Angeli sbagliati

di pleinelune
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO - COME ORDIGNI INESPLOSI ***
Capitolo 2: *** 01 - SOTTO CONTROLLO ***
Capitolo 3: *** 02 - NON RIUSCIRE A COMUNICARE ***
Capitolo 4: *** 03 - TOGLITI QUEL SORRISO DAL VISO ***
Capitolo 5: *** 04 - TI CONDENSI ATTORNO A ME COME UN RESPIRO ***
Capitolo 6: *** 05 - NELLA CALDA TANA DELL'ORSO ***
Capitolo 7: *** 06 - DIPINGERO' IL CAMMINO FINO A TE ***
Capitolo 8: *** 07 - LACRIME VENDUTE AL MIGLIOR OFFERENTE ***
Capitolo 9: *** 08 - LE CINQUE FASI DEL DOLORE ***
Capitolo 10: *** 09 - NON MI RICORDO PIU' CHE FACCIA HAI ***
Capitolo 11: *** 10 - PERFETTI SCONOSCIUTI ***
Capitolo 12: *** 11 - QUESTIONI DI ORGOGLIO ***
Capitolo 13: *** 12 - IL REGALO ***
Capitolo 14: *** 13 - UNDICI DICEMBRE ***
Capitolo 15: *** 14 - FARE PARTE DI UN SEGRETO ***
Capitolo 16: *** 15 - LUI TI FA FELICE? ***
Capitolo 17: *** 16 - PERCHÈ SEI TU IL MIO PIU' DOLCE AGGLOMERATO DI RISORSE DELLA MENTE ***
Capitolo 18: *** 17 - UCCIDI MA NON VUOI MORIRE ***
Capitolo 19: *** 18 - IL LINGUAGGIO DELLE DONNE ***
Capitolo 20: *** 19 - DOVE ERAVAMO RIMASTI ***



Capitolo 1
*** PROLOGO - COME ORDIGNI INESPLOSI ***


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PROLOGO - COME ORDIGNI INESPLOSI

Abbassai lo sguardo sulla lettera, leggermente stropicciata, che tenevo in mano da troppi minuti. Il gelo, intanto, annunciava l’arrivo della stagione del vento freddo, della pioggia e della neve, ed io mi accingevo ad accompagnarlo, fredda e svuotata di ogni sentimento.

Tutto era ormai racchiuso in quella busta spiegazzata.
Il mio corpo, di fronte alla cassetta rosso cremisi delle lettere, -mezza arrugginita e rovinata dal tempo e dalla goliardia dei giovani-, era fermo, come un ordigno inesploso.
Pronto a scoppiare quando meno ci si aspetta.














-notepocoserie-
Questo è solo il prologo, nulla di che. Sotto consiglio della twin robbberta ho pubblicato solo questo pezzo, per poi pubblicare il primo, grande capitolo, tra poco. So che è molto corto ma vi chiedo di non soffermarvi solo su questo, e di continuare la lettura, e farmi sapere cosa ne pensate di questo piccolo inizio **
Le piccole gif a inizio capitolo sono una specie di copertina ma anche un po' uno spoiler. Spero di avervi incuriosito LOL
p.s. volevo cambiare il titolo. Ricominciare sulla falsa riga di quella storia incompiuta, ma che nella mia testa non si è mai conclusa. Poi però ho riletto il titolo originale, e ho ricordato come lo avevo cercato e scelto tra tanti altri. E ho ricordato che era perfetto.
Non me la sono sentita di cambiare titolo e anima a questa storia che alla fine parla di angeli sbagliati.
 
p.s. un grazie a Umberto Tozzi, artista che poche di voi conosceranno ma che io amo tanto, per il titolo.
Senza di lui non avrei mai trovato i miei angeli.

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Capitolo 2
*** 01 - SOTTO CONTROLLO ***


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01 - SOTTO CONTROLLO
   

Ero seduta su una di quei seggiolini scomodi dell’autobus, quelli di plastica fredda e rossa, e guardavo fuori, con le mani che cercavano un po’ di calore tra le gambe, in quella fredda mattina di fine ottobre. Pioveva, come sempre in quel periodo, e i miei capelli erano diventati stoppa esattamente cinque secondi dopo essere uscita di casa. Avevo lasciato che si ondulassero a loro piacimento e mi ero incamminata verso la fermata, l’ombrello ben saldo nella mano destra, l’ipod nella sinistra.
Guardando fuori dall’autobus in corsa tutto sembrava rallentare; avevo sempre pensato di essere dietro ad uno schermo da cui poter vedere cosa accadeva nella città, alle persone che conoscevo, senza dover per forza agire, fare qualcosa. La mattina mi rilassava stare lì seduta, su quel seggiolino rosso e scomodo, con le cuffie nelle orecchie, guardando la gente vivere la vita.
Poi arrivava la mia fermata, ed io ero costretta a tornare alla mia, di vita.

***

Entrai a scuola con tutti gli altri, le cuffie ancora ben piantate nei timpani per evitare di sentire saluti e presenziare a convenevoli vari, gli occhi fissi davanti a me, per evitare il minimo sguardo.
Sentii una mano sulla spalla e mi tolsi una cuffia, salutando. Chiunque fosse speravo se ne sarebbe andato presto.
“Perla, non credi di essere un po’ esagerata?”, sentii la voce di Guglielmo dietro di me e mi lasciai sfuggire un sorriso.
“Per niente, la gente comune non mi saluta, a parte te”, abbassai lo sguardo sull’ipod, intenta a spegnerlo. Tanto ormai la mia missione 'non voglio parlare con nessuno' era miseramente fallita.
“Vorresti dire che non sono normale?”, chiese, afferrandomi per un braccio mentre camminavo.
“Questo lo stai dicendo tu!”, sorrisi, accelerando il passo.
“Hai sentito qualcuno in questo periodo?”
Ho sentito te, avrei voluto rispondere. L’unico che avrei voluto sentire in quell’ammasso di gente senza un cervello. Ma non lo dissi.
“Nessuno che val la pena di ricordare.”, mi voltai nella sua direzione, con un sorriso timido sul volto, non avrei voluto parlare con nessun altro se non con il mio migliore amico. E proprio quella persona quella mattina mi aveva afferrato un braccio, nonostante ogni cosa nel mio atteggiamento lasciava intendere che non volessi parlare. Era per questo che gli volevo bene.

“..c’era questa ragazza, bionda e aveva due tette che non vi dico..”, capii che era Edoardo da venti metri di distanza, solo lui poteva parlare di quelle cose di prima mattina e a quel tono di voce. Sempre il solito buffone. Mi avvicinai al gruppo, affiancata da Guglielmo, lo lasciai sedere sull’unica sedia rimasta e mi sedetti a mia volta sulle sue gambe, senza nemmeno chiederglielo.
“No ma fai pure eh”, mi diede una pacca sulla schiena, leggera, quasi una carezza.
Finsi di ignorarlo sorridendo e lui si mise a ridere.
“Ehi Perla, come stai?”, sentii la voce di Azzurra di fianco a me, piccola e dolce nel suo vestitino rosa. Una barbie.
“Ciao Zu, bene tu?”, le sorrisi, notando in quel momento la nostra differenza.
Lei, bionda e perfettina. Io, castana, scura e quasi trasandata. Sì, perché io -anche se meno rispetto a lei- curavo il mio aspetto e mi interessavo di moda. Non la sua. Odiavo tutti quei vestiti a fiorellini che indossava, i fermagli che appuntava nei capelli e i suoi occhi azzurri che la rendevano una perfetta barbie, però le volevo bene. Io d’altro canto portavo costantemente i capelli sciolti, che ricadevano sulle spalle, ondulati e scombinati. I vestiti erano spesso di diverso genere, poteva capitare che un giorno indossassi un paio di pantaloni attillati o una gonna, e il giorno dopo dei semplici jeans con una maglietta di un gruppo rock, nonostante non fossi una fan accanita di nessuno dei gruppi rappresentati sulle mie t-shirt.
“Come sta Ken?”, aggiunsi velocemente, per chiudere li la conversazione.
“Ahah, sempre scherzosa. Fede sta bene, anche se abbiamo litigato.”, era sempre così, litigavano, arrivavano quasi a lasciarsi ma poi, quando sembrava che non ci fosse più speranza, facevano pace. Sapevamo bene tutti che non si sarebbero mai lasciati.
“Cos’è successo ancora? Stai tranquilla che si risolve tutto.”, mi stupii del mio tono di voce, come se quasi mi importasse.
“Questa volta è seria.”, la guardai, diceva quasi sempre cosi’, le sorrisi, accarezzandole un braccio, poi mi voltai verso Guglielmo, ancora sotto di me.
“Oggi pomeriggio che si fa? Io volevo fare un salto in biblioteca.”, lo guardai, cercando di capire se veramente gli andava oppure no.
“Ok, prima andiamo a mangiarci una pizza però.”
Annuii e mi alzai per salire in classe.

***

Presi la borsa alzandomi dalla sedia e accostandola al banco, poi mi voltai verso quello di Guglielmo aspettando che si liberasse da quei due spacconi che aveva come amici. Lui era l’unico bravo ragazzo dei tre e non riuscivo ancora a capire come, dopo anni, riuscisse a stare con loro.
“Allora, sei pronto?”, mi avvicinai mentre gli altri se ne stavano andando.
“Si un attimo, prendo il cappotto. Dopo la biblioteca hanno chiesto se li raggiungiamo al centro commerciale.”, vide l’espressione sul mio volto e si affrettò ad aggiungere, “ci sono anche le ragazze”.
Purtroppo facevamo tutti parte della stessa compagnia, annuii e mi incamminai verso l’uscita.

***

“Ma come fai ad esser amico di quei due?”, chiesi mentre camminavamo l’uno accanto all’altra, diretti in pizzeria.
“Stai parlando di Edo e Filippo?”, lo guardai, annuendo.
“Sanno essere simpatici, quando vogliono. So che per te sono solo degli stupidi, ma non lo sono poi così tanto. All’apparenza si comportano da spacconi, soprattutto con le ragazze, ma non sono così sempre.”, lo guardai rimanendo in silenzio.
“Tu non sei come loro.”, sussurrai. Aprii a malapena le labbra, ma lui riuscì ugualmente a cogliere il senso delle mie parole.
“E io come sono?”, scorsi un sorriso sul suo viso, leggero, appena accennato.
“Loro sono dei cretini, sanno parlare solo di tette e di quanto è bella una ragazza. Fare un discorso serio con loro è matematicamente impossibile, e poi sono così rozzi e volgari. Guarda Edo, stamattina l’ho riconosciuto perché parlava di una biondona da paura di cui sicuramente non ricorda neanche il nome..”.
“Sembri quasi gelosa..”, non mi guardò, continuò a fissare il marciapiede, come se sapesse di aver detto una cavolata.
“Sono schifata”, lo fissai camminando, irritata.
“Mangiamo dai”, sospirò, indicandomi la pizzeria dall’altra parte della strada.

***

Entrammo in pizzeria e Giovanni ci salutò, portandoci da bere. Conoscevamo quel pizzaiolo da anni e ormai conosceva a memoria i gusti di tutti. Sapeva alla perfezione che io prendevo sempre una bottiglietta di acqua naturale, -perché odiavo la frizzante-, e che Guglielmo prendeva del thè, un altro fatto che lo rendeva completamente diverso dagli altri ragazzi, e che mi piaceva di lui.
Dopo pochi minuti arrivarono anche le pizze, a me la solita margherita e a lui la solita capricciosa, eravamo tradizionalisti.
Guglielmo appoggiò il cellulare sul tavolo, e dopo pochi minuti lo sentii squillare, notai che era impegnato con del formaggio filante, quindi lo presi velocemente e lessi il messaggio che gli era appena arrivato.
“Interessante”, risi, leggendo il contenuto dell’sms. “Ora rispondo io, vediamo un po’.”, e cominciai a schiacciare i tasti di quel cellulare dell’antiguerra, che Guglielmo non si era mai deciso a cambiare con uno di quelli moderni, ormai completamente touchscreen.
“Chi è?”, lo sentii borbottare con un pezzo di salame in bocca.
“Un tuo amico. Dice di essere passato in motorino e ti chiede chi è la “bella”, per usare un termine pulito, ragazza che ti porti dietro.”, i suoi occhi si spalancarono e per poco non si soffocò col salame dalle risate.
“E tu che hai risposto?”, chiese, ridendo.
“Che sono la tua fidanzata, facciamolo ingelosire un po’ no? Poi lo disilluderai, più tardi. Nel frattempo non si sarà mangiato solo il fegato, ma anche le dita!”, mi misi a ridere timidamente. La mia cotta per Guglielmo era finita da tempo, e dover far finta di essere la sua fidanzata mi faceva tornare in mente vecchi ricordi, momenti in cui ancora gli morivo letteralmente dietro, e in cui avrei fatto di tutto per un momento come quello.
Come potevano cambiare le cose. Lo vidi abbassare lo sguardo sorridendo. Un’altra cosa che mi piaceva di lui, si intimidiva per delle sciocchezze e non era sfacciato. A lui non sarebbe mai venuto in mente di rispondere in quel modo. Era puro, e mi era piaciuto per questo.

***

Entrai nel pullman con lo sguardo ancora rivolto verso Guglielmo, e lo salutai con una mano. Eravamo stati in biblioteca perdendo la cognizione del tempo e si era fatto buio. Mi sedetti in un seggiolino in fondo al pullman e cominciai a guardare fuori, estraendo dalla borsa le solite cuffie. Il mondo cominciò a rallentare, mentre con gli occhi guardavo la vita delle altre persone andare avanti. Mi piaceva immaginare che vita facessero, che lavoro facessero, il loro grado di felicità.
Gli occhi mi ricadderò su una signora, che con un sorriso mi riscosse e mi ricordò che dovevo scendere.
Saltai dal pullman giusto in tempo, e quasi finii in una pozzanghera. Poi squillò il telefono.
“Si sto arrivando”, risposi velocemente, credendo che fosse mia mamma.
“Ah ecco perché non mi hai ancora chiamata!”, sentii la voce di Azzurra all’altro capo della cornetta.
“Ma quando avrei dovuto chiamarti?”, chiesi, confusa. 
“Beh, mi pare ovvio. Non siete venuti al centro commerciale, vuol dire che è successo qualcosa. Ergo mi devi chiamare.”, risi dei suoi ragionamenti perversi. Lei sapeva della mia cotta passata, ma era a conoscenza che fosse, appunto, passata.
“Cosa vuoi che sia successo in una biblioteca? Ci siamo trattenuti un po’ di più, tutto qui. Abbiam perso la cognizione del tempo”, risposi, quasi scocciata da quell’interrogatorio.
“E lui ti ha dichiarato il suo eterno amore?”, chiese, ridacchiando.
“Mi prendi in giro? Zu per cortesia, ci vediamo domani.”, stavo per riattaccare quando sentii la sua vocina stridula pronunciare qualcosa dall’altro capo.
“Non è che potremmo sentirci anche stasera? Così mi racconti cos’è successo oggi. Daiii! Secondo me tu piaci tanto a Gu!”, scossi la testa, esasperata e acconsentii, chiudendo la telefonata.



-notepocoserie-
Siccome ho scoperto proprio due minuti fa che stasera mangio al ristorante *gnam gnam* vi posto subito il primo vero capitolo, con la speranza che al mio ritorno possa esser deliziata delle vostre recensioni *O*

Rob, credo di aver vinto una scommessa. Guglielmo è il nuovo nome dell’anno. Tiè xD

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Capitolo 3
*** 02 - NON RIUSCIRE A COMUNICARE ***


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02 - NON RIUSCIRE A COMUNICARE 

     

Entrai in casa e mi assalì un insieme di profumi indistinguibili. Mia mamma passò velocemente all’entrata e mi scoccò un bacio, il grembiule ancora addosso e un sorriso stampato sulle labbra. Amavo vedere mia madre felice.
“Non ti sembra tardi?”, chiese, dalla camera da letto.
“Sono stata in biblioteca con Gu”, risposi. Lei annuii, come se fosse una giustificazione plausibile. E in effetti lo era, spesso passavo i pomeriggi in biblioteca, e quando succedeva mi perdevo in quel santuario di libri, tornando a casa tardi.
“Faccio la doccia”, dissi, senza neanche aver tolto il parka.
“Guarda che è quasi pronto. Non metterci le ore come al solito”, sentii la voce di mia mamma affievolirsi mentre tornava in cucina.
Entrai in camera, salutando con un cenno del capo mio fratello, con gli occhi fissi sullo schermo del pc. Mi sfilai la borsa e il cappotto, gettandoli sul letto, e entrai in bagno per farmi la doccia.
 
Sotto il getto dell’acqua calda mi soffermai a riflettere sulle parole di Azzurra, dette poco prima al telefono. Lei aveva sempre avuto un sesto senso per quelle cose, per l’amore, eppure ero convinta che questa volta si sbagliasse.
Avevo provato qualcosa per Guglielmo per un tempo indefinito, e ora che finalmente me ne ero fatta una ragione e avevo imparato a vivere quella “relazione” lasciando che si fermasse all’amicizia, Azzurra mi diceva che lui provava qualcosa per me? Lasciai che l’acqua mi ricadesse sul viso, per scrollarmi di dosso quella confusione.
Non intendevo rovinare ciò che si era creato solo per un “presentimento” di Azzurra.

***

“Buon appetito”, squittii, accovacciandomi sulla mia sedia in cucina. Ogni volta che mi riunivo con la mia famiglia per cenare, mi sembrava di tornare un po’ bambina. In quei momenti sentivo che se c’era qualcosa di sicuro e stabile nella vita, quello era la famiglia. Persone che ti avrebbero amato sempre e sostenuto in qualsiasi momento.
Mangiai con foga ogni pietanza che mia mamma mi propinò quella sera, e ne aveva preparate tante nel pomeriggio. Finimmo con una torta di mele gustosissima, poi mi alzai, ricordandomi di Azzurra. Aiutai a sparecchiare e mi congedai, camminando, molto lentamente, verso la camera. Avrei dovuto chiamarla e dirle cose che solo lei avrebbe visto in modo malizioso.
Digitai il numero velocemente mentre mi sdraiavo sul letto. Attesi qualche secondo e Azzurra rispose.
“Allora, dimmi tutto”
“Ciao anche a te, Zu.”, risposi, scocciata.
“Si ciao, dai dimmi”
“Cosa dovrei dirti? Siamo andati a mangiare la pizza, abbiamo parlato, poi ci siamo diretti in biblioteca e, non ci crederai mai, abbiamo preso dei libri.”, dissi in tono sarcastico.
“Non fare la stupida!”, disse, quasi irritata, “non ti ha detto nulla?”
“Cosa avrebbe dovuto dirmi scusa?”, stavo iniziando ad irritarmi per quella conversazione senza senso.
“Nulla. Vieni al cinema domani in serata?”, cambiò discorso, e ne fui felice.
“Certo, chi c’è?”, chiesi.
“Ora io devo andare, ha detto Gu che ci pensavate voi due a chiedere a tutti. Ciao tesoro,”, e riattaccò. Sapeva benissimo che odiavo organizzare, così mandai velocemente un messaggio a Guglielmo per sapere se aveva già sentito qualcuno.
Dopo pochi minuti sentii in telefono vibrare e lessi velocemente:
-Ho sentito solo Filippo e Clara. Tu senti Edo e Aurora. Scusami-
Lessi quello scusami con un’ira incontenibile, ma feci il mio dovere. Composi velocemente il numero di Edo, per togliermi il peso, che mi rispose dall’oltretomba.
“Che vuoi?”, solo la sua voce sapeva irritarmi.
“Mi han detto di chiederti se vieni al cinema domani in serata.”, mi affrettai a rispondere.
“A vedere cosa? Non ne ho molta voglia.”, mi infastidiva dovergli parlare e cercai di tagliar corto.
“Non lo so. Ci siamo tutti, vieni o no?”
“Tutti tutti? Ok vengo.”, non capii quella domanda ma non feci in tempo a rispondere, poiché aveva già attaccato. Sapeva sicuramente come farmi infuriare, questo era poco ma sicuro.
Chiamai Aurora per calmarmi e le parlai per gran parte della serata restante, elencando per tutto il tempo le peggiori qualità di quel cretino di Edoardo.
Mi addormentai ancora un po’ alterata, non capivo bene perché, forse per il modo scortese in cui rispondeva ogni volta, o forse solo per il semplice fatto di avergli dovuto parlare, ma giurai a me stessa, prima di chiudere gli occhi, che il giorno dopo avrei fatto pentire Gu della sua scelta.

***

Il giorno dopo arrivai a scuola in ritardo, come al solito, e non feci in tempo a parlare con Guglielmo, ma gli scoccai un’occhiataccia appena fui in grado di guardarlo.
Mi voltai verso Azzurra, seduta accanto a me e la salutai con un cenno del capo.
“Sai il mio amato? Si vede che è cotto, ieri mi ha fatto fare l’unica cosa che non avrei mai voluto fare.”, le dissi, sussurrando e allungando il collo nella sua direzione.
“Hai dovuto chiamare tu Edo?”, sorrise. Mi conosceva proprio bene.
Scorsi Aurora a pochi passi da Edoardo e li vidi parlare. Come poteva lei, una delle mie più care amiche, provare anche un minimo interesse per un ragazzo simile? Eppure li vedevo spesso scambiarsi battute o solo sorridersi. Sperai che non avessero una tresca e mi voltai verso la professoressa, che nel frattempo era entrata in classe e aveva cominciato a parlare.
“Ragazzi, oggi faremo una cosa che non vi piacerà, o forse si.”, cominciò, seminando il panico in tutta la classe, “cambieremo i posti!”, ci fu un sospiro di sollievo generale quando lo disse, nonostante non tutti ne fossero contenti, me compresa.
Amavo il mio posto strategico, era a metà tra la porta e i termosifoni e avevo la giusta temperatura sia in estate che in inverno, e inoltre ero vicina ad Azzurra che, per quanto poteva essere svampita, era comunque un buona amica e sapeva come farmi passare delle sane ore di ozio.
Quando arrivò il mio turno presi la borsa e il cappotto e mi spostai, ero nell’ultima fila, completamente attaccata al muro. Freddo d’inverno e caldo d’estate. Evviva!
Ma il peggio non era ancora arrivato, perché se la temperatura poteva essere una mossa del fato, la sfiga aveva buttato la carta vincente, posizionando davanti a me proprio lui, l’ultimo al mondo con cui avrei desiderato passare più di sei ore della mia giornata ogni giorno: Edoardo.
Appena seduto si girò a farmi un sorriso raggiante e volutamente sarcastico, sapevo benissimo che l’odio era reciproco, soprattutto dalle sue battutine sprezzanti nei miei confronti. Solo perché non avevo desideri sessuali nei suoi confronti e lo evitassi come la peste non dovevo esser definita suora o troia, il che era basilarmente un controsenso, ma lui non se ne sarebbe mai reso conto, purtroppo.
Dalle battute sprezzanti però, dopo un po’ di tempo, eravamo passati entrambi all’indifferenza totale, e il doverlo sopportare per tutte quelle ore davanti a me, sentendo ogni tipo di discorso uscisse dalla sua bocca, mi provocava un conato di vomito. Avrei dovuto ascoltare storie di castane un po’ troiette e bionde che sembravano caste e che invece si erano rivelate le peggiori ragazze del mondo. Pregai mentalmente per una morte veloce piuttosto che sentirlo confabulare di accompagnatrici di alto bordo, ma probabilmente nessuno mi ascoltò, perché rimasi seduta nell’ultima fila, accanto al muro, per il resto dell’anno.
 
Il fatto di dover sopportare i suoi discorsi era il minimo, anche se durante la settimana ne sentivo di tutti i colori, il momento peggiore veniva quando si voltava verso di me per copiare ogni genere di compito, dall’operazione matematica fino al tema, cosa un po’ improbabile da copiare. Odiavo quando sentivo la sedia davanti a me cigolare, per poi spostarsi fino a rivelare il volto di quell’essere che mi trovavo davanti. Non aveva un minimo di rispetto verso le persone, e tanto meno verso di me. Pretendeva di copiare ogni cosa, e ogni tanto lo lasciavo anche fare, per non doverlo sentire parlare e inveire contro di me. Cominciai lentamente a ignorare la sua presenza, e lui cominciò a ignorare me, girandosi esclusivamente nel momento in cui aveva bisogno di qualcosa. Il nostro rapporto di vicini di banco finiva li.
Non avendo vicino nessun’altro a parte lui ero anche completamente isolata dal resto del gruppo, perché mentre lui non si faceva scrupoli a gridare da una parte all’altra della classe, io preferivo tenermi le mie cose per me, e parlarne durante la pausa. Quindi, in conclusione, la mia vita sociale era azzerata. L’unica cosa che avevo era una schiena davanti a me che ripeteva oscenità a mitraglietta e che ogni tanto si voltava, silenziosa.
Quel giorno, appena ebbi l’opportunità di sgattaiolare da un’altra parte della classe, lo feci. Nonostante sentissi perennemente il vocio sgraziato del mio vicino di banco, la cosa era sopportabile, e passai un’ora quasi felice, finchè il secchione di turno non fece notare alla professoressa che ero nel posto sbagliato, e non mi rispedirono nel mio incubo giornaliero.
Quando suonò la campanella dell’ultima ora scattai sulla sedia e uscii dalla classe quasi correndo, Guglielmo mi raggiunse poco dopo, col fiatone.
“Sei profetico sai? Ieri l’ho dovuto chiamare, oggi decidono di piazzarmelo davanti, per chissà quanto tempo!”, sbuffai, accelerando il passo già troppo veloce per Gu.
“Ti ho già chiesto scusa per ieri no?”, mi prese il braccio, la voce quasi ovattata. Come poteva essere così dolce anche quando ero infuriata in quel modo?, mi chiesi, ma non seppi darmi una risposta, mi fermai, la sua mano ancora sul mio braccio, e lui si fermò di fronte a me. All’istante mi tranquillizzai, accennando un sorriso.
“Stasera ci siamo tutti?”, chiesi, sospirando a fondo per riacquistare a pieno la calma.
“Si. Ti accompagno a casa?”, lo guardai, era la prima volta che me lo chiedeva, dovevo essere conciata proprio male. Annuii, e ci incamminammo.
Non avremo preso il pullman, c’era una bella giornata per essere fine ottobre, le foglie ancora cadevano dagli alberi, nelle più variegate sfumature del rosso, e mi abbassai a raccoglierne una, come quando ero piccola e uscivo a far le passeggiate con mia mamma. Me la rigirai tra le mani, quell’anno il tempo era stato clemente, allungando tutte le stagione di almeno due settimane e il tempo era ancora abbastanza caldo per poter andare in giro senza cappello e sciarpa, seppur il freddo incombesse e minacciasse di arrivare da un momento all’altro. Camminavamo da cinque minuti buoni nel completo silenzio quando lo sentii trafficare con la cerniera della tasca del cappotto, intento ad aprirla.
“Che c’è?”, chiesi, pentendomene un secondo dopo. Erano affari suoi, non doveva spiegarmi ogni cosa decidesse di fare. Sembravo una moglie gelosa.
Trafficò ancora qualche istante con la cerniera prima di estrarre una tesserina bianca e rispondermi.
“Ieri mi hai dato la tua tessera della biblioteca, quindi tu dovresti avere la mia.”, scoppiai a ridere per la comicità della cosa, lo guardai e mi sorrise, presi la tessera bianca e le nostre mani si sfiorarono. Provai una scossa dietro la schiena, e riaffiorarono antichi ricordi. Ritrassi la mano, andandola a nascondere nella tasca del parka e abbassai lo sguardo sull'altra mano, che nel frattempo aveva lasciato andare la foglia. non capivo come mai quel contatto mi avesse provocato quella scarica ma sentii tensione nell'aria e cercai di cambiare discorso.
"La tua ce l'ho a casa. Se aspetti cinque secondi quando arriviamo te la vado a prendere.", lo sguardo ancora basso sulle mani, ora legate l'una all'altra.
"Non ti preoccupare, me la dai domani". Ci fosse stato Edoardo avrebbe fatto subito notare il doppio senso, ma Guglielmo non lo avrebbe mai fatto, e sapevo che in lui non c'era malizia.
Nel giro di venti minuti arrivammo alla fermata del pullman di fronte a casa mia e lì mi fermai.
"Allora a domani" lo guardai, facendo il sorriso più grande che potessi.
“Ti sei calmata un po'? Stasera non ti voglio vedere nervosa.". lo guardai silenziosa e mi voltai, alzando la mano per salutarlo. Entrai in una casa completamente deserta. Tutti erano a lavorare, così presi dal congelatore una pizza già pronta e la misi nel forno.
Avevo poco tempo, erano le due del pomeriggio e nel giro di poche ore avrei dovuto dare una ripulita alla casa e prepararmi per la serata. Il film sarebbe iniziato alle otto, ma ci saremmo dovuti trovare tutti lì alle sette, per mangiare insieme. Guardai la pizza dentro al forno e mi resi conto che non mangiavo un piatto di pasta da giorni interi.
Passai il pomeriggio a sistemare casa, prima che mia mamma tornasse stesi i panni, rifeci i letti e cominciai anche a preparare qualcosa per la cena, nonostante non dovessi mangiare a casa. Poi passai al mio aspetto, ridotto a uno straccio, mi sentivo un po’ una cenerentola moderna, con i pantaloni della tuta tutti sporchi e la t-shirt extra large. Feci una doccia veloce e lasciai i capelli asciugare all’aria, mentre dall’armadio estraevo ogni indumento potesse contenere. Passai in rassegna ottanta tipi tra gonne e pantaloni, e alla fine optai per qualcosa di molto sobrio, ma comunque particolare. non amavo uniformarmi, fare parte di quel gruppo di ragazze che vanno in giro vestite tutte allo stesso modo, si truccano allo stesso modo e si pettinano allo stesso modo, infilai i collant coprenti neri con una certa fatica, cercando di evitare di smagliarli ancora prima di essere uscita, poi mi permisi di mettere la camicia di jeans a maniche lunghe e degli shorts neri pesanti a vita alta. Fortunatamente il freddo non era ancora arrivato, e la possibilità di mettere ancora collant e ballerine c’era ancora.
Tempo di vestirmi e truccarmi leggermente e i capelli erano asciutti, ondulati e sciolti lungo le spalle, infilai gli occhiali, rimasti in un angolo fino ad allora, e cercai la borsa in tinta con le ballerine. Optai per il nero e la ricerca fu piuttosto facile, passai il contenuto da una borsa all’altra e presi il telefono, che avevo lasciato in salotto.
Quando lo illuminai notai alcuni messaggi, insieme a quelli di Aurora appariva il nome di Gu. Le considerazioni di qualche giorno prima di Azzurra tornavano spesso nella mia mente, soprattutto quando notavo atteggiamenti diversi dal solito nei miei confronti da parte di Guglielmo. Il tutto era condito da una buona dose di condizionamento a cui mi lasciavo andare ogni qualvolta la gente mi diceva qualcosa.
-Spero tu non sia più nervosa, stasera ti aspetta un bel film! (:-
Non conoscevo il film che saremmo andati a vedere e sinceramente non mi importava, ma feci uno sforzo, e gli risposi:
-e che film sarebbe? Sto uscendo, ci vediamo li.-
Ficcai il telefono in borsa, indossai una giacca e uscii di casa. Nonostante fossero le sei passate il freddo non accennava ancora a farsi sentire, mi misi a correre per raggiungere la fermata in tempo, ma naturalmente persi il pullman.
Ero piuttosto famosa per i miei ritardi, e anche quella sera sarei arrivata in ritardo. Avvisai sia Guglielmo che Aurora, che mi aspettava a casa per andare insieme, e mi misi seduta su una panchina, in attesa.
 
“Finalmente”, sentii la voce di Guglielmo, Azzurra e Aurora all’unisono, da lontano gridavano sollevati del mio arrivo. Avevo tardato di mezz’ora e avremmo dovuto fare tutto di corsa.
“Che strano, Perla che arriva in ritardo. Non è da te!”, da un angolo, con la sigaretta in bocca, sentii la voce di Edoardo. Il sangue mi ribollì nelle vene e cercai di essere il più gentile possibile.
“Se proprio ti dava fastidio aspettarmi potevi andare a mangiare da solo”, gli sputai addosso, non riuscendo a trattenermi.
“E credi davvero che mi sarei perso l’arrivo di un bocconcino del genere?”, rispose, alzandosi con il suo solito atteggiamento strafottente, seguito dagli altri, che sembravano imitare ogni suo passo come delle pecorelle.
“Che schifo.”, pensai a voce alta. Credevo non mi avesse sentito, troppo impegnato ad ascoltare il suo ego, eppure mi sentii.
“Perla ti do un consiglio, scopa un po’ di più. Sei acida!”, lanciò la sigaretta e entrò dalle porte mobili del cinema.
Avrei voluto fulminarlo con gli occhi, eppure rimasi in silenzio, troppo nervosa e arrabbiata per poter replicare con lucidità. La miglior arma è l’indifferenza, continuavo a ripetermi mentalmente mentre lo vedevo camminare baldanzoso, come se avesse vinto la guerra. Sentii la mano di Gu stringermi il braccio e cercai di calmarmi. Non mi sarei lasciata rovinare la serata da un cretino qualsiasi.
 
Eravamo un bel gruppetto e a quell’ora tutti i tavoli dei ristoranti in cui si mangiava un po’ meglio erano pieni, così finimmo a mangiare al McDonalds, insieme a genitori con bambini capricciosi e viziati.
“Perla, hai qualche spicciolo?”, la voce di Guglielmo era a due passi da me, mi girai e lo vidi guardarmi con gli occhioni tipici di quando mi voleva chiedere qualcosa.
“Non guardarmi così, mi sono rotta di pagare per te!”, risposi, sicura che non gli avrei pagato la cena.
“Sempre la solita tirchia”, rispose, quasi imbronciato. A sentire quelle parole mi voltai velocemente, gli mollai un pugno potente sulla spalla e sorrisi.
“È l’ultima volta! E sappi che ti compro l’Happy Meal”
Lui mi sorrise e mi mise un braccio intorno alle spalle, in uno strano tentativo di abbraccio.
“Ma con l’Happy Meal non si mangia nulla!”, rispose, divertito.
“Scordati qualcosa in più, io ci mangio con quello, e lo farai anche tu!”.
Ero tirchia, aveva ragione, ma non lo avrei mai lasciato senza mangiare, e nonostante quella promessa, gli avrei comprato altri venti Happy Meal se ne avesse voluti.
Mi sedetti vicino a lui e ad Aurora e la guardai per l’ennesima volta parlare con Edo, che con lei sembrava molto meno scontroso e sarcastico che con me. Appena mi si mise accanto cercai il modo migliore per parlarle, senza farmi notare da lui.
“Ma come fai a parlarci?” chiesi appena lui si girò dall’altra parte per parlare con Filippo.
“Con chi?”, chiese lei, quasi stralunata.
“Con Edoardo!”, abbassai la voce quando nominai il suo nome, non volevo che nessuno sapesse che era uscito dalla mia bocca di mia spontanea volontà.
“Non è così antipatico come sembra. Non sempre!”, rispose, abbassando lo sguardo e giocherellando con le patatine fritte con le mani.
La guardai e non la riconobbi, mi ero sempre fidata di Aurora, eppure quel tipo di considerazione verso Edoardo non la concepivo proprio, non era il genere di ragazzo che a lei sarebbe mai potuto interessare, e non comprendevo quell’avvicinamento. Oltretutto quando eravamo in gruppo lui non evitava di insultare o schernire anche lei di fronte a tutti, facendola arrossire o vergognare senza alcun rimorso, come poteva lei accettare di parlargli in quel modo, come se nulla fosse? Guardai il suo sorriso timido e mi sentii in un certo senso fiera di lei, eravamo amiche da tanto tempo e un suo pregio era sicuramente il saper perdonare le persone con estrema facilità. Evidentemente era per quel motivo che con Edoardo si trovava bene nonostante tutto, lei era buona a prescindere da lui.
 
Entrammo nella sala del cinema tutti un po’ trafelati, avevamo corso per fare tutto in tempo e ora ci ritrovavamo seduti in posti che non erano i nostri con in mano venti confezioni di pop-corn e coca cola a litri. Cercai Gu e mi ci sedetti accanto, dividendo con lui il mio pacchetto di pop-corn. Guardammo il film in santa pace, senza le battutine stupide di Edoado che si trovava a una certa distanza da noi e nemmeno con i commenti su ogni singola scena di Azzurra. Ogni tanto mi voltavo e gli sorridevo, contenta per quella serata.
Quando uscimmo, una ventata di aria gelata ci annunciò che il freddo stava arrivando, e molto velocemente. Mi maledissi per non aver portato qualcosa di più pesante e mi sedetti nell’angolo più riparato della terrazza su cui ci trovavamo. Eravamo tutti più o meno in cerchio, come era capitato altre mille volte in giro e a scuola, e in quel modo, dall’esterno, apparivamo proprio come una vera comitiva di amici, uniti e ilari. E in effetti io amavo quei momenti, in cui potevo stare a sentire cosa dicevano gli altri, stando nel mio angolino e sorridendo quando notavo qualcuno che mi guardava. Ero una persona solitaria, che amava molto stare ad ascoltare e guardare le persone piuttosto che essere ascoltata e guardata. Mi era sempre piaciuto studiare i movimenti e gli atteggiamenti altrui, così quando capitavano quelle rimpatriate in cerchio stile “alcolisti anonimi”, io mi sedevo e osservavo, ascoltavo, studiavo.
Quella sera il tutto risultava molto difficile, tremavo dal freddo e mi assentai più volte con una scusa per poter entrare nella hall del cinema e poter riattivare la circolazione degli arti, ghiacciati dal freddo.
Quando uscii per l’ennesima volta trovai Guglielmo un po’ più vicino al mio posto, e sorrisi, pensando ancora una volta alle elucubrazioni che avrebbe poi fatto Azzurra su quel minimo gesto.
Mi sedetti e cercai di scaldarmi strofinandomi le braccia con le mani, e rannicchiandomi.
“Tesoro ma senti freddo? Ho il cappottino in borsa, lo vuoi?”, non avrei mai voluto rovinare l’abbinamento di colori con qualche giacca rosa di Azzurra, ma fortunatamente quello che uscì dalla sua borsa non era un cappotto color confetto, bensì una felpa piuttosto pesante blu, con il cappuccio in peluche, giusto per rimanere in stile Azzurra. Le sorrisi ringraziandola e me lo infilai, notando una nota di disappunto nel viso di Gu. Non capii il perché, ma grazie ad Azzurra riuscii a stare meglio per un’oretta, finchè lei non decise di andare a casa e strapparmi da quel caldo giaciglio.
Rimasi li al freddo ad ascoltare i discorsi sconci di Edoardo che sembrava una macchinetta, finchè non sentii sulle spalle qualcosa di caldo, mi voltai e non vidi Guglielmo mettermi addosso il suo giubbotto. Lo ringraziai con gli occhi e mi voltai, continuando ad ascoltare Edoardo, che mentre tergiversava e mimava il suo discorso aveva visto tutta la scena. Lo fissai e lui distolse lo sguardo, continuando a mimare vicende strane.
Non sapevo bene perché, ma quel momento mi aveva fatto piacere. La gentilezza di Guglielmo mischiata alla soddisfazione di vedere Edoardo imbarazzato per aver visto tutto mi aveva come rinvigorito, e con foga cercai di infilarmi il cappotto di Gu, finchè non sentii uno strappo, e sudai freddo. Guardai il lato dal giubbotto e notai un elastico rotto. Alzai gli occhi verso Guglielmo, che aveva sentito lo strappo e si era voltato, e lo guardai.
“Oddio scusaa”, sussurrai, gli occhioni che chiedevano perdono per qualcosa che non sapevo nemmeno come ero riuscita a fare.
“Cosa hai fatto Perla?”, chiese lui, avvicinandosi a me per vedere il giubbotto da vicino.
“Ti giuro che non lo so. Lo stavo infilando e ho sentito un tac.”, scoppiai a ridere, troppo imbarazzata e divertita dalla cosa. Cercavo di sdrammatizzare, non avrei voluto litigare con Gu.
“Lo so che non l’hai fatto apposta. Si è solo sganciato un elastico che lo chiude sotto, riesci a tenerlo su comunque?”, chiese. Rimasi interdetta per qualche secondo. Appariva tranquillo e pacifico, io al suo posto mi sarei messa a sbraitare e a lanciare le cose per aria, lui invece si preoccupava che riuscissi a indossarlo ancora.
Quasi mi luccicarono gli occhi di lacrime, ma annuii, abbassando lo sguardo e facendo finta di chiudere la cerniera, per poter ricacciare indietro le lacrime senza farmi notare. Lo guardai allontanarsi di poco con la coda dell’occhio, e sedersi al solito posto. Poi alzai lo sguardo, accoccolandomi in quel posticino caldo.


-notepocoserie-
*guarda tutti emozionata* ecco il secondo capitolo. E' stato molto bello scriverlo, ero tipo una macchinetta che non smetteva più di scrivere, nonostante il tempo sia stato davvero poco. Sono riuscita anche a ripettare l'uscita settimanale, pubblicando proprio a una settimana dal primo capitolo U.U
spero vi sia piaciuto, e devo fare qualche ringraziamento, prima di tutto a TRIGGER HAPPY aka la mia TWIN aka la mia BETA(ho scoperto che si dice così O_O). Fatele una statua perchè è davvero un angelo che ascolta tutte le mie pippe mentali e non. xD ai lof iu.
Un grazie particolare va anche alle mie amore del forum che mi sostengono sempre nelle mie pazzie, una su tutte giuls con cui siamo entrate nel tunnel dei modelli per interpretare Edoardo ahah xD
a proposito, vi è piaciuto? *O* io lo amo già. Anche Gu per carità è stupendo ahah, ma Edo con la sigaretta? parliamone xD
P.s. in teoria avrei i volti dei personaggi, magari nelle recensioni ditemi se desiderate sapere chi sono oppure no LOL. (:
un bacio a tutti, love you all. pleinelune.

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Capitolo 4
*** 03 - TOGLITI QUEL SORRISO DAL VISO ***


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03 – TOGLITI QUEL SORRISO DAL VISO

   

 In principio tu ti sederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla.
Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino.
-Antoine de Saint-Exupéry; Il Piccolo Principe-

 
“Anche oggi al centro commerciale?”, chiesi avvicinandomi al banco di Aurora, nella parte opposta della classe rispetto al mio.
“Certo, vieni?”, chiese, sorridente.
“Viene anche il maniaco?”, risposi poco convinta. Non avevo voglia di uscire, il freddo si era fatto insistente e la sera prima avevo preso abbastanza freddo.
“Perla non fare così, non puoi azzerare la tua vita sociale per lui”, cercò di convincermi. Certo che ci sarebbe stato, lui era ovunque, con chiunque e faceva qualsiasi cosa. L’indifferenza stava diventando inutile e sorrisi a Aurora, mentre la professoressa entrava in classe, allontanandomi per andare al mio posto. Dietro di lui.
 
“Vieni al centro?”, sentii la sua voce e alzai lo sguardo lentamente dal libro su cui avevo puntato gli occhi, per non sentirlo, appunto.
Lo guardai interdetta per qualche secondo e poi annuii in silenzio, riabbassando lo sguardo e tornando a leggere, anche se le parole ormai apparivano piuttosto confuse.
Lo vidi con la coda dell’occhio rigirarsi sulla sedia e appoggiare la schiena al muro, con naturalezza.
Dopo pochi minuti riuscii di nuovo a connettere il cervello agli occhi e a capire ciò che stavo leggendo, tanto che quando lui si rigirò per copiare non dissi nulla, talmente ero impegnata nella lettura del testo.
Quando suonò la campanella mi si avvicinò Azzurra, che aveva notato tutto, e mi sorrise.
“Ti ha parlata?”, chiese, ghignando sotto i baffi.
“Strano eh?”, risposi, ancora sbigottita al solo pensiero.
“Mi dispiace averti lasciata al freddo ieri, ho pensato solo dopo che potevo lasciarti il cappotto, me lo avresti riportato oggi.”, cambiò discorso e ne fui contenta, nonostante notassi una punta di malizia in quelle scuse.
“Me l’ha prestato Guglielmo il giubbotto poi.”, dissi, abbassandomi per mettere i libri in borsa.
Vidi il suo piede muoversi ritmicamente e alzai il viso a guardare il suo, estremamente eccitato.
“Cosa c’è adesso?”, chiesi, spazientita.
“Scherzi? È un chiaro segno a mio parere.”
“E tu sapevi benissimo che quando te ne saresti andata lui me lo avrebbe dato.”, dissi, puntandole un dito contro. “E non c’è nulla di strano, Guglielmo, anche se ti può sembrare strano, è un bravo ragazzo.”, chiusi la borsa con uno strattone e mi alzai, sovrastando la mia amica, molto più bassa rispetto a me.
Non rendendomene conto, mentre parlavo avevo alzato un po’ la voce, e vidi Gu da metà classe che mi guardava e sorrideva, insieme a suoi due amici strani. Ricambiai e abbassai il viso, guardando le mani che giocherellavano impazzite con la zip della borsa.
“Ok”, sentii la vocina di Zu dopo pochi secondi, quasi offesa da quel comportamento.
Cercai di abbassare la voce e quando aprii la bocca per parlare notai di averla abbassata un po’ troppo. “Zu, lo sai che mi piaceva. Queste cose non fanno altro che alimentare una fiamma che dovrebbe essere spenta da tempo. Non c’è e non ci sarà mai nulla.”, sorrisi, cercando di rassicurarla, di convincerla, e lei mi guardò quasi consolata. Non era riuscita a trovare le due metà della mela, ed era una fallimento immenso per lei.
“Andiamo o vogliamo stare qui a farci la manicure?”, sentii la voce di Edo dietro di me e mi voltai scocciata.
“Inizia ad andare, nessuno ti fermerà.”, risposi, guardando di nuovo Zu e Aurora, che nel frattempo si era avvicinata.
“Vorrei stare vicino a te e darti la manina, ma non me lo lasci fare.”, rispose lui, allontanandosi con le mani in tasca, quasi piagnucolando.
Odiavo quando cominciava ad usare quel sarcasmo con me, e odiavo di più il fatto che mi permettessi di odiarlo, avendo una specie di interesse per lui. L’indifferenza è la migliore arma, continuavo a ripetermi inutilmente. Vidi Guglielmo seguirlo, mentre si voltava per lanciarci, o lanciarmi come avrebbe detto Azzurra, un sorriso come saluto.
“Perla dovresti essere meno odiosa nei suoi confronti. Ignoralo”, sentii la voce di Aurora concitata e quasi irata. Mi conosceva bene e sapeva quale fastidio potessero darmi quelle piccole discussioni con Edo, scambi di battute che duravano pochi minuti ma che mi lasciavano un senso di smarrimento per ore.
“Lo sai che ci provo.” Conclusi prendendo la via dei ragazzi.
 
 
Camminavamo in cerchio, tra negozi e gente di ogni nazionalità all’interno del centro commerciale da almeno tre quarti d’ora. Eravamo rimaste solo in tre, io, Aurora e Azzurra. Gli altri tre appena avevano visto un Game Stop ci si erano fiondati, scoprendo di poter giocare gratis all’ultimo gioco della Playstation. I negozi erano pieni di gente che approfittava dei primi saldi di stagione, anche durante la settimana, e a noi non andava di fare file interminabili per vestiti che il giorno dopo sarebbero costati la metà di quanto li avevamo pagati, così decidemmo presto di riunirci con i ragazzi, che nel frattempo non si erano mossi di là, continuando a imprecare davanti a un'azione o un goal dell’avversario. Ci sedemmo su una panchina di fronte al negozio di videogiochi con le vetrine trasparenti e Azzurra cominciò a lamentarsi della sua storia “travagliata” con Federico, il suo fidanzato storico. Dopo il litigio di qualche giorno prima avevano chiarito, ma lei aveva iniziato a sentire un suo ex e non sapeva più che fare.
“Ma lascialo”, le dissi scherzando.
“Sei sempre la solita. Per te un trombamico va più che bene, immagino. Emozioni, vade retro.”, mi rispose, vagamente acida. Aveva ragione però, non sopportavo quel comportamento degli innamorati, quel parlarsi in modo sdolcinato o lo stare insieme per anni. Non credevo al vero amore, o almeno non a quello che si incontra alla nostra età.
“Io non ho bisogno di stare con uno fisso.”, risi, guardando involontariamente i ragazzi dall’altra parte della vetrina, intenti a giocare a calcio virtualmente.
“Ooooh..”, sentii la voce di Azzurra farsi bassa e, voltandomi, vidi i suoi occhi illuminarsi.
“Smettila!”, cercai di fermarla, prima che cominciasse con la solita solfa.
“Lo sai benissimo che non puoi fermare l’amore. Il destino, Perla, il destino!”, stava visibilmente vaneggiando, ma le sorrisi comunque, per poi girarmi verso Aurora, che guardava fissa verso i ragazzi, incuranti dei nostri sguardi.
“Certo che sono proprio belli,”, disse, continuando a fissarli, “come ragazzi intendo. Non possiamo lamentarci, almeno della vista!”, concluse, guardandoci con uno sguardo da santarellina.
Risi di quell’uscita, e li vidi girarsi, guardarci un secondo e poi continuare a giocare, parlando.
“Chissà che si dicono”, sussurrai, evitando di osservarli ulteriormente.
“Dicono che siamo troppo belle per essere loro amiche.”, rise Aurora.
“Però ha ragione Aurora, Edo è proprio bello, dai. In classifica è sicuramente il primo”, disse Azzurra, rivolta verso di noi e facendo il conto con le dita.
“Da quando c’è una classifica?”, chiesi, incredula.
“Da quando tu stai tutti i pomeriggi con Gu e noi non sappiamo cosa fare con gli altri due”, rispose Aurora, divertita.
“Devi sapere che ci sono una serie di requisiti che un ragazzo deve avere per stare in cima alla classifica. Noi ci dobbiamo accontentare, ma Edo li ricopre “quasi” tutti.”, pensai al suo carattere e subito mi venne voglia di dire che lui sarebbe stato proprio bene all'ultimo posto.
"Il comportamento non è un fattore determinante", si affrettò a precisare Aurora, intercettando il corso dei miei pensieri.
"E quali sarebbero questi fattori che lo rendono il migliore?", chiesi fingendomi interessata.
"Beh, prima di tutto si guarda l'aspetto fisico. Converrai con noi nel notare che Edo di certo non si può dire che abbia un brutto fisico. È alto, ben formato, con i muscoli al punto giusto e un sorriso da paura".
"Quando si degna di ridere.", risposi, mentre con gli occhi constatavo che Aurora non aveva poi così torto. Lasciai che lo sguardo si perdesse oltre la parete di vetro che ci separava da loro e ci permetteva di non essere sentite, e lo squadrai, analizzando ogni parte del suo corpo, cosa che mai mi ero concessa di fare, e fui sorpresa nel constatare che le mie amiche non avevano tralasciato una virgola. Alzai lo sguardo fino al suo viso, notando che in quel momento era voltato verso di noi e che aveva assistito alla mia perlustrazione accurata, con un sorrisetto sul volto. Quel sorriso.
Distolsi lo sguardo immediatamente, voltandomi verso Azzurra che lo prese come un incentivo a proseguire nell’elogio delle migliori parti di Edo.
“Vogliamo parlare poi del fascino del puttaniere senza vergogna?”, aggiunse, enfatizzando la frase gesticolando con le mani.
Risi, mentre con la mano cercavo nella tasca della borsa il telefono e guardavo lo schermo, che mi avvisava di una decina di chiamate.
“Cazzo!”, sussurrai, alzandomi.
“Devo andare ragazze. Mi ero dimenticata del parrucchiere, ci dovevo andare oggi con mia madre. Salutatemeli.”, sorrisi e mi incamminai verso l’uscita del centro commerciale. L’ultima cosa che riuscii a udire fu il ticchettio delle scarpe dei ragazzi che uscivano dal negozio e della voce di Edo che chiedeva: “Dove sta andando?”, riconobbi anche senza guardarlo il sorrisetto sul suo viso.
 
“Ancora in ritardo, oggi è un record”, mi accolse la mattina dopo Edo, eccessivamente loquace, facendo finta di cronometrarmi con l’orologio che aveva al polso.
“Che simpatico”, risposi, sedendomi, trafelata per la corsa, al mio posto.
“Sai ieri sono uscito con una. Oddio uscito è una parolona.”, cominciò, atteggiandosi, “in realtà siamo stati a casa a vedere un film”
“Che film?”, chiesi, senza stare realmente ascoltando ciò che mi diceva. Mi ero dimenticata di stare parlando con lui e quando mi rispose capii perché lo sopportavo così poco.
“E chi se lo ricorda, ero troppo impegnato a farmela”, rise, voltandosi.
Lo fulminai e cercai di prestare attenzione alla lezione che era appena cominciata.
“Potresti evitare, ogni volta, di raccontarmi le tue schifezze? No perché realmente non mi interessa quello che succede nei tuoi pantaloni”, sussurrai, allungando il corpo oltre il banco, verso la sua sedia per non farmi sentire da tutti.
Lo sentii sorridere, ma non si girò, e sperai che avesse compreso l’antifona.
 
Naturalmente i suoi monologhi sconci non finirono quel giorno, ma cominciai a notare dei miglioramenti dopo qualche mese. I suoi discorsi, le poche volte che era inevitabile ascoltarli, apparivano un po’ meno sporchi, meno dettagliati, e si erano ridotti visibilmente. Ogni tanto quando si girava per copiare, appariva leggermente meno imbronciato e strafottente e un po’ più affabile, qualche volta gli era anche scappato un grazie, probabilmente perché aveva mangiato del miele a colazione.
“Seriamente non sai fare queste stronzate?”, chiesi, cercando di strappargli il mio quaderno di matematica dalle mani che lo attanagliavano fameliche.
“No, le so fare. Ma so che ti piace tanto che mi giri a parlarti, quindi eccomi qui, che soddisfo le tue voglie.”, ammiccò, prendendo definitivamente il quaderno dalle mie mani e portandoselo sul banco, ormai a me irraggiungibile.
Naturalmente le battute non erano finite come i discorsi, anche se erano un po’ meno acide, e fatte con una punta di simpatia.
Inoltre evitavo di prendermela e cercavo di passare quelle sei ore di scuola con un minimo di ottimismo.
Sbuffai, guardandomi attorno in attesa di riottenere il mio quaderno, quando notai che Gu ci osservava, gli sorrisi e tornai a guardare Edo, che copiava passo passo il procedimento.
Gu era solito mettersi accanto a me nell’ora di matematica, facevamo gli esercizi insieme e solitamente Edoardo evitava di disturbarci, unendosi a Filippo e continuando a dire stupidaggini per tutta l’ora.
A Guglielmo piacevano quei momenti, e, strano a dirsi, ma facevamo davvero gli esercizi che il professore ci assegnava, sfidandoci a chi li avrebbe finiti prima.
Quel giorno non si era avvicinato, era rimasto al suo posto con Filippo, e io avevo lasciato che passasse un po’ di tempo con qualche ragazzo, avendo già trascorso metà mese scorso in mia compagnia. Mi piaceva stare con lui e notavo che le ore passavano senza che ce ne rendessimo conto, avevamo parecchie cose in comune e lo vedevo un po’ come un fratello. Ci piacevano i libri, lo stesso genere di scrittura e gli stessi film, amavamo passare ore a parlare e a confrontarci a proposito di un libro o di un telefilm visto, e ci perdevamo in quelle considerazioni, senza renderci conto che intorno a noi il mondo si muoveva e il sole andava a imbrunire, facendoci sprofondare in una coltre buia. A quel punto camminavamo insieme fino al pullman più vicino e lui aspettava che arrivasse prima il mio, per poi salire a sua volta su quello che lo avrebbe portato a casa.
 
