Ipotesi Gaia

di Kimmy_90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Elogio di Epicuro ***
Capitolo 2: *** 2. Adamo ed Eva ***
Capitolo 3: *** 3. Inno a Venere ***
Capitolo 4: *** 4. Un giorno qualsiasi ***
Capitolo 5: *** 5. Bisturi ***
Capitolo 6: *** 7. Ferita ***
Capitolo 7: *** 6. Taglio ***
Capitolo 8: *** 8. Da Capo. ***
Capitolo 9: *** 9. Serratura ***
Capitolo 10: *** 10. Quella miccia scordata accesa ***



Capitolo 1
*** 1. Elogio di Epicuro ***


 

Quamvis si liberus essem noluissem, tamen coactus volui.

[Anche se, essendo libero di decidere, non avrei voluto, tuttavia, costrettovi, volli.]

 

 

Un’oscurità affatto silenziosa lambiva le pareti di cemento grezzo. Auto rumorose passavano, di tanto in tanto, lungo la strada.

Ma loro erano sotto, al coperto, al sicuro.

In larga parte schiacciati contro le mura, osservavano il centro di un’arena delimitata da borsoni, magliette, pezzi di legno e bottiglie di plastica. Un borbottio sommesso permeava l’aere, agitato e frenetico.

Un piccolo barlume di luce.

Si iniziò ad esultare, ad inveire, a gridare e a spronare.

I due contendenti si fissavano, rabbiosi, sfiatando nuvole di condensa bollente. In respiri pesanti e ansimanti radunavano la forza di resistere al dolore che schizzava nel loro corpo, assieme all’adrenalina – pungente.

Alessandro si sporse verso il perimetro improvvisato, passando il palmo della mano sul terreno e sfregando le dita.

Sembrava tutto a posto.

Ancora accovacciato, fissò i due in mezzo all’arena: fasci di muscoli tesi e frementi, occhi indemoniati, gialli e scarlatti. Mordendosi il labbro, manteneva lo sguardo immobile.

«Oggi Amanda è carica da far paura.»

Alessandro non si mosse, mentre dietro di lui Emanuele pronunciava quella frase.

«Rimani qua con me, non si sa mai.» rispose, dopo qualche istante.

«Il siero ce l’hai, non devi preoccuparti sempre così, Ale.» contestò l’altro.

«Ho detto Rimani Qua.» – Lapidario.

Uno zoccolo colpì violento il terreno, e la bolgia esplose.

Emanuele non ribattè oltre: d’altronde sapeva perfettamente che quello era un ordine a cui non sarebbe stato furbo sottrarsi.

 

 

E mentre le zanne delle due bestie brillavano nell’aria, nasceva l’ennesima notte.

 

 

 

 

 

1. Elogio di Epicuro



 

[17 giugno 1973]

«Criptato.» Sillabò Ema.

Adam annuì, con un cenno rapido e profondo. Ciocche di capelli biondi e disordinati rimbalzavano sul volto ancora infantile, gli occhi ramati incollati sull’altro.

Ema tacque, osservando il ragazzino.

«Sai cosa vuol dire ‘criptato’?» si azzardò a domandargli, infine.

Adam scosse il capo in cenno di diniego, con tutta la convinzione con cui aveva annuito poco prima.

Emanuele Rondi sbuffò. «Vai a prendere il dizionario.»

«Il dizionario?» fece l’altro, fra l’interrogativo e lo scocciato.

«Sì, Adam, il Dizionario, quella cosa grande e brutta su cui sono scritte tutte le parole.»

«So cos’è il Dizionario» sottolineò il ragazzino, la voce squillante ed acuta «ma non me lo puoi dire tu, cosa vuol dire ‘Criptato’?»

«… Ma non Voglio.» Ema sorrise lontanamente divertito – e forse anche un po’ cinico. Adam si alzò in piedi, mugolando di disappunto, e si inoltrò lungo il sotterraneo alla ricerca del fantomatico Dizionario.

«E’ nella libreria!» fece Ema, ad alta voce, ancora seduto sui talloni mentre Adam si allontanava. Il ragazzino fece un verso d’assenso, mentre reperiva la torcia e iniziava a muoversi su scalini e corridoi di cemento grezzo.

Humana ante oculos foede cum vita iaceret

«Criptato, o crittato – » lesse Adam a gran voce, mentre, impugnando il dizionario, camminava fra pareti grigie, fredde, sulle quali rindondava ogni sua sillaba. «Part pass di criptare» Lungo il corridoio l’aria era fresca, ma la luce inesistente: puntava la torcia sul librone che teneva nella destra, e camminava ormai ricordando a memoria il percorso che doveva fare. «Anche agg, cifrato, codificato, programma televisivo ci.» La sua voce leggermente acuta si spanse per tutto il sotterraneo.

Giunse nuovamente davanti ad Ema, che sedeva ancora per terra, nell’androne.

Lo guardò interrogativo.

«Io starei studiando!» fece, lontana ed infastidita, una voce maschile.

«Anche noi!» rispose Ema, gridando per farsi sentire da chi aveva parlato. «Allora, Adam» continuò, verso il ragazzino. «Capito?»

«… no.»

in terris oppressa gravi sub religione,

«Che vuol dire ‘cifrato’?» domandò il biondino, continuando a rileggere la definizione del Dizionario di ‘Criptato’.

«Non chiederlo a me, chiedilo al dizionario.» fece Ema, levandosi in piedi.

Adam sbuffò, guardando verso il soffitto lontano. «Ma non puoi spiegarmelo tu?» insistette, cercando distrattamente la parola ‘Cifrato’.

Ema sorrideva divertito, limitandosi a rispondere come sempre: «Certo che Posso, ma non Voglio.»

Adam grugnì.

Odiava quando Ema faceva così.

E ogni volta che facevano lezione, Ema faceva così.

Altro che insegnante: passava il tempo a fargli cercare le nozioni fra i libri. A che serviva un ‘insegnante teorico’ se tanto poi le cose le leggeva dai libri?

Tanto valeva avere solo i libri.

«Tho, Cifrare» iniziò a leggere «vì ti erre ricamare in cifra.» Sollevò lo sguardo verso Ema, che ridacchiava scuotendo il capo.

«Ma ti pare che ricamiamo?» domandò, ancora divertito dal modo che aveva Adam di leggere le voci del dizionario.

Il ragazzino grugnì nuovamente, roteando gli occhi, e tornando alla definizione. «Trascrivere un testo, un messaggio e sim secondo un codice. Va bene questa?»

Ema annuì, ridacchiando.

«Sì? Ma è tipo come quando facciamo a scuola i bigliettini nel nostro alfabeto, così i prof se li beccano non sanno cosa c’è scritto?»

«Più o meno.»

Adam espirò rumorosamente. «Tutto qua?» domandò, quasi infastidito che il termine ‘Cifrato’ si riducesse ad una banalità del genere.

«Ah, no. Decisamente no.»

Il ragazzino si sedette per terra, chiudendo violentemente il dizionario. «E allora?» domandò, scrutando l’altro di sottecchi.

 

quae caput a caeli regionibus ostendebat

Emanuele Rondi era un venticinquenne disastrosamente magro e disastrosamente basso. Non era affetto da nanismo, ma poco ci mancava: ormai conosceva Adam da parecchi mesi, e temeva il giorno in cui anche il ragazzino sarebbe diventato più alto di lui. Viste le premesse, era davvero questione di poco tempo.

Un metro e cinquantacinque di intelligenza agile e sottile, in un corpo esile e apparentemente fragile: ecco cosa era Ema. Il volto, abbastanza anonimo, era ricoperto da uno straterello fine di barba, nera, come i capelli che teneva lunghi sino alle spalle – ma rigorosamente puliti. Gli occhi azzurrini erano ingranditi dalle due piccole lenti rotonde dei suoi occhiali da vista, che metteva e toglieva in continuazione, quasi fosse un tic.

«Se invece di sostituire ogni lettera con un simbolo, scrivo secondo una legge, più complicata è la legge più è difficile capire il messaggio.»

Adam lo guardava perplesso, un grande punto interrogativo dipinto sul volto.

«Guarda.» Andò a raccattare un foglio e una penna dalla sua borsa, lasciata in un angolo dell’androne.

Si sedette nuovamente per terra, poggiando il foglio sul ginocchio, e iniziò a scrivere.

Mi chiamo Ema.

Adam osservava perplesso.

Ema scrisse una seconda riga:

maibcchdieafmgoheimla

«La legge è: una lettera sì e una no.» disse poi, porgendo il foglio ad Adam.

Quello osservò interessato le due righe di testo, gli occhi a fessura.

«Ma è facile.» commentò infine.

Ema si riprese il foglio, scrivendo la terza riga:

mpioicuhytiradvmbokieumjha

«Trova la legge.» fece, porgendo il foglio e la sfida.

Adam rimase qualche istante a contemplare la scritta, concentrato.

«Tipo… una sì, una no, una sì, due no, una sì, una no…?»

«Mh-mh!» Ema annuì.

«Ma è facile!» rimarcò il ragazzino, allegro.

«Ok.» l’altro si riprese il foglio, e tornò a scrivere.

aydseantdmeugeecumnwieddlgtiedhoaqtwa

«Avanti. Trova il messaggio.» fece, infine, con la certezza di chi ha appena proposto un problema spacciandolo per una banalità.

horribili super aspectu mortalibus instans,

Adam rimase incollato alla riga di lettere per dieci minuti buoni, la giovane fronte corrugata nello sforzo richiesto per decifrare il messaggio di Ema.

«Boh.» concluse.

«Ma non era facile?» domandò l’altro, schernidore, con il suo sorrisetto affilato e la risatina malcelata.

Adam raccolse nuovamente la sfida, spronato dall’ ‘insegnante’.

Ci perse altri cinque minuti: finchè, ad un certo punto, si voltò verso Ema con un sopracciglio levato e lo sguardo basito.

«*Adam è un idiota?*» fece il ragazzino, recitando il testo che aveva trovato nella fila di lettere.

Ema scoppiò a ridere.

primum Graius homo mortalis tollere contra

«Il nostro codice genetico è, si può dire, criptato.»

Adesso si ragionava. Adam sedeva per terra, le gambe incrociate, intento ad ascoltarlo con vivo interesse.

«Hai presente un filamento di dna, no?» Ema congiunse indice e pollice delle due mani. «Prendi gli estremi di una spirale, e li srotoli.» mimò il gesto, come se avesse il filamento fra le dita. «Adesso hai una serie ordinata di basi azotate. Quali sono le basi azotate?»

«Adenina, Citosina, Guanina, Timina. E Uracile nell’Rna.» Recitò il ragazzino.

Ema annuì. «Almeno questo te lo ricordi.» lo canzonò. «Dunque, il dna definisce in che modo è fatto ogni essere vivente, quindi contiene tutte le informazioni necessarie per farci funzionare.»

Adam annuì lievemente.

«Il problema è: come sono scritte, nel dna, queste informazioni?»

Il ragazzino lo osservava, attendendo bramoso la risposta.

Ema taceva, fissandolo.

Rimasero in silenzio.

«Bhe?» domandò infine Adam, incalzando Ema. «Come sono scritte?»

«E dai, pensavo ci arrivassi da solo!»

Il biondino corrugò la fronte, storgendo le labbra. «Criptate?»

«Eh! Sì, più o meno.»

« ‘Più o meno’ » gli fece il verso Adam, roteando gli occhi. «Perchè non dici semplicemente le cose come stanno, invece di continuare a girarci attorno? Eh?»

Ema ridacchiò – il ridacchiare poteva considerarsi un suo marchio di fabbrica, fintanto che le cose non si facevano serie. Quand’era rilassato, Ema ridacchiava.

«Perchè non lo sappiamo, esattamente, come stanno. Ti pare staremmo negli scantinati, a parlare di queste cose, se ne avessimo una spiegazione perfettamente scientifica? Io sarei già andato a caccia del Nobel, molto tempo fa, pubblicando tutto il pubblicabile.»

«Molto tempo fa? Ma se hai venticinque anni.» sottolineò il ragazzino.

«E allora?»

Adam lo scrutò infastidito. Non gli piaceva quando Ema iniziava a far della sua intelligenza un vanto.

Ma Ema non lo faceva: semplicemente, sognava il Nobel – Quel Nobel; e sognava ancor di più il giorno in cui tutto ciò sarebbe potuto uscire, finalmente, da cantine, taverne, sotterranei e simili.

«Quindi non c’è una spiegazione scientifica?» domandò all’insegnante.

«Certo che c’è. C’è Sempre una spiegazione scientifica.» rimarcò Ema. «Solo che non è esattamente semplice da trovare.»

est oculos ausus primusque obsistere contra;

«Il codice genetico non viene letto linearmente, ma secondo una legge. Dato che l’alfabeto genetico è così ridotto, basterebbe un filamento di sole quattro basi e la legge giusta, per generare qualsiasi codice genetico possibile.»

Adam inclinava la testa, neanche fosse che da quell’angolazione potesse capire meglio di cosa stesse parlando l’altro.

Per Ema spiegare una cosa del genere ad un tredicenne era una sfida.

Anzi, era La sfida.

Ormai si era fatto il leader intellettuale del branco, e la sua passione per le ricerche e l’insegnamento compensavano il fatto che fosse una persona normale. Si dilettava nel far passare quel poco di sapere che aveva accumulato negli anni al resto del gruppo, ed ora, fare la stessa cosa con Adam, poco più di un bambino, significava dover dimostrare definitivamente d’essere un insegnante geniale. A venticinque anni.

La sola idea lo solleticava abbastanza da cimentarsi nell’impresa.

«Dato che il nostro dna è decisamente più lungo di quattro elementi, da esso è chiaramente possibile ricavare anche informazioni differenti da quelle fornite del codice genetico standard, con leggi più o meno semplici. La chiave di lettura ‘normale’ del dna è automatica, quindi possiamo dire davvero che il nostro codice genetico contiene tutte le informazioni necessarie per vivere e sopravvivere. Ma, se introduciamo una nuova chiave di lettura, possiamo ricavarne sempre qualcosa di nuovo. – Bhe, ‘qualcosa di nuovo’ potrebbe essere anche un tumore, quindi non è banale come te la sto vendendo.»

 

quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti

Adam si era fatto improvvisamente ricettivo, avendo compreso che finalmente si giungeva al sodo. Le schiena, ch’era stata sino ad allora mezza ingobbita, si era rizzata man mano che Ema procedeva nel suo monologo.

Non era sicuro di aver compreso tutto, ma una cosa era certa: da qualche parte, in quelle nozioni, era ben nascosta una cosa che molti di quelli come loro cercavano.

Il ‘perchè’.

«Il modo naturale che induce una nuova chiave di lettura, è la vibrazione dei volui di Gaia.»

Adam annuì.

Questa parte la conosceva.

«E’ abbastanza semplice, perchè mantiene il codice genetico inalterato, ma semplicemente lo legge in maniera non lineare, ma modulata.»

Adam lo fissò perplesso.

Ecco, Ema iniziava a partire per la tangente.

«Credimi.» Rispose l’insegnante allo sguardo stranito del ragazzino. «Poi ti darò un libro da cui leggere, se la cosa ti interessa.»

Anche le imprese di Ema avevano un limite, come ce l’aveva la capacità di comprensione di un tredicenne privo delle basi fondamentali. Andare più a fondo con il discorso era del tutto inutile.

«Generalmente,» continuò, «dato che siamo mammiferi con moli enormi di genoma in comune con i mammiferi più evoluti, quello che salta fuori è il codice animale prevalente.»

«Lo stesso animale che vedo nella mente delle persone?» domandò Adam, illuminato.

«Esattamente. Dato che è prevalente, una parte si sviluppa anche normalmente, senza bisogno della nuova lettura genetica, e si palesa in parte nella psiche. Di solito si tratta di mammiferi. Per quelli come Alessandro carnivori od onnivori, per quelli come Amanda generalmente erbivori – per la gente comune, un po’ di tutto. Capitano anche rettili o uccelli, seppur molto raramente.»

murmure compressit caelum, sed eo magis acre

Adam portò le mani dietro la nuca, fissando Ema.

Il venticinquenne lo osservava a sua volta, attendendo che il biondino facesse la domanda che gli spettava.

Rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre tutti e due pensavano la stessa cosa.

«Ok.» fece Adam infine. «E io?»

Ema sorrise, apprensivo.

inritat animi virtutem, effringere ut arta

«E tu sei uno dei motivi per cui io non sono ancora pronto a reclamare il Nobel.»

Adam sbuffò.

 

naturae primus portarum claustra cupiret.

 

 

***

 

 

 

[19 giugno 1973]

 

«Mentre l’umanità giaceva vergognosamente sulla terra» recitava una voce giovane e possente, dalle vocali larghe e le consonanti marcate.

«Oppressa, davanti agli occhi di tutti, sotto il grave peso della superstizione» continuò una ragazza, dal tono esile e leggero «che, dalle regioni del cielo, mostrava il suo capo incombendo dall’alto sui mortali con il suo terribile aspetto, per la prima volta un uomo greco osò sollevarle contro gli occhi mortali, e per primo osò opporsi ad essa. E non lo intimorirono né le dicerie sugli dei, né i fulmini, né il cielo con il suo mormorio minaccioso, anzi: ciò eccitò ancor di più l’ardente virtù del suo animo, tanto da desiderare di spezzare per primo gli stretti serrami delle porte della natura.»

La ragazza prese una grande boccata d’aria, dopo aver finito di recitare tutto d’un fiato il passo tradotto. Esausta, posò lo sguardo sull’altro, che sorrideva.

«Andava bene?» domandò al ragazzo.

«Sì, decisamente.»

Amanda espirò, sgonfiandosi e accasciandosi su tavolo e libri.

Il pomeriggio se n’era andato così, a ripetere a oltranza passi su passi di traduzione di Lucrezio. Fortunatamente la cantina, le cui pareti erano ricoperte di mensole ospitanti vini, era un posto piacevolmente fresco. La luce langueva, entrando unicamente da una finestrella che dava sul marciapiede, ed oramai stava divenendo fioca a causa dell’ora tarda. La stanza era la massima espressione dell’arte d’arrangiarsi: un paio di lampadine erano poste per terra o legate a mensole vuote, e il tavolo su cui studiavano era del tutto improvvisato: due cavalletti da cantiere reggevano una tavola di compensato verniciata. I due ragazzi sedevano su sgabelli costruiti da batterie di decine di bottiglie di plastica, legate fra di loro con lo scotch e imbottite con cuscini di poco prezzo.

Ma si stava decisamente comodi.

Da una porta aperta discendeva il corridoio, buio e spoglio, che si muoveva fra qualche scalino e girando ad angoli retti, ora a destra, ora a sinistra. Una delle porte su cui dava, che tentava d’essere chiusa ermeticamente sempre con mezzi improvvisati, portava alla libreria. L’altra, invece, in coda al corridoio, era l’accesso al grande androne di cemento, spoglio e rettangolare, che nasceva come ampio garage per una decina di automobili.

Era un giugno dannatamente caldo, e avere quel posto sotterraneo e fresco in cui rintanarsi sembrava una manna.

«Eilà, ancora con il De Rerum Natura?» domandò Emanuele, affacciandosi alla porta della cantina.

Amanda lo guardò sconsolata.

«Odio mandare le cose a memoria!» fece la ragazza, prendendosi il volto fra le mani.

«Se non sai tradurre il latino, Amanda» ribattè Alessandro, che aveva passato il pomeriggio a insegnarle come si mandano a memoria in tempi brevi trecento e passa versi di traduzione «questa è l’unica, per la matura.»

La ragazza espirò, alzandosi in piedi e chiudendo i libri con un gesto definitivo.

Era piccola e magra, con un volto rotondo e dolce: sugli occhi verdi ricadeva qualche ciuffo dei suoi lunghissimi capelli corvini. Superava Ema di qualche centimetro.

Alessandro, invece, era colossale. Non grasso, ne’ un armadio come un giocatore di football, ma semplicemente alto e tonico: la mascella squadrata, i capelli castani perennemente disordinati, due occhi neri da far perdere la pupilla nell’oscurità dell’iride. A momenti faceva impressione, se non fosse ch’era la persona più pacata del mondo, e la sua voce, possente, raramente diveniva accesa. Vedere Alessandro furioso era uno spettacolo tanto raro quanto inquietante: e non tutti i suoi amici avevano avuto la fortuna – o sfortuna – di assistervi.

Quello che pareva poter essere una promessa del basket o della pallavolo, era un tranquillissimo studente del primo anno di lettere e filosofia.

Ed il capobranco.

«Andiamo a mangiare qualcosa?» domandò Ema, recuperando il suo borsone.

«Io devo andare a casa…» si lamentò Amanda «altrimenti i miei non mi lasciano venire al raduno.»

«Neanche una pizza?» insistette quello, rivolgendo poi lo sguardo verso Alessandro.

Il ragazzo annuì, stiracchiandosi. «Vada per la pizza. Adam è andato a casa?»

«Da un pezzo, con David.»

«Bene, quindi qui siamo rimasti solo noialtri.»

«Io vi saluto» s’intromise Amanda «o perdo anche questo autobus. Grazie mille, Ale, mi hai salvata.»

«Vedi di ripassare» fece Alessandro, ammonendola «o abbiamo sprecato un pomeriggio.»

Amanda annuì, iniziando ad incamminarsi, rapida, verso l’uscita.

«Amanda!» la richiamò Alessandro, a voce alta. «Mi raccomando, non fare stronzate! Sabato c’è il raduno, risolveremo lì tutto quanto, quindi Evita stupidi battibecchi!»

«Siiiì» rispose la ragazza, ormai quasi fuori dallo scantinato.

I due si guardarono, sperando che Amanda non si facesse effettivamente prendere da strane idee.

 

 

 

***

 

 

 

 

[23 giugno 1973]

«Sei un idiota!»

Adam ruzzolò dall’altra parte del garage, avviluppato su se’ stesso e terrorizzato. Lasciò una piccola scia di sangue sul cemento, grondante dalla ferita che aveva sul fianco.

«David, piantala!» Amanda cercò di avvicinarsi al ragazzo che aveva scagliato il biondino lungo lo stanzone. Quello, come risposta, ringhiò.

Moro, dalla barba curata: David sembrava pronto per l’esercito, con il suo fisico tonico e possente, le spalle larghe, perfettamente proporzionato.

Per un certo periodo della sua vita aveva anche preso seriamente in considerazione l’idea di arruolarsi.

Ma non adesso.

Adesso, ancor più gonfio a causa dell’ira, ringhiava contro il fratello.

«Come ti è saltato in mente?» continuò David, furibondo.

Adam se ne rimaneva dov’era atterrato, la nuca fra le mani, lo sguardo impaurito incollato su Alessandro.

Il capobranco, poco più in là, osservava la scena senza proferir parola. Taceva in un silenzio studioso e gelido, che Amanda avrebbe voluto spezzare tirandogli un cazzotto dritto sul volto immobile.

Odiava quando faceva così.

Sapeva benissimo cosa stava facendo – ma se la stava prendendo troppo comoda. Cosa importava quali erano stati realmente i fatti? I due fratelli erano sul punto di scannarsi. Anzi, il più grande stava per scannare il più piccolo, che, succube e impaurito, tentava alla meno peggio di proteggersi dai colpi iracondi del consanguineo.

David, che si ingrossava ogni secondo di più, mosse un piede in avanti e fece per sfoderare gli artigli.

«David!» lo richiamò Amanda.

Ma quello pareva non sentirla.

«Non l’ho fatto apposta!» piagnucolò il ragazzino, cercando di rimettersi malamente in piedi.

«Non me ne frega niente!» ringhiò il fratello maggiore «Ti sei rincretinito? EH? Rispondi!»

Adam si fece minuscolo, mentre faceva oscillare lo sguardo stranito e disperato fra la figura di David e quella di Alessandro.

«Basta così.» intervenì infine il capobranco. «David, lascialo stare. Per oggi ne ha prese decisamente abbastanza. Adam, tu stasera non vieni, beninteso.»

David continuava a fremere.

«David.» insistette Alessandro. «Ho detto Lascialo Stare.»

Quello si volse verso di lui, fissandolo con gli occhi rosso mattone, l’iride larga e lo sclero ormai nascosto dalle palpebre scure.

«Lo hanno aggredito loro.» spiegò il capobranco, alzandosi in piedi e muovendosi verso i due fratelli «Non poteva fare altro che difendersi, per come erano messi. Stasera dobbiamo parlare con Vittorio, e non sognatevi di fare niente finchè non ve lo dico io. Se lo rifanno, giuro che li ammazzo.»

Adam fu ben che rasserenato dalle parole di Alessandro, anche se si sentì in parte come scoperto: il capobranco aveva letto nella sua mente, senza nemmeno avvertirlo.

Ma almeno, aveva evitato che il fratello continuasse a prendersela con lui.

«Non avevamo detto che si chiedeva il permesso, quando si entra nelle menti altrui?» apostrofò David, mentre cercava di riacquistare stabilità.

«Non credo che in un momento del genere ci fosse il Tempo di chiedere e controllare. Era un’emergenza.»

David schioccò la lingua sul palato, espirando e raddrizzando la schiena.

Lanciò un’ultima occhiata ammonitrice al fratello, per poi concludere con un secco «Bah.».

Adam se ne rimase lì, tenendosi il fianco ferito, lo sguardo basso e le lacrime pronte ad insorgere.

 

 

 

 

Emanuele si caricò in spalla un borsa che avrebbe potuto contenerlo interamente. Flesso dal peso, mosse qualche passo, cercando di uscire dallo scantinato.

Amanda, dietro di lui, era ancora agitata per quanto accaduto poco prima. Si martoriava le mani, sudaticce, per poi asciugarsele sulla maglia.

«Giuro che ci mancava solo questa. Io dopodomani ho la terza prova, diavolo!»

Ema annuì, apprensivo.

«Amanda, puoi anche tornare a casa a studiare.» sottolineò Alessandro, uscendo a sua volta dallo scantinato.

Il tramonto lanciava qualche ultimo raggio arancione da dietro una serie di nuvolette gonfie. I lampioni erano già accesi da mezz’oretta, ed il buio oramai incombeva.

«Sempre con questa storia, Alessandro.» rispose infastidita la ragazza «Piantala.»

I tre si fermarono a qualche metro dalla soglia, ad aspettare che i due fratelli si facessero vivi.

«Ci tenevo solo a precisare.» rispose il capobranco. «Ci manca solo che venga fuori che venite ai raduni contro la vostra volontà.»

Amanda roteò gli occhi, mormorando parole di fastidio. «Sempre con le stesse turbe, Ale.»

Alessandro si strinse nelle spalle.

«Adam rimarrà qui.» dichiarò David, varcando la porta. Il biondino, appoggiato allo stipite, osservava sempre in basso. Da sotto la maglietta si intravedeva una fasciatura impostata in maniera quasi professionale.

«Non possiamo lasciarlo qui, dai!» intervenne Amanda.

Che diavolo stava succedendo? Un momento di idiozia collettiva?

La ragazza guardò torva David e Alessandro.

«Non può tornare a casa, avevo detto che stanotte stava con me.» spiegò il fratello maggiore. «E comunque, finchè non si rimarginano le ferite, non è certo il caso che si faccia vedere da mamma e papà.»

«Non so se sia più sicuro lasciarlo da solo al rifugio o portarselo dietro al raduno.» commentò Ale, ad alta voce.

Adam rimaneva sulla porta, lo sguardo sempre più avvilito. Dire che si sentisse un peso era un eufemismo.

«Ale, non puoi lasciare un tredicenne da solo nel rifugio, mezzo ferito, ci manca solo che lo trovi la polizia, guarda!»

«Perchè dovrebbe venire qui la polizia?» domandò Adam terrorizzato, risollevando lo sguardo su Amanda.

«Ma se avete ingaggiato battaglia in mezzo alla strada?» domandò retorica la ragazza al biondino. Quello sgranò gli occhi, illuminato e scosso al contempo.

Oddio, sì.

Avevano combattuto in mezzo alla strada.

Ma non era stata colpa sua.

Davvero, non era stata colpa sua.

E se la polizia lo stava cercando?

Se lo aveva visto?

«Non è stata colpa mia!» articolò, sgomento, il ragazzino.

«Amanda, non far venire più paranoie del necessario al piccolo, ti prego.» intervenne Ema «Non vedo come possano risalire a questa casa entro stasera. Se non sono arrivati adesso, non arriveranno almeno per i prossimi giorni. E qui attorno non c’è nessuno, no?» domandò, verso Alessandro.

Il capobranco annuì. «Non è della polizia che dobbiamo preoccuparci, ma eventualmente di altri attacchi, magari mossi direttamente al nostro rifugio. Quindi Adam farà la guardia.»

«La guardia?»

«La guardia. Adam, hai carta bianca.»

«Cosa?»

«Se succede qualcosa, devi difendere il rifugio.»

«E la libreria.» sottolineò Ema.

«Soprattutto la libreria.» rimarcò Alessandro.

I due fratelli li guardavano con la bocca semiaperta.

 

 

 

 

 

Adam si sedette in mezzo all’androne, o garage che fosse. L’aria umidiccia e fresca circolava da piccole finestrelle aperte.

Era solo. Solo nel rifugio.

Solo a controllare il rifugio.

Avrebbe passato la notte lì dentro, mentre gli altri regolavano i conti che si erano creati nelle ultime settimane.

In teoria avrebbe preferito essere al raduno, a vedere i suoi compagni combattere – o vedere Alessandro dichiarare definitivamente guerra al branco di Vittorio: quello sì che avrebbe significato movimento.

Incrociò le gambe, inspirò, socchiuse gli occhi.

Ora sentiva il peso di una responsabilità che era calata dal cielo, del tutto inaspettata, e forse anche fasulla.

Che i ‘grandi’ si fossero inventati qualcosa da fargli fare? Era possibile.

Ma non poteva escludere che ci fosse un fondo di verità.

E comunque, anche se fosse andato al raduno, non lo avrebbero lasciato combattere – come sempre.

Almeno, così avrebbe fatto qualcosa.

Cercò di aprire la mente, non senza una certa difficoltà: non gli era ancora del tutto naturale; esplorava tutto il circondario – forte di un sesto senso innato – andando a tangere ogni tanto in qualche essere senziente. Spanse la sua volontà nel sotterraneo sino a farla uscire e, con un certo sudore, si appigliò ad alberi e terra per poter spaziare ancora più lontano. Entro qualche faticoso minuto, Adam ebbe la percezione di tutti gli esseri viventi che si muovevano nel raggio di un paio di chilometri. Finito il linkaggio, poté rilassarsi: la rete era costruita, ora doveva solo vigilare su essa.

E, nella remota casualità in cui fosse entrato qualcuno di pericoloso, fare il suo lavoro di mastino da guardia.

 

 

 

Alessandro vide Vittorio lanciare un’occhiata severa ai due ragazzi dietro di lui.

Il bunker era affollato, l’aria bollente, e la tensione fra i due gruppi si stava facendo palpabile. Svariate decine di persone osservavano quella che stava rischiando di diventare una dichiarazione di guerra ufficiale.

Una cosa era scontrarsi entro le regole riconosciute dalla comunità, un’altra era avere due branchi che erano pronti ad uccidersi in mezzo alle strade della città.

«Allora?»

«Vuoi dichiararmi guerra? Sai benissimo cosa comporta. E’ un rischio per tutti noi.» fece notare Vittorio.

«Da che pulpito giunge la predica.»

«Non sono stati mandati da me. Lo sai che non sono così stupido da mettere in pericolo tutti quanti per una stupidaggine del genere.»

«La Tua stupidaggine ha rischiato di ammazzare un Mio compagno. Come minimo pretendo delle scuse, e una punizione per i due idioti che hanno avuto la geniale idea di aggredire Adam nel bel mezzo della città.»

«Non è la prima volta che succede. Vorrei ricordarti che solo qualche manciata di mesi fa la tua Amanda ha imbastito un bel teatrino dalle parti del suo liceo. O sbaglio?»

Amanda, ch’era dietro ad Alessandro ed Emanuele, arrossì violentemente.

«E’ stato un incidente.» la difese Alessandro. «E abbiamo porto le scuse del caso. E Amanda è stata punita: sono un capobranco serio, e lo sai benissimo. Non credo che cercare di uccidere Adam sia un’idea molto furba, ne’ paragonabile al dare in escandescenze di Amanda.»

I due ragazzi dietro a Vittorio si scambiarono un’occhiata indecifrabile.

«Ragazzi, per cortesia» – un uomo sulla trentina, basso e grassoccio, intervenne fra le due fazioni. «Cerchiamo di non fare stupidaggini. Penso che siamo tutti ben che interessati a sapere cos’ha portato Mattia ed Edoardo ad aggredire il ragazzino, non è vero?»

Il bunker tacque. I due ragazzi chinarono il capo, fuggendo lo sguardo indagatore e attonito dei partecipanti al raduno.

Alessandro vedeva negli occhi di Vittorio che c’era qualcosa sotto. Non sarà stato lui il mandante, ma, in fondo, Sapeva. Non gli serviva entrare nella sua mente, e comunque non ci sarebbe riuscito: ma anche senza questa possibilità, c’era evidentemente un nesso legante che Vittorio cercava di non far trapelare.

