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di Tribute
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Capitolo I

Sono Sophie North. Ho appena compiuto diciassette anni. Vivo con mio padre che è un mezzo-tossicodipendente. Avevo una mamma, ma è morta da due anni. Avevo una migliore amica, ma è morta anche lei. Due anni fa, il 13 gennaio, c'è stato un incidente, un aeroplano si è schiantato sull'ospedale cittadino. Fu lì che persi mia madre e Beth. Io mi salvai e rimasi in coma per quasi due mesi. Qualche volta penso che sarebbe stato meglio se fossi morta anch' io.

- Sophie, alzati subito da quel maledetto letto, altrimenti vengo io e ti porto giù a calci! -. 
Ci risiamo. Mio padre sta urlando dalla cucina da circa dieci minuti. Non ama che lo si faccia aspettare. Nonostante il mio pessimo umore, scosto le pesanti coperte di lana e poggio i piedi a terra.
- Sophie! Ti vuoi decidere a venire giù? -. Mio padre è arrabbiato e questo vuol dire che dovrò andare a scuola a piedi. Perfetto. 
- Arrivo! -.
M'infilo le pantofole e lentamente, mi avvio verso la cucina, trascinando i piedi ad ogni passo. Mi siedo a tavola, sulla seggiola più lontana da mio padre.
- Arriverai tardi a scuola -. - Ma va?- rispondo seccata. Mio padre è uno sciocco. 
- Non usare questo tono con me. - In tutta risposta, mi alzo, prendo un muffin rinsecchito e ritorno in camera.
Mentre addento la mia colazione, apro l'armadio e, contemplandolo silenziosamente, cerco di decidere qual è la cosa meno brutta che contiene.
Alla fine scelgo un'insulsa felpa grigia e degli orribili jeans sciupati dall'usura. Mi vesto e mi pettino con tutta la calma che non mi posso permettere e prima di scendere mi affaccio alla finestra, lasciando che il lieve venticello gelido mi accarezzi il viso.
Scendo in strada e m'incammino verso la Cold Bay. Ci siamo trasferiti qui da appena due mesi e già odio l'Alaska. 
Arrivo a scuola in ritardo di un quarto d'ora. 
- Signorina North. E' in ritardo ancora una volta. Se non comincerà a presentarsi puntuale alle lezioni, saremo costretti a prendere provvedimenti. - 
- Mi scuso professor Smith -
- Vada a sedersi e cominci a seguire la lezione -. Eseguo gli ordini di malavoglia, sempre trascinando i piedi. Oggi non sono proprio in vena. Prendo l'i-pod dallo zaino e, di nascosto, inizio ad ascoltare della musica.  
La campanella mi sveglia di soprassalto, non ho idea di quanto io possa aver dormito. 
- Ciao Sophie. Mi chiedevo se potresti prestarmi i tuoi appunti di storia per qualche giorno, sai, ho avuto l'influenza e sto cercando di recuperare -
-E tu chi sei? - mormoro con voce assonnata alla ragazza dai buffi capelli rossi che mi si è parata davanti.
- Ehm... sono Kassie Parker, frequento il corso di storia assieme a te - dice questa sorpresa che non l'abbia riconosciuta.
- Ah, Kassie Parker, quella del corso di storia - fingo di sapere chi è. Non che io mi sia sforzata troppo di fare amicizia con i miei compagni di corso, ma non ho bisogno di nuove amichette. - sì, prendili pure, a me non servono - rispondo disinteressata. 
- Oh, tranquilla, te li riporto entro Mercoledì - dice questa con un sorriso assolutamente fintissimo. La guardo con faccia interrogativa.
- Giovedì abbiamo il compito, ricordi? -. Deve pensare che io sia una drogata, perché la sto guardando esattamente così.
- Magari potresti venire a casa mia, così ci prepariamo assieme. - Dio, quanto odio la sua faccia da perfettina so-tutto-io.
- Senti un po’ signorina perfettina, perché non mi stai alla larga? Non mi serve una balia, grazie lo stesso.- rispondo aspra.
Riesco a svignarmela prima che possa aggiungere qualcos'altro. 
Nei corridoi affollati, davanti al mio armadietto, trovo un po’ di pace. Nessuno che venga a rompermi. Dopo quei cinque miseri minuti di "riposo", prendo i libri per la lezione successiva e mi avvio verso l'aula di scienze. Per sbaglio urto una ragazza e mi cadono tutti i libri. Perfetto. Dopo aver urlato un bel - Guarda, dove vai, pezzo d'idiota - alla povera, disgraziata, ragazza, raccolgo i miei libri, ma, mentre sono chinata, qualcuno mi si ferma davanti. Alzo lo sguardo e vedo un ragazzo moro, con due occhi enormi blu notte, che mi porge la mano. La evito sprezzante e mi alzo da sola. 
