a me il lungo corso del fiume, alla mia destra un’immensa boscaglia non diversa da tutte le altre. Ma alle mie spalle mi si parò davanti ciò che non avrei mai sospettato.  Dietro di me si ergeva maestosa, a circa trenta chilometri di distanza, una diga. In quel momento compresi in che Arena ci trovassimo, la conoscevo e anche bene. Settantesima edizione, Annie Cresta.

Risponde l'autore:
Siamo già arrivati al capitolo 18 (+2)... wow, non pensavo di poter scrivere così tanto ma sopratutto non pensavo che la mia fan fiction vi sarebbe piaciuta così tanto. Vi ringrazio molto. Vi ho finalmente svelato che tipo di Arena di tratta, Anni Cresta. Vi ricordate qualcosa su di lei e sulla sua edizione? Se si, potreste anche sapere che cosa sta per accadere. Come trovate il nuovo personaggio, Cary? E chi pensate sia stato ad aggredirla? Posso dirvi soltanto che manca soltanto un capitolo al termine di questa Arena e poi si arriverà al gran finale...

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Capitolo 21
*** Basta che siamo insieme ***


Capitolo XIX – Basta che siamo insieme


Scesi velocemente dall’altro albero cercando di non farmi male e ritornai da Cary
– Tu non crederai mai a cosa ho visto là sopra! – annunciai ancora stupita.
Ero quindi partita dalla Cornucopia che si trovava, se i miei calcoli non erano errati, a est. Subito dopo avevo proseguito verso sud attraversando il letto del fiume, mi ero poi immersa nella boscaglia a ovest, dove avevo trovato Cary e ora stavamo viaggiando verso nord. Mi sentii davvero soddisfatta di me stessa, non credevo di essere così brava a orientarmi, spesso facevo fatica anche a ricordarmi da che parte sorgesse il sole. Cerco sempre di tenermelo in mente, ho così tante cose nella testa che spesso ho il terrore di dimenticare persino il mio nome.
– Che cosa? – mi chiese allora lei alzandosi il più velocemente possibile
– Proprio alle nostre spalle a circa trenta chilometri da qui, ho visto una diga – Cary mi sembrò un poco perplessa
– Allora? – probabilmente non aveva compreso. Oh, quanto mi mancava Declan, lui mi avrebbe capito all’istante.
– Beh, sono sicura che sia lì che dobbiamo dirigerci. E’ lì che si torva l’uscita dell’Arena – Cary incrociò le braccia.
Non era sicura della mia supposizione e fondamentalmente potevo comprenderla. Nemmeno io ero certo di aver ragione, avevo questo sesto senso che mi diceva di andare lì, nient’altro. La mia non era esattamente un’affermazione con una base scientifica o di effettivo valore reale.
– Dobbiamo provarci - cercai di convincerla sorridendole.
– Ce la fai a camminare? – continuai premurosamente. Cary mi sorrise di rimando con uno strano luccichio negli occhi
– Devo farcela. Voglio soltanto uscire da qui – Ripresi da terra il suo zaino e me lo rimisi in spalla.
Riprendemmo la strada con la quale eravamo arrivate fino a quel punto, avevamo imboccato la giusta via a quanto pare. Si stava quasi facendo notte ma sapevo che sia io che Cary saremmo potuto andare avanti per ore e ore solo con la speranza di vedere la fine di quell’incubo. Il buio e le tenebre ci circondavano in ogni dove, gli alberi avevano assunto forme terrificanti e l’unica fonte di luce era la luna che splendeva limpida sulle nostre teste. Nuovamente la luna, proprio come nel sogno. Avrei tanto voluto comprendere il significato di quelle immagini ma davvero non ci riuscivo. Erano frammenti senza senso, tutti riconducibili a inquietanti déjà vu.
– Sei stanca? – le chiesi a bassa voce. L’arena era grande e erano rimasti pochi tributi ma proprio come la prima notte, quando in un piccolo spazio si erano incontrati quattro tributi, esisteva sempre la possibilità di essere seguiti o sentiti da qualcuno.
– No, per niente – probabilmente mentiva ma sapevamo entrambe di non poter resistere ancora a lungo.
Camminavamo ormai da circa tre ore e l’unico suono che potevo udire oltre ai nostri passi erano melodie di civette e gufi nella notte. Non potevamo comunque permetterci di addormentarci, per due motivi: uno, non avremmo trovato un posto in cui coricarci, non sarei mai riuscita ad issare Cary su di un albero e due, restava sempre la paura di essere aggredite. Ci mancava poco, potevamo farcela; dovevamo farcela. Feci l’enorme sforzo di risalire su di un albero e controllare la nostra precisa posizione. Tra le tenebre potevo notare soltanto i contorni non del tutti definiti della maestosa diga che si ergeva sempre più vicino a noi. Non eravamo lontane. Quasi come uno scoiattolo ridiscesi velocemente e balzai a terra con un salto fin troppo rumoroso. Se qualcuno era lì vicino, di sicuro ci aveva sentiti.
– Non intendevo… - mi scusai del troppo frastuono bisbigliando. Cary alzò gli occhi al cielo e incrociò di nuovo le braccia.
– Siamo vicine, comunque – continuai subito dopo.
Lei ne sembrò felice, era chiaramente esausta. Mi accasciai contro la corteccia dell’albero alle mie spalle e chiusi per qualche attimo gli occhi e così fece anche lei. Non mangiavamo da quasi dodici ore e i nostri stomachi cominciavano a farsi sentire, anche troppo.
–Dobbiamo mangiare qualcosa – annunciò Cary restando seduta
– Lo so, ma sono un poco stanca –mi lamentai allora io
– A chi lo dici… - non aveva appena detto di non essere stanca? Comunque  la capivo.
– Cerchiamo qualche bacca qua in giro e preghiamo che non siano velenose – dissi io.
Cary si limitò ad annuire e a iniziare la ricerca. Dopo una mezz’oretta ci eravamo già messe in viaggio. Avevamo percorso ormai molti chilometri quando, attraverso le fronde degli alberi, cominciai a vedere il sole alzarsi. Era mattina. Eravamo così felici di aver passato la notte indenni che cominciammo a correre e in meno di dieci minuti ci ritrovammo al limitare della boscaglia proprio davanti alla diga. Ci iniziammo a guardare intorno, non vi era nessuno. A fatica cominciammo a salire, seguendo passi montani molto stretti e in pendenza. Stavo osservando un colorata farfalla volare via dalla mia mano quando alle mie spalle, tra i cespugli erbosi sentii muoversi qualcosa. Mi girai di scatto e allungando la mano verso il mio stivale destro, afferrai il coltello. Poi niente. Preoccupate ricominciammo a muoverci circospette. Qualcosa o peggio qualcuno ci stava seguendo. Stavo controllando che nessuno attaccasse Cary quando dietro alle sue spalle, spuntò ridendo e scherzando Nita.
– Ti ho fatto paura, Snow? – mi chiese sorridendo maleficamente sfiorando con il suo indice la lama affilata del suo pugnale. Alla cintura ne aveva almeno altri sei.
– Spaventata da te? Non ci sperare – le risposi cercando di non far trasparire troppo la mia tensione.
Cominciammo ad indietreggiare, eravamo spacciate.
– Stai mentendo Roseleen. Non provare a fare la dura perché non ti si addice. – sentivo il mio sangue ribollire nelle mie vene.
Nascosi il pugnale, che Nita non aveva ancora visto, sotto la mia maglietta. – Vedi, ti ho cercata per molto tempo e devo ammetterlo, sei stata brava a nasconderti – continuò avvicinandosi sempre di più a noi. Eravamo giunte allo stretto passaggio che portava proprio alla sommità della diga.
– Non mi sono nascosta. Sei tu che non sei riuscita a trovarmi – le risposi di rimando e questo la fece infuriare ancora di più.
