Il furto dell'artefatto sconosciuto di Littlefinger (/viewuser.php?uid=5892)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** 1. ***
Il treno si muoveva
silenziosamente e il paesaggio
scorreva veloce fuori dal finestrino, mostrandomi i campi coltivati del
Baden-Wurttemberg e delle cittadine da cartolina. Poi altri campi
coltivati e
ancora, indovinate un po’, campi coltivati. La vista era diventata
monotona dopo
cinque minuti fuori da Basilea. Allontanai
il capo dal finestrino e mi
soffermai a studiare con interesse il posto vuoto davanti a me.
Qualsiasi cosa
pur di non vedere un’altra fattoria rustica.
Il
mio
compagno di viaggio - se tale poteva definirsi - era meno loquace di
uno
scaldabagno rotto e ciò non aiutava a migliorare l’atmosfera. Aveva
passato tutto
il viaggio a completare cruciverba e schemi di sudoku e mi aveva
rivolto la
parola solo quando non era riuscito a risolvere un diciassette
verticale. Tanto
per la cronaca, non ci ero riuscito nemmeno io.
«Perché
non abbiamo usato un Portale?» domandai, sperando di avviare una
conversazione
che mi avrebbe risparmiato un altro viaggio noioso. I Portali sono il
metodo
più veloce ed economico per viaggiare. Congiuri un paio d’incantesimi
e…
POOF!... ecco a disposizione uno strappo nella realtà che ti porta
direttamente
a destinazione. Ovviamente bisogna conoscere un po’ di magia per
poterli usare,
non è roba per tutti. Ci vuole un buon mago, me ad esempio.
L’uomo
alzò le spalle. «Pensa a goderti il viaggio, Neil McRoberts.» rispose
senza
alzare gli occhi dalla rivista.
«Se
vedo
un altro campo mi sparo in bocca.»
«Con
quale pistola?» Mi indicò il cruciverba con la penna e aggiunse: «Sette
orizzontale, soldato romano. Dieci lettere.»
«Mario
Silla. Caio Leonio. Pippo Pipponio, che ne so, non ho mai conosciuto
dei
romani. Piuttosto, perché non abbiamo usato un Portale? Saremmo già
arrivati e
non avremmo speso un soldo.»
«Legionario.»
disse, ignorando le mie lamentele.
Mi
misi
a ridere. «Non li sai usare!» esclamai, fra una risata e l’altra.
«Non
sono un mago come te, umano.» Posò la rivista sulla gambe e mi fissò.
«Tra
l’altro questa mancanza non mi ha impedito di catturarti, no?»
Ricambiai
lo sguardo e dovetti chinare il capo per farlo. Il mio interlocutore
era alto
poco meno di un metro e sessanta e la sua posizione sprofondata nel
sedile non
lo rendeva certo imponente. Del resto, tutto il suo aspetto trasudava frivolezza e
superficialità. Indossava un
capellino dei Boston Celtics che gli copriva i capelli rossi, la
barbetta
incolta gli dava un senso di trasandatezza, acuito dalle occhiaie scure
e dalle
stropicciature sulla camicia bianca. I pantaloni di velluto verde
brillante
passavano quasi inosservati a causa della vistosa fibbia della cintura,
che era
appariscente non tanto per la sua forma, quanto per il fatto che fosse
d’oro; le
scarpe nere senza lacci avevano due fibbie identiche. L’abbigliamento
veniva
completato da una giacca verde che per il momento si trovava sul
portabagagli,
insieme al suo bastone da passeggio.
Quando
lo incontrai, la prima cosa che mi venne in mente fu “mio caro, oggi
non è San
Patrizio”. In tutta sincerità, chiunque avrebbe pensato che fosse uno
sbandato
- o un tipo insolito, nel migliore dei casi - e non certo un leprecauno
mercenario con le palle cubiche.
«Sei
stato fortunato.» mentii. In realtà, ero curioso di sapere perché ero
ancora
vivo.
Il
folletto inarcò un sopracciglio, poi scosse la testa, riprese la
rivista di
enigmistica e tornò a concentrarsi sul giochino. Era chiaro che avrei
passato
un’altra ora a rimuginare su cosa era successo il giorno prima e su
quello che
mi aspettava a Friburgo.
Come
cambiano velocemente le prospettive di vita di un mercenario ricercato
da uno o
più clan di vampiri. Due giorni prima mi trovavo a Nizza e passeggiavo
tranquillamente per la Promenade des
Anglais, gustandomi un cono gelato con tre palline al
cioccolato. Se c’è il
cioccolato, perché scegliere altri gusti? Comunque, ero là che mi
godevo un’ultima
passeggiata sul lungomare prima di tornare nuovamente al mio esilio in
Sardegna.
Vivere come un fuggitivo, nascosto in un qualche buco nelle montagne,
era fin
troppo stressante e ogni tanto avevo bisogno di un’iniezione di vita:
una
passeggiata in Costa Azzurra, un salto a Las Vegas o una visitina al
Moulin
Rouge. Ero immerso nell’assaporare il delizioso gelato, quando il
simpatico
figuro mi era comparso davanti. Non comparso dal nulla, intendiamoci.
Camminava
nella direzione opposta a me e quasi ci eravamo scontrati. Stavo per
tirar
fuori la magnifica battuta citata prima, ma l’uomo aveva alzato il
bastone da passeggio
e me l’aveva puntato allo stomaco.
«Neil
McRoberts» aveva detto «mi chiamo Finn e tu sei mio prigioniero.» Per
rafforzare le parole mi aveva pungolato col bastone e una scarica
elettrica mi
aveva percorso da capo a piedi, facendomi rizzare i capelli. Non era
nulla di
letale, ma era stata abbastanza dolorosa per farmi capire che era
meglio non
reagire. Chiaro e conciso.
«Chi
sei?» avevo chiesto, un po’ stupidamente. Perdonatemi se non sono un
brillante
conversatore dopo essere stato “taserato”.
«Sei
sordo o idiota?»
«Sei
un
leccapiedi di Greta Zimmerman?» avevo domandato, non proprio
gentilmente. Greta
Zimmerman era la matriarca di un clan di vampiri che avevo incontrato
un anno
prima e, come ogni donna, una volta conosciutomi non aveva più potuto
fare a
meno di me, o forse mi voleva solo perché l’avevo pesantemente
insultata; fatto
sta che aveva sguinzagliato un certo numero di sgherri sulle mie tracce
e per
quel motivo mi ero rintanato in Sardegna.
«Non
sono
il leccapiedi di nessuno. Sono un lavoratore indipendente.» aveva
risposto il
leprecauno. «Non prendertela, è solo una questione di lavoro. Nulla di
personale.»
«Ovviamente.»
Fra colleghi si ci capiva. «Mi chiedo come mai un folletto della corte
irlandese lavori per un clan di vampiri.»
Aveva
alzato le spalle in segno di noncuranza. «L’unica cosa importante è
questa.
Puoi venire con me tranquillamente e in due giorni saremo a Friburgo
dove ti
consegnerò alla vampira. Oppure puoi provare a reagire. In tal caso ti
strapperò un arto a caso. E poi un altro ancora, fino a quando non ti
deciderai.»
«Ho
solo
quattro arti.» avevo replicato.
«Allora
dovrai decidere in fretta.»
Dato
che
mi trovavo in treno in sua compagnia e col giusto numero di arti, vi
lascio
indovinare quale sia stata la mia risposta. Non c’era verso per uno
come me di
sfuggire a un membro di una corte fatata. Inoltre non mi aveva ucciso,
per cui
il suo lavoro era solo di portarmi da Greta e ciò significava solo una
cosa: la
vampira mi voleva vivo.
Perché?
Non lo sapevo, ma era comunque un’ottima notizia.
Rimanere
vivo – e con braccia e gambe intatte – era il miglior scenario che
potessi
sperare per fuggire. Non morire oggi, per fuggire domani. Inoltre, una
volta completato
il suo contratto, il leprecauno mi avrebbe ignorato e un gruppo di
vampiri era
molto più alla mia portata.
Finn
mi
aveva portato l’aeroporto ed eravamo volati a Ginevra, dove avevamo
preso un
treno per Friburgo, con cambio a Basilea.
Era raro trovare un folletto che non era in grado di usare
la magia per
viaggiare. Quasi quanto uno che lavorasse come mercenario per dei
comuni
mortali. Ok, un vampiro non è un comune mortale, ma secondo le fate è
ciò che
c’è di più infimo nel mondo magico, per via della loro origine.
Il
treno
si fermò in un piccolo paesino e una coppia di mezz’età si sedette di
fronte a
noi. Ci guardarono per un attimo, lanciandoci occhiate incuriosite. Se
Finn
sembrava uscito da uno spot per incoraggiare il turismo in Irlanda,
anche io
non scherzavo, in quanto ad abbigliamento. La felpa rossa che avevo
comprato
all’aeroporto lasciava intravedere la camicia a motivo floreale che
indossavo
sotto e poco
s’intonava con la tuta che
avevo comprato per sostituire i pantaloncini corti. Naturalmente, Finn
vinse la
sfida, guadagnandosi la maggior attenzione della coppia.
«Salve!»
li salutai allegramente. Almeno avrei avuto qualcuno con cui parlare.
«Anche
voi diretti a Friburgo?»
«Ich spreche kein Englisch.» rispose la
signora, scuotendo la testa.
Immaginai
significasse “non parlo inglese”. Oppure “non rompermi le scatole,
scocciatore”. Il risultato comunque era
lo stesso.
«Toglimi
una curiosità.» dissi, rivolgendomi nuovamente a Finn. «Com’è che un
membro di
una corte fatata si abbassa a lavorare come mercenario?»
«Noia.»
rispose. Chiuse la rivista e la tirò sul portabagagli. «Dopo i primi
millenni,
la politica e gli intrighi delle corti diventano monotoni. Scene trite
e
ritrite.»
«Sì?»
Parlava di millenni come si trattasse di mesi o settimane. Se la storia
del non
sapere congiurare un Portale mi aveva fatto venire qualche dubbio sulla
sua
forza, quelle parole fecero sprofondare la speranza di poter fuggire
prima che
lui se ne andasse. Assumendo che se ne andasse
prima che Greta mi uccidesse.
«Un
giorno viaggiavo per l’Inghilterra, nei pressi del villaggio che oggi
si chiama
Dover, e m’imbattei in una battaglia. La costa era occupata da decine
di navi,
dalle quali scendevano uomini in armatura. Dalla spiaggia altri uomini,
con i
corpi dipinti, si affannavano per ributtarli in mare.»
«L’invasione
della Britannia da parte di Giulio Cesare.» Primo secolo Avanti Cristo
e il
tizio l’aveva vista di persona. Non era la prima volta che parlavo con
esseri
per cui il tempo è cosa di poco conto, ma nessuno di quelli aveva
minacciato di
smembrarmi.
Il
folletto annuì. «C’era qualcosa nell’aria che mi aveva incuriosito.
Catturato,
meglio. Il rumore delle armi, le urla dei guerrieri. L’odore del sangue
e del
sudore che impregnava l’aria. All’improvviso sentii il bisogno di
combattere,
di lanciarmi nella mischia.»
«Il
richiamo della guerra.» mormorai, sottovoce. Capivo perfettamente,
visto che
anche a me era successa una cosa molto simile.
«Ero
talmente estasiato da quell’atmosfera» continuò, senza dar cenno di
avermi
sentito «che nemmeno mi accorsi di aver raccolto uno spadone ed essermi
lanciato contri i romani. Combattei e uccisi fino a quando gli invasori
ricacciarono i britanni nell’entroterra. Ero ricoperto di sangue.»
Aveva
stretto i pugni e le nocche erano sbiancate. «I Lord delle corti fatate
risolvono le proprie contese per vie subdole. Qualcuno ama usare la
magia, ma
quello è l’unico mezzo vagamente diretto che si permettono di usare. Il
combattimento fisico è disprezzato come poche altre cose.»
«Sono
troppo altezzosi per sporcarsi le mani.» dissi, annuendo. «Se ora mi
stai
portando da Greta è perché ho fatto un lavoro simile per conto di un
Lord dell’Areu Afadau , la corte
sarda.»
Finn
sorrise. «Lo so. Ti
avevo sotto tiro da
una decina di giorni, ma non volevo attaccarti mentre eri sotto la loro
protezione.»
Ovviamente.
Altrimenti, chissà che casino sarebbe successo. Sarei stato anche
curioso di
vedere una guerra aperta fra corti, ma solo se non ne fossi stato la
causa.
«Comunque,
ritornando al discorso di prima, quel giorno capii che combattere era
la mia
strada. Da allora ho solo fatto quello, in giro per il mondo.»
Mi
feci
scappare un gridolino di giubilo, molto simile a quello di una
dodicenne che ha
appena visto la boy band del momento. Avevo appena conosciuto il mio
idolo: non
solo era un folletto con le palle icosaedriche che faceva il mio stesso
lavoro,
era pure un’enciclopedia vivente dell’arte della guerra. Glielo dissi e
si mise
a ridere.
«Nessuno
mi ha mai dato dell’enciclopedia.» ribatté. «Ma se pensi di comprarti
la
salvezza adulandomi, stai sbagliando.»
«Non
lo
farei mai, non sarebbe professionale. Del resto, però, non posso
nemmeno
rinunciare al mio diritto di fuga.»
«Ti
ricordo che la promessa di smembramento è ancora valida.»
Poggiai
la testa sul sedile. Aveva ragione, esercitare il mio diritto di fuga
avrebbe
portato risultati spiacevoli. «Puoi dirmi almeno perché Greta mi vuole
vivo?»
Scosse
la testa. «Anche se lo sapessi, non te lo direi. Sai bene che sarebbero
informazioni confidenziali.»
Naturalmente,
Finn era un professionista, però chiedere non costava nulla. Mi lasciai
andare
e chiusi gli occhi. Tanto non potevo fare nulla fino a quando non mi
avrebbe
consegnato alla vampira, quindi tanto valeva approfittare del resto del
viaggio
per riposarmi. Se la corrente è troppo forte è preferibile lasciarsi
trasportare piuttosto che nuotarle contro.
Mi
svegliai quando Finn mi scosse violentemente la spalla.
«Siamo
arrivati, Neil McRoberts.» disse. Aveva indossato la giacca e teneva il
bastone
appeso al braccio.
Mi
alzai
e mi stiracchiai, dopo aver sbadigliato con esagerazione. Mi diressi
verso
l’uscita del vagone con il leprecauno che mi seguiva. Scesi a terra e
mi
guardai intorno, incerto sul da farsi.
«E
ora?»
chiesi.
«E
ora
attendiamo il nostro contatto.» disse Finn. Anche lui si guardava
intorno.
Si
pensa
sempre che la vita del mercenario sia come nei film: inseguimenti a
tutta
velocità, esplosioni, combattimenti di karate e nemici dietro ogni
angolo. La
realtà è molto più monotona. Grazie al cielo, aggiungerei, visto che
non ho una
controfigura per le scene pericolose. Spesso – molto spesso – l’unica
cosa che
un mercenario può fare è aspettare.
Aspettare un obiettivo, aspettare un nuovo contratto,
aspettare che
vengano a prenderlo in stazione. Così è la vita.
Quando
finalmente la folla che occupava la piattaforma si dissipò verso i
sottopassaggi, una persona si avvicinò.
«Josephine!»
salutò Finn.
Io
invece rimasi a bocca aperta e riuscii a borbottare un titubante:
«Riccioli d’Oro?»
La
donna
mi guardò, piegando la testa di lato, e sorrise. «Gandalf!» disse. «Hai
perso
il tuo bastone?»
Finn
ci
guardò entrambi e disse: «Vi conoscete?»
«In
un
certo qual modo.» risposi. La mia esperienza con Riccioli d’Oro –
pardon,
Josephine - era cominciata con un breve flirt e un invito a cena e si
era
conclusa aggrovigliati a terra – non nel senso buono – dopo esserci
vicendevolmente
minacciati con della armi da fuoco.
«Ci
siamo incontrati l’anno
scorso a una
festa.» aggiunse Josephine, rimanendo nel vago.
Non
mi
sembrava particolarmente infastidita dalla mia presenza, per cui mi
arrischiai
a dire: «Il giorno dopo non ti ho chiamato, perché non mi hai lasciato
il tuo
numero.»
Finn
continuava a guardarci col sorriso sulle labbra. «Ora possiamo andare?»
«Un
auto
ci attende.» rispose. «E non lascio mai il mio numero agli uomini che
mi fanno
addormentare.» aggiunse, rivolta a me.
BAM!
Riccioli d’Oro uno, Neil zero.
La
seguii
nel sottopassaggio, mentre Finn arrancava dietro di me, zoppicando e
aiutandosi
col bastone da passeggio. Sì, zoppicava. Ho dimenticato di raccontarvi
questo
piccolo particolare. Esatto, sono stato catturato da un vecchietto,
venti
centimetri più basso di me e pure zoppo. Per favore, non ridete.
Glissai sulla mia brutta situazione e
ripensai al mio incontro con Riccioli D’Oro. A Cagliari – l’avevo
incontrata
durante lo stesso lavoro in cui avevo mortalmente offeso Greta
Zimmermann –
avevo dato per scontato che lavorasse per la persona che dovevo
uccidere, ma se
si trovava qua evidentemente lavorava per Greta. Non sapevo quanto
essere
felice per la novità: anziché esserci una donna che mi odiava, ora ce
n’erano
due.
La
osservai mentre mi camminava davanti. Era poco più alta di Finn e aveva
un
fisico paffutello, con le curve nei punti giusti. Indossava un paio di
jeans e
una camicetta bianca aderente. Le scarpe da tennis chiudevano il quadro
e la
etichettavano come
casual e sportiva.
Si
vedeva chiaramente che non aveva armi da fuoco, però al fianco, appesa
alla
cintura, teneva una bacchetta da direttore d’orchestra. Era il vettore
con il
quale incanalava gli incantesimi d’attacco. “Vettore” è un tecnicismo
con il
quale s’indica qualsiasi cosa – oggetti, parole o movimenti – si usi
per
aiutarsi nel lanciare un incantesimo.
Sapevo
che era un vettore perché a Cagliari ne avevo subito le conseguenze.
Inoltre,
chi va in giro con una bacchetta da direttore d’orchestra? Quanto è
probabile
dirigerne una mentre si passeggia in città?
«Dove
andiamo?» domandai.
«Lo
saprai a suo tempo.» rispose Finn, dandomi una spinta. «Pensa a
camminare.»
Uscimmo
dalla stazione e Josephine ci accompagnò fino a un auto. Aprì la
portiera
posteriore e ci fece accomodare, mentre lei si sedeva accanto al
guidatore. A
un suo cenno, l’autista mise in moto e s’immise nel traffico.
«La
mia
signora è molto soddisfatta, Mr. O’Shea.» disse Josephine.
«Lo
sarò
anche io quando avrà trasferito il pagamento sul mio conto .» replicò
Finn.
«Quanto
deve darti?» domandai, curioso di sapere il mio valore di mercato.
«Silenzio.»
borbottò il leprecauno, mettendosi a guardare fuori dal finestrino.
Evviva,
un altro viaggio ai confini della noia per Neil McRoberts. Spero che la
prossima volta mi catturi uno di quei chiacchieroni logorroici che
quando
iniziano la smettono solo se gli punti un fucile alla testa.
Per
fortuna, non ci mettemmo molto ad arrivare. L’auto si fermò dopo un
paio di minuti
e ripartì non appena fummo sul marciapiede.
«La mia signora ci attende
qua.» disse, facendoci
strada.
L’edificio
di fronte era un albergo a parecchie stelle. Un’elegante tettoia in
vetro
accompagnava i clienti fino all’ingresso vero e proprio, dove uno
zelante
portiere ci salutò. Una volta dentro, Josephine ci fece segno di
attendere e
andò alla reception. Scambiò qualche parola con un uomo e poi ci
chiamò.
Prendemmo un ascensore che ci portò direttamente all’interno di una
suite.
«Siamo
arrivati.» disse la donna. Di fronte a noi si trovano due mie vecchie
conoscenze.
«Finalmente
ci ritroviamo, Mr. McRoberts.» disse Greta Zimmermann. Era seduta su
una
poltrona, con le gambe incrociate. Dietro di lei c’era una donna che
avrebbe
fatto la sua bella figura nella Swimsuit Issue di Sport Illustrated.
Cominciavo
a credere che Greta selezionasse i vampiri del suo clan tramite
concorsi di
bellezza.
«Avrei
preferito incontrarti in un’altra occasione, non so, magari mentre
affondavi
nelle sabbie mobili.» risposi con la mia solita gentilezza.
Un
uomo
era accanto al camino, appoggiato sulla mensola. Ai suoi piedi era
accovacciato
un lupo dal pelo fulvo.
«Non
so
quanto ti convenga offenderla.» disse Robert Von Kempf.
Era un mio vecchio amico dai tempi di Xiam,
la città-stato centro del sapere mondiale. Avevamo studiato insieme, ma
a
differenza mia, lui aveva completato gli studi ed era diventato uno
degli
massimi esperti mondiali di storia germanica. Alto, biondo e con gli
occhi
azzurri era l’archetipo del tedesco, anche se la vita sedentaria dello
studioso
cominciava a mostrare i primi segni sul suo corpo. Inoltre, era il
capobranco
di uno dei più grandi gruppi di mannari d’Europa.
Alzai
le
spalle e feci per chiedergli cosa ci facesse qua, ma Finn m’interruppe.
«Ecco il suo amico.» disse,
dandomi una
spintarella verso Greta. «Il nostro contratto è concluso.»
«Bene.»
replicò Greta. Fece un cenno alla donna alle sue spalle, la quale si
diresse
verso un tavolino su cui era posato un portatile. «Ottimo lavoro Finn.
La fata
e il mago in meno di un mese.»
«È
stato
facile.»
«La
fata?» esclamai, preoccupato. C’era solo una fata in comune fra le
nostre
conoscenze. «Hai preso Chiara?» Mi mossi minacciosamente verso la
vampira, ma
Riccioli d’Oro si mise in mezzo e mi bloccò.
«I
soldi
sono stati trasferiti.» disse la donna, mentre spostava il portatile in
modo
che Finn potesse vedere lo schermo.
«Hai
preso Chiara?» ripetei, alzando la voce.
Chiara
era una mia collega, un’amica, che aveva partecipato al lavoro dello
scorso
anno. Greta non aveva nessun motivo di prendere anche lei, se non per
fare leva
su di me. Il Lord delle fate che mi aveva commissionato il lavoro mi
aveva
avvertito che la vampira aveva messo una taglia sulla nostra testa. Un
terzo
uomo aveva partecipato all’azione, ma Greta non l’aveva visto; l’ultima
volta
che l’avevo sentito era nel Golfo di Aden a giocare al cacciatore di
pirati.
«Ovviamente.
» rispose la vampira.
Avevo
cercato di aiutare Chiara. Appena avevo saputo che i vampiri volevano
le nostre
teste, l’avevo contattata per darle una mano a nascondersi, ma lei era
testarda
come poche e aveva rifiutato qualsiasi aiuto: “so cavarmela da sola”,
“non sei
mio padre”, “Al massimo dovrei essere io ad aiutare te” e via dicendo.
I fatti
le avevano dato torto, ma del resto la mia situazione non era migliore.
Finn
si
allontanò dal computer e sorrise soddisfatto. «Bene. Se non c’è più
bisogno dei
miei servigi, io andrei via.»
Finalmente.
Così avrei potuto pensare a qualcosa di produttivo. Quando il folletto
mi passò
accanto lo presi per un braccio e gli dissi: «Come posso contattarti?»
Il
leprecauno sorrise. «Dubito tu possa permettermi di assumermi.» Si
divincolò
dalla mia stretta senza troppi problemi e entrò nell’ascensore, mentre
fischiettava Molly Malone.
«Accomodati.»
disse Greta, con un tono che rendeva l’affermazione un comando più che
un
invito. «Dobbiamo parlare.»
«E
se
non volessi?» risposi. Feci per allontanarmi, ma Josephine mi spinse
verso uno
dei divani.
«Suvvia,
Neil.» intervenne Robert alzando le mani. «Non fare il bambino.»
«Tu
che
diamine ci fai qua? Pensavo fossi un amico.» dissi, mentre mi sedevo.
Comunque,
aveva ragione. Non aveva senso fare il bambino: Greta aveva
indubbiamente
bisogno di me. Altrimenti mi avrebbe già fatto uccidere e non avrebbe
usato
Chiara come leverage. Assumendo che
quello
era lo scopo, visto che non ne ero certo.
«Sono
qui per mediare l’incontro.» replicò Robert, stizzito. «Greta ha una
proposta
da farti.»
«Non
si
tratta con i terroristi.»
«Mr.
McRoberts»
disse Greta «mi spiace aver usato questi metodi per farla venire qua,
ma se
l’avessi invitata per un lavoro, mi avrebbe creduto?»
Sorrisi.
«Ovviamente no, non sono un idiota.»
Robert
inarcò un sopracciglio.
«Sì,
sono un idiota, ma non fino a quel punto.» Lanciai uno sguardo verso
Riccioli
d’Oro e la vidi sorridere. «Difficilmente avrei creduto che la persona
che mi
manda contro una squadra di sicari, fosse interessata a una discussione
pacifica.»
«In
realtà è una cosa che riguarda tutti noi.» disse Robert. «Sono stato io
a
convincere Greta a non ucciderti. Di nuovo.»