- Sempre così simpatica? - mi dice con un mezzo sorriso lo sconosciuto. 
- Senti, sono in ritardo per la lezione di scienze. Se vuoi scusarmi... - Cerco di defilarmi, ma fatto qualche passo, questo mi dice: - Ci si vede in giro, miss-simpatia-.
Quell'ultimo commento mi ha un po’ scocciata, ma rigo dritto, verso la mia aula.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Capitolo II
A mezzogiorno, con le cuffiette alle orecchie, mi dirigo verso la sala mensa e, dopo aver preso un orribile hot-dog di tofu annegato nella senape, mi siedo nell’unico tavolo vuoto di tutta la sala. Mentre spilucco lentamente il mio hot-dog, lo rivedo. Rabbrividisco all’istante.
- Ehi, miss-simpatia! – si dirige verso il mio tavolo sempre con il suo mezzo sorrisetto.
- Se non la smetti di chiamarmi così, dovrò piantarti un coltello in gola –. Lo guardo sprezzante.
– Non so il tuo nome – non so se vuole giustificarsi o semplicemente vuole sapere il mio nome, ma rispondo.
– Sophie, mi chiamo Sophie – Odio gli scocciatori. Il ragazzo mi si siede davanti e comincia tranquillo a mangiare il suo hot-dog. – Io sono Leigh -. Non m’interessa il suo nome. Non m’interessa il nome di nessuno, in realtà. Finisco il mio pranzo con calma. Mi alzo, ma prima che mi allontani, questo “Leigh”, mi chiama. – Ti serve un passaggio dopo le lezioni? – mi chiede.
– No, grazie lo stesso  -. In realtà un passaggio mi sarebbe comodo, ma non voglio dare l’idea di dipendere da qualcuno, e poi quel ragazzo, proprio non mi va a genio.
Le successive tre ore passano tranquille e noiose, come al solito. Alle tre di pomeriggio sta diluviando. Me ne accorgo solo dopo essere uscita dalla scuola in mezzo alla folla. Guardo scocciata le fitte gocce di pioggia che scendono incessanti dal cielo grigio. – Questa non ci voleva proprio – sussurro arrabbiata, però non posso fare altro che armarmi di ombrello e tornare a casa sotto la pioggia. Apro lo zaino per prenderlo. – Merda! –. L’ho dimenticato a casa. Faccio un respiro profondo e con il cappuccio della felpa alzato, m’incammino verso casa.
Verso metà strada una macchina accosta affianco a me.
Oh no. E’ lui.
Dal finestrino abbassato vedo il ragazzo che sta alla guida.
- Ehi miss-s… Sophie! Sicura di non volere un passaggio? -. Lo guardo torva, ma sono fradicia e quindi non accettare il passaggio, sarebbe un errore. Apro la portiera dalla parte del passeggiero e m'introduco in macchina senza fiatare. Blatero un ‘grazie’ tutt’altro che amichevole e la macchina riparte. Poco prima di arrivare a casa mia, gli dico di fermarsi, non voglio che veda la casa cadente in cui vivo. Dopo che la macchina si è fermata sussurro un ‘ciao’ secco, roteando gli occhi, ma mentre sto per scendere, Leigh mi afferra il polso e mi trattiene. Io, sorpresa, lo guardo male.
- Mi puoi dire che ti ho fatto? -. E’… arrabbiato?
- Ma che domande fai? –
- Perché mi tratti così? –
- Senti, io non ti conosco. Non ti ho mai cercato. Non vedo perché dovrei essere carina con te –
- Davvero non ti ricordi di me? -. Che significa? Che vuole dire? Ricordarmi cosa?
Improvvisamente ricordo.
- L…Leigh Underwood? – Ma certo. Come ho fatto a non riconoscerlo.
Una lacrima solitaria scivola lungo la mia guancia, finendo sul sedile della macchina.
Mi ritrovo stretta fra le sue braccia, in lacrime, avvolta dal suo dolce profumo.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Capitolo III

-
Tuo padre ti ha portata via dall’ospedale senza dirmi nulla e… e ha voluto che tu mi dimenticassi. Sai, non gli sono mai piaciuto -. Un debole sorriso gli increspa le labbra.
- Non ci posso credere. Si è approfittato della mia fottuta amnesia. Perché non mi ha mai detto di te? – Sono furiosa. Furiosa con mio padre, con il pilota dell’aereo, con me stessa, per aver dimenticato Leigh.