Impugnò fermamente l’arma e ci guardò fisse negli occhi. Mi feci due domande in quell’esatto momento. Uno, chi avesse colpito prima, se me o Cary e due, se dopo la morte ci fosse veramente il paradiso. Guardai la mia alleata, entrambe sapevamo di non poter restare ferme, dovevamo almeno cercare di scappare. Mi scambiai con lei uno sguardo d’intesa e appena vidi Nita alzare il braccio, pronta a lanciare, cominciammo a correre. Vidi il pugnale sfiorarmi il braccio sinistro e non ferirmi, lo raccolsi da terra e senza darle nemmeno il tempo di mirare avevamo già svoltato l’angolo, dirette sulla diga. Mandai avanti Cary, era me che la nostra nemica voleva uccidere, ma lei si bloccò davanti a me tanto che io mi scontrai con la sua schiena. – Corri! – le urlai ma lei era troppo traumatizzata.
–E’ lui! – bisbigliò indicando davanti a sé.
Alzai lo sguardo e proprio dietro ad un affannato Declan, si ergeva fiera la figura di Fallon. Ci avevano intrappolato, ci avevano teso una trappola. Eravamo spacciati. In un primo momento non capii cosa Cary intendesse con “E’ lui” ma poi compresi. Aveva riconosciuto il suo quasi assassino ed era lui, l’alleato di Nita, come avevo previsto. I due tributi favoriti, così ormai avevo preso l’abitudine di chiamarli proprio come i ragazzi dei distretti uno, due e quattro ai tempi dei veri Hunger Games, impugnavano soltanto dei pugnali. Nita era dietro di me, Fallon dietro a Declan. Eravamo circondati. Entrambi contemporaneamente scagliarono la loro arma e noi tutti fummo abbastanza pronti da abbassarci al momento giusto. Mi rialzai velocemente e lanciai contro Nita, la più vicina, il pugnale che mi aveva “cortesemente” regalato. E’ forse inutile dire che la ferita che le procurai fosse vana, o almeno così credevo.  La vidi avvicinare la mano al braccio destro, chiaramente sanguinante. Le avevo annullato in un solo colpo la sua capacità di lanciare coltelli e lei era chiaramente molto furiosa. Si scagliò urlando verso di me ma non mise mano alle armi, le lasciò inutilizzate nella sua cintura. Voleva uccidermi a mani nude. Stetti ferma fino a quando usando la mano sinistra Nita non provò a colpirmi con il suo pugno. Era molto forte ma la rabbia che ora provava l’avrebbe portata a commettere errori e quello sarebbe stato il mio momento. Scansai facilmente il suo colpo e gliene assestai uno destro proprio sulla mascella sinistra. Ero così sicura di colpirmi che più che farsi male si sentii ferita nell’orgoglio. I suoi occhi erano ora di brace. Le diedi il tempo si riassestarsi, non volevo una battaglia non alla pari. Mi girai un attimo si secondo soltanto per vedere come se la cavavano Cary e Declan che a quanto pare stavano dando del vero filo da torcere a Fallon. Tre contro due, avrebbero dovuto pensarci. Avrei dovuto smettere di perdere la concentrazione nei momenti meno adeguati, perché non feci in tempo a rigirare lo sguardo che Nita mi colpì con un dolorosissimo calcio allo stomaco che mi vece volare per qualche metro. Atterrai sulla pietra che mi procurò forti bruciature alle braccia da aggiungere al dolore del colpo che avevo appena subito. Cary, proprio dietro di me mi aiutò ad rialzarmi
– Stai bene? – mi chiese.
– Sono stata meglio, ma non mi lamento – risposi mentre cercavo di respirare il più possibile appoggiando le mie mani sulle ginocchia.
Mi riavvicinai alla mia avversaria, piano e camminando. Stavamo entrambe temporeggiando, per capire i punti deboli dell’avversario e per poi colpire duro. Lei provò a colpirmi nuovamente con un pugno ma ancora una volta fui più veloce di lei. Con un mossa repentina le afferrai il braccio destro abbassandolo e la colpì con un gomito proprio tra il petto e lo sterno. Questo la spinse ad avvicinarsi sempre più al bordo della diga. La lasciai respirare per qualche secondo, era uno scontro alla pari e volevo che fosse lei ad attaccarmi per prima questa volta. Si rimise in piedi molto velocemente, forse troppo ma non mi feci spaventare. Furente mi corse in contro e io non feci altro che scansare il suo attacco cieco e non ben pensato e spingerla con la testa contro la bassa parete che avevo prima alle mie spalle. La vidi scivolare e poi cadere a terra. Un rigolo di sangue le correva ora giù per il volto. Continuai a respirare profondamente, poi girai la testa verso sinistra. Cary era a terra quasi senza sensi, aveva un pugnale conficcato nella gamba destra e qualche altra ferita qua e là mentre Declan si stava fronteggiando con Fallon proprio in quel momento. Corsi verso la ragazza e per prima cosa le sfilai cautamente il coltello, strappai la mia canottiera e molto velocemente gli legai la benda e la legai stretta. Stavo cercando di farla rialzare quando ciò che avevo dimenticato tornò a bussare alla mia porta. Sentii delle forti braccia afferrarmi il collo e trascinarmi indietro. Nita mi gettò a terra furiosamente, si era ripresa molto bene e mi tenne ferma proprio sul limite della diga. Cercavo di liberarmi ma tutto era ormai inutile. I suoi occhi di fuoco bruciavano come le fiamme di un incendio. 
– Non mi piace come ti stai comportamento, Snow – ecco che partiva il discorso che il cattivo enuncia sempre prima di ucciderti
- Sei arrabbiata perché ti sto battendo? – le chiesi ma rimediai soltanto un gancio destro.
– Non mi sembra che tu stia vincendo – mi rispose lei. Come darle torto.
Non feci in tempo nemmeno a rispondere che una figura femminile venne a salvarmi.
– Abby! – urlai abbracciandola.
Non potevo crederci. Non c’eravamo ancora incontrate da quando erano iniziati i giochi, tranne che per quei pochi secondi nel cimitero. Chi avrebbe mai pensato che proprio lei potesse salvarmi.
– Grazie – continuai sciogliendomi dall’abbraccio
– E di che?! – mi rispose sorridendo.
Ci girammo entrambe verso Nita ancora a terra. Quattro contro due, la fortuna era davvero a nostro favore.  La nostra nemica si rialzò ed estrasse un suo pugnale. Aveva paura e ora voleva passare alle maniere forti. Sia io che Abigail estraemmo i nostri coltelli, lo scontro continuava a essere alla pari, quasi… Nita non fece in tempo ad attaccarci che il terreno sotto di noi tremò. Tutti si fermarono e cominciarono a guardarsi intorno. Non poteva essere un’illusione, tutti avevamo sentito quella scossa. Nita alzò cautamente il suo braccio e colpì. Non me, non Abigail. Cary, alle sue spalle, cadde a terra. Urlai il suo nome e corsi da lei senza che nessun’altro mi ostacolasse ma non ci fu più niente da fare quando il cannone risuonò nell’aria. Stavo per correre furiosamente verso Nita ma qualcosa ci fermò
– R-ragazzi… - balbettò Abby indicando oltre la diga un’onda che si stava dirigendo verso di noi. Perché ero stata così stupida da dimenticarmi che ciò che caratterizzò la settantesima edizione fu proprio l’onda anomala che uccise tutti i tributi tranne la vincitrice? Affianco a me sfrecciò veloce Nita cercando di mettersi in salvo. Fallon le fu secondo. Subito dopo Declan mi afferrò la mano e invertendo rotta corremmo dalla parte opposta, seguiti da Abby alle nostre spalle. Corremmo spaventati giù dai pendii non diversi da quelli che avevamo percorso io e Cary… non avevo ora il tempo di rimpiangerla. Tutti sapevamo che non c’era nient’altro da fare. D’altra parte però, non era possibile che gli strateghi avessero architettato tutto questo per poi rischiare di non avere un vincitore. Ma se non avessero effettivamente voluto un vincitore? Mi bloccai e non potei fare altro che accettare il mio destino. Declan mi abbracciò e nuovamente mi baciò. Ci girammo verso l’onda sempre più vicina a noi ed aspettammo
– Stiamo per morire? – gli chiesi sussurrando
– Non mi interessa, basta che siamo insieme –
E poi l’onda ci sommerse.   


