Fragmenta Fatis

di Quebello
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa dell'Autore ***
Capitolo 2: *** Dono ***
Capitolo 3: *** Negoziati ***
Capitolo 4: *** Orfani ***
Capitolo 5: *** Console ***
Capitolo 6: *** Preparativi ***
Capitolo 7: *** Cerimonia ***
Capitolo 8: *** Fuga ***
Capitolo 9: *** Sottoterra ***
Capitolo 10: *** Scorpione ***
Capitolo 11: *** Prigionieri ***
Capitolo 12: *** Giudice ***
Capitolo 13: *** Gemelli ***
Capitolo 14: *** Spada ***
Capitolo 15: *** Ali ***
Capitolo 16: *** Lamont ***
Capitolo 17: *** Larsa ***
Capitolo 18: *** Riunione ***
Capitolo 19: *** Processo ***
Capitolo 20: *** Rapimento ***
Capitolo 21: *** Scacchiera ***
Capitolo 22: *** Deserto ***
Capitolo 23: *** Ariete ***
Capitolo 24: *** Tradimenti ***
Capitolo 25: *** Splendore ***
Capitolo 26: *** Conseguenze ***
Capitolo 27: *** Ripartire ***
Capitolo 28: *** Capricorno ***
Capitolo 29: *** Verità ***
Capitolo 30: *** Ostaggio ***
Capitolo 31: *** Speranza ***
Capitolo 32: *** Fuggitivi ***
Capitolo 33: *** Bilancia ***
Capitolo 34: *** Golpe ***



Capitolo 1
*** Premessa dell'Autore ***


premessa dell'autore Data la stranezza del mio lavoro, una spiegazione era d'obbligo.

Questa FanFic nasce da una scommessa con degli amici e da due idee, una abbastanza diffusa e condivisa, l'altra totalmente nuova ed inaudita.

La prima idea è che la trama di Final Fantasy XII sia stata ingiustamente maltrattata. Personaggi e temi erano estremamente interessanti e per svariati motivi non ci sono stati quei tre-quattro dialoghi in più, scene in più, introspezioni in più che ci avrebbero fatto amare questa storia quanto e più dei suoi predecessori.

La seconda idea (mia) è stata di scrivere questa storia che non è nè un fedele resoconto di dialoghi e scene del gioco, nè una storia precedente o successiva, nè la stessa storia che prende un diverso corso (what if...). In questa FanFic viene seguito il corso della storia del gioco così com'è, è identica l'ouverture ed è identico il finale, sono gli stessi i personaggi e le loro sorti. Sono però aggiunte battute, scene, momenti, pensieri.

Questa FanFic è stata la mia sfida a dei miei amici scettici, ma lavorandoci mi ci sono affezionato. Ho persino cominciato a sentirmi orgoglioso di averla scritta, pur non essendo certamente una "mia" storia, ma semmai la mia interpretazione di una storia altrui, di personaggi altrui. Sono arrivato al punto di volerla rivedere e correggere, per poterla pubblicare.

Considerate questo lavoro il mio tributo a Final Fantasy XII, e alla sua splendida storia, è il mio modo di dargli l'attenzione e la cura che, ingiustamente, gli è stata negata.

Spero che chi legge troverà piacevole questa mia diversione.

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Capitolo 2
*** Dono ***




"Viva gli sposi!"

Tutto era iniziato così, o almeno questo si sarebbe detto poi.

Ma per lei niente aveva senso, quel giorno, non era capace di accorgersi di nulla... non ancora. Lei era solo bellissima carne, bellissima pelle, bellissimi occhi, offerti come dono di pace alla dinastia di Nabradia. Ma non passiva merce di scambio: al contrario, era perfettamente consapevole e fiera del suo ruolo nel mondo.

Niente aveva senso quel giorno, se non gli occhi di lui, il sorriso di lui, la mano di lui nella sua. Invece della parata, invece della tempesta festante che rombava intorno a loro, avrebbe potuto benissimo esserci una strada vuota, e un silenzio assoluto. Non le importava.

Quello era il giorno perfetto, il giorno della festa, dell'alleanza, della pace, dell'amore, della gloria, tutti suggellati da unico patto, il loro, che sottoscrivevano con quel primo bacio tanto atteso.

Lui respirò a fondo, gli occhi chiusi, mentre le sue labbra toccavano quelle di lei. Respirò i suoi profumi dalmaschi che ricordavano mirra e incenso e rose, suoi capelli ed i suoi occhi color sabbia, la sua pelle lattea, la sua timidezza, il suo sorriso. E lei fece lo stesso con lui, e si riempì dei pungenti aromi dei pini mosforani, dei suoi colori che accennavano all'albinismo come tutta la sua gente, l'apparenza delicata, il viso da bambini.

"Nel nome di nostro padre, ed in presenza delle reliquie santificate, vi dichiaro marito e moglie da questo momento all'avvenire. Gli dei benedicano e illuminino il vostro cammino, in eterno. Faram" disse il kiltias, e rimbombò nel silenzio della chiesa. Il matrimonio era una realtà.


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Erano passati pochi mesi, e lei li avrebbe sempre ricordati come splendidi. Ma nei volti dei fratelli maggiori e di suo padre, Ashelia B'Nargin, principessa di Dalmasca, aveva riconosciuto molte volte l'angoscia. Una angoscia che le veniva taciuta, perchè provarla non le competeva.

Il matrimonio era stato un tragico errore, si cominciava a dire ora per le sale del palazzo reale di Rabanastre. Dopo Landis, caduta quasi vent'anni prima, Dalmasca,  Nabradia e Bhujerba erano gli ultimi regni indipendenti tra i due Imperi contrapposti. Avvicinandosi all'Impero di Rozaria, e cercando poi delle nozze politiche con Dalmasca, Nabradia aveva creato dei motivi di astio nell'opposta Arcadia. Una alleanza debole, appena accennata, ma sufficiente a mettere in allarme il Senato Arcadiano.

Ashe camminava per le sale del palazzo reale seguendo i complessi intrecci di figure mitologiche formate dai marmi color ocra, girasole, e sabbia, che si formavano sotto i suoi piedi. Ma non perchè non conoscesse già quelle figure a menadito, quanto per evitare lo sguardo accusatorio dei dignitari di corte che regolarmente incrociava, e che con i loro occhi sembravano dire che l'avrebbero volentieri nascosta in un vecchio baule come un cimelio di pessimo gusto.

Lei non era più il dono che consacrava un'unione perfetta, era invece la prova vivente di una mossa politica ingenua e forse suicida.

La guerra arrivò di lì a poco, ma non interruppe le visite Rassler Heios Nabradia, suo marito, che regolarmente tornava nel letto di lei appena si liberava dagli infiniti impegni. Regolarmente la accarezzava e la baciava in ogni centimetro di pelle, a lungo, e poi la possedeva lentamente, il suo sguardo dolce fisso in ogni istante in quello di lei, il suo sguardo così diverso da quello di tutti gli altri consumati politici che frequentava di solito.

"Che faremo?" si azzardò a chiedere una volta, consumata la loro passione, guardando il suo consorte negli occhi. Stava quasi per aggiungere delle scuse, per aver osato sconfinare nel campo degli affari di stato, lei, una ragazza di appena sedici anni.

Ma lui non si infastidì minimamente per quella invasione di campo da parte di lei. .

"Non devi temere niente, Ashe. Nabudis è nata e vive come fortezza. Non temiamo la battaglia." rispose per tenerla distante, ma con garbo ed eleganza.

Era vero. Nabudis, immensa città-palazzo che svettava per molti piani, come una pagoda, sulle circostanti terre paludose. Gli uomini-anfibio, che chiamavano sè stessi bacnamus, emergevano dagli aquitrini con maschere respiratorie e armi rudimentali, e cercavano da sempre, da quanto si poteva ricordare, di assediare e colonizzare la capitale regia di Nabradia, per farne una tana a sua volta. Arroccati nelle mura, gli abitanti di Nabudis difendevano la bellezza della loro terra dalla decadenza esterna e facevano di questa continua lotta il senso della loro vita, il fulcro della loro cultura. Un popolo di aristocratici guerrieri, marchiati dai colori candidi. Sì, non temevano la battaglia.

"Eppure non bisogna neppure amarla" osò controbattere lei, ma di nuovo lui le permise questa intrusione.

"Arcadia capirà presto il prezzo di una inutile guerra. Finirà presto, mia sposa. E noi saremo ancora uniti."


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Rassler seguiva le elucubrazioni dello stratega dalmasco insieme con Raminas B'Nargin, il suo suocero da poco acquisito, con la massima attenzione. All'elaborazione di un piano doveva seguire il suo urgente ritorno a Nabudis per comunicarlo al Re, suo padre.

Nabradia si trovava ad essere uno scudo per Dalmasca, ma uno scudo fatto di case, villaggi, vite. Uno scudo che Dalmasca doveva sostenere con le forti braccia della sua economia mercantile, e mandando alla morte un simbolico numero di soldati, perchè il dolore di Nabradia fosse condiviso. Lo scudo doveva reggere finchè l'ultimo colpo non fosse stato vibrato, infatti era fuori questione anche solo pensare di sconfiggere l'Impero di Arcadia. Chiedere l'aiuto di Rozaria, poi, avrebbe comportato una guerra mondiale.

Non restava nient'altro che una resistenza disperata che durasse fino al logorio degli aggressori. Una guerra iniziata da pochi mesi, ma destinata a durare anni. O così Rassler credeva.

Bastarono pochi secondi a separarlo da quest'idea.

Quasi incomprensibile, stonata, fuori posto, fu per lui l'apparizione del capitano Von Ronsenburg. I lunghi capelli castano chiaro, di solito tenuti all'indietro come una criniera ferina, erano arruffati come da un violento tifone, anneriti e irrigiditi dalla fuliggine, l'armatura argentea dell'esercito dalmasco aveva preso una brutta sfumatura scura e i contorni erano indistinti, come avesse subito un intenso calore.

All'apparizione non servì molto tempo per avere gli occhi di tutti i presenti su di lui. Lui, uno dei preferiti del Re, l'incarnazione stessa di ciò che l'esercito dalmasco doveva essere era ora un'indecorosa personificazione della disfatta, che perdipiù si manifestava nel bel mezzo di una riunione strategica. Solo il suo sguardo restava quello di sempre, fermo e deciso.

"Nabudis è caduta." disse senza smettere di camminare verso il consiglio, come se da giorni marciasse solo per arrivare lì a sputare quelle parole.

"Impossibile!" reagì il Re, quasi urlando.

La mente di Rassler per un attimo non fu più lì.

Fu nel lungo ponte di Nabudis che dalla città-palazzo, scendeva verso i boschi, sormontando le paludi. Quel ponte che aveva percorso di fretta, senza nemmeno salutare la sua patria con un'ultima occhiata. Il glorioso Castello Smeraldo, chiamato così per l'associazione dei pavimenti di pietra verde scuro al fogliame della vegetazione ornamentale. Le bandiere bianche, con al centro il mazzo di gigli dorati che simboleggiavano la dinastia di Heios, sventolate in suo onore. Bambini che correvano ridendo per i giardini interni, e si fermavano a guardarlo ammirativi, come vedessero in lui il loro destino di guerrieri. Lo sguardo di suo padre, quando lui aveva domato il primo mesmerize, lo aveva costretto a galoppare con i suoi tempi, lo aveva ammansito, aveva imparato a riconoscere i suoi nitriti come saluti e a chiamarlo con brevi fischi.

Tutto questo era come risucchiato da una voragine oscura, al centro della quale stavano quelle parole: E' caduta. Chiare e implacabili come fossero scritte in un enorme foglio.

"Mio padre?" chiese, incapace di fare altre domande la cui risposta poteva ben essere più dolorosa.

Gli occhi del capitano Von Ronsenburg caddero in basso, il suo tono perse molto vigore.

"Non lo so. Mi dispiace." stava per aggiungere qualcosa, ma il Re lo interruppe.

"Se davvero Nabudis è caduta, solo il tempo li separa dai confini dalmaschi. Niente li fermerà. Rinforzate il forte di Nalbina, immediatamente."

"Andrò" rispose il capitano, da sempre noto per il linguaggio semplice e conciso.

"E con lui andrò io!" Rassler aveva aggiunto senza neanche rendersi bene conto di cosa diceva, trascinato da un istinto prima che da qualsiasi altra cosa. Solo un istante dopo il pensiero di Ashe gli balenò in mente, ma restò insufficiente, da solo, a farlo desistere.

Lasciò la sala senza aggiungere altro, seguendo il capitano che non si era scomposto.

"Capitano!" chiamò.

"Principe." rispose lui fermandosi e chinando il capo come gli usi imponevano.

"Non sarete voi a cadere proteggendomi. Combatteremo come compagni!" per la verità, gli tremava leggermente la voce.

"Certo. Se volete così." disse l'altro evitando le solite formule di rito riservate ai nobili, probabilmente perchè non le conosceva. Ma a Rassler non dispiaceva la semplicità di quell'uomo, la sua mancanza di maniere così in contrasto con il suo valore in battaglia, che invece era determinante.

"Un'altra cosa mi preme sapere, capitano. Come è caduta la mia città?" e sottolineò l'interrogativo con una eloquente occhiata al suo aspetto.

Il capitano reagì in modo sorprendente a quella domanda: il suo volto si fece smarrito e angosciato.

"Una grande esplosione, poi come un vento incandescente." descrisse un semicerchio in aria come volesse ridisegnare quanto aveva visto "Le mura non hanno retto, nè le truppe. Io combattevo all'esterno, e quindi-"

"Un'arma sconosciuta di Arcadia?" si chiese Rassler.

"Non direi. Forse un potente incantesimo andato male... perchè le truppe di Arcadia sono state spazzate via allo stesso modo."

"Un avverso destino dunque, niente di più?"

"Non lo escludo." tagliò corto il capitano, reputando inutile spendere parole per fingere di sapere ciò che ignorava.

Gli occhi del principe recuperarono forza in un attimo, e ribattè: "Insieme lo affronteremo comunque."

"Certo."


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Il risveglio notturno di Ashe non fu diverso da molti altri. Abituata com'era a ricevere suo marito a quell'ora, i suoi sensi la svegliavano per riflesso condizionato, che lui venisse o meno.

Si godette per un pò la vista della Luna Maggiore che illuminava Rabanastre, la via principale, la Piazza della Quattro Porte, e infine le bancarelle dei bazaar che, smontate, diventavano linee metalliche che si affollavano sulla strada, appena appena visibili per il riflesso lunare. Lo sguardo andò oltre la città, e lo sconfinato deserto, fino a un filo d'argento che spaccava il deserto in due: il fiume Nebra, lungo il quale si insediavano innumerevoli villaggi di pescatori. Il silenzio usuale della notte nella capitale regia gli sembrò inquietante, senza ragione specifica, e sentì il bisogno di conforto.

Aprì un grande armadio, dove due grosse crioliti mantenevano magicamente il freddo. Delle numerose pietanze, scelse una vaschetta di gelato. Era aromatizzato con la più pregiata spezia del regno, il cacao, e con i migliori frutti degli aranceti dalmaschi. Rassler usava dire che suppliva al mal d'amore, per poco tempo. E difatti lei così lo usava, assaporandolo lentamente mentre contemplava la città, silenziosa e spaventata da quei tempi difficili.

Rimase così, il suo corpo acerbo nudo alla luce della Luna Maggiore, a mangiare gelato come una bambina. Quando Rassler la vide così la prima volta, commentò incantato che tutte le donne condividono la stessa essenza, bambine e anziane, principesse e serve. Si chiese cosa mai volesse dire.

Qualcosa interruppe il suo rito solitario intorno alla terza cucchiaiata. Come una monella colta sul fatto, nascose immediatamente il gelato al primo bussare e coprendosi come meglio poteva andò ad aprire. Per un attimo, irrazionalmente, si rallegrò alla possibilità che fosse lui, e si diede della sciocca per essersi rivestita con foga.

La faccia del capitano Von Ronsenburg non necessitava spiegazioni.

Aveva sempre avuto sentimenti contrastanti verso di lui, arrivato alla capitale su una carovana mercantile, ferito quasi a morte, profugo della rovinata Landis. Subito arruolato, e subito preso in simpatia dalla truppa, la sua carriera nell'esercito era stata più veloce di molti nobili che Ashe avrebbe ben potuto sposare, e le sue umili origini lo rendevano anche amato dal popolo, un distintivo che il Re poteva esibire come prova di vicinanza alla sua gente. Molti altri a corte, tra cui lei, lo consideravano invece una pericolosa eccezione alle regole della vita a palazzo.

Da un'altro canto, lo considerava in qualche modo liberatorio, per il suo modo di fare così diretto e così diverso da quelli affettati cui era abituata, per la sua fierezza e onestà che ispiravano fiducia; era intimorita e affascinata da ciò che quell'uomo rappresentava, era come suo marito distante dalla nobiltà dalmasca, ma di qualche passo in più.

Persino in quel momento, non aveva neppure bisogno delle parole per esprimersi. Si fissarono a lungo, ed in silenzio.

Quando lei sentì i suoi occhi bruciare, ed inumidirsi, si rese conto di quanto poco dignitoso sarebbe stato piangere in presenza d'altri, e specie di un capitano di umili natali. E lui la capì, e delicatamente chiuse la porta.


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A quanto pare, la torre con la scudolite era stata assediata da un manipolo di assassini. Uccisi i maghi e spezzato il cristallo, la barriera magica intorno a Nalbina si era dissolta e i bombardieri arcadiani erano volati sulle loro teste. Non c'era bisogno di aprire il fuoco, una resa incondizionata era l'unica scelta sensata.

In groppa ai chocobo, il respiro pesante, il piumaggio giallo arrossato per le ferite ricevute, il capitano e il principe si erano fatti strada tra i nemici, verso la torre, ma si erano visti la barriera scomparire sulle loro teste.

"E' finita." aveva constatato il capitano, deciso ad una ritirata che risparmiasse altre morti inutili.

"Per mio padre! Per mio padre!" aveva urlato il principe, ma prima che il capitano potesse dissuaderlo da un attacco suicida una freccia lo aveva raggiunto al cuore.

Ironicamente, a palazzo si diceva che Ashe aveva avuto la "fortuna" di vedersi riportato il cadavere del marito, grazie al capitano Von Ronsenburg che lo aveva trascinato in spalla. Quasi nessuna moglie poteva vantare lussi di questo genere.

Nella stessa chiesa dove aveva ricevuto il suo primo bacio, Ashe indossava ora un velo nero e pregava, con gli occhi chiusi. Il kiltias usava dire che gli dei manipolano il destino e il destino era rivelato nei sogni. Lei pregava loro affinchè le dessero un destino nuovo, uno che lei potesse sognare.

Non era più un ambito e felice dono, solo i resti di qualcosa che non avrebbe dovuto essere. Ma non si sentiva in colpa, non per aver amato Rassler, per aver amato suo padre, per aver amato il suo regno, nè per aver reso ufficiale il suo amore.

Tutto ciò che sentiva, l'unica emozione che distingueva con chiarezza, era un odio sempre più grande verso chi le aveva tolto tutto ciò.


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Capitolo 3
*** Negoziati ***


"Cosa lodevole, i negoziati di pace, eh?"

Il tono sferzante del capitano Vossler gli suonò consolatorio, in quelle disperate circostanze.

"E peculiarmente, lo sono quelli firmati con la spada, e scritti in sangue reale" constatò in conclusione.

Azelas Vossler era nato nobile, e da sempre era stato addestrato come guerriero. Era certo che non avesse pari a Dalmasca, e in quanto ad abilità nel duello, forse l'intero mondo di Ivalice poteva invidiarlo. Ma Vossler non aveva forgiato la sua fama, piuttosto la subiva. Si tuffava in ogni battaglia e ad ogni battaglia sopravviveva, solo perchè questo gli era ordinato di fare. Di battaglia in battaglia, che avesse un senso o non l'avesse, lui non faceva che aspettare la prossima. Finchè la sua ultima battaglia non fosse venuta, e finalmente avrebbe potuto riposarsi nell'abbraccio della sua compagna di sempre: la morte che lui stesso accompagnava in questo mondo con la sua lama.

Nel frattempo stava lì, la sua armatura integrale ancora perfettamente lucida e intatta, splendente di luce argentata come se fosse piombato lì in mezzo da un'altra realtà, da una leggenda di eroi scintillanti guidati dagli Dei, la perfezione della figura in netto contrasto con lo sfondo cruento, i molti altri che aveva spedito tra le braccia della sua compagna. Alcuni, tranciati dal gigantesco spadone, erano uno spettacolo orribile, che lui noncurante ignorava tenendo con naturalezza quel blocco metallico imbrattato su di una spalla, come fosse leggero, a gocciolare segnando i suoi passi.

Gli occhi corvini, come i capelli, non fissavano Basch Von Ronsenburg, il suo amico e compagno, ma squadravano esperti il campo di battaglia.

"Io e tu, Basch, noi soli ancora viviamo" Basch era sempre stordito dalle inutili circonlocuzioni e dalle frasi abbellite tipiche di Vossler, come di molti altri guerrieri di sangue nobile, e da come la loro prosopopea non venisse meno nemmeno in casi di estrema urgenza.

"No." lo contraddisse lui, dirigendosi verso un soldato immobile, seduto contro il muro, che aveva perso l'elmo.

Era un ragazzino, dai capelli spioventi e grigi, il volto magro e scavato di chi è nato e cresciuto nei bassifondi di Rabanastre.

"Tu. Puoi sentirmi?"

"E' così come temevo" disse Vossler non curandosi del ragazzo, e spostando un cadavere con il piede "ci rallentano il passo."

Basch colse l'implicito riferimento a non perdere tempo con la recluta.

"Non parlare così. Non tutti siamo qui per amor di battaglia. Lui combatte per la sua casa."

Gli occhi del ragazzo erano aperti su di lui.

"Come ti chiami?"

"Reks, signore, mi chiamo Reks" disse dopo un momento di indecisione, necessario a rimettere insieme i pensieri.

"Bene, Reks. Hai qualche graffio, ma sei intero. Ti reggi in piedi?" ma alla domanda, Basch prese il suo braccio e vi fece leva sollevandolo di peso.

"Puoi combattere?"

"Sto bene, signore" mentì lui. Per la verità gli sembrava che ogni singola botta rimbombasse ancora lungo l'armatura, e che tutto il suo corpo vibrasse come un tamburo appena percosso.

"Quanti anni hai, Reks?" chiese Basch come se improvvisamente si accorgesse di qualcosa.

"Diciassette, signore" fu costretto ad ammettere.

"Sei giovane. Famiglia?"

"Mio fratello è tutto quello che mi resta. Due anni più giovane di me, viviamo a Rabanastre."

"Così giovane..." sospirò l'altro "ti si può a stento chiamare uomo... non dovresti essere costretto a portare la spada."

Adesso, capendo il senso delle domande, Reks si irrigidì.

"No, signore, io voglio combattere" sottolineò "per la mia casa e per i miei genitori."

"Il tempo, Basch!" si intromise Vossler come se improvvisamente avesse concluso dei calcoli che lo tenevano assorto "le discussioni si rimandino a poi. Si dev' essere dal Re prima che il nemico agisca, o sarà stato tutto vano!"

"Sì, ho capito la situazione."

Si udì un vociare ed uno sferragliare di armature, e Reks per un attimo cercò con le mani il muro dietro di lui, come per ripararsi o sostenersi.

"Vai avanti, Vossler, io mi occupo di questo casino."

"Volo." rispose l'altro, dopo aver fatto una smorfia nel sentire la parola "casino" dal suo compagno. E davvero volava, pensò Reks: malgrado l'innegabile e vistoso peso del suo equipaggiamento, sembrò una palla di cannone che spalancava l'ampio portone di legno e proseguiva spedito in barba alle apparenze.

"In gamba, Reks" gli si rivolse il capitano, con un tono se possibile ancor più colloquiale "stai concentrato e ce la farai. In marcia!" e concluse con una pacca sulla spalla.

Pochissimi passi dopo il portone un manipolo di soldati arcadiani fu davanti a loro sulla strada per le sale reali. Reks riconobbe subito la divisa bianca, e l'armatura color piombo con l'elmo a formare una maschera che suscitasse timore, le lance perfettamente allineate verso di loro.

In corsa, Vossler spezzò le linee con un mulinare dello spadone che fece volare due soldati, e proseguì lasciandoli soli contro gli altri.

"Ricacceremo indietro ogni imperiale tra noi e il Re" lo incoraggiò Basch, gli occhi fissi sul gruppetto "e nell'esito c'è il futuro di Dalmasca. Occupati di quelli che hai  davanti, Reks, io ti guarderò le spalle."

Spaventato, ma non più che desideroso di provare il suo valore, Reks si tuffò nel buco aperto da Vossler e urtò contro un soldato che non aveva rialzato la lancia in tempo. Non si rese quasi conto che la lama lo aveva trapassato, ed entrambi erano caduti a terra.

Il suo primo omicidio.

Ebbe poco tempo per pensarci. Rialzandosi, vide dietro di lui il capitano Basch deviare ogni punta di lancia con precisi movimenti della spada, e poi qualcosa di enorme scendere su di loro.

Assomigliava leggermente ad un fungo di metallo, la parte ristretta circondata da due anelli fluttuanti di pietra magica, la vololite.

"Un- un aerocaccia imperiale?" chiese senza bisogno che gli si rispondesse. Come potevano in due affrontare quattro soldati ed una macchina da guerra?

"Tappati le orecchie!" disse Basch gettando a terra la spada. Si arrendeva, si chiese Reks?

"DAR..." intonò l'altro disponendo le braccia aperte.

Nelle mani del capitano si condensarono due globi di energia. Era come una fiamma che brillava di tutte le sfumature del verde, ma aveva un cuore nero.

"...KAAAAAA!" la voce si distorse fino a diventare quasi un ringhio, chiudendo le braccia generò un'esplosione dello stesso colore che prese una direzione specifica, trapassando l'aerocaccia.

Reks capì solo in quel momento che era il caso di tapparsi veramente le orecchie, e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, i soldati erano a terra storditi dal fragore dell'esplosione, dato che l'aerocaccia volava così vicino a loro.

Una seconda volta, Basch lo sollevò per un braccio, e continuò a camminare come se tutto fosse stato normale amministrazione. Ma guardava la lunga scalinata con preoccupazione, cercando una figura che non vedeva.

"Vossler, che fine hai fatto?"

"E se il capitano Azelas cade-"

"Non dire assurdità" disse Basch, per la prima volta severo nel tono "Vossler ride in faccia alla morte da fin troppo tempo per fermarsi adesso. Uomini come lui non muoiono così. Piuttosto" continuò incamminandosi, "dobbiamo raggiungere il Re di corsa. E portarlo al sicuro."

Reks ricordò solo allora cosa stava facendo lì. Doveva essere un lavoro di routine, sorvegliare il Re durante la firma dell'Accordo di Pace con Arcadia. Ma cosa stava succedendo, quindi? Si avvicinò al capitano salendo le scale, e lo interrogò con il fiato corto per la corsa in salita.

"Sua maestà..." chiese esitante "...sarà illeso?"

"Segnerà una resa incondizionata" spiegò Basch con un tono lievemente infastidito da quell'idea "non oseranno toccarlo, finchè la cera del sigillo non si seccherà."

"Quindi se arriviamo dopo che l'Accordo è firmato-" si interruppe da solo, perchè aveva gia intuito il seguito della frase.


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Come una bestia che annusa la preda, Vossler fu certo della presenza di arcadiani nella sala. Solo, non erano nel suo campo visivo, e sembravano del tutto intenzionati a rimanere nascosti. Ebbe pochi secondi per riflettere, perchè ricordò cosa ne sarebbe stato del Re se ancora indugiava.

Non gli restò che tuffarsi nella sala sperando che nessuno degli arcadiani fosse un tiratore armato.

La fortuna lo favorì: erano tre alabardieri, ed uno si muoveva in modo sbilanciato, probabilmente era ferito alla gamba.

I due tentarono inutilmente di fronteggiarlo in un corpo a corpo, mentre lo zoppo tirò l'arma, facilmente intercettata dallo spadone, che roteando teneva a distanza i due.

Uno dei due tentò un audace assalto il cui risultato fu che si spezzò la sua alabarda, facendogli abbassare la guardia per un istante; cercò una daga in un fodero nella gamba destra, ma Vossler approfittò del momento per trapassarlo e sollevarlo di peso con la lama.

Mentre l'altro arretrava per non subire lo stesso trattamento, Vossler usò il primo, esanime, per lanciarglielo contro con un roteare dello spadone. Non doveva essere ben allenato, forse era un ragazzo o semplicemente era d'animo troppo sensibile, inadatto al combattimento: infatti lasciò cadere la lancia per prendere in braccio il corpo del compagno. Quell'atto di riguardo duro un istante, poi senza che potesse accorgersene la testa fu tagliata dal suo corpo.

Il terzo, ferito, stava sdraiato contro una colonna tremante, in attesa del suo carnefice.

Vossler lo squadrò con gli occhi neri, e poi tornò con lo sguardo alle sue due ultime vittime, due cadaveri l'uno nelle braccia dell'altro. Di nuovo guardò il soldato alla sua mercè "Una grande guerra, questa che siete venuti a cercarvi. La trovi gloriosa, come te l'avranno certamente descritta?"

Il soldato abbassò il capo.

"Seguo solo gli ordini" rispose una voce roca proveniente dall'elmo.

"Così facciamo tutti" concluse Vossler, sconsolato. Certo che non lo avrebbe aggredito, gli voltò le spalle per lasciare l'anticamera. Poche stanze lo separavano dalla sala del trono.

Infatti non fu colui che aveva risparmiato ad aggredirlo, ma qualcun'altro. Qualcuno che era rimasto, silenzioso, dietro lo stesso portone che Vossler stava aprendo con le sue mani. Era un uomo disarmato, che con un forte movimento delle braccia spalancava le ante del portone.

Le mani di Vossler ritrovarono subito l'elsa della grande arma, e la fecero colpire. Ma con un sapiente movimento della gamba l'uomo colpì la lama di piatto col tacco e la deviò. Lo aveva vicinissimo, e potè vedere una massa di capelli neri come l'inchiostro, e dietro due occhi lucidi e attenti, privi di agitazione.Il suo pugno indossava un raffinato guanto merlato, di un velluto color panna, che a dispetto dell'apparenza ebbe un impatto devastante sullo stomaco del capitano, come se la botta vibrasse lungo tutto il corpo. Gli stivali corazzati stridettero contro il pavimento, mentre la botta spostava Vossler all'indietro nel salone.  Barcollò, tenendo alzato lo spadone a mò di scudo. Appena la vista fu di nuovo a fuoco, vibrò un unico fendente. All'apparenza leggiadro come una piuma, il suo avversario volteggiò in aria e si tritrovo in piedi sulla immane spada, corrè verso di lui in equilibrio sul filo della lama, e sferrò un poderoso calcio sul viso dell'avversario.

Era la prima volta.

La prima volta in assoluto che qualcuno arrivava a colpire il suo viso, pensò, e fu l'ultimo pensiero che ebbe prima di svenire.


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"Battiti bene" erano le ultime parole che aveva sentito dal capitano Basch, dopo che si era offerto di guardargli le spalle.

Sparito Vossler, solo lui avrebbe potuto proteggere il Re in tempo. Reks, nel frattempo, era rimasto a combattere con un solo soldato arcadiano, per sua fortuna l'unico che si fosse presentato all'inseguimento del capitano. Non che la cosa non gli fosse perciò più semplice.

Era un alabardiere abile, e mentre vibrava colpi con l'arma faceva scorrere tra le mani il lungo manico, perchè fosse impossibile determinarne l'esatta lunghezza. Reks al contrario era privo di addestramento, e vibrava colpi furiosi e improvvisati. Ma forse proprio la sua imprevedibilità lo favorì, e l'arma del suo nemico finì al lato del suo fianco, dove la imprigionò con il braccio. Un ampio fendente, con sua grande fortuna, andò proprio a sfiorare il collo dove l'armatura lo lasciava scoperto.

La seconda persona cui toglieva la vita. Si disse che doveva abituarsi, e si appoggiò un attimo al corrimano aspettando che il tremore passasse. Si guardò la mano, dolorante. Mentre lui fermava l'alabarda con la mano l'altro aveva cercato di ritrarla, e l'attrito gli faceva sanguinare il palmo. Poi si decise a salire l'ultima scalinata.

Quello che vide fu peggio di ogni altra cosa successa quel giorno. Alleati e nemici, tutti morti. Il Re, anche lui, era morto. Seduto sul trono, trapassato da una spada. La testa ricurva da un lato, un sottile filo rosso univa le sue labbra al pavimento.

"Maestà" chiamò, ma senza rabbia, disperazione, o stupore. Non riusciva a provare niente di tutto questo, si sentiva solo smarrito in un incubo. Dei passi lo fecero voltare, e fu allora che sentì, con incredibile chiarezza, il metallo farsi strada nella sua carne.

Quando la mano del capitano Basch lasciò il pugnale che lo trafiggeva, Reks cadde in ginocchio.

"Perchè capitano? Il Re... cosa avete fatto?" chiese prima di ogni altra cosa, prima di preoccuparsi del pugnale che aveva nello stomaco.

"Il Re intendeva vendere Dalmasca all'Impero sin dall'inizio" disse camminando verso il trono.

C'era qualcosa di strano nel capitano. Il suo sguardo non mostrava più determinazione o forza, ma era torbido e indecifrabile. Il suo tono sembrava più acido ma anche più misurato.

"Capitano... io..." la vista iniziava a sfocarsi.

Dei soldati spuntarono dal nulla e afferrarono ciascuno per un braccio il capitano Basch, che sorprendentemente non si oppose. Con un colpo, lo costrinsero in ginocchio, e Reks vide un altro uomo che entrava.

Un volto serio e concentrato, ed una massa di capelli nerissimi. Sulla veste spiccavano due spalline legate da catene di metalli color oro chiaro, ornati da pietre che ricordavano marmi azzurri. Non era quello, un prodotto d'artigianato che si potesse confondere con qualsiasi altro ornamento: il segno distintivo dei generali arcadiani di massimo grado che, quelli chemalgrado le abilità in battaglia non assurgevano al rango di Iudex Magister e continuavano la carriera militare.

I suoi guanti chiari fecero un solo gesto, che indusse i soldati a portargli Basch davanti.

"Bene, se non è stata una negoziazione pacifica questa..." ironizzò con una voce suadente e aristocratica.

"Non ci arrenderemo mai! Non siamo merce di scambio per un Re traditore!" Reks seguiva il dialogo, mentre steso per terra agonizzava, indifferente a chiunque.

"Ma la guerra è conclusa, mio buon capitano. E l'avete persa. Dalmasca è ora proprietà imperiale... e dire che intendevano lasciarvi qualche sovranità, per rispetto. E adesso avete rovinato tutto ciò, non è forse così?"

"Non ci inchiniamo a voi!" tuonò Basch inferocito.

"E Dalmasca vi odierà per questo. Portatelo via" concluse il generale. Poi si concentrò con lo sguardo sul ragazzo moribondo.

"Che facciamo di lui?" chiese un soldato.

"Soccorretelo, ovviamente. Fate il possibile perchè viva." rispose il generale con un tono stranamente allusorio, che rendeva ancor più incomprensibile quella decisione.


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Da qualche parte nel cranio, nascosta tra i capelli neri, Vossler sentiva la ferita da cui colavano rivoli di sangue sul volto.

Guardò gli uomini assegnati a trasportarlo in prigione. Aveva dovuto uccidere il primo a mani nude, ed il secondo con l'arma rubata a lui. Era quasi certo che si trattasse del soldato che aveva risparmiato poco prima. Il suo destino non era cambiato, e l'atto di misericordia che gli aveva usato alla fine era stato vano.

Il palazzo reale di Rabanastre era in trambusto, e Vossler percepì istintivamente che era meglio non rientrarvi. Del resto, sapeva bene che ormai il regicidio c'era stato.

Non finisce qui, pensò. E ben presto ebbe un nuovo pensiero: che ne era stato della famiglia reale?

I due figli maggiori di Raminas dovevano trovarsi con lui al momento in cui "l'accordo" veniva firmato. Non c'era da illudersi sulla loro sorte.

Ma restava la figlia minore. Volle aggrapparsi a quel pensiero, non ponderando nemmeno per un istante su quanto Ashelia potessere essere o non essere adatta a rappresentare la dinastia B'Nargin.

Ashelia era l'erede al trono. E lui doveva trovarla, proteggerla e infine, come sempre, combattere per lei.


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"Basch... Basch Von Ronsenburg" Reks ripetè una terza volta il nome del regicida mentre lo interrogavano. Al contempo, due guaritori si affannavano su di lui.

"Troppo profonda, e troppo tardi. La magia curativa non servirà."

"Sei sicuro? Il capitano ha ucciso il Re?" chiese uno dei dignitari ancora una volta.

Ciascuno degli appartenenti allla corte di Re Raminas affidava il suo destino a quelle parole. Solo in base a quei fatti avrebbero dovuto decidere come comportarsi con i nuovi padroni.

"Basta..." supplicò lui "...con tutto questo. Portatemi... per favore... portatemi da mio fratello."

Nessuno dei presenti si curò delle sue parole.

"Portatemi da Vaan..." ripetè di nuovo mentre la sua coscienza si affievoliva.

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Capitolo 4
*** Orfani ***


"MUORI!"

I Behemoth.

Le bestie più possenti e temute nell'intero mondo di Ivalice. I musi felini scoprivano delle grandi zanne, non meno acuminate dei corni giganteschi sulla testa e sulle spalle. Ad evitare il loro assalto frontale, che era come una cannonata di zanne, corna ed artigli, si rischiava comunque di venire dilaniati dalla cresta di pinne rosse che gli percorrevano dal dorso fino alla coda, quando schioccava in aria come una frusta. Erano un concentrato di agressività animalesca, tesi con ogni muscolo, ogni fibra del loro essere, alla distruzione della vittima, per divorarla o semplicemente per provare la propria forza al branco.

Chiunque altro avrebbe avuto paura, ma non Vaan. Lui non era una mezzasega, non più. Adesso era un eroe e i behemoth insanguinati giacevano ai suoi piedi.

"NE VUOI ANCHE TU?"

Seguì un altro colpo preciso e letale. Nessuna bestia era troppo per lui.

"Vaan! Muoviti o ci scopriranno!" lo interruppe una voce di ragazzino.

Riportato alla realtà, Vaan staccò la spada di bronzo dal corpo del povero ratto e guardo Kytes infastidito. Più piccolo di lui di cinque anni, Kytes come molti altri considerava Vaan il capo della cricca. Questo avrebbe irritato Vaan già di per sè, perchè era certo di meritare qualcosa in più di fare da capetto ad una banda di monelli dei bassifondi; ma era ancora più frustrante che la maggior parte degli adulti, all'opposto, si fidava di più di Kytes e, di fatto, affidasse le commissioni a lui, che quindi era spesso nella posizione di dire lui a Vaan cosa fare.

"Lo so! Lo so! Un secondo ancora... fammi da palo."

Kytes annuì e guardò Vaan ammirativo mentre contava mentalmente gli altri ratti che camminavano rasenti al muro.

"Tempo di far pulizia." disse con tono di sfida a Kytes.

Per immani che fossero gli acquedotti di Garamsythe, che si diceva coprissero molto più spazio dei confini della città, l'acqua scorreva in canali molto piccoli, prima di raccogliersi in vasche ornate da mosaici azzurri che, con un complesso sistema di ruote e ingranaggi, ridirezionavano l'acqua altrove. Saltare da una passerella all'altra non era difficile e Vaan decise di metterci un pò di acrobazia in più a beneficio di Kytes, così arrivò piroettando a trafiggere il primo roditore e inseguì gli altri due finendo in verticale sulla spada che ne trafiggeva uno e poi capovolgendosi per abbattere la lama sull'altro.

"Passerà un bel pò prima che un altro topolone si azzardi a mordere uno dei nostri." proclamò orgoglioso battendosi un pugno sul petto, così forte che rimbombò per i canali.

"Wow, tutto da solo!" esclamò Kytes "Saprò chi chiamare se qualcosa di grosso è in vista!" non c'era nessun sarcasmo nella sua voce, lo pensava davvero, e Vaan si chiese sconsolato chi era il più patetico tra Kytes e lui.

"Ehi, è giusto una pratica per affrontare il deserto" cercò di minimizzare per darsi un tono "sono pronto a tutto."

Mentre facevano per uscire, Kytes gli venne dietro.

"Per oggi è tutto" precisò Vaan "e poi dovresti andare da Migelo, non stai sbrigando lavoretti per lui?"

Il sorriso del ragazzino si frantumò.

"Dimenticato totalmente! Devi venire anche tu, è impegnato oggi, e ti farà lavorare sicuramente!" disse agitato, come se stesse offrendogli un'occasione irripetibile. Irripetibile per Vaan, s'intende, non certo per lui.

"Ho io il mio... lavoro da sbrigare. Serra la chiusa, tu" ordinò indicando il marchingegno, ibrido di un altare ed un argano, che stava tra diverse piscine piastrellate "se Migelo sa che siamo stati qui ci striglia per le feste."

Salì l'imponente scalinata verso la città aperta. Rabanastre, la Capitale Regia di Dalmasca. Un tempo.

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Edificato con diverse pietre pregiate, difficili da lavorare, il Palazzo Reale come sempre sembrava abbracciare la Piazza delle Quattro Porte di Rabanastre. Le quattro torri svettavano, sormontate da guglie tondeggianti ricche di statue fantasiosamente distribuite, e dalle torri calavano due ragnatele di archi che circondavano la cupola centrale. Il potente colpo d'occhio del palazzo reale era qualcosa a cui qualunque persona che non fosse nata a Rabanastre impiegava molto ad abituarsi. Si diceva anche che desse le vertigini, a guardarlo a lungo.

Ma i rabanastresi lo osservavano con la massima attenzione, ed osservavano la figura affacciata dalla balconata da cui il re parlava al popolo prima della caduta.

"Figli e figlie di Dalmasca, giungete le mani, e si alzino inni di preghiera. Preghiamo per Re Raminas, sempre misericordioso, sempre e totalmente devoto alla pace. Per la nobile principessa Ashe che, addolorata dalle sorti del suo regno, ha preferito togliersi la vita."

Vestito di un mantello color girasole con striature color smeraldo, che erano i colori del suo paese, il marchese Halim Ondore IV spiccava come stonato rispetto alla figura del re, l'ultimo che da lì si era affacciato. Al contrario del re, Ondore ci teneva a darsi un tono gioviale malgrado l'età, e per questo si presentava rigorosamente sbarbato, con i capelli grigi per l'età ma sempre acconciati alla moda. La sua voce tremò un attimo, e la folla intuì il perchè. Tutti sapevano quanto Ondore e Raminas fossero amici, e come lui considerasse la principessa come una nipotina. Ma poi, il suo tono fu più fermo che mai.

"Ricordate ancora una volta che il capitano Basch Von Ronsenburg, per incitazione alla rivolta e per l'assassinio di sua maestà Re Raminas  è stato giudicato colpevole di Alto Tradimento e messo a morte. Chi in quest'ora tarda sceglie ancora la spada sarà considerato al pari di lui: un traditore che porterebbe Dalmasca alla rovina."

La folla ammutolì. Tutti avevano ben chiaro quanto diversa sarebbe stata la situazione senza quell'inspiegabile colpo di testa del capitano Basch. L'amore per quella persona si era capovolto brutalmente in odio in pochi giorni, e in due anni quel rancore collettivo era fermentato e si era accresciuto.

Poi, la figura in giallo sparì dalla balconata. Ancora una volta, nessuno dubitò del senso delle sue parole. Un console sarebbe arrivato da Arcadia quel giorno, per gestire la tumultuosa situazione politica di Dalmasca dopo lo sterminio della famiglia reale. E accogliere bene il console era nell'interesse di tutti.

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"Piantala! Oggi non vogliamo avere guai, no?"

"Già" rispose scocciato il commilitone, lasciando il collo sottile del mercante, che stramazzò sulla bancarella "E' il tuo giorno fortunato..."

Attraverso l'elmo color piombo, l'arcadiano guardò il suo compagno con disapprovazione. Alcuni dei soldati di stanza a Rabanastre erano così, si facevano fare credito e poi minacciavano i venditori se chiedevano il pagamento. Un comportamento non proprio decoroso, al pari di ubriacarsi nelle taverne e poi rompere qualche tavolo, o corteggiare in gruppo e con insistenza le ragazze della città bassa.

L'esercito non puniva chi teneva questi comportamenti. Essere dislocati in una città lontana, ostile e tanto calda da essere soffocante era uno stress non da poco, e ci mancava solo di reprimere chi si sfogava, per avere sicuramente delle rivolte tra le truppe.

Ma quel giorno nessuno voleva guai. Il giorno dell'arrivo del console, un tempo generale di massimo grado.

Era notorio che il Generale Solidor considerava l'occupazione di terre appena conquistate come un'occasione per dimostrare la civiltà e la benevolenza dell'Impero a chi si era ribellato. Usava dire che sconfitto il corpo del nemico, bisogna conquistargli l'anima. Molti chiaccheravano su quanto il Generale, probabilmente, avrebbe ben preferito dedicarsi alla politica che non a noiose battaglie contro città di confine che tentavano di emanciparsi. Ma l'Imperatore, suo padre, era stato ben attento a tenerlo sempre lontano dalla politica, e persino dalla giurisdizione delle periferie: per questo Vayne Carudas Solidor non era mai diventato nemmeno un giudice di basso rango.

I due soldati stavano per passare ad una seconda bancarella quando un biondino gracile li urtò.

"Oops, scusate." ma le ultime lettere si persero nella folla.

"Guarda dove vai, moccioso!" tuonò il soldato per farsi sentire attraverso la confusione del bazaar.

"La mia borsa dove...?" si chiese quasi subito il secondo, per poi aggiungere "Il ragazzo!"

Vaan già saltava da una tenda all'altra e correva in equilibrio sulle balconate che sovrastavano le bancarelle mentre i due soldati si rendevano conto di essere stati derubati.

Conosceva a memoria i tetti della città alta, tanto quanto conosceva i cunicoli dei bassifondi: entrambi erano il mondo dove piccoli ladruncoli come lui potevano destreggiarsi, ma erano invece le belle residenze dei quartieri alti ad essergli preclusi. Poteva volteggiare al di sopra di esse, o strisciarvi sotto, ma non avvicinarsi ai cancelli dei giardini. Una situazione che l'occupazione imperiale non aveva  certo migliorato, obbligando la popolazione a vivere nella città bassa in mezzo ai depositi e trasformando le ville in piccole caserme.

"Prepotenti bruti imbecilli bastardi!" disse quasi urlando per la rabbia, a stento contenuta da quella piccola vendetta, mentre per rilassarsi prendeva ampie boccate d'aria tra un salto e l'altro. Inalò l'odore speziato del kebab di chocobo, che arrostiva da poche ore, e del caffè denso che i mercanti si passavano l'un l'altro per svegliarsi meglio dopo i primi allestimenti, e l'aroma dolce e penetrante usato per profumare le stoffe.

Percorsa di salto in salto una ragionevole distanza. tornò a terra con grazia.

Guardò la borsa con soddisfazione, ma appena distolto lo sguardo da essa si trovò addosso due grandi occhi marroni. Stava quasi per affrettare un sorriso di circostanza quando si ritrovò il sacchetto strappato di mano.

"E' mio quello!"

"Tuo in che senso?" chiese la ragazza "Hai rubato di nuovo!" lo rimproverò puntandogli contro il dito "Che succede se ti prendono? Abbiamo bisogno di te e non ci aiuti se ti fai chiudere a Nalbina."

Vaan alzò al contempo gli occhi e le braccia, sorpassando l'amica.

"Sono, tipo, il capo adesso?" abbassò la voce "Siamo orfani. Ognuno per sè. Lo sai bene quanto me, Penelo."

Si girò per aggiungere un'altra riflessione grave, ma Penelo stava già contando i soldi nella borsa.

"Ridammeli! Che credi di fare?"

"Credevo" rispose lei con un sorriso sarcastico "che questi gil fossero proprietà di tutti i dalmaschi..." mutò tono di voce per imitarlo "Quel che gli imperiali rubano a noi, è nostro dovere riprendercelo... era così?"

"Non dicevo riprenderlo dalle mie tasche, però." ribattè lui con una inflessione infantile nella voce.

"Allora diciamo che è per il pane che mi hai rubato l'altra volta. Non è che perchè aiuto Migelo qua  là tu mangi gratis, dico bene?"

A questo punto, la faccia di lui era del tutto adombrata, ma lei lo fissava altezzosa come a dire: non attacca con me.

"Credi che mi piaccia vivere così?"

Lui rimase in silenzio, e gli occhi di lei si ammorbidirono impercettibilmente. In quei secondi, un'areonave passò sopra le loro teste. Proprio come Penelo si aspettava, gli occhi di Vaan schizzarono verso l'altro, rapiti e sognanti.

Lo amava quando aveva quello sguardo.

"Un giorno avrò una mia nave. Sarò un pirata, potrò volare dove mi pare." disse orgoglioso.

"Certo, certo, ma occhio. Se marcisci a Nalbina non volerai da nessuna parte." concluse lei allontanandosi, mentre riprendeva il suo tono aggressivo.

Dietro di lei, Vaan fece una smorfia per sfotterla, e poi saltò giù dalla ringhiera delle scale per evitare di incappare in altri soldati.

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Capitolo 5
*** Console ***


Voliamo su Rabanastre" informò il soldato.

"Avviserò personalmente il generale." spiegò Zagrabaath con un cenno del capo, il volto celato dall'elmo specchiato, appena ornato da un cenno di cremisi.

Come tutti i giudici, anche il Iudex Magister Zagrabaath era stato prima di tutto un soldato ed un giurista solo in un secondo momento. Il compito dei giudici non era fare le leggi e di solito neppure interpretarle, ma solo assicurarsi -con la forza- che venissero applicate nelle regioni esterne dell'Impero di Arcadia. Chi avesse voluto, poi, poteva istruirsi per suo conto sul diritto, sull'incessante e interminabile ricerca della giustizia che, pur non corrispondendo a nessuna legge, doveva animarle tutte, e ispirare le azioni dei giudici stessi. Ma solo se lo reputava necessario.

Così, Zagrabaath era asceso alla fama di Iudex Magister colto e benevolo, il più fidato dei tredici, e la sua vita era cambiata. Metà del suo tempo ora lo spendeva a non fare assolutamente nulla, semplicemente accompagnandosi a membri della famiglia imperiale ovunque andassero. Accostati a Zagrabaath, i Solidor si facevano attribuire anch'essi le sue virtù -misericordia, comprensione, ragionevolezza, senso critico. In parole povere, era un uomo-immagine.

Ma non se ne lamentava: chi dorme meglio di chi riposa sotto le ali del drago? E lui riposava tranquillo tra le spire dei dragoni purpurei, simbolo dei Solidor, potendo così coltivare i suoi studi e dispensare sentenze eque e profonde, intoccabile persino per i giudici suoi pari..

Finora.

Cosa stava cambiando adesso, si chiese inquieto? Come tutti, lo sentiva senza poterlo definire con certezza.

Ripensò al Generale Solidor, Vayne, a com'era stato da piccolo. Da sempre parsimonioso di gesti ed espressioni, era un principino taciturno che passava la maggior parte del suo tempo tra tomi di antiche leggende. Di tanto in tanto, faceva strane osservazioni quasi inopportune e altre volte la sua voce si accendeva come per un guizzo d'improvviso interesse. Molti lo trovavano affascinante, per la sua capacità di rievocare, narrandolo, un mondo passato e glorioso che amava e comprendeva profondamente.

Poi era successa quella cosa...

E subito dopo il padre lo aveva allontanato dalla corte, dal potere, dalla legge, imponendogli una vita di battaglie tanto incessanti quanto politicamente anonime. Lo vedeva tornare indurito e silenzioso, indecifrabile e inquietante. Frustrato, sopra ogni cosa.

Ma all'improvviso, trascorsi anni, il padre cambiava atteggiamento e lo nominava Console ad interim della sottomessa Dalmasca. E altrettanto inspiegabilmente, rinasceva quel Vayne che era quasi un ricordo sbiadito nella mente di Zagrabaath, il ragazzino che si accendeva di curiosità e stupiva con la sua sensibilità nascosta. Non la considerava una cosa positiva, piuttosto come un cambiamento, per la sua incomprensibilità, minaccioso per la sicurezza che aveva costruito negli anni. Così pensava, varcando la porta di vetro scuro che separava la prua dell'astronave dagli alloggi privati, come ogni giorno: e adesso cosa?

Si meravigliò quasi, salendo due rampe di scale, di trovare il solito Vayne a cui era abituato: silenzioso, stava seduto su di un piccolo trono scrutando da una fessura il cielo sopra la città, le mani giunte come se pregasse. Ma non pregava, Zagrabaath ne era certo, perchè Vayne non aveva dei da pregare.

"Generale Solidor" iniziò dopo qualche secondo di silenzio, accertato che l'altro non avrebbe parlato per primo "siamo arrivati."

"Grazie, Iudex Magister." rispose cortese facendo per alzarsi.

"Se posso esprimermi, insisto sulla necessità di una scorta più nutrita per la vostra persona." sapeva bene che non cavava un ragno dal buco, ma gli sembrò formalmente doveroso sottolineare l'anomalia della situazione. Perchè il Console non voleva una scorta consistente quando doveva recarsi in un regno ostile?

"Vi ringrazio per il vostro interessamento. Terrò in conto la vostra opinione e ne riparleremo a tempo debito." chiuse Vayne con un tono quasi incolore, per poi lasciare la stanza.

"Come no" si disse Zagrabaath "Parleremo dopo che avrà fatto a modo suo."

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"Insomma-" Migelo si interruppe per far guizzare due o tre volte la sua lingua da rettile.

Sulle squame blu del suo muso appuntito si erano formati da tempo dei barbigli bianchi, che sembravano tanto una barba da huma, ed in effetti dimostravano la vecchiaia del bangaa che li portava. A sentire lui, davano un fastidio terribile, e ad ogni cambio di pelle sperava di non trovarseli più addosso. Invano, ovviamente.

"Il punto è che mi dovevano arrivare dei pacchi stamani. Ma ci saranno stati problemi nel deserto. A farla breve, stasera-" si inumidì di nuovo i barbigli con la lingua "...stasera per il banchetto del Console mi manca della roba."

Vaan si irrigidì. La settimana prima Migelo gli aveva detto che avrebbe preparato il banchetto di benvenuto per il Console imperiale, e Vaan aveva chiesto ad alta voce se stava pensando di mettere del veleno nelle vivande. Tutti si erano messi a ridere, ma Migelo lo aveva cacciato a bastonate dal negozio. Si supponeva che offrendogli un lavoro si stesse, implicitamente, facendo pace.

"Capisco" rispose spavaldo "vuoi che vada a riprendere il tizio nel deserto. Non c'è problema!"

"Non c'è problema!?!" la voce roca tipica della sua razza divenne ancora più sporca nell'alterarsi "Il deserto ne ha un mare, di problemi. Ti manderei alla tomba, ragazzo mio."

L'entusiasmo di Vaan si spense. Per un attimo aveva pensato che quel grosso lucertolone avesse un lavoro interessante per lui. Del resto, essendo cresciuto con lui, si rendeva conto di quanto vana fosse quell'aspettativa.

"In effetti mi sono appattato con Tomaj per della roba di rimpiazzo dalla Taverna Sandsea."

"Quindi vado alla taverna e ti acchiappo Tomaj." concluse Vaan con un vago interesse.

La taverna era un luogo affascinante, frequentato da persone poco raccomandabili intente a raccontare storie di quando erano stati ancor meno raccomandabili. Ed ovviamente a tracannare vino rosso dalmasco, forte e dolce, il cui odore fruttato riempiva l'aria assieme a quello del tabacco rozarriano, fumato incessantemente fino ad annebbiare il locale. L'unica volta che, tre anni prima, Vaan aveva chiesto di andarci, Penelo era arrossita, Reks lo aveva ammonito e Migelo aveva chiuso tutti e tre nel negozio per un mese, colpendo preciso con il bastone chi metteva anche solo il naso fuori. Che Migelo lo spedisse alla Sandsea poteva essere forse un lieve progresso nel loro travagliato rapporto?

"No, ho mandato Kytes alla taverna" spiegò il bangaa spazientito e Vaan ebbe voglia di strozzarlo "Ma è sparito anche lui" e qui sguisciò di nuovo la lingua biforcuta "Ci crederesti? Ma non posso lasciare il negozio, e Penelo ha che fare, quindi vorrei facessi un salto alla taverna e mi ripescassi Kytes."

Scrutò il giovane huma con i suoi grandi occhi serpentini, marroni e profondi, quasi commosso. Ogni volta che gli proponeva la più insignificante delle commissioni sembrava volerlo mettere alla prova, per vedere quanto poteva essere onesto, disciplinato, e umile.

Un patetico straccione della città bassa, che stringe la cinghia sperando in un domani migliore che non verrà mai. Questo volevano fare di lui, come era stato dei suoi genitori prima, e di suo fratello poi.

"Ovviamente guadagnerai la colazione. Latte di mandorle nalbinesi e due focacce di quelle che fa Penelo. Un lavoro facile e pulito per una buona paga. Che mi dici, ragazzo?"

"Che sarà un'avventura." commentò gelido con malcelato sarcasmo.

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Quando poteva, si ritirava lì.

"Lux." intonò con voce profonda, passando delicatamente la mano sull'eliolite poggiata sul tavolino.

La magia illuminò la stanza, quella stanza che da piccola la terrorizzava. Scaffali e scaffali, grimori su grimori, accatastati nella polvere. In due anni non ne aveva memorizzato nemmeno la metà, e dire che sua madre le aveva sempre riconosciuto il talento di famiglia per la magia.

Talento che oggi gli risultava inutile, quasi pericoloso, perchè gli imperiali proibivano ai cittadini dalmaschi di praticare la magia in città, e si vociferava che cercassero un modo per riconoscere i maghi a vista, e quindi proibire del tutto le arti magiche.

Reks commentava spesso che Penelo poteva essere la prima donna nell'esercito dalmasco, una maga specialista. Parlava della cosa con occhi sognanti, perchè per Reks l'esercito era quello che la pirateria era per suo fratello minore: il sogno di una vita diversa. A parlare di questi argomenti, assumevano lo stesso identico sguardo, la stessa espressione, e alzavano la testa verso il cielo come ad aspettare un' areonave dell'armata reale o di qualche famoso pirata.

Com'era da aspettarsi, se si giocava a guardie e ladri, Reks era guardia e Vaan ladro. Lei nessuna delle due, era la rompiscatole che gli diceva che era ora di andare a cena. Inizialmente entrambi la detestavano per questo, ma poi lentamente, Reks per primo aveva cambiato atteggiamento. Aveva la sensibilità per capire quanto aveva dovuto insistere Penelo per farli ospitare dai suoi genitori, dopo che la peste aveva ucciso i loro, e quanto lei ci tenesse a fargli fare bella figura con i suoi, e trascinava Vaan per il collo prima ancora che lei li chiamasse..

Sentiva distintamente che uno dei due sarebbe stato il suo primo. Doveva imparare il valore del denaro e del lavoro, le dissero i suoi, e la mandavano a fare lavoretti per il mercante Migelo: spesso chiusa da lui tutto il giorno, s'era abituata ai racconti delle commesse, ragazze più grandi di lei, e ormai aveva la curiosità di avventurarsi anche lei in quel mondo proibito che si poteva solo menzionare implicito, di sfuggita, ridendo d'imbarazzo. Il sesso, insomma.

Sarebbe stato Reks, più sensibile e premuroso? O Vaan, più audace ed energico? Doveva parlarne con sua madre? O era meglio di no? Sarebbe stato un fiasco, come dicevano alcune? Si sarebbero fidanzati o sarebbero rimasti amici? O magari rovinavano la loro amicizia?

Pensieri di una ragazzina qualunque che impastava il pane, infornava, puliva il negozio, annotava le commissioni.

Come una cannonata sparata nella folla che colpisce a caso, senza criterio, sconquassa tutto ciò che investe, e lascia solo una voragine e macerie confuse, così la guerra era giunta nella loro vita.

"Il buon mercante con il cliente odiato osserva due regole" usava dire Migelo appena usciva un soldato imperiale dal negozio "Sorriso smagliante e scorreggio silenzioso."

Tutti ridevano come se scherzasse, ma lo diceva a Penelo con voce assolutamente seria. La invitava a capire, ad accettare, a sopportare... silenziosamente, per l'appunto.. E lei voleva farlo, voleva davvero perchè questo era l'unico modo, un giorno, di riavere la vita serena che aveva perduto, di ricominciare là dove ci si era interrotti.

"E la libertà allora?" avrebbe detto Vaan digrignando i denti.

Vaan, si diceva, cosa penseresti se sapessi che me ne sto qui, chiusa nello scantinato ammuffito dei miei, a leggere grimori di magia antica? Che coltivo l'arte dei mia madre di nascosto, nella penombra, dove gli imperiali non possono proibirmelo? Ci hai mai pensato? Esistono varie forme di libertà, questa è la mia. Si, preferisco chinare la testa ai soldati. Per te non ho dignità? Tu per me sei uno stupido, un bambino.

Tu per me...

Al violento bussare sulla porta di legno marcio, chiuse di botto la pergamena e la mise disordinatamente nel primo scaffale che poteva. Pose la mano mano sull'eliolite e disse con voce bassa e espirata, quasi un sibilo:

"Tenebra!" e la stanza perse ogni luce.

Aprì la porta preoccupata, ma solo per un secondo. Era Kytes.

"Ciao piccolo." disse, la voce ancora tremante.

"Quando smetterai di chiamarmi così? Io sono il braccio destro di Vaan! Io-" non proseguì oltre perchè un'occhiata di sufficienza della ragazza bastò a farlo desistere.

"Bè, ma cosa facevi al buio da sola?"

"Cosa volevi... piccolo?" glissò lei irrigidendosi alla domanda.

"Uh, oh, dimenticato! Vaan!"

Penelo sgranò gli occhi.

"Vaan.... cosa?"

"Ehm... bazzicavo alla Sandsea e lui è venuto-"

"Alla taverna!?!" sbottò lei severa.

"I-io non c'entro, l'ha mandato Migelo!"

Penelo si coprì gli occhi con una mano, come fosse depressa, e sbuffò.

"Tanto prima o poi sarebbe diventato un brutto ceffo comunque. E' sbronzo? Dov'è?"

"No, non è questo. Ha visto la taglia su una qualche bestiaccia nel deserto. L'aveva appesa il cacciatore, Tomaj."

"Non è che....?"

"E' andato nel deserto!"

"Ma è scemo?!? Tu cosa gli hai detto?"

"Ehm" disse lui abbassando gli occhi "che mi sembrava fico."

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Sabbia a destra, a sinistra, davanti. Molto più in là, il crepaccio e poi il Nebra, ed i villaggi fluviali. La città lontana, dietro di lui. Stava seduto su un promontorio, scrutando delle strane variazioni nell'immagine della sabbia sotto di lui, molto distante. Un ululato, e ne ebbe la certezza.

"Fang." concluse soddisfatto.

Come in tutti gli angoli del globo, i fang avevano una pelliccia di colori omogenei che gli permetteva di mimetizzarsi fino a quasi scomparire nell'ambiente circostante. Si spostavano in nutriti branchi con schemi di caccia elaborati e precisi, ma rimanevano nascosti fino al momento oppurtuno. Anche l'olfatto li aiutava, e Vaan si schiacciò contro la roccia per non stare sottovento.

Il ricercato era un piccolo kyactus, piccoli umanoidi del tutto simili alle piante grasse irte di spine che crescevano nel crepaccio. In genere erano innocui ma, se disturbati, il loro corpo espelleva una tempesta di piccoli aghi che si insinuavano sotto la pelle e la irritavano, rendendo la vittima dolarante e gonfia come una zampogna, nel migliore dei casi. Avveniva poi che alcuni nascessero aggressivi di carattere, e si mostrassero ostili agli uomini, così come quello di cui aveva visto la taglia.

Cercava con lo sguardo, mentre il resto del corpo era immobile come la pietra corrosa sotto di lui, tranne il dito indice, con cui si rigirava nelle mani l'unica arma che avesse rimediato da Tomaj, un piccolo pugno-di-ferro. Aveva visto un paio di kyactus, ma nessuno aveva il frutto rosso che doveva contraddistinguere il ricercato. Si iniziò presto ad annoiare, e considerò anche che il rischio di prendersi un'insolazione saliva di minuto in minuto. Il metallo del pugno-di-ferro cominciava a bruciare tra le dita sudate, e lui si maledisse per non aver pensato che prendere un kyactus a pugni era un'idea veramente idiota, e avrebbe dovuto cercarsi un'altra arma prima. Si guardò intorno per cercare un grosso sasso da usare per schiacciare il mostriciattolo, ammesso che lo trovasse.

Poi accadde qualcosa: una specie di rombo, e tutti i fang iniziarono a muoversi in maniera scoordinata, diventando perfettamente visibili.

Era apparso praticamente dal nulla un rettile enorme, eretto su robuste zampe posteriori, con un muso imponente, mascelle forti, zanne come spade. Vaan riconobbe anche quello, un geodrago. Era strano che non fosse in letargo in quel periodo dell'anno.

Rimase come paralizzato, mentre il geodrago correva in mezzo al branco di fang disperdendoli, affondando con ampie falcate le fauci in mezzo al branco, e trascinandone alcuni in aria. Poteva sentire il muso appuntito delle bestie emettere un guaito, poi il rumore di ossa e carne che andavano in pezzi. Ancora, e ancora.

Ad assistere a quella scena brutale, Vaan sentì quell'idea diventare palpabile, percepibile, respirabile: era nel deserto, da solo. La sua vita era a rischio, nulla era certo, protetto, garantito.

"Non è fantastico?" si disse, tremando di eccitazione.

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Alle truppe d'occupazione come ai cittadini rabanastresi, il Console Solidor sembrò un personaggio quantomeno eccentrico.

Doveva essere abituato agli agi della vita aristocratica, così dicevano le sue morbide vesti grigio cinereo, e la curata chioma color inchiostro che spioveva da un lato; eppure doveva aver combattuto a lungo e in prima linea, così dimostravano le decorazioni sul petto; doveva essere un rampollo della grande famiglia imperiale, così soltanto si giustificavano i due dragoni intrecciati cuciti nella sua schiena, in un vivido color porpora. Persino chi aveva già sentito parlare di lui si stupì di quanto fosse contraddittorio il suo aspetto.

Appena messo un piede fuori dall'aeronave, respirò profondamente, e si rivolse al giudice che aveva accanto con un sorriso aperto e sincero.

"Calda, secca, e leggera. Così diversa dall'aria di Archades, non è vero?"

"Se così dite." rispose il giudice assicurandosi che il piccolo velivolo seguisse la traiettoria giusta.

"Andiamo" insistè dandogli una pacca sulla spalla "niente a che vedere con l'odore di ferro consumato delle nostre aeromobili, si mischia con l'odore degli alberi e lo copre. Non ami l'aria pulita?"

"Amo... l'aria della mia patria." fece l'altro, allarmato.

"Non c'è ragione di fare così." insistette "Parlami apertamente: c'è un caldo infernale e uno schiamazzo continuo, ma l'aria è pulita."

"Bè, sì, lo ammetto." si arrese.

"E togliti l'elmo, voglio guardare negli occhi chi lavora per difendere l'Impero."

In teoria, era una violazione. I giudici devono rappresentare nient'altro che la legge, e non possono mostrare il volto mentre sono in servizio. Pur essendone perfettamente coscente, al giudice parve in qualche modo che gli si stesse dando una grande occasione, nemmeno per un secondo pensò di tenere l'elmo. Tolto che fu, imitò il Console e anche lui respirò a pieni polmoni. Poi tornò sul Console con un umile sorriso.

"Tutta un'altra cosa, no?" si volse verso il palazzo reale, scrutandolo, poi aggiunse: "Qual'è il tuo nome?"

"Giudice Klimt, d'istanza nella iudiciaria centrale di Dalmasca."

"Klimt" ripetè "Dev'essere stata dura. So che i soldati qui sono molto tesi e si lasciano facilmente andare agli abusi."

"Era un compito impopolare, signore. Ma andava fatto."

"Dobbiamo esserti grati, Klimt." e ciò detto si alzò per sporgersi giù, senza specificare se il "dobbiamo" si riferiva a noi ricchi arcadiani, noi ufficiali militari o noi Solidor. Forse intendeva semplicemente noi, noi tutti in Arcadia, ricompresi in essa, pensò il giudice, e il pensiero gli mise uno strano buonumore.

"Quello che vedete sotto è il famoso bazaar Misir. Come potete notare gli odori giungono fino al cielo. Personalmente non mi ci abituo mai."

"Forse" riflettè ad alta voce il Console "Un giorno io e tu varcheremo le porte di Roth Sa insieme, e parleremo dell'aria di laggiù."

Il giudice ebbe quasi un brivido al solo contemplare le implicazioni diplomatiche di una simile dichiarazione, se fosse stata fatta in pubblico. Roth Sa? La capitale dell'Impero di Rozaria, opposto ad Arcadia da secoli. Un nome che incombeva sulla sua vita come un'ombra pesante, origine di ogni preoccupazione. Luogo talmente lontano nella sua mente da poter immaginare a stento che un solo giudice, uno qualsiasi, ci mettesse mai piede nella storia. Se l'Imperatore in persona avesse parlato di entrare insieme a Roth Sa, si sarebbe chiesto se non aveva perso il senno.

Ma quell'uomo era sereno e fiducioso nel dire una cosa simile. Con visibile interesse percorreva Rabanastre con lo sguardo senza pensar su neanche tanto a quello che aveva detto. E serenità e fiducia si irradiavano da lui.

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Capitolo 6
*** Preparativi ***



"Niente transito pubblico durante il giorno della parata in onore del Console." ripetè il soldato meccanicamente, assomigliando sempre più ad un ordine registrato ripetuto da una vocalite.

"E' un peccato" fece Vaan come per rassegnarsi "si dà il caso che il cerimoniere di stasera mi ha mandato a prendere roba di prima scelta per, uhm, il piacere del vostro Console, e vuole tutto quanto prima. Ecco, il lasciapassare. Vedi? Firmato: Migelo."

Pensò tra sè e sè che il soldato sarebbe stato un'ottima statua a giudicare da come rimaneva inamovibile e muto davanti alla Porta Orientale. D'altronde, al soldato Vaan non poteva che fare una pessima impressione: era mezzo ricoperto di sabbia e il sudore gli appiccicava i capelli. Stringeva un mazzo di fiori rossi sgualciti con un pugno dalle nocche insanguinate e sul petto, dove il gilet lasciava scoperto, aveva una striscia di puntini rossi come se fosse stato punto innumerevoli volte da aghi finissimi.

"Mi spiacerebbe che il vostro Console mangiasse tardi. E che se la prendesse con voi." alluse con un sorriso insolente.

Se l'energumeno non diede segni di reazione, reagì invece il suo camerata che, evidentemente, aveva il ruolo di quello più intelligente o informato.

"Non sai niente del Console!" ammonì ad alta voce, e tutti gli altri rabanastresi che cercavano di rientrare dalla chiusura delle porte si voltarano a guardarli "è un grand'uomo, simili piccolezze non lo toccano-" entrambi i soldati si fecero da parte e Vaan vide entrare una carrozza trainata da un chocobo dal piumaggio nerissimo.

Era una cosa abbastanza rara, perchè ciascun chocobo era diverso nel carattere a seconda del colore. Quelli gialli erano tendenzialmente socievoli, mentre quelli verdi, abili scalatori capaci di rimanere in equilibrio su un ramo, erano schivi; gli azzurri, che frequentavano le rive di fiumi e laghi, erano volubili e dispettosi; infine i neri ed i rossi erano agressivi con l'uomo, ma i neri tra questi erano considerati più rari e indomiti.

"Wow" si lasciò scappare, mentre i due soldati spalancavano il portone alla creatura color ebano.

"Ehi ehi... che storia è? Fate passare il chocobo e noi no?"

"E' un purosangue da parata. Diecimila gil, è costato, più di quanto voi paesani costereste tutti ammucchiati. E anzi-" concluse spintonandolo staccandosi un attimo dalla porta "stagli lontano, o puzzerà di paesano come te."

"Che hai detto?" ringhiò, e passò i tre fiori nell'altra mano, cercando con quella dolorante il pugno-di-ferro nella tasca.

"Oh-ho!" interruppe una voce così roca da essere quasi un gorgoglio "un gran bel chocobo, quello. Dai ranch di Tchita o sbaglio?"

Vaan cercò di mettere il suo corpo tra Migelo e i soldati, per tagliarlo fuori, ma appena si mosse qualcosa lo circondò. Erano due braccia piccole e calde, che lo stringevano in qualcosa che assomigliava ad un abbraccio, ma che in realtà era una stretta.

"Penelo-"

"Zitto." ordinò e supplicò al contempo.

"Già, già, già, cambia il suolo cambia il chocobo. E cambiano anche i sapori!" e ciò detto, alzò verso i soldati un fiasco di vetro rosso.

"Gradite del Barose dalmasco? Non è profondo o profumato come i vini arcadiani, ma ha un suo carattere. Non è male se ci si abitua, davvero, e" dato che i soldati fecero un passo indietro, Migelo ne fece uno avanti come per stringerli al muro "sarei felice se ne prendeste, ce n'è per tutti."

Il soldato sembrava aver cambiato piglio. Con un gesto delicato prese in mano la bottiglia e fece un cenno di assenso a Migelo. Poi si voltò verso il camerata.

"Facciamo passare anche il bottegaio e i suoi ragazzi, poi chiudi le porte come ci è ordinato."

Penelo dovette letteralmente trascinare Vaan e appena le porte si chiusero il ragazzo fissò con odio il chocobo nero salire le gradinate della Piazza delle Quattro Porte.

"E gli altri restano fuori." concluse amareggiato.

"Non ho la responsabilità degli altri, solo la vostra, anche se farei volentieri a cambio" ribattè Migelo fissandolo con i due globi marroni e lucidi e la lingua gli saettò due volte prima di riprendere parola, così alterato che sembrava che gracidasse "Non t'azzardare a farmi prendere più un simile spavento! Ringrazia che è finita bene!"

Curiosamente, Penelo abbassò la testa come se il rimprovero fosse per lei. Vaan, invece, si limitò a fissare altrove.

Guardando verso il basso, la ragazza vide cosa il suo amico aveva in mano e trasalì. Ricordava bene il significato dei fiori rossi... Allungò la mano come per accarezzarne i petali o stringere quella di Vaan. Ma il ragazzo reagì allontanando i fiori da lei.

"Comunque" continuò Migelo e calmandosi la sua voce prese un timbro più umano "la parata inizia a breve ed io devo rendere omaggio. Faccio meglio a darmi una mossa." e ciò detto voltò le spalle a Vaan con un'irruenza tale che per poco la coda non sferzò in faccia al ragazzo come una frustata.

"Bè, allora..." iniziò Penelo allungando una mano sul petto martoriato dell'amico. Ma anche lui si voltò di scatto e prese a correre via.

"Vaan? Vaan che ti prende? Ehi!"

Il tono implorante di Penelo non era una cosa a cui Vaan era sempre stato abituato. Per essere esatti, non l'aveva mai sentito fino a prima che morisse suo fratello. Dopo, ogni volta che si cacciava in un guaio serio la risentiva con quella voce. Ed era straziante, perchè sembrava che da un secondo all'altro potesse scoppiare a piangere e poi, nel giro di pochi secondi, tornava quella di sempre, e lui rimaneva consapevole del dolore di lei ma impotente, incapace di misurarsi con quel dolore e di confrontarcisi. E frustrato, perchè era certo che nessuno dei due avrebbe avuto qualcun'altro a cui rivolgersi e nulla sarebbe mai cambiato.

Vedendola alle calcagna, approfittò di una bancarella senza telone, si prese i fiori rossi in bocca e spiccò un salto. Con un volteggio alla sbarra, arrivò su un cornicione e da lì sparì definitivamente dal campo visivo di Penelo.

"Insopportabile." sospirò lei.

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Il rumore della folla sembrava come il respiro di un gigantesco animale. Stavano tutti lì, accalcati, con le ginocchia in acqua, a fissare le volte azzurre ed i giochi di luce sulla liquida superficie, e ad aspettare ascoltando le vibrazioni lungo la pietra.

"Quanta gente ci sarà? Si sente lo scalpitio fin quaggiù..." bisbigliò uno, ma lo suardo fiammeggiante di Vossler lo zittì.

Lui rimaneva silenzioso, mentre i suoi compagni producevano appena qualche sussurro. L'unica a fare veramente rumore, con il respiro affannoso, era lei.

"Sua maestà dovrebbe calmarsi." suggerì un altro soldato a bassissima voce, e puntualmente Vossler fissò anche lui, per poi tornare a fissare il tetto.

Ashe si sentì tremendamente inadeguata.

Il rumore si fece più intenso, quasi come degli enormi tamburi. Finalmente Vossler aprì bocca.

"La calca muove verso la Piazza."

"Il Console... è... arrivato?" chiese lei non riuscendo a smettere di ansimare.

"Così pare. Anche con la minima sorveglianza ci sarà da tirar di spada. Sua maestà è certa di voler guidare il secondo gruppo?"

"Non..." la sua voce mutò d'un tratto, s'indurì e alzò di volume "...non discutete le mie decisioni!"

"Certamente no." annuì Vossler, com'era suo dovere fare.

Mai niente avrebbe tolto dalla sua mente l'immagine esatta degli occhi della principessa quando, a diciassette anni, aveva ucciso per la prima volta...

Un vecchio doganiere arcadiano l'aveva riconosciuto, la loro identità era svelata. Vossler aveva messo mano alla spada per primo, ma un secondo soldato si avventava su di lui. Anzichè stare indietro come avrebbe dovuto, Ashe si era gettata nella mischia in suo aiuto ed era stata immediatamente atterrata dall'avversario, un più abile schermidore. Lei aveva dovuto colpire per non essere colpita per prima: magia del tuono, Thundara. Il soldato era stato carbonizzato dentro la sua stessa armatura ed era caduto a terra diventando una piccola brace. Lei era caduta in ginocchio ed era rimasta lì, con gli occhi sgranati a riflettere quelle fiamme generate dalla carne che bruciava, contorcendosi e scoppiettando. Era incerto se negli occhi di lei, in quel momento, ci fosse orrore, disperazione o semplicemente l'euforia che molti provano dopo il primo omicidio.

Erano solo gli occhi sbarrati di una ragazzina.

Mentre i soldati si distribuivano sui canali, lui le si avvicinò e le parlò piano all'orecchio.

"Il vessillo sventola dalle mura del castello... non viene gettato in battaglia sotto le scarpe dei nemici."

"Il vessillo posto alla guida dell'esercito infonde coraggio a chi per esso combatte. Inoltre..." si avvincinò ancora di più a lui "...se discuterai di nuovo il mio volere, ordinerò che tu sia frustato."

"Come comandate, maestà."

I tentativi di Ashe di incutere terrore, lui li vedeva esattamente per quello che erano: manifestazioni del terrore che lei stessa provava. Chiedeva rispetto perchè sentiva di non meritarlo. Lui, del resto, aveva imparato a rispettarla come principessa, e come donna, ma come poteva rispettarla come guerriera? Come poteva dimenticare quegli occhi, quel giorno?

Eppure, come sempre era stato, non poteva che giocare con le carte che il destino gli aveva servito.

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Più che una casa, si sarebbe dovuto chiamare un sottotetto. Ma i suoi genitori ne andavano fierissimi.

"E perchè tingi tutto di bianco?" chiedeva suo padre.

"Il colore della purezza! Tutto sembra più bello e importante in bianco!" rispondeva sua madre.

"Ma ci vuole un tocco di personalità, di passione!" ribatteva lui e in contrasto col bianco virginale del legno dipinto, delle lenzuola, dei vasi, spargeva in ogni dove tutti i fiori rossi che trovava.

Una strana cosa, che fosse il padre di famiglia a comprare i fiori. Reks avrebbe preso da lui la stessa passione.

Secondo Vaan, il tempo che aveva ingrigito con la polvere il legno bianco, e rinsecchito i fiori fino a farli diventare delle tristi macchie color mogano, non aveva fatto altro che mostrare quel sotto tetto per ciò che realmente era: un patetico buco.

Seduto sul vecchio letto da bambini che lui e Reks dovevano dividersi, le ginocchia al petto, contemplava silenzioso il vecchio attico ormai disabitato. Ed i fiori che lui aveva portato, sgualciti durante la mattinata movimentata, eppure così vividamente rossi. Chissà perchè continuava a portarli, si chiese, una specie di riflesso condizionato.

"Pareti bianche e fiori rossi" si disse a bassa voce "ecco per cosa avete lavorato fino alla fine. Stupidi."

Immaginò se stesso alla prua di una nave volante, il vento che gli accarezzava i capelli, e oro sfavillante in quantità sufficienti da nuotarci in mezzo. Una casa per Penelo, e solo la nave per lui. Ricchezza e fama: chi diceva che non contano? Quel vecchio lucertolone imbecille. Chissà se gli affari gli vanno bene? Magari gli tiro addosso qualche manciata di gil, così vedrà che anche per me il denaro non conta, ma solo quando ne ho a palate.

Dalla finestra giunse un brusio crescente. La parata, certamente.

Per quanta rabbia potesse provare, non era mai sufficiente a togliergli la voglia di vedere altre persone, di fare un pò lo scemo in giro. Vaan era un animale sociale. Il pensiero della città riunita era come un richiamo irresistibile, una musica familiare che metteva allegria.

"Perchè no?"

Corse verso la finestra e ci si tuffò attraverso come ci fosse stata acqua.

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"VOCAL!" urlò il giudice Klimt, con le due mani tese verso il trio di vocaliti.

Queste si accesero di una luce color malva e Klimt si pose al centro del triangolo. Vayne Solidor, il Console, era ancora sulla piattaforma che fluttuava al lato della balconata.

"Avremo ordine!" disse con tono normale, ma le vocaliti lo fecero rimbombare per tutta la piazza gremita di gente "Arcadia dona a questa città il suo nuovo Console: sua altezza imperiale Vayne Solidor, comandante delle armate imperiali d'oriente e-"

Vayne scese con un piccolo salto dalla pedana e mosse un passo dentro il triangolo. Il suo volto era come stizzito, e Klimt fu preso da una strana senzazione, come se muovendosi quell'uomo generasse un'onda irresistibile che gli imponeva di spostarsi e lasciargli il podio.

"Gente di Rabanastre!" tuonò accusativo "Guardate con odio il vostro Console? E' con odio, che guardate all'Impero?"

Un boato di dissenso si levò dalla folla. Le voci erano troppe e confuse per intenderle, ma era chiaro il tono offensivo. In quel momento, in Klimt svanì tutta la fiducia e l'ammirazione, e si chiese se l'intento di Vayne Solidor non fosse semplicemente di scatenare una ribellione e un conseguente bagno di sangue.

Poi accadde una cosa strana: Vayne non aggiunse nulla, lasciò che il vociare continuasse in silenzio, e tacque finchè non si placò.

"Non c'era neanche da chiederlo." ricominciò a voce bassa, ma subito parve riaccendersi "Sappiatelo però!" e il repentino cambio di tono fu per la folla come una scossa elettrica "Non nutro vane speranze di placare il vostro odio." e qui calò un silenzio tombale, ed inquietante.

"E nemmeno chiederò a voi fedeltà."

Seppur incerto su quale piega le cose stessero per prendere, Klimt sorrise nervosamente, fortunatamente nascosto dall'elmo, perchè finalmente iniziava a capire. Contrariamente a quanto si credeva, un giudice non è solo un boia: le sue decisioni dovevano essere motivate da lunghe sentenze, perchè la folla le comprenda e non le senta come mera tirannia. L'eloquenza non poteva essere insegnata, ma era ciononostante un requisito necessario.

E Klimt conosceva l'eloquenza abbastanza da riconoscere un maestro all'opera. Ogni frase lasciava un interrogativo, un vuoto che era colmato dalla frase successiva la quale a sua volta giungeva imprevista, e così la folla non poteva che pendere dalle labbra di Vayne, incerta su dove volesse andare a parare.

"La vostra fedeltà va giustamente al vostro defunto sovrano." e qui di nuovo si fermò a tutti il cuore in gola.

"Raminas amava il suo popolo e lottò per portargli pace. Anche adesso è tra voi e vi protegge. Non si sperde il suo ardore per la pace e per il benessere di Dalmasca!" rapidamente come si era formato, il gelo si scioglieva e la folla si increspò come una superficie d'acqua quando tutti assunsero una postura più rilassata.

"Ed ecco cosa vi chiedo: onorate il vostro Re," di nuovo rizzavano le orecchie e Klimt iniziava a rilassarsi e a divertirsi guardando un burattinaio tanto abile "che si possa insieme abbracciare la pace che sua maestà desiderava!"

Ora era chiaro cosa credeva e i sussurri di dissenso iniziavano a circolare di nuovo: chiedeva un atto di sottomissione nel nome del loro vecchio Re. Ma quando tutti si aspettavano un tono più pressante, la voce del Console si fece flebile e scoraggiata. Anzichè ostentare la sua forza, sembrava ora mettere a nudo la sua paura: una paura che era anche la loro.

"Ci separano due anni dall'amara fine della guerra. Eppure, la sua ombra incombe su di noi e ammutolisce la pace ancora in fasce." e mentre tutti sembravano condividere lo scoraggiamento del Console, all'improvviso di nuovo la sua voce si alzò di volume e forza.

"Una minaccia che solo voi potete combattere! Riusciamo in questo... e il vostro odio per me, per l'Impero, non mi peserà!"

Pur sembrando impossibile, la sua voce salì ancora e la piazza parve tremare.

"Rimarrò con voi! Sopporterò il vostro odio, gli insulti e le frecce! Difenderò Dalmasca, lo giuro qui e adesso! Pagherò così il mio debito!"

Dopo essersi fermato, sembrava avere il fiato corto, come se si fosse lasciato andare ad uno sfogo. Di nuovo sembrò fragile, ed umano.

"Re Raminas e Lady Ashe non ci sono più. Onorando la pace, onorate la loro memoria. Quanto chiedo, l'ho chiesto apertamente. E adesso ripongo in voi la mia fiducia." e provocando unisone urla di sgomento, il Console imperiale chinò la testa innanzi alla gente che era venuto a governare.

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"Rabanastre vi aggrada, mio signore?" chiese Klimt, ormai rilassato, mentre scendevano placidi le scale.

"La trovo magnifica! Per esempio questa cattedrale... elegante, eppure di inusuale fattura..." commetò saltando con lo sguardo da un'arcata all'altra.

"Un'incredibile esempio di architettura galteana... spero Sua Eccellenza L'Imperatore Gramis possa un giorno vederla da sè."

Klimt si irrigidì per appena un secondo, ma non fece commenti. La natura dei rapporti tra Gramis Gana Solidor, l'Imperatore, e suo figlio, era da sempre un mistero per l'opinione pubblica arcadiana. E Vayne, gli sembrò, aveva un tono fin troppo rilassato per l'argomento.

La scappatoia per evitare un imbarazzante silenzio gli si presentò subito, sotto forma di grosso bangaa dalle squame blu. Mentre saliva le scale che loro scendevano, Vayne scoccò a Klimt un'occhiata di divertita curiosità, e lui potè spiegare.

"L'organizzatore del banchetto di stasera, che possa recar piacere a sua eccellenza."

Vayne e Migelo si trovarono l'uno di fronte all'altro.

"Io sono Migelo, altezza..." interruppe con un suono inquietante che poteva essere uno schiarirsi la gola "E' davvero un profondo onore dare il benvenuto al nostro futuro, altezza..." e qui emise un altro rumore roco "La gente di Rabanastre si unisce a me nell'darle il benvenuto e-"

"Basta con 'altezza'." interruppe Vayne, con irritazione percepibile.

Migelo guardò Klimt come per capire dove avesse sbagliato e Klimt a sua volta lo guardò come a dire: non ho idea.

"Sebbene" si spiegò calmo "io sia in effetti figlio del nostro Imperatore, non sono un principe. Arcadia vota liberamente il suo Imperatore. Io sono un ufficiale eletto e nient'altro che questo."

Non capendo bene dove il discorso dovesse andare a parare, a Migelo non restò che inginocchiarsi e farfugliare: "Non volevo mancare di rispetto."

"Ripensandoci" riflettè l'altro "non mi sembra opportuno nemmeno che mi si chiami Signor Console. In effetti sono un cittadino di Rabanastre, quindi che ne pensi di chiamarmi Vayne?"

L'effetto di quelle parole su Klimt e Migelo fu poco diverso da quello di un fulmine che li colpisse in pieno.

"Non- Non- Non" la voce del bangaa sembrava ora un gorgoglio sconnesso "Non potrei- Non- sarebbe... giusto."

Vayne piantò i suoi gli occhi nei lucidi globi bruni e appoggiò una mano sulla spalla del bangaa.

"Sei oltremodo affezionato alle formalità. Ho giusto il rimedio per questo" scherzò benevolo "al banchetto berremo insieme finchè non mi avrai chiamato per nome."

Migelo chinò la testa emettendo una specie di sibilo di stupore.

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"Come può inchinarsi a quel capellone in quel modo?"

"Non ci arrivi Vaan?" il ragazzo sobbalzò al sentire la voce di Penelo accanto a lui. Si sedette e gli sorrise come se non fosse successo niente.

"Non lo fa perchè vuole." puntualizzò lei, con autentico rimprovero nella voce "Sai cosa succederebbe non facesse così?"

"Certo che lo so!" ribattè lui come offeso "Però io-"

"Tu cosa? Faresti diversamente?"

Si zittì per un attimo, poi tornò all'attacco: "Non lo so, Pen. Qualcosa farei."

Seguì il silenzio che calava sempre tra loro due quand'erano in disaccordo, ma non volevano litigare. Poi lui fu come preso da un'illuminazione: "Pen!"

"Sì?" rispose lei con la tipica dolcezza di quando si è chiamati per nome da qualcuno di caro.

"Si va alla festa stasera?"

Lo guardò basita come si fosse mutato d'improvviso in un grosso cokatris.

"Sei scemo? E' una cerimonia esclusiva e siamo senza invito, se non te l'hanno detto."

"Quindi come si entra?"

"Perchè l'interesse improvviso, Vaan?" insinuò acida scostando la frangia color paglia come per pugnalarlo con gli occhi.

"Come ho detto" proclamò lui alzandosi in piedi, quasi volesse sembrare più grande "riprendere ciò che è nostro! Ridarlo a Dalmasca, io... ruberò qualcosa di valore e... la vendo ad un buon prezzo e, uhm... pago la cena per tutti!"

"Ma no, invece" suggerì lei con palpabile sarcasmo "vendi la patacca e comprati un'areonave! Salute a Vaan, aviopirata di Dalmasca! Fa figo, eh?"

Si alzò, e non doveva neanche spiegare perchè: lei, diversamente da lui, aveva qualcosa che gli occupasse la giornata. E mentre si allontanava con gli occhi alzati al cielo, si volto un'attimo verso Vaan, minacciosa ma composta, per aggiungere come ordine incondizionato:

"Stà fuori dai casini!"

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Capitolo 7
*** Cerimonia ***


Tra il grosso turbante, la tunica e vari parei di stoffe a fantasie variopinte, il corpo del vecchio Dalan sembrava perdersi. Sbucava solo il suo volto magro, più scuro dei nativi della Dalmasca settentrionale, immobile e con gli occhi chiusi.

Solo la mano, che accarezzava il muu sulle sue ginocchia e ogni tanto portava il narghilè alla bocca, testimoniava che era ancora vivo. A dirla tutta, diverse persone dopo essere state a trovarlo andavano strillando per tutta la città che Dalan era morto.