«Grazie.»
risposi. Era la seconda volta che Robert mi dava una mano con dei
vampiri.
«Quello che non capisco però è tutta questa complicatezza. Non bastava
contattarmi
e parlare?»
«Non
eri
rintracciabile.» Robert si sedette e posò una mano sulla testa del
lupo, che
gli si era accucciato accanto.
Alzai
le
spalle. «Non ci tenevo a farmi nuovamente sparare da un gruppo di
vampiri.»
Sorrisi, rivolto a Greta. «Probabilmente
i cadaveri di quei cinque stanno ancora sulla spiaggia. I
granchi
saranno così grassi da non riuscire più a muoversi.»
La
vampira ignorò il mio commento, ma notai che strinse il bracciolo della
poltrona.
«Quindi
avete pensato bene di sguinzagliarmi contro il super-folletto
mercenario?»
continuai. «Non me l’aspettavo da parte tua, Robert.»
«Usare
Finn è stata una mia idea.» intervenne Josephine.
«Sì?»
«Ho
immaginato che la corte fatata sarda ti avesse messo sotto protezione,
per cui
difficilmente noi avremmo potuto trovarti.»
La
ragazza era in gamba. Per un mago umano era molto difficile - per non
dire
impossibile - infrangere l’incantesimi
di protezione di un lord delle fate, quindi l’unica maniera per
rintracciarmi
era quella di usare vie traverse.
«Finn
O’Shea
non sarà molto abile con la magia, ma è il migliore quando si tratta di
dribblare le protezioni delle corti fatate.» aggiunse Josephine. «Una volta che ti ha trovato
gli è bastato
aspettare che facessi una di quelle tue folli uscite dal rifugio.»
«Che
ci
posso fare se non mi piace vivere rintanato in un buco.»
La
donna
scosse le spalle. «Problemi tuoi.» Si girò verso Greta e rimase in
attesa.
«Adesso
però dovete dirmi cosa mi ferma dal farvi tutti saltare in aria.» Ora
che Finn
era andato via, ero abbastanza certo che nessuno di loro potesse
tenermi testa
in un combattimento. Riccioli d’Oro poteva anche essere una brava maga,
ma non
era al mio livello. A Cagliari, Greta era fuggita con la coda fra le
gambe
nonostante avesse con sé altre cinque vampire. La sua amica che avrebbe
potuto
fare, distarmi indossando un bikini?
A
supporto delle mie parole, evocai una piccola palla di fuoco e la feci
girare
intorno alla mano.
«Per
favore, Neil…» disse Robert. Il lupo si era sollevato sulle zampe e mi
stava
ringhiando contro.
«Sto
aspettando.»
«Io
mi
guarderei alle
spalle.» aggiunse Greta.
Non
feci
in tempo a voltarmi che sentii qualcosa premermi contro la nuca;
qualcosa di
molto simile alla canna di un fucile d’assalto. La palla di fuoco svanì
come
neve al sole. Non è salutare irritare chi ti tiene sotto tiro.
«Siamo
qua per discutere, Mr. Roberts.» continuò. «Se avessi voluto ucciderla,
sarebbe
già morto da un pezzo.»
Con
la
coda dell’occhio vidi che a tenermi sotto tiro era la modella di Sport
Illustrated.
«Fossi in te non lo farei, zuccherino. Il rinculo di quell’arma ti
farebbe
volare fuori dalla finestra.» Teneva sotto braccio un modello del G3,
un grande
e pesante fucile d’assalto di grosso calibro che veniva usato per
azioni a
lungo raggio, non certo in un ambiente chiuso.
«Vogliamo
provare?» replicò la ragazza. La voce emanava abbastanza sicurezza dal
farmi desistere
da qualsiasi azione folle. Non volevo rischiare di venire fatto a pezzi
da una
raffica di quel
cannone.
«Neil…»
ripeté Robert ancora una volta, ma con un tono più duro. Stava
cominciando a
irritarsi. E nessuno vuol vedere Robert Von Kempf adirato.
«Va
bene, va bene.» mi arresi. Non aveva senso prolungare ulteriormente la
diatriba. Ci sarebbero state altre occasioni per rimettermi in parità.
«È
chiaro che vogliate farmi fare qualcosa. Sentiamo.»
«Nulla
d’impossibile.» disse Greta. Fece un gesto della mano e Zuccherino
prese il
portatile che aveva usato prima e me lo portò. Il mitragliatore gigante
era
scomparso e ora la signorina pareva molto più aggraziata. Si sedette
accanto a
me e mi mostrò il computer.
Sul
monitor c’erano alcune foto che sembravano essere state fatte per delle
cartoline: paesaggi bucolici della Foresta Nera e alcune panoramiche di
un
villaggio così rustico e caratteristico che sembrava essersi fermato
nel tempo.
Non ero un esperto di fotografia, ma le foto erano chiaramente scattate
da
lontano con un obiettivo telescopico, segno che i curiosi non erano i
benvenuti.
«Mi
volete mandare in vacanza?» domandai.
«Devi
rubare un oggetto per nostro conto.» rispose Robert. «Da quel
villaggio.»
Sorrisi.
«Dov’è l’inghippo?» chiesi.
Solitamente non si
scomoda un mago del
mio livello – modestia a parte – per un compito che potrebbe eseguire
qualsiasi
ex-militare.
«Nessun
inghippo.» intervenne Greta. «Devi semplicemente capire quale sia
l’oggetto.»
Cominciavo
ad irritarmi anche io. «Ma
è uno
scherzo? Mi state prendendo in giro?» esclamai. «Che diavolo vuol dire?
Devo
rubare un oggetto per voi, ma non sapete cosa sia? Devo indovinare?
Oppure
portarvi ogni oggetto da ogni casa fino a quando non sarete
soddisfatti?» Feci
per alzarmi, ma Zuccherino mi trattenne per la spalla. Forzai un
attimo, ma era
come se ci avessero posato sopra un’incudine. Evidentemente Zuccherino
poteva
finire su Sport Illustrated non solo per la Swimsuit Issue, ma anche
per un
servizio sulle donne più forti del mondo. Mi riaccomodai senza fare
troppe
storie.
«È
un
artefatto magico. Molto potente.» disse la vampira.
«Capisco.»
borbottai, anche se non capivo affatto. «Qualche altro indizio? È un
pugnale
magico? Un anello? Sono sempre degli anelli!»
«Non
lo
sappiamo.» Robert tagliò corto. «Il suo padrone è abbastanza furbo da
non
mostrarlo in giro.»
«Come
si
chiama il padrone?»
Robert
fece un segno di diniego. «Non sappiamo nemmeno questo.»
«Di
bene
in meglio.» borbottai. «Ora mi direte che non sapete nemmeno dove si
trova il
villaggio.»
«A
una
sessantina di chilometri a nord-est.» disse Zuccherino. «Nel mezzo
della
Foresta Nera. Ho fatto io stessa la ricognizione.» La signorina dunque
era una
tipa tosta. La immaginai in mimetica nella foresta, sdraiata in un buco
fangoso,
coperta di foglie e rami, passando qualche ora a scattare fotografie.
Tutto a
un tratto mi venne difficile chiamarla Zuccherino.
«Bene,
almeno non dovrò vagare per l’Europa alla sua ricerca.» dissi.
«Comunque mi
sembra un’impresa impossibile. E perché non sapete chi sia il padrone
dell’oggetto?»
«Sappiamo
chi è, ma non sappiamo il suo nome.» disse Greta. «Voglio
quell’artefatto per
avere un po’ di leva su di lui.»
«Vogliamo.»
la corresse Robert.
«Interessante.»
dissi. «Quindi vi serve il mio aiuto per mettere alle corde questo
tizio? E se
rifiutassi?»
Greta
sorrise. «Useremo la tua amica fatina per fare leva su di te.»
Ovviamente.
«Abbiamo una foto di Mr. X? Così magari posso identificarlo.»
Zuccherino
armeggiò con il touchpad del portatile e mi mostrò una foto, che però
non
ritraeva il misterioso uomo, ma un arazzo, il cui stile ricordava i
mosaici
bizantini. Vi erano raffigurati un drago e un cavaliere che
combattevano.
Mi
misi
a ridere. «È uno scherzo? Mi state prendendo in giro.»
«Magari.»
disse Robert. «Vorremmo tutti che fosse uno scherzo, ma non è così.»
«Il
nostro nemico, e il tuo obiettivo, è un drago.»
Signori,
colpo di scena. Il mio prossimo bersaglio era una creatura mitologica.
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Capitolo 2 *** 2. ***
«Cosa sai sui draghi?»
mi chiese Josephine.
Stavamo uscendo dall’ascensore e ci
dirigevamo fuori dall’albergo. Riccioli d’Oro era il mio
partner per la missione. Si era offerta di aiutarmi, ma ovviamente
aveva il compito di tenermi d’occhio per conto di Greta Zimmermann.
«Volano, sputano fuoco e non esistono.»
risposi. Appena fuori dall’albergo mi guardai intorno, non sapendo da
che parte andare.
«Di qua.» Josephine mi tirò per il
braccio. «Hai ragione per quanto riguarda le prime due. Volano e
sputano fuoco. Ed esistono.»
Imprecai sottovoce e poi dissi: «Per cui
sarà bene che cominci a pensare al mio epitaffio.»
Mi lanciò uno sguardo confuso.
«Perché è molto probabile che muoia. Per
la legge di conservazione della pericolosità.»
L’espressione della donna era ben oltre
la confusione.
«La legge di conservazione della
pericolosità. La pericolosità di una categoria è una quantità costante,
per cui se i suoi elementi sono pochi allora singolarmente sono
pericolosi e, viceversa, se sono tanti allora non lo sono. Le mosche
sono tante e non sono pericolose. Gli Aes Sidhe sono pochi e
decisamente più pericolosi. I draghi sono generalmente considerati
creature mitologiche e protagonisti della fiabe, quindi, visto che a
quanto pare esistono veramente, probabilmente ne esistono pochi e sanno
nascondersi bene. Per cui… » la conclusione era ovvia.
«Le zanzare sono tante ma possono
attaccarti la malaria.» replicò. «Il tuo ragionamento non
fila.»
Sbuffai.«Le zanzare in sé non sono
pericolose. Poi è una legge empirica. E l’ho inventata un paio d’anni
fa. Se ci pensi un po’, fila. Se un gruppo è formato da gente molto
potente è facile che si eliminino fra di loro o che vengano contenuti
da altri gruppi.» Mi fermai un attimo per cercare un esempio pratico.
«Pensa ai nosferatu. Quanti credi ne esistano in tutto il mondo?»
«Non so.» Mi indicò di svoltare a
destra. «Un centinaio?»
Mi misi a ridere. «Sei pazza? Se in
questo periodo storico ne esistono una dozzina è tanto. Non si vedono
molto bene fra loro e sono molto pignoli sui territori di caccia.»
«E quindi?»
«Quindi si uccidono fra loro. Voi
vampiri, invece…»
«Non sono un vampiro.» replicò,
vagamente scocciata. «Sono solo un’umana acqua e sapone.»
Riuscii solamente a balbettare un
“pensavo che” prima che m’interrompesse e continuasse a parlare.
«Invece i vampiri sono tanti e non
essendo molto forti singolarmente tendono a riunirsi in gruppi
numerosi.»
«Esatto.» replicai. «Quindi non oso
immaginare di cosa sia capace un drago, oltre al fatto che mi può
arrostire con un soffio.» Eravamo arrivati in un piccolo parcheggio.
«Qual è la nostra auto?» domandai.
«Questa.» rispose Riccioli d’Oro,
saltando in sella a una moto e mettendosi il casco. Diede un colpetto
dietro di sé.«Forza, salta su.»
Mi feci scappare un’esclamazione di
sorpresa. «Bella moto.» dissi, mentre salivo dietro di lei.
Accese il motore e disse: «Reggiti
forte.»
Mi appoggiai alla sua schiena,
stringendole un braccio intorno alla vita, e partimmo.
«Dove stiamo andando?» strillai, ma la
donna non mi sentii, coperta com’era dal casco.
Josephine sembrava essere una discreta
pilota e faceva lo slalom fra gli altri veicoli, infischiandosene di
gran parte del codice stradale. Quando cominciai a pensare che saremmo
finiti sotto un camion o in una cella della polizia tedesca, la donna
svoltò e c’infilammo in un parcheggio sotterraneo.
«Siamo arrivati.» disse, dopo essersi
tolta il casco. I capelli riccioluti le scesero disordinati sulla
schiena.
Scesi dalla moto. «Sul serio? Non
l’avrei mai immaginato.» replicai con un leggero accenno di sarcasmo.
«Dove siamo?»
«Il mio appartamento.» Entrammo
nell’ascensore e premette il pulsante del terzo piano.
«Ho proprio fatto colpo se mi fai salire
da te senza nemmeno averti pagato una cena.»
Josephine continuò a guardare avanti, ma
sorrise. «Cala, cala, Mr. McRoberts.» rispose. «Non sono così
disperata.»
«Dicono tutte così.»
La porta dell’ascensore si aprì e
uscimmo. Percorremmo uno spartano corridoio la cui unica decorazione
era un tappeto logoro. Josephine aprì una delle porte e mi fece segno
di entrare.
«Un attimo.» dissi, alzando una mano. Mi
guardai intorno, ma il corridoio era deserto a parte noi due. «Il tuo
appartamento è protetto da Portali sconosciuti?»
La donna si appoggiò alla porta e mi
guardò come se avessi detto un’eresia. «Mi pare ovvio. Per chi mi hai
preso?»
Mossi la mano destra come se stessi
aprendo una cerniera e un piccolo strappo dimensionale apparve là
accanto. C’infilai la mano e tolsi fuori il mio bastone. Chiusi il
Portale e mi passai l’arma da una mano all’altra, assaporando il
profumo di cera per legno con cui lo trattavo. Le dita corsero lungo
gli intarsi geometrici che correvano lungo la sua superficie: alcuni
servivano per amplificare la sua funzione di vettore, mentre altri
erano là solo perché mi piacevano come decorazioni. «Senza il mio caro
bastone mi sento come nudo.» scherzai.
«Scomodo e ingombrante.» commentò,
scuotendo la testa. Entrò nella appartamento e la seguii.
«Meglio una bacchettina come la tua? Chi
sei, Harry Potter?»
«Al massimo sarei Hermione.» Chiuse la
porta e mi fece accomodare in quello che sembrava essere un piccolo
soggiorno. O forse cucina. Più che un appartamento sembrava essere un
bilocale. Il mobilio era di alta qualità e la cucina sembrava essere
una di quelle console supertecnologiche che si vedono nei film di
fantascienza. La mia fervida immaginazione cominciò a pensare a torte
olografiche e altra assurdità, ma la voce di Riccioli d’Oro mi fermò.
«Bello il trucco per conservare il
bastone in un’altra dimensione.» disse. «Come funziona?»
Mi abbandonai a un sospiro a metà fra il
divertito e il lusingato. Mi massaggiai il mento - avevo assolutamente
bisogno di radermi - e risposi con soddisfazione: «Ti piacerebbe
saperlo.» Certi trucchi è meglio tenerli per sé. «Se vuoi approfondire
l’argomento ti posso consigliare un paio di quintali di libri tecnici
sull’argomento Portali.»
I Portali, usati soprattutto per la
magia di trasporto, in realtà sono applicazioni di un concetto teorico
molto più ampio: le intersezioni dimensionali, un parolone brutto per
un’idea abbastanza semplice. Circa. Immaginate una sfera
n-dimensionale. No, scusate, meglio di no, pensate invece a un semplice
cubo. Dentro di esso potete costruire altri piccoli cubi - o altre
figure a tre dimensioni - oppure dei poligoni o semplicemente dei
segmenti o dei punti. Ora supponiamo che il cubo di partenza sia il
nostro multiverso e tutti gli oggetti che ci possiamo costruire dentro
delle singole dimensioni. Queste possono essere completamente separate
fra loro, una contenuta nell’altra, oppure avere un’intersezione non
nulla. Quest’ultimo caso è il più interessante per il
trasporto magico. Pensate a due cubi con una faccia in comune: quando
ci si trova là si è contemporaneamente in due dimensioni differenti e
ci si può muovere liberamente fra l’una e l’altra. I Portali permettono
proprio questo collegamento. Se poi considerate che esistono infinite
dimensioni che s’intersecano con la nostra e, soprattutto, che questo
ragionamento va fatto non su tre, ma su infinite dimensioni geometriche
capirete l’ampia area di sperimentazione su cui si può lavorare.
«No, grazie.» replicò, delusa. «Non sono
molto abile con la teoria, probabilmente non ci capirei nulla. Per
quando riguarda il mio modo di usare la magia propendo più verso
l’essere una strega.»
«Non sono mai stato bravo con la
terminologia, che differenza c’è fra stregoni e maghi?» Mi sedetti al
tavolo, mentre lei metteva un bollitore sul fuoco.
«Pensavo che queste cose a Xiam ve le
insegnassero.» rispose, sedendosi di fronte a me. «Voi maghi siete
quelli che hanno studiato, quelli che hanno completato gli esami al
Dipartimento di Studi Magici, o quasi.» Le sue labbra sottili si
allargarono in un vago sorriso. «Siete un po’ gli ingegneri della
magia. Avete le vostre regole e le vostre tecniche e le applicate per
ottenere il risultato più efficiente.»
Annuii. Cercai di non mostrarlo, ma ero
lievemente contento. La signorina aveva fatto il proprio compitino e
conosceva il mio curriculum scolastico. Probabilmente aveva
fatto qualche domanda a Robert e spulciato qua e là su Internet. Visto
che dovevo lavorare con lei, sapere che era una professionista era
un’ottima cosa.
«Gli stregoni, invece, sono come, non
so, come dei musicisti.» continuò Josephine. «Qualcuno diceva che la
musica dà alla gente il piacere della matematica senza bisogno di
conoscerla. Gli stregoni usano la magia d’istinto, senza appoggiarsi a
regole razionali, ma seguendo i fili già tessuti dalla Natura.»
«Quindi fanno le cose un po’ a casaccio
e sperano che funzionino.» dissi, tamburellando le dita sul tavolo. «È
un metodo che non mi piace.»
«Però è altrettanto valido.» replicò
stizzita. «Non si fanno cose a casaccio, nessuno ci tiene a esplodere.
Si cerca di modificare a proprio vantaggio ciò che già esiste anziché
congiurare dal nulla palle di fuoco o fulmini globulari.»
«Cosa sai dei draghi? Sembri molto
informata.» dissi per cambiare argomento. Quel modo di fare magia non
mi piaceva per nulla e la mia considerazione per lei era calata. La
magia non è qualcosa che s’improvvisa dall’oggi al domani: va
studiata, conosciuta e applicata.
«Per farla breve, sono creature magiche
che ottengono il proprio potere dall’accumulare.»
«Dall’accumulare? Che significa?»
«Hai presente i classici draghi con il
tesoro nella propria tana?»
«Smaug nella Montagna Solitaria? Sì,
certo.» replicai. Il bollitore cominciò a fischiare. «E il potere di un
drago è misurato, no, è proporzionale a quanti tesori ha accumulato
nella propria tana?»
Josephine si alzò per spegnere il
fornello e rispose: «Sì, circa. Non è necessario che siano tesori come
oro e gemme, può essere qualsiasi cosa per cui il drago prova
attrazione.» Posò due tazze sul tavolo e mi porse
una scatola piena di bustine di tè.
Ne presi una di Earl Grey e riempii la
tazza. «Sto pensando a un vecchio cartone della Disney, dove Cip e Ciop
accumulavano nocciole nella loro tana nell’albero. Non dirmi che ci
sono draghi raccoglitori di nocciole o collezionisti di figurine dei
calciatori.»
«Zucchero?» domandò. Sollevò il
cucchiaino, ma al mio cenno di rifiuto si bloccò. «Non credo sia così
semplice. Il drago deve avere un legame affettivo con il proprio tesoro
e il potere emanato da esso dipende anche dalla rarità degli oggetti.
Altrimenti perché gli antichi draghi collezionavano oro e pietre
preziose e non patate e rape?»
«Per fame di potere.» risposi,
pensieroso. «E il nostro drago cosa colleziona?»
«Donne.»
Feci cadere il cucchiaino sul tavolo.
«Donne?» ripetei.
«Donne, hai capito bene. Glavnyognya
colleziona donne. E quando non è lui a rapirle le fa rapire da altri.
Dai suoi cultisti o dai suoi servitori.»
«O mio dio.» esclamai. «Comincio a
capire il piano di Greta e Robert.» Ora che i pezzi del puzzle
cominciavano a saltare fuori era possibile comporre l’immagine.
Glavcoso era il bulletto del quartiere e maltrattava i
vampiri e i mannari rubando loro i soldi per la merenda. Probabilmente
richiedeva un qualche pagamento in donne per la sua collezione. Robert
e Greta, chiaramente, non potevano contrastarlo in maniera diretta e
avevano pensato che rubando chissà quale misterioso artefatto a cui era
affezionato avrebbero potuto ricattarlo.
Sorseggiai un po’ di tè e osservai
Josephine. Aveva gli occhi puntati su di me e stava studiandomi. Robert
e Greta non aveva accennato ai perché del mio lavoro, per cui
probabilmente era curiosa di sapere quanto avessi elaborato per conto
mio dalle informazioni che mi aveva dato.
«Quindi dobbiamo rubare il misterioso
cosino per ricattare Glavcoso, affinché non costringa la tua signora a
inviare il femmineo tributo.»
«Esatto.» rispose. Poi si mise a ridere.
«Nessuno però l’aveva mai chiamato “femmineo tributo”.»
«È comunque una missione impossibile.»
replicai. Allontanai la tazza e mi alzai. Non che il tè non fosse
buono, però lo stomaco mi si era rivoltato al pensiero delle donne
imprigionate nella tana del drago. «Dobbiamo rubare un oggetto di cui
non conosciamo né la forma né la locazione.» Scossi la testa. «È
impossibile.»
Josephine continuava a sorseggiare il
suo tè, senza dar segno di nessuna preoccupazione. «Cerca una
soluzione, se vuoi rivedere la tua fatina.» disse senza perdersi in
troppi giri di parole.
In genere reagisco male quando vengo
minacciato, ma in questo caso non c’era nulla che potessi fare. In quel
momento Chiara era fuori dalla mia portata, non avevo nemmeno idea di
dove la tenessero. L’unico modo per aiutarla era completare il lavoro,
assumendo che il drago si facesse ricattare e non incenerisse tutti
quanti per recuperare il suo artefatto.
«Visto che non conosciamo chi possiede
l’oggetto, suppongo che il drago sia mimetizzato fra la popolazione di
quel villaggio.»
La donna fece un cenno d’assenso.
«Sappiamo per certo che vive là in forma umana e che probabilmente usa
un’identità russa.»
«Russa?»
«Sì. O almeno credo. Glavnyognya ha
vissuto in Russia negli ultimi secoli e penso abbia assimilato un po’
della loro cultura. Del resto i russi sono stati i primi a dargli un
nome.»
«E perché si è trasferito qua?» domandai.
Alzò le braccia e scosse la testa. «Non
ne ho la minima idea.»
Quel punto non era banale. Se sei un
pezzo grosso come un drago e una creatura abitudinaria, come qualsiasi
essere che ha vissuto per millenni, non abbandoni il tuo territorio
senza un valido motivo. Le cause potevano essere due: Glavcoso aveva
visto nella Foresta Nera una migliore sorgente di potere; qualcuno più
grosso di lui l’aveva fatto sloggiare dai suoi vecchi territori. Nel
primo avremmo avuto a che fare con un tizio estremamente geloso del
proprio territorio, nell’altro con uno abbastanza adirato per essere
stato cacciato dalla sua antica casa. Non male come possibilità.
Mi passai una mano fra i capelli. Dopo
due giorni di viaggi per l’Europa non ero certo pulito e profumato. «Ho
assolutamente bisogno di una doccia.» dissi. «Magari pensare sotto
l’acqua mi farà venire qualche idea.»
Josephine si alzò e mi fece strada verso
la stanza adiacente. Doveva essere la sua camera da letto, perché c’era
un letto a due piazze, un armadio a quattro ante e una cassettiera con
specchio di fattura antica. M’indicò una seconda porta e disse: «Là c’è
il bagno.» Frugò nell’armadio, prese un asciugamano e me lo tirò. «Non
consumare troppa acqua calda.» Poi prese una busta di plastica e la
posò sul letto. «Vestiti di ricambio.»
Stracciai la busta - sarò pure un mago,
ma non riesco comunque a sciogliere i nodi nelle buste di plastica - e
ne esaminai il contenuto: un paio di boxer, delle calze di spugna, un
paio di jeans, una t-shirt bianca e una felpa nera con una scritta
rossa, “It’s just a flesh wound”. Sorrisi, era un classico.
«Eri certa che avrei accettato?»
domandai.
Sorrise. «Chi fai il tuo mestiere non
vive a lungo se non impara in fretta a scegliere i lavori giusti.»
Mi tirai l’asciugamano sulla spalla e
dissi con accento italo-americano: «Tendo sempre ad accettare le
offerte che non posso rifiutare.»
Josephine mi regalò uno sguardo
divertito e tornò nel soggiorno.
L’acqua calda che mi scendeva lungo la
schiena mi aiutò a rilassarmi e a pensare. La situazione in cui mi
trovavo non era fra le più desiderabili, ma era meglio che essere
morto. Certo, avrei potuto diventarlo entro pochi giorni, dato che
dovevo pestare i piedi a un drago, ma almeno ci si poteva lavorare.
