La Guerra dei Mondi

di Registe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Decisione estrema ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Come i grani di un rosario ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Per volere del Superiore ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Dite amici, ed entrate ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Cieli di fuoco ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Sensazioni ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Attacco a Coruscant ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - Fuochi d'artificio ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Lame incrociate ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 - Il suono del silenzio ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 - Qualcosa da proteggere ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 - La stella di carta ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Tregua ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 - Spectacularly spectacular ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 - In nome del padre ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 - Insieme, per sempre ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 - L'alba dell'angelo ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 - Lato Oscuro ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 - Futuro ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 - Enigma ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 - Parole e pensieri ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 - Operazione Omega ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 - Cuore di ghiaccio ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 - L'ultima speranza del genere umano ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 - Acque nere ***
Capitolo 27: *** Capitolo 26 - Doppio attacco ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27 - L'ombra di Kaspar ***
Capitolo 29: *** Capitolo 28 - Nel cuore della battaglia ***
Capitolo 30: *** Capitolo 29 - Fuga dall'inferno ***
Capitolo 31: *** Capitolo 30 - Sotto la maschera ***
Capitolo 32: *** Capitolo 31 - Accusa e difesa ***
Capitolo 33: *** Capitolo 32 - Un sogno su di te in un mondo senza te ***
Capitolo 34: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Narratore: “Bentornati amici lettori, e soprattutto amiche lettrici! Una nuova avventura sta per avere inizio! Come al solito lascio la parola alle Registe per l'annuncio del titolo di questa nuova serie che, ve lo anticipo sin da subito, sarà mooolto più lunga e articolata delle precedenti, ma anche più emozionante e ricca di colpi di scena! À vous, mesdemoiselles!”
REGISTE: “Questa insolita cortesia da parte del Narratore non lascia presagire nulla di buono... aehm, ehm... *colpo di tosse* … stimatissimo pubblico, abbiamo l'onore e il piacere di presentarvi il nuovo episodio della saga più lunga e spettacolare di tutti i tempi:


Il Ramingo e lo Stregone:
La Guerra dei Mondi



Narratore: “Ebbene sì amici lettori! Il GSB è incavolato come una biscia a cui hanno pestato la coda, e ha deciso di concretizzare i propositi bellicosi espressi alla fine de “I Sentieri si reincrociano”! Riusciranno l'Imperatore e quei buffoni dei Signori Oscuri a contrastare le orde demoniache? E che ruolo avranno gli eroici Ribelli in questo scontro tra titani? E l'impavido Narratore ce la farà a strappare lo scettro del potere dagli artigli delle tiranniche Registe?”
REGISTE: “No comment.... “
Narratore: “... lo scoprirete solo leggendo! Buon divertimento!”




Prologo




Il laboratorio di Zaboera




Erano a circa tre quarti del lavoro quando il generale Baran fece il suo ingresso nel laboratorio.
Vexen udì il rumore della porta che si apriva e con la coda dell'occhio riconobbe la sagoma imponente del Cavaliere del Drago; subito si affrettò ad abbassare la testa, fingendosi concentratissimo nel suo lavoro.
Qualche giorno prima il demone gnomo gli aveva gettato con malagrazia un pacco di fogli ingialliti sulla scrivania e ordinato di redigere un rapporto completo sui Nuclei Neri, la loro composizione e i dettagli del procedimento di fabbricazione.
E forse lo avrei già finito se non mi avesse costretto a dettarlo parola per parola...
Quel demonietto arrogante e insopportabile lo aveva ricoperto di improperi quando aveva letto le prime pagine del suo lavoro, lamentandosi di non capire nemmeno una parola della sua calligrafia; i fogli erano spariti in una vampa di fuoco nella sua piccola mano rugosa e adunca, e per un attimo Vexen si era sentito di nuovo il bambino redarguito dai preti bigotti dell'inutile scuola del suo villaggio. Dovette mordersi l'interno del palato per non rispondere in malo modo allo gnomo, anche se la temperatura nella stanza diminuì comunque di parecchi gradi.
Era stato costretto a ricominciare il lavoro da capo, stavolta dettando a Camus ogni singola frase.
“Scusi padron Vexen... diceva?”
L'ingresso del Cavaliere lo aveva distratto. Camus era in attesa, la penna d'oca sollevata sul foglio; aveva già riempito una ventina di pagine della sua calligrafia ordinata e precisa, ben diversa dai ghirigori puntuti caratteristici di quella dello scienziato.
Eppure Camus la legge senza problemi. E... non solo lui.
“Allora... ´la struttura interna del Nucleo Nero... ´”
Si bloccò di nuovo. Era convinto che il Generale Baran fosse venuto nel laboratorio per discutere con lo gnomo, e invece... invece dopo aver scambiato appena due parole con Zaboera si diresse proprio verso di loro. Anche Camus se ne accorse, e nei suoi occhi passò un lampo di preoccupazione.
“Umani.”
Il Cavaliere del Drago non aveva bisogno di sfoderare il suo potere per apparire minaccioso. Aveva l'aspetto di un umano qualunque, eppure un suo sguardo lievemente accigliato avrebbe fatto tremare anche chi non conosceva la sua vera identità. Vexen si era sempre chiesto come mai una creatura talmente superiore si abbassasse a servire il signore dei demoni quando poteva far saltare in aria il suo palazzo semplicemente starnutendo un po' più forte del solito. Al suo posto, con un tale potere a disposizione, lui non si sarebbe fatto sottomettere da nessuno.
“Il Grande Satana ha un ordine speciale per voi.”
Solo in quel momento si accorse che il Generale teneva qualcosa tra le braccia, una forma avvolta in un mantello che aveva più o meno le dimensioni di una persona di bassa statura.
Il Generale poggiò l'involto su un lettino operatorio e scostò i lembi che lo ricoprivano, rivelando un volto esangue e privo di sensi.
Camus si portò le mani alla bocca e soffocò a stento un gemito.
“E' un prigioniero catturato nel corso di uno degli ultimi scontri” spiegò il Generale, ma alle orecchie di Vexen le sue parole sembravano arrivare dalle profondità di una dimensione lontana. Per un attimo non udì altro che il rombo distante degli Star Destroyer e il crepitio dei turbolaser che da settimane violentavano senza sosta la superficie del loro mondo.
“Tutto chiaro, umani?”
“Io... “
“Avete quattro ore di tempo. Il Grande Satana vuole portare a termine l'operazione prima di sera. Verrò io a riprenderlo.” E senza degnare di un ulteriore sguardo né loro né la figura sul lettino lasciò la stanza a passi pesanti.
“Padron Vexen... “ la voce di Camus era poco più che un sussurro deformato dall'orrore. “Non... non possiamo... ”
“Zitto.”
Con cautela, come se temesse di svegliare il suo occupante, Vexen si avvicinò al lettino. A parte l'estremo pallore del viso il ragazzo sembrava immerso in un sonno sereno, come se i problemi del mondo non potessero sfiorarlo. Vexen gli si sedette accanto. Inconsciamente allungò la mano per scostargli i capelli dal viso, un gesto divenuto automatico dopo anni di abitudine; ma ci ripensò. Ritirò la mano, e vide che tremava.
Gli ordini del Generale Baran continuavano a rimbombargli nelle orecchie.
“Insomma! Non avete sentito il Generale?! Mettetevi al lavoro, umani!”
Non prestò attenzione alle lamentele dello gnomo.
Continuò a guardare il ragazzo che dormiva, catturato nel vortice dei ricordi del passato.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Decisione estrema ***


Capitolo 1 - Decisione estrema




Hadler


L’esercito del Grande Satana colpì in modo violento l’Impero Galattico. Non vi furono preavvisi, minacce o dialoghi alla ricerca di una condizione di pace. I demoni riversarono i loro poteri in maniera indiscriminata, non facendo differenza tra soldati e civili, guidati solo da un ancestrale istinto di distruzione. Soltanto la previdente politica bellica dell’Imperatore Palpatine riuscì ad impedire un massacro in larga scala.
“Cronistoria dell’Impero Galattico, dalla fondazione ai nostri giorni” di Tahiro Gantu, sesta edizione.



L’ultimo ologramma ad accendersi fu quello di Saruman, che apparve con i capelli ancora fumanti e la piastra in mano. L’Imperatore lo congelò con un solo sguardo, e lentamente passò in rassegna gli ologrammi dei suoi Signori Oscuri, che lo osservavano con faccia sgomenta dalle loro postazioni sugli altri pianeti.
Zam era l’unica persona lì dentro, in carne ed ossa, accanto all’Imperatore.
Era stata lei a portargli l’Occhio.
L’Imperatore Palpatine stringeva la piccola creatura per i tentacoli, e quella emetteva confusi suoni di dolore, anche se non bastarono a ridurre la stretta dell’uomo anziano. Anzi, la sua furia era cresciuta nell’attesa.
Quella strana creatura, chiamata Occhio di Zaboera, le era stata consegnata da una strana figura vestita di nero che le si era parata davanti solo una manciata di ore prima, quando stava perlustrando i bassifondi di Coruscant alla ricerca di tracce di attività ribelle. Indossava una maschera sorridente ed impugnava una falce con una naturalezza che era sconosciuta sia ai soldati dell’armata imperiale che alle reclute dell’Alleanza; prima ancora che potesse chiedersi come fosse riuscito a giungerle alle spalle senza che lei se ne accorgesse, la figura le aveva fatto cadere tra le mani quel piccolo Occhio pigolante dalla consistenza gelatinosa. “Per il tuo padrone” le aveva detto con un inchino sarcastico “Da parte del mio datore di lavoro. E stai tranquilla, donna, non è un esplosivo”.
Prima che potesse saltargli alla gola, quello aveva stretto qualcosa nella mano sinistra ed era scomparso.
Peggio, teleportato …
Aveva esaminato l’Occhio di Zaboera in tutti i modi: ne aveva scandagliato la struttura con i dispositivi ad azoto compresso della sua astronave, e ne aveva prelevato un campione di icore che aveva spedito con la massima urgenza ai laboratori chimici di Coruscant, ma nulla di pericoloso era uscito da quei dati. Aveva sondato il suo potenziale magico trasformandosi in Lich per poi assumere lei stessa le sembianze dell’Occhio; solo dopo tutti quegli accorgimenti si era decisa che la piccola creatura non nascondeva alcuna minaccia e l’aveva portata nelle mani del signore della galassia. Durante il viaggio verso la Morte Nera aveva passato in rassegna numerosi filmati forniti dai servizi segreti, ed aveva compreso che il misterioso messaggero con la falce non era altri che la persona mandata dal Grande Satana Baan a prelevare Mistobaan qualche settimana prima. La falce, il sorriso e la maschera erano del tutto identici a quelli del misterioso rapitore del filmato, e questo voleva dire solo una cosa: la famiglia demoniaca non aveva digerito il condizionamento di Mistobaan.
Nella sala del trono della Morte Nera, gli ologrammi si accesero uno dopo l’altro: prima il solerte Tarkin, con l’espressione accigliata di chi era appena uscito da una riunione con i burocrati di Coruscant. Boba Fett, con lo sguardo assonnato di chi era stato svegliato perché in quel momento, su Kamino, era notte fonda. L’immancabile Maul da una stazione orbitante e Dooku con ancora in mano una tazza da the delle baronesse di Hapes. Quando si accese il suo ologramma, di Mistobaan si udì prima la voce e solo dopo comparve la sua figura ammantata, che si prostrò davanti a loro blaterando qualcosa su quanto fosse stato indegno di non aver risposto immediatamente alla chiamata. Con Saruman uscito dal bagno, l’élite dell’Impero Galattico era al completo. Patetici, pensò Zam, mentre l’Imperatore spiegava loro in modo sbrigativo come fosse giunto in possesso dell’Occhio. Se non fosse per il giuramento non sarei qui ad ascoltare le loro chiacchiere idiote.
Quando ebbe terminato le spiegazioni, l’Imperatore si sedette di nuovo sul trono e tamburellò le dita sulla sommità della piccola creatura demoniaca: la pupilla si dilatò fino a raggiungere le dimensioni del bulbo, ed in essa comparve l’espressione accigliata di un demone antico, dalla barba bianca, che Zam indovinò essere il Grande Satana. E, purtroppo, raramente la sua intuizione si sbagliava.
“L’Imperatore Palpatine, suppongo” fece il demone, seduto anche lui su un trono.
“In persona”.
Seguirono alcuni istanti di silenzio, interrotti solo dal ticchettare nervoso della penna del governatore Tarkin lungo la sua scrivania. Il sovrano della galassia restò in attesa. Zam sapeva benissimo che l’uomo anziano non faceva mai il primo passo, né svelava le proprie carte o rivelava qualcosa in più di quello che lui desiderava trapelare. Una pratica vile che le dava il voltastomaco. Era evidente che anche il demone dall’altra parte dell’Occhio si aspettasse qualche frase in più, ma non ottenendo più di quella risposta lapidaria fece un’espressione corrucciata “Io sono il Grande Satana Baan, demone maggiore sovrano della famiglia demoniaca. Ho inviato presso voi umani questo Occhio di Zaboera per comunicarvi la mia ufficiale dichiarazione di guerra”.
Immaginavo che prima o poi sarebbe successo …
“Voi ci avete sottratto Mistobaan, mio Braccio Destro, comandante in capo delle mie schiere e generale del corpo d’armata del Megudan. Lo avete tratto dalla vostra parte con l’inganno, con quella pratica vile e ripugnante che chiamate condizionamento – ed a quelle parole i lineamenti del demone si fecero più duri- Lo costringete a servirvi contro la sua volontà, e quando abbiamo giustamente cercato di portarlo di nuovo nella famiglia demoniaca voi siete giunti nel mio palazzo seminando morte, fuoco e sangue tra la mia gente. Trovo i vostri gesti inammissibili, ed è per questo motivo che d’ora in avanti ho intenzione di scendere in campo con le mie schiere per riprendermi il mio subalterno con la forza, se necessario”.
La donna sussultò. Anni addietro Mistobaan era stato sottoposto al condizionamento dai Membri dell’Organizzazione, degli individui loschi che avevano rapito alcuni membri dell’oligarchia imperiale per utilizzarli in una pratica magica chiamata Invocazione Suprema. Mistobaan, inviato presso di loro dal Grande Satana per fermarli, era stato invece coinvolto in quel processo ed i suoi ricordi erano stati modificati, alterando la sua indiscutibile fedeltà al signore dei demoni con una nuova, artificiale lealtà verso l’imperatore Palpatine. Era stata proprio Zam a porre fine all’Invocazione Suprema; quando però aveva avuto tra le mani l’occasione per ridare a Mistobaan i ricordi perduti e riportarlo dal suo vero sovrano, lei ed il governatore Tarkin avevano deciso invece di mantenergli le memorie posticce ed offrirlo in dono all’Imperatore. Da quel momento il Braccio Destro aveva continuato a crogiolarsi nelle sue menzogne ed a servire l’Imperatore Palpatine con incredibile energia: la donna si era sentita più volte in colpa per quella decisione, soprattutto quando gli altri Signori Oscuri si divertivano alle sue spalle. Ma aveva cercato di inghiottire quella sensazione spiacevole.
L’Imperatore, avvolto nella sua tunica nera, non proferì parola.
“Vi concedo tre giorni” continuò il demone antico, visibilmente irritato da quel silenzio “Consegnatemi Mistobaan in questi tre giorni e annullerò la mia dichiarazione di guerra. Non ho alcun interesse nei vostri mondi. Ma se non lo farete … colpirò i vostri mondi con la furia della famiglia demoniaca!”
I Signori Oscuri si lanciarono sguardi di puro panico; persino Tarkin perse il suo solito sorrisetto glaciale. L’Imperatore fu l’unico a non scomporsi, e da sotto il cappuccio comparve un’espressione quasi divertita. “Interessante …” fece, squadrando il suo avversario “… ma io direi che forse dovremmo interpellare il diretto interessato. Mistobaan?”
“Mio fulgido sovrano! Fonte di ogni gloria ed onore!” disse la creatura incappucciata con un tono di voce che fece vibrare la sala del trono anche se il padrone si trovava a migliaia di parsec di distanza “Quel demone bestemmia! Io? Una creatura del Grande Satana? Io, che sono da una vita il suo più fedele servitore a cui lei ha affidato il Dono? Come può quell’empio demone affermare che io fossi un suo servitore? Mente, sicuramente mente!”
“Mistobaan …”
Un’espressione di pura tristezza attraversò il volto del demone maggiore. Non maschera le proprie emozioni, annotò mentalmente Zam, osservando prima il demone attraverso l’Occhio e poi il suo stesso sovrano, più che mai divertito dalla scena sotto i suoi occhi.
“COME OSI, DEMONE, METTERE IN DUBBIO LA MIA FEDELTA AL GRANDE IMPERATORE PALPATINE! NON VERRO MAI DALLA TUA PARTE, PREFERIREI STRAPPARMI LA CARNE DAL CORPO CON LE MIE STESSE MANI, E NON LO FACCIO SOLO PER RISPETTO DEL DONO DELL’IMPERATORE!” tuonò Mistobaan, ormai in preda alla sua leggendaria arte oratoria, con un dito sollevato in aria. “IMPERATORE, MAI E POI MAI SERVIRO QUESTO EMPIO DEMONE!”
Il sovrano sul trono si limitò a scrollare le spalle “Come vede, Grande Satana, Mistobaan ha deciso. Lungi da me andare contro la sua volontà, non trova?”
Certo, soltanto perché quel poveraccio è condizionato …
Era certa che, se il Grande Satana si fosse trovato in quella stanza e non a migliaia di parsec di distanza, l’Imperatore non avrebbe mai usato quel tono di sfida. Probabilmente il vecchio demone lo avrebbe incenerito con la sua magia, se quello che conosceva di quella razza corrispondeva a verità. Ma la creatura antica non era lì e, sebbene la sua espressione gridasse fuoco e sangue, non poté far altro che commentare con un sospiro “Comprendo. Ma tra tre giorni capirete la gravità del vostro errore, umani. Quando vorrete trattare la resa, contattatemi personalmente con questa creatura”.
L’Occhio di Zaboera si spense a quelle parole. La sua pupilla tornò delle dimensioni normali ed emise qualche piccolo verso inarticolato. Da oltre i loro ologrammi, i Signori Oscuri si scambiarono qualche sguardo perplesso, alternato all’espressione corrucciata del loro sovrano; rimasero così per diversi secondi finché Saruman non espresse il pensiero collettivo “Ohibò, ma quel demone è stupido? Davvero ci dà tre giorni di preavviso?”
Fu il segnale per l’ilarità generale: Boba e Maul iniziarono a ridere all’unisono, ed il loro amico governatore tornò a sorridere in quella maniera irritante che le faceva venire voglia di strappargli i muscoli della faccia e darli in pasto ai rancor. Al conte Dooku per poco il the non andò di traverso, e lo stesso Imperatore aveva uno sguardo compiaciuto come non gliene vedeva da anni. Si accorse di essere l’unica a non trovare divertente quella situazione.
“È evidente che abbiamo a che fare con un demone che non ha la benché minima idea di cosa voglia dire la parola guerra” disse il sovrano oscuro “Crede davvero che in questi giorni di preavviso noi resteremo con le mani in mano in attesa della sua venuta? Beh, penso che dovremo proprio dare una bella lezione a quel demone tracotante. Governatore Tarkin?”
“Sì, Imperatore?”
“Quanti giorni ci vogliono per conquistare un pianeta?”
L’altro sorrise, accomodandosi sulla sua sedia preferita “Se contiamo l’effetto sorpresa … la loro scarsa tecnologia … la loro evidente incompetenza bellica ed un nostro utile membro dei servizi segreti … meno di tre, senza dubbio”.
“Eccellente”.
Zam non parlò. Non ne aveva alcuna intenzione. Nessuno dei Signori Oscuri lì presenti, fatta eccezione per quel condizionato di Mistobaan, si era mai scontrato realmente con i membri della famiglia demoniaca. Lei invece aveva avuto l’occasione di duellare con il loro Cavaliere del Drago e di saggiare sulla propria pelle la sua potenza devastante: aveva raccontato di quello scontro nel dettaglio in più di un rapporto, ma era chiaro che nessuno aveva preso in considerazione le sue esperienze. Peggio per loro, mormorò tra sé. Sono convinti che un attacco a sorpresa basterà a placare l’ira di quella creatura antica.
Come se una flotta di Star Destroyer potesse fare il solletico a quel generale Baran …

Non le sembrava una mossa molto furba. Se la sarebbe aspettata da quei vigliacchi di Saruman e Dooku, non ultimo dal governatore, ma dall’Imperatore … la cosa l’aveva sorpresa. L’Imperatore Palpatine era un essere spregevole e meschino, falso e marcio fino al midollo, in grado di condire qualsiasi sua decisione con diverse gocce di crudeltà. Ma non era uno sciocco. Da quando era stata costretta a porsi al suo servizio aveva imparato che i suoi occhi erano ovunque, ed erano pochi i complotti dei suoi Signori Oscuri che erano sfuggiti al suo attento controllo. Lo aveva visto organizzare centinaia di offensive alle basi dei ribelli e progettare innumerevoli manovre difensive ogni volta che l’Alleanza cercava di sollevare scompiglio nei suoi pianeti, e tutte le volte si era morsa le labbra nel constatare la sua terribile efficienza. Era un giocatore esperto su una scacchiera con oltre mille pianeti e miliardi di abitanti, eppure era sempre uscito vincitore da ogni partita. Per questo motivo quella decisione le sembrava fin troppo affrettata.
Evidentemente questa sfida è inusuale persino per lui. Dopotutto nessuno lo ha mai sfidato così apertamente, pensò, mentre la mente le andava agli scontri con l’Alleanza Ribelle. Ma in fondo le sue decisioni non mi competono.
Non sarebbe stata di certo lei a dargli un suggerimento vincente. Lo odiava come pochissime persone al mondo. Lei combatteva, lui comandava. Fine della questione.
Il sovrano si voltò, ed afferrò l’Occhio di Zaboera che era rimasto sul trono al termine della comunicazione. Dalle sue dita partì un’improvvisa scarica di fulmini azzurrini, l’espressione della sua massima dominazione sul Lato Oscuro, e tutti i suoi sottoposti mandarono un grido di stupore; la piccola creatura mandò un pigolio acuto, di puro dolore, ma dopo qualche secondo la sua agonia terminò e la massa, ormai carbonizzata, cadde lungo le scale che conducevano al trono nero. L’uomo vi si avvicinò, poi la scansò con un piccolo calcio prima che la sua veste ne toccasse la forma ancora fumante. “Trattare la resa, eh?”



Hadler salutò con diversi cenni del capo la folla di demoni che lo accolse quando atterrò sulla occidentale del Baan Palace; dedicò loro meno tempo del solito, borbottando qualcosa agli attendenti più giovani ed entusiasti, poi si affrettò a lunghe falcate verso la sala del trono.
La notizia della sua vittoria sulla flotta dell’esercito di Ringaia aveva fatto rapidamente il giro della famiglia demoniaca, perché anche nei corridoi trovò decine di soldati che si ricomposero il fretta al suo passaggio, mettendo in bella mostra le armi e mostrando espressioni entusiaste; una giovane demone dai capelli lunghi fino alle ginocchia gli offrì una coppa di vino, ma la rifiutò e passò avanti.
Una convocazione del Grande Satana aveva la priorità su qualsiasi cosa.
Sapeva che prima o poi il momento sarebbe giunto. Qualche settimana prima, quando erano finalmente riusciti a liberare Mistobaan, una manciata di umani provenienti da una dimensione sconosciuta aveva raggiunto l’inespugnabile fortezza volante del suo signore ed era riuscita a riprendersi il loro Braccio Destro. Hadler non aveva avuto l’occasione di parlargli, ma dai commenti di Zaboera la situazione era davvero grave: i ricordi di Mistobaan erano stati alterati da qualche sporco e vile trucco degli umani, e adesso era costretto a servirli persino contro la stessa famiglia demoniaca. Preferirei trafiggermi i cuori piuttosto che subire una tale umiliazione, pensò. Quegli umani –o qualunque cosa fossero, l’arcivescovo stregone aveva dei dubbi al riguardo- avevano scatenato una piccola battaglia dentro il cuore stesso della potenza militare demoniaca, e se non fosse stato per il tempestivo intervento di Baran le cose avrebbero potuto prendere una pessima piega.
Ma adesso il Grande Satana intendeva rispondere, altrimenti non avrebbe convocato i cinque generali dei suoi corpi d’armata.
Quando aprì le porte capì subito che la situazione era ben peggiore delle sue aspettative. Il Grande Satana aveva abbandonato il seggio regale ed osservava oltre la finestra, con lo sguardo fermo; decine di schegge di vetro accanto ai bordi della sua veste rossa indicavano che diversi bicchieri erano esplosi per la furia. Ma era l’aura magica del demone anziano a parlare più di ogni altro gesto: l’aria era satura di incantesimi, e la furia che attraversava la mente del suo signore attraversava le sottili maglie della magia e riusciva a fargli ribollire i cuori, il sangue e le vene, lasciando ad Hadler la sensazione di essere stato violentemente colpito allo stomaco. Zaboera, l’arcivescovo stregone, era in piedi accanto al Grande Satana e, proprio come lui, stava accusando in malo modo l’energia negativa proveniente dal signore dei demoni.
Si inchinò. “Grande Satana, perdoni l’attesa”.
“Ringaia non è vicina” disse l’altro “So che hai volato al massimo delle tue forze. Non hai nulla di cui scusarti, generale Hadler”.
Si rialzò, ed andò al posto che gli spettava, tra Crocodyne e Hyunkel. Sentì un commento ironico dalla colonna a cui era appoggiato Killvearn, ma decise di ignorarlo, se questo era il volere del suo signore: l’essere con la maschera quel giorno aveva appoggiato la sua falce al fianco, e teneva impegnate le mani con un mazzo di carte da gioco che mescolava in aria, facendole scivolare dalla mano destra a quella sinistra. Il suo piccolo assistente, Piroro, si divertiva a cercare di acchiapparne una al volo, ma i suoi movimenti erano goffi, lenti e finiva sempre per cadere dalla spalla del suo padrone: quello sembrava divertito dalla scena, nonostante l’espressione severa del Grande Satana sarebbe bastata da sola a congelare quella coppia di buffoni. Ogni volta che li vedeva, Hadler doveva fare un enorme sforzo di volontà per non sbatterli contro una parete e non liquefarli con qualche incantesimo di fuoco: erano esterni, inviati da un misterioso alleato del Grande Satana, e dovevano rispettarli nel limite del possibile. Il demone però era certo che la propria pazienza fosse davvero giunta al limite, specie davanti a quell’atteggiamento irrispettoso durante un concilio di guerra. Un rapido scambio di sguardi con Crocodyne e Hyunkel e capì che anche gli altri due generali erano giunti al limite della sopportazione.
Killvearn non smise il suo ridicolo giochetto nemmeno quando il Grande Satana abbandonò la finestra e si portò al centro della sala, cacciando con fare imperioso un paio di demoni che erano accorsi per pulire il pavimento. “Gli umani non sono disposti a trattare. Questo ci lascia un’unica scelta”.
Guerra. Vendetta. Fuoco e sangue.
“Sono passati oltre tremila anni dall’ultima vera guerra contro gli umani. Allora provenivano dal nostro stesso mondo, adesso sembra che vengano da pianeti lontani di cui fino a pochi giorni fa non sapevamo nemmeno l’esistenza. Ma alcune cose non cambiano …” disse, ed alle sue spalle Zaboera chinò il capo, perso in ricordi lontani “Gli umani conoscono come unica arma l’inganno, e come scudo le menzogne. Hanno catturato il nostro Braccio Destro, e sono offeso personalmente per il modo con cui lo tengono stretto a loro. Nessun membro della famiglia demoniaca, di alcun livello, demone minore o maggiore, può subire questo oltraggio senza che il suo Grande Satana cerchi di impedirlo. Ed è quello che ho intenzione di fare”.
Giusto, pensò Hadler.
“Hanno rifiutato la mia offerta, ma mi atterrò ai patti. Ho concesso loro tre giorni di tempo, e tre giorni saranno. Ma voglio che questo periodo non sia per noi solo un tempo di attesa, ma un modo per preparare il nostro esercito. Ho bisogno della forza di tutti quanti voi”.
Dalle pieghe della tunica estrasse un oggetto metallico che Hadler non aveva mai visto: era piccolo, stava in un pugno del demone, ma quando quello premette alcuni tasti sulla sua superficie esso si illuminò, ed istintivamente il generale fece un passo all’indietro. L’oggetto abbandonò il palmo del Grande Satana ed iniziò a fluttuare davanti a lui come se avesse vita propria: un fascio conico di luce chiara partì verso il soffitto, e vi apparvero strane costruzioni di vetro e metallo. “Questo è quello che gli umani chiamano proiettore olografico; una versione palesemente debole e imperfetta rispetto agli Specchi della Vista …” fece il sovrano “Ce l’ha procurata Killvearn nei suoi spostamenti, e rappresenta in maniera sommaria la struttura del loro pianeta principale, che chiamano Coruscant. Da quello che sostiene Killvearn si tratta di una gigantesca città che occupa un mondo intero”.
“E quelle sarebbero … case?” borbottò Crocodyne “A me sembrano giganteschi alveari di metallo. Solo che nessun insetto civile vi vivrebbe dentro”.
“Gli insetti sono esseri evoluti, generale Crocodyne. Gli umani no. Più aumenta il loro presunto livello di civiltà e più tendono a vivere ammassati l’uno sull’altro, te lo assicuro. Ma questo loro modo di vivere è di fondamentale importanza, perché se da una parte può avvantaggiarci, dall’altra può condurre il nostro esercito al disastro più totale”. Tamburellò le dita nelle immagini luminose, ed alcune parti di queste si ingrandirono; gli enormi edifici si spostavano al suo tocco, ed Hadler ebbe l’impressione di fluttuare realmente nella grande città degli uomini. “So che l’Imperatore non vive qui, ma su un pianeta artificiale che chiamano Morte Nera. Killvearn ha cercato di raggiungerla con le loro navi volanti, ma è più difficile di quello che supponessimo: è un luogo molto sorvegliato, e senza una serie di controlli non è possibile giungerci, nemmeno con l’aiuto dei nostri incantesimi”.
Strano, Killvearn, per una volta i tuoi trucchi da circo non hanno funzionato, eh?
“Per spostarci abbiamo le Pietre Dimensionali che prelevammo a quegli umani poco tempo fa: le ho sperimentate di persona, e possono condurre il loro possessore soltanto se questo conosce con esattezza il luogo che vuole raggiungere. Questo vuol dire che non possiamo spostare la battaglia nella roccaforte dell’Imperatore in persona, ma possiamo lo stesso colpire la sua capitale sferrare in relativamente poco tempo un attacco che gli umani non dimenticheranno facilmente. La coordinazione dei nostri corpi d’armata sarà la chiave della vittoria”.
Hadler si lasciò sfuggire un sorriso soddisfatto: negli ultimi tempi aveva avuto poche occasioni di combattere al fianco degli altri generali, soprattutto perché il movimento di resistenza organizzato dalla principessa Leona si era espanso, e si erano moltiplicati i piccoli attacchi alle loro singole postazioni che avevano richiesto loro di lavorare separati.
Lo Hyakujumadan, il corpo d’armata guidato da Crocodyne, il re degli animali, era stato quello più coinvolto nei piccoli scontri contro gli umani: tutte le belve del loro mondo, dai signori del cielo alle grandi creature sottomarine, rispondevano ai comandi del coccodrillo rosa che annuiva soddisfatto alla sua sinistra. Erano animali, non potenti come i demoni, ma erano ovunque: erano i loro occhi e le loro orecchie, e da quando gli umani si erano resi conto che anche le bestie nei loro villaggi erano leali al Grande Satana li avevano massacrati senza rimorsi. Tra loro vi erano anche i pochi superstiti della nobile razza dei licantropi, ma erano troppo pochi per formare un corpo d’armata autonomo.
Al contrario, poche erano state le perdite subite dallo Yomashidan, il corpo d’armata che rispondeva alla volontà dell’anziano Zaboera, il minuscolo ultimo arcivescovo stregone. Hadler non sapeva bene come definire quelle creature: erano piccole e sfuggenti come il loro padrone, giravano sempre avvolti in minuscoli mantelli ed erano in grado di scagliare incantesimi di qualunque tipo. Zaboera ne era sempre circondato, ed in virtù della sua anzianità non scendeva mai direttamente sul campo, dunque la maggior parte delle forze dello Yomashidan era già pronta alla battaglia.
“Killvearn, che non dispone di un suo esercito, terrà una delle Pietre Dimensionali. Sarà lui a trasportare i vari corpi d’armata”.
Il demone guerriero fece passare lo sguardo tra tutti i presenti in quella sala. Si accorse in quel momento, più che altrove, dell’assenza di Mistobaan. La figura incappucciata era sempre stata un mistero per tutti loro, perché nessuno aveva mai visto le sue sembianze. Da quello che ne sapeva, poteva benissimo non essere un demone. In quel momento mancava la sua voce tuonante in preda alla frenesia da battaglia, e quella riunione senza di lui aveva un sapore strano, amaro. Senza contare l’assenza del Maegudan.
Mistobaan aveva sempre domato le sue armature semoventi con grande maestria: erano gusci vuoti mossi soltanto dalla magia, ma il Braccio Destro del Grande Satana aveva sempre avuto una concentrazione tale da guidarne oltre un migliaio contemporaneamente, anche se era impegnato in qualche scontro contro Dai. Mancavano ovviamente della presenza di spirito e dell’inventiva degli esseri viventi –più di una volta i licantropi di Crocodyne aveva compiuto delle sortite autonome che avevano sorpreso persino il re degli animali- ma rappresentavano la falange più sacrificabile dell’esercito demoniaco, ed il Grande Satana ne faceva grande uso per preservare quante più vite possibile. Mistobaan riusciva persino a farle rigenerare durante le battaglie. Qualche mese prima Hadler aveva provato ad assumere il comando di quel corpo d’armata per vicariare il compagno rapito, ma si era accorto che la sua capacità di controllo su centinaia di quelle armature era scarsa: riusciva a dirigerne un manipolo ristretto, ma oltre le venti unità la sua testa iniziava a martellare.
Non era mai stato portato per governare enormi eserciti.
Il Grande Satana lo sapeva, e gli aveva sempre concesso tutta l’autonomia che desiderava.
La sua attenzione tornò al sovrano: la mappa olografica ingrandiva alcuni punti, in modo particolare la sua attenzione era rivolta alla sommità di quei grandi e soffocanti edifici.
“Sono costruzioni enormi. Non è possibile vedere il terreno una volta in cima ad una di esse. E se quello che Killvearn dice è vero, le strutture economiche, politiche e vitali si trovano più in alto. Questo vuol dire che le nostre truppe di terra potranno essere utilizzate al massimo per creare un diversivo, ma non potranno giungere ai luoghi di importanza strategica”.
Crocodyne fece un passo avanti, con la sua enorme mole che oscurò porzione della mappa. Ad una sua richiesta il Grande Satana cambiò la proiezione della mappa, e questa scese di centinaia di metri fino ad inquadrare quello che sembrava il terreno. Tutti, soprattutto il coccodrillo rosa, si scambiarono espressioni di puro disgusto. “Non è posto per lo Hyakujumadan, questo” borbottò “Con tutta franchezza, Grande Satana, i miei animali perderebbero il senso dell’orientamento, qui. C’è pochissima luce, un terreno fetido … ho il sospetto che anche come diversivo non potranno fare gran che”.
“Lo so, Crocodyne. Ciascuno di voi ha il suo terreno. Per questo ho pensato che sarà il generale Hyunkel ad occuparsi di tenere impegnati gli occhi degli umani”.
Hyunkel, l’unico comandante umano, sorrise.
Un’occasione per Hyunkel, capitano del Fushikidan, di dimostrare il suo valore, eh?
Hadler osservò di nuovo la mappa. Non aveva mai visto una terra così devastata. Non vi era un albero, una pianta, un fiore, nemmeno un sasso o un granello di sabbia: sembrava che la natura non fosse mai esistita su quel suolo. Persino il proiettore aveva difficoltà ad illuminare quelle vie nascoste, oscurate dall’ombra degli edifici che torreggiavano, e le uniche cose che poteva notare erano travi, sacchi, rifiuti accatastati: uno spettacolo degno della depravazione degli esseri umani, e il comandante fu felice di non essere stato assegnato a quella scomoda missione.
Il Fushikidan era la scelta migliore, senza dubbio. Erano guerrieri professionisti, una schiera di cui lui stesso aveva un misto di timore e riverenza; sebbene non fossero al livello della superiore razza demoniaca erano creature che ponevano l’onore e la lealtà ai loro capi più di ogni altra cosa, e condividevano con la famiglia demoniaca l’odio ancestrale verso gli umani.
Un tempo erano stati uomini anche loro. Dopo la morte, però, molti di essi avevano mantenuto un forte contatto con la magia e si erano rialzati: privi di pelle, con i muscoli cadenti, quei morti che camminavano erano stati scacciati dagli stessi uomini di cui un tempo facevano parte e si erano organizzati in modo autonomo. La magia permetteva loro di esistere, ed alla magia obbedivano. All’inizio avevano seguito il Grande Satana per necessità, ma con il tempo –e con una persona valorosa come Hyunkel al comando- avevano offerto con entusiasmo le loro armi alla causa dei demoni. Su quel pianeta metallico, dove anche l’aria si prospettava irrespirabile, una simile potenza era quello che avrebbe fatto al caso loro.
Hyunkel estrasse la spada, proclamando che nessuno dei suoi soldati avrebbe fatto pentire il Grande Satana della scelta.
“Zaboera?” fece il sovrano “Quante unità conta lo Yomashidan?”
Il piccolo demone tremò, come se non si aspettasse una tale affermazione “Oltre trentamila unità, Grande Satana. In questi tre giorni potrei aumentarne …”
“No. È un numero sufficiente. Radunali tutti in questi giorni. Affido a te ed al tuo corpo d’armata il compito di lanciare un’offensiva magica senza precedenti. Non si aspetteranno trentamila maghi in volo nel loro cielo, e questo servirà da lezione a quegli umani: in questi giorni manderà Killvearn con la Pietra Dimensionale ad osservare ancora questi edifici, in modo da concentrare il fuoco sugli obiettivi primari. Non voglio perdere tempo a distruggere ciò che non è vitale”
“I …io?”
“Sì, Zaboera. Tu e lo Yomashidan siete la scelta migliore, in questo frangente”.
Questo è vero. Gli incantatori volanti di Zaboera sono eccellenti per colpire dall’alto. Solo che … lui non è mai stato un demone d’azione … non so quanto …
Si accorse in quel momento che il Grande Satana non aveva nominato il Choryugundan. Baran era dietro di loro, con la schiena appoggiata alla parete e le braccia incrociate: aveva gli occhi chiusi, ma non vi era dubbio che avesse ascoltato ogni sillaba del signore dei demoni con l’attenzione di un drago antico. Il suo corpo d’armata era composto da migliaia di draghi di cielo, terra e mare, e nessun altra guarnigione del loro esercito poteva eguagliarli in potenza e forza. Il Choryugundan era fedele a Baran e solo a Baran. Il Cavaliere del Drago non sguinzagliava mai le sue creature per motivi futili, eppure Hadler sarebbe stato pronto a scommettere che il feroce corpo d’armata volante sarebbe stata la punta di diamante del loro attacco. Lo stesso pensiero doveva aver attraversato la mente dei due generali al suo fianco, perché il coccodrillo chinò la testa e fece per dire qualcosa, quando la mano del Grande Satana si sollevò. “Conosco i vostri dubbi. E li condivido. Ma guardate attentamente …”
La visuale della città alveare cambiò di nuovo: stavolta i palazzi si fecero minuscoli, e la sensazione di essere stati trascinati in alto gli strinse lo stomaco. Ovunque riuscisse a distendere lo sguardo, soltanto enormi costruzioni di metallo si stagliavano davanti a lui; potevano essere infinite per quel che ne sapeva. L’aria tra gli edifici mutò, e si illuminò di rosso.
“L’atmosfera di questo pianeta non è come la nostra. Questi umani hanno distrutto qualsiasi traccia di magia e natura su questo mondo, e l’assenza di piante impedisce la formazione di uno spazio aereo respirabile di grandi dimensioni. Suppongo che abbiano dei dispositivi tecnologici per generare e depurare la loro stessa aria, ma quello che ci interessa è che lo spazio aereo disponibile in questa Coruscant è decine di volte minore del nostro, è giusto una cupola per contenere gli edifici più alti. E per quanto i nobili draghi abbiano una potenza devastante, in un mondo privo di aree terrene per appoggiarsi e di spazi celesti per muoversi si rivelerebbero un vero problema. Potrebbero abbattere numerose di queste costruzioni, non lo metto in dubbio, ma resterebbero comunque privi di uno spazio vitale dove eseguire le loro formazioni aeree. Ecco perché ho scelto lo Yomashidan”.
Era per quel motivo che apprezzava il Grande Satana: era sempre avanti a tutti loro di numerosi passi. La vera potenza di un demone maggiore. Vide il Cavaliere del Drago esprimere la sua approvazione con un cenno d’assenso, anche perché Baran non riteneva glorioso scontrarsi con avversari umani.
Poi sentì che lo sguardo millenario si era poggiato su di lui: “Generale Hadler, in quanto comandante in capo di tutti i miei corpi d’armata, conferisco a te ed al generale Baran il compito più delicato: proteggere Zaboera e tutto lo Yomashidan. Non possiamo progettare un attacco senza pensare che i nostri nemici resteranno a guardare, e da quello che ho potuto vedere durante la loro incursione nel mio palazzo … beh, possono disporre di guerrieri singolari”. Hadler si stava chiedendo quando avrebbero affrontato quel tasto delicato: da quello che sapeva vi era stata una donna che aveva forzato la mano a Baran, obbligandolo alla trasformazione in Ryumajin. E le parole forzare la mano e Baran di solito non stavano nella stessa frase. Se i loro avversari potevano disporre anche solo di una decina di combattenti simili la battaglia avrebbe potuto prendere una piega ben diversa. Ma l’idea di potersi scontrare contro un nemico così abile … il suo sangue demoniaco già ribolliva per la frenesia. “Tu e Baran siete i miei migliori combattenti. Ed oltre a difendere lo Yomashidan avete un altro compito. Recuperare Mistobaan. Vivo e illeso. Forse l’Imperatore commetterà l’imprudenza di mandarlo contro di noi, ed a quel punto lui diventerà la priorità di tutto l’esercito. Combattiamo per lui, non per conquistare i loro putridi pianeti”.
Una vera battaglia.
Centinaia di occasioni di gloria.
Combattere al fianco di Baran.
Recuperare il loro compagno.
Il demone guerriero sentì che quei tre giorni sarebbero trascorsi fin troppo lentamente.
“Certo, però …” disse Crocodyne “… è un peccato non poter usare anche il Maegudan. Le armature di Mistobaan ci impedirebbero centinaia di vittime”.
“E chi ha mai parlato di escludere il Maegudan da questa operazione? Non ho intenzione di lasciare Hyunkel ed il suo Fushikidan da soli a terra, privi di protezione”
“Ma, Grande Satana, senza Mistobaan …”
Da sotto il palazzo, dalla terra su cui la fortezza volante gettava la sua ombra, si sentì un possente tremore. Il Baan Palace oscillò leggermente, e da sotto si sentì un rumore metallico di passi, centinaia, migliaia di passi che si susseguivano con un ritmo regolare, come tamburi di guerra. Hadler non resistette alla curiosità, e si affacciò alla finestra insieme a Hyunkel.
Sotto di loro non si scorgeva traccia del terreno: avanti a loro, fin dove giungeva lo sguardo, a destra ed a sinistra, tutto il paesaggio era diventato di un grigio scintillante, che emanava bagliori color arancio alla luce del sole che verteva al tramonto. Le armature sorgevano dal terreno e con un unico movimento sollevarono in aria le armi come saluto: erano corazze di uomini caduti, alcune avevano perso la lucentezza, ma la maggior parte ricordava la potenza degli esseri viventi che le avevano possedute in passato. Al di sotto degli elmi, vi era il vuoto che contraddistingueva l’armata del Maegudan, la totale assenza di vita che veniva compensata da un controllo magico superiore; alcuni brandivano soltanto spade e lance, ma altri trascinavano armi d’assedio in legno e metallo e nuclei incantati di magia difensiva. Quanti erano?
Non riusciva a pensare ad un numero, ma erano molti di più di quelli che normalmente impiegava Mistobaan, che pure ne mandava in campo quanti più poteva. Mantenere il controllo di tutti quei soldati inanimati richiedeva una concentrazione ed un potenziale magico fuori dal comune. Una concentrazione che solo uno di loro possedeva. Il Grande Satana si sedette sul trono e spense il proiettore olografico.
“Il Maegudan lo comanderò io”.


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Fonte della fan art a inizio capitolo: http://sylphide2.deviantart.com/art/Dragon-quest-Hadora-3-139148164

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Come i grani di un rosario ***


Capitolo 2 - Come i grani di un rosario




Dai


Che gli uomini ringrazino gli dèi, e li cantino con gioia. Perché, tra i tanti doni, essi offrirono loro la parola.
Essa crea sentieri dove prima vi era la foresta, ed erige montagne al posto della desolazione. Scuote la mente di un sovrano afflitto, concede il vigore al guerriero, ristoro al sacerdote ed energia nel contadino.
È ciò che separa gli uomini dagli animali; è invisibile e non ha alcun peso, ma al suo confronto nessuna arma creata da mano mortale può ferire con tanta forza, né medicina può conferire altrettanto sollievo.
Per questo, miei dèi, la mia parola sia la vostra spada, il mio corpo uno scudo per la fede.
“Riflessioni” di Shura del Capricorno, trascrizione ad opera del Gran Sacerdote Shaka della Vergine.




Ci erano volute oltre due ore per guadare il fiume, ma finalmente erano riusciti a raggiungere il villaggio di Nail. Mu era stato lì soltanto un paio di volte, quando aveva accompagnato alcuni membri della Resistenza per scegliere delle barche da acquistare per il trasporto dei viveri nella nuova base segreta, ma rispetto a vari mesi prima il villaggio era cambiato.
Lui e Shaka salirono il ponte di corda che portava alle piattaforme del piccolo centro, costruito su semplici palafitte per proteggersi dalle Paludi Nebbiose ad est; le guardie del posto prestarono loro solo uno sguardo frettoloso, poi continuarono la loro attività di vedette del fiume, probabilmente più interessati alla comparsa di qualche niktyu gigante che ai due sacerdoti in incognito.
Un tempo, se anche un solo Cavaliere d’Oro delle Dodici Case fosse giunto in visita in un luogo simile, la gente si sarebbe riversata sulle piattaforme anche solo per poterli osservare da lontano; i bambini più impertinenti avrebbero cercato di sfiorare i loro mantelli, e le madri avrebbero esposto i loro nati per farli benedire. Mu ricordava il tempo in cui i sacerdoti erano rispettati ed adorati nel loro mondo, ed i Dodici Cavalieri d’Oro considerati come gli uomini più vicini agli dèi.
Ma quei tempi erano passati, e nessuno prestava molta attenzione ai due uomini vestiti in modo dimesso che attraversavano i pontili che collegavano la palafitta d’ingresso con quelle dell’area mercantile. Il Grande Satana aveva schiacciato il Tempio delle Dodici Case inviando il Cavaliere del Drago, ed ufficiosamente i sacerdoti d’oro erano stati tutti uccisi, il loro culto bandito e sostituito con quello del sovrano della famiglia demoniaca. Indossare le loro sacre armature sarebbe stato solo un problema e, seppur a malincuore, Mu aveva sotterrato l’armatura d’oro dell’Ariete, mentre quella del suo confratello era stata portata nel Baan Palace come segno di vittoria.
Gli mancava il familiare peso sulle spalle.
Shaka si muoveva in modo fluido, e lo seguiva tra le scale di corda con naturalezza, passo dopo passo, nonostante gli occhi chiusi. Un passero si era appoggiato sulla sua spalla, e nessuno dei suoi movimenti lo turbava. Mu non riusciva a comprendere come il sacerdote della Vergine riuscisse a trovare la perfetta ascesi in ogni situazione: le volte che lui aveva provato ad imitarlo si era ritrovato a sbattere contro degli alberi o, ancora più spesso, contro Auron.
Seguirono il flusso delle barche in arrivo, e dal pontile raggiunsero l’area più popolata di Nail. Dove Mu ricordava esserci un piccolo tempio, adesso era stato costruito un fortino in legno su cui si trovava una statua di bronzo del demone maggiore che aveva trasformato quel luogo.
Un paio di demoni minori fluttuava nel cielo, concedendosi solo qualche istante di riposo sedendosi sui tetti delle case; erano lì per vigilare la condotta degli umani, ed il sacerdote notò che gli abitanti rivolgevano alle creature degli sguardi rapidi, ma tornavano ad abbassare gli occhi non appena gli esseri dalle vistose orecchie a punta si voltavano nella loro direzione. Se i demoni volavano sopra il porto, i pescatori e gli scaricatori lavoravano più velocemente, se attraversavano l’area abitata la gente si mostrava impegnata in qualunque cosa. Nessuno oziava nei cortili, ed i bambini non giocavano.
Tre donne anziane gettarono petali di fiori davanti alla statua del Grande Satana, ma quando si voltarono la loro espressione era gelida come la pietra.
Venerano il Grande Satana … ma non lo amano.
È più di quanto osassimo sperare …

Erano giunti su una larga piattaforma, dove banchi con uomini e donne esponevano le loro merci che sporgevano dalle reti da pesca appese ai pali. Tutti avevano gli occhi bassi, eppure in quel luogo Mu riuscì a respirare parte dello spirito del Nail che conosceva, il villaggio sul fiume. L’acqua portava con sé sempre delle novità, e spostandosi in direzione della sorgente si poteva raggiungere persino le propaggini occidentali del regno di Carl. Vi era sempre gente incuriosita, e sebbene i demoni avessero vietato il commercio di armi tra gli esseri umani vi era sempre chi tentava di esporre sottobanco qualche scudo o elmo; alcune barche portavano erbe medicinali per gli anziani, e vide anche un rudimentale chiatta far sbarcare il suo carico di pelli, merce rara per un luogo imprigionato tra le paludi ed il fiume. All’arrivo dell’imbarcazione i demoni volarono sopra di essa, e l’aura azzurra che brillava intorno ai loro corpi gli fece capire che cercavano di rintracciare la presenza di manufatti magici da requisire.
Rimase per qualche istante ad osservare i loro movimenti leggeri quando Shaka gli poggiò una mano sulla spalla. “Direi che è il momento”.
Bisbigliò qualcosa all’uccello sulla sua spalla, e quello si alzò in volo. Si portò al di sopra dei demoni e disegnò sopra di loro dei movimenti circolari. Sette, otto, né gli abitanti né i demoni fecero caso al piccolo passero, che continuò ad eseguire quella forma secondo gli ordini che gli aveva impartito il sacerdote. Non era stato facile trovare un volatile che non fosse al servizio diretto dello Hyakujumadan, ma la voce di Shaka aveva quello ed altri poteri.
Passarono solo due minuti e la risposta attesa si fece vedere. Dalle colline settentrionali si innalzò una colonna di fuoco, e tutti si voltarono in quella direzione: la sottile coda rossa non si era ancora disgregata al vento che i demoni abbandonarono il loro giro di controllo, si scambiarono qualche frase nella loro lingua oscura e si diressero in volo verso il punto da cui era partito l’incantesimo.
Bene, Matoriv ha fatto la sua parte. Adesso tocca a noi.
Mu salì sul basamento che ospitava la statua del Grande Satana, ed il suo gesto non passò inosservato. Molti pescatori e mercanti furono attirati da quel gesto, anche se nei loro occhi si dipinse il terrore. “Fratelli miei, non temete!” disse, ispirando a fondo. Bastarono quelle parole per chiamare su di sé l’attenzione delle persone che ancora osservavano il punto lontano dove erano svaniti i demoni.
“Fratelli, cosa vi succede? Cosa guardano i vostri occhi? Davanti a chi si piegano le vostre ginocchia? Avete forse dimenticato l’amore e la vita che gli dèi vi hanno donato? Ero giunto qui convinto di trovare ancora fede negli abitanti di Nail, ed orgoglio nei loro visi!”
Oltre le colline, due lampi in rapida successione saettarono, e le figure indistinte dei demoni risposero a quegli incantesimi con le loro magie, tingendo il cielo di un colore verdastro; i rumori della battaglia potevano sentirlo anche dal villaggio sulle palafitte, ma Mu capì che ormai l’attenzione della folla era verso di lui. Cercò le parole giuste, quelle necessarie per convincere la gente di Nail: quando era giovane, al Grande Tempio, tutti i sacerdoti venivano istruiti nell’uso delle parole, e si esercitavano per ore davanti ai maestri per essere convincenti. La Resistenza aveva mandato lui e Shaka per portare quanta più gente dalla loro parte proprio per la loro abilità oratoria, ed il giovane non aveva alcuna intenzione di deluderli, non dopo gli sforzi che Matoriv e gli altri stavano facendo per dar loro tempo di agire.
Aprì bocca, ma Shaka lo anticipò. Una sottile aura dorata lo avvolse, e levitò a qualche centimetro dal suolo. Incrociò le gambe tra lo stupore della folla, si sedette in aria ed assunse la posa di meditazione che prediligeva quando mostrava a Mu i modi migliori per sgombrare la propria mente e raggiungere l’ascesi, la totale assenza di sensazioni mentali e fisiche, la forma più vicina agli dèi.

Narratore: “Registe?”
Registe: “Che c’è, Narratore?”
Narratore: “Non avrete davvero intenzione di costringere i nostri lettori –già ridotti all’osso- a subire un sermone di Shaka in versione integrale, vero? Ditemi che siete delle gran mattacchione ed avete voglia di scherzare …”
Registe: “Narratore, di solito quando vogliamo divertirci alle spalle dei personaggi li facciamo come minimo torturare, impazzire o li mettiamo in situazioni imbarazzanti. Sai che siamo delle sadiche infami!”
Narratore: “La cosa divertente è che se lo dicono da sole … anche se io credo che un pippone di Shaka sia molto peggiore del descrivere una tortura, oserei dire. Vabbè, ci vediamo tra qualche riga, io vado a dormire. Svegliatemi quando quel pazzo ha finito!”


Ormai non c’era persona in quella piazza improvvisata che non stesse volgendo gli occhi verso di loro.
“Tanti anni fa, quando ero ancora un bambino, vidi il mio maestro realizzare un rosario nel giardino della nostra Casa. Era una notte invernale, e ricordo ancora il modo in cui sedeva tranquillo sotto la pioggia scrosciante, privo persino della sua sacra armatura. Non aveva raggiunto ancora l’ascesi, ma riusciva lo stesso ad ispirare in tutti coloro che lo circondavano una profonda calma interiore; non interruppi il suo lavoro, e rimasi ad osservare il movimento delle dita che portavano lentamente le sfere di legno al filo e costringevano quel piccolo, sottile oggetto a passare attraverso di loro. Quel gesto mi colpiva ancora di più, perché il mio maestro non aveva mai ricevuto dagli dèi il dono della vista, eppure il filo entrava sempre dove lui desiderava nonostante l’acqua scrosciante ed il vento. Mi avvicinai per vedere meglio, e lui mi mise in mano uno dei grani.”
Mu sospirò, rapito dalle parole del confratello più di qualsiasi altro spettatore. Fece scivolare una mano nella tunica e trovò la sicurezza nei grani del proprio rosario, che Shaka aveva realizzato proprio per lui quando non erano nemmeno stati ordinati sacerdoti. Era un oggetto caro, che gli aveva riempito i vuoti della solitudine lasciati dalle disavventure del Castello dell’Oblio. Guardò tra la folla, ma nessuno ne aveva al collo o ai fianchi.
“Mi disse che un rosario può avere migliaia di significati, ed invero tutti gli sembravano giusti e santi. Ma lui ne prediligeva uno: mi spiegò che la fede era paragonabile ad un filo, perché era leggera ed impalpabile. Se non la si ricerca con attenzione è impossibile vederla, eppure essa esiste. Gli uomini invece erano i grani: oggetti reali, fisici, che tutti possono vedere, rotondi e perfetti perché gli dèi li hanno creati nel massimo splendore. Nessuno è uguale all’altro, perché anche due sfere realizzate dalla stessa mano differiscono per poco. E cosa è un grano, in fondo, se non una piccola pallina di per sé priva di significato? Mi mostrò un rosario già completo, e mi disse che è la fede a dare un senso agli uomini: trasforma le sfere di legno in grani sacri, e li unisce in un oggetto di incredibile bellezza. È ciò che li nobilita, che li attraversa senza arrecare loro alcun danno. E non è necessario vederla, per sapere che esiste”.
Riprese fiato, aspettando qualche risposta dalla folla. La gente continuò ad osservarlo, e Mu vide con piacere che un paio di uomini si segnarono il petto, riconoscendo nel sacerdote biondo l’autorevolezza e la natura sacra di un sacerdote di alto livello.
“Quello che posso vedere, qui a Nail, è una distesa di meravigliosi grani. Si riconosce la mano degli dèi dietro un artigianato così sublime. Ma vedo anche un demone invidioso, che alla vista di cotanta bellezza ha tranciato il filo che li univa, ed ha gettato le sfere ai propri piedi. Incapace di creare lui stesso un oggetto così bello, ha accumulato i grani alla rinfusa ed ha stracciato tutti i fili che riusciva a trovare, tenendo in pugno le sfere con la minaccia del proprio potere. Ma ditemi voi, è questo il modo giusto per creare un rosario?”
La statua di bronzo si fece fredda sotto le dita di Mu. Il sacerdote si soffermò sulla durezza dei lineamenti e sulla posa delle mani, serrate sui braccioli del trono e con le lunghe unghie demoniache in vista. Una statua che incuteva soggezione soltanto ad osservarla. Per un attimo ebbe timore che potesse sollevarsi dal trono per riportare gli esseri umani all’ordine da lui prestabilito.
“Vi starete chiedendo allora dove trovare un nuovo filo, uno che vi renda gloriosi e splendenti come ne avete diritto. Ebbene, fratelli, abbiate fiducia. Il Grande Satana non è riuscito a reciderli tutti, perché io sento che di nuovi ne stanno nascendo dentro i vostri cuori, cuori che gli dèi hanno creato apposta per cantare la loro gloria. Ricordate quello che eravate anni fa, quando ancora i demoni vivevano sottoterra, ricordate la gioia dell’unica fede che vi accomunava e quanto valesse per voi l’amore dei vostri sacerdoti. Ricordatelo, e tornate ad essere il meraviglioso rosario che eravate: sollevate lo sguardo, e vedrete che al di sopra di quel demone vi è un cielo meraviglioso, il cielo degli dèi. Mostrategli che ciò che bramate più di ogni altra cosa è la vostra perfezione, e scoprirete che non siete i soli a desiderarlo. La Resistenza è nata proprio per offrirvi questa radiosa opportunità ed io vi dico di non sprecarla! Ritrovate il filo perduto!”

Narratore: “Ok, qui sta andando per le lunghe e quel matto si è espanso per un’intera pagina di Microsoft Word. Se lo lascio parlare a ruota libera è finita. Vorrà dire che userò un metodo drastico, sono sicuro che le mie lettrici lo apprezzeranno.”

Qualcosa fu scagliato dal cuore della folla nella sua direzione. Il piccolo oggetto si infranse contro l’aura mistica di Shaka e non lo sfiorò, ma ricadde a terra ed interruppe l’orazione. Mu guardò in basso.
Era un rocchetto di filo.
La proprietaria, una signora dall’età indefinita avvolta in uno scialle passando tra due ali di folla. Si chinò per raccogliere l’oggetto che aveva appena scagliato e lo agitò proprio davanti al viso del sacerdote biondo, incurante dei suoi occhi chiusi. “La volete sapere una cosa, giovanotti? Se proprio dovete predicare di grani e di fili perché non andate a farlo da un’altra parte, eh? Proprio qui a Nail dovevate venire? Volete attirare su di noi l’ira del Grande Satana?”
“Di ira ve ne sarà di certo, buona donna. Ma questo gli farà capire …”
Quella lo zittì con un gesto, aprendo la bocca da cui emergevano solo pochi denti “Gli farà capire che è qui che dovrà far scendere il suo esercito di demoni, ecco quale sarà l’unica cosa che capirà! Porterà qui il Cavaliere del Drago e ci massacrerà tutti!”
Mu provò ad intervenire, ma prima di parlare due robusti pescatori lo avevano acchiappato per la tunica, e lo avevano strattonato fino a farlo scendere dal basamento in malo modo. Le parole della donna avevano riversato strani sentimenti nei cuori degli ascoltatori, ed il sacerdote vide sgretolarsi l’entusiasmo dipinto su quei visi all’udire le parole di Shaka. “Gli dèi saranno dalla nostra parte!” gridò, portandosi vicino al suo confratello. La statua del demone maggiore gli sembrava addirittura torreggiare sulle loro figure.
“Ma davvero?” fece una seconda vecchia, ancora più piccola della prima e con gli occhi scuri “E quando il Cavaliere del Drago ha distrutto il Tempio delle Dodici Case dove erano gli dèi? Se gli dèi non hanno salvato i Cavalieri d’Oro, che erano gli uomini più giusti e santi del nostro mondo, perché dovrebbero scendere dal Nirvana per proteggere la povera gente, eh? È evidente che persino gli dèi favoriscono la famiglia demoniaca!”
Il giovane sacerdote sentì un forte nodo serrargli lo stomaco. Il ricordo dei corpi dei suoi adorati confratelli non si era ancora spento, e bastarono quelle parole per avvolgergli le gambe e le braccia con lo steso senso di impotenza che aveva provato diversi giorni prima. Il suo compagno dovette avvertire quell’attimo di debolezza, perché abbandonò la sua posizione da meditazione e gli venne accanto, frapponendosi con la sua presenza tra lui ed un paio di giovani pescatori dall’espressione irata. Un secondo oggetto volò oltre le teste, ed il viso di Shaka fu colpito in pieno da un frutto di yuuchu; il succo color sangue gli colò per tutto il corpo, ma non si mosse.

Registe: “Narratore, non ti pare di star esagerando?”
Narratore: “Naaaa, era dalla serie scorsa che desideravo farlo. Questo lancio è solo il preludio a quelli che si meriterà in futuro!”
Registe: “E va bene, sai che in fondo la pensiamo come te … almeno però cerca di far finire questa scena come avevamo concordato, va bene?”


“Siete venuti qui solo per creare scompiglio?” gridò un uomo, che sovrastò il Cavaliere della Vergine di almeno un paio di teste.
“No, siamo venuti per indirizzare le vostre anim …”
“State bene a sentire, voi due. Sapete cosa ci succederà se quei demoni vi trovano qui al loro ritorno? LO SAPETE COSA SUCCEDERA? Useranno i loro sporchi incantesimi su di noi e di Nail non resteranno altro che rovine, è chiaro il concetto?”. Afferrò Shaka per il mantello e diede un violento strattone “Ed in fondo cosa hanno fatto gli dèi per noi? Paghiamo le tasse al Grande Satana proprio come quando le pagavamo ai vecchi nobili, che differenza c’è se tanto il succo del nostro lavoro se le prende un fottuto demone o il principe del casato Lanton? Anzi, quasi quasi preferisco darlo agli orecchie a punta piuttosto che ad un umano che li usa solo per finanziarsi le guerre con il casato più vicino, almeno i demoni non se ne vanno in giro su carrozze tempestate d’oro mentre la povera gente muore di fame!”
Shaka si riprese, e bastò un suo tocco per costringere l’uomo ad abbandonare la presa sui vestiti. “Ritenete forse perdere gli dèi e la libertà? Rinunciare a quello che siete?”
“Quello che siamo?” sbraitò la prima vecchia, quella che lo aveva colpito con il rocchetto di filo “Velo dico io cosa NOI siamo. Siamo brava gente che vive sotto i demoni, e non abbiamo alcuna intenzione di rischiare la vita dei nostri bambini per dare ascolto alle vostre chiacchiere senza costrutto. Siamo persone semplici a cui gli dèi hanno voltato le spalle, e sapete una cosa? Se vi consegneremo ai demoni forse li convinceremo della nostra buona fede e diminuiranno i controlli!”
A quelle parole Mu si rialzò, e tra le sue dita iniziò a caricare gli incantesimi per evocare il suo fidato Crystal Wall; lo fermò un gesto imperioso della mano del suo confratello. Se dobbiamo convincerli … sospirò, rendendosi conto del grande errore che stava per commettere. Non possiamo usare la forza a nostra volta. Non saremmo diversi dalla famiglia demoniaca. Anche se devo ammettere che non mi sarei aspettato una simile reazione …
La gente si chiuse intorno a loro. Come un unico corpo si mossero verso il pontile, ed i due sacerdoti furono catturati da quella massa compatta; Mu venne spinto più di una volta e rotolò a terra, ma il suo compagno manteneva un atteggiamento rilassato che in parte turbava gli uomini più vicini a lui. Le urla e gli insulti della gente lo accompagnarono fin sul molo da cui erano giunti, ed il sacerdote si chiese se fosse il caso di scappare tuffandosi nelle acque del fiume, ma dai modi imperscrutabili di Shaka capì che dovevano assecondare gli eventi. All’orizzonte comparvero di nuovo le figure dei demoni: il diversivo di Matoriv era terminato, e chiese dentro di sé scusa al vecchio mago per aver sprecato quell’occasione. Quando si avvicinarono, gli uomini di Nail ripresero a gridare ed agitarono le braccia tutti insieme, invitandoli a planare ed osservare i prigionieri.
Ma i demoni non si avvicinarono.
Un’esplosione luminosa investì l’intero villaggio, e prima che Mu riuscisse a coprirsi il volto con le mani, i suoi occhi già bruciavano. Barcollò sulle assi di legno e mise un piede in fallo tra dei rotoli di corde. Poi qualcosa lo strattonò per la tunica all’altezza dei fianchi e perse il contatto con la piattaforma mentre il suo corpo veniva sballottato il aria. Quando riaprì gli occhi, Nail era lontana diversi metri e lui stava volando. Si agitò, ma qualcosa continuava a stringerlo per la tunica; poi si accorse che anche Shaka veniva trasportato alla stessa maniera, anche se il suo ancestrale odio per il volo si fece sentire di colpo e rimise nel fiume la scarsa colazione di quella mattina.
“Scusami, Mu, ma non sapevo proprio come portarvi via di lì” fece una voce sopra di lui. Dopo essersi ripreso, il sacerdote inspirò a fondo e guardò in alto, riconoscendo il loro salvatore, l’unico membro della Resistenza che sapesse volare come e meglio di un demone.
“No, grazie a te, Dai”.
Quando il vociare dei demoni svanì alle loro spalle ed il villaggio fluviale si ridusse ad un puntolino oltre la foresta, il loro salvatore diminuì la velocità e Mu tornò a rilassarsi, osservando lo spettacolo della limpida corrente sotto di loro. Il ragazzo –o bambino, Mu aveva sempre ritenuto molto indelicato chiedergli l’età- eseguì una lenta virata verso destra, ed a giudicare dalle pianure che scorrevano sotto di loro il sacerdote intuì che stavano dirigendosi direttamente verso la sede orientale della Resistenza. Uno stormo di aquile comparve a diverse miglia da loro, e Dai lentamente scivolò al di sotto delle fronde degli alberi, mormorando qualcosa contro la capacità degli occhi dello Hyakujumadan di essere ovunque. Li appoggiò con delicatezza sul terreno, e tra le risate del ragazzo dai capelli neri si sdraiò sulla distesa di muschio, ringraziando gli dèi di aver creato qualcosa di solido su cui poggiare i piedi.
“Gli dèi ci hanno mandato qualcuno, visto, Mu?” disse Shaka, assumendo di nuovo la posa di meditazione.
“Più che gli dèi dovreste ringraziare Auron” commentò Dai, sistemandosi la cintura e la sua piccola spada “Mi ha chiesto lui di vegliare su di voi anche se Leona non mi aveva dato il permesso. Sospettava che sarebbe andata a finire in questo modo …”
“La colpa è anche di noi sacerdoti se …”
La frase di Shaka si interruppe a metà, e per la prima volta Mu sentì della sorpresa nella voce del suo confratello. Poi guardò in alto, la vide ed il cuore gli si fermò nel petto.
Una lunga massa, dalla forma triangolare, era letteralmente apparsa dal nulla sopra di loro, così grande da oscurare il sole e gettare l’intera valle in un buio gelido ed innaturale. Sembrava fatta di metallo, con delle strane luci che balenavano in modo intermittente. E, con suo sommo orrore, lentamente in cielo ne apparvero altre venti.




“MALEDIZIONE, CONTE DOOKU, COS’E’ QUESTA LENTEZZA DEI SUOI SOLDATI! IL SEMPLICE FATTO DI STAR ESEGUENDO UN ORDINE DIRETTO DEL GRANDE IMPERATORE PALPATINE DOVREBBE SOSPINGERLI DA UNA DIMENSIONE ALL’ALTRA SPONTANEAMENTE, INVECE GLI UOMINI DELLA NOBILITY SONO COMPARSI SUI RADAR CON BENSI' DICIASSETTE SECONDI DI RITARDO, E’ INAMMISSIBILE! CONTE DOOKU, E’ QUESTA LA DISCIPLINA CON CUI LEI EDUCA GLI UOMINI CHE DEVONO OBBEDIRE ALLA VOLONTA' DEL NOSTRO SOVRANO? SE FOSSERO MIEI SOTTOPOSTI SAREBBERO COMPARSI CON DICIASSETTE SECONDI DI ANTICIPO, E SOLO PER ONORARE GLI SFORZI DEL GRANDE IMPERATORE PALPATINE!”
Zexion premette il pulsante dell’erogatore automatico di bevande, e quando uscì la tazza di simil-the la bevve tutta d’un colpo, cercando di isolare almeno la voce del Braccio Destro, ma ciò era impossibile quanto provare ad annullare il suo odore. L’unico vantaggio di quella situazione era che, per una volta, l’oggetto della furia oratoria di Mistobaan non era lui.
Il conte Dooku era visibilmente scocciato, lo si vedeva nei suoi gesti e soprattutto negli odori che venivano dalla sua figura, avvolta nella tradizionale veste nera dei Sith. La protesta del Braccio Destro non terminò nemmeno quando tutti gli Star Destroyer comparvero nei cieli di quel mondo, e buona parte dell’operazione di rendez-vous fu rallentata proprio da quelle infinite chiacchiere cui anche gli ammiragli delle grandi astronavi da battaglia furono costretti ad ascoltare dagli ologrammi.
Il ragazzo consultò la mappa olografica per la terza volta, assicurandosi che tutto andasse secondo i piani del governatore Tarkin.
“Usa quel tuo strano fiuto” gli aveva detto l’anziano gerarca “e stana dove il Grande Satana ha nascosto il grosso delle sue truppe. Se davvero prepara un attacco in larga scala starà certamente riunendo il suo esercito da qualche parte. Non dovrebbe essere troppo difficile scovarlo, per uno come te … E visto che ci sei, riferiscimi tutto quello che combina quell’incompetente di Dooku. Se dovrò andare a salvarlo preferisco sapere in tempo reale in quale guaio si va a cacciare da solo …”
Zexion non poteva obiettare, ovviamente. Non al capo dei servizi segreti di cui lui faceva parte, almeno. Aveva chinato il capo e si era fatto teletrasportare in tutta fretta in quel mondo, quello che tanto tempo fa era stato il suo. Non aveva mai provato nulla per quel pianeta semplice e primitivo, perché sin da piccolo la sua vita si era sviluppata dentro le sicure mura del Castello dell’Oblio, che pur appartenendo a quel mondo era più da considerarsi come un’oasi nel deserto, il luogo in cui era depositata tutta la conoscenza del mondo. Quando lui non aveva nemmeno quindici anni il castello era stato spostato in un limbo interdimensionale, tagliando qualsiasi contatto persino visivo con quel pianeta. Guardandolo dall’alto, oltre la vetrata di transparacciaio dello Star Destroyer, quel luogo non era diverso dalle altre decine di mondi che aveva visitato in quegli anni all’Impero.
Quella stessa mattinata lo avevano accompagnato in quel mondo, ed erano atterrati sulla spiaggia senza nome da cui avevano fatto partire l’operazione di recupero di Mistobaan qualche settimana prima. Si erano spostati con cautela nei boschi, evitando l’uso di qualsiasi velivolo tecnologico che potesse attirare l’attenzione dei demoni, teletrasportandosi ogni volta che il suo olfatto non riusciva a percepire nulla di significativo nel raggio di varie miglia.
Quando avevano raggiunto la parte continentale del regno di Ringaia, però, era stato colpito dagli odori di un esercito che nulla aveva da spartire con quelli degli umani. Aveva percepito un profumo intenso provenire dalla lava del vulcano Gorbel, come se quel fuoco liquido, i vapori ed i gas fossero impregnati di una potente energia magica. Non erano incantesimi intensi, ma il numero di corpi-sorgente era impressionante, e quando aveva comunicato questo dato al governatore Tarkin gli era stata inviata una squadra completa di agenti dei servizi segreti per garantirgli una copertura d’eccezione. I dispositivi anti-individuazione imperiali erano entrati in azione, e si era inerpicato fino a metà delle pendici del vulcano per espandere le proprie percezioni.
Gli odori che percepì erano incredibili: a giudicare dalla quantità di forme di vita, l’intera camera magmatica del Gorbel doveva essere stata riempita di creature, e la lava che continuava ad uscire dalla bocca principale e da quelle secondarie doveva essere stata deviata mediante un’opera di ingegneria magica senza precedenti. Si percepiva, in quella montagna cava, un’architettura di incantesimi che sosteneva il luogo, ben diversa dal normale potenziale magico bruto che utilizzavano i demoni durante i combattimenti.
Non c’erano draghi, lì sotto. Di quello ne era sicuro, così come dell’assenza del Cavaliere del Drago. Sapeva che l’esercito della famiglia demoniaca non era composto solo dai demoni veri e propri, ma anche da vari corpi d’armata che racchiudevano tutte quelle creature magiche che venivano incorporate nel generico termine “famiglia demoniaca”. Non riusciva a definire a chi appartenessero quegli odori, ma di certo erano energia incantate quasi quanto quelle dei demoni purosangue. Si sentì di escludere la componente animale dello Hyakujumadan, ma le sue conoscenze sull’esercito del Grande Satana si fermavano lì.
Ed eccolo a bordo dello Star Destroyer principale della flotta, con un orecchio fracassato dalle grida di Mistobaan e l’altro dai piagnistei del conte Dooku. Fu grato del fatto che nessuno, all’Impero, disponesse della sua dote: avrebbero percepito in pochi attimi tutto il disprezzo che provava per loro ed in quel patetico teatro di marionette.
I sensori di prua lampeggiarono, ed il vulcano Gorbel comparve sui loro schermi, a portata delle batterie di turbolaser; al segnale luminoso i due capi della spedizione tacquero e si portarono accanto a lui, con gli occhi del Braccio Destro che brillavano al di sotto del cappuccio. La bocca principale della montagna continuava a fumare, ma il flusso di lava era diminuito rispetto a qualche ora prima. Le astronavi cambiarono formazione, e lentamente si disposero in assetto circolare intorno all’obiettivo, mentre cinque venivano allontanate dallo schieramento e poste a difesa delle altre.
Uno spiegamento di forze imponente per un mondo che ignora persino l’energia elettrica …
“Immagino che ormai si saranno accorti di noi!”
“Sa com’è, generale Mistobaan, è un po’ difficile non vederci” commentò il conte Dooku “Ma quei poveri mostri sempliciotti non si aspettano un nostro attacco, quindi … FUOCO A VOLONTA! Colpire un avversario impreparato è il modo migliore per vincere una battaglia!”
Zexion si alzò, e cinque secondi dopo il vulcano era stato polverizzato.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Per volere del Superiore ***


Capitolo 3 - Per volere del Superiore




Il simbolo dell'Organizzazione




In un mondo precipitato nella barbarie, noi siamo il raggio di speranza. Siamo gli ultimi depositari del sapere e della conoscenza, i custodi della memoria, gli eredi della nostra civiltà decaduta. Questo Castello e i suoi abitanti sono il faro che si erge luminoso nelle tenebre della tempesta. Ma la notte non dura non dura in eterno, e quando l'alba tornerà a sorgere i nostri figli ricostruiranno un mondo nuovo dalle ceneri di quello che oggi giace in agonia.
Dalle memorie di Ansem il Saggio, primo signore del Castello dell'Oblio.




Narratore: “Questo è un insulto bello e buono nei miei confronti. Non posso tollerarlo, Registe. Tutto, ma questo no! E' fuori questione!”
REGISTE: “Allora quella è la porta. Ti auguriamo di trovare una buona soap opera che ti accolga. Forse a Beautiful hanno bisogno di qualcuno per fare il riassunto delle puntate precedenti.”
Narratore: “Guardate che non sto scherzando! Me ne vado sul serio! Mi licenzio! Mi dimetto!”
REGISTE: “Ok.”
Narratore: “Me ne sto andando! Vi avverto che me ne sto andando! Non ne troverete un altro come me!”
REGISTE: “Addio.”
Narratore: “Sono già all'uscita! Me ne vado, capito? Ecco, sono oltre la porta! Non avrete una seconda occasione! Allora.... me ne vado!”
REGISTE: “Buona fortuna!”
Narratore: “.......”
REGISTE: “Ok, chi lo mette l'annuncio sul giornale? ´Cercasi narratore competente... ´”
Narratore: “Ma... ma... non vi importa niente di me?!”
REGISTE: “Ancora qui tu?!”
Narratore: “Sigh.... oh, e va bene! VA BENE! Resto! Solo... spiegatemi perché non posso narrare io questi flashback. Che bisogno c'è di ricorrere alla prima persona quando avete un narratore come me?”
REGISTE: “Beh, con le parole di Vexen renderanno sicuramente meglio, no? In fondo sono i ricordi più importanti della sua vita.”
Narratore: “Se, see. Dite piuttosto che Vexen è un raccomandato di acciaio inox.”
REGISTE: “Non lo abbiamo mai negato.”
Narratore: “Che mancanza di professional... ok, ok, non mi guardate così! E va bene, i flashback li narra Vexen, ma tutto il resto è mio, d'accordo?”
REGISTE: “Si vedrà... “
Narratore: “Sigh... è dura la vita del Narratore sfruttato e sottopagato....”



Dire che la biblioteca era “stupefacente” non le avrebbe reso minimamente giustizia.
Io potevo vantarmi di aver visitato tutte le biblioteche più famose del nostro mondo: la biblioteca-giardino del duca di Luan, dove i tralci d'edera si arrampicano sugli scaffali e i libri si consultano seduti sull'erba all'ombra dei tigli; e quella del regno di Romos, che contiene la più vasta collezione di pergamene magiche di tutto il Continente Sud. Credo mi mancasse solo la biblioteca del Tempio delle Dodici Case, ma tra quei testi imbottiti di fandonie religiose e superstizione non c'era niente che potesse interessarmi.
Ma nulla che avessi visto nei miei innumerevoli viaggi poteva prepararmi alla biblioteca del Castello dell'Oblio.
Quel luogo... era vivo. Non c'è altro modo per definirlo.
I libri si scrivevano da soli, compilati da mani invisibili, e il labirinto mutava continuamente, portando alla luce nuovi volumi e celandone altri alla vista. In quelle stanze incantate riposava il sapere di tutti i mondi. Copie di libri provenienti da tutti i mondi...
Suppongo che gli altri membri dell'Organizzazione mi avessero dato per disperso quei primi giorni, perché non uscivo da lì nemmeno per dormire. Avere tutto quel sapere a portata di mano era inebriante: e io avevo tanto, veramente tanto da imparare. Ancora prima di raggiungere la maggiore età avevo lasciato il mio villaggio natale per inseguire il sogno di diventare uno scienziato: ma ben presto avevo scoperto con frustrazione che il mio mondo arretrato e superstizioso aveva ben poco da offrire a una mente insaziabile come la mia.
Il Castello dell'Oblio aveva ridato un senso alla mia vita: fu come scoprire improvvisamente un intero oceano di acqua dolce dopo aver sofferto la sete per molti, moltissimi anni.
Ero ancora nella biblioteca quando il Superiore venne a cercarmi. Credo fosse trascorsa appena una settimana dal mio ingresso nell'Organizzazione; avevo mandato giù un tè in fretta e furia per colazione, e ora mi aggiravo tra due file di scaffali in cui libri di argomenti diversi sembravano essere stati accatastati a caso. Gettai un'occhiata alla mappa che mi ero disegnato la sera prima e immediatamente la accartocciai: l'ordine degli scaffali era già cambiato. Un attimo dopo ci ripensai e riaprii il foglio, appiattendolo con cura: forse i mutamenti non avvenivano in modo casuale. Poteva esserci una sequenza, dei cambiamenti sempre uguali, ciclici. Avrei dovuto scegliere una sezione ristretta e annotare tutte le posizioni degli scaffali e delle stanze volta per volta. Magari potevo aiutarmi con dei cerchi alchemici di riferimento...
Buttai giù qualche appunto e fissai di nuovo i libri più vicini, intento nelle mie riflessioni. Ero sicuro di non aver mai visto prima quei titoli... “I miei trionfi, i miei errori”, di Gaius Baltar; “La superiorità della razza elfica”, di Elrond figlio di Eärendil; “L'arte di fare soldi”, di Vree Elleden; “Draghi e Scorpioni: Vicende della Quarta Era”, di Siirist...
Quarta Era di cosa?, mi chiesi incuriosito, allungando la mano verso lo scaffale.
“Vexen. Ero sicuro di trovarti qui.”
Ancora non mi ero abituato al nuovo nome, e mi voltai con un attimo di ritardo.
“Superiore.”
Il padrone del Castello dell'Oblio mi sorrise in modo benevolo, con quell'aria vagamente paterna che sfoggiava sempre in presenza di noi altri membri. Lo trovavo ridicolo, visto che assai probabilmente era più giovane di me. Ma Xemnas era il numero I dell'Organizzazione, ed entrando a far parte del suo gruppo avevamo accettato di aderire alle sue condizioni e sottostare alle sue regole. Regole senza senso, a mio parere: modificare i nostri nomi, portare tutti la stessa divisa, specializzarci ciascuno in un elemento diverso, dividerci per rango in base all'ordine di ingresso nell'Organizzazione. Tutte cose che mi sembravano frutto dei capricci di un ragazzino viziato, e probabilmente era davvero così. Xemnas proveniva da una famiglia nobile di origini antichissime, che possedeva il Castello da generazioni: non faticavo a immaginarmelo mentre girava annoiato tra gli immensi saloni bianchi, ormai saturo di cacce e banchetti, in cerca di uno svago ancora mai provato. E con gli occhi della mente lo vedevo improvvisamente aprirsi in un sorrisone da bambino, battere le mani ed esclamare: “Idea! Giochiamo all'Organizzazione!”.
Tanto meglio per me. Avrei accettato anche se mi avesse chiesto di vestirmi di fucsia e cantare l'inno della sua famiglia tutte le mattine. In cambio del potere del Castello dell'Oblio ne sarebbe valsa la pena.
“La biblioteca ti ha risucchiato, eh?” mi disse, un lampo divertito negli occhi color ambra. “Fa sempre questo effetto, la prima volta. E aspetta di vedere quando il Castello ti riconoscerà definitivamente come padrone e ti concederà i suoi poteri.”
“Attendo quel momento con ansia, Superiore.” Altroché se lo aspettavo. Poter viaggiare tra i mondi a mio piacimento... il solo pensiero mi faceva girare la testa.
“Voleva dirmi qualcosa?” chiesi poi.
“C'è una cosa che vorrei mostrarti, numero IV. Vieni con me?”
Un po' a malincuore posai il libro e seguii Xemnas verso l'uscita della biblioteca. Probabilmente voleva di nuovo ammorbarmi con le gesta dei suoi antenati o vantarsi di qualche polveroso cimelio di famiglia; ma era il Superiore, e gli dovevamo obbedienza. Prendere o lasciare.
Come previsto Xemnas imboccò il corridoio dei ritratti. Sospirai, preparandomi psicologicamente alla lezione di storia in arrivo. La biblioteca già mi mancava da morire.
“Credo tu sia l'unico a non sapere ancora la bella notizia” esordì il Superiore. “Oggi l'Organizzazione ha guadagnato un sesto membro.”
“Oh. E' meraviglioso” commentai, anche se in realtà non me ne importava un bel niente. I miei contatti con gli altri finora erano stati minimi, e non avevo alcun desiderio di approfondirli. E se questo sesto membro era come loro...
“Sono davvero soddisfatto e ottimista per il futuro. La nostra Organizzazione esiste da meno di un mese e già abbiamo raddoppiato il numero iniziale di membri... i miei nobili antenati ne sarebbero fieri. Il loro sguardo benevolo veglia sulla nostra impresa.”
“Sicuramente” dissi. Meno male che Xemnas era assorbito nella contemplazione dei quadri, perché immagino che la noia e l'irritazione fossero scolpiti in ogni tratto del mio viso. “Quindi stiamo andando a conoscere il nuovo numero VI?”
“Proprio così. Non ti incuriosisce sapere chi è?”
No, fu quello che pensai.
“Penso che mi terrò il gusto della sorpresa” fu quello che dissi, con una risatina vuota. No, decisamente non ero bravo a fingere; ma ancora una volta il Superiore non ci fece caso.
Proprio alla fine del corridoio, quando pensavo ormai di aver scampato il sermone sugli antenati, Xemnas si fermò davanti a un ritratto e si mise a contemplarlo con aria assorta. Mi fermai anch'io, irritato e infastidito. La targa d'oro sotto il quadro mi informò che ci trovavamo in presenza del grande chirurgo Xehanort, uno dei capostipiti della famiglia di Xemnas. I due si somigliavano in modo incredibile: gli stessi lunghi capelli argentati, la stessa carnagione abbronzata, lo stesso portamento aristocratico. Il ritratto era stato eseguito in tempi recenti, ma quell'uomo era vissuto più di tremila anni fa. O almeno così mi comunicò Xemnas, traboccante di orgoglio neanche fosse stato merito suo. Molto più probabile che fosse un falso o una mistificazione: non esistevano testimonianze di civiltà così antiche nel nostro mondo. Tutto lasciava supporre che tremila anni fa fossimo ancora all'età delle caverne... e quindi come poteva esistere un chirurgo, una figura rara e perseguitata ancora al giorno d'oggi?
“Sapevi che a quell'epoca il nostro mondo fu colpito da una terribile catastrofe?” disse Xemnas all'improvviso.
“No.” Non lo sapevo. E per la prima volta le parole del Superiore mi avevano incuriosito. “Che genere di catastrofe?”
Il Superiore scosse la testa. “Nemmeno noi padroni del Castello lo sappiamo con certezza. Le testimonianze sono poche e frammentate. L'unica certezza è che i capostipiti della mia famiglia, Ansem il Saggio e il grande Xehanort, erano lì quando accadde. Ma le loro memorie e i loro diari, e quelli dei loro figli, sono in gran parte andati perduti. Fagocitati dalla biblioteca, nascosti da qualche parte nei recessi del labirinto, e finora a nulla sono valsi gli sforzi dei miei padri di ritrovarli. Hai visto anche tu come funziona. In questo luogo trovare è perdere, e perdere è trovare, è il motto della biblioteca. Offre tesori inestimabili, ma chiede un prezzo altissimo in cambio: per ogni libro che sceglie di mostrarci ce ne sono chissà quanti altri che ci sottrae.”
“Funziona un po' come l'alchimia... “ mormorai tra me e me.
“E temo anche che molti dei miei antenati che nel corso dei secoli hanno scelto di lasciare il Castello abbiano portato con loro alcuni di quei diari... potrebbe darsi che stiamo cercando qualcosa che in realtà non esiste più. Ma non per questo dobbiamo perderci d'animo. E' per questo che, non avendo eredi del mio sangue, ho deciso di fondare l'Organizzazione. Il Castello dell'Oblio non deve rimanere incustodito, e tutta la conoscenza che racchiude non deve cadere in mani sbagliate. Noi dobbiamo essere i guardiani e i custodi del sapere.”
“Il sapere però non è fatto per essere tenuto sotto chiave” mi permisi di dire. “Con tutto quello che c'è qui dentro potremmo cambiare molte cose nel nostro mondo... “
Il Superiore mi guardò con espressione grave: “E tu pensi che gli abitanti del nostro mondo siano pronti per ricevere conoscenze simili?”
Pensai al fanatismo religioso e alla superstizione che regnavano nel nostro mondo. Pensai alle adultere legate a una pietra e gettate nelle paludi, ai bambini con i capelli rossi presi a sassate perché considerati figli del demonio, ai signorotti che pretendevano tasse insostenibili in nome di un astratto diritto divino a cui erano i primi a non credere. Alcuni tra i sacerdoti più illuminati, tra cui quelli delle Dodici Case, di tanto in tanto si opponevano a tutto questo: ma raramente si spingevano a predicare oltre i confini delle loro terre, e il nostro mondo era grande. Nei villaggi più piccoli e sperduti i roghi di eretici erano un fenomeno frequente. La barbarie imperversava.
“Penso che ciò di cui hanno più bisogno siano proprio conoscenza e cultura, Superiore.”
“E le avranno. Ma non oggi, non adesso. Prima dovranno essere pronti. Prima dovremo essere certi che non userebbero male i nostri doni. Perché, numero IV, anche se la nostra conoscenza del passato è frammentaria, una sola cosa è certa: la catastrofe che ci colpì tremila anni fa non era naturale. Fummo noi stessi a scatenarcela contro. Usammo in modo sbagliato il potere e le conoscenze di cui disponevamo, e pagammo a caro prezzo. Perdemmo tutto, e fummo costretti a ricominciare da zero. Nei frammenti delle sue memorie Ansem il Saggio auspicava che noi padroni del Castello, in qualità guardiani del sapere, ci assicurassimo che gli errori del passato non venissero ripetuti. E io non ho intenzione di mettere simili armi in mano a persone che non hanno la saggezza e la lungimiranza necessarie per usarle.”
“Però le ha messe in mano a noi membri dell'Organizzazione.”
“Vi ho scelti di persona, e di voi mi fido. Sono sicuro che mi aiuterete a fare luce sui misteri del Castello. Questo luogo... anche questo pare risalire ai giorni oscuri della catastrofe. Ma nulla sappiamo circa le sue origini o la fonte del suo incredibile potere. Studiarlo, comprenderlo e proteggerlo da ogni interferenza esterna saranno d'ora in poi i compiti della nostra Organizzazione. Ma ora basta” aggiunse, notando che volevo ribattere. “Siamo arrivati. E' il momento di fare la conoscenza del numero VI.”
Non la pensavo come Xemnas, ma tenni per me i miei dubbi. In fondo non aveva importanza, finché io potevo avere accesso al Castello e ai suoi tesori.
Eravamo davanti alla porta della sala da pranzo.
Xemnas spalancò i battenti e mi fece cenno di entrare. Tre posti all'estremità del lungo tavolo attorno a cui i membri dell'Organizzazione si riunivano per mangiare erano occupati. Riconobbi subito le sagome familiari di Lexaeus e Xaldin, che sollevarono lo sguardo dalla loro partita a carte per salutarci. Poi spostai lo sguardo sulla terza persona, e rimasi a bocca aperta per lo stupore.
Il numero VI era un bambino.
Non poteva avere più di cinque anni, e anche così era piccolo e minuto per la sua età. Sedeva a capotavola con le spalle sottili incurvate, concentrato sul piatto di minestra che stava divorando a rapide cucchiaiate. I suoi capelli argentati erano pettinati in modo strano, con un lungo ciuffo che gli copriva quasi metà del viso, e quando alzò lo sguardo per osservarci vidi che il suo unico occhio visibile era di uno stupefacente colore azzurro.
“Vexen, ti presento Ienzo, il nostro nuovo numero VI.” disse il Superiore alle mie spalle. Poi, con estrema naturalezza, piazzò l'inaspettato colpo basso.
“Vorrei che d'ora in avanti fossi tu a prenderti cura di lui.”


Narratore: “Ok, ok, basta melassa. Direi che come primo flashback può bastare, anche perché abbiamo una guerra da narrare! Non è colpa mia se le Registe intitolano una storia La Guerra dei Mondi e poi traccheggiano e non fanno vedere nemmeno una battaglia! I miei lettori vogliono vedere il sangue! (e le mie lettrici vogliono vedere ME …)."


Il Grande Satana attraversò la sala del trono a falcate ampie, con il lungo mantello bianco che ondeggiava nell’aria. L’aria intorno a lui era satura di incantesimi di ogni elemento, ed Hadler trattenne il fiato nel timore che il demone anziano scagliasse il suo enorme potenziale magico contro la prima cosa che si trovasse a tiro.
Che, in quel caso, era la sua testa.
“MALEDETTI UMANI!” tuonò l’altro “È QUESTO IL MODO DI COMBATTERE? VIOLANDO I TERMINI DI GUERRA? È SOLO CON L’INGANNO CHE SANNO COLPIRCI?”
“È ovvio che per vincere ricorrano a dei trucchi! Nessuna persona sana di mente affronterebbe lei o il Cavaliere del Drago in uno scontro diretto!” disse Killvearn, comparendo dal nulla in uno sbuffo di fumo viola. Senza alcuna riverenza si avvicinò ad uno dei demoni servitori e prese un calice pieno di vino demoniaco, e lo portò alla maschera al livello in cui ci sarebbero state le labbra. “Sono umani, non stupidi!”
“SONO VILI!”
“Che novità! L’ingenuo è stato lei a non pensare che avrebbero tentato qualche colpo basso!”
Fu troppo. Hadler scattò in piedi, e l’attimo dopo si trovò davanti a Killvearn. Prima che la creatura con la falce potesse tentare una qualsiasi difesa, le sue dita si serrarono intorno al collo dell’altro e lo spinse con violenza contro una parete. Con la mano libera gli strappò l’arma, ed avvolse tutto il braccio con il potere della fiamma, facendo esplodere il calore proprio davanti alla maschera sorridente. “Nessuno insulta il Grande Satana in mia presenza! Alleati o meno …”
“BASTA COSI, HADLER!” disse il sovrano.
Hadler estinse la fiamma, ma non abbandonò la presa. Sotto le sue dita il collo di Killvearn era rigido come metallo, ma era curioso di vedere se quell’essere che si diceva immortale sarebbe riuscito a sopravvivere alla sua furia.
“Lascialo” fu il secondo comando. “Apprezzo il gesto, generale Hadler, ed il tuo zelo ti fa onore. Ma se qualcuno osa insultare la mia persona in mia presenza non ho l’abitudine di demandare la punizione a qualcun altro. Se non l’ho incenerito è perché ritengo che nelle sue parole ci sia del vero”.
Il demone abbandonò la presa a malincuore. Ma non era saggio costringere il Grande Satana a ripetere due volte lo stesso ordine.
“Non mi aspettavo questo gesto, è vero. Confidavo nel fatto che questi umani rispettassero l’accordo, o almeno che trascorressero questi tre giorni ad organizzare le loro difese, anche preparando qualche trucco. Ma un attacco a sorpresa … non lo avevo preventivato. Tremila anni non hanno cambiato quella sporca razza, ed il fatto che vengano da un altro pianeta non ha migliorato affatto la situazione. Avevo dimenticato quanto potessero essere subdoli ed infidi, specie quando si ammantano di quella tecnologia” mormorò, con lo sguardo fisso oltre la vetrata. Hadler aveva sentito molti racconti sulle grandi guerre tra uomini e demoni, quando ancora la famiglia demoniaca non era stata costretta al confino nel mondo sotterraneo. Lo sguardo del suo signore doveva essere perso laggiù, tra i ricordi dell’antico regno demoniaco di Pharen. “Ho commesso una leggerezza di giudizio, e lo Yomashidan ne ha fatto le spese. Ho messo in pericolo la vita di Zaboera, e se ha riportato soltanto delle ferite leggere è stato solo grazie ai suoi poteri di arcivescovo stregone ed alla fedeltà di alcuni membri del suo corpo d’armata. Tra le parole insolenti di Killvearn c’è una verità che non posso fingere di ignorare”.
Il demone minore chinò il capo, ed osservò la creatura con la maschera mentre si rialzava. Quella gli rivolse persino un gesto di scherno, costringendo Hadler a richiamare tutto il proprio autocontrollo. Il giorno in cui sarebbe cessata l’alleanza tra il Grande Satana ed il misterioso mandante di Killvearn avrebbe reclamato per sé il diritto di polverizzare il lugubre emissario, la sua falce ed anche il suo irritante assistente monocolo. Anzi, quell’ultimo lo avrebbe regalato all’arcivescovo stregone per i suoi esperimenti sui corpi biologici superstregoneschi.
“È chiaro che vogliano spostare il campo di battaglia nel nostro mondo. Dubito che potremo impedirglielo, considerato il numero e le dimensioni delle loro astronavi: sono dotati di sistemi di teletrasporto analoghi al nostro, quindi potrebbero apparire in qualsiasi punto del pianeta. Darò ordine di far ritirare qualsiasi demone dai territori umani; i loro turbolaser colpiranno probabilmente qualsiasi villaggio alla ricerca dei nostri insediamenti, e non voglio che nessun membro della famiglia demoniaca rimanga colpito da quel loro vile ed arrogante modo di combattere”.
Hadler ammise tra sé che il modo con cui avevano distrutto il vulcano Gorbel aveva dell’incredibile. Fino al giorno prima non avrebbe creduto possibile che si potesse compiere un gesto del genere senza l’aiuto di una magia potente; lui stesso vi sarebbe riuscito richiamando tutta la potenza incantata che scorreva nel sangue, ed il solo pensiero che quelle creature inferiori potessero farlo con il solo gesto di un dito lo preoccupava.
E preoccupava gli altri demoni.
“Non se ne andranno di loro spontanea volontà, temo …”
“Credo anche io che invitarli gentilmente alla porta non basterà” rispose il demone arcano. Le rughe sul viso si erano leggermente spianate, e si accomodò di nuovo sul trono; la sua aura magica era tornata ai livelli normali. “A meno che non ci pensi il Generale Baran … Ha una capacità di persuasione davvero incredibile …”
Killvearn si fece sfuggire una risata. Da sotto il suo mantello fece capolino il grande occhio di Piroro, ed imitò la risata del suo lugubre padrone con la sua piccola voce stridula. Si arrampicò lungo la sua spalla e si sedette sulla sommità della maschera, la bocca piegata da un sorriso quasi isterico.
“Ma non sarà la perdita dello Yomashidan ad impedire la nostra avanzata. Siamo in guerra per riprenderci Mistobaan, e per quanto io abbia esteso la mia percezione nei recessi dell’atmosfera sono certo che non sia più a bordo di quelle astronavi; l’Imperatore lo tiene nascosto, ma non potrà farlo in eterno. Ho promesso a tutti voi che avrei attaccato la loro capitale e fatto sanguinare il loro cuore meccanico, e la mia parola non cade mai a vuoto. Se non possiamo servirci del nostro principale distaccamento magico useremo qualcosa di ancora più terribile … qualcosa che avrei preferito tenere tra le ultime risorse. La produzione di Nuclei Neri ha raggiunto discreti livelli, ma per un attacco in grande scala dovremo attendere ancora una manciata di giorni; lo scienziato umano sta lavorando bene”.
I Nuclei Neri.
Hadler non aveva mai visto questi leggendari esplosivi, tanto meno aveva osservato le loro decantate opere di distruzione. Come fosse riuscito un semplice umano a creare dispositivi che sfruttassero impulsi di incantesimi non elementali era ancora un mistero, ma la realtà era che in quelle unioni tra magia e scienza, in grado di stare nel palmo della sua mano, si celava un potenziale distruttivo senza pari. Sapeva che il Grande Satana aveva personalmente avvolto il laboratorio di Zaboera con degli incantesimi di assorbimento rapido, perché anche un piccolo errore nella loro costruzione avrebbe potuto far saltare in aria buona parte del Baan Palace. Il Membro dell’Organizzazione scienziato ed il suo assistente sacerdote non uscivano mai di lì: ne aveva notizia solo dai brontolii dell’arcivescovo stregone.
Sapeva che al Grande Satana non piaceva l’idea di usare armi umane. Ma la magia era da sempre stata un attributo demoniaco, e nessuno avrebbe avuto il diritto di usarli oltre a loro; se Baran ed il Grande Satana fossero rimasti nel loro mondo per fronteggiare quelle astronavi, era più che logico che quei Nuclei Neri fossero dati a chiunque si sarebbe occupato dell’attacco alla capitale degli uomini. Assaporò sin da quell’istante il piacere di vendicare l’onta subita dallo Yomashidan. Altrimenti non sarebbe stato degno del compito di comandante dei corpi d’armata.
“In pochi giorni di guerra le cose possono cambiare più rapidamente che in mille anni di pace, mio signore”.
“Purtroppo è vero. Ecco perché ho una missione per te e per Hyunkel prima di guidare le mie armate a Coruscant”.
“Oh oh, guai in vista!” canticchiò Piroro. Lo sguardo gelido del Grande Satana lo bloccò sul colpo.
“Dobbiamo saperne di più su questo Impero Galattico. Mi rendo conto che sappiamo troppo poco, e sia le sporadiche visite di Killvearn ai loro mondi, sia le analisi degli Occhi di Zaboera non sono sufficienti. Possiamo osservarli, ma non capirli. Io stesso in tremila anni non sono mai riuscito a capire quelle piccole menti contorte …” e se non ci è riuscito il Grande Satana, come potremmo farlo noi? “Per nostra fortuna, l’Impero Galattico ha altri nemici. Non ho idea di chi siano, tranne che si fanno chiamare Alleanza Ribelle e che Killvearn ha scoperto e visitato il loro mondo, quindi possiamo raggiungerlo grazie al teletrasporto. Ci è giunta voce che riescano a resistere ai nostri nemici da tantissimi anni pur essendo una evidente minoranza, quindi potrebbero conoscere qualcosa di utile ai nostri scopi: sono convinto che l’unico umano del mio esercito ed il comandante in capo di tutti i corpi d’armata possano mescolarsi in quel gruppo di ribelli abbastanza a lungo da carpire qualche informazione interessante. Potrebbe rivelarsi un fallimento, ma preferisco prendere le mie precauzioni quando si tratta di combattere contro gli umani … quando la produzione di Nuclei Neri sarà terminata vi farò rientrare per guidare l’attacco alla loro capitale. Non ha senso impegnare il Fushikidan prima di quel momento”.
Una missione di infiltrazione, eh? Non sono mai state il mio forte, ma se il Grande Satana …
“Mi fido dei tuoi occhi, generale Hadler” disse il demone maggiore, interrompendo i suoi pensieri come se potesse vederne i dubbi attraverso una barriera invisibile “Degli occhi di un demone”.
“Come lei comanda!”
Il suo cenno d’assenso fu il tacito segnale di congedo. Si inchinò di nuovo e lasciò la sala, diretto verso le terrazze di volo. Aveva bisogno di conferire immediatamente con Hyunkel .
Oltre il corridoio, i demoni si misero sull’attenti al suo passaggio; le aure incantate erano in perfetta sintonia tra di loro, i muscoli immobili, la posizione di guardia proprio come lui stesso l’aveva insegnata. Ma i loro occhi guizzavano di timore, forse perché le urla del loro signore avevano percorso in pochi attimi tutta la vastità del palazzo; la notizia della distruzione dello Yomashidan li aveva resi irrequieti, così come la comparsa di quelle astronavi portatrici di morte.
Ma hanno fiducia in noi, rifletté, e d’istinto diresse verso i soldati più giovani un vigoroso cenno d’assenso con la testa, che fece ribollire d’orgoglio il loro sangue. È la prima, vera guerra che combattiamo. Uno scontro che potrebbe diventare sanguinoso come quelli del passato, quelli che combatterono i nostri gloriosi antenati.
Era così immerso nei suoi pensieri che il secco rumore metallico lo colse alla sprovvista. Si voltò, e capì che Killvearn doveva essere sempre stato alle sue spalle, sin dal momento in cui aveva lasciato la sala del trono.
“Uh, uh uh, abbiamo i nervi a fior di pelle, generale?”
“Cosa vuoi?”
“Solo quello che desidera il Grande Satana, ovviamente!”
“Ne dubito …”
“Killvearn, Killvearn, questo demone tutto verde mette in dubbio le tue buone intenzioni! Non puoi assolutamente permetterglielo, no no!”
Si chiese se l’ordine di non toccare il loro alleato valesse anche per il suo stupido gnomo da compagnia. Detestava la loro presenza. In quel momento, nell’ala del corridoio priva di soldati e poco illuminata, una spiacevole sensazione di gelo lo avvolse lungo la schiena; la falce dell’altro roteava nella sua mano, ed il sibilo permeava tutta l’aria, tintinnandogli nelle orecchie. Il fatto che la creatura vestita di nero non usasse alcun tipo di incantesimo lo innervosiva, perché non riusciva a percepire i suoi istinti mescolati al potenziale magico. Scrutò lui e lo gnomo, sapendo quanto fosse pericoloso non averli entrambi nel campo visivo.
“Siamo sospettosi, generale Hadler?”
“Credo di avere i miei buoni motivi. Non mi piaci, Killvearn”
“Lo prenderemo per un complimento!” rise di nuovo. Nella mano libera comparve uno sbrilluccicare dorato, ed il demone alzò le proprie difese magiche in risposta; il suo gesto spontaneo generò ancora più ilarità da parte della creatura, che cessò quando la piccola luce diventò una moneta. “Ero venuto solo per soddisfare una mia personale curiosità, nulla di più… “
Avvicinò la moneta ai suoi occhi; era più grande di quelle usate normalmente tra gli esseri umani, e lungo la sua superficie brillavano dei riflessi violacei. Riconobbe in un attimo il profilo inciso sulla patina dorata, una figura incappucciata dagli occhi inconfondibili. “Mi sono sempre chiesto cosa ci fosse sotto il cappuccio del nostro beneamato Braccio Destro! Mi piacerebbe davvero saperlo, visto che stiamo andando in guerra per lui”.
Stai fresco se speri di saperlo da me …
“Non è insolito questo comportamento precipitoso da parte del nostro augusto signore? Abbiamo attirato lo sguardo di un terribile imperatore umano sul nostro mondo senza prevedere tutte le conseguenze, una mossa fin troppo impetuosa per la saggezza di un demone antico …”
“Il Grande Satana non lascia indietro nessuno dei suoi generali! Men che mai nell’umiliazione di vedere la propria mente condizionata ed assoggettata!”
“Ma che belle parole … Anche se personalmente ho i miei dubbi …”
Hadler lo fissò, caricando il proprio sguardo di tutta la superiorità della razza demoniaca.
Non aveva alcuna idea di chi fosse davvero Mistobaan. Nessuno di loro aveva mai sollevato il cappuccio bianco, né aveva visto i veri occhi da cui nascevano quei bagliori intensi; ma conosceva i suoi passi e la voce incalzante. Conosceva il rigore ferreo del Maegudan ed il silenzio che seguiva i suoi discorsi. La curiosità di Killvearn non aveva motivo di esistere.
“Mistobaan è il primo comandante dei corpi d’armata dell’esercito del Grande Satana. È il generale del Maegudan ed il Braccio Destro della famiglia demoniaca. È uno di noi.”
Avanzò di un passo, fin quasi a sfiorare il petto dell’altro “Non dimenticarlo mai.”
“Io non dimentico mai nulla, generale Hadler”.
Fece un rapido giro su stesso, e la sua sagoma fu avvolta nel mantello. Svanì tra le pieghe con la grazia di un prestigiatore, avvolgendo il suo stupido amico monocolo; il demone rimase ad osservare il punto dove era scomparso, uno spazio vuoto ancora carico del gelo del suo padrone. Se la morte aveva davvero un’incarnazione terrena, non aveva dubbi che si trattasse di Killvearn.
Il suo piede urtò qualcosa di piccolo, che risuonò al contatto con i suoi stivali; quando scostò il mantello vide che si trattava della moneta di qualche istante prima. Si chinò per prenderla, ed osservò la sua superficie dorata alla luce della vetrata.
Il profilo di Mistobaan era sparito.
Al suo posto, su entrambe le facce, vi era il volto del Grande Satana.



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Draghi e Scorpioni: Vicende della Quarta Era e' una fanfiction di Siirist che trovate in questo sito nella sezione crossover e di cui vi consigliamo caldamente la lettura!

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Dite amici, ed entrate ***


Capitolo 4 - Dite amici, ed entrate




Minas Tirith




Meditando sulla perdita del pianeta Geonosis, l’Imperatore mi disse: “Il grande potere dei Ribelli nasce dal fatto che si credono onesti e buoni, i difensori della giustizia e della democrazia, coloro che possono deformare lo spazio ed il tempo solo in nome dell’Amicizia. Il giorno in cui si renderanno conto di essere solo una mandria di poveri imbecilli, l’Alleanza si scioglierà come neve ai soli di Tatooine”.
“La mia vita al fianco dell’Imperatore” di Lorth Needa, ammiraglio dell’Impero Galattico.



Le mura di quella città erano centinaia di volte più alte di quelle della più grande città umana nel loro mondo; si stagliavano quasi fino al cielo, e Hadler desiderò potersi elevare in volo fino a toccare la cuspide più alta. Un tempo le mura dovevano essere state bianche come la neve, ma con alcuni punti anneriti e pareti piene di crepe raccontavano di una storia costellata di battaglie ed assedi. L’enorme città proiettava la sua ombra su un fiume poco distante, su cui si affollava un viavai di imbarcazioni dalle vele dai mille colori; da esse scendevano umani di ogni taglia che trasportavano verso un ingresso imprecisato delle strane casse ed oggetti che non sarebbe stato in grado di definire. Il demone guerriero aveva visto centinaia di insediamenti umani, ma nessuna aveva la maestà e l’energia che traboccavano da quella costruzione dalle sette cerchia di mura.
Killvearn fece sparire la Pietra Dimensionale nella mano sinistra ed abbozzò un inchino falso: “Il mio ingrato compito di teletrasportare l’esercito del Grande Satana è esaurito, per oggi! Auguro ad entrambi un piacevole divertimento!”
Prima che Hyunkel potesse insultarlo a dovere, quello usò l’oggetto magico e svanì in una nuvola di fumo rosa. I due si scambiarono un’occhiata stanca, poi Hadler avvolse tutto il suo corpo e richiamò l’energia necessaria per eseguire un semplice incantesimo di alterazione. Dai rapporti di Killvearn –e, soprattutto, dai molto più affidabili Occhi di Zaboera- avevano capito che in quel mondo non esistevano creature dalla pelle verde come la sua, dunque lasciò che il lieve bruciore lo percorresse dalla punta dei capelli fino ai piedi e la sua pelle assunse il colore rosa chiaro del suo compagno umano. Meditò persino di assumere di lanciare su di sé una magia di invisibilità, ma avrebbe richiesto una tale quantità di magia che gli incantatori di quella città lo avrebbero percepito subito, e non poteva rischiare di mettere in pericolo la missione.
“Beh, adesso invece di sembrare un grosso demone verde sembri un grosso demone rosa pallido!”
“Credi che susciteremo sospetti?”
“Suppongo ci sia un unico modo per verificarlo …” gli rispose Hyunkel. Si sistemò il mantello sulle spalle e si diresse verso il portone principale e Hadler gli andò dietro, ricordandosi ad ogni passo che non doveva assolutamente volare. Da oltre le mura veniva una cacofonia di suoni e rumori che aveva sentito nelle città degli umani solo quando si celebravano le loro insignificanti festività religiose, ma da quel luogo i suoni sembravano moltiplicarsi in un assordante miscuglio di strumenti musicali, canti e grida di persone. Un fuoco d’artificio esplose in cielo proprio mentre stavano per rivolgere la parola alle guardie d’ingresso, ma quelle erano più occupate a commentare lo speciale effetto delle scintille, che disegnavano in cielo delle forme simili a degli esseri umani, che a loro. Solo quando il suo compagno giunse a due passi da loro si degnarono di rivolgergli la parola. “Siete venuti per la festa?”
Ma che razza di domanda è …?
Hyunkel squadrò il soldato ancora più allibito di lui “Sì, certo, però …”
“Allora sbrigatevi, tu ed il tuo amico con le orecchie grandi! Lo spettacolo pirotecnico di Gandalf inizierà al tramonto, quindi cercate di trovarvi un posto decente!”
Una delle guardie fece cenno ad Hadler di avvicinarsi e lui camminò cauto verso di loro. Sopra il primo cerchio di mura vi erano alcuni soldati con delle armature ancora più dimesse di quelle che usavano gli umani nel loro mondo, e nonostante il demone riuscisse a scorgere degli archi legati alle loro spalle, nessuno puntava le armi contro di loro. Un paio stava visibilmente giocando a carte.
“Suvvia, ma che avete messo le radici?”
“Ma …” protestò Hyunkel mentre una ragazza con un’armatura leggera lo sospingeva letteralmente oltre il portone “… cioè, ci fate entrare così? E se fossimo …”
“Nemici?” lo interruppe lei, lasciandolo per afferrare anche il polso di Hadler e trascinarlo verso la strada “Ma che sciocchezze, è ovvio che siete amici! L’Impero e le sue spie mica entrano dal portone principale!”
“Sì, ma …”
“Forza, godetevi la festa e benvenuti a Minas Tirith! E se più tardi sei libero, un ballo con me non te lo leva nessuno!”
La ragazza si arrampicò su una scala e si rimise in servizio sulle mura, mentre Hadler osservò prima lo sguardo esterrefatto di Hyunkel e poi l’immensa città che sorgeva proprio davanti a loro.
Come Killvearn aveva riportato, era costituita da sette cerchia di mura che si sviluppavano in altezza, visto che l’intera città sorgeva su una collina; indecisi su dove spostarsi, i due salirono su una rampa in mattoni che aveva tutta l’aria di essere la strada principale se non fosse stato per le migliaia di persone che si riversavano per la sua intera lunghezza e per le piccole vie laterali. Il demone non aveva mai visto una tale quantità di umani concentrata in un simile spazio eppure, nonostante il numero, tutti riuscivano a muoversi agevolmente. Alle loro spalle sentì il portone principale aprirsi di nuovo, e la folla si abbandonò a grida festose quando comparve una squadra di circa quaranta soldati a cavallo, guidati da un uomo che mostrava uno stendardo con un destriero rampante. I cavalieri attraversarono la rampa al passo, e Hadler si scansò poco prima che uno degli animali gli calpestasse il mantello: gli uomini in sella estrassero degli oggetti sconosciuti, probabilmente in legno, ed iniziarono a suonare una marcia. La gente nella folla, soprattutto i bambini, batterono le mani a quel ritmo invitante, e come per incanto la massa di gente si ritirò verso le estremità della rampa; Hyunkel gli fece cenno di imitarli, e l’attimo dopo l’intera spianata in mattoni era occupata da cavalli e cavalieri che iniziarono una danza frenetica, accompagnati sia dai loro strumenti che dal battito delle mani degli spettatori. Persino un paio di soldati di pattuglia si unì a quel ballo scomposto, del tutto incuranti di ostruire il passaggio principale.
“Hyunkel, ti prego, dimmi che almeno tu sai in che posto siamo finiti!” disse, seguendo il suo compagno che cercava di oltrepassare la folla di cittadini festosi.
“Sono questi i momenti in cui mi vergogno di essere un umano …” bofonchiò l’altro, poco dopo aver evitato un gruppo di bambini di ogni età che era sceso dal tetto di una casa per vedere l’esibizione di quegli strambi cavalieri. I loro abiti erano semplici, ma non dimessi come quelli delle miriadi di straccioni umani che infestavano i centri abitati; non vi era alcun adulto ad accompagnarli, anche se dalle finestre delle abitazioni vi erano uomini e donne di tutte le età che lanciavano loro dei piccoli fagotti che i bambini raccoglievano al volo, divorandone poi il contenuto.
Nella luce piena del tardo pomeriggio, il secondo livello della città si aprì a loro non appena varcarono un arco di pietra, mostrando una piazza interamente addobbata, dove si intravedevano a fatica degli spicchi di cielo tra i nastri di mille colori che campeggiavano sopra le loro teste. Lì tutti, assolutamente tutti, danzavano. Il ritmo era scandito da due piccole creature, simili a bambini per statura, che cantavano su un tavolo a piedi scalzi facendo cozzare i loro boccali per guidare il tempo. Un altro, più anziano, si arrampicò sul tavolo e si legò un fazzoletto rosso sulla testa, si portò tra i due ballerini ed iniziò a cantare una melodia diversa, ed in un attimo tutta la piazza si fermò ed intraprese un nuovo ballo, ancora più frenetico. Gli uomini ballavano con altre donne e maschi in maniera confusa, scambiandosi i compagni di danza ad ogni passo; qualcuno si fermava, faceva salire dei bambini sulle proprie spalle e poi ripartiva, oppure si accostava a delle botti, grandi quanto delle viverne e sparse per la piazza, e trangugiava un liquido giallo e schiumoso dall’odore non proprio invitante.
Feste umane … sono sicuro che questo il Grande Satana non l’aveva previsto …
“Hadler, aiuto!”
Vide i capelli azzurrini di Hyunkel sparire nella massa, per poi riemergere a fatica, trascinato da due ragazze che lo avevano afferrato per le mani e stavano saltellando in cerchio, trascinate dal vorticare della gente. Una di loro, dai fluenti capelli neri, fissò quella che sembrava una collana di salsicce intorno al collo del giovane generale, poi lo lasciò ed il suo posto fu preso da un’altra ballerina di dimensioni minuscole, simili a quelle del trio che cantava sul tavolo.
Qualcuno prese alla sprovvista anche i suoi sensi demoniaci: una giovane donna sbucò alle sue spalle e gli agguantò un polso, proprio come era successo a Hyunkel. Per riflesso Hadler scansò il braccio, ma la figura resistette e riuscì a spintonarlo nella calca.
“Rilassati” disse lei, agitando i capelli rossi al vento “Davvero ti fa schifo ballare con me?”
Hadler non rispose, troppo intento ad evitare di inciampare sul suo mantello, sui propri piedi, sugli stivali della ragazza e su due creature basse e con la barba che saltellarono i mezzo alla calca brindando senza particolari ragioni. Non aveva mai capito perché gli umani ballassero in maniera così confusa e disordinata, del perché chiamassero musica quell’accozzo di suoni brevi, rapidi e formati da una totale confusione di strumenti.
Narratore: “Poveraccio, è abituato alle feste demoniache … che hanno più o meno la vivacità di un funerale umano, tanto per intenderci …”
Si accorse solo dopo che la sua compagna di ballo lo stava squadrando con attenzione, e a differenza delle fanciulle che avevano rapito Hyunkel, quella non sembrava intenzionata a lasciare la presa. Anzi, se possibile aveva aumentato la stretta intorno alle sue dita.
“Ci siamo già visti da qualche parte?” disse lei.
Hadler aveva sempre avuto diverse difficoltà a capire i canoni di scelta del partner tra gli esseri umani, sebbene Hyunkel avesse provato a spiegarglieli diverse volte; ricordava vagamente che i maschi umani trovavano attraenti le femmine che avevano quelle cose chiamate seni di grandi dimensioni, e dunque la ragazza che lo stava sballottando verso il centro doveva essere considerata molto interessante. E per quanto le donne umane si assomigliassero più o meno tutte, era pronto a scommettere uno dei suoi due cuori che non aveva mai visto una ragazza dai colori così particolari, i capelli rossi come la fiamma e gli occhi verdi quanto la propria pelle. Occhi che continuavano a scrutarlo in maniera alquanto sfacciata; sebbene non percepisse alcun potenziale magico nella sua ballerina, il suo corpo fu pervaso da una sensazione di freddo, come se qualcosa di diverso e sconosciuto lo stesse attraversando ed analizzando.
“Me ne ricorderei …” bofonchiò, sospettando che la sua interlocutrice attendesse una risposta. Guardò alla sua destra, e vide che Hyunkel non era molto lontano. Il suo sesto senso gli intimò di allontanarsi subito da quella donna prima che potesse accorgersi del suo camuffamento incantato.
“Mi dispiace, ma temo di essere un pessimo ballerino” disse, e le pestò il piede più forte che poté; la danzatrice dai capelli rossi per un attimo perse la stretta sul suo polso, e Hadler si gettò a capofitto verso un gruppo di ragazzi e ragazze che li stava superando. Afferrò le dita di una ed iniziò a saltellare e muoversi con lei finché non vide che la figura della donna misteriosa era scomparsa nella folla di festeggianti, poi improvvisò una piroetta e raggiunse Hyunkel, stavolta costretto a ondeggiare a ritmo di musica da due soldati palesemente ubriachi. Il suo compagno di disavventure aveva ancora al collo la collana di salsicce, ma aveva un’espressione ancora più stravolta di quando lo aveva visto affrontare in duello lo stesso Dai.
Arrancarono a fatica verso un vicolo laterale, poi accasciarono insieme contro una parete.
“Ora ho capito perché Killvearn non è voluto entrare …” mormorò Hyunkel, sorseggiando dell’acqua che scorreva da una piccola fontana incassata nel muro.
Il demone osservò la folla danzante alle loro spalle, cercando la donna che lo aveva inquietato “La nostra copertura è a rischio. La ragazza con cui ho ballato deve aver sospettato qualcosa”.
“Oh, e io che pensavo che l’avessi conquistata con la tua virile natura demoniaca!”
“Ma che schifo, è umana! Cioè, senza offesa nei tuoi confronti, però …”
“Tranquillo, niente offesa” rispose, sistemandosi il mantello ed incamminandosi verso la fine della strada. “Le donne umane sono lascive e prive d’onore come gli uomini. C’è una sola cosa che gli umani sanno fare meglio dei demoni … assaggia!”
Hadler prese al volo una delle salsicce, la fisso con un po’ di dubbio e la morse, più per dare retta al compagno che per desiderio di mangiare una pietanza di quella razza inferiore: eppure appena la mise in bocca fu avvolto dal miglior sapore che avesse mai provato in oltre trecento anni, quello di una carne cotta sia all’esterno che all’interno, con delle spezie che gli pervasero prima le narici e poi scesero fin nel profondo della gola. Aveva un sapore che ricordava vagamente qualche liquore demoniaco, ed una piacevole sensazione di calore sul palato che non nasceva dalla temperatura della carne, ma dagli strani condimenti con cui era stata preparata. Prima che potesse rendersene conto, aveva divorato quello che rimaneva della salsiccia. Hyunkel, che ormai odorava di carne cucinata, gliene lanciò un altro paio, poi si tuffò su una salita imprecisata.
Come potremmo trovare informazioni utili, in mezzo a questa confusione?
Ormai aveva perso l’orientamento: il loro piano di partenza prevedeva di raggiungere subito la parte più alta della città, dove solitamente stavano i governanti umani, ma in quella prospettiva il piano sembrava quasi impossibile quanto sfidare a duello Baran e il Grande Satana ed uscirne illeso.
Più salivano, e più la confusione aumentava. Si ritrovarono tra due ali di botteghe vocianti, dove i festeggianti si sporgevano ed offrivano qualcosa a tutti coloro che passavano, senza nemmeno chiedere del denaro in cambio: qualcosa atterrò tra le sue braccia, e l’ennesima creatura bassa e pelosa sollevò un boccale e gli disse qualcosa nella sua lingua gutturale. Hadler osservò la bianchissima forma di formaggio tra le sue mani e l’alzò verso la buffa creatura, e quello sollevò un’ascia persino più grande di lui, agitandola in segno di saluto.
I profumi di quel luogo erano incantevoli, l’odore di una morbida forma di pane sfornata alla sua sinistra cancellò per un attimo tutti gli altri miasmi umani e la accettò molto volentieri dalle mani del vecchio proprietario.
“Altro che pane demoniaco, eh?”
Hyunkel emerse dalla calca e gli passò un boccale di quel liquido schiumoso; il suo profumo era violento, simile a quello dei liquori demoniaci, ed aveva un colore indecifrabile, tra il giallo ed il marrone, che variava muovendo il polso “Dicono che sia ottima con le salsicce”
“Ragazzi, andateci piano con quella birra!”
Chi aveva parlato era un vecchio dagli occhi chiari e lo sguardo sereno, che si era fermato alle loro spalle e li osservava da sotto le falde di un enorme cappello grigio che doveva aver visto giorni migliori. Nonostante le sue spalle fossero curve per l’età, aveva un aspetto solido, e lo confermava anche una lunga spada che portava appesa alla cintura, protetta da un fodero consunto e coperta dalle pieghe di una vecchia tunica grigia. Aveva una barba che andava dal grigio chiaro al bianco intenso, simile a quella del Grande Satana ma molto più lunga e soprattutto molto, molto più disordinata. Con la punta del suo lungo bastone di legno picchiettò contro il vetro del boccale di Hyunkel. “È birra dei nani, e voi due avete tutta la faccia di chi non ne ha mai assaggiato nemmeno un goccio!”
Con un movimento anche troppo fluido per un vecchio della sua età, fece scivolare l’estremità del bastone al di sotto del manico del boccale, e quando le dita di Hyunkel si aprirono per bloccare il colpo, quello attirò a sé l’oggetto. Il boccale disegnò una leggera parabola e diversi schizzi di spuma caddero sulle loro teste, ma il vecchio lo afferrò al volo con la mano libera. Lo passò davanti ai loro occhi con lo stesso sorriso benevolo e poi ne trangugiò il contenuto tutto d’un fiato. “Nemmeno della migliore qualità … ed in effetti il modo migliore per gustare quel formaggio –suggerì, indicando con il boccale ormai vuoto il fagotto tra le mani di Hadler- è con del buon vino rosso del Decumano Sud. Se riuscite a trovare Samvise chiedetegli di esibirsi nella sua leggendaria fonduta!”
Il demone decise che forse quel vecchio chiacchierone poteva essere d’aiuto: “Stiamo cercando il palazzo reale, può indicarci la via? Ci siamo persi!”
“E perché dovete andare lì? Guardate che le piscine di birra sono state spostate nelle Case di Guarigione … ci è sembrato un gesto carino, così anche i malati potevano usufruirne senza dover raggiungere il palazzo!”
Il vecchio si sedette su una botte vuota, estrasse da una borsa lisa una pipa di legno, vi versò dentro alcun erbe prese da un bancone vicino e la accese con dovuta calma. Hadler si decise di ignorare quell’ennesimo pazzo umano, ma qualcosa nei suoi occhi chiari lo costrinse ad indugiare qualche secondo in più.
“Comunque, se cercate re Aragorn, vi consiglio di andare al campo della gara di sputi. Non dovrebbe essere difficile notarlo, visto che è l’unico umano a partecipare”. Espirò del fumo bianco, e le sottili spire si mossero nell’aria: passarono tra i capelli di Hadler e poi di quelli del suo compagno umano, e quando si sollevarono in aria il demone si accorse che il fumo aveva la forma di un cavaliere su un destriero, ma nessun incantesimo ne guidava i movimenti. “E comunque se pensate di unirvi all’Alleanza Ribelle potete sempre chiedere a me!”
“Cosa le fa pensare che siamo qui per unirci a voi?”
“Beh, si vede che non siete di qui! E non siete nemmeno spie imperiali, quelle le conosciamo già tutte, anche se loro non lo sanno … E se aveste avuto cattive intenzioni non stareste certo a chiacchierare con un vecchio stregone logorroico, giusto?”
Hadler rimase spiazzato.
“Se poi volete un altro buon consiglio … credo che il posto migliore per ammirare i fuochi d’artificio non sia nel giardino dell’albero bianco, come credono in tanti. Se fossi in voi salirei sulla tettoia delle stalle reali, per stasera Eomer lascia i cancelli aperti. C’è molta meno gente, e con un po’ di paglia per sdraiarsi non c’è modo più comodo di osservare i fuochi, altro che starsene in piedi per un paio d’ore!”
“Non siamo interessati, vecchio” disse Hyunkel, più ad alta voce del solito.
“Oh, non si sa mai!” gli rispose l’altro, come se non fosse successo nulla “Potreste scoprire che in una piccola scintilla nel cuore della notte c’è più vita che nel fuoco che arde una foresta. Qualunque siano i vostri affari, sono sicuro che uno spettacolo pirotecnico potrà regalarvi molte cose!”
L’uomo ripose la pipa in una bisaccia, le volute di fumo seguirono il movimento della sua mano ed entrarono nel piccolo sacco; se lo assicurò alla cintura cadente e poi si levò il grande cappello dalla testa in segno di saluto. Diede loro le spalle e svanì tra la folla, e Hadler fu pronto a scommettere che stesse fischiettando.
“Il tuo istinto demoniaco ha qualche idea migliore oltre a quella di girare a caso in questa città di pazzi?”
“Assolutamente no. Andiamo avanti”.



Su una cosa il vecchio umano aveva avuto ragione: i fuochi artificiali erano davvero stupendi.
Avevano trascorso il pomeriggio tra le vie di quella città gigantesca, rischiando di essere travolti in balli, canti o in strane gare dove la gente si rotolava nel fango o si sfidava nel salire su un palo unto per raggiungere del cibo appeso in cima. A parte delle chiacchiere vuote e dei pettegolezzi irrilevanti riguardo all’Imperatore Palpatine, non avevano trovato nulla di interessante da riportare al Grande Satana.
Come facessero quegli umani disorganizzati ad essere una minaccia per l’Impero Galattico, lo sapeva solo la Madre Drago.
Non sapevano nemmeno loro come erano giunti fin lì, ma si erano ritrovati, stanchi ed abbattuti, proprie sulla tettoia di una grande stalla, con le mani piene di cibo profumato ma nulla di concreto dal punto di vista delle informazioni. Fu nel momento in cui si accasciarono sulla paglia che lo spettacolo iniziò.
Da quello che avevano sentito, i fuochi d’artificio erano opera di un umano chiamato Gandalf: Hadler non riusciva a percepire alcuna traccia d’incantesimo, eppure quelle piccole meraviglie venivano proiettate in cielo creando effetti particolari di piogge incandescenti e razzi multicolori. Nel loro mondo sapeva che gli esseri umani potevano creare spettacoli simili, ne aveva persino visto uno, ma non era nulla di paragonabile allo splendore che scintillava sopra le loro teste; presso la famiglia demoniaca, in onore di grandi festività, giovani demoni guizzavano in alto, sopra le nuvole, e coordinavano i loro incantesimi di tutti gli elementi per dipingere e narrare le grandi battaglie in cielo, oppure si esibivano in danze precise tra i canti di uccelli e viverne ammaestrate.
Lì non c’era alcuna magia in quel cielo illuminato a giorno: colonne di fuoco colorato si innalzavano dal nulla, diventando nani, elfi ed aquile; una girandola partì da una torre, e si trasformò in una parata di uomini a cavallo che venne trasportata dal vento tra le grida degli spettatori.
Piccoli lampi azzurri parvero cadere dall’alto, e quando raggiunsero la torre più alta di Minas Tirith si trasformarono in cigni che volarono giù, fin quasi a sfiorare gli spettatori: esplosero in un tripudio di scintille e tutti applaudirono, soprattutto i bambini. Piccoli fuochi verdi sbocciarono in aria, disegnando alberi e fiori, e strane figure esili si mossero facendo capolino tra i cespugli luminosi, mentre boccioli di fiori pervinca si dileguavano in sprizzi soavi. Entrambi trasalirono quando tutte le luci del cielo convogliarono in un unico punto, si tinsero di scarlatto e disegnarono un vulcano enorme, la cui sommità si perdeva oltre la loro vista e che aveva come sbuffi di fumo le nuvole stesse; fu accompagnato da un boato, decine di tamburi di accompagnamento suonarono all’unisono, facendo tremare i tetti mentre il vulcano eruttava scintille sulle loro teste.
Hadler immaginò che l’espressione meravigliata sul viso del suo compagno fosse dipinta nei suoi stessi occhi.
Da una piazza del terzo cerchio, molto più in basso, un gran numero di petardi, castagnole e fiaccole si alzò, accompagnando un razzo gigantesco, color oro, che saettò a poche braccia dal tetto della stalla: tutta la folla ebbe occhi solo per quella lunga forma, che partì tra mille bagliori diretta alla sagoma del vulcano. Quando la raggiunse, la montagna vomitò fiamme verdi e scarlatte, ed il razzo esplose: ile piccole scintille che lo avevano accompagnato nel percorso disegnarono dei ghirigori color della fiamma, e l’intero fuoco d’artificio disegnò la forma di un anello gigantesco, con le venature rosse che scivolarono sulla sua superficie. Si mosse da solo in cielo, come se una mano lo avesse scherzosamente lanciato in aria; tutti trattennero il fiato, e quando l’anello raggiunse la bocca del vulcano tutto tuonò, accompagnato da una gigantesca grancassa, e l’immagine variopinta terminò con uno scoppio di luci accecanti che illuminò la città bianca ed il corso del fiume.
Hyunkel applaudì, entusiasta, e Hadler lo imitò. La folla sotto di loro si profuse in grida di gioia, poi qualcuno accese delle fiaccole e ricominciò la musica.
“Impressionante, non è vero?” disse il suo compagno, accomodandosi sul bordo del tetto. Il demone osservò le migliaia di persone riversate nella piazza. “Una bella esibizione, non c’è che dire. Ma dubito che il Grande Satana sarà interessato alla bravura di questi umani nel creare i fuochi d’artificio”.
“Pensi dovremmo rimanere qui qualche altro giorno? Abbiamo un attacco da condurre ..”
“Lo credo anche io, solo che mi dispiace non aver trovato nulla di ut …”
Le sue parole furono interrotte dalla luce che venne proiettata su uno strano oggetto che gli umani chiamavano schermo: era un oggetto di forma quadrata, grande quasi quanto il muro di una casa, ed era stato sempre spento e silenzioso per tutta la durata della festa, tanto che nessuno dei due vi aveva prestato molta attenzione. Quando comparve il viso di un uomo anziano, tutta l’atmosfera della festa cessò: uomini, donne e bambini smisero di ballare, e gli sguardi di tutti andarono alla figura vestita di nero, con una sottile catenella d’argento che fermava i due lati del mantello.
“Ma è Dooku!” fece una voce dal basso.
“Amati cittadini imperiali!” esordì l’uomo nello schermo. Tutto, dai suoi movimenti alla voce, ricordava al demone gli atteggiamenti dei nobili umani del suo mondo “So bene che la vostra giornata è frenetica e che tutti voi, su qualsiasi pianeta vi troviate, state lavorando al massimo per la vostra gloria, della vostra famiglia e del nostro Imperatore, ma se vi chiedo qualche secondo di attenzione è per comunicarvi qualcosa di importante da una gentile stazione di ologiornale”.
Una delle piccole creature barbute mandò un rumore –ed un odore- poco piacevole dal suo didietro: “A fare questi annunci ci mandano sempre quel damerino …”
“Qualcuno osa turbare la quiete dell’Impero. Creature immonde, provenienti da un lontano pianeta, hanno dichiarato guerra al nostro sovrano per impadronirsi delle ricchezze, della civiltà, della tecnologia e di quanto c’è di bello nel nostro Impero. Esseri bruti ed incivili chiamati demoni, un popolo bellicoso che ha minacciato di seminare attacchi terroristici nei nostri pianeti!”
A quelle parole Hadler trasalì.
“Vengono per rubare e saccheggiare, per scardinare le fondamenta della nostra solida società, alla stregua dell’Alleanza Ribelle. Un popolo di predoni pronti ad uccidere senza pietà, privi di qualsiasi rispetto verso la popolazione civile”.
È davvero questo ciò che dicono di noi?
Sentì la mano di Hyunkel stringergli il polso, e si accorse che aveva appena evocato un cristallo di ghiaccio nero per puro riflesso, come per scagliarlo verso la faccia sorridente che li osservava dall’altra parte dello schermo, con gli occhi scuri seri. Il conte sollevò una mano, come a calmare un pubblico immaginario. “Comunque non avete nulla da temere. L’Imperatore Palpatine e tutti noi Signori Oscuri stiamo apportando delle difese in ogni mondo, anche nei pianeti della cintura periferica. Abbiamo raddoppiato le pattuglie cittadine diurne e notturne, e tutte le unità di stanza ci hanno comunicato che gli scudi planetari e le astronavi sono state potenziate, controllate e messe a pieno regime, pronte a risolvere qualsiasi vostro problema. Per qualsiasi informazione non esitate a comunicare con il più vicino centro di assaltatori, e vi chiediamo gentilmente di attenervi a tutte le norme di evacuazione qualora ve ne fosse necessità. Non permetteremo a quei bruti razziatori di sfiorare un solo capello alla nostra gente, perché il nostro obiettivo è quello di concedere a tutti i cittadini dell’Impero Galattico dei sonni tranquilli. Vi saranno dei disagi, ma l’Imperatore Palpatine ha bisogno della vostra collaborazione e del vostro supporto”.
Dal basso partirono dei fischi.
“L’Impero Galattico è sempre al servizio dei suoi cittadini” concluse l’uomo con un sorriso falso. Lo schermo in pochi attimi tornò silenzioso.
La gente nella piazza iniziò a mormorare, ed il clima di danza e festa sparì. La parola demoni passò di bocca in bocca, e diversi sguardi interrogativi si disegnarono sui visi.
Hadler sentì i suoi cuori battere con energia centuplicata: “Bruti razziatori, eh …”
“Gli umani sono maestri nel nascondere la verità, amico mio. Se cercavi un esempio … lo hai trovato! È evidente che vuole preparare la sua gente al nostro assalto, anche se non ha il coraggio di raccontare il vero motivo dietro al suo attacco”.
“Oh, io invece sarei proprio curiosa di saperlo!”
Hadler si voltò di scatto a quella voce. L’istinto e la magia innata gli dissero di volare, ma appena i suoi piedi si staccarono dalla paglia vide un fascio di luce rossa puntare verso di lui ed arrestarsi all’altezza del suo petto. Nonostante il vestito nero che la confondeva nel buio della sera, riconobbe subito i capelli color della fiamma e gli occhi verdi della donna che aveva ballato con lui quel pomeriggio. Lo strano raggio rosso partiva da qualcosa nelle sue mani, accompagnato da una strana vibrazione nell’aria. Non aveva mai visto una cosa simile, soprattutto non percepiva la minima traccia di magia.
Alla sua destra vide Hyunkel estrarre l’arma per caricare la nuova arrivata, ma l’attimo dopo non una, non due, ma oltre una dozzina di quegli strani raggi di luce si accesero intorno a loro, nelle mani di altrettante figure. Non si erano affatto accorti del loro arrivo, e adesso quella moltitudine di oggetti verdi e azzurri li circondò; gli umani li impugnavano come se fossero spade, ma quella rossa che impugnava la donna emanava un forte calore. Imprecò tra sé. Avrebbe potuto scagliarli lontano con un incantesimo, ma non aveva idea di cosa fossero quei raggi, e non aveva intenzione di far precipitare la situazione prima del dovuto.
Anche perché qualcosa, una forza esterna di cui non riuscì a capire l’origine, lo spinse di nuovo contro il basso vincendo il suo incantesimo di levitazione; anche Hyunkel lo notò, e non riuscì a mascherare la sua espressione allarmata.
“Se non vi dispiace, signori, l’Alleanza Ribelle avrebbe qualche domanda da farvi”.



Se c’era una cosa che Hadler detestava più di Killvearn e dell’essere al centro dell’attenzione, era essere al centro dell’attenzione di una marea di esseri umani. Le persone, che fino a qualche attimo prima stavano festeggiando sotto i fuochi d’artificio, avevano gli occhi puntati su loro due, e non solo: nella foresta di teste riusciva a scorgere anche creature strane, di razze che non aveva mai visto, e soprattutto decine di quegli esseri piccoli e con la barba che agitavano le asce nella sua direzione.
Nessuno aveva legato loro le mani, né erano giunti dei maghi per avvolgerli con incantesimi-sigillo. Avevano seguito la donna dai capelli rossi, che tutti chiamavano Mara, verso un punto rialzato della piazza, sopra un palco coperto da un telo rosso che era stato eretto contro una delle mura del palazzo reale; erano stati portati in quel punto dal semplice pressare della folla. Per lo spavento aveva lasciato cadere il muro di incantesimi e la sua pelle era tornata del colore originale, ed a quel punto decine di persone si sporsero per guardarlo, persino delle donne rugose affacciate alle finestre.
Hyunkel si era chiuso nel suo silenzio, e si limitava a gettare sguardi di disapprovazione verso i curiosi che cercavano di vedere più da vicino la sua spada.
La donna che li aspettava sul palco era molto giovane, ma il suo sguardo severo colpì il demone prima ancora di giungervi davanti. I suoi capelli erano acconciati in modo bizzarro, come due grandi volute castane che avvolgevano i contorni della testa come una sontuosa corona; qualcosa, nel suo aspetto, ricordava alcune delle regine degli esseri umani del suo mondo, ma nessun gioiello o manto regale decorava il corpo della donna, arricchito soltanto dai lineamenti duri.
Fece un passo avanti, e nonostante la sua testa gli arrivasse a metà del petto lo squadrò come di solito il Grande Satana li osservava prima di un sonoro rimprovero. La cosa lo innervosì.
“Sei davvero certa che siano demoni, Mara?”
“Leia, certe volte il tuo spirito di osservazione mi lascia a bocca aperta … Questo qui –disse, indicando Hyunkel- è più umano di me e te, ma quest’altro spilungone parla da sé. Durante il mio viaggio al Castello dell’Oblio sono entrata in una delle Stanze della Memoria, ed ho visto chiaramente questo demone far parte della corte del Grande Satana. So che erano ricordi alterati, ma sono certa che sia uno dei capi militari dell’esercito demoniaco”.
Ma di cosa sta parlando?
“Sono quasi sicura che vengano dallo stesso mondo da cui proviene Mistobaan!”
A quelle parole Hyunkel si voltò verso le due donne. “Cosa sapete di Mistobaan?”
“Mistobaan è l’attuale Braccio Destro dell’Imperatore Palpatine –gli rispose la donna dal lungo abito bianco, apostrofandolo con un tono di voce che non prometteva nulla di buono- ed uno dei migliori acquisti dell’Imperatore negli ultimi anni. Quindi ammettete di provenire dalla famiglia demoniaca e di essere spie del Grande Satana?”
“Tanto ormai la frittata è fatta …” bofonchiò il demone. Cercò sicurezza nel richiamare le energie del fuoco e del fulmine nelle sue braccia, ma la stessa sensazione di immobilità di prima lo costrinse a rimanere immobile, come se i suoi polsi fossero bloccati da dei fili invisibili. “Sì, il nostro sovrano è il Grande Satana Baan, e Mistobaan è il nostro Braccio Destro”.
“Ripigliatevelo!” gridò qualcuno dalla folla.
“Non abbiamo intenzioni ostili” …per ora … “La famiglia demoniaca ha subito un grave torto dall’Imperatore Palpatine, ed il nostro sovrano è stato fin troppo generoso a concedergli un ultimatum e tre giorni di preavviso prima della battaglia. Abbiamo sentito il comunicato di quel conte Dooku, e vi possiamo assicurare che dei vostri bei mondi tecnologici non ci interessa nulla; vogliamo soltanto riavere Mistobaan e dare a quel maledetto umano –calcò volutamente la parola- la lezione che si merita. Ha già attaccato a tradimento violando i tre giorni di preparazione che il Grande Satana gli aveva concesso!”
“Chissà perché, ma me lo immaginavo …” disse la donna. Era incredibile vedere come gli esseri umani non si meravigliassero affatto delle malefatte dei loro simili; se un altro demone avesse violato i termini di guerra in quel modo spregiudicato, Hadler e tutti gli altri demoni non lo avrebbero più considerato come uno di loro.
Un vociare alle sue spalle, e la folla fece ala a due uomini, che salirono sul palco e si portarono al fianco di quella Leia; a sorpresa Hadler riconobbe il buffo vecchio con il cappello che avevano incontrato quel pomeriggio, che strizzò loro lo sguardo con quell’invadente ed irritante complicità umana che faceva venire il voltastomaco persino al ramo animale della famiglia demoniaca. L’altro era un uomo maturo, alto, che non gli sembrava di aver mai visto prima: aveva i capelli bruni totalmente in disordine, ed i suoi vestiti sembravano essere stati usati da delle viverne per farvi un nido. “Scusa, Leia, non hai idea di quanto ci abbiamo messo per salire dal terzo livello fino a qui …”
“L’idea me la sono fatta eccome, Aragorn. Piuttosto, cosa ne facciamo di questi due intrusi?”
Il vecchio prese la parola, con un’espressione allegra: “Beh, continuiamo la festa con loro, è ovvio! E comunque avete fatto bene a salire sulle stalle, per una volta che qualcuno ascolta i miei consigli …”
“GANDALF, TU SAPEVI CHE C’ERANO DELLE SPIE DEL GRANDE SATANA E NON MI HAI AVVERTITA?”
“Suvvia, Leia, non scaldarti. Sono venuti a spiarci, non a distruggerci” fece lo stregone, e l’uomo chiamato Aragorn scosse la testa con cenno affermativo “Se dovessimo interrompere tutte le feste per ogni spia imperiale che troviamo nel palazzo, non festeggeremmo più! E poi non avevo davvero idea che venissero da parte di questo Grande Satana, lo giuro!”
Non giustiziano delle spie che ficcano il naso nella loro capitale? Sono pazzi?
Narratore: “No, Hadler, sono Ribelli …”
La donna però doveva pensarla come lui, perché con un gesto zittì l’uomo con la barba, lo superò e si piantò di nuovo in mezzo a loro: “Esattamente cosa cercavate?”
“Bella domanda!” le disse Hyunkel “Forse un aiuto combattere questo nemico che abbiamo in comune. Sappiamo che riuscite a tenergli testa da anni, dovete per forza sapere qualcosa su di loro che noi ignoriamo. Altrimenti non vedo come una massa di umani sprovveduti e festanti come voi potrebbe far fronte alle sue astronavi ed alle diavolerie metalliche che queste vomitano”.
“Avete bisogno di un aiuto per proteggere i vostri civili?” disse il vecchio, come se non avesse sentito nemmeno una parola del suo discorso “L’Impero non fa distinzione tra gente armata e non, ma se ci aiutate a raggiungere la vostra dimensione vi faremo arrivare i migliori guaritori nani ed elfici di tutta la Terra II!”
“AL DIAVOLO GLI ESSERI UMANI! Non è la difesa il nostro problema, è una questione di attacco!”
Quella frase frenò lo slancio oratorio delle tre persone sul palco, che per la prima volta persero la loro espressione sorridente. Era ora. L’opinione di quella massa di buffoni non aveva alcun valore.
“Se non volete aiutarci ce andremo per la nostra strada”.
“Forse potremmo trovare un accordo” sentenziò quell’Aragorn “Il Grande Satana potrebbe scoprire che ci sono diversi vantaggi nell’unirsi all’Alleanza Ribelle”.
Allearsi?
Con gli umani?
Il Grande Satana?

“L’Alleanza Ribelle accoglie tantissimi persone che, proprio come voi, hanno subito un torto (di solito anche più di uno) dall’Imperatore. Non vi preoccupate, il fatto che siate demoni non è certo un problema, o almeno non quanto quello che ci ha creato due sere fa una divisione di Gungan ubriachi”
Il Grande Satana … allearsi con gli umani?
Come chiedere a Baran di scendere a patti con un insetto …

“E se volete potete anche alloggiare qui a Minas Tirith. Siamo un po’ strettini, ma sono sicuro che qualche posto si troverà, come no! Il nostro primo obiettivo è difendere la popolazione indifesa, perciò se siete sotto bombardamento (e se stiamo parlando di papà Impe di sicuro lo sarete) potete sempre inviarci i vostri civili, ho dato ordine che le pianure di Rohan siano sempre tenute libere in caso di necessità. E se gli servirà una mano nessuno di noi si tirerà indietro; prendere a calci nel sedere l’Imperatore ed i Signori Oscuri è il nostro lavoro”.
Forse questi umani non hanno capito il problema …
Il vecchio sorrise loro, mentre la folla già iniziava ad applaudire: “L’avevo detto che saremmo diventati amici, noi e voi”
Sì, decisamente non hanno capito.
Di solito non ho l’autorità per parlare per bocca del Grande Satana, ma stavolta credo di poter dare subito la risposta corretta. “Rifiutiamo”.
Il suo compagno gli fece un gesto di assenso e Hadler continuò, sotto lo sguardo incuriosito dei tre: “Il Grande Satana non ha alcuna intenzione di allearsi con gli umani. Né voi né altri. Sarete anche i nemici naturali dell’Impero Galattico, ma non per questo sentiamo la necessità di consideravi nostri pari in battaglia o altrove. Nessun demone è mai stato debitore di un essere umano, e mai lo sarà; un’alleanza con voi è totalmente fuori discussione!”
La gente che aveva ripreso in mano i boccali di birra per festeggiare si fermò a mezz’aria. Hadler credette di aver parlato piuttosto a bassa voce, eppure sembrava che tutta la gente nella piazza avesse sentito le sue parole e ne fosse dispiaciuta. Se gli umani avevano sfiorato anche solo per un attimo l’idea che un sovrano demoniaco stringesse le loro putride mani, disilluderli era la cosa più onesta che potesse fare. Nel silenzio generale, il vecchio Gandalf fu il primo a riprendersi.
“Pazienza! Non possiamo pretendere che tutti capiscano il vero spirito dell’Alleanza al primo impatto! Anche se mi piacerebbe discuterne personalmente con il vostro Grande Satana!”
“Credo che ciò non sarà proprio possibile”
“Tentar non nuoce –disse il re Aragorn- e se fossi in voi non parlerei troppo per assoluti. Che vi piaccia o meno, l’Imperatore vi ha presi di mira: siamo sulla stessa barca, solo che in questo momento le bocche fameliche dei Signori Oscuri sono rivolte nella vostra direzione”.
Fece un cenno verso la piazza, e si fecero strada un ragazzo ed una ragazza in abiti bianchi che trasportarono fino al centro del palco due contenitori metallici; un profumo meraviglioso usciva dalla carta avvolgente, un aroma che cancellò persino il piacevole sapore delle salsicce che ancora gli rimaneva sul palato. Quando uno dei nuovi arrivati sollevò la copertura, il demone vide un misto di carne mescolata ad una strana salsa rossa, ma non riusciva a capire di quale strano alimento si trattasse; a Hyunkel fu dato il secondo contenitore, e la sua espressione fu altrettanto meravigliata. “Questa la chiamiamo lasagna dell’amicizia” disse il sovrano, rispondendo alla sua silenziosa domanda “Un gentile omaggio di tutta la Terra II al vostro signore. Mi raccomando, ditegli di mangiarla calda, altrimenti perde almeno metà del sapore! E se poi volesse allearsi con noi … beh, sapete dove stiamo. Ed organizzeremo anche una grandiosa festa di benvenuto!”
Hadler perse qualsiasi forza di rispondere a quegli umani insensati. Le loro voci continuarono a rimbombargli nella testa finché lui ed il suo amico non vennero cordialmente accompagnati all’uscita, salutati dal popolo che faceva loro ala e con quei due contenitori di cibo così grandi che occupavano tutte le mani disponibili. Nessuno li seguì oltre il portone né li spiò, e pochi minuti più tardi sentì che le grida di festa e la musica erano ricominciate, persino più assordanti di prima.
Lui e Hyunkel si sedettero sotto un albero, ed attesero guardando quelle stelle nuove l’arrivo di Killvearn.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Cieli di fuoco ***


Capitolo 5 - Cieli di fuoco




Aragorn e Gandalf





Ho amato Aragorn dal primo momento che l'ho visto, quel giorno di tanti anni fa nei giardini di Gran Burrone.
Tanti ostacoli ci hanno divisi – l'ostilità di mio padre, le differenze tra i nostri due popoli, la Guerra dell'Anello e la minaccia dell'Oscuro Signore Sauron – ma il tempo e le lunghe separazioni non hanno fatto che rafforzare giorno per giorno il nostro amore. Quando l'ho sposato è stato il momento più bello della mia vita. Ho pensato che sarebbe stato mio per sempre, e che nessuno avrebbe più potuto portarmelo via.
Poi è arrivato l'Imperatore ed è scoppiata un'altra guerra, ancora più lunga e logorante. E il mio Aragorn, che ha il cuore grande come la Galassia, non si è tirato indietro. Non sopporta le ingiustizie e vuole sempre combattere in prima linea, senza mai negare il suo aiuto a nessuno.
Ha salvato tante persone e liberato molti popoli, ma ogni volta che parte il mio cuore è in pena per lui. Nelle mie lunghe notti da sola prego i Valar che lo proteggano e lo facciano tornare sano e salvo da me. Forse sono egoista, ma a volte mi ritrovo a sperare che lasci perdere tutto e rimanga al sicuro al mio fianco.
Ma non lo farà mai, lo so. E' anche per questo che lo amo.
Dai diari di Arwen figlia di Elrond, regina della Terra II.




Solitamente Axel si sentiva a suo agio tra le fiamme, ma quella volta era diverso.
Il bosco, fino a un quarto d'ora prima rigoglioso e verdeggiante, era completamente ridotto in cenere. Piccoli incendi divampavano ancora qua e là, e resti carbonizzati di tronchi e arbusti si polverizzavano con un ultimo sussulto sotto i loro stivali. Nessun uccello cantava; il silenzio era assordante nella foresta morta.
Le grosse navi triangolari avevano sgombrato il cielo come nubi dopo una tempesta.
Una tempesta di fuoco, in quel caso. Ma non un fuoco normale e benefico; quando la superficie dei mostri di metallo si era illuminata di decine di punti rossi e verdi un campanello d'allarme era subito squillato nella testa di Axel. Quel fuoco era diverso da qualsiasi altro, alieno alla sua natura: i raggi multicolori vomitati dai colossi in cielo emanavano un calore maligno, crudele, ne poteva sentirne sulla pelle la promessa di distruzione.
Avevano corso come disperati sotto quella pioggia mortale, e se non avessero trovato subito la caverna probabilmente avrebbero fatto la stessa fine degli alberi del bosco. Protetti dalla solida volta di pietra avevano passato minuti lunghissimi ad ascoltare terrorizzati il caos che imperversava fuori, il rombo assordante delle armi misteriose, lo sfrigolio orribile degli alberi carbonizzati, le strida di paura e agonia degli animali del bosco. Persino l'impeccabile Marluxia si era accovacciato a terra con le mani premute sulle orecchie, tremando come una foglia.
“Ragazzi... che... che cazzo era?!”
La voce spezzata e tremante di Axel echeggiò per un attimo nella landa silenziosa e si spense senza che nessuno degli altri rispondesse. Il solo fatto che Larxen non sfoderasse uno dei suoi soliti commenti fuori luogo bastava a dare un'idea di quanto la paura fosse ancora una presenza tangibile tra di loro. Si aveva la sensazione che una parola troppo forte potesse richiamare di nuovo i mostri di metallo, invitandoli ad annientare gli ultimi superstiti di quel cimitero di alberi carbonizzati.
Axel fece scorrere lo sguardo lungo l'orizzonte, in cerca di segni di vita. Quando il bombardamento li aveva sorpresi erano diretti verso la vicina cittadina di Donau per vendere alcuni gioielli rubati, ma le cime degli alberi ancora non permettevano di avvistare la loro destinazione. Ora che gli alberi non esistevano più Axel aguzzò lo sguardo in direzione sud, dove le torri di guardia della piccola città fortificata avrebbero già dovuto essere visibili.
Ma non importava quanto sforzasse la vista, nessuna torre appariva contro l'orizzonte. Solo un filo di fumo scuro si innalzava placidamente verso il cielo, e già iniziava a disperdersi nella brezza della sera.
“Donau è stata distrutta.” anche la voce di Marluxia tremava, e la cenere che gli si era posata sui capelli e incollata alla pelle lo faceva sembrare ancora più derelitto. “Meglio se torniamo indietro...”.
Axel provò una fitta di tristezza. Donau era una cittadina come tante altre, ma la taverna del Maiale Arrosto era sempre calda e vivace, e poi c'era Jehanne, una prostituta dagli splendidi occhi viola che aveva un debole per lui e ogni tanto gli faceva fare un giro gratis... aveva sempre pensato che avrebbe affidato a lei Roxas per la sua prima volta...
Roxas. Come ogni volta il suo ricordo portò con sé una scarica glaciale che gli attraversò dolorosamente la testa, seguita da immagini di fuoco e fiamme e dall'odore raccapricciante di carne carbonizzata.
Roxas non esisteva più, incenerito e disperso dal vento come l'intera città di Donau. Il Maiale Arrosto non avrebbe più accolto nessun viandante intorno ai suoi tavoli da gioco, e gli occhi viola di Jehanne non si sarebbero più illuminati di felicità nel vederlo entrare dopo una lunga giornata di furti e fughe.
Inutile piangere su un passato che non poteva tornare. Meglio cercare di trarne qualche vantaggio, a quel punto.
“No.” disse, e Marluxia, che già aveva voltato le spalle alle rovine di Donau, si girò a guardarlo con aria interrogativa. “Andiamo lo stesso a Donau.”
“Sei scemo o cieco Axel?” lo aggredì Larxen. “O uno di quei raggi verdi ti ha fritto il poco cervello che avevi?”
“Mettiamola così” replicò lui “Rubare ai morti è più facile che rubare ai vivi. Qualcosa di prezioso sarà sopravvissuto tra le macerie, e non c'è nessuno a impedirci di prenderlo.”
Dall'espressione di Marluxia era palese che l'idea non gli piaceva. Il numero XI teneva le labbra serrate, e di certo sotto la sua fronte aggrottata si stava combattendo l'ennesima battaglia tra orgoglio e necessità. Axel sapeva già come si sarebbe conclusa: alla fine, la necessità vinceva sempre.
“Suvvia Marly, ti sei abbassato a fare il ladro, cosa sarà mai un po' di sano sciacallaggio adesso?”
Marluxia gli lanciò un'occhiata gelida, ma quando infine parlò fu per dargli ragione: “Qualsiasi cosa fossero quelle... navi... di certo non torneranno dove hanno già distrutto. Per il momento saremo al sicuro a Donau.”
“Proprio così” fece Axel con un sorriso, simulando una sicurezza che non provava, e si avviò per primo in direzione della cittadina distrutta. “Secondo voi erano i demoni?” chiese dopo un po'.
“No” rispose subito Marluxia. “Quei raggi non erano di natura magica, lo avrete percepito anche voi.”
“E allora che... ?”
“Non lo so” tagliò corto il numero XI. “Ma qualsiasi cosa sia è molto meglio per noi restarne il più lontano possibile.
Nemmeno Larxen ebbe da obiettare.