C’era Quel nesso legante.

David si guardava attorno, mentre un sommesso parlottio iniziava a spandersi fra i presenti.

Non ci vide più.

«Ancora con questa storia?» esplose il moro, tuonando. Alessandro si voltò di scatto verso il compagno adirato.

Lo vide fremere nel tentativo di reprimere l’istinto maldomato di mutare il suo aspetto. «Provate a toccare un’altra volta mio fratello e giuro che vi ammazzo tutti quanti! E se non io, vi faccio ammazzare direttamente dai militari, Stronzi!»

Vittorio indietreggiò, mentre Mattia ed Edoardo avanzavano per difendere il loro capobranco.

L’uomo basso e grassoccio si avvicinò ulteriormente al ragazzo iracondo, cercando di calmarlo.

Ema percepiva tutta la tensione accumulata e sul momento un istinto tanto umano quanto animale gli suggeriva di cercare la fuga: se la guerra generale esplodeva in quel momento e in quel luogo, lui sarebbe stato il primo a rimetterci direttamente la vita. Essere uno dei pochi umani in un covo di demoni e bestie significava anche questo.

«Non me ne frega niente di cosa è o cosa non è! Fanculo a Gaia e a quelle cazzo di leggende, se lui si trasforma in un drago anziché in un cane o in un cinghiale, a voi cosa cazzo cambia, eh?»

«E’ pericoloso…» iniziarono a levarsi cori di disappunto e paura.

«Calmati, David.» rincarò Alessandro, posandogli una mano sulla spalla gonfia.

Come tutta risposta quello lo allontanò con un gesto violento. «Vorrei vedere voi ad avere metà della comunità che pensa che suo fratello sia un pericolo e debba essere fatto fuori! Aggredito in mezzo alla strada da due ventenni che sono il doppio di lui! Sono mesi che sento gente parlottare di quanto mio fratello sia un mostro e non vi rendete nemmeno conto che qui siamo tutti dei fottutissimi mostri, gente che di punto in bianco si sveglia con la stazza e la potenza di un orso o di un leone! Cerchiamo di nasconderci in questi dannatissimi posti per non farci scoprire dalla gente normale e intanto cercate di uccidere vigliaccamente uno di noi a cielo aperto! A cielo aperto! Senza nemmeno dichiarare una sfida o un combattimento ufficiale!»

Il tipo grassoccio andrò verso Vittorio, separando le due fazioni che stavano per venire alle mani – anzi, agli artigli.

«Siete dei fottutissimi ipocriti!» sbraitò, in finale, il moro.

Voltò le spalle – il bunker zittito dall’ultima graffiante battuta -, e ancora fremendo per la fatica di reprimere l’istinto della metamorfosi, raggiunse l’uscita sbattendosi la porta pesante alle spalle.

L’intonaco si incrinò.

 

 

 

 

Adam si tolse la fasciatura che gli aveva fatto il fratello. Sotto, pelle nuova e rosata segnava i confini di quella che poco prima era stata la sua ferita.

Passò le nocche sulla carne rigenerata, strofinando, finchè la pelle non si squamò leggermente e della cicatrice non rimase più segno alcuno.

 

 

Una ragazza fece capolino dalla porta, osservando la figura di David poggiata al muro – intento a prosciugare a pieni polmoni una sigaretta rollata.

Il ragazzo le scoccò una rapida occhiata, per poi tornare alla sua nicotina.

«Eilà.» disse infine quella, chiudendosi l’uscio del bunker dietro le spalle.

«Eilà.»

Rimasero in silenzio.

Dentro, sotto, il bunker mormorava piano, discuteva perplesso, forse scosso, in larga parte impaurito dalla visione che tutti avevano avuto: una guerra pronta a scoppiare e che avrebbe significato non solo la morte di molti di loro, ma anche il rischio inevitabile di essere scoperti dal resto del mondo.

Nessuno sapeva quale delle due fosse peggio. Erano sempre rimasti, negli anni, separati, occultati, nascosti. I film di fantascienza con cui la maggior parte di loro era cresciuta gli avevano suggerito di non andarsene in giro con sembianze che trascendevano l’umano sfociando nell’animale, toccando l’alieno. Si erano ritrovati per caso ad essere qualcosa che in pochi avevano immaginato, e che nessuno aveva realmente pensato potesse esistere.

E invece erano lì.

Bande, branchi, di ragazzi e ragazze, o volendo anche uomini e donne, che battibeccavano per sfizio, che testavano le loro capacità, che giocavano.

Giocavano.

Per quanto si scannassero e si ferissero, si insultassero e si malmenassero, tutto era sempre stato solamente che un gioco.

Adam.

Adam aveva inserito la realtà, sebbene assurda, in quel mondo di giocatori sfacciati. Un semplice ragazzino che invece di diventare orso come suo fratello o lupo come il suo capobranco, acquistava le sembianze d’un drago tolkeniano, scarlatto, dalle squame rilucenti e le corna affilate.

Adam – che per quanto se ne sapeva sino ad allora, non avrebbe dovuto aver diritto d’esistere – , era semplicemente comparso. E, da bravo ragazzino, si divertiva all’idea di combattere sfruttando quell’inaspettato potere. Per gioco.

E per gioco avevano sempre letto nei testi più antichi nascosti nella libreria del rifugio di draghi poderosi, di umani che si tramutavano in rettili alati.

A loro non importavano le leggende, ne’ davano troppo peso alle dicerie. Non sinchè un vero ragazzino-drago non era comparso.

Che importava?

Era tutto un gioco.

Non lo chiamavano gioco, lo chiamavano comunità. Lo chiamavano passare le notti a combattere in cantine e garage, bunker e gallerie cadute in disuso. Non lo chiamavano per nome, ma non era mai morto nessuno. E fintanto che non moriva nessuno, era tutto un grande gioco.

Ma alla luce di un tentato assassinio, il gioco scompariva.

«Hai fatto bene ad andartene. Si sono calmati tutti.» disse la ragazza, accostandosi a David. Quello fumava imperterrito la sua sigaretta.

«Hyun, non è vero?» domandò infine il ragazzo, volendosi accertare del nome.

Lei annuì.

«Sono la sorella adottiva di Michele.»

«Del branco di Erica. Sì, ho presente. Sei una persona normale, se non erro. Hai rischiato molto, stasera.» la nicotina pareva avere un effetto assai più calmante di quello che aveva immaginato. Si sorprese nel riuscire ad articolare frasi che non erano ricolme d’insulti.

«Anche il vostro amico Emanuele ha rischiato.»

«Lo so.»

La ragazza annuì. Dai tratti orientali, piccolina, più piccola di Ema. Gli sorrise, gli occhi scuri stretti fra le palpebre tipiche della sua gente.

«Pensi che finirà in guerra?» domandò al ragazzo, mentre lo osservava dal basso. Non che David fosse particolarmente alto, ma un metro e ottanta contro uno e cinquanta si fa sempre sentire.

«Fintanto che la gente temerà una guerra fra demoni e bestie più di quanto non tema, immotivatamente, mio fratello – no.»

«Al momento non è successo nulla solo perchè tu te ne sei andato.»

«Ero io che stavo rischiando di far saltare tutto in aria. Alessandro sa fare bene il capobranco, devo imparare a lasciar fare le cose diplomatiche a lui. Se fosse stato per me, avrei già staccato la testa a morsi a quei due.»

Hyun rise leggermente.

«Qualche ora fa ho fatto ad Adam una ramanzina di quelle che non finivano più.» continuò il ragazzo. «Gli ho tirato un ceffone che lo ha fatto volare dall’altra parte della stanza, per essersi messo a combattere a cielo aperto. Pensavo che fosse stato lui a fare la stronzata – dio, ha solo tredici anni. Invece lo hanno attaccato loro.»

Lanciò il mozzicone per terra, spegnendolo con un colpo secco della suola.

«Se iniziamo a temere il diverso fra i diversi, dove andremo a finire? Una cosa è fare la guerra fra bande, e una cosa è diventare improvvisamente razzisti e assassini.» «

Hyun ascoltava in silenzio, scrutando quel ragazzo grosso e muscoloso, i lineamenti marcati addolciti dalla barba, lo sguardo, ai suoi occhi maturo, che spaziava lontano e perso.

«Devo scusarmi con lui.» concluse, iniziando ad annegare nei sensi di colpa su cui galleggiava già da qualche tempo. 

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Capitolo 2
*** 2. Adamo ed Eva ***




[NdA: Scusate ancora per i capitoli Troppo lunghi. T____T''''' Tanti per specificare, i primi 2 sono un Enorme prologo... a metà del terzo si comincia sul serio. Sempre che mai ci si arrivi, ovviamente.]





 
2. Adamo ed Eva
 
 
 
 
[26 giugno 1973]
 
David sbattè un libro giallastro sulla tavola di vernice: Ema susultò.
«David, quel libro ha più di duecento anni!» gli strillò dietro il venticinquenne, inorridito. «Vale un patrimonio!»
«Questo libro può anche bruciare, per quel che mi riguarda.» ribattè seccamente il moro. «Centinaia di pagine che aizzano le folle contro i demoni, contro le bestie e contro i draghi - soprattutto contro i draghi. Parole scritte dal pugno di chi promuoveva la caccia alle streghe, altro che patrimonio: sono stronzate!»
«Sono anche le uniche stronzate che danno una descrizione credibile dei nostri avi.» commentò Alessandro. «O di chi per loro era nella nostra stessa condizione. Se davano la caccia alle streghe, figurati se non la davano a quelli come noi.»
David si prese la testa fra le mani, sedendo su uno degli sgabelli fatti di bottiglie. «Potessi tornare indietro nel tempo, li ammazzerei.»
Ema si avvicinò al tavolo, raccogliendo, con immensa cura, il suo libro; per un istante sembrò coccolarselo. Era l'unico esemplare esistente nel raggio di chilometri: e lo avevano loro. David sembrava non comprendere la sottigliezza della situazione né, tantomeno, il portento della loro libreria.
«Se vuoi fare ricerche su Adam, perchè non chiedi al Bibliotecario?» domadò il capobranco, accennando ad Emanuele. A quella definizione, Ema parve gonfiarsi, impettito.
«Volevo solo capire da dove si sono inventati che i demoni drago sono pericolosi.»
«In effetti, nei testi antichi ne parlano sempre male.» rispose Ema, pensieroso.
«E nei testi moderni?»
«Da quello che so io, l'ultimo demone come Adam risale ad almeno seicento anni fa, ai tempi dei Medici – inizio rinascimento. Nei testi moderni non se ne parla, sono vecchie leggende; o, meglio, dovevano esserlo. Evidentemente no.»
David scosse il capo, interdetto. «Sono maree su maree di stronzate.» rimarcò. «Cosa cambia?»
«Che la teoria del codice genetico letto in maniera modulata non ci sta dietro. Una cosa è reperire il codice di un orso o di un lupo, un'altra è trovare quello di un drago – e, detto fra parentesi, non riesco ancora a capire come possa fare a volare.»
«Finchè non lo lasciamo fare tutta la metamorfosi, non lo capiremo mai. Magari non vola, le ali servono ad altro; ma lo fermiamo sempre quando iniziano ad apparire.»
«Un giorno di questi gli faremo fare la metamorfosi completa.» asserì Alessandro, con il tono di chi ha appena deciso di fare qualcosa che doveva fare da tempo.
E in effetti era così.
Adam era l'unico del branco di cui non si conosceva la vera forma animale: quando iniziarono a comparirgli per la prima volta le ali - escrescenze ossee che si dipartivano dalle scapole del ragazzino -, Alessandro e David lo fermarono immediatamente.
Il capobranco aveva già visto il drago nella mente di Adam, ma sino ad allora aveva pensato fosse una cosa che si riduceva alla psiche: una montatura dovuta al fatto che il ragazzino era piccolo, incosciente, e particolarmente sulle nuvole. Il suo animale prevalente poteva essere un rettile qualsiasi, che il suo inconscio aveva trasformato in drago per dargli la parvenza di proteggerlo meglio.
E invece no. Adam stava per trasformarsi veramente in un drago.
Cos'era un Drago?
Cosa faceva un Drago?
E soprattutto, quanto era grande?
Non facevano combattere il ragazzino proprio per questo: tolto il fatto che David non sopportava l'idea di veder combattere il fratello minore, non sapevano se, nel caso in cui si fosse trasformato completamente, il garage o bunker di turno sarebbe stato capace di contenerlo.
Ema fremeva all'idea di vedere finalmente un Drago – quello che madre natura aveva creato drago, quello che Gaia aveva fatto drago: un animale mitologico che si palesava in un mondo governato unicamente da leggi fisiche.
E da volui.
Che fossero i volui a permettere ai draghi di volare?
Il venticinquenne non attendeva altro che studiare quel fenomeno improbabile.
 
 
 
 
 
 
***
 
 
[28 gugno 1973]
 
«Ale, sto pensando di mollare.»
Alessandro lo guardò perplesso.
«Medicina?» domandò, cercando di indovinare il dire dell'altro.
«No, questo.» spiegò David. «Chiudere con tutte queste idiozie di demoni e bestie. Siamo umani, prima di tutto. Non posso passare il tempo a controllare che non ci sia qualcuno che vuole far fuori mio fratello.»
«David, continueranno anche se decidete di smettere.» commentò Alessandro sfogliando le pagine del libro che stava studiando. Si fermò, sollevando lo sguardo verso il compagno. «E comunque la tua volontà non è quella di Adam. Lo sai che lui si diverte.»
«Ha tredici anni, non è capace di intendere e di volere. Posso costringere i miei a trasferirci, se mi metto d'impegno.»
«Ha tredici anni, è perfettamente in grado di intendere e di volere, e temo che voglia far parte della comunità. Anch'io preferirei ne stesse fuori, piccolo com'è: ma ormai è dentro. Qui è come una mafia, non si scappa; non perchè noi verremo a cercarvi, ma perchè stai scappando da quello che sei e che siamo.»
«Demoni? Wow. Scusa se scappo.»
«Lo sai che è solo una definizione arcaica.»
«Sì, lo so, ma chiarisce benissimo la nostra posizione.»
Alessandro chiuse il libro, pensoso. «Senti, potreste anche cambiare branco. Qui siamo in pochi, potresti trovarne uno che vi difende a dovere. Come quello di Erica, ad esempio, che è chiaramente schierato dalla nostra.»
«Ancora con questa mania di invitarci a lasciare il branco?»
«Sai che nessuno vi costringe a stare qui. La natura, invece, quella sì che vi costringe ad essere due demoni – ed Adam un demone particolare. Dovete fare la cosa migliore per voi, ma di sicuro non è scappare.»
«Lo sai quanto ti detesto quando fai questi discorsi da vecchio saggio, vero?» domandò retorico David. «Sono più vecchio di te.»
«Lo so.»
«Non intendiamo lasciare il branco.»
«Parla per te, Adam ragiona con la sua testa.»
«Adam ti adora, non lascerebbe mai il branco. E' fermamente convinto che tu sia il tizio più figo in circolazione.»
«Se invece di avere un fratello tu avessi avuto una sorella, questa storia avrebbe avuto un lieto fine.»
David saltò sulla sedia. «Dio, che SCHIFO!»
Alessandro scoppiò a ridere: per lo meno, era riuscito a smorzare la tensione e la serietà che si stavano creando.
David scrollava il capo, nel tentativo di mandare via tutta la serie di visioni che l'ultima frase dell'amico aveva generato nella sua mente.
«Se non ti conoscessi da quando sono nato, ti darei definitivamente del pervertito.»
«Dài, non venirmi a raccontare che non hai mai fatto un pensierino sulle sorelle altrui!»
«Sulle sorelle! Grandi! Mature! Non su stupidi ragazzini invasati nell'ottica che questi fossero nati femmina!»
Alessandro tornò a ridere, prossimo alle lacrime.
«Comunque» - tentò di riprendersi, inspirando profondamente - «Comunque, David, quelli come noi si radunano in branchi proprio per guardarsi le spalle. Se te ne vai, non fai altro che far saltare la tua rete di sicurezza – e lo sai. Tu stesso a momenti non riesci a trattenere la tua metamorfosi, ti pare che ti lascio andare in altre città? Non se ne parla. O ti trovi un branco a cui aggregarti, o tu e Adam non vi muovete di qui.»
David lo osservò di sbieco, leggermente irritato dal tono imperativo dell'amico.
«Ale, ti ricordo che decido io della mia vita.»
Alessandro sorrise lontanamente.
«Non fare quella faccia, Ale, è vero.»
«Certo che è vero. Non ti sto parlando come capobranco, ti sto parlando come amico. E come modello maschile di tuo fratello.» aggiunse.
David continuava ad essere inorridito dalla situazione. «Sei pessimo.»
«Oh – sì, solo che sono talmente diplomatico che solo tu e pochi altri eletti se ne rendono conto.» concluse, ridendo.
David scosse il capo, andando a cercare il tabacco e le cartine, la mente confusa ed ingarbugliata: no, non bastava decidere di mollare tutto ed andarsene.
Ale era lì, per lui. Non aveva nemmeno memoria del primo giorno in cui si erano conosciuti, perchè erano troppo piccoli per capire chi o cosa si muovesse attorno a loro: fino ai dieci anni, erano come due fratelli – con il terzo, Adam, in allegato. Si erano ritrovati poco tempo prima, nel periodo in cui andavano formandosi i branchi; inizialmente erano solo Alessando, Ema ed Amanda - solo poi si aggiunse David, e, un anno dopo, Adam.
Era un branco piccolo, ma compatto e potente.
La mano di Ema si faceva sentire: erano stati i primi ad avere una bestia, Amanda, che combatteva come un demone. O quasi. Erano cavie della loro stessa improvvisata tecnologia, che, nonostante tutto, funzionava.
David si accese la sigaretta, lo sguardo rivolto al soffitto della cantina.
Un'occhiata fulminea di Ale gli fece intendere che era decisamente meglio se andava a fumare fuori.
Il ragazzo si alzò, uscendo.
 
 
 
 
***
 
 
[3 luglio 1973]
 
«Siamo nel bel mezzo del Nulla.» commentò Amanda, la guancia pressata contro il finestrino del maggiolone.
«Sto seguendo Ale, non ho idea di dove ci voglia portare.» rispose David, al volante.
Davanti a loro, la cinquecento blu di Ema borbottava, avanzando con la sua dignitosa calma. Erano in viaggio da un'oretta, e ormai tutto quello che c'era attorno a loro era riassumibile in campi, tristi e desolati campi, giallastri, vuoti, alcuni già dissodati.
Adam, che stava seduto dietro, dormiva.
«Immagino stia cercando un bosco.»
«Se diventa troppo grande sfascia gli alberi, non è un'idea furba.»
«Allora non lo so.»
La cinquecento mise una freccia: rallentando, la videro prendere un sentierino sterrato.
David imprecò pesantemente.
«Ma perchè?» si domandò, scocciato. «Se rovino il maggiolone a mia mamma lei rovina me! Stupido uomo!»
La cinquecento continuò, lenta, ad inoltrarsi lungo la stradina; David, al seguito, procedeva con una calma e un'attenzione maniacale, terrorizzato all'idea che solo un sassolino, alzato dalle ruote, finisse sulla carrozzeria dell'automobile.
Dopo altri dieci minuti di sudori freddi per le eventuali conseguenze di danni al maggiolone, finalmente la cinquecento si fermò, e videro Alessandro scendere. Fece loro cenno di spegnere il motore, avvicinandosi.
«Puoi lasciarla qui.»
«In mezzo alla strada?»
«Questo terreno è di mia cugina, sono in vacanza, e hanno già raccolto e dissodato tutto. Sono isolati dal mondo, quindi dovremmo essere al sicuro: nessuno verrà qui a farsi gli affari degli altri.»
David sospirò, in parte rasserenato.
«Speriamo che sia così.»
Amanda scrollò il ragazzino, che, nonostante la strada impervia, ancora dormiva. Schiuse le palpebre rintronato, stiracchiandosi.
«Dai, Adam, muoviti.»
Il biondino annuì, scendendo impacciatamente dall'automobile.
 
 
«Nella siringa che ha Alessandro c'è il siero d'emergenza.» illustrò Ema, mentre tamburellava sull'ago di un'altra siringa.
«Questo, invece, è sedativo: roba che stende i cavalli. Con David ha funzionato benone, ma spero che non lo si debba usare, con te – dato che ho dei seri dubbi sulla sua funzionalità.»
«Non puoi usare direttamente il siero, nel caso?» domandò Adam, scrutando le siringhe: era leggermente impaurito da tutte le precauzioni che stavano prendendo.
«Diciamo che il siero non è esattamente una passeggiata, quindi prima andiamo col sedativo.»
Adam manteneva le pupille fisse sugli aghi.
Erano mesi che vedeva gente fare la metamorfosi, ed alcuni di loro, a partire da suo fratello, raggiungevano la forma animale senza troppi problemi: spesso ci scivolavano involontariamente, ma non è che se ne andassero in giro con tonnellate di siringhe – ne', tanto meno, le usavano. L'unica eccezione era Amanda, e le alte bestie, che invece dovevano essere tenute sotto controllo per via della metamorfosi forzata.
C'era qualcosa che gli sfuggiva.
David vide il fratello sbiancare lentamente, il fiato via via più pensante.
«Ema, lascialo stare.» fece Alessandro, avvicinandosi al biondino. «Non farti prendere dal panico, se no peggioriamo solo le cose. Il fatto che ci sia la rete di sicurezza non significa che devi cadere, no?»
Adam lo scrutò perplesso, i muscoli irrigiditi, le labbra serrate.
«Adam, calmati, dai.» intervenne David, posandogli una mano dietro le spalle – mai fosse che al ragazzino venisse la brillante idea di svenire. «Se non ti senti pronto, aspettiamo. Non è nulla di tragico, eh - oppure ce ne torniamo a casa e lasciamo stare.»
«No!» scattò quello. «Eh, no, sono mesi che voglio farlo, non mi fermerò mica adesso!»
«Va bene, va bene» - fece l'altro, sospirando. »Ma aspettiamo almeno mezz'oretta che ti tranquillizzi.»
Adam sbuffò, più per mandare via la tensione che per commentare quanto aveva detto il moro.
Anche se non vedeva l'ora di assumere la sua definitiva forma animale, per riuscire finalmente a capire cosa si provasse, la cosa gli faceva una certa impressione: era come buttarsi col paracadute.
Stai lì, sulla porta, guardi in basso, brami la caduta libera – e intanto ti chiedi quale parte malata della tua testa ti ha spinto a fare qualcosa di tanto folle.
 
 
Nel dubbio, si tolse i vestiti, rimanendo in mutande.
Prendeva lunghi respiri: non aveva mai smesso di respirare profondamente, da quando David ed Ale si erano armati di siringa.
Il branco lo osservava curioso, in cerchio, attorno a lui.
Sotto i piedi scalzi, sentiva la granularità della terra dissodata e secca.
Gonfiò i polmoni.
Non doveva concentrarsi, doveva solo lasciarsi andare. E lasciar perdere, momentaneamente, quel po' di dolore che gli serpeggiava nelle vene.
Prima le zanne.
I canini che, gonfiandosi, violentavano le gengive.
Poi le squame.
La pelle ispessita, poi rigida, poi dura – rilucente e vetrosa.
La colonna vertebrale che cercava l'estensione, nella coda, triangolare e lunga, ricoperta di placche affilate e terminante in due spuntoni ossei.
Se non avesse avuto a disposizione tutta l'energia che sprigionavano i volui, non ce l'avrebbe fatta: i suoi tessuti non avrebbero retto a quel bisogno di modificare la propria struttura. Andava già sentendosi sfinito, eppure, contemporaneamente, percepiva l'insorgere quel nuovo potere che lo avvolgeva sino ad esplodere in lui.
Dovette lasciarsi cadere in avanti, sulle quattro zampe, per ridefinire il suo equilibrio.
Ema osservava, fra l'impaurito e il dannatamente curioso, il ragazzino in piena metamorfosi: il volto rimaneva umano, ma gli zigomi iniziavano a fendere, come lame, la pelle delle gote.
Il corpo di Adam, sotto la spinta della sua pura volontà, migrava verso la nuova forma.
Nessuno avrebbe potuto immaginare ch'era così semplice, perdere l'umanità e deviare verso l'animale.
Ma non era affatto semplice.
Il reale meccanismo sfuggiva.
Emanuele socchiuse le palpebre, congetture su congetture, teorie su teorie che gli si affollavano nella mente.
Le mani ingrossate e ricoperte di squame, gli artigli come metallici, le gambe che si facevano sproporzionate e la spina dorsale che risaltava in bozzi sulla schiena, lacerando la pelle.
Fin lì, il ragazzino c'era già arrivato altre volte: ora si trattava di andare oltre.
Ema sapeva che faceva male, glielo avevano detto e confermato in molti: ma tutti continuavano a farlo, quindi non poteva essere una tortura.
E infatti, sebbene Adam sentisse la carne tirare e strapparsi, non poteva dire che gli dolesse del tutto: il suo metro di percezione del mondo cambiava, i colori visti dai suoi occhi divenivano rilucenti e vividi, i contorni netti e precisi; sentiva gli odori, tastava il terreno, percepiva il tocco dell'aria sul suo corpo.
E soprattutto, linkava.
Alberi, piante, insetti, lepri nascoste sotto terra.
Percepiva la presenza delle loro menti, le loro essenze, mentre nei polmoni rumoreggiava qualcosa di rovente ed instabile.
Roteò le spalle, muovendo le scapole, che finalmente iniziavano ad allungarsi. Strinse gli artigli delle ormai quattro zampe al terreno, incurvando la schiena.
David e Alessandro indietreggiarono impercettibilmente, mentre richiamavano a loro volta parte della loro metamorfosi: Orecchie animali, unghie artigliate e gambe potenti - non diversi da quanto era Adam, dopotutto. Assai più sciolti e tranquilli, si flessero sugli arti inferiori, attendendo, se necessario, il momento di scattare.
Ema osservò le scapole di Adam fiorire in ramificazioni di ossa e membrana sottile.
Il cuore in gola, non attendeva altro che vedere il seguito.
 
 
 
Sentiva il mondo in infiniti modi diversi: i colori sembravano essersi moltiplicati, gli odori erano divenuti milioni - ognuno dei quali diceva qualcosa di diverso.
Il muso tozzo, gli occhi grandi e gialli, Adam tastava l'aere facendo guizzare la lingua fuori dalle fauci, e contemporaneamente allargava le narici, larghe.
«Adam.»
Il drago scarlatto, che non era più lungo di forse tre metri, parve ignorare deliberatamente David. Portò il muso al terreno, iniziando ad esplorare il circondario: mosse qualche passo apparentemente scoordinato sulle zampe possenti e sproporzionate.
«Adam, ci sei?»
Nei tratti, era un cucciolo. Ema lo scrutava estasiato, domandandosi quanto grande sarebbe potuto divenire da adulto. Si sarebbe fermato a quattro-cinque metri? O sarebbe andato oltre?
«Adam!»
Il drago si voltò di scatto verso il fratello, osservandolo interessato.
Non che non lo sentisse o che non lo capisse: ma David era decisamente passato in secondo piano. La quantità di stimoli che riceveva dall'esterno era enorme, ed ognuno di essi suscitava un interesse vivissimo in lui;
scostò lo sguardo, catturato da uno dei mille suoni, rumori, odori e bagliori che gli intasavano i sensi.
«Mi sembra che vada bene.» commentò Amanda, osservando divertita il bestio ch'era divenuto il ragazzino.
In effetti, era tutto tranquillo: l'unica cosa che rimaneva da stabilire era quanto fosse cosciente e quanto no.
«Adam! Mi vuoi ascoltare?!»
In risposta, il drago si allontanò di qualche passo dal fratello.
«Forse non capisce. Adam?»
Adam ignorò anche il capobranco.
Lo aveva sentito, sì.
Lo aveva capito.
Ma aveva tutt'altro da fare.
Libero. Dall'autorità di qualunque persona o cosa.
Non lo capì subito, perchè la condizione gli parve naturale: ma quando si rese lontanamente conto che avrebbe dovuto obbedire agli ordini di David, l'unica cosa che formulò la sua mente fu 'e perchè mai dovrei prestargli attenzione?'.
Resosi conto di quella cosa, si fermò di scatto – mentre i compagni, ancora perplessi, ceravano di capire il suo comportamento.
Era vero. Doveva obbedirgli.
Ma chi era sua fratello? O Alessandro?
Non potevano niente su di lui. Non decidevano per lui, non potevano costringerlo a fare o a non fare niente.
Nessuno poteva.
Era veramente libero.
Talmente libero da rendersi conto di essere sempre stato libero, da realizzare che in realtà non era mai esistita nessuna regola che lo vincolava a niente e a nessuno.
Erano solo lui e la natura - natura di quel suo essere anomalo e poderoso.
Lui era natura. Libera, incontaminata, priva di qualsiasi regola o legge.
Giusto o sbagliato.
Buono o cattivo.
Macchè.
C'erano lui, e poi c'era la terra, e poi c'era il cielo.
Fine del mondo.
Ed era così semplice che per qualche, lungo, momento, si stupì di non averlo mai capito.
«Adam?»
Si mise a fissare Alessandro, curioso.
Da dietro il muso di rettile, ricco di corna ed escrescenze ossee, nessuno di loro riusciva a trarre una sola emozione umana: aveva completamente cambiato modo di comunicare, e questo lo sapevano; ma, non essendo ne' un lupo ne' un orso, o una tigre o un leone come tali altri, nessuno aveva la minima idea di quale fosse il suo nuovo linguaggio.
Però la sua coscienza pareva essere ancora presente.
Solo, in un certo senso, sembrava diversa.
Lo era.
Adam era talmente cosciente da essere sopra a tutto. Millenni di illogica umanità, di domande insensate e di risposte campate in aria, gli scivolavano addosso come acqua.
Cosa siamo?
Da dove veniamo?
Cosa ci attende in futuro?
Gli uomini si complicano così tanto la vita, pensò il drago.
Si fanno domande del tutto insensate.
E cercano di inventarsi risposte inutili.
Che stupidi.
«Cerca di tornare umano, adesso.»
Adam spiegò le ali.
«Adam...»
Si flesse, incurvando la schiena, le zampe cariche e potenti.
«Adam, cosa diavolo stai facendo?»
Levò le ali, verticali, pronto a sbatterle violentemente verso il basso.
«Adam, non ci provare! No! Scordatelo! Torna immediatamente umano!»
Ma al drago non interessava assolutamente l'opinione di Alessandro.
Con un gesto potente e sorprendentemente coordinato, fra un balzo e un battito d'ali, Adam si librò in aria: Emanuele prendeva appunti.
 
 
«Potrei ucciderti!»
Adam si fece piccolo piccolo, rintanando la testa fra le spalle.
«Mi spiace.» mugolò, con lo sguardo fisso a terra.
Amanda gli porse la maglietta. «Dai, non è successo niente, David.»
«Non è successo niente? Cristo, Amanda, ha volato per mezzo campo!»
«Non c'è nessuno che possa averlo visto...»
«Puoi dimostrarmelo?» tagliò David, infastidito.
«Ma ci sentivi?» domandò Alessandro al ragazzino, sbuffando.
«... sì.» rispose quello, con un filo di voce.
«E allora si può sapere perchè non ci hai obbedito?»
Adam si chiuse ancora di più, tanto che a momenti sembrava stare divenendo un riccio.
Sedevano sulle zolle dissodate, il sole calante dai raggi bassi e quasi taglienti; Adam continuò a tacere, senza rispondere.
«Lo state terrorizzando, voi due.» li apostrofò Amanda, incrociando le braccia.
«Noi? Ma l'hai visto?» insistette David, alterato. «Questo ci fa fuori con una zampata, ancora un po', e tu dici che noi lo stiamo terrorizzando?»
«Non era una zampata!» protestò Adam. «Sono solo atterrato male!»
«Non dovevi metterti a volare! Ma come ti è saltato in mente?»
«Ma...» mormorò quello, che ormai voleva farsi inghiottire dal terreno.
« 'Ma' cosa?»
Adam tornò a tacere.
«Va bene, David, piantala con la tua iperprotettività e lascialo in pace.» Intervenne Alessandro. «Tu stavi per staccare la testa a un tizio, la prima volta – o sbaglio?»
«Ma non ero cosciente!» si giustificò il ragazzo.
«Forse non ha la coscienza umana, quando si trasforma.» intervenne Ema, seduto poco più indietro, intento a risistemare gli appunti.
«Nessuno ha perfettamente la coscienza umana, quando è trasformato.» precisò David. «Ma non per questo ignoro quello che mi dici tu o che mi dice Ale.»
«Forse lui ne ha di meno.»
«Ma no, ero cosciente!» intervenne il ragazzino, in un momento di apparente coraggio.
«E perché non hai obbedito?» rincarò, tagliente, il fratello.
«Ma tipo...» iniziò a mugolare Adam, a disagio «Ma tipo... non so, non lo sentite anche voi..? Era strano.»
«Cosa era strano?»
Il biondino scrutava impaurito il fratello, che andava aggredendolo sempre più.
Se gli avesse detto che in quel momento non gli interessavano gli ordini, cosa gli avrebbe fatto?
Si zittì nuovamente, impaurito dall'idea di vedere ancora più furente David.
Amanda sbuffò.
«State cercando di tirar fuori sangue dai muri, sapete?» fece la ragazza, incamminandosi verso il sentierino. Emanuele la scrutò allontanarsi, per poi squadrare Alessandro interrogativo.
Il capobranco si alzò in piedi, stirando la schiena.
«Va bene, ragazzi, lasciamo stare. Indagheremo più avanti.»
Adam lo fissava sottecchi.
« 'Indagheremo' vuol dire che vuoi esplorare i miei ricordi?»
Alessandro storse le labbra. «Se continui a non spiegarci cosa è successo, dovrò farlo. Non è per farti un dispetto, Adam, ma dobbiamo capire cosa è successo.»
Il biondino fissò per terra, in bilico fra l'ipotesi rivelare tutto di sua sponte o far esplorare la sua mente ad Alessandro.
«Comunque scordati di combattere.» precisò il fratello, alzandosi in piedi a sua volta.
Alessandro lanciò a David uno sguardo ammonitore, ma non disse niente.
Adam rimase lì, avvilito, rimpiangendo la sua ora di libertà.
 