Andare a testa bassa contro una creatura di quella forza era un
suicidio, per cui dovevo giocare di finezza. Individuare l’oggetto,
rubarlo e filarmela prima che il drago potesse accorgersi di me. Poi,
una volta consegnato il coso a Robert e Greta, filarmela con Chiara
verso qualche spiaggia tropicale. Facile a dirsi.
M’insaponai con calma, gustando il
piacevole tepore dell’aria all’interno del box doccia. La linea
d’azione tipica per casi di questo tipo era di usare un rituale di
ricerca. Il problema, però, era che non avevo nulla su cui basarmi. Per
trovare qualcosa avevo bisogno di qualcos’altro legato a esso: una sua
parte, un altro oggetto dello stesso proprietario o un suo simile di
potenza equivalente. L’ultimo punto era sensato solo per cercare
oggetti o persone così potenti che non ne esistevano molti esemplari.
In caso contrario, l’energia del rituale si sarebbe dispersa fra troppi
obiettivi, rendendolo completamente inutile.
Chiusi l’acqua e mi asciugai. Poi mi
avvolsi l’asciugamano alla vita e uscii dal bagno. Profumavo di fragole
e albicocca. Neil McRoberts, famigerato mago-mercenario, che profumava
come un cesto di frutta. Osservai la stanza di Josephine mentre mi
vestivo. Non c’era nessun elemento decorativo e l’unico soprammobile
era un vaso con dei fiori finti, alquanto vecchio. L’unico indizio che
mostrava la presenza di una persona era un libro sul comodino. Lo presi
in mano e lessi il titolo: La contessa e lo stalliere. Uno di quei
libri di porno per donne, con decine di pagine di minuziose descrizioni
dei muscoli dello stalliere e centinaia di similitudini per indicare
l’organo maschile.
«Alla fine lei rimane incinta, ma lo
stalliere muore, ucciso dal malvagio conte.» disse una voce alle mie
spalle.
«Oh, no! Ora che so come finisce non
potrò gustarmi questo capolavoro.» esclamai, mentre poggiavo quelle
cinquecento pagine di letteratura colta. In quel momento notai qualcosa
sul comodino, una piccola spilla dalla forma particolare, ma prima che
potessi capire cosa fosse Josephine mi si parò davanti. Mi diedi due
colpetti alla pancia e dissi: «E ora pappa. Cosa hai preparato di
buono?»
Sorrise. «Non sono la tua cameriera,
Neil. Se hai fame possiamo…»
«Certo che ho fame.» borbottai. «Il tuo
amico verde mi ha costretto a viaggiare in tutta fretta e in due giorni
ho mangiato un gelato a Nizza e un panino a Ginevra!»
«Se vuoi possiamo andare a un fast food
qua vicino.» disse la donna.
«Un invito a cena!» Ridacchiai. «Però
paghi tu.»
Scosse la testa e tornò in cucina. Feci
per seguirla, ma prima guardai nuovamente sul comodino per esaminare la
spilla. Era una croce greca e su ogni braccio era avvolto un fiore
stilizzato: un tulipano, un giglio, un’orchidea e una malvarosa. Mi
sembrava di conoscere quel simbolo e mi chiesi se la Fratellanza della
Notte di Valpurga avesse cominciato a produrre del merchandising. Presi
la spilla e me la rigirai fra le dita.
Esistono due giorni che sono molto
importanti per i cicli magici: la Notte di Valpurga e la Notte di
Ognissanti. Non sono importanti per qualche strano allineamento
astronomico o per qualche buffonata astrologica, lo sono perché le
persone li hanno resi importanti. Sono due giorni in cui vengono
festeggiate tradizioni di culti antichissimi, poi assimilati da
religioni meno antiche come il cristianesimo e infine inglobate nella
venerazione del grande Dio Consumismo, ma sto divagando. Sono
importanti per i maghi perché sono due feste talmente radicate nel
mondo e nelle coscienze che durante il loro svolgersi l’energia magica
viene purificata, amplificata. In quelle notti è possibile eseguire con
facilità incantesimi che di norma non si è in grado di eseguire. Gruppi
come la Fratellanza della Notte di Valpurga sfruttano quelli notti per
preparare grandi rituali per grandi scopi come salvare gli alberi o
abbattere le malvagie multinazionali; gente come me evoca tre demoni
egiziani per giocare a poker. Il vecchio Sehaqeq mi deve dodici ettari
di terre sul Nilo. Sapere che Josephine facesse parte della Fratellanza
era una notizia curiosa: solitamente i membri di questi gruppi sono
degli hippie-abbraccialberi o dei wiccan, non gente che lavora nel mio
campo e sa uccidere un uomo in almeno dodici modi differenti.
«Allora, ti sbrighi?» gridò Josephine
dall’altra parte della stanza.
Posai la spilla e tornai in cucina, dove
la donna mi attendeva con una pistola in mano. Allenamento e abitudine
reagirono istantaneamente alla minaccia e mi preparai ad evocare uno
scudo, ma non fu necessario perché me la passò.
«Meglio avere un’arma a disposizione,
non si sa mai.» mi disse.
Era una SIG P226, una 9mm dalle
dimensioni contenute. Feci scorre il carrello per verificare che non ci
fosse un colpo in canna, poi estrassi il caricatore e controllai che
fosse carico. Lo reinserii, misi la sicura e me la infilai nei jeans,
coprendola con la felpa.
Josephine ripeté le stesse azioni con
una seconda pistola e poi mi disse: «Forza, andiamo, Fragolino.»
Quindici minuti e tre quasi-incidenti
motociclistici dopo eravamo nel fast-food, seduti a un tavolo con un
vassoio di cibi killer davanti. Non sono un grande fan del junk food,
ma una volta ogni tanto non è un crimine. In quel momento non è che
avessi molta scelta e non potevo certo fare il sofisticato.
«Che altre informazioni abbiamo
sull’obiettivo?» domandai dopo aver addentato l’hamburger.
«Sappiamo solo che il drago si nasconde
fra la popolazione del villaggio e che ha un culto di seguaci che lo
adora come un dio.»
«Di bene in meglio. Che resistenza
dobbiamo aspettarci? PMC, fanatici, creature sovrannaturali?»
«Soprattutto fanatici, ma probabilmente
il drago avrà un cerchio di fedelissimi abbastanza preparato.»
«E a livello magico? Quanto devo
aspettarmi da Glavcoso?»
Josephine bevette un po’ dalla cannuccia
della sua bevanda, rifletté un attimo e poi disse: «Per quel che ne so
può essere un totale ignorante oppure un fottuto arcimago con le palle
d’acciaio.»
Una signorina raffinata. «Capisco che
viste le capacità combattive di un drago non dovrei preoccuparmi di
queste sciocchezzuole, ma sono curioso di sapere se oltre ad
arrostirmi, divorarmi e farmi a pezzi può anche trasformarmi in un
grillo.» Non che le trasformazioni in insetti fossero particolarmente
sensate, ma era più incoraggiante rispetto a “teletrasportarmi nello
spazio siderale” o “farmi fare un bagnetto nel magma”. Spiluccai un
paio di patatine dalla sua porzione.
«Ehi, fermo!» Mi diede un colpo alla
mano. O almeno ci provò, visto che fui più veloce di
lei.
Morsicai la refurtiva e sorrisi
soddisfatto.
«Come ogni creatura sovrannaturale, di
solito i draghi non s’interessano allo studio delle arti magiche
Preferiscono usare la propria energia nella maniera più naturale.»
continuò Riccioli d’Oro.
«Super forza e super velocità come
folletti e vampiri?» domandai.
Josephine ridacchiò. «Quando sei lungo
dodici metri dalla testa alla coda e pesi un paio di tonnellate non hai
bisogno di super forza o super velocità.»
Immaginai un corpo di diverse tonnellate
muoversi alla velocità del suono: era una scena abbastanza inquietante.
«In genere usano l’energia magica per
rimanere in forma umana e per volare e sputare fuoco o altro.» continuò
lei, finendo l’ultimo morso del suo hamburger. «Non penserai certo che
possano volare solo grazie alla loro muscolatura?»
Alzai le spalle. Non ero esperto di
uccelli o rettili volanti o qualsiasi cosa fossero i draghi, una cosa
però mi aveva incuriosito. «Sputare fuoco o altro?»
«In genere incendiano del metano che
producono tramite la digestione, ma in altri casi utilizzano sostanze
acide o narcotizzanti oppure producono correnti d’aria…»
«Rutti magici. Sempre meglio.»
«… per cui è molto raro
trovare draghi che praticano seriamente l’arte magica.»
continuò, ignorandomi.
Tolsi il tappo della mia bevanda e
bevetti direttamente dal bicchierone di plastica. Odio le cannucce.
«Com’è che sai tutte queste cose sui draghi?»
«Ne ho conosciuto uno. Il nome Huísheng
ti dice qualcosa?»
«Purtroppo sì.» Chiunque abbia studiato
un po’ di geometria ritualistica o abbia fatto qualche lettura su
rudimenti di taumaturgia conosce quel nome e ha imparato a imprecarci
contro. Il teorema di Huísheng è una delle cose più intricate che abbia
mai incontrato e ogni studente di magia ci sbatte il muso contro almeno
una dozzina di volte. «E sarebbe un drago?»
Josephine annuì. «Vive in un piccolo
eremo in Mongolia e possiede una biblioteca di almeno cinquantamila
libri, fra cui dei pezzi antichissimi.»
«Lui è un fottuto arcimago con le palle
d’acciaio, no?» commentai.
Sorrise. «Non è una persona che mi farei
nemica. È l’eccezione che conferma la regola.»
Nessuno vorrebbe inimicarsi il genio
magico che ha dimostrato il Teorema di Huísheng. Feci per replicare con
qualche fantastica battuta, quando degli spari infransero le porte a
vetri del locale. La gente cominciò a strillare e un paio di uomini con
dei passamontagna entrarono. Erano tutti armati con pistole.
Riccioli d’Oro e io, abituati a trovarci
in certe situazioni, ci buttammo subito a terra ed estraemmo le armi
contemporaneamente, come un’affiatata squadra di nuoto
sincronizzato. Avevamo preso un tavolo sul muro, accanto a
una di quelle porte “Accesso riservato al personale” molte comode per
svignarsela in caso di guai. Uno degli uomini gridava qualcosa in
tedesco. Non sapevo cosa stesse dicendo, però ero certo che non fosse
una barzelletta. Guardai interrogativamente Josephine che mi sussurrò:
«Sta dicendo di stare calmi e che nessuno si farà male. Stanno cercando
dei vecchi amici.»
Chissà perché avevo il sospetto che si
riferisse a noi. «Sei pronta a correre ?»
«Sono nata pronta.»
«Allora infiliamoci nella porta di
servizio e vediamo di levarci dal loro raggio di tiro, dopo cercheremo
di capire chi diavolo sono. Prima scappare, poi ragionare.»
Mi spostai lentamente verso la porta, ma
sicuramente non avremmo fatto in tempo ad evitare il contatto con i
cattivoni. Se cercavano noi - e chi altrimenti? Di certo non cercavano
il ragazzino ciccione o la coppietta di sedicenni nei tavoli accanto al
nostro - al primo movimento ci avrebbero identificato. Tanto
valeva attaccare per primi.
Mi alzai e puntai la pistola verso gli
uomini. Reggevo il bastone con la mano destra, per cui sparai tenendo
la pistola con una mano sola. Nono sono mai stato un eccellente
tiratore, figuriamoci impugnando male l’arma. I proiettili sibilarono
intorno ai bersagli, che si buttarono a terra.
«Vai!» urlai a Josephine, la quale
scattò verso la porta di servizio. Continuai a sparare, affinché gli
uomini tenessero la testa basta. Non appena aprì la porta, fu lei a far
fuoco per coprirmi. Una volta che anche io entrai, chiuse la porta e
scappammo per i corridoi. Non avevo bene idea di dove
stessimo andando, ma l’importante era mettere più angoli possibili fra
noi e gli inseguitori.
«Sai chi diavolo sono?» gridai.
«Non ne ho idea!»
«C’è un infiltrato nel clan di Greta.»
Arrivammo a una porta tagliafuoco.
Josephine si fece avanti per aprirla, ma la trattenni per un braccio.
Misi l’indice sulle labbra e la tirai indietro. Drizzai le orecchie ma
non sentii nessun rumore oltre la porta. Comunque non avevamo tempo per
certe sottigliezze. «Io esco per primo» dissi sottovoce «tu pensa a
disarmare il cattivone che mi sparerà addosso. Lo voglio vivo.»
Fece cenno di aver capito e aggiunse:
«Come fai a sapere che c’è qualcuno fuori?»
«Vuoi scommettere?»
Non attesi risposta e spinsi il
maniglione antipanico, evocando contemporaneamente uno scudo magico.
La rosa di pallini avrebbe dovuto
centrarmi in pieno petto, invece si fermò a pochi centimetri da me e
l’energia cinetica si trasferì verso di me, facendomi barcollare un
attimo. Alle mie spalle sentii Josephine esclamare qualcosa di molto
simile a “Expelliamus”. Il cattivone - un uomo vestito in pelle e con
un passamontagna, come i suoi amici che ci stavano inseguendo - era
sdraiato a terra, il fucile qualche metro più indietro. Non persi
tempo, mi avvicinai a lui e lo colpii in faccia con la punta del
bastone.
L’uomo sputò sangue e mi urlò qualcosa
in tedesco, magari quanto fosse sexy la mia chioma scompigliata. Non
feci complimenti e lo colpii una seconda volta, poi gli misi il piede
sulla gola. Mi rivolsi a Josephine e dissi: «Chiedigli chi lo manda.»
Aumentai la pressione del piede; non avevamo tempo da perdere, i suoi
compagni sarebbero arrivati fra poco.
Riccioli d’Oro cominciò a parlare in
tedesco e l’uomo scuoteva la testa e rideva, facendo lo sbruffone.
Purtroppo, però, non era in una posizione per farlo né io avevo il
tempo per certe cazzate. Lo colpii ancora una volta col
bastone e poi evocai una palla di fuoco, facendomela girare
intorno alla mano.
L’uomo continuò a ridere sguaiatamente,
ignorando le domande insistenti di Josephine. Al diavolo! Lanciai il
dardo infuocato sul petto dell’uomo e poi corsi verso la porta.
Mormorai un incantesimo veloce per bloccarla e come ulteriore sicurezza
ci misi davanti un bidone della spazzatura. L’uomo si rotolava a terra
urlando, e Josephine mi guardava stranamente, forse disturbata dalla
mia azione.
«Non hai mai visto un uomo bruciare?»
domandai ironico. «Forza, datti una mossa e andiamo via.»
«Non ti sembra di aver esagerato?» mi
disse, mentre correvamo per i vicoli. «C’era bisogno di ucciderlo?»
«Non credo sia morto e comunque volevi
che c’inseguisse e indirizzasse i suoi amichetti?»
Dopo un paio di minuti di svolte a caso
ci ritrovammo in un parcheggio davanti a un supermercato. Mi frugai
nelle tasche e trovai il pacchetto di fazzoletti di carta che mi porto
sempre appresso per ogni evenienza. Ne offrii uno alla donna che fece
cenno di no con la mano.
«Prendine uno e soffiati il naso, oppure
sputaci, come preferisci. Mi serve qualcosa di te e quelli sono i
liquidi più veloci da… produrre.»
La donna mi guardò con un’espressione
abbastanza disgustata, ma prese il fazzoletto. Io feci lo stesso e mi
soffiai il naso, poi appallottolai il fazzoletto e mi chinai.
«Hai qualcosa per scrivere sull’asfalto?
Un gessetto o qualcosa di simile.» Allungai la mano e mi feci dare il
suo fazzoletto.
Josephine si frugò nelle tasche e tolse
fuori un rossetto. «Questo può andare.»
Alzai la mano e me lo lanciò. Intanto
avevo posato i due fazzoletti, contenenti parte di noi, a una certa
distanza uno dall’altro. Aprii il rossetto e tracciai due tremolanti
circonferenze intorno a essi. Scrissi altri simboletti tutto intorno e
poi posai la mano sulle linee di un rosso intenso, rilasciando
abbastanza energia magica per attivare l’incantesimo. Mi alzai in
piedi, soddisfatto per il risultato, e allungai il rossetto verso
Riccioli d’Oro.
«No, grazie.» disse, rifiutandolo.
«Dubito che ora possa servirmi a qualcosa.»
Scossi le spalle e m’incamminai,
allontanandomi dal luogo dell’incantesimo. Josephine mi seguì
a ruota.
«Hai fatto quello che penso tu abbia
fatto?» mi chiese.
«Se pensi che abbia costruito un’esca
per un rituale di ricerca indirizzato a noi, sì.»
I rituali di ricerca erano i più
semplici incantesimi per trovare una persona. Non abbastanza semplici,
però, da poter essere utilizzati da un singolo mago, i rituali,
infatti, richiedono una preparazione spaziale con diagrammi e vettori e
richiedono diverse persone per tenerli attivi. I fattori limitanti sono
la necessità di possedere una qualche parte della persona da trovare -
capelli, unghie, liquidi o altro - e la grandezza dell’area di ricerca.
Se non ricordo male, vi è una relazione quadratica fra l’area in
chilometri quadrati e il numero di maghi di primo livello richiesti per
il rituale.
Io avevo semplicemente costruito due
spaventapasseri per depistare gli inseguitori. Si era trattato di
utilizzare delle parti di noi e amplificare il loro “segnale” tramite i
cerchi e i simboli che avevo disegnato col rossetto, in tal modo il
rituale avrebbe indirizzato gli inseguitori verso i fazzoletti, dandoci
il tempo di seminarli completamente. Qualche anno fa ero sulle tracce
di un mago della Yakuza, per via di una questione di debiti di gioco.
Il bastardo mi aveva fatto sudare sette camicie solo per riuscire ad
individuarlo e ci misi un paio di giorni per raggiungerlo. Finalmente
ero certo di averlo rintracciato in un love hotel a Shibuya. Entrai di
corsa nella sua stanza deciso a provocare un finimondo, ma rimasi
deluso. Ci trovai soltanto una ragazzina vestita, anzi svestita, da
Sailor Moon e un preservativo usato circondato da simboli magici.
«Capito.» replicò. «Nei sei certo? Che
ci stiano cercando con un rituale, intendo.»
«No, ma è sempre meglio pensare alla
peggiore delle ipotesi.»
«Prima dicevi che c’era un infiltrato
nel clan Schwarz.» Era il nome del clan di vampiri di Greta Zimmermann.
«Non credi? Dei misteriosi uomini
mascherati ci attaccano un’ora dopo aver parlato con due vassalli di
Glavcoso, i quali stanno progettando una ribellione.»
«E quindi decidono di farci fuori per
far vedere loro che non si fa.»
«Esatto. Ora però abbiamo bisogno di un
rifugio sicuro, un luogo protetto dai rituali.»
Annuì e prese il cellulare. Premette un
tasto e mi disse: «Come puoi sapere che l’infiltrato sia nel clan di
Greta e non sia qualcuno del branco del tuo amico mannaro?»
Feci spallucce. «Onestamente non me ne
può fregar di meno di chi sia la talpa. Sono affari vostri. Non appena
avrò finito il lavoro e libererete Chiara me ne andrò da qua e non sarà
più un mio problema.»
Josephine si mise a parlare al telefono.
Dopo un minuto chiuse la comunicazione e mi disse: «Un’amica sta
venendo a prenderci.»
«Bene.» Sorrisi. «C’è qualche
possibilità per un ménage à trois?»
«Dubito.»
Tornai serio. «Possiamo fidarci?»
«È il braccio destro e guardia del corpo
di Greta. Se c’è un traditore, lei è interessata quanto noi a
identificarlo ed eliminarlo. È una persona fidata.»
«È sempre così. Poi si scopre che l’uomo
più fidato del mondo aveva bisogno di soldi.» risposi. Solitamente, i
motivi di un tradimento sono tre: soldi, la persona è avida e vuole
mettere da parte un gruzzoletto per la pensione; l’ideologia, il
fanatismo è il più grande motore del mondo, dopo i soldi, ovviamente;
infine c’è la costrizione. Una persona può venire ricattata in cambio
d’informazioni.
«Guadagna in un mese quanto un PMC di
una compagnia privata può guadagnare in un anno. Non ha problemi di
soldi.»
«Può essere stata compromessa? Che so,
ha uno stile di vita discutibile o qualche vizio su cui si potrebbe
fare leva?»
Josephine scosse la testa. «È un
soldato, figlia di soldati e nipote di soldati. Sua padre era uno
spetsnaz e la nonna era un cecchino che ha combattuto a Stalingrado. Il
suo unico vizio è l’attività fisica.»
«È russa» dissi «come il drago.» Ecco il
motivo ideologico.
«E quindi?» replicò irritata. «Che
diavolo c’entra? E poi il drago non è russo, ma ha razziato la Russia,
è una cosa ben diversa. E come puoi pensare che una donna possa aiutare
un drago che rapisce ragazze?»
Non aveva tutti i torti, era abbastanza
improbabile.
Alzai le braccia e dissi: «Mi fido.»
Alla fine m’importava relativamente. Se
la missione fosse andata a donnine di facili costumi, me la sarei
svignata veloce come il vento. Da morto difficilmente avrei
potuto aiutare Chiara.
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Capitolo 3 *** 3. ***
Stavamo aspettando
l’amica di Riccioli d’Oro alla pensilina di una fermata dell’autobus
quando una berlina grigia si fermò accanto a noi. Aveva i vetri
oscurati e mi dava l’idea di costare molto più di quanto mi sarei
potuto permettere. Josephine si alzò in piedi e il finestrino del
guidatore si abbassò.
«Li avete seminati?» disse una voce
femminile proveniente dall’interno dell’auto.
«A quanto pare sì.» rispose la donna.
Aprì la portiera posteriore ed entrò nel veicolo.
Mi alzai e la seguii, andando però a
sedermi accanto al guidatore. «Salve.» salutai, mentre mi accomodavo e
mettevo la cintura. «Grazie per il passaggio, tesoro.»
In risposta mi giunse un mugugno di
assenso e poi l’auto ripartì, silenziosa come una cornamusa in una fuga
di Bach. Mi voltai e riconobbi il guidatore: era Zuccherino. Indossava
un paio di pantaloni da ginnastica rosa e un piccolo top sportivo nero
che le lasciava scoperto l’addome; i capelli castani erano raccolti
disordinatamente sopra la nuca, tenuti così da una penna, e portava
degli occhiali da vista dalla montatura rossa. Era decisamente un
belvedere.
«Grazie, Yelena.» disse Josephine,
sporgendosi dallo spazio fra i sedili anteriori. Si girò verso di me e
aggiunse: «Casa sua è sicura e stanotte dormiremo da lei.»
«Ottimo.» borbottai poco convinto. Sei
mesi prima, quando il mio rifugio più sicuro era stato invaso da un
gruppo di vampiri aiutati da chissà chi e da un Lord della corte fatata
sarda, avevo perso fiducia nei luoghi protetti. «Comunque siamo
compromessi. Il drago sa chi siamo.»
«Non è detto che fossero uomini del
drago.»
«No?» replicai esasperato. «Il tizio che
abbiamo provato a interrogare ha preferito farsi bruciare piuttosto che
rispondere alle domande. Abbastanza fanatico per essere un membro del
culto che adora Glavcoso, no?»
«Glavcoso?» ripeté Yelena.
«Tendo a non memorizzare i nomi di
creature con cui non voglio avere nulla a che fare.» risposi; con la
coda dell’occhio la vidi sorridere.
«Comunque sia» disse Josephine,
interrompendo la mia lamentela «compromessi o no, non sei in posizione
per abbandonare il lavoro.»
«Ovviamente.» risposi. «Domani mattina
andremo al villaggio. Tanto vale mettere subito le carte in tavola.»
«Vuoi affrontare di petto Glavnyognya?»
esclamò Yelena. «Sarebbe una follia! Nemmeno il leprecauno ha voluto
farlo.»
«Secondo me non gli avete offerto
abbastanza.»
Yelena sbuffò. «Ha detto che non c’erano
abbastanza pentole d’oro in tutta l’Irlanda per convincerlo ad attaccar
briga con un drago.»
Ridacchiai. «Comunque non sono così
idiota da volerlo affrontare faccia a faccia. Intendo dire che la cosa
migliore da fare è andare là, cercare di finire il lavoro il più in
fretta possibile e poi scappare, prima che si rendano conto che siamo
là.»
«Come facciamo per i rituali di
ricerca?» domandò Josephine. «Non possiamo spargere fluidi corporei in
giro per tutta la Foresta Nera.»
Yelena tossì come se qualcosa le fosse
andato di traverso. «Cosa?» esclamò.
«Nulla di che.» replicai. «È un metodo
veloce per disturbare i maghi che cercano di rintracciarci.»
La donna scosse la testa, poi scalò la
marcia e svoltò, entrando in un vialetto. Spense la macchina e disse:
«Siamo arrivati.»
Scesi dall’auto e mi trovai di fronte a
una di quelle case di stile moderno, con angoli strani, tante vetrate e
nulla che potesse assomigliare a una rustica casetta germanica.