Far saltare il vulcano Gorbel era la parte facile del piano, per questo l'Imperatore l'aveva assegnata senza esitazioni al conte Dooku.
Per la parte difficile, come al solito, aveva scelto Tarkin.
A bordo della sua nave ammiraglia, il Basilisk, il governatore osservava sullo schermo di rilevamento il punto rosso che indicava il Baan Palace. Al momento era immobile, e la flotta vi si avvicinava a ritmo serrato. Presto lo avrebbero avvistato anche a occhio nudo dal ponte di prua.
Localizzare la sua posizione non era stato difficile grazie al fiuto del ragazzino dell'Organizzazione, che subito dopo era tornato a Coruscant insieme a Mistobaan e Dooku. Loro avevano aperto le danze, ma adesso dovevano lasciare il campo ai veri professionisti. Mistobaan poteva essere il Braccio Destro dell'Imperatore e darsi tutte le arie che voleva, ma la verità era che di strategie di battaglia non capiva un'acca.
Chi si affida troppo alla magia disimpara a usare il cervello.
“Viceammiraglio Kratas, ci sono comunicazioni dalla squadra Delta?”
“Stanno bombardando un complesso minerario nel quadrante gamma-5, signore. Per il momento non hanno incontrato resistenza.”
“Molto bene.”
Il compito della squadra Delta era bombardare centri abitati e fonti di risorse per fare terra bruciata intorno ai demoni; Tarkin invece, al comando del grosso della flotta di circa una quindicina di navi, aveva l'ordine di ingaggiare battaglia direttamente con le forze del Baan Palace. Se fossero riusciti a far saltare in aria la principale fortezza nemica la guerra sarebbe finita in un batter d'occhio e senza troppe perdite.
Tre giorni, aveva detto Tarkin all'Imperatore quando il Grande Satana aveva presentato la sua dichiarazione di guerra. Tre giorni per abbattere le difese del nemico e conquistare quel patetico pianetucolo primitivo. Non aveva dubbi che ci sarebbero riusciti, ma non per questo intendeva caricare a testa bassa senza valutare le conseguenze. Quei demoni erano un popolo arretrato e primitivo, ma se avevano dichiarato guerra all'Impero dovevano avere qualche asso nella manica.
E poi c'è la loro magia, che noi conosciamo poco. Un nemico che non si conosce è sempre un nemico pericoloso.
“Detto tra noi, Maul... “ Tarkin si voltò verso l'iridoniano, che si era offerto di accompagnarlo in missione. “Fosse per me riconsegnerei Mistobaan ai demoni con tanto di fiocco e biglietto di auguri. Che se lo tenessero.”
“I nostri timpani ne gioirebbero” convenne Maul.
“Stiamo entrando in guerra solo e soltanto per lui.” Tarkin gettò un'occhiata disgustata alle distese di campi e boschi che la flotta stava sorvolando in quel momento. “Questo mondo è insulso, non ha risorse che ci interessino. Uno spreco di forze, tempo ed energie.”
Mistobaan non era amato tra i Signori Oscuri. Tarkin stesso aveva avuto l'idea di consegnarlo all'Imperatore, ben conscio del desiderio di Palpatine di aumentare le sue schiere di servitori magici; ma mai e poi mai avrebbe immaginato che il demone incappucciato sarebbe stato elevato al ruolo di Braccio Destro, superando per importanza tutti gli altri Signori Oscuri. Dover prendere ordini dall'ultimo arrivato, da una creatura aliena con il cervello riprogrammato, era irritante oltre che un'umiliazione.
“E' sempre la solita storia del Dono, Tarkin. Mistobaan è utile e tutto, ma alla fine un buon rimpiazzo da qualche parte si trova sempre. C'è sempre Kaspar con il lavaggio del cervello che dopotutto è un buon mago. Ma evidentemente Mistobaan ha qualcosa che gli altri non hanno, altrimenti papà Impe non combatterebbe mai una guerra per lui.”
“Il Dono.”
Era un discorso che avevano già fatto tante altre volte, persino con Saruman e Dooku. La chiave del segreto di Mistobaan doveva essere quel “Dono dell'Imperatore Palpatine” - o più probabilmente del Grande Satana Baan - che il Braccio Destro nominava sempre. Un segreto che solo Mistobaan e l'Imperatore conoscevano.
“Già. Darei la mia maglia da collezione di Maradona per sapere cos'è.”
Il suono improvviso di una sirena d'allarme li distolse dalla conversazione. Tarkin spostò rapidamente lo sguardo dagli schermi alla parete di transparacciaio della plancia di comando, ma il Baan Palace non era ancora entrato nel loro campo visivo.
“Oggetti volanti non identificati in avvicinamento a cinquanta chilometri da qui!” gracchiò la voce di un altoparlante.
Dal nulla sugli schermi di rilevamento apparvero miriadi di puntini gialli, disposti tutti intorno alla flotta. Il Basilisk e gli altri Star Destroyer stavano per essere circondati.
“Cosa diamine... ?”
“Sono esseri viventi!” Maul era teso e concentrato per cogliere ogni fremito del Lato Oscuro. “Hanno preso il volo da terra!”
Lo schermo ora era costellato da puntini gialli, che aumentavano di secondo in secondo fino a diventare indistinguibili e fondersi in una chiazza uniforme che minacciava di inghiottire tutto ciò che aveva intorno.
“Scudi alzati alla massima potenza!” ordinò Tarkin. “Fate uscire le squadriglie di caccia TIE!”
Voglio proprio vedere cosa pensano di fare quei mostriciattoli volanti contro l'élite dei nostri piloti.
Un attimo dopo li videro anche a occhio nudo. Apparvero da tutti i lati dell'orizzonte come macchie scure in lontananza, fitte come nubi annunciatrici di un temporale. Al contrario delle nubi però si muovevano rapidamente e controvento, e presto Tarkin e gli Imperiali poterono distinguere grosse teste irte di corna, ali vaste e membranose e zampe colossali dai lunghi artigli ricurvi. Scaglie di tutti i colori dell'arcobaleno rilucevano sotto il sole rosa del mattino appena sorto.
Draghi.
Centinaia... no, migliaia di draghi.
Tarkin ricordò il Castello dell'Oblio e la sensazione inebriante e spaventosa che aveva provato nel cavalcare una di quelle creature, e seppe subito quale avversario si trovava di fronte.
Il Generale Baran. La creatura semidivina che ho dovuto impersonare in quel ricordo distorto di Mistobaan.
Ma dopotutto nel ricordo delle Stanze della Memoria i draghi erano stati battuti con facilità da un ragazzino armato di spada, e lui ora aveva un'intera flotta di Star Destroyer al suo comando. Il Cavaliere del Drago avrebbe trovato pane per i suoi denti.
A un ordine di Tarkin i caccia TIE ingaggiarono battaglia contro i draghi, aprendosi a ventaglio tutto intorno agli Star Destroyer e vomitando raffiche di laser contro la formazione nemica. Subito un drago fu colpito, il ventre molle trapassato da un raggio laser, e precipitò con un ruggito di dolore travolgendo un altro compagno nella caduta. Il pilota che lo aveva abbattuto tuttavia non ebbe il tempo di esultare, perché altri due draghi della taglia di tre caccia TIE messi insieme frantumarono il transparacciaio della cabina con gli artigli e lo tirarono fuori urlante, gettandolo lontano. I resti del caccia furono polverizzati in una palla di fuoco.
I draghi della Stanza della Memoria di Mistobaan non erano così potenti...
Persino Maul, al suo fianco, tratteneva il fiato.
I draghi più piccoli avevano le dimensioni di un caccia TIE, mentre i più grandi, stimò Tarkin, dovevano misurare circa un quarto di uno Star Destroyer. I proiettili dei caccia li mettevano in difficoltà, soprattutto quando li colpivano al ventre o agli occhi, facendoli impazzire dal dolore e contorcere in modo forsennato sputando fuoco su amici e nemici senza discriminazione; ma parecchi caccia finivano a pezzi nelle fauci dei draghi più grandi, ridotti a un cumulo di lamiere da denti grossi come faraglioni.
Di che razza di materiale sono fatti i loro denti e artigli?!
E non avevano ancora visto niente. A un certo punto uno dei draghi più grandi si sollevò in alto, sovrastando tutti gli altri combattenti, macchine e creature, e per un attimo le sue ali spiegate oscurarono il sole appena sorto. Aveva scaglie blu come il mare che sfumavano in celeste sulla coda, sulle zampe e sulla punta del muso, da cui pendevano due lunghi barbigli simili a cascate spumeggianti; sollevò il capo irto di corna e cacciò un ruggito che fece vibrare l'aria, poi rivolse le fauci verso una squadriglia di caccia TIE e soffiò. Dapprima Tarkin non riuscì a scorgere nulla, ma poi si accorse della corrente di aria gelida, tagliente e satura di cristalli di ghiaccio, che dalla bocca del drago si riversò sui caccia del gruppo Rosso, travolgendoli.
“Qui Rosso Leader!” arrivò contorta dal panico la voce del primo pilota attraverso i canali di comunicazione. “La mia strumentazione è congelata! Non riesco... “ la comunicazione si interruppe con uno sfrigolio, e dalla plancia di comando Tarkin e Maul videro i caccia del gruppo Rosso precipitare senza controllo, ridotti a grossi blocchi di ghiaccio. Quindici caccia, un'intera squadriglia, annientati in un solo colpo.
Ma Tarkin aveva notato un'altra cosa che lo preoccupava ancora di più. Sui radar, il puntino rosso che rappresentava il Baan Palace si stava allontanando.
I draghi erano solo una distrazione, un diversivo. Sono solo pedoni. Negli scacchi si vince catturando il Re.
“Basta giocare” disse a Maul; poi si voltò verso Kratas e ordinò: “Ci muoviamo all'inseguimento del Baan Palace. La Princess Shandra, l'AC Milan e lo Steel Pride rimarranno qui a coprire i caccia facendo fuoco a volontà con i turbolaser. Il resto della flotta, ci alziamo oltre l'atmosfera e piombiamo sul Baan Palace!”
“Agli ordini, governatore!”
“Bella idea, Tarkin” approvò Maul. “Quei draghi saranno anche potentissimi, ma scommetto che non sanno respirare nello spazio!”
I tre Star Destroyer designati a rimanere in copertura fecero partire scariche di turbolaser che dispersero lo stormo di draghi e diedero tempo ai caccia di riorganizzarsi in formazione e partire all'attacco del nemico disorientato. Il resto della flotta attivò i motori a propulsione spaziale e iniziò a sollevarsi oltre la battaglia.
I draghi non erano creature stupide, e si accorsero della manovra della flotta. Tentarono di raggiungere gli Star Destroyer che si stavano innalzando, ma le ondate di turbolaser e l'azione di disturbo dei caccia TIE li tennero a distanza. Il grande drago blu che poco prima aveva congelato un'intera squadriglia di TIE finì arrostito dal fuoco incrociato della Princess Shandra e dello Steel Pride e rovinò al suolo abbattendo decine di alberi con la sua mole imponente.
“Draghi contro Star Destroyer” c'era una nota d'incredulità nella voce di Maul. “Sembra il titolo di un film trash. Se non lo avessi visto non ci crederei.”
Stavano per squarciare lo strato più alto di nuvole e i draghi erano ormai lontani quando il ponte del Basilisk tremò.
“Tarkin... !” il governatore fece in tempo a vedere le pupille dilatate dell'amico e la sua espressione incredula prima che una scossa elettrica terribile li facesse piegare tutti dal dolore. La scossa partì dal pavimento dell'astronave e attraversò i corpi di tutti i suoi occupanti dalla punta dei piedi alla radice dei capelli, facendoli urlare di dolore. Tarkin cercò di aggrapparsi a una parete per non cadere, ma anche quella era incandescente ed elettrica, e ritirò la mano con un urlo. Gli sembrava che la testa gli stesse per esplodere per il dolore; con gli occhi appannati vide le apparecchiature di comando e i computer che andavano in corto circuito, attraversati da scintille abbaglianti. Le sirene d'allarme suonavano all'impazzata. Poi tutto fu avvolto da un lampo di luce, e per un attimo il governatore credette che sarebbe morto.
Non morì. Nessuno di loro morì. Quando Tarkin riaprì gli occhi, passata la scossa, gli ammiragli e i tecnici si stavano rimettendo in piedi doloranti, le divise e i capelli anneriti e bruciacchiati, ma ancora tutti interi. Solo le sirene non avevano cessato di suonare; l'illuminazione del ponte di comando era saltata, rimpiazzata dalle spettrali luci rosse del sistema di emergenza.
“Generatore principale fuori uso. Attivato generatore ausiliario.” gracchiò la voce del navicomputer.
Tarkin accettò l'aiuto di Maul per rialzarsi e si guardò intorno accigliato: “Cosa diamine... ?”
“Governatore, non siamo in grado di volare oltre l'atmosfera in queste condizioni!” esclamò Kratas trafficando con i comandi di un computer “Due motori sono fuori uso... e... sembra che le altre navi della flotta siano nelle stesse condizioni, signore!”
Incredulo, Tarkin guardò fuori dalle vetrate di transparacciaio. Tutti gli Star Destroyer erano fermi, e un paio fluttuavano alla deriva verso il terreno. Dalla prua di un terzo si alzava un denso fumo nero.
“Tarkin” Maul indicò un punto oltre la cortina di fumo che saliva dalla nave colpita. “Guarda là.”
Era una figura minuscola rispetto ai draghi e alle astronavi, ma Tarkin la vide subito perché emanava un'aura di luce scintillante. In volo in mezzo ai draghi, teneva una spada sollevata verso il cielo, la lama avvolta da saette che le si attorcigliavano intorno come serpenti.
Chi la impugnava era una creatura più o meno delle dimensioni di un essere umano, ma le sue fattezze e le ali membranose che gli spuntavano da dietro la schiena ricordavano molto più un drago che un uomo.
Tarkin lo riconobbe subito, anche se non lo aveva mai visto in quella forma.
Il Cavaliere del Drago era sceso in battaglia.



La sala del trono del palazzo di Minas Tirith era piena fino all'inverosimile; nessuno voleva perdersi una riunione di quell'importanza. Tutti i posti della lunga tavolata di legno di noce erano occupati, e Nonna Rosa trotterellava da un capo all'altro servendo birra e altre bevande ai Ribelli seduti. Aragorn la oltrepassò con un'affettuosa pacca sulla spalla e le sorrise; l'anziana signora era la governante del palazzo di Minas Tirith dai tempi di Sire Denethor, ben prima che Aragorn salisse al trono, e tutti i Ribelli le erano molto affezionati e la consideravano la mascotte portafortuna dell'Alleanza.
Aragorn raggiunse il proprio posto a un capo della lunga tavola, accanto a Gandalf che lo accolse offrendogli una pipa già accesa.
“Buongiorno a tutti!” disse, e pian piano il brusio nella sala cessò e tutti gli occhi furono puntati su di lui. C'erano Ribelli ovunque, non solo seduti a tavola (spesso occupando in due o addirittura in tre una sola sedia), ma anche sui davanzali delle finestre, sugli scalini, sul trono (ad Aragorn non importava, anzi trovava scomodo assistere alle riunioni da lassù, isolato dagli altri), e i due hobbit Merry e Pipino avevano trovato un ottimo posto sul grosso lampadario e guardavano giù sgranocchiando pannocchie e lasciando penzolare i grossi piedi pelosi tipici del loro popolo.
“Scusate il ritardo, Elrond mi ha bloccato per mezzora lamentandosi che ha trovato il cuscino pieno di cacca di cavallo. Scommetto che qualcuno di voi ne sa qualcosa.” disse soffocando una risata e guardando il nano Gimli, che per tutta risposta scoppiò a ridere e diede una pacca al suo vicino Dwalin, un vecchio nano dall'aria rude e il cranio rasato decorato da tatuaggi. Accanto a loro, l'elfo Legolas alzò gli occhi al cielo con aria da martire.
“Leia è già arrivata?” Aragorn fece scorrere gli occhi lungo la tavolata, ma la principessa non si vedeva da nessuna parte.
“Sono qui, Aragorn. Scusate il ritardo.” tutti si voltarono verso la rampa di scale che conduceva al piano superiore del palazzo, sulla cui sommità erano appena apparse tre donne. La più giovane, la principessa Leia, era il capo supremo dell'Alleanza Ribelle, e due elfi si alzarono immediatamente per cederle i loro posti all'altro capotavola. Leia li ringraziò con un cenno del capo e si sedette, seguita dalla donna più anziana, che portava i capelli rossi tagliati corti a caschetto e, come Leia, era vestita completamente bianco.
“Buongiorno Mon Mothma” la salutò rispettosamente Nevius, che sedeva alla sua destra.
Mon Mothma era l'unico membro fondatore dell'Alleanza ancora in vita. Poco meno di vent'anni prima lei e il padre adottivo di Leia, due ex senatori della Vecchia Repubblica, avevano creato il primo nucleo di resistenza segreta contro l'allora nascente Impero, e da quel momento la “vecchia terrorista”, come l'avevano soprannominata affettuosamente i Ribelli più giovani, non aveva mai smesso di combattere contro il regime di Palpatine.
La terza donna - un'elfa, per essere precisi – invece venne incontro ad Aragorn e lo salutò con un bacio sulle labbra. Aragorn ricambiò il bacio di sua moglie e le fece posto tra sé e Gandalf.
“Buongiorno, Arwen”
“Molto bene” esordì Leia, alzatasi in piedi, e ogni altro discorso nella sala cessò. “L'ordine del giorno di questa riunione straordinaria è discutere della visita dei rappresentanti di questo Grande Satana Baan e decidere la nostra linea d'azione a riguardo.”
“Più che dei demoni, Leia” intervenne Gandalf. “Direi che dovremmo parlare della popolazione di quel mondo. Lo sapete come l'Imperatore conduce le sue guerre. Starà bombardando quel pianeta anche adesso, mentre parliamo. E da come si sono espressi i due visitatori sembra che i demoni non apprezzino particolarmente gli umani: temo che potrebbero lasciarli al loro destino, sotto i bombardamenti degli Imperiali.”
“E cosa ti fa pensare che ci siano umani in quel mondo misterioso?” chiese Lando Calrissian, un ex contrabbandiere e giocatore d'azzardo che per un certo periodo aveva fatto la corte alla principessa Leia.
“Tu non li hai visti, ma uno dei due inviati del Grande Satana era senza dubbio un umano. Probabilmente l'eccezione che conferma la regola, uno che è riuscito ad abbandonare la fazione oppressa per saltare sul carro del vincitore. Ma se ce n'è uno ce ne saranno anche altri, e magari non sono così fortunati.”
“E in ogni caso” aggiunse Aragorn con calore “anche se ci fossero solo demoni è comunque nostro dovere aiutarli.”
“Dovere?” intervenne Leia, con una punta di sarcasmo nella voce. Aragorn ammirava la principessa per la forza e la determinazione che mostrava in ogni occasione, soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà, ed era convinto che senza il suo senso pratico e la sua capacità di tenere i piedi per terra l'Alleanza si sarebbe sfaldata molti anni prima. Ma quelle qualità rischiavano anche di trasformarsi in ostacoli, limitazioni e ristrettezza di vedute. Aragorn e Gandalf pensavano che a volte era necessario mettere da parte ogni logica e seguire la voce del cuore. Solo allora i veri miracoli accadevano.
“Abbiamo offerto loro il nostro aiuto e lo hanno rifiutato. Potrebbero non gradire un'eventuale interferenza. Rischiamo di farci un nuovo nemico.”
“Che ai demoni piaccia o no, noi li stiamo già aiutando. La nostra stessa esistenza in quanto organizzazione che si oppone all'Impero è un aiuto alla loro causa, tanto è vero che sono stati incuriositi da noi e ci sono venuti a spiare. Forse ora non si fidano, ma se mostriamo che le nostre intenzioni sono sincere... “
“E comunque ora su quel pianeta c'è gente che sta morendo sotto i turbolaser imperiali!” intervenne Gimli alzandosi e battendo un pugno sul tavolo. “Ogni secondo perso a discutere è una vita che si spegne!”
“Potremmo mandare una missione di soccorso. Non commandi da battaglia, ma medici e guaritori” suggerì Legolas in tono più diplomatico, facendo cenno all'amico nano di sedersi.
“Guerrieri e maghi dovranno comunque andare per forza: non si possono lasciare i medici sguarniti, e non sappiamo di fronte a che situazione ci troveremo una volta arrivati lì.” fece notare Jack O'Neil, uno dei massimi esperti militari dell'Alleanza.
“E il bombardamento va fermato in qualche modo, o non otterremo nulla.” concluse Aragorn. Da tutti gli angoli della sala si levarono grida di approvazione, e il re sorrise. Quelli erano i ribelli che conosceva e amava.
Leia sospirò e scambiò un'occhiata con Mon Mothma.
“E va bene” disse infine. “Metteremo la proposta ai voti.”
Poiché era il metodo più rapido si fece per alzata di mano, e il sorriso di Aragorn si allargò ancora di più di fronte alla selva di braccia sollevate che accolse la proposta di intervento nel mondo dei demoni. Leia aveva l'aria stizzita, ma non fiatò. Formalmente era il capo, ma da che esisteva l'Alleanza i Ribelli avevano sempre preso le decisioni più importanti in democrazia, e il voto del più umile contadino di Minas Tirith valeva quanto quello della principessa o di un Maestro Jedi.
Approvata la proposta bisognava ora decidere i componenti della missione e il modus operandi. Si fosse trattato di uno dei soliti attacchi alla Morte Nera sarebbero partiti in massa lancia in resta e spada sguainata, ma stavolta non avevano la minima conoscenza del territorio né della situazione che avrebbero trovato all'arrivo. Le circostanze suggerivano cautela.
Dopo un breve dibattito fu stabilito che sarebbe partito un gruppo non troppo esteso, con medici al seguito, scorte di viveri, medicinali e altri generi di prima necessità per soccorrere la popolazione disastrata.
Mon Mothma non aveva ancora finito di chiedere “ci sono volontari?” che Aragorn e Gandalf già erano pronti con la mano alzata. Era da un po' che l'Alleanza non esplorava nuovi mondi, e Aragorn era decisamente eccitato alla prospettiva. Lui era fatto così, non riusciva a restare fermo nello stesso posto per troppo tempo; era più forte di lui. In gioventù era stato un ramingo, e anche ora che portava la corona della Terra II il suo vero io restava sempre l'avventuriero che non sapeva dove avrebbe cenato il giorno dopo, non il sovrano o il politico.
Arwen lo guardò con un sospiro, ma non disse nulla. Sua moglie lo conosceva meglio di chiunque altro, e lo capiva. Sarebbe rimasta a vegliare sulla Terra II in veste di regina, come al solito; Aragorn sapeva che in quello era immensamente più brava di lui. Lui aveva il carisma e la capacità di farsi amare e seguire in missione o in battaglia, ma la vera organizzatrice era lei. In tempo di pace, Arwen sarebbe stata la sovrana migliore.
Ben presto il gruppo si completò con gli altri volontari: Eomer, il mago Lavok e suo nipote Valygar, Mara Jade, il team medico e qualche soldato semplice.
“Direi che possiamo partire appena pronti” disse Gandalf.
“Ehm... una cosa non ho capito... “ Luke si alzò in piedi, grattandosi la testa perplesso. “Come ci arrivate lì?”
“Facile!” sorrise Gandalf. “La vecchia tattica di infiltrarsi su una nave imperiale non fallisce mai! Ecco perché un gruppo piccolo è meglio!”
“Però... “ intervenne Lando dubbioso. “Ultimamente l'Impero ha aggiornato con sistemi di sicurezza più innovativi i suoi codici... potrebbe non essere semplice come un tempo.”
Mara Jade fece un passo in avanti, squadrando il contrabbandiere con un sorriso furbo:
“A questo, signori, lasciate pensare me.”

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - Sensazioni ***


Capitolo 6 - Sensazioni



Ienzo





Vexen è uno scienziato.
Ha insultato gli dèi, rubato e persino ucciso. Ha inventato il condizionamento ed i Nuclei Neri. Si è fatto beffe della sacralità della vita e dell’onnipotenza della morte, dei demoni, dei draghi e degli uomini, e non una volta sola.
Il mio petto vuoto non può provare ancora nulla, ma credo che sia la persona da cui un sacerdote dovrebbe tenersi lontano. Per questo ieri sera, prima di coricarmi, ho chiesto a Camus cosa lo spinga a passare tanto tempo con quell’uomo che lui stesso definisce un irriducibile peccatore, una persona la cui anima si allontana dal Nirvana ad ogni minuto che passa. Lui mi ha risposto che gli dèi sono esseri meravigliosi, perché per un solo attimo di bene perdonano migliaia di gesti sbagliati: perché Loro toccano il cuore di tutti, e quando la Loro mano divina sfiora le corde dell’anima di gente come Vexen creano una melodia che un sacerdote può soltanto ascoltare in ginocchio. Mi ha detto di guardarlo con attenzione, perché in alcuni momenti la sua anima riluce come una gemma preziosa, perché un giorno la sua superò quella di tutte le stelle del cielo.
Oggi mi sono recata nel Magnamund ed ho guardato quell’uomo, ma non ho visto nessuna anima.
Ho visto solo il riflesso di mio fratello.
Dai diari di Aqua.





Narratore: “No, non è possibile... un altro flashback no!!”
REGISTE: “Non è il primo e non sarà neanche l'ultimo, Narratore. Ma questo discorso l'abbiamo già fatto, no?”
Narratore: “Ma io dico, a chi mai del pubblico gliene potrà fregare qualcosa del passato di quel rompiballe di Vexen... “
REGISTE: “Fingeremo di non aver sentito... “
Narratore: “Sigh... è una causa persa... e va bene... amici lettori, mi dispiace per voi ma dovrete fare a meno del piacere della mia narrazione ancora per un po'... la parola va ora al rompi... cioè, a Vexen.... “



Non ci fu verso di far cambiare idea al Superiore.
Aveva deciso di affibbiarmi il ragazzino, e non avrebbe sentito ragioni. Le mie accese proteste si scontrarono contro un muro di cocciutaggine granitica.
“Non darti per vinto ancora prima di cominciare, senza neanche esserti messo alla prova.” mi disse con il suo snervante tono paterno. “Ho fiducia in te, Vexen. Sono convinto che tu sia la persona giusta per un compito del genere. Occuparti di Ienzo sarà un'ottima occasione di arricchimento sia per te che per lui.”
Belle parole, certo. Ma intanto mi stava affibbiando il ragazzino.
Ienzo era originario del nostro mondo, ma come fosse arrivato nelle selvagge montagne di Delivar, a chilometri e chilometri dal villaggio più vicino, restava un mistero. Il Superiore era passato di lì per il puro capriccio di ammirare il tramonto dall'imponente Cima Ovest, scortato dagli inseparabili numeri II e III, ma non l'avrebbe mai trovato se Xigbar non gli fosse accidentalmente inciampato sopra. Rimessosi in piedi tra un'imprecazione e l'altra il numero II aveva scoperto che a farlo cadere non era stato un sasso nascosto nella neve, ma un bambino raggomitolato su se stesso, semi-sommerso dalla neve e prossimo al congelamento. Intorno niente impronte, nessuna traccia o indizio sulla sua provenienza, nulla di nulla. Alle domande dei suoi soccorritori il bambino aveva saputo offrire un'unica risposta: il suo nome. Per il resto pareva che non ricordasse niente.
E a quel punto il Superiore si era fatto venire la malsana idea di adottarlo.
“Io non so niente di bambini, Superiore.” dissi. E non è una branca del sapere che desidero approfondire.
“Imparerai. Noi tutti ti daremo una mano.”
“Ma perché... perché io?!”
“Gli altri sono principalmente guerrieri, ma tu sei un medico, un uomo di cultura. Sei il più brillante di tutti noi, e io voglio solo il meglio per il numero VI. Sei la persona più adatta per allevarlo ed educarlo.”
Non era per fare da baby sitter a un ragazzino che avevo accettato di diventare un membro dell'Organizzazione. Cambiare nome andava bene, vivere sotto lo stesso tetto di persone che non apprezzavo ancora ancora si poteva tollerare; ma perdere il mio tempo appresso a un bambinetto piagnucoloso...
“Non ci sto.”
Nella sala da pranzo calò il silenzio. Ienzo stringeva ancora tra le mani il piatto di minestra e guardava alternativamente me e Xemnas con un'aria da cucciolo braccato. Dovevo concedergli che era un bimbo molto carino, con quel faccino tondo e gli occhioni grandi e azzurri che avrebbero sciolto i cuori di un Grande Satana. Ma non il mio.
Ancora seduti al loro tavolo, Xaldin e Lexaeus seguivano lo scambio di battute in silenzio.
Infine, il Superiore sospirò. “Dobbiamo davvero interrompere la nostra collaborazione così presto, numero IV?”
In quel momento capii che mi aveva in pugno, che qualsiasi cosa avessi detto o fatto le mie alternative si riducevano a due: accettare l'infamante ruolo di baby sitter del numero VI o uscire dalla porta del Castello dell'Oblio e non fare più ritorno. La cosa che più mi mandava ai matti era che Xemnas aveva anche l'aria dispiaciuta, affranta addirittura, come se fossi stato io a pugnalarlo alle spalle.
Era un ricatto bello e buono. L'ennesimo capriccio insensato del signore del Castello dell'Oblio.
Ma suo il Castello, sue le regole.
Gli avevamo giurato obbedienza.
Ripensai alla mia vita prima dell'Organizzazione, agli anni da medico girovago circondato dalla diffidenza e dall'ignoranza della gente; e ricordai le meraviglie della Biblioteca, la promessa di un potere in grado di attraversare le barriere tra i mondi.
In fondo non era una scelta difficile.
Il Superiore sorrise.
“Xaldin, Lexaeus, portate un altro letto nella stanza del numero IV.”



Avevo chiesto io di alloggiare nei sotterranei, per essere sempre vicino al laboratorio. La mia stanza da letto era stretta e non molto spaziosa, ma solo una porta la separava dal secondo luogo più straordinario del Castello dopo la Biblioteca: un paradiso di strumenti e macchinari di cui fino a poco tempo prima non avrei nemmeno sognato l'esistenza.
La sola vista di un ragazzino in un luogo pieno di oggetti fragili e delicati come quello mi faceva accapponare la pelle.
“Bene Ienzo, la regola numero uno è questa: la roba dentro questa stanza non si tocca. Per nessun motivo. Mai. Anzi, meno ci vieni e meglio è. Chiaro?”
Senza smettere di fissare il pavimento Ienzo fece cenno di sì con la testa. Se non altro per il momento sembrava silenzioso e obbediente, ma non mi fidavo. Più sono piccoli e più hanno la tendenza a combinare guai.
Come promesso da Xemnas nella stanza da letto era apparsa una seconda brandina a poca distanza dalla mia. Ienzo ci si sedette e lì rimase, la testa china e le spalle curve.
Bene... e adesso?
Il silenzio si prolungava in modo imbarazzante.
E va bene. Da qualche parte dovrò pur cominciare.
“D'accordo Ienzo... vediamo un po'... quanti anni hai?”
Lo vidi sollevare pian piano una manina e mostrarmi tre dita mentre mi spiava di sottecchi da sotto la frangia di capelli argentati.
“Bene, e... da dove vieni?”
“...”
“I tuoi genitori come si chiamano?”
Chissà, magari se fossi riuscito a estorcergli qualche informazione avremmo potuto localizzare la sua famiglia, e io mi sarei liberato di quella palla al piede.
“...”
“Non ricordi proprio niente? Come sei arrivato sulla montagna, chi ti ci ha portato... ?”
“...”
Era come parlare al muro, con l'eccezione che il muro probabilmente sarebbe stato più partecipe. Ienzo continuava a restare immobile e a fissarmi da sotto la cortina di capelli con occhi sgranati.
“Dannazione, sai parlare almeno?!”
“Io so parlare.”
Per un attimo mi spiazzò. Lo aveva detto con una vocina flebile, ma il tono era quello con cui si ribadisce un'ovvietà a una persona tarda di cervello. La voglia di prenderlo e fiondarlo fuori da una finestra era sempre più forte.
Calma, Even. E' solo un bambino. Non è colpa sua... è il Superiore che andrebbe fiondato da una finestra... una finestra molto alta, possibilmente con stalagmiti puntute sul fondo...
Decisi di accantonare la questione delle origini di Ienzo, almeno per il momento.
“Lasciamo perdere. Pensiamo al tuo nome piuttosto. Dobbiamo cambiarlo.”
Continuava a fissarmi con aria perplessa, e stavolta non seppi dargli torto. Quella dei nomi con la X era un'altra delle tante regole senza senso che il Superiore ci aveva imposto. “La scelta del nuovo nome segnerà l'inizio della vostra nuova vita nell'Organizzazione”, o qualche scempiaggine del genere. La regola richiedeva di anagrammare il proprio nome a piacimento aggiungendovi una X. E ovviamente Ienzo non era in grado di farlo da solo.
Ci pensai su, passando in rassegna le varie combinazioni. Noizex, Izoxen, Xinoze, Onizex...
“... Zexion!”
Mi pareva il più pronunciabile tra quelli che mi erano venuti in mente, e non avevo voglia di perdere altro tempo a pensarci.
“Il tuo nuovo nome sarà Zexion!”
E proprio in quel momento Ienzo – cioè, Zexion – parlò per la seconda volta.
“Perché?”
Domanda da un milione di monete d'oro. “Perché il Superiore vuole così, ragazzino. D'ora in poi ti chiamerai Zexion, punto e fine.”
Dal suo sguardo perso era chiaro che la spiegazione non lo soddisfaceva, e per un attimo mi sentii quasi in colpa. Da piccolo avevo odiato quando i maestri opponevano ai miei “perché” il loro secco “gli dèi vogliono così.”
“Lo ha deciso Xemnas, il Superiore.” spiegai. “Noi dobbiamo fare quello che lui dice. E' il nostro capo... capisci cosa vuol dire?”
Fece cenno di sì con la testa. “E' un signore gentile.” aggiunse poi.
“Se lo dici tu.”
“Zexion.” ripeté.
“Esatto. Non te lo dimenticare.”
Era quasi notte ormai, ma prima di mandarlo a dormire decisi di fargli un esame medico completo. Una precauzione, e anche un modo per sperimentare alcune delle attrezzature del laboratorio: se non altro avrei unito l'utile al dilettevole.
Per essere un ragazzino abbandonato a congelare sotto la neve nelle Terre Selvagge si trovava in condizioni ottime; giusto un po' sottopeso e denutrito, ma niente che qualche giorno di alimentazione sana e regolare non potesse risolvere. E si dimostrò anche sorprendentemente docile: si lasciò visitare senza emettere un fiato né fare capricci.
Almeno fino a quando non vide l'ago. Volevo fargli un prelievo per effettuare delle analisi del sangue in seguito (e avere una scusa per provare i microscopi del laboratorio!), ma non feci in tempo ad avvicinargli l'ago al braccio che Zexion scattò come attraversato da una scossa elettrica, raggomitolandosi sul letto con le braccia strette attorno alle ginocchia come un'ostrica che si chiude di scatto.
“Non ti ho nemmeno toccato! Guarda che non voglio farti male!”
Cercai di farlo rimettere seduto, ma aveva tutti i muscoli tesi e irrigiditi e avrei solo rischiato di fargli male.
Esasperato rimisi via la siringa e gli mostrai le mani libere.
“Va bene, va bene! Niente prelievo! Stai tranquillo!”
Passarono lunghi istanti di immobilità.
Lunghissimi istanti.
Non avevo la più pallida idea di cosa fare.
Alla fine Zexion si decise ad aprire gli occhi, che fino ad allora aveva tenuto serrati come chi si aspetta un colpo violento da un momento all'altro; e nel suo sguardo inondato di lacrime lessi che era terrorizzato.
Gli faccio così paura... ?
Oppure...

Fu allora che il pensiero mi colpì per la prima volta. Prima ero stato troppo impegnato a compiangere me stesso e la mia sorte sfortunata. Ma un ragazzino che finisce abbandonato in mezzo alla neve e non ricorda nulla...
… o forse non vuole ricordare?
Che cosa gli avevano fatto i suoi rapitori, o i suoi genitori, o... chiunque lo avesse lasciato lì a morire? Che traumi aveva dovuto subire quel bambino di soli tre anni?
Non era il mio ago a fargli paura. Il suo era lo sguardo di chi teme che gli succeda qualcosa di terribile... di nuovo.
“Stai tranquillo.” ripetei, un po' a disagio. Zexion continuava a stare sdraiato sul letto, raggomitolato a riccio con le braccia serrate attorno alle ginocchia.
“Qui sei al sicuro. Nessuno ti farà del male.”
Silenzio.
“Perciò non c'è bisogno di avere paura. Questo castello ora è la tua casa e... e vedrai che ti troverai benissimo.”
Silenzio.
“Beh, adesso... adesso ti lascio dormire, che è tardi. Io vado di là.” indicai il laboratorio. “Se ti serve qualcosa chiama, d'accordo?”
Non mi aspettavo una risposta, e infatti non ci fu. Forse era meglio lasciarlo solo per un po', dargli il tempo di tranquillizzarsi e riposare. Doveva essere stremato.
Il laboratorio catturò la mia attenzione per il resto della notte, e ben presto mi dimenticai del bambino che dormiva nella stanza accanto.
Quando sorse l'alba tornai da lui e lo trovai addormentato. Era raggomitolato su un fianco con le braccia strette intorno alle ginocchia, nella stessa identica posizione in cui lo avevo lasciato ore prima.



Narratore:” Bene, e anche per questo capitolo lo strazio è finito!! A me gli occhi amici lettori, si torna a narrare di cose serie!”



La luna era stupenda, quella sera. La valle sotto di lei ricordava quelle dei grandi pittori, immobile sotto la luce argentea. A dispetto della stagione, nessun vento attraversava la regione, e le punte degli alberi erano immobili, avvolte nel chiarore. Erano diversi giorni che Zachar non riusciva a trovare qualche istante per fermarsi ed osservare il panorama, a cercare di far sue quelle montagne, quei fiumi, quelle città che fino a poche settimane prima erano state solo dei nomi sulle mappe.
Le piaceva quel mondo.
L’Impero Galattico l’aveva sempre schiacciata con il suo potere; i palazzi oppressivi di Coruscant, le sconfinate distese paludose di Dagobah, l’efficienza di Carida. L’unico posto che aveva trovato attraente era stata la dimensione dell’Amn, quando l’Imperatore aveva mandato lei e Kaspar a supervisionare i maghi di quel luogo, ma era durato troppo poco. Il Regno delle Tenebre era il suo mondo natale, ma conservava solo ricordi di caverne senza fine, passaggi avvolti nella nebbia e l’oscurità che scivolava anche tra le dita; una dimensione priva del sole e delle stelle, che qualsiasi persona dotata di buon senso avrebbe cercato di abbandonare.
Invece quel mondo senza nome, con la sua luce viva ed i prati verdi, sembrava accoglierla come una madre: la magia sbocciava nell’aria e nell’acqua, collegata alla stessa esistenza della famiglia demoniaca, ma le dava forza. Anche lassù, nel covo della Resistenza nel cuore della montagna Den, anche in quei rifugi angusti riusciva a percepire tutta la bellezza di un pianeta non contaminato dalla tecnologia imperiale.
Fino a quel momento.
Aveva riconosciuto la sagoma triangolare degli Star Destroyer non appena erano comparsi in cielo, nemmeno un giorno fa. Nella confusione generale della Resistenza, aveva spiegato alla principessa Leona ed agli altri capi di cosa si trattasse: la maggior parte di loro non aveva capito molto, ma tutti avevano riposto in lei la massima fiducia. Non era mai successo prima di allora.
Su suo consiglio avevano iniziato l’evacuazione dei villaggi vicini: molte persone li avevano inizialmente visti di cattivo occhio, ma alla notizia della distruzione delle città della costa orientale in molti avevano abbandonato il loro timore della collera del Grande Satana e li avevano seguiti. Le operazioni procedevano abbastanza bene, ma nel suo cuore vi era una sensazione spiacevole che quelle minacciose astronavi contribuivano ad aumentare.
L’Impero Galattico era venuto a prenderle di nuovo qualcosa a cui teneva.
Proprio come le aveva sottratto Kaspar.
Riconobbe il passo pesante di Auron alle sue spalle, si voltò quando lo vide uscire dalla spaccatura nel fianco della montagna. “Mu e Shaka sono tornati. Ho fatto bene a mandare Dai a proteggerli, questa volta hanno rischiato troppo” disse. Venne accanto a lei, e la maga sentì tutta l’imponenza del suo fisico “Pensavo ti facesse piacere andare a salutarli”.
“Sono felice che stiano bene … e non ti preoccupare, andrò da loro …”
Si rese conto di non avere altro da dirgli. Di non avere il coraggio di rivolgergli la parola. Aveva cercato in quei pochi giorni di evitare di trovarsi da sola con lui, e guardò fisso la sagoma degli Star Destroyer, sperando che l’altro capisse il suo desiderio di solitudine. Ma il soldato rimase. La cortina di silenzio non lo spaventava. Ad essere sincera, non sapeva cosa potesse spaventarlo davvero.
“Stai pensando a Kaspar, giusto?”
Dritto al punto. Come sempre.
“Credi che sia su una di quelle astronavi?”
Lei guardò oltre, grata per avere un punto fisso da osservare, ed annuì. Si rese conto in quel momento di aver dedicato tutte le sue attenzioni alla Resistenza ed agli abitanti di quel mondo per non pensare all’uomo che amava. Quando guardava la luna piena gli tornavano in mente i suoi capelli candidi, ed il profumo dei boschi le ricordava quello delle rose che evocava solo per lei, tanti anni prima. Le mancava, ed ogni volta che pronunciava quel nome il suo cuore aveva un tuffo; non riusciva a perdonarsi di essere andata via dal Baan Palace senza di lui, abbandonandolo di nuovo nelle mani dell’Impero Galattico. E, se per questo, non aveva del tutto perdonato Auron. Era stato lui a portarla via con un trucco nonostante lei gli avesse espressamente detto di voler tornare da Kaspar: lo aveva fatto per il suo bene, non ne aveva dubbi, ma il suo bene era da un’altra parte, al fianco del suo mago. Estese i suoi incantesimi di divinazione verso le enormi sagome triangolari, ma il suo potenziale magico non era abbastanza elevato per percepire la presenza di Kaspar: ma le probabilità che fosse lassù erano alte, era il migliore incantatore di cui disponesse l’Impero, e Palpatine lo avrebbe mandato in prima linea senza alcun rimorso. Una prima linea dove lo avrebbero atteso centinaia di draghi nel migliore dei casi. Ed un Ryumajin infuriato nel peggiore.
“Non dovrei essere qui …” mormorò.
“Invece sì. Lassù non potresti cambiare un bel nulla. Al massimo potresti deviare il soffio di un drago o impedire che la sua astronave vada in mille pezzi, ma contro certi nemici la tua protezione non sarebbe efficace. Qui invece sei al sicuro e puoi fare del bene a molte persone”.
“A te senza dubbio”.
Lo disse con più cattiveria del previsto, agitata dalla frustrazione e dall’impotenza dentro di lei. Ma, contro ogni aspettativa, lui sorrise. “Era dai tempi del Castello dell’Oblio che non ti vedevo così decisa”.
“Non ero in me, quella volta”.
“Io invece dico di sì”.
Ricordava bene il sapore delle labbra di lui. Le era piaciuta la forte stretta delle sue braccia, e quella sensazione non era sparita nemmeno dopo che il condizionamento mentale dei Membri dell’Organizzazione si era dissolto. Ma aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai abbandonato il fianco di Kaspar, che non lo avrebbe mai lasciato, solo e con la mente alterata, nelle mani di quei cani sfruttatori dell’Impero. Ed invece era lì, al sicuro, persino felice con i suoi nuovi amici: e questo le bruciava più delle fiamme di un Balrog di Moria. L’uomo che amava forse era lassù, costretto ad obbedire ai Signori Oscuri, e lei non sarebbe mai riuscita a raggiungerlo: se si fosse presentata alla flotta imperiale l’avrebbero sicuramente giustiziata come traditrice visto che non si era fatta trovare al momento della fuga dal Baan Palace, e questa era l’unica cosa che la trattenesse da abbandonare quella montagna e correre verso gli Star Destroyer.
“Da morta non gli serviresti a nulla” disse il mercenario, come leggendole nella mente “Perché, invece di stare al suo fianco lassù, non pensi ad un modo per farlo venire qui, tra noi? Sarebbe la soluzione migliore per tutti, non credi?”
Lei sobbalzò, e per la prima volta in quella serata lo fissò negli occhi “Non per te. Tu non lo sopporti!”
“Ed a ragione, credo. Averlo qui sarebbe il modo migliore per poterlo prendere a cazzotti come merita ogni volta che ti fa soffrire! Quell’idiota non ha fatto altro che trattarti come una pezza da piedi e ti assicuro che non mi dispiacerebbe averlo di nuovo qui per spaccargli la faccia!” sentenziò. Lei avrebbe voluto rispondergli a tono, ma Auron riprese “Non temo affatto la concorrenza di quel mago egoista e presuntuoso; te ne sei già accorta una volta, te ne accorgerai di nuovo. Ma forse averlo qui ti farà sentire più tranquilla, e potrebbe persino pensare di integrarsi alla Resistenza!”
A quello non credeva nemmeno lui, Zachar lo sapeva. Ma una simile proposta, uscita dalla bocca del mercenario, la lasciò senza fiato.
Si rese conto che le sarebbe piaciuto molto avere Kaspar lì, al suo fianco. Guardare insieme la valle rischiarata dalla luna, osservare le stelle ricordandosi dei periodi bui nel Regno delle Tenebre; tenerlo per mano e tornare a quelli che erano un tempo, un maestro ed un’allieva innamorati follemente l’uno dell’altra contro ogni regola del loro mondo. Combattere anche per la gente di quel mondo, perché no, i loro poteri congiunti potevano rappresentare tanto per Dai, per Matoriv, per Pop e Maam, per la Resistenza intera. Ma sapeva che in un simile futuro roseo avrebbe perso Auron.
Le sarebbe dispiaciuto, e lo sapeva.
Forse più di quanto avrebbe dovuto.
Scosse la testa e tornò verso l’ingresso “Hai ragione tu, dovrei andare a salutare Mu”.



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Fonte della fanart a inizio capitolo: http://browse.deviantart.com/art/Someone-please-give-him-a-hug-198223972

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Attacco a Coruscant ***


Capitolo 7 - Attacco a Coruscant




Hyunkel




Il giorno della fondazione dei corpi d’armata, il nobile Bartosh uscì dalle file dei non-morti per ricevere dal Grande Satana in persona l’alto compito di guidare il Fushikidan e l’onore di sedere al fianco degli altri generali nonostante la sua natura inferiore. Eppure, quando il nostro sovrano terminò di parlare, il nobile Bartosh rifiutò l’incarico davanti a tutta la corte, pregandolo di conferire quell’onore a qualcuno molto più degno e valoroso di lui. Lo stupore di tutti noi fu grande, ma lo divenne ancora di più quando vedemmo un essere umano emergere dalla massa indistinta di scheletri.
“Storia della famiglia demoniaca, volume mille settantadue” a cura dell’Arcivescovo Stregone Zaboera, sotto il regno del Grande Satana Baan.




La sua vittima era un ufficiale fin troppo giovane per il compito che gli era stato assegnato. Non doveva avere più di quarant’anni o, se li aveva, li portava molto bene. Mara lo vide sedersi insieme ad altri soldati di grado simile ed ordinare qualcosa; conoscendo la proverbiale lentezza dei droidi inservienti, si chiuse nel bagno e terminò i preparativi. La sua faccia era conosciuta praticamente in tutto l’Impero Galattico così come l’ingente taglia sulla sua testa, ma tanti anni di esperienza le avevano insegnato che davanti a certi argomenti gli uomini perdevano qualsiasi contatto con la realtà.
Il viso che la osservava dall’altra parte dello specchio aveva poco da spartire con quello che le sorrideva ogni mattina. La tintura di Jesse aveva fatto miracoli, e adesso uno stupendo mantello di capelli corvini le arrivava fin sulle spalle e se li spazzolò ancora un paio di volte; le sarebbe piaciuto utilizzare le lenti a contatto speciali dei servizi segreti imperiali, quelle in grado di registrare le immagini ed i suoni e di inviarli subito ai terminali operativi. Le aveva usate spesso quando lavorava per l’Impero Galattico, ma l’Alleanza non riusciva a permettersi gingilli tanto dispendiosi: le lenti che indossava erano del tipo più comune, ma le coloravano l’iride di una tinta particolare, che sfumava nel viola, e sorrise soddisfatta dell’effetto finale. Sorridevano molto meno le altre donne nel bagno, che le squadravano indispettite la vistosa scollatura lungo il petto, preoccupate di quella che per loro era una potenziale concorrente.
Stupide oche.
Estese il Lato Oscuro verso le loro menti; bastò un lieve tocco e quelle continuarono a truccarsi ed acconciarsi completamente ignare della sua presenza. Aveva fin troppe cose a cui pensare che non poteva permettersi distrazioni.
Il trucco era la parte più difficile, visto che non aveva mai avuto bisogno di abbellirsi con simili mezzucci. Ma non doveva farsi riconoscere, quindi con un sospiro estrasse dalla tunica quelle creme e polveri assolutamente ignote ed iniziò a prepararsi proprio come le aveva spiegato sua suocera Amidala non più di due sere prima. Dall’altra parte i soldati discutevano ad alta voce, aiutati dall’alto grado alcolico del koronju, ed i musicisti del locale erano già all’opera; il Trionfo era un locale dei quartieri migliori di Coruscant, non a caso situato vicino ai quartieri amministrativi del governatore Tarkin ed agli alloggi degli ufficiali di alto grado. Tutti gli uomini dell’area erano come minimo ufficiali, e la Sith era pronta a scommettere che pullulasse anche di gente dei servizi segreti.
Le ragazze che transitavano per quel locale non erano di certo venute lì per conversare del tempo o delle lunghe campagne militari, e per un attimo provò una certa pietà per quelle donne che si accapigliavano tra loro e facevano a gara nello svestirsi solo per scucire qualche migliaio di crediti agli uomini in divisa. Per loro la guerra tra Alleanza ed Impero era importante solo perché il governatore Tarkin gonfiava volentieri le tasche dei suoi ufficiali, che erano più propensi a spenderli per soddisfare i loro capricci e per dispensare regali.
Quando la sua pelle assunse le tinte abbronzate delle donne di Haruun Kal e le palpebre furono abbellite da tinte violacee, decise di essere assolutamente perfetta. Un vero peccato che Luke non la potesse vedere in quel momento.
Controllò che la spada laser fosse ben nascosta dentro la borsetta insieme agli altri strumenti della missione, vi fece scivolare dentro l’anello nuziale, si sistemò gli orecchini ed uscì insieme ad una coppia di Twi’lek. I lekku delle due ragazze ondeggiarono nell’aria, e con i loro provocanti ormoni calamitarono l’attenzione di buona parte degli avventori. Eccellente.
Aveva compiuto troppe missioni di quel genere durante i suoi addestramenti Sith per non sapere come comportarsi: l’Imperatore non era esattamente un esperto in materia di donne e corteggiamenti, ma conosceva qualsiasi sfumatura dello sguardo degli uomini e le aveva insegnato a cercarlo, percepirlo e sfruttarlo. Scivolò in modo quasi casuale davanti all’uomo che le interessava, scrutando con la coda dell’occhio i suoi movimenti; una volta certa di aver ottenuto parte della sua attenzione si scrollò i capelli dalle spalle con gesti lenti, ancheggiò più del normale e si sedette a pochi posti da lui con le gambe accavallate. Ordinò al droide inserviente il primo liquore che le venisse in mente; un paio di giovani ufficiali della fanteria le si avvicinò per conquistarla, ma lei solleticò le loro menti e li distrasse verso le ragazze che l’avevano guardata male qualche minuto prima.
“Mi permetta di offrirle io quel bicchiere di nayjtat”.
Durcan Rendyr, secondo ufficiale tecnico delle comunicazioni a bordo della Invicta, responsabile del trasporto di navi, e sua vittima per quella sera, si sedette nel posto libero accanto a lei. Mara gli rispose con un ampio sorriso ed un delicato movimento della mano.
Il droide versò la bevanda violacea in due bicchieri, ed il soldato fece scivolare la sua carta di pagamento nella fessura del suo braccio meccanico. Lei sollevò il bicchiere per un brindisi, e l’uomo accettò. “Non si incontrano persone gentili come lei, al giorno d’oggi”.
“Né donne che abbiano un quarto della sua bellezza, signorina …?”
“Chali” mentì lei “Chali Badog’wa”.
“Ufficiale Durcan Rendyr, per questa serata a vostra disposizione, signorina”.
Non immagini quanto …
Come succedeva sempre in quelle occasioni, l’uomo iniziò a parlare. E parlare. E parlare. Nel corso degli anni di addestramento Sith, Mara aveva imparato che la maggior parte dei maschi di quasi tutte le specie non attendeva altro che parlare di sé; qualcuno preferiva abbandonarsi alla lunga narrazione dei suoi guai, altri si lanciavano nella lunga descrizione delle loro imprese, reali o un po’ esagerate. L’ufficiale Rendyr apparteneva senza dubbio alla seconda categoria. Mara annuì convinta quando l’uomo le descrisse il ruolo chiave che aveva avuto nella riconquista di Naboo qualche anno prima, di come fosse riuscito a trasmettere i codici vitali per l’apertura dei portelli segreti del suo Star Destroyer prima che i Ribelli invadessero la sala delle comunicazioni. Si mostrò incredibilmente interessata alla sua descrizione dei pericoli delle foreste di Ithor, e quando lui promise che le avrebbe inviato uno dei fiori di quel mondo alla missione successiva arrossì nel modo più naturale che conoscesse.
Non lo aveva di certo agganciato per ottenere informazioni di così scarsa importanza, ma tra un sorriso ed un liquore esplorò l’uomo alla ricerca di ciò che le serviva. L’Invicta ed altri nove incrociatori sarebbero salpati il giorno successivo per unirsi ad un contingente di Star Destroyer diretto verso una destinazione imprecisata. A giudicare dalla provenienza dei fondi mossi per quell’operazione –conti in banca riconducibili al governatore Tarkin- ed allo stesso tempo dalla segretezza dell’operazione, era molto probabile che quella flotta sarebbe stata mandata per supportare l’invasione al mondo del Grande Satana. Come da prassi imperiale, il teletrasporto in quella dimensione sarebbe avvenuto con le Pietre della Sapienza, e quindi quello era l’unico modo per raggiungerlo.
Infiltrarsi sugli Star Destroyer sotto il controllo di Tarkin non era una cosa molto facile, considerata la sua mania per la sicurezza e gli allarmi … ma sull’Invicta, che normalmente era di stanza sotto il governatore Saruman, vi erano concrete possibilità di infiltrazione. Se fossero riusciti a mettere le mani sui codici di allarme e di sicurezza dell’incrociatore, sarebbero riusciti a salire clandestinamente nulla nave e farsi trasportare dagli stessi imperiali fin sul pianeta in pericolo.
Durcan Rendyr era l’ufficiale responsabile dei codici che occorrevano all’Alleanza, e Mara sfiorò con delicatezza la sua mente; come aveva previsto, l’uomo non teneva quei dati così importanti su di sé.
Quando il soldato giunse al quarto nayjtat, Mara si alzò ancheggiando dalla predella. “È una serata così piacevole … non trova che sia un peccato starsene qui dentro?”
“Lei ha ragione, signorina Badog’wa” rispose lui. Si mise in piedi e le offrì il braccio. Mara notò con una certa soddisfazione che l’ufficiale aveva occhi solo per lei, e non degnava di uno sguardo le Twi’lek ormai praticamente svestite per la gioia del pubblico. “Due passi non possono che farci bene. Posso permettermi di mostrarle il mio alloggio? È nel miglior palazzo del settore SR5!”
“Così vicino?” disse lei. Si appoggiò al suo braccio e si accertò che la scollatura fosse ben evidente “Sarei più che felice di trascorrere la serata da lei, ufficiale!”
Aggancio riuscito.
Si incamminarono lungo il balcone che costeggiava il locale, e l’uomo attivò la predella magnetica che disegnò un lungo tubo di luce azzurra nell’aria; la donna si accorse che molti altri militari stavano lasciando il posto con delle accompagnatrici, e questo la rassicurò. Quando il campo di forza fu completo, i due lo attraversarono, e camminarono a migliaia di metri da terra verso il grattacielo suggestivo. Sopra e sotto di loro, gli speeder della Città Che Non Dorme Mai disegnavano un complesso gioco di righe, come tanti piccoli insetti; per fortuna la predella gravitazionale isolava dal rumore dei motori, e lei ne approfittò per chiudere gli occhi, rallentare il proprio battito cardiaco ed entrare nello stato mentale necessario per quella missione.
Non era di certo la prima missione di quel genere che compieva: quando era un’apprendista Sith quel genere di incursioni era stata la sua routine, e l’Imperatore le aveva insegnato quasi più ad ingannare il prossimo che ad usare la spada laser. Ma un tempo era diverso.
Un tempo il suo unico obiettivo era completare l’incarico in maniera efficiente e ricevere le lodi del suo Maestro: giocare con i sentimenti degli altri era facile, ed aveva spesso tratto soddisfazione dall’ingenuità delle sue vittime. Nessuno riusciva a resisterle, e questo le aveva fatto credere per molto tempo di essere invincibile.
Da quando era all’Alleanza le cose erano cambiate, e molto.
Vedere Durcan Rendyr così preso dalla sua bellezza le lasciava un terribile sapore di amaro in bocca, e vedere con quanta facilità gli uomini mostrassero le loro debolezze la spaventava un po’. Così come lei stava manipolando il povero ufficiale, qualcun altro avrebbe potuto sfruttare le sue stesse debolezze e quelle delle persone che amava, di suo marito, di sua figlia e di tutti gli amici.
La maestosità di Coruscant, le luci, gli speeder, i grattacieli, tutto le ricordava la vita che aveva avuto in passato e le enormi possibilità che aveva stretto tra le dita. Come Sith avrebbe potuto essere ai vertici della galassia e di quel mondo mozzafiato.
I battiti del cuore diminuirono. La mente si rilassò, e quei pensieri si sciolsero come neve ai soli di Tatooine. L’addestramento fece il suo effetto e si trovò di nuovo concentrata sull’obiettivo.
Ironico come lo stesso Imperatore mi abbia insegnato questa tecnica per impedirmi di avere troppi rimorsi …
L’alloggio del soldato non poteva competere con quegli dei grandi ammiragli, ma era molto più spazioso di quelli solitamente destinati a quelli del suo grado. Mara si finse interessata alla vista panoramica del transparacciaio, ma con la coda dell’occhio osservò l’uomo sbloccare i comandi d’allarme da un pannello ad attivazione palmare nascosto dietro al mobile contenitore dell’unità domestica R5. Sarebbe potuta entrare lì dentro a colpi di spada laser e prendere direttamente i codici, ma questo avrebbe sicuramente allertato i militari che avrebbero subito sospettato un’operazione dell’Alleanza.
Il terminale operativo era proprio vicino al letto. Non aveva senso prolungare oltre quella messinscena.
L’ufficiale si portò dietro di lei e la strinse a sé, armeggiando con lo strato più esterno del suo abito.
Per fortuna Luke non è qui …
“Quanta fretta!” sorrise, girandosi “Sono il tipo di donna a cui piace fare le cose con calma …”
Gli poggiò la mano sul collo per simulare una carezza, ed in quel momento richiamò i suoi poteri Sith. La pressione strinse in pochi attimi i vasi sanguigni all’ingresso del cranio, e Rendyr le cadde addosso, privo di sensi. Mi dispiace. Sul serio.
Lo appoggiò sul letto e dalla sua borsetta estrasse il porta-dati tascabile. Il sistema di sicurezza del computer entrò in funzione automaticamente, ma il virus che Anakin aveva inserito nel suo dispositivo forzò il blocco in una manciata di secondi e lei si trovò dentro al sistema. L’area operativa riservata alle informazioni militari era ovviamente protetta da valanghe di password, ma quelle si digitarono in automatico sotto i suoi occhi per effetto del virus. Anakin le aveva garantito che i servizi segreti dell’Impero si sarebbero accorti di quell’effrazione soltanto se fossero andati a cercarla di proposito: e se lui diceva una cosa simile non aveva motivo di dubitarne. Lo schermo si fece bianco, ed i codici di accesso dell’Invicta comparvero davanti a lei come piccoli punti scuri lampeggianti. Rendyr non si era ancora ripreso quando ebbe finito con l’operazione e riposto il porta-dati nella borsetta.
Ora manca solo l’ultimo tocco …
Fece correre il Lato Oscuro per tutta la stanza ed i cassetti, le ante dell’armadio ed i compartimenti nelle pareti si aprirono all’improvviso, rovesciando a terra il loro contenuto. Si avvicinò agli abiti dell’ufficiale ed estrasse tutte le carte di credito che riuscì a trovare, poi aprì il cassetto posteriore dell’unità R5 e gli strappò il prezioso core di platino-iridio e quelli che le sembravano componenti di valore. Ci pensò su e prese con sé anche un proiettore di olomovies, poi ripeté i comandi che aveva visto digitare all’ufficiale qualche minuto prima ed aprì la porta. Penserà di essere stato solo vittima di una ladruncola, e se non vorrà ricevere un richiamo dai suoi superiori eviterà di raccontare questa storia in giro …
Tra le luci del settore, accese l’ologramma: “Aragorn, Gandalf, missione compiuta! Appuntamento al molo 7”.




L’assaltatore in uniforme bianca non riuscì a raggiungere il suo velivolo. Hadler lo vide appena in tempo tra i fumi dei raggi, e dalla mano sinistra creò una catena di fulmini che incenerì l’uomo e trasformò lo speeder in una massa fumante. I cinque soldati imperiali rimasti non arretrarono, si riunirono in formazione e spararono contro di lui una seconda raffica di quei raggi roventi, stavolta di colore verde. Non era magia, quello era certo, ma Hadler innalzò un muro di ghiaccio su cui si infranse il loro attacco; scompose la barriera l’attimo successivo, e prima che gli umani potessero caricare le loro strane armi trasformò lo schermo incantato in cinque lunghi cristalli che fece volare contro i loro petti. I frammenti congelati trafissero i corpi, e le armature bianche non opposero alcuna resistenza.
Gli uomini non erano ancora caduti a terra che Hyunkel era già tornato. “Non si sono arresi?”
“No, hanno preferito combattere. Onorevole, da parte loro”.
“Senza dubbio. Ma forse uno ci sarebbe servito intero –commentò l’umano- questo posto è un labirinto …”
“Ed ormai si saranno accorti della nostra presenza …”
“Sai com’è, passare inosservati non è la specialità del Fushikidan”.
Non c’era nulla di più vero in quelle parole. Quando i draghi del Choryugundan conquistavano un regno, di quello non ne rimanevano altro che case fumanti e campi in fiamme; ma quando passava il Fushikidan, la sensazione più orribile era l’odore di carne in putrefazione e di morte che esalava dalle piante e dalle abitazioni. Vi era in quell’armata un terribile senso di degenerazione che riusciva ad intaccare persino lo spirito dei demoni più combattivi; le orbite vuote, le ossa in bella mostra e gli abiti consunti, tutto in quelle creature generava un incredibile senso di ripugnanza che Hadler trattenne lanciando un incantesimo che lo isolava almeno dal fetore.
Gli scheletri si avvicinarono ai cadaveri in piccoli drappelli. Un paio di loro levò gli elmi agli assaltatori e toccarono le fronti con le dita: pronunciarono varie parole nella loro lingua, inasprendo ogni volta il tono, ma era evidente che, qualunque cosa stessero cercando di fare, non stava andando per il verso giusto. Hyunkel si avvicinò al gruppo, e rispose ai sibili concitati dei suoi uomini.
In quei secondi, Hadler si guardò di nuovo intorno: l’intero settore di Coruscant in cui si erano teletrasportatati era ormai una distesa di non-morti. Sebbene, sopra di loro, i palazzi di metallo non permettessero di vedere più di una tenue striscia di cielo, quella parte dei bassifondi era totalmente nelle loro mani: gli uomini che vivevano lì sotto erano dei parassiti in quel mondo tecnologico, esseri inferiori che vivevano di espedienti, ed era bastata una sua Parola del Comando per farli fuggire come conigli al ruggire di un drago. Il tanfo di quel posto, pieno di rifiuti, si univa a quello marcescente del Fushikidan. Un giovane demone di scorta non riuscì a resistere, e volò in un angolo per rimettere il pasto.
Hyunkel gli si avvicinò dopo aver gridato qualche ordine. “Non riusciamo a recuperare i corpi di quegli umani. Di solito i necromanti come Dreya –disse, indicando lo scheletro con cui aveva appena conferito- riescono a rianimare i cadaveri appena caduti, ma qui … non ha alcuna sorgente magica a cui appellarsi. A parte te”.
“Non vi è magia in questo luogo, Hyunkel, nemmeno una goccia”.
Hadler respirò e lasciò che il suo potenziale magico corresse tra i grattacieli, alla ricerca di una minima fonte incantata; il pianeta era troppo esteso per lui, ma comunicò al compagno d’armi, con una certa insoddisfazione, che in quel luogo non avrebbero trovato alcuna sorgente di magia oltre a loro stessi. Il Grande Satana era stato restio ad inviare in territorio nemico una squadra di demoni minori, ma i non-morti del Fushikidan non potevano combattere senza magia organica a supportarli, o sarebbero caduti a terra come i cadaveri che erano. Era il loro unico punto debole, ma di solito bastava la presenza del dipartimento incantato dello Yomashidan per superare quell’inconveniente; ma con lo Yomashidan e Zaboera fuori uso, gli scheletri si aggrappavano a tutto il potenziale magico nell’aria. Il demone poteva sentirli mentre si nutrivano della magia che proveniva dal suo stesso corpo, e vedeva come molti di loro si avvicinavano a lui e gli sfioravano il mantello per recuperare le forze. Ma evidentemente non era abbastanza per rianimare quei corpi.
I pochi umani sopravvissuti all’ondata dei non-morti era svanita tra gli edifici abbandonati, dunque quel posto era solo per loro. Hyunkel accese il proiettore olografico, e davanti ai loro occhi si disegnò la mappa di quei grattacieli, con un grande punto rosso che indicava la loro posizione: un percorso verde si snodava attraverso i bassifondi fino a raggiungere un’area colorata in azzurro, probabilmente il centro governativo.
“Killvearn avrebbe potuto teletrasportarci un po’ più vicini all’obiettivo …” borbottò l’umano.
“Ormai i giochi sono fatti” rispose Hadler, aggiungendo quell’episodio alle cose che avrebbe prima o poi fatto pagare a Killvearn “Recriminare non serve. Cerchiamo piuttosto di sbrigarci prima che arrivi una seconda squadra. Il Grande Satana non può venire qui, deve proteggere il Baan Palace e quindi non abbiamo l’appoggio del Maegudan. Dobbiamo limitare le perdite del Fushikidan, Hyunkel”.
“Limitare le perdite? Noi siamo già persi”.
La voce gracchiante lo fece sobbalzare. Dal passaggio alla sua destra comparve un drappello di non-morti pattugliatori, guidati dallo scheletro più alto che il demone avesse mai visto. In vita doveva essere appartenuto a qualche ramo bestiale della famiglia demoniaca, perché aveva sei braccia, tre per lato, e l’ossatura era troppo massiccia e compatta per essere quella di un umano. Su di lui non era rimasto nemmeno un brandello di pelle, segno che il suo trapasso era avvenuto tantissimi anni prima. Anche l’elmo e la corazza erano consunti, ma ciò che contraddistingueva Bartosh, vice comandante del Fushikidan e signore indiscusso dei non-morti, era la stella di carta che portava appesa al collo con un nastro azzurro, e che sfoggiava con lo stesso orgoglio con cui Zaboera vestiva la tunica di arcivescovo stregone. Dietro di lui gli scheletri gettarono a terra quello che restava di un droide, le strane macchine-soldato dell’Impero.
Hyunkel gli andò incontro, e sebbene fosse alto per gli standard degli umani, il colosso d’ossa lo superava di almeno quattro teste. “Padre, bentornato”.
“Bentornato? Non c’è niente di bene e tornato in questo mondo schifoso! Non mi meraviglio che il Grande Satana abbia mandato noi per questa missione!” disse nel suo stridente demoniaco “Ci sono dei momenti in cui sono felice di essere già morto. Questo è uno. I fumi della città hanno qualcosa di tossico, ne sono certo!”
Non è che lui e le sue truppe profumino come un cesto di rose …
“Ho seguito il percorso di quel proiettore fino al settore N, quello che dovrebbe custodire i loro generatori energetici, o almeno uno dei più grandi”.
“Il percorso è libero?”
“Oh, adesso lo è”.
Hadler estrasse dalla cintura il sacchetto che conteneva i Nuclei Neri, rinforzato con magie di contenimento del Grande Satana. Ne fece levitare uno sul palmo della mano, studiando le superfici metalliche che si incastravano perfettamente tra loro intorno al core azzurro. L’esplosivo magico attirò tutti i non-morti intorno a lui. Nelle orbite vuote poteva vedere il senso di benessere che traevano dalla presenza dell’oggetto, ma anche il desiderio di possederlo. La necromante di prima allungò la sua mano scheletrica verso il Nucleo, ma prima che riuscisse a sfiorarlo una frase secca di Bartosh, nella loro lingua gracchiante, la ricacciò indietro. Tutti i non-morti indietreggiarono di qualche passo. “Non è saggio sbandierare un gingillo simile davanti al Fushikidan, generale Hadler”.
“Non oseranno mai toccarlo. È il nostro asso nella manica! E soprattutto è stato il Grande Satana ad ordinare a tutti di non farli esplodere inutilmente!”.
“Gli ordini del Grande Satana non si discutono. Ma il Grande Satana non può ordinare ad un pesce di respirare fuori dall’acqua, così come non può comandare ad un coccodrillo di volare. La magia è il nostro nutrimento, è tutto ciò che ci fa considerare ancora vivi” disse lo scheletro enorme. Aveva portato la sua mole proprio davanti a lui, e come per un tacito segnale tutti i non-morti si erano dileguati ai loro posti. Hadler fece scivolare l’esplosivo dentro il sacchetto, e sfiorò con le dita gli altri tre Nuclei che giacevano sul fondo. Tenere quegli ordigni al suo fianco lo rendeva terribilmente insicuro, ma mai quanto la figura cupa del vice-comandante Bartosh davanti a lui.
“Se è un ordine del Grande Satana dovrete privarvi anche del nutrimento!”
“Oh, ed immagino che lei lo farebbe, generale Hadler …”
“Certo che sì!” rispose, sentendo i suoi due cuori battere per l’orgoglio “Del cibo, dell’acqua e della mia stessa vita! È quello che tutti i demoni farebbero!”
“Peccato che la maggior parte dei vostri corpi d’armata non sia composta di demoni!”
Hyunkel, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, si frappose tra i due. “Padre, per favore … abbiamo una missione”.
Lo scheletro gli rivolse delle parole nella sua lingua stridente, ed il giovane umano gli rispose a tono. Hadler conosceva a malapena una ventina di parole della lingua dei non-morti, dunque non riuscì a seguire il rapido scambio di battute davanti a lui: le parole di Hyunkel dovevano però aver avuto un effetto benefico, perché dopo qualche minuto il vice-comandante fece un cenno d’assenso e si allontanò verso un drappello di altre creature.
“Come lo hai convinto?”
“È mio padre. So come convincerlo”
I demoni minori di supporto volarono intorno a loro, con una certa preoccupazione negli occhi. Hadler li tranquillizzò, poi accese il proiettore. I quattro settori N, Q, J2 e L10 brillavano di verde sulla mappa virtuale, ed il percorso appena sgomberato da Bartosh conduceva dritto al primo obiettivo. Quattro settori per quattro Nuclei Neri. Lo scienziato dell’Organizzazione aveva bisogno di più tempo per costruirne altri, ma quelli che aveva al fianco erano più che sufficienti per colpire al ventre quell’enorme città-pianeta di metallo e ricordare agli umani contro chi stavano combattendo. Personalmente avrebbe preferito una tattica più onorevole di quegli esplosivi, ma sapeva che il corpo a corpo non sarebbe venuto a mancare, e che l’esercito demoniaco non aveva abbastanza truppe per condurre un assedio vero e proprio su quel pianeta. Guardò in alto, e l’orribile sensazione di vedere il cielo imprigionato e ridotto a sottili strisce azzurre tra quelle abitazioni grigie gli strinse lo stomaco. Il cielo non poteva essere rinchiuso.
Intorno a lui, Hyunkel aveva ordinato le truppe, e la schiera di cadaveri deambulanti occupava buona parte delle strade di quel quartiere, mentre i demoni minori si erano disposti sopra di loro ad intervalli regolari, lasciando che il Fushikidan attingesse al loro potenziale magico. Bartosh fu di nuovo accanto a lui con il suo odore di morte. “Ho insegnato a Hyunkel a tirare di spada. Non posso insegnarle ad essere un buon generale, ma se deve guidare tutti i corpi d’armata, draghi inclusi … beh, qualche piccolo consiglio credo proprio di poterglielo dare. Non può trattare demoni, draghi, animali e non-morti allo stesso modo, generale Hadler”.
Era il padre di Hyunkel, dopotutto. L’unico essere che avesse trovato il coraggio di portare un umano alla corte del Grande Satana.
Sì, forse qualcosa da insegnarmi ce l’ha.




“GENERALE MISTOBAAN! ALLARME!”
L’Angelo della Salvezza atterrò in mezzo alla sala, circonfuso di luce. Boba sentì i cori celesti innalzarsi, i cieli squarciarsi e vide schiere di cherubini accompagnare il suo salvatore. Che, per inciso, in quell’istante aveva assunto le sembianze di un giovane agente dei servizi segreti, il ragazzo dal ciuffo azzurro che avevano catturato al Castello dell’Oblio. Le parole del nuovo arrivato bloccarono a metà la foga oratoria del generale Mistobaan, che era iniziata almeno un’oretta prima e non accennava a smettere. Il Braccio Destro dell’Imperatore si fermò, con il dito alzato, ed i suoi occhi luminosi fiammeggiarono da sotto il cappuccio ed inchiodarono il nuovo arrivato. Boba Fett inspirò a fondo, godendo quei pochi, bramati istanti di silenzio.
“Agente Zexion, mi auguro che tu abbia un eccellente motivo per interrompermi. O vuoi che ti insegni le basi della disciplina, come sto facendo con questo misero rifiuto umano?”
Il “misero rifiuto umano” era un povero ufficiale tecnico, che in quel momento giaceva impaurito contro un muro, annichilito dal bombardamento verbale di Mistobaan. Quel poveraccio si era recato nel suo ufficio circa un’ora prima riportando, con sua massima vergogna, che una ladruncola aveva svaligiato il suo alloggio, facendo rapporto come da prassi. Boba lo aveva ascoltato distrattamente ed aveva deciso di lasciar correre la cosa –dopotutto mancava solo qualche migliaio di crediti, ed il cacciatore di taglie sapeva bene quanto potessero essere convincenti le curve di una donna al momento giusto- quando era entrato il generale Mistobaan.
Ed aveva scatenato l’apocalisse.
Se sul volto del povero ufficiale era dipinto uno sguardo stremato, su quello del giovane agente dei servizi segreti era disegnata un’espressione disgustata. Si teneva lo stomaco a stento, come se dovesse rimettere. “Il Fushikidan … l’esercito del Grande Satana … è qui, generale Mistobaan!”
“COOOOOOOOOOOOOOOSA?”

Muro del Suono: “Perché se la prende sempre con me … ?”

Il governatore Fett sapeva che quel ragazzino veniva usato dai servizi segreti come radar deambulante per qualche potere strano collegato al suo olfatto; non aveva idea di cosa fosse quel Fushikidan, ma di certo il semplice fatto di percepirlo aveva distrutto il corpo già gracile dell’ex Membro dell’Organizzazione. Il piccolo agente si accasciò contro il quadro dei comandi della stanza e quella volta rimise i resti delle barrette proteiche, ma la scena non sembrò impietosire il Braccio Destro.
“DOVE SONO? E QUANDO SONO APPARSI? E PERCHE’ NON MI HAI AVVISATO VIA OLOGRAMMA, INSOLENTE PICCOLO MICROBO?”
“Io ho … chiamato … ma lei non … forse … non ha sentito … quindi mi sono precipitato e …”
Certo che non lo abbiamo sentito, il rumore della sua voce riuscirebbe a coprire un concerto di grancasse naniche …
“SMETTILA DI FARFUGLIARE SCUSE, RADAR DEAMBULANTE! DOVE SONO QUESTE CREATURE? LE INCENERIRO’ CON LA FURIA DEL GRANDE IMPERATORE PALPATINE!”
“Settore … settore N … si sono già avvicinati, ma …” mormorò il ragazzino, e Boba digitò in fretta il codice di chiamata delle unità mediche. Si levò il casco ed annusò l’aria, ma non trovò altro che l’aria perfettamente controllata e filtrata dei condizionatori degli uffici imperiali: ma sapeva –e Tarkin glielo aveva garantito- che le percezioni di quel piccoletto erano più precise dei sistemi di rilevamento della sua astronave, la Slave I. Il Braccio Destro sollevò una mano e rivolse il palmo verso la parete in transparacciaio: una folata di energia magica partì contro la superficie, e questa fu attraversata da una ragnatela di crepe. L’attimo dopo i frammenti di transparacciaio esplosero verso l’esterno, e la ventata d’aria portata da uno speeder che sfrecciava nel traffico a tutta velocità fece volare fuori dall’edificio la scrivania, due droidi inservienti ed il computer personale di Boba. Mistobaan si sollevò in aria, avvolto nella lunga tunica bianca “FERMERO’ I NEMICI DELL’IMPERATORE DA SOLO!”
Il piccolo agente segreto si riprese in un attimo: “Non lo faccia, generale Mistobaan! Non può mettere in pericolo il Dono dell’Imperatore!”
“NON C’E’ ALCUN PERICOLO PER COLORO CHE SONO SORRETTI DALLA FEDE NELLA SUA GIUSTIZIA SUPERIORE!”
“Ma loro hanno …”
Un boato scosse l’intero edificio.
Boba perse l’equilibrio, e prima di cadere nel vuoto creato dal Braccio Destro attivò il cavo magnetico nel bracciale della sua armatura mandaloriana; quello si fissò all’impalcatura metallica del cornicione e lo sorresse, ma l’ufficiale Rendyr non fu così fortunato. L’uomo cadde nel vuoto con un grido, e sotto di lui Boba vide con orrore che decine di velivoli avevano perso il controllo e si erano schiantati contro il grattacielo vicino.
Gli allarmi del settore J2 suonarono all’impazzata. Il cacciatore di taglie si tirò su, e quando mise di nuovo piede in quello che rimaneva nel suo ufficio vide Mistobaan rialzarsi in una ventata di imprecazioni, avvolgendo il suo corpo con quelli che sembravano incantesimi di guarigione, gli occhi luminosi rivolti verso un punto imprecisato oltre l’orizzonte. L’agente dei servizi segreti era accasciato contro una parete con il sangue che colava dalle tempie, circondato da quello che restava di un droide protocollare.
Boba seguì lo sguardo del Braccio Destro.
Dove prima vi era il settore N, adesso non c’era nulla.
Assolutamente nulla, se non il cielo striato di arancione. Un intero settore della capitale dell’Impero Galattico svanito in pochi istanti.
Tra gli allarmi, le grida dei soldati e dei civili, il rumore dei flyer di soccorso e le apparecchiature in cortocircuito, il cacciatore di taglie sentì Mistobaan mormorare le ultime due parole che avrebbe voluto sentire in quel momento: “Nuclei Neri …”

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 - Fuochi d'artificio ***


Capitolo 8 - Fuochi d'artificio




Valygar Corthala


“Forti di cuore e svelti di mano
pranzano a terra e cenano a Marte
una chitarra se sono in pace,
spada di fuoco per difendere noi.

La loro vita è in mezzo alle stelle
per vigilare su mondi lontani,
navi spaziali o vettura terrestre
per i nemici son come la peste.

Tanti universi, un solo mondo
tanti colori, un solo viso,
portano aiuto a povera gente
danno l'amore in cambio di niente.

Il mondo gira in mezzo alle stelle,
navi spaziali che vanno lontano
portano a bordo soltanto ricordi
immagini, sogni del tempo che fu.”

“La Ballata dei Ribelli”, composta dal bardo Haer'Dalis durante il suo soggiorno sulla Terra II.





Nel giro di pochi secondi furono fuori dalle casse. Mara aiutò un guaritore elfico a liberarsi dei pezzi di ricambio per droidi sotto cui si era nascosto, poi lo spinse bruscamente a terra prima che finisse nel raggio d’intercettazione di un drone-sentinella. Il fragore dei motori dell’Invicta coprì le parole di ringraziamento dell’elfo. L’enorme Star Destroyer decollò dopo aver depositato le scorte, diretto verso il cuore della battaglia.
Aragorn le sorrise da dietro il pilastro di cemento dove si era nascosto.
Bene, e adesso che facciamo?
La base in cui erano stati depositati era la tipica struttura militare che l’Impero Galattico metteva in piedi come supporto durante le invasioni planetarie su larga scala: ogni alloggio, ogni locale, ogni torretta erano pensati per poter essere installati o rimossi nel giro di una manciata di minuti, costruiti in perfette lastre metalliche. Alla loro destra vi era una serie di ambienti collegati tra loro in una lunga fila, che si stendeva da una parte all’altra fin dove poteva giungere l’occhio. Dappertutto erano accatastate casse e sincronizzatori volumetrici oscillanti: armi, pezzi di ricambio, rifornimenti, Mara sapeva bene che il contenuto di quella base –che a giudicare dalle sigle sulle casse rispondeva al nome BEF- era sufficiente per garantire rifornimenti continui agli Star Destroyer per oltre un mese. Era abbastanza improbabile che i demoni riuscissero a scoprire quell’installazione. L’aria sopra le loro teste ronzava, ed accanto a lei Lavok la fissò con interesse: il sistema di occultamento olografico era attivo, e chiunque volasse al di sopra di BEF avrebbe visto soltanto una fitta vegetazione assolutamente anonima. Una qualsiasi nave dotata di controriflettori M2 avrebbe potuto individuare e dissipare quel trucco, ma era certa che né i demoni né gli umani di quel pianeta possedessero simili tecnologie.
“Hai idea di dove potrebbe essere l’uscita?” chiese il mago, premuto contro la cassa.
Lei annuì.
Rimasero appiattiti contro i rifornimenti finché l’ultimo droide non passò oltre. Le sue percezioni Sith si estesero a tutto il perimetro dell’area, e notò che la maggior parte delle difese della base era nelle mani dei droidi, mentre gli ufficiali erano relegati nel comparto amministrativo e svolgevano solo compiti di coordinazione. Con uno scatto si portò contro l’edificio vicino, imitata dal guaritore e da Lavok; Aragorn, Gandalf, Eomer e Valygar vennero per ultimi, intenti com’erano a far passare il manipolo di soldati semplici e di medici oltre il campo d’individuazione delle sentinelle. Quando il gruppo fu riunito, Mara contò più di venti teste.
“Non saremo un po’ troppi?”
“Troppi?” rispose Gandalf a voce bassa “Non si è mai troppi quando si tratta di aiutare qualcuno!”
Mara avrebbe voluto spiegare quel concetto anche alle torrette turbolaser che gettavano la loro ombra poco distante dal loro rifugio. Sapeva per esperienza che quei campi base avevano tutti la medesima struttura, basata sull’incredibile precisione e sulla natura ergonomica delle costruzioni imperiali. Superare le mura difensive era semplicemente impensabile: erano troppo spesse anche per la sua spada laser, ed aveva sensori collegati su tutto il perimetro che avrebbero avvisato le guardie di qualsiasi variazione termica. Quel luogo era pensato affinché a terra vi fosse una sola uscita possibile, controllata a vista, e se il suo senso dell’orientamento non si sbagliava doveva trovarsi a pochi isolati di lì, sempre sulla destra. Se le torrette avessero permesso loro di arrivarci, beninteso. Aveva calcolato quel posto al millimetro, uno dei pochi metri quadri della struttura a non essere raggiungibile dai sistemi di puntamento delle torri, ma non potevano rimanere lì in eterno; anche il più vecchio e arrugginito droide protocollare avrebbe notato venti persone accovacciate in un angolo.
Aragorn sembrò leggerle nella mente. “Uno di quei turbolaser e siamo fritti”.
“Già. E non tutti hanno la nostra prontezza di riflessi” disse, scrutando lo sguardo dei medici. I guaritori elfici erano pronti a tutto, molti avevano già partecipato a missioni di salvataggio, ma non erano combattenti. I loro archi corti avrebbero fatto il solletico ai droideka, e nonostante la loro naturale agilità non erano in grado di muoversi bene tra laser, fuoco e postazioni al plasma.
Quando si voltò, sul viso di Aragorn era dipinto un sorriso. “Basterà metterle fuori gioco per un po’”.
“Se ne accorgeranno, che dici?”
Ma quella era l’espressione delle grandi occasioni. “Non se sono impegnati a guardare qualcos’altro …”
Qualcos’altro … cosa?” chiese, anche se in cuor suo già sapeva la risposta.
“Aspetta e vedrai. Al momento giusto prenditi Valygar e Lavok e andate alla torretta”.
L’attimo dopo lui e Gandalf erano spariti. La ragazza li guardò andarsene su per una scaletta che saliva su una confluenza di tunnel e tubazioni, poi si sedette appoggiando le spalle al muro, la spada laser nervosamente in mano. Detestava le attese. Il Lato Oscuro dentro di lei voleva uscire e trafiggere qualsiasi avversario, umano o droide, le si fosse parato davanti: i turbolaser di quelle torrette sarebbero stati un semplice gioco per le sue percezioni. Se fosse stata da sola, senza deboli umani ed elfi alle sue dipendenze, sarebbe potuta fuggire da BEF in pochi minuti, libera e aggressiva come i venti che spazzavano i mari di Kamino. Ma non era sola.
E le persone intorno a lei non erano un peso. Sospirò, rendendosi conto di quanto fosse difficile liberarsi dalla presa del Lato Oscuro. Non vi era missione in cui non sentiva i proprio poteri oscuri risvegliarsi e tentarla, specie quando la via degenere della Forza le mostrava i suoi lati più rapidi e seducenti. Tutta quella gente contava su di lei, l’aveva accolta senza riserve e le dava migliaia di motivi per combattere per l’Alleanza, ogni giorno: ma le ricordavano anche a cosa aveva rinunciato, a quella sensazione di potere che aveva provato diverse ore prima passeggiando per Coruscant.
“Rilassati” mormorò Lavok, sedendosi accanto a lei. Mara si accorse di quanto forte stesse stringendo la spada laser. “Sei tu ad avere il comando, adesso. Qualunque mossa farai, per noi va bene”.
“Non è facile prendere la scelta giusta. Anche quando si tratta di attaccare una stupida torre di avvistamento”.
Il mago si sistemò la tunica lisa, stringendo i lembi che formavano il cappuccio in una catenella di bronzo. “Quando mai è facile?”
Lei stava per mormorare una risposta quando un boato dall’altra parte della base coprì le sue parole. I medici ed i soldati semplici si scambiarono sguardi preoccupati, che dopo qualche istante si trasformarono in sorrisi quando il familiare sibilo dei fuochi d’artificio riempì il cielo. Dal settore meridionale salì uno sbuffo di fumo e delle scintille argentate attraversarono l’aria, bucando il campo olografico. Lo stemma dell’Alleanza Ribelle comparve sopra le loro teste, e Mara capì che era il segnale.
Una squadra di almeno dodici droideka rotolò proprio accanto a loro, diretti contro l’origine del trambusto, ed una voce gracchiante ai ripetitori vocali emanava ordini di allarme e di apprestare lo stato di emergenza. “Andiamo!” sibilò Mara, certa che Eomer avrebbe protetto con tutte le forze il gruppo di soccorso.
Lei ed i due compagni corsero verso la torretta, che stava facendo ruotare i suoi cannoni verso il lato opposto della base; quando videro un altro drappello di droidi si appiattirono contro una parete, per poi sfrecciare dal riparo improvvisato. Il grido di battaglia di Aragorn si poteva udire anche da lì, e quando sentì le macchine aprire il fuoco capì che dovevano fare in fretta. Tre droideka apparvero di fronte a loro, un piccolo drappello probabilmente fatto appena uscire dagli imballaggi. Prima che riuscissero a spiegare del tutto il loro corpo metallico ed alzare gli scudi deflettori, una freccia saettò dall’arco di Valygar e si piantò dritta tra i cavi di quello più a destra, sprizzando scintille. Il droideka non era ancora caduto a terra che il ranger dalla pelle scura saettò in avanti e piantò le sue spade corte oltre il velo azzurro degli scudi deflettori, colpendo i circuiti delle macchine restanti prima che quelle potessero sparare. Anni di esperienza avevano insegnato ai Ribelli che gli scudi deflettori erano eccellenti contro le cariche laser e tutti i colpi che trasportavano alta energia cinetica, ma erano inefficaci contro una buona spada di metallo piantata nel punto giusto. Valygar rientrò nel gruppo prima che i resti dei droidi lo colpissero con le scintille. “Ranger contro maghi: uno a zero” disse con aria trionfante, rivolto verso Lavok.
Quello si limitò a sbuffare tra i denti un “Nipote degenere!”, poi superò i droidi e corse avanti nel percorso poco illuminato.
Mara sospirò di sollievo, temendo di ritrovarsi impantanata nelle eterne dispute di Lavok e Valygar Corthala, zio e nipote, sulla superiorità dei maghi e dei ranger; dispute che di solito si trascinavano anche durante i combattimenti.
L’ingresso della torre sembrava sigillato. La Sith sapeva che da qualche parte doveva esserci un pannello per controllarne l’apertura, ma con tutti i fari proiettati verso Aragorn e Gandalf vi era ben poca luce. E anche se fosse riuscita a trovarlo non aveva idea di quale fosse il codice d’accesso. Sbuffò tra sé. “Copritemi” disse, accendendo la spada laser “Faccio strada”.



“Tarkin!” mormorò Maul. “Vengo dalla sala comunicazioni. Ho una notizia cattiva ed una pessima. Quale preferisci?”
Quale preferisco?
Dalla plancia di comando tutto quello che riusciva a vedere era il ventre squarciato dello Steel Pride. L’enorme Star Destroyer si era interposto tra il Basilisk e la furia del Cavaliere del Drago: tutti i turbolaser del lato destro avevano vomitato fuoco e scintille contro quel mostro, e per un attimo gli ufficiali al suo fianco avevano trattenuto il fiato vedendo la figura alata svanire tra le esplosioni. Ma Tarkin non si era illuso.
L’attimo dopo sul ventre della gigantesca nave da battaglia era comparsa una scintilla. Che poi era diventata una crepa luminosa. La parte inferiore dello Star Destroyer aveva vomitato lunghe scariche elettriche, poi si era piegata a metà. Il Cavaliere del Drago era emerso al centro, con la spada avvolta da fulmini che sembravano alimentarsi direttamente dallo Steel Pride; un drago gigantesco, nero come la notte, era planato dietro al suo padrone ed era atterrato su quello che restava dell’incrociatore, spazzando i turbolaser ancora attivi con un soffio di fuoco e attraversando il ponte alla ricerca di prede umane. Tarkin non era così vicino da vedere in viso il leggendario Ryumajin, ma non aveva bisogno di scorgerne il cipiglio per averne paura.
Era una paura diversa da quella che aveva sempre provato nei confronti di Kaspar: quel mago era pazzo, potente e imprevedibile, ma ritrovarselo davanti era sempre meno terribile del saperselo alle spalle. Ma guardando il Cavaliere del Drago capiva perché i demoni non attaccavano a tradimento.
Semplicemente non ne avevano bisogno.
Il rumore dello Steel Pride sventrato accompagnò la sua risposta.
“Dammi quella pessima. Almeno l’altra non mi sembrerà tanto tragica”.
“I demoni del Grande Satana sono a Coruscant. Con i Nuclei Neri”.
Un solo pensiero razionale lo travolse: “Shandra dov’è?”
“Tranquillo. Boba l’ha già fatta trasferire su una nave in partenza per Ithor insieme a Neos. Credo che sia l’unica buona notizia”.
Il suo cuore si calmò, anche se di poco. Se sua figlia era in orbita, allora l’intera Coruscant poteva anche diventare un campo di battaglia. Le Pietre della Sapienza, l’unico mezzo di teletrasporto dell’Impero, erano con lui sulla flotta e non poteva rischiare di portarle via, specie con un Cavaliere del Drago furioso. Maul gli lesse negli occhi. “Boba ha mandato tutte le truppe a fermarli, Kaspar compreso. Mistobaan con questa stupida storia del Dono è inservibile, ma Zam è in arrivo”.
A che serve aver addomesticato il Braccio Destro del Grande Satana se poi non possiamo mollare il guinzaglio?
“Come pessima notizia ho sentito di peggio. Ora dammi quella cattiva”.
“I Ribelli hanno deciso di andare a BEF per la loro ennesima scampagnata planetaria” disse, mostrandogli un proiettore. Il satellite mostrava dall’alto la superficie della base perfettamente mimetizzata con il terreno, quando dei fuochi d’artificio esplosero dal nulla e disegnarono in cielo il simbolo dell’Alleanza. “Non mi chiedere cosa stiano facendo lì …”
“Oltre metterci i bastoni tra le ruote per divertimento? Niente”.
“Allora me ne posso occupare io?” chiese il Sith “Non so se sono più inutile io a bordo di una flotta o Mistobaan davanti ad un nemico impegnativo …”
Mistobaan, senza alcun dubbio …
“Ovviamente. Hai portato l’Ascia del Millennio, vero?”



L’Impero ha migliorato la qualità delle sue leghe … sbuffò Mara. La lama rossa della sua spada laser era infissa fino all’elsa della parete, ed intorno ad essa il metallo diventava incandescente, costringendola a chiudere gli occhi. Faticava a spingere la lama, e dalla cella energetica che conteneva il cristallo alimentatore schizzarono delle scintille. Spinse di più, fino in fondo, trasmettendo alla spada tutta la forza che le rimaneva nelle braccia. Sapeva che la variazione termica che stava inducendo nella parete avrebbe richiamato i droidi di sorveglianza, ma con un briciolo di fortuna non avrebbero richiamato il resto delle forze già impegnate contro Aragorn e Gandalf. Quando finì il tracciato, spinse il Lato Oscuro contro la spessa lamina di metallo, e quella cadde indietro con un tonfo secco. Si buttò a terra, imitata dai suoi compagni, sicura che i droidi della sicurezza li avrebbero accolti con una raffica di laser, ma non venne sparato nemmeno un raggio. Rimasero in attesa, perplessi, ma dal buco non uscirono ricognitori. I poteri Jedi o Sith erano in grado di percepire la presenza di esseri viventi, ma erano inutili per rilevare macchine o qualunque cosa non organica. Valygar scagliò una freccia nell’apertura fumante, ma non vi fu risposta.
Aspettarono ancora qualche minuto, poi passarono cauti dall’altra parte.
Si trovavano su un pianerottolo, a metà di una scala che partiva da qualche piano sotterraneo e si snodava in alto, verso la sala comandi. Una porta, sulla loro destra, era chiusa e sbarrata da bande metalliche probabilmente elettrificate. I sistemi di illuminazione interna erano funzionanti, ed accompagnavano il percorso della scala, la loro luce tracciava i contorni dei gradini lucidi, mentre il fumo acre della parete appena forzata si sollevava nei punti in penombra.
Il silenzio era assoluto.
Mara gettò un’occhiata a Valygar. Il giovane ranger si guardava intorno, con la freccia incoccata. C’era una rinnovata inquietudine nei suoi occhi.
Cominciarono a salire, la schiena contro la parete, le orecchie tese. Lei si mise in retroguardia, lanciando occhiate circospette verso l’ingresso, mentre i rumori della battaglia si affievolivano. Le scale si curvavano serpeggiando lungo il muro, con tenui manti d’ombra nei punti di svolta. Il suo stomaco era in agitazione: non era dall’Impero Galattico costruire una torre senza nemmeno un ascensore, così come non inviare nessun droide contro una palese minaccia all’integrità di quella struttura. La cosa le puzzava di trappola. Le sembrò di sentire qualcosa in cima alla scala: un leggero ronzio, il rumore di un interruttore acceso. Valygar guadagnò il pianerottolo successivo, fugando i suoi dubbi. Batté le palpebre e cercò di rilassarsi, di rallentare i battiti del cuore. Era solo una stupida torretta difensiva, aveva conquistato strutture ben peggiori.
Davanti a loro c’era solo una porta priva di guardie, non sbarrata. La aprirono senza difficoltà. Se quella era la sala comandi avrebbero dovuto esserci dei droidi. Gettò di nuovo un’occhiata a Valygar, ma quello scrutava le pareti della stanza alla ricerca di qualsiasi nemico che potesse sbucare da dietro i terminali. Si mossero rapidi verso il centro, e la Sith si rivolse verso la grande parete di transparacciaio che ricopriva quasi tutto il perimetro della stanza, dando una visione quasi completa di BEF. L’istallazione era più grande di quello che ricordava, forse un nuovo modello: il perimetro aveva una forma ottagonale, con una torretta ad ogni vertice, e per fortuna l’ingresso principale era proprio dove lei aveva immaginato. Gli edifici per il personale umano erano al massimo una decina, mentre le strutture di conservazione per i droidi erano oltre un centinaio, disposte in lunghe file parallele. Lo sguardo andò verso il punto dove erano nascosti i medici ed i soldati di supporto, ma l’area era coperta dalle casse appena sbarcate dietro cui Eomer aveva sicuramente nascosto la squadra. In quel momento i droidi si erano radunati nell’area destinata all’atterraggio delle astronavi, diretti in formazione compatta verso un gruppo di magazzini anneriti dal fumo: due sagome umane saltavano da un tetto all’altro, facendosi beffa dei laser sparati nella loro direzione. I droideka non erano in grado di arrampicarsi, ed i droidi di base stavano approntando delle autoscale per raggiungere i due ribelli, ma Aragorn e Gandalf respingevano i magneti adesivi prima che le autoscale fossero pronte, costringendo le macchine dell’Impero ad infiniti tentativi. Gandalf sparò un secondo fuoco d’artificio –solo la Forza sapeva come avesse fatto a nasconderne così tanti sotto la barba- contro dei droideka in arrivo dal settore d’ingresso, interrompendo il loro rotolamento e mandandoli ad esplodere contro uno speeder parcheggiato.
“Va bene, adesso che facciamo?” chiese Lavok. Si era seduto davanti ad un terminale olografico, facendo scorrere le dita sulla tastiera virtuale. Il nipote si era appostato davanti all’ingresso, l’arco puntato verso le scale.
“Se qui non c’è personale, vuol dire che l’intera torre è automatizzata, forse l’intera struttura difensiva. Questo vuol dire che non sarà facile accedere al controllo manuale, ma ci posso provare”.
Fu in quel momento che sentì il fischio.
Senza riflettere afferrò il braccio di Lavok e lo spinse a terra.
Il soffitto sopra di loro si spalancò, e cinque droidi IG atterrarono sul pavimento, le luci rosse intermittenti sulle loro teste cilindriche. Il corpo di quelle macchine quasi antropomorfe era un arsenale deambulante, con vibrolame, blaster, granate a concussione e fruste sinaptiche su qualsiasi arto. La freccia di Valygar volò verso uno di quelli, ma dal petto del droide da combattimento emerse un lanciafiamme che carbonizzò il dardo a metà percorso. Il ranger scagliò altre due frecce in rapida successione, ma gli IG rilasciarono insieme il fuoco. Uno di questi proiettò in avanti la bocchetta del lanciafiamme, avvolgendo la tunica dell’uomo in una enorme lingua infuocata.
“Valygar!” gridò Lavok, liberandosi dalla presa di Mara. Il mago fece per lanciare una sfera d’acqua contro il nipote, ma uno degli IG si parò davanti a lui e puntò l’estremità rotante del braccio contro la sua testa. “Levati dai piedi, ferraglia!”
Scagliò l’incantesimo d’acqua sul droide, seguito da una rapida Catena di Fulmini. Dal braccio si levò uno sbuffo di scintille, ed il mago ne approfittò per evocare una piccola cascata sulla testa del nipote prima che la tunica venisse carbonizzata. Il droide si riprese dall’attacco, molto più resistente dei comuni soldati da battaglia. Mara vide le sue microcomponenti riassemblarsi lungo il braccio e creare un piccolo scudo deflettore simile al modello montato sui droideka.
Due IG –classe 88, a giudicare dalla mitragliatrice montata sul braccio sinistro- si gettarono su di lei, ed il Lato Oscuro esplose in risposta. Li avvolse come un turbine, spingendoli indietro. Quello alla sua destra impattò contro la parete, ma l’altro attivò i repulsori lungo la schiena e sfruttò quell’attacco come forza propulsiva per attraversare metà della stanza. Quattro vibrolame scattarono nella sua direzione. Mara le parò tutte con la sua spada laser, mandando i pezzi ad infrangersi contro un computer, poi qualcosa si piantò tra le sue scapole ed una scarica di dolore le attraversò la schiena.
La sensazione di qualcosa iniettato sotto la pelle la fece raggelare.
Dardi kwaith … merda …
La sensazione di smarrimento fu istantanea. L’immagine dell’IG davanti a lei iniziò a tremare. Mulinò la spada davanti a lei, concentrandosi sulle pose di difesa che aveva sempre studiato, aggrappandosi alle vecchie lezioni per non perdere il controllo. Cercò di richiamare il Lato Oscuro per ricacciare almeno l’assalitore che aveva di fronte, ma sentì il potere risalirle tra le labbra, stranamente cupo e con un sapore amaro. Scosse la testa, cercando di allontanare il senso di debolezza, ma nel compiere quel gesto abbassò la guardia. Il droide fece fuoco nella sua direzione: respinse come poteva le raffiche laser, ma una la colpì al fianco sinistro e perse l’equilibrio. Dove i colpi del blaster andavano a segno le ferite non sanguinavano, ma il dolore era forte.
Una seconda scarica elettrica partì dalle mani di Lavok, e attraversò la stanza come un fiume in piena. L’IG 88 attivò lo scudo deflettore con un paio di secondi di ritardo, e l’incantesimo penetrò lungo il corpo metallico facendo esplodere i circuiti della testa a meno di un metro da Mara. Anche nello stadio di torpore, lei si accorse che Valygar stava cercando di rimetterla in piedi.
“Levale quel maledetto dardo dal collo!” sentì gridare il mago “Altrimenti nemmeno il più bravo guaritore elfico riuscirebbe a salvarla!”
“E chi ci pensa a questi quattro droidi?” rispose il ranger, mentre armeggiava con il pugnale alla cintura.
“Io, ovviamente!”
“Quando la smetterai di fare l’esibizionista, zio? Non hai più l’età!”
“Scommettiamo?”
Sollevò il braccio e scagliò fuoco in tutte le direzioni, spargendolo tra gli assalitori, con uno slancio per tenerli a bada. Le lingue rosse coprirono la visuale degli avversari, che interruppero l’attacco per attivare gli estintori incorporati e spegnere le fiamme, ma per fare quello disattivarono la modalità blaster del braccio destro. Lavok doveva aver calcolato tutto, perché appena le armi laser si ritirarono per far posto alla pompa del serbatoio idraulico si gettò sul fianco libero del nemico più vicino. Attraversò la cortina dello scudo deflettore senza un gemito e pronunciò l’incantesimo.
Le sue dita furono attraversate da una luce azzurra.
Prima che il droide potesse riconvertire il suo braccio ad arma, dalle dita del mago erano partiti altrettanti Dardi Incantati. Attraversarono i pochi centimetri che separavano il palmo dalla testa del droide ed esplosero lungo la struttura cilindrica. Le luci rosse si spensero ed il droide cadde a terra, ma prima che il resto del corpo facesse partire il programma di riparazione la mano di Lavok diventò incandescente e raggiunse con un guizzo il generatore energetico. Il busto dell’IG si muoveva ancora, ma l’enorme calore riversato contro il punto vitale fece il resto, e quando la carcassa del droide crollò a terra Mara era certa che non si sarebbe alzato. Lavok pronunciò qualche altro incantesimo e si frappose tra loro due e gli assaltatori rimasti.
“Tsk. I maghi sono tutti così. Tanta coreografia e poca sostanza”.
Mara non ebbe le forze di rispondergli. Il senso di debolezza era aumentato. Il torpore si era esteso fino alle dita, e stringeva la spada laser più per abitudine che per capacità fisica. L’immagine di Lavok davanti a lei si era ridotta ad una tunica svolazzante tra fiamme ed altre magie, ed era a malapena cosciente del fatto che Valygar la stesse tenendo sollevata con il braccio sinistro, mentre con l’altro armeggiava con il coltello.
“Questo farà male …”
Il ranger non aveva ancora finito la frase che Mara urlò per il dolore. La lama sottile penetrò alla base del collo, disegnando un cerchio proprio intorno al punto in cui si era conficcato il minuscolo dardo.
La punta si approfondì.
D’istinto cercò di allontanare quel dolore con un’ondata di Lato Oscuro, ma il compagno doveva aver immaginato quella reazione e le aveva stretto entrambe le braccia con il suo; spossata, Mara si accasciò una seconda volta, cercando di concentrarsi su Lavok, sui droidi ed i loro deflettori, su qualsiasi cosa si muovesse davanti ai suoi occhi. Era troppo debole anche solo per …
“Preso!”
Quello fu il dolore più intenso di tutti. La sensazione di qualcosa strappata via dalla sua carne a forza le attraversò la spina dorsale. “Era profondo, il bastardo!” sibilò Valygar. Quando Mara riaprì gli occhi, umidi di lacrime, vide il piccolo dardo metallico scintillare nella mano scura del ranger. Tra gli aghi sottili, convergenti verso il basso, vide un frammento di carne insanguinata che doveva provenire dal suo corpo. Il torpore era ancora intenso, ma il dardo non era riuscito ad iniettarle tutto il veleno, quindi non avrebbe dovuto preoccuparsi. Non di quello, almeno.
La barriera magica che Lavok aveva creato intorno a loro non sarebbe durata a lungo: Mara sapeva che per quel tipo di incantesimi difensivi occorreva una concentrazione ben maggiore di quella necessaria per scagliare una palla di fuoco, e sapeva che Lavok era allo stremo e non aveva un elevato potenziale magico. Le sottili strie bianche della magia disegnavano un globo nell’aria intorno a lei e Valygar. Il fuoco del lanciafiamme di un IG venne respinto al mittente, ma la donna sapeva che non avrebbe funzionato contro un vecchio, classico proiettile di metallo.
Le gambe ancora le tremavano, ma si appoggiò alla spalla del ranger e si rimise in guardia, la spada accesa, cercando un varco nei loro tre nemici: le macchine si erano disposte in modo difensivo, come da programmazione quando troppi membri della squadra venivano distrutti. Valygar lanciò un pugnale attraverso uno scudo deflettore, ma la lama nemmeno scalfì il metallo.
Fu un flebile, quasi impercettibile tintinnio ad attirare la sua attenzione. Non se ne sarebbe mai accorta senza il suo allenamento nel Lato Oscuro. Guardò nella direzione del rumore, oltre il campo distorto dei deflettori, e nonostante la vista indebolita per il veleno si accorse del piccolo contenitore azzurro caduto dall’arsenale di uno degli IG. E non per caso.
“GAS TRION!” urlò, evitando l’ennesima raffica laser nella sua direzione. Si coprì il naso e la bocca come meglio poté, avvolgendoli in una delle pieghe dell’abito nero: ma sapeva che in quel modo poteva guadagnare al massimo qualche minuto. Alla sua destra Valygar fece altrettanto, mentre Lavok creò intorno alla sua testa una sottile bolla di aria giallastra incontaminata.
Quei droidi assassini li stavano tenendo a bada, e avevano altre vite che dipendevano dalla loro incursione. Si gettò su uno dei terminali, sforzandosi di non respirare, mentre lungo la pelle si diffondeva un terribile bruciore; percepì un droide avventarsi contro di lei, ma trovò una delle spade di Valygar ad attenderlo.
Mara ringraziò tra sé il suo compagno ed iniziò a digitare sulla tastiera olografica tutti i comandi manuali che trovava, alla ricerca dell’attivazione del sistema di puntamento centrale. I suoi polmoni chiedevano aria, ma per tutta risposta strinse maggiormente la tunica intorno al naso; la mano destra, sebbene protetta da un guanto, sembrava bruciare per l’effetto del trion. Quando combatteva per l’Impero aveva usato quel gas più di una volta, e sapeva bene quanto fosse efficace: la pelle e le mucose delle vittime venivano corrose nel giro di cinque o sei minuti, e non era considerata una morte rapida o pietosa. Era così pericoloso che i normali droidi da battaglia non ne erano equipaggiati per timore che potessero sprigionarli senza un valido motivo e danneggiare la componente umana delle truppe imperiali, ma gli IG erano diversi. In battaglia non si interfacciavano con gli uomini, quindi l’uso del trion era tollerato.
Il sistema rispose.
Adesso parti, maledetto!
Mosse la mano dentro l’immagine dell’ologramma, e sotto di loro la batteria di turbolaser iniziò a muoversi con un ronzio intenso. La sagoma allungata del cannone comparve proprio oltre il vetro, e la Sith lo direzionò fidandosi solo dei propri occhi. Fece fuoco.
L’ingresso principale di BEF esplose in una massa di fiamme, schegge, detriti e lamiere, l’intero portone d’ingresso di terra spazzato via dalla sua raffica di turbolaser. Da quella distanza non riusciva a vedere se vi fossero umani o droidi sopravvissuti, ma quelli ormai non erano più compito suo: Eomer era rimasto indietro proprio per guidare la squadra fuori di lì, e di certo avrebbe fatto l’impossibile per sfruttare l’opportunità che lei gli aveva lasciato.
Un secondo dardo saettò verso di lei, ma stavolta non fu impreparata. Si girò ed il piccolo proiettile metallico si distrusse al contatto con la lama laser, e prima che l’IG riuscisse a caricarne un altro fu impegnato da Valygar in un combattimento frontale. Ma l’aria della stanza era diventata azzurrina, ed il dolore alla mano destra stava diventando ben poco sopportabile. Si lanciò contro il vetro della torretta, e quello si infranse in una pioggia di schegge ad un suo calcio; una ventata d’aria attraversò la stanza, e nonostante fosse rovente per gli spari nel cortile fu comunque un’ondata di freschezza rispetto al gas. “RAGAZZI, CE NE ANDIAMO DI QUI!” gridò, cercando di farsi sentire sopra gli spari.
Nella piazza, oltre i magazzini, la battaglia infuriava. Aragorn e Gandalf si erano gettati dalla loro postazione e stavano intrattenendo da soli almeno cinquanta droidi schivando, fintando, abbassandosi di scatto e lasciando che le raffiche laser cogliessero gli avversari anche tra di loro. Dall’altra parte della base vide lo scintillare dell’armatura di Eomer tra i fuochi, e le sottili sagome degli elfi che correvano dietro di lui, leggeri e quasi invisibili nelle esplosioni e nel frastuono che i due leader dell’Alleanza stavano allestendo. Non c’era momento migliore per fuggire, ma quando guardò in basso sentì il corpo reagire in maniera terribile, come se un’ondata di sonno la attraversasse dal corpo alla punta dei piedi. L’effetto del veleno non era ancora scomparso, ed i tetti dei capannoni in metallo oscillarono proprio sotto di lei. Il suono della battaglia le giunse più ovattato. Solo il vento sembrava essere più forte.
“Mara, reggiti!” fece la voce di Lavok, e la sua mano le strinse forte il polso. Quel contatto improvviso la riportò alla realtà, e quando si accorse che stava per fare una caduta di svariati metri imprecò contro la sua debolezza. Una vibrolama fu lanciata contro la sua schiena, ma si infranse contro un incantesimo barriera. “Grazie, Lavok!”
“I ringraziamenti a quando siamo usciti di qui. E comunque un bacio non guasterebbe!”
“Sono sposata”.
“Lo so. Ma lo prenderò per un no”. Lei si liberò dalla presa e deflesse con la spada laser una raffica di proiettili metallici che un IG rivolse contro di loro. Si accorse che uno dei droidi era a terra, gli arti in maniera scomposta, e Valygar sarebbe andato a dargli il colpo di grazia se non fosse stato impegnato con l’ultimo droide assassino, che aveva pensato bene di scagliare nella sua direzione un intero armadio. Il ranger si liberò appena in tempo, superò in corsa l’IG-88 che stava sparando contro di lei e srotolò la lunga corda che portava sempre al fianco. La Sith coprì anche lui, deviando il secondo assalto diretto verso di loro, spingendoli indietro con i suoi poteri.
Le dita di Lavok si erano illuminate di azzurro. Quando l’uomo le ebbe appoggiate per terra si formò una grande spirale luminosa che partiva dai resti del transparacciaio in frantumi e giungeva a terra. L’incantesimo prese forma, si espanse al tatto ed ai comandi del mago e divenne un lungo scivolo di ghiaccio che fendeva il buio della base come una spada. Mara iniziò ad indietreggiare, ma il suo sguardo era fisso sulle macchine che continuavano a rialzarsi e combattere. Persino quella che sembrava giunta al limite si era sollevata sulle braccia ed aveva ripreso a sparare da dei comparti sulla testa. Lei usò il suo potere per sollevare quello che restava di un altro IG per farsi da scudo, e l’attimo dopo lo vide esplodere sotto i colpi.
Valygar aveva realizzato un cappio e aveva lanciato la fune contro l’antenna del magazzino oltre la strada. Oltre il rumore degli spari lo vide rivolgersi a lei, invitandola a saltare insieme. Mara stava per seguirlo, ma per evitare l’ennesimo contenitore di gas lanciato contro il suo viso si spostò di lato e si ritrovò con un piede sulla rampa di ghiaccio di Lavok.
“Le donne preferiscono i maghi, Valygar. Non lo scordare!”
La acchiappò per la tunica e scivolarono insieme sul percorso. La testa le scoppiava e faticava a tenersi in equilibrio, ma l’uomo la sosteneva. Sotto i suoi stivali vi era la morsa del gelo incantato, ma non fece in tempo a lamentarsi che erano già per la strada, con i laser nemici che esplodevano tutt’intorno a loro. Il giovane ranger attraversò l’aria sopra le loro teste, mollò la corda prima di impattare contro il muro ed atterrò con molta poca grazia alla loro destra.
“Maghi contro ranger, quattro a uno”.
Valygar nemmeno rispose, e iniziò a correre nella direzione del cancello. Mara rifiutò gentilmente l’invito di Lavok di portarla in braccio –invito di pura formalità, visto che lei pesava quanto e più di lui- e fece appello a tutte le sue forze per raggiungere l’obiettivo convenuto. Ormai tutta BEF era al corrente della loro azione, ma se gli altri erano riusciti ad andarsene da lì i loro problemi erano risolti: l’Impero non aveva soldati da sprecare per inseguirli nei boschi e nei campi, e se c’era una cosa che gli elfi sapevano fare a perfezione era nascondersi nella natura. Nella corsa estese le sue percezioni per tutta la base alla ricerca di qualche Ribelle rimasto indietro, ma non ne trovò: vi erano sempre i soliti Aragorn e Gandalf, che probabilmente stavano aspettando che loro tre uscissero dall’avamposto per iniziare a ripiegare. Saltarono tra i resti di un droide e l’altro, e le torrette non aprivano il fuoco contro di loro semplicemente per non danneggiare troppo la struttura, ma sapeva che oltre i cancelli il fuoco nemico li avrebbe seguiti per un bel po’.
Tutto quello che restava del cancello di BEF era un ammasso di lamiere fumanti. Un gruppo di droidi astromeccanici era già in funzione ed aveva spento le fiamme, ma a giudicare dal foro avrebbero avuto bisogno di almeno qualche ora di tempo per riparare il tutto. Beh, ho ancora una discreta mira …
Due droideka cercarono di fermarli, ma Lavok abbatté su di loro un’enorme scarica elettrica che li fece cadere a terra nonostante i deflettori alzati. Valygar si voltò verso di loro, poi con un salto superò i droidi riparatori ed attraversò la cortina di fumo. Quando il suo mantello scomparve tra le volute scure, Mara ed il mago lo imitarono.
Il contatto dell’erba sotto gli stivali fu un istante meraviglioso. La stanchezza sembrò sciogliersi come neve al sole. Sentì il crepitio della barriera dell’occultamento olografico mentre la attraversava, e quando si girò notò che il dispositivo era ancora in funzione, perché della base militare non vi era alcuna traccia. Complimentandosi con l’Impero per l’efficienza delle sue tecnologie, lanciò un sospiro di sollievo e si mise a correre sostenuta dal mago, dietro la figura scura del ranger. Prima dello sbarco avevano convenuto con Eomer l’eventuale direzione della fuga, ed avevano convenuto di correre nella direzione del tramonto del sole, qualunque essa fosse; il terreno era solcato dalle ultime luci della giornata, e la Sith era certa di percepire un ampio gruppo di persone –quasi certamente il loro gruppo di soccorso- più avanti, ma nella loro stessa direzione.
Da BEF nessuno sparo. Una batteria di turbolaser lanciata oltre l’ologramma sarebbe stata avvistata dai demoni, e Mara rifletté che gli ufficiali avevano preferito lasciar fuggire un pugno di Ribelli piuttosto che essere avvistati dalle truppe del Grande Satana. Da quello che aveva capito vi era Tarkin al comando di quell’assalto, il marito di Daala. Lei lo conosceva bene, e sapeva che non avrebbe mai bruciato una postazione sicura per dei nemici che in fondo potevano sempre stanare sulla Terra II. Il fatto che gli imperiali non avessero tempo e truppe da impiegare contro di loro era la chiave per il buon successo della missione che, come aveva puntualizzato Leia, aveva fin troppi punti deboli nell’organizzazione. Lanciarsi a salvare i civili era un’azione meritevole, ma non tutti erano abituati ad improvvisare come Aragorn e Gandalf, lei stessa inclusa.
La raffica di laser rossi la colse alla sprovvista.
Prima che potesse rendersene conto era a terra, trascinata da Lavok, con il sapore di erba secca sotto i denti; il prato vicino alla testa esplose e frammenti di terriccio le entrarono negli occhi. Il mago imprecò qualcosa tra i denti, ma prima che potesse erigere una barriera una seconda raffica, più intensa, lo travolse. Lavok rotolò, ma non riuscì a creare l’incantesimo. Mara guardò in alto, e prima ancora di mettere a fuoco l’immagine grigia riconobbe il rumore dei propulsori a razzo.
Uno degli IG era sopra di loro, ben lontano dalla portata di Lavok o dalle frecce di Valygar. A giudicare dai movimenti interrotti doveva essere danneggiato, ma non abbastanza dal prendere la mira dannatamente bene. Il mirino montato sulla testa si mosse alla ricerca del petto del mago, e Mara deflesse con la spada un dardo rivolto verso di lui. Rimase ferma, sapendo che correre avrebbe condotto quella macchina da combattimento verso gli altri, ma l’ondata di fuoco ripartì, più intensa, senza dare a Lavok il tempo e la concentrazione per richiamare un incantesimo o a lei per manipolarlo con i suoi poteri. L’altezza gli forniva un vantaggio senza pari, ed era programmato abbastanza bene da averne piena coscienza. Lei provò ad allontanarsi dal compagno per distrarre la macchina, ma i blaster gemelli sui due arti potevano attaccare entrambi, quindi dopo qualche passo tornò vicino a Lavok nel tentativo di disimpegnarlo.
Però non ce ne fu bisogno, perché un istante dopo il droide perse il controllo. Schizzò verso l’alto con una velocità che nessun propulsore a razzo possedeva, avvolto in un fumo grigio e bianco. Quando salì di quota di almeno cinquanta metri esplose in un tripudio di scintille verdi, rosse e blu, che formarono un elegante ghirigoro; la donna fu rapida a scostarsi, perché quello che rimaneva dell’erogatore di trion e la canna di un blaster caddero a pochi passi da lei mentre altri pezzi della letale ferraglia si disperdevano per il campo. Il vento portò via la nuvola di fumo in pochi attimi, ed il cielo fu avvolto da una meravigliosa coltre di silenzio.
Gandalf sbucò da dietro un albero, e con un soffio spense ciò che rimaneva della sua miccia. “Mi restano ancora tre cariche per i fuochi d’artificio. La prossima volta ne devo portare qualcuno in più. Non pensavo fossero così efficienti!”.
Nonostante il combattimento sembrava riposato. Si stiracchiò per bene, e quando sollevò la barba Mara vide i candelotti rimanenti spuntare da sotto la barba. La tunica mostrava solo qualche taglio in più, ma oltre alla punta bruciacchiata del cappello azzurro non sembrava molto diverso da quando usciva dalle feste. Il vecchio stregone si sincerò che non fossero feriti, e lei rifiutò con gentilezza il sostegno del suo bastone –che Gandalf portava solo per scena-; quando si rimisero in marcia, Mara si accorse che mancava qualcuno.
“Che fine ha fatto Aragorn?”
“Mi ha detto di andare avanti. Sai com’è, gli era venuta un’altra idea …”


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Nota: la canzone a inizio capitolo e' in realta' un pezzo della bellissima "Ballata di Bryger" di Franco Martin, che potete ascoltare seguendo questo link: https://www.youtube.com/watch?v=XjMHdOIH0Y4


Nota 2: come richiesto dal nostro lettore Siirist (che ringraziamo tantissimo per la costanza e il calore con cui ci segue!) postiamo qui in appendice uno schemino riassuntivo dei corpi d'armata dell'esercito demoniaco:

- Hyakujumadan: il corpo d'armata degli animali e delle creature bestiali al servizio dei demoni. E' comandato dal generale Crocodyne.
- Yomashidan: questo corpo e' composto da creature magiche di taglia piccola sotto il controllo dell'Arcivescovo Stregone Zaboera.
- Maegudan: armature vuote animate e controllate tramite la magia. E' il corpo d'armata di Mistobaan, e in sua assenza viene manovrato dal Grande Satana in persona.
- Fushikidan: l'esercito di non morti comandati dal generale Hyunkel.
- Choryugundan: il corpo d'armata dei draghi del generale Baran.
In qualità di generale supremo dell'esercito demoniaco, Hadler ha il comando di tutti i corpi d'armata. Lui e i demoni propriamente detti sono sotto il comando diretto del GSB e non appartengono a nessun corpo d'armata.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Lame incrociate ***


Capitolo 9 - Lame incrociate



L'Ascia Millenaria


Le prime relazioni con la Terra II nacquero con la richiesta di un dialogo e di trattative. Gli abitanti del pianeta davano rifugio ad alcuni pericolosi terroristi dell’Alleanza Ribelle, e l’Imperatore Palpatine scelse la via diplomatica per non coinvolgere i civili di quel pianeta in una guerra voluta solo dalle azioni sconsiderate dei loro sovrani. Le autorità della terra II si rifiutarono di consegnare i terroristi alla giurisdizione imperiale, ed organizzarono a loro volta degli attentati rivolti agli ambasciatori del Ministero Galattico. La guerra non fu che l’unica conseguenza possibile.
“Cronistoria dell’Impero Galattico, dalla fondazione ai nostri giorni” di Tahiro Gantu, sesta edizione.




Il settore Q era a ferro e fuoco.
Dal suo posto di osservazione poco lontano dalla rampa di atterraggio del mezzo da sbarco di comando sul quarto livello, il governatore Fett scrutava il campo di battaglia con l’elettrobinocolo incorporato nel suo casco. A pochi metri di distanza, oltre un centinaio di cloni soldato e droidi giacevano a terra senza vita, ma erano stati il prezzo necessario per impedire la tragedia; avevano creato un muro compatto contro l’avanzata degli scheletri deambulanti, dando il tempo a Kaspar di prendere alla sprovvista il piccolo drappello di demoni che stava per posizionare un Nucleo Nero nel pozzo di sprofondamento di quel settore. I moscerini volanti avevano usato le truppe non-morte come diversivo, e si erano lanciate in volo tra i grattacieli alla ricerca del pozzo, che dava l’ingresso ad uno dei principali generatori nucleari di Coruscant. Non se ne sarebbe mai accorto se non fosse stato per il fiuto dell’agente 006: il ragazzo con il ciuffo aveva blaterato qualcosa tra le ferite dell’esplosione, e a Boba erano bastati pochi indizi per capire dove fossero diretti quei demoni. Poi aveva mandato Kaspar. Condizionato e lobotomizzato, ma quel mago traditore era una pedina perfetta in quelle occasioni.
Sia l’agente dei servizi segreti che Mistobaan ricordavano che l’unico modo per fermare quelle bombe magiche era mediante incantesimi di ghiaccio, e Kaspar non si era fatto attendere. Dove prima vi erano dei demoni in fuga, in quel momento vi era un grande albero di ghiaccio che sorgeva dal terreno stesso di Coruscant ed affondava le sue radici nel pozzo di sprofondamento. Aumentò la risoluzione del suo casco, e vide l’ordigno messo a tacere per sempre in quella tomba gelida, mentre sui rami dell’albero giacevano trafitti i sette demoni da altrettanti rami. I loro corpi pendevano in quel modo, tra un palazzo e l’altro, ed il colore bianco della pelle di quelle creature sembrava riflettere lo stesso ghiaccio che aveva levato loro la vita. Ma non aveva troppo tempo per sentimentalismi, specie verso quegli scomodi invasori.
Kaspar aveva abbandonato l’area del pozzo ed aveva scagliato il suo Sciame di Meteore. Con un eccellente risultato. Metà settore era ormai ridotto a macerie, ed il resto era una bolgia di droidi, cloni e scheletri, e quando dal cielo scesero le comete infuocate agli ordini del mago vide l’esercito nemico ritirarsi di diversi metri per riorganizzarsi. Senza che nemmeno glielo ordinasse, il plotone 4 si mosse in perfetto tempismo ed assalì gli scheletri guerrieri prima che questi potessero formare una linea compatta tra un palazzo e l’altro.
La battaglia si sarebbe combattuta a terra, purtroppo. I mezzi d’assalto classe Karjhad erano praticamente fortezze volanti –Boba si sentiva a suo agio su di esse quasi quanto a bordo dello Slave I- dotate di triplo rivestimento corazzato, ma non erano state pensate per muoversi tra i grattacieli di Coruscant. Le singole navi da combattimento e gli speeder militari erano riusciti a raggiungere il grosso dell’esercito nemico, ma i demoni avevano una mira incredibilmente precisa, e per il momento le unità minori erano state tutte abbattute dalle palle di fuoco di quei mostri.
E ci si erano messi i civili.
Tarkin aveva ragione quando diceva che nelle operazioni militari andavano uccisi tutti.
La gente del settore Q era fuori controllo. Tutti, compresi gli abitanti dei livelli superiori, avevano abbandonato le loro case ed erano partiti a bordo degli speeder senza alcun criterio, come animali deboli alla vista di un predatore. Lo spazio aereo era stato ingolfato da velivoli di tutte le dimensioni che avevano creato incidenti a catena; metà Coruscant era paralizzata, e Mistobaan –che per quella stramaledetta storia del Dono era stato mandato lontano di lì a gestire i civili- aveva scatenato un putiferio generale. Al solo pensiero di quel novellino diventato Braccio Destro, Boba serrò i denti.
Alla sua destra un soldato fece il saluto “Governatore Fett” disse “Il nemico ha occupato le strade 464, 465, 467 e 471. Il plotone 4 è pronto all’attacco lungo la 465, anche se quei mostri sono difficili da abbattere, signore”.
“E con questo?”
“Volevamo chiedere conferma dell’ordine di attacco, signore”.
Boba sospirò sotto il casco. Se al comando vi fosse stato Tarkin nessun ufficiale si sarebbe permesso di rivolgergli una domanda simile. Anche i più stupidi cloni soldato lo ritenevano incapace perché era un cacciatore di taglie.
“Capitano, lei conosce il Basic?”
“Signorsì, signore!”
“Bene, allora mi spieghi quale parte di attaccare senza fermarvi non le è chiara”.
“Nessuna, signore” se vi era disappunto, nella sua voce non ve ne era traccia “Comunicherò le direttive, signore!”
Boba detestava dare ordini. Non era mai stata la sua specialità. Era Tarkin la mente del Trio Destroyer. Se l’Imperatore aveva assegnato a lui il comando era soltanto perché Tarkin e Maul erano impegnati altrove, Mistobaan era gelosamente conservato sotto una campana di vetro e Saruman e Dooku erano più inabili di lui. E Zam … Zam stava arrivando. Ma lei era un caso a parte. Finché Neos aveva anche solo la più infinitesima possibilità di essere sfiorato da uno di quei morti viventi lei avrebbe cancellato quell’esercito con la sua sola furia. Da come gli aveva risposto all’ologramma sembrava intenzionata a radere al suolo il settore Q solo per essere sicura che nemmeno una rotula o una clavicola di quei mostri potesse rimanere integra.
Regolò l’elettrobinocolo sulla 465, e vide i nemici disporsi in fila nello stretto spiazzo tra un palazzo ed un altro. Sopra di loro dei demoni volavano in circolo: alcuni di loro respingevano le truppe di assaltatori e droidi con i loro incantesimi, mentre altri rimanevano sospesi a blaterare qualcosa senza avere alcun effetto visibile. Quelle creature infernali avevano abbattuto con incredibile solerzia centinaia di impalcature, cabine elettroniche e persino alcuni ascensori ed avevano reso praticamente inaccessibili via terra tutte le strade che potevano condurre al grosso delle loro truppe, concentrando i loro incantatori solo sulla difesa dagli speeder e dagli altri mezzi volanti. Complice il caos creato dai civili, l’unico punto valido per attaccare era proprio la 465.
Come se potessero resisterci …
Kaspar apparve, e le truppe di cloni soldato gli fecero ala. Nei bassifondi di Coruscant non soffiava nemmeno un alito di vento, ed il mantello bianco del mago pendeva pigramente sulle spalle; i suoi capelli chiari, quasi bianchi, sembravano una piccola luce in quel dedalo di strade illuminate solo dalle luci dei mezzi di trasporto. Il suo arrivo sembrò scatenare qualcosa nelle fila dei non morti, perché alcuni di loro allungarono quello che restava delle loro braccia putrescenti verso di lui. I demoni in volo cambiarono formazione, ed il cacciatore di taglie stavolta vide con precisione la sottile barriera amaranto che le creature avevano innalzato come difesa; dovevano percepire il suo potenziale magico fuori scala e ne erano allarmati. Perfetto, Kaspar, dai un senso alla tua esistenza.
Il mago sollevò le braccia all’altezza del petto, con i palmi delle mani rivolti verso il basso. Da quella distanza Boba non riuscì a sentire le parole magiche, ma in pochi secondi la strada 465 cambiò.
Una fessura lineare, perfetta, attraversò la strada proprio nel centro, correndo per tutta la sua lunghezza. Tutti i palazzi oscillarono sotto la spinta di quella forza, e la strada sotto i piedi degli scheletri si spaccò, si sollevò, si mosse guidata dal potente incantesimo e ruppe con violenza la loro precisa formazione. I demoni in aria si portarono in basso e crearono uno schermo simile ai deflettori dei loro droidi, ed i sensori interni dell’armatura del governatore Fett gli indicarono che in quel punto si era creato un enorme sbalzo energetico.
Boba non capiva assolutamente nulla della magia. Gli esseri viventi della Galassia, umani e non, avevano una scarsa se non nulla propensione alla magia. Su alcuni pianeti, come la Terra II, ne erano rimaste evidenti tracce, ma nei posti dove la tecnologia aveva fatto il suo corso –persino in luoghi degradati come Tatooine- la capacità degli esseri viventi di richiamare incantesimi era sparita. Aveva sentito più di un cervellone sostenere che era stata la stessa tecnologia a rendere inutile la magia, che con il tempo si era atrofizzata, proprio come una parte del corpo che non veniva più usata. Non che a Boba interessasse qualcosa di quelle chiacchiere.
La magia era un problema.
Era qualcosa di ingestibile, misterioso.
E puntualmente veniva rivolta contro di loro.
Da quando avevano gente come Mistobaan, Kaspar ed alcune squadre di maghi dell’Amn tra le loro fila la situazione era migliorata, ma sembrava che per ogni nemico che riuscivano a sconfiggere ne sorgessero altri tre sempre più potenti. I bei tempi in cui eravamo soltanto noi contro l’Alleanza Ribelle …
Dall’alto vide Kaspar avvolgersi di luce azzurra e scagliarla contro la barriera dei demoni. Il piccolo terremoto da lui creato scomparve, ma tutta la schiera di mostri decomposti arretrò davanti alla luce abbagliante e distruttrice del mago. Lo scudo avversario fu attraversato da piccoli lampi, i demoni e gli scheletri gridarono qualcosa nella loro strana lingua e la barriera si ritrasse, sferzata dall’incantesimo. I nemici, ancora disorganizzati per il precedente attacco, iniziarono a retrocedere tra le due ali di palazzi.
Si ritirano.
Eccellente.

“Capitano” disse nel microfono “Caricateli adesso. Sfruttate l’attacco di Kaspar e rispedite quei sacchi di vermi deambulanti dal loro adorato Grande Satana”.
Non aveva ancora terminato di dare l’ordine che le unità di cloni e droidi si erano ricomposte lungo la strada; i Karjhad alle sue spalle avevano appena terminato le ultime operazioni di sbarco, ed il cacciatore di taglie vide con sollievo i nuovi droidi della serie IG scendere in file perfette, le luci sulla loro testa attivate all’unisono.
Guardò di nuovo in basso, ed il suolo di Coruscant era tornato invisibile. Ogni singolo metro quadrato era occupato da unità di fanteria umana ed artificiale, una massa viva e compatta che aveva come unico obiettivo quello di distruggere la sottile massa di scheletri asserragliata lungo quella strada. Non aveva alcun senso cercare di colpirli ai fianchi quando poteva benissimo sfondare la loro prima linea con l’aiuto di Kaspar e del mero numero dei loro soldati. I vari capitani diedero l’ordine, e tutti i blaster dell’esercito esplosero in massa contro gli scheletri. Il fuoco continuò, sempre più intenso, senza dare a quei mostri anche solo il tempo di rialzarsi; fiumi di fiamme vennero riversati contro la loro barriera come un vento battente, ed anche in mezzo al fumo scuro Boba riuscì a vedere che questa si faceva sempre più piccola e che i demoni avevano abbandonato la loro formazione compatta. Kaspar si ergeva davanti a quella massa, le sue mani esplodevano ad ogni attimo di un incantesimo nuovo, e quando alle sue spalle si radunarono in linea compatta almeno trecento assaltatori e droidi da combattimento mosse i primi passi contro quel carnaio.
Fu in quel momento che si scatenò il vero inferno.
Sopra le teste dei soldati risuonò una violenta esplosione, ed una nube di fuoco, vetro e metallo coprì la visuale di Boba. Il cacciatore di taglie estrasse i blaster dalle fondine e senza nemmeno riflettere fece fuoco nella massa. I raggi rossi e verdi rischiararono di poco l’aria, ma in pochi secondi vennero inghiottiti dalla nube. Ci fu rumore di metallo contro metallo, lampi di magia nella strada nascosta dalle fiamme, e per quanto lo zoom del suo casco mandaloriano fosse efficace non riuscì a distinguere nemmeno una figura. “MA QUANTO CI METTETE AD AZIONARE LE POMPE ASPIRANTI?” gridò nel comlink.
I mezzi pesanti ronzarono sulla strada qualche secondo dopo, ed i bocchettoni di sicurezza dei Karjhad aspirarono e dispersero l’aria ancora arrossata. Il cacciatore di taglie guardò verso il basso, i blaster carichi, ma preferì non averlo fatto.
Le vetrate in transparacciaio dei grattacieli non esistevano più. I palazzi ai lati della 465 sembravano giganti sventrati, con enormi buchi dove prima vi erano state lastre impenetrabili. Residui di fumo nero ancora uscivano dagli edifici, e l’uomo vide distintamente alcuni scheletri lanciarsi da quello che rimaneva delle finestre: ma era solo una minima parte di quelli che erano già scesi a terra. Bastardi, pensò prima di attivare il suo zaino a razzo, le truppe a terra erano solo un diversivo per attirarci in questa strada …
La strada si era trasformata in un carnaio: concentrati sui non morti a terra, gli assaltatori non avevano prestato alcuna attenzione a quello che poteva nascondersi nei palazzi. Le loro divise bianche erano sparse a terra, i corpi trafitti dalle spade e dalle lance di quei soldati inarrestabili. Le prime quattro linee dell’assalto frontale non esistevano più, e quei mostri avanzavano inarrestabili approfittando della confusione che si era creata. I droidi erano stati attaccati per primi, e quei mostri erano saltati precisamente sopra i droideka e gli IG, distruggendoli prima che potessero riorganizzare il loro assetto da battaglia. Boba prese la mira e colpì un paio di scheletri, ma erano molto più resistenti degli esseri umani. Dal comlink sentì i suoi comandanti dare ordini ai soldati, e per qualche duro, terribile istante la ferrea disciplina imperiale lottò contro il desiderio di quegli uomini di fuggire il più lontano possibile da quegli orrori deambulanti e dalle loro grida dell’altro mondo. Gli assaltatori non indietreggiarono, ma la loro coordinazione era persa.
Una figura gigantesca calò su Kaspar. Emerse dalle altre schiere con un unico balzo, e le sue sei spade erano puntate in avanti alla ricerca della testa del mago. Kaspar vide l’enorme scheletro con una stella di carta al collo appena in tempo, e dalle sue dita esplosero cinque raggi infuocati che presero la creatura in pieno petto, bruciando in un attimo la sua armatura di cuoio. Si ritirò giusto in tempo per evitare una rapida serie di fendenti.
Lo scheletro dalle sei braccia avanzò senza badare alle fiamme che avvolgevano il suo corpo, e corse verso di lui incurante di una seconda ed una terza raffica di incantesimi; incassò i globi di ghiaccio e fulmine senza indugio, ed i droidi distruttori che si portarono tra lui e Kaspar furono trasformati in scintille fumanti prima ancora che potessero dispiegarsi in modalità di combattimento ed attaccarlo.
“PROTEGGETE KASPAR!” gridò Boba nel comlink “QUESTO E’ IL VOLERE DELL’IMPERATORE!”
Accese lo zaino a razzo e d’impulso planò sulla battaglia. Prese la mira e sparò con i due blaster: un colpo esplose contro una parete, ma l’altro colpì una delle lame. La spada doveva essere fatta di un materiale dannatamente buono, perché non si infranse come le normali armi: l’impatto del colpo fu però sufficiente a sbalzargliela di mano, aprendo un varco su quel fianco impenetrabile. Il mago condizionato non aspettava altra occasione. Altri cinque raggi infuocati partirono nella sua direzione, stavolta accompagnati da saette che nascevano dall’altra mano e si congiungevano a quell’incantesimo mortale. Lo scheletro gigantesco svanì in una palla di fumo.
Boba si ritrovò, suo malgrado, a tirare un sospiro di sollievo. Non aveva alcun piacere nel salvare Kaspar. Se fosse dipeso da lui avrebbe lasciato quel mago con la testa di un mocho alla mercé di quello scheletro, e si sarebbe procurato un pacco di popcorn da gustare nel momento in cui quell’abominio con sei braccia gli avesse staccato la testa dal corpo. Non aveva mai provato un piacere così intenso nel colpire qualcuno quando lo aveva riempito di cazzotti nelle bianche stanze del Castello dell’Oblio, tre anni prima. Se ti ho salvato la pelle, pezzo di merda, è solo perché all’Imperatore servi vivo. Ma quando sarai diventato inutile giuro che mi contenderò a morsi il privilegio di farti esplodere la testa di persona!
Stava per rientrare alla sua postazione quando con la coda dell’occhio vide un raggio azzurro nella sua direzione. Virò di scatto, ed il colpo destinato al suo petto distrusse lo zaino a razzo. Questo esplose lasciandogli una disgustosa sensazione di gelo lungo la schiena, che attraversò per un attimo tutta la sua armatura. Poi cadde nel vuoto.
Non seppe dire di preciso di quanti piani era precipitato, ma il dolore al braccio sinistro non prometteva nulla di buono. L’armatura mandaloriana gli aveva salvato la vita per la miliardesima volta, e sentì subito uno degli aghi interni ad essa entrargli nel braccio ed iniettargli dell’antidolorifico. La testa gli esplodeva e faticò a rimettersi in piedi; evitò una lancia scagliata nella sua direzione, ma lo scheletro che aveva appena cercato di ucciderlo venne spazzato via da una raffica di blaster degli assaltatori. Bestemmiò tra le labbra e si accorse che le linee imperiali erano state travolte da quella furia non morta.
Kaspar era a pochi metri da lui, avvolto da uno scudo di fulmini, una minuscola figura bianca e viola di fronte all’enorme scheletro che lo sovrastava, apparentemente uscito illeso dall’esplosione. Alla sua destra era comparso un enorme demone dalla pelle verdastra ed i capelli argentati, con un mantello nero che sembrava assorbire e nascondere tutto il fumo magico; nella sua mano sinistra vi era una Palla di Fuoco in grado di far sembrare quelle di Kaspar delle simpatiche biglie rosse e gialle, e a giudicare dalla stazza non aveva niente in comune con i piccoli demoni che fino a quel momento aveva visto svolazzare sul campo di battaglia. Alla sinistra dello scheletro vide l’unico umano delle schiere del Grande Satana, ricoperto dalla testa ai piedi con un’armatura lucente, serrata, che lasciava scoperti soltanto gli occhi. Sfoderava una lunga ed elaborata spada, ed i tre sembravano in procinto di sferrare un attacco combinato contro Kaspar.
La terra tremò una seconda volta, e verso nord il cielo si tinse di arancione. Il boato di centinaia di grattacieli che crollavano avvisò Boba che un secondo settore di Coruscant era caduto per mano dei Nuclei Neri.




Dopo anni di militanza nell'Alleanza Ribelle, Aragorn era arrivato a capire piuttosto bene la tecnologia. Sapeva guidare uno speeder in caso di necessità, anche se non era un pilota provetto e continuava a sentirsi più a suo agio sui cavalli; ed era in grado di usare le funzioni base di un computer. L'elettricità aveva destato il suo entusiasmo sin da subito, e immediatamente dopo l'ingresso della Terra II nell'Alleanza aveva chiesto che fosse installata in tutto il palazzo di Minas Tirith.
Fino a quel momento la Terra II aveva fatto parte di quel numero di pianeti che nelle mappe imperiali erano catalogati come “insignificanti”: primitivo, privo di risorse particolari o di attrazioni turistiche di rilievo, importanza strategica nulla. I suoi abitanti avevano continuato per anni la loro placida esistenza isolata, convinti che al mondo non potesse esistere minaccia peggiore dell'Oscuro Signore Sauron e dei suoi eserciti di Orchi, sconfitti anni prima dalle eroiche gesta di Aragorn e Gandalf e di un pugno di hobbit. Si sbagliavano.
Con l'ingresso nella Ribellione le cose erano cambiate. L'Imperatore si era improvvisamente accorto della loro esistenza, e ora sulle mappe olografiche imperiali la Terra II era contrassegnata da un bel punto rosso luminoso. Erano diventati la spina nel fianco di Palpatine, gli irriducibili combattenti della resistenza che l'Impero da anni tentava di eradicare dalla faccia della Galassia senza mai riuscirci.
Secondo Aragorn non era stato l'improvviso avanzamento tecnologico della Terra II a renderla pericolosa agli occhi dell'Impero. A dire il vero, la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta continuava a vivere esattamente come prima, pienamente soddisfatta delle proprie condizioni. Per Aragorn era soprattutto una questione di cuore e di modo di pensare. La Terra II era pericolosa perché rappresentava l'esatta negazione di tutto ciò che l'Impero incarnava. Era la prova vivente che un modo di vivere diverso era possibile: un tipo di vita che dava valore alla libertà, alla solidarietà e allo scambio reciproco piuttosto che alla disciplina militare, alla competizione e all'arbitrio dei potenti. La tecnologia, le risorse e il potenziale bellico non c'entravano davvero nulla.
Tuttavia, in molti casi la tecnologia aiutava. Come in quel momento, ad esempio.
La schiena appoggiata contro la parete di un magazzino di BEF, Aragorn studiò il congegno che Anakin gli aveva consegnato a Minas Tirith prima della partenza. Aveva l'aspetto di un piccolo proiettore olografico, ma sulla superficie lampeggiavano spie e indicatori che lo identificavano come un dispositivo diverso, che Aragorn non aveva mai visto.
“E' la mia ultima creazione” gli aveva detto Anakin con un sorrisetto divertito. “Installalo su un droide e agirà sui suoi sistemi cognitivi, bypassando la sua programmazione e costringendolo a obbedire a chi possiede il dispositivo gemello, purché si trovi sullo stesso pianeta. Ma il bello deve ancora venire: il congegno una volta agganciato al droide emette degli impulsi che 'contagiano' tutti gli atri droidi che entrano in contatto con lui. In pratica potrete farvi la vostra piccola armata meccanica a spese di papà Impe!”
Aragorn aveva già individuato il soggetto ideale: un innocuo droide riparatore che stava estinguendo le fiamme provocate da un fuoco di artificio di Gandalf accanto ai resti di una torretta crollata.
Era quello il motivo per cui era rimasto indietro. Le basi come BEF, gestite esclusivamente da droidi, erano il terreno ideale per provare il nuovo gioiellino di Anakin. Con un po' di fortuna il “morbo” si sarebbe diffuso tra tutti i droidi di quella base e oltre. E al momento giusto sarebbe bastato premere un pulsantino per combinare un bello scherzetto all'Impero...
Nessuno in vista. Aragorn lasciò in fretta il nascondiglio all'ombra del magazzino e corse verso il droide riparatore, ripassando mentalmente i passaggi per agganciare il dispositivo. I droidi da lavoro non avevano un campo visivo particolarmente ampio né sensori potenti, e Aragorn riuscì a scivolargli alle spalle senza essere captato. Avanzò un passo alla volta, i nervi tesi al massimo per la concentrazione. Non doveva sbagliare nemmeno una mossa o gli allarmi di BEF sarebbero suonati di nuovo, vanificando il suo tentativo.
Si passò il dispositivo tra i palmi sudati per la tensione, avanzando ancora. Arrivato a pochi centimetri dal droide si accucciò e fece per allungare la mano con il congegno verso di lui.
Solo che il braccio non si mosse.
Per qualche strana ragione non riusciva a muoverlo né avanti né indietro.
In un istante di puro terrore Aragorn si rese conto che il suo intero corpo era bloccato, paralizzato sotto l'influsso di una forza misteriosa.
“Siete così squattrinati all'Alleanza da non potervi permettere nemmeno dei droidi riparatori?”
La voce proveniva dall'alto, alle sue spalle. Aragorn la riconobbe subito, e capì che si era fatto fregare come un principiante, troppo sicuro che in quella base completamente automatizzata non ci fossero nemici in carne e ossa ad attenderli.
Sentì come catene invisibili stringersi attorno alle sue braccia e gambe e costringerlo a voltarsi di scatto e guardare in faccia il nemico.
Darth Maul era in piedi sul cornicione di un magazzino, il cappuccio nero calato sulla testa e uno scintillio dorato nella mano sinistra.
Gli Oggetti Millenari... dannazione!!
Con un'elegante capriola Maul gli atterrò proprio di fronte, e Aragorn lottò inutilmente per liberarsi dalla stretta invisibile. Ora che l'avversario era vicino poteva vedere meglio l'oggetto d'oro nelle sue mani: aveva la forma di una piccola ascia bipenne con un occhio aperto inciso tra le due lame.
Era quella maledetta ascia la fonte del potere che lo immobilizzava.
Fantastico, ho appena scoperto il potere dell'Ascia Millenaria... Leia ne sarà felice, se riesco a uscirne vivo...
Gli Oggetti Millenari, sette artefatti di oro puro e di forme diverse, facevano parte del patrimonio personale di Palpatine da quando un suo governatore li aveva fortuitamente rivenuti in un'antica tomba sul remoto pianeta desertico di Nagada, qualche anno prima. Ciascuno aveva un potere diverso, e tutti avevano una caratteristica in comune: ammettevano un unico padrone padrone alla volta. Un Oggetto poteva venire rubato, ma il ladro non sarebbe stato in grado di utilizzarne i poteri fino alla morte del suo padrone originale. Oltre a questo, i Ribelli sapevano poco altro, e nessuno di loro aveva mai affrontato l'Ascia Millenaria in combattimento prima di allora. Ma era chiaro che l'Imperatore l'aveva affidata a Darth Maul, e che il suo potere, a quanto sembrava, era quello di controllare i corpi e i movimenti delle persone. Una bella seccatura.
Aragorn si sforzò di accogliere il suo nemico storico con il suo miglior sorriso. Per fortuna almeno la bocca riusciva ancora a muoverla.
“Accidenti, Maul. Stavolta mi hai fatto proprio prendere un colpo. Uno a zero per te, te lo devo concedere. Però... ” aggiunse “non è da te usare questi trucchetti. Non preferiresti un bel duello regolare, solo io e te senza Oggetti Millenari di mezzo, come ai vecchi tempi?”
Maul sorrise, e Aragorn poteva vedere che la proposta lo tentava. In passato avevano combattuto tante volte l'uno contro l'altro, senza che nessuno dei due riuscisse mai a prevalere definitivamente. Avevano un conto in sospeso che si protraeva da anni, ormai.
Ma Maul non ci cascò: “Spiacente, ma non sei solo tu il mio obiettivo. Dove sono i tuoi amichetti di scampagnate? Se tu sei qui Gandalf non può essere lontano.”
“Con i tuoi poteri Sith dovresti riuscire a percepirli benissimo. O ti sei talmente abituato a usare gli Oggetti Millenari da aver disimparato tutto il resto?”
Stavolta il colpo andò a segno. Il sorriso beffardo di Maul si trasformò in una smorfia di rabbia, e il braccio che reggeva l'Ascia Millenaria si sollevò. Aragorn sentì il terreno sfuggirgli da sotto i piedi mentre tutto il suo corpo veniva scagliato all'indietro, impattando contro il droide riparatore e finendo in mezzo ai detriti della torretta crollata.
Dolorante e impolverato, Aragorn fece per scrollarsi il droide di dosso e scoprì che era di nuovo in grado di muoversi. Si rimise in piedi mentre il droide fuggiva sulle sue gambette tozze emettendo una serie di bip terrorizzati. Non andò lontano: Maul strinse a pugno la mano libera, evocando il potere del Lato Oscuro, e il droide implose in un ammasso di circuiti e pezzi di metallo.
“Poverino. Te la sei presa con lui che non c'entrava niente e ha sempre lavorato per voi.”
“Sei quasi commovente, a provare pietà per i droidi” il sogghigno di Maul era tornato al suo posto mentre agganciava l'Ascia Millenaria alla cintura, estraendo al suo posto la spada laser. “Ma in effetti non hai tutti i torti. Gli Oggetti Millenari non sono onnipotenti, e mi basta e mi avanza il Lato Oscuro per schiacciarti. Dopodiché sarà il turno dei tuoi amici.”
Aragorn sorrise, e dal fodero assicurato dietro la schiena sguainò Anduril, la sua fedele spada compagna di mille avventure.
“La vedremo.”
Dall'impugnatura della spada laser di Maul spuntarono due lame di energia rosse, una per lato. La micidiale spada laser a doppia lama era alta quasi quanto lui, ma Maul la maneggiava come se fosse un fuscello, facendola roteare a destra e a sinistra a velocità impressionante. Aragorn intercettò il lampo rosso con Anduril e una scarica di scintille si sprigionò nell'aria facendola stridere e crepitare. Una spada qualsiasi si sarebbe infranta al primo impatto con una lama laser, ma Anduril non era una spada qualsiasi. Da quando era stata riforgiata dagli elfi di Gran Burrone, ai tempi della Guerra dell'Anello, la sua lama era infusa di magia, che si animava di vita ogni volta che il suo padrone la sguainava dal fodero. Aragorn poteva sentirne il potere scorrere lungo la lama, attraversare l'elsa e confluire nel suo braccio, colmando il suo intero corpo di energia.
Come tutti i Jedi e i Sith, Maul era uno spadaccino eccezionale. Teneva l'enorme spada laser con due mani, e i suoi movimenti erano rapidissimi e precisi, ma Aragorn ormai conosceva bene il suo stile e sapeva come adattarvisi. Maul combatteva in modo spettacolare, senza mai stare fermo un istante e confondendo il suo nemico con frequenti salti e capriole. Aragorn piantò i piedi al suolo e assunse una posa difensiva, voltandosi di continuo per parare gli affondi e i fendenti provenienti da tutte le direzioni. Prese tempo, attendendo il momento propizio per passare all'attacco. Lo svantaggio di uno stile acrobatico come quello di Maul era che prima o poi si finisce inevitabilmente per scoprirsi.
Quando credette di individuare una falla nella difesa nemica partì di scatto e menò un affondo verso l'alto, mirando al petto scoperto di Maul, che durante l'ennesima capriola aveva allontanato troppo la spada laser dal corpo. La punta di Anduril lacerò la tunica del Sith, ma Aragorn si accorse troppo tardi che Maul ora stava maneggiando la spada con una mano sola. L'altra mano, la destra, era rivolta a palmo aperto contro di lui, e Aragorn sentì un'onda di Forza travolgerlo e mandarlo a rotolare nella polvere. Maul atterrò con grazia dalla capriola e mosse ancora la mano, e Aragorn sentì con orrore l'impugnatura di Anduril scivolargli via dalle dita intorpidite dalla caduta.
“Ti avevo detto che il Lato Oscuro sarebbe bastato.” rise Maul rimirando la lama di Anduril che ora reggeva nella mano destra. Con la sinistra premette un pulsante sul cilindro metallico della sua spada laser e una delle due lame di energia si spense con un flebile ronzio. Incrociò le due armi davanti al petto, dando tempo ad Aragorn di rialzarsi. “Non sei l'unico a conoscere i trucchetti del tuo avversario, mio caro ramingo. Mi hai preso per stupido?”
Era una trappola...
Aragorn si maledisse mentalmente. Era la seconda volta in pochi minuti che si faceva fregare come un principiante dal suo rivale storico.
Concentrati, Aragorn.
Maul gli venne addosso con entrambe le armi sguainate, la spada di metallo e quella di energia, e Aragorn si ritrovò a schivare come poteva, assalito da ogni lato da una tempesta di lame.
“Che c'è, scappi, moscerino?”
Aragorn indietreggiava schivando colpo su colpo, il cervello che lavorava freneticamente alla ricerca di una via di scampo. La prima ferita la subì proprio da Anduril, un solco di sangue lungo l'avambraccio che avrebbe potuto trasformarsi in una mano mozzata se non avesse avuto la prontezza di riflessi di scartare nella direzione opposta appena in tempo. Dall'altro lato però lo attendeva la lama rossa, dalla quale subì un'ustione alla gamba che gli strappò un urlo di dolore.
Strinse i denti e trovò la forza di saltare all'indietro, scorgendo con la coda dell'occhio i resti di un magazzino bruciato dai fuochi d'artificio di Gandalf. Con uno scatto si rifugiò al riparo dietro un mucchio di lamiere di metallo e plasticacciaio, respirando pesantemente. Aveva bisogno di riprendere fiato e riordinare le idee.
“Ti nascondi, eh?”
La gamba ustionata gli faceva un male del diavolo. Riuscì a liberare dai detriti un pezzo di lamiera che oppose come scudo all'assalto successivo di Maul. La spada laser tranciò in due la sua difesa improvvisata, e Aragorn scagliò contro l'avversario gli inutili pezzi di metallo, indietreggiando ancora e nascondendosi dietro una parete ancora intatta dell'edificio crollato.
Raccolse quello che sembrava il braccio staccato di un droide e prese un profondo respiro.
Basta giocare al gatto e il topo.
Devo raggiungere al più presto Gandalf e gli altri.

Prima che Maul potesse arrivare a stanarlo Aragorn scattò fuori dal suo rifugio e gli corse incontro brandendo il braccio di droide e urlando con quanto fiato aveva in corpo.
Maul non doveva aspettarsi una mossa così pazza, perché per un istante esitò.
Un istante sarebbe bastato.
Senza smettere di correre Aragorn lanciò il braccio meccanico e spiccò un salto proprio mentre la lama laser di Maul saettava per intercettarlo e tagliarlo in due; le volò al di sopra con una capriola ai limiti della fisica, tenendo d'occhio l'altra lama, Anduril, che roteava verso di lui in un ampio fendente, pronta a tagliargli le gambe.
Aragorn le atterrò sopra, e per un attimo rimase in bilico sul piatto della lama, con Maul che lo fissava dal basso con le iridi gialle dilatate per lo stupore.
“Neanche tu conosci ancora tutti i trucchi dei Ribelli, amico.”
Il suo calcio colpì il Sith in piena faccia, sbilanciandolo all'indietro. Aragorn gli saltò sulle spalle e approfittò dell'attimo di stordimento per strappargli Anduril di mano. Caddero entrambi al suolo, uno sull'altro, e Aragorn fu rapido a rotolare via prima che Maul potesse menargli un affondo con la spada laser. Rialzandosi in piedi strinse con forza la sua amata spada, traendo forza dal rassicurante contatto con l'impugnatura di cui conosceva ormai a memoria ogni sporgenza e imperfezione.
“Mi sei mancata, amica mia.”
Anche Maul era tornato in piedi, e le sue labbra gonfie per il calcio subito si aprirono in un ghigno.
“Si prospetta un duello ancora più interessante del solito, vedo. Mi piace!”
Aragorn sollevò Anduril davanti a sé per intercettare l'attacco imminente, ma in quel momento un lacerante biiip trafisse loro le orecchie e distolse entrambi dal combattimento.
Il suono veniva dal braccio del droide che Aragorn aveva lanciato e che Maul aveva tagliato in due. Sulla parte con la mano ancora attaccata lampeggiava sempre più rapida una spia rossa che non prometteva nulla di buono.
Maul imprecò. “Merda! L'autodistruzione degli IG-88!!”
Quasi non ebbe il tempo di finire la frase che la bomba detonò in un'esplosione accecante di luce. Aragorn non vide più niente e si ritrovò sbalzato lontano, il sopra e il sotto che si confondevano in una spirale luminosa che lo trascinava via come un'onda di marea.
Fu cosciente solo della sua testa che sbatteva contro il terreno, un impatto che lo lasciò senza fiato, riverso nella polvere con il sapore metallico del sangue che gli riempiva pian piano la bocca.
Gli sembrava che un altro centinaio di bombe gli stessero esplodendo nel cervello.
Non posso restare qui...
Solo il pensiero di Gandalf e degli altri amici che lo aspettavano gli diede la forza per rialzarsi. Il fragore della bomba lo aveva completamente assordato. Gli pareva di trovarsi all'interno di una bolla di ovatta che non lasciava filtrare il minimo suono, e tenersi in equilibrio sulle gambe malferme e ferite era un'impresa eroica.
Non posso combattere in queste condizioni.
L'onda d'urto lo aveva spinto ai margini di BEF, e oltre il cancello lasciato aperto dalla fuga dei suoi amici il limitare della foresta si estendeva invitante, promettendo rifugio e protezione.
Aragorn non ebbe un attimo di esitazione. Corse verso gli alberi a tutta la velocità che le sue gambe sofferenti gli consentivano, senza voltarsi indietro, senza fermarsi a guardare cos'era rimasto della base, semplicemente cercando di mettere più distanza possibile tra sé e il nemico.
E così è finita di nuovo in pareggio, Maul. Ma ci sarà sicuramente una prossima volta.
I primi alberi della foresta lo accolsero sotto la loro ombra rassicurante. Il suo udito era momentaneamente fuori uso, ma non aveva perso la sua abilità di ramingo di seguire le tracce. I suoi amici non erano lontani.
Gandalf, ragazzi, aspettatemi. Sto arrivando.