 
 
 
 
***
 
 
[7 luglio 1973]
 
 
David mosse passi rapidi e possenti nella galleria affollata, illuminata dalle luci che avevano alimentato con una serie di batterie: un generatore avrebbe reso l'aria irrespirabile, la quale, già di per se', era viziata a causa del poco spazio.
Raggiunti Mattia ed Edoardo, i due - memori di cosa stava per succedere la volta scorsa - s'impettirono sulla difensiva.
«Bhe?» fece David, in risposta all'atteggiamento di quelli. «Non sono mica coglione come voi, io. Non vi faccio niente, idioti.»
«Cosa vuoi?» domandò Mattia, mentre lo sguardo di Edoardo scivolava altrove.
Qualche metro più indietro, la presenza di Adam era intuibile per il solo fatto che gli occhi di tutti i partecipanti al raduno erano fissi su di lui. Il ragazzino, che si sentiva osservato e del tutto inadeguato al contesto, camminava accanto ad Ema ed Amanda, nascosto dietro Alessandro: neanche l'avessero fatto apposta, erano finiti a formare uno schieramento attorno a lui, a volerlo proteggere dall'interesse che suscitava.
«Parlare con Vittorio.» rispose il moro, cercando di ostentare tranquillità.
«E' fuori a fumare.»
David si esibì in una smorfia di fastidio.
«David, devi parlare con Tito, prima.» gli ricordò Alessandro, avvicinatosi a lui.
«Mph.»
Il moro si allontanò dal gruppo, separandosi; Alessandro e gli altri si sedettero per terra, qualche metro più in là da dove sostava il branco di Vittorio.
Tito, basso e grassoccio - sulla trentina -, era fra i membri più anziani della comunità, oltre che uno dei fondatori della rete cittadina. Sedeva per terra, come tutti gli altri; circondato da borse e scatoloni dal contenuto più vario, non si faceva notare se non per l'aria eccessivamente professionale che assumeva in quei raduni confusionari. Quell'uomo era quanto di più vicino ci fosse nella comunità ad un arbitro: si trattava di un demone, ma in pochissimi l'avevano visto compiere anche solo in parte la metamorfosi; sebbene fosse assodato che la sua forma animale era quella di un procione piuttosto corpulento, c'era ancora chi faceva girare la voce che in realtà Tito fosse un cinghiale – cosa che si addiceva decisamente di più al suo fisico.
Da lontano appariva come una persona affatto raccomandabile, ma non era altro che un tranquillo pizzaiolo con tanto di moglie e due bimbe piccole: trattandosi di uno dei meno belligeranti e più assennati, aveva assunto la sua posizione di giudice in maniera del tutto naturale.
Se non fosse intervenuto lui, molti scontri sarebbero finiti particolarmente male.
«Eilà, David. Ti sei calmato dall'ultimo raduno?» domandò al ragazzo, non appena questo si avvicinò a lui.
«Mh. Più o meno.»
Tito lo osservò di sbieco, le luci giallastre accese nella galleria che si riflettevano sul cranio rasato.
«Volevo sfidare Vittorio.»
«Vittorio?»
«Sì, Vittorio.»
«Un capobranco? Oggi?»
«Sì, Oggi.»
«Non è un po' tardi per chiedere la sfida oggi? Ci sono altri combattimenti in programma.» fece notare, lanciando qualche occhiata all'agendina che teneva in mano, su cui segnava meticolosamente gli eventi di ogni raduno.
«Ho come la sensazione che la gente non aspetti altro che questo scontro, in realtà.» David sorrise, divertito.
«Lo immagino. Se fai una delle tue solite scenate teatrali, David, penso che puoi anche ottenerlo subito.» commentò Tito, pensoso.
«Scenate teatrali?»
«Sì, tipo quelle dell'altra volta, sai. Andarsene voltando le spalle a tutti dopo averli riempiti di insulti: è stata decisamente un'uscita ad effetto.»
David storse le labbra, infastidito. «Sappi che non intendo rimangiarmi una sola parola di quello che ho detto.»
«Sì, lo so. Allora, sfida per regolare i conti?» domandò Tito, con tono da segretario.
«Voglio una posta.»
L'uomo risollevò lo sguardo verso David, curioso. «Ah sì? Saranno mesi che nessuno mette una posta. Cosa metti?»
«Voglio i loro libri.»
«Tutti? Non credo si possa fare.»
«Quelli che parlano dei draghi.»
«Ah. Capisco. Ne hanno un paio, da quel che mi risulta.» tirò fuori dalla ventiquattr'ore poggiata accanto a lui un quaderno. «Sì.» annuì, controllando la lista di libri che ogni branco gli aveva lasciato. «Ma se non sbaglio Emanuele e gli altri del gruppo di ricerca li hanno consultati tutti. Non ti conviene chiedere a lui?»
David storse le labbra, senza rispondere.
«Spero per te che tu non voglia distruggerli.» Tito conosceva bene i suoi polli. David scosse il capo: sapeva che non si potevano distruggere i reperti, salvo casi eccezionali; far sparire le prove che parlavano dei draghi non era decisamente fra questi.
«So che hanno l'unica versione originale della leggenda di Adamo ed Eva di tutta la città: voglio quella. C'erano anche tre draghi, se non sbaglio.»
«Ah. Quella – giusto.» Tito scribacchiò qualcosa sull'agendina, annuendo lievemente. «Ma la conosciamo tutti, la leggenda di Adamo ed Eva: è come conoscere la Bibbia.»
«Io e mio fratello non siamo battezzati né conosciamo lontanamente la Bibbia.» fece notare il ragazzo. «E Adam non ha mai sentito parlare dei tre guardiani, ne' di Adamo ed Eva.»
«Vuoi fargli leggere la leggenda?» domandò Tito, lontanamente sorpreso. «Scusa, vuoi sfidare un capobranco per far leggere a tuo fratello la leggenda di Adamo ed Eva? Non puoi raccontargliela tu e basta?»
David sbuffò. «Non è solo per quello – è per umiliare Vittorio.» ammise, infine. «Praticamente lui ha gli unici libri che non dipingono i demoni drago come dei mostri disumani: voglio ufficialmente sfotterlo davanti a tutta la comunità facendogli notare che in base ai suoi libri non aveva alcun motivo di aggredire Adam.»
Tito scribacchiò nuovamente sull'agendina: parve rimurginare per qualche istante, taciturno.
Infine chiuse il libretto con un colpo secco.
«David, non mi sembra una buona idea chiamare in causa la leggenda di Adamo ed Eva davanti a tutta la comunità.» commentò infine. «Alessandro sa che vuoi fare questa scenata?»
«Non è una scenata!» replicò il ragazzo, ferito nell'orgoglio. Sapeva di essere teatrale, ma fra l'essere teatrale il fare scenate, ne passava.
«Non lo sa.» ne dedusse Tito.
«Ma che importa? Hanno maltrattato mio fratello, quasi ammazzato - se ritiro fuori la leggenda di Adamo ed Eva non faccio del male a nessuno.» contestò il moro.
«David, non mi sembra una buona idea.»
David strinse la mascella, chiudendo gli occhi: sentiva che stava per lasciarsi scivolare, per l'ennesima volta, verso la metamorfosi.
Lui e l'autocontrollo erano due mondi a parte.
«Tentare di ammazzare Adam, invece, è una buona idea.» sibilò, cercando di non ringhiare.
«Calmati.» fece Tito, con il suo solito tono rassicurante e sereno; lontano, in quel tono di voce, David percepiva una serietà affatto tranquilla. Schiuse gli occhi, che si erano scuriti ed allargati: lo sclero era scomparso.
Erano gli occhi di un orso.
«David, tirare fuori la leggenda di Adamo ed Eva, con Adam in circolazione, rischia solo di essere controproducente: se c'è una cosa che tutti temono, oltre all'eventuale potenza di Adam o una guerra generale, è la predestinazione. Arriviamo da anni di contestazioni giovanili, figurati se l'idea di essere predestinati ci piace.»
David espirò, ricercando la calma.
Al solito, Tito parlava con la lucidità che a lui spesso era mancata: anche Alessandro faceva così – quei due erano dannatamente logici e diplomatici; mica come lui, che per ogni spiffero d'aria era pronto a far scattare gli artigli.
«Non farebbe nemmeno bene ad Adam, dato che è una potenziale prova che la leggenda di Adamo ed Eva sia vera.» continuò l'uomo, con tono che per David si stava facendo fastidiosamente paterno.
«E' una leggenda, non ci ha mai creduto nessuno, non vedo perchè dovrebbero iniziare a farlo ora.» pontificò il ragazzo, secco.
«Eh, qui sono anche quasi tutti battezzati.» fece notare Tito. «Nessuno di loro pensa, in questo momento, di stare agendo secondo l'arbitrio dantesco o la 'libertà' del cristianesimo, ne' si tortura pensando a quanti anni dovrà scontare in purgatorio o se finirà dritto all'inferno: però, ai funerali, o quando vedono le grandi catastrofi al telegiornale, ci fanno qualche pensierino.»
«Sono degli idioti.»
«Non mi interessa se quello che fanno è giusto o sbagliato - sai, anche a me scappa di comportarmi in questo modo; la questione è, David, che quando la gente si trova in difficoltà o davanti all'ignoto, inizia a credere. Adam è ignoto: la gente rischia di credere alla leggenda di Adamo ed Eva, se la richiami in questo particolare momento. In compenso, sono tutti terrorizzati dall'idea di essere predestinati, perchè vogliono essere liberi di decidere; quindi la tua arma ti si ritorcerebbe facilmente contro, perchè Adam diventerebbe la testimonianza di qualcosa che nessuno desidera sia realtà.» Tito espirò, scuotendo lentamente il capo. «Non è decisamente un buon momento per la comparsa di un demone drago, no.»
David si guardò attorno, scocciato: un centinaio scarso di ragazzi e ragazze invadeva la galleria, di pietra novecentesca, riempiendo l'aria di chiacchiericcio inconcludente; intravide in lontananza Alessandro, che, sebbene fosse seduto per terra come il resto dei partecipanti, svettava. L'interesse per Adam sembrava stare scemando, ma in molti continuavano a lanciargli occhiate fra l'incuriosito e il perplesso; il moro schioccò la lingua sul palato, levando la mano in un cenno di saluto verso Tito.
 
 
Per lui fumare equivaleva ad andare a caccia di risposte, che in genere non comparivano; meditava, assorto.
«Non guardi gli scontri?»
David espirò il fumo che aveva accumulato nei polmoni. Dall'interno della galleria, a qualche centinaio di metri da lui, si sentivano rieccheggiare vagamente i rumori di un combattimento.
«Preferisco stare qui.» rispose infine alla ragazza, per poi riportarsi la sigaretta alle labbra.
«Ah, pensavo facessi il palo.»
«No, oggi non tocca a me.» accennò, con un movimento del capo, a due ragazzi poco più in là: poggiati sulla rete che chiudeva la galleria in disuso, sembravano starsi bevendo un paio di birre in amicizia.
Hyun li squadrò, osservandoli a lungo: non pareva stessero facendo sforzi particolari. D'altronde, ai demoni bastava qualche minuto di concentrazione per riuscire a collegarsi con il circondario: dopodichè, le avevano sempre detto Erica e Michele, bastava fare attenzione a cosa succedeva.
Lei, ch'era una persona normalissima, ben lontana da quel mondo che sentiva di frequentare clandestinamente, cercava di crederci.
I due ragazzi messi a fare da palo, comunque, ogni tanto compievano qualche movimento innaturale, scattoso, che lasciava intendere alla ragazza che avevano percepito qualcosa.
Rimasero un po' in silenzio, la notte oramai inoltrata.
«David.» lo chiamò una voce profonda. Tito comparve dall'ombra dell'imboccatura della galleria.
«Cosa succede?»
«Se vuoi, c'è un buco.»
Hyun osservò il ragazzo perplessa. «Volevi combattere?» gli domandò, curiosa.
«Lascia stare, Tito. Rischio solo di fare casino.»
«Come preferisci. Anche senza posta?»
«Niente di niente. Lasciamo perdere, potrei anche essere troppo violento.»
Tito fece un versetto divertito. «Meglio così. Ogni tanto sembri essere saggio, sai?»
David mormorò qualcosa di incomprensibile, gettando il mozzicone a terra.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
[9 luglio 1973]
 
Ema trotterellò entusiasta verso Alessandro, seduto al tavolo della cantina.
Il capobranco, chino sul tomo di storia romana, mosse lentamente le pupille verso il venticinquenne, che si muoveva euforico.
«Abbiamo i risultati.»
Ale levò le sopracciglia perplesso.
«Di quale degli infiniti test clandestini che state svolgendo?» domandò all'amico.
«Oh – no, questo arriva in diretta dall'MIT, dal professor Chapman.»
Alessandro tornò al suo libro. «Suppongo che non pubblicheranno niente, come al solito.»
«Finirà fra i segreti di stato americani, immagino. Ma questa è roba potente, Ale, non so nemmeno come abbia fatto a farmela arrivare.»
«Forse perchè gli mandi una lettera ogni due giorni chiedendogli se ci sono novità?»
Ema si sedette di fronte ad Alessandro, schiaffando il plico di fogli sopra il libro che l'altro stava studiando. Il ragazzo scrutò i fogli, che davano l'idea di essere stati prodotti con una di quelle stampanti ad aghi che aveva intravisto in qualche dipartimento di ingegneria: su ogni facciata campeggiavano grafici, dati, scritte che suggerivano di essere in inglese ma dal linguaggio talmente tecnico che non avrebbe potuto escludere si potesse trattare di un'altra lingua.
«Ema, seriamente, pensi che io possa capire qualcosa di 'sta roba qui?» domandò verso l'altro, rendendogli la documentazione.
Il venticinquenne sbuffò.
«Sono spettrografie dell'interno della terra. Fatte con...» Alessandro lo fissava interrogativo e sconcertato. «Ok, lasciamo stare. E' roba da MIT. Quello che importa è che c'è una spiegazione più che chiara del primo richiamo.»
«Sarebbe?»
«La terra è imbottita di volui. Ufficialmente: questi dati lo dimostrano – quasi; non è quello il punto. In linea teorica i volui se ne rimangono dove dovrebbero stare, se non fosse che ogni tanto è come se si aprisse una crepa, e un fascio di volui si libera.»
Alesandro si raddrizzò sullo sgabello, attento. «Ogni quanto?»
«Ultimamente spesso. Ma dato che sono solo pochi anni che fanno questi studi, non so se è normale o meno. Circa ogni mese, con picchi di tre o quattro ferite al giorno.»
Ale ritrasse il capo indietro, indignato. «Ferite? Ferite di Gaia? Ema, ti rendi conto di cosa stai dicendo, vero?» domandò, acido.
«Sono fasci di volui, sottili e limitati, nello spazio e nel tempo. Sono come ferite
Alessandro lo guardava con le palpebre strette. «Quindi mi stai dicendo che le storie sulle ferite di Gaia sono vere?»
Ema fece spallucce. «Dico solo che quella nomenclatura ha un senso: chiunque l'abbia inventata, non avrà avuto uno spettrografo, ma qualcosa doveva aver capito. D'altronde, tutti i demoni che sono nelle vicinanze di un primo richiamo sentono che c'è qualcosa di strano, nell'aria; e le bestie a volte vanno in metamorfosi involontaria. Anzi, spesso, adesso che ci penso.»
«E' perchè chi subisce il primo richiamo usa tanti dei volui che sono presenti nell'aria, Ema, non perchè viene investito da quelli che si trovano nel centro della terra – dài!» sottolineò il capobranco, prendendosi il volto fra le mani.
«E invece sembra che la terra si effettivamente imbottita dei volui. Di Gaia
Alessandro tacque, come esausto. Spostò lo sguardo verso il terreno, di cemento ruvido.
«Il che spiega molte delle storie che circolano.» concluse Ema.
L'altro tornò a fissarlo, il volto improvvisamente indurito.
«Ma sei o non sei uno scienziato?» gli domandò Alessandro, infastidito. «Quale parte della tua mente di ricercatore improvvisato ti sta portando a dire che quel marasma di leggende assurde ed insensate possano essere anche lontanamente vere?»
Ema levò un sopracciglio. «Oh, bhe. Più o meno tutte le parti della mia mente.»
«Ema! Le leggende sono irrazionali!»
«Ale, insomma, cos'è, dobbiamo giocare a io che faccio il letterato e tu il fisico? Le leggende hanno sempre un fondo di verità, mister vado avanti a colpi di trenta ma mi dimentico i fondamentali.»
«Sì, un fondo di verità, ma molto in fondo, diamine!»
«Parla il lupo mannaro.» Ema non fece in tempo a finire la frase che Alessandro scattò in piedi, le labbra talmente serrate da essersi ridotte ad una fessura: lo sguardo, sbarrato e furibondo, era incollato sul volto del venticinquenne. Il ragazzo, completamente proteso in avanti, incombeva su di Ema, che si ritrasse istintivamente.
«Non azzardarti a ripeterlo.» sibilò Alessandro, immobile.
«Scusa, non volevo...»
«Non sono dipendente dalla luna piena, non ammazzo la gente, non divento incosciente e violento, e non sono così perchè un altro mannaro mi ha morso: non sono nulla di lontanamente vicino ad un lupo mannaro.» sillabò quello, parola per parola, lento e retorico.
«Ale, calmati.»
«Sono calmo.» precisò Alessandro.
Sì, era calmo.
Calmamente furente: statico, immobile come una statua, nell'espressione e nella postura. Completamente proteso verso Ema, lo fagocitava nell'ombra stagliata dalla sua figura.
«Volevo solo dire che le storie sui mannari si spiegano abbastanza, se si pensa alla forma che possono assumere quelli come te.» tentò di spiegare. Alessandro non mutò espressione. «E prenderti un po' per il culo, ok, lo ammetto.»
«Ecco. Hai più o meno colto uno dei miei pochissimi tasti dolenti, Ema. Evita.»
Ema sembrava stare trattenendo il respiro, tanto che quando Alessandro tornò a sedersi, espirò ed inspirò profondamente un paio di volte.
«Le leggende sono la dannazione degli uomini.» concluse il capobranco, serrando le braccia al petto.
«E la religione è l'oppio dei popoli – lo so.» rispose Ema. «Rimane il fatto che, se gli antichi si sono inventati Zeus perchè hanno visto cadere un fulmine, puoi anche negare che Zeus esista, ma non puoi negare i fulmini.»
Ale si espresse in un 'mph' infastidito.
«Io sto parlando di fulmini, Ale, non di Zeus. Le ricerche le facciamo sui fulmini, non sugli dei; nessuno di noi pensa che esista la dea Gaia, ma questo non toglie che la terra sia imbottita di volui.»
Il capobranco scosse la testa. «Non chiamarmi mai più mannaro, Ema.»
«Sì, certo.»
«Per Favore.»
Ema inclinò la testa. «Non ti chiamerò mai più in quel modo. Scusami.»
 
 
 
***
 
 
[10 luglio 1973]
 
L'androne era vagamente illuminato dalla lampadina che Adam aveva attaccato ad una delle sporadiche prese di corrente: l'aveva indirizzata con cura verso il libro, che ora leggeva disteso sul cemento fresco.
Confidarsi con Ema prima che Alessandro si mettesse ad esplorare la sua mente era stata cosa saggia: l'unico problema era che rimaneva assolutamente terrorizzato dalla figura di suo fratello.
In realtà David non se l'era presa male quando Emanuele aveva spiegato loro che Adam, in forma animale, aveva acquisito una coscienza totalmente libera dal SuperIo umano: dalla sua mente, cioè, si erano momentaneamente rimosse tutte le leggi non scritte che aveva accumulato inconsciamente crescendo - a partire dall'obbligo di obbedire al fratello maggiore o al capobranco. Così si spiegava la ragione per cui il ragazzino, quand'era divenuto interamente drago, sebbene avesse capito benissimo gli ordini dei ragazzi se n'era altamente infischiato.
Adam rimaneva ancora scosso da quella cosa, e sotto certi versi non riusciva a perdonarsi; dall'altro lato della sua testa, invece, sognava di ritornare in quello stato di libertà assoluta. In un modo o nell'altro, si sentiva in colpa, e sentiva che David ce l'aveva ancora con lui.
Quello era uno dei motivi per cui si nascondeva.
L'altro motivo era che sia Alessandro che Amanda che – in particolar modo – David non avrebbero approvato molto l'idea di Ema di dar da leggere un trattato di psicologia ad un ragazzino.
Ema stesso si era reso conto, qualche minuto dopo avergli fornito il tomo, che non era stata una trovata geniale: glielo aveva fatto vedere solo per spiegargli la differenza fra Io, SuperIo ed Es freudiani, ma il risultato era stato che il ragazzino si era appassionato incredibilmente all'argomento, pregandolo di darglielo in prestito. Ema aveva inizialmente acconsentito, elettrizzato dall'idea che finalmente Adam avesse trovato un libro interessante; si rese presto conto di aver fatto una stupidaggine – ma non aveva il cuore di chiedergli indietro il libro usando la causa del 'sei troppo piccolo per queste cose'.
Far giocare un preadolescente allo strizzacervelli non entusiasmava nessuno, ed Adam per primo lo intuiva: leggendo e rileggendo i vari argomenti del libro, aveva la sensazione di stare acquisendo delle informazioni che per lui dovevano essere ancora tabù, come lo erano la morte e il sesso per i bambini.
Lui di morte e di sesso ci capiva abbastanza, ma Freud e Jung sembravano stare andando decisamente oltre: comprendeva, ma percepiva che per lui, quello, era troppo.
Fra l'interesse che l'argomento suscitava in lui e l'emozione di stare trasgredendo, continuava a leggere famelico.
«Siamo tornati!»
Il biondino sussultò chiudendo violentemente il libro, per poi lanciarsi a rimetterlo nella sua borsa ed estrarre, in sostituzione, uno sgualcito fumetto di Superman.
«Eilà, com'è, mastino? Non è morto nessuno?» domandò Amanda, scherzosa, entrando nel garage. «Habemus Pizzae!»
Adam si illuminò, levandosi in piedi ed iniziando a ronzare attorno ad Alessandro, che reggeva la torre di cartoni della pizzeria.
«Dove sono David ed Ema?» domandò, cercando di assicurarsi che gli avessero effettivamente preso la margherita, e non un'altra di quelle pizze assurde e schifose che piacevano a loro.
«In missione alcolica.» ridacchiò Amanda, lasciando la sua borsa per terra. «Aiutami a portare qui il tavolo, dai, che se no in cantina moriamo asfissiati.»
«Ma mi avete preso la margherita?» domandò alla ragazza, seguendola lungo il corridoio
«Sì, Adam.»
«Ma posso bere qualcosa anch'io?»
«No, Adam.» rispose quella, mentre smontava il tavolo della cantina.
«Ma dài! Ma se non bevo con voi che siete grandi, quando diavolo bevo, io?» protestò il ragazzino, afferrando il margine della tavola ed un cavalletto.
«Quando sarai più grande.»
«Ma mio fratello a quest'età già beveva!»
«Eh, hai visto com'è diventato, no?» rispose Amanda, ridacchiando, mentre tornavano ad attraversare il corridoio. «Vorrai mica fare la sua fine?» - insindacabile, come ragionamento.
«Vi odio.»
«Va bene, allora facciamo così: bevi solo se ti prendi una sbronza di quelle da dare di stomaco per tutta la notte.»
Adam ritrasse la testa, inorridito.
«Non fare quella faccia» insistette Amanda «se vuoi giocare, devi anche accettare la parte brutta del gioco, sai.»
«Uffa.»
«Dài, che ti abbiamo preso il chinotto.»
«Grazie...»
Sistemarono l'androne per la serata, attaccando qualche altra luce e piazzando tavolo e sgabelli. Adam continuava a girare attorno alle pizze, affamato - controllando, ogni tanto, che la sua margherita fosse effettivamente una margherita.
«Oh, Adam, piantala.»
«Ma si freddano.»
«Chi mangia solo muore solo.»
«Ma chi mangia freddo mangia da schifo.»
David ed Ema apparvero qualche minuto dopo lo scambio di battute fra Adam ed Alessandro, esibendo, vittoriosi, due bottiglie di vino ed una di sambuca.
 
 
Cartoni di pizza e rimasugli di croste torreggiavano sulla tavola verniciata.
David versò la sambuca nel bicchierino di vetro, osservando il liquore vischioso fluire dalla bottiglia.
Portò le mani verso il bicchiere, con un enorme sorriso beota stampato in faccia: la sambuca prese fuoco in un piccolo sbuffo, per poi continuare a bruciare con la sua tipica fiamma bluastra.
«Sono un figo.» gongolò il moro.
«No.» rispose annoiato Ema – smontando il ragazzo, che grugnì. David tappò il bicchiere con il palmo della mandritta, soffocando la fiamma: battè, girò, se lo staccò dal palmo, insipirò i fumi e bevve a collo.
Alla quarta volta che si ripeteva la scena, Adam cercava ancora di capire che senso avesse quello stupido rito esibizionista che il fratello si divertiva tanto a compiere.
«Bene!» fece David, lasciandosi cadere sullo sgabello, che imprecò in un cigolio acuto. «Adam.»
Il ragazzino s'immobilizzò, domandandosi se non fosse che quello era già abbastanza ubriaco da mettersi a fare ramanzine insensate.
Ma David reggeva l'alcol in maniera prodigiosa, e si poteva dire che era ancora perfettamente lucido. «Ti volevo raccontare la leggenda di Adamo ed Eva.»
Adam si fece perplesso, assieme agli altri tre. «Non la sa?» domandò Amanda, quasi scandalizzata.
«Non so cosa?» chiese il ragazzino. «Adamo? Eva? Mela e serpente? Certo che la so.» fece, offeso.
«No no, quella dei demoni, mica la leggenda biblica.»
«Ma dai? Non la sa?» insisteva Amanda, ora sorpresa e divertita. Le sembrava che fosse come aver trovato un bambino che non conosce la favola di cappuccetto rosso.
«Ma cosa?»
«Ma no, Adam, sta tranquillo, è una stupidaggine. Pensavo te l'avesse detta.» disse Ema, scrutando David perplesso.
«No, non gliel'ho mai raccontata.» rispose il moro agli sguardi basiti dei compagni.
«Ma perchè?»
David si strinse nelle spalle. «E' una leggenda, non mi interessano molto, sai. Ma mi sa che ormai è questione di cultura generale.»
«E sarebbe?» domandò il ragazzino, che dalla curiosità andava rodendosi il fegato.
«Niente di particolare, però ha una visione carina dei draghi. Tutto qui – non farti strane idee, rimane una leggenda di chiassàdio quanto tempo fa.»
Alessandro scuoteva la testa in maniera impercettibile. 'Una leggenda' – altro che, quella era la loro Bibbia, secondo molti. A cui avrebbero dovuto prestare tanta attenzione quanta ne meritava, secondo lui, la Bibbia originale: zero, se non per studi umanistico psicologici. E, vabè, di cultura generale.
Fortunatamente David la stava ponendo come una stupidaggine, altrimenti rischiava che Adam iniziasse a montarsi la testa.
«E' una boiata, eh.» sottolineò nuovamente il moro. «Praticamente, ci sarebbe il dio onnipotente – la dea Gaia -, e cinque figure mitologiche. Due di loro sono Adamo ed Eva, e si dice che siano i genitori di tutti gli esseri viventi della terra. Dovrebbero essere due demoni con lo stesso animale prevalente, l'uno il negativo dell'altro. Ci sono versioni in cui si parla di due angeli, più che di due demoni, ma il principio è lo stesso: sono schifosamente potenti.»
«E allora?»
«E poi ci sono tre demoni drago.»
«Ah. E cosa sono, tipo tre serpenti?»
«Nha. Sono tre guardiani di Adamo ed Eva. Quindi sono tre figure positive.»
«Ah – figo! E com'è che non me ne hai mai parlato, scusa, dato che io sono un drago?» domandò inacidito il ragazzino.
«Te ne sto parlando apposta adesso – ma è una leggenda
«E comunque non sei un drago.» ci tenne a precisare Alessandro. «Tu ti trasformi in un drago.»
«Vabè, è irrilevante.» protestò Adam.
«No, non lo è.» rimarcò il capobranco. «Non farti venire strane idee: la leggenda parla anche del fatto che i demoni sarebbero l'esercito di Gaia, Adamo ed Eva i condottieri e i draghi i generali e guardiani. Per combattere una guerra contro non si sa né chi né cosa. E le bestie non vengono citate, quindi non è una fonte affidabile. E' una storiella che circola da millenni, come tante altre, come quella di Minosse e il minotauro.»
«Bhe, però Minosse e il minotauro ha senso: il minotauro era un demone.» concluse soddisfatto Adam.
«I demoni sono carnivori.» chiosò Ema, incrociando le braccia.
«Vabè, era una bestia.» si corresse il ragazzino.
Alessandro roteava gli occhi, infastidito dall'essere caduto in fallo. Metodico, continuò: «Sicuramente non c'era un labirinto e un filo di lana, Adam.»
«Sì, però...»
«Però niente. Preferisci parlare di excalibur? O della Sfinge? Sono tutti miti e leggende.»
«Però gli dei egizi...»
«Sì, Adam, ma non si mettevano a pesarti l'anima sulla bilancia.»
Adam intravide una lontana velatura di irritazione trapelare dal volto di Alessandro. Sconcertato da quella visione, che mai aveva avuto prima, decise di lasciar perdere il discorso onde evitare spiacevoli epiloghi.
«Vabè.» concluse, rinunciando alle sue contestazioni.
Dopotutto, lui per primo era capace di sciolinare una lunga serie di miti e leggende che non stavano né in cielo né in terra: Atlantide, fantasmi, vampiri, El Dorado, fonte della giovinezza e via dicendo.
Anche se - gli aveva spiegato Ema - figure riconducibili a demoni e bestie si erano trovate in moltissime delle culture e delle religioni del mondo, la maggior parte delle storie da cui provenivano rimaneva diceria insensata alimentata dalle paure e dai terrori della gente messa di fronte all'ignoto. Non c'era ragione di dar credito più ad una leggenda che ad un'altra, a meno che non si fosse degli esperti capaci di destreggiarsi fra delirio collettivo e realtà di fondo.
Quello che contava realmente, per loro, erano i fatti.
Nulla di più.
 
 

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Capitolo 3
*** 3. Inno a Venere ***


 
3. Inno a Venere
 
 
 
 
 
 
 
 
Aeneadum genitrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terra frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis:
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
nam simul ac species patefactast verna diei
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucris te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
 
 
 
[28 settembre 2004]
 
L'hub di Fiumicino era ghermito di gente.
Sfilavano, scoordinate, famiglie giapponesi con ingombranti attrezzature fotografiche, comici texani in sandali e calzettoni bianchi, indiani un po' persi, uzbeki con bagagli abnormi e via dicendo; turisti entusiasti si mescolavano a uomini e donne in carriera, viaggiatori di professione, che scivolavano rapidi lungo le file dei controlli di sicurezza scegliendo con astuzia la coda più conveniente.
Il piccolo manipolo di polizia aeroportuale si muoveva compatto, risalendo con calma le scale da cui scendeva, a fiumi, chi era appena atterrato in Italia.
Il gate H21 era ancora chiuso: dalle vetrate, gli agenti potevano vedere il 747 dell'American Airlines intento a compiere le manovre di accostamento, di modo che si riuscisse a collegare la proboscide pedonale.
Si appostarono sulla soglia della zona di sbarco, mentre le prime voci dei viaggiatori americani si spandevano lungo il corridoio: entro breve si riversarono nell'atrio, in una sottospecie di fila disordinata, intenti ad andare a caccia del proprio bagaglio.
L'uomo che cercavano era alto e distinto.
Sebbene negli ultimi tempi si erano stati abituati a tirare gli occhi su mediorientali ed africani, trovare chi gli avevano ordinato di fermare si rivelò presto un compito facile: lo videro camminare placido, il volto rilassato, in fondo alla coda; non pareva né allegro né triste, né, tanto meno, dall'espressione imperscrutabile: dava l'idea di essere un uomo in viaggio d'affari, mosso dal dovere, non certo dall'euforia di visitare il bel paese. Alto, spalle larghe, sulla quarantina: il volto era ben rasato, il naso dritto e regolare, e vestiva in giacca e cravatta, con un certo stile: portava sotto braccio un montgomery, e nella mandritta serrava il manico di una valigetta di cuoio. I capelli grigiastri erano ordinati, medio corti e lontanamente mossi: ricadevano sulla fronte spaziosa su cui si allargava qualche ruga, e taluni sfioravano gli occhi ovali, dall'iride castana.
I quattro agenti, già disposti a due a due ai lati della porta scorrevole, mossero un paio di passi per andare a sbarrare la strada all'uomo. Quello si fermò con un minuscolo sussulto, osservandoli perplesso.
«Mister Allen?» domandò uno di loro, in un pessimo tentativo di emulare l'intonation americana.
«... sì?» rispose l'uomo, osservandoli. «Cosa succede?» Allen si esibì in un italiano sciolto con tanto di lontano accento regionale.
«L'immigrazione desidera fare degli accertamenti su di lei.» spiegò una donna del manipolo, esibendo un sorriso che voleva essere tranquillizzante.
Allen la guardò per qualche istante, mentre cercava di capire cosa potesse avere l'immigrazione contro di lui.
«La prego di non opporre resistenza, o le cose possono solo che peggiorare.» dichiarò un agente, grasso e grosso, mentre lo ammanettava.
L'uomo rimase tranquillo, apparentemente pensieroso, ma abbastanza basito da far pensare ai quattro che fosse un normalissimo disgraziato caduto preda della burocrazia di visti e passaporti. Lo accompagnarono lungo il terminal, senza spintonarlo più di quanto non fosse necessario: la donna percepiva un lontano senso di colpa nell'aver fermato, per l'ennesima volta, un innocente.
Almeno questa volta era un bianco, e non il solito povero nero provvisto di kefiah.
 