Zuccherino ci fece strada fino all’ingresso. Mentre mi camminava
davanti cercai di non guardarle il fondoschiena, ma si rivelò
un’impresa impossibile: era un piccolo capolavoro. L’interno mi diede
la stessa impressione dell’esterno: mobili dallo stile strampalato,
superfici metalliche lucide come uno specchio, ambienti
assimetrici e luci a fluorescenza che sembravano rubate da un ospedale.
Nel soggiorno c’era un tapis roulant, su cui era appoggiato un
asciugamano e una bottiglia d’integratori mezzo vuota. Di fronte a esso
una TV, un cinquanta pollici al plasma, era accesa con l’immagine
bloccata su un’esplosione.
«Avete interrotto la mia sessione serale
di ginnastica.» commentò la donna, mentre andava verso quella che
doveva essere la cucina: un insieme di piani d’alluminio che facevano
sembrare dell’età della pietra quella di Josephine. Tirò fuori una
bottiglia di vino e tre bicchieri. Josephine si fece riempire il
bicchiere, mentre io rifiutai cortesemente e chiesi invece un bicchiere
d’acqua.
«Astemio?» chiese Yelena.
Scossi la testa. «Non bevo mai quando
lavoro.»
«Capisco.» replicò, dopo aver bevuto un
sorso.
«Hai qualche idea su come possiamo
capire cosa dobbiamo trafugare?» chiese Josephine.
Mi concentrai sul mio gustoso bicchiere
d’acqua. Mille idee mi ronzavano per la testa, ma nessuna sembrava
essere attuabile. Trovare un oggetto che non si conosceva. Era una
sfida che mi coinvolgeva. Come potevo usare le mie abilità nel campo
della magia per risolvere l’enigma? Non avevo a disposizione nessun
indizio per ridurre il campo di ricerca, se non che Glavcoso avesse
vissuto in Russia per diverso tempo. Pensare che l’oggetto misterioso
fosse una matrioska o un uovo Fabergé era abbastanza ridicolo e al
massimo sarebbe successo in un romanzo di bassa lega. Non mi veniva in
mente nessun incantesimo che potesse tornarmi utile. Mi serviva un
aiuto.
«Mic!» dissi a voce alta, guadagnandomi
delle occhiate in tralice da parte delle donne.
Un fuoco fatuo apparve nella stanza,
danzando a mezz’aria come… come un fuoco fatuo. Schizzò via
all’improvviso e cominciò a ronzare per tutta la stanza, fermandosi
ogni tanto, in particolare per girare intorno alle due donne. Infine mi
passò rasente alla testa, scompigliandomi i capelli, e si fermò davanti
a me.
«Non ci credo.» disse. «Neil in
compagnia di due donne.» Si girò verso di loro. «Quanto vi ha pagato?»
«Piano con le sciocchezze, Mic.»
rimbrottai, un po’ scocciato dai loro sguardi fra il divertito e
l’indignato. «Non mettermi in cattiva luce raccontando fandonie, ho
bisogno di una consulenza.»
«Cos’è? Una specie di fata?» domandò
Yelena.
«Ti pregherei di non paragonarmi a nulla
di questa dimensione, donna.» replicò Mic con un tono che faceva
trasparire tutta la sua indignazione per quell’ipotesi.
«È uno Spirito della Conoscenza.»
mormorò Josephine, stupita. «Come fai a possederne uno?»
Alzai le spalle. «Primo, non lo
possiedo. Secondo, mi ha scelto lui.»
«Siamo un po’ come i gatti.» aggiunse il
fuoco fatuo.
Mic è il mio Spirito Personale. È un po’
il mio mentore per quanto riguarda l’arte magica, anche se io a volte
lo definisco scherzosamente come un parassita che approfitta di me per
intrufolarsi nella nostra realtà. Secondo la nomenclatura
umana è un 5k, ossia proviene da dimensioni a intersezione nulla con la
nostra, solitamente chiamate Sfere Esterne. Mi adottò, se così possiamo
dire, quando da bambino quasi distrussi il laboratorio in cui ero a
lezione. Il mio talento l’aveva incuriosito e aveva deciso di tenermi
d’occhio.
Gli spiegai in quale campo minato ero
finito. Continuò a svolazzare in lungo e in largo e gli domandai se
esistesse qualche tipologia d’incantesimi che potesse aiutarmi.
«Neil, Neil, Neil.» rimbrottò con un
tono da insegnante sconsolato. «Ti stai impigrendo? Che bisogno c’è di
usare la magia quando basta un po’ di logica?»
Gli lanciai un’occhiata fulminante. «Fai
meno il saputello. Non c’è nulla su cui applicare un po’ di logica.»
«Suvvia, non diciamo sciocchezze. Qual è
l’obiettivo? Un drago. Cosa sai dei draghi?»
«Volano, sputano fuoco e collezionano
figurine dei calciatori.»
«Inoltre sono delle creature antiche.»
continuò Mic. Non aveva un gran senso dell’umorismo. «Quanti ne possono
esistere, secondo te? Due, tre?»
«Quattro.» intervenne Josephine.
«Attualmente è nota l’esistenza di quattro draghi. Più due uccisi dai
Cavalieri della Tavola Rotonda.»
Fischiai. «Un cavaliere ha ucciso un
drago?»
«San Giorgio.»
«Pensavo fosse una favoletta per
convertire la gente.»
Josephine scosse la testa. «I Cavalieri
hanno una loro agenda che nulla ha a che vedere con le religioni.»
«Ora però non c’interessa la loro
agenda» la interruppe Mic «stiamo parlando di draghi. Qual è la cosa
più importante per un essere che vive migliaia e migliaia di
anni? Oro, gemme, patate?»
«Un erede?» mormorai.
«Esatto!» esclamò lo spirito. «Se
costruisci un impero difficilmente vuoi che si sfaldi con la tua morte
o che a ereditarlo sia una creatura che reputi inferiore.»
Yelena ci osservava con interesse, ma
senza commentare. Girava il suo bicchiere, creando un piccolo vortice
nel vino.
«Come si riproducono?» domandai. «Ci
sono draghi maschi e draghi femmina e fanno un po’ di ginnastica da
materasso?»
«Producono una specie di uovo che
contiene il loro… figlio.» rispose Riccioli d’Oro, sorridendo. «Niente
ginnastica da letto e niente distinzione fra sessi.»
«Ma un sistema del genere non è
problematico?»
«Non credo sia il momento adatto per
parlare di generica draconica.» disse Yelena. «E poi questa discussione
mi pare un po’ campata per aria. Che ne sapete se Glavnyognya abbia
fatto l’uovo?»
«Non lo sappiamo» dissi «ma almeno è un
punto di partenza. Poi magari il misterioso artefatto magico è un
pugnale o un anello e rimarremmo con le pive nel sacco.» Mi rivolsi a
Josephine. «Com’è fatto un uovo di drago?»
«Praticamente è una pietra.»
«Ottimo.» borbottai. «Figurarsi se
potesse essere facilmente riconoscibile. La mia solita fortuna. Non
poteva essere come un normale uovo, ma enorme?»
«È riconoscibile perché irradia
parecchia energia magica.» disse Mic. «Basta un semplice incantesimo di
ricerca per individuarlo o semplicemente toccarlo, se sei abbastanza
vicino.»
«Che però dovremo eseguire là, a casa
sua, dove siamo ben conosciuti. Non potrei mai avere a disposizione
abbastanza tempo per approntare un rituale, assumendo che non ci siano
delle reti di controllo magiche.» replicai. Mic non rispose e mi
rivolsi a Zuccherino. «Tu hai fatto la ricognizione del villaggio,
vero?»
La donna annuì.
«Hai notato qualcosa di particolare? Non
so, edifici difesi, comportamenti strani, raduni sospetti?»
Yelena posò il bicchiere e si sedette su
uno degli sgabelli che si trovavano su quel lato della cucina. «Sembra
un normale villaggio di campagna, come ce ne sono in ogni dove. Hai
presente quei piccoli paesi dove tutti si conoscono, dove se qualcuno
fa qualcosa tutti gli altri lo sanno dieci minuti dopo?»
«Ho presente. Ideale per nascondere il
culto di un drago. È un paese molto isolato?»
Si alzò e mi fece cenno di seguirla. Ci
portò in una stanzetta che doveva essere il punto informatico della
casa. Una piccola scrivania, su cui vi era un computer, dominava la
sala. Yelena si sedette sulla sedia girevole là di fronte e mosse il
mouse. Il monitor del computer si accese, rivelando un desktop privo di
icone e con un blando sfondo blu.
«Vi mostro il luogo.» disse, mentre
apriva Google Maps. «Ho tenuto d’occhio il posto per una settimana.»
Zoomò su una zona a nord-est di
Friburgo, in piena Foresta Nera. Era un piccolo paesello pigramente
adagiato su una collina, circondato da alberi e alberi. Ci si arrivava
da una strada sterrata e la maggior parte degli edifici erano
adagiati sulla strada principale, da cui si dipanavano poche vie che
arrancavano sul fianco della collina. Dalle immagini satellitari tutti
gli edifici sembravano dei piccoli quadrilateri colorati.
«Il mio OP era qua.» aggiunse Yelena,
indicando un punto su un’altra collina, a circa mezzo chilometro dal
paese.
OP sta per Observation Post, punto
d’osservazione; nel mio mestiere vanno di moda le abbreviazioni e gli
acronimi. Tenere d’occhio qualcosa è uno sporco lavoro. E con sporco
intendo stare ore e ore sdraiati nel fango, fare pipì in una bottiglia
e raccogliere in sacchetti di plastica gli altri… rifiuti. Scordatevi i
film dove il protagonista sta comodo in auto, mentre mangia una
ciambella e sorseggia una coca. In una situazione in cui l’OP non deve
essere noto al nemico, si tratta di mimetizzarsi con l’ambiente
circostante. Probabilmente Yelena aveva trovato una posizione dove il
sottobosco era molto denso, aveva scavato una buca e l’aveva coperta in
maniera da renderla invisibile. Una volta dentro, l’unico contatto con
l’esterno era una “finestrella” da cui poteva vedere il bersaglio e
puntare la macchina fotografica. O un fucile. Oppure un puntatore laser
per le bombe “intelligenti”. Dipende dal tipo di missione.
«La cosa interessante è che non ci sia
nessun edificio molto grande.» dissi, mentre scrutavo con attenzione le
immagini satellitari del paesello. Purtroppo non c’era la possibilità
di usare Street View. «Nulla che possa fungere da harem.»
«L’ho pensato anche io.» replicò Yelena.
«Sicuramente c’è chissà cosa scavato
dentro la collina.» intervenne Josephine.
«Infatti.» risposi, in coro con Yelena.
«La sera gran parte della gente si riuniva nell’unica taverna.»
continuò lei. «Altre due cose che mi hanno colpito sono la chiesa,
anche quella frequentata parecchio, e la totale assenza di bambini e
anziani. Infine c’è giusto un negozio di alimentari, che si fornisce
settimanalmente in città e un tabaccaio. Null’altro.»
«Chiaramente la taverna e la chiesa sono
punti di accesso ai sotterranei.»
«E la mancanza di bambini e anziani
indica che gli abitanti non sono altro che l’esercito personale di
Glavnyognya.» aggiunse Riccioli d’Oro.
«Non si preoccupa certo di tenere un
basso profilo.» commentai. L’attacco diretto che avevo ipotizzato prima
era inattuabile. Non potevamo certo passare inosservati in quella che
sembrava più una caserma che un villaggio. Assunto che già non
conoscessero i nostri brutti musi, due facce nuove sarebbero saltate
all’occhio come un pinguino che giocava a freccette. «Al contrario»
continuai «noi dovremo tenere un basso profilo. Abbastanza basso da
vincere i mondiali di limbo.» Mi rivolsi a Yelena. «Hai fatto
sparire l’OP?»
«Ovviamente. Mi hai preso per un
pivellino?»
«Allora domani partiremo per una bella
gita nel bosco.» dissi. «Jo, avremo bisogno di un po’ di
equipaggiamento.»
«Jo?» ripeté, guardandomi in
tralice.
«E poi mi servono un telefono e un po’
di contanti.»
«Ok.»
«E ora devo dormire, domani sarà una
giornata molto lunga.»
Yelena spense il monitor e si alzò.
«Josephine, tu puoi dormire nella stanza degli ospiti.» Mi lanciò uno
sguardo e aggiunse: «Tu invece puoi sistemarti sul divano. Ti porto una
coperta.»
Il divano andava benissimo, avevo
dormito in posti ben peggiori.
Yelena ci aveva procurato un’auto
sicura, una vecchia Golf grigia. Appena alzato, avevo svuotato una
tazza di caffè nero e poi ero uscito con Riccioli d’Oro per fare
compere in un centro commerciale in periferia.
Entrammo in un bar a prenderci una
brioche e poi ci separammo. Josephine andò a comprare quello che
serviva, mentre io decisi di cercare un Internet café.
Per la nostra gita nel bosco ci
servivano dei sacchi a pelo, zaini, vestiti e scarpe adatti,
vettovaglie, torce elettriche e un immancabile coltello multiuso, il
classico Leatherman. In una missione d’infiltrazione come quella, era
indispensabile per tantissime cose per cui non valeva la pena - o non
era possibile - usare la magia.
Io ero a caccia di un po’ di notizie. Le
guerre si vincono con l’informazione: puoi avere tutta la potenza di
fuoco che vuoi, ma se non sai verso cosa indirizzarla e come usarla
combini poco e nulla. Cosa sapevo dell’obiettivo? Solo quello che mi
aveva detto Josephine e non mi fidavo completamente di lei. Lavorava
comunque per la donna che mi stava ricattando. Avevo bisogno
d’informazioni non filtrate e quale posto migliore per cercarle se non
Internet?
Il tizio del café mi elencò i prezzi e
poi m’indicò una delle postazioni. Quella accanto era occupata da un
ragazzo impegnato in un gioco di ruolo. Mi sedetti e lo guardai
giocare, mentre riflettevo su come trovare quello che m’interessava.
L’omino che guidava stava distruggendo orchi e goblin come se fossero
mosche. Magari fosse così facile.
Distolsi lo sguardo e mi concentrai sul
lavoro. Andai su Google e cercai “glavnyognya”. Il motore di ricerca
tolse fuori un discreto numero di risultati, anche se i primi link
portavano a siti di leggende popolari e folklore russo. Le traduzioni
automatiche non era il top della qualità e dovetti sfogliare diverse
pagine prima di recuperare dei siti in una lingua che conoscevo. Vi
trovai gran parte delle informazioni che già mi aveva passato Riccioli
d’Oro, ma nulla che avrei potuto usare concretamente. Ci vollero un
altro paio di ricerche complesse per trovare qualcosa di utile. Era un
vecchio articolo specialistico di filologia. Analizzava un vecchio
testo medievale che raccontava le avventure di un cavaliere.
Saltai i paragrafi tecnici, di cui comunque non avrei capito nulla, e
mi dedicai alla parte in cui veniva raccontata la storia.
Il cavaliere aveva sconfitto un drago,
chiamato appunto Glavnyognya, per salvare una principessa. Classica
trama di una fiaba, ma in quel caso combaciava con il modus operandi
del drago. Evidentemente il lucertolone aveva rapito la donna
sbagliata. Il cavaliere l’aveva affrontato in duello e praticamente
l’aveva sconfitto usando quella che sembrava l’antesignana di una bomba
molotov. Il racconto ovviamente non scendeva in particolari tecnici che
mi sarebbero stati utili, spiegava come il cavaliere gli aveva lanciato
contro una bottiglia e il drago aveva preso fuoco ed era fuggito. Un
drago sputa fuoco sconfitto grazie al fuoco, ironico. Mi sarebbe
piaciuto leggere il testo originale, ma il mio latino classico era
abbastanza pessimo, figuriamoci quanto avrei potuto capire da un testo
medievale.
Durante la ricerca mi accorsi di quanto
i draghi erano poco considerati dalla comunità magica. Mentre creature
magiche come i vampiri o i licantropi avevano il loro codazzo di fanboy
e fangirl, i draghi - che a mio parere erano decisamente più
interessanti - erano praticamente sconosciuti e trattati alla stregua
di creature di fantasia. I casi erano due: o erano molto bravi a non
farsi trovare oppure svelti nell’eliminare chi li incontrava.
Probabilmente erano veri entrambi.
Il resto di ciò che trovai era inutile e
sforava nelle leggende metropolitane. Non che mi aspettassi di trovare
un disegnino in cui erano segnati i punti deboli di un drago, ma
speravo in qualcosa di più concreto da poter sfruttare. Mancava ancora
un po’ all’appuntamento con Riccioli d’Oro, per cui decisi di fare un
altro paio di ricerche. Mi alzai e andai alla macchinetta degli snack
per prendere qualcosa da sgranocchiare mentre continuavo a giocare con
Google. Il mio compagno di banco era ancora impegnato a sterminare
nemici su nemici.
Inserii il nome del paese nel quadro di
ricerca. Oltre agli onnipresenti link per Google Maps e Wikipedia - la
voce non ha una sua pagina, se vuoi crearla premi qui - l’unico
risultato sensato era un post su un forum che trattava di viaggi.
Klingon67 diceva che il paese era fuori mano, inospitale e l’unico
motivo per fermarcisi era un guasto all’auto. Anche questo coincideva
con quanto già dettomi da Yelena. Aggiunsi “+glavnyognya” , ma Google
mi disse che la ricerca non aveva prodotto risultati. Mangiai una
patatina e tornai al link di Google Maps: volevo memorizzare al meglio
la zona, in modo da potermici muovere senza troppa difficoltà. Non era
come una ricognizione vera e propria, ma visti i tempi stretti era il
meglio a cui potevo attingere.
Decisi di spostare il mio interesse
verso un secondo argomento. La sera precedente avevo visto l’e-mail di
Yelena sulla sua pagina Google e l’avevo memorizzata:
y.dmitriyeva90714@gmail.com. Scrissi “yelena dmitriyeva” sperando di
trovare qualche notizia su di lei, ma i risultati erano intasatati
dalle notizie su una giocatrice di pallamano con lo stesso
nome. Aggiunsi “-handball” alla ricerca e mi ritrovai solo
con un paio di omonimie. Con un po’ di pazienza eliminai le Yelena che
non m’interessavano e rimasi con una manciata di pagine. Ce n’era una
sulla maratona di Berlino - l’aveva completata con un tempo notevole -
e alcuni risultati di competizioni di tiro amatoriali. Nessun account
Facebook, ovviamente. Sfogliai la ricerca immagini, ma c’era solo una
foto di gruppo con altri tiratori. Nulla che potesse servirmi.
Era il turno di Riccioli d’Oro. Visto
che non sapevo il suo cognome le cose si facevano più complicate.
Diavolo, non sapevo nemmeno se quello fosse il suo vero nome. Provai
con “josephine+walpurgisnacht” e scoprii che c’era un film intitolato
“La calda notte di Valpurga di Josephine e le sue amiche streghe”. Non
si sfugge alla Regola 34 d’Internet.
Filtrai i risultati vietati ai minori,
ma non trovai nulla d’interessante. Allora cambiai strada e cercai
“raduni Fratellanza della Notte di Valpurga”. Ignorai le pagine e mi
dedicai alle immagini. Il giocatore di ruolo imprecò a mezza voce e mi
voltai a guardarlo, incuriosito. A quanto sembrava, un grosso
orco a due teste aveva ucciso il suo mago e ora il ragazzo veniva
deriso nella chat. Almeno lui poteva resuscitare e combattere di nuovo,
un lusso che noi poveri maghi reali non abbiamo.
Ripresi a sfogliare le immagini nella
vana speranza di vedere Josephine in qualcuna di esse. La Notte di
Valpurga era diventata molto simile ad Halloween, da un certo punto di
vista. Come per la vigilia di Ognissanti, anche quella notte si era
trasformata in un’occasione di divertimento per giovani e festaioli,
perciò non mi stupii nel vedere che gran parte delle immagini erano
foto di gruppi di ragazzi. Provai a scremare un po’ variando i termini
ricerca, ma sembrava comunque un’impresa impossibile.
Alla ventiseiesima pagina che sfogliavo
trovai qualcosa d’interessante. Era una foto di quattro donne in posa
davanti alla Porta di Brandeburgo. Una di loro era sicuramente
Josephine, i suoi riccioli biondi erano inconfondibili. Non avevo idea
di chi fossero le altre tre, però sembrava il raduno dei quattro
continenti; erano un’africana, un’asiatica e una nativa americana.
Cliccai sull’immagine e poi selezionai l’opzione per andare sul sito di
origine. Era un forum di appassionati di magia, uno di posti
in cui non addetti ai lavori discutono con troppa serietà di argomenti
di cui non sanno nulla. Il titolo del thread era “Incontri con maghi e
stregoni”. Il post che accompagnava la foto recitava, più o
meno, così: “O mio dio, che fortuna! Ero in gita a Berlino con la
scuola e guardate un po’ chi ho incontrato! I quattro fiori della
Fratellanza della Notte di Valpurga”. Sotto la foto, a mo’ di
didascalia, vi erano i nomi di alcuni fiori. Josephine coincideva con
l’orchidea. Nel post successivo, un sapientone correggeva, dicendo di
non paragonare quel gruppo di streghe con il ridicolo mucchio di
pivelli che rispondeva al nome di Fratellanza della Notte di Valpurga.
Non potevo che concordare col
sapientone. La Fratellanza era un gruppo di hippie che con la
scusa di salvare il mondo si radunava per far festa. Stava alla magia
quanto un cammello alla costruzione di un igloo. Scorsi il thread, alla
ricerca di un nome da associare al quartetto. Non trovai nulla di
chiaro, a parte che venivano chiamate Quattro Fiori e che il loro
simbolo era molto simile a quello della Fratellanza, motivo per il
quale avevo confuso la spilla che avevo visto nella stanza di
Josephine. Se faceva parte di un altro gruppo, forse stava lavorando
per il clan Schwarz solo momentaneamente. Probabilmente aveva una sua
personale agenda ed era bene tenerlo a mente per evitare brutte
sorprese.
L’ultima ricerca fu abbastanza semplice.
Greta Zimmermann compariva in una miriade di pagine: quotidiani locali,
riviste, webzine e chi più ne ha più ne ha metta. Mrs. Dracula era un
pilastro della buona società della città e aveva parecchi soldi. C’era
persino il sito del suo clan, con una FAQ per “nuovi” vampiri.
Ridacchiai. Non mi stupii che ci fosse un infiltrato. Se era così
facile entrare in contatto col clan non doveva esserlo nemmeno entrarne
a far parte. Se quello era il caso, era improbabile che Zuccherino
fosse coinvolta. Date le nuove informazioni, Riccioli d’Oro poteva
c’entrare qualcosa? Sicuramente avevo un po’ di cose da tenere a mente.
Sfogliai le FAQ con curiosità. Erano
molto interessanti, se credevi di essere un vampiro. Esserlo non è una
certezza, soprattutto in principio.
Non si diventa vampiri via morso, come
succede in tanta fiction. Se così fosse, il mondo sarebbe invaso da
vampiri, mannari e quante altre creature sovrannaturali con metodi di
riproduzione esponenziali. Esistono due tipologie di vampiri: i vivi e
i morti, come mi piace chiamarli. I vivi sono quelli che tutti
conoscono come vampiri e, diciamolo onestamente, non sono chissà quale
strano tipo di creatura sovrannaturale e normalmente non sono
nemmeno tanto pericolosi per chi ha un po’ di manualità magica. I
vampiri morti, invece, sono tutt’altra cosa. Se quelli vivi fossero un
petardo, i morti sarebbero l’eruzione del 1883 del Krakatoa. Sul serio,
sono esseri da cui stare alla larga.
Il termine tecnico per definirli è
“nosferatu”, grazie al simpaticone cinefilo che per primo li studiò. La
loro origine non è chiara, ma si ritiene abbastanza probabile che la
loro forma derivi da una maledizione - o meglio auto-maledizione - che
intrappola la coscienza nel corpo, dopo la sua morte fisica. Per farla
breve, sono cadaveri ambulanti che si cibano di sangue e lo utilizzano
per usare la magia. Se la persona di cui si cibano sopravvive
all’incontro, succede spesso che rimanga marchiata con lo stesso
potere. Apparentemente nulla cambia nella vita della persona - oltre al
trauma dell’incontro e tutti i problemi che esso comporta - e pochi si
rendono conto di essere diversi; ancora meno riconoscono il potere e
imparano a utilizzarlo. Sono quelli che chiamiamo comunemente vampiri,
una sbiadita copia dei nosferatu.
Ovviamente i sopravvissuti sono molto
pochi, per cui le nuove reclute sono merce preziosissima per un clan.
L’idea di Greta di sfruttare Internet per allargare il raggio dei suoi
contatti non era per niente male, ma difettava in sicurezza.
Guardai l’orologio: mancavano venti
minuti all’appuntamento con Josephine. Ci saremmo dovuti incontrare
all’interno dello Starbucks al piano inferiore. Volevo muovermi prima
per fare un po’ di contro-sorveglianza: volevo essere sicuro che
nessuno ci stesse seguendo. Anche se l’attacco del giorno precedente
era stato piuttosto rumoroso non era detto che non stessero usando
anche metodi più sottili per tenerci d’occhio.