Dalan non si scomodava a rispondere a quelli che non considerava. Nemmeno apriva gli occhi in loro presenza. Il muu seguiva gli ospiti con il muso felino, le sue orecchie zebrate sussultavano appena se quelli aprivano bocca, poi richiudeva gli occhi e tornava tra le gambe di Dalan, acciambellato e sereno.

Non si sarebbe potuto dire che Dalan era maleducato: semplicemente, quando non era interessato, non era presente.

Vaan chiuse la porta del monolocale. Come tutti gli altri, anche il venerabile e saggio Dalan era costretto a vivere nella Città Bassa dall'occupazione arcadiana. A dire il vero, "Città Bassa" era semplicemente il nuovo termine usato dagli arcadiani per denominare ciò che prima erano seminterrati, depositi, magazzini e sotterranei. Per fingere tutti che i dalmaschi non fossero, effettivamente, seppelliti sotto quella che prima era casa loro.

Vaan era diventato un frequentatore della casa di Dalan non per chiedere consiglio come gli altri, ma perchè preferiva respirare i fumi dell'oppio che l'odore di chiuso della cosiddetta città bassa. Gli tornò in mente la conversazione con Migelo sull'argomento:

"Se non la pianti, diventerai una ciminiera come il vecchio."

"Mi piace solo l'odore!"

"Quella roba non fa odore, sono gli alcolici che ci mischia."

"Se smetto di andarci posso bere alcolici?"

"No!"

In un modo o nell'altro, Migelo finiva sempre per essere contrario a qualsiasi cosa potesse piacergli. E Penelo, anche. Ma lei era.... Penelo era...

"Ah, chi viene a me se non Vaan l'Ammazzatopi."

Il muu ebbe un sussulto quando il suo padrone sembrò essersi svegliato di colpo, e saltò giù dalle sue gambe per poi avvolgersi nella grande palla di pelo che era la sua coda. Ne rimase solo un batuffolo grigio e rosa nell'angolo. Vaan distolse lo sguardo da Dalan e si chinò sul batuffolo, disturbandolo con un dito. Quando Dalan ne ebbe abbastanza decise di riportarlo all'attenzione.

"Cerchi consigli su come menare qualcosa di più grosso, diciamo qualcosa con un'armatura? Diciamo, qualcosa con un'armatura che fa la guardia alla Porta Orientale?"

Vaan ebbe un sussulto, poi esclamò estenuato "Ma come, sai già anche questo?"

"Se non sono il più saggio, sono il più informato."

"Un giorno avranno ciò che meritano-" ma una impercettibile tonalità scettica negli occhi di Dalan lo indusse a cambiare rapidamente argomento "...ma non è per questo che sono venuto qui."

Stava per rivolgere di nuovo l'attenzione al muu, ma l'altro preferì incalzarlo: "Parla dunque!"

"Voglio intrufolarmi a palazzo. Avranno bottini a bizzeffe, quindi pensavo di... partecipare al banchetto."

La massa di stoffe colorate sussultò nella risata di bassissimo volume, ma prolungata, tipica di Dalan. Il muu, deciso che tutto andava bene, tornò sulle ginocchia del vecchio. Questi parlò dopo una boccata dal narghilè, diffondendo fumo nell'aria, gustandosi l'attesa di Vaan.

"Non hai peli sulla lingua, ragazzo. Ma l'Impero protegge ciò che è suo, come il palazzo e ciò che il palazzo contiene."

"E quindi me lo riprenderò! Cio che è nostro!" sbottò lui irritato dalla calma con cui Dalan affrontava l'argomento.

"Il nostro campione delle fogne aspira a nobili imprese. Ammirevole...." riprese a fumare, e Vaan stava quasi per prenderlo come un invito ad andarsene.

Ma poi Dalan fece un gesto che riservava a circostanze eccezionali: si chinò verso chi lo interrogava, fissandolo negli occhi.

"Sai, ho sentito voci di un certo passaggio..."

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Tutti i pezzetti erano in ciotole separate, ed i diversi colori li facevano sembrare un carico di pietre preziose. Melenzane viola, peperoni gialli, pomodori rossi, il verde sedano e la cipolla bianca, l'uvetta ambrata.

Penelo lasciò cadere il coltello sul tagliere per asciugarsi il sudore. Poi si voltò verso il grosso animale perfettamente tondo, che giaceva spennato a pancia in su sull'enorme tavolo, dove Migelo illustrava a delle novizie come si tratta un cokatris. Con un rapido gesto il bangaa staccò un sacchetto grigio dalla pancia della creatura, e lo scagliò contro il cestino dei rifiuti, dove si spappolò. Il liquido color piombo divenne sempre più chiaro e si solidificò, assumendo l'aspetto di pietra pomice.

"Questi pennuti usano la bava per immobilizzare le prede," spiegò "quindi se vi dimenticate di asportare la ghiandola, o lo fate male, pietrificherete la bocca dei vostri ospiti. Non è -quasi mai- il caso."

Le novizie guardavano terrorizzate il cestino e la saliva pietrificata, e saltarono letteralmente dalla paura quando il mercante urlò: "Penelo!"

"Sì." fece lei senza scomporsi.

"Cosa si fa adesso? Passaggio per passaggio."

"Si salta ogni verdura a parte. Si stufa nell'aceto. Si spolvera di zucchero di canna."

"Sì...?"

"Ci imbottiamo la pancia del cokatris e lo inforniamo. Tempo di cottura della carne di cockatris, mediamente quindici minuti." si domandava dopo quanti anni Migelo avrebbe smesso di metterla alla prova.

E dire che la percezione dei sapori di un bangaa era cosi diversa da quella di uno huma che Migelo, che faceva da maestro cuoco a tutte loro, non aveva alcun modo di sapere se veniva cucinata una schifezza. Era proprio una bizzarria di Migelo, l'ossessione per la cucina.

"Già. Poi lo appoggiamo sul cous cous e- DOV'E' IL COUS COUS?" sbraitò accorgendosi che il tipico piattone ovale non era da nessuna parte.

"Non ne ho idea, non hai incaricato me di farlo."

Mentre Migelo strapazzava le novizie, Penelo cambiò stanza per un attimo. Si lasciò cadere su una sedia, e chiuse gli occhi, respirando dalle sue mani l'odore di verdura tagliata.

Dov'è quell'idiota, si chiese? Certo, avrà trovato molto di meglio da fare che cucinare cone lei. Probabilmente era andato a cercare un modo di entrare al banchetto, giusto per scopire che poteva al massimo beccarsi un calcio nel sedere dagli imperiali. Ma certo, sdebitarsi col bangaa che aveva salvato loro la vita, guadagnandoci nel frattempo una onesta paga, erano occupazioni di poco conto in cui solo una banale bambinetta come lei poteva impegnarsi. Lui era sempre altrove, era destinato a grandi cose, lui, non poteva essere con lei in quel momento.

"Cosa farei, se non tornasse?"

"PENELO! LE VERDURE NON SALTERANNO IN PADELLA DA SOLE!"

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"Tutte le squadre dalla terza alla sesta sono in posizione e pronte."

A quanto pare, Ashe era riuscita a posizionare le sue squadre approfittando del cambio della guardia, com'era previsto, senza intoppi. Vossler aveva visto lo scetticismo negli occhi dei suoi uomini, eppure non aveva potuto dar loro niente che li rassicurasse... ma alla fine era andata bene.

In verità, avrebbe preferito essere lui da solo, in un attacco suicida alla riconquista del palazzo.

Niente da studiare o pianificare, niente da proteggere o sacrificare, nè ordini da seguire, nè ordini da impartire. Solo acciaio e sangue, solo sopravvivenza finchè era possibile.

Invece no, bisognava compiere quell'assurdo piano, che lui stesso aveva dovuto elaborare per accontentare la principessa, quel patetico attentato che era altrettanto suicida, ma semplicemente sarebbe costato molte più vite umane.

"Allora dà il via agli altri. Dobbiamo essere piazzati entro la notte."

Ma c'era un pensiero tra tutti, un pensiero che se non era propriamente felice era quantomeno stimolante.

Cercò con le dita tra i suoi capelli neri quella cicatrice invisibile agli occhi, ma ben presente nella sua mente. Non aveva dimenticato l'unico uomo che aveva osato mettere un piede sul suo volto. Quell'uomo che con guanti merlati di bianco, da signorino viziato, lo aveva colpito allo stomaco così forte da farlo quasi vomitare.

Azelas Vossler non aveva dimenticato Vayne Carudas Solidor.

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Proprio come l'esterno, gli interni del Palazzo Reale sembravano stordire. Le colonne formavano numerosi archi appuntiti, che a loro volta suddividevano i corridioi in mille chioschetti. I marmi di tonalità gialla si alternavano alle decorazioni d'oro sulla pietra grigio perla, rendendo tutto così abbagliante da ferire gli occhi.

Se l'occupazione arcadiana non ci fosse mai stata, Vaan avrebbe, invece che i soldati, odiato la famiglia reale di Dalmasca. La sola idea che un posto di simile opulenza potesse stare al centro di un regno composto di villaggi sparpagliati su un deserto aveva per lui qualcosa di scabroso.

Non che non volesse essere ricco: voleva esserlo, e lo sarebbe stato, rubando a quelli che si pascevano in luoghi come quello.

Se non altro, in quel preciso momento, era arrivato alla fine del percorso che Dalan aveva indicato, passaggio per passaggio. Proprio come Dalan aveva detto, i canali di Garamsythe portavano dritti dritti alle cucine reali, e questi alla sala da pranzo dove qualche soldato avrebbe, di norma, massacrato di botte un intruso.

Ma alle feste ufficiali c'era sempre chi tentava di passare per servitù per mangiare gratis, e il salone si affollava. Ogni volta identificare le persone una ad una ritardava il banchetto di dieci minuti, o anche mezz'ora.

Vaan si era mischiato alla gente e aveva tirato uno spintone a casaccio. Nella baraonda generata aveva chiamato una guardia per aiuto, spostandola dal suo posto e arrivando al piano di sopra.

Dalan stesso non avrebbe fatto di meglio, si disse, mentre seguiva con gli occhi i disegni dei marmi gialli.

E là dove gli arabeschi formano l'immagine di un bellissimo leone, aveva detto Dalan, usa il gioiello che ti ho dato, fallo oscillare come un pendolo sul leone. Così aveva detto, e così Vaan fece.

Chi avrebbe detto che quel vecchio poltrone fosse anche un mago? Il ciondolo splendeva di una luce calda, e mandò una specie di fischio come se risuonasse con il pavimento. Con tutta la cura che ci aveva messo a beccare un momento in cui non c'erano guardie, ebbe paura che il suono ne attirasse qualcuna.

Ma la fortuna lo favorì, perchè ci fu una vibrazione lungo tutto il palazzo, come un crescente tremito. La riconobbe subito, era una tipica musica da ballo di Rabanastre. Il banchetto doveva essere iniziato, e i suoni della festa facevano eco in tutta la struttura.

Una parete davanti a lui slittò rapida, e lui altrettanto rapidamente si infilò dentro. Prima che potesse dire qualunque cosa, la porta gli si chiuse dietro.

"Ehi! Uhm, non mi lascia molta scel-"

Voltandosi, rimase senza fiato.

Respirò profondamente e rimpianse con sincerità che le monete d'oro massiccio non avessero odore. Perchè quella gli sembrava l'aria più dolce che avesse mai respirato.

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Era arrivata la notte, e con la notte la cena, e con la cena la festa. Nel cortile inferiore soldati arcadiani ballavano con tutte le ragazze dalmasche che avessero voglia di ricostruirsi una posizione sociale fraternizzando con gli occupanti. Al cortile superiore, una lunga tavolata ospitava il Console di Arcadia, la scorta ed i suoi giudici, da un lato, i dignitari dalmaschi che si erano piegati al nuovo dominatore dal lato opposto, e infine su un pezzo di tavola che Vayne aveva insistito per allungare l'organizzatore del banchetto ed il suo staff.

Vayne e Migelo si guardavano tesi dai due lati della tavolata, per quanto lo permettesse la sagoma ingombrante di uno dei dei cokatris in agrodolce, poggiati su vassoi di cous cous.

Il bangaa notava il disagio di Vayne nel vedere che tutti i dalmaschi, ma anche i suoi uomini abituati a vivere a Rabanastre, non si facevano problemi a staccare pezzi di carne direttamente dalla bestia e a mangiarli con le mani, dopo averli intinti sempre con le mani nel ripieno che traboccava dalla creatura.

Diversamente, Vayne si era seduto composto togliendosi il guanto color panna solo dalla mano destra, come le buone maniere imponevano, e adesso stava con la mano nuda e immobile accanto al piatto vuoto, come se aspettasse che apparisse una posata dal nulla, salvo i grossi mestoli di ceramica per il cous cous.

Improvvisando, Migelo si stirò sulla tavola quanto possibile per avvicinare al console un piattino. Ospitava degli strani oggetti simili a sottilissime mattonelle lucide e scure.

"Questi si mangiano con le mani, Altezza- ehm, Signor Console-"

"Soltanto Vayne." precisò, ma con tono accomodante.

Prese uno di quegli oggetti e gli diede un morso, trovandolo soprendentemente morbido. Un sapore dolce e fresco si mescolava con qualcosa di più intenso e quasi amaro.

"Crema di-"

"...menta selvatica di Tchita! Nel cacao dalmasco. Ho pensato il dessert ideale fosse qualcosa che fondeva le spezie migliori dei nostri paesi." spiegò con entusiasmo il bangaa.

"Il dessert andrebbe però servito alla fine del pasto e-" Vayne si interruppe subito vedendo come il commento aveva raggelato l'altro.

Cambiando completamente voce, continuò: "Perdona la mia mancanza di maniere, mio buon amico. Non sta a me criticare l'ordine in cui si servono le portate qui, e mi perdonerai se non sono ancora abituato a mangiare le vostre  pietanze. Il sapore di questo, inoltre, è raffinato ed esotico."

Migelo non si calmò minimamente. Se Vayne non avesse parlato a bassa voce, se i soldati non fossero stati impegnati a mangiare, il primo commento, il disappunto del loro Console, li avrebbe scatenati. Si sentiva la preda di un drago che anzichè divorarlo lo apostrofava con frasi colloquiali, e non gli piaceva affatto.

Gli occhi neri si diressero sugli ultimi posti, seguiti dallo sguardo del bangaa. Due seeq che lo aiutavano nello scarico merci si ingozzavano di cous cous, gettandone quantità esagerate nei grugni e gonfiando le loro gole come palloni. Ogni tanto commentavano l'uno all'altro con dei grufolati di soddisfazione, e agitavano i loro corpi grossi e flaccidi minacciando di spezzare le gambe alle sedie. I dignitari dalmaschi li fissavano male, senza effetto.

"La loro presenza vi infastidisce, altez- ehm... vi infastidisce?" non sapeva più come rivolgersi a lui.

"No." fece lui sorridendo benevolo, e poi giunse le mani come pregasse, appoggiandoci il volto e fissando i seeq.

"Sono molto... spontanei. Sfortunatamente la spontaneità non è di casa negli affari di palazzo, tuttavia mi riesce, appunto per questo, piacevole."

"Se così dite."

"Ma più che altro mi stupisce il livello di integrazione con i seeq dalle vostre parti. Ad Archades noi huma, come anche i moguri, siamo molto... elitari. I seeq si occupano solo di lavoro nei campi o in fabbrica, e ovviamente la cosa porta... diciamo, un certo malcontento."

Si voltò di nuovo verso il bangaa, sorrise e aggiunse "Osserverò con attenzione sperando di imparare da voi."

Poi tornò lì con lo sguardo, o più precisamente in mezzo ai due che continuavano ad abbuffarsi rumorosamente. Fissò con intensità la ragazzina con due treccie color paglia che sedeva in mezzo, quasi invisibile perchè così piccola.

"Chi è?"

"Lei è... nessuno." rispose Migelo ansioso.

Uno dei pochi della scorta di Vayne alzò la faccia dal piatto. Migelo lo riconobbe subito, era d'istanza a Rabanastre da quasi un anno, ed era un attaccabrighe.

"E' la sua aiutante. Ed è anche una danzatrice." sebbene Vayne avesse immediatamente perso interesse dopo aver avuto la risposta, il soldato a sorpresa battè le mani due volte attirando l'attenzione di tutti. In maniera abbastanza palese, voleva farsi bello con Vayne mostrando la sua autorità su di loro.

"Tu." disse rivolto a Penelo "Sali sul tavolo e danza per il Console."

Ci fu un attimo di silenzio, Penelo guardò Migelo ma lui sembrava paralizzato. Il Console era seminascosto dietro alle sue mani giunte, e imperscrutabile. Non vide altra soluzione che alzarsi, e per un attimo notò la lingua del soldato saettare tra le sue labbra. Arossì, cercò nel tavolo una qualsiasi persona che gli dicesse che non doveva farlo, ma era calato un silenzio tombale nel tavolo, e la musica che veniva da sotto sembrava attendere solo che lei si esibisse.

Chinandosi per spostare un piatto di portata, percepì con precisione assoluta lo sguardo del soldato scendere lungo la sua schiena e fissarsi sul sedere, dandole un brivido. Non cambiò posizione, solo chiuse gli occhi per un attimo, stringendo i denti. Qualche altro soldato lo aveva notato, e qualcuno simpatizzava con il suo disagio, ma i più ridacchiavano sotto i baffi. Posizionò la sedia per usarla come scalino, e lì scoccò uno sguardo rassegnato a Migelo.

Entrambi sapevano bene quante volte lo stupro di una ragazza dalmasca iniziasse in quel modo: "Su, facci contenti, balla per noi." E chi si fermava più.

Doveva averci messo troppo tempo a salire, perchè il soldato si alzò in piedi per muoversi verso di lei. Doveva essere un incubo, pensò, non stava succedendo veramente. Non a lei, lei non l'aveva meritato.

"Siediti, Jaspar."

Non c'era alcun colore, non c'era ira, non c'era simpatia, nè interesse, nè stizza, assolutamente niente in quella voce. Ma appena Vayne Solidor aveva parlato, il soldato si era bloccato nel gesto di allungare una mano verso Penelo, e poi era immediatamente tornato a sedere.

Con un tono impercettibilmente più gentile, aggiunse: "Credo che tu abbia bevuto troppo stasera." e poi "Può sedersi anche lei, signorina, se vuole."

Lei ne ebbe la più assoluta certezza. Quell'uomo non aveva impedito che le accadesse quella cosa per compassione o generosità, ma semplicemente per mancanza di interesse. La possibilità di abusare di una ragazzina era per lui niente, meno di un pugno di sabbia, qualcosa che non lo toccava completamente, da cui non avrebbe guadagnato nulla.

Quel soldato, quel Jaspar, certamente si comportava come una bestia tra le bestie; ma Vayne Solidor era un dio tra gli insetti, cosa molto più spaventosa.

Con la stessa flemma, con lo stesso tono, lei lo sapeva, sapeva, non immaginava, che avrebbe potuto ordinarle di strangolarsi con le sue mani. E non aveva idea del perchè, ma avrebbe obbedito senza fiatare.

Le sorrise, ed il sorriso di quell'uomo gli sembrò la cosa più terribile del mondo.

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Capitolo 8
*** Fuga ***


Lo trovò in un certo modo simbolico.

Una splendida donna d'oro massiccio, nuda, davanti a lui al centro di una stanza colma di gioielli. Sembrava esattamente la sua amante, l'immagine del suo stesso destino che gli veniva incontro nella forma più adatta, pronta ad essere amata e posseduta da lui, a essere in lui e con lui.

Sì, era destinato a quello. Era ciò che era, lo sentiva. Qualcuno che, sempre, si sarebbe preso ciò che voleva anche se, e anzi soprattutto se, gli avessero detto che non poteva averlo.

Così pensava prima che una considerazione pratica lo interrompesse.

"Come cavolo mi porto questa cosa d'appresso?"

Nel dirlo, sbuffò e si lasciò cadere, appoggiandosi ad una delle decorazioni di metallo della statua, e con un sottile fruscio il volto d'oro si rimosse come una maschera. E lì, Vaan vide qualcosa brillare. Si avvicinò per fissarlo, e in quel piccolo oggetto scorse...

...l'universo stesso.

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Prese aria, per una quarta volta.

"Sua maestà si sente bene?"

Rassler le aveva detto una volta che esistono due solitudini, proprio come esistono due concetti di "nascosto" in battaglia: una truppa che striscia in un luogo invisibile, nascosto appunto, e una truppa che marcia in un luogo disperso dove nessuno potrà mai vederli. Proprio come la persona in una folla sconosciuta è sola, la truppa in un campo desolato è essenzialmente nascosta. Lei, diceva, sembrava spesso "sola" nel secondo modo.

Negli ultimi anni, non c'era sfumatura di "sola" e "nascosta" che Ashe non avesse esplorato

Ma il portone davanti a lei usciva dai canali, per portarla direttamente sul campo di battaglia. Per portarla davanti a colui che aveva organizzato il massacro della sua famiglia. Non sarebbe più stata sola, nè nascosta. Come se quella porta, comunque andasse a finire, aprendosi chiudesse un capitolo della sua vita.

Due sole rampe di scale conducevano rapidamente al cortile, solo due possibili strade impiegavano così poco tempo da non essere individuati e uccisi prima di aver compiuto l'opera. Solo due piccole scale potevano far sì che una lama raggiungesse il cuore di Solidor in tempo. Vossler certamente avrebbe percorso la sua.

Perchè era così difficile semplicemente aprire quel portone e procedere?

"Maestà... manca ormai un minuto al-"

"Quietati!" sbottò lei sottovoce, gelando il soldato "Credi tu che io manchi della capacità di guidare l'attacco?"

"Che... che dite, io-"

"Dunque che tu non mi sia di disturbo mentre faccio appunto questo."

Ciò detto strappò il piccolo artefatto d'ottone tondo che il soldato stringeva in mano. Era un orologio di fattura dei moguri di Bhujerba. Guardò l'ora. Di nuovo gli mancò il respiro. Non ce l'avrebbe fatta, ecco tutto. Non era capace. Non avrebbe mai dato l'ordine, e sarebbe rimasta paralizzata lì, abbandonando la squadra di Vossler al suo destino.

"ANDIAMO!" urlò d'un fiato.

Con le braccia esili spinse sul portone per aprirlo, e subito dopo cercò la spada. L'aria della notte di Rabanastre, il cigolio delle armature dei suoi uomini che salivano le scale... ecco, stava veramente succedendo.

Ma un rombo sopra le loro teste la distrasse subito.

Una imponente sagoma di metallo, si sarebbe potuta dire il muso di qualche specie di animale, aperto in una sottile fessura color fiamme. E frammenti di fiamme vomitò, immediatamente, chiudendo loro la strada.

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Si riprese non perchè la pietra avesse smesso di brillare, ma perchè fu distratto da un piccolo sussulto.

Non dovette rifletterci poi tanto per concludere che se una "piccola vibrazione" arrivava a quella camera, voleva dire che da qualche parte doveva esserci stato un gran botto.

Poi un'altro rumore lo distrasse: passi.

C'erano due persone nella stanza con lui, e nessuna delle due gli fece una buona impressione.

La prima, l'apparenza sottile e forte al contempo, i capelli platino così in contrasto con la carnagione scurissima, le lunghe orecchie pelose e ritte, non lasciavano dubbi: una Viera. Non una sanguemisto tra Viera e Huma come se ne vedevano qualche volta in giro per il bazaar, ma una pura, come ormai non se ne vedevano quasi più. Non c'era amicizia tra le due razze, i rapporti erano poco più che quelli tra estranei compagni di viaggio con cui ci si ritrova nelle cabine delle areonavi: un contatto inevitabile, cortese ma freddo.

L'altro era meno insolito: tutto in lui, i capelli a spazzola che finivano in basette perfettamente curante, i vestiti morbidi che intrecciavano color crema, oro e rame, e persino l'andatura composta, parlavano di alta moda imperiale, massima eleganza, gusto e ricercatezza: tutto ciò che Vaan odiava.

E fu proprio l'odioso damerino a parlargli per primo:

"Davvero una splendida prestazione." disse lanciando uno sguardo al bottino che Vaan si era appena guadagnato, che immediatamente nascose dietro la schiena con un gesto istintivo, e ovviamente inutile.

"Chi sei tu?" chiese infastidito.

Il santuario della sua vittoria, il posto dove il suo destino si coronava, la camera del tesoro tanto desiderato, violato da due perfetti estranei. Di cui uno particolarmente irritante.

"Io sono il bellissimo protagonista assoluto. Chi altri potrei mai essere?" chiese l'altro di rimando con voce vellutata, ma guardando Vaan come se avesse posto la domanda più idiota della terra.

Lo avrebbe volentieri strangolato.

"Fran" fece rivolgendosi alla Viera "La Magilite." aggiungendo un "per favore" con un cenno degli occhi.

"La prendo io." disse l'altra con il tipico accento graffiante delle Viera, non come se lo ordinasse, ma come se lo spiegasse ad un bambino scemo.

"No che non la prendi! L'ho rubata io quindi è mia!"

"E se noi la rubiamo a te" spiegò l'uomo con tono ancor più condiscendente "diventa nostra."

Vaan si pentì amaramente di essere venuto disarmato. Per quanto volesse spaccare la faccia a quel tizio borioso, i racconti sulla superiore prestanza fisica delle Viera erano conoscenza popolare. Preparò i pugni, ciononostante, e la ragazza mosse un passo verso di lui. Era pronto a prenderle, e di santa ragione.

Ma una specie di tamburellare metallico e ritmato li interruppe. Era un suono a cui i cittadini di Rabanastre erano abituati, un suono che ricorreva ad ogni attacco della Resistenza -o la Ribellione, come la chiamavano gli arcadiani- il suono di plotoni che si spostavano in tutta fretta, presto accompagnato da un vociare esagitato.

"Gli Dei non sorridono per noi, oggi." osservò quieta Fran.

"E' così che preferisco." rispose il suo compagno, spavaldo.

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Per una seconda volta il lamento animalesco aveva squarciato l'aria. Un urlo carico di ferocia che solo lontanamente somigliava al nome del Console di Arcadia.

Gli occhi di tutti i seduti alla tavolata, paralizzati, andavano dalla figura di Vayne Carudas Solidor a quella in equilibrio sul muretto, molto più in alto.

Il primo, silenzioso, teneva le mani giunte come pregasse, e gli occhi chiusi. Calmo come se nulla fosse accaduto. Ma sotto le mani, Penelo vide che si allargava un sorriso sereno dopo il secondo urlo che lo chiamava, e di nuovo fu assalita dalla paura.

E stagliato contro il cielo, il lungo spandone retto con sicurezza da una sola mano, Azelas Vossler, la cui armatura argentea riceveva i riflessi dorati delle luminarie dal basso, e quelli perlacei della Luna Minore, dall'alto: una divinità della guerra e della morte.

Alla terza volta che veniva chiamato, si alzò e disse quasi sottovoce: "Vogliate scusarmi." Prima di alzare gli occhi al cielo e sorridere calmo.

La voce di Vossler non si faceva roca nell'urlare, al contrario diventava sempre più ampia e squillante.

"TU, CANE ARCADIANO! OSI FAR SCUDO DEI MIEI COMPATRIOTI!"

Per tutta risposta, Vayne scostò la sedia e, dedicata una rapida pacca a Migelo che fece sobbalzare il povero bangaa, si fermò al centro del cortile. Allargò le braccia verso Vossler, come a dire: eccoti servito.

E staccati l'uno dall'altro di diversi metri, solo il loro sguardo li univa, la linea tra gli abissi oscuri e calmi di Vayne, e gli occhi di Vossler, fiamme nere cariche di odio.

Nessuno degli arcadiani si mosse per difendere Vayne. Essere stati sorpresi così, mentre mangiavano e ballavano beati li faceva sentire degli idioti impotenti.

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Scappare, come chiunque sarebbe fuggito. Lui, la Viera, l'insopportabile "protagonista assoluto" e tutti quelli che avevano tentato di intrufolarsi al banchetto, tutti erano uguali nella paura, tutti fuggivano allo stesso modo da una situazione che diventava sempre più spiacevole. A dirla tutta, un vero inferno.

La nave imperiale volava intorno al palazzo, decidendo con precisione chirurgica quando vomitare una cascata di quello che sembrava fuoco solido sopra un chioschetto o un ponte. Poi si spostava lenta, trasformando la bordata in un sipario di fiamme che metteva i malcapitati spalle al muro, prima di cremarli. Non volle nemmeno chiedersi chi fossero quegli uomini e perchè avessero meritato un simile destino: la paura lo dominava completamente, andarsene era l'unico pensiero che potesse formulare.

"La Ifrit, eh?" commentò sprezzante l'uomo, e Vaan si voltò ad ascoltarlo "Una entrata d'effetto, tempistica impeccabile. Se non conoscessi lo stile degli imperiali, oserei dire che si aspettavano l'attentato".

Sembravano disquisizioni su uno spettacolo teatrale; se non altro, doveva ammirare il suo sangue freddo. La sua compagna sembrava scomparsa nel nulla, senza essere vista nè sentita, da qualche parte nella baraonda, e Vaan pensò di fare altrettanto per toglierselo di dosso.

"Smettila di correre!" sbottò l'altro estenuato, ma senza la minima preoccupazione, mettendosi alle sue calcagna.

Entrambi dovettero cambiare strada per evitare uno spostamento rapido del velo di fuoco, e Vaan si trovò infine affacciato ad una balconata. E davanti a lui, fluttuando, apparì Fran, la Viera, cavalcando uno strano meccanismo con due vololiti incastonate, che la facevano sembrare una carrozza dimezzata.

"Fine della corsa, ragazzino." fece l'uomo raggiungendolo, e con inequivocabile rivendicazione di possesso stese la mano verso di lui "Hai qualcosa che mi appartiene."

Non ci pensò due volte a saltare giù.

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Volò giù implacabile verso il Console, la lama lunga e spessa pronta a spaccare in due il corpo e conficcarsi nel pavimento. Ma Vayne aveva saltato più in alto, ed era in aria dritto come una freccia, i pugni uniti, il corpo ruotando come volesse trivellare quello del capitano: una danza aerea di pochi secondi, subito conclusa con un suono sordo, come un rintocco di campana, quando i pugni toccarono l'armatura.

Vossler si lasciò andare come una marionetta rotta, precipitando al suolo, seguito da Vayne che atterrava con eleganza. Per pochi secondi, a tutti i soldati parve di respirare di nuovo.

"A TERRA!" urlò Penelo spintonando Migelo sotto il tavolo.

Il corpo immobile del capitano brillò, e come un fuoco d'artificio sprigionò lingue colorate di purpureo e acquamarina che saettarono spandendosi per tutto il chiosco. Evitando con cura gli invitati, colpivano i soldati schiantandoli contro il muro. Vayne sparì per qualche secondo tra i bagliori.

"Che cavolo era??" gorgogliò il bangaa guardando la ragazza.

"Una magia temporale... Equos. Assorbe gli impatti, li moltiplica e li diffonde nello spazio circostante." illustrò frettolosamente lei, e un frammento multicolore li sorpassò da sotto il tavolo.

"E tu che ne sai di magia, signorina?" inquisì Migelo.

"I-io? Niente." tagliò corto lei e poi fece per riaffacciarsi sul campo.

Vayne era rimasto in piedi, inamovibile. Solo la mano si era mossa, con un gesto altezzoso, per difendere il volto. Le vesti erano lacere qua e là, ma si intravedeva sotto una cotta di maglie che non era stata scalfita. La maggior parte degli imperiali barcollava stordita dalla botta, solo uno non era sopravvissuto. Penelo riconobbe in lui Klimt, ex giudice d'istanza a Rabanastre. Doveva essersi trovato nel tragitto tra Vossler e una porta, e sebbene avesse quasi schivato lo spadone, un colpo di striscio era bastato.

Vayne guardò il ragazzo esanime, per qualche secondo appena. Non si concesse che un attimo: sapeva da tempo che il suo destino richiedeva un prezzo di vite umane, che la limitazione delle perdite era tutto ciò che si potesse chiedere. Niente di più che un rapido addio mentale, poi subito riprese la concentrazione, la riflessione più rapida che potè formulare.

Vossler doveva aver desiderato di essere colpito, per poter usare la magia e incapacitare i suoi uomini per qualche secondo, e fuggire. Perchè un assalto temerario, se lo scopo è la fuga?

"Dov'è diretto quel passaggio?"

"Ad un vecchio quartiere" rispose il primo soldato che riuscì a spiccicare parola "Dobbiamo seguirlo?"

"No. Vuole questo. Andate nella direzione opposta."

Mentre tutto si metteva in moto intorno a lui, Vayne rimase lì, silenzioso, a fissare il cielo notturno. Era calmo: non era successo niente che non avesse previsto.

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Mi scuso con tutti per il ritardo nell'aggiornare. Gli esami hanno richiesto più sforzo di quanto avessi previsto. Cercherò di riprendere la mia solita regolarità, d'ora in poi. Grazie a tutti quelli che mi seguono.

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Capitolo 9
*** Sottoterra ***


Sotto, una baraonda a malapena distinguibile. Uomini che si accalvacano cercando di infilarsi ovunque, porte, finestre, balconate e persino sotto tavoli e altra mobilia: se non avessero indossato le armature argentee a ricordare ciò che erano stati, la Guardia Reale di Dalmasca, sarebbero sembrati niente più che insetti in fuga dalle fiamme.

Qualcuno, più coraggioso, si fermava per raccogliere qualche compagno orribilmente sfigurato dal calore e caricarlo in spalla, ma veniva subito raggiunto dalle picche arcadiane, atterrato e finito.

Sul massacro volavano loro, spettatori involontari e non invitati. L'uomo lo teneva per la collottola, da cui lo aveva afferrato con la forza, e lo stringeva saldo e brutale quasi fosse un monello, mentre lui si divincolava cercando di staccarsi.

"Lasciami andare!"

"Continua a dimenarti e magari lo farò!" minacciò alludendo alla caduta certamente fatale che lo avrebbe atteso.

Vaan fu colto da una sensazione improvvisa, come se la pietra che aveva nel fagotto della cintura si facesse per un attimo pesantissima, e per converso il veicolo di Fran smettesse di soreggerli.

"Fran, che succede?"

"Non saprei" commentò quasi con un sussurro "non mi risponde."

"Adesso non sarebbe affatto il caso." ribattè lui spazientendosi mentre sbandavano da un lato all'altro a mezz'aria.

"C-cado!" sbraitò Vaan.

"Così non va bene!"

Vaan sentì solo lo sparo di un bersagliere arcadiano, non riuscì nemmeno a vedere da dove venisse, poi un botto sulla fiancata del veicolo. E poi precipitarono.

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Un soldato si portò un fazzoletto al naso, ma incrociò subito lo sguardo di disapprovazione del Console.

"L'odore di carne bruciata è troppo forte, signore."

"Provi ribrezzo? Forse vorresti dimenticare che sono uomini quelli che stiamo mettendo a rogo laggiù?"

Per riprenderlo, un soldato lo tirò indietro per la spalla e lo incitò ad andarsene. Poi si posizionò accanto a Vayne, che descriveva dei lunghi semicerchi sul campo con lo sguardo.

"Che spreco." commentò fra sè e sè.

"Come dite?"

"Anzichè far perdurare e vivere la loro cultura, la loro tradizione come parte dell'Impero, preferiscono sparire nella storia dopo aver combattuto fino all'ultimo sangue." si fermò per un secondo e poi aggiunse "Che sia come vogliono loro. Novità?"

"Come avevate detto, c'è una seconda forza che sta cercando di ripiegare verso i saloni da pranzo. Hanno conquistato quella zona e si sono arroccati lì. Prepariamo un assedio?"

"Non mutiliamo questo bel palazzo oltre il necessario. Aspetteremo che siano loro a lasciare i saloni."

"Sono circondati, signore."

"No, loro cercano di proteggere qualcosa. Dev'esserci una strada nascosta nei saloni, una via di fuga. Aspettiamo."

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"Bene, andremo all vecchia maniera."

In un modo o nell'altro, pensò Vaan seduto in silenzio a gambe incrociate, sempre nelle fogne vado a finire anche dopo le cose più assurde. Qualcosa su cui Dalaan avrebbe potuto inventare tutta una nuova, emozionante saga di battute. Poi restò per un attimo a fissare la Viera, intenta come a tracciare una mappa mentale dei Canali di Garamsythe con gli occhi.

Come tutte le Viera girava meno vestita della meno pudica delle ragazze Huma. Come popolazione solo femminile, le Viera non conoscevano l'imbarazzo tra sessi opposti. Vaan si concesse di percorrere diverse volte con lo sguardo le sue gambe atletiche e lisce, e poi di salire su, fino a-

"Non ci sono molte Viera dalle tue parti, ladruncolo?" interruppe l'uomo con tono più che allusivo.

Fran neanche si voltò a guardarli mentre il ghigno dell'uomo si allargava e Vaan arrossiva.

"Vaan -non ladruncolo- Vaan. Scusate, io-"

"Lei è una Viera molto speciale. Speciale nel degnarsi della compagnia di noi Huma."

"Speciale come un aviopirata che striscia nelle fogne?" commentò lei con sarcasmo posato.

L'uomo rispose con un gesto di concessione del capo. Ma Vaan saltò in piedi come gli avessero tirato un fulmine.

"SEI UN PIRATA? UN... AVIOPIRATA?? HAI UN'AREONAVE?"

"Sono Balthier." disse come se questo dovesse ricordare a Vaan chissà cosa, ma ottenendo solo di ricordargli tutte le ragioni per cui Balthier non gli piaceva.

"Dunque ladruncolo- pardon, Vaan. Se vuoi tornare a casa, farai esattamente come ti dico: io, Fran, tu. Siamo in società adesso. E' tutto chiaro?"

Vaan lo guardò provocatorio, poi diede un colpetto al sacchetto alla cintola.

"Non credere che metterai le mani su questo."

"Il pensiero non mi ha nemmeno sfiorato." garantì Balthier con tono mieloso, quasi offeso dell'insinuazione di Vaan.

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Nemmeno il più ottuso bruto della truppa avrebbe potuto trattenersi dallo spalancare la bocca per la meraviglia. Lo strano materiale in tonalità d'azzurro, lucido incontro tra metallo e pietra, pur seguendo i disegni dei suoi mosaici rifletteva perfettamente le loro immagini, e giocava con la luce a sua volta screziata dall'acqua. I canali si estendevano a perdita d'occhio, incrociandosi l'un con l'altro fino a sembrare una città sotterranea.

"Impressionante, vero?" apostrofò Vayne al suo luogotenente.

Questi non potè che che annuire ammutolito dalla meraviglia.

"Non si sa con certezza chi abbia edificato Garamsythe, nè perchè volesse spostare così tanta acqua. Non si sa nemmeno la precisa estensione, ma si è constatao di recente che ricalca la forma di un grosso ragno grande una volta e mezzo l'intera Rabanastre. C'è anche chi sostiene che il ...ragno è collegato ad un altro, e quello ad altri ancora fino a scavare sotto tutta Ivalice. I misteri dell'architettura galteana."

L'amore di Vayne per i monologhi culturali era cosa nota, il luogotenente non si sognò di interromperlo. Ma appena ebbe finito, espose le sue considerazioni.

"Abbiamo tracciato una mappa -ehm- verosimile del collegamento al cuore del... ragno, per così chiamarlo, che a sua volta sale verso la Città Bassa. Da lì nascondersi nei magazzini e rimescolarsi ai passanti sarà la loro mossa più probabile. Suggerirei di procedere con degli interrogatori a tappeto in ordine di vicinanza al canale d'uscita. In tal modo-"

"No." interruppe il Console, incolore, e il luogotenente si zittì.

"Servirebbe troppa violenza, avremmo altri ribelli. Intercettiamoli." e impartito l'ordine, battè le mani.

I soldati, che circolavano su e giù per i canali senza ancora saper bene cosa fare, gli volsero tutti immediatamente l'attenzione al rimbombare del suono per le gallerie.

"Signori" esortò con tono benevolmente scherzoso, quasi cameratesco, la sua maschera preferita con i soldati "ci bagneremo i  vestiti da festa stasera."

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Quando ebbe finito, senza rallentare minimamente il passo, senza scomporsi, senza spiccicare parola, di montare i pezzi che teneva nascosti nel panciotto, Vaan finalmente riconobbe cos'era: un fucile. Non un ultimo modello arcadiano, qualcosa di meno moderno e più esotico.

"Tenevi un fucile smontato addosso." osservò Vaan a metà tra il considerarla una stravaganza e esserne impressionato "Perchè non tenerlo montato comunque?"

"Non passa giorno che il mondo non inventi nuovi, emozionanti modi di uccidere un uomo: bisogna essere ...adattabili."

"Io non penserei mai a una cosa così. Troppo... pensata ecco, mi metterebbe a disagio."

"Non temere: hai ottima compagnia. Son piene le tombe di persone con i tuoi stessi disagi." illustrò Balthier come se stesse dicendo una gentilezza.

Vaan gli lanciò una occhiataccia, ma lui la ignorò con la massima noncuranza. Aveva il sospetto che Balthier fosse capace di insultare i costumi sessuali della madre di qualcuno con lo stesso tono cordiale con cui lo invitava ad accettare da bere. Strano tipo.

"Perchè seguiamo lei? Pensavo non foste mai stati qui." cercò di glissare, abbassando la voce.

"Lei è una Viera, e loro-" si fermarono tutti e tre, iniziando a sentire rumore.

Suoni di uno scontro armato.

"Ribelli." intuì Balthier.

"Ribelli?" chiese Vaan.

"Volevano approfittare di una falla nella sicurezza durante la festa, e offrire al buon Console una sana razione d'acciaio insieme alla zuppa. Direi che Vayne è abituato a questo genere di ospitalità, e ha usato sè stesso come esca per poi mandare l'areonave. Un banchetto ineccepibile, una vera mattanza."

"E noi che si fa?"

"Si va per un'altra strada." concluse l'uomo iniziando a mettere in pratica le sue parole svoltando.

Ma anzichè seguirlo per andare dalla parte opposta a quelli che erano senza dubbio i suoni di una battaglia, Vaan si precipitò verso la fonte.

"Ha la pietra." ricordò Balthier in risposta ad una occhiata interrogativa di Fran, e lo seguirono.

Su uno dei numerosi ponteggi di pietra, la vide. Davanti e dietro di lei c'erano soldati imperiali che domava facendo roteare la lama come l'asta di un giocoliere, con maestria ed eleganza. Il suo corpo sprigionava un maelstrom di scariche elettriche che sollevavano in aria il soldati e poi li attiravano verso di lei. Un demone guerriero in un corpo incantevole.

Ma i soldati erano ben meno impressionati di Vaan. Benchè colpiti di una gragnola di colpi di spada e magia, non sembravano affaticati la metà della loro rivale, che rifletteva la luce bianca dei fulmini sulla sua pelle madida.

"Chi è il prossimo?" ansimò con voce altezzosa la ragazza.

"Non ce la fa." bisbigliò quasi annoiato Balthier a Vaan, col naso all'insù verso il ponteggio "Molta tecnica, poca sostanza."

In tutta risposta, appena la vide spalla al muro Vaan urlò: "Salta giù!"

La ragazza si voltò per un attimo per cercare chi l'aveva chiamata, e perse l'equilibrio. E lì Vaan la afferrò al volo, tenendola in braccio.

"Ha dei complici!"

"La nostra brigata cresce di minuto in minuto." notò Fran placidamente.

"E i nostri guai con essa." ribattè il compagno.

Vaan avrebbe ricordato quel momento, per molto tempo, come uno dei momenti più sensuali della sua vita. Teneva la ragazza in braccio, gli occhi color sabbia di lei dritti nei suoi, stupita, disorientata. Il suo vestito bianco ornato di gioielli magenta e oltremare era estremamente essenziale ma raffinato, metteva in mostra buona parte del suo corpo denunciando probabilmente un passato come ancella di palazzo, o concubina di qualche nobile. Una ribelle, una guerriera, qualcuno che odiava l'Impero come lui; giovane, bellissima.

Desiderò portarsela a letto nello stesso istante in cui le sue braccia entrarono in contatto con lei.

Balthier puntò la pistola, e Fran prese in mano quella che sembrava una spada ricurva di osso nero e adornato. Ma Vaan capì subito che si poteva anche usare come arco, come stava facendo in quel momento. Scesi giù per raggiungerli, il manipolo di imperiali si fermò davanti alle due armi puntate.

"Amici miei" esordì Balthier conciliante "se ora ci faceste la cortesia di-"

Ma appena uno portò la mano alla spada, Balthier s'interruppe e con Fran tirarono implacabili, uccidendo tutti e tre. Vaan si sentì improvvisamente freddo e rigido, vedendo quei corpi sparire nel velo d'acqua e spandere un alone rosso intorno a loro. Mise giù la ragazza con delicatezza, e cercò di respirare con calma. Soffocò quasi un conato di vomito.

"Stai bene?" chiese alla ragazza accanto a lui quando ebbe respirato meglio.

"Ti ringrazio." fece la ragazza senza sorridere, con distacco formale.

"Ehm, io sono Vaan, questi sono Balthier e F- ehi!" non aveva finito le presentazioni che il duo aveva ripreso a camminare.

"Come non detto, tu come ti chiami?" fece con aria di complicità.

"Amalia." rispose lei, e non sembrò intenzionata ad aggiungere nient'altro nè a rivolgergli la parola per qualsiasi ragione.

"E' un piacere conoscerti, Amalia, e-"

"Altri erano con me." disse incamminandosi per seguire gli altri due e ignorando il ragazzo.

"Spiacente." rispose freddamente Fran.

Amalia abbassò gli occhi, colma di rabbia. Vaan non aveva mai visto una ragazza con uno sguardo così amaro, privo di qualsiasi gioia, colmo di rancore. Si avvicinò a lei per dire qualcosa di consolatorio, ma appena le fu vicino la pietra nel sacchetto di nuovo si comportò stranamente. Stavolta, anzichè sembrare più pesante, si alleggerì di colpo fino a sollevare il fagotto come un palloncino.

Vaan la tirò fuori, e di nuovo come la prima volta che l'aveva vista, la magilite splendeva di un turbinio di colori e forme. Amalia fissò l'oggetto con gli occhi sgranati, per poi passarli su Vaan.

"Eh, non è curioso?" scherzò Balthier.

"Non farti venire strane idee, ho detto che è mia."

"Mi spiace dirti che la giuria sta ancora deliberando al riguardo." Vaan alzò un sopracciglio chiedendosi dove Balthier avesse assorbito il linguaggio legale.

"L'hai rubato questo?" inquisì Amalia.

"Certo!" esclamò orgoglioso e sorridente.

Amalia sospirò frustrata, e quasi gli tremò la mano. Sembrava dovesse trattenersi dal fare una scenata.

"Avete finito?" s'intromise la Viera con accento più aspro del solito "Appena non vedranno tornare quei tre, verranno per noi."

"Se già non lo stanno facendo." aggiunse il suo compagno.

Vaan andò verso Amalia quasi per mettergli una mano sulla spalla: "A questo punto ti conviene venire con noi, e-"

"Molto bene!" sbottò lei allontandandosi dal ragazzo, allibito.

"Ma che le prende?"

"Hai molto da imparare sui principi del latrocinio." ironizzò Balthier, e Amalia si voltò verso di loro.

"La situazione richiede che io accetti qualsivoglia aiuto, anche quello di volgari ladri come voi. Ma solo finchè troverò i miei compagni, e non oltre."

"Ma certo" accettò Balthier con tono morbido "Ciascuno farà i suoi affari. Certo non mancherà di valore, un così attivo membro della ribellione."

"LA RESITENZA, non la ribellione!" sbottò lei una seconda volta, per poi ordinare: "E adesso andiamo!"

Il terzo incontro della giornata che Vaan avrebbe volentieri cancellato dalla faccia del pianeta.

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Una sola folata d'aria fetida, un lamento lontano, e tutta la truppa si spostò uniforme all'indietro.

Il Console non mosse un passo, gli occhi fissi sul fondo del tunnel privo di luce. Il corridoio che portava al cuore di Garamsythe, o a quello che loro riconoscevano tale.

I mosaici, ricoperti da uno strato limaccioso, perdevano la loro lucentezza, e l'acqua, scura, era ricoperta da una patina verdastra. Vayne mosse un'altro passo nella sporcizia.

"C'è qualcosa nel fondo." riflettè ad alta voce.

"S-strano però." balbettò il luogotenente "per essere le fogne di Rabanastre, sono piuttosto pulite... tranne qui. E' come se i rifiuti venissero attirati."

"Qualcosa riposa sul fondo." un secondo lamento rispose a Vayne.

Sembrava un il gemito di bambino a rallentatore, la cui voce fosse distorta da un corpo enorme.

"Ho sentito una storia." iniziò un altro soldato "su un mostro che dorme sul fondo di Garamsythe... attirando la pestilenza e il sudiciume... facendo ammalare i ragazzi della piazzetta sotterranea."

"E' una storia per bambini della Città Bassa." lo liquidò un'altro.

"Leggenda: nient'altro che storia per bocca del popolo." interruppe Vayne, per poi perdersi nei ricordi.

 "Nessun pezzo di architettura Galteana è completa senza uno dei dodici imprigionato nelle fondamenta, così dice sempre lui."

"I dodici?" domandò il luogotenente ma poi, come ricordandosi di più immediate e concrete faccende, aggiunse: "Quali sono gli ordini?"

"Lo aggiriamo, dobbiamo arrivare all'ingresso per la Città Bassa."

"E dopo?"

"Aspettiamo."

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Ad eccezione di Fran, avevano tutti il fiato corto.

Cercando di evitare di dover procedere con le gambe in acqua, andavano su e giù per i ponteggi, allungando la strada. Ma assorbivano l'umidità comunque. Balthier accelerò leggermente per portarsi accanto alla Viera.

"Inquieta, eh."

"Il mist."

"Odio questo dannato mist. Tutte le volte che ne parli sembra che hai fumato erbe di Ozmone" mimò l'accento Viera e scherzò "Sai Balthier, il mist è quella roba che... se puoi cogliere il suo potere... sai di cosa parlo... come l'oceano ma... non è l'oceano."

"Divertente." lo gelò lei, e allora lui si fece serio a sua volta.

"E' così problematico?"

"Fra due ponteggi sapremo quanto è problematico."

Anche Vaan affrettò il passo per portarsi accanto ad Amalia.

"Senti Amalia, riguardo alla pietra." lei lo guardò, dura.

"Capisco che magari ci tieni a riportarla a palazzo quindi... ecco... ti faccio un buon prezzo, va bene?"

Amalia strinse i denti e si distanziò il più possibile dal ragazzo, che ancora gli diceva "Ma proprio un affare! Aspetta!" finendo per sorpassare Balthier, e Fran di qualche passo. Ma la Viera la fermò mettendogli una mano sulla spalla.

"Attenta."

Stava per chiedergli cosa, ma Vaan esclamò ad altissima voce: "WOW", facendolo rimbombare per tutta Garamsythe.

Diversi corridoi confluivano in una unica, gigantesca piscina ricolma d'acqua sporca.

"Non lo avevo mai visto! Il cuore delle fogne!"

"Il cuore delle fogne... sembra un buon titolo per una poesia. Potrei dedicartela, Fran che ne pensi? Ricordi, mia bella nel cuore delle fogne..." ma voltatosi verso di lei, il pirata si scurì ancora di più in volto.

"Arriva?"

"Arriva." la voce della Viera era così aspra e sibiliante da essere irriconoscibile.

Vaan e Amalia rimasero impietriti mentre davanti a loro l'acqua inquinata si gonfiava come respirasse, alzandosi fino quasi a toccare il tetto.

"Forse dovevo dirvelo prima, ma" gli urlò Balthier da diversi passi indietro "c'è qualcosa nell'acqua."





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E' bello poter scrivere di nuovo con un pò di regolarità. Per amor di struttura una parte di questo capitolo avrebbe dovuto far parte di "Fuga". Pazienza, mi impegno a far di meglio la settimana a venire.

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Capitolo 10
*** Scorpione ***


Un orrore. Un abominio che non dovrebbe esistere.

Somigliava ad uno huma, ma certamente non lo era. Troppo alto, e più grasso di quanto quasiasi huma, o persino un seeq, potesse mai essere senza restare paralizzato dal suo stesso peso. I contorni del suo volto, indefinibili come sciolti dall'acido, erano contratti in una smorfia felice come quella di un bambino piccolo.

Amalia strinse con tutte le sue forze la mano sulla bocca, come non volesse vomitare. Il fetore era tale che sembrava di non respirare più aria, e persino Vaan, abituato agli odori forti degli scarti lasciati a marcire al mercato, cercava di trattenere il fiato.

"Cos'è quella cosa? E' veramente di cattivo gusto, e manda un odore tremendo."

Senza staccare gli occhi dalla creatura, che camminando placida usciva dalla piscina e andava quasi a riempire la galleria con la sua mole, Fran rispose:

"Chuchulainn di Scorpio."

"E si suppone che io conosca quell'obbrobrio?"

Più che attaccarli o minacciarli, muoveva quieto dei passi in avanti, aumentando solo impercettibilmente il ritmo. Vaan e Amalia avevano a stento la reattività per fare dei passi all'indietro.

"E' uno dei dodici esper ribelli" iniziò lei "fu deputato a divorare ogni impurità dal mondo, ma i suoi creatori non credevano potesse esisterne tanta. Così finì schiavo della sua stessa voracia, e corrotto dal sudiciume che doveva mondare."

"Esper? E cosa mai sarebbe- oh, bè, mi interessa di più sapere se il signor filtro-rotto-e-sporco ci attaccherà."

Vaan inciampò all'indietro continuando a prendere le distanze dalla creatura. Amalia ebbe come uno sbotto di rabbia e lo sollevò violentemente per il gilet.

"Stai in guardia, incapace!" e seguendo il suo stesso consiglio portò la mano alla spada, che però lasciò in attesa come imponeva il suo stile di scherma.

Vaan le riservò per un solo istante una occhiata risentita che lei non considerò.

"Non proprio; ci ingloberà per divorarci, ma non tanto per attaccare noi, farà così con tutto quello che trova." illustrò Fran senza scomporsi.

"Eviterei volentieri questo trattamento. Idee?"

"E' un essere soprannaturale. Noi mortali non possiamo sconfiggerlo più di quanto non possiamo saltare fino al cielo e rubare una stella."

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Il fuoco liquido che l'areonave Ifrit aveva sputato bruciava le persone, ma non i palazzi, lasciandoli solo coperti di una spessa fuliggine nera. Penelo dalla piazza guardava il palazzo, vagando con lo sguardo in tutti i punti dove le pregiate pietre multicolori venivano sostituite da bande nere e compatte.

Seduta su uno di quei cornicioni che di solito erano il regno di Vaan, si strinse nelle ginocchia per evitare una folata del vento insolitamente freddo di quell'alba che ancora accennava soltanto, dietro il palazzo.

Si diceva già che il Console, conosciuto per il buon gusto estetico, avrebbe fatto ripulire a nuovo i terrazzi. Si diceva che alla fine questa "Resistenza" era davvero un pugno di sporchi terroristi, se avevano pensato una cosa così rischiosa per i cittadini al banchetto. Si diceva che la Resistenza era la speranza di Dalmasca, e se qualcuno aveva voglia di banchettare con gli arcadiani poteva benissimo saltare in aria con loro. Si diceva che la pace non sarebbe mai arrivata davvero. Si diceva che era meglio che finire come Nabradia. Si diceva che, dall'altro lato del mondo, Rozaria...

Si diceva...

Lei odiava tutto questo. Perchè tutti dovevano dire la loro già a poche ore dall'accaduto? Perchè dovevano sempre sentirsi parte di qualcosa di più grande, di più importante, di quello che veramente erano?

Solo a lei bastava la vita di tutti i giorni, la felicità di tutti i giorni, mangiare e danzare, lavorare e chiaccherare, l'amicizia e l'amore? Solo per lei era importante? Ci credeva solo lei? Cosa avevano di così importante in cui immischiarsi, continuamente, per cui distruggere le loro vite e quelle degli altri?

"E anche tu..." affondò la testa.

Capitava spesso che gli rivolgesse distrattamente delle frasi come se lui ci fosse. Ogni tanto si chiedeva se davvero Vaan se lo era meritato, se si era meritato la sua preoccupazione, il suo affetto, i suoi pensieri e le sue passioni, la sua attenzione continua ma silenziosa per tutto ciò che lo riguardava, tutt'altro che ricambiata.

Se lo avesse meritato, quando proprio dopo quella baraonda doveva scomparire, e lasciare lei come la madre di uno scapestrato che non riesce a dormire e prega che arrivi l'alba, e con l'alba le risposte: dov'è? Sta bene? Sa come mi fa stare? E' l'ultima volta o sarà sempre così?

Ma alla fine sì, lo aveva meritato. Perchè lui c'era, era con lei. In maniera immatura, irresposabile, egocentrica, Vaan era comunque la sua famiglia.

E alla fine, bisogna forse meritarselo, l'amore della propria famiglia?

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Ormai era quasi veloce, sebbene sembrasse che le sue gambette tozze e viscide scivolassero sul pavimento più che compiere passi. Vaan poteva vedere il suo corpo traslucido e verdastro, come un enorme budino di cedro. Dentro lo stomaco enorme e tondo danzava un vortice di rifiuti: pezzi di latta che lasciavano l'alone arancione della ruggine, provviste avariate che spandevano il grigiazzurro della muffa, e resti umani, ridotti a macchie rosso scuro. Con le braccia muscolose si accarezzava la pancia, dando l'impressione di spassarsela molto.

"Avete intenzione di combattere con me o no?" ringhiò Amalia, che ormai aveva camminato all'indietro fino a Balthier e Fran.

"Stiamo valutando."

La ragazza lo liquidò con una occhiata di disprezzo.

"E sia!"

Di nuovo fece mulinare la lama sottile come un elaborato gioco di prestigio, i bei motivi floreali smaltati sulla doppia elsa, di colori in tono con i gioielli di lei, si confusero fino a diventare linee multicolori che le volteggiavano intorno. Due falcate del braccio descrissero una croce di tagli nel ventre del suo nemico. Vaan saltò indietro convinto che si sarebbe aperto vomitando quella spazzatura ovunque. Invece, lasciò dei segni solo per un attimo, che si richiusero subito. Come affondare la lama nel fango.

"Ma cosa-" sentendo uno sfrigolio, Amalia si interruppe e guardò la spada, che andava corrodendosi rapidamente, e la gettò in acqua d'istinto.

Dall'acqua l'arma fu subito risucchiata dell'essere attraverso la pelle, e si unì al marasma nel suo stomaco. Si poteva vedere l'elsa distruggersi, lo smalto scrostarsi, e poi la lama sparire in una confusa macchia arruginita. Vaan intuì che quella cosa andava avanti nel tunnel assorbendo tutto quello toccava e inghiottendolo nel luridume: così sarebbero finiti anche loro.

Ora alzava un braccio verso Amalia come a darle uno schiaffo, che certamente avrebbe spezzato in due la ragazza data la differenza di dimensioni. Ma fu raggiunta prima da un calcio nella faccia di Vaan, ed entrambi finirono in acqua appena sotto il colpo. Il braccio si abbattè sul muro coperto di muschio, distruggendolo e rivelando frammenti di mosaici azzurri.

"Consigli? Suggerimenti?" esortò Balthier caricando il fucile.

"Sto pensando." tagliò corto Fran puntando l'arco.

Amalia si rialzò fradicia di acqua sporca e con lo stampo rosso di un piede sulla guancia. Come vide Vaan, gli puntò contro un dito.

"TU" urlò come fosse un insulto solo il fatto che lui fosse lui "hai colpito ME" calcò la parola come fosse un titolo nobiliare "NEL MIO VISO!"

"Ti ho salvato la vita, e guarda lì comunque."

Rimasti sott'acqua per qualche secondo, erano stati sorpassati da Chuchulainn che incombeva sugli altri due, che lo tempestavano inutilmente di colpi.

"Dobbiamo fare qualcosa!"

Amalia rimase immobile a fissarli.

"Che c'è, due volgari ladri non sono degni del tuo aiuto?" insinuò rabbioso.

"Taci."

La ragazza stese le mani come per abbracciare l'aria, e pronunciò: "DAR"

Gli occhi e i palmi si illuminarono di una luce soffusa, come luce che filtrasse da un vino rosso. Respirò intensamente, e quando espirò tutto il suo corpo trasudava barbigli di fumo nero, che formavano come una veste intorno a lei e poi si diffondevano come pennellate nell'aria.

"KA" Vaan cominciò ad allontanarsi intuendo l'andazzo.

"GA" le linee di un rosso scurissimo, quasi nero, si diffusero in tutte le direzioni come vino versato nell'acqua, e infine avvolsero gli arti e il corpo dell'esper come per stritolarlo. Ciascun membro della creatura venne tagliato a fette, e stramazzò a terra in una massa di pezzi gelatinosi e scomposti.

"Una magia discreta." commentò Fran riponendo l'arco.

Se la magia dei fulmini la faceva sudare e tremare, quella dell'ombra le diede un colorito pallido ed un aspetto rigido da notte insonne. Fece per lasciarsi andare contro un muro, ma poi impose al suo corpo di restare dritto, e ai suoi occhi di smettere di bruciare come per il troppo sonno: non poteva, mai, mostrarsi debole davanti a quei due delinquenti da quattro soldi. Si accostò a loro nascondendo lo stress tipico delle magie di quel livello.

"Da morto fa ancora più schifo." scherzava lui.

"Morto?" osservò Fran "Meglio toglierci di torno adesso."

"Concordo pienamente, abbiamo perso fin troppo tempo." sottolineò Amalia, e poi disse "dov'è l'altro ladruncolo?"

Si guardarono intorno, ma di Vaan non c'era traccia.

"Mph. Scappato." e quando Amalia finì la frase, era in coro con Balthier: "...con la pietra."

Dopo essersi guardati male di nuovo, si diressero alla piscina.

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Se Migelo aveva avuto un brutto presentimento per la serata, la realtà aveva soprassato la fantasia. La sparizione del ragazzo era la proverbiale ciliegina sulla torta, per citare un proverbio degli arcadiani.

Quasi tutto il servizio da tavola si era salvato, ma a guardare i piatti di portata ammassati, sia pure senza la benchè minima traccia della battaglia che avevano visto, gli venne comunque una gran malinconia.

Una volta lavati, li avrebbero portati via dalle cucine del palazzo e restituiti, dissero. Migelo si chiese se sarebbe mai più entrato a palazzo. Certamente se Vayne Solidor aveva voluto che lui organizzasse il banchetto, Re Raminas dal canto suo non lo avrebbe mai fatto, e lui non avrebbe mai messo piede a palazzo sotto la dinastia dei B'Nargin.

Già, il Console Solidor sembrava l'incarnazione del sogno di tanti: una vita dove la tua razza non decide chi sei, la tua nazione non decide chi devi odiare, i tuoi soldi non decidono le tue possibilità, e un mercante bangaa può organizzare il banchetto al palazzo reale.

Ma era un sogno, o forse un'illusione che Solidor stesso amava creare: la realtà era che, Arcadia contro Dalmasca o polizia militare contro terroristi ribelli, niente era cambiato, la violenza era rimasta e Solidor non portava niente di nuovo, che lo volesse o meno. E, che volesse o meno trattare i suoi schiavi da pari, sempre di schiavi si trattava. Schiavi che se si ribellavano potevano essere eliminati, ed erano stati eliminati.

Si accorse solo in quel momento che un residuo odore di carne bruciata era ancora nella cucina. Il suo olfatto ipersensibile non gli giunse in aiuto. Ebbe il desiderio impellente di uscire, di tornare nella sua bottega e rimanerci finchè viveva.

Forse, anzi certamente, il problema era solo desiderare di essere liberi, di poter superare i limiti che si doveva subire; e poi, un mercante non è comunque schiavo delle leggi di mercato? E i mortali non sono tutti schiavi del destino?

Gli huma sono soldati o mercanti, le viera sciamane o druide; i moguri scienziati o studiosi, i seeq braccianti o delinquenti; i numou sono sacerdoti, i garif sono eremiti; i bacnamus saccheggiano, gli urutan depredano; i bangaa come lui sono cacciatori di bestie, o di taglie. E così i dalmaschi sono sconfitti e subiranno il dominio, gli arcadiani sono conquistatori, e sopporteranno l'odio. Ognuno su Ivalice è legato ad un destino, e se lo varia anche di poco deve farlo soffrendo, e a testa bassa.

E certamente non solo lui la pensava così; dopo quella serata di sangue e fiamme, Rabanastre guardava al futuro, appunto, a testa bassa.

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Prese le misure della sala con l'osservazione, al trio non restò che dirigersi verso quella che sembrava l'uscita, il passaggio tra la Città Bassa e il cuore di Garamsythe.

Una larghissima scalinata, intervallata da una ragnatela di numerosi cancelli in successione, li separava dalla città. Intorno al salone disposti a semicerchio c'erano degli argani simili ad altari, di diversa altezza e lunghezza, evidenziati da cerchi magici nella roccia che brillavano attraverso il muschio; ma tentare di capirne il funzionamento per schiudere i cancelli avrebbe richiesto tempo e studio.

Amalia guardò di nuovo i compagni, e il pirata rispose al suo sguardo: "Sì credo di poter forzare i cancelli. Ho una certa dimestichezza con i meccanismi, serrature incluse."

"Allora perchè non lo fai? Ho gradito la vostra compagnia fin troppo a lungo." affrettò lei.

Ma prima che lui potesse risponderle sarcasticamente una specie di piagnucolio a volume altissimo li fece voltare.

"Abbiamo fatto tardi." sussurrò Fran.

Come se fosse stato ricucita da un sarto maldestro, la massa di pezzi di Chuchulaiin aveva ripreso una parvenza unitaria e dal canale era tornato nella vasca. Li scrutava seminascosto nell'acqua torbida, che ribolliva e schizzava sui muri tirandoci contro pezzi di rifiuti, come se li rigurgitasse.

Amalia tremò per un istante, immaginandosi sola in quel liquido oscuro, con quell'essere indistinto ma chiaramente percepibile, pronto a ingoiarla: in quel momento, lei sarebbe arrivata a desiderare di morire subito. Spaventata, pensò per un secondo di appoggiarsi alle spalle dell'uomo, e si maledisse per questo pensiero.

La testa stava per riemergere dall'acqua, quando Vaan urlò: "QUI, TRIPPONE!"

Girando un argano con tutte le tue forze, il ragazzo fece aprire una chiusa, e l'acqua sporca si rimescolò per un attimo con quella limpida, per poi venire riscucchiata dal canale. Attratto dalla forza dell'acqua, il corpo semiscomposto fu risucchiato con un lungo lamento, sempre più lontano nel fondo del lunghissimo canale che scendeva profondamente.

Vaan scoppiò a ridere trionfante.

"Sono vivo! Sono vivo! Sono AH-AH-AH! Vivo, vivissimo!" proclamava saltellando verso di loro "Ce l'ho fatta, sono-"

"...vivo. Mi fa piacere che tu te ne sia accorto." aggiunse Balthier.

"Però è stato brillante." riconobbe la viera "Non eravamo in grado di ucciderlo, ma confinarlo era possibile:"

"SI'! AH AH AH! Ci ho pensato vedendo le chiuse prima e sono corso qui! Mi ero nascosto perchè non sapevo se stava arrivando lui, o voi. Sono sopravvissuto al mostro leggendario!"

"Mostro leggendario?"

"Quello che fa ammalare la gente nella piazzetta sotterranea! Io l'ho trovato! Io l'ho gabbato!" esultava mentre gli altri lo guardavano scoraggiati.

Amalia sembrava incapace di dire quello che avrebbe voluto. Poi, come se dovesse a tutti i costi consegnare una onorificenza a qualcuno che non la meritava, si costrinse: "E' stata... una buona idea."

"MA CERTO! Dove altro deve andare una palla di merda, se non giù per il cesso?"

Quel minimo di riconoscenza nel viso di Amalia si frantumò lasciando due occhi sgranati e inorriditi.

"Il nostro amico parla come un ceffo dei bassifondi, ragazze."

"Lo sono!" commentò battendosi un pugno sul petto con orgoglio.

Amalia lo scostò con una mano in maniera brusca, aggiungendo "Basta. Andiamocene."

Come mise il piede sul primo gradino, i cancelli si aprirono tutti in sequenza. Lo sferragliare delle saracinesche li lasciò immobili ed in silenzio.

E allora, Vaan vide l'uomo che quella mattina aveva visto, distanziato da migliaia e migliaia di rabanastresi, a pochi scalini da lui. Ma alla minima reazione da parte di Amalia, potè sentire la voce di quell'uomo, completamente diversa da quella che aveva avuto la mattina. Non c'era umanità, passione o simpatia, solo una massima volontà di imposizione, un tono alto, sonante e secco come uno sparo nel silenzio.

"FERMI DOVE SIETE."

Poi, come se si fosse assicurato che la realtà rifletteva i suoi desideri e nessuno osasse muoversi, potè aggiungere con tono molto più basso: "Prendeteli."

E nel tempo che ci mise a dirlo, erano circondati.

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Questo capitolo non dovrebbe esistere. Doveva liquidare lo scontro con Chuchulainn in fretta, e passare ai giorni di prigionia di Ashe (sola) e del resto del gruppo. Ai tempi mi accorsi che non funzionava perchè lo scontro ingombrava troppo, e allora presi pezzetti da altre parti (pensieri di altri personaggi) creando "Scorpione" il che poi mi forzò a creare capitoli sparsi a nome di ciascuno (seguiranno "Gemelli", "Ariete", "Capricorno", "Bilancia", "Pesci & Cancro", "Toro", "Vergine & Sagittario", "Acquario & Leone"). Come avete capito, gli Esper -che ho voluto includere in quanto sono, per me, parte stessa dello spirito di Ivalice- NON compariranno nell'ordine in cui lo fanno (o NON lo fanno) nella storia.

Il tutto vuole essere una specie di scusa perchè l'idea di dedicare dei capitoli interi a degli scontri mi rimase e mi è tutt'ora un pò indigesta.

Vorrei infine precisare ad Hagaren e Shuriken che io fui, sono e sarò al 100% e senza ombra di dubbio un ragazzO. Mi rendo conto che tendenzialmente le donne scrivono molto meglio ma mi piace pensare di essere una parziale eccezione. Del resto se assumete che sono una ragazza è come dire che scrivo come una ragazza, il che è una specie di complimento.

Lascio la parola a Giglio e alle sue immancabili notazioni sulla grammatica, che non è così facile da controllare quando puoi scrivere solo con "Blocco Note."

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Capitolo 11
*** Prigionieri ***


Ed ecco voci, commenti e rumore di ferraglia, e il dolore di due guanti di ferro che gli stringevano le braccia magre, e sguardi d'intesa tra i suoi compagni di viaggio, il tutto rimescolato così che Vaan, in sostanza, non capiva più un accidente.

"I ladri che hanno rubato a palazzo."

"Allora è questa la gente che ha interrotto la festa?"

"Un volgare ladro, questo pensano che sia." sussurrò amaramente Amalia come se ignorare che era una terrorista la offendesse.

"Meglio di un volgare assassino, che dici?" rimarcò Balthier evidenziando l'ovvio.

Sembravano impegnati in una agguerrita competizione su chi Vaan poteva detestare di più. Poi Amalia si fermò, e piantò i piedi per terra di modo che i soldati non riuscivano a smuoverla. Il Console Solidor si voltò a guardarla, indecifrabile.

"Queste persone non sono miei compagni. Non hanno fatto niente, rilasciatele." ma non ricevette risposta se non una rapida voltata di spalle.

L'uscita di lei fu così inattesa che invece del "grazie" che avrebbe voluto dire, gli uscì solo un "Che cavolo fai?"

Lei lo guardò come per incenerirlo, e con la voce alta e severa, che schioccava in aria come una frusta, ordinò "NON INTERROMPERMI. STO PENSANDO."

Pensa a come salvare noi, pensò lui. Improvvisamente si rese conto che la mente di quella ragazza doveva essere oltre la sua comprensione, oltre la sua possibilità di giudicarla. Ma altrettanto rapidamente pensò che non aveva scuse per come si comportava. Poi qualcos'altro di infinitamente più importante di Amalia catturò il suo sguardo.

"Non sa quel che fa! Dovete lasciarlo andare! DOVETE!" diceva la biondina sbracciandosi tra i soldati.

Anche Amalia fu distratta dal trambusto, e rinunciò definitivamente alla sua capacità di calcolare una soluzione in tempo reale.

"Penelo!" chiamò lui, e a individuare il suo volto gli si strinse il cuore: troppo evidenti, i segni di una notte insonne. Con la voce quasi incrinata dal pianto, aggiunse "Scusami, la nostra cena dovrà aspettare."

Lei sgranò gli occhi come se solo allora capisse che Vaan non aveva scherzato quella mattina, e sbottò: "Te l'avevo detto! Sei uno stupido!"

"BASTA." urlò un soldato, sottolineando il concetto con un pugno che mandò il ragazzo a terra.

"Lascialo stare!"

Fu un attimo. Penelo correva verso Vaan, il soldato si frapponeva fra di loro, lo sguardo sulla ragazza, la mano alla spada, Balthier infine tra Penelo ed il soldato con naturalezza, come se niente fosse. Si slacciò il foulard color crema e lo pose nelle mani della ragazza. Il soldato era rimasto paralizzato, non capendo cosa succedeva.

"Lo terresti per me?" pregò Balthier con tono seduttivo, aggiungendo "solo finchè non riporto indietro Vaan, prometto." e con le mani ammanettate portò quelle di Penelo al suo stesso volto, così che il fazzoletto le asciugasse le lacrime.

La inumana calma di quell'uomo aveva pietrificato tutti, tranne Fran, che ebbe il tempo di voltarsi verso Solidor. Questi guardava Balthier con gli occhi stretti, come se nei lineamenti del suo compagno lui cercasse di ricordare qualcosa di importantissimo, eppure tenacemente suggevole.

E per la prima volta dopo anni, Fran vide il passato del suo compagno tornare a guardarlo, forse a pretenderlo. E ne ebbe paura.

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Ba'Gamnan non poteva dire di essere infelice. La più grande prova della sua vita era provare di essere degno della grande covata cui apparteneva, quei bangaa dai tratti aguzzi, la pelle verde tigrata d'arancio, forti e astuti nella caccia come pochi.

E l'aveva superata, ricavandone fama e rispetto.

I numerosi Clan di cacciatori di mostri cercavano sempre un contratto con lui - che marcissero all'altro mondo. I mostri erano noiosi, ti possono sfidare con la forza, ma quanto a intelligenza non sono capaci di competere. Cacciatore di taglie, quella era la vita per lui, una continua sfida che richiede ora forza ora astuzia, ora brutalità ora mediazione, insomma la quintessenza della caccia, come lui era la quintessenza del cacciatore.

Ma.

C'è sempre un ma. Nel suo caso "Ma quell'aviopirata non l'hai mai preso", la frase di prima scelta con cui chiunque della sua covata poteva metterlo a tacere. E dire che ci era arrivato così vicino. Così tante volte. E, cosa incredibilmente irritante, non per suo calcolo: sembrava che quel maledetto gli cadesse in bocca per puro caso, senza che nessuno dei due lo pianificasse, e altrettanto casualmente riuscisse sempre a sfuggirgli. E la cosa lo divertiva, per di più, mentre per Ba'Gamnan era una umiliazione ogni volta più incredibile, più insopportabile, più grottesca.

E naturalmente anche adesso il copione si ripeteva:

"E' Balthier quello, fratellone?" in tutta risposta, Ba'Gamnan si affacciò dal ponteggio su cui stavano immobili ad assorbire la luce del sole, verso il piccolo plotone. Il suo sibilo fu così acuto che persino i suoi fratelli ebbero un brivido.

"Che ha in testa quel puttaniere? Sta a me ammazzarlo, non a quei tardoni imperiali!" si lamentò, quasi che Balthier si fosse fatto arrestare non per altro che per fargli dispetto.

Nessuno dei suoi gli rispose. La taglia su Balthier chiedeva esplicitamente che fosse consegnato vivo. Ma ormai da tempo non c'entrava più la taglia, solo che nessuno ne faceva un problema. Era piuttosto chiaro che Ba'Gamnan non avrebbe sentito ragioni comunque.

Si protese ancora di più in avanti, stringendo la lunga coda intorno ad una trave per tenersi in equilibrio: qualcosa aveva catturato il suo interesse.

"Adesso ha un debole per le ragazzine? Forse la troia Viera è un pò passatella per lui?"

Uno dei fratelli fece per ridacchiare, ma la sorella maggiore sibilò verso di lui. C'era poco da ridere, l'ossessione di Ba'Gamnan era un bel guaio per tutti. Dopo aver osservato con calma, scoprì una fila di denti aguzzi e poi decise:

"Acchiappiamo la mocciosetta."

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Esisteva, infine, Ashelia B'Nargin Dalmasca?

Certamente no, disse a se stessa. Quella ragazza che tremava accovacciata, sola nell'angolo di una cella silenziosa e buia, i capelli gonfi e le mani tremanti che erano il prezzo della magia del tuono, come lo erano gli occhi irritati e le ossa intorpidite per la magia oscura, un vestito quasi indecente da accompagnatrice, bagnato fradicio di acqua puzzolente...

...non era l'erede al trono di Dalmasca. Non poteva esserlo, e non poteva essere niente. Quello era il pensiero più consolante che riusciva ad avere. E forse, pensò, sarebbe presto arrivato un soldato che con la sua lama trasformasse il suo "essere niente" psicologico in un "essere niente" biologico.

Se non altro, si consolava, sarebbe morta Amalia, la ribelle, e non Ashe, la speranza di Dalmasca. Ormai da tempo aveva imparato ad anteporre una lunga serie di ideali e istituzioni prima di sè stessa... o a provarci, perchè improvvisamente il semplice pensiero che non voleva morire si fece prepotentemente strada in lei.

E quasi che con la mente lo avesse chiamato, un soldato aprì la porta della cella proiettandovi dentro un fascio di luce che lei rifuggì con lo stesso istinto e la stessa motivazione degli scarafaggi: fuggire agli occhi del proprio carnefice.

Ma quasi a rassicurarla, dall'elmo color piombo la voce uscì con un tono che si sforzava di essere gentile:

"Il Console Solidor si scusa per averla fatta attendere qui, ma doveva soppesare alcuni elementi prima di decidere di sottoporla ad un diverso trattamento."

Aspettò una risposta di lei, che non venne.

"Potrà farsi un bagno ed avere delle vesti pulite, prima che il Console la riceva."

Soffocò con rabbia la gioia di non essere uccisa in quel momento: non aveva tempo. Pensare, calcolare, valutare. Re Raminas B'Nargin Dalmasca, suo padre, usava dire: "Gramis Ghana Solidor non muove un solo dito senza una ragione." Le venne immediatamente in mente di applicare il detto al figlio di lui.

La ragione di quel suo comportamento? In esso c'erano molti messaggi impliciti.

Il primo era piuttosto semplice: a lei nulla era dovuto, stava a lui e alla sua discrezione di concederle un trattamento civile o lasciarla a marcire in una cella buia, se, come e quando avesse preferito lui. Nessun modo più chiaro di esibire il potere di umiliarla, che non umiliarla direttamente.

Ma poi c'era un messaggio nel messaggio, ovvero il fatto stesso che lei fosse destinataria di qualsivoglia messaggio. Se Solidor voleva comunicare con lei, la reputava degna di attenzione. E certamente Solidor non reputava degna di attenzione la sconosciuta Amalia, ma la tanto cercata Principessa di Dalmasca. Lui lo sapeva.

E così aveva iniziato la partita con lei, a quel gioco fatto di promessi tradimenti, sottintesi inganni, benevole minacce: politica insomma.

A te la mossa, Ashe.

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Un qualcosa di orrendo che riguardava suo fratello, fiori rossi e lo sguardo spento che aveva da morto. Un sogno odioso che ricorreva spesso e che fortunatamente veniva dimenticato altrettanto spesso. Il che però non gli impediva di svegliarsi di soprassalto -cosa che risultava parecchio fastidiosa quando andava su qualche tetto con Penelo ed una coperta, per dormire sotto le stelle: le disgrazie potevano essere svegliare bruscamente Penelo, rotolare giù dal tetto, far rotolare giù la coperta, alternative o combinate.

Ma non trovò stelle, o Penelo, e tantomeno coperte.

"Sei sveglio." constatò una voce che non fu felice di sentire.

"Dove siamo?"

"Una prigione. Un sotterraneo in effetti, ma non cambia poi tanto."

Un posto bizzarro. Ricordava la Città Bassa di Rabanastre, ma non esattamente. Non era un insieme di depositi, magazzini, sotterranei e resti di più antichi strati di città ricollegati assieme; era qualcosa di più intenzionale, con pavimentazioni regolari, soldi colonnati e frequenti pozzi luce. E poi, le cicatrici del tempo sui muri, dai quali filtrava lentamente, riempendo il pavimento, la finissima sabbia dalmasca.

E mentre cercava di rigirarsi, togliendosi un pò di quella sabbia dalla faccia, balzò in piedi tentando senza molto successo di soffocare un grido. Semisepolto accanto a lui stava il corpo di un bangaa, rinsecchito al punto da sembrare una mummia.

"Rilassati, è solo un cadavere. Non ti bagnare i pantaloni." sospirò Balthier per poi sbadigliare, e si appoggiò con aria annoiata su un mucchio di cianfrusaglie assortite che occupava quasi due muri della stanza e un quarto di pavimento.

"In verità nemmeno è un sotterraneo come si deve" commentò con disapprovazione "semplicemente hanno sigillato la parte più bassa della fortezza. E dai un'occhiata, non siamo i primi a finirci dentro."

E finalmente ricollegò: il pugno doveva averlo steso per bene per dormire per tutto il viaggio... una prigione che era un sotterraneo, che era una fortezza: la città dove oppositori politici, delinquenti di mezzo continente e infine chi era semplicemente sfortunato veniva sbattuto dagli arcadiani, dove si poteva contare solo sulla legge della violenza. La prigione dove gli indesiderati venivano lasciati ad ammazzarsi tra di loro: Nalbina.

"Dov'è Fran?"

Senza alzarsi nè scomporsi, Balthier aprì solo un occhio mentre il resto del corpo sembrava dormire: "Ci cerca un'uscita."

Ancora un pò stordito, e con la faccia gonfia, Vaan si mise a sedere il più vicino possibile accanto all'unica persona che conosceva lì, per riprendersi. E adesso finalmente ne sentiva anche gli odori e i rumori: polvere, sudore, sangue; grugniti, sibili e insulti.

E ogni tanto, dalle profonfità rimbalzava sulle pareti qualche urlo di agonia. Uno fu così vicino che Vaan si alzò in piedi, tentato di lasciare la stanza per esplorare la città che dall'ampio portone scardinato si intravedeva appena.

Il corpo di Balthier rimase ancora una volta immobile, tanto che lui pensò di lasciarlo lì a dormire, ma sentì la sua voce interromperlo che già era sulla porta: "Ricorda il proverbio sulla curiosità che uccise qualcosa. Solo un consiglio amichevole."

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La prima mossa di Ashe era stata nascondere la sua identità. Aveva finto stupore, e di non sapere il perchè di quel trattamento di favore, e aveva indossato meravigliata il lungo vestito di veli bianchi, tenuto da sottili decori di rame, come se non avesse mai indossato niente di simile in vita sua.

Ma nessuno fece commenti. Le ancelle, che non ricordava di aver visto a palazzo prima, la lavarono e la vestirono mute e senza fare commenti: lui doveva averle istruite così. Per innervosirla, si chiese?

Anche il posto, come tutto il resto, conteneva un messaggio implicito.

Solo il pavimento chiaro era rimasto quello di un tempo. Tutto il resto della sala era stata inghiottita da un arredamento completamente diverso, di tendaggi e poltrone color rosso corallo e mobili d'ebano così lucido da sembrare gioielli neri; ovunque stavano gettate con aria di casualità rose color crema, che oltre a riempire la stanza di profumo gli davano un'aria vagamente celebrativa.

Poteva essere un funerale, e lo era: Solidor gli dava dei minuti per piangere, piangere la morte di coloro che la avevano seguita, e che avevano creduto in lei, e che non sarebbero tornati a casa. Piangere per il suo regno, per il futuro, e infine per se stessa, una ragazza di diciannove anni rimasta sola al mondo.

Ma lei, si disse mordendosi il labbro e stropicciandosi gli occhi, questa soddisfazione non gliel'avrebbe data. E così si trattenne, per quei minuti preziosi che scivolarono via, fin quando non sentì un lieve frusciare delle tende alle sue spalle.

In un servizio di porcellana nera le veniva offerto del te, il cui aroma di mela non tradiva: il tè di Bhujerba che amava fin da bambina.

E nel tempo che il servo sparì dinnanzi ai suoi occhi, lei aveva Vayne Carudas Solidor seduto davanti a lei.

"Buonasera."

Persino il suo vestire era un messaggio: una lieve veste nera a metà tra il gusto arcadiano e quello dalmasco, ma era ornata con motivi che risplendevano alla luce delle candele, che ricordavano fiamme incandescenti e fiumi purpurei di sangue. Si presentava a lei come incarnazione del massacro della sera prima.

Ashe non rispose al saluto se non con un cenno. Per tutta risposta, Vayne sorrise porgendogli la tazza e versandovi del te.

Di nuovo riflettere e ponderare. Bere il tè, o non farlo? Se avesse voluto avvelenarla non aveva bisogno di aspettare tanto e mettere su quella farsa... ma poteva contenere altro che veleno. Un siero della verità? Vossler le aveva insegnato a resisterne agli effetti. Ma avrebbe resistito, lei?

"Non ricorro a certi mezzucci." la interruppe Vayne intuendo i suoi pensieri.

Lei si concesse una stoccata in risposta: "Vedo che non indossate i vostri guanti. Avete sentito il bisogno di lavarvi le mani di recente?" il suo sorriso sprezzante svanì nella tazza di tè.

Lui però non lasciò spazio alle sue provocazioni, e cambiò totalmente argomento: "Gradite l'arredamento?"

"Importerebbe?"

"Sto pensando che se un reggente di diritto al trono di Dalmasca tornasse, certamente farei togliere la mobilia che incontra solo il mio gusto."

Adesso era chiaro, pensò lei: questo vuoi da me, un sovrano fantoccio. Conquistare Nabradia e poi Dalmasca significava che non c'era più terraferma che non fosse di Arcadia o Rozaria, o semplicemente Jagd, cioè terra di nessuno. Come sempre accadeva nella storia, mondo spaccato in due si preparava ad un conflitto mondiale, che Arcadia poteva evitare restituendo una parvenza di libertà ad uno stato o due, subito imitata da Rozaria, così che sembrasse che non avevano il mondo in pugno, che non erano pronti ad infilare interi paesi nei cannoni per spararseli a vicenda.

"La smetta. Entrambi sappiamo bene chi è l'uno e chi è l'altro."

"Io non credo che voi sappiate chi sono io." ribattè Vayne con tranquillità "Ma sono lieto che abbia smesso di insultare la mia intelligenza nascondendo la vostra identità in modo puerile."

"Lei non insulti la mia. Perchè sono viva? Con la collaborazione di Ondore, il mio nome l'avete ucciso. Perchè la mia persona vive?"

Vayne non cadde nella trappola di Ashe. Menzionando Ondore, sperava che Vayne si lasciasse scappare qualcosa ad indicare la colpevolezza o l'innocenza del Marchese. Ma niente. Rispose invece:

"Non ho interesse ad uccidere una donna indifesa."

"Ma un vecchio sovrano indifeso che ripone in voi la sua fiducia, vi abbassate invece ad ucciderlo." avrebbe voluto restare ferma nel dirlo, ma un brivido da ragazzina che perde il padre le attraversò comunque la schiena alterandone il tono per pochi secondi.

"Avete cospirato contro la mia vita stasera" constatò Vayne con un genuino sorriso sulle labbra "come io cospirai contro quella di vostro padre. Cosa vi rende migliore di me? Il fatto che io sono riuscito e voi avete fallito?"

"La... la guerra era finita." insistette lei, traballando; era più la calma dell'altro a metterla in crisi, che i suoi argomenti.

"Vostro padre non era così ingenuo da pensare che la guerra finisce quando si rimettono le spade nel fodero. La guerra, Principessa, non è un evento, ma un modo di essere." poi come se avesse parlato troppo, s'interruppe di colpo e poi riprese: "Vostro padre giocò contro di me una grande partita, e lo rispetto. Ma la perse. Voi cosa farete? Avete una risposta a questo?"

"Siete voi che eludete la mia domanda." s'irritò lei, comprendendo che correva seriamente il rischio di essere stordita con le chiacchere "Perchè sono viva?"

"Un motivo lo avete già inteso. L'altro tuttavia è estremamente più importante."

Il volto di lei si corrucciò: "L'altro?"

"Qualcosa di estremo valore per noi è stato rubato da palazzo. Tale è il valore, in effetti, che si potrebbe dire che questo oggetto ha causato la guerra."

"Che oggetto?"

"Un oggetto che" per un solo secondo Vayne tradì tutta la sua impazienza e la frustrazione "non c'è più, a palazzo."

Improvvisamente Ashe ricollegò pezzi scomposti nella sua mente: l'invasione, la distruzione di Nabradia, la ricerca, e quel ragazzo... come si chiamava quel ladruncolo? Una verità terrificante e oscura si sovrapponeva ad un'altra ironica, quasi paradossale. Per poco non scoppiò a ridere, ma si limitò a guardarlo, sorridendo.

"Siete finito."

"Prego?"

"Il palazzo è stato saccheggiato dai ladri, ho appurato. Quello che cercavate, l'arma da portare a vostro padre, l'imperatore, non c'è più e gli dei soltanto la troverebbero; io stessa neppure sotto tortura saprei dire dov'è adesso. Il mondo l'avete portato sul baratro, ed inutilmente: il vostro lavoro andrà sprecato."

Vayne la scrutò negli occhi a lungo, come per trovarci una menzogna. Ma trovò solo un grande rancore, tenace orgoglio, e la sicurezza di chi dice il vero.

"Un'arma per mio padre. Davvero di me non sapete niente." si rassegnò lui "eppure.... Eppure potete avere comunque un ruolo nell'evitare la guerra."

Ma incontrando di nuovo degli occhi inamovibili, non potè che chiedere incredulo: "Per farla pagare all'Impero, lascereste che il mondo fosse inghiottito da una guerra mondiale?"

Senza che avesse il tempo di pensarla, la risposta le uscì da sola:

"Assolutamente."


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Spero di aver reso bene quanto Ashe è contorta. Ho investito molto su di lei in questo capitolo.

E' molto tardi (del tipo non so se è mattina o notte) e quindi ci sarà un mare di errori. Correggerò con il tempo.

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Capitolo 12
*** Giudice ***


Si fermò un attimo, poggiò la sedia al centro della strada, e si sedette sopra.

Scricchiolò pericolosamente: del resto, se Migelo gli aveva detto di andare a buttarla c'era una ragione. Ma per lei pure quei legni vecchi e alleggeriti dai tarli erano un bel peso da portare.

Si asciugò il sudore sotto la frangia con una mano, e per un attimo, godette di un leggerissimo venticello fresco, che riempì la strada deserta e assolata nel giorno di riposo dei rabanastresi. Si battè un pugno contro il palmo, come un lottatore pronto a entrare sul ring, e si rialzò caricandosi la sedia in spalla.

Amava la calma assoluta del riposo settimanale.

Mentre camminava, qualcosa mise allerta i suoi sensi. Ma non rallentò nemmeno per un secondo.

Benchè non amasse la violenza, la maggior parte dei maghi era più edotta di magie per il combattimento che dei più complessi impieghi civili della sua arte. Sfogliando un incartapecorito, ma diffusissimo manuale per principianti del duello tra maghi, aveva letto qualcosa che ora... com'era...

"Il mago non è un dio al cospetto di chi non conosce le arti. Se nel mezzo del formulare un guerriero colpisce il mago, questi può ben morire prima che il suo potere sia scatenato. Così la presenza d'un guardiano fidato è consigliabile..."

"ID..." sussurrò.