“Mi sembrava di avervi detto di non intervenire!”
Hadler fece calare il vento che aveva generato. Il mago umano che guidava le truppe imperiali era poco distante da loro, ed il demone fece risplendere la fiamma intorno alle sue mani per fermare qualunque tentativo di fuga o salvataggio. Hyunkel era in piedi accanto a lui, con la spada sguainata, e gridò qualcosa alle sue truppe. Quando la mole di Bartosh era svanita nella nube di fuoco, il giovane umano si era lanciato in quella direzione senza riflettere, allontanandosi dalla postazione che lo scheletro aveva intimato loro di mantenere: Hadler era stato costretto a seguirlo, aveva alzato le difese e richiamato una folata di vento che si era abbattuta sul guerriero, dissipando in aria l’attacco dell’avversario. Lo scheletro dalle sei braccia era vivo. Bruciacchiato e fumante, ma vivo. Ed anche avvolto nella cenere e nel fumo aveva abbastanza forza per protestare. “Generale Hadler, non può compromettere lo schema di battaglia in questo modo! Né permettere a mio figlio di fare di testa sua!” disse, recuperando una delle spade “Avevo la situazione in pugno”.
Il demone scosse il capo. “Non mi sembrava affatto”.
“Puah” grugnì quello. Fece il gesto di sputare per terra, ma dal corpo in putrefazione cadde solo un pezzo di dente. “Come se ci fosse qualcosa da bruciare in queste ossa. Siete voi vivi che ancora vi preoccupate di simili dettagli. E se non ero ancora uscito di lì era solo perché dovevo proteggere una cosa molto importante”.
Tre delle sue braccia avevano lasciato cadere le armi e, il demone maggiore se ne accorse solo in quel momento, avevano unito le mani cadaveriche; le dita erano premute contro le sterno e le costole, e quando si schiusero rivelarono la stella di carta dal nastro azzurro che la creatura portava sempre fissata al collo. La stretta del guerriero non era stata perfetta, perché un’estremità di quella decorazione era annerita; Bartosh sembrava molto più preoccupato per quello che per la battaglia, le grida e le raffiche dei laser che sfrecciavano tutt’intorno a lui. Incurante del mago avversario annodò intorno alle vertebre il sottile nastro. “Hyunkel ormai è cresciuto, non ha più l’età per farmene un’altra”. Emise un grugnito soddisfatto e riprese le armi. “E sono sicuro che gli verrebbe anche meno bene. Quando un essere vivente impara ad usare un’arma finisce per disimparare tutto il resto, e questo vale per demoni, umani e non morti!”
Hadler sospirò, rendendosi conto della verità di quelle parole. Si avvicinò all’altro guerriero ed espanse la sua aura magica, lasciando che la mera presenza del suo corpo magico risuonasse con quella dello scheletro. I soldati del Fushikidan erano valorosi e resistenti, ma non immortali. Percepì l’energia fluire in Bartosh ed attraversare tutte le sue ossa, stimolandone la forza ed annullandone i segni di distruzione; altri scheletri combattenti abbandonarono le loro postazioni e si avvicinarono, timidi, osservandoli dalle loro orbite vuote. Il demone fece un cenno, e lentamente permise loro di venirgli sempre più vicino. Soffocò il senso di disgusto alla presenza delle loro dita scarne lungo il mantello ed elevò la sua energia magica come meglio poteva; gli altri demoni stavano facendo il possibile per rafforzare le schiere del Fushikidan, e Hadler si unì a loro. Non aveva mai pensato che una schiera di morti viventi potesse offrire così tanto alla famiglia demoniaca, e mentre metteva il suo potere al servizio delle truppe da battaglia gli sembrò che il vecchio scheletro facesse un cenno d’approvazione con il cranio annerito. “Sconfiggiamo quel mago e la vittoria sarà nostra!”.
“Io non ne sarei così convinto …” gracchiò l’altro. Le orbite vuote fissarono un punto imprecisato oltre i grattacieli. “Si sta avvicinando qualcosa di interessante”.
Il demone estese la propria magia in quella direzione, ma non ve ne fu bisogno. Oltre i palazzi di vetro e metallo, oltre le linee delle macchine-soldato dell’Impero ed oltre la linea delle loro navi volanti comparse un’ombra. Guizzò sopra le abitazioni, la lunga sagoma nera che copriva persino i raggi di luce artificiale. Mandò un ruggito terrificante, ed i loro avversari iniziarono ad indietreggiare verso i mezzi blindati, lanciando occhiate impaurite verso la gigantesca figura. Rimanevano imperscrutabili le macchine-soldato, ma era una minoranza che i guerrieri del Fushikidan potevano gestire. Il mago dai capelli chiari era svanito. Un secondo ruggito, poi un terzo ed una raffica di vento che percorse gli stretti spazi tra un palazzo e l’altro. I non morti cessarono l’attacco, disponendosi in formazione difensiva e serrando le fila intorno ai necromanti; era difficile leggere le espressioni di quei visi ormai privi di pelle, ma le occhiate che i demoni minori lanciavano verso il mostro erano più che sufficienti. È arrivata.
Hyunkel gli fece una bella pacca sulla spalla. “Beh, amico mio, la tua damigella si è degnata di venire. Adesso sfodera il tuo fascino demoniaco e rispediscila al mittente!”
Il lungo muso del drago rivelò le zanne, ed in tutta risposta Hadler le rivolse un bel sorriso. “Il Grande Satana mi ha mandato qui per questo”.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 - Il suono del silenzio ***


Capitolo 10 - Il suono del silenzio





Vexen nel laboratorio del Castello



Con ogni sforzo la purezza del sangue deve essere preservata, perché essa è nostro valore supremo, e massimamente deve essere tenuta da conto. Ciò non vale solo nei riguardi degli altri esseri inferiori, ma anche il demone maggiore mai dovrà unirsi al minore, ché il sangue di questo è più vile et infimo e insozzerebbe il suo. E' manifesto che le cose che la natura ha fatto dissimili non devono essere mescolate per cagione alcuna.
da “Sangue e onore” del nobile Sharan del casato di Ixial, primo Arcivescovo Stregone della famiglia demoniaca, sotto il regno del Grande Satana Eluyne.




“Sono felice che ti sia ripreso”.
Ripreso era un’esagerazione, ma Zaboera sapeva di non essere mai stato così vicino alla morte come in quei giorni. Se era ancora in piedi lo doveva solo alla prontezza di riflessi di alcuni suoi assistenti e all’enorme potere guaritivo delle Vasche di Recupero; era uscito da quel bagno di fluidi verdastri solo un paio d’ore prima, e quando i demoni gli avevano raccontato l’accaduto si era subito recato nella sala del trono del Baan Palace.
Il viso del Grande Satana era segnato da rughe più profonde del solito. Lo sguardo del demone antico era fisso sulle sue stesse mani, che si muovevano lentamente intorno ad un globo dalla luce candida, ipnotica. Zaboera inspirò a fondo il potente incantesimo che scaturiva da quelle dita, sentendolo attraversare la stanza e penetrare nelle pareti, nel pavimento, fino alla base del palazzo e alla torre più alta; per rendere invisibile l’intera mole del Baan Palace sarebbero stati necessari oltre cinquanta demoni minori tra i più dotati, va vi erano alcune cose che il suo signore preferiva fare di persona. “Non potremmo utilizzare le Pietre Dimensionali, Grande Satana? Quelle che abbiamo preso ai Membri dell’Organizzazione.” disse, cercando di non disturbare la concentrazione dell’altro.
“Una l’ho assegnata a Killvearn per trasportare i nostri soldati a Coruscant. E l’altra … preferirei utilizzarla per le emergenze. Non ho intenzione di allontanarmi da Cephiro e dai miei demoni finché non sarà davvero necessario”.
Zaboera sospirò. Se fosse dipeso da lui avrebbe allontanato subito il Baan Palace dal loro mondo, anche a costo di farsi dare del vigliacco da gente come Hadler, Crocodyne, o peggio, da Baran. Sapeva che l’incantesimo del demone maggiore avrebbe illuso qualsiasi congegno di rilevamento dei viscidi umani, ma questo non diminuiva il senso di agitazione che provava tutte le volte che il Grande Satana si spingeva vicino al campo di battaglia. Comandare l’intero corpo del Maegudan richiedeva molta concentrazione, ed il demone maggiore cercava di diminuire lo svantaggio portandosi vicino alle armature senzienti e alle zone di combattimento.
“Lo che mi consideri un insopportabile testardo” disse quello, come in risposta ai suoi pensieri.
“G … Grande Satana, non mi permetterei mai di …”
“Lo pensi da più di tremila anni, Zabo. Me ne sono fatto una ragione. Noi demoni non siamo come gli umani, che cambiano parere con il passare degli anni, con il vento e con il sole” sospirò “Ma se io non riesco a cambiare te, è anche vero il contrario. Sai bene che stare nelle retrovie non è un posto che mi soddisfi”.
Zaboera annuì. Conosceva il suo signore da quando era nato, e sapeva quali incredibili sforzi stesse facendo per rimanere seduto su quel trono invece che caricare gli umani con tutta la sua furia. Sapeva quanto non amasse lasciare quel compito al Cavaliere del Drago. Da quando era iniziato l’attacco dell’Impero Galattico temeva ogni giorno di entrare in quella sala del trono e trovarla vuota, silenziosa, con una vetrata distrutta come unico segno del suo passaggio. Rimaneva immobile in quella fortezza volante perché sapeva che senza di lui, l’unico demone maggiore rimasto a Cephiro, l’intera famiglia demoniaca sarebbe crollata. “La sua vita è preziosa per noi, Grande Satana”.
“Lo so. Ma è una sola. Sono riuscito ad imbrogliare il Tempo per due volte, ma siamo in guerra e non posso escludere di morire a priori, eternità o meno”. Zaboera sapeva bene cosa volesse dire. Lo scettro nero che avevano rinvenuto tra gli effetti personali dei Membri dell’Organizzazione era riuscito a concedere una vita lunghissima, potenzialmente eterna, al Grande Satana ed a tutti loro. Senza l’aiuto di quel manufatto probabilmente al suo signore non sarebbero rimasti più di cinque secoli di vita, ma l’immortalità conferita dallo scettro non metteva nessuno al sicuro da un turbolaser imperiale o da un attacco diretto dei suoi soldati. “Senza altre demoni maggiori la mia razza è ad un punto morto. E se mi accadesse qualcosa …”
“E una demone minore, mio signore? Ha mai considerato …”
“Credi che non ci abbia pensato almeno una volta? Vorrebbe dire annacquare in maniera irreversibile il nostro sangue. Lo farò solo se sarà impossibile trovare un’altra soluzione”. Interruppe per qualche istante il movimento delle mani, e sorseggiò un bicchiere di limonata demoniaca. Quando riprese l’incantesimo, Zaboera vide che gli occhi antichi erano velati da un’ombra. “Tutto sarebbe più facile se Mistobaan fosse qui”.
“Stiamo combattendo per lui, Grande Satana. Il suo Dono rappresenta il nostro passato ed il nostro futuro”.
Sospirò, e nella sala del trono cadde un silenzio imbarazzante. L’arcivescovo stregone non era ancora riuscito ad abituarsi alla scomparsa del Braccio Destro e della sua voce instancabile: era l’unico, oltre al Grande Satana, a conoscere la vera natura della figura che mandava solo degli sguardi luminosi da sotto il cappuccio. Era forse l’unico a cui mancassero i continui rimbrotti, le urla, i lamenti, le declamazioni, tutto ciò che accompagnava Mistobaan e precedeva i suoi passi: ogni volta che Mistobaan emetteva il più piccolo suono, a Zaboera sembrava di essere trascinato in un passato lontano, colmo di gloria, ma allo stesso tempo sapeva che sotto quel mantello bianco vi era la Speranza per tutti loro. Qualcosa che nemmeno creature onnipotenti come Baran potevano comprendere. In quel momento Mistobaan era nelle mani dell’Imperatore, trattato come un burattino; ma ciò che il Grande Satana temeva davvero era che gli imperiali potessero capire la vera natura del Dono ed usarlo a loro piacimento. Non osava pensare alle conseguenze.
Stava per andarsene, ma una debole folata di vento apparve alle sue spalle e gli gonfiò l’abito. L’arcivescovo stregone capì subito chi fosse. Solo una creatura poteva avere tanta sfacciataggine.
“Passato? Futuro? Parole un po’ grosse per il nostro Braccio Destro, trovo. A meno che qualcuno non si degni di illuminarmi”.
“Killvearn, co …?”
“Come oso, dici? Oso perché grazie al cielo non sono uno di voi. E perché credo che quello che ho da dire sia più importante di quattro chiacchiere da salotto, specie perché nessuno dei vostri piccoli lacchè avrebbe il coraggio di interrompere la vostra amabile riunione privata”. Prese un bicchiere di vetro da un tavolino. Lo portò davanti alla maschera, proprio a livello delle labbra, poi lo lanciò in aria: l’oggetto disegnò quattro eleganti giri, poi atterrò sul palmo della mano sinistra; il suo assistente monocolo comparve dal nulla, e lanciò al suo padrone altri due bicchieri, stavolta colmi di limonata. Atterrarono tra le sue dita senza versare nemmeno una goccia. La tetra figura mandò da sotto la maschera qualche suono divertito quando lanciò con un rapido movimento del polso tutti e tre i bicchieri sul tavolo, e questi atterrarono uno sopra l’altro con un delicato tintinnio. Piroro si profuse in un applauso ed una risatina nel silenzio generale. “Lo so che combattere l’Imperatore Palpatine è la moda del momento, ma alcuni vostri esploratori hanno trovato tracce della Resistenza della principessa Leona a sud del regno di Carl, non lontano da dove il buon Baran sta liberando tutta la sua furia”.
Dal nulla estrasse un bastoncino, ed agitò pigramente la limonata nel bicchiere più alto della pila “Di sicuro Dai è con loro. Avranno raggiunto forse un migliaio di combattenti. Fatemi fare il conto … Baran è su nel cielo con i suoi draghi, Hadler e Hyunkel si trovano proprio in un’altra dimensione, Mistobaan probabilmente combatterà contro di noi, Crocodyne non è quello che suol dire un asso nella manica e tu, Zaboera, hai salvato i tuoi teneri ossicini per miracolo …” disse con il suo fare malizioso “ … perché non mi sorprende che la Resistenza voglia tentare qualcosa di grosso? Mi sembra chiaro che non avremmo dovuto intraprendere una guerra senza prima risolvere le questioni interne. E per quanto quel Dai sia soltanto un bambino, tutte le volte che è sceso personalmente sul campo abbiamo dovuto ricorrere o a Hadler o a Baran”.
“Mi prendi per uno stupido, Killvearn?” rispose il Grande Satana con una nota minacciosa nella sua voce.
“Non sia mai, Grande Satana! Ma trovo che sarebbe davvero ilare vincere una guerra contro l’Imperatore Palpatine per poi farsi soffiare tutto dalla Resistenza”.
Il sovrano lo fissò da sotto i ciuffi bianchi dei capelli. Le sue mani non tradivano alcuna agitazione, e continuavano pigramente ad elevare l’incantesimo di invisibilità, ma l’arcivescovo stregone sapeva che quel globo cinereo si sarebbe potuto trasformare in una palla di fuoco nel giro di pochi istanti. Il nuovo venuto si chinò ed appoggiò uno dei bicchieri sulla sua testa, trattandolo come un tavolino. Zaboera si voltò per congelarlo, ma Killvearn lo sottrasse al suo incantesimo e lo riportò di nuovo nel suo palmo.
“Invero” sibilò il Grande Satana, interrompendo la scena incresciosa “Le nostre migliori forze sono impegnate. Ma non tutte. Una è ancora libera”.
“E chi sarebbe?”
“Tu, Killvearn”.
L’arcivescovo stregone si godette i preziosi attimi di silenzio che seguirono quella frase.
“Ma, Grande Satana … non dovrei occuparmi di teletrasportare i vari corpi d’armata con le Pietre?”
“Certo. Ti occuperai anche di quello. Sono convinto che con la tua innata capacità di apparire nei luoghi meno opportuni tu possa gestire questo importante compito senza troppi sforzi; visto che hai avuto una solerzia impeccabile nel riportarmi i dettagli sulla Resistenza sono certo che la questione ti stia cuore. Motivo in più per non trattenerti, sbaglio?” sentenziò. “Ah, un’ultima cosa …”
I tre bicchieri esplosero insieme. Le schegge volarono tutte in una direzione, inchiodando il vestito ed il cappello di Piroro ad una parete. Le gocce del liquido giallo che raggiunsero il pavimento emisero del fumo nero, e Zaboera vide che il resistente marmo demoniaco era adesso pieno di crepe. Una di quelle gocce aveva raggiunto il braccio del nuovo arrivato, praticando un foro nell’armatura scura. “Un altro insulto ai miei sottoposti e dovrò proprio riconsiderare il mio accordo con il tuo padrone. E vedere allo stesso tempo se sei immortale come pretendi di essere”.




Narratore: “A me la coppa della cicuta... “
REGISTE: *sospiro* “Devi proprio farla così tragica ogni volta?”
Narratore: “E' che non riesco ad abituarmi... è più forte di me... pensare che un ridicolo scienziato in preda a crisi di coscienza possa soffiarmi il posto... “
REGISTE: “Il pubblico sembra gradire, Narratore. Perciò ora ti metterai buono buono in un angolino e aspetterai con pazienza il tuo turno.”
Narratore: “Sigh... mi tocca ingoiare anche questa umiliazione. Ma un giorno... UN GIORNO... !!”


Il giorno dopo l'arrivo di Zexion al Castello il Superiore insistette per scattare una foto commemorativa della fondazione dell'Organizzazione.
Quando entrai nella sala riunioni con Zexion al seguito Xigbar era già impegnato a calibrare un apparecchio a me sconosciuto fissato su un cavalletto di metallo a tre piedi. Era la prima volta che vedevo una macchina fotografica, e spinto dalla curiosità mi avvicinai al numero II per osservare il suo lavoro.
“Buongiorno numero IV! Com'è andato il primo giorno da babysitter?”
Davvero divertente. Sto morendo dal ridere.
Feci del mio meglio per ignorare l'ironia di Xigbar, concentrandomi invece sul funzionamento della macchina fotografica. A onore del numero II va detto che il suo commento era del tutto bonario e privo di malizia, ma non ero dell'umore giusto per apprezzarlo.
In effetti fino a quel momento avevo apprezzato davvero ben poco dei miei nuovi compagni: come aveva detto il Superiore erano tutti soldati, guerrieri per i quali gli allenamenti, le armi, le risse e le serate a ubriacarsi in taverna rappresentavano i massimi interessi nella vita. Non esattamente i tipi che io avrei definito “custodi della conoscenza”, né tanto meno persone con cui sentivo il desiderio di condividere alcunché.
Alle mie spalle gli altri membri salutavano Zexion con entusiasmo e facevano a gara per strappargli un sorriso, esibendosi in smorfie idiote e imitazioni patetiche. Xaldin lo sollevò e gli fece fare una capriola in aria, ridendo come un matto con la sua vociona fragorosa.
Se sono tanto contenti di averlo qui perché non se ne occupano loro?
“Zexion. Suona bene.”
Da un portale dell'oscurità il Superiore era apparso accanto a Xigbar e mi guardava con approvazione. “Un bel nome per il nostro numero VI.”
“Grazie, Superiore.”
“Come ti stai trovando con lui? Hai bisogno di qualcosa... ?”
Sì, che lei se ne vada a.....
In quel momento mi sentii tirare l'orlo della tunica.
“... Zexion?”
Il ragazzino era sfuggito alla presa di Xaldin e cercava senza successo di rifugiarsi tra le pieghe del mio abito mentre gli altri lo guardavano con un misto di stupore e divertimento.
“Ehi, ti ho spaventato?” Xaldin si chinò verso Zexion con aria colpevole, con il solo risultato che il ragazzino sprofondò ancora di più il viso nella mia tunica. “Dai, volevo solo giocare!”
Non mi stupiva che il ragazzino avesse paura di quel bestione del numero III. Lui e il numero V, Lexaeus, erano degli armadi di stazza impressionante, e incutevano una certa soggezione persino a me.
“Oh, bene!” il Superiore batté le mani come un bimbo felice per il gelato “vedo che si è già affezionato a te, Vexen! Splendido!”
Peccato solo che il sentimento non sia reciproco.
“Avanti, ora prendilo in braccio e prepariamoci tutti per la foto!”
Xigbar impostò un ultimo comando e ci invitò tutti ad allontanarci dall'obiettivo, facendoci disporre in piedi attorno a una poltrona di velluto rosso sulla quale prese posto il Superiore. Io sollevai Zexion, e mi stupii di quanto fosse leggero. Ora che lo guardavo bene, la tunica che il Superiore gli aveva procurato (appartenuta a un ben più giovane Xigbar) gli andava decisamente troppo grande: annegato nella massa di stoffa nera sembrava ancora più piccolo di quanto non fosse.
Lo spavento, se non altro, gli passò presto: al sicuro nella nuova postazione sopraelevata azzardò persino un sorriso tremolante, e agitò timidamente la manina verso l'obiettivo.
Il flash lampeggiò, abbagliandoci per un attimo.
Con quello scatto veniva ufficialmente fondata l'Organizzazione VI.



I giorni successivi li ricordo soprattutto come un'ubriacatura di colori e sensazioni.
Finalmente il Castello dell'Oblio mi riconobbe tra i suoi padroni e io ne ottenni i poteri, tra cui quello di viaggiare a piacimento tra i mondi con i corridoi oscuri.
Non riuscivo a smettere. Ogni volta mi dicevo che era l'ultimo, che dopo sarei tornato al Castello, ma era più forte di me. C'era così tanto da vedere oltre i confini soffocanti del mio mondo, così tanto da scoprire, milioni di domande in attesa di risposta... per una volta nella vita non mi venivano imposti limiti, e io ero giovane, volevo tutto, e lo volevo subito.
Tornavo al Castello solo quel poco tempo che bastava per dormire e mangiare. Zexion era straordinariamente docile e obbediente, dove lo mettevo stava, e mi aspettava senza fiatare né mettere nulla in disordine, tanto che smisi quasi subito di chiudere il laboratorio a chiave prima di andarmene. In una parola, era il paradiso.
Ovviamente sapevo che qualcosa non andava. Avevo visto la paura spropositata nei suoi occhi quando avevo provato a fargli il prelievo, avevo capito che doveva essergli successo qualcosa di spiacevole, forse addirittura traumatico. Non era normale che un bambino di quell'età fosse così passivo e apatico... ma dèi ladri, era comodo, molto comodo, e il richiamo degli altri mondi era troppo invitante per resistere. Per il momento, evitavo semplicemente il problema. In fondo non lo avevo voluto io: le mie priorità erano altre.
Gli unici momenti in cui mi soffermavo a osservarlo meglio erano i pasti. Ogni giorno scendevo nelle cucine a prendere qualcosa per entrambi, e insieme cenavamo a un angolo del tavolo più grande del laboratorio. Zexion mangiava tutto quello che gli veniva messo davanti senza protestare, lo sguardo basso, le spalle chine, senza mai parlare.
Le nostre cene erano sempre molto, molto silenziose.
Non che il silenzio fosse una novità per me. Ci ero abituato: la solitudine era la strada che mi ero scelto volontariamente da ormai più di dieci anni. Altre persone avrebbero venduto la madre per essere al mio posto: una casa bella e spaziosa, un patrimonio cospicuo, un avvenire sicuro. Mio padre era un mercante di vini, uno dei pochi esponenti di una classe intraprendente che lottava per affermarsi nel nostro mondo primitivo, e in anni di lavoro aveva messo su una discreta fortuna, quel tanto che bastava a consentire a mia madre di non dover lavorare e a me di collezionare libri e oggetti rari. Avrei potuto ereditare quella fortuna e vivere tranquillo per il resto dei miei giorni, magari sposando una qualche aristocratica in disgrazia così che i miei figli avrebbero ereditato un bel titolo nobiliare oltre che una discreta dose di quattrini.
Ogni volta che ci pensavo mi veniva da vomitare.
Quella vita senza scopo non faceva per me. Invece avevo scelto di essere uno studioso e un medico girovago, di viaggiare alla ricerca di nuovi libri e fonti di conoscenza, imparando tutto ciò che potevo: magia, chimica, astronomia, alchimia, non c'era disciplina che non catturasse il mio interesse. La parola con cui definivo me stesso era odiata e temuta dai sacerdoti, pronunciata con un misto di paura e disprezzo dalla gente comune che non capiva neppure cosa significasse: scienziato. La conoscevo per averla letta su libri, ma oltre a me non avevo incontrato nessuno nel mio mondo che si definisse in quel modo o che la considerasse una cosa di cui andare fieri. Forse non c'era nessun altro.
Ora, dopo tanto tempo, mi trovavo di nuovo a vivere a stretto contatto con un'altra persona per un periodo più lungo di qualche giorno. E con stupore mi accorsi che per la prima volta il silenzio mi pesava davvero.
Era innaturale.
Una sera tornai al Castello dopo quasi dieci ore di assenza e trovai Zexion rannicchiato sul letto nella stessa posizione a riccio che assumeva sempre per dormire. I suoi occhi però erano aperti, e sollevò leggermente la testa quando mi vide teletrasportarmi nella stanza.
“Ti ho svegliato?” gli chiesi.
Scosse la testa.
“Prima di addormentarti però è meglio se mangi qualcosa. Hai proprio tanto sonno?”
Scosse la testa. Estorcergli una sola parola di bocca era un'impresa da far sembrare la quadratura del cerchio un gioco da ragazzi.
“E allora che stavi facendo lì?”
“Niente.”
Mi sentii raggelare, io che avevo perso per sempre la capacità di provare freddo. Niente. Detto con quel tono neutro, assente, come se stesse parlando di un’altra persona. “Sei stato tutto il giorno… a non fare niente?”
Cenno di assenso.
Una cosa era essere coscienti del problema e scegliere di ignorarlo. Un'altra cosa era sentirselo dire in faccia da una vocina talmente flebile e rassegnata da non sembrare più neanche triste.
Suonava tremendamente come un'accusa. Uno schiaffo in piena faccia.
Mi sentii in dovere di provare a rimediare: “Beh... non è possibile che tu non voglia fare niente. Ci sarà pure qualcosa che ti piacerà, no? Un gioco, non so… prima di venire qui cosa facevi tutto il giorno?”
“…”
“Non ricordi proprio nulla?”
“…”
“Non importa. Ma adesso c’è sicuramente qualcosa che vorresti fare… basta che tu me lo dica.”
“…”
“Non devi avere paura di dirmi le cose. Non ti faccio niente.”
“…”
“Ma che cosa c’è? Cosa c’è che non va bene? Io non posso fare nulla se tu continui a tacere…”
“…”
Se mi fossi voltato verso la parete dicendo: “Muro, amico mio, vuoi che ti racconti qualcosa della mia vita?” avrei sortito lo stesso identico effetto.
Il giorno dopo tornai alla carica. Poiché nell'ultimo mondo visitato ero riuscito a procurarmi il secondo volume di “Le scoperte alchemiche dei fratelli Elric” decisi di restare in laboratorio per leggerlo e fare qualche esperimento; ma stavolta ero determinato a trovare un'occupazione anche per Zexion. Gli portai in camera un mucchio di fogli e una scatola di pennarelli e gli mostrai come funzionavano disegnando un omino stilizzato su un pezzo di carta.
“Guarda, ti ho trovato qualcosa da fare. Di solito ai bambini piace disegnare… ecco, puoi riempire questi fogli di tutto quello che vuoi. Io sono di là, e se ti serve qualcosa vieni pure a chiedermelo, mi raccomando. Ah… scrivi solo sui fogli, non voglio vedere scarabocchi sul tavolo o peggio sulla coperta del letto!”.
Stavolta riuscii a non perdere il senso del tempo, non troppo almeno, e dopo un paio d'ore fui di ritorno. Trovai Zexion sdraiato sul letto, ancora intento a disegnare; dell’enorme pila che avevo portato avanzavano solo quattro o cinque fogli bianchi alla sua destra, mentre alla sua sinistra si ergeva un miscuglio di centinaia di pezzi di carta pieni di ghirigori senza senso, alcuni dei quali erano caduti dal letto.
“Dèi ladri, mi hai consumato tutti i fogli per gli appunti!!”.
Prima che avessi il tempo anche solo di maledirmi per l’improvviso scatto di rabbia, Zexion aveva già lasciato cadere la penna e si era buttato sul letto rannicchiandosi a riccio, mandando i suoi disegni a volare da tutte le parti.
Dèi ladrissimi! Non potevo starmene zitto? E ora chi lo schioda da lì?
Raccolsi i disegni da terra e li osservai. Erano tantissimi, fogli e fogli tutti uguali attraversati da miriadi di linee curve e onde che si contorcevano con spire sinuose in ogni angolo della pagina, come a voler circondare e soffocare ogni traccia di bianco. Un intrico senza fine in cui l’occhio si perdeva. Non so perché, ma lo trovai agghiacciante.
“Zexion…”
Il bambino era immobile, gli occhi chiusi, sembrava si sforzasse persino di non respirare. Lo osservai per un tempo che mi parve lunghissimo, ed era come stare a guardare una statua. O un cadavere.
Mi sedetti sul letto accanto a lui. Il muro di silenzio che ci separava e ci impediva di comunicare... ero stato anche io a erigerlo. Se volevo fare dei progressi con Zexion dovevo fare qualcosa per distruggerlo.
“Senti Zexion, dobbiamo parlare. Io non so di cosa hai paura esattamente, ma qui sei al sicuro. Non hai nulla da temere. Il Castello dell'Oblio è un luogo magico, dove sei protetto e non ti può succedere niente di brutto.”
Vidi che aveva aperto gli occhi e mi ascoltava con attenzione, e lo presi per un buon segno. Cercavo di usare parole semplici e di parlare nel tono più rassicurante che mi riuscisse.
“Il Superiore ti vuole molto bene, e ora tu fai parte della sua famiglia, come noi. Xigbar, Xaldin e Lexaeus sono dei guerrieri fortissimi, e non permetteranno a nessuno di farti del male. E io... “
Solo in quel momento mi resi conto di non avergli mai detto nemmeno il mio nome. Il primo giorno lo avevo bombardato di domande su di lui, ma non avevo neppure pensato a presentarmi.
Inaspettatamente Zexion sollevò una manina e mi indicò: “Tu sei Vexen.”
Il ragazzino aveva un buono spirito di osservazione, e io sorrisi senza rendermene conto: “Sì, bravo. Mi hai letto nel pensiero!”
Feci una pausa prima di continuare. Non era facile scegliere le parole giuste, e prima di allora non avevo mai avuto a che fare con un bambino così piccolo. Mi sembrava di camminare su un pavimento di cristallo a rischio di infrangersi al primo passo imprudente.
“Se c'è qualcosa che non va, puoi dirmelo. Se hai bisogno di qualcosa, se vuoi fare qualcosa non devi avere paura di venirmi a chiamare. Lo so, in questi ultimi giorni non ci sono stato molto, ma ora cercherò di stare via di meno, va bene?”
Stavolta il suo cenno di assenso non sembrava particolarmente convinto.
“E poi, se ti annoi puoi sempre andare dagli altri qualche volta, a loro fa piacere.”
Nessuna risposta. Mi parve quasi di vederla, la crepa che iniziava a propagarsi nel pavimento di cristallo. Passo falso! Non dovevo dargli l'impressione di volerlo scaricare agli altri!
Lo avevo detto io che avevano scelto la persona sbagliata!
Mi venne un'idea per salvare la situazione. “Facciamo così: io ti prometto di tornare un po' prima la sera. Tu invece mi prometti di venirmi a dire ogni volta che c'è qualcosa che ti fa paura, che non ti piace o che vorresti fare, d'accordo?”
Ancora nessuna risposta.
Non mi arresi. “E se posso, io cercherò di aiutarti. Va bene? E' una promessa seria, questa. Uno scambio equivalente, come i patti tra gli antichi alchimisti” dissi in tono volutamente solenne. “Io do una cosa a te, e tu in cambio me ne dai un'altra dello stesso valore. Così funziona.” Gli tesi la mano: “Ci stai?”
Per qualche momento pensai che non si sarebbe mosso, che avevo fatto una mossa troppo azzardata. Forse non c'era altro da fare che tornare dal Superiore e confessargli il mio fallimento; oppure continuare come avevo fatto fino ad ora, ignorando il problema, ignorando che insieme a me nel laboratorio viveva anche un'altra persona...
Eppure, almeno stavolta, le mie intenzioni erano sincere.
Stavo per ritirare la mano sconfitto quando Zexion la afferrò all'improvviso, stringendola debolmente. Lo aiutai a rimettersi seduto, e lui annuì con la testa e ripeté come per imprimersi nella mente le parole: “Uno scambio equivalente.”
“Esatto” dissi, e subito mi venne un'altra idea. “E per dimostrarti che faccio sul serio, ho deciso che da domani ti insegnerò a leggere.”


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Fonte della fanart a inizio capitolo: http://maevachan.deviantart.com/

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 - Qualcosa da proteggere ***


Capitolo 11 - Qualcosa da proteggere





Zam Wesell




Difendi quel che hai.
Se non lo ami, non lo capirai.
Proverbio clawdita.




Hadler levitò lentamente. Senza mai allontanare lo sguardo dagli occhi rossi della creatura, si sollevò sopra ciò che rimaneva dei palazzi. Sotto di lui Bartosh e Hyunkel stavano trattenendo i loro soldati, ed in quei pochi attimi il demone sentì il silenzio dell’intero esercito del Fushikidan che tratteneva il fiato. Si avvicinò, e quando le due strette pupille conversero sulla sua figura capì di aver ottenuto l’attenzione della donna.
L’enorme mole del drago svanì, ed al suo posto rimase solo la figura della donna che era stato mandato ad affrontare. Baran non ha esagerato, dunque. Alcuni demoni incantatori erano in grado di alterare parte delle loro fattezze, ma non con quella velocità e soprattutto non con quell’enorme differenza di taglia. Estese la magia intorno alla sottile figura dal vestito viola, ma intorno a lei non vi era alcuna traccia di incantesimi, nemmeno un sottile spiraglio, non un movimento nell’aria.
La donna lo guardò con attenzione, poi si sedette sulla sommità del palazzo che i suoi artigli di drago avevano quasi distrutto, con le gambe nel vuoto. Spostò gli occhi verso il campo di battaglia sotto di lei, la grande ondata non morta che si abbatteva sulle macchine imperiali, i due eserciti che al suo passaggio rimanevano immobili in attesa di un suo respiro. Per un attimo svanirono i rumori alle loro spalle, gli speeder, gli spari, gli allarmi della capitale, l’intero mondo di metallo sembrava ovattato e solo per quella piccola figura che nulla aveva di maestoso.
I suoi alleati la temevano molto più dei suoi nemici. “Non un gran che come spettacolo, vero?”
Al sentirsi rivolgere la parola –l’ultimo scenario che gli fosse venuto in mente- Hadler respirò a fondo, si fece coraggio e volò nella sua direzione. La sua magia percorse in un istante l’intero palazzo, scese fin dentro le fondamenta e tutto intorno, scivolò nuovamente intorno al corpo della donna e anche sopra le loro teste, ma non percepì nulla di sospetto.
“Stia tranquillo” disse lei, quando solo cinque braccia d’aria li separarono. “Non le sto tendendo una trappola. Ha la mia parola”.
“La parola di un umano non ha valore”.
“Sono pienamente d’accordo” rispose, quasi divertita da una frase simile. “Ma, per sua fortuna, io non lo sono”.
Da quella distanza riusciva a vederne persino gli occhi, di un colore chiaro tra l’azzurro ed il castano. Erano puntati nella sua direzione, ormai lontani da qualsiasi distrazione del campo di battaglia. Trovava difficile staccare lo sguardo da lei. “Credevo che il Grande Satana avrebbe mandato il Generale Baran ad affrontarmi e a scatenare la sua furia su tutta Coruscant. Sotto un certo punto di vista è un peccato, avrei davvero voluto combattere una seconda volta contro di lui …” disse con un lieve sorriso. “Ma se hanno mandato lei apposta per scontrarsi con me, ne deduco che non debba essere di potenza troppo inferiore a quella del Cavaliere del Drago”.
Che fa, sfotte?
No, non lo stava deridendo. L’espressione della mutaforma era neutra, imperscrutabile, ma non vi era nulla di divertito nei suoi lineamenti. Ma in lei c’era qualcosa di molto poco normale se desiderava combattere e perdere di nuovo contro Baran. Però evitò di farglielo notare. “Il Grande Satana ha fiducia nelle mie capacità. E qualunque cosa succeda nei prossimi istanti, nessun demone troverà gloria sul campo quanto me!”
“La gloria è qui davanti a lei, glielo assicuro” rispose la donna. Si mise in piedi, in perfetto equilibrio sopra il vuoto, ed i muscoli delle gambe e delle spalle si contrassero, pronti all’attacco. “Venga a prendersela!”.
L’attimo dopo superò con un unico balzo lo spazio aereo che li separava , due piccole lame in entrambe le mani. Hadler si spostò, ma non abbastanza in fretta. La donna atterrò contro di lui, e spinse il metallo delle lame nel suo torace. Il demone nemmeno sentì il dolore, lasciando che i processi riparativi del suo corpo biologico modificato dagli studi di Zaboera facesse il resto. Lanciò contro la mutaforma una rapida serie di raggi infuocati, ma quella si mosse su di lui con l’agilità di un ragno e le fiamme si persero contro un grattacielo. Si contorse in aria, volò a destra ed a sinistra, in alto ed in basso, cercando di levarsela di torno; quando sentì le mani della donna stringersi al suo mantello, incanalò la magia nella mano sinistra e diede fuoco a tutta la stoffa in un solo istante, ma non bastò. Le mani dell’avversaria si mossero prima lungo le braccia, poi sulle spalle, scivolando in aria prima di essere colpita dagli incantesimi per tornare l’attimo successivo in perfetto equilibrio. Ci fu un lampo di luce giallo-azzurra, ed una strana lama, lunga quanto il palmo della sua mano, gli saettò davanti agli occhi e gli atterrò proprio davanti alla gola. “Tecnicamente avrei vinto io …” sentì la voce di lei mormorargli proprio nell’orecchio. La mano che non impugnava la lama colorata era serrata contro la sua spalla sinistra con una forza impensabile per quelle dita sottili. “Peccato, mi sarei aspettata un duello più soddisfacente da un demone che ha sfidato Kaspar sul campo di battaglia”.
“Questo è ancora tutto da vedere”.
Il piacevole calore della magia esplose.
Il fuoco attraversò la sua pelle in un unico istante. Divampò lungo la sua pelle verde e scivolò attraverso i capelli; lo spinse lungo la tunica, i bracciali ed il mantello, e quando sentì le dita della mutaforma perdere la presa per la sorpresa saettò verso l’alto, liberandosi della sua presenza. Non si voltò nemmeno a vederla cadere, ma si librò sopra il primo palazzo ed approfittò dei pochissimi attimi di tregua per rigenerare in fretta. Il corpo biologico superstregonesco, uno dei principali vanti di Zaboera, rispose perfettamente alle aspettative.
Sebbene il vecchio arcivescovo stregone non fosse celebre per le sue magie, Hadler si era offerto volontario per sperimentare gli studi di Zaboera sulla manipolazione dei corpi demoniaci, e da oltre trent’anni passava buona parte del suo tempo libero nei laboratori del vecchio demone per fornirgli i dati di cui aveva bisogno. Non aveva idea del perché Zaboera si divertisse così tanto a prelevargli campione di sangue, ma ogni volta che si immergeva nelle sue vasche dai fluidi blu e verdastri ne usciva carico di nuova energia, tanto che dopo l’ultima seduta era riuscito persino a sollevare Crocodyne sulle spalle senza usare alcun incantesimo. Nessun altro demone aveva accettato di sottoporsi al trattamento –il Grande Satana stesso si era dimostrato più volte diffidente sulla moralità di quegli esperimenti- ma questo riempiva Hadler di sempre maggior orgoglio. D’altra parte nessun altro demone minore sarebbe riuscito a rigenerare tutta la sua pelle ed i capelli in meno di quattro secondi. Quattro secondi vitali, perché nell’istante successivo un gigantesco volatile azzurro atterrò proprio davanti a lui, rivelando di nuovo le forme della sua avversaria. “Niente male. Il Grande Satana sa scegliere bene i suoi Generali”.
“Non sarei il comandante dei corpi d’armata del Grande Satana se non sapessi nemmeno scrollarmi di dosso un avversario” rispose, alzando intorno a sé alcuni veli di magia difensiva.
Lei dovette trovare qualcosa di molto divertente in quella frase, perché gli sorrise in modo inquietante. “Non sono molte le persone che riescano a scrollarmi di dosso, glielo assicuro. E la maggior parte non sono sopravvissute al secondo attacco”.
Ecco, vorrei proprio evitare di fare la loro stessa fine …
La mutaforma lo osservò, apparentemente senza difese, in attesa di un suo attacco. Hadler chiuse gli occhi, estendendo i suoi poteri fino ai piani bassi, al terreno migliaia di piedi più sotto, alla ricerca dell’energia vitale dei suoi demoni minori e del Fushikidan. Il duello con la donna si prospettava interessante, ma non poteva e non doveva assorbirlo del tutto: tenere fuori quella furia scatenata della mutaforma era uno dei suoi obiettivi, ma la vittoria …
“Ebbene?”
Il tono della donna spezzò la sua concentrazione. Si era messa a braccia incrociate, incurante delle esplosioni alle sue spalle e delle urla che sembravano nascere dallo stesso terreno.
“Mi sembrava di averlo già detto anche al Generale Baran. Detesto essere ignorata”.
“Colpirmi durante un attimo di distrazione sarebbe il modo più rapido per vincere la battaglia e portare la mia testa al vostro Imperatore”.
“Mettiamola così: all’Imperatore interessa avere la sua testa. Ma il come averla lo lascia di solito scegliere a me. Però ho in mente un modo per farla interessare di più al nostro duello …” disse, avvicinandosi di almeno dieci passi. “Detti una condizione. Una qualsiasi, ed io la rispetterò. Se lei è davvero il comandante di tutti i corpi d’armata saprà come volgere questa situazione a suo vantaggio”.
Hadler rimase senza parole. Fece per aprire bocca e risponderle che non aveva alcun bisogno che un nemico gli regalasse la vittoria, ma il rumore di una violenta esplosione sotto di loro gli serrò le labbra e gli toccò i cuori. L’energia dei suoi demoni si stava lentamente trasformando in un guazzabuglio privo di armonia ed ordine, come se il delicato mosaico delle loro scie stesse venendo meno; da quell’altezza non riusciva a distinguere i gridi di guerra del Fushikidan dal rumore assordante delle strane armi degli umani, né riconoscere i grugniti di battaglia di Bartosh da quelle di centinaia di altri soldati che cadevano uno dopo l’altro per il fuoco delle macchine imperiali. Il fragore metallico poteva appartenere ai soldati-macchina, ai veicoli, al ferro della lama di Hyunkel contro i blaster avversari, alle lance dell’avanguardia non morta crollate a terra insieme ai loro padroni. E lui non poteva saperlo. O vederlo. Il violento pulsare della magia lungo il campo di battaglia parlava una lingua a lui sconosciuta, potente come un’ondata che si muoveva tra quei palazzi che arrivavano quasi fino al cielo; un’onda che avrebbe potuto domare ed usare per aiutare i suoi soldati. Parte di lui avrebbe voluto volare via da quel grattacielo, scendere a volo radente circondato da fiamme e dare ai suoi demoni tutto l’aiuto che poteva offrire. Dall’altra …
Scosse il capo.
Se avesse abbandonato quel duello non solo avrebbe gettato nelle fiamme il suo onore, ma si sarebbe fatto inseguire da quella donna. La differenza tra i loro poteri era abissale, e dopo averlo scoperto sulla sua pelle sapeva che non aveva possibilità di resistere ad uno scontro prolungato. Se non fosse riuscito a fermarla o almeno a trattenerla, e sapeva di non poterlo fare con le sue mere forze, lei sarebbe prima o poi planata sul Fushikidan, duello o meno. L’idea di porre delle condizioni al loro scontro lo deludeva, ma non poteva farsi sconfiggere quando migliaia di non vite cozzavano le spade, le lance, le asce e gli scudi nella speranza che la donna drago non posasse lo sguardo su di loro. Se si fosse lasciato uccidere solo per assecondare il suo orgoglio era certo che Bartosh avrebbe trovato un modo per riportarlo in vita solo per potergli sputare in un occhio, ammesso che vi fosse ancora saliva tra quelle ossa bruciacchiate.
“E va bene” rispose a malincuore. “Ma ti consiglio di non sottovalutarmi. La tua generosità potrebbe rivelartisi fatale”.
“Sono maggiorenne da più di trecento anni. So prendermi la responsabilità delle mie azioni” disse con un sorriso. “Allora, la sua condizione?”.
Per la terza volta da quando lo scontro era iniziato, scese il silenzio tra loro. Il demone si portò al centro della sommità del grattacielo e guardò la distesa di edifici che rivestiva quel pianeta come una foresta. Alberi di metallo e vetro, che nonostante l’uso dei Nuclei Neri si estendevano fitti fino all’orizzonte, e quelli più vicini rilucevano del fuoco della battaglia. Ostacoli insormontabili, che nascondevano la superficie del mondo come una rete acuminata, e che divoravano avidi tutta l’aria vitale dell’atmosfera. C’era un motivo per cui il Grande Satana non aveva mandato Baran ed i suoi draghi su quel pianeta.
“Combatteremo su questo tetto. Su questo, e nell’aria al di sopra” disse, sentendo i suoi cuori avvolti in una strana sensazione di calma. “Non un dito oltre. Accetti?”.
La cambiatrice di forma lo osservò con un leggero sorriso. “Interessante … direi che possiamo iniziare”.
Il suo corpo iniziò a cambiare.




“È arrivato, governatore Fett!”.
Boba chiuse l’immagine olografica del visore pineale, e con un sospiro voltò le spalle alla battaglia. Una volta ripresosi dalla caduta era stato portato in salvo dai cloni soldato, ed oltre a qualche ammaccatura sull’armatura ed allo zaino a razzo ormai andato se l’era cavata discretamente. Nel vortice del combattimento l’enorme scheletro guerriero e gli altri soldati del Grande Satana non lo avevano degnato di alcuna attenzione, e per sua fortuna Zam era apparsa nei cieli. Era sparita insieme al demone dal mantello nero, ma di certo non era lei la persona di cui doveva preoccuparsi.
Stavano perdendo lo scontro. Kaspar era stato gravemente ferito, e dei droidi medici lo avevano caricato su uno speeder per portarlo nelle retrovie: i non morti sembravano attirati dalla figura del mago, e si erano lanciati al suo inseguimento sfondando la barricata composta da velivoli abbattuti che i suoi uomini avevano eretto. Un Karjhad fu colpito da un incantesimo oltre le fila nemiche ed esplose contro la parete di un palazzo. Il comlink fu invaso di ordini di ogni genere, e dopo qualche attimo il colosso di transparacciaio franò sulle loro teste.
Quando si voltò, vide la persona che l’Imperatore gli aveva inviato.
L’agente 006 era in condizioni pietose, con un lungo squarcio non rimarginato all’altezza della guancia sinistra; camminava appoggiandosi ad un droide medico, ed a giudicare dai suoi capelli sporchi di materiale gelatinoso era stato appena estratto da una vasca di bacta: il ciuffo argentato era ridotto ad una massa informe che gli copriva la metà destra del viso. Il Membro dell’Organizzazione doveva essere stato insaccato a forza nel suo cappotto nero, perché il fermaglio centrale era slacciato ed il ragazzo sembrava ancora più giovane e sparuto di quanto fosse. Non che la cosa gli interessasse più di tanto, in realtà. “Forza, Membro dell’Organizzazione” ordinò, afferrandolo per una spalla e sospingendolo in avanti. “Fiuta”.
Il ragazzo sospirò, ma non rispose. Fissò il campo di battaglia, ed il cacciatore di taglie osservò la sua espressione. Da neutra e sofferente si trasformò in una maschera di disgusto; se era vero che poteva percepire le persone con il solo fiuto, beh … quella distesa di cadaveri su due gambe non doveva essere la più divertente delle percezioni.
“Che cosa volete sapere?” chiese il ragazzo.
Boba si trattenne dal dargli una sonora serie di cinquine. “Potrei chiederti la combinazione del caveau dell’Imperatore … o perché no, sarei interessato a sapere quante pulci c’erano nella barba del barbone a cui ho sparato stamattina … ma se fossi in te guarderei dritto davanti agli occhi ed userei un po’ di immaginazione!”
Il ragazzo lo osservò con il grande occhio chiaro non coperto dal ciuffo. Se aveva capito l’ironia, non lo diede a vedere. “Contro un’armata di non morti sarebbe più utile un esperto di magia bianca piuttosto che tanti droidi” mormorò.
Da quando in qua la magia ha dei colori? pensò Boba, imprecando mentalmente contro tutti gli incantatori di quella dimensione, della galassia e, per sicurezza, anche contro quelli dell’Universo Parallelo. “E Kaspar non va bene?”
“Governatore Fett, lei si farebbe curare da Kaspar?”
“Piuttosto bacerei Mistobaan in bocca. Con la lingua” rispose, suscitando una lieve risata nelle guardie lì vicino. Poi riprese quel poco di serietà che doveva sforzarsi di mostrare davanti ai soldati che ancora non lo vedevano come il loro capitano, ma solo come un cacciatore di taglie piovuto dal nulla. “Beh, se Kaspar non va bene, direi che non abbiamo questi maghi bianchi di cui parli, ragazzino. Nell’Amn abbiamo qualche Stregone Incappucciato, ma anche con il teletrasporto impiegheremmo almeno tre ore. Non ti viene in mente nulla di più immediato?”.
“Oltre al far venire qui la Signora? No, governatore Fett” sussurrò. Boba seguì lo sguardo del ragazzo, su verso la sommità del grattacielo dove Zam si era poggiata l’ultima volta che l’aveva vista. Dal basso non riusciva a vedere o sentire nulla, ma la cacciatrice di taglie aveva abbandonato la sua forma draconica, e di lei non si poteva osservare nemmeno il più remoto puntino viola sulla cima dell’edificio; anche il demone che era volato verso di lei sembrava sparito, ed i lampi azzurri che provenivano dal campo di battaglia dei due sfidanti di mescolavano alle raffiche laser che i Karjhad usavano per spazzare da lontano le linee degli scheletri. Non era abituato a non vederla.
“Sta bene” disse il ragazzo, come anticipando i suoi pensieri. L’unico occhio azzurro visibile si soffermò su di lui, poi tornò verso l’alto. “Sa com’è la Signora … quando si intestardisce su qualcosa non c’è verso di fermarla! Ha scelto uno dei suoi duelli d’onore, e non ne uscirà finché uno dei due non sarà morto. Ed il demone è dello stesso avviso”.
“Zam non morirà di certo per così poco”.
“Chi lo può dire?” rispose il ragazzo, con lo sguardo ancora più vacuo. “Un mio collega dell’Organizzazione diceva sempre che il destino è cinico e baro. Ma soprattutto baro”.
Se si fosse trattato di un qualsiasi altro agente dei servizi segreti lo avrebbe terminato sul posto per l’insolenza, ma l’Imperatore teneva in considerazione quel ragazzo ed i suoi poteri. Più di quanto non tenesse a lui, senza alcun dubbio. “Sarà …” rispose “… ma il tuo collega non aveva mai visto Zam”.
“Senza dubbio”. Il ragazzo dallo strano ciuffo si mise in piedi da solo, appoggiandosi a quello che restava di un velivolo d’assalto. Inspirò a fondo, proteso in avanti, quasi incurante delle raffiche al plasma che disegnavano migliaia di reti mortali nell’aria. “Se fossi in lei, governatore Fett, non mi preoccuperei troppo dei non morti. Sono molto più resistenti dei semplici assaltatori, e dominano incantesimi di necromanzia che nemmeno i vostri amati Stregoni Incappucciati potrebbero bloccare. Ho il sospetto che il modo migliore per fermare il Fushikidan sia … passatemi l’espressione … staccare loro la spina …”
Boba lo guardò con aria interrogativa, facendo capire al ragazzo che avrebbe gradito una spiegazione più esplicita. “I non morti del nostro pianeta non sono creature del tutto autosufficienti: è la magia a riunire le ossa dei caduti, ed è sempre la magia che li fa parlare, combattere e ragionare. Nel nostro mondo la magia è molto diffusa, soprattutto grazie alla presenza della famiglia demoniaca, che grazie al suo immenso potenziale imbriglia di incantamenti la terra ed il cielo; è anche il motivo per cui delle creature così testarde come i non morti hanno deciso di giurare fedeltà al Grande Satana, dopotutto”. Fece una pausa, come se stesse pensando a qualcosa di triste. Lo sguardo si fissò sull’immensa distesa di grattacieli alle loro spalle, quella parte di Coruscant che ancora non era stata devastata dai Nuclei Neri. “In questo mondo non c’è magia, governatore Fett. Nemmeno una goccia. Tecnicamente a Coruscant il Fushikidan non potrebbe resistere per più di qualche ora …”
Il cacciatore di taglie respirò a fondo, capendo dove il ragazzo stesse andando a parare. “I demoni …”
“Esatto. I demoni minori che vediamo in campo non sono qui per combattere, o almeno non è quello il loro scopo. Posso percepire chiaramente l’odore della magia che si sposta dai loro corpi a quelli dei non morti, è un’azione spontanea ma fondamentale per lo spostamento dell’esercito. Infatti tendono sempre a tenere i demoni nelle retrovie, o comunque lontano dalla nostra artiglieria”.
“Ho capito”.
Boba rimase per qualche istante solo con i suoi pensieri. Le parole del ragazzo avevano dato un altro aspetto alla dimensione della battaglia, un aspetto che non avrebbe mai preso in considerazione nemmeno dopo migliaia di anni. Lo avevo detto all’Imperatore che ero la persona sbagliata per questo compito. Eppure si trovava lì, con una scacchiera che non era nemmeno in grado di usare –detestava giocare a scacchi olografici, del resto- e con migliaia di pedine di cui non capiva nemmeno la funzione. Era Tarkin quello che vedeva sempre il quadro generale della situazione. Era lui a capire dove e quando colpire, ad avere sempre un piano di riserva, un asso nella manica che nessuno era in grado di prevedere. Lui era soltanto un cacciatore di taglie che era diventato un Signore Oscuro quasi più per spirito di amicizia verso Tarkin e Maul che non per desiderio di scalare la vetta del potere; se fosse dipeso da lui avrebbe spento quel dannato comlink, mandato a quel paese tutti i soldati e si sarebbe appartato su uno dei palazzi ancora in piedi, solo con i suoi blaster ed il fucile da precisione. Ma non poteva.
E non poteva nemmeno chiamare Tarkin. Il governatore aveva i suoi draghi da pelare, laggiù nel mondo del Grande Satana, e non lo avrebbe mai distratto per nulla al mondo. Aveva un’idea per uscire da quella situazione, una di quelle che Zam non avrebbe mai approvato.
“Ragazzino, ma soltanto i demoni sono fissati con queste idiozie dell’onore oppure lo sono anche questi scheletri schifosi?”.
“Combattono per il Grande Satana. Anche per loro l’onore è importante”.
Bene.
Forse c’è un modo per uscire da questo inferno.
Congedò il giovane agente e diede disposizioni a tutti i suoi uomini. Il piano aveva la sua bella dose di pericolo, ma più vi pensava e più si rendeva conto che era un rischio alla sua portata. A Zam non piacerà, ma ormai non credo che possa detestarmi più di così.
Cercò di scacciare il nervosismo che lo perseguitava tutte le volte che si ritrovava a pensare a lei. Ma stavolta era diverso, quasi come un presentimento scuro che gli lasciava un brivido spiacevole lungo la schiena. Ripensò alle parole del giovane Membro dell’Organizzazione, avvolto nella sua tunica nera come un uccello del malaugurio. “Il destino è cinico e baro, eh?”
Premette un pulsante, sapendo che entro qualche minuto una squadra di droidi IG-88 sarebbe arrivata. Zam era sempre uscita vittoriosa da qualsiasi duello, ma si sentiva in dovere di mandarle un piccolo aiuto.
Come avrebbe detto Tarkin … per sicurezza.




Quando la trasformazione terminò, davanti agli occhi di Hadler non vi era nessuna delle centinaia di creature che si era immaginato. Non vi era lo sguardo imperscrutabile di un Beholder, i tentacoli di un Illidith, la statura imponente di un Mangiatore di Rocce né l’ammasso di magia necromantica che accompagnava il passo dei temutissimi Lich. La nuova figura era tozza e massiccia, ma manteneva sembianze simili a quelle umane. La fissò a lungo, finché la figura non si mosse per cambiare posizione e allora scorse lo scintillio dei suoi occhi gialli.
Un momento più tardi, la creatura si staccò dal cumulo di detriti vicino al quale si era nascosta e avanzò verso di lui, illuminata dalla luce morente di un palazzo vicino. Era robusta ma leggiadra allo stesso tempo, con le spalle lievemente ricurve in avanti ed il petto più ampio della sua forma umana, e la pelle sembrava coperta da una leggera peluria nei punti in cui il vestito viola era stato assorbito dal resto del corpo. La testa era molto simile a quella precedente, solo che il viso era deformato in qualcosa di feroce. Il muso lungo e le orecchie appuntite erano quelle di un lupo, ma le mandibole erano grosse e larghe e quando le scostò si scorse una fila di denti lunghi e strettamente serrati tra loro. Sebbene la mole fosse ben maggiore della sua forma umana, la donna si mosse verso di lui con eleganza ed un’andatura misurata. Si fermò a dieci passi da lui, sollevò la testa e la bocca si arcuò in quello che poteva essere l’abbozzo di un sorriso, poi emise il più raccapricciante ringhio che Hadler avesse mai udito, una combinazione tra grido ed ululato che superò anche il fragore dei cannoni al plasma sotto di loro. Il battito dei suoi cuori accelerò, sospinto dal verso del licantropo che si stagliava davanti a lui, con le spalle protese in avanti e pronte ad attaccare.
Decise di non darle il vantaggio della prima mossa.
Aprì il palmo della mano sinistra verso di lei, e lasciò che l’energia di fuoco esplodesse dalla punta delle sue dita. Le Flare Finger Bombs si aprirono seguendo la sua mano, poi conversero sulla donna disegnando cinque traiettorie rosse nell’aria; prima ancora che la mutaforma potesse evitarle, Hadler creò una lunga lancia di ghiaccio e la scagliò proprio nel piccolo spazio che le Flare Finger Bombs avevano lasciato vulnerabile. La mutaforma era lì, proprio dove aveva immaginato, ma invece di evitare l’arma cristallina diretta verso il suo petto si acquattò, scattò di lato con gli arti inferiori ed addentò la lancia tra le sue mandibole. Le schegge di ghiaccio non avevano ancora raggiunto terra quando le Flare Finger Bombs tornarono indietro e avvolsero la sua nemica nell’oscurità e nella caligine. Hadler vide la sagoma del licantropo flettersi ed allontanarsi, e capì che le sfere di fiamme non avrebbero mai colpito il bersaglio.
“Un’ottima scelta” disse a voce alta. “Sai come rendere interessante un duello”.
Non aveva idea di come quella donna fosse venuta a conoscenza del ramo licantropo della famiglia demoniaca, una razza che ere addietro si era staccata dai demoni per mischiarsi con le bestie; lui stesso ne aveva visti pochi e soltanto tra fila dello Hyakujumadan, tanto silenziosi nei momenti di riposo quanto violenti e sanguinari sul campo di battaglia. Brutali, selvaggi, primitivi, con una cultura che ormai non aveva più nulla a che vedere con quella dei loro padri. Ma pur sempre demoni…
Non aveva ancora finito di formulare quel pensiero che dalle mani della sua avversaria partì una sgradevole sensazione di magia pura, priva di forma, che permeò l’aria. Due immense folate di vento lo colpirono in rapida successione: la prima lo colpì in pieno e lo sbilanciò, ma Hadler evocò un proprio incantesimo di vento, più forte e letale, che rivolse la corrente nemica contro il palazzo più vicino. Al rumore del transparacciaio in frantumi sentì i suoi cuori accelerare al ritmo della sfida, e dal pavimento richiamò una serie di cristalli di ghiaccio che si mossero verso il licantropo in rapida successione. “Schiva questi” gridò, liberando le stalagmiti. Le punte di ghiaccio sorsero, avide del sangue avversario ed attratte dal suo cuore pulsante. La inseguirono come onde gelide, una più grande dell’altra.
I movimenti della sua nemica erano rapidi e perfetti, prima in equilibrio sulle due gambe e poi sui quattro arti; la presenza delle stalagmiti inseguitrici la costringeva a stare sulla difensiva ed a muoversi, minando anche il più piccolo palmo di terreno. La mutaforma cercò di deviare il percorso e si diresse verso di lui, ma Hadler si sollevò di tre metri e come risposta fece cadere sul suo muso una Catena di Fulmini. Lei lo evitò, ma non abbastanza in fretta da schivare uno dei cristalli di ghiaccio che la ferì ad una gamba. A suo onore non pronunciò nemmeno un guaito, ma riprese ad allontanarsi mentre i poteri rigenerativi della sua razza iniziarono a fare effetto. Hadler la tempestò di colpi e si portò proprio sopra di lei. Tra le sue dita la magia prese una forma gialla, pericolosa, che avvolse quasi tutta la lunghezza del suo corpo; il generale lasciò che il potere arcano attingesse alle energie del corpo biologico e lanciò l’incantesimo di imprigionamento verso la bestia.
Non riuscì nemmeno a vederlo.
Quando il licantropo balzò verso di lui, quasi a quattro metri di distanza, fu preso alla sprovvista e perse il controllo dell’incantesimo, rovinando al suolo. Istintivamente avvolse di nuovo il suo corpo nelle fiamme, ma l'avversaria questa volta non perse la presa; le sua mani, ormai più simili a zampe dai lunghi artigli, si serrarono intorno al suo collo. Presero fuoco insieme, scalciando e cercando di colpirsi a vicenda, finché Hadler non sentì solo l'odore di pelle e pelo quasi carbonizzati. Devo ...
Nonostante l'evidente dolore, la nemica non lasciò presa; il demone sentì l'aria venirgli meno, ed ignorando il dolore che gli attraversava ormai tutto il corpo aumentò l'intensità della fiamma e la fece convergere tutta lungo il palmo della mano. Lanciò l'incantesimo Mera dritto verso l'ampio petto della bestia, e l'impatto della rete di fuoco costrinse l'avversaria ad abbandonare la morsa intorno al suo corpo con un intenso ululato di sofferenza.
I suoi cuori iniziarono a battere a ritmo forsennato, assaggiando la vittoria. La sua pelle era consumata, rossa e carbonizzata per lo sforzo, ma non si curò di rigenerare; anche l'avversaria possedeva quel potere, e non le avrebbe regalato secondi preziosi. Si lanciò all'attacco imbevendo le mani di energia arcana. "ASSAGGIA QUESTO!"
Ancora avvolta nelle fiamme, la donna evitò il primo assalto, ma Hadler vide i suoi movimenti e sventò a sua volta una controffensiva ed imprecò tra i denti. Pur essendo meno dotati di potenziale magico dei demoni, il ramo licantropo aveva resistenza ed una forza che nessun demone minore, per quanto esperto, poteva eguagliare. Le mascelle della nemica si chiusero con uno scatto a poche dita dal suo orecchio destro, e sentendo così vicina la sua mole il demone si avvolse in un turbine di vento.
Contro ogni previsione, la nemica non riuscì a tenersi salda a terra, e la figura volò in aria.
Non avrebbe avuto una seconda possibilità.
Saettò verso di lei e la intercettò in volo, nell'unico momento debole della bestia feroce. Con una seconda magia di aria e ghiaccio la sbalzò ancora più in alto, poi volò alle sue spalle e la strinse con tutte le forze. Prima che lei potesse ricorrere alla sua soverchiante forza fisica, fece appello a tutte le energie rimaste nel corpo biologico superstregonesco. Congelò le proprie braccia partendo dalle spalle, ed i cristalli affondarono dentro le carni della nemica, inondandola degli incantesimi di gelo. La stretta di Hadler si espanse, e le sue braccia diventarono un anello freddo che intrappolò la creatura; le punte acuminate penetrarono sempre più in profondità, ed iniziarono a tingersi del suo sangue.
Rimasero così, in aria, per diversi secondi. Il fragore della battaglia sotto di loro era assordante, ma l'unica cosa che Hadler sentiva era il brivido della vittoria, la magia che gli ronzava nella testa, i cuori che acceleravano all'idea di portare al Grande Satana la testa di colei che aveva osato sfidare persino il Cavaliere del Drago.
"La tua tracotanza ti ha sconfitto, mutaforma" disse, cercando di nascondere l'affanno. Le lame di ghiaccio si fecero strada nel robusto corpo di lei, e nonostante il corpo di licantropo fosse in grado di resistere agli incantesimi, lentamente le punte si insinuarono tra le sue costole. Riusciva quasi a sentirne il cuore. "Non avresti dovuto lasciarmi dettare le condizioni dello scontro. Non posso permettermi di perdere. A differenza tua, io combatto per proteggere qualcosa!"
"Ma guardi che cosa curiosa ..." mormorò lei. Dalle fauci uscì un fiotto di sangue scuro, e quando riprese a parlare le parole si accompagnarono ad un sinistro gorgoglio. "... anche io potrei dire lo stesso".
Lo disse con orgoglio, e per un attimo Hadler rimpianse di non poterla vedere in viso. Il corpo di lei fu scosso da uno spasmo, e quando un secondo rivolo di sangue le colò lungo il collo decise di non prolungare oltre la sua agonia. Lasciò che tutto il proprio flusso magico entrasse dentro di lei, attaccandola fin dentro le viscere con un'unica ondata. "E' stato un bel duello".
"Un bel duello davvero ..." rispose lei. Seguì una semplice, tenue risata. "Sa, generale Hadler, era la prima volta che testavo questa forma ... volevo davvero vedere se il ramo licantropo della famiglia demoniaca fosse resistente come si sospettava ..."
"Una scelta sbagliata. Nessun ibrido inferiore può competere con la pura razza demoniaca!".
"Davvero? Per quel che mi riguarda ha superato ogni mia aspettativa ..."mormorò, ma il filo di voce del licantropo morente si trasformò in qualcosa di orribile, basso, sibilante.
Ma che diamine ...
La testa della creatura ruotò in maniera innaturale, e un rumore di ossa scricchiolanti accompagnò il suo movimento fino a quando Hadler non la vide in volto. E si accorse che era troppo tardi.
Le orbite vuote di un Lich lo fissarono, e dentro di esse il buio assoluto del Vuoto. Il corpo straziato del licantropo si era lentamente deformato sotto la sua stretta, ed i cristalli di ghiaccio rilucevano di azzurro tra le costole vuote e gelide. La creatura non morta era stretta a lui, l'odore di putrefazione gli arrivò fin nello stomaco. "Credeva davvero che stessi incassando quei colpi solo per regalarle la vittoria?" fece lei, con una voce che sembrava giungere da pieghe lontane nel tempo, che forse echeggiava nella sua stessa mente. Hadler cercò di staccarsi da lei e rompere l'incantesimo, ma si rese conto di non esserne capace.
La magia è il nostro nutrimento, è tutto ciò che ci fa considerare ancora vivi ...
Le parole di Bartosh gli tornarono in mente in quell'attimo.
La magia dentro di lui perse il controllo; cercò di ritirarla, richiamarla a sé, ma tutta quella che aveva versato nel corpo della donna iniziò ad agitarsi, e vide attraverso le ossa annerite i cristalli di ghiaccio lungo le sue braccia tingersi d'oro. Provò a distruggerli, a scioglierli, ad infrangerli con qualsiasi incantesimo a sua disposizione, ma si accorse che ad ogni attimo che passava le energie gli venivano drenate dal corpo, attraversavano i cristalli come un turbine e conversero lungo la figura del Lich. Provò a frantumare le ossa con un calcio, ma le sue gambe avevano perso ogni sorta di vigore. Era stretto a lei, immobile in aria, a decine di metri dal grattacielo. Guardò in basso, ma il mondo mulinava in un caleidoscopio di luci rosse e verdi in un mare di tenebra. Il corpo del non morto iniziò a rilucere dei colori del sole, un’energia magica che bruciava proprio davanti a lui.
Si rese conto di non avere nemmeno più la forza di rimanerle aggrappato.
“Anche io ho qualcosa da proteggere, generale Hadler. Per questo non ho mai preso nemmeno in considerazione la possibilità di perdere”.
L’Esplosione Solare lo avvolse.
La poca magia che ancora albergava in lui lo avvolse, ma fu squarciata dalla violenza dell’incantesimo; sentì tutta la magia, la sua magia, ruggirgli contro, squarciandolo, ferendolo sotto la sferza della creatura infernale. La sua pelle già devastata arse, incalzata dalla luce infuocata. Quando cercò di volare via prese aria, ma le fiamme sembrarono entrargli perfino nei polmoni e si abbatté sulla sommità del grattacielo senza riuscire ad erigere nemmeno la più semplice barriera difensiva, impotente come una bambola. Rovinò tra i frammenti di metallo, cemento, ed altri materiali che non conosceva, e la spalla sinistra fu spinta con tanta violenza verso la testa che non trattenne un grido. Quando riaprì gli occhi si accorse di essere sul perimetro dell’edificio, il braccio ferito che pendeva oltre l’orlo del grattacielo; oltre il velo di sangue davanti ai suoi occhi vide in basso le schiere del Fushikidan e quelle dell’Impero immobili, come se la battaglia si fosse fermata per incanto. Quasi privo di conoscenza, sempre più debole, estese i propri sensi verso di loro, cercando di capire cosa stesse succedendo. Inutilmente. Si sentiva impotente.
Il corpo biologico superstregonesco iniziò a guarirlo, ma non sarebbe servito a nulla, specie quando vide la sagoma della mutaforma atterrare accanto a lui. Respirò a fondo e si preparò ad esalare il fiato. Non lo sopportava più. Non sopportava di aver fallito la sua missione. Di aver deluso il Grande Satana, Hyunkel e Bartosh. Doveva fare qualcosa, ma tutte le soluzioni possibili si sciolsero come neve al sole quando la donna si inchinò accanto a lui e la canna del suo blaster scintillò. Sentì la punta metallica poggiarsi tra i suoi occhi.
“Hai vinto …” mormorò, vergognandosi del suono debole della propria voce. “La gloria è tua …”
“La gloria si misura in base al valore dell’avversario, generale Hadler. E oggi lei me ne ha regalata più di quanto potessi immaginare” sussurrò lei. Il demone si rese conto di non conoscerne il nome.
Chiuse gli occhi, e lasciò che le poche energie rimaste volassero via, verso il terreno, dove i suoi guerrieri ne avevano davvero bisogno.
Almeno … è una sconfitta dignitosa …
“Senza rancore” furono le parole della donna.
Poi sparò.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 - La stella di carta ***


Capitolo 12 - La stella di carta




Bartosh con il piccolo Hyunkel




“Il tuo ardire è grande, Bartosh, se osi portare un umano al mio cospetto”.
Tutti noi annuimmo, sapendo in cuor nostro che poco sarebbe rimasto di quel ragazzo una volta che lo sdegno del Grande Satana si fosse tramutato in furia.
Che la sfrontatezza della non-morte sia incredibile, è cosa risaputa. Ma nessuno di noi credette alle proprie orecchie quando l’enorme figura ribatté al signore di tutti i demoni.
“Grande Satana, Lei offende se stesso. Lei mi ha elevato a comandante del Fushikidan, e mi ha permesso di sedere alla sua destra nonostante la mia infima natura. E non lo ha fatto per amore verso la non-morte, ma perché ritiene che le mie capacità possano essere tali da innalzarsi fino a quelle dei demoni, perché i miei consigli possano essere ascoltati dalle Sue nobili orecchie” disse, sollevandosi dall’inchino. “E io Le consiglio di porre alla testa del Fushikidan qualcuno le cui doti mi superano già da molti anni, che considero più adatto a servire da vicino la famiglia demoniaca di quanto io non sia in grado di fare, perché c’è molto sotto la debole natura di mio figlio. Se Lei non accetta il mio suggerimento vuol dire non ritiene valida la mia opinione. E a che pro nominarmi Generale se poi la Sua fiducia in me viene meno alle prime parole che Le dispiacciono?”
Tutti tremammo, perché il cipiglio del Grande Satana si corrugò.
Poi qualcuno dalle ombre batté le mani, ed i suoi occhi scuri incontrarono quelli del nostro signore. Ci fu solo un grande silenzio, ma quell’applauso non si fermò finché il Grande Satana Baan non annuì, accogliendo la proposta dello scheletro guerriero. Quella sera festeggiammo Hyunkel, nuovo Generale del Fushikidan.
Quella fu anche l’ultima volta che sentii il Cavaliere del Drago applaudire qualcuno.
“Storia della famiglia demoniaca, volume mille settantadue” a cura dell’Arcivescovo Stregone Zaboera, sotto il regno del Grande Satana Baan.





La battaglia si era fermata. Il silenzio era calato di nuovo nei bassifondi di Coruscant, un silenzio che era dipinto con il terrore, il dubbio ed il sospetto di entrambe le parti. Aveva ordinato ai suoi uomini di cessare il fuoco: non poteva vedere i visi dei cloni soldato nascosti dagli elmi bianchi da assaltatori, ma poteva indovinare i pensieri che stavano attraversando le loro menti. Li vedeva chiaramente nel modo nervoso con cui continuavano ad imbracciare i blaster.
Davanti a lui c’era il Fushikidan. Si rese conto in quel momento, davanti a quei corpi cadenti, di non averli mai visti davvero da vicino, che la minima distanza a cui era arrivato da uno solo di quei mostri era il raggio del suo fulminatore. Se dall’alto l’ondata non-morta gli era sembrata solo una massa grigia ed informe che infestava il loro mondo, da vicino era la cosa più disgustosa che avesse mai visto.
Nella sua lunga carriera di cacciatore di taglie, Boba poteva vantarsi di aver ucciso un esemplare di praticamente ogni razza esistente; aveva visto da vicino le viscere verdi e appiccicose degli Hutt, aveva rinchiuso in carbonite un paio di Vong per soddisfare i capricci di qualche ricco collezionista di Coruscant ed aveva perfino piantato una vibrolama lungo il collo di un Kaminoano, aprendolo in due e bagnandosi del fluido appiccicoso che scorreva nelle vene di quelle creature. Il tutto senza il minimo disgusto. O paura. Suo padre gli aveva insegnato che gli uomini erano solo delle macchine fatte di carne, e morivano solo quando uno dei preziosi e delicati ingranaggi veniva danneggiato: uccidere voleva dire solo rompere uno di quei pulsanti ingranaggi, e se un cacciatore di sangue aveva paura di un po’ di sangue … beh, poteva sempre dedicarsi al cucito.
Ma suo padre non aveva mai visto quegli orrori. Alcuni giravano nudi, altri indossavano dei vestiti usati, strappati, che avevano conosciuto il colore decine di anni prima. Nessuno di loro sembrava lo scheletro imbiancato ed impeccabile che i professori di anatomia di Coruscant sbandieravano nelle scuole; quello più vicino a lui aveva perduto la mandibola, ed i residui marcescenti della lingua penzolavano immobili verso il basso, dove la gabbia toracica annerita rinchiudeva un organo che Boba non sicuro di voler conoscere. Uno di loro, ben riconoscibile per una tunica nera quasi pulita, aveva metà del cranio portata via probabilmente da una raffica laser, ed il liquido biancastro che scendeva lungo le vertebre e macchiava il vestito era tutto ciò che restava di un cervello putrefatto.
Non tutti erano stati umani.
Nel punto in cui i resti della strada 465 e 466 si univano, due enormi scheletri erano chini in avanti, appollaiati su quello che un tempo doveva essere un balcone, con i lunghi colli rivolti verso lo spazio vuoto che si era formato tra i due eserciti. Brandelli di pelle squamosa pendevano dalla loro colonna vertebrale, e una membrana grigia e flaccida sventolava come una bandiera su quello che rimaneva dell’impalcatura di un’ala. Una di quelle creature lo fissò con le sue orbite vuote e cupe, un mostro così raccapricciante che i gestori delle arene di Geonosis se lo sarebbero conteso per migliaia di crediti. La morte aveva un viso, dopotutto. Era quello che si rifletteva nelle orbite di tutti quei mostri. Orbite che, almeno in quegli istanti di pace, non erano puntate sull’esercito imperiale.
Davanti a loro due figure stavano discutendo. Il giovane comandante umano stava rivolgendo delle parole cariche d’ira ad uno scheletro enorme, quello dalle sei braccia che aveva caricato Kaspar. Boba lo avrebbe riconosciuto tra mille.
Selezionò la modalità Traduttore dei sensori della sua armatura, ma dopo qualche minuto una luce rossa al di sotto dell’elmo gli riportò che le parole ascoltate non facevano parte delle 7562 lingue ufficiali della Galassia né degli 87340 dialetti attualmente in uso nelle principali forme di vita; il sistema gli chiese se fosse intenzionato a scaricare il nuovo aggiornamento sui neologismi besalisk appena accettati dal Dipartimento di Lingue Imperiali, ma premette un pulsante stizzito e silenziò l’apparecchio. Non serviva un droide protocollare per capire che lo scheletro gigantesco non approvava. Le sue lunghe mani si spostavano, indicando prima uno schieramento e poi l’altro; l’umano gli rispose qualcosa in modo secco, probabilmente un ordine, e l’altro si acquietò.
Il giovane comandante lanciò un ultimo sguardo ai suoi, poi venne nella sua direzione. Si levò l’elmo, rivelando i capelli azzurri, di una sfumatura argentea che ricordava quella del Membro dell’Organizzazione, e gli occhi chiari. Non doveva avere più di venticinque anni, ed il fisico robusto rimarcava la forza e l’energia della sua giovinezza.
“È lei il capo?” gli chiese il ragazzo. “Io sono Hyunkel, figlio di Bartosh, e sono il Generale del Fushikidan al diretto servizio del Grande Satana Baan. Sono qui in risposta alla vostra richiesta”.
“Io sono il governatore Fett. Di chi sono figlio non sono affari che ti riguardino” tagliò corto Boba, guadagnandosi un’occhiataccia. “E sì, ho la sfortuna di essere il capo di questa operazione militare. Ho chiesto questo incontro per risolvere la battaglia nella maniera più sbrigativa possibile. Non ho intenzione di sprecare le vite dei miei uomini quando non è necessario …”
“Una decisione lodevole!”
Non sai quanto, ragazzino … “Una decisione pratica. Un duello da veri uomini e la finiamo qui, il Generale del Fushikidan contro il comandante dell’esercito imperiale. Chi vince si aggiudica questo campo di battaglia” disse, misurando le parole. “Non posso garantire per le truppe che verranno, ma per quel che riguarda i miei uomini sono pronti a rispettare l’esito del duello. A patto che tu non scappi via piagnucolando, ragazzo!”.
Il viso del giovane umano divenne color porpora. Eccellente …
Tarkin sarebbe stato fiero di quel bel discorsetto appetitoso.
“Piagnucolare, dici? Parole grosse per un vigliacco che nemmeno fa vedere il suo viso!” rispose, stavolta con un tono di voce più alto. Il cacciatore di taglie sospirò, ma non si levò il casco. Il ragazzo abbaiò ancora qualcosa sulla lealtà, l’onore e tante altre vuote idiozie … dandogli tempo di dare silenziosi ordini ai suoi uomini attraverso il comlink innestato nell’elmo. Quando tutti i sottoufficiali confermarono la loro posizione decise che quel discorso era durato anche troppo. “Hai finito di parlare? O nel vostro primitivo pianetuncolo avete tutti la parlantina di Mistobaan?”
L’altro estrasse la spada . “Voi umani non dovreste nemmeno pronunciare il nome del nostro Braccio Destro. Ed accetto questa sfida per poterti umiliare e ricacciare in gola tutto quello che hai detto su di noi e sulla famiglia demoniaca!”
Sì, come no … “Allora iniziamo”.
Lo zaino a razzo gli sarebbe stato utile. Molto. Ma recriminare non aveva senso, quindi estrasse i blaster ed iniziò ad avanzare.
Il ragazzo si scagliò verso di lui, ma Boba sparò al terreno proprio davanti ai suoi piedi e l’altro incespicò e cadde. “Combatti lealmente!”
Non ci penso nemmeno.
L’avversario si rimise rapidamente in piedi. La sua spada era lunga e larga, realizzata in modo elaborato. Sembrava composta da tante piccole lamine disposte in maniera simmetrica rispetto al centro, e poco al di sotto dell’elsa un rubino rosso mandava una luce inquietante; non sembrava di semplice acciaio, e sulla superficie liscia ben pochi segni o ammaccature. I suoi capelli quasi azzurri scintillavano anche nel buio dei bassifondi. Strinse le mani sull’elsa e la puntò nella sua direzione. “Credi sul serio che le tue armi mi spaventino?” urlò.
Si lanciò in avanti, con una velocità sorprendente per la sua stazza. Il cacciatore di tagli fece il gesto di attivare il suo zaino a razzo, e quando si ricordò di non averlo più il clangore della lama contro la sua armatura mandaloriana lo scosse più del previsto. Si spostò di lato, ed il sistema interno gli riportò che il pettorale in platino-iridio era stato danneggiato; per un attimo sul visore si sovrapposero gli schemi olografici dell’analisi dati, ma nemmeno il computer interno dell’armatura riuscì ad identificare il materiale della spada. Tipico. Ecco perché odio la magia.
Quello Hyunkel non indossava nulla oltre ad una tunica viola, nessuna traccia dell’armatura che era certo di avergli visto indosso durante lo scontro che aveva coinvolto anche Kaspar. Sparargli un colpo a bruciapelo sarebbe stato un modo abbastanza rapido di chiudere la partita e forse anche di vincere la battaglia, ma non era quello ciò che cercava. O almeno, non solo quello. Guardò oltre la linea dei non morti, ma non vi era ancora traccia del suo obiettivo. Il ragazzo lo incalzò un altro paio di volte, ma stavolta Boba era concentrato. Si tenne sempre a debita distanza senza mai fuggire, ma sparando qualche colpo ed allontanarsi prima di un fendente.
Questo lo sapeva fare.
L’adrenalina della caccia era l’unica cosa di cui aveva bisogno.
Fece scivolare i blaster nelle fondine, e quando si vide arrivare un affondo speciale ricorse ad una delle tecniche mabari che Zam era riuscita ad insegnargli: invece di evitare la lama, vi andò incontro. La schivò solo al momento dell’impatto, lasciando scorrere il metallo sul bracciale destro dell’armatura. Vi furono delle scintille ed uno sbuffo di fumo, ma Boba si preoccupò solo dei movimenti, girando rapidamente su stesso e portandosi alle spalle del ragazzo. Si lanciò su di lui, afferrandogli il braccio che reggeva la spada e costringendolo ad abbassarlo. Hyunkel urlò infuriato e cercò di divincolarsi, ma Boba gli rimase strettamente avvinghiato. Dal pettorale dell’armatura uscirono alcuni piccoli aghi, ed il cacciatore di taglie si avvicinò ancora di più alla schiena dell’altro, sperando che il fluido rallentante che cospargeva le punte facesse effetto subito. Ma prima che le punte di conficcassero nella carne del ragazzo, quello improvvisamente mollò la spada.
Boba perse l’equilibrio e rovinò a terra. Si rialzò subito, estrasse la vibrolama che aveva nel guanto e caricò il nemico prima che potesse riprendere la sua spada. Fece una finta veloce, poi con forza mirò alle sue gambe. Lui scansò il colpo con facilità. Colpì di nuovo due volte. Il ragazzo perse terreno e scoprì il petto, ma quando Boba lanciò un affondo diretto al cuore, quello si spostò ed eseguì un salto in aria di cui il cacciatore di taglie non lo avrebbe mai ritenuto capace. Prima di riprendersi dalla sorpresa, Boba vide il giovane generale recuperare la sua arma e partire all’attacco, costringendolo sulla difensiva.
Parò un suo affondo e la collisione tra la spada incantata e la sua vibrolama gli fece tremare il corpo. Fecero rapide mosse avanti e indietro, entrambi aspettando che l’altro si scoprisse.
Poi, dopo una serie di colpi, la vibrolama mandò una piccola scarica elettrica all’altezza della gemma energetica nel manico, e Boba rimase con uno sbuffo di fumo in mano. Imprecando tra i denti Boba fece rapidamente molti passi indietro, poi estrasse di nuovo i blaster e sparò, ma l’altro deflesse i colpi con la lama che non sembrava esserne danneggiata. “Sei un buon guerriero, ma non hai quello che ti serve per vincere”.
“E cosa mi manca, sentiamo?” chiese Boba. Fronteggiò l’avversario, che si era fermato per parlare pur con la spada sollevata. In altri tempi lo avrebbe attaccato volentieri, ma il cacciatore di taglie era stanco. La pausa sarebbe servita ai suoi scopi.
Il giovane sorrise. “Il potere della famiglia demoniaca”.
“Potere?” gli rispose. “Forse la famiglia demoniaca. Ma tu, piccolo leccapiedi … Ti credi tanto forte solo perché ti sei venduto a quei mostri? Sei il loro umano da compagnia, credi che uno che scodinzola davanti al Grande Satana possa mettermi paura? Al massimo puoi farmi tenerezza …”
A giudicare dal viso dell’altro, le parole avevano funzionato.
Tarkin dice sempre che il modo migliore per costringere qualcuno ad attaccare per primo è colpirlo sul personale …
“Venduto, eh …?” disse Hyunkel. Strinse con rabbia l’elsa della spada, ed il suo sguardo per un attimo si concentrò sulle scheletro gigantesco che osservava il duello davanti a tutti gli altri non morti. “È proprio vero che gli umani giudicano dalle apparenze! Non sapete niente su di me! E MI FA SCHIFO ANCHE SOLO PENSARE DI ESSERE DELLA VOSTRA STESSA RAZZA! AMUDO!”
A quelle parole il rubino sulla sua spada emanò una luce violenta, rossa come il sangue.
E adesso speriamo che la deduzione del piccolo Membro dell’Organizzazione sia giusta …
Accadde in pochi istanti. Le piccole, strane lamine che componevano la spada si allungarono oltre misura, e si diressero verso il loro proprietario. Formarono un intreccio strano, cozzarono le une contro le altre mentre il rilevatore del casco gli segnalò un rapidissimo aumentare di energia termica. L’ammasso di bande metalliche si illuminò, attraversato dalla luce rossa che continuava a sgorgare senza sosta dalla gemma, poi brillarono pervase dal calore; poi la massa di metallo incandescente si avviluppò al corpo del ragazzo. Boba trattenne il fiato, quasi rapito. Un’ultima vampa avvolse la figura, ma quando questa si dissipò il ragazzo era avvolto dalla testa ai piedi in una strana quanto inquietante armatura. Scintillava di argento e azzurro, senza scoprire nemmeno un millimetro del corpo sottostante, soltanto una sottile fessura verticale per gli occhi. L’elmo era ingombrante e serrato, con una strana decorazione simile ad una coda che partiva dall’incavo in mezzo agli occhi e terminava alle sue spalle, non promettendo nulla di buono. La gemma rossa era scomparsa dall’elsa, riapparendo proprio sulla fronte. Anche il resto dell’armatura era enorme, dai larghi spallacci fino al pettorale che sembrava ispirato alle fauci di qualche mostro demoniaco.
La lama era diventata come molte altre, semplice e liscia, ma i bagliori rossi ed il vapore lungo di essa fecero subito capire al cacciatore di taglie che era tutto tranne che inoffensiva.
“Adesso vedremo se i fabbri demoniaci sono migliori delle vostre macchine, umano!”
Con un solo passo superò la distanza che li separava. Boba fu preso alla sprovvista quando la mano libera del guerriero si strinse intorno al suo polso destro. Era incredibilmente forte, molto più di quello che era apparso qualche minuto prima. A Boba restò un solo attimo per agire, mentre cadeva all’indietro. La mano destra evitò il fendente nemico e scaricò cinque colpi di blaster in rapida successione contro il pettorale dell’armatura. Ma non vide nemmeno un segno di bruciato.
Era certo che sotto l’elmo il ragazzo stesse sorridendo, ma non era intenzionato a perdere. Sebbene bloccato, schivò un secondo attacco della lama gettandosi a terra; l’altro non mollò la presa, ma per mantenersi in equilibrio fu costretto a cambiare posizione e Boba ne approfittò per attivare un dispositivo che non adoperava più da diverso tempo. Dalle giunture delle ginocchiere dei propri gambali liberò delle fiale di acido ukbar, pensate proprio per evenienze simili. Fintò un calcio e sganciò le armi, che esplosero con un sibilo lungo l’armatura azzurra.
Non aveva mai sentito di metalli che l’acido ukbar non riuscisse a sciogliere.
Ma si dovette ricredere.
Cercò di sbilanciare il giovane generale, e quando quello liberò la sua mano dalla morsa ne approfittò per controllare. La superficie dell’armatura demoniaca era intatta e splendente. Imprecò, stavolta ad alta voce, ma quando si volse per cercare un riparo dalla furia del suo nemico notò che il vero obiettivo di quella grande farsa era arrivato.
Silenziosi, i demoni fissavano il campo di battaglia.
La maggior parte aveva l’aspetto di ragazzini, con occhi enormi; i loro capelli colorati disegnavano un arcobaleno sopra la distesa morta del Fushikidan. Avevano tutti la pelle pallida, di diverse tinte ma sempre tenui, e sui visi vi era dipinta un’espressione tranquilla e concentrata. Erano comparsi dalle retrovie in perfetto silenzio, altri erano usciti da incantesimi di invisibilità: si erano disposti a semicerchio, sopra le teste dei guerrieri scheletrici fino a circondare la metà dell’arena improvvisata in cui lui ed il ragazzo stavano combattendo. Le creature al di sotto li fissavano, come se bastasse la loro presenza a bearli. Boba non era certo nella posizione di poterli contare, ma non dovevano essere più di un centinaio.
Con il blaster rimasto, Boba iniziò una raffica intensa. Stavolta Hyunkel non fece alcuno sforzo per pararla, ma camminò verso di lui come se l’intera pioggia di laser valesse meno di una brezza leggera; il cacciatore di taglie attivò il lanciafiamme nel guanto sinistro, e nonostante l’armatura speciale il nemico rallentò l’andatura. Questo gli diede tempo di attivare il comlink. “Ragazzino, è come pensavi?”.
Zexion, il giovane agente 006, rispose con un filo di voce. “Sì, governatore Fett. Anche l’armatura e la spada del Generale Hyunkel risentono della presenza di magia, proprio come tutto il Fushikidan. I demoni si sono avvicinati per supportarlo, perché qui a Coruscant non c’è nessun’altra magia a cui possa aggrapparsi”.
“Eccellente. Questa è proprio quello che volevo sentirmi dire”. Chiuse la conversazione con il patetico moccioso ed attivò quella con i sottoufficiali che aveva preparato. “Potete iniziare”.
In quel momento Hyunkel superò la distanza che li separava con rapidità. Boba aumentò la potenza del lanciafiamme, ma l’altro glielo afferrò, lo strappò con un unico movimento e lo scagliò lontano. Cercò di attivare una seconda vibrolama, ma l’altro gliela strappò di mano e lo sollevò di peso, come se quell’armatura gli avesse persino triplicato le forze, la gemma rossa che brillava mentre beveva il potere delle creature magiche intorno a lei. “I demoni mi hanno reso una persona migliore” sentì sibilare vicino al suo elmo la voce del ragazzo ovattata dal metallo. “Ed il Fushikidan mi ha dato una vita, loro che non ce l’avevano. Sono migliori di voi”.
“L’unica cosa che ti hanno reso i demoni … è un cadavere”.
Il primo demone cadde proprio accanto a loro.
Boba osservò con una certa soddisfazione il perfetto foro insanguinato tra i due occhi. La mira degli IG era ineccepibile. Non poteva vedere l’espressione dipinta sul suo avversario, ma era sicuro che avesse capito le conseguenze.
Gli altri demoni caddero quasi all’unisono. Rovinarono sui non-morti come bambole di pezza, solo un paio riuscirono ad emettere un grido strozzato prima di abbattersi a terra; nascosti tra le finestre dei palazzi ormai quasi distrutti, i droidi IG-88 ritrassero i fucili. A giudicare dalle luci di accensione stavano riconfigurando l’assetto da battaglia per prepararsi al nuovo, vero assalto. Aveva visto giusto. I semplici proiettili di metallo, quelli che ormai usavano solo i terrestri, erano passati inosservati agli occhi dei demoni, abituati a temere esplosioni di laser e plasma. Si erano sentiti al sicuro, avevano offerto il loro potere al generale Hyunkel … e avevano pagato le conseguenze della loro ingenuità. Adesso non erano molto più di mosche pallide spiaccicate a terra. Ed i non-morti non erano in condizioni migliori. Non vi erano pelle o muscoli su quelle facce, ma era sicuro che ci fosse dello stupore in quei sacchi di ossa semoventi. Poi paura. E terrore.
“FUOCO A VOLONTA!” gridò nel comlink, e tutti i suoi uomini aprirono il fuoco sul Fushikidan. Gli IG accesero i razzi interni e volarono tra i palazzi, sopra l’orda di morti non più coperta dai demoni: aprirono all’unisono i lanciafiamme, ed i mostri volanti che ancora non si erano preparati alla controffensiva morirono sul colpo. Un paio di scheletri appoggiò le mani sul cadavere di un demone, cercando di infondergli la non-morte, ma Boba li vide e sparò su di loro. Non mancò il bersaglio. Urla nella loro lingua grottesca partirono dal cuore dell’esercito, e le creature cercarono di rimettersi in formazione e di brandire le loro armi primitive, ma l’assenza di magia li aveva resi incredibilmente lenti. Uno di quei cadaveri alla sua sinistra perse un braccio anche se nessun laser era stato sparato nella sua direzione, ed il cacciatore di taglie gli lanciò una vibrolama in quello che restava del petto per essere sicuro che non si rialzasse. I non-morti intorno a lui si agitarono, ma una raffica sparata da uno speeder li fece crollare a terra.
Il Fushikidan era allo sbaraglio. La prima linea crollò sotto il fuoco congiunto degli assaltatori e dei droidi: sembravano esseri totalmente diversi dai guerrieri inarrestabili di qualche minuto prima, i loro petti esplodevano sotto il fuoco dei blaster ed i maledetti crollavano a terra proprio come banalissimi umani. Alcuni cercarono di contrattaccare scagliando delle lance nella loro direzione, ma per l’Impero non era un prezzo esorbitante la vita di una ventina di soldati trafitti. Gli scheletri sollevarono gli scudi ed opposero resistenza, proteggendo le linee finali che si diedero ad una frenetica, seppur ordinata, ritirata tra le macerie dei palazzi che essi stessi avevano distrutto. “Non lasciateli scappare!” ordinò da sotto il casco, e dopo nemmeno trenta secondi alcuni IG lasciarono il grosso delle truppe e volarono in avanti, intercettando la retroguardia nemica.
Boba lanciò un sospiro soddisfatto, ma quando si voltò si accorse di avere una spada puntata al petto. L’armatura del suo ingenuo sfidante aveva perso tutta la sua luce azzurra, come se lo stesso metallo stesse spirando e lottando per trovare le ultime forze. Il bracciale sinistro era attraversato da sottili crepe mentre il rubino sulla fronte aveva perso qualsiasi splendore, ormai più simile ad una volgare pietra scura che ad una gemma magica. Eppure il ragazzo non aveva alcuna intenzione di arrendersi.
“MALEDETTO!” urlò, anche se la sua voce fu sommersa dalle centinaia di grida di scheletri massacrati. “ERA UNA TRAPPOLA SIN DALL’INIZIO! IL NOSTRO NON E’ MAI STATO UN DUELLO LEALE!”
“Non mi risulta di aver mai detto una cosa simile!” gli rispose Boba, aspettando il momento giusto. “E comunque bene arrivato in guerra, generale Hyunkel! Se tutta la famiglia demoniaca è così ingenua non credo che ci vorrà molto ad invadere il vostro simpatico pianeta”.
Si lanciò a terra e rotolò a destra, evitando l’affondo dell’arma. Aveva perso il supporto dei demoni, ma il cacciatore di taglie non aveva alcuna intenzione di scoprire se fosse ancora in grado di scalfire la sua preziosa armatura mandaloriana. Il giovane soldato scattò verso di lui, ma trattenne il colpo e si guardò alle spalle, presagendo il pericolo. Boba si fece bene indietro, sgomitando tra le retrovie, sapendo quello che stava per succedere senza però perdersi la scena.
Kaspar era comparso alle spalle di Hyunkel, avvolto nel suo mantello bianco; era ancora ferito dalle ferite della battaglia, ma nulla che il mago in fondo non potesse sopportare. Sollevò una mano, che si avvolse di fiamme rosse. Boba aveva visto fin troppe volte quell’incantesimo, e corse a perdifiato il più lontano possibile, seguito da quegli assaltatori che erano stati così furbi da ricordarsi che gli incantesimi di Kaspar avevano la pessima abitudine a colpire tutti, nemici e non. Lo Sciame di Meteore comparve da oltre la sommità dei grattacieli più alti, fendette l’aria ed esplose in tutto il campo; le meteore incantate si abbatterono su tutti coloro che avevano avuto la sfortuna di trovarsi davanti al mago, ed una di queste colpì in pieno un Karjhad e quello si disintegrò, mentre un’altra portò via con sé le tre torrette che i soldati avevano installato prima del duello. La più grande comparve per ultima, e seguì il movimento fluido del braccio dell’incantatore, schiantandosi sul ragazzo e avvolgendo la sua figura nelle fiamme. L’energia magica emanata sembrò per un attimo rinforzare le schiere del Fushikidan, ma l’attacco di Kaspar ne polverizzò talmente tanti che non ne ottennero alcun vantaggio.
L’aria era incandescente, le scintille sfrigolavano nell’aria come minuscole gemme. Boba capì che ci sarebbero voluti diversi minuti prima che le pompe aspiranti ed il vento riportassero la visuale alla normalità. Diede ordine agli uomini di non avanzare, lasciando che fosse il grosso della squadra degli IG-88 a decimare i demoni insieme ad un battaglione di droideka appena arrivato dal settore P come supporto. Kaspar doveva essere ancora nella mischia, almeno a giudicare dai lampi di luce che ogni tanto attraversavano gli scheletri e li polverizzavano, e Boba si concesse un sorrisetto al pensiero di quanto fosse utile quel mago da quando era stato condizionato.
Sicuro di non correre alcun rischio, attraversò la nube fiammante ordinando agli altri di rimanere indietro e proseguire come concordato: la sua armatura gli conferiva una protezione totale a quelle temperature roventi, e la visione pineale dell’elmo gli consentiva di vedere nell’aria arancione in maniera perfetta. Prima che la furia della battaglia esplodesse di nuovo volle cercare quello che restava del giovane generale: l’Imperatore andava matto per i souvenir magici –come adorava chiamarli- e la spada di quel ragazzo sembrava qualcosa di perlomeno interessante. Lui, Tarkin e Maul avevano ancora diverse cose da farsi perdonare dal loro signore, ed un regalo non avrebbe potuto far altro che migliorare la loro posizione.
La massa del Generale del Fushikidan era ancora visibile, in piedi nel bel mezzo del fuoco, una forma scura che si stagliava nello sfondo scintillante. Si chiese come facesse ad essere ancora intero dopo lo Sciame di Meteore, specie con la spada a terra distante da lui.
Poi si avvicinò e lo vide.
Sei braccia scheletriche erano avvolte intorno a lui, strette come le ali di un angelo. Delle sei spade non rimanevano altro che le else carbonizzate e del metallo quasi fuso, ma erano levate in alto come ad assorbire tutta la forza dell’incantesimo. La testa del giovane generale era quasi nascosta dentro un’enorme gabbia toracica che ora appariva nera e fragile: lo scheletro gigante che aveva visto combattere con tanta foga sembrava una lugubre statua semicarbonizzata in quell’inferno, immobile. Boba attese qualche secondo prima di avvicinarsi, nel timore che dalle orbite del teschio annerito potesse esplodere una qualche luce vitale o che la creatura si rialzasse. Ma non avvenne nulla.
Trattenne il fiato e avanzò; quando toccò la gabbia toracica con la punta del blaster, quella fu attraversata da una crepa e poi si disintegrò, trasformandosi in un mucchietto di cenere. Non ebbe bisogno di toccarlo una seconda volta, perché lentamente tutto il corpo gigantesco si dissolse proprio davanti ai suoi occhi, ridotto a cumuli di polvere e qualche frammento d’osso annerito ed irriconoscibile. Per ultimo cadde il cranio, che invece di svanire si aprì a metà con un tonfo secco ed inquietante. Il generale Hyunkel rimase dov’era, quasi impietrito: la sua armatura era intera, ma l’elmo era volato da qualche parte ed il suo viso era scoperto: vi era dipinta un’espressione indescrivibile, un misto tra furia, disperazione e qualcos’altro che Boba non riusciva –né aveva l’intenzione- di decifrare. Gridò qualcosa nella sua strana lingua, più preoccupato per quello stupido scheletro che per la sua vita, perché quando Boba attivò il lanciafiamme e glielo puntò addosso non gli rivolse nemmeno uno sguardo. I suoi occhi erano fissi su una strana stella di carta con un nastro azzurro che teneva nella mano.
Beh, bando ai sentimentalismi …
Poi una luce sulla destra attirò la sua attenzione. Su quello che rimaneva dell’elmo, la gemma rossa aveva ripreso a risplendere più intensamente che mai. E sembrava aumentare ad ogni battito del suo cuore.




Clang.
Nel buio più totale sentì il rumore del metallo che cadeva contro altro metallo. Ci fu un rumore secco proprio vicino al suo orecchio, poi un’esplosione ed infine solo il ronzio di qualcosa che si stava avvicinando.
Non aveva ricevuto il colpo di grazia.
Hadler trattenne il respiro quando sentì la donna alzarsi dal suo fianco ed allontanarsi, poi aprì gli occhi. Era stordito ed il dolore gli attraversava tutto il corpo; sentiva già i benefici della rigenerazione del corpo biologico, ma il semplice respirare continuava a dargli fastidio. Cercò di sollevarsi, ma oltre a puntare il gomito e sollevare la testa non riuscì. Scosse il capo, cercando di mettere a fuoco tutto quello che era avvenuto nel corso dell’ultima battaglia, sentendo solo una grande confusione farsi strada nella sua mente. Il suo primo pensiero andò al Fushikidan che stava combattendo, ma quando estese i sensi verso il basso il sangue gli si agghiacciò nelle vene. Non vi era più alcuna traccia di magia.
Cercò ancora, ignorando qualunque fitta del suo corpo. Cosa è successo?
Nulla.
I cuori gli battevano all’impazzata.
Ancora nulla.
Forse sono troppo debole per …
Sotto di lui la battaglia avvampava. Rumori confusi, esplosioni, clangore, quello non era cambiato: grida indistinte di ogni genere, ruggiti e raffiche di armi imperiali da ogni lato. Ma la magia sembrava scomparsa dal campo di battaglia. Nessuna traccia dei suoi demoni. Là sotto stanno ancora combattendo. La battaglia non è finita … Devo essere io che non riesco a …
“Lasci a noi il demone” disse una voce metallica poco distante. Voltò lo sguardo dal combattimento, e vide che sette strani droidi imperiali erano comparsi in aria, volando con le loro strane macchine. La mutaforma li stava osservando, e dal suo blaster saliva una sottile colonna di fumo. Erano alti e sottili, con una testa cilindrica e delle luci intermittenti; non conosceva la metà del loro equipaggiamento, ma era certo che fossero armi. Non aveva mai sentito parlare le macchine dell’Impero.
“Quando ho sparato al vostro compagno credevo di essere stata abbastanza chiara” rispose lei, gettando un’occhiata sprezzante verso il fondo. “Non ho bisogno di quattro pezzi di ferraglia per uccidere un demone. Annullate l’ordine ricevuto e tornate sul campo”.
Uno di quelli si fece avanti, atterrò sul pavimento e dal suo braccio emerse quello che sembrava un blaster enorme. “Impossibile. Ordini superiori”.
“E da parte di chi, se posso essere indiscreta?”
Era evidente che quelle macchine non avevano avvertito il cambio di tono nella sua voce.
“Del Governatore Fett”.
“Allora facciamo così” rispose, rimettendo il blaster nella fondina. “Tornate di sotto e dite al Governatore Fett di andarsi a far fottere. Da un Balrog, se accetta un mio consiglio spassionato”.
I droidi rimasero in silenzio qualche istante, cercando di elaborare il senso delle parole. Diverse luci rosse si accesero sulle loro teste e quasi tutti si diressero verso la cima del grattacielo. “Impossibile eseg …”
“Prevedibile”. L’istante dopo cambiò forma ed un raggio gelido partì dalla mano cadaverica del Lich, distruggendone quattro insieme. I droidi rimasti si sollevarono in aria e attivarono i lanciafiamme verso di lei, ma Hadler percepì un violento incantesimo di vento fuoriuscire dal suo palmo e scaraventare le tre macchine contro l’edificio accanto; guardò oltre, e prima che quelle riuscissero a riprendere il volo furono impalati da altrettante lance di ghiaccio che fecero cadere le loro teste cilindriche giù nel vuoto.
“Jango lo diceva che l’unica macchina con cui riesco ad andare d’accordo è quella del caffè” disse riprendendo il suo aspetto, rivolta più all’aria di Coruscant che a qualcuno in particolare. Ritornò verso di lui ma si mise di nuovo in piedi sul cornicione, guardando giù, come se lui non esistesse nemmeno. Nel suo sguardo c’era un’espressione che univa dolore e disgusto, ma sempre con quel fare distaccato che rendeva gli umani così enigmatici da capire; il demone non riuscì a capire quanto tempo fossero rimasti così, lei in silenzio con lo sguardo rivolto altrove e lui a terra a riprendersi, ciascuno nel silenzio di chi dovesse fare la prima mossa. Sotto vi erano ancora spari e grida, la battaglia infuriava anche senza di loro, e per un attimo Hadler fu tentato di sporgersi e guardare in basso insieme a lei.
“Non lo faccia” disse lei, anticipando i suoi pensieri. “O almeno, attenda un attimo”.
Le fiamme la avvolsero, e riapparve sotto forma di un enorme uccello dalle ali rosse e d’oro; il suo corpo era agile e flessuoso, e le sue fiamme rischiararono la sommità del palazzo come un sole stupendo. Hadler non aveva mai visto dal vero una Fenice e rimase estasiato a guardarla, dimenticandosi per un attimo anche della battaglia, cosciente solo nella piacevole sensazione di calore emanata dal suo corpo. Poi la creatura pianse. Le sue lacrime scivolarono dagli occhi lungo il becco sottile e caddero sul suo corpo; in quell’istante Hadler provò un senso di benessere incredibile, forte, rapido, farsi strada attraverso di sé. Dove le lacrime toccavano la sua pelle bruciata una ragnatela di calore si dipanava attraverso le viscere e le ossa, scaldandolo dall’interno come nessun incantesimo di guarigione riusciva a fare. Una di esse cadde sul petto, ed i suoi cuori batterono insieme, spinti dalla magia. Il ritmo si fece subito serrato, ed il demone si trovò in piedi pieno di energie, come se il duello con la donna fosse stato soltanto un ricordo.
Poi guardò in basso e capì.
Il Fushikidan era in rotta. Non vi era più traccia di schemi di battaglia, ma solo sacche di non-morti che combattevano in maniera disordinata, separati gli uni dagli altri, e la retroguardia stava indietreggiando troppo velocemente. Cercò i suoi demoni, e di nuovo l’assenza di magia lo colpì come un muro di silenzio.
I suoi dubbi divennero una certezza dolorosa come una pugnalata nel fianco.
“Vada da loro” gli disse lei, riprendendo le sue sembianze. Hadler si voltò, incapace di capire cosa stesse passando in quegli occhi color ghiaccio. Ma lei lo allontanò con un gesto della mano. “Se ne vada, o di loro non rimarrà nemmeno una vertebra”.
“Perché lo stai facendo?”
“Perché quello che è successo là sotto è un autentico schifo. Pensavo che Boba riuscisse a vincere una battaglia combattendo in modo onesto, ma evidentemente la bastardaggine del suo amico Tarkin lo ha contagiato. E quello che ho visto non mi piace. Prenda tutti i sopravvissuti e li porti via da questo schifo di pianeta” rispose. Dal basso un grido strozzato riempì il silenzio tra le sue parole. “Consideri rimandato il nostro duello. La prossima volta però venga senza un esercito, senza una missione, senza qualcuno da proteggere. Solo con se stesso e un po’ più convinzione di vincere”.
Hadler sospirò, e si accorse di averla giudicata male. Parole del genere potevano nascere solo da un demone. “Non c’è niente da rimandare. Ho perso perché ho incontrato un avversario più potente di me, non ho altre scuse. Però …” sussurrò, dirigendosi verso il bordo dell’edificio “… ti richiederò la rivincita. E la prossima volta che ti vedrò accusare i miei colpi inizierò a preoccuparmi, lo prometto”.
Lei sembrò sorridere. “Se ne vada. Porti i miei saluti al Generale Baran”.
“Una sola cosa …” disse Hadler, sollevandosi in volo. “Posso sapere il tuo nome?”
“Zam. Zam Wesell”.
Scosse il capo in cenno d’assenso, poi si avvolse di nuovo nel fuoco magico.
Osservò di nuovo la figura in viola prima di tuffarsi giù a perdifiato.
Zam Wesell … questo nome … non lo dimenticherò.
Senza nemmeno pensarci su estese la propria aura magica al massimo delle sue forze, lasciandola attraversare l’aria, gli edifici ed il terreno; essa attraversò il campo di battaglia come un’onda, ed il demone sperò che riuscisse a raggiungere quanti più non-morti possibile. Si avvolse nelle fiamme, incenerendo una squadra di macchine mandata ad intercettarlo, con lo sguardo fisso verso il basso, dove adesso poteva distinguere le schiere spezzate del Fushikidan e le colonne di soldati imperiali che li stavano circondando. Lanciò sfere di ghiaccio e di acido, sentendo tutto il potere delle lacrime della Fenice; si circondò di una barriera difensiva e lasciò che i piccoli laser degli assaltatori si dissipassero lungo la sfera, e creò una piccola tormenta di ghiaccio sopra due strane torrette.
Poco più in là vide uno spazio vuoto, che la guerra non aveva toccato per chissà quale strano motivo. Stava per passare oltre quando lo vide.
Bartosh, o quello che ne restava, era in piedi al centro del terreno, immobile come una statua. Il capo degli umani, quello con la strana armatura, si avvicinò prima ancora che lui potesse intervenire e la mole dello scheletro guerriero scomparve in una cascata di cenere, rivelando sotto di lui la figura sconvolta di Hyunkel.
Reagì d’impulso. Lanciò una Catena di Fulmini alle proprie spalle senza nemmeno voltarsi, giusto per essere certo di non essere inseguito. Accelerò con tutta l’energia che aveva in corpo ed acchiappò il cacciatore di taglie per il collo; quello si accorse del suo arrivo troppo tardi, ed il demone lo scansò dalla figura di Hyunkel prima che potesse sparargli. Quando quello provò a rivolgergli il blaster contro, il demone lo impugnò per la canna e liberò nel palmo tutta la magia di fuoco che aveva, sciogliendolo all’istante. Lo scagliò lontano come una bambola, sapendo che non poteva perdere nemmeno un minuto. Si voltò verso l’amico, ma quello aveva gli occhi spalancati, fissi sulla stella di carta.
“Forza, Hyunkel, andiamocene da qui!”
La mano destra dell’altro tremava. “Hadler, io … io non …”
Lanciò tutto il suo potere sulla spada del compagno, evocandogli di nuovo l’armatura e mettendogli la lama in mano, poi se lo issò sulla spalla e prese il volo lontano da lì, prima che i suoi occhi si posassero di nuovo sul teschio annerito. Hyunkel avrebbe avuto la sua vendetta, ma non in quel momento. Quel giorno aveva imparato che un vero Generale doveva sapere quando conquistare la gloria e quando mettere da parte l’orgoglio.
“RITIRATA!” gridò, spingendo il suono della sua voce fino all’ultimo non-morto. Planò davanti alle loro fila, creando un muro di fuoco che incenerì il primo assalto dei soldati umani. Fissò gli scheletri ammaliati dalla sua magia, e tese il potere verso le loro mani cadaveriche che nonostante tutto imbracciavano le armi. Un necromante uscì dalle fila e prese Hyunkel sulle proprie spalle, per poi tuffarsi nelle retrovie. “Tornate al punto di incontro, e resistete lì fino all’arrivo di Killvearn. Non tarderà a venire” disse Hadler, donando tutto quello che aveva ai soldati. “Io li terrò a bada da solo, in un modo o nell’altro. Voi andate”.
Le figure pallide mossero la testa ed iniziarono ad indietreggiare. Hadler sospirò, guardò in basso e lo fissarono solo gli occhi spenti di uno dei suoi demoni. Trasformò le lacrime in furia.
“RITIRATA!” più a se stesso che agli altri. “RITIRATA!”

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Tregua ***


Capitolo 13 - Tregua





Darth Maul




Perché gli dèi ci hanno creato in questo modo? Perché ci hanno donato una testa ed un cuore, due gambe e due braccia?
Venerate la testa, perché essa è il santuario della mente, dove gli uomini pregano gli dèi e mirano alla loro più assoluta perfezione.
Magnifico è il cuore, perché ama ciò che la mente contempla; mai si stanca di amare, perché non c’è nulla di più nobile che dividere i propri sentimenti con qualcuno.
Le nostre gambe sono speciali, perché quale altra creatura può guardare le altre dall’alto in basso? Quale altra può sollevare il ventre da terra e mirare il cielo? Esse già sono segno dell’enorme potere che gli dèi ci hanno offerto davanti alle altre creature.
Sulle braccia a lungo si disserta. Mi pare cosa giusta definirle l’arma del guerriero, lo scudo del contadino e la cetra del nobile: ma mi pare ancora più adatto e degno considerarle il sostegno di tutti gli uomini, perché quando tante mani si uniscono e tante braccia si alzano al cielo, allora si vede chiaramente come gli esseri umani non siano fatti per essere soli, ma per creare un’unica barriera contro le insidie del mondo e del Male. Il mondo sarebbe diverso se tutti capissimo che siamo stati creati per aiutarci l’uno con l’altro.

“Il senso del tempo” di Aldebaraan del Toro, trascrizione ad opera del Gran Sacerdote Shaka della Vergine.





Tuonava.
Ma non dalle nuvole.
Mara Jade entrò nella locanda e con un sospiro di sollievo abbassò il cappuccio e si tuffò nella grande baraonda che accompagnava qualsiasi missione dell’Alleanza Ribelle. Era stanca: lei ed Eomer avevano fatto un lungo giro di perlustrazione intorno al villaggio di Amer alla ricerca dei sopravvissuti, lui guidando un cavallo e lei estendendo le sue percezioni. Si erano spinti fino al fiume che segnava la fine del territorio della cittadina ed erano tornati indietro, ma non c’era alcuna traccia di sopravvissuti o feriti ed erano tornati indietro accompagnati dal fragore dei turbolaser e dalle loro luci verdi in lontananza.
Da quando erano scappati da BEF non avevano mai smesso, ed anche se si erano allontanati molto dalla base militare i rumori della battaglia tra gli Star Destroyer ed i draghi celesti si erano solo attenuati. Lei ci era cresciuta tra gli spari, le granate, il ronzio delle spade laser: ma per gli uomini, le donne, e soprattutto per i bambini ammassati in quella stanza erano solo terribili rumori privi di qualsiasi spiegazione se non la furia di chissà quale furibonda divinità. Ci fu una raffica più intensa, ed una ragazza si tappò le orecchie con le mani gridando come una forsennata, per poi raggomitolarsi tra le braccia di un uomo. Due giovani guardie, nessuna con più di sedici anni, stringevano nervosamente le lani sulle loro lance, ma i loro visi pallidi tradivano una paura senza nome.
Paura. La locanda ne era piena.
Estese i suoi poteri Sith verso i soldati, accarezzando le loro menti ed instillando qualche goccia di fiducia; i due si calmarono, ma nemmeno le sue capacità potevano rimuovere il pesante manto di terrore che era calato sugli abitanti di Amer. Erano giunti lì dopo la fuga da BEF, stanchi ed affamati, ed avevano sperato di trovare qualche posto per dormire al sicuro e soprattutto per farsi un’idea delle condizioni del mondo, ma erano stati presi in contropiede: il villaggio era stato assaltato da qualcosa o da qualcuno, la gente era atterrita per lo spavento e tutti fissavano nervosamente il cielo oltre il fiume, dove le sagome triangolari degli Star Destroyer svuotavano i loro turbolaser contro dei draghi. Avevano deciso di iniziare da lì la loro missione di soccorso in barba alla stanchezza: senza nemmeno presentarsi avevano trascinato i feriti dentro l’unica locanda del paese, e mentre Aragorn ed i guaritori elfici si occupavano di loro lei ed Eomer avevano girato per le campagne alla ricerca di sopravvissuti mentre Valygar e Lavok avevano radunato lì tutti gli abitanti in grado di camminare da soli. E Gandalf … beh, si era occupato dell’intrattenimento.
Tra i tanti visi sconvolti in quella stanza l’unica oasi di felicità sembrava il camino, dove una ventina di bambini saltellavano giocosi mentre il vecchio stregone scuoteva la barba e ne faceva uscire caramelle e cioccolatini. Le madri li osservavano in silenzio, i cuori sempre più stretti ad ogni esplosione. Cercò di ignorare la morsa di panico che ribolliva tra quei semplici contadini e si sedette al centro della stanza.
Aragorn stava masticando una manciata di foglie di athelas; quando lei gli venne vicino, lui le chiese di passargli una ciotola d’acqua calda che gli elfi avevano preparato. Sciolse la poltiglia verde nell’acqua, vi aggiunse delle strane bacche azzurre e vi imbevve uno straccio che aveva visto giorni migliori.
Si voltò verso un soldato che giaceva riverso sul pavimento, metà faccia portata via da chissà quale incantesimo. “Adesso ti sentirai meglio”.
Il ramingo appoggiò il panno sul viso, e Mara vide un’espressione di pace attraversare i duri lineamenti dell’uomo: all’Impero era abituata a curare qualunque ferita con il bacta, ma niente era così portentoso come le conoscenze guaritive degli elfi. Sapeva che Aragorn le aveva imparate nella sua giovinezza trascorsa a Gran Burrone, alla corte del re Elrond, e da quello che ne sapeva a nessun altro umano era stato concesso il privilegio di conoscere i segreti della nobile razza arborea. E, tra tutti i guaritori elfici in quella stanza, Mara non si sarebbe fatta curare da nessun altro che da lui: perché gli elfi erano incredibilmente precisi ed abili in tutto quello che facevano, ma Aragorn curava le persone con un sorriso.
La pelle del soldato smise di sanguinare dopo pochi secondi. L’orecchio sinistro era perduto, ma la pelle della guancia si rimarginò al contatto con l’athelas, ed in breve ne rimasero solo delle cicatrici che si aggiunsero a quelle che già segnavano anche la metà destra del viso. Dalle giovani guardie che aveva visto all’ingresso partirono delle parole di incoraggiamento, e la Sith sorrise quando corsero ad abbracciare l’uomo e lo aiutarono a sedersi.
“Grazie, stranieri …” disse il soldato, poggiando i suoi occhi prima su di lei e poi su Aragorn. “Se non fosse stato per voi …”
“Ve la sareste cavata lo stesso, non temete!” Aragorn finì la frase per lui, dandogli una pacca sulla spalla. “Noi abbiamo solo dato una mano, nulla di più!”.
Mara annuì, accompagnata dal sorriso degli altri Ribelli.
“Però ci farebbe piacere sapere cosa vi è successo. Se vi è qualcosa che possiamo fare per voi non avete che da chiedere”.
“Quanta generosità …” rispose il soldato. Il suo tono si era fatto aspro, e gli occhi si erano soffermati su un gruppo di donne di ogni età che piangevano spaventate accanto agli altri feriti. “Ma non fatevi troppe illusioni. Non abbiamo abbastanza denaro per pagare nemmeno la più sgangherata banda di mercenari, figuriamoci un bel gruppetto come il vostro”.
Per tutta risposta Aragorn staccò qualche altra foglia di athelas e preparò un secondo impacco. “Credo ci sia un errore. Non siamo mercenari”.
“E allora per quale motivo ci state soccorrendo?”.
“C’è bisogno di un motivo per aiutare qualcuno?”
Seguì un silenzio innaturale. Tutta la stanza si ammutolì, come se le parole quasi bisbigliate dal ramingo fossero state udite da tutti; nemmeno il fragore delle batterie di turbolaser era riuscito a coprire la forza di quella frase. Tutti, ad eccezione dei bambini, si voltarono verso di loro e li scrutarono con occhi nuovi. Mara non riusciva a leggere la differenza tra quelle decine di sfaccettature, ma di una cosa ne era certa: le parole di Aragorn avevano toccato un tasto che probabilmente era rimasto nascosto molto a lungo nel cuore di quella gente. O forse un tasto che qualche volta era stato sfiorato, ma ne erano uscite solo note stonate ed una melodia priva di senso.
Il soldato grugnì, ma accettò il secondo impacco guaritivo. “Sono diversi anni che non sentivo parole simili. Avete forse prestato servizio presso i sacerdoti delle Dodici Case?”
“Non abbiamo avuto l’onore di conoscerli” rispose Aragorn.
Mara stava per ribattere, ma decise di rimanere in silenzio. Lei aveva conosciuto un sacerdote. Mu era stato una guida riottosa e caparbia, che sotto le apparenze deboli e sottomesse aveva mostrato di possedere del coraggio che teneva sempre nascosto sotto l’armatura. Quando tre anni prima aveva rapito lei e Daala e le aveva portate nel Castello dell’Oblio era condizionato, ma pur sempre un sacerdote delle Dodici Case. Le giuste argomentazioni –ed un cazzotto al momento più adatto- lo avevano spinto a tornare sulla retta via e Mara lo ricordava ancora con piacere, anche se i suoi compagni dell’Alleanza non l’avevano mai incontrato.
“Erano persone straordinarie … ormai molti villaggi li hanno dimenticati, e sputano persino sul loro nome … tutti gettano fiori ed incenso ai piedi delle statue del Grande Satana e fingono che nulla sia cambiato, che in fondo pagare le tasse al re dei demoni o ai principi umani sia la stessa cosa …”
Qualche contadino aggrottò le sopracciglia a quelle parole, ma la maggior parte degli uomini e delle donne annuì. La Sith aveva visto all’ingresso della città l’enorme statua di un demone dalla lunga barba, con uno sguardo arcigno che avrebbe fulminato qualsiasi visitatore sgradito.
L’uomo continuò, quasi come a volersi liberare di un terribile peso. “ … noi le paghiamo le tasse, certo che le paghiamo … non facciamo nulla di strano, ed i demoni ci lasciano in pace … ma i sacerdoti …” Riprese fiato, e i suoi ricordi si persero in uno strano sorriso. “Circa dieci anni fa ricevemmo la visita di un Cavaliere d’Oro. Era l’uomo più alto che avessi mai visto, e con le spalle che si ritrovava avrebbe potuto essere un fabbro, non un uomo di libri! Doveva fermarsi qui ad Amer soltanto un giorno perché era una delle tante tappe che lo avrebbero condotto al santuario di Budur, eppure … eppure quando seppe che la nostra diga era crollata e che non avevamo abbastanza oro per pagare immediatamente dei carpentieri bloccò il pellegrinaggio e mandò tutti gli altri fedeli ed i sacerdoti del suo seguito a ripararla. Noi ci saremmo seppelliti per la vergogna, ma lui ci rispose che il più grande problema di questo mondo era che nessuno aiutava il prossimo …”
Sorrise.
“Non pensavo che avrei mai sentito di nuovo delle parole simili” sospirò commosso, e con lui praticamente tutti gli avventori. La paura che allignava lì dentro non era svanita, ma essa si era leggermente sollevata, come se qualche parola ed un ricordo lontano avessero allentato la sua morsa. Mara sorrise insieme a quell’uomo, rendendosi conto di quanto importante fosse quella lezione e quanto invece l’Imperatore l’avesse trascurata nel corso dei suoi anni come apprendista Sith. Aveva trascorso oltre dieci anni credendo che l’arma più forte fosse la paura, ed il vincolo migliore la sottomissione: anche se si era unita all’Alleanza da molto tempo, ancora trovava difficile liberarsi dalle lezioni oscure. Aveva bisogno di esempi positivi giorno dopo giorno, e forse era anche per quel piccolo motivo un po’ egoista che non riusciva a stare lontana troppo tempo da Aragorn e Gandalf.
La gente intorno a lei era in fermento. Alcuni piangevano, e non per le esplosioni e le raffiche che ancora tempestavano il cielo. L’oste si fece avanti, ed offrì a tutti loro un boccale di birra. Lei lo accettò, e lentamente tutti i soldati ed i membri dell’Alleanza sollevarono i boccali in direzione della gente. Molti applaudirono, e come per sugellare quella tregua improvvisata Gandalf si levò il cappello e dal fondo uscirono luci gialle, verdi e blu che mandarono in visibilio tutti, non solo i bambini.
Il soldato che il ramingo aveva curato doveva stare molto meglio, perché si levò da solo l’impacco di erbe e si alzò, portandosi a sedere proprio accanto a loro. “Volevate sapere cosa ci è successo, eh? … Beh, ve lo dirò! I demoni hanno trovato una sacca della Resistenza proprio qui ad Amer!”
“Resistenza?”
“Sì, la Resistenza! Non ne avete mai sentito parlare?”
Scossero la testa, sorpresi, e l’uomo parlò dopo aver trangugiato tutto il boccale di birra. “Sovversivi, o almeno così dicono i demoni. Un gruppo di umani che si è ribellato al Grande Satana. Gente che ha poca voglia di vivere, se volete la mia opinione!” fece sbuffando. “È una follia ribellarsi alla famiglia demoniaca …”
“È forse una follia inseguire un sogno? Allora a che serve vivere?”
Aragorn salì in piedi su un tavolo, il boccale alzato. “Tutti abbiamo qualcosa da proteggere. Dei figli, una moglie, un marito, dei genitori, una terra lavorata col sudore della fronte … E ogni giorno ci troviamo a scegliere non solo cosa sia meglio per noi stessi, ma soprattutto cosa sia meglio per loro: ogni giorno, ogni minuto, ogni istante dobbiamo compiere delle scelte, da quando andiamo ad acquistare il pane a quando bruciamo l’incenso davanti alle divinità. Spesso siamo costretti a sacrificare i nostri sogni per il bene nostro e degli altri, e nessuno può farcene una colpa: mettiamo da parte ciò che ci è caro e viviamo per il prossimo, lasciando il posto all’amarezza ed alla disillusione”.
Fece una pausa, e controllò lo sguardo di tutti i presenti. “Ma non tutti scelgono il nostro sentiero. Ci sono alcune persone che mettono da parte la famiglia, gli affetti e persino la propria vita pur di raggiungere un ideale. Persone che abbandonano tutto per raggiungere, acchiappare e fare proprio un sogno. E chi può dire chi ha torto? Voi, che sacrificate il domani in favore del presente? O loro, che sacrificano il presente in nome del futuro?”
Gli uomini e le donne erano ammutoliti.
“Io dico che nessuno ha torto. Tutti siamo costretti a rinunciare a qualcosa. Voi curate il loro presente, e loro lottano per un futuro migliore: siete necessari l’uno all’altro, non potete e non dovete voltarvi le spalle, perché se smettete di camminare insieme sarete preda di ogni nemico in grado di vedere questa breccia. Noi umani siamo deboli, piccoli e corruttibili, ve lo dico per esperienza personale …” disse, con un sorriso rivolto allo stregone “… e dobbiamo faticare cento volte più delle altre razze per ottenere lo stesso risultato. La nostra debolezza nasce dal non essere uniti, dall’avere migliaia di idee e di sogni. Ma ne dobbiamo prendere atto. Quando però riusciamo a trovare un obiettivo comune, allora diventiamo inarrestabili: è quell’obiettivo adesso è la libertà, e non importa quale strada scegliate per arrivarvi: la meta è la stessa per tutti!”
Fu seguito da un applauso. Un applauso lungo e sincero, un boato nato dalle centinaia di mani nella sala: i bambini seguivano i genitori in quella che ai loro occhi era una grande festa, un velo di gioia che si estendeva davanti ai sensi sbalorditi della Sith. Un velo non perfetto, lacerato da qualche dubbio che nemmeno le parole di un abile oratore potevano sciogliere: ma comunque un velo palpabile, intessuto con le sensazioni di quelle persone che erano state impregnate per anni dal terrore. Mara sapeva che la paura sarebbe ritornata a breve, ma quel velo sarebbe rimasto nascosto tra le pieghe, con tanti fili sottili per tutti coloro che avevano bisogno di un raggio di speranza.
Aragorn scese dal tavolo e venne vicino a lei ed Eomer. “In questo mondo c’è una Resistenza … andiamo a cercarla!”




“Lasciatelo dire Tarkin, oggi hai davvero una brutta cera. Peggio del solito, intendo.”
Da quando aveva messo piede sul ponte del Basilisk il conte Dooku non aveva fatto che lanciare occhiate di disapprovazione verso tutto e tutti. La sua delicata anima aristocratica doveva sentirsi piuttosto a disagio in mezzo a tutti quei soldati sporchi e sudati, con le divise bruciacchiate e gli occhi rossi per la mancanza di sonno. Molti esibivano bende e fasciature macchiate di sangue coagulato: l'infermeria era piena fino all'ultima vasca di bacta, e i feriti che potevano reggersi in piedi erano consegnati ai loro posti. Non potevano permettersi di sprecare nemmeno un uomo.
“Anche tu mi sembri stanco, Dooku. Prendere il tè per tutto il pomeriggio con le baronesse di Hapes dev'essere stato estenuante.”
“Puoi ben dirlo!” rispose l'altro portandosi una mano alla fronte nella patetica imitazione di una posa tragica. “Sarà almeno la terza volta che insistono per farmi vedere la serie completa delle foto dei loro gattini... “
L'ironia non era mai stata il punto forte di Dooku. Non che l'anziano conte ne avesse tanti altri, dopotutto: la prova vivente che non bastava qualche sporadico potere Sith per fare un individuo intelligente, e meno che mai un buon Signore Oscuro. Al posto dell'Imperatore Tarkin lo avrebbe fatto terminare già da molto tempo, ma Palpatine evidentemente aveva una soglia di sopportazione ben più elevata della sua. Tanto meglio per il conte.
“In ogni caso” proseguì Dooku “vedi di fare buon uso dei rinforzi che ti ho portato. Due intere squadre di Star Destroyer, ora ne hai il triplo di quelli con cui sei partito.”
Il damerino godeva a vederlo in difficoltà, e non era nemmeno troppo bravo a nasconderlo. Fortunatamente la sua opinione valeva quanto un ammasso di escrementi di rancor agli occhi di Tarkin.
Il conte frugò tra le pieghe del mantello nero e ne trasse un sacchettino di velluto che emanava un lieve bagliore verde. Conteneva le Pietre della Sapienza, gli artefatti magici con i quali aveva teletrasportato nel mondo dei demoni i rinforzi per la flotta. Finalmente Dooku aveva deciso di togliere il disturbo.
Strinse il sacchetto nel pugno e la luce verde aumentò d'intensità.
“L'Imperatore si aspetta una vittoria nel minor tempo possibile” aggiunse, e un secondo dopo era svanito in un lampo smeraldo. Le sue ultime parole continuarono ad aleggiare sul ponte e nella mente di Tarkin come un presagio minaccioso.
L'opinione dell'Imperatore era tutto un altro discorso.
Tarkin odiava ammetterlo persino con se stesso, ma malgrado tutte le precauzioni prese e la sua solita cautela aveva sottovalutato nettamente il problema dei draghi. Non li avrebbe mai immaginati in grado di competere allo stesso livello con una flotta di Star Destroyer, meno che mai di mettere le astronavi in seria difficoltà.
Unico fattore positivo: per quanto terribili, i draghi restavano esseri di carne e sangue, e come tutti gli esseri viventi erano soggetti alla fame, alla fatica e alla stanchezza. Tarkin aveva accettato con gratitudine l'opportunità di una tregua momentanea: anche lui e i suoi uomini erano arrivati allo stremo dopo ore e ore di battaglia serrata, e non sarebbero riusciti a proseguire ancora per molto.
Tuttavia non si faceva illusioni. Anche l'esercito nemico avrebbe approfittato della tregua per approntare rinforzi ed elaborare nuove strategie, e questo significava che per lui, il comandante della flotta, non ci sarebbe stata nemmeno un'ora di vero riposo.
Il segnale sullo schermo principale indicava che mancavano due ore all'alba. Ancora due ore di pace, due ore di calma per escogitare una soluzione che rovesciasse le sorti della battaglia. I tecnici avevano lavorato alacremente, e quasi tutti gli Star Destroyer sopravvissuti allo scontro ora erano di nuovo in grado di sollevarsi sopra l'atmosfera. E poi c'erano i rinforzi portati da Dooku. Poteva seguire il suo piano originale e piombare sul Baan Palace dall'alto, lasciando una sola squadra a tenere impegnati i draghi...
“Dovresti riposare un po' Tarkin. Nemmeno i tuoi nervi d'acciaio possono durare all'infinito.”
Le stesse parole di Dooku, ma prive del fastidioso tono di derisione del conte; preoccupate, anzi. Le persone che potevano rivolgersi in quel modo al governatore Tarkin e sopravvivere si contavano sulle dita di una mano.
Maul era apparso sul ponte, il braccio ferito legato al collo. I tatuaggi rossi e neri potevano trarre in inganno, ma gli occhi attenti di Tarkin notarono immediatamente che anche l'amico non aveva una buona cera.
“Mi fa piacere che tu ti sia ripreso” gli disse comunque.
“No Tarkin, dovresti insultarmi.” disse Maul avvicinandosi alla plancia di comando. “Mi sono fatto fregare come il primo idiota di passaggio. Messo ko dall'autodistruzione di un IG-88... mi terminerei da solo per l'idiozia, te lo giuro.”
Tarkin fece un gesto con la mano per indicare che non aveva importanza. “Se può consolarti nemmeno io me la sto cavando troppo bene qui.”
“Meno male che c'è Boba a tenere alta la bandiera del Trio Destroyer. Ho visto i video dell'apocalisse zombie a Coruscant... è stato un grande!”
“Assolutamente. Qualcuno doveva pur dare una bella manifestazione di forza a quei demoni arroganti. Ora ci penseranno due volte prima di attaccare di nuovo la nostra capitale.”
“Comunque Tarkin, appena mi rimetto in sesto torno a dare la caccia a quei maledetti Ribelli. Per adesso ho inviato sul pianeta dei droidi sonda, ma ancora non hanno rilevato la loro presenza.”
I Ribelli. Quasi li rimpiangeva. Loro almeno non avevano draghi.
“Sai Maul, è strano dirlo ma temo che l'Alleanza al momento non sia il più grande dei nostri problemi.”
“Già” fece il Sith, pensieroso. “Ma dobbiamo prendere esempio da Boba: se lui ha vinto, possiamo farcela anche noi.”
Tarkin stava per replicare che non aveva la benché minima intenzione di farsi sconfiggere quando un colpo di tosse alle sue spalle attirò la sua attenzione, facendolo voltare.
Un ufficiale piuttosto giovane fissava il pavimento con imbarazzo, probabilmente chiedendosi perché avevano mandato proprio lui a riferire una brutta notizia al governatore. Perché si trattava di una brutta notizia, Tarkin glielo leggeva negli occhi che evitavano sistematicamente i suoi e nel movimento convulso delle mani strofinate contro la divisa. Con un'occhiata lo invitò a vuotare il sacco.
“Tenente Dalton a rapporto, signore! Abbiamo ricevuto un messaggio di soccorso dall'Harbinger!
“Non è la nave su cui avevamo trasferito Kratas?” intervenne Maul.
“Proprio così, signore! Erano a terra oltre la catena di montagne del quadrante Lambda-2 per effettuare delle riparazioni, ma a quanto pare una squadra di ricognitori nemici li ha trovati e circondati!”
Tarkin si rilassò. Dal tono urgente di Dalton si era aspettato chissà quale catastrofe imminente.
“Non resisteranno per molto signore, dobbiamo intervenire il prima possibile!”
Dobbiamo, tenente Dalton? Deve essermi sfuggito qualcosa... quand'è che lei sarebbe stato nominato comandante in capo di questa flotta?”
Il povero tenente si fece di mille colori: “Io... signore non intendevo mancarle di rispetto! E' solo che... “
“Nessuna nave si muoverà da qui” tagliò corto Tarkin, parlando ad alta voce in modo che tutti i soldati e gli ufficiali presenti sul ponte sentissero. “Non ci esporremo a inutili rischi per recuperare un solo Star Destroyer che comunque non verrebbe riparato in tempo per partecipare al prossimo scontro. In quanto a lei, tenente Dalton... ” riservò al malcapitato uno dei suoi migliori sguardi di disprezzo, poi si voltò verso i due soldati più vicini: “... visto che è così ansioso di partire al salvataggio, scaricatelo sulla superficie. Nel quadrante Alfa-5.”
“Signore, il settore Alfa-5 è il prossimo obiettivo dei bombardamenti della squadra Delta” fece notare un tecnico decisamente poco perspicace. Per un attimo Tarkin fu tentato di spedirlo dietro a Dalton, ma non poteva permettersi di sprecare troppi uomini. Un solo esempio sarebbe bastato a far rigare dritto tutti gli altri: funzionava sempre.
“Beh, una missione di salvataggio non può essere troppo semplice, no?” disse percorrendo con lo sguardo le file di soldati e tecnici radunati all'ascolto. “Altrimenti dove sarebbe la gloria?”
Ad un suo cenno le due guardie afferrarono Dalton e iniziarono a trascinarlo via, mentre quello strepitava e supplicava perdono e una seconda possibilità come facevano sempre tutti. Che seccatura. Anni e anni di disciplina e duri addestramenti all'accademia di Carida e poi di fronte alla morte si rivelavano tutti dei piagnucoloni senza dignità. Ma da un lato meglio così: troppa dignità li avrebbe resi dei martiri agli occhi dei colleghi.
“Mi dispiace un po' per Kratas” disse Maul mentre le urla di Dalton svanivano in lontananza.
“Kratas è un valido soldato e un ufficiale capace. Darà il meglio di sé.” Maul corrugò la fronte e gli lanciò uno sguardo interrogativo, ma tacque di fronte all'occhiata eloquente di Tarkin
“E ora” disse il governatore “Al lavoro. Abbiamo una battaglia da vincere.”




Era mezzogiorno quando i Ribelli entrarono in un ampio canalone tra i picchi imponenti coperti da una tenda di nubi, che si apriva in una vallata oltre la quale si vedeva un passaggio stretto e tortuoso che svaniva nella roccia. Mara precedeva il gruppo, attraversò il fondo del canalone ed entrò nella gola. La battaglia tra i draghi e le navi imperiali doveva essersi spostata, perché del rombo dei turbolaser adesso rimanevano solo lievi rimbombi, come tuoni in lontananza, che riecheggiavano in quel posto. L’umidità intrappolata tra i picchi si raccoglieva formando delle pozze, e la donna sentì che il freddo si faceva meno pungente. Si immerse di nuovo nelle sue percezioni, estendendo la Forza in avanti alla ricerca di forme di vita ostili.
Poi le pareti del canalone si aprirono e fece un cenno agli altri. Il loro viaggio era finito.
Si erano trattenuti al villaggio di Amer un giorno in più del necessario su insistenza dei soldati di guarnigione e della popolazione: in fondo erano andati fin lì per aiutare i civili, quindi erano rimasti insieme a quegli uomini stanchi per un altro po’. Ma l’idea di conoscere la Resistenza di quel mondo aveva fomentato Aragorn e Gandalf, che avevano deciso di lasciare in quel paese i guaritori ed i soldati semplici per buttarsi in quella missione di salvataggio con la coscienza più leggera. I soldati avevano raccontato che i demoni avevano fatto irruzione nel loro villaggio ed avevano prelevato qualcuno: nessuno sapeva di chi si trattasse, ma i demoni avevano detto a più riprese di trasportarli nella Cripta Nera. Avevano quindi deciso di spostarsi verso sud e raggiungere questo posto che, a detta dei locali, era sempre stato controllato dai demoni.
L’accesso alla Cripta Nera era davanti a loro, un varco nella parete della montagna, nero e maestoso, sostenuto da grandi sentinelle di pietra modellate in forma di demoni, un maschio ed una femmina, coperti da un’armatura con le lame delle spade rivolte verso terra. Le sentinelle erano poste ai lati della caverna e i loro volti erano segnati dal tempo e dal vento, quasi a narrare la gloria di un passato ormai dimenticato; avevano gli occhi fissi su di loro.
Mara rallentò, poi si fermò. Il percorso che le stava davanti era avvolto dalle tenebre e dal silenzio. I rumori della battaglia erano svaniti, e nell’oscurità riusciva a scorgere una lieve nebbia. Anche il freddo si era trasformato in una specie di brivido che intorpidiva i sensi.
“Mara, va tutto bene?” chiese Aragorn, raggiungendola.
“Non saprei … c’è un tremito nella Forza …”
“E da quando in qua voi Jedi non sentite tremiti nella Forza? Mi preoccuperei il giorno che sentirete qualcosa di forte e chiaro!” rispose l’altro, scherzando.
La sensazione le si attanagliò addosso come una seconda pelle, permeò il suo corpo giungendole fino alle ossa. “Percepisco un senso di morte”.
“Un senso di morte? Ho visto di peggio!” disse il ramingo. Fece un cenno verso il resto della squadra, ed in un attimo Valygar e Lavok furono al suo fianco. Confabulò un po’ con loro e portò la mano all’elsa della spada. “Ai tempi della guerra contro Sauron mi sono lanciato sottoterra con Gimli e Legolas lungo i Sentieri dei Morti. Ed è andata anche abbastanza bene, visto che ne sono uscito con un esercito funzionante ed una schiacciante vittoria. Se ci sono morti … lascia che vengano!”
Aragorn si lanciò nell’ingresso, seguendo il mago ed il ranger che erano entrati durante il loro breve scambio di battute. Eomer le passò vicino, sempre molto silenzioso, e le diede una pacca sulla spalla. Lei ascoltò il silenzio. Scrutò le tenebre. Attese. Lasciò che la sua mente assorbisse ciò che le stava davanti e calmasse il suo cuore prigioniero di un’ansia che non riusciva nemmeno a descrivere. Il tempo sembrava essersi fermato.
“Le tue sensazioni ti logorano, Mara. Non abusarne per noi”.
Gandalf arrivò per ultimo, lanciando sguardi sospetti al canalone, la loro unica via di fuga.
“I miei sensi possono salvarci la vita. So di poter fare la differenza!”
“Tutti noi possiamo fare la differenza. Basta vedere in che momento e perché. Usa i tuoi poteri solo quando davvero ti servono, se fai affidamento solo su di essi finirai per non essere più in grado di vedere da un palmo dal naso” disse lui, accendendo la fioca luce della punta del suo bastone. “Mi sento più sicuro a saperti in retroguardia, mia cara. Non sono mai stato portato per essere l’ultimo della fila!”.
Lo disse in tono naturale e scherzoso, le fece un occhiolino ed entrò.
Lei respirò a fondo, cercò di ignorare la sensazione spiacevole ed entrò con passo felpato, passando silenziosamente tra le gigantesche sentinelle di pietra. Esitò, scrutando le rocce dell’ingresso, temendo di vedere in qualche momento qualche demone sbucare dalle pareti. Davanti a lei c’era la debole fosforescenza verdastra dell’incantesimo di Gandalf, ma era così fioca che anche la sagoma dello stregone si distingueva a malapena nonostante fosse poco distante da lei.
Cercò di disegnare mentalmente una mappa e di capire l’andamento della grotta. Se davvero vi erano dei prigionieri umani, l’unico posto dove potevano averli nascosti erano i livelli inferiori, a patto che ne esistessero.
Avanzò.
Il passaggio era largo e le pareti ed il pavimento non offrivano punti di appoggio. La semioscurità era avvolta nel silenzio, si udiva solo il debole risuonare dei loro stivali. L’aria era fredda; il gelo che era penetrato nella roccia della montagna investì la Sith facendola rabbrividire nonostante la tunica pesante. Un groviglio di sensazioni sgradevoli si insinuò in lei: qualcosa dalle pareti stesse della caverna le gridava di andarsene di lì. Non erano voci vere e proprie, ma un senso di odio antico, qualcosa che narrava di un passato lontano, lo stesso in cui erano vissuti i volti duri delle sentinelle di pietra. Lottò contro quei sentimenti, e ben presto quelli si sopirono.
Raggiunse gli altri, che avevano rallentato l’andatura. Il passaggio si restringeva ed iniziava a scendere tortuosamente. Valygar sbuffò qualcosa sulla chiara presenza di magia oscura, ma quando suo zio iniziò a deriderlo si rannicchiò ed avanzò. Il vecchio Lavok lo seguì, insultando quel fifone di suo nipote anche quando le loro sagome erano svanite dal suo raggio visivo.
“Sarà necessario fare un po’ di luce” mormorò Gandalf, piegandosi in due. Aragorn e Eomer gli diedero uno spintone in tutta simpatia e si lanciarono nello spazio angusto lasciandole la retroguardia. Lei si guardò di nuovo alle spalle, ma la luce del sole che filtrava dall’ingresso era solo un ricordo lontano in quell’oscurità e nella sua morsa. Tirò un sospiro ed entrò nel cunicolo.
Qualcosa non quadra, rifletté, con il viso premuto contro la roccia mentre avanzava. Non sento alcuna presenza vitale qui dentro … non sarà che … siamo arrivati troppo tardi?
Fece per avvisare le due persone davanti a lei, ma non fece in tempo.
Iniziò un suono.
Fu un’ondata violenta, improvvisa, come liberata dalle stesse pareti, avvolgendoli con la forza di mille catene, spingendoli in avanti. Era come l’urlo del vento attraverso un canalone, come lo sbattere delle onde sulle scogliere. E poi, nel sottofondo, era come il grido terribile di creature tormentate da un’indicibile sofferenza. A meno di un metro da lei, Eomer provò a gridare qualcosa, ma la sua voce venne sommersa da quei suoni terrificanti. Corse in avanti, piegata in due nello spazio angusto, tagliandosi il vestito e le braccia pur di portarsi le mani alle orecchie ed isolare quel suono spettrale che cercava di penetrarla; raggiunse il ramingo e lo stregone che stavano cercando di riunire il gruppo, ma lo spazio per muoversi era quasi inesistente e soprattutto Valygar e Lavok erano probabilmente molto più avanti.
La furia del suono era spaventosa. Gli strilli e gli ululati colpivano come cose corporee, martellando il loro corpo anche in assenza di vento. Cercò di usare i suoi poteri Sith per isolare almeno se stessa, costruendo una sua immagine mentale con contorni ed ombre, riempiendo ogni sua fessura come a creare un muro impenetrabile, ma la concentrazione le venne meno; provò a combattere, ma un brivido la attraversò quando vide vacillare l’immagine di sé che aveva appena creato. L’unica cosa tangibile era la mano di Aragorn, che in quel momento aveva afferrato saldamente la sua e stava avanzando a capo chino, sopportando quel suono spettrale senza nemmeno erigere delle difese.
Cercò riparo nell’immagine di Luke e di sua figlia Mistraal, ma quando le due figure si deformarono, trasformandosi in sagome urlanti che sembravano liquefarsi ai suoi piedi, le distrusse prima che il loro dolore prendesse il controllo della sua mente. La testa le esplodeva. Ancora un minuto, forse due, e anche le flebili difese dei suoi poteri sarebbero andate in frantumi.
Poi, come per incanto, le voci svanirono.
Caracollò sul pavimento della Cripta Nera insieme ai suoi compagni, e solo dopo qualche istante si accorse che c’era qualcosa di strano.
La luce.
L’interno della Cripta sembrava inondato dalla luce del giorno. Abbagliata, si voltò e vide che il cunicolo che avevano appena attraversato era svanito. Alle loro spalle non c’era nulla a parte la nuda roccia. Estese subito tutti i sensi in quella direzione, ma la Forza trovò roccia, montagna ed ancora roccia fino all’ingresso, come se il corridoio, l’oscurità e le voci non fossero mai esistiti. Gandalf si portò accanto a lei e cercò qualche segno di fessure o cardini, ma non trovò nulla.
Guardarono il posto dove erano arrivati, e non trattenne un grido di meraviglia.
Dentro quella caverna c’era il luogo più incantevole che avesse mai visto. Una distesa di erba verde cresceva dentro la caverna infischiandosene di tutte le regole della botanica, tempestata in ogni punto di fiori rosa, bianchi e gialli, alcuni che facevano capolino vicino ai fili ed altri con uno stelo che le arrivava fino al gomito. Si piegavano come sospinti dal vento, ma l’aria dentro la Cripta era immota. E la luce … c’era.
Semplicemente. Senza sole, senza fessure con l’esterno, senza lampade, niente che lei potesse associare ad una fonte di energia. Doveva essere senza dubbio magica, ma non percepiva alcuna ostilità da essa, così come dal piccolo rivolo d’acqua che tagliava a metà il prato e spariva dentro un minuscolo passaggio alla base della roccia. Sembrava uscito da un sogno, e Mara pensò che con un bel cinguettio di sottofondo sarebbe stato il posto ideale per addormentarsi un po’. Scosse la testa, allontanando il pensiero tentatore. Un urlo la riportò all’improvviso alla realtà. “PORCO PALPATINE!”
Eomer indicò un punto all’angolo della caverna incantevole, in parte coperto da sottili piante rampicanti dai fiori gialli e minuscoli. Seguì la direzione del suo dito e raggelò.
Valygar e Lavok giacevano a terra, immobile, e quello che macchiava i loro vestiti poteva essere solo sangue.
“Ragazzi!” gridò il cavaliere di Rohan, lanciandosi senza riflettere nel prato. Aragorn e Gandalf gli vennero dietro per fermarlo, ma prima che potessero raggiungerlo Mara li vide cadere a terra. Eomer cercò di rialzarsi, ma dal suo fianco, proprio dove l’armatura cedeva spazio ai vestiti, usciva un fiotto di sangue; si portò la mano alla ferita mentre cercava di aiutare i suoi amici, ma qualcosa lo scagliò lontano; una seconda ferita apparve sulla sua fronte, un taglio che andava poco sopra la linea degli occhi. Lo stregone si premette la mano sulla spalla e mulinò il bastone alla cieca, ma cadde una seconda volta quando la tunica si lacerò dal nulla e la gamba sinistra cedette sotto il peso di una ferita.
Ma cosa …
Con un solo salto Mara si portò in mezzo a loro con la spada laser accesa. Qualcosa le passò accanto all’orecchio, ma si piegò in tempo; i suoi compagni cercarono di rialzarsi, e fece ruotare la lama rossa intorno a loro come semplice scudo. L’attimo dopo un dolore le attraversò la mano destra, e quando la osservò vide una colata di sangue che partiva dal dorso ed arrivava fino alle dita: cercò di muoverla, ma le estremità sembravano rattrappite e deboli. La portò alla bocca per lenire il dolore, ma mantenne la presa dell’elsa metallica con la mano sinistra.
C’è qualcosa di invisibile … se solo Lavok riuscisse a percepirlo, potrei …
Il pensiero si interruppe quando qualcosa le attraversò la gamba sinistra. Urlò per il dolore e perse la presa dell’arma. Sentì il freddo di una lama che penetrava nella sua carne e che ne veniva estratta senza alcuna difficoltà: cadde riversa nel prato, ed il meraviglioso profumo dei fiori si mescolò con quello del sangue, trasformandosi in un aroma dolciastro che le diede un violento senso di vomito.
Una lama … no, non è una sola … pensò, cercando di allontanare il dolore focalizzandosi su qualcosa. Delle lame invisibili.

E dove c’è una spada, c’è sempre qualcuno che la impugna.

Le parole dell’Imperatore Palpatine arrivarono. Per prime. Come sempre.
Per quanti anni avesse trascorso all’Alleanza, cercando di liberarsi delle catene nere del Lato Oscuro, le parole del suo primo mentore riuscivano a scavalcare qualsiasi suo pensiero. Cosciente o meno, tutte le volte che ne aveva bisogno gli insegnamenti mortali della scuola dei Sith arrivavano, rapidi e seducenti come la parte tenebrosa della Forza.
Cerca, Mara.
Cerca.

La sentì arrivare. Vide la lama diretta contro le sue spalle attraverso il Lato Oscuro, l’immagine mentale di se stessa agonizzante, trafitta da parte a parte. La vide sfocata, ma la traiettoria dell’arma si disegnò chiara nella sua mente. Richiamò la spada laser nel palmo della mano e vibrò un fendente in aria. La lama urtò qualcosa, e l’attimo dopo due frammenti di una spada caddero ai suoi piedi, finalmente visibili.
Cerca.
Chiuse gli occhi senza nemmeno riflettere. Scivolò in mezzo ai suoi tre amici ed estese tutti i sensi, proprio come tanti anni prima, quando da bambina si allenava con i remoti ed i loro odiosi raggi laser. Le sembrava ancora di rivedere le piccole sfere, che l’Imperatore tarava sempre al massimo per farle capire rapidamente quanto fosse pericoloso farsi colpire da uno di quei droidi da addestramento. Avere gli occhi chiusi aiutava. Usò la spalla di Aragorn come supporto e saltò in aria, distruggendo due spade pronte a sferrare un attacco incrociato; atterrò ignorando il dolore alla propria gamba e si mise in posizione di guardia. Almeno un’altra decina di lame la circondò, staccandosi dai suoi compagni, come se avessero capito che lei era la loro vera minaccia.
Cerca lo spadaccino, Mara.
Estese tutti i sensi. Quando le lame sferrarono un attacco non le distrusse, ma scivolò tra l’una e l’altra con un unico movimento: il Lato Oscuro le vedeva per lei, e nella sua mente poteva contarle chiaramente, una ad una, anticipando senza alcuno sforzo le loro mosse. Evitò un secondo affondo saltando in aria, percependo le armi tornare indietro e rivolgere la punta contro la sua schiena. Fu in quel grande mosaico mentale, dove poche cose potevano nascondersi al suo occhio interiore, che la percepì.
La forza vitale dietro a quell’incantesimo.
Sorrise tra sé, sicura della vittoria. Con il Lato Oscuro prese il controllo di quelle spade: le strappò con violenza alla magia, proprio come faceva con qualsiasi oggetto inanimato: riempì l’aria intorno a sé del proprio potere, e fu come impugnare le dieci armi con altrettante mani, sentendo il calore delle loro else fin dentro il proprio corpo. Superò l’ostacolo e le diresse contro il bersaglio.
Le spade si conficcarono nella roccia, tutte intorno alla piccola figura. Una lama aveva inchiodato il suo cappello alla parete della cripta, altre tre avevano attraversato la sua tunica e lo immobilizzavano, mentre le altre disegnavano una gabbia impenetrabile che aveva costretto l’esserino a lasciar cadere il suo incantesimo di invisibilità.
“Hai smesso di giocare, mostriciattolo!” disse lei, aiutando Eomer a rialzarsi. Era la creatura più strana che avesse mai visto: aveva un solo occhio gigantesco, che occupava quasi tutta la testa e che si muoveva all’impazzata. La bocca non era larga, ed il corpo dalle sembianze umanoidi sembrava svanire nella tunica di diverse taglie più grande di lui. Non sembrava terrificante, ma aveva appena rischiato di ucciderli tutti con il suo vilissimo trucchetto. “Adesso noi abbiamo qualche chiacchiera da fare, piccoletto. E vedi di essere convincente …”
“F-farò tutto quello che v-vuole, signora, Piro Piroro!” disse la creatura. Era difficile leggere le emozioni di un unico, grande occhio, ma la voce era rotta dalla paura. In altri tempi Mara si sarebbe gettata su di lui e lo avrebbe afferrato per il collo per carpirgli qualsiasi informazione, ma cercò di calmarsi e aspettò che i suoi compagni si rialzassero. Guardò in direzione di Valygar e Lavok: percepì in loro il battito vitale, ma le loro ferite erano gravi.
“Dove sono i membri della Resistenza che avete catturato al villaggio di Amer? E vedi di non mentire …”
“Membri della Resistenza? Membri della Resistenza? Qui dentro ce ne sono solo sei, Piro Piroro!” disse quello, cercando di divincolarsi senza successo, finendo solo per strapparsi l’abito e tagliarsi con una delle sue stesse spade. “S-sono molto forti questi membri della Resistenza, sì! Proprio così!”
“Portaci da loro e ti lasceremo andare, promesso” disse Aragorn, conciliante nonostante le ferite.
“M-ma, ma come faccio, Piro Piroro? Sono già t-tutti qui!”
Tutti?
Mara si guardò intorno. Prolungò di nuovo i sensi in tutta la caverna, dal soffitto alla parete da cui erano entrati, scandagliò persino il rivolo d’acqua, ma non vi era alcuna presenza di altre persone. C’erano solo lei, Aragorn, Gandalf, Eomer ed i loro due amici feriti. E capì. “Credo che tu non abbia capito, mostriciattolo. Noi non siamo membri della Resistenza”.
“No? Oooops, questo è un grande problema, Piro Piroro! Tutta la fatica di Killvearn per preparare questa sublime trappola è andata in fumo, Piro Piroro!”
Trappola?
“Hai sentito, Killvearn?” disse la piccola creatura. Nella sua grande iride Mara vide un riflesso che non le piacque affatto. “Non solo hanno rovinato il tuo mitico Phantom Razor, ma hanno anche la faccia tosta di non essere della Resistenza! Tutto questo lavoro ed il tuo grande spettacolo è stato vanificato! Non lo posso tollerare, Piro Piroro!”
“Piroro, non ti scomporre!"
La voce venne proprio alle loro spalle. Si volarono tutti insieme, e Mara vide una figura alta e nera stagliarsi contro la parete della Cripta, proprio nel punto in cui loro erano entrati attraverso quel dedalo di urla e dolore. Indossava una lugubre maschera sorridente, ed al suo arrivo le tredici spade tornarono a lui, alcune liberando lo gnome e le altre, quelle distrutte, si fusero e tornarono integre. Si mossero verso di lui e circondarono a raggiera la sua maschera. L’attimo successivo erano sparite, e tredici simboli rettangolari lampeggiavano sulla sommità della testa.
Aveva una lunghissima falce, che aveva portato all’altezza delle labbra.
Ma non era questa la cosa inquietante.
Il Lato Oscuro non lo aveva percepito. Era lì, davanti ai loro occhi, ma per i suoi sensi interiori era invisibile, come se intorno a lui qualsiasi percezione fosse cieca: non emanava nemmeno la più piccola scintilla vitale. Il suo corpo fu scosso da un brivido di paura.
“Ricordati, Piroro: io sono la Morte, e tutto torna sempre a mio vantaggio. Non sia mai detto che la gente veda un mio spettacolo e non rimanga … senza fiato”.
Mara si avventò contro il nuovo nemico, ma non fu abbastanza rapida. Una strana nota si insinuò nella sua testa, delicata come un petalo che scivolava lungo la sua pelle. Poi ne giunse una seconda. Il nemico mascherato aveva iniziato a suonare con la sua arma, ma tutto le sembrava rallentato, come se le proprie gambe fossero di pietra; l’odore dei fiori di quel meraviglioso campo le arrivò fin nelle narici, e quando le invase del tutto i polmoni era già caduta a terra, svenuta.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 - Spectacularly spectacular ***


Capitolo 14 - Spectacularly spectacular





Vexen e Zexion bambino


Ho commesso molti errori di giudizio nello scegliere i membri della mia Organizzazione. Errori che si sono rivelati fatali e di cui non so se sarò mai in grado di perdonarmi. Il più grande, senza dubbio, è stato il numero IV. Ero convinto che nessuno meglio di uno scienziato geniale come lui potesse condividere il mio desiderio di proteggere e salvaguardare la conoscenza del nostro mondo. Mi sbagliavo. Vexen voleva la conoscenza per sé, incurante delle conseguenze. Anche la conoscenza che sarebbe stato meglio lasciare indisturbata.
Per questo il numero IV è stato il più pericoloso dei traditori, sebbene non il più crudele o imprevedibile. Gli avevo affidato la biblioteca e il laboratorio, il cuore del Castello dell'Oblio. E lui li ha rivoltati contro la nostra famiglia.
Una sola cosa mi consola, una sola decisione giusta in mezzo a una selva di errori. Oltre al laboratorio e alla biblioteca avevo affidato una terza cosa al numero IV, la più preziosa di tutte. Il piccolo numero VI, la speranza del nostro futuro. E di quello, almeno di quello non mi sono mai pentito. Perché per quanto detesti ammetterlo Vexen è stato un padre molto migliore di quello che sarei potuto essere io.
dai diari di Xemnas, Superiore dell'Organizzazione.