“Perla”, sentii una mano sul braccio e mi riscossi dai miei pensieri su Guglielmo, vedendo che la mano e la voce erano di Edoardo, mi ritrassi istintivamente e lui parve accusare il colpo, non credendo che mi sarei scostata.
“Che c’è?”, chiesi, quasi scocciata.
“Mi devi far copiare”, rispose, secco.
“Basta, dovresti imparare a fare da solo.”, chiusi il quaderno per non farlo leggere, improvvisamente inacidita dalla situazione.
Fece una faccia strana, per poi rigirarsi verso la lavagna.
“Te lo ripeto. Scopa di più”, la sua voce era bassa e arrabbiata, per la prima volta.
Non sapevo perché avessi risposto in quel modo, probabilmente era il mio continuo altalenare di emozioni nei suoi confronti, di cui lui non si rendeva nemmeno conto.
“Scusa.”, sussurrai, pensando che non sentisse. Lo feci per me, per una questione di rispetto nei suoi confronti. Nonostante continuasse a fare battute stupide e sconveniente nei miei confronti, sentivo il bisogno di scusarmi.
Naturalmente, come sempre, vidi con la coda dell’occhio il profilo del suo viso, e la sa bocca inarcarsi impercettibilmente, e capii che aveva sentito.

-notepocoserie-
Of course un GRAZIE IMMENSO A ROB AKA TWIN AKA TRIGGERHAPPY AKA NARCOLEPTIC AKA "COLEICHEMIRICORDAMORGAN" AKA TUTTO CIO' CHE VOLETE che ha betato (corretto, scritto ♥) questo capitolo e tutti i capitoli per l'eternità, finchè morte non vi separi. Dica lo voglio. YEAH!
chiedo venia, arrivare così in ritardo.. è proprio da me ahah LOL mi scuso, a sappiate che vi amo e spero mi scuserete ♥
Allora il capitolo è qui, ora inizierò a scrivere il prossimo così almeno venerdi ce l'ho già pronto xD e non mi linciate U.U
Edo, Perla e Gu, come anche Zu e Aurora sono adorabili e non osate dire che non è così ahah ♥ Siccome la volta scorsa vi avevo detto che c'era la possibilità di vedere alcuni volti dei personaggi, beh, eccovi il link per andarli a vedere. Ho fatto per ognuno un post sul mio portfolio per poter lasciare la possibilità a voi anche di commentare o poter lasciare qualcosa, qualsiasi cosa *O*
Vorrei puntualizzare una cosa, il volto di Guglielmo è ancora provvisorio. purtroppo Toby Regbo è l'unico attore che mi aveva ispirato, ma nel vederlo poi in video e foto è risultato davvero inadatto a parte per i capelli biondi e il viso d'angelo U.U per il resto è troppo effemminato. Gu è comunque un uomo alfa, suvvia xD
Boh, non saprei che altro dirvi se non spero che abbiate apprezzato, è stato un capitolo piuttosto approfonditivo (?) rispetto al rapporto tra Gu e Perla, che secondo me è molto importante perchè Gu è dolcissimo ♥.♥
Ecco il link per vedere i personaggi con i ripettivi volti e, alla prossima with love **
http://soniaportfolio.forumfree.it/?f=9558358
P.s. RECENSITEEE ♥ mi farebbe davvero molto piacere U.U
un bacio, pleinelune aka Sonia. 
 

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Capitolo 5
*** 04 - TI CONDENSI ATTORNO A ME COME UN RESPIRO ***


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04 – TI CONDENSI ATTORNO A ME COME UN RESPIRO
 
   

“L’amicizia tra uomo e donna è sempre un poco erotica, anche se inconsciamente”.
Jorge Luis Borges

 
Dicono che quando si incontra la persona giusta lo si capisce subito. Accadono cose all’interno del nostro corpo, della nostra anima, che ce lo fanno capire. Alcuni dicono che il cuore inizia a martellare, chiedendo prepotentemente di uscire dal petto, altri sentono le farfalle nello stomaco, e c’è chi sente la musica. Io non ho sentito nulla, ma lo sapevo.
 
Entrai in classe, trafelata per la corsa e trovai, seduto sulla mia sedia, Edoardo.
“Spostati”, sorrisi, lanciando la borsa accanto al banco e iniziando a tirarlo di peso, per costringerlo ad alzarsi e a spostarsi.
Rise di gusto, “Sei sempre più in ritardo, Perla. Ma che hai in quella testa, segatura?”, lo guardai, fulminandolo con lo sguardo. Aveva sempre quel modo sfacciato e strafottente di dire le cose che mi infastidiva, pur sapendo che scherzava.
“Cos’è, controlli quando arrivo? Ti manco troppo?”, risi, tirandolo inutilmente per un braccio.
“Sempre.”, rispose sorridendo, dandosi lo slancio e alzandosi dalla sedia proprio mentre io ero intenta a strattonargli il braccio, tanto da trovarmelo completamente addosso. Sentii il suo respiro sul collo e mi scostai velocemente, arrossendo.
“Tu sei pazzo.”, risi, imbarazzata, e mi sedetti, col fiatone.
“Si, di te”, rise ancora una volta, per poi voltarsi verso la professoressa che era appena entrata in classe.
“Buongiorno ragazzi..”
 
Il pomeriggio, dopo la scuola, andammo in biblioteca, per studiare in pace, senza il fracasso di pentole a casa mia e la cappa di fumo di sigaretta a casa di Guglielmo.
Alzai la tazza e bevvi un sorso di thè fumante, riappoggiandola poi silenziosamente sul tavolo della biblioteca, Guglielmo di fronte a me era chino sui libri, intento a studiare. Io, d’altro canto, avevo realmente bisogno di una pausa e gli toccai una gamba col piede per attirare la sua attenzione. La sala era piena di ragazzi di ogni età chini sui libri, studiavano le materie più disparate e continuavano tutti a muoversi ritmicamente da sinistra verso destra, nell’intento di leggere e capire quello che i grandi tomi davanti a loro proponevano. Mi sembravano tanti automi. L’aria era satura di ogni possibile odore, e uscimmo da quella stanza tirando un grande sospiro.
“Non si respirava lì dentro”, disse Gu, leggendomi nel pensiero. Aveva ancora la voce bassa, e decisi di tenerla a quel volume anche io. Amavo quel rispetto verso la biblioteca, quel timore che immediatamente emanava al solo guardarla. Era un santuario, una chiesa dei libri.
Sorrisi, avvicinandomi alla macchinetta, unico posto in cui era possibile sostare senza venire investiti da ragazzi e borsoni stracolmi di libri.
“Prendi qualcosa?”, chiesi, estraendo il borsellino.
“No grazie.”, lo rimisi in tasca, avendo già bevuto del thè poco prima.
“Scusami, stavo soffocando. Hai capito qualcosa di quello che stavi leggendo?”, chiesi, appoggiandomi al muro con la schiena.
“Ovviamente no”, rise, senza esagerare, mantenendo la risata bassa, roca.
“Io con la storia non sono molto bravo. Le date sono un problema insormontabile”, aggiunse poco dopo. Rimasi in silenzio ad osservarlo, cercando di trattenere tutto l’ossigeno che l’aria del corridoio mi regalava, puro e profumato.
“Allora, come ti stai trovando nel posto nuovo?”, chiese, tentennante. Ancora non avevamo affrontato l’argomento cambio posti. Lui era capitato vicino a Filippo, quindi tutto sommato gli era andata bene. Il problema ero io.
“Oddio ci devo pensare anche fuori scuola?”, risi, cercando di sdrammatizzare. Il pensiero di Edo era ormai costante nella mia mente, ad ogni azione che facevo corrispondeva un pensiero indirizzato a lui. Erano giorni che mi chiedevo come una persona potesse cambiare in quel modo, e come si potesse avere un’opinione così confusa di un ragazzo che fino a pochi giorni prima appariva così chiaramente prevedibile.
“Vedo che non ti stai trovando così male, alla fine.”, disse, aveva lo sguardo basso, quasi fosse rassegnato a una realtà evidente.
“Si chiama civile convivenza.”, risposi, piccata. Non mi piaceva pensare che la gente vedesse una specie di amicizia tra me e Edoardo, soprattutto perché di amicizia non ce n’era neanche l’ombra.
Alzò lo sguardo e mi fissò dritto negli occhi, quasi a scrutare e valutare se le mie parole fossero sincere o meno. Mi sentii a disagio, sembrava un marito geloso, un fidanzato opprimente. Non Gu.
Distolsi lo sguardo e mi spostai dal muro, in quel momento anche la posizione in cui eravamo mi metteva a disagio, il vederlo di fronte a me, a pochi centimetri, mi faceva pensare a quelle scene nei film in cui mentre si parla lui prende l’iniziativa e bacia la protagonista. E io non volevo essere la protagonista.
“Torniamo dentro, devo finire matematica”, sussurrai, incamminandomi. Sembrava proprio la scena di un film, perché lui rimase a guardare il muro vuoto di fronte a sè per qualche secondo prima di voltarsi e seguirmi, in silenzio.
 
Eravamo in classe da tre ore, seduti immobili ad ascoltare una lezione infinita di economia di cui stavo capendo davvero poco. La professoressa aveva chiesto di spostare le lezioni successive alla sua per “non spezzare l’argomento e far perdere il filo ai ragazzi”. Quello che non aveva messo in conto era che “i ragazzi” nemmeno l’avevano trovato il filo del discorso, e non le importava. Quindi erano tre ore buone che ripeteva cose senza logica, disegnando schemini alla lavagna, convinta che quelli che vedeva chini su un foglio a scrivere stessero realmente copiando le cose che scriveva,da bravi bambini.
La campanella ci salvò in corner, interrompendo una sequela estremamente lunga di tipi di economia, inframezzata da paroloni incomprensibili anche a un laureato.
Mi alzai velocemente e mi andai a posizionare al termosifone subito fuori della classe, monopolizzandolo. Poco dopo mi si affiancarono Aurora e Azzurra, entrambe impegnate a sorseggiare del thè alla pesca.
“Ehi, datemene un po’”, dissi, prendendolo dalle mani di Aurora.
“Non hai niente da raccontarci?”, chiese Azzurra, facendomi voltare di scatto, dopo aver bevuto un sorso del liquido ambrato.
“Cioè?”, domandai, confusa. Quella volta non sapevo veramente cosa avrei dovuto dire.
“Abbiamo visto tutto..”, rispose, ammiccando maliziosamente.
Per un riflesso incondizionato pensai a Edo, cercando di ricordare se ci fosse stato un atteggiamento ambiguo tra di noi, ma non mi sovvenne nulla, così tornai ad alternare il mio guardo smarrito tra Aurora e Azzurra, che mi scrutavano con un sorrisetto sul viso, attente a non farsi sentire.
“Ma hai visto Guglielmo stamattina?”, chiese infine Azzurra, facendomi rilassare, trassi un sospiro di sollievo e, “cosa ha fatto ora?”.
“Non hai notato che, in tre ore di lezione, ti ha fissato per circa due ore e cinquantanove minuti?”, rispose Aurora, aggiungendosi alla conversazione. Alzai gli occhi al cielo, esasperata dalle loro supposizioni, e portai gli occhi in direzione dell’interno della classe, dove c’erano ancora i ragazzi. Vidi il posto di Guglielmo, accanto alla finestra, e lui ancora seduto sulla sedia, appoggiato alla colonna tra una finestra e l’altra, Edo e Filippo gli stavano attorno, probabilmente si lamentavano delle tre ore ininterrotte di lezione, perché notai che Gu prestava fin troppa poca attenzione, e il suo sguardo era ancora, costantemente, rivolto verso di me. Gli sorrisi, in imbarazzo, lo guardai ancora per qualche secondo. Sembravacorreggiato*, pensieroso, e non ricambiò il sorriso, si limitò a togliere la mano dalla testa con cui si sosteneva sul banco e a voltarsi, fingendo di ascoltare i due ragazzi di fronte a lui.
Abbassai lo sguardo, mentre intorno a me Azzurra e Aurora continuavano a chiedermi cosa fosse successo.
Non lo so, avrei voluto rispondere, ma non lo feci, rimasi in silenzio, lo sguardo fisso sulle punte delle mie ballerine nere.
Cos’era successo?
 
Mi alzai per andare a chiudere la finestra, spalancata. Il freddo aveva fatto capolino del tutto, e ci aveva colto impreparati, regalandoci giornate gelide mentre ancora indossavamo t-shirt e foulard.
nel giro di una settimana aveva costretto tutti a indossare maglioni pesanti e, per alcuni, il pigiama sotto i jeans era diventato un must di stagione. La mia famiglia era sempre impreparata a cambi di stagione improvvisi, e a distanza di una settimana mi ritrovavo ancora a vestirmi a strati, con una quantità di t-shirt di varie lunghezze addosso inaudita.
Avvicinandomi alla finestra, oltre alla pelle mi si gelò il cuore, notando dei piccoli puntini sparsi qua e la, nascondersi tra alberi e foglie, ormai cadute del tutto.
La reazione di una persona normale, e quindi quella dell’intera scuola, sarebbe stata, e così fu, gioire e cominciare a gridare in ogni modo possibile, la mia fu un po’ diversa. Imprecai, abbassando con violenza la finestra a baionetta, rischiando di mozzarmi qualche dito nella foga di dividere il freddo dal mio mondo. Sentii gli occhi puntati su di me all’istante, così mi voltai, e tornando al mio posto con una calma inaudita mi limitai a dire: “Sta nevicando”. Poi ci fu il putiferio.
Ragazzi che gridavano e si avvicinavano alle finestre per poter vedere quei minuscoli fiocchi che sembravano tanto timidi, placidi, ma che in realtà erano degli egocentrici allucinanti. Io rimasi seduta al mio posto, appoggiata contro il muro, a guardare la folla di persone ammassata dalla parte opposta della classe, e tra questi scorsi il viso di Edo. E anche quello di Guglielmo.
Abbassai lo sguardo, tornando al libro che, in teoria, avrebbe dovuto costituire argomento di lezione, e vidi il professore avvicinarsi al mio banco con la coda dell’occhio, ormai rassegnato alla neve, forza maggiore anche per un insegnante di etica.
“Perla”, sentii il mio nome nitido e pulito, educato. Alzai il viso verso l’unico professore che veramente avevo l’onore di conoscere  e di apprezzare e mi stampai un sorriso sulla faccia.
“Si?”
“Non ti piace la neve, immagino.”, disse, congiungendo le mani dietro la schiena.
“Ci sono tante cose che non mi piacciono, prof.”, sorrisi, guardandolo allontanarsi per tornare alla cattedra, sistemare i vari plichi e tomi in un’alta pila e farmi un cenno per accompagnarlo nella classe successiva alla nostra.
Mi alzai e abbandonai quella classe, che lasciava andare via un professore come si deve per guardare la neve, che presto li avrebbe lasciati, sciogliendosi ai bordi delle strade.
“Ti trovi bene in questa classe, Perla?”, ancora il mio nome. Mi piaceva come lo pronunciava, senza inflessioni, netto, sembrava quasi un bel nome detto da lui.
“Certo, prof. Sono i posti che lasciano a desiderare.”, buttai li, abbozzando un sorriso.
“Edoardo.”, sapeva già quello che pensavo di quel ragazzo. Quel professore mi conosceva meglio di quanto io conoscessi me stessa.
“Si. Ma non mi fraintenda, in fondo credo anche io che sia un bravo ragazzo”, evitai di dire che in quelle settimane avevo imparato cose di lui che nemmeno immaginavo esistessero, avevo provato sentimenti che credevo impossibile provare per, o con, lui.
“È un bravo ragazzo. In fondo.”, si limitò a ripetere il prof, abbozzando un sorriso di congedo, prima di riprendersi la pila di libri che avevo portato fino a quel momento ed entrare in un’altra classe, lasciandomi libera di tornare ai malati di neve.
Mi incamminai a ritroso in quel lungo corridoio che in compagnia del mio professore era sembrato così corto e che ora sembrava non finire mai, e fui libera di riflettere ancora un po’ sul comportamento di Gu, che era stato piuttosto strano. Entrai in classe con in testa ancora gli stessi pensieri confusi su Guglielmo quando mi ritrovai di fronte Edoardo, che mi prese per un fianco e mi spinse contro la parete accanto alla porta della classe.
“Oggi si va comunque in giro”, sentivo il suo respiro sul viso, e rimasi interdetta qualche secondo, prima di rendermi conto che il suo corpo era aderente al mio e che io non stavo facendo assolutamente nulla per evitare quel contatto. Lo spinsi con tutta la forza che raggruppai al momento e riuscii a scansarlo di pochi centimetri, talmente poca era la mia buona volontà.
“Ma che fai?”, chiesi, infastidita, continuando a spingere per distanziarlo da me.
“Lo so che ti piace.”, si limitò a non-rispondere, stringendo un mano sul mio fianco. Mi venne voglia di abbozzare una ginocchiata nel punto in cui gli avrebbe fatto più male ma mi trattenni, non volendo attirare l’attenzione. Guardando oltre la sua spalla notai che nessuno era intento a osservarci, troppo impegnati a guardare come degli ebeti la neve scendere lentamente e iniziare ad attaccare su muretti e marciapiedi, così assecondai Edoardo, cercando di sbolognarmelo facendo il suo stesso gioco.
“Beh..”, cominciai, appoggiandogli una mano su un braccio e cercando in qualche modo, piuttosto impacciato, di accarezzargliela in modo sexy, “hai ragione.”, risposi, e funzionò. Per quanto mi considerassi in quel momento goffa e imbranata, ero riuscita a stupirlo e a fargli perdere il controllo della situazione, così concentrai tutta la forza rimanente nella mano appoggiata al suo braccio e lo spostai da un lato.
“Quindi si esce ugualmente anche se nevica e ci bagneremo tutti?”, gli domandai, facendo finta di non vedere che era rimasto fermo a osservarmi, sconvolto.
Si riprese quasi subito, e continuando a guardarmi si avvicinò fino a sfiorare ancora con una mano un fianco.
“Ci piace bagnarci”, rise, allontanandosi. E risi anche io, stranamente non infastidita da quella battuta stupida.
 
Uscimmo da scuola schivando palle di neve raccattate e compattate un po’ alla rinfusa, non essendoci ancora uno strato tale da poter giocare a lanciarsi palle candide. Un centinaio di ragazzi, usciti in massa al suono della campanella però, la pensava in modo del tutto diverso, visto che continuavano a creare palline minuscole e piuttosto dolorose quando ti colpivano, poiché composte più che altro di ghiaccio. Riuscimmo a oltrepassare il campo di battaglia quasi del tutto illesi, felici di poter arrivare sani, salvi e soprattutto asciutti nella solita pizzeria.
E ci saremmo anche arrivati, se non fosse stato per i ragazzi, che, come dei cagnolini che impazziscono quando vedono il bianco e iniziano a perdere la cognizione della ragione, anche Edo, Gu e Filippo cominciarono a creare piccole palline di neve, fredde e micidiali. Quello che restava di noi ragazze all’arrivo in pizzeria era una massa informe, completamente fradicia, disposta a tutto pur di poter stare vicino a una stufa a scaldarsi.
 
-notepocoserie-
Allora, buondììì xD prima di tutto devo puntualizzare che finisce così alla cavolo perché ho deciso di dividerlo in due parti, perché a mio parere intero era troppo lungo e in questo vi ho già detto un bel po’ di cose LOLOLOL. Che ora vi andrò a elencare, indi per cui a spiegare:
-il primo paragrafo è un po’ una routine. Volevo farvi capire come passano le giornate Perla e i nostri eroi al di fuori della storia, volevo dirvi come sono i momenti che non racconto, quello che fanno in classe. Okay, la finisco qui. Per me ormai sono persone reali, c’è poco da fare ahah xD
-il secondo paragrafo approfondisce un po’ il rapporto tra Gu e Perla (tanto LOVE per loro) non so perché ma lo vedo un po’ creepy in questo capitolo Gu, e se lo vedete anche voi così, dimenticatelo, perché lui non è così, e solo un pacifico amante della dolcezza ♥♥♥ è un brav’uomo xD
-andando avanti si parla ancora di Gu alla fin fine, questo rapporto che si sta formando tra la nostra eroina e sti bellocci che gli girano attorno. xD
-ultimo pezzo, sono stata ispirata dalla neve che sta imperversando ininterrottamente da settimane in ogni parte d’italia (roma compresa se non ve ne foste accorti ahah xD lo dicono ogni giorno è na roba allucinante). Siccome qui ha nevicato due settimane fa ma la neve c’ha preso residenza e non si scolla più da terra, ho pensato di usarla per benino in questi due capitoli. Sono molto belli a mio parere xD spero vi piaceranno. U.U
-Edo è il solito porco figo stronzo amore della mia vita. E chi più ne ha più ne metta ahah xD
- avete notato il pezzo sul prof? *chissenefrega ci piace troppo edo LOL* , beh, è un po’ un tributo a tutti i prof amorosi che almeno una di noi ha avuto ai tempi della scuola. Oddio io parlo per me, e l’ho avuto. È forse stato l’unico prof che mi abbia vermente capita e sostenuta in ogni situazione, sapeva quello che mi passava per la testa solo guardandomi in faccia e io lo apprezzo veramente molto. Sapere di poter rimanere in contatto con un professore per me è una cosa molto speciale e importante, soprattutto perché ti crescono, ti fanno un po’ da secondi padri e madri, perché vivono con te metà giornata ogni giorno per tutta la settimana e ti vedono passare il momento dell’adolescenza, un momento molto importante a mio avviso. Se cresci mal ein quel momento, sei rovinato per il resto della vita, quindi secondo me hanno un compito molto importante.
BTW, sto divagando, tornando al discorso principale io spero che anche voi abbiate un prof così, di quelli che vi capiscono e lasciano che vi confidiate con loro, come è stato il mio, e a me spiace non sentirlo più spesso come prima perché è un grande uomo ♥ okkay è una dichiarazione al mio professore questa ahaha U.U
-aggiungo solo l’importanza della biblioteca e poi me ne vado. So che amerete il prossimo capitolo, me lo sento, anzi LO SO. Perché io già lo amo U.U
Oddio le note sono più lunghe del capitolo O.O love ya, alla prossima. U.u
 

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Capitolo 6
*** 05 - NELLA CALDA TANA DELL'ORSO ***


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05 – NELLA CALDA TANA DELL’ORSO

   
 

Mangiammo velocemente, nonostante bramassi, assieme ad Aurora e ad Azzurra, l'accoglienza di un posto caldo e asciutto per almeno un'altra mezz'ora. Rabbrividii e mi raccolsi nella sciarpa per quanto mi era possibile, cercando di evitare che zone sensibili prendessero freddo. Infilai una mano nella tasca sul retro della borsa, dove tenevo sempre guanti e cappello di lana, ma la trovai vuota e desolata. Evitai di fermarmi per controllare bene se realmente fosse vuota. Per colpa del tempo avevo deciso di lasciare tutto a casa, così da alleggerire la borsa. Mi maledissi mentalmente, seguendo gli altri dal fondo della fila, in disparte, verso la fermata dell'autobus. Ci fu ancora qualche palla bianca voltante per qualche istante, fortunatamente nessuna era indirizzata a me, ero ancora congelata e sentivo parecchio freddo, ma evitai di farlo notare agli altri, bardati dalla testa ai piedi con ogni possibile indumento invernale. Camminavo silenziosamente, con la mani in tasca, e con una sola cuffia alle orecchie, volevo isolarmi, ma non così tanto da non sentirli più. Camminammo per altri dieci minuti tra risate sguaiate e rimasugli di euforia per la neve, incrociammo per strada dei compagni di scuola e, di conseguenza, allungammo il tragitto di parecchi minuti, fermandoci a parlare e a scherzare. Io rimanevo dietro, in attesa che gli altri smettessero di fare quel che facevano, accennando un saluto a chi si fermava a parlarci, e poi mi rincamminavo, continuando ad ascoltare quelle note che mi rimbombavano nell’orecchio. Ogni tanto sorridevo, se mi veniva rivolta la parola, e continuavo ad andare avanti. Il freddo mi stava mangiando dentro, e l’unico modo per non sentirlo era continuare a fare qualcosa che non mi facesse pensare al gelo che penetrava attraverso il cappotto, fin troppo leggero per quella stagione. Scorsi in lontananza la fermata dell’autobus e la panchina con una piccola tettoia trasparente, per riparare le persone in attesa del bus quando si metteva a piovere. Accelerai il passo, arrivando alla fermata e sedendomi nel posto più riparato della panchina, non sarei stata al caldo, ma sicuramente mi avrebbe riparato da quel gelo pungente.

Vidi Edoardo mettersi vicino a me, senza sedersi, mi diede le spalle e continuò il discorso che aveva iniziato. Sempre educato, sapeva proprio come escludermi da ogni possibile conversazione con loro con un semplice gesto. Così infilai anche la seconda cuffia e alzai di poco il volume, chiudendo quasi gli occhi al suono di quelle dolci note. Dopo un po’ di tempo sentii il fruscio del mio cappotto che sfregava con quello di qualcun altro, e poi una cuffia mi si sfilò dall’orecchio. Aprii gli occhi per rindossarla e scoprii che me l’aveva tolta Edoardo. Lo fulminai con lo sguardo, come al solito, ma non colse l’antifona, perché si infilò la cuffia e cominciò a muoversi a destra e a sinistra, a tempo di musica, prendendomi in giro. Gli diedi uno spintone, per quanto la mia forza e il freddo me lo permettesse e lui, sorridendo, mi lasciò la cuffia. Rimasi in silenzio per qualche secondo, gli occhi fissi sulla cuffia, ora nella mia mano, poi feci per indossarla di nuovo, e scattai. Un brivido di freddo aveva percorso la spina dorsale facendomi saltare sul posto, e nonostante non volessi far notare a nessuno che avevo freddo, Edoardo sentì sfregare i nostri cappotti, e si rese conto che non indossavo nulla di caldo. Sospirai, sperando non iniziasse a fare battute come “ti scaldo io” o “conosco un modo per tenerti al caldo”, e notai che il resto del gruppo era impegnato a scherzare, così da non poterlo assecondare nei suoi tentativi di presa in giro.

Lui però rimase in silenzio e guardandomi, si limitò a sfilarsi il cappello e a calcarlo sopra la mia testa. Sentii subito più caldo e lo guardai, stupita.

“Non ho bisogno del tuo cappello”, sussurrai, poco convinta. Non parlare per tanto tempo aveva fatto sì che la mia voce uscisse rauca e gracchiante, poco convincente sicuramente.

“Smettila e tienilo su. Stai morendo di freddo.”, mi prese il viso tra le mani guantate e sorrise.

“Va come sei passabile ora che hai il mio cappello”, rise, togliendo le mani dal mio viso.

“Sempre molto carino”, risposi, con la solita voca bassa. Lui mi guardò un’ultima volta, sorridendo, e poi tornò a guardare il vuoto di fronte a sè.

Non so perché lo feci, o forse lo so, ma in quel momento dimenticai per un secondo che la persona che avevo davanti era un egoista, donnaiolo e sfruttatore, e mi soffermai a guardarlo. Poi controllai velocemente che nessuno ci stesse guardando e mi allungai velocemente, scoccandogli un bacio sulla guancia. Poi tornai nel mio angolino, arrossendo per l’imbarazzo.

Lui rimase in silenzio qualche secondo, osservandomi senza un’espressione definita sul viso. Lo vidi sorridere e capii che sarebbe stata la fine.

“Basta, mi sono innamorato”, rise, “vedo tutti i cuoricini volare, è così quando si è innamorati?”, chiese, guardandomi. Lo spintonai e m'infilai la cuffia che ancora era tra le mie mani, lo guardai allontanarsi e tornare dal gruppo, mentre io tornavo alla mia musica.

 


Speravo che quel momento insieme avesse migliorato le cose, invece venni ricompensata in modo molto blando. A scuola i discorsi sconci, fortunatamente, finivano sempre prima di arrivare al momento clou della storia, ma in quanto a battute, beh, quelle erano triplicate. Trovava ogni scusa per stuzzicarmi, o per chiedermi un bacio che io naturalmente non gli avrei dato, avrebbe portato il suo viso a pochi centimetri dal mio e io gli avrei tirato uno schiaffo. Quella scena si ripeteva ogni giorno, più volte al giorno.
Con lui si faceva un passo avanti e dieci all’indietro.
Quel pomeriggio sarei dovuta uscire con Azzurra, dalla settimana prima non aveva ancora fatto pace con Federico, nome banale anche per il suo fidanzato, e sembrava da qualche giorno preoccupata, teneva perennemente lo sguardo basso e pensieroso. Era una chiara richiesta di aiuto, così le avevo proposto l’unica panacea contro ogni male per una ragazza: lo shopping.
Inutile dire che era una patita di fiocchi e nastrini, in linea con il suo stile piuttosto frou frou. Ero in casa, con addosso solo una t-shirt e le mutandine alla ricerca di un paio di jeans un po’ più pesanti per evitare di subire il freddo come il giorno prima, quando sentii suonare il campanello. Nonostante avessi ormai una certa età ogni volta che ero sola in casa e suonava il citofono o il campanello, mi si rizzavano le orecchie come ai cani, ripensavo alle parole dei miei che mi dicevano “non aprire agli sconosciuti e non rispondere al citofono se non ci siamo”, e mi toglievo le scarpe, restando a piedi nudi per attutire il rumore dei miei passi che lentamente si avvicinavano alla porta per guardare dallo spioncino. Anche quella volta feci la stessa cosa e quando aprii mi ritrovai mezza nuda di fronte a Guglielmo, che scoppiò a ridere, passandomi affianco per entrare in casa. Rimasi di fronte alla porta aperta, in silenzio.
“Entra pure”, sussurrai, e chiusi fuori il freddo dell’inverno appena sbocciato.
“Come mai da queste parti?”, chiesi, seguendolo in camera.
“Che casino Perla. Ma cazzo sei così disordinata?”, disse, sarcastico, guardandosi attorno.
“Sai che se tornano i miei e ti vedono qui succede un casino, vero?”, domandai, poggiandomi le mani sui fianchi. Cominciavo a sentirmi a disagio in quella mise, non mi vergognavo per il fatto che mi vedesse semi svestita, ma perché a confronto con lui sembrava che fossi appena tornata da una vacanza ai caraibi e non avessi ancora messo piede fuori casa.
Lo invitai a togliersi il cappotto e la sciarpona che quasi lo soffocava, e poi mi sedetti sulla scaletta che portava al mio letto, innalzato sopra la scrivania.
“Ma io so che i tuoi non tornano prima delle cinque”, disse, cercando un posto, in quel caos, in cui potersi sedere. Mi spostai e cercai di liberare una sedia, nascosta da un ammasso informe di vestiti.
“Potrebbero tornare prima, oppure potrebbe tornare mio fratello. E direi che questo non è proprio il tipo di abbigliamento con cui dovrebbero vedermi in tua presenza”, risposi, guardandomi le gambe, nude.
Sorrise, senza il minimo di imbarazzo. “Non torneranno, e poi potresti vestirti.”, rise ancora. Pensai che la sua risata fosse molto bella, ma eliminai quel pensiero dalla mente l’istante dopo averlo formulato. Non potevo, non in quel momento.
“A sapere cosa mettere. Devo andare da Azzurra tra poco.”, parlai cercando tra i gruppetti di vestiti sparsi per la stanza, passando più e più volte davanti a Guglielmo, agitata. Lui si scansava prontamente per evitare di ricevere in faccia magliette e capi di ogni genere, e rideva divertito da quella scenetta.
“Smettila di ridere e aiutami”, risposi, non so bene se ero più inacidita o divertita anche io dalla situazione. Lui non rispose per le rime, si limitò ad alzarsi, a raccogliere una camicetta, un jeans e un golf da terra e me li porse. “Prova questi”, disse tenendoli tra le dita. Io glieli strappai di mani e mi voltai, togliendomi la t-shirt. Ero disinibita, ma non fino al punto di farmi vedere completamente in intimo da lui. Lo sentii sorridere alle mie spalle e mi abbottonai lentamente la camicia blu fino all’ultimo bottone, poi infilai velocemente i jeans stretti e scuri e infine fu il momento del cardigan, di un giallo paglierino sbiadito. Mi voltai, mettendomi a camminare per la stanza come una modella ad una sfilata e mi misi a ridere. Aveva proprio gusto in fatto di abbinamenti.
Sfilai il fiocco nero e non troppo largo a un peluche su una mensola sotto al letto e lo passai sotto al colletto della camicia, facendo un fiocco proprio sotto al mento, lo lasciai cadere sul seno, quasi invisibile sotto quella camicia, e mi ritenni soddisfatta per quel piccolo accessorio che ero riuscita ad abbinare da sola, quasi in stile Azzurra. Alzai lo sguardo su di lui, notando che mi fissava silenzioso, e gli sorrisi. Lui non ricambiò il sorriso, ma continuò a guardarmi, imbarazzandomi.
Mi voltai, cercando di pensare a qualcosa da dire che divergesse verso un altro argomento che non fossi io.
“Ma come mai sei venuto qui?”, chiesi, ancora di spalle, intenta a infilarmi degli orecchini di perle nei buchi alle orecchie.
“Ti sei scordata di darmi la tessere della biblioteca, mi serve. Dovevo andarci oggi, ma poi tu mi hai fatto perdere tempo con l’abbigliamento.”, sorrise, e notai, dallo specchietto, che mi era servito per infilare gli orecchini, che abbassò lo sguardo. Aveva un’espressione strana sul volto, probabilmente pensava che non potessi vederlo, quindi si era lasciato comandare dalle sue emozioni, evitando di mantenere un’espressione di facciata.
Avevo notato in quei giorni che c’era qualcosa che non andava, qualcosa che lo tormentava, però era sempre sembrato solare e disponibile con tutti come al solito, senza dare segni di sofferenza. Io lo avevo colto, ma decisi di rimandare quella conversazione a un altro momento. Mi diressi verso la scrivania e da sotto la tastiera del computer estrassi la tessera della biblioteca, bianca e laccata, come nuova. In confronto la mia sembrava aver subito la prima guerra mondiale.
Mi voltai, la mano che teneva la tessera tesa nella sua direzione, e con un sorriso gliela porsi. Lo vidi alzare lo sguardo, sorridermi di rimando e toccarmi la mano, per prendere la tessera. Fu un momento, perché poi si staccò per rimetterla dentro al portafogli, ma sentii una scossa partire dalle dita e arrivare fino alla spina dorsale, percorrendola tutta, velocemente e intensamente. Ritrassi la mano, quasi infastidita da quella sensazione, ma non bastò a mandarla via.
Erano passati i tempi in cui solo un suo sguardo poteva farmi sciogliere, e non avrei permesso allo sfiorarsi delle mani di farmi provare cose che avevo seppellito nel profondo del mio cuore da tanto tempo.
Infilai gli stivali e presi le chiavi di casa, invitandolo ad uscire per primo dalla porta. Me la richiusi alle spalle e lo sentii dietro di me, vicino e fermo, in attesa. Non capii perché non se ne fosse ancora andato, conosceva perfettamente la strada per uscire dal vialetto, eppure era ancora li, potevo sentire il suo respiro caldo sui capelli e il suo giubbotto sfregare col mio, l’uno a poca distanza dall’altro.
Mi voltai, con un sorriso stampato sul viso, quasi di circostanza.
“Vabbè io vado.”, cominciai, incamminandomi e cercando di schivarlo. Poi mi bloccai, dandogli la schiena, mi voltai velocemente e parlai senza nemmeno pensarci su tanto. “Vuoi venire?”
“No!”, rispose subito, sembrava quasi gli avessi chiesto di buttarsi dal quinto piano per il modo in cui rispose.
“Okay, tranquillo. Ciao”, dissi, abbassando lo sguardo e voltandomi, per uscire dal pianerottolo di casa mia e andare verso la fermata. Ero a metà scala quando sentii la sua mano sul cappotto, era molto ovattata, ma riuscivo comunque a riconoscere che era lui.
“Scusa eh, ma a me non piace molto fare shopping”, rispose, nuovamente con tono normale.
“Non si direbbe”, risi, riferendomi al mio perfetto abbigliamento abbinato in modo impeccabile.
“Quello è perché ti conosco, ma non significa che quelle cose mi piacerebbe comprarle”, si limitò a rispondere, prima di avviarsi verso la biblioteca. Fece qualche passo, poi si fermò, probabilmente aveva dimenticato qualcosa, perché si voltò velocemente e mi sorrise. “Ricordati di riportare il cappello a Edo domani.”, prolungò il sorriso ancora qualche istante e poi si voltò di nuovo, alzando una mano per salutarmi. Rimasi li, ferma di fronte al cancelletto semi aperto di casa, e guardare la sagoma di Guglielmo allontanarsi, poi mi infilai istintivamente una mano nella tasca del cappotto e sentii la lana soffice e calda del cappello di Edoardo. Mi ribollì il sangue nelle vene nel preciso istante in cui la mano lo toccò. Lo maledissi in ogni modo possibile per averlo detto proprio a Guglielmo. 


-notepocoserie-
Buongiornooo (: vi è piaciuto questo capitolo? Spero di siii ** A me è piaciuto tanto scriverlo. Vorrei fare qualche appunto, prima di tutto mi scuso con tutti i Federico/a, non è un nome poi così banale, mia mamma e alcune mie amiche si chiamano Federica, l'ho detto perchè il personaggio in se di Federico è mooolto banale. U.U Continuiamo.. nel prossimo capitolo si scoprirà perchè Gu ha detto quella frase finale. YO! 
Una cosa importante che devo fare è ringraziare due persone quali la mia beta aka twinsoul (mai stato più vero) TriggerHappy ♥ e poi vorrei ringraziare Giuls che mi aiuta nelle fasi PAM acute che mi stanno venendo per questa storia. ♥ Davvero grazie di cuore U.U 
Ultime cose perchè per sta volta non ho molto da scrivere in questo posto farlocco, vi invito ad iscrivervi al gruppo su Facebook che ho create insieme a Giuls♥ per commentare/spoilerare/fotografate/videare le nostre storie ♥ ecco il link
:http://www.facebook.com/groups/174830455964768/ mi farebbe davvero molto piacere avervi li dentro a commentare le storie with us ♥ 
Bene, credo che per oggi vada bene così, il capitolo prossimo è già in scrittura pazza quindi aspettatevelo in qualunque momento ahah ♥ Love ya, Sonia.

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Capitolo 7
*** 06 - DIPINGERO' IL CAMMINO FINO A TE ***


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06 – DIPINGERO’ IL CAMMINO FINO A TE

   


"Qui dove il mare luccica,
e tira forte il vento." 
Addio, maestro.


Scesi dal pullman, ritrovandomi a camminare alla luce di qualche raro lampione lungo una strada isolata e attorniata da campi di grano e alti pini.
Era sempre strano andare a casa di Azzurra, tutto intorno al luogo in cui abitava faceva pensare a una casa di campagna sperduta nel nulla, mentre la realtà era ben differente.
Camminando per quella via isolata mi ritrovai, inevitabilmente, a riflettere su quello che era successo a casa con Guglielmo, soprattutto negli ultimi attimi, appena fuori dall’appartamento. Istintivamente portai la mano destra all’altezza della tasca e aleggiò sull’apertura per qualche secondo, mentre la mia mente cercava di scacciare la voglia di indossare quel cappello in quel momento.
Non glielo avevo restituito il giorno dopo a scuola. Eppure ci avevo pensato, ero uscita di casa mettendomelo in tasca, per poterglielo dare appena arrivata, come al solito in ritardo. Poi però, entrando in classe, lo avevo visto lì, seduto al solito posto,circondato da tutto il gruppo e la mano, che lentamente stava sfilando il cappello dalla tasca, era scivolata nuovamente dentro, senza che io me ne rendessi effettivamente conto.
Sfortunatamente era venerdì, quindi il giorno successivo non lo avrei visto per poterglielo restituire. Camminando e riflettendo non mi resi conto di essere arrivata al centro residenziale dove abitava Azzurra. Alzando lo sguardo, prima fisso sul marciapiede, scorsi il grande cancello in ferro battuto all’entrata. Lo raggiunsi e mi ritrovai a camminare lungo un viale, costeggiato da alti cipressi, rinchiusi in quel centro da due file lunghissime di villette a schiera, tutte uguali, con l’esterno in mattoncini a vista anch’essi perfettamente allineati, e tutte in perfetta simmetria col resto del paesaggio.
Riconoscevo la casa di Azzurra solo per la costante presenza, davanti al cancelletto laccato di bianco all’entrata, di un triciclo rosso fuoco, con le ruote nere e gialle. Il suo fratellino passava più tempo all’aria aperta che in casa, e anche se faceva freddo preferiva passare un po’ di tempo fuori col suo amato triciclo piuttosto che in casa davanti alla tv. Una famiglia strana all’ennesima potenza.
Aprii il cancelletto e percorsi il vialetto, attorniato da un giardino perfettamente ordinato nonostante il gelo degli ultimi giorni, e suonai il campanello di casa.
Mi venne ad aprire Azzurra, un vestito nero, con dettagli di pizzi e trasparenze ovunque, e ancora slacciato sulla schiena, e la piastra in mano.
“Finalmente! Entra, devo finire di prepararmi e poi usciamo, oggi mia mamma mi ha lasciato la macchina”, cominciò, aggiungendo un altro milione di parole, che evitai di ascoltare.
Azzurra era una delle poche della classe che aveva la patente e quindi la possibilità di utilizzare la macchina. Le tolsi velocemente dalle mani la piastra, notando che nella foga di parlare e gesticolare aveva quasi preso una tenda del soggiorno, rischiando di mandarla a fuoco. Lei continuò a camminare, gesticolando e parlando, e io mi diressi in bagno, appoggiai la piastra sul ripiano accanto al lavandino e mi sedetti sul bordo della vasca.
La casa di Zu era forse la casa più bella che io avessi mai visto, enorme, perfettamente ordinata e precisa nonostante l’uragano Azzurra facesse di tutto per renderla un completo caos. La guardai entrare in bagno velocemente e cercare in ogni modo possibile di allacciarsi i bottoni del retro del vestito. Mi stupivo come, nonostante il gelo fuori, lei potesse indossare sempre quei vestitini femminili senza morire di freddo. questo in particolare era piuttosto scollato e aveva le maniche, seppur lunghe, in pizzo nero. Guardandola poteva sembrare benissimo una piccola bambolina vestita in stile gotico, solo gli occhi e i capelli lasciavano trasparire la sua vera natura da inguaribile romanticona, azzurri e biondi. La guardai, per poi uscire dal bagno e dirigermi in salotto. Ogni qualvolta avevo la possibilità di entrare in casa di Azzurra osservavo ogni angolo della casa, percependo il minimo cambiamento nell’arredamento. A Zu ogni tanto scocciava abitare lì, e io mi chiedevo ogni volta come potesse non desiderare di abitare in quella piccola bomboniera, perfetta.
Lasciai che la mano sfiorasse il ripiano sopra al caminetto, su cui erano posizionate, perfettamente allineate, varie foto che ritraevano Azzurra e suo fratello in varie fasi della loro crescita. Presi in mano una foto che ritraeva solo i genitori di Azzurra, persone educate e raffinate,la guardai per qualche istante, poi sentii la voce di Azzurra nell’altra stanza, così la riposi perfettamente allineata alle altre come qualche istante prima, e tornai dalla mia amica.
“Devo comprare un paio di ballerine rosa antico”, si affrettò a dirmi, appena mi vide compariresulla soglia della porta della sua camera, anch’essa perfettamente ordinata e completamente rosa confetto.
“Scherzi? Ma hai guardato fuori dalla finestra per caso oggi? Tra un po’ abbiamo bisogno delle caloscie!”, le indicai la finestra, incorniciata da una tendina rosa con dei piccoli merletti alle estremità - probabilmente ricamati a mano -, la spostai e le indicai con una mano tesa il cielo, scuro e nuvoloso.
“La moda non guarda il tempo”, si limitò a dire, tornando a guardare dentro l’armadio delle scarpe, in cerca del paio perfetto. Mi chiesi cosa c’entrassero delle ballerine rosa antico con il suo abbigliamento ma non ci pensai più di tanto, il fatto che Guglielmo sapeva fare abbinamenti migliori dei miei la diceva lunga sulle mie tecniche modaiole. Mi sedetti con un tonfo sul letto, morbido e a due piazze, perfettamente al centro della stanza, e la guardai provare circa una ventina di paia di scarpe.
D’un tratto, quando ormai avevo perso la speranza e mi stavo afflosciando come una foglia secca sul letto, la vidi voltarsi, con le scarpe addosso e un sorriso sul volto.
Non parlai e feci per alzarmi.
“Stavi pensando a Guglielmo?”, la domanda mi colse quasi impreparata e la mia mancata risposta immediata le fece intendere che evidentemente stavo pensando proprio a lui, anche se non era proprio vero.
“No ti prego Zu, evitiamo. Abbiamo una lunga serata davanti”, sussurrai dirigendomi in corridoio, vedendo sul suo volto un sorrisetto beffardo e curioso. Sapevo che avrebbe evitato a tutti i costi di parlare di Federico, ma speravo non usasse quei mezzi subdoli per sconfiggermi.
Presi le sue chiavi di casa dalla ciotolina in cristallo all’ingresso e la invitai a uscire di casa, lei prese cappotto color panna e una sciarpa enorme e mi sfilò le chiavi di mano, aggiungendo poi al mazzo anche quelle della Micra della madre.
Ringraziai il cielo che avessimo la macchina, ero abituata a girare in pullman, ma non era sicuramente comodo quanto quella su cui ero seduta ora,percorremmo il vialetto di casa verso il garage esterno e uscimmo. Speravo che in quei dieci minuti di tragitto non si mettesse a parlare di Gu, quindi cercai di alzare la musica appena mise in moto, inutilmente, perché lei la riabbassò prontamente e io la guardai, accondiscendente.
“Perla, non puoi continuare a fare finta di nulla”, esclamò, continuando a guardare la strada davanti a sè.
“Hai aspettato troppo secondo me per parlare”, risposi, piccata.
“È inutile che fai l’offesa, stasera non potrai sottrarti a questa discussione”, non era per nulla arrabbiata, mi stupivo di come potesse essere sempre così calma e solare in ogni situazione.
“Ma non eravamo uscite per te? Non sono io ad avere bisogno della terapia d’urto. E poi non so di cosa dobbiamo discutere”, replicai, ancora scocciata.
Continuavo a guardare la strada perché, per quanto potessi fidarmi di Azzurra, non credevo molto nelle sue capacità automobilistiche, e notai che si voltò verso di me, riconobbi lo stupore nel solo rumore del suo respiro.
“Torna a guardare la strada”, le ordinai, guardandola e indicando il viale di fronte a noi.
“Io spero che tu stia scherzando, non hai visto cosa è successo questa settimana? Secondo me puoi considerarlo uno stalker. Lunedì siete andati in biblioteca insieme, ancora. Martedì, non si sa per quale arcano motivo, sei tornata a casa da sola, ma non so se hai notato che lui si è proposto di portarti a casa. Per non parlare del cappotto l’altra sera..”
“No, quello era programmato, furbetta”, la bloccai, lasciandola continuare poco dopo, non avrebbe smesso finchè non fosse arrivata alla fine.
“L’importante è che ha fatto il gesto!”, affermò, interrompendo un attimo il suo discorso, per poi riprendere, “beh poi ti fissa giorno e notte come se avesse una calamita agli occhi. Ci manca solo che ti viene a trovare a casa senza avvisarti”, concluse, e io sobbalzai, ricordando la sua visita di quel pomeriggio.
Rimasi in silenzio, tutto quello che era successo e che aveva elencato Azzurra era vero, ma continuavo a pensare che non significasse nulla. Preoccuparsi per una persona non significava amarla alla follia.
Giocherellai con le mani, appoggiate sulle gambe, sapevo di dover affrontare la situazione prima di tutto nella mia testa, ma avevo seppellito tutto troppo a fondo per farlo riemergere così. Inoltre credevo davvero che alla fine fosse meglio così, una vera e sana amicizia. Ne avevo proprio bisogno.
Mi voltai verso Azzurra, che aveva un sorrisetto vittorioso e convinto sul volto, e sorrisi di rimando.
“Zu non significa nulla. Può aver fatto tutte queste cose, ma per me è un amico, un fratello ormai”, abbassai lo sguardo di nuovo sulle mani, quasi colpevole di quella frase.
“Parlami di quello che sta succedendo tra te e Fede..”, cambiai discorso, cercando di non pensare a Guglielmo.
 
“Oooh, oggi record!”, rise Edoardo, stravaccato sulla sedia al mio arrivo. Quel giorno avevo perso parecchio tempo nel prepararmi, con la conclusionedi aver fatto tardi a scuola.
“Fai poco lo spiritoso e tieni!”, risposi secca, lanciandogli il cappello addosso. Rimase interdetto per qualche secondo, poi lo prese tra le mani e sorrise.
“Puoi tenerlo se ti dispiace così tanto lasciarlo”, disse, sarcastico.
“Non è giornata, Edo. Aria!”, conclusi, abbassandomi verso la borsa e chiudendo il discorso, almeno per il momento, con Edoardo, che guardò la sedia apparentemente vuota per qualche istante e poi si voltò, gridando a qualcuno in classe di dargli il compito di inglese.
In realtà nella borsa non avevo proprio nulla da cercare, ma era l’unica scusa che avevo trovato per non rispondergli, così appena si voltò e fui sicura di non essere più oggetto di attenzioni mi rialzai, mettendomi comoda.
Purtroppo i miei desideri di non parlargli non furono ascoltati, perché se per un'oretta mi lasciò in pace, evitando di voltarsi ogni due per tre per copiare o chiedere qualcosa, allo scampanellio della fine dell’ora sentii la sua voce a pochi centimetri dalla mia testa, ancora china sul quaderno degli appunti.
“No, non te li do gli appunti”, chiusi il quaderno e lo poggiai sul ripiano sotto al banco.
“Perla, ma sei incazzata?”, chiese, bloccandomi un polso con la mano.
Guardai la sua mano sul mio polso e rimasi in silenzio finchè non la tolse.
“Vedi te”, mi limitai a dire, tornando a ciò che stavo tentando di fare poco prima.
“Io non ti capisco”, sussurrò, voltandosi.
Mi soffermai a guardare la sua schiena, la curvatura del collo e l’attaccatura dei capelli, e sorrisi. Aveva la capacità strana e innaturale di farmi sbollire la rabbia senza dire nulla, solo guardandolo, ed era così frustrante per una come me.
“Potevi evitare di dirlo proprio a Gu!”, sussurrai al suo orecchio, allungando il corpo lungo il banco per avvicinarmi al suo il più possibile, e non farmi sentire.
Girò di poco il viso, cercando di non farsi notare, e biascicò qualcosa.
“Cosa gli ho detto?”, mi stava chiaramente prendendo in giro, ma gli risposi, sempre per quella strana sensazione che mi dava guardarlo. Ero come impotente.
“Mi prendi in giro? Gli hai detto che rivolevi il cappello.”, esalai l’ultima parola senza fiato, talmente ero sdraiata e scomoda lungo il banco, così tornai indietro, troncando la discussione a metà. Sarebbe ricominciata al cambio d’ora successivo.
 
“Io non gli ho detto proprio nulla”, la sua voce era inconfondibile, e arrivò in concomitanza al suono della campanella, come avevo previsto.
Accennai un sorriso, cercando di contenermi, e spostai l’attenzione sul resto della classe, notando così che Gu veniva nella nostra direzione, cercai di mantenere un comportamento normale, nonostante fossi un po’ più agitata e imbarazzata del solito.
Era Edo a mentirmi oppure Guglielmo? Li guardai entrambi, sorridenti nella mia direzione, e istintivamente andai in cerca del viso di Azzurra e Aurora, che notarono la scena e si aggiunsero al mini-gruppetto appena formatosi. Non capivo perché Guglielmo avrebbe dovuto inventarsi quel finto messaggio, e soprattutto come facesse a saperlo.
“Che si fa oggi?”, sentii la voce di Aurora, poi mi persi nei miei pensieri.
Avrei potuto parlare in quel momento, davanti a entrambi e scoprire così chi avesse mentito e perché, ma poi probabilmente avrebbero discusso e io sarei finita inevitabilmente in mezzo, così evitai. Mi stupii della mia indecisione, era chiaro che Edo mentiva, eppure continuavo a rimanere in bilico tra il fidarmi dell’uno o dell’altro. Rimasi in silenzio, guardando in basso, mentre gli altri programmavano cosa fare quel pomeriggio.
 
“Allora tu che fai, vieni?”, sentii la voce di Edoardo a pochi centimetri da me, aveva aspettato che gli altri se ne andassero per chiedermelo, mentre io ero ancora impegnata a rigirarmi un braccialetto tra le mani. Alzai lo sguardo e non gli risposi, sostenendo il suo sguardo, evidentemente sperava che avessi sbollito la rabbia o, meglio ancora, dimenticato il perché fossi arrabbiata. Ma si sbagliava di grosso.
“Dai Perla! Per me te lo potevi anche tenere il cappello..”, abbassò la voce, per non farsi sentire nonostante il caos generale presente in classe. Abbassai lo sguardo sulle mie mani e sul braccialetto, pensierosa.
Sentii due colpi netti sul banco, e poi la voce di Edo fare “Toc toc”, con lo sguardo basso cercai di trattenere un sorriso.
“C’è qualcuno li dietro?”, chiese, cogliendo la mia debolezza.
“Ti apro solo per dirti che questa porta è chiusa e sprangata per te, d’ora in poi. Non posso sentirti da qui dietro.”, e feci il gesto di buttarmi una chiave immaginaria alle spalle.
Lui sorrise, e io incrociai le braccia sul petto, cercando di mantenere una parvenza di serietà.
“Dai. Aprimi”, sussurrò, abbassando ulteriormente la voce, nonostante fosse già piuttosto bassa.
Fece per allungare una mano verso di me ma lo bloccai subito.
“Nah, non si può mica oltrepassare la porta. Bye, baby.”, sorrisi, tornando a incrociare le braccia sotto al seno.
Cercò di intenerirmi, facendomi il faccino abbattuto, ma io distolsi lo sguardo verso il professore appena entrato, non riuscendo a trattenere un sorriso. Lo avevo perdonato, stranamente.