Risponde l'autore: 
Da da da daaaaaaaaaaaaaaaan. Sei tutti con il fiato sospeso, vero? Lo sapevo, lo sono anche io. Questo capitolo mi piace particolarmente, la scena della lotta e infine loro due. "Non mi interessa, basta che siamo insieme" spero di non essere l'unica ad avere i brividi. Mi sento tanto una scrittrice di harmony drammattici (?) in questo momento. Spero che sia piaciuto anche a voi. Chi pensate che riemergerà? E che cosa può significare la frase di Cary, sembra che alla fine abbia riconosciuto il misterioso tributo della foresta, no? Ben per lei, o forso non molto... povera, era un personaggio che mi piaceva molto.

 

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Capitolo 22
*** Resa dei conti ***


Capitolo XX – Resa dei conti


Per un secondo chiusi gli occhi. Sentivo il mio cuore battere forte, più del solito, bum e poi ancora bum;  sentivo il calore che si diffondeva dal mio petto e si riversava nel mio corpo; sentivo il sangue che scorreva veloce nelle vene, sintomo di vita. E tutto ad un tratto il freddo, più gelido del vento in una notte invernale. Era come essere colpiti da migliaia di pugnali, o forse peggio. Avevo provato una sensazione simile quando ero ancora piccola. Avevo forse cinque anni e insieme a mio padre mi ero recata al lago che si estende per decine di chilometri al di fuori dei confini della capitale. Quel giorno aveva deciso che mi avrebbe insegnato a nuotare. Non era mai stato un padre apprensivo e sensibile e di certo non si limitò a tenermi stretta mentre cercavo di galleggiare ma mi prese in braccio e senza che me l’aspettassi mi gettò nel lago, da sola. Non capii mai perché lo fece ma ora forse potevo comprenderlo. Non mi aveva lasciata da sola in acqua perché non era abbastanza affezionato a me da insegnarmi davvero a nuotare ma sapeva che anche senza il suo aiuto ce l’avrei fatta. Lui credeva in me. E rimasi lì, trasportata dalla corrente e immersa in quell’acqua cristallina. Avevo quasi abbandonato la speranza quando, per la seconda volta, rividi la luce. Spuntai in superficie e fu allora che finalmente ebbi abbastanza coraggio per aprire gli occhi. Ma non mi trovavo nel lago al confine della mia città e non mi trovavo in paradiso, ero ancora intrappolata nel mio peggiore incubo. Avevo perso la mano di Declan, quello fu il mio primo pensiero. L’onda ci aveva separato, forse per sempre. Chiamai il suo nome e lo cercai disperata ma di lui nessuna traccia. Nuotai fino alla riva dove mi sedetti e mi presi la testa fra le mani, riuscivo a respirare a fatica. Poi mi vennero in mente le parole di Senan, quelle che non ero riuscita a comprendere qualche giorno prima. “Spero che tu sappia…” nuotare, ecco cosa aveva cercato di dirmi. Solo ora lo capivo. Si era esposto a chissà quali torture soltanto per avvertirmi di ciò che mi sarebbe successo e io nemmeno l’avevo ascoltato. Ringraziai mio padre per avermi così crudelmente gettato in quel gelido lago, senza di lui non sarei mai sopravissuta. Mi sdraiai sull’umido prato verde, appoggiando il braccio sul mio volto. Rimasi lì ferma per qualche secondo fino a quando, dal piccolo lago che si era venuto a formare proprio a miei piedi non sentii provenire un rumore. Mi alzai immediatamente e avvicinandomi quasi a carponi verso la riva osservai attentamente il punto dai cui ora vedevo lo specchio d’acqua gorgogliare . Poi una chioma nera corvino riemerse dall’acqua. Non attesi altro tempo, sapevo a chi appartenevano quei capelli e non avrei mai voluto trovarmi lì quando Nita sarebbe riemersa. Feci retromarcia e senza pensarci due volte scappai. Proprio alle mie spalle, si mostrò una piccola porta, l’uscita. Percorsi senza nemmeno pensare quell’oscuro corridoio, seguendo quella lontana luce, che per un secondo pensai di stare inseguendo la morte. Mi risvegliai poco tempo dopo, o forse era quello che credevo. Avevo perso la condizione del tempo da un lungo periodo ormai. Non ero più certa di molte cose, poteva essere passato un giorno così come secoli. Mi trovavo nell’ormai solito lettino e continuavo ad essere accecata da quel luminoso colore bianco. Le mie ferite erano state del tutto curate, ora rimanevano soltanto le cicatrici: i segni permanenti che per tutta la vita mi avrebbero ricordato quell’orribile incubo. Mi misi a sedere ed incrociai le gambe. Mi guardai le mani pallide: erano anch’esse piene di graffi più o meno profondi mentre le unghie quasi ormai inesistenti avevano perso quel tipico colore rosastro. Mi girava la testa e il mio stomaco brontolava, forse non mangiavo da almeno due giorni. La porta si aprii e nuovamente dall’uscio spuntò il solito Senan, lui, a differenza di me, non era cambiato.
– Rose, cara – esordì.
Ero così felice di sapere che non gli era stato fatto nulla, per il momento almeno. Mi abbracciò ma mi sembrava di non avere la voce nemmeno per rispondere, mentre la mia fame si faceva sentire, eccome.
– Devi essere affamata – affermò passandomi un bicchiere d’acqua e una pagnotta di pane che mangiai avidamente, in pochi minuti. 
Senan sorrideva, quella scena doveva sembragli davvero patetica.  Appoggiai il bicchiere di vetro vuoto sul tavolino di metallo al mio fianco e incrociai le dita, non sapevo davvero cosa dire, niente sembrava più importante ormai. Ormai conoscevo a memoria tutto il nostro repertorio di battute e risposte, lui avrebbe detto qualcosa del tipo “E’ bello rivederti.” E io avrei risposto “Si, sono felice di rivederti anche io” e lui avrebbe continuato “ Ti senti bene?” oppure “Sei stata bravissima” ma nessuna di quelle frasi ci sembrava giusta.
– Cosa farò ora? – gli chiesi fievolmente.
La sua espressione non variò ma sapevo che dentro di lui, in quel momento, si stesse chiedendo che cosa avessi voluto dire con quelle parole.
– Qualunque cosa tu voglia fare – mi disse semplicemente, quella era l’unica risposta che non avrei voluto ricevere.
Mi aiutò ad alzarmi e a vestirmi. Mi misi una semplice canotta nera, sulla quale era stata fissata la mia spilla e una giacca a vento nera. Ero arrivata fino a lì e sapevo che oltrepassata quella porta avrei potuto non rivedere più la luce. – Grazie per il suggerimento – gli confessai poco prima di salire sulla piattaforma di lancio. Se quella semplice frase gli sarebbe costata la vita volevo che sapesse che mi era tornata utile, anche se magari non era stato così. Senan sorrise. Presi un respiro profondo. Ero alla resa dei conti.