La presenza dietro di lei si fece più netta. Qualcosa di veloce, sfuggente e preciso, che balzava da un balcone  all'altro emettendo nulla più che lievi fruscii.

"...ma se non ve n'è alcuna, non resta che formulare di nascosto, o fingendo altre attività. A tanta viltà s' abbassa il mago per sopravvivere..."

I fruscii si fecero vicinissimi.

"...RO..."

"...e sangue freddo e concentrazione abbia per compagni, nel formulare a bassa voce e con risolutezza."

Il bangaa saltò direttamente su di lei appena fece capolino da una balconata in disuso.

"....RA." non si trattenne dall'urlare l'ultima sillaba, lasciando cadere la sedia per terra.

Il bangaa rimase paralizzato a mezz'aria, e Penelo agitò il dito come un pennello invisibile. Intorno alla creatura si disegnarono linee luminose azzurre in un reticolato, poi linee verdi frastagliate, e scritte d'oro svolazzati. Era intrappolato in una bolla luminosa che ricordava un mappamondo di Ivalice.

"Salve." disse lei con un sorriso smagliante.

Il bangaa si arrampicava da un lato all'altro della sfera, torcendo il suo corpo flessuoso. Ma non urlava, non si dimenava: era stranamente tranquillo.

"Volevi qualcosa da me?" disse lei muovendo impercettibilmente le dita, come un burattinaio.

L'unica risposta fu uno sguardo carico di sarcasmo e sfida.

Come se si fosse aperta una fessura in cima alla sfera, si generò una piccola cascata d'acqua marina che iniziò a riempire la sfera dal fondo. Il bangaa guardò con calma curiosità i pesci esotici dagli sgargianti gialli, rossi, azzurri, che rimepivano quel piccolo spazio, frutto come anche l'acqua dell'artificio che imitava la natura.

"Ti converrebbe parlare prima di annegare: cosa vuoi?"

Un bluff bello e buono. I maghi neri che l'avevano preceduta, animati dalla forza di volontà e dall'ambizione, domavano gli elementi anzitutto per colpire e per uccidere. Ma lei non avrebbe potuto, a stento riusciva ad imporsi sulle forze naturali e sottomotterle, ed anche senza usare la magia... non avrebbe potuto guardare qualcuno mentre il suo potere lo annegava. Poteva solo sperare che il bangaa si lasciasse impressionare.

"Forse potrei allargare l'acquario e chiamare un pesciolone carnivoro?"

A parte il fatto che creando una magia troppo grande rischiava di essere vista dagli imperiali, non sapeva nemmeno se un pesce capace di mangiare un bangaa poteva essere creato. Iniziò a considerare di lasciarlo nella bolla e fuggire mentre la magia si affievoliva.

"Non vuoi proprio dirmi-"

Un anello metallico scuro e seghettato calò intorno al suo collo come un retino da pesca. Perse la concentrazione e la bolla si aprì spargendo acqua per tutta la strada. Il bangaa si scuotè mentre lei restava immobile. L'anello aveva iniziato a girare vorticosamente scintillando e, se lei avesse fatto un movimento sbagliato, le avrebbe lacerato il collo.

"La finta imboscata funziona sempre." commentò una sibilante voce da bangaa dietro di lei.

Lei rimase paralizzata.

"Ci hai messo un sacco, pensavo di restarci secco." protestò quello bagnato.

La sua paura non sembrava essere in alcun modo qualcosa di cui volessero tener conto.

"Ma la preda è nel sacco!"

L'anello si allontanò dal suo collo, ma prima che potesse voltarsi a vedere qualcosa prese una botta in testa, e il sole si spense.

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Gli Esuli dei seeq. Rifiutando la civilizzazione della loro specie, protestavano contro di essa con il loro stile di vita: poco più che bestie appostate nei vicoli bui, grugni porcini in attesa di fiutare l’odore della paura, violenza che esplodeva all’istante sulla vittima ignara.

Vergogna della loro specie, aborti della società dalmasca, creature senza un perchè. Ma a Nalbina, gli Esuli erano i campioni dei delinquenti, ed i delinquenti erano l’aristocrazia di quel mondo d’illegalità. Troppo manchevoli di intelletto per essere i signori di una comunità, eppure a loro stava il diritto di dare vita e morte alla popolazione della città prigione, girovagare seminando la paura come divinità caotiche e crudeli.

Vaan restò allucinato dall’interesse morboso con cui i carcerieri seguivano quella rissa tra Esuli avvinghiati nella sabbia, alcuni con ammutolito timore, altri esultando e sghignazzando, come pregustassero il sangue. Lui cercò di non essere notato né dai combattenti né dagli spettatori, relegandosi in un angolino.

Due contro due, le massicce creature si guardavano negli occhi rimanendo immobili dopo l’ennesima baruffa senza un vincitore. Poi accadde qualcosa: uno dei seeq si portò qualche passo indietro rispetto al suo compagno, e nel momento in cui l’altro si voltò a guardarlo, la mazza di uno degli avversari lo prese in pieno in volto.

Il seeq si rialzò sulle braccia grasse con una furente espressione di sfida che immediatamente cambiò,  tingendosi d’implorante terrore: il suo compagno, il suo alleato, ora stava accanto agli altri due pronto a colpirlo. Il colpo vibrò con violenza percepibile, salutato da un grufolato soddisfatto degli altri due seeq.

Di nuovo lo sconfitto alzò debolmente il capo, come per supplicare, ma stavolta trovò su di sè il più imponente e feroce, che si era fatto avanti spingendo via scortesemente il traditore. Con un brutto sorriso largo che scopriva denti aguzzi, il braccio armato si tese verso l’alto, una sentenza inequivocabile.

“NO, FERMI!” gridò il biondino sbucando dalla folla, un secondo prima che la vita del perdente fosse stroncata.

La piccola folla raggelò, e tutti gli occhi furono su Vaan. Mentre guardava con orrore il cervello del seeq impastato alla sabbia, si sentì come in dovere di spiegarsi.

“Era… era indifeso… non poteva fare più niente!” sputò fuori con il fiato corto per la paura, ma con chiaro risentimento.

L’ingenuità del suo atto sembrò d’un tratto imbarazzante persino a lui. Ma l’imbarazzo durò pochissimo, giusto prima che un manrovescio ben assestato gli facesse perdere i sensi.

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Il nulla. Nient’altro esisteva se non la negazione dell’esistenza, o la cosa più vicina ad essa che una mente di hume potesse concepire: una compatta unione di freddo, buio, umido, silenzio e immobilità.

Ed i ricordi, unica barriera che si poteva innalzare a difendersi dalla follia: l’odore dell’erba di Landis… lui sdraiato con suo fratello, insieme a dare nomi alle stelle, l’immensità del cielo notturno… ed enormi, misteriosi ed antichi nell’aspetto, i mulini che raccoglievano il vento, il suo soffio che accarezzava i campi. Hume e moguri che si affannavano intorno ad essi per ripararli, studiarli, o completarli aggiungendogli macine per molare il grano, forni e acquedotti; ed i chocobo che portavano fantini con le istruzioni da un mulino all’altro, e ancora lui e suo fratello, troppo piccoli per sentirsi parte di quel clima operoso.

Poi, come periodicamente accadeva, una luce color fiamma illuminò l’ambiente, facendo risplendere i mattoni intorno a lui, rendendo definite le sue braccia incatenate, le sbarre spesse della gabbia, il lungo pozzo. La luce discese fino ad avvolgerlo ed entrargli dentro.

Mentre una distinta sensazione di piacere e di vigore si impadroniva di lui, si dimenò urlando tutti gli insulti che conosceva verso la cima del pozzo, finchè la gola non gli sanguinò. Non che servisse a qualcosa.

Le sue membra diventavano trasparenti, come se le ossa e gli organi mandassero luce. Le sue braccia sprigionavano un’ampia vampata come se il suo corpo fosse diventato un uccello di fuoco multicolore. Era “Reiz”, o come era chiamata, “Rinascita Nel Grembo Della Fenice”: la magia bianca che rimetteva in sesto un guerriero anche ad un passo dalla morte. Strumento di cura trasformato in un mezzo di tortura: il prigioniero in assoluta solitudine, privo di qualsiasi contatto con la realtà, poteva essere tenuto in vita con Reiz anche per anni, finchè non fosse perso nella più nera insania.

Al punto che l’interrogatorio diventava un momento di gioia in cui si poteva riassaporare il gusto dell’esistenza, al punto che il carceriere diventava un salvatore, un amico, un confidente.

Ma lui sarebbe morto prima di passare quella soglia. O almeno, poteva pregare gli Dei per questo.

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Bastarono pochi secondi a capire dov’era: al centro del cerchio di sabbia, trascinato per un piede da uno dei tre Esuli seeq. Se ne accertò definitivamente quando il suo corpo intorpidito strisciò accanto al cadavere della loro precedente vittima.

Mollarono la presa, e fu lasciato libero di rialzarsi. La guancia pulsava al punto che il dolore sembrava una spinta verso sinistra, che lo sbilanciava. Pochi erano rimasti a guardare, forse scoraggiati dalla pietà o semplicemente disinteressati. Quei pochi però sembravano trattenersi dal ridere: era stato un idiota e a breve avrebbe pagato il prezzo della sua idiozia.

“Qualcosa puzza, qui, decisamente. Ho cambiato idea: non è un sotterraneo, ma un porcile.”

Vaan si voltò verso l’uomo che era saltato nell’arena: Balthier, che sottolineava il concetto sputando per terra.

Nessuno era più basito dei tre seeq, che lo fissavano incerti. Uno grugnì come per chiedere conferma.

“Ho detto che voi puzzate, prosciuttoni. Mi avete sentito, ora?” e portandosi accanto al ragazzo, aggiunse: “Tutto bene, Vaan?” con un tono che lo confortò inaspettatamente.

Voleva rispondere con un qualche ringraziamento, ma i seeq caricarono prima che avesse il tempo di farlo. Certo che quello di prima fosse soltanto un buffetto, optò per saltare ogni qualvolta la massa di carne lo sfiorava, schivando i colpi. Quel che accadde a Balthier fu ben più incredibile.

Il piede destro ed i pugni erano come di una compatta luce verdazzurro che lasciava una scia nell’aria: con un calcio dall’alto incassò la testa di un seeq nel suo corpo, deformandogli il cranio, e quello stramazzò al suolo; l’altro rallentò appena, ma ricevette due ganci allo stomaco che piegarono la sua schiena come fosse pasta di pane, per poi cadere anche lui, contorcendosi per il dolore e sputando sangue.

Vaan saltò intorno all’essere per la terza volta, ed unendo i piedi spiccò un saltello sulla sua nuca, sbilanciandolo fino a sfondare una palizzata con il muso; il suo avversario restò immobile, privo di sensi. Poi si volse verso il pirata.

“Come cavolo hai fatto?”

“L’innato carisma mi rende troppo affascinante per perdere contro esseri così brutti e sgraziati.”

“A maciullarli in quel modo” sottolineò stizzito “uno hume non può farlo.”

“Vero. Ma una druida viera può.” Spiegò indicando con un cenno un lato dell’arena.

Lì, vide Fran appoggiata quieta ad una colonna, le braccia conserte, solo un dito teso, illuminato dalla stessa luce.

"Brae Veri. Una magia verde che potenzia il fisico. Una vecchia specialità della mia compagna.”

Vaan lo guardò male: “Ed eri sembrato così figo a sfidare tre seeq a mani nude. Sei un baro.”

“Hai ragione” replicò lui, portandosi una mano al petto con espressione affranta, e proclamando: “I tre prosciuttoni combatterono sempre con le loro forze, come si conviene, mostrando vero coraggio nel massacrare ragazzini tre contro uno. Lode ai vincitori morali di questa leale competizione.”

E fece per trascinarlo via, incurante del suo cipiglio offeso.

“Bè, io invece-“ interruppe il ragazzo divincolandosi, e dando un calcio al sederone del seeq con la testa nella palizzata.

Ma a toccarlo ebbe come una scossa elettrica, e saltò all’indietro. Nel piantare la testa, il seeq si era conficcato un legno in gola, ed il suo sangue si spargeva sulla sabbia; non era incosciente, era morto.

Lui lo aveva ucciso.

“Un lavoro un po’ dozzinale, ma del resto non hai il phisique du rôle dell’assassino.” provocò l’uomo senza pietà, allegramente conscio del suo disagio.

Poi, visto che rimaneva immobile, riprese a tirarlo via con sé.

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“Prova a ripeterlo!” ingiunse il militare.

I sibili divertiti dei suoi compagni gli arrivarono alle orecchie.

“Perché, non ci senti? Ho detto che siete un pugno di idioti incapaci. Dov’è l’aviopirata che dicevate di avere in pugno?” fortunatamente, non pensava davvero di trovarlo lì, per questo era più divertito che irritato.

C’erano solo quattro seeq morti nella sabbia, ed un assembramento che si era disperso un secondo dopo il loro arrivo. Ma nessuna delle persone che aveva visto con Balthier quella mattina, o lui stesso.

“Tu avresti fatto di meglio, Ba’Gamnan? L’hai detto tu che te l’abbiamo soffiato. Il tuo lavoro l’abbiamo fatto noi! Non abbiamo bisogno di luridi caccia-taglie, l’Impero basta a riportare l’ordine.”

“La pensi così?” gli sibilò in faccia, con intensità “Forse dovrei inumidirmi la lama con te prima di ammazzare Balthier, che ne pensi?” al suo passo avanti, corrispose immediatamente un passo indietro del soldato, ora meno sicuro di sé.

Adesso, pensò soddisfatto, adesso che la mettiamo giù dura, come tutti gli hume perdi il controllo. Il momento in cui il suo status di predatore si rendeva chiaro nella mente del prossimo era la sua gioia, il suo orgoglio. Tanto più gustoso perché poteva esercitarlo contro chiunque, ed in qualsiasi momento, un diritto che la natura gli aveva conferito.

“Basta così, Ba’Gamnan.” S’intromise una voce fredda e ferma.

Tutti i presenti si guardarono negli occhi per un solo secondo, tutti assolutamente certi di aver provato lo stesso identico brivido. Poi i loro sguardi piombarono a terra, ed eccetto i passi metallici, non vi fu più alcun suono.

“L’Impero” continuò la voce “vuol trascurare le questioni di razza, quando si parla dei suoi più talentuosi servitori. E tuttavia, chi non usa rispetto all’Impero non ne avrà usato, allo stesso modo.”

“Vostro Onore-“ accennò appena Ba’Gamnan, ma la voce continuò come se lui non avesse aperto bocca.

“Viaggi libero per le nostre terre, perché tale è la volontà dell’Imperatore. Sono nel giusto?” e come se il discorso fosse chiuso senza che la domanda necessitasse risposta, ignorò il gorgoglio incerto del bangaa e si rivolse al soldato: “Dov’è il capitano?”

“In sede privata, Vostro Onore, pronto ad essere interrogato.”

“Questo non riguarda te, cacciatore.” Congedò sbrigativo l’uomo, e subito il bangaa pensò a come levarsi di torno senza dar disturbo.

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Quel tipo aveva l’aspetto d’un ufficiale arcadiano elevato al cubo. Portava una spessa armatura di piombo integrale con ornamenti ricchi e minacciosi al contempo, le cui corna dell’elmo lo facevano sembrare una creatura demoniaca. Il mantello nero recava uno stemma scarlatto che gli parve di aver già visto.

“Giudice.”

Per la prima volta, a Vaan sembrò di sentire una percepibile inquietudine nella voce di Fran.

Per quanto aveva sentito, le belle ragazze a Nalbina diventavano moneta di scambio, passando di maniaco in maniaco fino al peggiore, qualcuno che proprio non le faceva a fette, dopo averle violentate. Fran sembrava essere rimasta in un unico pezzo, perfettamente calma e persino un po’ distratta; doveva essere una tosta, e qualsiasi cosa facesse paura a lei poteva certamente farne a lui.

“Giudice?” bisbigliò senza muoversi dalla larga colonna a cui si teneva incollato, per sfuggire allo sguardo di quel gruppo poco rassicurante.

Balthier sbuffò con aria di sufficienza: “I sedicenti custodi di legge ed ordine ad Arcadia. Sono anche guardia d’elite del Casato Solidor, il che li rende in sostanza generali dell’esercito imperiale. Se me lo chiedi, sono più boia che giudici. In ogni caso” sospirò “gente non molto amichevole.”

Vaan si sporse il minimo che potè per vedere che stavano avendo una specie di battibecco, poi il bangaa e i suoi compagni schizzarono via per un corridoio. Il giudice invece, scendendo le scale, imboccò un’altra strada poco distante da dov’erano nascosti loro.

“Tempo per la preda di seguire il cacciatore” sogghignò Balthier.

Vaan portò gli occhi sul giudice che si allontanava. Qualcosa di profondamente intuitivo gli diceva che doveva mettere distanza da quel tipo, non corrergli dietro. Era più di una sensazione, come se un vento oscuro infestasse il passaggio di quello che, per quanto ne sapeva, era comunque un comunissimo hume.

“Ma-“

“C’è un’uscita dalla fossa.” Spiegò Fran intuendo le sue proteste“Solo che-“

“…solo che lei percepisce il mist. E quindi ci servono le armi. E la fossa e le armi…” con un cenno degli occhi Vaan indicò il giudice.

“La magia che protegge la porta è piuttosto forte, persino per me.” Puntualizzò Fran con il suo solito piglio annoiato.

“Ma a che servirà andare più in fondo sottoterra?” insistè il ragazzo.

“Cos’è, non ti fidi? Le viera hanno intuito. Se lei dice che si esce, si esce.”

Fu colto dalla sottile sensazione che stessero pensando che era un codardo, quindi non disse altro e fu il primo a seguire a distanza il giudice e l’altro soldato, senza la minima esitazione.

“Niente fretta, criminale in carriera” assicurò Balthier “ci siamo anche noi, non temere.”

“Non temo proprio niente” ribattè il ragazzo, sgattaiolando per mettere distanza tra loro “Sono un osso duro, io.” ribattè senza voltarsi a guardarlo, certo che avrebbe trovato un sorriso canzonatorio.

Per un istante strizzò gli occhi: doveva scacciare dalla mente l’immagine del seeq che giaceva sulla sabbia con la gola squarciata. Da lui.

Quasi non si rese conto che il giudice si era fermato, quando Balthier lo strattonò rapidamente dietro ad una colonna. E poi la vide: a forma di freccia verso l’alto, ornata da quattro grandi occhi di vetro che formavano un piccolo rosone, e sbarrata da quelli che sembravano rampicanti di un metallo opalescente, dai colori freddi. Un cancello magico galteano, incubo irrisolvibile di qualsiasi ladro o scassinatore per quanto audace. Non se ne intendeva di magia, ma era noto che persino per un mago schiudere un cancello magico galteano richiedeva tempo, preparazione ed una notevole potenza.

Il Giudice tese la mano, a stento sussurrando alcune frasi. I rampicanti sembrarono illuminarsi, poi diradarsi come se ritornassero sui loro passi, lasciando una sottile porta a due ante di metallo grigio che si aprì spontaneamente, quasi per dare il benvenuto al visitatore. Era bastata una manciata di secondi, ed un gesto appena accennato, incurante. Eppure persino Vaan, totalmente digiuno di magia, sentì i capelli rizzarsi per il potere che era stato toccato dal giudice.

Non potè che restare a bocca aperta e Balthier, appiccicato al muro accanto a lui, lo notò. E con un sorriso sarcastico commentò “Magari è un osso duro anche lui.”

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Non ho scuse per questo immane ritardo, causato da un periodo veramente difficile e che spero non si ripeta mai più.

In precedenza ho parlato del rischio di perdere una persona a me cara, rischio che purtroppo si è concretizzato in questo natale, passato nella dolce malinconia di chi si rende conto di avere ora solo i ricordi, comunque insostituibili. Se adesso questa persona potesse vedermi, certamente sorriderebbe per la sorpresa nello scoprirmi questo lato "creativo" di cui, divisi dall'età e dalla cultura, non abbiamo mai parlato. Mi piace pensare che, ovunque sia adesso, possa vedermi e, come ha sempre fatto e mi ha insegnato a fare, non mettere le nostre differenze davanti all'affetto che ci lega, accettando quindi che io le dedichi questo lavoro, che certamente le avrebbe fatto storcere il naso.

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Capitolo 13
*** Gemelli ***


“Ancora una volta!”

“Non vantarti troppo”  obiettò l’altro rialzandosi “sono ancora in vantaggio di uno o due duelli.”

“E per quanto ancora?” scherzò suo fratello tendendogli la mano.

Rimettendosi in piedi, la sua chioma biondo castano sbucò di nuovo dall’erba alta dei campi. Si guardò intorno.

“Ma è sera?” chiese e si incamminò senza aspettare risposta: l’odore misto di legna che bruciava, carne e ortaggi messi ad arrostire copriva ormai quello dell’erba tagliata e l’aria marina che veniva da lontano, rispondendogli già.

“Migliori di giorno in giorno” concesse infine quando l’altro raggiunse la sua sagoma, che rimpiccioliva contro il cielo purpureo.

Aggiunse poi “Forse tra qualche anno saremo pari” ed entrambi risero.

“Faremo un figurone, Noah” osservò l’altro “la milizia cerca gente come noi.”

Noah percorreva i campi con lo sguardo, cercando il falò più vicino. A Landis, chiunque poteva mangiare alla prima tavola che trovava. I suoi occhi erano scuri, pieni di disincanto.

“La milizia, Basch… cerca contadini e pescatori che abbiano voglia d’impugnare un’arma. Si contenta di questo.”

“Difendere la Repubblica è comunque un onore. Il nostro cuore è un’arma sufficiente contro una nazione che non crede in niente, una nazione che fagocita tutto quello che ha intorno.”

E sottolineò il concetto puntando la sua spada di legno verso il cielo, come fosse quella la forma che più si addiceva a rappresentare il suo cuore. Noah non rispose, individuò la luce di un falò poco oltre un mulino e si incamminò.

Era stanco di vivere nella paura. Stanco di giocare al soldato per i campi mentre l’ombra dei draghi dei Solidor incombeva su Landis. Le mire espansionistiche del Casato avevano toccato il cuore degli arcadiani, e una piccola nazione come la loro non era che un pezzo di mappa sul tavolo dei generali imperiali, un nome pronto a sparire dalle carte.

Eppure tutti amavano vivere nella patetica illusione che ben presto non sarebbero stati poco altro che schiavi. Nel convincimento che difendendo una sola parola, una idea astratta chiamata “libertà” che non si traduceva in altro che in un prezzo di sangue da pagare per non avere niente, avrebbero ottenuto qualcosa di più che affollare i cimiteri.

Suo fratello gli arrivò accanto. Era serio in volto, la sua implume barba di ragazzo gli dava un piglio da  adulto quando era corrucciato a quel modo. Ma come sempre tra loro due, quando volevano condividere i propri pensieri non si guardavano in faccia, ma preferivano volgere lo sguardo lontano, come se da un luogo remoto dovessero attingere ai sentimenti che volevano scambiarsi.

“So come la pensi” esordì cautamente “ma nel tuo animo devi sapere che varrà la pena resistere.”

“E’ speranza, la tua” sussurrò Noah quasi coperto da un soffio di vento “o solo sogni la guerra?”
 
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“Ti sei fatto magro, Basch. Sei meno di un’ombra. Meno di un uomo. Messo a morte, eppure vivi. Perché?”

La cosa rinchiusa dentro la gabbia, coperta di sangue e sporcizia umida, guardò un attimo nella voragine nera sotto di essa, incerta che quella fosse la realtà, se davvero fosse stata tirata fuori dal pozzo per un interrogatorio, o se fosse un’altra allucinazione. Poi, sputò poche parole dal cespuglio di capelli e barba incolti che gli coprivano la maggior parte del viso.

“Per ricattare Ondore. Per costringerlo al silenzio. Quante volte te lo devo ripetere?”

“Solo per questo?”

“Perché non lo chiedi a Vayne? Non è tra i tuoi padroni?”

Il giudice soffocò una risata sprezzante, come se Basch avesse fatto una battuta di cattivo gusto. Poi proseguì: “Abbiamo catturato uno dei capi della ribellione a Rabanastre. Una donna, Amalia. Chi sarà mai costei?”

Per un attimo, il viso del capitano si illuminò: la ribellione, o come si definivano, la Resistenza. Troppo era passato dall’ultimo interrogatorio, troppo per preservare la certezza che la Resistenza ci fosse ancora, troppo persino per tenere vivo il confortante pensiero che qualcuno ancora lottava. Poi riprese il controllo di sé, e mandò al giudice uno sguardo che non lasciava dubbi.

“Un cane fedele che si inchina al suo regno ormai caduto.” Commentò più a se stesso che al prigioniero, e quasi si voltò per andarsene.

“Meglio questo che abbandonare la propria patria.”

Il giudice si fermò per un attimo e sussultò come avesse avuto un brivido. Poi la voce che uscì pareva venisse da una creatura di un altro mondo.

“Abbandonarla come hai fatto tu?”

E ciò detto si avviò verso l’uscita con un passo che pareva troppo spedito per essere naturale, accompagnato da un’aura scura e gelida come una notte senza stelle.

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Non rimaneva che aspettare l’addetto che avrebbe fatto ridiscendere la gabbia nell’oscurità. Aspettare, e la sua compagnia era il senso di colpa. Ormai non era altro che un corpo paralizzato, tenuto in vita dalla magia, e non avrebbe avuto occasione di rimediare ad un errore ormai distante negli anni. Quasi sperò che l’addetto arrivasse in fretta, e che nelle tenebre del pozzo dimenticasse quella conversazione. Ed infatti i passi non tardarono a farsi sentire.

Ma non era l’addetto: erano tre persone che sbucavano dall’ombra delle colonne, chiaramente dopo aver ascoltato l'interrogatorio. Uno era uno hume impettito con un vestito elegante di gusto arcadiano, poi un ragazzino anche lui hume, gracile e biondo e infine, annusando l’aria e drizzando le candide orecchie, uscì dalla penombra quella che indubbiamente era una purosangue viera.

“Chi siete?”

Il ragazzino biondo lo guardava a bocca aperta. Aveva una brutta espressione, come se lui uscisse da un incubo. Gli altri due, invece, lo ignorarono esattamente come fosse stato un lampadario.

“E’ da qui?” chiese l’uomo alla ragazza.

Fran si concentrò sul myst, che solo lei percepiva, mettendolo a fuoco con tutti e cinque i sensi. C’era ancora una lieve impronta di myst color nero e ghiaccio, asettico e quasi immobile: era la traccia lasciata dal giudice, come attraversata da crepe color magma, quasi che una tempesta di emozioni ribollisse sotto la freddezza e la crudeltà. Intorno, ancora, vi erano come barbigli di myst color sangue sporco che defluivano verso l’alto dal pozzo, traccia di creature maledette che non gli sarebbero piaciute per niente. Infine, concentrandosi, vide il myst color arancio e oro, vivo e vitale, che si tuffava nel pozzo formando una specie di imbuto.

“Defluisce da qui. Da qualche parte andrà.”

“Per favore, non siete imperiali! Tiratemi fuori di qui, per-“

Avrebbe continuato, ma Balthier lo interruppe senza nemmeno guardarlo, mentre con lo sguardo sembrava occupato a valutare il pozzo: “E’ contro la mia politica parlare ai morti. Specie ai morti regicidi.”

“Non ho ucciso il Re.” Rispose Basch con tono fermo, privo di qualsiasi rabbia o ansia di dimostrare alcunché.

“Sul serio? Mi fa piacere saperlo.” E anziché guardare lui, tornò sulla sua compagna e gli fece cenno di andare giù.

Non trovando risposte incoraggianti, guardò il ragazzino: “Ti prego, almeno tu. Per il bene di Dalmasca-“ ma fu interrotto dall’inaspettata reazione dell’altro.

Con un salto di agilità non indifferente era già finito aggrappato alla gabbia, il volto distorto da una furia incontrollabile, gli occhi rossi come stesse per piangere. Urlava, prendendo a pugni la gabbia.

“DALMASCA! Che ti frega di Dalmasca? Tutto succede per colpa tua! Tutti quelli che sono morti, uno per uno- E HAI AMMAZZATO MIO FRATELLO!”

“Le guardie ci sentiranno.” Osservò Balthier senza scomporsi coperto dallo sbraitare di Vaan; ma Fran aveva già alzato la testa come avesse annusato qualcosa.

“La tiro giù.” Dichiarò senza attendere repliche, corse verso un meccanismo poco distante, diede un colpo alla leva al centro e saltò poco sopra Vaan.

Balthier la raggiunse mentre il meccanismo cigolava.

“Pirati senza cielo.” Furono le sue ultime parole mentre il meccanismo cedeva, e tutti e quattro sparivano nel pozzo con un clangore metallico.

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Il suo braccio fu stretto violentemente a mezz'aria, prima che potesse colpire il capitano ancora adagiato sulla gabbia ormai in pezzi. Lui gettò un urlo che rimbombò per il pozzo.

"Risparmiateci le vostre scaramucce." fece Balthier perentorio, lasciando il suo braccio dolorante.

"LUI! Lui è-"

"Sì, un traditore, va bene. Se vuoi resta pure qui a combattere. Se tu, invece" si rivolse a Basch "puoi camminare, noi si va."

"Lo portiamo con noi?" chiese Vaan inorridito.

"Avremmo un altro braccio che usi una spada."

"E lo avrete!" disse orgogliosamente il capitano, e con un visibile sforzo riuscì a mettersi in piedi.

Vaan sembrò indeciso tra quali parole usare. Fran, nel frattempo, guardò il puntino di luce fioca che era diventata la cima del pozzo. Se la gabbia non avesse attutito la caduta, si sarebbero sfracellati tutti. Si guardò intorno: erano in un enorme tunnel talmente maestoso da sembrare una lunghissima, infinita cattedrale; sotto i loro piedi passavano quelli che sembravano binari di un treno ormai consunti dal tempo, e tutto intorno erano stati aggiunti, palesemente postumi, dei rozzi circuiti elettrici arrangiati per dare l'illuminazione: il giallognolo delle lampadine ogni tanto si interrompeva ad intermittenze irregolari e scoordinate, creando dei giochi di luce con la pomposa architettura del sotterraneo.

"Barheim."

"Scusa?" si voltò il pirata.

"La grande ferrovia abbandonata che collega svariati punti del continente centrale. Passa anche sotto Nalbina. Qualcuno dice che il volto più splendido di Ivalice è quello nascosto dal sottosuolo." concluse, e Vaan ripensò a Garamsythe, l'acquedotto che si estendeva oltre la sua stessa città.

"Ottimo, quindi sbucheremo lontano dai nostri inseguitori. Dovremmo-"

"State bene a sentire!" sbottò il ragazzo adirato, guardando Basch "Non sono affatto disposto" disse sottolineando il concetto dando un calcio ad una grossa anfora "ad aiutare- MA CHE CAVOLO?!?!"

L'anfora si aprì in due con un suono umido di qualcosa di viscoso, disponendosi come le ali di un coleottero; al centro, c'era una cosa semitrasparente simile ad una larva, che spiegò rapidamente delle sottili zampette metalliche. Sbigottito, Vaan gli tirò immediatamente un calcio.

La creatura si arrampicò fino ad un primitivo impianto di alimentazione, e si attacco ad esso. Gradualmente la stanza si rabbuiò e rimase solo la larva che si era fatta fosforescente, e riluceva; Vaan la vide mutare da rosso-arancio in giallo fiamma, poi verdastro e infine di un brillante blu elettrico quando il buio fu totale.

"Chi ha spento le luci? Quel coso?"

Gli rispose una voce da qualche parte nell'oscurità, che riconobbe come Balthier.

"Ne ho sentito parlare: Mimic. Si camuffano come ogni sorta di oggetto per colpirti di sorpresa. Certi amano l'elettricità, mi dicono, e si attaccano alle prese per succhiarla."

"E?"

"E: giù le luci. E al buio è peggio. Molto, molto peggio." alluse, e solo allora Vaan sentì qualcosa che certamente non era nessuno di loro, muoversi molto vicino.

"Non preoccuparti" continuò il pirata "te la ridanno l'energia, se chiedi gentilmente. Anche insistere con un'arma aiuta." Poi risuonò uno sparo, la larva luminosa si spappolò ed i suoi resti piombarono a terra.

Mentre la luce tornava, Vaan vide i resti di quella cosa contorcersi come in preda al dolore, mentre il liquido che ne era uscito perdeva luminosità. Si voltò verso i suoi improvvisati compagni, e allora lo vide.

Era proteso verso Fran, strisciando intorno ad una crepa in un muro. Poteva esserci un uomo, un uomo molto emaciato e deforme, avvolto in quel sudario lacero ed unto, ma non poteva esserne certo: persino il volto era totalmente coperto. Si agitava in modo strano, come tremasse per delle convulsioni insopportabili: dava fastidio guardarlo, inquietava nel profondo. Ai suoi piedi, si contorcevano dei vermi grassi che dovevano cadere da qualche parte del suo corpo. Appena provò a distogliere lo sguardo, si accorse che ce n'erano altri, affacciati come per una morbosa curiosità da vari anfratti.

Appena fu del tutto illuminato, quelle cose sparirono negli angoli scuri della galleria, e Vaan notò l'indifferenza dei due pirati, mentre il capitano Basch squadrava serio quei punti dove, più che nascondersi, quelle creature sembravano essersi fuse con l'oscurità.

"Il volto più bello di Ivalice, eh? Cos'è, la bottega degli orrori?"

"Rilassati, ragazzino. Te l'ho detto, al buio è molto peggio."

"Che è quello schifo?"

"Coloro che hanno fatto un patto con il Mortifero, per rimanere vivi e continuare a immergersi nell'occulto." spiegò Fran placida incamminandosi verso la fine della galleria "Mi sembra che nei secoli diventino sempre meno umani." mentre parlava guardava in alto, come seguisse una traccia a mezz'aria.

"Il morfiero? Cos'è un morfiero?" ma la viera si allontanò senza dire altro.

"Noi andiamo eh? Ciao ragazzino." poi si rivolse a Basch e gli tirò una corta spada arruginita.

"Da dove viene?" chiese il capitano tirando due fendenti.

"Fran ha recuperato la nostra roba dal deposito ed una spada per il ragazzino. Puoi averla tu," e appena Vaan aprì bocca per protestare aggiunse con cattiveria "tanto tu hai ammazzato abbastanza per oggi, no?"

Fran e Balthier camminavano in silenzio e senza voltarsi. Solo Basch aspettò che si incamminasse anche lui, e rimase fermo finchè Vaan non mosse i primi passi.

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Il Iudex Magister Gabranth rimaneva immobile sul bordo del pozzo da quasi mezz'ora. Semplicemente, sembrava che la sua mente fosse altrove.

Finalmente, uno dei soldati dietro di lui ebbe il coraggio di aprire bocca.

"Vostro Onore, non so bene come sia successo, io-"

Il giudice alzò semplicemente una mano, e sembrò che la realtà si congelasse. Passarono altri minuti nel silenzio assoluto. Infine, Gabranth aprì bocca.

"E' stato subito dopo l'interrogatorio."

"Sì, Vostro Onore."

"Quanti metri sono?"

"Nessuno lo sa con certezza. Stiamo preparando una equipè per ritrovare il corpo."

"Il corpo?"

"Vostro Onore, con una caduta del genere-"

"Non troverete nessun corpo. Preparate la squadra e portatemi immediatamente in superficie. Vayne Solidor non sarà contento di questo."

Il solo pensiero mise le ali ai piedi a tutti i soldati e ciascuno schizzò immediatamente a fare quello che doveva. Solo Gabranth rimase ancora sul pozzo, osservando l'abisso scuro. Sotto il pesante elmo color piombo, allargò un sorriso.

"Non è così che finisce quell'uomo."

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Camminava dietro agli altri sospettoso come un paranoico, evitando con cura tutti gli oggetti che sembravano lasciati per caso in giro: casse, barili, vasi, e persino sassi. Non voleva svegliare altri mimic. Cercando di tenere il passo, si portò accanto a Fran. Lei non aprì bocca, e lui era messo a disagio dalla sua bellezza inconvenzionale. Quando fu chiaro che non aveva scelta, si decise a parlare, ignorando gli sguardi ironici di Balthier.

"Tu sai moltissime cose."

"Non veramente."

"Devi aver viaggiato molto."

"Abbastanza."

"Non conoscevo bestiacce come i mimic; la natura ne crea di cose strane."

Fran reagì male. Fece una smorfia come se avesse assaggiato qualcosa di disgustoso.

"Non sono naturali. Uno hume li ha creati."

"Come? Perchè?"

"E' tipico degli hume invidiare gli dei, loro creatori. Avrà pensato che creare delle macchine che cacciano, si riproducono e muoiono come esseri viventi sarebbe stato interessante. Ma gli sono sfuggiti di mano e si sono diffusi."

"Wow... questo chi te lo ha raccontato?"

Ci pensò un pò su, poi disse: "Salikawood."

"Migelo compra le noci da Salikawood... ma non è un bosco a nord di Nabradia?"

"Lascia perdere." chiuse lei.

"No davvero" insistè lui, deluso che quel contatto si fosse interrotto così rapidamente "chi te lo ha-"

Ma le parole gli morirono in gola. La galleria si era aperta su una cavità immensa, più grande di qualsiasi volta creata dall'uomo. Le scarse illuminazioni si riflettevano in un lago nero, sconfinato, tagliato in due dal ponte.

E allora lo colse: la stessa identica sensazione che lo aveva preso quando era uscito nel deserto da solo. Quel brivido che gli assicurava oltre ogni dubbio che lui era vivo, quel brivido che, capiva adesso, poteva provare solo di fronte all'immensità dell'ignoto, del nuovo, dell'inesplorato.

Questo prima di prendere una botta in testa.

Quando riaprì gli occhi si rese conto che il capitano Basch si era avventato su tutti e tre con la mole del suo corpo, imponente malgrado la denutrizione, e li aveva costretti a stare giù. Come gli altri, si premette contro un cumulo di mattoni abbandonati che li nascondeva.

"Adesso che altro c'è?" si lamentò Balthier con insofferenza.

"Un esper." specificò Fran incolore.

"L'ho visto appena." fece Basch.

Ma sussultarono tutti e quattro quando l'esper fluttuò volteggiante sopra le loro teste, passando da una parte all'altra del ponte. Sembrava un corpo annerito, scheletrito, con ali da pipistrello. Danzava abbracciato ad una donna splendida dalla lunga, fluente chioma nera; quando girarono e Vaan vide il suo bel viso, era contorto in una specie di urlo senza suono, e i suoi occhi erano coperti da una benda scarlatta. Poi girarono ancora, e Vaan si accorse che non erano abbracciati, i loro corpi erano fusi l'uno all'altro.

La creatura non sembrava interessata a loro.

Danzò silenziosamente fino a poggiarsi sulla superficie dell'acqua, e lì iniziò il frastuono. Vaan non seppe distinguere se erano risate, urla, o urla ritmiche che finivano col sembrare una risata. Intorno all'esper si alzarono dall'acqua dei fuochi fatui dalle tonalità violacee, formando un vortice. Spiraleggiarono intorno a lei come un mantello di luce che cambiò tonalità in dei verdi acidi troppo brillanti, che quasi ferivano gli occhi, e infine semplicemente sparì, e fu di nuovo silenzio.

"Bellissimo." commentò Vaan dopo qualche secondo.

"Zalera di Gemini, il Mortifero."

"Conosci anche quello?" fece Vaan rialzandosi, entusiasta.

Fran stava contemplando intensamente il punto in cui era sparito, come ci fosse qualcosa di assolutamente incredibile in quel preciso spazio vuoto.

"Fu preposto a guardia dell'entrata al mondo dei morti. Eppure bramava il mondo dei vivi, un mondo dove potesse usare il suo potere sui mortali. E così cercò il suo gemello, il suo corrispettivo nel regno dei vivi: una sacerdotessa cara agli dei, guardiana di anime. La forzò ad unirsi a lui, così che potessero vivere insieme al confine tra un mondo e l'altro."

"Quindi quella era la sacerdotessa! Perchè non l'hai detto?"

"Se lo avessi fatto...?" ribattè infastidita.

"Potevamo salvarla! Noi-" fu interrotto da uno scappellotto sulla nuca da Balthier che rimbombò per la cava.

"Devi essere idiota. Non andare in giro a far tua qualsiasi giusta causa ti balza tra i piedi, comprese quelle soprannaturali. Pensa alla pellaccia, piuttosto. Siamo ancora qui solo perchè non ci voleva nella sua collezione di anime, quindi leviamoci di torno prima che il padrone di casa cambi idea."

"Pensi solo a te stesso." accusò il ragazzo.

"Per questo sono vivo." rialzandosi, si spolverò e si guardò intorno come a misurare la cava con lo sguardo "se altre creature e bizzarrie di sorta non hanno niente da obiettare, si riparte."

Basch si fermò per un istante accanto a Fran, fissando anche lui dove era avvenuta la sparizione. Fran parlò senza guardarlo.

"Compatisci quegli esseri?"

"Cosa ve lo fa credere?"

Voltandosi, lei disse soltanto "Due gemelli indissolubilmente legati dall'amore e dall'odio, dove l'uno diventa l'altro e si perde nell'altro." poi, raggiunse il suo compagno.

Il capitano resto lì ancora qualche secondo.

"Le viera vedono lungo."

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"Non vi dirò bugie: Gabranth sta male. Molto, molto male." il guaritore gettò da un lato il suo impacco di erbe mediche, come se le rimproverasse per la loro inutilità.

"Quanto tempo ancora?" chiese Noah, e Basch lo odiò.

Come poteva parlare come se fosse possibile che la loro madre morisse? Ma il guaritore non sembrò condividere la sua incredulità.

"Se non faceste questa vita... la vita da bracciante non è salutare per una donna malata. Se si potesse-"

"Quanto?"

"Forse un anno, ragazzi."

Rimasero a lungo senza dire altro, quando se ne andò. La donna sembrava che semplicemente dormisse, dopo che almeno le avevano calmato il dolore, e per un bel pò non fecero altro che guardarla. Poi uscirono fuori, e camminarono fino ad uno degli antichi mulini, uno dove ancora i moguri non si erano messi a lavoro. Come da bambini, si arrampicarono sulla cima per vedere i campi sconfinati di Landis che scendevano dolcemente verso il mare.

"Addio ai nostri sogni, a quanto pare." interruppe il silenzio Noah, dopo molto tempo.

"Che vuoi dire?"

"Voglio dire che non possiamo servire la milizia repubblicana e curare la mamma al contempo" e aggiunse un paio di colorite bestemmie.

Il volto di Basch si contorse in una brutta espressione, carica di odio.

"Di chi è la colpa se mamma deve ammazzarsi di lavoro?" tirò un pugno al tetto del mulino, che parve tremare per intero "Dell'Impero!"

"L'Impero? Che c'entra?"

"Gli arcadiani! E' colpa loro se siamo poveri! Ci coprono di embarghi, e noi lavoriamo come bestie!"

Noah guardò chiaramente suo fratello in viso, stavolta. E non gli piacque quello che vide, la persona che solo adesso gli sembrava di vedere veramente.

"Basch... cosa vuoi dire di preciso?"

"Non ho mai... mai desiderato tanto... combattere nella milizia. Mai come oggi."

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Il ponte si affiancò ad altri che sormontavano il lago, per poi sparire nella parete di roccia opposta alla loro. Dopo una marcia che sembrò davvero troppo lunga, avevano percorso tutta la cava ed erano rientrati nella roccia. Lì si erano messi a riposare contro le pareti della galleria, che si era fatta più irregolare.

Solo Basch era rimasto in piedi, e si esercitava tirando di spada.

"Bella mossa quella, capitano." osservò Balthier con tono tutt'altro che convinto.

"Già, bella mossa, traditore bastardo." ringhiò Vaan.

Ma il capitano non rispose con altro che uno sguardo sconsolato.

"Così dicono, già." continuò Balthier poco convinto "Ma io non l'ho visto uccidere nessuno."

"Mio fratello lo ha visto."

"...Reks." fu come se il capitano gli avesse dato una scossa, a pronunciare quel nome con tanta nostalgia e affezione.

"Mi aveva detto di avere un fratello più giovane. Come sta-"

"Morto." lo fermò lui, perentorio.

"Mi spiace." mormorò l'altro a testa bassa.

"Sei tu che l'hai ammazzato!"

"Ti do la mia parola: non è andata così."

"Allora chi l'ha fatto fuori, un fantasma?"

"Un gemello." s'intromise Fran, piatta.

"Già, giusto, un gemello! Questo-" ma il suo sarcasmò morì appena guardò Fran negli occhi, capendo che non aveva scherzato.

"Allora lo sai davvero." concluse Basch, impressionato.

"Il mio popolo percepisce le impronte nel myst... le vostre sono identiche. Siete fratelli."

"Un gemello, eh? Bella storia. Ma ti dò atto che i conti tornano, e a quanto pare vi somigliate molto." riconobbe Balthier.

Solo Vaan rimase immobile ed adirato: "Non credo ad una sola parola."

"Lo capisco. Reks era lì per colpa mia. Ti chiedo perdono."

"E se fosse? Si fidava di te... mio fratello si fidava di te, e ha perso tutto. Perchè dovrei fidarmi io?"

"Non fidarti di me. Fidati di lui. Era un grande soldato, e combatteva per la sua terra... no, anzi, per suo fratello."

"Non ne sai niente!" urlò quasi il ragazzo, scattando in piedi, ferito da quell'intrusione.

Il capitano si alzò anche lui. Per l'ennesima volta, non oppose niente alla rabbia che gli era diretta. Lo guardò con rassegnazione, e poi si voltò per andarsene, e improvvisamente a Vaan parve incredibilmente provato.

"Credi quello che vuoi. Qualsiasi cosa possa renderti felice. Quel che è stato è stato." tagliò corto Balthier per chiudere il discorso.

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La strategia arcadiana si poteva definire semplice, o geniale.

Bombardare con le areonavi dall'alto, polverizzando le forze di Landis, significava incendiare i campi ed i villaggi, perdere tutto ciò che Arcadia si muoveva per conquistare; ma per Gramis Gana Solidor le nazioni non erano ostacoli da abbattere, ma tesori da aggiungere alla sua collezione.

Invece, avevano optato per attaccare a terra, combattendo centimetro per centimetro, casa per casa. L'erba alta di Landis faceva sparire alleati e nemici in un confuso sferragliare di armature e ondeggiare di spighe, senza poter vedere nulla.

Appoggiandosi ad uno dei grossi, lunghi cannoni arrugginiti, Noah si lasciò stramazzare al suolo e non riuscì a non ridere. Milioni di Gil perchè i moguri riesumassero i cannoni e li mettessero a loro disposizione, mesi di addestramento per  imparare ad usarli, risorse buttate per preparare una contraerea inutile: non una sola areonave arcadiana si vedeva in cielo, ed i cannoni restavano puntati verso l'alto, muti ed inutili.

L'erba continuava a muoversi freneticamente, ovunque risuonava il clangore e qualche urlo, ma tutti cercavano più che altro di nascondersi nel silenzio. Ogni tanto spiccavano alla vista le leggere bardature ramate della Milizia Repubblicana, che cozzavano contro le corazze plumbee degli arcadiani, quelle armature integrali che li facevano apparire come mostri, macchine da guerra prive di umanità.

Nel mezzo del massacro, Noah era solo.

Ferito alla spalla, anzichè rispondere al fendente del nemico si era gettato di lato, ed era sgattaiolato via; prima che potesse inseguirlo, l'arcadiano era stato intercettato da un miliziano che lo aveva impegnato in un duello.

Usò la spada d'ordinanza come sostengo, sebbene la sua forma ricurva a falce lo rendesse un bastone della vecchiaia alquanto sconsigliabile. Cercò di alzare la testa sopra l'erba, e cercò suo fratello.

Erano troppo giovani, disse a se stesso; troppo giovani, e la guerra era arrivata troppo presto.

"Se ci dovessimo perdere, ci ritroviamo al cannone sul versante occidentale." ripetè a se stesso, perchè quella promessa era l'unica speranza, l'unico sottile filo che ricollegava quella situazione alienante alla sua vita come la conosceva.

Nessuno venne, per ore.

Il combattimento continuò a lungo, e lui rimase accovacciato contro il cannone, a guardare il cielo che si scuriva. Ripensò alle arrostite, la sera, con tutte le famiglie riunite intorno alla brace, la chitarra e le canzoni che i ragazzi  puntualmente sfottevano -quanto erano vecchie, maledizione- e i bagni nel mare, di notte. E come lui e Basch si accorsero di essere arrossiti per la prima volta, quando la loro amica si era spogliata per entrare in acqua -come si chiamava quella ragazza?- e poi...

...e poi cosa ne era stato? Forse erano morti tutti. Il suo mondo era sparito.

Qualcosa lo riportò al presente. Un miliziano coperto di sangue e terra stava strisciando sotto il cannone per trovare rifugio, come lui. Improvvisamente si rese conto che non lo percepiva come un suo commilitone: avrebbe solo voluto che se ne andasse. Che andassero via tutti.

"Hai visto, sono venuto."

Solo in quel momento si rese conto che era suo fratello. Basch si tolse dalla faccia un pò di fango imbrattato di rosso e gli sorrise. Sembrava che vestisse il sangue come un completo della festa.

"Basch." non seppe che altro dire, che altro fare oltre a chiamarne il nome, come per persuadersi che era lui.

"A te come è andata?" chiese lui, tremando leggermente per i nervi.

"A-andata? Andata cosa?"

"Si fa notte." notò Basch senza prestargli molta attenzione "Io vado."

Noah non riuscì più a collegare le parole tra di loro.

"Vai dove? Che ti prende, per gli dei?!?"

"Se viene buio" spiegò "fischiano la ritirata. Ho ancora un paio d'ore per ammazzarne qualcuno." fece per strisciare via, ma Noah gli agguantò una spalla con violenza.

"AHI! Che fai?"

"Vuoi morire?" gli chiese, digrignando i denti.

"Piantala!" divincolò la spalla, dolorante "se vuoi stare a guardare, resta qui. Io sono un miliziano."

"Sono ferito. Se te ne vai-"

"Tornerò." non gli diede tempo di obiettare: strisciò via, e la sua figura rossastra sparì nell'erba alta.

Non tornò più.

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Dopo essersi ripetuto uguale a se stesso per una lunghezza incommensurabile, il magnifico tunnel era diventato opprimente. Ogni qualvolta il grossolano impianto elettrico saltava per pochi secondi, quelle creature immonde si affacciavano da ogni macchia di buio per scrutarli, esasperandoli. E c'era sempre da stare attenti a non urtare qualcosa che fosse un mimic camuffato.

Ogni tanto da una ferrovia si separavano altri tunnel, con scalinate impolverate che andavano verso il basso o verso l'alto. Ma per quanto provassero a risalire, dopo un pò erano costretti ad andare di nuovo verso il basso.

"Sei ancora sicura che ci sia un'uscita, eh?" insinuò Vaan quando non ne potè più.

Fran si voltò per rispondere, ma come era successo un altro paio di volte, il lamento di Zalera risuonò per le gallerie.

"Sempre più allegro." si lamentò il ragazzo.

"E' irrequieto." Spiegò Fran "Non gradisce i vivi."

"Stiamo facendo del nostro meglio per lasciarlo in pace." sbuffò il suo compagno.

Dopo pochi passi, si trovavano davanti ad una arcata che dava su una larghissima scalinata a trapezio. Non si poteva vedere dove portasse però, perchè era completamente occupata da grossi massi accatastati l'uno sull'altro.

"L'uscita è dall'altro lato." indicò la viera.

"Adesso è dall'altro lato, eh?"

"Dacci un taglio." ordinò Balthier.

"Come ti pare. Comunque come cavolo usciamo?"

"Fran congelerà le pietre. Sono friabili e piene d'acqua, questo le sbriciolerà. Poi le farà a pezzi." disse il pirata come fossero d'accordo.

"Come vuoi tu." obbedì la viera con una strana espressione voluttuosa, come se gli desse piacere obbedirlo.

Doveva esserci qualcosa di morboso nel loro rapporto, pensò Vaan. E lo pensò con una certa invidia: perchè solo la sua vita era così noiosa?

Fran pose la mano davanti alle labbra come se dovesse soffiare via della sabbia. Poi soffiò appena qualche sillaba.

"BLI..." una corrente di aria gelida e pura invase il loro lato del tunnel.

"Ehi, Fran." Vaan puntò il dito verso un insieme di oggetti sferici ammassati insieme alle pietre.

A stento si poteva notare la loro presenza, per come erano ben sistemati tra le rocce. Erano di pietra, ma avevano una miccia come fossero esplosivi; nella parte anteriore, erano scolpiti i contorni di una faccia stilizzata, corrucciata in una specie di smorfia furente.

"Non distrarla." si stizzì Balthier.

Il capitano Basch, al contrario, guardò anche lui dove aveva indicato il ragazzo con una certa apprensione. Le sfere iniziarono a vibrare. Intenta a completare la magia, la viera sembrava incapace di accorgersi di alcunchè.

"...TZA..." i capelli e gli occhi di Fran diventarono una massa fluente di energia di tonalità fredde, turbinanti come una tormenta.

"FRAN!"

"Insomma, ladruncolo-" l'espressione del pirata cambiò immediatamente, allarmandosi, appena vide le sfere.

Afferrò un braccio della compagna, e gli diede uno schiaffo. Le forze intorno a lei si placarono di botto, e rimase solo la sua espressione serena e vacua, ad osservare Balthier. Negli stessi istanti, le sfere si ricoprirono di fiamme e spiccarono il volo. Il fuoco si compattava nella forma di fauci aguzze aperte in un sorriso inumano, e occhi enormi e sporgenti che guardavano ossessivi. Volteggiarono su e giù per le arcate, illuminandole.

"Che altro c'è?" piagnucolò il ragazzo.

"Piros. Un'altro giocattolo di voi hume. Sono incantati per reagire negativamente alla magia. Probabilmente avevano riempito la galleria di questi per liberarsi dei ritornati." illustrò Fran massaggiandosi una guancia.

"Ritornati? E cosa sono i-"

Balthier alzò gli occhi al cielo: "Non farle ripetere le cose mille volte. Coloro che hanno fatto il patto con il Mortifero, bla bla bla. Ora abbiamo problemi meno ultraterreni, tipo questa tonnellata di rocce." sembrò intenzionato ad ignorare completamente le creature incandescenti che volavano per tutta la galleria.

"E quei... Piros?" chiese seguendoli con lo sguardo, mentre scorrazzavano per il soffito apparentemente disorientati.

"Quelli? Basta astenersi dalla magia perchè non saltino in aria. Problema risolto."

"Quindi vi ho salvato la vita!"

"Sì. Vuoi una medaglia?"

"Crepa."

"Se posso." s'intromise il capitano "avrei una soluzione."

"Hai la nostra attenzione, mio ufficialmente defunto amico."

"Scaviamo. Le togliamo una ad una."

"Sarà un giorno di lavoro."

"Un pò di moto farà bene!" proclamò Basch con un ottimismo non certo giustificato dal suo stato di salute; poi si battè un pugno contro la mano e si mise baldanzoso all'opera.

Vaan iniziò a chiedersi se non era quello un uomo che era meglio evitare di insultare e prendere a pugni.

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Grazie ad Hagaren per la partecipazione, seppure -eh eh- una recensione l'avrei gradita ugualmente!

Su questo capitolo. Come avrete notato è un gioco di parole, giacchè compare Zalera (Gemelli) e si parla di Basch e Noah (Gemelli). Come ha avuto Noah il nome di Gabranth? Per molto tempo è circolata in internet questa storia della madre dei due che morì, e del fatto che Noah prende il nome di lei - la cosa era reputata "canon" ma non c'è nel gioco, quindi o è una informazione nascosta, o detta dalla Square-Enix fuori dal gioco, o semplicemente non è da nessuna parte e quindi non è "canon". Quando scrissi però ero dell'idea che fosse "canon" e, anche se molti capitoli sono stati pesantemente rimaneggiati ed altri verranno scritti ex novo, ho lasciato questo elemento perchè lo trovo affine alla storia dei due.

P.S.: di tutti gli errori che non sopporto, il peggiore è che il discorso tra Ashe e Vayne è metà al lei e metà al voi. Per la vostra gioia, ho corretto ciò.

EDIT: scusate per il pezzo aggiunto. Esigenze di continuità mi hanno indotto a "traslocarlo", forse mutilando un pò il capitolo dopo.

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Capitolo 14
*** Spada ***


AVVERTENZE: parte del capitolo che vi apprestate a leggere avrebbe avuto molto più senso come conclusione del capitolo precedente. A fronte di ciò, l'ho tagliato e riposizionato, appunto, alla fine del precedente, nel riscrivere questa parte. Quindi consiglierei di leggere la fine di "Gemelli" prima di proseguire. Mi scuso per l'inconveniente.







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Qualcuno diceva che la vastità del deserto dalmasco non ha mura, ma è anch'essa una prigione.

Quel qualcuno doveva essere un idiota, pensò Vaan. Tutti e quattro rimasero seduti nella sabbia raffreddata dall'ombra dell'alto portone di pietra da cui erano usciti, ad aspettare che il Sole calasse. E per un pò, semplicemente, respirarono aria aperta.

"E dire che l'aria dalmasca può essere così dolce." fu il distratto commento del capitano dopo un pò.

Vaan lo guardò ancora. Non riusciva a non sentirsi a disagio.

"Dove siamo?"

"Ad est di Rabanastre. Il Sole è calato, muoviamoci prima di essiccare." alzandosi, guardò Basch e disse: "Ci separiamo, capitano."

"Il mio ritorno è già tardivo." rispose l'altro amaramente "l'odio del popolo non mi solleva dai miei doveri." poi si voltò verso loro tre, e chinando il capo, disse: "Vi ringrazio."

Non può essere, pensò Vaan. Accusato ingiustamente, pensava a soccorrere il popolo che lo disprezzava? E dopo aver spostato pietre per ore senza alcun ringraziamento, mostrava lui riconoscenza? Si faceva prendere a pugni da un moccioso senza difendersi? Cos'altro era disposto a sopportare? Non può esistere uno così. Era molto più semplice pensare che fosse una facciata, che avesse ucciso suo fratello, e che ogni sua parola fosse una menzogna. Doveva essere così.

"Fossi in te eviterei la folla. Sei ancora un traditore, qui." consigliò Balthier.

Veniva da chiedersi se fosse possibile riconoscerlo, o semplicemente sarebbe passato per un miserabile mendicante.

Basch iniziò a discendere il pendio a piedi. Forse i calli gli impedivano di bruciarsi, o forse semplicemente era stoico in tutto quello che faceva, notò Vaan impressionandosi al pensiero del male che doveva fare. Ma il capitano si voltò di botto e piantò gli occhi nei suoi.

"La Resistenza mi troverà. Presto. Voglia il destino che ci rivedremo. E renderò omaggio a tuo fratello."

Non riuscì a rispondergli nulla, nemmeno a provare rabbia. Quell'uomo semplicemente lo sconcertava.

Anche i due pirati fecero per andare.

"Ehi, e la pietra?"

"Oh, facci quel che ti pare. E' iellata."

Al suo sguardo interrogativo, intervenne la viera: "Ce ne siamo pentiti. Da quando abbiamo tentato di rubarla non abbiamo avuto che sventure."

"Tu che offri per averla?"

"E' MIA!" disse portando la mano al sacchetto che la conteneva; però iniziò a chiedersi se valesse davvero qualcosa, dato che Fran l'aveva ritrovata buttata insieme alla loro roba nel magazzino, e la avevano ridata giusto a lui senza nulla chiedere.

Forse a parte brillare non faceva nulla, e forse doveva cogliere quell'occasione e darla loro per qualcosa, qualsiasi cosa... ma prima che potesse decidersi, Balthier gli voltò le spalle annoiato.

"Allora perchè ce lo hai chiesto? Omaggi alla tua fidanzatina." lo pungolò scendendo giù per la duna.

Vaan rimase per un bel pò seduto nella sabbia fresca, finchè non notò di essere solo e disarmato nel deserto, un pasto ideale per un branco di fang. A quel punto decise di correre in direzione della città.

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"Giornata pesante?" chiese il suo compagno, abbracciando il corpo nudo di lei che si stagliava contro il tramonto di cui seguiva le linee colorate, leggendo in esse, penetrandole con lo sguardo come un testo antico.

Come spesso accadeva, non c'era molta differenza tra parlare con lei o con un qualsiasi animale da compagnia, da cui non ci si aspetta una risposta, cui si rivolge la parola solo per affetto. Ma un muu, che in comune con Fran aveva solo le orecchie, non risponde perchè incapace di parlare -e a che gli servirebbe? Il suo interesse non va oltre la prossima carota che il suo padrone gli darà; al contrario, il silenzio di Fran dimostrava che la sua mente era assente, vagava in luoghi insondabili e incomprensibili alla mente degli hume, proprio come fossero loro, ai suoi occhi, creature incapaci di vedere oltre il loro naso.

Niente di tutto questo, comunque, lo aveva mai scoraggiato dal parlarle. Come non aveva mai smesso di toccarla, sebbene per una viera, la cui specie era di un unico sesso, quelle carezze sulla pelle nuda non potevano avere il significato che avevano per uno hume.

"Pensavo di andare a bere qualcosa. Mi fai compagnia?"

Lei si voltò senza parlare e si diresse verso l'uscita della stanza. Mentre lo faceva, sulla sua pelle si disegnarono dei rampicanti metallici e scuri, che si infittirono fino a formare il suo succinto vestito.

Non c'era un leader, tra lui e la sua soprannaturale socia -se poi di società si poteva parlare; non c'era neanche un progetto, un piano condiviso di una vita insieme. Non c'era nulla, se non la realtà del loro essere l'uno accanto all'altra, senza un motivo, come due ruscelli che si uniscono in unico fiume, inevitabilmente legati da qualcosa di tanto naturale da non dover essere spiegato.

Mentre dei veli candidi come i suoi capelli si disegnavano sul suo corpo come una brezza, finendo di vestirla, lei si volse verso di lui e disse: "Lo rivedrai."

"Chi?"

"Quel ragazzo. Per lui sei un modello da seguire." fece scendendo le scale.

"Ma questo è un sogno che si realizza!" rispose lui seguendola, ma con un tono esasperato che smentiva le parole.

"Fosse almeno ricco potremmo tirargli un bello scherzo."

"Non è certo la mancanza di denaro a muoverti. Semmai l'odio che hai per esso."

"E la ragazza?" fece lui cambiando argomento "Rivedremo Amalia?"

"Vuoi possederla?" ribattè lei un pò annoiata.

Erano arrivati alla grande sala della taverna, e presero posto in un tavolino libero. Lui le venne molto vicino per non dover urlare, con il vocio che riempiva la Sandsea.

"Gelosa?"

"Non vale una mia unghia, per te." non lo disse con odio o disprezzo, ma come se lo dicesse lei per non farlo confessare al suo compagno, come semplicemente lo constatasse.

"Su questo non aver dubbi" confermò mentre alzava la mano per chiamare l'oste "ma devo togliermi qualche soddisfazione anch'io. Non lo dirò mai abbastanza, la tua specie deve avere un'esistenza noiosa. Tre quarti della nostra gira intorno a chi possiamo o non possiamo portarci a letto... a che pensano le viera tutto il giorno?"

Lei però non lo seguiva più, fissava nel vuoto; dopo poco tornò su di lui e disse: "Credo che rivedrai anche lei."

"Incoraggiante, ma ne dubito. Sarà la fidanzatina di qualche secondino a Nalbina, a quest'ora."

"Forse, ma forse no. Gli dei giocano con noi."

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"E come ti ho sempre detto" concluse il ragazzo, stiracchiandosi sul bancone della bottega come fosse un letto "una prigione non basta a fermarmi."

"E così sei evaso! Che mito!" commentò entusiasta Kytes.

"Sssshhh!" gesticolò Vaan saltando giù dal bancone, e benedicendo la totale assenza di clienti "Diamoci un taglio ora, ok? Dov'è Penelo? Fuori per consegne?"

Se anche la pietra non faceva molto più che luccicare, pensò, poteva comunque farci un buon prezzo al mercato; era meglio spararseli tutti con qualche matto acquisto, o permettersi razioni di kebab per il resto dei suoi giorni? In entrambi i casi Penelo avrebbe dovuto tributargli il suo successo, certo dopo aver festeggiato la sua miracolosa evasione con lacrime di gioia. Però prima di ogni altra cosa, gli avrebbe mostrato quel sasso splendente, che per inutile che fosse faceva comunque la sua maledetta figura. Ora era un ladro di alta levatura, altrochè.

"Macchè. Non l'ho vista tutt'oggi. Non è da lei far fuga così, però. Anche Migelo è corso non so dove poco fa."

"Un gran bentornato il mio, non c'è che dire. Suppongo che abbiano tutti di meglio da fare."

"Infatti mi hanno piantato qui a guardare il negozio. Avevo una consegna da fare per Dalan, ma non mi posso schiodare."

"Dalan, eh? Bè, non è che ho altri impegni."

La mostro a lui la pietra per cominciare, pensò. Forse ci darà un taglio con "Vaan l'Ammazzatopi" e passerà a qualcosa di più esaltante. "Vaan lo Spaccaprigioni"? Nah, sembra buono per un demolitore. "Vaan Arraffatesori"? Scontato, tutti i ladri arraffano tesori. Magari qualcosa su come aveva scaricato quel mostro obeso  giù per il cesso più profondo del pianeta... meglio di no, "Vaan lo Sciaquone" non suonava troppo bene.

Per un attimo, come una pugnalata, si piantò in lui il pensiero che una delle ultime persone ad aver visto suo fratello vivo era lì, in quella città, l'unico a potergli dare risposte, un senso a quella morte e di conseguenza, forse, un senso alla sua vita; un pensiero carico di dolore e rabbia, così vero ed autentico a fronte delle sue fantasie di ragazzino; un pensiero alla cui presenza si ribellò, scacciandolo con prepotenza dalla mente.

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Basch guardò il suo volto nello specchio, con i capelli accorciati e la barba quasi rasata; e la vistosa cicatrice che seguiva un suo sopracciglio, la cicatrice che avrebbe segnato quegli anni di permanenza nel pozzo sul suo volto.

Persino quella piccola stanzetta nascosta, in un sottoscala della città bassa, gli sembrava talmente ampia rispetto ai compatti muri di oscurità a cui si era abituato, da fargli girare la testa. Era l'ampiezza delle possibilità, la sensazione di essere libero ad inebriare, più che lo spazio materiale.

Dall'ammasso di vestiti usati che gli avevano messo a disposizione dei sandali alti, una camicia di tela larghissima color crema, e dei pantaloni da pescatore dello stesso colore; legò la camicia con un cordone color pistacchio, una specie di piccolo tocco di colore giusto per darsi un tono. L'esercito gli aveva scolpito dentro l'abitudine di non mostrare agli altri niente che non fosse disciplina, determinazione e una corrispondente cura di sè.

"Grazie per l'ospitalità" disse voltandosi al suo ex commilitone.

"L'ho fatto perchè me l'ha ordinato il capitano." sputò fuori l'altro, con un tono inequivocabilmente ostile.

"Ciononostante, grazie." ripetè lui uscendo.

Andava bene, pensò. Andava bene essere guardato così, e trattato così. Andava bene perdere due guerre, e affrontare la prigionia, e l'infamia. Andava persino bene scoprire che suo fratello era vivo solo nel momento in cui complottava per rovinargli l'esistenza.

Andava tutto bene, perchè la sua vita era solo l'espiazione di quell'errore commesso da ragazzo, un errore tale ai suoi occhi da giustificare ogni cosa che ne era seguita. Andava bene, perchè aveva ancora un compito da svolgere a questo mondo. Ma infine, andava bene semplicemente perchè non c'erano molte altre scelte. Piegarsi alle avversità, o stringere i denti guardando avanti.

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"Chi hai detto che ti manda?"

"Il vecchio Dalan. Dice di darla personalmente ad un certo Azelas." alzo di nuovo la spada del vecchio Ordine Militare Dalmasco, ormai sciolto.

Solo chi sapeva dove guardare poteva riconoscerla: ciascuna spada poteva essere diversa, perchè ciascun soldato aveva diritto alla sua personale arma, diversamente dai più disciplinati eserciti nabradiani e arcadiani, compatti ed omogenei. Quella che Vaan impugnava aveva un'elsa stretta, ed una lunga lama ricurva e robusta che la rendeva pesante; ma inastonata tra i fregi color pistacchio, come una piccola moneta di oro scuro, ecco l'effige dell'Ordine. E l'uomo piantò gli occhi immediatamente nel punto giusto, tra le mani di Vaan. Sospirò.

"Sfugge mai qualcosa a Dalan? Ha orecchie anche nei muri. Quel che vedi e senti qui, tienilo per te." non lo disse troppo convinto, come se avere quella spada in mano fosse già una sufficiente garanzia.

L'uomo saltò giù dalla cassa su cui sedeva, e la spostò; poi sposto il tappeto appeso al muro, rivelando un paio di maniglie; e infine le tirò, spostando il muro stesso come una porta scorrevole. Tirò letteralmente Vaan dentro, e poi richiuse in tutta fretta.

La sala aveva una certa aria d'importanza; più che uno dei magazzini della città bassa, i pilastri di pietra e le elioliti in perfetto funzionamento indicavano che proseguisse dalle fondamenta del palazzo reale. Diversi uomini erano in cerchio, vestiti come soldati dell'Ordine. E parecchio agitati.

"E che mi dite del proclama di Ondore? Hanno imbrogliato persino il Marchese di Bhujerba?"

"Ma se fosse vero? Sarebbe stato il giudice a uccidere il re, e non il capitano... tutto tornerebbe."

"Nel qual caso il capitano sarebbe fratello gemello di un giudice arcadiano! Come possiamo fidarci di lui?"

Il "lui" in questione entrò in quel momento da una porta sul retro. Vaan restò stupito per un attimo; ripreso il suo aspetto fiero, la capigliatura leonina, il corpo nonostante tutto ancora robusto, Basch von Ronsenburg sembrava un'altra persona. E non fu l'unico a pensarlo.

"Il Basch che conoscevo una volta."

Prima del suo commento, Vaan non aveva notato prima l'energumeno in cuoio e metallo che stava silenzioso appoggiato contro un muro. La sua immobilità lo rendeva quasi invisibile. Ma non era dubbi su chi era, per più di qualche secondo: l' "Azelas" nominato da Dalan, il capitano Vossler.

"Ti batterai al mio fianco?" chiese l'altro.

Lo stupì la differenza di atteggiamento tra quello che Basch teneva con lui, e quello con il suo commilitone. Non c'era niente del rimorso o della frustrazione che aveva sentito nella sua voce il giorno prima, niente cedimenti, concessioni al proprio sentimento, niente di più o di meno che semplice richiesta di informazioni ed istruzioni. Semplice, diretto e coinciso: un soldato. Al contrario, il piccolo gruppetto vicino Vaan ricominciò il brusio.

"La sua parola da sola vale nulla."

"Meglio la sua che quella di un fanfarone come Ondore."

"E Reks? Bugiardo anche lui?"

Lì non riuscì a non intervenire.

"Mio fratello non era un bugiardo!"

"Al contrario"  riprese Basch, e di nuovo sentì un timbro delicato nella sua voce "Reks era il testimone onesto che serviva loro. Così che apparissi come l'assassino del Re. Reks non ha colpa, il fato l'ha condannato."

"E così, abbiamo il fratello di Reks." Vossler sembrò essersi semplicemente teletrasportato davanti a Vaan, quando afferrò la spada dell'Ordine strappandogliela di mano "Le tue parole possono aggirare un ragazzino, ma non pesano a sufficienza sulla mia bilancia. Le nostre strade resteranno divise."

"Non credi di dover salvare... Amalia?" Vaan sobbalzò nel sentire il nome, mentre l'espressione di Vossler sembrò come ferita, per un brevissimo istante.

"Ho le vite dei miei uomini nelle mani" disse in fine, tradendo stanchezza "in ogni ombra devo vedere nemici; la notte che muovemmo per la vita di Vayne Solidor, lui sapeva; un vantaggio che non gli lascerò più. Mi trovo costretto a trattare te come tratterei Ondore. Come tratterei qualsiasi servitore dell'Impero."

"Quindi cosa farai?" sbottò Basch con improvvisa veemenza "Mi metterai in catene?"

L'atmosfera si era appesantita in pochi secondi. Tutti tacevano religiosamente, e i due si fissavano negli occhi senza considerare nessun altro nella sala, come pronti a mettere mano alla spada. Non volò una mosca.

Poi Vossler tirò la spada al suo compagno, che la afferrò a mezz'aria.

"Certe cose non cambiano mai, vero?"

"Prestami ascolto, Basch. La tua gabbia potrà non avere sbarre, ma di gabbia si tratta cionondimeno. Gli occhi della resistenza ti sorveglieranno imperterriti."

"Che facciano pure." chiuse l'altro girandosi, e sorpassando tutti nella stanza compreso Vaan "Di gabbie ne so qualcosa." e si sbattè dietro la porta.

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"E così, è compiuto." commentò Dalan accarezzando il muu sulle sue ginocchia "Ma basterà una spada a ricordargli cos'era l'Ordine per lui?"

"Perchè non me lo dici tu, vecchia ciminiera? Credevo avessi spie anche dentro il cuore della gente oramai."

Un sorriso si allargò sotto i morbidi baffi bianchi, ed in una nuvola di fumo uscì la domanda "Ti sento ostile, Azelas?"

Un ragazzo aprì la porta della casa di Dalan, ma bastò un'occhiata del capitano Vossler perchè sparisse immediatamente chiudendo con la massima fretta. Lui si appoggiò alla porta con tutta la sua mole, assicurandosi che nessuno li disturbasse più.

"Devi credermi stupido. Ignoro forse perchè hai mandato il fratello di Reks a consegnare la spada?"

"Lo ignori?" provocò il vecchio.

"Per influenzare il giudizio dei miei uomini! Se il fratello della sua vittima crede in lui, possiamo non credere noi? Possiamo dubitare?"

"E tu, Azelas? Dubiti, tu?" prese un vassoio ricolmo di piccole polpette di riso bianco con carote e zucchero, i dolci con cui accoglieva gli ospiti; lo appoggiò vicino al capitano, che non lo degnò di uno sguardo.

"Ciò di cui ho sempre dubitato erano le menzogne che lo accusavano." ammise quasi sollevato.

"Allora è un'altra la fonte delle tue paure? Credevo fossi venuto qui per accusarmi di qualcosa."

"Accusarti è una perdita di tempo, canaglia. Rideresti in faccia anche agli dei in persona, sputandogli fumo addosso. Ma hai ragione, altri sono i miei timori. Un mio amico ritorna, ma non è più un simbolo di unione e forza; gli uomini non possono vedere in lui lo spirito dell'Ordine, come un tempo era."

"Certo, certo. Un povero profugo che ha combattuto tutta la vita, un reietto che acquista stima agli occhi del Re in persona! Uno stendardo difficile da sostituire." dato che il capitano non li apprezzava, riavvicinò a se il vassoio e mise sul palmo un dolcetto che il muu iniziò a sbocconcellare.

"E la sua storia è la storia di Dalmasca che si riflette in lui. Il regno è fiaccato, diviso, svuotato. Non importa chi porta la spada: una spada da sola non può spaccare in due un Impero." aggiunse Vossler.

Gli occhi grigioazzurri di Dalan, perennemente socchiusi, si spalancarono finalmente piantandosi in quelli neri del capitano.

"Quindi cosa sei venuto a chiedermi? Vuoi forse che raccolga voci per te... perchè tu conosca l'umore del popolo? Vuoi sapere se il tuo pessimismo è condiviso?"

"Qualcosa di simile.... o anche sapere, finalmente, come si potranno mai raccogliere voci d'una città intera senza fare altro mai che oziare a casa propria."

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Vaan camminava tenendo la testa appoggiata sulle sue mani giunte, come potesse da un momento all'altro cadere all'indietro e spaparanzarsi lì dov'era. L'aria di casa gli era mancata. Dietro di lui, il capitano Basch camminava più silenzioso e mesto.

Vaan si fermò un attimo: "Così è vero... Amalia era nella resistenza."

"La conosci!?!" esclamò sorpreso l'altro.

"Più o meno... l'ho incontrata giusto prima che ci schiaffassero a Nalbina. Ho conosciuto gente più simpatica."

"Le nostre strade continuano a incrociarsi... è più di una coincidenza."

"...una gran rottura."

"Mi spiace." chinò il capo "Permettimi un'ultima seccatura, allora: per favore, portami da Balthier." ed allo sguardo interrogativo del ragazzo, precisò "Anche un uccello in gabbia ha bisogno delle ali."

Il ragazzo annuì: "Con questo siamo pari."

"Pari?"

"Per Nalbina. Se non ti spaccavi la schiena a scavare, non ne uscivamo."

Senza cambiare posizione, si rimise a camminare. Basch si ferò ad una bancarella che odorava di canfora, e prese un gilet di un tessuto resistente e ruvido, di un rosso fuoco sbiadito dal tempo; diede un paio di gil al venditore e lo indossò, gli stava terribilmente largo e sformato. Quando si voltò di nuovo, Vaan era quasi alle scale per lasciare la Città Bassa.

Il caos operoso di Rabanastre esplose intorno a loro. Basch osservò un gruppo di ragazzini sporchi in disparte, che si dividevano delle mele e giocavano a spintonarsi.

"Un sacco di bambini sono rimasti soli con la guerra. I miei... anche prima. La peste li prese entrambi."

"Mi spiace, non lo sapevo."

"E' a posto. Ormai saranno, che, cinque anni. Noi abbiamo vissuto con Penelo e la sua famiglia. Poi è arrivata la guerra, e anche loro..."

"Mi spiace."

"Insomma, dacci un taglio con le scuse. E' a posto, davvero. So che non è colpa tua..." si dovette sforzare di proseguire "...che non hai ucciso mio fratello."

Non seppe mai cosa lo aveva convinto, in sostanza. Forse davvero come diceva Vossler si era semplicemente fatto fregare; forse, al contrario, per una volta non voleva guardare le cose come un bambino ma come un uomo, nella giusta prospettiva, con equilibrio. Più probabilmente, fu il suo stesso istinto a dirglielo.

Alzà lo sguardo verso uno stendardo rosso, con un'effige nera e oro che rappresentava due draghi che si avvolgevano intorno ad una spada.

"L'Impero lo ha ucciso." sentì come il nascere di una identità, nell'odio e nella rabbia che aveva messo in quella frase.

Non sarebbe più stato una semplice vittima inconsapevole degli eventi, come i suoi genitori e suo fratello; avrebbe dato una forma ed un senso alle cose. Alla sua vita. Si voltò verso il capitano, c'era nei suoi occhi un rispetto profondo, e quasi una sorta di dolcezza.

"Mio fratello credeva in te. E..." le ultime parole gli uscirono praticamente a forza.

"...e aveva ragione."

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Capitolo 15
*** Ali ***


"Come ho detto, una incomprensione."

Ad eccezione di Balthier e Fran, la Sandsea non era molto tranquilla, per essere un mezzogiorno come tanti altri. Un seeq era entrato con un compagno e aveva grufolato di voler mangiare. Aveva rotto una sedia con la sua mole, e se n'era scusato; ma un avventore aveva colto la palla al balzo per una battuta razzista sui seeq. E rissa fu.

Ma la coppia era pacata come non mai nel mangiare le loro pite al kebab (con forchetta e coltello: si vede che non sono dalmaschi di nascita) mentre una sedia volava sopra la loro testa e si schiantava contro un muro, e Balthier sorseggiava delicatamente il vino con Migelo che gli urlava contro, mai stato così animalesco: più che parlare, gorgogliare come un calderone, sospirare ogni tanto o meglio emettere sibili acuti e fastidiosi. Lo tollerarono, perchè capivano la sua angoscia -ma senza scomporsi.

"Incomprensione! Io comprendo, e perfettamente! Comprendo che hanno rapito Penelo a causa vostra!"

"PENELO COSA!?!" Balthier alzò gli occhi al cielo: non aveva previsto che potesse arrivare il ragazzino petulante.

Per qualche secondo sperò che una seconda sedia volasse fuori dalla marmaglia colpendo il poppante in testa; ma niente, e allora la cosa era un pò più complessa da gestire.

"VAAN!" Migelo non seppe se abbracciarlo o rompergli le ossa per i suoi trascorsi, e optò per una terza soluzione: rimandare il tutto.

"Hanno rapito Penelo e-" si interruppe per un sibilo "c'è una nota per questo Balthier... di venire a prenderla alle miniere di Bhujerba."

"Ba'Gamnan" notificò Fran incolore, studiando dubbiosa il boccone che ha davanti: le viera trovavano sempre che gli hume cucinassero troppo il loro cibo.

Vaan avrebbe preso tutti e due a sberle; il loro menefreghismo era già irritante quando lo rivolgevano a lui, ma Penelo... in qualche modo aveva sempre pensato, capiva solo ora, che qualsiasi stupida cosa lui avesse fatto Penelo sarebbe sempre stata al sicuro, in bottega, a cucinare. Non poteva essersi sbagliato, pensò. Non poteva succederle qualcosa di male. E non per aver difeso lui...

"Se qualcosa succede a quella dolce bambina-" sibilò il mercante "oh, perchè! E ho la memoria dei suoi genitori da onorare! Dovete andare voi a salvarla! I pirati fanno questo genere di cose, no?"

Per un attimo Balthier meditò di chiudere la conversazione rispondendo "no, veramente no." Ma di nuovo preferì essere diplomatico.

"Non brillo per l'obbedienza agli ordini. E avrai saputo, la flotta imperiale al momento si raduna a Bhujerba."

"Va bene, andrò io!" sbottò Vaan "Almeno hai una nave, no! Portami lì e poi me la sbrigo io."

"Verrò con te." dietro di lui apparve Basch, e gli diede una pacca su una spalla per  supportarlo, ma evidentemente un pò troppo forte perchè quasi arrivò a terra "Ho una questione da risolvere, a Bhujerba."

"Un'udienza con il Marchese,  si dà il caso?" intuì Balthier, come se non si aspettasse alcuna risposta, e infatti non ne ebbe alcuna.

Come non tollerasse il silenzio -silenzio relativo, considerata la rissa intorno a loro- Vaan sbattè sul tavolo la pietra: non aveva avuto tempo di rivenderla, pazienza.

"Se lo fai questa è tua."

Fran sgranò gli occhi e lasciò definitivamente perdere il pranzo. Sembrava che l'ultima cosa che potesse tollerare era rivedere quella pietra di nuovo.

"Gli dei si prendono gioco di noi." sussurrò infine, e di nuovo nessuno commentò.

Balthier fissò la pietra, indecifrabile. Nel mezzo del marasma, il loro era ancora l'unico tavolo silenzioso.

"Sbrigatevi a prepararvi."

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Quando Penelo aprì gli occhi, era distesa nel vuoto. Intorno a sè, lo spazio siderale.

Niente di più terrificante. Ovunque si voltasse solo silenzio, e una compatta massa nero-bluastra costellata di frammenti brillanti. Una notte eterna e fredda, completamente deserta.

Ma durò poco, il tempo di accorgersi che lo spazio era troppo solido e spigoloso per essere lo spazio. Pietra. Roccia che sembrava rinchiudere in essa l'universo. Magilite grezza, capì. Non l'aveva mai vista, ma intuiva l'energia che fluiva nelle venature del minerale. Ma dove si trovava?

"Sssssshalve." un saluto che mischia un che di femminile al piacere di sibilare; alcuni bangaa, al contrario di altri, non sono orgogliosi di essersi civilizzati, e mantengono la loro distanza dagli hume con questo genere di comportamenti, si ricordò Penelo dopo un sobbalzo.

"L'hai fatta mangiare?" chiese una voce da qualche angolo della cava splendente: colui che l'aveva catturata.

"Certo, fratellone. Mangia bene."

Penelo riordinò i pensieri e ricordò di aver fatto colazione in una piccola aeronave traballante, con una gran quantità di massa gialla e spumosa che a quanto pare vantava qualche discendenza con le uova. "Ad Arcadia amano far colazione con le sssshscramble-egg." gli aveva spiegato la sua carceriera mentre parte della colazione gli arrivava addosso per un sommovimento della nave "quindi non guardarle così, mocciosa ssssschizzinosa." Era moderatamente gustosa, poteva provare a rifarla... Vaan amava i piatti esotici... ma lui... l'avrebbe mai rivisto, ora che era stato schiaffato a Nalbina? E anche lei, comunque, non sembrava in una ottima situazione.

"Assicurati che stia bene" continuò il capo "l'esca di Balthier dev'esser fresca!"

"Ti ripeto che a stento so chi sia questo Balthier!" lo urlò, quasi, e rimbombò per un pò nella caverna e nei cunicoli che si diramavano da questa.

Ma si aggiunse una terza voce. Veniva da sopra, realizzò, quindi il bangaa doveva essere ancorato sulla volta della cava: "Fratello, la Sssshtrahl si avvicina a Bhujerba!"

In pochi secondi, da che a stento lo vedeva, si trovò il capobanda a soffiare direttamente nella sua faccia: "Non sai chi sia, ma evade da Nalbina per te. Come lo spieghi?"

"Lo vorrei sapere! Ci siamo solo conosciu-"

"Non freni mai quella lingua" si avvicinò ancora di più "che ne pensi se te la strappiamo dalla boccuccia?" Ottenuto il silenzio, si voltò verso l'alto "Quanto a voi, dobbiamo averlo vivo! Il cadavere non costerà nemmeno la metà!"

Penelo non poteva saperlo, ma la covata era soddisfatta. Ora che la cattura è a portata di mano, Ba'Gamnan sembra tornato alla ragione, e dirige la sua mente verso cose più comprensibili, come la taglia ad esempio. Balthier è una caccia come tutte le altre, ora. Si spera.

"Una ripassata leggera, la mia sssshspecialità. Non ci ssshi diverte senza un urlo o due."

All'improvviso, Penelo lo realizzò: non erano a Rabanastre; ovunque fossero, non c'rano soldati, ne amici, nè Migelo, nessuna ragione per trattenersi. Dipendeva solo da se stessa e sulla sua magia, che non aveva più alcun motivo di nascondere. Distratti com'erano, un colpo e via, anche con le mani legate poteva tirare fuori qualche magia discreta. Iniziò ad intonare una formula, a bassa voce.

Davanti a lei, come se soffiasse su uno specchio d'acqua, le immagini si incresparono in riflessi di luce rosso chiaro, e non uscì altro che un suono distorto, una specie di vibrazione, e poi la voce le morì in gola. Novox, la magia che ammutolisce i maghi, la formula contro il formulare stesso. Ba'Gamnan si voltò immediatamente verso di lei. Erano preparati, evidentemente.

"Non riprovarci, cretinetta." non era nemmeno minaccioso, solo infastidito, come se lei fosse un insetto ostinato e seccante.

La lasciarono sola, e consapevole come non mai di essere vulnerabile. Con il pensiero rivolto a qualcuno che, probabilmente non era in grado di salvare nemmeno se stesso. Eppure su chi altro si dovrebbe contare, se non sulla propria famiglia?

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Un susseguirsi di meraviglie.

Prima, la Strahl: una punta di freccia color ametista, arricchita da arabeschi d'oro massiccio. Si apre in due rivelando un cuore di ingranaggi e reattori, e gli anelli di vololite che la terranno in aria. Un pezzo unico e memorabile di ingegneria aerea. Balthier, a quanto pare, era un aviopirata di tutto rispetto "o, almeno, i cacciatori di taglie sembrano pensarlo" aveva commentato, placido.

E poi, ovviamente, il cielo stesso. Vaan si era sempre chiesto come fosse volare, ed ora lo scopriva: soli, nell'immensità di un azzurro e bianco dove le altre areonavi sbucavano e si rituffavano come pesci metallici nelle nubi, ognuna portando con sè una storia, una libertà, ognuna lasciando sotto di sè una Rabanastre che diventa un puntino minuscolo, le ansie, i problemi ed i guai che si ammassano nelle sue strade sempre più piccoli e insignificanti, e sembrò che niente non potesse risolversi solo con un volo. Per un attimo niente esistè più, la rabbia, l'umiliazione, l'Impero e Dalmasca, addirittura neppure Penelo, e Vaan desiderò che nemmeno la Strahl ci fosse, intorno a lui: solo lui, l'azzurro e la luce.

E, la terza: finalmente Vaan potè conoscere quei luminari della tecnologia, dell'ingegneria e della scienza in generale, la cui mente è così vasta, così avanzata che niente sono gli hume a confronto, se non bambini a cui regalare i propri giocattoli per farglieli provare: i moguri. Se i loro musetti felini, le lunghe orecchie e le alucce variopinte rendevano difficile predere sul serio questi amabili batuffoli di pelo bianco, il problema svaniva dopo averli sentiti parlare di un loro qualsiasi progetto o teoria, ed essersi sentiti dei perfetti idioti, dei cavernicoli di fronte ad un popolo illuminato. Ma i moguri non guardavano gli hume dall'alto in basso -nemmeno avrebbero potuto, minuti com'erano- li consideravano semplicemente come fratelli minori e un pò scemi, cui si vuol bene ma bisogna aver pazienza.

E così era anche il macchinista di Balthier, un moguri paffuto di nome Nono. Quando la Strahl smettè di volteggiare e Vaan di tempestare i pirati di domande, Nono li fece accomodare nella specie di piccolo salottino in pelle nera che era il retro della Strahl e servì loro -e se stesso- con un liquore arcadiano basato, a quanto pare, sulla crema di caffè. Per un attimo Vaan ebbe l'impulso di togliergli il bicchiere, come il moguri fosse stato un bimbo che non dovrebbe bere alcolici; ma appena iniziò a parlare a Balthier dei problemi tecnici della manutenzione Strahl con linguaggio strettamente scientifico, e Balthier ad ascoltarlo con religiosa attenzione, Vaan si unì alla schiera di hume che si sentono dei bimbi cretini al cospetto di un moguri. Dopo poco, preferì tornare alla prua, dove Fran guidava, in silenzio.

"Credevo le viera non amassero le macchine."

"Solitamente." tagliò corto lei.

"Gli ho insegnato io, kupò kupò!" vociò allegramente Nono dal retro "Fran impara tutto in fretta, è fantastica, kupò!" e detto ciò tornò a bacchettare Balthier per questioni di paga e rimborso spesa, con un meticoloso senso finanziario.

Non sentendosi in vena di tentare ripetuti approcci con l'impassibile viera, il ragazzo si volse a Basch, che sedeva nel sedile accanto a braccia conserte, la spada dell'Ordine Dalmasco poggiata su una spalla come una compagna, lo sguardo perso nell'orizzonte.

"Cosa vuoi dal Marchese?"

Basch meditò un attimo prima di rispondere. Poi cercò di spiegare.

"Arcadia ha finto un'alleanza con il Bhujerba, e Bhujerba ha fatto altrettanto, ciascuno aspettando il momento buono per voltare le spalle all'altro. Ma Ondore è rimasto fregato... quando ha annunciato la mia esecuzione, dopo essere stato informato da Vayne Solidor."

"E perchè Vayne-" cercò di interrompere Vaan, ma il qualcuno anticipò la domanda.

"Dalmasca è una monarchia... ma l'Impero di Arcadia e le Marche di Bhujerba funzionano in modo diverso. In uno si governa con il voto popolare, e nell'altro con il sostegno delle famiglie più ricche ed influenti. La credibilità è piuttosto importante." spiegò Balthier da dietro, sorseggiando il suo liquore "Se si dicesse che Basch Von Ronsenburg era vivo e guidava i ribelli, e che il Console Solidor lo ha catturato? In un solo colpo calerebbe la credibilità di Ondore a Bhujerba e salirebbe quella di Vayne ad Arcadia."

"Sembrate avvezzo alle questioni politiche." osservò Basch, sospettoso.

"Ma cerco di tenermene fuori." si difese il pirata.

"Bè, comunque ora Ondore può fare come gli pare, no? Tu sei scappato."