Narratore: “amici lettori, mi appello alla vostra compassione! Abbiate pietà di un Narratore infelice e disprezzato! Ancora una volta le Registe vogliono relegarmi in secondo piano per far parlare uno dei loro fastidiosi cocchi: vi supplico, se avete un cuore, se volete bene al vostro affezionato Narratore, potreste intercedere in mio favore? (vi ho fatto pure la rima, che volete di più!). Con me le due arpie sono spietate, ma può darsi che ascolteranno voi. Commentate questa storia e scagliate su di loro tutto il vostro disprezzo! Ci conto!
Nel frattempo, in attesa del vostro intervento salvifico, mi ritiro di nuovo nel mio angolo buio a piangere l'ingiustizia del mondo... “



Ho infranto tante promesse nella mia vita, e mentito più volte di quanto possa ricordare. Degli altri, della loro opinione su di me, mi è sempre importato poco. Le persone da cui ero circondato mi sembravano degne soltanto di disprezzo, gente rozza e ignorante che non era in grado di capire il mio genio.
Ma un patto alchemico, anche se fatto quasi per gioco con un bambino, è una cosa seria. O almeno per me in quel momento lo era.
Fedele alla mia parola il giorno successivo alla promessa feci sedere Zexion al grande tavolo del laboratorio e gli misi davanti una pila di fogli di carta e delle penne,
“Vedi questo libro?” aprii un polveroso tomo di grammatica che avevo rinvenuto il biblioteca e gli mostrai le pagine ricoperte di caratteri “E’ pieno di segni, di parole che non capisci, giusto? Ma ciascuno di questi gruppi di simboli – di queste parole –“ cercavo di parlare lentamente e indicavo di volta in volta gli oggetti che menzionavo, “ha un suo significato, vuol dire qualcosa. Indica il nome di un oggetto, di una persona, di… di qualsiasi cosa. Casa, albero, bambino, letto… tutto quanto. Esattamente come le parole che usi quando parli. Capisci?”
Non un granché come prima spiegazione, ma il suo cenno affermativo mi rincuorò. Scacciai dalla mente il pensiero che un bambino di tre anni era troppo piccolo per imparare quelle cose, e mi imposi di dimenticare la mia totale inesperienza con i bambini e il disagio che mi provocava. Avvicinare Zexion ai libri era un modo per farlo entrare nel mio mondo; e forse allora saremmo riusciti a capirci. Non potevo sopportare interi anni di silenzio.
“Per prima cosa bisogna imparare le lettere. Sembrano tantissime, ma in realtà ne esistono solo ventisei, e combinandole in modi diversi è possibile formare tutte le parole. Con le lettere si fanno le parole. Tutte le parole, con così poche lettere. Vedi che non è poi tanto difficile.”
Cenno affermativo.
Per prima cosa gli feci ripetere e copiare tutto l'alfabeto per varie volte, attività in cui si rivelò sorprendentemente bravo. In poco tempo imparò a memoria la sequenza delle lettere, e anche la scrittura acquistava sicurezza a ogni tentativo. Impugnava la penna in modo corretto e mentre scriveva si mordicchiava le labbra concentrato, gli occhi fissi sul foglio, i movimenti della mano lenti e precisi, con la cura di un artista intento a comporre la sua opera immortale.
Dentro di me già cantavo vittoria e mi sentivo il miglior insegnante del mondo.
Come secondo esercizio gli feci scrivere il suo nome e lo invitai a leggerlo ad alta voce, lettera per lettera. E qui Zexion si bloccò, e rimase a lungo a fissare il foglio con aria interrogativa.
“Cosa c’è? Vai avanti.”
“…”
“Non capisci qualcosa?”
“…”
“Ricorda cosa ci siamo promessi Zexion. Se hai un problema devi dirmelo.”
Parlò senza staccare lo sguardo dal foglio. “Perché si legge “z” e non “zeta”?”
“Come?”
“Mi hai detto... “ la sua voce era ridotta a un sussurro, tanto che dovetti avvicinarmi per sentirlo “prima mi hai detto... che si dice “zeta”. Ma ora leggi “z”... perché?“
Ah.
“Beh, allora... certo, è perché... dunque... “
Il miglior insegnante del mondo era stato messo in crisi da un ragazzino.
“Credo... credo che “zeta” sia solo il nome della lettera. Mentre il suono si legge “z”... “ mi sembrava la spiegazione più logica. Non ci avevo mai pensato a dire la verità, non me lo ero mai chiesto. Interiorizziamo certi meccanismi a tal punto da darli per scontati senza porci domande. Ma Zexion era un bambino senza memoria, e per lui il mondo era ancora un'equazione piena di incognite. Dovevo imparare a tenerne conto.
“... “
“Zexion?”
“... “
“Zexion, guardami per favore.”
Sollevò la testa lentamente, timoroso di incontrare il mio sguardo. Qualcosa lo preoccupava.
“Non ti sto rimproverando” lo rassicurai. “Cosa c'è che non va?”
“Non... non capisco... “
“Stai tranquillo. All'inizio è normale.“
Tornai con la mente al periodo della mia infanzia, cercando di ricordare qualcosa che potesse essermi utile con Zexion. Da bambino avevo dovuto imparare quelle stesse cose nella scuola del villaggio...
“Vergognati Even, non si capisce niente di quello che hai scritto! Sei il bambino più disordinato che io abbia mai visto! Ora per punizione copierai altre dieci pagine di F!”
“Stupido piccolo miscredente, la sinistra è la mano del demonio! Devo legartela alla sedia per farti scrivere come gli dèi comandano?”
“Adesso tutti in silenzio per il dettato. Il primo che fiata sono tre bacchettate sulle dita!”

Forse dopotutto era meglio improvvisare.
“Stai tranquillo Zexion” ripetei “adesso proviamo a leggere qualche parola insieme. Ti do una mano io.”
“Ma... “
“Non ti va? Se non ti va possiamo smettere.”
“Io... “abbassò di nuovo lo sguardo, sconsolato. “... ho paura... di essere stupido... “
Si era confidato con me, e questo era un evento straordinario quanto un sacerdote della Vergine che bestemmia. Una prima, piccola crepa nell'inossidabile muro di di silenzio che ci separava. Ma le sue parole erano inquietanti.
“Chi ti ha detto una cosa del genere?!”
Il muro di silenzio doveva avere grosse capacità di rigenerazione, perché Zexion tornò in un istante a trincerarvisi dietro. Non ci fu verso di cavargli un'altra sillaba di bocca, né riuscii a capire le origini di quell'affermazione preoccupante.
“Non devi avere paura di questo” dissi “Quando impariamo una cosa nuova all'inizio è normale non capirci nulla. Pensa che la prima volta che ho disegnato un cerchio alchemico ho fatto saltare in aria il fienile dei vicini. Per mia fortuna erano convinti che fosse stato un fulmine.” sorrisi al ricordo, e questo, più che le mie parole, sembrò rassicurare almeno un po' Zexion. Il suo viso si rilassò, anche se non smise di tenere la testa china sui fogli.
“Per adesso lasciamo stare.” decisi, chiudendo il libro con delicatezza. “Hai già imparato tante cose oggi. Sei stato bravo. Facciamo una pausa, ti va? E' quasi ora di pranzo.”
Nelle cucine quel giorno era di turno Lexaeus, che tra nubi di vapore e macchie di unto mi rivelò che lui e Xaldin avevano scoperto in un altro mondo una ricetta speciale per cucinare le patate, un autentico piacere dei sensi a sentir loro, e avevano deciso a tutti i costi di riprodurla. A giudicare dalle condizioni disastrose della cucina l'uomo doveva aver combattuto una battaglia durissima per piegare al proprio volere la materia cibo. In compenso le “patatine fritte”, come Lexaeus le chiamava, emanavano un profumo davvero invitante. Pareva uno di quei piatti per cui i bambini vanno pazzi.
E Zexion ne andò pazzo, con mio grande sollievo. Mangiava sempre tutto quello che gli davo, ma per la prima volta da quando lo conoscevo lo vidi leccarsi le dita con gusto. Ero così soddisfatto che gli lasciai anche la mia porzione.
Le sorprese non erano finite. Poco dopo Zexion si alzò e trotterellò nella mia direzione, un po' incerto; sotto la fronte corrugata sembrava soppesare il da farsi, come se non riuscisse a decidersi tra due alternative. Io non mi mossi, cercai per quel che potevo di non cambiare espressione. Con la coda dell'occhio lo osservavo, curioso.
Alla fine parve prendere una decisione e si mosse verso di me, porgendomi una mano. Un pugno di patatine fritte.
“Sono per me?”
Annuì. “Anche a te piacciono.”
Sbalordito accettai il piccolo dono. In effetti mi facevano venire l'acquolina in bocca. E avevo ancora fame.
“Grazie.”
E' intelligente. Spaventato a morte da fantasmi senza nome, ma intelligente, e sveglio anche. Ha un buono spirito di osservazione. Sembra quasi che mi legga nel pensiero.
Se solo avessi capito come sconfiggere le paure ignote che lo assalivano ad ogni passo forse sarei riuscito a fare dei progressi con lui.
Ebbi fortuna. Quella stessa notte un tassello della soluzione mi capitò fortuitamente tra le mani.
Andai a dormire tardi, come al solito. Il responsabile stavolta era un manuale di biochimica proveniente da uno di quei mondi benedetti in cui la scienza è onorata come disciplina seria e degna di rispetto. Come ogni altra volta mi persi tra le pagine e riemersi solo molte ore dopo, un po' spaesato e con un leggero mal di testa, in un laboratorio completamente buio tranne per la piccola luce che brillava debolmente sulla mia scrivania. Mi stiracchiai le membra intorpidite nel silenzio più assoluto. Zexion probabilmente dormiva già da un pezzo, anche se non ricordavo di averlo messo a letto.
Tornai in camera strascicando i piedi, ansioso di gettarmi anch'io nell'abbraccio di Morfeo. Per poco non mi prese un infarto quando notai la sagoma scura appollaiata sul mio letto.
“Zexion!” urlai, forse un po' troppo forte, mentre accendevo la luce. I battiti del mio cuore si calmarono: era soltanto lui, seduto sul bordo del letto con le spalle chine come al solito. Zexion stranamente non sussultò né parve spaventato; si limitò a girare la testa al mio ingresso e a rivolgere lo sguardo verso di me.
Aveva gli occhi rossi e le guance rigate di lacrime silenziose.
“Che è successo?”
Dopo i primi secondi di silenzio capii che non mi avrebbe risposto. Si era di nuovo ritirato in quel luogo di se stesso dove non potevo raggiungerlo.
Dopo un attimo di esitazione mi sedetti accanto a lui. “Un brutto sogno?” chiesi, pur sapendo che sarebbe stato inutile. Non possedevo la chiave di accesso al suo rifugio segreto: tutto ciò che potevo fare era bussare, gridare nella vana speranza che mi aprisse.
“Qualsiasi cosa tu abbia sognato non devi aver paura. Non sono cose vere. Qui non c'è nessun pericolo.” Parole vuote che avevo già ripetuto tante volte. No, la chiave non era quella.
Forse non ce n'era neppure una.
Zexion continuava a piangere. Sempre in silenzio, senza singhiozzare o tirare su col naso. Solo una lunga fila di lacrime che scivolavano piano lungo le guance e cadevano sul copriletto morbido senza disturbare nessuno. Avrei potuto mettermi a dormire e non accorgermi di niente.
Gli posai una mano sulla spalla, con delicatezza. Non mi respinse. Per la verità non ero neppure sicuro che si fosse accorto di me.
Allora lo presi in braccio. Gli accarezzai i capelli, lo cullai dolcemente cercando di rassicurarlo. Subito lo sentii rilassarsi tra le mie braccia. Mi si rannicchiò contro, posando la testa nell'incavo della mia spalla, entrambe le mani strette intorno alla mia tunica.
Continuai ad accarezzarlo finché non smise di piangere e il suo respiro ritornò regolare. Con una manina mi afferrò un ciuffo di capelli e si mise a giocarci, passandoselo su tutta la faccia e vicino al naso, come se cercasse di annusarlo.
“Va meglio?”
“Sì” rispose, e per un attimo fui certo di intravedere l'ombra di un sorriso increspargli le labbra.
Pochi minuti dopo si addormentò, i miei capelli ancora stretti tra le dita.
Che stupido ero stato. Avevo pensato di poterlo calmare con le parole e i discorsi logici quando la chiave di volta stava da tutt'altra parte.
“Tu non hai bisogno di uno come me, vero?” sussurrai piano, parlando alla notte e alle ombre. “Non ti serve uno scienziato che ti insegni a leggere o a fare i conti. Non ti serve uno studioso che ha rinunciato a una casa e una famiglia per inseguire i suoi sogni di conoscenza. Tu hai bisogno di qualcuno che ti voglia bene, che pensi solo a te e che ti protegga.”
Qualcuno che lo coccolasse e giocasse con lui, che gli leggesse le fiabe prima di andare a letto e lo risvegliasse al mattino con un bacio e una tazza di latte caldo. Qualcuno come una mamma.
“Io non so se sono capace di essere quel qualcuno.”
Con delicatezza lo adagiai sul letto e gli rimboccai la coperta. Nel sonno il suo viso era sereno; non ci sarebbero stati altri incubi a turbarlo quella notte.
“Però ci posso provare” dissi, scostandogli i capelli dagli occhi con un'ultima carezza.
“Almeno ci posso provare.”
La mattina dopo Zexion si svegliò di buon'ora, e quando tra uno sbadiglio e l'altro gli chiesi cosa aveva voglia di fare quel giorno mi stupì con la prontezza della sua risposta. E mi strappò un sorriso, anche.
“Voglio stare con te.”


Narratore: “Bene, e anche questa noia melensa è andata! La storia torna di nuovo in mio potere! Mi raccomando amici lettori, ricordate cosa vi ho detto all'inizio del capitolo... non deludetemi! Conto su di voi!”


“Signori e signore, buonasera!”
Un ronzio.
Un fastidioso ronzio nelle sue orecchie.
“Un bell’applauso, gentile pubblico, un bell’applauso … chi può farlo, ovviamente …”
Una sola luce fendette il suo campo visivo. Apparve dal nulla, probabilmente dall’alto, ed illuminò la sagoma nera in piedi al centro della caverna. Mara aprì gli occhi, ed in quel momento le narici si riempirono di nuovo del profumo dolciastro dei fiori: ma in quel momento di quei fiori non rimaneva altro che un tappeto di steli e petali appassiti, un velo marcescente che tappezzava tutta la grotta. Cercò di non svenire una seconda volta, sentendo il cerchio alla testa farsi sempre più pesante.
Quando cercò di muoversi si accorse di avere le mani immobilizzate. Le braccia erano tese in alto, legate a qualcosa che non riusciva a vedere, quasi certamente di metallo; provò a muovere le dita, ma subito un dolore la attraversò ed arrivò fino alla punta dei piedi. Alla sua destra vide Gandalf immobilizzato alla stessa maniera, ed oltre c’erano le sagome di Aragorn ed Eomer, il primo legato un po’ più in alto del secondo. Il ramingo disse qualcosa in nanico, una parola che aveva tutta l’aria di essere un insulto al ramo femminile della famiglia del loro nemico.
“Signori miei, che modi!”. La persona che li aveva colti di sorpresa, quello che si era fatto chiamare Killvearn, scivolò al centro del fascio di luce e fece un inchino verso di loro. “E io che mi ero premurato di fornirvi un piccolo intrattenimento musicale prima dell’inizio dello spettacolo …”
Ancora la stessa sensazione di vuoto. Mara estese i propri poteri lungo tutta quella figura tetra, ma per la seconda volta un mantello di Vuoto lo protesse: l’unica creatura viva in quella stanza era lo strano mostriciattolo da un occhio solo che avevano incontrato poco prima. Ma lui …
C’era più vita in un droide protocollare.
Ma non c’era nemmeno la morte. La sua presenza era un lieve passo di elfo nella confusione di Coruscant all’ora di punta. Se aveva delle emozioni, queste strisciavano tra la paura, lo sconforto e la furia dei suoi amici. La creaturina camminò vicino allo stivale di Eomer, e per poco il cavaliere di Rohan non lo colpì in pieno petto con un calcio. Il loro carceriere nemmeno se ne accorse, perché iniziò ad armeggiare con un lungo drappo rosso che era steso accanto ai suoi piedi. Fu quando lo sollevò che la donna sentì mancare il respiro in gola.
“Lavok! Valygar!” disse, vedendo i suoi amici ancora feriti agitarsi per terra. “LIBERALI IMMEDIATAMENTE, MASCHERONE!”
“Oh, la pulzella fa la voce più grossa di tutti i cavalieri, eh? Sì, ti capisco, mia cara … vorresti essere tu al posto loro, vero? Vorresti avere tu la fortuna di essere l’assistente del mio grandissimo show? Già, capisco la frustrazione, un vecchio mago patetico ed uno stupido ranger sono ben poca cosa davanti alla tua bellezza … se a me ne infischiasse qualcosa delle tue forme generose, s’intende …”
“Vai a farti fottere!”
“Oh, Killvearn, ha osato insultarti, Piro Piroro!” giuro che se mi libero strangolo prima la gnomo e poi il suo padrone, e se Aragorn prova a fermarmi con la scusa che in fondo sono poveri esseri viventi strangolo pure lui, pensò, rendendosi conto proprio in quel momento che la spada laser non era al suo fianco. Né Aragorn e Gandalf avevano vicino le loro armi. “E tu che pensavi di tenerla per il Gran Finale! Io la incenerirei subito per la sua insolenza, Piro Piro!”
“Suvvia, Piroro! Sai che adoro sentire i commenti del mio pubblico. Dopotutto quale artista non ama sentirsi vicino ai suoi spettatori? Sono le loro parole che mi danno la spinta per esibire tutta la mia creatività! In fondo cosa sarei io senza le loro paure? È proprio lì, è quell’odio genuino, è il terrore nei loro occhi la vera Musa della mia arte”. Mara vide gli occhi dipinti sulla maschera posarsi proprio su di lei. “Odiami, bambolina. Temimi, e metterò su per te ed i tuoi amici uno spettacolo indimenticabile!”
Batté le mani tre volte, ed i corpi di Valygar e Lavok si sollevarono da terra; il mago cercò di fare qualcosa, perché dalle sue dita partì una scarica di scintille contro il misterioso nemico, ma queste si fermarono a mezz’aria, si mossero lentamente verso la mano guantata di nero e poi scomparvero. Lavok mormorò un secondo incantesimo inframezzato ad un insulto, ma stavolta la scintilla schizzò via dal suo controllo ed investì il nipote sulla coscia, che mandò un gemito. “Signori, per favore, vi ricordo che il mio è un one-man show. Non amo i comprimari …” disse. Con un gesto della mano avvicinò a sé il corpo del mago, costringendolo a fluttuare a mezz’aria sdraiato, con il petto proprio all’altezza delle dita. “Specie se questi fastidiosi comprimari non me la contano giusta. Qui dentro ci deve essere solo una persona avvolta nel mistero, e questa sono io. Non credete che altri segreti possano rovinare la purezza della mia performance?”
Tornò di nuovo verso la tela rossa, e da sotto ne tirò fuori un cappello lungo, nero, con un cilindro grande quanto una testa umana; incurante della raffica di insulti dei suoi prigionieri camminò davanti a loro ondeggiando la testa in maniera quasi soddisfatta. Fece sfilare il cappello davanti ai loro occhi, scuotendolo lungo la sommità. “Non c’è trucco, non c’è inganno, il cilindro è vuoto tutto l’anno!”.
Uno sputo atterrò sulla sua maschera, ma quello non vi fece caso. “Non c’è nessun membro del pubblico che vuole aiutarmi? Nessuno nessuno nessuno? Nemmeno una persona che abbia il coraggio di toccare il fondo del mio cappello magico? Oh, che sbadato! Dovreste avere le mani libere per farlo, no?”
“Killvearn, Killvearn, posso farlo io? Posso? Posso? È sempre un’emozione aiutarti sul palco!”
“E va bene, Piroro, visto che i nostri amici proprio non possono farlo lascerò a te l’onore di pescare dal mio cappello magico. Ma vedi di non farci l’abitudine, perché non mi piace trascurare troppo i miei ospiti d’onore”.
“Ma certo, Killvearn! Però sto davvero morendo di curiosità, fammi provare!” disse l’esserino da un occhio solo. Saltò sulla spalla del suo padrone, rivolse loro un saluto inquietante e poi si chinò verso il cappello a cilindro. Il suo braccio era troppo corto per arrivare al fondo, quindi si spinse un po’ e per poco non vi cadde dentro. Mara stava quasi per utilizzare il Lato Oscuro e spingere quel tetro pagliaccio contro una parete quando rimase senza fiato. “Ho trovato qualcosa, Killvearn! E mi sembra bello grosso!”
Piroro fece forza con entrambe le braccia, e la sua pelle verdognola diventò quasi rossa per lo sforzo. Stretta tra le esili mani comparve una luce argentata che tutti loro conoscevano. L’elsa di Anduril, la nobile spada di Aragorn, comparve dalle profondità del cilindro. Mara guardò prima il giocoso assistente e poi il tetro prestigiatore, per poi passare alla lunghissima lama che lentamente uscì dal cappello. Ancora una volta le sue percezioni erano mute, oltre all’evidente divertimento del mostriciattolo; vi era sicuramente qualche incantesimo all’opera, perché nessun doppio fondo avrebbe potuto nascondere un oggetto così grande nel cappello. Ma la Forza non ne percepiva, né lei conosceva incantesimi in grado di rimpicciolire oggetti a quel livello o dislocarli senza apparente dispendio di energie. Se la famiglia demoniaca dispone di questi poteri sono ancora più pericolosi di quello che temevamo.
“Tsk, tutta scena e poca sostanza!” disse Aragorn alla sua destra. Non riusciva a vederlo in viso, ma qualcosa le diceva che aveva sfoderato il suo leggendario sorriso sfrontato “Per carità, un trucco molto utile, ma adesso che ci hai fatto vedere questo bel gioco di prestigio che ne dici di mettere giù la mia spada e di liberare i nostri amici?”
“Ma certo che ho intenzione di liberare i vostri amici!” fece il prestigiatore, prendendo tra le mani l’arma appena estratta dal suo assistente. La soppesò con i gesti di uno spadaccino esperto, la ruotò a destra ed a sinistra e poi la sollevò in alto, verso la luce: la lama brillò ma in maniera innaturale, come se si rifiutasse di rimanere nelle mani di quella figura. “Che filo stupendo ha questa spada! Credo che me la terrò, dopotutto me ne avete distrutte ben tre! Ma tornando al discorso dei vostri amici … è ovvio che li libererò! Non ho certo tempo di portarmele dietro a vita, sapete? Portarmi due parassiti umani alla corte del Grande Satana, quello sì che mi renderebbe una vita difficile!”
Si diresse verso Lavok, Anduril in pugno. Con un rapido fendente stracciò la tunica dalle spalle alla cintura, esponendo il petto. “Però sta a voi velocizzare le … come potremmo chiamarle … pratiche per la loro liberazione”.
“Cosa vuoi sapere?” borbottò Gandalf. “Non abbiamo segreti. O comunque non così grandi da valere la vita di un amico”.
“Oh, adoro la gente con spirito collaborativo. Chi siete? Cosa fate? Dove andate? Insomma, la solita prassi …”
Lo stregone guardò gli altri per avere conferma. Poi raccontò tutto. Lo fece come se non si trovasse legato in una cripta con un prestigiatore sbucato dagli incubi, ma in modo rilassato e sorridente, come avrebbe fatto in una taverna davanti ad un boccale di birra. Non c’era alcuna vergogna nell’essere Ribelli. Né nel voler mettere i bastoni tra le ruote all’Imperatore. Quando parlò del loro sogno di proteggere i civili umani di quel mondo aveva le lacrime agli occhi –anche se evitò di specificare che i guaritori elfici erano ancora nel villaggio di Amer- e cercò persino di convincere il carceriere ad unirsi alla loro causa. “Il vostro Grande Satana ha rinunciato ad allearsi con noi, ma non per questo volteremo le spalle a questo pianeta” concluse. “Siamo qui solo per aiutare le persone che i demoni hanno lasciato indietro. Non vogliamo essere una minaccia per nessuno, e non stiamo mentendo. Ora possiamo andare?”
Killvearn lasciò Anduril fluttuare in aria, fece un piccolo inchino ed applaudì. Prima furono due battiti delle mani distinti, secchi, poi si fecero più intensi. Lo gnomo, vedendo il suo padrone, corse ad imitarlo con uno scrosciare nervoso e rapido delle piccole dita, ed in quel momento l’intera caverna di riempì di un suono secco, sempre più forte, come se migliaia di mani invisibili stessero applaudendo insieme al prestigiatore; l’aria della Cripta Nera iniziò a scintillare, e per qualche secondo le sembrò di vedere delle luci, delle sedie e delle figure riflettersi nelle pareti, come uno specchio di un universo remoto. Come era venuta, la scena scomparve; rimase solo l’applauso di Killvearn, che aveva un rumore quasi metallico. “Come direbbero sulla Terra I … Wonderful! Assolutamente wonderful! C’è il pathos, c’è l’umanità, ci sono i sentimenti, c’è la paura di perdere degli amici. Il palcoscenico è perfetto, il presentatore è divino! Erano anni che non mettevamo su uno spettacolo del genere, dico bene Piroro?”
Ma cosa …?
“Verissimo, Killvearn! Dopo un discorso simile non puoi dare loro meno del tuo meglio!”
“È ovvio, amico mio! Mi sento in dovere morale di esprimere al massimo la mia fantasia! Avrei tanto voluto presentare questo spettacolo al Cavaliere del Drago, ma credo che i nostri eroici ospiti umani meritino almeno una preview! Su, passami la spada ed iniziamo il lavoro!”
Piroro gli fece scivolare l’elsa nella mano, e appoggiò la lama all’altezza delle costole di Lavok.
“EHI, AVEVI DETTO CHE LI AVRESTI LASCIATI ANDARE! CHE VUOI FARE?”
“Quello che ho detto, lo mantengo sempre, signorina! Ho promesso che li avrei liberati, e quale liberazione migliore della morte? Quale modo migliore per sfuggire dalle catene dell’umana sofferenza e librarsi al di sopra della banalità della vita? La vita è quotidianità, noia, guerra e schiavitù” disse, passandosi la lama davanti alla bocca dipinta. “È la morte il vero show. Anni ed anni di vita che svaniscono così, puff, ad un mio schiocco delle dita, interi castelli di storia che trovano la massima realizzazione proprio qui, nell’attimo effimero dove io regno sovrano. Non una morte, non una fine qualsiasi, ma La morte, quella con la M maiuscola, unica, sola … indimenticabile …”
C’era qualcosa di agghiacciante nel tono della sua voce. Nel silenzio che si era appena formato. Nel fatto che nessuno di loro riuscisse a rispondergli. Mara provò a parlare, ma sentì un violento groppo alla gola, gli occhi stranamente troppo umidi.
“Prendiamo questo mago. Quanti anni avrà studiato? Tanti, a giudicare da questi capelli un po’ bianchi …” continuò il prestigiatore, affondando una mano nella testa di Lavok e sollevando un ciuffo bianco. Dall’altra parte della caverna il ranger mormorò qualcosa, ma le sue parole le giunsero ovattate, come se l’unica voce che riuscisse a raggiungerla fosse quella del suo aguzzino. “Posso immaginare i sacrifici, le nottate insonni, gli insuccessi e poi i successi. E ad un certo punto cosa succede? Un incidente, una spada nel petto, un laser vagante o semplicemente il vecchio cuore un giorno decide di essere troppo stanco per studiare e tac, si ferma. E che disdetta, allora! A cosa sono serviti tutti quei sacrifici? A che pro aver studiato, amato, dedicato del tempo a qualcuno? La morte vanifica comunque tutto questo: e nessuno può scappare, nemmeno il Grande Satana o il potente Baran, nemmeno l’Imperatore, o Mistobaan, e tutti quei pagliacci che gridano fuoco, sangue, vendetta ed onore! Ecco perché la morte non può essere banale. Va ricordata in eterno, deve essere impressa a fuoco nelle vostre menti! Torniamo al vostro amico mago …”

Narratore: “Killvearn dovrebbe approfondire la sua conoscenza con Larxen. Sono sicuro che sarebbero una gran bella coppia”
Registe: “Sì, e poi il rating di questa serie andrebbe sul rosso spinto e riceveremmo telefonate minatorie dal Vaticano e dal Comitato Genitori …”


La lama di Anduril rifletteva inquietanti raggi di rosso.
“Potrei piantargli questa bella spada proprio qui, al centro dell’addome. Un ben tripudio di organi, sangue, coreografia indiscutibile. Ma poi? Tutto qui? Dove sarebbe l’arte? Sarei solo un macellaio, non molto diverso dai soldati che in guerra uccidono i nemici. Cosa direbbero i miei fan? Invece possiamo fare un’altra bella cosa …”
Lavok cercò di resistere quando la lama disegnò un taglio sottile a metà del petto, che diventò una sottile linea rossa che lo attraversava da un fianco all’altro. Un rivolo di sangue scivolò oltre quello che rimaneva dei vestiti; quando cadde su un fiore, quello riprese vita. Poi Killvearn mise la spada di piatto, a livello della ferita. Quando con essa sollevò la pelle, tirandola con le mani, l’urlo del mago arrivò alle loro orecchie nonostante l’incantesimo; Mara reagì, spingendo il Lato Oscuro contro il nemico, al diavolo la concentrazione, la calma e la pazienza. Abbatté i suoi poteri sulla mano della creatura, cercando di fargli perdere la presa sulla spada, investendolo con tutta la violenza che aveva seppellito in quei pochi minuti.
Provaci un’altra volta, bastardo, e …
Non successe nulla. Ancora una volta le sembrò di sfondare una porta aperta, la marea dei suoi poteri che si scagliava contro il Vuoto. Si contorse per lo spasmo, ferendosi i polsi, ma continuò a spingere tutte le energie che trovava contro quella creatura. Lui sembrò accorgersene, perché sollevò la testa nella sua direzione; uno scintillio di luce illuminò la bocca dipinta, come un sorriso venuto da un altro mondo. Poi tirò la pelle con ancora più forza, trasformando Lavok in una cascata di sangue ed urla inumane. “Dammi tutto il tuo odio, fanciulla! Non c’è niente di meglio per me! Piroro?”
“Sì, sublime Killvearn?”
“Se scuoiassi questo mago così com’è credo che durerebbe troppo poco … Morirebbe prima di arrivare alle gambe, sai che noia! Guariscilo un po’, su, non farti pregare! E se riuscirò a levargli tutta, ma proprio tutta la pelle ti farò vedere un numero che mi è venuto in mente sul momento!”
“E quale sarebbe? Quale sarebbe, Piro Piroro?”
“Abbiamo uno zio. Ed un nipote. Affinità sanguigna superiore alla media. Potremmo prendere anche la pelle del giovane ranger e scambiarle di corpo, non ti pare? Così potremmo vedere se attecchiscono bene come si dice spesso …”
Spectacularly spectacular, Killvearn! Solo tu puoi pensare ad una cosa del genere, sei il migliore, sei su-per-la-ti-vo, Piro Piroro!”
Tra un lamento e l’altro, Lavok riuscì a sollevare la testa. “Prova ad avvicinarti a Valygar e giuro che ti impalo su due piedi, bastardo!”
“Oh, la frase giusta al momento giusto, proprio da vero eroe! Un vero peccato che …”
Un’esplosione coprì le sue ultime parole. La luce tremolò, illuminò per qualche istante la spada del ramingo e poi si spense insieme ad urlo strozzato del mago torturato. Lo gnomo gridò qualcosa, e nel buio generale Mara lo sentì cadere, inciampare ed iniziare a correre.
Una luce calda venne dalla parte opposta della caverna, nel punto dove loro stessi erano entrati. La via era di nuovo aperta, e qualcuno si trovava all’ingresso con un’enorme Palla di Fuoco nelle mani.
“Ciao Killvearn! È qui la festa?”


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Fonte della fanart a inizio capitolo: http://www.deviantart.com/art/Even-Ienzo-Kingdom-Hearts-152893400

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 - In nome del padre ***


Capitolo 15 - In nome del padre





Hyunkel


La creatura è completa. Mancano solo alcuni innesti secondari, ma il lavoro si può dire terminato.
Se tutto va bene, tra tre giorni aprirà gli occhi.
Guardami dal Regno di Anubi, Seymour, e schiatta d’invidia! Adesso chi è il più grande alchimista del mondo?
Dai diari di Aknadin, Grande Sacerdote sotto il regno del Faraone Atem, ottavo del suo nome.




Erano due ore che non si muoveva. Stava lì, immobile, appoggiato alla balaustra del Baan Palace, con lo sguardo spento e fisso verso un punto imprecisato dell’orizzonte.
Hadler si strinse nel mantello e sospirò.
Quelli erano gli ultimi raggi del tramonto, e la temperatura si era abbassata. Ma Hyunkel non sembrava accorgersene, fermo dov’era con le braccia incrociate, esposto al vento freddo senza nemmeno l’armatura indosso. In una mano stringeva la stella di carta.
Si era chiuso nel suo mutismo da quando erano tornati dalla battaglia: Hadler si era fatto carico di riportare al Grande Satana della sconfitta, risparmiando al suo compagno la seconda umiliazione della giornata. Quando era rientrato nelle vasche di guarigione i demoni gli avevano raccontato che era uscito senza proferire parola e lo aveva ritrovato lì, su una delle balconate meno utilizzate del Baan Palace, lontano dagli occhi di tutti. Il demone si avvicinò, ma non sapeva cosa dire. Le parole non erano mai state il suo forte. Certo, avrebbe potuto dirgli che Bartosh era stato un guerriero esemplare, che era caduto per la causa del Grande Satana e che questo era il massimo dell’onore, ma … sapeva che quelle parole sarebbero cadute nel vuoto di quello sguardo fisso, spento.
“Aveva ragione. Aveva sempre avuto ragione …”
La voce dell’amico era ridotta ad un soffio. Camminò accanto a lui, osservando il vento che scompigliava le ciocche di capelli azzurri, nascondendogli gli occhi.
“Lui aveva capito che si trattava di una trappola. Mi aveva chiesto di non farmi coinvolgere in un duello, che gli umani erano privi di onore … e io sono stato così stupido da non ascoltarlo”.
“Adesso non pensare che …”
“Lo penso. Sai quali sono state le ultime parole che gli ho detto?” disse, mentre la mano libera piantava le unghie nel marmo fino a sanguinare. “Gli ho detto che non era lui il comandante del Fushikidan”.
Cadde nel suo silenzio. Abbassò la testa, facendola quasi sparire tra le spalle robuste.
Hadler lo osservò, poi rivolse gli occhi altrove per non umiliare ancora il suo dolore. Avevano subito fin troppe perdite: i soldati che avevano portato su Coruscant rappresentavano oltre la metà della potenza bellica del Fushikidan, e Bartosh aveva scelto per quella battaglia solo i migliori soldati delle sue legioni. Il giovane umano stava elaborando il suo lutto, ma Hadler era il comandante di tutti i corpi d’armata, ed a lui spettava elaborare i danni: l’armata non-morta era tornata con meno di mille creature, stanca, debole, umiliata. E priva di un capo.
Non era un mistero che quelle creature riconoscessero in Bartosh, e solo in Bartosh, la loro guida. Rispettavano Hyunkel, ma era l’enorme scheletro dalle sei braccia quello che li univa, li spronava, li supportava con la sua voce gracchiante e l’intuito che lo aveva reso uno dei più grandi strateghi del loro mondo. Combattevano per la magia del Grande Satana, non per il Grande Satana. Una distinzione che il vecchio guerriero gli aveva ripetuto più di una volta, e che adesso gli rimbombava nella mente.
Non potevano permettersi il lusso di non avere la non-morte al loro fianco. E Hyunkel doveva tenere salde le loro fila, soprattutto dopo la clamorosa sconfitta. Il Grande Satana aveva puntualizzato questo aspetto, ma il giovane demone non se la sentiva di parlarne con l’amico. O almeno, non in quel momento.
“Non sarei mai arrivato quassù se non fosse stato per lui. Anzi, credo proprio che non sarei arrivato da nessuna parte senza di lui …” sussurrò il ragazzo, rialzandosi in piedi. I suoi occhi adesso erano puntati sulla stella di carta dal nastro azzurro. “In fondo cos’ero? Un bambino umano di pochi mesi con dei genitori così vigliacchi ed egoisti da lasciarlo indietro quando la non-morte si era presentata alle porte del loro misero, sporco e sudicio villaggio! Un fagotto rimasto in una catapecchia, quando invece tutto l’oro, l’argento ed i viveri erano stati portati in salvo! Ecco cos’ero, Hadler. ECCO COS’ERO!”
L’urlo risuonò per tutta la balconata. Fu seguito da un’eco debole, che fece scivolare il suono della voce tra una torre e l’altra.
“È stato lui a trovarmi lì dentro. Avevo una febbre così alta che sarei morto lo stesso, gli sarebbe bastato chiamare il primo necromante della sua legione e mi avrebbe trasformato in un minuscolo scheletro. Ma non l’ha fatto. Era un non-morto, ma per me scelse la vita … Una vita vera, una vita fatta di carne e sangue, una vita come lui la ricordava. Mi ha dato tutto. Persino il suo posto. E guarda come l’ho ripagato!”
Portò la stella di carta al viso, guardando la decorazione con uno sguardo perso. La decorazione aveva una forma infantile, eppure le venature brune delle tante battaglie la rendevano gloriosa come una medaglia. Il demone la osservò, ricordando la premura del generale dalle sei braccia nel proteggere un oggetto così effimero; lo rivide dischiudere le mani, riportando alla luce il suo prezioso tesoro dalle fiamme del mago imperiale. Invece in quel momento era lì, tra le dita di Hyunkel, quasi fuori posto nelle mani del suo stesso creatore. “Sei stata creata per lui” mormorò il ragazzo mentre le dita la sollevavano per il nastro. “Non c’è motivo perché tu resti qui. Torna da mio padre …”
Sospirò un’ultima volta, poi lasciò la presa. Il vento freddo catturò la minuscola decorazione e la portò verso l’alto. Hadler la seguì con gli occhi, guardando la stella danzare tra le torri senza mai toccarle, trascinata dall’aria come in uno strano ballo composto di inchini, toccate e fughe. Scomparve nella sera alle loro spalle, diretta verso le stelle della volta celeste.
“In un solo giorno ho deluso mio padre, i miei soldati ed il mio signore. Non ho più il diritto di stare in questo posto, Hadler”.
“Fino a prova contraria sono IO a decidere chi ha il diritto a stare quassù, generale Hyunkel”. Si voltarono verso l’origine della voce, e l’attimo dopo piegarono il ginocchio.
Il Grande Satana era apparso all’ingresso della balconata, una figura dalle vesti color porpora che si stagliava nel buio del corridoio; le luci del tramonto creavano uno strano effetto sulla stoffa pesante, illuminandola come se fosse avvolta dalle fiamme. Il demone anziano camminò verso di loro, ed il giovane demone vide il suo compagno tremare. Aveva i pugni stretti, quasi conficcati nel pavimento di marmo.
“Rialzatevi” comandò il Grande Satana. Hadler obbedì, ma Hyunkel non si mosse.
Il demone trattenne istintivamente il respiro.
“Generale Hyunkel, non sono abituato a ripetere due volte lo stesso ordine”.
Ma il ragazzo si curvò ancora di più, premendo la fronte contro il pavimento. “Non ne sono degno, mio signore. Mi ordini di gettarmi sulla mia spada, e la libererò della presenza di un sporco umano come me”.
“Se avessi voluto punirti per i tuoi errori, Generale Hyunkel, non ti avrei nemmeno permesso di mettere piede su questo palazzo. Se sei in ginocchio per onore, rialzati. Se lo sei per vigliaccheria o per scappare dai tuoi errori, vattene immediatamente da qui e non incrociare mai più la mia persona”.
Hadler cosa avesse fatto di sbagliato negli ultimi quattrocento o cinquecento anni per trovarsi in quella scomoda situazione. Lo sguardo del suo signore era granitico, immobile ed antico come quello delle statue dei demoni maggiori del passato, ed i suoi occhi scuri non tradivano altro che una profonda severità. I secondi di attesa trascorsero insieme ai battiti dei loro cuori. Gli ultimi raggi del sole svanirono dietro ai monti, sparendo con le lunghe ombre dei colli e gettando su tutto il castello fluttuante un manto scuro, illuminato solo dalle candele, dalle stelle e dal riflesso del marmo bianco. Fu in quel momento che Hyunkel si sollevò. Rimase immobile, in piedi davanti al Grande Satana, ma i suoi occhi non abbandonarono il pavimento.
“Molto bene, Generale Hyunkel” disse l’altro. Nessuna espressione solcava il suo viso. “Desidero conoscere le cause della disfatta del Fushikidan; molti giovani, valorosi e promettenti demoni sono caduti in questa battaglia, ed è mio preciso dovere spiegare ai loro cari perché non sono tornati vivi e carichi di gloria, mentre giacciono su un pianeta umano senza alcuna sepoltura”.
Hadler aveva fatto rapporto al suo signore un’ora prima. Al demone maggiore non interessava affatto un altro resoconto della battaglia; aveva fatto di tutto per evitare al suo amico quell’umiliazione, ma evidentemente il sovrano era di diversa idea. Il comandante dei non-morti respirò a fondo, poi rispose. “Ho peccato di presunzione, Grande Satana. Sono stato incosciente, ed ho agito per leggerezza. Sono stato messo in guardia dai pericoli degli umani da un soldato più esperto e valoroso di me, ma non ho ascoltato le sue parole. Sono stato superbo ed arrogante, proprio come il viscido umano che sono! Quando dovevo essere saldo, la mia natura inferiore è venuta meno. Questa è la mia colpa”.
“Invero, la tua natura è difettosa. Ma non è stata quella a condurti alla disfatta”.
Il demone anziano si mosse. Con un unico, fluido passo superò la distanza tra lui e Hyunkel. Il giovane non si mosse, continuando a fissare il pavimento; i suoi occhi erano nascosti sotto la coltre di capelli azzurri, e non si levarono nemmeno all’arrivo del sovrano. Una folata di vento scompigliò la barba bianca del Grande Satana. “Se cerchi qualcosa da accusare, accusa la tua giovinezza”.
“Ma io avrei dovuto …”
“Certo. Avresti dovuto. Ma non l’hai fatto. Credi che non conosca la fame di gloria? Il desiderio della giovinezza, la forza e la spregiudicatezza? La superbia di credersi migliori di tutti quei vecchi noiosi che ci impartiscono lezioni tirando fuori storie sull’esperienza, sulla pazienza, sulla tenacia? Il vento nei capelli, la magia nel petto, il corpo ed il sangue in fiamme? Li conosco molto bene, Generale Hyunkel. Molto più di quanto tu possa immaginare …”
Il suo sguardo abbandonò l’umano e si estese verso l’orizzonte. “Ma è dalla giovinezza che traiamo la forza. È dall’iniziativa, dall’intuizione, dal coraggio che prendiamo la spinta per andare avanti. I vecchi come me e Zaboera esistono per incanalarvi, consigliarvi, e soprattutto per evitare che voi giovani vi facciate troppo male. Se all’epoca avessi ascoltato il mio Grande Satana mi sarei evitato un livido o due …” disse quasi con un sorriso, portandosi la mano alla guancia sinistra. Per un attimo ad Hadler sembrò di intravedere qualcosa, cinque sottili segni rossi lungo la pelle chiara. “Ma non me ne pento. Tornando indietro commetterei lo stesso errore. Perché è sugli errori che si impara: non su quelli degli altri, quelli degli anziani che per noi sono solo racconti intorno al fuoco. Si impara sui propri errori, sulla propria pelle. E sul proprio dolore. Se imparerai qualcosa dalla tua sconfitta, giovane Hyunkel, allora diventerai davvero il grande guerriero che Bartosh sognava. Il grande guerriero in cui io ho creduto, facendoti entrare nella mia corte insultando l’onore di tutti gli altri demoni”.
Hadler vide la mano del suo amico sollevarsi velocemente e cancellare una lacrima. Cercò di farlo mentre il demone maggiore aveva lo sguardo fisso lungo l’orizzonte, ma non bastò ad ingannarlo. “Non sono qui per vederti piangere, generale Hyunkel. Sono qui perché voglio sapere chi ho di fronte. Non posso scendere in guerra senza sapere chi combatterà al mio fianco”.
Il ragazzo si voltò. Per la seconda volta cadde in ginocchio, ma lo fece in modo preciso, severo, senza alcuna esitazione. “Il Fushikidan combatterà per lei, Grande Satana. Se lei lo vorrà, lo guiderò di persona in capo al mondo. Non posso lasciare i miei soldati senza vendetta!”
“Ed io una vendetta vi concederò”.
Portò una mano al di sotto della tunica, e ne estrasse un oggetto che brillava di luce propria, quasi come fosse un minuscolo sole; il demone minore si coprì gli occhi per qualche istante, e quando li riaprì vide una scatolina dorata nel palmo della mano del suo signore. Il demone anziano la aprì tamburellando le dita sul coperchio, e quello si aprì di scatto senza fare alcun rumore: piccoli frammenti d’oro fecero capolino, e quando allungò il collo per vederli meglio quelli si sollevarono dalla scatola e danzarono in aria guidati dalla magia del Grande Satana.
Solo quando gli scintillarono davanti agli occhi li riconobbe: erano i frammenti di un puzzle. Il puzzle d’oro che avevano sequestrato ai Membri dell’Organizzazione non troppo tempo prima; non li aveva mai osservati così da vicino, ma la loro presenza faceva vibrare ogni fibra del suo corpo, quasi come qualche strumento musicale che cercasse con violenza delle corde con cui sprigionare la propria musica. Il suo amico osservava i pezzi che galleggiavano in aria, illuminando il volto del demone maggiore, con uno sguardo pieno di stupore.
“Gli umani lo hanno chiamato Puzzle Millenario. All’epoca interrogai i Membri dell’Organizzazione, ma non avevano alcuna idea del potere di questo artefatto. Sono stato anche io molto perplesso sull’argomento fino a qualche giorno fa, quando ho capito una cosa importante. Completarlo vorrebbe dire liberare qualcosa. Qualcosa di strano, di magico, di cui non so assolutamente nulla, né posso dire che sia buono o malvagio, favorevole alla famiglia demoniaca o alleato della razza umana. Ma il suo potere … è grande. Non sono in grado di fare una stima, ma potrebbe essere anche superiore al mio. Capite bene che non è un oggetto che posso far manovrare con leggerezza agli esponenti della mia corte”. Guardò l’umano, e quello respirò a fondo, ipnotizzato dalle rigorose figure geometriche che scivolavano proprio davanti a lui.
Più potente del Grande Satana?
“Lo spirito che dorme in questo puzzle può portare la famiglia demoniaca alla vittoria come alla sconfitta; e io voglio la vittoria. Sarai tu a portarmela, generale Hyunkel?”
Il suo amico sollevò la testa. Se vi erano delle lacrime doveva averle sepolte dentro di sé, perché quando guardò il sovrano erano fermi come prima della battaglia di Coruscant; tese la mano verso i frammenti del puzzle, e quelli tornarono nella scatola d’oro. “Lei mi dia la sua benedizione e la mia vendetta. Io le porterò la vittoria, e le giuro sulla memoria di mio padre che non fallirò di nuovo”.
“Non giurare cose vane” lo rimproverò il demone maggiore. “Fallirai, generale Hyunkel. Fallirai perché sei un umano, fallirai perché sei giovane, fallirai perché non sei perfetto. Ma posso tollerare i fallimenti. La debolezza. Persino l’incompetenza. Ci sono solo due cose che non perdono, tienilo bene a mente: la slealtà e la menzogna”. Lo disse in tono severo, ed anche Hadler chinò il capo. Sapeva quando il suo sovrano voleva impartire una lezione. “Fallisci quanto vuoi, generale Hyunkel. Ma non mentirmi mai”.
“Io … non lo farò mai! Mai, sul mio onore!”
“Bartosh ti ha cresciuto bene. Sono onorato di averlo avuto come soldato” rispose il Grande Satana, ma un suo cenno del capo indicò che la conversazione era terminata. Hadler si scansò, liberando il passaggio per il suo sovrano, che attraversò la balconata con lo stesso passo autoritario e silenzioso come quando era venuto. Gli chiese di presentarsi nel salone Kisshu entro un’ora, ma il comandante non fece in tempo a rispondergli che la figura maestosa era già svanita, scivolata tra le ombre senza la minima traccia di incantesimo. Hadler guardò il punto dove era svanito, poi i suoi occhi tornarono su Hyunkel. Il suo viso brillava di un inconfondibile miscuglio di dedizione e coraggio. Qualunque pensiero stesse attraversando la sua mente, era molto importante per lui. Aveva fatto una promessa, ed era disposto a rischiare tutto per portarla a termine. Una simile passione riaccese di cuori di Hadler, che fissò con tanta attenzione il suo amico con la preziosa scatola che non si accorse della mano che stringeva la sua spalla. “Temevo che non saresti tornato. È dunque un segno della tua vittoria?”
Si voltò, e tra le ombre il diadema che incorniciava l’occhio del Cavaliere del Drago risplendeva come se fosse attraversato dalle fiamme. “Gli unici segni che ho portato, amico mio, sono un esercito di lividi ed una collezione di cicatrici. La tua adorata avversaria aveva deciso che voleva combattere contro il Cavaliere del Drago … e non le ho fornito nemmeno un po’ dell’intrattenimento che desiderava. Tu non eri al fronte?”
“Sì, ma il Grande Satana mi ha convocato di persona, e la battaglia volge ad una tregua momentanea. Pensavo di andare direttamente al salone delle udienze, ma ho preferito fare una piccola deviazione”. Passò una mano sotto il mantello scuro, e quando la mano ne riemerse il demone non poté fare a meno di trattenere il fiato. Anche nella semioscurità la stella di carta di Bartosh riusciva a gettare una luce diversa. La luce di una non-vita. “Stavo volando verso il Baan Palace quando me la sono ritrovata davanti, trascinata dal vento. Quindi sono venuto per riportartela” disse, porgendo l’oggetto a Hyunkel.
“Ti ringrazio, Baran. Ma questa apparteneva a mio padre. Il suo posto è con lui”.
“Apparteneva a tuo padre? Un motivo in più per tenerla” rispose il drago, fissandolo con quello sguardo severo che riusciva ad incenerire anche gli amici. Eppure in quel momento ad Hadler sembrò di sentire qualcosa, una lieve incrinatura nel tono di quella voce che faceva tremare da sola il cielo e la terra. “Sono cose che a un padre … fanno piacere”.
Nessuno dei due riuscì a rispondere qualcosa di sensato, perché l’attimo dopo Baran aveva dato loro le spalle, diretto all’uscita. Hadler lo osservò di nuovo, poi aspettò con calma la decisione dei giovane umano. Quello strinse la stella, la baciò e si strinse il nastro azzurro intorno al collo.

Registe: “Narratore, smettila di agitarti come una fangirl! E no, anche se sei incorporeo ti vietiamo di agitarti lo stesso!”
Narratore: “Mi sto solo riscaldando, mie Registe! Mi sto calando nella parte, sto studiando le movenze, i gesti, lo sguardo, sto preparando il mio spirito di pura voce ad entrare nel corpo che gli è stato predestinato dalla notte dei tempi, l’invincibile an …”
Registe: “… ma perché non ripassi la strada che porta al primo secchio dell’immondizia? Una volta lì è facile, devi solo entrarci dentro ed aspettare che passino i netturbini a portarti nel luogo che ti spetta!”
Narratore: “Registe ingrate e senza cuore … vi divertite davvero così tanto ad infrangere il cuore del vostro leale Narratore con i vostri stivali chiodati?”
Registe: “Gli stivali chiodati? Ma che idiozie stai dicendo?... come minimo con una schiacciasassi! Adesso fila a narrare o ti scordi qualunque apparizione nei prossimi capitoli!”


L’umano tremava.
Piccolo, pallido, con gli occhi sgranati dal terrore che andavano prima su Baran, poi sul Grande Satana, poi su di lui e poi di nuovo su Baran. Stava accucciato sul pavimento, più simile ad un cucciolo ferito che al viceammiraglio che diceva di essere; non vi era nemmeno bisogno di legarlo. Da quello che sapeva, quella patetica imitazione di un essere vivente era a capo di una delle astronavi nemiche che si era fermata per fare rifornimento lungo la riva meridionale del fiume Riin: le armature incantate del Maegudan, spinte dalla volontà del Grande Satana in persona, stavano pattugliando quell’area e avevano intercettato la nave mentre era ancora a terra, impedendole di ripartire. Quell’umano aveva implorato per la propria vita, ed il suo signore aveva deciso di prestargli ascolto.
Il demone minore sbuffò. Se fosse stato catturato, i suoi nemici avrebbero sentito solo le sue urla sotto tortura. Ma non si sarebbe abbassato a supplicare. Mai.
“Non sono il tipo da torturare i miei nemici, specie se sono creature insignificanti come te, viceammiraglio Kratas” disse il Grande Satana, palesemente scocciato dallo spettacolo indignitoso. “Né ho intenzione di dedicare a te il tempo prezioso che spetta alla famiglia demoniaca. Sono certo che tu non desideri farmi perdere tempo, giusto?”
“M-mai, Grande Satana. Ma la prego, la supplico, la imploro, NON MI DIA IN PASTO AI DRAGHI!” squittì il soldato, strisciando per terra fino a toccare il pavimento con la fronte. “LE DIRO TUTTO, ASSOLUTAMENTE TUTTO, MA NON MI UCCIDA, ABBIA PIETA, MI FACCIA TORNARE A CASA!”
Tra quanti secondi Baran lo incenerisce con lo sguardo?
Il Grande Satana tamburellò le dita sul trono, facendo molta attenzione che il ticchettio risuonasse proprio nella pausa di silenzio che si era creata dopo le grida del soldato. Un giovane attendente entrò con un bicchiere di limonata demoniaca, ed il sovrano la sorseggiò lentamente, lasciando che il silenzio ed il rumore del vento parlassero per lui più di mille parole. L’umano non si mosse, a parte lievi tremiti che scuotevano tutto il corpo e disonoravano la stessa divisa che indossava.
“Di norma non tollero i traditori. Sono esseri della peggior specie, creature che si macchiano del peccato più spregevole. Questo lo sai, vero, viceammiraglio Kratas?”
La testa dell’umano sprofondò sotto le spalle. Stava per squittire una seconda volta, ma il Grande Stana lo zittì sollevando il mignolo.
“Ma …” mormorò, scambiando con lui e con Baran uno sguardo eloquente. “Non posso restare a guardare mentre i miei eserciti combattono e muoiono per me e per la libertà di Mistobaan. E sono anche convinto che basterebbero alcuni … come dire … suggerimenti da parte tua per ammorbidire il mio giudizio nei tuoi confronti. A differenza del vostro tanto osannato Imperatore Palpatine, so anche quando essere magnanimo. E non ti chiederò di consegnarmi i tuoi superiori o di colpire alle spalle nessuno dei tuoi vecchi compagni. Sono certo che un paio di informazioni su come funziona il tuo Impero siano più che sufficienti, non trovi?”
Mi chiedo perché il Grande Satana si preoccupi tanto anche di lasciare un po’ di onore a questi vermi … se dipendesse da me … sospirò, ma interruppe il pensiero. Il discorso di poche ore fa sulla terrazza era ancora fresco nella sua mente. Aveva agito in modo fin troppo sconsiderato nella battaglia, ma quello non era il suo campo di scontri. Se il suo signore l’aveva convocato lì era per ascoltare. E imparare. Rivestiva un ruolo troppo delicato per affrontare certe scelte con leggerezza.
“M-m-ma lei davvero …?”
“Ti do la mia parola che ti risparmierò la vita in cambio della tua collaborazione. O la mia parola non è sufficiente, umano?”
Hadler vide che anche il Cavaliere del Drago traboccava di sdegno al sentire la sacra parola del signore della famiglia demoniaca legarsi ad un umano. Con la differenza che Baran non fulminò con lo sguardo solo il vile viceammiraglio, ma anche il suo stesso sovrano. “So che disapprovi, Baran, e che speravi di portare questo umano ai tuoi cuccioli per pranzo. Ma posso sopravvivere con la disapprovazione del Cavaliere del Drago. Non sarebbe nemmeno la prima volta, in fondo …” disse, con la voce ridotta ad un sussurro. “Non possiamo permetterci una seconda sconfitta”.
“I miei draghi non mangiano vermi” borbottò Baran, ed istintivamente l’umano di nome Kratas si allontanò da lui camminando carponi come un coniglio. Strisciò fino ai piedi della scala che conduceva al trono, toccando i gradini con la fronte.
“Munifico signore, potente Grande Satana, io la ringrazio di cuore! Chieda e sarò il suo umile servitore, farò tutto quello che lei dice, la sua parola sarà …”
“Non sei un mio servitore. Sei un mio prigioniero. E fai bene attenzione a ricordare la differenza. Adesso direi di iniziare la chiacchierata” rispose in modo altero, mentre il Cavaliere del Drago venne congedato con un cenno del capo. “Direi di partire dalle vostre risorse …”

Dall’alto della collina Axel poteva rivolgere lo sguardo per miglia e miglia, senza che nulla ostacolasse la vista. Erano le ultime luci dell’ennesimo giorno privo di senso, segnato solo dalla stanchezza, dalla paura e dalla fame. A ovest le sagome triangolari delle navi misteriose si erano ridotte a dei puntini, ma gli bastava vederle per ricadere nella sensazione d’angoscia che ancora gli stringeva le spalle.
Dopo un’ora di vagabondaggio si era ritrovato sull’orlo di un colle roccioso e stretto che scendeva a picco su un lago. La vista dell’acqua lo innervosiva, ma si sedette lo stesso su un masso asciugandosi il sudore con una mano ed osservando il paesaggio devastato. Sotto il sentiero appena percorso i flussi di un ruscello ricordavano il mormorio di persone vive, e alcuni piccoli uccelli grigi volteggiavano e cinguettavano sopra la superficie verdastra dello specchio d’acqua. Ascoltò il brontolio del proprio stomaco e rimpianse di non avere un arco con sé. O una fionda. Prese un sasso sotto la sua mano e lo lanciò verso gli uccelli, disposto anche a buttarsi in acqua pur di recuperarne uno; il suo tentativo si trasformò in un tonfo, uno schizzo e nient’altro che l’ennesima pietra sul fondo di quel lago senza nome. Sospirò.
Erano quasi cinque giorni che non mangiava altro che radici ed erbe. Per Marluxia era tutto normale, lui era un’elementale dei fiori e trovava gustoso qualunque tipo di vegetale, ma lui no: sarebbe stato persino disposto a non bestemmiare per una settimana pur di affondare i denti in un pezzo di pane secco o nella zampa di un cerbiatto rachitico, e sapeva che anche Larxen era della stessa idea. La ragazza nascondeva la sua insoddisfazione pur di non sembrare debole, ma Axel sapeva che anche le sue apparentemente infinite energie stavano per raggiungere il limite.
Il villaggio di Donau non era stato l’unico ad essere distrutto dai raggi multicolori delle strane navi di metallo: Essan, Khalir, Myre erano svaniti nello stesso modo, trasformati in case carbonizzate da cui esalavano soltanto fili di fumo grigio e nero. Così come le campagne tra l’uno e l’altro. Si erano illusi di trovare qualcosa tra le rovine di quei piccoli paesi, ma oltre ai mattoni e a qualche armatura arrugginita non era rimasto nulla, nessun gioiello da predare, nessun animale da rosicchiare; le vigne di Khalir erano scomparse, e non avrebbe mai dimenticato lo sguardo di sconforto che aveva attraversato persino l’altero viso di Marluxia mentre attraversavano quel terreno ormai completamente nero dove i filari verdi e rosati erano ormai solo un ricordo, i capelli coperti di cenere.
Si rialzò e riprese a camminare, con il primo freddo della sera che si faceva sempre più oppressivo. A mano a mano che il sole scendeva dietro il profilo delle montagne, il vento proveniente da nord aumentava fino a farlo rabbrividire. Si strinse nella tunica nera. Lontano all’orizzonte cominciarono ad accumularsi le nuvole, scure e minacciose. Ci sarebbe stata una tempesta prima dell’alba. Doveva riunirsi ai suoi compagni e trovare un posto dove ripararsi.
Scese dalla collina fino ad un sentiero coperto solo da arbusti contorti e senza foglie, e lì accelerò l’andatura. La nebbia si raccoglieva sul terreno morto, e l’aria si stava facendo sempre più fredda. C’era poca luce e faticava a capire da dove provenisse. Un fruscio si alzò alla sua sinistra, proprio dove i rami spinosi di una pianta grigia creavano una fitta barriera. Si sforzò di respirare più lentamente, poi si mise in posizione con i chackram in pugno; il rumore poteva appartenere a qualcosa di media taglia e, al diavolo il freddo ed il buio, non si sarebbe fatto sfuggire una preda di quel genere.
Una figura uscì dalla vegetazione secca, avvolta in un cencio marrone che aveva visto anni peggiori. Negli ultimi raggi del giorno Axel vide due grandi occhi castani incorniciati da ciuffi di capelli sporchi e raggrumati color sabbia. La ragazzina –non doveva avere più di tredici anni- era piccola e curva, e non appena vide le sue armi lo fissò impietrita, senza correre o gridare. Stringeva convulsamente al petto un rotolo di carta grande quasi come il suo braccio sottile. Axel abbassò le armi e sospirò, rinunciando a tutti i buoni propositi per la cena.
“Questo non è un posto per ragazzine. Specie a quest’ora. Torna a casa”.
Lei lo fissò ancora, gli occhi puntati sui suoi capelli. Axel si trattenne per non bestemmiare sulle stupide credenze del suo mondo. “Sì, sono roscio, va bene? Ma non sono un figlio del demonio. Ora gira i tacchi e torna a casa, che potresti trovare in giro gente peggiore di me!”
“Non … non sei una persona cattiva?” chiese lei, appoggiando la schiena contro un albero mentre gettava occhiate terrorizzate da tutte le parti. La sua voce era piccola, ridotta ad un sussurro.
“Non con le ragazzine come te, mettiamola così … O comunque meno cattivo di tante altre persone che circolano in questo bosco” rispose con un sorrisetto, pensando ai suoi due compagni di viaggio che lo attendevano oltre la collina. “Non ho alcuna intenzione di perdere tempo con te, quindi ti conviene approfittare della luce del giorno e tornare sui tuoi passi. Qualunque cosa tu stia facendo qui dentro a quest’ora non vale la tua vita, te lo assicuro!”
La ragazzina sgranò gli occhi, poi chinò il capo ed allungò un braccio verso di lui, con il palmo aperto. “P-per favore … sono due giorni che non mangio, la mamma è morta con la pioggia di fuoco … puoi farmi la c-carità, per favore … in nome degli dei splendenti …”
Axel girò gli occhi al cielo. Non credeva che sarebbe mai giunto il momento in cui qualcuno avrebbe chiesto la carità a lui, il ladro più straccione sulla faccia del mondo, uno che aveva passato i primi anni della sua vita chiedendo l’elemosina e rubando senza vergogna. “Gli dei non ti aiuteranno. Non l’hanno fatto con me, non credo che lo faranno con qualcun altro. E poi nemmeno io ho qualcosa da mangiare, quindi …”
“Ma i sacerdoti dicono che pregando in nome degli dei il cuore degli uomini si scioglie …”
“Beh, con me si dovranno impegnare parecchio. Ora non farmelo ripetere, gira i tacchi e tornatene a casa, dai sacerdoti, da chi ti pare ma lasciami in pace!”
Lo stomaco gli brontolò di nuovo. Si strinse nelle spalle, sentendo il vento freddo che aumentava. Tirò il cappuccio fin sopra gli occhi, e si stava riavviando quando la piccola voce riprese, quasi più flebile di prima.
“A-aspetta, per favore …”
Si voltò, preparando la più sonora bestemmia pur di scacciare quella ragazzina, ma le parole gli morirono sulla punta della lingua. La bambina aveva appoggiato per terra il suo prezioso rotolo di carta e si era levata il mantello lacero nonostante il freddo; non lo guardava neppure, gli occhi fissi sulla punta dei propri piedi, ma le mani si mossero in un attimo lungo i lacci rosa che stringevano il suo vestitino grigio e quello cadde a terra, rivelando il suo corpo nudo e tremante. Non solo per il freddo. “S-se ti va puoi fare qualcosa c-con me … ti prego, anche solo per tre monete di rame …”
Axel scrutò quel corpo piccolo, dalle forme ancora abbozzate. Il cielo sapeva quanti giorni erano che non andava con una donna, e quanti altri ne sarebbero ancora passati considerata la sua situazione. Si avvicinò a lei, cercando di guardarla in faccia, ma i capelli color sabbia le ricadevano sul viso piegato impedendogli di incrociare lo sguardo. “Tre monete di rame? Ma fammi il piacere …”
Raccolse il vestito e glielo rimise indosso, evitando anche solo di sfiorarle la pelle chiara. Lei non oppose nessuna resistenza, ma un lacrima scivolò sulle sue guance e rotolò sul suo guanto nero. “Torna quando ti saranno cresciute un po’ le tette, signorina! E non farti più venire in mente idee simili almeno per i prossimi quattro anni, che di pezzi di merda che si divertono con le ragazzine ce ne sono più di quanto immagini!”
“Ma io ho fame …” mormorò lei, ed in quell’attimo esplose in un pianto dirotto. Sollevò la testa, ed Axel vide i grandi occhi color nocciola arrossarsi e velarsi di una fontana di lacrime. Li conosceva fin troppo bene quegli occhi.
Aveva perso il conto di quante volte li aveva visti, quando guardava il suo riflesso nelle pozzanghere del villaggio chiedendosi quanti giorni gli sarebbero rimasti da vivere.
Sospirò, sapendo che si sarebbe pentito di quello che stava per fare. “Ho capito, prendi!”
Fece scivolare fuori dalla tunica il portamonete che teneva legato all’interno, dove vi era praticamente una buona parte dello sciacallaggio di quei giorni. Vi immerse le dita, e quando tra le tante monete di rame ne trovò una più grande, quella delle grandi occasioni, la prese in mano ed aprì il palmo proprio davanti al viso della bambina. Anche nella semioscurità lo scintillio dell’argento era perfettamente riconoscibile.
“Considerala come un acconto! Ci vediamo tra cinque anni e allora, se ne avrai voglia, mi farai fare un bel giretto gratis, d’accordo? Con tanto di preliminari, guarda che me lo ricordo!” le disse, chiudendo la moneta d’argento nelle dita minuscole, strizzandole l’occhio. “E ricorda: se proprio devi fare una cosa simile, non venderti a meno di cinquanta pezzi di rame. Sei una ragazza carina, guai a te se ti svendi per tre stupide monete, intesi?”
“I-io …”
“Guarda che ho l’occhio abituato, so quando una ragazza promette bene. Ora fila via prima che cambi idea. Cinque anni, intesi?”
“G-grazie, signore …” disse lei, con lo sguardo incredulo ancora fisso sul piccolo tesoro che stringeva in mano. Axel sapeva fin troppo bene quanto monete come quelle si vedessero poco nelle strade fangosi dei villaggi come quello in cui era nato. “Grazie di cuore. Allora non sei il figlio del demonio!”
“Ecco, dillo pure ai sacerdoti! Ora torna a casa!”
La ragazzina gli rivolse un ultimo, caldo, largo sorriso. Fece scivolare la preziosa moneta sotto i vestiti, strinse al petto la pergamena che portava con sé e sparì nel sottobosco devastato non senza aver lanciato un paio di lunghe occhiate nella sua direzione. Axel guardò nella sua direzione, chiedendosi se sarebbe riuscita a trovare la via di casa da sola, poi si strinse nelle spalle e si accorse che la fame non aveva mai smesso di abbandonare il suo stomaco. Imprecò tra i denti per il freddo e si inerpicò oltre la collina, sicuro di ritrovare il naso all’insù di Marluxia nella tipica espressione ehi-tu-plebeo-sei-in-ritardo. Ma non accelerò il passo. Bocciolo di Rosa poteva aspettare.
Il borsello sembrava molto più vuoto contro il suo petto. Lui ed i suoi compagni si erano ripromessi di tenere le sporadiche monete d’argento da parte, in attesa di qualche momento davvero proficuo per utilizzarle. Iniziò subito a pentirsi di aver dato uno dei loro tesori ad una mocciosetta che -in quel momento se ne era ricordato- non gli aveva detto nemmeno il suo nome; mise i piedi sempre più avanti, cercando di resistere alla tentazione di tornare indietro e riprendersi quella piccola fortuna.
La verità era che non poteva farci niente. Non poteva farci niente quando vedeva dei ragazzini ridotti a quel modo.
I sacerdoti erano degli ipocriti: i loro sermoni erano pieni di lodi verso i bambini come frutto di speranza, di gioia, amore e tante altre boiate che non aveva le forze per elencare. Poi appena una ragazzina finiva sulla strada per mangiare la bollavano come un’inguaribile peccatrice. Se aveva i capelli rossi era finita. Axel ne aveva conosciute tante. Più di quante ne sapesse contare, poco ma sicuro. Se fosse nato femmina avrebbe probabilmente fatto la fine di quella ragazzina.
Non gli sarebbe dispiaciuto. Una prostituta non moriva mai di fame.
I preti li guardavano con disprezzo, guardandoli dall’alto delle loro armature luminose. Qualcuno diceva che i Cavalieri d’Oro fossero così buoni da perdonare persino gli assassini e gli scienziati, ma lui non vi aveva mai creduto. Nemmeno dopo aver conosciuto Mu e Camus. I due sacerdoti al Castello dell’Oblio avevano mostrato la loro dolcezza, ma anche un’ingenuità senza pari che non aveva mai sopportato. Come tutte le persone religiose erano pieni di idee e parole, ma non avevano idea di come girasse il mondo fuori dal loro bel tempio di marmo. Non avevano idea di quanti bambini dai capelli rossi venissero cacciati a sassate dai templi perché i sacerdoti minori li credevano figli del demonio, o di quante ragazzine si vendessero per dar da mangiare alle loro famiglie.
Ed il vero problema era che la gente dava retta alle loro idiozie. Per un attimo gli venne in mente lo sguardo dubbioso di Roxas il giorno che si erano conosciuti: era imbottito di superstizioni, preghiere ed altre cavolate che aveva eradicato da lui dopo molto tempo. Ma non indugiò troppo sul pensiero. Faceva male.
“Ehi, Axel, non sei tu quello che dice che pensare troppo fa male?”
La voce di Larxen squillò del suo cervello come cento campanelli d’allarme, e l’ex n. VIII dell’Organizzazione si accorse di essere arrivato al loro punto di ritrovo senza nemmeno accorgersene, seguendo più i pensieri che i propri passi. Se la Ninfa Selvaggia aveva fame, lo mascherava meglio di lui: aveva scelto un povero albero come vittima dei suoi allenamenti, e si stava divertendo ad intaccare la sua corteccia annerita dalla pioggia di fuoco lanciando i kunai. Non aveva dubbi che la ragazza bionda stesse immaginando di colpire i punti vitali del n. IV. “Dov’è Marly? Non era il suo turno di riposo?”
“Mi hai preso per la badante di Mister Fucsia? Starà parlando con le sue piantine, e se non vuol dormire sono problemi suoi!”
Axel bestemmiò trai denti, raccolse alcuni sterpi da terra e diede loro fuoco, immergendo le mani nella fiamma e cercando di prendere tutto il calore possibile dal suo elemento. In lontananza tuonava. Al ritorno del loro compagno si sarebbero mossi. Ignorò lo sghignazzare di Larxen e chiuse gli occhi, cercando di isolare tutti i suoni, le paure, i pensieri che ancora lo agitavano. Non sapeva quanto ancora sarebbero riusciti ad andare avanti. Ogni secondo che passava, anche quelli in cui chiudevano gli occhi per riposare, poteva arrivare un drago affamato e scambiarli per pranzo. O un demone. O una raffica di quelle enormi navi di metallo poteva avvolgerli e farli sparire in un soffio di fiamme danzanti. Si accorse di provare la stessa paura di quando era bambino, quando fissava i soldati delle famiglie nobili, i ladri, i contadini, i cani feroci quanto dei licantropi e si chiedeva quale tra quelle figure enormi gli avrebbe schiacciato la testa come un insetto lasciandolo a crepare sotto a un ponte. Si era illuso di dimenticare quella sensazione quando aveva indossato la tunica dell’Organizzazione. Se l’era lasciata del tutto alle spalle quando aveva scoperto i poteri del Castello dell’Oblio e aveva progettato persino il complotto contro il Superiore. Ma adesso la sensazione era tornata, gelida come l’idea stessa che per lui il cerchio potesse solo concludersi in quel modo, morire come un ladro cencioso dopo aver cercato di conquistare il mondo.
“Ma cosa vedo? Il cervello pragmatico del gruppo perso nei suoi pensieri?”
Axel sobbalzò a quelle parole sussurrate quasi nel suo orecchio. Detestava quando Marluxia gli giungeva alle spalle in quel modo. Ed era pronto a giurare che l’altro provasse un certo piacere nel farlo. Si tirò subito in piedi, con la luce del giorno ormai scomparsa e la radura illuminata solo dal piccolo fuoco che scoppiettava tra i suoi piedi. Nonostante gli anni per strada gli avessero affinato tutti i sensi non riusciva ancora a percepire il passo di Marluxia quando si spostava su un letto di foglie.
“Mi pare di averti già detto di non venirmi mai alle spalle in questo modo, Marly! Non lamentarti quando ti ritroverai un chackram tra le costole!”.
“Siamo aggressivi stasera?” disse lui. Forse era l’assenza di luce, ma la fiamma riflessa nei suoi occhi azzurri dava un effetto inquietante ed un brivido gli percorse la schiena. L’ex n. XI si appoggiò con grazia alla sua inseparabile falce, poi gli rivolse un sorriso che non aveva nulla di amichevole. “Io invece mi sento di buon umore. Ho trovato qualcosa che potrebbe rivelarsi interessante”.
Il n. VIII non fece in tempo ad osservare il suo compagno che Larxen scivolò in mezzo a loro, sottraendo all’uomo dai capelli rosa un foglio arrotolato che teneva sotto il braccio. Marluxia la incenerì con lo sguardo per l’impertinenza, ma lei gli rispose con una linguaccia; aprì il foglio davanti al fuoco, ed il suo viso si illuminò di un grande sorriso. “Sembra una vera mappa del tesoro! Con tanto di gigantesca X rossa! Dove l’hai trovata, Marly?”
“Da qualcuno a cui non serviva più, ovviamente”.
“Che c’è, hai finalmente scoperto che lo sciacallaggio è la tua vocazione?” gli chiese Axel, rendendosi conto che l’altro non aveva mai staccato gli occhi di dosso da lui nemmeno per un istante. Si sentiva osservato, braccato. E gli occhi dell’altro non facevano altro che fargli salire i brividi lungo la spina dorsale. “E poi che ne sapete che quella X sia un tesoro? Suvvia, smettiamo di fare gli idioti e cerchiamo un posto dove ripararci prima che venga a piovere”.
“Il mio istinto di Cercatrice di Tesori mi dice che non stiamo sbagliando!” saltellò Larxen, d’improvviso dimentica della fame e della stanchezza. Axel conosceva bene il significato della luce nei suoi occhi verdi, la luce che indicava che la Ninfa Selvaggia avesse trovato un nuovo gioco. Lei iniziò a saltellare in tondo ed a raccogliere i kunai. “Al diavolo il GSB, al diavolo le navi! Da domani tutti in marcia verso il tesoro!”
Sempre che ci arriviamo vivi a domani …
Marluxia e Larxen avevano deciso. Due a uno. Come molte altre volte in cui viaggiavano insieme.
Preparandosi all’inutile viaggio a vuoto che lo avrebbe atteso alle prime luci dell’alba, Axel scosse la testa e si accoccolò vicino al fuoco cercando di riprendere il sonno interrotto. Stava per chiudere gli occhi quando uno scintillio attraversò lo spazio tra le sue palpebre. L’istinto guidò la sua mano, ed acchiappò al volo qualcosa di piccolo e rotondo.
Quando guardò da vicino vide il tipico scintillare di una moneta d’argento. “Ti eri perso qualcosa, Axel?”
La voce di Marluxia cadde nel silenzio, affilata come una lama.
“Non ho idea di cosa tu stia parlando, Marly!”
“Meglio così” rispose lui, sedendosi con noncuranza proprio vicino a lui. “Allora non ti dispiace se la tengo io?”
“Fai come ti pare”.
Axel la fece scivolare sul guanto nero dell’altro, cercando di calmare i battiti del proprio cuore. La moneta d’argento svanì tra le sue dita, riposta con cura dentro un borsello con una rapidità di mano che non avrebbe mai creduto possibile in un nobile viziato come Marluxia. Ma l’altro rimase dov’era.
“Grazie. Sarebbe stato davvero un peccato smarrire una moneta come questa considerato quanto vale …” sorrise. “Le nostre ricchezze ce le siamo guadagnate insieme. E le spendiamo insieme. È il modo migliore per gestire l’economia di un piccolo gruppo come il nostro, se tutti spendessimo in maniera irrazionale la nostra fortuna resteremmo senza nemmeno una moneta di bronzo. È bene che tutto il gruppo decida come investire i soldi, l’azione dei singoli sarebbe davvero … intollerabile”.
Stavolta il brivido lo attraversò fino al cervello. “Vieni al punto, Marly. Ho sonno”.
“Oh, non c’è nessun punto. Se non sei stato tu a smarrire questa moneta allora la mia … lezione non è necessaria, dico bene?”
Si alzò, appoggiandosi alla falce. Per un attimo Axel vide delle macchie scure lungo la lama rosa, ma il padrone la fece vorticare da una mano all’altra, costringendolo ad incrociare il proprio sguardo con il suo. “Sai quale era una delle massime preferite di mio padre, Axel? Homo homini lupus”.

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 - Insieme, per sempre ***


Capitolo 16 - Insieme, per sempre





Matoriv


Ho sempre creduto che ogni vita fosse preziosa. Ho fatto il possibile per non lasciare mai nessuno indietro, per non abbandonare nemmeno un civile nelle mani dei nemici, ho sempre cercato di vedere nelle persone in difficoltà il viso di coloro che sono più cari per trovare la forza per correre nella loro direzione, per voltarmi indietro quando tutto mi grida di correre avanti. Ho sempre creduto che fosse questa la vera dote di un leader, quella necessaria per ricordarmi che il fine non giustifica i mezzi e che il sentiero per la vittoria non può essere lastricato di vite spezzate.
Ma ieri ho spezzato una vita. Cerco di dirmi che l’ho fatto per Ivalice, ma questo non riesce ad addolcire la sensazione amara di aver appena calpestato tutto ciò in cui ho creduto per tutta la mia esistenza. Ho abbandonato una persona e l’ho condannata a morte.
Sono nella sua stanza, seduto al suo scrittoio. Un paio di occhi inquisitori mi fissano da una fotografia incorniciata, occhi che sarei stato felice di non rivedere mai più e che adesso cercano di incenerirmi per aver occupato questa stanza. Mi chiedo cosa avrebbe fatto l’imperatore Vayne al mio posto.
dai diari di Halim Ondore IV, Marchese di Bhujerba, Re di Dalmasca, Imperatore di Archadia.




“Ciao Killvearn! È qui la festa?”
Mara tossì per le polveri che si alzarono nel momento in cui la parete della caverna crollò. Lo gnomo mandò un grido di sorpresa e saltò sulla spalla del suo lugubre padrone quando l’esplosione coprì le loro parole e Lavok cadde a terra. Una sfera infuocata partì nella direzione del prestigiatore, ma Mara vide la figura respingerla con la falce e mandarla a schiantarsi sul soffitto. I fiori marcescenti che tappezzavano il pavimento della caverna svanirono con quel movimento. Una seconda fiamma illuminò l’ingresso, e comparve un uomo anziano, curvo e pallido che avanzò verso Killvearn a passo deciso mentre generava un lieve turbine d’aria che gli gonfiò la tunica bianca ed il mantello verde. “È un vero peccato che non ti sia degnato di invitarmi! Eppure dovresti sapere che amo questo tipo di feste … specie quando ci sono delle belle invitate!”
“Ohi ohi, Killvearn, qui le cose non vanno, Piro Piroro! Ma non avevamo catturato le prede sbagliate?”
Il prestigiatore le diede le spalle e si voltò verso il nuovo arrivato. Mara estese il Lato Oscuro verso le manette che la tenevano prigioniera approfittando della distrazione e cercò un punto debole, uno spiraglio, qualcosa che le permettesse di liberarsi le mani. Eomer doveva aver avuto la sua stessa idea, perché cercò di allungare le gambe ed avvicinare a sé la sua lancia. Lavok era caduto a terra e si premeva la ferita con la mano.
Killvearn roteò la falce e frappose la lama tra sé ed il mago. “Devo dire che il tuo tempismo è alquanto … irritante, Matoriv. Avrei davvero gradito vedere te in trappola al posto di questi buffoni!”
“Non puoi capire come sono contento di averti rotto le uova nel paniere, Killvearn!”
La sfera infuocata saettò dalle sue dita; il suo nemico la deviò una seconda volta, ma prima che le fiamme potessero dissiparsi altri tre globi furono scagliati in rapida successione, girarono intorno alla figura nera ed esplosero. Il mago dal vestito verde non si accontentò, e ad un gesto della mano fece crollare parte del soffitto della grotta ed i massi volarono sotto il suo controllo fino al centro del fumo. Ci fu un lungo silenzio dopo il boato, accompagnato solo da una lieve brezza. L’aria portò via i residui dell’incantesimo, ma dell’uomo con la maschera non vi era alcuna traccia. Al suo posto c’era solo un cappello nero, lucido, con un grande cilindro ed un tetro scintillio.
“MATORIV, ATTENTO!”
Una voce femminile, una che Mara era certa di aver già sentito da qualche parte, attraversò lo spazio. Dall’ingresso partì una scarica di punte gelide che si infranse proprio alle spalle del mago. Una sottile patina di gelo si formò nell’aria tutto intorno, e delineò una figura armata di falce che altrimenti sarebbe stata del tutto invisibile. Il prestigiatore fu colpito proprio mentre si trovava alle spalle del mago, pronto a far calare la falce sulla sua testa, ma quello grazie all’avviso si voltò ed aggiunse un secondo incantesimo di ghiaccio a quello già attivo. La magia avvolse Killvearn e lo rese visibile in modo definitivo, poi la creatura con la maschera fu allontanata da lì da una raffica di fiocchi di neve e vento freddo che congelò Mara pur sfiorandola di poco.
L’uomo anziano mosse le mani ed il corpo di Killvearn si spostò e si schiantò contro l’altro versante della grotta, poi di nuovo sulla parete. Mara vide l’assistente monocolo scappare terrorizzato proprio dietro alla figura ancora inerte di Valygar, ma era chiaro che il mago dal mantello verde non aveva alcuna intenzione di rincorrere quello gnomo fastidioso. “Ti conviene arrenderti, Killvearn! Oggi non è il tuo giorno fortunato!”
Le ultime parole furono seguite da un tonfo spaventoso; la pressione dell’aria creata dalle dita del nuovo arrivato spinse il nero prestigiatore contro l’ennesima parete, ma quella si distrusse per il colpo e la figura con la maschera venne avvolta da una pioggia di polvere e sassi.
Nessun essere umano resisterebbe ad un simile impatto …
La Sith rimase in silenzio, trattenendo il respiro. Il loro salvatore –e la sua misteriosa alleata- aveva gli occhi puntati sul corpo di Killvearn, con un’aura azzurra tra le dita che prometteva di partire non appena il nemico avesse compiuto un solo gesto sconsiderato. La falce era caduta per terra, ma Mara continuò a fissarla.
“La delicatezza non è mai stata il tuo punto forte, Matoriv” sussurrò Killvearn. Nonostante i colpi subiti si mise in piedi. Lo fece lentamente, mostrando ogni suo movimento al mago, ma nella voce e nei gesti non vi era nulla che testimoniasse delle ferite o una qualche forma di debolezza. A parte la maschera.
Mara vide una crepa bianca disegnarsi lungo la superficie del copricapo nero, all’altezza dell’occhio destro. La mano del prestigiatore corse sulla maschera e coprì il punto in cui il viso rischiava di scoprirsi, e per quanto Mara cercasse di vedere qualcosa, nemmeno un brandello di pelle o un capello trapelava da quella figura scura. Ma almeno aveva perduto la sua aura di invincibilità. “Dovrò insegnarti a portare rispetto verso un nemico di classe come me!”
“Io so essere molto delicato, Killvearn … MA NON CON TE!”
La roccia si mosse di nuovo, ma stavolta il prestigiatore fu più rapido. Con un’agilità impensabile per la sua figura evitò l’incantesimo e l’aura azzurra dell’uomo che si faceva chiamare Matoriv, poi si portò al centro della stanza. La falce volò di nuovo nella sua mano, e l’immancabile gnomo fece capolino. “Che movimento ineccepibile, che classe che hai, Killvearn!”
Saltò sulla spalla del suo padrone e strofinò le piccole mani verdognole sul metallo della maschera. Mara vide solo una tenue luce verde in quella direzione, e prima ancora che l’altro mago potesse scatenare una controffensiva la maschera era tornata intatta e la crepa era scomparsa. Saette e fiamme attraversarono l’aria, ma lui roteò l’arma e le mandò ad esplodere altrove; una cascata di scintille cadde su Lavok, che si contorse ancora di più per il dolore.
“Non si interrompe così la performance di un grande attore, Matoriv. E per ricordartelo bene … credo che innanzitutto taglierò a te ed alla tua misteriosa amichetta la via di fuga”.
Batté i piedi sul pavimento, e dallo stivale ne uscì un suono metallico. La roccia davanti a lui si spostò, e l’ingresso che conduceva alla Cripta Nera fu coperto da una luce color topazio: calò come una tenda sull’accesso appena creato, e Mara sentì nelle ossa la potenza di quell’incantesimo che divampava e cercava di incenerire tutti i presenti, anche loro che erano immobilizzati. Il nuovo arrivato scagliò un paio di magie elementali contro la barriera, ma il fuoco si infranse in quella strana luce e l’acqua si ridusse a dei sottili fili di vapore. Riprovò di nuovo, stavolta con un sasso, ma quello si sgretolò all’impatto.
“Hai spaventato il mio prezioso assistente, Matoriv …” disse lui, sollevando Piroro dalla sua spalla e appoggiandolo sulla sommità della maschera, formata da un semicerchio ed alcuni rettangoli di cui la donna non era sicura di volerne sapere il significato. Lo gnomo salutò il mago con la mano, poi si girò verso di loro e fece una linguaccia. “Perché invece non mi fai vedere la tua aiutante?”
“Sei davvero sicuro di volermi rivedere, schifoso mascherone?”
L’aria vibrò proprio alle spalle del mago, e l’incantesimo di invisibilità si dissolse rivelando una esile figura dal lungo abito viola ed i capelli rossi. L’ultima persona che Mara si sarebbe aspettata di rivedere lì.
Zachar.
Sapevo che dopo la disavventura al Castello dell’Oblio era tornata all’Impero con la coda tra le gambe.
La ragazza dagli occhi verdi sollevò i palmi ed una lingua di fuoco passò dall’una all’altra mano. Per quanto fossero trascorsi anni dall’ultima volta che l’aveva incontrata, Mara era certa che vi fosse qualcosa di diverso nel suo sguardo. Qualcosa di molto più determinato.
“Credevo che Auron ti avesse staccato la testa per bene, Killvearn. Ma non c’è problema!” disse mentre la fiamma si staccò dalle braccia ed iniziò a ruotare intorno a lei disegnando un cerchio. “Sono pronta a testare un’altra volta la tua presunta immortalità! E giuro che stavolta avrò molta cura nel non lasciare intatto nemmeno un mignolo del tuo corpo!”
“Tosta la mia assistente, eh? Mica come il tuo gnomo da quattro soldi!” rispose il mago.
Mara si voltò, e gli sguardi interrogativi dei suoi compagni confermarono tutti i dubbi che la stavano assalendo. Se quella era davvero la Zachar che conoscevano –e non ne era sicurissima, perché quello che ricordava della maga era solo un’ameba piagnucolosa al servizio di Kaspar- non aveva alcun motivo per essere lì. Quel Matoriv che era corso al loro salvataggio doveva essere un membro della Resistenza che stavano cercando, ma la ragazza serviva l’Imperatore. Un binomio che la rendeva perplessa.
E la preoccupava.
“Oh, no, Killvearn, è la guastafeste che ha rovinato il tuo superbo spettacolo sul Baan Palace! Mi sta davvero antipatica, Piro Piroro! Lei non apprezza la tua arte, non si merita nemmeno di vedere i tuoi numeri spettacolari, no no!”.
“Tranquillo, Piroro, non …”
“ADESSO MI HAI STANCATO!”
Zachar corse in avanti, avvolta dalla sfera infuocata. Estese una mano ed un’esplosione di scintille si riversò sul nemico. L’armatura nera del prestigiatore brillò per il riflesso della fiamma, si lasciò avvolgere dal potere della magia e quella si dissipò. L’avversario fece un passo indietro e portò la falce davanti all’assalitrice, ma la roccia sotto i suoi piedi si frantumò e quelle che sembravano gigantesche radici marcescenti saettarono verso l’alto e si avvilupparono contro il manico dell’arma. Matoriv mosse la mano destra, avvolta da un’aura argentata, e le radici aumentarono la stretta. Zachar approfittò della guardia abbassata del prestigiatore, lanciò un grido di battaglia e scagliò contro di lui quattro globi oscuri, mirando alla faccia.
Killvearn abbandonò la presa della falce un attimo prima dell’esplosione. I nuclei di oscurità collassarono proprio dove si trovava un attimo prima, e le radici incantate si disgregarono sotto la pressione della magia. L’arma si brunì, poi si tinse di nero, e Mara non riuscì nemmeno a vedere le sottili crepe sulla superficie metallica che essa esplose in migliaia di schegge.
La deflagrazione spinse il prestigiatore a terra. L’armatura che prima aveva assorbito così bene la fiamma adesso aveva perso parte della lucentezza, ed una colonna di fumo si innalzava all’altezza del petto. Gli strani pendenti che decoravano la maschera erano volati chissà dove, rendendo l’effetto di quel sorriso dipinto ancora più sinistro.
“Che guaio, CHE GUAIO!” gridò il fastidioso gnomo. Sbucò da dietro il corpo del padrone ed appoggiò le mani sul suo petto.
“Eh, no, piccoletto!”
Zachar superò con un salto lo spazio che la separava dall’avversario, sollevò Piroro per la tunica e lo allontanò dal prestigiatore. “Io e te abbiamo un conto in sospeso, gnomo. E sappi che Auron ha sempre desiderato calpestarti con i suoi stivali chiodati!” disse con un tono di voce diverso dal piagnucolio che tutti conoscevano. “Matoriv, ho il permesso di portarlo a Leona … in un simpatico cubo di ghiaccio?”
“Ma certo, cara!”
La luce azzurra ancora non si era formata del tutto sulle dita della ragazza che Killvearn fu su di lei. Si alzò ad una velocità incredibile, e l’attimo successivo aveva stretto il polso di Zachar con tanta forza che quella fu costretta ad abbandonare l’incantesimo. Abbassò il braccio e la spinse a terra; doveva possedere una forza fisica superiore a quella della media, perché Mara lo vide trascinare a terra il corpo della maga senza alcuno sforzo. Matoriv reagì subito scagliando un fulmine, ma Killvearn non rispose né si difese, assorbì il colpo in un silenzio innaturale per la sua voce di solito chiacchierona e continuò ad opprimere Zachar. Lei cercò di liberarsi dal controllo, ma dalla mano imprigionata non uscì altro che una fontana di scintille; lo prese a calci, ma non ottenne altro risultato che farsi scagliare contro il pavimento mentre il suo compagno scagliava un’altra magia di luce violastra. Zachar fu costretta a cedere, e la mano sinistra si aprì liberando lo gnomo da compagnia che aveva continuato a tenere stretto. La creatura mandò un gridolino a scappò lontano da lei, ma adesso la ragazza aveva il palmo pieno di fiamme che scagliò al centro della maschera, disegnando cinque archi gemelli sulla faccia del suo assalitore. Mara vide il minuscolo Piroro inciampare nella sua stessa veste, poi si arrampicò sulla spalla del padrone. “Killvearn, Killvearn, adesso direi che dobbiamo proprio andare! Hanno interferito di nuovo nel tuo grande show, dobbiamo fargliela pagare!”
“Suppongo che dovremo cancellare anche questo spettacolo, Piroro. Anche se la cosa mi irrita …” disse l’altro. Prese il suo assistente su una spalla, e nelle sue mani comparve un mazzo di carte. Una di esse si ingrandì e si stagliò tra il padrone ed una raffica di luci incandescenti create da Matoriv per poi dissolversi in un mucchietto di cenere. Una seconda iniziò a girare intorno al prestigiatore, e riflesse come uno specchio i raggi gelidi che Zachar aveva appena scagliato. Mara gridò qualcosa quando vide la mano del nemico schioccare, per poi far apparire nel palmo la familiare figura di una Pietra Dimensionale.
Lanciò un’ondata di forza contro la pietra verde, ma l’altro fu più rapido. La strinse saldamente tra le dita e fece un inchino. “Gli applausi sono sempre graditi”.
Uno sbuffo di fumo si creò dal nulla e Killvearn sparì sotto i loro occhi, e rimase soltanto la risata stridula dell’assistente monocolo.
Nella grotta calò il silenzio, perché tutti, prigionieri e salvatori, fissavano il punto in cui l’emissario del Grande Satana era scomparso. Per terra era rimasta una carta da gioco; da quella distanza Mara non riuscì a vedere cosa vi fosse disegnato sopra, ma Matoriv la incenerì prima che Zachar potesse chinarsi per raccoglierla. Il mago lanciò un’occhiata sospettosa all’ingresso ed al soffitto, poi si avvicinò a loro. Ora che si trovava a nemmeno un metro da lei Mara notò che, nonostante l’età, l’uomo non aveva il volto coperto di rughe come lei si era immaginata: indossava un copricapo enorme, nero, rosa e decorato da minuscole pietre simili a rubini. L’oggetto gettava sulla fronte un’ombra tetra, che invecchiava e rendeva più profondo quello che si rivelò un viso gioviale. La tunica bianca doveva aver visto stagioni lontane, perché era lunga per quel corpo curvo e copriva quasi del tutto i piedi, creando un’unica onda di colori mentre si congiungeva al verde smeraldo del mantello. Sui paramenti erano intessute delle rune, ma la Sith non era sicura che si trattasse di mere cuciture ornamentali. Zachar trotterellò verso di lui, ma il suo sguardo era gelido.
Era arrivato il momento delle spiegazioni, ma nessuno di loro sembrava intenzionato a fare la prima mossa.
Grazie al cielo Matoriv ruppe il ghiaccio: “Ci avevano detto che alcuni membri della Resistenza erano stati catturati e portati qui. Ma sinceramente non ricordo nessuna delle vostre facce, quindi … sono più che felice di avervi salvato da quell’infame di Killvearn, però un paio di spiegazioni sarebbero gradite!”
“Lo so io chi sono, Matoriv!” disse Zachar. I suoi occhi saettavano da uno all’altro. “E se sono qui è per portare ulteriore scompiglio in questo mondo. Come se non ve ne fosse già abbastanza …”
“Beh, se li conosci tutto è più facile. Ma non è un buon motivo per lasciarli appesi lì come prosciutti, no?”
Lei sbuffò e rimase dov’era, ma il mago si avvicinò e fece scorrere un incantesimo sulle loro manette. Eomer imprecò non appena le sue ginocchia toccarono terra, ed Aragorn si tuffò a riprendere Anduril. Mara ebbe la sensazione che il nuovo arrivato fosse molto più intenzionato a fissarle il seno che non a liberarla, ma si trattenne ed aspettò con pazienza che venisse il suo turno; nel momento in cui i suoi polsi vennero liberati iniziò a massaggiarli con vigore sotto lo sguardo sospettoso di Zachar. Ricambiò l’occhiata in cagnesco. La maga non era certo la mente più temibile dell’Impero Galattico, ma la sua innata propensione per gli incantesimi l’aveva resa uno degli ossi più duri dei servitori di Palpatine. Non avrebbe rischiato una palla di fuoco nella schiena.
Gandalf si mise in piedi e si profuse in ringraziamenti, seguito dal suo migliore amico. Matoriv rispose con una stretta di mano vigorosa ed un bel sorriso, uno sincero che a Mara piacque istintivamente. E lo avrebbe apprezzato ancora di più se non fosse stato per la frase lanciata da Eomer.
“E questa cos’è?” esclamò con un tono così preoccupato che spinse tutti gli altri a guardare nella sua direzione.
Una carta da gioco si materializzò nella grotta con uno sbuffo di fumo e cadde pigramente sui vestiti di Lavok. Il cavaliere di Rohan allungò la mano per prenderla, ma la rimosse subito con un grido, come se avesse toccato qualcosa di incandescente. Mara estese subito i suoi poteri per allontanare la carta dal suo amico, ma qualcosa nell’aria si oppose e rispose alla pressione della Forza. Provò a spingerla da un’altra parte, ma era come cercare di spostare un muro di transparacciaio a mani nude. “Levategliela di dosso. SUBITO!” gridò madida di sudore.
Fece saettare la Forza contro l’oggetto in una seconda ondata: provò a spingerla a destra a sinistra, verso l’alto o ai lato del corpo di Lavok, ma qualunque suo sforzo veniva compensato dall’energia misteriosa di cui non percepiva la sorgente. Gandalf vide la sua espressione stravolta e si gettò verso il mago con il bastone in avanti. Puntò l’estremità dell’arma per spostare l’oggetto senza rischiare di ferirsi, ma il gioco del prestigiatore lo anticipò: l’asta era a pochi palmi dalla carta quando questa si dissolse. Svanì in una piccola colonna di fumo rosa. Una colonna che si ingrandì dopo tre secondi.
“STATE INDIETRO!” gridò Matoriv. Si fece avanti e spinse Gandalf lontano nonostante la diversa altezza. Lanciò una spirale d’acqua contro il fumo per dissiparlo, ma quello inghiottì la magia dentro le sue volute. Lo scontro fu rapido, ma tra i riflessi azzurri dell’acqua nel fumo Mara vide qualcosa che le gelò il sangue nelle vene.
Il corpo di Lavok era scomparso, inghiottito dal fumo. E quando voltò gli occhi verso Valygar si accorse che anche il ranger era sparito. Gandalf riuscì a divincolarsi dalla stretta del nuovo arrivato e si portò in avanti con il bastone che fendeva il fumo, ma nessuno dei due comparve. Un secondo ed un terzo fendente allontanarono l’aria colorata e la costrinsero a disperdersi nell’aria della Cripta Nera. Tutti guardarono con il fiato sospeso il pavimento su cui fino a qualche attimo prima si trovavano i due Corthala. La carta era ancora lì: incurante dei consigli dell’altro incantatore, Gandalf si fece avanti e la raccolse portandosela davanti agli occhi. Mara si avvicinò per saggiarne il potere, e quando la prese in mano vide la figura di Piroro che ammiccava in maniera impertinente da un grosso cuore disegnato sulla carta da gioco. Un joker, se conosceva bene quel tipo di carte.
Augurò a quello gnomo di finire schiacciato da uno Star Destroyer, poi la passò di nuovo allo stregone che se la vide subito distrutta da Matoriv.
Si guardarono tutti di nuovo, ma lo sguardo di speranza si era trasformato in un’ondata di preoccupazione.
Il nuovo arrivato fissò di nuovo quello che restava della carta, poi si voltò verso di loro. “Credo che abbiamo qualcosa di cui parlare”.



“Bene arrivati, amici!”
Aragorn sorrise, di un sorriso sincero. Porse la mano e, quando la ragazza che tutti chiamavano principessa Leona accettò la cortesia e la strinse, tutta la gente accalcata nella sala del trono di Minas Tirith sommerse il vociare dei nuovi arrivati con un applauso a dir poco frastornante.
L’entusiasmo per la nuova festa che aveva annunciato soltanto qualche ora prima era smorzato solo dalla curiosità di tutta l’Alleanza Ribelle di conoscere i loro nuovi, particolari alleati.
Da quando il mago Matoriv e Zachar li avevano salvati dalla trappola dell’agente del Grande Satana, Aragorn aveva capito che non c’era tempo da perdere; avevano momentaneamente sospeso le operazioni di salvataggio dei civili di quel mondo, ed avevano lasciato il loro piccolo presidio di guaritori nel villaggio di Amer come garanzia che non avrebbero abbandonato quella gente sfortunata. Tornare indietro da quel pianeta senza nome era stato molto più facile dell’andata, senza infiltrazioni o viaggi clandestini a spese del carburante imperiale: avevano visto il posto, e tanto bastava ad alcuni dei loro druidi. Una volta chiaro nella mente dove dovessero andare, i druidi dell’Alleanza avevano aperto un canale di teletrasporto con centro nel Perno dell’Ade ed erano riusciti a stabilire un passaggio tra la Terra II ed il pianeta. I loro nuovi amici, che si facevano chiamare “la Resistenza”, avevano accettato immediatamente di incontrarsi con loro.
Avevano molte cose in comune.
Aragorn fece un gesto galante ed accompagnò la nuova arrivata davanti al tavolo in cui avevano già preso posto Gandalf, Leia e Mon Mothma. Era giovane, molto giovane. Non le avrebbe dato più di venti anni, poco ma sicuro. Si sedette con un movimento delicato, forse un po’ intimorita dalla folla assiepata nella stanza, sulle scale, sul trono e persino sui lampadari; Leia aveva espresso il desiderio di un incontro privato, ma il re era pronto a giurare che Gandalf avesse detto una parolina o due all’orecchio di Merry e Pipino sulla possibilità di avere degli alleati e subito dopo un fiume di abitanti della capitale si era riversato nel palazzo fin quasi a rendere impossibile l’ingresso agli ospiti.
Il re si avvicinò al posto che gli spettava. “Direi per prima cosa di far sentire alla principessa Leona ed a tutti i membri della Resistenza un nostro caloroso benvenuto!”.
Non riuscì nemmeno a terminare la frase che tutta la sala si riempì di applausi. Sciogliamo la tensione.
La ragazza scosse la testa, lasciando che i suoi lunghi capelli biondi le decorassero meglio il viso; si voltò a destra ed a sinistra, poi rivolse un timido saluto verso la folla. Un paio di nani sollevarono i boccali nella sua direzione e ruttarono vigorosamente, ma prima che la giovane ospite fuggisse scandalizzata Leia prese in mano le redini dell’incontro. “Principessa Leona, membri della Resistenza, siamo molto felici che abbiate accettato di conoscerci. Vi siete fidati di venire nel nostro mondo senza alcuna garanzia, e questo ci rende felici e abbastanza sicuri di poter trovare in tutti voi gli alleati di cui avevamo bisogno”.
“Grazie della festosa accoglienza, principessa Leia” disse la ragazza. A dispetto del suo aspetto minuto, la voce era ferma, sicura. “Se anche solo la metà delle cose che ho ascoltato dai membri dell’Alleanza Ribelle è vero, non vi è mondo dove i tempi non siano bui, e dove le persone che combattono per la libertà non cerchino qualcuno con cui battersi spalla a spalla. Credevamo di essere soli a proteggere la nostra gente dal Grande Satana, e quando sono comparse quelle navi volanti che hanno lasciato cadere dal cielo soltanto fuoco e morte … credevamo che fosse giunta la fine …”
“È lo stile del nostro amato Imperatore Palpatine. Far danni a scapito del prossimo” disse Gandalf, accendendosi anche la pipa. “Ci dispiace che sia dilagato anche nel vostro mondo …”
“Cambiano i luoghi, ma sembra che la libertà non riesca a trovare una dimora. L’Imperatore Palpatine e il Grande Satana: un amabile duetto che non sembra felice se non opprimono tutti quelli che capitano loro a tiro”. A parlare fu Matoriv, il mago che li aveva salvati dal burattinaio nero; il mago fece un passo avanti e senza alcun invito si avvicinò alla sedia della sua principessa, per poi prendere un boccale di birra e trangugiarlo tutto d’un colpo.
Va bene, mi sta ufficialmente simpatico.
“Ma c’è anche una cosa che non cambia. La libertà sembra capeggiata da due belle e procaci principesse. Un vero piacere stare dietro di loro, non so se mi spiego…”
Va bene, a Leia starà ufficialmente antipatico!
La giovane Leona arrossì dalla testa ai piedi in mezzo alle risate del reparto hobbit e nanico di tutta la sala; prima che il mago potesse impugnare un secondo boccale e trasformare quella grande riunione in una gigantesca baraonda, un uomo dai capelli azzurri ed un paio di occhiali –sicuramente a tenuta antiproiettile, almeno a giudicare dallo spessore- uscì dall’entourage della principessa e trascinò Matoriv lontano dal tavolo. Un gigantesco soldato dal vestito rosso lo azzittì con un pugno sulla testa che aveva ben poco di amichevole.
Leia fece platealmente finta di non aver sentito, o almeno cercò di ignorare Gandalf che per le risate si stava strozzando con il fumo della sua stessa pipa. “Non conosciamo bene il Grande Satana, ma se esiste una Resistenza vuol dire che il suo regno non è di certo bene amato dal popolo, e da quel poco che siamo riusciti a comprendere non è certo un sovrano che avete eletto di vostra spontanea volontà”.
“Nessuno elegge un Grande Satana, e nessuno di noi lo desidera” disse la giovane Leona, guardando lentamente tutti gli ascoltatori. Il suo tono di voce aumentò. “Prima dell’arrivo della famiglia demoniaca, noi umani vivevamo in pace; non posso di certo dire che tutti i nostri sette regni fiorissero, né che non vi fosse nemmeno un conflitto, ma la nostra esistenza scorreva tranquilla. Ve lo posso assicurare, perché ricordo benissimo come fosse la vita nel mio regno, a Papunika, prima dell’avvento dei demoni”.
Si fermò per un attimo, come a ricordare qualcosa, ma rialzò la testa e riprese il discorso. “I demoni non erano altro che leggende, fatti per spaventare i bambini che non volevano andare a dormire; erano mostri disegnati sugli antichi testi sacri, e nessuno riuscì a rendersi conto di cosa fosse successo la notte che draghi, demoni, animali e non-morti comparvero dal nulla e distrussero tutto. Assolutamente tutto. Poi la nostra vita diventò un inferno di fuoco e sangue”.
Le espressioni sui volti degli accompagnatori della principessa chiusero quella narrazione in maniera più efficace di centinaia di parole. Aragorn sospirò, chiedendosi quante altre volte sarebbero stati costretti a sentire storie simili. Alcuni parlavano di fuoco, altri di acqua; altri parlavano di veleni che bruciavano la pelle, altri ancora di rocce che ingoiavano la gente nelle loro profondità. Tutte le persone che giungevano all’Alleanza avevano una storia, e tutte imploravano un lieto fine –o almeno un finale accettabile- che appariva sempre lontano o addirittura impossibile. Da quando si era unito alla Ribellione aveva sempre cercato un modo per aiutare il prossimo, per trasformare il mondo di cui era sovrano in un asilo per tutti coloro che i propri sovrani avevano abbandonato, tradito o deluso. Ve ne erano stati tanti, quasi tutti vittime dell’Imperatore Palpatine. Ma non il solo.
Il Grande Satana sembrava solo uno della lunga lista di tiranni che lui e Gandalf si erano ripromessi di far cadere. “Leia, direi che non è il caso di far indugiare i nostri ospiti in ricordi spiacevoli. Credo che abbiamo sentito abbastanza, e quello che ho sentito non mi piace affatto!”
Da ogni parte della stanza giunsero sorrisi favorevoli. Guardò verso Arwen, ed il suo annuire lo sospinse. “Abbiamo visto abbastanza ingiustizie negli ultimi anni, e l’unico rimorso che ho è quello di non essere riuscito a correggerle tutte. Nessuno di noi ha mai rifiutato la mano a qualcuno in difficoltà, e non sarà certo con lei, principessa Leona, che faremo eccezione. E anzi, la tenderemo ancora più volentieri, perché avete qualcosa che raramente si trova in questi giorni. La forza di combattere.”
La ragazza non aveva ancora terminato il suo sorriso che lo stregone si alzò in piedi. “Molto bene, gente di Minas Tirith, direi di procedere subito alla votazione. Niente foglietti di carta, faremo alla vecchia maniera … quanti di voi sono favorevoli ad accogliere i nostri ospiti nell’Alleanza Ribelle? Valgono anche due mani alzate, ricordatevelo!”
Tutta la sala sembrò gonfiarsi, come se una folata improvvisa di vento avesse preso le braccia di tutta la gente e l’avesse sollevata verso l’alto, quasi fino a toccare il soffitto; i nani accolsero l’idea con un’esplosione di grida di festa, gli elfi alzarono elegantemente una mano con un gesto d’assenso, Merry e Pipino sollevarono sia le braccia che una gamba e qualcuno sul fondo fece persino partire un petardo. Il ramingo sorrise: nessun re poteva vantare un popolo migliore. La giovane ospite ed i suoi dignitari non sapevano più dove guardare.
“Perché l’esito di questa votazione non mi sorprende?” mormorò Leia, ma il suo tono sardonico non riuscì a nascondere il sorriso soddisfatto. Ormai il ramingo era abituato a riconoscere le sue espressioni: sapeva quanto la principessa fosse legata alle votazioni eleganti, ai seggi del Senato, alle luci lampeggianti dei burocrati che declamavano le loro pompose leggi nei loro abiti paludati. Era una donna cresciuta con il sogno di una Repubblica migliore, una Repubblica galattica ben diversa dalla gente che ogni giorno cercava di sopravvivere sulla Terra II, che a malapena sapeva leggere e scrivere e che non sentiva le leggi nei rotoli di carta, ma solo nel proprio cuore.
“C’è solo una questione da risolvere …” disse lei, e si sollevò dalla sedia, lo sguardo fisso sull’entourage della nuova arrivata.
Quando vide la chioma di capelli rossi che sbucava tra i soldati ed i maghi, Aragorn capì dove Leia volesse andare a parare. “Se la vista non mi inganna, tra le vostre fila c’è una persona che non possiamo fingere di ignorare. Una persona che si è macchiata di vari crimini al servizio dell’Imperatore Palpatine in passato, e che mi stupisce vedere in compagnia dei suoi attuali nemici”.
“Suppongo che possiamo …”
“No, Leona. Non devi loro nessuna spiegazione”.
Il gruppo di nuovi arrivati si aprì, e persino il mago ubriaco si fece da parte. Zachar uscì da loro con passo deciso, più fermo di quanto il ramingo avesse mai visto in una donna che era sempre stata considerata niente più dello stuoino di Kaspar. “I miei trascorsi con l’Alleanza Ribelle non sono dei più rosei, e preferisco chiarire le cose di persona. Non voglio che le buoni relazioni tra la Resistenza e l’Alleanza si incrinino appena nate solo per colpa mia”.
Decisamente questa NON è la Zachar che conoscevamo …
Gli occhi di tutti furono su di lei, e l’immancabile vocio attraversò tutto il palazzo mentre la maga dai capelli rossi e gli occhi verdi si avvicinò al tavolo delle riunioni con uno sguardo di sfida rivolto verso Leia. Aragorn non sapeva se fosse più strano vederla con quell’aria agguerrita dipinta sul viso o vederla lontana dal guinzaglio di Kaspar. “È vero, sono stata per anni al servizio dell’Imperatore. Non sono mai stata felice di ciò, però …”
“Però potevi benissimo abbandonarlo e venire all’Alleanza” sbuffò Leia, già sul piede di guerra. Accanto a lei lo stregone smise di fumare e le mise una mano sul braccio, ma questo non bastò a trattenerla.
“Sì, è vero, non l’ho fatto. Non subito. Ho avuto … ho avuto bisogno di tempo. E di amici”.
“Quindi possiamo desumere che tu abbia definitivamente voltato le spalle a Kaspar? Sai, cara la mia maga, trovo un po’ difficile fidarmi di qualcuno che ha sempre fatto di tutto pur di compiacere quell’incasinatore di mondi senza scrupoli. Perdonami se mi sembra molto più probabile che tu stia spiando la Resistenza per conto del tuo adorato Kaspar piuttosto che tu abbia deciso di voltargli le spalle mentre uccide migliaia di persone innocente al guinzaglio dell’Imperatore!”
“La mente di Kaspar è condizionata! Lui non è felice di obbedire all’Imperatore!”
“No, infatti, preferirebbe di gran lunga pugnalarlo alle spalle e diventare il nuovo sovrano della Galassia …”
La faccia di Zachar divenne color porpora. Con la coda dell’occhio Aragorn vide il soldato dalla lunga tunica rossa scivolare di un passo ed allontanarsi dal suo gruppo, e si portò a pochi metri dal punto dove le donne stavano discutendo. L’uomo portò una mano alla spada che aveva legata alle spalle, e per puro istinto il ramingo sfiorò il pomo di Anduril, sentendo la familiare freschezza del metallo. Scrutò quel soldato malmesso, ma anche attraverso gli occhiali incrinati si potevano vedere i suoi occhi immobili nel punto in cui Zachar e Leia si stavano fronteggiando. “Io credo …” sussurrò Leia “… che la presenza di questa donna tra le vostre fila potrebbe rivelarsi molto controproducente, principessa Leona. Una spina nel fianco pronta ad abbandonarvi non appena il suo amato Kaspar le lancerà un osso. Non ho passato tutti questi anni a combattere l’Impero senza rendermi conto di quando …”
“Credo allora che dovremmo rivedere i nostri accordi, principessa Leia”.
Le parole della ragazza bionda si riempirono di un gelo che il re non pensava potesse uscire da un corpo così minuto; la giovane rimase seduta, e con deliberata lentezza incrociò le braccia. Zachar cercò di rispondere, ma lei sollevò una mano e le rimandò indietro tutte le parole. Fissò la persona davanti a lei, incurante della decina di anni che le separavano. “So benissimo chi sia Zachar. E so anche benissimo chi sia questo Kaspar che temete tanto. Alcuni di noi lo hanno conosciuto e mi hanno raccontato che essere spregevole sia …” e a quelle parole Aragorn fu certo di vedere la maga abbassare la testa “… ma Zachar ha accettato volontariamente di unirsi a noi. E questo ci basta. Non tutte le persone posso vantarsi di essere difensori della legge, patrioti o martiri sin dalla nascita: è qualcosa che diventiamo, non che ci viene apposta alla nascita come un marchio. Lei ha deciso di cambiare, e tutti noi le abbiamo creduto”.
Era vero.
Quanto era incredibilmente vero.
Aragorn aveva perso il conto di quanta gente avesse incontrato che rispondeva a quella descrizione. E quante di quelle persone si erano uniti alla loro lotta senza apparente speranza. Anakin, Nevius, la stessa Mara, i soldati minori devastati dai massacri ordinati dai loro superiori … una fila di volti che poteva vedere proprio lì, in quella selva di teste, con il capo chino alle parole della giovane donna. Il perdono era la pianta più difficile da coltivare. Ma dopo di esso venivano la delusione e la vergogna, dei fiori che crescevano solo dove la terra era più arida. E uno stava sbocciando proprio in quel momento, quando un velo lucido, quasi impercettibili, riempì gli occhi verdi di Zachar alle parole del piccolo e determinato capo della Resistenza. “Sappiamo benissimo che un’alleanza con voi ci sarebbe solo che d’aiuto, principessa Leia, ma penso di parlare a nome di tutti quanti noi quando le dico che non possiamo accettare il vostro suggerimento. Zachar è una della Resistenza, e la Resistenza non volta le spalle a nessuno dei suoi. Non allontaneremo uno dei nostri. Nemmeno alle condizioni più vantaggiose del mondo, nemmeno se ci proponeste di scacciare il Grande Satana Baan con le vostre sole forze. E con questo credo che non ci sia altro di cui discutere a questo tavolo”.
Clap.
La ragazza fece per alzarsi, ma si fermò a metà.
Clap.
Clap. Clap. Clap.

A quel battito di mani secco se ne aggiunse un secondo, più energico, dal fondo della stanza dove i Jedi erano seduti. Poi un terzo si aggiunse, più rapido, un duetto di piccole mani hobbit proprio dalla primissima fila. Aragorn allontanò la mano dalla spada e si unì a quella piccola pioggia che si trasformò in pochi attimi in un meraviglioso temporale. Tutti coloro che erano seduti si alzarono in piedi ed iniziò una gara incessante a chi battesse le mani con più forza, a cui persino alcuni elfi si unirono con sempre più convinzione man mano che il temporale saliva e scendeva, scrosciava per tutta la stanza ed arrivava a scuotere fino la torre più alta della città dalle mura bianche. L’uomo dal vestito rosso si voltò per un attimo verso il fiume di persine piene di gioia, lo sguardo sorpreso come quello del suo compagno Matoriv o dell’uomo con gli occhiali; ma nulla in quell’istante eguagliò il viso della principessa Leona, i cui grandi occhi marroni sembrarono ingrandirsi per lo stupore. In piedi davanti al tavolo fece scorrere lo sguardo sulla folla in piena ovazione per le sue parole, la determinazione di qualche istante prima svanita quasi del tutto davanti all’inaspettata esplosione di solidarietà. L’unica persona assolutamente immobile era Leia, le cui braccia erano rigide e le mani poggiate sulle ginocchia; alzò gli occhi al soffitto, ma tornarono subito sulla figura alla sua destra che aveva scatenato la cascata di applausi. Ma anche se si fosse accorto dello sguardo infastidito del suo capo, Gandalf non avrebbe smesso neppure per un istante di guidare la folla con le sue mani nodose. Aragorn seguì il suo ritmo, e quando vide che Leia stava riprendendo il discorso si schiarì la voce e si mise in piedi accanto al tavolo, riempiendolo tutto con la sua stessa figura. “Non avrei potuto fare un discorso migliore, principessa Leona! Quello che ha detto … quello che ha detto rispecchia tutto quello in cui crediamo! Ed anche tutto quello che l’Imperatore ed il Grande Satana non possono capire! Non potremmo trovare persone come voi in milioni di anni”.
La ragazza stava per rispondere, ma la interruppe. “Sono perfettamente d’accordo con i nostri ospiti. Insomma, abbiamo accolto nel nostro palazzo centinaia di ex imperiali, quindi perché essere così severi con la nostra Zachar. Anzi, direi di organizzare una gigantesca festa perché ha deciso di voltare le spalle all’Impero ed unirsi alla Resistenza!”
Un’altra ondata di gioia, seguita da Jessie e James che scattarono in direzione delle cucine. “Suvvia, Leia, concedile una possibilità. In fondo l’hai concessa ad Anakin …”
“Dovremmo indire un processo …”
“Perché invece non facciamo una bella votazione?”
“Tanto avete già deciso …” mormorò lei, piuttosto seccata. Il ramingo sapeva che dentro di lei si stava agitando una battaglia accesa tra le sue personali questioni di principio e la necessità di trovare degli alleati. Uno scontro piuttosto acceso, almeno a giudicare dalle occhiate che rivolgeva a Zachar. Il clamore del popolo in festa allontanò l’attenzione degli ospiti dalla principessa dubbiosa, lasciandole il tempo di decidere. Sebbene fossero in democrazia totale, Aragorn sapeva che l’opinione di Leia aveva un peso molto importante, dettato spesso dal senso pratico che la donna aveva e che –ne era cosciente- sia lui che Gandalf avevano in quantità ridotta. “Suppongo che dopo questa dichiarazione anche noi non abbiamo altro da aggiungere” disse, alzandosi in piedi e avvicinandosi a Leona. “Non solo abbiamo problemi e nemici simili. Abbiamo una filosofia in comune. La vostra determinazione nel proteggere uno dei vostri è la prova definitiva che siete gli alleati che stavamo cercando da anni; se desiderate avere Zachar al vostro fianco la accetteremo … se sarete pronti ad assumervi la responsabilità delle sue azioni. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro”.
La ragazza bionda sorrise. “Grazie per aver compreso la nostra posizione. Tutti noi ci assumeremo questa responsabilità, perché sono sicura della persona che abbiamo accolto. Dunque possiamo considerare l’accordo concluso?”
Leia allungò il braccio ed aprì la mano verso Leona. “Assolutamente. L’Alleanza e la Resistenza combatteranno insieme”.
Dietro di loro, Gandalf tirò un respiro di sollievo. Il capo della Resistenza strinse vigorosamente la mano che le veniva offerta, e tutti si protesero meglio per guardare le due donne in quel momento eccezionale, e anche dal cortile si sentirono i preparativi della festa che stava per cominciare. Il re si rese conto che avrebbe superato tutte quelle degli ultimi anni.
“Insieme, per sempre”.
 

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 - L'alba dell'angelo ***


Capitolo 17 - L'alba dell'angelo





Sephiroth




Stupido nipote, possibile che tu non sappia vedere al di là del tuo naso? Ti ho dato il potere di sbaragliare mille eserciti, di incenerire ogni cosa al tuo passaggio, di elevare il nome della nostra famiglia al rango degli dèi e tu cosa fai? Sgrani i tuoi grandi occhi viola e decidi di nascondere il Puzzle del Millennio e lo spirito che IO vi ho imprigionato con tanta fatica.
Non capirò mai questo tuo pacifismo.
Solo chi ha le armi pronte ed affilate può parlare di pace.
Il mio Seto lo sapeva bene.
Dai diari di Aknadin, Grande Sacerdote sotto il regno del Faraone Atem, ottavo del suo nome.




La stanza era quasi immersa nella penombra. Vi erano solo tre candele sul tavolo, ma evidentemente per Hyunkel erano più che sufficienti. Hadler entrò, e la prima cosa che notò fu l’assenza di Amudo: il comandante del Fushikidan era sempre stato una persona metodica proprio come i suoi non-morti, e la grande spada incantata veniva sempre appoggiata su dei legacci di cuoio che pendevano al di sopra del letto. Adesso i legacci erano vuoti, e non vi era nulla di appeso, come se vi fosse qualcosa di vuoto in quella stanza già di per sé fredda e austera.
Hyunkel sollevò lo sguardo dal tavolo ed incontrò i suoi occhi. “È tutto pronto?”
“Veramente ero venuto per farti la stessa domanda”.
Gli occhi del ragazzo erano segnati da grandi cerchi viola. Hadler sapeva che gli umani avevano bisogno di un maggior numero di ore di riposo rispetto alla famiglia demoniaca, ma il giovane comandante del Fushikidan aveva sempre ignorato anche i bisogni più elementari del suo corpo pur di adattarsi a loro e non far pesare la sua naturale inferiorità. Eppure non riusciva a nascondere la stanchezza di quel momento. Stava per consigliargli di riposare ancora quando l’altro si sollevò dalla sedia e gli mostrò l’oggetto che scintillava sul tavolo da lavoro. “Che te ne pare?”
L’oggetto in questione aveva una forma piramidale. La sua superficie d’oro mandò un bagliore che si riflesse con le decorazioni del suo mantello. Si avvicinò senza toccarlo, e solo quando l’oggetto fu ad un palmo dal suo naso vide che era composto da tanti frammenti incastrati l’uno con l’altro con grande precisione. Solo su una facciata mancava un tassello, per precisione uno appoggiato vicino alle candele, dalla forma rotonda e con un grande occhio nero dipinto al di sopra.
Fece un cenno d’approvazione. Il Puzzle del Millennio era praticamente completo.
Il Grande Satana non aveva sbagliato nell’assegnarlo a Hyunkel: gli umani trovavano molto diletto nel risolvere indovinelli, enigmi o altre cose che li costringevano a non fare nulla ed arrovellarsi il cervello. Per i demoni non era così semplice: Hadler detestava rimanere immobile a fissare qualcosa che non poteva combattere.
Adesso la magia dell’oggetto era palpabile; quando i pezzi erano sparpagliati nella loro scatola non gli erano apparsi degni della minore delle sue attenzioni, ma in quel momento …
“Non per essere disfattista, ma sei sicuro di volerlo fare?” disse. Il suo compagno non riusciva a percepire la magia come lui. “Un oggetto magico non va mai preso alla leggera”.
“Me lo ha affidato il Grande Satana. È un onore completarlo”.
“Non sto dubitando del giudizio del Grande Satana …”
“E di cosa, allora?”
Come se fosse semplice spiegarlo …
Gli sembrava di rivedere la sagoma di Bartosh, immobile davanti a lui con le braccia incrociate. Aveva il sesto senso che il vecchio scheletro soldato non avrebbe mai approvato una cosa del genere, specie quando il soggetto di quell’esperimento era il suo preziosissimo figlio. Beh, è anche vero che Bartosh non approvava mai nulla a prescindere …
Era il suo sesto senso che pizzicava tra un battito e l’altro dei suoi cuori. “Nulla, Hyunkel. Semplice nervosismo prima di una battaglia”.
Il ragazzo sollevò il frammento mancante, quello con l’occhio nero. Nonostante il pezzo si trovasse all’altezza della fiamma della candela, esso era l’unico a non riflettere la luce; l’umano se lo portò al viso, e con un polpastrello delineò i contorni del minuscolo oggetto. “Qualunque cosa succeda, amico mio, non farò pentire il Grande Satana di avermi accolto di nuovo tra le sue fila. Mi ha chiesto la vittoria, e non desidero altro che portargliela per primo!”
Prese il resto del Puzzle Millenario, e con un unico movimento inserì il tassello mancante.
Hadler non aveva ancora finito di tirare un respiro di sollievo che una luce bianca esplose davanti a lui; la magia fu così improvvisa che sollevò le sue difese troppo tardi, e quando impattò contro la porta finì per distruggerla con il suo stesso peso. L’energia incantata si avventò su di lui come un fuoco, la sorgente delle fiamme candide che pulsava nel punto in cui doveva esserci l’oggetto Millenario. Nonostante la pressione schiacciante richiamò dall’aria dei cristalli di ghiaccio e scagliò la magia Iora nella luce: le schegge riflessero quel bianco fastidioso e si dissolsero, accecandolo e costringendolo a richiamare delle ombre per schermarsi gli occhi e prepararsi a combattere.
“HYUNKEL!”
Non ci fu nessuna risposta dall’altra parte della stanza. Il demone mandò un grido di battaglia, addensò le ombre contro il suo braccio destro e mosse tre passi avanti verso il centro della luce, scansando il potere candido che cercava di avvolgersi intorno a lui ed arderlo. Nel bianco puro non vi era nemmeno la sagoma del suo amico.
“HYUNKEL!”
La spada comparve dal nulla.
Hadler fu avvertito da un debolissimo ronzio: scostò la testa in tempo, ed una parte della sua chioma fu tranciata di netto dall’enorme lama metallica. La luce iniziò a diradarsi, ma anche in quel momento il demone fu cosciente solo dell’arma vicino alla sua testa, con la punta che per poco non sfiorava la parete e l’elsa che era lontanissima, persa ancora nelle ultime frange di bianco. Non aveva finito di chiedersi quale spada potesse avere una lama così incredibilmente lunga che la luce bianca svanì, risucchiata dal potere del Puzzle.
Gli occhi verdi che adesso lo fissavano avevano qualcosa di antico.
E di incredibilmente pericoloso.




Sotto di loro l’oceano scintillava. Tarkin aveva sempre notato una relazione inversamente proporzionale tra il livello di civiltà di un mondo e la grandezza dei suoi oceani –Kamino compreso, perché nonostante la tecnologia avanzata il pianeta dei clonatori era uno dei luoghi più insopportabili della Galassia- ed anche in quel caso fu felice di avere ragione. La massa d’acqua quasi argentea si tinse delle macchie scure create dall’ombra degli Star Destroyer, ed un pulsare rosso sul quadrante alla sua destra lo avvisò che erano giunti sulle coordinate previste. “Disponetevi in formazione” ordinò al comlink, e l’attimo dopo vide l’AC Milan virare verso destra e portarsi in alto a copertura del Basilisk. Il nuovo stormo di Caccia TIE che aveva appena fatto giungere da Geonosis riempì in un attimo la sua visuale e creò una rete difensiva intorno al nucleo di Star Destroyer; i rinforzi erano abbondanti, ma non infiniti. Una variabile a cui da molti anni non era abituato.
La piccola tregua gli aveva permesso di avere comunicazioni private con l’Imperatore, e le notizie non erano affatto buone. L’invasione dei non-morti a Coruscant era stata respinta con successo, ma il dispendio di macchine e soldati era andato oltre ogni loro previsione prima dell’inizio della guerra, e gli attacchi dei loro nemici ai vari pianeti non cessavano. In questi ultimi casi i danni erano stati piuttosto limitati, ma ciò che preoccupava il governatore era la piena disponibilità dei demoni di mezzi di teletrasporto che a loro non erano concessi. Come riflesso strinse tra le dita il sacchetto con le Pietre della Sapienza che teneva nella tasca della divisa. L’Imperatore aveva acconsentito alla sua richiesta di tenerle con sé nel proseguimento della battaglia, ed era una fortuna, perché le gemme verdi rappresentavano l’unica vera via di fuga se le cose si fossero messe davvero male. Parte delle loro forza era comunque impegnata contro l’Alleanza, e non potevano permettersi di sprecare eccessivamente le loro risorse.
Particolare che lo rendeva ancora più nervoso.
Tamburellò le dita sul tavolo in attesa che le navi si disponessero sull’oloschermo nella posizione che aveva ordinato. L’AC Milan non aveva ancora completato le riparazioni, ma non avevano tempo da sprecare: sarebbe stato perfetto a copertura della nave ammiraglia. Lo Shadowkeeper e il Nemesis comparvero sui sensori in perfetto orario dalla missione cui le aveva assegnate, ed a giudicare dalla velocità dei due incrociatori ne dedusse che il piano si stava svolgendo nel migliore dei modi; le navi si disposero una nel quadrante K e l’altra nel quadrante L mentre alzavano i deflettori e dai loro ventri sbucava un’altra dozzina di Caccia e qualche piccolo velivolo da incursione.
L’attimo seguente l’enorme schermo centrale si accese. Non c’erano più soltanto i Super Star Destroyer, i Caccia e le navi di supporto. Adesso si scorgevano centinaia di forme organiche, in perfetta formazione, che si muovevano per circondare la loro flotta a tenaglia su due lati, come le chele di uno scorpione velenoso. Solo che quelli non erano scorpioni.
“Prepararsi ad attaccare”.
La voce di un ammiraglio giunse dal comlink. “Obiettivi agganciati! Per l’Impero Galattico!”
L’attacco incominciò.
Lo Shadowkeeper e il Nemesis avevano ricevuto il compito di rompere la tregua. Avevano raso al suolo qualche cittadina costiera, bersagli non vitali ma abbastanza per spingere i rettili alati a riprendere la battaglia ed a seguirli sul campo che lui stesso aveva scelto. I rinforzi erano arrivati, non enormi ma sufficienti, e lui non aveva alcuna intenzione di bruciare questo vantaggio offrendo ai draghi altro tempo per leccarsi le ferite. I sistemi di spostamento oltre l’atmosfera stavano ancora dando del lavoro ai droidi astromeccanici, ma le possibilità di riparazione lontano dai cantieri di Geonosis erano troppo basse. Dovevano ingaggiare battaglia quando avevano le truppe nuove o riposate, e quello era il momento.
I Caccia TIE, molto più veloci dei draghi, furono i primi ad ingaggiare i draghi in violenti duelli. Di lì a poco lo spazio azzurro s’illuminò di esplosioni vermiglie.
Un aiutante gli si avvicinò. “Abbiamo aumentato la potenza dello scudo di prua, governatore”.
“Bene. Raddoppiate la potenza della batteria principale e …”
All’improvviso l’incrociatore fu scosso da esplosioni provenienti dal basso e tutti persero l’equilibrio. Tarkin cercò di aggrapparsi al tavolo, ma anche quello cadde a terra.
“Qualcosa ha urtato il nostro fianco destro!” gridò un altro ufficiale, barcollando sul ponte. Complimenti per la sagacia … mormorò tra sé Tarkin, ma nella foga di rimettersi in piedi non riportò il suo pensiero ad alta voce. Guardò in direzione del transparacciaio, ed i suoi occhi colsero una sagoma scura che per un istante oscurò anche la battaglia in corso nascondendo con la sua ombra l’intero combattimento serrato. La forma scomparve e poi comparve dopo nemmeno un secondo, violenta come solo un’ala di drago poteva essere. Ma si trattava del drago più grande che Tarkin avesse mai visto –non ne aveva mai visti molti, c’era da ammetterlo-, una creatura nera come la veste dell’Imperatore che in un istante si portò verso l’alto, ed il governatore vide scorrere proprio oltre il finestrino le squame e la forma possente del collo e del corpo mentre la bestia si portava al centro dello schieramento rovinando la formazione.
La bestia mandò un verso di battaglia che superò anche il detonare dei cannoni laser.
Fu in quel momento che Tarkin sentì ancora più pesante l’assenza di Darth Maul; il suo amico era in giro per il pianeta a caccia dei Ribelli e lo stesso governatore era stato felice di sapere che il Sith si sarebbe trovato al sicuro, distante da quella battaglia aerea dove non avrebbe potuto fare la differenza. Eppure davanti al drago enorme sentì il bisogno di qualche battuta del suo amico che lo tirasse su di morale, specie quando questo aprì le fauci e si avventò su un fianco dell’AC Milan squarciandone la stiva in un lago di scintille che lo abbagliò. Gli altri rettili seguirono l’esempio della creatura nera e planarono in picchiata sulla nave, esponendosi persino alle batterie turbolaser. Due furono colpiti al centro della testa e si inabissarono nell’oceano, ma gli altri raggiunsero la plancia e per quanto l’incrociatore tentasse manovre elusive quelli lo circondarono ed abbatterono prima il transparacciaio delle finestre e poi il ventre che nascondeva gli hangar. Il drago nero si lanciò sulla nave con tutto il proprio peso, e quando una delle sue zampe posteriori affondò sulla sommità dell’AC Milan come se si fosse trattato di un foglio di similcartone capì che qualunque manovra per recuperare lo Star Destroyer si sarebbe trasformata in un fallimento.
Attivò il comlink. “A tutte le squadre Gamma e Omega, attaccate lo stormo proveniente da ovest! L’AC Milan è perduto!”
Attraverso gli auricolari giunse di rimando la voce del comandante della squadra Omega. “Governatore, possiamo ancora …”
“Comandante, le consiglio di cercare una fine valorosa in nome dell’Impero, perché sarà di sicuro meno spiacevole di quello che spetta a coloro che obiettano i miei comandi”.
Per quanto cercasse di inculcare la disciplina più ferrea era chiaro che anche i membri più dotati avevano dei difetti. Osservò i due stormi di Caccia TIE allontanarsi dall’incrociatore quasi completamente ricoperto di squame, code ed ali e seguì le piccole figure verso il secondo punto caldo della battaglia, dove la copertura di fuoco sembrava reggere l’urto delle bestie.
Intorno a lui i droidi astromeccanici ed i tecnici lavoravano alle riparazioni in maniera frenetica mentre gli allarmi risuonavano, le spie luminose lampeggiavano mentre la gigantesca nave su cui si trovava deviava dalla rotta nel tentativo di evitare una seconda collisione con l’enorme drago mentre la patina rossastra oltre i finestrini gli fece capire che lo scudo deflettore era tornato attivo. “Azione evasiva. Squadra Beta: virate e rimanete nel settore di attesa KF-2. Squadra Iota …”
Dall’altra parte del ponte un controllore lo interruppe. “Governatore Tarkin, nuovi draghi in arrivo nei settore PO-2 e BV-11”
Fino a quanto durerai, Cavaliere del Drago? pensò stringendo con più vigore il sacchetto delle Pietre della Sapienza mentre l’oloschermo si riempiva di nuove figure.
“A tutti gli incrociatori, disimpegnatevi e manovrate in basso, avvicinatevi all’acqua! Dobbiamo cambiare posizione!” gridò sul canale di comunicazione. Era il momento di vedere se la tattica che aveva ideato poteva funzionare; non aveva scelto quel campo per nulla, ed era il momento di disporsi sulla scacchiera. Gli Star Destroyer iniziarono le manovre di disimpegno, e tutte le squadriglie di velivoli più piccoli si alzarono a copertura; lo stesso Basilisk iniziò la discesa, e Tarkin vide l’immenso specchio d’acqua avvicinarsi sempre di più mentre la sagoma del Nemesis lo affiancava mentre allo stesso tempo silurava un altro di quei rettili.
Tutte le navi di grandi dimensioni riuscirono ad eseguire il suo ordine nell’arco di un paio di minuti in cui il governatore temette di vederne esplodere uno o due, ma tutti riuscirono ad evitare danni massicci disponendosi nella formazione che aveva ideato. I ventri delle navi erano a pochi metri dall’acqua, tranne il Black Kamino che era dotato di dispositivi di ammaraggio e si era disposto in modo tale da galleggiare nonostante l’enorme mole. La formazione era compatta proprio come aveva progettato, ed il vuoto lasciato dall’AC Milan fu rimpiazzato da una disposizione piuttosto azzardata del Nemesis.
“E adesso fuoco a volontà! Concentratevi solo sui quadranti che vi sono stati assegnati!”
Il suono della sua stessa voce fu coperto dalle batterie di turbolaser che non stavano aspettando altro che quell’ordine. Raggruppati uno accanto all’altro, gli incrociatori disegnarono in cielo una vera e propria cupola di fuoco e trasformò l’aria in un vero inferno. Per un attimo credette che le esplosioni della nave ammiraglia fossero riuscite a colpire le ali del gigantesco drago nero, ma la bestia era illesa e con un potente colpo d’ali si sollevò lontano dal fuoco incrociato. L’oloschermo riprese a funzionare, e la disposizione compatta della flotta riuscì per un solo attimo a tranquillizzarlo. Le bestie alate scendevano come forsennate in violente picchiate, ma la copertura dei laser era perfetta; quelli che non riuscivano ad allontanarsi venivano falciate via dalle raffiche strette e potenti.
“Non perdete il ritmo! Non lasciatene passare nemmeno uno!” gridò al comlink. Le ultime battaglie gli avevano mostrato che combattere in aria era una scelta pessima contro i padroni del cielo. Nonostante il Ryumajin avesse contribuito ad indebolire la flotta con la sua stessa persona era anche chiaro che nell’atmosfera i loro incrociatori interstellari erano troppo svantaggiati in qualunque manovra, mentre i Caccia TIE erano troppo piccoli per costituire un vero asso nella manica. I draghi potevano aggredirli da ogni direzione, dal basso o dall’alto, da nord a sud, dunque l’unica soluzione possibile era non lasciare loro punti di manovra. L’oceano al di sotto era perfetto. I draghi avevano tanti poteri, ma di certo non sapevano nuotare. “Continuate senza fermarvi! Non hanno punti dove riposarsi, non potranno attaccare in eterno!”
Un drago blu cercò un varco nella loro difesa, ma i cannoni dello Shadowkeeper lo colpirono proprio quando era riuscito a superare la prima ondata di fuoco; la raffica dell’incrociatore lo colpì ad una zampa, ma quando quello cercò di risalire fu colpito una seconda volta e le sue ali andarono in fiamme. Rovinò in acqua con un’ondata che fece sollevare di poco la Black Kamino, ma la nave era testata per ben altre situazioni. Un rettile verde soffiò qualcosa contro di loro, ma le fiamme gli furono ricacciate in gola quando un raggio laser centrò in pieno la sua bocca e gli fece esplodere il cranio.
Non era mai stato un amante delle battaglie navali, ma stavolta l’oceano era il suo più potente alleato. Aveva scelto il punto più lontano da qualunque costa per una ragione ben precisa. I draghi erano esseri viventi: mangiavano, dormivano e si riposavano. Ma in quel punto non c’era nemmeno un’isola, ed i pochi scogli che sarebbero potuti servire loro da appiglio erano stati fatti saltare in aria sistematicamente dal Black Kamino; i nemici erano costretti a planare e poi risalire, lontani migliaia di chilometri da qualunque forma di terraferma, e questo poteva fare la differenza. Vediamo quante energie hanno queste bestiacce!
“Date tutta l’energia ai cannoni e diminuitela ai deflettori inferiori, non badate a ciò che ci sputano dall’alto ma pensate a colpirli!”
Gli artiglieri sui Caccia, prima sbaragliati dall’attacco nemico, erano riusciti a riformare le squadriglie. Si precipitarono immediatamente ai posti di combattimento e dopo pochi secondi investirono i draghi con una seconda ondata di fuoco di fila sempre più intenso. L’enorme drago nero si allontanò dallo stormo e si diresse ai piccoli velivoli. Tarkin non fece in tempo a diramare un ordine che sotto il suo sguardo la bocca piena di zanne si chiuse con un rapidissimo movimento della testa e distrusse un Caccia in un colpo solo, incurante delle fiamme che nascevano dal piccolo incursore. Ondeggiò il collo e la carcassa del velivolo venne scagliata in aria colpendo un secondo Caccia, poi il mostro ruggì con una violenza che fece tremare le pareti in duracciaio del Basilisk. Nonostante la mole riusciva ad evitare il fuoco incrociato meglio degli altri predatori.
In ogni caso il piano stava andando nella direzione giusta. Il rilevatore termico gli indicò che gli assalitori avevano in media l’8% in meno di velocità da quando la battaglia era iniziata; i parametri danzavano sullo schermo, ma erano piuttosto incoraggianti. Quella formazione era l’unica che potesse avvicinarsi lontanamente al termine vincente.
Alla sua destra si accese l’ennesima spia blu, proprio quella che stava aspettando. “Cannone anti-K carico all’85%, governatore. Attendiamo il suo segnale”.
“Molto bene” rispose, premendo il bottone sotto le dita. “Portate il Basilisk al centro della flotta ed aprite il fuoco. Questo non lo dimenticheranno facilmente”.
Lentamente la nave ammiraglia si portò al centro mentre gli altri incrociatori si spostavano leggermente per agevolarle il passato senza però interrompere il muro di fuoco che ormai impediva persino di vedere il cielo. Le deflagrazioni avevano creato una cupola di fiamme che era tutto ciò che li separava dai mostri, ma proprio come tutte le cupole il punto più interessante era la sommità.
Sotto i suoi piedi delle vibrazioni lo avvisarono che l’arma aveva appena accumulato tutta l’energia dei cannoni ausiliari, e sullo scafo i dispositivi di puntamento erano ormai approntati. L’immagine del cannone anti-K comparve sull’oloschermo ed in pochi secondi ricoprì più di metà della grandezza del Basilisk ben protetto dallo sbarramento delle navi alleate. Non aveva mai apprezzato molto le dimensioni eccessive dell’arma, ma tutto ciò che usciva dai laboratori di Lemelisk non era famoso per essere tascabile.
Gli stantuffi laterali si aprirono a raggiera. Il pannello indicava una carica del 92%.
“Bene. Ampliate quanto più possibile il raggio. A tutti i Caccia: sparpagliatevi!”
All’improvviso una spia rossa si accese. “Presenza di nuove forme organiche, governatore! Stanno convergendo verso di noi!”
“Da dove …?”
Oltre il transparacciaio il mondo si tinse di fiamme. Tarkin guardò, ma il suo sguardo arrivò giusto in tempo per vedere la sagoma del Black Kamino squarciata a metà, il ponte principale divelto dalla zampa di un drago azzurro che stava trascinando ciò che restava della prua sotto le onde. Dai flutti un secondo rettile emerse, e dalla sua bocca partì un soffio di gelo. Lo Shadowkeeper aveva quasi annullato i deflettori inferiori, ed in pochi secondi il governatore vide la stiva dell’enorme incrociatore spazzata via come un mazzo di carte dalla mano di un bambino dispettoso. La creatura lanciò in aria altre schegge di ghiaccio, poi il lungo collo si immerse di nuovo. Quella che sembrava la coda più lunga e sinuosa che avesse mai visto si abbatté come una frusta sui resti della Black Kamino.
“Ci attaccano dall’acqua!” gridò nel comunicatore, odiando se stesso per l’ovvietà delle sue parole. “Attivate immediatamente i deflettori inferiori, attivate …!”
Una colonna d’acqua si generò dall’oceano, investendo in pieno lo Shadowkeeper; nel muro liquido che si formò sotto i suoi occhi vide squame, code zampe, le figure di draghi che scivolavano nell’elemento fino a raggiungerne la sommità ed attaccare. L’incrociatore era a diversi metri dal livello dell’acqua, ma non bastò. La furia azzurra lo investì una seconda volta, ancora più potente, rovesciando su di lui tutta la forza degli abissi. Non aveva mai creduto che un attacco simile sarebbe riuscito a far vacillare uno Star Destroyer imperiale. Ma del resto non aveva mai nemmeno creduto che i draghi potessero nuotare.
Le figure che avevano creato la colonna d’acqua non avevano le ali. I loro corpi erano più lunghi e flessuosi di quelli dei loro compagni in aria, con delle zampe robuste come quella che qualche istante prima aveva affondato un incrociatore. Le squame erano leggermente distaccate come se volessero aggrapparsi a tutta l’acqua dell’oceano, ed i musi avevano una fila di zanne che non avevano nulla da invidiare a quelle dei draghi sputafuoco.
L’oloschermo si riempì di decine di queste figure, ed il governatore vacillò quando un colpo di coda fece virare il Basilisk di quasi novanta gradi; la nave ammiraglia aveva riattivato i deflettori, ma questo non levò nulla al terribile contraccolpo. I Caccia TIE corsero immediatamente in loro soccorso, ma i loro turbolaser erano troppo piccoli per raggiungere il fondale e si trasformarono in getti di vapore roventi che non fecero altro che peggiorare la situazione. Erano circondati, senza alcuna possibilità di manovrare per uscire dalla posizione di stallo dove lui stesso li aveva condotti.
Il cannone anti-K era al 98%.
Aveva una sola possibilità.
Se fosse riuscito ad aprirsi un varco in alto avrebbe avuto abbastanza tempo per permettere alle navi di riprendersi quota ed allontanarsi dall’oceano. Non era molto, ma era uscito da situazioni più disperate.
La spia verde indicò il 100%. “Fuoco!”
I motori risposero al suo ordine con un unico, potente ruggito, ma la lieve esultanza gli si spense nel petto.
I draghi sopra di loro si erano allontanati, lasciando spazio ad un’unica figura. Il termorilevatore indicò un corpo decine di volte più piccolo dei draghi, e non gli ci volle molto a capire di chi si trattasse.
Il Cavaliere del Drago piombò verso il basso, più veloce di qualsiasi predatore. Superò lo sbarramento di fuoco senza alcuno sforzo, diretto al centro. Gli strumenti iniziarono a spegnersi uno dopo l’altro, sovraccaricati della sua stessa energia. “Annullate il …!”
Il cannone anti-K fece fuoco in quello stesso istante, il generale Baran sulla sua traiettoria. Il flusso al plasma esplose dal ponte con una forza inaudita e si diresse contro il cielo, diretto nel punto in cui fino a qualche istante prima vi erano soltanto i draghi. L’ultima cosa che si spense fu lo schermo, che gli mostrò l’immagine della creatura semidivina sguainare la Spada del drago Diabolico contro il raggio prima di annullare le sue funzioni con un flebile ronzio. La sala comandi piombò nel buio più assoluto, gli allarmi iniziarono a suonare all’impazzata.
“Governatore, non è possibile, il flusso del cannone anti-K sta tornando in …”
L’ultima cosa che Tarkin vide fu un’ondata di luce bianca nascere proprio sopra di lui, e l’aria che veniva violentemente invasa da allarmi, lamiere distrutte, grida e fiamme, l’odore dei circuiti che esplodevano uno dopo l’altro. Il boato sovrastò ogni cosa, ed i suoni si unirono tra loro fino a trasformarsi in un ruggito potentissimo che gli entrò nel cervello e scese fino alla base dei suoi polmoni.
Quando riaprì gli occhi era nella sua stanza a Coruscant, le dita serrate intorno al sacchetto delle Pietre della Sapienza, la cui luce verde era l’unica prova vivente del suo teletrasporto. Guardò il soffitto, privo di forze, cercando di trovare un modo per spiegare all’Imperatore come fosse riuscito a perdere un’intera flotta.



Hadler respirò l’aria di quel nuovo pianeta. Aveva uno strano sapore metallico, ma la temperatura era piacevole. Un vento forte gli soffiò sulla faccia e portò con sé un odore pungente e qualche strano, sporadico verso. Fin dove il suo sguardo poteva estendersi vi erano solo pianure rosse e rocce frastagliate che serpeggiavano tra le alture e le montagne piatte. Il viceammiraglio Kratas, l’umano che avevano catturato, aveva assicurato che Geonosis era un pianeta privo d’acqua superficiale, una rossa landa arida e deserta.
Hyunkel si gettò il mantello sulle spalle e lanciò un insulto a Killvearn, sparito con la Pietra Dimensionale subito dopo averli trasportati lì. Aveva uno sguardo battagliero, e stringeva il Puzzle Millenario tra le mani.
Il demone non era abituato a vederlo senza spada, ma oggi il suo compagno non ne aveva bisogno. Si accorse di essere sollevato, molto più di quanto immaginasse: dopo la sconfitta a Coruscant aveva riflettuto molto sulle proprie mancanze come guida. L’esuberanza del suo amico umano aveva spinto le loro truppe in una trappola, ma Hadler non riusciva a fare a meno di sentirsi responsabile. Lui doveva amalgamare i vari corpi d’armata ed aveva fallito. Era molto meglio in quel modo, con i capelli al vento e l’aria arida nei polmoni, lui e Hyunkel, niente sottoposti da proteggere o truppe da incitare. La vecchia maniera rude e spiccia, quello per cui si era sempre allenato.
Non sono proprio tagliato per comandare.
“Siamo sicuri che possiamo fidarci di quel prigioniero?” disse Hyunkel, arrampicandosi su una roccia per vedere meglio. “Questo posto è orribile”.
“Non siamo qui per goderci il panorama”. Una vasta pianura si apriva sotto i loro occhi, con numerose sagome che si stagliavano alte in lontananza, poco distinguibili oltre il vento carico di sabbia. Hadler mosse le mani e creò una Visione Distante. Sbuffò sotto l’energia consumata dal potente incantesimo di divinazione, ma davanti a lui l’aria perse tutta la sabbia e comparve l’immagine di due grandi torri che si trovavano oltre la pianura; non stalagmiti naturali come quelle che punteggiavano il paesaggio di Geonosis, ma strutture artificiali. Lentamente estese la Visione per permettere anche al suo compagno di guardare, poi osservò attentamente i lati.
Schiere e schiere di astronavi dell’Impero erano allineate sulla pianura, ferme su piattaforme. Il demone vide un’altra piattaforma che saliva accanto ad una nave, scaricando migliaia di droidi da battaglia che salirono a bordo del vascello. L’astronave partì dopo qualche minuto, e sulla piattaforma atterrò di nuovo un’altra nave. Un’altra piattaforma salì in superficie, di nuovo carica di droidi che si imbarcarono sulla nave in attesa. E anche quella decollò.
“Sembra che l’umano abbia detto il vero”, mormorò e guardò ad est, verso l’orizzonte, cercando di valutare quanto tempo mancasse al tramonto. Secondo quanto riportato dal prigioniero, l’Impero Galattico aveva migliaia di pianeti da cui attingere per ottenere risorse: una lotta impari quella che stavano sostenendo, perché la famiglia demoniaca aveva un solo mondo e non aveva alcuna intenzione di violentare la natura come facevano quegli sporchi umani. Il viceammiraglio aveva citato tanti di quei pianeti che gli aveva confuso le idee, ma quando il discorso era virato sulla produzione delle armi il tutto era diventato molto più interessante. Se le sue informazioni erano esatte, l’Imperatore Palpatine non aveva fabbriche di armi o droidi in ogni pianeta: preferiva usarne solo pochi, ma trasformare quei mondi in immense aree dedite soltanto all’industria bellica, possibilmente pianeti inospitali dove poche persone –amici o nemici- potevano giungere per caso. Geonosis, il pianeta rosso, sembrava fatto allo scopo: Hadler non aveva dubbi che l’aggettivo inospitale fosse stato coniato proprio pensando a quelle lande secche e deserte. Le navi ed i droidi che stava osservando nella Visione non erano altro che ciò che accadeva in una manciata di minuti in una frazione infinitesimale di quel pianeta: un brivido corse lungo la sua schiena all’idea delle forze del loro avversario.
“Un notevole schieramento” mormorò Hyunkel. “Anche con il Fushikidan al massimo delle forze avremmo difficoltà a prendere quell’insediamento”.
“È il luogo migliore per testare il potere di quel Puzzle. Anche se ho qualche dubbio: non mi fido molto di un oggetto che viene dalle mani dell’Organizzazione. Quello spirito mi inquieta”.
Quello spirito ha un nome”.
Al dire così il ragazzo gli porse il Puzzle, quasi a conferma di quello che diceva. Ormai avevano capito il funzionamento dell’oggetto dorato: ogni volta che il suo possessore lo richiedeva, la creatura che dimorava dentro quei tasselli luminosi prendeva vita, ed il corpo di Hyunkel ne assumeva le sembianze. E, cosa più importante, i poteri. “Si chiama Sephiroth”.
“Perché, ti parla?”
“Non direttamente. Ma quando prendo in prestito la sua forza sento … sento qualcosa. Ricordi, almeno così mi sembrano, ma sono troppo frammentati per dirti qualcosa di chiaro. Non riesco a capire da dove venga, né come sia finito qui dentro. L’unica cosa certa è che è animato da una rabbia incredibile”.
“E pensi sia sicuro comandare una creatura così instabile?”
“Sephiroth è sotto il mio controllo. Sono io a guidare ogni sua azione”.
Hadler osservò di nuovo le torri attraverso la Visione. L’entrata del complesso era strettamente sorvegliata da droidi da battaglia: oltre le navi atterrate si vedeva l’ingresso di un edificio, ed anche a quella distanza emergeva una lunga fila di nastri trasportatori e macchine che si estendeva fino ad una caverna sotterranea. Tutt’intorno c’erano quelli che dovevano essere geonoisiani –creature dalla pelle rossastra, la testa grossa e lunga dagli occhi bulbosi grandi come palpebre- che lavoravano in vari punti della produzione dei droidi. Il semplice vedere come l’Impero costruisse le sue macchine gli dava il voltastomaco. Hyunkel gli fece un cenno d’assenso e scese lungo un sentiero roccioso, stretto e ripido, diretto alla pianura ed all’insediamento. “Vado ad offrire la gloria al Grande Satana”.
“Sei sicuro di …?”
L’altro si voltò, con un velo scuro sugli occhi chiari. Rivide l’espressione di dolore che aveva solcato i lineamenti dell’umano in tutti quei giorni, ma c’era anche qualcosa di nuovo. Qualcosa che non aveva mai notato e che brillava proprio in quel momento, quando la stella di carta sul nastro azzurro scivolò da sotto i suoi panni. Il cipiglio duro ed inflessibile di Bartosh. Il demone sospirò, sapendo che stava per affrontare una battaglia persa. “Cerca solo di non eccedere. Io sono qui, hai le spalle coperte”.
Il ragazzo gli sorrise, poi si accorse dell’oggetto che gli era sporto e lo rimise subito sotto la tunica. Scese nel sentiero, accompagnato solo dal rotolare delle rocce, poi scomparve nel vento rosso e si mosse in direzione della base imperiale.
Hyunkel sa quello che fa, pensò tra sé, cercando di vedere in quello spazio arido la chioma azzurrina dell’amico. Non posso negargli la mia fiducia proprio adesso. Il Grande Satana gli ha concesso la sua, ed io non devo essere da meno. Ha bisogno di redimersi, ed io devo solo stargli vicino. Anche se …
Quel Puzzle Millenario continuava a non piacergli. Così come l’Occhio, l’altro oggetto dorato che avevano recuperato ai Membri dell’Organizzazione. Lo scettro nero aveva il potere di prolungare la vita, e quel dono lo avevano accettato tutti con gioia. Ma quei due oggetti avevano qualcosa di strano, qualcosa che affascinava Zaboera, interessava il Grande Satana ma inquietava lui e tutti gli altri demoni minori che vi erano entrati a contatto. C’era un tipo di magia che non conosceva: vi erano degli incantesimi imbrigliati, ma la loro risposta al suo potere era strana, come se vi fosse qualcosa che li distorcesse. Il Puzzle completato aveva risvegliato lo spirito che vi dimorava, ma quando si era manifestato per la prima volta alterando il corpo di Hyunkel, Hadler non aveva percepito alcun incantesimo di evocazione o invocazione attivarsi, nessun richiamo o potere che rivelasse una forza di alterazione. Era semplicemente … apparso, venuto da quella chiamata invisibile. E questo non riusciva a spiegarselo. Né provava interesse nello studiare il Puzzle a fondo, come invece intendeva fare l’arcivescovo stregone una volta usato lo spirito per sconfiggere l’Impero. Nessuno di loro aveva provato ad attivare l’Occhio, ma il demone temeva che avrebbe potuto richiamare un potere devastante.
Il vento portò con sé il rumore della sabbia sulle rocce, ma nemmeno il più piccolo indizio dei passi del suo amico.
Vi erano troppi poteri in ballo. Troppe forze che erano entrate di prepotenza nella loro vita millenaria e che sembravano divertirsi a sfuggire dal loro controllo. I primi erano stati i Nuclei Neri, quegli esplosivi magici creati dal Membro dell’Organizzazione prigioniero nel Baan Palace: la loro potenza distruttiva era eccezionale, ma Hadler tendeva a non fidarsi troppo di armi costruite dagli esseri umani. Poi erano venuti quegli Oggetti Millenari, ed il fatto che lo stesso Grande Satana o Baran non sapessero identificare il tipo di magia gli faceva correre un brivido lungo la schiena tutte le volte che qualcuno toccava quei poteri dorati. E per concludere c’era Killvearn, abbastanza inquietante da far sembrare tutte le sue preoccupazioni nient’altro che inezie per bambini; da quando Mistobaan era stato rapito sembrava che la baldanza del lugubre emissario fosse più che raddoppiata. Il Grande Satana non aveva messo al corrente nessuno di loro –forse ad eccezione di Zaboera- dell’identità del mandante di Killvearn, ma il demone minore era abbastanza certo che chiunque avesse mandato loro quel macabro prestigiatore non fosse una creatura da ammirare.
Era ancora perso nei suoi pensieri quando la prima torre di metallo si accartocciò su se stessa e rovinò su una nave ancorata al suolo. Cercò di incanalare di nuovo i suoi poteri per richiamare la Visione Distante, ma capì che non ne avrebbe avuto bisogno.
Il presidio nemico, prima silenzioso nonostante la fervente attività, si animò all’improvviso. Quando i resti della torre impattarono sulla terra vi fu un’esplosione che fece tremare persino la roccia su cui si trovava: si sollevò una massa di polvere rossastra, ma non riuscì a nascondere l’aria satura di elettricità e le scintille bianche, gialle e rosse che attraversavano la struttura. Riuscì a sentire delle grida, ma furono sommerse dagli allarmi.
Si alzò in volo. Le sue narici si riempirono di nuovo dell’odore metallico, ma stavolta il vento portò odore di fulmine, fuoco e sangue. Nel complesso industriale migliaia di droidi da battaglia erano stati attivati; le loro sagome scheletriche si erano dischiuse e marciavano compatte come una grande marea nello spazioporto. Fecero fuoco tutte in un’unica direzione, illuminando l’area di raggi rossi e verdi; il loro nemico si spostò più rapidamente, e le raffiche si abbatterono su un’astronave che esplose e travolse droidi e tecnici con sé. A quel punto le macchine scagliarono una seconda salva. La macchia nera che doveva essere Hyunkel si trovava davanti ad una parete della fabbrica, e Hadler lo vide spostarsi di nuovo e portarsi sul tetto dell’edificio con un unico salto ed uno svolazzare di piume. L’attacco dei droidi mancò il bersaglio, e sotto lo sguardo del demone il complesso bellico si trasformò in un vero inferno. Alcuni geonoisiani erano stretti contro un muro, ma le fiamme alle loro spalle non offrivano via di scampo. Il resto delle truppe si era suddiviso nel tentativo di estinguere il fuoco e catturare il misterioso assalitore. Ma i due gruppi avevano difficoltà ad avanzare, ostacolati dalle navi squarciate, dal vento e dai resti dei droidi a terra che emanavano scintille. Alcuni droidi dalla forma tozza estrassero delle strane armi a distanza e riversarono sullo spirito infuriato una grandinata di schegge di metallo, ma quello rispose saltando su un’altra torre e per un attimo il suo abito nero e la lunghissima spada scomparvero a causa del fumo e della polvere.
Hadler trattenne il fiato. Per quanto stesse volando a pochi metri da loro, nessun imperiale notò la sua presenza. Gli abitanti del pianeta gridarono qualcosa nella loro strana lingua, ma le loro voci si persero nel rumore sordo, metallico e compatto dei droidi che avanzavano sulle piattaforme, alcuni camminando, altri rotolando. Lo stabilimento sembrava inghiottire quella marea di soldati-macchine, e dall’ingresso principale si udivano soltanto rumore di macchine distrutte, ronzii ed allarmi che si facevano più martellanti ad ogni istante che passava. Il demone estese i suoi sensi alla ricerca del compagno, e quando percepì la sua presenza all’interno della torre capì che era il momento di allontanarsi. Molto.
Volò verso l’altura da cui era venuto, ma questo non gli impedì di sentire l’energia magica colpirlo alle spalle, violenta come un colpo di frusta. Si voltò, e in un boato assordante la torre principale del complesso industriale crollò, tagliata a metà. Le impalcature che la circondavano si disintegrarono al suolo, e le pareti di metallo e transparacciaio invasero il cortile travolgendo le poche cose che erano rimaste integre dopo l’assalto. I cavi elettrici che univano gli edifici si lacerarono ed illuminarono la base con lunghe scariche azzurre, e tutte si congiungevano in un unico punto, la lunga lama dello spirito in piedi su quello che restava della torre distrutta. La creatura mosse il braccio con una velocità incredibile per un’arma di quel peso, e squarciò il metallo di un esoscheletro corazzato con la stessa facilità con cui solo la Spada del Drago Diabolico poteva distruggere. All’ingresso dell’edificio che conduceva alla catena di montaggio provenne una seconda ondata di energia, stavolta molto più forte ed incontrollata, non generata dalla magia ma dalle macchine imperiali che collassavano.
Dov’è la vostra tecnologia, adesso, umani?
L’orizzonte del pianeta rosso fu coperto da una nube di fiamme che si alzò dal gigantesco edificio ed arrivò quasi a lambire le nuvole. Stavolta arrivò alle sue narici un odore amaro e disgustoso, ma la sensazione di vittoria addolcì ogni cosa. Colpita, annientata, la fabbrica che fino a qualche minuto prima produceva migliaia di droidi da battaglia era ridotta a macerie annerite e fumanti; il punto in cui la catena di montaggio si perdeva all’interno della terra si era trasformato in una caverna colma di detriti. Un’astronave crollò al suolo, coinvolta nell’esplosione prima di riuscire a decollare del tutto, e quando impattò al suolo schiacciò le poche figure che erano riuscite a salvarsi. Sopra quell’immagine di devastazione c’era solo la figura di un angelo da un’ala sola, nera come la notte, che rinfoderava la lunghissima spada e la legava alla cintura.
I suoi lunghi capelli argentati si sollevarono nel vento del deserto e nella sabbia, lucente come solo la chioma del vincitore.
Hyunkel si era trasformato in quell’angelo, ed aveva trovato la vittoria.
Ma questo non rendeva lo spirito imprigionato meno inquietante agli occhi di Hadler.