Erba, fu la prima cosa che vidi. Erba verde ai miei piedi e all’orizzonte. Il vento era lieve ma freddo, stavo tremando e gli occhi, per nessun preciso motivo, cominciavano a lacrimare. Non che fossi triste o distrutta, certo lo ero ma non avrei mai permesso alle telecamere di riprendermi in quello stato, non avrebbero mai scalfito il mio orgoglio. Strinsi i miei pugni gelidi e alzai il volto. Di fronte ai miei occhi si ergeva luccicante e maestosa la cornucopia. Alla mia destra, più agguerrito che mai e purtroppo ancora in vita, Fallon, alla mi sinistra, con gli artigli pronti a fendere, Nita. A due postazione più avanti di me non potei fare a meno di notare la chioma rossa e ribelle di Abby, quanto fui felice di vederla. Il suo sguardo incontrò il mio e per qualche secondo entrambe fummo felici di esserci conosciute. Proprio accanto a lei, per mio grande sollievo, incontrai gli unici occhi scuri che avrei riconosciuto tra miliardi, quelli di Declan. Il suo volto si girò verso di me e come se conoscesse a perfezione i miei pensieri, mi suggerì di non correre alla cornucopia, non con Nita e Fallon alle calcagna. Ma io ero scappata per troppo tempo. Il conto alla rovescia finì e senza aspetta un attimo di secondo saltai giù dalla mia piattaforma e corsi spedita verso il vero e proprio centro della cornucopia. Non avevo paura dei due favoriti, non mi avrebbero fatto niente senza armi. Entrambi sapevano, soprattutto Nita, che in una lotta corpo a corpo me la sarei potuta cavare egregiamente. Afferrai l’arco luccicante e le relative frecce. Mi voltai di scatto, proprio giusto il tempo di vederli combattere contro un altro tributo a mani nude e scappai prendendo uno zaino. Ero quasi al limite della foresta quando, voltandomi una seconda volta vidi arrivare contro di me un pugnale di Nita. Caddi a terra ma in qualche modo riuscii a non farmi colpire. Quella ragazza stava perdendo colpi, non le diedi il tempo di prendere nuovamente la mira che mi ero già immersa in quella macchia di alti e fitti alberi. Sapevo esattamente di che Arena si trattasse e comprendevo anche il motivo per cui l’avessero tenuta per ultima. Il ricordo della settantaquattresima edizione non erano un affronto contro di me, ma contro di lei, Katniss. Mi fermai per respirare. Non sapevo dove andare o cosa fare. “Cosa farò ora?”…“Qualunque cosa tu voglia fare”. Scivolai lungo il tronco dell’albero a cui ero poggiata appoggiando la testa alle ginocchia. Perché mi trovavo lì? Perché qualcuno, là in alto, se l’era presa così tanto con me? Che cosa avevo fatto di male? Presto l’avrei scoperto. Sentii qualcosa muoversi alle mie spalle. Per un primo momento non mi mossi, mi balzò in testa quella pazza idea di tenere chiusi gli occhi e accettare il fatto che avrei potuto non aprirli più e forse sarebbe stato meglio così. Alzai il volto e silenziosamente allungai la mano sinistra verso l’arco. Con una mossa repentina mi alzai e incoccai per poi scagliare soltanto un attimo dopo in direzione di quel suono. La freccia scomparve tra i fitti cespugli.
– Avresti potuto uccidermi! – urlò una voce femminile da dietro i cespugli.
In un certo senso, quello era lo scopo degli Hunger Games… La ragazza fece due passi avanti verso di me. Avrei riconosciuto i suoi capelli rossi e le sue lentiggini ovunque.
– Abby… - le risposi sconsolata abbassando l’arco.
– Non dovevi spaventarmi in quel modo – continuai abbracciandola.
Lei mi allungò la freccia che le avevo appena scagliato.
– Fa niente, Rose. Scusa – rispose lei.
Le sorrisi, da quanto tempo  non riuscivo a parlare con lei senza essere interrotti da qualcosa che avrebbe potuto ucciderci.
– Come mi hai trovato? – le chiesi mentre ricominciammo a camminare insieme
– Ti ho seguita – Annuì. Io non me n’ero nemmeno accorta. Per fortuna che era soltanto lei e non qualcun altro.
– Alleate, allora? – le chiese allungandole la mano
– Ma certo! – mi rispose lei evidentemente emozionata abbracciandomi.
Per quel giorno avevo avuto abbastanza contatto umano per i miei gusti.
– Ti ho vista correre verso la cornucopia e ho subito pensato “questa è pazza! Si farà uccidere!”, poi ti ho visto afferrare l’arco e correre via. Poi Nita ti ha quasi ammazzata e io ho pensato “Oddio, la devo salvare!”, così ti ho seguita, ma tu correvi così forte e ti ho persa di vista e allora sono andata nel panic… -
Oddio, quanto parlava quella ragazza!
– Ok, ho afferrato, Abby – la interruppi toccandole la spalla.
Avevo smesso di ascoltarla circa alla terza parola, in un attimo mi mancarono i tempi passati da sola. Il sole stava cominciando a calare e ci restava poco tempo per cercare un rifugio.
– Sai salire sugli alberi Abby? – le chiesi guardando in alto cercando un nascondiglio perfetto.
– Non è la mia attività preferita, ma posso provarci – confessò.
Posizionarla lassù fu una delle imprese più faticose della mia vita, lei era magra ma aveva impiegato tutto il suo impegno per essere un peso morto. Quando finalmente riuscii a riprendere fiato non potei fare altro che bere tutta la mia boraccia o almeno quasi e mangiare qualche boccone. Il cielo si era ormai completamente oscurato e pochi minuti prima di crollare dal sonno, sopra le nostre teste apparve lo stemma di Capitol City e risuonarono le relative note dell’inno. Non ne seguirono nemmeno un volto. Quel giorno non era deceduto nessuno e non sapevo se questo era un bene o un male. Declan era ancora vivo e di sicuro, in quel momento mi stava cercando. Entrambe ci svegliammo il giorno dopo ancora più riposate e in piena forza. Il vento continuava a soffiare freddo ma il sole nel cielo risplendeva. Scendemmo giù dall’albero e in pochi minuti ci rimettemmo in marcia. Non sapevamo dove andare, un’ uscita non esisteva o almeno sarebbe esistita soltanto per uno di noi. Avevamo entrambe terminato l’acqua proprio il giorno prima e la nostra priorità fu quella di trovare un fiume. Avevo visto un lago affianco alla cornucopia ma quasi sicuramente quello sarebbe stato la zona d’attacco di Nita e Fallon e quindi era fuori discussione. Stavamo vagando senza meta da molte ore quando Abby con il suo pugnale ci ritagliò un passaggio verso un corso d’acqua. Stendemmo i nostri abiti bagnati al sole e per qualche ora restammo lì stese a goderci qualche attimo di calma. La nostra pace fu interrotta molto preso purtroppo. Ci eravamo appena rimesse gli abiti ormai asciutti quando da lontano cominciammo a sentire delle risate e delle voci. Qualcuno stava arrivando. Indietreggiammo di qualche metro, nascoste dai cespugli ed osservammo. Per primo vidi lei, Nita e la sua chioma di capelli neri che odiavo così tanto. Insomma erano perfetti, anche dentro a quella stupida Arena, ma come faceva? Subito dopo lui, Fallon, il suo compagno inseparabile. Al loro seguito, con mia grande sconforto vidi Declan, anche lui pieno di gioia. Si era unito al loro gruppo. Mi aveva tradita. Poi, abbassando lo sguardo la vidi. La mia spilla, la ghiandaia imitatrice, era lì a terra dove poco prima l’avevo lasciata per pulire gli abiti. Dovevo riprendermela, senza di quella era spacciata.  

Risposta dell'autore:
Benvenuti al terz'ultimo capitolo di questa prima parte della mi fan fiction. Si, avete capito bene! Sono molto positiva sul fatto di scrivere, come possa chiamarlo... un seguito, una seconda serie? Beh, comunque la scriverò. In più, visto che siamo quasi a Natale e mi sento molto buona, scriverò prima di pubblicare i primi capitoli anche dei missing moments che credo essere molto importanti.

 