"Brillante. E dimmi, chi glielo ha detto che il capitano è scappato? Magari Vayne, per motivi di cortesia?" stoccò Balthier senza staccare gli occhi dal bicchierino.

"Crepa." reagì il ragazzo.

"Prima o poi ti accontenterò." ribattè l'altro.

"Comunque" continuò Basch per interrompere i punzecchiamenti reciproci "Ondore non è libero. Semplicemente, l'arma che aveva Vayne adesso l'ho io. E' un principio base di strategia militare: trasformare la debolezza in forza. Io sono solo un mezzo per ricattare Ondore, ma ora sarò io a ricattare lui."

"Per avere cosa?" insistè Vaan un pò ammirato.

"Un'udienza, ovviamente, è il meglio che posso sperare. Appena il marchese saprà che sono libero, mi poterà al suo cospetto e smetterò di esserlo. Ma potrò parlargli."

"Anche tu ne mangi, politica." pungolò il pirata.

"Non è molto diversa dalla guerra." sentenziò il capitano con amarezza "Solo meno onesta."

E i suoi occhi, nella linea luminosa che separava il mare dal cielo, cercava due ragazzi che molto tempo fa camminavano fianco a fianco sui campi, e che non si sarebbero sorrisi l'un l'altro, mai più.

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Come un'altra aveva fatto, prima di lui, Vayne Carudas Solidor percorse con lo sguardo tutta la regia capitale di Rabanastre, illuminata dalla Luna Maggiore, avvolta in un silenzio assoluto. Lo avevano fatto molti altri prima di lui: Ashelia, suo padre Raminas, e millenni prima Re Raithwall, meglio conosciuto come il Re Dinasta, il prescelto degli dei che aveva unificato le popolazioni di hume in lotta e aveva fondato la prima, vera civiltà.

In quei tempi, Rabanastre era il centro dell'Alleanza di Galtea, e quindi il centro del mondo.

Chissà se il Re Dinasta, come lui, aveva provato la stessa sensazione? Aveva provato, Raithwall, quella solitudine immensa mista un'euforia inebriante, vertigine e meraviglia, a guardare un mondo addormentato dall'alto, come un custode segreto? Aveva giurato a sè stesso che nessuno, mai avrebbe violato la sua creatura, che dormiva serena sotto il suo sguardo?

"Ma io l'ho fatto." le parole si spersero nel vento.

"Io sono qui." ed un sorriso gli si allargò sul volto.

C'era stato un imprevisto. Per così dire: c'era sempre un imprevisto, e del resto i migliori piani sono quelli flessibili. Di solito, più che minacciarlo, gli imprevisti lo divertivano. Sfidavano la solidità dei suoi calcoli. Ma non stavolta: la fuga del capitano gli era semplicemente indifferente.

Lentamente, ma inesorabilmente, la partita si stava spostando ad un altro livello. Ad un livello dove il capitano, ed il Marchese stesso, erano pedine e non giocatori.

Lui contro gli Dei. Lui contro ciò che con Raithwall era iniziato. Il destino che si era scelto, contro quello che era stato scritto per lui.

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Ultima meraviglia della giornata: le Marche di Bhujerba.

Zolle di terra volavano in mezzo alle nubi, intervallate da verdeggianti foreste e ruscelli splendenti, come se la vita fiorisse dal nulla nell'azzurro. E senza spezzare con la foresta, anzi armonica con essa, la città, dai tondeggianti edifici color terracotta di un gusto che incontrava l'oriente e l'occidente. Come a sorreggere il continente volante, sottilissime ali di cristallo splendevano nel cielo, allungandosi da ogni parte di Bhujerba.

La Strahl passò accanto ad una di esse, e si riflettè sulla sua superficie, e Vaan vide dalla vetrata della prua la sua stessa faccia, a bocca completamente spalancata, e gli occhi sgranati. Era così da quando Bhujerba era apparsa all'orizzonte.

Era destino, pensò, il suo destino. Viaggiare, scoprire, rischiare. La meraviglia che provava in quel momento, lo seppe subito, era una droga di cui mai più avrebbe potuto, o voluto, fare a meno.

Prima che si rendesse conto, la Strahl si infilò in un ampio hangar a mezz'aria, procedendo lentamente a reattori spenti tra molte altre areonavi. Nono svolazzava da un pannello all'altro controllando non si sa quali parametri, e Fran lasciò i comandi.

"Abbiamo caricato più bagagli del previsto da Rabanastre." commentò Balthier sulla spalla scura della compagna, e Vaan fu sicuro che la Strahl costituiva l'unico motivo valido per non dargli un pugno in faccia.

Basch gli diede una pacca sulla spalla per incoraggiarlo, e Vaan fu riportato finalmente con i piedi per terra - terra fluttuante, almeno. Ma comunque, lebbrezza del viaggio era finita.

"Sono qui, Penelo." disse a sè stesso.

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Eccomi tornato!

Il fato non sembra gradire che io scriva questa fanfic. Succede veramente di tutto in questo periodo. Ma, come ho detto, per quanto lunga possa essere una mia assenza, non mollerò il lavoro. Mi spiace solo causare lunghe attese e/o perdite di speranza tipiche delle lunghe FanFic.

Tra parentesi, a rileggere questo capitolo mi rendo conto che c'è messa un pò troppa poesia rispetto al mio solito tono. Ma preferisco comunque pubblicarlo così, e del resto, per me c'era anche poesia in Final Fantasy XII.

(va anche detto che parte di questa poesia è dovuta al fatto che l'ho giocato in compagnia della allora appena conosciuta donna della mia vita. Infatti non sentivo affatto la mancanza di una storia d'amore nel gioco... bastava la nostra -ma poi, chi la sente la mancanza della storia d'amore?).

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Capitolo 16
*** Lamont ***


"Fico!"

"Dillo un'altra volta, che ti strozzo." puntalizzò calmo Balthier.

Ma in quel momento, Vaan nemmeno riusciva a reagire alle provocazioni. I bhujerbesi non sembravano fare caso alla realtà intorno a loro. Passeggiavano con aria rilassata tra quegli enormi ponti di pietra che fendevano le nubi, incuranti dei turisti che, invece, non riuscivano a non rimanere impalati nelle balconate; i soldati bhujerbesi, in divisa gialla, stavano distrattamente appoggiati sulle arcate principali senza nemmeno tentare di incutere timore. Niente da spartire con la schizofrenia di Rabanastre, divisa tra l'operosità frenetica e un cupo senso di oppressione per l'occupazione militare.

In qualunque direzione ci si voltasse, Vaan non trovava molto da dire se non "fico". Ed erano ancora fermi sul ponte che collegava l'aeroporto alla città... Balthier non osava tentare un calcolo di quanti "fico" avrebbe sentito una volta attraversata tutta Bhujerba.

E c'erano moguri, molti più di quanti Vaan ne avesse visti in vita sua. Nono era svolazzato praticamente subito verso un viottolo, spiegando rapidamente che lì avrebbe certamente trovato un paio di pezzi che voleva provare per le aeroliti della Strahl, e il ragazzo sospettò che semplicemente fosse una scusa per andarsi a divertire -o forse, cercare pezzi per migliorare la Strahl era l'idea di divertimento che poteva avere Nono. Era facile rendersi conto del richiamo che una terra così antica e moderna al tempo stesso doveva avere su quella razza assetata di conoscenza.

Fran schioccò le dita, e Balthier immediatamente si voltò verso di lei. Con gli occhi gli indicò che il gruppetto di soldati arcadiani si era definitivamente avviato verso la città, come aspettavano ormai da dieci minuti. Basch lo intuì a sua volta, e finalmente smise di fissare il cielo giù dal ponte, unico modo che aveva potuto improvvisare per nascondere il suo volto. Si stiracchiò il gilet di jeans color rosso scuro, dagli ampi risvolti, che aveva comprato poco prima di partire, come se gli stesse stretto; lo fece ripetutamente, un gesto dettato dal nervosismo.

"Cercano noi?" chiese Vaan a bassa voce, ma nessuno gli rispose.

Si lasciò cadere appoggiandosi alla balconata, e si mise comodo con le mani dietro la testa, giusto accanto ad un ragazzino dalle ricche vesti, certamente un turista.

"Sei morto." sentenziò Balthier guardando fisso il capitano "Ricordatelo. Sei morto, e non hai un nome."

"Certo." acconsentì, incolore.

"Dove si va, qualcuno me lo dice?" fece Vaan un pò scocciato, e fissò nella stessa direzione del ragazzino, cercando di capire se fissava un punto specifico.

"Le Marche di Bhujerba sono un insieme di numerosi villaggi-miniera." illustrò il pirata "ma ce ne sono alcune che sono direttamente collegate alla città, e credo che Ba'Gamnan intenda quelle nel suo messaggio. Le miniere di Lhusu, non sono lontane."

"Che si scava nelle miniere?" il ragazzino alzò la testa e lo sguardo di Vaan seguì il suo: aveva visto un'aeronave, forse?

"Magilite" Balthier si tastò il corpetto, con una certa evidenza controllava se i pezzi del suo fucile smontato erano tutti lì, nascosti -la politica sulle armi da fuoco non era permissiva come con le armi bianche- e poi le portò alle tasche "anche se da quel che sento in giro ormai sono quasi esaurite."

"Dunque siete diretti alle miniere di Lhusu?" disse il ragazzino girandosi verso di loro, con una voce delicata ed aristocratica.

Vaan sobbalzò, e tutti gli altri si voltarono verso quel piccolo estraneo. Lo analizzarono da capo a piedi, nei suoi abiti sfarzosi color grigio e panna, generosamente ornati d'oro, come d'oro erano uno stocco che portava alla cintura, decisamente troppo lungo per lui (doveva essere ornamentale), ed uno scettro dalla forma curiosa. Ma più di tutto, Vaan fu attratto da un monile azzurro a forma di doppia spirale, che pendeva dal suo collo... una forma che gli sembrò di aver già visto.

"Permettetemi dunque di accompagnarmi a voi. Ho una faccenda che mi aspettà, lì."

"Che faccenda?" interruppe Basch, gli occhi fissi sul monile.

"Che faccenda, dite?" chiese sorridendo educatamente "Non potrei chiedevi lo stesso?"

Vaan si insospettì ancora di più, e se lui era il più permissivo del gruppo, non mancò di notare quanto la richiesta doveva suonare assurda ai suoi compagni. Non aveva assolutamente voglia di fare da balia ad un giovane rampollo in vena di avventure, il genere di persona che lo avrebbe innervosito anche al di fuori di quelle circostanze critiche.

"Ma certo, vieni con noi..." accettò Balthier dopo una breve pausa.

"Come?!?!" sbalordì Vaan.

"...ma fammi un favore, stà dove posso vederti. Per sicurezza."

"...di entrambi." concluse il rampollo con un tono allusivo che Vaan non apprezzò minimamente.

"Qual'è il tuo nome?" Vaan cercò di usare un tono amichevole, avendo imparato a sue spese che quello non era il gruppo più accogliente che si potesse desiderare.

Il ragazzino fu come colto di sorpresa, ma durò un brevissimo istante. Poi disse solo: "Lamont."

"Fico."

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Si potevano scambiare per aquiloni. Aquiloni di pelle scura e pelosa, code lunghe e sottili, due vistosi uncini ricurvi dove avrebbe potuto essere la testa. I battiti di ali riempirono la grotta e, in un attimo, una parte della volta che imitava una notte stellata fu ricoperta completamente di nero. Penelo li sentì fremere, sopra di sè.

"Dissanguer." precisò Ba'Gamnan, non visibile ma percepibile da qualche parte vicino a lei "...il terrore dei minatori; non preoccuparti, si avventano solo su creature isolate o indebolite per nutrirsi del loro sangue."

Penelo cercò di reprimere un brivido, ma il bangaa dovette accorgersene, e rise sommessamente: "Non ti attaccheranno... almeno finchè non ti avremo liberato."

Lei aveva imparato in fretta a non protestare o lamentarsi. Invece osservò nervosamente "Perchè si spostano qui, adesso?"

"Si spostano sempre quando dei predatori più grossi sono in giro per le miniere. Ci sarà qualche mostro in giro." e ridacchiò di nuovo.

"V-vuoi farmi sbranare." afferò, anzichè chiederlo.

"No, semplicemente non mi interessa. Voglio un posto isolato da cui il tuo magnaccio non fugga facilmente, e l'ala evacuata di una miniera è ideale. Di te, me ne frego."

"Balthier non è il mio-" ma si fermò da sola: inutile, ormai.

Guardò gli ultimi sprazzi di roccia luminosa ricoprirsi dalle ali dei dissanguer, perfettamente aderenti. Li sentì fremere. Aveva accettato la realtà: dipendeva da se stessa. Era "a posto", come avrebbe detto Vaan, o anche "sei una tosta". Poteva farlo, e in un certo senso lo aveva sempre fatto, dalla morte dei suoi. Avrebbe corso, e si sarebbe difesa, e avrebbe vissuto. Respirò l'aria fredda della cava, per rilassarsi. Sentì delle lacrime bruciargli gli occhi, e li strinse.

D'un tratto, istintivamente, se ne accorse: l'effetto di "Novox", il sigillo sulla sua voce, era sparito. Si ribaltò e spinse via le manette con le gambe: una ragazza di strada non aveva certo problemi con manette così larghe. Caddero a terra facendo parecchio rumore, e Penelo si stupì che Ba'Gamnan non reagisse al suono attaccandola immediatamente. Pronta a sfidarlo, lo cercò nell'oscurità intorno a lei:

"EHI, LUCERTOLONE!" le mani erano pronte ad incenerirgli la faccia, nella speranza che lui gli lasciasse i secondi preziosi necessari alla formula.

Ma non ebbe alcuna risposta.

"Ehi? Ba-ga-coso?"

Niente. Non c'era.

Il fremere dei dissanguer si fece frenetico, quasi assordante. Cominciarono a sentirsi dei battiti d'ali.

Scappò, più forte che poteva.

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Dopo un infinito snodarsi di viottoli di pietra chiara, ornati da curatissimi alberelli da giardino e pergolati di rampicanti, i cinque arrivarono finalmente ad una enorme scalinata che scendeva giù, fino ad un ampio porticato di notevole architettura, che lasciava appena intravedere l'immensa, oscura entrata delle miniere. Vaan poteva vedere come, oltre, la roccia scura delle miniere si staccasse dalla città per proseguire a mezz'aria, massi fluttuanti collegati l'uno all'altro da una ragnatela di gallerie e impalcature. Fuori, ma ben lontani dall'entrata, schiamazzavano diversi seeq e alcuni huma, e delle guardie bhujerbesi li tenevano a stento.

"Che è quel casino?" chiese Vaan.

"Le miniere sono spesso frequentate da qualche mostro, la magilite li attrae." intervenne Lamont "Di solito il governo si occupa di sgombrarle periodicamente, ma qualche volta non ci si riesce in tempo per l'apertura dei cantieri. E i minatori protestano."

"Ne fanno, di rumore."

"Vogliono solo fare il loro lavoro. E' tutto ciò che hanno per vivere." il ragazzino parlava a sè stesso, più che a Vaan.

Balthier li raggiunse, frapponendosi tra i due: "E' un'ottima occasione. Entriamo ora che nessuno ci bada."

Accelerò il passo abbastanza da fare in fretta, ma non tanto da attirare l'attenzione, e gli altri lo imitarono immediatamente. In un batter d'occhio furono sotto le arcate, nell'anticamera della miniera. Vaan notò come nel tempo era stata scolpita e rifinita fino a sembrare un palazzo di antica importanza.

"Una delle più ricche vene di Ivalice." il pirata percorse l'arcata con gli occhi, sembrava quasi cercasse qualcosa da rubare.

"Senza dubbio sotto l'egida dell'Impero." aggiunse Basch.

"A esser precisi, no." corresse Lamont "Salvo rare eccezioni, ai soldati imperiali non è permesso di transitare nelle Marche." e prima che qualcuno potesse chiedere nulla, esortò "Dunque, noi si procede?"

Ma risuonarono passi e parole in fondo all'ampio colonnato che introduceva alle miniere. Immediatamente, ciascuno di loro trovò posto dietro le larghe colonne, osservando chi saliva dalla parte opposta. Era un manipolo di imperiali, e Vaan gettò un occhio a Lamont come a dire: e adesso che mi dici? Ma non lo trovò affatto sorpreso o agitato, il che di rimando sorprese e agitò lui. Quindi, si volse a guardare il manipolo che risaliva le scale verso l'uscita.

I soldati scortavano due figure distinte ed uno dei due, vestito in giallo girasole, capelli grigi ed un accenno di barba, gli ricordò qualcuno. L'altro invece non lo aveva mai visto, indossava vesti color corallo ed una massiccia armatura cornuta, color oro chiaro; ma sebbene non lo conoscesse, capì subito di chi si trattava: un Iudex Magister, come quello cui erano fuggiti a Nalbina.

Fran percepì la sua aura di myst che invadeva la stanza, spalmandosi sulle pareti. Un myst dalle sfumature d'oro massiccio, un myst opulento e arrogante, ma forte. Lo seguiva lento, e ribolliva piano, come fango. La viera guardò il compagno di sottecchi e scuotè la testa con un certo disgusto, e lui seppe che quell'uomo era da evitare in battaglia.

"Mi perdonerete se lo domando" proseguì il discorso il giudice "ma non ci  sottraete voi la magilite più pura-"

"Al contrario" lo fermò con delicatezza solo apparente l'uomo in giallo "Posso garantirvi che raggiunge Lord Vayne nella massima segretezza."

Il giudice incassò il colpo quasi con classe: l'uomo stava insinuando che aiutava l'Impero, ma senza che lui ne fosse messo a parte da Vayne stesso. Si scagionava, al contempo sminuiva lui, e cercava di contaminarlo con un dubbio. Ma il giudice non abboccò, e resituì l'offesa: "Portate bene la vostra sella."

"Sarà così, ma" contrattaccò l'altro voltandosi a sorridergli "non indosserò le briglie, Vostro Onore."

"Allora preferite la frusta?" sbottò il giudice, trattendendosi a stento "La vostra arroganza non spezzerà solo voi, eccellenza, ma Bhujerba stessa."

Il giudice continuò a spiegarsi con un certo entusiasmo intidimidatorio, ma si erano ormai diretti allo spiazzo fuori la miniera e le parole si persero. Vaan sentì gli schiamazzi calmarsi di colpo, probabilmente quei personaggi eccellenti ammutolivano la folla.

"Tipico dei Giudici, un incontro politico in una miniera infestata. Sono così sicuri della loro forza che la scorta è una formalità." sottolineò Balthier, e poi si girò verso la sua compagna "Prendiamo una scorta anche noi, socia? Oggi non si è nessuno senza."

Fran gettò uno sguardo a Basch, Lamont e Vaan, e rispose piatta: "Fra un pò avremo un piccolo esercito."

"Chi era quello?" cambiò argomento Vaan, e Lamont gli rispose prontamente.

"Halim Ondore VI, Marchese di Bhujerba. Ha mediato con Arcadia per la resa di Dalmasca. Sembra meno neutrale, ultimamente."

"Dicono aiuti la resistenza." Balthier stava metodicamente montando il suo fucile pezzo per pezzo.

"Dicono un sacco di cose." liquidò Lamont.

"Sei molto informato." insistè il pirata "Chi hai detto di essere?"

"Che differenza fa, cavolo! Andiamo a cercare Penelo!" sbottò il ragazzo.

"E Penelo sarebbe la tua-"

"AMICA! Solo un'amica. L'hanno rapita e portata qui."

Lamont lo osservò solo per un attimo, poi disse: "Bene, allora cerchiamola insieme."

Imboccò una delle varie porte che si snodavano dalla grande anticamera, e Balthier gli andò dietro.

"Ma perchè seguiamo lui?" notò Vaan, scettico.

Ma se c'erano spiegazioni da dare, Balthier non volle dargliele, mentre scendevano nelle miniere.

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Vaan si infilò galleria dopo galleria con loro, cercando di tenere il loro passo più che spedito. Nella semioscurità, notò qualcosa che luccicava alla cintura di Lamont. Erano delle bottigliette sottili, ornate da raffinati motivi che si intrecciavano nel vetro, splendenti di una leggera luce bianca dai variopinti riflessi.

"Ehi, Lamont, che roba è?"

"Elisir di pregiata fattura. Non uso avventurarmi in luoghi pericolosi senza averne."

"Questo è interessante, perchè ciascuno di questi potrebbe valere circa cinquemila gil. Costoso, come hobby." la provocazione di Balthier non sortì alcun effetto.

Al contrario, il ragazzino ne sfilò due dalla cintura e le tirò a Vaan e Fran, che le afferrarono al volo, spiegando "Dato che siamo in gruppo, trovo conveniente che si dividano. Facciamone un uso accorto."

Vaan rimase paralizzato per qualche secondo: doveva essere l'oggetto più costoso che aveva mai toccato nella sua vita, realizzò. Poi venne colpito in faccia da un'ondata di luce: erano usciti in un ponteggio all'aperto, sospeso nel cielo, che scricchiolava al soffiare del vento. Lamont continuò a camminare, e Balthier a scrutarlo sospettoso. Fran e Basch seguivano dietro, piuttosto distratti. Ebbe l'impressione che tutti stessero pensando a cose che non lo riguardavano nella maniera più assoluta, e questo gli dava tremendamente i nervi.

Prima che potesse realizzarlo, si erano infilati in un'altra galleria. Seguivano Lamont senza fiatare mentre lui decideva, seguendo una mappa mentale, tra una curva e un'altra, una svolta a destra o a sinistra, e l'architettura si faceva sempre più grezza. Preso dalla rabbia, perse praticamente la cognizione del tempo e pensò unicamente a mettere i piedi l'uno davanti l'altro, in fretta. Dopo non seppe bene quanto, Balthier lo dovette fermare praticamente mettendogli una mano in faccia. L'area in cui erano adesso era più una caverna che una sala.

"Che c'è!" si lamentò.

"Zitto." ordinò l'altro.

Si sentiva un rumore strano, come qualcosa che grattava. Si avvicinava progressivamente, ticchettando come un orologio. Lamont sguainò lo scettro, e lo stocco: evidentemente, non erano ornamentali. Quando Fran guardò in alto, lo fecero anche gli altri. E li videro, sbucare fuori da una galleria. Potevano essere quattro, o forse più.

Sembrava che ogni parte del loro corpo fosse tagliente: le ali che frinivano, la testa triangolare e i denti vistosi, il corpo da insetto e le zampe sottili, e soprattuto, le enormi falci. La luce fioca illuminava il loro carapace metallizzato, come un piccolo esercito di armature azzurre, verdi, grigie. Armature in tutta evidenza impossibili da perforare con armi convenzionali. Predatori affilati e letali.

"Antilion" bisbigliò Fran "seguivano la traccia del giudice, credo."

Le creature si sparsero sul soffitto, incuranti. Ma Vaan capì subito che li avevano notati, eccome. Li studiavano, si pendevano il loro tempo.

"Ecco chi ha fatto chiudere le miniere ai lavori." notò Balthier "Una bella grana per la guardia di Bhujerba. Ciascuno può fare da crisalide per altri, e possono vivere nutrendosi dei loro stessi resti. Difficili da debellare."

"Q-quindi, dobbiamo ucciderli tutti?"

"E' una nevrosi, questa che hai delle imprese eroiche. Che ci frega? Cerchiamo di evitarli."

"Infatti." confermò Lamont "dobbiamo prendere l'altra galleria, non quella."

Prima che Vaan potesse chiedere dove si suppone che andasse l'altra galleria (e loro), Fran obiettò: "No. Aspettano un nostro movimento. Combatteremo."

"Penelo è da queste parti! Con questi cosi!" il tono del ragazzo fu solo leggermente più alto degli altri, ma tutti gli antilion si voltarono verso di lui; il che non lo intimidì affatto: "Non possiamo perdere tutto questo tempo!"

"E nemmeno scappare." ribadì Fran.

"Faccio io." intervenne Basch "Voi andate pure."

Ci fu un attimo di silenzio, un altro antilion uscì dalla galleria e sondò l'aria con il muso. Due iniziarono a discendere ai lati.

"Faccio io? Che cavolo vuol dire faccio io? Vuoi morire?" protestò il ragazzo.

"Nessuno di voi potrebbe perforare quelle corazze. Sono il più adatto. Andate."

"Lo apprezzo molto. Addio." Balthier corse via veloce quanto poteva, e Fran, tirando l'elisir al capitano, lo seguì.

"Buona fortuna." disse Lamont prima di sparire, e ricevette un cenno in risposta.

Disgustato, Vaan inseguì Balthier per ammazzarlo di botte e riportarlo ad aiutare Basch, ma in men che non si dica sentì il rumore invadere la galleria. Voltandosi, vide solo gli insetti che si accavallavano nello snodo.

"IDIOTA!"

Il pirata lo afferrò per il gilet e lo trascinò verso la luce del ponteggio successivo.

"Sei tu l'idiota. Se la caverà."

"Torniamo indietro!"

A questo punto, Balthier si fermò, come reputasse che valeva la pena di perdere minuti preziosi a spiegargli qualcosa d'importante.

"Gli saremmo solo d'intralcio! Cerca di cominciare a realizzare il tuo ruolo in questa faccenda e non creare altri guai!"

Vaan ebbe un brivido. Non aveva nemmeno lontanamente immaginato di potersi sentire così demolito da una frase, qualsiasi fosse, detta da chiunque. Si sentì come vuoto, indebolito di colpo. Il suo ruolo in questa faccenda: cioè nessuno, tranne aver ostacolato la razzia di Balthier e Fran la sera della cerimonia, facendoli catturare, e causando il rapimento di Penelo.

Il pirata si voltò e riprese a correre verso la luce.

Lo seguì molle, quasi intorpidito.

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Non è una questione di forza, violenza o rabbia. E' metodo, è disciplina, è quasi studio, ed infine è praticamente arte.

Sono molte le creature di Ivalice protette da una corazza naturale e ricordarsi per ciascuna i punti in cui la corazza è debole, le giunture cedono, e la direzione che il colpo deve avere per giungere ai punti vitali non è uno scherzo. Ma poi, sul campo, non è più neanche disciplina. Non si può "ordinare" un movimento al proprio corpo, non si può "pensare" l'atto prima di compierlo in tempo. Diventa una questione meccanica, l'ovvia conseguenza dell'aver allenato incessantemente i propri muscoli, i propri sensi, persino i respiri a quei movimenti. Come se tutto il corpo esistesse solo per eseguirli, al meglio.

E il pensiero? Il pensiero svanisce, si spegne. Non esiste più niente, se non la mente proiettata nel presente, che dice soltanto: "ADESSO!" e un corpo che obbedisce.

Questo è un soldato. Questo è Basch Von Ronsenburg.

Quando combatte, non c'è niente dentro di lui, lui stesso non è niente se non una macchina di carne, e una sola voce che a tratti gli urla quell' "Adesso". Non c'è un passato, e non c'è un futuro.

Non c'è nessuna differenza: è lo stesso momento, la stessa battaglia, lui che insegue gli arcadiani tra le spighe alte dei campi di Landis, lui che uccide degli zemzelett  che volevano divorarlo, credendolo morto nella disfatta, lui che butta giù una guardia dell'Ordine Dalmasco in una rissa, quando conobbe quello che poi sarebbe stato il suo (secondo) istruttore militare, ed è ancora la stessa battaglia contro i cavalieri nabradiani, prima della pace tra i due regni, ed ancora quando lui e molti altri difendono Nabradia, insieme, prima che un vento ardente li spazzi via, ed è ancora la stessa battaglia quando con Rassler difendono ormai disperatamente Nalbina, ed è sempre la stessa battaglia, quando corre con Vossler per salvare il Re, ed è lui, che massacra gli antilion in una grotta oscura, per favorire un gruppo di sconosciuti nel salvare una sconosciuta.

E' la guerra, ed è "adesso".

Da qualche secondo ha deciso, o meglio intuito, che la sola spada non basta, e ora usa anche una falce mozzata ad una delle creature. Improvvisa una scherma a due armi, trafigge quasi chirurgico, spezza le raffinate strategie di caccia coordinata degli antilion come qualsiasi pazzo confonde qualsiasi stratega.

Un fiotto di sangue nero imbratta il gilet di jeans e la camicia di cotone leggero, arrivando alla pelle. E' urticante, ma non tanto da rientrare nelle sue priorità -non ha il tempo di domandarsi se quel liquido potrebbe accecarlo- non più degli ultimi due antilion, che schivano diligenti i suoi attacchi. Non gli resta che concentrarsi su un singolo, voltando le spalle all'altro.

E' quello che le creature desiderano, ma non sanno quale dei due sceglierà, e questo gli dà -dovrebbe- alcuni secondi di vantaggio. Non che lui stia ragionando sull'argomento: il suo corpo prende le misure per lui. L'attacco, la spada che rimane incastrata nella vittima prescelta. Basch rotola a terra mentre l'altro cerca di prenderlo alle spalle, sente come un impulso liquido che gli risale l'avanbraccio: un muscolo che si apre, colpito di striscio. Ora è sotto l'antilion, vede le giunture delle zampe sottili scoprire le parti morbide.

"ADESSO!"

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Vaan contemplava quella specie di firmamento artificiale, silenzioso. Anche Fran e Balthier si erano fermati, dopo che Lamont lo aveva fatto. Lasciò che la sua mente si perdesse nel blu scuro e nelle venature di luce, finchè Lamont non parlò:

"Ero venuto a vedere questo." camminò vicino ad un punto attraversato da una specie di galassia azzurro sgargiante, ed estrasse una specie di grosso diamante nero e lo appoggiò alla parete..

"Cos'è?" s'incuriosì il ragazzo.

"Negalite artificiale." Balthier e Fran sussultarono in maniera chiaramente percepibile.

"Negalite?" continuò il biondino.

"A differenza della magilite normale, questa assorbe il magico" a riconferma delle sue parole, parte del flusso azzurro venne come risucchiato dal muro e riempì la gemma scura come un liquido "Questo è il frutto delle ricerche sulla produzione artigianale di Negalite, ad opera dei Laboratori Draklor." una quantità sempre maggiore si riversava al suo interno, mentre Lamont continuava a parlare e osservare "E quindi la magilite è presa da qui..."

"Hai sbrigato la tua faccenda, allora?" chiese Balthier accomodante.

Vaan si voltò immediatamente. Come ragazzo di strada, riconosceva subito quando il tono gentile era allusivo, nascondeva rabbia, preludeva minacce.

"Vi sono grato." Lamont non sembrò aver notato nulla "E vi ricompenserò quanto prima."

Voltatosi, si trovò l'uomo faccia a faccia con lui, che lo teneva contro il muro di roccia. Vaan non sapeva che fare.

"No. Ci ripagherai subito. Abbiamo troppi affari in mano per andare in giro stringendo la tua. Dove hai sentito la tua favoletta sulla Negalite? Dove hai preso quel campione? Cosa sai dei Draklor? Insomma" lo afferrò per le spalle e lo strapazzò senza la minima delicatezza  "Chi sei, tu?"

Il giovane nobile sembrò a meta tra la paura e la ferma intenzione di non rispondere, a qualsiasi costo.

"Balthier..." Vaan si avvicinò, cauto, per calmarlo; Fran era immobile.

D'un tratto, il rumore di una motosega risuonò per la cava, e una voce gracchiante esclamò: "Ti sei fatto aspettare, Balthier!"

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Ed eccomi di ritorno! Visto che sono stato costretto all'immobilità per un giorno, e mi sentivo produttivo, ho voluto premiare la vostra pazienza nei miei lunghi silenzi di Eshtar (chi coglie la citazione?) con un nuovo capitolo in rapida successione al precedente. Spero la sorpresa vi aggradi.

Dovrei dedicare un ringraziamento alla mia squadra di football americano, senza il quale non avrei certamente potuto scrivere una parte di questo capitolo.

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Capitolo 17
*** Larsa ***


“Sei sparito giù a Nalbina! Si sentiva la tua mancanza!”

Il lucertolone agitò quella che sembrava una lancia, ma terminava con un largo anello seghettato che roteava rumorosamente piovendo scintille. Dietro comparvero altri tre, armati fino ai denti.

“Prima passa il giudice, ed ora questo signorino” disse gettando un occhio a Lamont “C’è aria di grossi affari. Mi bagnerò il muso un po’…”

“Il muso tienilo a posto” lo interruppe Balthier sarcastico “questo fantasticare non ti si addice, Ba’Gamnan.”

Malgrado la provocazione, Vaan percepiva con chiarezza la tensione. La mano del pirata era ad un centimetro dal fucile che pendeva dalla cintola, ma le dita erano immobili. L’unica, possibile conclusione era che il suo avversario poteva raggiungerlo prima che lui potesse puntarlo e sparargli. Prospettiva che lo rendeva pessimista sull’esito dello scontro.

Fran, impassibile, continuava ad attraversare la sala con lo sguardo. Lamont scivolò oltre Balthier, senza parlare.

“Da troppo non riscuoto! Prenderò anche la taglia del ladruncolo.” Continuò il cacciatore come se non se le spacconate di Balthier non lo riguardassero in nessun modo.

“Dov’è Penelo?” ribattè il diretto interessato, cercando di nascondere la paura “Ce la riprendiamo!”

“La mocciosa? Chi tiene l’esca quando il pesce ha abboccato? L’abbiamo lasciata andare, correva strepitando come un neonato!” e ci aggiunse una bella risata, ma fu interrotto bruscamente: Lamont aveva tirato il suo cristallo scuro dritto nel suo occhio.

“EHI!” Vaan si accorse per primo che era stato lui, e che schizzava verso l’uscita.

Un bangaa saltò per tutta la sala e gli atterrò davanti, ma il ragazzino brandì lo scettro, la cui forma ricordava due draghi d’oro che descrivevano una esse, e lo stocco; le curve dello scettro imprigionarono in un attimo la scimitarra dell’altro, e Lamont vibrò all’istante una gragnola di precisissimi affondi con l’altro braccio.

Il bangaa, immobilizzata la sua arma, riuscì a reagire solo ondeggiando con il corpo per evitare di essere trafitto, poi con una spazzata liberò l’arma e fece rotolare via il piccolo avversario. La preoccupazione di Vaan durò solo un istante, il tempo di realizzare che Lamont voleva proprio questo: rotolando, ritornò in piedi con naturalezza ma senza rallentare, e proseguì la corsa lasciando l’avversario e Vaan allibiti.

Con un lieve cenno del capo Fran indicò al compagno che era il momento, e presero a correre seguendo la strada imboccata dal ragazzino. Vaan li imitò immediatamente, lasciandosi dietro un “seguiteli, idioti!” urlato da Ba’Gamnan, ancora orbo.

“Aspetta!” urlò verso Lamont, ma lui sparì in una nuvola che attraversava il ponte sospeso.

Dietro, i quattro bangaa li seguivano ad una velocità decisamente superiore alla loro.

“Balthier!” chiamò, disperato.

“Non ce la facciamo contro quelli! Corriamo!”

“Arrivano!”

Sul ponte guizzò qualcosa di splendente e oscuro al contempo. Un compatto torrente di energia verde e nera che schivò loro tre e andò a schiantarsi contro i loro inseguitori. Vaan si voltò per un attimo per vedere il quartetto che si rialzava, avvolti da una innaturale fiamma color giada che fumava dai loro corpi come avessero fatto una sauna. Poi sparirono nella nube e lì, per un secondo, Vaan vide colui che li aveva aiutati con la magia.

“Basch!”


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Per Penelo fu stupefacente, e non in senso positivo.

Le anfore dietro cui si era nascosta si aprirono in due come gusci, rivelando delle zampette meccaniche e corpicini da larva, color ferro rovente. Cadde all’indietro, e osservò le creature, spaventate da lei quanto lei da loro, che si arrampicavano sulla galleria e correvano via.

Sbuffò, esasperata. Conosceva la magia dalle pergamene ingiallite che aveva ereditato, ma nove decimi degli incantesimi non li aveva mai provati nella pratica; e sapeva ancor meno delle infinite creature ostili e pericolose che popolano Ivalice. In definitiva, non c’era nessun motivo ragionevole per cui lei non dovesse restare per tutta la vita pacificamente barricata in una bottega.

Si fece forza con un pensiero: avrebbe fatto nero di sberle Vaan. Cacciarla in un simile casino per fare il furbo al banchetto… oh, l’avrebbe sentita, appena lo rivedeva!

…ma poi, lo avrebbe rivisto mai? Non voleva chiederselo.

Sentì dei passi inconfondibilmente umani. Si nascose dietro uno stipite, e lo vide: un ragazzino che correva verso un altro sbocco, ignorando beatamente le creaturine meccaniche che gli camminavano sopra la testa. Sarà stato più giovane di lei di circa cinque anni. Dava un’impressione di sofisticata delicatezza, ma aveva occhi determinati e fermi.

Il primo hume che vedeva dopo giorni, e per di più di aspetto gradevole. Non ci pensò due volte, e lo seguì con discrezione.

“VA… NI… GA” dalla sua mano si sprigionò un silenzioso vortice di corpi traslucidi, simili a petali, che avvolsero la sua immagine e rifletterono a perfezione il mondo circostante: era invisibile ai suoi occhi.

Il ragazzino ripose nel fodero una spada che sembrava decisamente troppo grande per lui. Tirò un sospiro di sollievo, ma fu subito distratto da uno stormo di dissanguer che passò sopra la loro testa squittendo. Sebbene lei fosse invisibile e lui no, lui rimase molto più calmo di lei.

Come intuendo una forza nascosta in quello hume apparentemente piccolo ed indifeso, anche loro si limitarono ad oltrepassarlo senza tentare in alcun modo di disturbarlo. Lei capì che doveva stargli vicino; ma anche che quel ragazzino, in qualche modo, la inquietava.

Poi, lui tirò fuori dalle sue eleganti vesti una piccola cartina, e sembrò misurare con lo sguardo la posizione e la strada da imboccare. Si guardò intorno per un secondo, come percepisse la presenza di lei, e di nuovo lei ne fu scossa. Poi riprese il cammino, e lei lo seguì.

Furono pochi passi, e una svolta improvvisa prima che entrambi fossero investiti dalla luce e dal vento.

Solo in quel momento Penelo vide finalmente dov’erano, quanto distante era da casa. Vide quanto il mondo in cui aveva vissuto fino ad allora fosse minuscolo, in confronto all’immensità che c’era ancora da conoscere, vedere, capire.

Vide le miniere, rocce volanti fluttuante assediati dalla natura con da rampicanti ostinati e dalla civiltà con  un accavallarsi caotico di travi e impalcature. E oltre le miniere vide il territorio delle marche, lembi di terra che volavano su ali di cristallo, come libellule immense e antichissime, e i monti delle marche da cui i ruscelli defluivano per poi tuffarsi giù, nell’oceano.

E poi qualcos’altro, che gli fece giare la testa ancora di più: minatori bhujerbesi. Erano in cinque, mal vestiti e sudici, e bevevano da grossi tazzoni di metallo quelli che probabilmente erano degli orridi caffè annacquati, mentre ridacchiavano con i denti giallastri. E fin qui, niente di strano.

Ciò che dava il capogiro era come fossero seduti tutti e cinque su una trave sospesa nel vuoto, tranquilli come fossero nel letto di casa loro. Ad ogni colpo di vento, sembrava che tutte le miniere vibrassero e scricchiolassero come una vecchia barca, e quei minatori sembravano sul punto di cadere, ma nessuno di loro smetteva di sorseggiare placidamente il caffè.

Vagabondando un po’ con lo sguardo da un ponteggio all’altro, Penelo vide altri manipoli in punti ugualmente pericolanti, che facevano colazione o si affaccendavano con sacchi e piccozze. Era la prassi, evidentemente.

“Salve.” salutò il ragazzino, con cortesia.

Il quintetto sollevò i musi dalle tazze e lo guardò interrogativo.

“Turista?” chiese uno, poggiando la tazza sulla trave e sgranchendosi, con terrore di Penelo.

Uno di loro dovette intendere la parola turista come una specie di insulto, perché sottolineò la domanda dell’altro con un notevole sputo che si perse nell’immensità sottostante.

“Una specie.” Sorrise e si appoggiò alla balaustra, per parlare con loro.

“Credevo che oggi le miniere fossero chiuse.”

“Seeh, stronzate. Una infestazione di antorion.”

“Antilion.” Corresse lui.

“Certo… vostra culturosità.” ammise l’altro con fastidio “Antilion. Chiudono le miniere finchè non le ripuliscono da quelle bestiacce.”

“Se le inventano tutte per non farci lavorare, quei porci della guardia. Belli loro, con le uniformi lucenti.” Sbottò quello che aveva sputato “Ma noi non ci facciamo fregare e veniamo di nascosto.”

“Capisco.” Beato te, pensò Penelo, che non capiva affatto: preferivano morire che perdere un giorno di lavoro?

“Va bene qualsiasi cosa, tranne alzarci la paga.” Rincarò un altro che non aveva smesso di bere.

“Immagino sia bassa.” Chiese il ragazzino, comprensivo.

“Da fame.”

“Eppure non ci sono molte proteste a Bhujerba.”

“Proteste! Tolgono tempo al lavoro!” insistette quello più arrabbiato.

“Capisco.” Ripetè, senza il benché minimo sarcasmo e senza perdere il buonumore.

Poi notò qualcosa che lo allarmò da qualche parte nei pontili, ma Penelo non riuscì a vedere cosa fosse. Si guardò intorno come temesse di essere inseguito, e di nuovo lei si chiese se in qualche modo la percepiva.

“Devo andare. Grazie della chiacchierata.” Si congedò, per avere in risposta una indifferente alzata di spalle.

E dopo un breve cenno del capo, si rimise in cammino a passo spedito.

La cordialità di quel ragazzino aveva un che di affascinante e inquietante al tempo stesso. Una sensazione che Penelo ricordava di aver già provato per qualcun altro, ma chi?

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“Non sembra che ci seguano più.” Concluse Fran.

Gli altri tre si lasciarono cadere stancamente contro un muro; la viera percorreva le pareti accarezzandole con una mano, come cercasse qualcosa, e Vaan guardò incuriosito un grosso vaso abbandonato contro un angolino poco distante. Aveva un’aria di antichità e valore, adorno com’era. Era sospetto che un oggetto come quello si lasciasse così incustodito.

“Mimic?”

Fran annuì, e il ragazzo se ne compiacque: almeno imparava in fretta.

“Ancora un inseguimento con Ba’Gamnan e potrei lasciare l’onorata professione del pirata.” Commentò Balthier distendendosi come se fosse momento e luogo per dormire.

“Che sballo quello! Cos’era?” cambiò discorso il ragazzo, entusiasta, rivolgendosi a Basch.

“Ho imparato un incantesimo per i casi in cui non avessi un arco sotto mano.” Spiegò il capitano sgranchiendo il braccio.

“Allora perché ce la siamo battuta? Potevamo buttarli giù.”

“Vuoi dire che poteva buttarli giù lui.” Precisò Balthier pungente.

“Evitare una battaglia inutile non è una vergogna.” Sentenziò Basch.

“Per gli dei, sei una noia!” si lamentò il ragazzo alzando gli occhi al cielo.

“Comunque” proseguì Basch senza offendersi “Non sono un mago. Non posso rifarlo senza almeno un giorno di riposo.” Continuava a muovere il braccio, come fosse intorpidito.

Vaan notò solo allora che la pelle era percorsa da una sottilissima linea bianca, come una cicatrice rimarginata negli anni da cure meticolose – solo che prima non c’era. Sotto il gilet rosso, il color crema della camicia era imbrattato da macchie scure.

“L’elisir del ragazzino” spiegò in risposta agli occhi sgranati dell’altro “mi ha salvato il braccio.”

“Che casino! Avremmo dovuto-“

“Il secondo incrocio, a destra. Poi giù.” lo interruppe Fran, tenendo un orecchio contro la parete.

“Sicura, socia?”

“Precederemo il nostro giovane amico senz’altro, se non accelera il passo.”

Il pirata scatto in piedi: “Allora si va.”

“Perché ti interessa tanto quel Lamont?”

Non ebbe risposta, mentre i due si incamminavano dandogli le spalle. Solo Basch gli porse la mano per alzarsi.

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“Vedo che andate ancora in giro senza scorta… Lord Larsa.”

Il giudice, bardato d’oro e di ricche vesti di velluto rosso ricamato di fiori, lo aveva apostrofato proprio così: “Lord Larsa.” Se ancora Penelo, tornata visibile da pochi secondi, poteva avere qualche dubbio sulle sue nobili origini arcadiane, le uniformi dei soldati che si disposero intorno a lui fugarono ogni dubbio.

Non ebbe il tempo di pentirsi di averlo seguito: la notarono subito, e due soldati che non aveva visto avvicinarsi la afferrarono per le braccia.

“A quanto pare girovagava per le miniere.” dedusse il giudice con un certo disprezzo “dovreste prestare maggior cautela con questi indesiderabili in giro.”

“I-io sono stata rapita da-“

“Silenzio!” la interruppe, frustrando ogni speranza di una tutela legale da parte di un Giudice arcadiano di ruolo.

Non che fosse una novità: dal momento che la legge era una religione di appannaggio dei soli giudici, anche quando decidessero di prendere una decisione palesemente contraria a qualsiasi principio legale, chi mai avrebbe potuto farglielo notare? Nessuno che non fosse un giudice di pari rango. Cosa che Penelo non era e perciò, come tutti, poteva solo elemosinare giustizia presso chi la custodiva, se per misericordia voleva concederla. E non sembrava che fosse quello il caso.

“Se è un crimine girovagare da soli” si intromise Larsa “allora sono colpevole anch’io.”

Dall’interno dell’armatura dorata non uscì nemmeno un respiro.

Si rivolse allora ad un vecchio dall’aria distinta e serena, vestito in giallo e crema: “Marchese, ho fiducia che potreste arrangiare un’alloggio in più?”

“Perché no?” il Marchese ebbe l’aria di nascondere un grande divertimento.

“Iudex Magister Ghis… credo che seguirò il vostro consiglio. Non viaggerò più senza accompagnamento.” E detto questo afferrò la mano di Penelo, paralizzata, e la tirò via con delicatezza.

“Inaspettato.” Disse infine il giudice, come se non avesse potuto nemmeno respirare finchè Larsa era presente.

“Grazie, Penelo.” Sussurrò Larsa alla ragazza.

“Di-di nulla.” Balbettò lei, senza la benché minima idea di perché Larsa conoscesse il suo nome.

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“Che combina Penelo? Che fa con quel Lamont?”

Fu quasi uno scatto di gelosia, Vaan uscì dalla colonna che lo nascondeva con il chiaro intento di oltrepassare la folla di minatori che non aveva rischiato andando al lavoro quel giorno, rimasti l’unica cosa a nasconderlo dalla vista dell’amica. Ma Balthier lo afferò per un braccio, trattenendolo.

“Quello non è Lamont, ma Larsa Ferrinas Solidor, ultimo nato dell’Imperatore Gramis… e fratello di Vayne.”

“Che? Quel ragazzino?”

Il pensiero lo fece quasi arrivare a terra. Gli apparve inconcepibile, praticamente ridicolo; uno hume come lui, una persona piccola e apparentemente indifesa, una persona che gli aveva parlato, che era stato a pochi centimetri da lui, poteva essere in qualsivoglia modo collegato all’Imperatore di Arcadia, aver parlato con lui, addirittura era un suo parente?

L’Imperatore di Arcadia non poteva essere una persona con dei figli. L’Imperatore era un concetto, un’idea, quasi un fenomeno naturale tanto universalmente conosciuto e determinante nella vita di qualcuno come lui, quanto immutabile ed irraggiungibile. Né più né meno che l’alba e il tramonto.

E quel simpatico, forse un po’ inquietante ragazzino aveva praticamente toccato il sole con le mani, per poi parlare con uno come lui come nulla fosse. Poteva essere incredibilmente offensivo, o incredibilmente lusinghiero. Certamente incredibile.

“Non preoccuparti” la voce di Fran lo riportò sulla terraferma “la tratterà bene.”

“Nessuno conosce i ragazzi come Fran.” Scherzò Balthier.

Vaan restò paralizzato, a guardare il gruppetto che si allontanava, e la piccola folla che si richiudeva. Era certamente un problema pratico salvare Penelo mentre era circondata da una truppa arcadiana e un Iudex Magister.

“Le nostre strade vanno tutte a Ondore. Dobbiamo parlargli.” Considerò Basch.

La reazione di Balthier fu un’occhiata scettica. Il capitano riflettè qualche altro secondo.

“Il Marchese finanzia le organizzazioni anti-imperiali. Possiamo iniziare da lì: ha annunciato la mia esecuzione due anni fa, quindi se si spargesse la notizia che sono vivo, la sua situazione sarebbe compromessa.”

“Gente non troppo innamorata dell’Impero, che non si emozioneranno a sapere che le voci sulla tua dipartita erano, si può dire, ampiamente esagerate.” Continuò il ragionamento il pirata “se si potesse creare un clamore del genere avremmo la loro attenzione.”

Rimasero di nuovo in silenzio, il brusio dei minatori a coprire i loro pensieri.

Vaan tirò un respiro, poi disse: “Tutto qui? Clamore? Che ci vuole?”

Si arrampicò su una delle colonne con la naturalezza di chi è nato sugli alberi, e guardò la calca dall’alto. Prese aria, poi urlò a pieni polmoni:

“SONO IO, IL CAPITANO BASCH VON RONSENBURG DELL’ORDINE DALMASCO! IL SOLO E L’UNICO! ONDORE E’ UN BUGIARDO!”

Dopodiché si rituffò giù, tra una ventina di sguardi allucinati.

“Bè” commentò il pirata con aria stordita “certamente lo si può definire clamore.”

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Larsa leggeva con espressione serena una missiva da un consistente fascio di incartamenti, appoggiato su uno dei morbidi sofà ocra che non davano soluzione di continuità tra il salone e la terrazza. Penelo lo guardava, composta, da un divano a pochi metri di fronte il suo.

“Allora Vaan…” azzardò lei “sta bene sul serio. Io non credevo… non credevo lo avrei più visto.”

Si impose di controllare il suo entusiasmo: non poteva dire, ancora, di potersi fidare del suo interlocutore, anche se questi aveva pazientemente ascoltato tutta la sua storia, e poi esaudito con cortesia ogni sua richiesta.

“Lo rivedrai presto” rassicurò “e fino ad allora veglierò che non ti sia fatto alcun male.”

“Grazie.” Le uscì fuori un po’ spaventato, ma dolce.

Lui la guardò per un attimo, rannicchiata in sé stessa davanti a lui che stirava un sorriso timido. Ecco, era quel momento: la sua irrinunciabile droga, ciò per cui viveva. Era un tratto della famiglia, si diceva. Il momento in cui si avvertiva con chiarezza che sì, era possibile: lui aveva il potere di migliorare la vita degli altri, di fare qualcosa per loro, di farli sorridere, e loro glielo riconoscevano.

Lui poteva fare la differenza.

“Sono preoccupato.” Riflettè, chiudendo la lettera “La Guardia Imperiale di Rabanastre sembra prendersi troppe libertà. Ne parlerò al Console.”

La ragazza si irrigidì visibilmente al pensiero, e strozzò un “Come?”

Cercò di dirlo con la massima chiarezza e orgoglio, così che la cosa fosse chiara: “Vayne Solidor, il Console, è mio fratello.”

Lei sgranò gli occhi. Sembrava che in quel momento avesse finalmente realizzato qualcosa di tremendo, ricordato un momento che non voleva ricordare. Lui sentì dispiacere per quella reazione, ma decise di spiegarsi meglio.

“Il primo dovere del Console è mantenere l’ordine in Dalmasca. Mio fratello non si concede di fallire. Forse le cose non vanno bene come dovrebbero, ma dagli un po’ di tempo e metterà le cose a posto. Non temere.”

Non sembrò affatto convinta, anzi, lo guardava con aria alienata. Come se avesse delirato. Di nuovo sentì dispiacere: poteva capire quanto fosse difficile prenderlo in parola. E’ il genere di lacerazioni che la guerra produce, è inevitabile. Cercò di chiarire ancor meglio la sua posizione:

“Mio fratello è un uomo eccezionale.” Dichiarò con fermezza.

Penelo piantò gli occhi per terra e, come per giustificarsi, disse: “Mi fa paura.”

“Perché?” più che una domanda, era un invito a parlare.

“Scusami. Lui… è tuo fratello. Solo… non puoi sapere quanto… abbiamo perso con la guerra. I miei genitori, i miei amici…” in un misto di timore e dolore, non alzò più gli occhi.

Fu lui a chinare il capo verso di lei.

“Temi l’Impero?”

Lei avvampò. Il fratello del Console, il figlio dell’Imperatore le stava davanti, curvo su di lei per ascoltare cosa avesse da dire. Il pensiero era come una carica elettrica che le infiammava il corpo, che la stordiva.

“Ascoltami. Nella nostra famiglia usiamo mettere i bisogni degli altri innanzi ai nostri. Nulla ti accadrà, lo giuro. Questo devo al Casato Solidor.”

Lei guardò dritto nei suoi occhi. In quegli occhi neri, screziati d'argento, vide una fede incrollabile nelle sue stesse parole. Una fede genuina e pura, di cui non si poteva dubitare. Eppure, lui era sempre e comunque ciò che era: un Solidor. L’oppressore. Il nemico.

“Come posso… come posso fidarmi di te?”

“Ti do la mia parola d’onore. Mio fratello non farebbe di meno.”

Per qualche secondo ci fu solo il silenzio, e lo stridio di un uccello. Ed entrambi capivano: lei poteva riporre la sua fiducia in lui, ma per quanto lui tentasse, non l’avrebbe mai riposta nell’Impero. Tale era l’eredità della guerra, un solco incolmabile tra i loro popoli.

Ma lui ne era certo.

Poteva fare la differenza.

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Uh, ho perso una delle mie lettrici più appassionate, pare! Hagaren, spero avrai una bella sorpresa a trovare due (forse tre) capitoli nuovi quando torni.

Questo capitolo è il secondo dedicato prevalentemente all'amato "piccolo principe", dove si svela la sua identità. Avevo pensato ad una cosa simmentrica per due capitoli intitolati "Gabranth->Noah" ma la cosa non mi è suonata bene alla fine, specie visto che alcuni capitoli dedicati ad Esper sono già per cause di forza maggiore in immediata successione l'uno con l'altro.

Il capitolo cita una famosa fotografia, dirò in seguito quale. Chi coglie la citazione?

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Capitolo 18
*** Riunione ***



Un tempo fieri cacciatori delle terre fluttuanti, una volta civilizzati i rebe erano assurti a cortigiani più apprezzati da Ondore, le loro alte e snelle figure sempre impettite nei vestiti eleganti, i musi felini rivolti verso l'alto, gli occhi impenetrabili a squadrare gli interlocutori. Simbolo dell'austera eleganza che i reggenti di Bhujerba dovevano mostrare, si erano integrati perfettamente nel clima multietnico e pluriculturale della città volante. Incutevano timore, antipatia e freddezza con una sola occhiata, a coloro di cui i modi o la presenza non erano graditi a corte. Come in quel caso.

Il rebe guardò lo scalcinato gruppetto con un piglio lievemente sprezzante, poi accarezzò lentamente la sua barbetta di pelliccia ramata.

"Sono loro?" chiese piano.

"Sì." disse uno dei due che tenevano le braccia all'uomo più robusto, con una certa inquietudine.

"Il ragazzino" si intromise un altro indicando il biondino dalla pelle scura "sostiene di essere il Capitano Basch Von Ronsenburg. Fra un pò dirà di essere il re in persona!"

"Il Movimento Indipendentista pretende spiegazioni per le affermazioni del Marchese. Chi è questa gente che lo diffama? Come possono agire così senza incontrare un'immediata punizione?" inquisì quello con l'aria più autorevole.

I baffi fremettero per un istante, poi il rebe disse solo: "Il Marchese intende comunque riceverli, prima di ogni altra cosa."

Sebbene avesse evaso la domanda, nessuno degli uomini sembrò avere il coraggio di obiettare.

"Fico." commentò Vaan, e gli occhi di Balthier schizzarono verso l'alto, mentre Basch sorrise benevolmente divertito.

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Curiosità.

Uno dei principali tratti che distinguono le grandi civiltà dai barbari e dalle bestie: la ricerca incessante per il nuovo, la volontà di squarciare lo sconosciuto con l'uso dell'intelletto. Era questla la forza che guidabva Cidolfus Demen Bunansa, o come veniva chiamato da tutti a prescindere dal grado di familiarità, il Dottor Cid.

Qualsiasi cosa fosse nuova, inaspettata, non studiata, non catalogata, aveva l'intrinseco valore di un tesoro. La sua mente era costantemente tesa in un'ansia di divorare conoscenza che non sarebbe mai stata saziata, perchè l'universo è infinito e la conoscenza assoluta impossibile. Eppure era proprio quel sogno impossibile che il Dottor Cid inseguiva da tutta la vita, per il gusto d'inseguirlo più che per la speranza di raggiungerlo.

E così, il primo contatto con Rabanastre lo intrigava, lo affascinava addirittura.

I suoi cittadini erano rozzi, ignoranti come chocobo e incapaci di pensare ad altro che alla loro sopravvivenza -comprensibile, Cid non si illudeva nel nascondersi che la conoscenza era un lusso che solo i nobili come lui potevano concedersi- eppure ogni strada, ogni vicolo, praticamente ogni spazio visibile di Rabanastre era intriso della storia di Re Raithwall, e dell'Alleanza di Galtea da lui fondata: ogni graffito sui muri, ogni motivetto decorativo, ogni favoletta per bambini era un tassello nel grande mosaico di quell'epoca grandiosa.

Come tutte le piccole menti, i rabanastresi non comprendevano e avrebbero mai compreso il valore della conoscenza che si tramandavano da secoli. "Miti", "leggende", "fiabe", qualcosa di diverso, credevano, dalla "Scienza" -scienza, ciò che è certo, sciibile, riconosciuto, comprovato.

"Ignoranti!" esclamò, parlando da solo sotto gli sguardi allibiti dei mercanti.

Uno dei mercanti guardò l'altro picchiettandosi la testa con un dito. Due viera sanguemisto intente a comprare frutta colsero il gesto e ridacchiarono.

"Vi ho visto, sapete!" tuonò lui, torcendo il corpo in maniera innaturale per fulminare tutti con lo sguardo.

E dopo un sobbalzo collettivo, riprese a camminare parlando all'aria intorno a lui.

Una contraddizione vivente: alle sue vesti di nobile arcadiano toanlità rosse ornate d'oro, dal pomposo colletto merlato, si sovrapponevano lunghi guanti e stivali di lattice bianco, da addetto ad un laboratorio; i suoi curati capelli a spazzola traditi da una barba leggermente incolta e dalle occhiaie che denunciavano un lavoro febbrile, a stento nascoste dietro le lenti dei suoi occhialini ovali. Forse un giullare giunto per allietare il Console Solidor, che come lui era una figura indecifrabile?

"Non esiste distinzione tra mito e ragione. Non sei d'accordo anche tu? Ma certo" annuì a sè stesso "sono solo diversi gradi di comprensione della realtà. L'immaginazione era solo l'anticipo della scienza. La leggenda è verità per bocca del popolo." si fermò a prendere una bella boccata d'aria.

"Puoi sentirne l'odore? Kebab. Un tipico cibo di strada dalmasco. T'inviterei a favorire, ma non credo potresti. Io mi servo, però." si diresse allegramente verso la fonte del fumo, gesticolando.

"E così ogni fiaba ha qualcosa da insegnare, a chi vuole imparare. Ma come possono saperlo loro? Si passano la conoscenza come un pacchetto chiuso, di mano in mano, senza sapere che c'è dentro e nemmeno chiederselo. Sono convinti che il pacchetto sia tutto, capisci? Istruirli, dici? Loro sono felici così. No, ma certo, ed è per questo..."

Dei ragazzini scapparono a vedere quell'attempato signore che si avvicinava delirando. Dal bancone del kebab lo videro arrivare, e si paralizzarono. Coi nobili arcadiani c'era poco da scherzare, matti o no.

"Porzione doppia di kebab di chocobo con tzaziki e arissa." non chiese per favore, ma buttò sul banco un sacchetto che suonò pieno di monete, poi si girò continuando a parlare.

"Un grattacielo non è forse naturale quanto un nido di cockatris? Uno è creato dall'animale huma, uno dall'animale cockatris. Ma sono sempre atomi in movimento e trasformazione. Non c'è contrapposizione, non c'è conflitto. Non esiste una Natura opposta alla Cultura, ma solo un enorme libro dell'esistenza dove scorre l'indice lo studioso! L'equilibrio tra l'albero e il grattacielo, sì, ecco il punto! E allo stesso modo, tra mito e ragione- sto solo riordinando le idee!"

Apparve irritato, e così riprese a camminare lasciando lì i soldi -molti di più di quanto non costasse il kebab- e il cibo, che si dimenticò di ritirare dai venditori troppo spaventati dall'assurdità della situazione per dire qualcosa.

"E' dunque possibile che tu debba sempre contraddirmi? Non occorre la certezza della teoria, bensì-" sbattè un pugno contro una mano "-sperimentazione! Abituato a veder le leggi dell'universo come qualcosa che hai scritto di tuo pugno. Riscopriamo... il gusto di scoprire!" esultò, puntando l'indice verso il cielo.

Nemmeno si accorse di essere arrivato alle soglie del Palazzo Reale.

"Voglio parlare con Vayne."

"Come scusi?" sbalordì la guardia.

La faccia del Dottor Cid mostrò onesto spaesamento: "Cosa ho detto di poco chiaro?"

"H-ha un appuntamento con sua eccellenza il Console Solidor?" balbettò l'altro, interdetto.

"Se ti pare. Fateci entrare!"

"Fateci ...?"

Un altro soldato lo spinse da parte e aprì il portone.

"Era ora. Impulsivo, dici. Sono impulsivo perchè posso permettermelo." spiegò al niente che lo circondava, ed era vero: non c'era niente che amava di più di spaesare quei noiosi e boriosi compatrioti che si ritrovava sbattendogli in faccia che una delle figure più importanti dell'Impero era, effettivamente, sbroccato senza appello.

E che non potevano farci un accidente.

"Ne ho sentito parlare." spiegò a bassa voce il soldato che aveva aperto "E' nei favori dei Solidor per qualche ragione, ed è pazzo."

"VI SENTO!" rimbombò un eco dall'interno.


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L'interno del palazzo era un susseguirsi di colonnati, volte e pavimentazioni la cui sontuosità ricordava -pur non essendovi pari- quella del Palazzo Reale Rabanastrese. I marmi di blu sfumati in cobalto e inchiostro, venati di grigiazzurro, davano un tocco onirico alla residenza del Marchese, e Vaan camminava barcollando con il naso all'insù e la bocca spalancata.

"Stai pensando a cosa potresti rubare?" Balthier lo riportò alla realtà.

"E tu?" ribattè acido il ragazzo.

Arrivati lla fine del corridoio, il rebe toccò lievemente un'alta porta di legno scuro, che si aprì dolcemente su un'ampio salone ovoidale. Alla fine stavano un tavolo e un'alto trono di varie colorazioni di legno, i cui contorni romboidali richiamavano un diamante. E sul trono, il volto stancamente appoggiato sulle mani giunte, stava Halim Ondore IV, Marchese di Bhujerba.

Gli occhi di Ondore si schiusero leggermente, dirigendo uno sguardo riflessivo sui quattro ospiti. Il rebe lasciò la stanza praticamente senza produrre rumore. Vaan agitava il piede, impaziente.

"Sir Basch Von Ronsenburg. Non è passato molto da quando ho annunciato la vostra esecuzione." puntò tutto su una conversazione nella massima sincerità.

"Ed è per questo che ancora respiro." confermò Basch, ratificando l'idea che il Marchese aveva in testa.

"E' dunque questa la spada che egli tiene sollevata sulla mia  testa. Non ha lasciato nulla al caso, vedo." chiuse gli occhi di nuovo, per qualche secondo, poi li riaprì e invitò: "Dunque?"

"C'è una guida per la resistenza che è caduta nelle mani dell'Impero. Una donna di nome Amalia. Vorremmo salvarla, ma abbiamo bisogno di voi."

Sulle labbra del Marchese si disegnò un sorrisino complice al sentire la richiesta del capitano: "Questa guida... Amalia. Dev'essere importante."

Aveva frainteso, capì Basch. Pensava che fosse la sua compagna all'interno del movimento. Basch, d'altro canto, non era certo di poter dare un'informazione di quell'importanza in presenza di tre estranei. Fissò il Marchese con serietà, e proferì un lieve inchino. Gli occhi di Ondore si sgranarono, realizzando finalmente la verità. Vaan guardò i due aviopirati dietro di lui, come a chiedere delucidazioni su quella conversazione muta. Ma nemmeno loro capirono molto. Stava per esplodere, non gliene fregava niente delle loro trame intricate, era lì per Penelo e nessuno sembrava avere interesse a parlare di quello.

"Capirete" disse con una certa riluttanza "che devo considerare la posizione."

"Senta, intanto, possiamo vedere Larsa? E' con una mia amica." interruppe nervosamente Vaan quando non ne potè più.

Ondore lo guardò interrogativo per qualche secondo, poi spiegò con distacco: "Temo sia tardi per questo. La corte di Lord Larsa sì è riunita alla Divisione Imperiale, che ripartirà per Rabanastre all'alba, con l'arrivo della Flotta."

"Cosa?!? Impossibile!" sbottò Vaan mettendosi davanti a Basch.

"Probabile, temo."

"Come liberiamo Penelo?" insistè il ragazzo.

"Non credo di saperlo meglio di voi." cercò di chiudere il Marchese.

"Assaltiamo la Divisione!"

"Non sarebbe saggio."

"E' l'unica! Cosa aspettiamo?"

"Che ti dai una calmata." lo gelò Balthier strattonandolo.

Lievemente irritato, il Marchese tornò sul Capitano: "Capitano Basch, certamente le esigenze della mia situazione non vi sfuggono. Trovo quindi che le catene nemiche vi riusciranno leggere da sopportare."

Vaan rimase stupito dalla meccanicità con cui Basch sguainò la spada, senza la minima aggressività. Non sembrava in alcun modo intenzionato a colpire il Marchese, eppure puntava l'arma contro di lui. Entrambi erano perfettamente calmi, gli occhi di uno in quelli dell'altro.

"Aspetta!" Balthier cercò di frapporsi tra i due, ma Basch fissò anche lui.

"Non possiamo fare altrimenti." sussurrò Basch, e questo sembrò persuadere il pirata per ragioni che a Vaan sfuggivano.

"Guardie! Accorrete!" urlò Ondore mentre si alzava dal trono con una calma in assoluto contrasto con il suo tono.

"Che siano portati al Giudice Ghis!"

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Una morbida vestaglia rosso corallo che cadeva sul corpo scolpito del Console Solidor, e un lungo intreccio di perle candide tenevano i capelli neri raccolti in una lunga coda: questa era l'idea arcadiana di una dimessa tenuta casalinga. Gabranth non poteva non sentire dentro di sè quella parte, per quanto piccola, che era stata solo un semplice ragazzotto di un paesino rurale, che disprezzava le pompose e contorte abitudini della nobiltà. Ma taceva, immobile alle spalle del Console che con lo sguardo percorreva la Capitale Regia, ammantata dalla sera.

"E' stata un'operazione inattesa." si decise a parlare il Iudex Magister "Nessuno dei nostri informatori aveva sentito voci di un piano per liberare il capitano Von Ronsenburg. Lo stile diretto e ardito è tipico di Azelas Vossler, ma..."

"Non Vossler." interruppe Vayne intuendo i pensieri di Gabranth "E' sospettoso, e non aveva modo di sapere che il suo commilitone è innocente. Forse qualcun altro che non ci aspettavamo."

"Forse la ribellione ha più cellule di quanto credessimo." ipotizzò lui.

"O forse non ha niente a che fare con la ribellione, ma è qualcosa di nuovo." riflettè Vayne, e aggiunse "I tre che erano con la principessa Ashelia... uno di loro mi ricordava..." le sue parole si persero nel silenzio dei pensieri.

"E' però possibile che questo gruppo abbia contattato la cellula di Vossler dopo... il circolare di questa informazione potrebbe giocarci contro. In ogni caso, con una intelligence così ridotta non avremo modo di saperlo."

Il Console tradì appena del nervosismo: "Quelle decrepite cariatidi di Archades mi legano le mani, ed ecco i risultati. L'ostinazione di questo regno non conosce confini."

"In ogni caso è ragionevole supporre che i ribelli operino isolati al momento." constatò Gabranth cercando di migliorare la situazione "Ma con un supporto esterno le cose peggiorerebbero. I movimenti anti imperiali di Bhujerba, sappiamo, sono ben finanziati, e senza dubbio da Ondore più o meno direttamente. Occorrerà Strigliarlo."

Vayne si girò e si lasciò cadere sulla poltrona del piccolo studio, avvolto nel tessuto rosso. Piuttosto che insediare la sala del trono, passava la maggior parte del tempo lì, a leggere incartamenti. Fissò il vuoto senza parlare per qualche secondo.

"Il danno è rimediato, comunque. Proprio il Marchese ci comunica che ha catturato il nostro fuggitivo e lo ha consegnato a Ghis." e finito di parlare, interrogò il giudice con lo sguardo.

La mente di Gabranth sembrò andare altrove per poco, ma subitò sibilò: "Sarà giustiziato dalla mia mano."

"Il tuo senso fraterno è commovente." osservò gelido il Console.

"Ah!" il volto e il tono di Vayne sembrarono addolcirsi appena, come per un pensiero lieto: "Ghis tornerà con Larsa. Assicurati che a casa non corra rischi. Adesso puoi andare, aspetto il Dottor Cid."

Vayne abbassò lo sguardo su delle lettere, e subito sembrò che lui non fosse non solo sgradito, ma quasi inesistente. La senzazione che Vayne sapeva trasmettere ai sottoposti quando voleva che lo si lasciasse solo. Fece per andare, e fu allora che incrociò proprio il Dottor Cid, che gli veniva incontro.

"Per essere sicuri dobbiamo vedere l'originale. Nabudis ci ha insegnato molto, dopotutto- certo, ben nascosto, inseguono ombre, gli idioti. Certo! Le redini della storia tornano in mano all'uomo!"

Gabranth cercò di ignorare quel folle che monologava e gesticolava e allungò il passo.

"Vayne!" si sedette sulla scrivania davanti a lui "Sembra ti piaccia il tuo nuovo impiego come Console, hm?"

Appoggiando il viso su una mano, Vayne gli dedicò un mezzo sorriso di scherno "Me l'hanno fatto aspettare per due anni. Che nuove da Archades, dai nostri onorati senatori?"

"Si lavora duro, come sempre..." Cid dedicò un sorriso ben più aperto e smagliante, puntandogli il dito contro come una pistola: "...per trovare un coltello per la tua schiena."

"Lasciamoli tentare."

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"Mi sono rotto. Ci trascinano in catene qui e lì." sbuffò Vaan.

"Sono molto contrito. Lo comunicherò agli imperiali nella certezza che terranno in conto il tuo sentire."

Ormai, il sarcasmo di Balthier nemmeno lo irritava più.

La sala di comando dell'aeronave avrebbe facilmente ospitato una festa. Invece, eccetto le guardie e i piloti, c'erano solo due persone: il Iudex Magister Ghis, e Amalia. Vaan le dedicò uno sguardo offeso, ma lei non lo calcolò nel modo più assoluto.

"I prigionieri, Vostro Onore."

"Maestà..." Basch sembrò non potersi trattenere appena vide Amalia, e mosse un passo verso di lui.

Lei gli corse incontro e gli mollò un ceffone che fece tanto rumore da far voltare alcuni piloti.

"Dopo quello che hai fatto, come osi presentarti a me!" disse carica di un odio che faceva venire la pelle d'oca "Dovresti essere morto!"

"Andiamo, su" incoraggiò la voce di Ghis dall'elmo d'oro la cui forma ricordava vagamente un boomerang, con un tono che tradiva un certo divertimento "Avete perso le buone maniere? Non sono modi, questi... principessa Ashelia B'Nargin Dalmasca."

Vaan, Fran e Balthier sussultarono. "P-principessa?" balbettò il ragazzo.

Come a conferma, Ghis si mosse verso di lui: "Ovviamente ora come ora non ha prove del suo lignaggio... non è diversa da qualsiasi altro membro della ribellione."

"La Resistenza." precisò lei, irritata.

"Sua eccellenza il Console" proseguì Ghis ignorandola "richiede l'aiuto della detronizzata famiglia reale nel restaurare la pace a Dalmasca. Coloro che foraggiano rivolte e sommosse... che affermano di avere sangue reale... avranno in destino la forca, senza eccezioni."

"Che vuol dire?"  bisbigliò Vaan al pirata.

"Che la politica non è il tuo forte."

"Non farò la marionetta per Vayne!" Ashe rifiutò l'implicito invito sdegnosamente.

"Re Raminas" intervenne Basch, unica persona nella sala che mostrasse calma e pacatezza "Mi ha affidato un compito. All'occorrenza, vi avrei consegnato una cosa di grande importanza, il vostro diritto di nascita: il Frammento del Crepuscolo. La pietra garantirà il suo lignaggio, e solo io so dove si trova."

Pur sotto l'armatura integrale, Ghis sembrò a disagio. Se riconoscerla o meno come Principessa non stava unicamente a loro, la loro posizione si complicava.

"Aspetta. Hai preso la vita di mio padre ma risparmi la mia? Per farmi vivere nella vergogna?"

Tutto il suo disprezzo non sembrò smuovere Basch nel modo più assoluto, e disse solo: "Se fosse il vostro dovere, sì."

"Oh, insomma piantala di essere così testarda, ci farai ammazzare tutti!" sbottò Vaan avvicinandosi a lei.

"Non interrompermi!" lo folgorò lei.

Il ragazzo stava prontamente per reagire con il peggior gestaccio da mercato nel suo repertorio, quando il sacchetto alla sua cintola iniziò a splendere di colori caldi, e a vibrare.

"Ma che..."

"La pietra-" sbalordì Basch, ma fu svelto a mordersi la lingua.

"E-era nelle sale del tesoro a Rabanastre" sembrò cercare di giustificarsi.

"Ecco, fantastico." si lamentò Balthier nell'orecchio di Fran.

La viera però sembrava ampiamente disinteressata a tutto fuorchè al giudice alla destra del manipolo che li portava in manette. Lo fissava placida senza ascoltarli.

"AH AH AH" Ghis sembrò non potersi più trattenere dal sollazzo "Splendido, avete portato con voi la pietra! Questo ci risparmia molte grane."

"NON DARGLIELA!" ordinò Ashe al limite della resistenza nervosa.

Gli occhi di Vaan contarono i soldati, e poi si diressero su quelli di Balthier. Il pirata sbuffò guardandolo di sbieco, come a dire: non fare lo scemo. E lui si trovò d'accordo con lui, per una volta.

"Prometti" disse mentre prendeva la pietra "Nessuna esecuzione."

Ghis gli prese la pietra dalle mani e disse solo: "Il giudice è legato solo alla legge."

Osservò il Frammento del Crepuscolo per un attimo, e in nell'istante in cui fu tra le sue dita smise di brillare, il  bagliore si fece sempre più fioco fino a farlo diventare  solo un frammento vetroso color ambra scura.

"Portateli via. Mettete la Principessa in celle separate." ordinò distrattamente senza staccare lo sguardo dalla pietra.

"Vayne Solidor, perchè ti affascina questo oggetto?"

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Cid e Vayne stavano affacciati alla balconata sulla Piazza delle Quattro Porte, mentre la notte e il suo silenzio, interrotti solo dalle cicale e dall'ululato di qualche fang in lontananza, si infittivano sempre di più.

"E allora, voi come trovate la Capitale Regia?"

Lo scienziato rispose mettendo le mani avanti come ad inquadrare Rabanastre tra le dita.

"Come una bella fiaba... tante metafore rozze e superficiali degne di un bifolco, che coprono l'unica, semplice, elegante verità."

"Non dovresti disprezzare il popolo. Ha anch'esso il suo ruolo nella storia."

"Io non disprezzo il popolo. Lo ignoro." si voltò verso l'aria alla sua sinistra: "Non è forse così?"

Poi tornò a guardare Vayne: "Come ha fatto Raithwall... un Re di un'epoca pressochè incivilizzata... ad edificare una meraviglia architettonica come questa? Solo noi ce lo siamo chiesto! Solo noi ci siamo dati risposta! Eppure questa gente passa davanti al palazzo reale tutti i giorni."

Vayne non rispose, e Cid fece una smorfia delusa.

"Ti preoccupa qualcosa, direi."

"Il Marchese sa del mio piccolo asso nella manica per ricattarlo."

"Oh."

"E' più corretto dire che lo ha lui. E me lo riconsegna. Perchè?"

"Forse ormai ha deciso di non prendere più decisioni contro l'Impero. Che ne so. E' politica, il tuo pane."

Vayne sorrise: "Dovresti occupartene di più anche tu, anzichè calpestarla come fai." alzò lo sguardo al cielo: "Ma seguiamo il tuo ragionamento. Supponiamo che solo la paura della nostra forza ci renda leale Halim Ondore IV. A questo punto ci sono due possibilità per lui, vivere nella paura per sempre o cercare una forza più grande-"

"Non può saper nulla dell'unica forza che potremmo temere." interruppe Cid.

"Sii realistico!" si stizzì Vayne "La distruzione di Nabudis ha attirato l'attenzione. Qualcuno saprà qualcosa. Forse lui- o forse non è motivato nemmeno dall'ambizione... forse solo dall'affetto. Oppure da entrambi."

Cid si puliva distrattamente gli occhiali: "Sì bè... continua a sfuggirmi il legame tra questo e quel povero soldatino che hai incastrato."

"Ghis scrive: ho catturato il Capitano Von Ronsenburg con dei seguaci... quali seguaci sarebbero? Gente della resistenza? Quelli che lo hanno aiutato a evadere? Che lo aiuteranno ad evadere di nuovo?"

Stavolta fu Cid a sorridere: "Capisco. Ondore spera così di avvicinare Basch alla principessa e di liberare entrambi, tenendo all'apparenza un comportamento corretto nei tuoi confronti. Carino."

"Carino, già..." Vayne gironzolava con lo sguardo come se cercasse di centrare il punto del cielo in cui, a una distanza inconcepibile da lì, si trovava la flotta imperiale.

"Ormai non faresti in tempo ad avvisare l'Idiot Magister Ghis. Hai perso questa mano." gli diede una pacca scherzosa sulla spalla, come a consolarlo.

"A dire il vero... sto pensando che la cosa può avere dei vantaggi."

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"E così lo avevate voi da sempre. Che scherzi fa il destino." disse Basch sconsolato, a voce bassa.

"Diresti al tuo destino di tenermi fuori?" chiese Balthier con affettata cortesia.

"State zitti!" ordinò un soldato.

Fran non staccava gli occhi da uno dei due giudici che li scortava.

"Sai che non potevo fare diversamente."

"Certo, capisco. Onore, dovere, e altre belle cose. E quella era la Principessa, da non credere."

"Ho detto ZITTI!"

Nel momento in cui la guardia fece per colpire, Balthier schivò la lancia bloccandola con le manette e Basch, in sincronia, colpì con ambo le braccia l'altro soldato, frantumando le manette e mandandolo a terra. Il terzo soldato tentò un movimento, ma Fran si inarcuò all'indietro vibrando un calcio rovesciato che atterrò anche lui. Uno dei due giudici tentò una reazione, ma l'altro gli sferrò un pugno poderoso e sollevò il suo corpo privo di sensi, scaraventandolo a terra.

Si tolse l'elmo, rivelando il volto di Azelas Vossler.

"Ce ne ha messo di tempo il Marchese." commentò Basch con finto sarcasmo, ma il sollievo era evidente nel suo volto.

"Il Marchese? Che c'entra il Marchese?" fece per intromettersi Vaan, ma quando Balthier si coprì gli occhi con una mano si rese conto che faceva meglio a stare zitto.

"Non ho chiesto il suo aiuto a cuor leggero." si scusò Vossler "Ascolta, per due anni... ho dovuto nascondere sua maestà. Non mi potevo fidare di nessuno, ho dubitato di alleati e nemici."

"Hai fatto il tuo dovere. Ed il mio, in mia assenza."

"La libererò. Mi serve il tuo aiuto."

"Certamente..." Basch allungò la mano e strinse saldamente quella di Vossler.

Entrambi sembrarono quasi sorpresi da quanto familiare poteva essere quel gesto, dopo tantissimo tempo.

"Liberiamola..."

"...insieme."

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Scusate il ritardo, ma avrò molto, molto, molto da fare fino al 16 di Giugno. Conto però di scrivere almeno "Processo" entro allora - è un capitolo molto corto.

@Hagaren: spesso cambio una o due battute di scene che esistono nel gioco ma sono leggermente diverse (o altri dettagli quali ad esempio i vestiti, perchè trovo assurda questa tendenza dei GDR a lasciare un individuo con gli stessi vestiti indosso per mesi), ma nel caso di Ghis dice veramente "Inaspettato", riferendosi alla reazione di Larsa.

Quanto a Vaan... il fatto che Vaan sia un narratore esterno a tutta la storia e che abbia un complesso di inferiorità rispetto a Basch o Balthier è fortemente avvertito dal giocatore, specie visto che certi dettagli della trama -ad esempio perchè il Marchese fa ciò che fa- vanno più dedotti che appresi direttamente dal gioco, quindi il giocatore si ritrova come Vaan coinvolto in eventi più gradi di lui e un pò oscuri. Mi è venuto naturale ingigantire un pò questo tratto, volendo approfondire la psiche di Vaan.

La foto a cui allude il capitolo precedente è "City Lunch", una celebre foto dove degli operai newyorchesi pranzano seduti su una trave sospesa nel vuoto, indifferenti all'evidente pericolo di vita, dimostrando quanto carenti fossero le norme per la sicurezza sul lavoro ai tempi. La foto è veramente illuminante per chi, non vivendo in quelle condizioni, voglia capire quanto "fuori dal mondo" possa essere la vita di un manovale di basso ceto sociale, e mi è riuscito spontaneo ricollegarlo alla voglia di "essere tra la gente" che si manifesta così contraddittoriamente sia in Vayne che in Larsa - dico contraddittoriamente perchè a Vayne piace la povera gente, ma poi è perso nell'empireo dei suoi grandi piani, e a Larsa anche, ma poi riesce ad essere di una ingenuità surreale.

Se vi state chiedendo se analizzare così la psiche di personaggi di videogiochi è da nevrotici, la risposta è sì.

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Capitolo 19
*** Processo ***


Vaan si era sentito molte volte fuori posto, da quando era iniziata quella storia, con il suo (fallimentare) tentativo di furto al banchetto. Molte volte aveva pensato, o gli avevano fatto pensare, di essere inadatto a quell’avventura, a quella compagnia. E ancora, molte volte si era chiesto se c’era, infine, uno scopo in quel viaggio oltre ritrovare Penelo, uno scopo nella sua vita, in generale.

Ma niente era stato paragonabile a quel mattino.

Lasciando indietro loro tre, Basch e Vossler schizzavano come dardi da un angolo all’altro dei corridoi di vetri scuri e plastica scintillante dell’aeronave. In pochi scambi di sguardi dirigevano la loro attenzione da un punto all’altro e rapidamente rinunciavano ai loro nascondigli per aggredire il primo plotone di soldati che passavano. Basch, metodico e disciplinato e Vossler, irrefrenabile e devastante, ogni scontro non era che pochi secondi di clangore di lame, e poi si passava presto alla prossima sala senza che lui, Balthier o Fran dovessero muovere un dito.

Ma non era la loro efficienza, né la loro forza a sconvolgerlo. Era l’indifferenza con cui si lasciavano dietro i corpi, che venivano scagliati contro muri lucidi fracassandosi nelle loro armature, piegandosi in maniera innaturale, sputando appena un po’ di sangue sui pavimenti ornati di azzurro. Morivano così, anonimi nel loro elmo scuro, strapazzati dalla violenza, e infine placidamente ignorati dai loro carnefici come la spazzatura che restava in strada dopo il mercato del mezzogiorno.

Con le mani che ancora si elettrizzavano al pensiero del suo primo assassinio, a Vaan non restava che contemplare a pochi passi di distanza quelle macchine da guerra così diverse da lui, così inconciliabili con ciò che lui era.

Si sentiva perso in un mondo non suo, e la cosa al contempo lo attraeva e lo spaventava.

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“Dove mi porti!”

“Dopo mi ringrazierai.” Alluse Larsa, sorridente continuando a tirarla per la mano.

Lei continuava a seguire con lo sguardo la scia di luci rosse che lampeggiavano in tutti i corridoi dell’aeronave, producendo un fastidioso suono artificiale sempre uguale. Pur non avendoli mai sentiti prima, le risultò intuitivo che segnalavano un pericolo.

Si vergognava a dire ad un ragazzino più piccolo di lei che aveva semplicemente paura, che non avrebbe voluto muovere un altro passo senza sapere esattamente dove andavano e a far cosa.

Ma, aveva ormai capito, era in questo che erano simili Larsa e suo fratello: non potevi obiettare, non potevi ridiscutere, non potevi dubitare; potevi solo accettare di essere trascinata dalle onde del loro entusiasmo, o venire travolta e annegare.

Passarono per un attimo in una ampia sala, e Penelo vide un plotone di soldati correre veloci in un ponte sopra la loro testa, dirigendosi sferragliando –si poteva immaginare- verso la fonte di quell’emergenza.

Larsa gli dedicò appena un brevissimo sguardo preoccupato, poi disse: “Acceleriamo il passo.”

A parte seguirlo e obbedirgli, non aveva idea di cos’altro mai avrebbe potuto fare.

Si sentiva persa in un mondo non suo, una sensazione che la lasciava piena di stanchezza e nostalgia.

**********************************************************************

Quando finalmente furono lì a forzare le porte delle prigioni di bordo, praticamente non si rese nemmeno conto che erano arrivati.

“Che fai?” sogghignò Balthier a Vossler, intendo a brandire la spada contro una porta scorrevole.

“Con la forza prima e con la magia poi, tenterò di liberare sua maestà.”

“Prova pure. Queste prigioni sono costruite per resistere ad entrambe. ”

Vossler corrugò la fronte, innervosito dallo sprezzo e dalla noncuranza di quello sconosciuto.

“Quindi? Il tempo stringe.” notò Basch, pratico come sempre, mentre tra gli stipiti dei muri lampeggiavano le luci scarlatte dell’allarme.

Il pirata sembrò quasi disinteressato ai due commilitoni, mentre con lo sguardo percorreva gli stipiti della porta. Poi individuò una sorta di piccola piastrella d’acciaio, fece un cenno a Fran mentre con un coltellino la staccava dalla parete, e lei venne accanto a lui agitando l’indice come se scrivesse, tracciando nell’aria scie luminose di un verde acido bisbigliando parole incomprensibili.

“Che cavolo combinate?” chiese Vaan, incuriosito.

“Fran rimuove le protezioni magiche, io quelle meccaniche.” Spiegò Balthier, per poi aggiungere con tono sorprendentemente incoraggiante: “Vuoi vedere? Ti insegno.”

Vaan obbedì con spaesato entusiasmo, quasi con gratitudine.

“La vostra mancanza di serietà è indegna.” Borbottò Vossler, ma tutti e tre lo ignorarono.

In pochi secondi, la porta metallica scorse di lato, lasciandoli entrare in una ampia sala con altre sei porte simili.

“Maestà?” urlò Vossler, e risposero tre colpi battuti dall’interno di una cella.

Il duo ripetè l’operazione su quella cella e finalmente ne uscì Ashe, fissando Vossler con una visibile gioia, commista a quella che non si poteva non interpretare come una immane stanchezza.

“Siete illesa.” Constatò rispettosamente il capitano.

“Vossler” lo chiamò lei, con un tono che a Vaan fece quasi compassione, con il tono di chi chiama l’unica persona su cui conta nella sua intera esistenza. “Io…”

Il capitano la afferrò per le spalle, come se lei stesse per svenire: “Maestà!”

Come riportata alla realtà, Ashe sgranò gli occhi per un secondo, e poi riprese, immediatamente, l’espressione dura e determinata che Vaan gli riconosceva.

“Non è nulla. Starò bene.” Poi, come qualcosa l’avesse sorpresa, s’infiammò in volto ed esclamò: “TU!”

Basch fece un passo indietro, quasi si vergognasse. Vaan decise che non ne poteva già più di lei dopo meno di un minuto, e sbottò: “Oh, diamoci una mossa! Che aspettiamo? Penelo sarà da queste parti!”

Fran fissò serafica Balthier per un istante a braccia conserte, e con l’indice puntò dietro le sue spalle, dove lampeggiava una delle luci rosse. “Non ci metteranno molto.” Puntualizzò il pirata al resto del gruppo interpretando la sua compagna.

Ashe guardò Vaan con uguale sdegno e Vossler cercò di calmarla: “Parleremo dopo, Maestà.”

“Maestà” intervenne Basch a bassa voce “Lasciate solo che le nostre spade ritaglino una strada per voi.”

“Non ripongo la mia fiducia nella spada di un traditore.”

“Eppure così dovremo fare, traditore o meno che egli sia. Non vedo altro modo, maestà. Requisire una nave e fuggire, è la nostra priorità adesso.”

Ashe incassò l’opposizione di Vossler trattenendo la rabbia, e s’incamminò in silenzio e a passo lungo.

Vossler si rivolse a Basch quasi per consolarlo: “Sua maestà non tollera la debolezza, specialmente la sua. Starà a noi farle affrontare la realtà della situazione.”

Basch assentì debolmente e poi s’incamminò a sua volta, gli occhi fissi sulle spalle della sua principessa.

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“Pen!”

“Vaan!”

L’apparizione dell’altro, la sua voce che chiamava, furono per entrambi sorprendentemente incredibili e naturali al contempo. Si corsero incontro, e per diversi secondi furono solo loro due, incollati in quell’abbraccio, incuranti di qualsiasi cosa.

“E’ a posto. Tutto… a posto.” Sussurrò lui, mentre lei strizzava gli occhi per non piangere, ancora tramortita dall’averlo visto spuntare così, dal nulla, ancora vivo, e –non gli sfuggiva- venuto solo per lei, per rivedere lei e per portarla con sé.

Quando finalmente si staccarono, lei cercò Larsa con lo sguardo, non avendo idea di cosa potesse dirgli per esprimere la sua gratitudine. Lui fissava, sereno, una ragazza vestita di magenta e bianco, e due uomini robusti che le stavano a fianco; uno, lo riconobbe, era Azelas Vossler, che aveva visto duellare con il Console Solidor quella fatidica sera.

“Ghis sa della vostra fuga, dovete affrettarvi. Voi siete il capitano Azelas, giusto? Verrete con me, e prenderemo delle navi prima che ci localizzino.”

“Perché lasciarci fuggire, cosciente della nostra identità?” inquisì Vossler.

Per tutta risposta, Larsa si voltò verso Ashe con viso aperto e sorridente, e riflettè ad alta voce: “Lady Ashe. A tutti gli effetti si può dire che voi non dovreste esistere. Che voi e il Capitano Von Ronsenburg siate stati proclamati morti è… una tela nascosta, intessuta sotto i nostri occhi. Le vostre azioni tireranno la tela, scoprendone gli intrecci; è la nostra occasione, e credo che sarà nel bene dell’Impero e di Dalmasca egualmente.”

Contrariamente a quando Vaan aveva pronosticato, Ashe mantenne una calma diplomatica che non aveva niente da invidiare al giovane Solidor, e commentò senza inflessione “Molto bene, dunque.”

Vaan si avvicinò al ragazzino.

”Grazie…” fece in aria il segno delle virgolette con le dita “Lamont.”

“Oh, già… di quello devo scusarmi.” Ammise lui con leggerezza, e Vaan rispose alzando le spalle.

Poi Larsa estrasse un cristallo scuro che Balthier riconobbe all’istante, e lo mise nelle mani di Penelo.