-notepocoserie-
Bene, intanto mi scuso enormemente per essere arrivata con un giorno di ritardo, ma in questi giorni tra scuola guida e la palesta che sembra diventata ad appuntamento come un fidanzato geloso, non ho avuto proprio tempo, in più la sera mi ritrovavo libera dalla cucina verso le undici e non avevo la forza materiale di scrivere qualcosa, nonostante sia tutto nella mia testa ben fissato ahah xD
Allora, passiamo al capitolo:
- GRAZIE IMMENSAMENTE, as always, a Rob aka twin per il betaggio stupendo, in altre condizioni vedreste le mie strafalcionate(?) e vi passerebbe la voglia di leggere ahah 
-la citazione iniziale non c'entra nulla col capitolo, o meglio c'entra, ma è soprattutto per la scomparsa di Lucio Dalla, da cui sono rimasta piuttosto scioccata. Cito qualcuno che su twitter ha scritto semplicemente che a persone così non si può dire addio, si è guadagnato l'immortalità. Era un grande uomo e artista, che è nato insieme alla nascita del vero e proprio, bellissimo, cantautorato italiano. Quindi tanto cappello a lui, altrochè i cantanti giovani d'oggi che hanno il latte in bocca e si credono già stradivi. Lui poteva, e non lo è MAI stato. Addio Lucio.
- continuiamo col capitolo, incentrato soprattutto sull'amica di Perla, Azzurra, che noi tanto amiamo (solo io? ahah è pucciosissimaa). Mi piaceva creare un po' di familiarità nella vita dei personaggi.
-vorrei puntualizzare una cosa, nel capitolo sicuramente, i lettori più attenti, noteranno che Perla a un certo punto prende la piastra e la porta in bagno, e, sempre le menti più attente, si chiederanno come cavolo fa una persona a portarsi la pistra in giro per casa, well, è una bellissima pistra wireless. Sappiate che Azzurra, come potete leggere in questo capitolo, è piena di soldi e può avere di tutto. ahah. 
- il pezzo della porta tra Edo e Azzurra spero vi sia piaciuto, non è molto il paragrafo in cui interagisce con un maschio, però volevo incentrare il capitolo sulle sue amicizie e sulla conoscenza degli altri personaggi che saranno comunque parte integrante della storia assieme a Gu, Edo e Perla of course. Spero apprezziate comunque (: 
-QUESTO è il gruppo FB mio e di Giuls per commentare/spoilerare le nostre storielle belle, quindi joinatelo with us! MI farebbe molto piacere vedervi e parlarvi regolarmente (: 
http://www.facebook.com/groups/174830455964768/
-vi invito, molto timidamente, a vedere le mie due schifezzuole di video create per la storia. Dovete sapere che l'altro giorno ho fatto una scorsa di tutte le sigle dei cartoni animati che guardavo da bimba, con mio fratello anche. Chi di voi non ha mai visto Rossana? E chi di vo non ha mai tifato per Eric? Bene, io ho fatto un video di Angeli sbagliati in versione Rossana. ** Spero vi piaccia, il piccolo appunto è che Gu nel video è Jason di PLL (per chi lo guarda xD) e il video è pieno zeppo di spoiler (veri o fasulli? non si sa ahah) Qui il link: http://youtu.be/nl_1dzMIqs4
Questo è il link dell'altro video-trailer creato per la storia, spero vi piaccia anche questo ^^: http://youtu.be/iQKTUYS5x9o
A settimana prossima, si. Venerdì, i promise. ♥

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Capitolo 8
*** 07 - LACRIME VENDUTE AL MIGLIOR OFFERENTE ***


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07 – LACRIME VENDUTE AL MIGLIOR OFFERENTE

    


Quella mattina, come le altre, mi svegliai tardi e non potei fare a meno di arrivare altrettanto tardi a scuola, dove mi accolsero Aurora e Azzurra intente a discutere sulla destinazione del pomeriggio.
“Perla ma quanto ci hai messo? Credevamo non venissi”, si affrettò ad esclamare Azzurra appena mi vide, per poi tornare a parlare con Aurora. Quest’ultima si voltò verso di me e, ignorando bellamente le urla dell’amica affianco a lei, con tutta la calma del mondo, mi parlò: “Buongiorno Perla, secondo te dovremmo andare al centro commerciale o al parco?”, la guardai per qualche istante, poi mi voltai e mi diressi verso il mio banco. Ricominciarono così a inveire l’una contro l’altra e ad interpellarmi periodicamente per avere conferme.
“Ragazze vi prego, sono appena arrivata”, esalai ogni singola parola come se mi costasse parecchia fatica, da quando mi ero svegliata non avevo spiccicato parola e farlo risultava parecchio difficoltoso.
Mi sedetti mentre le due ragazze continuavano a discutere, senza curarsi minimamente dei miei tentativi di farle smettere, e notai che Edoardo non era seduto, come al solito, con la schiena appoggiata contro il muro, sulla sedia di fronte alla mia.
“Perla, ascoltaci!”, Aurora richiamò la mia attenzione e mi dimenticai presto della mancanza di Edoardo.
“Sentite, andiamo al parco”, mi girai, in cerca di un diversivo per cambiare discorso, o del professore per mandarle definitivamente via, ma notaisolo il viso di una ragazza sporgere dalla porta della classe, i capelli biondi raccolti in una treccia che ricadeva gentile sulla sua spalla destra e gli occhi in cerca di qualcosa, o qualcuno. Il viso scomparve e vidi entrare il Professor Parsini, sorrisi e distolsi lo sguardo, facendo notare alle due ragazze ancora davanti a me, con un sospiro di sollievo, che sarebbero dovute andare al loro posto.
Abbassai lo sguardo in cerca del libro di matematica nei meandri della mia borsa e quando mi rialzai, trovando Edoardo seduto al suo posto, sussultai, non avendolo sentito arrivare.
Non so per quale motivo lo feci, ma pensai istintivamente che la biondina sconosciuta c’entrasse qualcosa con lui, che cercasse proprio lui, così distolsi lo sguardo.
“Buongiorno”, sussurrai, aprendo il libro a una pagina a caso per distogliere l’attenzione da lui e dal suo comportamento. Non mi rispose, si limitò a grugnire e a voltarsi verso la lavagna. Quel giorno non parlammo granché, e quando fu l’ora di andare a casa, non ci seguì al parco - ancora ricoperto da un lieve strato di neverisalente alla settimanaprecedente-, ma lasciò la classe in fretta e furia e scomparve, così come era arrivato quella mattina.
“Vieni?”, sentii la voce di Gu a pochi passi dal mio banco, alzai il viso, rivolto ancora verso la sedia vuota di fronte a me, e mi alzai allungando un braccio verso di lui, che lo portò subito sotto al suo, come se fossimo ancora nell’Ottocento.
“Aspetta..”, sussurrai, e mi voltai a prendere la borsa, ancora afflosciata sul pavimento. Tornai sui miei passi e cominciai a parlare, non sentendo il cellulare squillare.
Camminammo a braccetto e in silenzio fino al cancello esterno della scuola. I ragazzi, che uscivano come noi, ci passavano accanto, lanciando ogni tanto qualche saluto. Azzurra e Aurora erano a poca distanza da noi assieme a Filippo, lasciato solo dal suo amichetto.
“Perla..”, Guglielmo ruppe il silenzio.
“Dimmi”, sorrisi, voltandomi verso di lui. Sembrava teso come una corda di violino, così gli strinsi leggermente il braccio, ancora attorno al mio.
“E’ da un po’ che non parliamo”, non era nè una domanda nè un affermazione, era una costatazione di fatto, avevamo parlato negli ultimi giorni, ma solo di cose futili, del più e del meno. “Hai finito di leggere quel libro che ti avevo prestato?”, sorrise, sospirando.
“Si, ‘Le guerre..’”, dissi, non ricordando il titolo completo del libro. “Beh, comunque l’ho letto, e non vedo l’ora che esca il seguito.” Sorrisi, cercando di enfatizzare la mia risposta.
Guglielmo era una sorta di nerd figo e senza occhiali, in realtà gli occhiali li avrebbe dovuti portare, ma evitava in ogni modo di doverli indossare in pubblico. Sosteneva che lo rendessero bruttino. Amava stare al computer a giocare ai videogames online oppure a guardare telefilm in streaming. E infine, amava i libri fantasy. Il giorno che mi prestò quel libro ricordo che avevo in una mano “Persuasione” della cara Jane, mentre nell’altra tenevo, poco convinta, quel libro tanto quotato tra i recensori e di una a dir poco strepitosa autrice esordiente nel Fantasy. Nonostante non avessi mai letto libri di quel genere e i miei gusti andasseroda tutt'altra parte, lui riuscì a farmi piacere anche quello.
“Beh, tu sei più da novelle ottocentesche..”, reagì, quasi infastidito dal mio poco entusiasmo.
“Mi è piaciuto davvero tanto!”, mi limitai a rispondere sinceramente, “sei stato parecchio pensieroso in questi giorni, c’è qualcosa che non va?”. Stavo veramente affrontando in quel momento, il discorso che avevo cercato di evitare per una settimana intera? Abbassai lo sguardo, fingendo interesse per i bottoni del mio cappotto.
“A proposito di cosa?”, non compresi il senso di quella risposta, e sollecitai la mia domanda.
“Questo me lo dovresti dire tu. Che ti prende?”, lo guardai per un attimo in faccia, allontanandomi un po’ da lui per poterlo guardare bene, per poi tornare a prestare attenzione ai bottoni.
“.. non lo so”, il suo sguardo era perso, dritto di fronte a sè. Non insistetti e rimanemmo in silenzio.
“Sei diventata parecchio amica di Edo”, esclamò d’un tratto, abbassando ulteriormente la voce, quasi non volesse farsi sentire.
“Amica?”, la mia invece si alzò di un'ottava, non avevo mai nemmeno preso in considerazione l’idea che dall’esterno io ed Edoardo potessimo essere considerati amici.
Rimase in silenzio, quasi pensasse che non avessi finito, così lo accontentai.
“No, ci tolleriamo, te lo assicuro.”, tornai al mio tono di voce normale e mi scappò addirittura un sorriso, probabilmenteisterico.
“Non sembra”, la buttò li, una bomba, senza scrupoli nè peli sulla lingua. Secco.
“Sei geloso?”, replicai senza pensarci troppo. Non ero il genere di persona che lasciava che gli altri capissero da soli come stavano le cose, dicevo tutto e subito, e Gu lo sapeva meglio di me.
“Non è.. Perla, sto solo cercando di metterti in guardia.”, rispose lui, quasi calmo.
“In guardia da cosa?”, mi allontanai dal suo viso per poterlo vedere meglio in faccia e così fui costretta a sciogliere l'intreccio delle nostre braccia. Notai nei suoi occhi un misto di agitazione e rabbia.
“Sei troppo abituata a.. fidarti”, balbettò. Mi conosceva, lo ripeteva in ogni momento fosse possibile dirlo e sapeva benissimo che in quel momento avrei voluto strangolarlo, infatti distolse lo sguardo per non incrociare i miei occhi, in fiamme.
“Sai cosa penso di lui, e lo penso dalla prima volta che l’ho visto..”, sputai ogni singola parola con fatica. “Credevo mi conoscessi”. Conclusi, allontanandomi da lui.
“Infatti”, fu l’unica cosa che riuscii a udire, poi lasciai che l’aria e il motore delle auto si prendesse tutte le attenzioni e mi isolai.
 
“Ragazzi ci mettiamo qui?”, la voce di Azzurra era leggermente malinconica e triste, era evidente che non aveva avuto ancora modo di parlare e chiarire con Federico.
“Okay”, le sorrisi, appoggiando la borsa su una panchina lì vicino e sedendomici su.
“Ma avete almeno le casse per la musica?”, sentii gridare Filippo, non troppo distante dal gruppo.
Sbuffai, iniziando a tirare fuori l’ipod, ma fui bloccata subito da tutti,che in coro urlarono un gigantesco ‘NO’.
“Non è per qualcosa Perla, ma le tue canzoni sono un po’ troppo.. troppo impegnate”, cercò di giustificarsi Aurora per tutto il gruppo, io mi limitai a sorridere e a riporre il mio lettore nella sua taschina in borsa. Per un pomeriggio avrei sopportato le loro canzoni, banalmente commerciali.
Cominciò a riecheggiare una delle tante canzoni da discoteca che sembravano prodotte in loop continuo quando vidi sedermisi accanto Gu. Sperai che non volesse ancora discutere, e lui si limitò a rimanere lì, in silenzio.
“Oh, guardate chi c’è laggiù!”, sentii la voce di Filippo dopo un po’ di tempo. La musica ancora si ripeteva in continuazione, mi voltai svogliata nella direzione indicata, credendo in qualche suo amico un po’ tamarro e poco serio, ma rimasi sorpresa nel vedere invece la ragazza bionda di quella mattina, i capelli ancora perfettamente raccolti in una treccia laterale, perfettamente spettinata e curata, allo stesso tempo, nei minimi dettagli. Indossava dei jeans aderenti e un giubbotto di piuma che risaltava al meglio il fatto che fosse snella come un giunco. Rideva verso un albero, dato che non sembrava esserci nessuno insieme a lei, così stavo per voltarmi e chiedere a Filippo chi fosse quando vidi spuntare da dietro l’albero Edoardo. Si era cambiato, aveva indossato dei jeans un po’ meno stropicciati e tagliuzzati ovunque e indossava un cappotto al posto del solito bomber nero.
Mi stranì vederlo lì a scherzare con quella ragazza sconosciuta, in un abbigliamento non consono a lui. Cercai di distogliere l'attenzione, inutilmente. Il mio sguardo rimaneva fisso su quella strana coppia, e mi spiegai le stranezze di quella mattina a scuola. Sentii Guglielmo accanto a me spostarsi e mi voltai, tornando ad ascoltare il gruppetto in cui mi trovavo che nel frattempo era intento a commentare ciò che aveva appena visto.
Probabilmente Edoardo ci vide, perché pensò bene di prendere la stradina che portava dalla parte opposta rispetto alla nostra posizione.
“Hai capito il porcello”, si profuse in commenti Filippo, credendo forse di non essere ascoltato.
“Ragazzi cambiate canzone, vi prego. I miei timpani chiedono pietà”, mi limitai a borbottare, cercando di deviare le attenzioni dalla strana coppia alla musica indecente.
Ripensai alla biondina per qualche tempo, per poi abbandonarla definitivamente nei meandri della mia mente e tornare a cose più serie, come la discussione con Guglielmo di poco prima.
 
“Ehi”, Azzurra mi si sedette accanto, ancora affranta.
“Ancora non gli hai parlato?”, domandai, poggiandole una mano sul braccio piccolo e affusolato.
“Non mi risponde al telefono.”, piagnucolò, con lo sguardo basso sul display spento del telefono.
Il giorno prima mi aveva raccontato quello che era successo. La settimana precedente aveva avuto problemi con il computer e lui si era offerto di aggiustarlo. Nella ricerca di virus e malware vari però, era venuto a conoscenza di alcune conversazioni con un certo Pietro che non gli erano andate molto a genio. Lei aveva giurato che non era nessuno e non era una cosa importante, ma evidentemente Federico non era dello stesso parere. Era evidente che questa volta era un po’ più complicato.
 
“Tu continua finché non cede e risponde!”, cercai di darle coraggio. Erano entrambi consapevoli di aver trovato l’America l’uno nell’altra, ma ogni tanto, a turno, fantasticavano un po’ troppo, credendo di poter avere di meglio. Non mi piaceva quel genere d’amore, ma non avrei mai giudicato Azzurra. per quanto mi riguardava, non mi sarei mai accontentata, avrei sempre atteso la grande passione, quella che non si affievolisce, e non mi sarei stufata di aspettarla,neanche se questo prevedesse tanto tempo.
Durante il pomeriggio al corso dei pensieri continuava ad alternarsi l’immagine di Edoardo assieme a quella ragazza, e ad ogni pensiero, ogni volta più accurato e dettagliato del precedente, acquisivo informazioni nuove. Avevo sempre creduto che Edo non fosse un ragazzo da appuntamento, lo vedevo più uno da “Casa mia o casa tua?”, inoltre non ritenevo possibile che frequentasse quel genere di ragazze. Tutto si poteva dire dilei, tranne che fosse bruttina o passabile. Era bella, veramente bella, e non mi spiegavo come mai perdesse tempo con uno come Edo, se poteva avere ragazzi molto più belli. Per carità, Edo era un bel ragazzo, ma nulla a che spartire con un modello, genere di ragazzo che accanto alla biondina non avrebbe di certo sfigurato.
Il corso dei miei pensieri fu interrotto dal grugnito di Guglielmo, che si limitò a lanciarmi un segno per farmi capire che stavano per andarsene. Presi la borsa e me la misi in spalla, alzandomi. Salutai frettolosamente tutti con un gesto e mi diressi verso casa, quel giorno sarei andata da sola, senza Gu.
 
Arrivai a casa trafelata, avevo camminato per un paiodi chilometri e le gambe stentavano a rimanere attaccate al resto del corpo, doloranti e congelate. Entrando trovai mia madre seduta sul divano in sala, in religioso silenzio, le braccia giunte sul petto. Conoscevo quella posizione, la conoscevo bene, e non prometteva nulla di buono.
“Dove ce l’hai il telefono?”, si limitò a lasciar fluttuare quelle poche parole nell’aria, il viso ancora fisso verso la tv spenta.
Pensai che avesse la calma di un serial killer.
“In borsa”, risposi, quasi tranquilla, frugando con la mano in borsa, istintivamente in cerca del protagonista della conversazione. Lo sfilai e accesi il display: 6 chiamate, 1 nuovo messaggio.
Nello stesso preciso istante in cui lessi quelle parole stampate sullo schermo del telefono sentii una vibrazione arrivare da mia madre: “E cosa lo tieni a fare se  non lo guardi?”, sbraitò, per poi tornare calma e pacata come poco prima.
Abbassai le braccia lungo i fianchi e rimasi in silenzio, un silenzio colpevole.
“Va a lavarti. Di a papà e a tuo fratello che è pronto.”, sussurrò, la voce roca per il grido di pochi secondi prima.
Feci dietrofront e mi diressi, con la coda tra le gambe, in camera mia. Lanciai il telefono sul letto e mi infilai in bagno, chiudendomi la porta alle spalle.
Era stata una giornata piuttosto stressante, la litigata con Guglielmo, i discorsi con Azzurra, la totale mancanza di Edoardo. Un attimo, la totale mancanza di Edoardo.
Aprii l’acqua del rubinetto il più velocemente possibile e immersi il viso nelle mani a coppa, dopo averle riempite di acqua bella fresca.
Dovevo decisamente svegliarmi.
Mi spogliai velocemente, buttando qua e là i vestiti che con fatica avevo messo insieme quella stessa mattina, e indossai un pantaloncino e una t-shirt, a piedi scalzi mi diressi in cucina, lasciando il telefono sul letto, a squillare silenzioso.
 
 
“Cazzo Perla, ti ho chiamato seicento volte!”, la voce di Aurora sembrava piuttosto irata, quando risposi al telefono, dopo la sua ennesima chiamata.
“Lo so, l’ho lasciato sul letto e sono andata di là, mi hai mandato anche un sms vedo”, replicai, rimanendo calma. Mi bastava mia madre, a farmi la paternale.
“No, quello non è mio. Comunque volevo chiederti i compiti.”, si affrettò ad aggiungere, sperando che non mi sbrigassi a chiuderle la cornetta in faccia per evitare di passargli quei dannati compiti per telefono.
“Aurora, te li do domani mattina, dai.”, risposi, assonnata.
“Ok”, seguì qualche istante di silenzio, in cui mi permisi di sbadigliare in tutta libertà, poi la sua vorce tornò a squittire all’altro capo.
“Hai visto oggi quella biondina, con Edo?”, come le veniva in mente di parlare proprio con me, della biondina e, soprattutto, di Edo.
“Era bionda?”, domandai, fintamente ingenua.
“Sì, non dirmi che non ci hai fatto caso. Secondo me è una che se la tira. Non è adatta a Edoardo”
“Perché, tu sai cosa è adatto per Edo?”, Edo? Si chiamava Edoardo, distacco, Perla. Distacco.
“Edo?”, rise. Lo aveva notato anche lei. “Ti ci stai affezionando eh? Te lo avevo detto. Comunque sì, credo di sapere il genere di ragazza che può interessargli”, concluse.
“Una come te?”, domandai, curiosa.
“Ma che dici?”, sembrava più intimidita dalla domanda, non scocciata o offesa.
“Rora, non me lo dire.”
“Dire cosa?”
“Ti sei presa una cotta per Edoardo!”, non era una domanda, lo sapevo.
“Smettila”, non funzionò, era evidente anche senza il bisogno di vedere le sue espressioni.
“Ok, forse una piccolissima cottarella. Ma sai come sono fatta.”, sorrisi tra me e me.
“E la bionda di oggi?”
“Beh, quella non è assolutamente il suo tipo.”, rise, poi mi diede la buonanotte. Mi aveva chiamato solo per sapere se ero d’accordo, se era giusto che lei provasse qualcosa per Edo. Edo. Distacco.
Staccai il telefono dall’orecchio e passai il dito sul touchscreen fino ad arrivare, nella lunga sequenza di chiamate, all’unico messaggio, solo e spaurito, nascosto tra tutti gli altri. Apri cartella.
-       Al mio cappello manca il tuo testone enorme –
Non me ne accorsi nemmeno, ma una goccia, lenta e solitaria, scese da un occhio e percorse la guancia, cadendo sul display del telefono e offuscando proprio il nome del mittente: Edoardo.
 
-notepocoserie-
Heilaaaaa, popolo di EFP lol Lo so, sono in ritardo. Perdonatemi, posterò comunque il capitolo venerdi quindi avrete due capitoli a distanza ravvicinata, contenti? *schiva pomodori* 
Bene, sul capitolo c'è poco da dire, oggi sinceramente sono poco in vena di notepocoserie. Quindi vi lascio alcune informazioni utili per la circolazione (LOL):
-Il capitolo è betato dalla mia amata TriggerHappy, quindi se c'è qualcosa di sbagliato prendetevela con lei. ahah ♥
-c'è il trailer della storia e anche un fanvideo con la canzone di Rossana (si il cartone animato ahah) rispettivamente a questo e questo link (: 
-infine, ma non per importanza, vi segnalo il link al gruppo su Facebook creato insieme a Giuls, sulle nostre storie, quindi se le mie note poco serie non vi bastano, potete venire a chiedere l'inserimento nel gruppo e godere delle tante cazzate che scriveremo ahah ♥ 
Un bacio, al prossimo aggiornamento, Sonia ♥

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Capitolo 9
*** 08 - LE CINQUE FASI DEL DOLORE ***


08 – LE CINQUE FASI DEL DOLORE

   

Pulii velocemente il display da quella goccia limpida e solitaria, rileggendo il messaggio.
-Al mio cappello manca il tuo testone enorme-
Scorsi il messaggio fino a leggere l’orario in cui era stato inviato, risaliva al primo pomeriggio. Era scappato in volata e aveva avuto modo, tra una parola con la biondina e l’altra, di scrivermi quella cavolata? Ma come si permetteva? Lanciai nuovamente il telefono sul letto, questa volta con maggior foga, e mi accasciai a mia volta. Ripensai a lui, sorridente accanto a quella ragazza. Bionda, candida, pulita. Così differente da me.
Non è il tipo giusto per lui.Dimenticai di prepararmi per la notte, lasciandomi cullare dalle braccia di Morfeo.

***

Esistono molti modi possibili per elaborare un dolore: c’è chi si rifugia nei ricordi, restii ad accettare che quel qualcosa sia veramente accaduto, alimentando così una realtà fittizia; c’è chi si arrabbia e nega, negafino allo sfinimento; c’è chi lo accetta e cerca di vivere il tempo che gli resta nel migliore dei modi possibili. Ognuno reagisce in modo diverso, ma tutti, ugualmente, superanole cinque fasi del dolore.
 
Fase uno: Negazione o rifiuto
Attraversai il corridoio deserto della scuola. Ero in ritardo, naturalmente, e ad evidenziarlo c'era il fatto che metà delle classi presenti sullo stesso piano di quella in cui mi stavo dirigendo erano in gita, quindi mi ritrovavo a camminare in mezzo ad un corridoio immenso, circondata solo dall’eco dei miei passi sul pavimento in linoleum grigio, presente in ogni ambiente.
Aprii la porta della mia classe, producendo uno scricchiolio sinistro, e mi meravigliai di trovarli tutti composti, silenziosi e seduti ognuno al proprio posto. E soprattutto tutti rivolti verso di me. Rimasi pietrificata sulla porta per qualche secondo, avvampando di imbarazzo, così abbassando il volto mi diressi spedita al mio posto. Incrociai lo sguardo di Edo per un secondo e il viso, già paonazzo, avvampò maggiormente, provocandomi un fitta all’altezza dello stomaco.
“Ehi”, sentii solo, prima di sedermi e di abbassarmi a prendere il libro dalla borsa.
Il professore ricominciò a parlare, lasciando che il rossore sul mio viso sbiadisse e tornassi alla mia carnagione olivastra naturale.
Era stato Edoardo a salutarmi in quel modo e non riuscivo a capire cosa ci fosse di così particolare nel suo sguardo, tanto da imbarazzarmi così tanto.
“Ehi”, sentii ancora, dopo qualche istante. Adesso il tono appariva vagamente scocciato. Non era abituato ad essere ignorato e di sicuro non gli piaceva.
“Ciao”, sussurrai, con il fiatone. Perché avevo il fiatone?Voltai istintivamente la testa verso Aurora, che rivolgeva lo sguardo sognante verso Edo, che a sua volta guardava me. Tornai a guardare verso il basso, fingendo di giocherellare con il braccialetto allacciato al mio polso. La situazione appariva strana anche a me e l’ultima cosa che desideravo era trovarmici in mezzo. Aurora era rinomata per le sue fugaci infatuazioni per il sesso opposto e speravo.. cioè immaginavo, fosse così anche per Edoardo. Lui, a differenza di quello che credeva lei, non era il suo tipo di ragazzo. In realtà non era il tipo di ragazzo per nessuno.
“Come sei bella oggi”, rise.
L’unica cosa che riuscii a pensare quando alzai il viso verso di lui fu quel sorriso, il modo perfetto in cui gli angoli della bocca si incurvavano all’nsù e la dolcezza di quella bocca carnosa, color ciliegia.
Scossi la testa, sconvolta dalle mie elucubrazioni, e tornai a guardare il libro, cercando ossessivamente il punto in cui il professore stava leggendo, o più semplicemente un modo per staccare i miei occhi da quella bocca.
“Con me non attacca”, mi limitai a dire, quando la mia mente aveva raggiunto un autocontrollo tale da poter rispondere senza sospirare o ansimare.
“Come sei acida. Dovresti provare a fare un salto nel lato selvaggio.”, sorrise, malizioso. Alzai lo sguardo verso il suo viso. Il lato selvaggio era lui?“Non mi hai risposto poi, al messaggio di ieri”, si passo la lingua sulle labbra, inumidendole. Sì, il lato selvaggio era decisamente lui.
Mi avvicinai, cercando di apparire sensuale o comunque sfacciata, verso il suo viso, e a pochi centimetri, oltre ogni mia più rosea aspettativa, lo vidi rimanere stupito e indietreggiare di qualche centimetro, per potermi vedere bene in faccia.
“Diciamo che se voleva essere un modo per farmi piacere, dovresti sapere che le ragazze non amano molto che la loro testa venga definita ‘testone’”, avevo mantenuto la posizione per tutto il tempo e avevo anche provato ad ammiccare qualche volta, e probabilmente aveva funzionato, perché lui aveva indietreggiato ancora un po’, incredulo.
Mai quanto me, pensai tornandoa sedermi comoda. Non ero il genere di persona che faceva quelle cose, ed Edoardo lo sapeva.
Comunque parve apprezzare e riscuotersi quasi subito dallo stupore provocatogli, tanto che iniziò a giocare. Mi prese una ciocca di capelli attorno al viso e se la rigirò tra le dita, “E tu vuoi insegnarmi come far piacere a una ragazza?”, aveva abbassato il tono di voce di qualche ottava e nonostante cercassi in tutti i modi di non dare a vedere quanto avesse nuovamente messo a dura prova il mio autocontrollo, gli sorrisi, allontanandomi un po’ e lasciando che la ciocca di capelli scivolasse dalle sue mani.
“E’ chiaro che non ci sai fare”, sorrisi, beffarda. Bluffavo, ma cosa avrei dovuto fare?
“E’ una sfida?”, sorrise di rimando, alimentando il mio bluff. Certo che era una sfida, che domande.
Annuii lentamente, cercando di essere sensuale. Mentre facevo quel determinato tipo di cose credevo di apparire decisamentebuffa, goffa e senza speranze. Ma era evidente che apparivo in questo modo solo ai miei occhi, perché Edoardo deglutì, tornando poi a sorridere e a voltarsi verso il suo banco.
Aveva accettato la sfida.

***

Sollevai la borsa e mi alzai, cercando di infilarci -in un equilibrio piuttosto precario- un tomo enorme di trigonometria. Avevo passato cinque ore a guardare e a ripassare con gli occhi i contorni e le varie pieghe dei muscoli e della schiena di Edoardo, in parte per trovare un modo di farlo cadere nella mia rete e vincere quindi la sfida, in parte perché mi rendevo conto solo in quel momento che era veramente bella. Quel giorno indossava, sotto al solito bomber nero e al golf in lana marrone, una t-shirt piuttosto attillata, che lui aveva prontamente sfoggiato a inizio mattinata e portato per tutto il giorno, incurante del freddo. Quel giorno però, più degli altri, avevo avuto modo di poter vedere veramente come fosse esteticamente e dovevo ammettere che Azzurra e Aurora avevano avuto ragione a metterlo in cima alla lista dei più belli. Lo era sul serio.
Riflettevo,lottando ancora con il libro e la borsa, così chenon mi accorsi del resto della classe che nel frattempo usciva veloce e nemmeno della presenza del ragazzo dietro di me. Mi colse impreparata quindi, quando fece cadere improvvisamente la borsa insieme al libro, -vanificando così le mie speranze di riuscire nell’impresa- e mi spinse contro il muro a pochi centimetri dalla mia schiena.
Rimasi per qualche istante senza fiato, spaventata e stupita, trovandomelo a pochi centimetri dal volto, le mani sulle mie spalle per tenermi stretta e attaccata alla parete, rendendomi impossibile la fuga.
Aveva preso sul serio la sfida, pensai, guardando il suo sorrisetto beffardo davanti a me.
“Credevi che mi sarei accontentato di un sussurro all’orecchio e un sorrisino?”, rise, strisciando una mano dalla mia spalla fino al fianco, dove l’appoggiò stringendo leggermente, per farmi sentire che aveva lui la situazione in mano.
Il coltello dalla parte del manico.
Analizzai l’aula con lo sguardo, cercando di guardare oltre il suo viso econstataiche fosse deserta. Ero in trappola?
“Cosa vuoi?”, la mia voce apparve calma, nonostante dentro un tremito mi scuotesse forte. Era la prima volta che cercavo di attirare l’attenzione di un ragazzo con la sensualità. E se lui avesse inteso male? E se i miei modi avessero lasciato trapelare intenzioni che in realtà non avevo? Chiusi gli occhi, maledicendomi per la mia avventatezza, per poi tornare a guardarlo.
“Voglio un bacio”, sorrise, sornione.
Tutto lì? Sicuramente non glielo avrei mai dato. Ma chiedeva veramente poco.
“Scordatelo”, iniziai, cercando di spostarmi, ma tutto ciò che ottenni fu l'aumentare della sua stretta sul mio fianco.
“E’ così che espugni i baci alle tue concubine? Le costringi al muro e te li fai dare con la forza?”, non voleva essere una frase offensiva, ma evidentemente il mio tono non era statodei più dolci.
“Sei liberissima di andartene quando vuoi. Non costringo nessuno. Tantomeno te.”, rispose, quasi sdegnato.
Rimasi qualche secondo in silenzio, notando che non ero propriamente costretta al muro. Nonostante mi tenesse, avevo libertà di movimento e quindi libertà di andarmene, poiché l’unico appiglio che aveva su di me era costituito dalla mano ancorata al mio fianco.
“Scherzavo”, sussurrai, abbassando lo sguardo.
Lui mosse leggermente quella mano,provocandomi delle scosse lungo la spina dorsale, ma alzai lo sguardo, sostenendo il suo.
Aveva un sorrisino sul volto, impossibile indovinare a cosa fosse dovuto.
“Però non te ne sei ancora andata.”, bisbigliò, avvicinandosi pericolosamente al mio orecchio e infilando il naso tra i miei capelli.
Mi morsi un labbro. Non ero in grado di parlare senza lasciar fuoriuscire un sospiro, quindi mi trattenni, nonostante il suo respiro sul collo mi stesse facendo impazzire.
Lui prese il mio silenzio come un invito a continuare e cominciò a lasciare buffetti continui sul mio collo, tra i capelli, respirando il mio profumo. Trattenni il fiato, incapace di fare altro, e sentii la stretta al mio fianco farsi più forte, la mano passare dietro la schiena.
Ero immobile, inerme. Incapace di fermarlo e di andarmene.
Sentii il suo respiro e i suoi bacidirigersi dal collo fino alla mascella, per poi risalire lungo la guancia.
“Dovevo ricambiare il bacio dell’altro giorno”, sussurrò, a pochi passi dalla mia bocca. Io chiusi gli occhi, non riuscendo a fare altro. Lo sentii baciare l’angolo delle mie labbrae istintivamente, finalmente, riuscii a spostare il viso da un lato, sfuggendo al bacio successivo. Lui rimase fermo qualche istante, poi si allontanò leggermente quando riposizionai il viso verso il suo.
“Sulla guancia.”, sussurrai, in risposta alla richiesta di qualche attimo prima.
Se voleva un bacio, l’unica cosa che avrebbe avuto sarebbe stato quello.
“Ok. Mi accontento di poco.”, sorrise, allontanandosi da me quel poco che bastava per permettermi di dargli un bacio sulla guancia, senza naturalmente sciogliere il contatto del suo braccio lungo la mia schiena.
Gli sorrisi e mi avvicinai alla sua guancia, pronta e rivolta verso di me.
“Solo uno”, sorrisi, prima di appuntargli il bacio.
Prima che potessi arrivare alla guancia però, girò il viso e mi ritrovai a stampargli un bacio sulle labbra. Cercai di staccarmi ma la sua mano era fulmineamente finita sulla mia testa, a imprimere bene il bacio sulle sue labbra. Inconsciamente mi ritrovai a lasciare che conducesse lui il gioco, schiudendo così le labbra e lasciandolo giocare con..

***

Mi svegliai di soprassalto, sudata e shockata. Ero nella mia camera, era stato solo un sogno. Un sogno? Sospirai, ravviandomi i capelli e mi alzai a sedere lentamente, guardando l’orario sul display del telefono.
Erano le sette. Per la prima volta sarei arrivata a scuola in orario. Grazie Edoardo!
Mi alzai dal letto, guardando mio fratello ancora dormiente nel letto vicino al mio, raccolsi un paio di jeans e una camicetta da terra, lo stretto indispensabile per vestirmi decentemente, così mi chiusi in bagno, accompagnando la porta per non svegliare nessuno.
Era stato un sogno piuttosto strano, decisamente fuori dal normale. Edoardo? Inorridii al solo pensiero delle sue labbra sulle mie, ultima immagine di quel sogno-incubo.
Non potevo aver veramente sognato di fare quelle cose. Non potevo. Non potevo.
Mi lavai e mi infilai velocemente i vestiti, cercando di dare un senso ai capelli, che durante la notte sembrava avessero subito un attacco di guerra. Dopo una mezz’oretta scarsa mi ritrovai alla fermata del pullman, con qualche rimasuglio di ‘sconvolgimento post-sogno’ ancora in circolo e delle occhiaie da fare invidia a un panda.
Non riuscivo a concepire come la mia mente avesse potuto partorire un sogno tale, così articolato e dettagliato. Cercai, inutilmente di eliminarlo dalla mia mente, ma ogni volta che mi inumidivo le labbra con la lingua mi tornava in mente, vivido e perfettamente concreto, il modo in cui lo aveva fatto lui nel sogno.
Nel pullman continuai a cercare una giustificazione a quel sogno-incubo, continuando a ripetermi che la mia mente mi aveva tirato un bello scherzo, che aveva anche esagerato a oltranza con la perfezione della sua schiena e la definizione dei suoi muscoli. Mi ripetei così tante volte che non era possibile aver sognato qualcosa di simile tanto da convincermi che in realtà non le avevo nemmeno sognate. E riuscii a crogiolarmi in quei pensieri per tutto il tragitto fino a scuola, finchè non vidi il suo bomber nero a poca distanza da me e capii che il mio cervello non aveva esagerato proprio nulla.
Mi arrivò un’ulteriore conferma quando in classe lui si tolse il bomber, e rimase solo con un golf grigio di lana, simile a quello marrone, pensai.
Ma la conferma cruciale la ottenni qualche ora dopo, quando si tolse il golf e incurante dei -10°C rimase solo con una t-shirt, bianca. Sì, proprio quella.
“Da quand’è che hai questa maglietta?”, chiesi, appena si sedette. L’avevo detto con foga, avevo fatto notare quanto mi interessasse. Gli avevo parlato. Cacchio.
“Da qualche settimana, perché?”, rispose, confuso.
“No, niente.”, sventolai una mano di fronte a lui per fargli capire che poteva lasciar perdere, che non era importante. Lui si voltò, e fu come se fossi tornata nel limbo dei miei sogni. La sua schiena era lì, perfettamente identica a quella del sogno. Distolsi lo sguardo, ma ogni cosa, in classe, mi ricordava il sogno. Mi voltai verso Aurora che, con sguardo stralunato, guardava in direzione di Edoardo. Non osai voltarmi verso Edoardo, sapevo già quello che stava facendo. Era come stare dentro a un deja-vù senza mai riuscire a vedere la fine.
“Non mi hai risposto al messaggio di ieri, poi”, lo sentii strisciare la sedia e accomodarsi meglio verso di me.
“Che messaggio?”. Rifiuto.
“Quello di ieri, non ti è arrivato?”
“No, non mi è arrivato”. Negazione.
“Sei sicura? Eppure son sicuro di avertelo mandato.”
“Sicura”. Distacco. Negazione.

 ***

Fase due: rabbia.
“Non vuoi sapere nemmeno quello che ti ho scritto? Nel messaggio intendo”, aveva aspettato un po’ prima di parlare, quasi fosse indeciso se farmela, quella domanda, o no.
“Senti in realtà non mi interessa”. Distacco.
“Quanto sei acida. Dovresti fare un salto nella parte selvaggia ogni tanto.”
Ancora il deja-vù. Distolsi lo sguardo dalle sue labbra, ma con la coda dell’occhio vidi che se le inumidì con la punta della lingua. Era un gesto naturale, non era studiato.
“Senti la smetti?”, sbottai, tornando a guardarlo.
“Che cosa?”, era stupito, stranamente. Forse si era abituato a non vedermi più così arrabbiata per nulla. A non vedermi più acida. Dovevo veramente fare un salto nella parte selvaggia.
“Di fare queste cose che fai tu”, dissi, agitando le mani alla rinfusa. “Mi danno i nervi.”
Lo vidi indietreggiare sulla sedia e strisciarla leggermente, lo sguardo fisso, confuso, verso di me, che nel frattempo sbuffavo come una ciminiera in preda a quella rabbia improvvisa.
Odiavo il fatto che mi provocasse quelle sensazioni, odiavo vederlo passarsi la lingua sulle labbra e ritrovarmi a boccheggiare. Era il tipo di ragazzo che non sopportavo alla vista. Superficiale, odioso e il tipico donnaiolo. Ultimamente me ne stavo dimenticando troppo spesso, aveva ragione Guglielmo.
“Ora girati, vorrei ascoltare la lezione”, conclusi, rivolgendo lo sguardo, fintamente interessato, al professore che, di fronte alla lavagna, cercava di spiegare un problema di matematica.
Odiavo il fatto che sapevo perfettamente quello che lui avrebbe fatto l’istante successivo alla mia frase. Perché sapevo che non avrebbe detto nulla e si sarebbe voltato, lentamente e con l’espressione da cane bastonato impressa in faccia, e mi avrebbe lasciato lì, con un ingiustificato senso di colpa e frustrazione.
Abbassai lo sguardo sul foglio pieno di appunti sul mio banco e quando li rialzai, un nuovo deja-vu, la sua schiena, così definita comelo era stata nel sogno, mi si riproponeva lì, a pochi centimetri da me. E questa volta non era un sogno.
“E mettiti qualcosa addosso”, sbottai, nel caos generale della classe.
Rabbia.

 ***

Fase tre: contrattazione o patteggiamento
“Prestami il temperino”, sussurrai qualche ora dopo il litigio, a Edo, l’unico in quella classe in possesso di un temperino funzionante.
“Scherzi?”, si limitò a rispondere, voltando lievemente il capo e parlando da sotto la spalla.
In classe regnava un silenzio religioso e non me la sentii di contrattare con lui. Avremmo parlato al suono della campanella.
Infilai una mano nell’astuccio e presi una penna a caso, avrei usato quella per rispondere alle domande di inglese.
Rimasi per qualche secondo ferma su una domanda, in attesa che la mia mente costruisse una risposta decente, quando sentii un lieve colpo sul banco e mi ritrovai, alzando gli occhi, il temperino a portata di mano. La schiena di Edo era ancora bene in vista, segno che non era un perdono il suo. Solo una piccola tregua.
Temperai velocemente e mi allungai per posare il temperino sul suo banco, andando a sfregare involontariamente il seno sul suo braccio.
A tutti quel gesto parve apparire normale, ma non per Edo, che girò il viso allucinato. Mi ritrassi velocemente e tornai a guardare la scheda di domande di fronte a me.
Dopo avremmo sicuramente chiarito. Avvampai in volto, imbarazzata malgrado le mie intenzioni non fossero quelle scaturite, e risposi alla prima domanda.

***

“Senti devi smetterla”, questa volta era lui a dirlo.
“Cosa?”, il tono della mia voce era innocente, l’arrabbiatura mi era già passata.
“Di fare quello che fai”. Mi sbagliavo io o il discorso era uguale al mio, però detto dalla sua bocca? Mi ritrovai, inconsciamente, a guardargli la bocca e lui se ne accorse.
“Ecco ecco, vedi? Queste cose.”, disse, indicandosi le labbra con un dito.
“Tu hai un atteggiamento sbagliato nei miei confronti. Sei strana, lunatica. Prima sei carina, poi mi prendi a pesci in faccia, poi di nuovo carina. Poi mi guardi la bocca come se volessi morderla.”, si fermò, ammiccando. “Cioè, lo so che sei attratta da me, ma sai, io ho bisogno di certezze”, lo spintonai leggermente all’altezza della spalla.
Lo so che sei attratta da me. Era così evidente, o era lui a dire sempre le solite cazzate giusto per far lo scemo? La seconda, sicuramente. Gli sorrisi, per un attimo addolcita da quella conversazione. Forse per una volta era stato sincero.
“Okay, non ti guarderò più le labbra.”, sussurrai, il viso rivolto verso il piano del banco. Impossibile riuscire a guardarlo negli occhi.
“No, tu puoi continuare a guardarmi le labbra quanto vuoi, però non te la prendere se io faccio battute o ci provo.”, era secco, netto, in ogni cosa che diceva.
“Affare fatto.”
“Sancisci questo accordo con un bacio”, disse, sfacciato.
Deja-vu.
“Scordatelo.”, sorrisi, mascherando lo stupore.
“Sulla guancia, dai.”, sorrise, indicandosi con un dito la guancia, rivolta verso di me.
Mi allungai di qualche centimetro verso di lui e, prima di baciarlo, mi guardai attorno, c’era un mucchio di gente in quella classe, chiuque avrebbe potuto vederci, perciò mi tranquillizzai, non avrebbe mai cercato di baciarmi lì.
Mi avvicinai fino a sfiorargli la guancia e lui si mosse di qualche centimetro, ridendo.
“Credevi mi spostassi eh?”, sorrise, riportando la guancia all’altezza della mia bocca, e gli scoccai un buffetto.
Alla fine non era proprio un deja-vu.

***

Fase quattro: depressione.
Mi chiusi in bagno appena suonò la campanella, mancava un’ora alla fine delle lezioni e sarei voluta scappare all’istante.
Tutto era come sempre, ovunque. Tranne che dentro di me. Continuavo a sovrapporre scene del sogno-incubo alla vita reale, confondendomi e impazzendo.
Era tutto perfetto prima di conoscerlo, ora perché doveva apparire tutto così dannatamente complicato? Mi appoggiai al muro del bagno e scivolai, sedendomi a terra, una gamba lungo il pavimento e l’altra piegata, tenuta su dalle mie braccia intorno ad essa.
Nel giro di pochi giorni avevo, per colpa sua: litigato a più riprese con Gu, saputo che Aurora era semi-innamorata di lui e fatto un sogno-incubo vagamente erotico su di lui.
Sarei voluta sprofondare e scomparire, altrochè.
Una lacrima mi scese dispettosa lungo la guancia. Tutti quegli anni ad odiarlo, e in quel periodo erano stati vanificati. Non c’era stato un giorno, durante tutti quegli anni, che non avessi avuto un motivo per detestarlo, odiarlo e considerarlo il peggior ragazzo sulla faccia della terra.
E con la biondina, poi. Di certo non si stava comportando in modo corretto. Venire in classe e provarci con me..
Ero convinta che ci provasse, ma in realtà lo faceva, o era un modo per rendersi simpatico e basta?
Sprofondai ancora più giù, inarcando le spalle e tenendomi la testa tra le mani, e iniziai a piangere.
Oltre al danno, la beffa. Infatuata e delusa. Respinta. Non ricambiata.
Non potevo credere di essere caduta così in basso, non per Edoardo. Non per lui.
Era l’anti-uomo fin dalla prima superiore, non poteva esser considerato nemmeno papabile. Non per me, alla ricerca dell’uomo giusto. Bello, simpatico, intelligente, pieno di iniziativa, sincero, ma soprattutto fedele. Edoardo non era nulla di tutto quello che ero sempre andata a cercare.
Era bello, sì.. ma in quanto al resto lasciava a desiderare sotto ogni aspetto. Soprattutto la fedeltà.
Probabilmente non aveva mai avuto una storia seria, una fidanzata. Nulla. E io ero, in quel momento, chiusa in un bagno a piangere per la possibilità che potessi non piacergli, non interessargli.
Stavo decisamente dando i numeri.

***

Fase cinque: accettazione.
Ok. Dovevo prendere la situazione in mano e cercare di essere seria, cercare di non lasciarmi prendere dai sentimenti, di tenere le redini del cavallo.
Dovresti fare un salto nel lato selvaggio. Oh sì, era proprio lui il lato selvaggio.
Mi sedetti al mio banco, cercando di mantenere il controllo delle lacrime che fino a poco prima avevano avuto la meglio.
“Allora davvero non vuoi sapere cosa c’era scritto nel messaggio?”, ma non si stancava mai di parlare? Evidentemente no.
“Lo so cosa c’era scritto”, risposi, neutrale.
“Come.. cosa. E perché non hai risposto?”, era confuso, in quella giornata lo era stato parecchie volte, nei miei sogni-incubi e non.
“Diciamo che se volevi dirmi una cosa carina, dovresti sapere che alle ragazze non piace che la loro testa venga definita ‘testone’”, accennai un sorriso, continuando a farmi i fatti miei. Era troppo simile, anzi identico al sogno per poterla vivere in modo tranquillo, soprattutto ricordando benissimo come il sogno andasse a finire.
“Vuoi dire che non so come trattare una ragazza?”, chiese, lo stesso sorriso malizioso del sogno sul viso.
“Esatto.”, risposi. Sapevo già che sarebbe andata a finire male.
“E’ una sfida?”. Sì, sarebbe andata a finire malissimo.
“Secondo te?”, domanda retorica. Avrei lasciato che le cose andassero come dovevano andare.
Accettazione.
 


 -notepocoserie-
So che leggere anche queste note può essere una mazzata di proporzioni bibliche, dopo un capitolo del genere a cui sicuramente non siete abituati in questa storia.
Allora, devo spiegare alcune cose. Il capitolo in generale è ispirato e strutturato utilizzando le cinque fasi del dolore, scoperte (?) da Elisabeth Kübler Ross, citate in molti film e telefilm come I Simpson (in modo scherzoso naturalmente) e in Grey’s Anatomy (da cui mi è venuta l’ispirazione per il capitolo).
Volevo che succedesse qualcosa, volevo che Perla capisse e spero di non aver esagerato nel farle capire, attraverso le cinque fasi principali, ciò che in realtà avrebbe dovuto capire molto prima. LOL
Naturalmente non è che d’ora in poi penserà solo alle labbra di Edo che, seppur stupende, non sono il fulcro di questa storia ahah.
Spero di non avervi annoiato e di aver reso il tutto molto fluido nonostante le continue interruzioni dovute alle diverse fasi nel capitolo.
Amo Trigger per averlo betato, ma lei già lo sa, e amo voi per essere arrivate fin qui.
Inoltre, la frase “Dovresti fare un giro nel lato selvaggio” è una citazione della canzone di Lou Reed che io amo alla follia “A walk on the wild side”, se non la conoscete, andatevela ad ascoltare e se la conoscete avete tutta la mia stima. Ahah
Bene, credo di aver detto tutto, naturalmente tra un po’ le note cominceranno ad essere più lunghe del capitolo ma abbiate fede in me e, ultime cose, ma non per importanza, i vari link generali.
QUESTO, per accedere al gruppo di Facebook e scoprire così spoiler, anticipazioni, video e pettegolezzi vari sulla storia e sulle storie della mia roomate Giuls ahah.
QUESTO il canale YT per vedere i due trailer della storia, molto carini e coccolosi. Ahah Sappiate che mi piace il fatto che leggiate in tanti, mi piacerebbe sapere di più cosa ne pensate, quindi se vi va, lasciatemi un segno del vostro passaggio, una piccola recensione, un pensiero. Ne sarò felicissima ♥ 

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Capitolo 10
*** 09 - NON MI RICORDO PIU' CHE FACCIA HAI ***


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09 – NON MI RICORDO PIU’ CHE FACCIA HAI

    

ma qual'era la missione 
da portare avanti mai 
se poi non mi ricordo 
neanche piu' 
che faccia hai 


Sciolsi i capelli dalla treccia, che avevo distrattamente acconciato durante la lezione, e vidi Guglielmo avvicinarmisi.
Era passato veramente molto tempo dal giorno in cui avevamo discusso e ancora non avevamo chiarito in alcun modo, avevamo lasciato che qualche battuta, nel gruppo, facesse incontrare i nostri sguardi, ma non eravamo andati oltre. Lo guardai camminare verso il mio banco e rimasi seduta, mi scambiai un’occhiata con Edo -che nel frattempo aveva fatto per girarsi verso di me ma si era accorto di Gu e aveva rinunciato- e continuai placidamente a sciogliermi la treccia dei capelli.
“Davvero?”, mi chiese, a pochi passi dal mio banco. Indicava i miei capelli, e capii che era un pretesto per poter parlare, perché nemmeno lui riusciva a stare senza rivolgermi la parola per così tanto tempo.
“Che c’è, non ti piace?”, distanziai una ciocca di capelli dagli altri, era dietro l’orecchio, verso la fine dell’attaccatura dei capelli, ed era bionda. Pura, candida. Così diversa da me.
“Devo proprio risponderti?”, domandò, con un sorriso. La odiava, lo sapevo. Ma avevo voluto farla proprio per quel motivo, forse.
L’avevo fatta il pomeriggio prima quella ciocca gialla, quasi bianca. Guglielmo diceva sempre che il mio colore di capelli era bellissimo, color cioccolato, con qualche sfumatura di nocciola. Eppure quel biondo mi ossessionava. Saper di essere così diversa, meno pura, meno candida. Così avevo deciso, avevo preso la boccetta di ossigeno di mia mamma e l’avevo buttato su una piccola ciocca, ben nascosta dal resto della chioma. L’avrebbe notata solo un occhio attento, e lui l’aveva notata subito. Forse era stato anche un modo per attirare la sua attenzione, per scaturire in lui un’emozione, per dargli un pretesto per venire da me e parlarmi. Perché nemmeno io riuscivo a sopportare quel silenzio tra di noi.
“Perché l’hai fatta?”, aggiunse poco dopo, prendendo la sedia libera del banco affianco al mio e sedendomisi accanto. Era distaccato, ancora arrabbiato forse, ma propenso al perdono e alla riappacificazione. Era così strano averlo a pochi centimetri e sentirlo così lontano.
“Lo sai come sono fatta. Se mi gira di fare una cosa, la faccio”, risposi, abbassando lo sguardo e nascondendo nuovamente la ciocca incriminata tra le altre.
“Ma i tuoi capelli..”
“Si lo so, mi ricresceranno castani, non ti preoccupare”, lo rassicurai. Era un amore con quel faccino da finto indifferente, lo guardai per qualche istante e vidi il sorriso nascere lentamente e aprirsi sulle sue labbra. Poi mi avvicinai, rimanendo in silenzio, e lo abbracciai. Silenziosamente.
Forse potevo essere anche io pura, candida.
Mi scostai da quell’abbraccio e gli sorrisi, chiedendogli scusa con gli occhi, non parlai, ma lui decise di farlo al posto mio.
“Mi dispiace, Perla. Ma sai, in questi giorni eri tipo isterica e sai che io ti voglio bene, è per questo che ti ho detto quelle cose”, mi prese le mani nelle sue e abbassò il viso a guardarle.
Sorrisi, accondiscendente, lasciando che si intrecciassero tra loro, placide.
Nel frattempo Edo si era avvicinando nuovamente, sedendosi tranquillo al suo posto.
Mi allontanai istintivamente di qualche centimetro e le nostre mani si sciolsero.
“Che bei piccioncini”, rise beffardo Edoardo, notando il mio allontanamento repentino.
Un  parte di me leggeva una nota di gelosia nelle sue parole, l’altra si limitò ad avvampare di imbarazzo e biascicare qualche frase sconnessa.
“Ma che dici, scemo!”, arrossii maggiormente e distolsi lo sguardo.
Qualche tempo prima sarei impazzita a sentirmi parte di qualcosa di più intimo con Gu, mi sarebbe piaciuto, avrei alimentato quel pensiero nella mia testa e mi sarei crogiolata in esso. Ma in quel momento, le mie speranze si erano affievolite, un po’ da sole e un po’ in conseguenza al comportamento di Guglielmo, distaccato e socievole come solo un amico poteva essere. Col tempo mi ero rassegnata, avevo relegato quel sentimento in un angolino del mio cuore, riducendolo alla semplice amicizia. E mi ci ero abituata, lasciandolo lì, latente.
Quella frase aveva scaturito in me una reazione inaspettata e lo sguardo di Edo, rivolto verso le mie guance color ciliegia, non fece altro che imbarazzarmi ancora di più.
Vidi Gu alzarsi e allontanarsi da noi, abbassai lo sguardo cercando di deviare le possibili battutacce di Edo e, a salvarmi in corner, arrivò la campanella del cambio d’ora e l’arrivo puntuale del professore di informatica.
“Bene ragazzi, prendete le vostre cose, oggi andiamo in aula multimediale!”, sembrava più elettrizzato lui da quella notizia che tutta la classe messa insieme. Noi, dal canto nostro, come piccoli zombie ci alzammo meccanicamente e ci dirigemmo a imbuto verso la porta, ancora spalancata dall’arrivo del prof, e sotterrando quest’ultimo con i nostri corpi.
Entrammo in sala multimediale e mi sedetti al mio solito posto, il mio computer accanto a quello di Aurora.
Alla fine il gruppetto solito di amici finiva sempre per stare vicino, infatti sentii Edo posizionarsi nei computer dietro a quello mio e di Aurora. Accanto a lui Guglielmo.
Un’accoppiata perfetta.
“Prof, ho dimenticato la pendrive in classe”, gridai, cercando di sovrastare il caos generale in quell’aula.
“Corri Perla, e muoviti!”, mi alzai e scattai velocemente, oltrepassando la porta in un lampo, concedendomi subito dopo il lusso di camminare con calma verso la classe deserta.
Entrai accostando la porta e dirigendomi verso la mia borsa, in fondo alla classe. Non sentii la porta aprirsi e riaccostarsi, così quando mi trovai Edoardo alle spalle saltai, spaventata.
“Che ci fai qui?”, sospirai, tranquillizzata dal fatto che fosse lui e non un maniaco pronto ad uccidermi.
“Non posso aver dimenticato qualcosa anche io?”, ammiccò, avvicinandosi all’astuccio sul suo banco.
“E cosa avresti dimenticato?”, sbuffai. Aveva sempre una scusa per trovarsi nei posti in cui ero anche io, e il fatto che ogni volta che incrociavo la curva delle sue labbra mi lasciavo scappare un sospiro non era d’aiuto, proprio per niente.
Inoltre, in quel momento, mi sembrò di rivivere per un istante il sogno di qualche notte prima e vederlo destreggiare fintamente con l’astuccio mi fece scorrere un brivido lungo la schiena.
Repentinamente si spostò, avvicinandosi pericolosamente al mio viso e al mio corpo con il suo.
“Ho dimenticato di salutarti, stamattina”, sussurrò e respirai il suo respiro per qualche secondo, talmente era vicino al mio volto.
“Ciao”, risposi, la mia voce era inconsciamente bassa.
Era una provocazione bella e buona, ma avevo accettato la sfida e avrei giocato fino in fondo.
Mi prese il viso tra le mani, istintivamente indietreggiai, trovandomi inaspettatamente con la schiena contro la parete.
Se fosse entrato qualcuno..
“Vuoi baciarmi?”, la sua voce era roca e profonda, bassa per non farsi sentire dalla gente che passava davanti alla porta semichiusa dell’aula, inconsapevoli del fatto che non fosse deserta completamente.
“No che non voglio baciarti!”. Troppo veloce.
Vidi un sorrisetto beffardo aprirsi sul suo volto, e si avvicinò maggiormente, soffiandomi le parole sulle labbra.
“E se ti baciassi, mi lasceresti fare?”, le mani erano ancora appuntate sulle mie guance, imporporate. Nonostante volessi farlo con tutta me stessa, non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi, grigi come un cielo in piena tempesta.
Lasciai che passasse qualche secondo prima di rispondergli, non era propriamente una tattica di seduzione, era più una pausa per permettere alla mia voce di non tremare quando avessi deciso di pronunciare qualcosa.
“Finchè non provi non lo sai”, mi era uscito un po’ malandato, ma aveva colto nel segno comunque. Era una sfida, ognuno giocava con quel che aveva in mano. Io sull’incertezza, in questo caso. E sembrava funzionare, lo vidi vacillare, abbassare lo sguardo sulle mie labbra e avvicinarsi pericolosamente. A pochi secondi dal contatto voltai il viso da un lato, lasciando che le sue labbra trovassero la morbidezza della mia guancia. Lo sentii sorridermi sulla pelle, mi baciò la guancia più volte e si allontanò.
“Bel giochino”, sussurrò, spostando la bocca nell’incavo tra i miei capelli e il collo. Vicino alla ciocca bionda. Pura, candida.
“Torniamo in classe.”, riuscii a sussurrare, evitando di accompagnare la frase con un gemito.
“Ci siamo già mi pare”, si limitò a rispondere, continuando ad annusare i miei capelli nello stesso punto.
“In quella giusta!”, rinsavii quel tanto che bastò per poggiargli le mani sul petto -quel petto così muscoloso e consistente al tatto- e spingerlo gentilmente lontano. I miei gesti dicevano quello che a parole continuavo a negare, cioè che non volevo spingerlo via, non volevo andare in classe insieme al resto dei nostri compagni, che non volevo rifiutare il suo bacio.  Maledetto corpo che faceva quel che voleva.
Riportai le mani lungo i fianchi lentamente, accarezzando il suo petto e scendendo quel tanto che bastava perché rimanesse stupito e mi guardasse sconcertato. Abbassai lo sguardo e con un sorrisetto gli passai affianco, lasciando la scia di quel profumo che lui aveva tanto annusato poco prima.
“Muoviti, cretino!”, risi, uscendo dall’aula e cercando di riappropriarmi di un atteggiamento gioviale e disinvolto.
Percorsi il corridoio continuando a guardarmi indietro, continuando a notare come lui si ostinasse a rimanere rintanato in quella classe, al buio. Cosa voleva che facessi? Che tornassi indietro forse? Beh, poteva anche scordarselo. Arrivai alla porta dell’aula di informatica e lui ancora non era uscito dalla classe, sbuffai, aprii la porta ed entrai nel’aula ghermita di alunni alzando la pendrive che avevo detto di aver dimenticato in classe.
“Hai visto Edo?”, Gu mi guardò, sorridendo, e non potei fare a meno di pensare che si, l’avevo visto eccome.
“No, perché?”, mentii. Odiavo mentirgli.
“Boh, è andato in bagno mezz’ora fa e non è ancora tornato”
“Gli hai fatto una sorpresina eh, Perla?”, ghignò Filippo. Passandogli accanto gli tirai uno schiaffetto sulla nuca e sorrisi. Possibile che era l’unico ad aver capito?
“Smettila scemo. Non so dove sia. Sarà sceso dalla biondina!”. Solo io leggevo gelosia nella mia voce? Probabilmente si, perché non badarono molto al mio tono.
“Probabile.”, rispose Azzurra, e vidi Aurora, nel computer in fondo accanto al mio, abbassare lo sguardo e annuire. Aveva preso proprio una bella cotta. E io cosa stavo facendo? Mentivo proprio a lei?
Le sarebbe passata.
Mi morsi la lingua, avevo delle pretese assurde, come se lei non fosse più giustificata di me a provare qualcosa per Edoardo. Come se lei non lo meritasse, come se era ovvio che lui non provasse nulla per Aurora.
Scossi la testa, ero un’amica pessima.