Narratore: “Allora, mie lettrici? Visto? Visto? Ho prestato il mio vero corpo a Hyunkel per fare un po’ di scena, ma vedete quanto sono figo, stupendo, impressionante, maestoso, potente, superiore, bellissimo?”
Registe: “Non ci pare di aver mai detto che quello fosse il tuo …”
Narratore: “E invece lo è! Quello è il mio corpo e con quello a breve scenderò nella vostra insulsa trama e mostrerò il potere del Narratore da Un’Ala Sola che con un solo fendente fa strage di nemici e di cuori delle fanciulle!”
Registe: “Pronto, Centro Igiene Mentale? Abbiamo un problema … E anche bello grosso …”

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 - Lato Oscuro ***


Capitolo 18 - Lato Oscuro





Eomer e il suo cavallo




[…] e rimangono solo da citare i vajkal, che ormai tutti noi conosciamo con il nome di Nebbie. Poco c’è da scrivere di questa razza meschina et infida, a cui anche i vermi ed i pesci non s’accostano. La natura li ha resi parassiti, pericolosi per qualsiasi forma di vita. Ma anche le Nebbie si rifiutano di toccare gli esseri umani, che con la loro sozzura, viltà ed inferiorità ripugnano persino queste creature.
da “Compendio di Cephiro” del nobile Sharan del casato di Ixial, primo Arcivescovo Stregone della famiglia demoniaca, sotto il regno del Grande Satana Eluyne.





Narratore: “Ehi, Registe, Registe! Posso entrare in scena, posso? Posso? Posso? Posso?”
Registe: “Narratore, il copione non prevede la comparsa di Sephiroth in questo capitolo!”
Narratore: “Ma Registe, siete VOI a scrivere il copione, no? Quindi potrete benissimo prendere carta, penna o Microsoft Word e adattarlo un po’! Alla gente piace vedere l’Angelo da Un’Ala Sola!”
Regista: “Quelli del Centro Igiene Mentale tra quanto arrivano?”
Regista: “Non prima di una decina di capitoli, o almeno così mi hanno detto al telefono”.
Regista: “La mia pazienza non durerà dieci capitoli …”


L’umore era diverso nel Baan Palace, in quegli stessi corridoi che poco tempo prima erano invasi dal silenzio e dalla cicatrice della profonda sconfitta subita a Coruscant. I visi dei demoni in quei giorni avevano acquistato il colore della speranza, e Hadler rivolse parecchi cenni d’approvazione alla sua gente.
La notizia della schiacciante vittoria sul pianeta Geonosis si era diffusa nel loro palazzo sin da prima del loro arrivo –probabilmente la lingua di Killvearn non conosceva limiti di spazio o tempo- ed era bastata per risvegliare il fuoco che la famiglia demoniaca credeva di aver sopito nei propri cuori. E dopo Geonosis c’era stato Zhann. E Pantolomin, nel settore di Dolomar. Ed i due mondi gemelli, Pakrik maggiore e Pakrik minore, con i loro fertili campi che erano avvampati sotto la loro magia. Hadler non aveva mai raccolto vittorie più semplici, nemmeno quando doveva cercare la Resistenza guidata dalla principessa Leona, quando i loro nemici non erano gigantesche macchine ma semplici esseri umani. L’Impero Galattico doveva aver capito di non doverli sottovalutare, perché a detta di Baran le loro astronavi si stavano ritirando la Cephiro ed avevano abbandonato la linea offensiva dei primi giorni.
C’era entusiasmo nella stessa magia. Gli sarebbe piaciuto poter dire che quelle vittorie erano opera sua, ma non aveva intenzione di vantarsi di qualcosa che non gli apparteneva. Gli bastava vedere i giovani demoni felici e pronti alla battaglia.
Il primo meglio apparteneva a Hyunkel. O a quel Sephiroth.
Il potere distruttivo di quell’angelo sembrava non avere fine; gli bastavano un paio di fendenti per spaccare il versante di una montagna, e quando mormorava alle ombre riusciva a scatenare un’energia selvaggia, incredibile, oltre ogni controllo. Hadler non aveva mai sentito la magia nel proprio sangue risuonare così tanto, nemmeno quando si trovava in presenza del Grande Satana; su quei pianeti lontani aveva assistito al potere devastante di quello spirito e lo aveva seguito nella scia di sangue e rottami che lo accompagnavano. Hyunkel usciva da quelle trasformazioni sempre più estasiato, ormai impaziente di combattere ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo, la mente presa dalla voglia di schiacciare l’Impero Galattico.
Ha avuto la sua vendetta.
Si avvicinò al portone che conduceva alla sala del trono, e le guardie lo fecero passare. Aveva lasciato Hyunkel sul balcone di atterraggio delle viverne, lasciandogli assaporare la sua popolarità; sapeva che persino i licantropi erano giunti al palazzo reale per vedere il prodigio dell’angelo dall’enorme lama, e di sicuro il suo amico sarebbe stato più utile in mezzo ai demoni che non all’interrogatorio a cui si stava apprestando ad andare.
Perché il secondo merito lo dovevano ad un inaspettato colpo di fortuna.
“Bene arrivato, Hadler”.
Il demone si inginocchiò davanti al suo signore. Baran era già lì, nel suo angolo preferito; Zaboera era in piedi alla sinistra del Grande Satana, e stava riordinando alcuni documenti. Il signore della famiglia demoniaca era sul trono, e le sue rughe millenarie erano solcate da un’espressione severa ma allo stesso tempo rilassata. “La tua gloria e quella di Hyunkel non conosco limiti, e me ne compiaccio”.
“Mio signore, lei sa bene che il merito non è mio”.
“Il contributo del Puzzle Millenario e del suo spirito è innegabile, ma non sminuire il tempo che hai trascorso sul campo di battaglia al suo fianco. Stiamo colpendo l’Impero Galattico e lo abbiamo costretto ad indietreggiare, e questo fa onore a tutti voi che siete scesi sul campo”.
Se Baran aveva qualche pensiero, lo nascose bene dentro di sé. Il demone sapeva che le astronavi imperiali stavano lentamente cedendo il terreno che avevano conquistato, e molte di esse avevano lasciato il pianeta per non fare più ritorno, dirette probabilmente ad assistere alcuni pianeti a rischio. I draghi del Choryugundan di Baran avevano subito diverse perdite, e il demone sapeva che questo aveva messo il Cavaliere del Drago in umore poco favorevole.
E tutto questo per le parole di una singola persona.
Il viceammiraglio Kratas, il patetico umano che avevano catturato tra i relitti di un’astronave abbattuta, era in un angolo della stanza, con le mani legate. I guardiani delle prigioni lo avevano trattato molto meglio di quanto meritasse un umano della sua risma, e l’unico segno dei giorni trascorsi nelle loro celle era la divisa dismessa e lacera. E la barba: lo aveva sempre sorpreso la velocità con cui questa cresceva sui menti degli umani; il Grande Satana aveva impiegato qualche millennio per portarla a metà del petto. Il viceammiraglio non aveva perso il suo atteggiamento sottomesso: non strisciava più per terra come il giorno della sua cattura, ma la testa era incassata nelle spalle sottili e non aveva l’ardire di sollevare gli occhi dalla punta dei suoi stivali.
“Le informazioni di questo prigioniero si sono dimostrate veritiere, mio signore. Le navi da guerra imperiali erano ancorate su Pakrik maggiore, ed il pianeta minore aveva delle difese irrisorie persino per me. I loro campi continueranno a bruciare ancora per giorni …”
“E quell’installazione di depurazione di cui parlava l’umano?”
“Le coordinate erano precise. Di quell’installazione resta solo qualche lamiera”.
Il sovrano si passò la mano nella barba con un’espressione soddisfatta. Hadler non interruppe il suo signore, ed assaporò i secondi di silenzio interrotti solo dal grattare della penna di Zaboera su una pergamena e dal respiro agitato del prigioniero.
Il Grande Satana tamburellò le dita sul bracciolo del trono. “Geonosis, Zhann e Pantolomin. I due Pakrik. Delle vittorie sorprendenti. È incredibile rendersi conto che sono le informazioni a vincere la guerra, e non sempre il valore dei soldati. Ad aver catturato questo soldato prima, forse molte vite di demoni sarebbero state salvate nella battaglia di Coruscant” mormorò, e Hadler non trattenne un sospiro. Nessuna vittoria sarebbe riuscita a cancellare quella cicatrice. “Lo spirito che Hyunkel controlla è potente, ma non posso ignorare che abbia sconfitto avversari impreparati, colpendo nei punti più scoperti del loro sistema”.
Il demone minore sapeva di cosa stava parlando. Avevano sempre colpito di sorpresa, sfruttando l’unica, vera debolezza dell’Impero Galattico. La loro potente mutaforma -Zam, pensò il demone, si chiama Zam- non poteva essere ovunque. L’unico sistema di teletrasporto degli umani erano degli oggetti detti Pietre della Sapienza e, come aveva ripetuto migliaia di volte il viceammiraglio Kratas, queste raramente venivano affidate alla guerriera. Erano usate principalmente durante le battaglie aeree come quelle sostenute contro i draghi di Baran, quindi i movimenti degli umani erano limitati. Il demone minore non aveva idea di cosa sarebbe successo se quella donna si fosse scontrata con Sephiroth. Né aveva molta intenzione di scoprirlo.
Un rapido movimento di occhi sotto il diadema dorato gli fece capire che anche il Cavaliere del Drago era del suo stesso parere.
“Abbiamo attaccato obiettivi strategici, e questo li ha costretti a ritirarsi dal nostro mondo. Ma non sarebbe saggio continuare l’intera guerra in questo modo: noi abbiamo un solo pianeta, loro oltre un migliaio. A lungo andare perderemo lo stesso, Puzzle Millenario o meno” continuò il Grande Satana. “Direi che è il momento di programmare la seconda parte della nostra battaglia … ed è qui che il viceammiraglio Kratas potrà guadagnarsi la sua libertà. Ieri sera abbiamo avuto un colloquio decisamente interessante …”
“G-grande Satana, allora davvero potrò …”
“Non do la mia parola due volte, umano”.
La voce del loro signore bloccò qualsiasi tentativo di protesta del soldato. Hadler trovava snervante quella servilità senza limiti.
“L’unico modo per terminare questa guerra ed avere di nuovo Mistobaan è colpire direttamente l’Imperatore Palpatine. Senza di lui gli umani cadranno nel panico, e come puntualmente si addice alla loro razza inferiore inizieranno ad uccidersi tra loro per prendere il trono vacante e non si occuperanno più di noi. Come abbiamo scoperto in questa guerra è che l’Imperatore non è un bersaglio facile. Affatto” disse, ed al centro della stanza il proiettore olografico che avevano preso ai loro nemici si accese. Il Grande Satana doveva aver già meditato a lungo su questa strategia, perché l’aria sfarfallante si riempì di scuro, e nel cielo nero comparve l’immagine di una sfera enorme, grigia, fredda. Si muoveva pigramente nello spazio come una piccola luna. “Il nostro prossimo obiettivo sarà la Morte Nera. La stazione spaziale che l’Imperatore usa come base, e che muovendosi incessantemente non può essere raggiunta con le Pietre Dimensionali. I draghi non possono di certo oltrepassare l’atmosfera pur di raggiungerla, ed anche se potessero respirare nel vuoto non credo che sarebbero in grado di distruggere dall’esterno un’astronave che è grande quasi quanto un pianeta. Anche se non penso che all’interno ci possa essere qualcosa in grado di resisterci …”
Hadler osservò la figura metallica. Aveva visto di persona quanto fossero enormi le astronavi degli umani, ma nessuna di quelle era minimamente paragonata alla superficie della Morte Nera, alle sue torrette corazzate e migliaia di diavolerie che non aveva mai visto usare in campo aperto. Un simile assetto da guerra era concepibile solo se vi fosse stato qualcosa di incredibilmente prezioso e allo stesso tempo vulnerabile all’interno.
“Come possiamo raggiungere quella roccaforte, Grande Satana? Nemmeno Killvearn è mai riuscito a …”
“Killvearn non ha come prigioniero un umano non esattamente desideroso di finire il pasto ai draghi di Baran” sussurrò, e il viceammiraglio sbiancò una seconda volta, cercando di non guardare la figura immobile che reggeva sulle spalle la Spada del Drago Diabolico. Per il nervosismo si strinse le mani una con l’altra, e poi ne strinse una contro l’orecchio sinistro fin quasi a renderlo bianco. “Come mi ha generosamente suggerito il viceammiraglio Kratas, nessuna fortezza è inespugnabile finché dentro vi sono degli esseri viventi incapaci di procurarsi cibo e materie prime da soli … e per quanto l’Imperatore Palpatine possa celare al meglio le sue fonti, il nostro prigioniero mi ha suggerito una decina di luoghi dove le navi imperiali si fermano per rifornirsi. Salire su una di quelle astronavi potrebbe consegnarci le chiavi per raggiungere il cuore della Morte Nera”.
“E un nostro corpo d’armata riuscirà ad entrare in una di quelle navi?”
Il Grande Satana si lasciò sfuggire un sorriso. “Veramente stavo pensando di mandare Baran …”




Mara respirò a pieni polmoni l’umidità di quel posto. Davanti a loro il terreno era pianeggiante, e la foresta si estendeva a perdita d’occhio. L’aria era immobile. Attraversarono uno spazio aperto e si trovarono ai margini della palude che stavano cercando.
“Ci siamo … fate attenzione a dove mettete i piedi” disse l’uomo che rispondeva al nome di Auron. Il suo vestito scarlatto era la sola nota di colore in quel posto nonostante le macchie di fango, ed era l’unico punto di riferimento in quel posto tutto uguale. Mu chiudeva la fila: la Sith aveva chiesto al sacerdote dai capelli viola cosa lo spingesse in quella missione di salvataggio dove non erano necessarie le sue competenze, ma lui le aveva risposto con un sorriso e con quel suo “È giusto così” che non ammetteva repliche nonostante l’umiltà delle parole.
Provò ad asciugarsi con la manica il velo d’umidità che le copriva il viso, ma anche i suoi vestiti erano bagnati.
L’unione tra l’Alleanza e la Resistenza si era dimostrata più forte del previsto: dopo la discussione riguardante Zachar, la principessa Leia e la principessa Leona avevano scoperto di aver molti più punti in comune di quanto pensassero, e non appena la giovane leader della Resistenza aveva mostrato una mappa del suo mondo con i villaggi bisognosi d’aiuto l’altra donna aveva organizzato subito diversi gruppi di soccorso. L’entusiasmo dei Ribelli era salito alle stelle. Aragorn era partito con i membri della squadra SG al gran completo per valutare le condizioni della città di Papunika insieme al mago Matoriv ed al suo apprendista, mentre Gandalf era partito con una giovane guerriera dai capelli rosa verso sud, dove una cittadella portuale di cui non ricordava il nome stava subendo un attacco da alcuni draghi marini. Mara avrebbe preferito seguire Legolas: il giovane elfo si era offerto volontario per una ricognizione ad ampio spettro alla ricerca del luogo dove Killvearn avrebbe potuto portare Valygar e suo zio, ma voleva anche trascorrere un po’ di tempo con Mu. Dopo tre anni dalle disgrazie nel Castello dell’Oblio aveva creduto che non lo avrebbe mai rivisto. E non avrebbe mai avuto la possibilità di scusarsi per quel pugno dato nel pieno della furia.
Erano giunti al villaggio fluviale di Nail quella stessa mattina, e lo spettacolo che si era parato davanti ai suoi occhi era stato assurdo; l’imbarco che doveva essere stato la principale fonte di sussistenza per quella gente era stato carbonizzato dai turbolaser imperiali, e poco distante, a valle del fiume, le acque erano rallentate da una diga nera ancora fumante. Mu non aveva nascosto le lacrime quando la massa scura si era rivelata un cumulo di diverse centinaia di cadaveri trasportati lì dalla corrente, e persino la stoica faccia di Auron aveva abbandonato la sua espressione marmorea.
I loro occhi si erano spostati da un punto all’altro di quel posto, scoprendo case divelte e fori sulla base delle palafitte che mettevano alla prova l’equilibrio del cavallo di Eomer. Il soldato non avrebbe rinunciato al suo amico a quattro zampe nemmeno sotto tortura. C’erano uomini e donne di ogni età, la maggior parte feriti. C’erano bambini che dormivano raggomitolati davanti alle porte delle case insieme ai cani, e quelle che sembravano bandiere e tende colorate non erano altro che stracci che pendevano sui carretti di alcuni venditori ambulanti. Il fumo si univa all’umidità del posto, rendendo tutto più acre. Mara non poteva vedere tutto, naturalmente, ma la paura si mescolava alla Forza di quel luogo creando un muro di dolore contro il quale faticava a camminare.
Non erano passati nemmeno venti minuti da quando erano entrati in quell’inferno che molti sguardi erano rivolti a Mu.
“Il sacerdote …” avevano mormorato delle donne sdentate. “Il sacerdote del malaugurio …”
“Ma che dite!” aveva esclamato un uomo che si reggeva a stento su una stampella improvvisata. “Gli dèi ci hanno puniti per aver venerato il Grande Satana!”
Mu passò oltre, scivolando rapidamente tra le ombre del villaggio a testa bassa. Camminarono fino ad una piazza, dove l’odore di sangue ed escrementi si fece ancora più forte; decine di persone erano ammassate davanti a quello che rimaneva di una statua massiccia, un colosso che doveva rappresentare una qualche figura seduta su un trono e di cui si vedevano soltanto i piedi ed i lembi di una tunica. Non aveva bisogno di chiedersi chi rappresentasse.
“Noi sacerdoti non avremmo dovuto lasciare che questo accadesse. Non avremmo dovuto chiuderci nel nostro Tempio e permettere al Grande Satana di farsi adorare come una divinità; avremmo dovuto impedirgli di dilagare e forse avremmo potuto evitare …” le parole si erano soffocate da sole nella gola del giovane sacerdote. Il suo amico gli mise una mano sulla spalla, ma davanti a quello sfogo di dolore non avevano potuto evitare che tutta la gente della piazza si voltasse verso di loro.
Nessuno parlava. Rimasero tutti un po’ imbarazzati per un attimo, mentre Mara ricordava che Mu era già stato in quel villaggio qualche tempo prima insieme al suo confratello Shaka, e tutto avevano ricevuto fuorché un clamoroso benvenuto. Erano giunti lì per preparare la gente di quel villaggio ad un’evacuazione mediata dai druidi dell’Alleanza, ma per un attimo Mara sospettò che la missione non sarebbe stata facile come aveva creduto, ed Eomer doveva essere stato della sua stessa idea visto che appoggiò la mano all’elsa della spada.
Eppure quando Mu venne avanti, diretto verso la folla, non volò nemmeno un sasso. I loro occhi si sgranarono, come lo vedessero per la prima volta. La donna percepì un’incredulità momentanea, ma poi scomparve sostituita da uno stupore senza pari. “I sacerdoti sono tornati” sentì mormorare alle sue spalle. “I sacerdoti sono qui”.
Auron aveva cercato di trascinare Mu indietro, ma quello si era armato di tutta la sua testardaggine ed era andato avanti, diretto verso un gruppo di uomini feriti che giacevano al sole. La folla si era radunata, si muoveva come scossa da un’onda, chi voleva avvicinarsi al giovane sacerdote per toccarlo, chi si allontanava per cedergli il passo, chi ancora stringeva in mano qualche strumento da lavoro e non aveva un’espressione amichevole.
Poi Mu si era inginocchiato ed aveva pregato.
Quello che successe dopo fu paragonabile ad un raggio di luce. Mara aveva sentito tante volte la Forza dentro di sé, viva, limpida, l’aveva sentita distintamente attraverso i veli del Lato Oscuro; paragonarla ad un raggio di luce attraverso le tenebre sarebbe stato semplicistico e banale, ma aveva sperimentato nel suo animo quanto forte potesse essere un raggio di sole anche solo attraverso una minuscola crepa. Ma in quel momento la luce non trovò una fessura: trovò un mare.
Qualcosa si mosse dentro la gente di Nail, qualcosa che prima ancora di passare per la vista si sprigionò dentro la Forza; un vento di emozioni diverse, ma forti, scivolò in quel luogo dove ancora si alzavano i fumi dei turbolaser. Avrebbe potuto scegliere la pietà, il dolore, la paura, la speranza, ma Mara le percepì e le accolse tutte insieme, unite come la folla che si avvicinò al sacerdote. E si scoprì in lacrime.
Nail non era mai stata così bella.
Il pomeriggio si era trasformato in una serie di preghiere, ringraziamenti, e chiacchiere in cui lei, Auron e Eomer si erano tenuti rigorosamente in disparte, lasciando al loro compagno l’arduo compito di riconciliare gli animi delle sua gente e prepararli all’evacuazione. Aveva continuato a bearsi del disegno di quelle sensazioni luminose mentre i due soldati discutevano di come trasportare i feriti –con Eomer che sosteneva che tutto sarebbe stato più semplice se avessero portato altri cavalli oltre il suo- e dopo qualche ora Mu era tornato da loro con una richiesta che li aveva convinti a rimandare le mobilitazioni.
La richiesta per cui erano lì, in quel momento, con la melma fino alle caviglie.
“Fuggire in mezzo a questo pantano! Certa gente è folle!”
“O disperata, Auron …” sussurrò Mu alle loro spalle. Senza la sua luminosa armatura d’oro sembrava ancora più sparuto del solito. “Hanno semplicemente cercato rifugio nel primo posto vicino al loro villaggio”.
“E poi non sono più tornati … geniali, davvero geniali!”
Attraversarono uno spazio aperto, e si trovarono davanti un lago putrescente. Prudentemente rasentarono i bordi fitti di canne alla ricerca di un terreno più solido, con Eomer che rallentava il passo per garantire un passaggio sicuro agli zoccoli della sua cavalcatura. Quando lo trovarono, ripresero ad andare avanti. La palude continuava. Nonostante gli abitanti di Nail avessero detto loro che probabilmente i superstiti avevano trovato rifugio a nord oltre l’acquitrino, di tanto in tanto erano costretti a cambiare direzione per cercare un passaggio sicuro: il senso dell’orientamento di Auron sembrava non avere limiti.
La palude era un monotono, piatto scintillio di umidità che si stendeva tra masse d’erba ed arbusti di ogni genere, e gli alberi spuntavano fuori come gli arti di un gigante annegato. Insetti che non aveva mai visto ronzavano attorno, scintillanti ed iridescenti. Il soldato dall’abito rosso estrasse dalla bisaccia un unguento maleodorante che usarono per cospargersi la faccia e le braccia, una crema per alleviare il dolore delle punture degli insetti che avevano eletto la pelle chiara del piccolo dolce Mu a spuntino prima della cena. I serpenti strisciavano nel fango. C’erano ragni dappertutto che si muovevano lentamente, alcuni più grossi del suo pugno. Tele di ragno, muschio e rampicanti pendevano dai rami e dai cespugli, abbarbicati e micidiali. Sotto le volte degli alberi volavano uccelli dal cinguettio stranamente acuto e raggelante.
A un certo punto incontrarono una gigantesca tela di ragno perfettamente celata e disposta come un laccio per cadere su qualunque cosa passata sotto. Una qualsiasi altra persona meno esperta non l’avrebbe notata e sarebbe stata catturata, ma Eomer vide subito la trappola e fece un cenno ad Auron. I fili della tela erano grossi come un dito, e talmente trasparenti da risultare invisibili se non ci faceva attenzione. Il cavaliere di Rohan ne toccò uno con la lancia, e l’arma fu immediatamente avvolta e immobilizzata. Tutti scrutarono intorno prudentemente per molto tempo senza muoversi.
“Strano … molto strano” mormorò Auron. “I ragni koa non fanno questo genere di trappole … troppo ingegnose …”
“Ragni koa?” sussurrò Mu, che era diventato improvvisamente bianco. Mara si ricordò la paura del sacerdote alla vista di un topo, e senza dubbio gli aracnidi non dovevano essere tra i suoi animali pericolosi.
“Molto grossi. Molto stupidi. Un po’ di rumore, una bella fiaccola e scappano via come conigli. Fanno i nidi soprattutto in acquitrini come questi, ma non avevo mai sentito dire di trappole così complicate. Di solito le loro tele sono ben visibili, mentre questa qui …” disse, indicando la lancia ancora impigliata “… questa sembra essere fatta proprio per acchiappare delle prede ignare. Sarà bene tenere gli occhi aperti!”
Certi finalmente che il tessitore non fosse nei paraggi, si affrettarono a riprendere il cammino.
Era quasi scesa la sera quando udirono delle voci. Rallentarono l’andatura e poi si fermarono. Le voci erano tutt’altro che tranquille, troppo forti nella calma della palude, praticamente delle grida. Proveniva dalla loro sinistra, oltre un boschetto dai fiori rosso scarlatto, proprio dove la gente di Nail aveva indicato le grotte che alcuni di loro usavano come rifugio improvvisato. Eomer e Mara stavano per partire al galoppo, ma Auron li fermò con un cenno imperioso della mano; costeggiarono i cespugli sulla destra, seguirono un piccolo argine di terreno solido fino ad un punto dove la fanghiglia non arrivava oltre le caviglie, sempre però con bene in mente la posizione da cui venivano le grida che si facevano sempre più forti man mano che avanzavano.
Quando le ultime foglie si diradarono, Mara vide una scena che poteva essere uscita dagli olomovies dell’orrore di Darth Maul. La palude proseguiva davanti a loro per almeno un centinaio di metri, e lì i margini verdastri si fondevano ad una formazione rocciosa, imponente, che quasi arrivava alla sommità degli alberi più alti. Il massiccio era grigio come l’aria di quel posto, e altrettanto ricoperto di muschio. Lungo la sua forma, quasi nascoste dal resto della vegetazione, si potevano vedere delle spaccature non più alte di un uomo medio che fendevano la roccia come segni di una spada; alcuni uomini si affacciavano da quelle spaccature, le armi alla mano, gridando qualcosa probabilmente alla gente che si era rifugiata nelle grotte. Da quella distanza Mara riuscì comunque a vedere delle fiaccole accese, ma evidentemente non erano sufficienti a tenere a bada le mostruose creature che si paravano tra lei e gli sfortunati abitanti.
Aveva visto qualche volta Zam trasformarsi in un ragno gigante. Non era la sua trasformazione preferita, eppure Mara sapeva che una volta la cacciatrice di taglie aveva rischiato persino la vita contro un simile aracnide chiamato Shelob durante una missione sulla Terra II, quindi la donna aveva imparato lo stesso a padroneggiarne la forma. Mara era contenta di vedere che le figure pelose davanti a lei non erano più grandi della metà di Shelob, ma il suo sollievo fu di breve durata: i ragni compensavano le loro dimensioni con un unico, freddo, incredibile numero.
Non ve ne erano meno di cinquanta. La minor parte si era calata dagli alberi che rappresentavano il tetto di quel piccolo mondo, e scivolavano rapidi sui loro fili invisibili che riuscivano a sopportare il loro peso contro ogni regola della natura. Sopra le rocce soltanto un raggio di luce tra la nebbia riuscì a rivelare la trama intricata di una grossa tela simile a quella che avevano incontrato proprio prima, dove purtroppo un paio di quei mostri stava consumando il pasto.
Mu si segnò alla vista dei corpi umani dilaniati, dove gli arti giacevano scomposti invischiati in quella trappola dove erano in balia degli aggressori; una donna stava ancora dimenandosi, ma i fili aderirono così tanto al suo corpo che la trasformarono in un bozzolo. Mara non aveva fatto in tempo ad accendere la spada che la figura era stata barbaramente digerita.
“No …”
Ma la vera ondata era a terra. I koa correvano ad una velocità alta per le loro zampe sottili, e stavano cercando di raggiungere le prede dalla base della formazione rocciosa. Salivano in maniera incredibilmente ordinata. Nessuno calpestava o semplicemente si scontrava con un altro. Un uomo scagliò una lancia contro uno di quei mostri, colpendolo all’occhio; nel fare quel gesto perse l’equilibrio –probabilmente non era un soldato- e rovinò con un grido straziante verso il basso. Non toccò il fondo, perché l’assalto dei ragni lo divorò.
Aveva visto anche troppo. “Io vado!”
Coprì in qualche attimo lo spazio che la separava dagli ultimi tessitori; corse incurante della melma, annaspando nel fango fin quasi alle ginocchia, tutti i sensi pronti a scattare. Un scroscio più forte alle sue spalle le bastò per capire che Eomer era partito al galoppo.
Accese in corsa la spada laser e si gettò contro il primo aracnide, grande quasi quanto un cane da caccia; calò un fendente, ma il tessitore doveva essersi accorto della sua presenza. Senza nemmeno rivolgere la testa nella sua direzione si innalzò verso i rami dell’albero sovrastante con un filo, e tutto quello che la lama rossa riuscì a tagliare furono alcuni peli. La creatura saltò da un albero all’altro lasciandosi dietro un filo.
“Stai attenta!” gridò Eomer. Alcuni ragni si erano voltati verso di loro, emettendo dei versi lunghi e striduli. L’uomo portò la sua cavalcatura tra lei e la prima fila, poi fece impennare il cavallo per spaventarli.
Purtroppo non ottenne l’effetto voluto. Le creature corsero nella sua direzione, puntando al ventre molle della bestia. Eomer la spronò in avanti ed evitò i piccoli denti velenosi dei ragni per un soffio, atterrando con un grande tonfo nell’acqua verdastra, dove i mostri non sembravano avvicinarsi.
Mara valutò per qualche istante di raggiungere i superstiti a nuoto, evitando la maggior parte delle creature, ma quando fece per seguire il suo compagno si trovò la mano destra stretta in un filo. Si voltò, e vide il primo ragno che l’aveva attaccata a meno di un metro dal suo viso mentre l’attirava a sé con la tela. Non fece in tempo a passare la spada laser nella mano sinistra per liberarsi che tutto il suo campo visivo fu attraversato da un’onda di fango, e da questa ne emerse Auron che tagliò il filo con la sua Masamune. Provò ad infilzare l’assalitore, ma quello si era già ritirato più in alto.
Mara si massaggiò il polso: bruciava, e sulla pelle erano comparse delle piccole bolle.
Ignorò il fastidio e si mise in posizione di guardia, rendendosi conto che proprio sopra le loro teste alcuni ragni stavano iniziando a tessere una nuova tela; il fatto che alcuni di loro avessero sospeso l’attacco ai civili per prendersela con loro non migliorava più di tanto la situazione. Non era arretrata di nemmeno tre passi che la trama si era ingigantita.
Un sottile velo di cristallo si parò tra loro ed i fili mortali. Mu era nell’acqua quasi fino al ventre, le mani sollevate nella creazione del Crystal Wall. “Allontanatevi da quella zona!”
“Che diavolo sta succedendo?” grugnò Auron. Il suo viso era irriconoscibile, madido di umidità e sudore. Lungo l’orecchio destro un intrico di vesciche indicava che anche lui aveva avuto un incontro ravvicinato con quella tela. “Da quando in qua i koa sono così aggressivi?”
“Non sono io l’esperta della fauna locale!”
“E io ti assicuro che non ho mai sentito parlare di un assalto di questi ragni! Guardali …” disse, indicando la riva. Per quanto quelle creature non si avvicinassero all’acqua, si erano disposte su ogni lembo di terreno sano, aspettandoli. La cosa spiacevole era che i tessitori sugli alberi si erano spostati di nuovo, e stavano filando una nuova tela per tenderli in trappola; i restanti continuavano l’assalto ai civili, ma con meno impeto di prima. “… sono molto organizzati. Troppo”.
“Beh, non ho alcuna intenzione di rimanere a far loro da spuntino!”
Mara chiuse gli occhi e chiamò di nuovo la Forza. L’energia le rispose forte in quel luogo, senza esitare. Estese il suo sguardo interiore agli alberi proprio sopra di lei, e ne sentì tutta la potenza di centinaia di anni trascorsi in quella palude, tutta la vita accumulata in quell’ecosistema particolare. La Sith aveva avuto l’occasione di far visita al pianeta di Dagobah, l’enorme acquitrino periferico della galassia, ed aveva sentito una forza vitale in grado di superare quella di tutta la popolazione di Coruscant: si era immersa in quella natura solo all’apparenza morta, l’aveva fatta sua, l’aveva nutrita ed aveva scoperto che in ogni radice, in ogni foglia, anche nell’insetto più piccolo poteva trovare la Forza ed estenderla proprio come una ragnatela. Sentì sotto le dita invisibili la linfa dei due alberi che ospitavano gli aracnidi e la loro nuova tela, e salì verso l’alto fino a sentirne i rami, poi verso il basso per diventare quasi tutt’uno con le radici. E lì colpì.
Un solo colpo, come le aveva sempre detto l’Imperatore.
Entrò fin dentro il legno, ne sfiorò i parassiti e le muffe. Convogliò tutta l’energia che aveva sfiorato in quel posto e la riversò in due canali, uno per albero. Le piante si opposero, ma la Forza poteva questo ed altro ancora. Diventò una lama ed impattò contro la base dei tronchi, e quando le giunse il suono secco del legno capì di avercela fatta.
Gli alberi si piegarono sotto il suo potere. La ragnatela ancora incompiuta creata tra i loro rami rovinò con loro, e con sua gioia gli aracnidi non furono abbastanza rapidi da aggrapparsi ad un altro albero, né di tessere un nuovo filo. In preda a dei versi che aveva quasi qualcosa di umano precipitarono insieme ai rami, diretti verso l’acqua. Eomer doveva aver intuito il suo piano –tanti anni nell’Alleanza Ribelle insegnavano quello ed altro- e la donna non fece in tempo a vedere l’intera situazione che una lancia saettò a pochi metri da suo naso ed inchiodò una delle creature, affondando il suo corpo peloso nell’acqua. Tutto cadde nell’acquitrino con un tonfo enorme che schizzò tutti loro, ma anche nella melma riuscì ad intravedere Auron farsi avanti, evitare i rami ed abbattere il suo spadone contro due ragni che si agitavano frenetici nell’acqua. L’icore schizzò nella sua direzione.
Bene. Anche se ne abbiamo abbattuti pochi possiamo farcela senza …
“MERDA!”
Istintivamente voltò la spada nella direzione del grido, ma quando mise a fuoco la scena capì cosa aveva agitato il soldato dall’abito rosso. Dai corpi abbattuti degli aracnidi stava uscendo qualcosa.
Qualcosa di nero, informe ed inconsistente.
Emersero tre forme, ciascuna per ogni creatura, direttamente dalle ferite aperte delle armi. Mara sentì qualcosa, come un gelo, delle sottili dita che scivolarono intorno alla sua mente mentre le masse oscure fluttuavano proprio sopra i cadaveri; non avevano una forma ben definita, ma attraverso quelle masse gassose credette di vedere dei punti luminosi, quasi fossero occhi privi di pupille. Si agitavano, impalpabili in tutta l’umidità della palude, e quando estese i suoi sensi nella loro direzione percepì che si trovava davanti ad esseri viventi.
Dopo l’urlo iniziale, Auron sembrò calmarsi. Non avanzò né arretrò, ma la sua Masamune era rivolta verso le creature, mentre i ragni sulla riva mandarono suoni ancora più inquieti. Ancora una volta ebbe la sensazione che qualcosa stesse cercando di avvicinarsi alla sua mente.
“Concentrati su qualcosa, qualunque cosa”.
Era stata così concentrata su quelle masse gassose che non aveva sentito Mu venirle accanto. Le sue dita erano strette sul rosario di Shaka. “Cercheranno di entrare nella nostra testa, ma basta anche una minima forza di volontà per scacciarle. Prova semplicemente a cacciarle indietro”.
L’energia di quelle creature creò un secondo assalto, ma molto più flebile di quello che Mara avesse temuto. Fu come se qualcosa cercasse di farsi strada attraverso i suoi ricordi, cinque dita di una mano impalpabile che provavano ad afferrarle la mente ed avvicinarsi, un potere dotato di una vita propria che raramente aveva mai incontrato in qualcuno che non fosse un Jedi o un Sith. Sentì gli esseri sfiorare anche i suoi compagni, ma nessuno tentennò.
Quando sentì la presenza tornare da dove era venuta, riprese fiato e le osservò di nuovo mentre si agitavano sui ragni morti. “Che cosa sono?”
“Noi le chiamiamo Nebbie. Sono una forma senziente di parassiti piuttosto evoluti, che possono vivere sia da sole che in gruppo. Molto più intelligenti di quello che possono sembrare, ma grazie al cielo non sono un pericolo”.
“Sono alleate del Grande Satana?”
“Non saprei. Potrebbero appartenere allo Hyakujumadan, ma non credo che la famiglia demoniaca li annoveri tra gli esseri viventi degni della loro considerazione. In fondo sono parassiti, cosa che i demoni detestano più di ogni altra”.
Se davvero erano una forma di vita evoluta probabilmente gli umani erano entrati nel loro territorio, ed avevano preso il controllo dei ragni koa per allontanarli. Niente di più spiacevole di creature in grado di entrare a piacimento nel corpo delle altre. Le Nebbie si fecero avanti di nuovo, stavolta lasciando fluttuare tutta la loro forma immateriale; nonostante le parole di Mu non riusciva a cancellare l’orribile sensazione di straniamento provata al loro tocco. “Sei sicuro che non siano pericolose?”
“Sì. Non possono entrare in creature in grado di opporsi. Basta anche la volontà di un bambino. Possono controllare solo animali semplici come i ragni o come …”
Non terminò la frase. Accanto a loro una forma si mosse di scatto, e con un grido ed un tonfo Eomer fu scaraventato nel pantano. Il suo destriero si era impennato di colpo, dritto sulle possenti zampe posteriori, e si voltò di scatto verso il suo cavaliere cercando di colpirlo con gli zoccoli. Eomer si rotolò nell’acqua quasi fino a scomparire mentre l’animale balzò verso di lui con una carica selvaggia ed una forza che Mara non aveva mai sospettato possedesse. Atterrò in acqua più volte, con la schiuma alla bocca, ed ogni volta che il suo padrone cercava di rialzarsi lo ricacciava indietro dove ormai la melma arrivava quasi al petto.
Non le ci volle molto a capire cosa fosse successo.
Si voltò verso la bestia posseduta, pronta a troncarne la testa prima che potesse fracassare il cranio del suo precedente padrone, ma Eomer si rialzò dal fango e tese una mano verso di lei. “No! Non lo fare! Non puoi ucciderlo!”
“Certo che sì!” tuonò Auron, con uno sguardo assassino che avrebbe affettato il quadrupede in un istante. “Nessuna Nebbia abbandona il suo ospite finché non muore! E non è che uno stupido cavallo!”
“Parla per te!” gridò l’uomo. Aveva gli occhi fissi solo verso il suo cavallo. Tutto il resto, i ragni, la gente in pericolo, la palude, tutto sembrava aver perso importanza; Mara sapeva che c’era solo un argomento su cui era impossibile ragionare con Eomer. In circostanze normali avrebbe appoggiato il cavaliere di Rohan, ma con un esercito di ragni posseduti in attesa di ridurli a dei bozzoli la sopravvivenza del compagno a quattro zampe poteva anche passare in secondo piano.
Purtroppo Eomer non l’avrebbe mai accettato. “Per la gente di Rohan i cavalli sono tutto. Sono amici! Sono compagni! E non lascerò un amico in preda di una stupida nebbia da strapazzo!”
Si rimise in equilibrio e corse verso la bestia sollevando fango e acqua; il cavallo deviò verso destra per raggiungerlo di fianco ed attaccarlo con gli zoccoli, ma Eomer lo anticipò. Si tuffò in avanti, senza evitare nessuno dei colpi che il suo vecchio amico gli infliggeva, passò sotto le sue zampe quando questo si impennò e si portò a meno di un passo dal suo fianco.
La Nebbia controllava lo stallone in maniera perfetta: se Mara non avesse saputo che la bestia era posseduta non avrebbe mai immaginato che un essere gassoso potesse muovere a suo piacimento un corpo come se vi avesse dimorato da una vita. Con due balzi si portò distante dal cavaliere, ed i suoi occhi puntavano la riva dove gli altri parassiti lo attendevano.
Ma Eomer fu più rapido.
Si lanciò contro la forma scura nonostante l’armatura ed il terreno paludoso. Mara sentì la creatura pensare, valutare, poi si voltò per ricacciarlo di nuovo. Facendo ciò che sperava il suo avversario.
Il cavaliere andò incontro agli zoccoli senza paura, e prima che potessero abbattersi sul suo collo allungò un braccio e strinse le redini con tutta la forza che aveva in corpo. All’inizio la Sith credette che il suo amico volesse utilizzare le sottili strisce di cuoio per trascinare a terra il cavallo con la mera forza del suo peso, ma rimase di sasso quando l’altro sfruttò tutta la potenza dei fianchi e si ritrovò in groppa. Mu mandò un grido di stupore.
La bestia si imbizzarrì, cercando di disarcionarlo. Eomer rimase stretto alle redini ed inserì i piedi nelle staffe, guadagnando un nuovo equilibrio. Il destriero a quel punto partì al galoppo, diretto verso la riva nonostante l’uomo aggrappato ai finimenti che gli ordinava di fermarsi.
I ragni non stavano aspettando altro.
“Andiamo a prenderlo, svelti!” disse Mara. “Mu, non puoi fare qualche incantesimo potente? Che ne so, quello Starlightqualcosa che hai lanciato al Castello dell’Oblio?”
“Ehm …” il sacerdote si guardò i piedi, e la donna capì che era una battaglia persa. “… nel Castello o miei poteri erano molto aumentati … ma adesso posso al massimo fare un Crystal Wall, non so se …”
“Lascia perdere”.
Il cavallo atterrò oltre la palude, ed in un attimo i ragni gli fecero ala. Uno provò a saltare ed avviluppare la coscia di Eomer nel suo filo, ma quello scansò la gamba giusto in tempo costringendo lo stallone a muoversi con lui. Avvolse il polso della mano sinistra nelle redini, e con la destra fece saettare una seconda volta la sua spada mentre la cavalcatura cercava di allontanarselo dalla groppa. Alcuni aracnidi si mossero in direzione degli alberi, probabilmente pronti a sferrare una nuova trappola.
Mara sospirò. Aveva un’idea, ma non le piaceva nemmeno un po’. “Auron, hai detto che le Nebbie sono intelligenti?”
“Purtroppo sì”
“Bene … vediamo se capiscono la lezione al volo!”
Ispirò, ed il suo cuore prese a battere ad una velocità forsennata. Si concentrò su Eomer, sul cavallo, sui ragni tutt’intorno. Dipinse le loro forme nella sua mente, proprio come aveva imparato nel corso di tutti quegli anni, sin da quando si era nutrita delle tenebre nei panni di una Sith sia quando si era arrampicata nella luce della Forza. Li vide, li sentì, percepì accanto a lei la paura bruciante di Mu e tutto lo stupore del suo amico. Quando aveva sprigionato il suo potere tra i tronchi degli alberi si era unita alla natura con pace e curiosità, rispettando ciò che la circondava e la Forza che intercorreva tra le piante, gli uomini e le Nebbie. In quel momento invece mise da parte la calma, scegliendo solo le grida dei civili ancora in pericolo. Isolò dentro di sé la presenza di quelle Nebbie mentre le immaginava lontane dagli involucri, quasi per completare un quadro in cui mancavano delle pennellate.
Il Lato Oscuro che aveva soppresso si liberò come un fiume trattenuto da una diga. Mara cercò di incanalarlo, di comprimere quel flusso di odio come le aveva insegnato Anakin in quegli anni; riuscì solo a focalizzare nella testa l’immagine di un ragno quando il potere esplose, contraendo tutto il suo corpo come il contraccolpo di un’arma, ruggendole sin dentro le tempie. Lei lo aveva chiamato, ed esso aveva risposto.
Percepì, prima ancora di vederli o sentirli, i corpi dei primi ragni cedere sotto la sua forza. I loro fischi gridavano dolore. Sentì le loro zampe quasi sotto le sue mani, e quando il Lato Oscuro dilagò esse vennero spezzate senza pietà, altre contorte come se fossero dei fuscelli. Era un’energia viva, che predava quelle dei suoi nemici e le faceva battere il cuore in gola con una frenesia da battaglia che la inebriava fin nelle narici. Avrebbe potuto spingerla a ben altri livelli, ma rimase sveglia, cosciente, sforzandosi con tutto il corpo di non cadere in quel vortice.
Difficilmente dal Lato Oscuro si tornava indietro.
Una decina di aracnidi crollarono a terra sotto il suo potere, piegati sui loro arti ormai inutilizzabili da cui uscivano mischiati sangue e icore; non aveva idea se chi stesse soffrendo fossero gli ospiti o i parassiti, ma sentiva il loro dolore e lo faceva suo per farlo crescere come una marea. Parte di sé lo trovava eccitante.
Proprio per questo cercò di contenersi.
Un’imprecazione di Eomer le fece capire di aver colto nel segno. Aprì gli occhi, allentando la tensione, e vide il cavallo impennarsi con una foga improvvisa: era ritto sulle due zampe, e quelle anteriori scalciavano l’aria in preda ad una paura che si leggeva anche nelle sue orbite. Mentre la prima fila di ragni si dibatteva impotente, lo stallone corse a perdifiato contro un albero, forzando il suo cavaliere all’impatto. L’uomo cercò di controllarlo, ma la paura della creatura fu più forte: Eomer perse le redini e si accasciò sul tronco, e prima ancora che toccasse terra la cavalcatura era ritornata tra i ragni, nitrendo nella loro direzione.
La paura ormai serpeggiava nell’aria. Qualunque cosa fossero quelle Nebbie, aveva colto nel segno: l’ondata invisibile che stava stroncando la loro prima fila le aveva spaventate all’inverosimile, incapaci di comprendere da dove provenisse l’attacco. Mara aspettò.
Un secondo attacco fortunatamente non fu necessario. I parassiti erano abbastanza intelligenti da essere spaventati dal Lato Oscuro, e lentamente iniziarono ad allontanarsi. Prima di qualche passo, ma quando lei intensificò l’attacco si spostarono con maggior rapidità, senza però smettere di fissarli con i loro occhi dalle mille sfaccettature. Temevano. Guardavano.
Una combinazione perfetta.
Il cavallo lanciò un ultimo nitrito e si lanciò nella vegetazione, e gli aracnidi lentamente lo seguirono. Scivolarono nella vegetazione in una cacofonia di fischi furiosi, lasciandosi dietro una lunga traccia di ragnatele che avrebbero fatto bene ad evitare al loro ritorno. Quando anche l’ultimo degli assalitori abbandonò la palude, Mara abbassò la tensione che le correva nelle vene e richiamò immediatamente il Lato Oscuro dentro di sé, ascoltando la potenza dell’ombra della Forza che chiedeva di essere usata nuovamente, vantando la sua utilità. Il senso di disgusto aumentò quando vide i ragni feriti agonizzare a terra, gli alberi abbattuti ed i segni inequivocabili dell’ondata distruttiva che aveva appena sguinzagliato.
“Bella mossa!” disse Auron. Se il mercenario era rimasto colpito dal suo potere, non lo mostrava affatto. Il suo occhio era nascosto dall’umidità che gli bagnava gli occhiali. “Dovresti usarlo più spesso!”
“No” mormorò lei, vedendo il volto sorridente dell’Imperatore stagliarsi tra i suoi ricordi. “Meglio di no. Adesso andiamo a recuperare quei civili e andiamocene di qui!”
A giudicare dal pallore di Mu, almeno un altro membro del gruppo era d’accordo con lei. Il problema sarebbe stato solo convincere Eomer ad andarsene di lì senza il suo cavallo …

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 - Futuro ***


Capitolo 19 - Futuro





Lupo Solitario




La luce della giustizia è la più ardua da seguire. Non è la più potente, né la più facile da vedere.
Il giusto non è chi si limita a seguire la giustizia: è chi sa portare questa luce agli altri.
Dai Misteri di Ramas




Uscire da un teletrasporto non era mai una cosa semplice. Mara aveva usato decine di volte le Pietre Dimensionali o le Pietre della Sapienza, ma gli incantesimi dei druidi erano un’altra cosa. Non era soltanto lo stomaco ad essere sottosopra: era anche la sensazione di umido tra i vestiti, di capelli e pelle bagnati anche se nessuna goccia d’acqua aveva mai realmente sfiorato il suo corpo. L’unica cosa reale era il rivolo di sudore che le correva lungo la schiena mentre osservava la magia dei druidi defluire fino a svanire in un piccolo lampo di luce.
Da quando le Pietre della Sapienza erano nelle mani dell’Imperatore e le Pietre Dimensionali erano svanite in chissà quale angolo dell’universo –anche se da come stavano le cose era probabile che si fossero stabilite nelle mutande del Grande Satana-, l’unico metodo di teletrasporto di cui disponeva l’Alleanza era il legame tra i druidi guidati da Allanon e le acque del loro lago sacro, il Perno dell’Ade. Era una fortuna averli come alleati.
Come la maggior parte dei loro alleati, i druidi venivano da un altro pianeta, uno dei pochi a non essere caduto sotto il potere dell’Imperatore; un mondo senza grandi risorse da offrire o popoli importanti da sottomettere –tanto che sulle olomappe della Galassia era segnato con una sigla che Mara nemmeno ricordava- ma era proprio nella gente semplice di quel mondo che l’Alleanza aveva trovato nei druidi della fortezza di Paranor e nella loro magia degli alleati affidabili ed impagabili. Il potere che sgorgava in quel mondo era in grado persino di regolare i flussi del teletrasporto, ma la tecnologia imperiale non era riuscita a comprendere il potenziale di un pianeta che all’apparenza non aveva altro da offrire se non rocce, campi, e qualche foresta di legno nemmeno pregiato.
Mu e Auron fissarono dubbiosi il druidino in tunica grigia che sorrise loro felice. Da quello che aveva spiegato la principessa Leona durante una delle loro riunioni, la Resistenza non aveva mai incontrato magie di teletrasporto, né avevano mai conosciuto incantatori in grado di spostare anche un singolo chicco di riso da un punto all’altro del loro pianeta. Dunque sia l’Alleanza che la Resistenza dipendevano dal flusso magico del Perno dell’Ade per gli spostamenti, decisamente più scomodi e complessi di stringere nelle mani una singola pietra ed andarsene a piacimento. Lavok spesso blaterava della costruzione di un dispositivo grande quanto una base orbitante in grado di spostarsi tra i piani, ma era chiaro che fosse soltanto un suo sogno nel cassetto.
Lavok …
Le mancavano i battibecchi dello zio e del nipote. Non erano mai stati eccessivamente in confidenza –da sobri, perlomeno- ma riusciva a sentire la loro mancanza. Tutti coloro che erano partiti per cercare loro indizi erano tornati a mani vuote, e la principessa Leona era sempre più convinta che si trovassero nel palazzo fluttuante del Grande Satana.
“Ed andremo a riprenderli anche lì, costi quel che costi!”
La voce di Leia superò anche la sensazione di intorpidimento della sua testa. Nel silenzio generale del comitato di ricevimento quelle parole suonarono piuttosto chiare e distinte, e questo rubò alla ex Sith un sorriso.
Auron aiutò Mu a rimettersi in piedi, poi si fece avanti ed iniziò un rapido rapporto sulle vicende di Nail, degli abitanti salvati dalla palude delle Nebbie e sulla loro reazione; lei cercò di dare un’occhiata rassicurante ad Eomer, ma per il momento il guerriero era perso nei suoi pensieri e l’aura triste che emanava la sua persona le fece capire che non era il caso di insistere.
Gandalf era come sempre imperturbabile con la sua pipa. “Perfetto Leia! Hai un piano o ci basiamo sul buon vecchio commando?”
Ovviamente ho un piano. Adesso che siamo riusciti a mettere in guardia la maggior parte della gente comune del mondo dei nostri amici possiamo fare qualcosa di meglio. Qualcosa che non abbiamo mai tentato prima e che sono sicura che possa funzionare. Dopotutto sia noi che la resistenza abbiamo passato la vita a combattere tiranni, giusto? Io direi che è il caso di … rovesciare il tavolo di gioco dell’Imperatore e del Grande Satana e di prendere in mano la situazione!”
Di solito Mara non andava molto d’accordo con Leia, ma questa novità le fece correre un piacevole brivido lungo la schiena; evidentemente durante la sua missione nella palude i grandi capi non erano rimasti inattivi. Era da molto tempo che non sentiva una simile eccitazione nell’aria, proprio quello di cui l’Alleanza aveva bisogno.
“Bene, sentiamo questo piano …”
“Diciamo che innanzitutto dovremo accertarci di avere quante più stanze del palazzo libere …”

La gente aveva combattuto centinaia di guerre per il trono. Aragorn era cresciuto con quelle storie nelle verdi vallate di Gran Burrone ascoltando i bardi –rigorosamente elfici- narrare di questo e quel guerriero, delle truppe schierate durante le guerre dell’Origine, dei sovrani giusti e di quelli malvagi che si erano susseguiti nei regni degli elfi, degli uomini e persino dei nani. Alcuni avevano lottato per diritto di sangue, altri perché ritenevano che sarebbero stati i migliori sovrani possibili. Molti ci erano riusciti e si erano seduti sui loro troni, non ultimo quello in legno intarsiato ed oro che Aragorn aveva smesso di usare esattamente due giorni dopo che gli avevano posto una corona sulla testa. Governare era già abbastanza complicato, ma farlo immobile su un sedile con uno schienale duro dritto era una tortura che i bardi non narravano mai, ed era proprio in momenti come quelli che si chiedeva quanto ai suoi nobili antenati, prima ancora che nascesse la dinastia dei sovrintendenti, piacesse guardare il mondo da lì. Era molto meglio lasciare quel salone di marmo a chi vi si trovava a suo agio: Barsimmon Oridio e Eton Shart erano appena giunti dal loro pianeta con oltre cinquecento arcieri elfici al loro seguito, e conoscendo i soggetti era stato più che felice di destinare la sala del trono alla loro accoglienza supervisionata dalla pazienza di Legolas.
“Bella vista da quassù, eh?” mormorò Gandalf lanciando qualche occhiataccia a due vivandieri hobbit più intenti a riempire le proprie bisacce di salsicce che non quelle dei nuovi arrivati. “Leia sarà anche una grandissima rompiscatole, ma ammetti che soltanto lei poteva organizzare uno spettacolo simile”.
Ed era vero.
Il pomeriggio vedeva centinaia di figure accamparsi tutt’intorno alla grande città di Minas Tirith. Il giorno era caldo e luminoso, l’aria dolce per l’odore dell’erba e delle foglie ancora bagnate, il fiume Anduin scintillava, gonfio per la leggera pioggia della sera precedente. Le nuvole si erano finalmente spostate, ma il terreno rimaneva morbido e pieno di solchi dove i loro ospiti l’avevano percorso per montare gli accampamenti. Per tutta la mattina erano giunti rappresentanti di tutti gli alleati, ed il re aveva risposto a tutti ringraziandoli per aver risposto alla sua chiamata. L’esercito di Arborlon stava ancora sistemando i propri alloggi, e lo stendardo dell’albero bianco dalle foglie rosse scintillava al vento accanto a quello della fortezza avvolta nel fulmine azzurro, simbolo dei druidi di Paranor. Per quanto l’ordine fosse ben lontano dalla grandezza che lo aveva caratterizzato nelle epoche passate ed il numero degli accoliti era di gran lunga inferiore, Allanon aveva insistito che tutti i giovani druidi disponibili a combattere ed a creare ponti con il Perno dell’Ade fossero messi a disposizione dell’Alleanza. I druidi erano inferiori in un rapporto di oltre dieci ad uno con le truppe a disposizione, sproporzione che aumentava con l’arrivo di altri alleati. Non poteva negare di essere elettrizzato all’idea di raccogliere tutti i loro alleati nel più grande attacco all’Impero mai progettato fino a quel momento, ma i numeri del teletrasporto parlavano chiaro. Era un particolare di cui tenere conto, e per quanto fosse sicuro che Leia avesse già in mente una soluzione non poteva fingere di non essersi accorto di quella che poteva trasformarsi in una gigantesca faglia nella loro operazione.
Alcuni cavalieri erano stati mandati a nord per chiedere l’aiuto dei nani, ma gli zii ed i cugini di Gimli erano troppo orgogliosi e dalla testa dura per farsi trasportare dai druidi; ci avrebbero impiegato almeno un altro paio di giorni per raggiungere la capitale con il grosso dell’esercito, ma per fortuna Aragorn non aveva fretta. Gli hobbit erano disorganizzati per definizione, eppure una piccola squadra era giunta alla chiamata. Poteva ritenersi davvero orgoglioso dei suoi amici.
“Ma guarda un po’ chi è arrivato …” mormorò Gandalf. Il re si girò seguendo il verso della pipa, e proprio dove l’Anduin svoltava creando l’insenatura per il porto vide una tenue nuvola rossa diradarsi nell’aria ed oltre trecento forme ne emersero. Da quella distanza sarebbe stato impossibile riconoscerli, ma aveva trascorso abbastanza tempo nella dimensione del Magmanund per non dimenticarsi dello stemma grigio con la testa di lupo e di quello color del mare con una stella di cristallo. “Mi sa che adesso ci siamo proprio tutti!”
“Andiamo a salutare Lupo prima che inizi il banchetto?”




“Sembra ieri l’ultima volta che ci siamo visti!”
Lupo Solitario non era cambiato affatto, come se gli anni trascorsi dal loro ultimo incontro fossero spariti come una lieve pioggia primaverile. Il capo dell’ordine dei guerrieri Ramas aveva il viso rilassato nonostante avesse superato da un bel pezzo i trentacinque anni, e le sue spalle erano larghe e allenate sicuramente più di quelle del re, che rimase quasi soffocato dall’abbraccio del suo vecchio amico. Nonostante il clima mite non aveva perso l’abitudine di indossare il suo vecchio e consunto mantello di pelliccia, che in un attimo riempì del suo odore acre tutta la tenda che i Ramas avevano allestito in fretta e furia come riparo per il loro capo. Aragorn e Gandalf non fecero in tempo a ricambiare la calorosa accoglienza che si ritrovarono due boccali di birra in mano. “Non sarà quella dei nani, ma anche noi del Magnamund la sappiamo far bene!”
“Pensavo che avremmo trovato anche Banedon” mormorò il re sedendosi su una cassapanca.
“Io gli avevo detto di restare, ma evidentemente a Minas Tirith c’era una ragazza più carina di voi due che stava aspettando con ansia il suo bel maghetto … Il vostro fascino è in ribasso, amici!”
“Come si suol dire … largo ai giovani!”
“Largo ai giovani davvero!” disse lui, e quando sollevò il proprio boccale in aria il vetro tintinnò per il brindisi. Proprio come ai vecchi tempi.
Erano passati anni dall’ultima volta che il ramingo e lo stregone avevano messo piede nella dimensione del Magnamund; e messo piede non era nemmeno il termine più appropriato visto che avevano raggiunto quel posto grazie all’ennesima macchinazione dell’Imperatore ai loro danni.

Narratore: “Registe, devo proprio spiegare come sono andate TUTTE le cose?”
Registe: “No, Narratore, ci vorrebbe una serie a parte e già andiamo a rilento così!”
Narratore: “E volete lasciare un buco nella conoscenza dei vostri lettori?”
Registe: “I lettori li faranno a NOI una bella serie di buchi con il fucile a pompa se continuiamo ad aprire parentesi su tutti i personaggi di questa storia, che ne dici di saltare queste spiegazioni e metterle in qualche capitolo più adeguato?”
Narratore: “Cioè *sfoglia il copione* tra mooooooolto tempo”


Le comunicazioni con quella dimensione non erano mai state semplici, e da quando l’Imperatore aveva sottratto le Pietre della Sapienza era ancora più difficile spostarsi dal loro mondo a quello di Lupo Solitario, costringendoli a ricorrere alla benevolenza dei druidi e del loro Perno dell’Ade. Ma la cosa piacevole di rivedere Lupo Solitario era che nonostante lunghi mesi di silenzio il loro dialogo riusciva a riprendere esattamente da dove era terminato, come se il tempo e le guerre non fossero durati più di un giro di clessidra. Aragorn non aveva mai dubitato nemmeno per un istante che il loro amico sarebbe rimasto sordo alla loro richiesta d’aiuto. Allungò comodamente le gambe sul tavolo e Gandalf gli passò la pipa. “Il piano di Leia è interessante, non credi?”
“Leia ha sempre un piano per ogni cosa. E da quello che ho capito adesso ha una nuova amica che la pensa proprio come lei”.
“Questa principessa Leona ha un bel caratterino. Siamo noi uomini l’anello debole della catena”.
Lupo rise e per poco non rovesciò la birra sulla panca. Gettò dei ramoscelli di legna nel camino improvvisato del suo alloggio, e le scintille illuminarono la sua faccia; i lineamenti erano rilassati, ma lo sguardo che gettava oltre le braci fece capire al re che il discorso stava per diventare serio.
“Voi avete fatto tanto per me, amici miei. Quando il Magnamund sembrava privo di speranze sotto il dominio dei Signori delle Tenebre siete stati gli unici a tenderci la mano, le uniche persone provenienti da un altro mondo che hanno combattuto al nostro fianco quando tutti gli alleati fuggivano, si arrendevano o ci voltavano le spalle … è proprio vero che in ogni dimensione sembra esserci qualcuno che si diverte a prendere la libertà degli altri, ma nel nostro caso abbiamo dimostrato che è possibile fermare certa gente. Gnaag ormai è un brutto ricordo, e gli altri Signori delle Tenebre sono lentamente caduti uno dopo l’altro. Noi Ramas ormai riusciamo a cavarcela da soli, ma non passa una notte che non ricordo le atrocità di quei mostri e l’attacco al mio monastero …” sussurrò, con gli occhi rivolti altrove, oltre la debole cortina di fumo bianco che saliva dalla legna. “So cosa vuol dire l’oscurità. So che in alcuni momenti si vorrebbe qualunque cosa, anche un aiuto qualsiasi e le mani a cui dovresti aggrapparti si tirano indietro lasciandoti sprofondare. Il fatto che il Magnamund sia in pace non vuol dire che io possa dare le spalle ai miei amici. Anche se so benissimo che potremmo non tornare”.
“La nostra è una richiesta di aiuto. Non un obbligo”.
“Per me invece è un obbligo. Venite”.
Appoggiò il boccale sul tavolo e scansò il lembo della tenda, ed in un attimo si trovarono all’aria aperta quando ormai il sole regalava gli ultimi raggi del tramonto e molti scudieri accendevano le torce per tutta la larghezza dell’accampamento. Dal punto in cui si trovavano si poteva contemplare tutta la grandezza di Minas Tirith e delle sue mura che alle ultime luci del giorno sembravano tingersi del colore della fiamma, disturbato soltanto dal volo degli uccelli che cospargevano quella tinta di piccole ombre. Anche nella città iniziavano ad accendersi le prime luci, e forse nuove delegazioni di alleati stavano entrando dalle porte principali visto che si intravedevano altri stendardi in movimento.
Aragorn respirò a pieni polmoni quel paesaggio, e seguì Gandalf dietro al passo ferreo di Lupo Solitario. L’accampamento che il maestro Ramas aveva stabilito si estendeva all’interno del piccolo bosco ad ovest dell’Anduin, proprio dove l’ansa del fiume rendeva il terreno meno paludoso e permetteva ai soldati di far abbeverare i cavalli senza impantanare le bestie. Eomer aveva proposto ai nuovi arrivati di soggiornare un pochino nella regione di Rohan, ma Lupo Solitario aveva preferito rimanere vicino alla capitale rinunciando a qualche piccolo beneficio degli alloggi dentro la città. Il campo era pieno di gente, e tutti salutarono l’uomo ed i suoi due ospiti in un misto tra il rispetto e l’amicizia pura.
Aragorn cercò di riconoscere qualche viso tra quelli che si affaccendavano tra i fuochi e le fucine improvvisate, ma non riconobbe nessuno; per un attimo fu convinto di riconoscere Fiume Potente tra alcuni uomini impegnati a trasportare delle casse, ma quando la persona si girò vide un volto molto più giovane della persona che aveva conosciuto nel suo primo viaggio nel Magnamund. Vide anche Gandalf cercare qualche conoscente tra la gente, ma lo stregone non ebbe più fortuna di lui. Era un grande viavai confuso ma allo stesso tempo rigoroso di gente che si muoveva sapendo perfettamente quale fosse il suo compito, e le risate accompagnavano la loro passeggiata fino all’estremità occidentale dell’accampamento, quella che si trovava nel fondo del bosco protetta dalle fronde.
Non vi erano molti Cavalieri Ramas. Di coloro che potevano fregiarsi di quel titolo e dei loro mantelli scuri era riuscito a contarne non più di trenta, e al più grande di loro non avrebbe dato trenta primavere. La maggior parte era composta da giovani apprendisti e qualche soldato in armatura probabilmente inviato da re Ulnar; dei ragazzi passarono proprio accanto a lui aiutando una coppia di maghe della Confraternita della Stella di Cristallo nella loro tipica veste azzurra, ed entrambe salutarono Lupo Solitario prima di rimanere sommerse dalle sporte di alambicchi e polveri che si erano portate dietro. Non quello che si direbbe un esercito di veterani …
Ma sapeva di non poter chiedere altro: lui stesso non aveva conquistato il regno con delle truppe regolari. L’attacco dei Signori delle Tenebre aveva quasi annullato il vecchio ordine dei Ramas, e soltanto da pochi anni Lupo Solitario –l’unico superstite, a dire dei suoi racconti- era riuscito a far rinascere il monastero dalle macerie e ricostituire il corpo dei Ramas. Gli allievi erano numerosi –certamente più di quelli che il Maestro Windu aveva raccolto nel Tempio Jedi- ma ancora giovani. Un ragazzino che stava esercitandosi ad usare la fionda contro dei bersagli non gli sarebbe arrivato alla cintura, e dall’espressione contrariata di Gandalf vide che il suo amico aveva pensato alla stessa cosa. “Lupo …?”
“Aspettate” rispose l’uomo come in risposta ai loro pensieri. “Siamo arrivati”.
Il luogo dove si erano fermati era una piccola arena improvvisata in una radura di cui lo stesso Aragorn aveva dimenticato l’esistenza; gli apprendisti avevano disposto delle fiaccole tutt’intorno al perimetro ed alcuni maghi stavano creando dei globi di luce che nascevano dai palmi delle loro mani e volavano verso l’alto, illuminando a giorno il piccolo spiazzo erboso dove si muovevano una manciata di ragazzi. Tutti gli altri avevano trasportato dei tronchi d’albero intorno alla radura e li avevano posizionati in semicerchio per dare a tutti coloro che lo desideravano la possibilità di sedersi. L’arrivo del Grande Maestro e dei suoi due ospiti non intaccò affatto il viavai di gente in quel luogo dove andavano e venivano cesti carichi di cibo, bevande ed armi che i più grandi brandivano con esultanza. L’arena improvvisata doveva essere servita inizialmente solo per allenarsi, ma i fantocci da combattimento erano stati accantonati ai lati, le travi da equilibrio erano state usate come sedili ed al centro della radura sei figure si spostavano, creando piccole ombre sul prato. Lupo Solitario li invitò a sedersi, e Aragorn vide che per un attimo la sua espressione corrucciata era scomparsa proprio mentre guardava i giovani far cozzare tra loro le armi. Un paio di loro parve accorgersi del loro arrivo, ma il guerriero scrollò le spalle e diede loro il permesso di continuare. “Osservate”.
Quattro ragazzi e due ragazze, nessuno più grande di diciotto anni, stava allestendo un duello per il piacere degli apprendisti più giovani. Un Cavaliere era seduto accanto a loro, ma forse più per il puro interesse nello scontro che non per evitare che qualcuno si ferisse sul serio. Aragorn per un attimo tornò alla sua adolescenza a Gran Burrone e ai duelli con gli elfi della corte di Elrond, ma in nessuno dei suoi ricordi il cozzare delle lance ed il clangore delle spade era accompagnato a movimenti così liberi, felici, e la strana sensazione di spirito di squadra che non aveva mai provato con nessun altro avversario. Respirò a fondo quell’esuberanza mentre un coro di incitamento si sollevò mentre uno dei giovani –alto e molto più magro del dovuto- recuperò al volo la lancia che gli era appena sfuggita di mano e passava al contrattacco proteggendosi la testa con uno scudo di legno. Più che un allenamento improvvisato sembrava un attacco diretto ad uno solo degli apprendisti che stava reggendo da solo l’impatto degli altri cinque scivolando tra l’uno e l’altro, trascinandoseli dietro mentre si spostava intorno al perimetro della radura, i capelli color oro che emanavano dei riflessi rossi quando passava vicino alle fiaccole. Una ragazza formò tra le mani una piccola sfera di ghiaccio e la scagliò nella sua direzione, ma il giovane la evitò lasciando che si infrangesse contro gli spettatori, però il Cavaliere di guardia fu abile e creò un muro energetico che la ridusse a nient’altro che uno spruzzo d’acqua. L’apprendista biondo si spostò verso il centro e gli altri si disposero intorno.
“I giovani sono la risorsa più importante per noi. L’ordine dei Ramas ancora adesso procede lentamente, ma ora ha un traguardo che non sembra più tanto irraggiungibile” disse il loro amico senza smettere di fare cenni di incoraggiamento “I ragazzi continueranno quello che io ho iniziato. Ogni tanto mi chiedo se i miei insegnanti pensassero lo stesso mentre mi osservavano durante gli allenamenti … Per me questa guerra è un obbligo: un obbligo verso questi ragazzi, per insegnare loro cosa voglia dire davvero essere dei Ramas, il senso del combattere uno a fianco dell’altro”.
La prima a passare all’offensiva fu l’altra ragazza, una che era rimasta sempre in disparte. Calò la sua ascia –che sembrava molto più appuntita di qualunque arma da addestramento che Aragorn avesse mai provato- sul compagno, ma dalle mani di questo partirono due scintille di luce ed il re si trovò con gli occhi puntati sulla figura che aveva fatto apparire dal nulla le due armi più strane che avesse mai visto. A prima vista potevano sembrare due enormi chiavi incredibilmente ridicole, eppure quando una di quelle impattò contro la lama dell’ascia mandò delle scintille che nascevano solo da metalli puri come il mithril. Il suono fu debole, quasi cristallino, eppure l’attimo dopo la sua avversaria stringeva in mano soltanto il manico dell’arma; poteva sentire anche da quella distanza lo spostamento dell’aria. Gandalf scrutava quelle chiavi con persino più stupore di lui. “Non ricordavo che voi Ramas sapeste evocare delle armi dal nulla, Lupo”.
“Infatti noi non lo facciamo. Lui … è un caso un po’ particolare”.
Un apprendista si lanciò contro il suo braccio destro, cercando di aprirsi un varco senza trasformare la propria spada in un cumulo di schegge di metallo; la sua compagna richiamò delle forme di magia piuttosto elementari, ed entrambi si disposero ai lati dell’avversario. Una coordinazione notevole, Aragorn ammise tra sé, ma era chiaro che il giovane biondo stesse dominando il duello sin dall’inizio costringendo entrambi i nemici ad adattarsi ai suoi movimenti, ad un continuo attaccare e parare apparentemente senza schema. I suoi insegnanti di scherma avevano insistito per farlo diventare ambidestro, per dominare con entrambe le mani ogni forma di arma e abbattere ogni forma di debolezza, ma ricordava benissimo la difficoltà del padroneggiare l’uso della spada con la mano sinistra che aveva appreso dopo una serie infinita di tagli e visite dai guaritori. Ancora adesso doveva concentrarsi quando si ritrovava ad usare due armi insieme, ma in quel ragazzo non c’era un attimo di esitazione, una distrazione, qualcosa che desse allo spettatore l’idea di una qualsiasi forma di insicurezza mentre alternava il ritmo delle due chiavi. L’ultimo degli apprendisti, uno grassottello dai capelli rossi, caricò in corsa il compagno approfittando del combattimento incrociato, ma inciampò su un elmo abbandonato a terra ed atterrò addosso alla ragazza proprio mentre questa stava formando del ghiaccio. Nel bel mezzo delle risate di tutti i presenti –che erano aumentati dal loro arrivo- i due finirono contro un fantoccio di paglia, e le schegge dell’incantesimo inchiodarono i loro abiti a terra tra le grida di lei e le confuse richieste di perdono di lui. Il giovane dalle due chiavi ruotò su se stesso, rimasto ormai solo contro l’ultimo avversario: quello non indietreggiò nemmeno per un attimo e concluse lo scontro con un affondo bello e preciso, diretto al fianco, ma non ebbe alcuna reale possibilità. Le due strane armi, una chiara come l’argento e l’altra nera come la notte, si incrociarono in aria proprio lungo la traiettoria della lama avversaria e la staccarono di netto.
I Cavalieri e gli apprendisti si profusero in un bell’applauso mentre il giovane richiamò le sue chiavi e queste sparirono in altrettante scintille; si diresse verso i due compagni a terra e diede loro una mano a rialzarsi anche se la ragazza gli lanciò un paio di sguardi piuttosto velenosi. L’altro si limitò a sorridere e dare una bella pacca sulla spalla al vincitore. Aragorn applaudì alla scena e seguì il Maestro Ramas nell’arena mentre la maggior parte degli spettatori veniva richiamata all’ordine dai compagni più anziani e tornavano ai loro compiti. I giovani che si erano battuti si voltarono verso il loro insegnante e fecero un gesto di saluto.
“Ragazzi, siete stati molto fortunati. Avete dato una bella dimostrazione di quello che sanno fare i giovani Ramas sul campo, e vi siete esibiti davanti a due persone che riuscirebbero a mettere in difficoltà anche me”.
“Magari potremmo organizzare qualche torneo …” fece Gandalf. “Comunque i tuoi apprendisti sono assolutamente molto dotati!”.
“Peccato che i nostri duelli finiscano tutti allo stesso modo …” commentò la ragazza dai capelli neri con la tunica ancora cosparsa di cristalli gelidi lungo i bordi.
“Continuate ad impegnarvi e vi garantisco che i risultati cambieranno. Sole Nascente, concentrati un po’ di più sull’uso delle armi e non fare affidamento soltanto sulla magia, ti rendi un bersaglio facile. Sei una Ramas, non una maga della Confraternita. Scoiattolo Allegro, meno gomiti e più spalle” disse all’apprendista che ancora osservava delusa i pezzi della sua ascia. Lei annuì, più convinta dell’amica, mentre Lupo Solitario si girò verso il giovane che aveva opposto più resistenza. “Fiume Nero, niente da dire. Continua così e sarai Cavaliere prima di quanto immagini”.
I tre si congedarono e scomparvero dal campo scambiandosi diverse occhiate, mentre davanti a loro rimanevano il biondo e gli altri due apprendisti, il ragazzo alto e magro e quello dai capelli rossi che aveva seminato tutto quello scompiglio. Non sembravano aver ascoltato le parole del maestro, perché quando quello si voltò mandarono delle esclamazioni sorprese.
“Aragorn, Gandalf, questi due sono Sentinella della Runa e Scudo Felice. Diciamo che sono quelli che mi fanno tribolare più del dovuto, vero, Sentinella?”
Il grassottello dipinse un’espressione delusa, ma Lupo Solitario cancellò il rimbrotto passando le mani sulle teste di entrambi in maniera molto più amichevole di quanto potesse sembrare dopo le prime parole. “Meno dolcetti e più esercizi, o non riuscirete mai a sorpassarlo. E potete farcela, ma occorre molto, molto più impegno!”
“Non ce la farò mai …” sospirò l’altro lasciandosi cadere con uno sbuffo sull’erba.
“Smettila di dire idiozie. Che sfida sarebbe se non ci volesse un po’ di impegno per vincerla?” disse il Ramas grande, poi fece cenno al giovane biondo di farsi avanti. Era più basso di entrambi i suoi amici, ma non sembrava più giovane di loro. Quando sollevò la testa e si voltò, Aragorn si accorse che aveva gli occhi di un blu quasi magnetico, che ricordavano due pozze di acqua di mare come non ne aveva mai visti. Le pupille erano incredibilmente grandi, come se volessero catturare tutti gli ultimi raggi del sole, e accompagnavano dei lineamenti molto più delicati di quelli della gente del Magnamund o degli abitanti multiformi del Daziarn. “Amici miei, ho il piacere di presentarvi un apprendista piuttosto singolare. Ma immagino che il suo allenamento abbia parlato abbastanza. Chiave del Destino, saluta i nostri ospiti come si deve”.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 - Enigma ***


Capitolo 20 - Enigma





Un licantropo




Ricordo ancora bene il giorno in cui incontrai il numero IV per la prima volta.
Mi colpì subito quel giovane medico dai modi bruschi che aveva trascorso due giorni interi senza mangiare né dormire per prendersi cura dei feriti del villaggio di Idoriel, colpito da un’incursione di briganti appena poco prima che io, Xigbar e Xaldin vi giungessimo. A quel tempo viaggiavamo per il nostro mondo alla ricerca di nuovi membri per la nostra Organizzazione, e quando vidi Even pensai che era di uomini come lui che avevamo bisogno.
Gli parlai quella sera stessa, davanti a un boccale di idromele speziato. Accettò subito la mia proposta, gli occhi accesi di una luce febbrile.
Una luce che io ingenuamente scambiai per entusiasmo, ma che probabilmente era solo avidità e insana sete di sapere.
Dai diari di Xemnas, Superiore dell’Organizzazione.




Narratore: “Sigh. Le mie preghiere sono rimaste inascoltate. Lettori cinici e crudeli! Sappiate che me ricorderò! E un giorno… UN GIORNO… !!”
Registe: “Narratore, la smetteresti cortesemente di minacciare il nostro già scarso pubblico e passeresti ad annunciare la prossima scena?”
Narratore: “Già, la prossima scena… che c’è da dire sulla prossima scena se non che è un altro di quegli odiosi, insopportabili, melensi e ridicoli flashback?”


Il rumore delle onde era rilassante, uno scroscio lento e ritmico che conciliava il sonno. I miei occhi persero ben presto il filo sulla pagina che stavo leggendo, mentre le lettere e i caratteri si trasformavano a poco a poco in confuse linee nere prive di significato. Sentii la testa farsi pesante e mi appoggiai al tronco della palma che mi stava gentilmente offrendo la sua ombra. Mi accorsi vagamente che il libro mi scivolava dalle mani e cadeva sulla sabbia con un tonfo attutito. I confini tra realtà e sogno sfumarono, il cielo si accese dei colori eterei di un’aurora boreale e la palma divenne l’albero di un veliero che solcava il mare spumeggiante.
“Zio?”
Qualcosa mi scuoteva delicatamente il braccio.
“Zio?”
Le mie palpebre sembravano incollate alle pupille con il piombo fuso, e ci misi un po’ per mettere a fuoco Zexion che mi fissava con le sopracciglia aggrottate e un’espressione sofferente negli occhi.
“Che succede?” chiesi, di nuovo presente a me stesso, allarmato da quello sguardo pieno di paura che non vedevo ormai da tantissimo tempo.
Zexion aveva più o meno cinque anni adesso, ed era molto diverso dal ragazzino terrorizzato dalla sua stessa ombra che il Superiore aveva trovato abbandonato nella neve. Restava sempre timido e introverso, restio a stabilire contatti con altri membri dell’Organizzazione che non fossimo io e in misura minore Xemnas, ma gli incubi notturni erano spariti, non piangeva più senza motivo e aveva imparato a fidarsi di me e a comunicarmi problemi e difficoltà. Con mio grande orgoglio sapeva anche leggere e scrivere alla perfezione, alla faccia dei manuali pedagogici della biblioteca del Castello che consigliavano di non iniziare prima dei cinque o sei anni.
“Zio, possiamo tornare a casa?”
“Qualcosa non va?” Mi guardai intorno. La spiaggia era deserta come sempre, una sottile striscia di sabbia bianca racchiusa tra due scogliere impervie a picco sul mare. L’avevo scelta appositamente perché era del tutto inaccessibile, a meno di non arrivare dall’acqua o usare il teletrasporto del Castello dell’Oblio. Normalmente convincere Zexion a venire via era un’impresa eroica: trascorreva ore intere a giocare con la sabbia, raccogliere conchiglie e inseguire le creste delle onde tra urletti e risatine di gioia, senza mai stancarsi. “Un altro po’, per favore!”, era l’invariabile risposta quando tentavo di convincerlo che si era fatto tardi e che probabilmente al Castello ci avevano già dati per dispersi. E io ogni volta cedevo, perché vederlo sorridere mi rendeva felice, e perché era semplicemente impossibile rifiutargli qualcosa quando ti guardava supplicante con i suoi occhioni azzurri come il cielo.
Eppure quel giorno non sembrava esserci nulla di diverso dal solito.
La risposta di Zexion non fece che aumentare la mia confusione: “Il mare ha un odore brutto.”
Vidi che si tappava il naso con due dita, e annusai l’aria. Respirai salsedine, il profumo dolciastro dei frutti delle palme, la lieve traccia del solvente chimico che mi era rimasta appiccicata tra le dita da quella mattina in laboratorio. Niente di anormale.
Scossi la testa: “È lo stesso odore di sempre, Zexion.”
“Sì. Ma anche Saïx ha lo stesso odore. È brutto. Possiamo andare via adesso?”
“Come… come sarebbe lo stesso odore?”
Faticavo a dare un senso alle parole di Zexion, che sembrava sempre più a disagio ogni secondo che passava. Non riuscivo a capire cosa c’entrasse Saïx, il nuovo numero VII dell’Organizzazione, con il mare e quella storia dell’odore…
“Saïx ti ha trattato male, per caso? Se è così gli darò una bella lezione!”
In effetti l’ultimo acquisto di Xemnas aveva ispirato ben poca fiducia anche a me. L’inquietante cicatrice a forma di X che spiccava in mezzo alla sua faccia aveva i contorni troppo netti e precisi per essere frutto degli artigli di un animale o di un colpo inferto a caso, e parlava a gran voce di un passato tenebroso e poco rassicurante. Se il Superiore sapeva qualcosa della sua vita prima di entrare nell’Organizzazione non lo aveva rivelato a nessuno di noi, e Saïx a sua volta si era tenuto sulle sue da quando era arrivato al Castello, appena qualche settimana prima. Era più taciturno persino di Lexaeus e non dava confidenza a nessuno, anche se sembrava provare una sorta di adorazione per il nostro numero I e pendeva dalle sue labbra ogni volta che questi parlava. Forse Xemnas lo aveva accolto nell’Organizzazione proprio per compiacere il suo ego, chi lo sa. In ogni caso credo che lui e Zexion non si fossero scambiati più dei quattro saluti di rito al momento delle presentazioni.
“No.” rispose il bambino allungando la mano verso una delle due ciocche di capelli che mi ricadevano ai lati dei viso. L’abitudine di sfregarsele contro la faccia per tranquillizzarsi era un retaggio delle lunghe notti in cui gli incubi la facevano ancora da padrone. “Però io non gli piaccio.”
“Come fai a dirlo?” Ancora seduto sulla sabbia lo presi tra le braccia, e lui subito affondò la testa nella mia tunica, come se volesse soffocare ogni traccia dell’odore del mare che lo aveva tanto turbato.
L’odore del mare. L’odore di Saïx. La ciocca di capelli sfregata contro il viso. Cercava il mio odore per rassicurarsi…
Per un attimo mi sembrò che i tasselli di un puzzle fossero sul punto di congiungersi nella mia mente, ma l’illuminazione mi mancò.
Mi ero affezionato a quel bambino, avevo imparato a volergli bene; ma c’erano ancora tante cose che non sapevo di lui, a partire dal suo misterioso passato ancora avvolto nell’oscurità. Per certi versi Zexion era sempre stato e rimaneva un enigma.
“Lo sento.”
“Lo senti… da cosa? Da...” stentavo a credere persino io a ciò che stavo per dire: “… dall’odore?”
Zexion fece segno di sì con la testa.
Trattenni il fiato per una buona manciata di secondi mentre il peso della rivelazione si faceva strada dentro di me, accompagnato dallo scroscio delle onde. Non mentiva, lo sapevo. Zexion non mentiva mai.
Lo scostai lievemente da me per poterlo guardare negli occhi.
“Ascolta, Zexion… mi puoi raccontare esattamente che cosa senti quando sei vicino a Saïx?”
Zexion aggrottò le sopracciglia come se non capisse il senso della domanda, ma poi rispose: “L’odore di Saïx è un po’ come quello del mare. E quando mi guarda è come il mare quando c’è brutto tempo. Non mi piace… credo… credo che non è contento perché io sono piccolo ma lui viene dopo di me nell’Organizzazione. Però non è colpa mia!”
Era incredibile. Riusciva davvero a… leggere nel pensiero? La magia scorreva nel sangue di tutti noi dell’Organizzazione, ma nemmeno i maghi dal potenziale più elevato potevano sognarsi un potere simile. No, la spiegazione doveva essere un’altra.
“Certo che non è colpa tua” lo rassicurai, e intanto il mio cervello continuava a lavorare freneticamente su quei dati sconcertanti. Dovevo sapere di più.
“Vieni, torniamo al Castello.” Aprii il portale direttamente nel laboratorio, e fui sollevato di vedere Zexion rilassarsi non appena il varco dimensionale si richiuse alle nostre spalle in uno sbuffo di oscurità.
“Per quanto riguarda Saïx non ti preoccupare” gli dissi “Se solo prova a dirti o a farti qualcosa di male lo faccio a pezzi. Se ti spaventa in qualsiasi modo corri subito da me. Perché non me lo hai detto prima?”
Zexion continuava a scrutarmi con aria insicura, confusa. Probabilmente non ero l’unico alle prese con un enigma insolubile, quel giorno.
“Tu non lo senti.” disse infine con un filo di voce, e non era una domanda.
Si lasciò cadere su una sedia, la testa bassa, e io lo raggiunsi appoggiando le mani sullo schienale.
“No, non lo sento” dissi con dolcezza, come a volermi scusare. “Nessuno lo sente oltre a te. Non te ne eri mai accorto?”
Scosse la testa senza guardarmi.
“Puoi aiutarmi a capire? Risponderesti a qualche domanda per me?”
“Sì, se vuoi…” riprese a giocherellare con i miei capelli e io lo lasciai fare, dandogli il tempo di digerire la scoperta che aveva appena fatto anche se ogni fibra dentro di me bruciava per l’impazienza di fare luce sul mistero.
“Dimmi, anche da qui riesci a capire cosa pensa Saïx?”
Zexion chiuse gli occhi per un attimo. “Ora non pensa niente. Sta dormendo.”
Pazzesco, funzionava anche a distanza. Sbalorditivo.
“E gli altri… cosa fanno gli altri?”
“Lexaeus e Xaldin non li sento. Forse sono andati in un altro mondo. Il Superiore è nella galleria dei ritratti, parla con i suoi antenati. Sembra contento. Ha un odore di erba strana, ma buona” aggiunse. “E Xigbar… “ stavolta dovette concentrarsi più a lungo. Teneva la testa sollevata proprio come un segugio che cerca di captare una traccia nell’aria. Lo osservavo con trepidazione, studiando ogni minima espressione del suo viso. Possibile che in due anni non ne avessi mai avuto alcun sentore…?
“Xigbar è nel villaggio qui vicino.” Fece una smorfia. “In quel posto brutto dove tutti bevono tanto… ci va spesso, e quando torna puzza sempre.”
Non mi stupii affatto quando, all’uscita del portale oscuro che avevo aperto per la taverna del villaggio, mi ritrovai di fronte uno Xigbar ubriaco fradicio che brandiva una sedia con tutta l’aria di voler scatenare una rissa.
“Porca puttana Vexen, mi hai fatto prendere un infarto!”
Non lo degnai di uno sguardo e riaprii il portale per tornare indietro prima che iniziassero a volare tavoli. La voce di Xigbar impastata dall’alcol mi inseguì fin dentro il varco oscuro: “Non lo dire al Superiore! Non provare a dirlo al Superiore o me la paghi!”
“Avevi ragione Zexion…” dissi tornato nel laboratorio “Era proprio nel villaggio… è incredibile… davvero incredibile…”.
Iniziai a camminare su e giù, seguito dallo sguardo attento di Zexion che non mi lasciava neanche per un secondo.
“È pazzesco… non è magia Zexion, è il tuo olfatto! Il tuo olfatto deve essere milioni di volte più sviluppato di quello di un normale essere umano. Riesci a sentire odori che gli altri non percepiscono… persino quelli delle emozioni! Avevo letto di teorie secondo cui anche le emozioni e i sentimenti avessero un odore proprio, ma francamente credevo… “
Lo sguardo spaventato di Zexion mise un freno al mio entusiasmo, e mi interruppi di colpo. In un attimo fui di nuovo accanto a lui.
“Io pensavo che era normale… “ la sua voce era incrinata dal pianto. “Per questo non te l’ho mai detto. Ma adesso… che diranno gli altri? Saïx mi odierà… “
“No! Nessuno ti odierà per questo. Anzi. Tu sei speciale Zexion, hai un dono… “ la mia voce si affievolì. I doni non vengono mai da soli. La legge alchemica dello scambio equivalente vale anche per molti ambiti della natura e della vita. Se Zexion sentiva tutti gli odori amplificati…
“Che succede quando c’è un odore molto cattivo?”. Temevo di conoscere già la risposta.
“Mi fa male.”
“Dove ti fa male?”
“La pancia, la testa… ma se mi abituo un po’ passa… “
Senza parole gli accarezzai la testa. Un potere meraviglioso, che molti avrebbero pagato oro per padroneggiare, ma allo stesso tempo un fardello, che lo condannava a provare dolore per cose che per il resto degli esseri umani sono insignificanti, che gli imponeva di sentirsi rimbombare nella testa ogni angoscia, timore o follia altrui. E io potevo fare ben poco per alleviargli quella sofferenza.
Ma c’era di peggio. Zexion non sbagliava quando diceva che gli altri lo avrebbero odiato. Non il Superiore, non l’Organizzazione, ma il mondo fuori dal Castello? A nessuno piace vedere i propri pensieri e sentimenti più segreti esposti alla luce del sole. L’idea faceva paura anche a me.
“Perché sono così, zio? Perché soltanto io?”
Avrei tanto voluto sapergli dare una risposta.
Le cause potevano essere genetiche, una mutazione rara, forse unica. Oppure i suoi antenati si erano mescolati con razze non umane, e avevano acquisito nuove capacità. Forse aveva a che fare con il motivo per cui lo avevano abbandonato.
Forse gli avevano fatto qualcosa per farlo diventare così.
In ogni caso dubitavo di riuscire a scoprirlo. Non avevo abbastanza dati a disposizione, e non esistevano precedenti con cui confrontarsi. Potevo tentare una ricerca nella Biblioteca, ma non mi illudevo di riuscire a strappare grossi successi dal labirinto capriccioso. Non credo che esistesse un modo per ottenere risposte valide a parte…
Me ne accorsi troppo tardi. Cercai di trattenere il pensiero appena formulato, ma ormai non apparteneva più soltanto a me. Con orrore lo vidi riflesso negli occhi sbarrati di Zexion, e indietreggiai nello stesso istante in cui lui si allontanava da me con un salto.
“No! Zexion… aspetta! Io non… “
In un attimo era arrivato alla porta del laboratorio. Era ancora troppo piccolo per imparare a teletrasportarsi da solo. Abbassai gli occhi, incapace di sopportare il modo in cui mi guardava, la paura e le lacrime che ora gli rigavano le guance.
“Non lo farei mai. Lo sai che non ti farei mai del male! Non ho nessuna intenzione di… studiarti o… o… “
“… di aprirmi?
Portai una mano alla bocca, reprimendo un conato.
“Non puoi pensare davvero che… “
“Tu sei curioso… vuoi saperlo… “
Quelle parole sputate fuori insieme a un fiume di lacrime mi annientarono. La mia mano, davanti al viso, tremava.
Non feci nulla per fermarlo quando spinse la maniglia della porta e corse via piangendo. Rimasi ad ascoltare i suoi passi che si perdevano nella distanza e poi bestemmiai, imprecai contro gli dèi in cui non credevo e contro me stesso, mandando all’aria le provette allineate su un tavolo con un colpo furioso della mano. Da uno scaffale afferrai i primi libri che mi capitarono e li scagliai via con violenza, lacerando le pagine e le copertine di cuoio.
Poi scivolai in ginocchio tra i frammenti di vetro e poggiai le mani sul pavimento freddo, ascoltando il suono spezzato del mio respiro.

Narratore: “E anche questa agonia è giunta al termine! A me le redini del potere, a me!”


Canastra IV. Un bellissimo posto, se non si fosse trattato di un pianeta umano. Killvearn li aveva accompagnati ed era sparito con il suo solito sbuffo di fumo senza lasciare nemmeno un’orma sulla sabbia.
Le loro impronte erano invece ben visibili, e nemmeno le onde riuscivano a cancellare del tutto il segno del passaggio del Cavaliere del Drago.
L’oceano era di un blu intenso, quasi violento, diverso da quello del loro mondo. Hadler sospirò, rendendosi conto che in centinaia di anni non aveva visto che una minuscola parte del mondo; era sicuro di conoscere ogni angolo di Cephiro, ma Cephiro non era ormai altro che un granello di sabbia davanti alla moltitudine di mondi che si erano spalancati ai suoi occhi dall’inizio della guerra. Prese una manciata di sabbia bianca e la portò davanti agli occhi, quasi come ad inquadrare ogni granello, ogni minuscola frazione di quell’universo tra le dita.
“Siamo riflessivi stasera?”
Baran gli si avvicinò, gettando una lunga ombra sulla spiaggia; indossava un lungo mantello nero che lo rendeva ancora più cupo del solito.
“Con questa missione potremmo porre fine a tutto. Alla guerra, alla questione di Mistobaan …” sospirò, ascoltando il verso di una gigantesca tartaruga a due teste che era appena emersa dall’acqua e si era appoggiata ad uno scoglio. C’era qualcosa di magico in quel suono, come due strumenti perfettamente in sintonia. “… potremmo tornare alla normalità e alla pace, scrivere una pagina dei libri di storia! Ti confesso che sono piuttosto teso”.
“Voi demoni a volte siete proprio strani. Quando siete in pace sognate di guerra, vendetta, fuoco e sangue. E non appena iniziate a combattere non desiderate altro che rinchiudervi nei vostri territori e restarvene lì indisturbati. Ci sono dei momenti in cui non capisco cosa voglia davvero il Grande Satana”.
Hadler aprì la mano di colpo, liberando i granelli. Questi si dispersero nell’aria davanti al suo viso, ma ricaddero a terra per l’assenza di vento e tornarono nel grande mosaico della spiaggia con una lenta spirale. Domande. Baran ne aveva sempre tante. C’era quel lato tipicamente umano della sua triplice natura che riaffiorava in continuazione sin dal primo giorno che si erano conosciuti, quando si era presentato al cospetto del Grande Satana con gli abiti sporchi di sangue; gli anni non erano bastati a cancellare la sua indole sospettosa, anche se il demone minore preferiva sempre evitare che emergesse in momenti cruciali come quelli. E per quanto considerasse Baran un amico c’erano degli istanti in cui tra loro si innalzava una barriera invisibile che non aveva nulla a che vedere con la differenza dei loro poteri. “E tu cosa vuoi davvero, Baran?”
“Giustizia”.
Il tono di voce si fece più profondo e duro. Il segnale che il Drago non aveva alcuna intenzione di approfondire la conversazione. “Andiamo. Il cargo non aspetta”.
Hadler sospirò tra sé ed osservò per un’ultima volta l’orizzonte blu, poi si strinse nella tunica e si mosse dietro il passo imperioso del compagno d’armi ormai avvolto nella sua furiosa barriera di silenzio; non era mai riuscito ad immaginare cosa avesse spinto Baran ad unirsi alle loro fila, cosa avesse convinto il Cavaliere del Drago ad abbandonare la sua assoluta neutralità ed a schierarsi al fianco dei demoni nella guerra contro gli umani. Quindici anni non erano riusciti a schiudere le labbra del signore dei draghi, e probabilmente neanche quindici secoli ci sarebbero riusciti. Di certo non sarebbe stato in quel momento che Baran gli avrebbe concesso il più piccolo spiraglio. Strinse i pugni e si concentrò soltanto sulla missione.
Durante la progettazione degli attacchi non avevano mai preso in considerazione Canastra IV: un pianeta di medie dimensioni posto esternamente rispetto ai mondi del nucleo centrale, un luogo ricoperto quasi per la sua totalità da un oceano profondo. Un luogo che, a detta del loro prigioniero, veniva utilizzato soprattutto per gli studi degli animali marini e qualcosa di legato alla formazione dei piccoli umani che il demone minore non aveva ben capito –e non aveva intenzione di approfondire. Il luogo ideale per preservare una delle pochissime via d’accesso alla stazione spaziale della Morte Nera.
Gli impianti di depurazione occupavano un’intera isola. Il paesaggio mozzafiato al di là della costa veniva mutilato dalle torri metalliche che si innalzavano dieci volte più alte delle vette degli alberi e da cui usciva un fumo biancastro che gli irritò le narici; le enormi dita che sembravano voler ghermire il cielo non avevano l’imponenza di quelle che aveva visto a Geonosis né eserciti di droidi pronti a rigurgitare dai loro ventri, ma per una volta l’aspetto nascondeva un segreto.
Da quell’impianto veniva raccolta tutta l’acqua necessaria alla sopravvivenza della gente a bordo della Morte Nera. La bocca dell’Impero Galattico passava per Canastra IV, e Hadler non vedeva l’ora di afferrarne la gola e distruggerla con tutta la magia che gli ribolliva in corpo.
Il viceammiraglio Kratas aveva ribadito più volte che soltanto pochissime persone dentro l’impianto erano al corrente dell’approvvigionamento della stazione spaziale, e tutto passava attraverso soldati di fiducia che venivano attentamente selezionati; la maggior parte di coloro che lavoravano lì dentro erano convinti di depurare dell’acqua destinata alle colture su altri mondi, e questo permetteva un enorme livello di sicurezza. Per Hadler tutto questo non aveva molto senso –se un demone avesse saputo di lavorare per il bene del Grande Satana avrebbe lavorato con uno zelo mille volte maggiore- ma ormai aveva smesso di cercare la logica nei comportamenti umani. Il cargo K4, la nave bersaglio, planò sulla costa in perfetto orario; la superficie metallica rifletteva la stessa sfumatura rosata che colorava le pareti della fabbrica. Quando atterrò fu costretta a deviare su una pista artificiale che collegava l’isola al resto della costa. Il demone minore rimase in attesa mentre quello che sembrava il capitano della nave scese sulla piattaforma d’atterraggio insieme ad una decina di droidi che iniziarono subito a caricare alcuni serbatoi che i lavoratori dell’impianto avevano sistemato già da qualche ora. Poteva essere una nave qualsiasi, nessun demone avrebbe fatto caso a quella forma tozza ma piccola quando su Canastra IV erano ormeggiati Star Destroyer di ben maggiore taglia.
Le informazioni del prigioniero si erano sempre dimostrate esatte.
Dunque non avevano più di cinque minuti di tempo.
Levitò seguito dal suo compagno, e quando mormorò le parole dell’incantesimo i loro corpi riflessero la luce del cielo. Il potere di Baran rispose immediatamente al suo tocco, e Hadler sentì il Cavaliere del Drago rilassarsi per permettere alla sua magia di svolgere il compito prefisso; quando la barriera di invisibilità circondò il corpo di entrambi scivolarono al di sopra delle ombre trattenendo il fiato. Gli umani erano dotati di strane macchine in grado di rivelare degli esseri viventi anche se invisibili, ma il viceammiraglio Kratas aveva garantito che simili dispositivi non sarebbero stati presenti sul cargo K4. Baran rallentò per stare al suo ritmo e volarono proprio sopra le figure dei droidi. Le macchine non fecero caso alla loro presenza, né qualche strana spia si illuminò al loro passaggio.
Rimasero sospesi in aria anche quando entrarono nella stiva del cargo, perché anche il più piccolo movimento avrebbe potuto far scattare l’allarme. Hadler si concentrò, e la magia riprese a pizzicargli i muscoli: lui e Baran erano propensi a tutto, ma le missioni di infiltrazione erano qualcosa per cui nessuno dei due era pronto davvero. Se li avessero scoperti avrebbero certamente sospeso il volo, e allora qualsiasi possibilità di raggiungere la Morte Nera sarebbe sfumata …
Non potevano permettersi una situazione simile.
L’interno della stiva del K4 era avvolto nella penombra. Solo qualche flebile luce elettrica si accendeva a scatti ed illuminava una serie di dodici cisterne grandi quattro volte loro; c’era un ronzio di sottofondo piuttosto snervante, segno che qualche motore era in azione anche in quel momento per pompare l’acqua che veniva immessa nelle cisterne dai droidi. Questi si muovevano da una cisterna all’altra e le collegavano con tubi e strani marchingegni che il demone non aveva mai visto, poi ritornavano all’esterno e continuavano a riempire i contenitori. Accanto a lui, Baran incrociò le braccia, si appoggiò ad una parete ed attese.
Le informazioni del prigioniero erano perfette. Dopo esattamente cinque minuti –Hadler aveva calcolato il tempo con l’incessante battito dei suoi cuori- le macchine iniziarono a sganciare i dispositivi che garantivano il riempimento delle cisterne e li fecero scomparire in dei comparti lungo le pareti della stiva di cui il demone non aveva notato nemmeno l’esistenza. Un suono gracchiante venne dai piani superiori dell’astronave, e finalmente il velivolo iniziò a ronzare sotto i loro piedi, pronto al decollo. I droidi si avvicinarono alle pareti, e quando delle alcove si aprirono essi vi si appoggiarono e si spensero mentre il portellone del cargo iniziava ad abbassarsi.
“Si inizia” sussurrò.
Le luci di Canastra IV svanirono quando il portellone si chiuse definitivamente con un rumore sordo. La nave vibrò con maggiore energia e lentamente il mondo intorno a loro iniziò a sollevarsi. Lo stomaco mandò un suono strano, come se qualcosa lo stesse stringendo in profondità, ed il demone iniziò a respirare profondamente mentre abbassava la barriera di invisibilità. Il Cavaliere del Drago aveva un’espressione quasi assente, e Hadler invidiò la sua calma mentre l’astronave continuava a salire, rollare ed ancora a salire. Se questo è ciò che gli umani chiamano “volare” …
Si appoggiò al muro e riprese fiato. Secondo le rivelazioni del viceammiraglio, il cargo avrebbe dovuto entrare in una cosa chiamata “iperspazio” –che nemmeno il Grande Satana aveva capito a fondo di cosa si trattasse a parte che la nave avrebbe iniziato a viaggiare con una velocità incredibile- e sarebbe uscito, dopo vari salti, nei pressi della Morte Nera e tutto questo avrebbe richiesto oltre quattro ore di viaggio. Una volta lì avrebbero dovuto attendere oltre trenta minuti per far iniziare le procedure di autorizzazione dell’atterraggio e solo alla fine il cargo sarebbe sbarcato in uno dei settori più esterni della stazione spaziale, quello che il prigioniero aveva chiamato “compartimento Gamma-tris”. Una volta lì … il viceammiraglio aveva tracciato una piccola mappa ed una serie di indicazioni per raggiungere il prima possibile la sala del trono, ma sapeva che a quel punto lui e Baran si sarebbero permessi un po’ di … improvvisazione.
Una luce attirò la sua attenzione, e prima ancora di pensare un globo di ghiaccio si formò nel palmo della sua mano, pronto a scattare. Uno dei droidi, non più alto di un paio di braccia e dalla testa a cupola, si avvicinò nella loro direzione, improvvisamente acceso. La sua forma cilindrica ruotò su se stessa e mandò una serie di suoni e, prima che Baran lo incenerisse, sulla calotta superiore si aprì un minuscolo sportello. Un raggio azzurro si espanse nell’aria e la fece vibrare: una figura si formò davanti ai loro occhi, un ologramma come quelli che gli esseri umani usavano per comunicare. Persino Baran trattenne il fiato quando riconobbe la persona che li osservava come se fosse davvero lì presente.
“Scappate” intimò la donna. “È una trappola. L’astronave esploderà tra venti minuti”.
Prima che Hadler potesse riprendersi dallo stupore il droide mandò uno strano sibilo ed esplose, lasciando che l’immagine di Zam Wesell svanisse in uno sbuffo di fumo.

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 - Parole e pensieri ***


Capitolo 21 - Parole e pensieri





Vexen e Zexion




Ho intenzione di rileggere il libro di quel Vexen; mi sono appuntato un paio di cose interessanti da aggiungere all’ultimo capitolo. Forse un giorno, se ci incontreremo ancora, mi ringrazierà. È un peccato che le nostre strade si siano divise così presto: è uno scienziato geniale e un alchimista di prim’ordine come raramente ne ho incontrati, anche se gli ci vorranno minimo tremila anni anche solo per avvicinarsi ai miei livelli.
Ha solo un difetto: la tendenza a sviluppare stupidi legami affettivi con persone mediocri, patetiche e del tutto indegne della sua attenzione. Ma è ancora giovane, imparerà. Ogni cosa trascorre prima o poi. Valar Morghulis.
Estratto da un taccuino anonimo rinvenuto in un complesso in rovina sulla cinquecentosettesima luna di Iego.



“Scappate” aveva intimato Zam Wesell. “È una trappola. L’astronave esploderà tra venti minuti”.
Ciò che rimaneva del droide che aveva portato il messaggio olografico rovinò ai loro piedi, gli ingranaggi bruciati e totalmente fuori uso. Il viso di Baran era un maschera.
“Tu le credi, Hadler?”
“Perché non dovrei? In fondo …”
“Basta così” disse il Cavaliere del Drago, lo sguardo fisso nel punto in cui l’immagine era svanita. “Mi fido. Adesso troviamo una via d’uscita”.
Venti minuti, deglutì il demone, accorgendosi che i cuori stavano battendo a velocità folle. Solo venti minuti.
Senza pensare si avvicinò al portellone della stiva, appoggiò la mano sul metallo e questo si fuse al contatto rivelando un corridoio che si perdeva in profondità; Baran lo superò con il suo solito passo fermo, come se l’idea di esplodere in una manciata di minuti non lo preoccupasse affatto. Ma di una cosa il demone minore era sicuro: nemmeno il Cavaliere del Drago poteva vivere in assenza di ossigeno. Forse potevano sopravvivere entrambi all’esplosione, ma se davvero tra un mondo e l’altro non c’era che vuoto e morte allora nemmeno tutti gli incantesimi protettivi che conosceva sarebbero riusciti a salvarlo. Accelerò l’andatura, cercando di ignorare il brivido che gli attraversò la schiena quando guardò oltre uno dei vetri che tappezzavano il corridoio: Canastra IV li guardava, azzurro e striato d’argento come un’enorme perla che occupava buona parte della loro vista.
Ed intorno il buio.
I mondi giacevano nel Nulla.
Un’immagine agghiacciante che gli scosse lo stomaco ancora più del rollare della nave, un pianeta non più grande del loro Cephiro prigioniero nel buio, dove solo dei punti bianchi in lontananza ricordavano l’esistenza delle stelle. Fino a quel momento aveva pensato che tra un mondo e l’altro vi fosse un vuoto azzurro, certamente mortale ma ricco di luce. E loro erano su quell’astronave immersi in questo spazio che prometteva morte in qualunque punto riuscisse a voltare la testa; senza volerlo iniziò ad ansimare, e solo la mano di Baran sulla spalla lo riportò alla lucidità. Allontanò di corsa lo sguardo dall’oblò prima di essere catturato da quel vuoto ipnotico, ed abbassò gli occhi sapendo che il suo compagno aveva visto la sua paura.
“Non distrarti” ringhiò il Drago. “Non è questo il momento di farsi prendere dal panico”.
Da sotto il mantello scosse l’Occhio di Zaboera, ma la pupilla del piccolo mostro era ridotta ad una fessura; la speranza di salvezza che lo aveva illuminato si spense in un istante. “Non riesce a contattare l’Occhio di Killvearn. A quanto pare l’opzione di andarcene di qui con la sua pietra dimensionale è da scartare”.
“E poi mi dici anche non farti prendere dal panico?”
“Non ti facevo uno che aveva paura della morte”.
I loro visi si rispecchiavano sul metallo lucido dell’ascensore. Durante una delle numerose campagne aveva avuto modo di capire come funzionassero quegli strani oggetti, quindi fece cenno al suo compagno di seguirlo ed entrò. Non aveva alcuna idea di dove andare, ma un pulsante più grande degli altri poteva essere un buon indizio. “Beh …” sussurrò. “Non tutte le morti sono uguali. Un vero guerriero non muore come un topo in trappola”.
“Ti confesso che sono curioso di sapere come sono riusciti ad ingannarci”.
Hadler sospirò, mentre l’ascensore si metteva in moto e li conduceva verso l’alto.
La prima possibilità era che li stessero aspettando. Il che ovviamente implicava che qualcuno avesse avvisato l’Impero della loro presenza, ma l’unica persona che sapesse del loro piano era guardata a vista nelle celle del Baan Palace, incapace di comunicare; il viceammiraglio Kratas aveva sempre fornito loro delle indicazioni precise ed era stato vitale nella programmazione degli attacchi di Sephiroth, quindi se li avesse voluti tradire in qualche modo non avrebbe di certo fornito tutte quelle informazioni vitali. Escludendo le poche persone a conoscenza della spedizione –di cui oltretutto Killvearn aveva ricevuto pochissimi dettagli- rimaneva la prospettiva che avessero approntato quella trappola al loro arrivo. Qualcuno doveva essersi accorto del loro arrivo su Canastra IV. Se la missione era fallita per una sua noncuranza non se lo sarebbe mai …
“Troppo elaborata”.
Baran si appoggiò alla pulsantiera, pensoso. Non aveva doti telepatiche, ma le sue sopracciglia crucciate mostravano che stava condividendo i suoi stessi dubbi. “Non è passata nemmeno un’ora dal nostro arrivo sul pianeta, e nell’ultima parte siamo stati protetti dall’invisibilità”.
“Forse una delle loro tecnologie …”
“Forse. O forse no. Capire il nostro obiettivo, mettere un esplosivo su una nave … troppo tempo. E la tua amica è persino riuscita ad avvertirci” disse. L’ascensore si fermò, emise un breve rumore e le porte si aprirono, rivelando l’ennesimo corridoio metallico uguale a quello che lo aveva preceduto. “Una trappola perfetta in grado di uccidere il Cavaliere del Drago ed il comandante dell’esercito demoniaco con un colpo solo. Questo scenario è stato progettato in anticipo e qualcuno ci ha traditi. Ma non riesco a capire chi”.
Bene. Siamo in due.
Nessun droide venne nella loro direzione, nessuna macchina comparve per aprire il fuoco. L’interno dell’astronave sembrava deserto, ed a parte il ronzio dei motori non c’era alcun suono oltre a quello ovattato dei loro passi. Delle porte metalliche intervallavano la monotonia del corridoio ogni cento passi, ma nessuna di quelle era serrata, una disposizione strana che non allentava il nervosismo; Hadler si sforzò di non guardare oltre il transparacciaio, ma sapeva benissimo che lo sfondo Canastra IV si stava allontanando sempre di più.
L’astronave iniziò a vibrare. Più forte di prima, come se i motori si fossero svegliati da un torpore; il rombo non accennava a smettere, e sul soffitto si accese una fila di luci di cui nemmeno si era accorto. Baran osservò le pareti come se volesse distruggerle, e quel fracasso riempì loro le orecchie mentre un sibilo si insinuò nel velivolo. Una voce, probabilmente femminile, si formò nell’aria.

“Inizializzazione salto nell’iperspazio. Tutto l’equipaggio si prepari al salto nell’iperspazio”.

Hadler girò la testa per capire chi avesse parlato, ma la magia non gli rivelò nulla; come era venuto, il suono svanì. Sotto i loro piedi la nave rollò, ed il demone strinse i denti per quell’odiosa sensazione di nodo allo stomaco che gli martellava tutto il corpo senza tregua; il suo compagno continuava a fissare in avanti, le braccia incrociate come se avesse tutto il tempo del mondo.
“Ha parlato di un equipaggio”.
Sì, quello l’avevo sentito anche io, ma …
“Andiamo a cercarlo”.
Sospirò, chiese qualche attimo di tregua al suo stomaco ed estese la magia. Le sue capacità divinatorie erano ben lontane da quelle di altri demoni, e trovare degli esseri umani su un’astronave gli richiedeva concentrazione, specie in un luogo dove non vi era alcuna forma di magia ad aiutarlo oltre la propria e quella di Baran. La Visione Distante ampliava il suo orizzonte soltanto se aveva in mente un punto chiaro e preciso dove cercare, ma non aveva idea in quale parte di quella scatola volante si trovassero gli umani; abbandonò qualunque incantesimo e si limitò a cercare delle energie vitali. Il vuoto oltre l’astronave gli stringeva la mente come una morsa, ma l’ambiente artificiale si trasformò in un appiglio.
Non vi erano molte creature. L’energia creata dai motori era una fiamma da cui discostarsi, ma quando le sue percezioni scavarono lontano, ai livelli superiori, trovarono subito delle forme di vita, probabilmente riunite in un unico punto. Cercò di nuovo, estendendo i suoi poteri alla ricerca dell’esplosivo, ma gli rispose solo il vuoto dei corridoi. Riprese fiato e guardò verso il soffitto. “Sono sopra di noi, circa tre livelli. Dirigiamoci all’ascensore!”
“Andiamo di fretta” borbottò Baran. “Prendiamo una scorciatoia”.
In un istante la lama della Spada del Drago Diabolico illuminò l’intero corridoio, tanto che il demone fu costretto a chiudere gli occhi per non rimanere accecato dalla luce che si moltiplicava a dismisura contro il metallo chiaro. Baran la puntò verso l’alto, ed il fascio di luce si trasformò in un cono di fuoco, violento come le fiamme di un drago. Tutto il corpo di Hadler entrò in risonanza con la magia dell’arma mentre il soffitto sopra le loro teste divenne incandescente per poi fondersi in una manciata di secondi. L’energia raggiunse anche il piano superiore, e anche a quella distanza riuscì a sentire finalmente le urla degli umani.
La Spada Che Non Doveva Essere Sguainata tornò nel fodero, facendo sprofondare la nave nella penombra mentre gli allarmi risuonavano in sottofondo.
La leggenda della Spada del Drago Diabolico aveva sempre affascinato Hadler. Gli anziani della sua famiglia erano sempre stati cauti nel raccontare ai giovani le leggende riguardanti i Cavalieri del Drago, e questo non aveva fatto altro che renderlo ancora più avido di informazioni, storie e racconti su quelle creature divine che nascevano su Cephiro per portare l’equilibrio e la pace. Ciascun anziano descriveva l’elsa dell’arma leggendaria in maniera diversa, uno aveva parlato persino che fosse in realtà la testa di un drago vero e che la lama fosse lunga dieci braccia o anche più; quando aveva visto per la prima volta la Spada del Drago ed il suo padrone aveva creduto di essere in un sogno. Decine di leggende si erano concretizzate proprio davanti ai suoi occhi, ma ogni volta che il generale scendeva in battaglia gli tornava in mente soltanto un monito, l’unico che univa i miti come il filo di un ragno: la Spada del Drago Diabolico non doveva essere sguainata. Mai.
Ma evidentemente nessuna leggenda aveva credito davanti a Baran. Le vite di migliaia di esseri umani erano cadute su quella lama, ma nonostante tutto Hadler non era ancora riuscito ad abituarsi, ed il brivido che provava lungo la schiena quando il metallo sacro veniva esposto alla luce non si era affievolito nemmeno dopo le numerose campagne.
Ovviamente non aveva mai sollevato il problema davanti al Drago. E di sicuro quello era il momento peggiore per obiettare.
Imitò il suo compagno e levitò nel foro ancora incandescente. Fece appena in tempo ad evocare un incantesimo difensivo che una raffica di laser diede loro il benvenuto; dal fumo nerastro che si alzava dal piano i fasci di luce furono subito assorbiti, e quando richiamò una debole magia di vento per disperderlo vide che Baran aveva già eliminato i tre soldati che avevano sparato con un semplice fendente. Un altro umano estrasse qualcosa dalla cintura e la puntò nella loro direzione, ma Hadler scagliò una lancia di ghiaccio e lo trapassò prima ancora che lo strano congegno avesse effetto. Si voltò verso l’ingresso della stanza in attesa degli immancabili droidi, ma niente entrò reclamando le loro teste.
Rimanevano soltanto due figure, un uomo e una donna, immobili contro i sedili; i loro sguardi andavano da un corpo caduto all’altro, e si sgranarono quando incontrarono il viso del Cavaliere del Drago.
“Disattivate l’esplosivo, umani. Adesso”.
I due erano immobili, ma al demone non sfuggì lo sguardo impaurito che si scambiarono. “Fermate l’esplosione e avrete la mia parola che non farete la fine dei vostri compagni” disse, avvicinandosi all’uomo che aveva freddato solo qualche istante prima. Prese lo strano congegno, poi lo stritolò tra le dita. “E non fatevi venire strane idee …”
La donna era chiaramente sul punto di svenire, ma Hadler le destinò un’occhiata che avrebbe gelato qualsiasi suo sottoposto. Ormai non avevano più di dieci minuti.
“N-non c’è nessuna … nessuna bomba qui!” pigolò l’umano “… niente, assolutamente niente! Non siamo soldati, non uccideteci, NON UCCIDETECI!”
Baran superò con una falcata la distanza che li separava, lo afferrò per la testa e lo scaraventò sulla tastiera dei comandi con una violenza tale che Hadler per un attimo credette che lo avrebbe ucciso; la donna mandò un grido e si rannicchiò contro la sedia scuotendo la testa, ma il suo compagno aveva gli occhi scuri rivolti solo sul prigioniero. E anche in quel momento i suoi lineamenti non tradivano alcuna paura. “Forse non vi è chiaro un concetto. Sappiamo della vostra patetica trappola. Adesso disattivate quella bomba o …”
“NON SAPPIAMO NULLA DI QUESTA BOMBA, SIAMO UN NAVE DA TRASPORTO, NON ABBIAMO ARMI!” urlò l’uomo. “VE LO GIURO, NON …”
“Non giurare, umano”.
Qualunque cosa volesse dire, lo schermo davanti a loro si era riempito di luci. La voce femminile che intimava di prepararsi al salto nell’iperspazio era tornata dettando istruzioni incomprensibili e rompendo il silenzio che si era formato dopo le parole di Baran. Dalla barriera in transparacciaio le stelle iniziarono a muoversi, e lentamente sentì lo stomaco tornare a pulsargli in gola.
Tornò a guardare gli umani, cercando un modo per estirpare dalle loro labbra una via d’uscita, ma era come parlare con dei lombrichi spaventati; se Zam Wesell li aveva avvertiti del pericolo voleva dire che una bomba vi era davvero in quella nave –qualcosa di più forte dell’intuizione gli diceva che poteva fidarsi di quella donna- ma aveva pensato che gli umani avrebbero snocciolato volentieri la posizione dell’esplosivo con un po’ di persuasione del Cavaliere del Drago, ma evidentemente avevano incontrato gli unici umani leali al loro signore in tutta la Galassia. A meno che …
Ma in fondo di cosa mi stupisco?
“Forse non ne sono al corrente nemmeno loro, Baran” disse a voce alta a sufficienza per farsi sentire oltre il rumore dell’altoparlante e le grida dei piloti. “Forse all’Imperatore Palpatine non interessa la vita di qualche suo infimo soldato. Dubito che questi suoi sottoposti sarebbero saliti volontariamente su una nave destinata alla distruzione”.
La figura ancora avviluppata nella stretta del suo compagno si mosse e li guardò come se qualcosa lo avesse colpito all’angolo della mente; era ancora pallido, un rivolo di sangue gli correva lungo la fronte –come fosse riuscito Baran a trattenersi e a non sfracellargli tutto il cranio era un mistero che non aveva fretta di svelare- ma l’espressione di terrore sul suo viso si trasformò in qualche attimo in una maschera di sconcerto che tutto sembrava fuorché una finzione. E quando tornò ad osservare l’altra prigioniera, quella si guardava intorno come se avesse realizzato in quel momento dove si trovava, e stringeva l’uniforme bianca fino a lacerarla. Fu però lei a riprendersi per prima. “Po-possiamo fare una sca-scansione a t-tracciato molecolare …”
Si alzò in piedi, poi lesse l’evidente sguardo di stupore nei loro occhi. “È un sistema per rilevare la posizione delle principali fonti energetiche a bordo della nave basato sull’oscillazione degli elettroni ed il rilascio di fotoni. Se c’è un esplosivo allora …”
“Quanto tempo ci vorrà?” chiese Hadler, ignorando la maggior parte delle parole senza senso nella frase della donna.
“Quindici minuti circa. Anche se l’esplosione che avete causato …”
“Troppo tempo” bofonchiò Baran. Aprì il palmo ed il pilota si allontanò velocemente dalla sua stretta per poi guardare sconsolato prima i tasti del computer di bordo e poi lo schermo. Il suo collo si tinse all’istante di un colore viola-bluastro. Dei numeri si susseguivano senza sosta sul visore mentre delle luci si accendevano, si spegnevano e tornavano a brillare illuminando l’espressione dei loro prigionieri.
“Abbiamo una sola possibilità …” disse l’uomo, e dall’espressione della sua compagna capì che non sarebbe stato qualcosa di piacevole. “Andiamocene”.
“Con cosa?” chiese Hadler, sentendo in quell’istante la mancanza delle Pietre Dimensionali.
“Con una navetta di salvataggio. Ce n’è una ormeggiata proprio al piano di sotto, possiamo entrarci tutti stringendoci un po’ e …”
La sua compagna si alzò dal sedile e lo interruppe. “Siamo quasi nell’iperspazio, rischiamo …”
“Questo piano mi sembra il migliore”.
Baran si piazzò in mezzo ai due umani, gettando l’ombra sulle loro patetiche figure. Per la prima volta da quando avevano messo piede su quel cargo il demone minore vide la fretta davvero trapelare sui lineamenti della creatura semidivina. Guardò l’uomo e poi il buco che avevano appena creato per entrare nella sala comandi. “Non sprechiamo tempo prezioso. Ai rischi penseremo poi”.
Gli bastò una sola mossa, poi li agguantò entrambi per i vestiti e saltò tra le lamiere ormai quasi raffreddate, e prima ancora di poter riflettere Hadler si lanciò alle sue spalle, seguendo la forma massiccia che si spostava ad enormi falcate dietro le indicazioni dei suoi prigionieri.
Le pareti di metallo tutte uguali mettevano a dura prova il suo senso dell’orientamento, ma si sollevò in aria e continuò a levitare mentre i contorni dell’aereonave vibravano senza alcun controllo e l’aria diventava ancora più rarefatta. Isolò la mente sul battito dei cuori, cercando di non immaginarsi come un topo in trappola in una scatola lanciata nel vuoto, o peggio ancora del comandante dell’esercito demoniaco ucciso in una maniera così disgustosamente vile. I rumori della nave potevano essere i rimbrotti del Grande Satana, il suono d’allarme le centinaia di demoni che seguivano ciecamente i suoi ordini, pronti alla battaglia. Baran non rallentava la sua corsa e Hadler si morse il labbro per non rimanere indietro, per non essere un peso al Cavaliere del Drago.
I cuori gli risuonavano nelle orecchie quando saltò in un altro passaggio divelto dalla furia del compagno, e quando rallentò per poco tutti gli organi vitali non gli ritornarono in gola.
I due umani stavano armeggiando con una porta minuscola, ma dopo qualche istante Baran perse la sua proverbiale calma e la scardinò con una sola mano. “Detesto ripetere che andiamo di fretta”.
Lo sguardo dei prigionieri era impagabile, ma Hadler non aveva tempo da perdere. Seguì il suo compagno ed i piloti oltre lo spazio, chinandosi per entrare in quello che senza alcun dubbio era lo spazio più angusto in cui si fosse mai infilato. Persino la latrina del laboratorio di Zaboera era più confortevole.
La figura massiccia di Baran era incassata contro un muro, la testa fra le spalle e la spada tra le mani per evitare che toccasse qualche tastiera di quelle che riempivano l’interno della navicella. La donna corse verso l’unico posto disponibile ed iniziò ad armeggiare sui tasti in un’ondata di imprecazioni mentre il suo collega premette dei pulsanti che chiusero un portello ausiliario e per qualche istante fecero piombare la navetta nel buio. Una luce si accese sopra di loro, fioca e tremolante mentre un rombo violento attraversò lo spazio angusto.
“Non ce la faremo mai” singhiozzò la donna, la voce incrinata dal pianto. “Siamo in fase avanzata della preparazione, il salto nell’iperspazio ci trascinerà con sé … finiremo schiacciati dalla mole della nostra stessa nave e allora …”
“Tu pensa a decollare, Jane” rispose il compagno. Il tono di voce era lento, ma anche con quella debole illuminazione le pupille degli occhi non nascondevano un’ansia profonda che Hadler sentì fino nelle profondità dell’intestino. Un topo in trappola almeno non soffriva così tanto … “Possiamo farcela”.
“No, non ce la faremo, ci …”
“TU DECOLLA E BASTA!”
Tutto quello che li circondava vibrò come scosso dalla mano di un gigante capriccioso. Hadler non riuscì a trattenersi e si piegò sulle ginocchia scosso da un violento conato di vomito; si maledisse per quella debolezza, ma per fortuna nessuno degli umani prestava più caso a lui. I loro occhi erano puntati sullo schermo del computer che si era acceso mentre la navicella iniziava a sganciarsi dal cargo. La donna stava impugnando i comandi e quando premette una leva nella sua direzione l’imbarcazione si staccò con un rombo cupo. Un finestrino in transparacciaio, prima coperto dal corpo della nave madre, rivelò lo spazio e le stelle che danzavano su loro stesse, come se fossero pronte ad esplodere da un istante all’altro. Alcune si mossero e diventarono scie luminose.
“Fanno sempre così?” chiese sperando di non sembrare più debole del solito.
“Stiamo entrando nell’iperspazio” disse l’uomo senza nemmeno voltarsi. “Vuol dire che il cargo sta per viaggiare alla velocità della luce, altrimenti non raggiungerà mai la sua meta dall’altra parte della Galassia. Siamo una nave da trasporto, il nostro salto nell’iperspazio è molto più lento di quello delle navi militari, ma forse questo è una benedizione …”
Il fianco del K4 adesso era ben visibile. Si muovevano lentamente, troppo lentamente per i gusti di Hadler, che adesso non aveva più idea di quanto mancasse al momento dell’esplosione della nave madre. Il piccolo velivolo avanzava, stentava, come se qualcosa continuasse a trascinarlo nuovamente verso il cargo; la donna di nome Jane stava premendo tutto il suo corpo contro i comandi, il viso pallido e gli occhi sgranati. Qualcosa gli disse che le cose non stavano andando per il verso giusto nemmeno in quel momento.
“Non abbiamo energia … non possiamo, la massa del K4 ci sta risucchiando indietro verso il salto!”
“I generatori nucleari sono a posto, questo è il massimo dell’energia!”
La navetta si spostò, come se avesse impattato qualcosa; il fianco del cargo si avvicinò paurosamente ed il demone conficcò le unghie nella paratia della navicella, sicuro che sarebbe stata la sua fine. Gli umani iniziarono a premere pulsanti come forsennati, tirando tutto quello che avevano a disposizione sommergendo gli allarmi interni con le loro grida, ma ad onor del vero impedirono all’imbarcazione di emergenza di schiantarsi proprio quando la loro ala stava graffiando la superficie del cargo dando fondo a tutte le energie. Sotto di loro il motore rombava, ruggiva come un drago forsennato, e forse per quel motivo l’espressione di Baran rimaneva impassibile, lo sguardo nascosto sotto il diadema dorato. Giuro sul mio onore che non mi lamenterò mai più di andare in missione con Sephiroth …
Sarebbe bastata un’altra spinta come quella e … “Perché non riusciamo ad andarcene?”
“L’energia della nave non può fornire la spinta sufficiente ad allontanarci. L’energia gravitazionale dell’astronave aumenta a dismisura prima di un salto nell’iperspazio, altrimenti non resisterebbe all’impatto … e questa energia ci sta attirando verso di sé, ci risucchierebbe nell’iperspazio! E a quel punto un granello di polvere stellare sarebbe più consistente dei nostri corpi, questa navetta non è programmata per i salti alla velocità della luce!”
L’aria iniziava a mancargli. Strinse i denti e si accasciò contro una parete all’ennesimo colpo. “E se aveste ancora più energia?”
“Il carburante è al massimo, il motore fun …”
“Ripeto la domanda. Se aveste più energia?”
Hadler detestava lo sguardo sgranato degli umani che lo fissavano come un povero idiota che non capiva nulla delle loro preziose tecnologie. Ma evidentemente la paura prese il sopravvento sull’indignazione. “Dipende quanta”.
“Tutta quella che vi occorre”.
Il pilota lo fissò, gli occhi di chi ormai non aveva nulla da perdere. “Si può fare”.
La sua collega non batté ciglio quando aprì uno sportello nascosto nella parete della nave ed incassato quasi ai piedi del punto di comando; Hadler si chinò, con cuore in gola, aspettando che l’altro finisse di armeggiare con i pannelli e le combinazioni mentre dal finestrino il fianco del cargo aveva lasciato il posto al ventre e sempre più stelle si erano trasformate in scie luminose. Il portello si scansò di lato, ma Hadler non vide nulla di chiaro nello spazio che aveva davanti, soltanto tubi e fili, fili e tubi. Piccole pompe si muovevano su e giù, mentre altri pezzi di metallo di cui non immaginava nemmeno l’esistenza ruotavano; un’ondata di calore salì dal macchinario, ed il demone sentì le vibrazioni dell’energia partire da un punto ancora più profondo, probabilmente il vero motore della nave. Il velivolo virò bruscamente, ed una cascata di scintille uscì dal portello. “Mescolare la magia alle macchine … una cosa che Zaboera troverebbe affascinante” bofonchiò Baran, che dal tono di voce trovava perfino divertente quella scena.
“La prossima volta perché non chiedi a Zaboera di seguirti in una delle tue missioni suicide, amico?”
Senza pensarci infilò la mano nello scomparto. L’umano gli gridò qualcosa, cercò di scansargli il braccio, ma irrigidì i muscoli e lanciò tutto il potere che aveva nel sangue in quello spazio angusto seguendo la scia che il flusso stesso del motore disegnava dal nucleo alle apparecchiature. Si caricò di potere puro e semplice, scacciando qualunque forma di magia elementare si affacciasse nella sua testa; strinse i denti cercando di percepire l’origine dell’energia della nave, la forza che spingeva il motore per crearne una simile. Soppresse il fuoco e il ghiaccio, l’acqua ed il fulmine, sentendo la magia allo stato vivo arroventargli il corpo fin sulla punta delle orecchie; un’esplosione viva, indistinta ed informe che aveva bisogno di tutto fuorché del suo controllo. “LA NAVE E’ SOVRACCARICA, CONVOGLIA L’ENERGIA SUGLI AUSILIARI!”
Non diede peso alle loro parole, rimbombavano insieme al vibrare del motore. Qualunque cosa riuscisse a smuovere la nave si stava beando della sua magia, e per un attimo la macchina stessa ebbe qualcosa di vivo. Spinse tutto il potere del suo corpo magico dentro quel piccolo universo composto da fili e pistoni, cercando di aggrapparsi al flusso senza distruggere ciò che lo circondava; tutto intorno al braccio si mosse più velocemente, assetato della sua forza. Non capiva, non capiva assolutamente nulla, ma aveva la sensazione che se avesse aperto gli occhi per scoprire cosa stesse succedendo davvero avrebbe rotto quell’ondata.
“LA NOSTRA GRAVITAZIONE PERCENTUALE E’ AUMENTATA, JANE! POSSIAMO STACCARCI!”
“Ci sta dando la potenza di un incrociatore …”
Poteva fare di meglio. Poteva fare anche di più. Spinse i cuori al massimo e sentì l’accelerazione della nave diventare sua; un gorgoglio sul fondo della gola lo avvisò di essere al massimo della potenza e la scaraventò dentro quel metallo che divenne incandescente ed iniziò a pulsare al ritmo del suo sangue. Il veicolo metallico non era fatto per ospitare quel tipo di energia tutta insieme, ma a quel punto poteva solo sperare di trattenersi senza far esplodere il motore. L’unica certezza era che la nave si stava muovendo. Baran gli borbottò qualcosa, ma respirò ancora più a fondo e si spinse fin negli ultimi meandri di quella macchina che ormai viveva completamente di lui.
“Andiamo, andiamo, andiamo!” gridò l’umano proprio alle sue spalle. La nave si inclinò e cadde sul pavimento, ma non perse la presa. Stava offrendo magia, si stava consumando, ma la sensazione era eccitante, come se tutti i congegni di quella navicella gli stessero suonando nella testa scoprendo per la prima volta cosa volesse dire davvero la parola “potere”. Lanciò uno sguardo veloce oltre il transparacciaio e vide la superficie del K4 allontanarsi da loro; sorrise per la soddisfazione, poi tornò ad alimentare la macchina quasi fosse un drago a cui mettere le briglie insieme agli umani che adesso stavano gridando per l’euforia.
Fu proprio quando stava per tirare un sorriso di sollievo che il drago impennò.
Tutto intorno a lui iniziò a girare, si ritrovò Baran schiantato contro la sua spalla e nonostante fossero nel vuoto assoluto il suo stomaco reagì come se fosse sottosopra mentre le luci della nave mandavano segnali rossi intermittenti; un’ondata di calore, forte come ne aveva sentite poche, attraversò il suo corpo e tutta la nave fino a spegnere gli schermi. Qualcosa di gigantesco colpì il transparacciaio e quello si crepò senza rompersi, poi qualcos’altro urtò la parte inferiore del velivolo e ruotarono di nuovo, incapaci di liberare le braccia e le gambe dal groviglio che avevano creato. Gli strumenti presenti nella cabina volavano in ogni direzione rendendo il tutto ancora più difficile. Hadler si morse il labbro e continuò ad evocare incantesimi sentendo il flusso del motore indebolirsi per l’urto. “Ma che diamine …?”
“Avevate ragione” mormorò l’umana. Perdeva sangue da un angolo della testa, ma non appena l’onda d’urto passò fu la prima a mettersi in piedi trascinandosi sul bancone di comando. “Avevate dannatamente ragione …”
Hadler si lanciò un veloce incantesimo di guarigione, ma non poté trattenersi e seguì gli occhi dei due umani oltre il metallo trasparente. Un pulviscolo nero e rosso riempiva lo spazio, velando le stelle che lentamente ritornarono alla loro forma originale; un oggetto metallico venne nella loro direzione, e quando li evitò per qualche palmo di mano il demone vide che si trattava di una lamiera affilata. Nel punto dove si trovava il cargo K4 non rimanevano altro che gli ultimi fuochi di un’esplosione e lo spazio che tremolava per la violenta interruzione del salto nell’iperspazio. La donna aiutò il suo compagno a rialzarsi, si strinsero le mani davanti a quello spettacolo di morte.
Le luci della navetta ricominciarono a brillare, ed il motore sotto le sue dita prese quel poco di magia che ancora possedeva e si risvegliò dal colpo.
“Forse quello che dice l’Alleanza Ribelle non è poi così sbagliato”.
Hadler ignorò qualunque parola degli umani. Vide la mano di Baran cercare di acchiapparlo, ma per la prima volta dopo centinaia di anni il mondo si fece nero e perse conoscenza.


Narratore: “… sul serio, Registe? Non è uno dei vostri soliti scherzi diabolici, vero?”
REGISTE: “Noi non scherziamo mai, Narratore. Dovresti saperlo.”
Narratore: “Siano lodati cielo, terra e mare! Allora l’agonia dei flashback è quasi finita! Alleluja!”
REGISTE: “QUASI finita, Narratore. QUASI. E adesso…. “
Narratore: “… sì, sì, lo so. Faccio spazio al solito raccomandato di acciaio Inox… che mestizia… “



Il primo giorno senza Zexion lo passai rinchiuso nel laboratorio, sussultando a ogni minimo rumore proveniente dall’esterno. Ero certo che fosse solo questione di tempo prima che il Superiore mandasse qualcuno a prendermi di forza e buttarmi fuori dal suo prezioso Castello. Dopo la fuga dal laboratorio Zexion aveva sicuramente trovato rifugio dal numero I, e non appena gli avesse confidato la causa delle sue lacrime il capo dell’Organizzazione non avrebbe esitato un solo istante a decretare la mia condanna.
Eppure non riuscivo a fuggire. Una parte del mio cervello continuava a gridarmi di andare via, di raccogliere i libri e gli strumenti più importanti e di teletrasportarmi in un mondo sicuro prima che fosse troppo tardi, ma tutto ciò che riuscivo a fare era aggirarmi senza sosta tra i tavoli e gli scaffali gettando occhiate ansiose alla porta, sicuro che presto sarebbe esplosa in frantumi sotto le potenti spallate di Xaldin e Lexaeus.
Ma le ore passavano, e nessuno venne a cercarmi.
Dopo un’intera notte di silenzio assoluto cominciai a persuadermi che forse avevo fatto male i conti. Il Superiore doveva essere meno furioso di quanto avessi previsto. O forse… forse Zexion non gli aveva ancora raccontato nulla.
Zexion. La reale portata della sua assenza mi colpì con tutta la sua forza solo quella mattina, quando mi costrinsi a mandare giù un po’ di tè con qualche biscotto. Stavo per prendere una seconda tazza dalla credenza, in modo automatico, quando mi bloccai a metà del gesto e mi voltai verso la camera da letto. Il suo letto era vuoto, intatto. Non sarei stato io a svegliarlo, quel giorno. Non avremmo giocato a “maghi e streghe” mentre facevamo colazione. Non lo avrei portato su Caprica a vedere le astronavi come gli avevo promesso.
Respirai profondamente, trattenendomi a stento dallo scagliare via la tazza in un moto di rabbia. Se Zexion non aveva ancora parlato con il Superiore allora forse…
No, non volevo illudermi con false speranze. Con quale coraggio potevo ancora guardarlo negli occhi dopo quello che era successo… dopo quello che gli avevo fatto?
In un attimo mi fu chiaro cosa dovevo fare. Dovevo andarmene. Per il suo bene, dovevo andarmene.
Mi alzai in fretta, raggiunsi un baule nella stanza da letto e rovistai tra le pile di cianfrusaglie finché non trovai quello che cercavo. Una sacca da viaggio consunta ma ancora resistente, la stessa che mi aveva accompagnato nel mio primo viaggio da medico girovago lungo le vie impervie e desolate del mio mondo. La riempii di vestiti e libri – più libri che vestiti – e raccolsi medicinali, qualche boccetta di sonnifero, un paio di veleni per sicurezza, sacchetti con erbe essiccate, gessi, matite, bisturi, tutti gli strumenti che potevo portare con me senza che la sacca cedesse. Sul tavolo, la tazza di tè giaceva ormai fredda, dimenticata.
Mi gettai in spalla il bagaglio che si chiudeva a malapena mentre i miei occhi percorrevano ogni angolo del laboratorio in cerca di qualcosa che potevo aver dimenticato. Dovevo fare in fretta. Avevo già esitato troppo. Zexion poteva sentire il mio odore anche a distanza, e non avrebbe mai ritrovato la serenità finché io fossi rimasto ad abitare sotto il suo stesso tetto. Dovevo sparire, cambiare mondo e non farmi rivedere mai più.
Il mio sguardo cadde sullo spazio tra due scaffali, dove il bianco asettico della parete era stato ricoperto dal mosaico vivace e colorato dei disegni di Zexion. Il mio bambino adorava disegnare, ed era anche piuttosto bravo per la sua età. Avevamo scelto insieme i lavori da attaccare alla parete, confrontandoli uno per uno e stilando addirittura delle classifiche. Zexion si era divertito da morire.
Il disegno più grande, al centro esatto della composizione, raffigurava il laboratorio stesso. Un omino con due ciuffetti biondi sorrideva in mezzo a strumenti e provette, tenendo per mano un bambino dai capelli argentati. Anche il bambino sorrideva. Accanto alle due figure, con un pennarello rosso, Zexion aveva scritto “Per sempre insieme”.
La borsa mi scivolò dalla spalla e cadde a terra con un tonfo. Qualcosa all’interno si ruppe, una boccetta probabilmente, ma non vi badai. In pochi passi raggiunsi la porta di ingresso del laboratorio ed esitai, la mano stretta attorno alla maniglia. Continuavo a rivedere Zexion che correva via in lacrime, fuggendo dal luogo che era stato la sua casa per anni. Fuggendo da me.
E io? Me ne sto davvero andando per il suo bene, o anche la mia è una fuga?
Con un’imprecazione mandai al diavolo la cautela e aprii la porta.
Non so cosa mi aspettassi di trovare fuori, ma ovviamente era tutto come al solito. Corridoi bianchi, scalinate bianche, soffitti alti e colonne dagli intarsi eleganti. Silenzio, silenzio assoluto. Il Castello era troppo grande per soli sette abitanti.
Salii qualche rampa di scale, diretto in nessun posto in particolare. Stentavo a credere che fosse tutto così tranquillo, che ancora non fosse partita una gigantesca caccia all’uomo contro di me.
A metà delle scalinate del terzo piano mi imbattei in Xigbar.
“Vexen!”
Il mio primo istinto fu di scappare, ma le mie gambe rimasero incollate al pavimento, paralizzate dalla sorpresa.
“Certo che Zexion ne deve avere di pazienza per vivere con te!”
Le sue parole mi strapparono un sussulto. Indietreggiai di qualche passo, stordito, e quasi rischiai di inciampare sui gradini. Xigbar se ne accorse e mi afferrò per un braccio, impedendomi di cadere. Il suo unico occhio color ambra mi squadrò con aria critica, ma senza cattiveria: “Sei sicuro di sentirti bene?”
Non sembrava avercela con me. Anzi, il suo sguardo esprimeva sincera preoccupazione. Mi divincolai dalla sua stretta: “No, niente… ho solo dormito poco, mi gira un po’ la testa… “
“Lo dico sempre io che troppo tempo sui libri brucia il cervello” sentenziò il numero II con un sorriso bonario. “Comunque, prima che me lo dimentico, Zexion mi ha detto di dirti che ti aspetta in biblioteca.”
“Cosa…? Te lo ha detto… lui?”
“Certo, e chi sennò? È stato molto carino ad andare a dormire dal Superiore per non disturbarti nel tuo esperimento. Io al suo posto non sarei stato così paziente!”
Non aveva senso. Le parole di Xigbar non avevano senso. Doveva essere di nuovo ubriaco.
“Bene, allora… allora vado a cercarlo” mi sentii dire.
“Sarebbe ora! Muoviti, lo sai che quel ragazzino mette sempre su quella faccia afflitta da bimbo a cui hanno ammazzato il pesce rosso quando non ci sei tu!”
Superai il numero II e percorsi altre due rampe di scale fino all’entrata della Biblioteca. Gli ultimi metri li feci quasi di corsa, la mente affollata da un vortice di sensazioni contrastanti. Zexion non aveva detto la verità al Superiore, aveva nascosto il suo vero stato d’animo agli altri membri dell’Organizzazione. E con la sua bugia, mi aveva protetto.
La porta della Biblioteca era aperta. Entrai e me la richiusi alle spalle, e per un attimo il rimbombo dei pesanti battenti che tornavano al loro posto rimase sospeso nel silenzio come la voce sorda e minacciosa di un tuono in lontananza.
Quando mi voltai, Zexion era in piedi di fronte a me.
Mi aspettava. Ovviamente mi aspettava, con il suo olfatto doveva aver percepito il mio arrivo già mentre parlavo con Xigbar. Non piangeva, non sembrava spaventato, ma nemmeno si mosse verso di me. Mi fissava con aria intenta, neutra, e io ebbi la precisa sensazione che mi stesse leggendo fin dentro l’anima.
“Zexion… “
No. In passato avevo già avuto la prova che le parole con lui non funzionavano, o quantomeno non erano la chiave giusta per guadagnare la sua fiducia. Le parole erano vuote, potevano ingannare, mentire, e Zexion sapeva vedere ben oltre il loro significato superficiale.
In due passi superai la distanza che ci separava e lo strinsi a me, prendendolo in braccio. Zexion non protestò, non si divincolò, anche se il suo corpo rimase rigido. Non ci badai e continuai a stringerlo con affetto, accarezzandogli i capelli, baciandogli la fronte e lasciando che il mio odore lo avvolgesse in un abbraccio ancora più dolce e protettivo di quello costituito dalla barriera fisica delle mie braccia. Non dissi nulla, permisi alle mie sensazioni di avere il sopravvento e di parlare per me, e pian piano sentii la tensione nei muscoli di Zexion allentarsi, mentre il suo corpo si rannicchiava contro il mio e le sue manine si allungavano per stringere i miei ciuffetti.
“Io non ti farei mai del male, Zexion. Voglio proteggerti. Tu sei… “
“Lo so” mi interruppe lui, e il suo sguardo per un attimo mi parve traboccare di una saggezza infinitamente superiore alla sua età. “Nessuno in questo Castello mi vuole bene quanto me ne vuoi tu. Neanche il Superiore.”
Non c’erano parole per rispondere a questo.
“Mi dispiace se ti ho spaventato. Mi dispiace tanto. Ti prometto che… “
“Lo so.” disse ancora lui. “A me dispiace che sei stato così triste” aggiunse poi.
“Perché non hai detto la verità al Superiore?” domandai, incapace di vincere la curiosità.
“Ti avrebbe mandato via!”
“E tu… tu non vuoi che io… “
“No!” protestò Zexion con forza, troncando la mia frase per la terza volta consecutiva. “Ma io lo so che neanche tu vuoi. Non volevi nemmeno quando stavi preparando le valigie.”
Faceva un effetto strano sentirsi leggere nel pensiero, come se la mia mente fosse un libro aperto del quale sono stati decifrati tutti i segreti. In altre circostanze lo avrei trovato inquietante, ma in quel momento non mi importava nulla. Il sollievo per non aver perduto Zexion era troppo grande. Con il tempo mi sarei abituato al suo potere, avrei imparato a conviverci. Gli avrei voluto ancora più bene per questo. Qualsiasi cosa, pur di continuare a stare con lui.
“Anche io ti voglio tantissimo bene, zio. Pensavo che lo potevi sentire anche tu. Ma ora so che non lo senti, e se vuoi te lo dirò tutti i giorni. Così sarai sicuro.”
Stavolta mi limitai a rispondere rafforzando l’abbraccio.
Grazie.
“Ora sarai meno triste?”
Finché avrò te non lo sarò mai.
“Toglimi una curiosità… “ dissi dopo un po’, lasciandolo scendere a terra. “Hai detto che tutte le persone hanno un proprio odore. Il mio com’è?”
Zexion mi regalò un sorriso raggiante. “Il tuo è il migliore!” esclamò. “Un buonissimo profumo di vaniglia.”

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 - Operazione Omega ***


Capitolo 22 - Operazione Omega





Il Puzzle Millenario




L’inizio del declino del regno del terrore instaurato dal Grande Satana avvenne con l’Operazione Omega, una delle più brillanti dimostrazioni del genio tattico dell’Imperatore Palpatine e della perizia del suo sistema di informazione: dopo mesi di estenuanti ricerche, gli agenti dei servizi segreti individuarono una delle maggiori roccaforti della famiglia demoniaca, dove gli avversari stavano radunando centinaia di dispositivi magici da riversare contro l’Impero in un secondo attacco a Coruscant che fortunatamente non è mai avvenuto. La tragedia ancora una volta venne sventata dall’aviazione imperiale, che nonostante le numerose perdite riuscì a soffocare la minaccia decimando la maggior parte dei soldati del Grande Satana.
“Cronistoria dell’Impero Galattico, dalla fondazione ai nostri giorni” di Tahiro Gantu, sesta edizione.





“Complimenti, ragazzino”.
Non era prassi del governatore Tarkin complimentarsi con qualcuno. Questa la diceva lunga sulla portata dell’operazione.
Sotto l’astronave brillava lo specchio d’acqua del lago Taisun, enorme come l’occhio azzurro di un gigante. Zexion aveva visitato le sue rive tantissimi anni prima, in uno degli ennesimi brevi viaggi in compagnia di Vexen alla ricerca di qualche fungo raro che cresceva soltanto in quella regione; non era più un bambino, e le conchiglie rosa e gialle che riposavano dove l’acqua lambiva il terreno non destavano più la sua attenzione. Aveva seguito l’uomo più anziano sotto quello stesso sottobosco che adesso si chinava sotto i residui chimici del propellente della nave, riempiendosi la testa di nomi, proprietà e nozioni di tutto quello che lo circondava senza perdere nemmeno la più piccola delle foglie. Ascoltare ed imparare. Chissà perché all’epoca la cosa gli sembrava così meravigliosa. Eppure i ricordi erano perfettamente dove li aveva lasciati, i funghi che emanavano una flebile luminescenza sul far del tramonto che sarebbe diventata forte e vivida al comparire della luna. O forse non lo sarebbe diventata affatto, quella notte.
“Devo ammettere che senza il tuo fiuto avremmo impiegato il triplo del tempo a scovarli …” mormorò il governatore, facendo scivolare la mano sul pad. L’immagine del lago comparve nell’aria, perfetta dal pelo dell’acqua al fondo; i comandanti delle altre quattro navi annuirono dalle loro postazioni olografiche ed uno di loro abbaiò qualche ordine ai suoi sottoposti. L’olografia si espanse, rivelando l’obiettivo. “Ingegnoso da parte del Grande Satana … nessuno si aspetterebbe di cercare un demone sott’acqua”.
Nemmeno Zexion se l’era aspettato, a dire il vero. Anzi, quando era giunto nella regione di Parmilia per un attimo aveva persino disperato di riuscire a trovare una qualsiasi traccia di colonia demoniaca che non fosse quella situata a bordo del Baan Palace. L’aveva attirato l’odore della magia, come sempre, e quando aveva compreso di cosa si trattasse aveva fatto rapporto ai propri superiori. Non aveva mai nutrito alcuna simpatia per i demoni, dopotutto.
Il potere degli incantesimi intrecciati vibrava nelle sue narici come un cuore pulsante; la combinazione di magie d’acqua ed aria emanava un aroma pungente ma deciso, come un cesto di more lasciato all’aria aperta per una manciata di giorni. La magia ricopriva il pelo dell’acqua come una coperta, trasformando il gigantesco lago in una città dove, ne era sicuro, l’acqua non aveva alcun segreto per i polmoni dei suoi abitanti che vi respiravano perfettamente grazie all’abilità dei loro incantatori. Una coperta che nulla lasciava trasparire, nemmeno dall’alto. Il fondale basso e roccioso che si delineava sotto i loro occhi non era altro che una mera illusione.
Il lago traboccava di qualche centinaio di vite. Un numero esiguo per un villaggio umano, ma impressionante per una colonia demoniaca dove le nascite avvenivano nell’ordine di secoli. Il Grande Satana aveva nascosto la sua gente lontano da occhi indiscreti, sul fondo di un lago dove gli umani più superstiziosi nemmeno si avvicinavano. Gli imperiali avevano cercato per settimane le colonie demoniache al di sopra delle nuvole, mentre i loro avversari riposavano al di sotto delle onde. Zexion aveva sentito nei racconti di bambino che per millenni i demoni si erano nascosti nel sottosuolo, ma nessuno aveva mai parlato di intere città subacquee. Fino a quel momento.
Dal finestrino la sagoma del White Wizard emerse dal riverbero. L’incrociatore stellare aveva sorvolato la regione di Partevia per tutta la giornata, sorvolando il lago soltanto un paio di volte per non destare sospetti di eventuali sentinelle. Era evidente che l’insediamento puntava tutto sulla segretezza e l’elusione, dunque i demoni non si sarebbero allarmati troppo nel vedere la sagoma triangolare dello Star Destroyer solcare pigramente il cielo. L’ammiraglio del White Wizard, un uomo alto con una cicatrice che gli attraversava la guancia sinistra, comparve alla riunione olografica. “Scansione terminata, governatore Tarkin. Non si rilevano attività energetiche ad alta frequenza, e gli Stregoni Incappucciati hanno confermato di non percepire canali di teletrasporto attivi al momento. Il Champions League e il Pride of Serenno non segnalano la presenza di draghi a nord e ad ovest da qui fino alla costa, né di attività militari da parte della famiglia demoniaca”.
Il governatore fece un cenno affermativo con la testa, e anche attraverso l’immagine olografica Zexion vide l’eccitazione dipinta nelle mani convulse dell’uomo con la cicatrice. “Posso dare ai miei uomini l’ordine di preparare la nave?”
“Assolutamente”. Lo sguardo del governatore Tarkin passò in rassegna tutti i suoi subordinati. “Date inizio all’operazione Omega”.
I motori della nave, pensati più per battaglie interstellari che non a manovre nell’atmosfera, ruggirono prima ancora che le immagini olografiche degli ammiragli sparissero dalla sala di comando; il Manticore si inclinò di quasi venti gradi, manovrando lentamente per permettere alle altre astronavi di allinearsi in quello stretto spazio su cui stava scendendo la notte. A bordo l’aria era frenetica: dopo la sconfitta subita ad opera dei draghi del generale Baran, il morale degli assaltatori imperiali era sceso in maniera palpabile, e le urla del governatore Tarkin non avevano allentato affatto quell’atmosfera di dubbio, paura e delusione che Zexion respirava. La prospettiva di infliggere un duro colpo alla famiglia demoniaca aveva risvegliato quegli uomini, ma con degli istinti così furiosi che gli martellavano dentro la testa.
Aveva bisogno di riposare. Aveva creduto che gli anni trascorsi a Coruscant gli avessero insegnato ad isolare gli odori della massa anche durante il sonno, ma si era sbagliato: là, in quella fila di astronavi pronte a far fuoco, la furia degli uomini gli premeva contro la testa fino a stringere la mente come una morsa. Odiavano. E uccidevano. Il gelo e la fermezza degli uomini addestrati alla pura obbedienza si era trasformato in qualcosa di vivo e compulsivo, un essere spinto dalla paura e dal desiderio di vendetta che ruggiva nell’impazienza di essere liberato.
Gli antidolorifici erano riusciti a fermarlo solo i primi giorni. Non aveva mai assunto farmaci per controllare i suoi poteri, ma dopo la sconfitta dell’aviazione imperiale non era riuscito a farne a meno. La cosa lo innervosiva.
“Immagino che i demoni non siano tutti lì sotto” borbottò Tarkin. Non occorrevano i suoi poteri per capire a chi si stesse rivolgendo.
“Dei demoni guerrieri pattuglieranno le zone intorno al lago, suppongo” rispose. “Probabilmente a quest’ora si saranno accorti che siamo un po’ troppi per essere una semplice missione di ricognizione”.
“Lasciali preoccupare. Percepisci qualcosa di utile e di cui dovrei venire a conoscenza prima di dare il via all’operazione?”
Zexion respirò a fondo, concentrandosi su tutto ciò che avveniva sotto di lui. La distanza non aiutava, purtroppo. “Non che io riesca a percepire. I maghi le hanno già riportato tutto ciò che può esserci utile sulla loro difesa, oltre a sentire la loro agitazione non credo che ci siano altre cose di rilievo, anche se …”
Si accorse troppo tardi di aver palesato i suoi dubbi ad alta voce, e all’uomo anziano davanti a lui non occorreva un olfatto prodigioso per leggere la sfumatura nelle ultime due parole. “Anche se … cosa?”
“Con tutto il rispetto, governatore … i demoni in questo villaggio potremmo considerarli alla stregua dei civili. La quantità di soldati è nettamente esigua rispetto al numero principale, ci sono persino dei bambini, cosa rara tra i demoni. Molto rara. Non costituiscono una minaccia per l’esito della guerra, pensavo che un simile spiegamento di incrociatori sarebbe stato rivolto contro qualche unità dei corpi d’armata” mormorò, già immaginando quale sarebbe stata la reazione. Per quanto detestasse i demoni un massacro in così ampia scala di civili …
Ma l’odore del governatore non ammetteva repliche, e si abbatté su di lui come una sferza. Se l’aspettava, dopotutto. “Sei molto, molto fortunato che l’Imperatore valuti così tanto i tuoi poteri, agente 006. Gli ultimi ufficiali che hanno fatto il tuo stesso, sciocco ragionamento in mia presenza non avevano la protezione del nostro beneamato sovrano. Quindi, prima che tu riprenda questo insensato discorso ricordati di una cosa. Noi non facciamo etica …” disse, alzando volutamente la voce.
Tutti i membri sulla plancia si voltarono, in perfetto silenzio, anche i motori ammutoliti per un istante.
“… noi facciamo cadaveri. Vedete di non dimenticarlo. Tutti quanti!”
L’ondata di eccitazione, forza, violenza e altre sensazioni emerse dalla nave come un’ondata; Zexion la sentì premere di nuovo, un’unica mano diretta contro la lunga sequenza di comandi che rapidamente si accesero in simultanea nel cuore di tutti gli incrociatori. Il ruggito dei cannoni attraversò il ponte da poppa a prua, liberato da quella grande mano che aprì le dita tutte in un istante, riempiendo il cielo di una luce accecante, che sottrasse il lago, la valle, i funghi e le conchiglie alla sua vista. Quando l’odore dei demoni giunse nella sua mente non ci fu più spazio per la luce e si accasciò sul pavimento, privo di sensi.