“Per te. Possa portarti fortuna.”

“Grazie:” esitò lei, stringendolo interrogativa nelle mani; si sarebbe dovuta abituare alla sua tendenza agli enigmi.

Larsa diresse un’occhiata amichevole a Balthier, quasi per riappacificarsi. Poi si avvicinò alla torreggiante figura in armatura accanto ad Ashe e disse: “Che si vada.”

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Indossato di nuovo l’elmo da giudice, Vossler camminava accanto a Larsa con passo spedito ma tranquillo, le guardie arcadiane oltrepassavano la coppia a destra e a manca senza dargli molta attenzione. Solo uno notò l’inconsueta, sproporzionata spada del “giudice”, sporca di sangue, ma distolse immediatamente lo sguardo appena vide chi lo accompagnava.

“Non sarà necessario, spero” bisbigliò al giovane “precisare che se qualcosa accadesse alla principessa in questa fuga da voi orchestrata…”

“Certamente, la mia vita sarà garanzia delle mie stesse intenzioni. Non per altra ragione mi sono offerto di accompagnarvi e…” sottolineò con tono brillante “…non per altra ragione avete accettato di venire con me.”

Nella confusione che stava impossessandosi di tutta l’aeronave, continuarono a camminare, zitti, l’uno accanto all’altro. Dopo pochi secondi, Vossler diede voce ad un altro pensiero.

“Non per ambizione tradite vostro fratello.”

“Non tradisco mio fratello.” Precisò Larsa vagamente piccato “Gli impedisco di danneggiare se stesso e l’Impero. O per meglio dire, ci provo.”

Anche Vossler sembrò irritato, costretto a girare in tondo inseguendo le allusioni di quel rampollo enigmatico. Decise di andare dritto al punto: “Insomma, ditemi finalmente cosa trama Vayne.”

Larsa si fermò di scatto e si voltò a fissarlo, il volto incredibilmente disteso, viste le circostanze, ma anche vagamente rassegnato: “Possiate fidarvi della mia parola, quando vi dico che nemmeno lo immagino.”

“Dunque lo ostacolate in un piano che nemmeno conoscete per il suo stesso bene? Suona quantomeno contorto.”

Larsa andò ad inserire una piccola chiave metallica in una porta scorrevole, che si aprì lentamente.

“Qualunque piano preveda la rovina di due regni come semplice effetto collaterale deve essere fermato prima che altro dolore ne risulti. Non deve compiersi, ma soprattutto, non deve svolgersi e svilupparsi nella nostra ignoranza… dobbiamo sapere. Mio fratello penserà di avere delle buone ragioni per agire come ha agito… ma lo stesso penso io.”

Prese un respiro, per poi aggiungere: “Non tradisco la mia famiglia, anzi ne rispetto l’insegnamento. Mi batto per ciò che credo giusto, chiunque ci sia ad ostacolarmi.”

Entrarono nel ponte di lancio della scialuppa personale del comandante, e la porta si richiuse dietro di loro.

“Siete davvero degno dei Solidor.” Commentò infine il capitano.

“Vi ringrazio.” Ribattè Larsa genuinamente lusingato.

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Appena raggiunsero l’ hangar, gli venne incontro una figura in vesti rosse e d’oro che ne denunciarono immediatamente l’identità. Il Iudex Magister Ghis era intervenuto di persona a interrompere la loro fuga.

Per un attimo, Vaan fu quasi emozionato: non era certo cosa da tutti i giorni scazzottarsi con un giudice del più alto rango. Poi però ricordò Nalbina, la distinta sensazione di potenza che emanava dal Giudice Gabranth, e si rese conto che stavano per prenderle. Di brutto.

“Quale peccato.” Esordì Ghis “Lo confesso, avevo visto in voi colei che avrebbe aiutato Dalmasca a ritrovare la pace.”

Nemmeno a Vaan, per digiuno di politica che potesse essere, sfuggì il senso di quella feroce, dissacrante ironia crudele verso Ashe. La reazione di lei fu impassibile. Si pose alla testa del gruppetto e squadrò Ghis con una rabbia muta che si percepiva nell’aria, senza un briciolo di paura.

Non riusciva, nonostante tutto, a non trovarla affascinante. Una creatura dai tratti e dai colori così delicati, in preda ad un odio così profondo, così oscuro, ma anche così autentico e vero rispetto ai suoi modi affettati e aristocratici. Una bellissima contraddizione vivente.

“Ma non importa.” Infierì Ghis “Abbiamo la prova del vostro lignaggio nelle mani” e qui Vaan distolse lo sguardo imbarazzato “Ergo qualsiasi fanciulla di passabile somiglianza servirà allo scopo, ormai.”

Ghis brandì la sua arma, Vaan notò quanto fosse strana. Era una specie di lunga alabarda aurea la cui lama era più simile ad un ventaglio riccamente ornato, e il manico era affilato e acuminato come uno stocco sproporzionato. La pose orizzontalmente e, con un gesto, la separò in due parti che brandì come armi distinte.

Balthier sussultò, sgranando gli occhi.

“Che..?” ebbe il tempo di dire Fran, ma poi imitò Basch nell’impugnare le armi, lo sguardo fisso sul suo compagno che restava immobile.

“Il processo…” pronunciò lui piano.

Ghis mosse un passo verso Ashe e Basch.

“Il cosa?” chiese Vaan mentre Penelo si appoggiava alle sue spalle.

“Il processo è concluso.” Dichiarò Balthier, rigido.

“Per quanto riguarda voi, mia cara.” Continuò il giudice fissando Ashe, s’interruppe movendo il ventaglio verso l’alto e pronunciò: “FI-RA-GA.”

Un torrente circolare di fiamme si formò sul soffitto dell’ hangar, e si compattò in pochi secondi in una grossa sfera sopra il giudice.

“Ve- velocissimo.” Notò Penelo.

“L’Impero non chiede più i tuoi servigi!”

E con una rapida mossa del braccio, la sfera infuocata fu su di loro.

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Non avrebbe mai dimenticato quel giorno, quella vista.

Certo, aveva sempre saputo dell’esistenza di movimenti anti-imperiali che contestavano le scelte del Senato. Aveva persino studiato la loro origine storica, come si dicesse che all’inizio erano stati proprio i senatori a crearli e foraggiarli per screditarsi l’un l’altro, come fossero sfuggiti al controllo e cresciuti fino ad avere vita propria. Aveva letto più di un articolo sui loro audaci attentati, la maggior parte dei quali si concludeva in un clamoroso fallimento ed una esecuzione sommaria, salutata da continue lamentele dell’aristocrazia su come l’Impero non tutelasse più la sicurezza dei suoi cittadini.

Tonnellate di spazzatura verbale assolutamente irrilevante, in nessun modo diversa da qualsiasi altra noiosissima nozione storica che mai avrebbe potuto arrivare a disturbare la sua vita agiata e protetta, ad influire su di lui in qualsivoglia modo.

O così aveva creduto.

Quando si erano ritrovati chiusi in quel bel ristorante di gala, tutti ostaggi di quello sparuto manipolo di pazzi, si era finalmente reso conto che c’era un mondo “là fuori”, oltre la sua magnifica residenza e la sua vita di lusso e studio. Che i terroristi erano reali, e potevano far loro del male.

Una delle poche persone nel ristorante a non essere turbata fu suo padre. Rimase seduto e calmo, a intingere nella crema il suo gamberone avvolto in salmone e intervallando con sorsate di vino bianco. Se interrogato dagli attentatori, annuiva con sorrisi gentili e se ne usciva con frasi come: “Certo, fate con comodo.”

Dopo due o tre scambi di parole dovevano aver pensato che era un matto inoffensivo. Gli piaceva, suo padre, perché riusciva a trasmettergli quel distacco sprezzante per cose che altri sembravano ingigantire e valorizzare certamente più del dovuto.

Nel complesso quelle ore furono quasi divertenti. I terroristi non erano violenti con nessuno, avevano avanzato delle richieste precise e confermato alle milizie che nessuno si sarebbe fatto male se fossero stati accontentati. Non sembravano –malgrado lo fossero- degli assassini, anzi persone colte ed idealiste che intraprendevano spesso dei monologhi di analisi critica della politica imperiale che lui trovava addirittura interessanti.

Poi la situazione precipitò. Dall’esterno del ristorante i soldati smisero di rispondere, e fuori calò uno strano silenzio. Prima uno degli attentatori, e poi altri tre uscirono per vedere cosa fosse successo, e non tornarono. La paura iniziò ad attanagliare tanto gli attentatori quanto gli ostaggi.

“Papà?” aveva ad un certo punto chiamato sottovoce, a chiedere conforto.

Suo padre era intento a fissare sconsolato il piatto vuoto: “Non avremo mai il dolce in questa situazione.” E si riempì il bicchiere.

“Che succede?”

“E’ meglio che tu chiuda gli occhi e non veda cosa succederà.” Spiegò fissando il vino in controluce “Ma se vorrai soddisfare la tua curiosità malgrado tutto, lo prenderò come un segno che sei davvero cresciuto.”

“Sono cresciuto.” Rispose offeso, ma come sempre la spavalderia nascondeva solo la necessità di essere approvato da lui, da quell’uomo a lui così simile al cui destino si sentiva indissolubilmente legato.

Ma prima che potesse chiedere altro, si aprirono le porte di vetro intarsiato ed entrò un uomo solo.

Riconobbe l’elmo che portava: specchiato e lustro, ornato da due linee cremisi, con due corni come spade ricurve in basso, ne celava totalmente il volto. L’aveva visto in un giornale: Zagrabaath, uno dei Iudex Magister più rinomati.

I cinque attentatori scattarono contemporaneamente a puntare gli archibugi su degli ostaggi, fissando Zagrabaath con autentica disperazione; evidentemente sapevano già cosa sarebbe accaduto.

Zagrabaath mulinò uno strano oggetto, che sembrava l’incrocio tra una spada doppia dalle lame sottili e degli archetti di violino, e infine lo piantò nel tappeto ocra e bordeaux.

“Se vi arrendete ora...” Spiegò conciliante “Se rilasciate una confessione integrale, nominando i vostri compagni…” continuò a bassa voce “Avrete l’amnistia dall’Imperatore in persona.”

Nessuno di loro parlò, ma non abbassarono le armi.

“Capisco.” Fece il giudice quasi comprensivo “Il vostro credo è forte, degno di rispetto. Ma un giudice è legato solo alla legge, e alla stessa legge tutti devono sottostare.”

A eccezione del singhiozzare di una vecchia signora terrorizzata, non si udì un suono nel locale.

Zagrabaath fece un gesto come per spezzare l’oggetto che teneva nelle mani in due parti di diversa lunghezza.

“Il processo è concluso.”

“Sei ancora in tempo per non guardare.” Ricordò suo padre, vuotando il bicchiere, ma lui non distolse lo sguardo: avrebbe detto che era fiero di lui.

Fu un istante. I terroristi armarono gli archibugi, e il giudice eseguì una specie di danza che lo mosse leggero per tutta la sala, quasi come non avesse peso. Gli oggetti che teneva in mano emisero degli strani suoni, come il vento che soffia in un tubo. Gli sembrò che una brezza gelida aleggiasse per un istante nel locale.

Poi Zagrabaath riunì la sua arma in un unico pezzo, e disse: “La sentenza è eseguita.”

Ad uno dei terroristi la testa scivolo giù dal collo come slittasse, mentre un altro perse entrambe le braccia come se lui stesso se ne fosse spogliato, per poi crollare al suolo con un lungo solco trasversale nella schiena; un terzo si aprì in due parti come un macabro fiore, e lui suppose che gli altri due, che erano fuori dal suo campo visivo, fossero andati in pezzi allo stesso modo silenzioso.

Molti degli avventori scoppiarono a piangere, vomitarono, o si abbracciarono ai loro cari, finalmente liberi.

“Adesso è finita.” Constatò suo padre.

Lui non riuscì a non staccare gli occhi da quei corpi, così efficientemente scempiati in una frazione di secondo. Coloro che, con il loro comportamento, avevano rinunciato al diritto stesso di vivere, giustificando agli occhi della legge il loro irrevocabile annientamento.

Era la sera in cui suo padre gli aveva proposto di fare di lui un giudice.

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La sfera di fuoco si allungò e fu risucchiata in un punto, si sgonfiò come un pallone e poi si rimpicciolì fino ad essere inghiottita dalla pietra scura che Penelo teneva in mano.

“Cosa… è stato?” Penelo guardò la luce condensarsi e pulsare in quell’oggetto.

Non sapeva perché esattamente l’aveva sollevato per proteggersi, il suo istinto per la magia gliel’aveva suggerito. Balthier si voltò a fissarla, scuro in faccia.

“La negalite artificiale.”

Anche Ashe si voltò a guardarla, stupita. Ghis invece apparve incerto per un attimo, poi si fece di nuovo sarcastico: “Sua maestà non delude! Sempre lesta a rifiutare una resa onorevole, come vostro padre.”

Non riuscì più a trattenersi, e gli urlò in faccia: “TU NON SAI NIENTE DI MIO PADRE! THUN… DA…”

“AE-RO-GA.” Formulò Ghis ampiamente più veloce di lei e con il movimento del ventaglio si generò una spirale di cerchi verde acqua che mutò in una colonna visibile di nubi e travolse Ashe, interrompendo la formulazione.

Ashe e Ghis sparirono nella nebbia artificiale, mentre la forza del vento nella stanza cresceva. Vaan trovò persino difficile tenere gli occhi aperti.

“MAESTA’!” Basch si tuffò nel vortice spada alla mano, e Balthier fece per seguirlo, quando Fran lo trattenne.

“Ne arrivano altri.”

Lui rispose annuendo e quando lei si mise al lato delle porte scorrevoli, stringendo saldamente l’arco, la imitò con il fucile.

“Balthier?” chiamò Vaan smarrito.

“Vi copriamo.” Spiegò lui “Approfitta della mia momentanea assenza per rubare la scena” concluse strizzando l’occhio e indicando Penelo, al che Vaan alzò gli occhi al cielo come ormai era abituato a fare.

Sparò un colpo nelle scalinate vuote, ma prima che Vaan gli chiedesse perché le scalinate si riempirono di fumi neri che sembravano distorcere l’aria; Fran puntò l’arco in quell’oscurità artificiale, mentre iniziavano a distinguersi sagome di soldati che gli venivano incontro.

“E come dovrei fare?”

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Ghis danzava nel vento da lui creato tirando magistralmente con la sua spada innaturalmente lunga; appena il vento stava per calare, subito rilanciava la magia per mantenerlo.

Se lui doveva essere ferrato in quello stile, non lo era di certo Basch, che facilmente perdeva l’equilibrio o era costretto a chiudere gli occhi, nelle spire di quella tempesta artificiale. Se provava ad usarla per nascondersi, Ghis lanciava fiamme per infiammare le nubi per pochi secondi, stanandolo.

Per ora, il giudice ignorava Ashe, tramortita ma illesa nell’occhio del ciclone, ma impediva al capitano di avvicinarla con delle sapienti stoccate, se provava ad accorciare le distanze con lei.

Niente che lo sorprendesse: se era un principio secolare dell’arte della guerra che un mago da solo può sterminare dieci guerrieri ma è vulnerabile nell’atto del formulare, i giudici arcadiani erano all’avanguardia nel fondere al meglio forza fisica e magica, rendendosi dei guerrieri di una diversa levatura, “superando” per così dire, la strategia comunemente intesa. Non c’era risposta valida se non superare di gran lunga un giudice in almeno uno dei due campi o affrontarlo in gruppo. Lo aveva spiegato a decine di reclute, ma ovviamente, più facile a dirsi che a farsi.

Per adesso, non gli riusciva molto altro se non di usare il meglio della sua scherma per riuscire quantomeno a non farsi trapassare.

“Siete uno schermidore eccellente.” Osservò Ghis sbucando da una parete nebbiosa con un mirabile affondo che deviò per miracolo “Di solito nessuno mi resiste così a lungo. Devo dire-“

S’interruppe bruscamente: il vento era sparito.

Per un solo istante, Basch distinse Vaan a mezz’aria, la negalite artificiale stretta in pugno, intento ad aggredire il giudice. Gli avrebbe urlato un avvertimento ma appena il ragazzo gli sfiorò appena il fianco con un calcio, Ghis fu più rapido a reagire con una gomitata che prese l’aggressore in pieno stomaco, scaraventandolo a terra.

“Vaan!” Penelo si precipitò al suo fianco in lacrime, e il ragazzo tossì sputando sangue.

“Miserabile, come osi avvicinarti così a me? La tua sola presenza al mio cospetto mi insulta.” Si lamentò Ghis con sincero disgusto.

Penelo lo guardò con la massima furia e tese un braccio verso di lui: “Prendi! XAN- ma che…?” interrompendosi, si guardò il palmo, stupita: “Perché non…?”

Ghis scoppiò a ridere: “I bambini non dovrebbero giocare con la negalite artificiale senza conoscerla.”

Si voltò di nuovo verso il capitano, che ansimava per la stanchezza: “Adesso, torniamo a noi due, messer-“

Ma anche lui, quasi volesse imitare Penelo, si fermò a fissare metà il suo braccio, come imbambolato.

Finalmente individuò un piccolo taglio nelle vesti scarlatte, una ferita nel fianco. Ancora a terra, Vaan sollevò debolmente il capo e rise con voce strozzata, guardandosi il piede: dalla scarpa usciva una lunga, sottile lama simile a quella di un pugnale, un piccolo congegno molto diffuso tra i delinquenti di strada.

“Veleno paralizzante?” si domandò il giudice, la rabbia a stento trattenuta, poi la mano si intorpidì al punto che il ventaglio dorato gli scivolò dalle dita e cadde sul pavimento metallico.

Si mosse scomposto verso Vaan, con la spada salda nel braccio ancora buono. La paralisi si stava diffondendo in metà del corpo.

“TU, sporco piccolo-“

La sferzata della spada che Ashe aveva strappato di mano al capitano rialzandosi, spaccò in due l’elmo, che rotolò a terra. Il giudice si toccò il volto severo con la mano, inorridito. Ashe gli puntava la spada alla gola, implacabile, e lui arretrò.

“AH AH AH.” Ridacchiò Vaan a fatica, osservando i capelli neri del giudice lisci all’indietro, che si concludevano in degli ampi boccoli “…ti ha pettinato tua nonna? E’ meglio se ti… trovi un altro elmo, eh… eh eh…”

“Come… osi…” ma Ashe non si mosse di un millimetro, impedendo ogni ritorsione, gli occhi duri e spietati fissi sul quelli sbalorditi del giudice.

Ghis si voltò e fuggì, zoppicando.

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“Bel trucchetto.” Fece Balthier riavvicinandosi con la sua compagna “Abbiamo qualche minuto prima che arrivino altri.”

Penelo era un fiume di lacrime. Vaan non sembrava certo in forma.

“Non riesco… non riesco a curarlo.” Invano poneva una mano sul livido che si estendeva sullo stomaco, senza che alcuna forza magica ne defluisse.

“Avrà una lesione interna. Non c’è molto da fare.” Il pirata puntò il fucile in faccia al ragazzo per dargli il colpo di grazia.

“No, no…” Vaan scuotè le braccia “sto bene… benissimo..”

“No che non stai bene.” Negò Balthier, perentorio.

“Ti dico che-“ lo sparò lo zittì.

Si guardò sorpreso il liquido fosforescente giallo-verde che si spandeva a spruzzo sul suo stomaco.

“Fra poco passerà il dolore.” Rassicurò il pirata, e vedendolo stupito aggiunse: “Dovrò insegnarti anche l’alchimia, prima o poi… è lunga la strada per diventare un buon personaggio comprimario, specie con me in giro.”

“Quasi desidero che mi stessi abbattendo.” Si stizzì Vaan mentre il dolore si attenuava.

“Come ti capisco.”

Dal fumo nero, ormai quasi del tutto diradato, spuntò un’altra figura, ma lo riconobbero subito.

“Andiamo: abbiamo requisito una Atomos.” Urlò Vossler facendo cenno, e poi imboccò una svolta tra le navette ferme.

“Ma come un’Atomos…” si lagnò Balthier “è una scialuppa, non un vascello… non si addice ad un protagonista.”

“Quindi” chiese Vaan speranzoso, rialzandosi “La posso guidare io?”

“Devi essere pazzo.” Lo liquidò Fran infrangendo ogni sogno.

Mentre gli altri seguivano Vossler, Balthier si voltò per qualche secondo, osservando l’elmo spezzato che era stato di Ghis. E imbracciando il fucile, digrignò i denti, prese la mira e lo mando in mille pezzi.

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Rieccoci dopo tanto tempo! Questo era uno dei capitoli più difficili da scrivere perché contiene svariate tra le cose più difficili da gestire… un flashback inventato di sana pianta, diverse descrizioni visive, e uno scontro… spero che il risultato sia godibile.

Due precisazioni: sappiate che trovare su internet le descrizioni di ogni arma di ciascun giudice per poterla descrivere (specialmente Zagrabaath e Drace) è stato parecchio difficile; secondo, questa fanfic contiene due errori di battitura: uno è il nome di ZaGRAbaath (che è in realtà ZaRGAbaath) e l’altro è il secondo nome di Basch (che non è “Von” come l’appellativo nobiliare tedesco, ma “Fon”); entrambi non sono molto rilevanti (e non andrò certo indietro ricorreggendo ogni capitolo) ma li puntualizzo per i fanatici.

Chissà che fine hanno fatto molti dei miei lettori (Hagaren?), mi recensiranno d’estate? O non li rivedrò fino all’autunno? Bè visto che d’estate avrò un po’ più di tempo libero da sport, studio, lavoro e attivismo, spero di sfornare almeno un capitolo al mese.

La mia ragazza mi contesta spesso che questa fanfic finirà col durare anni, vista la lunghezza attuale. Ne sono perfettamente consapevole. Infatti questa fanfic è per me una specie di piacere mensile che mi prendo, (ri)leggere il prodotto delle mie fatiche, e spesso modificarlo o migliorarlo e poterlo condividere con voi è, più che una storia, una specie di hobby.

Alla prossima

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Capitolo 20
*** Rapimento ***


“Il tuo fazzoletto… pensavo che magari lo rivuoi indietro.” Penelo lo estrasse da un polsino e cercò di stirarlo perché apparisse un po’ meno spiegazzato.

Balthier le scoccò un’occhiata da seduttore, carica di autoironia, e rispose suadente: “Lo porterò per sempre vicino al mio cuore.”

Se Fran aveva visto il suo compagno sedurre svariate donne che non erano lei, e da molto tempo ormai non avvertiva più alcun fastidio, Vaan non aveva mai visto Penelo civettare con qualcuno, e sospirare con quell’aria da moguri intenerito. Praticamente, mollò il gruppo lasciando l’aerodromo di corsa, e urtando Vossler, Basch ed Ashe che confabulavano in un angolo cercando di tenersi il più defilati possibile. Per tutta risposta, Ashe lo squadrò con la massima severità senza ottenere da lui la benché minima attenzione.

“Non è stato bello da parte tua.” Commentò sardonica Fran al suo socio mentre Penelo rincorreva il ragazzo.

“Ma un sacco divertente.” Si giustificò lui.

“Forse siete dimentichi di tutte le azioni di Ondore.” Proseguì Ashe sottovoce quando i ragazzini furono spariti dall’aerodromo.

“Non dimentico, maestà.” Bisbigliò Basch “Ma tramite i suoi consigli, per pericolosi che fossero, vi abbiamo potuto liberare. Dovete incontrarlo, Altezza, e dargli ascolto. Se le sue azioni lo legano all’Impero, non così il suo cuore.”

Ashe apparve in decisa per un attimo. Il capitano l’aveva difesa nello scontro con Ghis, ma era ancora incerta su quanto potesse meritare la sua fiducia, e un traditore che garantisce per un traditore non gli sembrava l’investimento più sicuro.

Come sempre Azelas Vossler, colui che le aveva fatto da ombra per anni, intuì i suoi pensieri.

“E’ come dice. Io ho tenuto Ondore a distanza così a lungo… sono stato stupido.”

“Solo cauto.” Lo assolse lei.

“Devo chiedervi del tempo, Maestà. Da soli, combattiamo l’Impero invano. Dobbiamo trovare altre strade e, mentre le cerco” si interruppe e prese aria “Vorrei Basch al vostro fianco.”

Entrambi ebbero un sussulto. Basch la guardò speranzoso per un istante, ma abbassò immediatamente lo sguardo appena incrociò quello aspro della ragazza.

“Dubitate di lui se credete, ma la sua lealtà a Dalmasca non la valuto al di sotto della mia.”

Gli occhi color sabbia di lei indugiarono su entrambi, e dall’uno all’altro. Poi chinò il capo.

“So che non parlereste così per leggerezza.” Assentì con un po’ di esitazione.

Basch rimase immobile e silenzioso.

“Abbine cura.” Concluse Vossler “Raggiungete Ondore e aspettate il mio ritorno.”

Basch fu sul punto di rispondere, quando il pirata apparse alle loro spalle.

“Ma bene! Noi si torna dal Marchese, dunque!” esclamò allegramente.
 
“ ……. Noi?” sibilò la principessa, infastidita.

“Il passaggio per Bhujerba non era gratis.”

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Lo trovò a faccia in giù, tra le nubi, a braccia conserte. Le sue gambe erano ancorate alla balaustra, mentre i suoi capelli biondo chiaro ondeggiavano ad ogni soffio di vento, puntati verso il mare che stava chilometri e chilometri più in basso, sotto il continente fluttuante. Sembrava tranquillo, come se arrampicarsi e aggrapparsi gli fosse naturale quanto respirare. Ma lei sobbalzò comunque.

“Sei impazzito! Torna immediatamente qui!”

Lui la ignorò.

“Perché fai così? Torna qui, ho detto, mi sta venendo l’ansia!”

“Pen. Lasciami stare.” Mugugnò, quasi coperto dalle correnti.

“Sei un idiota! TOR-NA-QUI che cavolo! Mi stai facendo paura!”

Con un colpo di reni il suo corpo volteggiò fino a tornare dritto, seduto sulla balaustra a fissarla.

“Ho detto di lasciarmi stare.”

“E chissene. Perché questa sceneggiata, me lo dici?” chiese lei nascondendo rapidamente un accenno di lacrime che gli erano venute per lo spavento “Non hai ragione di essere geloso! E’ solo-“

“Geloso?” quasi scoppiò a ridere “E chi è geloso?”

“Credevo-“

“Tu sei sempre fissate sulle tue piccole cose Pen. Geloso! Mi secca solo come si atteggia quel Balthier. Si sente un gran fico, ma quando sarò io un pirata gli renderò la pariglia! Gli soffierò i tesori prima che lui ci arrivi! Volerò dove lui non ha mai volato! Farò-“

S’interruppe, fissando la sua amica con una faccia stravolta. Sembrava a ferita, e furibonda.

“Penelo?”

“Sei un povero idiota, Vaan” ringhiò quasi la ragazza, con grandi occhioni luccicanti “Sono fissata con le mie piccole cose, eh? E tu che ancora la stai smenando con sta solfa dei pirati? Ed io che credevo-“ Fece un gesto con il collo, come ingoiasse qualcosa.

Vaan la fissò esterrefatto e immobile per diversi secondi, in attesa che lei parlasse. Conosceva a menadito quei momenti, in cui entrambi realizzavano di non comprendere a fondo l’altro, ed in cui lui si rendeva conto della sua capacità di ferirla. Sempre, comunque, quand’era troppo tardi.

“Ti ho offeso in qualche modo, Pen?” si decise a chiedere, timoroso.

Lei apparve indecisa su che parole usare, poi disse a bassa voce: “Ora che è tutto finito, tu… non intendi tornare a casa, Vaan… non è così?”

“Assolutamente no. Senti, Pen…” scese dalla balaustra per andare verso di lei e prenderle le spalle.

“Sentimi tu. Capisci che questa gente non ha bisogno di noi?”

“Non m’importa!”

“Capisci in che guai si cacceranno quelli? Ti sembra di essere pronto per questo?”

La fissò con una sicurezza che lei non ricordava di aver mai visto: “Chi non è pronto adesso non lo sarà mai, Penelo.” La abbracciò.

“Tu vuoi tornare a Rabanastre.” Vaan non lo chiese, lo affermò; fu lei a porgere un’ennesima domanda in risposta.

“E’ per Ashe?”

“Sei tu che sei gelosa, per caso? E’ una snob, presuntuosa, viziata e odiosa. Non è proprio il mio tipo e se anche fosse…”

“Sei scemo.” Anche lei non lo chiese, lo affermò. “Intendevo dire: è perché lei è, diciamo, la principessa di Dalmasca?” come si aspettava, il ragazzo si incupì alla domanda.

“Credi che aiutandola…”

“Smettila.”

“…credi che così farai qualcosa…”

“Smettila.”

“…per…”

“Basta, Pen.”

“…Reks?”

“PIANTALA!” alzò la voce abbastanza perché si girasse mezza strada.

La spinse lontano da lui, con gentilezza ma anche con decisione. Evitò il suo sguardo, voltandosi a guardare le nuvole.

“Per quanto tu non voglia pensarci, lui è-“

“Ok, e se fosse? L’Impero lo ha ucciso. Non è forse giusto opporsi ad esso, affrontare il problema?”

“E’ davvero questo che stai facendo? Affronti il problema?”

“Mi hai rotto. Ci si becca dopo dal Marchese.” Con un paio di capriole all’indietro cadde giù nell’azzurro, e a Penelo venne un mezzo infarto.

Dovette precipitarsi al balcone per vedere che era solo saltato giù verso un'altra strada sospesa, a meno di due metri di distanza.

“ROMPITI IL COLLO, MALEDETTO CRETINO!”


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La gigantesca piscina aveva la forma di anelli di pietra bruna, concentrici, che scendevano giù, decorati da portici e statue. Come un colosseo sommerso, il cui fondo era perfettamente raggiunto dai raggi di un pozzo luce sapientemente posizionato al centro della volta. Tutt’intorno nuotavano i Purificanti,  pesci semitrasparenti di luce azzurrina, che i nobili bhujerbesi usavano per depurare i loro bagni da tempi immemori. Unito agli effluvi di incensi profumati, tutto l’insieme rendeva i bagni a palazzo delle esperienze mistiche, più che delle mere operazioni d’igiene.

Il corpo bianco di Ashe galleggiava esattamente sotto il centro della volta, investito dal fascio di luce solare. Gli occhi felini dei Rebe la sorvegliavano impassibili, e lei si ritrovò a pensare come i nobili fossero distanti dalla gente comune anche il sotto quell’aspetto: mai nella storia i nobili si erano vergognati di mostrarsi nudi ai loro servi, perché la distanza tra loro era pari a quella tra dei e uomini.

Ma, si rendeva conto, quella non era che forma senza sostanza: per quanto i servi di Ondore (come del resto i paggi arcadiani avevano fatto) la trattassero da sovrana, lei non aveva uno stato, un regno, una forza economica né men che meno militare. Non aveva servi suoi o un esercito, nessuno che gli obbedisse o che mostrasse il suo potere. Aveva solo un paio di ex-capitani che potevano ormai trattarla da pari a pari, e una massa di sconosciuti con cui Vossler teneva i contatti – spiantati partigiani che non avevano nessun obbligo verso di lei e che sarebbero stati liberi di mollare in ogni istante.

Era irritante, essere trattati come qualcosa quando in effetti si era niente.

Anche l’ultima vera arma che aveva -la sua mente- era debole, rifletté dopo aver respirato profondamente una zaffata di profumo inebriante dal gusto vagamente floreale. Vayne Carudas Solidor l’aveva spinta a diffidare di Ondore e di un suo stesso sottoposto, e lei si era fatta giocare con facilità. “Dividi Et Impera”, un classico della strategia militare e politica di Arcadia, ma lei non aveva saputo prevedere le mosse del suo avversario. Suo padre avrebbe fatto di meglio – no, qualsiasi precedente sovrano dalmasco avrebbe fatto di meglio.

Persino ora non leggeva con chiarezza le intenzioni dei Solidor, sebbene i suoi pensieri fossero, in ogni istante, volti ossessivamente a quello scopo: entrare nella mente dell’avversario e trovarne il punto debole, vincere la sfida mentale che precede –sempre- lo scontro fisico. Lei, comunque, era inadatta a condurre entrambi, pensò mentre si inabissava di quasi un metro sotto il pelo dell’acqua mentre i pesci purificatori le disegnavano dei cerchi luminescenti attorno, per lasciarsi poi riportare a galla a corpo morto.

Ripensò ad Halim Ondore IV, lo “zio”. Fra poche ore si sarebbero parlati dopo… quanto tempo? A lui, avrebbe potuto finalmente dirlo: non ce la faceva più. Non era all’altezza del compito, non lo era mai stata e non lo sarebbe stata mai. Che trovassero qualcun altro, lei…

Aprì gli occhi, portandosi di scatto fuori dall’acqua.

La sua sagoma svestita si parava d’innanzi ai rebe, con sguardo imperioso.

“Chiedo udienza ad Halim Ondore IV.”

Il rebe parve stranito per un attimo, poi rispose: “Sua eccellenza il Marchese vi ha già concesso udienza. E’ fissata per stasera e-“

“Intendo dire che voglio udienza adesso. Immediatamente.”

“Sua eccellenza-“

“Sono la legittima principessa di un regno alleato, che intende muovere guerra. Ondore non reputa questa un’emergenza?” strappò il morbido velo bianco che gli veniva porto dall’altro rebe dalle mani di questi, e se ne avvolse “Portatemi dunque nelle mie stanze e fate sì che il Marchese sia pronto a ricevermi.” Ordinò perentoria, e un rebe se ne andò di corsa ad eseguire l’ordine.

“Ho riposato anche troppo.”

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Vaan osservava il tramonto calare su un’ampia spaccatura che fendeva il bosco oltre la città. Dentro di essa si affollavano le case scavate nella roccia dei minatori, formando uno delle migliaia di villaggi-miniere di Bhujerba. Si chiese come doveva essere nascere e vivere lì, con un destino ed una professione già preordinate, legati alla propria terra da catene invisibili tramandati di padre in figlio.

Lui non sarebbe mai finito così. Lui era nato per essere libero. Per non avere radici né catene, che poi erano la stessa cosa. Lui era un pirata, nato per brandire la spada e dichiarare trionfante:

“MUORI, MALEDETTO MOSTRO!”

“Kupò?”

Terrorizzato, il moguri era caduto a terra col sedere e lo fissava sbalordito attraverso gli occhiali spessi e tondi. Vaan gettò a terra il legno che aveva usato per imitare una spada e alzò le mani, quasi che gli avessero puntato un’arma addosso. Era rosso in faccia come un peperone.

“So… sono mortificato, signore, non l’avevo vista arrivare…”

Il moguri si rialzò dal selciato spolverandosi il pomposo vestito giallo ocra e sistemandosi gli occhiali, poi raccolse il libro che aveva in spalla –grande quanto il suo stesso corpo- e commentò calmo: “Bè, girando da quell’angolo, è naturale.” Svolazzò sul muretto davanti a Vaan, e aggiunse fissando lo stesso villaggio “Bel panorama, eh?”

Ma prima che Vaan potesse commentare qualcosa, venne strattonato per la spalla del gilet.

“E tu che vuoi?”

“Volevo interrompere la tua caccia di mostri per dirti che a breve ceneremo; una cena da signori.” Spiegò Balthier sogghignando mentre Fran li aspettava poggiata al muro, poco più avanti.

“Non cacciavo mostri.” Protestò lui, ancora rosso in faccia.

“Cercavi di uccidere un passante? Il tuo bilancio di vittime è ancora piuttosto corto, giovane killer.”

Per un istante, a Vaan tornò in mente quel seeq a Nalbina. La prima volta in cui lui aveva spento una vita. E poi, tutte le volte in cui Balthier glielo aveva fatto notare scherzando, come ci fosse qualcosa da ridere.

“Forse allungherò la mia lista con te.” Ringhiò mentre lui lo trascinava.

“Provaci pure quando vuoi. Ultimamente mi manca un po’ di sana concorrenza”

“Piantala di scherzare su tutto!”

“Un buon protagonista sa sdrammatizzare. Comunque ti manca ancora molto per essere un pirata paragonabile a me.” Vaan si staccò da lui con irruenza.

“Imparerò!”

“Appunto. Una lezione gratuita: quando c’è da riscuotere la ricompensa, non mancare alla festa.”

“Mai, mancare.” Rincarò Fran, allusiva.

Capire Balthier gli riusciva facile, ormai. Non si chiedeva più se lo considerasse un valido discepolo o un peso morto. Lo sfotteva, semplicemente; gli divertiva averlo intorno per giocare con lui. E lo capiva così bene perché, al posto suo, avrebbe fatto lo stesso. Puoi sputare in faccia a chi ti pare: il bello sta tutto lì.

“Imparerò” borbottò di nuovo, incamminandosi dietro di loro.

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“Quando Vossler apprese della morte di mio padre… la notte del trattato, tornò a Rabanastre per permettermi la fuga.” Ogni parola usciva dalle sue labbra carica di amarezza “Prima che il potere di Vayne andasse troppo oltre, avevamo ancora tempo… credevamo… che mi avresti protetta.”

“Eppure” la interruppe il Marchese “quando ho annunciato il vostro suicidio, devo essere sembrato un cittadino modello dell’Impero.”

Gli altri cinque, ammessi in quanto guardie del corpo di Ashe, restarono in silenzio a captare la tensione che riempiva la sala di marmi blu. Quasi a provocarlo, Ashe diede conferma alle sue parole con un cenno del capo.

“L’annuncio, capirete, era un’idea di Vayne. Ai tempi ero riluttante, ma mi sfuggivano i suoi motivi. E’ chiaro adesso, comunque: voleva porre una distanza tra noi due.”

“Halim” lo fermò Ashe “Ormai siamo oltre tutto ciò. Bhujerba deve allearsi a noi, insieme possiamo fermare Vayne.”

Il tono battagliero di lei si scontrò con lo sguardo impassibile di Ondore, che rapidamente passò alla tristezza e al rimpianto.

“Un tempo conoscevo una bimba… il cui unico desiderio era di stare sulle braccia del suo zio. Ma vostra maestà adesso è una donna adulta.”

Lei, però, non si scoraggiò nemmeno un po’: “Dunque, Bhujerba mi aiuterà?”

Ondore riprese la sua compostezza abituale, da statista, non da zio preoccupato: “Diciamo per amor di discussione che noi si riuscisse a sconfiggere Vayne… dopo, cosa? Non potete ricostruire il regno con l’unica prova del vostro diritto di nascita rubato dagli imperiali. E senza di esso il Gran Kitlias di Bur Omisace non potrà riconoscervi come legittima erede. Potrete essere la principessa, ma senza prove della vostra identità, siete impotente.”

Aveva parlato duramente, e Ashe aveva ascoltato senza fiatare. Ma Vaan l’aveva notata sussultare ad ogni parola, come fossero coltellate. Ondore lo aveva certamente voluto, e fu lui stesso a rammorbidire il suo tono, un istante dopo: “Rimarrete con me, e non faremo nulla fino al momento giusto.”

“Non posso star ferma ad aspettare!” sbottò lei.

“E quindi, Vostra Maestà cosa propone di fare?” per dare il colpo di grazia, Ondore caricò la voce di aspra ironia, e lei accusò il colpo.

“Zio Halim!” si zittì da sola, deglutì come per inghiottire un boccone amaro, e poi fece per uscire, colpendo con violenza le porte di legno e sbuffando sonoramente. Basch uscì immediatamente per andarle dietro.

“Tra parentesi” intervenne Balthier, annoiato “Che ricompense si danno oggigiorno per la vita di una principessa? Un banchetto sarebbe un buon inizio – roba buona, s’intende.”

“Si può organizzare qualcosa, ma ci vorrà del tempo.” Concesse Ondore, infastidito.

“Abbiamo il tempo di una lavata, spero; sa com’è, affari sporchi eccetera. Ah, già che siamo qui” aprì la porta seguito da Fran, Vaan e Penelo “Ci porti anche dei vestiti.” E si chiuse dietro le porte.

“Ci facciamo una mangiata, eh? Fico!”

Il pirata afferrò il ragazzo per il gilet come era ormai abituato a fare: “Non ci sperare. Tu a metà pasto ti sentirai male e dovrai andare in bagno. Le carni piccanti di Bhujerba, che vuoi farci.”

“Cosa! Io non ci penso proprio a saltare la cena!”

Penelo li guardò, interrogativa.

“E mentre cerchi il bagno magari ti perderai…” continuò Balthier.

“Io non…!”

“…per le ricche sale di questa residenza.” Concluse Fran.

“Oh. Oh. Ma certo.”

Penelo nascose la faccia tra le mani, sospirando.

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“Che fai?”

La principessa sobbalzò nel sentire dietro di sé la voce del ladruncolo di Rabanastre, che scaricava un fagotto stranamente carico sul retro della Strahl. Per un attimo tolse le mani dai comandi. Poi riprese a tentare come poteva di far partire la nave.

“E’ la nave di Balthier.”

Ashe digrignò i denti, poi spiegò come un genitore spazientito: “Intendo recuperare il Frammento d’Aurora, la prova del mio lignaggio che mi serve. So dove si trova. Restituirò la nave più tardi.”

“Sei partita col cervello?” Ashe non conosceva l’espressione, ma gli fu difficile fraintendere il tono; si voltò di scatto verso Vaan.

“Devo fare questa cosa!” la voce quasi le si ruppe “Per me stessa, e per coloro che sono caduti…”

La mente ritornò a quelli che, quella sera, erano morti tra le fiamme per aver seguito il suo piano. Poi alla situazione in cui si trovava, alla sua impotenza. A cosa avrebbe potuto dire a loro, per giustificarsi, se li avesse avuti davanti.

“Non mi costringeranno a nascondermi. Se devo, combatterò anche da sola.”

“Hai ancora Basch. E comunque, non puoi andartene in giro a requisire navi…” nemmeno io, pensò, sarei così matto da provare a volare senza averlo mai fatto. “Insomma, che cavolo credi di fare?”

“Sto cercando di concentrarmi!”

“Basta così, Vostra Maestà.” Nel sentire la voce severa di Ondore, si voltò spaventata.

Ma dietro di lei c’era non Halim Ondore IV ma Balthier, con in mano uno strano aggeggio che sembrava un microfono appiattito, e un sorriso di scherno in faccia.

“Che dite, un po’ eccessivo, Maestà?” chiese con la voce di Ondore, e poi aggiunse, reggendo il meccanismo: “In un lavoro come il mio,  non si sa mai quando una cosa così può tornare utile…Sto cercando di concentrarmi!” concluse in grande stile, mimando la voce di Ashe, ma aggiungendoci una lieve nota isterica.

Fran non sembrò interessata a nulla se non ai comandi, cui diede una rapida occhiata giusto per vedere che aveva combinato una mano inesperta, e Penelo si accostò a Vaan, parlandogli all'orecchio.

"Hai rubato."

"Io? No."

"Bugiardo."

"E' per il bene di Dal-"

"Non provarci nemmeno!" lo stroncò lei, senza alzare il tono di voce.

Balthiered Ashe si scambiarono pochi sguardi, silenziosi, finchè lui si decise a dire "Ti lascio qui col Marchese", e la principessa sgranò gli occhi.

"Non puoi!" protestò, vagamente stordita.

"Fidati, stai bene dove stai."

"E se per ipotesi tu mi rapissi?"

Vaan aggrottò la fronte, e per la prima volta Balthier fu troppo sorpreso per essere sprezzante. Solo Fran li ignorò nella maniera più totale.

"Sei un pirata, giusto? Allora rapiscimi. Chiedo troppo, forse?"

Balthier lanciò uno sguardo a Fran, che scosse leggermente il capo, ma poi si strise le spalle, come a dargli carta bianca. Sapeva che la principessa esiliata lo intrigava e lo divertiva quanto quel ladruncolo arrangiato, perchè togliergli il divertimento? Nella peggiore delle ipotesi poteva portarsela a letto, ma non le passò nemmeno per l'anticamera del cervello che questo potesse indebolire il suo legame con lei.

C'era, però, qualcosa che avrebbe potuto dividerli...

"E cosa avresti che posso desiderare?" la voce del suo socio riportò la viera alla realtà.

"Il tesoro del Re Dinasta. Il Frammento d'Aurora è solo una delle molte ricchezze sepolte nella Tomba di Raithwall."

"Wow. Re Raithwall, dici..." un'altra voce interruppe le sue considerazioni.

"Rapire chi ha sangue reale è un grave crimine." solo Fran e Balthier non furono sorpresi di avere il Capitano Basch con loro, quasi sapessero che li aveva seguiti.

"E non contribuirà ad abbassare la taglia sulla tua testa." continuò.

"E la tua a quanto ammonta, oggi come oggi?" ribattè il pirata, noncurante.

Ma anzichè adirarsi, Basch gli sorrise di rimando, e poi fece qualche passo avanti fini ad Ashe, seduta nel sedile di guida. Si inginocchiò e le prese la mano.

"Permettetemi di farvi da scorta in vece di Vossler." chiese, quasi implorante.

Due gocce color sabbia incontrarono le iridi color ruggine, e il rimpianto di uno si riflesse negli occhi dell'altra, e viceversa. Lei non disse nulla, e per lui questo fu abbastanza.

"Vieni anche tu?" chiese la viera, un pò distratta, a Vaan.

"Che scherzi? Mica m'inchiodo qui."

"Allora vengo anche io!" ribattè la ragazzina.

"Penelo?"

In qualche modo, entrambi sapevano che questo andava contro quanto si erano detti, contro quanto lei stessa desiderava. Ma nessuno dei due, in quel momento, volle farlo presente.

"Non lasciarmi sola."

"Certo che no." rassicurò lui.

"Dei veri rapitori" s'intromise Fran, un pò scocciata "se ne andrebbero prima che il Marchese se ne accorga."

"Vado a svegliare Nono, allora." dichiarò Balthier.

"Potrebbe essere il caso." confermò lei armeggiando con i comandi di avvio e facendo da parte Ashe.

"Che ficata! Alla tomba di Re Rasta!" esultò Vaan alzando il pugno, e Basch e Penelo sorrisero.

"Sarebbe RAITHWALL, e ti prego di non tenere questi atteggiamenti in mia presenza." sibilò Ashe guardandolo male.

"Odiosa." borbottò Vaan.

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Mi dispiace di aver fatto attendere questo capitolo così tanto, che il capitolo di agosto ha finito con essere, in pratica, il capitolo dell'uno settembre. Il fatto è che una serie di cambiamenti ci sono stati nella mia vita, che mi hanno posto innanzi alle scelte di interrompere la ri-scrittura di questa FanFic -cosa che voglio a tutti i costi evitare- o di rallentare il ritmo rimanendo fermi, di fatto, ad un capitolo al mese (contrariamente alla mia ambizione di tornare ad un capitolo a settimana). Me ne scuso, ed io per primo lo rimpiango.

C'è poi il fatto che ormai riscrittura non è più, vista la quantità di roba che sto riorganizzando, rielaborando, riscrivendo, allungando, riconfrontando con il gioco originale, e arricchendo con nuove idee che mi sono venute, trasformando quelli che erano dei frammenti di "gioco romanzato" in, effettivamente, un vero e proprio racconto più lungo di qualsiasi altra fanfic io abbia mai pubblicato. Il che ovviamente non accorcia il lavoro, ma lo rende migliore - per esempio, il "flashback di Balthier e Cid" che a molti è risultato gradito, non esisteva nella stesura originale.

Sono troppo affezionato a questa fanfic per mollarla, per varie ragioni. Final Fantasy XII è un gioco che ho difeso da molte -ingiuste, a mio avviso- critiche fino a voler scrivere (molte) pagine per dimostrare che HA una storia, che è magnifica, e che il suo unico difetto è che poteva dare molto, molto di più, un "di più" che, anche se non oso paragonarmi a Matsuno, sto cercando di aggiungere io.

Aggiungiamoci le tonnellate di saggi, discussioni, post su forum e blog, e litigi che ho messo giù per dimostrare che i videogiochi sono Arte, e Arte con una loro dignità, ed esprimono qualcosa di artistico, ed a riprova di ciò posso usare un altro mezzo artistico per esprimere lo stesso prodotto proprio come su un bel libro può basarsi un bel film.

Poi, la voglia di far conoscere questa storia a persone -come Nainai- che mi sono care, e che non avranno il tempo di giocare a questo gioco: scrivo la fanfic anche come regalo a loro... sperando che almeno il tempo di leggere la fanfic, prima o poi, lo si trovi!

Per finire, ho già accennato che ci ho giocato insieme ad una persona splendida, proprio nel periodo in cui io e lei ci conoscevamo, intrecciando i nostri destini, forse per sempre, e questo gli farà occupare per sempre un posto speciale nel mio cuore. La fanfic è, ovviamente, un dono anche per lei.

A tutti quelli che mi seguono e continueranno a seguirmi, va la mia gratitudine. L'arte -anche quando di bassissimo lignaggio come la mia- è comunicazione, e senza di voi, non potrebbe esserlo e dunque non potrebbe essere arte, e quindi, in ultima analisi, non esisterebbe. Grazie a tutti, ovviamente un pensiero speciale ad Hagaren.

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Capitolo 21
*** Scacchiera ***


Vista da fuori, la Cittadella Scentifica, anche nota come i Draklor Labs, aveva un aspetto geometricamente regolare: un'alto prisma, dalla base romboidale, che culminava in una ripida piramide. Un monumento alla modernità, armonico incontro della tipica pietra rossa arcadiana, marmi bruni e lucidi, e leghe metalliche di ultima generazione.

Gli interni, però, erano tutt'altra faccenda. Un labirinto intricato di corridoi tutti uguali che collegavano i diversi uffici, le sezioni, gli studi, i laboratori, un dedalo di conformazione mutevole perchè disegnato da un complesso sistema di porte stagne tra loro identiche. Una specie di caos ordinato in cui solo chi passava lì interi mesi di lavoro in isolamento poteva scorgere un senso, avere una possibilità di orientarsi.

Niente, comunque, con cui lui intendesse sprecare il suo tempo.

Ormai adattatisi al buio, i suoi occhi lo guidarono verso un'ennesima, ampia porta metallica. Protese la mano verso il meccanismo circolare al centro, e intonò, facendo schioccare la lingua. "En... Loch."

Come dei bracciali, si disegnarono intorno al suo polso e alla mano dei cerchi luminosi, del colore del ferro incandescente. Dalla forma, ricordavano degli ingranaggi o dei chiavistelli che ruotavano in maniera regolare e coordinata. S'interruppero, assunsero un color verde aquamarina, si sovrapposero al meccanismo e poi sparirono. Ci fu un rumore metallico e la porta si aprì di scatto, bloccandosi innaturalmente a metà, la serratura forzata dalla magia.

La stragrande maggioranza dei Giudici vedeva la magia come una semplice arma da accostare alla spada, ma non lui: lui preferiva usarla per quelle applicazioni sottili che alle armi sfuggono. La natura dei Giudici era mista: erano un pò maghi e un pò guerrieri, magistrati e generali al contempo. Ma non lui... lui invece...

"Gabranth! Ce l'hai fatta a intrufolarti qui."

L'uomo calvo, in camice, uscì da una porta simile, dall'altro lato della stanza rettangolare. Notò che i suoi capelli erano più grigi, il suo volto più segnato, di quanto non ricordasse quando, mesi prima, lo aveva visto l'ultima volta.

"Devi essere pazzo, Jurgen, se osi dire il mio nome ad alta voce." minacciò lui.

L'altro si aggiustò il monocolo, sorridendo leggermente: "Sai meglio di me che niente di quel che accade a Draklor viene registrato. E inoltre..." continuò rivolgendo lo sguardo alla sottile veste nera e aderente dell'uomo "...nessuno crederebbe mai che tu sia quel Gabranth neanche se fosse qui in questo momento. Nessuno conosce il volto dei Iudex Magister, e viene difficile credere che possano andare in giro vestiti come ladri."

Gabranth rimase freddo e silenzioso mentre il professor Jurgen gli volgeva le spalle, percorrendo la stanza verso una delle molte scaffalature, tutte stracolme di vecchie carte impolverate e ingiallite.

"Per la verità, a volte io stesso dubito che tu sia chi dici di essere. Forse è solo uno scherzo dell'Imperatore, mandarmi un agente fingendo di essere un giudice. O magari, non sei nemmeno qui per conto dell'Imperatore."

"E perchè mai avrei mentito?" chiese oziosamente il Giudice.

"Perchè sai bene che l'unica cosa che può terrorrizzarmi più del signore di Draklor è l'Imperatore in persona. Dico bene?"

Dal buio, dietro di lui, non giunse nessuna risposta. Jurgen percorse diverse scaffalature con il dito, e poi estrasse un grosso registro.

"Ecco. Il resto sono giorni e giorni, commentati minuto per minuto - cartaccia. Qui si tirano le somme di mesi di ricerca sulla Negalite Artificiale, tutte le informazioni in poche centinaia di pagine." si volse verso Gabranth, dandogli il registro in mano, e aggiunse "Puoi portarlo a sua eccellenza l'Imperatore, o a chiunque ti mandi."

"E dimmi, Jurgen... se non credi sia l'Imperatore a mandarmi, perchè fai quanto ti chiedo?"

"Non è ovvio?" Jurgen tornò sugli scaffali, cercando di risistemare le carte dimodochè, gestendo lo spazio, non sembrasse evidente che qualcosa mancava, e poi rispose: "Per la caduta di Cidolphus Demen Bunansa."

"Ambizione." concluse Gabranth.

"Sogni." Puntualizzò Jurgen "La scienza al servizio di cosa? Di vecchie favole, retaggio di una religione decaduta... è così? Eppure, con le ricerche sulla Negalite potremmo fare molto per la salute, per l'economia, per la pace..." alzò leggermente il tono di voce, allargando le braccia: "La Cittadella Scientifica potrebbe essere la capitale del progresso... il mio sogno è... Draklor, una nuova utopia!"

Il suono della parola "utopia", fu immediatamente seguito dallo scricchiolio delle ossa, dal rumore secco del suo collo che si rompeva per la stretta precisa del Giudice, e poi dall'impatto del suo corpo, che arrivava a terra come una marionetta rotta. Gabranth fissò il cadavere negli occhi, che si erano già spenti.

"Il processo è concluso, e la sentenza eseguita: sei colpevole di insubordinazione, spionaggio industriale, sabotaggio e cospirazione." riprese il registro da terra e fece per andarsene, ma poi si voltò di scatto e aggiunse, come se quel cadavere si meritasse quelle parole: "Addio, serpe dai nobili sogni."

A differenza degli altri Giudici, Gabranth non aveva che un'unica natura: era un sicario.

C'era certezza, in questa identità, quasi un punto d'orgoglio. Uno scopo, una direzione da dare alla propria vita. Lui era la mano invisibile dell'Impero, la sua volontà segreta. Le sue sentenze non erano da proclamare, ma da sussurrare prima che la sua giustizia colpisse, in silenzio e al buio.

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Vaan e Penelo rimasero con il naso all'insù e la bocca spalancata, osservando la Strahl che si conformava all'azzurro limpido del cielo terso sopra le dune, fino a diventare a tutti gli effetti invisibile.

"Wow!" commentarono in coro.

"Suppongo che... una cosa così può tornare utile?" commentò Ashe alludendo alla loro scorsa conversazione.

"E' dura essere popolari. Non vorremmo trovare dei nostri ammiratori a bordo al ritorno. Comunque, la Strahl non andrà oltre qui... da qui è tutto Jagd." spiegò Balthier distrattamente, mentre Fran faceva dei cenni verso la nave ormai invisibile, presumibilmente diretti a Nono; sulle spalle portava, come fosse una piuma, un grosso fagotto allungato tenuto a stento da una bardatura di corde.

"Attraverso il Mare di Sabbia, verso la Valle dei Morti, alla Tomba di Raithwall..." sussurrò Ashe pensando tra sè e sè, ma fu interrotta dal chiacchericcio dei due ragazzini.

"...e in pratica, nello Jagd, le vololiti non funzionano per un tubo. Quindi ci tocca andar da terra, e..."

"Felice di insegnarmi tu qualcosa, una volta tanto?" lo interruppe Penelo, ironica.

"Che cavolo vuol dire una volta tanto?"

Mentre continuavano il battibecco, Ashe si voltò interrogativa verso la coppia di pirati, sott'intendendo la domanda: perchè venivano anche loro?

"Almeno abbiamo portato con noi dell'intrattenimento, no?" si beffò lui, senza darle soddisfazione.

Ma immediatamente dopo si diresse verso il ragazzo, che a sua volta si stava allontanando.

"Vaan?" lo chiamò Penelo, preoccupata, e anche Basch, che era rimasto immobile e muto fino a quel momento gli andò dietro.

Appena oltre la roccia coperta di cactus a cui la Strahl era ancorata iniziava una strana distesa di acqua color nocciola, sterminata. Vaan si chinò sulla riva di quello strano mare, e prese una manciata d'acqua, ma poi la lasciò cadere stupito. Sabbia così fine da ondeggiare al vento come acqua! Non aveva mai visto niente del genere. In che razza di luogo il tempo può corrodere la sabbia a tal punto? Cosa dimorava in quel deserto? Chi c'era stato, e chi ne era tornato? Già sentiva l'adrenalina salire al pensiero di un nuovo viaggio...

Poi, li vide: erano edifici cilindrici color ruggine che sbucavano fuori da quel mare innaturale, tutti a regolare distanza l'uno dall'altro. Erano l'unica cosa a spezzare la regolarità della sabbia ondeggiante e del cielo.

"Quindi... dove sta questa tomba dove stiamo andando?" Penelo era arrivata alle sue spalle con il capitano, ma lui ignorò entrambi, continuando a giocherellare con quella sabbia finissima che scivolava tra le dita e gettando ogni tanto un occhio alle torri.

"Molto a ovest. Dobbiamo passare l'Ogir Yensa, e dopo questi il Nam Yensa, prima di arrivare. Una zona desertica più ampia dell'intera Dalmasca. Dobbiamo prenderci il nostro tempo o crolleremo." spiego il capitano, fissando anche lui le misteriose costruzioni.

"Non preoccuparti, sono più tosta di quanto non sembro!" scherzò lei, e lui ribattè con dolcezza: "Devo ammetterlo."

Mentre tutti e tre tornavano verso gli altri, Balthier intercettò Vaan e gli prese il collo sottobraccio.

"Belle le spade che hai."

Lo sapeva bene che erano belle - e strane.

Una era una piccola una scimitarra ricurva, frastagliata e piena di venature come una foglia secca, dalle brillanti tonalità rosse; un'altra era adorna da gemme violacee che ricordavano degli occhi che seguivano la curva della lama che finiva squadrandosi; e l'ultima aveva una forma ondulata intarsiata di geroglifici, che all'ombra splendevano di tutti i colori dell'iride. Insomma, armi magiche, con ogni probabilità, o in alternativa armi decorate con un gusto parecchio eccessivo... ma preferiva pensare che erano magiche.

Dovendo decidere come dividere il bottino trafugato da Ondore, aveva lasciato a Balthier e Fran i gioielli tenendosi quelle tre spade. Dovevano avere qualche particolarità, di cui si sarebbe potuto servire in futuro - che si tenessero loro la roba da rigattiere...

"Sono mie. Le ho rubate io."

"E se io le rubo a te diventano mie." ribattè lui alludendo al loro primo incontro e stringendolo ancor più a sè.

"A voi i gioielli, a me le spade. Mi sembra equo!" protestò divincolandosi, mentre gli altri procedevano a passo più spedito.

"Lo sarà anche, ma non lo sono io."

"Aspetta, mi sono confuso... non  sei.... cosa?"

"Equo. Datti una svegliata mentre io rifaccio le parti, eh?"

"Non rifai un cavolo! Tanto non mi freghi... le vuoi perchè hanno qualche potere speciale."

Balthier lo lasciò d'improvviso, e lo guardò con una espressione che non seppe decifrare. Poteva essere stupore e dubbio autentici, o una palese simulazione di questi. Impossibile a dirsi.

"Potere? La pensi così per il loro aspetto, eh? Che scemo."

"So che è così! Non ci provare!"

"Chissà?" si strinse le spalle il pirata, accelerando il passo e allontandandosi dietro agli altri quattro.

"Ehi? Non le vuoi più? Ma  l'hanno un potere o no? Ehi!"


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Solo un pazzo poteva credere che l'Imperatore avrebbe detronizzato l'uomo che era il cuore della sua ricerca militare. Ma il professor Jurgen qualche utilità l'aveva avuta: la mancanza del registro ed il cadavere del cospiratore sarebbero stati un equivocabile messaggio, avrebbero fatto sapere che l'Imperatore aveva ancora il controllo sui Draklor Labs - o pretendeva averlo.

Ed appunto per dargli tale controllo, Gabranth aveva sparso spie ai suoi ordini a tutti i livelli del complesso sistema bancario arcadiano, e finalmente, violando leggi, corrompendo funzionari e concedendo impunità a tutto spiano, era riuscito ad apprendere le poche, preziose informazioni che ora, al cospetto dell'Imperatore Gramis Gana Solidor, aveva rapidamente riassunto.

L'Imperatore lo guardava in silenzio fa ormai quasi un minuto, gli occhi nerissimi in contrasto con la barba e gli ultimi capelli, candidi. Quel nero abissale, insondabile che era tipico del Casato Solidor. Faceva sempre così, quando la sua mente rielaborava informazioni importanti, che lo costringessero a rivedere i suoi piani.

"Dunque" parlò finalmente "questo è quanto il Dottor Cid fa a Draklor."

"...e ho conferma che l'origine dei suoi fondi è Lord Vayne." riconfermò il Giudice.

"E anche il suo ruolo nella caduta di Nabudis è certo..." continuò a riflettere ad alta voce l'Imperatore "...ma fintanto che non si trova colui che guidò l'assalto, il Iudex Magister Zecht, è arduo accertare la verità dei fatti."

Continò a pensare, ma ora senza dar voce ai suoi pensieri. Poi, per un solo attimo, chinò il capo, e per un attimo a Gabranth parve solo un povero, piccolo vecchietto che scompariva nel suo ampio manto viola, riccamente filigranato d'oro e rubini, come se lentamente l'Imperatore Solidor stesse inghiottendo Gramis, l'uomo.

"Lunghi e freddi anni mi hanno accecato. Non vedo più nemmeno il cuore di mio figlio."

Proruppe in una violenta tosse.

"Mio signore-" intervenne Gabranth per aiutarlo, ma lui riprese subito a parlare, la voce ancora roca, seguendo il filo dei suoi pensieri.

"Questo morbo reclamerà la mia vita... e chi mi succederà al trono? Il Senato teme l'abile falco, e preferirebbe un Imperatore ancora implume... Gabranth...?" chiamò, ritornando al presente, e il Giudice alzò il capo, in ascolto: "Un tempo, io ho preso d'assedio la tua patria."

"La Repubblica di Landis non esiste più, da lungo tempo" si affrettò a dire lui "la mia lealtà va interamente all'Impero."

Ma Gramis Gana Solidor non cambiò di una virgola la sua espressione persa in un mare di pensieri, e lo incalzò: "Forse, ma che mi dici di tuo fratello? Non ci ha mai accettati, a differenza tua, ed è fuggito a Dalmasca."

Dietro l'elmo, Gabranth digrignò i denti per la rabbia, domandandosi dove volesse andare a parare l'Imperatore. Sapeva bene quanto Arcadia si fosse dimostrata aperta e generosa nei suoi confronti, e per converso, quanto vergognosa fosse, nella sua posizione, la pervicace ostilità di suo fratello verso Arcadia. A che scopo uno dei pochi che conoscevano la sua ferita vi rigirava la lama, con così poco rispetto? Ma fuori dall'armatura non trapelò nulla.

Poi l'Imperatore aggiunse: "Tu pensi mai di seguirlo?"

"L'ho seguito... in effetti, ho seguito ogni sua mossa. E' un nemico dell'Impero e come tale, incontrerà la mia lama." ma Gabranth rimase dell'idea che nemmeno adesso l'Imperatore era arrivato al punto.

"Così... uccideresti il tuo stesso fratello per l'Impero. E così sia, Gabranth, la tua spietatezza non manca di virtù. Ma non deve essere così con Larsa... tu, devi assicurarti che così non sia."

Finalmente era chiaro, realizzò. La mente dell'Imperatore era una sterminata scacchiera, e in essa erano schierati anche i cuori e le menti di coloro che egli aveva sotto il suo sguardo. A lui, e non ad altri, avrebbe affidato la protezione di Larsa, a lui che più di chiunque altro sapeva quanto un istinto fratricida potesse straziare l'anima, farla a pezzi, rendere irriconoscibili persino a sè stessi.

A lui, che non aveva potuto salvare sè stesso dall'odio, l'Imperatore dava l'occasione -ma anche la crudele, ironica condanna- di impedire che un altro subisse il suo destino.

"Dunque volete... che io sia la sua spada, che colpisca dove non colpirebbe lui?" chiese esitante, ponderando sull'immensità dell'atto di uccidere Vayne Carudas Solidor.

Ma l'Imperatore scosse la testa: "Piuttosto sii il suo scudo. Fai estrema attenzione a Vayne, Gabranth... è lui, la lama più affilata."

"Mio signore..." confermò lui, chinando il capo e preparandosi a congedarsi, ma l'Imperatore si protese per dirgli qualcos'altro, subito interrotto da un altro, lungo attacco di tosse.

"Fai questo per me, Gabranth." insistè, ed il Giudice ebbe la sgradevole senzazione di essere supplicato; più che un ordine, era la preghiera di un padre.

"Non potrei sopportare nuovamente di vedere i miei figli l'uno contro l'altro."

E con un brivido, Gabranth ricordò quando era successa quella cosa... e si domandò se tutto non fosse iniziato e si fosse deciso, già a quel tempo.

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Avevano marciato sulla sabbia per un paio d'ore buone, quando finalmente gli sembrò di essere più vicino a quei bastioni arrugginiti. Finalmente li vedeva meglio: erano come alte, tozze canne fumarie conficcate a fondo nelle sabbie fluide. Le sgangherate impalcature di scale, scalette, ponteggi e passarelle che gli si arrampicavano intorno, e li collegavano come ragnatele di ferro, erano talmente malmesse che si potevano difficilmente definire costruzioni.

"Allora, procederemo da lì. Siamo d'accordo, o qualcuno ha un ardente desiderio di sabbiature?" propose Balthier, e la principessa assentì.

"Msee, ci sto."

Tutti si girarono un pò straniti verso Vaan, e poi si girarono di nuovo alle costruzioni.

"Non chiedevano a noi, Vaan." sospirò Penelo con gli occhi al cielo, mentre gli altri andavano già verso una ampia scala che saliva lungo uno dei cilindri metallici; lui rispose con uno spintone.

"Cosa sono questi cosi, comunque?"

"Costrutti per drenare il petrolio dal sottosuolo. Abbandonati da lungo tempo, pare." spiegò brevemente Basch.

"Petrolio?" s'intromise Penelo, incuriosita.

"Il sangue nero della terra." Fran rallentò il passo per rispondergli; "Nei secoli, la terra divora i corpi morti, ne fa il suo sangue. Gli hume lo estraggono per strappare la forza alla terra, e così la morte torna in superficie, avvelenando il mondo."

"Parli del Mare Oscuro." notò Basch.

"E che è?" si affrettò a chiedere il biondino.

"Ne ho sentito parlare da un nabradiano, anni fa" ricordò Basch mentre risalivano faticosamente la spirale "è un'ampio mare di Rozarria, cosparso come questo mare sabbioso di estrattori di petrolio. Il petrolio lo ha fatto diventare una distesa nera, dove non vive e non nasce niente."

"Ma chi costruisce queste cose?" domandò Vaan, vagamente inquietato da quell'immagine di un mare color tenebra che si estendesse a perdita d'occhio.

"Rozarriani. Il loro impero è nel lontano ovest, da sempre in guerra con Arcadia, entrambi incuranti dei regni presi nel mezzo. Dalmasca... Nabradia... e..." concluse il capitano quasi a malincuore "...Landis."

"E' questo il destino dei piccoli vascelli: schivare le battaglie tra galeoni e pregare per un vento amico."

Se tutti furono sorpresi di sentire la voce di Azelas Vossler dietro di loro, Basch fu più sorpreso degli altri: non era strano che Vossler dicesse qualcosa di tanto fatalista, ma era strana l'inflessione di voce, in cui Basch coglieva qualcosa che, in molti anni, non aveva mai colto. Una nota stonata, non della rassegnazione che ben gli conosceva, ma quasi di rimpianto.

"Vossler! Perchè sei qui?" la voce del capitano tradì un lievissimo sospetto.

"Già... che fico rivederti così presto." si lamentò Vaan con tono piatto; non gli era mai piaciuto un granchè.

Vossler comunque lo ignorò, guardando Basch dritto negli occhi con sguardo accusatorio: "Immagina la mia sorpresa nel ritornare a Bhujerba. Svaniti nel nulla tanto sua Maestà quanto la sua guardia. Mischiarsi con i pirati... ti reputavo al di sopra di siffatte attività."

Basch, comunque, non evitò il suo sguardo, e ribattè senza nemmeno dare un minimo segno di essersi offeso: "Balthier merita la nostra fiducia." e allo sguardo dubbioso del compagno, proseguì: "E' stata, comunque, una decisione di sua maestà... a cui sono contento di prestare la mia forza. Quando ha perso Rassler e il trono non ho potuto, e non sarà mai più."

Con sorpresa di Vaan e Penelo, Vossler reagì come se le parole del compagno lo riempissero d'orgoglio, quasi lo confortassero; stirò le labbra in un amaro sorriso, e ammise "Come a un cavaliere si conviene. E sua Maestà, dov'è?"

Con un cenno del capo, Fran indicò Balthier ed Ashe poco più avanti. Vossler fu scontento, e vistosamente, di vederli così vicini. Inoltre, non si capiva cosa stessero facendo: erano entrambi sporti dalla ringhiera di una passerella, fissando muti un punto lontano.

Quando si furono avvicinati, Vaan vide che osservavano un punto lontano tra le onde sabbiose, dove la sabbia si alzava in svariati sbuffi che diventavano, lentamente, sempre più vicini. Fran strinse gli occhi, come se dovesse mettere qualcosa a fuoco. Ashe, invece, si voltò verso Vossler e perse ogni interesse nel fenomeno.

"Dobbiamo andare via." concluse la viera, atona.

"Indovino... tempesta in arrivo?" chiese il suo socio.

"Qualcosa di peggio."

Ashe, Vossler e Basch parlavano sottovoce, vicini l'uno all'altro.

"Il Marchese simpatizza con quest'impresa, ma ha l'Impero che gli vola sopra come un avvoltoio. Potrà mettere a tacere le voci sul vostro... rapimento... ma non per sempre." spiegava Vossler, con visibile disagio per la loro compagnia.

"Ma dimmi, Vossler" incalzò la principessa, impaziente: "Tu hai concluso qualcosa?"

"Andiamocene subito!" li interruppe Balthier, con una voce insolitamente agitata "Abbiamo il tipo di ammiratori che amo meno; questo è il territorio degli urutan Yensa, e non gradiscono i visitatori. Scappiamo finchè possiamo farlo!" e ad un suo cenno Fran si riprese il pesante fagotto e corse velocemente verso il prossimo estrattore, presto imitata dal resto del gruppo.

"Vossler!" insistè la principessa, vedendo che ci si stava muovendo senza avere risposta "Pretendo che tu me lo dica! Hai trovato la via per restaurare Dalmasca?"

"Il Frammento d'Aurora" ribattè lui, in tutta fretta "Tutto avrà inizio da lì."

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"Interessante, e anche fetido." scherzò Cid mentre osservava gli antichi meccanismi geometricamente disposti nel mosaico azzurro.

Dietro di lui, Vayne non proferiva parola, lo sguardo vagando per le volte azzurre degli ampi condotti, che nella sua epoca sarebbero state forse troppo maestose persino per degli alloggi regali. Era perso nei suoi pensieri, quando Cid parlò.

"Ah sì? Me n'ero già fatto un'idea." commentò il dottore, distratto, fissando il vuoto.

"Un' idea di cosa?"

"Pare che Garamsythe non sia una parola della lingua degli dei. Forse è stata inventata dai galteani, o forse è una storpiatura di un dialetto dalmasco. Dovrei fare una ricerca. Magari poi significa, che so, fogna schifosa. Sarebbe interessante."

"Oltre a magifisico, meccanico e archeologo, sei anche un glottologo?"

Cid si stizzì, e ribattè: "Niente di tutto ciò. Quando uno è scienziato, lo è in tutte le cose o non lo è affatto. Insomma questa è architettura galteana, forse tardo regno. Magari c'è un Esper imprigionato nelle fondamenta."

"Magari sì." tagliò corto il console, e Cid smise la sua espressione scherzosa per farsi assolutamente serio.

"Vayne? Ti vedo insoddisfatto."

"Se non abbiamo tracce, qui, è inutile stare a guardare i fregi. Capisco che ti interessi, ma abbiamo un'agenda da rispettare. la storia ci chiama, e dobbiamo rispondere." dichiarò freddamente.

"C'è sempre il piano C, che sta andando come prevedevi. Ti preoccupi troppo."

Vayne si voltò e fece per risalire le scale, quando si fermò.

"E' inutile tenere il broncio come un bambino." s'impuntò Cid "Perchè non mi dici cosa non ti torna?"

"Ghis." confessò il console.

"Sei stato tu a volere l'idiot magister per questa cosa." gli rinfacciò l'altro.

"Non c'era alternativa. Io non posso muovermi da qui, e ci voleva qualcuno che facesse quanto chiedo senza perdere tempo. Lui mi odia da sempre, e sa che voglio quella cosa... va a prenderla di gran corsa, ma per tenerla per sè... e poi..." non stava parlando davvero con Cid, ma solo riflettendo ad alta voce.

Faceva spesso così, e in quei casi si perdeva nei suoi ragionamenti non meno di quanto faceva Cid, riflettendo sulle sue invenzioni. La mente di Vayne era una sterminata scacchiera dove lui collocava ogni minimo dettaglio e, per accertarsi dell'elasticità dei suoi piani, anche due o tre scenari alternativi. Ma non ne era mai soddisfatto, e mai lo sarebbe stato; una parte della sua mente lavorava sempre per riesaminare la situazione, ricollocare i pezzi, riconsiderare tutto, interpretare nuovi elementi.

"...e poi i nostri infiltrati trafugano il maltolto e lo portano a noi. E lui ci resta gabbato, perchè la missione è segreta, e lui ha fallito, perdipiù. E così abbiamo vinto. Tutto questo... l'hai pensato tu." fece per rassicurarlo, un pò seccato.

"Non va. Ghis non sa cos'è quell'oggetto, e per almeno mezza giornata lo terrà con sè, e nessuno lo potrà controllare. C'è un buco di molte ore in cui non possiamo intervenire."

"E che vuoi che ci faccia? Non ha idea di cosa sia, giusto?"

"Giusto." concluse Vayne, non troppo convinto.

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Per dimostrare che per Hagaren ho davvero un pensiero speciale, aggiorno prima di quanto lei si aspetti!

Questo capitolo non esisteva, e fatto di pezzi di discorsi e scene che avevo sparso in altri capitoli e qui ho allungato. Un pò per fare da palcoscenico a Gabranth, rispettare l'idea (tutta mia, in realtà) che i Giudici sono sia maghi che guerrieri (e ispirato dal fatto che in una delle prime scene con Gabranth viene aperta una porta con la magia, anche se in realtà nel gioco e un suo aiutante a farlo), per cominciare a parlare di Rozarria e insomma, in generale, per dare un pò di coerenza a questa Ivalice un pò mia un pò di Matsuno.

Soprattutto, però, per dare a Gabranth lo spazio che merita, cosa che si replicherà in futuro.

"Deserto" arriverà presto, mentre dovrete aspettare per "Ariete". Non cambiate canale!

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Capitolo 22
*** Deserto ***


Un mare nero, sotto un cielo cinereo e immobile. Cilindri metallici di dimensioni inconcepibili, tutti asetticamente freddi e muti, ordinati ad equa distanza l'uno dall'altro.

Un paesaggio orribile, alieno.

Quando Penelo balzò in piedi, vide il suo incubo trasformarsi in una vista simile, ma molto più rassicurante: i cilindri erano arrugginiti e sgangherati, a denunciare che la natura si era accanita sulla loro apatia, li aveva scossi, e infine sconfitti; il cielo era di un blu profondo e intenso, punteggiato da una coltre di stelle, e il mare sabbioso ondeggiava regolarmente al soffio della brezza come se tutto il deserto respirasse con essa.

Malgrado il freddo, era così sudata che sentì il bisogno di liberarsi del sacco a pelo. Vaan mugolò un po', e abbracciò il sacco di lei come se lei ci stesse ancora dentro. Lei gli dedicò un sorriso carico di dolcezza che lui non avrebbe mai ricordato, e si mise a passeggiare per la piattaforma petrolifera.

Altri due dormivano sottovento come loro due, Ashe e Balthier, seppure opportunamente distanti l'uno dall'altro. Vossler e Basch dormivano a turni alterni più in là, in una passerella spezzata che si allungava verso l'orizzonte, e chi dei due era sveglio seguiva in silenzio i movimenti degli Urutan-Yensa con lo sguardo.

Fran era poco distante da lei, in piedi su una ringhiera, una mano sul fianco, il vento che faceva ondeggiare i suoi capelli perlacei. Il suo corpo longilineo si stagliava contro il firmamento con la calma naturale di una statua, tanto che lei si chiese se non stava effettivamente dormendo in quella posizione. Ma quando si appoggio anche lei alla ringhiera per affacciarsi sul mare sabbioso, le fu chiaro che non era così.

“Sogni inquieti?”

“Sì, io... credo di sì. Ho sognato qualcosa di enorme... opprimente.” ci penso su, e poi concluse “Ho sognato... il mondo.”

Fran sorrise lievemente: “E' una cosa curiosa, da dire.”

“Bè, era una parte del mondo, mica tutto. Il Mare Oscuro. Cioè, per come lo immagino io, dai racconti del capitano Basch.”

Ci fu un soffio di vento, e Fran per un secondo sembrava che non ascoltasse lei, ma un'altra voce che venisse da altrove. Poi le rispose.

“Molte tra la mia gente troverebbero il Mare Oscuro una vista orribile.”

“Voglio dire... è solo che... mi sembra che siamo così piccoli. Viviamo tra due imperi che possono decidere tutto di noi, della nostra vita... persino cambiare del tutto il mondo in cui viviamo. È... schiacciante.”

“Il tuo amico ha un'idea più ottimista del mondo, e crede che ribellarsi sia la soluzione. Ma non tu.”

“Esatto!” sbottò lei tutta contenta “Sei arrivata dritta al punto, che mito! E io che ti vedo così disinteressata, invece ti accorgi di tutto.”

“Sono una buona osservatrice.” concordò lei senza fastidio né compiacimento.

“Secondo te io... cosa dovrei fare? Sembra che lui la prenda come un gioco. Io... se fosse possibile, interromperei subito questo viaggio. Come posso convincerlo?”

Nessuna risposta. Provò a chiarire il concetto.

“Noi non... non saremo più liberi rischiando la nostra vita inutilmente. Ho ragione?”

Fran continuò a seguire linee invisibili tracciate dal vento, senza parlare.

“Ehi?”

“Ho detto che sono una buona osservatrice, tutto qui. Non so cosa dovresti fare o dire.”

Rimasero in silenzio per un po'. E poi la viera aggiunse: “Anche io sto viaggiando per qualcun' altro.”

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“Funziona.” confermò uno dei tre timonieri.

L'Aeronave Leviathan e il suo seguito di navi minori era ormai da mezz'ora nel cielo sovrastante lo Jagd. C'era stato qualche scossone, e le nuvole erano attraversate da strane forme luminose e multicolori, caleidoscopi evanescenti che sparivano appena lo sguardo si concentrava su di essi.

Ma in sostanza la flotta attraversava le nubi senza perdere il controllo, precipitare, esplodere di punto in bianco, o semplicemente sparire senza che se ne sapesse più niente, il genere di cose che succedevano a chi osava violare quei confini d'ignoto che si erano, da sempre, ribellati ad ogni legge della civiltà e della ragione, lo Jagd appunto.

Quindi, alla fine, la scienza dei Draklor Labs aveva vinto ancora una volta.

Il Iudex Magister Ghis non provò niente di diverso da quel che sempre aveva provato. Una sorta di compiacimento freddo, statico, una narcisistica contemplazione dell'ovvio.

“Non poteva essere altrimenti.”

Lo stesso poteva dirsi di una intera esistenza, la sua: non poteva essere altrimenti. Non c'era da sorprendersi di questo ennesimo trionfo dell'Impero, come in passato non c'era stato da sorprendersi per alcuno dei successi di Arcadia e nemmeno dei suoi. La sua vita era stata un percorso predeterminato, progettato nei minimi dettagli da lui, come da molti altri nel suo nobile casato prima di lui anch'essi maestri della vita di palazzo.

La sua fama come studioso della legge, e la perseveranza con cui non si era mai dimostrato troppo brillante o troppo stupido, con cui si era dimostrato spietato senza mai sporcarsi le mani, la puntualità con cui si era avvicinato ai vincitori del momento per poi abbandonarli giusto prima che cadessero in disgrazia, l'intuito nel riconoscere collaboratori acuti da usare attribuendosi come suoi meriti che non lo erano -specialmente in campo militare- e la meticolosità con cui aveva intessuto una fitta rete di protezioni e privilegi e la fedeltà con cui aveva servito il nuovo potere, l'Imperatore Solidor, malgrado le sue convinzioni personali...

Tutto era stato automatico, quasi ovvio, e se non fosse stato lui il diretto beneficiario del potere che aveva edificato, sarebbe stato prevedibile fino ad essere noioso.

Ma c'era stato qualcosa, un qualcosa che non aveva previsto, che in effetti non aveva -poteva mentire ad altri, ma non a sé stesso- nemmeno creduto possibile.

Era ancora un Giudice minore, stanziato in una iudiciaria all'estremo nord dell'Impero Arcadiano, quando assieme con l'ennesima tormenta di neve arrivarono notizie dalla capitale.

Notizie dell'ultimo dei figli dell'Imperatore, un rampollo crepuscolare e taciturno che sembrava affascinato solo dallo studio dei miti perduti e delle più gloriose battaglie del passato, che sempre se ne stava -assai sconvenientemente- in disparte nelle feste e nei banchetti dove i gemelli Solidor, Kaent e Lutho, non facevano che mettersi in mostra.

E come avrebbero potuto fare diversamente? Era impossibile che l'Imperatore, dopo essersi così faticosamente elevato al rango di Senatore “primus inter pares”, affidasse ai suoi figli un ruolo di potere. Sarebbe equivalso a confermare che Arcadia non era più, di fatto, una democrazia ma una monarchia assoluta ormai consolidata e, forse, causare una guerra civile. I figli di Solidor non sarebbero mai stati altro che giovani principi viziati, cortigiani dai modi più o meno apprezzati.

Eppure, come un ronzio sempre più fastidioso, crescente, che Ghis poteva solo sforzarsi invano di ignorare, si diffondeva la voce che quel ragazzino inquietante, innamorato di antiche glorie, piaceva ai conservatori più estremi, ai ferventi religiosi, ai ceti bassi; si vociferava di una sua futura candidatura come prossimo “Senatore primus inter pares”, cioè Imperatore, appena raggiunta l'età minima. Non solo sarebbe stato un altro Solidor ad ereditare il trono di Solidor, ma per di più il più strano, il più apparentemente inadatto, destinato a divenire un vessillo della cultura antidemocratica che serpeggiava in tutta Arcadia.

E questo Ghis non poteva sopportarlo. Dimostrava che esisteva un modo d'intendere la politica, il potere, radicalmente diverso da quello in cui lui aveva sempre creduto, un modo profondo, irrazionale, viscerale, che aveva una sua forza.

E poi... era successa quella cosa. Ghis ne ricevette la notizia insieme con il lungamente atteso trasferimento in una iudiciaria più a sud, e pensò che le buone notizie arrivano in compagnia. Dopo quell'avvenimento, Vayne Carudas Solidor, politicamente parlando, aveva finito di esistere e lui poteva tranquillamente dimenticarsi che fosse mai esistito. Uno spiacevole caso eccezionale nella politica imperiale che si era adeguatamente concluso con quel capolinea raccapricciante.

O così aveva creduto.

Non c'erano state note stonate nella vita del Iudex Magister Ghis eccetto lui, l'attuale Console di Dalmasca, il quarto nato dei Solidor. Una scheggia impazzita che non aveva solo dovuto tollerare, ma anche servire con obbedienza.

Fino a quando, inaspettatamente, era giunta la sua occasione. L'occasione di vincere Solidor sul suo stesso campo: quello delle leggende che per lui sembravano valere tanto. In effetti, non importava cosa Solidor stesse davvero cercando, né se questa cosa avesse un autentico valore o lo avesse solo nelle favole: era importante per Vayne Solidor, e quindi poteva essere usata contro di lui.

“Vostro onore!”

La voce del radiofonista lo riportò alla realtà, all'amaro ricordo di quanto aveva dovuto aspettare e sopportare per far sparire per sempre quell'insopportabile dissonanza nella sua visione del mondo.

“Cos' avete da insistere così?”

“Chiedo scusa, Vostro Onore, ma tutte le navi sono intatte e non si segnalano disfunzioni sostanziali. Stiamo muovendo un'intera flotta nello Jagd, È quasi un risultato storico.”

“Non dovreste sorprendervi. Non poteva essere altrimenti.”

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A Vaan cominciò a sembrare di essere cotto e croccante dopo una settimana di marcia, oltre ad essere per la prima volta nella vita disgustato dalla sua stessa sporcizia. Eccetto Fran, che come tutte le viera sembrava capace di adattarsi a qualsiasi clima e a qualsiasi luogo senza soffrirne minimamente, tutti sembravano condividere la sua stanchezza e la frustrazione, ma non si parlava un granchè se non quando ci si fermava a riposare, ed anche lì solo per comunicare fatti pratici.

Due giorni dopo che ebbero vuotato i fagotti di tutti (salvo quello cilindrico che Fran portava agilmente in spalla che, assicurò lei, non conteneva cibo né acqua) i loro fisici resistevano non più perchè idratati o nutriti, ma ingannati dalla magia.

Alla fine di ogni giornata Penelo e Fran si cimentavano nel meglio della magia bianca a loro disposizione, così che i loro corpi ignorassero la stanchezza. Ma non era come mangiare o bere, Vaan avvertiva che mancava qualcosa di non spiegabile ma chiaramente percepibile. Aveva provato ad aprire il discorso con Fran avvicinandosi a lei durante una sosta.

“Ehi, Fran.”

Lei non rispose e non mosse alcuna parte del corpo se non gli occhi, verso il ragazzo.

“Penelo è fantastica. Non avevo idea che fosse così brava con la magia.” la viera per risposta spostò di nuovo lo sguardo verso l'orizzonte, e lui capì che era meglio non girare troppo intorno al discorso con lei.

“Senti, mi chiedevo... non è che... faccia male?”

“Cioè?”

“Ehm... non mangiare, non bere... sostentarsi solo con la magia. Sento che c'è qualcosa di... innaturale.”

Lei anticipò la risposta: “La magia può tenere in vita un corpo anche in eterno.”

“Sì, ma non è che a lungo andare-”

“Ricorderai che nelle gallerie di Barheim c'era un esper, quella cosa che ho chiamato Zalera.” Interruppe di nuovo lei capendo dove voleva andare a parare.

“E questo cosa-”

“E ricorderai degli hume che lo seguivano.”

Vaan li ricordava benissimo, e decise di non parlare mai più dell'argomento. Da lì in poi avrebbe avuto qualche incubo, immaginando sé stesso come un cadavere ambulante destinato a vagabondare per il deserto senza ricordarne il motivo.

In effetti passò un giorno intero senza che nessuno parlasse assolutamente di nessun argomento. E non giovò ai suoi nervi.

Per di più, cominciava ad avere dubbi su dove effettivamente dovessero andare a finire, perchè da tutti i lati l'unica cosa che si vedeva erano piattaforme petrolifere collegate da lunghissimi e sottili ponti e il Mare Sabbioso di Yensa che ondeggiava monotonamente sotto di loro. Più che una direzione o un percorso sembravano persi in un pellegrinare infinito e senza senso, il resto del mondo apparentemente scomparso nel nulla inghiottito da quel fottutissimo deserto.

E certamente non ignorava cosa fossero quelle nubi di sabbia che si spostavano a gran velocità, apparendo e sparendo dall'orizzonte a intervalli irregolari: Urutan. Li seguivano ormai da giorni, e ogni tanto si avvicinavano fino quasi ad accompagnarli, infine una volta erano persino passati sotto il loro ponte schiamazzando nella loro lingua incomprensibile.

Avvolti nei loro turbanti e mantelli, Vaan poteva comunque vedere dettagli dei loro corpi crostacei traditi dagli stracci lisi, rabbrividendo al pensiero di essere toccato da quelle chele. Le loro cavalcature, gli Yensa, non erano meno sgradevoli, enormi pesci coriacei dai contorni affilati che si muovevano con lunghe pinne simili ad ali di libellule entrando e uscendo dalla sabbia fine come fosse acqua.

Alla terza pausa della giornata, il vento del deserto soffiò più violento del solito, e sebbene si fossero messi controvento, la sabbia circondò la loro piattaforma e si appiccicò sulla loro pelle, umida. Ashe più di tutti dava segni evidenti di un fastidio incontenibile, abituata com'era fin da piccola a vivere nella massima pulizia, e fu forse per questo che, cessato il vento, guardò malissimo Vaan quando, allordato dalla sabbia e dal sudore, si mise a sghignazzare come un bambino che gioca nel fango.

“Che hai da ridere?” chiese in tono inquisitorio, la bocca impastata dal caldo secco.

“Niente... è solo che... questa fottuta traversata è maledettamente dura.” per quanto non ne potesse più, c'era un che di stimolante in quell'esperienza; era emozionante vedere fino a che punto poteva reggere ad una prova del genere.

Nessun' altro spiccicò parola. Ma, senza che Vaan lo vedesse, Balthier lo osservava con un certo compiacimento.

“E lo trovi divertente?” insistette, stizzita, la principessa.

“Bè... se un'impresa non fosse dura saprebbe un po' di pacco, no?”

“Di... pacco? Che vuol dire?”

“Pacco! Fregatura... come quando vai al mercato e ti vendono una scatola piena di sassi.”

“E chi comprerebbe una cosa simile?”

“Per gli dei, sei proprio lenta! Uno scemo ti compra qualcosa, e quando lo impacchetti lo sostituisci con delle pietre. Gli vendi un... pacco. Capito?”

“Ma... è un crimine!” sbottò lei.

“Ma dai?”

A questo punto Balthier stava ridacchiando pianissimo, accompagnato da un sorriso sarcastico di Fran, mentre Penelo e Basch sembrarono più che altro imbarazzati. Prima che Vaan potesse dire qualcosa, Vossler decise che era il caso di interrompere quella conversazione, intromettendosi bruscamente.

“Invece di far mostra della tua mancanza di decenza, faresti meglio a far tesoro del tuo fiato, che non ti manchi quando serve.”

Vaan tutta via non si impressionò affatto, e anzi ribattè: “Il fiato lo finirò presto se continuiamo così! Dov'è che finiamo a furia di camminare come imbecilli?”

A questo punto Balthier prese parola: “Ancora due giorni di marcia e saremo nella prima isola di terraferma. Da lì basterà prendere a noleggio dei chocobo e andremo spediti.”

“Bè magari i chocobo non ci vanno nel deserto, geniaccio.” lo disse più per scocciare che perchè avesse davvero qualche riserva sul piano; il modo in cui lo trattavano come l'ultima ruota del carro lo aveva scocciato.

“Certamente” disse Basch “Dipende dal tipo di chocobo. I chocobo vanno ovunque.”

“E tu che ne sai?”