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Capitolo 23
*** Bianco ***


Capitolo XI – Bianco 


Ero davvero combattuta sul da farsi. Una metà di me, la metà razionale, mi diceva di correre lontano più forte che potessi mentre la parte più emotiva e probabilmente anche quella più sciocca, come una vocina nella mia testa, non faceva altro che ripetermi di recuperare la spilla, anche se questo voleva dire ritrovarsi faccia a faccia con la morte. Poggiai un piede avanti come se volessi precipitarmi verso il nemico e cadere nelle sue braccia ma allo stesso tempo girai la testa indietro, verso l’interminabile foresta che svaniva all’orizzonte. Continuando a restare nascosta tra i fitti cespugli, scrutai il volto di ognuno di loro e ancora non riuscivo a comprendere il motivo per cui lui l’avesse fatto. Che ingenua che ero stata, avrei dovuto saperlo, stupida ragazzina. Stavo impiegando metà delle mie forze per non iniziare a frignare come una bambina e nel frattempo dovevo anche decidere della mia vita. Guardai Nita avvicinarsi pericolosamente a me ma non guardò oltre, si fermò alla riva del fiume. Declan, quel maledetto traditore che soltanto un giorno prima ero sicura di amare, vide la mia spilla luccicare alla luce del sole. Lui la conosceva, sapeva chi la indossava e di conseguenza era informato del fatto che fossi stata lì e che non ero lontana. La sollevò cautamente e se la rigirò tra le mani poi incominciò a guardarsi intorno. Quando incrociò gli occhi con i miei, mi mancò il respiro. Il mondo si fece gelido soltanto per un secondo e quelle iridi sembravano avere il potere di sgretolare la fragile statua di ghiaccio che ero diventata. Ma era forse un piccolo sorriso quello che ora mi sembrava di scorgere sul suo volto?
– Lei è stata qui. – affermò convinto con voce molto roca. Sia Nita che Fallon si voltarono entusiasti
– Come fai a saperlo? – chiese lui ancora non convinto della fiducia che avrebbe dovuto riporre in Declan. Gli mostrò la spilla ma lui non osò toccarla.
– Dammi qua! – Nita strappò prepotentemente la ghiandaia dalle mani del traditore e la guardò ammirata.
Forse aveva compreso quanto tenessi a quel piccolo oggetto e forse immaginava che sarei tornata a recuperarla. Come se sapesse che stessi guardando se l’appuntò al petto. In quel momento, quel gesto, mi sembrò un tradimento peggiore di quello di Declan, una profanazione di un mito. Stavo per correrle incontro e ucciderla quando Abby mosse troppo rumorosamente qualche ramo quanto bastasse per attirare l’attenzione di tutti. Eravamo spacciate.
– E’ la rossa! – urlò Fallon prima di impugnare ancora più saldamente la sua spada e correre verso di noi.
Avevano visto Abigail ma io sarei stata la loro vera sorpresa. Incoccai una freccia ed entrambe cominciammo a scappare.
– Se c’è lei, Roseleen non sarà lontana – affermò Declan. Era da molto tempo che non mi chiamava così.
Corremmo giù lungo un pendio e non furono poche le volte in cui perdemmo del tempo soltanto per rialzarci in piedi. Il terreno sembrava più scivoloso del solito e la paura di certo non ci aiutava a non cadere.
– Eccola! – urlò Nita prima di lanciarmi contro uno dei suoi interminabili pugnali che mi ferirono soltanto di striscio.
Mi fermai soltanto per scagliare la prima freccia che per pochi centimetri non colpì la mia nemica. Senza farci troppo caso ripresi a correre. Non c’era motivo per far rischiare la vita ad Abby, volevano me e non lei, per ora.
–Dobbiamo dividerci. – le sussurrai in un momento in cui ci ritrovammo a correre fianco a fianco. Lei si voltò con la paura in volto
- No, non ti lascerò sola! – mi rispose alzando di poco la voce, probabilmente stava per mettersi a piangere.
La bloccai e ci nascondemmo dietro ad un albero dal grande fusto
– Ritorna al luogo in cui ci siamo incontrate. Non ti seguiranno, vogliono me. Tornerò, te lo prometto. – le dissi abbracciandola.
– Ti ricordi la mia spilla? La ghiandaia imitatrice? – lei annuì
– Sai come funzionano. Intoniamo quelle quattro note ed entrambe sapremo che l’altra sta bene e che sta per tornare. Va bene? – le chiesi parlando molto velocemente.
Non avevamo molto tempo, ci avrebbe trovato tra pochi secondi, potevo già sentire i loro cauti passi avvicinarsi. Abby corse dalla parte opposta e come avevo predetto, non incontrò ostacoli.
– So che sei qui, piccola Rose – mi canzonò cantilenando Nita
– Vieni fuori o sei codarda? – continuò
– Tu parlai di codardia? Tre contro uno. Siete davvero dei temerari! – le risposi io prima di schivare il suo secondo pugnale.
Incoccai la seconda freccia e non aspettai altro tempo per scagliarla.
– Hai visto che cos’ho qui? Non è per caso la tua spilletta? – riprese con la sua voce così irritante.
Lanciai un’altra freccia ma ormai tiravo nel vuoto, doveva essere nascosta da qualche parte, non la vedevo più. Nita non rispose così ricominciai a correre ma era soltanto una trappola. Non avevo nemmeno percorso cinque metri che mi ritrovai davanti agli occhi Declan, al fianco destro Fallon e lei alle mie spalle. Mi avevano accerchiata. Mi fermai rassegnata incoccando la mia ultima freccia, l’ultima che avrei tirato.

– Perché l’hai fatto? – chiesi a fior di labbra a Declan prima di chiudere gli occhi.
Perché si era unito a loro? Aveva pensato che con il loro aiuto le sue possibilità di vittoria sarebbero aumentate, perché non era così. L’avevano accettato soltanto perché era l’unico che sarebbe riuscito a condurli da me, poi ci avrebbero ucciso, insieme. Lui non mi rispose ma abbassò lo sguardo. Gli avevo appena dato l’ultima occasione di riscattare la mia fiducia e lui l’aveva sprecata. Sarei morta senza averlo perdonato e non sapevo se questo avrebbe fatto più male a me o a lui. La spada di Fallon si era pericolosamente avvicinata al mio collo quando l’attenzione di tutti tornò su Declan o almeno sul punto che stava indicando. Mi girai velocemente e feci appena in tempo a vedere di sfuggita Abigail su di un albero intenta a gettare a terra un nido di vespe. Non impiegai molte forze per schivare il colpo di spada poiché la sua concentrazione si era focalizzata su tutt’altra azione. Non sapevo bene cosa fare, ma la metà razionale di me mi diceva di correre lontano. Vidi il nido di aghi inseguitori, perché era di quello che si trattava, abbattersi a terra e Abby saltare agilmente giù dai rami. Proprio un attimo prima che uno sciame di vespe si scagliasse contro di noi, Declan mi afferrò strettamente per il braccio e mi trascinò via. Corremmo abbastanza a lungo da cavarcela senza particolari problemi. La mia mente era affollata da così tanti pensieri che non feci nemmeno opposizione alla sua forza, mi lascia trasportare via da lui, così come il vento fa muovere freneticamente le foglie dei rami più deboli.

– Scusa, ma ho dovuto farlo – si giustificò lui nel primo attimo in cui ci fermammo ma la sua voce mi sembrava così lontana e sbiadita.
La testa mi era cominciata a girare da qualche minuto e la vista era annebbiata. Il mondo ora sembrava così irreale, il sopra era diventato il sotto e viceversa. Lui non mi aveva tradito, mi aveva aiutato.
– Rose? – sentii chiamare il mio nome proprio prima di svenire.

Mi svegliai inginocchiata su un tappeto di petali di rose rosse, non diverse da quelle del mio abito durante la parata. Allungai la mia pallida mano verso uno di quelli e delicatamente lo raccolsi. Non feci in tempo ad odorarne il profumo che il fiore bruciò tra le fiamme più ardenti e in pochi secondi scomparì nel nulla. Guardai attorno a me e vidi nuovamente quel dannato colore bianco che non ho mai sopportato. Ogni cosa è un colore, così come ogni emozione ha una sua propria sfumatura. Il silenzio è bianco, non ha confini. Passare la notte in bianco, alzare bandiera bianca, lasciare un foglio in bianco, avere un capello bianco. Non è nemmeno un colore a dirla tutta. E’ il nulla, come il silenzio. Davanti a me cominciai a vedere i contorni di un’ombra, una figura. Mi alzai e corsi da lei. Appoggiai una mano sulla sua spalla ma lei non si girò, rimase ferma a fissare il bianco. La costrinsi a voltarsi verso di me ma l’unica cosa che potevo vedere in lei erano i miei occhi, i miei capelli, il mio volto. Io. 
– Rose? – sussurrai e lei annuì.
Non mi ero mai soffermata a guardarmi nello specchio ma quella non sembravo io, quella figura aveva un’anima, era viva, non ero io. Provai a sfiorarle il volto ma Rose si ritrasse. Appena ritratta la mia mano il suo volto cominciò a bruciare, non diversamente dal petalo rosso. Le fiamme la circondarono e in pochi secondi la eliminarono. A terra, 
proprio ai miei piedi, di quella figura rimase soltanto una rosa, bianca questa volta. Legato allo stelo trovai una piccola pergamena. Una frase era incisa con una perfetta calligrafia.