***

se un giorno mai, un giorno mai 
tu mi riconoscerai 
illudimi che quella sia 
la prima volta che mi guardi e poi 
non ricordare il nome 
e chiedimi il mio nome ancora dai 
nascondi in una mano stretta 
la memoria che hai di noi 


La neve era andata via, lasciando il posto a enormi pozzanghere sparse ovunque su marciapiedi e lungo le strade. Le macchine passavano a tutta velocità, incuranti del fatto che avrebbero potuto infradiciare qualunque malcapitato camminasse sul marciapiede laterale. E quei malcapitati eravamo noi, costretti continuamente a schivare pozzanghere e schizzi continui provenienti da quelle maledette vetture impazzite. Fortunatamente la giornata, nonostante il freddo barbino, era soleggiata e, guardando il sole dai vetri spessi delle finestre della nostra classe, avevamo deciso di andare a mangiare la pizza dopo scuola.
Naturalmente la metà di noi non aveva abbastanza soldi in tasca per una pizza intera.
Camminavo accanto ad Azzurra quando le squillò il cellulare, vidi i suoi occhi illuminarsi e capii che si trattava di Federico. Allungai il passo, lasciandola indietro, nella sua privacy. Mi avrebbe raccontato quello che voleva, dopo.
Mi affiancai, senza nemmeno accorgermene, a Edoardo che, invece, se ne accorse subito, e mi mise un braccio attorno al fianco.
“Senti freddo?”, mi chiese, il suo viso vicino al mio per parlare a bassa voce, liberamente. Mi ricordò il giorno del capello di lana, però quella volta eravamo completamente isolati dal resto del gruppo, mentre in quel momento ci eravamo in mezzo, al centro dell’attenzione.
“No”, risposi, lasciando però che il suo braccio rimanesse attorno ai miei fianchi, disinvolta.
Sussultai, vedendo all’angolo della strada un gatto. Avevo una paura sconcertante dei gatti, soprattutto di quelli che si ostinavano a guardarti fisso negli occhi e a rimanere immobili, proprio come quello che stava facendo in quel momento quel gatto, paffuto e a macchie bianche e nere.
“Hai paura?”, chiese Edo, stupito.
“Ovvio, guarda che sguardo!”, mi limitai a sussurrare, continuando a tenere d’occhio il gatto. Sentii la presa di Edo attorno ai miei fianchi farsi più potente e le sue labbra inarcarsi in un sorrisetto.
Alzò la voce, quando parlo: “Secondo me si è appena fatto una bella scopata, guarda che sguardo soddisfatto”. Strano, era da troppo che non lo sentivo dire scemenze.
“Ma i gatti scopano?”, fu la domanda stupita di Filippo, che dall’alto della sua intelligenza non aveva mai pensato che anche i gatti si dovessero riprodurre in qualche modo.
“Ovvio, come ricci”, rispose Edo, ghignando.
“E a te, va di provare?”, sussurrò al mio orecchio, senza che gli altri potessero sentirci, impegnati a risolvere il dilemma: se i gatti scopano come ricci, i ricci come scopano?
Arrossii, mordendomi il labbro inferiore per non rispondergli qualcosa di cui mi sarei potuta pentire, e appoggiai la mia mano sulla sua, quella ancora ferma sul mio fianco sinistro, per poi lasciarla ricadere. Non era una risposta, avrebbe potuto intenderla in qualsiasi modo. Mi sarei preoccupata dopo di girarla a mio piacimento. Era un gioco, no?
Continuammo a camminare e ignorai volutamente le occhiate in tralice che mi lanciava Aurora, avrei inventato una scusa dopo, comodamente seduta in pizzeria.
“Hai i soldi per la pizza?”, sentii la voce di Edo nuovamente vicino al mio orecchio.
“Divido con..”, stavo per concludere la frase facendo il nome di Guglielmo ma mi interruppe.
“Dividi con me, non ho molta fame”, taglio corto. Possessività. O ero io a immaginarmi una nota di gelosia nel tono della sua voce e la stretta al mio fianco farsi più sicura, quasi severa?
La lasciò solo per permettermi di entrare nella pizzeria, e solo perché in due non saremmo potuti passare contemporaneamente, poi mi tornò affianco, lasciando che mi scegliessi il posto e accomodandosi a sua volta alla mia sinistra.
Vidi Gu indugiare qualche istante sulla sedia di destra, per poi desistere e andare a sedersi in fondo al tavolo, vicino a Filippo.
“Guardalo, come è afflitto”, mi sussurrò all’orecchio Edo. Sapevo che parlava di Gu e la cosa in un certo senso mi infastidiva.
“Cosa intendi?”,
“Che ti sbava dietro Perla!”, concluse, secco, lapidario.
Rimasi in silenzio, infastidita e stupita da quella constatazione.
“..perchè non dovrebbe.”, farfugliò, possibilmente a voce ancora più bassa di prima. Sorrisi, nascondendo il viso nell’incavo tra la sua spalla e i capelli morbidi e profumati.
Dio, che profumo!
Tutte quelle effusioni in pubblico cominciavano a sbalordirmi, soprattutto per la tranquillità e la naturalezza con cui nascevano. Allontanai il viso dal suo profumo, continuando a sorridere.
“Prendi una margherita?”, mi domandò, distogliendo lo sguardo da me per posarlo sul menù.
“Quello che ti pare”, replicai scocciata da quel repentino cambio di argomento. Mi piaceva sentirmi corteggiata, anche se ero a conoscenza del fatto che fosse un corteggiamento fasullo e fine a se stesso.
Le pizze, fumanti e invitanti, arrivarono pochi minuti dopo e notai che in fondo non avevo poi così fame, lasciai più della metà di pizza prestabilita ad Edo e mi limitai a guardarmi intorno, mentre le bocche di tutti gli altri, silenziose e intente a trangugiare quanto di commestibile si trovavano davanti, creavano un brusio di sottofondo, misto alla musica che elargiva una radio mezza rotta all’angolo opposto del locale, quando la vidi. Pura e candida. Aveva il passo delicato di una etoile della danza misto alla naturalezza e disinvoltura tipica di una modella davanti ai riflettori. Quella ragazza sarebbe stata a suo agio e sicuramente bellissima anche in un recinto di maiali, sporca di fango. Sentii la sedia affianco a me muoversi, producendo uno stridio, e Edo affiancarsi alla bionda, ancora sulla soglia del locale con in mano una sigaretta mezza consumata.
Lo guardai metterle una mano intorno ai fianchi e avvicinarla a se per baciarla sulla guancia, per poi allontanarla nuovamente e sfilarsi il pacchetto di sigarette dai jeans.
Distolsi lo sguardo, giocherellando con i bordi della pizza, bruciacchiati, imperfetti, quindi allontanati lì sul piatto. Sicuramente non erano, nè sarebbero mai stati, puri e candidi.

***

Rimasi venti minuti buoni a guardarli, fuori dal locale, attraverso il vetro, imbambolata come una cretina. Guardavo le mosse di lei, così disinvolte e sensuali, sembrava sexy anche mentre si apprestava a soffiarsi il naso.
Dostolsi lo sguardo solo quando vidi Edoardo voltarsi verso il tavolo e aprire la porta del locale per avvicinarsi a noi. Mantenni lo sguardo basso sul bicchiere di coca-cola -ormai del tutto sgasata- ancora mezzo pieno davanti a me.
“Ragazzi accompagno Astrid a casa, mi raccomando stasera eh!”, Astrid. Cazzo, anche il nome era da mozzare il fiato. Ora si spiegavano i suoi connotati, sicuramente non nostrani.
Era una dea, in tutto e per tutto.
Liberatami dal nome, stupendo, della dea bionda, mi preoccupai del secondo pezzo della frase.
Mi raccomando stasera eh!
Cosa diamine succedeva stasera? Guardai Guglielmo, all’altro lato del tavolo, e gli sorrisi.
Ci alzammo anche noi, decidendo in pochi minuti la prossima destinazione. La mia era sicuramente una sola: casa.
“Vuoi che ti accompagno?”, sentii la voce di Guglielmo alle mie spalle, mentre ero occupata ad allacciarmi il cappotto. Le mie speranze di essere accompagnata da Edo erano evaporate nello stesso istante in cui avevo visto apparire Astrid -mi faceva ancora strano pensare che quella ragazza avesse un nome bello tanto quanto lei-, così mi limitai ad annuire e ad uscire dal locale. Per quanto potessi trovare attraente e potesse mandarmi fuori di testa con un sospiro, Edoardo non era sempre lì, come invece era sempre stato Gu. Stabile.
Camminammo in silenzio per parecchi minuti, probabilmente lui non sentiva il bisogno di parlare, mentre dentro di me c’era un oceano di domande, frasi e concetti pronti per essere sputati fuori, ma cercai di tenermeli stretti tra i denti, aspettando che fosse lui a dire la prima frase.
“Carina Astrid eh?”. Con tutte le domande possibili, doveva proprio trovare la più inadatta? Trattenni i peggiori insulti e annuii, indifferente.
“Stasera vieni?”, ecco, quella era una domanda intelligente. Potevo esplorare tra i mille discorsi conclusi presenti nella mia testa, al momento piuttosto affollata, e trovare la domanda adatta.
“Cosa c’è stasera?”, chiesi, assumendo un’espressione fintamente distratta.
“Edo fa il concerto in quel locale qui vicino. Davvero l’hai dimenticato?”, era sorpreso. Veramente?
“Può capitare. Non so se ci sono, comunque.”
“Vengo a prenderti con Azzurra alle nove. Fatti trovare pronta.”, rispose secco lui, senza ammettere repliche.
“Allora venite prima, mangiate da me. Ok?”, sorrisi. Se proprio dovevo passare una serataccia, tanto valeva iniziarla al meglio.
Annuì, tornando al silenzio iniziale.
Salimmo sul pullman, rimanendo costantemente in silenzio. Non mi pesava non parlare, sapevo che anche a lui andava bene così e stargli accanto era un grande conforto.
Scendemmo dal pullman che eravamo ancora in silenzio. Poi feci per salutarlo, e mi prese un braccio.
Eravamo sul marciapiede, le pozzanghere di neve sciolta attorno a noi, e un atmosfera piuttosto strana, un grande pino ci faceva ombra in quella giornata soleggiata.
“Che c’è?”, gli sorrisi, voltandomi di nuovo verso di lui.
“Volevo dirti una cosa”, balbettava, o me l’ero immaginato io? Mi staccò la mano dal braccio e lo lasciai cadere lungo il fianco. Poi si avvicinò, sembrava più goffo del solito.
“Dimmi”, ero preoccupata, non sapevo cosa voleva dirmi, ma per prima cosa mi venne in mente Edoardo e il suo comportamento di oggi. Si era accorto del cambiamento.
“Sai, credo che ormai lo abbiano capito anche i muri”, riprese, abbassando lo sguardo e prendendomi una mano tra le sue.
“Ti prego, se ti stai riferendo..”
“A chi? Non mi riferisco a nessuno.. cioè, a qualcuno si”, mi interruppe e si interruppe, probabilmente valutando bene le parole da utilizzare.
“Perla, la cosa più importante per me è la nostra amicizia. Ma non mi basta più, probabilmente non mi è mai bastata.”, tornò a guardarmi negli occhi, le sue mani strette sulla mia.
Quel discorso, fatto di interruzioni e parole frastagliate, mi colpì in pieno petto, sconvolgendomi. Non poteva stare succedendo davvero.
“Rispondi qualcosa”, sorrise, abbassando lo sguardo, notando che ero come pietrificata, il respiro mozzato in gola dalla notizia.
“Scus..”, cercai di articolare una sorta di risposta, inutilmente. Alla fine optai per la marea di parole che si era creata nella mia mente, avrebbe capito.
“Non capisco.”, per essere una marea, era stata piuttosto lapidaria.
“Non credo ci sia molto da capire, Perla. Mi piaci, mi sei sempre piaciuta.”, sciolse l’intreccio delle sue mani nella mia e alzò lo sguardo, puntandolo nel mio.
“Si quello l’ho capito. Ma perché ora?”, erano domande piuttosto stupide, lo sapevo. Ma in quel momento la mia testa non riusciva a produrre niente di meglio.
“Perché no? Sono sempre stato indeciso, se rischiare o meno. Ma sei qui, e perché no?”, era euforico e disperato allo stesso tempo.
L’unica cosa razionale che riuscii a pensare in quel momento fu una sola: Azzurra aveva avuto ragione, fin dall’inizio.
“Ok.”, annuii, cercando di essere il più convincente possibile e mi allontanai, voltandogli le spalle e camminando, buttando malamente un passo dopo l’altro, verso casa. Non mi voltai a constatare se fosse rimasto lì o meno, avrebbe capito. Avremmo chiarito.
 

-notepocoserie- 
Vi è piaciuto questo capitolooo? Spero di si, con tutto il cuore. Volevo mettere anche il pezzo del concerto ma, uno non volevo postare tra 8562 anni, e due sarebbe diventato veramente troppo lungo. Perciò nel prossimo vedremo come Peral reagisce a Gu, il concerto e scopriremo di più su Astrid. 
Allora, piccoli punti da osservare: 
-il capitolo prende il titolo e varie citazioni qui e li dalla canzone dei negramaro "Se un giorno mai", inutile proclamare il mio amore per Sangiorgi, sarebbe davvero superfluo. Se non la conoscete, andate ad ascoltarla e rileggetevi il capitolo ahah QUESTO è il link alla canzone ♥
-Quando si parla di Astrid - e questo sarà un punto che vi interesserà tantoo xD-, Perla dice che ha anche il nome da dea. Astrid è un nome di origine tedesca, e significa letteralmente "divina bellezza", e diciamo che le calza a pennello. Sicuramente la mia anima gemella sarà, come mi ha già fatto notare, adirata per questa scelta. Perchè è un nome che avevamo scelto e cercato con minuziosità molto tempo fa, per un altra mia storia, e che ora mi si è parato davanti come se fosse ovvio dover usare proprio lui. Inoltre la ragazza che ho scelto come prestavolto di Astrid ha i connotati di una tedeschina carina carina, perciò ci sta alla grande. QUESTA è la foto della mia ragazzaccia.
-Spero che le ridondanze sul puro e candido siano state gradite e non siano state noiose o di peso. Volevo rimarcare il desiderio di Perla di essere qualcun'altro, di sentirsi inadatta nelle sue fattezze. Lo stesso discorso vale per il ciuffo di capelli biondo a inizio capitolo, spero che la similitudine e l'eterno paragone siano risultati chiari e "candidi". LOL
-Spero che le battute sul gatto siano state, anch'esse, di vostro gradimento. L'altro giorno mi è capitato di vedere un gatto per strada e, a parte il fatto che odio i gatti appostati li che ti fissano e che sembrano sempre pronti ad artigliarti il viso da un momento all'altro, mi è sembrato proprio che avesse un'espressione "soddisfatta" ahah. 
-sto facendo avvicinare Edo e Perla sempre di più.. il tutto è sottoforma di gioco, perciò spero vi piaccia. sono cose maliziose e ancora nessun bacio. Per quanto riguarda invece la scena con Gu, abbiate pietà, nella mia testa Gu le mandava un sms a cui lei rispondeva ok. L'ho cambiato, perchè odio i cellulari nella vita e odio leggere di persone che si scrivono via sms, quindi ho cercato di renderla al meglio dal vivo, occhi negli occhi. Spero che con questo pezzettino su loro due amerete un po' più Gu. ♥ Piccolo cucciolo abbandonato in mezzo alla strada ahaha.
ultime note piccole piccole: 
LINK AL GRUPPO DI FACEBOOK mio e di Giuls, in cui parliamo, spoileriamo, facciamo un po' di tutto insomma. 
LINK AL CANALE YOUTUBE per i due video-trailer su Angeli Sbagliati ♥

p.s. quanto è bello Gu nella terza gif? *O* io lo amo ahah ♥ Vi mando baci alla cannella, Sonia. 

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Capitolo 11
*** 10 - PERFETTI SCONOSCIUTI ***


10 - PERFETTI SCONOSCIUTI

 

 
Percorsi la strada fino a casa terribilmente scossa; nonostante il calore del sole passasse attraverso i vestiti, sentivo freddo, dei brividi scorrevano lungo la schiena e la mia mente era completamente svuotata da ogni pensiero. Mi si ripetevano solo, insistentemente, quelle poche e semplici frasi balbettate qualche istante prima.
Credo che lo abbiano capito anche i muri.
Persi la strada di casa un paio di volte e mi ritrovai davanti al cancelletto di entrata per puro caso, spinta probabilmente dal mio inconscio. La sola idea di dover pensare, di dover agire in quei frangenti mi sembrava impossibile, come se dovessi scalare l’Everest, ma mi imposi di far lavorare il cervello, così presi le chiavi e spinsi il cancelletto, percorsi il vialetto fino alla porta di casa e infilai la chiave nella serratura. Gesti meccanici che ora mi apparivano così difficili, talmente la mia mente si rifiutava di ragionare. Mi chiusi la porta alle spalle e mi bloccai, in una casa vuota e silenziosa. Troppo silenziosa.
I miei pensieri decisero di liberarsi, viaggiarono a briglia sciolta e li lasciai andare, incapace di trattenerli, di non pensare a ciò che era appena capitato.
Era un disastro. Avevo passato una quantità di tempo smisurata a morirgli dietro, a centellinare ogni suo sorriso, ogni suo sguardo, ogni suo gesto. Avevo raccolto ogni parola e mi ci ero crogiolata come in un liquido d’amore, valutando ogni accento, ogni intonazione della voce, per poter trovare un segno, un dettaglio che lo riconducesse a me, ma non era successo. Non avevo trovato nulla. Avevo rinunciato.
Avevo passato altrettanti mesi, se non di più, a cercare di farmene una ragione, a odiare e amare contemporaneamente ogni sua parola e ogni suo sorriso, nuovamente. E alla fine, a fatica, mi ero rassegnata, sofferente.
Ora si permetteva di arrivare, stravolgere mesi, ore e giorni di dolore e lavoro, e la sua unica giustificazione era perché no?.
Mi lasciai cadere lungo la porta di casa, afflosciandomi a terra come uno straccio sporco, utilizzato e poi lasciato ad impolverarsi in un angolo della stanza.
Avevo fantasticato su di lui per anni, ma ormai ero abituata a vederlo solo come un semplice amico.
Mi alzai lentamente da terra e con passi incerti raggiunsi il bagno, dopotutto ci sarebbe stato un concerto quella sera. 
 
***
 
Saltellai fino alla porta di casa, avevo sentito l’auto di Azzurra sgommare dall’isolato prima di casa mia e la tensione che in quelle poche ore, unita a un’infinita doccia calda, mi aveva leggermente dato tregua, era tornata prepotente, fulminea.
L’avrei rivisto e se l’idea di doverlo vedere mi creava ansia e palpitazioni, l’idea di dovergli in qualche modo dare una specie di risposta creava uno scompenso fisico e psicologico non indifferente.
Aprii la porta con indifferenza, elargendo sorrisi a tutto spiano. Azzurra sembrava essere fin troppo contenta per essere una semplice ragazza che va a mangiare da un’amica e Gu..
Lo guardai per pochi istanti, giusto il tempo di sorridergli e farfugliare un ‘ciao’ mangiucchiato. Mi parve sereno, nonostante potessi sentire nell’aria la tensione di entrambi.
“Conoscete la strada per la cucina, io arrivo subito, mi metto un golf”, sfrecciai alla velocità della luce fuori dalla portata dei suoi occhi, che non avevano smesso un attimo di osservarmi e scrutarmi.
“Ciao”, saltai dallo spavento quando sentii la sua voce alle mie spalle.
“Hai lasciato Azzurra da sola, povera.”, fu la mia unica risposta, volevo evitare il suo sguardo e l’argomento, qualsiasi esso fosse, così rimasi girata di spalle con una mano appoggiata sull’anta aperta dell’armadio e lo sguardo puntato sull’ammasso di vestiti, fintamente in cerca di un copri spalle.
“Perla..”, sentii la sua voce pericolosamente vicina, il suo respiro serpeggiare tra i miei capelli e non potei fare a meno di voltarmi, trovandomelo così a pochi centimetri dal viso.
“Gu, cosa c’è?”, chiesi, esasperata.
“Nulla..”, sembrò ritrarsi, voleva delle risposte, lo sapevo, ma non mi avrebbe mai costretto a fare qualcosa che non volevo.
“Guglielmo tu mi piaci, sei mio amico..”, abbassai lo sguardo, impossibilitata a guardare quegli occhi smarriti che ora fissavano la mia nuca.
“Dio, è così difficile..”, sussurrai e lo vidi indietreggiare, un piede dietro l’altro. Alzai lo sguardo, aveva frainteso.
Gli presi un braccio e lo accarezzai leggermente, cercando di riportarlo vicino a me.
“Tu non hai idea di quanto tempo tu sia piaciuto a me.”, lo sussurrai, quasi come se non volessi che lo sentisse per davvero. Stavo cedendo, stavo lasciando che tutti quei mesi e tutti i pianti scivolassero via e rimanesse solo quello, solo noi due.
“Davvero?”, che domanda stupida. Mi limitai a guardarlo e non potei fare a meno di pensare che fosse veramente buffo, con quei suoi capelli arruffati e quello sguardo in pena. E bello.
“Si.”, sussurrai, lasciando scivolare la mano lungo il suo braccio e infilando le mie dita tra le sue. Lo trascinai così in cucina, dove Azzurra ci stava aspettando con un sorriso a trentadue denti.
La sentii bisbigliare qualcosa all’orecchio di Gu e ci sedemmo attorno al tavolo.
“Chi ha fatto entrare il tipo del giapponese?”, chiesi, vedendo i cartoni bianchi e i bastoncini sul tavolo. Azzurra si prodigò in un ossequio improvvisato e aggiunse: “Voi eravate impegnati e mi son data da fare”.
Non avevo neanche sentito il campanello. Iniziai a mangiare, scoprendo di avere più fame di quanta immaginassi, e mentre ci scambiavamo sushi e sashimi iniziammo a parlare del concerto.
“Ci dovrebbe essere più o meno tutta la scuola stasera.”, disse d’un tratto Gu, masticando.
Il mio pensiero, inconsciamente, andò diretto alla biondina, Astrid.
“Anche quella acidella di Astrid?”, chiese Azzurra.
“La conosci?”, la incalzai subito. Avevo alzato la voce, così cercai di riassumere un’espressione indifferente il prima possibile.
“Si, le ho parlato l’altro giorno, quando siamo usciti. Tu non c’eri. È una saccente, si crede chissà chi.”
“Comunque certo che ci sarà anche lei, fa parte del gruppo.”, masticava ancora, quindi le parole erano mangiucchiate e borbottate, ma lo capii lo stesso. Bene, una competizione agguerrita.
Mi morsi la lingua. Competizione? Avevo appena dichiarato amore infinito a Gu e pensavo a una possibile competizione con la biondina aka divinità greca-Astrid? Scossi la testa, cercando di scrollarmi di dosso il soggetto della competizione e le sue labbra carnose e continuai a mangiare, nonostante il cibo ora non apparisse poi così invitante.
Ero confusa, chiaramente. Cosa avevo appena fatto, se non dire una bugia grande quanto una casa al mio migliore amico? Gli avevo lasciato intendere che provassi qualcosa, mentre in realtà non sapevo nemmeno io bene ciò che provavo. L’avevo lasciato crogiolare nella possibilità di qualcosa, di un noi, solo per la mia smania di esser corteggiata, di essere amata e ammirata da qualcuno, e ora Gugliemo era di fronte a me, con un sorriso stampato sul viso e una bugia nel cuore.
 
***
 
Arrivammo al locale che l’amaro in bocca non se n’era ancora andato, continuavo a mangiucchiarmi le pellicine attorno alle unghie, a pensare a ciò che sarebbe successo, a ciò che avrei dovuto fare per risolvere la situazione, per mettere chiarezza nella mia testa e nella testa di Gu, per non continuare a ferirlo inconsapevolmente.
Vidi Edoardo in lontananza farci un gesto con la mano e poi scomparire dietro un tendone nero, e mi soffermai a guardare il locale, un edificio piuttosto piccolo e cupo, con tavoli e suppellettili principalmente neri. Sapevo che Edo aveva un gruppo rock, ma non immaginavo quel genere di rock.
“Vieni”, sentii la voce di Guglielmo sfiorarmi i capelli e la sua mano prendere la mia, trascinandomi verso uno dei primi tavolini neri di quel locale maledetto. L’unica cosa che avrei voluto fare in quel momento era andare a casa, aprire l’acqua della doccia e immergermici, lasciando che quel liquido portasse via tutto, che mi lasciasse libera.
Invece mi ritrovavo seduta scomodamente in un locale ancora mezzo vuoto, davanti a dei tendoni neri di velluto, pesanti come macigni, ad aspettare uno spettacolo che non avrei voluto vedere, ad ascoltare delle canzoni che non avrei voluto ascoltare insieme a persone con cui non sarei voluta stare.
Ci servirono dei cocktail - che io accantonai in un angolo di quel tavolino mezzo sfasciato - e ignorai puntualmente tutti i discorsi che fecero Azzurra e Guglielmo, così come ignorai l’arrivo di Aurora e Filippo, continuando a guardare quei teli neri di velluto che mi separavano da quello spettacolo che avrei evitato volentieri come la peste.
Dopo una buona mezz’oretta il caos generale riuscì quasi a sovrastare il rumore dei miei pensieri, tanto da rendermi quasi un fantasma in quel localino sperduto, quando vidi i tendoni aprirsi a fatica rimasi immobile, in attesa di quella canzone che non mi sarebbe piaciuta, in attesa di sentire la sua voce e dovermi condannare ad un'ora e mezza di agonia.
Sentii le prime note riecheggiare nel locale e nella mia testa, troppi rumori e pochi sentimenti. Fu la stessa cosa anche per la seconda cover, troppo caos, poche parole e del tutto prive di qualsiasi significato.
Poi mi preoccupai di osservare meglio, di scorgere tra quei visi uno femminile, con gli occhi azzurri e i capelli d’oro, ma quello che vidi fu tutt’altro. Scorsi la figura di Edoardo, i movimenti altalenanti e perfettamente cadenzati con la canzone, lo guardai nel suo habitat, un tutt’uno con la chitarra e la musica, la melodia. La canzone finì e vidi una chioma bionda apparire da dietro le quinte, fece un gesto col braccio a Edoardo e lui prese il microfono, guardando nella nostra direzione.
“Grazie, per essere qui. Questa sarà un po’ più easy.”, sorrisi, l’inglese non era mai stato il suo forte, ma cominciò a cantare. Questa mi piaceva.
 
I am returning the echo of a point in time 
Distant faces shine 
A thousand warriors
I have known
And laughing as the spirits appear  
All your life  
Shadows of another day 
 
And if you hear me talking on the wind  
You've got to understand  
We must remain  Perfect Strangers  
 
I know I must remain inside this silent well of sorrow
 
Rimasi li, ferma, ad ascoltare quella canzone, immaginando che guardasse proprio me nella folla di persone. Lo guardai in ogni suo più piccolo movimento, ogni sentimento trapelava dall’amore per lo strumento, per la melodia che emanava il solo sfregare delle dita sulle corde. Lo ascoltai e sentii la canzone entrarmi dentro, tanto che quando finì mi lascio un senso di abbandono, di perdita.
Uscii dal locale per prendere aria e sentii dentro la musica ricominciare, un’altra canzone, un altro giro, altre emozioni. Rimasi fuori qualche minuto, insieme alla gente che usciva per fumarsi una, due o più sigarette. Rimasi lì ferma, la condensa del mio respiro a farmi compagnia e le mani strette nelle tasche del cappotto.
Non sentii Guglielmo fermarsi alle mie spalle e nemmeno il cappotto che mi mise addosso, non sentii nulla, solo i rimbombi di quella canzone..
 
A strand of silver hanging through the sky  
Touching more than you see  
The voice of ages in your mind  
Is aching with the dead of the night  
Precious life (your tears are lost in  falling rain) 
 
And if you hear me talking on the wind  
You've got to understand  
We must remain ù
Perfect Strangers  
 
***
 
Rientrai quando il richiamo della canzone cessò nella mia testa, quando il repertorio del gruppo era agli sgoccioli, quando anche i più temerari stavano cedendo, tornando a casa da una vita di dissolutezze.
Raccolsi dall’angolo in cui lo avevo lasciato il cocktail, tutto alcool e poca frutta, e lo buttai giù in pochi sorsi, sconvolta per qualcosa di cui non mi ero resa ancora conto nemmeno io.
Quella canzone era per me, era rivolta a me, lo sentivo nelle fibre del mio corpo, lo sentivo nel ritornello e nell’assolo di chitarra, lo sentivo dalla prima nota. Mi alzai, ritrovandomi a dovermi appoggiare al tavolo per non cadere preda dei capogiri. Reggere l’alcool non era una delle mie doti principali. Mi incamminai verso quei tendoni neri, nuovamente chiusi, nuovamente pesanti davanti a me, a oscurarmi una scena che non avrei voluto vedere. Dovevo parlare con Edo, dovevo sentirlo, dovevo avere una conferma alle mie supposizioni. Aggirai i tendaggi, spostando il tessuto pesante, il locale semi vuoto lasciato alle spalle, spalle infiammate dallo sguardo fisso di Guglielmo.
Quello che mi trovai davanti fu uno spettacolo osceno. I tendaggi erano premonitori, neri e cupi a oscurare ogni cosa. Edoardo, avvinghiato a quella biondina –Astrid- contro il muro. Evitai di guardare oltre, riaccostai accuratamente il telo nera davanti ai miei occhi e rimasi qualche istante ferma, un po’ per i capogiri un po’ per la shock.
Indietreggiai di qualche passo poi, rischiando di rovinare a terra, e sentii Guglielmo alle mie spalle, le mani sulla mia schiena pronte a sorreggermi. Lui c’era, c’era sempre stato e ci sarebbe stato sempre, così alzai le mani sul suo viso, toccandolo, accarezzandolo e scrutando il suo sguardo, confuso e preoccupato.
Non volevo che fosse turbato, volevo che mi amasse, volevo che mi desiderasse. Volevo essere una fottuta ragazza bionda, bella e sensuale. Staccai una mano dal suo viso per accarezzarmi la ciocca di capelli biondi dietro la nuca, nascosta.
Mi appoggiai poi al muro dietro di me, aiutata dalle mani protettive di Guglielmo, ma rischiai di cadere nuovamente se non fosse stato per lui, di fronte a me, come un fidanzato innamorato, pronto a tutto pur di salvarmi, di sorreggermi, di aiutarmi.
Lui non mi avrebbe mai costretto a trattarlo come un perfetto sconosciuto.
Mi avvicinai lentamente al suo viso, le mani nuovamente su di esso ad accarezzargli le guance.
Fu un bacio timido, senza pretese, fu un bacio romantico, di quelli che si vedono nei film, e mi lasciò l’amaro in bocca, perché significava soffrire e far soffrire lui.
Poi persi i sensi.
 
***
 
Mi svegliai la mattina seguente con i tipici sintomi da post-sbornia, mal di testa e stanchezza prominente.
“Tachipirina dentro a un goccio di whisky”, fu la proposta di mio fratello, veterano delle sbornie del finesettimana.
Lo ignorai bellamente, preparandomi una tazza di latte fumante, con la mente incapace di cercare una cura migliore.
Lo squillare del telefono mi sconvolse, rimbombando nella mia testa come una tromba da stadio nell’orecchio.
-Ricordati il libro di fisica-
Sarei dovuta andare a scuola. L’incubo non era finito.
Mi vestii rapidamente, per quanto potessi essere rapida dopo una nottata del genere. Non sapevo come ero tornata a casa la sera prima, nè come fossi finita nel letto, ma immaginai che Guglielmo, da bravo cavaliere quale era, avesse pensato a tutto. Quelle sue infinite qualità iniziavano quasi a darmi il voltastomaco. Lasciarmi a marcire in quella bettola tutta nera al confine del paese non sarebbe forse stato meglio? Scossi la testa e mi maledissi immediatamente, provando una fitta di dolore che mi paralizzò.
Arrivai a scuola claudicante, impossibile ascoltare la musica con le cuffie, inaccettabile dover abbassarmi  a soffrire il caos del pullman alle sette e mezza del mattino.
Ignorai ogni saluto dal cancello della scuola fino all’ingresso dell’aula e mi andai a sedere al mio posto, maledicendo la campanella che rimombò nella mia testa, lasciandomi l’eco per una buona mezz’ora.
Di fronte a me il solito bomber nero, tutto tronfio per la serata passata, probabilmente, a sbattersi per bene la biondina. Si, perché quel momento lo ricordavo piuttosto bene, evidentemente l’alcool non era ancora ben entrato in circolo. Le tende nere e il senso di angoscia, la scena, poi la sofferenza e il bacio.
Ricordai quel bacio con una fitta al cuore ed evitai di voltarmi a cercarlo tra i banchi, non avrei sopportato il suo sguardo, la sua speranza.
Era stato un errore, un maledetto errore, eppure lui mi aveva riportata a casa, mi aveva rimboccato le coperte e si era assicurato che stessi bene, probabilmente anche che avessi vomitato per espellere tutto l’alcool. Era fatto così e saperlo mi spezzava il cuore, perché non si sarebbe meritato mai una come me.
“Ieri ti sei presa proprio una bella sbandata eh”, sentii la voce di Edoardo pizzicarmi i nervi del cervello. E le scene continuarono a danzarmi in testa, a ritmo di quella canzone che credevo fosse per me.
“Ssh. Perché cazzo stai gridando?”, lo insultai, agitandogli una mano davanti al viso per farlo stare zitto. Non ero in vena di litigare, la mia testa chiedeva pietà.
Sentii la sua risata, alta e profonda, e immaginai la sua notte, tra le coperte. Inorridii al solo pensiero di aver desiderato per un momento che fosse sincero, che fosse preso, che non dovesse essere per forza un perfetto sconosciuto.
“Sarà sempre così?”, sussurrai, “io e te che ci rincorriamo senza sosta?”, ero esasperata e lui mi guardò sbigottito, stupito da quell’esternazione così chiara, senza possibili fraintendimenti.
“Io mi diverto, tu no?”, rise malizioso, toccandomi un piede col suo, sotto al banco. Lo allontanai velocemente, distogliendo lo sguardo dal suo. Poi entrò la professoressa e lasciai correre.
 
***
 
“Non ringraziarmi”, sentii di nuovo la sua voce un’ora dopo, al suono della campanella che mi lasciò nuovamente shockata per l’intensità con cui mi rimbombò nella testa, sconquassandomela.
“Perché dovrei ringraziarti? Per la bellissima serata?”, lo guardai, sarcastica.
“Per essere viva”, sorrise, lasciandomi intendere da sola. Rimasi a guardarlo, visibilmente confusa, e evidentemente capì, perché ricominciò a parlare.
“Se non ti avessi raccolto da terra e riportato a casa ora non saresti qui”, sorrise ancora, distogliendo lo sguardo e capii. Guglielmo non mi aveva riportata a casa, era stato Edoardo. E la biondina? Non potei fare a meno di non pensarci. Aveva rinunciato al post-serata per accompagnare una sfigata che non sa reggere l’alcool?
Abbassai lo sguardo, stropicciandomi le mani. “E il tuo post-serata?”, non poteva sapere che io sapevo, eppure fu come se capisse, perché diventò serio, per un attimo, “non era poi così importante”. Poi rimase in silenzio qualche secondo, scrutando la mia reazione. Io rimasi impassibile, lo sguardo fisso ad analizzare la copertina del libro di chimica.
“Mentre tu e Gu..”, aggiunse poco dopo, farfugliando.
“Io e Gu cosa?”, chiesi, alzando lo sguardo improvvisamente sul suo viso.
“No dico, vi frequentate?”, rimasi in silenzio, a osservarlo.
“Ho sentito che ti ha detto..”, sorrise, quasi in imbarazzo dal mio sguardo interessato.
“Sembra che l’unica a non sapere nulla fossi io.”, biascicai, tornando a giocherellare con le mie mani.
“Beh, non per qualcosa, ma era ovvio”, rispose, “poi vabbè, tu sei tonta quindi..”, concluse e gli tirai un pugno sulla spalla, leggero.
Rimase qualche secondo in silenzio, lo sguardo perso per la classe, il mio ancora sulle mie mani, attorcigliate in modo convulso.
C’era una sorta di tensione nascosta, una specie di conversazione in sospeso, i nostri sguardi distanti, difficili da incrociare e il respiro rotto ed equilibrato di chi è pronto a parlare ma aspetta che sia l’altro a farlo.
Rimuginai su quel discorso e mi resi conto dell’importanza che mi aveva dato in una semplice frase.
Non era poi così importante.
Cercai con una mano la ciocca bionda e la allisciai, giocandoci. Dopotutto forse non serviva essere pure, candide.
“..ti interessa?”, guardava la mia ciocca, notandola forse per la prima volta.
“Cosa?”
“Guglielmo”, i suoi occhi rimasero fermi sulla ciocca, seguendo il movimento della mia mano su di essa, a creare una chiocciola. Lo guardavo, ma a quella domanda abbassai lo sguardo di nuovo sulla copertina.
No, non mi interessa.”, sussurrai.

-notepocoserie-
Siccome mancano praticamente 5 minuti e devo uscire faccio una cosa piuttosto veloce.. 
Perla è decisamente una ragazza che non regge l'alcool. ahah poverina. 
Oddio adesso ho la mente vuota, non mi viene in mente nulla, quindi non mi resta che ringraziare la mia beta aka la mia anima gemella Trigger Happy per aver betato il capitolo alla velocità della luce. 
Il video iniziale è fatto dalla una mia amata lettrice, non è stupendo? *O* oddio sono loro, adorabilii! 
Ah, la canzone del concerto è Perfect Strangers dei deep purple, veramente bella! ♥
Grazie mille ♥ 
Un bacio a tutte, al prossimo venerdì love ♥

 

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Capitolo 12
*** 11 - QUESTIONI DI ORGOGLIO ***


11 – QUESTIONI DI ORGOGLIO

 
   

Abitudine tra noi è un soggetto da evitare,
Tra le frasi di dolore, gioia e desideri,
Non ci si è concessa mai.
Dolce instabile condanna,
Mi hai portato troppo in là,
Vedo solo sbarre, vedo una prigione umida, 
vedo poca verità.

 
Mi alzai, cercando di rimanere in piedi nonostante la ma testa implorasse di rimanere seduta e ancorata ad una sedia.
Cercai stabilità chiudendo gli occhi, era appena suonata la campanella che segnava l’inizio dell’intervallo rimbombando pericolosamente nelle mie orecchie, così quando li riaprii la classe si era trasformata nel deserto del Sahara, svuotata dei suo componenti ad eccezione dei soliti ignoti, riuniti in un piccolo gruppetto accanto alla finestra chiusa.
Mi staccai dall’ancora di salvataggio rappresentata dal mio banco e cercai di raggiungere la soglia della classe, per allontanarmi silenziosamente da quel gruppo di persone che non avevo nessuna voglia di ascoltare in quel momento.
Naturalmente tutti i miei sforzi furono vanificati quando, arrivata al limitare della porta, sentii un braccio stringermi al petto di qualcuno e portarmi all’esterno dell’aula, dietro un angolo del corridoio, nascosti da occhi indiscreti.
“Credevi di poter scappare?”, ero frastornata dal movimento brusco e troppo veloce per la mia testa, ma riconobbi comunque la voce suadente di Edo vicino al mio orecchio, il suo viso immerso nei miei capelli.
“Edo..”, sussurrai, cercando di spingerlo lontano con le braccia. Naturalmente ogni mio tentativo fallì miseramente e mi ritrovai schiacciata, come al solito, tra il suo corpo e la parete.
Ero in ballo, tanto valeva ballare.
“Niente bacio oggi?”, sussurrò nuovamente tra i miei capelli e vicino alla mia guancia, per nulla intenzionato a desistere.
Dal mio canto io rimasi con le mani sul suo petto e sorrisi maliziosa, cercando di scacciare il mal di testa pulsante. I nostri occhi erano gli uni negli altri, senza mai lasciarsi un secondo, come a voler lasciare intendere che nessuno dei due avrebbe ceduto con facilità, che nessuno dei due voleva perdere la battaglia e nemmeno la guerra.
Mi alzai in punta di piedi, avvicinandomi lentamente e con tutta la sensualità che riuscii a raccogliere in quel momento, mi appoggiai al suo corpo con il mio, cercando di mantenere il contatto del mio seno sul suo petto, dei miei fianchi sui suoi. Gli scoccai un bacio veloce sulla guancia e poi mi riabbassai, tornando a guardarlo negli occhi, senza mai abbassarli. Era strano avere quell’atteggiamento, dover essere sexy, dover impegnarmi per piacere a qualcuno, soprattutto se si trattava di Edoardo. Lo guardai reagire positivamente al mio gesto, il suo sguardo, continuamente sorpreso dai miei scatti di sensualità, mi lasciava soddisfatta e sapere che quello che ioritenevo goffo in realtà dava effetti contrari e piacevoli aumentava a dismisura la mia autostima.
“Ne voglio un altro”, farfugliò, ancorandomi maggiormente tra sé e la parete per togliermi ogni possibile via di fuga. Potevo sentire il cuore martellarmi nel petto, insistente, pronto a uscire, e sperai che non potesse sentirlo tanto quando me, speravo che potesse evitare di notare la parte emotiva della situazione.
Mantenni il gioco, mi avvinghiai nuovamente a lui, aderendo perfettamente al suo corpo, e alzandomi sulle punte indirizzai le labbra nuovamente verso la sua guancia.
Ma a quel punto lui aveva la situazione in mano, giocando sulla mia precaria stabilità mi fermò con una mano il viso, tenendomi il mento e si voltò, posando le sue labbra sulle mie. Furono pochi istanti, il mio cuore salì in gola ed io cercai velocemente di riprende il controllo del mio collo e di indietreggiare, nonostante il corpo reclamasse più carne, più labbra. Mi allontanai, battendo leggermente la testa contro la parete e abbassai lo sguardo sulle converse bianche sporche che indossavo. Rialzandolo, vidi un sorrisetto nascere su quelle labbrainarcate. Il mio viso cominciò ad imporporarsi all’altezza degli zigomi: “Cavolo Edo..”, riuscii a sussurrare, abbassando nuovamente lo sguardo.
Era tutto sentimento. Tutto quello che si muoveva in me, che mi spingeva forte nuovamente verso le sue labbra era semplice sentimento, era voglia di averlo vicino, di poterlo toccare, di poter esplorare ogni centimetro di quella bocca carnosa e invitante.
Cercai di sgattaiolare via, da quella gabbia, dalle sue braccia e lui rispose ai miei tentativi con un “mmh”, farfugliato. Poi spostò lievemente il braccio, la mano passò dal muro lungo il suo fianco, stretta in un singulto di rabbia, frustrazione latente.
Lo guardai, quel pugno stretto, le nocche bianche dalla forza nel tenerlo chiuso, e provai una sorta di stretta al cuore. Cosa significava per lui quel rapporto? Cosa voleva realmente da me? Mi si affollavano mille domande nella mente, dolorante per il mal di testa. Avevo bisogno di risposte ma scappai, come se fossi stata una ladra, controllando che nessuno mi vedesse, che nessun potesse vedere dove ero esoprattutto con chi. Rientrando in classe il rossore diffuso sul mio volto era quasi del tutto scemato, lasciando il posto ad un sorriso piuttosto forzato, mentre mi dirigevo verso il solito gruppetto, intenta a mantenere un atteggiamento normale, con un segreto nel cuore.

***

Entrai il biblioteca, Guglielmo dietro di me, lo sguardo basso.
Era una situazione piuttosto strana, essere lì, noi due, come se nulla fosse successo. Non ricordavo nulla della sera prima, a parte quel bacio, dato con foga, con bisogno. Peccato che quel bisogno non fosse lui, che quella foga non avesse trovato uno sfogo.
Lo guardai, voltandomi, e gli rivolsi un sorriso imbarazzatoche lui ricambiò, abbastanza tranquillo.
Ci dirigemmo senza troppe cerimonie verso la sala studio, rimanendo inondati da una cappa di fumo appena varcata la soglia.
“Cosa devi studiare?”, chiesi, sedendomi il più silenziosamente possibile in fondo alla sala, all’unico tavolino libero presente. Lui mi guardò, sedendomisi di fronte e inforcò gli occhiali.
“Chimica. Tu?”, la domanda era disinteressata, eppure potevo sentire il distacco, potevo sentire l’ansia nell’ aria resa irrespirabile dall’odore acre e stagnante di sigaretta.
“Nulla, se non ti spiace vado un attimo di là a cercare qualcosa da leggere.”, era il mio intento fin dalla mattina, avere qualcosa di diverso da fare piuttosto che rimanere per tutto il pomeriggio a guardare Guglielmo studiare, a osservare ogni suo movimento e comprendere cosa lo rendesse diverso dopo una semplice dichiarazione. Mi alzai, strisciando silenziosamente la sedia sul pavimento, e sgusciai fuori dalla sala.
Dopo qualche minuto in perlustrazione lo sentii alle mie spalle.
“Ho lasciato i libri sul tavolo, così rimane occupato.”, si limitò a farfugliare, tenendo la voce bassa.
Mi resi conto in quel momento che mi ero spinta in una zona della biblioteca poco frequentata, era piena di grossi volumi che nessuno sano di mente avrebbe mai letto per sfizio e constatai con ansia che in quel momento appariva praticamente deserta. Sembrava un invito a osare. Chiusi il libro che poco prima stavo noiosamente sfogliando e lo sventolai davanti a Gu.
“Trovato.”, sussurrai, fingendo entusiasmo. Volevo tornare di là, in mezzo alla gente, così mossi qualche passo, finché lui non mi fermò, tenendomi un braccio. Proprio quello che temevo.
“Perla aspetta.”, biascicò, spingendomi contro lo scaffale da cui poco prima avevo preso quel tomo che avevo tra le mani.
“Dovremmo parlare no?”, era una domanda retorica, non risposi. Mi limitai ad abbassare lo sguardo sulle mie scarpe, e non poté non tornarmi in mente il bacio di quella mattina, le labbra carnose di Edoardo.
“Di cosa?”, alzai lo sguardo, cercando di eliminare dalla mia testa quei dettagli, pericolosamente eccitanti.
Mi sfiorò un braccio con la mano, tenendolo poi tra le dita, esercitando una lieve pressione. Era questo che lo rendeva così diverso da Edoardo, non era costrizione, non era obbligo. Lasciava la libertà di decidere, di rifiutare, di scappare.
Era questo che non lo rendeva Edoardo.
“Non sono io a dover parlare.. credo.”, sussurrò, nonostante non ci fosse anima viva, a parte noi, in quella zona della biblioteca.
“Non credo ci sia molto da dire”, sussurravo anche io, mantenendo quel tono di voce rispettoso della quiete altrui, o forse solo della mia.
Lui fraintese le mie parole, probabilmente, perché la sua presa al braccio si fece leggera e scese, fino ad arrivare alla mia mano. Per lui era tutto okay, per lui era amore.
Vidi il suo viso avvicinarsi scomodamente, i gesti impacciati e lo fermai, prima che fosse troppo tardi, prima che chiudesse gli occhi, mi scostai leggermente, minando il suo equilibrio e molto probabilmente anche il suo orgoglio. Mi guardò come si guarda un bambino dopo che ti ha distrutto il castello di sabbia costruito con tanta fatica. Abbassai lo sguardo, colpevole, e mi trascinai nuovamente verso la sala studio.

***

“Sei pazza Perla?”, la voce di Azzurra era troppo squillante in una giornata normale, figurarsi se non lo era con un mal di testa post-sbornia.
“Smettila di urlare, cazzo”, replicai. Ero pazza, evidentemente sì. Aver baciato Guglielmo non era esattamente la cosa giusta da fare, rifiutare il suo bacio il giorno dopo era anche peggio. Evitai di raccontarle di Edo, era meglio tacere quella situazione.
“Cioè capisco tutto, ma ora che cosa farai? Gu è pazzo di te, lo sai.”, la guardai e lei cercò di farmi intendere tutto il suo interesse muovendo ritmicamente la testa in avanti, enfatizzando le sue parole.
“Zu, non credo che gli importi poi molto se mi ha lasciato sdraiata in una bettola di periferia”, risposi, rendendomi conto di aver formato una frase di senso compiuto nonostante nella mia testa ci fosse un tumulto di parole sconnesse.
“In realtà non sei proprio svenuta, Perla. Non ti ricordi proprio nulla?”, rispose lei, un mezzo sorrisetto sul volto.
Scossi la testa e un giramento improvviso mi fece capire che forse sarebbe stato meglio non farlo, me la tenni con le mani, cercando di ritornare a vedere la camera di Azzurra, nella quale ero arrivata dopo aver lasciato Gu in biblioteca, dritta e non ondeggiante in ogni direzione.
“Certo che non lo reggi proprio l’alcool eh. Sembri una bambina. Era un bicchierino minuscolo”, si lasciò scappare una risatina derisoria, poi vide la mia espressione e smise, tornando seria.
“Senti ieri sera, alla fine, Gu non sapeva che eri ubriaca. Credo non lo sappia nemmeno ora.”, riprese, aprendo e chiudendo le ante della cabina armadio alla ricerca dell’indumento perfetto per uscire con Federico.
“L’hai baciato, poi ti sei allontanata e lui è rimasto fermo a guardare il muro su cui eri appoggiata per più o meno mezz’ora. Credevamo te ne fossi andata in realtà, allora ce ne siamo andati. Edo ti ha trovata svenuta su una poltroncina del locale, da sola. Lo ha detto solo a me, perché ero l’unica a poter tornare indietro al locale per accompagnarvi entrambi.”, sospirò, facendo una pausa, “è stato gentile.”
I miei ricordi si fecero un po’ più nitidi e ricordai di aver bevuto ancora, dopo il bacio. Di essermi nascosta per non essere disturbata. Probabilmente ero rimasta lì tutto il tempo.
“Ma non ricordi proprio niente?”, ripeté divertita, intenta a provarsi un vestito blu con una stampa a fiori rosa e gialli.
“Troppo estivo”, puntualizzai, indicando il suo abbigliamento, poi mi sedetti meglio sul letto e presi un giornale dal comodino, sfogliandolo pigramente.
“Ricordo solo di aver bevuto qualcos’altro.”
“Sicura che non lo dici perché partire con un solo bicchierino di alcool è da bambinette?”, ridacchiò, lanciando il vestito scartato sul letto.
“No”, sorrisi, “ho bevuto. Probabilmente non sarei proprio dovuta uscire.”, sospirai, ripensando alla parte lucida della serata.
“Ma poi non ho capito che avevi ieri, eri tipo sconvolta.”
Sussultai, non avendo messo in conto che da fuori potesse esser trapelato ciò che avevo provato e nemmeno che qualcuno prima o poi me lo avrebbe chiesto.
Balbettai, sudando freddo, poi notai il suo vestito e dribblai la domanda, esclamando fintamente entusiasta: “È perfetto!”.
Mi sorrise, gli occhi lucidi, aveva già scordato la domanda. E io tirai un sospiro di sollievo.
Edo per il resto del mondo era off-limits. Un segreto, ed era giusto così, anche se significava escludere e mentire alle mie amiche.
“Ti accompagno a casa. Tra qualche ora arriva Fede e non voglio che ci sia gente in giro per casa”, mi alzai dal letto controvoglia, trascinandomi fino alla porta. Nel tragitto incrociai il cagnolino di Azzurra, Petronio, che probabilmente a momenti avrebbe condiviso la mia stessa sorte, sbattuto fuori di casa al freddo.
Il tragitto non fu nient’altro che una rappresentazione in gesti e parole della sua imminente serata con Federico. Era troppo occupata a pensare a come riparare a quei giorni di silenzio con il suo fidanzato per ricordare ciò di cui avevamo parlato fino a quel momento e, scendendo dalla macchina davanti casa, sospirai di sollievo e le lanciai un sorriso sollevato. Un po’ perché avevo evitato un discorso che nemmeno io sapevo come affrontare prima di tutto con me stessa, e un po’ perché vederla felice faceva felice anche me.