“Da... da giovane lavoravo in campagna.” spiegò il capitano, quasi colto di sorpresa, e proseguì “i chocobo dal piumaggio blu sono persino capaci di nuotare, e quelli verdi si destreggiano in monti e foreste. Quelli bianchi sono pigri, mentre quelli neri vanno ovunque. Eccetera. Si dice anche che ogni dieci generazioni nasca un chocobo dorato, capace di volare. Non c'è posto inaccessibile con un buon chocobo.”

“Pensa te.” lo snobbò il biondino.

“Comunque con i soldi che abbiamo racimolato dalla resistenza non ci rifilano niente di eccezionale. Ma basterà un chocobo normale a traversare l'ovest. Una settimana e potremmo essere alla Valle dei Morti.”

A quel punto, il ragazzo rimase a bocca aperta: “UNA SETTIMANA? Un'altra! Io mi annoio!”

Balthier concluse dando voce al pensiero di tutti: “E chi se ne frega?”

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Da lontano, si sarebbero dette luci di una città, che slittavano lungo la linea del paesaggio desertico.

Ma entrambi i capitani sapevano bene cos'erano quei puntini di luce giallastra all'orizzonte. Quello era il lucore emesso nella notte dalle ali degli Yensa, fosforescenti. Gli Urutan sapevano bene quanto fossero visibili le loro cavalcature passato il tramonto, e se volevano attaccare non visti sceglievano di muoversi sotto la sabbia. Il fatto che quelle luci puntiformi seguissero la spedizione da molte notti dimostrava oltre ogni dubbio che volevano essere visti.

Ed entrambi sapevano anche il perchè. Gli Urutan usavano incombere con la loro presenza sulle loro prede, così da indurle a cambiare direzione, inoltrarsi nel deserto, perdersi laddove erano facili bersagli. Si diceva anche che considerassero sacrileghe le costruzioni rozarriane, e quindi entrambi sospettavano che il loro progetto fosse di forzarli in qualche modo a scendere dalla complessa rete di piattaforme che si estendeva per chilometri, costringendoli ad uno scontro.

Era probabile – in effetti gli Urutan consideravano sacrilego qualsiasi contatto con le altre razze, e spesso e volentieri chi si avvicinava ai nomadi hume veniva giustiziato.

“Gli Dei ci hanno creato dalla sabbia, e nella sabbia il nostro corpo nasce, e ad essa ritorna quando muore. Questa è la legge che gli Dei ci hanno imposto.” commentò Vossler e i suoi bisbigli si persero nel buio tra lui ed il compagno.

Basch prese parola dopo qualche secondo, sempre seguendo lo spostarsi delle luci.

“E' impressionante pensare che l' urutan che ha pronunciato queste parole sarà stato ucciso dalla sua gente per aver parlato ad uno hume.”

“Sono legati ad un fato prestabilito. Come tutti noi. Forse.”

“Quando si accorgeranno che non ci spaventano e non stiamo cambiando direzione” riflettè Basch “probabilmente manderanno a quel paese la legge divina e risaliranno le piattaforme per farci a pezzi.”

Stranamente, non ebbe alcuna considerazione o proposta a rispondergli.

“Vossler?” per un attimo, giunse a dubitare che nel buio intorno a lui il suo commilitone ci fosse ancora.

“Basch.”

C'era qualcosa di strano nella sua voce da un po' di giorni. Gli altri non potevano notarlo, ma lui sì. Si conoscevano da troppo tempo.

“C'è qualcosa che vuoi dirmi?”

“Tu... hai fede in Ashelia B'Nargin... la nostra Principessa?”

Fu di nuovo silenzio.

“La storia” esordì Basch rompendo il silenzio “È piena di uomini che sono stati grandi nel conquistare, ma pessimi a governare. Possiamo forse sperare che per sua maestà sia vero il contrario. Adesso è confusa, ed adirata, ma confido in lei.”

“Perchè?” insistette il compagno.

“Perchè... nient'altro avrebbe senso. Questo è il momento di unire il popolo dalmasco per quanto possibile, non di lacerarlo cospirando contro l'ultima sovrana della nostra gente.” la sua voce tradì una punta di fastidio, quasi fosse strano dover spiegare quei concetti.

Per qualche secondo furono distratti da movimenti insoliti degli Urutan-Yensa, ma poi i predoni ripresero la loro rotta abituale. Finchè continuavano ad avanzare sopra e non sotto la sabbia, volevano evidentemente solo indurli a cambiare rotta, non attaccarli direttamente.

“Sua maestà pensa solo alla vendetta, non è lucida al momento.” continuò il capitano con crescente trasporto “Non credere che non sappia questo... sono un soldato leale, ma tapparmi occhi e orecchie non fa parte della mia idea di lealtà. Ma lei è umana come lo siamo noi, e al momento è accecata dal dolore come lo è qualsiasi dalmasco tu possa trovare al bazar Misir una domenica d'estate.”

“Eppure dovrebbe essere diversa, migliore.”

“Lo sarà. Ci vorrà del tempo.”

“Forse la gabbia ti ha fatto dimenticare quanto tempo è effettivamente passato, Basch. Il popolo soffre questa nostra lotta, non è loro la scelta di opporsi alla storia e riscriverla, eppure proprio loro ne pagano le conseguenze.”

Vossler sentì qualcosa che non si aspettava di udire, nella notte che lo avvolgeva: una sommessa risata.

“Cos'è dunque che ti suscita tanta ilarità?” inquisì con tono perentorio, cercando di non svegliare gli altri alzando la voce.

“Sai,” rispose l'altro divertito “in qualche modo ti ho sempre invidiato, ma mi facevi anche paura. Eri una macchina da guerra perfetta, e sembrava che non t'importasse di niente, che potessi morire in qualsiasi momento.”

“So bene che è così che appaio – non dici nulla di nuovo.”

“Forse... eppure è incredibile che avere una persona da proteggere ti abbia cambiato così tanto, non credi?”

“Cambiato, dici?”

“Già. Adesso... ti importa di un sacco di cose.” concluse Basch ridacchiando “Adesso combatti per una ragione.”

“In un certo senso, dunque, non sono il Vossler con cui hai combattuto per anni.” tirò le somme l'altro “Chissà se si rivelerà un bene?”

Basch gli tirò un pugno amichevole sulla spalla: “Ma certo. Le persone cambiano, ma l'amicizia rimane.”

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Dopo dieci giorni di cammino lasciarono le piattaforme petrolifere e seguirono il bordo di un dislivello roccioso per un po'. Non si vedevano più i predoni all'orizzonte, né di notte né di giorno, e Basch, Fran e Vossler sembravano sempre più inquieti e si lamentavano periodicamente del passo troppo lento.

La situazione, comunque, poteva ancora peggiorare, come Vaan avrebbe ben presto scoperto a sue spese.

Dopo aver camminato tra rocce e cactus per un po' tornarono su un ultimo intreccio di passerelle ed estrattori rozarriani, ed erano ormai a mezza giornata di marcia da un punto di snodo per le carovane: lì avrebbero noleggiato un chocobo ed iniziato la parte “facile” del viaggio.

Fu alla seconda piattaforma che avvenne l'imboscata. Anche in seguito, ripensandoci, Vaan non avrebbe saputo dire con esattezza quando o dove fossero apparsi: pochi istanti ed erano circondati. La reazione più curiosa l'ebbe Balthier, che scoppiò in una fragorosa risata al sentire la voce roca del suo rivale.

“Quanto tempo Balthier! Mi sono tenuto compagnia con i cacciatori di taglie per così tanto tempo che... pensavo non saresti più venuto!”

“Chi è costui?” chiese disgustata la principessa mentre il gruppetto di Ba'Gamnan spuntava arrampicandosi sulla piattaforma.

“Nessuno di raccomandabile.” rispose Basch ponendosi davanti a lei e mettendo mano alla spada, subito imitato da Vossler.

Penelo si nascose tremando dietro le spalle di Vaan per qualche secondo, prima di rendersi conto che la sua magia, adesso, non era inibita. Subito dopo lo oltrepassò, con sguardo fermo.

“Se volevi compagnia, non erano le lucertole del deserto concubine soddisfacenti?” provocò il pirata, con un sorrisetto sfacciato.

Vaan rabbrividì - “lucertolone” era per un bangaa un insulto peggiore che “prosciuttone” per un seeq, e Balthier sembrava preferirlo a qualsiasi altro modo di rivolgersi a lui. Eppure nello scontro diretto, ricordava bene, se l'era data a gambe! Come poteva essere così spavaldo?

“La mia lama è esigente” spiegò Ba'Gamnan estraendo la sua arma caratteristica che iniziò immediatamente a roteare mandando scintille “Richiede di affilarsi su una preda d'onore!”

Entrambi i gruppi si preparavano a scontrarsi, e Balthier sembrava ancora inopportunamente rilassato. Vaan era piuttosto certo che ad eccezione di Vossler e Fran, tutti i loro avversari avessero molte più tacche di loro sulla cintura e che quindi, malgrado il vantaggio numerico, le avrebbero prese.

“Prima però” interruppe l'altro con tono cortese “vorresti usarmi la cortesia di vantarti su che sistema geniale hai usato per trovarmi?”

Il bangaa scoppiò in una fragorosa risata, e poi gli rispose: “Dovresti chiederlo al tuo giovane compagno di viaggio.”

Improvvisamente Vaan ebbe gli occhi di tutti addosso.

“Io?”

“Che hai combinato stavolta?” scattò subito Penelo.

“Niente! Sempre a prendertela con me tu!” sbottò lui di rimando.

“E faccio bene! Tu-”

Fran interruppe entrambi strappando un oggetto che penzolava dalla cintura di Vaan. Era un cilindro di pelle che, aperto, rivelò una pergamena.

“Immagino sia questo, no?” sorrise al suo compagno.

“Vediamolo!” rispose lui in tono brillante, ma tenne gli occhi fissi sul suo avversario.

Fran srotolò la pergamena, leggendola.

“E' una taglia del Clan Centurio.” spiegò lei con calma “Parla di un mostro che vive nel deserto ed assalta gli altri cacciatori del Clan.”

Ba'Gamnan intervenne con una seconda risata sguaiata, e poi si scatenò: “Esatto! Avevo sentito dire che il moccioso era un principiante cacciatore. Sapevo che con un annuncio del genere sarebbero venuti più e più cacciatori fin quando avrei beccato lui!”

“Bastava lasciare qualcuno a Bhujerba che controllasse chi raccoglieva le taglie” continuò il discorso Fran, come se lo scontro imminente non la riguardasse “Immagino che il piano fosse usarlo come ostaggio, non ti aspettavi che avrebbe portato direttamente a noi. Giusto? Comunque sia...”

Fran mostrò la pergamena a tutti, recava un disegno infantile fatto con un pennarello rosso ed uno verde, simile ad un rettile con molte teste grossolanamente ritratto.

“...comunque sia, potevi sforzarti un po' di più per il disegno. Solo un idiota penserebbe che è un mostro vero.” e Vaan arrossì, ma non ebbe il coraggio di fiatare.

“Non sono bravo nel disegno! Comunque è bastato.” ringhiò il cacciatore, evidentemente impaziente di cominciare.

“Devi essere nervoso.” intervenne nuovamente il pirata “Prima hai seguito il ragazzo e lo hai visto entrare da nientemeno che il Marchese di Bhujerba, poi hai dovuto rintracciare la rotta della Strahl -un lavoraccio, lo so- e poi ci hai seguito per chissà quanto lungo tutto il deserto.”

“Precisamente! Non ne posso più di aspettare! È inutile che cercate di guadagnare tempo con le chiacchere.”

“Ma io non sto-” tentò di aggiungere l'altro ma fu zittito.

“BASTA! INIZIAMO!” e Ba'Gamnan si precipitò verso Balthier senza aspettare altro.

Vaan vide accadere esattamente quello che si aspettava di vedere: Balthier mise mano al fucile nel fodero, ma non avrebbe fatto in tempo ad estrarre l'arma prima che l'altro lo tranciasse in due. Nessun' altro poteva essere veloce o vicino abbastanza da intervenire.

Ma Balthier non estrasse l'arma. Invece la tenne dov'era e fece partire uno sparo verso il terreno.

E fu una luce intensa, bianchissima, ed un rumore assordante.

E poi più niente, per pochi secondi.

Vaan seppe cosa significava non percepire più sé stessi, né il proprio corpo, essere solo parte di una vibrazione monocorde che faceva male alle orecchie, sospesi in un mondo bianco e cieco. Poi riacquistò consapevolezza di sé, e dal terreno dov'era steso potè osservare la realtà che si frammentava in tante immagini trasparenti, che ondeggiavano come tentassero invano di ricomporsi. Se Vaan fosse stato in guerra prima di allora, avrebbe saputo che era quello l'effetto di una bomba stordente.

Riuscì comunque a distinguere qualcosa. Balthier, a stento trattenendosi in equilibrio e visibilmente scosso dal botto, aveva gli occhi chiusi, mentre il suo assalitore si contorceva coprendosi la faccia e urlando, ma questo lo intuì soltanto più che sentirlo, perchè non gli era ancora tornato l'udito. Sopra la testa del pirata volava, come se danzasse, la sua compagna, anche lei con gli occhi serrati.

La gamba di Fran colpì con precisione assoluta il muso di Ba'Gamnan, la sua arma cadde a terra ancora scintillando e vibrando, mentre il suo proprietario volava in aria roteando su se stesso. Infine, atterrò ad un passo dal bordo della piattaforma, ma continuò a rotolare fino a finire giù.

Progressivamente, il ragazzo recuperò tutti e cinque i sensi. Ad eccezione di Fran e Balthier, nessuno si era preparato a quel colpo ed erano tutti storditi. I compagni di Ba'Gamnan, dopo essersi guardati intorno, trovarono il loro leader che si allontanava trascinato dal Mare di Sabbia.

“Non gli andate dietro?” intervenne Balthier dopo qualche secondo “Morirà se non lo riacchiappate.”

I bangaa sembrarono meditare il da farsi. Dopotutto c'era comunque una taglia a portata di mano.

“Begli amici siete.” insistè lui.

I bangaa si decisero e si buttarono giù, nuotando verso Ba'Gamnan.

Balthier si avvicinò a Vaan, ancora accasciato al suolo.

“So cosa stai per dire!” protestò il ragazzo.

“Sì” confermo il pirata tendendogli la mano e aiutandolo a rialzarsi “Grazie!”

“AH SI', BE' IO- come, grazie?”

Prima che lui potesse rispondergli, Ashe si mise tra loro due, con il piglio indignato che Vaan non le vedeva più addosso da giorni.

“Avevate pensato questa cosa da un po', vero? Quando avete notato che ci seguivano?”

“Prima di atterrare con la Strahl, dieci giorni fa.” ammise candidamente l'altro.

Ashe si trattenne a stento dall'esplodere.

“Voi non capite. Non possiamo permetterci il minimo errore, men che meno usare il poco tempo a disposizione per scopi prettamente personali. Il vostro conto in sospeso-”

“Il mio conto in sospeso è, per l'appunto, mio.” precisò lui con voce ferma “Quale che sia il significato che date a questa gita di gruppo, per me e Fran si tratta di un lavoro come un' altro. Ficcatevelo in testa... Maestà.”

Vossler marciò verso il pirata con fare tutt'altro che assicurante, ma fu Ashe stessa ad impedire che la situazione degenerasse, voltandosi e concludendo con un “Molto bene, allora.”

E si rimise a camminare verso gli ultimi estrattori che li separavano dallo snodo delle carovane, e dalla parte finale del viaggio.

“A... a nessuno importa il fatto che io sono stato usato?”

“Vaan, sta zitto almeno.” tagliò corto Penelo.

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L’ultima settimana fu molto diversa da come Vaan l’aveva immaginata. Fu tranquilla e lineare, ma non la si poteva definire noiosa.

Il punto d’incrocio delle rotte mercantili era convenientemente posizionato tra gli anfratti della catena rocciosa che tagliava in due il deserto.

Si fermavano lì anche dei mercanti hume con delle guardie mercenarie seeq, diretti ad est, e naturalmente il moguri che si occupava del noleggio dei chocobo, che doveva essere convinto che fossero un gruppo di archeologi o studiosi. Assicurò che i suoi chocobo conoscevano la rotta e sapevano anche riportarli indietro (o tornare indietro da soli).

Si comprarono del cibo, per lo più fichi. Fran accettò anche le cavallette caramellate, e quando Ashe gliele vide mangiare ebbe un mancamento. Vaan si incuriosì al punto che decise di mangiarle anche lui, commentando che erano “gustose, a modo loro”. Dopo questo, Ashe uscì dalla grotta e disse di aver bisogno di una boccata d’aria, e passeggiò in tondo sotto il Sole per dieci minuti.

Vaan e Balthier attaccarono bottone con i mercanti ed i seeq e Balthier li sfidò ad un gioco di carte che Vaan non aveva mai visto, chiamato “Triple Triad.” Dopo un po’ accettò di giocare anche lui ed ebbe la sgradevole sensazione che tutta la comitiva aspettasse solo questo per fregarlo; ognuno doveva giocare con le sue carte e quindi ne comprò una decina da Balthier, ma le perse tutte. Quando Balthier gli propose di barattarne venti con una delle sue tre spade a scelta si ritirò all’istante, e Fran giocò al suo posto.

Appena smise di giocare, Penelo gli rifilò una ramanzina che non finiva più.

Ashe e i suoi guardiani se ne stettero in un angolo tutto il tempo. Vaan ebbe la sensazione che aspettassero ad ogni secondo che Ashe dicesse qualcosa di importantissimo, ma lei si limitava a fissare il vuoto con sguardo torvo.

Ripartirono dopo un giorno di riposo. Il moguri fece un po’ di storie per rifilargli un chocobo rosso, notoriamente di indole capricciosa e aggressiva, ma alla fine si assicurarono quattro ottimi chocobo color girasole, capaci ciascuno di trasportarne due (salvo Ashe, che volle avere un chocobo solo per lei).

Il viaggio con i chocobo era tutta un’altra cosa. La forza di quelle bestie era impressionante, ciascuno caricava due di loro più armi e bagagli ma andavano così veloci che a stento si potevano tenere gli occhi aperti; sfruttavano sapientemente le correnti d’aria per correre sempre controvento, guadagnando velocità e sfuggendo all’olfatto dei predatori, e spesso prendevano svolte apparentemente senza senso, per rotte invisibili che solo loro conoscevano e comprendevano. Sembravano capire da soli se i passeggeri erano stanchi o affamati e decidevano le pause, apparentemente, di comune accordo tra loro.

Non si poteva avere caldo, data la velocità, e ovviamente non si riusciva a parlare.

Per sette giorni fu solo vento, sabbia e cielo.

Fino alla Valle dei Morti.

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Salve a tutti! Il capitolo di ottobre è saltato. Ma non abbiate timore, “Ariete” in compenso arriverà prima, e se la mia sorte sarà più benevola di quanto non sia stata in ottobre, arriverà entro questo stesso mese. Spero!

Vi lascio e vado subito alla revisione e trascrizione di “Ariete.”

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Capitolo 23
*** Ariete ***


La Valle dei Morti sembrava un enorme corridoio scavato nella roccia dalla mano di un gigantesco operaio, adornata da file parallele di colonne scolpite. In fondo si vedeva la sagoma di un edificio piramidale, ma Vaan non lo distingueva ancora bene.

Sopra, delle enormi entità alate, nere, descrivevano dei cerchi nel cielo.

“La situazione si complica.” Constatò Vossler, seccamente.

“Che cavolo sono quelli?” chiese Vaan, e come per rispondere uno degli oggetti volanti picchiò verso il centro del cono disegnato dalle loro traiettorie.

Un uccello gigantesco, dall’apertura alare sproporzionata, ed un lungo e morbido piumaggio nerissimo. Il lungo collo non terminava con becco o occhi, ma con innaturali fauci ricurve. Emise uno stridio acuto, poi tornò verso l’alto quando ebbe constatato che la disposizione del gruppetto in mezzo alle colonne rendeva complicato afferrarne uno.

“I cacciatori del deserto” rispose Fran “gli Zuu. Si diceva che nidificassero nel cuore del deserto… qui.”

Balthier si sedette placidamente all’ombra di una colonna, e dal suo fagotto estrasse una varietà di boccette e ampolle.

“Cosa combini?”

“Guarda e impara, bimbo.”

Se Vaan era troppo incuriosito per indispettirsi come al solito per i suoi modi, Vossler invece esordì con tono inquisitorio: “Alchimia. Curioso che siate dotto nell’arte di Arcadia.”

“In realtà” ribatté garbatamente Balthier ignorando completamente gli zuu sopra di loro e armeggiando pazientemente con i suoi strumenti “E’ storicamente falso che l’alchimia sia nata come scienza squisitamente arcadiana.”

Mentre parlava estrasse un grappolo di bacche color rosso-arancio essiccate, e le schiacciò in un minuscolo mortaio fino a farne una polvere. Nel frattempo continuava a discorrere rilassato, nello stupore di tutti gli ascoltatori eccetto Fran.

“E’ stata proprio una corrente filosofica pan-arcadica di inizio secolo a diffondere questa credenza, ma in realtà già dai primi secoli di era galteana si hanno cronache di insigni studiosi dalmaschi e nelle Marche che furono pionieri nell’alchimia.”

Prese una bottiglietta di vetro con un tappo di sughero e versò il contenuto, minuscole pietruzze nere che anche Vaan potè riconoscere come polvere da sparo, nello stesso mortaio. Fran si tolse dalle spalle il fagotto cilindrico e si dedicò a slegare le cinghie con delicatezza.

“Solo in seguito, con l’avvento del kiltianesimo, l’alchimia è stata svalutata e a volte tacciata come sacrilega, e Arcadia è stata relativamente all’avanguardia nel recuperarne le pratiche. Tuttavia c’è chi sostiene che anche nelle civiltà di rigido kiltianesimo ortodosso esistessero sette che studiassero l’alchimia di nascosto.”

Quindi prese una piccola anfora di ceramica coperta di polvere e ragnatele, e la aprì versando il contenuto nel mortaio, una polvere finissima e bianca che splendeva riflettendo la luce. Aggiunse una goccia d’acqua dalla sua borraccia e il miscuglio ribollì in una strana schiuma che in breve svaporò. Quel che rimase aveva un aspetto del tutto diverso, come piccole gemme arancio scuro, un ibrido tra la prima sostanza e la seconda.

“Insomma, si può dire che si tratta di una distinzione ideologica e non reale, come del resto la rivendicazione della meccanica robotica come scienza tipicamente rozarriana.”

Balthier versò il tutto in un grosso globo metallico aperto a metà, e lo richiuse. Sembrava una piccola palla di cannone forellata. Fran tolse il telo che avvolgeva il cilindro, rivelando una sorta di caricatura di fucile, con un calcio minuscolo e la canna intarsiata delle dimensioni di un piccolo cannone. Il suo socio le tirò il globo, che lei prese al volo, per poi farlo scivolare giù nella bocca dell’arma.

“Lei ha certamente un’istruzione eccelsa.” Osservò Vossler, con tono ancor più ostile.

“Mi arrangio.” Tagliò corto lui con disinteresse, volgendo lo sguardo al cielo mentre Fran prendeva la mira, e la incitò: “Datti una mossa socia, resta stabile per pochi minuti.”

“Dove ha studiato?” insistette il capitano sempre più sospettoso.

“Piccolo chimico. Fascicoli per corrispondenza.” Lo prese in giro il pirata.

“Smettetela.” S’intromise la principessa “Che cosa diavolo sta facendo?”

Ma l’ultima vocale fu coperta dal botto dello sparo, assordante. Ashe alzò lo sguardo e vide una nube rossastra diffondersi in cielo partendo come una colonna verso l’alto per poi allargarsi verso il basso, come un ombrello gassoso.

“Gli zuu odiano le bacche zertiniane – non si va mai in un deserto senza. Tuttavia c’erano poche bacche per un gruppo di sette persone, e avevo sentito che gli zuu nidificassero nella Valle dei Morti.”

Ashe osservò gli zuu cambiare rotta e allargarsi per tenersi il più distante possibile dalla massa rossastra, che si spandeva ad una lentezza sorprendente. Fran gettò a terra l’arma, la cui canna si era spaccata in più punti.

“Accidenti a Nono, non gli riesce di farne uno che stia tutto d’un pezzo.” Commentò Balthier seccato, calciando via l’oggetto ormai inservibile “Tempi duri per gli alchimisti della Strahl, cioè per me.”

“Perché non mi avevate detto niente a riguardo?” chiese quindi la principessa.

“S’intende di alchimia?”

“No, ma-“

“Conosce bene gli zuu?”

“No, però-“

“Allora non sarebbe servita a niente, no?”

La principessa ebbe un sussulto, come l’avessero colpita, e anche Basch e Vossler reagirono con visibile disagio. Persino Vaan percepì quanto era pesante quella risposta.

“In questo caso, la ringrazio per averci pensato lei.” Sibilò freddamente, e si diresse verso l’edificio.

Vaan rimase indietro, il naso all’insù ad osservare la nube, densa, allargare sempre di più la sua influenza protettiva. Penelo si voltò verso di lui e tornò indietro.

“Che c’è?”

“Ha sempre una soluzione in tasca, lui.”

“E’ in gamba, sì.” Confermò lei, sorridendo, ma il sorriso le morì immediatamente appena colse il tono del discorso.

“Dev’essere fico essere uno… così.”

Penelo prese la mano di Vaan e avvicinò le sue labbra all’orecchio di lui, sussurrando.

“A me invece non dispiace come sei tu.”

“Pen, io-“

“Lo so. Lo so che questo non ti basta. Ma volevo che lo sapessi.” Strinse la sua mano più forte.

“Io forse… non ti merito.”

Per tutta risposta, lei lo baciò sulla guancia, e poi aggiunse scherzosa: “Su questo non aver dubbi.”

E per pochi secondi rimasero lì, da soli, per poi raggiungere gli altri.





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L’edificio aveva la forma di una pagoda ma al contempo di una statua scolpita, che imitava ed esagerava le fattezze di un mostruoso sovrano incoronato, intento a fissare la valle con occhio severo. Ashe lo osservava con tanta intensità che sembrava volerlo abbracciare.

“Secoli fa, gli Dei concessero i loro favori a Raithwall, che avrebbe soggiogato tutte le terre da Ordalia a Valendia. E fu così che egli forgiò l’Alleanza di Galtea.”

Mentre parlava sembrava che lo avesse davanti, il Re com’era raffigurato negli affreschi che ricordavano la leggenda: barba e capelli lunghi, fluenti e volatili, come un’aura solare che circondasse il capo; imponenti vesti di oro zecchino ricamato in mille intrecci, che lo facevano apparire come qualcosa di non umano, di ultraterreno. Eppure i suoi occhi venivano sempre raffigurati come gentili, quasi sensibili, e sempre rivolti ad un punto lontano – al futuro.

“Sebbene chiamato Re Dinasta, mostrò compassione per il suo popolo e sdegnò la guerra. Una filosofia che tramandò ai successori, portando pace e prosperità per secoli. In questo periodo di pace le città stato di Archades e Roth-Sa, membri dell’alleanza, misero radici e fiorirono.” Parlava come in estasi, risalendo le scale della pagoda, e nessuno la interruppe.

“Re Raithwall lasciò tre reliquie che significassero discendenza dal Re Dinasta – il Frammento Lunare, che andò al casato di Nabradia, il Frammento del Crepuscolo che andò ai miei antenati, ed il Frammento d’Aurora, ultimo delle reliquie… che rimase qui, conosciuto solo dai discendenti di sangue reale.”

“Quasi che egli avesse previsto proprio le nostre necessità.” Prese parola Vossler.

“Tuttavia… solo ai suoi discendenti è permesso l’ingresso. Chi entra senza prova di questa discendenza-“

“Non ne esce vivo con facilità.” Concluse Balthier “tra bestie, trappole e cose simili, giusto?”

Vaan si emozionò al sol pensiero.

“Ma considera la ricompensa.” Sottolineò la principessa “Il Frammento riposa accanto al tesoro reale.”

“Ed io che la facevo dura.”

Erano arrivati, e Vaan fu parecchio deluso. La pagoda terminava con una piccola stanza al centro della quale stava una specie di bottiglia capovolta, costruita con pietra intarsiata e un cristallo giallo vagamente fluorescente.

“Bè? E’ questo il frammento?” non si aspettava risposta positiva, ricordava nettamente che il frammento precedente gli aveva dato una sensazione del tutto diversa, fissandolo nella sua luce; lo colpì irrispettosamente con la mano, e d’un tratto tutto fu come quella luce giallastra.

“Ma che?”

Si trovava in un ambiente del tutto diverso, una sala enorme che aveva la stessa forma a pagoda, ma capovolta verso il basso.

“Un marchingegno che si trova in molte rovine. Lo tocchi e ti risucchia chissà dove” disse Balthier, e lì si accorse di avere gli altri dietro di sé “Come funziona non lo so, ma è utile, quindi che altro deve sapere un onesto pirata?”

“……onesto …pirata.” borbottò Ashe.

La costruzione stupì Vaan per il suo gusto così familiare. Gli archi a cipolla e i complessi intrecci di arabeschi erano una quintessenza di architettura dalmasca, come lo erano i tocchi di stravaganza, quali statue mostruose incredibilmente realistiche che si fondevano mirabilmente all’architettura e sembravano seguirli con lo sguardo. Delle torce disposte con regolarità bruciavano incessantemente, certamente alimentati con qualche magia, e i bagliori del fuoco contribuivano ad adornare l’architettura.

Fran e Balthier iniziarono a scendere la spirale di scale verso il fondo della piramide, seguiti da Vaan e Penelo.

“Che luogo incredibile. Ferisce il mio cuore la profanazione di un luogo sacro quale è questo.”

Per quanto disinteressato a praticamente tutto fosse stato Vossler nella sua vita, il rispetto dei miti sulle origini di Dalmasca e sugli antenati del Casato B’Nargin erano qualcosa che qualsiasi nobile come lui riconosceva e rispettava. Ma più probabilmente, semplicemente Balthier e Fran non gli erano mai piaciuti.

“Eppure, senza aiuto” ribattè Ashe con amarezza “noi soli non possiamo nulla. Non è forse così?”

Se Vossler rivolse alla principessa uno sguardo rassegnato Basch, silenzioso, stirò un sorriso di apprezzamento, constatando che la principessa stava diventando più pragmatica e meno rigida.

“Pensano al loro profitto e a null’altro. Se glielo garantiamo resteranno fedeli alla nostra causa.”

“Non posso condividere la vostra fiducia, maestà.”

“Avremo tempo per riparlarne.” Basch sorrise ancora di più, e Vossler si trattene dal rimanere a bocca aperta: solo poco tempo prima l’avrebbe zittito, minacciando una punizione corporale, e avrebbe chiuso il discorso.

“Ma adesso la priorità è trovare il frammento” si rivolse al fondo della struttura, mormorando “Dorme nelle profondità, e attende.”

“Come potete esserne certa?”

Ashe iniziò la discesa.

“Lo sento. Mi chiama.”



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Il coltello d’argento andò a tagliare la carne spessa del filetto, che trasudò I suoi succhi rossi nell’aceto balsamico. Il dottor Cid intinse il pezzo nell’aceto, poi purea di patate e la mandò giù, continuando a parlare a bocca piena.

“Infatti l’idea che la scienza dovesse elaborare teorie vere, e non semplicemente convincenti, durò fino agli anni settanta, in cui si constatò che lo stesso fenomeno poteva essere descritto efficacemente mediante diverse teorie tra loro incompatibili.”

Si fermò per ingoiare con l’aiuto del vino rosso e ricominciò dopo aver posato energicamente il calice sul tavolo.

“Oggi sappiamo che il fatto che il Sole sorga ogni giorno non obbliga, per così dire, il Sole a sorgere il giorno dopo. Che il Sole continui a sorgere è scientificamente probabile, ma non scientificamente certo.”

Tagliò un altro pezzo, ma era troppo preso dal discorso per interrompersi.

“Per superare i limiti una siffatta conoscenza empiricamente forte, ma meramente statistica, la scienza è andata a ripescare la filosofia settecentesca di Imanuelis, che sosteneva che tra la verità-oggetto e la mente-soggetto esiste uno scarto gnoseologico che la mente colma solo creando dei modelli che servano a interfacciarla con il fenomeno.”

Gesticolando con la mano per illustrare le sue parole si dimenticò di avere la forchetta in mano, e scagliò il pezzo di filetto che andò a spiaccicarsi sul marmo rosso. Non se ne curò.

“Alla verità essenziale, per così dire noumenica, ci è proibito l’accesso e quanto ci resta è solo un modello reinterpretativo per quelle che sono, forse, null’altro che contingenze giustapposte, in un modo per noi ordinato, comprensibile e, quindi, tollerabile. Possono gli Dei vedere il vero, o anche loro possono solo interpretarlo? La nostra indagine-”

Era intento a rispondersi ed a tagliare un altro pezzo di carne, quando sentì una voce dietro di lui.

“Ehm… professore?”

Cid piegò il corpo intorno alla sedia, rimanendo a faccia in giù per vedere chi lo chiamava.

“Larsa Ferrinas Solidor! Vieni, ragazzo, siedi pure.” Invitò, senza muoversi da quella posizione innaturale.

“Cosa… stava facendo?”

“Pranzavo.”

“Si direbbe che stesse… uhm… parlando da solo.”

“Mi preparo un intervento per un convegno sulla scienza postmoderna.”

“Oh!” Larsa provò un certo imbarazzo “Capisco. Quando si terrà?”

“Ieri.”

“….ieri.”

“Sì, ma il mio intervento non mi è piaciuto molto, quindi facevo le prove per vedere se potevo fare un intervento migliore.”

“Naturalmente...” Rispose Larsa sedendosi, e cercando di nascondere la condiscendenza “Mi… mi sembrava un intervento molto chiaro.”

“Nient’affatto!” ribattè Cid con un pugno sul tavolo che segnò la dipartita del bicchiere di cristallo; ma sembrò non sentire nemmeno il rumore del cristallo che si frantumava.

“Dici così perché sei istruito. Un operaio seeq non avrebbe capito una parola. La scienza non può parlare solo a se stessa. La conoscenza è un bene inclusivo, aumenta di valore se la condividi.”

E si infilò in bocca un altro pezzo, senza accorgersi che era decisamente troppo grande.

“E c’erano… operai seeq …al convegno?”

“No, ma se ci fossero stati non avrebbero imparato nulla!” sbottò ancora più irritato sputacchiando pezzetti di carne su tutta la tavola; si diede un paio di pugni sul petto per non soffocarsi.

“Insomma giovane Solidor… cosa posso fare per te?”

“Vorrei sapere cosa ci tenete nascosti sulla negalite.” Nonostante l’enormità della richiesta, non perse un minimo della sua cordialità nel dirlo, come se avesse solo preso un altro argomento a caso.

Anche Cid non si scompose: “Tuo padre aveva una spia a Draklor di cui si è recentemente sbarazzato. Se chiedi a lui-“

“Mio padre ne sa quanto me. Io voglio sapere di più.”

“Ma non c’è altro. Abbiamo fabbricato copie di un tipo di magilite molto antica per applicazioni militari. Fine.” Cercò il bicchiere con una mano per versarsi il vino, poi lo trovò a terra in pezzi e fece cenno al maggiordomo di portarne un altro, subito obbedito.

“Ho fatto un accordo con un certo membro della resistenza dalmasca.” Disse Larsa con tono casuale.

“Ho saputo.”

“Mio fratello è entusiasta.”

“Meglio così.”

“Troppo entusiasta.”

“Ama la pace.”

“La ama davvero, a modo suo. Avrà avuto ottimi motivi per andare in guerra.”

“Del tipo?”

“Sto accarezzando l’idea che i frammenti lasciati dal Re Dinasta siano in realtà negalite naturale.”

“Brillante.”

“Così avreste invaso due regni giusto per avere questa conoscenza?”

“Per così dire.”

“E per puro sbaglio Nabudis è stata spazzata via.”

“Triste a dirsi.”

“E questo è quanto.”

“Pare proprio.”

“La smetta.”

“Di mangiare?”

“Ricordi che sono un Solidor anche io.”

“Ecco finalmente un argomento interessante. Mi stai minacciando, giovane Solidor?”

“Decida lei se lo sto facendo, ma dopo mi dia una risposta seria.”

Rimasero in silenzio. Cid non parlò più finchè non ebbe finito di mangiare con tutta la calma del mondo. Poi lo fissò intensamente.

“Ti dirò un luogo dove andare. E bada, non ti dirò nient’altro. Quando sarai lì, potrai fare ad altri le domande che vuoi fare a me. E poi toccherà a te, decidere chi è veramente tuo fratello.”



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Vaan non ebbe bisogno che Fran gli annunciasse la presenza del terzo esper che vide nella sua vita. Era ormai abituato alla sensazione, come se il muro della realtà si incrinasse, tendendo verso un baricentro di energia soprannaturale.

Il suo corpo plumbeo aveva piedi zoccoluti e quattro braccia; le spalle coperte per metà da una pelliccia arancio sgargiante, come incandescente, sormontate da due pesanti elmi metallici intarsiati, con enormi corni a spirale. Era maestoso, molto più nobile nell’aspetto di Chuchulainn di Scorpio e Zalera di Gemini. A differenza di questi, che trasmettevano la loro natura caotica, questo stava immobile in attesa, nel cuore della tomba, e incuteva rispetto.

Il guardiano del tesoro di Raithwall.

Tutto il gruppo si fermò svariati scalini prima dello spiazzo dove l’esper attendeva.

“Belias di Aries” presentò Fran “Il Gigante-Stregone. L’essere dalla doppia natura che gli Dei posero a guardia della loro città ed in seguito rigettarono.”

“Dobbiamo passare attraverso quello?” chiese Vaan, scettico, ma anche impaziente: sarebbe, forse, stato il primo scontro all’ultimo sangue con un esper.

“Dobbiamo farlo e lo faremo.” Confermò Ashe, perentoriamente, mentre scendeva giù.

“Maestà!” Vossler scese di corsa e le pose una mano sulla spalla; i suoi passi pesanti rimbombarono per la sala, e l’esper ebbe come un sussulto.

“Maestà, non sia avventata-“

Vossler non fece in tempo a finire la frase; Belias fece un gesto e un’onda d’urto investì il gruppo. Vaan ebbe appena il tempo di sentire la massa di aria rovente schiantarsi su di lui, e Penelo che chiamava un certo “shellaga” a voce alta.



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La sua armatura argentea, poggiata su morbide vesti di seta nerissima, imitava le forme di boccioli floreali ancora schiusi. Aveva la funzione di ispirare grazia e fascino, non terrore. Quando entrò nella stanza e si inginocchiò, lo sguardo del giovane Solidor si illuminò come sempre.

“Buonasera, Iudex Magister Drace.”

“Buonasera, signorino Larsa.”

Si portò le mani all’elmo e lo tolse. I suoi capelli corti, color del ferro, caddero scompostamente ai lati del suo viso pallido di ragazza. La sua espressione durissima, implacabile, si sciolse immediatamente in un sorriso.

“Si è trovato bene nelle Marche di Bhujerba?”

“Assolutamente. Sono incantevoli, specie in questo periodo dell’anno.”

“Me ne rallegro. Ha trovato quel che cercava?”

“Ancora nulla che confermi la pessima opinione che avete di mio fratello.” Sorrise come per sfidarla, ma Drace mostrò visibile imbarazzo.

“Signorino, io non ho mai-“

“Suvvia, Drace. Non sono più un bambino a cui basta tacere il tuo pensiero per tenerlo nascosto. I tuoi silenzi parlano per te.”

Drace non rispose, e guardò di lato, amareggiata. Non volle confermare né smentire le parole del giovane.

“Proprio come adesso.” Larsa si alzò in piedi e andò verso di lei, e si chinò per trovare il suo sguardo.

“Siete… così certa del vostro giudizio.” Constatò rassegnato.

“Signorino, io… ero presente quando è successa… quella cosa. Ho visto un Vayne Carudas Solidor morire ed un altro rinascere. Sì, non posso mentirvi, sono certa che l’anima di vostro fratello sia oltre ogni recupero e che sia un pericolo per la libertà dell’Impero.” Confessò misuratamente, come se ogni parola gli costasse un prezzo altissimo.

Larsa tacque per qualche secondo, poi ricordò: “Ho molto ammirato la vostra posizione nell’ultima vostra sentenza nella iudiciaria dell’estremo nord.”

Quando era d’istanza nell’estremo nord, capitava spesso che dei lavoratori seeq morissero travolti dalla neve o per il freddo viste le condizioni pessime degli stabilimenti. Un giorno uno dei capocantiere fu trovato fatto a pezzi, i suoi resti sparsi nella neve. Era stato senza dubbio uno o più seeq, era il loro modo brutale di intendere la giustizia, compensare in un modo o nell’altro il sangue con il sangue.

Non si riusciva a capire chi fosse stato, quindi il gestore del cantiere aveva richiesto una pena esagerata per un intero reparto di lavoratori. La storia era arrivata ad Archades, nel cuore dell’Impero, dove l’aristocrazia aveva chiesto a gran voce una punizione esemplare.

Drace aveva scagionato i seeq del reparto. Se non si riusciva a trovare un colpevole, allora la giustizia aveva fallito, aveva dichiarato nella sentenza; ma se si fosse usata una sentenza per fare una rappresaglia a casaccio, solo per appagare la frustrazione dell’opinione pubblica, avrebbe rappresentato un’ingiustizia ancora peggiore. D’altro canto, dispose un presidio militare nei cantieri per impedire altri omicidi e proseguire le indagini.

L’Imperatore Gramis la fece sparire in una iudiciaria ancora più remota, ma elogiò il suo operato in privato. Faceva sempre così, si teneva buoni i giudici più retti e ragionevoli quanto quelli più sanguinari e inflessibili, e li mostrava o nascondeva al pubblico a seconda delle esigenze. Erano le marionette che mandava in scena con i tempi richiesti dalla platea.

Ma certo: Larsa Ferrinas Solidor era abituato ad usare gli argomenti contro gli autori degli stessi.

“Signorino-“

“Se la giustizia non è guidata dalla ragione e dalla rettitudine, allora per quanto efficace e spedita, essa non ha alcuna funzione apprezzabile.” Larsa citò le parole con cui lei stessa aveva motivato la sentenza.

“Signorino Larsa…” Drace non sapeva bene da dove cominciare.

Era certa che la “correttezza” di Larsa fosse sprecata con suo fratello. Bisognava agire il prima possibile, non dargli il tempo di reagire, estromettere Vayne Solidor da ogni forma di potere politico il prima possibile, se necessario ucciderlo. Ma d’altro canto non riusciva a incitare esplicitamente Larsa contro il fratello che amava, non riusciva a spezzare il suo ottimismo e la sua fiducia nel prossimo. In verità, se questo fosse successo, forse Larsa sarebbe diventato, in fondo, non troppo diverso da Vayne.

“Mio fratello non la pensa così.” Proseguì il ragazzo “Lui non perde tempo a convincere il prossimo, lo schiaccia per attuare la giustizia in cui crede. Ma io voglio essere diverso. Io voglio vederci chiaro prima di decidere le mie mosse. Voglio tentare qualsiasi cosa prima di ricorrere alla forza.”

Prese un gran respiro.

“Mia cara Drace, voi credete nella giustizia di mio fratello… o nella mia?”

La ragazza alzò lo sguardo di scatto: “E’ davanti a voi che sono in ginocchio.”

“Bene allora!” commentò sorridente “Vorrei che mi accompagnaste in un certo viaggio.”

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“Mi piacerebbe capire perché svengo sempre di recente.” Si lamentò Vaan rialzandosi.

Solo allora si rese conto di dove si trovava. Ai piedi di Penelo, che teneva le braccia spalancate. Entrambi stavano dentro una sfera multicolore che ricordava una bolla di sapone, una membrana sottile di luce che sfumava da verdi speranza a intensi magenta.

“Non sono stata veloce abbastanza per proteggere tutti… mi spiace.” spiegò lei, concentrata e tremante per un visibile sforzo.

Guardò indietro. Fran, Balthier ed Ashe erano stati sbalzati su per le scale e scaraventati sul muro, ed erano ancora incoscienti, stesi per le scale. Lui e Penelo erano più in basso, nello spiazzo dove si trovava Belias, e al di fuori del terreno compreso nella barriera creata dalla ragazza, il pavimento era incandescente, sfrigolava come una padella calda.

Vossler e Basch dovevano essersi ripresi prima degli altri. Scambiavano velocissimi colpi di spada con l’esper, che aveva preso chissà dove una lancia bronzea che ricalcava la forma delle sue corna. Anche in due contro uno, erano visibilmente in svantaggio e faticavano enormemente per non essere maciullati dall’avversario in un sol colpo. Il duello era serratissimo, e le armi cozzavano diverse volte in una manciata di secondi, scintillando.

La parte più massiccia di Belias combatteva con maestria e ferocia, ma la parte più piccola sembrava concentrata su altro, usando le braccia per intonare una specie di preghiera rivolta verso il soffitto.

Vaan guardò in alto per capire cosa stesse facendo. Attraverso la membrana variopinta della barriera vide un gigantesco globo di fiamme che scendeva lentamente per tutto l’enorme spazio della tomba. Ci avrebbe messo un po’ ma, appena disceso, li avrebbe carbonizzati tutti.

Estrasse una delle tre spade. I geroglifici disegnati a spirale brillavano di una luce intensissima, in tutti i colori dell’arcobaleno. Il moguri che noleggiava chocobo era un antiquario…

“Vaan, a cosa pensi?”

…si era fatto spiegare l’origine e il potere di ciascuna di quelle armi antiche. Avrebbe voluto usarle in un momento cruciale per stupire Balthier con qualche improvvisazione spettacolare…

“ Vaan, rispondimi!”

…ma lui era svenuto, e anche Ashe… non aveva più la voglia di toccarla o baciarla che aveva avuto quando si erano conosciuti -per i primi tre minuti- ma voleva tanto farle vedere che valeva quanto e più di lei…

“Non è il momento di imbambolarsi!”

…che sfiga fottuta…

“VAAN!”

“Senti, Pen.” Sollevò la daga verso di lei “Questa è una Trucidiavolo, pensata per uccidere creature magiche. Farà malissimo a quel bestione.”

“OH! Grande! Lanciala a Basch.”

“Non intendo farlo.”

Le reazioni di Basch e Vossler si facevano più lente. Belias stava passando in vantaggio, e il globo di fiamme era ormai a quasi dieci metri da loro.

“E allora cosa- oh, no. No no no no no no.”

“Pen, voglio che lo distrai. Che gli fai davvero tanto male.”

“Tu non esci da questa barriera.”

“Io lo faccio comunque. Decidi tu se vuoi aiutarmi.” Non aggiunse altro, e uscì dalla membrana luminescente con la Trucidiavolo in pugno.

Penelo ripassò mentalmente i suoi studi sull’elementalistica: “Il fuoco consuma l’aria che… rode la terra che assorbe… l’acqua… che spegne il fuoco.” E iniziò ad agitare le mani.

“ID”

Vaan non si scagliò sull’esper in linea retta, ma si arrampicò in pochi secondi su una colonna e cominciò a muoversi saltando da una colonna ad un cornicione come una creatura arboricola.

“RO”

Delle correnti luminose circondarono Belias, formando una struttura simile ad un mappamondo. Basch e Vossler saltarono all’indietro per restare fuori da quell’immagine tridimensionale. Belias si guardò intorno disorientato per un attimo.

“RA!”

Dal fondo del campo di forza esplose un geyser d’acqua che si aprì intorno all’esper come un fiore e poi si richiuse con violenza, formando una compatta massa d’acqua. Vaan si tuffò al suo interno, e in quel secondo Belias urlò. La stanza si riempì di vapore bollente, e la cosa stupì Penelo: l’acqua creata con la magia non veniva vaporizzata dal fuoco, di solito. Forse l’esper Belias apparteneva ad un livello superiore della magia.

Nel vapore distinse Vaan, Vossler e Basch, e poi l’esper che si agitava in preda al dolore. Aveva la Trucidiavolo conficcata nella fronte di uno dei due elmi, e i geroglifici luminosi su di essa si erano fatti come liquidi, scorrevano dentro la testa dell’esper come per iniettargli un veleno che lo stava straziando. Ma ancora vibrava colpi, anche se ormai cechi, costringendo i tre ad arretrare. Prima o poi, però, li avrebbe centrati e spezzati in due.

Penelo non dovette pensare per molto al da farsi: fu interrotta quando Belias fu investito da una cascata di proiettili e frecce, ininterrotta fin quando Balthier e Fran, ancora poco lucidi ma con una mira già ottima, non ebbero finito il materiale da sparargli.

Ora l’esper barcollava come un animale ferito ed ubriaco di qualche droga. Ma non era ancora finita: era vivo, e pericoloso. Il globo di fiamme scendeva inesorabile, ormai a pochi metri da loro. La temperatura si faceva insostenibile.

D’un tratto, qualcuno urlò il nome dell’esper: Ashe.

“Belias di Aries!” scendendo le scale, Ashe sembrò a Vaan in preda alla stessa estasi che aveva nel raccontare le gesta di Raithwall, come se fosse la protagonista predestinata di un racconto glorioso e terribile.

“Belias, il Gigante-Stregone!” lo chiamò ancora lei, e sorprendentemente l’esper si voltò come per ascoltarla.

“Guarda chi hai davanti” disse alzando una mano, con il palmo aperto, come per calmarlo “La discendente di Raithwall, Re-Dinasta. Inginocchiati a colei cui devi obbedienza! I miei servi ti hanno sconfitto.”

“EHI, i tuoi cos-“ ma Basch zittì il biondino con un gesto.

Belias obbedì, e si gettò sulle ginocchia. Il suo corpo divenne una corrente luminosa che si solidificò in un enorme cristallo, dai colori caldi. Al suo interno si stendeva un disegno tribale, intricato e complesso, che ricordava le forme di Belias stesso.

“Wow, fico però.” Riconobbe Vaan.





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Contenti, un capitolo natalizio! Auguri miei cari lettori, auguri Hagaren!

Sarò al lavoro sul prossimo capitolo a breve, spero proprio prima della fine delle vacanze.

Per chi si chiedesse il perché di alcune incongruenze:

1) Dal momento che la spiegazione di Ashe parlava di città-stato, ho preferito supporre che parlasse di Archades e di Roth-Sa (di mia invenzione) piuttosto che di Arcadia e Rozarria (che sono le parole che usa nel testo originale).

2) “Imanuelis” è, ovviamente, un omaggio a Immanuel Kant. Molto di quel che scrivo è influenzato da quel che faccio mentre curo un capitolo, per esempio la personalità di Bergan ebbe molto a che vedere con LA Confindential nella prima stesura (e non credo cambierà).

3) Belias ha due titoli (Gigante-Stregone) e non uno perché ne aveva due diversi a seconda della traduzione –Gigas in inglese e Stregone in italiano- ho preferito usarli entrambi come citazione della sua natura ibrida.

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Capitolo 24
*** Tradimenti ***


Penelo camminava in tondo attorno a ciò che era stato Belias. Aveva letto di queste formazioni di magilite, ma in vita sua non ne aveva mai vista una. Ne era affascinata.

“Nella vanagloria si sollevarono, urlando parole di sfida agli dei. Ma prevalere non poterono. E fu loro destino di attraversare il myst fino alla fine dei tempi.”

“Esper?” chiese Vaan quando la viera ebbe finito di parlare, gli occhi fissi sul cristallo fluorescente.

“E’ una leggenda dei Nu Mou.” Confermò Fran.

“Complimenti, vostra maestà” si congratulò Balthier un po’ scettico “ma esattamente… cosa è successo?”

“Nella mia famiglia si raccontava… del Re Dinasta e di un esper. Raithwall incontrò in gioventù un essere metà gigante e metà stregone e lo sconfisse. Gli Dei lo notarono e gli concessero i loro favori. E pertanto l’esper fu legato al sovrano a Thralldom.” Ashe disse tutto ciò di nuovo in estasi, come quando aveva ricordato Raithwall fuori dalla tomba.

“Bè, in questo caso” s’intromise Vaan “Non avresti dovuto batterlo tu, sola soletta, per ereditare il legame?”

Ashe recitò di nuovo, citando qualche poema che Vaan non conosceva: “E le gambe di Raithwall erano i braccianti, e le sue forti braccia erano i soldati, e i ministri la sua mente, e le spie i suoi occhi… ecco, un monarca non è un’entità distinta dalle persone che lo servono.” concluse.

“E’ un modo pomposo per dire che senza di noi non ce la facevi.” insistette il biondino.

Visibilmente contrariata, Ashe avrebbe certo risposto se Balthier non li avesse interrotti: “Fatemi capire” disse “l’esper è rimasto qui, per tutto quel tempo, a sorvegliare il tesoro?”

“Non proprio” rispose lei “E’ l’esper stesso a costituire il tesoro.”

Le facce di Vaan e Balthier crollarono, sbalordite: “Quello è il tuo tesoro?” fece quest’ultimo.

“In questo esper che ora controlliamo” indicò Ashe, spazientita, avvicinandosi al cristallo che Penelo squadrava con interesse “C’è un potere il cui valore non possiamo nemmeno possiamo misurare.”

“Dite, eh? Bè sarò vecchio stile, ma avrei preferito un tesoro il cui valore si potesse proprio misurare.” Si stizzì il pirata, sfregando le dita con il segno convenzionale del denaro.

“Allora rifiuteresti questo immenso potere che sono disposta a cederti in pagamento?”

Fran le rispose freddamente: “Non c’è nessun immenso potere. La forza di un esper viene limitata se è limitato colui a cui si lega, e Balthier è un mago mediocre.”

“Non si adatta ad una bella ragazza fare commenti del genere sul protagonista della storia… ma farò finta di non aver sentito in nome della nostra amicizia.” Scherzò il suo compagno.

“Quanto a me” continuò lei, sorridendo ma facendo finta di non sentirlo a sua volta “Non lo voglio. Gli esper appaiono solo come segni del destino e per me sono iellati, come la vostra pietra.”

Ashe rimase in silenzio qualche secondo, visibilmente offesa. Vossler e Basch si guardarono negli occhi, attendendo che la loro principessa dicesse qualcosa.

“In questo caso, come erede di Raithwall, legherò a me Belias di Aries. E’ pur tuttavia giusto che siate ricompensati come ho promesso, non crediate che lo abbia dimenticato. Mi impegno con voi a trovare una soluzione al più presto.”

“Chissà che anche nel vostro impegno non ci sia un valore che non possiamo nemmeno misurare? Può diventare una nostra tradizione, principessa.” Provocò Balthier e lei strinse i denti, ma non rispose.

Si fissarono, poi il pirata strinse le spalle e sospirò rassegnato: “Va bene, ho capito, siamo d’accordo.”

Ashe toccò il cristallo con tutto il palmo. Sotto lo sguardo rapito di Penelo, si dissolse in una corrente di una strana nebbia luminosa e rimase solo il disegno, che poi si sciolse anch’esso, come andando a ridisegnarsi su Ashe. Si diramò sul suo braccio come un tatuaggio e poi brillò per qualche istante, e sparì.

Poi, senza parlare, entrò nella camera del sepolcro. Basch e Vossler la seguirono quasi subito.

Penelo guardava ancora il punto dove era stato Belias. Raccolse la Trucidiavolo con cui Vaan l’aveva colpito, e la lanciò al ragazzo dalla parte del manico. Lui la afferrò, la legò alla cintola, e guardò Balthier con aria di sfida.

“Bè?”

“Avevo ragione, queste spade sono antiche e sono magiche. E l’ho scoperto da solo, senza il tuo aiuto. Allora?”

Per tutta risposta, Balthier mimò realisticamente uno sbadiglio, fece per stiracchiarsi, e si avviò al sepolcro anche lui, senza rispondere. Vaan iniziò a tormentarlo con ingiurie a cui nessuno badò troppo.

Con lo sguardo, Penelo ripercorreva le tracce di nebbia fosforescente rimaste nell’aria.

“Nebbia sottoterra…?” mormorò cercando di ricordarsi qualcosa.

“Non nebbia, myst.” Precisò Fran.

Rimase di stucco. Il myst, lo sapeva bene, era la corrente di energia invisibile che secondo alcune teorie permetteva l’uso stesso della magia. In effetti, secondo una più antica filosofia, l’intera realtà era fatta semplicemente da correnti di myst, e il mondo materiale era solo la sua conseguenza “palpabile”. Ma ovviamente non aveva mai pensato di poter vedere il myst con i suoi occhi, proprio come la forza di gravità o gli atomi, e molti altri concetti che si accettano come veri, non pensava certo di toccarli con mano.

“Si può vedere il myst con i propri occhi?”

“Quando è denso abbastanza, si può. Il soprannaturale scorre potente, in questo posto.”

“Quindi vuol dire… che è pericoloso?” rifletté Penelo, ricollegando la visibilità del myst alla presenza fisica di un esper.

“In un certo senso, ma le correnti di myst permettono anche un uso superiore della magia.”

“Lo terrò a mente” guardò Vaan andare dietro Balthier, gesticolando “di sicuro non puoi contare su Vaan per stare attenti a queste cose…” e, finito di dirlo, restò a giocherellare per un po’ con il dito in una nuvoletta di myst, che seguiva la sua traccia formando strani intrecci e mutando colore incessantemente.

In realtà non lo trovava inquietante. Niente che poteva essere collegato alla magia la inquietava, per quanto pericoloso o strano potesse sembrare, perché la magia era il suo campo di gioco, il suo spazio naturale. Anzi la faceva sentire indipendente, forte, cresciuta. Qualcuno con una sua arte, una sua storia, un suo credo, una sua ragione di esistere.

E d’un tratto, quando la nuvoletta formò un anello color oro intorno al suo dito, si accorse di iniziare a capire Vaan molto meglio di quanto non avesse mai fatto.



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Drace indossava un vestito nero, aderentissimo, che si allargava solo sulle caviglie, ornato da perle; si truccò le labbra con l’argento, e si guardò allo specchio. Era un ottimo travestimento, considerato che di rado un giudice mostrava il suo volto e non era quindi riconoscibile senza l’armatura.

Le fece impressione vedere sé stessa. Si rese conto come d’improvviso di quanto era stato effettivamente sacrificato perché la ragazza attraente e di stirpe nobile, che vedeva riflessa, sparisse sostituita da un giudice professionale, serio, autorevole. Un braccio della legge impeccabile, e non una semplice, e noiosissima debuttante dell’alta società di Arcadia.

Aveva realizzato il suo sogno. Eppure, rivedersi elegante e bella, il seno pieno, i fianchi rotondi, il corpo scolpito dall’esercizio, un fiore splendido che nessuno aveva colto, le fece male. Il contrasto tra i suoi lineamenti facciali duri e severi, quasi invecchiati anzitempo, e le sue curve morbide e femminili che tradivano la sua vera età, era stridente. Sì, aveva sacrificato moltissimo.

Si sfilò il vestito, d’istinto. Voleva cercare qualcosa che la rendesse meno bella.

“Molto bene, siete pronta? Posso vede-”

Al giovane Larsa morirono le parole in bocca quando entrò. E lei non seppe cosa rispondere.

Per quanto lontano fosse il ricordo, riconosceva lo sguardo di un ragazzo quando era visibilmente attratto, tanto da restare senza parole. E per quanto lei non lo fosse nella vita di tutti i giorni, in quel preciso momento era una donna poco oltre i trent’anni, quasi completamente nuda.

Rimasero a fissarsi, impietriti.

“Non… non sarei dovuto entrare.” Si scusò lui tenendo gli occhi fissi sui suoi, per non guardare nient’altro.

Ovviamente non era vero. Erano in una boutique d’alta moda, non nelle stanze private di lei, quindi lei semmai non avrebbe dovuto spogliarsi. Per assurdo, sperò che entrasse qualcun altro così che almeno non fossero solo loro due. Ma era impossibile, Larsa aveva scelto quella boutique per ragioni di segretezza, perché era chiusa quel giorno, e c’erano solo loro.

Fu così che improvvisamente si rese conto di una cosa, sorprendentemente le bastarono pochi secondi per formulare quel complesso pensiero: si era legata troppo a lui. Lo aveva sostenuto in pubblico e in privato, aveva accostato le sue scelte a quelle di lui, lo aveva appoggiato ogni volta che poteva contro chiunque altro. E così, di fatto, lei adesso era direttamente alle sue dipendenze, doveva rispondere anzitutto a lui che era l’ultimo padrone che gli era rimasto. Più a lui che all’Imperatore in persona.

Non si era mai resa conto di quanto fosse stato azzardato, ma se ne rese conto in quel preciso istante, perché Larsa la guardava e la desiderava, con evidenza. E se le avesse chiesto di fare qualcosa, qualsiasi cosa, lei avrebbe dovuto dire sì, oppure disobbedire al suo “imperatore personale” e quindi, come personaggio politico, autodistruggersi.

Rimase immobile pregando che lui non le mettesse una mano addosso, non le desse un ordine, non si avvicinasse di un passo, non la mettesse di fronte ad una scelta atroce tra i loro progetti comuni e la dignità di lei come donna.

I rumori urbani di Archades, da fuori, furono tutto quello che sentivano mentre si fissavano in silenzio, entrambi arrossendo.

L’espressione di Larsa cambiò all’improvviso, come colpito da una illuminazione, e il suo sguardo schizzò da tutt’altra parte.

“Ma certo” sussurrò, guardando di lato “Ora capisco cosa state pensando.”

Lei raggelò, ma lui puntò di nuovo dritto ai suoi occhi. Non c’era un minimo di durezza nel suo sguardo.

“E sono mortificato per avervelo fatto pensare” continuò “Ma se posso permettermi soltanto di dirvi questo” e con gli occhi indicò il vestito nero per terra “E’ un peccato che la vostra bellezza vi faccia sentire debole, anziché forte. Non c’è niente in voi che non sia forte, e bellissimo.”

Non parlava per corteggiarla. In effetti adesso non era nemmeno eccitato, o in imbarazzo: parlava con spontaneità, con appena un po’ di dispiacere. Lei non riuscì a resistere al fascino di tanta naturalezza, e cedette alla tentazione di rispondergli con la stessa disinvoltura, come se la situazione non facesse differenza.

“Non sono sicura… di poter essere forte e bella allo stesso tempo.”

Impiegò meno di un secondo a realizzare che discutere seminuda con il giovane Solidor della sua insoddisfacente vita sentimentale era qualcosa di abbastanza vicino ad una allucinazione. Ma non le riuscì di sentirsi a disagio.

Larsa sorrise, un sorriso dolce e un po’ giocoso: “Non vorrete proprio voi cadere vittima degli stessi luoghi comuni che avete sconfitto di già semplicemente essendo voi stessa.” E detto questo si girò e fece per lasciare la stanza.

“Scusatemi ancora” aggiunse “prendetevi tutto il tempo che volete, anche se ritengo che con quello indosso sareste incantevole, e perfetta per il nostro viaggio.” Si chiuse silenziosamente la porta dietro.

Impazzì d’amore per lui. Desiderò con tutto il cuore che fosse suo fratello, che lei fosse nella posizione di poterlo abbracciare mentre gli sussurrava all’orecchio quanto enorme fosse l’orgoglio di essere con lui, di sostenerlo sempre.

Se aveva potuto pensare per un secondo che Larsa non fosse, già a tredici anni, una persona eccezionale in ogni suo aspetto, se aveva potuto pensare per quel solo istante che le chiedesse qualcosa di squallido, o umiliante, lui aveva convertito ogni suo dubbio in una fede più forte in un tempo altrettanto breve.

Larsa Ferrinas Solidor sarebbe stato un giorno Imperatore, quell’Imperatore che lei avrebbe aiutato a costruire un mondo migliore.

Sì, aveva sacrificato molto, per arrivare a questo. E aveva fatto bene.



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Se Vaan aveva percepito con certezza, guardando il piedistallo all’entrata, che non era niente di simile al Frammento del Crepuscolo, con la stessa certezza, guardando l’oggetto tenuto delicatamente in sospeso da quattro sottili braccia di metallo, capì che era il Frammento d’Aurora.

Come il Frammento del Crepuscolo, aveva delle parti lisce e scanalate, come una conchiglia, e parti che sembravano cristalli spezzati. Non brillava degli arancioni scuri e dei gialli incandescenti dell’altro, ma indugiava più su tonalità di rosa e azzurro. Come l’Aurora, appunto.

Com’era stato al Palazzo Reale, quella sera appena un mese prima, nel fissare quella pietra capì che stava guardando molto più di un semplice gioiello. Avvertì nettamente di avere davanti un foro, uno squarcio nel tessuto stesso della realtà dal quale si potevano intravedere altri mondi, infiniti universi, secoli e secoli di leggende, imprese, gioie e tragedie che si erano depositati su quell’oggetto come sedimenti sul fondo di un lago, e che anche in una intera esistenza sarebbe stato impossibile raccontare.

Sentì che quelle non erano semplicemente delle belle pietre, ma schegge di una storia maestosa, frammenti di un destino ineluttabile al quale tutti dovevano inchinarsi.

Vaan pensò questo e molto altro che, con la sua scarsa istruzione, non avrebbe saputo esprimere a parole. E certamente anche tutti gli altri lo pensarono.

“Cos’è che non va?” chiese Basch, dato che Vossler osservava l’oggetto con un profondo e visibile malessere. Evitò di rispondergli, ed esortò invece: “Maestà, dobbiamo andare.”

Ashe annuì e si avvicinò all’altare sbrigativamente, ma qualcuno la fermò, frapponendosi tra lei ed il Frammento d’Aurora.

Sentì un sommovimento tra il petto e lo stomaco, qualcosa di molto doloroso. Dovette trattenersi per non scoppiare a piangere, mentre suo marito la guardava con sguardo inflessibile, incoraggiandola a fare ciò che andava fatto. Ma lei era troppo disorientata.

“Rassler…” mormorò, e gli altri, vedendola parlare con l’altare, si chiesero se non era impazzita del tutto.

Poi sentì qualcosa di molto fisico, nel basso ventre, qualcosa di sessuale. Non era eccitazione, era qualcosa di addirittura precedente: d’un tratto, avendo davanti l’unico con cui avesse mai fatto l’amore, si era come ricordata di essere capace di farlo, di averlo fatto. E non avevano solo fatto l’amore insieme innumerevoli volte, insieme avevano riso per stupidaggini, mangiato dolci, passeggiato per i cortili di Rabanastre e navigato insieme, in segreto, sul Nebra; e lui le aveva fatto promettere che un giorno lei avrebbe visto Nabudis, e i boschi che la circondavano, e la tranquillità e il silenzio degli angoli più selvaggi di Nabradia.

E avevano fatto molto altro, in quei giorni insieme che a contarli sembravano così pochi, avevano diviso moltissimo ed ogni volta che lui semplicemente le saltava addosso lei era solo lei, ed era completamente sua. Non c’era politica, non c’era calcolo, non c’era nessuna partita da giocare, né vincitori né sconfitti.

Solo un ragazzo ed una ragazza.

E solo ora, rivedendolo in faccia, si rendeva conto di quanto poco la sua vita avesse a che fare con il sesso, le risate, il cibo, le passeggiate per i boschi. Di quanto i suoi obiettivi, i suoi sogni, si fossero fatti sanguinosi, e orribili. Sogni di guerra.

Sogni del primo uomo che aveva ucciso, per difendersi, bruciandolo con una scarica elettrica, di come aveva stroncato una vita esattamente come una freccia aveva trapassato il cuore del suo compagno, uno stupido pezzo di metallo appuntito aveva distrutto qualcosa di infinitamente più grande e bello. Delle urla di quel soldato, di cui non aveva nemmeno visto il volto o saputo il nome. Del puzzo di carne carbonizzata. Sogni… o incubi.

Ed ora, avendolo finalmente di nuovo davanti a lei, doveva chiedere perdono? Sentire almeno la sua opinione, su chi era diventata? Sopportare il suo giudizio?

Suo marito non gliene diede il tempo: fece un minimo cenno di assenso e passò oltre. Istintivamente, lei cercò la mano di lui e lui divenne incorporeo, trasparente, evanescente. Ebbe pochi secondi per capire che era solo la sua immagine, perché poi si concentrò su quel che Rassler gli aveva lasciato in mano.

Il Frammento. Vossler l’aveva detto: “Tutto avrà inizio da lì.” Capì che Rassler non la biasimava, anzi, la stava esortando a continuare. Quel che non capì fu se questo la faceva sentire sollevata, o ancora più oppressa. Ma era comunque una direzione.

“Sarai vendicato.” Disse senza preoccuparsi dell’impressione che dava agli altri.

E solo allora si accorse che solo un altro, in tutta la stanza, aveva seguito con lo sguardo lo spettro di Rassler. Qualcuno che lo aveva visto, come lei. L’ultima persona da cui si sarebbe aspettata di essere capita, di condividere qualcosa.

Lei e Vaan si guardarono per pochi secondi, allarmati. Poi concordarono tacitamente che se stavano impazzendo insieme, non c’era bisogno di dirlo ad altri.



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“Allora è così.”

A Gabranth sembrò di vedere proprio dentro la testa dell’Imperatore Gramis, i pezzi che si muovevano lungo la scacchiera e si sistemavano secondo nuovi equilibri.

“Invero la consuetudine di usare giudici come guardie del corpo del Casato dilaga, e non ci fa onore.” Si dilungò accarezzandosi la barba bianca, come se dovesse fare qualche annoiato commento mentre stava in realtà pensando a tutt’altro.

“Non abbiate rimorsi, eccellenza. I Iudex Magister sono i migliori guerrieri in Arcadia, chi altro dovrebbe assolvere a questo delicato compito?”

“Non t’immaginavo così fedele e zelante verso il Casato, Gabranth.” Osservò l’Imperatore con ironia.

“Ciò a cui sono fedele è semplicemente ciò che sono diventato.” Rispose con assoluta sincerità.

“Certo… nell’Impero hai trovato il tuo scopo, il tuo onore. Tu credi, Gabranth, che la tua collega la pensi allo stesso modo?” cambiò argomento, con sorpresa dell’altro.

“Drace è un giudice estremamente competente e-“

“So perfettamente chi è.” Lo interruppe, infastidito, e dovette superare un attacco di tosse prima di riprendere: “Quel che mi interessa sapere è se Drace è il tipo di persona che può anteporre il suo credo personale al mio volere.”

Gabranth rifletté per un istante, indeciso tra il rispetto e la stima per Drace e il compito che aveva per l’Imperatore. Poi decise per l’Impero, come aveva sempre fatto, e ammise: “E’ una donna che pone il suo credo personale innanzi tutto, sacrificando anche il suo stesso interesse. Di certo non guarderebbe in faccia nemmeno gli Dei in persona.”

Anche l’Imperatore si prese qualche secondo prima di commentare: “Perfetto. Di certo Larsa ricambierà la sua devozione con altrettanta fiducia. E’ quanto auspicavo.”

Passò qualche secondo di silenzio prima che Gabranth si spazientisse, chiedendo: “Cosa volete che io faccia, dunque?”

“Nulla. Lasciamo che Larsa faccia le sue ricerche e Drace lo accompagni.”

“E il Gran Kiltias?” insistette cercando di nascondere lo stupore.

“Lasciamo che vada anche al suo cospetto. Anzi, ti dirò di più, questa è la parte fondamentale. Desidero che Larsa incontri le sue imbarazzanti compagnie a Bur-Omisace .”

Gabranth non si disturbò a fargli notare che questo sembrava andare completamente contro la politica imperiale fino a quel momento, e che Larsa non poteva fare e disfare come se fosse lui l’Imperatore. Era certo che Gramis Gana Solidor avesse una ottima ragione per dare gli ordini che dava, ed era altrettanto certo che lui non l’avrebbe mai capita, se non a cose fatte.



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Usciti dalla tomba, avevano avuto pressappoco un minuto per rendersi conto che il cielo non era più invaso dagli zuu volteggianti, ma da una flotta arcadiana in pompa magna. Nessuno di loro pensò di fuggire o resistere, e in totale ci misero più o meno trenta minuti a ritrovarsi in una situazione spiacevolmente familiare: reclusi in una nave arcadiana al cospetto del Iudex Magister Ghis.

“Quale immenso onore essere nuovamente ingraziati dalla vostra presenza, Maestà.” Malgrado il tono in tutta evidenza volutamente provocatorio, Vaan riuscì stentatamente a trattenere le risate: Ghis era privo di elmo, e aveva ancora quella ridicola pettinatura.

“L’ultima volta vi siede congedata tanto bruscamente che, lo confesso… iniziavo a temere di avervi dato qualche motivo d’offesa.”

Per una volta, la sua mente non la deluse: si comportò come un’arma abbastanza rapida ed efficiente, suggerendole una teoria credibile su come ormai lei si fosse rassegnata a vivere come fuorilegge e a saccheggiare posti leggendari di cui aveva sentito da piccola. Tutto ciò che doveva fare era sviare l’attenzione di Ghis dall’oggetto che aveva recuperato e che era prova del lignaggio di lei, sperando che non lo sapesse già, o semplicemente sostenere di non saperne nulla, o di non essere riuscita a recuperarla. In alternativa, combattere fino alla morte. Queste erano le opzioni.

“Quale sincerità nel vostro rimorso. Cosa volete da me, adesso?”

“Voglio che voi mi consegniate la negalite.” Lo chiese in tono tranquillo, ma vagamente minaccioso.

“La negalite…” Penelo portò la mano al fagotto, ed estrasse la pietra blu scuro regalata da Larsa, che aveva usato contro lo stesso Ghis, e la porse verso di lui.

“Quella è una volgare imitazione!” sbottò lui “quella che cerchiamo è l’eredità di Raithwall, reliquie del Re-Dinasta: la Negalite di fattura divina! Capitano Azelas, non gliel’avete detto?”

Ashe trasalì, e così Basch. Gli occhi di tutti si puntarono su un rassegnato Vossler.

“Maestà, si riferisce al Frammento d’Aurora. Quella è la Negalite.” Spiegò con tono spento.

“Sei impazzito, Vossler!?!” sbottò Basch.

Ma il suo commilitone non rispose con minore impeto, anzi praticamente urlò: “Se quel che vogliamo è la salvezza di Dalmasca dobbiamo accettare la verità! Non combatterò più questa guerra senza speranze!”

Ashe divenne bianca come un cencio, con l’evidente espressione di chi vede una certezza sbriciolarsi; Vaan pensò che semplicemente sarebbe svenuta, per quant’era impallidita. Basch e Vossler si fissarono con la stessa intensità che il biondino aveva visto al loro rincontro, alla Città Bassa.

Certo, adesso Basch vedeva tutto con più chiarezza. Adesso Vossler combatteva per qualcosa. Per salvare delle vite, non per mieterle. E proprio questo, per assurdo, avrebbe diviso le loro strade.

“Il capitano ha negoziato un vero affare. In cambio del Frammento d’Aurora, l’Impero permetterà a Lady Ashe di riprendersi il trono e restaurare Dalmasca. Pensate: un regno per una pietra, ammetterete che è più che un equo scambio.” Illustrò Ghis, con un tono intenzionalmente mieloso.

“E a giochi fatti, il tuo padrone avrà un nuovo cucciolo.” Commentò Balthier, acre.

Ghis lo fissò illuminandosi, come se avesse avuto improvvisamente un’ottima idea, e ricominciò: “Maestà, facciamo il caso che costui rappresenti il popolo dalmasco. Nella vostra indecisione mettete in pericolo le loro teste…” fece mulinare l’alabarda di modo che la lama si fermasse a un centimetro dalla gola di Balthier “…e sarà questa la prima a cadere.”

Balthier non si scompose: “Bè, almeno la tua lama va dritta al punto.”

Ashe cercò di riflettere più veloce che poteva. Non c’era nessuna possibilità che Ghis non prendesse la Negalite. E certamente la pretendeva per l’altra caratteristica della Negalite, e non giusto perché rappresentava una prova del lignaggio reale. Tutto ciò che avrebbe potuto fare era resistere, morire, e portare con le persone che avevano partecipato alla sua impresa. Una resistenza onorevole, praticamente simbolica, valeva le vite di Vaan, Penelo, Balthier, Fran e Basch?

Estrasse il Frammento d’Aurora da un sacchetto legato alla cintura e lo porse a Ghis.

“E dire che le reliquie del Re Dinasta erano la Negalite degli Dei. Il Dottor Cid non starà nella pelle.” Balthier e Fran sobbalzarono al sentire il giudice pensare ad alta voce.

“Come dici?” provò a chiedere il pirata, ma venne ignorato.

“Capitano Azelas, portateli alla Shiva. Ritornerete a Rabanastre presto.”

Furono ammanettati e disarmati. Quando però uno dei soldati cercò di togliere a Basch la spada dell’Ordine Dalmasco, fu Vossler stesso a fermargli la mano. Di nuovo i due si guardarono, senza parlare.

E fino a quando non furono sulla Shiva nessuno aprì bocca o guardò qualcun altro.

Vossler pose una mano sulla spalla della principessa per invitarla a seguirlo, ma lei si ritrasse bruscamente e si avviò da sola. Vossler cercò di camminarle accanto al passo di lei, nervoso e spedito.

“Quando torneremo in Dalmasca, potremo dare annuncio che siete viva. Allora continuerò i negoziati con l’Impero.” Continuò a spiegare tenacemente, malgrado lei cercasse di ignorarlo “Ritengo Larsa sia la chiave di volta – ci presterà ascolto, dovremmo fidarci di lui.”

Lei non si trattenne più: “E chi sei mai tu, Vossler, per parlarmi di fiducia?” lo zittì, a denti stretti.

“Un figlio di Dalmasca.” Rispose lui sottovoce, a testa bassa, quando lei si era allontanata.



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“Dunque, dimostratemi il potere di questa pietra.” Ordinò Ghis, lasciandola in mano ad uno scienziato.

“I nostri ordini non specificavano di tornare con la pietra per le analisi?” chiese uno degli scienziati, disorientati.

“Non mi arrischierò a tornare con una pietra che non so essere autentica.” Si giustificò.

Come si aspettava, l’equipe scientifica se la bevve subito. I soliti piani di Vayne Solidor: Larsa, il fratellino sognatore avrebbe facilmente affascinato i suoi stessi nemici, e convinto Vossler York Azelas, un guerriero stanco, a tradire Ashelia B’Nargin Dalmasca, che ansiosa e impulsiva com’era si sarebbe precipitata a recuperare un altro frammento; e poi lui stesso, Ghis, che come complice delle peggiori manovre di Vayne era legato a lui a doppio filo, e doveva servirlo anche nel disprezzo. E infine, se anche Ghis avesse tentato qualche colpo di testa, la fitta rete di spie che Vayne aveva infiltrato nell’equipaggio stesso del Leviathan. Tutte le pedine disposte e obbligate a muoversi dalla loro stessa natura verso il risultato voluto.

Sì, proprio i soliti piani di Vayne Solidor: brillanti, audaci, creativi e flessibili, ma mancavano sempre di prevedere il lato più squallido, più meschino degli esseri umani. Quello che Ghis conosceva bene e sapeva sfruttare.

Corruzione. Era bastato un fiume di denaro sufficientemente impetuoso per scoprire cosa fossero le reliquie tanto agognate da Vayne, e semplicemente altri soldi per corrompere le spie e impostare un triplo gioco, e altri soldi per avere una buona equipe scientifica sulla Leviathan. Mentre Vayne si arrovellava su psicologia, strategia e conoscenza, lui si accontentava di distribuire sacchi di guil perché le cose andassero come voleva.

E adesso bastava una minima prova che quella era davvero la Negalite creata dagli stessi Dei, e avrebbe avuto non solo l’arma più potente del mondo in mano, ma anche un’arma particolarmente potente contro Vayne stesso. E allora, finalmente, l’avrebbe fatto sparire dalla mappa politica di Arcadia, com’era giusto.

Di solito sarebbe stato più prudente, più ambiguo, più sfuggente. Ma da quando aveva appreso della pietra, era come se ne avesse sentito il richiamo. E ancor di più quando aveva potuto fissarla nelle sue mani, poco prima che, lasciando il palmo di Ashelia per il suo, smettesse di splendere. La luce della pietra glielo aveva detto: poteva e doveva osare. Quella pietra voleva lui quanto lui voleva la pietra. Ne era certo.

Una voce dall’altoparlante interruppe i suoi pensieri: “Qui gli strumenti sono limitati, quindi useremo il motore della nave per una prova. Appena connesso alla pietra, la reazione si misurerà facilmente con-“

“Non mi interessano i metodi, solo i risultati.” Fece per zittire la scienziata, pregustando il momento in cui la pietra avrebbe ripreso a splendere, solo per lui.

Doveva solo averne la conferma: la pietra era venuta da lui. Si sentì emozionato. Dovette aspettare un po’ prima di avere una risposta. Tutta la nave fu presa da un lievissimo ma percettibile tremore, e dopo un po’ uscì di nuovo la voce dall’altoparlante.

“Seimilaottocento! Seimilanovecento! Settemila! Deve esserlo, è Negalite di fattura divina! Sale ancora!”

Ghis provò disgusto e pietà per l’emozione degli scienziati. Vedevano solo un’arma antichissima da cui i Draklor Labs potevano sfornare infinite copie. Piccole menti banali, non potevano vedere la verità: la pietra avrebbe portato una nuova era, perché aveva scelto lui, proprio lui. Non era una semplice arma; era qualcosa di più, un pezzo di qualcosa di inconcepibile, scheggia di un fato impossibile da combattere e quindi necessariamente giusto.

“Alfine l’abbiamo trovata. Negalite di fattura divina, il potere del Re-Dinasta in mano a me… non basta il lignaggio a fare un Imperatore, Vayne!” dichiarò a se stesso, con entusiasmo, stringendo il pugno come se il Frammento d’Aurora si trovasse già lì.

D’un tratto suonò l’allarme, e fu come se Ghis fosse stato svegliato da un sogno drogato. Come se si fosse reso conto d’improvviso che quei pensieri non erano suoi, che quei deliri infantili di onnipotenza non appartenevano al suo modo di essere, che per vincere Vayne Solidor doveva essere più discreto... ma durò pochi secondi. L’allarme assordante lo obbligò a concentrarsi mentre da tutti gli altoparlanti uscivano frasi sconnesse e spaventate.

“Che succede?”

“Qualcosa non va!”

“Cos’è?”

Il tremore aumentò.



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Fran ebbe appena un secondo per sentire un tremore sotto i tacchi dei suoi stivali di viticcio neri. Il tempo di avvertire che c’era, e la sua coscienza svanì.

Tornò quasi subito, ma per pochissimo. Gli diede il tempo di balbettare ai suoi compagni, e alla scorta arcadiana: “Questo calore…”

Sotto gli occhi preoccupati del suo socio e compagno, la sua coscienza fu inghiottita di nuovo e di nuovo tornò, in pochi istanti, che usò per spiegare cosa stava succedendo: “Il myst brucia!”

Il calore la reclamò ancora, e da quel momento fu solo fiamme.

Vaan vide la viera trasformarsi in qualcosa di nuovo, di diverso. I suoi capelli ondeggiarono verso l’alto come la fiamma, e si colorarono di innumerevoli tonalità di rosso, innaturalmente vivide. Gli occhi diventarono ampi globi bianchi privi d’iride, come quelli di un animale notturno. Le braccia e le gambe splenderono di una luce soffusa di verd’azzurro, che gli ricordarono la formula “Brae Veri” per cui Fran stessa aveva predilezione. Urlava con un tono disumano, bestiale. Quella ragazza che aveva sempre trovato tanto provocante e sensuale ora gli trasmetteva sensazioni poco diverse da un’esper, come fosse un’entità distruttrice di un altro mondo.

“Tenetela!” ordinò Vossler, preoccupato, ma appena uno degli arcadiani si avvicinò per eseguire l’ordine Fran lo colpì al volto roteando e schizzò via.

Volò in aria come danzasse ignara delle leggi di gravità, lasciandosi dietro la scia di vermiglia e scarlatta dei suoi capelli. Con pochi salti aveva toccato da un lato all’altro dell’hangar e steso diversi soldati intenti a curare le scialuppe.

“Cosa le prende?” chiese Penelo spaventata.

“Ho sempre saputo che Fran non gradisce le catene.” Balthier, intento a forzare le sue stesse manette, tradiva una insolita inquietudine “Solo che non ho mai verificato quanto non le amasse.” E sgranchendosi i polsi ormai liberi, disse alla principessa: “E voi che ne pensate?”

“Mi trovo d’accordo con Fran. Andiamocene subito!” il pirata si impegnò sulle manette di lei, ma sorprendentemente anche Vaan si era liberato e si occupò del Capitano Basch.

Fran era ancora fuori di sé quando precipitò alle rampe di lancio più in basso. Il tremore aumentò, sembrava che l’aeronave fosse una bagnarola in una tempesta.

“Non passate oltre!” oltre al tono perentorio, Vossler estrasse l’enorme spada e la puntò verso il gruppo “Pirati! Non ruberete il futuro di Dalmasca!”

Evitò coscientemente gli occhi della principessa, e ancora una volta lui e Basch si squadrarono reciprocamente.

“Badate voi al soldatino.” Disse Balthier guardando giù dai ponti “Io ho una signora da consolare.” E non aspettando risposta corse e si buttò giù, atterrando prima sul tetto di una scialuppa e poi sul pavimento.

Per qualche minuto osservò la sua compagna danzare descrivendo ampi cerchi di luce verdazzurro e scaraventando via ciascuno degli insistenti soldati che cercavano di tenerla ferma. Nel frattempo, cercava con la mano tra varie capsule nel marsupio di cuoio che aveva legato ad un fianco. Visto che gli avevano tolto il fucile, cercò la minuscola doppietta che portava sempre nascosta nel polso dell’altro braccio per quel genere di evenienze

“Fumogeno, no… rigenerante, no… abbagliante, no… eccolo… ehi, amici!” appena i soldati si girarono a guardarlo, caricò e sparò verso il suolo, ai piedi di Fran.

Un fumo color rosa salmone si diffuse a cerchio e la maggior parte dei soldati barcollò come ubriaca per qualche secondo per poi stramazzare al suolo. L’aura della sua compagna si affievolì lentamente e, sebbene restò in piedi per qualche secondo in più, presto il sonnifero fece effetto anche a lei; ma nel tempo che ci avrebbe messo a toccare terra, l’altro la prese per le spalle e la issò in braccio.

“Vedi” le disse con dolcezza “per quanto mi sforzi di fare il donnaiolo mi ritrovo sempre con ragazze impegnative.”

E volse lo sguardo verso l’alto; il trambusto era troppo per sentire qualcosa dello scontro al piano di sopra. Cercò una navetta con lo sguardo. Trovò una scialuppa e corse verso di essa, legando con delicatezza Fran ad un sedile. Era incosciente, ma ad ogni scossa tremava anche lei.

“Brucio…” bisbigliò, appena.

“Di passione per me, spero.” Disse mentre preparava il lancio.

“Ce… ne… andiamo?”

“Credo che fra poco questi cieli saranno un luogo poco confortevole.” Disse, avvertendo che oltre al tremore si era alzato un vento innaturalmente violento.

“E… gli… altri?”

“Li aspetteremo. Pare che i miei debitori abbiano difficoltà a pagarmi, da morti.”

“Lo so… lo so che… non è per questo.”

Lui riflettè un istante: “Già. Mi conosci, lo sai che come protagonista devo avere degli inattesi slanci di altruismo eroico. Sai come vanno queste cose: parte del mio fascino, eccetra.”

Lei gli sorrise con una tristezza infinita: “Non è… nemmeno questo. Non… mi mentire. Il giudice ha detto…”

Si voltò a prenderle la mano: “E’ solo questo.” E la baciò.

“…non è vero.”



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“Basch, che senso avrebbe?” cercò di dissuaderlo Vossler “Questa lotta è futile, di certo sai a cosa porterà.”

“Lo so… fin troppo bene.” Ma i suoi occhi rimasero saldi sui suoi, e come Vossler mise mano alla spada.

Fu un istante. Vaan sentì appena un rumore scricchiolante, come un ingranaggio che si inceppava. E poi cadde a terra. Il dolore allo stomaco era insopportabile, sentì nettamente che qualcosa lo aveva colpito con violenza, ma non sapeva quando e come. Rigirandosi, riuscì a vedere che anche Basch era stato atterrato prima ancora che estraesse la lama. Vossler non era più dove si trovava prima, ma a pochi centimetri da Penelo.

“Non ho voluto colpire voi, maestà, e naturalmente non ho voluto colpire la ragazzina. Ora vi prego di dissuadere il Capitano Basch dall’insistere. Non amo mostrare la mia vera forza, men che meno sui commilitoni.”

Ashe restò immobile senza dire ne fare nulla, con un volto inespressivo. Vaan detestò la sua fragilità.

“Capisco, siete ancora confusa.” Le concesse Vossler.

Penelo cercò appena di muoversi, ma Vossler le pose una mano sulla spalla, che fu sufficiente a fargli capire che non le avrebbe dato il tempo di formulare una magia. Basch si rialzò, e fece in tempo ad estrarre la spada.

Vossler scostò Penelo e con l’ampia parte piatta della lama parò ognuno degli assalti agguerriti di Basch, ma senza avere il tempo di reagire. Per pochi secondi sembrarono alla pari, poi Vaan sentì di nuovo lo scricchiolio e Vossler fu di nuovo dall’altro lato della stanza, così veloce che Vaan non vide il suo spostamento, e Basch fu di nuovo a terra, piegato in due.

“Bada, mio vecchio amico, se mi costringerai ad attingere alla mia effettiva abilità una terza volta, non colpirò con il ginocchio ma con la lama.” Pose la spada in posizione d’attacco.

Penelo tentò di nuovo di iniziare una frase, e di nuovo Vossler si spostò alle sue spalle prima che gli occhi di Vaan lo registrassero. Non aveva mai visto niente di umano o disumano muoversi a quella velocità.

Ashe era ancora paralizzata, guardando l’uomo che l’aveva protetta così a lungo che si opponeva a lei con le parole e con la spada.

“Fa qualcosa, cretina!” cercò di urlare il ragazzo, che ancora respirava male per il colpo allo stomaco, ma non suscitò alcuna reazione.

Un’ulteriore scossa aumentò l’intensità dei tremiti lungo tutta l'aeronave.

Vaan cercò con grande sforzo di rialzarsi, ma Vossler volle essere meticoloso: arrivò su di lui con quella velocità mostruosa, e vibrò un taglio della mano sulla sua schiena. Cadde di nuovo.

“Principessa, dovete decidere.” Ripetè, ma lei rimase apatica.

Basch tentò di rialzarsi un secondo assalto, ma questa volta Vossler lo vide in tempo, e Basch rinunciò istintivamente; non aveva idea di cosa stesse accadendo, Vossler era sempre stato un guerriero potentissimo ma più lento di lui nei movimenti. Vaan continuava a sentire quell’insopportabile scricchiolio perforargli le orecchie.

“Non costringermi a ucciderti. Resta a terra.”

“Non potrai ucciderlo.” Ribattè Penelo, e gli altri quattro la guardarono con vivo interesse.

“Voi credete, fanciulla? In effetti potrei decapitarlo più veloce della vista.”

“Niente affatto. Ricordo che la sera del banchetto avete usato la formula E-Quos. Siete un cronomante oltre che un guerriero.” Vaan guardò l’amica, colpito, mentre Vossler fece una smorfia di disappunto.

“E voi siete molto abile, per la vostra età. Ma non vedo come-”

Penelo lo interruppe guardando Basch: “Si chiama Esto-Pte-Ga. Può fermare il tempo per un attimo, anche in zone molto ampie. Non si muove velocemente, si muove fuori dal tempo dove non possiamo vederlo o sentirlo.”

“Certamente siete nel giusto.” Ribattè Vossler ancora più contrariato “Ma saperlo non basterà-”

“Non è tutto.” Penelo lo interruppe di nuovo, puntando le braccia verso di lui come un’arma “C’è solo una formula che contrasta questa cronomagia, ed io la conosco. Voi-”

Vossler corse verso di lei e le afferrò il collo con precisione. Vaan usò con tutte le sue forze per alzarsi, mentre la ragazza cadeva esanime. Vossler fu rapido a voltarsi e a fermare la sua corsa colpendolo con lo spadone, ma di piatto. Il che bastò ad atterrarlo.