“Non c’è niente di meglio che un buon boccale di birra nanica dopo una lunga riunione.”
La taverna del Martello di Durin era semideserta a quell’ora della notte, ma la vecchia Hildur non voleva saperne di chiudere i battenti fino a quando anche l’ultimo dei suoi ospiti non fosse stato saziato e dissetato come si deve. Soprattutto se tra gli ospiti in questione c’era il re in persona.
La nana portò loro tre boccali traboccanti della bevanda dorata e Aragorn sollevò il suo, invitando Gandalf e Lupo Solitario a brindare con lui alla buona riuscita delle prossime missioni.
La riunione dell’Alleanza Ribelle di quel pomeriggio era stata tra le più grandi ed epocali di cui il re avesse memoria. La sala del trono nel palazzo di Minas Tirith, il luogo solitamente prescelto per i concili e le adunanze, non bastava ad accogliere tutti gli amici e gli alleati accorsi da altri mondi alla loro richiesta di aiuto, senza contare il nutrito gruppo della principessa Leona; erano dovuti ricorrere a un vecchio anfiteatro dell’epoca dei Sovrintendenti situato nella quinta cerchia di mura, l’unico edificio all’interno della città in grado di ospitarli agevolmente tutti. Assiepate sulle imponenti gradinate di marmo bianco, Aragorn aveva contato con grande soddisfazione quasi un migliaio di teste.
“Finalmente si ritorna alle vecchie glorie” commentò Gandalf, accendendo l’inseparabile pipa dopo una buona sorsata di birra. “Non facevamo più un bel commando come si deve da non so più quanto tempo ormai.”
Gli attacchi di sorpresa e in massa, alla Morte Nera o ad altre importanti roccaforti imperiali, erano stati un caposaldo dell’Alleanza Ribelle nei primi anni della sua attività, ma nel corso del tempo e delle battaglie l’Impero si era fatto più sveglio, aveva adottato nuove contromisure e investito grandi quantità di risorse nella difesa degli obiettivi più sensibili, e i Ribelli erano stati costretti progressivamente a ridurre la frequenza dei commandi o a ripiegare su bersagli minori e più alla loro portata. Semplicemente, non disponevano delle finanze né delle tecnologie sofisticate per competere con i sistemi di sicurezza della Morte Nera e delle stazioni imperiali più importanti.
Stavolta però era diverso.
“Stavolta sono vulnerabili. E noi abbiamo l’effetto sorpresa dalla nostra” affermò Aragorn. “Proprio come ai vecchi tempi.”
“Un effetto sorpresa bello grosso, direi!” Lupo Solitario rise e poggiò il boccale sul tavolo, asciugandosi le labbra con il dorso della mano.
L’Impero e il Grande Satana erano troppo impegnati a farsi la guerra l’uno con l’altro per potersi dedicare in modo davvero efficace alla difesa contro altre minacce. E nessuno dei due avrebbe mai neanche lontanamente immaginato che i Ribelli e la Resistenza della principessa Leona si fossero alleati contro entrambi.
Non avrebbero avuto un momento migliore per colpire.
Mancavano da definire gli ultimi dettagli, e c’erano diversi preparativi da completare, ma il grosso del piano era stato messo a punto durante quel lungo, lunghissimo pomeriggio di proposte e discussioni.
L’idea era semplice, come tutte le migliori idee. Durante una battaglia tra Impero e demoni, quando buona parte delle forze di ciascuno schieramento sarebbe stata occupata sul campo, due commandi separati sarebbero entrati in azione. Gli uomini della principessa Leona avrebbero preso di mira la Morte Nera, mentre l’Alleanza avrebbe condotto un’incursione nel Baan Palace.
“I due tiranni si ritroveranno sotto l’attacco di una minaccia sconosciuta, con cui non si sono mai misurati prima” aveva riassunto Leia a fine riunione. “I demoni non conoscono l’Alleanza Ribelle e non sanno come affrontarla, mentre l’Impero non si è mai ritrovato faccia a faccia con la Resistenza. Noi invece conosciamo i punti di forza e di debolezza di entrambi, perché condividiamo conoscenze e informazioni raccolte in anni di battaglie. Saremo in netto vantaggio.”
“E tireremo Valygar e Lavok fuori da lì!” il grido di alcuni maghi si era levato da una delle gradinate più in alto, subito seguito da un coro di ovazioni.
Liberare i due compagni rapiti era un altro degli obiettivi fondamentali della missione. Ancora una volta, non ce l’avrebbero fatta senza il contributo della Resistenza. La notizia era arrivata solo pochi giorni prima: zio e nipote erano feriti e prigionieri, ma vivi, rinchiusi in una cella nei sotterranei del Baan Palace.
“Ancora non riesco a credere che la Resistenza sia riuscita a piazzare una spia dritta dritta nella roccaforte nemica” constatò Gandalf con ammirazione, tra una boccata di pipa e l’altra. Soffiò un anello di fumo dalle labbra, e Aragorn si divertì a giocherellarci stuzzicandolo con un dito.
“Già. Noi è una vita che proviamo a farlo con la Morte Nera!”
La comunicazione sul destino dei Corthala era arrivata tramite Occhio di Zaboera ai sacerdoti della Resistenza. Pareva che fossero riusciti a rubarne uno al nemico durante la loro ultima incursione sulla fortezza volante, e lo usavano per tenersi in contatto con il loro confratello infiltrato.
“Quei sacerdoti sono fenomenali” anche gli occhi di Lupo brillavano per l’ammirazione. “A prima vista sembrano miti e docili, ma hanno una grande forza d’animo e un coraggio da leoni. Sono dei grandi combattenti.”
“Di certo ci vuole un grande coraggio per rimanere indietro come ha fatto quel… Camus, giusto?”
“La tua memoria perde colpi, Gandalf!” Aragorn rifilò una gomitata scherzosa all’amico, facendogli rovesciare una generosa dose di birra sulla barba. “Ne abbiamo parlato per tutto il pomeriggio!”
“Disse quello che oggi ha salutato la principessa Leona chiamandola Leia.”
“Eh vabbé, con tutti questi nomi nuovi da imparare mi confondo! Sono pure simili!”
“Un vero sovrano non dovrebbe fare certe figuracce diplomatiche” Lupo Solitario aggrottò le sopracciglia e scosse la testa dietro il suo boccale di birra, poi non resistette e scoppiò in una risata.
“Vi siete coalizzati contro di me, vedo” sorridendo, Aragorn offrì un po’ della sua birra allo stregone per ricambiarlo di quella che gli aveva rovesciato. “Comunque sì” disse di nuovo serio “Il sacerdote-spia si chiama Camus. E libereremo anche lui dal Baan Palace.”
Per qualche istante restarono tutti e tre in silenzio, immersi nei propri boccali e nei propri pensieri. La vecchia Hildur intanto aveva iniziato a rassettare il bancone e a passare lo strofinaccio sul pavimento, raccogliendo man mano le sedie sui rispettivi tavoli. Erano rimasti gli unici clienti nella locanda, e un orologio a cucù sopra il camino indicava che erano già trascorse tre ore dalla mezzanotte. Aragorn fece per alzarsi e pagare, ma la nana gli fece cenno di restare dov’era con un cipiglio perentorio che gli incollò le gambe al proprio posto. Sospirò. Dovevano restare se non volevano infrangere almeno una decina di leggi dell’ospitalità nanica, la prima delle quali sosteneva che un vero nano non congeda nessuno dalla propria casa senza avergli offerto almeno quattro pinte di birra. Loro erano a malapena alla prima. Il fatto di trovarsi in una locanda non cambiava le cose, dato che la vecchia Hildur offriva sempre due boccali (a testa, ovviamente) al re e al suo primo ministro, come omaggio della casa. Rifiutare una tale generosità sarebbe stato oltremodo scortese.
“Sarà anche la prima missione per i miei allievi” disse infine Lupo Solitario, percorrendo l’orlo del proprio boccale con la punta del dito, lo sguardo adombrato.
“Sei preoccupato per loro, Lupo? A me sono sembrati dei ragazzi in gamba.”
“Lo sono, Gandalf. Niente mi rende più orgoglioso dei loro progressi. È solo che questa è la loro prima vera missione sul campo, e… “ scrollò le spalle “Niente. Suppongo che sia solo la normale preoccupazione di un maestro apprensivo, tutto qui.”
“Tranquillo, Lupo. Ci saremo anche noi a vegliare su di loro nel Baan Palace. E anche tutti gli altri Ribelli. Non permetteremo che accada nulla di male.”
“Grazie, ragazzi.”
Gandalf soffiò un altro paio di anelli di fumo: “Secondo me se la caveranno alla grande. Soprattutto quel Chiave del Destino. Durante l’allenamento è stato impressionante.”
“Beh, lui è un caso un po’ a parte… “ sorrise Lupo.
“Mi hanno colpito quelle strane armi che è in grado di evocare” aggiunse Aragorn. “Non ho mai visto nessuno fare una cosa del genere, e dire che ne ho viste tante! Cos’è, un incantesimo speciale?”
“No, niente di tutto questo” Lupo scosse la testa, portandosi di nuovo il boccale alle labbra. “È Chiave del Destino a essere speciale” disse dopo una sorsata. “Si può dire che quelle armi facciano parte di lui. È sempre stato in grado di richiamarle a sé con la sola volontà, da quando lo abbiamo trovato.”
“Trovato?” Gandalf non riusciva a celare la curiosità, e anche Aragorn doveva ammettere di volerne sapere di più. Non era una vanteria infondata quando diceva di averne viste tante: sia sulla Terra II ai tempi delle guerre contro Sauron, sia da Ribelle nelle innumerevoli battaglie contro l’Impero, e durante i viaggi negli angoli più remoti e disparati della Galassia, si era imbattuto in ogni sorta di creatura, incantesimo e artefatto magico che la mente umana potesse concepire. Eppure un ragazzo che combatteva in quel modo prodigioso, brandendo due armi così assurde come se fossero il prolungamento naturale delle proprie braccia, armi che solo lui poteva evocare e controllare… questo non l’aveva ancora visto.
“Quattro anni fa, all’incirca” Lupo Solitario si appoggiò allo schienale di legno, che scricchiolò leggermente: “Lo abbiamo trovato in una città, in chiaro stato di shock. Aveva quattordici anni.”
“Cosa gli era successo?”
“Ci ha messo un po’ per fidarsi di noi e decidersi a raccontare. Anche così, la sua storia era molto strana. Ci ha detto di venire da un altro mondo.”
“Un altro… ?” Aragorn era incredulo. “Vuol dire che conosce un altro mezzo di teletrasporto oltre quelli che usiamo noi? Sarebbe una conquista… “
“Lui no, purtroppo” Lupo sospirò. “Figuratevi, ve lo avrei detto immediatamente! Ma la gente con cui viveva evidentemente sì. Ci ha raccontato che abitava in castello, ed era il membro più giovane di una specie di ordine di studiosi, custodi del sapere del loro mondo. Un giorno però tra di loro è scoppiata una ribellione, c’è stata una congiura contro i capi supremi, e molti membri sono rimasti uccisi. Chiave del Destino si è salvato perché un suo amico lo ha fatto fuggire all’ultimo momento, teletrasportandolo nel nostro mondo. Per mesi Chiave del Destino è stato convinto che il suo amico sarebbe tornato a prenderlo, ma… “
“Mi dispiace” mormorò Gandalf.
“Abbiamo mandato molte pattuglie nel luogo dove è stato trovato Chiave del Destino, ma mai nessuno è apparso dopo di lui. Ormai è passato tanto tempo, e lui non è in grado di tornare indietro… “
“Però ora mi sembra felice con voi, Lupo. Vedendolo non avrei mai detto che non facesse parte dei Ramas fin dall’inizio” gli sorrise Aragorn.
“Grazie agli dèi, è così” anche Lupo sorrise. L’affetto che trapelava da lui mentre parlava dei suoi allievi era evidente nello scintillio degli occhi, nel viso illuminato di orgoglio e commozione. “Fa parte della nostra famiglia, adesso.”
“Alla grande famiglia dei Ramas, allora!” Gandalf sollevò il boccale, proponendo un nuovo brindisi.
I tre calici si incontrarono a mezz’aria, tintinnando fragorosamente.
“Ai Ramas!”


Zexion chiuse gli occhi, gustando la sensazione dell’acqua fredda che lambiva la punta dei suoi stivali. La riva era proprio come la ricordava, con la sabbia bianca dove i piedi erano costretti ad affondare sotto il suo peso; avrebbe potuto camminare per ore, anche tutta la giornata, eppure non sarebbe riuscito a girare per tutto il perimetro dell’enorme lago le cui rive opposte svanivano all’orizzonte. Era tutto azzurro, nonostante fosse notte fonda. Le conchiglie scricchiolarono al suo passaggio.
Adesso poteva vedere i funghi.
Alcuni gli arrivavano persino alla spalla. I loro cappelli biancastri, quasi lattiginosi alla luce solare, adesso si erano risvegliati in un arcobaleno di tinte. Guidavano le rive del lago come una cintura fatta di gioielli, brillavano di rosa, verde e viola e si imbrunivano leggermente al suo passaggio per tornare più splendenti che mai una volta che la sua ombra li aveva abbandonati. Avevano un profumo dolcissimo, troppo forte per i suoi gusti. In un libro di favole aveva letto che le fate dimoravano nei cappelli dei funghi più grandi, ed una sera si era teletrasportato in quel luogo solo per vederle volare; aveva fatto un buco nell’acqua, ovviamente, ma quella notte aveva visto le acque del lago tingersi di quella piccola costellazione nata sulla terra, chiedendosi come fosse possibile abbinare quei colori tutti insieme senza che anche solo uno stonasse alla vista. Non aveva mai creduto al caso, né ad alcun dio disposto a creare quell’arcobaleno solo per rendere felici coloro che erano tanto temerari da camminare in quel posto temuto dagli uomini.
Né vi credeva in quel momento.
Respirò di nuovo, più a fondo, spezzando la magia.
Non c’erano più funghi dall’aroma dolciastro, non c’erano fate. Soltanto il profumo della morte.
Vapori di fumo nero salivano dalla terra, disperdendosi nel vento che si era appena alzato; il freddo delle acque del lago non era altro che la roccia calda sotto gli stivali, dove cristalli neri affioravano nei punti dove le batterie di turbolaser avevano riversato i loro colpi e la temperatura infuocata aveva fatto il resto. Forse quella polvere sottile erano le conchiglie, forse le ossa di qualche demone. A quel pensiero Zexion si morse il labbro fino a farlo sanguinare.
Della costellazione di funghi non rimanevano altro che le ultime lingue di fiamme, nemmeno una piccola luce, un bagliore, un indizio di vita. L’odore del pianeta bruciato copriva ogni cosa, ogni angolo dove potesse poggiare lo sguardo. Le uniche forme di vita nel raggio di chilometri erano gli assaltatori della sua scorta, vaghe ombre bianche che lo seguivano in silenzio, tenendosi a distanza.
Si accorse di non avere il coraggio di guardare il lago. O ciò che ne restava.
Gli bastava respirarne il vapore.
Il governatore Tarkin gli aveva ordinato di scendere a terra per cercare eventuali demoni sopravvissuti all’attacco, ma Zexion sapeva che era soltanto una mossa preventiva: l’uomo anziano aveva calcolato quell’azione da molto tempo, e nessuno meglio di lui poteva orchestrare una simile macchina di morte. Zexion sapeva, aveva sempre saputo cosa volesse dire l’operazione Omega ma … era diverso. Semplicemente diverso. E sbagliato.
Sin da bambino aveva sempre odiato la famiglia demoniaca. Un odio derivato dalla paura di quelle creature pallide, dalla magia infinita che avrebbero potuto sconfiggere facilmente tutti gli abitanti del Castello dell’Oblio. Vexen mescolava i loro nomi con punte di disprezzo, talvolta anche imbevute di una sottile invidia, e lui aveva bevuto quelle sensazioni senza riflettere, felice di vivere in un castello dove quei mostri non sarebbero mai riusciti ad entrare. Nei racconti del numero IV c’era sempre qualche demone che odiava la scienza e l’alchimia, e la paura del numero VII e la sua strana razza non avevano fatto altro che cementare quella sensazione di diffidenza amara per quei mostri con cui era meglio non avere nulla a che fare. Fino a quel momento.
C’erano pensieri nell’aria. Deboli, intrisi nel vento e nella polvere, ma ancora il suo fiuto poteva raccogliere le ultime tracce di vita dei demoni come il lontano eco di un grido assordante. Non riusciva a separarli, ma erano una massa di terrore, odio, dubbio e disperazione, una cascata che lentamente stava svanendo per raggiungere i suoi padroni e le loro ceneri. Chiedeva aiuto, protezione, gridava. Chiudersi il naso era inutile, perché le voci erano già arrivate e gli premevano contro le stomaco con sempre maggior violenza, spingendolo fino alla base della gola dove era già arrivato il terrore della morte; una paura pura, un grido di aiuto che non aveva nulla della fierezza e della superiorità della famiglia demoniaca.
Quegli odori non avevano nulla di diverso da quelli degli umani.
Gridavano tutti.
Urlavano tutti.
Morivano tutti. E in quel momento, in quell’istante quando il fumo era ancora in cielo ed i turbolaser finivano di raffreddarsi, in quell’istante soltanto lui poteva sentirli. Quando riaprì gli occhi non c’erano la sabbia ed i funghi, le conchiglie, il lago ed i demoni.
C’erano soltanto le sue lacrime.
“Si dice che i coccodrilli piangano dopo aver ucciso le loro vittime” mormorò una voce. Zexion trasalì, rendendosi conto in quell’istante di essersi perso nei propri pensieri. L’odore dell’uomo sarebbe stato percepibile da diversi minuti, ma solo in quell’istante il numero VI dell’Organizzazione si accorse di aver permesso ad un estraneo di arrivargli alle spalle. “Ma conosco bene i coccodrilli, e sono creature troppo nobili per compiere un gesto così meschino. Certe scene ripugnanti possono farle soltanto gli umani”.
Il giovane che lo fissava, in piedi su un cumulo di cenere, non aveva molti più anni di lui. Un’ondata di odio si abbatté su Zexion, un odio che raramente aveva sentito rivolto verso di lui; strinse i denti cercando di isolare, cercando di ignorare il dolore che gli serrava la gola per quell’odore forte in mezzo al turbine della morte. Quando respirò una seconda volta l’odore era più intenso, più acre, più oscuro e quando iniziò premergli nel petto al ritmo del cuore capì che non si trattava del ragazzo che lo fissava. L’enorme gioiello dorato che pendeva da una catena al suo collo lo osservava con l’occhio nero intarsiato, il Puzzle del Millennio completo fino all’ultimo pezzo.
Gli assaltatori della scorta sembravano sorpresi quanto lui per la comparsa improvvisa del generale Hyunkel. Il comandante gridò un paio di ordini da sotto il casco e subito il nemico fu circondato dall’intera squadra, ogni blaster puntato contro di lui. Hyunkel non li degnò di uno sguardo; i suoi occhi colore del ghiaccio restarono fissi su di lui, implacabili, spietati.
“Alza le mani e mettile dietro la testa, demone.”
Zexion avrebbe voluto dire ai cinque soldati che era inutile, che le loro ridicole armi non avrebbero fatto neanche il solletico a un generale dell’armata demoniaca. Avrebbe voluto gridare loro di scappare il più lontano possibile.
Tutto ciò che riuscì a fare fu rimanere con le gambe paralizzate e i piedi incollati al suolo coperto di cenere mentre la spada Amudo saettava fuori dal suo fodero e investiva i soldati imperiali con una raffica micidiale di fendenti, sotto i suoi occhi sgranati e increduli. Gli assaltatori non fecero in tempo a sparare neanche un colpo. Caddero uno dopo l’altro, i loro odori si fecero più intensi per un ultimo istante, sopraffacendo persino quello di fuoco e di morte. Poi si spensero.
Il generale Hyunkel tornò a spostare la propria attenzione su di lui, come se avesse interrotto la conversazione solo per la manciata di istanti necessaria a scacciare una mosca molesta.
“Sei venuto a gioire di questo massacro?”
“No”.
“Bugiardo”. Il vento sollevò il mantello del generale Hyunkel, rendendolo ancora più minaccioso. Amudo brillava sinistra tra le sue mani, apparentemente illesa dopo la battaglia di Coruscant, ed il lento ma inesorabile illuminarsi della gemma scarlatta sull’elsa prometteva che quell’incontro non si sarebbe risolto in qualche veloce scambio di battute. Zexion sollevò istintivamente la mano per avvicinarla al comlink auricolare e chiamare rinforzi, ma la abbassò non appena la lama intarsiata calò bruscamente contro il suo petto fermandosi all’altezza della gola. “Credevo che la permanenza al Baan Palace avesse insegnato ai tuoi amici dell’Organizzazione a non mettere più il naso nelle faccende della famiglia demoniaca, ma sembra che causare problemi sia la vostra specialità!”.
Avrebbe voluto rispondergli che non aveva nulla a che fare con gli altri Membri dell’Organizzazione da oltre due anni, ma la battuta gli scivolò dalle labbra quando la punta della spada gli sfiorò la pelle. Il giovane dagli occhi chiari traboccava odio, ma il suo odore irritante, quasi freddo, lasciò sfuggire le sue intenzioni.
Non voleva ucciderlo.
Il che gli dava un certo vantaggio.
Sfidare a duello il generale Hyunkel era una follia, ma farlo quando aveva indosso il potere devastante del Puzzle Millenario … insultare direttamente l’Imperatore Palpatine avrebbe avuto risultati più piacevoli. Tentò di fare un passo indietro ma l’altro lo seguì, incalzandolo persino a quel minuscolo movimento, gli occhi fissi sulle sue mani.
Ma Zexion non aveva bisogno delle dita per richiamare il proprio elemento.
Il vento soffiò improvvisamente dai loro piedi, sollevando la cenere contro il giovane generale. Per riflesso quello abbassò la spada, e Zexion si buttò a terra trascinando con sé ciò che restava di un albero annerito. Sentì la cenere entrargli nelle narici e tra le labbra, ma si rialzò ed iniziò a correre più lontano possibile. Inciampò nel terreno fragile, rotolò di nuovo tra le imprecazioni del generale Hyunkel, poi si riprese e si lanciò lontano, il più lontano che poteva, portandosi dalla parte opposta del cratere che aveva sostituito il lago. Con le dita cercò l’auricolare e lo accese, tremando all’idea che si fosse rovinato nella caduta; ma l’oggetto era di produzione imperiale, ed il debole fischio d’attivazione fu il suono più confortante che Zexion avesse mai sentito negli ultimi giorni.
Adesso doveva soltanto cercare di rimanere in vita.
In pochi istanti l’altro fu al suo fianco, la spada dell’armatura perfettamente trasformata. Sulla lama corse una luce scarlatta che aspirò la folata di vento, e mandò un tonfo sordo quando calò su di lui e colpì la polvere. Zexion scivolò di nuovo lontano, con il cuore in gola ed il cervello teso ad elaborare un qualunque piano che riuscisse a fermare il suo avversario. Evocò una seconda ondata di vento, ma l’armatura argentea copriva il corpo del generale Hyunkel lasciando a malapena scoperti gli occhi; il suo incantesimo sembrava soltanto una brezza davanti a quell’uomo corazzato. L’unica consolazione era che non aveva richiamato lo Spirito del Puzzle. Una consolazione piuttosto magra, visto che ad ogni passo del nemico le sue probabilità di sopravvivere diminuivano.
Si allontanò di nuovo, ma stavolta la sua corsa venne fermata. L’altro lo afferrò per un polso con un gesto troppo fluido per un uomo armato, e prima che Zexion potesse tentare di sfuggirgli si ritrovò a terra in un’esplosione di rami carbonizzati che si trasformavano in cenere e scintille all’impatto con il suo viso. Lanciò un calcio, poi un altro, ma se il primo si perse nell’aria il secondo si abbatté sull’armatura liberando una fitta di dolore che corse per tutta la gamba. Gli si parò davanti agli occhi tutto il corso di autodifesa che era stato costretto a seguire, ma nessuna delle posizioni gli sembrava indicata per liberarsi di un energumeno coperto di metallo in qualunque punto. Cercò di avvicinare una mano alla sottile fessura dell’elmo, mirando agli occhi, ma l’altro doveva aver previsto una mossa del genere: gli strattonò di nuovo il polso e lo costrinse su un fianco, poi gli assestò un violento calcio nello stomaco. Zexion si piegò su se stesso per il dolore e per istante davanti agli occhi gli balenarono lampi rossi. Con la mano libera cercò il blaster.
Il pugno dell’altro lo colpì in piena faccia. Per un attimo la testa sembrò esplodergli, ed il sangue scivolò oltre le sue labbra mentre un dolore enorme gli attraversò l’occhio sinistro. Combatté l’istinto di portare la mano al viso, ma quando strinse le dita sul calcio del blaster si accorse di aver afferrato soltanto aria. Rotolò leggermente per evitare un secondo pugno. Un’imprecazione gli scappò tra i denti quando vide l’arma lontana da loro, caduta a diversi metri di distanza probabilmente all’inizio dello scontro. Scivolò di nuovo nonostante il dolore, ma la presa dell’avversario non la smetteva di costringerlo costantemente a terra, qualunque movimento tentasse di fare. Scalciò ancora, inghiottendo il dolore, ogni corda della sua mente tesa nell’arrivo di qualunque rinforzo. Il polso sinistro lanciava segnali di gelo che aumentarono quando il suo assalitore lo sollevò di nuovo da terra come fosse un giocattolo, per poi scagliare su di lui un pugno che lo colpì in piena fronte.
A quel punto la mano destra saettò in avanti, cercando di allontanarlo, ma il mondo stava iniziando a vorticare sopra, sotto e dentro di lui. Finché non trovò qualcosa di solido.
Una scossa lo attraversò dal guanto fino al cervello, trasformando persino il calcio appena ricevuto in un fastidio irrisorio; un’ondata di potere puro e privo di forma i abbatté su di lui, cercando di allontanarlo. Zexion aprì la mano di riflesso, colpito agli occhi dalla luce accecante del Puzzle del Millennio. Senza rendersene conto aveva stretto la catena che lo collegava al padrone e la risposta era stata violenta, quasi quanto inserire una mano bagnata in un condensatore ad energia elettrica: la tempesta di odori lo colpì di nuovo, stavolta unendo l’odio del giovane generale con lo spirito antico del Puzzle intervenuto a difesa del suo possessore. Una serie di immagini gli si affacciarono davanti agli occhi, ma erano prive di forma o senso, tinte soltanto di un odio nero ma rosso come il sangue. C’era una battaglia da qualche parte, ma tutte le scene lo attraversarono ringhiando, convergendo nell’unica, enorme luce del Puzzle. Zexion riuscì solo a vedere l’occhio scuro che decorava il monile illuminarsi, quasi come gli occhi dello spirito a cui era legato. Scivolò nel bianco, ignorando qualunque altra forma di dolore.
L’ultima cosa che riuscì a sentire erano le parole del generale Hyunkel, ma anche quelle si trasformarono in un unico manto di silenzio.

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 - Cuore di ghiaccio ***


Capitolo 23 - Cuore di ghiaccio





Vexen




[…] e io sono certo che se ne sarebbe pentito. Fermare la collera di Pai è stato difficile, parte di me avrebbe voluto ruggire con lui, abbandonarsi al folle piacere della magia selvaggia e volare su Autozam per vendicare coloro che abbiamo perduto per mano della viltà degli esseri umani e reclamare la giusta vendetta nel loro sangue. Forse cadere nella pazzia è l’unico modo per annegare questo dolore che mi sibila dentro la testa dal giorno in cui colei che ho amato ha lasciato questo mondo.
Ma forse è proprio qui l’errore.
Un dolore millenario come il nostro non si può cancellare. O sopprimere. Nemmeno mascherare con l’aiuto della battaglia. Col dolore bisogna convivere, perché solo coloro che sono davvero forti possono farsene carico per trovare la spinta che li condurrà in avanti.
Pai è forte. Sono certo che un giorno potrebbe pentirsi di un’azione così scellerata e priva di onore. Spero solo che capisca la mia decisione e ne tragga un insegnamento per il futuro: nessuna giusta vendetta è così dolce da coprire il sapore amaro del rimpianto.
Uno dei rarissimi frammenti delle memorie del Grande Satana Baan, primo del suo nome.




Era come una tempesta, la tempesta più potente a cui avesse mai assistito. Il vento soffiava senza sosta attraversando le volte del Baan Palace fino alle vetrate, battendo i corridoi ed i balconi con tutta la violenza dei temporali primaverili, trascinando con sé chiunque si trovasse sul suo percorso senza regole; non si udiva nulla oltre al rombo di tuono, sordo come se potesse scuotere la fortezza volante sino alle prime pietre della fondazione. Zaboera strinse le dita intorno al proprio bastone meravigliandosi di quanto le nocche fossero più evidenti nelle ultime settimane, di come le ossa si fossero fatte strada fin quasi ad oltrepassare la sua sottile pelle chiara. Non aveva altro da osservare a parte le proprie mani, il pavimento bianco e la figura del Grande Satana stagliata al centro del salone con le vesti gonfie di collera. Nessun vento poteva eguagliare la furia della sua magia, che batteva incessante intorno al proprio padrone come un turbine dove al centro non vi era però calma, ma l’odio più puro. Gli occhi del signore dei demoni erano coperti da una patina lucida che in molti avrebbero interpretato come collera, ma che l’anziano arcivescovo stregone aveva imparato a riconoscere come un segno di pura tristezza a cui era vietato trasparire. Il loro sovrano aveva ragione ad essere in collera.
Dall’altra parte della sala persino Killvearn era in silenzio. Stranamente il suo assistente monocolo non era in vista, ed il lugubre emissario attendeva a capo chino senza nemmeno roteare la falce. Questo, e l’espressione cupa del Cavaliere del Drago, bastavano a comprendere la gravità della situazione. Un giovane demone minore dai capelli azzurri si affacciò dalla porta est del salone con dei calici traboccanti di limonata, ma un urlo più violento del solito lo fece retrocedere in un rumore di vetri infranti a cui nessun altro prestò attenzione.
“VILI! SPORCHI! MALEDETTI, INFIDI ESSERI UMANI! Non hanno il coraggio di affrontare le nostre truppe a viso aperto e cosa fanno? COSA FANNO? Hanno aperto il fuoco su Taisun, schifosi umani!”
Un lieve scricchiolio, poi un lampo. La vetrata che si affacciava sui balconi meridionali esplose. Le schegge si persero nello strascico del Grande Satana, ma nemmeno una goccia di pioggia osò entrare dove la magia tempestava più di qualsiasi altra forza della natura. “Non li perdonerò … NON POTRO’ MAI SOPPORTARE UN AFFRONTO SIMILE! I DEMONI DI TAISUN NON ERANO GUERRIERI!”
“Avremmo dovuto prevedere anche quello, temo …”
Il signore dei demoni lanciò un’occhiata alla persona che aveva osato interrompere la sua furia. “Killvearn, tu parli come se la slealtà sia un pilastro. Come se la vigliaccheria sia un dato di fatto, come se uccidere i deboli sia un vanto ed un’azione gloriosa. Quando abbiamo attaccato la capitale dell’Impero Galattico abbiamo avuto cura di dare loro ben tre giorni di preavviso per allontanare la loro popolazione. E siamo stati anche generosi, visto che un migliaio di umani in meno avrebbe certamente fatto respirare meglio quel pianeta stritolato dal metallo e dalla scienza!”
“Però la viltà degli umani è risaputa”.
Zaboera chinò il capo, cercando di non incrociare gli occhi con le fessure bianche della lugubre maschera di Killvearn. Aveva molte cose da dire all’emissario in nero, ma di queste nessuna avrebbe superato il piacere che avrebbe provato se il Grande Satana lo avesse incenerito all’istante per quella sfrontatezza. Eppure il demone dalla barba bianca non scagliò contro di lui nessun incantesimo, né gli andò incontro con la sua regale presenza. “Mi prendi per uno sciocco, Killvearn? Conosco la bassezza degli umani da molti più anni di te, forse da più di quelli del tuo padrone. Ma credevo di essere IO il loro obiettivo. Non quei preziosi bambini. Non quegli studiosi o quei coltivatori di alghe. Non quei fantastici costruttori. Pensavo che la MIA testa fosse più che sufficiente!”
Zaboera era stato a Taisun nemmeno troppi anni prima, nel tempo in cui finalmente tutti loro erano usciti dal sottosuolo dopo secoli di buio, chiusura e odio. Era stato il quarto insediamento che avevano fondato sotto il sole, senza paura: aveva collaborato personalmente alla creazione dell’incantesimo dell’Aria Acquatica, spingendo la propria magia fino a vette che nei giorni della sua giovinezza avrebbe ritenuto impensabili. La volta che ricopriva la città non era frutto solo dei poteri di un anziano arcivescovo stregone, ma di tutti i demoni arcanisti e studiosi, persino di qualche cacciatore. Era cresciuta sopra di loro, riempiendo in un attimo i polmoni di aria respirabile quando sopra le loro teste vi era il livello dell’acqua del lago Taisun che scintillava nella piena luce del pomeriggio che tanto avevano faticato a conquistare. Era incredibile il gioco di luci che si osservava sul fondo, dove i riflessi chiari si divertivano a rincorrersi lungo le pareti bianchissime delle case, rese quasi trasparenti dalla sabbia har che già nelle prime ore della fondazione si era legata a quei nuovi edifici. Un gioco dalle mille figure, dove i più giovani vedevano draghi sputafuoco e lui uno stormo di uccelli dorati. Ma ne era rimasto incantato, gli occhi sgranati alla vista dei pesci che si affacciavano ai confini della barriera e la sfioravano con le loro squame riflettendo essi stessi la luce come una manciata di polvere lunare scagliata contro la volta incantata. Il Grande Satana aveva benedetto quel posto il giorno successivo con un discorso che non aveva avuto eguali: aveva parlato dell’unità della famiglia demoniaca, ma lo aveva fatto ordinando a tutti di alzare lo sguardo e respirare a pieni polmoni quel prodigio nato dall’unione delle loro forze, un’unione che aveva permesso a tutti loro di vivere anche in un luogo ritenuto impossibile. Erano stati tutti grandi quel giorno. Era stata grandiosa Taisun, che per tutti i suoi abitanti si era riempita della luce del pomeriggio e delle tinte screziate del tramonto. Si erano sentiti tutti eroi, dal primo all’ultimo; avevano creduto di poter finalmente vivere in pace.
Ma adesso di quel posto non vi era traccia, e non ve ne sarebbe mai stata. Il riflesso di una candela sull’oro del trono lo riportò per un istante a quel giorno e lo scacciò con un profondo respiro: piangere era una debolezza che non era concessa né all’arcivescovo stregone né al Grande Satana.
Nessuna lacrima li avrebbe riportati in vita.
Nemmeno lui aveva previsto che gli umani potessero abbassarsi a tanto. Non aveva senso, quello era il problema. Potevano prevedere e combattere qualunque cosa seguisse anche il più labile filo logico, eppure con quegli umani venuti da un altro mondo sembrava non ci fosse un ragionamento da seguire. Oppure era labile, come un minuscolo tassello nelle centinaia che componevano un rompicapo. Zaboera si era preoccupato personalmente della salvezza del proprio signore immaginando ogni attacco, ogni trappola, ogni spia, ogni microscopico congegno; nonostante questo gli umani avevano colpito altrove, e li avevano feriti più di qualsiasi spada. “Come possiamo combattere un nemico simile, mio signore? Nemmeno Autozam era mai scesa così in basso”.
Il sovrano si girò verso di lui, lo sguardo grave. Per la prima volta l’arcivescovo stregone lo vide usare il suo prezioso bastone nero non come simbolo di potere, ma come un vero appoggio per un corpo che aveva visto troppe stagioni e troppo dolore. “Dobbiamo colpire la Morte Nera, e dobbiamo farlo subito. Il nostro tentativo di far salire Baran si è rivelato una trappola mortale, e non intendo ripetere l’esperienza. Senza di lui e senza Sephiroth sarebbe la nostra fine. Ho un piano …”
La sua testa si voltò in quel momento verso l’unica persona che era rimasta immobile durante quel discorso, a capo chino, ferma nell’ombra di un arazzo. Non vi era nulla che trapelasse le emozioni del generale Hyunkel, nascoste nel suo viso corrucciato come tutte le volte che la sua razza compieva delle atrocità. Ma l’attenzione del Grande Satana non era rivolta né a lui né al Puzzle Millenario, ma al ragazzo che aveva poggiato a terra ancora svenuto.
La vista della tunica nera mandò un brivido lungo la schiena di Zaboera. Ancora l’Organizzazione …
“Il generale Hyunkel ha trovato questo rifiuto umano insieme a dei soldati imperiali proprio sulle ceneri di Taisun. Non ho idea di cosa stessero facendo, ma per una volta i loro obiettivi non mi interessano. L’unica cosa che conta è che quelle guardie avevano il compito di proteggerlo, e ciò fa di lui comunque una persona importante” mormorò. “Il tipo di persona che potrebbe avere accesso alla Morte Nera …”
“Ho capito, mio signore! Lasci pure a me il compito di …”
“Interrogarlo? No, Killvearn. Abbiamo già il viceammiraglio Kratas, ed è piuttosto collaborante anche senza i tuoi trucchi”.
“Ritiene che possa teletrasportarsi nella roccaforte imperiale? Usare la sua magia e seguirlo è un piano affascinante”.
“Sbagliato di nuovo. Ho in mente qualcosa di più definitivo”.
Era abile a contenere la sua furia. Dopo il discorso infervorato di prima essa si era nascosta, limitandosi a fare capolino tra le nocche bianche serrate e nei piedi puntati a terra; ma non poteva svanire troppo a lungo perché, per quanto gli anni avessero temperato il carattere del Grande Satana, Zaboera ricordava un demone di migliaia di anni più giovane che mai e poi mai avrebbe tollerato un simile affronto alla propria gente senza rispondere con un’esplosione di fuoco e sangue.
Il demone antico si mosse senza scostare lo sguardo dall’umano dai capelli azzurri. “Restituiremo quell’umano vivo e incolume al suo padrone. O forse ci tornerà da solo, una volta liberato nel primo bosco a portata di viverna. Ma nemmeno lui si renderà conto di portare con sé il mio personale dono per l’Imperatore Palpatine”.
Persino la tempesta ruggì con violenza al gelo cristallizzato in quelle parole. “Una decina di Nuclei Neri dovrebbe essere sufficiente per spazzare via la Morte Nera e tutte le nostre preoccupazioni una volta per tutte”.
Una decina di Nuclei Neri.
Il solo pensiero spinse l’arcivescovo stregone ad incontrare gli occhi del suo signore, ma in quelle pozze oscure vi era un odio così profondo che lo costrinse a ritirare, a tacere, ad imprigionare i propri pensieri nell’immagine di quei potenti ordigni di cui quattro erano stati sufficienti per polverizzare il Castello dell’Oblio, l’artefatto che nemmeno i loro incantesimi congiunti erano riusciti a scalfire. Si rese conto di sudare. Aveva cercato di studiare a fondo il potere dei Nuclei Neri osservando lo scienziato umano trafficare nel suo laboratorio, e quei pochi egli stesso che aveva realizzato per puro interesse avevano dato dei risultati terrificanti. Gli era bastato appoggiarli sul palmo della mano per sentirli vibrare anche dentro l’anima, quasi come uova di drago prive di limiti di tempo. Si nutrivano di magia e bramavano la magia, resi ancora più potenti dall’orgoglio del Membro dell’Organizzazione che li aveva ideati.
Un decina sarebbero stati certamente sufficienti per …
“Io non approvo, Grande Satana”.
E non c’era bisogno di indovinare chi osasse pronunciare tale sfrontatezza. “Lei intende nascondere dei Nuclei Neri nel corpo di quel ragazzo, e personalmente mi sembra un atto che potrei definire in un solo modo: vile. Mi aspetterei una tattica simile dall’Imperatore Palpatine ma, sono sincero, da lei …” mormorò, portandosi al centro della stanza, la testa rivolta verso il trono. Non si inginocchiò né piegò il capo. “… no, da lei non avrei mai pensato di poter sentire un’affermazione simile. E sento la necessità di dirle che sono contrario”.
“Sopravvivrò alla tua contrarietà, Baran”.
Interruppe il suo percorso, e lentamente si avvicinò al Drago. Zaboera si accorse di aver quasi smesso di respirare, riconoscendo un tono del suo signore che non aveva mai dimenticato, lo stesso con cui aveva apostrofato un altro Cavaliere del Drago molti, moltissimi anni prima. “Sopravvivrò alla tua contrarietà, al tuo disprezzo ed al tuo giudizio, Baran. Credi forse che sia così sciocco da non sapere cosa sto facendo? Che io cancelli i MIEI ideali così, come se niente fosse?”
“Lo sta appena facendo, mio signore”
Persino Killvearn, dall’altra parte della stanza, si appiattì contro una colonna e qualunque cosa stesse per uscire dalla bocca del mascherone si trasformò in un respiro informe quando il demone antico avanzò di nuovo, annullando qualunque distanza tra sé ed il Drago furioso finché la sua tunica non incontrò gli stivali scuri dell’altro e ne coprì la punta. “Tu sei nato per giudicare, Baran? O per combattere e difendere Cephiro? Questo non l’ho mai capito, non lo capisco e non lo capirò mai, né ho la pretesa di capire cosa passi per la mente della Madre Drago. Ma so per certo che IO sono nato per guidare la famiglia demoniaca, ed ho ben chiaro quali siano i miei doveri”.
Baran fece per rispondere, ma il Grande Satana fu più veloce. “Non possiamo permetterci un’altra Taisun. Le tue azioni e quelle di Sephiroth sono il vanto del nostro esercito, ma non sono bastate a mettere al sicuro quel villaggio, né gli altri che l’Imperatore Palpatine potrebbe prendere di mira soltanto per ferirci al cuore, dove siamo più deboli. Non ero lì quando gli umani hanno distrutto quel posto, e non potrò mai essere ovunque per proteggere tutti coloro che ne avranno bisogno, né io, né Zaboera, né Hyunkel, né Crocodyne, né Hadler, né Killvearn. E nemmeno tu. Ed io non posso addormentarmi stanotte sapendo che le vite di coloro che devo proteggere non sono al sicuro, perché ho un dovere verso quei giovani demoni che obbediscono e muoiono ad un mio ordine. Devo riavere Mistobaan e devo preservare la mia gente che da troppo poco tempo ha riscattato il diritto di vivere alla luce del sole. Mi assumo interamente la responsabilità di questa azione”.
Perché è il nostro signore.
“Se la storia mi giudicherà negativamente non avrò paura ad accettare le conseguenze” disse. “Tu mi hai giurato obbedienza, Baran. Accetto la tua apprensione per il mio onore, ma sulla vita di quel ragazzo questa è la mia ultima parola. Adesso vai e portalo nel laboratorio di Zaboera”.
L’arcivescovo stregone riprese lentamente aria, ma non riuscì a fare a meno di osservare la figura del generale del generale del Choryugundan. I capelli neri non si muovevano nemmeno nella folata d’aria, ed i baffi cadevano in basso nascondendo la forma delle labbra che immaginava fossero contratte per tutto quello che aveva cercato di dire. Le sue spalle non si erano chinate nemmeno a quell’ultimo ordine, così come le ginocchia. L’unica cosa che si era mossa era la mano, che dal petto era scivolata lungo il fianco in un pugno così serrato che avrebbe facilmente staccato il collo ad un licantropo maggiore. Da sotto il diadema dorato non riusciva a scorgere nulla che non fosse il suo potere senza limiti pronto ad essere liberato. E fu un sollievo quando il pugno si rilasciò, cadendo lungo il fianco. “Come desidera, Grande Satana”.



Narratore: “Amici lettori, è il momento di tirare le fila! Ricordate la scena del prologo? Ecco, dopo un lungo e burrascoso viaggio siamo tornati proprio lì. I nodi vengono al pettine!”
REGISTE: “Narratore, che fai? Insulti l’intelligenza dei nostri lettori? Non c’era bisogno di ribadire una tale ovvietà!”
Narratore: “Mie dilette Registe, vi faccio notare che dal prologo a qui sono passati ventitré capitoli. Non potete pretendere che la memoria dei poveri lettori supplisca alla vostra disorganizzazione nel costruire la trama. Con tutti i nomi e gli eventi che devono già ricordare… “
REGISTE: “Forse se eliminassimo TE dal copione si ritroverebbero con un nome in meno da memorizzare… “
Narratore: “Ecco, lo sapevo… non c’è niente da fare, vincono sempre loro… “




Gli dèi ci mettono alla prova ogni giorno. I piccoli gesti quotidiani sono importanti: sorrisi, parole dette e non dette, mani tese che possono fare la differenza. Ciascuna di queste piccole cose può avvicinarci o allontanarci di un passo dal Nirvana.
A volte invece gli dèi ci chiedono sacrifici più grandi. Ci pongono di fronte scelte cruciali, ci costringono a rimettere in discussione noi stessi e il nostro cammino di vita. E allora la nostra decisione può influenzare in modo decisivo centinaia di futuri cicli della reincarnazione, o addirittura spalancarci davanti i cancelli del Nirvana.
Per padron Vexen era giunto uno di questi momenti.
Dèi benedetti e luminosi, guidate la sua anima.
Da quando il generale Baran aveva portato Zexion nel laboratorio, padron Vexen si era seduto accanto al ragazzo svenuto ed era piombato nell’immobilità più assoluta. Ormai era trascorso… quanto? Camus non aveva osato parlare o richiamare la sua attenzione in nessun modo. Se questa era la sua prova, padron Vexen doveva superarla da solo. Lui poteva solo pregare, trattenere il respiro. E sperare.
“Hai finito di riflettere, umano?” la pazienza dell’Arcivescovo Stregone era arrivata al capolinea. Lo stupiva che avesse atteso così a lungo prima di esplodere. “Non hai sentito gli ordini del generale? O forse non sei capace di fare ciò che ti ha chiesto?”
Zaboera aveva preso a svolazzare con insistenza attorno alla testa di padron Vexen. Tutti i demoni sembravano condividere lo stesso odio per gli umani, ma Camus percepiva un sottofondo particolare di asprezza e rancore in ogni parola che l’anziano arcivescovo stregone rivolgeva allo scienziato.
“So perfettamente cosa devo fare.”
Camus sobbalzò all’udire la voce gelida di padron Vexen spezzare il lungo silenzio.
“E allora dimostralo, invece di startene lì seduto come un ebete a non fare nulla!”
“Ho avuto solo bisogno di riflettere un po’” la voce di padron Vexen era spaventosamente neutra. “Ma ora sono pronto.”
Lo scienziato si alzò e in qualche passo raggiunse il centro della stanza. Ora Camus poteva guardarlo negli occhi, ma quel volto privo di espressione che sembrava scolpito nel ghiaccio non seppe rivelargli nulla. Il sacerdote aveva imparato a riconoscere gli stati d’animo dello scienziato da ogni suo più piccolo gesto e sguardo, ma stavolta nemmeno lui era in grado di decifrare le emozioni nascoste dietro il verde gelido dei suoi occhi.
Ha preso la sua decisione. Dèi, vi prego…
“Zaboera, passami i Nuclei Neri.”
Camus si sentì mancare il respiro.
Padron Vexen aveva parlato in tono così secco e perentorio che per un istante persino l’Arcivescovo Stregone fu preso in contropiede, e non ebbe la prontezza di ribattere.
Padron Vexen…
Forse si era illuso.
Forse era ancora vittima del condizionamento, dopotutto.
Forse Mu e Auron avevano sempre avuto ragione.
No…
“Che insolenza!” Zaboera si era riscosso di colpo, veleno puro in ogni sua parola: “Se non fosse che al Grande Satana servi vivo ti incenerirei qui su due piedi, umano. Non osare mai più darmi degli ordini.”
Non mi costringa a fermarla con la forza, padron Vexen…
Il piccolo demone volò sdegnosamente lontano, voltando le spalle allo scienziato, che intanto aveva estratto da una libreria un pesante tomo borchiato di cui Camus non riusciva a leggere il titolo, e ne sfogliava rapidamente le pagine.
“Umani arroganti” borbottò Zaboera accostandosi a uno scrittoio. Le sue piccole mani artigliate si strinsero attorno a un paio di fogli e li fecero sparire in un globo di fiamme.
Padron Vexen continuava a sfogliare il libro, impassibile.
Io so che il suo cuore non è malvagio. È solo ricoperto di ghiaccio, ma non malvagio. Io lo so…
“Padron Vexen… “
Accadde tutto in un attimo. Camus vide lo scienziato scattare in avanti, sollevando il pesante libro sopra la testa. Fu un colpo secco, alla nuca, e Zaboera si afflosciò al suolo come un sacco vuoto senza emettere neppure il più flebile lamento.
Il libro scivolò dalle mani dello scienziato, rimbalzando con un tonfo metallico e spaginandosi in un tripudio di fogli ingialliti.
Nel silenzio che seguì, per la prima volta padron Vexen si girò a guardarlo. Sulle sue labbra affiorò un mezzo sorriso, quasi un’espressione di scuse:
“Temo di averci messi nei guai.”



Il sacerdote aveva gli occhi lucidi, e tanto per cambiare sorrideva. Avrebbe sorriso anche con una lama puntata alla gola, lui. E probabilmente avrebbe guidato con gentilezza la tua mano mentre lo trafiggevi.
“Siano lodati gli dèi, padron Vexen! La Loro voce finalmente ha raggiunto la sua anima! Sono così felice… “
“Forse ti sfugge l’insignificante dettaglio che non abbiamo un piano, Camus. E che se scoprono cosa abbiamo fatto siamo rovinati.”
Il laboratorio era vuoto a parte il corpo privo di sensi dell’Arcivescovo Stregone, e i demoni di guardia fuori dalla porta per il momento non si erano accorti di niente. Il tempo tuttavia non era dalla loro parte. Se non si facevano venire un’idea prima del ritorno del generale Baran…
“Non ha importanza.”
Ah, certo, non aveva importanza. Ovviamente. Stavano per morire, e non aveva importanza.
“La parte più difficile l’ha già superata, non crede?”
Vexen non poté impedire al suo sguardo di correre verso il lettino operatorio, dove Zexion dormiva ancora, incurante del caos nel laboratorio e della minaccia di morte che pendeva su tutti loro. Il suo viso era disteso, sereno, come quando da piccolo si addormentava tra le sue braccia dopo avergli estorto l’ennesima fiaba della buonanotte.
Zexion adorava le storie fantastiche. I racconti di maghi, fate e draghi, le avventure di cappa e spada.
“Mi fai le voci, zio? Per favore!”
Si riscosse. I ricordi lo avevano assalito a tradimento, ancora una volta. Distolse lo sguardo e lo portò nuovamente su Camus, che era ancora in attesa di una risposta, gli occhi chiari e comprensivi, il sorriso inamovibile sulle labbra. Come se avessero tutto il tempo del mondo.
“Non ne sono sicuro” mormorò infine, odiandosi per aver abbassato gli occhi.
“Se non lo è perché mai avrebbe colpito Zaboera, padron Vexen?”
“Perché non posso fare quello che mi ha chiesto!” gli uscì fuori, quasi in un urlo. Si morse le labbra appena in tempo, ricordando i demoni di guardia fuori dal laboratorio.
“E questo è tutto ciò che conta, adesso.” La voce di Camus era dolce, commossa, persino. Gli posò una mano sull’avambraccio, una stretta carica di gentilezza e conforto. Vexen ebbe l’istinto di scansarlo via con fastidio, ma non si mosse. Il vortice dei ricordi lo aveva catturato di nuovo.
L’assistente si staccò da lui e andò a frugare su uno scaffale in cui l’arcivescovo stregone conservava fiale, barattoli e provette, tutte rigorosamente catalogati con etichette di pergamena. Scelse un piccolo contenitore di vetro sottile e glielo porse senza una parola. Vexen non aveva bisogno di capire i caratteri runici sulla pergamena per riconoscere quel familiare liquido azzurrino: durante la sua permanenza al Baan Palace aveva avuto modo più volte di studiare gli effetti dello zakra, un fluido ricavato dalle ghiandole dei coccodrilli della famiglia demoniaca e implementato con la magia. Zaboera lo aveva creato come supporto e stabilizzante per gli incantesimi guaritivi dei demoni, ma anche da solo i suoi effetti erano notevoli.
“Lo usi per risvegliare il ragazzo” disse Camus. “Con il suo potere Zexion può guidarci fuori di qui, evitando le guardie. Una volta raggiunta la terrazza fuggiremo con una viverna. Possiamo farcela, padron Vexen.”
Lo scienziato si rigirò la fiala tra le mani, dubbioso. Il piano del sacerdote era approssimativo e aveva milioni di difetti, ma era anche l’unico che avevano.
“Io intanto raccolgo tutto ciò che può esserci utile qui nel laboratorio, e resto di guardia alla porta.”
Vexen si ritrovò solo davanti al lettino operatorio.
Con gesti meccanici svuotò la fiala aspirandone il contenuto con una siringa e sollevò la manica destra di Zexion.
Esitò. Sapeva di avere i minuti contati, una parte di lui gli urlava di fare in fretta, certa che presto sarebbe entrato qualcuno e li avrebbe colti sul fatto. Le dita tremavano lievemente, nervose.
Zexion respirava piano, ignaro di tutto. Ad eccezione dell’incontro lampo nei corridoi del Baan Palace, era oltre un anno che non si vedevano. Osservò il viso del ragazzo: più scavato di come lo ricordava, gli zigomi vagamente in rilievo. La traccia di cerchi scuri sotto gli occhi chiusi. Il servizio all’Impero doveva aver richiesto un prezzo alto.
Gli scostò i capelli dalla fronte, un altro gesto meccanico che credeva di aver dimenticato. Zexion era sempre stato pallido di carnagione, ma non aveva mai avuto quell’aria così consunta, come se la sua pelle fosse fatta di carta velina finissima.
Il bambino che conosceva se n’era andato, lasciando il posto a un giovane uomo che aveva forgiato la propria esperienza di vita nella durezza e nelle privazioni. Probabilmente nella solitudine.
Un uomo che Vexen non conosceva. Un estraneo.
No, eri già un estraneo da molto tempo, ormai.
Da quando lo aveva tradito. Da quando aveva infranto quella fatidica promessa. Lo aveva ingannato, pugnalato alle spalle, e per colpa sua, per colpa del ragazzo che aveva cresciuto con affetto per tanti anni, Vexen aveva rischiato di morire.
Era stato facile voltare pagina, allora. Allontanarsi, rendere il cuore impermeabile al rimpianto. Dopotutto, era il ragazzo l’ingrato che aveva ripagato le sue cure e il suo amore con la moneta amara del tradimento.
Eppure ora i ricordi tornavano. Bussavano insistenti alle pareti della sua mente, si facevano strada a colpi d’ascia, prepotenti, dilagavano e prendevano violentemente possesso di ogni suo pensiero. Al Castello dell’Oblio aveva impostato il timer dei Nuclei Neri con dieci minuti di ritardo affinché il ragazzo avesse il tempo di percepirli con l’olfatto, e di mettersi in salvo. Ma era stato un gesto automatico, compiuto in un attimo di paura. La diga era crollata davvero nel Baan Palace, quando Larxen gli aveva riso in faccia, deliziata di annunciargli che Zexion era morto nell’esplosione.
Da allora i ricordi avevano iniziato ad assalirlo, senza pietà, senza scampo.
Aveva paura di risvegliare Zexion. Paura che i suoi occhi azzurri si spalancassero e lo guardassero con terrore come quella volta al Castello dell’Oblio, quando aveva creduto che volesse aprirlo per scoprire l’origine dei suoi poteri.
Paura che lo guardassero come si guarda un mostro.
Iniettò il liquido nel braccio del ragazzo.
Non restava che aspettare. Uno, due minuti al massimo e lo zakra avrebbe fatto effetto. Allora quegli occhi si sarebbero aperti, e lui avrebbe saputo.
Vexen si sedette sul bordo del lettino, l’attesa scandita dai battiti martellanti del suo cuore.


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Fonte della fanart a inizio capitolo: http://scarlett-aimpyh.deviantart.com/

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 - L'ultima speranza del genere umano ***


Capitolo 24 - L'ultima speranza del genere umano





Zexion




Amare è qualcosa di meraviglioso. È tutto ciò che riesce a farmi sentire viva.
Questo mio padre non riesce a capirlo: l’amore per mia madre si è addormentato nel cuore, quasi come una bara di cristallo nel roseto di Rivendell. Gli piace lasciarlo così, contemplandolo quando i bardi accorrono al suo cospetto per narrare le vicende di Beren e Lúthien. Gli piace sapere che potranno trascorrere migliaia di vite degli uomini, ma la sua più grande gioia ed il suo più grande dolore saranno incisi nel tempo, immortali.
Io non lo so. È da quando lui è comparso nella mia vita che non lo so.
Aragorn ama con la vita negli occhi. Riesce ad amare con una spada in pugno, con una pipa in mano, con un boccale di birra o ricoperto di fango. Il domani lo stuzzica, ma l’oggi …
Lui dice che questo è l’amore alla maniera degli umani. Incostante, pazzo e cieco, che non vuole sentire la parola perché. È un sentimento stupido in grado di farti fare le cose più impensabili, persino affrontare un drago a mani nude. Gli umani amano tutto, perché tutto può essere oggetto d’amore.
L’amore degli uomini è come il fuoco di Moria. Quello di noi immortali è come i ghiacci del Carahdras.
Dai diari di Arwen figlia di Elrond, regina della Terra II.




Non c’erano sogni in quel luogo senza forma. Zexion allungò la mano nel buio, quasi come ad acchiappare qualcosa, a stringere una qualsivoglia forma che gli permettesse di non scivolare verso il basso. Cercò di pensare e di respirare più forte, ma dalle labbra gli sembrava che uscisse solo un suono inarticolato, i toni della propria voce risucchiati e freddi. Cercò di ricordare come fosse finito in quella situazione, ma davanti alla sua mente balenò solo una luce dorata ed il grande occhio nero del Puzzle Millenario, e questi iniziarono a pulsargli nelle tempie fino a quando si arrese e distolse la mente da quel pensiero doloroso.
Qualcosa gli sfiorò i capelli.
Un movimento leggero come una carezza, ma quando si voltò si ritrovò ancora una volta nel buio. Estese i propri sensi al massimo, ma nessun odore riempiva quel vuoto; tastò intorno a sé alla ricerca di quella presenza, e si ritrovò ad accarezzare soltanto il silenzio. Eppure la presenza era lì, intorno a lui. Lo guardava, di questo ne era cosciente, ma si trovava oltre la nebbia sottile che avvolgeva quel mondo; Zexion chiuse gli occhi cercando di individuarne l’origine, eppure proprio quando stava per abbandonare la percezione qualcosa lo colpì al braccio, sottile come un ago. Sollevò un arto contro quel nemico invisibile almeno per farsi scudo, ma il punto dove era stato ferito iniziò ad emanare calore. Molto calore. La sensazione di bruciore gli arrivò fino alla spalla, mentre la mano ed il braccio sembravano svanire, inghiottiti dalla nebbia che adesso si era avvicinata a lui aderendo ad ogni minuscolo pezzo di pelle. Quando provò a lanciare un grido si accorse che il dolore era arrivato fino alla gola e si era trasformato in suono.
Il buio lasciò il posto a tre luci fioche. Erano sopra di lui, e si muovevano in modo quasi impercettibile nell’aria; il buio si ritrasse lasciando che quei tre punti rossi ed arancio assorbissero la nebbia e la trasformassero in un unico alone tremulo. Strinse gli occhi e le vide, piccole candele appese a dei contenitori di bronzo uniti al soffitto. La luce di una si rifletteva nel metallo delle altre riempiendo il mondo di quel colore indefinito. Il profumo era quello del muschio di Kalm.
Ma non c’era solo quell’odore.
L’uomo accanto a lui era in silenzio, a capo chino. La tunica nera gli cadeva sulle spalle e lungo i gomiti in modo innaturale, come se fosse troppo larga per colui che la doveva indossare; le mani erano nascoste dalle maniche, ma anche sotto la stoffa scura le nocche si alzavano e si abbassavano, si abbassavano e si alzavano con quel fare nervoso che gli anni non erano riusciti a cancellare. Erano riusciti solo a rendere più profondo il suo sguardo e più curve le spalle che erano sempre rimaste dritte anche quando si chinava sulle provette o durante la lettura nelle ore più profonde della notte. Respirò i suoi pensieri, ma non era preparato a quel vortice. Gli odori esplosero, serrandogli la gola come qualcosa di affamato che cercasse in ogni modo di scendere più in basso e stringergli i polmoni.
Cercò di ritrarsi, ma il suo corpo disobbedì a quell’ordine e rimase fermo. “Cosa mi hai fatto?” ringhiò, impartendo di nuovo alle gambe di scendere da quello che aveva tutta l’aria di essere un tavolo operatorio improvvisato. Ma gli arti gli sembravano gonfi, come se tutto il sangue del corpo fosse confluito lì sotto.
“Nulla”.
“Bugiardo”.
L’altro lo fissò con il quel solito sguardo di chi deteneva la Verità Incarnata, quello che gli destinava tutte le volte che cercava di spiegargli delle cose che a lui sembravano tanto elementari. “Perché non lo scopri da te?”
Già. A lui quel potere era sempre sembrato facile, entusiasmante. Era sempre stato una luce accesa nel suo buio scientifico, quella curiosità intorno a cui la falena della sua mente svolazzava alla ricerca di un perché, una chiave che permettesse di avvicinarsi e fare suo il Grande Mistero che nessuno dei suoi libri riusciva a spiegare. Anche quando si piegava a metà per il dolore che gli causava l’odore dell’odio di Saïx nei suoi confronti lui lo osservava dall’alto, la preoccupazione sempre accompagnata da quella voglia insaziabile di saperne di più. Nel tempo aveva semplicemente smesso di averne paura e l’aveva accettata come una realtà inevitabile, ma gli anni trascorsi all’Impero gli avevano quasi fatto dimenticare la sensazione di quegli occhi verdi su di lui, in attesa di una risposta.
Ma la risposta era complicata. Forse non c’era nemmeno. L’odore alla vaniglia era cambiato.
Era stanco, inquieto. Si appoggiava sulle sue labbra cercando di entrare e di mescolare il sapore amaro di quell’incontro al profumo dolce che lo circondava; impregnava tutta l’aria di quel minuscolo laboratorio come se vi vivesse da tanto tempo e gli scivolava addosso come a cercare un qualcosa di sepolto nelle pieghe della memoria. L’odore parlava alla sua mente, ma era diventato un vortice. Per un attimo Zexion sobbalzò sul lettino, indeciso su quale filo tirare nel groviglio di quella mente intricata dove la paura, il rimorso ma anche l’orgoglio si stavano rincorrendo senza sosta. Qualunque filo sarebbe andato bene, ed allo stesso tempo sarebbe stato irrimediabilmente sbagliato. L’unica cosa su cui sembrava sincero era proprio quell’affermazione di non avergli fatto alcun male. Ancora.
“Riprenderai le forze in tre ore, anche meno. Non ho idea di come ti abbiano ridotto in questo stato, m sei stato fortunato a non aver riportato danni cerebrali”.
“Risparmiami queste spiegazioni da quattro soldi e dimmi che sta succedendo. Cosa diamine mi stai facendo?”
L’altro si limitò ad aprire una enorme sacca accanto a lui ed a inserirci dentro quante più cose poteva. Zexion gli vide prendere un volume cosparso di rune demoniache e farlo sparire nelle pieghe, poi fu il turno di una dozzina di ampolle piene di un liquido che aveva tutto l’odore di essere un sonnifero ed alcuni oggetti luminosi che furono inghiottiti dal bagaglio prima che potesse capire cosa fossero. “Se rimandassimo le domande ad una volta usciti? Mi dispiace farti notare che il Ryumajin sarà qui tra meno di un’ora, e quando scoprirà che il suo prezioso nano da giardino –disse, indicando un minuscolo demone svenuto a terra- è stato messo fuori uso da degli umani … beh, non sono esattamente desideroso di trovarmi davanti a lui, capisci?”
“La tua adorata Scienza non ha ancora trovato un modo per fermare il Dio Drago?”
Non c’era molto con cui riempire il silenzio che ne seguì. Fu un attimo di respiro che gli consentì di isolare per un attimo se stesso da quel laboratorio e dalla persona che stava preparando la fuga. Si trovava in mezzo ai demoni, quello era poco ma sicuro: l’odore del Grande Satana impregnava anche la tenda più sottile, persino i balconi abbandonati, riempiendogli le narici di un sapore acre, pungente e furioso che fino a quell’istante aveva creduto soltanto essere un sottofondo privo di importanza. Sentì la forza dei guerrieri ed il potere di colui che possedeva il Puzzle del Millennio.
Poi sentì il Cavaliere del Drago.
Ritrasse la mente pur di non andare oltre. E quando tornò vide una mano dalle dita lunghe, coperta da un guanto nero, rivolta verso di lui. Una mano che emanava freddo soltanto a guardarla, anche se quel lieve abbassarsi della temperatura nella stanza non era altro che un segno che il cuore di ghiaccio dell’uomo davanti a lui era nella più profonda agitazione. “Andiamocene …”
“NON MI TOCCARE!”
Tirò indietro la schiena pur di allontanarsi da lui. Le spalle erano pesanti come le gambe, ma avrebbe dato qualunque cosa pur di non … “Non ti azzardare a toccarmi!”
“Non ce la farai ad alzarti da solo. Tu appoggiati a me, Camus porterà tutto il resto!”
Giusto, aveva dimenticato l’immancabile presenza di quel sacerdote da due soldi che da oltre quattro anni a quella parte non si staccava dalla tunica del suo padrone nemmeno sotto tortura. Lo sentiva, nascosto dietro uno scaffale come per evitare quella tempesta, e doveva solo ringraziare i suoi preziosi dèi di trovarsi abbastanza lontano da non ricevere uno sputo in piena faccia. Zexion non aveva mai incontrato nessun essere più patetico di lui. Ed anche se non sentiva più alcuna traccia del condizionamento non riusciva a trovare alcun piacere nel voltarsi verso quell’essere meschino e servile, così idiota da non rendersi conto di ciò che meritava davvero il suo padrone. “Non ti seguirò da nessuna p… “
“SMETTILA DI FARE IL BAMBINO E VIENI!”
Eccolo, era comparso. Lo scienziato spazientito aveva fatto ritorno con il suo solito urlo superiore. “Non abbiamo un minuto da perdere, né io né te. Io e Camus non possiamo certo combattere le guardie, quindi TU devi venire. Se ho fatto bene i calcoli queste stanze non sono troppo distanti dai nidi delle viverne, se con il tuo potere riuscissimo ad evitare i demoni potremmo prenderne una e cercare di andarcene, Camus dovrebbe saperlo fare”.
Giusto, il motivo non poteva che essere quello, in fondo …
“Mi sembrava strano che mi stessi aiutando in modo disinteressato … senza di me non riusciresti a portare in salvo la tua preziosissima pelle o sbaglio? Bene, mi stai fornendo un motivo ancora più convincente per non muovermi da qui!”
“Forse non hai ben chiaro che …”
“NO! SEI TU CHE NON HAI BEN CHIARO NIENTE! ASSOLUTAMENTE NIENTE! COSA CREDI DI SAPERE?” urlò. “COSA CREDI DI SAPERE DI ME?”
Non sapeva nulla, credeva che sarebbe bastato. Quell’uomo pensava che offrirgli una via di fuga fosse sufficiente per cancellare tutto quello che era successo. Gli anni di isolamento, di silenzio grigio trascorsi a Coruscant uscirono tra una parola e l’altra mentre cercò di mettersi seduto al meglio che poteva per poterlo guardare bene in quegli occhi che si nascondevano dietro i ciuffi biondi. Pensava che “metterlo al sicuro” fosse sufficiente.
Era stata quella la causa della loro frattura.
Lo scienziato era certo di sapere cosa fosse meglio per lui. Credeva sul serio che “vivere” fosse l’unica cosa importante, che “sperimentare” fosse la massima ambizione per un uomo, che “tradire” non fosse altro che un mezzo per ottenere qualcosa che forse aveva già ma era stato troppo cieco per vedere. Zexion lo aveva adorato in maniera incondizionata, ma il complotto al Castello dell’Oblio aveva rivelato la sua natura. E non erano stati gli odori ad ingannarlo.
Era stato il suo cuore a diventare cieco a tutti i segnali, ai gesti, a quelle piccole parole che invece, guardandolo con gli occhi di un adulto, erano così lampanti da costringerlo a vergognarsi della propria ingenuità. Quella figura alta, chiara in quell’abito scuro e gli occhi gonfi non aveva mai pensato ad altro che a se stesso.
Al Castello dell’Oblio non era tornato a cercarlo. Lo aveva lasciato a morire ed era fuggito senza voltarsi, portandosi dietro soltanto quell’odioso assistente e le sue preziose provette. Quel timer di dieci minuti gli aveva salvato la vita, ma l’aveva gettata in un inferno. Il solo pensiero gli fece risalire le lacrime agli occhi, ma le ricacciò indietro. Non avrebbe pianto davanti a lui. Non gli avrebbe dato la soddisfazione di vederlo di nuovo come un bambino spaventato. Per quello che lo riguardava, il Ryumajin poteva portarseli via tutti.
“Nulla”.
Quella parola uscì fuori quasi per errore. Forse l’aveva solo immaginata, stava per gridargli di nuovo quando la sentì una seconda volta rompere la sferza che batteva i suoi pensieri, timida e screpolata come le labbra che le avevano permesso di scappare. “Assolutamente nulla. Ora più che mai …”
Quando mosse la testa i ciuffi non riuscirono più a coprirgli lo sguardo. Era stanco, molto stanco. La luce delle lampade si rifletteva in un angolo delle iridi, ma era un chiarore flebile, consumato, come se si trovasse in quel luogo solo e soltanto perché la testa aveva scelto di piegarsi in un modo e non in un altro. Il verde screziato che conosceva si era addormentato sotto le palpebre, limitandosi ad indossare un colore verde anch’esso ma più tenue, senza alcun lampo dorato di gioia, dolore o furia. Era un colore silenzioso, che a tratti implorava solo di affondare nel grigio ed allontanare la luce delle lampade e forse tutte le cose che si era stancato di vedere.
Vecchi. Quegli occhi erano vecchi.
Dall’esplosione del Castello erano trascorsi quasi quattro anni, ma per l’uomo davanti a lui ne erano passati molti di più. Zexion cercò di distogliere lo sguardo, ma qualcosa sul viso dell’altro lo costrinse a non cercarne altro che gli occhi e la bocca. “Non so chi sei, Zexion. Non ho idea di chi tu sia diventato. So solo per chi combatti, forse che tutto questo non ti piace. Non so nemmeno se sei ancora il bambino che conoscevo o un uomo del tutto diverso. In questo momento so soltanto due cose: la prima è che il Grande Satana mi ha ordinato di trasformarti in un ordigno vivente …”
Zexion lasciò andare qualunque timore legato persino a quelle parole. Il profumo di vaniglia era tutto ciò su cui riusciva a concentrarsi.
“ … e la seconda è che ho fatto una promessa. Una vecchia promessa alla persona più importante della mia vita”.

“Mi dispiace se ti ho spaventato. Mi dispiace tanto. Ti prometto che… “
“Lo so.”


Non c’era stato bisogno di aggiungere altro, a quei tempi. Le parole erano sempre state superflue, per lui più che per chiunque altro. Zexion ricordava tutte le sensazioni di quel giorno, le proprie e quelle che scivolavano lungo l’altro. Pensieri senza parole.
“Quella persona era così importante che l’hai lasciata sola a morire. Non pensi che sia un po’ tardi per farsi venire i sensi di colpa?”
“Non è mai troppo tardi per …”
Zexion congelò con uno sguardo il patetico assistente che fino a quel momento era rimasto appiattito contro una libreria fingendo di accumulare volumi da portare via nella fuga. Il sacerdote con il suo melenso sguardo da schiavetto bastonato non aveva perso la capacità di irritarlo. Per sua fortuna non terminò la frase, si limitò a piegare il capo e il n. VI riprese fiato. Aveva ancora diverse cose da dire all’altro, ma si fermò quando riconobbe un odore che fino a quel momento era rimasto nascosto tra le pieghe degli effluvi del minuscolo laboratorio. Non ebbe nemmeno bisogno di scansare i capelli per riconoscere la forma sottile ed allungata che sembrava quasi trasparente nel guanto nero che gliela stava porgendo. Era impossibile ignorarne il profumo di morte. “Questa … è tua, immagino …”
La fiala di veleno, il suo ultimo regalo, era appoggiata tra quelle cinque dita e sporgeva invitandolo a prenderla di nuovo, come quando l’aveva accettata per versarne il contenuto nella bevanda di Larxen. Zexion si rese conto quanto tempo fosse passato da allora e quanto avesse riempito tutti quegli anni dell’unico sogno di restituire con gli interessi il veleno al suo stesso creatore, di afferrarlo per la gola e costringerlo ad ingerire goccia dopo goccia tutte le lacrime che gli aveva fatto versare. Aveva trascorso gli ultimi anni a fissare quella fiala cercando di dimenticare.
La prese con più urgenza di quanto immaginasse, ma la mano dello scienziato abbandonò la presa senza alcuna protesta.
Il contatto con il vetro placò i battiti del suo cuore. Pensò di farla scivolare sotto la tunica come aveva sempre fatto, portandola con sé in qualsiasi missione. Poi si fermò a metà, e la strinse nel palmo destro assicurandosi che gli occhi dell’altro fossero fissi solo e soltanto su di lui.
“Perché lo porti ancora con te?”
Zexion sentì una linea di preoccupazione nella voce. “Un metodo veloce per eliminare i nemici scomodi. Sai, lo scontro fisico non è mai stato il mio punto forte!” disse, assaporando il profumo di vaniglia che diventava più pungente, più pronto a ritrarsi. “Era una tua filosofia, giusto?”
“Non lo hai mai usato …”
Zexion aveva dimenticato con chi aveva a che fare. Il più abile osservatore che avesse mai conosciuto era di fronte a lui, con la provetta che si rifletteva nelle sue iridi. Forse aveva avuto modo di studiare il liquido mentre era svenuto, ma il ragazzo sapeva, sentiva lo stupore dell’uomo nell’osservare la sottile superficie del veleno che si piegava verso il basso insieme al suo contenitore. E non c’era alcuna paura in lui. Forse erano solo le proprie dita a tremare.
Si accorse che la cosa lo stava irritando più del dovuto e il bisogno di urlare si trasformò in un mugugno a denti stretti. “L’ho portato sempre con me perché … perché volevo usarlo per ripagare una persona che se lo merita!”.
“Capisco …”
Per la prima volta da quando la loro conversazione priva di senso era iniziata, l’altro si voltò verso l’ingresso e fissò una clessidra. La sabbia rosa scorreva dal basso verso l’alto, come usava presso la famiglia demoniaca, e sul fondo era rimasto soltanto un dito, una sottile manciata di granelli che iniziava a sollevarsi. Delle sottili venature di rosso correvano lungo il supporto dorato e forse era stata proprio la loro luce a richiamare l’attenzione dello scienziato; fu in quel momento che la paura dell’uomo tornò, muovendosi fin dentro i suoi polmoni. “Perdonami, ma temo che dovremo continuare questa conversazione più tardi”.
Si girò e superò la distanza che fino a quell’istante si era interposta tra di loro.
“Ti ho detto di non provare a toccarmi …”
“Mi dispiace, Zexion, ma anche stavolta dovremo fare a modo mio!”
Lo tirò verso di sé, e Zexion sentì il lettino svanirgli da sotto mentre il braccio dell’altro gli passò intorno alle costole. Provò ad allungargli un calcio, ad allontanarlo, ma la gamba era nel peggiore torpore che avesse mai provato e rimase a metà, pesante, finché lo scienziato non lo sollevò in piedi costringendolo a trovare in un modo o nell’altro il pavimento sotto i propri stivali. Provò a spingerlo lontano, ma quando riuscì a toccargli il petto con la mano destra sentì le dita cedere come se davanti a lui non vi fosse un uomo, ma un muro di duracciaio antiplasma. Cercò di vincere quella sensazione, ma nella nebbia che iniziava a creare spirali davanti ai suoi occhi vide ancora la sagoma oscura dell’Occhio Millenario e rimase con il fiato a metà; si sentì scivolare, ma l’altro lo strinse a sé con una forza che il ragazzo non aveva mai visto. Per non cadere di nuovo si aggrappò ai pendenti argentato della sua tunica e rimase così, con il sangue che gli pulsava nella testa ed il freddo che si stava insinuando dalla punta delle dita.
“Camus, muoviti e lancia un sonnifero fuori dal laboratorio! Usciamo di qui e poi cerchiamo la prima via d’uscita!”
“Io vi consiglio di non provarci nemmeno, umani …”
Zexion sentì l’odore del magma bruciargli dentro prima ancora di rendersi conto che la voce che aveva parlato non aveva nulla del timbro delicato e fragile del sacerdote. Era una voce nera, profonda, ed era giunta lì con l’unico scopo di giudicarli.




Le gambe di Vexen cedettero. Se non ci fosse stato il lettino operatorio a cui sorreggersi probabilmente sarebbe caduto, trascinando anche Zexion con sé.
Era finita, lo sapeva. E non solo la fuga. Non solo la speranza di libertà.
L’apparizione del Cavaliere del Drago sanciva la loro condanna a morte.
Cercò di ordinare alle gambe paralizzate di rialzarsi, ma i muscoli erano diventati di ghiaccio, e le mani, aggrappate al lenzuolo del lettino, tremavano in modo incontrollabile. Accanto a sé, Zexion era una macchia scura inginocchiata sul pavimento, la testa china sotto il peso dell’odore opprimente del loro carceriere.
Gli occhi del generale Baran erano voragini buie e senza fondo come la sua voce. Il Cavaliere gettò appena un’occhiata al corpo accasciato di Zaboera, poi avanzò verso di loro con spaventosa lentezza, il volto una maschera neutra che incuteva più terrore delle fauci spalancate di centomila draghi.
Vexen voleva balbettare una scusa qualunque, un’implorazione di pietà, ma anche la sua lingua era incollata al palato e rifiutava di muoversi.
Non poteva fare altro che attendere il giudizio che stava per abbattersi su di loro.
“Sapevo che era un errore fidarsi di voi umani.”
“N-noi… “
Bastò un lieve aggrottarsi di quelle sopracciglia nere e folte per ridurre lo scienziato al silenzio. “Voi due siete fortunati che al Grande Satana servite vivi. Sarà lui a decretare la vostra punizione. Dipendesse da me avreste già cessato di respirare.” Lo sguardo del generale inchiodò i due scienziati dove si trovavano, poi indugiò su Zexion. “Tu invece morirai qui e ora, ragazzino.”
“No!” il grido sfuggì dalla gola di Vexen prima ancora che il generale potesse sollevare la mano, e in un attimo il suo sguardo terribile fu di nuovo su di lui. Lo scienziato percepiva la magia nelle proprie vene agitarsi come un fiume di fuoco mentre entrava in risonanza con quella primordiale e incommensurabile del Cavaliere del Drago. Un potere talmente sconfinato da poterlo quasi respirare nell’aria satura di scintille. Lo sentiva invadergli i polmoni e premergli sulle spalle e la testa, imperioso, come la mano di un gigante che lo obbligasse a inchinarsi di fronte al padrone di tutte le cose.
“Anche lui serve vivo al Grande Satana!”
“Solo per morire in un modo diverso.” replicò il generale, lapidario. La sentenza era stata emessa. “Consideratelo un atto di clemenza.”
Zexion aveva sollevato la testa a fatica, ma era ancora troppo debole per muoversi. E anche se avesse potuto, non sarebbe servito a nulla. Vexen chiuse gli occhi mentre la mano del generale si accendeva di bagliori fiammeggianti. Non c’era via d’uscita.
Era finita.
“Allora anche lei pensa che il Grande Satana si sbagli, generale!”
La voce di Camus. Acuta, tremante, ma allo stesso tempo carica di una disperata determinazione. Vexen aprì gli occhi e se lo ritrovò davanti, in piedi a fare da scudo a lui e Zexion con le braccia allargate di fronte al Cavaliere del Drago. Da dove si trovava non poteva vederne lo sguardo, ma era certo di conoscere la luce battagliera che in quel momento doveva ardere nei suoi profondi occhi azzurri.
Provò commozione al pensiero che il sacerdote li stesse difendendo ancora, fino alla fine, contro ogni logica e probabilità. Ma non sarebbe servito a niente.
Nulla poteva salvarli, ormai.
“Non è così, generale? Risponda!”
“Spostati, umano.” Il tono del Cavaliere del Drago non era nemmeno minaccioso. Si limitava ad enunciare un dato di fatto: l’umano si sarebbe prostrato al volere della creatura più potente, perché quella era la natura delle cose.
“Ha parlato lei di clemenza, generale. Questo ragazzo non ha colpe… combatte per l’Impero solo perché è costretto, non per lealtà alla sua causa. E in ogni caso nemmeno l’imperiale più convinto meriterebbe di esplodere con sei nuclei neri chiusi dentro il corpo. Questo lei lo sa, generale. Lei è una persona onorevole… per questo vuole ucciderlo invece che riconsegnarlo vivo al Grande Satana. Non è così?”
“Non lo ripeterò un’altra volta: spostati.”
Una crepa. Un’ombra di rabbia. A Vexen non serviva un olfatto fuori dal comune per sentirla serpeggiare sotto il tono profondo e monocorde del generale. Camus stava forzando troppo la mano.
“Non posso farlo. Così come né io né padron Vexen siamo disposti a trasformare un ragazzo innocente in una bomba umana.”
“Nessun umano è innocente.”
“Non lo è, è vero. In noi si combattono luce e oscurità, e talvolta è la seconda a prendere il sopravvento. Compiamo gesti abominevoli, sappiamo essere avidi, spregevoli, meschini. Siamo esseri imperfetti, in questo ha ragione, spesso abbiamo bisogno di sbagliare molte e molte volte prima di trovare la via per il Nirvana. Ma allo stesso tempo siamo capaci di gesti eroici, di sacrifici immani, di far risplendere di nuovo la luce anche quando tutto sembra perduto. Lei… io so che alle Dodici Case ha consentito ai servitori e alle persone comuni rifugiate al santuario di allontanarsi prima di sferrare il suo attacco.” la voce di Camus si incrinò, ma proseguì inghiottendo le lacrime.. “Ha voluto evitare vittime inutili. Pensava che quegli innocenti meritassero di essere salvati. E le sono grato per questo, è stato nobile… “ Vexen non credeva alle proprie orecchie. Nobile. Camus stava ringraziando la persona che aveva sterminato i suoi confratelli e raso al suolo il tempio più importante del suo culto. Fino alla fine, fino all’ultimo, angoscioso respiro della loro vita il sacerdote non cessava di stupirlo.
“… lei è capace di pietà, generale, anche verso noi esseri umani. La prego, la dimostri anche ora, almeno verso questo ragazzo. Lo lasci vivere, e gli dèi gliene renderanno merito in questa vita o nelle prossime.”
“Sei abile con le parole, sacerdote. Ma io non sono come la vostra razza volubile, non muto i miei principi e le mie idee al primo soffio di vento.” Non andava bene, non andava affatto bene. Il ringhio del generale somigliava sempre di più a quello di un drago in procinto di soffiare, la fronte corrugata, le sopracciglia nere congiunte in un arco minaccioso, foriero di tempesta. “E tu, umano, non presumere di comprendere cose che non sarebbero alla tua portata neanche se possedessi la lunga vita di un demone!”
“Perché?” insistette Camus, e Vexen sentì Zexion trattenere il respiro. La magia nell’aria vibrò, guizzò e contorse le sue spire come un serpente impazzito. “Perché tanto odio verso di noi? Gli esseri umani sono imperfetti, è vero, ma che colpa imperdonabile hanno mai commesso per… “
“Che colpa avete commesso?!”
La tempesta scoppiò. Magia primordiale sferzò il viso di Vexen come una frusta, lo costrinse a rannicchiarsi a terra accanto a Zexion, gli occhi serrati per la paura. Udì il grido di Camus, poi uno spostamento d’aria e un tonfo seguito dal rumore di molti oggetti infranti.
“Avevate la cosa più bella che la terra ed il cielo avessero mai creato, e non siete stati capaci di onorarla! L’avete infangata, distrutta, e infine dimenticata! Avete alzato la vostra mano sacrilega sulla creatura più perfetta e luminosa che abbia mai calpestato la terra! Non la meritavate, così come non meritate di esistere!”
Le parole del Cavaliere del Drago erano il rombo di mille tuoni, il ruggito di decine di Nuclei Neri scatenati a seminare distruzione. Quell’essere doveva serbare il ricordo di offese millenarie, di crimini ancestrali commessi dai padri dei padri dei loro padri… Vexen sentì lacrime di rabbia e frustrazione bruciare agli angoli degli occhi. Era insensato. Insensato, illogico e stupido.
“Non meritiamo neanche di pagare per colpe di cui non sappiamo nulla!”
Non sapeva neanche lui come, ma si era alzato in piedi. Ora non c’era più nessuno tra lui e il generale: a qualche metro di distanza, Camus giaceva tra i resti di uno scaffale crollato. Quella vista incendiò l’animo di Vexen ancora più dell’aura del Cavaliere del Drago che gli ardeva implacabile contro il viso.
Se doveva morire in quella tana di demoni allora tanto valeva dire a quel mostro tutto ciò pensava di lui. Vomitargli addosso la sua disperazione, i suoi insulti, la sua rabbia impotente. Solo perché era dotato di forza fisica e potenziale magico immani quell’essere si arrogava il diritto di giocare a fare il dio.
Alle sue spalle, Zexion mugolò qualcosa di incomprensibile. Un avvertimento, forse. Con la coda dell’occhio incontrò il suo sguardo dilatato dal terrore, e gli insulti gli morirono tra le labbra.
Era rimasto solo lui a fare da scudo a Zexion.
Distratto, non vide arrivare il colpo del generale. O forse non lo avrebbe visto comunque, tanta era la velocità del suo pugno. Sentì solo un’esplosione di dolore divampare alla bocca dello stomaco e togliergli l’aria dai polmoni, e cadde in ginocchio portandosi le mani contro il petto.
Il Cavaliere del Drago lo superò senza uno sguardo. Probabilmente aveva trattenuto la forza, per non danneggiare il prezioso fabbricatore di Nuclei Neri del Grande Satana. Anche così Vexen annaspò disperatamente alla ricerca di aria; un velo rosso gli annebbiò la vista, e per un attimo credette che sarebbe svenuto dal dolore. Protese una mano verso l’alto proprio mentre il generale sguainava la spada e Zexion strisciava sul pavimento nell’inutile tentativo di sfuggirgli. Le sue dita si chiusero attorno al polso del Cavaliere del Drago, e usando il suo stesso nemico per puntellarsi Vexen riuscì di nuovo, miracolosamente, a rimettersi in piedi.
La leggendaria Spada del Drago Diabolico ora si frapponeva tra di loro come una barriera scintillante nella luce delle torce magiche. Vexen impiegò qualche secondo a capire che gli occhi iniettati di sangue e spiritati che lo fissavano dal riflesso sulla lama erano i suoi. Sentiva le tempie martellare forsennate, come se qualcuno gli avesse impiantato nel cervello un Nucleo Nero in procinto di esplodere, ma continuò a stringere il polso del generale con tutta la forza che gli rimaneva. Un gesto stupido e inutile; anche il nemico dovette pensarlo, perché per la prima volta i suoi occhi tenebrosi lo fissarono con qualcosa di diverso dall’indifferenza o dall’odio. Un’ombra di curiosità.
“Perché lo fai, umano? Non hai il potere di fermarmi, e lo sai.”
Non c’era risposta per quella domanda. Non una che si potesse formulare a parole, almeno. Forse nemmeno l’olfatto di Zexion poteva districare la matassa di sensazioni che in quel momento si agitavano dentro di lui. La vicinanza della morte rendeva tutto più acuto, le emozioni più vivide, il dolore più intenso, il rimpianto più penetrante.
“Pensavo che la cosa a cui tenessi di più fosse la tua vita meschina. Non hai esitato a vendere te stesso e la tua scienza al Grande Satana per salvarti. Sapevi che i tuoi Nuclei Neri servivano a sterminare quelli della tua specie, e non hai battuto ciglio. Che cosa cambia adesso?”
Una risposta, una risposta qualsiasi per prendere tempo. Prendere tempo, e poi… ? Il respiro gli sfuggiva spezzato e frenetico dalle labbra, annegando ogni pensiero cosciente in un tumulto di sensazioni.
“Perché questo ragazzo?” insistette il Cavaliere del Drago, la voce tagliente quanto la sua spada. Vexen tornò a fissare l’arma leggendaria, incontrò di nuovo il suo riflesso, le lacrime che lottavano per sgorgare e che ancora caparbiamente si sforzava di trattenere. E trovò la risposta.
“Perché è come se fosse mio figlio.”
Le sue labbra si mossero appena. Un sussurro, mentre lo sguardo correva a rifugiarsi verso il pavimento. Avrebbe voluto accogliere la morte con orgoglio e con un cipiglio di sfida, ma non ce la faceva. Sperò solo che finisse tutto presto, senza troppo dolore.
Finalmente il generale si liberò dalla sua presa. I muscoli contratti, Vexen cercò di prepararsi al morso dell’acciaio, ma con suo grande stupore il Cavaliere del Drago rinfoderò l’arma e lo osservò a braccia conserte.
“Dunque saresti disposto a dare la tua vita per la sua.”
Speranza.
“Sì!” fu la sua supplica immediata, frenetica. Su una cosa Camus aveva ragione, il Cavaliere del Drago dava valore alla parola data, aveva un suo peculiare senso dell’onore. Non torturava le sue vittime con false illusioni di salvezza, come Killvearn. “Sì.” Ripeté. Si lasciò cadere in ginocchio. Ai potenti piacevano quelle cose. Chi si crede un dio, poi, ne va pazzo. “La prego” aggiunse.
Tra i resti dello scaffale, Camus si era sollevato a fatica sui gomiti e seguiva la scena con gli occhi sgranati. Zexion… semplicemente non aveva il coraggio di voltarsi a guardarlo, in quel momento.
“Alzati, scienziato.”
Il dio giudicatore era pronto a emettere la propria sentenza.
“Non occorre che mi supplichi. Le parole degli umani sono ingannatrici, ma i tuoi gesti parlano chiaro. Anche se mai avrei creduto che un esponente della tua razza dannata fosse capace di un sacrificio tanto nobile.”
Vexen azzardò un’occhiata di sottecchi al viso del generale. Osò concedersi di sperare.
“Mi hai mostrato che esiste ancora qualcuno di voi degno di essere lasciato in vita. Tu sei l’ultima speranza del genere umano: se esso potrà mai redimersi, sarà anche grazie a te.”
Era la frase più idiota che avesse mai sentito. Ma significava salvezza, e Vexen la accolse con lacrime di sollievo. Camus, a terra, sorrideva.
“Il ragazzo vivrà. Lo porterò fuori dal Baan Palace, dopodiché il suo destino sarà nelle sue mani soltanto. Voi scienziati però appartenete al Grande Satana, e io non contrasterò ancora il volere del mio signore. Non chiedetemi altro.”
Non si sarebbe azzardato comunque. Ciò che era accaduto era già un miracolo, e Vexen temeva ancora di riaprire gli occhi e scoprire che era stata tutta un’illusione costruita dalla sua paura.
Non poté evitare uno sguardo al corpo riverso di Zaboera. L’arcivescovo stregone si sarebbe ripreso tra poco, e di certo ricordava chi era stato a colpirlo: “Ma il Grande Satana… “
“Con il Grande Satana parlerò io.” taglio corto il Cavaliere del Drago. Si sarebbero fatti bastare la sua assicurazione. L’importante era che Zexion fosse al sicuro. “Sbrigati ragazzo, non abbiamo molto tempo.”
Vexen aiutò Zexion a rialzarsi, e stavolta il ragazzo si fece toccare senza proteste. Alle loro spalle, l’inossidabile Camus si era rimesso in piedi e si profondeva in ringraziamenti al generale e lodi agli dei per aver toccato la sua anima.
Ancora non aveva il coraggio di guardare in faccia Zexion. Nemmeno adesso che il ragazzo non lo respingeva, e che erano talmente da vicini da poter sentire il suo respiro rotto e affannato. Il suo cervello vorticava all’impazzata alla ricerca di qualcosa di sensato da dire, inutilmente. Finché non furono le dita del ragazzo a sfiorare le sue, spingendogli nel palmo della mano un oggetto liscio e freddo. Lo riconobbe ancora prima di vederlo: la boccetta di veleno. Quella che gli aveva consegnato lui stesso tre anni prima per uccidere Larxen. Quella che Zexion aveva portato con sé ogni giorno nella speranza di usarla per vendicarsi di colui che lo aveva abbandonato.
“Non mi serve più.”
Per qualche istante Vexen fissò la fiala senza capire poi, finalmente, sollevò lo sguardo su Zexion. Il ragazzo aveva gli occhi lucidi, e qualcosa di simile a un tenue sorriso ad ammorbidirgli i tratti del viso. Ora più che mai sembrava un bambino. Il piccolo Ienzo del Castello dell’Oblio.
Era il momento di parlare. Di dirgli che gli dispiaceva, di promettergli che lo avrebbe cercato ancora, che non lo avrebbe lasciato marcire all’Impero, non stavolta, di chiedergli com’era la sua vita, dove abitava, se aveva amici… Invece Zexion lo anticipò di nuovo:
“Grazie.” mormorò. “Per quello che hai fatto. Sei stato… “ scosse la testa, forse anche lui incapace di trovare le parole. “Il generale Baran non è stato l’unico a cambiare idea oggi. Il tuo odore, in quel momento… “ socchiuse gli occhi, chiaramente preso dal ricordo. “E anche adesso… “
“Va bene così.” lo interruppe, a disagio. Tenendolo sottobraccio lo aiutò a raggiungere l’uscita; prima di lasciarlo gli strinse un’ultima volta la spalla, una carezza goffa e impacciata. “Vai ora. E fai attenzione.”
“Anche tu.”
Zexion mosse da solo gli ultimi passi che lo separavano dal generale Baran. Il Cavaliere del Drago lo attendeva sulla soglia del laboratorio con le braccia conserte e lo sguardo impaziente.
“Ci rivedremo ancora” disse il ragazzo voltandosi un’ultima volta. “In qualche modo verrò a cercarti.”
Poi il generale Baran lo prese per un braccio, e l’”anch’io” di Vexen fu troncato dalla porta che si richiudeva alle loro spalle.

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 - Acque nere ***


Capitolo 25 - Acque nere





Kamino




Kamino, quinto pianeta del Labirinto di Rishi, è rimasto per molti anni sconosciuto persino ai più esperti planetologi della Galassia: l’assenza di contatti con gli altri popoli ha portato i Kaminoani a sviluppare una cultura unica in tutto l’Impero, caratterizzata da una società totalmente rivolta verso l’ingegneria genetica e l’annullamento di ogni tratto individuale. Questo non vale solo per i cloni, la loro produzione che li ha resi celebri in tutta la Galassia, ma anche tra loro stessi.
[…] senza il quale la Galassia avrebbe conosciuto un periodo infinito di guerra. Grazie a concordati personali dell’allora cancelliere Cos Palpatine è stato possibile conferire ai Kaminoani il compito straordinario di creare un’armata di cloni che si elevasse come scudo per i cittadini di ogni mondo, una forza nuova e potente per contrastare la minaccia dei Separatisti. L’azione individuale del cancelliere fu oggetto di molti dibattiti presso il Senato, ma la Storia ha mostrato che questa decisione, presa lontano dai riflettori della politica, è stata tutto ciò che ha permesso alla Galassia di non cadere nella barbarie.
“Atlante planetario e politico della Galassia vol. 15” di Tsuki Mii’ta, seconda edizione.




“Come è potuto accadere?”
La testa continuava a pulsargli, e nonostante gli incantesimi di guarigione il dolore alla base del cranio diminuiva troppo lentamente. L’ennesimo problema di ossa con oltre tremila anni, sospirò tra sé Zaboera portandosi una mano nel punto in cui qualunque cosa fosso stato lo aveva colpito. Ma non era il dolore a preoccuparlo.
Il Grande Satana non lo aveva ricevuto nella sala del trono. Lo aveva atteso lì, nella galleria Marlin, immobile tra le statue come se facesse anche lui parte di quella collezione di ricordi del passato; l’immensa ala ricopriva quasi tutto il perimetro del quinto piano del Baan Palace, ma sin dal momento in cui era stato convocato l’arcivescovo stregone non aveva avuto bisogno di farsi guidare da un servitore per sapere in quale punto il suo signore lo stesse aspettando.
La statua bianca guardava oltre la vetrata, nutrendosi dei raggi del sole fino a risplendere essa stessa; ma in quel momento, prostrandosi davanti al suo sovrano, ebbe l’impressione che quegli occhi antichi fossero posati su di lui. “Come è potuto succedere, Zaboera?”
“Non ne ho idea, Grande Satana. E questo mi disgusta ancora di più!”
“Ciò che succede nei laboratori è tua responsabilità. Ti rendi conto di quanto grave sia la faccenda?”
Certo.
Certo che se ne rendeva conto. Il prigioniero umano era scappato, e se l’era fatto sfuggire tra le dita come un idiota, come il più grande degli idioti. La prima cosa che aveva fatto non appena ripresosi era stata interrogare lo scienziato ed il suo stupido assistente, e l’umano gli aveva risposto con tanto di sorrisetto che il ragazzino si era alzato di scatto, lo aveva colpito e se ne era andato.
Bugie, chiaramente bugie.
Il ragazzino era talmente svenuto che avrebbe potuto versargli addosso tutte le fiale di acido in suo possesso e non si sarebbe svegliato, men che mai in così poco tempo da alzarsi, trovare un oggetto contundente –e ancora non aveva idea di cosa avesse usato per colpirlo- e calarglielo sulla testa. Se lo scienziato umano si credeva talmente tanto furbo da credere che avrebbe abboccato a questa versione … “Sì, Grande Satana. Soprattutto perché sospetto che qualcuno lo abbia aiutato a scappare. Sono certo che lo scienziato stia mentendo, proprio da tipico umano qual è!”
“Sospetti di lui?”
“Certo che sì, mio signore! Lui ed il sacerdote hanno visto tutto e sicuramente nascondono qualcosa! Non mi stupirei se lo avessero aiutato, anzi, ne sono convinto!”
Il Grande Satana si spostò, scivolando verso di lui e portandosi lontano dalla statua che fino a qualche istante prima aveva assorbito tutto il suo sguardo e tutta la sua attenzione; la figura scolpita nel crijoto era in quella galleria da tempo immemore, sin dal primo giorno che il Baan Palace si era sollevato dal sottosuolo, prima ancora che gli arazzi della guerra contro Autozam venissero appesi per narrare la storia alle nuove generazioni. Era sempre rimasta lì, in quella posizione, le mani incrociate sul petto e lo sguardo rivolto sempre verso l’esterno, verso il mondo che desiderava proteggere con tutta se stessa. E nonostante tutto Zaboera non poteva non notare che, ogni volta che vi poggiava su gli occhi, la figura sembrava in grado di prendere vita, i lunghi capelli di alzarsi quando soffiava il vento, le labbra schiudersi per sorridere di nuovo.
Quel sorriso mancava da oltre tremila anni, ed in quel momento era l’unica cosa a cui avrebbe voluto aggrapparsi.
Ma le labbra erano di crijoto, e non si mossero quando il Grande Satana con un solo movimento si portò davanti a lui, costringendolo a chinare il capo fino a quando tutto ciò che gli venne concesso di vedere furono le pieghe azzurre della tunica che si poggiarono sul pavimento nero e rimasero immobili in attesa del giudizio del loro signore. “Io invece dubito che lo scienziato abbia aiutato l’umano nella fuga. Se così fosse stato sarebbe scappato insieme a lui, non trovi? Quell’umano tiene troppo alla sua insulsa vita per non cogliere al volo l’opportunità di andarsene di qui. E non credo che sia rimasto per terrore di una mia risposta, visto che la fuga del prigioniero è riuscita”.
“Ci sarà stato un motivo! Quello scienziato …”
“Zaboera, credi che non sappia quanto tu non possa sopportare quello scienziato? Non è nei tuoi laboratori per piacerti, ma per lavorare! Ti chiedo di ragionare con lucidità, perché quel prigioniero non può essere stato, questo è chiaro!”
Persino il Grande Satana, persino lui non …
Ma protestare non sarebbe servito a nulla, non con lo sguardo del suo sovrano piantato su di lui, deciso a non muoversi. Non era una questione personale. O forse sì.
O forse era solo il tempo che non faceva altro che tornare a galla, come se gli anni della guerra non se ne fossero mai andati via del tutto: il sorriso di quello scienziato lo aveva già sperimentato su di sé, sapeva che poteva essere fonte solo di derisione, come se quella testa così in alto potesse detenere tutta la Verità dell’universo, tutto il sapere del mondo in quegli occhi arroganti. Certo, il Grande Satana aveva ragione, un umano così patetico avrebbe approfittato dell’occasione per andarsene, ma questo non rendeva l’uomo biondo meno colpevole ai suoi occhi. Doveva esserci qualcos’altro, un tassello che mancava e che aveva iniziato a cercare sin da quando era stato convocato nella galleria. Poteva non essere stato lui a colpirlo, ma allora … “Un esterno, mio signore”.
Sospirò, sapendo cosa queste parole avrebbero potuto scatenare.
“Hanno ricevuto un aiuto esterno”.
“Ospiti indesiderati nel mio palazzo”.
Tutta la magia del Baan Palace accorse al richiamo del suo sovrano. Gli arazzi furono sollevati dal vento, e tutte le statue iniziarono a tremare. Tutte tranne quella alle loro spalle, ma l’arcivescovo stregone era troppo spaventato da quella collera per riuscire a pensare ad altro. Poteva solo immaginare l’espressione del suo signore mentre stringeva le mani contro il pavimento nella speranza di potervisi aggrappare. “La sorveglianza del Baan Palace è sotto la tua responsabilità, Zaboera, hai idea di cosa sarebbe potuto accadere se soltanto …”
“Zaboera non ha colpe Grande Satana. Se proprio deve rivolgere la sua collera contro qualcuno …”
La voce nera cristallizzò la stanza, costringendo l’intera ala ad ascoltare solo il suono dei suoi stivali. L’urlo del Grande Satana si perse nell’intrusione, ma non l’ira dei suoi incantesimi: la rete di magia si mosse come tirata da catene verso il nuovo arrivato, ma si infranse contro il suo potere che si alzò in risposta a quella forma di attacco. La collera tornò di nuovo a battere contro i quadri, ma Zaboera sapeva che, qualunque senso avesse la venuta dell’altro generale, non sarebbe stata affatto piacevole. E i suoi timori si trasformarono in realtà quando il Cavaliere del Drago terminò la frase. “… forse dovrebbe rivolgerla contro di me”.
“Spiegati, Baran”.
“Sono stato io a far fuggire quell’umano”.
Madre Drago, ti supplico, dimmi che ho sentito male …
Anche da quella posizione non gli sfuggì il lampo che saettò tra le dita del suo signore. I fulmini chiari corsero dalla punta delle unghie al polso, e l’arcivescovo stregone sentì anche l’aria prepararsi per ricevere la magia. “Forse non mi hai sentito bene. Ti ho detto di spiegarti, Baran”.
“Credo che sia lei a non aver sentito bene, mio signore. Sono stato io a liberare il prigioniero umano. Non c’è stato nessun aiuto esterno”.
Madre Drago, cosa ho fatto di male nel trovarmi di nuovo tra un Cavaliere del Drago ed il mio signore?
Il potere degli incantesimi gli arrivò fin nelle narici. Era furioso, affamato. Il campo di fulmini corse lungo il braccio del demone antico fino alla spalla, ma tutta l’aria vibrava fino ad emettere una sequenza di ronzii che gli invasero le orecchie. La tela che rappresentava il nobile Voltesh si rigò per un istante di bianco come se una viverna lo avesse colpito, poi prese fuoco; l’arazzo della settimana guerra del casato di Mor contro i draghi d’acqua cessò di esistere l’attimo successivo, ridotto in una folata di cenere e stracci quando il vento sollevò i lembi della tunica del suo signore portando con sé tutta la manifestazione della sua ira. Da sotto qualcuno gridò, ma se i servitori erano perspicaci –e su questo Zaboera non ne aveva dubbi visto che li aveva scelti di persona- non sarebbero saliti su quel piano quando la magia del loro signore aumentava ad ogni istante, graffiando qualunque cosa si trovasse a tiro per prenderla e farla propria. Sentì il potere richiamare il suo corpo all’obbedienza, ad offrirgli gli incantesimi ed il potere che gli erano tributati come una bestia affamata. Riuscì a trovare abbastanza coraggio da strisciare alle spalle del sovrano e ad aggrapparsi alla statua di crijoto, l’unica ad essere ancora immobile e bianca in mezzo a quella tempesta.
Davanti a lui, il Generale Baran rimaneva immobile.
Il Drago non ruggiva, né soffiava. Rimaneva davanti a loro con le braccia incrociate, come se il vortice di potere che si stava innalzando dal loro sovrano non fosse altro che una brezza priva di valore. Il diadema dorato rifletteva i fulmini e concedeva loro di guizzare lungo la sua forma, ma lo scintillio non faceva altro che far risaltare il pozzo nero che aveva al posto degli occhi. Nemmeno le iridi si muovevano, ma bevevano la sagoma del demone davanti a loro come ad invitargli di farsi avanti. Non aveva eretto alcuna barriera intorno a sé. Non ne aveva bisogno.
Lui era il Dio Drago.
“La sua furia è giustificata, mio signore, ma adesso …”
Mio signore? MIO SIGNORE? Con che sfrontatezza ti rivolgi a me in questo modo, Baran? Io non sono il sovrano di nessun traditore!” gridò, ed in quell’istante Zaboera si accovacciò senza alcuna vergogna contro il piedistallo della statua. Per un solo, semplice istante fu tentato di attivare l’Occhio di Zaboera e di chiamare Hadler, ma la minuscola creatura mandò uno squittio di terrore e si appiattì contro la sua tunica mentre delle venature rosse iniziarono a disegnarsi lungo la sua enorme iride in risposta alla furia cieca del demone anziano. Le urla coprirono il suo pigolio e l’arcivescovo stregone trattenne il fiato, cercando di lasciar scivolare la propria magia contro la creatura per rassicurarla, ma quella chiuse la pupilla di scatto ed iniziò ad agitarsi come se davvero le saette stessero attraversando il suo corpo. “Baran, vorrei ricordarti che tu mi hai GIURATO FEDELTA’!”
“Me lo ricordo benissimo”.
“DUNQUE?”
“E dunque ho compiuto quello che un suo generale avrebbe dovuto fare. Le avevo detto che disapprovavo quella storia dei Nuclei Neri”.
“IO TI AVEVO ORDINATO DI …”
“Ed io ho disobbedito”.
La scarica di saette disegnò nell’aria un arco che gridava fuoco e sangue. Trascinò con sé le lastre di marmo e tutto il pavimento esplose . Il mosaico su cui Zaboera era rimasto in ginocchio fino a qualche istante prima si trasformò in una cascata di tasselli senza forma che si carbonizzarono in aria mentre tutt’intorno al Cavaliere del Drago i fulmini iniziarono ad intrecciarsi fino a creare una cupola instabile e furiosa che attendeva solo un comando del suo signore per crollare sul capo di colui che aveva osato sfidarlo. Il Generale Baran non gli prestò la minima attenzione. La massa di saette diventò sempre più densa, ma forse per il Dio Drago non era altro che una magia come un’altra. “Io non ho giurato fedeltà al primo demone maggiore che ho incontrato. Né al Grande Satana della famiglia demoniaca. E questo lo sa meglio di me”.
Zaboera si strinse nelle spalle, quasi senza fiato. Colui che rifiutava di prostrarsi al suo signore non aveva ancora liberato nemmeno un incantesimo, ma l’arcivescovo stregone sentì i cuori riprendere a battere con più forza, a spingere con forza contro il petto quasi come ad esplodere. Il potere in quella stanza aveva una forma mai vista, simile ad un drago silenzioso, addormentato nella sua grotta, in procinto di sbranare chiunque osi disturbare le sue decisioni.
“Io ho giurato fedeltà all’unico sovrano di Cephiro in cui potessi rispecchiarmi. All’unica creatura che condividesse con me il disprezzo per la razza umana, per la slealtà, per il tradimento e che fosse disposta a cambiare l’ordine delle cose. Ho offerto la mia spada ad un essere leale ed onesto, che non avrebbe mai gettato alle fiamme i propri principi pur di vincere una guerra, un demone che non si sarebbe mai abbassato a dei sotterfugi per strappare una vittoria. Io non combatto per la stirpe demoniaca. Io combatto soltanto per lei”.
Le sue dita si mossero, e le saette che lo avvolgevano iniziarono a cadere, fino a convergere lungo l’elsa della Spada del Drago Diabolico legata alla sua schiena; il Grande Satana gli dava le spalle, ma bastava osservare il fremito lungo le maniche della tunica per capire che non era lui l’artefice di quell’incantesimo che lentamente trasformò l’arco di fulmini in una sfinita saetta che guizzò lungo il diadema dorato e scomparve. “Lei ha ragione a voler difendere i demoni a tutti i costi, e non creda che io non capisca la responsabilità che grava sulle sue spalle. Ma sono convinto che vincere con l’inganno, riempiendo quel ragazzo umano di esplosivi … non sia ciò che lei desidera. Penso che quelle parole me le abbia dette un demone maggiore stanco e frustrato, furioso per le vite dei suoi cittadini brutalmente spazzate via. Non credo che me le abbia dette il Grande Satana Baan, colui che ha riportato il suo popolo alla luce del sole senza alcun inganno, ma contando soltanto sulla forza, sulla determinazione e sull’incrollabile lealtà della propria gente. Colui che può dare ordini al Cavaliere del Drago non accetterebbe mai un simile compromesso quando può contare su dei generali fedeli e su dei potenti corpi d’armata per schiacciare il proprio nemico”.
Zaboera poteva solo osservare il suo signore di spalle, ma non aveva bisogno di nessuno specchio per immaginare l’espressione di sdegno sul suo viso quando anche l’ultimo fulmine scomparve nell’elsa, come se lo stesso fodero l’avesse inghiottito lasciando la galleria al buio, devastata. Le labbra del generale si sollevarono, ma anche se si fosse trattato di un sorriso quello svanì sotto la protezione dei lunghi baffi neri. “… e se quell’ordine non me l’ha dato il Grande Satana … non vedo per quale motivo avrei dovuto ubbidirvi. Io rispondo ad un solo signore”.
Il Drago aveva soffiato.
Fu come se le clessidre avessero iniziato a girare all’indietro, e la sabbia a scivolare verso l’alto.
Non era il primo figlio della Madre Drago a mostrare le zanne al suo signore, ma l’arcivescovo stregone aveva ancora in mente il potere del ruggito, della furia devastante, del carattere fuori da qualsiasi controllo di chi aveva preceduto Baran. E ancora una volta il suo capo era immobile davanti al giudizio di un essere che non aveva nulla di umano, nulla di demoniaco e nulla di draconico ed allo stesso tempo era tutte e tre le razze insieme, una creatura che era venuta al mondo al mero scopo di far tacere qualunque replica si fosse sollevata dal suolo.
Più volte il Grande Satana gli aveva chiesto la sua opinione in merito all’aver accolto un Cavaliere del Drago tra le loro fila, e ogni volta Zaboera si limitava a chinare il capo, sostenendo che una creatura superiore potesse solo rafforzare il potere della famiglia demoniaca. Quello che non diceva lo narravano i suoi occhi, e lo narravano gli occhi del demone anziano quando si incontravano con i suoi davanti alla magnificenza distruttrice che il grande generale portava con sé contro la Resistenza, contro l’Impero, contro qualsiasi nemico gli venisse posto davanti. Perché entrambi sapevano che Baran era un dio, ed un dio non ammette altre regole che non siano le proprie.
E quando il suo signore aveva imparato quella verità tremila anni prima, in mezzo al fuoco, alle fiamme, al dolore ed alla morte aveva pagato con un dolore che nemmeno il passare delle ere aveva cancellato. Così come non aveva offuscato la sua convinzione che lavorare al fianco di un essere come Baran poteva volgere rapidamente da tripudio a tragedia.
Il suo signore aveva semplicemente accettato quella sfida, e adesso il Drago gli stava ricordando le regole.
“Sia come vuoi, Baran. Invero, quella decisione non è stata presa proprio dal Grande Satana …”
Cosa?
“… ma questo non ti autorizza a rivolgerti a me in questo modo. Ricordati, Baran, io do sempre tre possibilità …”
Sollevò la mano che fino a quell’istante era stata carica di fulmini, e da sotto la lunga manica comparvero tre dita. Quando gli occhi dell’altro furono di nuovo su di lui abbassò il dito medio con tutta la lentezza di un vero demone maggiore “… vedi di non costringermi ad abbassare le altre due. Mi considero una persona comprensiva, ma la mia pazienza non dura in eterno. Vedi di ricordartelo”.
Così come era comparsa, la mano scivolò sotto i vestiti senza che nessuno di loro avesse il coraggio di replicare; Zaboera sentì i cuori tornare alla normalità, perché con un cenno del capo il signore del Choryugundan aveva accettato la condizione. “Ora non farmi perdere tempo. Se davvero vogliamo costringere gli umani alla resa abbiamo bisogno di colpirli al massimo delle nostre forze. Tu, Hadler e Hyunkel avete una missione. Ho comunicato tutti i dettagli a Killvearn, vi porterà lui dove dovete”.
“Questo è il tipo di ordini che mi piace ricevere”.
Con quell’ultima, secca risposta Baran si voltò, controllò che la spada fosse ancora nel fodero e senza alcun inchino si diresse nella galleria, pronto alla partenza. L’arcivescovo stregone trattenne il respiro anche quando la sagoma scomparve, anche quando il suono degli stivali si ridusse ad un suono come gli altri: rimase in silenzio ai piedi della statua, gli occhi fissi sul proprio sovrano che gli dava le spalle, immobile ad osservare il passo del Drago e la distruzione che l’ostinazione di quella creatura aveva arrecato.
Avrebbe potuto andarsene. In fondo non era tenuto a stare lì.
Ma il suo signore non si muoveva. Chiunque avrebbe potuto scambiarlo per una statua adorna di vestiti, perché questi scivolavano nella corrente quando tutto il resto del suo corpo era fisso, immerso in dei pensieri che Zaboera sapeva fin troppo bene contenere ricordi di guerra e di sangue. E di dolore. Il demone anziano era solo, e forse lo sarebbe rimasto ancora per molti secoli a venire.
“Dici che avrei perso il mio onore, Zabo?”
Al familiare nomignolo l’arcivescovo stregone trovò il coraggio di uscire dal nascondiglio. “Nessuno gliene avrebbe fatta una colpa, Grande Satana. Tutti noi sappiamo quanto si stia impegnando per proteggerci. E vorrei comunque ringraziarla per …”
“Non hai risposto alla mia domanda”.
Certo, non aveva risposto. Aveva preferito evitarlo, come si evita il fuoco di un drago o le zanne di un licantropo. Era stato solo un pensiero espresso a metà, quando il suo sovrano aveva ordinato di trasformare quell’umano in una trappola mortale aveva lasciato che il flebile timore che si era affacciato piegasse il ginocchio alla lealtà. Perché qualunque strada il demone antico avesse deciso di intraprendere, anche la più tortuosa, lui l’avrebbe seguita fino alla fine. E come aveva lasciato che il pensiero svanisse, così lasciò che riemergesse. “Sì. Il suo onore ne avrebbe sofferto, Grande Satana”.
“Sta bene” rispose, scivolando accanto alla grande statua in crijoto. La guardò di nuovo, quasi a cercarne l’approvazione millenaria, poi si passò una mano nella barba e quando si voltò nella sua direzione Zaboera si accorse che gli occhi scuri erano spenti. E bassi. “Immagino che questo ponga fine alla discussione”.
Un raggio di luce colpì il suo diadema, e quando si riflesse sulla pietra bianca tutta la statua si illuminò del bagliore dorato del sole. “Lasciamo perdere questa storia. Abbiamo una guerra da vincere”.



Le onde sotto di loro sembravano mani di gigante. Si alzavano, si abbassavano, si abbassavano e si alzavano creando vortici giganteschi, neri e furiosi. Si schiantavano contro i pilastri della città galleggiante come se volessero trascinarla con loro negli abissi; ma non vi riuscivano, e la spuma si infrangeva in alto, arrivando quasi a lambire il cielo.
Il mantello non era sufficiente a proteggerlo nemmeno in parte dalla pioggia sferzante. Hadler sospirò, osservando i capelli di Sephiroth immobili anche nel pieno della tempesta, l’unica traccia luminosa di quella figura che altrimenti sarebbe stata una macchia nera in un cielo privo di colore, dove le nubi nascondevano il sole sin dal momento in cui erano giunti sul pianeta. L’angelo guardava in basso, catturato dall’oceano sconfinato che ruggiva sotto di lui: non si mosse nemmeno quando un’onda si scagliò nella sua direzione, avvolgendolo nella propria furia prima di ricadere in basso dalle sue simili. Il Puzzle appeso al collo gli scivolò a malapena contro il petto, ma tutto in quella sagoma sembrava in attesa, come a sfidare quel mondo con la sola forza della sua spada.
Hyunkel sosteneva di avere un controllo totale sulla creatura. Hadler non aveva motivo di dubitarne, ma quello sguardo vuoto, fisso contro la furia dell’oceano, non aveva nulla degli occhi del suo amico. Erano iridi che venivano da un passato sconosciuto, verdi e pulsanti come se fosse la magia stessa a fargli battere il cuore, a spiegargli l’ala contro il cielo. Poteva sentire il potere all’opera anche lì, oltre il muro di pioggia che li separava, ardente come una fornace che attendeva in silenzio un obiettivo su cui riversare tutta la propria potenza.
Stargli vicino era … inebriante.
Ogni fibra del suo corpo era in attesa, perché tutte le volte che quella creatura liberava il proprio potere lui era lì, pronto a sentirlo, a lasciarlo vibrare nei propri cuori; poteva lasciarlo bruciare dentro di sé, respirarlo a pieni polmoni, una magia primordiale come quella dei demoni maggiori e forse anche più pura e selvaggia, abbastanza vicina da spingerlo a desiderarla ma poi così scura, diversa. Nera.
Un debole lampo si riflesse nel diadema di Baran, avvisandolo con uno scintillio che il comandante del Choryugundan aveva terminato l’ispezione del perimetro di Tipoca City. Venne verso di loro accompagnato da un rombo di tuono, il mantello corto ormai tutt’uno con il vestito per la pioggia scrosciante. Hadler sentiva il gelo mordergli le ossa, ma l’espressione del Cavaliere del Drago non tradiva alcun segno di disagio. “Tutti i livelli sono sorvegliati. Il numero di droidi è limitato, ma hanno delle torrette al plasma e degli strani cannoni su tutte le piattaforme d’atterraggio. Ho visto basi imperiali meglio difese”.
La sua voce era potente, eppure nemmeno questa riusciva a superare il frastuono della tempesta e il demone fu costretto ad avvicinarsi. “L’ideale sarebbe distruggere questa piattaforma in un colpo, al massimo due. Se impiegassimo troppo tempo avremmo addosso tutte le truppe e le navi imperiali prima di riuscire a chiamare Killvearn”.
“Ed è un problema?” sogghignò, osservando l’angelo in contemplazione.
“Sì, se vogliamo distruggerne dieci” rispose. Hadler era pronto a scommettere che l’altro si stesse pentendo di non aver portato con sé la sua legione di draghi acquatici. Il Choryugundan comprendeva draghi di ogni genere, ed anche se il battaglione volante fosse quello che accompagnava più spesso in battaglia il loro signore, il demone minore sapeva che anche negli abissi vi fossero creature totalmente al suo servizio, le stesse con cui era riuscito ad ottenere quella schiacciante vittoria definitiva contro le astronavi dell’Impero. “Non intendo fermarmi a combattere contro patetici insetti. Il Grande Satana si è raccomandato una dimostrazione di forza assoluta, e se riuscissimo ad abbattere i principali stabilimenti di questo pianeta in poco tempo avremo modo di mostrare agli umani la nostra superiorità. E se tutto va bene potremmo anche recuperare Mistobaan. Al momento dovrebbe essere a Coruscant, ma con un po’ di fortuna potrebbero anche mandarlo a fermarci”.
“Finora non lo hanno mai fatto”.
“Teniamoci comunque pronti a questa eventualità. Distruggere i cloni è di fondamentale importanza, ma il nostro Braccio Destro è comunque al di sopra di ogni priorità”.
I cloni.
Il semplice pensiero di quelle … cose bastava a riempirgli il petto di disgusto. Gli umani si rendevano capaci di aberrazioni che nemmeno sforzandosi, nemmeno chiudendo gli occhi, nemmeno dando forma ad ogni sua goccia di odio e sentimenti negativi riusciva a crearne di eguali: per quanto gli umani sembrassero davvero tutti uguali, quando aveva sollevato gli elmi bianchi delle sue vittime aveva notato che molti erano davvero troppo uguali. Hyunkel aveva confermato i suoi sospetti.
I piccoli soldati semplici, gli uomini vestiti di bianco che opponevano loro soltanto una pallida resistenza con i loro blaster, avevano quasi tutti la stessa pelle scura, i lineamenti duri e marcati. Stessi occhi quasi neri che fissavano i suoi anche quando la vita li aveva abbandonati, chi con paura, chi con disprezzo, chi con pura disperazione. L’argomento aveva incuriosito persino il Grande Satana, e quando avevano convocato il viceammiraglio Kratas non avevano avuto più dubbi sulla depravazione e la viltà del loro nemico. L’Imperatore Palpatine non si limitava a reclutare gli umani dei suoi mondi, ma li “clonava”. O “costruiva”, l’unico verbo a cui Hadler sarebbe riuscito a dare un significato vero. Li creava in dei tubi e li copiava, li faceva tutti uguali come dei mostri, dotati di un’obbedienza assoluta: il prigioniero era sceso in dettagli che forse soltanto Zaboera era riuscito a cogliere, ma in lui era rimasto soltanto il disgusto per quel modo di trovare soldati come se nulla fosse. Questo spiegava anche perché i soldati imperiali fossero sempre così numerosi, ma ciò che agitava il demone minore era la totale … non sapeva come descriverla, forse “perversione” di quel gesto di creare la vita a migliaia, a milioni per il semplice piacere di mandarla a morire, senza dare a quelle creature nemmeno un nome.
Lui conosceva tutti i demoni che combattevano con lui. Era un suo dovere in quanto comandante, una sua precisa responsabilità. Doveva sapere chi avrebbe condotto alla vittoria e chi a morte certa, capire da chi potersi aspettare un’azione eroica e chi era meglio lasciare nelle retrovie come supporto, doveva dare coraggio a tutti quei demoni ed un motivo per cui dare la vita, un esempio di onore e gloria. Quando il Grande Satana gli aveva concesso l’onore di comandare tutti i corpi d’armata al posto di Mistobaan non si sarebbe mai aspettato che il ruolo di un generale comprendesse … questo.
Prima della guerra aveva sempre combattuto da solo.
Per un istante gli sembrò di sentire il gracchiare della voce di Bartosh contro la propria spina dorsale, ma era solo il verso di una gigantesca creatura delle acque che per un istanti espose la lunga schiena tra i flutti per poi inabissarsi con la coda più grande che Hadler avesse mai visto nei loro mari. La fabbrica di cloni era davanti a loro, immobile sopra le acque come se le mille tempeste del pianeta non fossero altro che un violento scudo pronto a proteggerla con tutto il suo splendore selvaggio. Tipoca City era composta da decine di piattaforme grigie, simili a cupole il cui apice si estendeva con violenza verso il cielo. Vetri e luci ovunque, come se fosse una grande macchina appoggiata sull’oceano con centinaia di zampe possenti, dei pilastri che sollevavano la parte abitata a centinaia di metri dall’acqua e si piantavano al di sotto delle acque fin quasi ad arrivare sul fondo, senza nessuna magia a dar loro forza. Solo metallo.
Le piattaforme erano apparentemente collegate tra loro da pontili in quello che gli umani chiamavano “transparacciaio”, un materiale talmente tanto chiaro da far vedere ciò che vi si muoveva all’interno; ed il demone si sarebbe avvicinato, ma la pioggia scrosciante era una barriera ben peggiore di qualunque schermo di metallo. I pontili attraversavano l’intera struttura da parte a parte, alcuni sfociavano in gigantesche terrazze vuote grandi quanto un centro abitato dove le astronavi attraccavano e partivano senza sosta. I dati raccolti da Killvearn nelle ultime infiltrazioni avevano spiegato loro che i mezzi di trasporto che scendevano sul pianeta erano per la maggior parte addetti al carico di cloni e di rifornimenti, mentre le vere ed enormi navi triangolari da battaglia rimanevano in orbita intorno al pianeta, impossibilitate a scendere dal poco spazio disponibile e dal tempo che riusciva a piegare persino la superbia dell’Impero. Kamino era un pianeta pensato per difendersi nello spazio, l’unico punto da cui sarebbero potuti arrivare eventuali nemici: una volta sulla superficie, gli abitanti delle città si sentivano al sicuro, protetti dalle tempeste. Un errore che avrebbero pagato molto presto.
“Sei sicuro di voler andare tu, Hadler? Non è una passeggiata di salute.” Disse Baran, lo sguardo fermo sul sacco che avevano trascinato con loro sin dalla partenza.
Un brivido gli salì lungo la schiena mentre la spuma sotto di lui lo sfidava a scendere. L’abisso sotto di lui era più nero della notte. “Non ti preoccupare. Tu e Sephiroth siete molto più potenti in aria” rispose.
“Lo stesso vale per te. Non tutti i demoni sono abili nuotatori”.
“Sono all’altezza della missione, Baran. Potresti anche scoprire qualcosa su noi demoni che ancora non conosci”.
Vicino a loro, Sephiroth non espresse alcun parere, immobile come una statua. Se aveva qualche opinione –Hyunkel, ovviamente, non quell’Angelo spaventoso- non la diede a vedere e si limitò ad aprire il palmo della mano davanti a sé, quasi a raccogliere tutta l’acqua che cadeva dal cielo. Hadler non aveva alcuna intenzione di rinunciare, non quando il risultato avrebbe potuto cambiare drasticamente la vita della famiglia demoniaca. Non vi era alcun motivo perché il Cavaliere del Drago si scomodasse al posto suo. “Vi farò osservare dei fuochi d’artificio come non ne avete mai visti”.
“Vedi solo di ritornare indietro tutto intero”.
L’ottimismo di Baran era mortale come un fulmine scagliato sull’acqua di quel pianeta, ma Hadler respirò a fondo e guardò verso il basso, sentendo la sfida delle onde e di quel mondo chiamarlo per nome prima della battaglia. Cercò di immaginare quell’abisso come ad un nemico, ma i suoi cuori gli ricordarono che i nemici hanno del sangue che pulsa ed una mente che agisce ed inganna, mentre quello davanti a lui …
Si buttò prima di terminare il pensiero.
L’acqua gelida fu su di lui e lo rinchiuse nella sua morsa, cercando una strada verso i polmoni. Vide la luce della superficie sparire, inghiottita dai flussi e si ritrovò prigioniero della furia della corrente che lo trascinò con sé prima ancora che potesse far appello a tutte le sue forze. Si ritrovò a testa all’ingiù e poi di nuovo in posizione eretta, fu sbalzato lungo il fianco destro e solo quando la corrente lo portò in alto, insieme ad un’onda, ebbe la forza di aprire gli occhi e rispondere alla corrente colpo su colpo.
Non era la violenza di quel mare a spaventarlo. L’aveva prevista sin dal momento in cui si erano teleportati su Kamino. Era l’oscurità a serrargli i cuori come la mano di un gigante.
I demoni non erano dei grandi nuotatori, la maggior parte di loro non vedeva la necessità di scendere negli abissi del mare quando poteva volarvi al di sopra, beandosi di quel magnifico specchio d’acqua che rifletteva il sole ed il cielo. Gli anni di prigionia nel ventre della terra li avevano portati a sognare soltanto l’aria e l’azzurro sconfinato, eppure Hadler era sempre attratto da quel velo d’acqua che occupava ben oltre la metà di Cephiro. Gli sembrava un peccato non poter scendere più sotto, anche il solo sapere che vi fossero dei punti dove non giungeva la luce del sole lo aveva sempre sconcertato. Nuotare non era affatto intuitivo come volare, ma con i giusti incantesimi aveva imparato come modulare il respiro e respirare sotto i flutti: era un questione non solo di potenza, ma anche di coordinazione. La sua prima immersione gli aveva dato un senso di vittoria sconfinato, quasi quanto la prima volta che aveva abbattuto un terk con una sola sfera infuocata. Aveva visto ogni cosa, ogni pianta, ogni pesce, si era riempito gli occhi di quella sensazione pungente ed aveva persino seguito un drago marino e la sua cucciolata finché anche la magia aveva smesso di sorreggerlo ed era dovuto tornare in superficie per riprendere aria.
Ma in quell’oceano non c’era nulla che potesse vedere: niente draghi, niente alghe, nemmeno il proprio riflesso. Persino i suoi capelli sembravano svanire in quel pozzo nero insieme alle mani, le agitò con forza fino a riprendere l’equilibrio e percepire la magia dentro di sé rispondere alla sfida di Kamino, riempiendogli i polmoni d’aria. L’acqua era forte, ma lui lo era di più.
L’onda successiva lo prese in pieno petto, ma si lasciò andare e vi si tuffò dentro lasciando che lo trasportasse proprio dove lui desiderava. “Ce la posso fare!” ripeté tra sé, spingendosi con le braccia mentre le mani si assicuravano che il prezioso carico di Nuclei Neri fosse ancora al suo posto.
Tipoca City aveva un sistema di scudi intorno alle piattaforme che avrebbero allarmato tutti gli abitanti non appena un intruso si fosse avvicinato, ma evidentemente questo scudo non si estendeva sin nelle profondità dei pilastri, dove il mare ed il tempo rassicuravano gli abitanti del mondo con la loro violenza impenetrabile.
Non emerse nemmeno quando raggiunse il primo pilastro a vista. L’onda lo spinse contro il metallo, ma l’impatto non fu dei più violenti e Hadler si lanciò nel gorgo che circondava la struttura per rimanere in equilibrio. Inspirò un’ultima volta e si diede una spinta verso il basso senza mai lasciare l’impalcatura. Lo scienziato dell’Organizzazione aveva garantito che i Nuclei Neri sarebbero stati in grado di reggere pressioni elevate e presenza di acqua senza rischio di attivazione, e Hadler sentì il potere di quel minuscolo esplosivo ronzare e rimbombare al contatto della sua magia finché non lo appoggiò alla struttura. Dei piccoli congegni di cui non voleva sapere nulla lo fecero aderire al metallo e quando il cuore dell’ordigno si accese di una luce azzurra il demone capì che era in posizione giusta. Un’ultima occhiata e si allontanò, cercando di ricordare in che direzione si trovasse un altro pilastro.
Si lasciò trascinare dalla corrente.
Poteva farcela. Poteva fare la differenza in quella battaglia.
Forse non era un Cavaliere del Drago o un Angelo, ma …
Potenziò l’incantesimo di respirazione, e l’aria tornò nei suoi polmoni mentre scese di profondità evitando quella che, a giudicare dalla massa d’acqua spostata, era una pinna appartenente ad una bestia che non aveva alcuna intenzione di incontrare.
Non aveva la forza di piegare in due un mondo, e nonostante le modifiche che Zaboera aveva apportato al corpo biologico superstregonesco poteva fare ben poco quando i suoi due compagni scendevano in battaglia. Erano un altro livello, degli esseri di cui poteva solo osservare l’ombra dal basso.
Ma questo lo poteva fare. “Andiamo!” pensò tra sé una volta posizionato il secondo Nucleo Nero.
Poteva offrire alla famiglia il suo coraggio, quando la forza e la magia non sarebbero state sufficienti; non poteva nascondersi dietro Baran e Hyunkel, non poteva rimanere indietro o peggio, essere loro un peso. I suoi compagni d’armi, i suoi amici, avrebbero dovuto rimanere a testa alta.
Il tempo si era trasformato in uno stagno putrescente, aveva perso il conto delle volte che era riemerso e poi si era rituffato, di quelle che aveva rischiato di perdere il sacco e quelle in cui gli ordigni gli erano quasi scivolati di mano, prigionieri della corrente. Ogni tuffo stava diventando uno strazio per i muscoli, ma i cuori sembravano vibrare in risposta alle onde, sentendo la tempesta quasi dentro di sé. Il buio dell’abisso si era trasformato in un oceano di opportunità ed alla fine c’era solo lei, la gloria, la vittoria. Tipoca City sembrava ancora più enorme da lì sotto, ma quando anche l’ultimo esplosivo venne posizionato ed il sacco venne lasciato libero alla furia delle onde, Hadler si rese conto che non riusciva nemmeno a capire quanto tempo fosse passato, se mezza giornata o una manciata di secondi.
Quando riemerse in volo la pioggia gli sembrò più forte del ruggito della battaglia.
“Sette Nuclei Neri … credete che basteranno?”
L’unica cosa che segnava il tempo erano i baffi di Baran. Si erano appiattiti lungo le guance, e questo rendeva ancora più minaccioso il suo cipiglio. I loro abiti erano ridotti a degli stracci informi aderenti alla pelle, ma c’era qualcosa di selvaggio in quel cielo in tempesta, in quelle nuvole nere, nei fulmini all’orizzonte e nel Dio Drago e nell’Angelo da Un’Ala Sola che sprigionavano la loro magia in quel mondo che tra poco avrebbe conosciuto la distruzione. Baran gli porse una sfera metallica con una gemma di attivazione incastonata al di sopra, il “portafortuna” che lo scienziato dell’Organizzazione aveva realizzato. “A te l’onore, amico mio. Dopo questo bagno credo che ti meriti il diritto di vantarti di aver cancellato buona parte di quegli abomini dalla faccia del mondo!”
Un grande onore per Hadler, comandante delle forze d’armata del Grande Satana …
Guardò la gemma rossa, sentendone il potere rimbombargli fin nelle vene. Un oggetto instabile ma più che in grado di unire i Nuclei Neri con la sua straordinaria potenza; un potere che ancora non riusciva a comprendere di come potesse nascere dalle mani di un inferiore essere umano.
Per un attimo gli sembrò di sentire le vite dei cloni in quella città addormentata sopra le acque nere. Migliaia di falsi esseri umani lì dentro, artificiali, mostruosi. Carne da mandare a morire nel migliore dei casi, una sorte che lui stesso non avrebbe mai accettato per sé. Forse a quegli umani stava facendo un favore.
Sephiroth scosse la testa senza una parola, e Hadler riversò tutta la poca magia rimasta nel suo corpo in quel minuscolo congegno.
Fu in quel momento, o forse nell’istante immediatamente successivo, che il mondo piombò nel gelo più assoluto.
Tipoca City non si trasformò in un inferno di fiamme.
Non crollò su se stessa, né i pilastri si piegarono come le zampe di un mostro ferito a morte. Non affondò. Il cielo era ancora saturo di nuvole, schizzi e fulmini, ma nemmeno una parte di esso era tinto del rosso scarlatto che seguiva qualunque esplosione: tutto era nero, avvolto nella pioggia, ma l’acqua non si infrangeva né sui pilastri né sulle piattaforme della fabbrica di cloni. La spuma scura creava onde enormi che erano respinte con violenza dalla forma immobile che in quell’istante occupava tutto il campo visivo, nascondendo Tipoca City sotto il suo manto freddo. Hadler trattenne il fiato, il congegno ancora stretto nella mano, quando l’acqua del mare prese vita e forza, cristallizzandosi come un fiore nell’attimo di sbocciare. Gli schizzi, le onde, gli stessi gorghi rimasero immobili e scintillarono alla luce di un fulmine che cadde poco distante da loro; persino a quella distanza poteva sentire il gelo che si propagava da quel blocco di ghiaccio che era sorto tutt’intorno alla città. Le luci, i suoni, persino le piccole astronavi erano rimaste incastonate in quella magia.
Nel punto in cui l’acqua di Kamino si trasformava in ghiaccio una luce ancora più forte iniziò a riflettersi, intensa al punto che anche Baran fu costretto a coprirsi gli occhi con la mano.
La magia dei Nuclei Neri in attesa di attivazione si trasformò in un soffio che lentamente venne strozzato dal nuovo incantesimo, ed il demone sentì la potenza degli esplosivi diminuire come se qualcuno gli stesse lentamente portando via il fiato alla base della gola; la gemma rossa fu attraversata da un lampo di luce, poi diventò sempre più fioca fino a sembrare un comune sasso.
Una sola cosa sapeva di quegli ordigni: il ghiaccio era l’unica magia in grado di soffocare il potere, da quel che Zaboera diceva era una contromisura creata dal membro dell’Organizzazione prigioniero.
E lì, sotto quella tomba di cristallo, ebbe l’impressione che i sette esplosivi fossero stati uccisi con un’unica mossa.
“Ci avete costretti ad un intervento tempestivo. Suppongo che i Kaminoani non la prenderanno molto bene …”
Hadler non ebbe bisogno di guardare in alto per sapere a chi appartenesse la voce. Non quando vide la mano di Baran correre all’elsa della spada.
Un paio di piume azzurre furono portate verso di loro dal vento, mentre un gigantesco volatile perse del tutto la forma ed assunse un aspetto umano che si appoggiò su una nicchia che il ghiaccio aveva creato. Anche da quella distanza poteva sentire gli occhi chiari della donna fissi su di loro, inchiodati come quelli di una belva pronta a saltare al minimo schiocco di dita.
Un nuovo fulmine illuminò una seconda figura, le mani ancora luminose per la magia che stava consumando; in piedi su una lastra di ghiaccio vide un umano dai capelli chiari come la luna, il mago dell’Impero che sapeva corrispondere al nome Kaspar, tessere i suoi incantesimi quasi a comandare il mare stesso. Ma, nonostante la magia selvaggia che quell’uomo emanava, Hadler non poté evitare di trattenere il fiato quando Zam Wesell terminò la trasformazione e con un paio di salti superò le guglie più alte di quella rosa gelida per portarsi fino alla punta più alta, ben oltre la sommità di qualunque edificio di Tipoca City. “Benvenuti a Kamino, signori”.
 

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Capitolo 27
*** Capitolo 26 - Doppio attacco ***


Capitolo 26 - Doppio attacco





Scacchi di olihargon




“Da un nemico nasce un duello. Da due nemici nasce la forza. Da cento nemici nasce l’onore”.
Proverbio demoniaco.



Ormai lo aveva capito persino lui. Se la carta scorreva verso il basso la porta si chiudeva. Se la strisciava verso l’alto si apriva. La mosse verso il basso, bene attento a farla entrare nella scanalatura, ed isolò la minuscola stanza in cui erano entrati a fatica. Un magazzino, almeno a giudicare dalle grandi scatole metalliche disposte in ordine millimetrico lungo gli scaffali. Tutte grigie, tutte uguali.
Auron si chiese come avesse fatto Zachar a vivere per tanti anni in un posto simile. Non erano entrati da più di un’ora sulla Morte Nera e già sentiva il bisogno di uscire da quel cimitero di lamiere.
Non era stato eccessivamente complicato entrare nella roccaforte dell’Impero, quella enorme stazione spaziale grande, a quello che dicevano tutti, più di una luna: i Ribelli li avevano letteralmente lanciati dentro delle armature bianche identiche a quelle di migliaia di soldati imperiali e dopo aver spiegato loro le funzioni base come parlare e respirare attraverso quegli elmi li avevano imbarcati su un cargo –trasporto disinfettanti, almeno a giudicare dalle scritte sui contenitori e soprattutto dall’odore che ne proveniva- e detto loro di attendere con calma fino all’arrivo. Semplice, i Ribelli davano per scontato che tutti sarebbero arrivati senza problemi a bordo della principale fortezza nemica che fluttuava nello spazio senza star ferma un istante. Loro non erano mai riusciti a salire a bordo del Baan Palace nemmeno una volta.
Il pensiero aveva evidentemente attraversato anche la mente di Leona perché, prima della partenza, aveva ascoltato una sua rapida conversazione con il re Aragorn. “Se è così facile entrare perché il Grande Satana non ci è ancora riuscito? Gli basterebbe mandare il Cavaliere del Drago lì dentro per porre fine alla guerra!”
“Beh, non è così semplice come sembra” aveva risposto l’uomo. Un tipo pratico, ad Auron stava molto simpatico. “Bisogna sapere come fare. Siamo in guerra con l’Impero da oltre quindici anni, abbiamo fatto molti più commandi sulla Morte Nera di quante volte Gandalf si sia pettinato la barba in una vita. E lui gira per la Terra di Mezzo da qualche migliaio di anni, mia cara. Se i demoni avessero accettato un’alleanza con noi saremmo stati più che felici di spiegare loro come entrare furtivamente a casa di papà Impe. Ma hanno rifiutato di unirsi a noi sporchi esseri umani …”
E lì era scappato un sorriso “Quindi peggio per loro. Secondo me il Grande Satana sta ancora cercando un modo di far salire quel suo Baran sulla Morte Nera. Ma temo che alcuni trucchetti siano un po’ troppo complicati per le loro teste rigide e noiose!”
Auron bofonchiò. Se il Grande Satana fosse davvero riuscito a mandare il Cavaliere del Drago lassù non ci sarebbe stato bisogno di quell’operazione. Non che disdegnasse una missione operativa, ma quel mondo era … strano. Quelle macchine combattenti chiamate “droidi” sbucavano da ogni parte ed i laser che sparavano avevano già ucciso tre fanti carbonizzando il loro petto da parte a parte. La sua Masamune riusciva a parare le raffiche, ma gli scudi che gli altri combattenti avevano portato dal loro mondo non erano durati nemmeno un istante ed il metallo era stato distrutto.
Delle spie luminose rosse si erano accese lungo le pareti, e quello che era chiaramente un segnale d’allarme si stava propagando per tutta la stazione spaziale. Aban prese quello che rimaneva dei due droidi appena abbattuti e li accatastò contro la porta. “Non penso servirà a molto” rispose Auron. “Se queste porte si aprono passandoci dentro una carta dubito che creare una barricata possa rallentarli”
“Beh, potrebbero sempre inciamparci dentro, che ne dici?”
“Non riesci proprio ad essere serio …”
Il guerriero dai capelli azzurri osservò soddisfatto l’ammasso di ferraglia davanti a loro. “No, grazie al cielo no!”
La verità era che l’idea di separarsi da Zachar non gli era piaciuta nemmeno un po’, e forse questo lo rendeva ancora più nervoso del solito. Si erano divisi in due squadre una volta che la loro navetta era atterrata nell’hangar e, grazie ad alcuni congegni dei Ribelli di cui si era rifiutato di capire il funzionamento, erano stati accettati e riconosciuti dai droidi di sorveglianza. Una volta ottenuto un minuto di pausa avevano deciso –lui era stato contrario- di dividersi in due squadre per trovare una via che conducesse al reattore principale. Raggiungere il cuore ardente della Morte Nera e riversargli dentro tutta la magia dei loro più potenti incantatori era un buon piano, soprattutto con dei druidi in grado di teleportarli al Perno dell’Ade una volta scatenata la reazione a catena che avrebbe fatto saltare la stazione spaziale su se stessa e, con una buona fortuna, l’Imperatore Palpatine dentro di essa. Ma non avevano la più pallida idea di dove si trovasse questo reattore –le informazioni dei Ribelli erano mute sull’argomento- dunque si erano divisi.
E sapere Zachar lontana da lui, su quella stazione spaziale tutta uguale, era la parte del piano che gli piaceva di meno. Certo, era affiancata da Dai, Leona e da un giovane incantatore allievo di Matoriv, ma il semplice pensiero che potessero imbattersi in qualcosa di pericoloso (o peggio, di Kaspar) lo portava a stringere le dita contro l’elsa della spada con più forza del solito.
“Ti si legge in faccia che sei preoccupato”.
Sentì la mano di Mu stringergli il braccio. “Ma dobbiamo pensare alla missione. Zachar se la caverà da sola”.
La realtà era che avrebbe anche preferito tenere Mu lontano da questa missione. Non ne aveva visto l’utilità, specie quando avevano lasciato indietro il suo confratello della Vergine per risollevare l’animo ai civili del loro mondo ancora scossi dalla guerra. Il suo migliore amico era un predicatore, non un guerriero, e l’assalto a quella base militare dove qualunque cosa, anche le armature che indossavano, era un enigma, non era uno dei primi cento o duecento posti dove avrebbe visto bene il povero Mu. Ma schiodarlo dalla sua convinzione era stato impossibile, come fronteggiare un ariete dorato deciso a non retrocedere di un passo: il suo amico si era proposto come volontario in qualità di essere uno dei pochi guaritori della Resistenza, e Leona non aveva avuto nulla da obiettare. Dopotutto anche lei conosceva la magia bianca, dunque avere un guaritore in ogni squadra era stato uno dei principali fattori legati alla scelta dei membri del gruppo. “Non è più la ragazza impaurita che hai conosciuto al Castello, Auron. Devi avere più fiducia in lei, sai?”
“Io ho fiducia in lei. È solo che …”
“Ragazzi, capisco che rendersi conto solo adesso che nel nostro gruppo non c’è nemmeno una bella fanciulla sia una cosa terribile …” disse Matoriv, emergendo da uno strano sportello pieno di fili colorati che avevano trovato lungo una parete del corridoio. “… ma ho come il sospetto che avremo compagnia. Ed anche che quella tua barricata, Aban, sia la cosa più pietosa che io abbia mai visto!”
“Potevi farla tu!” fu la risposta.
Auron sospirò. Avere Aban e Matoriv nella stessa squadra sembrava più una punizione che una garanzia di sicurezza. Se una raffica laser non lo avesse ucciso probabilmente i battibecchi tra i due gli avrebbero dato il colpo di grazia. Non si sarebbero ritrovati inseguiti da un plotone di cloni soldato e di droidi se Matoriv non avesse deciso di aprire un portellone alla sua maniera, ovvero mandando al diavolo qualunque protocollo di sicurezza e generando un incantesimo che aveva immediatamente allertato tutta la base.
Un gruppo di fanti di supporto stava disegnando su dei fogli una pianta approssimativa dei locali che avevano esplorato durante la corsa, ma era poco più dello scarabocchio di qualche piano e non conduceva a nessuna indicazione su come e dove trovare il reattore. A parte proseguire nell’unico corridoio davanti a loro non vedeva altre alternative, soprattutto perché la porta che aveva chiuso con tanta fatica si sollevò e prima ancora di vedere i caschi bianchi dei nemici o le braccia metalliche dei droidi si ritrovò accecato da un raffica di laser rossi e azzurri sparati alla rinfusa nella loro direzione mentre un oggetto appena lanciato dai loro nemici iniziò a liberare fumo scuro.
Il rumore del metallo contro altro metallo non riuscì a coprire un insulto di Aban mentre la sua lama affondava contro il primo di quei droidi facendogli saltare le giunture di quelle che sembravano “gambe”. La macchina cadde a terra, ma iniziò a muoversi sulle braccia prima che uno dei ragazzi lo colpisse con una delle scatole del magazzino. “Non rimaniamo fermi, iniziate ad andare avanti!”
Ma verso dove?
“Sparate!” gridò uno dei soldati imperiali. “Allertate tutte le unità del livello, non lasciateli scappare! Isolate gli ascensori del nono settore!”
Una folata di vento uscì dalle dita di Matoriv ed il fumo si diradò, giusto in tempo per Auron di parare un raggio che altrimenti avrebbe raggiunto la testa di Mu. Ne parò un secondo ed un terzo, calò la Masamune su un soldato con una minuscola lama luminosa in mano e quello si afflosciò senza vita, anche se ciò non impedì agli altri assaltatori di dilagare oltre la loro stretta porta. Con la coda dell’occhio vide Aban sollevare un fante ferito alla gamba ed incamminarsi con gli altri verso il corridoio, deviando con la sua spada satura di energia quanti più colpi possibile. Matoriv era andato avanti ad aprire la strada, dunque adesso tutto stava nella velocità delle loro gambe. Un droide massiccio, più alto degli altri, avanzò contro di lui sparando raffiche ravvicinate e scansando con il braccio libero tutte le altre macchine. Auron sollevò la spada come se si trattasse di uno scudo, benedicendo per la prima volta le modifiche che padron Vexen aveva apportato su di essa anni prima, al Castello dell’Oblio. Si lanciò contro di lui fino a vedere ogni cosa color rosso, accecato dai riflessi del laser sulla lama, poi scagliò tutto il proprio peso sul braccio del droide che sosteneva il blaster e lo sbilanciò a terra. Ignorando il dolore colpì il cranio metallico alla testa con una serie di calci fino a quando le luci bianche al posto degli occhi non si spensero. Gli altri soldati si lanciarono contro di lui come un’ondata e li respinse.
“Auron, levati di lì!”
Il tono perentorio di Mu lo sorprese molto più di un attacco nemico. Il suo amico aveva le braccia spalancate, i palmi delle mani rivolti verso l’esterno come se stesse cercando di trattenere qualcosa di invisibile e massiccio premuto verso il suo corpo. Delle sottili strie di luce dorata stavano circondando il sacerdote, muovendosi dal basso verso l’alto come se tutta la stanza, le sue pareti ed il soffitto stessero rispondendo ad un ordine preciso del sacerdote. Auron aveva visto ben poche volte Mu lanciare un incantesimo, ma sapeva che non era una cosa intelligente trovarsi sulla linea di tiro di un mago e con un movimento del gomito si liberò di un assaltatore che lo aveva aggredito alle spalle cercando di sbilanciarlo, scaraventandolo contro la parete. Si lanciò dall’altra parte della parete proprio mentre l’aria iniziò a diventare più fredda e luminosa e la Masamune mandò un familiare calore alla comparsa della magia. Per un attimo l’immagine dei nemici davanti a lui balenò e si mosse come distorta da qualcosa, quasi una figura riflessa in uno specchio d’acqua agitato dal lancio di un sasso. “Crystal Wall …”
Il soldato che aveva appena cercato di ucciderlo corse verso di loro, ma impattò contro una forma invisibile e cadde a terra portandosi le mani all’elmo. Auron si avvicinò a Mu per scansarlo da una raffica di blaster nella sua direzione, ma quelli invece di colpire il sacerdote esplosero in aria riempiendo la stanza di una violenta luce azzurra ed arancione. Un uomo gridò qualcosa, ma persino il suono era ovattato nelle sue orecchie. “Auron, andiamo!”
Lanciò un’ultima occhiata alle loro spalle e si lanciò con il sacerdote nel corridoio. Percorsero almeno qualche minuto senza incontrare nessuno, a destra ed a sinistra soltanto pareti grigie e degli strani pannelli, gli altri dovevano essere andati molto più avanti. Imprecò tra i denti ed accelerò il passo, ma fu costretto a rallentare quando vide Mu appoggiarsi al metallo, pallido come un cencio. Avevano abbandonato gli elmi molto prima, ed adesso la pelle del sacerdote era ancora più chiara della scomoda armatura in cui era intrappolato. Non ci voleva molto a capire che aveva sfruttato al massimo il poco potenziale magico nelle sue vene per creare quella barriera. Gli si avvicinò ed iniziò a tirarlo per un braccio, sorpreso di quanto fosse stranamente leggero senza la sua storica Armatura dell’Ariete. “Al Castello dell’Oblio ti ho visto lanciare magie ben più potenti di questa …”
“Quel posto ampliava i nostri poteri, Auron. Non riuscirei a ricreare uno Starlight Extinction nemmeno attingendo a tutte le mie forze senza il Castello” mormorò, non opponendo nessuna resistenza mentre si lasciava trascinare. Le sue pupille sembravano restringersi, ed Auron si augurò vivamente che l’altro non avesse intenzione di svenirgli in quel preciso momento.
“Smettila di accampare scuse e muoviti!” rispose.
Alquanto distante da loro poteva sentire la voce di Aban alla fine del corridoio. E di certo stava dando degli ordini, soprattutto a giudicare dal rumore di spari che sovrastava la sua voce. Senza dubbio gli imperiali volevano isolarli in quel settore della Morte Nera ed impedire loro di raggiungere gli ascensori –oggetti di cui tutti loro avevano scoperto l’esistenza solo dopo essere entrati a far parte dell’Alleanza- per bloccare qualunque via di fuga. Strinse ancora più forte il braccio di Mu e corse avanti, cercando di allontanare la spiacevole sensazione che forse, da qualche altra parte in quella stazione spaziale, Zachar stava affrontando nemici simili.
Le sagome di Aban, Matoriv e degli altri soldati comparvero in mezzo ad un vortice di scintille e sprazzi di luce di ogni colore. Il corridoio sfociava in una stanza grigia identica a tutte le altre, ma era molto più ampia, circolare, e lungo le pareti si aprivano le familiari strutture di transparacciaio semovente degli ascensori. Lungo di esse delle luci rosse illuminavano a sprazzi l’aria, riflesse dalla luce della spada di Aban che ormai aveva mandato evidentemente a quel paese tutto quello che rimaneva della segretezza della missione ed aveva avvolto il gruppo in una cupola protettiva fatta di pura energia elementale. L’uomo dagli occhiali enormi teneva l’arma bene in alto, senza attaccare, assorbendo con lo scudo incantato ed il suo stesso corpo la pioggia di laser che li circondava.
Prima di partire i Ribelli si erano raccomandati di fare attenzione ai droidi distruttori, quelli che i cloni chiamavano comunemente “droideka”.
Gli ci volle solo un’occhiata per capire che quelli che circondavano i loro amici erano proprio le macchine di cui gli alleati avevano parlato a lungo.
Continuavano a comparire ad ondate: le loro forme rotonde, simili a degli insetti, rotolavano da altri corridoi che giungevano in quell’area, ed un paio emersero dalle porte scorrevoli di un ascensore letteralmente calpestando un uomo privo di divisa o armatura che aveva avuto la sfortuna di trovarsi sul loro percorso. C’era solo pura ed efficiente coordinazione tra loro quando si sollevarono su dei supporti simili a delle sottili zampe, estesero quelle che sembravano braccia ed iniziarono a riversare raffiche laser ancora più intense, ancora più frequenti, ancora più rapide di quelle dei droidi da battaglia che avevano fronteggiato nemmeno qualche minuto prima e che si erano lasciati alle spalle. Auron vide uno dei fanti illuminare le proprie mani come Mu aveva fatto poco prima, ma il labile incantesimo di fulmine che ne scaturì si disperse contro uno strano scudo energetico di cui ogni droideka si rivestiva. La magia sfrigolò nell’aria azzurra, e solo la barriera eretta da Aban impedì che il ragazzo finisse carbonizzato dal riflesso del suo stesso incantesimo. Un altro provò a superare lo scudo deflettore di un droide con una spada: Auron vide con orrore la lama sfrigolare nell’aria azzurrina ed esplodere in migliaia di schegge mentre una raffica della macchina colpì il giovane soldato in pieno petto lasciandolo a terra senza vita, avvolto in una colonna di fumo.
“Resta indietro” gridò a Mu, e lo spinse contro il muro sperando che la stanchezza avesse la meglio sulle tendenze autodistruttive del sacerdote.
Si lanciò contro il primo droide distruttore, deciso a spezzare l’esercito di macchine che aveva ormai circondato i suoi amici. Un paio di droideka cambiarono bersaglio e si spostarono nella sua direzione. Deflesse i primi colpi trattenendo il respiro, cercando di ricordare se, nella sua gloriosa carriera di mercenario, avesse mai fronteggiato nemici in grado di colpire con simile velocità oppure demoni così rapidi da spostarsi al calare dei suoi fendenti. Non trovando un ricordo simile decise di improvvisare.
Gli occhi gli caddero sulla spada del soldato esploso qualche istante prima.
Poteva solo scommettere, e detestò ammettere che tutto era nelle mani dell’inventiva di padron Vexen.
La lama della Masamune entrò nel campo energetico dello scudo deflettore.
Sentì un calore innaturale attraversare la spada ed arrivargli dritto nelle mani. Si impose di stringere l’elsa a costo di perdere le dita, spostandosi appena per evitare una seconda ed una terza raffica ma lasciando la lama dentro l’aria azzurra. Il n. IV dell’Organizzazione aveva temprato la Masamune contro le migliori magie, ma il soldato non aveva mai pensato che il ferro della propria arma potesse anche essere usato in quel modo. L’energia rovente si riversava sulla lama come un fiume in piena, riempiendola di sottili scariche che deformavano l’aria. Stava bevendo quell’energia, ma Auron non sapeva quando sarebbe arrivata al limite. Una stria rossa si propagò sul filo della lama.
Prima che potesse imprecare contro gli dèi la crepa si estese nel ferro e l’immagine del ragazzo ridotto ad un corpo fumante attraversò la sua mente.
Ma non fu la sua spada a scheggiarsi.
Il lampo di luce lo fece barcollare mentre in quel momento lo scudo deflettore si trasformò in un ultimo bagliore e si spense. Il campo energetico, ormai assorbito dalla Masamune, tremolò sotto i suoi occhi e svanì, lasciando il droideka indifeso. Senza nemmeno bisogno di imprimere forza al fendente la sua spada puntò al centro del nemico metallico, superando senza sforzo le due estremità dotate di armi laser. Colpì l’essere insettoide tra capo e collo e quello si trasformò in un groviglio di cavi, schegge ed altri componenti luminosi per cui non provava alcun interesse. Il “braccio” sinistro mirò al suo petto, ma prima che potesse vomitare laser si spense insieme al resto del corpo, mentre tra le mani del soldato la Masamune continuava a bruciare e pulsare, satura di energia: con un ultimo fendente tranciò di netto il suo avversario e mandò i resti a volare oltre i nemici, atterrando vicino all’umano spaventato che si era nascosto in un angolo della stanza. Gli altri due droidi distruttori cambiarono assetto e si appallottolarono una seconda volta, iniziando a girargli intorno; lo stesso fece un altro minuscolo drappello, attirati da lui come insetti su un fiore.
Respirò a fondo. La crepa sulla spada parlava chiaro. Non reggerà un secondo attacco …
“Grazie dell’intrattenimento, Auron!”
Sotto la barriera luminosa di Aban, Auron si accorse di essersi dimenticato di Matoriv. Il mago che negli ultimi tempi aveva trascorso molti giorni con Zachar in qualità di mentore emerse da sotto la cupola energetica, circondato dai giovani soldati che avevano innalzato i loro minuscoli scudi. Uno sguardo verso Aban ed i suoi occhiali appannati dal fumo delle esplosioni gli fece capire che ai suoi compagni non rimaneva molto tempo prima che anche la difesa creata dal soldato crollasse. Intuendo quello che stava per succedere, Auron si portò più vicino agli altri assicurandosi con lo sguardo che Mu fosse nell’angolo dove lo aveva lasciato; si limitò ad usare la spada per parare, anche se per poco non perse l’equilibrio quando un raggio laser lo colpì alla gamba sinistra.
Matoriv era al centro dello scudo, le mani unite come per raccogliere energia. “Visto che ormai la nostra copertura è saltata il nostro compito è tirarceli tutti dietro. Forse così gli altri potranno agire indisturbati”.
Auron stava per chiedergli di chi fosse la colpa se la loro copertura era andata a quel paese, ma si rimangiò tutto quando alla barriera di Aban si sommò lo scudo energetico prodotto dal corpo e dalle vesti di Matoriv. Il vecchio, quasi incurante dell’esercito dei distruttori intorno a lui, si rivolse ad uno dei soldati. “Ragazzo, sai darmi la definizione di mago?”
“Io …”
Qualunque cosa disse il giovane fu sommerso dal fragore degli spari e da un insulto volante di Aban.
“No, risposta sbagliata. Ti concedo un secondo tentativo!”
“Signore, io non credo di …”
“Uff, questi giovani d’oggi …”
La Masamune, ancora piena dell’energia del droideka, riprese a ronzare nel suo palmo mentre sottili scie di luce iniziarono a spostarsi intorno al corpo del vecchio incantatore, che aveva appoggiato per terra il suo bastone e fissava le macchine intorno a loro con un sorriso stampato in faccia. Un sorriso che Auron aveva imparato a riconoscere come chiaro segnale d’allarme che Matoriv stava per dar vita al suo spettacolo preferito. E che era di vitale importanza non trovarsi sul suo raggio d’azione. Matoriv non lanciava Crystal Wall.
“Dicasi mago non colui che sa usare la magia. O plasmare elementi. E nemmeno quell’eremita che si chiude in una grotta a mescolare pozioni. Quelle sono definizioni per novellini”.
Auron vide l’armatura bianca da assaltatore distruggersi, divorata dalla magia. Un braccio si ricoprì di fiamme dalla punta delle dita fino alla spalla. Nella mano sinistra Mera …
“Dicasi mago colui che, quando si trova circondato da nemici …”
L’altro braccio fu avvolto da schegge di giaccio così appuntite che lacerarono anche la tunica circostante. Nella mano destra Iora …
“… apre tra le loro fila UN BUCO GROSSO COSI’!”
Fu troppo per la Masamune. La magia nell’aria iniziò ad abbattersi su tutto ciò che trovava, ed Auron scagliò lontano la spada prima che le dita gli venissero ridotte in cenere dalla magia affamata e dal desiderio di potere dell’arma. Mu, molto più sensibile all’energia magica di lui, si lanciò a terra tenendosi la testa tra le mani imitato dagli altri soldati. Era una vera fortuna che i droideka non potessero percepire quello che stava avvenendo, ed i loro colpi continuarono ad abbattersi contro la barriera che circondava l’incantatore. Matoriv si sollevò in aria di poche braccia, quanto gli consentivano i suoi incantesimi, e rivolse le mani unite contro il punto in cui le macchine erano più numerose. “MEDROA!”
Non riuscì a sentire altro oltre il boato bianco.
C’era solo una sfera incandescente e gelata sospesa al centro del suo campo visivo, e l’aria era così infiammata da quel fuoco misto a ghiaccio che tremolava come fosse sott’acqua. Cercò qualche figura all’angolo dei suoi occhi ma tutto ciò che poteva vedere era marrone, come bruciato da quel sole artificiale. Anche il metallo era diventato scuro, sotto i suoi piedi il pavimento rispose bruciandogli la suola degli stivali e corse ancora più lontano dalla magia. Riuscì solo a vedere Aban disgregare il suo scudo protettivo e lanciarsi lontano dal suo compagno imitato dagli altri, poi le raffiche laser furono inghiottite da quella luce distruttiva, non esplosero ma morirono. Vide l’umano ancora ferito dal passaggio dei droideka cercare di rialzarsi, e con uno slancio prese la sua forma sotto il braccio e trascinò l’incosciente a terra, sapendo che il peggio doveva ancora venire.
Il globo luminoso si accrebbe fino a coprire l’intera figura di Matoriv, poi lasciò le sue mani. Le sue dimensioni aumentarono ancora, nutrendosi di qualcosa che senza dubbio era lì, nell’aria, nel metallo, nei cavi dei droideka e dei loro maledetti scudi deflettori. La prima linea, quella che fino a qualche istante prima aveva riversato i propri laser sul mago, sfrigolò come carne su dei carboni accesi: nel poco spazio concesso dalla luce Auron vide l’aria azzurra degli scudi trascinata via dalla magia, poi i corpi scuri diventare ancora più neri fino ad esplodere, a carbonizzarsi, alcuni semplicemente a svanire proprio nel punto in cui la sfera continuava la sua espansione affamata. Le macchine furono divorante nell’assoluto silenzio degli uomini e nel boato furioso dell’incantesimo liberato che chiedeva, urlava, cercava nemici da attirare a sé: e Matoriv gliene offriva come se nulla fosse, spostando le dita e dirigendo la fonte di potere dove desiderava, quasi ridotto ad un punto nero e verdastro oltre la luce abbagliante della magia.
Un drappello di droideka dell’ultima linea si chiuse su se stesso ed iniziò a rotolare lontano, ma la Medroa non ebbe alcuna pietà. Prese velocità come un freccia scagliata nel cielo e saettò verso di loro, divorando ogni singolo metro che separava il centro della stanza dalle uscite, risparmiando solo ed a fatica i punti in cui loro si trovavano a terra. Trasformò il tutto in una massa di raggi di luce, poi esplose.
Il fuoco che lo investì ebbe la meglio sull’armatura imperiale: anche se sfiorata leggermente questa prese a carbonizzarsi, e la sensazione che una stretta fredda ed una bollente stessero premendo contro le sue costole lo lasciò senza fiato. Si sforzò di premere tutto il proprio peso sull’umano accanto a lui anche a costo di spaccargli un paio di ossa, ed entrambi sbalzarono contro le porte dell’ascensore che l’attimo successivo si aprirono a metà ed esplosero nella conflagrazione mandandoli a cadere in una pioggia di schegge di transparacciaio e metallo fumante. Tutto il resto fu solo un dolore fortissimo contro il petto, l’aria che per un istante mancò nei suoi polmoni e la sensazione che quella magia stesse facendo di tutto per divorargli il corpo. Le sue orecchie si riempirono di un ronzio basso, che terminò in un velo nero davanti agli occhi e la sensazione di essere molto più leggero del solito.