- Calmati, se l’ha fatto, ci dev’essere un motivo. –
- No. Non provarci nemmeno a giustificarlo. Non doveva nascondermelo. – Dico scandendo queste ultime parole. Gli appoggio l’indice sul petto, in segno di rimprovero.
- Ma…- Lo guardo infuriata e lo zittisco all’istante.
- Non capisco. Non ha senso. Io, io… oh, al diavolo. – Leigh mi stringe a se.
- Ti riporto a casa. -. La macchina parte e, in prossimità della mia orrenda casa, accosta davanti al vialetto. – A domani, Sophie- .
- A domani –.
Scendo dalla macchina e sorrido fievolmente. Saluto Leigh con un cenno della mano ed entro in casa.
Mio padre, steso sul divano, sta guardando una partita di football. Mi piazzo davanti alla vecchia tv sgangherata e incrocio le braccia.
-Che c’è?- Mi guarda stupito, non capisce. Io non rispondo, sono immobile davanti allo schermo.
-Puoi toglierti da davanti? Non vedo niente! – mi ringhia contro arrabbiato. Senza scompormi d’un millimetro lo guardo, dritto negli occhi. – Che ti dice il nome: Leigh Underwood? -.
Mio padre, per un momento, distoglie l’attenzione dallo schermo della tv e mi guarda con gli occhi sbarrati.
- Niente. Non mi dice proprio niente.–  Mente. Finge indifferenza ritornando con gli occhi alla partita.
- E se ti dicessi che era il mio migliore amico? E che è rimasto gravemente ferito nell’incidente del 13? - mi guarda sbigottito – beh, oggi mi ha dato un passaggio fino a casa.- Termino la frase con una sfumatura di sarcasmo nel tono di voce, scura in volto.
Il volto di mio padre, improvvisamente, sbianca.
- Che c’è? Qualcosa non va? – dico in tono di sfida.
- No, niente. Vai in camera tua – ribatte aggressivo.  – No! – gli urlo contro – Non mi puoi liquidare così. Non oggi. -.
Prima che possa aggiungere altro, si alza con uno scatto dal divano e mi tira uno schiaffo in pieno viso. Lo guardo delusa, schifata, impaurita. E’ schifosamente fatto. Premo una mano contro la guancia che brucia come se andasse a fuoco, corro via, in camera mia e mi chiudo la porta alle spalle.
Apro l’armadio con foga e, mossa dall’impeto di rabbia che mi ribolle dentro, ficco qualche vestito dentro un borsone nero, prendo il cellulare e chiamo Lui. Chiamo l’unica persona di cui mi fido.
Non so perché, ma so che dice la verità, che di lui posso fidarmi.
- Leigh, devi venirmi a prendere. Mio padre è completamente fatto, non ci sto a casa da sola con lui. –
Questo, dall’altro capo, con voce preoccupata risponde: - Sophie, Sophie che succede? Tutto a posto? –
- Leigh, ho paura. -.
-Due minuti e arrivo. -.
Nel frattempo chiudo la porta della camera a chiave e, dopo essermi sistemata il borsone sulle spalle, esco dalla finestra, calandomi giù grazie al tubo della grondaia. Un bel salto e sono fuori.
- Sophie! -. Sento il sussurro e mi dirigo verso di lui.
- Grazie al cielo sei qui, Leigh ho tanta paura. -.
- Lo so, lo so, vieni, ti porto via da qui. – Mi prende i borsone e mi conduce alla sua macchina tenendomi un braccio attorno alle spalle.
In macchina mi rannicchio sul sedile del passeggero e porto le ginocchia al petto. Continuo a fissare il vuoto. Leigh ogni tanto mi guarda di sfuggita preoccupato. Gli occhi cominciano ad essere pesanti, la mente comincia a vagare per conto suo, così, piano piano, mi immergo in un sonno profondo consapevole che la mia vita, da quel giorno non sarebbe più stata la stessa.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV

Mi sveglio tesa, disorientata e confusa. Mi guardo intorno a lungo. Poso lo sguardo sulla poltroncina di velluto rosso davanti a me, contemplando il ragazzo seduto comodamente su di essa. I suoi sorridenti occhi blu, solcati da mille insenature grigie, sono chiusi. Il fresco sole mattutino filtra già dalle spesse tende coordinate alla poltrona. Credo siano circa le 7 di mattina.  E’ stato con me tutta la notte? Vorrei svegliarlo, chiedergli dove mi trovo, chiedergli se mio padre mi ha cercata, ma ha l’aria di chi ha tentato di restare sveglio tutta la notte cedendo alla fine al sonno. A quella visione provo quasi tenerezza. Mi accorgo improvvisamente di avere un certo appetito, dato che ieri  non ho cenato. Resisto all’impulso di cercare la cucina e servirmi da sola, non vorrei passare per maleducata e aspetto che Leigh si svegli. Nel frattempo porto le ginocchia al petto, le circondo con le braccia e ci appoggio il mento sopra. Passa un’ora prima che apra gli occhi.