“Le fiamme ardono e il fuoco brucerà ogni petalo della rosa. Sarà allora che essa dovrà decidere chi essere”.

Poi aprii di nuovo gli occhi. Ero quasi riuscita a far credere a me stessa che tutto ciò che avevo vissuto fino a quel momento fosse soltanto un terrificante incubo da cui ero riuscita a svegliarmi, ma mi ritrovai di nuovo all’interno dell’Arena. Ero stesa a terra e Declan mi sorreggeva il busto. Dovevo essere svenuta forse poco tempo prima
– Rose, eccoti qui – esordì lui con un sorriso in volto. Mi allontanai velocemente da lui e me ne andai gattonando a sedere da un’altra parte.
– Scusa per quello che ho fatto. Ho soltanto provato a depistarli ma… - non lo lasciai finire, non mi importavano le sue scuse
– Dimentichiamo soltanto ciò che è accaduto, va bene? – conclusi.
– Ti hanno punta, una sola volta. Sei svenuta per circa un’ora – mi informò dopo qualche momento di silenzio.
Annuì ripensando al sogno. Stavo per appoggiarmi al tronco dell’albero alle mie spalle quando mi ricordai ciò che avevo dimenticato.
– Dov’è Abby? – gli chiesi. Lui ferrò la mascella

– E’ andata a cercare qualcosa da mangiare. Oggi staremo a digiuno – mi rispose sarcasticamente ma non gli davo torto.
– La mia spilla! Ho dimenticato la mia spilla! – urlai quasi.
Mi alzai e cominciai a correre riprendendo i miei passi. Declan provò a fermarmi ma recuperare la mia ghiandaia era il mio unico pensiero. Tornai nell’esatto luogo in cui tutto era andato male e  l’unica immagine che mi rimase di quei frenetici momenti fu il corpo di Nita coperto di punture, stesa aggraziatamente a terra come una tigre bianca che dorme adagiata su un manto di neve. Mi avvicinai al suo corpo e allungai la mano verso la sua giacca prendendo ciò che mi apparteneva
– Non sei mai stata degna di indossarla – le sussurrai senza che nessuno mi sentisse.  
Recuperai tutte le frecce che riuscii a trovare e ritornai da Declan. Eravamo rimasti in cinque.

“Attenzione, tributi, attenzione!” annunciò un voce proveniente dal nulla.
“A partire dall’alba di domani ci sarà un festino alla cornucopia. Non è di certo un evento da sottovalutare perché abbiamo qualcosa di cui tutti voi avete bisogno. Accorrete numerosi” e calò di nuovo il silenzio.
Di che cosa avevamo bisogno? Declan stava bene, io pure. Non avevamo cibo ma questo era un problema di piccolo conto. A quanto pare c’era soltanto una risposta giusta. Avevano fretta di concludere.


Risponde l'autore:  
Scusate, scusate, scusate, scusate. Non ho aggiornato per molto tempo, lo so. Mi dispiace. Tra la fine della scuola, le feste e il blocco dello scrittore sono riuscita a scrivere soltanto in questi giorno. Siamo finalmente arrivati al penultimo capitolo e devo dire che non vedo l'ora di svelarvi il finale e quindi vi chiederò soltanto di immaginare cosa potrà succedere. Non siete obbligati a dirmelo tanto non vi svelerò nulla ;D 

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Capitolo 24
*** Rosa Rossa ***


Capitolo XII – Rosa Rossa


Camminavo avanti e indietro, pensando e ripensando ancora. Eravamo rimasti soltanto in cinque, ero alleata con due ed ero sicura che non mi sarei dovuta preoccupare dei miei compagni, almeno per il momento.  Rmanevano soltanto un tributo senza volto e ovviamente Fallon che senza la sua amichetta aveva decisamente meno speranze di vincere e più vulnerabilità.
– Smettila di camminare avanti e indietro. Mi dai la nausea. – mi rimproverò Declan e non potevo che dargli ragione, ma mi comportavo così quando ero nervosa o  combattuta sul da farsi. Mi sedetti al suo fianco
– Hai detto che Abby è andata a procurarci del cibo… - lui annuì. Non ero sicura che quella fosse stata una grande idea. Le volevo molto bene ma per certe cose era davvero negata.
– Sai non è stata un’ottima idea – gli confessai contando le frecce rimanenti nella faretra.
– Lo so, ma lei ha insistito tanto che per farla stare zitta ho dovuto accettare – lei sapeva essere davvero snervante a volte.
– E’ via da tanto tempo, forse è successo qualcosa. – annunciai rialzandomi e ricominciando a camminare.
Dovevo andarla a cercare ma se l’avessi fatto avrei potuto incontrare qualche tributo e anche se non fosse successo nulla, Abigail si sarebbe arrabbiata per la poca fiducia che riponevo in lei. Ero ancora indecisa sul da farsi, quando la mia attenzione si spostò sul suono di cannone che rimbombò nell’aria. Mi voltai spaventata verso la foresta alle mie spalle ma ovviamente non vidi nessuno. Se lei fosse morta, l’avrei rimpianta per tutta la vita. Se solo mi fossi mossa prima e la fossi andata a cercare, lei sarebbe ancora viva. Cominciai a correre verso la direzione che mi era stata indicata e che lei a sua volta aveva preso, ma non trovai nessuno per molti chilometri. C’era un unico modo per sapere che stesse bene. Intonai finalmente le quattro note ormai familiari a tutta la nazione. Nessuno rispose. Avanzai continuando a fischiettare e per qualche secondo potevo solamente udire le ghiandaie imitatrici che riproducevano ancora e ancora il mio suono. Da lontano cominciai ad intravedere una figura umana che lentamente, quasi a fatica, si avvicinava verso di me. Incoccai una freccia ed aspettai. L’unica risposta che ricevetti furono le mie stesse quattro note. Corsi incontro ad Abby e la abbracciai. Era ancora viva ma ferita ad un gamba e non si sorreggeva quasi in piedi. La aiutai a camminare sostenendola con il mio corpo, sembrava che avesse lottato con chi sa quale animale, un orso probabilmente. Ritornammo al nostro punto di incontro dove Declan, ancora straiato esattamente dove l’avevo lasciato, stava facendo un pisolino. Come poteva dormire mentre io avevo paura di perdere una persona cara? Era chiaro che Abigail non gli stesse tanto a cuore. Lo chiamai e subito si rialzò per aiutarci entrambe.
– Che cosa ti è successo? – le chiesi appena dopo averla fatta sedere.