***

Mi svegliai la mattina seguente un po’ meno intontita rispetto al giorno prima. Dopotutto non avevo bevuto talmente tanto da avere un post-sbornia per più di un giorno. Mi vestii velocemente e cercai di mantenere un atteggiamento tranquillo, nonostante il giorno prima fosse stato un’ondata di notizie destabilizzanti. Il comportamento di Edoardo, il bacio deviato di Guglielmo e la scoperta che era stato il ragazzo che meno sopportavo al mondo a riportarmi a casa sana e salva la notte prima, mi sconvolgevano e a ripensarci capivo che tutto ciò su cui avevo basato la mia vita fino a poco prima era stato stravolto, trasformato in altro in poco tempo.
Avevo capito che Guglielmo era solo un amico e l’avevo accettato, e lui per tutta risposta mi aveva informato della sua cotta. Per non parlare di Edoardo, l’ultima persona sulla faccia della terra che avrei potuto trovare minimamente simpatica, interessante o attraente mache ora rappresentava il soggetto di pensieri che avrei preferito archiviare nell’angolo più oscuro della mia mente.
Il tutto stava prendendo una forma piuttosto imbarazzante e comica, e ad accentuare la situazione, arrivando a scuola vidi Edoardo e Filippo seduti sul muretto davanti scuola. Rallentai il passo, continuando a guardarli da lontano. Erano intenti a fumare una sigaretta. Edoardo, con una mano in tasca e appoggiato alla ringhieradel muretto aveva un aspetto un po’ imbronciato, pensieroso, il fumo bianco che gli usciva a intervalli regolari dalla bocca. Quella bocca.
Distolsi lo sguardo arrivandogli vicino, ma sentii un colpo di tosse e non potei fare a meno di girarmi. Avrei potuto far finta di nulla, andare avanti lungo il marciapiede ed entrare dal cancello di scuola come se nulla fosse, magari dentro c’era anche qualcuno ad aspettarmi, invece girai il viso, e incrociai il suo sguardo, fisso su di me.
Sorrisi e mi fermai, scendendo dal marciapiede per raggiungerlo.
“Buongiorno tesoro”, mi sorrise, l’aspetto però ancora pensieroso, corrucciato.
“Edoardo. Filippo.”, risposi, formale. Non avevo voglia di scherzare, di giocare. Non davanti a Filippo, perlomeno.
Stavo per andarmene ma sentii il sua mano stringere il mio giaccone e tirarlo, trascinandomi accanto a lui.
“Volevo entrare, fa freddo”, biascicai, scocciata, lasciando uscire una nuvoletta di condensa dalla mia bocca.
“Siediti.”, si limitò a rispondere lui. E nonostante la mia mente chiedesse di entrare, il mio corpo, nonostante il freddo tagliente, chiedeva di accontentarlo, di sedermi lì accanto a lui, ad ascoltare il suo respiro e ad osservare i flutti di fumo uscire dalla sua bocca. Quella bocca.
Scossi la testa, dissimulando la mia frustrazione fingendo un brivido di freddo e mi sedetti accanto a lui, aiutandomi con la mano a salire sul muretto.
“Certo che sei proprio una nana.”, sussurrò tra una boccata e l’altra.
Io lo spinsi leggermente e lui non parve cambiare espressione. Mi ricordò i tempi in cui non andavamo d’accordo, i tempi in cui non lo sopportavo. Aveva lo sguardo di quando diceva cose cattive perché non gli importava chi aveva davanti, cosa provasse o cosa sentisse. Mi spaventò e nonostante avessi voglia di guardarlo, lo evitai, rimanendo in silenzio.
Quando scese dal muretto, gettando a terra la cicca della sigaretta, quasi dimenticò che io ero affianco a lui, che stavo morendo di freddo e che ero rimasta per lui. Stava per andarsene e quando mi sentì scendere, si girò, fece un sorrisetto beffardo e poi ricominciò a camminare, lasciandomi indietro.
Non sapevo come mai fosse cambiato così, da un giorno all’altro, ma quell’atteggiamento non mi piaceva affatto.
Lo seguii rimanendo a debita distanza, lo guardai sfilare di nuovo il pacchetto delle sigarette dalla tasca e portarsene un'altra alla bocca. Sembrava tranquillo, ma in realtà sapevo benissimo che non lo era, lo vidi rallentare e poi fermarsi a pochi passi dall’entrata di scuola ed io piano lo raggiunsi. In quei pochi secondi valutai se oltrepassarlo ed entrare oppure rimanere, ma quando decisi era troppo tardi. Aveva nuovamente tirato il giaccone e mi aveva avvicinato a sè, Filippo ormai davanti al portone della scuola.
“Che c’è? Sento freddo ti ho detto!”, esclamai, inacidita.
“Voglio stare un po’ con te, non si vede?”, rispose, sardonico.
“Mi pare di esser stata accanto a te fino a cinque minuti fa.”, replicai, stizzita.
“.. da solo.”, lo guardai negli occhi, aveva quel sorriso beffardo sul viso e la sigaretta tra le labbra. Quello non sarebbe stato un giorno normale.
“Eccomi, sono tutta tua.”, sussurrai, abbassando lo sguardo avvilita.
“Tutta? Da quello che mi dicono non proprio.”, rialzai il volto, stupita. Era gelosia? Di chi, di cosa? I miei occhi lampeggiavano di curiosità e il suo viso per tutta risposta rimaneva pacifico e apparentemente tranquillo. Nei suoi occhi riuscivo quasi a distinguere la battaglia interna che stava combattendo per non apparire turbato, arrabbiato o deluso, così abbassaii miei sulle mani, come in un atto di colpevolezza automatico.
“Che intendi?”, domandai, titubante. Immaginavo cosa intendesse, ma non aveva proprio il diritto di prendersela, di esser geloso. Se di gelosia stavamo parlando.
“Beh mi sembra che l’altra sera hai fatto parecchie cose quando eri ubriaca.”, rispose. Non riuscii a definire il suo atteggiamento, sembrava divertito e infuriato al tempo stesso. Portava continuamente la sigaretta alle labbra, lasciandosi andare a lunghe aspirate e gettando il fumo subito, senza goderselo. Lo guardai qualche secondo, poi scossi le spalle.
“Non ricordo.”, biascicai, colpevole.
“Menomale che non ti interessava.”, concluse, gettando il mozzicone della sigaretta a terra e schiacciandolo col piede, per poi voltarsi e dirigersi a passo spedito, ma non troppo, verso l’entrata della scuola.
Rimasi lì fuori, a guardare il mozzicone di sigaretta a terra ancora per qualche minuto. Non riuscivo a capire perché mi sentissi così in colpa, perché riuscisse a farmi sentire sporca e sbagliata con una semplice parola. Lui si era comportato come me, se non peggio, eppure non aveva avuto un tale trattamento. Sospirai, dirigendomi al suono della campanella di inizio lezioni verso l’entrata.

*** 

“Guarda che hai capito male”, mi era uscita da sola quella frase. Erano più o meno tre ore che non parlavamo e lui continuava a fare il sostenuto. Nonostante la mia mente continuasse a ripetermi di lasciare la situazione così com’era, l’istinto aveva fatto da sé e aveva praticamente parlato al posto mio.
“Cosa?”, si girò giusto il tempo per lanciarmi un’occhiataccia, poi si voltò di nuovo.
“Dico, che l’altra sera ero fuori, e poi è colpa tua.”
“Ah ora è colpa mia se ti sei fatta il mio amico?”, mi lanciò un’occhiata visibilmente stupita e io non potei far a meno di sorridere, nonostante la situazione non fosse delle migliori per mettersi a ridere in faccia a una persona.
“Si, perché ho bevuto, non reggo l’alcool. E quella canzone..”, risposi, giustificando una cosa che in realtà non era da giustificare.
Dopotutto non avevo fatto nulla di strano.
“Che canzone?”, mi guardava, improvvisamente interessato.
Rimasi vaga, credevo non gli importassero veramente le mie giustificazioni e forse mi ero lasciata scappare qualcosa di troppo credendo che non gli desse peso.
“Non mi ricordo, ne hai fatte tante.”, lo liquidai, sventolando una mano per enfatizzare la mia frase.
“È già la seconda volta stamattina che dici ‘non mi ricordo’, ed entrambe le volte hai detto una puttanata.”, mi guardò. Era arrabbiato, glielo leggevo negli occhi infiammati, eppure non riuscivo a comprenderne bene il motivo. Non poteva essere veramente geloso.
“Perfect stranger”, risposi, abbassando la voce. Scorsi con la coda dell’occhio un sorriso inarcare le sue labbra, ma rimase in silenzio.
Quando alzai il volto il sorriso era già scomparso, sostituito da un grugno.
“Quella canzone fa schifo, ma dobbiamo mettere anche le ballate.”, rispose, scrollando le spalle. Sembrava aver perso tutto l’interesse di poco prima. Ora era lui ad aver detto una puttanata.
“E perché sarebbe colpa mia, oltre alla canzone?”, domandò nuovamente, appoggiando la schiena al muro, lo sguardo rivolto all’altro lato della classe, perso.
“Perché dopo aver bevuto quel cavolo di bicchierone di alcool sono venuta dietro le quinte..”, abbassai lo sguardo, notando che lui aveva portato il suo su di me, aveva capito, perciò non ritenni necessario continuare la frase.
“Chi te l’ha detto di me e Gu?”, sorrisi, cercando di dimenticare lui e la biondina.
“Filippo. Parla sempre con Azzurra.”.
Immaginavo fosse il più stupido di tutti, ma evidentemente mi sbagliavo, Filippo sembrava aver capito molte cose.
Guardai nella sua direzione e lo vidi intento a parlare con Azzurra, dettaglio che notai per la prima volta quel giorno.
“Farsi i cavoli suoi no.”, risposi, tornando sui miei libri aperti sul banco.
Era passata la tempesta? Era così che funzionava con Edo, tu fai una cosa a me io la faccio a te? Non potei constatare se il suo umore fosse migliorato, perché lui si voltò, silenzioso ed entrò il professore.
C’era la solita confusione di fine ora e quindi salutando il professore mi alzai, chiedendogli se potessi usufruire della toilette e lui acconsentì, così nel giro di qualche istante mi ritrovai a camminare lungo il corridoio deserto, libera di pensare a ciò che era successo.
Non avevamo chiarito, lui aveva solo scoperto un particolare in più, aveva solo scoperto che io avevo baciato Guglielmo perché lo avevo visto con Astrid. Un dettaglio che sicuramente esponeva me in una maniera incredibile e lasciava lui indenne, con la situazione in mano.
Arrivai alle porte delle toilette e mi fermai. Volevo fare con calma, magari lavarmi il viso per riuscire a capire meglio ciò che stava succedendo, poiché quello che stava accadendo non era più un semplice gioco. Il suo sguardo, i suoi comportamenti, le sue parole lasciavano intendere molto di più. Lasciavano intendere quanto lui fosse preso, nonostante cercasse in tutti i modi di non lasciarlo trapelare.
Fui improvvisamente bloccata nelle mie elucubrazioni da una mossa fulminea, sentii un braccio agguantarmi i fianchi e poi fui letteralmente spinta all’interno di un bagno. Sudai freddo, spaventata e stavo per fare mente locale, cercando nei meandri dei miei ricordi i giovamenti delle lezioni di autodifesa che avevo fatto anni prima, ma mi rilassai, sentendo la voce di Edoardo.
“Cosa ci fai qui tutta sola?”, eravamo ormai dentro a un bagno, chiusi e stretti. Le sue parole mi avevano sfiorato il naso, la bocca e gli occhi.
“Aspetto una persona.”, sussurrai, strisciando un dito sul suo petto, a pochi centimetri dal mio.
“Guglielmo?”, c’era astio nella sua voce, eppure ero convinta che nella sua testa quella domanda era partita per essere simpatica.
“Te.”, sussurrai, alzando lo sguardo sui suoi occhi grigi.
“Mmh.”, riuscì a dire, mentre la sua mano giocava con la mia maglietta.
Io la fermai, cercando di mantenere una parvenza di dignità e lui sorrise.
“Mi è piaciuto quello che hai detto.”, sussurrò, avvicinando il viso ai miei capelli.
Ero continuamente stupita da me stessa, da quanto riuscissi a entrare nella parte così facilmente.
“Cosa?”, sussurrai, cercando l’incavo del suo collo e trovando il suo profumo, caldo e invitante.
“Hai detto che è colpa mia.”, capii, mi stava ringraziando. Mi ero esposta, gli avevo evitato una miriade di domande. Gli avevo evitato tutta la parte del corteggiamento. Sapeva che avrei ceduto.
“Beh, non proprio tutta tua.”, sussurrai e lo vidi indietreggiare, meno sicuro.
“L’alcool ha fatto la sua parte.”
“Sei la persona che regge meno l’alcool al mondo”, sussurrò e sentii il sorriso sul mio collo, insieme alle sue labbra.
Lo spintonai, allontanandolo di qualche centimetro, fino a poterlo guardare negli occhi.
Eravamo in un metro quadrato di bagno, con la porta chiusa a chiave e la puzza di pipì nelle narici, eppure il tutto appariva talmente romantico da far venire la glicemia alta.
Lo guardai, gli occhi lucidi per l’intensità del momento e lo vidi infiammarsi e tornare acqua cheta in poco tempo, e poi rifarlo ancora. Era indeciso, non sapeva, non osava.
Eppure avrebbe dovuto esser semplice per lui, avere una ragazza, sapere cosa fare. Portai una mano prima lungo il mio fianco, poi lungo il suo petto e cominciai a giocherellare con la sua maglietta, stropicciandola e continuando a guardarlo negli occhi.
“Se ti baciassi..”, rispose lui, il solito sorriso beffardo sulle labbra. Quelle labbra.
“Prova e lo scopri.”, sussurrai di rimando, ricambiando il sorrisino.
Lo guardai avvicinarsi, sorridere un po’ meno ad ogni centimetro conquistato, per poi fermarsi all’altezza delle mie labbra. Ero appoggiata al muro, il suo corpo aderiva al mio e potevo sentire il suo cuore. Lo lasciai avvicinare ancora, poi scostai il viso, sorridendo. Lui rimase fermo, una mano contro il muro e l’altra sul mio fianco. Io risi, sensuale, e tornai a guardarlo. I suoi occhi lampeggiavano di orgoglio ferito, così rimarcai il sorriso e mi scostai ancora un po’, sciogliendo il contatto del suo corpo col mio.
“Ritenta, sarai più fortunato.”, feci scattare la serratura del bagno e uscii, sculettando.
Lui rimase lì qualche minuto, ferito nel suo diritto ad essere l’uomo alfa e poi mi raggiunse, rinvigorito.
Sembrava superare quelle cose con tranquillità, soprattutto grazie al fatto che uscito dal bagno, in corridoio, mi mise una mano sul sedere e strinse, ponderando bene la qualità dal mio fondo schiena. Lo guardai, stupita e gli tirai una schiaffo sulla spalla.
Dopotutto mi piaceva quel gioco.


-notepocoserie-
Ebbene si, le mie note sono forse più importanti del capitolo stesso. Nonostante la gente *cofcofTriggercofcof* mi continui a dire di non farmi troppe paranoie, è matematicamente impossibile che non me le faccia, quindi sono qui per spiegarvi un po’ ciò che provo, un po’ come le elucubrazioni di Perla lol
È da più o meno due o tre capitoli che sono in una sorta di depressione per la storia. Mi piace, che la seguite e che l’apprezzate. Vedo che i seguiti e i preferiti e tutto quello che gira attorno alla storia cresce, e non potrebbe far altro che farmi felicissima, perché vedo che c’è riscontro, vedo che non è un rapporto a senso unico.
Ora, il problema sorge perché mi sembra di prendervi in giro. Soprattutto in questo capitolo, in cui ho nuovamente fatto allontanare i due, mi sembra di farlo, perché sono undici capitoli che voi vedete le stesse scene, il solito tira e molla, e non vorrei che vi stancaste di vederlo, vi stancaste della storia.
Ora, io già ho preventivato di far succedere delle cose importanti nel prossimo capitolo, però siccome questo è già l’undicesimo e io non ci sono praticamente mai arrivata, vorrei spiegarvi perché continuo con la stessa minestra rigirata.
Il motivo principale è perché voglio che capiate che non è davvero la solita solfa del ragazzo e della ragazza che non si sopportano, loro due si mal tollerano, diventano amici e poi boh.
Perla ed Edoardo non stanno insieme, non sono amici, non sono niente. Sono qualcosa che nemmeno loro riescono a identificare, e nonostante ogni tanto io cerchi di renderli un po’ teneri non significa che continueranno così per il resto della storia. Questo è il motivo per cui mando avanti da undici capitoli la stessa storia, perché ho bisogno che vi abituate al fatto che loro non staranno insieme, che ci sarà sempre qualcosa che non andrà. In questi undici capitoli li abbiamo visti avvicinarsi e allontanarsi repentinamente, e la cosa non cambierà.
E lo stesso discorso vale per Guglielmo, l’altro giorno ho letto la recensione di Roby in cui diceva che Guglielmo è la sicurezza mentre Edoardo è il rischio. Perla sarà sempre divisa da questo dilemma esistenziale..
Ecco tutto. xD
Allora, ora che ho archiviato la parte drammatica della storia, posso passare alle storyline del capitolo.
-Azzurra e Petronio sono i miei idoli ♥ (Petronio l’ha inventato (?) Trigger, quindi ci vogliono i crediti necessari ahah)
-Sto facendo uscire allo scoperto, lentamente, molto lentamente, Filippo, anche detto uomo senza volto. Non abbiamo ancora trovato un presta volto per lui ma presto lo avremo, ve lo assicuro, nel frattempo però lo sto facendo interagire, e ho anche un missing moment dal suo pov. Spero apprezzerete (:
-Che altro c’è da dire? Il librone che tiene in mano Perla è “Album degli anni Cinquanta”. Ahah, che mi riporta ad informarvi che ho in cantiere un’altra storia originale, sempre romantica, ambientata negli anni ’50.
-CORRIDOIO. Per la gioia di Trigger dovevo dirlo.
-le note sono più lunghe del capitolo, mi state inveendo contro? Vi capisco e non vi biasimo U.U
-Ah, la canzone a inizio capitolo è Abitudine dei Subsonica. Direi che può essere una maledizione per il capitolo, perché è una specie di enorme spoiler e perché credo che i subsonica diventeranno colonna sonora ufficiale di questa storia, preparatevi. Ahah
-non so cos’altro dire, ma direi che, visto che ho raggiunto 1 pagine di word, potrei anche andare, chessò, a quel paese?
Se siete arrivate fino a questo punto entrate tra le mie eroine insieme a Giovanna D’Arco. LOL
Vi informo, per ultimo ma non per importanza, del gruppo facebook che condivido con le mie roomate Giuls e Sist ♥ per spoiler, foto e inneggiamenti a bei visini vari ahah 

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Capitolo 13
*** 12 - IL REGALO ***


12 – IL REGALO

 

Il compleanno di Azzurra si avvicinava e, nonostante odiassi essere l’organizzatrice di turno, il lavoro sporco era stato affidatoproprio a me. Dall’organizzazione della festa a sorpresa fino all’acquisto del regalo.
Era passata una settimana dal concerto di Edo, dal bacio di Guglielmo.
Il tempo scorreva senza che me ne accorgessi realmente, avevo avuto un milione di cose per la testa, talmente indaffarata dall’organizzazione della festa per Azzurra, che il caos generale che vorticava nella mia testa era stato accantonato per lasciare spazio a bicchierini di carta e torte di ogni genere.
Nonostante non amassi organizzare, ero piuttosto brava, sapevo quello che dovevo fare e in quanto tempo sarei riuscita a farlo, e forse era proprio per quel motivo che avevano delegato il tutto a me. Sfilai dalla cartelletta il foglio dei calcoli - calcoli di ogni genere, che andavano dal costo del catering fino alla quantità di stuzzichini che avremmo dovuto servire - e soprattutto la lista di invitati.
Sì, perché Azzurra non era una ragazza normale, non solo nell’aspetto: aveva all’incirca il 90% delle conoscenze all’interno della scuola, e tutti sembravano essere suoi confidenti e bracci destri. Quindi, non invitare qualcuno avrebbe significato litigi, guerra fredda e altre cose che avrei preferito evitare. Mi rigirai la lista degli invitati - lunga due pagine - tra le mani e cercai di non badare alla sedia davanti a me che strisciava sul pavimento di linoleum,ignorando soprattutto il ragazzo seduto su di essa che, con un sorrisetto che riuscivo a scorgere anche senza guardare, mi osservava divertito.
“Stai impazzendo vero? Ho vinto la scommessa!”, esultava al solo pensiero. Aveva scommesso che non sarei riuscita a organizzare nulla, che avrei perso il senno e soprattutto la pazienza molto prima.
“Ti sbagli e, se non ti dispiace, devo andare a consegnare degli inviti, io.”, esclamai, alzandomi dalla sedia guardandolo, con un plico di buste sotto al braccio.
Fortunatamente Azzurra quel giorno era assente, così io avrei potuto effettuare il mio spaccio di buste bianche senza il suo nasino ficcanaso ovunque.
Camminai per qualche metro e quando arrivai alla porta lo sentii alle mie spalle.
“Ti accompagno”, biascicò, chiudendosi la porta alla spalle.
“Come ti pare, non sarà divertente”
“Oh, per me lo sarà eccome!”, rispose, un sorriso a trentadue denti sul viso.
Lo guardai, era passata una sola settimana, eppure a volte, durante la giornata, mi capitava di canticchiare quella canzone, di ripensare a quella serae ai bagni, che non mi sembravano più un posto così brutto.
In ogni caso continuavamo a non andare d’accordo e spesso il tutto degenerava, come al solito, in litigate scoppiate anche per cose oggettivamente stupide, tanto che il resto del gruppo ormai ci aveva fatto l’abitudine. Quello che gli altri non sapevano era che noi avevamo un modo tutto nostro di fare pace e, mentre loro pensavano che dopo un po’ la rabbia semplicemente ci scivolasse addosso e tornassimo a scherzare come prima, in realtàc'era un mondo intero dietro, segreto e fatto di battute piccanti e sguardi allusivi.
Lo guardai camminarmi accanto, mi piaceva quello strano rapporto tra di noi, nonostante rappresentasse qualcosa da tenere nascosto agli altri.
Più volte durante le ultime settimane, alcuni amici, comprese Aurora e Azzurra, mi avevano domandato cosa fosse successo, come mai avevo subito un cambiamento così repentino nei confronti di Edoardo, come facessi a sopportarlo conoscendo ciò che avevo sempre pensato di lui.
Le prime volte iniziavo a sudare freddo, cercando di dribblare il discorso, in seguito mi ero decisa a studiare una risposta che mettesse a tacere ogni possibile approfondimento della questione e, da quel momento, ogni volta che mi domandavano qualcosa riguardante Edoardo sbuffavo leggermente, scrollando le spalle e affermando che eravamo completamente diversi e che, se proprio dovevo passare sei e più ore a stretto contatto con lui, tanto valeva sopportarlo.
Sotto un certo punto di vista non mentivo completamente, sebbene non fosse proprio una croce sopportarlo, il fatto della diversità non era mai stato un segreto. Venivamo da mondi diversi, con amicizie e interessi opposti e, soprattutto, avevamo due concezioni di ‘relazione’ completamente divergenti.
Mi resi conto solo quando mi spintonò contro il muro che avevo tenuto lo sguardo fisso su di lui per troppo tempo ed evidentemente se ne era accorto perché, mentre ero immersa nei miei pensieri, mi aveva condotto verso il solito angolo isolato dell’ampio corridoio e, in quel momento, destata improvvisamente dai miei preamboli sulla nostra pacifica convivenza, mi ritrovai addossata alla parete, col suo petto contro il mio.
“Un giorno mi verrà il mal di schiena se continui così”, sussurrai sorridendo.
“Te lo farò passare io”, rispose di rimando, insinuando, come al solito, la sua testa nell’incavo del mio collo, provocandomi dei brividi lungo la schiena.
“Mi stai facendo perdere tempo”, biascicai cercando di trattenere un sospiro mentre con le labbra mi solleticava il collo. Gli posai una mano sul petto e cercai di spingerlo via, inutilmente.
“Non mi hai salutato stamattina”, rimase piantato sul postocon una mano appoggiata al muro accanto alla mia testa. Usava sempre la stessa scusa eppure, per quanto potesse essere banale, faceva effetto.
“Sì che ti ho salutato”, sorrisi, abbassando lo sguardo sulle sue labbra.
“Beh, forse allora non mi hai dato un bacio”, concluse, saettando sulle mie labbra senza nemmeno lasciarmi il tempo di replicare.
“Ciao.”, sospirai quando si staccò.
“Ciao”, rispose, sorridendomi sulle labbra. Mi scostai leggermente e lui indietreggiò, guardando il mio viso, paonazzo.
“Oh, davvero?”, esclamò, trattenendo a stento una risata, “Ti faccio questo effetto?”
“Quale effetto?”, mi affrettai a replicare, cercando di distogliere lo sguardo dalla sua espressione divertita. Rideva di me, e la cosa non era per niente piacevole.
“Forse è questo il punto,” sbottai d’un tratto, puntandogli un dito sul petto e tornando a guardarlo, “tu non mi fai nessun effetto. Sei solo uno che parla tanto e agisce poco, ecco cosa sei!”, stavo dicendo una marea di fesserie, ma cercai di mantenere un tono convincente. Mi guardò, chiaramente stupito, e poi si guardò intorno, dandomi una tacita risposta.
“Io sarei uno che non agisce?”, non era proprio il genere di ragazzo che parla tanto e agisce poco, aveva le prove.
“Proprio così”, replicai convinta, “tu non mi bacerai mai, ergo non avrai mai nessun effetto su di me”, avevo usato un atteggiamento da professorina e lo vidi mordersi un labbro, desideroso di mostrarmi immediatamente quanto mi sbagliassi, quanto non fosse il ragazzo che descrivevo, così sgattaiolai via, cogliendolo impreparato. Mi ritrovai in pochi istanti al centro del corridoio, dove sicuramente non avrebbe fatto ciò che si era prefissato.
Continuai a camminare verso le scale e lo sentii affiancarmisi silenzioso. Sentivo il suo sguardo su di me e percepivo il suo sorriso anche senza doverlo guardare direttamente.
“Che poi, non è detto che io voglia un tuo bacio”, farfugliai, gesticolando con le mani, come se stessi parlando di matematica o dell’ultimo compito in classe di letteratura. Si avvicinò, arrivando a sfiorare il mio braccio col suo e, in mezzo al corridoio, sotto gli occhi di chiunque, quel minimo contatto mi provocò una scossa interna.
“Non ci staresti eh?”, sorrise. Mi aveva in pugno e lo sapeva benissimo.
“Tentar non nuoce.”, risposi, guardandolo civettuola. Poi lui distolse lo sguardo, sentendo dei passi in lontananza.
“Buongiorno ragazzi”, la voce del professor Cardoli arrivò rimbombando dall’altra parte del corridoio. Sentii il braccio di Edo staccarsi dal mio qualche istante prima che il professore potesse rendersene conto.
“Cosa ci fate in giro?”, gli sventolai le buste bianche davanti al viso e sorrisi, “lui mi accompagna”, aggiunsi poi, indicando Edoardo che si limitò ad accennare un sorriso.
“Non ci pensare nemmeno”, esclamò il professore indicando con un dito la porta della classe a poca distanza da noi.
“Perla, ti spiace andare da sola? Edoardo ha ‘qualche’ lacuna nella mia materia", mi sorrise accondiscendente.
“Dispiace? Mi sta facendo un favore”, diedi una paccaleggera sulla spalla di Edoardo, che mi lanciò un’occhiataccia mentre il professore mi sorrideva e si incamminava verso la classe. Non poteva sapere di avermi salvato da una sorte ben più lieta di una semplice scaramuccia con Edoardo.

***

Fare il giro di tutte le classi a consegnare inviti mi costò quasi due ore di scuola, ma i professori stranamente non si lamentarono, dato che ero piuttosto brava in ogni materia e per Azzurra avrebbero fatto anche loro qualsiasi cosa. Rientrando in classe incrociai lo sguardo di Guglielmo, assorto e imbronciato. Gli avevo parlato, ma probabilmente era servito a poco, nonostante mi avesse assicurato che non sarebbe cambiato nulla tra di noi.
Erano passati tre giorni da quando avevamo discusso l’ultima volta, chiarendo il bacio e constatando quanto la nostra amicizia fosse più importante di tutto il resto. Lui aveva recepito e si era comportato in modo quasi normale per mezza giornata, poi aveva cominciato ad avere quell’atteggiamento imbronciato e perennemente scontroso. Soprattutto -ed era la parte peggiore-, solo nei miei confronti.
Mi dispiaceva davvero tanto non potermi voltare e incontrare il suo sguardo. Mi dispiaceva perché in fondo io speravo davvero che tutto sarebbe rimasto come prima, che avrebbe superato tutto, che avrebbe continuato a considerarmi la sua migliore amica, come era sempre stato. Perché in fondo era quello il motivo che mi aveva fatto capitolare, la sua amicizia. Non saremmo mai stati nient’altro. Sapevamo l’uno i gesti e i pensieri dell’altro e sapevo che saremmo diventati presto una di quelle coppiette che dopo qualche mese sembrano già sposate e si incontrano per giocare a burraco sul terrazzo di casa. Ci saremmo fatti le corna a vicenda, nella ricerca disperata della persona giusta.
Era tanto sbagliato non voler ingannare una persona con false speranze e finte promesse? Non volevo che quello che avevamo costruito cambiasse, che si sciupasse, eppure Gu non sembrava essere dello stesso avviso. Lui era il tipo di ragazzo da ‘tutto o niente’, ed evidentemente aveva bisogno di avere tutto, non avrebbe accettato me, a metà.
Ero concentrata nel vano e stupido tentativo di salvare un’amicizia che non era mai esistita.

***

“Grazie eh”, erano passati parecchi minuti da quando mi ero seduta ed ero in attesa di un cenno di vita da Edoardo.
“Di cosa?”, replicai a quella affermazione, spuntata dal nulla.
“Potevi dire a Cardoli che ti servivo, no? Mi avresti evitato due ore di scocciature”, era imbronciato, riusciva quasi a convincermi che fosse realmente offeso per non averlo portato con me.
“Smettila, non ti avrebbe lasciato venire comunque”, gli diedi un colpetto sulla spalla.
“Ora devi farti perdonare”, gli si illuminarono gli occhi, era quello il suo scopo fin dall’inizio della conversazione: farmi sentire in colpa e costringermi a fare chissà cosa.
“Cosa intendi?”, domandai curiosa e intimorita dalla possibile risposta.
“Potresti fare qualcosa per rendermi felice”, rispose sarcastico.
“Qualsiasi cosa tu stia pensando in questo momento, scordatela!”, tagliai corto, e il suo sorriso si spense all’istante.
“A proposito, oggi devo andare a comprare il regalo per Azzurra, vieni?”, abbassai lo sguardo sul libro aperto di fronte a me. Mi risultava difficile anche chiedergli semplicemente di andare insieme da qualche parte.
“Io e te soli?”, farfugliò, fingendosi indifferente.
Io, dal canto mio, perlustrai la classe in cerca di un volto amico e, quando incrociai quello di Gu, stranamente rivolto nella mia direzione, colsi la palla al balzo.
“Ehi Gu, oggi devo andare a prendere il regalo di Zu, vieni? Chiedi anche agli altri.”, lo sentii mugugnare e voltarsi verso Filippo. Continuavo a utilizzare la tattica del ‘continua a comportarti come se niente fosse’ con Gu, anche se sembrava non funzionare poi tanto.
Tornai con lo sguardo verso Edoardo, che nel frattempo aveva assistito alla scenetta senza fiatare.
“No”, sussurrai, con un sorriso vittorioso sul volto. Non saremmo stati soli, se la fortuna continuava a stare dalla mia parte.
“Anche se non siamo soli soletti, credo di venire”, voleva fare il vago, ma sapevo benissimo che non aveva proprio niente di meglio da fare quel pomeriggio, “magari potrei mostrarti comunque la mia capacità di parlare e poi di agire”, strisciò il braccio lungo il mio banco fino a raggiungere la mia mano e rimase lì, fermo a fissarmi, con la mano sulla mia.
Mantenni lo sguardo, senza lasciar trapelare il vortice di emozioni che mi si era bloccato all’altezza dello stomaco.
“Potresti dimostrarmelo ora”, lo rimbeccai, umettandomi le labbra a fine frase.
La presa sulla mia mano si strinse un po’ e i suoi occhi saettarono alle mie labbra. Potevo percepire la sua voglia di agire, di farmi vedere che non lo avrebbe fermato nulla, ma si trattenne, lasciò la presa alla mia mano e si voltò lentamente, lanciandomi un ultimo sorriso, sconfitto.

***

“Aurora dice che deve tornare subito a casa oggi. Io e Gu invece ci siamo”, aveva parlato tutto d’un fiato per poi rimanere li, fermo a fissarmi affianco al mio banco.
“Sei diventato il portavoce di Guglielmo ora?”, risposi, acida. Sapevo perfettamente che Guglielmo non aveva nessun impedimento a venire lì a dirmi le cose e che aver mandato Filippo era solo una scusa per non avere contatti troppo ravvicinati con me. Da una parte lo capivo, dopotutto era una cosa fresca, dall’altra non sopportavo quella situazione, volevo con tutta me stessa che tutto tornasse alla normalità, il prima possibile.
Guardai Filippo un ultima volta, lui mi squadrò per qualche istante e poi si allontanò silenzioso. Era un bel ragazzo, c’era poco da dire, però non ero mai riuscita a capirlo, a comprendere cosa gli passasse per la testa e soprattutto se qualcosa gli passasse effettivamente per quella zazzera di capelli neri. Azzurra lo capiva sicuramente meglio di me, ma lei capiva tutti.
“Allora?”, la voce di Edo, come al solito, si insinuò tra i miei pensieri, mentre quella della professoressa ci informava che di lì a poco sarebbe suonata la campanella di fine lezioni.
“Io, te, Filippo e Gu.”
“Fantastico”, sbuffò, voltandosi. Io sorrisi alla sua schiena, sognante.
Mi allungai sul banco per raggiungere il suo orecchio e sussurrai: “Cos’è.. mi volevi tutta per te?”
Serrò le mascelle, sentendo il mio fiato sul suo collo, ma non si voltò.
“Non importa.”, cercava di mantenere un certo distacco. Se il suo intento era quello di farmi arrabbiare, ci stava riuscendo.

***

Uscii dal cancello di scuola salutando Aurora, e mi diressi con i tre ragazzi verso la fermata del pullman. La macchina di Azzurra in quel momento sarebbe stata molto comoda.
“Hai idea di cosa prenderle?”, era stato Filippo a parlare, stranamente loquace.
“Nemmeno un po’”, replicai, afflitta.
“Adesso vediamo”, Edo aveva concluso, mettendomi un braccio attorno ai fianchi. Istintivamente mi voltai verso Gu, che in quel momento aveva lo sguardo altrove. Forse aveva visto e aveva voltato il viso, oppure non aveva nemmeno notato quel piccolo gesto insignificante, eppure così intimo.
Fulminai Edo con lo sguardo, sembrava stesse marcando il territorio come i gatti e la cosa non mi piaceva affatto.
A rendere il gruppetto molto più lugubre ci pensava il tempo, grandi nuvoloni grigi albergavano sopra le nostre teste, pronti a scrosciare acqua a tempo indeterminato.
“Che pullman prendiamo?”, chiesi, voltandomi verso Gu. Era lui l’esperto, io riuscivo a malapena a prendere quello da casa a scuola in tempo la mattina.
“Quello che sta arrivando”, mugugnò, con la sguardo basso, indicando con un dito la strada. Ed effettivamente vidi un pullmino piuttosto piccolo spuntare dall’angolo. Scoprimmo entrando che era una circolare e che passava ogni ora, avremmo quindi dovuto fare le cosa contando i minuti per non rischiare di perdere la coincidenza.
L’interno era tutto tranne che pulito, non avevo mai considerato il pullman il posto migliore per muoversi in città, ma ero continuamente costretta a prenderli e, nonostante tutto, fino a quel momento mi ero trovata abbastanza bene in fatto di pulizia. Trovavo qui e lì ogni tanto delle scritte scabrose, dei fazzoletti o cartacce in giro per i posti a sedere, ma quello in cui ero seduta in quel momento era il pullman più lurido e sporco che avessi mai preso.
I seggiolini, dapprima di un arancione vivo, erano sbiaditi e ricoperti di scritte di ogni lingua nere come la pece, per non parlare dei finestroni che erano tutti rigati e opachi per la condensa. Il tutto era piuttosto inquietante e cercai di appoggiarmi il meno possibile, sedendomi sulla punta del seggiolino e cercando di tenermi in equilibrio per tutto il tragitto. I ragazzi non sembravano del mio stesso avviso, seduti stravaccati sui seggiolini, con le scarpe sullo schienale del seggiolino di fronte. Li guardai inorridita e cercai di sopportare quella schifezza. Quando arrivammo a destinazione mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo, respirando l’aria di Milano, inquinata ma comunque più pulita di quella all’interno del pullman.
Entrammo nel centro commerciale semivuoto, era l’orario in cui la gente solitamente mangiava, quindi non era inusuale trovare negozi e supermercati vuoti. Fummo così liberi di visitare ogni anfratto del centro, non tralasciando nulla.
Girammo parecchi negozi, uno dietro l’altro, senza sosta e senza alcun risultato, e i ragazzi si sentirono in dovere di fare una pausa quando incrociammo il negozio di videogiochi. All’interno scoprirono che c’era la possibilità di giocare a Fifa e fu la fine, uscii e mi sedetti sulla panchina di fronte al negozio, la parete di plexiglass come unica barriera a separarmi dalle loro urla per ogni singolo goal o punizione, o touch down. Non conoscevo il calcio.
Rimasi lì ad analizzarmi le doppie punte per un tempo indefinito, poi sentii delle risate farsi più vicine e vidi Edo uscire dal negozio. Filippo e Gu erano ancora incollati al videogioco, le loro dita ormai un tutt’uno con i tasti dei joystick.
“Ti sei stancato?”, chiesi, continuando a guardarmi le ciocche di capelli.
Lui mi si parò davanti, a coprirmi dalla vista dei due, che comunque non si sarebbero mai resi conto volontariamente della mia presenza in quel momento, e lo guardai, alzando lo sguardo dall’analisi attenta che stavo compiendo sui miei capelli sfibrati.
“Che c’è?”, domandai nuovamente, vedendolo fermo con lo sguardo fisso verso di me. Stava valutando, calcolando, ma non riuscivo a capire cosa. Mi toccai il viso pensando di avere qualche rimasuglio della brioche che avevo mangiato poco prima, ma non trovai nulla di sospetto. Tornai a guardarlo, gli occhi grigi fissi sul mio viso, insistenti.
“Alzati”, se mi fossi alzata me lo sarei ritrovato a due centimetri da me e glielo feci notare.
“Se ti sposti..”, farfugliai, sfilando la gamba, che avevo posizionato tra il sedere e la panchina, annoiata.
“Alzati ho detto”, era severo, eppure non era cattivo. Era un ordine, ma risultava dolce anche se categorico.
Obbedii e, come previsto, me lo ritrovai a pochi centimetri dal viso, il petto che sfiorava il mio, acerbo.
“Ci vedono..”, sussurrai, abbassando lo sguardo. Vidi la sua mano avvicinarsi al mio mento e alzarmelo, perché potessi guardarlo negli occhi, perché le nostre bocche fossero a pochi sospiri l’una dall’altra.
“Non importa”, ancora quella frase. Poi mi tirò per il mento e mi fece appoggiare le labbra sulle sue, un bacio senza pretese, dolce, quasi romantico. Chiusi gli occhi per un millesimo di secondo, poi mi staccai, spostai leggermente il volto e constatai che Filippo e, soprattutto, Gu non ci stessero guardando. Giocavano, non avevano mai smesso e non si sarebbero mai accorti di nulla.
“Come siamo audaci”, lo stuzzicai, tornando a guardarlo.
“Mi mancavano”, scrollò le spalle, rimanendomi vicino. Le cose stavano diventando veramente troppo melense per essere sopportate oltre, eppure le sue labbra apparivano così invitanti, delle ciliegie rosee e umettate. Ci pensai su qualche secondo mentre lui rimaneva fermo lì, a guardarmi. Riusciva a capire che, come aveva fatto lui prima, anche io stavo valutando, calcolando e riflettendo. Non avevo mai preso l’iniziativa, non avevo mai voluto farlo. Prendere l’iniziativa può portarti a un rifiuto e il rifiuto porta con sè molti lati negativi. Non ero coraggiosa, non ero audace, non ero estrosa eppure, in quel momento, nel giro di pochi secondi, decisi per la prima volta di rischiare e non lasciai che le sue mani mi portassero verso il suo viso e nemmeno che fosse lui ad avvicinarsi per il contatto decisivo. Posai le mie labbra sulle sue con fiducia, con quel coraggio che non avevo mai avuto, e ne rimasi soddisfatta. Non era un bacio vero, ma era mio.

***

Presto, o tardi, a seconda dei punti di vista, i ragazzi si erano stancati di giocare, e Edo di darmi baci di nascosto, così avevamo ricominciato la ricerca. Il secondo giro fu più fruttuoso, mi fece portare a casa due t-shirt in saldo e fece trovare a Filippo il regalo adatto ad Azzurra, che aveva già tutto: una borsa.
Nonostante ne possedesse a migliaia, non aveva mai avuto la possibilità, o la voglia, di comprarsi una vera Chanel: nera laccata, con le rifiniture in trapuntato e la catenella dorata. L’aveva sempre guardata e osannata, ma non si era mai decisa a prendere la macchina e andare al monomarca in centro, nonostante potesse benissimo permettersela.
Quella che avevamo deciso di regalarle noi non era certo una Chanel, anzi, era tutt’altro. Era di cotone, squadrata e non aveva neppure la cerniera, ma una scritta stampata capeggiava su un lato: “La Chanel è a casa”, con una piccola borsetta simil-trapuntata stilizzata al centro.
Non era un regalone, ma sapevamo tutti quanto a lei piacessero i regali pensati, non comprati e basta.
Guardai Filippo con ammirazione per il resto del pomeriggio. Nonostante non parlasse mai e preferisse giocare a Fifa anziché girare per negozi, aveva trovato il regalo adatto e sembrava conoscere Azzurra meglio di me, che ero la sua migliore amica. Nascondeva dei lati, sicuramente, che non mostrava a tutti. Inconsciamente sperai di poterne vedere qualcuno, un giorno, di quei lati latenti.
Il regalo era stato acquistato, avevamo mangiato qualcosa durante il pomeriggio e ora ci ritrovavamo con qualche ora di anticipo rispetto al pullman, e girare per il centro per l’ennesima volta ci avrebbe fatto venire l’esaurimento nervoso. Trovammo una piccola isoletta, con qualche poltroncina e delle piantine posizionate strategicamente per renderla isolata rispetto alla galleria dei negozi, così ci sedemmo.
Rimasi particolarmente sorpresa quando Guglielmo si venne a sedere proprio sulla poltroncina accanto alla mia, lasciando agli altri due quelle di fronte, a una certa distanza dalle nostre.
“Oh”, mi lasciai sfuggire quando si sedette, stupita.
“Che c’è? Non ti va?”, domandò lui, guardingo. Nell’ultimo periodo dire che era stato scontroso e antipatico nei miei confronti era un eufemismo.
“No, no. Anzi. Non me l’aspettavo, tutto qui”, farfugliai, sincera.
“Non c’è problema, vado di là”, replicò strafottente.
In quel momento sbottai, di fronte alla sua ennesima risposta sgarbata non ci vidi più.
“Senti non è che potresti essere un po’ più gentile? Non mi pare di averti ucciso il gatto”
“Ci mancherebbe”, sussurrò. Probabilmente pensava non potessi sentirlo, cosa che invece feci.
“La smetti?”, ero esasperata. Non sapevo cosa fare, era un situazione piuttosto complicata e lui non faceva altro che complicarla maggiormente, aggiungendo motivi per cui non avrei mai accettato di stare con lui continuamente, e facendomi sentire ancora di più in colpa.
“Di fare cosa?”, domandò. Sembrava sinceramente sorpreso da quella domanda, dal mio tono arrabbiato ed esasperato. Era difficile qualsiasi cosa con lui, avevo paura di quello che sarebbe successo dopo ogni mia singola frase o movimento. Era un continuo equilibrio precario, fatto di mosse false e avventate.
Desideravo veramente che tutto tornasse come prima, che ricominciassimo ad andare in biblioteca insieme, che ricominciassimo a vivere come era sempre stato.
Però cominciavo a dubitare che dall’altra parte ci fosse la stessa voglia. Io avevo bisogno di lui, avevo bisogno dei suoi sorrisi, delle sue frasi dolci, dei suoi sguardi in cui mi faceva capire che aveva capito tutto ancora prima che aprissi bocca. Ma forse il punto era proprio lì: io desideravo cose che lui non desiderava nemmeno lontanamente. Voleva tagliare i ponti, eliminare quell’amicizia, quel rapporto, qualsiasi cosa esso fosse. Voleva che sparisse.
“Sei scontroso, arrabbiato. Ti ho spiegato, pensavo avessi capito. Speravo potesse tornare tutto come una volta.”, ero improvvisamene meno arrabbiata, più affranta, abbattuta.
“Non so, Perla.”, ogni sua parola era in grado di farmi arrabbiare e disperare al tempo stesso, come poteva rispondere in quel modo? Non riuscivo a capire, nemmeno dovesse scegliere tra pesce o carne, tra rosso o verde, tra mare o montagna. C’era la nostra amicizia in ballo, Cristo Santo!
“Cosa non sai?”, la voce mi tremava, sia per la rabbia che per la desolazione che sentivo nascermi dentro. Potevo percepire i miei occhi inumidirsi, per l’agitazione, per l’ansia, per il dispiacere, ma cercai di trattenere i goccioloni. Avrebbero potuto rovinare di nuovo tutto. Avevo la possibilità di chiarire una volta per tutte e non volevo che una mia debolezza lo allontanasse definitivamente.
“Non so niente. Ogni tanto ti guardo e mi piaci. Sei sempre la solita. Poi magari dici qualcosa che mi fa incazzare. Mi fa incazzare tutto di te, Perla. Non riesco nemmeno a guardarti da quanto mi fai incazzare”, era stato un fiume in piena, aveva detto tutto, e per lui era veramente tanto fare un discorso così lungo. Lo guardai per istanti che parvero interminabili, in cui sentii quasi il respiro farsi rarefatto, gli occhi appannarsi. Rimasi a guardarlo, seduta e voltata verso la sua poltroncina, lui abbassò lo sguardo, schiacciato da quella vista che lo faceva incazzare. Mi odiava anche ora? Innocente e completamente indifesa davanti a lui? Mi alzai, con le gambe tremanti, e mi allontanai, in cerca del bagno.
Vagai per minuti che parvero interminabili e poi sentii il freddo del muro contro la spalla, e mi appoggiai. Non piangevo, non respiravo, non facevo nulla, continuavo a guardare fisso di fronte a me e a vedere il viso di Guglielmo, arrabbiato e dolorante, senza riuscire a capire quello che realmente avrebbe significato quella conversazione.
Mi fa incazzare tutto di te.
 

-notepocoserie-
Buondì, oh la la. Vi è piaciuto questo capitolo? Oddio ragazze non avete idea dei lacrimoni alla fine ahah xD Sono una pazza ma a me sti due mi fanno emozionare quasi più del Pedo ahah
Ditemi se vi è piaciuto eh U.U Pensate che sian successe poche cose? No perché nella scaletta del capitolo c’erano da raccontare altre 4 o 5 cose ma ho visto che solo con queste sono arrivata a 7 pagine quindi ho pensato bene di fermarmi. Non so ditemi voi U.U non vorrei che poi il capitolo diventa troppo lungo lol
Bon, c’è da spiegare qualcosa? Oddio non credo.
Allora, si, il titolo del capitolo diciamo che è un po’ per tutto il capitolo, non è riferito solo al regalo di Azzurra che spero vi piaccia xD So che magari è un po’ banale ma ho cercato di spiegare perché ho pensato proprio a una cosa del genere, cioè Azzurra ha tutto, quindi devi regalarle qualcosa di veramente banale perché le piaccia. E a questo proposito vorrei parlarvi di Filippo, lo sto introducendo nella vita dei nostri eroi piano piano, ma spero vi garbi e vi stia simpatico piccolo cucciolo, lui è un tipo molto complesso. Ho in mente di farlo interagire di più e di dedicargli addirittura una OS per farvi capire il suo personaggio, magari un missing moment, che ne pensate? Vi piacerebbe leggere qualcosa su di lui? Fatemi sapere U.U
Comunque dicevo che non è solo sul regalo di Azzurra ma anche in generale sul regalo che fa Edo a Perla e che fa Perla a se stessa prendendo l’iniziativa. E anche il regalo, ahimè spiacevole, che si vede arrivare Perla da Gu.
Okay, ora vorrei spendere due parole su due cose:
-       Perla e la presa d’iniziativa: molte di voi magari diranno: “Che bambinetta sta Perla che si emoziona (SI, EMOZIONA (-cit.), così per un bacetto, che sarà mai. Qui voglio spiegare, ma giusto perché mi va xD diciamo che il bacio è solo un pretesto per poter entrare nella testa di Perla e capire ciò che lei sta facendo, come sta cambiando e quello che sta provando. Diciamo che è una cosa più psicologica che prettamente fisica.
-       Gu e la sua incazzatura: Gu è un uomo amabile, ma purtroppo porta rancore. C’è poco da dire, se non che è un modo per difendersi, e poi vedremo come lol
SUSPANCE. Lol
 
Sappiate che i luv you (come dice Madonna xD), e che aspetto tanti vostri pareri carini carini.
Ah, piccoli ringraziamenti/collegamenti:
 
-       Ringrazio tutte, ma proprio tutte, le ragazze/i che hanno recensito la storia, siamo(si, siamo, perché voi fate parte del tutto insieme a me) arrivati a 100 recensioni proprio l’altro giorno e aumentano ancora, quindi non posso fare altro che ringraziarvi davvero tanto.
-       GRUPPO FACEBOOK mio, di giuls e di Sist per le nostre storielle e cazzeggia menti vari, unitevi a noi *O*

Oddio quasi dimenticavo! Il nostro professor CARDOLI è frutto della mia fantasia malata, perchè il cognome è l'unione tra CARDucci e pascOLI ahah, abbiate pietà di me. E inoltre vi posto la foto del prestavolto. si perchè ho prestavolto per ognuno ahah BELLO CARDOLI MIO 
Indovinate che materia insegna? xD
Un bacio, love. ♥

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Capitolo 14
*** 13 - UNDICI DICEMBRE ***


Per capire appieno questo capitolo vi consiglio di leggere prima la One Shot - Missing Moment su Perla e Guglielmo: QUI POTETE LEGGERLA.

13 – UNDICI DICEMBRE

     


Staccandomi dal sostegno della parete raggiunsi il bagno, mi asciugai le lacrime che avevano creato solchi profondi sul mio viso ed eliminai con un fazzoletto quello che restava del mascara; cercai di guardarmi allo specchio e sorridere.
Era crollato tutto quel piccolo mondo che avevo creduto fosse stabile, quel mondo che amavo condividere solo con lui. Era quasi comica la situazione, perché era lui ad aver voluto creare quel rapporto, molto tempo prima, sedendosi di fronte a me al tavolino di quel bar, era lui che aveva fatto sì che i nostri destini si incontrassero, che mi innamorassi di lui, che soffrissi per dimenticare quell’amore che avrebbe rovinato ogni cosa. E alla fine c’era riuscito, l’amore aveva superato l’amicizia per entrambi e aveva dovuto distruggere, schiacciare e buttare tutto ciò che avevamo creato. E in quel momento, come aveva deciso di costruirlo, Guglielmo aveva deciso di distruggerlo, di tirarmi un calcio in pieno petto e guardare altrove.
Mi sistemai i capelli, cercando di darmi un contegno e uscii da quel bagno desolato, a testa alta. Comportarmi come avevo fatto aveva solo peggiorato le cose, evidentemente l’unica soluzione era dargli un motivo per odiarmi veramente, per farlo incazzare sul serio.
Tornai dal gruppetto, che nel frattempo si era alzato, e non degnai di uno sguardo Gu, che invece mi osservava come a voler capire l’entità del danno.
Lo superai, cercando di non incrociare il suo viso, e andai al fianco di Edo, che per tutta risposta mi prese per i fianchi e mi strinse accanto a sè.
Non mi interessava sapere se Gu avesse visto la scena o meno, tanto l’avrei fatto incazzare in ogni caso.
Sorrisi a Edo, che ricambiò con una leggera pacca sul sedere, dopo essersi accertato che gli altri due non ci stessero guardando.
Mi fissava con il viso a pochi centimetri dal mio, malizioso. Poi si voltò verso gli altri, intenti a parlottare tra di loro.
“Ragazzi che facciamo, andiamo? Le scale mobili sono di là.”
Nonostante fossi ancora scossa dalla discussione avuta con Guglielmo, stare accanto a Edoardo mi dava un’insolita calma. Sapevo che gli importava come stessi, eppure si manteneva discreto, sapeva che se avessi voluto glielo avrei detto.
Solo qualche mese prima lo avrei ritenuto incapace anche solo di poter essere discreto, invece ora, avvinghiata a lui, tutto appariva più calmo, più tranquillo. Camminammo l’uno accanto all’altra e lui si dilettò nel farmi ridere, e capii che lo stava facendo per me, per non dover vedere altre gocce rigarmi il viso, per non dovermi vedere triste.
“Inventati qualcosa per rimanere indietro”, disse all’improvviso. Avevamo parlato, scherzato per parecchi minuti, camminando, poi era sceso il silenzio. Mi guardava in modo strano e stupita ricambiai il sorriso, cercando di decifrare le sue parole. Pochi istanti dopo sussultai, traducendo il tutto in una sola emozione, una sola parola: desiderio.
Era troppo anche per lui, dover starmi vicino, dover sopportare tutto quel contatto, tutto quel gioco.
Abbassai lo sguardo, paonazza in viso. Camminammo ancora per un po’ in silenzio, le scale mobili sempre più vicine e la mia mente sempre meno collaborativa.
Edoardo mi salvò a pochi metri dalla fine, fermandosi e mettendosi di fronte a me, di spalle.
“Fai finta di cercare qualcosa nello zaino”, sussurrò, voltando leggermente la testa verso di me.
Cominciai a giocherellare con la cerniera esterna del suo zaino e le parole uscirono da sole, guardando Guglielmo e Filippo fermarsi di fronte alla scala mobile e girarsi a guardarci.
“Andate avanti, la cerniera non si apre. Ora arriviamo”, esclamai, tenendo lo sguardo basso sulla cerniera, perfettamente funzionante.
Sentii un grugnito di Gu e il silenzio-assenso di Filippo e mi lasciai scappare un sorriso, osservandoli con la coda dell’occhio scendere le scale.
Attesi, litigando con la cerniera, non sapevo nemmeno io cosa. Vidi Edoardo allungare il collo, aspettare di uscire dalla visuale dei due ragazzi e poi voltarsi. Nel giro di pochi secondi mi ritrovai di fronte al petto di Edoardo, a pochi centimetri dal mio naso.
Potevo sentire il suo cuore battere sotto gli strati di maglioni e t-shirt, e batteva forte.
Non potevo credere che quel momento fosse arrivato, non potevo credere che lo desiderassi e lo temessi con la stessa identica intensità. Non sapevo cosa aspettarmi da Edoardo, non lo avevo mai saputo, mi ero sempre lasciata trasportare dagli eventi, dai sentimenti, mi ero fidata, avevo giocato, mettendo in palio soprattutto il mio cuore, senza nemmeno rendermene conto. Ora il suddetto era frullato, smangiucchiato e arrotolato all’interno del mio petto, quasi incapace di battere a una velocità che rasentasse la normalità.
I movimenti di entrambi sembravano essere surrealmente a rallentatore, lo guardai muoversi, alzare la braccia e infilare le dita nei miei capelli sciolti, spingermi il viso verso l’alto, verso il suo, e allontanarmi dal centro di quella grande galleria.
Sentii il suo petto contro il mio seno, il suo cuore contro il mio, sembravano battere all’unisono, l’uno il battito dell’altro. Stava accadendo, eppure una parte di me sapeva che non doveva succedere, che era sbagliato, che non era giusto per nessuno.
Il mio cuore, nonostante il frullamento interno, riuscì a filtrare quella percezione di coscienza che albergava ancora dentro di me e fu libero di fare i suoi comodi. Mi costrinse a sorridere al ragazzo attaccato a me, mi costrinse ad abbassare lo sguardo verso i miei piedi, fingendo timidezza.
Era tutta strategia, tutti stratagemmi che non avevo mai avuto bisogno di usare con nessuno, nonostante sembrassi una veterana del corteggiamento.
Lui mi alzò il viso nuovamente, il sorriso sghembo sulle labbra, avvicinò il viso al mio, guardandomi, finché entrambi i nostri sguardi non si incrociarono.
Il momento arrivò, gli occhi chiusi per scongiurarlo, per viverlo intensamente, dischiusi le labbra al contatto con le sue.
Aveva deciso di rischiare, eppure quando mi staccai sorridendo dalle sue labbra, carnose e desiderabili, lo guardai vacillare, come indeciso. Capii che per lui era un gioco da ragazzi quando una ragazza ci stava, ma fino a quel momento era stato un gioco per entrambi, e per lui non ero la solita che ci stava. Lui non aveva ancora la sicurezza su di me, potevo ancora rifiutarlo.
Lo guardai negli occhi, sorridendo, e lo baciai. Per la seconda volta in quel giorno, presi l’iniziativa, mi fidai, incontrando e dischiudendo le labbra. Fu un bacio più intenso del primo, più consapevole, più sicuro.
Solo quando mi staccai, malamente e svogliatamente, da quelle labbra e dal suo corpo che pulsava ancora in simbiosi col mio, mi resi conto di trovarmi in un centro commerciale, con gente che passava accanto a noi e che poteva non apprezzare.
Lo spintonai, cercando di mantenere una parvenza di dignità, e mi incamminai verso la scala mobile.
“Renditi conto”, mi limitai a sussurrare, sbuffando.
“Cosa?”, sembrava sinceramente sorpreso, nessuna timidezza nella sua voce, a differenza della mia, che vacillava e mi costringeva a balbettare per l’imbarazzo.
“Sei pazzo”, replicai, guardandomi intorno e guardando la gente intorno a noi.
“Sì, di te”, frasi a effetto che forse funzionavano con le sue solite tipologie di ragazze. Non con me.
“Andiamo, che tra un po’ risalgono a vedere se siamo morti”, sospirai, salendo sulla scala mobile.
“E l’ombrello?”
“Ti eri sbagliato, non ce l’avevi”.