Si ritrovò dall'altra parte dell'aeroporto, in uno stanzino spoglio che dava l'impressione di voler sembrare una cella: da una parte una branda, il water e il lavandino; dall'altra il nulla. Osservò le sbarre, spesse, e l'agente che sostava seduto ad una scrivania poco più in là, nel corridoio; la luce era poca, gialla ed artificiale: il sole era occultato sia dalle nuvole dense che dal tramonto imminente – e le finestrelle, sbarrate ed alte, erano di un vetro opaco che lasciava trasparire ben poco.
«Mi scusi, non è che potrebbe togliermi le manette?» domandò all'agente, cordiale.
Quello scosse il capo, silente, girando la pagina del giornale rosa shocking che stava leggendo: Allen riconobbe la Gazzetta dello Sport, e prese rapidamente in antipatia l'agente. Rassegnato, voltò le spalle sbuffando: si sedette sulla branda con un tonfo sommesso e cigolante.
 
 
 
[29 settembre 2004]
 
 
L'uomo in cella camminava a passi lenti ed annoiati lungo la sua piccola prigione, soffermandosi ogni tanto a rimirare il muro, il soffitto, o il pavimento. Sul volto iniziava a notarsi la barba, che non tagliava da almeno venti ore: i vestiti andavano sciupandosi - la cravatta lanciata malamente sulla branda, la camicia aperta e spiegazzata, aloni di sudore che si dipanavano sotto le ascelle e attorno al collo.
Un rumore lontano destò la sua attenzione: una serie di passi, superata una porta, si avvicinava.
Allen appoggiò la fronte fra due delle sbarre, cercando di vedere le figure che erano appena entrate nel corridoio: una era l'ennesimo agente, dal passo pesante e rumoroso; l'altra, sulla trentina, i capelli neri e corti, sembrava un impiegato - in giacca e pantaloni grigio scuro.
«Mister Allen?» domandò quello, avvicinandosi alla cella. «Parla tranquillamente italiano, non è vero?»
Allen annuì lievemente, studiando i lineamenti rigidi e secchi dell'altro. L'agente si sedette sulla scrivania, per poi ricevere dall'uomo che aveva accompagnato un invito gestuale ad andarsene: obbedì malavoglia, lasciandoli soli.
«Potrei cortesemente sapere il motivo per cui mi avete trattenuto qui senza concedermi ancora una telefonata?» domandò il quarantenne, nascondendo sotto una calma cordialità vagoni di fastidio pungente.
«Ufficialmente avremmo ancora qualche ora, prima di essere costretti a lasciarle fare la telefonata – ma temo che non siamo nei casi di prassi standard, Allen.» l'uomo osservò l'interno della cella, come a voler controllare qualcosa. «Sono dell'interno. Dobbiamo parlare delle sue ricerche.»
Allen rimase immobile per qualche istante, mentre la sua mente allineava, seppur seccata, i pezzi del puzzle: dopo lunghi secondi di silenzio, si esibì in un sorriso tanto largo quanto spudoratamente falso. Si scostò da dove era appoggiato, in piedi, iniziando a camminare affianco alla linea delle sbarre: lo sguardo basso, il sorriso ancora stampato in faccia, posava un piede davanti all'altro.
«Cercate di mettervi contro l'impero americano – interessante, da parte di un paese che a stento riesce a stare nel G8 e che idolatra gli Iù E's E'i.» sentenziò Allen, scuotendo leggermente il capo. «Ma il fatto che le mie ricerche siano segrete non significa che io sia alle dipendenze dell'intelligence americana, né, meno che mai, un pezzo grosso. Temo che abbiate sbagliato drasticamente il pesciolino da acchiappare, signore.»
«Lei è un cittadino italiano, vero?» domandò retorico l'uomo, che rimaneva serio mentre Allen andava sbeffeggiandolo. «Non ha la residenza americana, solo permessi temporanei per il lavoro.» concluse.
«Vero. Rimane il fatto che non ve ne fate niente, di me.» L'italo americano andava sempre più irritandosi, e seppelliva quell'emozione sotto parole secche e sicure. «E io ho delle cose da fare, detto fra parentesi.»
«Allen, non mi prenda in giro. Sa benissimo di cosa sto parlando.»
«No, non lo so.»
«La Farnesina non giocherà alle super spie come gli americani o i russi, ma non stiamo scherzando. Abbiamo tutte le informazioni per dire che il pesciolino che ci interessa è nient'altri che lei, Allen. E probabilmente abbiamo più informazioni di quelle che lei crede possiamo avere, o addirittura di quelle che lei conosce
Allen, le mani congiunte a causa delle manette che si portava addosso dalla sera precedente, rimase immobile per quasi un minuto a fissare l'altro, gli occhi a fessura e il mento alto.
«Bene.» asserì infine il quarantenne, muovendo tre passi lenti e gongolanti, spavaldo, verso l'uomo. Levò le mani all'altezza del volto, mostrandogli le manette. «Dunque lei sa che queste cose sono assolutamente inutili, vero?»
L'uomo sorrise, divertito e soddisfatto dell'avere finalmente tutte le carte in tavola. «Certamente.» rispose, accondiscendente.
«E dunque lei sa che in realtà non esiste nulla di fisico che mi possa trattenere qui dentro, vero?»
«Chiaro.»
«Bene - allora, mister, io la saluto.» Con un colpo secco spezzò la catena delle manette, andando poi, sciolto, a recuperare la cravatta che aveva lasciato sulla branda.
«Allen, siamo nell'aeroporto di Fiumicino.» gli fece notare l'uomo. «Tolto il fatto che qualunque cosa avventata lei si sognasse di fare sarebbe dichiarabile come attentato con estrema facilità, direi che mettersi a fate scenate teatrali non sia un'idea molto furba.»
Allen sorrise a quel termine: 'scenate teatrali'. Non era certo lui quello che faceva 'scenate teatrali', pensò di sfuggita.
Ad ogni modo, l'evasione, seppur fisicamente possibile, era socialmente impraticabile – a meno di pessime conseguenze: con un sospiro sbuffato ammise di essere fastidiosamente incastrato.
«Bene. Ok. Perfetto – vuol dire che aspetterò che lei mi porti fuori da qui: e prima o poi dovrà succedere, anche se fra cinque minuti prometterò solennemente di seguirla e di collaborare.»
«Lei ci sottovaluta.»
«No, lei sottovaluta me.» l'italo americano si stava stufando in maniera seria. «Non è il capo, vero?» domandò, retorico. «Sa perfettamente trattare ma non ha idea di cosa stia realmente succedendo. Sa cosa sono per vie indirette. E a stento ci credeva, finché non ne ho parlato io e ho sfasciato le manette. La pianti, non mi muovo da qui finché non vedo il boss e l'idiota che ha ideato questa pantomima. E pretendo di poter telefonare, sono venuto in Italia per un motivo preciso, non per turismo. Mi state solo facendo perdere tempo.»
L'uomo rimase impassibile davanti al sibilante discorso di Allen, scrutandolo dietro le sbarre.
Dopo qualche isto di silenzio, il quarantenne inclinò leggermente la testa, fissando il suo interlocutore. «No. C'è dell'altro.» Affermò Allen, con rassegnata convinzione.
L'uomo trattenne magistralmente un sorrisetto. «Dopotutto sto parlando con uno degli psicologi di punta di questo secolo, non è vero?» domandò, retorico.
«Le direi che 'lei non sa chi sono io', ma dopo questo discorso l'affermazione diventa ridondante.» rispose Allen, la mascella serrata e un vago divertimento irato sul volto. «Allora, qual è il suo asso nella manica?»
L'uomo si portò una mano all'interno della giacca, dalla cui tasca cui estrasse una busta sigillata, che gli porse.
Quello la aprì, notando che nemmeno l'altro aveva idea di cosa contenesse: non a caso era stata così ben chiusa – e la carta di cui era fatta, spessa, non lasciava vedere l'interno nemmeno in controluce. Erano furbi, alla Farnesina. Iniziò a pensare di averli sottovalutati.
Ne estrasse una foto, abbastanza grande e ben definita. Un ragazzotto apparentemente scocciato guardava fisso nella fotocamera, il collo tatuato con un tribale che si arrampicava sino allo zigomo; il volto era parzialmente immaturo, e lasciava intendere avrebbe avuto in futuro una mascella squadrata e netta. Una cresta violacea svettava, seppur moscia e malmessa, sul cranio ricoperto da peluria corta rasata a righe geometriche; le orecchie erano state bucherellate qua e là, assieme ad altre parti del viso come le sopracciglia o le labbra, sottili. Gli occhi, nerissimi, erano stretti in un taglio a mandorla, lasciando così una sensazione di discontinuità sul viso occidentale dalla carnagione olivastra.
Allen fissò la foto per qualche tempo, le labbra dischiuse, mentre un intimo sgomento si spandeva nel suo corpo e nello sguardo basito.
Non sapeva più di cosa preoccuparsi. Di sé stesso, braccato dai servizi segreti italiani?
O di come era conciato il ragazzo, e del fatto che quella era una foto segnaletica di un carcere?
Cercò di riprendersi, sforzandosi di non lasciar trapelare troppo l'ondata di disagio e di sconforto che lo investì.
Xander Allen. La data era di tre giorni prima.
Era stato tutto dannatamente calcolato.
«Merda...» sibilò l'uomo, fra sé e sé.
Quell'altro, compiaciuto, realizzò di aver ottenuto quello che doveva ottenere. Allen avrebbe collaborato, e non serviva essere uno psicologo d'alto calibro per capirlo.
 
 
 
Inde ferae pecudes persultant pabula laeta
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
Denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
efficis ut cupide generatim saecla propagent.
 
 
 
 
 
[2 febbraio 2006 – Oggi ]
 
 
«Iusti.»
Sara andò in apnea.
Si alzò dalla sedia, impallidita, per poi passarsi una mano sul volto affilato. Fece per andare verso la cattedra, quando, a metà strada, si voltò rendendosi conto di aver dimenticato il libro.
Dimitri, che sedeva accanto a lei, glielo porgeva fissandola di sottecchi.
«Bene, Sara.» fece il professor Riva, offrendole con un sorriso un paio di fogli sgualciti. «Inno a Venere. Dammi i libro.»
Lei espirò, sollevata.
«Aeneadum genitrix, hominum divomque voluptas, alma Venus, caeli subter labentia signa ...» iniziò a leggere - per poi venire rapidamente interrotta dal professore che si esibì in un paio di colpi di tosse.
La ragazza sollevò lo sguardo dal poema latino, scrutando interrogativa l'uomo.
«Ma magari, chessò, dirmi chi l'ha scritto, perchè, quando...?» domandò Riva, con un sorriso leggermente interdetto.
«Uh.» fece lei. «Ah.» Aggiunse. «Sì.» Concluse. «Dunque.» Iniziò. «Lucrezio... lo ha scritto...»
Riva la scrutava da dietro gli occhiali rettangolari.
« - perchè si era fatto una canna, tanto tempo fa.» concluse il professore per lei, spiazzandola. Sara tacque per qualche momento, cercando poi di articolare schiudendo le labbra.
Fallì.
«Dai, Sara, cerca di fare una frase di senso compiuto.»
Lei aggrottò le sopracciglia, interdetta. «No, ok, allora. L'inno a Venere fa parte del De Rerum Natura di Lucrezio, ed anzi, lo apre. Sebbene Lucrezio sia un ateo del periodo – tanto che elogia spesso nel De Rerum Natura la figura di Epicuro, come il primo uomo che si erse contro religioni e superstizioni – apre la sua opera con un elogio alla dea Venere. Va detto però la dea Venere di Lucrezio non è quella della religione convenzionale romana, ma rappresenta piuttosto la natura – quella fisica -, la sua armonia e il suo agire logico e conoscibile: infatti Lucrezio scrisse il De Rerum Natura nell'idea di liberare gli uomini dagli affanni dovuti alle credenze popolari...»
«Ok, va bene, basta così.»
Sara rimase con il discorso a metà, la bocca ancora aperta, interrotta nel momento in cui stava prendendo fiato.
«Saltiamo la lettura e fammi subito la traduzione, che mi sta finendo l'ora – ragazzi, fate silenzio, per cortesia.» richiamò la classe, che andava già parlottando: quelli lo ascoltarono solo parzialmente, facendo calare il livello del brusio di sottofondo.
«Allora,» continuò Riva «O degli Eneadi madre, o degli umani, dei numi voluttà, Venere altrice...» diede l'incipit alla ragazza. Quella, in risposta, rimase momentaneamente silente, studiando il testo.
«Dai, Sara, traduci, che abbiamo meno di cinque minuti.»
«Eh. Sì. Ma non vedo dove è arrivato...» lei non riusciva assolutamente a capire che cavolo stesse a significare 'altrice'.
«Alma Venus, caeli subter labentia signa...»
«Eh. Ok. Dunque... » rimase incastrata per un'altra manciata di secondi, mentre cercava di raccattare il bandolo della matassa dove aveva memorizzato la traduzione dell'inno a Venere. Diamine, eppure lo sapeva: ma, con la traduzione alternativa che aveva recitato il professore, si era completamente persa.
«... Sara...»
D'improvviso si illuminò. «Hah! Sì! Ma certo – ce l'ho!»
Riva la osservò di sottecchi, perplesso. «Eh, dato che ce l'hai, dimmela.»
«Sì, allora, era: - ovunque ravvivi della tua presenza il mare percorso dalle navi, le terre fertili di messi, poiché grazie a te ogni specie vivente è concepita e, nata, vede la luce del sole, te, o dea, fuggono te i venti, te le nuvole del cielo, e il tuo arrivo.» - prese fiato - «L'operosa terra fa spuntare per te soavi fiori, a te sorridono le distese del mare e il cielo rasserenato splende di una luce diffusa... Infatti, non appena si svela lo spettacolo del giorno primaverile, e, sprigionato, si ravviva il soffio dello Zefiro fecondatore, gli uccelli dell'aria annunciano prima te, o dea, e il tuo arrivo, colpiti nei cuori dalla tua potenza. Quindi le fiere e gli animali domestici balzano per i pascoli rigogliosi, e attraversano i rapidi ruscelli: così ogni bestia, catturata dal tuo fascino ti segue ardentemente dove intendi condurlo. Insomma, per i mari e i monti e i fiumi travolgenti e le dimore frondose degli uccelli e le pianure verdeggianti, infondendo a tutti nei petti un carezzevole amore fai in modo che trasmettano specie dopo specie le loro generazioni. E poiché tu sola governi la natura e senza di te nulla sorge alle celesti plaghe della luce, nulla si fa gioioso, nulla amabile, desidero che tu sia la mia compagna nello scrivere i versi che tento di comporre sulla natura per il nostro discendente dei Memmi, che tu, o dea, in ogni tempo hai voluto che eccellesse ornato di ogni cosa.»
«Bene, sì, ferma, basta così.»
Sara si bloccò, andando poi ad inspirare ed espirare profondamente, dopo aver sciolinato la traduzione a un ritmo quasi eccessivo.
«Sette.» dichiarò Riva. La ragazza si rabbuiò.
«Ma come sette
Riva la fissò con un sorriso eccessivamente dolce – eppur dannatamente sincero – in volto. «Sette, Sara. Non lamentarti, o ti chiedo un altro passo che non hai imparato a memoria e scendo fino a due, se mi metto d'impegno. Ti ho chiesto di tradurre, non di imparare una filastrocca.»
«Ma...»
«E almeno avresti potuto farmi la cortesia di imparare quella che vi ho fatto in classe, non una a caso. La mia era molto più bella – e sai che sono un vanitoso.»
«Mph... vabè.»
«No 'vabè'. 'Grazie professore che non va ad indagare oltre sulla mia preparazione discontinua ed imprecisa, e mi regala un sette che non mi merito nemmeno lontanamente'.»
Sara trattenne uno sbuffo, dovendo ammettere che in fondo il professore aveva ben che ragione. Anzi, iniziò a sentirsi in colpa; Riva aveva una capacità di far sentire la gente in colpa a dir poco bestiale: soprattutto perché continuava a sorridere placido e posato, fissandola con lo sguardo di chi spiega ad un bambino piccolo che non è bene fare gli egoisti e tenersi tutti i giocattoli per sé.
«Grazie, prof.»
« - 'essore'.» la corresse lui, chiudendo il registro.
 
 
 
Dimitri le porse una sigaretta.
Sara lo guardò con gli occhi a fessura, le labbra arricciate.
«Non è un buon momento per cominciare, eh?» domandò il ragazzo, rimettendola nel portasigarette.
«Mai.»
Dimitri annuì. Si sistemò la coda bionda, che più ch'essere propriamente una coda consisteva in una massa di capelli lunghi, sfibrati e spettinati, privi di una forma qualsiasi.
«E poi, dico, è un sette, mica un quattro.» continuò quella, sbuffando.
«Sei tu che fai la faccia da quattro per i sette, mica io che offro sigarette a caso.»
«Fottuto Lucrezio.»
«Povero disgraziato...»
«Fottuto Lucrezio, ho detto.»
«Povero disgraziato, ho detto. E comunque hai avuto un colpo di culo, cos'altro vuoi?»
«Una media decente.»
«A me sembra decente.»
«Più decente.»
«Potresti studiare.»
«Perchè, secondo te che faccio?»
Dimitri si strinse nelle spalle, accendendosi la sigaretta con l'aria di chi, all'idea di rispondere, sa già che correrebbe un rischio assai grande – probabilmente corredato da qualche livido.
«Non è colpa mia se non sono portata per il latino.»
Dimitri fece nuovamente spallucce. Osservò interessato il fumo della sigaretta, e poi il cielo.
«Mi stai ignorando?» domandò la ragazza, leggermente acida.
Quello annuì.
«Grazie, Dimitri. Tu che sei un vero Amico.»
«Prego.»
Non era una battuta poi così ironica.
 





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[NdA] ciao a tutih :D
volevo ringraziare tantissimo per star leggere questo delirio, soprattutto il mio recensore u.u mi fa incredibilmente piacere :3

Dunque... fine dell'enorme preludio in cui non avrete capito niente. La protagonista ufficiale è Sara, anche se sono estremamente portata ai racconti corali: lei ha una serie di amici che sono soggetti affatto indifferenti – e i ragazzi degli anni '70 sono personaggi che definire Fondamentali è riduttivo. 
E' la prima volta che metto una protagonista 'femmina' in una mia storia (tolta Banana Split, però è un racconto.... relativamente normale, che deve parlare di ragazze per questioni di trama! xD), e diciamo che ho seguito questa linea per evitare fenomeni di Mary Suismo. Per come è fatta la ragazza in questione, che è calibrata per essere "l'anti stereotipo", penso che sia salva. Anti stereotipo, ci tengo a notare, in tutti i sensi: non è semplicemente il 'contrario' di tutti gli stereotipi... almeno, non voglio che sia così. Sara potrebbe essere una vostra compagna di classe, una ragazza di pallavolo – una qualunque, con le sue piccole e immense particolarità. E' stata molto difficile da 'inventare', o meglio, da 'calibrare', cercare di non appiattirla nel rendela normale, di modo che fosse persona e personaggio in contemporanea... spero che non deluda ^.^ perchè alla lunga mi ci sto affezionando

Spero che non vi dispiaccia questo approccio 'scolastico'. Sottolineo che io per prima odio gli high school drama, ma, dopo tutto, a 16-17 anni devi andare a scuola, non c'è storia. E' un mondo, che, anche se siamo in un fantasy, vorrei dipingere nella sfaccettatura che "tre metri sopra il cielo" e menate varie non raccolgono mai – forse perchè non è abbastanza 'fashon'.

Insomma, ho tanti argomenti sotto mano, per non parlare della questione demoni&bestie, di Allen, di Xander, del branco di Alessandro e del mondo ^___^
spero ci sarà da divertirsi. Aprofitterò di Sara anche per spiegare meglio questo 'mondo parallelo' di demoni, bestie, gaia e volui ^_^


Grazie ancora per la compagnia, spero questa storia possa in un qualche modo divertirvi :)






 

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Capitolo 4
*** 4. Un giorno qualsiasi ***


4. Un giorno qualsiasi.

«Signore?»

Allen si raddrizzò malamente sulla sedia imbottita del suo ufficio, sporgendosi verso l'interfono piazzato sulla scrivania. Premette stancamente il pulsante, rispondendo alla segretaria con un «Mhnsì» gutturale e bofonchiato.

«C'è vostro nipote.»

«Mmhn...» questo parve più un grugnito.

«Lo faccio entrare?»

«Perché, pensi forse di riuscire ad impedirglielo?»

L'interfono tacque, lasciando presumere che la segretaria stesse meditando su questa ultima eventualità. Allen si allontanò dalla scrivania, ondeggiando col busto e schiaffandosi sullo schienale della sedia, che si mosse di qualche centimetro all'indietro sotto tale impeto.

«Xander!» lo chiamò, a voce più che alta: «Vieni dentro.»

Il ragazzo sgusciò sgraziatamente fra le due ante della porta, comparendo nell'ufficio e poi richiudendosele alle sue spalle con un colpo di tallone.

«Si rovinano, così.»

«No.» rispose quello, guardandosi attorno.

Allen lo scrutò di sottecchi. Xander, moderatamente alto, robusto, lo fissava a sua volta con le labbra arricciate e gli occhi scuri immobili. Non fece più un singolo movimento: rimase in attesa, il fastidio calato sul volto, lo sguardo attento, la mente chiaramente intenta ad elaborare.

Dopo qualche istante di silenzio, Allen riprese:

«Con quegli anfibi sì.»

Xander non rispose, mantenendosi immobile. L'uomo, seduto più che scomposto, le braccia penzolanti oltre i braccioli della sedia, inspirò ed espirò lentamente.

«Mi servono soldi.» fece, finalmente, il ragazzo.

«Ti servono soldi.» Allen levò il mento, impassibile.

«Per favore.»

«Per favore?» continuò Allen, assottigliando lo sguardo ancor di più.

«Zio.»

«Ah, zio

Xander era partito carico e convinto – Xander era sempre carico e convinto: era lo zio che lo faceva svampire come se niente fosse – un soufflé venuto male, ecco cosa. Oh, ma Xander non ci stava: lui era un duro. Almeno, era convinto di esserlo.

«Bhè?» proruppe il ragazzo, ingrossando la voce: «Dai, cazzo, li ho finiti - potrai mica farmi morir di fame, ti pare?»

Allen non si mosse. Dopo aver visto la sicurezza di Xander vacillare, cadere, rialzarsi, tombolarsi e poi riscalare strenuamente la vetta, accennò a un sospiro. Si passò le mani sul volto, risalendo sino ai capelli grigiastri e congiungendole infine dietro la nuca.

«Come li hai spesi?» domandò l'uomo, flemmatico.

Xander odiava il tono flemmatico dello zio. Le domande flemmatiche. Le domande, a prescindere.

Specie se erano poste in modo così dannatamente retorico.

«Non lo so, dai – li ho spesi.»

«Uh.»

Allen vide la mascella del ragazzo serrarsi: quando faceva così diventava, per un istante, la fotocopia di suo padre. Ma durava poco.

«Per mangiare.» raffazzonò, scostando lo sguardo.

«Dove.»

«In giro.»

«Dove.»

«Kebab.»

«Solo?»

«No.»

«Lo spero.»

Che palle, pensò Xander.

Cadde nuovamente il silenzio: il ragazzo, in piedi, a disagio, fuggiva definitivamente qualsiasi contatto visivo con lo zio, stravaccato, che ora faceva ricadere nuovamente le braccia lungo i fianchi, oltre i braccioli della sedia, in una posizione che si addiceva assai di più ad un liceale che ad un quarantenne plurilaureato. L'uomo osservò il nipote, olivastro come sempre, vestito in modo più o meno convincente – anfibi, pantaloni militari, felpa bucata e giaccone malconcio. Aveva dovuto rasargli la testa di persona, all'epoca, quando andava iniziando a riacciuffarlo dall'enorme mole di casini in cui si era ficcato: ora i capelli neri e disordinati ricadevano in modo completamente casuale sulla fronte alta, sfiorando gli occhi a mandorla. Non un altro paio di forbici aveva mai toccato quei capelli, da allora. E si vedeva.

Ma almeno, pensava Allen...

Almeno era qualcosa.

«Ho mangiato due volte in pizzeria.»

«Mh.»

«E sono andato al cinema.»

«Ok.»

La voce del ragazzo, profonda, si mal adattava a quel tono da bambino colto in flagrante, intento a racimolare idee, scusanti, attenuanti nell'ottica di blandire una futura punizione. Più parlava, più si sentiva sconfortato: e che cazzo, 'sta volta non aveva fatto niente di male. Aveva solo finito i soldi di un mese in dieci giorni – e a dire il vero non comprendeva assolutamente come fosse successo.

Eppure lo zio aveva tutta la faccia di saperlo benissimo.

E questo lo urtava.

«Non ho bevuto niente, cazzo, ok?»

«Ah.» fece l'uomo, come se stesse facendo due chiacchiere inutili con un collega al bar. «Ma dai?»

Xander si rabbuiò. Allen ne osservava i movimenti del corpo – piccoli, discreti – che già nati vigili lo portavano sempre più sulla difensiva: attento, l'orecchio teso, le labbra strette, una certa distanza di sicurezza fra lui e la scrivania.

Diffidente come un gatto, infastidito come un gatto che, appunto, con diffidenza - ma felina saccenza - pretende il pasto. Sa che è un suo diritto, ma non vorrebbe farsi troppo male nell'esercitarlo.

Eccolo lì, Xander. Che sbuffò, grugnendo.

«No.» ringhiò.

Con lo zio era sempre così.

«Ok, ok.»

Un discorso a senso unico. O quasi.

«Sono pulito.»

«Non avevo dubbi.»

Con lo zio mentire non funzionava. Sapeva. Sapeva già.

Fottuti psicologi.

«Piantala, cazzo. Dove vuoi arrivare?»

«Io? Da nessuna parte. Hai avuto i tuoi soldi e li hai spesi. Problema tuo. Ero solo curioso di capire come fa un diciottenne a spendere sessanta euro in dieci giorni – posto che nessuno ti costringe a mangiare fuori.»

«Non ho. Diciotto. Anni.» ci tenne a precisare.

«Sono dettagli.»

«Col cazzo che non lo sono, e lo sai.»

«Non mi interessa quel discorso, adesso. Sei venuto da me a mendicar denaro, dopo che a stento tre volte hai dormito nel tuo letto. Allora?»

«Quel letto fa schifo.»

Allen sbuffò, poggiando gli avambracci sulla scrivania e abbassando il capo. Socchiuse gli occhi, meditabondo.

Non disse più niente per venti lunghi e tediosissimi secondi.

«Xander.»

Quello non rispose.

«L'altro mese ce l'hai fatta a farteli durare. Stai andando bene, perché adesso ti metti a far stronzate?»

«Mangiare fuori è una stronzata, adesso?» domandò, scettico.

Sapevano tutti e due che poteva fare molto di peggio. Oh, molto. Decisamente molto.

«Sì, se hai tre pasti al giorno assicurati in casa famiglia.»

«Sto cazzo, mi sono rotto di quella merda lì.»

«Xander.»

«Che ti costa? Son trenta euro, ti ci pulisci il culo, te, con quello che ti pagano!»

«XANDER

Il ragazzo si zittì. La voce dello zio era uscita come un sibilo, basso, greve, – e adirato, in prima approssimazione. Molto adirato. O così sembrava, perché quel tono, che tanto di rado sentiva, era indecifrabile: affilato come un coltello e pesante come un incudine. Nient'altro.

La reazione più saggia era rimanere zitti.

E magari anche immobili.

Non che Xander se ne rendesse pienamente conto. Si bloccava e basta.

E dopo qualche minuto, forse, realizzava che fare gli psicologi doveva essere proprio da fighi, se si riuscivano a fare trucchetti del genere.

«Verrai a mangiare da me.» fece infine l'uomo, risollevando il capo e riacquistando parte del suo tono tranquillo. Era serio, però. Dannatamente serio. «Per questo mese. Poi vedremo.»

Xander allargò le narici, cercando di capire se era un'idea accettabile o meno.

«Oppure vai in casa famiglia. O non mangiare – non posso certo vietartelo.»

Xander sbuffò, soffiando.

«Questa è l'unica proposta che posso farti. E non è nemmeno onesta, sappilo. Non te la dovrei fare.»

«Ok...»

***

Sara rimase immobile per lungo tempo prima di riuscire a formulare un pensiero che non fosse 'EH!?'. Dimitri passò quel lungo tempo ad osservare l'espressione sconvolta dell'amica, che si poteva definire magistrale: capo ritratto, labbra schiuse in modo asimmetrico, occhi quasi sgranati sotto sopracciglia schizzate verso l'alto.

«Chi è stato?» fece infine, in tono decisamente troppo acuto e stonato.

«Mboh.»

«Mboh?» domandò, sempre con la stessa voce isterica.

«Non lo so.»

«Ohccristo.»

«Vabè. Son cose che capitano. Dovremmo entrare.»

Uno di fronte all'altra, a pochi passi dal portone del liceo, rimasero a fissarsi. Dimitri rimaneva immobile, in attesa che l'altra si riprendesse dallo shock.

«Hanno mutilato Gesù Cristo!»

«Eh?»

«Hanno ammazzato Sansone!»

«E tutti i filistei?»

«Ohccristo.»

«Non ti seguo.»

«Io li ammazzo!»

«Ma chi?»

«Non lo so, ma li ammazzo! Che stronzi, non ho parole!»

Dimitri scosse lontanamente il capo, recuperando una sigaretta dal pacchetto che aveva in tasca.

«Vuoi?»

«No

Motivo di tanto scandalo da parte di Sara – e del resto della classe, e dei conoscenti, e dei professori – era il taglio netto che era stato dato alla selvaggia chioma bionda di Dimitri. Particolarmente netto, il taglio: i capelli erano stati presi in tutta la coda e tranciati via, probabilmente con un coltello, neanche con delle forbici – che non ce l'avrebbero fatta in un compito simile. Ora il ragazzo rimaneva con una capigliatura da spaventapasseri che a stento gli copriva la nuca e le orecchie.

La morale che ne traeva lui era che quello era stato un venerdì sera più che memorabile. Peccato che non fosse nella sezione a tempo corto.

Sara scuoteva il capo, tenendosi leggermente distante dall'amico che puzzava di alcol in modo indegno.

«Turov, immagino che sarei un cinico a chiederti di venire fuori per Dante, vista la tua situazione. Sbaglio?» fece Riva, aprendo il registro sulla cattedra.

Aveva anche lui il suo certo senso dell'umorismo, bisognava ammetterlo.

«Eh.» rispose Dimitri.

«Allora?»

«Non era una domanda?»

«No.» rispose l'uomo, tranquillo. «Era un modo per dirti che comprendo la tua posizione.» spiegò con apprensione.

«Ah.»

«Ma tu comprendi la mia. Manchi solo tu.»

«Eh.»

«Avanti.»

«Sì, prof.»

«'essore.»

Dimitri lo spaventapasseri si alzò stancamente, prendendo in mano il suo vecchio volume della divina commedia.

Sara non capiva Dimitri.