Passeggiai davanti allo Starbucks e mi
fermai a guardare la vetrina del negozio di scarpe là accanto. Se
qualcuno mi stesse seguendo - e sapeva fare il suo lavoro - avrebbe
proseguito avanti e un suo compagno avrebbe continuato a controllarmi
da un’altra posizione. Diedi un’occhiata a un po’ di scarpe, ma in
realtà stavo fissando i riflessi sul vetro delle persone che mi
passavano dietro. Dopo qualche minuto di scarponi e mocassini, andai al
bar che si trovava sul lato opposto della strada. Forse aprirne uno di
fronte a uno Starbucks non era una buona scelta, ma chi ero io per
giudicarlo? Non avevo mica una laurea in economia. Entrai e mi sedetti
a un tavolo laterale con le spalle al muro, ma che mi desse ampia
visuale sull’esterno e soprattutto sullo Starbucks. Un cameriere mi si
avvicinò, col chiaro intento di non farmi occupare un tavolo senza
consumare, e ordinai un’aranciata.
Guardavo le persone che passavano là di
fronte o che entravano nello Starbucks, studiandone i volti e cercando
di memorizzarne le fattezze. Josephine arrivò precisa come un orologio
e carica come un mulo. Teneva uno zaino da viaggio sulle spalle e
diverse buste fra le mani. Si mise a fare la fila alla cassa dello
Starbucks. Un uomo con una camicia azzurra si era fermato davanti allo
stesso negozio di scarpe a cui mi ero fermato io e controllava la
vetrina. Passò là qualche minuto e poi si mise in fila allo Starbucks.
Riccioli d’Oro aveva preso il suo ordine
e si era seduta un tavolo d’angolo dal quale poteva vedere l’esterno.
Anche lei sapeva come comportarsi. Camicia Azzurra, invece, prese un
caffè da portare via e uscì dal locale. Attesi altri cinque minuti poi
mi alzai, lasciando una moneta da due euro sul tavolo.
«Sei in ritardo.» mi disse Josephine,
quando mi sedetti accanto a lei con una tazza di cappuccino in mano.
«Hai visto qualche faccia sospetta?»
Scossi la testa. «Nessuno in
particolare. Hai notato un uomo in camicia azzurra mentre facevi
acquisti?»
«No, tutto tranquillo. Nessuno ci sta
sorvegliando. Oppure sono più bravi di noi.» disse, sorseggiando il suo
caffè. Posò una delle buste sul tavolo. «Ecco qua.»
Aprii la busta e ne controllai il
contenuto: un coltello multiuso, un visore notturno, un rotolo di
nastro per imballaggi e un pacchetto di profilattici. «Hai
trovato tutto il resto?»
Annuì. «Nessun problema. Come ci
regoliamo per oggi?»
«Partiamo dopo pranzo, così possiamo
passare il pomeriggio a passeggiare per la Foresta Nera.» “Passeggiare
per la Foresta Nera” era un eufemismo per “fare una ricognizione del
paese di Glavcoso”. L’idea era quella di piazzarsi nella zona in cui
Yelena aveva posizionato il suo OP e comportarsi come dei turisti che
volevano passare qualche giorno nella Foresta Nera. In realtà, quella
notte io avrei fatto un giretto intorno al paese e, se possibile, un
veloce controllo nella chiesa per trovare un’entrata per i sotterranei,
ammesso che esistessero.
Consumate le bevande uscimmo verso il
parcheggio e, dopo aver caricato gli acquisti nel bagagliaio, tornammo
a casa di Yelena. La donna ci accolse aprendo la porta non appena la
Golf si fermò sul vialetto d’ingresso. Indossava una giacca bianca
sopra una camicetta rosa e pantaloni eleganti, che la faceva sembrare
più una broker che un’addetta alla sicurezza. Scaricai l’auto e portai
le buste e gli zaini nel soggiorno della casa. Lo stereo era acceso e
diffondeva una noiosa canzoncina pop. Mi sedetti sul divano e cominciai
ad armeggiare con lo zaino, preparandolo per la gita.
Yelena si avvicinò e posò sul tavolino
da caffè le cose che le avevo chiesto di procurarmi.
«Che se ne fa un mago di
quest’arsenale?» domandò.
Raccolsi la mitraglietta e la controllai
per verificare che fosse a posto. «Solitamente lavoro con altri che
usano le armi meglio di me, ma mi so arrangiare anche da
solo.» Presi uno dei caricatori, lo inserii e caricai il
colpo in canna. L’arma aveva la sicura e il selettore di fuoco era su
manuale. «Preferisco avere un’assicurazione in caso la magia non faccia
il suo dovere. Non ho nessuna informazione sulle capacità magiche
dell’obiettivo, per cui suppongo che siano superiore alle mie.»
«Capisco. Quanti caricatori ti
servono per l’MP5?»
«Quattro basteranno.» Se me ne fossero
serviti altri, avrebbe voluto dire che stavo precipitando nella merda a
velocità terminale e un paio di caricatori in più non avrebbero fatto
nessuna differenza.
«Serve altro?»
Feci cenno di no e scaricai l’arma.
«L’ideale sarebbe fare tutto senza sparare nemmeno un colpo, ma non si
sa mai.»
«Come intendi procedere stanotte?» mi
chiese Josephine, che si era seduta accanto a me e stava preparando il
suo zaino.
«Voglio vedere un po’ il territorio
intorno al paese. Individuare punti di rendez-vous (RV), punti
d’infiltrazione ed eventuali linee di fuga, in caso avessimo bisogno di
svignarcela a gambe levate. Poi voglio verificare l’esistenza dei
sotterranei e la presenza di guardie. Le solite cose.»
«Non ho notato nessuna vera e propria
guardia.» disse Yelena. «Sembra una paese normale, se escludiamo
l’assenza di vecchi e bambini.»
«La chiesa com’è? Vecchia? Nuova? È
possibile che abbia una cripta?»
La donna scosse la testa. «Non
saprei, mi è sembrata abbastanza antica, per cui è possibile che ne
abbia una.»
«Bene. La taverna, invece?»
«Una struttura rustica, fatta in legno e
pietra. Probabilmente il proprietario produce da sé la birra.»
«Se tutto andrà per il meglio, faremo il
lavoro senza nemmeno vedere il drago.» Cercavo di essere ottimista, ma
in realtà tutto si basava su ipotesi supposizioni. E se non ci fosse
stato nessun uovo? E se non ci fossero quei sotterranei di cui tanto
parlavamo? Era come camminare su un lago ghiacciato, senza sapere il
momento in cui avresti posato il piede sulla parte sottile.
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Capitolo 4 *** 4. ***
Gli alberi si alzavano
maestosi in ogni direzione e le loro chiome creavano un tetto che
filtrava la luce del sole che tramontava. Un coro di cinguettii e il
frusciare di qualche animale fra le foglie e il sottobosco mi
disturbava non poco, mentre guardavo il paesino attraverso un paio di
binocoli. Josephine era sdraiata a terra su una coperta a quadri e
stava ascoltando un po’ di musica, poco interessata al mondo che la
circondava. Sembravamo proprio una coppietta in gita nel bosco: io a
fare bird watching, lei a rilassarsi.
Ci eravamo posizionati a circa
cinquecento metri in linea d’aria dal paese di Glavcoso. Lo studiavo da
distanza di sicurezza, in preparazione del lavoro di stanotte. Il sole
sarebbe tramontato fra poco e sarei partito a notte fonda, quando il
villaggio sarebbe stato fra le braccia di Morfeo. Rimisi il binocolo
nello zaino e cominciai a prepararmi per la nottata. Tolsi fuori il
coltello multiuso e lo ficcai nella tasca della giacca a vento, insieme
a un paio di profilattici e al rotolo di nastro, poi verificai che il
visore notturno funzionasse. Infine estrassi dai pantaloni la SIG,
verificai che non ci fosse un colpo in canna e che la sicura fosse
inserita e la misi nello zaino, in compagnia delle altre armi. Non
avevo bisogno di un’arma per la ricognizione e se avessi avuto
necessità di difendermi - ossia non avrei avuto nessuna possibilità di
filarmela a gambe levate - avrei usato la magia. Diedi un colpetto
sulla spalla a Josephine per avvertirla e mi sdraiai, cercando di
rilassarmi un po’ prima dell’azione.
Mi svegliai qualche ora più tardi,
quando Josephine ricambiò il favore, strattonandomi alla spalla. Mi
alzai e mi stiracchiai. Il piccolo campo era illuminato da una torcia
elettrica, ma oltre l’oscurità era fitta dato che la luce della luna
veniva bloccata dal tetto di fogliame. Dal punto di osservazione si
vedeva l’illuminazione del paese. Controllai che avessi tutto quello
che mi serviva e accesi il visore notturno. Funzionava perfettamente.
Avrei potuto usare un incantesimo su
degli occhiali normali - avrei potuto usare parecchi incantesimi per
facilitarmi il lavoro - ma non conoscendo il potenziale magico
dell’obiettivo non volevo rischiare. Un mago capace poteva costruire
una rete che permetteva d’individuare l’esecuzione di incantesimi. Una
rete semplice poteva “squillare” come un allarme, ma reti più complesse
potevano anche dare la posizione dell’intruso o la quantità di energia
magica utilizzata. Appena arrivato nella zona avevo fatto un controllo
sulla radiazione magica di fondo, ma i risultati erano così sballati e
fuori dalla norma che non ero riuscito a trarne nessuna conclusione
sensata. Tentare con un rituale di ricerca sarebbe stato tempo
sprecato. Probabilmente quella situazione dipendeva dalla presenza del
drago e ciò non m’incoraggiava. Avevo dunque deciso di fare una
ricognizione acqua e sapone, sperando che mi ricordassi tutte le
procedure.
«Se non torno entro tre ore, smonta
tutto e torna a Friburgo. RV a casa di Yelena domani alle quattordici.
Se non ci sarò, vorrà dire che dovrete trovare un altro folle per
derubare il drago.»
Josephine annuì.
M’incamminai verso il buio e controllai
che il telefono fosse in modalità silenziosa. Erano anni che non facevo
una ricognizione acqua e sapone e avevo paura di dimenticare qualcosa
che m’incasinasse la vita più tardi.
Dopo una ventina di passi, quando fui
certo di essere abbastanza lontano dal campo, mi fermai per fare pipì.
Era meglio soddisfare certi bisogni prima di entrare in azione. Poi
indossai il visore notturno e il mondo si colorò di verde. Dovevo
percorrere circa settecento metri nel bosco, prima di raggiungere le
case più esterne del paese, quindi mi ci voleva almeno un quarto d’ora,
considerando che dovevo muovermi in una foresta in collina. Il
sottobosco non era molto sviluppato e lo spostamento non fu troppo
faticoso. Quando arrivai in vista delle prime case, spensi il visore.
Più avanti ci sarebbe stata troppa luce per poterlo usare
efficientemente e volevo che gli occhi si abituassero alla notte.
Mi guardai intorno, alla ricerca di un
albero che fosse riconoscibile. Ne trovai subito uno che sembrava
essere stato spezzato a metà da un fulmine. Mi avvicinai e cominciai a
spostare le foglie morte intorno alle sue radici e scavai una piccola
buca nel terreno friabile. Spensi il telefono e tolsi i soldi dal
portafoglio, infilandoli nella tasca posteriore dei jeans. Dopo di che
presi un profilattico, lo aprii e misi dentro il tutto. Annodai la
base, lo sistemai nella buca insieme al visore notturno e la ricoprii.
Dovevo rendermi “sterile” per fare il lavoro in maniera tale che se
fossi stato ucciso non sarei stato riconoscibile. Se fossi stato
catturato, invece, la cose sarebbero state differenti. Se mi avessero
torturato, presto o tardi avrei ceduto. Non credete ai fumetti, dove il
grande eroe non urla per non dare soddisfazione al cattivone. Dopo
alcune sessioni di waterboarding e di altri abusi più o meno umilianti,
tutti cedono. Ognuno ha un limite di sopportazione, che sia un’ora, un
giorno o una settimana.
Non avevo lasciato i documenti a
Josephine perché non mi fidavo di lei. In caso le cose si fossero messe
male per me e fossi stato in qualche modo tradito dai miei datori di
lavoro, sarei fuggito direttamente a Parigi, via Strasburgo, e da là
avrei potuto raggiungere qualsiasi parte del mondo e sparire. Piano che
difficilmente avrei potuto realizzare se Riccioli d’Oro fosse stata in
possesso dei miei documenti. Avrei potuto anche utilizzare dei Portali,
ma ci vuole tempo per prepararli e in questo caso preferivo una via di
fuga molto veloce.
Era tempo di concentrarsi sul lavoro.
Avevo in mente di percorrere tutto il confine a valle del paese, alla
ricerca del punto più tranquillo per avanzare verso il
centro. L’idea era di costeggiare gli edifici e cercare di
memorizzarne fattezze particolari o interessanti, la cui conoscenza
avrebbe potuto farmi comodo più avanti. Gran parte erano
piccoli villini con giardino e un muretto di cinta che li
separava dalla foresta. Quasi tutte le proprietà erano
adiacenti e condividevano la recinzione, poche altre erano un po’
staccate e selva incolta occupava lo spazio fra i due muri. La
disposizione era piuttosto lineare e ordinata. Glavcoso aveva approvato
un ottimo piano regolatore per il suo paesello.
Finalmente trovai un punto che mi
permetteva di attraversare la fila di abitazioni. Una centralina
elettrica occupava una piccola piazzola e gli edifici adiacenti erano a
una certa distanza, probabilmente per questioni di sicurezza. La luce
riflessa dalla luna illuminava abbastanza perché una persona alla
finestra potesse vedere un losco figuro camminare per la strada, per
cui dovevo muovermi tenendomi il più possibile fra le ombre. L’ora era
quella più conveniente per un’operazione di quel tipo - a quell’ora
della notte gran parte della gente si trova nella parte più profonda
del sonno - ma nessuno mi assicurava che un tizio che soffriva
d’insonnia in quel momento non fosse alla finestra a guardare la luna
oppure che una vecchia zitella non stesse curiosando alla ricerca di
succosi pettegolezzi. Ok, eravamo abbastanza certi che non ci fossero
vecchi - pardon, anziani - nel paese, ma avete capito.
Le stradine secondarie che risalivano la
collina erano poco illuminate per cui potei spostarmi abbastanza
velocemente, però una volta giunto alla via principale, che tagliava il
paese a metà, la storia cambiò e mi fermai per decidere il da farsi.
Dal mio angolino potevo vedere la chiesa dall’altro lato del paese, a
circa trecento metri. Era il mio obiettivo principale, ma anche la
taverna m’incuriosiva. Si trovava dalla parte opposta alla chiesa ed
era ancora in attività. C’erano alcune persone davanti all’entrata, con
un bicchiere in una mano e una sigaretta nell’altra: tipica notte di
divertimenti in un paesello sperduto. Una tenue luce usciva dalla
vetrata del locale, segno che gran parte delle luci interne erano
spente e il locale si apprestava a chiudere. Dovevano essere
gli ultimi clienti che consumavano il bicchiere della staffa.
A quel punto decisi di sfruttare quella
situazione. Se il locale era ancora aperto, nessuno si sarebbe stupito
se una persona camminava per la strada per tornare a casa
dopo una serata a base di birra e nicotina. Tornai indietro,
percorrendo le stradine che portavano alle case più a valle e poi
risalii verso il centro in direzione della chiesa. Quando arrivai
nuovamente al livello della strada principale, mi trovavo quasi di
fronte all’edificio. Si trovava dopo una piazzetta illuminata da
quattro lampioni in ferro battuto e oltre una scalinata in marmo.
L’edificio sembrava abbastanza antico. Il portone principale era
sormontato da un arco gotico e due rosoni si trovavano ai suoi lati. Il
campanile si stagliava alto, tappezzato da bifore e trifore, anch’esse
di stile gotico.
La situazione alla taverna non sembrava
essere cambiata, anche se da questa distanza non potevo vedere nel
dettaglio. Rimasi in attesa per almeno dieci minuti prima che l’allegra
brigata cominciasse a salutarsi. Quando rimasero solo due persone, un
uomo uscì della taverna. Sembrava essere abbastanza alto, dato che
sovrastava con tutta la testa gli altri due. I capelli brizzolati erano
tinti di giallo dalla luce dei lampioni e teneva uno straccio sulla
spalla. Doveva essere il padrone del locale. Gli altri due lo seguirono
all’interno e dopo un po’ le luci si spensero. Interessante: i tre
vivevano nel locale oppure c’era un’uscita secondaria. Di norma, i
locali pubblici dovevano avere anche un’uscita di sicurezza, ma per
quale motivo i tre avrebbero dovuto uscire dall’altra parte? Forse
dovevano aiutare il padrone a spostare qualcosa. Oppure erano entrati
nei sotterranei. In ogni caso una visitina al retro della taverna era
d’obbligo.
Uscii dalla strada laterale e mi misi a
camminare lungo la via principale. Il colletto della giacca a vento
alzato, mani in tasca, passo tranquillo. Dovevo appartenere al luogo,
mostrare che avevo un motivo per essere là. Se qualcuno mi avesse
visto, avrebbe dovuto pensare semplicemente a un tizio che tornava a
casa dopo una serata al pub. Diedi uno sguardo all’orologio, come un
marito preoccupato di svegliare la propria moglie. Mettendo in conto il
tempo per tornare al campo, avevo circa due ore per scovare quei
famigerati sotterranei.
Percorsi un lato della piazzetta, ma,
anziché salire per la scalinata, presi la strada laterale che saliva
verso le case in cima alla collina. Il portone principale era
sicuramente chiuso per la notte, ma di solito ci sono delle entrate
laterali che danno sulle stradine intorno a essa. Anche
quella chiesa l’aveva. La sorpassai senza guardarla
direttamente e continuai a camminare. Prima di entrare volevo avere
un’immagine completa dell’edificio. C’era una porticina identica anche
su lato opposto, segno che entrambe davano sulla chiesa e non in una
sagrestia. Mi avvicinai e provai a premere la maniglia. Era
aperta e dentro non c’era nessuno.
L’interno della chiesa era costituito da
una singola navata, divisa in tre corridoi da due file di panche. Agli
estremi del transetto c’erano due cappelle dedicate ad altrettanti
santi di cui ignoravo il nome e di cui non potevo leggere le targhette
per via della flebile illuminazione generata da alcune candele
elettriche. Era comunque curioso trovare una chiesa cattolica nella
protestantissima Germania. Forse Glavcoso aveva fatto male le sue
ricerche per nascondere il vero utilizzo del luogo di culto.
Nell’abside, dietro l’altare, c’era il
tabernacolo e accanto a esso due statue di un angelo, forse San
Michele, a grandezza naturale - supponendo che un angelo abbia le
stesse proporzioni di un uomo, ma non ne ho mai incontrato uno, per cui
non ne sono certo.
Se fossi una chiesa e avessi una cripta,
dove metterei l’entrata?
Percorsi il perimetro dell’edificio alla
ricerca di qualcosa d’interessante e fui premiato praticamente subito.
L’ingresso alla cripta si trovava nell’abside, accanto a una della
statue di San Michele. Erano delle semplici scale, circondate da un
cordone rosso legato a dei paletti di metallo. Allungai le mani verso
la recinzione e mi concentrai alla ricerca di eventuali trappole
magiche. Era una pratica magica passiva, per cui non c’era il pericolo
di rivelare la mia presenza. Vedetela un po’ come i sonar dei
sottomarini: finché fossi rimasto un bersaglio passivo, l’unico modo di
trovarmi era una ricerca attiva, un ping del sonar di un mago che mi
cercava. Un eventuale mago in ascolto, invece, non avrebbe sentito
nulla.
Il cordone era pulito, per cui lo presi
e aprii il lato che dava sulle scale. Lo superai e lo rimisi a posto,
senza però fissarlo completamente, in maniera tale che non mi bloccasse
in caso di fuga improvvisa, lasciandolo però in una posizione che non
insospettisse un osservatore. Scesi molto lentamente, i muscoli tesi
nel muovermi piano per non fare troppo rumore; lo sguardo fisso in
avanti, pronto a reagire in caso qualcuno - o qualcosa - fosse apparso
alla base delle scale. A metà della discesa m’immobilizzai e rimasi in
ascolto.
Nulla, solo il timido ronzare delle
lampade a fluorescenza che illuminavano la scala e la cripta.
Scesi di tre gradini e ripetei
l’operazione.
Ancora nulla d’insolito.
Iterai il processo fino ad arrivare alla
cripta vera e propria.
Non ero un esperto di architettura, ma
sembrava essere abbastanza antica. Basso Medioevo, forse. I
muri erano formati da ossa e alcuni scheletri, probabilmente di persone
più importanti, erano adagiati su delle alcove scavate nei
muri. Sul soffitto, a distanze periodiche, c’erano le lampade
che illuminavo i locali. In fondo alla al corridoio principale - ai
lati c’erano due cappelle che contenevano roba interessante solo per un
archeologo - era presente qualcosa che sicuramente non risaliva al
Medioevo: una porta metallica.
Mi avvicinai, sempre con l’orecchio
teso, e la studiai. Sembrava essere abbastanza robusta e in alto aveva
una di quelle finestrelle per controllare chi c’è dall’altra parte.
Allargai la mano davanti a essa e subito sentii un incantesimo di
protezione. I peli del braccio si rizzarono e mi venne la pelle d’oca.
Quello era un problema. Potevo provare
ad aprirla e rischiare che l’incantesimo si azionasse, oppure potevo
fermarmi e continuare la ricognizione alla taverna. Cercai di
analizzare l’incantesimo. Era abbastanza standard: se si attraversava
la soglia scattava un allarme, ma non possedeva nessuna difesa attiva,
per cui, anche se l’avessi fatto attivare, nessuna scarica elettrica mi
avrebbe fulminato e nessuna palla di fuoco mi avrebbe abbrustolito.
Sicuramente era stato congiurato in quel modo perché era una porta
molto usata e non c’erano mai stati problemi di sicurezza - quale folle
entra non invitato nella tana di un drago? Io, signori, Neil McRoberts
- quindi il mago aveva predisposto un incantesimo non pericoloso e per
il quale bastava possedere un oggetto “segnato” magicamente per poter
passare indisturbati.
Inoltre era molto facile da bypassare.
Chiamai Mic. Ovviamente era al corrente della situazione e non comparve
come suo solito in un tripudio di luci e acrobazie aeree, ma rimase
invisibile e l’unica prova della sua presenza era la voce che mi
parlava all’orecchio. Gli chiesi di controllare l’incantesimo sulla
porta e confermò la mia analisi: allarme standard facile da bypassare.
Lo congedai ringraziandolo e mi misi all’opera.
Naturalmente poteva esserci un posto di
guardia dall’altra parte e non avrei potuto andare avanti, ma il
contro-incantesimo mi sarebbe comunque servito per la notte successiva,
quando sarei entrato per completare il lavoro.
M’inginocchiai davanti alla porta e mi
misi in ascolto.
Dall’altra parte non giungeva nessuno
suono. Ottimo. Presi il Leatherman, il coltello multiuso, dalla tasca
ed estrassi il coltellino. L’incantesimo d’allarme legava un oggetto a
una precisa azione - un trigger, come si dice in gergo. Se veniva
eseguita senza avere l’oggetto “segnato” nelle vicinanze allora
l’incantesimo si attivava. In quel caso l’oggetto era la porta e il
trigger la sua apertura.
Una maniera di bypassarlo era quella di
modificare uno dei due campi. Non modificare; era un termine scorretto.
Tecnicamente è impossibile modificare un incantesimo già congiurato.
Una volta eseguito le energie in gioco sono quelle e non si può più
fare nulla. Si trattava, più correttamente, d’ingannare l’incantesimo
originale e fargli credere che l’oggetto fosse un altro.
Cominciai a intagliare col coltellino
sulla malta del muro accanto alla porta, rasente al pavimento in modo
che non potessero venire notati da un’occhiata casuale. Tracciai una
specie di porta stilizzata e poi la circondai con un quadrato. Più
rettangolo che quadrato, visto che non stavo lavorando con riga e
compasso su carta millimetrata, ma l’accuratezza della geometria
dell’incantesimo in quel caso era trascurabile. Trasferii un po’ di
energia dalla porta alla sua rappresentazione sul muro. Era una
quantità così irrisoria che forse non sarebbe stata rilevata nemmeno
alle reti di controllo che si usano a Xiam durante gli esperimenti che
richiedono un’accuratezza di qualche parte per milione. Figurarsi un
ipotetico sistema di controllo costruito da un drago o da qualche suo
scagnozzo. A meno che uno dei suoi sgherri non fosse laureato Xiam e si
fosse preso la briga di costruire una rete di controllo così
dispendiosa da richiedere un circolo di trentasei apprendisti per
rimanere attiva. Era improbabile.
Avevo appena costruito una replica
magica della porta, nel senso che, magicamente parlando,
l’oggetto in sé e la sua rappresentazione erano equivalenti. È lo
stesso principio che viene usato nelle bambole voodoo. Infine si
trattava semplicemente di ingannare l’incantesimo di allarme nel fargli
credere che la rappresentazione fosse la vera porta. Tracciai un paio
di circonferenze concentriche intorno alla figurina per amplificarne il
segnale e completare il trucchetto.
Mi alzai e chiusi il Leatherman,
infilandomelo nuovamente nella tasca della giacca a vento. In teoria
non dovevo più preoccuparmi dell’incantesimo e potevo aprire la porta
senza correre il rischio di attivarlo. L’unico problema era che non
avevo la minima idea di cosa potesse esserci oltre. Per quel che ne
sapevo poteva essere un magazzino di candele per la chiesa - difficile,
visto lo spioncino - oppure poteva esserci un tizio armato di fucile
pronto a farmi saltare la testa.