– Hai lottato contro un orso o qualcosa del genere?! – le urlai quasi rimproverandola.
Cercai qualche fasciatura nell’unico zaino che avevamo e che avremmo dovuto dividere ma non trovai niente di che. Non potevo di certo curarla senza qualche medicina, la ferita si sarebbe infettata e addio amica del cuore, non potevo permetterlo.
– Ho incontrato un altro ragazzo. Lui aveva una spada ma era davvero un idiota. Credo sia morto – mi stupì di lei.
Sapevo quanto era stata brava durante gli allenamenti ma non credevo che sarebbe riuscita davvero a mettere in pratica le sue conoscenze. Le versai sulla gamba qualche goccia d’acqua ma non servì proprio a nulla.
– Mi servono delle medicine ma non abbiamo niente – conclusi gettandomi a terra dallo sconforto.
Poi realizzai. Ecco ciò di cui avevamo bisogno, ciò che gli strateghi avrebbero lasciato alla cornucopia. La sua medicina.
– Hanno la tua medicina – annunciai dopo qualche secondo.
– La andrò a prendere, al festino. Spero che tu possa resista fino a domani – le dissi stringendo la sua mano. Lei annuì.
Abby era una ragazza davvero straordinaria, era intelligente e davvero perspicace, geniale ma anche ostinata.
– Aspetta! Che cosa vuol dire “ La andrò a prendere”? Non vorrai di certo andare là da sola, faccia a faccia con quel pazzo di Fallon, vero?! – mi urlò contro lui. Io mi alzai di scatto.
Odiavo le persone che non credono nelle mie capacità. Pensava forse che non sarei riuscita a combattere contro di lui, che ero una debole? Beh, si sbagliava di grosso. Sì, quella azione era del tutto insensata ma dovevo farlo. Tutto il resto era impensabile.
– Si, è ciò che farò! – gli risposi con lo stesso tono autoritario
– Pensi davvero di riuscirmi a fermare? Non esistono parole con le quali potresti convincermi a rinunciare. Lei è l’unica amica che possiedo e stai sicuro di una cosa, non la lascerò morire. – continuai con gli occhi umidi.
– E poi ci saresti andato tu? – gli chiesi, ma lui non rispose, si limitò ad abbassare gli occhi.
– Come pensavo – conclusi.
Poi mi accorsi quanto stupida ero stata. Non ero veramente arrabbiata con lui, insomma mi aveva salvato la vita. Ero soltanto stressata, avevo fatto i miei calcoli. Se fossi riuscita a scampare a Fallon, sarei tornata qui soltanto per curare la mia migliore amica che probabilmente avrei ucciso dopo aver eliminato lui. Ero sicura che in quel momento stesse sperando di non vedermi tornare mai più. Che cosa era successo soltanto in quelle quarantotto ore? Due giorni prima ero disposta a morire piuttosto che vivere senza Declan e ora stava pensando ad un modo per ucciderlo. Quei giochi ti cambiano e in quel momento mi sentivo soltanto un pezzo del loro gioco. Il sole stava tramontando, segno che anche quella giornata stava per arrivare al termine.
– Cerca di non perdere di nuovo l’arco – si raccomandò Declan. Di che cosa stava parlando?
– Che cosa vuoi dire? – gli chiesi io di rimando
– Si, come ti è già successo, ricordi? – continuò. Il mio cuore cominciò a battere più velocemente
– Come fai a saperlo? – gli chiesi dubbiosa. I suoi respiri diventarono affannati
– Non me l’hai detto tu? – rispose lui
– Si, si è vero… - finii io mentendo.
Così con gli stomaci vuoti ci addormentammo tutti e tre. Quando, la mattina dopo, aprii gli occhi, la prima immagine che mi si presentò davanti fu un allegro uccellino che zampettava davanti ai miei piedi. Quanto sarebbe stato più semplice essere un uccello. Essere libera di volare ovunque senza rendere conto di nessuno, essere felici di non venir rinchiusi in una gabbia fin troppo piccola per poter spiegare le ali. Abigail e Declan stavano ancora dormendo. Odiavo gli addii e andarmene senza che ne se accorgessero sarebbe stato meglio per me e per loro. Mi alzai e per l’ultima volta mi legai i capelli, come facevo sempre prima di intraprendere una dura battaglia. Mi misi in spalla la mia faretra e presi le frecce, proprio accanto a tutte le altre armi di cui, grazie a Declan, potevamo disporre. C’erano però soltanto pugnali e un’ascia, non era tanto ma sempre meglio di niente. Li guardai per l’ultima volta e li salutai con un gesto della mano per poi sparire nell’ancora buia foresta. L’alba era già passata ma l’oscurità avvolgeva gli alti rami. Camminai silenziosa, quasi invisibile attraverso quel bosco che per me non aveva niente di famigliare. Forse mi ricordava quell’albero nel mio giardino sul quale spesso mi piaceva arrampicarmi nei pomeriggi estivi, ma niente di più. Superai il lago e in meno di un’ora ritornai alla cornucopia. Inizialmente mi nascosi dietro ad un fitto cespuglio. Sapevo che Fallon era lì ad aspettarmi, saremmo stati soltanto io e lui finalmente. Il vento soffiava forte e dalla poca luce che si stagliava sul quel prato verde potevo intravedere, posizionato proprio davanti alla cornucopia, un tavolo di metallo con soltanto due zaini, distinti soltanto dalla iniziale del nostro nome. Presi un profondo respiro e con grande cautela cominciai ad avviarmi. Mi guardai circospetta intorno ma non potevo né sentire né vedere persona viva. Per un momento fui stranamente sicura che lui non fosse venuto. Con più sicurezza corsi verso il mio zaino ma proprio mentre stavo per allungare il braccio verso di esso, sentii i cespugli muoversi dietro di me. Mi girai proprio nel momento esatto per vedere il ragazzo, ferito in più parti del corpo, lanciarmi contro il suo primo pugnale. Mi presi davvero paura. E’ strano da dire ma non me lo sarei mai aspettato. Era stato dietro di me per tutto il tempo,  miaveva seguito alle spalle e io non me n’ero nemmeno accorta. Gridando un poco caddi a terra proprio nel momento giusto per schivare di poco la sua arma. Lui corse furiosamente verso di me. Incoccai una freccia e senza nemmeno pensarci la tirai, ma essa non centrò il bersaglio. Lui si gettò contro di me e in qualche modo, sollevandomi di peso, mi gettò contro il 
vicinissimo tavolo in metallo che a contatto con il mio corpo crollò sotto di me. Feci fatica a rialzarmi, ma ci riuscii e impugnai nuovamente l’arco. Lui era in piedi davanti a me, aspettava che mi mettessi in piedi, pronto a colpirmi nuovamente. Tirai una freccia ma mi girava troppo la testa per essere concentrata sul tiro. Così lasciai perdere l’arco, lo gettai lontano insieme alla faretra ancora piena.
– Roseleen Snow – disse lui con una vaga pazzia negli occhi. Provavo quasi pena per lui.
– Si, Roseleen Snow. La risposta alla domanda “Chi ha fatto piangere Fallon Abrahamscome una ragazzina?”. – gli risposi.
Sapevo quanto poteva essere arrabbiato e la collera in questi casi ti portava a commettere errori; errori che potevano rivelarsi fatali. L’unica cosa che ricevetti da lui però fu soltanto qualche pugno allo stomaco e al volto. Ma a che cosa stavo pensando quando decisi di affrontarlo tutta da sola? Solo in quel momento realizzai quanto ero stata stupida. Tentai di rialzarmi ma lui non me ne diede il tempo. Mi sollevò nuovamente di peso e mi gettò furiosamente ancora contro quel diavolo di tavolo di metallo, ferendomi malamente alla testa che ora aveva cominciato a sanguinare. Stava andando di male in peggio. Ero quasi sicura di poter svenire in quel momento e forse non sarebbe stata la cosa peggiore. Lui mi avrebbe uccisa e io non avrei sentito nulla, sarebbe stato più veloce che addormentarsi. Allungai la mia mano tremante verso la testa e osservai il rosso del mio sangue. Era un colore vivo, pieno di vita ma dalle ombre scure, malvagie.
– Cosa è successo? Il tuo fidanzatino ti ha lasciato affrontare la morte da sola? – mi chiese sarcasticamente per poi cominciare a ridere, potevo sentire i brividi percorrere la mia schiena. Intorno a noi ancora il buio.
– Cos’è questo? Il discorso che il cattivo fa alla sua vittima prima di ucciderla? Lascia perdere e falla finita – gli risposi.
Ora che si era avvicinato a me potevo vederlo meglio. I suoi capelli scuri erano scompigliati, gli occhi da azzurro ghiaccio si era trasformati in un rosso pallido, erano irritati, le sue labbra screpolate e contratte, il suo corpo era coperto da molto ferite alcune più profonde di altre e inoltre si potevano ancora notare le cicatrici lasciate dalle punture degli aghi inseguitori, le sue mani giocavano nervosamente con il pugnale che teneva stretto tra le mani. Aveva paura, paura di morire. Per un secondo provai pena per lui. Infondo, non eravamo molto diversi. Sono stupita anche io nel ricordare che da bambini giocavamo insieme, eravamo addirittura amici. Lui aveva sempre avuto uno splendido sorriso sul volto e io una cotta per lui. Non successe mai niente di particolare tra di noi, ma la colpa del nostro allontanamento non fui io, ma naturalmente mio nonno. Il padre di Fallon lavorava per lui e in uno dei momenti più critici per il suo governo, fu licenziato, accusato di tradimento verso la patria. Che fosse vero o no, questo non mi è dato sapere.  
– Mi dispiace per tuo padre – gli dissi. La sua espressione cambiò.
– No, non ti dispiace – mi rispose
– Capisco. Sarebbe inutile dirti che non è vero, non mi crederesti. Sarebbe inutile dire che è vero, perché mentirei - continuai allungando lentamente la mano verso il mio arco.
– Sarebbe inutile restare qui con le mani in mano, morirei – terminai.
Scattai in piedi e afferrai la faretra e l’arco, colpendolo con esso. Fui presa dalla vigliaccheria, volevo scappare, era l’unica arma che mi rimaneva. Corsi veloce verso la cornucopia sulla quale mi arrampicai. Sapevo che Fallon mi avrebbe seguita e non sarebbe scappato con il suo zaino, voleva farla finita. Così lo aspettai, lui si arrampicò e in pochi secondi ci ritrovammo faccia a faccia. Mi corse in contro e questa volta mi difesi, ero più determinata che mai. Ci ferivamo a vicenda ma nessuno dei due riusciva a sovrastare l’altro. Mi colpì in un attimo di distrazione, quando mi trovavo di spalle e mi strinse stretta nella sua morsa. Mi girai e gli osservai il volto. Soltanto un arco e la punta di una freccia ci divideva. Lo guardai negli occhi, sapevamo entrambi come sarebbe andata a finire. Stava soffrendo, dentro e fuori di sé.
– Fallo – mi sussurrò.
La freccia, veloce come il vento gelido che penetra nelle vene in una serata invernale, gli trapassò la gola. L’amico con cui correvo felice durante le notti calde d’estate cadde giù come un ramo appesantito dalla troppa neve, morto. E sempre così me lo ricorderò: come il ragazzo dagli occhi azzurri che mi sistemò tra i capelli una piccola rosa rossa.