***

Tutto quello che sappiamo fare è mostrare sentimenti che sono sbagliati.
(Don’t go away – Oasis)

Tornai a casa da sola, scombussolata da quel pomeriggio insolito, ricco di nuovi inizi e, soprattutto, di finali tristi. Nonostante il bacio di Edo rendesse euforica una parte di me, non potevo fare a meno di pensare alle parole, crude e tristi di Guglielmo, ancora di fronte ai miei occhi.
Mi fa incazzare tutto di te.
Avevo cercato di salvare un rapporto già finito. Continuavo a ripetermelo e continuavo a non rendermene conto, continuavo a ripensare a tutti i momenti che avevamo passato insieme e ad analizzarli sotto un’altra chiave di lettura. Continuavo a notare nuovi particolari, a notare il suo amore. Continuavo a sbagliare.
“Ciao tesoro”, la voce di mia madre, leggera e delicata, mi riscosse entrando in casa, assieme al profumo di pollo arrosto.
“Non credevo ci fossi per cena”, continuò, passandomi davanti con un ammasso di panni sporchi in braccio.
“Nemmeno io”, risposi, dandole un bacio sulla guancia e entrando in bagno velocemente.
Mi toccai il viso, e notai delle lacrime sulla mia guancia. Ringraziai il cielo che mia mamma non le avesse viste, a causa del buio nell’atrio.
Preferivo non raccontarle nulla, non a lei, che considerava Guglielmo come un figlio. Avrebbe sicuramente detto che si sarebbe risolto tutto, che la nostra amicizia era troppo consolidata per finire da un momento all’altro, ma io sapevo che quella volta non si sarebbe sistemato tutto con un mignolino all’insù, stretto attorno al suo. Quella volta c’erano sentimenti che andavano oltre a ciò che una persona può comprendere, e le parole di mia mamma non avrebbero fatto altro che farmi ancora più male, come a ridondare nella mia mente che non era più così facile, che non avevamo più quindici anni e non potevamo più alzare il mignolino e giurarci amicizia infinita.
Uno scatto di serratura e mi rinchiusi in bagno, accasciandomi con la schiena appoggiata alla porta, perdendo tutto il contegno che avevo cercato di mantenere al centro commerciale e davanti a mia mamma.
Non piansi, se non per poche lacrime che si permisero di scendere placide lungo la guancia, rigandomi quel poco di fondotinta che era rimasto.
Sentii bussare alla porta, due colpi secchi, svogliati.
“Sei viva lì dentro?”, la voce di mio fratello apparve impastata anche attraverso il legno della porta.
“Si, scemo.”, rimbeccai, alzandomi lentamente da terra, cercando di non far troppo rumore.
“Muoviti, che devo entrare.”, sentii le ciabatte strisciare lontano dalla porta e aprii l’acqua della doccia.

***

“Dovresti imparare ad uscire dalla classe senza farti notare”, biascicò al mio orecchio, sorridendo.
“E tu non dovresti farmi sgattaiolare fuori dalla classe per incontrarti”, abbassai lo sguardo sulle mia mani, incastrate tra il mio corpo e il suo. Un bagno, quattro pareti e i nostri corpi l’uno unito all’altro. Era questo che mi aspettava?
“Stasera vieni alla festa di Azzurra vero?”, chiese Edoardo, improvvisamente impacciato. Era sempre il solito cretino, buffone che si divertiva a prendere in giro chiunque e che parlava delle sue conquiste, però quando doveva chiedere qualcosa che gli interessava diventava improvvisamente imbranato, timido e impacciato.
Non aveva mai parlato di me, ad altri.
“Sei fuori? L’ho praticamente organizzata solo io!”, sbottai, alzando leggermente la voce, e lui prontamente mi posizionò un dito sulle labbra, chiedendomi di fare silenzio.
“Bene”, sospirò sulle mie labbra, prima di baciarmi.
Posò le labbra sulle mie, chiedendomi di più, ma io mi limitai a baciargliele dolcemente per poi staccarmi, cercando i suoi occhi grigi.
“Tu come sgattaioli fuori dalla classe?”, domandai, posando una mano sul suo petto, delicatamente.
“Per me è facile, esco, nessuno mi calcola. Te invece..”, digrignò i denti, abbassando lo sguardo.
“Io cosa?”, era arrabbiato? Per il modo in cui uscivo dalla classe?
Rimase in silenzio qualche istante, stringendo in un pugno la mano appoggiata alla parete, di fianco alla mia testa.
Quando si decise a parlare, pronunciò ogni sillaba con difficoltà. Sembrava quasi provasse un dolore fisico nel proferire ogni singola parola.
“Te hai sempre qualcuno che ti osserva”, calcò la voce sul qualcuno, come se fosse logico e sottinteso a chi si riferisse.
“Sei geloso?”, chiesi, cercando di trattenere un sorriso. Gli alzai il viso con una mano, cercando il suo sguardo e la sua espressione era dura, scontrosa.
“Non essere sciocca. Non sono geloso.”, cercò di baciarmi, come a voler evidenziare il fatto che era lui ad avere il premio, mentre all’altro spettava solo guardare mentre gli veniva sfilato da sotto il naso.
Lo respinsi, cercando di allontanarlo da me con la poca forza delle braccia.
“Che significa questo?”, domandai, adirata.
“Cosa vuoi che significhi? Mi pare che sia io a divertirmi.”, era proprio ciò che avevo pensato. Alla fine cos’ero per lui? Non ero forse sempre stata un gioco, un divertimento? Lo spinsi ancora più lontano, ma lui mi prese con entrambe le mani i fianchi e mi sbatté contro il muro dietro di me.
“Smettila”, sospirò, cercando di tenermi ferma. Mi dimenai ancora qualche istante, poi cedetti e rimasi ferma, gli occhi fissi nei suoi, infuocati.
“Io lo avevo avvertito”, si limitò a dire, non una giustificazione, non una rettifica. Continuai a guardarlo, in attesa che si spostasse, ma lui rimase lì di fronte a me, la mani ora lungo i fianchi.
“Gli avevo detto che non eri il suo tipo, che non ci saresti stata”, lo guardai sbigottita.
“Scusa?”, alzò lo sguardo, e vedendo il mio viso sorrise.
“Quando mi ha detto che l’avevi baciato, non capivo perché lo avessi fatto. Credevo di aver capito più o meno com’eri.”, continuai a fissarlo, ad ogni parola sempre più stupita. Cos’era, una specie di dichiarazione? Non la volevo, non ora.
“Shh..”, sussurrai, portandogli un dito sulla bocca come poco prima aveva fatto con me, “ti potrebbero sentire”, e con un sorriso lo baciai dolcemente sulle labbra, dischiuse.

***

Rientrai in classe sistemandomi i capelli e trovai lo sguardo di Guglielmo fisso sulla mia persona, arrabbiato, frustrato, intenso.
Non ci eravamo rivolti parola dalla discussione al centro commerciale, a parte qualche mia battuta, conclusa con un suo grugnito. Erano passati i giorni e lui aveva preferito parlare con altra gente, uscire con altra gente, vivere qualcun altro. Mi aveva lasciato indietro e forse era giusto così. Per lui.
Io continuavo a sentire nella testa quelle poche parole che mi aveva detto. Mi fa incazzare tutto di te.
Ogni volta che le sentivo, ogni volta che incrociavo il suo sguardo, sentivo la scia del suo profumo, udivo la sua voce, la sua risata dall’altra parte della classe, mi veniva voglia di andare lì, di farlo veramente infuriare, di dargli un buon motivo per odiarmi, per non parlarmi. Eppure rimanevo lì, a fare quello che stavo facendo e lasciavo che la sua risata mi rimbombasse in testa, desiderando che fosse per me, immaginandomi le sue labbra incurvarsi in un sorriso, i suoi occhi illuminarsi, la sua nuca abbassarsi verso il pavimento, imbarazzata.
Finiva sempre così e quegli occhi, in quel momento, puntati su di me, come a ricordarmi la mia colpevolezza, facevano sempre lo stesso effetto, mi facevano venir voglia di andare lì e urlargli in faccia, con le lacrime agli occhi, a mostrargli ciò che aveva fatto, a dimostrargli che non era colpa mia.
Anche quella volta, invece, gli passai accanto con passo spedito e mi andai a sedere al mio posto, la sedia di Edoardo ancora vuota di fronte a me.
Raccolsi la borsa da terra e cercai velocemente il burro cacao, mentre intorno a me tutti si alzavano, si spostavano e scherzavano tra di loro. Io rimasi lì, immobile, in attesa che la campanella suonasse di nuovo, in attesa che cominciasse un’altra lezione, che passasse un’altra ora.
Guglielmo, con un solo sguardo, era in grado di cambiarmi la giornata, e vedere quegli occhi così frustrati mi faceva dimenticare ciò che era appena successo a pochi metri da quella classe, qualcosa che era ancora presente sulle mie labbra, quella piccola dichiarazione non detta.
Eppure appariva così insignificante di fronte a quel macigno che mi albergava nel cuore.
Sentii toccarmi alla spalla e incrociai lo sguardo di Azzurra, in piedi di fronte a me.
“Smettila di struggerti, Perla”, mi farfugliò vicino all’orecchio, costringendomi con una mano a smettere di fissare la schiena di Guglielmo e a voltarmi verso di lei.
“Devi fartene una ragione”, continuò, notando il mio silenzio.
“Facile per te, Filippo è praticamente un sordomuto”, risposi, acidamente. Filippo era qualcosa che più si avvicinava a un fratello per Azzurra, erano molto legati, nonostante non lo facessero notare così apertamente, e non riuscivo a immaginare una conversazione tra loro, poiché Azzurra sapeva solo parlare, mentre Filippo non sapevo bene cosa sapesse fare.
Probabilmente era un buon ascoltatore. Ero stata cattiva, a rispondere in quel modo e lei mi guardò, ferita.
“Scusami..”, cercai di giustificarmi, si stava parlando di Guglielmo e non era mai facile mantenere la calma.
“Forse lui non ha poi tutti i torti, se ci ragioni”, rispose lei, scostando il braccio su cui avevo appoggiato una mano.
“Cosa intendi?”, sembrava arrabbiata, ma non potevo credere che avrebbe usato il mio rapporto con Gu per proteggersi, per combattere.
“Che forse è normale arrabbiarsi, se ti vede tutti i giorni flirtare con quello che non dovrebbe nemmeno essere un tuo amico”, esclamò, acidamente, e andai istintivamente con lo sguardo alla sedia, ancora vuota di fronte al mio banco, di Edoardo.
Speravo scherzasse.
“Pensaci Perla. Lo baci, lo rifiuti e coalizzi col nemico”, riprese, indicando con un dito il ragazzo che stava entrando, cercando di non farsi notare troppo, dalla porta della classe.
“Smettila Azzurra, io non flirto con Edo”, cercai di non guardarlo, cercai di non guardare i suoi occhi e il suo passo deciso, così attraente.
“A me sembra di sì”
“Siamo amici, non posso essere amica di un ragazzo che non sia Guglielmo?”, sbottai, cercando di parlare a bassa voce.
“Puoi diventare amica di chi ti pare, ma Edoardo lo detesti. O meglio, lo detestavi”, rispose secca, girando lo sguardo verso la classe. Era arrabbiata anche lei e stentavo a capire il perché di quella discussione. Non dovevo di certo rendere conto a lei dei miei rapporti con chicchessia.
“Non posso cambiare opinione su una persona? L’ho conosciuto e Guglielmo stesso diceva che non era poi così male. Che problema c’è ora che ho scoperto anche io che non è poi così male?”, ero esasperata dalla situazione, ero esasperata da tutto ciò che mi circondava.
Arrivò la campanella, in corner, a salvarmi.
“Ne riparliamo stasera”, sentii sussurrare ad Azzurra prima di alzarsi dalla sedia che aveva preso in prestito e andarsene.
Le avevo detto che sarei passata da lei e l’avrei portata in un locale, dove in realtà c’era la sua sorpresa, ma alla luce dei fatti la voglia di farle una festa a sorpresa era svanita.

***

Uscii di classe con la borsa in spalla, evitando qualsiasi sguardo da parte di chiunque potesse aver voglia di parlarmi, mi infilai velocemente le cuffie nelle orecchie e mi dileguai, sgattaiolando giù per le scale, uscendo all’aria aperta. Era finita anche quella giornata di scuola, quelle sei ore di sguardi, segreti, tensioni e litigi. O almeno era quello che speravo, feci qualche passo all’aria aperta, col vento gelido che mi sferzava sul viso e sentii una mano sulla spalla. La solita mano sulla spalla. Mi voltai lentamente, sfilandomi svogliatamente una cuffia dall’orecchio e mi ritrovai il viso di Edoardo a poca distanza dal mio.
“Che c’è?”, domandai, una nota di disperazione nella voce.
“Ti accompagno a casa,”, non era una domanda o un invito, era un ordine. Mi avrebbe accompagnata a casa. Sospirai, rassegnata, e spensi l’ipod.
“Guarda che nel pullman non ci sono solo io che ti conosco”, replicai dopo qualche istante, ricordando il gruppo di secchioni che, purtroppo, prendevano giornalmente il pullman con me.
“Ci sono i posti dietro apposta”, si limitò a sussurrare, guardando altrove.
All’inizio credetti che scherzasse, era solito fare la mia stessa strada per raggiungere la fermata del pullman, una volta arrivati lui prendeva il 792 come me, solo che il suo andava da una parte e il mio dalla parte opposta, ma quando lo vidi oltrepassare le porte alla fine del mio pullman mi si gelò il sangue nelle vene. Guardai velocemente i miei co-passeggeri secchioni e li trovai, fortunatamente, intenti nella lettura di qualche fumetto sconosciuto al mondo moderno, e corsi verso Edoardo, in piedi in mezzo al pullman. Mi misi di fronte a lui, cercando di non far vedere a nessuno la sua presenza, e lo guardai stupita.
“Ma che cavolo stai facendo?”, domandai, gli occhi sbarrati, in preda al panico.
“Sono troppo tonti per rendersi conto della mia presenza” sorrise, sornione, e languidamente mise un braccio attorno ai fianchi e mi spinse indietro, verso i seggiolini posteriori.
Caddi sbattendo il sedere sulla plastica arancione e fredda dei sedili e me lo ritrovai di fianco, quasi sopra, nel giro di pochi istanti.
Lo spintonai, cercando di mantenere il controllo della situazione, e mi guardai attorno.
Il mezzo era quasi deserto in quella parte dello snodo, se non si contava la nonnina seduta ai primi posti e un ragazzo con le cuffie nelle orecchie due o tre sedili più in là.
Nel primo snodo, invece, c’era il gruppetto solito di nerd, il gruppetto degli emo e infine l’autista, colui anche noto per avere gli occhi ovunque.
“Non ci pensare nemmeno”, esclamai a bassa voce, guardando in modo eloquente Edoardo che cercava in tutti i modi di avvinghiarsi a me.
“Ma in questo modo non ci riconoscerebbero”, sorrise, cercando nuovamente di baciarmi.
“No, no.”, sussurrai. Era difficile mantenere la calma, non lasciarsi prendere dalla foga, ma se uno dei due doveva mantenere un po’ di decoro per entrambi, quella ero sicuramente io.
“Sei una rompipalle”, rispose seccato Edo, mettendosi a sedere in modo composto, o quasi.
“Non pomicerò con te sui sedili unti e bisunti di un pullman di quinta classe”, replicai, osservando il gruppetto dei nerd in cerca di un movimento sospetto.
“Perché in uno di prima classe lo faresti?”, sorrise, guardandomi. Non mi voltai, continuando ad analizzare il comportamento di quei ragazzini più avanti.
“Okay, rettifico. Non pomicerò con te sui sedili di un pullman, Va bene così?”, sorrisi, acida.
“Vedremo”, si limitò a rispondere, sovrastandomi poco dopo con la sua mole e impedendomi ogni via di uscita. Avevo il vetro del mezzo dietro la nuca, il sedile sotto la schiena, il suo corpo sopra di me e davanti, a nascondere quella scena almeno in parte, altri sedili. La sua bocca incollata alla mia, intenta a dischiudermi con la forza le labbra, per poter approfittare della situazione.
Rimasi ferma, con la bocca serrata finché riuscii, poi il desiderio di averlo sopraggiunse e mi lasciai andare, su quei sedili unti di quel pullman di quinta classe, sperando di non prendermi qualche malattia.
Quando mi rialzai il gruppetto dei nerd e degli emo era svanito e mi accorsi di aver superato la mia fermata da un bel pezzo.
“Ci tocca tornare indietro”, risi, giocherellando con i suoi capelli.
“Meglio”, sussurrò, stampandomi lievi baci sulla bocca, dolci.
“Ma poi vorrei capire perché deve essere un segreto”, sussurrai, abbassando lo sguardo. Avevo pensato molto a quel momento, il momento in cui avrei saputo più o meno cosa significava quello che avevamo, e dalla sua espressione capii che non fosse poi cosi sorpreso di intraprendere il discorso così presto.
“Cosa?”, chiese, fintamente ignorante.
“Questo”, indicai con un dito entrambi. Non sapevo come definirci, come definire ciò che facevamo e speravo che lui potesse schiarirmi le idee anche su quel punto.
“Questo cosa?”, continuò con quelle domande esasperanti.
Non voleva mica sentirmi dire un “noi”?
“Beh perché non possiamo dire a tutti che siamo due amici che ogni tanto stanno “bene” insieme?”, detto in quei termini sembrava una bruttissima cosa, del tutto superficiale e priva di sentimento. Ma forse era proprio quello che era, per Edoardo.
“Perché non dobbiamo dire che stiamo insieme?”, domandò, cercando di apparire naturale mentre pronunciava le parole “stiamo insieme”.
Lo guardai sinceramente stupita.
“Cos.. cosa?”, balbettai, allontanandomi un po’ da lui per poter vedere bene il suo viso, le sue espressioni, per potermi accertare che non scherzasse.
“Stiamo insieme Perla, ok? E non lo diciamo perché è più divertente così. E poi c’è il tuo amico..”, si riferiva a Guglielmo, chiaramente. Il suo migliore amico, il mio migliore amico.
“E c’è Aurora”, sussurrai, ricordando improvvisamente la cotta colossale che la mia amica si era presa per Edo.
“Cosa?”, esclamò, quasi urlando.
“Tranquillo. Cioè.. Aurora ha una specie di cotta per te”, risposi, cercando di non sembrare gelosa per quella rivelazione. Magari preferiva lei a me.
“Oddio la matta”, rispose, strabuzzando gli occhi. Edoardo era un ragazzo simpatico, bello e poteva avere un miliardo di altri buoni pregi, ma di certo non conosceva il significato del termine “tatto”.
“Scusa? La pazza?”, domandai, scocciata per quell’aggettivo.
“Si. Non puoi non ammettere che è una ragazza un po’ strana. Tutto quel vestirsi in modo strano. Frequenta sempre gente strana e quando le piace un ragazzo diventa ossessiva. Una volta le ho visto una bambolina vodoo in mano, giuro.”, rispose, gesticolando con le mani.
In effetti non aveva tutti i torti. Aurora era una ragazza particolare, amava essere sempre un po’ dark, un po’ underground e viveva un rapporto un po’ complicato con le sue emozioni. In poche parole non aveva vie di mezzo, o amava o odiava, o era felice o era triste. Per lei non esisteva il grigio.
Nonostante sapessi tutto quello che Edoardo aveva affermato, lo guardai adirata. Era pur sempre una delle mie più care amiche.
“So che in una settimana le sarà passata la cotta per te, ma sai come la pensa sugli ex”, farfugliai, cercando di non guardarlo.
“La formula degli ex funzionerebbe se io fossi un suo ex, ma non lo sono, per fortuna”, lo spintonai di nuovo, infastidita. Sapeva essere antipatico, sapeva tornare il ragazzo che non avevo sopportato per più di due anni.
“Tutti sanno che per Aurora vale anche se non è un ex.
Chiunque è piaciuto a una del gruppo non può piacere o diventare il ragazzo di qualcun’altra. È la regola.”, replicai.
“È una regola del cazzo”, si limitò a rispondere lui, attorcigliando un braccio intorno ai miei fianchi e portandomi sopra di lui.
“Tu stai con me e stop”, aggiunse poi, prima di calare sulla mia bocca dolcemente.

***

Ci lasciammo davanti alla fermata del pullman. Aspettai che il suo arrivasse e poi lo salutai come in un film, attraverso il finestrino semi aperto di quello che nella mia mente si trasformava in un treno, ma che in realtà era un bus di linea con addosso cinquant’anni di vita, come minimo.
Mi incamminai verso casa con un misto di felicità e timore. Stavamo insieme ed era una cosa parecchio strana, non lo avevo deciso io, era una notizia che mi era caduta addosso come una slavina e tutto quello che avevo potuto fare era accettarla, annuendo.
Entrai in casa in una sorta di trance e salutai meccanicamente mia mamma, perennemente ai fornelli.
“Ha chiamato Azzurra, dice di andare lì prima, deve parlarti. Non ha voluto dirmi di che cosa però”, annunciò mia mamma alla porta chiusa del bagno. Sperai di poter sbattere la testa al muro tanto da dimenticare tutto ciò che conoscevo della mia vita, fino a perdere conoscenza, ma evitai, aprendo invece l’acqua della doccia.
“Sai che non puoi andare prima vero? L’ho detto ad Azzurra, devi portarmi al supermercato”, ringraziai mia madre mentalmente, entrando nella doccia e lasciando che l’acqua mi scrollasse di dosso tutto.
Non fu poi un sollievo così grande, tutta quell’acqua addosso, non faceva altro che rammentarmi che fossi sporca, per quello che facevo a Guglielmo e a me stessa.
Uscii così prima del previsto, dopo essermi data una sciacquata veloce anche ai capelli. Il freddo dell’esterno del bagno mi colpì come una stilettata, come a ricordarmi che una doccia non sarebbe bastata comunque a mandare via tutto quel casino.
Mi feci velocemente una blanda piega ai capelli, armandomi di phon e spazzolone tondo enorme e poi filai in camera a cercare dei vestiti adatti per la serata.
Appena aprii l’armadio mi tornò in mente il giorno in cui era arrivato lì Guglielmo e in un batter d’occhio aveva trovato ciò che cercavo, aveva abbinato il tutto in modo perfetto.
Mi conosceva, più di quanto non mi conoscessi da sola, e lui era sempre stato lì, in ogni istante, pronto ad aiutarmi. Mi sentii una schifezza, perché nonostante tutto, egoisticamente, lo volevo lì con me, ad aiutarmi ancora.
Infilai la mano a caso nell’armadio e ne estrassi una gonna blu con dei cavallini disegnati sopra, stilizzati e bianchi. La infilai, abbinandole una maglietta bianca che infilai all’interno della gonna a vita alta e aggiunsi poi delle calze color carne, coprenti, per proteggermi dal freddo.
Non era l’abbinamento che avrebbe fatto Guglielmo, ma era quello che passava il convento. Fui tentata di togliermi tutto e indossare dei fuseaux neri con una t-shirt extralarge dei Led Zeppelin sopra, ma poi pensai ad Azzurra, ai suoi occhioni celesti contrariati e resistetti alla tentazione.
Uscii di casa con mia mamma al seguito, le buste per fare la spesa ancora vuote sotto al braccio e il bigliettino dei prodotti da acquistare stretto in una mano.
“Devi comprare tutta quella roba?”, biascicai, scorgendo il biglietto pieno di piccole parole scritte con una biro nera.
“Se ci entra in macchina, sì.”
Il concetto di mia madre di “mi accompagni” consisteva nello stare dietro a lei, armata di carrello, muoversi tra i vari scaffali del supermercato e cercare di barcamenarsi tra un fustino di detersivo e una cesta di patate light.
“Mà, ma le patate light?”, ero stupita, come potevano esistere delle patate più leggere delle patate normali?
“Si, Light, tesoro. Sei un po’ rimbambita oggi.”, sembrava normale, per lei, mettere nel carrello delle patate del genere.
La guardai sconsolata allontanarsi da me per raggiungere il reparto fai-da-te e trattenni a stento un sospiro.

***

“Avevo detto a tua madre di venire qui prima, ora è tardi!”, esclamò Azzurra aprendomi la porta e camminando poi nuovamente verso la sua camera.
“Dovevo andare al supermercato con lei”, mi limitai a rispondere, tranquilla.
“Adesso dobbiamo andare”, dire che era una maniaca della puntualità, era un eufemismo.
“Adesso andiamo”, risposi, rimanendo sulla soglia della porta.
“Prendo la borsa”, la sentii gridare dalla camera. Pochi istanti dopo la vidi spuntare, un vestitino nero semplice addosso, il cappotto a nasconderlo al resto del mondo.
“Ma come sei elegante!”, esclamò, notando le mie gambe quasi-nude.
“Anche tu”, mi affrettai a rispondere, poi le chiusi la porta alle spalle, spingendola fuori.
Salimmo in macchina con un grugno sul viso, entrambe contrariate per quella tensione aleggiante nell’aria. Lei voleva parlare, io sapevo già dove sarebbe andata a finire quella conversazione.
“Forza, spara”, esclamai, dopo una mezz’ora buona di silenzio sostenuto.
“Oh, avanti Perla, è inutile.”, eravamo quasi arrivate e, nonostante non volessi litigare con lei proprio quella sera, pareva essere l’obiettivo di Azzurra.
Rimasi in silenzio, in attesa della sua ramanzina, di qualcosa, che non arrivò. Rimase in silenzio per tutto il tempo, rimase in silenzio anche dopo aver posteggiato e dopo essere scesa dalla macchina, rimase in silenzio nell’atrio di quel locale-hotel, rimase in silenzio anche per cinque dei dieci piani che ci separavano dalla grande festa a sorpresa. Verso il quinto, però, mi decisi a parlare.
“Voglio chiarire questa cosa, io e Edo non siamo proprio un bel niente. Siamo amici, ci sopportiamo. L’ho accettato, e non mi va che ora vi incazzate con me perché finalmente ho ascoltato i vostri consigli e ho accettato di conoscerlo, di dargli una possibilità. Non mi va e ci sto male, sto male a litigare con te, sto male per Guglielmo. Tu non hai idea di quanto vorrei che tornasse tutto come prima, non hai idea di quanto mi farebbe felice.”, suonò il campanello dell’ascensore. Eravamo arrivate.
Poco prima dell’aprirsi delle porte Azzurra mi guardò, uno sguardo di sfida mista a tristezza sul volto.
“Se non è niente per te, convincilo a stare con Aurora. Stasera.”, poi le porte si aprirono e una marea di persone ci venne incontro.
“Sorpresa”, sussurrai, cercando di allontanarmi dalla calca attorno ad Azzurra.



-notepocoserie-
Ehilaaa, lo so, lo so. Sono in ritardo di due settimane, però il capitolo è un po' più lungo del solito e spero vi sia piaciuto comunque.
Sono successe un po' di cose, a quanto pare. 
Non starò a tediarvi sui motivi che mi hanno portata ad aggiornare dopo così tanto tempo poichè non mi va di farvi scender eil latte alle ginocchia e non vorrei provocare suicidi di massa xD 
Allora, innanzitutto vorrei parlare della os su Perla e Guglielmo. Ho trovato questo contest qualche tempo fa e mi è subito venuto in mente di ambientarlo in AS, Perla era perfetta e anche Guglielmo, così ho cercato di ricreare una specie di passato in cui si delinea maggiormente il tipo di rapporto che hanno i due ragazzi. 
Prima dell'arrivo di Edo insomma. Non è obbligatorio leggerla, perchè il capitolo si capisce perfettamente anche senza aver letto la os, però mi piacerebbe avere un vostro parere anche su quel mio piccolo lavoro, perchè le os sono sempre poco considerate e perchè per me è molto importante. 
Il capitolo è qui, non so bene cosa dirvi, la trama.. si infittisce ahah. A parte gli scherzi, Azzurra è stata un po' bitch ma c'è un motivo. Ho messo qualcosa di più su Filippo e sulle sue amicizie. La os su di l ui arriva, c'è già nella mia testa ma ho tante di quelle cose in mente e da fare che non vi immaginate. 
Vi lascio il link del GRUPPO FACEBOOK che divido con le mie amate roomate, in cui si parla di tutto, si fanno ipotesi, ci sono spoiler e quant'altro. Fateci un salto, mi farebbe piacere parlare con voi ♥  
Inoltre stay tuned, perchè ho intenzione di pubblicare, non so se oggi o domani, il prologo di una nuova storia. Spero abbiate voglia di leggere anche lamia nuova creatura xD 

Basta, me ne vado sennò sto qui tutto il giorno. Baci baci, Sonia.

 

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Capitolo 15
*** 14 - FARE PARTE DI UN SEGRETO ***


14 -  FARE PARTE DI UN SEGRETO

 
Non volevo che si sapesse che ero stata debole, che avevo ceduto con così tanta facilità.
Ero dannatamente orgogliosa e, mentre mi sforzavo di mantenere un sorriso di facciata davanti all’ammasso informe di persone riunite intorno alla festeggiata- e involontariamente, anche intorno a me-, continuavo a ripetermi che ero stata una stupida.
Edoardo era la precisa definizione, con tanto di prove, di quello che io più detestavo nei ragazzi. La loro superficialità, il loro saper pensare solo con quella cosa che si ritrovavano in mezzo alle gambe. Mi ero votata, fin da piccola, a difesa della mia specie, a difesa delle donnine per bene come me che non avevano bisogno di un essere dell’altro sesso per andare avanti, che nell’altra parte della mela cercavano una persona con cui parlare, confrontarsi e che, soprattutto, detestavano ogni forma di maschilismo, seppur minima. Edoardo era un grande punto esclamativo, e si portava appresso un’ ombra di maschilismo grande quanto una casa.
Detestavo quel ragazzo dalla prima volta che lo avevo visto, entrando in quella classe il primo giorno di scuola: se ne stava stravaccato in uno degli ultimi banchi, con una sigaretta spenta in bocca e una gamba sul tavolo, intento ad osservare il culo di ogni ragazza che entrasse in classe. Detestavo ogni suo gesto e anche il modo in cui si toccava i capelli; detestavo quel suo naso un po’ troppo grande rispetto al viso e quegli occhi grigi, offuscati dalle notti brave e dal fumo. Detestavo anche il suo modo di vestire, i suoi jeans sempre troppo calati, le sue magliette attillate e le sue felpe extra large; detestavo il modo in cui parlava. Ma la cosa che più detestavo era ciò che diceva.
Tra un sorriso e l’altro, in quel momento, mi ritrovavo a capitolare su ogni aspetto del mio carattere. Ero caduta in basso, avevo fatto ciò che criticavo tanto nelle altre ragazze, mi ero lasciata confondere dal testosterone e qualche occhiatina e avevo fatto la parte dell’oca, ero diventata come loro.
Annoveravo tanto la mia capacità di essere diversa, di distinguermi dalla massa, dal pensiero generale, dalle tante pecorelle, senza rendermi conto di essere come loro.
Scorsi il suo viso, un bicchiere di alcool in mano e un'espressione felice, quasi da ebete. Detestavo anche quella bocca, in quel momento.
Mi guardò, ammiccando, e mi voltai disgustata. Non faceva altro che confermare i miei pensieri, non faceva altro che ricordarmi che persona fossi. Non era monogamo, non lo era mai stato, eppure con due paroline e un sorriso mi aveva lasciato credere che fosse una bella persona, che potesse provare affetto. Solo in quel momento mi rendevo conto che sorrideva a tutte, che probabilmente usava la stessa tattica con tutte quelle che gli facevano una maggiore resistenza.
Cercai uno spiraglio tra i corpi ancora intorno ad Azzurra e mi allontanai in cerca di tranquillità, nonostante fosse praticamente impossibile trovarla in quell’appartamento.
La festa, nonostante avessi fatto tutto più o meno da sola, era stata organizzata nei minimi particolari. Conoscevo Azzurra abbastanza da sapere ciò che le sarebbe piaciuto e, fortunatamente, il catering e i ragazzi dell’allestimento erano stati abbastanza recettivi. Era un appartamento openspace allestito come una piccola discoteca, con ragazzi e ragazze immagine su dei piccoli cubi appostati in alcuni punti sparsi dell’enorme salotto. Azzurra era una ragazza molto “material girl”, quindi ero andata sul sicuro. Cercai di infilarmi in bagno, ma trovai due intenti a prosciugarsi l’uno la saliva dell’altro, tanto che non mi notarono nemmeno, quindi optai per una delle camere che quella sera avrebbe fatto da ripostiglio-magazzino. Entrando sentii la musica farsi ovattata, mi portai le mani alla testa, riavviandomi i capelli e cercando di pensare lucidamente, per non farmi prendere dalla rabbia e dalla frustrazione.
“Cos’hai?”, sentire la sua voce alle spalle fu come ricevere una stilettata all’altezza del cuore. Non poteva sapere che era il momento peggiore per arrivarmi alle spalle, per fare il solito sorriso sornione. Non sapeva che quella sera non sarebbe servito.
“Oh ti prego. Va' via.”, sospirai, rimanendo di spalle. Stranamente non lo sentii avvicinarsi, rimase fermo lì, con le braccia lungo i fianchi e lo sguardo puntato sulla mia schiena, potevo sentirlo, percepirlo.
“Torna di là”, riprese lui, del tutto tranquillo.
“Non torno di là. Vacci tu, non dovresti essere qui.”, replicai, girandomi a guardarlo per pochi istanti.
“E se non ci volessi tornare?”, rispose lui, avvicinandosi di qualche passo, con un espressione eloquente sul viso. Non aveva capito nulla, non avrebbe mai capito nulla.
“Non voglio che stai qui, ok? Vai.”, mi voltai, tornando a spostare convulsamente gli oggetti appoggiati su un tavolino lì vicino.
“Vado da Aurora, magari lei mi dà più attenzioni”, fu troppo. Era quello per cui ero arrabbiata, quello per cui avevo mentito ad Azzurra, ad Aurora stessa e perfino a Guglielmo, l’unica persona a cui non mi ero mai nemmeno sognata di mentire. L’unica cosa che Edoardo non avrebbe dovuto fare era pronunciare quella frase.
“Vai da Aurora”, mi limitai a bisbigliare, rimanendo voltata. Non aveva capito, non poteva immaginare. O forse sì.
Sentii il frusciare della sua camicia mentre si voltava e apriva la porta che si era chiuso poco prima alle spalle. Aspettai qualche istante e poco prima che uscisse sussurrai: “È un gioco, Edoardo”.
Lo sentii bloccarsi sull’uscio, ma non mi voltai, non lo affrontai. Era una costatazione di fatto, lui era come era e la stessa cosa valeva per me. Due treni che viaggiavano su binari paralleli.
Chiuse la porta con delicatezza,tentando di fare meno rumore possibile.
Rimasi ferma, con un pacchetto di tovaglioli rosa antico in mano, lo sguardo perso nel bianco del tavolino di plastica di fronte a me. Mi riscosse, non so dire quanto tempo dopo, il rumore della porta e la voce di un cameriere.
“Oh, scusa non sapevo fossi qui, devo prendere i tovaglioli”, esclamò, gentile.
“Li stavo prendendo io”, gli sorrisi distrattamente e uscii velocemente, lasciando che dei tovaglioli si occupasse lui.
Uscendo trovai la folla, che prima era tutta intorno ad Azzurra, sparsa per tutto l’appartamento: in ogni angolo c’era gente con un bicchiere in mano, gente che ballava, che scherzava. Scorsi in lontananza, dalla parte opposta del salotto, Aurora seduta su un divanetto accanto ad Edoardo, stravaccato e con lo sguardo fisso su di me. Lo distolse appena lo notai, tornando a fingere di ascoltare Aurora che parlava a mitraglietta di qualcosa, sicuramente, piuttosto futile.
Vagliai la sala in cerca di qualcuno con cui parlare, ma nonostante Filippo e Guglielmo fossero seduti poco distante a parlare del più e del meno non mi avvicinai, preferendo la solitudine di una parete a pochi metri da me. Mi appoggiai al muro freddo con la schiena e guardai gli altri divertirsi. Osservai, una delle cose che mi riusciva veramente bene. Il resto della serata passò abbastanza velocemente, fermai un cameriere, prendendogli dal vassoio un bicchiere di analcolico e lo sorseggiai, continuando a guardarmi attorno, a coordinare la situazione.
Fui sorpresa quando sentii la voce di Guglielmo vicina e, voltandomi, fui ancora più sorpresa di vederlo sorridere nella mia direzione. Veniva verso di me, con accanto Filippo e Azzurra, e sembrava felice. Per un attimo accantonai tutto quello a cui non potevo fare a meno di pensare e mi soffermai su quel sorriso che non avevo avuto il privilegio di vedere per così tanto tempo. Lo assaporai a pieno, ne delineai il contorno e me lo impressi nella mente, come se fosse l’ultima volta in cui potevo vederlo. Perché in realtà era così, non sapevo se lo avrei rivisto ancora, dopo quella sera.
“Tesoro, come mai tutta sola?”, chiese con un sorriso Azzurra, una volta vicina, poi si appoggiò al muro accanto a me.
“Hai visto che carini?”, domandò nuovamente, senza nemmeno attendere la mia risposta.
“Chi?”, chiesi, vaga. Sapevo benissimo a chi si riferiva e lei sapeva che io sapevo.
“Gli hai parlato?”, parlava in modo naturale, nonostante la conversazione non fosse delle migliori. Mi sentivo come in quei film americani, quelli in cui c’è il carnefice che costringe il suo ostaggio a fare qualcosa che non vuole fare, che gode nel vedergliela fare.
Azzurra era il mio aguzzino e godeva nel vedere Aurora e Edoardo l’uno accanto all’altra.
“Non gli ho detto granchè in realtà. È andato di sua spontanea volontà.”, non era del tutto una bugia. Vado da Aurora, magari lei mi dà più attenzioni. Aveva voluto essere simpatico, farmi ingelosire, ma era stato il momento sbagliato. Lui era così e, se non fosse stata Aurora, sarebbe stata qualcun’altra. Avrebbe rovinato tutto, un tutto che in realtà esisteva solo per me e che non sarebbe nemmeno dovuto esistere. Era meglio averla chiusa lì.
Distolsi lo sguardo dai due, isolati e seduti troppo vicini perché passassero inosservati, e mi voltai verso Guglielmo, col sorriso ancora stampato sul volto.
D’un tratto mi appariva giusto anche il suo comportamento, mi sembrava giusto il fatto che ce l’avesse con me, mi sentivo sporca per essermi comportata in quel modo.
Lui mi aveva conosciuto per quello che ero, così orgogliosa e testarda, e non per come ero diventata. Sempre se ero realmente cambiata.
Mi rivolse un sorriso e tornò a guardare Filippo, molto loquace quella sera.
Mi avvicinai a lui e gli sfiorai un braccio, lui si voltò ancora sorridente, non c’era cattiveria nel suo sguardo, non c’era rabbia. Sembrava che tutto fosse magicamente tornato alla normalità, sembrava che tutto fosse stato dimenticato. Poi accadde tutto piuttosto rapidamente, sentimmo tutti il rumore di uno schiaffo e quando ci voltammo la scena che ci si presentò davanti fu un’Aurora in lacrime, in corsa verso l’uscita.
Guardai istintivamente Edoardo, mentre tutti rimanevano fissi con lo sguardo sull’amica, e lo vidi impassibile, lo sguardo rivolto verso di me.
Lo guardai alzarsi e andarsi a prendere da bere, mentre il resto dei presenti continuava a ballare, a divertirsi, incurante di quanto appena successo.

***

Tornai a casa presto, nonostante la festa fosse ancora nel pieno della vita. Aurora era voluta andare a casa subito dopo l’incidente. Dal suo singhiozzante riassunto pareva che Edoardo l’avesse malamente rifiutata. Tutti la tirarono su, dicendole che non ne valeva la pena. Io mi limitai a guardarla, ad abbracciarla e a stare in silenzio. Non ero mai stata brava a tirar su di morale le persone, non ero capace di dire la frase giusta al momento giusto, però credevo e speravo, che un abbraccio potesse servire, potesse trasmettere tutto.
A casa trovai una scena piuttosto simile, mia madre era in lacrime, mio padre impassibile sul divano a guardar la televisione.
Capitavano spesso quelle scene ultimamente a casa, per le poche volte che stazionavo lì, e non mi piacevano. Nonostante mio padre in quel momento assomigliasse in modo molto marcato a Edoardo, sapevo che era un uomo di sani principi e soprattutto un uomo come si deve, di quelli che non trattano male la propria moglie, di quelli che non la considerano una serva, un oggetto. Eppure vedere quella scena mi fece ribollire il sangue nelle vene, andai da mia mamma, in lacrime, e le presi le mani tra le mie.
“Cos’è successo?”, domandai. In realtà conoscevo già la risposta, perché non era la prima volta che vedevo quella scena. Scoprii che mia mamma aveva fatto una domanda di troppo e mio padre era andato in escandescenza, rivendicando il proprio diritto alla tranquillità e chiedendo, testualmente, di smetterla di rompergli i coglioni con tutte quelle paturnie.
“Forse dovrei cambiare, se sono una seccatura”, biascicò mia mamma, tra un singhiozzo e l’altro. La guardai, fragile e indifesa tra le mie mani, tra le mie braccia, e non riuscii a trattenere le lacrime. Era il pilastro della casa, l’unica persona che riuscisse a mantenere una parvenza di decenza in quella famiglia, che tutto aveva fuorchè l’organizzazione. Era una donna che lavorava, si occupava della casa, dei figli, del marito e anche delle questioni finanziarie quali bollette e mutuo, cose che in quel momento erano piuttosto difficili da tenere a bada. Eppure mio padre desiderava la sua tranquillità, le dava della scassa palle solo per aver fatto una stupida domanda.
“Non devi cambiare mai”, le sussurrai tra i capelli, abbracciandola, “mai”.
Lei mi guardò, cercando di trattenere le lacrime, e mi sorrise. Piccola e dolce nonostante la sua età. La mia mamma così indifesa.
“Non piangere piccola mia”, nonostante tutto, trovava la forza per dire di non piangere a me, mentre lei era un fiume di lacrime che stentavano a rimanere all’interno dei suoi occhi.
La guardai ancora, spostandole i capelli bagnati dalle lacrime dal viso e, sorridendole le sussurrai, per non farmi sentire da mio padre: “Sei perfetta, mamma”.
Furono parole sincere, che uscirono naturali dalla mia bocca, poco incline a manifestare affetto.
Mi allontanai da lei più tranquilla e mi rifugiai nella mia stanza, esausta.

***

“Perché sei tornata a casa così presto ieri? Ad un certo orario sei sparita, non sapevo dove fossi”, era stato Guglielmo a venire fino al mio banco, a salutarmi e a farmi quella domanda. Lo guardai, stupita, e lui mi ricambiò con un sorriso.
“Ero stanca.”, mi ero ritrovata, ad un certo punto della serata, a bere un bicchiere di birra con Filippo. In silenzio.
“In effetti, eri un po’ morta ieri”, l’aveva notato. Continuavo ad essere stupita per quel cambio di atteggiamento nei miei confronti. Immaginai soffrisse di bipolarità.
“Oggi è una giornata sì.”, esclamò, quasi in risposta ai miei pensieri. Gli sorrisi, rimanendo in silenzio, poi la campanella suonò e lui tornò al suo posto.
Tornando alla vita reale, quella in cui Guglielmo era un ragazzo normale che non soffriva di una strana forma psicologica di alterazione dell’umore, Edoardo era di fronte a me e non ci eravamo rivolti parola dalla sera prima. Ero stata l’ultima a parlare.
È un gioco, Edoardo.
Era un dato di fatto, insomma. Lui era quel genere di ragazzo che non stava con una ragazza per più di un giorno e una notte. Era durata troppo anche per i miei gusti.
Eppure, quella mattina, la sua schiena continuava ad attirare il mio sguardo e, inconsciamente, ma nemmeno troppo, attendevo di vedere la sua zazzera castana voltarsi con un sorriso stampato sul volto, pronto a fare qualche battutaccia.
“Dobbiamo parlare”, biascicò alla quarta ora, senza nemmeno voltarsi a guardarmi.
Annuii, nonostante non potesse vedermi. Ma sapevo che non avrebbe accettato un no come risposta. Perché la sua non era una domanda, era un’affermazione. Un ordine. Dobbiamo. Parlare.
Passò un’ora e mezza prima che riuscissimo a vederci. In realtà credetti ci avesse ripensato, invece mentre camminavo per andare in aula computer mi ritrovai, nel giro di pochi istanti, in un angolino nascosto, dietro ad una statua rappresentante una madonnina.
“Ahia”, sussurrai infastidita. Mi aveva tirato quasi per i capelli e mi aveva fatto male.
“Sì, dai”, rispose brusco, guardando dappertutto tranne che verso di me. Io rimasi in silenzio, in attesa.
“Che c’è?”, sbottai, dopo aver atteso un minuto buono in silenzio.
“Cerco le parole.”
“Oh, che palle..”, biascicai, cercando di non farmi sentire troppo, nemmeno da lui.
Edoardo alzò lo sguardo su di me, arrabbiato.
“Se vuoi andartene puoi. Non è un problema per me.”, rispose, stizzito.
“Sono curiosa”.
Continuò a guardarmi e mantenni lo sguardo. Per me ormai era un gioco, nonostante dover convincere me stessa fosse più difficile del previsto e mi procurasse non poca sofferenza.
“Rimarrai delusa allora”, sussurrò, abbassando lo sguardo.
“Dai..”, replicai, guardandomi attorno. Da quell’angolino si vedeva davvero poco, ma gli altri avrebbero sicuramente notato presto la nostra assenza.
“Ok, ok.”
Mi guardò ancora per qualche istante in silenzio, poi non ce la feci più.
“Okay dai, vuoi sentirti dire che hai vinto? Hai vinto!”, esclamai a voce fin troppo alta per la posizione in cui mi trovavo.
“Che stai dicendo?”, mi rispose, visibilmente confuso.
“Sto dicendo che hai vinto questa partita. Non sono più in grado di andare negli angoli con te e far finta di giocare Edo! Non sono come te.. non mi comporto come te con le ragazze”, pian piano tutto il coraggio che avevo avuto inizialmente mi lasciò e iniziai a biascicare le parole l’una dopo l’altra, sempre più incerta. Mi stavo nuovamente esponendo al suo scherno, stavo nuovamente mettendo a nudo i miei sentimenti. Perché li avevo, quei dannati sentimenti, dentro di me.
“Non ho vinto proprio un bel niente”, sussurrò lui, quasi dispiaciuto.
Lo lasciai continuare, rimanendo in silenzio. Passò ancora qualche istante prima che lui rialzasse lo sguardo verso di me.
“Era un gioco all’inizio. Io facevo il coglione, tu ridevi, ti divertivi.”, abbassò lo sguardo sulle mie labbra, per poi portarlo ancora più giù, sul mio corpo, sulle sue mani aggrovigliate l’una nell’altra.
“Hai quel modo di fare del cazzo che mi piace. Non ti aspetti nulla.”, farfugliò, alzando poi nuovamente lo sguardo. Sorrideva, stava dicendo qualcosa di carino e sorrideva, pensavo di stare immaginando tutto, una specie di sogno-incubo, come quello che avevo fatto qualche tempo prima e invece no, lui era lì di fronte a me.
"Non mi vuoi cambiare, è questo che mi piace..”, stava dicendo troppe volte ‘mi piace’, eppure non appariva melenso, sdolcinato o da fidanzatini da glicemia alta. Era serio, era sexy. Non sarebbe cambiato, lo stava dicendo lì, nonostante le parole apparentemente dolci, eppure c’era una parte di lui dove il cambiamento era già in atto.
Non mi chiesi se quelle parole le avesse studiate, se le avesse dette già a qualcun altro oppure se fossero davvero sentite, mi limitai ad avvicinare il mio corpo al suo, lasciando che ogni mio centimetro di pelle nuda aderisse al suo e lo baciai dolcemente.
Non pretese di più, non lo prese con la forza, si limitò a ricambiare il bacio. Quando mi allontanai, sorrideva, fiero.
“Dì a Guglielmo di non rompere le palle.. e di starti lontano”, farfugliò, uscendo da quell’angolino nascosto.
Mi lasciai scappare un sorriso, rinchiusa in quello spazio angusto in cui potevo sentire ancora la scia del suo profumo.

***

“Ro, come stai oggi?”, la voce di Azzurra era melensa e troppo accondiscendente per i miei gusti. Ero rientrata in classe e l’avevo trovata tutta coccole e moine al capezzale di Aurora che, dal canto suo, aveva già accantonato la storia della sera prima.
“Sto bene”, rispose, disorientata, la ragazza, guardando Azzurra come se fosse un alieno. Non era abituata a quelle attenzioni, soprattutto da parte sua.
Non erano mai state grandi amiche e questo, oltre alla sfida malcelata lanciatami la sera prima da Zu, non faceva altro che farmi venire dubbi atroci sulle intenzioni della biondina. Era sempre stata una ragazza particolare, sopra le righe, eppure non avevo mai creduto possibile che fosse capace di manovrare così le situazioni a suo piacimento.
“Dov’eri?”, mi scoccò un’occhiataccia, rimproverandomi tacitamente di non essere accanto ad Aurora, che tutto sembrava fuorché dispiaciuta o scossa.
“Posso stare un attimo con Ro da sola?”, esclamai in direzione di Azzurra, che stizzita si limitò ad allontanare la sedia e ad alzarsi per poi andare vicino a Filippo.
“Come stai?”, domandai ad Aurora, una volta sole.
“Benissimo Perla! Sai, ieri poi alla fine ho conosciuto un ragazzo. Ha visto la scena e si è preoccupato, io volevo tornare a casa e mi ci ha portato lui alla fine. Siamo stati a parlare per il resto della serata, si chiama Matteo. Oddio dovresti vederlo, è carinissimo!”, sembrava tutta eccitata per la nuova conoscenza e sapevo che era sincera. Se Aurora sapeva fare bene qualcosa, era sicuramente infatuarsi con una velocità sorprendente. Edoardo era già sparito, evaporato dalla sua mente. Tirai un sospiro di sollievo, sorridendole in silenzio. Iniziò a raccontarmi di quel Matteo, poi nella mia mente affiorò un pensiero buio: la regola dell’ex.
 



-notepocoserie-
Questo capitolo, come al solito negli ultimi tempi, è arrivato in ritardo, e non sono nemmeno troppo convinta della mia capacità di averlo reso al meglio. Credo sia un po' confuso e forse succedono troppe cose insieme e in poco tempo, perciò voglio chiarire. 
Sono passati 14 capitoli, ed è normale che il rapporto tra Perla e Edo si è evoluto, non sono più i due che non si sopportavano a inizio storia, credo di aver creato un percorso per loro e di non aver saltato troppo le tappe, e con questo capitolo spero di aver inteso meglio ciò che sono.. nulla di concreto. Sono più o meno su una nuvoletta a parte, dove il mondo si ferma ogni volta che ci sono loro. Però sappiamo benissimo che Perla è in un certo senso combattuta, perchè Edoardo non è decisamente la persona che lei vorrebbe che fosse. 
Oddio non so spero di aver fatto capire meglio in questo capitolo che anche la frase "stiamo insieme" di Edo non sia proprio uno stare insieme come fidanzatini, lui è sempre il solito stronzo e lo dimostrerà, non temete xD 
Come vi avevo già detto non saranno una coppia felice lungo i corridoi della scuola ahah xD 
Per quanto riguarda Guglielmo, stranissimo in sto capitolo. C'è stato per poco tempo e poco ha fatto, ma è stato interessante. Subentra un nuovo lato del suo carattere, ha una sorta di bipolarismo lieve. Ma lieve lieve eh xD 
Azzurra è la solita bitch, ma la amiamo xD 

Bene, la os su Pippo è in stesura, compresa di colonna sonora. 
Per ultimo vi linko i vari gruppi. 
IN SOME DREAMING STATE : gruppo corale condiviso con le mie amate roomates aka butterphil, sist e renegade. 
STRANGENESS & WRONGNESS : un piccolo gruppo che mi sono finalmente decisa ad aprire, tutto mio, in cui potete trovare pensieri un po' più profondi sulla storia e sulla mia vita, colonne sonore varie o spezzoni in anteprima dei capitoli (: Spero di avervi invogliato a richiedere di entrarvi. Vorrei una piccola tana in cui parlare con voi, che siate poche o tante nn mi importa, preferisco poca gente che interagisce piuttosto che tanta che nemmeno sa ciò che scrivo. Mi piace creare una sorta di connessione con chi legge ♥ 
Bene, vi abbandono, è stato un piacere, anche questa volta. 
Sonia. 

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Capitolo 16
*** 15 - LUI TI FA FELICE? ***


15 – LUI TI FA FELICE?

   

 


Does he make you happy?
I’d like to see you happy.
 