Al diavolo! Tanto dovevo trovare un modo
per entrare nei sotterranei, per cui non aveva senso tentennare e
perdere tempo. Se le cose dovevano andare a donnine di facili costumi,
ci sarebbero andate comunque se non avessi saputo come entrare nella
tana del drago, per cui al diavolo tutto e avanti con il lavoro.
Continuavo ad ascoltare con attenzione,
in attesa di un qualsiasi suono che potesse rivelarmi qualcosa, ma il
silenzio era immutato. Posai la mano sulla maniglia e mi preparai ad
aprire.
L’abbassai lentamente, tutti i muscoli
in tensione pronti a reagire al minimo cenno di pericolo.
Niente di niente.
La spinsi in avanti, tenendomi
appoggiato a essa, in modo da mostrarmi il minimo possibile. Pian piano
il mio raggio visivo si allargò mostrandomi un desolato corridoio
decisamente più moderno della cripta dal quale arrivavo. I muri erano
intonacati grezzamente e possedevano quella monotona colorazione grigia
tipica degli edifici in costruzione. Le lampade continuavano
imperterrite nella loro periodica disposizione lungo il
corridoio, che continuava per un altro paio di metri, terminando in
un’altra scala che sprofondava in basso.
Scesi come prima, fino ad arrivare a tre
quarti della sua lunghezza. Stavolta avevo sentito dei suoni.
Erano delle voci: una costante che
sembrava uscire da un altoparlante e altre due che parlavano a tratti,
alternandosi. Parlavano in tedesco e non sapevo cosa dicessero.
Probabilmente stavano guardando la TV e commentavano il programma. Era
il primo posto di guardia che incontravo, per cui voleva dire che mi
stavo avvicinando al centro della tana. Un’altra nota positiva era che
la sicurezza era abbastanza lassista, se le guardie si rilassavano a
guardare la TV durante il lavoro. Immaginai che non c’erano molti
tentativi di attacco alla tana di un drago, ma conoscevo colleghi che
erano stati cacciati a calci nel sedere per trasgressioni molto più
trascurabili.
Mi avvicinai un altro po’, scendendo per
un paio di gradini, fino quasi ad arrivare alla base della scala. Le
voci giungevano da una porta a sinistra, mentre il corridoio proseguiva
avanti per un paio di metri prima d’incrociarsi perpendicolarmente con
un altro. Provai ad allungare la testa per vedere se riuscissi a dare
un’occhiata dentro la stanza, ma non mi arrischiai più di tanto. Se io
arrivavo a veder loro, allora loro potevano vedere me, per cui non mi
pareva il caso di tirare troppo la corda. Finora la sicurezza non era
certo professionale, ma non avrei mai creduto che fossero stati così
stupidi da piazzare il televisore in maniera d’avere le spalle contro
la porta.
Oggi non era il caso di rischiare, ma
domani non avrei potuto fare altrimenti. Per ora l’importante era aver
trovato la tana del drago. Risalii la scala e, tornato nella cripta,
richiusi la porta e cancellai i simboli magici che avevo tracciato sul
muro. Percorsi la strada inversa con la stessa attenzione che avevo
avuto all’andata per evitare incontri spiacevoli, magari con qualche
cultista in ritardo per il suo turno notturno.
Non successe nulla d’inaspettato per
cui, uscito dalla chiesa, guardai l’orologio. Avevo ancora un po’ di
tempo prima di tornare al campo. L’idea era quella di fare una visitina
alla taverna, almeno all’esterno, anche se più passeggiavo per il paese
maggiore era il rischio di essere visto da qualcuno.
M’incamminai verso la taverna. Qual era
la probabilità che una persona, vedendomi, pensasse “Ah, ecco, quella
persona che cammina di notte è sicuramente un ladro che domani tornerà
per rubare qualcosa nella tana di Glavcoso”? Il gioco valeva la candela.
Decisi di muovermi lungo le stradine a
monte della via principale, per avere un conoscenza migliore di tutto
il paese. Quando ero abbastanza certo di essere all’altezza dalla
taverna, scesi verso la strada principale. Ci arrivai due
traverse oltre l’edificio. Risalii e tornai indietro fino a trovare il
retro della taverna.
C’era una porta, accanto a un bidone
della spazzatura, e un auto era parcheggiata là di fronte. Era una
vecchia Volkswagen, la cui vernice consunta e le macchie di ruggine
indicavano che aveva visto tempi migliori. In alto a destra
rispetto alla porta, c’era una piccola finestrella, una di quelle che
si aprono dall’alto. Come al solito, rimasi un attimo in
attesa all’angolo, verificando che non ci fosse nulla in corso, dopo di
che mi avvicinai con cautela alla porta, drizzai le orecchie e provai
ad aprirla. È sempre la prima cosa da fare, a volte si è fortunati e
qualcuno l’ha dimenticata aperta.
Non era quello il caso. La seconda cosa
da fare era cercare la chiave. Solitamente i proprietari lasciano una
chiave di riserva da qualche parte: sotto lo zerbino, dietro la
cassetta della posta oppure sotto una pietra in giardino. Nonostante
ciò era vero per molte residenze, non sapevo se fosse una pratica usata
anche per i negozi. Sicuramente non era sotto il bidone della
spazzatura, considerando che veniva spostato a ogni raccolta. Passai le
dita sul davanzale della finestrella senza trovare nulla. Il muro era
liscio e ben curato e non c’era nessun buco o crepa in cui potesse
stare una chiave. Provai a dare un’occhiata dentro l’auto, ma l’unica
cosa interessante al suo interno era un numero di Nuts sul sedile del
passeggero. Tutte le portine erano chiuse.
Le uniche informazioni che potevo
acquisire sull’edificio erano all’esterno. Aprii il bidone della
spazzatura e controllai gli ultimi sacchi. Gran parte della gente non
si rende conto quanto si possa scoprire dai rifiuti di una persona.
Forse qualcuno crede che i bidoni della spazzatura siano dei portali
interdimensionali che fanno sparire i rifiuti, ma in realtà sono una
fenomenale fonte d’informazioni. Dalla quantità di avanzi si può capire
quante persone abitino in una casa o se la sera prima ci fosse qualche
ospite. Si scopre quale sia il take-away cinese preferito guardando le
confezioni gettate e dalle buste pure i negozi preferiti per lo
shopping. E non parliamo di scontrini, ricevute e fogli di carta con
appunti o numeri di telefono. Come si suol dire: la spazzatura di un
uomo è il tesoro di un altro.
I primi sacchi non contenevano nulla di
strano o interessante. Li aprii con cura e feci attenzione a non
danneggiarli. Quando si fanno certi lavori è fondamentale lasciare
tutto come si è trovato se non si vuole che nessuno sospetti qualcosa.
A circa metà del bidone, invece, trovai una busta nera, diversa in
consistenza rispetto alle precedenti: era piena di vestiti da donna.
Alcuni erano in condizioni pietose - sporchi e strappati - mentre altri
erano completamente distrutti e chiamarli vestiti era un eufemismo.
Vidi anche alcune macchie di sangue. Rimisi tutto a posto e chiusi il
bidone. Quel ritrovamento era illuminante: era la prova che anche la
taverna era collegata al sotterraneo-harem di Glavcoso. Perché non
avessero bruciato il tutto, anziché gettarlo nella normale spazzatura,
era un mistero, ma non mi aveva stupito. Tutta la sicurezza del
villaggio sembrava essere gestita da un bambino di sei anni.
Era ora di tornare al campo, prima che
Riccioli d’Oro pensasse che fossi stato compromesso e smontasse baracca
e burattini per tornare a Friburgo. Attraversai la strada
principale lontano da entrambi gli obiettivi e poi uscii dal paese dal
punto in cui era entrato, vicino alla centralina elettrica. Ritrovai
con facilità l’albero colpito dal fulmine, recuperai documenti,
cellulare e visore notturno e mi diressi in linea retta verso il campo.
Quando arrivai, Josephine mi stava
aspettando, sdraiata comodamente nel suo sacco a pelo. Al sentire i
miei passi aveva acceso la torcia elettrica e me l’avevo puntata
contro. Le raccontai i punti salienti dell’operazione mentre m’infilavo
nel sacco a pelo, poi mi sdraiai e chiusi gli occhi.
L’indomani sarebbe stata una lunga
giornata.
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Capitolo 5 *** 5. ***
La mattinata passò
tranquillamente, mentre c’intrattenevamo in attività tipiche da
campeggiatori: guardare animaletti, abbracciare alberi e altre
sciocchezze di questo tipo. In realtà le stavo raccontando per filo e
per segno com’era andata la ricognizione e tutte le informazioni che
doveva conoscere. Verso mezzogiorno Josephine aveva ricevuto una
chiamata ed era rimasta al telefono per almeno un quarto d’ora. Mi
raccontò che Yelena aveva trovato la spia. Era risalita agli aggressori
del fast food e con un po’ di pazienza aveva trovato il loro contatto
nel clan, un giovane vampiro molto tranquillo che non si era mai fatto
notare. Aveva detto a Josephine che la talpa non sapeva nulla della
nostra gita, ma che aveva pensato personalmente a tagliare ogni
possibile filo di collegamento, sistemando lui e la banda di cultisti
che ci aveva attaccato.
Zuccherino era una tipa tosta che sapeva
il fatto suo, ma non ero sicuro che la situazione fosse così semplice.
Per quanto Glavcoso fosse tranquillo riguardo minacce esterne, non
potevo credere che la sua rete di osservazione si limitasse a un misero
pedone nel clan di Greta. O forse sì. Avevo visto quanto fosse poco
professionale la rete di sicurezza del paese, per cui non ci sarebbe
stato nulla di strano se anche quella informativa fosse stata così.
Alla fine non era importante, il nostro obiettivo era rubare l’uovo e
poi svignarcela il prima possibile; non m’importava nulla di eventuali
informatori nel clan di Greta.
Fino a prima della chiamata di Yelena
non ero sicuro se agire quella notte, oppure attendere qualche giorno
ed effettuare qualche altra ricognizione - magari per trovare
l’ingresso nella taverna - ma dopo quella notizia non ero più molto
convinto della cosa. Restare là altro tempo aumentava la probabilità di
vederci spuntare davanti un altro gruppo di simpatici omini armati fino
ai denti e non volevo ripetere l’esperienza. Non che non sia abituato a
combattere - figuriamoci, è il mio lavoro - ma preferisco sempre farlo
secondo le mie preferenze e possibilmente quando il mio avversario non
sa che stia per colpirlo. Al diavolo l’onore e le cavolate di questo
genere, si tratta di essere efficiente e svolgere bene il proprio
compito.
Ho abbastanza paura quando mi puntano
addosso un fucile. È normale. Se non hai paura in certe situazioni o
sei un bugiardo o non hai tutte le rotelle a posto. È la paura che ti
fa reagire correttamente in quelle situazioni; è la paura che ti affina
i sensi e ti permette di fare correttamente quelle azioni che hai già
fatto mille volte durante le esercitazioni.
Inaspettatamente, anche Josephine
concordava con me e voleva finire il lavoro il prima possibile: l’aveva
persino detto a Yelena. Non mi suonava molto bene. Perché mai lei,
dipendente di Greta, avrebbe dovuto aver fretta con la possibilità di
mandare al diavolo il lavoro? Aveva dei motivi personali? Era una cosa
da tenere a mente.
Verso sera avevamo deciso a grandi linee
il piano d’azione. Era molto facile: entrare il più silenziosamente
possibile, trovare l’uovo e andare via; il tutto senza farci né sentire
né vedere. Naturalmente c’era da tenere conto dei sicuri problemi che
sarebbero saltati fuori. Come passare la sicurezza? Come trovare
l’uovo? Avremmo dovuto improvvisare e ciò significava incappare
sicuramente in qualche ostacolo non preventivato.
Il tramonto giunse veloce e ci
preparammo all’azione. Sistemammo tutto ciò che non ci serviva negli
zaini da viaggio, tenendo due piccoli zainetti a spalla per trasportare
armi, munizioni e l’altro equipaggiamento. All’ora stabilita ci
muovemmo verso il paese, percorrendo all’incirca la stessa strada che
avevo fatto la notte precedente. Ci fermammo all’albero “fulminato” per
nascondere i documenti e ripartimmo.
Portai Josephine verso la chiesa e le
dissi di aspettarmi riparata dietro un muretto. Volevo dare un’occhiata
alla taverna e non era necessario che ci fossimo entrambi. Anche quella
notte, gli ultimi clienti erano fuori a bere e fumare. Stavolta erano
in compagnia del proprietario, che non aveva né un bicchiere né una
sigaretta. Sembrava essere là solo per parlare e infatti gli altri
erano raccolti intorno a lui. Dopo qualche minuto rientrò nel locale e
gli uomini lo seguirono uno dopo l’altro, bevendo l’ultimo sorso di
birra, gettando a terra le cicche e spegnendole col piede. Li contai
mentre superavano la porta: sei più il proprietario.
Era una cattiva notizia: avremmo potuto
trovarli nei sotterranei. Altre rogne di cui tenere conto.
Le luci dentro la taverna si spensero e
la strada rimase illuminata solo dal lampione là di fronte. Resistetti
alla tentazione di dare un’occhiata più da vicino. Vista la novità era
meglio sbrigarsi e agire il prima possibile. Tornai indietro a
recuperare Josephine.
Era ancora seduta dietro il muretto a
cui l’avevo lasciata e stava guardando la chiesa.
«Qualche movimento interessante?»
domandai.
Scosse la testa. «Tu hai visto qualcosa?»
«Potrebbero esserci almeno sei uomini là
sotto.» Sorrisi. Mi piaceva annunciare certe belle notizie.
Lei fece spallucce, come a dire di non
essere preoccupata, ma vedevo la tensione dipinta sui suoi lineamenti.
Era una professionista e sapeva quello che stava facendo.
«Andiamo.» mormorai.
Entrammo tranquillamente nella chiesa e
scendemmo nella cripta senza problemi. Arrivati alla porta metallica,
analizzai nuovamente l’incantesimo e vidi che non era stato cambiato
rispetto alla notte precedente. Le dissi di aspettare indietro e
cominciai a lavorare col Leatherman.
Il luogo era silenzioso come il giorno
prima e quando aprii la porta non trovai nulla di diverso. Feci un
cenno a Riccioli d’Oro e cominciai a scendere. Mi fermai a tre quarti
della rampa, in ascolto. Si sentivo le voci degli uomini nella stanza
alla fine della scala. Mi voltai e guardare Josephine, che stava un
paio di gradini indietro, e mi fece un cenno di assenso: anche lei
aveva sentito. Procedetti a scendere fino a quando non arrivai alla
fine della scala. La luce incostante di un televisore uscita dalla
stanza di guardia, aggiungendosi e quella delle lampade a fluorescenza.
Mi avvicinai all’entrata con le spalle poggiate al muro,
mentre Josephine faceva altrettanto sulla parete opposta.
Josephine si teneva all’esterno per
avere una migliore visibilità del locale, mentre io mi preparavo a fare
irruzione. Alzò due dita della mano e indicò verso la parte lontana
della stanza. Estrassi la pistola e tolsi la sicura. Gliela mostrai e
scosse la testa, poi arretrò e venne al mio fianco.
Bene, c’erano due uomini e, a prima
vista, non sembravano armati. Si trattava solamente di essere veloci e
precisi nel metterli fuori combattimento. Respirai profondamente e mi
preparai a fare irruzione. Certe volte prima si comincia, meglio è.
Nel momento in cui sentii le voci
iniziare uno scambio più acceso, entrai velocemente nella
stanza. I due non si accorsero di me fino a quando non ero
sopra di loro. Erano seduti su un divano malconcio e quello che
guardava dalla mia parte mi lanciò un’occhiata stranita. Non gli diedi
il tempo di domandarsi cosa ci facessi là perché lo colpii in faccia
con il calcio della pistola e gli saltai addosso per continuare a
colpirlo. Josephine fece altrettanto con l’altro.
Il volume del televisore era abbastanza
alto da nascondere i lamenti dei due sfortunati. Quando fui sicuro che
entrambi avessero perso i sensi mi tolsi lo zaino e tirai fuori il
nastro per pacchi e, dopo aver fatto rotolare l’uomo a terra, cominciai
a passarglielo intorno ai polsi.
«Cerca qualcosa da metter loro in
bocca.» dissi a Josephine. Quando si vuole zittire qualcuno è meglio
ficcargli qualcosa nella bocca per evitare che il suono prodotto dalle
corde vocali si amplifichi. E anche perché con un fazzoletto o uno
straccio che rischia di finire in gola e soffocarli, le persone tendono
a stare tranquille.
Mentre finivo di legare le caviglie,
Joesphine mi passò qualcosa. Strappai lentamente il nastro per evitare
di fare troppo rumore e presi l’oggetto: era una calza. Diedi uno
sguardo all’altro uomo e vidi che era a piedi nudi.
«È la prima cosa che mi è
venuta in mente.» disse Josephine, col sorriso sulle labbra.
Annuii, compiaciuto. Era un’ottima idea.
Aprii la bocca del povero malcapitato e ci ficcai la calza. Poi feci un
paio di giri di nastro intorno alle labbra. Ripetei l’operazione col
secondo uomo e poi mi feci aiutare da Josephine a trasportarli dietro
il divano, in modo che non fossero visibili dal corridoio.
Il primo ostacolo era stato superato.
«Bene.» dissi, mentre mi rimettevo lo zaino in spalla. «Ora si tratta
di girare per i sotterranei e sperare di trovare qualcosa che ci aiuti
nella ricerca.»
«Detto così non sembra un buon piano.»
«Non lo è.» ammisi. «Ci serve qualcuno
da torchiare per scoprire qualcosa.»
Indicò i due gentiluomini che aveva
appena relegato nel mondo dei sogni. «Loro non andavano bene?»
Mi avvicinai all’ingresso e diede
un’occhiata all’ingresso. Nessuno in vista. «Al massimo avrebbero
potuto darci informazioni sui programmi televisivi. Forza, andiamo.
Niente magia, mi raccomando.»
«Me l’hai ripetuto una dozzina di
volte.» replicò irritata. «Non sono una stupida.»
La ignorai e cominciai a percorrere il
corridoio. Nella prima parte non c’erano altre stanze e dopo qualche
metro s’intersecò con un ulteriore corridoio. Continuai ad andare
avanti e trovai alcune stanze vuote. Erano dei magazzini, pieni di
scatole che contenevano cibo, bevande e indumenti. Nulla che potesse
interessarmi. Più in là c’erano un bagno e una cucina, vuoti anch’essi.
Tornai indietro e studiai l’altro corridoio.
Era pieno di porte, come se i suoi lati
fossero formati da decine di piccole stanzette. Mi avvicinai alla prima
porta e provai ad aprirla.
Era chiusa.
Anche la seconda e la terza che provai
erano chiuse. Continuai ad andare avanti e al quarto tentativo ne
trovai una aperta.
«Che diavolo è?» mormorò Josephine alla
vista della stanza.
Il motivo di tanto stupore era
l’arredamento, che sembrava quello della stanza di un collegio. Un
lettino, una scrivania e un armadio a due ante. Lo aprii e vidi che
c’erano solo abiti femminili.
«Sicuro che siamo nella tana del drago?»
chiese.
«Mi pare ovvio.» Le mostrai il contenuto
dell’armadio. «Glavcoso non colleziona donne? Evidentemente non le
tratta nemmeno male.» Anche se ciò non combaciava con i vestiti
stracciati e insanguinati che avevo visto la notte precedente.
«Escludendo il fatto che le rapisce e le imprigiona sottoterra.»
aggiunsi.
Josephine aprì il cassetto della
scrivania e ci rimestò un po’, come se non sapesse bene cosa cercare.
«Non c’è tempo per cercare il diario
segreto della principessa.» dissi, mentre uscivo dalla stanza.
Stavo cominciando a farmi un’idea di
come fosse strutturata la tana. Era molto simile proprio a un campus:
con stanze per le donne e bagno e cucina comuni. Chissà quanti livelli
c’erano.
«Hai un’idea di quante donne facciano
parte della collezione di Glavcoso?»
«Qualche centinaio, forse di più.»
rispose, incerta.
«Diamine.» borbottai. Tanti livelli da
esplorare.
Esplorammo tutto il corridoio, ma tutte
le stanze erano vuote o chiuse; il livello sembrava essere disabitato.
Alla fine del corridoio trovammo una scala. Alzai le spalle,
sconsolato, pensando che di questo passo saremmo finiti in Australia.
Il livello inferiore sembrava essere più
vivo rispetto all’altro, almeno stando ai suoni che arrivavano dalla
scala. Quando arrivai a metà sentivo chiaramente dei gemiti e dei
respiri affannati: qualcuno là sotto si stava divertendo.
L’architettura era identica a quella del
livello superiore: alla fine della scala partiva un corridoio che
s’intersecava a croce con un altro; probabilmente le altre tre braccia
erano piene di stanze, mentre in quello iniziale c’era solo una stanza
di guardia. L’unica differenza era l’utilizzo che ne stava facendo il
supposto guardiano, niente TV in quel caso.
Ero appoggiato al muro opposto alla
porta e, mentre mi avvicinavo, la scena mi si stava rivelando in tutta
la sua sconcezza. C’era un uomo nudo in ginocchio sul letto e si stava
dando da fare. Dava le spalle alla porta e dalla mia posizione potevo
vedere le gambe di una donna sotto le sue. E un altro paio di piedi ai
suoi lati. Il fortunello stava intrattenendosi con due signorine. A chi
tutto e a chi niente, diamine.
Peccato per lui che la sua fortuna
stesse per esaurirsi. Feci un cenno a Josephine ed entrai. Dal ritmo
delle spinte e dal respiro affannato sembrava essere al limite. In due
passi fui su di lui, gli presi i capelli e tirai violentemente
all’indietro, sbilanciandolo e facendolo cadere dal letto. Gridò
qualcosa, ma prima che potesse alzare le mani lo colpii al naso con il
calcio della pistola. Un fiotto di sangue schizzò, sporcandogli il
viso. Lo colpii una seconda volta e mentre cercava di parlare
gli infilai la canna della pistola nella bocca. Lo spinsi a terra e gli
misi un ginocchio sullo sterno.
«Pensa alle due donne.» ordinai a
Josephine. La vidi che cercava di calmarle con gesti rassicuranti
parlando sottovoce e aggiunsi: «Che cazzo stai facendo! Stordiscile e
imbavagliale!» Non era una bella cosa e mi spiaceva trattarle in quella
maniera, ma non eravamo là per fare i buoni samaritani. In situazioni
del genere non c’è tempo da perdere, bisogna subito mostrarsi forti e
spietati, senza dare agli altri il tempo di pensare di potersi
ribellare. Perché se si ribellano le cose si complicano e diventa una
questione di vita o di morte. Bisogna essere veloci e violenti.
Guardai il mio prigioniero. «Parli
inglese?» domandai, applicando un po’ di pressione alla pistola.
«Rispondi con un cenno della testa. Se fai qualche movimento che non mi
piace ti faccio saltare la testa.» Anche se non avesse capito le
parole, il tono e il linguaggio del corpo erano abbastanza chiari.
L’uomo annuì, gli occhi dilatati per il
terrore e il sangue che gli colava dal naso, insozzandogli tutto il
viso.
«Ora ti toglierò la pistola dalla bocca
e ti farò alcune domande a cui dovrai rispondere . Sinceramente.»
Altro cenno di sì.
«Se crederò che mi stia mentendo, ti
ammazzo. Se provi a ribellarti, ti ammazzo. Se fai qualsiasi cosa che
non ti ho ordinato, ti ammazzo. Chiaro?»
Chiaro.
Sfilai l’arma dalla bocca, tenendola
sempre puntata su di lui. Alle mie spalle sentivo gli strappi del
nastro per pacchi. «Dov’è l’uovo?»
«Che uovo?» balbettò.
«Non fare l’idiota. Dov’è l’uovo?»
«Non lo so. Non lo so.» ripeté con le
lacrime agli occhi. «Glavnyognya non parla con nessuno dei suoi
affari.» Parlava un inglese abbastanza sciolto, ma si sentiva il
pesante accento tedesco.
Probabile, visto la professionalità dei
suoi sgherri. «Dov’è la sua stanza?»
«Al quinto livello.»
Diamine.
«È la che tiene i suoi tesori?»
intervenne Josephine, mentre stava trascinando sotto il letto le due
sfortunate signorine.
«È possibile. Non lo so, non lo so, vi
prego.»
«Chi sei?»
Pronunciò uno di quei complicati nomi
tedeschi e non avevo nessuna voglia d’impararlo. «Troppo complicato. Ti
chiamerò Harry.» Non replicò e aggiunsi: «Cosa fai
qua?»
«Sono l’apprendista di Gregor.» Anticipò
la mia domanda e aggiunse: «È il mago che serve Glavnyognya.» Mi guardò
stupito, come se avesse finalmente realizzato qualcosa. «Come avete
fatto ad entrare senza far scattare l’allarme?»
Stava riprendendosi dallo shock e
cominciava a ragionare. Evidentemente il sangue aveva ripreso a
circolare verso il cervello. Ignorai la sua domanda e gli chiesi: «Ci
sono altre protezioni magiche?»
«No, gli allarmi sono le uniche cose che
Gregor mi ha fatto congiurare. Ha detto che non lo pagava abbastanza
per tenere attiva una rete di controllo.»
Più probabilmente non ne era capace.
Comunque, era un’ottima notizia: potevamo usare la magia liberamente.