Con le lacrime agli occhi saltai giù dalla cornucopia. Avrei tanto voluto stendermi in quel prato verde e non aprire più gli occhi, ma lo feci. Cominciai a correre, riemergendomi nella fitta foresta. Stavo tornando da Abigail con la sua medicina stretta nella mani. Avevo giurato che non avrei mai pianto per le telecamere, per i cittadini della capitale, per la Coin ma non potevo farne a meno. Riposai qualche secondo appoggiando le braccia alle ginocchia, questi giochi mi avevano veramente sfinito, ma non potevo perdere adesso. Ritornai al luogo in cui avevo lasciato i miei due alleati, proprio in tempo per vedere, tra i cespugli Abigail chiudere gli occhi per l’ultima volta. La ragazza non si mosse. Si limitò a chiudere gli occhi aspettando quel momento. Sapeva di non poter scappare oltre, era in trappola. Declan l’aveva raggiunta. Alzò la scure di metallo e la piegò orizzontalmente,poi la colpì.L’unica fonte di luce era la luna. Mi trovavo forse nel mio sogno? No, quella era la realtà. Calpestai un ramo che sembrava essere stato spezzato da un forte fulmine. Il lupo si girò e vide la sua preda, vide l’agnellino bianco ed indifeso, vide me. Cominciai a correre, spaventata. Mi fermai soltanto quando pensavo di essergli lontana, ma mi sbagliavo. Mi voltai indietro ed ecco che me lo ritrovai davanti.
– Mi hai spaventato a morte – gli dissi, speravo che non si fosse accorto 
veramente della mia presenza.
– Non ancora, ma lo farò – mi rispose lui. Avevo terrore, avrei voluto urlate ma non riuscivo ad emettere nessun suono.
– Sei tu quello che ha nascosto il mio arco, nella baracca, non l’ho veramente perso – cominciai, avevo capito chi era: un doppiogiochista. Avevo passato tutto il tempo a preoccuparmi che gli altri non mi facessero del male, quando avevo sempre avuto l’assassino al mio fianco

– Tu hai provato ad uccidere Cary ma sei scappato quando hai sentito qualcuno arrivare, vero? – lui annuì.
– Sai, pensavo che l’avresti capito molto prima. Mi hai deluso Rose – pronunciò il mio nome con una tale dolcezza che i brividi mi assalirono nuovamente.
– Non ti avvicinare! – ma era inutile.
Incoccai una freccia, l’ultima ma lo colpì soltanto di striscio avendo così appena il tempo per scappare. Ricominciai a correre, con gli occhi bagnati dalle lacrime senza una vera meta, non sapevo cosa fare. Girai la testa all’indietro ma non c’era nessuno. Mi fermai ma Declan mi apparve davanti. Per la prima volta avevo veramente paura della morte. Aveva abbandonato la scure e ora in mano aveva soltanto un pugnale. Mi colpì forte, al volto, facendomi cadere a terra. Mi bloccò sia le mani che il braccia, non avevo vie di scampo.
– Sai mi dispiace ucciderti, speravo che Fallon facesse questo lavoro per me, ma a quanto pare l’ho sopravvalutato – iniziò sfiorandomi il viso con la lama del coltello. Cercai di liberarmi ma era nettamente più forte di me
– E’ davvero un peccato, sei così carina… ma purtroppo hai avuto la sfortuna di appartenere ad un famiglia, come posso dire, corrotta. – continuò accarezzandomi con la mano sinistra
– Non te ne faccio di certo una colpa, infondo la famiglia non si sceglie, ma qui qualcuno deve pagare. Prendilo come un favore che ti faccio – quelle parole mi ferirono molto più di tutte le armi esistenti al mondo .
– Un favore a tutta la nazione – specificò
– Tu sei uno squilibrato!– gli urlai contro ma lui non si scompose.
– E’ così che ti hanno sempre chiamato a scuola, non è vero? Beh, avevano ragione – quelle parole lo ferirono, nel profondo come avevano sempre fatto
– Hai proprio centrato il punto, ragazzina – continuò lui. Perché doveva allungare così la mia agonia?
– Credi sia facile, camminare per i corridoi ogni giorno e venire preso di mira da degli idioti pompati e senza cervello? Ma tu che ne puoi sapere, sei sempre stata amata da tutti, tu sei Roseleen Snow, la nipote del presidente, fai parte della famiglia più ricca di Capitol City – affermò ancora
– Tu non puoi capire, tu hai sempre avuto tutto ciò che hai desiderato, tutto ti è sempre dovuto. E’ divertente come le cose cambiano, vero? – stavo per implorarlo di uccidermi
– La prima volta che ti ho visto, sai cosa ho pensato? Ho pensato che tu fossi diverso, che tu non fossi come tutti ti hanno sempre descritto. Tu sei meglio di tutto questo e non lo dico per non morire, lo dico perché non ne vale la pena. – gli risposi io
–Di che cosa stai parlando? – disse lui con un tono più arrabbiato
– Uccidermi per dare una lezione a tutti gli altri? Non importerà mai a nessuno – mi meritai soltanto un pugno nello stomaco. Lui non mi rispose.
Alzò il coltello ma lo bloccai, lottai ma non ci fu niente da fare. Il pugnale mi colpì proprio nel petto.
– Addio Rose – furono le ultime parole che sentii.

 

Un cannone risuonò nell’aria, gli uccelli volarono via spaventati dai loro rami, il ragazzo si alzò e si stese affianco alla sua vittima, ce l’aveva fatta. Aveva vinto, ma quanto valeva veramente quella vittoria? Adesso forse i suoi concittadini avrebbero capito che cosa aveva dovuto sopportare? Certo che no. Aveva vinto quei giochi, ma allo stesso tempo aveva perso tutto; aveva perso se stesso. Un hovercraft passò sopra la sua testa, lui allungò un braccio verso l’alto e si allontanò verso il nuovo capitolo della sua vita. Non era felice, qualcuno l’aveva obbligato a farlo, era soltanto una pedina nel suo gioco.

 

Poi Rose aprì gli occhi e il suo cuore ricominciò a battere 

 

Risposta dell'autore:  
Ed ecco che partono i titoli di coda. Si ragazzi, siamo arrivati alla fine, almeno per ora. Cosa posso dire? Mi sento realizzata, sembra strano dirlo ma non avevo mai realizzato e sopratutto concluso una long fiction come questa e non ho di certo voglia di smettere. Ci risentiremo molto presto con dei missing moments e come avevo giù annunciato, la seconda "serie". Ma fino ad allora, da buona fan di Harry Potter, fatto il misfatto

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