Le esplosioni si protraevano ormai da mezz’ora.
Vexen riusciva a scorgere qualche sprazzo della battaglia dalle finestre del laboratorio: scie fumanti di velivoli abbattuti, il battito d’ali di una viverna, le sagome dei soldati del Fushikidan che le cavalcavano e il riflesso del sole sui loro elmi bruniti. Appena si soffermava anche un istante di troppo a guardare, però, i due demoni di guardia abbaiavano nella loro lingua gutturale e gli intimavano di non interrompere il lavoro. Allora tornava a chinarsi sui componenti dei Nuclei Neri, lanciando di quando in quando occhiate di sottecchi alle vetrate. Ogni tanto un colpo andato a segno provocava lievi vibrazioni lungo tutto il pavimento e le pareti del Baan Palace, ma gli scudi magici eretti dai demoni assorbivano senza danni il grosso dell’impatto. Almeno per il momento.
Far notare ai guardiani che fabbricare Nuclei Neri in quelle condizioni era un azzardo aveva più o meno lo stesso effetto che cercare di convincere Camus a bestemmiare. “Ordini dell’Arcivescovo Stregone”, era l’invariabile risposta, e l’ultimo tentativo di protesta gli era valso una scossa elettrica che ancora gli faceva pizzicare le punte delle dita. Decisamente la flessibilità e la capacità di adattarsi alle situazioni mutevoli non appartenevano al vocabolario dei demoni.
Poi si meravigliano di aver rasentato l’estinzione.
Era la prima volta che l’Impero arrivava a dare battaglia direttamente al Baan Palace. Vexen non era uno stratega, ma c’era qualcosa di innegabilmente strano in quella modalità di attacco: solo navi di piccola taglia, niente artiglieria pesante come sarebbe lecito aspettarsi da un assalto alla roccaforte principale del nemico. Almeno per il momento, lo scontro sembrava più simile a una scaramuccia che a una battaglia vera e propria. Il grosso della flotta imperiale doveva essere bloccato da qualche altra parte, alle prese con il Choryugundan probabilmente. Ma se anche uno solo di quelli che gli imperiali chiamavano “Star Destroyer” fosse arrivato fino a lì, Vexen non aveva il minimo desiderio di trovarsi preso nel mezzo. I suoi occhi continuavano a correre dalle finestre ai demoni di guardia, il Nucleo Nero sul tavolo fermo alla fase di connessione del cristallo catalizzatore da almeno venti minuti.
Dalla postazione di lavoro accanto, Camus sembrava condividere le sue preoccupazioni. La sua espressione tesa e concentrata non aveva nulla a che vedere con il Nucleo Nero davanti a lui; continuava a inserire e rimuovere lo stesso cristallo con un gesto meccanico, e anche lui approfittava di ogni distrazione dei loro carcerieri per gettare occhiate ansiose oltre le vetrate. Ogni tanto si voltava anche verso la porta del laboratorio e rimaneva immobile per una manciata di secondi, come se tendesse le orecchie per cogliere chissà quale rumore sconosciuto. Eppure fuori nel corridoio era tutto tranquillo.
La quarta volta che lo vide ripetere quel gesto lo interrogò con lo sguardo, corrugando lievemente la fronte. Camus abbassò gli occhi, apparentemente ignorandolo e chinandosi di nuovo sul Nucleo Nero, ma Vexen vide chiaramente la sua mano muoversi in un gesto rapido come a dire “dopo”.
Dopo cosa? Cosa sa questo maledetto prete che io ignoro?
Finse anche lui di concentrarsi sul lavoro e scrutò il sacerdote da dietro le ciocche dei suoi stessi capelli. Una gamba di Camus oscillava nervosamente sul posto, e la sua fronte era imperlata di sudore freddo.
Non può essere solo la paura della battaglia. È come se stesse aspettando qualcosa…
Quasi in risposta ai suoi dubbi silenziosi l’ennesima esplosione risuonò in lontananza, attutita dalle difese magiche del palazzo. Stavolta però non veniva da fuori. Veniva da oltre la porta del laboratorio.
I due demoni avevano iniziato a parlottare freneticamente tra loro. Uno aprì la porta e scambiò qualche parola con le guardie all’esterno in tono concitato. Vexen non capiva la loro lingua, ma l’agitazione era palpabile nelle loro voci. Qualcosa stava andando storto. Lo scienziato sentì il palato inaridirsi e il cuore salirgli in gola.
Tutto d’un tratto Camus lasciò perdere il lavoro e mosse qualche passo verso uno scaffale accanto alla finestra, senza mai staccare gli occhi dai carcerieri. Nessuno lo rimproverò. I demoni ora erano assiepati intorno a un Occhio di Zaboera che Vexen non aveva notato prima: lo tiravano per i piccoli tentacoli, lo scuotevano, uno di loro gli accarezzava la testa emettendo sibili preoccupati. Per un attimo la creaturina si volse nella sua direzione, e Vexen trattenne il fiato: dal suo enorme bulbo oculare era sparita la pupilla, completamente ricoperta da una patina opaca e lattiginosa.
Un altro boato si susseguì al primo, e stavolta il pavimento tremò talmente forte che lo scienziato dovette aggrapparsi al tavolo per non cadere. Vicino. Troppo vicino. Riguadagnò l’equilibrio e si precipitò a scagliare un incantesimo di ghiaccio verso le casse dove erano conservati i Nuclei Neri già pronti, e uno dei demoni gli diede addirittura manforte unendo la sua magia alla propria.
Improvvisamente mi date ragione, eh? Se non fosse stato sul punto di morire di paura ne avrebbe certamente sorriso. In pochi secondi i quattro contenitori furono interamente ricoperti da una spessa calotta di ghiaccio che avrebbe reso i Nuclei Neri inoffensivi a qualunque sollecitazione esterna. A meno che non saltasse in aria l’intero Baan Palace, ovviamente, ma a quel punto sarebbe stata la fine per tutti in ogni caso.
“Padron Vexen, prendo un po’ di estratto di lijada per rendere permanente l’incantesimo di congelamento?”
Vexen impiegò qualche istante a dare un senso alle parole dell’assistente.
Estratto di lijada? Avevi il cervello affumicato dall’ incenso mentre sprecavo tempo a insegnarti le erbe? Il pensiero gli morì sulle labbra prima di prendere forma in parole. Camus lo fissava intensamente, la mano già protesa verso lo scaffale dove erano allineate le boccette contenenti la lijada. Il distillato di quelle foglie rosse dalla forma simile ad ali di farfalla non aveva nulla a che vedere con le proprietà del ghiaccio.
Ma questo i demoni di guardia non potevano saperlo. Erano semplici guerrieri di basso rango, micidiali con gli incantesimi offensivi ma bravi a fare poco altro. L’Arcivescovo Stregone sarebbe stato in grado di fiutare l’inganno, ma il Grande Satana lo aveva mandato a chiamare non appena l’attacco imperiale era iniziato. Le parole di Camus erano un messaggio cifrato, diretto solo e soltanto a lui.
Vexen si avvicinò a un altro scaffale ed estrasse rapidamente una boccetta senza nemmeno leggere il cartiglio che la contrassegnava. Ormai conosceva a memoria la disposizione di ogni sostanza e strumento nel laboratorio di Zaboera.
“È un’ottima idea, Camus.”
Con un unico, fluido gesto della mano il sacerdote spazzò via dallo scaffale un’intera fila di boccette di lijada. I demoni sobbalzarono al fracasso di vetri infranti e imprecarono in direzione di Camus, mentre Vexen si affrettava a trangugiare in un sorso il contenuto della boccetta che aveva preso un attimo prima. Estratto di fiori di varin. Antidoto eccezionale contro gli effetti della lijada, uno dei sonniferi più micidiali di origine vegetale che il loro mondo potesse produrre.
L’estratto di lijada aveva una volatilità elevatissima, e nemmeno tutta la magia nel sangue di un demone minore poteva resistere a una tale quantità dei suoi vapori liberata istantaneamente nell’aria. Caddero uno dopo l’altro, i due demoni incaricati della loro sorveglianza, le guardie alla porta, persino il povero Occhio di Zaboera ormai cieco, senza nemmeno il tempo di emettere un solo verso d’allarme. Da fuori, oltre la porta socchiusa, grida soffocate e rumori di battaglia risuonavano sempre più vicini.
“Ora vorresti cortesemente spiegarmi COSA DIAVOLO STA SUCCEDENDO QUI?!”
“Non c’è tempo padron Vexen. Venga con me!”
Camus si era già tuffato a capofitto nella nube rossiccia dei vapori di lijada – doveva aver preso l’antidoto ore prima in previsione di quella mossa – e lo aveva preceduto nel corridoio vuoto voltando rapidamente la testa da una parte e dall’altra.
“Di qua, presto!”
Qua” era la direzione da cui provenivano i rumori dello scontro. Ora Vexen poteva sentirli meglio: gli sembrò di distinguere il clangore di armi metalliche, ma anche il crepitio tipico dell’evocazione di incantesimi. E urla, un intreccio cacofonico di urla confuse.
“Io non vado da nessuna parte se non mi spieghi cosa significa tutto questo!”
“Non è un attacco imperiale come pensano i demoni, padron Vexen” il sacerdote si era messo a correre verso la battaglia e Vexen non poté fare altro che seguirlo, imprecando contro nemmeno lui sapeva cosa. “Le astronavi fuori sono solo un diversivo, il vero obiettivo era entrare nel Baan Palace. Sono amici della Resistenza, padron Vexen. E sono venuti a salvarci.”
Un’altra persona avrebbe accolto la notizia con un grido di gioia. Avrebbe esultato, inneggiato alla Resistenza, gettato le braccia al collo di Camus per ringraziarlo di aver riacceso una speranza a cui ormai avevano rinunciato da troppo tempo. Era tutto talmente improvviso e inaspettato da non sembrare vero.
“La Resistenza… ovvero i tuoi amici preti e Auron?”
“Non di persona. Ma sono amici e alleati, possiamo fidarci di loro, padron Vexen.”
“E tu… per tutto questo tempo tu… alle spalle dei demoni… alle mie spalle… “
La sua voce vibrava di un’accusa immeritata, ne era consapevole.
“Potevi farci ammazzare!”
“Per questo non gliel’ho detto, padron Vexen!” il sacerdote rispose senza neanche voltarsi “se mi avessero scoperto sarei stato solo io a pagarne le conseguenze!”
“Certo, perché il Grande Satana avrebbe creduto che io non ne sapessi nulla! Un piano impeccabile! Ma chiaro, tu non ha neanche idea del rischio che ci hai fatto correre! E poi non vedo perché io dovrei fidarmi dei tuoi amichetti paladini della giustizia! Non li conosco neanche, e non ho alcuna intenzione di finire in un posto dove Auron… “
Camus arrestò la sua corsa e si voltò all’improvviso, e il suo solo sguardò bastò a troncargli le parole di bocca. Vexen si fermò dietro di lui e sussultò quando il sacerdote gli strinse affettuosamente il braccio, come per infondergli coraggio. “L’alternativa è rimanere qui, padron Vexen. Vuole davvero rinunciare alla libertà? Mi dispiace di averle mentito, ma ora le chiedo di avere fiducia in me. Non permetterò che le succeda nulla di male, glielo prometto. Mi prenderò tutti i pugni di Auron, se necessario.”
Stizzito, Vexen si divincolò dalla presa, ma come ormai gli accadeva fin troppo spesso non riuscì a sostenere lo sguardo limpido del sacerdote.
Mi sto comportando da idiota. Insieme a quella consapevolezza lo invase fortissimo il desiderio di schioccare le dita e congelare il suo assistente dalla testa ai piedi, lì sul posto, e insieme a lui il suo dannato sorriso patetico e buonista.
Un tempo non si sarebbe mai azzardato a fare di testa sua, o a prendere decisioni per me.
“Andiamo. Prima che ci trovino” si limitò a borbottare voltandogli le spalle. L’amara verità era che aveva perso il controllo. E Vexen detestava con tutte le sue forze non essere in grado di dominare tutte le variabili di un problema.
È questo che si prova a essere condizionati?
Svoltarono a destra al termine del corridoio e oltrepassarono un piccolo studio in cui gli scaffali rigurgitavano rotoli di pergamena senza miracolosamente incontrare nessuno. I suoni della battaglia ormai erano vicinissimi.
“La malattia dell’Occhio di Zaboera… “ sussurrò Vexen per spezzare la tensione “anche quella è opera tua?”
Ci aveva visto giusto. Solo gli dèi di Camus probabilmente sapevano dove il sacerdote avesse trovato il tempo e la tranquillità per lavorare su una coltura di batteri senza farsi scoprire dall’Arcivescovo Stregone e dai suoi scagnozzi. Doveva aver nascosto le piastre di vetro tra gli strumenti per la fabbricazione dei Nuclei Neri e proseguito con gli esperimenti ogni volta che Zaboera era assente o troppo occupato per badare a lui.
Senza ombra di dubbio, la cosa più irritante era che fosse riuscito a portare avanti un progetto simile alle sue spalle. E dire che, quando lo aveva preso al suo servizio quattro anni prima, quell’idiota non conosceva neanche la basilare differenza tra batteri e virus.
Il sacerdote aveva esposto periodicamente la coltura alla sua magia per modificare il codice genetico dei batteri, rendendoli innocui per l’organismo di umani e demoni ma dannosi per i piccoli e più fragili Occhi di Zaboera.
“Li ho iniettati nell’Occhio che usavo per comunicare con la Resistenza” spiegò. “E ormai dovrebbero essersi propagati a tutti gli Occhi di Zaboera del Baan Palace. Per ventiquattro ore circa saranno ciechi, non potranno comunicare tra loro né con altri Occhi all’esterno. Una volta terminato l’effetto non manifesteranno danni permanenti.”
“Per quanto mi riguarda potevi anche avvelarli tutti con il cianuro.”
“Ma padron Vexen, sono… “
“… esseri viventi, lo so, lo so. Ma toglimi una curiosità… “ sorrise “… i tuoi testi sacri cosa dicono riguardo al creare armi batteriologiche per far ammalare un’intera specie?”
Aveva colto nel segno, e lo sapeva. Camus chinò la testa, i lineamenti nascosti dai lunghi capelli azzurri, e non disse nulla. Il sorriso di Vexen si allargò, ostinandosi a ignorare la parte di sé che si sentiva orribile a torturare il sacerdote in quel modo.
“Se al tuo maestro Shaka danno tanto fastidio le formule chimiche chissà cosa avrà da dire su… “
Un boato più forte degli altri fece quasi perdere loro l’equilibrio. Si appoggiarono alle pareti, il fiato spezzato, le orecchie invase dal frastuono di armi e da urla di rabbia e dolore di cui ormai potevano distinguere ogni parola. Chiunque fosse venuto a salvarli non se la stava cavando troppo bene, e Vexen si maledisse ancora una volta per aver avuto fiducia nei piani di quel maledetto prete.
Si fecero forza e percorsero l’ultimo tratto di corridoio che li separava dallo scontro.
In un salone ricoperto di arazzi una decina di persone combatteva contro quelle che sembravano cinque grosse statue semoventi. Un paio di membri della Resistenza erano a terra, gli altri attaccavano senza sosta alternando armi bianche, armi da fuoco e incantesimi, ma il metallo di cui erano rivestite le statue scintillava come appena uscito dalla forgia e sembrava che nessuno dei colpi tentati dai ribelli potesse scalfirlo.
Gli amici di Camus invece avevano il fiato corto. I loro movimenti erano lenti, goffi, i colpi ormai stanchi e imprecisi. Tutti senza eccezione sfoggiavano una vasta gamma di lividi e contusioni, un elfo dai lunghi capelli biondi si stringeva contro il petto il braccio sinistro ormai inutilizzabile. Non avrebbero retto ancora a lungo.
“Bel salvataggio” commentò Vexen amaro.
Nessuno si accorse di loro finché un membro della Resistenza non fu scagliato proprio ai loro piedi dalla manata tremenda di uno dei mostri di metallo. L’uomo – un tizio dal fisico atletico con i capelli castani e un mantello verde – li fissò perplesso dal pavimento, poi il suo viso si aprì in un sorriso autentico e sincero malgrado il dolore lancinante che doveva provare in ogni fibra del corpo.
“La spia? Camus?”
Il sacerdote annuì e lo aiutò a rialzarsi.
“Mi dispiace… volevamo raggiungervi prima… il gruppo di Gandalf e Mara è diretto al nucleo del Baan Palace e sta tenendo occupato il grosso delle forze, credevamo di avere campo libero… “ una smorfia di dolore gli attraversò il viso nel momento in cui provò a poggiare il piede sinistro per terra. Dovette aggrapparsi a Camus e riprendere fiato prima di continuare. “Ma questi… guardiani… non riusciamo a metterli fuori uso. Nevius dice che sono costrutti animati dalla magia, ma parola mia, non ho mai visto un metallo così resistente, nemmeno il mithril… comunque… “ si sforzò di sorridere ancora “… il mio nome è Aragorn. Camus, a nome di tutta l’Alleanza Ribelle e la Resistenza, grazie. Grazie per quello che hai fatto per noi.”
“Dovete ringraziare gli dèi. Io non sono altro che un misero strumento nelle loro mani.”
“Queste creature piuttosto” tagliò corto Vexen osservando le statue di metallo scintillante. Ora che le esaminava meglio si rendeva conto che nessuna era uguale all’altra: una aveva la testa di un cavallo innestata su un corpo umano, un’altra era scolpita con fattezze femminili e brandiva una coppia di spade affilatissime, una terza era di statura massiccia, con il viso interamente celato da un elmo e due grossi scudi assicurati alle spalle e lunghi quasi quanto le sue braccia.
“Sembrano pezzi degli scacchi” commentò Camus, anticipando il suo pensiero.
“Niente sembra avere effetto su di loro, nemmeno la magia” Aragorn si voltò a guardare uno dei suoi compagni, un mago vestito di viola dai lunghi capelli castani che continuava a bombardare di incantesimi la statua con il viso di donna. Dalle sue dita eruppe prima il fulmine, poi in rapida sequenza una palla di fuoco, una serie di cristalli di ghiaccio, un’esplosione di luce. Poteva mettersi a lanciare coriandoli, e avrebbe ottenuto lo stesso identico effetto.
“Padron Vexen, che io sappia esiste un solo metallo capace di respingere la magia e di rimanere brillante malgrado sia sottoposto a sollecitazioni… “
“Olihargon” terminò Vexen per lui. Perché quel maledetto prete doveva sempre anticiparlo?
“Forse ho un’idea.”
Aragorn e Camus lo guardarono con i volti illuminati di speranza.
E questa è una cosa che non ti ho ancora insegnato, stupido prete. Guarda e impara.
“Ma dovrete coprirmi, e al mio segnale attirare gli scacchi nella mia direzione.”
“Nessun problema!”
Aragorn zoppicò sul piede sano e raccolse la sua spada da terra, posizionandosi tra loro e lo scontro e gridando qualche istruzione ai suoi compagni, che risposero con cenni affermativi e ripresero ad attaccare con più vigore.
“Sarò la vostra ultima linea di difesa” assicurò Aragorn. “Dovranno passare sul mio cadavere.”
Vexen frugò nelle tasche del soprabito dell’Organizzazione, ringraziando l’abitudine ormai pluridecennale di portare sempre e comunque un pezzetto di gesso o di carboncino con sé. Si inginocchiò sul pavimento nel punto in cui la sala degli arazzi si congiungeva al corridoio, valutando a colpo d’occhio distanze e misure, e messo in evidenza il centro con un segno a forma di X iniziò a tracciarvi intorno le prime rune e linee di connessione.
“Posso aiutarla in qualche modo, padron Vexen?”
“No.” Non sollevò nemmeno lo sguardo dal disegno che andava formandosi a spirali concentriche intorno alla X. Non aveva compassi o altri strumenti di precisione, perciò doveva fare affidamento solo sul suo senso per le misure e sulla fermezza della propria mano. Del resto non si trattava di un cerchio particolarmente complicato.
Era per quello che amava l’alchimia, forse più di qualsiasi altra disciplina che avesse mai studiato. Poteva generare veri e propri miracoli, ma non dipendeva dal sangue come la magia, non era legata al capriccio della sorte che al momento della nascita decretava esattamente quanto potenziale magico dovesse scorrere nelle vene di una persona. No, l’alchimia era cervello, inventiva, dedizione, conoscenza: chiunque poteva imparare. Chiunque avesse l’intelligenza necessaria, almeno.
Camus non insistette oltre e andò ad affiancare Aragorn, evocando una barriera di stalagmiti ghiacciate davanti a loro come ulteriore protezione. Ecco bravo, torna a occuparti della manovalanza.
Chiuse il cerchio con un arco perfetto, poi passò a disegnare il più piccolo cerchio di attivazione, a qualche metro di distanza lungo il corridoio. Teoricamente poteva controllare la trasmutazione anche dal cerchio principale, ma meglio mettere tutta la distanza possibile tra sé e quei bestioni di olihargon.
Tracciò per ultima la linea di connessione tra i due cerchi, affiancandola da tre coppie di rune catalizzatrici.
“Ora!” gridò per farsi sentire oltre il frastuono dello scontro. “Attirateli nel cerchio grande, e cercate di non farli uscire da lì!”
Come un sol uomo i membri della Resistenza iniziarono ad arretrare verso il fondo del salone.
“Avanti bellezza!” il mago vestito di viola – un tale Nevius, a giudicare dalle grida di Aragorn - provocò la regina degli scacchi con una serie di piccoli dardi magici sparati a ripetizione dalle dita.
“Vieni a prendermi!”
Il costrutto sembrò infuriarsi e menò una serie di fendenti con le spade di olihargon, ma Nevius non interruppe il bombardamento e indietreggiò saltando fino ai limiti del cerchio.
In ginocchio sul pavimento del corridoio, Vexen appoggiò le dita lungo il bordo del cerchio di attivazione e attese, gli occhi fissi sulle creature di olihargon.
Le rune e i cerchi servivano a incanalare l’energia. Costituivano il tramite fisico, l’insieme di regole, il codice che traduceva gli ordini da trasmettere alla materia oggetto di trasmutazione. Erano necessari, ma da soli non bastavano a generare una reazione alchemica. Potevano essere disegnati in maniera impeccabile, sembrare autentiche opere d’arte in alcuni casi, ma rimanevano ghirigori inerti senza la mano e la mente di un alchimista ad attivarne il potere.
La mente era la chiave. La conoscenza della materia e delle sue leggi di composizione, e la volontà di piegarle al proprio controllo.
“Qualsiasi cosa tu debba fare, falla adesso!” gli gridò Aragorn. “Non reggeremo ancora per molto!”
Non era ancora il momento. Camus e gli altri erano riusciti a circondare gli scacchi e a stringerli all’interno del cerchio, con il sacerdote e Nevius che ora evocavano stalagmiti su stalagmiti per tenerli bloccati il più a lungo possibile: ma i piedi del cavallo erano ancora fuori dal cerchio, malgrado un guerriero dalla spada luminosa lo incalzasse da vicino tentando di spingerlo accanto agli altri.
“Padron Vexen, presto!”
Un pugno della torre mandò in frantumi un’intera linea di stalagmiti, e avrebbe schiacciato anche Camus se Aragorn non lo avesse spinto dietro di sé, parando il colpo con la sua lama. L’impatto fu tremendo, spinse Aragorn in ginocchio strappandogli un acuto urlo di dolore. La sua spada doveva essere magica se poteva resistere senza un’incrinatura a un colpo di quella potenza. Dalle spalle del guerriero Camus si rialzò e fece sorgere dal pavimento un’altra linea di stalagmiti, mettendo Aragorn al riparo dal successivo attacco della torre. Nevius scagliò un’onda di energia magica verso una colonna su un piedistallo e la mandò ad abbattersi dritta sulla testa del bestione.
Non lo avrebbero trattenuto a lungo.
“Lupo Solitario!” gridò Aragorn. “Non importa come, ma porta qui quel maledetto cavallo!”
Il guerriero con la spada luminosa lasciò cadere a terra l’arma. Si lanciò in avanti a braccia tese, e di fronte a una mossa così assurda persino la coscienza limitata e artificiale della bestia di olihargon dovette provare qualcosa di simile allo stupore, perché si arrestò di colpo con un braccio sollevato. Lupo Solitario si buttò con tutto il suo peso contro le sue gambe, avvinghiandole nella sua presa e riuscendo miracolosamente a sbilanciarlo all’indietro. Vexen rabbrividì al rumore di ossa frantumate quando il cavallo calciò via l’aggressore mandandolo a rotolare sul pavimento. Un paio di voci adolescenti gridarono all’unisono, in preda al dolore: “Maestro Lupo!”
Un giovane biondo corse a soccorrere il guerriero caduto, prendendolo tra le braccia. Respirava ancora. Il suo sacrificio non era stato vano: per recuperare l’equilibrio il cavallo era indietreggiato di un paio di passi, quel tanto che bastava ad entrare a contatto con la linea più esterna del cerchio. Era sufficiente.
Vexen chiuse gli occhi e posò i palmi sul cerchio.
Animate dal suo tocco, le rune, le curve e le linee brillarono di una luce così intensa da avvampargli sul viso anche dietro le palpebre chiuse. L’energia bianca e luminosa della reazione alchemica si propagò dal cerchio piccolo a quello principale e avvolse umani e statue di olihargon fino a rimbalzare sfolgorando contro il soffitto. Non aveva bisogno degli occhi per sentirla piegarsi docile e obbediente al comando della sua volontà.
Focalizzò l’olihargon nella mente. Le proprietà fisiche, la composizione chimica, le caratteristiche che lo rendevano il metallo indistruttibile e splendente che era. Esplorò i legami tra gli atomi e le molecole, saggiò la loro resistenza e individuò le crepe, i punti vulnerabili nella sua architettura, i varchi che la sua mente poteva sfruttare per condurre l’attacco. Forgiò il suo pensiero come un’arma e colpì con la violenza di un maglio da fabbro e la precisione di una punta di diamante. Spezzò, recise, infranse senza pietà.
Poi raccolse i frammenti e ordinò alla materia di mutare.
Quando riaprì gli occhi la luce e il calore erano svaniti, e gli stupefatti membri della Resistenza si ritrovarono a brandire le loro armi contro cinque ridicoli burattini di latta.
Un paio di minuti dopo era tutto finito.
“Stupefacente… “ il mago di nome Nevius accostò con cautela il piede alla testa recisa del cavallo. Dallo sguardo incredulo pareva che temesse che il pezzo di latta potesse saltargli addosso all’improvviso. “Non avevo mai visto questo incantesimo… “
“Nessun incantesimo” Vexen si rialzò scuotendosi la polvere dai pantaloni. “Solo una semplice trasmutazione alchemica.”
I membri della Resistenza si occuparono dei loro feriti. Era un bene che tutti fossero ancora in grado di camminare, persino Lupo Solitario che per sua fortuna indossava una cotta di mithril sotto la tunica e se l’era cavata solo con un braccio rotto. Dovevano allontanarsi in fretta. Rumori di battaglia provenivano adesso sia dall’esterno che da qualche parte verso il centro della fortezza – almeno così assicurò l’elfo del gruppo grazie all’udito sopraffino della sua specie – ma avevano attirato troppo l’attenzione, e presto i demoni sarebbero accorsi in forze anche per loro.
Stavano per ripartire quando Vexen si accorse che un giovane della Resistenza – lo stesso biondo che aveva soccorso Lupo Solitario – non staccava lo sguardo da lui. Non doveva avere più di diciotto anni anche se era basso di statura; indossava la stessa tunica verde con mantello del suo maestro e i suoi occhi gli ricordarono quelli di Camus, grandi, azzurri, animati da un inconfondibile scintillio di ingenuità. Teneva la bocca lievemente socchiusa e lo fissava corrugando la fronte.
Gli restituì uno sguardo perplesso.
“Qualcosa non va?”
“Non è possibile… sei tu… “
Il ragazzo si avvicinò di un paio di passi, e lo scienziato di colpo ricordò dove aveva già visto quegli occhi.
“Non mi riconosci… Vexen?”

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Capitolo 28
*** Capitolo 27 - L'ombra di Kaspar ***


Capitolo 27 - L'ombra di Kaspar





Zam kraken




“Le Pietre della Sapienza non sono oggetti magici qualsiasi: ho svolto diverse ricerche nelle biblioteche del Magnamund e del Daziarn per conto del generale West, ma le ore di studio hanno condotto soltanto all’accumularsi di leggende costruite su strati e strati di storia e superstizione. Non vi sono tracce della loro creazione nemmeno negli annali dei Signori della Guerra, il che fa solo pensare che la loro creazione risalga ad epoche antecedenti persino al Grande Vuoto, quando ancora Ishir e Ramas viaggiavano nel Magnamund in forma mortale.
Ma ai militari queste storie non interessano fintanto che il potere di questi sette artefatti non avrà una spiegazione scientifica compatibile con le loro conoscenze. La loro capacità di agire sul corpo umano rasenta l’impossibile: ho visto con i miei occhi ferite causate da lance zwei guarire in un istante quando esposte alla loro luce. Possono agire persino sul sistema nervoso quasi come fanno i Jedi: grazie alle Pietre della Sapienza abbiamo liberato alcuni nostri agenti dal controllo mentale dell’Imperatore Palpatine, e sembra che possano avere efficacia anche su questioni inerenti alla modifica dei ricordi. Qualunque natura abbiano questi oggetti, sono convinto che sia benevola.
Nessun Signore della Guerra avrebbe creato degli artefatti in grado di proteggere la debole vita degli esseri umani.
Altri aspetti da chiarire sono senza dubbio la questione dei desideri ed il teletrasporto […]"
Dai rapporti di Paido, ufficiale di terzo livello dell’unità militare SG 1, pianeta Terra I.




Nel momento in cui riaprì le palpebre su di lui c’era la faccia di Mu. Quando riuscì a metterla a fuoco ed a fermare il mondo che insisteva nel vorticargli davanti al viso notò che i capelli dell’altro erano una massa ispida e priva di forma, bruciacchiati in più ciocche ed incapaci di nascondere i segni di una scottatura lungo la guancia destra. “Amico, sembra che tu sia appena uscito da una visita di piacere nella foresta dei licantropi!”
“E tu da un pomeriggio ai fanghi di Karl, Auron. Adesso cerca di non fare il bambino e manda giù questo!”
Qualcosa di amaro si infilò prepotentemente tra le sue labbra e prima ancora che potesse sputarlo in faccia al sacerdote sentì la testa venire tirata indietro ed il liquido gli scese nella gola. Una discreta sensazione di benessere lo attraversò, anche se non abbastanza da cancellare il sapore che gli ricordava molto più l’unione tra lo sterco del cavallo ed il fango che non una pozione di guarigione. Si ritirò su a fatica, cercando di riprendere conoscenza e recuperare tutte le sensazioni successive al passaggio della Medroa ed al tentativo di sfuggire alla sua fame distruttrice. La testa era pesante come una roccia, ma si rimise in piedi appoggiandosi alla parete ed ignorando le tenere proteste di Mu che lo imploravano di rimanere fermo e prendere un’altra pozione. Gli sembrò di vedere di nuovo la luce accecante nell’angolo dell’occhio, ma la sensazione svanì quando scosse la testa con più forza. Serrò i denti ed osservò lo spazio intorno a loro: il metallo della stanza era bruciato e non rifletteva più le loro immagini. Una patina nera copriva ogni superficie, specie il pavimento dove l’incantesimo doppio si era liberato; l’unica cosa che rimaneva dei droideka era una zampa metallica abbandonata in un angolo, probabilmente strappata via al momento della deflagrazione. Dei soldati metallici rimaneva solo quello, e niente altro.
Era un mercenario, ne aveva viste di tutti i colori. Aveva conosciuto più maghi che prostitute ed aveva qualche volta lavorato in compagnia di incantatori prezzolati, ma poche volte aveva visto, persino tra i demoni, scagliare magie con la stessa potenza di quelle di Matoriv. Zachar era abile, lo stesso vecchio mago aveva dichiarato più volte che il potenziale magico della ragazza era molto più alto del suo ma … Matoriv non si limitava a sentire la magia. La plasmava, la modificava. Aveva assistito una volta ad una seduta di addestramenti di Zachar per migliorare la sua padronanza con gli incantesimi d’acqua, ed il vecchio aveva parlato così a lungo degli incantesimi che gli era venuto il mal di testa. La donna che amava scagliava incantesimi con la stessa naturalezza con cui lui menava fendenti con la spada, ma per Matoriv non era abbastanza.
La magia facile lo annoiava. Aveva assistito qualche volta a delle sue “combinazioni” elementali, ma non aveva mai pensato che potessero avere simili effetti distruttivi. Lo aveva accompagnato qualche volta in delle missioni contro dei demoni minori, e difficilmente il vecchio –che pure aveva la tendenza ad esagerare- creava spettacoli di quel livello. Di magia non capiva assolutamente nulla, ma era sicuro che l’uomo anziano avesse avuto bisogno di molto tempo per convogliare le energie elementali in quell’attacco, e forse capì del perché Aban si fosse limitato a tenere alto uno scudo invece di passare all’attacco. Prima che potesse dire solo una parola fu travolto proprio da Aban, che lo fissò con uno sguardo strano, sgranato, con le iridi dilatate e le pupille strette. “Mu, hai visto i miei occhiali?”
“Non sono Mu, sono Auron”.
“Oh, scusa, sai com’è … Senza occhiali sono un po’ perso …”
Un po’? sospirò Auron, sforzandosi di trovare gli oggetti mancanti. Dovevano essere di qualche materiale incredibilmente resistente, perché erano stati sbalzati contro uno degli ascensori senza che nemmeno una crepa attraversasse il vetro. Recuperò anche la Masamune, che invece versava in condizioni peggiori: non si era disintegrata all’impatto della Medroa come aveva temuto, ma la fessura che attraversava il metallo si era allargata e stringendola tra le dita ebbe l’impressione che la magia assorbita fosse ancora lì, attiva, sotto forma di piccole scariche che ne attraversavano la lunghezza. Avrebbe dovuto usarla con più attenzione.
Mise distrattamente gli occhiali sul naso di Aban e, ignorando i ripetuti “CI VEDO!” fece rapidamente il conto della situazione. L’attacco dei droideka aveva ucciso almeno quattro fanti, ed i giovani druidi responsabili del teletrasporto non sembravano feriti, ma senza dubbio avevano un’espressione provata sul viso. Aban era ancora carico di energie, ma lo stesso non si poteva dire di Matoriv: il vecchio mago era appoggiato alla parete, rifiutando con insistenza le cure di Mu, ma il sorriso beffardo e soddisfatto che lanciava ad Aban non nascondeva del tutto il fiato corto e l’evidente bisogno di riprendere aria. Aveva sempre sentito i guaritori della Resistenza intimare all’uomo di non sforzarsi, ma era chiaro che Matoriv faceva sempre di testa sua. Non ci voleva un esperto in incantesimi per capire che la Medroa gli aveva prosciugato molte più energie di quante potesse metterne in campo: forse era proprio quella la magia che avrebbe voluto scagliare nel reattore della Morte Nera, ma in quel momento la loro priorità era capire cosa fosse successo all’altra squadra e cercare un punto di riunione. Anni di esperienza sul campo di battaglia gli avevano insegnato che quando i nemici sono numerosi non risparmiano sulle truppe, e senza dubbio sarebbe stata questione di minuti prima che l’Imperatore mandasse altri droideka –o avversari peggiori, ma non osava nemmeno immaginarlo- contro di loro. E purtroppo tra di loro soltanto Aban sembrava in grado di opporre una seria resistenza: se si fosse trattato di nemici comuni Auron non si sarebbe fatto problemi a considerare le proprie braccia e le proprie gambe come armi più che sufficienti, ma con quei nemici-macchina non sarebbero stati sufficienti ed avrebbe dovuto ricorrere alle capacità aspiranti della sua spada solo in caso di difesa, perché quella crepa non presagiva nulla di buono.
“Niente, non rispondono!” disse uno dei druidi come a far eco ai suoi pensieri. Quello strano strumento per comunicare, chiamato “comlink” suonava a vuoto nella sua mano. L’ansia per Zachar iniziò a salire. Gli allarmi non cessavano di suonare, e in quell’istante si augurò che fossero per loro, che stessero trascinando in quello spazio tutti i soldati della Morte Nera pur di non sapere lei e soltanto lei in pericolo.
“Forse è il caso di tornare indietro …”
Mu, il pallido Mu diede forma a quel pensiero che senza dubbio si stava formando in tutte le loro menti. “Non abbiamo idea di dove sia questo reattore, non riusciamo a comunicare con gli altri, non siamo realisticamente in grado di affrontare una seconda o una terza ondata di droidi … ma abbiamo ancora i druidi con la connessione al Perno dell’Ade. Possiamo andarcene, non sprechiamo le nostre vite!” i suoi occhi verdi si rivolsero verso Matoriv, che sembrava aver ripreso abbastanza forze la lanciargli uno sguardo torvo. Ma Mu lo sostenne e riprese. “Noi non siamo demoni, non è una questione di onore e disonore. Ma siamo partiti con un piano confuso, che non è nemmeno il nostro. I Ribelli sono abituati a fare commandi in questo posto, ma noi …”
Allargò le braccia. “Gli altri capiranno. Anche se non riusciamo a contattarci capiranno che qualcosa è andato storto, forse hanno sentito suonare gli allarmi avranno capito che la nostra posizione è stata scoperta”.
“Zachar non ci lascerebbe mai indietro! E nemmeno Leona o Dai!”
“Appunto …”
Non aveva mai ritenuto il sacerdote una persona anche solo lontanamente avvicinabile all’aggettivo “minaccioso”, ma l’espressione che aveva messo sul viso era di un serio che gli aveva visto solo durante le traversie al Castello dell’Oblio. Dovevano essersene accorti anche gli altri, perché persino i druidi sollevarono lo sguardo dai comunicatori per voltarsi verso il suo amico abbandonando persino la postazione accanto agli ascensori ed agli ingressi. “Chi di noi vuole rimanere qui e diventare un peso per loro? Stiamo vagando senza meta, siamo sfiniti, se ci catturassero saremmo soltanto un’esca per l’Imperatore, che ne dite?”
“Mu …”
“Io … io sono stanco di vedere la gente morire e sacrificarsi”.
“Disse il sacerdote con tendenze suicide … Mu, detto da te …”
“AURON!”
I suoi grandi occhi verdi erano lucidi. “UN CONTO E’ DARE LA PROPRIA VITA PER GLI DEI, UN CONTO E’ BUTTARLA ALL’ARIA!”
“Oh, un religioso con del sale in zucca! Una cosa rara in questi tempi!”
La voce squillante coprì qualunque risposta –o insulto- che stava partendo dalle labbra di Auron per mandare a quel paese il suo amico. La voce in questione infatti veniva dal punto della stanza cui stava dando le spalle, così impensierito dalla discussione e preoccupato per la debolezza di Matoriv dall’accorgersi che non erano gli unici occupanti della stanza. Ed evidentemente non se ne erano accorti nemmeno i suoi compagni perché tutti si voltarono all’unisono, la stessa espressione stupita dipinta sui loro visi.
L’uomo che aveva parlato sollevò gli occhi da un macchinario su cui stava trafficando, un oggetto metallico di forma cubica che verosimilmente era stato travolto dalla delicatezza della Medroa ed era ridotto ad un ammasso fumante che l’uomo, con un sospiro, allontanò via con un calcio. Auron riconobbe il civile che aveva trascinato con sé al momento dell’esplosione, anche se adesso la sua tuta da lavoro azzurra era strappata per tutta la lunghezza del braccio destro ed il resto era coperto da uno strato scuro di polvere e schegge metalliche. I capelli neri erano un groviglio ben peggiore di quelli di Aban, e lo scrutò dall’alto in basso alla ricerca di armi. Non ne vide o comunque non vide blaster, ma aveva imparato che in quel mondo c’erano strumenti per uccidere che potevano nascondersi nel palmo di una mano. Quasi come di rimando il nuovo arrivato sollevò le mani e rivolse loro un sorriso, poi voltò gli occhi verso Matoriv. “Quella sì che è una magia!”
Il vecchio mago era stanco, ma evidentemente non abbastanza da sollevare la testa e gonfiare il petto per l’orgoglio. “Modestamente è una mia invenzione!”
“Incredibile! Ed io che pensavo che gli utilizzatori di magia fossero degli inetti capaci solo di sparare Palle di Fuoco!”
“Chi sei?”
Auron grugnì, ponendo forse la domanda con più stanchezza del solito. Dopotutto stavano conversando con un perfetto sconosciuto nel cuore della roccaforte nemica, con una probabilità piuttosto alta di vedere in pochi minuti l’arrivo di una seconda, più nutrita carica di droideka. E conosceva abbastanza bene Matoriv dal sapere che sarebbe potuto andare avanti anche per molti minuti nell’autocelebrazione del proprio genio magico senza curarsi del resto del mondo, quindi interrompere quella che stava per trasformarsi in un’inutile discussione fu l’unica cosa che gli venne in mente. Agitò lievemente la Masamune senza alcun istinto minaccioso, e la spada non gli sussurrò presenza di magia o di altro genere. Aveva salvato quell’uomo perché gli era sembrata la cosa più ragionevole da fare, ma questo non faceva di lui un alleato. Era un imperiale, e loro erano membri dell’Alleanza Ribelle pronti a fargli esplodere la stazione spaziale sotto i piedi.
“Io?” rispose lui, quasi divertito dal fatto che gli avesse posto una domanda così elementare. Puntò il dito contro il macchinario che stava cercando di riparare. “Io faccio le pulizie! Più precisamente tutto il settore L del quinto piano e metà dell’N. Bagni delle reclute a parte, quelli sono riuscito a non farmeli assegnare! Voi siete quelli dell’Alleanza Ribelle, giusto?”
Aban sospirò. “Più o meno …”
“Eccellente!”
L’uomo batté le mani, poi se le sfregò. “Sentite, quanto tempo pensate di metterci prima di far saltare in aria tutto? Perché io dovrei prima passare negli alloggi del personale a riprendere i miei libri e dopo mi piacerebbe prendere la via di fuga sul primo cargo in uscita, sapete com’è … Non è che potreste aspettare una trentina di minuti, il tempo di imbarcarmi e trovarmi ad una giusta e congrua distanza di sicurezza?”
Lo guardarono tutti, Mu compreso, cercando di capire e mettere insieme le parole di quell’uomo che sembrava aver ripreso in pochi attimi tutte le energie. I suoi occhi erano scuri, ma non avevano quello sguardo inespressivo che aveva notato nei pochi cloni soldato che era riuscito a vedere senza uniforme. Stava guardando Matoriv, ma Auron ebbe la strana sensazione che il nuovo arrivato riuscisse a vederlo anche se gli dava il fianco. Si portò per precauzione qualche passo indietro, sperando che anche i suoi compagni condividessero i suoi attimi di diffidenza. Il vecchio mago di certo no, perché mandò un verso a metà tra uno sbuffo ed sospiro ed aprì le braccia. “Guarda, dipendesse da me ti darei anche tutta la giornata, se solo sapessimo come raggiungere quel benedetto reattore …”
“Uh, facile. Prendete l’ascensore, scendete al ventisettesimo piano negativo, poi prendete il corridoio di destra ed andate sempre dritti. Contate cinque … no, sei ingressi sulla destra e praticamente siete arrivati. C’è un sistema di aperture laser scorrevoli, ma niente che una persona in grado di creare quella magia di prima non possa aprire. E puff, siete arrivati!”
Aveva l’impressione di non aver capito bene.
Il soldato aggrottò la fronte, confuso. E quella confusione si trasformò in un accavallarsi di domande nella sua testa senza sosta. Il problema era che di solito questi fiumi di dubbi riusciva a risolverli soltanto in un modo: strinse la Masamune con forza, cercando di capire chi o cosa fosse quel piccolo uomo delle pulizie davanti a loro, quell’imperiale che stava rivelando con tanta disinvoltura il punto debole della stazione su cui si trovava. La sensazione di disagio aumentò. Lo scrutò di nuovo, poi scosse la testa. “Per quello che ne so potrebbe essere una trappola”.
L’altro si voltò, degnandosi di mostrare tutta la sua faccia. Stava quasi per ridere. “E per quello che ne so io voi potreste semplicemente uccidermi prima che io dia l’allarme. Suvvia, non siate sciocchi …”
Si portò in mezzo a loro, quasi per trascinare su di sé tutta l’attenzione possibile. I druidi, i soldati, persino il testardo Mu sembravano sospinti a guardarlo. Per un attimo ad Auron sembrò di avere a che fare con un attore itinerante oppure un bardo, di quelli che attiravano gli occhi della gente e li costringevano a piegarsi ed a giocare con il suono delle loro parole. “Approfittate della lezione di oggi. Siete in una situazione estrema, non sapete dove andare, rischiate di morire inutilmente e vi sembra che l’unica opzione valida sia la fuga. Opzione validissima in molte ed opportune situazioni. Ma non oggi. Sapete dove avete sbagliato?”
Riprese fiato, poi continuò. Nessuno di loro riuscì a trovare le parole per rispondergli, ribattere, scusarsi o semplicemente mandarlo al diavolo. Nemmeno lui, e Auron si morse il labbro. “Non avete guardato, signori, guardato! Avevate un’altra soluzione proprio alle vostre spalle e non vi siete nemmeno degnati di chiedermi nulla. Insomma, se non vi avessi rivelato dove andare sareste ancora qui a perdervi tra due scelte una più desolante dell’altra, fatemelo dire. Ed invece, grazie alla mia magnifica presenza –ci tengo a sottolineare certe cose- avete ancora una possibilità di vincere e tornare a casa sazi di una nuova missione. Ah, vorrei specificare che lo faccio solo per ringraziarvi di avermi fatto vedere quella magia interessante, è da qualche anno che non vedevo qualcosa di così straordinario!”
“Io …” Matoriv trovò il coraggio di articolare, ma un gesto dell’altro lo mise a tacere.
“Mi raccomando, almeno trenta minuti, però!”
Si allontanò dal centro della stanza e si avvicinò all’ascensore. Lo guardò qualche istante, come a soppesarlo, poi con una scrollata di spalle cambiò direzione e si diresse verso una delle tante pareti di duracciaio annerite dallo scontro. Da una tasca estrasse un minuscolo oggetto cilindrico e, ignorandoli del tutto, lo appoggiò sul metallo ed iniziò a tracciare dei disegni, come un arabesco senza alcuna immagine precisa. “Aspetta un attimo!”
Mu fu il primo a scuotersi dalla stranezza dell’incontro e fece un passo in avanti. Ad Auron non sfuggì lo sguardo preoccupato che il sacerdote stava lanciando contro quel simbolo circolare che stava prendendo forma nelle mani dell’uomo, ed anche se lui non riusciva a percepire alcuna magia nell’aria ancora satura della Medroa si accorse di avere i muscoli delle spalle in tensione.
L’uomo si voltò al richiamo, e Mu liberò un respiro profondo. “Se davvero sai che abbiamo intenzione di far saltare in aria questo posto … Pensi di avvisare qualcuno? Se riuscissimo nella nostra impresa moriranno comunque tantissime persone”.
“È un problema loro, non mio! Io ho preso le mie precauzioni. È una guerra, e nelle guerre si muore, prete. Ed in queste situazioni il mio pensiero è solo uno …”
Il sigillo sotto le sue dita si illuminò. Mu fece un passo indietro, colto di sorpresa, ed Auron sollevò un braccio per non essere accecato dal bagliore. Quando quello terminò vide che nella parete di duracciaio, che nemmeno i colpi di Aban riuscivano a perforare, si era aperto un foro rettangolare, della grandezza sufficiente per far passare una persona nella stanza attigua.
La figura in piedi davanti a loro sorrise, e per un istante vide in aria una minuscola moneta abbandonare le sue dita, tintinnare verso l’alto e poi ritornare a lui e scivolare nella tasca. Agitò la mano e si profuse in uno scherzoso inchino. “… Valar Morghulis”.
Prima ancora che potesse lanciarsi al suo inseguimento, l’uomo svanì attraverso lo spazio. L’attimo dopo questo si era richiuso, e la mano di Aban si fracassò sulla parete.




“Benvenuti a Kamino, signori”.
Hadler riuscì ad udire la voce di Zam Wesell anche oltre il rumore delle onde che si infrangevano sul ghiaccio. La città di Tipoca City sembrava guardare loro tre con aria di sfida.
Il mago umano, quello che ormai sapeva rispondere al nome di Kaspar, era rimasto indietro avvolto nel suo mantello bianco, gli occhi chiari incredibilmente inespressivi.
Un pupazzo avrebbe avuto più vita, anche se la magia che stava caricando in corpo rivelava assolutamente il contrario.
Baran si staccò dalla destra di Hyunkel, volando fin quasi a raggiungere la figura della donna. La pioggia continuava ad imperversare, ma le gocce che cadevano sul blocco di ghiaccio si trasformavano in minuscoli cristalli acuminati; persino dalla sua posizione il demone minore poteva sentire il gelo dell’incantesimo e l’aura del Cavaliere del Drago cozzare nel tentativo di coesistere l’uno con l’altro nello stesso spazio vitale. “Eravamo attesi?”
La donna sorrise. Dopo aver avuto modo di scontrarsi con lei, Hadler capì perché continuava a fissare Baran negli occhi senza arretrare di un passo o abbassare lo sguardo. Così come capiva benissimo che non si sarebbe spostata semplicemente chiedendo per favore. “Non proprio” disse, sollevando le spalle. “Ma non penserete che il principale stabilimento di produzione dei cloni non abbia le migliori difese che l’Impero Galattico possa mandare in campo, giusto?”
“Abbiamo una missione” tuonò Baran.
“Anche io”.
Il fischio che ne seguì fu così forte che Hadler fu costretto a portare le mani sulle orecchie. Vide solo Baran voltarsi, imperscrutabile, e Sephiroth portare la mano all’elsa della spada. Ne seguì un secondo, meno violento, ma l’attimo dopo i tuoni che rimbombavano nel cielo sin dall’istante in cui erano arrivati furono coperti da un boato fragoroso e continuo proprio sopra le loro teste.
Il cielo sparì.
Tutta l’aria iniziò a tremare, le nuvole scure furono attraversate da minuscoli raggi color verde e rosa, la pioggia diminuì d’intensità fino a rendere lo spazio respirabile. Sottili crepe attraversarono il cielo, lo divorarono, lo disgregarono fino ad assumere delle forme imponenti, metalliche e triangolari. Forme che Hadler aveva imparato a conoscere molto bene.
Sopra di loro oltre venti Star Destroyer, le gigantesche astronavi dell’Impero Galattico, coprivano il cielo oscurando con le loro ombre anche il mare sottostante. Erano apparse dal nulla, sembravano essere nate dal cielo stesso, ed il demone minore sentì i cuori rimbombargli nel petto ad una velocità che non aveva nulla a che vedere con l’eccitazione della battaglia. Ovunque potesse guardare, persino oltre la città congelata, lo spazio era occupato da Star Destroyer che ruggivano furiose e che ancora si spostavano l’una accanto all’altra per soffocare loro ogni via d’uscita. Estese la magia nella loro direzione, ma nessuna presenza di incantesimi di teletrasporto o di illusione era presente nell’aria. Sephiroth distolse l’attenzione dalle onde, fissando lo schieramento nemico senza ombra di sgomento, quella sana paura che Hadler era certo di poter scorgere sul proprio viso se solo avesse avuto il coraggio di abbassarsi e specchiarsi lungo il pelo dell’acqua. Alcune delle astronavi mandarono dei rumori ancora più alti, e dalla loro parte inferiore iniziarono ad aprirsi dei portelli.
“Sistema di occultamento modello Lemelisk Beta. Pura tecnologia imperiale” disse la donna quasi leggendo nei loro occhi. “Non temete, non sareste riusciti a rivelarla nemmeno con i vostri migliori incantesimi”.
Hadler non fiatò. I rumori delle astronavi adesso sembravano sordi e lontani, come se tutta la flotta stesse aspettando un segnale.
“Questo è il mio avvertimento, Generali del Grande Satana. Andatevene subito …”
Incrociò le braccia sul petto, stavolta posando lo sguardo persino sull’angelo “… o scoprirete le conseguenze di attaccare impunemente Kamino e l’Impero Galattico”.
Hadler era stato nominato il comandante in capo degli eserciti della famiglia demoniaca, ma capì subito che questa era una decisione che non poteva e non doveva dipendere da lui: la donna gli aveva rivolto un sorriso trasverso, ma era chiaro che stesse aspettando una risposta solo e soltanto da Baran. Non che questa cosa gli dispiacesse, prendere decisioni vitali non era mai stato il suo forte. Si accorse che gli occhi di tutti, persino quelli vacui del mago umano, stavano aspettando il verdetto divino del Drago.
Baran si staccò da lei. Zam Wesell non perse di vista nemmeno una delle pieghe del suo abito quando lui si sollevò, passando accanto a Sephiroth senza però degnarlo di un’occhiata o lanciare un ordine. Ad ogni palmo che si levava in volto verso le nuvole Hadler sentì la magia pizzicargli contro la schiena e ribollire al richiamo del sangue divino, i suoi cuori ripresero a battere con un ritmo che nessuno avrebbe potuto comprendere. Il Cavaliere del Drago salì in alto, ma non si scagliò contro le astronavi come Hadler aveva sospettato: rimase a mezz’aria, molto sopra di loro ma nemmeno vicino al ventre degli Star Destroyer, immobile come un punto nero che emanava scintille d’oro. La magia continuò a fremere, vide la pioggia che cadeva lungo la sua pelle evaporare e diventare quasi rovente per la rete di incantesimi del suo compagno di battaglia che nessuna di quelle stupide tecnologie imperiali avrebbe potuto superare. La chiamata del sangue divino non si fece attendere a lungo.
Il primo fulmine cadde sul ghiaccio, disintegrando metà del blocco e costringendo l’altro a piegarsi. Il secondo Hadler lo sentì passare accanto all’orecchio sinistro, l’energia cadde, satura della sua stessa magia, e si abbatté nell’acqua in una nuvola di vapore che scacciò con un incantesimo di vento. Il terzo ed il quarto fulmine si persero nella pioggia di scariche che nacque in quell’istante richiamata dal potere draconico di Baran. Al di sopra degli Star Destroyer le nuvole si erano trasformate in un muro implacabile saturo di incantesimi di elettricità che liberarono la loro furia su tutto ciò che trovavano al di sotto del loro dominio; uno degli Star Destroyer non sollevò gli scudi deflettori in tempo ed almeno una trentina di lampi corsero lungo i suoi fianchi metallici illuminandolo fino a penetrare nel cuore dei meccanismi. La nave si inclinò, ancora preda dei fulmini creati dall’incantesimo Gigaiden di Baran, ed i veicoli più vicini furono costretti a rompere la formazione e tutte le contromisure in azione per evitare che la nave colpita le speronasse e le trascinasse con sé nelle profondità dell’oceano che già la attendevano.
Baran era immobile al centro del cielo. Alcuni Star Destroyer fecero fuoco contro di lui, ma l’Aura Draconica era salda intorno alla sua figura ed assorbì i colpi al plasma che avrebbero distrutto persino un palazzo.
Hadler sapeva che non sarebbe nemmeno stato necessario contare fino a cinque per individuare la mossa della mutaforma: Zam Wesell si trasformò nuovamente in un uccello, ma stavolta le sue piume erano luminose come il sole e le ali affilate come spade. Non aveva idea di quale creatura magica stesse imitando, ma il volatile si lanciò in cielo senza evitare o parare i fulmini del Gigaiden. Vi si tuffò dentro caricando il suo intero corpo di saette nemiche per poi scrollarsele di dosso quasi come le facessero il solletico mentre dal becco corto sfuggiva un verso selvatico che forse voleva essere un segno di sfida. Uno dei fulmini chiamati da Baran si contorno nell’aria in maniera innaturale e si abbatté sulla sua forma trasformandola in una sfera luminosa di lampi; altri caddero ancora su di lei evitando le navi avversarie, come se la donna li stesse volutamente attirando lungo le sue piume per difendere gli Star Destroyer. Stava sfidando il Drago con gli stessi fulmini del Gigaiden, e adesso le sue zampe, le ali ed il becco erano quasi scomparsi nel globo che la stava avvolgendo e che cresceva ad ogni folgore che attirava. Hadler istintivamente si protesse con uno scudo incantato, sapendo comunque che avrebbe resistito solo in parte al potere carico che stava ruggendo dalle piume della loro nemica e che si stava apprestando a lanciare nella loro direzione.
Ma non lo lanciò.
Il globo di saette smise di brillare; alcune svanirono nel nulla, come se un’ala nera ne avesse cancellato il passaggio, altre tornarono libere e si abbatterono sull’oceano. Davanti alla mutaforma, proprio nel punto dove l’incantesimo stava per essere liberato, vi era la figura di Hyunkel ancora nella sua nuova trasformazione, la mano destra in avanti proprio davanti al becco della cacciatrice di taglie. “Lei è mia”.
Dal suo palmo nacque un’esplosione di scintille nere che saturò l’aria di incantesimi agitando i sensi del demone minore. La magia dell’Angelo travolse l’uccello giallo in cui Zam Wesell era mutata e la scaraventò in basso, saturando l’aria di pressione fino a spingerla contro le onde. La donna tornò umana per qualche istante prima di essere spinta con violenza ancora più sotto, nel cuore dell’oceano. Per sicurezza Hadler prese quota di un’altra decina di metri e si avvicinò a Hyunkel: gli occhi della creatura antica di cui aveva preso possesso erano fissi verso il basso, certi che non sarebbe bastato un bagno fuori programma per arrestare la furia guerriera della cacciatrice di taglie. “Anche lei si trovava a Coruscant, quel giorno. Voglio solo vendetta per me e per mio padre”.
“Quella donna è pericolosa, Hyunkel”
“Non quando ho il potere di Sephiroth, amico mio … Lasciatemi l’onore di portare al Grande Satana la sua testa!” rispose l’altro, la lunghissima spada sguainata.
C’era Hyunkel, c’era il suo amico dentro quel corpo, ma …
Un brivido corse lungo la schiena di Hadler. Era Hyunkel a comandare il corpo di quell’Angelo nero, eppure da quando aveva iniziato ad usare la creatura ed il Puzzle Millenario aveva l’impressione che non fosse sempre Hyunkel, capitano del Fushikidan, a parlargli. O forse era sempre lui, ma nelle parole spesso sbucava fuori qualcosa, qualcosa privo di forma e carico d’oscurità che lo inquietava. E tremò di nuovo osservandolo in posizione da battaglia, pronto a balzare contro qualsiasi cosa si muovesse. Il compagno si voltò verso di lui, confondendolo con la voce greve del suo ospite. “Hadler, credo che tu abbia altro di cui preoccuparti. Lascia la cambiapelle a me”.
Non gli ci volle nessun sesto senso per percepire la Palla di Fuoco diretta contro le sue spalle: volò in alto lasciandola esplodere nell’aria e poi si voltò, le cinque dita già pronte a rispedire al mittente le sue Flare Finger Bombs. Kaspar, in perfetto equilibrio sulla punta di un cristallo, sollevò due frammenti di ghiaccio residui e li lanciò nella sua direzione: Hadler li evitò, poi scagliò verso l’umano le cinque scintille che si ingrandirono a contatto con l’aria fino a diventare delle sfere roventi. Le mosse con la propria magia, separandole fino a poter attaccare l’avversario da cinque punti distinti e convergere contro l’obiettivo. “Schiva questi, umano!”
Le Flare Finger Bombs corsero al suo segnale, trasformando il piedistallo di ghiaccio in polvere bianchissima. Kaspar emerse da quella nuvola con un salto, coperto dal proprio mantello e con un campo di incantesimi di difesa tutt’intorno; saltò nel poco ghiaccio che rimaneva, schivò un fulmine cadente di Baran e si rimise in piedi su una piattaforma con le mani spalancate per un nuovo incantesimo, come se l’attacco precedente non gli avesse fatto nemmeno un graffio. Per essere un umano sa usare davvero bene la magia …
Il pensiero gli rimase a mezz’aria. Sentì una fitta ad entrambe le spalle, forte e premuta contro le clavicole quasi a spezzargliele. Quando respirò per caricare un nuovo incantesimo si accorse che qualcosa di invisibile stava premendo contro il suo petto bloccandogli il fiato a metà; provò a volare via, ma si mosse soltanto di qualche metro, come schiacciato da una pressione senza corpo che stava investendo anche Hyunkel. Il suo compagno aveva le spalle curvate e l’ala aperta in una posizione innaturale, ma il volto inespressivo non gli permetteva di comprendere se stesse soffrendo o meno. Eresse intorno al corpo una barriera cercando di comprendere da che parte provenisse quella potenza, ma l’unica cosa che riusciva a comprendere era il legame tra l’incantesimo e le dita del mago umano. Cercò di rispondere alla pressione con una magia di vento, ma questa venne stritolata, compressa e rigettata contro di lui.
Sopra di loro qualcosa oscurò il cielo, facendo sparire persino le navi e le nuvole.
Una pozza di oscurità stava prendendo forma, ed in un istante Hadler ne sentì la fame. Cercò di gridare qualcosa a Baran, ma il Cavaliere del Drago stava abbattendo con i suoi fulmini uno sciame di minuscole astronavi dirette verso di loro.
“Un’umano che conosce la magia Ultima” sussurrò Hyunkel, ormai vicino a lui. Stavolta anche il suo capo era chinato in avanti, stritolato dall’incantesimo di oscurità che stava per scendere. “Temo che dovrò davvero testare i limiti di questo corpo. Tu inizia a creare le migliori barriere che hai …”
Hadler non se lo fece ripetere due volte; ignorò il dolore lungo le ossa ed il peso della magia contro la colonna vertebrale, abbandonò qualsiasi forma di attacco verso Kaspar e si circondò di ogni scudo che possedeva, sperando che sarebbero bastati. Intorno al corpo di Sephiroth qualcosa di luminoso iniziò a correre lungo l’abito nero, minuscole scintille verdi e bianche che partivano dalla punta della spada e che ne attraversavano il corpo, i vestiti ed i capelli, trasformandolo in un punto luminoso e vivo al centro di quel campo di battaglia. Hyunkel non era mai stato familiare con gli incantesimi, eppure in quella forma … in quella forma riusciva a fare qualunque cosa. Il corpo dell’Angelo sembrava creare magia da solo, senza bisogno di attingere ad alcuna fonte, ed il demone minore si accorse che il potere che l’altro emanava si riversava lungo le sue barriere, rafforzandole con la sua stessa presenza e con gli incantesimi selvaggi e puri che gli mandavano i cuori in fiamme. Osservò Hyunkel caricarsi di quella magia come una stella e puntare la spada contro la massa nera di Ultima, sfidandola. Ma lo scontro non arrivò.
La forma di Sephiroth rovinò in basso, perdendo in un istante l’incantesimo che stava lanciando. Hadler lo vide sprofondare nell’oceano di Kamino con un tentacolo color bronzo avvinghiato al braccio che impugnava la spada; l’Angelo fu inghiottito dalle onde, e Hadler sentì ancora una volta il potere devastante di Ultima sulle proprie spalle. La magia di Kaspar stava nutrendo quell’incantesimo che cresceva come una piccola luna inghiottendo anche gli Star Destroyer alleati che non erano riusciti a compiere una manovra di disimpegno rapida. Provò a concentrare tutta la magia Tobelura per portarsi lontano da lì, ma né le sue gambe né le sue braccia rispondevano al comando, troppo impegnate a sorreggere quella pressione sovrannaturale che gli strappò un urlo di dolore quando il dolore ed il rumore di ossa spezzate si propagò all’altezza della sua spalla sinistra.
Cercò di vedere la figura di Sephiroth sotto i flutti, ma il suo campo visivo si tinse di nero quando Ultima liberò tutto il suo potere.
I suoi incantesimi difensivi si infransero come un calice di cristallo scagliato a terra, diventarono niente più che frammenti di luce bianca e rossa che vennero avvolti nella magia nera e risucchiati al suo interno. La massa oscura raggiunse il suo corpo, ed Hadler si sentì sprofondare, poi spingere e tirare da ogni parte; cercò di avvolgersi in un manto di fiamme, ma i suoi incantesimi vennero assorbiti da quel globo e si ritrovò a fluttuare nel buio più assoluto, stranamente stanco come se d’un tratto tutte le forze gli fossero venute meno. Aprì gli occhi un paio di volte, comandandosi di non svenire e non cedere alla forza annullatrice di Ultima: cercò di ignorare il freddo che gli stava partendo dalla punta delle dita e richiamò ogni traccia di incantesimo imbrigliata nelle fibre del suo corpo pur di uscire di lì. L’effetto fu persino peggiore, perché non appena la rete di magia iniziava ad avvolgerlo riusciva a sentire il potere avversario che la strappava via come uno straccio, lacerandolo fino al centro del petto come a zittire qualunque sua forma di resistenza. Cercò di non pensare, di resistere al panico di quel paesaggio nero e vuoto che si estendeva davanti ai suoi occhi, di trovare in qualche angolo della memoria un incantesimo in grado di respingere Ultima, ma nel fondo dell’orbita danzavano solo minuscoli Dardi Incantati, deboli Mani Brucianti e le magie più elementari che aveva imparato da piccolo. Sentiva ogni muscolo del corpo implorare di appartenere ad Ultima e diventare tutt’uno con la magia, ma cercò di resistere. Non aveva sentore delle proprie gambe, ma tentò di scalciare per liberarsi, di afferrare qualunque cosa vi fosse in quell’oscurità senza limiti dove poteva solo galleggiare e attendere di essere cancellato.
Invano.
Estese la mano sinistra, ma non riuscì nemmeno a vedere il proprio palmo. Lanciò un grido, ma anche la voce venne inghiottita dal vuoto. Si dibatté ancora un paio di volte, ma persino la mente gli chiedeva di fermare quella patetica scena: era stato investito dall’incantesimo Ultima, non aveva molto senso cercare di combatterla. Estese di nuovo la mano, pronto a tutto, ma stavolta una forza vibrò attraverso la cortina di Nulla come un lampo di luce e lo afferrò per il polso.
Qualcosa lo strinse a sé e lo scagliò verso il basso. I suoi polmoni si riempirono d’aria mentre vide la massa di Ultima crescere al di sopra di lui, lanciata all’inseguimento come una chiazza d’inchiostro che divorava anche degli Star Destroyer. La macchia nera era attraversata da uno squarcio, ma in quell’istante non riuscì a mettere in ordine i propri pensieri perché una voce gli gridò nell’orecchio “Trattieni il fiato, Hadler!”
Inspirò quanto più possibile, rendendosi conto solo in quell’istante di trovarsi in caduta libera sopra l’oceano con il braccio sinistro di Baran stretto intorno al suo torace e la sua aura draconica furiosa come un drago pronto a soffiare.
L’impatto non fu dei migliori: aveva riempito d’aria i polmoni a mala pena per metà, e non aveva ancora iniziato a richiamare un incantesimo per respirare sott’acqua quando si ritrovò di nuovo in quelle acque nere. Ogni osso e muscolo del suo corpo gridava per il dolore dell’ingresso violento, ma si concentrò sulla magia del Respiro e sul calore che il corpo di Baran emanava anche nelle profondità dell’oceano, nel punto in cui stentava a vedere i bagliori della superficie. Scesero in quel modo per diversi metri. La pressione si fece sentire all’improvviso sotto forma di fortissimo fischio nelle orecchie, ma non era paragonabile al dolore che aveva sentito quando Ultima si era manifestata nel cielo ed aveva cercato di inglobarlo.
Poi persino la luce della superficie svanì.
L’incantesimo oscuro evocato da Kaspar raggiunse la sommità dell’oceano.
In un istante Hadler sentì tutta la magia di Ultima riversarsi lungo le onde, nei pesci e nelle altre creature che abitavano lì. La fame di quell’incantesimo iniziò a divorare ogni cosa, travolgendo anche quei relitti di Star Destroyer che erano stati abbattuti dalle folgori di Baran. Sentì di nuovo la forza schiacciante trascinarlo verso il basso e cercare di rompere ogni sua difesa, ma l’oscurità aveva esaurito il suo effetto. Si riversò come un telo nero lungo le onde, aggiungendo al gelo dell’abisso anche un buio sovrannaturale.
L’acqua era gelida. Lo feriva come migliaia di aghi, entrandogli nelle ferite. Cercò di scorgere il viso di Baran, ma l’oscurità era così forte che non riuscì a vedere l’espressione scolpita sul viso accanto al suo, troppo preso nel sentire le propaggini terminali di Ultima per voltarsi nella sua direzione ed illuminare la discesa. Hadler riprese a respirare solo quando finalmente l’incantesimo del mago umano si dissipò e sentì il braccio del suo compagno di viaggio allentare la presa intorno alle spalle.
Scesero insieme ancora per diversi metri senza toccare il fondo.
Cercò di chiudere la mente per qualche istante, di fare ordine nei suoi pensieri e nel calmare i cuori che gli martellavano contro il petto: quel Kaspar era riuscito a dar vita ad uno degli incantesimi più potenti e ricercati della famiglia demoniaca, uno di quelli che anche il Grande Satana consigliava di usare con la massima cautela per l’ingente potere distruttivo difficile da tenere sotto controllo. Il mago umano lo aveva usato senza restrizioni, travolgendo nella sua potenza persino le navi alleate e verosimilmente distruggendo centinaia di vite dei suoi sottoposti solo nella speranza di colpire lui o Sephiroth. Dalle informazioni ottenute dal viceammiraglio Kratas sapevano che Kaspar era sotto il controllo di un condizionamento mentale, ma evidentemente questo non ne diminuiva la potenza o la pericolosità.
Si scoprì a stringere i denti con rabbia.
Non era riuscito a fermare la magia di un semplice umano. Si era fatto catturare nel vortice di Ultima come un pesce in una rete, aveva permesso a quella magia di inghiottire i suoi incantesimi come se fosse un piccolo demone di un secolo o due. Se non fosse arrivato Baran …
Una violenta corrente d’acqua di colpì in pieno e li scagliò lontano, ma a giudicare da come il Cavaliere del Drago lo afferrò e lo sospinse in avanti era giunto proprio dove desiderava. Ora che la superficie consentiva a qualche sparuto raggio di luce di passare ne capì il motivo.
Hyunkel si era appena liberato dal tentacolo di una bestia spaventosa, quello che a Hadler sembrò per un attimo una versione più grande e chiara dei kraken che popolavano gli abissi di Cephiro. Gli occhi vitrei li fissarono per un istante, poi i tentacoli ripresero a muoversi in direzione del loro bersaglio originale. Probabilmente il corpo di Sephiroth doveva essere in grado di respirare sott’acqua, perché Hadler non sentì provenire da lui nessuna magia, nessun incantesimo in atto; la sua enorme spada era caduta da qualche parte sul fondale e tutti i movimenti dell’Angelo lo portavano a salire, scendere, inabissarsi di nuovo, muoversi tra un attacco e l’altro per trovare l’arma. L’enorme ala per un istante si aprì per bloccare un colpo, ma la bestia ne approfittò per generare una corrente che si abbatté sulla distesa di piume nere trascinando il resto del corpo indietro, lontano da qualunque obiettivo si fosse predisposto. Il demone generò una protezione per impedire alla spinta di trascinare se stesso ed il suo compagno ancora più lontano, ma si trovò comunque diversi metri più dietro prima di riuscire a piegare quella gigantesca massa d’acqua; creare un incantesimo sotto il livello dell’acqua era estenuante, si ritrovò ad ammettere. La famiglia demoniaca aveva sempre e solo dominato i cieli, ed erano pochissimi i demoni che sapessero nuotare.
E quasi nessuno muoversi, combattere e lanciare incantesimi in quelle condizioni. Forse nemmeno un Cavaliere del Drago.
Zam Wesell si era scelta il campo di battaglia. E Hadler aveva ancora delle ferite aperte dal loro ultimo scontro a Coruscant, quello in cui la donna gli aveva generosamente offerto di prendersi un vantaggio. Non voleva sapere cosa sarebbe successo se fosse stata lei a dettare le condizioni dello scontro.
Una donna che sa quello che fa, pensò mentre cercava di riprendersi dal colpo subito. Il groviglio di tentacoli era ancora lì, pronto a ricacciarli indietro. Una grande guerriera.
La donna mutata in kraken riprese l’offensiva su Hyunkel: la spada dell’Angelo era ancora da qualche parte sul fondale, e non appena quello cercava di lanciare un incantesimo la cacciatrice di taglie lo incalzava, approfittando di quanto fosse difficile anche solo resistere a certe profondità dove un umano normale o un demone inesperto sarebbero morti schiacciati dal freddo e dalla pressione. Le mani del loro compagno si muovevano senza sosta, ma quando cercava di allontanarsi la donna modellava le correnti per afferrarlo, quando tentava di lanciarsi contro il centro del corpo quella lo scagliava lontano. Provò ad abbandonare il duello ed a risalire, ma l’ala era d’impiccio in quella manovra e lo rallentava abbastanza da permettere alla mutaforma di riafferrarlo e continuare. Un gioco estenuante e di logoramento dove la creatura marina sapeva di poter avere la meglio. E Hadler conosceva troppo bene la caparbietà e l’ostinazione di Hyunkel: il suo compagno umano avrebbe giocato fino all’ultima goccia di energia.
Finché rimaniamo qui faremo soltanto il suo gioco, rifletté. Dobbiamo portarla di nuovo in superficie.
La prima ed unica nota di sollievo fu accorgersi che Baran lo stava fissando con un’espressione severa negli occhi. Hadler sperò solo che il Cavaliere del Drago avesse avuto la sua stessa idea.
La speranza diventò una fiamma accesa quando il diadema di Baran riprese a brillare di luce propria, squarciando l’oscurità con un bagliore di raggi dorati che si tinsero di rosso quando il simbolo del drago comparve sulla sua fronte. I cuori di Hadler reagirono d’istinto, affamati e richiamati da quel potere così selvaggio ed alla loro portata, richiamando tutto d’un fiato la magia che credeva essersi addormentata. Ignorò la pressione ed il freddo, smise anche solo di muoversi o galleggiare e lasciò che i propri incantesimi si unissero alle correnti e scorressero con loro come un’unica corda tesa fino allo spasmo. La donna spostò una seconda massa d’acqua verso di loro, ma stavolta la loro magia riuscì ad afferrarla e ad aggrapparvisi, tutta l’energia dentro di lui si modellò lungo quella forza e vi corse dietro, la assecondò nel movimento e poi la evitò mandando la corrente altrove. Si mosse insieme a Baran, puntando alla testa del mostro.
Una massa di tentacoli cercò di fermarli, ma le loro energie combinate li separarono come fossero le mani di un gigante; continuarono a bruciare magia risuonando uno con il sangue dell’altro, come uno stormo di draghi lanciati all’inseguimento della preda. Qualsiasi altro movimento, qualsiasi altro pensiero sarebbe stato solo d’intralcio, lo stesso Baran aveva lasciato la Spada del Drago Diabolico nel fodero e si era trasformato in energia pura e semplice, un fulmine scagliato solo in una direzione. Hadler si rese conto che non stavano nuotando o volando: non c’erano braccia o gambe, si sentì come una freccia scagliata da un arco, i polmoni in fiamme quando lo stesso incantesimo che gli consentiva di respirare sott’acqua si fuse con il resto della magia e lo abbandonò, trasformandosi anch’esso in potere primitivo che venne scagliato insieme ai loro corpi contro la mutaforma.
Non seppe dire se l’avessero colpita o meno.
L’oceano si trasformò in un’esplosione dalla violenza impensabile. La luce illuminò per un istante tutto l’abisso, poi Hadler sentì le acque nere rivoltarsi contro di lui, agitarsi e premere, e quando la magia smise di battere nel suo petto non poté fare altro che lasciarsi trascinare dalla corrente, prigioniero di un vortice gigantesco. Trattenne il respiro e chiuse le labbra, cercando di trovare un equilibrio che gli consentisse di non affogare proprio nel momento in cui lui e Baran avevano giocato il tutto e per tutto, l’istante in cui aveva sentito cosa volesse dire essere un Drago, soffiare come lui, bruciare come lui. Spinse le braccia verso il basso cercando di darsi una spinta e di uscire da quella prigione d’acqua per trovare aria; il suo corpo si contrasse e le gambe gli mandarono una fitta che si propagò fino alla punta delle dita, ma quando sollevò per la seconda volta la testa si accorse di respirare di nuovo, e quella che lo stava accogliendo era la superficie dell’oceano. Ignorò le onde, ignorò i residui del vortice, aprì la bocca ed inspirò tutta l’aria che trovò, troppo stanco per pensare agli Star Destroyer, a Tipoca City ed ai Nuclei Neri andati perduti. Il piacevole tepore che gli si espanse nel petto per un attimo ebbe il sopravvento su tutto, lasciando sprofondare l’oceano e la battaglia in un velo di silenzio.
Chiuse gli occhi, ascoltando i battiti dei propri cuori esplodergli fin dentro il cervello, dietro gli occhi e su per la gola, ma un secondo e più abbagliante raggio di luce passò al di sotto delle sue palpebre e lo costrinse a guardare in alto.
La mutaforma era tornata nella sua forma umana, probabilmente indebolita dall’impatto della loro magia, e si trovava ancora a mezz’aria circondata da una nuvola di schizzi e vapore. Sephiroth –il cielo solo sapeva come fosse riuscito a recuperare la spada in tutta quella confusione- torreggiava in volo diversi metri sopra di lei, la mano destra spalancata.
“Baran, Hadler, grazie per l’aiuto” disse, riuscendo a farsi udire oltre le folgori e le navi da guerra che stavano riaprendo il fuoco contro la figura massiccia di Baran. Per un istante al demone sembrò di sentire di nuovo il tono gentile ed arrendevole di Hyunkel in quelle parole, ma si scosse subito quando sentì l’energia crepitare in un incantesimo che non aveva mai visto. “… ma a lei ci penso io”.
Rendendosi conto di trovarsi proprio nel punto sbagliato, Hadler richiamò tutte le forze residue e prese di nuovo il volo, gli occhi puntati sulla magia del suo compagno.
Se Ultima era il manto della notte, quell’energia accecante era come un piccolo sole.
O forse qualcosa di più.
Fu come se tutto il cielo si riversasse nella sua mano. Le astronavi scomparvero, sommerse da un’energia furiosa. Strie blu percorsero l’aria, quasi come antiche rune, disegnando un cerchio che trovava il centro nel palmo della mano dell’Angelo furioso. Lo stesso Baran iniziò ad allontanarsi trascinando con sé i pochi Star Destroyer sopravvissuti a quella furia antica, un incantesimo che il demone minore non aveva mai visto, percepito o nemmeno sentito narrare nelle storie degli anziani. Fu come se la notte, le stelle, la luna ed il sole cadessero sopra di loro lasciando spazio soltanto ad una luce bianca ed insopportabile, forte e veloce quanto una stella cadente.
Una stella cadente che si avvicinava di secondo in secondo verso la mutaforma ancora sospesa in aria.
Non ce la farà. Non può farcela.
Sephiroth era l’unico punto nero al centro di quel sole. I suoi capelli chiari sembravano una raggiera intorno ad un viso che anche in mezzo a quella luce si mostrava inflessibile, privo di qualunque espressione che mostrasse gioia, odio o sollievo. Una creatura che non apparteneva né agli umani, né ai draghi né ai demoni, un essere unico in grado di lanciare una concatenazione di incantesimi così distruttivi a cui forse nemmeno il Grande Satana avrebbe saputo o potuto opporsi. In quegli istanti il demone minore ignorò tutto, anche il bruciore sul fondo della retina, per poter osservare la potenza dell’angelo di cui ora soltanto Hyunkel sembrava avere il comando. Il Puzzle Millenario legato al suo collo sembrava incandescente, ma gli abiti neri non si copersero di fiamme. Rimasero immobili insieme al loro padrone ed affondarono insieme a lui in quella luce che cadeva, distruggeva e divorava tutto quello che incontrava davanti a sé seguendo la mano della creatura che indicava senza pietà il suo bersaglio. Sembrava davvero una stella staccata dal resto del cielo.
Vide il corpo della mutaforma cambiare, ma troppo tardi. La massa di energia cadde su di lei e la travolse nella caduta: la figura della donna svanì nella luce in una vampata di fiamme.
Poi la stella si abbatté su Tipoca City.
Quel poco che era rimasto del manto di ghiaccio fu polverizzato all’istante. Non ebbe tempo di sciogliersi, ma si trasformò in vapore non appena il sole in miniatura si avvicinò allo stabilimento di clonazione. Il boato fu così forte che Hadler dovette richiamare un incantesimo Muro di Silenzio intorno a se stesso per proteggersi, e creò in fretta un secondo livello di barriere per proteggersi da tutto ciò che esplose in ogni direzione. La prima città dei clonatori si piegò in due, e vide la piattaforma principale di atterraggio crollare priva del suo pilastro ed inabissarsi tra i flutti: il bianco e l’incantesimo si dissolsero in un ultimo bagliore accecante, e quando Hadler riuscì ad aprire gli occhi trovò uno spettacolo di devastazione mai visto prima. I sottili corridoi che collegavano tra loro le piattaforme di Tipoca City erano state disintegrate, i vetri di transparacciaio trasformati in milioni di schegge. Il calore della stella aveva colorato i pochi compartimenti ancora in piedi con una minacciosa ombra nera.
Il punto in cui l’incantesimo di Sephiroth aveva incontrato la base era semplicemente esploso. Le aree limitrofe, quelle che erano rimaste colpite soltanto dalle ultime propaggini, iniziarono a crollare una dopo l’altra con i piloni indeboliti e consumati dalla magia e dalle onde enormi che questa aveva creato, lasciando che intere aree della città si riducessero a edifici senza forma che si inabissavano come giganti a cui fosse stata sottratta d’improvviso la terra sotto i piedi. L’oceano di Kamino si aprì, lasciando che quasi tutta l’enorme città sprofondasse. Gli allarmi e le grida degli uomini cessarono quando anche dei minuscoli velivoli che probabilmente si erano presti per dare supporto alla base di clonazione furono travolti nel crollo dei pilastri annullando del tutto qualsiasi possibilità di salvezza. Altre navi si staccarono dagli Star Destroyer, ma Baran le intercettò prima ancora che potessero anche solo avvicinarsi al loro obiettivo.
Hadler trattenne il fiato: negli ultimi anni avevano condotto centinaia di campagne contro villaggi e città di Cephiro, ma nessuna aveva condotto a risultati così eclatanti. Città come Papunika bruciavano sotto il fuoco ed i fulmini della famiglia demoniaca e del pugno di Baran, ma erano semplici mura di pietra, capanni di legno, spade in acciaio che avrebbe potuto spezzare perfino a mani nude. Ma quel potere era … diverso.
E, per quanto fosse controllato dalla volontà di Hyunkel, si accorse di tremare come se vi fosse qualcosa di incredibilmente sbagliato.
Stava osservando l’ennesima torretta di controllo ridotta in macerie quando il lieve pizzicare nella magia lo costrinse a voltarsi.
Un lieve lampo di luce verde comparve su un pilastro tranciato a metà. La piattaforma che sorreggeva era rimasta travolta nell’esplosione, ma quella colonna di duracciaio tranciata a metà era ancora ferma in mezzo alle correnti, sporgendo solo per qualche metro dalla superficie delle acque.
Zam Wesell e Kaspar emersero da quel guizzo di luce, la cacciatrice di taglie che stringeva con una mano il polso del mago e con l’altra un sacchetto che il demone si accorse solo in quel momento di averglielo visto al fianco per tutta la durata dello scontro.
Non gli ci volle molto a capire cosa fosse successo.
Il viceammiraglio Kratas non faceva altro che parlare delle Pietre della Sapienza, l’unico mezzo a disposizione dell’esercito imperiale per teleportarsi su qualunque scala, l’unico artefatto magico che permetteva agli Star Destroyer di raggiungere Cephiro nell’arco di pochi istanti quando anche il loro “iperspazio” avrebbe richiesto mesi e mesi di viaggio. Killvearn aveva confermato quella versione. Quelle sette pietre erano la chiave di volta dell’Impero Galattico ed in quell’istante, in quel preciso istante, si trovavano sul campo di battaglia alla loro portata.
La donna doveva averle usate all’ultimo momento per sottrarsi all’attacco di Sephiroth, ma era chiaro che non ne fosse uscita indenne. Anche a quella distanza riusciva a vederle le gambe piegarsi per la stanchezza fino a farla cadere sulle ginocchia sull’orlo del pilastro. La testa era china in avanti: l’elmo era svanito chissà dove, ed i capelli rossi erano sparsi in ogni direzione, bruciati e coperti di sangue. Dei sottili fili di fumo nero salivano dagli squarci nell’abito. Non appena le sue ginocchia toccarono terra abbandonò la presa sul mago e lentamente, molto lentamente, anche le dita della mano destra si aprirono abbastanza da farle perdere la presa sull’oggetto che le aveva salvato la vita. Il sacco cadde sul duracciaio annerito ed una delle Pietre, una sfera brillante non più grande del suo pugno, scivolò fuori e fece capolino illuminandosi quando un fulmine del Gigaiden cadde a poca distanza dal loro punto sicuro.
Non avrebbero avuto un’occasione migliore di quella. Non avrebbero avuto un’altra occasione per tagliare le ali all’Impero Galattico. Volò verso le due figure senza chiedere consiglio ai suoi compagni, i cuori avevano trovato in un istante tutto il loro vigore: aveva gli occhi soltanto per quel sacco color bronzo e per il suo prezioso contenuto.
Ma la mano che afferrò la Pietra della Sapienza non fu la sua.
Hadler era ancora a diversi metri da loro quando vide delle dita avvolte da un guanto bianco raccogliere la sfera luminosa e rimetterla dentro il contenitore sottile; la magia dell’artefatto si rimise all’opera, ma stavolta non richiamò un incantesimo di teletrasporto.
Hadler accelerò di nuovo con i cuori in gola, sapendo esattamente cosa stava per succedere.
Il Grande Satana aveva ribadito più volte che il condizionamento di Mistobaan non era irreversibile: loro avevano catturato il Membro dell’Organizzazione che lo aveva ridotto in quello stato, ma anche l’Imperatore Palpatine disponeva di metodi di controllo della mente. Tecniche che poteva sciogliere con facilità proprio grazie alle Pietre della Sapienza. Quando gli imperiali erano penetrati nel Baan Palace ed avevano liberato Mistobaan avevano portato con loro quelle gemme, e gli Occhi di Zaboera avevano riportato il particolare che la priorità era non farle toccare al loro Braccio Destro. Zaboera aveva studiato a fondo l’energia magica residua quando i loro avversari si erano teleportati dopo la battaglia, ed aveva confermato la teoria del loro signore secondo cui le Pietre della Sapienza avessero una rete incantata basata unicamente su energia vitale e ristoratrice, quindi avrebbero potuto interagire con la mente di Mistobaan e distruggere persino il castello di ricordi falsi in cui era stato imprigionato.
Degli oggetti magici utilissimi, ma che potevano scardinare in un istante qualsivoglia forma di condizionamento mentale.
Era ormai a pochissima distanza da loro quando gli occhi di Kaspar, fino a quell’istante vuoti ed inespressivi, si accesero di un bagliore tagliente come una lancia di ghiaccio: portò contro il petto la mano che stringeva le Pietre della Sapienza, mentre nell’altra comparve una sottile lama di energia viola e nera. La catena invisibile che legava la mente di quel mago era stata spezzata.
Il demone caricò il proprio braccio di una coltre di fulmini, pronto a respingere l’attacco in arrivo ed a sottrargli il prezioso sacchetto, ma quando l’incantesimo del nemico saettò nell’aria si accorse troppo tardi di non esserne il bersaglio.
La lama viola trapassò la schiena di Zam Wesell con tutta la violenza possibile. Ne seguirono una seconda ed una terza, e la figura della donna cadde in avanti poggiando le mani sul pilastro per rialzarsi. Lei riuscì a voltarsi e provò a portare una mano al blaster che teneva al fianco, evidentemente troppo debole per eseguire anche la più semplice trasformazione, ma il mago le scagliò addosso una saetta che la investì al petto e la rimandò a terra.
Kaspar le si avvicinò, si chinò su di lei e le fece dondolare lentamente il sacchetto contenente le Pietre a meno di un palmo dal viso. “Cercavi queste?”
Per Hadler fu abbastanza: senza più pensare alle sfere magiche trasformò il fulmine lungo il braccio in una cascata di fiamme e vapore. La lanciò sul mago dai capelli bianchi senza riflettere, pensando solo di vedere il suo mantello ed il suo ghigno prendere fuoco sotto la furia del proprio incantesimo: quello si teleportò a qualche metro di distanza, evitò il colpo e provò a contrattaccare, ma Hadler vide un fulmine staccarsi dal cielo e mirare dritto alla testa di Kaspar. Quello usò le Pietre per teleportarsi di nuovo, ma Hadler notò con piacere che il sorrisetto beffardo gli era sparito dalla faccia ed i suoi vili occhi chiari erano spalancati per il terrore mentre Baran stava calando dall’alto con la Spada del Drago Diabolico illuminata dalle folgori e dagli ultimi bagliori degli Star Destroyer che si stavano inabissando nell’oceano.
E, seppur stanco per l’incantesimo, anche Hyunkel stava arrivando.
Il demone lanciò le Flare Finger Bombs contro il mago, ma stavolta quello richiamò parte delle onde sottostanti e se le avvolse intorno al corpo come un mantello, vanificando il suo attacco e trasformandolo in una nuvola di vapore. Mise la mano libera nel sacco, e la luce verde segnò l’inizio del teletrasporto. “Se fossi in voi, demoni, mi godrei questa vittoria. Mi piacerebbe davvero poter vedere la faccia dell’Imperatore Palpatine quando scoprirà cos’è successo …”
“L’unica cosa che la tua faccia vedrà, umano …” sibilò Hadler “Sarà il fondo di questo oceano!”
“Oh, beh, non sono così pazzo da rimanere qui. Mi godrò il sapore della vittoria altrove! E vi assicuro che già adesso è delizioso!”
Tutta l’acqua intorno al suo corpo congelò all’istante, trasformandosi in una lunghissima lancia. “Ora scusatemi, ma non posso proprio rimanere con voi. Come direbbero sulla Terra I … au revoir!”
Hadler aprì la mano, mirando al suo collo, ma le sue dita strinsero soltanto aria. La luce verde guizzò come un lampo e l’umano sparì lasciandosi come ultima scia una risata vomitevole, teleportato in chissà quale remoto angolo dell’universo. La lancia di ghiaccio attraversò l’aria, ma Baran la intercettò prima che potesse umiliare per l’ennesima volta il corpo senza vita della cacciatrice di taglie.
Di Zam, chiuse gli occhi Hadler. Di Zam Wesell.

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Capitolo 29
*** Capitolo 28 - Nel cuore della battaglia ***


Capitolo 28 - Nel cuore della battaglia





Aban




Se non è stato Kaspar, è stato un Membro dell’Organizzazione.
Se non è stato un Membro dell’Organizzazione, è stato Kaspar.
Infallibile tecnica ribelle per scoprire le cause dei disastri nella galassia, dall’unghia incarnita di Mon Mothma alle pieghe spaziotemporali che uniscono gli universi paralleli.





Auron appoggiò la mano al parapetto, stringendo la barra di metallo per mantenere l’equilibrio.
“Ti avevo mai detto che soffro di vertigini, Auron?”
“No, Mu” sospirò. “E credimi, avrei preferito scoprirlo in un altro frangente”.
Avanzarono cauti, un passo alla volta, Auron che aveva insistito per guidare la fila e Matoriv che la chiudeva, lasciando al centro i pochi druidi superstiti all’assalto dei droideka per garantire il teletrasporto. La passerella su cui si trovavano non era larga più di due braccia e sembrava un sottile filo metallico in confronto all’enormità del reattore, il cuore pulsante della Morte Nera su cui si trovavano a camminare. Il reattore, il grande pozzo vuoto, era più largo del lago Mataroi: sopra e sotto di loro non vi era altro che vuoto senza fine, una cavità così profonda di cui era impossibile vedere il fondo, alimentato con qualche strana forma di energia meccanica che Auron si rifiutava di comprendere. Sapeva solo che guardando in basso qualcosa bruciava più vivo di un sole, mentre guardando in alto l’assenza del soffitto trasformava quel posto in una volta oscura. La passerella su cui si trovavano era l’unica a collegare il resto della Morte Nera all’enorme pilastro metallico al centro del pozzo di reazione, un lunghissimo cilindro dentro il quale si trovavano i meccanismi in grado di regolare l’attività del reattore, almeno stando a quello che aveva detto l’Alleanza Ribelle. Distruggere il sistema di controllo all’interno del pilastro avrebbe rappresentato il collasso per l’enorme stazione spaziale.
Auron si guardò intorno cercando di individuare telecamere o dispositivi di difesa. Per giungere fin lì avevano abbattuto diversi sistemi di difesa, e ciò che preoccupava il mercenario era proprio il fatto che fossero giunti ad oltre metà della passerella senza essere accolti come minimo da una raffica di laser. E lo preoccupava Zachar.
Sebbene le informazioni dello strambo uomo delle pulizie fossero state precise e dettagliate, durante il percorso non avevano trovato traccia dei loro compagni: Aban aveva persino cercato di dare un’occhiata ad una stanza deputata alla sorveglianza a distanza, ma dei loro amici non ve ne era traccia. Riassestare i comunicatori era stato inutile, e per quanto Mu gli ripetesse ad ogni passo che Zachar era abile ed in grado di difendersi lui scuoteva la testa, gridando anche troppo ad alta voce che sarebbe stato tranquillo nel momento in cui l’avrebbe rivista. Ma non vi era segno né di lei, né di Leona, di Dai o degli altri membri della squadra.
Sotto di loro qualche motore doveva essersi messo in funzione perché il condotto diventò incandescente per una frazione di secondo, creando un lampo abbagliante che illuminò il cuore del reattore. Un rumore sordo si attivò molti livelli sotto di loro.
Mancava meno di una decina di metri all’accesso del pilastro, una porta metallica blindata non dissimile da tutte quelle che avevano sfondato per arrivare fin lì. “Se vi dico che secondo me è strano non trovare nemmeno una guardia nel reattore mi date del guastafeste?”
“Sì, Auron!” gracchiò Matoriv alle sue spalle. “Per una volta che va tutto liscio …”
“LURIDI VERMI, CREATURE STRISCIANTI DI UN PIANETA INFERIORE! NON HO IDEA DI COME SIATE GIUNTI QUI MA PREPARATEVI A SUBIRE LA COLLERA DEL GRANDE IMPERATORE PALPATINE!”
L’inconfondibile timbro di voce li colse alla sprovvista, e Mu fece un salto così evidente che per poco non perse la stretta sul corrimano. Erano ormai alcuni anni che il Braccio Destro del Grande Satana non faceva la sua comparsa sui campi di battaglia, ma non per questo Auron ne aveva dimenticato il tono violento ed autoritario che aveva fatto tremare persino il Castello dell’Oblio. “Matoriv, cos’era che stava andando tutto liscio?”
“PROSTRATEVI DAVANTI ALL’IMMENSITA DEL SUO IMPERO! LA MIA VOCE E’ SOLO UN’ECO DELLA SUA POSSENTE PAROLA!”
Con un debole ronzio la porta blindata che conduceva al centro di controllo del reattore si aprì. Auron non riuscì nemmeno a sbirciarne l’interno che proprio da dietro la porta fece la sua comparsa il famigerato mantello bianco, i misteriosi occhi luminosi al di sotto del cappuccio e l’indice puntato verso di loro. Dal fondo del reattore si sollevò una folata di vento che agitò i vestiti chiari, mostrandone i piedi coperti da qualcosa che aveva tutta l’aria di essere puntuto e metallico. Il soldato mosse lentamente il braccio verso l’alto, sperando di riuscire a impugnare la Masamune prima dell’imminente attacco, ma rallentò quando sentì qualcuno allungargli una gomitata e superarlo lungo la stretta passerella. “Ehilà, Misto, era un po’ che non ci vedevamo!”
Aban si piantò al centro del passaggio, con le gambe ben salde quasi ad impedire a tutti gli altri di superarlo. Non aveva la spada in pugno né stava preparando alcun incantesimo, e con fare tranquillo nemmeno fosse stato ai fanghi di Karl si scrocchiò le dita proprio davanti all’avversario. “Sai, senza di te i duelli sono un’altra cosa. Cerca di capirmi, Baran e Hadler sono due musoni e anche Croco e Hyunkel non è che …”
“COSA OSI DIRE, PATETICA FORMA DI VITA? CERCHI FORSE DI CONFONDERMI CON LE TUE LURIDE PAROLE? GIAMMAI IO AVREI SEGUITO UNA BESTIA SANGUINARIA COME IL GRANDE SATANA! IL MIO CUORE ED IL SACRO DONO APPARTENGONO SOLTANTO AL GRANDE IMPERATORE PALPATINE!”
Bastò il tono della voce per far tremare la loro piattaforma. L’eco si espanse per tutta la lunghezza del reattore come se centinaia di martelli stessero percuotendo le lastre metalliche e Auron ne approfittò della copertura del suo compagno per afferrare l’elsa della sua spada e portarsi in posizione di guardia. Alle sue spalle Mu cercò di calmare i druidi, ma la potenza della voce di Mistobaan attraversò la passerella come il vento impietoso del nord. “IO NON HO CHE UN SOLO SIGNORE! E CHIUNQUE OSI METTERE IN DISCUSSIONE LA MIA LEALTA MERITA SOLO DI FINIRE INCENERITO DALLA SUA COLLERA!”
“Cavoli, era proprio come diceva l’Alleanza! Ti hanno davvero bruciato il cervello, Misto!”
“Aban, potresti evitare di …?”
Auron non terminò la frase.
Il dito metallico dell’avversario si allungò come una frusta. Aban sollevò la spada e lo deviò, ma Auron ne vide la punta saettare e di riflesso diede una violenta spinta a Mu, facendolo cadere lungo la passerella ed evitando che diventasse il bersaglio involontario dell’attacco. Il rumore della spada di Aban contro il dito fu una vibrazione metallica il cui eco rimbalzò per tutto il reattore. Prima ancora che le altre dita potessero prendere vita Aban si abbassò fino a toccare la piattaforma con le mani. “Vai, Matoriv!”
Una saetta guizzò dal fondo della fila: nel punto dove fino a qualche istante prima vi era la testa di Aban comparve un fulmine immenso diretto verso il Braccio Destro ed Auron sentì un soffio di fumo uscire dal proprio abito quando l’incantesimo inondò di luce il sottile camminamento e prese l’altro in pieno petto, scaraventandolo contro il pilastro. Prima ancora di capire cosa stesse succedendo vide Aban rimettersi in piedi con una capriola, scattare in avanti –con una mano a protezione degli occhiali- e fu addosso a Mistobaan afferrandolo per un lembo del mantello, la spada in alto. Un secondo fulmine lo raggiunse, avvolse la spada e la caricò di energia. “Ehi, vedi di non sprecare i miei incantesimi!” gridò il vecchio mago, superando i druidi dalle retrovie e mettendosi al fianco di Mu. Aveva ancora il fiato corto per la Medroa, ma le mani cariche di energia indicavano chiaramente che aveva ancora forza per lottare a dispetto dell’età. “O mi faccio pagare anche il singolo Dardo Incantato. Chiaro, Aban?”
“Chiarissimo, vecchio mio! Ehi, Misto …”
La passerella stavolta vibrò con molta più forza, ed Auron notò che la superficie metallica, liscia e scintillante come qualsiasi bullone su quella maledetta stazione spaziale, era venata, ruvida, e sembrava sull’orlo di esplodere nemmeno fosse fatta di cristallo. Lo stesso pilastro centrale fu avvolto da una scarica azzurra, la stessa che nasceva dal fondo del reattore, ne attraversava il core e poi si lasciava trascinare dalla magia esplosiva di Matoriv fin sul filo della lama di Aban. Una combinazione lievemente diversa da quelle che ogni tanto lui creava con Zachar: quando loro due combattevano in coppia sapeva benissimo che lei avrebbe volutamente limitato la forza dei propri incantesimi per evitare che qualcosa andasse storto e lui dovesse rimanere ferito. Quando Aban e Matoriv combattevano … beh, non risparmiavano nemmeno la più piccola fibra dei muscoli. Quando Aban e Matoriv combattevano insieme liberavano tutta la loro potenza senza pensarci due volte, senza consultarsi e rivolgersi la parola solo in casi di emergenza. L’uno affidato completamente all’altro, il frutto di un’esperienza almeno trentennale.
Auron non si sarebbe mai sentito sicuro sapendo che, alle proprie spalle, un tipo fantasioso come Matoriv sta per lanciare un incantesimo apparentemente senza direzione.
Il secondo ad arrivare fu il vento. Stavolta nessun motore di accese dal basso, nessun rumore di macchine accese, ma prima che Mistobaan potesse liberarsi dalla presa di Aban l’aria corse dal cuore del reattore come un cavallo imbizzarrito. Un druido lanciò un grido e Auron si sporse per impedirgli di cadere nel baratro, troppo incantato dal potere immenso che il soldato era riuscito ad assorbire. I capelli azzurri di Aban si erano sciolti diventando una massa informe e si confondevano con i lampi. “… vediamo se ti ricordi il mio Aban Strash!”
“TUTTI A TERRA!”
Auron riuscì ad afferrare il druido appena in tempo. Al grido di Matoriv ne seguì un fascio di luce accecante che saettò fino al punto in cui si trovava Aban: il guerriero lasciò che tutta la spada assorbisse la magia –prima o poi Auron avrebbe scoperto il segreto della sua lega- e poi saltò in aria: qualunque cosa vi fosse all’interno del pilastro iniziò a ronzare e fischiare, un’ondata di scintille color fuoco accompagnò l’attacco rivolto verso il basso, diretto verso Mistobaan ed il suo petto. L’ultima cosa che riuscì a vedere fu la figura di Mu, in piedi davanti a lui con le braccia allargate, e l’aria color verde ed oro che annunciava la comparsa del Crystal Wall.
Poi vi fu soltanto un enorme lampo di luce.
Auron non riuscì a dire quanto fosse durato. Più di qualunque esplosione, poco ma sicuro.
Anche più della Medroa, dalla potenza senza dubbio più devastante.
Il mondo si tinse di un bianco violento in maniera innaturale, e dietro l’incantesimo difensivo del suo migliore amico persino i suoni ovattati e deboli davano a quella situazione un aspetto minaccioso. L’unica cosa certa e ferma era il polso del druido, totalmente irrigidito per la paura.
La luce si disperse così come era arrivata.
Mu era ancora in piedi, un po’ curvo in avanti ma ancora piantato al centro del passaggio.
Il problema, se ne accorse esattamente l’istante successivo, era che oltre le gambe del sacerdote non esisteva più alcun passaggio.
La passerella che li univa al sistema di comando del generatore era scomparsa. I frammenti, qualora ve ne fossero stati, erano precipitati nel cuore del reattore lasciando solo una scia di fumo lungo il metallo incandescente che segnava il punto in cui l’esplosione dell’Aban Strash era stata fermata dal Crystal Wall. Tutt’intorno a loro le pareti erano annerite, compreso il gigantesco cilindro centrale che sembrava essere stato investito dalla clava di un gigante, una delle superfici completamente dilaniata. Aban era immobile in aria, con la spada ancora in mano che lentamente dissipava la magia che ancora era rimasta imbevuta nella lama: la giacca rossa era quasi del tutto carbonizzata, ed anche a quella distanza poteva vedere la pelle arrossarsi ad ogni istante di più per il calore del suo stesso incantesimo. Ma, nonostante avesse sferrato l’attacco, rimaneva ancora in aria.
Immobile.
I fili comparvero solo quando la luce si diradò del tutto. Erano sottili, quasi trasparenti, ma nel momento in cui anche l’ultimo sprazzo di magia ritornò in Aban questi scintillarono per un istante di un colorito simile a sangue. L’intera struttura centrale di comando ne era avvolta, quasi come una gigantesca ragnatela: i fili sembravano nascere dallo stesso metallo e sollevavano il guerriero senza sforzo, avvolgendogli i polsi, il collo e tutti gli stivali fino al ginocchio. Alcuni si mossero dalle pareti e si avventarono sulla spada cercando di strappargliela dalle mani, ma l’altro aveva abbastanza forza da non cedere la presa e rimase a metà, stringendo l’elsa con forza mentre la lama svaniva dietro i fili. E non aveva bisogno di conoscere il burattinaio. Al Castello dell’Oblio aveva avuto modo di conoscere l’efficienza del Toma Messaijin, l’incantesimo portante di Mistobaan.
L’araldo del Grande Satana –o dell’Imperatore, non che la cosa facesse molta differenza- fluttuava sopra di loro con la mano destra tesa. L’estremità inferiore del mantello era carbonizzata, rivelando le gambe fino al ginocchio; il petto, nel punto in cui Aban aveva diretto l’attacco, era attraversato da uno squarcio che aveva portato via uno dei complessi strati della tunica, lasciando la stola decorata priva di supporto e che adesso si agitava in aria seguendo l’energia del reattore. Il cappuccio era intatto, ma le luci dorate, di solito inespressive, adesso sembravano fioche in qualcosa che avrebbero potuto chiamare “furia”. La mano sinistra stringeva fino allo spasmo la catenella argentata all’altezza del collo, il fermaglio che univa i due lembi della tunica. La destra mosse le dita, avviluppando sempre più Aban nel suo attacco.
“Ha difeso il sistema di controllo ed ha contrattaccato l’Aban Strash …” mormorò Mu mentre riprendeva fiato. “Non per niente è Mistobaan”.
“Non per niente il bastardo sa volare. E noi no” ringhiò, osservando l’avversario scivolare sopra di loro, la mano sempre puntata in direzione di Aban.
“IO SONO IL CUSTODE DEL GRANDE DONO DELL’IMPERATORE PALPATINE! E VOI SIETE COLORO CHE ATTENTANO AD ESSO. LA MIA IRA SARA’ LA VOSTRA TOMBA!”
“Ancora con la storia del Dono, Misto? Speravo che ci avresti risparmiato almeno quel tormentone …”
I druidi si erano radunati intorno a Matoriv nello stretto spazio rimasto. Alcuni puntavano i bastoni verso l’alto, altri tendevano le dita in aria caricandole di magia. Una di loro, una tipa piuttosto carina con un mare di lentiggini, si era inginocchiata iniziando a cantilenare qualcosa in una lingua che non conosceva. Il vecchio mago aveva una mano serrata sulla balaustra fino a diventare bianca, ma era ancora in piedi. Si asciugò del sangue che gli scendeva dalle labbra, ma alzò la voce abbastanza da costringere la figura incappucciata a voltarsi nella sua direzione. “Sai, sono quasi tentato di darti un sacco di legnate e riconsegnarti al GSB con un bel fiocco rosa intorno alla testa”.
“COME OSI ANCHE SOLO PENSARE CHE …?”
“Mu? Auron? …”
Si voltò verso di loro, ed all’istante tutti i druidi iniziarono ad emettere qualcosa di azzurro, splendente e decisamente pericoloso dalle loro mani. “… siete bravi a pattinare, vero?”
La magia Iora partì dalla sua mano sinistra. Auron non riuscì nemmeno a mandarlo al diavolo che dal punto in cui la passerella era stata tagliata di netto dalla violenza dell’Aban Strash si era formato un gigantesco blocco di ghiaccio che si modellò sotto i suoi occhi, frantumandosi e poi ricomponendosi in un battito di ciglia sotto la concentrazione ed il potere di Matoriv. Il ghiaccio si allungò sempre di più, si espanse fino a sostituire l’intero passaggio. Tra loro ed il centro di comando adesso c’era un ponte di pura magia Iora che sembrava congelare l’aria con la sua stessa presenza. Mistobaan provò ad urlare qualcosa, ma qualunque incantesimo stessero preparando i druidi lo colpì in petto, sospingendolo diversi metri più lontano.
Avevano la loro occasione.
“Matoriv, fai sciogliere questo coso e dovrai trovare qualche bravo guaritore per ricostruirti la faccia …”
“Auron, andiamo” sussurrò Mu mettendo per primo il piede in avanti.
Il soldato sbuffò, pregando che il ponte improvvisato potesse sorreggere i numerosi chili d’oro che il suo amico portava addosso. Si propose anche di cancellare dalla testa il fatto che l’altro soffrisse di vertigini proprio quando lo vide oscillare pericolosamente a più di un braccio da lui. Diede le spalle a Matoriv ed ai druidi ed iniziò ad andare avanti lungo l’incantesimo, gli occhi puntati sul sacerdote che lo precedeva: parte della mente gli imponeva di guardare in basso e controllare la presenza di eventuali crepe, ma l’idea di osservare il vuoto sotto di loro, la potenza del reattore, gli sconsigliò anche solo di chinarsi. Guardò prima Mu, poi Aban ancora imprigionato ed inspirò l’aria gelida che li circondava mentre iniziò ad avanzare.
Il gelo si fece subito sentire sotto la suola degli stivali. Era liscio, scivoloso, ed orribilmente gelido.
Per i primi tre passi Auron ignorò tutto, anche la voce di Mistobaan, con la testa intenta solo a mettere un piede davanti all’altro ed a non perdere l’equilibrio. Davanti agli occhi gli passavano scintille e deflagrazioni, chiaro segno che Matoriv e gli altri stavano facendo di tutto per tenere occupato il Braccio Destro: puntò con lo sguardo il centro di controllo del reattore ed Aban immobile, perché distruggere quel punto significava garantire il collasso della Morte Nera.
Doveva solo arrivare lì.
Non guardò in basso nemmeno quando arrivò a metà percorso.
I piedi sembravano incollati al ghiaccio.
Ma in fondo il freddo non gli dispiaceva più di tanto. Era stato sul ghiacciaio del Carahdras che lui e Zachar si erano scambiati il loro primo bacio; una Stanza della Memoria, un luogo falso, ma il gelo di quel posto non aveva fatto altro che esaltare il calore delle sue labbra. E ciò che quel bacio aveva risvegliato … non aveva intenzione di perderlo. Non aveva intenzione di perdere e non riuscire a tornare da lei, dispersa da qualche parte in quella stupida stazione orbitante.
Non era mai stato un uomo da credere nel futuro: un mercenario come molti altri, che viveva alla giornata ed il cui unico futuro interessante era il giorno in cui sarebbe stato pagato per il proprio lavoro. Più bravo di molti, ne era sempre andato fiero, ma le guerre tra i piccoli feudi del suo mondo erano qualcosa di simile ad una partita a dadi, dove un lancio fortunato o una freccia ben scagliata possono trascinare una partita nel baratro della sconfitta nel tempo necessario per tendere una corda di un arco o di puntare una balestra. E nella vita aveva sempre tirato bene, ma nulla di più.
Con il tempo si era reso conto che uscire dal gioco della guerra non era così semplice. Ci aveva pensato più di una volta, soprattutto quando le numerose squadre di cui aveva fatto parte finivano preda di agguati, di trappole o semplicemente incontravano avversari più numerosi. Ci aveva pensato tutte quelle volte che aveva dovuto ritirarsi dal campo, scivolando sul sangue e sulle interiora dei suoi compagni di spada., correndo sotto piogge di frecce di cui anche solo una avrebbe potuto segnare la sua fine. Ci aveva pensato durante i temporali trascorsi nelle taverne, quando anche la birra aveva perso il suo sapore e le prostitute sembravano attrici che ripetevano un copione già visto.
Eppure era il Futuro a spaventarlo. Non un assassino nella notte, non un incendio nella sua taverna, non l’attacco dei demoni. Solo il Futuro.
Un luogo dove c’erano lui, magari una bella casa, e poi soltanto un incredibile silenzio. Certo, qualche volta c’era qualche bevuta in taverna con altri commilitoni, ma in quel luogo oltre il tempo c’era qualcosa che non riusciva a percepire, qualcosa simile ad un angoscia o forse una paura di un posto dove tutto ciò per cui aveva vissuto, in fondo, non sarebbe stato più necessario. Ed era pensando a quello strano Futuro che aveva continuato a firmare contratti, dedicandosi ai mille piccoli, semplici problemi di un Presente che di soldati ne aveva un disperato bisogno: aveva iniziato a scegliere le sue cause, i suoi padroni, le sue persone da difendere.
Ma sempre con una spada.
Finché non l’aveva conosciuta.
Non gli mancavano più di cinque passi quando la passerella esplose sotto i suoi piedi. Riuscì solo a vedere uno degli artigli di Mistobaan saettargli davanti al viso e piantarsi nel ghiaccio proprio dove avrebbe dovuto poggiare il suo piede. Le scintille di ghiaccio volarono in ogni direzione, coprendo per un istante persino la figura di Mu, e quando provò a voltarsi indietro vide qualcosa saettare dalle mani del nemico ed infrangersi contro il passaggio. Il ponte magico si inclinò verso destra, e sotto i suoi piedi il ghiaccio si frantumò come colpito dalla zampa di un drago.
Provò a saltare in avanti, rendendosi conto che il suo migliore amico era riuscito a raggiungere il centro di controllo e gli stava tendendo la mano.
Ma quando provò a darsi una spinta si accorse con orrore che i suoi piedi poggiavano su una nuvola di ghiaccio distrutto e vapore e le sue dita strinsero soltanto aria mentre precipitò verso il cuore rovente del reattore.




“Tutto qui?”
Il re straccione dal mantello verde sembrava quasi deluso. Ai suoi piedi, quattro demoni minori giacevano privi di sensi al termine di un disperato quanto patetico tentativo di resistenza.
Vexen aveva notato che i demoni, anche i guerrieri, preferivano portare armature molto leggere o non portarle del tutto. La magia era il loro scudo difensivo, e contavano sul volo e sull’agilità per annientare il nemico; ma persino il miglior mago non può nulla contro attacchi in corpo a corpo sferrati da più direzioni, e nessun paio di ali è in grado di passare attraverso un soffitto. Visti da vicino i loro corpi esanimi sembravano quelli di adolescenti pallidi e malnutriti, finiti per una svista del fato a fare da carne da macello su un campo di battaglia sconosciuto. Era soddisfacente quasi quanto vederli crollare sotto le esalazioni della lijada: la dimostrazione che la loro stupida razza non era poi così divina e onnipotente come amava credersi. E che forse, se la sorte non aveva in serbo qualche tiro mancino, quella volta ce l’avrebbero fatta davvero a fuggire di lì.
“Dopo l’olihargon mi aspettavo chissà quale diavoleria a guardia delle prigioni.”
“Vuol dire che Gandalf e Mara stanno facendo un bel lavoro giù al nucleo!” disse Nevius. “Il Grande Satana deve sentirsi sui carboni ardenti se lascia i truppini di serie B a sorvegliare i prigionieri!”
Il nucleo magico del Baan Palace era ciò che permetteva all’immensa fortezza di sollevarsi e muoversi nell’aria. Vexen non lo aveva mai visto, ma sapeva che i demoni lo alimentavano notte e giorno tramite una complessa struttura di cristalli e artefatti di supporto in cui incameravano il potere magico e lo trasmettevano al palazzo, che in tal modo non aveva mai bisogno di fermarsi o di toccare terra. Nessuna meraviglia che il Grande Satana concentrasse le difese in quel punto: un danno significativo alla struttura e il Baan Palace avrebbe iniziato ad arrestare le proprie funzioni e a inclinarsi, fino a sfracellarsi al suolo in caduta libera nella peggiore delle eventualità.
Vexen rimpiangeva solo di non poter assistere da qualche punto protetto, magari con una buona tazza di tè tra le mani, quando finalmente sarebbe successo.
Una serie di colpi soffocati attirò l’attenzione del gruppo sulla quarta porta lungo il lato destro del corridoio.
“Da questa parte! Aragorn, Gandalf, siete voi?! Ci avete messo un bel po’!”
“Vi aspettavamo almeno una settimana fa! Avete idea di che significa passare tutto questo tempo in quattro metri quadrati con la sola compagnia delle barzellette di mio zio?”
In men che non si dica il nano di nome Gimli iniziò a tempestare di colpi d’ascia la porta della cella. Non era lo stesso posto in cui Vexen era stato prigioniero insieme a Camus, ma la maledetta piccola spia doveva averne scoperto l’ubicazione in qualche modo, perché aveva guidato i ribelli fino lì senza alcuna esitazione.
La liberazione di Camus e dei due Corthala era fin dall’inizio l’obiettivo principale del gruppo guidato da Aragorn. Un commando di pochi elementi selezionati, separato dalla forza principale che stava prendendo d’assalto il nucleo, con più probabilità di passare inosservato nel caos delle battaglie combattute dentro e fuori il Baan Palace.
Non abbastanza selezionati, evidentemente. Si sono scordati di portare l’alchimista.
L’abbraccio collettivo dei ribelli sommerse il mago e il ranger ancora prima che riuscissero a venir fuori dalla cella. Seguì un carosello confuso di lacrime, baci, pacche sulle spalle, dichiarazioni di amicizia eterna, manifestazioni di riconoscenza. Tutto molto bello, se non si fossero trovati nel cuore di una fortezza nemica. Il fragore della battaglia lontana e le vibrazioni lungo il pavimento e le pareti ormai li inseguivano ovunque, e a giudicare dal boato tremendo che avevano sentito qualche minuto prima di irrompere nelle prigioni uno dei cristalli del nucleo doveva essere già saltato o in procinto di saltare. Non rimaneva molto tempo.
“Vexen.”
No. Non adesso.
Evitava di guardarlo, perché fingere che non esistesse era molto più semplice. Ma il ragazzino non staccava gli occhi da lui, lo sapeva – poteva sentire il suo sguardo bruciargli sulla schiena. Gli si era incollato addosso come un cane da caccia, lungo ogni corridoio e su per ciascuna scalinata, persino nel cuore della battaglia, come se temesse di vederlo dissolversi di colpo.
“Riguardo la domanda di prima… “
“Te l’ho detto. Non ho idea di dove sia Axel.”
“Vexen, ti prego.” Per un attimo la sua voce riprese una sfumatura del bambino che aveva conosciuto una vita prima. Il membro numero XIII dell’Organizzazione. L’ultimo, e il più giovane.
Incontrarlo sul Baan Palace dopo tanti anni era assurdo quasi quanto Camus che si mette a fare sacrifici umani, eppure il fato ladro e bugiardo aveva deciso di tendergli quello sgambetto. Se gli dei di Camus esistevano, di sicuro se la stavano ridendo della grossa.
“Per me è importante saperlo.”
Nella sala degli scacchi di olihargon un attacco improvviso di mostri gelatinosi dello Yomashidan lo aveva salvato dall’imbarazzo di rispondere, ma il ragazzino non si sarebbe arreso facilmente. Il suo sorriso era sincero, sembrava veramente felice di rivederlo. Peccato che Vexen non potesse affermare lo stesso di sé.
“Lo so, hai tutte le ragioni per essere arrabbiato con me. Ma le cose non sono andate come credete voi, e la prova è che sono qui vivo davanti a te. Io non vi ho traditi, non lo avrei mai fatto, non avrei mai voltato le spalle ad Axel. Ti chiedo solo un’opportunità di spiegare… “
“Non devi spiegarmi nulla.”
Lo guardò, finalmente, perché non c’era più modo di evitarlo. Era cresciuto in quegli anni. Non tanto in altezza, ma nei tratti del viso, nel modo di muoversi, nel timbro deciso di un’adolescenza ormai alle spalle. Anche il suo abbigliamento era diverso, aveva scambiato la divisa nera dell’Organizzazione per la tenuta verde e marrone di quei guerrieri dell’Alleanza. Solo gli occhi azzurri rimanevano gli stessi di sempre.
“Non ho bisogno di saperlo. Per come la vedo io, eri troppo giovane per essere coinvolto.”
Questo senza dubbio era vero. Il trucco era tutto lì, mascherare più che mentire. Rivelare la verità e omettere il resto. Una volta fuori dal Baan Palace si sarebbe dileguato per la propria strada, e il ragazzino sarebbe rimasto con un pugno di dubbi e domande insolute.
Si sforzò di evocare un sorriso: “La colpa è solo nostra. Abbiamo permesso che tu pagassi il prezzo della nostra battaglia, ma combattere spettava solamente a noi.”
Ai tempi del complotto, quando Vexen si era alleato con Marluxia, Axel e Larxen per rovesciare il resto dell’Organizzazione, il giovanissimo numero XIII non aveva avuto alcun ruolo negli scontri se non quello della pedina. Nessun rancore personale, nessuna vendetta, solo una combinazione implacabile di caso, logica e necessità.
“Io ero dalla vostra parte. Io… “
“Sei stato la vittima innocente della nostra guerra, e non sai che sollievo è per me sapere che sei sano e salvo. Comunque siano andate le cose non devi giustificarti. Siamo noi a doverti chiedere scusa.”
La verità mascherata. Di pugnalate alle spalle ne erano susseguite tante in quei giorni sanguinosi, ma Roxas non era mai stato una pedina della partita di Marluxia. Né di Larxen, né tantomeno di Axel. Non del Superiore, non di Saïx, non degli altri membri dell’Organizzazione.
Roxas era la sua pedina. La sua vittima. Solo e soltanto sua.
Prima ancora di condizionare due sacerdoti e uno stupido mercenario, prima di attirare con l’inganno Invocatrici e Intercessori nel Castello dell’Oblio, aveva giocato con la vita di Roxas. E quella di Axel con lui.
Eppure, nemmeno il pensiero che quel ragazzo fosse ancora più giovane e fragile di Zexion servì a fargli provare rimpianto. Sentì le sue scuse suonare vuote nel momento stesso in cui le pronunciò. Non c’erano scuse valide, così come non era mai esistita un’altra possibilità. Per ottenere qualcosa, bisogna darne in cambio un’altra dello stesso valore.
“Ti ringrazio, Vexen, davvero. Non sai quanto mi faccia felice sentirti dire questo. Anche se temo che Marluxia e Larxen non la pensassero così.”
“Quello che ti ho detto su Axel è vero. Era prigioniero anche lui qui qualche mese fa, ma da quando è riuscito a fuggire non ne ho più saputo niente. Mi dispiace.”
Dietro le spalle del numero XIII i ribelli erano di nuovo in fermento. Avevano estratto qualcuno dalla cella accanto a quella dei Corthala, un ufficiale imperiale dalla divisa strappata che venne fuori mugolando e si buttò ai piedi di re Aragorn supplicando di avere salva la vita. Vexen incrociò per un attimo lo sguardo di Camus, che lo fissava incuriosito dall’inizio della conversazione con Roxas. Il sacerdote doveva essere sorpreso quanto lui di quello strano incontro, ma si teneva rispettosamente a distanza e non sembrava avere intenzione di immischiarsi. Una seccatura in meno da tenere in conto.
Aragorn si dimostrò magnanimo. Garantì al soldato imperiale la propria protezione e gli promise che al ritorno al quartier generale dell’Alleanza lo avrebbe atteso una prigionia dignitosa, con la possibilità di riguadagnare la libertà in caso di buona condotta. Quello gli abbracciò le ginocchia e per poco non scoppiò a piangere dalla gioia.
Si rimisero in movimento. Vexen non desiderava altro che squagliarsela subito – il giovane druido del gruppo aveva poteri di teletrasporto, lo avrebbe capito anche un bambino dal modo in cui tutti lo proteggevano e lo facevano viaggiare sempre al centro della formazione – ma i ribelli apparentemente avevano altri piani. Si costrinse a seguirli cercando di relegare in un angolo della mente i boati sordi e le scosse che avevano tutta l’aria di annunciare una catastrofe imminente.
“Sai… Axel aveva promesso che sarebbe tornato a prendermi.”
Vexen sperò che il ragazzo scambiasse la sua espressione irritata per l’ansia dovuta alla situazione pericolosa. La verità era che non gli importava nulla di conoscere la sua storia. Non lo incuriosiva sapere come un reietto dell’Organizzazione si fosse rifatto una vita tra una banda di fuorilegge paladini della giustizia. Voleva solo uscire al più presto da quel maledetto posto.
“A noi ha detto di averti eliminato. Ora so che lo ha fatto per proteggerti.”
“Ho continuato ad aspettarlo per anni. Se tu dici che fino a pochi mesi fa stava bene, allora perché… “
“Ascolta, Roxas. Non credo che questo sia il momento migliore per parlarne.” A furia di simulare sorrisi gli si sarebbero anchilosate le labbra. “Forse è meglio se rimandiamo a quando saremo al sicuro.”
Conosceva quello sguardo deluso. Per il ragazzo la battaglia del Baan Palace si era trasformata nel fondale vecchio e polveroso di una scenografia su cui avevano appena fatto irruzione nuovi protagonisti. Era lontano anni luce, perso a inseguire ricordi riaffiorati a tradimento, e non aveva alcuna intenzione di lasciarli andare proprio ora che li aveva ritrovati. Ma la sua impazienza doveva aspettare.
“Forse hai ragione tu, Vexen” si arrese infine, lasciando andare un sospiro. “Quando tutto questo sarà finito dobbiamo prenderci qualcosa da bere insieme e raccontarci tutto.”
“Un’ottima idea.”
“In ogni caso… sono davvero felice di averti incontrato ancora. E spero che anche Zexion stia bene. Mi farebbe piacere rivedere anche lui.”
Vexen distolse lo sguardo e tacque.
“Eccola!”
Un grido di Aragorn dalla testa del gruppo fece fermare tutti. Si trovavano in una sorta di anticamera, di fronte a una porta di legno dipinta di bianco e ornata da bassorilievi di foglie e uccelli. A Vexen sembrava identica a mille altre viste nel corso della fuga, ma una sensazione anomala, una sorta di lieve pizzicore lungo la schiena e le braccia, lo spinse a osservarla con più attenzione. Qualcosa non era come sembrava.
Il Corthala più anziano passò alla testa del gruppo e tracciò una linea immaginaria con la punta dello stivale sul pavimento, a un paio di metri dalla porta.
“Barriera magica. Se superiamo questo punto senza difese adeguate… beh, ora come ora non saprei dire se finiremmo arrostiti, fatti a pezzi o contaminati da un veleno letale.”
“Sei abbastanza in forze per occupartene, Lavok?”
“Spero fosse una domanda retorica! Ma già, tu in fondo hai sangue di ranger come mio nipote, Aragorn, quindi sottovaluti la grandezza di noi maghi… “
“Lungi da me!” con una risata il ramingo alzò le mani. Sembravano due amici che scherzavano e si prendevano in giro in osteria più che due guerrieri in missione per conquistare una fortezza nemica. Non era la prima volta che Vexen notava questo atteggiamento leggero e rilassato nei suoi nuovi compagni di fuga, e in tutta onestà non sapeva ancora se esserne rassicurato o spaventato a morte. “Lascio fare al maestro.”
Con l’aiuto di Nevius, Lavok iniziò ad eseguire una serie di gesti lenti e misurati di fronte alla barriera invisibile, accompagnandoli con parole cantilenate di cui Vexen non riusciva a distinguere il significato. Dopo un paio di minuti Lavok fece a cenno al guerriero di nome Lupo Solitario – il maestro di Roxas, se aveva capito bene – di venire avanti ed estrarre la sua spada. A così breve distanza Vexen dovette schermarsi gli occhi dal bagliore della lama luminosa; si chiese che genere di incantesimo fosse il grado di far brillare ininterrottamente il metallo come un sole in miniatura, sempre se di metallo si trattava. Sembrava fuoco liquido modellato nella forma di una lama, come se l’acciaio non si fosse mai raffreddato una volta emerso dalla forgia. Vexen indietreggiò di un paio di passi per sottrarsi al calore che gli avvampava dritto sul viso.
“Ormai dovrei esserci abituato, ma la Spada del Sole di Lupo continua a sorprendermi ogni volta che la vedo” mormorò Aragorn alle sue spalle.
Le scie degli incantesimi di Lavok e Nevius si intrecciarono alla spada magica ed eruppero dalla sua punta, formando un cono luminoso che andò a colpire come un cuneo la barriera difensiva. Ora persino Vexen riusciva a distinguerne la struttura cristallina, illuminata a ondate pulsanti dal potere congiunto dei due maghi e della Spada del Sole.
“Ecco il nostro grimaldello” sghignazzò Lavok.
“Cosa c’è di tanto importante in quella stanza?”
“Potremmo definirla una specie di sala del tesoro, padron Vexen” rispose Camus “Il Grande Satana dovrebbe tenere qui alcuni degli oggetti magici in suo possesso. Non ne sono sicuro, ma potremmo trovare qualcosa che ha rubato a noi o al gruppo di padron Marluxia quando siamo stati catturati.”
“Hai imparato a memoria la planimetria di questo posto.” Non era una domanda. Avrei dovuto pensarci io.
La barriera crollò con uno sfrigolio lasciando l’aria satura di un forte odore di bruciato. L’ascia di Gimli non ebbe compassione dell’arte dei bassorilievi, e in pochi secondi furono dentro.
Un gruppo di armature del Maegudan presidiava la stanza, ma tutto ciò che Vexen dovette fare fu appiattirsi alla parete, godersi lo spettacolo e aspettare con pazienza la fine. I ribelli erano più che in grado di occuparsi di avversari di quella risma.
Dedicò invece la sua attenzione al luogo in cui si trovava. La stanza non era molto grande, occupata perlopiù da scaffali, teche e piedistalli. Un parete intera era percorsa da scintillii dorati, e Vexen trattenne il fiato nel riconoscere le armature dei sacerdoti delle Dodici Case, appese al muro ad altezze diverse. Aveva già visto molte volte l’armatura dell’Acquario nella “forma di riposo”, quando non veniva indossata dal proprietario: il busto di una figura umana con le braccia sollevate a reggere l’anfora da cui prendeva il nome il suo segno. Ce n’erano altre dieci nella stanza del tesoro, tutte ripiegate a raffigurare le costellazioni dello Zodiaco, e fu di fronte a quelle che Camus corse non appena l’ultimo soldato del Maegudan si disintegrò sotto i fendenti della spada di Aragorn. Il sacerdote cadde in ginocchio e le sue labbra si mossero in una preghiera muta.
L’ispezione tra i trofei del Grande Satana si rivelò fruttuosa. Vexen fu sorpreso di ritrovarvi il suo scudo, che ormai credeva perso per sempre, mentre i ribelli estrassero da una teca la chiave e l’occhio d’oro che un tempo i membri dell’Organizzazione avevano rubato all’Intercessore Kaspar. I pezzi del puzzle invece mancavano all’appello, così come le Pietre Dimensionali, che sicuramente il Grande Satana teneva sulla sua persona o aveva affidato a qualche generale tra i più leali.
In compenso trovarono qualcosa di ancora più prezioso.
“Colpo grosso ragazzi! Guardate qua! Lo Scettro dell’Immortalità di papà Impe!”
Il respiro si bloccò nella gola di Vexen. Lo Scettro dell’Immortalità. Rubato all’Intercessore e finito nelle inutili mani di Larxen, che non aveva fatto il minimo sforzo per tentare di comprenderne i poteri. Il pensiero di aver avuto quell’oggetto prodigioso nel Castello dell’Oblio senza sapere cosa fosse veramente gli contorceva le viscere per la rabbia. Quando Larxen era stata catturata il Grande Satana aveva studiato lo scettro e lo aveva usato per sé e per i suoi generali, e quel maledetto gnomo di Zaboera era venuto da lui tutto tronfio a rinfacciargli la sua stupidità. Gli aveva rivelato la vera natura dell’oggetto, e non passava giorno senza che lo deridesse per essersi lasciato scappare un’opportunità così incredibile. Vexen sopportava le sue risatine stridule senza buttare all’aria il laboratorio solo rifugiandosi in un mondo immaginario in cui lo gnomo moriva in modi coreografici e sanguinolenti sotto le lame dei suoi bisturi.
Ma ora, inaspettatamente, lo Scettro favoloso tornava alla sua portata.
“Chiave del Destino, questo lo affido a te.” Con sua grande sorpresa Aragorn porse l’oggetto proprio al giovane Roxas, che lo prese maneggiandolo con reverenza. “Mi raccomando, è importante. Non deve assolutamente cadere di nuovo in mani sbagliate.”
Ora o mai più.
“Roxas… posso? Solo per un attimo.”
Hai detto che sei felice di rivedermi, no?
Trattenne il respiro mentre Roxas fissava con una punta di dubbio prima lui poi lo Scettro nelle sue mani. Ricordava dai tempi dell’Organizzazione che il numero XIII era devoto agli stessi dei di Camus, per i quali un oggetto con la capacità di prolungare la vita di una persona oltre i suoi limiti naturali era sicuramente un abominio di natura, ma forse il ragazzo aveva cambiato qualcos’altro oltre alla tunica nera e ai compagni d’arme. Forse si sarebbe fidato di lui, il più anziano dei tredici, lo studioso più autorevole.
Dopo attimi lunghissimi la fronte di Roxas si spianò in un’espressione serena, e Vexen dovette trattenersi dal non afferrare di scatto l’oggetto che gli stava porgendo. Rivolse la punta contro di sé e toccò entrambe le spalle e il centro del petto. Secondo Zaboera un solo tocco era sufficiente, ma ad abbondare non sarebbe certo morto nessuno. Al contatto con il legno nero non provò alcuna sensazione particolare se non i battiti forsennati del suo stesso cuore, ma stando ai resoconti dello gnomo anche quello era normale. Si ritrovò ad artigliare il manico sottile con i palmi sudati e le dita che tremavano.
“Te lo riporto subito” promise a Roxas in un sussurro. I ribelli erano ancora intenti a perquisire la stanza e non avevano fatto caso a loro.
Neppure Camus si era accorto di nulla. Non si era mosso dalla parete delle armature e stava finendo di indossare la propria con i gesti misurati che dedicava sempre alla vestizione dei suoi paramenti sacri. Vexen si fermò un paio di passi alle sue spalle.
“So cosa ti salta per il cervello. Scordatelo.”
Ai piedi del sacerdote, i pezzi dell’armatura della Vergine facevano capolino da un grosso sacco, minacciando di straripare fuori dall’orlo in ogni momento. Camus aveva gli occhi lucidi.
“È come se li stessi abbandonando una seconda volta.”
“Non puoi portarle tutte con te. Lo sai.”
Le mani del sacerdote, ora di nuovo rivestite d’oro, si strinsero intorno alla stoffa del sacco. “Almeno il mio fratello Shaka deve riavere la sua.”
“Giusto. I vivi prima di tutto.”
Lo lasciò a mormorare un’ultima preghiera e si affrettò a restituire lo Scettro a Roxas. I ribelli avevano concluso che la stanza non conteneva nient’altro di interessante, e il gruppo era pronto a rimettersi in movimento.
“Vexen… “ si sentì tirare una manica da Roxas mentre Aragorn si sporgeva per assicurarsi che dal corridoio non provenissero minacce. Il ragazzo non sembrava irritato, solamente curioso, e gli domandò a bassa voce: “Hai toccato con lo Scettro quel ragazzo dai capelli azzurri?”
“Già.” Stavolta il sorriso affiorò con naturalezza.
“E lui non deve assolutamente saperlo.”




“Ehi, si sente che hai messo su qualche chilo!”
La voce emerse dal fuoco.
Qualcosa lo stava stringendo con forza, come delle dita piantate al di sotto delle sue spalle, arrestando la caduta.
Aveva guardato il fondo del pozzo di reazione, sentendo soltanto quel mare di luce rovente avvicinarsi ad ogni suo respiro. Aveva gridato, ma anche la voce gli era venuta meno mentre annegava in quel bianco soffocante pronto ad inghiottirlo, con l’orribile certezza che forse si sarebbe nemmeno schiacciato sul fondo di quel luogo perché il calore del motore lo avrebbe incenerito molto prima trasformandolo in una pioggia di cenere.
Ecco, forse quella avrebbe raggiunto il termine della discesa.
Ma il calore lentamente svanì, seguito invece da una sensazione di freddo e di vento mentre la persona che lo stava stringendo al massimo delle proprie forze continuava a muoversi verso l’alto, volando via come se dal pozzo di reazione vi fosse una nidiata di draghi pronti ad inseguirli e vomitare fuoco sulla loro fuga. Aprì la bocca e si riempì i polmoni d’aria, forse la stessa che gli era sfuggita durante le grida della caduta: il suo salvatore lo stava afferrando per le spalle, e lo avrebbe riconosciuto persino se non avesse proferito parola.
Dopotutto soltanto uno di loro sapeva volare. “Tsk, se tu avessi messo su qualche muscolo non ti ritroveresti con il fiato corto, Dai!”
“Smettila di accampare scuse! Adesso cerca di tenerti stretto o ti perderai i fuochi d’artificio!” gridò, cercando di far sentire la sua voce oltre le correnti d’aria che riempivano il reattore come enormi vortici che il ragazzo sfruttava scivolando nel volo a destra ed a sinistra per salire nonostante il loro peso. Matoriv riusciva ad usare gli incantesimi Lura e Tobelura per sollevarsi in aria di qualche metro, ma nessun umano che conoscesse riusciva a volare come Dai. “Questa volta daremo a Mistobaan una bella lezione!”
Il suo corpo si riscaldò, avvolgendosi di luce, e prese quota sempre più velocemente. Davanti agli occhi del soldato iniziarono a scorrere pareti metalliche, tubature, condotti, grate, mille altre cose che durante la caduta altro non erano state che sottili punti che si allontanavano; Dai si mosse insieme all’aria, vorticando nel vapore ma spostandosi sempre verso l’alto ed Auron poté solo sperare che al ragazzo non venisse a mancare la forza nelle braccia proprio in quel momento.
Un boato gigantesco accolse il loro ritorno.
Zachar era in piedi al centro della passerella, i capelli rossi privi di qualunque fermaglio che volavano nell’aria come una cometa: le braccia erano spalancate, e con la sua magia era riuscita a ricreare il passaggio di ghiaccio che adesso Mu ed Aban, finalmente libero, stavano attraversando con tutto il fiato che avevano in gola. Auron la guardò, quasi incantato, notando con gioia che non vi era nessun graffio lungo i suoi vestiti e che in mezzo a quel fragore, illuminata da tutti gli incantesimi che Mistobaan stava riversando su di lei, rimaneva comunque la donna più bella del mondo.
Il suo Futuro.
Dai non fece nemmeno in tempo ad appoggiarlo a terra che la magia bianca di Leona fece sentire i suoi effetti, rilassandogli i muscoli e spandendo un leggero calore lungo ogni parte del suo corpo, richiudendo rapidamente le ferite riportate. “Sei in ritardo, principessa. Ci siamo permessi di iniziare la battaglia senza di voi … anche se in effetti avevamo bisogno di un aiutino!”
“L’importante è che siate sani e salvi. Credo che adesso la nostra priorità sia sconfiggere Mistobaan, far esplodere questo posto ed andarcene da qui!”
“Oh, di Mistobaan non c’è da preoccuparsi …”
Accanto a lui comparve Matoriv; senza dubbio gli incantesimi di guarigione di Leona dovevano essersi concentrati in primo luogo su di lui, perché il vecchio mago aveva ripreso il suo caratteristico colorito e si stava scrocchiando rumorosamente le dita, tossicchiando quasi per richiamare l’attenzione dei druidi che ancora stavano riversando i loro incantesimi sul nemico. “… mi sa che dovremo chiamare il buon vecchio GSB e dirgli di venire a recuperarne i pezzi! E adesso, signori, tutti quelli non vogliono avere un frontale con il fondo di questo simpatico reattore sono pregati di tornare indietro, imboccare le scale e mettersi ad una civile distanza di sicurezza. Non sono responsabile di arti mancanti, ustioni varie, accecamenti e via discorrendo”.
Auron non se lo fece ripetere due volte: con la testa che ancora gli scoppiava per lo spavento afferrò il polso di Mu e lo scagliò oltre l’ingresso, incurante delle sue proteste, lo sguardo fisso sulla fiamma e sul ghiaccio che si stavano formando nelle mani di Matoriv e con la certezza che stavolta l’incantesimo avrebbe fatto a pezzi quello che ne rimaneva della Masamune. I druidi si allontanarono a coppie, veloci e silenziosi, mettendo tra i loro mantelli neri e verdi l’esile figura di Leona e degli altri maghi che avevano viaggiato con il suo gruppo. Mistobaan aprì il palmo della mano sinistra e vide la tela del Toma Messaijin comparire accanto ai loro piedi, ma una fiammata dalle mani di Zachar la travolse come un soffio trasformando in cenere anche il più piccolo filo; il loro avversario ruggì di rabbia, e lei gli rispose emettendo un suono basso, simile ad un fischio, che in un attimo riempì lo spazio intorno a loro e si infranse lungo le pareti del reattore causando una pioggia di fumo nero, scariche e scintille che coprirono per qualche istante la tunica bianca del Braccio Destro e le sue pericolose dita. Auron le venne accanto, indeciso se farle notare che la situazione richiedeva una ritirata immediata oppure rimanere lì insieme a lei, preparandosi a subire la violenza della magia che l’anziano incantatore stava per scagliare.
“Ho un conto in sospeso con l’Impero” disse lei, quasi anticipando i suoi pensieri. “E non ho intenzione di fare nemmeno un passo indietro. Tu aspettami lì fuori, Auron”.
“Nemmeno per sogno …”
Sorrise.
“Se tu resti qui, rimango anche io”.
“Sicuro? Auron, non è il momento di fare il piccioncino. Rischi solo di fare il pollo arrosto!” sbraitò Matoriv, con la forma gigantesca della Medroa bene in vista tra i suoi pugni. La sfera bianca emanava una luce gelida e rovente allo stesso tempo, e la sua semplice presenza frantumò tutto quello che rimaneva del ponte improvvisato, dalla cortina di fumo e dei parapetti ancora in piedi dopo il loro violento scambio di colpi. Il mercenario rosso gli grugnì una rispostaccia, ma non riuscì ad udire le sue stesse parole quando l’incantesimo abbandonò le mani del mago, fece vibrare la passerella e fu scagliata in alto in direzione di Mistobaan. Zachar aprì entrambi i palmi in alto, creando qualcosa di luminoso ed appuntito che si mescolò e si perse alla carica della magia principale, avvolgendola di saette azzurre che rimbalzarono per tutta la superficie del reattore.
Auron strinse gli occhi e fissò la figura del Braccio Destro svanire nel bagliore della Medroa: lo vide prepararsi a respingere l’incantesimo allargando le braccia, ma non appena gridò una controffensiva due lame si piantarono proprio davanti, spingendo di piatto il braccio destro ed il sinistro e costringendolo a fronteggiare la devastante fame della Medroa ed il genio distruttivo del suo creatore. Le spade, una più piccola ed una leggermente più lunga, furono le prime a bere l’energia dell’incantesimo e furono attraversate da un bagliore che bruciò le braccia di Mistobaan fino alle spalle: Aban e Dai, il maestro ed il discepolo, strinsero le loro armi con tutta la forza che avevano in corpo e le spinsero sempre più in profondità, squarciando la tunica bianca. Il duplice “Aban Strash!” che ne seguì venne gridato al cuore del reattore, ma si perse nell’urlo di Mistobaan e nel successivo boato.
Senza pensare a niente altro afferrò il polso di Zachar e la trascinò via di lì. Quella che scosse la piattaforma fu un’onda di suono, magia e potenza che fece cedere le giunture residue e le trasformò il filamenti di fuoco. Diede la più forte spinta che conoscesse alla schiena di Matoriv e lo allontanò mentre sotto gli stivali il metallo si piegò in due rischiando di scaraventarlo di sotto una seconda volta mentre l’eco dell’incantesimo rimbombò per l’intero reattore probabilmente fino al nucleo. Dall’ingresso vide lo sguardo terrorizzato di Mu andare nel punto in cui Mistobaan era sparito nell’impatto solo per poi vedere la forma di Aban scaraventata contro tutti loro da un Dai piuttosto malconcio, con i bracciali lungo l’arto destro totalmente polverizzati ed un taglio profondo sulla guancia che Leona corse subito a guarire.
Auron riprese a respirare solo quando l’intero spazio smise di vibrare ed il freddo pavimento di duracciaio della Morte Nera ritornò stabile, duro e fermo come prima della battaglia; si accorse solo qualche minuto dopo di avere ancora il polso di Zachar stretto nella propria mano, ma quando fece per scusarsi e liberarlo la vide sorridere dietro alla massa di capelli scompigliati, alla veste bruciata all’altezza del collo e ai copiosi rivoli di sudore e pulviscolo scuro. Sorrideva quasi divertita come non l’aveva mai vista da quando l’aveva conosciuta.
Sorrideva a lui, e questo valeva più di ogni altra cosa. Aveva visto gli occhi di centinaia di donne, ma soltanto quelle iridi verdi, un po’ arrossate per la fatica, raccoglievano tutto il Futuro che il mondo avrebbe mai potuto offrirgli. In quello sguardo riuscì persino a riflettersi, pieno di polvere, lividi e sangue rappreso, una massa di cicatrici che testimoniavano soltanto una vita passata a combattere ed uccidere.
In quello sguardo, per la prima volta, non c’era nessun Kaspar.
“Beh, che dire …” fece lei senza allontanare la mano. “Ce l’abbiamo fatta, no? Distruggiamo il nucleo del generatore ed andiamocene via!”
“Ehm … ecco …”
Aban e Matoriv erano più intenti a insultarsi rumorosamente che a cercare di rimettersi in piedi, specie perché il mago stava simulando qualche inesistente ferita soltanto per ricevere le attenzioni della principessa guaritrice che invece stava ricoprendo Dai di raccomandazioni per il prossimo scontro; i druidi si erano ricongiunti, contandosi più volte e scambiandosi robuste pacche sulle spalle insieme al gruppo di giovani maghi volontari che erano partiti insieme a loro. Il che lasciava soltanto Mu in piedi davanti a tutti, con i capelli che volavano in ogni direzione sospinti dall’energia del pozzo di reazione; i suoi occhi erano fissi nel punto in cui il loro nemico era stato inglobato dalla magia e non accennavano a spostarsi, quindi Auron abbandonò per un istante la mano della donna che amava e seguì lo sguardo del suo migliore amico che con un filo di voce mormorò un “… non proprio”.
La figura di Mistobaan era ancora in aria, esattamente nel punto dove Dai ed il suo maestro l’avevano lasciata: fluttuava al centro del reattore in maniera brusca, scomposta, quasi come se tutto il suo corpo fosse attraversato da violente scosse. Le maniche erano svanite ed un nuovo squarcio nella tunica si era aperto tranciando via ogni forma di stoffa al di sotto delle ginocchia lasciando esposte le gambe sottili. Entrambe le mani erano chiuse alla base del collo nel punto in cui il fermaglio stringeva il mantello: nessun pugno levato, le dita retrattili scomparse.
Auron non era un esperto in magia, ma sarebbe stato pronto a scommettere la sua semidistrutta Masamune che il loro avversario non avesse eretto alcuna barriera difensiva e che avesse incassato il colpo di proposito. E se davvero non si era trasformato in un mucchietto di cenere dopo l’impatto della Medroa … “Maledetti, insolenti, schifosi, putridi vermi!”
Il tono era basso, biascicato ed intervallato da un paio di colpi di tosse, ma non servì altro per richiamare l’attenzione di tutti loro; quando persino Matoriv si voltò nella sua direzione, il loro avversario smise di fluttuare ed atterrò sui pochi palmi liberi della passerella che la Medroa e l’Aban Strash avevano lasciato. Nonostante fosse provato dallo scontro non si vedeva nemmeno una goccia di sangue sfuggire da sotto l’enigmatica tela.
“Come … COME AVETE OSATO?”
“Ah, beh, se insisti ti faccio un rapido riassunto. Il tempo giusto per finire di trasformarti in spezzatino!”
“TACI! TACETE TUTTI!”
Il grido di Mistobaan si sovrappose alla battuta di Matoriv. Auron si accorse che raramente aveva visto la figura incappucciata camminare a terra come un essere umano, ma in quell’istante la creatura aveva un passo tremolate ed insicuro. L’unica cosa impassibile era rimasto lo sguardo, le due luci che perforavano anche il buio sotto il cappuccio lacero: si fermarono su di loro, poi corsero verso l’alto, quasi a cercare la fine del reattore. “GRANDE IMPERATORE PALPATINE, CHIEDO PERDONO! IO, IL PRIMO TRA I SUOI SERVI, HO MISERAMENTE FALLITO!”
“Ragazzi, qualcuno lo uccida o quantomeno lo stordisca prima che inizi a …”
“DISGRAZIA SU DI ME! DISGRAZIA SULLA MIA ESISTENZA! DISGRAZIA SULLA MIA NATURA INFERIORE E DEBOLE! GRANDE IMPERATORE PALPATINE, LUCE DELLA GALASSIA, QUESTI UOMINI HANNO MINACCIATO IL SUO ALTISSIMO DONO! E IO, CHE NON SONO DEGNO DI INGINOCCHIARMI DAVANTI AL VOSTRO TRONO, DEVO CUSTODIRLO A COSTO DELLA MIA VITA!”
Ma si è accorto che sta facendo una sceneggiata davanti ai suoi nemici? pensò Auron, indeciso se attaccare di nuovo il loro nemico o almeno aspettare che la dimostrazione di arte oratoria fosse finita. Aveva avuto modo di combattere contro Mistobaan e le sue armate durante gli ultimi anni di guerra, e per quanto il primo tra i Generali del Grande Satana fosse famoso per la voce che attraversava senza sosta ogni palmo sul campo di battaglia, non poteva ignorare il fatto che questa reazione fosse un po’ … strana. Qualunque cosa avessero fatto gli imperiali alla sua mente, il mercenario non voleva saperlo. Ma istintivamente si accorse di provare un briciolo di pietà per quella creatura che sin dall’epoca del Castello dell’Oblio tutti avevano cercato di condizionare, controllare e sottomettere nei modi più vili. Forse stenderlo, legarlo e portarlo al signore dei demoni come segno di distensione non sarebbe stata una cattiva idea; certo, prima avrebbero dovuto placarlo …
“MIO SIGNORE, MIA LUCE, MIO UNICO DIO! SO DI NON POTER USARE IL POTERE CHE VOI MI AVETE CONFERITO SENZA PERMESSO, MA IO DEVO PROTEGGERE IL DONO! NON HO MAI CHIESTO ALTRO, MIO INDISCUSSO SOVRANO!” gridò, inginocchiandosi a terra e fissando ancora in alto, quasi se un ipotetico Imperatore potesse fluttuare sopra di lui e giudicarlo. Auron sentì lo sguardo interrogativo di tutti rimbalzare da un’iride all’altra, e perfino il mago battagliero ritirò dalle dita un nuovo incantesimo e rimase a guardare la figura incappucciata. “ACCETTERO OGNI PUNIZIONE, MIO SOVRANO. MA PROTEGGERE IL VOSTRO DONO E’ IL MOTIVO PER CUI ALLA MIA INFIMA ESISTENZA E’ CONCESSO DI VIVERE! DUNQUE PERMETTETEMI DI SCIOGLIERE LE SACRE CATENE E SOTTOMETTERE QUESTI VERMI CHE HANNO OSATO ATTACCARE QUESTO LUOGO. MISERI MEMBRI DELLA RESISTENZA …”
Perché ho un cattivo presentimento?
Mistobaan si voltò di nuovo nella loro direzione. Auron vide Dai estrarre subito la spada e portarsi davanti a Leona, ma il Braccio Destro scosse una mano e la lama del ragazzo volò via. I druidi innalzarono i bastoni, ma fu il pulsare della Masamune contro la sua schiena che lo avvisò che la quantità di magia presente nell’aria stava aumentando vertiginosamente e senza dubbio proveniva dal loro nemico. La mano destra corse lungo il mantello e si fermò dove il fermaglio argentato chiudeva la tunica. Le dita enormi scivolarono lungo la catenella luminosa, e quella si aprì senza un solo rumore.
L’abito bianco scivolò a terra.
“INGINOCCHIATEVI E SCOMPARITE ALLA PRESENZA DEL DONO DEL MIO PADRONE!”



Narratore: “Registe, ma Misto ha il Caps Lock perennemente attivo? Sapete, il Muro del Suono ci ha fatto causa, e tra i diritti d’autori e cose varie saremmo presto costretti a fare fagotto!”
Registe: “Minaccia il Muro del Suono, allora! Digli che altrimenti faremo partire le grancasse naniche per tutta questa serie e anche nella prossima!”
Narratore: “Scendete anche ai ricatti …”
Registe: “Non lo abbiamo mai negato”.
Narratore: “Comunque avete visto come sono stato epico nello scorso capitolo? Il corpo meraviglioso, il piumaggio color della notte, la chioma d’avorio? Avete notato i lettori in delirio? Mie signore, ammettetelo, il mio corpo –che ho presto a quel giovinastro di Sephiroth- fa successo. Dovete farlo comparire di più!”
Regista: “Sento le sirene del CIM. Forse siamo salve!”