«Quanti uomini ci sono?»
«Due all’ingresso e solitamente cinque o
sei nei livelli inferiori»
«Sono dei professionisti o sono là solo
per fare quello che stavi facendo tu?»
«Non lo so. Sono sempre molto zelanti
nel mostrare che possono sparare.»
Pivelli. «Qual è il modo più veloce per
scendere?»
«C’è solo una scala, nel corridoio a
sinistra. Non ci sono altri modi per scendere. Tutti i livelli sono
identici.»
«Perché in quello di sopra non c’è
nessuno?»
«Perché le stiamo trasferendo nel
livello più basso.»
«Così vicine alla superficie erano
tentate a fuggire?» chiese Josephine.
«Esatto.»
Sentii Josephine borbottare
un’imprecazione. «Quanto è bravo con la magia il tuo padrone?» chiesi.
«Abbastanza da friggerti il culo. Il mio
maestro è stato…»
Lo bloccai aumentando la pressione sullo
sterno. «Non me ne frega nulla del tuo maestrino, pivello, voglio
sapere del drago.»
Si mise a ridere. Bisognava dargli
credito: pochi hanno abbastanza coraggio da mettersi a ridere con una
pistola puntata in faccia. Oppure era troppo stupido per rendersi conto
che facevo sul serio. «Glavnyognya disprezza la magia e non si fida dei
maghi. Non si fida di nessun umano, ci considera alla stregua
d’insetti. Ha assoldato Gregor solo per avere una minima sicurezza
magica.»
«Soldi proprio ben spesi.» commentai.
«Bene. Grazie per le informazioni, Harry.» Lo colpii con forza alla
testa e perse i sensi. «Josephine, il nastro.»
Stava guardando fuori dalla porta. «Non
credo ci sia tempo per legarlo, il corridoio sta iniziando a riempirsi.»
Imprecai e spinsi l’uomo sotto il letto,
almeno per conservare le apparenze. «Chi sono?»
«Solo ragazze.» rispose.
C’era poco da fare. Bisogna muoversi
spediti verso il quinto livello e sperare di non incappare in qualche
uomo della sicurezza. «Cerca di comportarti come se appartenessi a
questo luogo. Dobbiamo non dare nell’occhio per il maggior tempo
possibile e scendere.» Più facile a dirsi che a farsi.
Josephine annuì, ma non sembrava
convinta.
«Sono certo che le prigioniere non
conoscano ogni uomo che serve il drago, per cui se mi vedono camminare
in mezzo a loro non si metteranno certo a pensare
“Sicuramente è un ladro o una spia!”. Hai visto come la sicurezza sia
fallata, no?»
«D’accordo. E io?»
Sorrisi. «Tu sei la nuova acquisizione
dell’harem.»
La presi non troppo gentilmente per un
braccio e la feci camminare avanti a me. Percorremmo il corridoio a
passo tranquillo, come se la nostra presenza là fosse naturale.
Qualcuna delle ragazze ci guardò senza interesse, ma nessuna ci fissò
come se fossimo dei mostri rari. Nessuna di loro mi sembrava essere in
cattive condizioni. Tutte indossavano abiti succinti e più che un
campus sembrava uno strip club. Probabilmente il potere acquisito dal
drago dipendeva anche dalla qualità della collezione, per cui le teneva
ben curate. Mi chiedevo come gli altri gruppi magici del luogo
permettessero una cosa del genere.
«Non c’è niente che possiamo fare.»
disse Josephine, sottovoce, come se avesse intuito i miei pensieri. «Se
riusciamo a trovare l’uovo e ricattare Glavnyognya, possiamo fermare
tutto questo.»
«Non si tratta di fermare, ma di
smantellare.» replicai. Stavamo scendendo le scale che portavano al
quarto livello e per ora nessuno ci aveva dato problemi.
«Potresti farlo tu.»
«Non mi pagano abbastanza.» Le feci
cenno di fare silenzio. Eravamo arrivati al quarto livello e l’aria che
tirava era diversa rispetto al piano superiore. C’era meno movimento e
qualche ragazza faceva capolino dalla sua stanza e ci guardava con un
misto di paura e speranza. Mi diressi senza perdere tempo verso la
scala per scendere e mi accorsi che c’era un uomo a controllarla. Era
vestito casual, con un paio di jeans e una t-shirt dal collo a v, e
teneva uno stecchino fra i denti. Particolare non trascurabile: dalle
spalle gli pendeva una tracolla fissata a un SMG.
Sbuffai. Fine della corsa. L’uomo andava
eliminato, ma volevo evitare che cominciasse a sparare in mezzo alle
ragazze. E soprattutto eventuali rumori che mettessero in allarme tutto
il mondo.
Agitai una mano per salutarlo e mi
guardò dubbioso, prima di ricambiare. Probabilmente stava cercando di
ricordare chi fossi. Strattonai Josephine, poi scossi le spalle e
sorrisi. Stavo per superarlo, quando mi mise un braccio davanti per
fermarmi.
Disse qualcosa in tedesco che poteva
essere “dove credi di andare?” come “tu chi diavolo sei?”, ma non era
importante.
Ecco un consiglio in caso anche voi vi
troviate nella stessa situazione dell’omino che mi stava davanti. Se
volete fermare una persona e avete una mitraglietta al collo, usate
quella a distanza di sicurezza e non perdete tempo a fare domande
inutili.
Se Johnny Stecchino mi avesse tenuto a
distanza con l’arma - come avrebbe fatto qualsiasi guardia capace - non
si sarebbe ritrovato con la gola squarciata dagli aculei di ghiaccio
che avevo evocato sulle mie dita.
«Conosci qualche incantesimo di
mimetizzazione?» chiesi a Josephine, mentre adagiavo il cadavere a
terra, cercando di non sporcarmi di sangue. Alcune delle ragazze ci
guardavano e altre erano uscite dalle proprie stanze. Mi
girai verso di loro e, sfoderando il mio sguardo più minaccioso, dissi:
«Tornate a fare quello che stavate facendo se non volete fare la stessa
fine!» Anche se non capivano l’inglese, il tono era abbastanza chiaro.
Dovetti risultare abbastanza spaventoso,
perché tutte corsero via e si allontanarono da me, chiudendosi nelle
proprie stanze.
Mi voltai nuovamente verso Riccioli
d’Oro e il fu Johnny Stecchino, ma il cadavere era scomparso.
Fischiai. «Alla faccia della mimetizzazione.» Si vedeva giusto un po’
di sangue accanto a dove doveva trovarsi una gamba.
«Forza, non durerà per molto.» disse
Josephine, cominciando a scendere per le scale.
La seguii non prima di darmi un’occhiata
alle spalle. Nessuno, bene.
Il quinto livello era strutturato
diversamente. Il corridoio dopo la scala s’immetteva dopo qualche metro
in un’ampia sala, in cui si trovavano tre porte. Quella a cui ci
trovavamo di fronte era più corretto definirla portone e sembrava
essere ben chiusa. Le altre, che si trovavano ai lati, erano identiche
a quelle che si trovavano negli altri livelli. Non c’era nessun indizio
per effettuare una scelta sensata, per cui mi diressi verso quella a
sinistra. Il grande portone davanti non m’ispirava per nulla.
Sembrava proprio l’ingresso per un grande salone in cui Glavcoso si
rilassava nella sua forma naturale ed era qualcosa che proprio non ci
tenevo a vedere.
La porta era aperta e dava su una grande
stanza, arredata come un ufficio. Una grande scrivania in mogano
dominava la sala e i muri erano letteralmente coperti da librerie
cariche di volumi di ogni specie. Un portatile chiuso si trovava al
centro della scrivania, affiancato da un hard disk esterno, una pila di
cartelle e documenti sparsi per tutta la superficie. Un’elegante
lampada di porcellana torreggiava su un lato ed era l’unica sorgente di
luce della stanza.
Josephine non aveva perso tempo e si era
messa a frugare nei cassetti della scrivania.
«Calma.» le dissi. «Non sappiamo nemmeno
se siamo nella tana del drago o nell’ufficio di un CEO.»
«Dobbiamo trovarlo! Non c’è tempo per le
tue buffonate.» replicò acida.
Scossi le spalle e continuai ad
esaminare la stanza. In un lato semi-nascosto dalla lampada c’era uno
di quei mappamondi in legno, antichi e che valevano una fortuna. Gli
scaffali delle librerie erano pieni di piccoli soprammobili e gran
parte sembravano essere di valore. Sicuramente quella non era la stanza
di uno sgherro qualunque. Sull’unica parte di muro non occupata da
librerie era appeso un arazzo, in cui riconobbi quello che mi avevano
mostrato in foto qualche giorno prima all’albergo. Sicuramente era
l’originale. Eravamo nell’ufficio di Glavcoso, c’era poco da dubitarne.
Intanto, Josephine aveva finito di
controllare i cassetti e si stava dedicando ai soprammobili. Io,
invece, mi sedetti sulla poltrona di pelle davanti alla scrivania.
Oltre al fatto che era così comoda da rendere vana qualsiasi
similitudine con una nuvola, mi permetteva di vedere la stanza come la
vedeva ogni giorno il drago.
«Dove terrei la cosa a cui tengo di
più?» mi chiesi, sottovoce.
Mi venne la tentazione di accendere il
computer, ma mi fermai. Non c’era tempo per provare a superare la sua
sicurezza e magari non trovare nulla d’interessante. Il mucchio
scomposto di documenti m’incuriosiva. Allungai la mano per prendere
qualcuno, ma sentii come una scarica elettrica percorrermi il braccio.
Mi voltai verso Josephine e dissi:
«Forse l’ho trovato.»
Stava chiudendo lo zaino e la sua
risposta fu meno felice di quanto mi sarei aspettato. «Ok, allora
possiamo andare via.»
«Frena i cavalli, tesoro. Ho detto che
forse l’ho trovato.»
Chiusi gli occhi e mi concentrai sul
fluire dell’energia magica. Quando avevo controllato due giorni prima,
la radiazione di fondo della zona era caotica, ma in quella stanza
sembrava regnare una calma assoluta, come se fossimo nell’occhio del
ciclone. Nonostante ciò, il livello di energia era elevatissimo:
congiurare incantesimi in quella stanza avrebbe portato a risultato
molto interessanti. Peccato non ci fosse il tempo di provare.
Quello che m’interessava in quel momento
era il picco di energia che mi aveva dato la scossa. Spostai un po’ di
fogli e lo trovai.
L’uovo del drago.
Era là sulla scrivania, che fungeva da
fermacarte, tenendo fermi alcuni documenti. Un classico nascondiglio da
“lettera rubata”. Probabilmente Glavcoso aveva letto il racconto.
Diavolo, vista l’età probabilmente con Poe ci aveva pure parlato.
Rimasi un po’ deluso. Mi aspettavo una
via di mezzo fra un diamante e un uovo Fabergé, ma sembrava un ciottolo
raccolto da un ruscello. Era un oggetto piccolo e anonimo, ma
sprigionava un’energia tale da impedirmi di prenderlo in mano senza
tremare. Doveva essere per forza l’uovo, che altro oggetto magico
poteva emanare così tanta energia? Lo feci scivolare con calma dentro
la tasca inferiore della zaino.
Spinsi indietro la poltrona e mi alzai.
«Filiamocela.»
Tornammo nella stanza centrale, ma la
fortuna che fino a quel momento ci aveva accompagnato si era esaurita.
Oppure i nostri angeli custodi avevano sbagliato strada e si erano
persi nell’harem sotterraneo. Fatto sta che la strada da cui eravamo
arrivati era occupata da un gruppo di uomini armati. Fecero fuoco, ma
le pallottole rimbalzarono sullo scudo che avevo evocato, disperdendosi
per tutta la sala. Evocai un globo di fuoco e lo lanciai verso di loro,
mentre mi buttavo a terra per schivare i proiettili.
La palla di fuoco esplose con una forza
inaudita e del tutto inaspettata. Avevo usato abbastanza energia per
generare un proiettile pericoloso quel tanto bastava per far capire
loro che dovevano fare attenzione, invece era esploso come una palla di
C4. L’onda d’urto e di calore che ne seguì mi bruciò le sopracciglia e
le punte dei capelli. Alzai lo sguardo e lo spettacolo che mi si
presentò non era certo per stomaci sensibili. Gli uomini, quello che
rimaneva di loro, erano sparsi a pezzi per il corridoio e sui muri,
diventati completamente neri, mentre una pozza di liquido si era
formata dove il pavimento pendeva. Il puzzo di carne bruciata era
insopportabile e sentivo la cena risalire dallo stomaco.
Josephine era sdraiata poco dietro di me.
«Tutto a posto?» gridai. Le orecchie mi
ronzavano a causa dell’esplosione e sentivo a malapena la mia voce.
Non sentii risposta e mi rialzai
lentamente, per aiutarla.
«Che diavolo hai fatto?» mi chiese,
alzando la testa. Il ronzio stava diminuendo.
Le porsi una mano e l’aiutai a tirarsi
su. «Non ne ho idea. Dev’essere l’energia latente che c’è in questo
posto. Ha potenziato l’incantesimo.» risposi. Era l’unica spiegazione
possibile, a meno che non fossi improvvisamente diventato un arcimago
da guinness dei primati. Comunque non era certo il momento di
applicarsi in teoria magica. Mi diressi verso il corridoio,
ma dalla scala apparve un altro gruppo di uomini.
Estrassi la pistola e feci fuoco,
prontamente imitato da Riccioli d’Oro. Non era il caso di usare la
magia senza sapere bene come l’ambiente ne avrebbe modificato il
comportamento. Il fuoco intenso tenne a bada i nemici, che tornarono
indietro sulla scala. Quella via d’uscita era bloccata, a meno che non
decidessimo di combattere a tutto quartiere, opzione che volevo
evitare. Per quanto tempo avremmo potuto giocare a Dungeon &
Dragons, prima che arrivasse il vero drago?
«Dall’altra parte, Jo.» gridai. Premetti
il tasto di rilascio del caricatore e inserii quello nuovo. «Speriamo
che l’altra porta sia aperta.»
La fortuna ricominciò ad aiutarci. Non
solo la porta era aperta, ma portava a una scala a chiocciola che
saliva. Tolsi l’MP5 dallo zaino e mi affacciai nella sala. Gli uomini,
ne contai tre, si stavano avvicinando. Sparai un paio di raffiche per
far capire loro che non era una buona idea muoversi allo scoperto e poi
chiusi la porta. Posai la mano sulla serratura e cominciai a congiurare
un incantesimo trappola, ma mi fermai. Non sapendo come avrebbe
interagito con l’energia latente, era meglio non rischiare che mi
scoppiasse in faccia.
«Andiamo!» gridò Riccioli d’Oro, mentre
cominciava a salire le scale.
La seguii di corsa.
La scala saliva e saliva senza
interruzione. Avevo smesso da un pezzo di contare i gradini ma ero
certo che avessimo superato già un paio dei livelli che avevamo
attraversato prima. Ci volle un po’ perché arrivassimo a una botola sul
soffitto.
«È chiusa dall’altra parte.» disse
Josephine, dopo aver provato a spingere.
«Fammi passare.» replicai. «Ora provo
col mio passepartout.»
Posai una mano sulla botola accanto al
punto in cui doveva trovarsi il passante dall’altra parte. Non ero
certo di essere abbastanza lontano dalla zona di casino magico, ma
dovevo comunque rischiare. Non potevamo tornare indietro e lo spazio
era troppo stretto per rischiare di sparare alla serratura. “Neil
McRoberts, ucciso da una pallottola di rimbalzo” non era il massimo
come epitaffio.
Rilasciai un po’ di energia e feci
saltare la serratura. La botola rimbalzò per la piccola esplosione e ne
approfittai per sfruttare il momento e aprirla con facilità.
Salii e poi tesi una mano a Josephine.
Ci trovavamo in una specie di magazzino illuminato da una lampada a
fluorescenza. Da un lato c’erano delle botti di legno e più indietro,
posate sul muro, parecchie scatole di cartone. Una scala portava a una
porta. Stavo cominciando a odiare le scale, Glavcoso poteva pure
“tecnologizzarsi” un poco e mettere qualche ascensore.
«Dieci a uno che siamo nella taverna.»
dissi.
Uscimmo da quella che sembrava essere
una cantina e ci trovammo, infatti, nel locale. Esattamente nel momento
in cui entrammo, le luci si accesero e da una porta alla sinistra uscì
un uomo. Era quello che avevo identificato come il proprietario.
Vederlo così da vicino metteva in risalto quanto fosse alto: superava i
due metri. Con due falcate si mise fra me e l’uscita.
Feci un passo avanti con sicurezza,
tenendo in bella mostra la mitraglietta. «Suvvia, amico, siamo di
fretta.» dissi. «Fuori dalle palle.»
Avanzai ancora, ma l’uomo non dava
l’impressione di volersi spostare. I suoi occhi neri mi fissavano
dall’alto in basso con disprezzo. Un brivido mi corse lungo la schiena.
C’era qualcosa che non andava e ne ebbi la conferma quando mi mossi per
spostarlo con una spallata, ma l’unico effetto fu un forte dolore
all’articolazione, come se avessi provato a sfondare un muro.
«Hai qualcosa di mio.» La sua voce era
bassa e profonda, come se uscisse da una caverna.
Sospirai. Eravamo nei guai. L’unica
persona del paese che non avrei mai voluto incontrare e ci ero andato a
sbattere addosso.
Una sferzata di vento potentissima ci
sollevò da terra e ci fece volare verso la vetrata dell’ingresso.
L’impatto non fu dei migliori e caddi di peso sul marciapiede,
accompagnato da una pioggia di vetro. Sentivo il sangue che mi scendeva
sul viso e sulle braccia, ma non era importante. Dovevo alzarmi.
«Forza, Neil!» gridò Josephine tirandomi
su con forza. In mano aveva la sua bacchetta da direttore d’orchestra.
«Il drago.» balbettai a stento, mentre
una fitta di dolore mi face tremare. Esaminai le labbra e ci trovai un
pezzo di vetro piantato. Lo rimossi, mentre guardavo imbambolato il
barista che usciva dal locale con un fucile in mano. Mi guardai intorno
alla ricerca della mia arma, ma non la vidi da nessuna parte.
«Dai!»
Josephine mi strattonò e cominciai a
correre insieme a lei. L’importante era arrivare dall’altro lato della
strada e scomparire nelle viuzze. Quando si fugge in un ambiente
urbano, non è importante tanto la distanza in linea retta quanto il
numero di angoli che si mettono fra se stessi e l’inseguitore.
Ma chi stavo prendendo in giro. Ci stava
inseguendo un dannato drago. Poteva volare. Poteva incendiare tutto il
fottuto paesello e la foresta.
Sentii il rumore dello sparo, prima che
potessi pensare a proteggermi. Istintivamente chinai la testa, ma il
proiettile mi perforò il polpaccio. Persi l’equilibrio e caddi
malamente a terra. Provai ad attutire la caduta con le mani, ma ciò non
fece altro che far scendere in profondità le schegge di vetro che avevo
nei palmi. Mi voltai e vidi che Glavcoso teneva il fucile puntato
contro Josephine, che lo fronteggiava di petto, con uno scudo magico
davanti a lei. L’incantesimo di difesa sembrava una semisfera di
cristallo che circondava la donna. Poiché in genere non si
spara ai polpacci della gente, supposi che ero stato preso da una
pallottola di rimbalzo. Che fortuna.
Riccioli d’Oro stava fronteggiando il
drago, ma persino io, dalla mia precaria posizione, vedevo che tremava.
Anche Glavcoso doveva essersene accorto perché rideva. Alzò il fucile -
un vecchio Mosin-Nagant che probabilmente era stato usato durante la
Grande Guerra Patriottica - e sparò ripetutamente contro lo scudo
magico. La donna riuscì a mantenerlo attivo, ma cadde su un ginocchio
per lo sforzo.
Il dolore mi stava uccidendo e avevo
difficoltà a concentrarmi, però mi ricordai che dovevo avere ancora la
pistola infilata nei jeans. Rotolai di lato e la estrassi. Glavcoso era
concentrato su Riccioli d’Oro e non mi stava considerando, per cui non
mi fu difficile prendere la mira con calma e scaricare tutto il
caricatore sul drago. Mi trovavo a una decina di metri da lui e della
dozzina di proiettili che sparai solo un paio lo colpirono. Nemmeno
l’impensierirono, ma lo distrassero abbastanza da permettere a
Josephine di abbassare lo scudo e di attaccarlo con la bacchetta.
Un’onda viola d’energia magica lo colpì
in pieno petto e lo scaraventò nuovamente dentro l’edificio. Mi
sollevai a fatica, reggendomi sulla gamba sana, evocai una palla di
fuoco e la lanciai dentro il locale, le cui parti in legno
s’incendiarono.
«Dammi una mano.» gridai, mentre cercavo
di allontanarmi zoppicando. Mi voltai per vedere se avesse sentito, ma
vidi solamente un qualcosa sfrecciare fuori dall’edificio in fiamme, un
qualcosa così veloce che non ne intuii nemmeno le fattezze. Mi colpì
alla schiena e volai avanti, cadendo sul bordo del marciapiede e
battendo all’altezza delle ginocchia. Fu come se me le
avessero allegramente prese a martellate.
Sentii un urlo, poi diversi spari e
infine un corpo che sbatteva sull’asfalto. Piegai di lato la testa e
vidi Glavcoso che tirava Josephine per i suoi bei riccioli, portandola
verso la taverna. Si era completamente disinteressato a me e
probabilmente voleva aggiungere Josephine alla sua collezione. Magari
pensava che avessi abbastanza ossa rotte da non potermi più alzare e
che avrebbe recuperato l’uovo appena posata la donna.
Si sbagliava. Con le ultime forze
rimastemi mi alzai in piedi e inserii nella pistola l’ultimo caricatore
rimastomi. Mi mossi verso Glavcoso in quella che era una via mezzo fra
una corsa e una gara di salto su un piede, ma il drago era troppo pieno
di sé per pensare che un misero umano potesse rialzarsi dopo che
l’aveva colpito.
«Ehi, lucertolone.» dissi, quando mi
trovavo un passo dietro di lui.
Glavcoso si girò e si trovò sul naso la
canna della pistola.
La testa dell’uomo rinculò brutalmente
all’indietro, quando le pallottole gli sfondarono il cranio. Cadde a
terra come un frutto maturo, ma continuai a sparare fino a quando il
carrello dell’arma non rimase immobile, in attesa di un altro
caricatore. Buttai la pistola e guardai la poltiglia che era rimasta al
posto della faccia di Glavcoso.
Avevo ucciso un drago? Era stato troppo
facile. Comunque, non c’era tempo per pensare a quelle quisquilie,
bisognava fuggire. Josephine era ridotta piuttosto male - aveva il naso
rotto e un braccio le pendeva molle sul fianco - ma sembrava in grado
di camminare, sicuramente molto meglio di me.
Un rumore di motori riempi la notte. Mi
voltai in direzione del suono e feci appena in tempo a vedere due SUV
neri con le luci spente, prima qualcuno mi prendesse per il collo.
«Mi hai fatto arrabbiare, insetto.»
tuonò Glavcoso, muovendo il poco di mandibola che gli era rimasta.
Mi scagliò a terra e si trasformò.
Mi aspettavo una trasformazione stile
Malefica della Bella Addormentata, invece fu una cosa netta,
improvvisa. Prima c’era l’uomo con la faccia spappolata e un secondo
dopo era apparso un colosso di scaglie e artigli, alto quanto un
edificio di due piani. Ero scosso da un misto di terrore primordiale e
ammirazione smisurata per quella creatura. Mi sollevai sui gomiti:
tremavo incontrollabilmente e lo stomaco mi si era accartocciato.
Piegai la testa e vomitai.
Nonostante la paura però non potevo fare
a meno di rimanere incantato davanti al drago. Le scaglie rosso sangue
riflettevano cupamente la luce. Gli artigli, lunghi quando spade, erano
tanto eleganti quanto letali. Lo schema delle scaglie e degli aculei
sui possenti arti e sulla coda creava un disegno ipnotico da cui era
difficile staccare gli occhi. Le ali erano estese al massimo e
catturavano il minimo accenno di vento, gonfiandosi come degli
spinnaker. Occhi di brace mi fissavano con odio e spregio.
Un ruggito potente e rumoroso quanto la
partenza di un razzo spaziale riverberò per tutto il paese e la foresta
e capii di essere arrivato al capolinea. Per quanto potessi essere
abile e forte al confronto di quell’essere ero un insetto, un brutto e
goffo scarafaggio che andava schiacciato. Qualsiasi cosa avessi potuto
lanciargli contro avrebbe avuto l’effetto di uno sputo su un carro
armato. Notavo però dei rivoli di sangue scendere lungo il ventre
molle, partendo da piccoli buchi che sembravano essere i fori
d’ingresso di proiettili.
Stava immobile erto sulle zampe
posteriori, probabilmente gustando la paura che trasudavo. Glavcoso,
anzi Glavnyognya - vista la mia posizione non avevo diritto di essere
sarcastico né di insultare quell’essere maestoso - era però troppo
arrogante e superbo. Perché perdere tempo con i cliché da boss finale
di un videogioco, quando poteva farci fuori in mezzo secondo?
Ok, avevo ripreso a insultarlo, ma
quello che successe dopo mi diede ragione.