Gli voleva un sacco di bene, ma non lo capiva. Dopo il teatrino con Riva, il risultato fu otto e mezzo. Un otto e mezzo che puzzava di alcol e di sudore – che puzzava e basta – ma un otto e mezzo più che onesto, su questo non c'era alcun dubbio. Non che Sara avesse niente da ridire sul fatto che Dimitri amava Dante in modo viscerale, e quindi non soffriva in alcun modo quel tipo di interrogazioni – ognuno ha le sue: quello che le sfuggiva era perché il ragazzo avesse titubato tanto, svogliatissimo, prima di uscire per l'interrogazione.

Dimitri non capiva perché a Sara premesse capire queste cose.

«Non avevo nessuna voglia, e basta.»

Quando il ragazzo iniziava a dire così, su Sara colava un barile di mediocrità infima e meschina. La sua.

Che non aveva. O forse sì. Mediocrità e/o meschineria che fosse.

Non suonava infinitamente mediocre interessarsi ai risultati scolastici? Avanti. Diciamolo.

Infatti ufficialmente Sara non se ne interessava.

Bhè, non troppo.

Ok, in realtà sì. Ma solo un pochino. Quel tanto da sopravvivere con un minimo di dignità.

C'era di peggio.

E poi Dimitri poteva anche essere quello che prendeva la vita con santa filosofia – almeno, così le pareva, a volte – ma era anche quello che rischiava la bocciatura un anno sì e l'altro pure.

Quindi...

Sara non capiva Dimitri, ma faceva finta che la cosa non le interessasse. Troppo.

In effetti era una ragazza un po' confusa, Sara. Le interessava capire un sacco di cose che in realtà non parevano interessarle troppo. L'unica conclusione era che, alla fine, continuava a non capire – e in un modo o nell'altro, si sentiva mediocre.

Non lo era, le ripetevano gli altri. Questo ovviamente non stemperava le sue convinzioni.

Meschina no, comunque.

Sara fece capolino dalla porta della sala professori, scrutandone rapidamente l'interno. C'erano quatto persone, fra cui svettava Riva, seduto a leggere il giornale. Non era difficile vederlo: era un uomo grande – non c'era altro termine per descrivere la sua stazza: grande. Alto, grosso – una torre: eppure infinitamente flemmatico nei movimenti. Il volto portava moderatamente i segni dell'età – marciava oltre i cinquanta -, e i capelli, corti e sempre in ordine, erano d'un grigio spento, né chiaro né scuro. L'animo del professore era pacato quanto il suo portamento: calmo, gentile e spesso sorridente. Dai due occhi completamente neri traspariva eternamente tranquillità, anche quando non avrebbe dovuto. L'amore per il suo lavoro gli portava quel rispetto da parte degli studenti che, altrimenti, con quell'atteggiamento gli sarebbe stato negato.

«Chi cerchi?» domandò all'alunna, avendo notato il volto chiaro circondato da boccoli scuri che era appena comparso sulla soglia.

Sara si fece avanti di qualche millimetro, giusto per far finta di essere entrata nella stanza: «Rondi.»

«Battaglia persa. E' in laboratorio.»

La ragazza portò gli occhi chiari al soffitto, maledicendo mentalmente una divinità improvvisata.

«Quale?»

«Chimica.»

«Grazie.»

«Se riesci a parlarci digli che lo sto cercando anche io, per cortesia.»

«Sì, prof. Essore.»

Si ritrasse, tirandosi sullo stipite, e si incamminò lungo il corridoio semideserto, decidendo se valeva la pena tentare di entrare nel laboratorio di Rondi o meno.

Prossima alla porta iniziò a rallentare, meditabonda.

Si fermò.

Bussò.

Silenzio.

Beh, era scontato. Bussò con più forza.

Si dondolò sulle gambe, domandandosi se fosse il caso di aprire la porta. Ci pensò a lungo.

Alla fine cedette.

Aprì la tagliafuoco di un minuscolo spiraglio.

«Chi è?» domandò Rondi, dal fondo del laboratorio. Sara si sporse quel tanto da riuscire a vedere quella palla bianca che era il professore in camice.

«Iusti. Terza B.»

«Aaaaaahn... sì.» Rondi parve prima annuire, poi ridacchiare, poi tutti e due insieme. Nulla di scandaloso. «Dopo. Cioè. Un attimo. Mh. Vedremo.»

Rondi – basso, tondo, ben approssimabile con una sfera, sosteneva egli stesso – era chino su un set di provette e affini su cui stava lavorando. Molto probabilmente intento a preparare qualche "simpatica esperienza" per quelli del quarto anno. Rondi si divertiva così.

«Vedremo..?»

Cercava di affilare il volto, tondo, con un pizzetto bianco. Dietro gli occhiali protettivi da laboratorio portava piccoli occhiali da vista rotondi – alla John Lennon, decisamente un tocco di stile; i capelli, cortissimi, erano d'un bianco quasi disorientante: ogni tanto, in mezzo a tutto quel candore, compariva mezzo ciuffo scuro.

«Un attimo solo, Iusti. Bene. Fatto. Sì.»

Finalmente l'uomo si voltò a guardarla in volto: gli occhi chiari, grigiastri e sottili, erano una delle poche cose che le si riuscivano a vedere dallo spiraglio della porta tagliafuoco.

«Dimmi.»

«Hem... la classe... chiederebbe se... per caso... si poteva... posticipare... il compito di fisica.» scelse le parole con una certa difficoltà.

«Oh.» fece quello, pensoso. «Niente delegati, ragazzi. Processo democratico.»

«E' una richiesta piuttosto democratica. Direi unanime.» cercò di suonare modesta e convincente. Continuando a nascondersi dietro l'enorme porta.

«Capisco. Ne parleremo in classe ugualmente.» Rondi si voltò, tornando a trafficare con le provette.

Sara, zitta per qualche altro istante, tornò alla carica: «Sì, ma la prossima volta che ci vediamo in classe è per il compito.»

Rondi parve ridacchiare. In modo affatto maligno, fra l'altro.

E tacque, preso da quello che stava facendo.

«... professore?»

«Vieni a vedere, Iusti. Questa ai vostri colleghi piacerà.»

'Vieni a vedere, Tizio Caio'. Tipica cosa che diceva Rondi in laboratorio. Si avvicinò lentamente, superando a fatica la barriera della porta.

«Vieni, vieni.» insistette quello.

Lei andò, sospirando. Non fece in tempo a percorrere mezzo laboratorio che da un beker si sollevò, in un piccolo 'poof' una nuvola di fumo giallastro: a quella vista la ragazza si immobilizzò, sconcertata. La nuvola lambì il soffitto e si avvicinò minacciosamente al rivelatore di fumo.

Rondi, con sguardo eternamente divertito, la additò: «Guarda.»

Sara guardava.

«Eh, vedi, Iusti. E' per questo che certe reazioni bisogna farle nella cappa aspiratrice.»

L'allarme antincendio iniziò a suonare per tutto il liceo.

«Ah.»

Rondi ridacchiava.

Non era esattamente il momento migliore per un'esercitazione antincendio – improvvisata o meno che fosse –, dato che faceva dannatamente freddo. Sara, poi, che quando Rondi aveva fatto saltare l'allarme non si trovava in classe, era dovuta uscire dall'edificio senza cappotto. Elisa la recuperò entro breve, vedendola aggirarsi smarrita nel campo di atletica.

«Com'è andata la missione?» le chiese l'amica, conducendola verso il loro gruppetto.

«Forse bene.»

«Rondi è simpatico. Mica come D'urso.»

«Sto crepando di freddo.» fece Sara, iniziando a saltellare e a frizionarsi le braccia con la felpa.

«Ma è stato Rondi?»

«Io non di certo.»

«Dai, quel prof è un ganzo!»

Sara si limitò a tremare e saltellare.

Elisa le si avvinghiò addosso, aiutandola a scaldarsi. Quando raggiunsero gli altri. Dimitri le porgeva il proprio cappotto.

«Grazie!» pigolò la ragazza.

«Nessun problema.»

D'altronde un russo non è che abbia grandi problemi con il freddo italiano. Per lui fa caldo. Questo era risaputo – Dimitri usava il cappotto praticamente solo per buon costume.

«Ah – merda. Devo tornare da Rondi.» Sara fece dietrofront senza nemmeno aver finito di sistemarsi l'indumento addosso – lanciata verso la sagoma sferica di Rondi.

Dimitri l'osservò allontanarsi, meditabondo.

Elisa fece scivolare un'occhiata verso quello, interrogativa.

«Beh?»

«Cosa?»

«Ancora?»

Dimitri storse le labbra. Osservò ancora Sara, lontana, persa fra la folla.

«Sai che non lo so?» rispose il ragazzo, tranquillo. Lo spaventapasseri biondo, con un'idea di barba sul volto, lontanamente alto, lontanamente grosso – era un russo, dopotutto – era una di quelle persone che quando non medita, fa. Quindi è meglio che mediti. E infatti, principalmente, meditava.

«Ci stai pensando?»

«Forse sì.»

Sara, lontana, si stringeva nel cappotto nero, continuando a molleggiare ed aspettando di riottenere l'attenzione di Rondi, che aveva iniziato a discutere con un altro professore. I boccoli, nerobluastri, incorniciavano il volto latteo e affilato su cui risaltavano a stento due occhi grigi e sottili. Dimitri l'aveva notata presto, Sara, perché era una che si nascondeva: lui notava le cose che si nascondono. E lei si nascondeva perché trovava che fosse la cosa più adatta da fare: passare inosservata – e forse non lo faceva nemmeno consciamente –, Sara era semplicemente convinta di non essere una persona che si nota, e tanto bastava. Mediocre era la sua parola preferita: tanto la usava quanto la odiava. Inutile stare ad ascoltare i propri amici – che, come noto, hanno una visione distorta delle persone a loro care: la ragazza riteneva, con ferrea ed inamovibile convinzione, di rischiare giorno per giorno la mediocrità. Temendo, d'altro canto, buona parte dei comportamenti estremi.

E' facile volersi del male, a sedici anni. Tutti lo fanno.

«Quindi?»

Ma ci vuole un certo impegno per detestarsi abbastanza da considerarsi una persona – sia nell'aspetto che nell'animo – qualunquemente diversa dalle altre.

«Cosa?»

No, Anomalo era esagerato. Qualunquemente diverso, oh, sì: era un termine intriso di banalità scontenta. Il tipico modo di dire che ti fa pensare di non essere, in fin dei conti, persona degna di nota.

Elisa era Normale, invece. Molto diverso, sosteneva Sara, dalla diversità qualunque. Abbastanza alta, Abbastanza longilinea – anzi, parecchio -, con un volto Abbastanza dolce, un naso Abbastanza piccolo, un sorriso tranquillo e lisci capelli castani. Facile.

«Ancora?»

Dimitri sospirò.

Lui, dal canto suo, era un meditativo, ma che non meditava troppo sulla sua esistenza. Meditava su tutto il resto. Sui sentimenti, soprattutto. Principalmente sui suoi e quelli degli altri – niente a che vedere con i trip mentali di Sara.

La volta in cui aveva smesso di meditare e aveva fatto, aveva fatto una solenne cazzata.

Ma per fortuna lui era Dimitri, e lei era Sara. E avevano Elisa. E Nora, e Stefano.

«Penso che mi sia passata.»

«Hem... prof.»

La voce di Sara era un sussurro. Che Rondi ignorò bellamente.

«Prof, scusi, mi sono dimenticata di dirle una co...»

«Ema!»

La voce di Riva rese tutto quel pigolare e tentare di attirare l'attenzione di Rondi inutile.

«Iusti, grazie.»

Sara si rimpicciolì – cosa facile da fare, quando l'ombra di Riva ti torreggia addosso.

«Ema, mi senti?»

«Oh, sì.» fece Rondi. «Dimmi.»

«Ricordati che domani torna Amanda, per favore.»

«Ah!»

Il volto di Rondi si illuminò. Sara aveva già preso ad indietreggiare, ma ora, vista la colloquialità del discorso, decise che era più saggio fuggire dall'imbarazzo che origliare una cosa del genere poteva suscitare. Con discrezione. Fuggire. Non origliare.

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Saluti! Mi sono leggermente sbloccata xD felicità. Purtroppo come capitolo in sé non dice niente - ma direi che sono bastati i primi a confondere le idee, quindi che ne dite se, ora, andiamo con calma? I personaggi sono tantissimi e per amministrarli in modo decente ho bisogno di tempo, se no temo proprio che perdano. Già così...

"un giorno qualsiasi" - non troppo, in realtà. ma si parte sempre dai giorni qualsiasi, in questo genere di racconti, no? voglio approfondire i pg prima che inizino ad entrare troppo nei casini, perchè poi inizieranno ad evolvere.

ringraziamenti solenni a quelli che hanno messo di recente nelle seguite, che mi hanno aiutata a sbloccarmi. ho finalmente deciso di Divertirmi, con questa storia. Mi ero bloccata perchè avevo paura di scadere nel banale... ma sapete cosa? chi se ne frega, il banale. tutto è banale a questo mondo. quindi vi pigliare una banale protagonista che si fa un sacco di pippe mentali, un banale liceo, dei banalissimi "colpacci di scena" del genere più che pronosticabile - ma io, intanto, mi diverto tantissimo a farli comparire. e spero anche voi, dai, se non farete troppo i pignoli.

Ad esempio far ingrassare Ema. xDDD povero.

volevo descrivere un liceo vero, serio, che non si riducesse ad una copia cattiva della high-school, che non fosse una cosa alla moccia. Ho ceduto e mi sono ispirata alla mia esperienza, che per quel che mi riguarda è stata grandiosa. Ci sono non pochi riferimenti a fatti realmente avvenuti - coerentemente rinarrati e riaggiustati per favorire la situazione, beninteso.

Dimitri mi piace. Elisa si delineerà meglio poi. Xander e Sara sono il mio problema, perchè temo seriamente di cedere agli stereotipi. Così, alla fine Sara è diventata un personaggio molto strano, che Me Gusta. Vedremo cosa succederà. Ciao e grazie a tutti. :D

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Capitolo 5
*** 5. Bisturi ***


5. Bisturi

Xander mangiava con un'irruenza e una mancanza di galateo a dir poco sconcertanti. Non era ancora del tutto impresentabile, ma era molto vicino al confine fra civile ed incivile. Allen faceva finta di non guardarlo, mentre invece continuava a studiarlo. Il ragazzo mangiava pure parecchio, oltre che avidamente. Mangiava e beveva. Per fortuna, pensò l'uomo.

Veniva da chiedersi se non fosse rimasto senza nulla fra i denti per più tempo di quel che aveva dichiarato.

«Fa veramente così schifo il cibo della casa famiglia?»

Xander non rispose, continuando a mandar giù interi bocconi non masticati.

«O stai facendo scorta per resistere il resto del mese senza dovermi vedere?»

Una piccola ruga comparve sulla fronte del ragazzo, poco più su del sopracciglio destro.

Allen rinunciò alla conversazione, riprendendo a mangiare.

«Credo che vomiterò.»

«Non sul tappeto.»

«Se vomito dopo devo mangiare di nuovo.»

«Hai ancora fame?»

«Ho sempre fame.»

«Mangia.»

«E' il mio stomaco che ha finito lo spazio. Dovrei fare come i greci. Due dita in gola e passa la paura. E poi ricomincio.»

«Carino vedere qualcosa che assomiglia alla cultura uscire dalla tua bocca.»

«Presto uscirà anche qualcos'altro.»

«Vai in bagno.»

Xander, invece, si lasciò cadere sul divano – occhi socchiusi, mani sulla pancia, emettendo una specie di mugolio che oscillava tra il sofferente e il soddisfatto.

C'era uno strano equilibrio fra Xander e suo zio. Il giovane sapeva che doveva odiarlo – aveva una miriade di ottimi motivi per farlo, e glieli aveva sciorinati tutti, di fila, quando l'uomo era magicamente comparso nella sua vita dopo – quanto? Cinque anni? Di muta assenza.

Cinque anni d'inferno, preceduti da altri cinque anni d'inferno – lo zio tendeva a farsi vedere periodicamente, ogni cinque anni o giù di lì.

Allen era discontinuo, e lo sapeva. Lo era stato sino ad allora, per lo meno.

Oh, tutti erano stati discontinui con Xander. Anzi, erano stati assenti: era molto più comodo e facile. Di sicuro non lo facevano apposta - non in modo dichiaratamente intenzionale, per lo meno. Lui, per esempio, viveva in America: vivere in America funzionava molto bene come metodo per evitarsi il fagotto di Xander.

Ogni volta che si ritrovava a pensarla in questi termini, si vergognava e si detestava talmente tanto da tornare seduta stante in Italia per assicurarsi che, almeno, fosse vivo. Oh, sì, lo sentiva per telefono – ogni tanto; d'altronde era il suo parente più prossimo, qualche lontana e vaga idea di responsabilità ce l'aveva. Ma non era decisamente adatto per l'affido, no. Mai stato.

Tutto ciò era stato argomento di feroci discussioni, due anni prima.

Allen aveva lasciato sfogare il ragazzo, con attenzione, controbattendo abbastanza, ma non troppo. «E' complicato.», gli diceva. Xander gli aveva sputato in faccia, al quinto «E' complicato.».

Non era stata una bella giornata.

Era stata una pessima giornata.

Era stato il momento in cui avevano quasi spezzato la corda, a furia di tirarla.

Adesso che lavorava per la difesa, aveva modo di stargli dietro. Più o meno.

Era complicato.

Quel lavoro, che era stato costretto ad accettare, aveva come minimo aiutato il loro rapporto. Anche se... beh. È complicato.

Troppa confusione nella sua testa.

Per fortuna era solo nella sua, e non ancora in quella del ragazzo.

Xander, dal canto suo, per quanto lo odiasse lo ammirava. Un po' era la stima dovuta ai suoi 'trucchetti da strizza cervelli', li chiamava il ragazzo, che subiva in continuazione ma che, sportivamente, accettava come punti a suo favore; e un po' era ancora il ricordo che aveva mantenuto di lui sin da quando era piccolo – prima lo zio giovane e simpatico, poi il parente salvatore che compariva e lo portava un mese, due, a divertirsi, lontano dalla casa famiglia.

«Senti, io domani devo andare al Gran Sasso.» iniziò l'uomo, iniziando a sparecchiare.

«Mh.»

«Non ho alcuna intenzione di darti le chiavi di casa.»

«Mhh.»

«Né soldi.»

«Non vengo con te.»

«Allora dovrai andare in casa famiglia.»

«No.»

«Sei di un immaturo inconcepibile.»

«Vacci te. Vediamo come ti trovi.»

«La strada è meglio?»

«Se la giocano.»

«Interessante.»

Xander si rotolò nel divano, la palpebra cascante.

«Xander, ho detto che potevi mangiare da me, non dormire

«Sto qui sul divano, guarda, chiudo gli occhi e dormo. Non ti accorgerai nemmeno che esisto.» biascicò quello.

«Non posso tenerti a dormire, Xander.»

«Ma io posso dormire dove mi gira.»

Allen lasciò cadere il discorso, dovendo ammettere il touche. A meno di non sfrattarlo con la forza, ma non era un'idea saggia, no.

Osò un'ultima carta.

«E' sabato sera. Esci.»

Xander roteò lentamente il capo verso lo zio, scrutandolo con due fessure al posto degli occhi.

«Sono sempre fuori. Sai che me ne frega di che giorno è.»

«A me frega.»

«Vuoi uscire? E' questo?»

«No, non voglio uscire. Ma domani mattina alle cinque ti lancio fuori a calci, perché come ti ho già detto, qui, da solo, non ci resti.»

«Meglio lasciarmi in mezzo alle strade romane alle cinque di mattina, quindi.» mormorò quello, sarcastico.

«Oh, sono sicuro che saprai cavartela.»

Il tono dello zio mescolava la fiducia alla minaccia.

Xander decise di non badarci troppo. Non ci badava mai troppo. Chiuse gli occhi e cadde nel sonno della digestione.

***

Nora osservava perplessa la testa di Dimitri, cercando, da qualche parte, il coraggio per dire qualcosa al riguardo. Era da un'ora che cercava di dire qualcosa al riguardo. Come la ragazza – bionda, occhi verde scuro, volto tondo e silhouette a forma di bottiglia della coca cola – fece per schiudere le labbra, Stefano la sorpassò – armato di rasoio elettrico e ghigno malefico.

«Ma no...» si limitò a dire Nora, con voce tenue e perplessa, aggrottando le sopracciglia.

«Dai, ormai - !» contestò Stefano – grande amante dello stile una-passata-di-rasoio-e-via, come la sua testa, ricoperta da un sottilissimo strato di velluto, mostrava. D'altronde lui compensava con la barba, nera e inauditamente folta, per un diciassettenne.

«Ormai cosa? Vuoi terminare il lavoro?» Sara era entrata nella stanza con il bottiglione di plastica da un litro di birra, e riversava acidità sull'amico come un serpente intento a soffiare.

«Non sono stato io.» rise il ragazzo.

Dimitri sospirò.

«Potremmo fargli i dread.» propose, sempre flebile, Nora.

Dimitri sospirò di nuovo.

«E' un'idea.»

Stefano storse le labbra, sbuffando infine nel dover ammettere che era un'idea migliore della sua. Peccato.

Buona parte del gruppetto si era rintanato per il sabato sera a casa di Nora – che raramente mancava di offrirla, nonostante, ogni volta, sapesse perfettamente come rischiasse di andare a finire. La pentola per la pasta, ad esempio, che stava fungendo da contenitore per il Cuba Libre, era un ottimo segnale.

Il fatto che Stefano e Dimitri fossero i principali fruitori di quel cocktail era, anche, d'aiuto.

«Elisa sa fare i dread.»

«Elisa stasera non viene.»

«E se io non volessi i dread?»

Stefano e Sara si guardarono, mentre Nora, delusa, si avvicinava al russo per domandargli «Perchè no?»

«Era solo una domanda.» rispose, mollemente, il biondo.

Nora sussurrò qualcosa, scuotendo il capo.

Nel mentre, Stefano – magro come un chiodo, ma alto come un palo – si avvicinava a Dimitri con un rinnovato ghigno sul volto.

«Non credo che tu abbia molte possibilità di scelta.» commentò Sara, divertita.

«Non credo che mi opporrò.»

Sara sospirò. Stefano tentò malamente e in modo decisamente scoordinato di balzare su Dimitri per costringerlo all'immobilità: ma Dimitri, ovviamente, non si sognò nemmeno da lontano di opporre resistenza.

Classico.

Non c'era nemmeno gusto.

***

Il portone dei laboratori del Gran Sasso ricordavano l'entrata della Bat Caverna. Allen lo aveva pensato la prima volta che li aveva visti, e continuava a pensarlo. Non c'era da stupirsi se metà della popolazione che abitava lì intorno riteneva che quella dei laboratori di fisica fosse una montatura. O, meglio ancora, che fosse terrorizzata dall'idea che lì ci fossero dei laboratori dell'INFN, ovvero di fisica nucleare. Già a vedere l'entrata c'era da pensar male. Ah, l'ignoranza – non che lui ne sapesse molto, al riguardo.

L'automobile mise la freccia, cambiando corsia ed abbandonando l'autostrada che correva nella galleria. Si fermò davanti ad un portone di metallo, massiccio, alto, grande, grosso, imponente – basta, troppi aggettivi, pensò Allen, scendendo dalla vettura e stringendosi nel cappotto.

Faceva freddino, ma non troppo.

«Buon giorno, Allen.»

Il capo ingegnere, piccolo e robusto, sulla cinquantina, gli venne incontro con un caschetto di sicurezza giallo in mano.

«Giorno, Nave.» mugugnò Allen, ancora mezzo addormentato. Sussultò quando Nave gli lanciò il caschetto: facendo appello a quei pochi riflessi che si erano svegliati con lui, riuscì malamente a prenderlo al volo – se non fosse che poi se lo lasciò cadere. Osservò l'oggetto, fermo in terra, con fare arreso – e sbuffò.

«Addormentato?»

«Abbastanza.» Allen si flesse, recuperando il caschetto e mettendoselo in testa. «Non pensavo iniziaste oggi. Mi hai incasinato leggermente la vita.»

«Vieni, che dobbiamo fare un giro strano – stanno facendo andare un esperimento, nella seconda galleria.»

«Che esperimento?»

Nave tacque, osservando Allen di sottecchi.

Allen sospirò.

«Va bene, non lo chiedo più.»

«Allen, posso anche dirtelo, ma dubito che uno psicologo possa capirne qualcosa.»

Allen scosse il capo.

Aveva ragione.

Uno psicologo non avrebbe dovuto mettere piede in quei laboratori, per quel che lo riguardava. Certo, vallo a spiegare alla difesa: lì sono abbastanza elastici da capire che uno come Allen lì dentro è esattamente la persona giusta nel posto giusto. Oh, beh. Quasi.

«Nulla di pericoloso, comunque.»

«Questo lo so.»

Non erano gli esperimenti che non capiva quelli pericolosi. Erano quelli che capiva a dargli più preoccupazione.

***

Sara schiuse gli occhi lentamente, mantenendoli socchiusi a causa della luce del sole che entrava, irruenta, dalla finestra sopra di lei. Si diede qualche secondo per fare il riassunto della situazione: non era a casa sua – ok, era a casa di Nora. Stava bene. Era abbastanza stanca, ma stava bene. A dire il vero, aveva sonno.

Si rigirò dall'altra parte del divano, cercando di riaddormentarsi. «Sara.»

«Mmmh.»

«Ti ho vista muoverti.» fece Nora, con la sua voce ovattata e sottile – quasi chiedesse scusa. «Sveglia?» osò domandarle, dolcemente.

Sara annuì. «In un certo qual senso.»

Nora si allontanò.

Sara rimase lì per qualche istante, immobile, cercando di ignorare la coscienza che le ordinava di andare ad aiutare Nora a rassettare la casa – considerando che, di sicuro, Stefano e Dimitri si sarebbero mostrati del tutto inutili.

Si alzò lentamente, cercandoli.

Uno era per terra, abbastanza a suo agio sul palquet – i neo dread, abbastanza piccini, sparsi sul pavimento. L'altro, seduto, stava dormendo con la testa appoggiata al tavolo – un rivolo di bava ai margini della bocca, che andava cristallizzandosi sulla barba folta.

«Nora.» fece la ragazza, incamminandosi verso la cucina. «Ti aiuto.»

Nora le sorrise, intenta a lavare una padella decisamente troppo incrostata.

Ah, se quei due idioti l'avessero messa ammollo ier sera, come gli avevo detto...

***

Scese le scalette lentamente, ascoltando il rumore metallico degli scarponi da lavoro sulle sbarre di ferro. Infilarsi nei tunnel che portavano alla postazione di lavoro di Nave e gli altri era un'impresa, principalmente a causa delle misure di sicurezza, a tratti eccessive: cordoni da arrampicata, torce sulla testa a causa del buio, un estintore ogni tre metri ed uno sportello da aprire ogni quattro. C'era anche lo zaino, a complicargli le cose.

Finché si trovava nei grandi tunnel degli esperimenti dell'INFN, Allen stava tranquillo: erano enormi, ben più grandi della galleria autostradale. Anche lo stanzone dove Nave e compagnia eseguivano le rilevazioni era grande e comodo – solo la strada per arrivarci appariva stretta agli occhi dello psicologo: tre, massimo quattro metri di passaggio. Troppo pochi, per quel che lo riguardava.

Ed un continuo susseguirsi di botole.

«Attento al cavo.»

«Mh...»

***

«Dio. Sto morendo.»

Stefano si accasciò sul divano, mugolando.

«Melodrammatico.»

Si prese lo stomaco, rigirandosi - gli occhi a fessura, il volto lungo e barbuto ben rappresentante il simbolo della sofferenza. «Aahuhg.»

Dimitri lo scrutò silente, la sigaretta in mano, il torso nudo con un'idea di pancetta che trasbordava dai jeans. La maglietta era ad asciugare, dopo essere stata lavata attentamente da Nora, a causa del brutto incontro che suddetta maglietta aveva avuto con un bicchiere pieno di birra.

«Che ora è?» domandò Stefano, mangiandosi praticamente ogni singola sillaba.

«Undici.»

«Aahuhg...»

Dimitri spense il mozzicone nel posacenere.

«Possibile che tu non stia male?» rantolò, infastidito, Stefano.

Dimitri si strinse nelle spalle. «Io sono russo.»

«Esiste un limite...» continuò a rantolare l'altro.

«Se ti rinfranca, non sto esattamente bene.»

«Oh. Molto rinfrancante.» mugolò quello.

«Stai per vomitare.»

«No. Non c'è più niente nel mio stomaco.»

«Come vuoi...»

Tre minuti dopo Stefano era piegato in due sul lavandino, mentre Sara roteava, sconcertata, gli occhi.

«Perché dovete sempre, dico, sempre, ridurvi così?»

Stefano era troppo impegnato a rigettare bile per poterle rispondere.

«Dico, io bevo, ma sto benissimo. Basta bere di meno, Ste.»

«Non romp - » … «Non rompere, dio poi, non vedi che sto Sof- »...

«Soffrendo, Sì. Vedo.»

***

Ema scrutava Alessandro con occhio attento, notandone l'espressione che si era lentamente irrigidita col passar dei minuti. Aspettavano da un quarto d'ora, ma non era certo il ritardo di Amanda quello che poteva dar problemi all'uomo. Che Amanda arrivasse ad ore casuali era risaputo.

Era forse l'idea di una rimpatriata?

Non che fosse la prima volta che ne facevano una – loro tre, per lo meno.

«Io te lo chiedo, ma tu non mi sbrani, eh, Ale?»

«Cosa?»

«Hai provato a sentire Adam?»

«No.»

Ema storse le labbra, portandosi la tazzina di caffè alle labbra.

«Va bene. Te lo richiederò fra tre anni, come al solito.»

«Bravo.»

Il volto di Alessandro si distese, rilassandosi.

Forse era la ritualità di quella domanda ad averlo fatto tendere. Ema aggiunse un po' di zucchero al caffè, rigirandolo col cucchiaino.

«Dovevi proprio far saltare l'allarme, ieri?» domandò il professore di lettere, sistemandosi sulla sedia.

«Ah. Quello.»

«Stavo interrogando.»

«Tu stai sempre interrogando.»

«Cosa che tu non fai mai.»

«Non credo nei voti.»

«Disse mister 110 ellode in tre lauree diverse.»

«E due PhD.» lo corresse Ema.

«E due PhD.» fece Alessandro, con un lontano sospiro.

«Volevo vedere se si riusciva ad evitare di fare quella reazione sotto la cappa. Sai, non vedono niente, se gli nascondi l'esperimento. Poi quello è teatrale, è un peccato ridurre una reazione così bella ad un rantolo risucchiato dall'aspiratore. Perde.»

«Mh. Certo.»

«Quegli allarmi sono calibrati malissimo.» aggiunse, schioccando la lingua sul palato.

Ema vide Ale dilatare le narici, e l'espressione farsi nuovamente torva.

«Ok, Ale. Cos'hai?»

«Niente.» rispose, fattosi vigile e attento.

«Ah, no, niente.» borbottò Ema, scuotendo il capo. «Fra un po' ti tiri fuori le orecchie da lupo, ma non hai niente. Certo. Ovvio.»

«C'è qualcosa di strano.»

«Questo l'avevo capito.»

«Va e viene. Si sente appena. Devo cercarlo, per percepirlo.» Ale si rilassò. «Adesso è andato di nuovo.»

La testa rotonda di Amanda fece capolino dall'entrata del bar.

***

Nave osservava Allen flesso sugli schermi dei rilevatori, gli occhi intenti a oscillare fra un monitor e l'altro: ogni tanto li chiudeva, o guardava in alto, o osservava in basso, pensoso. Ci avevano messo tre mesi per spiegargli come leggere quei grafici e quelle tabelle, allo psicologo: era stata un'impresa titanica. Ora l'ingegner capo lo scrutava assieme agli altri del team, in silenzio. Accanto ad Allen la figura rossa e longilinea della Stille – la loro fisica particellare – attendeva immobile, mordendosi il labbro per l'impazienza.

«Quindi secondo voi questo coso funziona?»

«Così han detto quelli del Fermilab.» rispose la Stille, rapidissima, quasi parlando sopra ad Allen.

«Così han detto.» ripeté lui, meditabondo.

«E' un modo rapido per dire che c'è sufficiente documentazione da lasciar pensare che funzioni.» mormorò poi la donna, prendendo a mordersi il pollice.

«Fretta, Stille?» le chiese Allen, senza staccare gli occhi dai monitor.

La Stille, che aveva poco più di trent'anni, continuò nei suoi atteggiamenti agitati, incrociando le braccia al petto vagamente prosperoso e prendendo a passarsi le mani sul collo.

«Allen, non ho la più pallida idea di cosa possa succedere. Sei tu che devi darmi una mano.»

«Uhu. E' arrivato SuperAllen.»

«Allen.» lo richiamò la donna.

L'uomo storse le labbra, rialzandosi in piedi.

«Si sente che avete punzecchiato la crosta di Gaia.» si guardò attorno, osservando i volti degli altri. Nessuno mostrava alcuna sofferenza, e questo era un buon segno. Lì c'erano abbastanza volui da mettere in difficoltà una Bestia alle prime armi – non ancora da scatenare un primo richiamo, ma... davano abbastanza fastidio. Già quando era partito, quella mattina, gli effetti dello stress test si erano sentiti. Se alle sei di mattina, a Roma, c'erano più volui del normale, cosa succedeva nel resto della regione?