“Non devi temere. L’ho solo addormentata per pochi minuti. E adesso-” tese una mano verso la principessa.

Finalmente Ashe sembrò risvegliarsi dall’apatia, e parlò con tutta la durezza che Vaan gli conosceva: “…e adesso potrai inginocchiarti, chiedere perdono per il tuo tradimento, e sparire dalla mia vista.”

“Cosa dite? Tornate alla ragione: non avete più un solo guerriero.”

“Credi?” Basch e Vaan videro qualcosa di fiammeggiante crescere dietro di lei, come un’ombra che si allarga.

Presto prese la forma che avevano visto meno di un’ora prima: Belias di Aries.

“Principessa, non riuscirete-”

“Taci. Prestami ascolto: non sono rimasta inattiva per degli scrupoli verso un miserabile traditore.” spiegò con veemenza “Stavo solo studiandoti per capire i punti deboli del tuo potere. E appena la ragazza ha parlato, li ho trovati.” Belias iniziò a muoversi da dietro di lei, verso Vossler.

“Non ve ne sono.”

“E’ inutile che tenti di sviarmi. Come tutti maghi, sei perduto se un guerriero colpisce più veloce della tua lingua.” Vossler tentò di ribattere, ma Ashe continuò “Nessuno di noi è un tale guerriero, lo so. Ma ti domando: se puoi fermare il tempo, perché non hai usato questa dote nello scontro con questo esper?”

Vossler fece qualche passo indietro mentre Belias avanzava maestosamente verso di lui. Sembrava intimorito, e Vaan e Basch lo constatarono con sorpresa.

“La risposta è semplice, per la stessa ragione per cui cerchi di dissuadermi a parole: il tuo potere non ha effetto sugli esper.”

Per tutta risposta, Vossler pose una mano sulla sua stessa lama, ed urlò: “ESTO PTES!”

Vaan udì di nuovo lo scricchiolio, e vide una luce verde speranza che disegnava, partendo da Vossler, molte linee spezzate che si chiudevano disegnando cerchi intorno a Belias. All’interno del campo di forza le luci erano fioche, quasi un buio artificiale. Ma si distingueva l’esper che continuava a muoversi liberamente.

“Inutile.” Osservò Ashe mentre l’esper usciva dal campo di forza “Anche concentrandoti su un solo bersaglio non otterrai niente. Invero, il fatto che adesso sei in piedi è una mera formalità. Ti ho sconfitto… il mio piano ti ha sconfitto!” dichiarò piena d’orgoglio.

Vossler non si diede per vinto, e saltò in alto per aprire in due Belias con la spada. Ma Belias rispose prontamente, colpendolo con l’alabarda d’oro. In aria, fece in tempo ad usare la spada come scudo, ma la violenza del colpo fu comunque considerevole. Vossler atterrò con qualche osso rotto e dovette mollare la spada, incandescente e addirittura fusa nel punto d’impatto.

Fece per rialzarsi faticosamente, ma vide sotto di lui una linea di fiamma che divideva il pavimento. Saltò a ruota per evitare il muro di fuoco che si sollevò, e lì una fitta lancinante lo avvertì che una sua gamba era fratturata. Non gli riuscì di non rimanere curvo in ginocchio, ma tentò di nuovo di sollevarsi.

Ma tra l’esper e lui trovò il suo compagno che lo guardava. Senza durezza o biasimo. Ma non gli tese la mano per rialzarsi. Per l’ennesima volta, semplicemente i loro sguardi si incrociarono.

Si rese conto che in pochi attimi l’esper era scomparso, e solo allora vide la sua principessa ammorbidirsi in volto, vedendolo in quello stato. Gli sembrò sul punto di dire qualcosa, ma poi riuscì solo a guardare in basso, addolorata.

“Ashe! Andiamo!” li chiamò la voce di Balthier, ma lei non staccò gli occhi dai suoi due soldati.

“Quanto ho fatto… ho posto Dalmasca innanzi ogni cosa.”

“Lo so. Non dubiterei mai della tua lealtà.”

“Eppure… vedi bene a cos’ha portato la fretta… ho agito troppo presto? O forse sei tu, che sei tornato troppo tardi?”

Basch rimase in silenzio, continuando a guardarlo comprensivo. Avrebbe voluto tendergli la mano, ma entrambi sapevano perché non poteva farlo. Ma né lui né Ashe vollero girarsi e lasciarlo.

“Non posso servirla più. Sii tu a prendere il mio posto.”

E solo allora si decisero ad andarsene.



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Eccomi di ritorno dopo aver ancora una volta, e altrettanto inutilmente, tentato di recuperare il mese perduto. Mi spiace non riuscirci mai.

Il che mi porta ad un'altra questione. Ci sono un mucchio di fanfic su FFXII in questa sezione e ne ho lette alcune, certe mi sono sembrate molto interessanti. Mi rendo conto che come recensore il mio contributo ad EFP è pietoso. Vorrei solo dire che questo è dato dal fatto che già mi riesce piuttosto arduo inserire nei miei impegni la cura di questa fanfic e se iniziassi a recensire le storie di altri non potrei farlo con costanza, e lascerei le persone in sospeso. Non manco di recensire per un qualche malriposto senso di superiorità rispetto agli altri autori e non ignoro (all'apparenza) gli altri lavori perchè li reputo brutti. Scusatemi.

Tra l'altro, anche se questa fanfic sta crescendo molto diversa da com'era all'origine (cioè con molti meno punti di vista, molto più sbrigativa, con la metà dei capitoli, un quinto delle pagine, e con alcuni pezzi sinceramente orrendi) il fatto di aver avuto dei mesi di quasi-ozio per scrivere la prima stesura mi sembra incredibile, ora che sto curando la ri-stesura e ho la vita impegnata da lavoro, attivismo, studio, che un ventiduenne dovrebbe avere. Mi fa rendere conto dello scarso valore che diamo al nostro tempo libero e alla fortuna di essere ragazzi, finchè lo siamo /fine dell'odiosa lezioncina.

Ora come di consueto un pò di precisazioni sulle mie scelte per questo capitolo:

- finalmente credo sia chiara la scelta del titolo della FanFic (forse non molto azzeccata).

- (questo in realtà riguarda il cap. precedente) ho sostituito i Garuda fuori dalla tomba con gli Zuu in quanto il mostro-uccello per antonomasia in Final Fantasy è lo Zuu. Inoltre la mia ragazza ama dire il suo nome.

- Vossler è sì un Cronomante-Guerriero ma non è, in realtà, così duro da sconfiggere, si tratta di solo una delle tante modifiche che ho fatto per rendere i combattimenti più gradevoli. State pronti a modifiche di questo tipo, spero vi piacciano. Comunque si dovrebbe SEMPRE invocare Belias in quel combattimento e contro l'Elder Wyrm (dopo è sempre meno utile) per ragioni strategiche.

- sempre parlando di modifiche, il prossimo capitolo conterrà alcuni eventi importanti che nel gioco non esistono. Anche se lo scopo sarà dare più sostanza a rapporti che comunque si creano anche nel gioco.

- nella storia originale i nostri eroi vengono arrestati ma non disarmati, la qual cosa non ha alcun senso, donde la modifica. Ho lasciato la spada solo a Basch, il che mi ha permesso di inserire una bella scena Basch/Voss. E per chi si chiedesse "Come fa Balthier a nascondere una pistola in un polsino?" sappiate che esistono pistole apposite, per esempio le Derringer. Ma non credo che si possa usare la parola "Derringer" su Ivalice, quindi non l'ho fatto.

- per finire, alcuni lettori mi chiesero: "Perchè ti ossessiona così tanto descrivere effetti luminosi quando potresti evitarlo?" (per esempio, Fran in status berserk). Ha a che fare con la mia necessità di mostrare con chiarezza, anche visuale, al lettore quando qualcosa è magico e soprannaturale, e quando no. Spero non appesantisca troppo la narrazione.

Ora due messaggi solo per Hagaren:

- ho cercato di fare i personaggi il più "unici" possibili in battaglia, e per questo mi sono anche rifatto a informazioni prese da FFXII: Revenant Wings; ecco spieghato perchè Balthier sarà sempre un pò più Alchimista, Vaan farà ogni tanto il "mimo", Ashe userà le "bombe magiche" (cosa che peraltro fa anche in FFXII quando è solo un "ospite").

- i pezzi su Drace (e ne arrivano altri) non c'erano nella prima stesura, così come i pezzi sugli altri giudici, ma questa è proprio una delle cose che ho deciso di aggiungere ritornando alla storia. La parte che leggi adesso, comunque, l'ho scritta prima di leggere il tuo commento sul personaggio, ma spero che la gradirai comunque. Anche Drace come gli altri prende qualcosina in prestito da altri personaggi, in questo caso una mia amica studentessa.

Queste precisazioni diventano lungue quanto un capitolo a parte, quindi basta. A presto, e grazie a tutti per il sostegno!

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Capitolo 25
*** Splendore ***


Stanco.

 Il dottor Severus Mondrian era molto stanco. Tolse gli occhiali dal suo enorme nasone e li poggiò sulla sua scrivania. Cercò la tazza di tè, ma la trovò vagamente più distante, vicino al bordo del tavolo: si spostava, lentissima, seguendo un lieve e curioso tremolio.

 Si spostò i capelli neri e unticci dalla fronte e bevve il tè di getto. Si stropicciò gli occhi e tornò a guardare i fogli dove macchine da scrivere automatiche, cinque su ogni muro della stanza, battevano rapidamente la stessa equazione matematica a intervalli regolari.

 Maledisse la Guerra Fredda tra Rozarria e Arcadia, che impediva scambi di culture e tecnologie: avrebbe preferito i ben più moderni teleschermi rozarriani invece di quei ruderi di dattiloscrittura. Del resto anche i rozarriani dovevano lamentarsi della loro relativa ignoranza sulla magilite.

 Era sempre stato molto stanco. E aveva avuto pochissime soddisfazioni, finchè il suo talento per la magifisica e la matematica non era giunto all’orecchio di un professore dei Draklor Labs. E allora lui, un piccolo, brutto, malaticcio e rancoroso ragazzo della Città Vecchia era stato introdotto ai quartieri alti e ad allo studio per una professione nobile e rispettata.

 Ma aveva continuato ad odiare il mondo e se stesso… fin quando non aveva conosciuto lei. Capelli biondo rosso, graziose lentiggini ed un bel corpo snello, sembrava che Lily Matisse non avesse niente a che spartire con lui e mai lo avrebbe avuto. Anzi, si chiedeva come potesse essere una sua compagna di corso, come mai una ragazza così bella potesse appassionarsi quanto lui a calcoli, numeri, vettori, campi di forza e distorsioni indotte del myst piuttosto che ai ragazzi e la moda.

 Lily ci mise più di un anno a convincere il dottor Mondrian che il loro amore per la scienza li univa, che non cercava corteggiatori belli e ricchi, e più in generale che esistesse in lui una bellezza che altri potevano vedere. Che potevano essere amici.

 Dopo iniziò la loro relazione, l’unica cosa di cui il dottor Mondrian fosse mai andato veramente fiero nella vita. Sebbene lei ancora dovesse battersi perché lui alzasse lo sguardo dai fogli in certi frangenti e guardasse lei, i loro sguardi fuggenti, i baci veloci, i sorrisi accennati, ne era consapevole, erano una ragione per vivere, per essere migliore.

 Metter su casa con Lily non era facile per un umile assistente dei Draklor, doveva lavorare molto, moltissimo perché in due potessero vivere ai margini dell’Archades “Alta”. In questo senso, non era cambiato molto da quando viveva alla giornata nella Città Vecchia: il lavoro era talmente tanto che si scordava spesso di mangiare o dormire.

 Da un po’ erano iniziate le liti e Mondrian iniziava a domandarsi se non avesse ragione lei a preferire una vita povera dove avessero più tempo per loro due. Terminata questa missione ne avrebbero riparlato, pensò Mondrian; lui non era il massimo per parlare ed esprimere sentimenti, ma Lily lo avrebbe aiutato. Lo faceva sempre. Per quanto lui ne fosse ancora incredulo, dopotutto lei lo amava.

 Lo riportò al presente il rumore della tazza che il tremolio aveva trascinato per tutto il tavolo e scaraventato per terra, frantumandola. Si domandò cosa diavolo faceva ballare tutto in questo modo, e finalmente notò un dato strano: in quattro macchine  l’equazione si era sbilanciata in basso, X  uguale a zero, mentre in una era salito ad un improbabile valore di settemila. Nelle altre due accanto i valori X iniziarono a precipitare.

 Sorrise: era la cosa più interessante che capitava da un bel po’. Era ancora concentrato su Lily, su come al ritorno le avrebbe detto che potevano anche cambiare appartamento e che lui avrebbe lavorato meno.

 Poi crollarono tutte le altre equazioni fin dove lui arrivava a vedere, e lì iniziò ad agitarsi: sembrava che un motore solo stesse risucchiando l’energia dagli altri. Accese l’altoparlante per chiedere spiegazioni, e in quel momento suonò l’allarme. Qualcosa non andava per niente. Dall’altoparlante uscirono frasi sconnesse che dovevano venire da tutta la nave.

 “-isucchiando –ergia –lla nave.”

 “Sconnet- -utto, subito!” questa era la voce del Iudex Magister.

 “-tiamo -rovando! -tile!” ora riconobbe una giovane dottoressa dell’equipe scientifica, era lei a parlare.

 Chiese diverse volte cosa succedeva, ma non rispose nessuno, erano tutti troppo presi. Alcune macchine smisero di battere, come se ci fosse un blackout. Non gli avevano detto niente, quindi non poteva diagnosticare il problema e risolverlo. Doveva ricorrere all’intuito, capire cosa succedeva con quei pochi elementi in suo possesso e progettare una soluzione in tempo reale.

 Si girò d’istinto. Quando aveva difficoltà con un problema matematico si girava verso Lily che leggeva al suo fianco; lei aveva spesso qualche suggerimento utile e quando non l’aveva lo convinceva a fare una pausa e riposarsi. Il gesto di cercarla accanto a lui gli era rimasto, anche quando avevano iniziato a lavorare distanti.

 Ebbe il tempo di provare una certa delusione perché Lily non era lì a sorridergli.

 Poi la stanza fu risucchiata come fosse carta stesa sull’acqua, e una parete compresse la parte inferiore del suo corpo costringendolo a sputare un fiotto di sangue denso verso l’alto. La stanza, ormai ridotta a lamiere appallottolate, volò via e per un istante quella cosa rotta, sanguinolenta e agonizzante che era stato Severus Mondrian vide il cielo aperto, e un puntino luminoso dentro il quale tutto si tuffava ad alta velocità, come se il mondo intero volesse rinchiudersi in quel centro d’attrazione. Gli sembrò quasi buffo per quanto era esagerato, fisicamente assurdo.

 E poi fu la fine.

 Il dottor Mondrian non seppe mai della Negalite di fattura divina, e non conobbe mai chi l’aveva creata. Non seppe nulla dei meticolosi piani di Vayne Solidor, non seppe dei tradimenti del giudice Ghis e del capitano Vossler, così diversi e che pure in pochi momenti sarebbero finiti entrambi come lui, non seppe della pietra e della sua volontà di non essere usata da nessuno se non dai discendenti del Re-Dinasta, e non conobbe la discendente di questi, Ashelia, e la sete di vendetta che la opprimeva come una condanna, e non vide la piega che avrebbe preso la storia di Ivalice dopo quel giorno.

 Mondrian, il suo duro lavoro, il suo genio matematico, il suo amore, vennero cancellati come dettagli ininfluenti dalle pagine della storia in quello splendore, assieme a molti altri. Lui, come loro, non era un protagonista, solo una comparsa. Solo una ragazza, da qualche parte in un appartamento troppo grande, lo avrebbe pianto.

 
 
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 L’atomos iniziò a traballare e tutti si affacciarono a vedere cosa succedeva. Il corpo massiccio e argenteo del Leviathan, la sua forma di cetaceo enorme e placido nei cieli, veniva risucchiato tutto entro un unico punto, malgrado fosse in tutta evidenza fisicamente impossibile rinchiudere tutto quel metallo in quella sorta di piccolo astro splendente. Sembrava che semplicemente quella luce accecante stesse divorando con avidità il cielo senza mai saziarsi.

 Tutto tremava.

 In pochi secondi, tutta la Leviathan fu compressa. Poi la luce esplose, e il cielo fu un’unica distesa di luce. Lo splendore però si diradò in fretta, e tutto si tinse di arancioni impossibili

 “La cosa potrebbe farsi movimentata.” Commentò l’unico che non fissava fuori, il pirata intento a tenere il controllo della navetta.

 “Il myst… si manifesta…” balbettò Fran.

 “E così che lo chiami?” chiese Vaan spaventato, guardando il cielo intorno a loro colorarsi di arancio e sentendo il calore che saliva nella navetta.

 Dall’epicentro dell’esplosione si sprigionarono delle lingue di energia dalla forma strana, come teste di serpente che si muovevano con una loro volontà.

 Si mossero come predatori, ora trapassando, ora azzannando, ora stritolando tutte le navi dell’Ottava Flotta Imperiale: l’Ifrit, dalle possenti fauci fiammeggianti, fu perforata più volte e sbriciolata; la Shiva, come un’elegante punta di freccia in cristallo scintillante, venne afferrata da una bocca fiammeggiante e sballottata come un giocattolo. E molte altre navi furono puntate, predate e distrutte, risparmiando solo le più piccole e lontane. Un’esplosione che si comportava come un mostro affamato.

 Nella Shiva, ancora curvo per le ferite, Vossler alzò lo sguardo e vide le pareti sciogliersi in luce. Si rese conto in quel momento che il suo tradimento non chiudeva un capitolo della sua vita, ma poneva proprio fine alla vita stessa.

 Riflettè sulla prima, lunga parte della sua vita che aveva impiegato a uccidere semplicemente perché era stato istruito per questo. Che spreco era stato! Poi, paradossalmente, era stata la disfatta del suo paese a fargli capire cosa importava davvero, cosa doveva proteggere. Mentre la luce si avvicinava per investirlo, fu certo che la principessa e il suo vecchio amico avevano capito il suo gesto, che aveva forse fatto un errore, o forse piantato un seme che molto dopo sarebbe fiorito: il tempo avrebbe deciso. E con lo sguardo rassegnato, abbracciò la compagna che lo aveva seguito per tanti anni sui campi di battaglia, e che aveva scelto sempre altri e non lui: la morte lo chiamò a se, e finalmente la guerra, per Vossler York Azelas, ebbe fine.

 Basch pensò al suo amico, all’eredità che gli aveva lasciato, al fatto che in quel preciso momento veniva vaporizzato; e si volse verso la principessa per vedere se lei pensava alla stessa cosa. Ma notò che lei aveva la mente e lo sguardo altrove: seguiva un oggetto minuscolo, ma ben visibile, che precipitava a tutta velocità verso terra lasciandosi dietro una vistosa scia.

 “Cos’è?” chiese Penelo, osservando quel piccolo oggetto che solcava il myst.

 “Credo sia il Frammento d’Aurora.” Rispose Ashe, con uno strano tono di voce da ipnotizzata.

 Nessuno le chiese come poteva saperlo.

 “Allora che aspettiamo?” Balthier virò per seguire il frammento nella sua corsa verso lo schianto.

 Proprio in quell’istante una striscia d’energia, che trascinava via una nave come un uccello fa con un pesce infilzato dal becco, li sorpassò. Un alettone si sganciò, colpendo la loro atomos di striscio, e facendola girare su sé stessa.

 Vaan battè talmente tanto la testa contro il sedile che gli sembrò che il sedile lo stesse picchiando di proposito. Mentre perdeva conoscenza, vide Balthier dare con forza un pugno su un grosso bottone illuminato di rosso.

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 Quando Vaan riaprì gli occhi, era sospeso in una massa d’oro, che ondeggiava come liquida. Si rimise in piedi, scrollandosi una complicata bardatura di dosso, e riconobbe che le sue spalle erano attaccate ad un paracadute.

 Non era oro, ma spighe. A intervalli regolari, sulle sterminate distese di spighe carezzate dal vento, spuntavano come conficcate nella terra le grosse rocce che, splendendo di luce dorata, prestavano la loro luce a tutta la piana: elioliti, al massimo splendore aureo che prendevano al picco della stagione calda, prima che iniziasse la stagione delle piogge.

 Capì abbastanza rapidamente che la flotta e poi la scialuppa dovevano aver volato un bel po’, perché quella era la pianura di Giza, a quasi un intero giorno di volo dal Mare di Sabbia Yensa. La botta lo aveva messo a dormire di brutto, rifletté.

 Si volse intorno, cercando gli altri.

 Solo spighe dorate e vento.

 Provò a chiamare Penelo, ma il vento si levò più forte, fino a coprire la sua voce. Queste folate furibonde erano tipiche degli ultimi giorni di sole a Giza.

 Rabbrividì: sapeva bene che se i villaggi nomadi intorno Giza erano distribuiti a distanze regolari, proprio per impedire che qualcuno si perdesse nelle distese, d’altro canto c’erano zone lontane dalle porte di Rabanastre dove la pianura proseguiva sterminata e nessuno si avventurava per la mietitura. Le spighe alte gli dissero che era lì che si trovava.

 rovò un brivido d’eccitazione: era completamente solo, e il gusto di quella sottile angoscia era simile a quello dell’avventura. Ricordò quando, settimane prima, era uscito nel Deserto Ovest e aveva visto la caccia di un Geodrago… quando aveva iniziato la saga del grande pirata Vaan, pensò, e sorprese sé stesso: ora lo pensava con una certa ironia, quasi un biasimo sottile.

 Poi prevalse l’istinto di sopravvivenza, e smise di rimanere immobile in mezzo al grano alto: lì cacciavano i fang. Corse verso il primo promontorio che trovò e si pose in una posizione soprelevata. Si portò le mani al fagotto legato alla spalla e lo tastò, come per rassicurarsi: quando aveva visto la flotta arcadiana sulla Tomba di Raithwall, per primissima cosa aveva nascosto le tre spade nel fagotto facendole entrare a forza, e per fortuna non gli avevano sequestrato subito anche quello. E ormai non lo avrebbero fatto più.

 Provò un moto d’orgoglio: Balthier non aveva pensato niente di simile, eh!

 Forse era morto, pensò. Forse erano morti tutti, tranne ovviamente Penelo. La sua mente non poteva accettare l’idea che Penelo non ci fosse più. Doveva essersela cavata, come lui. Per forza.

 D’un tratto li vide. Fang, c’erano davvero. Quelli di Giza avevano un colorito diverso da quelli del deserto, del resto in ogni angolo del mondo prendevano colori diversi, per mimetizzarsi. Stavano muovendosi in coordinazione per i campi, lasciando linee di spighe calpestate dietro di sé che erano più visibili del loro stesso corpo. Tra le spighe era impossibile vederli, ma dall’alto quelle ombre scure nel grano erano inequivocabili, e abbastanza spaventose.

 Passarono tre batuffoli di pelo saltellanti, dai colori vivaci: Vaan riconobbe dei muu, come quello di Dalan. Stranamente, però, le linee non convergevano sui muu, che pure dovevano essere delle prede succulente. Dove andavano? Dovevano avere un altro obiettivo, per snobbare i muu. Vaan si alzò in piedi per vedere meglio dov’erano diretti.

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 Per quella colazione sull’aeronave da crociera, come spesso accadeva, le loro conversazioni furono sentieri tortuosi e accidentati dove Drace doveva evitare con cura ogni ostacolo, ogni cosa che potesse incrinare i loro rapporti. Come qualsiasi guida, anche il giovane Solidor poteva essere difficile da trattare e da capire.

 Prima avevano preso arance fresche, dato che com’è noto fanno bene a colazione, e il cameriere aveva fatto delle infelici osservazioni su come dall’occupazione di Dalmasca le arance fresche non fossero più una rarità, e Larsa s’era fatto scuro in faccia.

 Poi, mentre Drace sbocconcellava pigramente il suo “muffin” alla pancetta e tirava qualche forchettata alle uova strapazzate, Larsa aveva esordito scherzando: “Mia madre usava dire che chi inizia la giornata col salato avrà una giornata salata.”

 Drace sapeva bene che la madre di Larsa era morta dandolo alla luce. Eppure lui parlava sempre di lei con naturalezza, come se fosse stata presente e viva nella sua infanzia, e lei sapeva che doveva essere così grazie ai racconti del fratello maggiore. E poteva solo evitare l’argomento.

 Si versò un bel po’ di caffè dalla brocca, e subito dopo anche Larsa macchiò il suo latte: “Signorino!”

Larsa sorrise all’ammonimento: “Non sono più un bambino, Drace.”

 Mentre diceva così, dalla crosta del suo cornetto si rovesciò un complesso intreccio cremoso di cioccolato bianco e nero che si spalmò vistosamente sulla sua veste.

 “Se così dite…” commentò lei simulando un tono stizzito per prenderlo in giro, e prese un fazzoletto per pulirlo.

 Lui stette al gioco, sbuffando proprio come un bambino capriccioso. La rassicurava vederlo così, finchè mostrava un lato fanciullesco e spensierato lei riusciva a sentirlo vicino a lei, e non a Vayne.

 Vayne, del resto, non aveva certo quel modo di scherzare, e per la verità nemmeno indulgeva, di certo, in quelle colazioni principesche. Piuttosto era noto per mangiare, quando possibile, il rancio freddo insieme ai suoi soldati, e tenere ogni sorta di abitudine austera conosciuta nella vita marziale, quasi come per punire sé stesso. Una condotta che lo rendeva popolare nell’esercito quanto nessun Solidor era stato prima.

 Rimettendo i due fratelli a confronto, però, sentì montare l’impazienza.

 “Non pensate sia l’ora di dirmi dove siamo diretti e a far cosa?” chiese con durezza mentre Larsa guardava placido il cielo scorrere fuori da dietro la tazza di caffellatte.

 Larsa si prese il suo tempo prima di posare la tazza e rispondere: “Conoscete il Bancour? E’ una piccola regione del Kerwon.”

“Naturalmente. Cosa andiamo a fare nel continente selvaggio?” apprendeva solo in quel momento che Rabanastre non era la loro ultima meta.

 Lui rispose, repentinamente: “Cosa sapete della Negalite?”

 “State cambiando argomento, forse? Comunque sia…” cercò di ricordarsi una relazione dei Draklor Labs che aveva fatto molto discutere qualche mese prima, e citò testualmente: “Come sappiamo esistono tanti tipi diversi di magilite quanto esistono diverse magie, e forse più, e ciascuna reagisce in modo diverso agli stimoli esterni. Tuttavia la Negalite ha un comportamento del tutto diverso che potrebbe-”

 “ …rivoluzionare lo studio e l’utilizzo della magilite sia in senso teorico che pratico.” Continuò Larsa “Una magilite che risucchia attivamente ogni forma di myst, apparentemente senza limite, e sarebbe anche in grado di rilasciare il myst assorbito in certe condizioni. Una simile magilite avrebbe applicazioni infinite: vololiti ricaricabili o di maggior durata, per esempio; o magiliti i cui effetti si possono programmare con la magia, anziché rimanere immutabili dall’estrazione alla consumazione.”

 “Per non parlare degli usi militari, che nei rapporti dei laboratori non figurano quasi mai.” Aggiunse Drace quando Larsa ebbe concluso la citazione “Basti immaginare dei soldati che non possono essere colpiti dalle magie in battaglia, e anzi si nutrono di ogni flusso magico.”

 “E infine consideriamo il valore scientifico: se la Negalite potesse davvero riassorbire i flussi di myst di altre magiliti, potremmo dover riconsiderare il secondo principio della termodinamica e-”

 “Signorino!” sbottò Drace “Stiamo decisamente divagando. Ogni anno i Draklor presentano rapporti e relazioni su miracolose scoperte che rivoluzionerebbero la scienza dalle sue fondamenta. Spesso non vanno da nessuna parte e servono solo come scuse per divorare le finanze imperiali.” Si interruppe per un sorso di caffè e una forchettata di uova.

 “Ammetto che questa volta le cose sono un po’ diverse. So che qualche prototipo di questa favolosa Negalite è venuto fuori dai Draklor. Ma so anche che la Negalite reale non funziona bene come quella teorica, che forse esiste solo nei sogni del Dottor Cid. E comunque, cosa c’entra con il nostro viaggio in incognito nel Bancour?”

 “Diciamo che ho fatto delle ricerche per conto mio, e ho trovato qualcuno abbastanza sconsiderato da rispondermi con sincerità.” Larsa iniziò l’assedio ad un secondo cornetto omettendo di dire che era proprio il Dottor Cid il misterioso informatore, però specificò per correttezza: “Qualcuno di cui voi non vi fidereste, ma il mio istinto dice che l’informazione è attendibile. E di me, spero che vi fidiate.”

 Drace si trovò costretta ad annuire, mentre finiva il “muffin”.

 Larsa continuò: “Insomma, lo scopo della spedizione è rimediare alla nostra incresciosa ignoranza in materia di Negalite.”

 “Nel Bancour?” e visto che Larsa annuì senza spiegarsi, insistette: “A cosa può servire essere esperti di qualcosa che ancora nemmeno esiste?”

 “Supponiamo, Drace” disse, finalmente fissandola con serietà “Che la Negalite …reale, di cui parlate, sia in effetti un’imitazione di un’altra Negalite che potremmo definire autentica. Il Iudex Magister Ghis, che al momento si sta occupando dei negoziati di pace con la resistenza dalmasca, ha svariate informazioni in merito. Allora che mi direste?”

 “Che di questa Negalite per così dire autentica non si è mai visto, né sentito nulla. E Ghis è abbastanza incapace in tema di legge, ed è meglio che non estenda la sua incompetenza alla scienza e a nessun’altro campo.” Solo la sua fede incrollabile in Larsa gli permise di reggere quella conversazione, perché con qualunque altro interlocutore avrebbe interrotto il discorso da tempo.

 La faccia di Larsa, stavolta, si fece completamente scura: “Permettetemi di supporre ancora una cosa: che nelle nazioni di Dalmasca e Nabradia si trovassero i rarissimi esemplari di questa Negalite originale. Ricorderete, Drace, una misteriosa esplosione che ha spazzato via Nabudis e le nostre armate, guidate dal Iudex Magister Zecht e… sterminato migliaia di nabradiani e arcadiani.”

 “State cambiando di nuovo argomento e-”

 Drace si zittì di colpo, l’immagine di migliaia di vittime, e di ciò che veramente li aveva uccisi, e del ruolo dell’Impero nelle loro morti, improvvisamente balenata con vivida chiarezza nella sua mente.

 Dopo che l’aristocrazia militare nabradiana era piombata nella guerra civile con i proprietari terrieri, per rafforzarsi aveva stretto i rapporti con Rozarria e Dalmasca; bisognava agire, invadere subito, prima che Nabradia si riprendesse e formasse un’alleanza indissolubile. Così si era sostenuto, e l’Imperatore si era convinto, e mosso, con una strana solerzia. Ora Drace vedeva chiaro: erano state tutte scuse, semplici pretesti per accaparrarsi quel’allettante potere distruttivo che in qualche modo era sfuggito al controllo.

 Lasciò cadere il “muffin” alla pancetta sul vassoio e si diresse nelle sue stanze, in preda ad una nausea irresistibile.

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 Ashe fece giusto in tempo a voltarsi prima di vedere il fang in aria, pronto ad azzannarla. Vaan uscì ad una velocità irreale dall’erba alta e tirò un pugno sul muso della creatura. Dal suo guanto uscì con uno scatto una lama lunga e aguzza che trafisse la gola del fang, e questi stramazzò a terra con appena il tempo di guaire.

 Le prese la mano, e ordinò: “Corri!”

 Non si fece trascinare con facilità, e Vaan si arrabbiò: “L’eliolite! Dobbiamo correre verso la luce dorata! Capisci?”

 Lei strattonò ancora un paio di volte in direzione opposta, poi si rassegnò. Corsero, e lei sentì nettamente delle presenze tra le spighe, che li braccavano con tenacia. Arrivati all’eliolite, Vaan si fermò, ansimando.

 “Non stargli troppo vicino, l’eliolite scotta! Ma quelli ne stanno lontani.”

 Ashe continuò a fissare da un lato, muta.

 “Non hai mai troppi coltelli nascosti, eh!” enunciò Vaan con l’aria di chi la sa lunga, mentre nascondeva di nuovo la lama nel guanto; ma voltandosi verso Ashe, la trovò di nuovo apatica.

 “Principeeeessaaaa? Sveglia!”

 Lei continuò a guardare altrove, e lui perse la pazienza: “Adesso cosa cavolo avete?”

 Lei lo guardò di nuovo, stranita, e disse piatta: “Dobbiamo andare.”

 Vaan dovette praticamente fermarla con il suo corpo perché non rientrasse nell’erba alta: “Ma che vi prende! Fermatevi! Come farete con i fang?”

 All’improvviso, con un’ondata di calore che fece rizzare i capelli a Vaan, l’imponente figura di Belias apparve dietro la principessa. Prima che potesse dire qualcosa, Belias issò entrambi sulle spalle.

 “Ecco come faremo.” Commentò con semplicità, mentre Vaan vedeva dall’alto i fang fuggire in preda alla paura per quell’essere soprannaturale.

 “Bè… sì… questa mi sembra una buona idea.” Né la principessa né il suo esper badarono a lui, e Belias si mise in cammino, di nuovo verso la stessa meta.

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 Camminarono a lungo, fu quasi buio. Ashe non parlava mai e fissava sempre l’orizzonte. Ad un certo punto Vaan sentì come se il suo corpo affondasse in quello di Belias, e si rese conto che l’esper stava diventando trasparente e incorporeo. Svanì, e lui ed Ashe arrivarono dolcemente a terra.

 Si persuase che erano partiti dalla parte più estrema di Giza, all’opposto di Rabanastre. Infatti ora stavano tra al confine tra Giza e il deserto. Zona non troppo sicura, specie di notte.

 Ashe continuava a camminare spedita e in silenzio, e Vaan iniziò a considerare di fare qualsiasi cosa potesse scuoterla e farla reagire, ma non gli venne in mente niente di troppo consigliabile. Senza niente di meglio da fare, decise di ingannare il tempo fissandole il sedere, così evidenziato da quella minigonna in magenta.

 Era proprio una ragazza attraente, pensò. Doveva essere bello farsi una nobile, con quei lineamenti fini, la pelle chiara, i capelli color sabbia… peccato che fosse assolutamente insopportabile, come dimostrava trattandolo con tanta superiorità da non dirgli nemmeno dove andavano… forse no, non era un grande affare farsi una nobile.

 Ashe si fermò di botto e Vaan, gli occhi ancora piantati sul fondoschiena di lei, riuscì solo all’ultimo secondo a non sbatterle addosso.

 Nell’esatto punto in cui finiva l’erba e iniziava la sabbia, si era aperto un enorme cratere rotondo, ancora fumante. Nel semibuio della notte, Vaan vide perfettamente una figura evanescente risalire il cratere, e porgere una mano ad Ashe. Come nella Tomba di Raithwall, nel vedere chi era si sentì rincuorato e spaventato al contempo.

 Ashe dal canto suo porse semplicemente la mano a Rassler, per riaprirla e ritrovarci una seconda volta il Frammento d’Aurora. Una seconda volta Rassler fece cenno con la testa, per poi sparire. Ashe osservò il lascito di suo marito nella sua mano, notando che non splendeva più e anzi ora ricordava la nera e lucida ossidiana. Ma guardarla dava ancora uno strano effetto.

 Si voltò verso Vaan. Al ragazzo sembrò che ora che riaveva la pietra, fosse tornata in sé. Gli occhi chiari lo squadrarono a lungo, e gli sembrò immensamente triste.

 “Che… che ti guardi? Dacci un taglio.” Sbottò quando non resse più quello sguardo.

 “Mi hai salvato la vita.” disse lei, infine.

 “Sì, bè… sveglia! E’successo ore fa.”

 “E’ così… e ancora prima, al nostro primo incontro.” Continuò inespressiva.

 Non capendo dove volesse andare a parare, mimò un inchino e disse con un certo sarcasmo: “Prego, maestà.”

  “Forse mi merito il tuo dileggio. Non dev’essere facile avermi come compagna di viaggio.”

 Totalmente spiazzato, non riuscì a pensare un granché di risposta: “E che cavolo è un dileggio? Sembra il nome di un formaggio.”

 Lei cercò di toglierlo dall’imbarazzo il più rapidamente possibile: “Comunque sia, vorrei ringraziarti.”

 Si avvicinò a lui, gli venne vicinissima. E con visibile sforzo gli tese la mano.

 Lui la rifiutò, imbarazzato: “Quanto sei pomposa! E non dare la mano a quel modo, pare che mordo. Non c’è di che. Storia chiusa. Conto pari. E’ a posto. Stai manza.”

 “Stai… manza…?”

 Per un po’ si guardarono stralunati, poi lei riprese la parola: “Credo di aver camminato senza sapere dove andavo. Me ne scuso. Non so dove siamo, e dovremmo trovare un rifugio per la notte.”

 “E’ a posto. Ci pensa Vaan. Ok?”

 In realtà non seppe bene come pensarci, se non percorrendo il confine per un bel po’, fino a trovare fortuitamente una galleria che si estendeva sotto l’erba alta.

 “Eccone una! Una galleria dei muu! Non per nulla lo avevo previsto!”

 “Non sapevo che i muu scavassero.” Commentò lei, e aggiunse: “Io però li ho sempre visti addomesticati. Ma… saremo al sicuro, qui?”

 “Non senti i racconti dei vecchi pirati? I fang non entrano mai nei posti con una sola entrata. I pirati che restano a piedi per le pianure cercano sempre vecchie tane dei muu.” Disse mentre scostava un po’ di sterpaglia e cercava di misurare lo spazio “Fidati, ho pensato a tutto.” mentì spudoratamente.

 “E tutto ciò che… non è un fang?”

 “Quanto rompi! Farò la guardia. A posto?”

 “Farò la guardia anche io!” protestò lei “Non per via del mio rango io-”

 “Sì, come ti pare.” La zittì lui, brusco “Allora io dormo per primo eh?”

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 In realtà nessuno dei due riuscì a chiudere occhio per la prima ora: da fuori venivano ululati continui, e dentro c’era appena abbastanza spazio da stare tutti e due seduti, l’uno accanto all’altro. Il che era per un verso necessario, visto che arrivava il freddo notturno e la vicinanza gli impediva di assiderare.

 Ma dall’altro fu piuttosto imbarazzante per entrambi: lui l’aveva sbirciata meno di un’ora prima e ora se la ritrovava incollata addosso, e lei non sentiva il corpo di un ragazzo così vicino da più di quanto volesse ricordare. Vaan pensò a Penelo: se ci fosse stata lei al posto di Ashe, la cosa poteva avere risvolti interessanti… Ashe pensò a Rassler, a quanto le sue apparizioni fossero diverse dal ragazzo che aveva sentito sulla pelle...

 Tutti e due fissavano tesi il pezzetto di cielo visibile dal fondo della galleria, sperando che l’ombra di un predatore non coprisse mai le stelle. Ashe aveva esaurito la magia dopo due evocazioni, e Vaan non si sentiva troppo sicuro di poter abbattere qualsiasi mostro avesse mai calcato il suolo di Ivalice.

 Ad un certo punto, Vaan non resse la monotonia e parlò: “Chissà che fine avranno fatto gli altri.”

 “Staranno bene.” Ribattè lei d’istinto, e lui gli fu grato senza capirne il motivo.

 “Ora riavete la Negalite.” Cercò di farla parlare dell’apparizione.

 Invece lei disse pianissimo, e senza guardarlo, quasi se ne vergognasse: “Puoi darmi del tu, se vuoi.”

 
Vaan non gradì la sua formalità, come sempre: “Gran chissenefrega. Cosa ci farai con la pietra?”

 Rivide la luce dell’ossessione accendersi nei suoi occhi, stavolta più forte che mai: “Lo hai visto.” cercò la pietra e la strinse nella mano “Quello splendore.”

 “Eccome.”

“Un potere capace… di affondare l’Ottava Flotta Imperiale.” Contemplò lei, con tono rapito.

Vaan cambiò argomento senza volere: “Vossler dev’essere morto.” E sentì il corpo di lei sussultare.

“Scusa. Non volevo ricordartelo così.”

“Non essere assurdo. Non ho nessuna simpatia per lui. Ha avuto le sue ragioni, ma ha tradito me, la Resistenza, e Dalmasca stessa, e questo conta. Non è tempo questo per essere sentimentali: ha ricevuto quanto meritava.” La voce con cui lo disse era strana, stonata.

Vaan si voltò verso di lei e vide con chiarezza, illuminate dalla luce notturna, delle grosse lacrime che le solcavano il viso. L’istinto gli disse che era meglio non dire niente. Sentì che lei tremava e piangeva, senza emettere il benché minimo suono. Si avvicinò un po’ a lei.

Dopo poco, lei poggiò la testa sulla sua spalla, senza dire niente.

“Ashe?”

“Dimmi.” Si doveva abituare, ad essere chiamata per nome.

“Allora, che cavolo è un dileggio?”

“Una presa in giro.”

“Che cavolo, potevi dire subito così.”

“Vaan?”

“Sentiamo.”

“Cosa vuol dire stare manzi?”

“Stare… come dei grassi chocobo pascolanti. Ma senza mangiare erba o… avere piume. O essere grassi. Aspetta, dimentica tutta questa roba: diciamo che significa stare sereni.”

“…sereni.” Ripetè lei, e mentre l’ultima parola le moriva in bocca, Vaan sentì distintamente che si era addormentata.

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“Dunque, cosa mi dite?”

“Che sono nel buco.” Commentò Fran, spolverandosi i capelli color platino da un po’ di sterpi.

“Allora è vero: l’istinto delle viera non sbaglia mai.” Riconobbe Basch, mentre ripuliva la lama dal sangue di un branco di fang “Siete stata sbalorditiva.”

“Non mi chiedete come hanno trascorso la notte?” insinuò Fran, con un sorriso appena accennato.

“Credo non mi riguardi.” Commentò tranquillamente, ma Fran intuì che aveva colto la provocazione.

Il pensiero della possibilità che la sua principessa avesse una relazione con un plebeo non sembrava turbarlo. Allargando appena il sorriso, concesse: “Siete un hume piuttosto insolito.”

“Tutti sono insoliti.” Sminuì, rinfonderando la spada dell’Ordine Dalmasco.

“Comunque, in tutta evidenza hanno solo dormito.”

“Sia come sia, toccherà svegliarli.” Disse con una certa energia, e Fran si preparò a lanciare un razzo di segnalazione con la pistola che gli aveva lasciato Balthier.

Ripensando a Nono che accorreva rapidamente a prendere gli ultimi due dispersi, ed a Penelo che scendeva preoccupata dalla Strahl, disse: “E’ meglio che li tiriate subito fuori di lì.”

Basch rise sommessamente: aveva colto, di nuovo.

Appena il capitano si addentrò nella galleria, la viera si incupì. Non temeva la principessa come rivale per l’affetto di Balthier, ma aveva percepito che lei portava di nuovo la pietra con sé. E il passato sì, che era un rivale ostico.

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 Ce l'ho fattaaaaa! Ho recuperato il mese mancante! E dire che sono già al lavoro sul prossimo! 

Come ho detto qui succedono cose che nel gioco in massima parte mancano, ma secondo me avrebbero dovuto esserci. Il che del resto è lo spirito di tutta questa fanfic, no?

La parte del Dr.Mondrian l'ho scritta di getto, ed è ex-novo. Fatemi sapere cosa ne pensate.

A proposito di Larsa e Drace, il loro spazio si amplia sempre di più... vedrete molto di loro due nel prossimo capitolo. E per chi come la mia findanzata pensa che Larsa è "Una Mary Sue, troppo perfetto!" non temete, arriverà il momento in cui lo vedrete sotto una luce diversa, più umana.

Per il resto: Hagaren, Vossler non era ancora morto! Dagli il tempo!

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Capitolo 26
*** Conseguenze ***




“Fatemi capire bene… state forse prendendomi in giro?”

Ondore mise giù il lungo e stretto bicchiere di cristallo blu scuro, in tono con il suo studio.

“Non mi permetterei giammai, Eccellenza.”

“Lo so! Era ironico.”

Per abili che fossero nella cortigianeria, i rebe erano culturalmente negati per afferrare l’ironia, era chiaro dopo anni di inutili tentativi che non c’era educazione che tenesse. Ondore bevve un altro sorso di “lassi”, la caratteristica bevanda bhujerbese a base di yoghurt, ghiaccio e spezie. Agitò il bicchiere, guardando i grani di pepe e cumino danzare in tondo sul bianco per un po’, per ingannare il tempo.

“Ashelia non dice altro?”

“Nient’altro” confermò il rebe dal pelo rossiccio, riepilogando: “vi avvisa che l’Ottava Flotta è perduta, e assicura che non uscirà allo scoperto fino al momento opportuno.”

“E tu che ne pensi, Kaleb?” chiese versando altro lassi dalla brocca.

Il rebe riflettè per pochi secondi. Era abituato a riflettere a lungo su tutti gli eventi che circondavano la vita del suo signore, così da poterlo consigliare se e quando fosse richiesto.

“Sicuramente lady Ashelia non rende nota la sua esistenza per preservare la credibilità di chi l’ha data per morta, cioè voi, presso i movimenti anti-imperiali. Implicitamente quindi invita voi a farvi guida di questi movimenti, anziché lei, e questo pone la questione di cosa intendiate fare riguardo a tale invito.”

“Già. Il punto è, perché?”

Il rebe si perse ancora qualche secondo nei suoi pensieri, poi parlò: “Immagino concorderà che, se vuol lasciare a voi la guida della Resistenza, intende cimentarsi in qualcosa che richieda un livello di segretezza estremamente alto, tale da rendere la Resistenza, possiamo dire, d’impiccio.”

“Infatti. Nessun’altra spiegazione ha senso.” Confermò il Marchese continuando a giocherellare nervosamente con il bicchiere.

Rifletteva.

Quanti movimenti, guerriglie, cellule anti-imperiali potevano esistere sparse per Ivalice? Quante nei sotterranei delle grandi città, quante nascoste in posti sperduti come i villaggi-miniera intorno a Bhujerba, così nascosti nei crepacci da essere invisibili per chi non ci volava dentro? Quanti di questi potevano e volevano aiutarlo, e come? Alcuni erano rivoluzionari che criticavano tutte le monarchie del mondo, e vedevano Arcadia solo come massima espressione del potere politico… pazzi sognatori che non avrebbero accettato facilmente l’aiuto di Ondore, tantomeno la guida; altri erano pacifisti che criticavano Arcadia in quanto nazione guerrafondaia, e certamente non avrebbero imbracciato i fucili diventando ciò che criticavano; altri ancora erano nazionalisti estremisti che sognavano la rinascita di Dalmasca, Nabradia, Landis… e poi c’erano mercenari in vendita al miglior offerente, e agenti segreti infiltrati da Rozarria nei movimenti di mezzo mondo…

Unificare e guidare tutto questo… sembrava un compito mastodontico, quasi impossibile. Eppure, un’altra occasione simile non si sarebbe presentata certamente. Al ritmo a cui andavano le industrie pesanti dell’Impero, in meno di un anno si poteva presentare una flotta di rimpiazzo.

“Quanto all’altro punto di rilievo” continuò Kaleb, visto che Ondore continuava a pensare in silenzio “davvero non immagino cosa possa distruggere l’Ottava Flotta Imperiale in un giorno. Proprio in quanto alla questione più importante, siamo nella più assoluta ignoranza.”

“Essam!”

Al richiamo del Marchese il secondo rebe, dal pelo grigio, che stava tenendo gli occhi socchiusi come un gatto annoiato, li spalancò, puntando le iridi arancioni dritte negli occhi del suo signore.

“Ditemi, Eccellenza.”

“Non ti è mai interessata molto la politica, ma se non sbaglio hai una …discreta cultura in mitologia galteana.” Lo disse con ironia, dato che la cultura di Essam era la sua fama e il suo vanto, ma ovviamente il rebe non la colse.

“Senza falsa modestia, posso dire di sì.”

“Segui il mio ragionamento, Essam: in tre luoghi le armate arcadiane si sono recate, si suppone dietro pressioni di Vayne Solidor, ed essi sono Nabudis, Rabanastre e la Valle dei Morti.” Spostò tre volte il bicchiere, come ad indicarli su una mappa invisibile “Per quanto riguarda Nabudis abbiamo inizialmente pensato che ci fossero ragioni di opportunità politica, per Arcadia, di andare alla guerra, ma lasciamole perdere per ora. In due su tre di questi luoghi le armate arcadiane sono state annientate. Mi segui?”

“Senza difficoltà alcuna.”

“Sappiamo che Vayne Solidor è appassionato di mitologia galteana quanto te. Quindi ti chiedo: quante leggende esistono che correlano questi tre luoghi?”

“Una gran varietà invero, ma posso fare delle ricerche e riassumervi l’essenziale.”

“Che sia fatto. Per te, Kaleb, ho un compito altrettanto delicato.”

“Ai vostri ordini.”

“Spargi la voce che mi sono ammalato e ritirato nelle terre verdi di Dorstonis. In realtà lasceremo il continente volante per il mondo di sotto, e dovrai rapidamente contattare i nostri informatori in tutta Ivalice, che siano pronti a ricevere il sottoscritto in persona. Ci toccherà fare in un mese il lavoro di un anno, quindi signori ci sia di buon auspicio…”

Alzò in aria il bicchiere di lassi: “Brindare…al futuro.”



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Passò un intero giorno di crociera prima che volessero parlarsi ancora. Si guardavano in silenzio lasciando che il cielo plumbeo scorresse sotto di loro, pacifico e indifferente ai loro affanni.

Giocarono a scacchi, un gioco di cui Gramis Gana Solidor era un appassionato maestro, gioco che tra i suoi indiscutibili pregi aveva di poter essere giocato senza parlare.

Larsa non si vantò, come faceva spesso, della sua netta superiorità al gioco. Quando Drace fece cadere l’Imperatore per la terza volta, significando la resa ad uno scaccomatto che sarebbe arrivato in poche mosse, lui nemmeno sorrise; si limitò a riposizionare simmetricamente Arcate, Dragoni, Giudici, gli otto Legionari, l’Imperatore e l’Imperatrice, e guardò la sua compagna di viaggio. Quando lei non toccò i pezzi di vetro limpido, Larsa intuì che non voleva più giocare e si dedicò alla lettura di un libro.

Vedere Larsa curvo su un libro la faceva inorridire. Ricordava terribilmente suo fratello maggiore alla sua età. Quel fratello che era il motivo principale per cui adesso non riuscivano a parlare tra loro. Quel fratello che, come conseguenza accidentale dei suoi piani, aveva causato la rovina di una nazione, la distruzione di un’armata, e lo sterminio della popolazione di una intera capitale. E tuttavia non si fermava, non veniva consumato dal rimorso fino a ucciderlo, come avrebbe dovuto essere.

Il peggio era sapere ben pochi tribunali al mondo, posti su un piatto della bilancia i misfatti di Vayne Solidor e sull’altro i suoi successi per la gente di Arcadia, lo avrebbe condannato.

Perchè l’orrore tutto particolare che avvolgeva Vayne Carudas Solidor consisteva nel fatto che, anche nell’atto di morire, si doveva ammettere la sconfitta morale. Nel dubbio, insomma, che il carnefice avesse sostanzialmente ragione e che la vittima infine dovesse ammetterlo.

L’aveva ereditato dal padre, che in un modo o in un altro aveva purgato l’esercito da tutti i grandi generali e strateghi che premevano contro la democratizzazione dell’Impero, che tramavano colpi di stato. Minacce alla democrazia affogate nel sangue.

Ma gli eroi delle passate guerre non erano liberi nemmeno di morire, se non prima di aver accettato la loro morte come giusta nell’interesse di Arcadia, e di aver accettato il Senator Primus inter Pares, l’Imperatore Gramis Gana Solidor, come colui che veramente rappresentava il bene dell’Impero e aver professato questo credo sul patibolo. Vayne usava lo stesso tipo di annientamento, psicologico quanto fisico.

Non era stato sempre così.

Drace ricordò la prima volta che lo vide, giovanissimo, ad un ballo. Lutho e Kaent erano all’interno a partecipare alle feste, mentre lui stava seduto su un balcone leggendo un libro dall’aria antica con un umano dalle ali scarlatte rappresentato in copertina. Lei, come lui, detestava quelle feste prive di scopo, e fu così che ebbero la loro prima conversazione.

“Cosa leggete?” s’intromise, senza mostrare troppo riguardo per il Casato Solidor di cui Vayne faceva parte.

“La leggenda degli uomini alati, gli aegyl, la razza perduta di Ivalice.” Aveva commentato Vayne senza alzare gli occhi dal libro “Di come si ribellarono agli Dei e furono per questo esiliati in un punto inaccessibile del Continente Fluttuante, l’isola di Lemures.”

Visto che Drace non sembrava interessata, continuò: “E di come, per sopravvivere nella loro landa d’esilio popolata di mostri, sacrificassero parte della loro anima per un potere più grande, ignorando la verità: che proprio i frammenti d’anima cui rinunciavano diventavano mostri, che li perseguitavano costringendoli ad aumentare il loro potere, dissipando le anime, in un circolo vizioso senza fine.”

Ai tempi, Drace era troppo più schietta di quanto una giovane debuttante dovesse essere, e commentò brutalmente: “Che interesse può mai destare una fiaba simile?”

Vayne non si scompose affatto, anzi le sorrise, e finalmente la guardò con occhi penetranti: “E’ molto istruttiva. Tutti noi dobbiamo rinunciare a qualcosa per avere qualcos’altro. E’ una scommessa: cosa finirà prima? La propria anima, o il pericolo che si vuole combattere? Senza accorgercene varchiamo il confine, e diventiamo ciò che volevamo distruggere. Non abbiamo cambiato l’ingiustizia, essa ha cambiato noi. La leggenda ci parla di questo.”

La ragazza non potè non sorridergli a sua volta: “Molto affascinante. Ma ritengo che sia un falso dilemma. Diventare l’ingiustizia che si vuole distruggere è ovviamente il sentiero sbagliato. Non può esserci indecisione, troppe volte la storia ci ha avvertito su dove finisce quella strada.”

“Anche voi siete… molto affascinante.” Rispose Vayne con voce vellutata “Avete ottimi argomenti e li usate con coraggio.”

“Forse sentireste argomenti migliori non rimanendo in un angolo a leggere ad una festa.” Era un passo falso, lui avrebbe potuto ribattere che anche lei si era confinata nel terrazzo; ma si dimostrò più garbato di lei.

“Avete ragione. Ho sopportato una interminabile serie di balli senza scopo come questo, poi mi sono fatto prendere dallo sconforto e ho deciso di astenermi. Ma mi sono sbagliato, visto che a questo ballo ho potuto conoscervi. In verità, non avevo una vera conversazione con qualcuno da non so quanto tempo.”

Arrossendo, lei cercò qualcosa da dire: “Vi ringrazio, altri… avrebbero detto che parlo troppo per una dama nella mia posizione.”

Vayne guardò i due fratelli all’interno del salone, e fece una smorfia annoiata: “Arcadia è certamente piena di splendide dame. Sono tutte così perfette…” nel sentirglielo dire, Drace fu delusa per qualche secondo “ …da essere tutte così insopportabilmente uguali.”

Toccata da quel complimento sottile, lei dovette rifugiarsi nell’istinto di ribattere qualcosa di sferzante e acuto: “Forse credete che il tipico cavaliere arcadiano sia molto migliore delle dame?” provocò.

“Tutt’altro. Spero solo di essere io migliore della media, così forse converseremo ancora.” La sorprese lui, con insospettata dolcezza.

“Lo spero anch’io. Per voi.” Si difese, ironica, prima di andarsene; ma ricordò di Vayne Solidor con una certa contentezza.

Di lì a poco avrebbe iniziato gli studi accademici ed una carriera legale che non solo non li avrebbe più fatti incontrare, ma glielo fece addirittura dimenticare per svariati anni. Quando poi accadde quella cosa, lei non ebbe mai occasione di parlargli. Lo avrebbe rivisto solo molto tempo dopo, e in preda ad un umore decisamente diverso.

In quel loro secondo incontro, era entrata sbattendo la porta. Nell’ampio salone, il Comandante Vayne Solidor, prossimo alla promozione, studiava la disposizione di una piccola flotta a nord-est, dove era incaricato di reprimere una ribellione.

Lui aveva semplicemente alzato lo sguardo, commentando freddamente: “Che piacevole sorpresa. Congratulazioni per la vostra recente nomina, Iudex Magister Drace.”

Non riconobbe lo sguardo e il tono di voce. Era entrata incerta su come trattare il ragazzo affascinante che aveva conosciuto anni prima; ora vedeva che quella persona non c’era da nessuna parte. Di certo l’uno aveva sentito parlare dell’altro attraverso il piccolo Larsa; ma neanche questo creava un minimo di legame tra loro due, lo percepì con chiarezza.

Lo aveva squadrato furibonda e aveva scagliato un fascicolo sul suo tavolo, scombinando i modellini di navette che Vayne aveva disposto meticolosamente sul campo.

“Cos’è?” sembrava impassibile a tutto.

“Sapete bene di cosa si sta occupando tutto il Consesso dei Iudex Magister al momento.”

Vayne guardò calmo e come si aspettava vide lì la piena e totale confessione dei crimini del Generale “Dark” Nessa T. Noon della Prima Flotta Imperiale e delle Armate Imperiali Orientali.

Il Generale Noon era un militare di idee liberali, non discendeva da un casato militare bensì da una famiglia filosofi e intellettuali. Uno dei pochi eroi di guerra che si era schierato contro l’esercito e con l’Imperatore, ed era quindi scampato alla purgazione sistematica dei militari più influenti. Era vecchio, con una faccia stanca, i capelli a spazzola ormai grigi, gli occhiali spessi, ma rimaneva una leggenda vivente per la sua flotta; trattava tutti i soldati come figli, e tutti lo chiamavano “Il mio vecchio”, tranne i colleghi della sua generazione che l’avevano chiamato “Dark” per il suo talento nel dominare appunto le magie d’elemento oscuro. Era anche un discreto combattente malgrado l’età, e spesso partecipava, come anche Vayne, alle sfide amichevoli di corpo a corpo nell’esercito; si diceva che fosse l’unico che con calci e pugni poteva dare filo da torcere a Vayne in persona. Lui e Vayne erano grandi amici, e Vayne era designato come suo più probabile successore.

“Questa è la confessione piena del Generale Noon, in base alla quale verrà giustiziato insieme a svariati sottoposti entro la stagione, se la giustizia farà il suo corso.” Constatò, con tono inespressivo.

“Mi aspettavo che voi testimoniaste per discolparlo!”

“Dark ha confessato-” Vayne si morse la lingua come se chiamarlo per soprannome fosse diventata una bestemmia “Il Generale Noon ha confessato i suoi crimini. Non sarò io a smentirlo. Confermerò semplicemente la parte di cui ero a conoscenza.”

Drace dovette trattenersi dallo scoppiare a urlare.

Sibilò, indicando il fascicolo: “Voi sapete che sono copiose menzogne. Il Generale Noon ha servito l’Impero per tutta la vita, e adesso confessa di aver complottato contro l’Imperatore e con Rozarria per anni e anni? Si assume persino la responsabilità di quasi tutti i fallimenti militari negli ultimi dieci anni, definendoli sabotaggi deliberati allo scopo di danneggiare Arcadia! Forse potete credere queste sciocchezze? Voi lo conoscete-”

Vayne fece un minimo gesto con la mano, come a chiedere cortesemente di lasciarlo parlare. Lei fu colta dalla necessità di obbedire.

“Non vi mancherò di rispetto fingendo di non capirvi. Sappiamo entrambi che sono menzogne. Ma il Generale Noon deve morire e il popolo deve approvare questa scelta.”

Drace si trattenne una seconda volta dall’esplodere, la voce tremava per la rabbia: “State dicendo… che siete certo della sua innocenza e me lo state confessando? Dovrò… tenerne conto al processo.”

“Non dite assurdità. Io non vi ho detto nulla del genere, anzi non ho aperto bocca. In effetti, siete voi piuttosto che siete venuta qui cercando di forzarmi a testimoniare il falso.”

Raggelò. Non seppe cosa dire, di fronte ad una violazione della legge così disinvolta e indiscutibile.

“Ovviamente, neanche questo è effettivamente successo… se vorrete.”

Sentendosi schiacciata dall’efficacia dell’intimidazione, decise che non gli rimaneva che appellarsi ai sentimenti: “Condannate un vostro amico innocente alla morte.”

“Dark non è innocente.” Rispose lui, finalmente chiamandolo come si sentiva di chiamarlo “Ha contraddetto l’Imperatore, che da un anno va sostenendo la necessità di costruire solo aeronavi piccole e agevoli come le Remora o le Carbuncle. Ha sostenuto, e pubblicamente, la necessità di costruire una seconda corazzata pesante, paragonabile all’Alexander. Mio padre crede fermamente nelle navi piccole, Dark nelle navi grandi.”

Per un istante le sembrò che “crede fermamente nelle navi piccole” fosse una frase ironica, una presa in giro, quasi satira politica. Si poteva morire per un credo così infimo? Erano impazziti tutti, o lei soltanto? Navi piccole, navi grandi…

“E questo per voi basta a decretarne la morte!” stavolta non le riuscì di fermarsi, e alzò la voce.

“Dunque non capite cosa c’è in ballo.” ci pensò un secondo e aggiunse con disprezzo: “Ed è deprimente, se si considera che i giudici dovrebbero anzitutto controllare l’esercito. Navi piccole significa ricognizioni, strategie difensive, una politica di stallo con Rozarria. Navi grandi significa un’economia bellica, e la possibilità di riaprire le ostilità, quindi la guerra. Dark ha sbagliato, e quel che è peggio è che riusciva pericolosamente convincente. Deve morire.” Ribadì, implacabile.

“Tutto questo è penalmente irrilevante.” Obiettò lei “Certamente Nessa T. Noon non sostiene le corazzate pesanti per cospirare contro l’Impero o perché corrotto da Rozarria. E’ innocente.”

“Confondete l’innocenza con la buona fede. Anche se agiva in buona fede, ha destabilizzato la politica arcadiana e reso necessaria una seconda purga dell’esercito. E se l’avessimo lasciato fare sarebbe andata peggio.”

“Avreste dovuto combatterlo con il ragionamento.”

“E se fosse stato più convincente? Sarebbe stata guerra mondiale. Migliaia, forse milioni di morti. Invece ce la caveremo con poche fucilazioni.”

“Tutto questo ha senso solo se si accetta come un fatto il sospetto che Rozarria sia pronta a invaderci ad ogni momento! Cosa ve lo assicura?”

“Mio padre è di quest’idea. E se ha ragione, poche decine di fucilati saranno stati un’inezia a confronto delle vite salvate.”

“Se ha torto?”

“La storia è nelle nostre mani. Se mio padre ha torto, avrà fatto la sua scelta. Non siamo oracoli immortali, e dobbiamo arrangiarci con le opzioni che abbiamo. Se ne avete di migliori, non avete che da esporle anche subito.” Si protese in avanti quasi che la richiesta fosse sincera, quasi che davvero aspettasse una soluzione proposta da lei.

Più di tutto, la fece infuriare non sapere cosa rispondergli. Tentò debolmente un’ultima difesa: “Disonorare la sua memoria dovrebbe comunque spezzarvi il cuore. Era vostro amico.”

Per un istante, vide una distinta rabbia sul suo volto: “A differenza di voi, Dark è un grande uomo con una tempra morale inflessibile. Sa bene di aver sbagliato e di dover pagare, e sa che in questo caso ciò che deve fare per servire Arcadia un’ultima volta è morire nella vergogna. Il popolo non è abituato alla verità, complessa e piena di sfumature, ed ecco perché è necessario che appaia un traditore, un criminale, un corrotto. Un eroe decaduto è una figura ambigua e scomoda, e la sua esecuzione potrebbe scatenare una rivolta. Sia Dark che io abbiamo anteposto l’interesse di molti arcadiani alla nostra personale amicizia, e voi disonorate il suo sacrificio.”

“La vostra logica è contorta e malata. Chiamate onore e moralità rinnegare se stessi e mentire, anche innanzi alla morte: vi sbagliate.” Non aveva delle motivazioni razionali per sostenerlo, ma era certa di quello che diceva.

“Vi posso garantire che l’intero Consesso dei Iudex Magister capisce e approva questa logica sin dai tempi della Prima Purga, e da prima ancora. Solo per la vostra inesperienza potete essere stupita dell’ovvio corso che il processo sta prendendo. Certamente riflettendoci capirete-”

“Basta così.” Lo frenò, gelida “Non mi serve riflettere. Io voterò per l’assoluzione, comunque sia. A parte questo, non credo di volervi dire più nulla.”

Si scambiarono un lungo sguardo. Per un’ultima volta cercò in lui il ragazzo colto e affascinante incontrato anni prima. Invano.

“E’ nel vostro diritto.” Disse infine lui, piatto.

Da quel momento, senza una ragione particolare, lo seppe con certezza: alla prima occasione utile, Vayne Solidor avrebbe posto fine alla sua esistenza.

Chissà come sarebbe accaduto? Sarebbe stata avvelenata, assassinata, fatta sparire, come molti generali nella Prima Purga? O già si fabbricava il complotto per portarla sulla forca, come “Dark” Nessa T. Noon e i suoi? Quando quella conversazione inaccorta avrebbe partorito le sue estreme conseguenze?

E mentre sentiva la spada sul collo e la fine avvicinarsi, Larsa voleva concedere a suo fratello il beneficio del dubbio. Era giusto così? Non riusciva a decidersi. Se Larsa avesse complottato a mente fredda l’omicidio di Vayne sarebbe stato un nuovo Vayne a sua volta. Gli ritornava in mente la leggenda degli aegyl che Vayne aveva letto, quand’erano giovani.

Sembrava così simile a Larsa, allora… prima che succedesse quella cosa.



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C’erano stati altri Solidor prima di lui. Gramis era il quarto che nella lunga storia del Casato aveva avuto l’onore di essere insignito del titolo di Senator Primus Inter Pares dai Senatori che rappresentavano la volontà del popolo arcadiano.

In un certo senso era stato il più ligio all’ideale di democrazia che ispirava Arcadia: aveva limitato il potere dell’esercito, e impedito in svariate occasioni che i Generali trasformassero la democrazia in una dittatura militare. Era stato un innovatore: solo adesso, quasi vent’anni dopo, il Casato Margrace, a Rozarria, aveva avuto il coraggio di iniziare riforme democratiche simili alle sue.

Da un altro punto di vista era stato il meno democratico di tutti. Era ricorso ad ogni mezzo per raggiungere i suoi scopi, dalla burocrazia alla corruzione, dall’omicidio politico ai finti processi, dal dibattito alla congiura. Mai nessuno prima di lui aveva vantato un potere così vicino a quello di monarca assoluto, mai nessuno aveva con tanta facilità potuto decidere la vita o la morte dei suoi sudditi.

Lui aveva rappresentato il punto di svolta nella storia, quello in cui Arcadia era chiamata a decidere tra le sue due nature: la democrazia e il Senato o la monarchia, l’Imperatore.

Da quando questo era divenuto chiaro, Gramis era mostruosamente solo. Ogni giorno, ogni ora, ogni conversazione per quanto innocente potesse sembrare, faceva parte di una guerra psicologica. Una guerra combattuta con parole gentili e profferte di rispetto, sorrisi e strette di mano, ma il cui vero scopo era delimitare il suo potere, rimpicciolirlo fino a distruggerlo. Una guerra dove non poteva usare il pugno di ferro come in passato, o avrebbe dimostrato di essere una minaccia per la libertà come i suoi nemici affermavano. Una guerra divisa in tantissime piccole battaglie, ognuna di vitale importanza, che lentamente lo consumavano.

Eppure nessuna battaglia era stata per lui importante quanto quella di quel giorno: quella per suo figlio.

“L’Impero di Rozarria ha assemblato un vasto contingente adducendo come motivazione una esercitazione militare in grande stile.” Diceva uno dei cappucci color crema merlati di porpora, illuminato dalla luce alla destra di Gramis, sotto il quale si nascondeva il Senatore Gregoroth “Riteniamo che aspettino il giusto pretesto… per colpire quanto prima Arcadia.”

“La perdita dell’Ottava Flotta e della Leviathan in questo momento è un colpo pesante.” Intervenne un altro.

Gregoroth continuò: “Se Rozarria invadesse ora, la battaglia sarebbe ben dura. Se Lord Vayne non avesse disposto la flotta in base al suo capriccio… non ci troveremmo in sì perigliose circostanze.”

Parlò il Senatore Christianor, che una volta era stato amico di Gramis; che crudeltà, che fosse proprio lui a pronunciare quelle parole: “Lord Vayne deve rispondere delle sue azioni, è la volontà del Senato. Anche se si tratta di vostro figlio, eccellenza, giustizia va fatta.”

“Che cosa conveniente, la giustizia. Così mi trovo a scegliere tra il trono e mio figlio.”

“Una situazione infelice per noi tutti.” Commentò Christianor, e Gramis ebbe voglia di saltare sul tavolo e strozzarlo.

Sapevano bene che se l’Imperatore fosse arrivato a sacrificare suo figlio per volere del Senato, sarebbe stata la prova definitiva che era il Senato e non l’Imperatore a tirare i fili in Arcadia. Diversamente, sarebbe stato sfiduciato dal Senato e deposto. Oppure, come terza possibilità, avrebbe dovuto eliminare fisicamente parte dell’opposizione al Senato, dimostrando una volta per tutte di essere un dittatore e inimicandosi il popolo. In tutti gli scenari possibili, Vayne sarebbe morto, lui avrebbe perso, ed il Senato avrebbe vinto: tali erano le conseguenze ultime dell’inspiegabile distruzione dell’Ottava Flotta.

“Forse parla di Lord Vayne, ma Lord Larsa sarà di certo un magnifico Imperatore.” Questo era il gioco di Gregoroth da qualche anno: cercava di sedurre il Casato promettendo che un quinto Solidor sarebbe stato Imperatore, a patto che Vayne, il Solidor più pericoloso di tutti, scomparisse.

“Larsa adora suo fratello maggiore. Inoltre, è ancora giovane.” Per un attimo, pensò a quali parole avrebbe usato per dire a Larsa che il fratello sarebbe finito sulla forca; non gli venne in mente niente.

“Non resterà giovane per sempre.” Continuò Gregoroth senza un minimo di riguardo “E comunque va già in giro per il mondo a sbrogliare le matasse di Vayne. Ha trovato il suo ruolo e lo gioca con un certo entusiasmo.”

“Oh, è così?” sbottò Gramis “Mi domando chi sia che lo incoraggia in queste attività.”

“Che importa? Il punto è che Lord Vayne stesso anni fa ha visto i suoi fratelli maggiori affrontare una simile giustizia, non è così? Per vostra richiesta, se non ricordo male.”

Dopo le parole di Gregoroth, Gramis scoppiò in un lungo e violento attacco di tosse irrefrenabile. Era fuori di sé. Nessuno da tempo osava nominare, neppure pensare a quello che era successo… quella cosa.

Parlarne con questa disinvoltura era la più irrispettosa manifestazione di dissenso che si potesse concepire. Di più: era mancare di ogni riguardo verso Gramis Solidor come uomo, come padre, prima di tutto.

“Sua maestà dovrebbe calmarsi” disse Gregoroth con voce suadente “finchè il Senato vaglierà su Arcadia, il suo benessere sarà protetto.”

Gramis riuscì a fatica a riprendere a respirare: “Sia come volete. Disporrò il ritorno di Vayne ad Archades.”

Era ancora tramortito dall’enormità dell’accaduto: parlare in sua presenza di… quella cosa.



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Seduto sul cornicione, guardava il cielo stellato e pensava ai suoi fratelli.

Lutho Cassius Solidor e Kaent Brutus Solidor erano identici solo nei lineamenti del volto, e negli occhi azzurrissimi che non marcavano la discendenza del Casato come quelli neri suoi o di Larsa, ma ricordavano piuttosto la loro madre, morta dando alla luce l’ultimo nato. Per il resto erano del tutto diversi.

Lutho era un politico navigato, e certamente un buon candidato per la successione all’Impero, se suo padre non avesse chiarito che preferiva non trasmettere il trono ai figli. Elegante in senso classico, dall’aria severa accentuata da barba e capelli totalmente rasati, spiccava nei modi soavi, nel suo umore riflessivo e misurato. Aveva dedicato la vita ad essere gli occhi, le orecchie e la bocca dell’Imperatore nell’aristocrazia.

Kaent rifiutava la politica, per quanto possibile, l’ambizione, la carriera: credeva in tutt’altro, il duro lavoro, la disciplina, l’umiltà e la fedeltà. Era entrato nell’esercito già da giovanissimo, e si era dato ad Arcadia con tutto il cuore, diventando un faro per ogni aspirante cadetto. Sempre in uniforme con capelli scapigliati e barba giovanile incolta, sembrava stare in ogni momento tra un’esercitazione e l’altra. Era instancabile, e per questo i commilitoni lo chiamavano “Steel”… “acciaio.”

E poi, Larsa. Il prezzo per avere un quarto fratello era stata la vita della madre, e questo in qualche modo lo rendeva prezioso, insostituibile. Non lo conosceva ancora: nemmeno sapeva parlare. Ma c’era una sorta di attaccamento istintivo, un affetto che derivava non dall’intelligenza o dal talento o dalla stima, ma semplicemente da sé stesso. Qualcosa di trascendente e inspiegabile, paragonabile solo al legame che i tre Solidor avevano avuto con la loro madre. Quel qualcosa di totalmente irrazionale che significa essere, in fondo, una famiglia.

E lui? A lui non rimaneva che stare in disparte a leggere o a pensare, con fare ombroso. Era sempre stato così. Ammirava i suoi fratelli per la loro capacità di piacere agli altri, di inserirsi, di integrarsi in quell’alta società per lui così opprimente. Tutto sommato non gli dispiaceva, però. Gli bastava piacere a quel che restava della sua famiglia, per il resto il suo mondo poteva benissimo rimanere quello del passato, della leggenda, del mito. Quella Arcadia frivola, pigra, snob, non faceva per lui.

Mentre pensava questo, volse lo sguardo al cielo: dov’era sua madre in quel momento?

Secondo il kiltias, la sua essenza, il myst, si staccava dal fardello della carne per ritornare al cuore del mondo. Arricchito delle esperienze di sua madre, come quelle di molti altri, il myst di tutto il mondo tornava uno, e cresceva come un solo essere vivente. Poi sarebbe tornato in altri corpi, il cerchio sarebbe ripartito, lui l’avrebbe rivista in una nuova forma. La legge della reincarnazione non era frutto di casualità, ma il volere di Faram, il dio unico che il kiltianesimo cercava di sostituire agli Dei Antichi, che vigilava sulla crescita del mondo. Sua madre non era che un singolo tassello nell’enorme piano prestabilito che si sarebbe ripetuto finchè…

Stupidaggini. Lei era morta. Morta. Non sarebbe tornata più. Preferiva rassegnarsi a quest’idea, che compiere il grande salto della fede verso una religione che non sentiva sua. Sua madre era morta, polvere, nulla, e il myst era solo l’energia della sua anima che veniva riciclata come carta. Tutto qui.

Gli giunse lontano il suono di una risata.

“Stavolta l’ho fatta grossa.” Pensò.

Mettersi in disparte ai ricevimenti era una cosa, ma restare direttamente confinati nelle sale più alte del Palazzo Imperiale equivaleva a mancare delle più elementari nozioni di cortesia. Era ormai consuetudine che in Arcadia i figli dell’Imperatore dovevano fare da anfitrioni alle cene rituali dell’elite politica, legale e militare. Già immaginava le fredde ramanzine di Lutho, e Kaent che scherzoso e comprensivo come sempre cercava di mettere pace tra loro due…

“Torniamo, Lu!”

Sentire la voce di Kaent lo fece quasi sussultare, e per poco non cadde giù dal cornicione sfracellandosi dopo una lunga, terrorizzante caduta. Rimase steso, nella parte semibuia del balcone, e in silenzio: non voleva sembrare ancora più “originale” di quanto già non fosse.

Ma che ci faceva lì Kaent?

“Smetti di ignorarmi. Ho detto: torniamo sotto. I nostri ospiti si offenderanno.”

Lutho non era nel suo campo visivo, ma sentì la sua voce. Era gelida e decisa.

“Sei tu che mi stai ignorando. Non eviterai di affrontare questa cosa ancora una volta. Concluderemo il discorso ora, Steel.”

Seguì un silenzio strano, che a Vayne parve istintivamente spaventoso. Cosa stavano facendo? Perché non parlavano? Qualcosa gli disse di tenere la sua presenza celata.

“Sei sempre stato un paranoico bastardo.”

“E tu sei sempre stato un ingenuo bestione.”

Fu come se gli avessero dato una scossa. Vayne sapeva che Lutho e Kaent avevano un codice tutto loro, una vita segreta, un modo di comportarsi quand’erano soli totalmente diverso da quello pubblico. Ma non avrebbe mai pensato di sentirli insultarsi con questa sincera brutalità.

“Come ti pare. Non sono una delle tue pedine, Lu. Se ci tieni tanto, se credi sia necessario, fatti avanti.”

“Steel, non so brandire una spada, perderei e morirei. E sei tu che hai insegnato a lui a combattere!”

“Hai paura di tuo fratello minore? Vergognati. Comunque sia, non è un granchè nei duelli.”

Vayne abbracciò la pietra del balcone più forte che poteva. Si sentiva pervaso da uno strano calore, fastidioso, e respirava male. Quando aveva offeso i suoi fratelli? Perché sfidarlo a duello?

“La gente ti vede diversamente da come vede me, Steel.”

“Perché tu imbrogli, Lu.”

“Come credi. Il punto è che se tu lo accusi e lo sfidi a duello ti crederanno, ma non se lo faccio io.”

“Ti interessa il fatto che non ha fatto quello di cui lo accusi? Inoltre… se vincesse il duello?”

“Sai bene che non ti sto chiedendo di ucciderlo. Se lo risparmi sarà ancora meglio, poi lo accuserai formalmente e partirà il processo. Sarò io ad oliare la ruota perché finisca in galera fino alla maggiore età, e poi ci sarà la forca.”

La “a” di “forca” fu coperta da un rumore sordo e dal tonfo di un corpo che cadeva. Kaent aveva colpito Lutho, lo sentì rialzarsi a fatica ansimando per il dolore. Dal canto suo, Vayne si preoccupò solo di essere il più silenzioso e impercettibile che poteva.

“Risolvi così tutte le questioni, Steel.”

“Se voglio spargere sangue lo faccio personalmente.”

Ancora una volta accadde qualcosa che non aveva mai sentito accadere: Lutho perse la calma.

“Sei un idiota! Pensi che la mia vita, la tua, quella di nostro padre e quella di Larsa… valgano tutte insieme meno che la sua?”

“Penso che hai paura di lui, e non capisco perché: sei tu che gli racconti i tuoi intrighi e gli chiedi consigli. Gli hai insegnato tu ad essere una serpe come te.”

Lutho gli chiedeva consigli… quando gli raccontava i pettegolezzi di palazzo? Non aveva mai visto le cose in questo modo. Lutho sputò qualcosa: probabilmente sangue.

“Ascoltami, maledetto imbecille. Per una volta prova a pensare come un Solidor anziché come un villano rincivilito. Tutti i senatori di destra amano quel piccolo bastardo, dicono che riporterebbe Arcadia sulla giusta rotta. I giudici vanno in solluchero quando racconta di come i loro predecessori andavano in giro tagliando teste ai fuorilegge. I generali lo vedono bene, visto che tu gli hai insegnato il codice d’onore militare. Raccontando fiabe ha ottenuto più potere che io e tu in ventotto anni.”

Per qualche secondo, Vayne pensò che stavano parlando di qualcun altro. Dovette mettere bene a fuoco che era proprio lui.

“Triste ironia! Il mantello del potere cade sempre su chi non lo chiede, non lo sai Lu?” apostrofò con sarcasmo Kaent, e poi aggiunse quasi ringhiando: “Tu lo hai invidiato da sempre. Da quando era il favorito di nostra madre. Avrei dovuto spaccarti la faccia il giorno che è nato.” A qualunque possibile commento di Lutho si stesse riferendo, Vayne fu semplicemente felice di non conoscerlo.

“Non capisci. Lui è un idolo per certi nemici di nostro padre e se diventasse qualcuno, sarebbe una giustificazione vivente per altri nemici ben peggiori. Già si parla di sfiduciare l’Imperatore se desse segno di volere Vayne per una carica.” Continuava a parlare in modo febbrile, irriconoscibile: “Ed è ancora un ragazzino. Puoi immaginare che problemi darà, crescendo?”

“Cerchi disperatamente scuse per la tua invidia.” Poi sospirò “Sei mio fratello, ti voglio bene. So che sei più intelligente di me-” Qui Lutho probabilmente cercò di parlare, ma Kaent non glielo permise: “Non offendermi dicendo che non lo pensi. Sono un ingenuo bestione, lo dici sempre. Ma non al punto da farmi usare così.”

Per un po’, fu solo silenzio e vento, i due lasciavano che i loro pensieri si raffreddassero. Vayne si accorse solo in quel momento che il vento carezzava qualcosa di piccolo, liquido e freddo sulle sue guance: lacrime.

“Se fossero i fatti, e non le mie parole” riprese Lutho dopo un po’ “A convincerti che nostro fratello deve morire per il bene dell’Impero… allora cosa faresti?”

“Se accadesse… farei tutto quello che mi chiedi per portarlo nella tomba. Ma il punto è-”

Stavolta fu Lutho ad interromperlo: “Mi basta sapere questo. Il tempo farà il resto.”

“Il tempo proverà che ti sbagli, Lu.”

“Niente affatto, Steel.”

Di nuovo silenzio e vento. Vayne restò aggrappato al cornicione per un’ora, come una specie di miserabile lucertola infreddolita. Fin quando fu ragionevolmente certo che i suoi fratelli non erano più lì. Poi partirono i fuochi d’artificio: la festa, sotto, volgeva al termine. Si diresse alle sue stanze come un sonnambulo.

Sorprendentemente, i giorni dopo quello furono orribilmente normali. Non vide nessun cambiamento in Lutho, né in nessun personaggio della corte arcadiana, né in suo padre. Kaent era partito per motivi che non voleva approfondire.

Tutto scorse normalmente, senza nessun cambiamento apparente. Solo, Vayne iniziò a provare una curiosità morbosa verso quel potere politico che, secondo Lutho, attirava su di sé come un magnete; cercava di capire in ogni momento se conversazioni o atteggiamenti a cui prima non dava importanza erano segnali di quel fenomeno che lo rendeva degno dell’odio omicida di suo fratello.

Quando rivedeva Kaent conversava con più attenzione con lui, sebbene prima aveva sempre preferito Lutho come compagno di chiacchierate. Misurava quanto tempo mancasse prima che Kaent decidesse che Lutho era nel giusto. Che doveva morire.

Se iniziava conversazioni apparentemente innocenti con persone influenti, d’istinto gettava qui e lì battute apparentemente affettuose sull’ambizione smodata di Lutho e su come Kaent fosse legato al gemello, quasi influenzabile. Lento e metodico, seminava discordia.

In apparenza non cambiò niente.

Solo la notte era colto da brividi irrefrenabili di terrore, e sentiva di nuovo quel vento che gli gelava la faccia, soffiando sulle sue lacrime, svegliandolo di soprassalto. Spesso decideva di concludere la notte su qualche libro, rinunciando al sonno. Ogni tanto crollava addormentato, ma subito balzava in piedi visualizzando con chiarezza i suoi fratelli intorno al suo letto, quegli occhi azzurri che erano stati di sua madre fissarlo con smania assassina.

Chi avrebbe finito la corsa per primo? Lutho, a fabbricare prove false contro di lui… o lui a fare lo stesso? Ma se Kaent l’avesse visto trionfare su Lutho… no, anche Kaent era una minaccia. O lo sarebbe diventato. Anche Kaent doveva sparire.

Con il tempo diventò quasi divertente: se aveva iniziato spinto dall’istinto di autoconservazione, insomma solo per non morire. Lentamente si scopriva un artista nato della congiura. Era una specie di partita a scacchi, in fondo, con una specie di fascino oscuro. La pensò così, all’inizio.

Solo alla conclusione della partita Vayne Carudas Solidor fu sinceramente sorpreso, quando il suo cuore sperimentò il prezzo del fratricidio.



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Yay! Tre capitoli in un mese! Quasi riprendo i miei vecchi ritmi? (NO) Le mie solite precisazioni:

1) Ci sono molti riferimenti a cose che non hanno niente a che vedere con FF in questo capitolo, come il nome del Generale Noon, i nomi dei fratelli Solidor eccetra. Chi vuole può provare a scovare le citazioni.

2) Anche se è uno dei miei soliti capitoli introspettivi, questo esisteva sin dall’inizio della prima stesura. Ho sempre trovato il passato dei Solidor un soggetto interessante.

3) La leggenda degli aegyl che legge Vayne da giovine è presa da FF12: Revenant Wings. Mentre il credo religioso su cui ragiona Vayne è il "culto di Gaia" che si ricostruisce nei vari Final Fantasy.

EDIT: per Gioia86: si, ho voluto inserire un pò di "sentimento" in più, ma spero di averlo fatto senza mai uscire dai binari del gioco. Cioè parlo di sentimenti che secondo me ci sono già ma non sono approfonditi, tutto qui.

Datemi più tempo per “Ripartire” (gioco di parole: “Ripartire” è anche il titolo del prossimo capitolo). Alla prossima!

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Capitolo 27
*** Ripartire ***




Vaan lanciò altre tre o quattro imprecazioni verso l’alto fremendo d’impazienza, quando finalmente Penelo si decise ad uscire dalla bottega.

“Era ora. Tieni.” Le porse qualcosa di triangolare, incartato: una fetta di torta alla ricotta con cannella e miele “È il tuo preferito, no?”

Penelo confermò con un sorriso, mentre Vaan svolse il suo involucro di carta scoprendo il suo maxi kebab di chocobo con tripla salsa, patate fritte e verdure saltate miste.

“Sei un animale. Quando la pianti di sbranarti quei cosi? Bucano lo stomaco.”

“Non rompere. Non mangiavo rabanastrese da tanto che quasi scordo com’è.”

“Su questo ti do ragione…” disse lei sedendosi sugli scalini fuori la bottega, e prendendo un primo morso del dolce.


“Siete due scemi a litigare così. In realtà è molto sollevato di rivederci.”

“Ecchissene.” Diede un morso colossale all’involto per sottolineare il concetto.

“Comunque a parte una tonnellata di raccomandazioni, sono riuscito a convincerlo a farmi partire con te.” Si gustò un altro morso mentre osservava la folla della sua città natale con un ritrovato senso di appartenenza; poi, però, si voltò ritrovandosi accanto il ragazzo per cui stava per lasciare tutto questo di nuovo.

“Sei… contento?” la voce gli uscì più timida e tremante di quanto volesse.

“Certo, è mitico! Insieme verso nuove avventure!”

“Non credi… che potrei essere un peso?”

“Che, scherzi? È a posto. E poi con la magia sei un asso, no?” si zittì per un secondo, poi si fece improvvisamente riflessivo.

“Però…”

“Però?” fece eco lei leccandosi le labbra come una bambina.

“A te qui piace, Pen. Perché vorresti venire con me?”

“Perché…” lei sembrò sovrappensiero per un attimo, poi disse: “Perché mi hai portato un dolce.”

“Sì, come no.”

“Allora diciamo… che se mi poni la domanda in modo più… diretto… ti darò una buona risposta…” si avvicinò a lui, facendo aderire il suo corpo a lui, e concluse allusiva: “Vuoi riprovare… a chiedermelo?” arrossì emozionata mentre aspettava la risposta.

Di contro, lui si profuse in un sonoro rutto.

“Schifoso!” commentò lei balzando in piedi.

“Che palle che sei, Pen. Tanto mi ricordo sai, che da piccoli vincevi sempre tu la gara di rutti.”

Al ricordo, malgrado quanto Vaan fosse stato inappropriato, non riuscì a non sorridere: “Perché l’arbitro tifava sempre per me!”

Anche Vaan ridacchiò: “Sì, Reks era-”

Si zittirono di colpo. Penelo si sedette di nuovo, e per un po’ mangiarono in silenzio mentre la vita della città gli scorreva davanti.

“Scusa, non volevo buttarti giù.”

“Dai Pen, non fa nulla.” Sdrammatizzò il ragazzo.

“Vaan tu… perché vuoi seguire la principessa?” la risposta la sapeva già, ma Vaan e Ashe erano rimasti una notte insieme, soli: forse adesso c’era qualcos’altro da dire di persino peggiore.

“Non voglio litigare di nuovo come a Bhujerba, Pen, quindi non facciamo sempre gli stessi discorsi.” Tagliò corto lui, senza accorgersi che lei ne fu quasi sollevata.

“Anche se a me non vuoi rispondere, prima o poi dovrai rispondere a te stesso.”

“Bene, ecco allora cosa dirò…” e chiuse il discorso con un secondo, ancor più formidabile rutto che fece voltare un passante.

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Da giorni ormai usavano gli alloggi seminterrati della città bassa, “prestati” dalla resistenza, come due comuni reietti.

Basch non contestava le decisioni della sua principessa, ma iniziava a trovare il suo stoicismo inquietante. Si svegliava di buon ora e per la maggior parte della magra colazione fissava intensamente il Frammento d’Aurora, annerito nelle sue mani, o accarezzava gli anelli di matrimonio suo e di Rasler.

Si allenavano, in qualche corridoio ampio di Garamsythe, e andavano avanti per giornate intere, seguivano un rientro rapido nel seminterrato, una doccia e un pasto frugale e freddo, per poi ricominciare il giorno dopo.

“Non posso sempre dipendere da guardiani e salvatori. Devo perciò migliorarmi nel duellare.” Aveva spiegato lei, e Basch fu colto dal sospetto che lei non si affidasse più a nessuno.

D’altro canto ormai lo trattava come un sottoposto a tutti gli effetti e in sua presenza sembrava abbassare la guardia. Dormivano e mangiavano nella stessa stanza, e anche quando doveva lavarsi non mostrava disagio a spogliarsi in sua presenza, proprio come qualsiasi monarca con un suo servitore.

Eppure ogni tanto lo squadrava in modo strano, dandogli l’impressione che stesse giusto misurando quanto tempo avrebbe impiegato lui a tradirla come aveva fatto Vossler. In definitiva, era indecifrabile come sempre.

I duelli finirono con l’essere la parte più rilassante. L’abilità nella spada di Ashe ne faceva il peggior soldato che Basch avesse mai allenato ed ovviamente si tratteneva dal farlo notare, ma non era così ipocrita da lasciarsi battere solo per non offenderla.

Ogni qualvolta si ritrovava a terra, con la lama alla gola, commentava soltanto: “Domani farò meglio.” E andava a lavare il suo corpo madido di sudore.

Dopo tre giorni di duelli infruttuosi dove Basch doveva trattenersi dall’infliggerle sconfitte troppo umilianti, Ashe si era presentata con la spada in una mano e un lungo ramo di legno bianco, da mago, nell’altra.

“Oggi ti batterò.” Dichiarò piattamente, senza ricevere risposta.

Duellarono, e la principessa come sempre sapeva far mulinare la spada con disciplina e grazia, ma senza velocità nè forza d’impatto soddisfacente. Si aiutava con il bastone a tenere distante il capitano, mistificando la vera lunghezza dell’arma facendola scorrere nella mano, come si fanno i lancieri esperti, e un paio di volte notò soddisfatto che quasi lo metteva in difficoltà.