Alla mia sinistra sentii dei tonfi sordi
di proiettili che uscivano da dei lanciagranate e poi vidi i suddetti
proiettili cadere ai piedi del drago. Mi sdraiai a terra a pancia in
giù, sperando di non venire colpito dalle schegge. Al diavolo, me
n’erano già capitate abbastanza e non volevo pure un green on blue -
militarese per “colpito da fuoco amico” - o supposto tale. In quel
momento chiunque stesse attaccando il drago era mio amico, il mio
migliore amico.
Mi coprii la testa con le braccia.
Le granate esplosero facendo irritare il
drago ancora più di quanto non lo fosse già. Subito dopo cominciarono
le raffiche di armi pesanti. Erano attacchi ritmati, eseguiti da gente
addestrata, non il suono continuo di un pivello che usava l’arma in
modalità automatica e sparava come se stesse usando uno spruzzatore.
Spostai un poco la testa. Il drago era
poggiato su tutte e quattro le zampe e notai che una di quelle
anteriori era completamente spappolata. I proiettili dei fucili lo
colpivano sul muso e sul ventre, come uno sciame di vespe impazzite.
Le raffiche s’interruppero
all’improvviso e quattro lupi comparvero nel mio campo visivo e
saltarono addosso al drago. Non erano lupi normali: erano grandi quasi
quanto un cavallo e, soprattutto, i draghi non fanno parte della loro
tipica dieta. Dovevano essere mannari del branco di Robert Von Kempf,
per cui l’orchestra di fucili d’assalto e lanciagranate probabilmente
era stata gentilmente offerta dalla signora Zimmermann.
Era arrivata la cavalleria. Se avessi
avuto un po’ di fiato mi sarei messo a fischiettare il Garry Owen.
Glavcoso si dimenava follemente,
cercando di scuotere via i lupi, aggrappati con zanne e artigli alle
sue zampe, alla coda e alla schiena. Intanto le raffiche di mitra
continuavano, dirette con precisione sul muso del drago, impedendogli
di concentrarsi nell’attaccare i lupi.
Mi guardai in giro e vidi Josephine,
sdraiata a terra poco lontano da me. Strisciai verso di lei.
«Tutto a posto?» domandai urlando
per superare il casino che ci circondava.
La smorfia di dolore che si dipinse sul
suo volto quando si voltò per guardarmi era una risposta fin troppo
chiara.
«Sono arrivati i rinforzi.» urlai per
rassicurarla, poi mi concentrai nuovamente sull’azione.
Il drago continuava a subire, ma non
sembrava intenzionato ad arrendersi. Uno dei lupi era a terra in un
pozza di sangue e con il ventre squarciato. Un altro era stato appena
colpito da una sferzata della coda e si era spezzato in due come un
ramoscello calpestato. Glavcoso non se la passava meglio. Giaceva
poggiato su un fianco, in un lago di sangue. Una seconda zampa era
fuori uso, un occhio era chiuso e il ventre era crivellato dai
proiettili.
Non avevo idea di come funzionasse il
metabolismo di un drago, per cui non sapevo se erano ferite pericolose
oppure se il suo fattore di rigenerazione gli avesse permesso di
curarsi in poco tempo. Ci voleva qualcosa di più incisivo che lo
mettesse fuori combattimento per abbastanza tempo da poter fuggire.
Mi accorsi che una piccola fiammella
azzurra guizzava fuori da un taglio al centro della pancia e mi
tornarono in mente le parole di Josephine di qualche giorno prima:
forse avevo modo di aiutare la cavalleria.
Controllai la gamba a cui ero stato
colpito. La pallottola aveva trapassato il polpaccio, ma fortunatamente
non aveva colpito né le ossa né un’arteria. Nonostante il dolore mi
stesse facendo impazzire non ero in pericolo di vita.
Almeno per ora, dato che ciò che avevo
in mente di fare poteva tranquillamente farmi guadagnare un Darwin
Award.
Mi sollevai su un ginocchio, pronto a
scattare come un centometrista. Tirai un paio di respiri profondi,
riempiendomi i polmoni d’ossigeno, e scattai. A essere pignoli non fu
proprio uno scatto. Zoppicavo tirandomi dietro la gamba ferita e stavo
accucciato per evitare il fuoco amico. Arrivato accanto al
ventre del drago mi gettai a terra e cominciai a strisciare mezzo
immerso nel sangue del mostro. Se in quel momento Glavcoso si fosse
sdraiato mi avrebbe trasformato in una frittata. Arrivai all’altezza
della fiammella blu che avevo visto prima e mi fermai. Usciva da uno
squarcio nel ventre di almeno mezzo metro.
Josephine aveva detto che i draghi
sputavano fuoco utilizzando metano prodotto dalla digestione.
Probabilmente lo immagazzinavano in qualche organo particolare, per poi
utilizzarlo quando dovevano accendersi un sigaro o preparare un
barbecue. O dar fuoco a un mago rompiscatole. La fiammella blu era
chiaramente una perdita di gas che aveva preso fuoco e il metano
produce una fiamma di quel colore.
Allargai lo squarcio e guardai dentro.
Non m’intendo di anatomia umana, figurarsi se potevo capire qualcosa
dell’interiora di un drago. C’era roba rossastra e bianca, che poteva
essere tessuto muscolare come una roba strana esclusiva di quei
lucertoloni. L’unica cosa che capivo, e che m’interessava,
era il foro di proiettile da cui usciva il gas. Evocai un piccolo scudo
magico per tappare la perdita e quando la fiamma si dissipò lo
disattivai. Essendo il metano inodore, l’unico indizio della
fuoriuscita era il leggero vibrare delle labbra della ferita.
Frugai nelle tasche ed estrassi il
Leatherman. Allargai al massimo la pinza e poi estrassi tutti gli
utensili da entrambi i lati. Non era perfettamente dritto, ma lo era
abbastanza da sembrare un’antenna. Lo piantai nella ferita in modo che
rimanesse circa perpendicolare al terreno e non si muovesse troppo, poi
mi allontanai saltellando su una gamba, in direzione di Josephine. La
presi per un braccio e la costrinsi ad alzarsi e ad allontanarsi con
me, verso l’altro lato della strada. Arrivati, la feci sdraiare e le
ordinai di stare così fino a nuova comunicazione.
Intanto la battaglia continuava: i lupi
continuavano imperterriti a saltare sul drago, mentre gli uomini armati
continuavano a sparargli in testa. Nessuno dei due attacchi, però
sembrava riuscire a mettere a segno un colpo decisivo.
Dal punto in cui mi trovavo il
Leatherman-antenna, che usciva per qualche centimetro dalla ferita, era
un puntolino metallico e difficilmente lo vedevo nonostante la luce dei
fari dei SUV che illuminavano il drago. Comunque l’importante era che
mi ricordassi la sua generica posizione, al resto ci avrebbero pensato
le leggi dell’elettromagnetismo.
Mi concentrai cercando d’ignorare il
dolore. Avevo bisogno di tutta l’energia possibile per congiurare
l’incantesimo che avevo in mente. Tenendomi su un ginocchio e una mano,
allungai l’altra in direzione del coltello multiuso, mentre raccoglievo
l’energia magica sulla punta delle dita. Sudore misto a sangue mi
colava sugli occhi, ma non potevo far nulla per alleviare il fastidio,
perché avevo paura che qualsiasi movimento avrebbe distrutto la
concentrazione e dunque il flusso di energia.
Iniziai a tremare a causa della
posizione scomoda in cui mi trovavo.
L’incantesimo che volevo evocare era
abbastanza difficile di suo, farlo in quelle condizioni di caos sarebbe
stata un’impresa memorabile, ammesso che fossi sopravvissuto. Quando
fui abbastanza sicuro di aver incanalato abbastanza energia verso il
Leatherman, esclamai la parola di comando e l’incantesimo partì.
Successe tutto così velocemente che
registrai a malapena il risultato della mia azione.
L’arco elettrico che avevo
generato ronzò e vibrò nell’aria fondendo il coltello-antenna
e generando la scintilla che fece esplodere la bombola di gas nel corpo
del drago.
Feci appena in tempo a sollevare il
braccio davanti al volto che detriti e sangue mi colpirono. Barcollai e
finii a terra di peso. Un ruggito carico di rabbia e sofferenza mi
scosse i timpani e fui costretto a coprirmi le orecchie. Alzai lo
sguardo e vidi Glavcoso che si sollevava a fatica, appoggiandosi su un
edificio. Nella parte centrale del ventre c’era un cratere e gli organi
interni erano scoperti. Il drago ruggì una seconda volta, poi spalancò
le ali e spiccò il volo, allontanandosi barcollante.
Mi misi a ridere, o almeno ci provai
perché avevo esaurito le forze. Il dolore che prima pulsava come non
mai era diventato come un flebile rumore di fondo che faticavo a
sentire. Il respiro era veloce e incostante e tremavo come se mi
trovassi nudo al Polo Nord. Avevo appena sconfitto un drago, ma non
avrei potuto vantarmene con nessuno.
Ero ormai certo che quello fosse stato
il mio ultimo incantesimo quando sentii due mani prendermi per i
fianchi e tirarmi su. Qualcuno mi sollevò e mi buttò sulla sua spalla,
caricandomi di peso. Alla mia sinistra potevo vedere che un uomo,
vestito con un’uniforme nera e un passamontagna, aveva fatto lo stesso
con Josephine.
Ci trasportarono fino ai SUV e ci
caricarono sul sedile posteriori. All’interno c’era abbastanza spazio
per cinque persone armate di tutto punto. Sembrava una
dannata squadra anti-terrorismo dell’esercito.
«I miei complimenti, Neil.» disse una
voce femminile. Un volto scuro rigato dal sudore faceva capolino fra i
sedili anteriori.«Pensavo fossi un bluff. Tutto fumo e niente arrosto,
invece… »
Il SUV partì. Mi focalizzai su quel viso
ma avevo difficoltà a tenere gli occhi aperti. Due occhi grigi
spuntavano da una faccia sporca di polvere e sangue. «Grazie,
Yelena.» biascicai.
Uno degli uomini mi stava prestando il
primo soccorso, fasciandomi la ferita al polpaccio.
Con un ultimo sforzo prima di perdere i
sensi portai una mano verso la tasca inferiore dello zaino e sentii
l’energia magica dell’uovo. Sorrisi con soddisfazione e chiusi gli
occhi.
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Capitolo 6 *** Epilogo ***
Mi risvegliai in un
letto d’ospedale.
Avevo una gamba ingessata in trazione,
un tubo attaccato al braccio e bende a non finire. Mi toccai il volto e
ci trovai altre bende, che mi coprivano quasi interamente, a eccezione
di occhi, naso e bocca. Mi sentivo tranquillo e rilassato, come se
fossi sdraiato su un letto di piume. Evidentemente il tubo mi stava
passando roba buona.
Un forte odore di disinfettante
aleggiava tutt’intorno e da un televisore in un angolo provenivano dei
suoni. Mi ci volle uno sforzo non indifferente per trasformarli in
parole di senso compiuto. Lo schermo mostrava una veduta area di un
bosco e immagini di fuoco e fiamme, mentre una voce femminile diceva
qualcosa circa il più grande incendio del secolo.
Ero troppo fatto di antidolorifici per
ragionare decentemente, per cui chiusi gli occhi e pensai a una
spiaggia bianca e immacolata e a una signorina in bikini che mi correva
incontro. Mi addormentai prima che arrivasse abbastanza vicino da
slacciarle il pezzo superiore del costume.
Stavolta fui svegliato da un’infermiera.
«Buongiorno, signorina.» salutai,
cercando senza successo di risultare allegro. «Potrei aver un bicchiere
di whisky?»
L’infermeria sorrise, ma scosse la
testa. «Whisky e antidolorifici non sono un gran cocktail.»
«Non me l’hanno fatto portare, Neil, mi
spiace.» aggiunse un’altra voce.
Mi girai verso i piedi del
letto e mi accorsi che c’erano visite. Riconobbi subito
l’inconfondibile figurina da ginnasta prosperosa e i capelli raccolti
in una coda di cavallo.
«Chiara!» esclamai col massimo
entusiasmo che la morfina mi permetteva.
«Hai rispettato la tua parte d’accordo e
noi rispettiamo la nostra.» disse Greta Zimmermann.
«Hai fatto il tuo, ma non senza
combinare un finimondo, come al solito. Sei un dannato folle!» aggiunse
Robert Von Kempf sorridendo.
Dietro di loro, appoggiati accanto alla
porta, c’era un ragazzo con lunghi capelli biondi e Yelena, che sorrise
e mi salutò con un cenno del capo.
«Combinato un finimondo?» ripetei.
Ricordavo a malapena cosa era successo la scorsa notte - o erano
passati più giorni? Non ne avevo idea. Mi ricordavo solamente quel
dannato drago e poi sparatorie, lupi ed esplosioni.
«Dopo che l’hai mutilato, Glavnyognya è
volato via e ha cominciato a devastare la foresta come un forsennato.
Sono scoppiati diversi focolai e la Foresta Nera ha subito il più
grande incendio registrato nella sua storia.»
Pian piano riconnessi i pezzi del
puzzle. Avevo fatto esplodere un pezzo del drago e l’avevo fatto
fuggire. «Potete chiamarmi Neil McRoberts, Flagello dei Draghi.»
«Fossi in te non me ne vanterei più di
tanto.» disse Greta. «Quando l’abbiamo incontrato per definire i nuovi
dettagli della nostra convivenza, ci ha offerto non poco per la testa
di chi ha rapito il suo erede.»
«Il fatto che io sia ancora vivo e in
buona, quasi buona, salute mi fa pensare che non abbiate accettato.»
«Pensi bene. Inoltre, visto l’ottimo
lavoro, ho versato sul tuo conto ventimila euro.»
«Come…»
«Ci ho pensato io.» m’interruppe Chiara,
immaginando la mia preoccupazione riguardo le mie coordinate bancarie.
«Spero che questo possa essere l’inizio
di una fruttuosa collaborazione fra noi.» aggiunse la vampira.
«A meno che non mi chiediate qualche
altra cosa assurda, che so, evocare un Antico o diventare un Cavaliere
della Tavola Rotonda.» Sorrisi.
«Spero proprio di no.» replicò Robert,
scuotendo la testa. «Ora, però, ti lasciamo riposare.»
«Te lo sei meritato.» aggiunse Greta.
Onestamente in quel momento avrei
preferito faticare in una cava di pietra ma senza fratture e tubi nel
corpo, piuttosto che stare immobile a letto conciato come una mummia,
ma evitai di dirlo.
I due si allontanarono verso la porta,
mentre Chiara si avvicinò e mi baciò sulla fronte. «Quando sarai più in
forma, mi racconterai tutto davanti a una pizza.»
«Certamente.» risposi.
Anche lei fece per uscire, poi la
chiamai e si fermò.
«Potresti dire a Yelena, la guardia del
corpo di Greta, di venire qua? Vorrei scambiare due parole con lei.»
La fata annuì e uscì di corsa.
Dopo un paio di minuti, la porta si aprì
nuovamente e Zuccherino entrò. Si avvicinò al letto e mi guardò,
curiosa. «Sì?» disse.
«Josephine?» domandai. «È fuggita?»
Yelena spalancò gli occhi e mi guardò in
tralice. «Come fai a saperlo?»
«Magia.» replicai.
«È sparita ieri notte e non sappiamo
dove sia andata. L’appartamento è vuoto, la sua moto è ancora a casa
mia.»
«Ieri notte? Quanti giorni sono passati?»
«Tre giorni dalla tua bravata contro
Glavnyognya. Josephine era messa molto meglio di te. Tanto sangue, ma
nessuna ferita grave, a parte il naso rotto e una brutta botta al
braccio destro. Non è nemmeno venuta in ospedale.»
«E il suo zaino? L’avete controllato?»
Scosse la testa. «L’ha sempre tenuto lei
e quando ti abbiamo portato in ospedale lei è tornata a casa. Poi non
l’abbiamo più vista.»
Annuii. Riccioli d’Oro aveva completato
la sua agenda personale e non aveva più bisogno di lavorare per Greta
Zimmermann. «Da quanto tempo stava con voi?»
«Quasi quattro anni.»
Fischiai. O almeno ci provai, con tutti
quei bendaggi non era facile. «Ha avuto pazienza.»
«Che intendi dire?» replicò, guardandomi
storto. «Ci ha imbrogliato in qualche maniera?»
«Sapeva del drago?»
«Ovviamente. È stato uno dei motivi
principali per cui l’abbiamo assunta. Non si trova molta gente esperta
del campo.»
«Capisco. Nella tana del drago credo
abbia preso un qualche artefatto magico. L’ufficio di Glavcoso era
pieno di oggetti di un certo valore. Non appena siamo entrati si è
subito fiondata alla ricerca di qualcosa. All’inizio pensavo cercasse
l’uovo, ma dopo qualche minuto, mentre riflettevo su dove potesse
essere il nostro obiettivo, l’ho vista rimestare nello zaino e poi si è
fermata, lasciando a me l’onore di trovare il sasso. L’atteggiamento mi
aveva insospettito e mi ero ripromesso d’indagare, però… beh… c’è stato
qualche contrattempo e l’ho persa di vista.»
Sorrise. «Ci ha usato.» Sollevò le
spalle. «Riferirò a Greta, ma non credo farà nulla. Alla fin fine non è
che abbia fatto nulla di male nei nostri riguardi.»
«Oltre a usarvi per i propri
scopi? Comunque, conosci un gruppo di streghe che si fa chiamare i
Quattro Fiori?»
«No.»
«Credo che Riccioli d’Oro ne faccia
parte e abbia fatto tutto questo per loro.»
Yelena fece spallucce. Non sembrava
molto interessata. Estrasse dalla giacca una penna e scrisse qualcosa
sul gesso della gamba. «È la mia e-mail. Contattami se ti capita
qualche lavoro interessante e hai bisogno di una mano.»
Annuii. «Magari potrei invitarti a cena,
in caso ripassi da queste parti.»
La donna ridacchiò, ma non rispose nel
merito. «Ti suggerisco di rimanere lontano da qua, magari pure
dall’Europa, per un po’ di tempo. I draghi non dimenticano mai.»
«Non erano gli elefanti?»
Sorrise nuovamente. «Ti saluto, Neil
McRoberts. Mi piacerebbe restare a chiacchierare con un uomo così
simpatico, ma in realtà non ho tempo da sprecare in stupidaggini.» Mi
salutò agitando una mano e uscì.
Mi addormentai domandandomi se avesse o
no accettato l’invito.
Il noioso quattro quarti dance della
musica del locale arrivava attutito all’interno del privè. Avrei
preferito di gran lunga un bel swing d’atmosfera, ma non si può avere
tutto dalla vita. In quel caso, Tammy che mi ballava davanti non me lo
faceva rimpiangere. Sorseggiai un po’ di scotch, mi accomodai per bene
sul divanetto e stirai le braccia prima di metterle dietro la testa e
gustarmi in pace la lap dance.
Erano passati circa sette mesi dal mio
piccolo diverbio in Germania. Dopo due settimane di riabilitazione a
Friburgo, ero tornato in Sardegna in compagnia di Chiara. Mi aveva
assicurato che non era mai stata prigioniera nel vero senso del
termine. Robert le aveva spiegato la situazione e l’aveva trattata come
un’ospite. Con l’arrivo dei primi giorni freddi, avevo deciso di
svernare in Nuova Zelanda, approfittando dell’occasione per visitare
dei vecchi amici. Infine, con l’arrivo della primavera, avevo seguito
gli animali migratori e mi ero trasferito nell’emisfero boreale,
precisamente a Las Vegas.
In quel momento mi trovavo nel mio
“gentlemen’s club” preferito in compagnia della mia ballerina
preferita. Tammy era una di quelle particolari bellezze esotiche
americane, con nonni giapponesi, navajo e ungheresi. Aveva lunghi
capelli neri che coprivano i tatuaggi che aveva sulla schiena, grandi
occhi azzurri e tratti tipici dell’Europa orientale che si miscelavano
perfettamente con la carnagione bronzea dei nativi americani. A
differenza di tante altre sue colleghe non lo faceva per pagarsi il
college o perché non aveva nessun altro talento. La sua era una
passione e soprattutto considerava il ballo come una specie di
allenamento per il suo vero lavoro. Il nonno navajo era un Hatalii, un
medicine-man, e le aveva tramandato tutta la sua conoscenza. L’avevo
conosciuta durante un lavoretto qua in Nevada, in cui, seguendo piste
differenti, ci eravamo imbattuti in uno skinwalker. Poi una cosa tira
l’altra… ma questa è un’altra storia.
Smise di ballare e si sedette sulle mie
gambe.
«Dunque hai ucciso un drago?» domandò,
passandomi un braccio intorno al collo.
«Più o meno.» Non le avevo raccontato
tutto nei minimi particolari. Non aveva bisogno di sapere che il drago
non era propriamente morto e che io ero quasi rimasto ucciso.
«Ma che bravo. Meriti una ricompensa.»
Cominciò a baciarmi sul collo e a sbottonarmi la camicia.
«Ehi, calma! Non è contro le regole del
locale?»
Non rispose e continuò a baciarmi,
scendendo sul petto. Chiusi gli occhi e mi rilassai, lasciando che lei
facesse tutto. La sentii alzarsi e mi sbottonò completamente la
camicia. Le sue mani cominciarono a massaggiarmi lungo tutto il petto e
poi si aggrapparono alla cintura.
Miao.
Avevo appena sentito un miagolio?
Miao.
Diamine, non adesso. Non lui.
Miao.
Aprii gli occhi e dietro la piacevole
visione di Tammy, immobile nell’atto di togliermi la cintura, c’era un
gatto nero. Un grosso gatto nero con una macchia bianca sul
petto.
Era proprio lui.
«Che succede?» chiese Tammy, alternando
lo sguardo fra me e il gatto, che era appena salito sul tavolino su cui
era posata la bottiglia di scotch e il mio bicchiere.
«Salve, Seamus.» borbottai, mentre
riabbottonavo la camicia. «È sempre un piacere.»
«Ho interrotto qualcosa?» replicò il
gatto, dopo aver leccato un po’ del contenuto del bicchiere.
«Sì, l’hai fatto.»
Tammy si alzò in piedi. «Forse è meglio
che vada, Neil.»
Annuii. «Scusami, questioni di lavoro.»
Mi baciò con abbastanza sensualità da ricordarmi cosa mi stavo perdendo.
«Chi ti dice che sia lavoro?» disse il
gatto. «Potrebbe essere una visita di cortesia.»
Borbottai un’imprecazione a denti
stretti, mentre guardavo i miei dieci minuti di settimo cielo che
andavano via ancheggiando. «Una visita di cortesia?» dissi, quando la
donna fu uscita. «Tu, il Machiavelli dei sidhe? Non farmi ridere.»
In tutta risposta spinse con una zampa
la bottiglia di scotch, che si ribaltò e versò a terra il suo contenuto
che si distribuì in una piccola pozzanghera. «In parte sì, è una visita
di cortesia. Guarda qua.» Indicò il whisky a terra.
Il liquido ambrato vorticò lentamente
per qualche secondo, poi tornò immobile e vi era riflessa un’immagine
differente dalla mia faccia incuriosita e dal soffitto della stanza.
Nella pozza di whisky si vedeva una
stanza poco illuminata e quattro persone; riconobbi Greta e
Robert. Gli altri due non li avevo mai visti prima, ma erano abbastanza
curiosi. Il primo, seduto su una poltrona, era pallido come la morte,
aveva una grossa cicatrice lungo tutto il collo ed era vestito come se
fosse uscito da una racconto di P.G. Wodehouse. L’altro, in piedi
dietro di lui, invece sembrava uno Spettro dell’Anello.
Indossava una lunga vesta nera e il cappuccio alzato sul volto non
nascondeva la lunga barba dello stesso colore. Li vedevo parlare, ma
evidentemente il whisky-screen non disponeva dell’audio per cui non
sentii nulla. Infine Robert tolse qualcosa dalla tasca e la lanciò
verso Bertie Wooster, che l’acchiappò al volo. La guardò con occhio
critico e poi sorrise soddisfatto.
Era l’uovo del drago.
L’immagine svanì e mi voltai verso
Seamus. «Che diavolo significa?» domandai.
«Nulla di che. Volevo giusto mostrarti
per chi hai lavorato in Germania.»
«Per Bertie Wooster? Quel residuato dei
ruggenti anni venti?»
«Non so chi sia Bertie Wooster, ma sì,
hai lavorato per quel tizio.»
«Perché dovrebbe importarmene?»
«Perché è un nosferatu.»
Rimasi a bocca aperta per lo stupore. Un
nosferatu. Nessuno voleva avere a che fare con quei mostri. «Vabbe’, ho
fatto bene il mio lavoro. Perché dovrei preoccuparmi?»
«Non lo so, non ho nemmeno detto che
debba preoccuparti.» rispose Seamus. Scodinzolò un poco e in men che
non si dica si aprì un Portale. «Era giusto per farti un favore. Ora
seguimi, c’è del lavoro importante da fare.»
Guardai il Portale ad altezza di gatto e
mi schiarii la voce.
«Oh, scusami. Dimentico sempre che voi
umani siete troppo altezzosi per camminare a quattro zampe.» Il Portale
si allargò fino a diventare delle dimensioni di una normale porta.
Dall’altra parte si vedevano montagne verdi e un cielo coperto da
nuvole cariche di pioggia.
Seamus attraversò il Portale e mi
affrettai a seguirlo.
Era sempre un piacere tornare in Scozia.
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