Da che percepiva Allen, in quella stanza ce n'erano circa – boh, dieci volte tanto la normalità. I rilevatori parlavano di molti ordini di grandezza in più – dannate scale logaritmiche – ma, considerata la calibratura, erano valori sensati, coerenti con la sua sensazione.

«Hai presente un palloncino che perde, Stille?»

La donna annuì.

«Ecco. Più o meno quello che sta succedendo ora.»

«Quindi?»

Allen si guardò attorno, togliendosi poi lo zaino dalle spalle. Iniziò a tirarne fuori uno stock di bottigliette d'acqua.

«I valori di volui si sono alzati almeno fino a Roma. Abbastanza di meno rispetto a qua, ma si sono alzati. Quindi, quello che facciamo qui influisce anche fuori. E' come un palloncino che perde, dopo lo stress test. Poco ma costantemente – e soprattutto, lentamente, come quando c'è una perdita nei tubi del gas. Le ferite di Gaia erano cosa ben diversa – tanti volui in un colpo solo, sparati fuori, direi – ma circoscritti. Duravano poco, e poi si disperdeva tutto nell'atmosfera, in alto. Quando una ferita si chiudeva non si sentiva più nulla. Qua, invece, si continua a sentire tutto dopo lo stress test.»

«Ristagnano. L'atmosfera non è completamente trasparente ai volui.»

Allen le porse una bottiglietta.

«Sì, ma la maggior parte delle cose che si trovano da qui a Roma lo sono. Arrivano, fin là. Devi sono dargli tempo. Questo con le ferite non succedeva, andavano in alto.»

La donna osservò la bottiglietta, perplessa.

«Che è?»

«Acqua.» rispose l'uomo, con il tono di chi sta mentendo per il tuo bene e non si degna nemmeno di nascondere la menzogna. «Non credo che voi avrete problemi, ma non si sa mai. Io sono a posto. Faccio un giro per i laboratori a vedere se c'è qualcuno che si sente male.»

«C'è da sentirsi male?» domandò Nave, perplesso.

«Oh, sì. Da piegarsi in due, se si è troppo sensibili.»

Gli altri del gruppo non si guardarono indietro, presero il loro sorso di 'acqua' osservandosi perplessi. Ma tutti credevano abbastanza ciecamente allo stregone-Allen, super-Allen, l'uomo che si calibrava con i rilevatori di volui, essendo un rilevatore egli stesso. Allen sapeva.

Cosa sapesse era un mezzo mistero, ma Allen sapeva. Aveva un cartellino della difesa e il diritto di veto su qualsiasi operazione condotta in quell'esperimento proprio per questo.

Non esattamente il diritto di veto, avrebbe corretto Allen. C'erano delle condizioni da rispettare – si trovava lì leggermente contro la sua volontà. Anche se iniziava a farci il callo – e, in un certo senso, era emozionato all'idea che finalmente stessero per compiere un passo così significativo, in quel progetto.

Si issò sulle scalette con un grosso respiro.

«Quando torno incidiamo.»

Nave annuì, dirigendosi verso il terminale di controllo. Dovette stare attento a non inciampare – erano sempre così, quegli esperimenti: cavi ovunque, tastiere, fogli, monitor di svariate annate, ancora cavi, viti sparse assieme a fil di ferro e attrezzi sparpagliati per il pavimento - e, appesi per lo stanzone, cartelloni alternati a vignette ed estintori.

Un caos. Che Nave conosceva come le sue tasche.

***

I tre si sedettero al tavolino, Ema cercando di attirare l'attenzione del barista per avere il quinto caffè deca in tazza grande con latte a parte e una spolveratina di cacao – e tre bustine di zucchero, per favore. Grazie.

«Ema, scusa, prima che mi dimentico – mi hai portato le fialette?» domandò Amanda, sistemandosi la borsa in grembo. Ema annuì, sorridendo.

«Credo che le ultime tre abbiano preso su un po' di odore di zolfo.»

Alessandro lo guardò di traverso.

«Mi è scappato un esperimento.» cercò di giustificarsi con Amanda. Flettendosi malamente aprì lo zaino – Ema era uno di quei sessantenni che vanno in giro con lo zaino – e, dopo un lungo cercare, recuperò le fiale che aveva preparato per Amanda.

«Sempre lo stesso che ha fatto saltare l'allarme, immagino.»

«Ovviamente.»

La donna non ci fece caso. Prese il pacco di fiale, soppesandolo, e notando che nella sua borsetta non ci stava – decisamente no. Oh, beh, poco male. Di sicuro ce n'erano abbastanza per lei e suo figlio.

«Come va a Oslo?»

«Fa freddo.» sorrise, leggera. Il tempo le era passato addosso con calma e giudizio. Non era una donna che portava gli anni benissimo, ma la sua età era comunque complessa da indovinare. Un volto maturo sotto gli occhiali che metteva e toglieva un po' a caso, un corpo in salute e abbondante, corti capelli ramati e vestiti leggermente demodè. Era bassina, ma ancora qualche centimetro oltre ad Ema. Il quale, fra l'altro, pareva proprio che per compensare la sua mancata crescita in altezza avesse deciso di allargarsi. Ancora un po' e rotolava.

«Ma si sta bene.»

Alessandro corrugò la fronte, concentrato.

***

C'era, in effetti, un operaio che non stava affatto bene. Avrà avuto trent'anni, calcolò Allen: si avvicinò al capannello di colleghi che gli si era costruito attorno, cercando di farsi spazio.

«Tutto bene?»

L'uomo inspirava ed espirava lentamente, il volto leggermente sudaticcio. «Sopravvivo.»

«Tieni.» gli fece, porgendogli una bottiglietta.

«No, non serve.»

Allen si infilò, silente e discreto, nella mente dell'uomo: notò solo da lontano uno stallone nero intento a correre, infuriato, su e giù per un prato arso dal sole. Si allontanò, prima che l'animale potesse anche solo notare la sua presenza. Tanto gli bastava.

«Fidati, ti dico che serve.»

L'altro lo guardò, le palpebre gonfie. «State facendo casino giù, eh? Che state combinando?»

«Esperimenti.»

«Ma va, non l'avrei mai detto.» fece quello, strappandogli la bottiglietta d'acqua di mano. «Poi si stupiscono se in paese pensano che qui si stia costruendo un nuovo tipo di bomba atomica o stronzate simili.»

Allen sospirò.

«Qualcun altro in condizioni simili?»

Quelli si strinsero nelle spalle.

«Almeno 'sto schifo funziona.» commentò l'operaio, rendendogli la bottiglietta svuotata a metà.

«Non preoccupatevi, non è pericoloso. Alla peggio si sta un po' male.»

«Alla peggio.»

Alla peggio.

Palle, idiota. Lo sai benissimo che alla peggio la faccenda si fa molto più violenta. Oh, ma le misure di sicurezza ci sono – quelle che erano riusciti a prendere, per lo meno. Lo stanzone, ad esempio, era ricoperto da strati di aria compressa – l'unica cosa che si sapesse non fosse perfettamente trasparente ai volui. A parte qualche composto raro e decisamente troppo infiammabile – usato, piuttosto, per i rilevatori. Ma quasi nulla batteva l'aria, e vai te a sapere perché – questo la diceva lunga sulle loro conoscenze riguardo le proprietà dei volui. Negli stress test non avevano usato la barriera d'aria compressa al massimo, se non all'inizio: per il resto era a regimi minimi. Quindi, in realtà, c'era molta più protezione.

Forse non sarebbero nemmeno arrivati fino a Roma, i volui.

E alla peggio, pensò Allen, qualcuno va in metamorfosi.

Alla peggio.

Alla peggio tutti i demoni e le bestie d'Europa vanno in metamorfosi, ok. Lui compreso.

Scese per il tunnel, chiudendosi metodicamente i portelloni alle spalle. Ci mise un po'.

Xander era al sicuro, per lo meno.

Pensa a questo, si ripeteva.

Ieri sera ne ha mandata giù talmente tanta, di quella roba, che non c'è verso possa reagire a nulla.

A Xander non può succedere niente.

Sì, ma a te?

Scese con un balzello gli ultimi scalini, osservando lo stanzone in cui il gruppo lo attendeva – Nave di qua, Stille di là, concentrati come non mai ma iper ricettivi, voltatisi di scatto non appena era comparso.

«Allora?»

Lui continuò ad ispezionare lo stanzone, prendendone, ad occhio, le misure. Si tolse lo zaino e afferrò una bottiglietta d' 'acqua', scolandosela tutta a lunghi sorsi.

«Va bene.»

Alla peggio qualcuno si sente male.

«Incidiamo.»

Alla peggio.

_______________________

CHIARIAMO – per chi mi conosce, ben sa che i miei aggiornamenti non sono affatto ben scanditi, quindi.. finché riesco ad aggiornare così in fretta bene, ma ovviamente è un'anomalia. Effetti dello sblocco, temo che svaniranno abbastanza rapidamente. Spero di no, comunque,

Buttare personaggi lì a caso... doin it wrong.

Nel senso: mi servono. Intendo approfondirli tutti, uno per uno >.<' [dannata la mia propensione alla coralità] – ma capisco che al momento possano sembrare così, messi a caso, tanto per far corredo. Ok, al momento sono di corredo. Un po' tutto è di corredo – ma, sinceramente, volevo far vedere che 'sti disgraziati avevano una vita sana e normale, un po' così, e comunque il sabato sera Andava narrato. Insomma.

Ho La Coda Di Paglia.

Lasciamo stare. Godetevela e basta. Se no specificate. xD

Ringrazio solennemente TuttaColpaDelCielo per la recensione;

so che ho evidenti difficoltà ad amministrare le informazioni, all'inizio ce n'erano veramente troppe, come tu dici. Lo so, forse è stata una tecnica poco furba, ma in alternativa avrei dovuto abusare violentemente dei flashback – cosa che farò egualmente, quindi così contavo di ridurre il danno. Anche perché, appunto, la combriccola degli anni 70 è centrale. Non so se ho fatto una cosa furba a metterli a fare i professori; o meglio, la storia nasce così, ma immagino sia molto più vicina ad un trip stile seconda media che a una storia originale... d'altro canto, mi domando: perché no? Insomma.

Si vede che sono profondamente insicura, eh? x°D ragazzi, son presa male...

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Capitolo 6
*** 7. Ferita ***


7



7. Ferita



Alessandro  si passò  le dita sulla fronte, gli occhi socchiusi e contornati dai segni di una notte passata a pensare. Dopo qualche istante si tolse la coppola dalla testa, meditabondo, scrutando con fare lontanamente assorto il portone del liceo.

La sua tana, i suoi ragazzi, la sua vita. Metà di essa, per lo meno – no, più di metà.

Per la prima volta da almeno vent’anni il professor Riva non aveva la benché minima voglia di entrare in classe e fare lezione. Indipendentemente dagli allievi.

Si dondolò sulle gambe, assorto.



La superficie del banco era piacevolmente fredda. Gonfiò le guance d’aria, sollevando minimamente il capo dalla posizione di totale abbandono che aveva assunto: zigomo pressato contro la plastica, volto quasi del tutto occultato dai boccoli sparpagliati in modo casuale, braccia a penzoloni, posizione ben lontana dall’essere composta sulla sedia. A stento, nel suo campo visivo, compariva il margine della porta dell’aula - occultato, ogni tanto, dall’andirivieni dei compagni al pascolo.

Sara sbuffò.

«Quindi non vengono?»

«Nho.»

Nora, seduta dietro di lei, si sporse, allungando il braccio per togliere uno degli infiniti riccioli dell’amica dai suoi occhi. Dopo aver contemplato per un isto il risultato, ripeté il movimento, cercando di sgomberarle lentamente e metodicamente il volto. 

«Che vigliacchi. Sono io quella che stava male.»

«Non che Dimitri e Ste fossero tutta salute...»

«Ma – mph.» La ragazza si voltò dall’altra parte, vanificando gli sforzi certosini dell’altra – il volto nuovamente inondato da ciocche di ricci scuri. «Elisa non ha scusanti.» mormorò, chiudendo gli occhi.

Nora si ritrasse, rinunciando definitivamente a cercare di intrattenere un discorso coerente con Sara: quando si metteva d’impegno, sapeva lamentarsi ad arte. La scrutò di sfuggita, mentre controllava la porta dell’aula, domandandosi perché non avesse optato anche lei per ‘restare a casa’ – o, come si confaceva di più all’occasione, rintanarsi in un posto con dei divani particolarmente morbidi e fiumi di caldo caffè.

«Riva è scomparso.»

«Mph.»

«Non l’ho mai visto fare così tanto tardi.»

«Starà marinando pure lui.»

«Sara...»

«Uff.»

Schiuse gli occhi, rimirando il grigiore oltre la finestra con la stessa attenzione con cui si fissa apaticamente una soap. 

Vigliacchi. Non avevano il diritto di saltare bellamente lezione. Diamine. Se non lo faceva lei - che, andava ripetendosi, era stata non male, di più - , perché diavolo dovevano farlo loro?

«Sai, ti si sente rodere sin qua.» sussurò flebile l’amica.

Sara si risistemò composta, scuotendo il capo.



***



Allen passò un tempo imprecisato davanti allo specchio, quella mattina. Si fece la barba con calma, insolitamente vicino al vetro – l’occhio, attento, che passava in rassegna la pelle del volto. Anche dopo aver finito la routine mattutina – svoltasi decisamente a rilento – rimase a lungo immobile, impegnato nello studio dell’immagine riflessa. Si passò più volte le mani sugli zigomi, sulle arcate delle sopracciglia - si massaggiò le tempie, respirando profondamente.

«Xander, sei ancora lì?» domandò, la voce abbastanza elevata da oltrepassare la porta del bagno.

«Sì.» rispose quello, in un mugugno.

«Hai intenzione di fare qualcosa, oggi?»

«Cos’è, retorica?»

L’uomo non badò minimamente al tono del ragazzo, catturato piuttosto da un bagliore ambrato: si avvicinò di scatto allo specchio, osservandosi attento l’iride.

«... zio.»

Sì. C’era. C’era qualcosa.

Schioccò la lingua sul palato, allontanandosi, cercando di tornare ad osservare la sua immagine nell’insieme.

«Ohè – vecchio!»

«Eh!»

«Sveglia!»

«Xander, bada a come parli –» tentò di improvvisare un tono autoritario, abbastanza poco convinto di esserci riuscito realmente.

«Io? Sei te che inizi le discussioni e non le finisci.»

Allen sbuffò, ingobbendosi.

«Vai ancora a scuola, sì o no?»

«Sì – sai, sono minorenne

«Non mi pare che centri con gli obblighi scolastici –»

«Vado a scuola.» sibilò il ragazzo, tagliando corto.

«Allora perché sei ancora in casa mia?»

«Perché il cesso è occupato da più di mezz’ora!»

L’uomo tacque, sopprimendo un insulto. Tornò a guardarsi, per l’ennesima volta, allo specchio: era tutto normale. Normalissimo. Non fosse stato per quella piccolissima corona giallastra che gli abbracciava la pupilla, lontanamente oblunga. Una cosa innotabile – anzi, fisiologica. Era decisamente umano avere una colorazione dell’iride del genere. E la leggera asimmetria non si vedeva nemmeno: forse lui stesso se l’era inventata, cercando ciò che non c’era.

Eppure si sentiva strano. I volui in eccesso oramai erano quasi inpercepibili, la situazione si presentava più che normale. Si era imbottito di ‘acqua’ – com’è che la chiamavano, all’epoca? Acqua santa? Ma solo per gioco, non aveva un nome reale. ‘Quella roba’. Che cambiava, a seconda del branco - oh, bhe, la loro era la migliore, ma...

«Quante ore vuoi farmi saltare, zio?»

«Attaccati.»

Continuava a perdersi nei suoi pensieri, richiamato di volta in volta alla realtà dalla voce strascicata del ragazzo.

L’importante, concluse, era che non si notasse nulla. Non era il caso né il momento di mettersi ad indagare. Lo avrebbe fatto dopo, quando non c’era un ancoraperpocominorenne a giragli per casa, lamentoso e ignaro di quello che stava combinando - e di cosa stava rischiando.

              ‘ Il nostro gattino nero – attento, che se ti attraversa la strada porta sfortuna! ‘ – e risate.

Aggrottò le sopracciglia, cercando di far tacere quell’eco femminile che aveva preso a danzargli in testa.

Uscì dal bagno, girando lentamente la chiave: Xander lo scrutava dalla poltrona dell’open space, dove giaceva  con un polpaccio abbarbicato sullo schienale.

«Muoviti.»

«Da che pulpito – !»

Il ragazzo si alzò stancamente – Allen, rapido, prima ancora che quello potesse concludere il movimento, lo strattonò per la felpa e lo buttò oltre la porta con una sottospecie di pedata.

«Guarda che è maltrattamento di minore – » mugugnò quello, cercando di mantenere l’equilibrio mentre l’altro lo tirava di qua e lo lanciava di là.

«Muoviti.» rimarcò Allen.



***



Alle otto e venticinque anche Sara iniziò ad avere qualche pensiero circa la probabile assenza di Riva. O meglio, l’improbabile assenza – che fine aveva fatto? Quell’uomo aveva tenuto lezione persino con gesso e collare: doveva rischiare la vita per non comparire a scuola – vedere per credere. Uno spettacolo, sì, ma alquanto scocciante per chi spera in una pausa ogni tanto fra un autore latino e l’altro, tanto per riprendere fiato. Ma no, Riva non mancava mai, salvo casi spudoratamente eccezionali. 

Mentre Nora, già in agitazione da dieci minuti, passeggiava su e giù per l’aula domandandosi se fosse effettivamente il caso di andare a chiedere notizie al bidello, Sara si tirò su dalla sua posizione da vegeto apatico e decise di guardarsi attorno - forse per la prima volta da quando aveva messo piede a scuola, quella mattina. 

Il banco di Dimitri rimaneva desolatamente vuoto. A parte ciò, la luce grigiastra del giorno illuminava a stento la stanza, in cui la penombra aleggiava. Poco più in là, in primissimo banco, Mattia dormiva.

Tipico di Mattia.

«Vado a cercarlo.» concluse Nora, dopo un lungo titubare. La sua voce, perennemente fioca, si fece a stento largo fra il brusio dei compagni – che però non la ignorarono, ma semplicemente annuirono distrattamente. 

Nora era così, pensò Sara, rigirandosi per l’ennesima volta sulla sedia per tornare ad acquisire una posizione comoda e scomposta sul banco: parlava poco e sussurrava, ma non per questo era remissiva. Un caso curioso, tutto sommato – ma neanche troppo. Forse era la chiara dimostrazione che, in contesti abbastanza civilizzati, non serviva urlare per farsi ascoltare, ma bastava l’aura di buon senso e tranquillità accompagnata da minimo di desiderio di comunicare anziché lo stretto bisogno imporsi.

La ragazza scosse minimamente il capo – che discorsi fai, Sara? Basta pensare, per una buona volta: ti farebbe bene. Dicono tutti così.

Sbuffò.

Non era certa del fatto che tutti i suoi neuroni fossero connessi. Era stanca, ancora leggermente provata dal sabato sera e dalla convalescenza domenicale. Qualunque cosa le fosse presa - perché si rifiutava categoricamente di pensare che fosse stato quel po’ di alcol ingerito a far tutto quel caos - continuava a trascinarsi nel tempo, fiaccandola. Più o meno come un antibiotico.

Ed anche la testa, se lasciata vagare per conto suo, iniziava ad andare alla deriva verso lidi inaspettati. Tanto per fare un esempio, si ritrovò a fissare gli occhi chiusi di Mattia, semi nascosti dalla frangia rossastra, senza motivo alcuno - forse, semplicemente, perché erano la cosa ferma più vicina da fissare.

Il mondo, il tempo - tutto andava a rilento.

Piatto, ritmico – no, termine sbagliato, com’è che si diceva? Monotono. Il massimo dell’emozione era l’assenza di Riva. Interessante.

Com’è che non ci aveva mai pensato prima?

Scosse nuovamente il capo, disorientata dai suoi stessi pensieri. Forse stava per addormentarsi - erano quel tipo di discorsi che iniziano a navigare per la testolina giusto un attimo prima di cadere fra le braccia di morfeo: insensati, lasciati liberi di galoppare mentre la coscienza o chi per lei si rilassa e manda a quel paese la giornata e lo stress.

Continuava a fissare Mattia.

Immotivatamente.


Vide la figura della Focardi davanti al banchetto del bidello, intenta ad annuire mogia – il volto in malcelata apprensione.

Tanto scalpore faceva un minimo ritardo? si domandò, avanzando verso di lei con un sorriso abbozzato quasi per sbaglio. «Perché non sei in classe, Nora?»

Quella si voltò con minuscolo scatto, sorpresa - poi perplessa, infine tranquillizzata.

«Scusi.» mormorò, affatto dispiaciuta. «L’ultima volta era stato investito dal tram, iniziavamo a temere il peggio.»

«Iniziavi, suppongo.»

«Hm – em. No...?» L’affermazione del professore la disorientò, tanto da farle alzare in modo insolito il volume di voce.

«Arrivo fra cinque minuti, scusate.» tagliò l’uomo, prima di mandare troppo in agitazione la studentessa. Eppure parve non riuscire a contenersi nell’aggiungere, con una punta di sarcasmo: «Questa volta il tram mi sono limitato a perderlo. Sarà per la prossima volta.»

«Ma –» Nora sfiatò, rinunciando a rispondere. D’altronde il tono di Riva era – al solito – talmente pacifico che quella non poteva altro che essere una battuta buttata lì per caso. L’uomo le sorrise, salutando poi il bidello e voltando le spalle per allontanarsi verso l’aula professori.


Sara riaprì gli occhi, dimentica del preciso istante in cui li aveva chiusi. Lo sguardo, ad ogni modo, rimaneva fissato sugli occhi di Mattia. Si risistemò sulla sedia, domandandosi se non fosse il caso di provare, almeno, a distoglierlo – voltandosi dall’altra parte. Tanto per non far venire idee strane agli altri della classe, con tutto quello scrutare.

Eppure pareva troppo faticoso a farsi.

Forse, tutto sommato, richiudere le palpebre era un’opzione migliore.

       Si rivelò una pessima idea.


La sensazione di disagio non se n’era mai realmente andata: in serata s’era affievolita, facendosi morente oramai nella notte – ma persisteva, lontana, vaga, insistente, mai totalmente muta.

Appese il giaccone, scuotendo il capo.

Forse era il momento di smettere di pensarci, lasciando sedimentare le idee. Se fino ad ora non era riuscito a venire a capo della situazione, probabilmente non ce l’avrebbe mai fatta – non con i pochi dati e dettagli di cui disponeva. Ema era già partito a caccia di informazioni, setacciando contatti sparsi in tutta Italia e in tutto il mondo: si trattava, di fatto, solo di avere pazienza.

E cercare di liberarsi di quella sensazione.

Attento, Ale. Attento.

Cosa sta succedendo?

Volui ovunque, ancora. Oramai rarefatti, ma – oh, c’erano, c’erano, non riusciva ad ignorarli. Non facevano niente. Forse. Forse sì?

Sbuffò, lo sguardo alla ricerca di un orologio. Basta, adesso. Adesso basta.

Adesso.

Basta.

No.

La mascella gli si irrigidì di sua sponte, i denti serrati e i fasci dei muscoli tesi, pronti ad esplodere.

Silenzio.

Il fiato gli morì nei polmoni, immobili, poi pressati dal rapido risucchio del diaframma.

Buio.

E silenzio.

E immobile.


Non capì se il mondo era diventato nero prima o dopo aver serrato le palpebre. Gli occhi le facevano male, i muscoli talmente tesi e stretti da trapanarle la testa, i bulbi oculari pressati e il nervo ottico stressata intento a mandare segnali confusionari al cervello.

Fece per muoversi, ma come osò anche un solo movimento si accorse di non stare respirando più.

Galleggiava.


Inspirò con la foga di chi è stato troppo tempo sott’acqua, perdendo l’equilibrio e dovendosi riassestare sulle gambe, intorpidite, per non cadere direttamente a musata sul pavimento.


Cercò di riaprire le palpebre, fallendo un paio di tentativi: al terzo ebbe la sensazione di stare sollevando un peso abnorme mentre qualcuno le spaccava il cranio in due. Sfocata e grigia le giunse l’immagine della stanza, Mattia davanti a lei, silenzio – interrotto da un fischio lontano. Ogni atomo sembrava immobilizzatosi. Era tutto fermo.

Poi riprese a muoversi, di colpo, con uno strappo.

Mattia aprì gli occhi, levandoli su di lei.

Erano occhi rossi.

No, non erano rossi.

Erano occhi da cui sgorgava sangue.

No.

Sì.

Anche.

Rosso.

Erano i suoi occhi a lacrimare, si accorse – dipingendone l’immagine, imbrattando di scarlatto ogni cosa che vedeva.

Mattia la fissava, l’espressione in volto del tutto intraducibile.

Sì, era sangue. E il nero, attorno alla sua figura. E il nero e basta. 

Un grido lontano, acuto. Un iride nero.

Uno sbuffo di narici.

Un colpo.

Sara si ritrovò a mezz’aria, squilibrata, intenta a cadere: terrorizzata fece per raggomitolarsi, onde evitare di subire troppo male il colpo.

Il suo corpo non la ascoltò minimamente: i muscoli le si mossero elastici sotto la pelle, agili, rimettendola in equilibrio e rapidamente in piedi senza che lei non riuscisse nemmeno a comprendere con quali movimenti ciò era potuto avvenire. Apprezzò per un istante il piacere del pavimento, solido, sotto i piedi equilibrati: fu come un rimbalzo, magistralmente assestato - si ritrovò in avanti, lanciata, nuovamente a mezz’aria.

Poi la sua testa decise che il dolore era troppo grande per continuare a registrare dati al riguardo.






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Capitolo 7
*** 6. Taglio ***


6

6. Taglio



«Dio, sto male.»

«Ma sentila.»

Sara stava raggomitolata sul divano, tenendosi le ginocchia al petto, la testa china – un riccio. Nora, inginocchiata davanti a lei, le porgeva un catino.

Stefano aveva avuto giusto il tempo di farsi passare il male dallo stomaco alla testa prima di vedere Sara iniziare, lentamente ma inesorabilmente, a piegarsi in due.

«Postumi ritardati. Ti sta bene.»

«Vai a cagare, Ste.»

Dimitri, seduto al tavolo a torso nudo da almeno un'ora, respirava lentamente, guardando la figura di Sara chiudersi sempre più.

«Dev'essere qualcosa che abbiamo mangiato prima.» mormorò il russo.

Stefano si voltò verso di lui, notandone il pallore. «Anche tu?»

«Bene non sto.» fece, a denti serrati. «Ma non mi pareva fosse così male, sinceramente.» Socchiuse gli occhi, inspirando.

«Forse era il latte.»

«No.» mormorò Nora, cercando di non parere troppo offesa. «L'ho comprato stamattina.»

«Forse era il latte con l'alcol.» cercò di inventare, Stefano, su due piedi. «Acido, base... possibile?»

«Non sparare boiate, Ste.» Dimitri si sollevò in piedi, andando verso il bagno. «Dio, sto malissimo.»

Nora osservava Sara, domandandosi se non era un po' cinico essere parimenti preoccupati sia per il divano che per l'amica. Di solito Nora sapeva ben difendere il divano dagli attacchi degli alcolisti del gruppo – bastava una certa aura di santità, impartitagli da lei stessa («per favore, lasciate in pace il divano»), per tenere lontano dall'oggetto chiunque pensasse che il proprio stomaco potesse tradirlo. Ma Sara? Sara non era un'abitué del catino, come si suol dire. Forse non aveva la lucidità per decidere di andare in bagno con il giusto anticipo.

«Non mi viene da vomitare.» ci tenne a specificare la ragazza, la cui voce veniva tamponata dallo stretto contatto fra la sua testa e le sue gambe. Aveva visto Nora preoccuparsi sempre più, e in fondo sapeva che il divano era uno dei motivi della sua apprensione. Era legittimo.

«Cerrrto che no.» fece, falsissimo, Stefano.

«Non mi viene da vomitare, ho detto!» strillò, isterica. «E' come se mi avessero tirato una palla di piombo nella cassa toracica. Ah. E in testa. Anche in schiena – oh, ma piantala. Non puoi capire. Vattene, Ste.»

«Cristo, neanche stessi partorendo!»

«Sparisci!»

Dal bagno rumori molesti lasciavano intendere che, per lo meno, a Dimitri veniva effettivamente da vomitare.



***



Il fischio alle orecchie era passato, attenuatosi con rapidità: Amanda riaprì gli occhi, vagamente disorientata, deglutendo. Appoggiò sul tavolo la boccettina da farmacia, vuota, che aveva estratto con violenza dalla pochette – facendo poi scivolare gli occhi su Ale. Quello, immobile, rimaneva con una boccetta simile ancora piena in mano, pensoso – apparentemente intento a decidere se berne il contenuto o meno.

Era stata una cosa piuttosto veloce, per lei: prima lo stomaco, poi le spalle, il collo, la testa, sino al fischio alle orecchie. Non aveva nemmeno ragionato, era andata in automatico, guidata da abitudini che pensava, dopo tanto tempo, di aver dimenticato. E invece no, erano lì, salde, con lei – a ricordarle che, se una come lei si trovava nei pressi di una ferita di Gaia, quella boccetta di vetro era la sua migliore amica.

Saranno stati più di dieci anni che non ne usava una.

E Samuel, suo figlio? Stava bene?

Oh, lui era a Oslo. Scosse la testa, dandosi dell'idiota per aver formulato un pensiero del genere – tipico pensiero da mamma.

Ma allora perché Ale non si decideva a bere quella roba? Voleva resistere alla risonanza da sé? Aveva una certa età, ormai, per fare queste cose.

Amanda si guardò attorno, domandandosi se non ci fosse qualcun altro nella sua stessa condizione: ma il bar era tranquillo.

«Vado a dare un'occhiata in giro.» fece Ema, alzandosi. Era indenne – ovviamente. Ma empatico. D'altronde lui per primo sapeva cosa c'era dentro quelle famose boccette e fiale che periodicamente smistava in giro per il mondo, da decenni. Ne prese un paio dallo zaino, e si incamminò.

«Ale, vuoi prendere quella roba?»

L'uomo non si mosse, lo sguardo alto, il mento levato, come se stesse guardando l'aria. Annusava, più che altro. Immobile.

«Non capisco.» si limitò a rispondere Alessandro.

Per la donna era tutto finito: una volta preso l'anti risonante, diventava cieca e sorda al potere dei volui di Gaia. Ale no – quelli come lui riuscivano a percepirli al di fuori dei loro effetti, i volui. Per Amanda era solo dolore, fastidio, metamorfosi involontaria imminente; per Ale erano qualcosa.

«Non sono abbastanza.» mormorò l'uomo, decidendosi, infine, a bere dalla boccetta che serrava nella mandritta.

«In che senso?» domandò Amanda, continuando a scrutarsi attorno.

L'uomo si alzò, andando verso il bancone del bar. «Non sono abbastanza da far succedere niente. Tenga il resto.» lasciò una carta da cinquanta euro nelle mani del barista, che la ricevette con non poca perplessità.

«Andiamo a recuperare Ema.»



***



Allen era all'interfono da un'ora, ormai. La Stille lo scrutava con astio, guardandolo muoversi su e giù entro i pochi metri che la cornetta gli consentiva di percorrere.

«La terza è piena.» fece Nave, chiudendo con notevole sforzo la valvola di un contenitore cilindrico, grande quasi come egli stesso. Dovettero mettersi in tre per sollevarlo senza rischiare un'ernia – anzi, senza avercela garantita; il rischio rimaneva, quegli affari erano di un peso allucinante. Figurarsi se gli concedevano un robottino come agli altri, su, del terzo tunnel – macché. A mano, sul carrello.

«Vai con la quarta, veloce.» lo spronò la Stille, gli occhi scuri che saettavano dal suo portatile al terminale principale. «Il flusso si sta riducendo notevolmente.»

«Si rimargina.» fece Allen, da lontano.

«Oh, Allen. Sei fra noi, allora?» fece la donna, la voce tremula che tentava di voler parere offensiva «E dire che c'è gente che sta lavorando, qui – non volevamo certo disturbarti facendo rumore

Allen non le badò – diventava molto, molto suscettibile e incerta quando era nel bel mezzo di una presa dati o roba simile. Meglio non disturbarla più di quanto non si disturbasse da sé.

«Per ora è tutto tranquillo.» si limitò a risponderle.

Stille fece finta di non sentire, continuando imperterrita a trafficare sul portatile.

«E' importante.» specificò Allen, sbuffando.

«Sì, lo so.»

Dalla cornetta ripresero a parlare: Allen ascoltava, teso, i rapporti del SISDE.

Presumibilmente c'erano stati effetti in tutto il Lazio, Umbria, Marche – ed Abruzzo, ovviamente: malori. Pochi. Pochissimi.

Nessuno ci faceva realmente caso: gli ospedali stessi sostenevano che era una normalissima giornata. Che non c'era nulla di anomalo. Gli uomini dei servizi segreti si limitavano ad annuire e continuare a chiedere informazioni.