 
Come ero riuscita a farci pace in così poco tempo, proprio non me lo sapevo spiegare.
Non capivo quale strano potere avesse su di me, era in grado di farmi capitolare senza che nemmeno me ne rendessi perfettamente conto.
La sera prima avrei giurato di non volerlo più vedere e il giorno dopo erano bastate due frasi per farmi sciogliere come melassa.
Stavo perdendo il senno, per colpa di quel ragazzo.
Mi avviai velocemente verso l’uscita di scuola e me lo trovai affianco, insieme a qualche altro ragazzo poco distante da me.
Gli sorrisi silenziosamente e mi voltai nuovamente a guardare la strada.
Dopo pochi passi sentii le loro voci sempre più vicine e un suo braccio mi cinse un fianco, facendomi sobbalzare.
“Devo andare a casa”, farfugliai, cercando di sciogliere la presa.
“Anche io”, ammiccò lui, stringendomi maggiormente. Sapeva essere più ostinato di un mulo.
“Ehi Edo, ma la ragazza di ieri sera? Quella biondina tutta tette?”, abbassai lo sguardo, continuando a camminare fingendo indifferenza. Era stato uno dei suoi amici a parlare e io non ero a conoscenza di quella famosa biondina.
Lui fece un sorriso sornione ed estrasse il cellulare, cercando qualcosa tra i suoi file. Quando lo tese agli amici, quelli se ne uscirono con frasi di apprezzamento e grugniti. Io mi sfilai senza farmi notare dall’abbraccio di Edo e cominciai a camminare a passo veloce.
Addirittura la foto aveva, nel telefono. Capivo tutto, ma il senso di tenere una foto di una ragazza sul cellulare non lo comprendevo, e mi feriva. Cavolo se mi feriva!
Lo sentii quando mi infilò nuovamente il braccio dietro la schiena, ma mi scostai prontamente, evitando ogni contatto.
“Vai a far vedere la biondona solo tette ai tuoi amici!”, sputai, senza nemmeno guardarlo.
Sorrideva, riuscivo a percepire il suo sorriso anche senza il bisogno di constatare se lo stesse realmente facendo, e infatti se ne uscì con una stupida battuta delle sue, una di quelle che sicuramente la situazione non l’avrebbero migliorata.
“Beh, dovrò pur sopperire alla mancanza delle tue!”, rise di gusto, per poi tornare a cercare di tenermi lì, vicino a lui.
Provai più di una volta a sgusciare via, speravo che il pullman arrivasse presto per darmi la possibilità di prenderlo al volo, per non dover discutere, non doverlo guardare in faccia.
Ero infuriata, ma consapevole del fatto che se lo avessi guardato negli occhi per un solo istante avrei dimenticato tutto. La cosa non mi rendeva per nulla felice.
“Senti.. ascoltami..”, cercò di afferrarmi per un braccio, continuando a rincorrermi in quel lento inseguimento, “tengo la foto come copertura.”
Se era una scusa, era piuttosto originale.
“Sei una spia?”, chiesi, fingendo stupore. Avevo però fatto l’errore di girarmi e guardarlo.
“No, tonta.”, mi posizionò una mano sulla nuca, come quando aveva intenzione di baciarmi e aveva quella fottuta paura che lo rifiutassi all’ultimo momento, e quindi mi teneva la testa ferma per non scappare, per accettare quel bacio.
“Perché se non vuoi che si sappia, io sono pur sempre Edoardo”, aveva ragione e la cosa mi infastidiva.
“Non devi per forza tenere una foto nel telefono”, mugugnai. Cercavo di non pensare al fatto che potesse non essere l’unica, che potesse avere altre foto di chissà chi dentro quel marchingegno tutto schermo.
“Sì, invece. Non con tutti bastano le parole”, si limitò a rispondere, guardando avanti. Dopo averlo guardato una volta, non ero più riuscita a smettere, continuavo a replicare guardando prima i suoi occhi, poi il naso, poi la bocca e anche il mento. Come poteva ipnotizzarmi il suo mento?
“Oh senti. Cancellala”, conclusi, staccandomi dalla sua presa all’improvviso.
“Già fatto.”
Quello di cui non si rendeva conto era che non era la foto in sè ad essere così importante, quanto il fatto che lui avesse dei rapporti con questa ragazza, che potesse in un certo senso avere rapporti con chiunque, perché io ero lì, ma lo sapevo solo io.
Sentii la solita mano insinuarsi lungo il mio fianco e punzecchiarmelo, e non potei fare a meno di ridere per il solletico procuratomi.
Sarei andata all’inferno con lui, lo sapevo.

***

Entrammo nello stesso pullman come tutti gli altri giorni, nascosti tra gli ultimi posti, lontani dal resto del mondo. Quello era l'unico momento in cui potevamo sembrare una semplice coppia felice; sembravamo tutto tranne che Perla ed Edoardo, la perfettina e il buffone, la migliore amica di e il migliore amico di qualcuno. In quel momento eravamo corpi senza volto e senza nome per chiunque, liberi di baciarsi davanti a qualcuno senza avere il terrore di scatenare un putiferio. 
Quel tragitto di 10 minuti era la cosa che più aspettavo durante la giornata, nonostante non mi piacesse ammetterlo, nemmeno a me stessa. 
"Allontanati", biascicai, staccandomi a forza da un suo abbraccio. 
"Potrebbero vederti, nasconditi!", aggiunsi poi ridendo, girandogli la tendina del finestrino del pullman intorno alla testa. 
Lui si divincolò dal groviglio e mi guardò, gli occhi fiammeggianti di rabbia, poi mi prese per i fianchi e mi fece quasi volare, portandomi di peso sulle sue gambe, mentre con le mani mi faceva il solletico. 
"Smettila", pronunciai a stento tra una risata e l'altra. 
"Ti prego smettila!", aggiunsi poi, senza più respiro. 
Lui si fermò, portando le mani in posti illeciti, e io lo fulminai con lo sguardo, spostandogliele dai miei seni. 
"Non avevi mica detto che non ne ho?" domandai, fingendomi arrabbiata. 
"Mi accontento di poco!", esclamò, cercando di ritornare con le mani sul soggetto della discussione. 
Io gliele spostai, intrecciandole alle mie, e gli stampai un bacio sulla guancia.
Mi guardò come se avessi fatto il più grande errore del mondo e mi fissò, in un gioco di occhi-labbra senza fine. 
Poi si abbassò su di me e mi dimenticai del resto. 
"Scendi alla mia fermata?", non era la prima volta che rimaneva un po' con me sulla panchina di fronte alla fermata vicino casa mia. Lì potevamo stare un po' tranquilli, magari parlare.
"Oggi no", sembrava sinceramente dispiaciuto, ma non potei fare a meno di rimanere delusa.
Ogni volta che sentivo un rifiuto da parte sua, che fosse stato per un pezzo di pizza che non gli andava di mangiare o di un appuntamento a cui non poteva venire, sentivo come se qualcosa si stesse incrinando. 
Ero consapevole che il tutto era ancora molto precario, che il rapporto non era definito e che probabilmente per lui era ancora tutto un gioco molto divertente. Però, nonostante ci provassi in continuazione, io non riuscivo a non entrarci con la testa e il cuore in quella storia. Se storia si poteva chiamare. 
In realtà non era nulla, non aveva una collocazione nella denominazione di queste cose. Non era una storia, non era un'amicizia e non potevamo chiamarci nemmeno con quel termine veramente poco raffinato che si usava ultimamente tra i miei coetanei: amici di letto. 
Lo guardai triste e mi lasciò un bacio leggero sulle labbra. 
"Forse è arrivato il momento di avere un vero appuntamento", mi stupì, allontanando il suo volto dal mio. 
Lo guardai per cinque minuti buoni, in silenzio, con gli occhi spalancati per la sorpresa.
“Cosa?”
“Intendo uscire, vedere la luce del sole”, sorrise. Quel solito sorriso che mi smontava anche senza volerlo.
"Non è divertente" lo spintonai, tornando a sedermi sul sedile accanto al suo. 
"Facciamo domani?", insistette, con una naturalezza disarmante. 
"E dove vorresti andare?", sbottai. Nel frattempo ci alzammo per avvicinarci alle porte, la mia fermata sarebbe stata quella successiva. 
"Questo speravo lo sapessi tu", sorrise ancora lui, lasciandomi un bacio sulle labbra prima che le porte del pullman si aprissero e saltassi fuori. Lo guardai attraverso i vetri, il pullman di nuovo in movimento ed Edoardo mi sorrise di nuovo. Quel sorriso! 

***

“Domani pomeriggio non sono a casa”, farfugliai qualche ora dopo, a cena, sbocconcellando del pane in attesa del pasto vero e proprio.
“E perché me lo stai dicendo?”, chiese piccata mia madre, in una nuvoletta di vapore.
“Perché non te lo posso dire? Ti tengo aggiornata”, replicai, giocherellando con un pezzettino di pane.
“Di solito non me lo dici, quindi non comprendo come mai tutto questo istinto da brava figlia”, esclamò, mescolando il sugo per la pasta, “non giocare con il pane”, aggiunse poco dopo, lanciandomi un’occhiata di traverso.
Potevo fare e dire qualsiasi cosa all’esterno di quella casa, essere la Perla determinata o aggressiva, essere una ragazza adorabile o cattiva, ma quando mettevo piede in casa, la musica cambiava. Diventavo quella bimba diligente e taciturna che ero sempre stata, e tornavo piccolina, per quelle poche ore.
“Te lo dico perché non voglio che ti preoccupi.. e anche nel caso mi succedesse qualcosa”, biascicai, col pezzetto di pane -con cui avevo smesso di giocherellare- in bocca.
Lei si voltò, il cucchiaio di legno nella mano appoggiata al fianco, e mi guardò con un sorriso sulle labbra.
“Smettila”, farfugliò, sorridendo, e tornò ad osservare i suoi amati fornelli.
Le volevo bene. Come si può non voler bene alla propria mamma? Credo sia una connessione che si ha con lei, sarà colpa del cordone ombelicale. Fatto sta che la mamma la si ama sempre, nonostante le cucchiaiate sul sedere quando ti comporti male o gli occhi gonfi di pianto per qualcosa che non ti ha concesso di fare. Alla mamma si vuole sempre bene.
Mi dispiaceva essere poco presente, dopotutto. Avevo la mia vita, le mie amicizie e le mie ‘cose importanti’ da fare, ero cresciuta e con il tempo avevo lasciato che il tempo da passare con lei diventasse sempre meno.
Inizialmente durante la settimana mi ritagliavo dei momenti per stare con lei. Quella pianificazione era durata più o meno quattro o cinque mesi, dopodiché avevo sistematicamente alternato altre cose alla sua presenza, sentendo i suoi “va bene” o “non c’è problema” come un via libera per fare ciò che volevo. C’era sempre tempo per stare con la mamma. Quello di cui non mi rendevo conto era che di tempo ce n’era stato, forse, ma me lo ero lasciato scappare, decidendo di fare altro in quel tempo, e lei aveva accettato i miei riinvi, i miei cambi di programma, aspettando che trovassi tempo per lei, senza farmi pesare nulla.
Nonostante il mio comportamento non fosse stato dei migliori, ogni volta che tornavo a casa lei aveva un sorriso, un bacio e un abbraccio solo per me. Mi avrebbe ascoltato se avessi deciso di dirle qualcosa, nonostante io avessi rifiutato e rimandato tante volte di ascoltarla.
Forse è anche per questo che si vuole sempre bene alla mamma, è il piccolo porto sicuro che ti fa capire che lei ci sarà sempre, nonostante tutto.
La guardai lì, tra i fornelli e le ondate di vapore fuoriuscenti dalla pasta in cottura e sorrisi, mangiucchiando quel pane che lei stessa aveva comprato quella mattina, su quella tavola che lei aveva apparecchiato con tanto amore qualche minuto prima. Ogni cosa era grazie a lei.
“Beh, non mi vuoi dire dove vai?”, mi riscosse dai miei pensieri.
“Importa poi così tanto, mà?”, rimase in silenzio, a rimestare e a condire, era evidentemente in attesa che continuassi, dicendole per filo e per segno cosa avrei fatto il pomeriggio successivo. Come dirle che non lo sapevo ancora nemmeno io?
“In realtà non so ancora dove si va. Ma restiamo nei paraggi”, farfugliai, abbassando lo sguardo sui ricami della tovaglia di cotone color ecru.
“Ma c’è anche Guglielmo? Di lui mi fido.”, domandò. Continuava a tenere il busto fermo e a rotare il collo, per guardarmi con la coda dell’occhio. Non poteva di certo rischiare di bruciare il condimento della pasta.
“Non so se viene”, risposi, vaga.
“Ma non uscite più spesso?”, rimbeccò, spostandosi per andare a pesare una quantità spropositata di zucchero.
“Che ci devi fare con quello? Comunque no, cioè sì.. usciamo. Però lui è un po’ strano ultimamente.”, risposi, cercando di non lasciar trasparire la tristezza. Le nostre giornate in biblioteca erano evaporate, dimenticate, relegate in un angolo della mente e del cuore. Dopotutto però, non le avevo detto una completa bugia riguardo a Guglielmo, era effettivamente un po’ strano negli ultimi giorni.
“Andavate anche in biblioteca insieme mi pare, no?”, continuò lei, ignorando completamente la mia domanda iniziale e continuando a pesare ingredienti vari.
“Sì.”, risposi secca. Pensai di alzarmi e andarmi a sdraiare sul divano, per poter evitare quella conversazione, ma quando pensavo che avrebbe replicato, lei smise di parlare, aggirandosi per la cucina, indaffarata.
“Ma non vorrai mica fare una torta adesso”.

***

And I’ll admit that I ruined your life.
 
Il mattino dopo, a scuola, incrociai gli occhi di Guglielmo per un paio di volte, e lui per tutte le volte pensò bene di evitare di trattenere per troppo tempo il suo sguardo su di me, nemmeno fossi Medusa.
I miei sospetti sulla sua possibile bipolarità riaffiorarono definitivamente quando all’intervallo, alzandomi per raggiungere il suo banco, lui mi guardò come se avessi fatto quel passo di troppo che aveva rovinato tutto, andandosene in silenzio.
Aspettai, per tutto il tempo aspettai che arrivasse lì, accanto al mio banco, aspettai che mi sorridesse, che girasse la testa e mi guardasse, aspettai anche un suo cenno della mano, un minimo movimento. Aspettai invano.
Il tempo passò lentamente, come se non volesse farmi scappare da quella gabbia quale era la classe in quel momento. Nemmeno parlare con Edoardo riusciva a distogliere attenzione e pensieri dall’idea che Guglielmo era di nuovo scontroso. L’idillio di qualche giorno prima era già finito? Così, dalla notte al giorno, aveva deciso che non valeva, di nuovo, più la pena di parlarmi?
Intorno alla quarta ora mi affiorò in testa un’idea e non mi lasciò più per il resto delle lezioni, nonostante cercassi di applicarmi in matematica e anche in letteratura.
“Mi accompagni a casa?”, esclamai al suono della campana di fine lezioni, spuntandogli alle spalle.
Guglielmo fece quasi un balzo per lo spavento, poi mi guardò per qualche istante in silenzio e si rimise a guardare il suo cappotto, storto sotto al peso dello zaino. Lo aggirai, portandomi di fronte a lui e gli posai le mani sulle sue, fermandolo e iniziando ad aiutarlo. Rimase in silenzio, lasciando che le mie mani scivolassero sul suo giubbotto e armeggiassero con le spalle dello zaino. Quando ebbi finito alzai il volto e lo trovai a guardarmi con un espressione strana sul volto.
Evidentemente non sapeva se dirmi grazie o se continuare con la sua facciata da ‘perenne arrabbiato’.
Propense per il grazie, perché glielo sentii farfugliare prima di passarmi accanto e andarsene, con un sorriso appena accennato sulle labbra.
“Non hai risposto”, lo rimbeccai io, raggiungendolo e tenendo il passo per stargli affianco.
“Non lo so”, si limitò a scrollare le spalle, continuando a guardare di fronte a sè, in vista delle scale.
“Su, non ti far pregare”, sorrisi e gli afferrai un braccio costringendolo a prendermi a braccetto.
“Ok”, farfugliò ancora. Poi rimase in silenzio.
Non avevo pensato troppo alle conseguenze dei miei gesti e pochi istanti dopo sentii dei passi dietro di noi, poi scorsi lo zaino grigio di Edoardo affiancato da quello bordeaux di Filippo, intenti entrambi a parlottare tra di loro. Ci superarono senza notarci troppo, poi vidi il corpo di Edo sussultare come se si fosse dimenticato di qualcosa di fondamentale e lo guardai voltarsi e guardarci, prima me, poi Guglielmo.
“Ciao ragazzi”, esclamò, guardando Guglielmo e poi me. Mi fulminò con lo sguardo, cercando di non far notare a tutti il suo stato d’animo, poi scomparve dietro l’angolo.
 


-notepocoserie-
Quante sono, 1485456 settimane che non aggiorno? Sapete quanto mi dispiaccia, ma l'ispirazione va e viene e non posso farci davvero nulla ç__ç 
Bene, in questo capitolo, nonostante sia più piccolo, ho messo un bel po' di cose, e per la gioia della mia sistah, queste note saranno un po' pienotte xD
Partiamo dalle quotes: la prima è un po' modificata ma è un pezzo della canzone "she's 22" di Norah Jones, dal suo ultimo cd che io amo (anche se io amo praticamente ogni sua song quindi non conta xD). Ho modificato un HE anzichè un SHE xD
la seconda quotes è della canzone degli Example - "Lying to yourself". C'è veramente poco da dire, è bellissima. E queste canzoni avranno tutte un senso più avanti, se non lo trovate ora. Come anche il titolo. 
Medusa, citata nell'ultimo paragrafo, è naturalmente la figura mitologica di donna con capelli di serpente e lo sguardo che ti trasforma in pietra. YEAH. 
Il pezzo con la madre di Perla è per creare un po' l'atmosfera xD Spero vi sia piaciuto u.U
E anche un po' per la festa della mamma, in ritardo xD
Okay, non so pià cosa dire. Vi dico che ho già scritto una pagina del nuovo capitolo, ma come sapete l'ispirazione potrebbe abbandonarmi da un momento all'altro quindi non vi prometto nulla xD 
VI lascio con il link al gruppo FACEBOOK personale in cui mi piacerebbe vedervi belle belle ♥ STRANGENESS & WRONGNESS
E anche il circolo di scrittrici in cui ci siamo un po' tutte ☻ IN SOME DREAMING STATE

Ultimissima cosa, ho iniziato un nuovo progetto, un po' più impegnativo e un po' più interessante magari :) Spero ci facciate un saltino e mi piacerebbe leggere un vostro parere. STRANGENESS & CHARM

Cosa manca? Nulla, credo xD 
Ah, il banner bello bello sotto alle gif lo ha fatto la mia amata Bea ♥ Grazie mille tesoro *O*


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Capitolo 17
*** 16 - PERCHÈ SEI TU IL MIO PIU' DOLCE AGGLOMERATO DI RISORSE DELLA MENTE ***


16 - PERCHÈ SEI TU IL MIO PIU' DOLCE AGGLOMERATO DI RISORSE DELLA MENTE

   

 

"Ti auguro di essere follemente amata"
E' il solo auspicio che ogni uomo dovrebbe formulare per ogni donna, la sola promessa da fare loro quando sono bambine.
(L’amore nuovo – Philippe Forest)
 
Sentii la scia che aveva lasciato il suo profumo aleggiare nell’aria, invisibile, e ricordai il nostro appuntamento.
Era colpa di Guglielmo, del suo modo di frantumarmi il cervello fino a farlo gocciolare via senza consistenza alcuna.
Avevo dimenticato la luce, avevo dimenticato il sole.
Intendo uscire, vedere la luce del sole.
Presi il telefono velocemente, staccandomi un po’ da Guglielmo, e composi il messaggio ad una velocità innaturale.
Sperai che lo leggesse in tempo, sperai che lo capisse e che mi ascoltasse, anche senza il viso a dargli la prova che ciò che gli avevo scritto fosse sincero.
Rimisi in borsa il telefono e mi riavvinghiai a Guglielmo, un po’ meno convinta e contenta di prima di quella apparente riappacificazione.
Restammo in silenzio, come al solito. Questa volta però, il silenzio sembrava presente tra di noi, in mezzo alle nostre teste, aleggiante come un presentimento, come un destino incombente.
Evitai di guardarlo, preferendo torcermi le mani giunte. 
Entrando nel pullman lui incrociò un suo amico con cui si fermò a parlareper qualche istante. Nell'attesa io mi allontanai, cercando un posto lontano dal fondo dell'autobus. Ripensai ancora al messaggio e sperai lo avesse letto, ma non feci in tempo a controllare il display del telefono che Guglielmo mi si sedette accanto, silenzioso. 
Attesi qualche minuto, dopotutto non volevo essere io la prima a iniziare un discorso, avevo già fatto il grande gesto chiedendogli di portarmi a casa. Gli stavo dando la possibilità di parlare liberamente, di dirmi cosa realmente gli passasse per la testa senza interruzioni di sorta. 
Eppure lui non sembrava aver recepito, o forse semplicemente non desiderava chiarire un bel niente. Magari per lui andava tutto bene così com'era. 
Mi voltai girando il busto verso di lui, che non si mosse di un centimetro se non per l' ondeggiamento perenne del mezzo. 
"Non dici niente?", sbottai esasperata dopo un po'. Lui si voltò, il viso estremamente tranquillo, e mi guardò. 
"Cosa dovrei dire?", domandò con una strana ingenuità. 
"Non lo so", sospirai, abbassando lo sguardo sulle mie mani. 
"Credevo volessi stare un po' con me, parlare. Evidentemente mi sbagliavo.", sussurrai, tenendo gli occhi bassi. 
"Abbiamo già fatto questo discorso", sbuffò lui, guardando dritto di fronte a sè. 
"Non lo abbiamo affrontato, proprio per niente. Tu ti sei limitato a dire cose a caso, tutto qui. Spiegami, fammi capire dove sbaglio."
"Tu non sbagli", sembrava tranquillo, impassibile, eppure riuscivo a percepire lo sforzo immane che stava compiendo per rimanere calmo. 
"Pare di sì invece, ti faccio incazzare."
"Ci sono momenti in cui è semplice dimenticare, guardarti normalmente. Come fino a cinque secondi fa, stavo bene. Ma ora? Mi fa arrabbiare il fatto che cerchi un motivo quando non c'è. Sono fatto così, vado a momenti, e se non ti va bene non so che dirti. Mi piace parlare con te, stare con te.. non mi fraintendere, ma mi irrita."
Eravamo arrivati alla mia fermata e a quelle parole pensai bene di alzarmi e di sorpassarlo, portandomi davanti alle porte scorrevoli. 
"Io voglio capire cosa ti irrita in quei momenti, quelli in cui non riesci a guardarmi, quelli in cui non puoi fare a meno di rispondermi a grugniti o monosillabi. Io ti voglio bene Gu, ma non posso resistere a lungo."
Non era stata una discussione, un litigio, ma scendendo dal pullman senza di lui sentii come una parte di me rimanere lì, seduta su quel seggiolino arancione accanto al suo. 
Con lui non era possibile litigare, anche se in quel momento credevo fermamente che l'unico modo per risolvere tutto fosse gridare, insultarsi. Tutto poi sarebbe andato a posto da solo. 
Ero consapevole che per lui sarei stata disposta anche a cambiare atteggiamento, a cambiare carattere se fosse stato necessario, e questo lui lo sapeva in ogni istante, in ogni gesto che mi arrischiavo a fare verso di lui. Lo sapeva nel saluto la mattina, nello sguardo tra una lezione e l'altra, nella battuta buttata lì giusto per sentirlo o vederlo sorridere. Non avrei voluto perderlo per nulla al mondo, probabilmente sapeva anche questo.  
Guardai il pullman e il suo viso sfilare davanti a me, immobile sul bordo del marciapiede, ma quando sparì dietro l’angolo e vidi apparire l’altro, mi riscossi cercando di attraversare la strada.
Guglielmo era importante, mi scombussolava e sapeva come farmi capitolare, ma avevo fatto una promessa a una persona e l’avrei mantenuta.

***

Camminavo da cinque minuti buoni davanti al cancello dell’entrata di scuola, passi convulsi avanti e indietro, avanti e indietro. Speravo che avesse letto il messaggio, che avesse capito che la situazione era particolare, però una parte di me temeva che lo avesse ignorato, che avesse frapposto l’orgoglio alla voglia di stare con me.
Torno subito, aspettami qui.
Lo avevo scritto velocemente, mentre salivo sul pullman con Guglielmo, Edo sarebbe dovuto rimanere lì, ad aspettarmi. Sarei tornata e lui lo sapeva. Eppure in giro non si vedeva. Mi guardai attorno e l’unica cosa che scorgevo era il vuoto, il muoversi ritmico dei rami degli alberi al contatto con l’aria e le macchine posteggiate lungo il marciapiede, dei colori più disparati.
Poi lo vidi, camminare con lo sguardo basso al lato della strada, lo zaino ancora in spalla e le mani nelle tasche del jeans stretto.
Era imbronciato e sapevo che sarebbe stata dura farmi perdonare, ma a vederlo in quel modo, rigido e pensieroso, non potei fare a meno di sorridere, per quello che era e per quello che eravamo diventati senza nemmeno rendercene conto.
Mi avviai verso di lui, non volevo che qualcuno ci vedesse, che qualcuno ci sentisse, così lo raggiunsi e lo spinsi all’interno di una stradina laterale, poco trafficata.
“Ciao”, sospirai sorridendo, tenevo con le mani un lembo del suo giubbotto e lo tenevo fermo, vicino a me. Lui non aveva nemmeno sfilato le mani dalle tasche dei jeans. Partivamo male.
Mugugnò un saluto, con lo sguardo ancora basso.
“Oh, non fare così”, farfugliai, lasciandogli andare il giubbotto e permettendogli libero movimento. Lui si allontanò repentinamente, fermandosi a pochi passi da me.
Lo guardai in faccia, ferma con le mani lungo i fianchi, e rimasi in attesa. Voleva parlare, aveva le parole che spingevano contro le mascelle per uscire, eppure rimaneva lì fermo, immobile, impassibile.
“Parla”, sospirai, abbassando lo sguardo sulle mie mani.
“Non ne vale la pena”, quella frase fu peggio di uno schiaffo in pieno viso, non valeva la pena parlare, discutere, lottare per me?
Rimasi ferm, e questa volta fu lui a chiedermi di parlare.
“Di cosa? Hai detto che non ne vale la pena, no?”, cos’era, un gioco? Ancora? Voleva vedere la mia reazione di fronte a un suo rifiuto? Alzai lo sguardo, incrociando i suoi occhi e lui si mosse, prendendomi una mano e intrecciandola con la sua.
L’aveva fatto altre volte, e tutte le volte con un’intensità insolita; sembrava che per lui fosse una cosa importante, una cosa oltremodo intima e privata. L’aveva fatto a scuola, mentre eravamo seduti ad ascoltare una lezione, lui aveva girato il corpo e allungato la sua mano sotto al mio banco, cercando e afferrando la mia. Era rimasto così, tutte le volte, nascosto dal resto della classe, dagli sguardi.
Era un suo modo per dirmi che gli dispiaceva, quindi rimasi ferma, con la mano nella sua, senza stringere maggiormente la presa nè allentandola in alcun modo, semplicemente immobile ad ascoltare il suo respiro e i movimenti della sua mano.
Poi alzò gli occhi su di me, e gli sorrisi.
Aveva uno sguardo quasi smarrito, in netto contrasto con quello che gli avevo sempre visto portare addosso da quando lo conoscevo. Era diverso, più intenso, indagatore. Sciolse l’incastro delle nostre mani e mi portò il braccio attorno ad un fianco, avvicinandomi a lui, poi mi baciò, dolcemente, senza andare oltre, senza esagerare.
“Dove andiamo?”, sussurrai sulle sue labbra, aprendo gli occhi e cercando i suoi, così vicini e così intensi.
“Vieni”, fu un sospiro, poi si voltò e mi prese di nuovo per mano.
Era una piccola città, la gente girava e soprattutto parlava tanto, i volti erano sempre gli stessi e le persone si conoscevano tutte. Tutte conoscevano me, il mio viso e le mie buone maniere, vedermi sgattaiolare tra i vicoli isolati con un ragazzo non sarebbe rientrato nei loro canoni di buona creanza.
Eppure lo facemmo, mi lasciai portare ovunque, attaccata a lui solo dalle nostre mani unite. Conosceva la città molto meno di me, eppure riuscì a trovare un posto isolato dove metterci seduti, lontano da sguardi indiscreti e da persone invadenti.
In quel momento potevamo essere solo noi, il parco e il vento tra le foglie.
Era perfetto.
Ci sedemmo su una panchina, l’uno accanto all’altra, in silenzio.
“Cosa stiamo facendo?”, sbottai d’un tratto, voltandomi verso di lui.
“Siamo seduti su una panchina, in pace”, si appoggiò allo schienale, pieno di scritte di ogni genere. Probabilmente qualche altra coppia aveva fatto sosta lì, chissà che fine avevano fatto poi, chissà se quel posto portasse fortuna.
“No dico.. lo sgattaiolare, il nascondersi. Perché non lo diciamo?”, diciamo cosa? Avrei voluto aggiungere. Non sapevo cosa realmente eravamo, in realtà.
“Non diremo nulla”, assunse un'espressione dura, quasi si fosse offeso per l’argomento. Si era irrigidito e aveva incrociato le braccia davanti al petto, lo sguardo fisso di fronte a sè, non più nei miei occhi.
“Perché?”, sussurrai, meno sicura di prima. Era l’ennesimo rifiuto? Si vergognava dell’idea che gli altri si sarebbero potuti fare di noi? Si vergognava di me?
“Non voglio, punto. C’è poco da discutere”, mi rabbuiai, lui mi passò un braccio intorno ai fianchi per cambiare argomento, per andare avanti, ma io mi piantonai sul posto, con lo sguardo basso e l’espressione imbronciata.
“Oh, non fare così!”
“Non fare come? Non penso di essere così male, alla fine. Faccio così schifo da volermi tenere nascosta? Non sei obbligato a stare qui eh”, esclamai, alzando lo sguardo deluso, arrabbiato.
“Ma che cazzo stai dicendo?! Non è per questo motivo che non voglio che si sappia”, rispose, ritraendo il braccio.
“Non me ne frega niente della gente. Non voglio che lo sappiamo gli altri.”
Rimasi in silenzio, imbronciata.
"Ok, ora ti spiego." 
"Oh, vuole fare il discorsone", borbottai, le mani giunte sulle cosce. 
"Non interrompermi però", si lamentò lui prima di voltarsi e cominciare a parlare. 
"Non mi piacciono le persone che mentono, che fanno buon viso a cattivo gioco. Quindi non mi piace mentire, proprio perché va contro i miei principi..", si bloccò un attimo per guardarmi il viso.
Cercai di rimanere impassibile, trattenendo il riso, "sì perché li ho dei principi, Perla, per quanto possa sembrarti strano. Proprio per quei principi non voglio dire niente di noi", si interruppe per riprendere fiato, rimasi in silenzio. 
"Credi mi faccia piacere mentire a Guglielmo? E ad Azzurra? Cavolo no! Sono i miei migliori amici.
Soprattutto Guglielmo, so quanto teneva a te, quanto ha sofferto.. e quanto ancora soffre." sospirò. 
Guglielmo era una presenza costante, una nuvoletta nera sulle nostre teste. Era il senso di colpa, probabilmente. 
"Non hai idea di come sto, quando mi parla di te, quando mi dice e ripete che non può rivolgerti la parola senza che gli si presenti in mente quell'unico bacio. Io non so cosa fare, capisci? Vorrei tirargli un pugno e abbracciarlo al tempo stesso. Vorrei dirgli che non ne vale la pena, che tu non vali tutto quello che sta passando, ma non posso."
Trattenni il fiato. Era un'altra parte del suo carattere, una delle tante, che scoprivo di volta in volta, come quei giochi russi, le matrioske, in cui quando apri una bambolina ne trovi un'altra all'interno, e poi un'altra ancora.
Riusciva a scuotermi, mentre cambiava così tanto e faceva discorsi seri, di un romanticismo mal celato. 
Ricominciò a parlare, notando il mio silenzio. 
"Credi che non mi piacerebbe uscire con te, portarti a prendere un semplice gelato in un posto che non sia rigorosamente fuori dal mondo e senza quell'inquietudine perenne che ci fa stare sul chi va la, per la paura che qualcuno ci veda? Non posso portarti nemmeno al cinema, Cristo Santo!", si era agitato, e continuava a sfregarsi freneticamente le mani sul tessuto dei jeans. 
"Ma se lo facessimo, se dicessimo questa fottuta verità, cosa pensi che ne ricaveremmo? Chi sarebbe felice? Guglielmo? No. Ancora, gli altri, sarebbero contenti di noi? Del nostro comportamento?" "Saremmo felici io e te..", mi azzardai a rispondere in un sussurro. 
"Lo credi davvero, Perla? Noi non siamo fatti per fare la coppietta da glicemia alta. Noi siamo fatti per questo" indicò i nostri corpi, l'uno affianco all'altro, "Finiremmo per odiarci, dandoci la colpa a vicenda, e non durerebbe", concluse, guardando dritto di fronte a sè. 
Aveva ragione e ammetterlo a me stessa era difficile quasi quanto la situazione in cui ci trovavamo. 
Perché lui voleva che durasse, voleva portarmi in giro e farsi vedere con me, e la cosa, nonostante tutte le tacite prove che mi aveva dato, continuava a sconvolgermi. Era tutto sempre così diverso da come me lo sarei aspettato, non c'era mai niente di scontato o prevedibile. Le sue parole, le sue azioni finivano sempre per farmi credere che non fosse come lo avevo disegnato nella mia testa tempo prima, ma meglio. 
Mi lanciai istintivamente su di lui, baciandolo con foga, con bisogno. Non conoscevo nessuna risposta alle domande che mi affollavano la mente, sarebbe durata? Cosa avremmo fatto?, ma in quel momento non importava, voleva stare con me. Solo quello contava.
Continuando a baciarmi cercò la mia mano, per poi appoggiarla lentamente sulla cerniera dei suoi jeans.
Era una nuova, tacita e infame sfida, l'ennesimo gioco a cui non sarei riuscita a resistere. 
Mi staccai dalle sue labbra e distolsi lo sguardo, posandolo sulle mie mani intente ad armeggiare con la fibbia della cintura. Sapevano diventare delle casseforti nei momenti meno opportuni, quelle maledette! 
Quando giunsi all'elastico dei suoi slip mi misi a giocherellarci con le dita, poi cercai di non guardarlo negli occhi alzando lo sguardo, imbarazzata. 
Lui, con un sorrisetto, mi costrinse a guardarlo con la forza, prendendomi il mento tra le dita.  Quando la mano finalmente andò oltre all'elastico bianco lui si avvicinò al mio viso e ricominciò a baciarmi.  Mi sentivo inesperta, goffa e piuttosto stupida a rimanere in quella posizione un po' strana e piuttosto scomoda. Non avrei mai ammesso davanti a lui di non aver mai fatto 'cose simili', ma ebbi il costante terrore che lui capisse, che non fossi poi così brava e che non fosse così semplice come dicevano nei film.
Quando il polso cominciò a dare i primi segni di cedimento sentii un sospiro un po' più marcato della sua bocca sulla mia, poi lo sentii staccare le labbra.
"Fermati", sussurrò. 
Mi lasciai scappare un "Oh" prima di sfilare lentamente la mano dai suoi slip.
Abbassai nuovamente lo sguardo, imbarazzata forse più di prima, e lui rimase qualche istante fermo.  "Sei brava, ragazzina", esclamò pochi istanti dopo, e riuscii a sentire il sorriso sulle sue labbra anche senza vederlo.
Era tutto così strano. Non credevo fosse così.. banale. Era stata una cosa prettamente fisica, che non aveva comportato alcun coinvolgimento emotivo, nessuna emozione amplificata, nessun piacere esagerato. Lo guardai allacciarsi nuovamente la cintura dei pantaloni e mi sentii un po' delusa, dalla situazione, dalle aspettative che mi ero creata. 
Avevo sempre sentito che anche i preliminari aiutavano a provare piacere, per entrambi. Eppure non era stato così, almeno non per me.
Aurora mi aveva detto qualcosa qualche tempo prima, riguardo il piacere, di come fosse semplice e naturale, e anche del bisogno di avere con sè dei fazzoletti. Non che fosse tutto amore e passione, c’era anche parecchia schifezza in ciò che mi aveva raccontato, eppure non era stato per niente come credevo.
Avevo delle aspettative, dannazione! E lui era lì, con un braccio dietro la mia schiena, a fissarmi come se si aspettasse ancora qualcosa.
"Che c'è?", sbottai, infastidita.
"Non posso guardarti? Sei bella", rispose lui, con una scrollata di spalle. 
"No, ok? Non puoi guardarmi", incrociai le braccia contro il petto, imbronciata. 
Mi piaceva litigare con lui, mi lusingava il fatto che lui facesse l'esatto opposto di quello che gli dicevo di fare. Gridavo 'vattene!' e lui si avvicinava, lo pregavo di non toccarmi e lui cominciava ad accarezzarmi ovunque, gli ordinavo di non parlarmi e lui cominciava a proferire una sequela di frasi, a volte senza un senso logico. 
Gli avevo detto che non avrebbe potuto guardarmi e invece era lì, seduto a fissarmi con insistenza, il solito sorrisetto malizioso stampato sul viso. 
"La smetti?", sbottai nuovamente dopo qualche secondo di silenzio, cercando di spostarmi per poterlo evitare, per poter guardare altrove. 
Lui agì velocemente, come al solito. Non feci in tempo a spostarmi che mi prese per i fianchi e mi issò sopra di lui, come una bambina dopo che ha fatto i capricci. 
Cercai di rimanere composta, con lo sguardo alto e l'espressione arrabbiata. Poi lui cominciò a sfiorarmi i fianchi, facendomi il solletico, e non potei fare a meno di ridere, di sciogliere le braccia incrociate davanti al petto per fermarlo. 
Lui approfittò del momento per fermarmi le mani con le sue e mi costrinse a baciarlo, così persi presto le difese che mi ero creata per mantenere viva la mia arrabbiatura. 
Non avevo mai capito veramente cosa facessero nei film nei preliminari. Lui era bravo perché aveva avuto parecchie ragazze ed io pensai che fosse finita lì, che lo scopo fosse dare piacere a lui e continuare a vivere felici e contente, ma solo mentre i suoi baci si facevano più insistenti e la sua mano accennava a spostarsi verso i miei shorts che capii che non era finito tutto li.  Ero veramente un'ignorante in quel campo, perciò lo lasciai fare, provando brividi lungo la schiena ad ogni suo movimento verso la piccola cintura dei miei pantaloncini. 
"Ma tu proprio così ti dovevi vestire?", farfugliò dandomi un pizzicotto sulla pancia e indicando le collant che avevo indossato quella mattina. 
Alzai le spalle e rimasi in attesa. Lui giocherellò per qualche istante, imitandomi, con l'elastico delle mie mutandine e poi ricominciò a baciarmi. 
Tutto quello a cui avevo potuto pensare, a cui pensavo in quel momento e che avrei pensato poi fu stravolto da ciò che provai. 
In confronto io dovevo essergli sembrata proprio una novellina, poiché lui si muoveva con una destrezza inaspettata. 
O meglio, proprio inaspettata non era, con tutte le ragazze con cui doveva aver fatto pratica. 
"Ti piace?", lo sentii sospirare tra un bacio e l'altro. 
Notai, con un certo fastidio, che provava piacere anche mentre lo dava a me, il piacere. Gli posai una mano sugli occhi, imbarazzata dal suo sguardo sul mio viso, a scrutarne ogni emozione.  Non gli avrei dato l'opportunità di pavoneggiarsi per la sua maestria, così cercai di trattenere ogni minima espressione scambiabile per piacere. 
Quando raggiunsi l'apice sentii la mia bocca emettere inevitabilmente un sospirò profondo, e riconobbi il sorriso sulle sue labbra attraverso le mie dita sul suo volto, che erano cadute sulla bocca, anziché rimanere sugli occhi.
Sfilò la mano procurandomi involontariamente un'ultima ondata di piacere. 
"Hai un fazzoletto?", chiese, quasi imbarazzato. 
Ecco a cosa servivano quei benedetti fazzoletti! 
Silenziosa infilai una mano nella borsa e sfilai il pacchetto di fazzoletti che avevo preso a casa.  Era tutto così poco poetico, così goffo e impacciato. Eppure per me significava molto più di una scena epica da film, per me era la cosa più romantica e passionale del mondo.  Lo guardai, improvvisamente coraggiosa nonostante il cocente imbarazzo e lui mi ricambiò sorridendo. 
"Ehi", sussurrò, gettando il fazzoletto poco lontano da dove ci trovavamo. 
"Ehi", risposi di rimando, giocherellando con la cerniera del suo bomber. 
"Ti è piaciuto?"
"Ancora con questa domanda? Non ti rispondo, tanto.", sbottai, distogliendo lo sguardo, imbarazzata.
Lo sentii ridere di gusto, così mi voltai di scattò e lo baciai, per poi staccarmi e sussurrargli tra le labbra.
"E a te?", era stata una presa di coraggio non indifferente. La povera, piccola e inesperta Perla che chiedeva se gli fosse piaciuto.
"Ti devo rispondere?", non staccò le labbra dalle mie, rimase lì, a parlarmi sulla bocca. 
Ripensai, arrossendo, a qualche istante prima, eppure ricordavo chiaramente che Aurora mi aveva raccontato che i fazzoletti servisse a lui, non a me. Cosa potevo aver sbagliato? 
"Sì", replicai in un sussurro, abbassando lo sguardo. 
"Che c'è?", aveva subito notato che qualcosa non andava. 
"Niente.. niente. E' solo una cosa stupida che mi ha detto Aurora."
"Cosa?", rideva per quel mio imbarazzo, evidentemente abituato con un altro genere di ragazze. 
"I fazzoletti non servivano a me, in teoria.", risposi dopo qualche istante, in un sospiro. 
Lo sentii cercare di trattenere a stento una risata, poi mi prese il viso, come poco prima, tra le mani e mi costrinse nuovamente a guardarlo. 
"Ti ho evitato un fastidio.", biascicò tra le risa. 
"Come?" "Sì. Mi sono.. trattenuto. Non è poi così piacevole, per noi."
Sospirai, rilassando il corpo.
“Perla, sembri una bambina alle prime armi..”, sorrise lui, riportandomi a sedere di fianco al suo corpo, sulla panchina. Restai in silenzio, le mani giunte e il corpo fermo, incurvato per l’imbarazzo.
“Perla, non sei una novellina, vero?”, cosa c’era di male, ad esserlo? Lo guardai, spaurita, e sorrisi.
“Ma che dici, io faccio sempre la bambina”, biascicai, toccandogli il petto con la mano.
“Dimmi la verità.”
“Ha importanza? Se anche fossi una novellina, cosa cambierebbe?”, serrò le mascelle, rimanendo con lo sguardo fisso su di me.
Spostai gli occhi sulla sua mano, stretta attorno ad un tubo dello schienale della panchina, bianca per la pressione esercitata.
Era arrabbiato? Lo guardai perplessa, poi sentii l’altra mano passarmi dietro la nuca, tra i capelli, e la sua bocca aderire alla mia, con insistenza.
“Mi piacerebbe.. ancora di più..”, sussurrò staccandosi a fatica dalle mie labbra, “se possibile”. Mi strinse forte contro il suo viso, come a non voler lasciarmi andare, a voler imprimere quel momento nelle nostre menti, nei nostri ricordi.
Erano piccoli momenti importanti, essenziali. Non avremmo avuto un momento del genere per chissà quanto tempo, costretti a scambiarci baci leggeri e rubati, in qualche anfratto lontano da occhi indagatori.


-notepocoserie-
*scappa e si nasconde sotto a un cuscino* Vi avverto, mi si è già cancellato tutto una volta e se mi si cancella ancora non vedrete mai ne il capitolo ne queste benedette note. 
Partiamo dall'inizio LOL allora, questa volta vi esorto, vi prego e vi scongiuro di lasciarmi un vostro pensiero. 
no sapevo bene se pubblicare o no questo capitolo, non lo sapevo perchè non so cosa vi aspettavate voi dalla storia, quindi magari non volevate leggere queste sconcerie. Però poi ho pensato che tutto sommato non sono così sconce, ed è una cosa naturale, quindi boh, spero vi sia piaciuto e non vi abbia infastidito. 
Il tutto è piuttosto goffo e stupidotto, prendetelo così perchè non ci sarà mai il pathos o chissà quale prestazione in questa storia lOl 
E' veramente tutto molto molto naturale. 
Allora, continuiamo parlando della citazione iniziale che è bellissima e molto importante in seguito. 
In questo capitolo è successo davvero poco, però credo che quello che è successo sia molto importante per il continuo della storia. 
Parlo soprattutto per quello che è successo tra Edo e Perla. Uno, due, trecento baci si possono dimenticare, ma quando si arriva a cose più intime, quando si da fiducia a una persona, non si torna indietro facilmente. Perla ormai è cotta a puntino, ed Edo è.. beh, è Edo. LOL
Il titolo è tratto da una canzone del cd scorso di Umberto Tozzi, bellissima *O* 
per la gioia della mia sistah le note sono abbastanza lunghe nonostante le abbia dovute riscrivere. 
Vi esorto a lasciarmi un pensierino, una recensioncina, e non perchè amo avere tante recensioni, ma perchè apprezzo ciò che mi scrivete, che sia una cosa bella o brutta, e se non ricevo niente mi demoralizzo e non pubblico (si, è una non così tanto velata minaccia ahah ♥).
I link vari sono il mio gruppetto in cui vi prego di venire perchè voglio conoscervi tutti ♥ strangeness and charm
la mia altra storia, che per ora ha solo il prologo ma che presto avrà un seguito CLICK
e infine il gruppetto unito dove ci siamo un po' tutte e dove si può parlare di tutto ♥ in some dreaming state 

Alla prossima settimana, with love ♥

 

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Capitolo 18
*** 17 - UCCIDI MA NON VUOI MORIRE ***


17 - UCCIDI MA NON VUOI MORIRE

   

Erano passate due settimane dall'ultima volta che io e Guglielmo avevamo avuto una conversazione composta da più di due frasi messe insieme. Due settimane nelle quali mi ero nuovamente fatta in quattro per riportare tutto a una parvenza di normalità, inutilmente. Progressi non ce n'erano stati e quei piccoli passettini che facevamo ogni tanto in avanti non sembravano mai troppo positivi e duraturi. Era un continuo tira e molla immaginario, nel quale io facevo la parte di quella che si beava di quei piccoli momenti che decideva di dedicarmi e che soffriva come un cane quando lo vedevo dirigersi verso Azzurra anzichè verso di me. 
Sì, perchè Azzurra in quella situazione sembrava l'unica ad averci guadagnato qualcosa. La vedevo, ogni tanto, svolazzare al suo capezzale a chiedergli cose che prima non si sarebbe mai nemmeno sognata di domandargli. Non erano uguali e nemmeno simili, se proprio volevamo essere sinceri, quel loro avvicinamento sembrava però infastidire solo me. 
Ed Edoardo, che grugniva ogni volta che, voltandosi con la sedia verso il mio banco di scuola, mi sorprendeva intenta a carpire le loro conversazioni e a leggere il loro labiale. 
La cosa che più mi mandava in bestia era il completo disinteresse di Azzurra, che fino a quel momento si era ritenuta mia amica, nei confronti della mia delicata situazione con Guglielmo. Non aveva accennato nemmeno una volta a buttare una buona parola su di me durante quelle conversazioni che facevano. 
I primi tempi avevo provato a chiederle aiuto, considerandola ancora una amica piuttosto sincera. 
"Credi che sia giusto? Non saresti in questa situazione se non avessi fatto quello che invece hai fatto!", si era limitata a rispondere, mentre davanti allo specchio improvvisato nel bagno delle ragazze era intenta ad aggiustarsi i lunghi boccoli biondi.
"Zu, non fare così. Sai che ero confusa e che lo sono tuttora!", avevo aggiunto io, mettendomi le mani nei capelli. Come poteva la gente non capire che lo avevo fatto per lui? Per non prenderlo in giro? 
"Non mi riferisco al rifiuto. Cristo santo, è il suo migliore amico!", aveva concluso uscendo dal bagno.
Nonostante il fatto che credesse che io ed Edo avessimo una sorta di relazione non ne aveva ancora fatto parola con nessuno, preferendo lanciarmi frecciatine che avremmo capito solo io e lei, ed Edoardo. Aurora, così come Filippo e il resto del gruppo non sospettavano nulla, e nonostante odiassi mentire preferivo così, era già piuttosto difficile mentire in faccia ad Azzurra così sfacciatamente. 
"Ragazzi avvicinatevi", in fondo all'atrio in cui eravamo malamente ammassati, la voce della preside risuonava cristallina. 
"Non fatevelo ripetere!", l'avvertimento tuonò imperioso in ogni angolo dell'immensa sala. Erano le sette e mezza del mattino e anche a volerlo nessuno di noi sarebbe riuscito ad essere più veloce e sveglio a quell'ora. Cercammo comunque di spingerci verso la vecchia signora con lo sguardo arcigno. Una donna oltre i sessantacinque anni, i capelli grigi e una postura tutt'altro che retta.
Quel giorno sembrava particolarmente curata, in un tailleur grigio topo e la chioma raccolta, dalla quale per la prima volta non vedevamo ricadere qualche ciocca ribelle. 
"Ragazzi," cominciò, lasciando scorrere lo sguardo sui volti di ogni alunno. Quella mattina entravamo tutti allo stesso orario e, nonostante fosse una scuola relativamente piccola, quella donna si trovava davanti, in quel momento, più di quattrocento ragazzi, tutti ugualmente annoiati e indifferenti alla situazione. 
"Oggi ci faranno visita i bambini delle elementari, abbiamo quindi deciso di dividervi in gruppi e di suddividere l'intera scuola in aree.", un brusio cominciò ad alzarsi dal gruppo di ragazzi addormentati, teste bionde, more e rosse in un frenetico destra-sinistra infinito. Io rimasi ferma. 
Non era la prima volta che la scuola decideva di tenere quelle piccole festicciole, in cui i bambini più piccoli giocavano e noi, adulti per un giorno, ci occupavamo di tenerli a bada. Ci avrebbero diviso per classi e mi sarei trovata con le ragazze in un angolo di qualche sala, seduta a guardare dei bambini scalmanati. 
"Ora vi divideremo in gruppi di tre classi. Per cortesia, cercate di creare meno confusione possibile.". Avevo già visto Edo, da un lato del corridoio, seduto su un portaombrelli.
L'avevo guardato finchè mi era stato possibile, finchè il corpo di uno di 3°C non mi aveva precluso la vista. Teneva come al solito la sigaretta dietro l'orecchio e parlava con un ragazzo più grande, con una quantità di tatuaggi indefinita. 
Con la confusione avevo perso di vista gran parte dei miei compagni di classe, tranne Aurora, avvinghiata al mio braccio, e Guglielmo, a pochi metri da me, accanto ad Azzurra. 
"3°B, 4°F e 5°D con il professor Cardoli", allungai il collo in cerca del professore e, stringendo il braccio di Aurora, la trascinai con me attraverso la folla. 
Una cinquantina di alunni un po' più svegli di poco prima si trovava ora al primo piano, nella sala con la madonnina di ceramica. 
"Cercate di non romperla, ragazzi", esclamò amichevolmente il professore.
"Oddio siamo con il 5°", sentii distintamente la voce di Azzurra, a pochi passi da me, ora stranamente lontana da Guglielmo. 
"Son del nostro stesso piano, è normale che siano con noi", sospirai, Azzurra scovava le ovvietà con estrema audacia. 
"Ma come.. non ti sei accorta che non hanno mai fatto in questo modo i gruppi?" 
"Probabilmente è solo un modo per non parlare a quattrocento persone insieme", risposi secca, distogliendo lo sguardo. 
"Beh io spero che mi mettano in gruppo con lui".
Un metro e ottanta, capelli castani abbastanza lunghi da poterci passare le dita attraverso e un sorriso che avrebbe steso anche una suora. Il signor Emiliano Petrucci, indicato dall'ossuto indice di Azzurra, era appoggiato in modo apparentemente comodo al muro. Un modello nel tempo libero, a scuola era amato dalle ragazze e detestato dalla maggior parte dei ragazzi per la sua capacità di elargire sorrisi mozzafiato a tutte, senza interessarsi realmente a nessuna. Il tipico bello e irraggiungibile, insomma. E grande oltretutto; punto sicuramente a suo favore. 
"È così bello", sospirò Aurora con sguardo trasognato.
“Smettetela di sognare, saremo sicuramente divisi per classi”, biascicai, guardando distrattamente il profilo del ragazzo. Detestavo doverlo ammettere, ma era davvero un bel ragazzo.
“È stato con una sola ragazza di questa scuola!”, sembrava una continua sfida per Azzurra, quella storia. Il fatto che non si fosse passato tutte le ragazze che gli rivolgevano lo sguardo la lasciava esterrefatta, evidentemente.
“Noi non avremmo speranza”
“Oddio, smettila Ro, ti prego!”, esclamai. Piangere dietro a un ragazzo, anche se molto bello, non era di certo gratificante, “io non credo che non avresti possibilità”.
“Non sono di certo io quella a cui sta sorridendo ora”, mi voltai, notando lo sguardo del ragazzo puntato su di me.
“Sorride sempre a tutte, lo hai detto poco fa”, sussurrai, abbassando lo sguardo.
Ci mancava solo Emiliano Petrucci.
“Scommettiamo che riesco a conquistarlo?”, propose d’un tratto Azzurra, una mano appoggiata al fianco e l’espressione convinta sul volto.
Se riesci a portartelo a letto, insomma.
“Zu, sei fidanzata”
“Tu non ci riusciresti.. a portartelo a letto.”, ignorò bellamente le mie parole, continuando a guardarlo e a sorridergli.
“Non ho intenzione di scommettere su un ragazzo”, replicai, stizzita.
“Perché? Tu a differenza mia sei single, no?”
Mi si gelò il sangue nelle vene, il suo sguardo era gelido, privo di emozioni. Mi guardava, e ogni centimetro della mia pelle si sentiva scrutato, studiato, giudicato.
“Infatti. Ma non è il mio tipo”
“Smettila. Scommettiamo.”, concluse Azzurra, facendosi poi largo tra i ragazzi per raggiungere Guglielmo. L’ennesimo smacco.
"Ragazzi fate silenzio per cortesia.", il professore si schiarì la voce, aspettando che tutti smettessero di farfugliarsi frasi a vicenda, poi riprese a parlare: "Bene, ora che posso parlare vi spiego la situazione. Nella giornata di oggi si terranno i giochi invernali del circolo "Seguici", a cui abbiamo aderito a inizio anno. I giochi di oggi vi verranno spiegati quando avremo formato i gruppi, per ora mi limiterò a informarvi riguardo l'organizzazione dell'evento. 
La preside e il consiglio degli insegnanti sono stati d'accordo nel confermare che questa giornata è per voi una sorta di prova. Avrete l'opportunità e il dovere, per la prima volta, di conoscere e confrontarvi con compagni di scuola all'infuori della vostra cerchia di amici abituali. Verrete divisi in gruppi di cinque tra ragazzi e ragazze scelti a sorte dalle varie classi, e passerete l'intera giornata insieme.", concluse il discorso, fin troppo lungo anche per lui, nel caos generale.
Ragazzi ad ogni lato della stanza sbraitavano, sbuffavano e esclamavano frasi di disappunto, dispiaciuti di doversi staccare dai propri amici e annoiati dalla giornata prospettata. 
Il professor Cardoli, nonostante la confusione, cominciò a declamare i nomi dei ragazzi e a suddividerli in vari gruppi. Io, rassegnata, attesi che sopraggiungesse il mio nome e mi defilai, portandomi dietro i miei quattro nuovi amici. 
Dafne, la nostra compagnia di classe più strana, sembrava aver avuto una buona sorte per una volt, poiché, nonostante i piagnucolii di Azzurra e Aurora, non c'era stato modo di spostarla da quel gruppo, in cui svettava, arruffata e bruna, la chioma del bel Emiliano. 
A me era capitato l'amico, niente a che vedere con lui naturalmente. Capelli biondi e pelle chiarissima, lentiggini ovunque e lo sguardo sempre basso. Scoprii pochi minuti più tardi che si chiamava Niccolò.
"Voi sarete destinati al canestro della palestra grande", esclamò il professore rivolto verso di noi, poi si avvicinò, distribuendo bigliettini da appendere al collo a tutti quanti.  "Questi serviranno per riconoscervi tra i bambini, portateli al collo per favore", lo raggomitolai e me lo infilai in tasca.  "Bene, andiamo in palestra allora", farfugliai, seguita dal resto del piccolo gruppo e lasciando lì i miei amici, ed Edoardo.