 

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Capitolo 30
*** Capitolo 29 - Fuga dall'inferno ***


Capitolo 29 - Fuga dall'inferno





La Spada del Sole




“Mia Madre mi ha lasciato un dono. Mi ha offerto il fuoco e le fiamme, il fulmine e la tempesta, mi ha regalato perfino il soffio dei draghi ed il cuore rovente degli uomini. Ha creato per me una spada in grado di distruggere Cephiro. Ma il dono che ha lasciato per ultimo, quello in cui ha riversato tutto il suo amore, non cancella montagne o fa tremare la terra: è piccolo, innocente, ammetto io stessa di averlo dimenticato.
Sono state le lacrime di Ven a ricordarmelo.
Non posso garantire nulla, non voglio ingannarlo, ma è mio dovere tentare. Sora merita una seconda possibilità.
Molti credono che il Cavaliere del Drago esista per distribuire distruzione certa a chiunque sfidi il suo verdetto … e si sbagliano, perché egli non è il signore della morte.
Il Cavaliere del Drago è colui che dona la vita”.
Appunti ritrovati di Lady Nova, ambasciatrice del regno di Pharen per conto del Grande Satana Nehellenia.




Negli ultimi tremila anni la famiglia demoniaca si era retta su una sola, granitica colonna. Una era la voce che li aveva risollevati nei momenti di sconforto, uno il viso a cui avevano rivolto gli occhi in cerca di coraggio quando tutto sembrava perduto. E quel viso continuava ad essere simbolo di speranza anche ora che i secoli vi avevano inciso con inclemenza i propri segni, persino adesso che le file dei demoni si erano finalmente rimpinguate di nuovi giovani, i cuori ardenti e gli animi pronti a combattere. Ancora una volta, era il suo signore a reggere sulle spalle tutto il peso della famiglia demoniaca.
In quei momenti Zaboera detestava la propria debolezza. Malediceva la sua ridicola statura, gli acciacchi dell’età e i piccoli, miseri due cuori che non avevano il potere di sostenere il Grande Satana come avrebbero dovuto. Era impotente persino nei confronti delle sue stesse creature: un Occhio giaceva immobile tra le sue braccia, i tentacoli flosci e la pupilla offuscata da un velo lattiginoso che nessun incantesimo sembrava capace di sollevare. In quei momenti i vecchi fantasmi tornavano a ghignargli con disprezzo nelle orecchie, e l’arcivescovo stregone continuava a domandarsi perché, del più grande e glorioso casato di Pharen, fosse stato proprio lui l’unico a sopravvivere.
Il Grande Satana lo aveva chiamato al suo fianco, e tutto ciò che poteva fare era guardarlo mentre lottava ancora una volta per la famiglia demoniaca.
“Mio signore, l’unità di viverne del generale Crocodyne è vittoriosa! Le navi imperiali fuori dal Baan Palace sono in rotta!”
Il giovane demone doveva aver corso parecchio per riferire la notizia, la prima veramente buona da quando l’attacco era iniziato. Ma il suo signore non batté ciglio, non distolse lo sguardo dal globo di cristallo che stava alimentando con il proprio potere magico. Il flusso di energia doveva rimanere costante, o sarebbe stata la fine per tutti loro.
“Non sono imperiali” si limitò a osservare. Avevano impiegato poco a capire che qualcosa non era come sembrava: questi invasori usavano navi mai viste prima, tra loro non c’erano droidi né caschi bianchi né divise tutte uguali. Verosimilmente provenivano dallo stesso mondo dell’Impero, ma erano più caotici, più imprevedibili. A quanto riferito dalle staffette non sembravano neppure obbedire a un capo. Compensavano la mancanza di disciplina con un alto livello di creatività e capacità di adattarsi alle situazioni; i loro ranghi erano composti da guerrieri e maghi, ed erano esperti nell’uso di armi sia tradizionali che tecnologiche.
“Ma sono diversi anche dai membri della Resistenza. Io mi sono fatto una mia idea. Tu cosa ne pensi, Zaboera?”
Che sono avversari temibili, mio signore. E che mi spaventano. In mesi di battaglie l’Impero li aveva spinti più volte all’angolo, aveva inferto ferite destinate a bruciare per secoli, ma mai, neppure una volta era riuscito a infiltrarsi nella loro roccaforte principale, né a far saltare l’eccellente sistema di comunicazione degli Occhi di Zaboera.
E ora, se non fosse stato per il Grande Satana, persino il Baan Palace sarebbe crollato in un cumulo di macerie.
“C’è solo un altro gruppo di umani che conosce la nostra esistenza e ha avuto contatti con noi, Grande Satana. La cosiddetta Alleanza Ribelle che Hadler e Hyunkel hanno incontrato.”
“È quello che penso anch’io.”
L’Arcivescovo Stregone sbirciò ancora una volta l’espressione del suo signore. Lo scintillio della magia accentuava ancora di più i segni sul suo viso, scavava solchi e valli in cui si annidavano millenni di lotte e fatiche. Le mani restavano salde, senza neppure un tremito, il flusso di energia fulgido e vitale guizzava dai suoi palmi fino al globo catalizzatore sospeso al centro della stanza; ma non sarebbe durato per sempre, Zaboera lo sapeva. Forse un’altra ora, due al massimo. Il Grande Satana stava riversando tutto se stesso nell’oggetto magico. L’energia scorreva fuori dal suo corpo come un fiume in piena, prosciugandolo e riversandosi nel globo e poi nelle condutture che attraverso le pareti del Baan Palace correvano dritte fino al nucleo. Se chiudeva gli occhi poteva sentire lo scroscio della magia in movimento, percepiva il grande polmone del nucleo dilatarsi e accogliere con avidità l’energia del Grande Satana Baan.
“Eppure mio signore… non abbiamo mai dato loro pretesti per attaccare. Possibile che… “
“Gli umani hanno mai avuto bisogno di pretesti?”
Fu solo un istante, ma il flusso di energia scalpitò, si impennò come una viverna imbizzarrita. Un’ondata di calore rovente soffiò sul viso di Zaboera e quasi gli strappò il bastone di mano prima che il Grande Satana riprendesse il controllo. La mandibola serrata e gli occhi ridotti a fessura rimasero le uniche tracce della sua furia, ma l’Arcivescovo Stregone sapeva che se il suo signore non fosse stato impegnato a tenere in piedi il Baan Palace il riverbero della sua magia sarebbe riecheggiato per l’intera regione di Papunika.
Decise di ingoiare le proprie paure, almeno per il momento. La battaglia in corso al nucleo era già da sola una catastrofe; le truppe demoniache combattevano con valore, ma quei maledetti umani avevano distrutto due dei cristalli catalizzatori, e senza l’intervento del Grande Satana il Baan Palace avrebbe già iniziato a precipitare verso terra. Non poteva gravare ulteriormente il suo signore con i timori di un vecchio, patetico demone minore. Come avrebbero fatto d’ora in poi a combattere sia l’Impero che l’Alleanza e portare avanti una guerra su due fronti, era una preoccupazione da affrontare l’indomani; oggi dovevano lottare per sopravvivere. Dovevano essere forti, e restare uniti come solo la gloriosa famiglia demoniaca era capace di fare.
“Notizie di Killvearn?”
“No, mio signore” il messaggero aveva ripreso fiato, e ora abbassò lo sguardo per la vergogna. “Lo abbiamo cercato ovunque, ma sembra sparito nel nulla. Crediamo che abbia lasciato il Baan Palace.”
Zaboera era sicuro di odiare quell’essere viscido e intrigante ancora di più degli imperiali o degli umani che minacciavano il Baan Palace. Doveva essere dalla loro parte, e invece svaniva quando c’era bisogno di lui, disobbediva agli ordini, si nascondeva in chissà quale sordido buco mentre i demoni combattevano e morivano per la salvezza del loro popolo. Ad aggravare il suo crimine, quel rifiuto della natura aveva con sé la Pietra Dimensionale, senza la quale non potevano teletrasportarsi su Kamino a prelevare Baran e Hadler per avere rinforzi. Una mancanza del genere equivaleva ad alto tradimento, e Zaboera giurò a se stesso che se anche il Grande Satana non lo avesse punito stavolta avrebbe pensato lui a farlo, a costo di causare l’ira del suo signore. Ma non poteva tollerare un istante di più una creatura così deprecabile e meschina tra i loro ranghi.
“Mio signore, forse… forse dovremmo usare la seconda Pietra. La assegni a me o al generale Crocodyne e le porteremo il Cavaliere del Drago qui nel minor tempo possibile.”
“La seconda Pietra non si muoverà dal Baan Palace” il tono del grande Satana troncò ogni obiezione. “Baran e Hadler potrebbero non riuscire a disimpegnarsi immediatamente dal combattimento, e noi non possiamo rischiare di rimanere senza mezzi di teletrasporto se ci fosse bisogno di evacuare i nostri.”
La parola “evacuare” gli fece correre un brivido gelido lungo la schiena. Erano già arrivati a questo, erano disperati fino a tal punto? Ma il Grande Satana era un comandante e uno stratega, ed era suo compito prendere in considerazione ogni eventualità, anche la peggiore. Soprattutto la peggiore.
“Grande Satana.” Si rese conto di stare stritolando il bastone tra le dita, ma impose alla voce di rimanere ferma e alla schiena di drizzarsi mentre incontrava lo sguardo del suo signore. “Per quel poco che vale la mia vita, io sono qui, e quando lei avrà bisogno di fermarsi a riposare prenderò il suo posto. Non potrò durare a lungo, ma giuro che terrò in piedi il nostro castello fino a che l’ultima goccia di vita non sarà risucchiata dal mio corpo.”
Fu un istante tra i lampi e le spire della magia, ma giurò di aver intravisto un sorriso increspare le labbra del Grande Satana.
“Lo so. Grazie, Zaboera.”




“… nulla. Si può sapere cosa diavolo gli è preso?”
“Sei sicuro che non sia rimasto ferito nello scontro?”
Hadler aveva gli occhi fissi sul rosso.
La pioggia di Kamino non si era fermata neppure per un istante dalla fine del combattimento. Continuava a scrosciare come dall’istante in cui erano giunti su quel pianeta, e le acque color della notte aveva ormai terminato di affondare tutti gli Star Destroyer precipitati. L’acqua battente aveva travolto anche gli ultimi pilastri di Tipoca City, ma non era ancora riuscita a far svanire del tutto il sangue di Zam Wesell. Scivolava fuori da lei in tanti rivoli sottili, si mescolava alla pioggia e scendeva dal pilone su cui si trovavano, l’unica traccia di colore in quel metallo gelido. Rimase con lo sguardo incollato all’abito viola, ormai nero per il sangue e l’acqua, gonfiarsi fino a nascondere del tutto la figura della cacciatrice di taglie. L’elmo era svanito chissà dove ed i capelli rossi erano sparsi in ogni direzione, sporchi di un sangue rappreso che nemmeno la pioggia riusciva a strappare; le coprivano il viso come un mantello, quasi ad impedire che qualcuno potesse guardarla in viso dopo la sconfitta.
“Anche io ho qualcosa da proteggere, generale Hadler. Per questo non ho mai preso nemmeno in considerazione la possibilità di perdere”.
Si chiese chi fosse la persona che quella donna stava cercando di proteggere.
Perché di una persona si trattava, glielo aveva letto negli occhi. Si chiese chi stesse aspettando quella grande guerriera.
Non era quella la vittoria che sperava di ottenere.
E non era quella la rivincita che la donna gli aveva promesso.
Fissò lo squarcio tra le scapole, la macchia scura dove Kaspar l’aveva colpita a tradimento. Forse, se fosse stato più veloce, sarebbe riuscito ad impedirlo. O forse no, lei sarebbe morta comunque per lo strano attacco di Sephiroth, ma era quasi certo che sarebbe stata una sconfitta preferibile a morire per mano di un viscido traditore. Aveva sconfitto centinaia di soldati umani, aveva sempre accettato i loro duelli: ma tutti quegli scontri, le vittorie ottenute persino a carissimo prezzo, tutte quelle immagini non avevano nulla da spartire con il potere selvaggio di quella donna che aveva incontrato sul campo solo due volte. Conosceva il suo nome quasi per errore.
Lentamente la pioggia lavò via anche le ultime gocce di sangue.
Una mano sulla spalla lo riportò alla realtà. “Hadler, abbiamo un problema”.
Sollevò lo sguardo solo per incontrare quello chiaro di Hyunkel: il suo compagno di battaglia aveva ripreso il suo solito aspetto e, nonostante il viso portasse tutti i segni della stanchezza per l’enorme incantesimo e per l’energia utilizzata, il demone si sentì molto più rilassato vedendo che l’ala nera era sparita e gli occhi verdi come quelli di un rapace erano di nuovo tornati semplici, comuni ed umani. L’unico oggetto in perfette condizioni era il Puzzle del Millennio che portava al collo e che adesso aveva smesso di brillare. “L’Occhio di Zaboera non riesce a comunicare con gli altri. Abbiamo tentato di contattare sia Killvearn che gli Occhi al Baan Palace, ma non riusciamo a vedere o sentire nulla. E non mi sembra che il nostro Occhio abbia subito danni, Baran lo ha tenuto sempre contro di sé per tutto lo scontro”.
“Non è mai successo prima d’ora” borbottò il demone, distogliendo per un istante i propri pensieri dal corpo della cacciatrice di taglie. Il compagno gli passò l’Occhio, e la piccola creatura iniziò a mandare dei versi rapidi ed intermittenti, dei “pi pu” che volevano senza alcun dubbio avvisarli che qualcosa non andava. Ne osservò l’iride e la palpebra, toccandolo alla base delle ali come gli aveva insegnato Zaboera per vedere se ci fossero ferite alla base dell’orbita, ma a parte qualche graffio ed un paio di squame danneggiate non vi erano problemi che riuscisse a vedere. Oltretutto la creatura continuava a mandare suoni, il che almeno voleva indicare che non fosse ridotta troppo male. “Qualche idea per contattare Killvearn? Sempre se vogliamo rientrare, s’intende …”
“Torniamo indietro”.
Se Hyunkel sembrava sul punto di svenire da un momento all’altro –e senza dubbio Hadler stesso non doveva essere in migliori condizioni- per Baran sembrava che la battaglia non fosse mai trascorsa; il Drago era soltanto bagnato dalla testa ai piedi, ma la furia che guizzava dall’occhio destro al sinistro non aveva nulla a che vedere con la frenesia da battaglia. Le braccia erano incrociate all’altezza del petto, ma il demone riusciva a vederne i muscoli contratti, le dita strette contro i bracciali come ad immaginarvi al di sotto la testa di un nemico da schiacciare … e non aveva bisogno di sforzarsi per immaginare chi fosse la persona che Baran avrebbe voluto trovarsi davanti in quel momento. “Abbiamo distrutto il principale stabilimento di produzione di cloni dell’Imperatore, e adesso il nostro nemico ha perso la sua prima guerriera. Abbiamo ottenuto una grande vittoria”.
Grande non è l’aggettivo che userei, Baran. E lo sai anche tu”.
Il generale strinse le labbra per soffocare un insulto in draconico. “Lo so, Hadler. E certe cose mi convincono ad ogni giorno che passa che gli umani siano una piaga per tutti i mondi; ciononostante abbiamo riportato la più grande vittoria dall’inizio della guerra e dobbiamo tornare indietro a fare rapporto”.
Da oltre le onde una creatura marina dal collo enorme si sollevò. Mandò un verso lungo e basso che fece scorrere un brivido lungo la pelle di Hadler mentre osservava l’essere gigantesco sollevare una pinna ed abbattere ciò che restava di una piattaforma di atterraggio di Tipoca City. Guardò oltre quel mostro, cercando di abbracciare l’intero spettacolo di distruzione che avevano creato: la pioggia stava diventando sempre più fitta, ma i resti della città dei cloni continuavano a stagliarsi anche attraverso quel muro d’acqua, imponenti persino nella loro distruzione.
Avrebbe dovuto gioire per quello.
Tutti e tre avrebbero dovuto, ma persino sulla faccia di Hyunkel vi era un’espressione nera, lui che praticamente da solo aveva annientato quel luogo corrotto e deviato … ed il suo sguardo non era certo corrucciato per un Occhio di Zaboera non funzionante. Era la prima volta che il demone sentiva quella stretta nello stomaco, una stretta che gli stava lasciando contro la gola un sapore amaro, aspro, molto diverso da quello riportato nella sconfitta su Coruscant. Aveva vinto centinaia di battaglie, ma di questa ne stava quasi provando vergogna. Ancora una volta risentì sulla pelle il dolore che aveva provato scontrandosi contro quella donna nella capitale degli uomini, la magia non-morta che lo attraversava dalla testa ai piedi e la seconda opportunità che lei gli aveva regalato.
Una bellissima, gloriosa seconda opportunità.
L’idea lo attraversò quasi come un fulmine. “Baran … tu puoi fare qualcosa per questa donna?”
“Cosa te lo fa credere?”
“Racconti. Leggende. Storie degli anziani. Si dice che il sangue del Dio Drago possa …”
“Scordatelo”.
Baran lo interruppe con il ringhio di una bestia feroce. I loro occhi si incrociarono, e nelle iridi dell’altro vi fu un guizzo che non gli piacque affatto. “Quel metodo non funziona, Hadler. Ci ho già provato, e non una volta sola. È solo una stupida leggenda senza alcun fondamento”.
“Nessuna leggenda è priva di verità. Prova con lei”.
Respirò a fondo. Lo sguardo di Baran era quasi invisibile per colpa della pioggia, ma nel tono della sua voce vi era una sfumatura strana. Si era trovato diverse volte a discutere con lui, ma nel corso dei decenni non era mai riuscito a sapere nulla realmente di lui, sempre che vi fosse una persona dietro a quel diadema d’oro. Eppure, in quella risposta secca, Hadler si rese conto che vi era qualcosa che non aveva nulla a che vedere con la loro battaglia, un terreno dove il suo amico non aveva mai fatto entrare nessuno e che, senza dubbio, avrebbe preferito non esporre in quella situazione. Ma doveva a Zam Wesell almeno un tentativo. “Puoi farlo, Baran?”
“Perché ti ostini con questa donna?”
“Beh, perché …”
Perché non era questo il duello che gli era stato promesso. Perché se si fosse trovato nei suoi panni avrebbe voluto morire come un guerriero, contro un avversario degno di questo nome, non con un colpo in mezzo alle spalle. Perché in qualche punto lontano del cielo c’era una persona che stava aspettando quella donna con il fiato sospeso. Perché una sconfitta era molto più dignitosa di una vittoria senza onore. Aveva cento, mille risposte alla domanda del Cavaliere del Drago, una per ogni goccia di sangue che adesso scivolavano lungo il pilone, sparendo nel mare nero; avrebbe voluto dirgliele tutte, fargli sentire quello che provava, cosa c’era in quel momento nei suoi cuori ed in tutto il proprio corpo.
“Perché questo risultato non piace nemmeno a te”.
“Ti stai illudendo. Non funzionerà”.
Hadler osservò il corpo martoriato. “Peggio di così non può andare”.
Baran si avvicinò a lei. Il mantello corto era grondante di pioggia, ma anche in quel modo la sua forma massiccia impedì alla tempesta di scrosciare ancora lungo i capelli rossi ed il corpo saturo d’acqua. Hadler rimase in silenzio, trattenendo il fiato persino quando l’altro si abbassò per portare una mano al viso di lei e scoprirne i lineamenti che la caduta ed il pilastro avevano devastato; rimase così diversi attimi, forse pensando, forse negando. Forse combattendo contro qualcosa dentro di sé che a lui ed al resto di Cephiro era precluso vedere. Il demone non mosse nemmeno un passo nella loro direzione, in attesa che il suo compagno emettesse un qualsiasi verdetto.
E, quando il Cavaliere del Drago sollevò la figura immobile tra le braccia, capì che non vi era bisogno di altre parole. “Il Grande Satana non approverà”.
“Se riuscirai nel tuo miracolo, Baran … mi assumerò ogni responsabilità”.
Si chiese cosa avrebbe fatto il signore dei demoni al suo posto, ma erano domande degne solo di svanire nella pioggia; un demone maggiore vedeva e pensava a livelli ben più alti del suo, dunque si limitò a sospirare mentre il generale del Choryugundan si faceva strada in mezzo alla piattaforma. Avrebbe affrontato il giudizio del suo unico signore a testa alta, come si conveniva ad un demone che avesse agito secondo il proprio orgoglio ed il proprio onore: e se davvero il suo compagno fosse riuscito nel prodigio che solo lui poteva compiere … avrebbe accettato qualunque punizione.
Scivolò accanto a Hyunkel, quasi immaginando di sentire le orbite vuote del valoroso Bartosh su se stesso.
Adesso dovevano solo sperare che l’Occhio di Zaboera riprendesse a funzionare per andarsene via di lì.




Trovarono le casse con i Nuclei Neri nel laboratorio dove le avevano lasciate, ancora sigillate dal ghiaccio accanto ai demoni addormentati. Questi ultimi furono legati in fretta e furia e rinchiusi nello sgabuzzino che per mesi era stato l’alloggio di Vexen e Camus.
“Ce ne sono altre?” Il dito di Aragorn si fermò a pochi centimetri dall’orlo di uno dei coperchi, esitante. Persino l’ardito re straccione sembrava aver perso la consueta leggerezza accanto agli esplosivi che avevano raso al suolo interi quartieri di Coruscant e polverizzato il leggendario Castello dell’Oblio.
“Un’altra dozzina dovrebbe essere nelle mani del generale Baran, che ora è in missione su Kamino.” Camus aveva fatto i compiti come al solito. Vexen non si era nemmeno accorto della partenza del Cavaliere del Drago, anche se era pronto a scommettere che l’attacco dei ribelli non fosse avvenuto durante la sua assenza per caso. “Ma qui nel Baan Palace ci sono solo queste quattro casse.”
“Ottimo. Prendiamole e andiamocene di qui.”
“Cosa? Non andiamo anche noi a menare le mani con Gandalf e gli altri?” Il Corthala più anziano, Lavok, sembrava deluso.
Aragorn sorrise. “La nostra missione è finita. Certo, una volta messi i Nuclei Neri al sicuro a Minas Tirith nulla ci impedisce di tornare qui a divertirci un po’… “
“Questo si chiama parlare!”
Il Corthala giovane brontolò qualcosa, un rimprovero allo zio che si ostinava a comportarsi come un bambino anche nelle situazioni più delicate. Vexen li osservò battibeccare, indovinando senza difficoltà l’affetto che trapelava dietro le frecciatine, le battute e le provocazioni. Zio e nipote, insieme. Ciascuno che si prendeva cura dell’altro.
Per la prima volta da quando era prigioniero sul Baan Palace si concesse di pensare al dopo. Negli ultimi mesi “libertà” era diventato un concetto estraneo e fumoso, una chimera appartenuta a un vago passato a cui non era più concesso pensare. Non aveva mai creduto veramente alla promessa del Grande Satana di lasciarlo andare una volta che non avesse più avuto bisogno di lui. I demoni misuravano il tempo con un metro diverso, e nella migliore delle ipotesi “libertà” avrebbe significato una vecchiaia trascorsa a nascondersi in qualche sordida grotta nel suo mondo e ad assistere impotente al declino delle sue forze e della sua mente.
Ora però era cambiato tutto. Aveva l’immortalità, e la libertà era luminosa e vicina, doveva solo protendere le dita e farla sua. Soprattutto, aveva uno scopo. Un obiettivo nuovo, che fino a poco tempo prima avrebbe ritenuto semplicemente inconcepibile.
Mentre Aragorn accendeva un comunicatore per riferire all’altro gruppo i progressi della missione e il giovane druido li faceva disporre in cerchio per attivare il teletrasporto, Vexen decise che la sua prima azione da uomo libero sarebbe stata andare in cerca di Zexion. Forse non era possibile ricostruire il passato, ma la conversazione iniziata in quello stesso laboratorio doveva finire, con tranquillità e lontano da occhi indiscreti. Tutto ciò che chiedeva era la possibilità di parlare e di spiegarsi. Non avrebbe preteso altro.
“Prendetevi per mano o aggrappatevi in qualche modo l’uno all’altro. Così la magia del teletrasporto ci includerà tutti.” Un’ondata di calore percorse i loro corpi mentre l’incantesimo iniziava a fare effetto. Le casse con i Nuclei Neri erano al centro del cerchio, e su ciascuna posavano le mani almeno due ribelli. Aggrappato al braccio di Camus, Vexen si preparò al consueto strappo alla bocca dello stomaco che accompagnava ogni salto tra le dimensioni.
“Gentili clienti, siamo spiacenti di informarvi che le dimensioni del vostro bagaglio a mano superano le misure consentite dalla nostra compagnia. Pertanto saremo costretti ad applicare una sovrattassa.”
La sensazione di calore svanì di colpo, risucchiata nel vortice di quella voce pungente e beffarda.
Vexen si sentì spingere indietro come da una mano invisibile che lo strappò via brutalmente da Camus. Vide i ribelli attorno a sé lottare e divincolarsi contro la stessa forza che ora gli gravava addosso, sospingendolo verso il pavimento.
“Di nuovo tu, pagliaccio della malora!”
Non aveva bisogno di guardare in alto per capire a chi si stesse riferendo Lavok. Notò per prima la falce, un cerchio nero disegnato nell’aria dalle lente oscillazioni della lama, come un pendolo che scandisce l’ora del destino. Poi il suo sguardo risalì lungo le gambe rivestite di nero della figura che fluttuava in aria, e infine si posò con un fremito di orrore sulla maschera e il suo sorriso agghiacciante.
Solo in un secondo momento si accorse delle casse. I contenitori dei Nuclei Neri non erano più sul pavimento, dove i ribelli li avevano collocati in attesa del teletrasporto, ma fluttuavano alle spalle di Killvearn, pericolosamente vicini alla traiettoria della falce. Gli strati di ghiaccio protettivo erano spariti.
“Il quattro di cuori è l’incantesimo della gravità, Piro Piro Piroro! L’ideale per inchiodare a terra i clandestini in fuga, non è vero Killvearn?”
L’immancabile esserino monocolo saltellava sulla spalla del suo padrone esibendo una carta tra le mani. In ginocchio, Vexen cercava di flettere le dita per evocare un incantesimo di ghiaccio, ma era come se ogni parte del suo corpo fosse stretta da fili invisibili che rendevano impossibile qualsiasi movimento.
“Proprio così, caro il mio Piroro. Ma qui c’è qualcuno che è più clandestino degli altri. Perché dimmi, come avrebbero fatto questi topi di fogna a teletrasportarsi qui senza conoscere la posizione del Baan Palace? A meno che io non mi sbagli, ovviamente.”
“Tu non sbagli mai, Killvearn!”
“Appunto. Quindi qualcuno qui deve aver fatto qualcosa di molto brutto… deve aver fatto la spia!”
“Una cosa terribile, Killvearn!”
Doveva esserci qualche lieve smagliatura nella trama dell’incantesimo di gravità, perché con un po’ di fatica Vexen riuscì a muovere il collo. Non troppo, quel tanto che bastava a incontrare lo sguardo di Lupo Solitario e ad accorgersi che anche la sua mano lottava contro l’incantesimo, a pochi centimetri dall’elsa della Spada del Sole agganciata alla cintura. Lo scienziato sperò con tutte le sue forze che l’arma magica fosse sufficiente a liberarli da quella situazione orribile.
La pantomima, intanto, continuava. “Ora però la domanda è: chi mai potrà essere stato?”
“Tu lo scoprirai di certo, Killvearn! Nessuno è bravo come te a far parlare le persone, Piro Piroro!”
La maschera della morte li passò in rassegna uno dopo l’altro, con lentezza, esasperata e deliberata lentezza. Quell’essere si dilettava con gli effetti speciali e i colpi di teatro, ma stavolta il copione era già scritto, persino scontato. Era fin troppo ovvio su chi si sarebbe posato quello sguardo dipinto, e Vexen si sentiva come in uno di quegli incubi in cui si viene inseguiti da una creatura malvagia ma le gambe restano incollate al suolo, rendendo impossibile la fuga. Tra le mani di Killvearn la falce continuava a oscillare in un moto perpetuo, ipnotico. Una promessa di sangue e dolore oltre ogni immaginazione.
“Sono stato io.”
Non riuscì a cogliere il movimento della falce. Un secondo volteggiava nell’aria, quello dopo era immobile e tesa, la punta a un millimetro dalla faccia di Camus.
“Hai visto, Killvearn? Ormai cantano ancora prima che il tuo spettacolo cominci! Ti temono Killvearn, e fanno bene, oh sì quanto fanno bene Piro Piro Piroro!”
Camus manteneva lo sguardo fermo, fisso sul volto macabro della creatura, ma nemmeno l’armatura d’oro nascondeva il tremito del corpo. Alcuni tra i ribelli cominciarono a urlare insulti verso Killvearn, nella speranza di attirarlo nella loro direzione.
“Ho rivelato io la posizione del Baan Palace alla Resistenza. E sono anche responsabile per la malattia degli Occhi di Zaboera.”
“Guarda, guarda. Questo è interessante.” Era impossibile, ma Vexen avrebbe giurato di vedere il sorriso sulla maschera allargarsi sempre di più. “Che ne dici di… raccontarci meglio?”
Il sacerdote sussultò quando la punta della falce gli sfiorò la gola, facendo sgorgare appena un rivolo di sangue. Quanto ci metteva quel dannato Ramas a intervenire?
“Dai Lupo! Ci sei quasi!”
Fu un errore da parte di Aragorn. Un errore fatale. Forse credeva che Killvearn fosse troppo concentrato sulla vittima del momento, o troppo interessato a ciò che Camus aveva da dire. Forse pensava che le grida degli altri ribelli avrebbero coperto il suo sussurro di incoraggiamento. Ma a quanto pareva Killvearn aveva ottime orecchie.
Ancora una volta la falce si mosse a velocità sovrumana, disegnando un arco mortale in direzione di Lupo Solitario. Ma non ci furono urla, né sangue. Quando l’arma tornò a sollevarsi rimasero tutti abbagliati dallo splendore della Spada del Sole, appesa per l’elsa alla lama ricurva della falce. Era un miracolo che Lupo Solitario avesse tutte e cinque le dita ancora attaccate alla mano destra.
“Guarda, guarda, cosa abbiamo qui? Pensavate di inscenare uno spettacolo alternativo senza coinvolgermi? Che cattivi! Ci sono rimasto molto male!”
La Spada volò in fondo alla stanza, fracassando un set di provette di Zaboera e lasciando una stria di bruciature nere sulla scrivania dell’arcivescovo stregone. Sole liquido o no, il rumore metallico che produsse cadendo non aveva nulla di diverso da quello di una spada comune. Piroro saltò giù dalla spalla del suo padrone e corse ad impossessarsene.
“Mi avete ferito. Ferito nel profondo. Sapete, non c’è niente di peggio che sentirsi esclusi. Diversi. Emarginati. Ma forse non potete capirlo, perché non avete mai provato una sensazione simile.” Killvearn portò una mano al petto, il mento leggermente sollevato nell’imitazione di una diva da opera tragica. Avrebbe potuto far ridere, se non fosse stato assolutamente terrificante. “Ma non temete, ve lo insegnerò io. Vi insegnerò a soffrire, così la prossima volta avrete più rispetto dei sentimenti del prossimo.” Una risata stridula eruppe dal mascherone. Era un suono orribile, come unghie sfregate tutte insieme su una lavagna o ingranaggi sofferenti che nessuno olia da chissà quanto tempo. “Visto che voi avete ferito me… adesso sarò io a ferire voi. Cominciamo da un braccio, che ne dite? O preferisci una gamba? Lo sai che sono capace di staccare un arto in un colpo netto?”
“Lascia stare il mio maestro razza di bastardo!” Roxas si contorceva come un disperato, ma non riusciva a fare di più che agitarsi sul posto e flettere leggermente le gambe e le braccia. Lupo Solitario era pallido e sudato, ma non spostava lo sguardo dalla maschera nera che di nuovo roteava la falce sulla sua testa, stavolta senza fretta, come a rallentatore.
“Non dovremmo fare del male agli amici, Killvearn.”
L’essere monocolo era risbucato da sotto la scrivania di Zaboera con la Spada del Sole tra le mani; era talmente grande per la sua statura che doveva trascinarla con la punta sul pavimento. La carta del quattro di cuori ora giaceva abbandonata sul pavimento, troppo lontana per essere raggiunta da chiunque di loro.
“Loro sono nostri amici, no? Siamo tutti grandi amici!”
C’era qualcosa di strano nella sua voce. Era strascicata, impastata come al risveglio da un lungo sonno; il timbro aveva perso la sua sfumatura squillante e ossessiva, e l’unico occhio era sgranato su di loro senza metterli realmente a fuoco, la pupilla dilatata a catturare distanze infinite.
Anche Killvearn doveva essere stupito dal cambiamento improvviso del suo servitore, perché si voltò nella sua direzione e rimase immobile a guardarlo, la falce ancora sollevata sulla testa.
“Voglio poter abbracciare i miei amici, tutti insieme!”
Di colpo l’esserino schioccò le dita e la carta del quattro di cuori prese fuoco. Vexen sentì la pressione sulle spalle allentarsi e svanire e la magia raccogliersi sulla punta delle dita non appena fu di nuovo in grado di muoverle normalmente. I ribelli furono ancora più rapidi. Una catena di fulmini e un dardo incantato partirono dalle mani di Lavok e Nevius e si abbatterono su Killvearn mandandolo a rotolare sul pavimento con le vesti nere fumanti. Nello stesso istante Lupo Solitario scattò in piedi e allontanò Piroro con un calcio riprendendosi la Spada del Sole.
“Voi maghi del ghiaccio, i Nuclei Neri!”
Lavok doveva essere un mago di potenza eccezionale. Anche provato dalla lunga prigionia era in grado di reggere due incantesimi contemporaneamente, la catena di fulmini che continuava a martoriare il corpo di Killvearn, e con l’altra mano la magia di levitazione con cui aveva impedito alle casse dei Nuclei Neri di precipitare a terra. Vexen e Camus corsero in suo aiuto congelando di nuovo i quattro contenitori mentre Lavok li faceva atterrare con cautela sul pavimento.
“Che… cosa… diavolo… “
Il corpo ancora percorso da scariche elettriche, Killvearn si rialzò a fatica, gli arti scomposti, i movimenti a scatti come quelli di una marionetta spezzata. La falce ora roteava da sola di fronte a lui, generando una qualche sorta di scudo magico che assorbiva gli incantesimi offensivi di Nevius e Lavok. Lupo Solitario e Aragorn gli corsero incontro con le spade sguainate.
“Che… cosa… avete fatto… a Piroro?”
Il sorriso di Killvearn era tagliato a metà. La parte sinistra della maschera giaceva ai suoi piedi, spezzata, ma Vexen non riuscì a cogliere nemmeno un guizzo del suo vero volto perché l’essere lo coprì immediatamente con una mano nera, mostrando agli avversari soltanto il suo solito ghigno, ancora più sghembo, ancora più inquietante.
“Noi non abbiamo fatto proprio nulla… sei tu che ci sei cascato in pieno, mascherone!”
I due guerrieri dell’Alleanza scartarono a destra e a sinistra di Killvearn, gli occhi fissi sulla temibile falce alla ricerca di un varco, del momento giusto per superare la barriera e arrivare a portata dell’avversario. Sollevarono le armi, decisi a sferrare un attacco contemporaneo sui due fianchi. Con un solo braccio a disposizione Killvearn non poteva fermarli entrambi.
“Sai mascherone, la mia Spada del Sole è molto schizzinosa. Non le piace venire impugnata da chi non ha un animo luminoso quanto la sua lama. E quando questo succede… diciamo che lei si sforza di correggere la persona in questione, ecco. Evidentemente il tuo piccolo servitore non era di suo gusto!”
In un angolo della mente Vexen prese nota di non sfiorare mai, per nessun motivo, la Spada del Sole. Ci mancava solo una spada allucinogena che ti fa vedere il mondo pieno di unicorni e arcobaleni e venire voglia di abbracciare i tuoi nemici e sacrificarti per il prossimo. Sembrava proprio il tipo di arma che poteva andare d’amore e d’accordo con Camus.
Un paio di finte e Aragorn finalmente deviò la falce con la propria spada, aprendosi lo spazio necessario a menare un affondo verso il petto esposto di Killvearn. Dall’altro lato Lupo Solitario gli tagliava ogni via di fuga, ma di colpo entrambi i guerrieri furono avvolti da una cortina di fumo nero apparsa dal nulla, e Vexen fece in tempo ad adocchiare l’ennesima carta nella mano libera del mascherone prima che il suo mezzo sorriso svanisse inghiottito nella nube. Per un soffio Aragorn e Lupo non cozzarono l’uno contro l’altro, e quando il fumo finalmente si diradò si ritrovarono a duellare contro la sola falce, che prese a saettare da una parte all’altra della stanza sferrando fendenti come guidata da una mano invisibile. Vexen si rifugiò dietro uno scaffale trascinando Camus con sé.
Killvearn e Piroro non si vedevano da nessuna parte.
“Esci fuori vigliacco! Combatti lealmente per una volta!”
“Sprechi il fiato, zio” Valygar Corthala schivò la falce con una capriola e le tirò contro una serie di tomi presi a caso da una libreria nella speranza di arrestare la sua corsa, ma l’unico effetto fu far piovere sulle loro teste un cumulo di vecchie pagine ingiallite. Gli incantesimi dei maghi si infrangevano contro uno scudo invisibile, e la falce sembrava acquistare velocità ad ogni secondo che passava.
“Padron Vexen, dobbiamo aiutarli. Se riusciamo ad attirare quella cosa in un punto potremmo imprigionarla nel ghiaccio, che ne pensa?”
“Penso che fa caldo. Non lo senti anche tu?”
Era arrivata all’improvviso, anche se non riusciva a capire da dove. Una sensazione arida e bruciante incollata alla pelle e stretta attorno alla gola che trasformava il respiro in una serie di rantoli affaticati. Istintivamente si portò una mano alla fronte e la trovò madida di sudore.
“C’è poca aria qui dentro padron Vexen, ed è satura di incantesimi. Come elementale del ghiaccio lei deve risentirne più di tutti.”
“No… “ il sacerdote avvolse le proprie dita in uno strato di brina sottile e gliele passò sulla fronte. Al contatto con il proprio elemento Vexen provò sollievo, e per qualche attimo gli parve di respirare meglio. Ma il calore aumentava, e le energie scorrevano via dal suo corpo insieme ai ruscelli di sudore. “No, è qualcos’altro… come se… “
Si sporse oltre lo scaffale proprio mentre le gambe gli cedevano. Scivolò sulle ginocchia annegando nell’aria densa, pesante, distorta. Attraverso le ciocche di capelli incollate al viso i ribelli continuavano a battersi contro la falce impazzita, ignari di tutto. Aprì la bocca per parlare ma inghiottì solo un pugno di aria rovente, e solo la stretta di Camus intorno alle spalle gli impedì di scivolare ulteriormente sul pavimento. La sensazione gelida sulla fronte era sparita.
“Non riesco… padron Vexen, ha ragione… c’è qualcosa… non riesco più a evocare il ghiaccio… “
Al contrario di lui, Camus non era ancora un elementale del ghiaccio completo. Per diventare elementali autentici occorrevano decenni di pratica; bisognava rinunciare a tutti i tipi di magia tranne quello prescelto, e dedicarvisi interamente finché, dopo un lungo processo di assimilazione, il corpo non fosse entrato in perfetta sintonia con l’elemento, atrofizzando automaticamente ogni altro tipo di capacità magica. Una delle condizioni imposta dal Superiore ai nuovi membri dell’Organizzazione era proprio quella di diventare elementali, ma Xemnas possedeva la peculiare capacità di sigillare parti del potenziale magico di qualsiasi creatura, e il processo non aveva richiesto più di una manciata di secondi. Per Camus era diverso; il sacerdote probabilmente non era neanche a metà del suo cammino di elementale, e alle condizioni attuali avrebbe resistito più a lungo di lui in un ambiente dominato dall’elemento opposto. Ma non per molto.
La voce di Killvearn si fece strada attraverso i vapori che ora permeavano l’aria.
“Spero che gradiate il mio invito per una bella sauna, amici miei.”
Dalle grida capì che anche i ribelli si erano accorti che qualcosa non andava. Il nano Gimli si era precipitato alla porta del laboratorio e menava colpi d’ascia come un ossesso, ma la lama cozzava contro qualcosa di invisibile e gommoso, l’ennesimo scudo magico probabilmente, e la falce impazzita continuava a seminare caos tra i ribelli, immune all’ondata di caldo rovente che ora iniziava a essere avvertita da tutti loro.
Poteva sentirla sorgere dal pavimento ora, sempre più intensa, e dalle pareti; Camus gli si era accasciato accanto, ma restare a terra era pericoloso, le ginocchia iniziavano a scottare in modo insopportabile e quell’odore di bruciato probabilmente era la stoffa degli abiti che iniziava a consumarsi, ma nessun incantesimo di ghiaccio ormai rispondeva al suo appello e tutte le energie che gli rimanevano erano concentrate nell’immane compito di non svenire. Attraverso il velo di calore vide Nevius e un altro paio di ribelli cadere feriti dalla falce, poi una risata acuta e stridula gli perforò le orecchie nello stesso momento in cui una crepa si apriva nel ghiaccio che sigillava i Nuclei Neri, e questi ultimi si sparsero dalle casse aperte in ogni direzione, rotolando sul pavimento, disperdendosi sotto gli scaffali, tra le gambe dei tavoli e i piedi dei ribelli paralizzati dall’orrore.
Sui resti delle casse una carta solitaria, un dieci di fiori, si infiammò piano a un angolo e si consumò quietamente.
Urlò, o forse erano solo i suoi polmoni e la gola che prendevano fuoco.
“DOBBIAMO FUGGIRE, ORA! DRUIDO!!”
I Nuclei Neri pulsavano e vibravano, rossi come le pareti della stanza e le scintille che gli esplodevano nel cervello. Il calore avrebbe innescato la reazione, il Baan Palace sarebbe esploso, annichilito in un miliardo di atomi, e loro con lui. Gli ultimi secondi furono solo uno scorrere di sensazioni convulse e lampi accecanti.
“GANDALF! RISPONDI, GANDALF!”
Il morso del fuoco, la sagoma del druido a braccia spalancate.
“Aragorn, non c’è tempo!”
La stretta di Camus, le sue urla dentro la maledetta armatura rovente, quelle di Gimli mentre respingeva la falce con un ultimo, disperato colpo d’ascia. Il mondo rosso e bianco, la vibrazione di decine di Nuclei Neri sul pavimento, nei polmoni, fin dentro le viscere. Odore di carne bruciata e fuoco liquido nelle vene.
“Vexen!”
Riuscì ad afferrare la mano tesa di Roxas un attimo prima che tutto si capovolgesse e diventasse bianco. Sentì il corpo sbalzato in tutte le direzioni e un boato assordante, ma con l’ultimo barlume di coscienza non riuscì a capire se fosse l’esplosione del Baan Palace o il semplice effetto del teletrasporto.
Poi ci fu solo buio.


 

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Capitolo 31
*** Capitolo 30 - Sotto la maschera ***


Capitolo 30 - Sotto la maschera





La principessa Leona




Gli incantesimi che controllano lo scorrere del tempo sono pochi ed imprevedibili. Sono pochi perché il tempo può solo andare avanti, indietro o arrestarsi. Sono imprevedibili perché nemmeno la magia demoniaca può predire cosa accadrà ad un oggetto o ad una creatura quando il fluire della sua vita viene modificato dal nostro arbitrio.
Molto poco in vita mia avevo letto sull’Incantesimo del Tempo Congelato: una magia dimenticata persino dalla Nostra memoria, perché nessun demone si è mai spinto oltre le barriere che la nostra carne mortale concede. Eppure il nostro Grande Satana ha compiuto stanotte un miracolo, distruggendo con il suo potere millenni di leggende e superstizione.
L’Incantesimo del Tempo Congelato esiste, e può dare la vita.
L’Incantesimo del Tempo Congelato è l’unica salvezza per la famiglia demoniaca.
“Storia della famiglia demoniaca, volume millesettantatre” a cura dell’Arcivescovo Stregone Zaboera, sotto il regno del Grande Satana Baan.




Cosa si sarebbe aspettato sotto quel mantello, Auron in realtà non avrebbe mai saputo dirlo con certezza. Qualcosa di feroce, quello senza alcun dubbio.
Occhi luminosi come braci, proprio come le piccole luci che si muovevano sotto il cappuccio bianco, cariche di odio per tutti i nemici del suo signore. Una bella bocca con triplice fila di denti e magari una lingua gigantesca, peli ovunque più di un licantropo nel pieno della sua furiosa trasformazione. O forse squame, proprio come aveva sempre sostenuto Matoriv.
Ma la figura davanti a loro, in piedi sul reattore, non aveva nulla a che spartire con le loro fantasie.
Mistobaan li stava fissando per la prima volta con i suoi veri occhi, e le mani che stringevano il fermaglio che aveva rinchiuso il suo segreto per tanto tempo avevano smesso di tremare e si erano serrate in pugni carichi di sfida. Mani bianchissime, pallide e perfette.
Mani di un demone.
“GRANDE IMPERATORE PALPATINE, IMPLORO IL VOSTRO PERDONO” gridò. Accanto a lui Auron vide Zachar portarsi le mani alla testa, quasi come se qualcosa l’avesse colpita. “MA PRIMA DI PROSTRARMI AI VOSTRI PIEDI DISTRUGGERO’ QUESTI RIBELLI INFEDELI!”
Le iridi che li fissavano non emanavano fiamme. Erano scure, di un’ombra strisciante tra il grigio ed il viola più buio; traboccavano di furia, odio ed una serie di emozioni che il mercenario non sarebbe mai stato in grado di vedere tutte insieme nel volto di una sola persona. Un odio millenario che da sempre animava soltanto i cuori dei demoni. I capelli viola, corti e luminosi, volteggiavano nell’aria dandogli un aspetto che avrebbe potuto definire persino sinistro se non fosse stato per la breve treccia che gli cadeva su una spalla.
Non c’era nulla di mostruoso in quel viso pallido. Soltanto la figura di un demone, ma per qualche strana ragione –il suo sesto senso da combattente veterano con troppi morti alle spalle- si sentì invadere da un doloroso senso di timore. Aveva affrontato decine di demoni in battaglia, non ultimo lo stesso Generale Hadler, ma la stretta che in un istante gli attraversò lo stomaco fu qualcosa di totalmente inaspettato.
Si avvicinò a Zachar, ma prima che potesse stringerla tra le braccia lei mandò un grido di dolore e si contorse a terra. L’attimo successivo anche Leona urlò, e quando Auron si voltò per guardarla vide Dai con le labbra serrate nel tentativo di soffocare l’ennesimo grido, come a resistere contro qualcosa di orribile che stava attraversando l’aria e che senza dubbio aveva qualcosa a che vedere con il vero aspetto di Mistobaan. Matoriv si rialzò a fatica, e quando il soldato gli corse incontro per dargli la mano si accorse che le dita ossute stavano tremando. “La magia che ha sprigionato …”
Boccheggiava.
Auron ringraziò di non essere sensibile alla magia. Toccare la sua Masamune in quel momento gli sembrò un’idea pessima e preferì invece stringere entrambe le mani del mago per aiutarlo a rialzarsi. Non lo aveva mai visto privo del suo atteggiamento beffardo, nemmeno le volte in cui annaspava di fatica dopo il lancio di una Medroa.
“Mistobaan … Mistobaan … è …” sussurrò Matoriv, piantando i piedi e richiamando a sé tutte le proprie forze per non svenire. “… è un demone maggiore”.
Sapere che un esercito di cloni di Kaspar stava marciando nella sua direzione per riprendersi Zachar sarebbe stata una notizia preferibile. “Ma non si erano estinti tutti oltre al buon vecchio GSB?”
“Temo … temo proprio di no …”
L’aria era gelida.
Auron se ne accorse solo respirando più a fondo, mentre cercava di riprendere il controllo sul proprio cuore che batteva in modo forsennato. Una sensazione di freddo gli attraversò i polmoni, ferendo come centinaia di piccole lame nel petto; dalle proprie labbra uscì una condensa chiarissima ed il vapore attraversò lentamente la stanza, senza fretta, unendosi ai respiri di tutti i suoi compagni ancora terrorizzati dall’aura incantata che circondava il loro avversario. La condensa, quasi trascinata da un vento invisibile, scivolò lungo l’ingresso del reattore, superò la porta ormai distrutta e si poggiò nel palmo della sua mano destra. Quando le dita di Mistobaan si mossero il vapore rimase immobile per qualche istante, poi cadde ai suoi piedi con il rumore di una manciata di cristalli di ghiaccio. “Ma porca p …”
Non riuscì a terminare la frase. Auron reagì d’istinto, correndo contro Zachar e facendole scudo con le sue spalle quando una pioggia di aghi di ghiaccio si abbatté su tutti loro; non riuscì a trattenere un grido quando questi gli atterrarono nella schiena e fin dentro una gamba, sovrastato solo dall’urlo di terrore di Mu quando il Crystal Wall che aveva eretto come difesa venne abbattuto da quella tempesta selvaggia di magia ed esplose in sottili schegge di luce. Auron rotolò ancora con Zachar premuta contro di lui, e schivò una seconda raffica gettandosi dietro un compressore: di sforzò di non respirare, di rimanere immobile, ma l’aria dentro i suoi polmoni iniziò a raffreddarsi, a gridare di volergli uscire dal petto per rispondere al richiamo della magia. Si strinse le labbra fino a farle sanguinare, cercando invano di scuotere Zachar: la ragazza aveva gli occhi serrati, grondanti di lacrime, e la sua schiena si piegò in modo totalmente innaturale quando un crepitio sinistro venne dal pozzo di reazione e qualcosa simile ad una ragnatela congelata iniziò a dipanarsi dalle mani di Mistobaan.
Sentì la Masamune premere nel fodero contro la sua schiena, quasi come se una magia viva ne stesse attraversando la lama.
I fili gelidi si estesero lungo il pavimento, diretti verso di loro. Qualunque versione fosse del Toma Messaijin, non ci voleva un arcimago per capire che quella ragnatela nascondesse qualcosa di spiacevole. “IMPERATORE PALPATINE, MOSTRA A QUESTE CREATURE LA TUA DIVINA POTENZA!”
“E basta con questa lagna, Misto!”
Con un salto Aban si portò davanti a tutti, scansando Matoriv con una spallata e premendosi gli occhiali sul naso. “Ora che possiamo vedere la tua bella faccina potresti almeno farci il piacere di cambiare un po’ repertorio, che ne dici?”
Prima che i fili potessero giungere all’altezza dei suoi stivali, Aban estrasse la spada e la piantò nel pavimento; l’acciaio imperiale crepitò a contatto con la sua magia, ma nell’istante in cui la lama si impegnò per un paio di dita nell’acciaio un’ondata di energia scaturì dal corpo del guerriero e travolse tutti loro come un velo di calore. L’aria si tinse di rosso ed arancione, e l’incantesimo avvolse tutti loro come una cupola proprio nell’istante in cui la ragnatela stava per avvicinarsi. Auron vide Aban grugnire per lo sforzo, ma il suo compagno mantenne la presa sulla spada senza cedere di un passo, piegato in due per lo sforzo di respingere l’ondata magica. L’improvviso calore liberò i polmoni di Auron dal dolore, ed accanto a lui anche Zachar riprese a respirare con calma nonostante il corpo fosse ancora scosso da tremiti. “Ragazzi, vi consiglio di essere mooooolto rapidi nel riprendervi. Non ho idea di cosa abbia fatto Mistobaan, ma senza quel cappuccio i suoi incantesimi sono dannatamente più forti” ruggì Aban, stavolta cadendo a terra e facendo forza sulle ginocchia.
“Quanto tempo puoi darci?” gridò un druido.
“Una decina di …”
“IL VOSTRO TEMPO E’ SCADUTO, UMANI!”
L’istante successivo Aban si ritrovò dall’altra parte della stanza, con quattro degli artigli di Mistobaan in pieno petto. Il sangue corse lungo tutta la parete mentre la cupola protettiva che aveva appena eretto collassò sotto il peso della tela di ghiaccio e la sua spada venne avvolta dal gelo. Il loro nemico non ritrasse le dita, ma lasciò che affondassero nel torace del guerriero e rimase ad osservarlo con degli occhi scuri, inespressivi, così vuoti rispetto alle parole che uscivano a fiumi dalle sue labbra. Una delle sue dita si torse leggermente, ma bastò per far esplodere un fiotto di sangue dal petto e dalla bocca di Aban. Leona si mise in piedi con un unico scatto, ma quando lanciò delle piume guaritive nella sua direzione quelle finirono distrutte prima ancora di avvicinarsi agli artigli malefici: si incenerirono all’istante, diventando una manciata di polvere argentata. Le dita di Mistobaan si mossero di nuovo, stavolta tutte insieme, trascinando con loro il corpo del guerriero e mandandolo a fracassarsi contro un’altra parete mentre i fili gelidi del Toma Messaijin si dispersero sul pavimento come un nido di serpenti, ergendosi contro chiunque cercasse di avvicinarsi al loro amico. Il demone ringhiò qualcosa tra i denti ed i suoi artigli furono avvolti da un fuoco azzurro e verde che li avvolse partendo dal palmo, poi in qualche istante corse in avanti, divorando le falangi metalliche diretto al cuore di Aban. Auron si alzò senza riflettere, scattando verso gli artigli di Mistobaan fosse stato anche solo per rallentare il flusso dell’incantesimo, ma qualcuno arrivò prima di lui.
Dai esplose come il soffio di un drago contro il petto del loro avversario. La ragnatela si sollevò dal pavimento per correre tutta contro le sue gambe, ma il ragazzo sembrava avvolto da una luce chiara, quasi verde, che faceva sembrare la cupola creata da Aban un incantesimo di classe inferiore. I fili che riuscirono ad avvolgersi contro la sua caviglia furono carbonizzati in un istante nel momento in cui toccarono la pelle, mentre quelli che si sporsero più avanti furono tagliati dalla sua piccola spada. Mistobaan gridò di rimando, forse accorgendosi troppo tardi della portata del giovane guerriero. Si mosse verso sinistra, evitando un fendente, ma in quel momento Dai contrattaccò: una sfera infuocata partì dal palmo della sua mano libera, e Mistobaan fu costretto a ritirare immediatamente gli artigli dal petto di Aban per frapporli tra l’incantesimo ed il proprio corpo. Il guerriero si accasciò contro la parete e Leona corse a soccorrerlo, ma gli occhi di Auron e di tutti loro erano fermi su Dai, sulla sua spada e sulla figura di Mistobaan.
Gli artigli del demone pararono il fendente.
La lama si tinse rosso, liberando scintille. Il ragazzo approfittò del gesto dell’avversario per assecondarlo e recuperare terreno, atterrando sul pavimento per disimpegnarsi rapidamente a terra; evitò l’ennesimo artiglio scagliato nella sua direzione e si mise in piedi, frapponendosi tra gli incantesimi nemici e la figura ancora priva di coscienza del suo maestro. L’elsa della spada si tinse di un bagliore azzurro ed il giovane caricò. “ABAN STRASH!”
Attraversò il corridoio come un fulmine, carico della stessa tecnica usata poco tempo prima; Mistobaan si mise sulla difensiva, e sul suo viso privo di espressione non traspariva alcun segno di stupore, meraviglia o rabbia per le potenzialità del giovane Dai che ormai aveva surclassato tutta la Resistenza –e anche Aban, che però non lo avrebbe mai ammesso.
Auron non perse la presa su Zachar ma si lanciò di lato, conoscendo la ferocia degli incantesimi del piccolo Dai quando era fuori controllo, quando la ferocia della battaglia richiamava tutte le sue abilità. Nessuno era mai riuscito a comprendere l’origine della sua energia spontanea, libera, che non aveva molto a che spartire con la magia arcana di Matoriv o gli anni di addestramento di Aban: Dai era così, e farsi delle domande su quel dono inaspettato non era nello stile della Resistenza, men che mai in quello di Auron.
Dai spinse la potenza dell’Aban Strash in un lampo di luce. Mistobaan fu assalito dalla pressione prorompente dell’arma incantata, e tutta la sua figura fu avvolta dai raggi azzurri ed oro della magia avversaria: alzò gli artigli della mano sinistra per parare il colpo, ma indietreggiò di un paio di passi quanto bastò per permettere al ragazzo di insistere contro il fianco aperto con un pugno infuocato rivolto all’addome. Lo colpì con un grido di battaglia mentre tutti gli altri furono spinti indietro, lontano dal punto dello scontro.
Lo ha colpito … fu il pensiero cosciente di Auron prima di essere sbalzato contro l’ennesima parete della Morte Nera insieme a Zachar e ad un paio di druidi piuttosto malconci. L’unica cosa visibile in quella confusione era il pugno incandescente di Dai che sfolgorava nella battaglia, ben piantato nel fianco del loro avversario.
“Tutto qui?”
Il tono stranamente calmo di Mistobaan aveva qualcosa di stranamente fuori posto. Era ancora in piedi, leggermente sollevato da terra per parare meglio il fendente del ragazzo, ma nonostante il suo pugno piantato nel fianco era perfettamente immobile. “Credevate davvero …”
Leona e Matoriv lanciarono un grifo all’unisono, ma Dai se ne accorse troppo tardi.
La mano libera di Mistobaan era avvolta nell’ombra, come se l’aria intorno ad essa si stesse nutrendo avidamente della luce. “CREDEVATE DAVVERO DI POTER ESSERE IN GRADO DI SFIDARE LA FORMA PERFETTA DELL’IMPERATORE PALPATINE?”
Il giovane cancellò subito il potere dell’Aban Strash, ma gli artigli della mano sinistra lo spinsero a terra, impedendogli di volare via: Mistobaan fu sopra di lui con una velocità impensabile per una persona appena colpita da un pugno nel basso addome, e prima che Dai potesse allontanarsi abbatté la mano destra, carica di oscurità, contro la sua testa. Dai urlò come non lo aveva mai sentito fare, perdendo la presa sulla propria spada. Auron e Zachar si mossero in avanti per aiutarlo, ma Leona fu più veloce.
Si avventò sulla mano di Mistobaan, piantandovi le proprie unghie per fargli perdere la presa su Dai; il demone non sembrò nemmeno ferito dal tentativo disperato della principessa, ma quando aumentò l’incantesimo per far gridare ancora di più il ragazzo fu attaccato da un fascio elettrico scaturito dal palmo di Zachar. “Auron, proteggi tutti i druidi! Ce ne andiamo!”
“Ma non abbiamo distrutto il generatore!”
“Con Aban e Dai in questo stato? Mistobaan distruggerà NOI!”
Cercò di trovare un’altra soluzione, ma la maga gli passò davanti e creò uno schermo abbastanza velocemente da disperdere l’incantesimo che il loro nemico le aveva appena ritorto contro. “Detesto dare questo comando ma … RITIRATA!”
Riuscì solo a vedere di sfuggita un fiotto di sangue dalla testa di Dai, così come Matoriv che emerse da oltre la ragnatela gelida e allontanò il ragazzo e Leona prima che gli artigli di Mistobaan si abbattessero nel punto del pavimento dove i due giovani si trovavano fino a qualche istante prima. Zachar rimase per qualche istante da sola davanti all’avversario, dando tempo a Mu di sollevare Aban e trasportarlo accanto all’energia verde ed oro che segnalava l’apertura del passaggio verso il Perno dell’Ade e la salvezza. Il loro nemico si avventò su di lei con un altro, ennesimo grido di battaglia capendo della loro fuga, ma prima che potesse anche solo sfiorarla Auron le afferrò il polso e la trascinò con sé ignorando il demone, ignorando la magia, ignorando tutto.
Con la mano libera afferrò quella di un druido e lo spiacevole incantesimo di teletrasporto iniziò ad agire, riempiendo il campo di battaglia della sua luce e facendo svanire in pochi secondi il sangue, il metallo, i segni della battaglia e l’enigmatico volto che per la prima volta aveva abbassato il cappuccio per ingaggiare un combattimento mortale con loro.
E, come tipico di Mistobaan, l’ultima cosa che svanì fu la voce martellante che invocava la vendetta in nome del Grande Imperatore Palpatine.
Quando Auron riaprì gli occhi vide subito il bellissimo cielo della Terra II, ed ammise tra sé e sé che non era mai stato così felice di fuggire da uno scontro.



Gandalf si rilassò, sporgendosi da uno dei merli del terzo cerchio di mura. Minas Tirith nel primo pomeriggio era sempre una splendida vista, perché il sole cadeva a picco sull’Anduin lasciando che il fiume riflettesse la sua luce lungo le mura bianche avvolgendo la città di un meraviglioso alone luminoso. Alone luminoso che andava giustamente apprezzato insieme ad una manciata di Vecchio Tobia, la migliore erba pipa del Decumano Sud.
La città era tornata lentamente alla normalità, ed a parte un ingorgo di carri lungo una via che costeggiava il mercato –dovuto chiaramente a qualche nano ubriaco in mezzo alla strada, poteva sentire il tanfo di birra fin dalla sua posizione- la vita degli abitanti procedeva nel consueto disordine che Gandalf semplicemente adorava. Fino ad un’ora prima quasi tutta la capitale della Terra II si era riversata in strada per assistere al ritorno della squadra della principessa Leona dopo il commando sulla Morte Nera; il vecchio stregone non poteva che dirsi soddisfatto della sua gente, di quel fiume di tutte le razze che aveva accolto con gioia i loro nuovi alleati quasi a ricordare a tutti, a chi era partito ed a chi era rimasto, l’importanza di rimanere sempre uniti.
La missione sulla Morte Nera non era stata un vero successo: a quanto sembrava Mistobaan era stato in grado di resistere da solo alle forze combinate di Dai, Aban, Matoriv, Zachar ed Auron, e forse aveva un qualche strano potere che lo stregone non era certo di aver ben capito. Ma in fondo non era una terribile tragedia, l’Imperatore non era certo uno sprovveduto in quanto a difese ed i loro nuovi amici erano stati davvero fortunati ad uscirne vivi. Non per niente l’Alleanza Ribelle aveva trascorso decine di anni a forzare i segreti della Morte Nera senza alla fine aver raggranellato alcun vero successo.
“Gandalf, quando non ti vedo alle riunioni mi preoccupo!”
“Uff, sarei arrivato comunque. Mi stavo solo godendo il panorama!”
Aragorn gli si avvicinò, poi si mise seduto su uno dei merli lasciando cadere le gambe nel vuoto. “Ma sì, hai ragione tu. Passa l’erba pipa! Tanto c’è Elrond che sta facendo l’ennesimo preambolo …”
Sì, decisamente un valido motivo per rimanere ancora qualche minuto lassù, in quell’angolo illuminato dal sole della città che avevano penato prima per liberare e poi per difendere. Nella loro vita avevano visto centinaia di mondi ed avevano cercato di raddrizzare quanti più torti possibile, ma alla fine era lì, nel tornare a casa, nel sentire la propria gente gioire e festeggiare che Gandalf trovava ciò di cui aveva bisogno, quel qualcosa che nemmeno la saggezza dei Valar e le luci di Valinor potevano offrire.
“Sai, un po’ mi dispiace per il Grande Satana”.
Aragorn espirò a fondo, mescolando le parole al fumo della pipa. Negli anni aveva imparato a dare alle nuvole di fumo le forme più svariate, e quella che prese forma dalle sue labbra sembrava davvero una minuscola copia del Baan Palace. Si erano salvati da quell’inferno per pura fortuna: anche nel bel mezzo della battaglia era riuscito a sentire la chiamata via ologramma di Aragorn ed avevano organizzato una fuga in fretta e furia. L’idea di Leia di dividere i druidi in minuscole unità era stata vincente ed era bastata una manciata di secondi per teletrasportare tutti lontano da lì: avevano sentito tutti parlare dei Nuclei Neri e non era stato necessario aggiungere altro per spronare tutto il commando ad andarsene ed a mandare qualcuno a prelevare rapidamente il ramingo, Lupo e tutto il loro gruppo.
“Ucciso da uno sporco trucco di uno dei suoi. Non so, non augurerei a nessuno di fare una fine simile. Nemmeno a papà Impe, ma tanto lo sappiamo tutti che nessuno dei Signori Oscuri riuscirà mai a metterlo nel sacco. E mi dispiace anche per i suoi generali e per tutti i demoni lì dentro … non era questo ciò che avevo in mente”.
“Non tutti i generali sono morti”.
“Ecco, e non dirmi che non è un bel problema”.
Sapevano entrambi, e non solo loro, che il Generale Baran era ancora vivo. Avevano organizzato l’attacco al Baan Palace proprio perché Camus, il giovane sacerdote che aveva spiato per loro i movimenti della famiglia demoniaca, li aveva avvisati in tempo dell’assenza del signore dei draghi. Non occorrevano spie per scoprirne la destinazione, perché gli ologiornali e le oloradio brulicavano di immagini del pianeta Kamino e delle rovine di Tipoca City: Gandalf vi era stato un paio di volte durante diversi commandi, e non avrebbe mai immaginato che potesse esistere qualcuno in grado di polverizzare le difese kaminoane che avevano respinto centinaia di Ribelli. Eppure Tipoca City e le fabbriche dei cloni erano state colpite al cuore da una furia mai vista nemmeno durante le guerre contro Sauron, e non poteva negare di aver lanciato più di una volta delle occhiate sospette alle nuvole, agli uccelli, a qualunque cosa potesse avvicinarsi alla sua bellissima Minas Tirith con le sembianze del Cavaliere del Drago. Perché se quel poco che sapeva sulla famiglia demoniaca raccontato dalla principessa Leona era vero … quanto tempo sarebbe servito a quell’uomo ed ai suoi sottoposti per giungere sulla Terra II e massacrarne tutti gli abitanti solo per vendicare la morte del loro sovrano? E senza dubbio non sarebbe rimasto lì ad ascoltare le loro spiegazioni, proprio come non era rimasto immobile quando le difese dei kaminoani si erano alzate.
Aragorn corrugò un sopracciglio, quasi a leggergli nel pensiero. “Ho dato ordine di sollevare tutti gli scudi al plasma di Isengard e O’Neill ha piazzato dei sensori aerei da Minas Tirith fino a Edoras; non so quanto possano servire …”
“Ci servirà tutto. Non possiamo prevedere quando il Generale Baran attaccherà, ma non possiamo farci cogliere impreparati. Se crederà davvero che siamo stati noi a …”
“Se verrà non ci tireremo indietro. Se dipendesse da me vorrei parlargli e spiegargli tutto ciò che è successo sul Baan Palace, ma non credo che mi ascolterà. In ogni caso lo affronteremo, come abbiamo sempre fatto. Leia e gli altri sono d’accordo e credo che svilupperemo questo punto proprio alla riunione. Adesso suppongo che stiano parlando del processo …”
“Ah, quasi me ne ero dimenticato …”
Sinceramente per Gandalf quel processo era una perdita di tempo. L’uomo che avevano portato con loro, quel Membro dell’Organizzazione dall’espressione imbronciata che aveva visto solo di sfuggita durante il teletrasporto organizzato dai druidi, non gli sembrava una persona chissà quanto speciale. Sì, da quello che aveva capito dai discorsi di Leona e Leia aveva collaborato alla creazione dei Nuclei Neri, ma lo stregone aveva conosciuto scienziati imperiali ben peggiori e di certo con meno scrupoli morali di quell’uomo dagli occhi incavati che senza dubbio aveva lavorato per il Grande Satana sotto minaccia della vita. Fosse dipeso da lui lo avrebbe lasciato libero –o gli avrebbe proposto di unirsi all’Alleanza, da quello che sapeva era anche un abile medico ed erano un po’ a corto di guaritori- ma quando Mu, Auron e Zachar erano tornati dalla missione la situazione aveva assunto una brutta piega. Una pessima piega. Una piega che si sarebbe potuta trasformare in un paio di zigomi distrutti se Camus non si fosse interposto tra il collo dello scienziato e le mani di Auron.
Gandalf aveva sentito diversi racconti sui Membri dell’Organizzazione per bocca di Mara –in effetti si erano presi un bello spavento quando, qualche anno prima, lei e Daala erano state rapite da questi fantomatici uomini in nero- ma quello scienziato al momento non gli sembrava una terribile minaccia. Era riuscito persino a parlarne con Mara ed a convincerla a non infierire su quell’uomo che chiaramente era scosso e spaventato, ma quando anche Zachar aveva aggiunto le sue proteste erano giunti ad un compromesso sotto forma di un regolare processo che aveva messo d’accordo tutti a parte, ovviamente, lo scienziato in questione. “Mah, a me sembra un tipo a posto. Un po’ scorbutico, ma per quel che mi riguarda potremmo lasciarlo libero anche adesso”.
“Concordo con te, amico mio” rispose Aragorn scendendo dai merli. Con uno sguardo lievemente rattristato svuotò quello che rimaneva del Vecchio Tobia in un sacchetto e ripose la pipa tra le pieghe dell’abito prima di stiracchiarsi. “Ma forse può essere utile per capire bene le posizioni della Resistenza. Siamo alleati, ma credo che ancora dobbiamo fare qualche passo in avanti per essere davvero uniti. Anche se penso anche io che sia una perdita di tempo, se dovessimo indire un processo per ogni imperiale che abbiamo catturato non vivremmo più. A proposito …”
Si incamminarono insieme, dando le spalle alla vista della loro splendida città bianca.
Il cortile era perfetto come ai tempi di Denethor, i viali bianchi rimasti intatti nonostante i roghi, gli assalti degli orchi, i bombardamenti dell’Imperatore; persino l’erba non presentava alcuna macchia e, nonostante il merito andasse tutto ai zelanti giardinieri chiamati apposta da Gran Burrone dalla regina, Gandalf era convinto che vi fosse qualcosa in quel luogo che andasse oltre la semplice bravura di uomini ed elfi, qualcosa senza nome che respirava tra quelle mura sin dalla fondazione di quella città ed era resistito a tutto.
“… quel soldato imperiale che abbiamo salvato dalle celle del Baan Palace è sparito. Immagino sia tornato a casa con i suoi mezzi, ma ho evitato di parlare a Leia di questa cosa”.
“Senza dubbio, abbiamo questioni più importanti. Mi auguro che quell’uomo sia tornato dalla sua famiglia e si riprenda da questa orribile esperienza”.
Senza volerlo i suoi occhi andarono all’Albero Bianco. La pianta secolare brillava di luce propria anche sotto la forza del sole, ma non era la sua corteccia candida a colpire lo stregone: i suoi occhi andavano ai rami, alle centinaia di braccia di quel gigante che le leggende volevano si trovasse in quel luogo prima ancora della fondazione della città. Braccia che anche allora erano cucite sui vessilli della città ricordando ad ogni uomo di Minas Tirith le sue origini. Gandalf ancora aveva vivida davanti ai suoi occhi l’immagine che il Palanthir, l’Occhio di Sauron, gli aveva mostrato ai tempi della guerra dell’Anello: tra i pensieri del loro nemico, tra i suoi sogni e desideri di morte, aveva visto l’Albero Bianco avvolto dalle fiamme. Si era immerso nella sua corteccia carbonizzata fino a sentire nelle narici l’odore del legno distrutto.
Era stato solo un sogno, un tuffo nella mente del loro avversario, ma gli era bastato per capire davvero cosa desiderava proteggere.
E ciò che desiderava non accadesse mai.
Lui ed Aragorn non avrebbero mai permesso a quell’albero di bruciare. Non avrebbero permesso a nessuno di toccare quel mondo che avevano faticato tanto a costruire e riunire. Avrebbero affrontato qualunque nemico in nome di quel sogno comune, indipendente se sulla loro strada si fossero trovati un pugno di orchetti o cento Cavalieri del Drago. La vittoria sul Grande Satana era stata il segno che insieme potevano fare ogni cosa, ma anche il simbolo che ancora vi era molto da fare prima poter deporre le armi.
Il re aprì la porta. “E comunque dovremmo festeggiare. È caduto il governo di un tiranno”.
“Qualche idea?”
“Uhm, sì …” disse l’altro. “Pensavo a qualcosa di grosso”.
 

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Capitolo 32
*** Capitolo 31 - Accusa e difesa ***


Capitolo 31 - Accusa e difesa





Roxas




La Verità è perfezione, perché essa è e non può essere diversa. È nella natura degli uomini cercare di nasconderla, perché il suo peso schiaccia la mente e acceca gli occhi di chi non ha il coraggio.
Se gli uomini possedessero la Verità forse sarebbero simili agli dèi.
Dai diari del Gran Sacerdote Camus.




L’aula per il processo fu allestita nella sala del trono di Minas Tirith, portando sedie da tutto il palazzo e persino un paio di banchi da messa dalle stanze dei preti. La sala andava riempiendosi poco a poco, un calderone ribollente di brusii e mormorii incuriositi. Pareva che l’intera Alleanza non vedesse l’ora di dare un’occhiata al membro dell’Organizzazione di cui si chiacchierava tanto nelle ultime ore, e Vexen si sentiva un animale da baraccone, il centro degli sguardi di chiunque facesse il suo ingresso nella sala. Dal canto suo, cercava di non incontrare gli occhi di nessuno.
I testimoni erano già tutti seduti al banco a loro riservato, alla destra di quello dell’imputato: Mu, entrambe le Invocatrici, la Jedi dai capelli rossi amica di una di loro. Più o meno metà delle persone che un tempo Vexen aveva condizionato al Castello dell’Oblio. Quante probabilità c’erano di ritrovarle tutte insieme nello stesso posto a tre anni di distanza? Quando si dice la fortuna.
A sorpresa, in mezzo alle due Invocatrici sedeva Roxas. Il ragazzo indossava ancora la tunica Ramas logorata dalla battaglia nel Baan Palace, e sembrava l’unico in tutta l’assemblea ad avere uno sguardo amichevole per Vexen. Lo scienziato si sforzò di ricambiarlo con un sorriso tremolante.
“Parlerà in suo favore, padron Vexen. Si è offerto volontario prima ancora che lo pregassi di farlo.”
L’ennesimo tentativo di rassicurarlo da parte di Camus che andava miseramente a vuoto. Troppe persone in quella sala volevano vederlo morto. E lui stesso non riusciva a biasimarle del tutto.
“Non basta! Dobbiamo elaborare una strategia, inventare qualcosa di efficace.”
“La strategia più sicura è sempre la verità, padron Vexen.”
“E da quando gli avvocati dicono la verità?!”
Nell’Alleanza non esistevano avvocati di professione. Ad ogni nuovo processo era tradizione dei Ribelli assegnare i ruoli di accusatore e difensore su base volontaria, così che chiunque, se lo desiderava, poteva ricoprirli. Allo stesso modo, qualunque membro dell’Alleanza aveva la facoltà di esprimere il proprio voto per il verdetto finale.
“Abbia fede, padron Vexen. Gli dèi non l’hanno salvata dall’ira del Generale Baran e dall’esplosione del Baan Palace per farla condannare a morte qui oggi. Sono certo che hanno altri piani per lei.”
Era talmente agitato da non avere neppure la forza di rispondere al sacerdote per le rime. Il brusio della folla si era fatto più intenso, premeva contro le orecchie e si insinuava come un plotone di insetti tra le pareti del cranio. Una voce rimbombava su tutte, il ricordo della minaccia sprezzante che Auron gli aveva sibilato in faccia appena un paio di ore prima: “Mi sono offerto come avvocato dell’accusa, bastardo… ma solo per poter fare il boia quando questa farsa sarà finita.”
Era consapevole dello sguardo di fuoco del mercenario puntato su di lui come la canna di un fucile. Il banco dell’accusa si trovava alla loro sinistra, e Auron era stato uno dei primissimi ad entrare nella sala e ad accomodarsi con il sorriso sfrontato di chi è convinto di avere già la vittoria in pugno.
Lo sguardo fisso su una macchia di umidità sul muro, Vexen si accorse dell’ingresso dei capi dell’Alleanza solo dal cessare dei mormorii e dal tocco leggero di Camus sul braccio. Erano presenti entrambe le principesse, oltre ad Aragorn e Gandalf, una donna di mezza età dai corti capelli rossi e un mago della Resistenza piuttosto anziano ma dall’aria coriacea. Il gruppo sfilò dietro al tavolo di quercia collocato nella parte rialzata della sala, accanto al trono del re, e prese posto accompagnato da un caloroso applauso del pubblico.
Quando il silenzio tornò a posarsi sull’assemblea, la principessa Leona prese la parola:
“Vexen del Castello dell’Oblio. Sei qui davanti a noi oggi per rispondere di gravi accuse formulate da diversi membri dell’Alleanza Ribelle e della Resistenza, e per essere giudicato di conseguenza. Ti sono imputati i seguenti crimini: rapimento, associazione a delinquere, condizionamento mentale, tentato omicidio, cooperazione con la famiglia demoniaca e costruzione di armi da distruzione di massa.”
Ogni parola della principessa era un macigno scagliato nel silenzio assordante. L’assemblea tratteneva il respiro, e Vexen serrò le dita attorno al legno del banco per resistere all’impulso di gettare la dignità al vento e correre via lontano da tutto e da tutti.
“Come ti dichiari rispetto a queste accuse?”
La strategia più sicura è sempre la verità.
Le parole di Camus gli balenarono come un lampo nella mente, e in qualche modo lo aiutarono a tornare presente a se stesso, a concentrarsi sul problema più vicino. Forse il sacerdote non aveva tutti i torti, una volta tanto. Convincere i Ribelli della sua innocenza era pura utopia con tutti quei testimoni pronti ad azzannarlo alla gola al primo passo falso. Doveva trovare un altro modo.
“Credo che sappiate tutti come sono andate le cose.”
“Significa che ammetti la tua colpevolezza?”
Con un’occhiata valutò la principessa. Era poco più che una bambina, ma il tono e il portamento sicuri parlavano di un’esperienza forgiata precocemente e di un’attitudine al comando naturale e mai messa in discussione. Eppure non c’era crudeltà nei suoi occhi nocciola, né compiacimento nell’esercitare la propria autorità: faceva semplicemente quello che riteneva il suo dovere. Non lo odiava, né voleva vederlo morto. Lo avrebbe giudicato con equità.
“Sarebbe folle da parte mia mentire. Ma ho servito il Grande Satana e costruito per lui i Nuclei Neri sotto minaccia della vita.”
“E gli altri crimini? Anche nel Castello dell’Oblio eri costretto da qualcuno?”
“Macché costretto e costretto!” tuonò Auron dal banco dell’accusa. “Era lui il capo, insieme a quel bastardo figlio di puttana di Marluxia!”
“Auron, ti prego!” alla destra di Leona, il vecchio mago della Resistenza invitò il mercenario alla calma con un gesto conciliante. “Avrai tutto il tempo di dire la tua tra poco. Adesso lascialo rispondere.” Si voltò di nuovo nella sua direzione. “Allora: eri costretto o minacciato da qualcuno al Castello dell’Oblio?”
“No.”
“Molto bene” riprese Leona. “Più tardi avrai la possibilità di parlare e di spiegare le tue motivazioni. Prima però ascoltiamo cosa hanno da dirci i testimoni.”
Ebbe inizio lo stillicidio. Uno ad uno, Mu, Mara Jade, Daala e Zachar esposero la loro versione dei fatti, raccontando con dovizia di particolari gli eventi del Castello dell’Oblio: il loro rapimento, il condizionamento da parte dei membri dell’Organizzazione, l’ordalia delle Stanze della Memoria, la lotta e la fuga contro il tempo per scampare all’esplosione dei Nuclei Neri. Durante tutti gli interventi il pubblico rimase in silenzio quasi completo. Solo ogni tanto si levava qualche mormorio indignato, e Vexen riusciva a captare parole come “assassino”, “infame”, “vigliacco”, insieme ad altri termini più coloriti. Ad ogni nuovo insulto lo sguardo di Auron si accendeva di una soddisfazione che rasentava la ferocia.
Durante l’ultima testimonianza, Camus posò una mano sul braccio di Vexen e lo strinse con delicatezza.
“.. e anche se Kaspar al momento è un nostro nemico, a quel tempo era l’uomo che amavo. Vexen e i suoi complici volevano costringermi a ucciderlo con le mie mani solo per ottenere la loro preziosa Invocazione Suprema. Questo vigliacco qui si è mostrato solo una volta in tutto il percorso, verso la fine: non aveva nemmeno il coraggio di agire in prima persona, ci ha manipolati per tutto il tempo attraverso i suoi compagni o le altre sue vittime come Auron e Mu. Ha giocato a fare il dio con le nostre vite, ci ha trattati come oggetti senza valore!”
Zachar era cambiata: la ragazzina perennemente in lacrime del Castello dell’Oblio aveva lasciato il posto a una donna decisa, che non abbassava lo sguardo e non aveva paura a dichiarare il suo amore per uno dei nemici pubblici numero uno della galassia sotto gli occhi dell’Alleanza e della Resistenza al gran completo. Ironia della sorte, erano stati proprio i suoi esperimenti con il condizionamento a rendere possibile quella crescita.
In un certo senso dovresti ringraziarmi, Invocatrice.
“Grazie, Zachar” con un cenno del capo e un sorriso Leona indicò alla maga che poteva riaccomodarsi. “Rimane adesso un solo testimone da ascoltare: Chiave del Destino, apprendista del Monastero Ramas. Alzati pure e parla liberamente.”
“Grazie.” Roxas sembrava leggermente intimidito all’idea di parlare in pubblico, ma dopo una breve pausa per raccogliere le idee la sua voce acquistò una sfumatura più salda. Gettò un’altra occhiata incoraggiante nella sua direzione prima di lanciarsi nella testimonianza.
“Vorrei dirvi subito che io non posso pronunciarmi sugli avvenimenti di cui hanno parlato gli altri testimoni, perché non ero presente. Ma ho conosciuto Vexen prima che tutta questa storia del condizionamento iniziasse, e posso dirvi che tipo di persona era allora. Non so quanti di voi lo sappiano, ma anch’io, tanto tempo fa, sono stato un membro dell’Organizzazione.”
A giudicare dai brusii contrariati, era chiaro che la notizia era nuova per molti. È un bene, si disse Vexen. Fino a quel momento, per i Ribelli la nozione di “Organizzazione XIII” era sempre stata collegata a qualcosa di oscuro e minaccioso; ora invece scoprivano che uno dei loro stessi alleati ne aveva fatto parte, e questo poteva portare l’Organizzazione in una luce più umana, cambiare la percezione dell’intera faccenda. O almeno così Vexen sperava.
“L’Organizzazione era strutturata secondo una gerarchia rigida, in cui il rango di ciascuno corrispondeva a un numero. Vexen era il numero IV, quindi molto alto di rango, ma non abusava mai del suo potere. Lo stesso non si poteva certo dire di altri. Era una persona tranquilla, riservata, non dava fastidio a nessuno, e non era tirannico con noi ultimi arrivati. Era anche il nostro medico: senza di lui probabilmente avrei perso la vista per via della febbre cinerea che mi sono preso esplorando una palude su un mondo che neanche ricordo come si chiama. Per questo gli sarò grato per sempre.”
“E questo cosa c’entra con le accuse in esame?” Auron non avrebbe permesso che una testimonianza positiva gli rovinasse la piazza. Solo agli avvocati era consentito interrompere i testimoni di parte avversa con domande e obiezioni; Camus non aveva fatto uso di questa possibilità, ma Vexen era pronto a scommettere che Auron non attendeva altro. Non desiderava semplicemente sconfiggerlo: voleva farlo a pezzi.
Fortunatamente Roxas non si lasciò scoraggiare: “Voglio solo dire che Vexen non è soltanto il mostro che voi dipingete. Io ho conosciuto una persona ben diversa, e questa stessa persona l’ho ritrovata oggi sul Baan Palace. Durante la battaglia ci ha salvato la vita contro i mostri di olihargon del Grande Satana, il mio maestro e re Aragorn mi sono testimoni. Senza la sua alchimia saremmo morti tutti. Ma noi Ribelli non siamo gli unici a dovergli la vita. Vexen con la sua arte medica ha salvato molte più vite di quante non ne abbia distrutte con il condizionamento di cui voi lo accusate. Tutti al Castello dell’Oblio sapevano delle sue gesta prima di entrare nell’Organizzazione. Era uno dei pochi medici del nostro mondo ad accettare di curare certe categorie di emarginati, come le persone con i capelli rossi ad esempio” la sua voce ebbe un tremito impercettibile, e il giovane Ramas fissò lo sguardo dritto in quello di Leona: “Non tutti i regnanti erano illuminati come lei, principessa.”
E improvvisamente Vexen capì. Capì perché Roxas si ostinava a difenderlo malgrado ormai sapesse del condizionamento e di tutto ciò che lui e gli altri avevano fatto al Castello dell’Oblio. Capì perché non aveva difficoltà a perdonarlo, perché non si era tirato indietro nemmeno dopo le testimonianze cruciali delle Invocatrici e di Mu.
Accusare Vexen equivaleva ad accusare Axel. I loro crimini erano gli stessi, e il numero XIII non era ancora pronto a riconoscere l’amico di un tempo nel ritratto spietato dipinto da Auron e dagli altri testimoni. Ascoltare quelle parole doveva essere stata una tortura indicibile per lui.
“E tu lo hai mai visto curare tutte queste persone?” tornò alla carica Auron. “A parte i membri dell’Organizzazione, intendo. Lo hai mai visto con i tuoi occhi?”
“No, ma tutti quanti dicevano che… “
“Allora sono solo chiacchiere. Conoscendolo, avrà condizionato anche gli altri membri dell’Organizzazione.”
“Questo non puoi dirlo!”
“E va bene, forse no. Ma tu invece puoi dirmi perché hai lasciato l’Organizzazione?”
Il ghigno di Auron si allargò da un orecchio all’altro quando vide Roxas spalancare la bocca e poi richiuderla senza spiccicare parola, preso in contropiede dalla domanda spiazzante. Vexen fece per saltare in piedi, ma Camus lo trattenne con una mano sul braccio: “Non è ancora il momento giusto, padron Vexen” sussurrò.
“Non c’entra nulla con quello di cui stiamo parlando” Roxas si era ripreso, e il tono della sua voce ora era tagliente come l’acciaio. “E soprattutto non ha assolutamente niente a che fare con Vexen.”
La risposta non soddisfò Auron. Proteso sul banco come un uccello del malaugurio, avrebbe continuato a bombardare il povero numero XIII di domande se il mago anziano della Resistenza – Matoriv, gli pareva si chiamasse - non avesse alzato una mano per fermarlo: “Basta così Auron. Stiamo deviando dalla questione principale. Chiave del Destino, grazie per la tua testimonianza. Andiamo avanti.”
Auron non si diede per vinto: “Allora permettetemi almeno di testimoniare a mia volta. Ho anch’io un paio di cosette da dire sul Castello dell’Oblio.”
Il racconto del mercenario non fu diverso da quelli di Mu o delle Invocatrici. Cambiava solo la scelta delle parole: più dure, più spietate, più veementi. Una testimonianza che aveva già il sapore dell’arringa finale. Una promessa di vendetta, sottolineata dallo sguardo omicida che Auron gli lanciò al momento di sedersi di nuovo. Vexen non aveva mai provato su di sé un odio così profondo e viscerale, neanche quando tremava al cospetto del Grande Satana. Neanche quando aveva litigato con Zexion.
Fu in quel momento che Camus si alzò in piedi, chiedendo per la prima volta il permesso di parlare.
“Visto che Auron ha testimoniato mi sembra giusto che lo faccia anch’io. Ho vissuto per quattro anni insieme a padron Vexen, sono la persona che meglio…”
“OBIEZIONE!”
“Auron… “ fu di nuovo Matoriv a frenare con impazienza il mercenario. “Lo so che ti scoccia, ma devi capire che anche la difesa ha diritto di parlare…”
“Obiezione!” ripeté Auron, granitico. “La difesa ha diritto di parlare, certo, ma l’avvocato della difesa qui presente non può essere considerato una testimonianza affidabile… perché è palesemente condizionato!”
La folla rumoreggiò, percorsa da un’ondata di sdegno e incredulità. Vexen vide Mu sbiancare e stringere tra le dita un rosario. Spostò lo sguardo su Camus al suo fianco, ma il sacerdote appariva sereno, per nulla turbato dalle insinuazioni del mercenario. Vexen sperò che avesse una strategia per uscire da una situazione che peggiorava di minuto in minuto. Improvvisamente il banco degli imputati pareva imbottito di carboni ardenti.
Certo di aver conquistato l’attenzione di tutti, Auron continuò: “Nessun uomo libero e sano di mente chiamerebbe mai un altro uomo padrone. Solo gli schiavi sono costretti a parlare così. O i condizionati. Noi ci rivolgevamo sempre in questo modo ai membri dell’Organizzazione quando eravamo sotto il loro controllo. Se Camus non ha smesso di farlo, vuol dire che è ancora condizionato!”
Camus voleva ribattere, ma Vexen esplose prima: “È assurdo! Anche se fosse vero, dopo tutto quello che è stato detto in questa stanza solo nei primi cinque minuti, il condizionamento sarebbe saltato! Sapete benissimo anche voi che basta poco, lo avete provato! E poi Camus nel Baan Palace ha fatto la spia per voi a mia insaputa, come potete pensare che sia condizionato?”
“Conoscendoti potrebbe benissimo essere tutto un tuo piano! Anzi, sono certo che lo sia. Ma se pensi che ci faremo ingannare un’altra volta…”
“Se avessi avuto un piano a quest’ora sarei libero da qualche altra parte piuttosto che qui a subire il vostro processo!”
“E allora come spieghi il tono servile con cui Camus si rivolge a te, sentiamo?!”
Vexen esitò, incapace di rispondere. Non ne aveva idea. Era talmente abituato ad essere chiamato “padrone” dal suo assistente che non si era mai reso conto…
“È una mia scelta” fu la semplice risposta di Camus. “Il mio modo di mostrare rispetto verso una persona che mi ha insegnato molto e che ammiro... nonché, temo, la forza dell’abitudine” sorrise. “Mi dispiace che la cosa vi abbia offeso.”
“RISPETTO? AMMIRAZIONE? Ma lo sentite? E queste secondo voi sarebbero le parole di una persona libera? Dopo tutto quello che questo scienziato infame gli ha fatto, come può ancora parlare di rispetto? È condizionato, non c’è dubbio!”
“SE NE SEI CONVINTO ALLORA FAMMI VEDERE LE PROVE!” urlò Vexen alzandosi. La sua reazione fu una miccia che si propagò per tutta la sala, riaccendendo i brusii, i commenti indignati, gli insulti, i mormorii. Sembrava che ciascuno dei presenti sentisse l’insopprimibile bisogno di dire la sua.
Matoriv sollevò una mano ed evocò una piccola scintilla che volò fino al soffitto e lampeggiò tre volte, attirando l’attenzione di tutti. Calò di nuovo il silenzio. “Vi prego, mantenete la calma!”
Una mano emerse dalla folla, e da un posto al centro dell’assemblea si alzò un giovane biondo che indossava semplici abiti di panno di varie tonalità di grigio e marrone. Vexen era certo di averlo già visto da qualche parte, ma non ricordava dove.
“Credo di conoscere un modo per risolvere la controversia. Potrei sondare la mente dell’avvocato difensore con la Forza e scoprire se ci sono anomalie. In caso di problemi dovrei essere in grado di rimuovere un condizionamento di entità non troppo potente.”
“È un’ottima idea, Luke.” Aragorn fece cenno al giovane di venire avanti, e Vexen finalmente ricordò. Il ragazzo biondo era comparso nei ricordi di Mara Jade al Castello dell’Oblio, nell’ultima Stanza della Memoria. Era il suo compagno, o il suo amante, o forse solo una cotta non corrisposta, ma non aveva importanza. Ciò che contava era che questo Luke era un Cavaliere Jedi, e dunque possedeva un certo potere sulle menti degli esseri viventi. Ricordava di aver visto Mara Jade usare una sorta di suggestione mentale proprio su uno dei mostri generati dalla sua Stanza della Memoria. Allora si era fatto un appunto mentale di studiare i Jedi in modo più approfondito, ma la fuga repentina dal Castello aveva mandato all’aria ogni progetto di ricerca.
Camus si alzò e andò ad avvicinarsi a Luke, fermandosi di fronte a lui con gli occhi chiusi.
“Sono pronto.”
Furono secondi interminabili. Il Cavaliere Jedi chiuse gli occhi a sua volta, e con le punte delle dita sfiorò appena la fronte del sacerdote. Il silenzio si trascinò denso e pesante, i respiri sospesi, compreso quello di Vexen che pur conoscendo già l’esito non riusciva a smettere di dondolare una gamba in modo nervoso. Aggrappato al rosario, Mu pregava.
“La sua mente è libera. Non è condizionato.”
Fu come se il pubblico riemergesse da una lunga apnea. Da più parti della sala sbocciarono spontanei dei timidi applausi, mentre Auron si limitava a borbottare un “Non ci crederò mai.” Ma sapeva di non poter più vincere quella battaglia. Il verdetto del Cavaliere Jedi era definitivo.
“Grazie” Camus chinò leggermente la testa davanti allo Jedi e tornò al proprio posto. Ora nessuno poteva più impedirgli di parlare.
“Vedete, sono perfettamente in grado di intendere e di volere. Padron Vexen non mi ha più condizionato, e non lo rifarebbe mai. In passato potrà aver commesso gravi crimini, ma ora è cambiato. Ha accolto dentro di sé la luce degli dèi e l’ha seguita fino a ritrovare la via del bene. È pentito di ciò che ha fatto, è una persona nuova, migliore. Merita che gli sia concessa una seconda possibilità.”
Camus proseguì raccontando qualche aneddoto dei loro anni da medici girovaghi, confermando la testimonianza di Roxas sulle vite salvate, le cure ai poveri e agli emarginati, e tutte le solfe buoniste annesse e connesse.
“E anche se a quel tempo ero ancora condizionato, non è mai stato crudele con me. Mi ha trattato come un allievo, non come uno schiavo. Non gli sarò mai abbastanza grato per tutto ciò che mi ha insegnato. Da lui ho imparato che che la scienza non è malvagia in sé, ma può essere usata per aiutare il prossimo e fare del bene. E penso che questo mi abbia fatto diventare una persona migliore.”
Sul banco dell’accusa, Auron sbuffava infastidito. A Vexen pareva di vedere la parola “obiezione” formicolargli impaziente sulle labbra, ansiosa di precipitarsi fuori. Ma Camus non gli stava offrendo nessuna apertura, e Vexen per la prima volta dall’inizio del processo si consentì di nutrire qualche vaga speranza. Magari lo avrebbero solo imprigionato, e dalle prigioni si può sempre scappare…
“Ma è stato mentre eravamo sul Baan Palace che padron Vexen ha dimostrato davvero di aver intrapreso la via del bene. Perché dovete sapere che ha commesso un atto eroico e coraggioso di cui ben pochi sarebbero stati capaci. Ha messo a rischio la propria vita per salvare quella di un’altra persona, e questo malgrado lui e questa persona in passato avessero litigato e si fossero fatti del male a vicenda. Ma nel suo cuore l’amore ha prevalso sul risentimento e sul desiderio di vendetta, e lui ha saputo compiere la scelta giusta, arrivando a sfidare persino il Ryumajin in persona.”
Ora il pubblico pendeva dalle labbra del sacerdote. La parola “Ryumajin” aveva di nuovo congelato i respiri nelle gole degli astanti, e il silenzio era assoluto.
“Dovete sapere infatti che padron Vexen ha un nipote; lo ha adottato quando era solo un bambino, e l’ha cresciuto con tutto l’amore e la dolcezza di un vero padre. Il ragazzo era finito prigioniero nel Baan Palace, e il Grande Satana voleva utilizzarlo come esplosivo umano…”
Man mano che il racconto proseguiva, Vexen percepì qualcosa cambiare nell’assemblea. Gli insulti non erano più tanto frequenti: ora i Ribelli sussurravano se sentivano il bisogno di fare un commento, quasi provassero vergogna nel disturbare la testimonianza. Da severi gli sguardi si fecero increduli prima, curiosi poi; e su qualche viso, qua e là tra la folla, balenarono ombre sincere di ammirazione.
Solo Vexen si sentiva sempre più a disagio. La comparsa di Zexion al Baan Palace, il confronto con il Generale Baran… erano ricordi che ancora faticava a riordinare. Aveva un timore irrazionale di riaprire il cassetto della mente in cui li teneva rinchiusi. Sapeva che quelli gli sarebbero saltati alla gola senza pietà non appena avesse concesso loro anche il minimo spiraglio. Aveva bisogno di tempo e di quiete per srotolarli uno ad uno, per ricomporne il mosaico. Per trovare loro un senso e un significato.
Ascoltare la sua storia spiattellata davanti a un pubblico era come essere costretto a camminare nudo per le strade di una città gremita. Vide Camus reprimere un brivido, e si rese conto di aver cominciato ad emanare freddo.
“… il suo atto di coraggio ha commosso lo stesso Ryumajin, una creatura dell’esercito demoniaco! E io so che la riconciliazione con suo nipote ha cambiato profondamente l’animo di padron Vexen, gli ha fatto ritrovare i suoi sentimenti migliori. Era perché aveva perduto il suo amatissimo figlio che il suo cuore si era indurito e ricoperto di ghiaccio, ma adesso è rinato nella luce degli dèi.”
Diverse persone annuirono, qualcuno provò di nuovo a far partire un applauso. Al tavolo dei capi, Aragorn e Gandalf si scambiarono un’occhiata soddisfatta. Ma i Ribelli avevano fatto i conti senza Auron. Le parole del mercenario calarono come una mannaia sulla folla, riportandola bruscamente alla realtà: “Bella storia, non c’è che dire. Peccato che senza una prova vale esattamente come se avessi raccontato una favola, Camus.”
“La prova è la mia parola, Auron, ed è già stato dimostrato che non sono condizionato. Nemmeno tu hai fornito prove della tua testimonianza.”
“Io però so per certo che quel bastardo non ha mai avuto nipoti. Chi sarebbe questo fantomatico ragazzo?”
“Lo conosci anche tu. È padron Zexion.”
“Ma se non si parlavano mai!”
“Come ho detto avevano litigato.”
“Ne avremmo saputo qualcosa! Io non ho mai sentito…”
“Questo posso confermarlo anch’io.” Con sorpresa di tutti Roxas si era alzato di nuovo. Attese il cenno affermativo della principessa Leona prima di continuare: “Quando vivevo al Castello dell’Oblio Vexen si prendeva cura di Zexion come un padre. Vivevano insieme nel laboratorio e Zexion gli era affezionatissimo” si volse verso Auron, non senza una certa soddisfazione: “E questo, signor avvocato, l’ho visto con i miei occhi.”
Vexen ebbe la fortuna di dover parlare nel momento in cui il pubblico era più propizio nei suoi confronti. Quando Leona lo invitò ad alzarsi e ad esporre la propria versione dei fatti non si levarono né grida né insulti.
Fece correre rapidamente gli occhi tra la folla, evitando accuratamente Auron, poi scelse di fissare lo sguardo su una crepa particolarmente ramificata che serpeggiava tutt’intorno al fusto di una colonna. Prese un bel respiro.
“Non nego nessuna delle accuse. Ma anche ciò che ha raccontato Camus è vero. Un’altra certezza è che il Castello dell’Oblio non esiste più, e i suoi poteri sono per sempre fuori della mia portata, così come di quella di chiunque altro. Perciò non sono assolutamente in grado di nuocervi in alcun modo” meglio calcare l’enfasi su quel punto. “Nemmeno se lo volessi. E che lo crediate o no, non lo voglio. Tutto ciò che desidero è poter vivere in pace. Io…” esitò qualche secondo, arrancando con la scelta delle parole. “Non posso nuocervi” ripeté. “Sparirei. Non mi farei più rivedere. Non sentirete più parlare di me. Ma prima posso offrirvi alcune informazioni importanti. Qualcosa che vi sarà utile nella lotta contro l’Impero. Posso farlo qui, ora. Spero che questo conti qualcosa per voi.”
“Tutte balle” borbottò Auron. Ma Vexen intuì subito di aver toccato un tasto giusto: la principessa Leia, che fino a quel momento era rimasta in silenzio, quasi annoiata, improvvisamente si protese in avanti, gli occhi scuri animati da uno scintillio d’interesse.
“Di che si tratta?”
Se la strategia di Camus era muovere gli animi, la sua sarebbe stata la logica dello scambio equivalente. Informazioni in cambio di un trattamento dignitoso. E le informazioni in suo possesso valevano oro.
“Del segreto di Mistobaan.”
“Se ti riferisci al fatto che è un demone maggiore lo sappiamo già” intervenne Matoriv. “Sappiamo anche che diventa incredibilmente più forte quando si toglie il cappuccio. L’abbiamo scoperto giusto nell’ultima battaglia… a nostre spese. Aban è ancora in infermeria per causa sua.”
“Non si tratta solo di questo. Quello che avete visto non è il vero Mistobaan. L’ho scoperto quando l’ho condizionato e ho letto nella sua mente. Quel corpo di demone maggiore... non appartiene a lui.”
Li aveva in pugno. La curiosità scintillava sfacciata sui loro volti. I capi confabularono tra loro, nessuno prestava attenzione ad Auron che, unica voce fuori dal coro, gridava alla menzogna e al raggiro. L’ennesima occhiata spazientita della principessa Leona lo mise definitivamente a tacere.
“Ci dica tutto quello che sa” esortò infine Leia. “Ha la mia parola che ognuno di noi ne terrà conto al momento di esprimere il suo voto.”
Calò un silenzio senza precedenti. Vexen si inumidì le labbra, pensando alle parole da usare come alle rune di un cerchio alchemico. Tutto ciò che occorreva era disegnare quelle giuste, e mantenere il controllo necessario per portare a termine la trasmutazione.
“Mistobaan, anzi, Misto, come si chiamava in origine, non è un demone. Appartiene a una razza rara e poco conosciuta della famiglia demoniaca, i vajkal. Tradotto dalla lingua dei demoni, significa ‘nebbie’.”
Non gli sfuggì l’occhiata di stupore che sfrecciò come una corrente elettrica tra Mu e Mara Jade.
“Le Nebbie sono evanescenti, ma sono in grado di pensare, di ragionare come un essere umano. Sono parassiti. Si innestano nel sistema nervoso di altre creature e le controllano. Ma non sono abbastanza forti da soggiogare un umano o un demone. Devono accontentarsi di possedere i corpi di creature più semplici, come uccelli, roditori o… “
“… o ragni” concluse Mara Jade a denti stretti. Allo sguardo interrogativo di Leia rispose con una smorfia: “Ne abbiamo incontrata qualcuna in una palude durante la missione di soccorso ai villaggi, tutto qui.”
“Tutto qui? Hanno preso il mio cavallo quelle infami!” gridò qualcuno tra la folla. Una seconda scintilla dalle mani di Matoriv riportò la quiete nell’assemblea.
“Misto ha avuto una grande fortuna rispetto agli altri esponenti della sua specie. Il Grande Satana in persona ha voluto fargli un dono unico: il suo stesso corpo.”
“Vuoi dire…” dalle prime file, un ragazzino che esibiva una serie di vistose fasciature saltò in piedi come una molla. “Vuoi dire che Misto e il Grande Satana sono in realtà la stessa persona?”
“No. Non esattamente. La questione è un po’ più complicata. Qualcuno di voi ha mai sentito parlare dell’Incantesimo del Tempo Congelato?”
Sguardi confusi corsero da un mago all’altro. Nevius si strinse nelle spalle. Lavok si accarezzava il mento, pensieroso. Infine fu Matoriv a parlare: “In teoria permette di bloccare lo scorrere del tempo… permanentemente, o almeno finché qualcosa non spezza l’incantesimo. Funziona su un’area ridotta, su un oggetto, su una persona. Ma è superiore al nono livello… superiore persino alla Medroa.”
“Stiamo parlando del Grande Satana” lo interruppe Vexen. “E comunque io non sarei così stupito. È un principio simile a quello dello Scettro dell’Immortalità, anche se poi vi sono delle sostanziali differenze. Il vostro tempo personale non è forse immobile? Bloccato? Mentre quello attorno a voi continua a scorrere normalmente.”
“Ma cosa c’entra questo con Mistobaan?”
“Ci sto arrivando. Saprete già che il Grande Satana è l’ultimo esponente della sua razza. L’ultimo demone maggiore. I ricordi di Misto non erano molto chiari su questo punto, ma pare si siano tutti estinti durante una catastrofe avvenuta millenni fa. Capirete che per questo motivo la vita del Grande Satana ha la priorità assoluta per i demoni, è diventata un patrimonio da difendere a qualsiasi costo. Ma nemmeno un demone maggiore è immortale, malgrado tutti i suoi poteri. Ecco perché il Grande Satana ha usato l’Incantesimo del Tempo Congelato su se stesso… o meglio, su una parte di se stesso, perché altrimenti avrebbe finito per limitare troppo i suoi poteri. Ha congelato la parte di sé che conteneva la giovinezza e la forza fisica. Il risultato di quest’uso dell’incantesimo è stato che il suo corpo si è scisso in due: una parte ha continuato ad invecchiare ed accumulare saggezza e conoscenza, ed è il corpo del Grande Satana stesso, mentre l’altra è rimasta in uno stato di semi-ibernazione. Ma quest’ultima parte era priva di anima. Come un cadavere. Per proteggerla e per nasconderla, il Grande Satana l’ha affidata al suo servitore Misto, che ne ha fatto il suo corpo. È per questo che Misto è… o meglio era, così fedele al suo signore. Il Grande Satana l’ha elevato ad un rango che quelli della sua specie non riuscirebbero nemmeno a sognarsi. Gli ha dato un potere immenso. Ma la forza che Mistobaan usa non è che la punta di un iceberg. La catena del suo mantello è il sigillo dell’Incantesimo del Tempo Congelato: quando la rimuove tutto il suo potere ibernato si risveglia, ma in quel momento il corpo riprende ad invecchiare, finché la catena non viene riallacciata di nuovo. Ecco perché Mistobaan cerca di utilizzare questa risorsa il meno possibile.”
“Ora capisco...” mormorò lo stesso ragazzino di prima. “Il Dono dell’Imperatore…”
“Già, perché adesso Mistobaan crede che sia stato Palpatine a donargli quel corpo e i suoi poteri. E l’Imperatore lo sa. Capite adesso la vera ragione di questa guerra? Non è stato un semplice capriccio del Grande Satana. Lui sapeva che senza Mistobaan non sarebbe più riuscito a tornare alla propria forma completa e perfetta. Aveva bisogno di lui.”
Vexen tornò a sedersi nell’attonito silenzio generale. Constatò con piacere che la sua rivelazione aveva prodotto un certo effetto sui Ribelli. I capi continuavano a parlottare fitto, la principessa Leia si era alzata e aveva cominciato un colloquio serrato con la donna dai capelli rossi. Era chiaro che aveva completamente dimenticato imputato, avvocati e testimoni, la mente già proiettata verso strategie e battaglie future.
Intanto erano giunti all’ultima fase del processo: le arringhe finali. Auron contro Camus in una battaglia di pura oratoria.
La cosa peggiore fu che il discorso di Auron gli parve estremamente logico e convincente. Se non fosse stato l’imputato, gli avrebbe quasi dato ragione lui stesso. Il condizionamento, tuonava l’avvocato dell’accusa, era una colpa più grave dell’omicidio, perché privava l’individuo non solo della vita (quella dei condizionati non si poteva definire vera vita, tutt’al più una forma di esistenza), ma anche della libertà, della dignità, dei sentimenti, degli ideali. La morte sarebbe preferibile ad uno stato simile; nel momento della morte un uomo rimane pur sempre se stesso, anzi, spesso è proprio quel momento a dare un senso alla sua vita. Ma il condizionamento non era altro che degradazione e abbrutimento. Per questo, concludeva Auron, la punizione minima che si poteva dare ad un abominio del genere era la morte. Ed era un trattamento magnanimo.
Riguardo l’arringa di Camus, Vexen smise di ascoltarla dopo il primo minuto. Cosa poteva quel sermone religioso infarcito di buonismi e luoghi comuni sulla redenzione e le seconde possibilità contro la logica ferrea di Auron? In qualità di giudice, Vexen si sarebbe condannato da solo.
“So che nessuno di voi si fiderebbe a lasciarlo libero, e questo posso capirlo” concluse Camus. “Ma penso anche che non meriti la morte, e che la prigionia sia uno spreco delle sue capacità e un ostacolo per il suo percorso di redenzione. Pertanto propongo che lavori come medico per l’Alleanza: con tutti i feriti e i profughi della guerra c’è bisogno di una persona abile come lui.”
“E tu vorresti mettere un bisturi in mano a una persona come lui? Gliene basta uno per crearsi un esercito di condizionati!”
“Sono pronto a garantire per lui, Auron. E lo sorveglierò di persona se lo riterrete necessario, giorno e notte.”
“Molto bene. Le due proposte ci sono chiare” sentenziò Matoriv, prima che Auron potesse protestare ancora. Fece un cenno a un giovane hobbit, che raccolse da dietro il tavolo una cesta colma di foglietti bianchi e avanzò caracollando verso l’assemblea. “Distribuite le schede e votate. Il SÌ è per la condanna a morte. Se invece vince il NO sarà accolta la proposta dell’avvocato della difesa. Scegliete con saggezza.”
“Andrà tutto bene, padron Vexen” Camus scrisse un bel NO a grandi lettere sulla propria scheda e la depose ripiegata nell’urna che un secondo hobbit stava facendo girare tra il pubblico. “Ne sono certo.”
“Beato te.”
Medico per l’Alleanza. Non sarebbe stato tanto male, in fondo. Un certo margine di libertà, un lavoro che aveva sempre amato. Dopo tanti mesi sotto il gioco dei demoni sembrava quasi una prospettiva felice. Ma la sua meta finale non era la Terra II. Aveva priorità più importanti dello stupido “percorso di redenzione” di Camus.
Certo, se avesse vinto il SÌ niente di tutto questo avrebbe più avuto importanza.
“E se anche le cose andassero male…” Camus doveva aver notato la sua angoscia, e la sua voce si ridusse ad un sussurro appena percepibile mentre gli si avvicinava al orecchio. “…in un modo o nell’altro la tirerò fuori di qui comunque. Glielo prometto.”
Il “grazie” gli restò strozzato nella gola insieme alle paure e alle speranze.
Fece vagare lo sguardo tra la folla. Auron scavava solchi con la penna in quello che era palesemente un SÌ a caratteri cubitali. Mara Jade e Zachar incidevano la scheda con la stessa determinazione di Auron. Chi invece lo sorprese fu Mu: si rigirava la scheda tra le mani, la stropicciava, guardava in tutte le direzioni mordicchiando la penna. Lo sguardo da predatore di Auron era puntato su di lui: “Che c’è da riflettere, Mu? Sai cosa DEVI votare!”
“Sì… sì Auron, certo…” Vexen vide il prete nascondere il foglio con entrambe le braccia e fare un gesto con la penna, ma non riuscì a capire cosa avesse scritto. Poi Mu si alzò e corse a consegnare la scheda prima che Auron facesse in tempo ad intercettarlo.
Le operazioni di votazione e spoglio non durarono più di mezzora in tutto, ma quando la principessa Leona lo esortò ad alzarsi per ascoltare il verdetto Vexen si sentì invecchiare di anni in un colpo solo.
“L’assemblea riunita della Resistenza e dell’Alleanza Ribelle ha così deciso. Con 273 voti favorevoli, 57 contrari e una scheda bianca, Vexen del Castello dell’Oblio, ex membro dell’Organizzazione XIII, sei condannato a servire l’Alleanza in qualità di medico fino a che non dimostrerai con la tua buona condotta di meritare la libertà. Camus dell’Acquario, sacerdote delle Dodici Case, sei incaricato di affiancarlo nel lavoro e vigilare sul suo operato. Se mancherà in qualcosa, la responsabilità sarà anche tua.”
Il sangue che gli pulsava nelle orecchie, Vexen si lasciò ricadere sulla panca completamente svuotato di ogni forza. La stanchezza della battaglia e delle lunghe ore senza mangiare né dormire gli precipitò tutta insieme sulle spalle, ma riuscì a raggranellare un ultimo briciolo di energia per evocare sulle labbra un debole sorriso.
La sequela di bestemmie lanciata da Auron era la musica migliore che avesse mai sentito da anni.


Narratore: “Non posso crederci, il raccomandato delle Registe si è salvato ancora. Vita grama. Comunque amici lettori, riuscite a immaginare di chi sia la scheda bianca?”


Tarkin aveva faticato a riconoscerlo.
Barba incolta di settimane, la divisa ridotta a un cencio informe, i gradi irriconoscibili. Solchi scuri scavati come trincee sotto gli occhi. Negli occhi si scorgeva ancora il riflesso di una paura elevata al rango di condizione di vita, quando l’orizzonte si riduce ai pochi, basilari bisogni primari e all’istinto disperato di sopravvivere. Anche l’odore non era dei migliori, ma Tarkin non era mai stato un tipo schizzinoso.
“I miei complimenti, viceammiraglio Kratas. La missione è stata un successo.”
Gli aveva concesso di sedersi, e persino di sorseggiare una bevanda calda in sua presenza. Il protocollo e la disciplina erano valori cardine nella visione di Tarkin, ma di quando in quando uno strappo alla regola poteva essere tollerato, soprattutto se funzionale a uno scopo preciso. L’accademia di Carida non sfornava tutti i giorni soldati valorosi e leali come Kratas. Simili rarità andavano coltivate e valorizzate con cura particolare.
Lo Star Destroyer Invictus aveva captato il segnale di Kratas appena una mezzora prima nel settore Alfa-89 dell’Orlo Esterno. Pericolosamente vicino allo spazio ribelle, ma abbastanza lontano da poterlo recuperare senza essere costretti a ingaggiare battaglia con le pattuglie di vedetta dell’Alleanza. Quando lo avevano portato a bordo con il raggio traente dello Star Destroyer, Kratas era alla guida di una navetta per trasporti a corto raggio che doveva aver visto tempi migliori, priva di insegne e sicuramente rubata.
“Ho fatto solo il mio dovere. Per la sicurezza dell’Impero. Per mettere fine a questa guerra inutile.”
Soldati come Kratas erano la prova dell’efficacia dei metodi di indottrinamento imperiali. Il che rappresentava una soddisfazione particolare per Tarkin, dato che molti di quei metodi erano frutto del suo ingegno. Kratas probabilmente sarebbe rimasto convinto per l’intera durata della sua vita di essersi offerto volontario per quella missione di importanza cruciale. La verità era che Tarkin lo aveva già scelto ancora prima di rendergli noti i dettagli, aveva elaborato l’intera operazione ritagliandola specificamente su di lui, sulle sue caratteristiche e capacità. Avrebbe potuto ordinarglielo, certo. I risultati sarebbero stati gli stessi. Ma appunto, le rarità andavano coltivate. E persino l’Impero aveva bisogno di eroi.
“Mi sarei messo in contatto con lei prima, governatore, ma il comlink ha smesso di funzionare durante la prigionia. Forse qualche interferenza con la magia del Baan Palace.”
Era bastato un trucco così semplice per ingannare i demoni. Potevano essere maestri di magia, ma nessun incantesimo era in grado di rintracciare una microtrasmittente installata direttamente nell’apparato uditivo di un individuo. La disponibilità a rivelare informazioni strategiche era stata scambiata per codardia e desiderio di sopravvivere, e per settimane l’Impero aveva manipolato le azioni del Grande Satana per bocca dell’insospettabile Kratas. Dapprima le informazioni erano vere, per creare un’impressione di fiducia. Bersagli di poco conto in ogni caso, vittorie inconsistenti, perdine che Tarkin aveva sacrificato volentieri in nome della vittoria finale. Poi le trappole avevano iniziato a scattare, implacabili. Per un soffio non era riuscito anche il colpo più grande, far saltare in aria il Ryumajin in persona; ma in quel caso era mancata la fortuna, non la strategia. E comunque avevano ottenuto altre importanti vittorie grazie a Kratas, limitando notevolmente le perdite. Era certo che l’Imperatore avrebbe ratificato senza esitazioni la sua proposta di promuoverlo al grado di ammiraglio.
“A maggior ragione è un piacere rivederti sano e salvo. Anche se devo ammettere che le modalità della tua fuga sono state alquanto… inaspettate.”
Il racconto del viceammiraglio aveva dell’incredibile. L’Imperatore aveva già indetto una riunione con i Signori Oscuri al completo per fare il punto della situazione e pianificare le mosse successive. L’intervento dei Ribelli, l’esplosione del Baan Palace, gli eventi di Kamino… in un battito di ciglia le sorti della guerra si erano ribaltate, la situazione galattica aveva mutato completamente volto.
Eppure, in quel preciso momento persino l’idea che Kaspar fosse nuovamente a piede libero sbiadiva sullo sfondo dei pensieri di Tarkin. Kratas dovette decifrare qualcosa nella sua espressione, perché sorrise: “Non ce l’avrei mai fatta senza l’ammiraglio Daala. Convincere i Ribelli a portarmi via dal Baan Palace è stato semplice, ma se lei non mi avesse nascosto una volta sulla Terra II avrebbero processato anche me.” Erano nei quartieri personali del governatore, circondati da tecnologie anti-intercettazione e uomini di comprovata fedeltà. Potevano permettersi di parlare di Daala. Kratas era uno dei pochissimi, all’infuori del Trio Destroyer, a conoscere la verità su di lei e sulla sua ubicazione. “È stata sempre lei a procurarmi la navetta su cui mi avete trovato.”
Da quando erano stati costretti a separarsi, Tarkin cercava di pensare a Daala il meno possibile. Non perché la distanza avesse attutito i suoi sentimenti per lei; la amava ancora come il giorno in cui si erano sposati. Semplicemente, indugiare nei ricordi e nella nostalgia non era produttivo. Distraeva dagli obiettivi a portata di mano, e non portava a nulla. Nelle presenti condizioni, non c’era niente che potesse fare per cambiare le cose. Il suo compito era proteggere Shandra al meglio delle sue possibilità e tenere gli occhi aperti in vista di un’opportunità per ribaltare le carte in tavola. Fino ad allora mantenere la testa sulle spalle era di importanza cruciale.
Non vedeva né sentiva Daala dall’avventura nel Castello dell’Oblio.
Per questo motivo lo emozionò ricevere la busta dalle mani di Kratas. Carta, un materiale preistorico che nessuno usava più per la comunicazione da secoli. Ma era stata tra le mani di lei, e questo bastava per renderla il più prezioso dei tesori agli occhi di Tarkin.
Piegò la lettera con cura e la nascose in una tasca interna della divisa. Aveva atteso anni, poteva aspettare ancora qualche ora. Quella sera, dopo la riunione con l’Imperatore, l’avrebbe assaporata nella calma e nella segretezza dei suoi alloggi.
“Non è cambiata, governatore” il sussurro di Kratas interruppe le sue riflessioni, e Tarkin fu talmente colpito da perdonargli la confidenza indebita che aveva osato prendersi. “Continua ad aspettarla. E anche lei vigila in attesa dell’occasione per tornare da noi.”

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Capitolo 33
*** Capitolo 32 - Un sogno su di te in un mondo senza te ***


Capitolo 32 - Un sogno su di te in un mondo senza te





Festa sulla Terra II




La piazza M’giri, sita nel distretto meridionale di Salis D’aar, non offre ai visitatori soltanto un gradevole scorcio del Fiume Occidentale e delle sue caratteristiche imbarcazioni. Infatti, a seguito della guerra contro il Grande Satana Baan, l’artista Cryt’xx realizzò al centro dell’area la sua opera più famosa, la statua in gorallio rappresentante una versione rivoluzionaria della figura dell’Imperatore Palpatine almeno fino ai suoi giorni. La statua, realizzata in modo da essere visibile sin dall’approdo del Fiume Occidentale, è immediatamente riconoscibile per le tipiche ali ricurve e decorate con piume che rimandano molto all’arte della Terra I, segno dell’amore e delle inconfondibili basi terrestri della formazione dell’autore. Gli stessi abiti non sono realizzati in tinte scure, come d’abitudine per molti, bensì in […]
[…] ed alle numerose domande su cosa avesse ispirato il suo più grande capolavoro si dice che Cryt’xx abbia esclamato “L’arte è pura libertà. Solo colui che ci libera dal male degli invasori può essere degno di far nascere la vera Arte” .
“Bakura: dieci millenni di arte. Tradizione ed innovazione dall’Oscurità dei Cento Anni al Primo Ventennio dell’Impero Galattico” di Kar Taheyu, seconda edizione.




“… ed è soltanto voi che ringrazio, miei cittadini”.
L’immagine olografica dell’Imperatore Palpatine vacillò per un istante, ma il suo viso rimase perfetto davanti alle migliaia di schermi che in quel momento trasmettevano il suo discorso a tutto il settore K, all’intera Coruscant, verosimilmente in ogni angolo della Galassia raggiungibile dai satelliti olocomunicanti. Boba Fett trangugiò in un colpo solo il suo secondo bicchiere di keela, quasi più concentrato a fissare le labbra di Tarkin che si aprivano e si chiudevano ripetendo meccanicamente il discorso del loro sovrano che ad assaporare davvero il sapore amarognolo della bevanda.
“I disordini causati dall’invasione dei demoni del Grande Satana sono stati contenuti grazie alla vostra collaborazione con le autorità, al vostro strenuo spirito di sacrificio e al coraggio che non vi ha mai abbandonati nemmeno quando i nostri avversari hanno cercato di colpirci a Coruscant, nella nostra stessa capitale. L’Impero Galattico è orgoglioso di ciascuno di voi, in quanto in ogni persona che crede nell’Ordine vi è un eroe in attesa di splendere. Oggi è un giorno di festa per tutti, perché stanotte la Galassia è più salda e più sicura di prima”.
Si era impegnato a bere quanto più keela possibile, ma anche in quel modo non riuscì ad impedire al boato di raggiungere le sue orecchie.
La gente applaudiva. Ovunque, in ogni luogo.
Il rumore non giungeva solo dal piano di sotto, quello dove senza ombra di dubbio il reparto MQ dei servizi segreti stava festeggiando per la vittoria, ma da ogni balcone, passaggio o aviobus passante proprio davanti al loro edificio. Fissò verso il basso a cercare il terreno abbandonato della capitale, lo stesso su cui lui ed i non-morti si erano dati battaglia non molti giorni prima: ma sotto di lui anche le luci più basse non riuscivano ad illuminare quel luogo dimenticato da ogni uomo, e quel buio senza nome gli si sfocò davanti agli occhi, ballando come se l’eco degli applausi venisse anche dal basso e risuonasse con le mura e le vetrate dei loro enormi palazzi.
Tutta la Galassia era in festa. Da quando Boba Fett era stato nominato Signore Oscuro aveva ascoltato l’Imperatore rivolgersi ai pianeti meno di cinque volte, evento che aveva sempre costretto Tarkin a rivedere tutti i suoi affari per far sì che il discorso del loro sovrano potesse diffondersi persino nel più lurido vicolo dei bassifondi.
C’erano molte cose che Boba non riusciva a comprendere. Non si era mai considerato un uomo geniale, al massimo una persona pratica, eppure non era mai riuscito a capire cosa spingesse gli uomini e le donne dell’Impero ad applaudire in quel modo, a scambiarsi pacche sulle spalle, persino a piangere quando l’Imperatore degnava i mondi dei suoi discorsi chiaramente scritti ad arte e di cui il loro adorabile sovrano non credeva nemmeno ad una riga. Tarkin sosteneva sempre che l’Imperatore aveva qualcosa –forse il Lato Oscuro, ma di ciò non ne era particolarmente convinto- che riusciva a scaldare, a far battere all’unisono i cuori di coloro che lo ascoltavano. Una sensazione che Boba non aveva mai provato al cospetto del Signore dei Sith ma, come pensò amaramente guardando l’ultima goccia del liquido rosso scivolare lungo il calice, forse per percepire quella gioia interiore avrebbe avuto bisogno di più keela.
Così come non riusciva a comprendere la morte di Zam. I suoi occhi andarono a est, dove i nuovi grattacieli del settore N erano già stati ricreati dall’efficienza delle strutture imperiali, quasi immaginando di vedere di nuovo le sue ali nere coprire tutto quel metallo. Si sforzò di trasformare il boato della folla nel ruggito della donna drago, ma non era mai stato un uomo dalla fervida immaginazione. Borbottò un ordine al droide C-03 alla sua sinistra, ma la bottiglia che quello aveva appoggiata cadde dalla superficie del vassoio e chiazzò di rosso l’inserviente metallico. “Non lo fare”.
“Maul, lascia perdere …”
Il contenitore di vetro fluttuò nell’aria, attraversò lo spazio che separava il Sith dal droide ed atterrò nella mano del primo trasportata dal tocco del Lato Oscuro. “Se lei fosse qui ti avrebbe già rotto questa bottiglia sulla testa”.
Boba si sforzò di sorridere, se non altro per non preoccupare il suo amico. Ma il ghigno che uscì dalla sua bocca non fu certo qualcosa di consolatorio, un’espressione ilare al pensiero che Zam non si sarebbe limitata a fracassargli la costosa bottiglia sul cranio. Probabilmente avrebbe distrutto il contenitore con un colpo secco piantandogli ogni singola scheggia nel corpo, oppure lo avrebbe trascinato sul primo balcone a portata d’occhio per fargli trangugiare il costoso liquido da ventimila crediti tenendolo sospeso nell’abisso con una sola mano. Avrebbe fatto tutte quelle cose … se solo gliene fosse importato qualcosa di lui.
Maul osservò il liquido rossastro con lo stesso sguardo carico di severità che rivolgeva a qualsiasi bevanda non comprensibile per i canoni dell’alimentazione iridoniana. Ovvero quasi tutte.
Sospirò rapidamente e con un movimento preciso la scagliò oltre la terrazza; a Boba bastarono pochi istanti per vedere il suo costosissimo acquisto liberarsi nell’aria, pronto ad una caduta che sarebbe durata qualche minuto e che avrebbe tinto di rubino i bassifondi della capitale. Ed ancora una volta gli sembrò di vedere Zam volare tra quei grattacieli, quando usciva dalle loro litigate senza usare ascensori, speeder o magnetopasserelle, buttandosi da quei palazzi mostrando tutto il disprezzo che provava per tutti loro e svaniva alla vista del resto del mondo.
“È stata colpa di Kaspar”.
Aveva perso il conto di quante ore avesse trascorso ad estrarre registrazioni da ciò che era rimasto dei circuiti di registrazione di Tipoca City o delle scatole nere dell’Executor e dell’Ironseed prima che la Spada del Drago Diabolico si fosse abbattuta su di loro. Immagini frammentate, alcune distrutte, altre coperte dall’acqua o accecate dalle folgori: tutte che si concludevano così, con le lame incantate di Kaspar che la attraversavano da parte a parte, poi il nulla causato dalle telecamere delle astronavi che si inabissavano nei flutti. A lui rimaneva soltanto l’immaginazione del corpo di Zam che crollava nelle acque nere di Kamino con solo una scia di sangue, disperazione unita ai già dodici tentativi di recupero dei suoi resti ordinati dall’Imperatore –non certo per spirito di compassione, quanto dalla necessità di riavere indietro la sua arma preferita per riportarla in vita con il Sarcofago.
Boba non aveva partecipato a nessuna ricerca: era nato e cresciuto su quel pianeta, e sapeva che l’oceano di Kamino non divideva nulla con nessuno. “È stata solo colpa di Kaspar”.
“Quando mai non lo è?”
Il discorso dell’Imperatore era terminato, e Tarkin diede le spalle al gigantesco proiettore olografico che adesso riportava uno spettacolo pirotecnico ad Ithor per festeggiare la vittoria contro il loro grande nemico. “Quando abbiamo riportato indietro Kaspar avevo caldamente suggerito all’Imperatore di eliminarlo … ma no, lui voleva il suo giocattolo magico … e adesso ci ritroviamo Kaspar a piede libero ed il Cavaliere del Drago che vorrà vendicare il suo adorato GSB scatenando le sue bestiole sputafuoco su Coruscant. Senza più Zam a difenderci, aggiungerei”.
“Io l’amavo”.
“Dimentichi il cruciale dettaglio che lei non amava te. Non più, almeno. E rimaneva a Coruscant per proteggere Neos, non certo per noi” sospirò. Maul provò ad intervenire, ma il gerarca fermò il suo slancio con un cenno del capo e si schiarì la voce, cercando di assumere un tono conciliante che purtroppo sulle sue labbra sembrava un profumo da ventimila crediti di Tau’rr versato sul pelo puzzolente di un rancor. “Ascoltami, so quello che ti passa per la testa. Se ti fossi trovato lì non avresti cambiato le cose, ti saresti fatto ammazzare inutilmente senza nemmeno riuscire a salvarla. O forse ti avrebbe ammazzato prima lei perché le stavi tra i piedi. Non tornerà più, e prima ti ci abituerai, meglio sarà”.
“Diresti la stessa cosa se si fosse trattato di Daala?”
“Lei non era Daala”.
Boba provò a rispondergli, ma delle mille cose da dire nessuna prese forma nella sua bocca. Avrebbe voluto dirgli che nessuna donna era uguale a Zam. Che non aveva metà della bellezza di Daala o della perfezione di Mara, ma ogni volta che pensava alle sue spalle nude era percorso da un brivido che rendeva banale anche la più seducente delle Twi’lek. Che la amava perché ogni cosa di lei era incomprensibile, dal suo modo di combattere a come si sistemava i capelli sotto l’elmo, perché chiudeva ogni loro litigata spiegando le ali e pretendendo sempre l’ultima parola. E odiava non avere parole per spiegare quello che sentiva dentro, perché sapeva che nessuna delle sue argomentazioni sarebbe riuscito a convincere il suo migliore amico. Tarkin non aveva mai fatto mistero di non sopportare il carattere di Zam, ed anche in quel momento la sua fronte era aggrottata con l’espressione di chi vede qualcosa di “assolutamente sbagliato”, etichetta che aveva assegnato alla cacciatrice di taglie sin dal primo giorno che si erano conosciuti. Parte di lui avrebbe sempre voluto vedere il suo migliore amico conciliarsi con lei, ma sapeva che in Zam c’era qualcosa di selvaggio e inarrestabile che si poteva solo amare o odiare. Ed il governatore non aveva avuto dubbi nello scegliere la seconda opzione. “Parlando di Daala …”
Fece un cenno del capo, e gli assaltatori presenti come sue guardie del corpo piegarono la testa e si allontanarono. Boba Fett vide Tarkin fissare a lungo le porte dell’ascensore, aspettando fino a quando l’ultimo soldato non le ebbe chiuse dietro di sé per estrarre qualcosa dal risvolto della sua divisa. Una lettera cartacea, un oggetto che il cacciatore di taglie aveva usato solo qualche volta nella propria vita. Un oggetto piegato con cura, ma a Boba non serviva riconoscere la perfetta grafia per scoprirne il mittente, specie quando l’espressione corrucciata del Moff svaniva alla sua vista e le sue labbra si incurvavano gentilmente verso l’alto.
Attivò il distorsore sonoro dal braccio dell’armatura, e sia lui che Maul si strinsero al governatore mentre lo scudo oscillatorio colorò l’aria intorno a loro di un verde chiaro. La barriera sarebbe stata inviolabile persino per gli agenti dei servizi segreti al piano di sopra, ma l’uomo anziano sussurrò comunque le parole con quanta meno voce possedesse. “… ci sono novità”.
“Sta bene?”
“Sì. I Ribelli sono stati così gentili da far saltare in aria il Grande Satana e noi siamo stati abili nel prendercene i meriti davanti agli abitanti della Galassia, ma pare che ci siano delle informazioni vitali. L’Alleanza Ribelle ha catturato un Membro dell’Organizzazione di quelli che ci hanno catturati anni fa … e sembra che sia scampato ad un processo rivelando tutto ciò che sapeva sulla famiglia demoniaca. E su Mistobaan. Da quello che è riuscita a capire non è un demone vero e proprio, bensì … non saprei nemmeno io, forse una specie di parassita in un corpo non suo”.
“Questo spiegherebbe perché non dormisse e non mangiasse” sogghignò Maul, quasi divertito al pensiero del loro rumoroso Braccio Destro che molto probabilmente si trovava sulla Morte Nera ad elogiare le mille doti dell’Imperatore. “Ed ecco come mai lo scherzo dei cioccolatini al lassativo con lui non aveva funzionato!”
Tarkin roteò gli occhi al cielo artificiale fingendo di non aver sentito. “Il problema è che non sta parassitando un corpo qualunque. E’ il corpo di un demone maggiore. Quello del Grande Satana, per essere più precisi”.
Boba inghiottì la saliva. Credeva di aver ricevuto abbastanza pessime notizie in quei giorni, ma a quanto sembrava l’intero universo non aveva intenzione di concedergli un attimo di pace. Senza dubbio con questa informazione molti tasselli del mosaico di quella guerra in cui l’Imperatore li aveva coinvolti stavano andando al giusto posto; se davvero il Dono di Mistobaan era il vero corpo del Grande Satana era chiaro il perché il signore dei demoni si fosse accanito tanto contro di loro, nonché la premura che il loro sovrano avesse avuto, anni prima, per liberarlo dal Nucleo Nero che l’Organizzazione gli aveva innestato nel petto.
Tutto aveva dannatamente senso.
Così come il pensiero che gli attraversò la mente come un lampo. “Non credo che l’Imperatore ignori la questione. Anzi, temo proprio che ci abbia volutamente estromessi da qualunque considerazione. Ora comprendo perché non lo abbia mai esposto in prima persona in battaglia”.
“E, conoscendo il nostro amato papà Impe, non credo che lo abbia tenuto al proprio fianco solo come scudo da usare contro qualunque sortita dei demoni” brontolò Tarkin facendo scomparire la lettera di nuovo sotto la divisa verde. Il suo sguardo volò oltre l’angolo della terrazza, ben conscio che, indipendentemente da qualsivoglia suo ordine, alcuni soldati erano sempre vicini e pronti ad intervenire per la sua sicurezza. “La mia è solo una supposizione, ma se un corpo magico come quello del Grande Satana può essere controllato da un parassita può voler dire che forse l’Imperatore programma di fare la stessa cosa con mezzi più … attuali …”
Il cacciatore di taglie sentì il bisogno di levarsi il casco. L’aria di Coruscant non aveva nulla a che vedere con quella di Naboo, Ithor o della stessa Terra II, ma le sue narici cercavano un’aria che nemmeno il sintetizzatore innestato nell’armatura mandaloriana riusciva a replicare. Forse cercavano solo la stessa aria respirata da Zam, ma in quell’istante accettarono anche l’atmosfera pesante, grigia ed artificiale della bolla climatica automatizzata della capitale. Con un sguardo triste cercò verso il basso il punto dove il keela si era infranto, ma sotto di lui sfrecciavano soltanto aereonavi ed il buio dei bassifondi non rifletteva nemmeno una scheggia di vetro. Chiuse gli occhi immaginando Zam, Mistobaan, il Grande Satana, poi ancora Zam sotto la pioggia di Kamino, l’Imperatore, l’Organizzazione, i Ribelli e poi di nuovo Zam seduta su quei cornicioni, il corpo quasi nel vuoto, l’espressione stanca di quella donna che sta aspettando il suo uomo per ore e che ricorre a tutto il suo autocontrollo per non uccidere tutti gli ufficiali ed i burocrati che glielo stanno trattenendo.
Voleva urlare, voleva mandare al diavolo tutti, voleva dire a Mistobaan di farsi esplodere da qualche parte e cancellare dalla testa il sorriso di Kaspar nell’istante in cui uccideva la donna che amava ancora, che amava nonostante tutto ciò che fosse successo. Tutti i pezzi del puzzle erano nelle sue mani, ma li scagliò nel buio della città artificiale e lasciò che tutto scorresse via, che le sue orecchie diventassero sorde alle ultime parole dei suoi amici, che i suoi occhi vedessero solo quel cielo senza stelle che gli ricordava come non avrebbe più avuto l’occasione di stringerla a sé per contare le costellazioni rosa e verdi che si potevano ammirare soltanto dalle terrazze reali del sistema di Hapes.



“Avete sentito la grandissima novità?”
0075, l’agente Coy Fenror –o qualunque fosse il suo nome, Zexion non aveva alcuna intenzione di ricordare un’informazione così inutile- entrò nella sala comunicazioni con l’espressione di chi avesse appena vinto un milione di crediti ad una scommessa sulla vittoria degli ITP agli hologalactica di Lahsbane. Il ragazzo aveva percepito l’entusiasmo del suo collega a circa sedici piani di distanza, ma non avrebbe mai immaginato di vedere il giovane ufficiale con le lentiggini venire ad esultare proprio nel suo ufficio, lontano solo pochi piani dalla terrazza dove il governatore Tarkin stava discutendo con gli altri membri del Trio Destroyer. 0075 attraversò l’ingresso dei loro servizi-non-tanto segreti rosso in faccia. “I Ribelli hanno annunciato qualcosa di enorme!”
La testa rasata di 00174 si sollevò dallo schermo. “Replicano la sagra della salsiccia?”
“Molto meglio, amico mio!”
Si schiarì la voce, sicuro che tutti potessero sentirlo. “Il re Aragorn in persona ha organizzato Cento Giorni di Festa in onore della sconfitta del GSB!”
L’ondata di entusiasmo travolse Zexion, un odore forte come il frastuono del motore di un Super Star Destroyer. La gioia era di solito un aroma gradevole, ma in quel momento la sua mente non riusciva a percepire altro che il monitor immobile sulla stessa schermata da ore e il pensiero del Baan Palace che esplodeva e con esso tutte le persone che vi erano sopra. Le sensazioni degli agenti in sala colpirono le sue percezioni con forza, un entusiasmo così grande da essere persino spiacevole. Cercò di isolare le grida di giubilo inserendo gli auricolari per le comunicazioni criptate ma non furono sufficienti per tenere a bada le esclamazioni festose di 00174 quando si alzò dalla postazione nemmeno gli avessero detto di essere stato promosso governatore di Ithor. “Stai dicendo che i Ribelli festeggeranno per cento giorni di seguito?”
“Cento giorni di Guerriere Sailor che ballano?”
“Cento giorni delle donne più belle della Galassia nello stesso posto?”
“Cento giorni di piscine di birra nanica?”
“Cento giorni di vera erba pipa del Decumano Sud?”
“Cento giorni di bellissimi elfi che sfilano in parata?”
“Cento giorni di albero della cuccagna?”
Il gruppo di spie ormai si era alzato all’unisono all’idea della festa. Uno di loro -0082, ovviamente l’agente più alto e robusto di tutti- nel balzare in piedi travolse Zexion e gli rovesciò una bevanda calda proprio sul sintetizzatore vocale costringendolo a levarsi gli auricolari per registrare i messaggi di protocollo e ad ascoltare i loro chiacchiericci. Da sotto il ciuffo il giovane Membro dell’Organizzazione vide Coy Fenror estrarre il proprio holopad e mostrare a tutti il documento tridimensionale con la firma digitale del governatore Tarkin bene in evidenza. “Signori, il nostro capo mi ha appena accordato una licenza di nove giorni per il mio eccellente stato di servizio. Se avete dei giorni di ferie che vi avanzano sapete quando prenderli! O, se non li avete, sapete dove chiedere di andare in missione!”
Zexion non sapeva se l’entropia avesse una forma, ma la massa di odori, frasi e persone che si agitavano in quella stanza era senza dubbio l’aspetto più concreto che il disordine potesse mai assumere. Si strinse nelle spalle e lasciò che quella marea si placasse; si sforzò di pensare al terminale davanti a lui, a dare un senso a quei messaggi registrati della conversazione tra due boss Hutt su una probabile transazione di schiavi da Tatooine ad Akiva, ma l’entusiasmo degli uomini che lo circondavano non riusciva a dargli tregua e quella festa non faceva altro che ricordargli che aveva perso.
Aveva perso tutto.
Suo zio era lì sopra, e lì sopra era morto. Un’unica esplosione, un solo cielo. Aveva osservato mille volte la registrazione di quell’istante.
Il ricordo di come si erano separati si era affacciato con precisione ogni notte.
Chiuse gli occhi, cercando di allontanare quella gioia fastidiosa e chiuse il file sugli Hutt. Digitò i file dei membri dell’Alleanza Ribelle in automatismo, selezionando cartelle senza nemmeno leggerle, aprì il documento riguardante un certo Eomer e poi lo richiuse. In una seconda schermata aprì un file dedicato alla principessa Leia ed ai trascorsi di suo marito, un contrabbandiere privo di qualunque interesse, ma la lista di immagini, olografie, video e riproduzioni non sortì l’effetto che desiderava e si trasformò solo nell’ennesima nube di nomi che gli invase la mente.
Avrebbe voluto avere qualcuno da odiare, fosse anche stato un Ribelle qualsiasi, un nome da appuntarsi in un angolo della mente a cui destinare quel veleno che aveva trascinato per anni con sé, avvolto nella stoffa della sua tunica e carico di tutta la vendetta di cui fosse capace e che adesso era esploso insieme ai suoi propositi di vendetta. Non lo aveva, né aveva qualcuno da accusare, a parte se stesso.
Avrebbe dovuto insistere, fosse stato anche implorare il Cavaliere del Drago e baciargli gli stivali; avrebbe dovuto trascinare suo zio per un braccio ed andarsene di lì per poi inventare una scusa qualsiasi al governatore Tarkin. Mandare al diavolo la segretezza ed il buonsenso, buttare all’aria tutto ed andarsene anche fronteggiando tutta la famiglia demoniaca. Aveva accettato il compromesso ed aveva perso.
Aveva svolto qualche missione di spionaggio in mezzo ai Ribelli, e sapeva benissimo che non avrebbero mai lasciato morire un innocente come suo zio o Camus. L’Alleanza aveva agito facendo esplodere il palazzo del tiranno demoniaco –di cui ovviamente l’Imperatore Palpatine si era arrogato il diritto davanti a tutta la Galassia- per portare la pace, ma senza dubbio non potevano sapere che suo zio si trovava prigioniero nei loro laboratori, costretto a creare Nuclei Neri per sopravvivere. E gli sembrava quasi ironico ritrovarsi così, cercando di fissare nella mente tutto ciò che ricordava del suo viso e della sua espressione corrucciata quando, fino a pochi giorni prima, era sicuro di avere bene impressi quei lineamenti nel cervello per essere certo di poterlo uccidere alla prima occasione.
Cercò di occupare la mente con qualche altro file di missioni da archiviare, ma sussultò quando sentì una mano stringergli la spalla sinistra, così preso dai suoi pensieri da non accorgersi nemmeno dell’odore di un uomo che gli era arrivato alle spalle. Corrugò la fronte, infastidito, ma era evidente che Coy Fenror non era un tipo da considerare poi così importante la presenza dello spazio vitale. “E tu cosa farai, 006?”
“Nulla” rispose Zexion, glaciale, scrollando rapidamente la spalla per far capire al collega che non desiderava affatto una simile vicinanza.
Grazie al cielo l’altro comprese al volo e ritirò la mano sudata. “Uff, che noia che sei! Dai, stiamo prendendo delle licenze, ti va di venire? L’ultima volta che sono stato sulla Terra II ho conosciuto una Jedi carinissima, si chiama Tionne, secondo me saresti pure il suo ti …”
“Non sono interessato. Grazie”.
“Niente ragazze, eh? Beh, guarda che Re Aragorn a petto nudo nelle gare di rotolarsi nel fango sembra che sia una vista che vada per la maggiore. Jack ripete che secondo lui è il miglior …”
“Non sono interessato. Grazie” rispose di nuovo Zexion, stavolta con maggiore enfasi sull’ultima parola. Gli sarebbe piaciuto avere uno sguardo intimidatorio come quello del Moff Tarkin o della cacciatrice mutaforma, ma sapeva che il suo cipiglio al massimo avrebbe spaventato un cucciolo di pavone kak’tu di tre mesi. Di quattro no, probabilmente.
Il giovane ufficiale dai capelli rossi e dalle lentiggini lo fissò interrogativo, senza dubbio chiedendosi se fosse matto, depresso, eunuco o chissà quale altro triste e grigio panorama. Zexion era perfettamente al corrente che i suoi poteri erano insoliti persino per gli standard degli agenti dei servizi segreti imperiali –che, da quando Zam era piombata nei loro uffici a Coruscant, si erano abituati a vedere creature di ogni forma volare nella civilizzata capitale della Galassia- e che i suoi colleghi lo avevano etichettato come l’ennesimo fenomeno da baraccone proveniente da un qualsivoglia incomprensibile mondo magico, dunque fu sollevato nel sentire simili pensieri attraversare l’odore di incredulità di 0075. L’altro gli rivolse un’ultima occhiata riassumibile con un beh-io-ci-ho-provato, poi scrollò le spalle. “Perfetto, allora se rimani tu in ufficio ad archiviare i casi non dovrò nemmeno sistemare i documenti in arretrato! Buon per me!”
Zexion chiese al proprio naso di escludere tutti quegli odori che gli si stavano ammassando intorno, sia quelli rivolti alla festa imminente sia quelli che stavano aleggiando intorno a lui, increduli della sua decisione, incapaci di comprendere quanto gli facesse male quella morbosa forma di curiosità. Tutti, avrebbe voluto cancellarli tutti. Dal primo all’ultimo.
Avrebbe offerto volentieri un occhio o un braccio per cancellare i ricordi che si stavano lentamente riproponendo davanti al monitor, immagini di un altro tempo dove un uomo dai capelli biondi gli insegnava a contare le stelle. Per eliminare quegli occhi indiscreti su di lui che non potevano mai capire.
Per trovare un modo per far girare il tempo in un’altra direzione e creare un mondo in cui lui e Vexen fossero fuggiti insieme dal Baan Palace, Cavaliere del Drago o meno, liberi di dirsi tutte quelle cose che non erano riusciti a tirare fuori dai loro petti, per chiudere quel cerchio che era iniziato anni prima al Castello dell’Oblio, quando la congiura contro il Superiore li aveva divisi. Ma il ciclo non si sarebbe più chiuso, e tutto ciò che rimaneva di suo zio era la gioia di quegli idioti agenti che festeggiavano l’esplosione del Baan Palace senza sapere che con essa lui aveva perso tutto ciò che avesse davvero da perdere.
Fissò oltre la vetrata dalla sua postazione ormai isolata. Il cielo di Coruscant era nero come in ogni altra notte, ma mai come in quell’istante il cuore gli si strinse per l’assenza delle stelle.


Narratore: “Registe, vi prego, basta! Passi Boba che si deprime, passi Zexion che si deprime, ma due nello stesso capitolo NO! I lettori stavolta ci ammazzano!”
Registe: “Sì, ma nemmeno possiamo raccontare solo battaglie, feste e storie d’amore. Dovevamo pur concludere recuperando tutti i fili!”
Narratore: “Con i fili che avete sparso ci vorrà una vita per tirarne su una storia decente. State facendo tanto le precisine, ma oltre ad aver svelato l’identità di Mistobaan non è che avete chiarito tanto le cose ai nostri lettori!”
Registe: “Non era nostra intenzione, infatti”.
Narratore: “Volevate uccidere tutti di noia, ecco il vostro piano!”
Regista: “Ma la neuro non doveva venirselo a prendere?”
Regista: “Sì, ma ci ha chiesto di fare un bonifico per tenerselo e ti ricordo che siamo al verde”.
Regista: “Cacchio …”
Narratore: “Va bene, va bene, prendiamo le redini della questione in mano. Amici lettori, questo capitolo da taglio di vene è l’ultimo della suddetta serie. Ne seguirà un epilogo e soprattutto le curiosità di fine stagione che il vostro amato Narratore ha tenuto in caldo solo per voi! Dopo di che, sperando che le Registe non ci mettano altri tre anni, vi proporranno un altro spin-off dedicato a due (ma ormai facciamo tre) raccomandati di acciaio inox di questa serie pieno di melensaggine, pianti, tragedie …
Registe: “… e battaglie … tante battaglie …”
Narratore: “Se lo dite voi … va bene, mie adorate lettrici, allora attendete con ansia la mia meravigliosa voce nell’epilogo. E ricordate di mettere il fuoco sotto al sedere delle Registe o quelle due vi faranno venire le rughe nel farvi attendere i prossimi capitoli!”

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Capitolo 34
*** Epilogo ***


Epilogo





La caverna del Drago





Non si era mai chiesta chi fosse.
Le era sempre sembrata una domanda idiota, di quelle che si faceva la gente quando non aveva nulla da fare o quando era imbottita di keela fino alla punta dei piedi; alcuni avrebbero potuto farle notare che non si era mai posta la domanda per non ricevere una risposta potenzialmente spiacevole, ma conosceva pochissime persone –una, massimo due- che avrebbero avuto il coraggio di farle quell’osservazione. Meglio così.
Odiava gli indovinelli.
Non se lo chiese nemmeno in quel momento. Non le importava nulla di quanto tempo fosse passato da quando aveva aperto gli occhi ed era rimasta a fissare il soffitto, una serie di crepe nella roccia scura e bruciata dal fuoco: le fenditure le ricordavano un arabesco particolare, uno nero ed oro che aveva visto tantissimi anni prima a Tatooine. Sarebbe stato superfluo chiedersi perché ricordasse una cosa talmente ininfluente, lei che di arte non aveva mai capito nulla, nemmeno il valore di quei rari pezzi che qualche volta era stata assoldata per rubare.
Ma sì, sapeva benissimo perché lo ricordava.
Una coppia di voci l’aveva risvegliata. Forse le aveva ascoltate per un tempo infinito, nascoste tra i veli di quello strano sogno, pesante e doloroso, che ancora adesso le sostava sulle palpebre come mai le era accaduto in tutta la vita: una bassa, profonda, ed una seconda stridula e acuta come quella di un uccello. Quello che sembrava un battibecco privo di forma veniva senza dubbio al di fuori della grotta in cui si trovava.
Si accorse di avere le gambe tremanti. E tutte le volte che le era accaduto non era mai stato qualcosa di piacevole.
Lentamente le portò al petto, curvando la testa in avanti per assaporare le proprie ginocchia ferme nell’incavo delle guance: l’odore acre dei biomateriali del suo vestito le diede conforto, quasi come una carezza che cercava, senza molto successo, di lavare via gli ultimi ricordi rimasti. Premette anche la fronte sulle ginocchia alla ricerca della propria forza mentre obbligò le dita ad uscire dal torpore; se le passò lungo in corpo una alla volta, esplorando ogni singola cucitura del suo vestito, ogni punto familiare, ogni zona lacerata. Le fece passare sulla stoffa e contro la pelle degli stivali che ancora aveva indosso. Il familiare scatto della vibrolama la rassicurò: ne accese, spense e poi accese di nuovo il tamburo caricatore, la mente solo concentrata sull’uomo nella cui gola avrebbe voluto cacciare quell’arma e che chiaramente non era lì –non si sarebbe ritrovata illesa o libera di muoversi, altrimenti. Si costrinse a scacciare il ricordo del suo sorriso crudele.
Guardò solo con l’angolo degli occhi di nuovo il soffitto sopra la sua testa, concentrandosi per rivedere una seconda volta quel dedalo di spaccature che le ricordava l’arabesco nel palazzo di Tatooine di Dreddon de’Hutt. Aveva tinto quella decorazione con sangue, icore, e qualunque cosa si trovasse nel corpo di un Hutt quando aveva inserito un detonatore termico nei suoi girini-spuntino preferiti. Nulla di personale, solo una taglia da riscuotere per il Sole Nero.
Era stata in quell’occasione che lo aveva conosciuto. Già, non era stato di certo l’incontro più romantico della Galassia.
Attese un altro minuto, poi si alzò in piedi. Si fermò, incuriosita dalla sensazione dei suoi stessi capelli liberi contro il collo; li aveva sempre indossati stretti sotto l’elmo, nascosti, e si fermò per un momento a sperimentare quei capelli che le formicolavano fino alle spalle come le dita affusolate e sporche di un ettercap. D’istinto portò le proprie mani alla chioma per legarli, ma il gesto si risolse solo in un movimento a vuoto dei polsi poiché il suo elmo era in un angolo, inutilizzato, e quando lo raccolse notò che aveva molti meno graffi o bozzi di quanti ne possedesse l’ultima volta che si era soffermata davvero a guardarlo. Lo soppesò, alquanto incredula, ma non appena vide il proprio volto riflesso nella superficie lucida, i suoi stessi occhi incavati e uno sguardo spaventato che non le apparteneva, lo indossò d’istinto pur di non continuare quello scenario straziante. Se lo sistemò con cura come d’abitudine mentre le pupille cercavano nella grotta in cui si era risvegliata un indizio –forse anche due- su dove si trovasse.
La risposta le giunse sotto forma di un ruggito forte, furioso, seguito a sua volta da un coro di versi sordi. Qualcosa si muoveva in maniera indistinta nell’aria, un battito d’ali che lei sapeva benissimo provenire solo dal predatore più forte di tutti.
“Non è giusto, Borahorn, quella pila di letame spetta a te!”
“Smettila di fare il furbo! Quello è il tuo settore, non il mio!” rispose la voce profonda, seguita dal rumore di qualcosa che veniva scaraventato a terra. “Inizia a spalare, Gurdandy”.
Quando finalmente i suoi occhi riuscirono ad abituarsi di nuovo alla luce del sole non poté trattenere un verso di sgomento. Tra le rocce rosse erose da un sole violento non c’era angolo di terra o di cielo che non fosse in qualche modo controllato, dominato da una squama, un’ala o una coda. Il verso del primo drago fu ripetuto dagli altri, un ruggito di sfida che avrebbe spinto chiunque a non avanzare di un passo in quella terra dove chiaramente qualunque essere avesse due gambe sarebbe stato subito indicato come preda. Due di essi, uno nero ed uno color cielo, si dibattevano in aria contendendosi qualcosa e lei dovette appoggiarsi alla parete della caverna per non cadere: le sue gambe non erano ancora stabili come avrebbe voluto e ad ogni colpo di quelle ali si creava un vento abbastanza forte da spingerla indietro. Ovunque potesse volgere lo sguardo, anche verso alcune rocce che si trovavano all’orizzonte, vi erano i più forti predatori che la Galassia avesse mai creato.
“Santa Madre Drago, Borahorn, si è svegliata!”
Seguì la voce gracchiante, ormai consapevole che stava parlando di lei. Quando si mosse nella sua direzione vide, armati di pale e di quelli che sembravano enormi sacchi carichi di letame, i due esseri più strani che avesse mai visto. Il che, detto da lei che poteva assumere la forma di qualunque creatura della Galassia, era un problema che poteva rapidamente volgersi in qualcosa di interessante o in qualcosa di esponenzialmente molto pericoloso.
Zam Wesell decise che avrebbe optato per la prima soluzione.




Narratore: “Stenterete a crederci amici lettori, ma siamo DAVVERO giunti alla fine di questa parte di avventura. Sono sincero, pensavo che le Registe non ce l’avrebbero mai fatta! Ai pochi di voi che hanno avuto il coraggio, la pazienza e la dedizione di seguirci fin qui va il mio più sentito GRAZIE! Un Narratore non sarebbe tale senza un fedele pubblico ad ascoltarlo! E ora, prima di salutarci, è il momento dell’angolo di curiosità, ovvero tutto ciò che avreste sempre desiderato sapere sul Ramingo e lo Stregone e che le Registe non hanno mai avuto il coraggio di rivelarvi…

Via alle danze!

- A dispetto del titolo belligerante, nella sua stesura originale questa serie era incredibilmente più noiosa. La “guerra dei mondi” non era che un pretesto per rendere possibile la lacrimevole riconciliazione tra i due raccomandati di acciaio Inox delle Registe, e le battaglie erano pressoché inesistenti. Solo la doppia battaglia finale era più o meno smile alla versione di adesso: l’attacco a Coruscant era poco più che una scaramuccia tra soldatini di piombo, e tutto il resto… semplicemente non esisteva! Mi sembra di vedere le vostre mandibole precipitare davanti agli schermi in un singulto di stupore: come, starete pensando con sacrosanto sdegno, le Registe hanno seminato morte e distruzione nella Galassia tutta solo per far fare pace ai loro cocchi? Ora capite come si sentiva il popolo egizio nel Vecchio Testamento quando Dio mandava loro le piaghe.

- Non avete idea (e fidatevi, non volete averla) di quanto fosse stuccosa, smielata, patetica, zuccherosa, insomma UNO STRAZIO la scena della riconciliazione tra Vexen e Zexion! Vi dico solo che regnava una sovrabbondanza di lacrime e abbracci. Fortunatamente in questa nuova versione le Registe hanno deciso di puntare sulla sobrietà (ogni tanto ne pensano una giusta) e di rendere più graduale il riavvicinamento tra zio e nipote. Ma siete avvisati, le lacrime e gli abbracci arriveranno. Eccome se arriveranno. Fuggite finché potete!

- Anche le tempistiche della narrazione lasciavano a desiderare nella mefitica prima stesura. I flashback di Vexen, già di per sé indigeribili come una peperonata andata a male, erano concentrati TUTTI INSIEME prima del risveglio di Zexion. Il capitolo in questione durava 22 pagine di Word. E continuava in un altro file.

- Il personaggio di Bartosh non compariva nella prima stesura. Era comunque il padre adottivo di Hyunkel, ma era morto – definitivamente, intendo - in un’anonima battaglia anni prima dell’inizio di questa serie, lasciando al figlio solo la stella di carta come ricordo di sé. Le Registe lo hanno riesumato (nel vero senso della parola) per aggiungere pathos alla battaglia di Coruscant e soprattutto perché si sono ricordate che una guerra non è una vera guerra se qualcuno non ci lascia le penne – o in questo caso le ossa. Insomma, risparmiato solo per morire in modo più coreografico davanti agli schermi. Le Registe sono il Male.

- Anche il piano imperiale del doppio gioco di Kratas è un’aggiunta della nuova stesura, così come il combattimento nella palude contro le Nebbie. Le Registe si sono rese conto che tirare fuori l’esistenza delle Nebbie al processo di Vexen senza mai averle menzionate/introdotte prima non era molto efficace. E così hanno provveduto a rammendare l’ennesima toppa in questa storia che faceva più acqua del Titanic dopo lo scontro con l’iceberg.

- Vi è piaciuto il processo a Vexen? Spero per voi di sì, perché sappiate che d’ora in poi le Registe si scateneranno con i processi come neanche in un crossover con Forum. Cosa abbiano queste polverose beghe legali di tanto affascinante è un mistero che resterà per sempre segregato in quei labirinti oscuri e tortuosi che sono le menti delle nostre Registe.


E questa è davvero la fine! Vi diamo appuntamento alla prossima serie, che come annunciato sarà un prequel-spin off (usiamo un po’ di termini di moda! Dobbiamo essere al passo con i tempi!) dal titolo…



*inserire colonna sonora da suspence*



*rullo di tamburi*



*crescendo di colonna sonora e tamburi*



*climax di colonna sonora e tamburi*




*altra suspence gratuita*



*ulteriore suspence gratuita*



*suspence gratuita come se non ci fosse un domani*



“XIII ORDER”!!!

(sì le Registe avevano poca voglia di impegnarsi)

Arrivederci a tutti e sempre W il Narratore!!!”





 

F I N E




Ringraziamenti speciali a:
- RoxasXIII95 e ValyxV per seguirci fedelmente sul nostro adorato xiiiorderforum
- Ash Visconti, Devilangel476, Wolf19 e KING KURAMA per le lunghe e sentite recensioni su efp.

Ragazzi, questa storia è stata portata avanti per circa 3 anni, essere riuscite a mettere la parola FINE è stata un'impresa! Ma nulla ci fermerà, perché siamo pienissime di idee e di storie da raccontarvi, dunque tenetevi pronti per la prossima avventura!

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