Li stavano schedando – anzi, ci provavano.

Allen lo sapeva.

«Non tutti andranno in ospedale» fece, il capo chino intento ad ascoltare cosa diceva l'uomo che gli riferiva i rapporti.

«Sì, lo sappiamo. Nemmeno tutti quelli che stanno male stanno male per questo. In realtà, pare che non ci sia nessun dato per correlare in modo sensato qualsiasi tipo di malore a quello che state combinando.»

«Troppo pochi.»

«Infatti. Si riassorbe tutto nella statistica.»

«Per ora.»

«A Perugia sono di tre persone al di sopra della media. Il terzo è appena arrivato.»

Allen tacque, pensoso.

Quel metodo non funzionava assolutamente come campionamento di Demoni e Bestie. Lo sapeva lui e lo sapevano loro. Loro, però, non si facevano mancare l'occasione per stilare una lista di nomi, di persone 'probabili', perché no – tanto per avere un punto di partenza. Ad ogni modo, ora l'importante era che nessuno finisse in metamorfosi. O per lo meno che la cosa non si venisse a sapere. Uomini e donne dell'intelligence, interna ed esterna, italiana ed europea guardavano, ascoltavano, osservavano ogni angolo d'Italia, e su, in Svizzera, Austria, Francia, Slovenia – pure. Controlli ovunque, ma di sicuro mai abbastanza radicati. Sfuggiva sempre qualcosa. Era sempre sfuggito a tutti.

Ma l'importante era che non si venisse a sapere – tanto bastava, per ora.

Allen fece un respiro profondo, scostando lentamente gli occhi su Stille: la donna, agitata come al solito, sedeva facendo tremolare la gamba e serrando il pugno sinistro davanti alle labbra, strette. Povera Stille, pensava Allen. Faceva finta di essere morbosamente interessata all'esperimento, ma si vedeva lontano un miglio che la sua agitazione veniva dalla sola idea che qualcuno si potesse far male, in quel giochetto che stavano facendo. Che fare, Stille? Che fare?

Fidarsi ciecamente dello stregone-Allen, che, non si sa bene come, garantisce che alla peggio viene un po' di nausea e giramento di testa?

Che diavolo ci fai qui, Stille? Perché non sei a Ginevra, o al MIT, o al Fermilab?

Allen tornò a fissare il pavimento, stringendo le labbra.

Almeno a Xander non può succedere niente.



***


S'incamminarono lungo la strada, cercando di notare se, per caso, c'era qualcuno di apertamente dolorante sul loro cammino. Non si poteva fare molto di più, a dirla tutta – ma almeno aiutare chiunque potessero, quello sì.

Alessandro si era drizzato tutto, pareva irrigidito, improvvisamente ritornato alle sue mansioni di capo della banda: responsabilità, responsabilità, responsabilità. Non sapeva nemmeno più se sapeva amministrarle – le responsabilità di un capobranco andavano ben oltre quelle di un professore, erano tutt'altra cosa. Diverse, profonde – difficile trovarsi in situazioni del genere, in un liceo. Difficile provare quella stretta che c'era ogni volta che qualcuno finiva col farsi male o rischiava di far saltare la copertura – oh, bhe, succedevano cose strane anche nelle scuole, era innegabile, ma... era un'altra cosa. Il suo istinto di grande e grosso protettore del branco si era destato, ed era una sensazione vecchia, quasi ancestrale, a cui non era più abituato.

Faceva dondolare gli occhi fra la gente che occupava i marciapiedi, indagando, scrutando oltre le le vetrine dei negozi, dentro le automobili, controllandone gli occupanti.

«Non è una ferita.» continuava a ripetere, il tono di voce basso, oscillando fra l'attonito e l'incredulo, fino alla perplessità sconvolta.

«Anche qua?» domandavano Amanda ed Ema, altrettanto perplessi.

«E' ovunque.»

Volui, densissimi, voui di Gaia – ovunque, ovunque, assolutamente ovunque. Era come un vento di scirocco, lento, costante, caldo: niente a che fare con le ferite. Solo volui, troppi volui, ma non abbastanza da scatenare primi richiami o altro – ce ne sarebbero voluti, mh, almeno dieci volte tanto, in effetti. Ma diamine, se si sentivano. Erano in quella dose che non fa accadere nulla, se non mandare momentaneamente in tilt il sistema nervoso, che non capisce più cosa sta succedendo – umano? Animale? Metamorfosi o no?

Quasi.

Ma no.

Era innaturale.



***



«Oilà.»

La ragazza si chiuse la porta alle spalle, cercando di non fare troppo rumore.

«Oilà. Tutto bene?»

Sara strinse le labbra, cercando di non caracollare troppo nell’incamminarsi verso camera sua.

«Sì.»

Suo padre, diligentemente, fece finta di non aver notato niente.

«Vado in camera.» continuò la ragazza, cercando di raggiungere la sua tana - che, nella sua visione del mondo, si era fatta inauditamente lontana dall’entrata di casa.

«Pranzi?»

«Mmh.» Dannata domanda. Dannata domanda. «Sì.» Rispose, in un soffio, pregando che il suo corpo non prendesse troppo male la notizia. «Serve aiuto?»

«No, no.» tagliò rapido.

«Come vuoi...» Anzi. Meno male. Come ci si fa ridurre così male, Sara? Dimmi, come?

Aveva passato l’ultima mezz’ora raggomitolata sul sedile dell’autobus guardando in basso, mentre ogni muscolo, organo ed osso della sua persona la mandava a quel paese, in modo reiterato. Un’intossicazione alimentare? Ma tutti hanno mangiato tutto, dannazione. Dimitri era giustificato, aveva bevuto - prima o poi doveva cedere anche lui, russo o non russo che fosse. Ma per quel che riguardava lei, tutto quel male non trovava alcuna specificazione.

Al di fuori del Karma, come aveva suggerito Stefano.

Che schifo di situazione, pensava Sara. Dannazione. A farsi vedere così male di domenica mattina si rischia seriamente di passare per degli alcolisti. Suo padre era allegramente disattento, per fortuna - ma è difficile nascondere ciò che è spudoratamente palese: star male così violentemente è difficile da occultare.

Dannazione.


Dal canto suo, il padre di Sara tirò le orecchie, ascoltando, attento, i movimenti della figlia lungo il corridoio. Quando gli parve fosse sufficientemente lontana, allungò lentamente il collo, facendo capolino dalla porta della cucina: fece appena in tempo per vedere la schiena ingobbita ed esausta della ragazza scomparire dietro la porta a soffietto della sua stanza, ma tanto bastava: prese un piccolo appunto mentale, tornando ad impastare polpette.

Dopotutto era la seconda volta che la vedeva così. Per una sedicenne, tutto regolare.




***



Il volto della Stille cercava un’espressione che riuscisse a mostrare contemporaneamente soddisfazione ed angoscia. Difficile, molto difficile: infatti non ci riusciva granché. I suoi muscoli si muovevano in continuazione, le sopracciglia salivano, scendevano, mostravano un istante prima contrito cipiglio e subito dopo un’allegria quasi malsana, estasiata, esaltata.

Allen la guardava con la coda dell’occhio trafficare al portatile, mentre Nave e gli altri finivano di portare via le enormi ‘bombole’ che avevano riempito. Lo sguardo finiva sempre, inevitabilmente, al cellulare spento che affiorava dalla tasca dei pantaloni.

Quanto ancora doveva aspettare, prima di poter uscire?

Era difficile non notare quanto Allen scalpitasse.

«Vai, Allen.»

L’uomo aggrottò le sopracciglia, scrutando perplesso la Stille.

«Non è che devo chiederti il permesso, eh.» precisò.

«Però sembra.»

Allen sbuffò, girando in tondo per l’ennesima volta, in un cerchio che ormai conosceva come le sue tasche.

La piccola ferita artificiale che avevano creato si era rimarginata del tutto: questo sarebbe bastato per poter dire ‘ciao, addio’ a tutti e tornarsene in quel di Roma senza guardarsi indietro. Ma ancora piovevano i rapporti del SISDE, che Allen assolutamente intendeva ascoltare. E ancora era altissima la densità dei volui nello stanzone e, quasi sicuramente, fuori. Ci sarebbe stato di che controllare per giorni, forse mesi - ma non era quello il suo lavoro.

Lo sapeva.

Lui doveva sol fare da spalla. Aiutare. Valutare. Suggerire.

Consulente.

Che termine ignobile.

Sei costretto a dire la tua e sei quasi matematicamente certo che non ti ascolteranno. Mai.

Avrebbe voluto controllare, controllare tutto. Avrebbe voluto poter avere il vero diritto di veto, non quello finto. Avrebbe voluto tante cose.

Non poteva farne praticamente nessuna.

«Va bene. Vado su.»

La Stille annuì distrattamente, mentre il suo volto continuava in quella ginnastica espressiva che la faceva saltare ritmicamente da uno stato d’animo all’altro.


«Ma stasera posso venire da te, allora?»

«Sì, certo.»

Vittoria. Xander strinse il pugno, decisamente soddisfatto.

«Tutto ok?»

«Ti ho detto di sì.»

«Oh, Scusa.» fece Allen, marcando di acidità quello ‘scusa’ decisamente mal piazzato.

«Quando finisco in ospedale ti faccio un fischio, ok?»

«Che idiota. Ci vediamo stasera.»

«Certo. Ciao.»

Xander sbuffò, ricacciando il cellulare nella tasca dei jeans larghi e slavati. Si passò la mano sulla testa, cercando – conscio di star perdendo in partenza – di sistemarsi di capelli, che a momenti gli finivano negli occhi.

Avrebbe dovuto tagliarli.

Ma non lo avrebbe fatto: era curioso di vedere fino a quando lo zio avrebbe resistito. La cresta non gli era piaciuta – ma i capelli lunghi, invece? O forse farlo radere a zero, allora, era stato un semplice atto di forza per chiarire chi era il capo della banda e chi il sottoposto?

Mah.

Psicologi.






____________________________________


[battete le manine perchè sono riuscita ad accorciare il capitolo. come? bhe. tagliandone uno in due, mi pare Evidente. T_T’’’ ma no, dai, è venuto abbastanza bene. Credo. Solo che al momento se vi rompete le palle perchè NON SUCCEDE UN CA**O DI NIENTE vi capisco, e domando scusa. T^T pazienza, pazienza - qui ci vuol pazienza. diciamo che al prossimo... ci sarà più attività u_ù’’’ ecco.]


btw, ho rigirato un po’ la pseudodescrizione di sara, perchè come l’avevo fatta era veramente schifosa. Mi sa che Sara sarà (ahahahah... -.-’’) un personaggio molto... lento. non saprei come altro definirlo.


Detto questo... Oddio, certo che i servizi segreti italiani sono un casino @.@ per non parlare del fatto che – argh – sono stati riformati nel 2007, cambiando tutte le sigle; mentre la storia, per ora, è nel 2006 …

anche se devo ammettere che il fatto che siano stati riformati prrroprio ne 2007 =Q_ casca SCHIFOSAMENTE a fagiolo. Comunque. Riporto un po' di sigle tanto per far chiarezza:


SISDE (ora AISI) – servizio per le informazioni e la sicurezza democratica
SISMI (ora AISE) – servizio per le informazioni e la sicurezza militare

CESIS (ora DIS) – comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza

COPACO (ora CISR) – comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti


Per quanto riguarda il SISDE, qui citato: «I suoi compiti erano finalizzati a difendere la sicurezza nazionale e delle sue istituzioni da qualsiasi minaccia, operando principalmente in Italia, curando l'attività di spionaggio. « (wikipedia)


specifico: non sono una grande conoscitrice dei meccanismi dei servizi segreti; cerco di informarmi come posso. Se notate svarioni siete, davvero, caldamente invitati a riprendermi prima che finisca col basare tutta la storia su un errore madornale O-O''' grazie :3




@wari - hemmm, ma, mhba, come dici tu, "tutti questi fili che sembrano scollegati (ma neanche poi tanto)"... affatto tanto, no. Eh, lo so. Ma è che, eh. Mi sa che la mia dose di vaga intelligenza si è esaurita con i FdO. cioè. più passa il tempo più questa storia mi pare stupida. Mi piace ma mi pare stupida. Il che fa di me una persona a cui piacciono le cose stupide, ergo una stupida :D fuggi, finchè sei in tempo! xD [autostima a -∞, e per più che valide ragioni]. no, mi fa veramente piacere, come ho già detto, che segui e che in un qualche modo ti piaccia. forse. Boh. la cosa comica è che mi sto divertendo di più a tratteggiare GLI ALTRI personaggi che non i principali. OPS.

nyoro-n.



ciao a tuttiH, comunque. :)



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Capitolo 8
*** 8. Da Capo. ***



8. Da Capo.



16 aprile 1969.
Una data che ricordava meglio di quella in cui era nato: incisa a fuoco nella sua memoria, lì – immobile, inamovibile, eterna.
Sedici aprile mille novecento sessanta nove.
Il mondo si era tinto di rosso, dapprima. E poi era scomparso.
Ricordava lo sguardo di David, attonito – e poi il buio.
Sedici aprile millenovecentosessantanove.
Aveva urlato, tremato, inspirato fino a svenire di nuovo.
Secidiaprile millenovecentosessantanove.
Sangue, ovunque: occhi, naso, bocca, orecchie, camicia, unghie. Sulla lingua il sapore del ferro, la furia nel cuore che batteva, estenuato, all’impazzata.
Panico, e gli occhi di David.
Aveva cercato di scappare – per fortuna, David era sempre stato particolarmente portato nel placcare la gente.
Quel giorno Alessandro Riva avrebbe voluto morire.
Forse, si convinse in seguito, era accaduto realmente.
Era morto.
Ed era rinato.

Sediciaprilemillenovecentosessantanove.

Questo pensò Alessandro Riva, in quel piccolo, minuscolo ed inutile istante.
Quando riuscì a fermarla, aveva già ripreso la lucidità.

No, Alessandro Riva non era uno che si lasciava prendere troppo dal panico. Sapeva reagire, ed essere clinico nel suo agire – per quanto folle potesse essere di volta in volta la situazione.

Sediciaprilemillenovecentosessantanove.

Per questo era diventato capobranco.

Sediciaprilemillenovecentosessantanove.

Sigillava tutti i problemi, le insicurezze, i dubbi, i sentimenti dentro di sé, e ne traeva immediatamente una sintesi oggettiva.
Tutto il resto non contava.
Alessandro Riva faceva la cosa giusta, per definizione.

Questo lo sostenevano gli altri.
Lo avevano sostenuto.
Forse non più.
Chissà.

Ottosettembremillenovecentonovantaquattro.



***

Quando riuscì ad accasciarsi sulla sedia del suo ufficio non gli parve vero: gettò la testa all’indietro, sbuffò, inspirò, sbadigliò – il tutto in modo più che rumoroso. La sua segretaria aspettò qualche minuto prima di entrare, affatto nuova a quei lamenti stanchi e decisamente poco adulti. Bussò, entrò, e lo trovò – al solito – sin troppo composto, praticamente sull’attenti.
«Agli ordini.» fece Allen, tentando di apparire in qualche modo raggiante.
La ragazza, da tempo, aveva rinunciato a capire perché costui si comportava a come se il capo fosse lei: si limitò a posare una sovrabbondante quantità di scartoffie sulla sua scrivania, ad elencargli qualche vago promemoria, e ad andarsene.
Allen storse le labbra alla vista delle carte, sospirando.
Non aveva il tempo per tutta quella roba, qualunque cosa fosse –  forse al dipartimento non avevano capito che, in questo preciso istante, bisognava solo ed unicamente curarsi di cosa il loro esperimentello aveva causato o poteva causare.
A stento si tratteneva dal chiamare la Stille – rimasta al laboratorio – per chiedere novità: sarebbe stata la quarta volta, quella mattina.
Si mise a scartabellare fra i fogli, distratto: al solito, c’erano studi più o meno intelligenti su volui et similia – alcuni articoli risalivano ad anni prima. Un classico.
Se avesse potuto ricontattare chi di dovere, si sarebbe risparmiato un sacco di letture inutili. Ma non voleva, né poteva – tecnicamente e moralmente – cacciare qualcun altro in quella situazione.
Non c’è nulla di più frustante della collaborazione forzata – una contraddizione in termini, fra l’altro.
Mentre i suoi occhi scorrevano, a tratti disattenti, righe e righe di parole e numeri, la sua mente macinava preoccupazione. Le orecchie tese, attendeva uno squillo di telefono, l’alert di un’e-mail, o qualsiasi altra cosa.
L’idea che tutto andasse bene non lo convinceva affatto.
Fra una pausa e l’altra, ricontrollava le sue iridi: con lentezza, stavano riacquistando definitivamente la loro normale forma.
Più tutto gli sembrava tornare normale, più si rendeva conto che niente, di quella presunta normalità, gli piaceva.


***

Risvegliarsi non fu cosa carina: quando ritornò in contatto con il suo sistema nervoso, se ne pentì amaramente.
Anzitutto respirava male – inspirava ed espirava rumorosamente, la trachea dolorante, un rumore fra il fischio ed il rantolo tenue ad uscirle dalle labbra. Poi ci fu il sapore del sangue che le impregnava la bocca, metallico – quasi arrugginito.
E di colpo, tutti insieme, il resto dei suoi organi: i polmoni in fiamme, il cuore in dichiarata tachicardia, le vene che pulsavano sui muscoli ricolmi di crampi.
Mi hanno investita, pensò. Non riusciva a trovare spiegazione momentanea più adatta.
O sono caduta dalla finestra.
Sentì un tremore al braccio sinistro, che si risolse in uno spasmo improvviso: stranamente l’arto non si mosse. Incontrò piuttosto una resistenza, che impedì il movimento.
Era legata.
Va bene, si disse. Sarà stato un attacco epilettico.
Si aggrappava così all’unico piccolo barlume di logica che il suo cervello le concedeva: il resto dei neuroni era impegnato a percepire, a realizzare quanto il suo corpo paresse... sbagliato. Ogni nervo pulsava, ogni tendine tirava. Si sentiva ubriaca, per certi versi: così, forse ingenuamente, s’appigliava a tentativi di ipotesi che dessero un senso a tutto ciò. Il resto era nebbia: dove, come, quando, cosa. Chi, a tratti.
E si sentiva più che incapace non solo di darsi risposta, ma anche di formulare coerentemente domanda.
«... nco ...» .... «... po’, poi ...» ...
Due voci, vaghe ed ovattate, scavalcarono il resto degli input che frenetici giungevano alla sua testa.
«... nt’anni, sai...» ... «... visto qualcuno.... ... età ... ... memoria ... normale, non ...»
Con calma, iniziò a riprendere contatto anche con il mondo esterno. Ad esempio, dopo aver realizzato di essere legata, scoprì che si trovava su di una superficie liscia e fredda.
Latente, insorse il panico.
Se ne accorse quasi per sbaglio, sentendo quanto aritmico fosse il suo respiro, quanto bagnate di lacrime fossero le sue palpebre.
Il panico era lì, e lei non se n’era nemmeno accorta.
«... chiamar –» «NO.» ... «... mai più.»
Non arrivava, si limitava a crescere - alimentato dalle sue paure, forse. Ma di paure non ne aveva. O sì?
Lo spettro delle sue emozioni era completamente distorto: a disagio si costrinse a respirare regolamente – cosa che gli costò molto dolore.
Stava male.
Era legata.
Non sapeva dove.
Non sapeva con chi.
E non aveva nemmeno il vezzo di poter andare in panico. Di provare paura.
Aveva già paura.
Era già morta di paura.
Era già nel culmine del panico.
Era già scappata.
Era come se tutto, tutto fosse già successo.
Non poteva più permettersi nulla, se non di aspettare: tutto la sommergeva, ma niente la toccava.
Avrebbe voluto voler urlare, ma non lo voleva.
Non voleva niente.
Non capiva niente.
Anche l’ipotesi dell’epilessia era svanita: della logica, non più un barlume. Rinunciaci, Sara. Tanto non ti aiuta. Tanto è falso.
Nella nebbia, la mente annega, ed il cuore trema.


L’orecchio attento e vigile di Alessandro si accorse subito della differenza, non appena Sara si costrinse a respirare regolarmente: lo girò leggermente, per cogliere meglio il rumore fattosi regolare, e si alzò.
Amanda ed Ema lo osservarono, muti, avanzare stancamente verso il tavolo del laboratorio di chimica dove l’avevano legata.
Erano almeno dieci anni che non gli vedevano le orecchie da lupo in testa.
E lui, di certo, non voleva averle.
La situazione era talmente paradossale che, senza rendersene conto, tornarono immediatamente alla vecchia dinamica del branco – quella delle situazioni d’emergenza, in cui tutti stanno zitti e ascoltano Ale – o David, ovvero l’unico che aveva il coraggio di dire qualcosa in tal caso.
Eppure sapevano che prima o poi sarebbe successo.
Gaia si feriva in continuazione.
Un periodo di calma, era ovvio, non significava niente.
«Sei sveglia?»
domandò l’uomo – il volto una maschera di serietà, in totale contrasto con il tono tranquillo della sua voce.

Sara ci mise un po’ ad accettare che quella fosse effettivamente la voce di Riva.
Continuava a respirare a fatica, per quanto fosse riuscita a trovare un ritmo. Anche il cuore sembrava stare decelerando.

Alessandro attese, sperando che la ragazza fosse già in grado di aprire gli occhi.
Ma ben presto si rese conto che era chiedere troppo. Ci sarebbe voluta, come minimo, almeno un’altra ora: si voltò verso gli altri due, inspirando profondamente.
«Ema, una buona scusa per occupare il laboratorio tutto il pomeriggio ce l’hai?»
«... tutto il pomeriggio? Un paio d’ore e la ragazza – »
«Per me.»
«Ah. Certo.»

Ma Sara si costrinse a riaprire gli occhi molto prima del dovuto.
Dopo aver sentito una porta chiudersi, cadde il silenzio. Questa volta poteva percepirlo – non era il mutismo del mondo d’un sordo, ma un silenzio calibrato, palpabile e denso: invaso dai suoi respiri rantolati, via via più tranquilli e regolari, si accompagnava alla presenza di altre due persone: un fruscio, un sospiro, tre passi, un malcelato colpo di tosse.
Violentò le sue palpebre, che, recalcitranti, s’arresero all’ordine di schiudersi solo dopo una lunga e muta lotta intestina fra il sistema nevoso ed il muscolo, che pareva atrofizzato.
Così, al nero pesto e profondo del cieco, si sostituì la nebbia sfocata e priva di senso dell’ipovedente.
Vedeva, ma non vedeva niente.
Passi si avvicinarono a lei, accompagnati da una voce femminile tanto a lei ignota quanto colma di preoccupazione.
«No, no – che fai? Richiudili, devi dargli tempo!»
La bocca impastata improvvisò qualche movimento, lento e scoordinato. Di rispondere, non se ne parlava.
La macchia nera della persona china su di lei proruppe in quello che poteva chiamare campo visivo, e lì rimase, a lungo.
Ogni tanto uno spasmo le faceva compiere qualche movimento inconsulto, prontamente bloccato da ciò che la legava, immobile.
In un sospiro rantolato, Sara si arrese all’irragionevole, al privo di senso, al totalmente oscuro ed ignoto.
Richiuse gli occhi, lasciandosi cullare dalla paura ancestrale e rassicurante che la pervadeva.

Ema tornò dopo una ventina di minuti, chiudendosi con cura la porta tagliafuoco dietro le spalle. Gettò un’occhiata alla ragazza stesa e legata sul tavolo, notando che sembrava decisamente più calma e serena di come l’aveva lasciata: anche il rantolo del suo respiro, ormai, era quasi un ricordo.
Ancora poco, e il suo corpo si sarebbe riassestato del tutto.
Certo, poi avrebbero dovuto assestarle anche la testa – ma quello veniva dopo.
Mosse qualche passo verso il centro del laboratorio, avvicinandosi agli altri: Amanda, con il volto della mamma in apprensione, osservava la ragazza, le mani congiunte ed il pollice destro intento a scorticare l’altra mano. Era sin troppo facile realizzare che, per quanto fosse sinceramente preoccupata per le sorti della giovane, la sua testa era tutta proiettata verso Oslo, intenta a fare un improbabile parallelo fra quella studentessa sedicenne e suo figlio, ancora bambino, rimasto solo con il padre.
«Immagino che ricordarti che le ferite di Gaia sono localizzate e che non c’è motivo per temere nulla per Samuel sia inu... –»
«Cosa c’entra Samuel?» domandò la donna ad Ema, dissimulando la sua preoccupazione.
L’uomo non le rispose, limitandosi a fissarla per qualche altro secondo ed infine scrollare le spalle.
«Ho recuperato un po’ di ricostituente dalla scorta che ho lasciato in custodia nelle cantine. Dovrebbe aiutare sia lei che Alessandro.»
I due passarono dal fissare Sara al fissare Ale: seduto, composto ed a braccia incrociate, su di una sedia poggiata al muro, pareva dormicchiare. Aveva l’espressione del pendolare che si è appisolato momentaneamente in treno, vigile per la fermata, ma non per questo non addormentato. Certo, le orecchie da lupo spiccavano sulla sua testa grigia, rendendo tal paragone leggermente incoerente. Amanda si accorse che anche sul collo v’era ben più peluria grigia di quella che ci si potrebbe aspettare normalmente da un cinquantenne.
«Senti, Ema...»
Quello, intanto, si era messo ad armeggiare con boccette, boccettine e taniche. Lo sguardo di Amanda, sorpreso, riconobbe i contenitori, risalenti al periodo degli anni settanta.
«Ma quelle taniche sono ancora buone?» domandò, con sorpresa – rinunciando al discorso che aveva tentato di iniziare.
«La roba vecchia è la migliore, al solito. Cerca di svegliare Ale, che ho un ago solo.»
«Sono sveglio» fu la risposta di Alessandro.
Amanda sussultò, colta alla sprovvista: solo dopo qualche istante si diede mentalmente della stupida per aver anche solo pensato che Ale potesse effettivamente dormire.
«Sono almeno dieci anni che non faccio un’endovena...»
Alessandro sospirò, tentando di alzarsi in piedi senza barcollare troppo.

E alla fine Sara si svegliò.
Dopo aver richiuso gli occhi su suggerimento della donna, s’era ritrovata, inaspettatamente, nel più profondo dei sonni.
Schiuse gli occhi, disorientata, quasi dimenticando il nugolo di sensazione in cui era avviluppata poco prima: per un misero attimo, ebbe addirittura l’impulso di sporgersi dall’ipotetico letto per recuperare un ipotetico cuscino, ipoteticamente caduto nel sonno – dato che sotto la sua testa non v’era nulla. Ma come tentò anche un solo movimento, impedito da ciò che lo legava, fu costretta a fare un rapido riassunto degli ultimi avvenimenti, ammettendo di essere, effettivamente, legata su di un tavolo in un qualche posto ignoto. E, sì, le ultime sensazioni che aveva provato non erano state affatto piacevoli.
Anzi.
Erano talmente tanto surreali da richiedere d’essere liquidate in quanto sogno – ma no: la realtà dei fatti non le lasciava scampo.
Era lì.
Legata.
Immobile.
Aveva avuto seri problemi di respirazione.
Aveva spasmi e singulti.
A dire il vero, però, ora si sentiva abbastanza bene.
E ci vedeva: questa era una novità da non poco.
La prima cosa che vide fu la tonda figura di Rondi intenta ad armeggiare con una specie di ago, un tubicino, ed un sacchetto sin troppo simile ad una flebo.
Anche questo non aveva molto senso, nonostante quanto avesse appena passato.
Il nonsense completo arrivò un attimo dopo: Riva, in piedi, intento a guardarla: serio in volto – mai visto Riva così serio.
Inquietata da tale espressione, Sara si dimenticò quasi di respirare.
Riva serio metteva in soggezione.
Ad un certo punto si sentì costretta a scostare lo sguardo, a disagio.
E ancora non aveva avuto la lucidità di chiedersi, sinceramente, cosa potesse essere successo.


***

Messo in attesa da dieci minuti abbondanti, Allen iniziò a pentirsi amaramente di quella telefonata.
Oramai non aveva nemmeno bisogno che la bidella gli rispondesse: non servivano studi comparati per capire che Xander, quel giorno, a scuola non ci aveva nemmeno messo piede.
Combattuto fra la preoccupazione e la rabbia, riattaccò.
«Deficiente.»
La segretaria, sulla porta, si schiarì la voce per far notare la sua presenza.

***

Amanda vide la mascella di Ale contratta oltremodo. Si avvicinò alla ragazza – Sara, così avevano detto che si chiamava –, per slegarla ed aiutarla a mettersi a sedere. Quella, mogia, si dimostrò più che collaborativa – in compenso, rimase muta.
«Come ti senti?» si azzardò a domandarle la donna, nel tentativo di rompere il silenzio. Come minimo, si sarebbe aspettata un miliardo di domande più o meno terrorizzate. Scoccò un’occhiata ad Ale, chiedendosi se non avesse già coercito i ricordi della ragazza, senza avvertirli. La donna sentì un moto di fastidio all’idea, nonostante, nella dinamica del branco, quella era una decisione che spettava a lui. E che avevano sempre, abbastanza volentieri, lasciato a lui.
Era bello avere qualcuno che si prendeva, sistematicamente, tutte le responsabilità. Li faceva sentire protetti e sicuri.
Ma non erano più ragazzi, e da tempo, ormai, non erano più un branco.
Ale aveva sempre continuato a prendere le decisioni per conto suo, questo era innegabile.
E taluni risultati si erano visti.
Amanda non sapeva cosa fare – in mente le si articolava una ramanzina pronta e fatta per Alessandro, che lei per prima non sapeva se avrebbe mai avuto il coraggio di pronunciare. Per intanto, zitta, si limitava ad osservare i movimenti della ragazza, cercando di capire quanto si fosse effettivamente rimessa: con la coda dell’occhio, comunque, controllava Alessandro.
Sara fece un lungo respiro, apprezzando l’avere un equilibrio ancora funzionante. Sollevata schiuse gli occhi, espirando.
«... meglio.» mormorò la giovane. Poi, riaprendo le palpebre, scrutò la donna, perplessa. Passò poi a Riva, ed infine a Rondi. «... sono svenuta?»
Le labbra di Amanda si assottigliarono, e non riuscì a non guardare Alessandro, supplicandolo di chiarire qualsiasi cosa avesse da chiarire. Di dichiarare la tattica che aveva in mente, qualunque essa fosse.
Avevano cinquant’anni abbondanti, e non c’era verso.
Nell’emergenza, continuavano ad essere un branco.
Alla donna dava quasi fastidio.
«Anche.» fece infine Alessandro, avvicinandosi ulteriormente alla studentessa.
Il tono era rimasto invariato da quello che Sara ricordava – pacato, tenue, sereno. Ciò nonostante, l’espressione del volto dell’uomo era assolutamente anomala.
La cosa la preoccupava tanto da non lasciarle il tempo di chiedersi chi era la donna presente e perché diavolo Rondi avesse una flebo in mano.

***

«Dove cazzo sei.»
«A farmi i cazzi miei.»
«Xander!»
«Non posso entrare a scuola dopo la seconda ora!»
«Palle!»
«Palle un cazzo! Avanti, telefona e chiedi!»
Allen sbatté il telefono dell’ufficio, forzandosi di non romperlo nell’impeto.

Tre minuti dopo dovette ammettere d’essere nel torto.

Sprofondò nella sedia, le mani sul volto, incapace oramai di articolare i soli pensieri.
Aveva la sensazione di essere al limite. In tutto.
Ancora un colpetto, e la corda Allen si sarebbe rotta.

Allen si sottovalutava.


***


La terra era verde, rigogliosa, erba ricolma di rugiada ed insetti – d’un colore talmente saturo da infastidire lo sguardo.
Pochi metri, poco più, ed una foresta fitta, alta, si stagliava oltre l’orizzonte.
Gli mancava il fiato – cosa che raramente succedeva.
Osservava con attenzione, inquieto. Si sentiva vicino, sin troppo vicino.
L’animale camminava, su e giù.
Su e giù.
Le spalle possenti si muovevano sotto il pelo candido: fasci di muscoli, naso arricciato e zanne in mostra.
Su e giù, su e giù.
Adirata, la tigre setacciava ogni metro, ogni angolo, ogni atomo del suo regno.
Su e giù, su e giù.
Era grossa.
Era enorme.
Le orecchie fremevano, inquiete, controllando ogni singola direzione.
Su e giù.
Le unghie estratte dissodavano la terra, che ricadendo tornava al prato, scomparendo nell’erba – come se non fosse mai stata sottratta ad esso.
Il passo rabbioso dell’animale sembrava non tangere quel terreno.
Su e giù.
Su e giù.
Alessandro non fece in tempo a rendersi conto di quanto vigile e attento fosse l’animale. Di quanto pronto e rapido, irrequieto, guardiano più solerte di quelli che avesse mai incontrato prima d’ora.
E’ che sei vecchio, si sarebbe detto - ad averne avuto il tempo.
La tigre lo percepì con ogni sui singolo senso.
Non aveva mai visto zanne così candide, mai aveva avuto così tanto terrore di un singolo ruggito.
Si sentì preso al petto, e di lì trascinato, con gli artigli conficcati nelle membra, a terra.
Per essere eliminato – intruso, fastidio, nemico.
Eppure lui aveva fatto piano.
E’ che sei vecchio, si ripeteva Alessandro.
Ormai sei troppo vecchio.