-Ti sei svegliato finalmente – dico sempre nella stessa posizione.
- Oh merda, mi sono addormentato. Ho dormito tanto? – chiede agitato.
- Volevi restare sveglio tutta la notte? Perché? – chiedo ignorando la sua domanda.
- Si, cioè, avevo paura che ti potesse succedere qualcosa -. Non capisco perché sia così vago.
 - Non ho bisogno di una babysitter e poi scusa, che potrebbe succedermi?- ribatto acida. Come ho già detto, odio dipendere da qualcuno.
- E’ così che mi ringrazi per averti portata via da quell’inferno? – Ha ragione. Lui è stato gentile con me, anche se io non ho fatto altrettanto con lui. Sospiro. Mi manca un po’ l’aria. Adesso avrei solo bisogno di aprire una finestra e respirare un po’ di quell’aria fresca di mattino. Non rispondo, mi limito ad alzarmi ed andare verso le lussuose tende bordeaux. Mentre mi affaccio alla finestra socchiusa, sussurro: - Siamo a casa tua? –
- Si, spero non ti dispiaccia aver dovuto dormire sul divano, ma la mia stanza è al piano di sopra ed ero davvero troppo stanco per portarti su. Mi dispiace – Il suo tono di voce è così dolce, calmo. Credo gli dispiaccia sul serio anche se il divanetto su cui mi ho dormito è davvero confortevole.
Solo ora noto il silenzio in cui è avvolta la casa. E’ deserta, ci siamo solo noi.
-Vivi da solo? –.
Mi guarda incerto. – Si, per il momento si. In realtà mio zio viene a farmi visita per una settimana ogni mese… Sono orfano -. Quest’ultima affermazione mi fa sobbalzare lievemente, è orfano anche lui. Io ho mio papà, ma date le circostanze non conta molto. Si può tranquillamente dire che sono orfana anche io. Sussurro un debole “mi dispiace”, colta alla sprovvista.
-Hai fame? – Domanda allegro come se non fosse successo nulla. Effettivamente si, ho una gran fame. Non sono una persona che riesce a stare a digiuno o anche solo a dieta. Mi piace mangiare. E ora ne ho bisogno.
- A dire la verità si, ho una fame da lupo – gli sorrido amichevole (cosa strana trattandosi di me), e vedo che lui soffoca una grossa risata.  
Lo seguo mentre si avvia in cucina, con passo sicuro e gli occhi sorridenti. Si mette ai fornelli senza dire una parola.
-Ho detto qualcosa di divertente? – domando goffamente.
-No, certo che no. Ti piacciono i lupi? –
-Ma che domande sono? –
-Era solo per fare conversazione – un largo sorriso gli curva le labbra sottili, scoprendo i denti bianchi e perfetti. Lo guardo storto per un paio di secondi.
-Si, credo che siano animali affascinanti, anche se sono più un tipo da gatti che da cani –
-Oh, i lupi sono molto diversi dai cani – mi guarda sorridendo mentre appoggia su un piatto dei soffici pancake dorati.
-Si, suppongo di si – Rispondo incerta, tanto per assecondarlo. Mi porge l’elegante piatto bianco decorato da delle altrettanto eleganti linee dorate, colmo di pancake.
- Questa casa è sorprendente, sei ricco vero? – mi accorgo subito dopo aver finito la frase della sfacciataggine con cui ho detto la frase. Le guance  mi si arrossano evidentemente.
- I miei genitori mi hanno lasciato una bella eredità – risponde sempre sorridente. Mi incanta la sua capacità di mettere a proprio agio le persone, vorrei averla anche io. Non parliamo per il resto del pasto, ci limitiamo a scambiarci sorrisi e sguardi allegri. E’ da molto tempo che non mi sento così leggera, così spensierata. Mi piace stare con lui, è come se mi togliesse un peso dalle spalle. E’ come se riuscisse a portarmi in un altro mondo, un mondo privo di complicazioni e preoccupazioni. Non mi sorprende che un tempo fosse il mio migliore amico.
- Che facciamo tutto il giorno? – chiedo. E’ sabato, oggi non c’è scuola.
- Ti va di venire in un posto? Un posto segreto – chiede eccitato, come i bambini che non vedono l’ora di giocare con gli amici.
-Perché no- sorrido serena. Chissà dove mi porterà, spero sia un posto all’aperto, lontano dalla gente. Lontano dalla mia vita.

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