***

Uno, due, tre.. due. 
"Due canestri per..?"
"Martina", la voce squillante e inacidita della bambina che mi trovavo di fronte mi diede un'ulteriore conferma del perché non mi piacessero quelle feste. 
Oltretutto aveva fatto solo due canestri su dieci, una media piuttosto scarsa.  Giunti in palestra il gruppetto già scarno era stato ulteriormente sezionato, e mi ero rotrovata davanti ad un canestro con affianco un ragazzino rachitico che dimostrava la metà dei miei anni benchè ne avesse di più, Niccolò. 
Ci avevano detto che sarebbero arrivati gruppi di dieci, undici bambini dai sei ai dieci anni, e che noi avremmo dovuto segnare il loro gruppo di appartenenza e la somma dei canestri che riuscivano a compiere. Una cosa piuttosto noiosa e antipatica, data l'acidità inaudita di quei bambini.  Poco dopo l'inizio dei giochi, con mia grande sorpresa, vidi entrare dalle porte anti-incendio il gruppo in cui era stato inserito Edoardo e arrossii quando, voltandosi verso di me, mi fece l'occhiolino. 
Lo seguii con lo sguardo posizionarsi con un ragazzo di quarto al secondo canestro della palestra e continuai a guardarlo di sfuggita anche dopo. 
Mi affascinava il modo in cui trattava i bambini, sembrava portato per accudirli, e non mostrava segni di noia, impazienza, rabbia. Cosa che invece gli altri, me compresa, facevano.
"Perla?"
"Perla!" "Cosa?" "Ma ci vedi? Segna tre canestri a Carlotta!", Niccolò mi sorprese incantata a guardare dal lato opposto della palestra.
"Si li stavo segnando.", mi affrettai a scrivere un tre sul taccuino improvvisato e sorrisi a Niccolò, che ricominciò a contare canestri. 
"Tu sei della C, vero?", esclamò d'un tratto, abbassando lo sguardo dal canestro al mio viso e costringendomi a distoglierlo per l'ennesima volta da Edoardo. 
"Sì, perchè?"
"Sei famosa dalle mie parti", rimasi interdetta, non volendo realmente conoscere il motivo per cui ero conosciuta tra quelli dell'ultimo anno, ma lo vidi abbassare lo sguardo quasi imbarazzato per aver detto qualcosa di troppo e decisi di assecondarlo, nonostante secondo i miei canoni una ragazza famosa sicuramente non lo era per la sua condotta. Ma io non avevo nulla di cui preoccuparmi.  "Perché son famosa?", sorrisi, cercando di apparire una volta tanto socievole. 
Mi guardò per qualche istante, quasi per soppesare le parole giuste da usare. 
"Sei diversa..", cominciò, quasi più impacciato di prima. Tirai un sospiro di sollievo, almeno nessuno aveva fatto circolare voci sbagliate su di me. 
"Diciamo che sei strana", anche quello era vero, "Emiliano pensa che tu sia più matura delle ragazze della tua età. Anche come ti vesti, il fatto che non pensi solo al prossimo ragazzo da conquistare, oppure il fatto che non indossi delle ballerine ma delle Dr. Martens. Tutto questo.. ti rende diversa, speciale. E poi Stefano non riesce a capire come mai non ci hai ancora provato nè con lui nè con Emiliano. Sei una specie di aliena."
Mi piaceva ciò che aveva detto, mi piaceva esser diversa, distinguermi dal resto della gente senza esagerare, seguendo un mio stile personale. Non risposi, ma gli sorrisi, annuendo leggermente. 
"Credevamo fossi almeno antipatica, o speravamo te la tirassi. Ma oggi dovrò annunciare che sei anche simpatica", era riuscito ad aprirsi e ne fui felice. 
“A me piace il fatto che conosci le Dr. Martens. È un punto a tuo favore”, sorrisi, facendogli l’occhiolino.
"Come fai a sorridere a questi bambini lo sai solo tu", aggiunse poco dopo, sorridendo. 
Io che sorridevo ai bambini?  

***

"La smetti di parlare con quel moccioso?", sentii la sua voce attaccata all'orecchio, prima che mi prendesse per un braccio e mi trascinasse al piano di sotto, dove le classi erano deserte. 
"Che fai? Devo andare a portare i risultati nell'atrio", farfugliai senza fiato, mi stava letteralmente trascinando ad una velocità inaudita.
"Anche io, ma c'è tempo!"
"Dove mi porti?", ero ormai costretta a seguirlo, e non cercai neanche di opporre resistenza.
"Ma di che moccioso parli? Sai siamo circondati oggi", raggiungemmo una classe non troppo lontana dalle scale e ci infilammo all'interno, guardinghi. 
"Quel biondino con cui parli", sorrise sulle mie labbra prima di darmi un buffetto. 
"Sei geloso?", lo stuzzicai, picchiettandogli un dito sul petto. 
"Non essere sciocca", rispose, continuando a baciarmi subito dopo. Sì, era geloso, e me lo dimostrava ogni suo bacio, ogni suo morso leggero sulle labbra, me lo dimostrava la mano che lentamente si insinuava nella mia e la stringeva, portandosela sul petto, all'altezza del cuore e stringendo quel tutt'uno in mezzo a noi, ad unirci in un cuore solo, in un corpo solo, in una danza sinuosa e proibita. 
Sentii la mano libera scendere lungo l'orlo dei miei jeans e alzarmi la maglietta, facendomi un lieve solletico all'altezza dei fianchi
"No", biascicai più volte nei baci prolungati che si concedeva. Aveva voglia di me, ma il tempo non c'era e la situazione non era delle migliori. Sentii le sue dita raggiungere l'addome e intervenni, spostandogliele con la mano libera, prima che la situazione degenerasse. 
"Non ora", sussurrai staccandomi dalle sue labbra.
"E quando?", a volte sembrava un bambino viziato, incapace di ricevere un no come risposta.
"Ci vediamo dopo scuola?"
"Sì", sospirò, poi sciolse le mani, ancora intrecciate tra di noi, e si allontanò. 
Il rischio, era quello che ci eccitava. Era solo quello? Non sapevo dirlo, ma sicuramente il segreto, correre il pericolo che ci scoprissero, rubare momenti e baci. Era quello che ci spingeva a continuare a volerci. 
Probabilmente come coppietta saremmo durati poco. 
Lo guardai uscire dalla classe con disinvoltura e per un attimo mi assalì un dubbio atroce. E se non fossi stata l'unica ragazza 'segreta'? Mi aveva detto che stava insieme a me, ma non avevamo mai approfondito il discorso. 
Conoscendo la mia gelosia probabilmente se avesse avuto qualcuno oltre a me avrebbe fatto in modo di tenerlo segreto. Come faceva con me tutto il tempo, insomma. 
Mi guardai la mano, che fino a pochi istanti prima era stata un tutt'uno con la sua, una continuazione del suo corpo. Quel genere di cose non si fanno con chiunque. 
Uscii dalla classe con i fogli dei risultati stretti al petto, unici testimoni. 
Era così sbagliato quello che eravamo? Soprattutto, se avessimo parlato avrebbero capito? Poi il viso di Guglielmo mi si materializzò nella mente, seguito dalla regola degli ex di Aurora e alle parole di Azzurra.
No, non avrebbero capito.

***

"Ma dov'eri finita?", la voce di Niccolò era più chiara e alta da quando avevamo preso più confidenza, e mi stupivo sempre di quanto la gente potesse cambiare una volta superato l'imbarazzo iniziale. 
"Mi accompagni a portare i fogli? Una mia amica mi ha placcato in corridoio", mi affrettai a inventarmi una scusa, condendola col migliore dei miei sorrisi.
“Certo”, mi guardò preoccupato, come se sapesse che io e le bugie non andavamo di pari passo.
Strano Perla, stai diventando così esperta di bugie.
Mi avvicinai giusto quanto bastava per prendere il suo braccio e passarlo attorno al mio e, prima di uscire dalle porte anti-incendio della palestra, rivolsi uno sguardo al canestro opposto al mio. A lui.
Era lì, fermo a fissarmi, mentre una palla da basket gli ruzzolava davanti, senza che facesse il minimo cenno per raccoglierla. Gli sorrisi e mi rigirai, tornando a parlare con quel ragazzo impacciato.
“Ma chi è Stefano?”, domandai d’un tratto. Lo aveva menzionato poco prima, durante il discorso che era riuscito a mettere insieme, superando la timidezza, ma proprio non riuscivo a dare un volto a quel nome.
“Com.. cosa? Tu sei davvero strana. Aspetta, aspetta, che te lo presento”, strinse un po’ più forte la presa al mio braccio, quasi a voler dimostrare a questo Stefano che non era poi quel ragazzo timido e impacciato che tutti credevano che fosse, e mi condusse, attraverso i corridoi, alla palestra più piccola, quella di ‘riserva’. Anche lì gruppi di bambini di tutte le età giocavano a lanciare palle da basket al canestro, a prendere il più velocemente possibile una coda di puzzola finta e a fare i giochi più strani.
Mi fece un sorriso e mi tirò per il braccio, portandomi davanti a un baldacchino con dei pezzetti di legno sopra. Ero intenta a capire il senso di quel giochino quando sentii la sua voce, flebile e insicura.
“Ste”, alzai lo sguardo su un ragazzo alto, snello e prestante.
Ero davvero strana, per non averlo mai notato.
Niente a che vedere con Emiliano, e nemmeno con Niccolò, avvinghiato al mio braccio, possessivo. Aveva i capelli castani, come l’amico, ma aveva quel qualcosa che ti faceva desiderare di stargli un po’ più vicino, di sentirlo parlare, di ascoltare quello che aveva da dire. Sembrava proprio un ragazzo che aveva qualcosa da dire, che aveva vissuto esperienze importanti.
Udì a malapena il richiamo di Niccolò, ma alzò lo sguardo, credendo probabilmente che fosse qualche bambino.
“Nichy..”, biascicò. La voce calda e bassa.
“Si, ecco.. lei.. lei è Perla”, balbettò Niccolò, spingendomi in avanti.
Sorrisi a quel viso disteso e consapevole del proprio sex-appeal, e tesi la mano.
“Piacere Perla.”, mi strinse la mano, grande il doppio della mia.
“Tu sei..”, avevo dimenticato il nome. Diventai paonazza, e vidi il suo volto farsi meno convinto mentre lo pronunciava.
“Stefano, piacere.”, sembrava avesse perso interesse nei miei confronti. Potevo aver scalfito la sua autostima con due semplici parole?
“Ah sì, scusami, dimentico sempre tutto”,cercai di giustificarmi, posandogli una mano sul braccio e sorridendo timidamente.
“Capita”, aveva riacquistato parte di quell’orgoglio che avevo crepato qualche istante prima e rimase in silenzio, fissandomi insistentemente.
“Beh, noi dobbiamo andare”
“Di già?”
“Sì, dobbiamo consegnare i fogli dei risultati”
“Non sprecate tempo, abbiamo vinto sicuramente noi”, sorrise, sarcastico.
“Con questo?”, indicai il baldacchino davanti a noi.
“Esattamente. Un gioco studiato nei minimi dettagli.”, sospirò sorridendo.
Presi nuovamente sotto braccio Niccolò che, dal canto suo, ricevette un’occhiataccia dall'amico, e poi ci incamminammo verso la sala principale, per consegnare quei fogli.

***

“Voli alto eh?”, la voce di Azzurra raggiunse le mie orecchie mentre infilavo i fogli dei risultati nella cassetta di cartone appositamente creata per l’occasione.
“Cosa intendi?”
“Stai prendendo sul serio questa storia della scommessa”
“Non l’ho presa nemmeno in considerazione”, replicai, stizzita.
“Ma come, prima un amico, poi l’altro. Ti stai dando da fare.”, gli occhi erano costantemente puntati sul mio volto, a valutarne ogni minima espressione, ogni guizzo di rabbia, la minima bugia.
“Non ho bisogno dei suoi amici per arrivare a lui.”, risposi. Se proprio voleva giocare, lo avrei fatto anche io.
“Sei così sicura di vincere?”
Mi avvicinai lentamente, cercando di apparire convinta. Stavo bluffando, ma che importava?
“Forse non hai capito una cosa. Se voglio una cosa, me la prendo”.
“Frasi fatte.”, rispose lei, senza scomporsi troppo. Io la sorpassai, cercando di mantenere la calma per sopportare anche l’ultima bugia.
“Tanto sono single, no? Cos’ho da perdere?”
Mi diressi spedita verso Niccolò, rimasto ad un angolo della grande sala, e con lui mi incamminai ai nostri posti in platea, lontano da Azzurra, lontano dalle bugie. Dopo pochi minuti sarebbe iniziato lo spettacolo di premiazione.
 


-notepocoserie-
*schiva pomodori, peperoni marci e chi più ne ha più ne metta* 
Quant'è che non aggiorno? Un' infinità di tempo, mi scuso. Davvero, davvero tanto. Soprattutto per il fatto che sto tornando con un capitolo del genere (dire che mi piace poco, è poco LOL). Ma sapete, un giorno una ragazza che solitamente legge le mie note luuuunghissime mi ha detto: - Le fighe si fanno aspettare!- Dire che l'ho presa in parola è un blando eufemismo ahah
Bene, passiamo alle note serie, quelle che vi piacciono tanto. Capitolo distante dagli altri, spero vi piacciano le new Entry. Stiamo parlando di Niccolò ♥ Amore mio, Stefano ed Emiliano. Cosa ne pensate? Volete vedere i volti? Fatemelo sapere (: 
Perla è un'accalappia uomini, ma non vorrei che sembrasse una Mary Sue, perciò ho spiegato un pochino perchè è così famosa. Non tanto per la sua bellezza, ma soprattutto perchè è imprendibile, non pende dalle labbra dei figaccioni della scuola (ma lei dopotutto ha Edoardo, no? LOL)
Passiamo a Edoardo, vi è piaciuto? A fine note vi metterò un spoiler del prossimo capitolo, giusto per creare un po' di suspance. LOL 
La canzone che da il titolo al capitolo è profetica ed è Ballata per la mia piccola iena degli Afterhours, gruppo belliiiiisssimo chemi ha fatto conoscere la mia Triggolina ♥ Ascoltatela, anche se è un genere un po' particolare da farsi piacere. O lo ami o lo odi, a mio parere (i miei lo odiano, ma va? xD)
Oddio ma non vi piace già da morire Niccolò? Io lo adoro, lo vogliocome pupazzo di peluche. LOL 
Vi spiego le ragioni del mio ritardo, in questo ultimo periodo ho avuto un problemuccio tecnico, poi oltre al capitolo mi sono ritrovata a pensare a pezzi di un progetto che ho in mente ma che voi vedrete solo quando sarà finito e, oltre a tutte queste cose, ho iniziato forse il progetto più importante tra tutti. Ho aperto un blog, finalmente, sulle recensioni dei libri che leggo, sulle anteprime e sui libri che mi piacerebbe leggere. 
Se vi andasse di passare a me farebbe piacerissimo, e potreste inirvi al blog cliccando su "unisciti" nella barra laterale, e se poi commentaste anche con me i vari libri e i vari post, sarei la ragazza più felice del mondo! 
Il link al blog è questo: Epea pteroenta - Parole alate
I know you love me #canzonimodificateacaso. 
Me ne vado, che è tardi e l'Italia è in finaleeeeee ♥ 


*Spoilerspoilerspoilerspoiler*
Erano capaci di dirsi cose orribili, ma non dirsi addio.

*Spoilerspoilerspoilerspoiler*

byee ♥ 

Gruppo di Facebook: Strangeness & Wrongness - pleinelune corner
(susu, venite a trovarmi ♥)

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Capitolo 19
*** 18 - IL LINGUAGGIO DELLE DONNE ***


18 – IL LINGUAGGIO DELLE DONNE.

    

La festa era finita più tardi del previsto e, assieme ai bambini sfiniti per i giochi e le urla, era svanita anche la possibilità che io ed Edoardo potessimo vederci dopo scuola, al solito parchetto isolato. 
La mattina dopo, il risveglio era stato traumatico. Quello che il giorno prima sembrava solo essere tanto noioso si era trasformato, durante la notte, in un eccesso di acido lattico all'altezza di cosce e polpacci. Facevo fatica ad alzarmi dal letto, figurarsi arrivare a scuola a piedi. 
Mi passò per la mente l'idea di rimanere a casa, accoccolata al caldo delle lenzuola. L'idea planò sopra la mia testa e si affrettò a cambiare rotta, diretta verso la testa di qualcun altro. Edoardo, come potevo vederlo, rimanendo a casa? 
Il pensiero, nonostante la familiarità che aveva preso la mia testa con quel nome, mi fece rabbrividire. 
Era davvero così importante? Tanto da sopportare il dolore e andare a scuola comunque? 
Probabilmente sì. 
Mi alzai a fatica, prendendo i primi vestiti che mi capitarono sotto mano e andando a chiudermi in bagno, uscendone poco dopo con dei vestiti diversi e l'espressione vagamente addolcita da un po' di trucco. 
Presi velocemente la borsa e, uscendo, raccolsi velocemente l'ipod. 
Per strada tutto sembrava così tranquillo che mi venne il dubbio di essermi svegliata troppo presto.
Nonostante le gambe doloranti accellerai il passo, concedendomi la possibilità di prendere il pullman prima, quello meno affollato, quello con i posti a sedere. 
Entrai, salutando il conducende con un gesto della mano e vidi alcuni miei conmpagni di classe uniti al grupetto di un'altra classe, intenti a confabulare. Il gruppo dei secchioni, come avrebbe detto Edoardo. 
Accesi l'ipod e lasciai che la melodia mi entrasse nelle orecchie, negli occhi chiusi, nella testa appoggiata allo schienale rosso, di plastica.
Dopo neanche dieci minuti intravidi la sagoma della scuola in lontananza, così, presa da una forma strana di masochismo, scesi alla fermata precedente, ignorando il dolore alle gambe e camminando per qualche minuto immersa nella città, nella vita dell'altra gente e nel freddo di dicembre. Un brivido mi corse lungo la schiena, ma non per il freddo. Presto sarebbero iniziate le vacanze di Natale. 
Edoardo sarebbe andato in montagna come tutti gli anni. 
Ed io cosa avrei fatto per due settimane senza di lui? 
Entrai dal cancello principale con ancora quella sensazione di spaesatezza addosso, ma quando vidi Azzurra vicino a lui, confabulare qualcosa e poi ridacchiare, il senso di spaesatezza ci mise poco a trasformarsi in rabbia, divorante e nera, nera come la pece. 
"Buongiorno", biascicai, avvicinandomi a entrambi, troppo vicini per i miei gusti. Non le bastava Guglielmo? 
"Ciao tesoro, hai sentito dello scherzo che ha fatto Edo a Mattia?", esclamò ilare Azzurra, guardandomi. 
Chi è Mattia? Quale scherzo? 
"No", sorrisi, esortandola silenziosamente a continuare con i dettagli. Evitai con attenzione di incrociare lo sguardo di Edoardo, divertito e fisso su di me. Probabilmente non riusciva nemmeno a immaginare la gravità della situazione, la mia rabbia. Percepivo il suo sorriso spensierato senza il bisogno di guardarlo direttamente. 
"Strano, lo porta avanti da più di una settimana..", cominciò Azzurra, descrivendo poi dettagliatamente il tipo di scherzo. Ma io non sentivo più niente oltre la prima frase. Una settimana, e Azzurra ne era a conoscenza. 
Perchè io no? 
Mentre Azzurra ancora si dilungava nella spigazione dello scherzo mi permisi di alzare lo sguardo su quello di Edoardo, ancora fisso su di me. 
Il sorriso che albergava sulle sue labbra affievolì lentamente e ne rimase così un solo accenno.
Aveva visto i miei occhi, e gli occhi dicono molto più del necessario, a volte. 
Il sorriso si spense completamente, trasformandosi in una smorfia sdegnosa quando, alzando lo sguardo oltre la mia nuca, intravide qualcuno e, voltandomi, riconobbi i visi di Emiliano, Stefano e Niccolò. Sorrisi ai due che conoscevo, manifestando una certa allegria nel vederli, finalmente, come il resto degli alunni di quella scuola. Un gruppo di bei ragazzi. 
Niccolò era l'unico ad apparire diverso, un po' magrolino e intimidito, evidentemente a disagio dagli sguardi rispetto ai suoi due compagni, alti e in cerca dei riflettori. Quando mi vide gli si illuminò il volto e fece per venirmi in contro, ma la campanella suonò proprio in quel momento, frapponendo tra me e il terzetto una massa di alunni assonnati, in movimento come un gregge di pecore diretti tutti verso le rampe di scale. Ci scambiammo velocemente un cenno della mano e alzando il viso salutai anche Stefano, che nonostante l'ora sembrava perso in pensieri intensi. 
Aspettai, voltandomi nuovamente verso Azzurra ed Edoardo, persi nuovamente in una conversazione fitta di risate e pacche sulle spalle, e pochi istanti dopo mi diressi anche io, seguendo la folla, verso le scale. 
"Buongiorno", la voce mi arrivò bassa all'orecchio, ma nonostante la vicinanza e la posizione,
Edoardo non voleva essere romantico, non voleva farmi sperare che lo ripetesse.
"Ciao", biascicai, cercando di mantenermi fredda, impassibile. 
"Come stai oggi?", continuò, sempre rimanendomi accanto, mi guardai velocemente attorno, per accertarmi che una chioma bionda fosse a distanza do sicurezza e alzai poi lo sguardo su di lui. 
"Chiedilo ad Azzurra", sbottai, abbassando frettolosamente, lo sguardo per non dover avere a che fare nuovamente con la sua espressione divertita. 
Rimase in silenzio qualche istante, poi abbassò leggermente la testa alla mia altezza, per non farsi sentire. 
"..da che pulpito". 
Oh, era colpa mia. Non potevo dire nulla che finiva con la colpa dalla mia. 
Mi spinsi leggermente in avanti, notando la presenza di due ragazze della classe di fronte alla mia, e le salutai calorosamente. Non mi voltai nemmeno quando sentii la sua mano sfiorarmi il braccio. Mi limitai ad allontanarlo dalla sua presa, continuando a sorridere alle ragazze.

***

"Senti forse è meglio se la finiamo qui", sbottai. Mi aveva trascinato in bagno con la forza, trattenendomi per un braccio. Il piano era deserto, quindi, se anche avessi urlato, non mi avrebbe sentito nessuno. Questo era sicuramente un punto a mio favore. 
"Finiamo cosa?", mi era sembrato così impassibile nel pronunciare quella frase. Come se non fossimo niente, non lo fossimo mai stati. 
"Appunto, hai ragione. Non so perché mi hai portata qua", perché il coraggio che avevo mentre mi trascinava fino al bagno ora stava affievolendosi sempre più, rendendomi quasi impossibile la pronuncia delle parole? 
"Perchè mi andava di sentirti dire due stronzate". 
"Tu non sei geloso". Non era una domanda, era un dato di fatto, eravamo lì, in quel momento, per la mia gelosia, per i miei modi scorbutici, per la mia reazione nell'averlo visto con Azzurra. 
"Lo sai". Non era una risposta. Era interpretabile in trecento modi diversi. 
Lo sai come sono fatto, 
Lo sai che lo sono, 
Lo sai che non lo sono. 

Non lo è, lo sapevo. Propesi per l'interpretazione migliore, la più coerente. 
"Bene, forse è il caso che vada. Magari Azzurra ti sta cercando e non ti trova", farfugliai, cercando di passargli accanto senza toccarlo. 
"Magari ti sta cercando anche Guglielmo"
"Ne dubito fortemente", sussurrai, fermandomi. 
"È questo il punto, Perla? Il succo della questione è Guglielmo?" Il suo tono di voce era più alto, ma non mi permisi di alzare lo sguardo per constatare se fosse arrabbiato. 
"Oppure il problema sono le tue ossessioni?", finalmente riuscii ad alzare lo sguardo su quegli occhi, scoprendovi il nulla. 
"Sai quello che mi sta facendo Azzurra", biascicai, sconfortata dalla mia assenza completa di quella rabbia che ero riuscita a mantenere fino a qualche istante prima. 
"E tu sai cosa fa a me Guglielmo"
"Niente in confronto ad Azzurra, è una vipera e tu vai da lei a raccontarle le barzellette.".
Perché vai da lei? 
Riuscii a soffocare a stento un singhiozzo, allontanandomi un po' da quel corpo così vicino al mio. 
"Ah sì? Guglielmo è cotto di te e tu gli stai dietro come un agnellino. Accetti tutto quello che fa, tutte le sue risposte del cazzo. Per non parlare delle scommesse con Azzurra. Credi che non sappia della scommessa?", alzò un braccio, portandosi una mano tra i capelli spettinati, e mi sentii uno schifo. 
"Io sono una ragazza single, devo convincerli in qualche modo che tra noi..", , biascicai un po' più convinta di prima. 
"Non devi convincerli di niente", lo sentii sospirare, abbassare nuovamente il braccio lungo al fianco e rimanere fermo. 
"Perché non siamo niente, lo so", quasi singhiozzai, trattenendo a stento una lacrima solitaria.  Era quello il punto, lui non era ciò che io speravo che fosse. Lo stare insieme, i baci, l'intimità erano per lui passaggi così superficiali in una relazione da non essere nemmeno presi in considerazione. 
Quella relazione non era una relazione. 
In un istante sentii il suo corpo aderire al mio, spingendomi con forza verso la parete alle mie spalle. Poi il suo viso si fece così definito, così vicino, da farmi quasi scoppiare a piangere definitivamente. 
"Sei uno stronzo, vai con quella cazzo di Azzurra e non rompere le palle a me". 
Resta, stringimi più forte possibile
"Mmh, mmh", biascicò lui in risposta, "quasi quasi ci faccio un pensierino". 
"La scelta è tua, fa' come vuoi". 
Resta con me, non puoi scegliere lei. 
"Tu cosa vorresti che facessi?", sembrava calmo, appoggiato a me e al muro. 
"Vai da lei, se è questo che vuoi", non andare, rimani con me, "infondo lei è più carina, spigliata". 
Si allontanò, lasciandomi appoggiata al muro freddo, e rimasi lì a guardarlo aggirarsi per il bagno. 
"Mi stai cacciando?", annuii, cercando di restare calma. Doveva leggere tra le righe, capire che non lo stavo cacciando, ma che gli stavo dicendo ciò che voleva sentirsi dire. 
"Mi prendi per il culo, Perla? Prima mi rompi il cazzo con una scenata e poi fai come se niente fosse?", iniziò a colpire lo stipite della porta con il palmo della mano aperta, provocando un rumore sordo.  "Dovresti dimenticarmi, lasciar perdere tutta questa storia.. o quello che è". 
Non mi dimenticare, vieni qui e abbracciami, dimmi che è tutto ok. 
Lasciai cadere le braccia lungo il corpo, e abbassai lo sguardo, aspettando che se ne andasse, che seguisse il mio consiglio. 
"Cos'hai Perla?", sembrava tranquillo, rassegnato. 
"È tutto ok"
Sto morendo. 
Alzai lo sguardo per l'ultima volta sul suo viso, e poi lo guardai voltarsi e lasciare il bagno e me, lì.  Rimasi ferma ancora per un tempo indefinito, poi sentii dei passi riecheggiare all'esterno, nel corridoio, e la voce concitata di qualcuno. 
"Perla, stai bene?", alzando lo sguardo notai l'alta figura del professor Cardoli, ma le sue labbra erano serrate,non era stato lui a parlare. Mi trovai di fianco una chioma dorata e due braccia esili mi cinsero i fianchi. 
"Scusi prof., non mi sentivo bene", biascicai, tirandomi via dall'appoggio della parete, "grazie Niccolò, ce la faccio", sorrisi nella sua direzione per poi tornare a guardare il professore.  Conosceva il motivo, anche se non lo avrebbe mai rivelato per primo, e si limitò a guardarmi con uno sguardo indecifrabile. 
"Stavi male e sei salita quassù. Bella mossa!", disse, prima di mettermi un braccio attorno al corpo per sostenermi. 
"Riesco a camminare", farfugliai convinta. Lui mi guardò, accennando a lasciarmi libera, ma appena lo fece sentii il vuoto, così mi affrettai a riappoggiarmi a Cardoli. 
"Grazie", sussurrai solo a lui, camminando lentamente verso l'ascensore. 
All'interno di questo, mentre attendavamo che i piani ci riportassero alla realtà, cercai di abbozzare un sorriso e mi staccai definitivamente dall'appoggio che rappresentava il professore. Mi tenni in piedi con il passamano dell'abitacolo e, successivamente, con molta forza di volontà, mi trascinai sospirando fino alla mia classe, terrorizzata dalla possibile vista di qualcosa di orrendo e terrificante.

***

"Cosa ti è successo?", Aurora, Filippo e gli altri sembravano sinceramente preoccupati. Edoardo mi guardava, seduto sulla sedia di fronte alla mia. Unico a conoscenza del mio malessere. 
Come poteva aver frainteso, come poteva non aver letto tra le righe, come? 
Era finita. Era finito qualcosa che non era nemmeno iniziato, o che probabilmente era durato anche troppo. 
Così diversi, così perfettamente incompatibili. Due calamite. No, le calamite con poli opposti si sarebbero attratte, non respinte. 
Sarei sicuramente il polo negativo
Abbassai lo sguardo sulle mie dita, impegnate e rigirarsi un braccialetto tra le mani, e sentii la sua voce attraverso tutte le altre. 
"Stai bene?"
"Forse"  No. 
"Vuoi qualcosa?"
"Voglio che stai zitto".
Parlami. Portami via di peso e parlami.
Abbassò gli occhi e si voltò, lasciandomi alle altre voci.

***

Passai il resto delle ore con lo sguardo fisso davanti a me, la schiena contratta di Edoardo come unico riferimento. 
Le campanelle suonavano e io rimasi ferma in ogni istante, anche al suono di inizio ricreazione. 
La giustificazione non era poi una completa bugia. 
"Ho mal di gambe, non riesco a stare in piedi". 
Possibile che quella relazione/non relazione mi potesse sconvolgere in quella maniera?  Vidi entrare, dopo circa cinque minuti di intervallo, il trio della quinta, e riservai un sorriso solo per Niccolò. Era stato lui a trovarmi, oppure no? Era entrato in quel bagno e mi aveva raccolto nonostante fossi quasi più grande di lui. 
Notai l’espressione sul volto di Emiliano, quasi impacciata a dispetto della sua bellezza disarmante.
"Piacere Emiliano", la mano del ragazzo era a metà tra lui e me, così distesi la mia, stringendogliela. 
Bel momento per le presentazioni, pensai, sorridendo. 
"Io sono Perla. Scusami se non sono molto espansiva, ma.."
"So chi sei, e tranquilla, capisco benissimo e non ti voglio espansiva", ricambiò il sorriso, sembrava stranamente a disagio. 
"Come stai ora, Perla?" Scorsi in fondo alla classe, dalla parte opposta alla mia, lo sguardo di Edoardo, e abbassai gli occhi.
"Se vuoi stare tranquilla ce ne andiamo", sussurrò Stefano, rimasto in silenzio fino a quel momento.  "No, sto bene", ripresi a sorridere, guardandoli ad uno ad uno con calma.
Scorsi, all'entrata, la figura di Azzurra stagliarsi timida. La vidi indugiare, indecisa se presentarsi o meno, e nonostante tutto le sorrisi, facendole un veloce cenno con la mano. 
Azzurra poteva essere vendicativa, egoista o stronza, ma rimaneva comunque un'amica di vecchia data, una ragazza che conoscevo meglio delle mie tasche e profondamente sola. 
"Lei è Azzurra", esclamai allargando un braccio nella sua direzione. Il terzetto si voltò all'unisono e le sorrise, quei ragazzi sembravano leggersi nel pensiero a vicenda. 
Lei biascicò un ‘ciao’ e strinse le mani di ognuno. 
Si misero a far conversazione mentre io, seduta, mi limitavo a far finta di ascoltare; ogni tanto scorgevo il viso di Azzurra rivolgersi a me con un sorriso a trentadue denti sul volto. Era una tacita scusa, lo sapevo e me ne beavo. Potevamo litigare, dirci qualsiasi cosa, ma eravamo amiche, ci volevamo bene e saremmo passate sopra a tutto. O almeno speravo.

***

You hold me without touch.
You keep me without chains.
 
You loved me cause I’m fragile.
When I thought that I was strong.
But you touch me for a little while and all my fragile strength is gone.
 
“Dove pensi di andare?”, il braccio di Edoardo mi cinse velocemente i fianchi, costringendomi alla sua vicinanza.
“Che cosa c’è? Cammino anche da sola, sai?”
“Quanto cazzo sei testarda”, sembrava esasperato, frustrato. Un miscuglio informe di sensazioni simili e contrarie.
“Sai benissimo che sto bene”, sussurrai, alludendo al vero motivo per cui ero rimasta da sola li, in quel bagno.
“Beh, non mi interessa”
“Allora staccati, se non ti interessa. Guarda, lì c’è Azzurra”, guardammo entrambi verso la ragazza, con accanto un Guglielmo particolarmente attento alla mia persona. Era rimasto a distanza per tutto il tempo, nonostante glielo leggessi continuamente negli occhi che era preoccupato, che non sapeva cosa fare e che aveva voglia di tenermi su, di aiutarmi.
Edoardo si limitò a spostare lo sguardo verso il mio viso e ad ammiccare, facendomi notare l’evidente.
Guglielmo era lì ed Edoardo, per quanto volesse non ammetterlo, era geloso.
Era geloso fino al midollo, di ogni sguardo, di ogni sorriso, di ogni parola. Era geloso anche del respiro che rivolgevo a Guglielmo e che toglievo a lui.
Abbassai lo sguardo, lasciandomi trasportare dal suo corpo contro il mio, e superammo presto la fermata, dove invece credevo ci saremmo bloccati.
“Dove stiamo andando?”, domandai, alzando il viso verso di lui.
Edoardo rimase in silenzio, lo sguardo fisso di fronte a sè. Camminammo in silenzio ancora per qualche minuto, finché non capii che mi stava portando al solito parchetto isolato.
“Senti Edo non ce n’è bisogno, davvero”
“No, c’è bisogno eccome. Mi sono rotto il cazzo delle frasi non dette e degli sguardi con cui dovrei capire le cose”. Rimasi in silenzio e raggiungemmo presto la solita panchina.
“Perla, mi devi dire che cazzo vuoi. Io non li capisco i tuoi sguardi, non ti leggo in quel fottuto cervello che ti ritrovi. Sai benissimo come sono e quello che faccio.”, mi stava informando di cose che già sapevo.
“Non voglio che cambi per me”, trattenni il fiato, in attesa della sua reazione.
“Io non cambierò per te, cazzo! Quello che non capisci tu è che può essere normale, per una volta. Io faccio il coglione con te.. e ti piaceva all’inizio. Hai quel modo di fare, te l’ho già detto no? Non farmi ripetere cose che sai benissimo non mi va di ripetere”.
Non devi ripetere che sono speciale, che sono diversa dalle altre?, abbassai lo sguardo sulle mie mani intrecciate.
“Edo, io sono la stessa ragazza che non sopportavi a inizio anno”
“Ti sbagli. Ora sei spigliata, sei simpatica, sei arguta. Ora sei sincera. Prima eri solo una ragazzina viziata e acida.”, era in piedi di fronte a me, le braccia lungo i fianchi e il busto in avanti, verso il mio corpo seduto.
“Mi piace se fai l’acida, la gelosa, ma come cazzo puoi solo immaginare che mi piaccia Azzurra, in confronto a te? Ma l’hai vista quella lì?”, abbassò la voce, trasformandola in un flebile sussurrò. Stava parlando troppo e se ne rendeva conto solo in quel momento.
Alzai lo sguardo, emozionata, e cercai di trattenere il sorriso.
“Capisco”, replicai, mantenendo una parvenza di serietà, “non dovevi andare a dire le cose a lei, prima di venire da me”.
Apparve un sorriso sornione sul suo volto: “ma da te vengo quando vuoi”, il doppio senso non era nemmeno troppo velato e lo scacciai con una mano quando lo vidi sedersi accanto a me, d’un tratto non più arrabbiato.
“Smettila, cafone”, biascicai, cercando di scansarlo.
“E dammi un bacetto, così facciamo pace”, mi attirò a sè e io serrai le labbra, impedendogli di baciarmi la bocca.
“Fai la seria, Perla!”
Arricciai il naso, rimanendo in silenzio, e scossi la testa, serrando maggiormente le labbra, sbiancate per lo sforzo.
Lui cominciò a riempirmi di baci lievi sulle labbra chiuse, ma io non cedetti.
“Basta, sono offeso”, replicò lui d’un tratto, voltandosi e dandomi le spalle.
“Oh, non ci casco”
“Basta, non mi bacerai più per il resto della tua vita”, si voltò per imprimere nella mia mente la vista delle sue labbra, serrate come lo erano state le mie fino a pochi istanti prima, ed io scivolai tra le sue braccia, cercando di baciarlo.
Bastarono pochi baci perché le sue labbra si dischiudessero per accogliere le mie.
“Tu giochi sporco però”, furono le sue ultime parole, accompagnate da un sorriso sulle mie labbra.
 

-notepocoserie-
Se state leggendo queste note significa che sono riuscita a pubblicare il capitolo e che quindi il computer non è volato dalla finestra. Perchè vi assicuro che è stato difficilissimo arrivare fino a questo punto xD
Bene, sono tornata LOL 
Siete contente? 
Non farò note lunghissime perchè sono stanca e spossata (?), il caldo mi sta facendo sciogliere tutto tranne che la ciccia (?) e io non ho voglia di fare nulla U.U
Spiegazioni varie del capitolo.
Ora, ammettetelo, non guardatevi intorno come se niente fosse, come se non vi sentiste prese in causa. NOI DONNE SIAMO COSì. 
Diciamo no e vogliamo dire si, diciamo gambo di sedano e vogliamo dire pizza. LOL 
E come noi è la nostra Perla. Su questo ho voluto giocare, le ho voluto dare l'opportunità di essere una ragazza normale LOL
No, il suo bisogno è che Edoardo la capisca, che la comprenda nonostante i no che sono si e i boh che sono no. 
E' tutto piuttosto drammatico sto capitolo, però c'è stato anche Gu per un attimino e spero che Azzurra abbia acquistato punti ai vostri occhiucci adorati ♥ 
Per ultimo, ma non per importanza, la canzone che fa da colonna sonora al capitolo è GRAVITY di Sara Bareilles(
http://www.youtube.com/watch?v=A_U6iSAn_fY
), consigliatami dalla mia Beuccia adorata e adattissima alla coppia ♥

 


Alla prossima adorate ♥ 

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Capitolo 20
*** 19 - DOVE ERAVAMO RIMASTI ***


19 - DOVE ERAVAMO RIMASTI

   
 

Erano passati due mesi dall'ultima volta che io ed Edoardo avevamo 'litigato' e ci eravamo quasi lasciati. Lasciarsi quando in realtà non si stava nemmeno insieme non aveva molto senso, però ci aveva fatto capire che non ci piaceva, e da allora evitavamo di discutere, ci vivevamo il momento e stavamo quasi bene. Quasi, perché Guglielmo mi parlava ancora a giorni alterni. Quasi, perché nonostante io e Azzurra avessimo 'fatto pace' continuavo a non sopportare di vederla vicina a Edoardo, o a Guglielmo. Quasi, perché quando il terzetto di 5° composto da Niccolò, Emiliano e Stefano ci faceva visita all'intervallo, -e la cosa accadeva piuttosto spesso-, Edo diventava intrattabile e non mi stava accanto. 
Azzurra sembrava aver dimenticato tutto il periodo in cui non faceva altro che lanciarmi frecciatine e sembrava piuttosto impegnata a conquistare il cuore di Emiliano. 
Emiliano, dal canto suo, la accontentava quando lei gli chiedeva di accompagnarla al piano di sotto a prendere un thè caldo e sorrideva ad ogni sua civetteria senza mai sbilanciarsi troppo.
Niccolò era diventato un fratello minore per me, dal giorno in cui mi aveva trovato nei bagni ai piani alti, e amavo parlare con lui di qualsiasi cosa. Malamente cercavo di sopperire alla mancanza di Guglielmo, che si faceva sentire in biblioteca, quando leggevo la quarta di copertina di un libro e mi ricordava lui ma non potevo dirglielo perché non era affianco a me oppure durante l'ora di matematica, quando l'espressione mi riusciva alla perfezione e l'unica cosa che potevo fare era guardarlo da lontano chino sul foglio. 
Niccolò non riusciva a compensare la sua mancanza, ne tanto meno Edoardo. Avevo provato, in una delle nostre uscite pomeridiane segrete, a portarlo in biblioteca, superando il timore che potesse esserci anche Guglielmo, e l'unica cosa che eravamo riusciti a fare era stato farci sbattere fuori per via dei nostri 'amoreggiamenti', come aveva detto la vecchietta di turno. In realtà ci eravamo solo scambiati qualche bacio, ma una cosa era certa, Edoardo non era un tipo da biblioteca. Si vantava continuamente di avere, chiusi nell'armadio, dei libri presi in prestito alle medie. 
Io non sarei più tornata in quel posto in sua compagnia, quindi mi ci rintanavo da sola, sperando di incontrare Guglielmo e di riconquistare la sua amicizia proprio in quel posto che ci aveva reso tanto uniti qualche tempo prima. Sfortunatamente il destino sembrava remarmi contro, poiché non ero riuscita a incrociare il suo sguardo nemmeno una volta.
“Allora, usciamo oggi?”, esordì Azzurra, sorridendo al gruppetto di 5° che come al solito si era unito a noi all’intervallo.
“Non saprei, a fare che?”
“Perla sei sempre così apatica”
“Fa freddo, e io voglio stare a casa!”
Sembravo veramente una nonnetta di ottant’anni quando mi ostinavo a dire che stare a casa a volte era meglio di uscire, ma per una volta c’era qualcuno a darmi ragione.
“Secondo me con questo freddo un bel film sotto le coperte è il massimo”, aveva biascicato uno Stefano stranamente poco convinto delle sue parole.
Lo guardai, ringraziandolo mentalmente, e poi mi voltai verso Azzurra.
“Quindi oggi ce ne stiamo tutti a casa, e buonanotte!”, sfoderai un sorriso a trentadue denti e mi scostai dal calorifero dove mi ero attaccata a inizio ricreazione, per dirigermi in classe. In quel preciso istante suonò la campanella e con un cenno salutai i tre ragazzi.
Azzurra mi raggiunse alla velocità della luce.
“Cavolo Perla! Volevo uscire!”
“Dove vuoi andare con questo freddo?”
“Volevo uscire con Emiliano, sai che me ne frega del freddo!”
“Mi spiace”
Feci per sedermi e mi rannicchiai sul banco, con la testa tra le braccia.
“Non hai intenzione di uscire oggi?”, la voce di Edoardo, pungente, mi arrivò alle orecchie ovattata per via delle maniche del maglione sulle orecchie.
“Hai qualche idea?”, chiesi, sbuffando.
“No, mi fa piacere che non esci, anche perché oggi non posso tenerti con me, quindi starai a casa.”
Lo guardai, cercando di capire se scherzasse o meno, ma la sua faccia sembrava seria.
“Tesoro, guarda che io esco anche se non ci sei tu eh, non è che vivo intorno alla tua persona”, farfugliai, scocciata.
“Bene, esci allora”, capii che si era infuriato dalla nota che prese il finale della frase, e dallo spostamento repentino della sedia verso la lavagna.
Durante la lezione evitò bellamente di rivolgermi la parola, ma io riuscii comunque a organizzarmi per uscire con Azzurra. Un po’ perché mi dispiaceva averle risposto male all’intervallo, un po’ perché non mi piaceva esser trattata in quel modo da Edo, che non era nemmeno il mio vero fidanzato. Non sarei rimasta a casa per compiacerlo.
I dubbi su un suo evidente bipolarismo mi attanagliarono al successivo cambio d’ora, quando, in mezzo al corridoio isolato mi prese per il braccio e mi portò in un angolo come al solito. Dopo un momento di panico dovuto alla possibilità che potesse andare male anche questa volta, che potesse finire con una litigata colossale e con un successivo abbandono, mi rilassai, notando la pressione delle sue labbra sulle mie. Era bipolare, ma non mi avrebbe lasciato andare di nuovo. Almeno, speravo fosse così.
"Cosa avete deciso per oggi pomeriggio?"
Mi guardai attorno cercando un diversivo.
"Andiamo a vederci un film io, Azzurra e Gu." Biascicai alla fine.
Lui si irrigidì all'istante.
"Vengo anche io"
"No, hai detto che hai da fare", mi affrettai a rispondere.
Mi guardò, a metà tra l'arrabbiato e il confuso, e attese una delucidazione.
"Per la prima volta dopo chissà quanto tempo Gu sceglie di uscire spontaneamente con me. Si, beh, c'è Azzurra, ma non può parlare solo con lei. È la mia unica occasione per riallacciare una sorta di rapporto con lui, e se vieni anche tu so che rovinerei tutto."
Il discorso filava liscio sia nella mia mente che espresso a voce alta, ma, chissà perché, ero convinta che sarei riuscita comunque a rovinare tutto.
"Perché ci provi così tanto? È lui che ci perde."
"Per te è facile, non hai bisogno di essere carino o di usare le buone maniere. Hai il tuo senso dell'umorismo che parla per te, sei un cretino e tutti ti perdonano qualsiasi cosa. Non hai notato che con te non si arrabbia nessuno? Solo io lo facevo, allora. Per me è un po' diverso, ho bisogno di ogni momento propizio per riuscire a fare colpo o a farmi perdonare. Per te il momento giusto è sempre, per me è raro, e quando arriva  lo sfrutto il più possibile."
"A te non serve essere carina, io lo so. Anche il trucco che metti, potresti evitarlo e ti assicuro che io", mi guardò, accarezzandomi una guancia con il palmo della mano, "che Gu" sostituì l’IO con il nome dell’amico con una punta di gelosia, "ti troveremmo comunque bella"
"Che ne sai come sono io senza trucco? Magari sono orrenda!", risi, cercando di sdrammatizzare, sapevo quanto quell'intero discorso su Gu -che stava monopolizzando il nostro momento insieme-, desse fastidio a Edo.
"Io lo so come sei, ti ho vista. Non ti ricordi?"
"Cosa dovrei ricordare?"
"È stato due anni fa più o meno. In pullman dopo quella gita. Hai pianto ed io ero affianco a te. Mi fa piacere che non te lo ricordi, “sorrise, “forse ti ho vista peggio che al naturale, avevi tutto il mascara che colava lungo le guance.." Concluse con una risata sarcastica.
Mi stupii che lo ricordasse. La mia mente lo aveva celermente relegato negli episodi da non ricordare, sperando che uscendo dalla mia memoria sarebbe uscito anche da quella di Edoardo ma non era andata così. Non aveva mai scherzato a proposito di quell'episodio, ma non lo aveva rimosso come me.
Era successo un pomeriggio in prima superiore, quando ancora nessuno si conosceva veramente bene. Durante tutta la giornata Azzurra si era comportata da male e io avevo resistito fino a sera quando, seduta in pullman, ero scoppiata a piangere, sfogando tutta la mia frustrazione.
Edoardo mi si era seduto accanto e mi aveva posato una mano dietro la schiena, rimanendo in silenzio.
Non lo avevo neanche ringraziato, uscendo di corsa dal pullman vergognandomi delle mie stesse lacrime, ma lo avevo guardato dal marciapiede attraverso le porte scorrevoli chiuse, correre in avanti e scomparire alla vista. Solo a quel punto avevo ripreso coscienza di me stessa, mi ero asciugata le lacrime dal viso e avevo ricominciato a camminare.
"Non pensavo te lo ricordassi".
"Non si può scordare il tuo viso in quel momento".
Suonò la seconda campanella di fine lezione e ci spostammo silenziosamente dal nostro nascondiglio, confondendoci tra i gruppi di ragazzi usciti dalle classi.
Quindi era questa la Perla che Edoardo amava, la ragazza semplice e pura.
La Perla che metteva l'amicizia al primo posto, la Perla che non amava le apparenze, la Perla che metteva i calzettoni sotto i jeans e gli stivali larghi per non sentire freddo d'inverno, la Perla a cui non importava il giudizio degli altri, la Perla che comprava le scarpe di un numero più grande per stare comoda, la Perla che si tirava su  capelli in una acconciatura alta e li scioglieva cinque minuti dopo perchè pensava di stare male, la Perla che si preoccupava di non ferire i sentimenti delle persone.
Ma Edoardo la amava questa Perla?

***

"Ragazzi io devo andare in bagno. Zu, mi accompagni?"
"Io vi aspetto qui", disse Gu, indicando la bancarella dei libri fuori dal supermercato.
Stava andando male, male e ancora male.
Non sapevo cosa fare, dire. E Azzurra non aiutava affatto, non coinvolgendomi nelle loro conversazioni. Era passata più o meno mezz'ora e avevamo scambiato si e no cinque parole, 'ciao' e 'come stai' comprese.
"Azzurra, fai qualcosa! Aiutami!"
Quasi gridai appena varcata la soglia dei bagni delle donne.
"Tesoro io lo farei anche, ma non so cosa dire che posa interessare a entrambi."
"Inventati qualcosa, ti prego!"
Uscimmo dal bagno pochi minuti dopo e lo scorgemmo davanti a una pila di libri, intento a scrivere un sms.
"Guarda, sta scrivendo il titolo di qualche libro sul telefono così da ricordarlo. Zu, quando arriviamo li da lui chiedigli cosa stava facendo, vedrai che ho ragione."
Ci avvicinammo e cercai di sorridere il più possibile, nonostante i pronostici non fossero i migliori. Guglielmo alzò il viso dal telefono ed evitò per l'ennesima volta il mio sguardo, sorridendo velocemente ad Azzurra.
"Che stai facendo?"
"Oh niente, mi sono segnato un titolo", Azzurra mi guardò, lo sguardo sorpreso, "Perla! Come facevi a saperlo?", sorrise, e Gu, per la prima volta nella giornata, alzò lo sguardo su di me e mi sorrise.
"Certo che lo conosci proprio bene", aggiunse poco dopo Azzurra, mentre camminavamo.
"Allora dovresti sapere che invece lei fa la foto alla copertina, giusto per non passare per quello che non ti conosce", sorrise Guglielmo, continuando a camminare.
Io lo guardai girare la testa verso di me e per un attimo giurai che fossimo tornati indietro, a quando lui mi amava senza saperlo, e a quando anche io lo amavo, e non lo dicevo.
In quel momento capii che tutti gli sforzi sarebbero valsi ad avere anche per un impercettibile momento di nuovo il suo sorriso.
Perché in quel momento, piccolo e irripetibile, il suo sorriso era solo ed esclusivamente per me, non apparteneva ad altri e non era rubato da conversazioni non mie. Era Gu, ero io. Eravamo io e lui e basta.
Quella serata sarebbe potuta andare in qualsiasi modo, io avevo avuto ciò che desideravo, almeno per quella sera.

***

Andai a letto quella sera con la consapevolezza di aver fatto un passo, seppur minimo, verso Gu, verso la nostra amicizia e verso di noi.
Sognai di abbracciarlo e di lasciare indietro tutto quel brutto periodo che avevamo passato, sognai di parlargli e dirgli cose che non avrei detto a nessun'altro, come quel pomeriggio dell'estate scorsa in cui, sdraiati su una panchina all'ombra di un albero nel parchetto affianco alla biblioteca, ci eravamo scambiati confidenze, e lui mi aveva raccontato di quegli strani sogni che faceva.
Ma, chissà per quale oscura ragione, i sogni e le congetture che durante la notte sembrano geniali, la mattina si trasformano in mere fantasie irrealizzabili. Gu non era più la persona che era stata un tempo, non con me, e non potevo pretendere che dimenticasse tutto da un giorno all'altro. Il fatto che avessimo fatto parte di qualcosa di solo nostro per qualche istante non significava nulla.
Camminai verso scuola con la consapevolezza che persino le foglie provassero compassione e pena per me, così persa nel ricordo di un'amicizia da non riuscire ad aprirmi completamente a qualcosa di nuovo.
Perché era quello che mi stava capitando, per salvare ciò che credevo fosse rimasto di una amicizia che non ero stata io a voler distruggere stavo creando tremila scuse per non prendere nemmeno in considerazione una relazione con Edo.
Era si vero che stavamo 'insieme' nel senso lato del termine, ma tutti i problemi e le discussioni erano nate a causa mia.
Mi rendevo conto di non comportarmi in modo completamente corretto con Edo, che dalla sua parte aveva questo suo modo di farmi scoprire lentamente ogni parte nascosta di sé. Parti che probabilmente non me lo avrebbero fatto odiare per tutti quegli anni se solo le avesse mostrate un po' prima.
Feci il percorso fino a scuola con l’idea di dover risolvere delle cose, di dover cambiare e decidere ciò che erano i miei rapporti con quelle due persone, così differenti eppure legate da un impercettibile filo pronto a rompersi.
Avrei dovuto fare una scelta. Scegliere tra la possibile ricostruzione di un’amicizia perduta con Guglielmo, e la relazione che sarebbe potuta nascere con Edoardo.
Mi sedetti al mio posto, in fondo alla classe e dietro al banco di Edo, senza aver preso ancora una decisione.
Forse la risposta arrivò inconsapevolmente, arrivò senza nemmeno essere stata interpellata. Arrivò, ma sicuramente non grazie a me.
Si fece strada in una mano di Edoardo, che con finta ingenuità e con una dolcezza sconosciuta fino a quel momento prese la mia e la strinse sotto al banco, lontano da sguardi indiscreti.
L’intensità di quel contatto, il suo sguardo su di me e l’elettricità di quella situazione mi fecero arrivare a una conclusione.
Non arrivò in quel momento, nella mia testa, la decisione. Piuttosto si fece spazio lentamente, tra vecchi libri nascosti negli anfratti della mia testa e ricordi offuscati. Si fece strada tra promesse non mantenute e parole crudeli. Quelle dita intrecciate, strette senza far male, senza possedere, senza gelosia, senza richieste, strette solo per la voglia di essere l’una nell’altra, così semplici e innocenti, entrarono nella mia mente e decisero per me.
 

 
-notepocoserie-
Lo so. Lo so.
Quanto tempo è passato? Sono una persona imperdonabile e vi capirei se decideste di scrivermi parolacce al posto di recensioni.
Ma vedete, una storia è un qualcosa di veramente complesso e così personale, intimo, da non poter essere scritta a comando, a richiesta.
Ho passato questi mesi a pensare a Edo, a Perla e a Gu. A ritrovarmi a vivere certi momenti nella mia testa e ad uscire con le persone che mi hanno ispirato questi personaggi.
Le parole, però, non uscivano, non scorrevano sulla pagina bianca di word come invece hanno fatto ora.
Non sto dicendo che torno, non sto dicendo che la storia finirà e che ci saranno aggiornamenti frequenti. Non ve lo posso promettere. Però volevo farvi questo regalo per l’anno nuovo.
Forse, se fosse stata una storia più ‘staccata’ dalla mia persona non avrei avuto problemi a continuare, a creare una trama che variasse, che magari fosse decentrata dall’idea iniziale. Ma, seppur semplice e poco pretenziosa, questa storia è per me molto personale e delicata.
In questi mesi ci sono stati momenti in cui avrei desiderato cancellarla completamente, farvi sapere che la vera storia non è realmente così, che ci sono pezzi che ho aggiunto colta dall’enfasi del momento, ma non l’ho fatto, perché questa è la storia e voglio che voi la vediate finire. Non so ancora quando, come e perché, ma vi giuro che continuerò a scrivere quando riuscirò, e che vi posterò anche il più corto capitolo.
Scusatemi per l’assenza, davvero. E’ dispiaciuto tanto a voi quanto a me. Amo questa storia e amo come la recepite voi.
Spero mi scriverete qualcosa, che ci siete ancora, che non mi avete dimenticato.
Con amore, a presto, Sonia.

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