Sara vide il professor Riva strizzare improvvisamente gli occhi, piegandosi in un gemito soffocato fra i denti stretti. L’uomo si portò le mani alla testa, e la ragazza sussultò quando lo sentì gridare per davvero.
Il cuore invaso dall’adrenalina, pareva gli stessero estirpando le meningi con le tenaglie.
Mentre lei indietreggiava, terrorizzata, sul tavolo dove era seduta, gli altri due guizzarono in avanti per prendere l’uomo e metterlo immediatamente a sedere.

Sara non ce la fece più, scoppiando a piangere terrorizzata.
No – se ne rese realmente conto solo adesso – non aveva la forza per chiedere cosa stava succedendo. Per quel che la riguardava, era troppo.
Qualunque cosa fosse.





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[NDA]

Massì, scusate l’assenza. Aggiorno capitoli a caso di storie a caso, se e quando mi va. Domando perdono.
Fra l’altro più scrivo ‘sta storia – per quanto mi piaccia – più mi puzza di pseudofintofantasy di serie B2.
Bah. Boh.

E’ che mi sono troppo affezionata a quelli della vecchia generazione per abbandonarli così ._. è tipo come con i vecchi amici dell’asilo, che ogni tanto li vai a trovare perché ti mancano, per quanto irrazionalmente.










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Capitolo 9
*** 9. Serratura ***


9


9. Serratura




Mise giù.

L’utente da lui chiamato non era raggiungibile.

Per la sedicesima volta.



***


Nel corridoio regnava il silenzio.

Alle due meno un quarto, poche classi erano ancora intente a seguire l’ultima, estenuante, ora di lezione. L’angolo del terzo piano dedicato ai laboratori scientifici era muto, disabitato – se non per loro quattro.

Alessandro, poggiato al muro leggermente scalcinato, prendeva lente boccate d’aria, gli occhi chiusi, intento ad ascoltare l’eco dei suoi respiri. Le spalle salivano e scendevano contro la vernice biancastra, mentre sentiva la testa sul punto di aprirsi in due. Ogni tanto, a fatica, portava la mandritta al capo – tastandosi i capelli alla ricerca delle orecchie da lupo.

No, non erano ancora comparse.

Forse non sarebbero ricomparse più, cercò di convincersi.

Forse.

Amanda lo guardava preoccupata, il braccio praticamente teso verso l’alto al fine di potergli poggiare una mano sulla spalla. Aspettava che gli dicesse qualcosa, qualsiasi cosa.

Anche se aveva perfettamente intuito cosa potesse essere successo.


Siamo così vecchi?, si domandava la donna.


Dentro il laboratorio, alla meno peggio, il professor Rondi cercava di essere cordiale e paterno. La prima gli riusciva, la seconda meno: improvvisava delle leggere pacchette sulla schiena di Sara, ancora intenta a singhiozzare senza aver proferito parola sensata, corredate da dei "su, su" a dir poco scoordinati. Per quanto fosse l’impegno che l’uomo ci metteva nel tentare di tranquillizzare la ragazza, era più evidente che la cosa gli era difficile: impacciato, doveva ammettere di sentirsi a disagio.

Per non parlare del fatto che, vista la reazione di Ale, non aveva idea di quale fosse la strategia da applicare – cosa dire e non dire, cosa nascondere e cosa invece palesare.

Era ovvio che il vecchio capobranco intendeva, con la sua mossa di prima, risolvere il problema coercendo la memoria della ragazza: impacchettarne i ricordi, nasconderli in un angolo della sua mente, fare finta che niente fosse successo pregando che non succedesse mai più.

Il che era ciò che aveva fatto con il resto della sua classe e qualche altro testimone.

Ma con lei non ci era riuscito, questo era evidente. A coercere le memorie degli esseri umani ‘normali’ aveva speso molta energia, tanto da perdere il controllo sul suo corpo e scivolare in una parziale forma animale. Ora, che si era messo ad entrare nella mente di un demone – quale palesemente era la ragazza – sembrava la cosa gli fosse sfuggita di mano.

Meditabondo, si lasciava quasi cullare dai singhiozzi di Sara.

Inutile fare niente fintanto che quella non avesse riacquistato calma e lucidità.


Alessandro scuoteva la testa, iniziando a riaprire gli occhi: vedeva male, e le orecchie gli fischiavano. Lentamente, il tutto stava svanendo.

Ma riconosceva di essersela vista brutta.

La prima cosa che riuscì a mettere a fuoco fu lo sguardo preoccupato ed interrogativo di Amanda. Sospirò, staccandosi dal muro: si tolse gli occhiali, massaggiandosi le tempie pulsanti con le dita.

"Ma ti ha preso?" domandò la donna, incapace di trattenere oltre la domanda.

Quello non disse niente per qualche altro secondo, intento a radunare le idee e aspettando che il dolore diventasse più gestibile. Alla fine, con un minuscolo cenno d’assenso, si rimise gli occhiali – per poi incollare le iridi nere sugli occhi dell’altra.

"Non solo non mi ha lasciato entrare, ma mi ha proprio preso. Saranno venti – macché – trent’anni che non mi succede." ne parlava in un modo quasi allucinato.

Amanda non aveva mai fatto una cosa del genere – era al di fuori della sua portata in quanto ‘semplice’ bestia.

Ma i demoni potevano gestire i volui sì bene da portarli dentro la mente altrui – a patto che questa fosse ben disposta, o che loro riuscissero a non farsi scoprire.

Alessandro era sempre stato piuttosto bravo nel fare queste cose, anche se si era sempre trattenuto.

La mente è una delle cose più intime delle persone.

Spesso, dentro, c’erano cose che lui per primo non voleva né vedere, né sapere.

Ma se si doveva...

"Ho rischiato di perdermi." ammise infine.

Amanda sgranò gli occhi, sconvolta.

"Oh mio dio..."

"Sono vecchio." concluse, rassegnato.

Strinse le labbra, poggiandosi nuovamente al muro.

La donna continuò a scrutarlo, attenta.


Sara intravide, tra la coltre di lacrime, il professor Rondi rizzare la schiena: dalla porta comparvero altre due ombre, di cui una distinguibile solo per l’altezza.

Una mente sana si sarebbe fiondata a domandare cosa diavolo fosse successo, cosa diavolo ci facesse lei in quel posto, legata, ed una qualsiasi ragazza si sarebbe messa ad urlare con l’ultrasuono più acuto che potesse produrre. Avrebbe anche approfittato della porta aperta per tentare una rocambolesca e vana fuga.

La mente di Sara, al contrario, era chiusa. Una saracinesca. Dentro, la razionalità attendeva che la tempesta d’assurdità cessasse, per rivedere il sole.

Si limitò a fissare i tre, senza mai mettere bene a fuoco nessuno di loro.



***


"Dove va?"

"A cercare un cretino."


***



"Che cos’è l’ultima cosa che ti ricordi?"

Ma la ragazza non schiudeva le labbra. Non un movimento se non quello delle palpebre, sguardo perso, come sorda.

Li guardava e Basta.

"Sara..."

Ema a destra, Ale a sinstra, Amanda, con la sua oramai consolidata aria materna, in mezzo. La ragazza seduta sul tavolo, un manichino.

"Va tutto bene. Adesso stai bene?"

Silenzio.

"Solo il tuo ultimo ricordo, Sara. Non serve un tema. Ti giuro che non ti sto interrogando, che va tutto bene e che tu non centri nulla in tutto questo. Nessuna ripercussione di alcun tipo. Succede."

Era difficile non fidarsi di Riva, nonostante la situazione.

La Razionalità bussò alla porta.

"Credo di aver avuto un attacco epilettico." Concluse, atona, la ragazza.

I due professori si guardarono.

"Dici?" chiese invece Amanda, emulando una vaga sorpresa.

"Dico." mormorò quella. Aspettò un po’, poi continuò, sempre più sottovoce: "Credo."

Ema e Amanda lanciarono un’occhiata ad Ale.

Sì, lo aveva capito che stava a lui decidere. Non c’era verso di smarcarsi da questa cosa.

Va bene.

"Credi?" chiese alla ragazza.

Silenzio. Sguardo vacuo.

"Mh."

"Sara, mi elenchi, per cortesia, i sintomi di un attacco epilettico?"

Voce professorale, riflesso da interrogazione. La ragazza attese, radunando quel poco di idee che le rimanevano, e mormorando come il bambino che ammette di aver rubato la marmellata iniziò ad elencare: "ronzio... convulsioni... svenimento... lingua in gola e quindi rischio di soffocamento... credo."

"Credi?"

"... qualcosa del genere. Mi pare."

"E quindi?"

Sara lo guardò con la disperazione del 3/4.

"Per questo ti abbiamo chiesto qual era l’ultima cosa che ti ricordi. Se è epilessia, è un disastro. Ma non ci sembravano sintomi di epilessia - quindi, ci aiuti a ricostruire?"

"Non mi avete legata per le convulsioni? Io avevo delle convulsioni."

Bene, sembrava stare iniziando a far funzionare il cervello. In qualche modo si era sbloccata.

"Non era per le convulsioni. Avevi qualche spasmo al risveglio, ma poco di più."

"E quindi...?"

"Dimmelo tu, Sara."

Silenzio.

Ma questa volta la ragazza aveva abbassato lo sguardo, e pareva in un qualche modo concentrata.



***


L’utente da lui chiamato ora era raggiungibile.

Ma rifiutò la chiamata dopo neanche due squilli.



***


"Male dappertutto. E vedevo rosso. Credo."

"Avanti, meno credere e più dire, Sara."

"Non lo so, prof. Sul serio. Poi mi sono ritrovata legata sul tavolo del laboratorio, e fine."

"Fine?"

Sara socchiuse gli occhi, increspando le labbra. Amanda osservava - cercando di non esserene divertita - quell’interrogazione improvvisata, fatta con l’intento di spremere il ‘povero alunno’ come un limone pur di non dovergli tirare un due sui denti. Che, come lei ben sapeva, faceva parecchio male.

Specie in latino.

La ragazza doveva anzi tutto ammettere che quello che aveva provato era realtà, e non allucinazione. Poi, fatto questo, avrebbe dovuto credere alla loro versione.

Bene.

Divertente.

Lungo e Divertente.

Ma anche no.

"Avevo la bocca impastata di sangue. E anche gli occhi, credo."

"Il volto brucia, e ti trovi scottature dove non dovrebbero essercene."

Sara levò il capo verso Riva, senza riuscire, sul momento, a seguire il filo del discorso. Lo guardò interrogativa ed inquietata, la testa insaccata tra le spalle.

"Esce sangue da qualsiasi lembo di pelle un po’ più fragile: bocca, occhi, naso, orecchie." continuò l’uomo. "Se si va avanti, anche dalle dita. E fa male tutto, ogni singola fibra di ogni singolo muscolo."

Quella aggrottò minimamente le sopracciglia.

"E’ vero o non è vero?" le chiese, retorico.

Sara si sorprese ad annuire lentamente.

"Quel sangue esce perché il corpo lo rifiuta. C’è qualcosa dentro il tuo organismo che cambia, di colpo, e all’inizio l’organismo stesso lo rigetta, vedendolo come nocivo. Questo è successo, Sara."

La ragazza tornò a sprofondare nel mutismo, gli occhi vacui.



***


Dopo mezz’ora ammise che continuare a girare in macchina per zone completamente casuali di Roma non lo avrebbe portato a nessun risultato concreto. A ben pensarci, aveva preso le chiavi e la giacca sì per salire in auto, ma forse non con la chiara e diretta intenzione di cercare Xander.

Dove lo vai a trovare un adolescente semi disadattato a Roma?

Perdi più tempo a cercare in ogni posto papabile, che ad attendere che sia lui a tornare da te.

No, piuttosto era uscito per stendere i nervi e sgasare a caso sul strade dove sarebbe stato meglio non superare i 40 all’ora.

Cercò un posto dove accostare - una terza fila sarebbe stata più che sufficiente, in fondo -, sperando che questa volta Xander gli avrebbe risposto. Come minimo, ad un messaggio.

Insomma, qualcosa doveva provare.


***



Sembrava che stesse per tornare a piangere, di un pianto composto e silenzioso: di quelle lacrime che sul momento non capisci, ma che spingono e sgomitano per uscire e inondare gli occhi. Quasi lo facessero apposta, consce di essere immotivate, inopportune e ingestibili.

C’era un letto, nella mente di Sara. Un letto comodo e accogliente, su cui buttarsi e rimanere immobile per il resto dei tempi, in letargo.

Non c’era altro. Solo il letto.

Voleva quel dannatissimo letto. Non chiedeva nulla di particolare, no?

Solo un letto.

Per favore.

"Ascolta."

Ma perché è così dannatamente difficile non fidarsi di Riva?

Perché non puoi concederti il lusso di pensare che questa situazione sia strana, che magari ci sia sotto qualcosa, che sì, spaziamo sulle possibilità, magari ti hanno rapita e ti tengono lì perché ... perché... per qualche altrettanto assurdo motivo, insomma.

No, lasciamo perdere.

Il professor Riva aveva posato le mani sulle sue ginocchia, avvicinandosi leggermente a lei.

La ragazza levò lo sguardo, continuando, passivamente, ad eseguire gli ordini.

Ma sì, in fondo gli ordini di Riva si eseguivano volentieri.

Credeva.

"Hai due possibilità, Sara. Se vuoi, puoi benissimo far finta che non sia successo niente. Cancella questa giornata dalla tua testa e vai avanti. Sul serio."

L’idea l’attraeva.

"Ma se pensi, anche solo lontanamente, che tu non sia in grado di ignorare completamente questa cosa, è un altro paio di maniche."

Quella sembrò cercare di capire a fondo il significato della frase, sapendo, purtroppo, di averlo avuto ben chiaro sin dall’inizio.

"Se così fosse, domani pomeriggio da me. L’indirizzo lo trovi sulle pagine bianche. Non prima delle quattro."

Forse annuì.

"Ma se domani non ti vedo, non parlerò mai più, a te o ad altri, di questa faccenda. Chiaro?"

Il professor Rondi e la donna accanto a lui - di cui non aveva ancora capito identità e provenienza - annuirono.










____________________________________________________________________



NDA.


Motivo dell’atroce ritardo su questo capitolo (e su questo pezzo, in generale) è la mia totale incapacità di renderlo decente.

Missione fallita, ma chissenefrega. Ci rinuncio.

Andiamo avanti, va’.







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Capitolo 10
*** 10. Quella miccia scordata accesa ***


10


10. Quella miccia scordata accesa




Di ritornare in ufficio non se ne parlava. Per quel che lo riguardava, ci era stato abbastanza.

Anche troppo.

Non aveva nemmeno un monte ore da rispettare, quindi c’era da chiedersi perché si ostinasse ad andare costantemente in ufficio - a leggere per tutto il giorno improbabili articoli pseudo scientifici, ritrovandosi ogni volta a cestinarli tutti.

Probabilmente perché voleva tenersi buoni i signori della Farnesina - DIS, AISE, AISI... aveva rinunciato a ricordare tutte quelle sigle. Farnesina bastava e avanzava. Tanto tempo cinque anni e sarebbero cambiate di nuovo, conoscendo il paese.

Aprì praticamente a spallate la porta del condominio, camminando lungo i corridoi a piedi strascicati. Chiamato l’ascensore, si appoggiò al muro, in attesa.

Fece per entrare, quando un rumore lo distrasse. A metà strada fra il pianerottolo e l’ascensore, la fotocellula bloccata, rimase in ascolto.

Un minuto. Due minuti. Tre minuti. L’ascensore, bloccato, non poteva andare né su né giù.

Fece un passo indietro, e lasciò richiudere le porte dell’ascensore.

Attese.

Se c’era qualcuno, forse lo stava aspettando.

Per qualche altro minuti, silenzio. No, infatti. Sbuffando, richiamò l’ascensore: non appena le porte ricominciarono a chiudersi, pronto a partire, quella piccola idea di rumore che aveva sentito prima si trasformò in una rocambolesca corsa - considerato il ritmo, in discesa.

Bene, fantastico. Ladri.

Scemi, peraltro.

Bloccò la porta all’ultimo istante, sfilandosi e dirigendosi verso il vano scale. Il ladro - o chi per lui - era troppo impegnato a filarsela per rendersi conto che l’ascensore non fosse partito. Allen contò i piani in base alle strisciate - acute e fastidiosissime - delle scarpe da ginnastica, ad ogni cambio di rampa. Uno, due, tre... quattro...? Bastardo, e pure da lui era andato!

Aspettò che finisse l’ultima rampa e, non appena quello gli diede la schiena, gli si buttò addosso.



***



Aveva una casa vuota a disposizione.

Come ogni giorno, d’altronde.

Doveva solo scegliere dove lasciarsi cadere.

Ah, sì.

Il divano.

Il divano sarebbe andato benissimo.

Molto meglio del letto.

Sara si distese, fermamente convinta che una volta riaperti gli occhi tutto sarebbe stato più semplice, chiaro e comprensibile. O meglio ancora, sparito.



***


"Tu pensi che una ragazzina di.. quanti? Sedici anni? Possa lasciar perdere?"

Alessandro guardò Amanda con gli occhi socchiusi, sospirando. "Ne dubito fortemente."

"Quindi avresti intenzione di...?"

L’uomo si passò per l’ennesima volta la mano sugli occhi, fermandosi poi a tenersi la fronte.

"Insegnarle?" continuò Amanda, stupendosi del suo tono stupito.

"Inizierò così. D’altronde non possiamo ignorare un primo richiamo, no? Sono le regole."

"Stiamo parlando delle regole di trent’anni fa, Ale!"

"Beh, non mi risulta che nessuno le abbia formalmente messe al bando, no? Tu hai idee migliori? Io non riesco ad entrarle in testa, al momento. Appena ci riesco, possiamo parlarne. Ma fintanto che le cose rimangono così, non posso lasciarla andare in giro come se niente fosse. Devi anche considerare quello che è successo ieri, Amanda."

"Pensi che possa ripetersi?"

Ema ricomparve dalla porta, le chiavi del laboratorio in mano: "Tutto tuo, per tutto il pomeriggio. Divertiti."

"Grazie." Alessandro si alzò dalla sediolina dove s’era piazzato, meditabondo. "Dopotutto lo abbiamo sempre detto, no? Questa cosa non finirà mai, né si può sfuggirle. Questi ultimi quindici anni di calma ci hanno ingannato, ma tanto sappiamo tutti che è come la mafia. Amanda, quando torni a casa? Ema, come sono le scorte? Credo che dovrai almeno quintuplicarle, per sicurezza."

Ema fece spallucce: "Non mi è difficile da produrre, il problema è lo stoccaggio."

"Ed il trasporto aereo. Vado via dopodomani." Fece notare Amanda.

"Farai valigia in più. In fondo, è solo acqua."

"Sì, ma se nel dubbio dovessero decidere di buttarla via tutta, sarebbe un problema."

"Al più si tornerebbe al punto di partenza. Meglio provare - per te e per Samuel."

Già. C’era anche Samuel.




***


Lo aveva sì visto in faccia, ma questo non gli impedì di tirargli il cazzotto che aveva appena caricato: Xander si protesse il volto come poteva, ma finì per accusare comunque il colpo. Dopo aver sputacchiato un po’ di saliva, completamente raggomitolato, iniziò ad imprecare.

"Ma sei scemo?!"

"Scemo io? Tu, idiota, che ci facevi lassù e che cazzo hai fatto tutto il giorno?"

Allen prese il ragazzo per il bavero della felpa, cavalcioni su di lui, strattonandolo quanto gli riusciva.

"Stavo cercando di rientrare in casa, genio!" Xander sputacchiò un altro po’ di saliva sul pavimento di vero finto marmo, puntellandosi sui gomiti: ora, a faccia scoperta, fissava lo zio con profondo rancore.

"Potevi rispondere al telefono, ti pare? E perché non sei tornato in casa famiglia, piuttosto?"

"Oh, ma sei ritardato? Ti ho detto mille volte che là dentro non ci rimetto piede!"

Allen fece per alzarsi: non appena mollò - con stizza - la felpa di Xander, quello caracollò indietro e, riprendendo l’equilibrio, si mise in piedi.

"Se preferisci che me ne vada sotto i ponti piuttosto che dormire a casa tua, va bene - messaggio ricevuto." Grugnì il ragazzo. "Addio."

L’altro si sporse, allungando la mano, e prima che finisse di girare sui tacchi gli afferrò con presa salda e decisa il lobo dell’orecchio più vicino. Lo strattonò con decisione, ed ecco che il ragazzo - negli occhi, ridiventato improvvisamente bambino - cedette al dolore e invertì la sua rotta. Xander emise un grido di dolore - più mal di onore che male fisico - e, continuando a imprecare, si ritrovò a salire le scale - gradino per gradino, insulto per in insulto.

Quando i due si ritrovarono, nuovamente, davanti al portone del quarto piano, Allen lasciò la presa, avvicinando il ragazzo alla porta.

"Bene, signor genio del crimine, adesso fammi vedere come pensavi di entrare."



***



Si lasciarono con un appuntamento per la serata successiva, a cena da Ale. Il quale, sospettava Amanda, era dell’idea di trattenere anche la ragazza- Sara, si chiamava? - in modo di introdurla alle dinamiche del branco.

Per quel poco che ne rimaneva.

L’indomani Ema avrebbe occupato il laboratorio con una classe di attività extrascolastica: più che capace di far due cose contemporaneamente, avrebbe fatto presto a riempire una decina di taniche di Aqua - nome che, per caso fortuito, Adam aveva dato a quel liquido panacea che limitava le reazioni dell’organismo ai Volui di Gaia. A dodici anni Adam non era esattamente una cima della lingua italiana - da lì il nome Aqua, per ovvi motivi.

Alessandro, chiavi in mano, si chiuse la porta del laboratorio alle spalle - facendo compiere alla serratura quanti più giri poteva. Con calma, ancora provato dalle fatiche di poco prima, si avviò verso i magazzini sotterranei dell’Istituto.



***


Non appena Xander tirò fuori la carta soci di MediaWorld - a sostituzione, evidentemente, della classica carta di credito - si beccò un calcio sulle natiche.

"Ma porco boia! Allora" prese, adirato, a predicare Allen "stupido nipote Italo Corean Americano, se proprio ci tieni a intraprendere la stupida strada dello stupido pseudo ribelle dall’infanzia difficile, mi farai il favore di farlo con un minimo di intelligenza. Come fai anche solo a pensare che io sia tanto cretino da lasciare una porta blindata chiusa senza nemmeno una mandata, eh? Me lo spieghi?"

Xander si limitò a serrare i denti e le labbra.

"Ma chi ti ha insegnato ‘ste cose, le vedi in televisione? Eh? Sei davvero quel tipo di persona che crede ad ogni leggenda metropolitana che gira per il mondo?!"

L’altro fece per parlare, ma il suono del cellulare di Allen lo interruppe.

Meglio così. In realtà non aveva nulla di intelligente da dire.

Dannatissimo zio psicolopirla del cazzo.


***


Appoggiò il plico sulla cattedra del laboratorio e, dopo aver ricontrollato per la terza volta che la porta fosse chiusa a dovere, si sedette.

Al lavoro, Ale. Fra le sue mani decine, centinaia di fogli protocollo, già malconci a causa del tempo passato nel magazzino. Bisognava essere dei geni per mettere gli archivi nei sotterranei - che già due volte, negli ultimi dieci anni, s’erano allagati.

Scorrendo i fogli, scritti a penna con calligrafie ora tondeggianti ed ora indecifrabili, selezionava quelli che più gli interessavano: ce n’erano anche più di quanti se ne aspettasse.

Sara Iusti era sua alunna da quell’anno scolastico - da meno di sei mesi. Poteva pensare di conoscerla, ma sapeva che sarebbe stato superficiale sostenere una posizione del genere. Se non era riuscito ad entrare nella sua mente, oltre alla ruggine che aveva accumulato negli anni, forse era anche causa della ragazza: per capire come prenderla avrebbe dovuto studiarla, il più possibile. Ed era bene iniziare da subito: i temi, i compiti, le relazioni - era fortunato che fosse una femmina, avrebbe quasi sicuramente riposto sulla carta molto più di se stessa di quanto non avrebbe fatto un maschio.

Si sistemò sulla sedia, un profondo respiro a decretare l’inizio del lavoro. Ogni tanto, senza nemmeno rendersene conto, portava le mani alla testa, passandosela sui capelli alla ricerca delle orecchie da lupo.

Che non trovava.



***


Con il cellulare stretto tra la spalla e l’orecchio, Allen aprì la porta dell’appartamento - usando le chiavi, fece notare con un’occhiataccia a Xander - e fece entrare il ragazzo a spallate. Quello, compiendo malavoglia i passi necessari a varcare la soglia, scrutava scocciato lo zio apparentemente assorto.

"Mh."

Questo era l’unico contributo che Allen sembrava stare dando a quella telefonata.

"Mh..."

Si chiuse la porta dietro le spalle, rimanendovi davanti quasi a far da guardia, e fra un "Mhh..." e un "Uh." fece cenno a Xander di sedersi sul divano.

Il ragazzo obbedì, lasciandovisi cadere sopra con tanto impeto da spostare il mobile di qualche centimetro.

"Leggimelo."

Questa volta aveva detto addirittura una parola intera. Impressionante.

Xander socchiuse gli occhi, pronto ad immergersi nel fantastico mondo degli Affari Suoi.

Tempo due minuti ed una cosa gelida, bagnaticcia e pure abbastanza pesante lo colpì in pieno volto: ritornò alla realtà con un sussulto, due insulti e svariati santi caduti: l’altro, talmente immerso nella telefonata da non godersi nemmeno la scena, gli stava facendo strani segni indirizzati alla confezione. Xander scrutò la busta di Paella precotta con sguardo idiota, stringendo oltremodo le palpebre.

"Un altro?" fece l’uomo, sempre diretto al telefono.

Voltò le spalle al nipote, cercando sui mobili della cucina qualcosa di riconducibile ad un foglietto su cui poter scrivere. Appena lo trovò - entusiasta per il rinvenimento - prese a scrivere con rapidità.

"Dovrei cucinarle ‘sta roba, secondo te?"

Allen chiuse la mandritta sul cordless, in modo da tappate il microfono: "No, Xander -" fece al ragazzo voltandosi "sono supposte di riso congelate."

"Ma sono le sei!"

"Non riesci a notare che sono al telefono?" grugnì l’uomo.

"Cazzo, mi lanci cibo surgelato in faccia alle sei di pomeriggio!"

"Te lo lancio perché stai morendo di fame, idiota!"

"Ma che cazzo ne sai di quanta fame ho io!?"

"Ti ricordo che sono uno psicopirla del cazzo, come ami definirmi tu."

"Ma piantala di tirartela!"

"Pronto? Sì, sono qua." l’uomo tornò a dar le spalle al nipote, concentrato sulla telefonata. "Ah? Digli che..."

Citofono.



***



Il rumore della porta di casa che si apriva la sottrasse al dormiveglia. Udì qualche passo, rumore di chiavi - la porta che si richiudeva -, fruscii.

"Eilà...! ... già a casa? .. Dove sei finita?"

Sara sentì sua madre appoggiare delle borse della spesa, le bottiglie di vetro che si scontravano tra loro tintinnando.

Era così tardi?

Sul serio?

"Sono in soggiorno!"

"Ah, ok."

Sara non si mosse, realizzando che non aveva nemmeno cambiato posizione durante il suo ‘riposino’. Durato, evidentemente, almeno tre ore.

"Vieni a darmi una mano o no?" insistette sua madre, dalla cucina. "Non avevi allenamento, oggi?"

"No, oggi no..."

I rumori cessarono, per poi riprendere qualche istante dopo.

"Qua c’è scritto che avevi allenamento."

"Non sto bene, non sono andata."

Tre secondi dopo sua madre fece capolino dalla porta del soggiorno - ancora con le scarpe addosso. "Cos’hai?"

"Non lo so." mugugnò, rotolandosi sul divano per cercare di mettersi a sedere. "Non sto bene." concluse, facendo spallucce.

"Non sta bene." ripeté l’altra, voltandole le spalle per tornare verso la cucina.

"Ma che palle!" Sara si alzò, inseguendo la madre a passi strascicati "Mi sono stesa alle tre per fare un riposino e mi sono svegliata adesso. Evidentemente non stavo bene!"

"Non è che non stavi bene, è che sei fuori una sera sì e l’altra pure."

"Ma non è vero!"

"Avere sonno non significa necessariamente stare male, sai? Adesso dammi una mano e lasciamo stare. Tanto è un problema tuo se salti gli allenamenti."

La ragazza optò per il silenzio, serrando le labbra prima di insistere.



***


"Ti chiamo io dopo, tu ordina i fax e tieniti pronta a leggermeli appena mi rifaccio sentire."

Il tempo di chiudere la telefonata e rispondere al citofono: un greve ma femminile "Sono io, Allen", pausa di riflessione, sospiro, "Allen?", "Eh?", "Fammi entrare".

L’uomo aprì il portone, ancora intento a capire di chi fosse la voce: Xander lo continuava a guardare dal divano, nascondendo malamente la sua curiosità.

"Sei ancora lì a ponderare sul significato della vita, tu?" gli domandò, acido, lo zio.

Xander fece spallucce. "Chi è? Viene su?"

"Non sono affari tuoi - mettiti a cucinare, le pentole sono nell’armadietto in alto accanto al frigo."

"Ti ho detto che non ho fame -"

"No, non me lo hai detto, mi hai solo detto di non tirarmela. Ora piantala e muoviti."

Bussarono.

Allen aprì la porta con l’ennesima sbuffo, cercando rivelazioni mistiche sul soffitto.

"Dove diavolo eri finito?!"

Quello sussultò, riconoscendo finalmente voce e tono della Stille - la quale, di fronte a lei, lo guardava ad occhi sgranati ed iracondi. La donna, dopo aver maldestramente levato le mani - sembrava seriamente intenta a strangolarlo -, portò con stizza i pugni lungo i fianchi.

"Da quando ti interessa dove sono, se non sono al Gran Sasso?"

"Da oggi. Perché non hai una segreteria telefonica?!"

Allen la fissò, basito, come se stesse delirando. "Ma se ho una segretaria!"

"In ufficio, ma a casa non mi ha risposto nessuno per tutto il giorno! Che cavolo facevi oggi, eh? Giornata libera? Proprio nel momento in cui iniziano ad esserci casini tu te la dai a gambe? Eh? Rispondi!"

"Io ho anche una vita privata, sai?"

"Ce la vorrei tanto avere anche io, ma si da il caso che il progetto a cui stiamo lavorando non è che lasci tanto spazio a..." la donna lasciò la frase a metà, mentre Allen continuava a osservarla come se fosse fuori di testa. Ok, forse un po’... iniziava a sembrarlo, dovette ammettere a se stessa. "Senti, sta succedendo un casino" riprese, dopo aver respirato. "La tua segretaria non ti ha detto niente?"

"Sì, me lo stava dicendo, prima che arrivassi tu."

"Dal Col è incazzato come una iena." E se la Stille era così, Dal Col poteva essere - idealmente - molto peggio.

Dal Col era l’uomo che lo teneva al guinzaglio, la cui corda era più semplicemente detta "dammi contro anche solo per sbaglio e vedi come alla prima mezza stronzata che fa Xander finisce in galera - ormai è grande per il minorile, e sai perfettamente che una volta entrati lì dentro se ne può uscire solo che peggiorati."

Se Dal Col era incazzato come una iena, Allen era nei casini. Certo, a sentire, prima, la segretaria, avrebbe anche potuto intuirlo - ma adesso la cosa assumeva una certa concretezza.

"Dov’è, adesso?" chiese alla donna.

"Suppongo sia qui a Roma. L’ho sentito solo al cellulare - e rivuole tutta la squadra al Gran Sasso. E vuole te. Subito."

"Quindi dobbiamo andare al Gran Sasso?"

"Io vado al Gran Sasso, tu chiami Dal Col e ti fai ritrovare immediatamente in ufficio. Cristo Santo, è morta della gente e tu te ne vai a spasso a farti i cazzi tuoi, non è possibile!"

Allen scoccò un’occhiataccia alla donna, facendole segno di stare zitta. "Ti ricordo che stiamo parlando di lavoro, Stille."

"E quindi?" domandò l’altra, acida.

Allen grugnì, sibilando a denti stretti: "Non so se hai notato che alle mie spalle c’è un perfetto esemplare di Adolescente Disadattato stravaccato sul divano."

Xander, orecchio teso, non si degnava nemmeno di far finta di non stare origliando ogni sillaba della conversazione.













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[NDA] (a chi ancora per sbaglio seguisse questa storia)

Doveva avere dei "protagonisti", questa storia, una volta.

Niente da fare.

Rimango sul racconto corale, al solito.

E’ che certi personaggi originariamente secondari son diventati ai miei occhi talmente interessanti che... vabé.

Va sempre a finire così.








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