Quando finalmente Basch riuscì tanto a liberarsi dell’interferenza del bastone quanto a tenere a bada la spada, Ashe arrivò appena a parare un colpo, venendo spinta ad una certa distanza dall’avversario. In quel momento agitò l’asta e mormorò “Ha Stea.” Il capitano fece in tempo a vedere il circolo di luce color avorio formare simboli simili ad un orologio intorno ai piedi della ragazza, poi questa avvolta da un’aura dorata iniziò a muoversi al doppio della velocità.

Il capitano fu seriamente in difficoltà a parare gli assalti di bastone e spada portati a rapidità innaturale, e per un po’ danzarono in sostanziale parità. Lei era troppo veloce per lui, ma le mancavano la forza tanto per abbatterlo quanto per rischiare di incassare un colpo.

Era sinceramente stupito dai suoi progressi. Era uso dei cronomanti mischiare spada e magia, ma in genere sincronizzare le due cose richiedeva anni di addestramento. La principessa doveva aver preso l’idea guardando Vossler e l’aveva applicata in pochi giorni.

Ma non fece in tempo a complimentarsi con lei. Mentre danzavano l’una punzecchiando e schivando, l’altro in una cocciuta resistenza, vide rotolare ai suoi piedi delle piccole sfere di cristallo, simili a biglie, che splendevano di vari colori. Ne aveva sentito parlare: schegge di magilite, importate dalle terre dei garif che erano esperti nell’uso delle pietre magiche. Un mago appena discreto poteva liberare il myst in esse contenuto con un minimo stimolo, come si trattasse di magia impacchettata.

Ashe si staccò da lui con un salto e le sfere esplosero in luci multicolori, sbalzandolo a terra. Stavolta fu lui a rialzare la faccia con una spada puntata alla gola.

Si rimise in piedi, sorridendo.

“Straordinario. Coordinate addirittura tre armi con la magia per supplire…” si morse la lingua, imbarazzato.

“…alle mie evidenti carenze tanto nella magia quanto nella scherma.” Lo tolse d’impiccio lei.

“Comunque sia, fate progressi eccezionali. Mi avete battuto, proprio come avevate detto.”

Non sorrise minimamente, anzi la sua espressione si indurì: “Sciocchezze. Hai perso perché non hai avuto il tempo di abituarti alla sorpresa, ma il divario tra le nostre abilità è ancora significativo. Inoltre non credo che in un vero duello ti arrenderesti solo perché hai una lama alla gola. Invero se tu afferrassi la lama di scatto io non avrei i riflessi per trafiggerti.”

Per un secondo fu quasi stordito: “Insomma non… siete soddisfatta di voi?”

“Certamente no! Domani farò meglio.” E come tutti gli altri giorni, imboccò la scalinata per lasciare Garamsythe e tornare nel loro seminterrato a lavarsi.

Non fu sorpreso, purtroppo. Aveva visto altre volte giovani soldati allenarsi a quel modo, con un impegno quasi autodistruttivo che diventava presto ossessione, e non conosceva appagamento. Era il marchio di coloro che non combattono per valori imposti da altri, ma andando in cerca di una loro risposta, e odiano se stessi perché non riescono a trovarla. Coloro il cui destino era sparire inghiottiti dalla guerra e da se stessi, morti o anche, come nel suo caso, dispersi e lontani dalla loro patria.

Lui aveva percorso quel sentiero fino in fondo e aveva pagato il prezzo con l’odio di suo fratello. Aveva conosciuto il rimpianto e aveva cercato la redenzione. Ma non aveva idea di come fermare qualcun altro che percorreva quella strada, e la sua impotenza lo faceva sentire in colpa.

Non poteva che starle accanto e proteggerla da tutto, forse anche dalla maledizione che lei stessa si era imposta.

“Maestà!” la fermò sulle scale di maiolica azzurra, e lei si voltò.

“Parla pure.”

“Ormai siamo qui da quattro giorni. Intendiamo fare qualcos’altro oltre allenarci?”

“Indubbiamente. Ma a suo tempo, prima voglio dare ai nostri uomini il tempo di riposarsi.”

“I… nostri… uomini?” capì al volo a chi si riferiva, e non lo gradì affatto.

“Attenderemo ancora qualche giorno e poi farò le mie mosse. Insomma, Basch…” il tono si fece infastidito “Hai dubbi di sorta, forse?”

“Nient’affatto, maestà.” Mentì lui.



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Gabranth guardò il suo volto perfettamente rasato allo specchio.

Fissare se stessi fa sempre una certa impressione, ci forza ad affrontare l’idea che esistano altri fuori di noi, che magari ci vedono in qualche modo che nemmeno immaginiamo; spesso la nostra immagine riflessa quasi ci sorprende, tanto è diversa da come l’avevamo pensata.

Lui non aveva di questi problemi: le persone che potevano dire con certezza di aver visto in faccia un Iudex Magister si contavano sulla punta delle dita. C’era solo lui, a giudicare se stesso, solo lui a cercare la propria anima in fondo a quelle iridi scure.

Si sciacquò la faccia con acqua gelata, per contrastare l’effetto dell’alcool. Ma poi tornò nel suo studio e si versò dell’altro vino a discapito del suo stesso mal di testa.

Sulla scrivania era ammassata una quantità scoraggiante di fascicoli. Il suo lavoro, all’apparenza, era semplice, leggerli uno per uno distrattamente e poi stamparci su con una matita rossa una “O” per “Ordinario” oppure “A” per “Amministrativo”. Questo avrebbe deciso se il processo, per la persona descritta nel fascicolo, sarebbe stato un processo normale, aperto al pubblico e con diritto di difesa, o un processo occulto e sommario gestito dall’Impero, in concreto da lui e dal suo bureau.

Valeva a dire che tutte le “A” erano persone che sarebbero semplicemente scomparse, e sarebbe stato a lui decidere se dovessero essere eliminate, rinchiuse da qualche parte fino alla fine dei loro giorni, o rilasciate e ricattate perché agissero come spie.

La maggior parte delle “A” erano dei servizi segreti. I casi più disparati: agenti che si erano venduti a Rozarria, o agenti di Rozarria che avevano finto di tradire la patria per fare il triplo gioco, agenti che da anni facevano finta di lavorare per tutti quando lavoravano solo per sé stessi… e anche casi quasi comici di persone obbligate ad agire come spie che per non irritare l’Impero fingevano di avere informazioni importanti, e andavano avanti per anni dispensando notizie assolutamente inventate.

In questo labirinto di segreti e bugie anche la macchina spionistica più efficiente del mondo poteva facilmente impazzire, ritorcersi contro chi l’aveva creata. Stava a lui riportare l’ordine, raccogliere sospetti e decidere se erano sufficienti a decretare la fine di una vita.

Per quella sera, comunque, non doveva che scrivere “A”; senza nemmeno rendersene conto, cercava anche metterci un po’ di più, fingeva di voler “esaminare approfonditamente” alcuni casi, pensava a inventarsi vari espedienti per posticipare il più possibile le settimane che avrebbe dovuto spendere ad avvicinare quelle persone e a farle scomparire.

Il disagio cresceva dentro di lui, ma strisciando nascosto e in silenzio nella sua coscienza, per colpirlo inatteso tanto quanto lui usava fare con i casi a lui affidati. Quel disagio che nasceva dalla spirale di segretezza e violenza in cui la sua vita come Giudice lo avviluppava sempre più, ma che proprio per questo lo spingeva a cercare una funzione, un’identità, nella servitù all’Imperatore.

Perché certo non gli piaceva ciò che era diventato, ma ancor maggiore era la paura di dover cambiare, ripartire da zero diventando qualcuno di completamente diverso. La sua identità come Iudex Magister era tutto ciò che aveva. Lui era la sua maschera più di quanto fosse il suo volto.

Ma tra la sua coscienza e questa consapevolezza lui era svelto a mettere uno spesso muro con il vino, quando serviva. Non doveva comunque essere molto lucido per dare una rapida occhiata e stampare una “A”, dato che la maggior parte delle volte i casi ordinari nemmeno arrivavano sulla sua scrivania.

D’un tratto però la mano destra iniziò a tremare. La “A” rossa venne tutta pasticciata, il che lo spaventò: non ricordava di aver mai bevuto tanto da perdere la capacità di scrivere. Poi capì che il tremore era dato da un dolore pungente.

Liberò la pelle dalla maglia nera, e allora vide il marchio che splendeva di rosso con crescente intensità sull’interno dell’avambraccio destro.

Era lì che con una formula magica era tatuato quello stesso simbolo che lui portava sul mantello, il simbolo che rappresentava tutti i Giudici da prima ancora dell’Impero, dai tempi dell’Alleanza di Galtea: la bilancia scarlatta.



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Migelo si raschiò la gola una terza volta, e una terza volta fu completamente ignorato.

Balthier e Fran continuarono a mangiare il lauto banchetto che aveva preparato loro per ringraziamento senza rispondere con un “prego” e, per la verità, senza considerarlo affatto e parlando il minimo necessario. Quasi rimpiangeva la cortesia amichevole di Vayne Solidor, che aveva lasciato Rabanastre da poco. Omise di precisare che quei pesci ricercati erano inizialmente destinati a fare bella figura proprio con il Console, improvvisamente partito per Archades.

Fran inforcò un pezzo di delicata carne bianca dal vassoio dove era esposta in tutta la sua lunghezza e la immerse nella maionese, portandola alla bocca con aria annoiata. L’odore di pesce prelibato invadeva l’intera bottega, e un paio di aiutanti di Migelo si stavano trattenendo dallo sbavare.

“Credereste” attaccò bottone il bangaa “Che gli yensa abbiano tanta carne, e così deliziosa? A vederli certo non fanno appetito… Invero catturarli è assai difficile e ancor più pulirli, ma si dice che in Rozarria si considerino addirittura un cibo popolare! Farmeli spedire non è stata cosa da poco, dico io.”

Nessuno dei due proferì parola. Sembravano mostruosamente distratti da qualcosa di importanza evidentemente vitale.

“Non che io voglia vantarmi, sia chiaro! Uno yensa è ben poca cosa per la vita di una persona cara. Vi devo questo e anche di più.”

Di nuovo si raschiò rumorosamente la gola, per far loro capire che il silenzio e l’indifferenza riuscivano veramente pesanti. Nulla.

“Dì un po’, amico.” Si decise a parlare Balthier “Ho tre spade magiche che mi ha regalato un nobile di Bhujerba. Ti interessano?”

“Um, dovrei valutarle.”

“Siediti e parliamone, allora!”

Migelo accettò immediatamente, quasi sollevato che finalmente il suo ospite si sciogliesse: “Vedo che su qualcosa ci capiamo, eh!”

“Gli affari sono affari.” Confermò il pirata osservando la carne, come indeciso su che boccone prendere mentre Migelo si cercava una sedia.

Fran si voltò di scatto, sorridendo. Era un sorriso strano, a metà tra il sarcasmo e la tristezza.

“Gli affari sono affari, è così? Perché non gli vendi qualche maschera? Ne hai una collezione invidiabile, per tutte le stagioni.”

“Devo averle smarrite, mi sa.” Rispose lui facendo finta di non capire.

“Vuoi rivederla?” insistette, più piano. “Gelosona.” Ribattè, evadendo l’argomento per l’ennesima volta. “Io non sono gelosa, e tu non sei divertente.”

“Ma entrambi siamo in pubblico ed affamati. Ne riparliamo un’altra volta, avremo occasione. Promesso.”

Se Fran non si fosse da tempo abituata al suo socio, la sua capacità di impilare bugie con la calma più serafica e convincente l’avrebbe lasciata di stucco.

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Zargabaath percorse di nuovo con lo sguardo tutta la superficie del Great Frost Lake che gli riusciva di abbracciare con lo sguardo. Era da sempre la regione di Arcadia che più mozzava il fiato, una immensa distesa cristallina e trasparente ma assolutamente solida, su cui carovane di chocobo e spedizioni di operai seeq tracciavano rotte interminabili.

Sotto di lui, paralizzata nel ghiaccio, si stendeva una costruzione così ampia e illuminata da sembrare un grattacielo inchiodato al fondo del lago. Anche questa levava il fiato, ma anche inquietava. L’idea che degli esseri umani avessero creato quella cosa aveva un che di inspiegabilmente angosciante.

“Bellissima, vero?” si vantò il Dottor Cid scendendo dalla sua personale Remora dipinta di rosso con cui si spostava “Non a caso ho voluto che ci fermassimo qui. La vista da questo punto è perfetta. Volevo che la vedesse bene, prima di arrivarci.”

“Questo non cambierà la situazione, professore. Sebbene io non voglia negarne l’imponenza.”

“Tutti i Bunansa fino ai miei nonni ci hanno lavorato. È stata modificata e perfezionata tante di quelle volte che la sua tecnologia spazia dalla più antidiluviana fino all’ultima avanguardia. È la nostra opera monumentale, il più grande capolavoro d’ingegneria aerea al mondo.”

“Ingegneria aerea? Ma non vola.”

“Volerà.” Proclamò con sicurezza.

“Resta il fatto che non ha volato mai ed è in costruzione da tre generazioni.” Fece una pausa: molti giudici si erano fatti indietro spaventati dai Bunansa, e più di tutti dall’ultimo, più geniale e folle rappresentante di quella illustre famiglia così importante per l’Impero; voleva che Cid avesse chiaro che lui non era di quella fatta, che non nutriva alcun timore.

“Vorrei essere il più chiaro possibile, professore. Gli scioperi e le rivolte degli operai stanno martellando la nostra industria pesante e facendo tremare la popolazione. I seeq in particolare sono pronti ad una ribellione armata vera e propria, e il clima è teso persino nella capitale.”

“E perché lo racconta a me? Tenere a bada i prosciuttoni è affar vostro, non mio.”

“La prego di non usare termini razzisti in mia presenza.” Ribattè piccato, e Cid sbuffò alzando gli occhi al cielo; la cosa lo irritò terribilmente, era proprio quel genere di atteggiamento che fomentava l’ostilità tra seeq e hume.

“Il punto è che non possiamo più permettere che due o tre migliaia di operai vengano mandati a morire nel ghiaccio per costruire la sua mirabolante città che vola, specie dal momento che non vola affatto.”

“Volerà.” Affermò nuovamente, ma Zargabaath lo ignorò.

“L’Imperatore ha disposto che io conceda licenza a tutti i seeq impiegati ed è quanto sono venuto a fare e farò.”

Per qualche secondo, Cid lo guardò con sguardo assolutamente vuoto, da pesce lesso. Poi scoppiò a ridere.

“Ho forse detto qualcosa di divertente?” non aveva mai gradito molto quell’uomo, proprio per la sua attitudine a sminuire tutto ciò che non riteneva degno del suo interesse; si diceva che in un paio d’occasioni avesse detto “caprone ignorante” a Gramis Gana Solidor in persona e se la fosse cavata con poco.

“Era tutto qui il problema? Ma sì. Ma certo. Può portarsi via tutti. I lavori sono finiti.”

“Cosa? E quando? Vanno avanti ininterrotti da quasi un secolo!”

“La Negalite Artificiale ha permesso di completare l’opera in pochi mesi.”

“Ancora con quella sua pietra favolosa? Mi dica, allora perché non vola?”

“Volerà.”

“Non pensa di dover spiegare all’Imperatore-” fu costretto a interrompersi.

Mentre parlava, Cid si era voltato di botto e stava camminando da tutt’altra parte fissando qualcosa a mezz’aria. Parlava da solo.

“Cosa? Davvero? Quando?” si fermò, continuando a passeggiare avanti e indietro, poi riprese con una certa foga “Non abbiamo raccolto nessun dato, dannazione! Vayne aveva ragione dopotutto…”

Zargabaath fece per andargli dietro e chiedere qualcosa, quando sentì un bruciore sull’avambraccio.

La luce rossa del simbolo attraversò persino l’armatura, facendo balenare la sua immagine, nitida, agli occhi del Iudex Magister. Cid continuava a camminare su e giù per il ghiaccio scambiando frasi animate con un interlocutore inesistente.

“Una Convocazione Generale dei Giudici …Da quanto ormai non aveva luogo?”

“Novità dallo Jagd, caro il mio bel giudice!” esclamò Cid tornando verso di lui.

“Deve trattarsi di novità… invero grandi.”

“Oh sì: BOOM!” confermò il professore ridacchiando, e mimando con le mani un’esplosione.

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Illuminata dalla luce della finestra a terra, Ashe sedeva sul tavolo del seminterrato fissando assorta il suo anello, che accarezzava con insistenza.

Basch, Balthier, Fran, Vaan e Penelo aspettavano tutti che lei parlasse.

“So” esordì infine “Che le persone in questa stanza non sono forse le più adatte per guidare una resistenza armata. Tuttavia voglio chiedere ancora una volta il vostro aiuto perché solo noi sei sappiamo la verità, e questa verità ci lega gli uni agli altri.”

“Che verità scusa?”

“Quando ti passerà il vizio di interrompermi mentre parlo?” sul momento, a Vaan sembrò che fosse tornata l’odiosa aristocratica che era il primo giorno che si erano conosciuti.

“È stato il Frammento d’Aurora ad affondare l’Ottava Flotta Imperiale.” Dichiarò Basch, più esplicitamente.

“Sei un esperto, eh.” Sottolineò Balthier con sarcasmo.

“Un simile potere distruttivo… l’ho già visto. Lady Ashe, sapete a cosa mi riferisco.”

“Nabudis.” Gli altri quattro sobbalzarono, ma Basch si limitò ad annuire; Ashe aveva intuito quel collegamento molto prima, già da quell’incontro con Vayne Solidor.

Ma adesso qualcosa era cambiato: adesso aveva visto con i suoi occhi il potere che l’Impero aveva cercato. Adesso, e solo adesso, gli si era aperta l’opportunità per reclamare quel potere come diritto di sangue e usarlo per rovesciare la situazione.

“La capitale di ciò che fu Nabradia, che diede i natali a Lord Rasler. Il giorno dell’assedio una divisione imperiale riuscì ad entrare in città, e poi ci fu una grande esplosione. Amici e nemici, tutti morirono allo stesso modo. C’era qualcosa lì, un’altra reliquia del Re-Dinasta: il Frammento Lunare.” Finì di raccontare Basch.

“Altra Negalite. Bè” commentò il pirata, un po’ annoiato “Nessuna meraviglia che invadano qua e là.”

“Ed ecco, dunque…” tirò le somme Ashe: “Quella guerra assurda, e la trappola per mio padre la notte del trattato. Tutto ciò è stato fatto per Vayne, per la sua sete di potere. Non dobbiamo permettergli di avere la Negalite. L’Impero non dovrà averla mai.”

“Prego?” s’intromise ironico Balthier “Ce l’hanno già. Il Frammento del Crepuscolo e probabilmente il Frammento Lunare. Hanno persino imparato a fare delle copie.”

Stringendo il frammento annerito in mano, Ashe sbottò facendo saltare Vaan e Penelo sulla sedia: “Esatto, quindi la strada che ci attende è chiara!” alzò la voce “Useremo il Frammento d’Aurora per combatterli!” guardò di lato, come si fa per cercare nella memoria.

“Dalmasca non dimentica la gentilezza come neanche l’offesa subita; con la spada difende gli amici e stermina i nemici.” Vaan riconobbe il tono enfatico che aveva usato alla Tomba di Raithwall, e finalmente la capì: quando parlava così non usava parole sue, ma parole che altri le avevano lasciato in eredità, forse suo padre Raminas.

“Questa Negalite sarà la mia spada! Vendicheremo i morti e l’Impero conoscerà il rimorso!” concluse con una tale foga che le rimase il fiatone.

Gli altri erano visibilmente spaventati dal suo fervore, ma non Vaan, che osservò solo: “Sì certo ok, ma sai come si usa almeno?”

Ashe rimase incresciosamente senza una risposta. Se gli altri quattro sentirono la tensione allentarsi e dovettero trattenersi dallo scoppiare a ridere, Ashe impallidì e guardò Vaan con un evidente desiderio di strangolarlo.

“Io… io, veramente…” si guardò intorno come se la risposta fosse scritta su qualche muro.

“I garif.” Disse Fran, che aveva seguito tutto il discorso con disinteresse “I garif potrebbero saperlo. Vivono come nei tempi antichi, e hanno una grande cultura sulla magilite. Sentono il potere della Negalite… sussurrano dell’antica minaccia di quella pietra.”

Il fanatismo appena sopito si riaccese subito nel suo sguardo, e si portò davanti alla viera: “Pericoloso che sia, dobbiamo acquisire forza. Se proclamassimo Dalmasca libera senza mezzi per difendere la nostra forza… l’Impero ci schiaccerebbe, quindi… devi portarmi dai garif.”

Fran ascoltò la principessa senza troppo interesse: “Vivono oltre Ozmone.”

Ashe non sembrò cogliere il messaggio, così Balthier specificò: “Non è vicino.”

“Un compenso! Di questo parliamo?” accusò, vagamente sprezzante nel tono.

Balthier non sembrò prendersela nemmeno un po’: “Dritti al punto? Mi piace. Che ne dici…” aprì il palmo davanti a lei “…di uno dei tuoi anelli?”

La forza della convinzione le mancò di nuovo, e rispose con un tono di gran lunga più fragile di quanto avrebbe voluto: “Questo? Non… non c’è qualcos’altro?”

“Nessuno ti obbliga.” Rispose il pirata con sadica tranquillità.

Se Vaan e Penelo furono abbastanza disgustati dalla scena, Fran e Basch guardarono Balthier con espressione dubbiosa, come se leggessero qualcos’altro nelle sue azioni. Ashe si limitò a lasciare l’anello con il suo nome nella mano di lui, tenendo per sé quello con il nome di Rasler.

“Appena troverò qualcosa di più prezioso ti restituirò l’anello.” Lei non gli rispose e se ne andò dandogli le spalle, comprensibilmente turbata, seguita dal capitano Basch.

“Che cavolo vuol dire qualcosa di più prezioso?” chiese Vaan ancora incredulo all’insensibilità gretta mostrata da Balthier.

“Difficile a dirsi, lo saprò quando la vedo. E tu…” domandò senza nemmeno guardarlo in faccia “Cos’è che vuoi, Vaan? Cosa stai cercando?”

“Io?!? Io credo che… io… sì, bè…” e non gli uscì altro di bocca finchè tutti non ebbero lasciato la stanza, compresa Penelo dopo avergli lanciato un’occhiata comprensiva.

“…che cavolo ne so?”



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Drace era andata da qualche parte a cercare un muu da arrostire, osservando allegramente che quando era ragazza suo padre gli aveva insegnato a cacciare; era stato lo scambio più amichevole che avessero avuto da qualche giorno, e Larsa aveva risposto con un sorriso di pura felicità. Poi, era rimasto solo appena cinque minuti.

Osservava le verdi distese della Piana di Ozmone che si allungavano fino a toccare l’orizzonte ed il cielo limpido, azzurro. Qua e là interrompevano il paesaggio delle forme strane che si sarebbero dette opera di un architetto impazzito: strane impalcature oblique, cave e frammentate, come schegge di una città imponente cadute dal cielo e conficcate nella terra.

Larsa sapeva perfettamente, come chiunque avesse studiato storia, cos’erano quei costrutti abbracciati dalla vegetazione: rovine di aeronavi precipitate lì durante una delle più sanguinose guerre tra Arcadia e Rozarria. Un tempo quei campi idilliaci erano stati trasformati in un inferno di ferro, fuoco e sangue dalla stupidità umana.

“Se queste carcasse bastassero come monito!” sospirò.

Si voltò di scatto: i due chocobo, legati ad un frammento metallico che con tutta probabilità era stato uno scafo, starnazzavano spaventati. Ebbe il tempo di cercare con lo sguardo prima di trovarsi circondato dai banditi. Era un bel gruppetto misto, due bangaa, un seeq armato di mazza, e due umani: uno gli puntava addosso una balestra e l’altro aveva la mano avvolta da una fiamma che Larsa riconobbe come magia nera.

“Buongiorno a voi.” Salutò senza scomporsi “Come posso aiutarvi?”

“Non fare lo spiritoso.” Disse uno dei bangaa, evidentemente il capo.

“Non mi permetterei. Sono semplicemente educato.”

“Come ti pare. Dacci tutto quello che hai e forse decideremo che sei troppo giovane per schiattare.”

“Il verdetto è emesso.” Il quintetto si voltò a guardare da qualche parte oltre un oggetto lungo e metallico che sbucava dall’erba “Siete colpevoli del reato di brigantaggio e sarete per tanto giudicati.”

Drace aveva viaggiato conciata da nobile dama, ma non aveva rinunciato a portarsi dietro la sua arma, e la scelta si era dimostrata previdente. Il bangaa osservò la ragazza con curiosità, e soprattutto quell’oggetto strano che brandiva, un’asta che terminava con due oggetti indefinibili, come crisalidi d’acciaio: ovoidi irregolari, composti da lunghi nastri metallici attorcigliati su sé stessi. Non aveva mai visto niente di simile, e certamente non sembrava creato per nessun criterio di efficienza o aerodinamica; sembrava inoltre fin troppo pesante per essere brandito, figurarsi da una ragazza hume.

Il seeq sghignazzò in risposta al suo fare minaccioso, ma il capobanda lo interruppe subito: “Non ridere, cretino. Quella sgualdrina dev’essere un osso duro. Voi due, ammazzate subito il ragazzino.”

I due hume tirarono la freccia e la fiamma su Larsa, e in una frazione di secondo Drace spezzò l’arma in un segmento lungo e uno corto, e usandoli come scettri pronunciò: “Pro Tex, Shel La.”

Il corpo del giovane nobile fu avvolto da un reticolato di linee acquamarina contro cui la freccia si infranse, mentre una membrana di luce vorticante verde e rossa dissipò la fiamma. Preso dall’ira, il Seeq vibrò un colpo di mazza sul cranio del ragazzo, e di nuovo le linee luminose azzurrine frantumarono il legno.

Larsa non si era mosso di un millimetro né aveva dato alcun segno di turbamento.

“Due magie in pochi secondi. Lo avevo detto che era tosta!” ammonì il capobanda, poi si portò le mani alla schiena, dove aveva due corte spade “Bene, piccola, adesso io e tu-”

Il resto della frase fu coperta dal rumore di carne ed ossa che si sfracellavano: Drace era saltata in aria come se non avesse peso e aveva roteato le armi come mazze convergendo sulla testa del capobanda e uccidendolo, e poi era atterrata con grazia. Aveva impiegato un secondo appena.

“Eseguirò la sentenza.” Gli altri quattro erano paralizzati dalla paura.

Il mago hume urlò “Fi Ra” e Drace senza scomporsi intonò “Re Fle Xa” in risposta, agitando uno degli scettri. La fiamma uscì copiosa dalle dita dell’uomo, incontrò uno scudo romboidale di luce color limone apparso sul braccio destro di lei e rimbalzò sul bandito con violenza, incenerendolo dalla testa alla cintola.

Drace camminò senza scomporsi verso i tre rimasti.

“Basta così!” intimò Larsa “Lasciali stare.”

“Lord Larsa, costoro sono colpevoli di brigantaggio ed hanno attentato alla vostra vita.” Si giustificò lei.

“Allora concedi loro amnistia. Si è già sparso abbastanza sangue.”

Drace rimase ancora un secondo immobile, poi riunì le armi imbrattate di materia cerebrale in una sola: “E sia. La Giustizia Imperiale vi offre il perdono per i vostri reati. Ora sparite.”

Non se lo fecero ripetere, corsero così veloce che in meno di un minuto non erano più a vista.

Larsa li guardò sparire dietro un clivo, poi si diresse verso i chocobo: “Aiutami Drace, dobbiamo farli scavare.”

“Scavare? Perché?”

“Per seppellire questi due.”

“Erano assassini e ladri.” Obiettò, scocciata.

“Forse fortuna è stata più generosa con noi due, figli di nobili, che con loro; forse hanno fatto scelte sbagliate, per le quali comunque hanno pagato. Non per questo li lasceremo mangiare alle bestie. Avranno una civile sepoltura.” Spiegò mentre sbrigliava il suo chocobo, senza alcuna stizza nè impazienza.

Sbottò, meravigliandosi di se stessa e di lui, di quanto poteva essere irritante quanto suo fratello ma per motivi del tutto diversi: “Non avete senno! È dunque possibile che l’ultima cosa che tenete in conto sia sempre voi stesso?”

Ribattè con spontaneità: “Con voi al mio fianco non ho nessun motivo di temere per me stesso.”

Fu sorpreso nel sentire le braccia di lei che circondavano le sue spalle per stringerlo a sé, il suo corpo morbido e caldo che accoglieva il suo. Era stupefacente che quella ragazza avesse appena trucidato due persone senza battere ciglio.

“Forse siete un pazzo incosciente, e forse lo sono anch’io. Come potete dire di non aver avuto paura? L’ho avuta io per voi!”

Lui respirò il suo profumo a fondo, e poi cercò le parole per ringraziarla, ma di scatto lei lo allontanò bruscamente. Larsa si voltò e la vide stringersi un braccio come se gli facesse male.

“Che avete?”

Sull’avambraccio di lei comparse distintamente una piccola bilancia rossa, brillante.

“Una Convocazione Generale?”

Larsa riflettè per pochi secondi a quelle parole. Poi disse con calma: “Dal luogo dove stiamo andando potrete certamente teletrasportarvi indietro ad Archades. Lì comunque non correrò più alcun rischio. È a pochi giorni di marcia, dopotutto.”

“Sì… certamente…” assentì lei, con voce smarrita.

Non ebbe il coraggio di ricordargli che l’ultima volta che tutti e tredici i Iudex Magister erano stati convocati insieme, prima ancora che lei fosse tra questi, si era discussa e decisa l’esecuzione dei suoi fratelli maggiori. ******************************************************************************************



Ashe immobile, appoggiata ad una balconata che dava sull’esterno della città, avvolta in un cappuccio di cenci perché nessun passante la riconoscesse accidentalmente; anche così, convincere Basch a lasciarla girare da sola era stata dura, ma voleva dare un’occhiata a quanto Rabanastre fosse cambiata.

Vaan gli si portò accanto.

“Che guardi?”

Ashe indicò di sfuggita dei nuvoloni neri che si avvicinavano all’orizzonte: “Fran dice che la stagione delle piogge di Giza apre la strada per Ozmone. Dovremo aspettare almeno tre giorni di pioggia per ripartire.”

“Un pacco di tempo. Che farai nel mentre?”

“Mi allenerò, credo. Leggerò, anche”

“Che pizza.”

“Come dici?” stranì lei, non cogliendo l’espressione.

“Nulla! Senti…” disse guardando in basso “Forse con quell’uscita ti ho umiliata. Volevo chiederti scusa.”

Una folata di vento freddo e umido li raggiunse.

“No, hai fatto bene.” Disse lei dopo un po’ “A volte mi dimentico quanto sono incapace. Per questo ho bisogno di voi.”

“Sei troppo dura con te stessa.”

“Sono una principessa, devo esserlo.” Ribattè come infastidita dall’ovvietà della cosa.

“Ecco a proposito di questo Ashe…”

Si zittì da solo, coperto dal soffio del vento.

“…a proposito di questo, cosa?”

“Anche se la pietra ci darà forza… non credi che di guerre ne abbiamo avute abbastanza?” si decise a dire.

“E tu che ne sai?” sbottò, alzando la voce “Tu non devi decidere, non hai le mie responsabilità!”

“No, ma-”

“Credi sia facile per me? Non sai niente, non sai niente della guerra!”

Non sentì alcuna risposta dal biondino. Solo il vento, per diversi secondi, e lei non voleva guardarlo in faccia, quindi non lo fece. Forse aveva però esagerato, pensò dopo un po’. Si voltò per scusarsi.

Ma Vaan era sparito.

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Buhuuuhuhuuuuu! Hagaren, perchè non mi hai recensito gli ultimi due capitoli? Ho pianto tutta la notte -ogni notte!- per la tua crudeltà!

Scherzi a parte, ci si vede a Marzo con "Capricorno". Ogni tanto magari mi vien fuori qualche mese di iperattività come Gennaio.

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Capitolo 28
*** Capricorno ***


Filo si sistemò sulla faccia gli occhialetti da pilota. Le davano un’aria da maschiaccio, in contrasto con il suo vestitino girasole e il fiocco rosa annodato al collo. Rimontò sullo skateboard, che riprese a fluttuare, sospinto dalle vololiti, negli spazi angusti dello scantinato di Migelo; barcollò buffamente diverse volte per non cadere.

 

Kytes la seguiva a naso all’insù, con lo sguardo particolare che solo un bambino può avere per una bambina, quando l’amore è qualcosa di diverso e più semplice di quello che diventerà per gli adulti. Lei ricambiava la sua attenzione con sguardi fieri, da piccola ribelle.

 

Gli altri orfani s’intrattenevano attorno ad un bimbo seeq che era sempre stato il buffone del gruppo, e usava divertire gli altri con barzellette sconce che facevano ridere tutti tranne Penelo, non perché fossero divertenti ma perché dissacravano il mondo, tutto adulto, del sesso e delle oscenità.

 

“Bè, non mi sembrate a lutto” commentò Vaan, scocciato di fronte a tanta normalità.

 

“Sì… no… eh?” Kytes non scollava lo sguardo da Filo, entusiasticamente intenta nell’attività piuttosto noiosa di volare in cerchio per lo scantinato senza spiaccicarsi sul muro, ogni volta virando all’ultimo momento.

 

“Ho detto che me ne vado. Per tanto… tantissimo tempo.”

 

“Bè finalmente vivrai le tue avventure, no?” si congratulò Filo, che aveva sentito la frase mentre era passata in volo dietro la testa di Vaan, e nel rispondere perse concentrazione e dovette afferrare la tavola con le mani.

 

“Già. Ve la caverete senza me e Pen?” ribattè a voce alta per raggiungere la bambina che era già lontana.

 

“Ma sicuro.” Assicurò lei tornando verso di lui mentre cercava di rimettersi in piedi, e Kytes girava su se stesso come uno scemo.

 

Accorgendosi che al ragazzino girava vagamente la testa, Vaan gli mise due dita in fronte e lo spinse giù, facendolo cadere come una pera cotta e ignorando il suo “Ahia!” Filo gli atterrò accanto, ridacchiando.

 

“E poi senti tappa, non hai bisogno degli occhiali da aviatore per volare qui dentro.”

 

Mentre Filo si limitò a rispondere con una linguaccia, Kytes la difese con un: “Fanno fico però” che indusse Vaan a rispedirlo prontamente a terra.

 

Penelo intanto aveva finito di impacchettare i regali per ciascuno degli orfani ed era scesa giù: “Allora?” lo esortò a salire.

 

Vaan le venne dietro con aria scocciata: “Credevo di essere il capo, qui. Si sono adattati in fretta a stare senza di me.”

 

“È normale, credo.” Rispose lei, un po’ malinconica “La vita va avanti, dopotutto. Questa resterà sempre casa nostra, il nostro posto.”

 

Vaan ripensò allo scambio di battute avuto qualche ora prima con Ashe: “Io non mi sento al mio posto da nessuna parte.”

 

“Ceeerto, nessuno ti capisce, poooovero Vaan.” Gli arruffò i capelli.

 

Per tutta risposta lui gli morsicò un dito con uno rapido scatto della testa.

 

“Mi hai fatto male, scemo!”

 

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Le labbra di Fran sfiorarono di nuovo il bicchiere e s’incontrarono con il liquido ambrato.

 

“Sa di fumo.”

 

“Si dice che è… torbato. Se si sente vuol dire è un buon whisky.” Spiegò Balthier riprendendolo in mano.

 

Migelo aveva raccomandato al locandiere di servirgli quella particolare bottiglia, come ultimo ringraziamento, cortese gesto di saluto e implicito invito a sparire, possibilmente per sempre.

 

“Più che buono, direi ottimo.” Sorseggiò cautamente “Che te ne pare?”

 

“Mhm.”

 

Far scoprire alla sua socia i piaceri e gli usi della civiltà huma era un gioco che andava avanti da anni. Talvolta lei reagiva con curiosità, e iniziava una lunga serie di domande a cui pretendeva risposte concise che registrava nella memoria, stupendolo con la sua capacità di riempirsi la testa di nozioni sui più disparati argomenti in pochi minuti. Altre volte restava distaccata, con il tipico disinteresse delle purosangue viera verso le altre razze, e non c’era niente da fare perché cambiasse idea.

 

“Oh bè” lasciò perdere lui, tracannando il bicchiere in un sorso e mandando la sua gola in fiamme.

 

“Quand’è che smetterai di tenermi il broncio, dunque?”

 

Lei sospirò, poi parlò calma, sorridendo, ma senza nascondere un filo di amarezza: “Sei sempre stato un ribelle. Solo, non credevo avresti mai voluto ribellarti… al nostro legame.”

 

“Non voglio, infatti. È solo che-”

 

“Che non vuoi gettare la maschera con me perché non vuoi farlo nemmeno con te stesso.” Completò lei prendendo le misure della ringhiera con lo sguardo.

 

“Non sono bravo, forse, a farmi perdonare?” disse mimando una espressione supplicante con marcata autoironia, ma accarezzandole audacemente la gamba.

 

Non le riuscì di non sorridere, ma non fece in tempo a rispondergli: Il capitano Basch salì le scale della Sandsea e si avvicinò al duo: “Piove sulla Piana di Giza. Sua maestà vorrebbe che partissimo quanto prima.”

 

Ashe gli comparve dietro, visibilmente impaziente.

 

“Abbiamo bisogno di qualche ora per prepararci e pensare al da farsi.” fece Balthier, ma provocatoriamente non si alzò nemmeno dal tavolo; versò altro scotch nel bicchiere e lo porse al capitano.

 

“Ti fai un goccetto, soldato?” e Basch rispose con un’occhiata diffidente: i due non si amavano molto.

 

“Non abbiamo bisogno di pensare niente.” Insistette Ashe “La mia scelta l’ho fatta molto tempo fa.”

 

“Non si vive di scelte e basta, maestà.” Il pirata si alzò un po’ scocciato “Beh, mi stavo annoiando da qualche giorno, comunque.”

 

La coppia scese giù a pagare, e Basch fissò il bicchiere senza toccarlo. Ashe fissava la gente al piano di sotto, con un’espressione stranamente incuriosita. Come se non avesse mai visto il popolo rabanastrese prima di allora.

 

“Basch, c’è una domanda che mi tormenta…” disse piano, lo sguardo assorto sulla piccola folla di sotto.

 

“Chieda pure.” Il capitano fu colto un po’ alla sprovvista: era un tono di conversazione insolitamente paritario, per venire da lei.

 

“Quel ragazzo… Vaan. Sai se ha perso qualcuno nella guerra?”

 

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Dalla partenza da Rabanastre, Vaan non ricordò nemmeno più quante ore fossero passate. Nel rumore scrosciante dell’acqua che raggiungeva la terra, ogni concezione del tempo era andata perduta.

 

Avanzavano in fila indiana, precariamente coperti da poncho laceri che svolazzavano frustati dall’acqua e dall’aria, ad eccezione di Fran che non sembrava infastidita dall’acqua proprio come non lo era stata nel deserto: la leggendaria adattabilità delle viera ad ogni ambiente naturale.

 

Il rumore era tale che a stento si udivano l’un l’altro. Il ragazzo non aveva capito inizialmente cosa intendesse Fran: “Le piogge su Giza aprono la via per Ozmone.” Solo adesso comprendeva che la Piana di Giza, nella stagione delle piogge, si trasformava in un luogo del tutto diverso.

 

I villaggi di nomadi erano stati smontati e portati via senza lasciare alcuna traccia, le spighe di grano dorato inghiottite dal fango, le elioliti non splendevano più tingendo l’ambiente, anzi erano ridotte a rocce aguzze e nerissime, che si sarebbero dette del tutto prive di magia. Le colline  gentili, incredibilmente, sparite in un unico, uniforme acquitrino dove grandi cumuli di fango sembravano  muoversi autonomamente, cambiando in continuazione la conformazione del paesaggio.

 

Il biondino osservò uno di questi cumuli mentre la pioggia lo corrodeva e lo spogliava di sterpi e terra. Ne uscì una creatura strana, uno strano guscio lucido, quasi metallico, mosso da quattro tozze zampe da rettile. Trasalì quando l’essere cominciò a muoversi, realizzando che la sua stazza era  grande tre quattro volte uno huma.

 

“Non fermarti a guardarlo.” Lo ammonì Basch, trascinandolo, e gentilmente prese per il braccio anche la principessa.

 

“La… la piana prende vita con la pioggia?” chiese Ashe, stringendo salda in pugno l’asta da mago su cui si appoggiava, e cercando con l’altra mano l’elsa della spada nella cintura, come per trarne sicurezza.

 

“Sono gli adamantart.” Spiegò Fran davanti a loro “Gli esseri più resistenti di Ivalice. Durante la stagione secca dormono nella terra.”

 

“Meglio non disturbarli.” Continuò Basch “Sono aggressivi se infastiditi e, a parte me, nessuno di voi potrebbe sconfiggerli.” Lo disse senza spavalderia, con estrema naturalezza, e a Vaan tornò in mente quando da solo aveva massacrato un gruppetto di antoleon nelle Miniere di Lhusu.

 

Sì, Basch vedeva i punti di rottura che percorrevano quelle corazze viventi, all’apparenza impenetrabili. Sapeva esattamente dove colpire, ed in che direzione per poter raggiungere gli organi vitali attraverso gli scudi spezzati. Per lui invece questi rimanevano misteri, non vedeva niente se non corpi massicci e indistruttibili, avversari oltre la sua portata.

 

“Sei un chiodo tu, eh?” sussurrò il ragazzo dando voce ai suoi pensieri, portatosi accanto al capitano.

 

“Prego?”

 

“Vuol dire che sei un tipo tosto. Non hai davvero bisogno di noi per combattere.”

 

Il capitano sorrise quasi con dolcezza: “Ti dirò una delle prime cose che ti insegnano nell’Ordine Dalmasco: ognuno ha il suo compito in battaglia, ciascuno è fondamentale a suo modo.”

 

“Lo dicono alle schiappe per tirarli su.” Ribattè acido, preso di nuovo da quel senso di impotenza e inadeguatezza che lo rendeva arrabbiato verso tutti, persino suo fratello o meglio verso il ricordo di lui.

 

Basch rimase placido e sicuro: “Ti sbagli. Io ho la forza dalla mia, ma non è tutto. C’è la magia, la sapienza, l’ingegno, la strategia… c’è la capacità di improvvisare che hai tu.” Sottolineò il concetto dandogli una robusta pacca sulla spalla che per poco non lo atterrò, poi proseguì: “Molti novellini entravano nell’ordine pensando: io sono un buono a nulla. Poi capivano il loro ruolo e si scoprivano indispensabili.”

 

Vaan ringraziò con un sorriso tirato il capitano, visibilmente felice di avergli potuto donare quel ricordo. Camminarono ancora sotto la pioggia, pian piano allontanandosi tra loro.

 

“Che vi dicevate, con Basch?” chiese Penelo, avvicinandosi a lui perché lo scrosciare non coprisse le sue parole.

 

“Un mucchio di megaballe” sbuffò.

 

Continuarono la processione senza parlare, ormai erano talmente bagnati che la pioggia non era più fastidiosa in sé, erano anzi più fastidiosi i vestiti appiccicati e appesantiti dall’acqua. Gli adamantart si radunavano in gruppi sui promontori, come se i loro corpi massicci e lucenti volessero godersi la luce pallida che attraversava le nubi né più né meno che come i ragazzini nomadi si abbronzavano sulle rive del Nebra; badarono a non disturbarli e quelli fecero lo stesso.

 

Quando anche i pochi raggi di luce grigiastra si smorzarono, seppero che arrivava la sera.

 

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“Siete convinto?” chiese per l’ennesima volta.

 

“Assolutamente. Nulla di male mi accadrà, qui.”

 

Drace posò lo sguardo su uno degli imponenti umanoidi che stavano ai lati di Larsa. Era qualcosa di istintivo, simile alla sensazione che si prova in presenza di un grande animale domestico, a dirle che non avrebbero mai rappresentato una minaccia per lui, ma non erano loro ad ispirarle preoccupazione.

 

“Insistete a proseguire il viaggio senza di me?”

 

“Come vi ho detto, se i miei informatori hanno ragione presto arriveranno altri compagni di viaggio.”

 

Drace notò quanto somigliasse a suo fratello nella cieca fiducia riposta nelle reti organizzative che creava, sembrava considerarle parte di sé stesso quanto un braccio o una gamba. E dopotutto è improbabile che un braccio o una gamba ci tradiscano o deludano. Come ogni tratto che avvicinava Larsa a Vayne, non gradiva affatto la sensazione che gli dava.

 

Uno dei due umanoidi alzò il braccio possente verso un punto a mezz’aria, proprio sopra un intreccio di rametti che disegnava precariamente un cerchio: “È lì.”

 

“Lo vedo.” Confermò Drace, fissando il punto vuoto dove il myst si concentrava, invisibile all’occhio di uno huma qualsiasi.

 

Agitò un braccio armoniosamente, mentre con l’altro si adagiava in spalla la sua lunga arma dalle forme artistiche e stravaganti; ancora una volta dimostrò involontariamente una forza smisurata così in contraddizione con il suo aspetto, che a quel popolo straniero aveva ispirato un immediato rispetto. Infine, mormorò la formula.

 

“Te… Le… Ga.” Nell’aria si aprì come un mulinello d’acqua le cui pareti sembravano però di cristallo arancione; un vortice che crebbe fino a farsi un vero e proprio portale cristallino, grande quanto una persona.

 

Oltre il varco, Larsa poteva intravedere una carta da parati di squisito gusto arcadiano, senza dubbio una delle residenze della famiglia di Drace. La ragazza esitò un attimo nel passaggio creato dalla magia. I suoi tratti maturati prima del tempo, induriti dallo studio e dal lavoro, mostravano un’insolita esitazione.

 

“Qualcosa non va?”

 

Drace si voltò: “Qualunque cosa sia, per esserci una Convocazione Generale deve essere molto seria…” scandì bene le parole e ripetè “Molto seria.”

 

“Per questo infatti sono quantomai convinto che voi dovreste andare.” Sfoggiò il suo miglior sorriso rassicurante “L’Impero ha bisogno di voi.”

 

Era così: lui avrebbe sempre e solo sorriso, sorretto da una fiducia incrollabile in sé stesso, nei suoi ideali, persino in suo fratello. Anzi, avrebbe pensato che era lei l’ingenua, che non sapeva o non poteva avventurarsi negli abissi della psiche di Vayne Solidor e ritrovarvi autentica umanità. Era lei che mancava della fede che permetteva di vedere la pace mondiale sorgere all’orizzonte, sebbene la storia di Ivalice fosse sempre stata una lunga notte di ferro e sangue. Era lei che voleva mettere mano alla spada quanto prima, come tanti altri nella storia, ed era Larsa che voleva interrompere quella spirale di violenza.

 

Lui, le sue idee, impenetrabili ad ogni confronto.

 

“Abbiate cura di voi, signorino” salutò infine, con un sorriso dolceamaro.

 

“Arrivederci presto, mia cara Drace.”

 

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Riposarono nell’arco di terra umida scavato da un adamantart per uscire fuori. Vaan si sentiva talmente sporco di fango fino alle ginocchia che neanche si domandò come poteva pulirsi. Penelo tentò tre volte una magia del fuoco. Non c’era nulla di asciutto su cui la fiamma potesse attecchire.

 

“Poche miglia ancora, e saremo in Ozmone. La tempesta si interromperà di colpo” illustrava Fran “sempre se, ovviamente, non sbagliamo direzione.”

 

“Credo che siamo finiti fuori strada un paio di volte. Di questo passo ci metteremo giorni a venirne fuori” puntualizzò Balthier scrollandosi l’acqua dal poncho.

 

“Entro domani avremo tutti un febbrone da cavallo.” Commentò Vaan, e quasi a volergli dare conferma fu colto da un fortissimo bisogno di starnutire.

 

Non si trattenne, senza accorgersi che così aveva praticamente fatto una doccia di germi ad una impietrita Ashe. Balthier e Fran non li guardarono nemmeno, intenti a studiare una mappa sgualcita, ma Basch e Penelo furono visibilmente imbarazzati.

 

“Ecco! Che mi dirai adesso?” sbottò il ragazzo, piccato.

 

Ashe lo guardò per qualche secondo. Gli tornò alla mente come l’aveva trattato il giorno prima.

 

Poi disse, controllata: “Non fa nulla. Poteva capitare a chiunque” provocando sguardi sbalorditi.

 

Appoggiò l’asta sulla fronte di Vaan, che chiuse gli occhi come se si aspettasse di essere picchiato.

 

“No, no no no cosa mi fai, ehi!”

 

“Es… Na!” appena finì di parlare, una luce fluida che andava dall’azzurro al verde si schiuse dal ramo magico ed entrò nella pelle del biondino.

 

Lui respirò a pieni polmoni: “Wow. Sto meglio. Credevo volessi fulminarmi.”

 

“È una magia bianca” spiegò Penelo “Cura ogni tipo di morbo o intossicazione. Se non si può fare il fuoco è l’unico modo per non prendersi un accidente.”

 

“Bè ma… che c’entra con il raffreddore? Mica fa passare il freddo.”

 

“Il freddo indebolisce l’organismo, ma sono i batteri che lo aggrediscono facendoti stare male. E il raffreddore è una semplice reazione immunitaria ai batteri” illustrò Balthier con tono accademico, alzando un attimo lo sguardo dalla mappa.

 

“È la seconda volta che fate sfoggio d’erudizione” notò Basch, sospettoso, ricordandolo alla Valle dei Morti “Dovete aver condotto studi eccellenti.”

 

“Volete chiedermi dove?” lo provocò il pirata, ricordando Vossler.

 

Basch colse subito il messaggio: “No. Ne parlerete se e quando vorrete.”

 

“Hai buonsenso, soldato.”

 

“Non lamento le crepe del mio scudo se è l’unico che possiedo” chiuse il capitano, volgendosi altrove per troncare la discussione.

 

Solo loro colsero il senso di quel diverbio nascosto: diversamente da Vossler, Basch non intendeva farsi carico da solo della responsabilità di accompagnare la principessa; non era così eroico, o così pazzo. Questo, naturalmente, lasciava a Balthier più spazio di manovra di quanto Basch non avrebbe mai voluto. Ma per quanto ancora? Nessuno dei due lo sapeva con certezza.

 

Intanto Ashe, Penelo e Vaan parlottavano di qualcosa, mentre Fran sembrava concentrata ancora sulla mappa, consunta dall’umidità.

 

“Così padroneggiate la magia” domandò Penelo.

 

“Qualcosa, ma mi manca la concentrazione necessaria per dominare gli elementi come voi.”

 

“Tu. Dammi del tu.”

 

Ashe annuì brevemente, con l’asta tracciava minuziosamente dei cerchi e altri simboli intrecciati nella fanghiglia liscia, che Penelo osservava con interesse. Un ampio pentacolo da cui si allargavano altre linee, forme geometriche e ideogrammi.

 

“Cos’è?” indagò Vaan seguendo quel linguaggio nascosto tra le due ragazze.

 

“È una specie di sentiero dove ciascun mago si colloca in base alle discipline apprese” spiegò Penelo inginocchiandosi e percorrendo con l’indice il pentacolo “Ecco le magie che scatenano i quattro elementi, e quelle che risanano ferite e malattie, e qui quelle che appestano o invigoriscono, poi quelle che piegano lo spazio e il tempo, e infine le magie occulte, un tempo proibite.”

 

Penelo aggiunse una linea spezzata nel disegno: “Questa sono io.”

 

“Ed io…” Ashe ne tracciò un’altra che seguiva una rotta diversa con la punta del bastone.

 

“Ed io dove sto?”

 

“Non ci sei, Vaan!” ridacchiò Penelo, appena coperta dal rombo di un tuono fuori dalla galleria.

 

Ma la principessa li interruppe pestando bruscamente il disegno con un piede nell’atto di precipitarsi fuori, come se qualcuno urlasse il suo nome. Gli altri la seguirono immediatamente, e subito furono di nuovo sotto la pioggia.

 

“Maestà!” chiamò Basch, allarmato.

 

La principessa rimase a fissare il cielo.

 

“Ashe!” urlò Vaan, e le andò davanti scuotendola per le spalle.

 

Poi alzò lo sguardo nella sua stessa direzione, e lo vide. Sebbene non ci fosse nessuna somiglianza con gli altri tre che aveva visto, non dubitò nemmeno per un istante di che cos’era: la sensazione che la realtà si incrinasse sotto il peso del mito, si mischiasse con qualcosa di più caotico e incontrollato, era sempre identica. Un esper.

 

Il cielo si avvolgeva tutto intorno a lui, che accarezzava le nubi con una moltitudine di folgori splendenti, come se fosse lui stesso l’epicentro della tempesta. In breve guardarono tutti e sei quell’essere paranormale vestito di fulmini senza muovere un dito.

 

Vaan fu il primo a riprendere coscienza di sé. Cercò di nuovo di scuotere la principessa.

 

“Ashe! Dobbiamo andare, dobbiamo andare!” lei non distoglieva lo sguardo dall’esper fisso al centro del cielo.

 

Le nubi si disposero come un anello vorticante: l’intensità della tempesta saliva rapidamente. L’esper discese vagamente, avvicinandosi a loro ed il ragazzo sentì la chioma bionda drizzarsi per l’elettricità mentre le sue forme diventavano più distinte.

 

Anche Basch si avvicinò, parandosi davanti alla sua principessa e mettendo mano alla spada, ma lei non sembrava intimorita; al contrario, si abbassò il cappuccio del poncho e i suoi capelli color sabbia si liberarono al vento.

 

Ricordava vagamente una viverna, i parenti aerei dei draghi. Ma era più snello e affilato, come il suo muso allungato da predatore, sormontato da due lunghe corna affusolate, come le ali essenziali più che altro simili a forme ossee: tutto in lui sembrava pronto a sfrecciare e ferire. La sua pelle era un intreccio di gioielli scarlatti e ceramiche di tutte le sfumature del verde, una livrea preziosa che gli dava un’aura di regalità stridente con la sua forma bestiale.

 

Allungò un braccio sproporzionatamente lungo verso l’orizzonte. I fulmini andarono tutti nella direzione del braccio, formando un sentiero luminoso di folgore, innaturalmente dritto, che squarciava il cielo. Stava indicando, ed Ashe sgranò gli occhi in segno di riconoscimento.

 

Poi la luminosità crebbe e così il rumore, fino a che investiti dallo spostamento d’aria non caddero storditi.

 

 

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Essendo stati i primi a riprendere conoscenza, Basch e Fran si guardarono intorno. Solo fanghiglia e pioggia e Vaan, Ashe, e più distanti Balthier e Penelo, privi di sensi. Sparito l’esper, anche se le nuvole nel punto dove era sceso erano ancora vagamente distorte, come se le avesse perforate.

 

Li trasportarono a fatica nella tana ormai invasa dall’acqua, senza parlare, e poi si sedettero nella terra bagnata, ancora intorpiditi.

 

“Cos’era?”

 

Era stata Ashe a parlare. Si era svegliata senza darne segno, semplicemente aprendo gli occhi e rimanendo immobile.

 

“Non lo sai da te?” rispose la viera “Uno dei dodici, un esper. A giudicare dai fulmini è certo Adrammelech di Capricorn, l’Adirato.”

 

“Parlamene” supplicò quasi la ragazza.

 

Fran recitò: “Colui che fu eletto dagli dei Re delle Bestie e per questo ambì a rovesciare gli dei stessi con un esercito di fiere. Gli dei incatenarono lui e la sua ambizione tra la terra e il cielo con le folgori, a cui urla la sua rabbia nei giorni di tempesta.”

 

La principessa non fece commenti per un pò, e rimase solo il rumore della pioggia e del respiro lento dei tre ancora svenuti. Dopo un poco parlò di nuovo.

 

“Voi conoscete molte antiche leggende.”

 

“La sapienza del mio popolo è la Verde Voce. Essa è la memoria del mondo, che affonda salde radici nel passato e parla dal fruscio delle sue molte fronde.”

 

Non spiegò minimamente cosa voleva dire, ed Ashe non lo chiese. Di nuovo nessuno parlò per qualche minuto.

 

“Sembrate turbata” si decise a chiedere Basch.

 

“Gli esper fanno parte della cultura di tutta Ivalice…” riflettè Ashe ad alta voce “I dodici percorrono il nostro mondo e a volte incrociano le loro strade con qualche avventuriero. Ma così spesso… Non credo che nessuno abbia visto tre esper in così poco tempo; alcuni li considerano così rari da essere un segno celeste. E quello… Adrammelech, stava… indicando una strada, credo.”

 

“Verso Jahara, la terra dei garif” precisò Fran.

 

“Cosa credete voglia dire?” insistè Basch cercando di cavarle fuori l’origine della sua inquietudine.

 

Col bastone Ashe riprese a disegnare nel fango, ma stavolta un disegno diverso formato da una ruota che collegava dodici anelli, ciascuno dei quali aveva un simbolo.

 

“Forse è il destino a volere che io percorra questa via?” le si illuminarono gli occhi nel pronunciare queste parole.

 

“Quale via, maestà?”

 

“La via verso la sconfitta dell’Impero… per mezzo di questo dono che mi è capitato tra le mani… così inaspettato…” nessuno ebbe bisogno di chiederle a cosa si riferiva, mentre lei frugava con la mano nel bagaglio.

 

Fran rispose in tono incolore: “La via di cui parli hai visto dove porta. Un’energia incontrollabile che porta solo distruzione. È questo il glorioso destino verso cui corri con quella negalite nelle mani.”

 

Basch si irrigidì, ma non prese le parti della principessa.

 

“Mi giudicate” constatò Ashe a denti stretti, ma senza inflessione e quasi senza sorpresa.

 

“Affatto. Non mi interessa giudicare te, o chiunque altro. Ti dico semplicemente cosa vedo.”

 

Non dissero altro, fino a che Balthier per primo e poi gli altri due non furono svegli. Parlarono per un po’ del viaggio, e poi si rassegnarono a dormire sulla terra nuda ed umida, troppo stanchi per non cedere al sonno.

 

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Il seguente giorno di marcia sotto la pioggia battente, a Vaan iniziò a far male la testa. Il rumore delle gocce era ormai insopportabile.

 

Quella parte di piana era quasi tutta invasa dall’acqua, e certe zolle o tronchi tradivano i piedi affondando subito nella fanghiglia. Gli adamantart, pesanti com’erano, si tenevano lontani. Anche loro dovevano stare attenti a dove mettevano i piedi per non sprofondare nel fango.

 

Dopo un po’ iniziò a notare dei rapidi guizzi colorati vicino l’acqua, che si muovevano saettando a gran velocità. Sembravano, a vederli di sfuggita, meravigliose farfalle variopinte di rossi e azzurri sgargianti. Ma a guardarli meglio si accorse che erano in effetti pesci, che strisciavano fuori dall’acqua come rettili.

 

“Che cavolo sono?” domandò quasi urlando, per sovrastare lo scrosciare incessante.

 

Gli altri si girarono verso quegli esseri variopinti che entravano ed uscivano dall’acqua.

 

Vaan non fece in tempo a ricevere risposta: uno dei pesci schizzò velocissimo verso una gamba di Penelo, schiudendo delle fauci larghe e aguzze. Ma la creatura non ebbe a sua volta il tempo di chiudere la bocca sul polpaccio della ragazza: proprio la lama di Vaan lo aveva inchiodato al terreno e ucciso all’istante con un movimento fulmineo, eseguito d’istinto. Il gruppo si paralizzò per pochi secondi.

 

“Rapidissimo. Io non l’avevo nemmeno visto!” si congratulò Basch.

 

Per una volta anche Balthier fu d’accordo e commentò: “Ormai ci sai fare, ladruncolo” aggiungendo un pugno affettuoso sulla sua spalla.

 

Improvvisamente approvato da entrambi si sentì stranamente accaldato intorno al collo: era contento, realizzò. Poi si concentrò su quella cosa che aveva infilzato. A guardarlo da vicino era piuttosto brutto malgrado i bei colori, con occhi vitrei, denti sproporzionati ed una smorfia indefinibile.

 

“Focaral” li definì Fran “sono voraci e, se si raggruppano, molto arditi anche fuori dall’acqua. Andiamo più svelti verso qualche zona secca, è consigliabile.”

 

E infatti accelerarono il passo, ma Penelo si prese il tempo di ringraziare Vaan con un bacio sulla guancia. Fran prima di muoversi prese il corpo del focaral e lo legò incurante ad una spalla dopo aver staccato con le mani le pinne spinose.

 

“Ehi ma non vorrai… mangiarlo, vero?” la viera ignorò completamente la domanda del ragazzo.

 

“Quante creature ostili ci saranno ancora lungo la via?” si lamentò la principessa.

 

“Anche se siete abituata alla prima classe, principessa, scoprirete che viaggiare in terza classe ha i suoi vantaggi – si muore in più modi, ad esempio, e più stravaganti.”

 

“Io credo che a Balthier la principessa piaccia, sai” bisbigliò Penelo nel cappuccio di Vaan.

 

“Per gli dei, Pen, sempre questi argomenti. A volte sai essere così infantile…”

 

“Ho imparato dal maestro!” protestò lei, e gli pestò un piede per sottolineare il concetto.

 

Continuarono a litigare e non la smisero più per quasi mezza giornata. Ogni tanto sembravano sul punto di fare pace, ma Balthier gli tirava in mezzo qualche commento che suscitasse discordia assicurandosi che lo sentissero malgrado la pioggia, e si ricominciava mentre il pirata ridacchiava alle loro spalle.

 

Ashe era assente con il pensiero. Ogni tanto volgeva lo sguardo al cielo, come per assicurarsi che stava seguendo la scia luminosa indicata da Adrammelech di Capricorn. Sembrava l’unica cosa di cui gli importasse. Basch non smise mai di fissarla.

 

Solo al tramonto, dopo un lungo cammino, la pioggia si fece più rara ed il cielo era già viola quando iniziarono a calpestare le terre asciutte della Piana di Ozmone.

 

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Il grande corridoio color grigio polvere era pieno di gente che chiacchierava. Erano quasi tutti funzionari imperiali o addirittura giudici, e tutti cercavano di capire cosa fosse accaduto o dispensavano opinioni su quello che credevano stesse accadendo. Erano immersi in una sorta di caos controllato dove ciascuno di loro provvedeva a seguire le inviolabili leggi dell’etichetta nonostante serpeggiasse il panico.

 

Una Convocazione Generale dei Giudici significava un processo ad un alto esponente del governo imperiale. Questo era l’unico fatto certo.

 

Il silenzio scese quasi di colpo: I passi pesanti del Iudex Magister Bergan risuonarono come rintocchi di campana per il corridoio. Ad ogni eco i soldati si irrigidivano di più, rabbrividendo al pensiero che quell’uomo terribile gli sarebbe presto passato davanti. Alcuni trattennero persino il respiro.

 

Se i giudici arcadiani non dovevano mai mostrare il volto, per essere mera espressione della Legge Imperiale, tra tutti Bergan era quello che aveva perso più umanità. La sua armatura pesante, massiccia e affilata gli dava l’aspetto di una bestia pronta alla carica, sempre intenta a puntare una preda.

 

E infatti c’era ben poco di umano, dentro quella corazza. Solo una vaga dimenticanza, che pian piano divorava la sua autocoscienza. Bergan era ben felice di non avere, della sua vita precedente alla nomina, che pochissimi ricordi, che si facevano progressivamente più nebbiosi.

 

Era felice di non ricordare il padre, la sua violenza, e la notte in cui le botte erano state troppe, e sua madre non si era mossa più, e aveva smesso di respirargli tra le braccia. Non ricordare la disperata caccia all’uomo in cui si era scatenato per ritrovare il padre e ucciderlo, quando era ancora un ragazzino biondiccio, emaciato e pallido senza risorse né speranze.

 

Era stata la fortuna, dopo anni di ricerche febbrili e inutili, a fargli trovare un lavoro come segugio privato, cacciatore di taglie; per l’indole spregiudicata fu presto notato dal giudice arcadiano locale, che lo volle come giovanissimo assistente.

 

Ed era una fortuna anche non ricordare distintamente da dove venisse la sua morbosa passione per casi di  delitti familiari o con vittime donne, che risolveva sempre per vie spicce e brutali. Il suo capo apprezzava che pochi degli indiziati nella sua iudiciaria arrivassero ad un processo, e quelli che ci arrivavano erano comunque mutilati nel corpo e nella mente. Su chiunque osasse toccare una donna o un bambino, Bergan si riprendeva ogni volta la giusta vendetta che il destino gli aveva tolto, infliggendo con autentico gusto punizioni la cui brutalità potesse diventare leggenda.

 

E poiché niente era più odioso al popolo che i delitti di quel tipo, Bergan divenne presto non più un sadico assassino ma anzi una icona della giustizia imperiale, un angelo custode spietato ma, si diceva, dopo tutto giusto.

 

Il suo giudice e lui vennero trasferiti dopo qualche anno dalle parti di Balfonheim, una iudiciaria complessa perché a quei tempi era punto di snodo per una varietà di traffici e contrabbandi che non facevano onore alla legalità dell’Impero.

 

Lì Bergan imparò che su alcuni criminali poteva liberamente sfogare la sua sete di vendetta, mentre altri diventavano informatori o collaboratori preziosi; imparò che alcune attività criminose potevano essere permesse, supervisionate, contenute, mentre i delitti più gravi, più appariscenti, più pericolosi per la pace sociale, dovevano essere perseguiti con i suoi metodi, sempre più apprezzati.

 

Quando il suo giudice si ritirò, lasciandogli l’incarico, Bergan era già così compenetrato in quell’ambiente da essere di fatto un signore del crimine lui stesso. Ma proprio per questo il crimine nella sua iudiciaria era controllato e si era fatto invisibile, quindi facilmente tollerabile.

 

Era diventato un pensiero atroce, impronunciabile per chi turbava la tranquillità sociale: una perfetta commistione di pace e terrore.

 

L’Imperatore gli mandava spesso dispacci con cui trasmetteva la sua soddisfazione sulla situazione a Balfonheim, e prometteva una promozione futura; cose che per Bergan valevano meno che zero, a confronto dell’appagamento che sentiva come mano della giustizia, la sua giustizia. Non quella dell’Imperatore, del Kiltias, degli Dei Antichi, o di nessun’altro: solo la sua. Come giudice d’istanza alla iudiciaria di Balfonheim, Bergan fu felice, per quanto poteva esserlo.

 

Poi successe quella cosa… e Bergan ne venne informato, per quanto distante dalla capitale si trovasse. Fu un’illuminazione: per la prima volta aveva in mente un altro essere umano che, forse, poteva comprenderlo, comprendere il suo bisogno spasmodico di ordinare la realtà con qualsiasi mezzo e senza guardare in faccia nessuno.

 

Del resto, ben pochi sanno essere spietati con i propri familiari: persino Bergan stesso che non aveva ucciso suo padre nel sonno prima che mietesse la sua prima vittima, come avrebbe dovuto fare.

 

Ma Vayne Carudas Solidor aveva rapidamente valutato le circostanze e aveva sparso senza indugi anche il sangue del suo sangue. Non aveva atteso un solo giorno, e i colpevoli erano stati puniti prima che una sola vittima fosse mietuta. Lutho Cassius Solidor e Kaent Bluto Solidor avevano cospirato contro l’Impero ed erano morti per volere del loro stesso padre e per mano del loro stesso fratello che aveva eseguito la sentenza: questa era la giustizia assoluta, implacabile, autentica.

 

Vayne Solidor era diventato la sua giustizia e da allora lo aveva sempre sostenuto. E questo era il pezzo della sua vita che Bergan aveva voglia di ricordare, per sempre: la sua lotta per la sua giustizia.

 

E era con questo spirito che, molti anni dopo, la creatura nota come Iudex Magister Bergan varcava la soglia del Palazzo Imperiale di Archades, rispondendo alla Convocazione Generale dei Giudici.

 

Anche quegli altri giudici reagirono con un certo timore alla sua presenza. Nell’ampio ingresso era sceso un silenzio inquietante alla sua entrata, nonostante nessuno volesse guardare esplicitamente proprio lui ammettendo così il proprio disagio.

 

Solo una persona gli venne incontro senza alcun timore, salutandolo come il protocollo imponeva;  ma non certo per amicizia  - piuttosto, per sbattergli in faccia che non lo temeva, non lo aveva mai temuto, e così sarebbe sempre stato.

 

Questa persona, la sua idea della giustizia, era quanto di più distante potesse esistere dalla sua personale giustizia, ed entrambi erano assolutamente consapevoli di questo, e simmetricamente orgogliosi delle loro differenze.

 

Questa persona era il Iudex Magister Drace.

 

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Dopo due giorni poterono ricordarsi il significato dell’essere asciutti. Penelo accese un fuoco con la magia al riparo sotto un relitto di aeronave, la Piana di Ozmone ne era piena. Il fango gli si asciugò addosso e anche se erano ancora sporchi, il fuoco sembrò la migliore invenzione al mondo di gran lunga.

 

Fissavano il fuoco in silenzio, ogni tanto ascoltavano l’ululato di un fang lontano, da qualche parte nella notte, e le cicale che cantavano tra gli arbusti radi e gli scafi corrosi dal tempo: ma finchè Basch, che montava di guardia, finchè il suo volto serio era tranquillo, lo erano anche loro.

 

Fran infilzò il focaral ad una freccia dopo averlo pulito con la punta, e lo lasciò cuocere lentamente. La sua carne, dal sapore di fiume, non era un granchè, ma ormai da due giorni mangiavano solo le gallette da viaggio, quindi Vaan fu quasi sul punto di litigarsi gli ultimi pezzi con Balthier.

 

“Quanto ancora, per Jahara?” fu Ashe a rompere il silenzio.

 

“Due giorni di marcia… se seguiamo la giusta direzione” illustrò Balthier senza nemmeno guardarla, rimanendo steso a fissare il cielo.

 

Quando ebbe finito di pulirsi le mani strofinandosi con delle foglie aromatiche che aveva cercato in giro, Fran andò a stendersi accanto a lui. Penelo e Vaan li guardarono, poi si guardarono l’un l’altro, ed infine si addormentarono appoggiati l’uno all’altro come loro.

 

Ashe guardò il suo fedele e taciturno guardiano, gli occhi fissi sul lato scoperto del relitto, nessuna distrazione nella mente come un vero soldato. Provò gratitudine per lui, per tutti loro.

 

Poi guardò di nuovo le fiamme, e i resti del focaral che si contorcevano nel calore. Ricordò di nuovo quel senso di euforia orribile provato quando aveva ucciso per la prima volta.

 

Guardò Vaan e Penelo dormire. Per un istante desiderò che al mondo ci fosse solo questo: persone che si amano e dormono insieme sotto le stelle. Che tutto fosse semplice, bello, e dolce come aveva creduto, illudendosi, che sarebbe stato il mondo. Ma  prima di scoprire la guerra.

 

Era sola quella notte, sola con i suoi pensieri. E il primo era che non sapeva quante delle persone che erano con lei intorno al fuoco sarebbero morte, quando la guerra con Arcadia fosse scoppiata.

 

Così continuò a pensare e fissare il fuoco, per lungo tempo.

 

Non avrebbe saputo dire quando, di preciso, si era assopita, riuscì solo a distinguere il momento in cui riapriva gli occhi, sentendosi chiamata da qualcosa.

 

Tutti dormivano, salvo forse il capitano, ancora immobile come un guardiano di pietra. Si alzò in piedi come in trance, cercando di nuovo la negalite nel bagaglio per trarne conforto. S’incamminò fuori dal relitto dove si erano accampati, e nemmeno si accorse di Basch che si alzava immediatamente per venirle dietro.

 

Era solo lei, l’erba e la notte. E il richiamo.

 

Alle sue spalle sentiva la voce di Basch che la chiamava, distante e confusa. Non le importava, continuò a camminare e il capitano con lei. Basch notò come qualcosa di grosso e invisibile che camminava dietro la principessa, scostando con la sua mole i ciuffi d’erba, e pian piano ne distinse i contorni: ntorno alla principessa, Basch vide aleggiare la sagoma di Belias di Aries, il Gigante-Stregone che lei aveva asservito.

 

Non seppe dire per quanto avessero camminato esattamente lui, la principessa e il suo servo sovrannaturale, quando Ashe si fermò.

 

In quel punto, l’intera Piana di Ozmone sembrava incurvarsi come se qualcosa ne avesse trivellato il cuore, un crepaccio che scendeva verso il fondo girando su sé stesso. Guardò il fondo buio sporgendosi appena, e volle scendere. La forma di Belias si fece quasi solida.

 

Ma in quel momento Basch divenne una presenza fisica, più solida di una semplice voce, e la strattonò per fermarla. Per risposta, lei lo guardò stranita.

 

“Dove siamo?”

 

Lui ricambiò la faccia sorpresa, poi decise di rispondere: “La Spirale della Terra. Ne ho sentito parlare, è la voragine che scende verso le Cave di Zertinan.”

 

Anche lei le conosceva: il labirinto di stalattiti, radici e sabbia che si diceva si estendesse per metà di Ivalice, persino sotto il mare. Nessuno sapeva con esattezza quanto fossero grandi e cosa ci fosse al suo interno.

 

“Perché è venuta qui, maestà?”

 

La risposta giunse da sola dal fondo del crepaccio: un rombo che poteva sembrare tanto un ruggito quanto un tuono. I versi notturni tacquero di colpo, come zittiti dalla voce di un sovrano.

 

“È l’esper del capricorno. Lui… mi chiama.”

 

“Ma cosa dite?”

 

“Hai sentito Fran: gli esper sono stati puniti dagli dei costringendoli a servire i mortali. L’esper ed io, siamo destinati a combatterci, per sapere se sono degna di farlo schiavo… tale è la legge degli dei… ” guardò il fondo della spirale, altri ruggiti ne vennero fuori, e lei riprese a parlare: “Egli odia gli dei, ed odia me. Ma anche mi sfida…”

 

Basch non aveva lasciato la spalla della principessa nemmeno per un secondo. La tirò indietro. L’ombra di Belias si agitò come una bestia inferocita disturbata da un bambino incauto: bramava quello scontro.

 

“Maestà, oso dirvi che non siete in voi. Sono leggende…”

 

“La leggenda è adesso… Noi siamo già parte di essa.”

 

“Se anche fosse, saremmo noi a scriverla” le strappò di mano la pietra, e improvvisamente lei perse la calma, cercò di riprenderla senza dire niente, agitandosi come una bambina che cerca di afferrare un giocattolo, ma lui la tenne a distanza con forza.

 

“Se scenderete nelle Cave di Zertinan morirete. Avventurieri migliori di noi non ne sono usciti vivi. Questa e la realtà, maestà. Tornate in voi! Questa leggenda può anche finire adesso.”

 

“Tu… tu non puoi dirmi cosa fare…” continuò a cercare la pietra con le mani con movimenti scomposti, senza neanche tentare veramente di attaccarlo.

 

“Sulla tomba di lord Rassler ho giurato di proteggervi” il nome del marito la paralizzò “anche dai vostri errori, se serve.”

 

Si calmò. Rimase in silenzio. L’esper dietro di lei sfumò nell’aria fino a svanire. Poi, lei gli sferrò due pugni sul petto, poi ancora un pugno. Poi una scarica rabbiosa. Basch non disse niente. Infine, lei poggiò la testa sulla sua spalla.

 

“Maestà, mi sembra inappropriato.”

 

Lei si staccò immediatamente: “Hai ragione, me ne scuso.”

 

Si guardarono. Cessati i ruggiti dal profondo, sembrò che tutti gli animali avessero ripreso a chiamarsi da un lato all’altro della piana.

 

“Perdonatemi se ho trasceso i miei limiti. Ma dovremmo veramente tornare.”

 

Lei continuò a fissarlo senza parlare per un po’, finché finalmente parve aver trovato le parole: “Sono rimasta delusa.”

 

“Come ho detto, perdo-”

 

“Non adesso. Sono rimasta delusa… quando Vossler ha garantito per te, ha detto che non eri un traditore.”

 

Basch aggrottò la fronte: “Non vi seguo.”

 

“Avevo bisogno di credere che… di odiare qualcuno. Di dare a qualcuno la colpa dei fallimenti di Dalmasca. Della mia debolezza. E quel qualcuno eri tu. Sono io che ti devo delle scuse.”

 

“Maestà…”

 

“Non dirmi niente, non rassicurarmi. Non voglio questo” ordinò, perentoria.

 

“Allora ditemi cos’è che volete, come posso aiutarvi.”

 

“Proteggimi dai miei errori, lo hai detto tu” poi fissò la forma scura nella mano di Basch “quella pietra per esempio… forse… faresti meglio a tenerla tu.”

 

“Perché?” la domanda era quasi retorica.

 

“Non mi fido di me stessa” constatò lei con tono pensieroso.

 

Basch allungò il braccio verso di lei: “Io ho fiducia. Ho scelto così sin dall’inizio.”

 

Lei prese la negalite, e le loro mani furono giunte l’una all’altra ed entrambe alla pietra, quel frammento di destino.

 

“E se sbaglierete ancora, io sarò ancora lì a proteggervi. Per sempre.”

 

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Di solito aspetto i pareri su un capitolo prima di postare il successivo, ma dopo quattro mesi (wow) senza recensioni ho deciso di fare uno strappo alla regola. Questa sparizione improvvisa di lettori è un pò inquietante, spero che stiate tutti bene! Ci si vede al prossimo capitolo.

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Capitolo 29
*** Verità ***


La piana di Ozmone si spandeva verdeggiante fino oltre l’orizzonte, interrotta solo dai lucenti frammenti metallici che la trafiggevano, accarezzata dal sole e da un venticello fresco. Vaan e Penelo si godevano la bella giornata, mentre Fran guidava il gruppo attraverso un sentiero visibile solo ai suoi occhi; solo Basch e Balthier si guardavano intorno circospetti malgrado l’apparenza pacifica della pianura.

Ashe camminava a testa bassa, assorta. Ogni tanto, cercava la pietra nel bagaglio come per trarne conforto, un gesto tranquillizzante che aveva sostituito il suo precedente rituale di accarezzarsi l’anello, come Basch notò senza esserne felice.

Dopo qualche ora di marcia però, tutti notarono un rumore che crescendo sostituiva il cinguettio degli uccelli. Era il martellante rumore di zoccoli.

Fran indicò un punto oltre una collina, e dopo poco apparve la mandria, e si iniziarono ad udire i nitriti.

Ashe li aveva sentiti descrivere da Rassler così bene che li riconobbe subito: le corazze argentee, i musi allungati, il corno a falcetto sulla fronte. Erano mesmerize, i destrieri nabradiani che ne erano il vanto in ogni guerra. Legati ai padroni da un legame psichicho, quasi una forma di ipnosi, alla caduta di Nabradia molti erano impazziti dal dolore e vagavano per le terre selvagge senza scopo preciso, come se andassero alla carica di un nemico che esisteva ormai solo nei loro ricordi.

La mandria era piccola ma consistente, e quando si iniziò a spandere sul pendio fu loro chiaro che non li avrebbero potuto evitare.

“La corazza è debole alla base del collo” spiegò Basch con tono deciso “Chi può li colpisca lì, dal basso verso l’alto. I cadaveri dei primi faranno sì che gli altri ci evitino” mentre parlava estrasse con calma la Spada dell’Ordine Dalmasco dal fodero.

Vaan sentì la tensione salire nel gruppo mentre i mesmerize si avvicinavano.

“Cercherò di rendervi più rapidi, abituatevi in fretta al tempo accelerato e colpite con precisione” aggiunse Ashe concentrandosi sulla sua asta.

“Sono stufo, non se ne può più.” Commentò Vaan estraendo una spada.

“Ma a loro l’hai detto?” ribattè Penelo accanto a lui, dandogli un pizzicotto.

Ormai concentrati nella piccola vallata che separava i due clivi, erano a pochi secondi di cavalcata da loro.

Una figura sbucò dall’erba tra loro e i mesmerize. Era piuttosto imponente, Vaan si meravigliò di non averla notata prima. L’umanoide si esibì in una danza di calci e pugni che fece schizzare in aria e poi al suolo un paio delle prime bestie che entrarono in contatto con lui, poi gettò come giocasse a bocce delle sfere luminescenti tra le gambe degli altri che arrivavano. Con dei piccoli scoppi di vapore bianco, alcuni mesmerize si cristallizarono in corsa e si ruppero in mille pezzi come vetro.

Gli altri, come spaventati da una così immediata prova di forza, si sparpagliarono cambiando percorso. In breve, il calpestio iniziò ad allontanarsi sempre più dai sei viaggiatori, ancora immobili.

Rimasero tesi a fissare la figura. Si voltò verso di loro, e Vaan potè vederlo meglio: vestito di cuoio e corde, l’energumeno era coperto da un piumaggio color mattone e la sua faccia era coperta da una maschera d’osso vistosamente intarsiata, che seguiva il suo becco e gli disegnava due enormi corna sulla testa; copriva interamente il suo volto salvo due fori per gli occhi.

Così quella è la maschera che portano per espiare la loro incapacità, secondo la leggenda” commentò Balthier a bassa voce.

 

Fran annuì dirigendosi verso lo sconosciuto, e il suo socio la seguì. Non diedero spiegazioni, ma gli altri quattro conclusero che era meglio seguirli a loro volta. Dal canto suo, lo sconosciuto li invitò a venirgli incontro con un gesto.

 

“È un garif, vero? Quei frammenti di magilite sono tipiche armi garif” ipotizzò Ashe all’orecchio del suo guardiano.

 

“Suppongo di sì” confermò Basch, tenendo la mano sulla spada.

 

Fran si fermò davanti a lui, e per diversi secondi la viera ed il garif si fissarono senza parlare, o forse sussurrarono qualcosa che il vento non permise di udire agli altri.

 

“Ci accompagnerà a Jahara” spiegò lei agli altri, e si rimisero in cammino.

 

Percorsero quel che restava della Piana di Ozmone in silenzio, come per rispetto verso quel garif e il suo mutismo quasi religioso, e verso tardo pomeriggio furono al crepaccio che separava Jahara da Ozmone.

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Gramis Gana Solidor valutò ogni persona che entrò nella sala sotto lo sguardo suo e dei senatori. Ciascuno di loro rappresentava un passo in più o in meno verso la vita o la morte di suo figlio e verso la pace dell’Impero, ciascuno era una pedina sulla scacchiera che andava valutata meticolosamente per posizione, caratteristiche, possibili utilizzi.

 

Gabranth non sarebbe venuto subito, ma nulla importava. Odiava Vayne, ma avrebbe fatto come l’Imperatore comandava. Era nelle sue mani.

 

Il primo ad entrare fu un blocco squadrato e spigoloso color ottone: Iudex Magister Damien. Era severo al limite della crudeltà, e Gramis sospettava che fosse segretamente un sadico. Di volta in volta si schierava con la ragione del più forte, secondo la sua convenienza, e superficialmente il Senato sembrava avere salde le redini. Certamente avrebbe votato come il Senato desiderava, per la morte di suo figlio.

 

Entrò Crunir, la cui piccola esile sagoma era interamente coperta dal mantello nero con la libra rossa che ogni Iudex Magister doveva indossare: Crunir era il più giovane che avesse mai raggiunto quella carica nella storia imperiale. Il mantello, indossato a mò di cappuccio, lasciava appena vedere la maschera di giada sottostante, che imitava un volto angelico. Il ragazzino prodigio, genio precoce nell’arte dell’evocazione e nella conoscenza della legge, era stato voluto per quel ruolo in deroga ad ogni regola. Ma la sua mente eccezzionale era un mistero insondabile anche per l'Imperatore stesso.

 

Terzo fu il Iudex Magister Vectoriano; la sua armatura nera e lucida, sottile e flessibile, all’apparenza adorna di decorazioni scarlatte e smeraldi, sembrava una seconda pelle attraversata da vene ed occhi. Ed in effetti lo era: un’armatura vivente che si diceva risucchiasse l’essenza delle sue vittime, creata appositamente dai Draklor Labs. Su Vectoriano l’Imperatore non aveva dubbi, già da soldato era stato suo amico e poi alleato di Vayne per anni; aveva consacrato la sua vita a servirlo, fino ad allungare la sua agonia per questo: proprio l’armatura lo teneva in vita, mentre il male incurabile che lo affliggeva lo avvicinava sempre più alla morte.

 

Oleander si teletrasportò direttamente al suo posto, per sedersi con grazia. Lei, la cui armatura madreperlata esaltava le delicate forme femminili e, pur comprendole il volto come la legge imponeva, lasciava libera una cascata dei suoi riccioli dorati, era stata un tempo la sua giudice favorita. Maga eccezionale, si diceva che potesse fermare il tempo in un palazzo intero, o teletrasportare via un’aeronave; era una Iudex Magister sensibile e misericordiosa, amata dal popolo e dall’esercito in egual misura. Ma era difficile pensare che apprezzasse suo figlio, notoriamente duro e spietato.

 

Entrarono insieme Bergan, Zargabaath e Drace. Zargabaath era un’altra incognita: lui ragionava con la sua testa e avrebbe deciso per conto suo cos’era e non era negli interessi dell’Impero. L’Imperatore non poteva che confidare che gli argomenti in favore di suo figlio fossero i migliori possibili.

 

L’aura di brutalità che circondava Bergan lo attraeva e ripugnava al contempo. Ma in ogni caso, non avrebbe mai fatto altro che sostenere Vayne sempre e comunque. Lui era una sicurezza.

 

Anche su Drace non c’era incertezza. Lei odiava suo figlio, che rappresentava tutto ciò che lei non era. Niente l’avrebbe persuasa, tranne forse Larsa, il suo ultimo nato. Ma era sicuro che lui non fosse rientrato con lei, forse era già giunto a Bur-Omisace.

 

Una sagoma trasparente, quasi invisibile, entrò nella stanza per poi assumere contorni definiti. L’armatura beige era ornata da un grosso artiglio su un braccio e da due ornamenti sul capo simili a grandi orecchie, dandogli un’aspetto ferino spezzato solo dal velo vermiglio scuro di sfarzo esagerato che portava al collo. Si sedette scompostamente spintonando tutti senza il minimo rispetto. Jago era stato temuto come giudice e come assassino, ma era presto sprofondato nel gioco d’azzardo e aveva perso ogni interesse nel suo dovere; era di quegli uomini a cui proprio il lavoro di giudice aveva tolto ogni fede nella giustizia. Questo era però un bene: era stato facile trovare un modo di ricattarlo, e il suo voto in favore di Vayne era garantito.

 

L’armatura color platino di Maxbeth apparve all’entrata, e senza alcun cenno di saluto prese il suo posto. L’elmo, la cui forma ricordava un’ascia, si volse provocatoriamente all’Imperatore. Non era mai stato d’accordo con le sue scelte, e ben presto era diventato un nemico. Di certo lo sarebbe stato anche in questa occasione, era nemico non per convenienza ma per convinzione: nulla sarebbe servito a dissuaderlo.

 

Infine si teletrasportò lì, come aveva fatto Oleander, la Iudex Magister Elyona. La sua armatura color piombo, sormontata da una corona di raggi aguzzi, era ammantata di elettricità che colorava l’ambiente di azzurri, blu e violetti. Elyona era stata Iudex Magister prima ancora che Gramis Gana Solidor fosse Imperatore, e di tutti loro era la più potente; nessuno, nemmeno Bergan e Jago, si trattennero dall’omaggiarla con un saluto. I suoi pensieri appartenevano solo a lei, come quelli di Crunir, ma per la ragione opposta: era vissuta abbastanza ad vedere l’inizio e la fine di un’era. Elyona non poteva essere convinta, minacciata, comprata, forzata perché era un simbolo, lei incarnava la legge di Arcadia al punto da non apparire neppure umana.

 

E così, erano arrivati tutti.

 

Quattro avrebbero probabilmente cercato di salvare suo figlio, altrettanto probabilmente altri quattro lo avrebbero condannato a morte. Tre erano imprevedibili.

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Dal lungo ponte di corde e legni, si arrivava alle isole al centro del lago. Su quelle, si stendeva una cosa che Vaan potè solo paragonare ai campi nomadi di Giza, solo incredibilmente più estesa. Una vera e propria città edificata solo con corde e legni, ossa e pelli, magistralmente intrecciati in forme quasi artistiche. Vaan trovò che a guardare Jahara ci si sentiva scemi ad aver bisogno di mattoni e marchingegni per tirare su i palazzi.

Gli altri garif non erano molto diversi dal primo incontrato, salvo il colore del piumaggio e gli intarsi della maschera cornuta.

“La terra dei garif non è posto in cui un bimbo hume possa giocare” intimò il più massiccio tra le guardie.

“Sono viaggiatori, non rappresentano una minaccia. Li ho visti attraversare la piana, sono grandi guerrieri: non hanno paura dei mostri” spiegò il garif che li aveva accompagnati, e solo allora le guardie realizzarono che erano venuti insieme.

“Siete andato ancora da solo, Capo-Guerriero?” nella voce del garif si distinse una profonda apprensione.

Ma il Capo-Guerriero rispose con uno strano silenzio, che zittì la guardia, e poi aggiunse “Falli passare, me ne assumo la responsabilità.”

Fu abbastanza, le guardie si discostarono immediatamente: “Se così volete, Capo.”

“Dev’essere un pezzo grosso” bisbigliò con aria di complicità Vaan.

“Molto arguto” ribattè Balthier “io avevo pensato che Capo-Guerriero fosse il suo nome da sposato.”

Vaan cercò di pestargli il piede, ma lui lo spostò più velocemente del biondino.

“E allora passate, certo per le nostre terre si vedono un bel po’ di huma di questi tempi” alle parole della guardia Ashe aggrottò la fronte.

Il pensiero che qualcuno oltre lei fosse in cerca della Negalite non era solo un problema pratico, le generava una reazione quasi sentimentale, come fitte di gelosia. E adesso, qualcuno veniva forse in cerca delle risposte che cercava lei, che le spettavano di diritto. Il solo pensiero la infastidiva visceralmente.

Si incamminarono tra le tende ed i recinti pieni di grossi animali pelosi: Nanna, certamente. I garif erano intenti in ogni sorta di attività, dalla costruzione all’artigianato, dall’allenamento alla meditazione, dall’allevamento alla cucina. Molti li fissavano con interesse, ma per poi tornare alle sue attività.

Ashe acquistò alcuni frammenti di magilite da un garif, mentre Basch fissò ammirato alcuni combattimenti a mani nude. Vaan si avvicinò a della carne che arrostiva, dall’odore intenso, ma fu riportato all’ordine da Penelo. Balthier abbracciò possessivamente Fran per il fianco, sussurrandogli qualcosa di spiritoso all’orecchio con aria allusiva, poi si diressero verso un garif con molte borracce di ceramica intorno, senz’altro liquori di qualche tipo.

Il Capo-Guerriero attirò nuovamente la loro attenzione.

“Ah, non ho fatto le presentazioni. Sono Spiner, Capo-Guerriero del villaggio. Noi garif siamo da sempre amici di tutti, ma ultimamente c’è confusione nel mondo degli huma, quindi pensiamo a proteggere i villaggi e la nostra gente. Come Capo-Guerriero e protettore del villaggio, vi chiedo: perché siete venuti qui?”

“La pietra.”

“La magilite fa parte della nostra cultura” spiegò mostrando una varietà multicolore di sfere luminescenti nel suo marsupio di cuoio “Quindi chiedete qualsiasi cosa vogliate.”

“Una pietra, in particolare” specificò Fran, con tono serio.

“Hmm. Capisco, anche voi siete venuti a chiedere della Negalite” Ashe sussultò ancora su quelle parole, Basch lo notò subito come notò che lei cercava la pietra nel suo bagaglio, per averne rassicurazione.

“Dovete parlare con gli anziani.”

Vaan, Penelo e Balthier gironzolarono per qualche ora. Vaan si sbafò una bistecca arrosto per ogni diverso legno aromatico che i garif avessero scoperto nella loro storia, approfittando senza ritegno dell’ospitalità dei garif; Penelo si era accontentata di una scodella di roba verde a base di avocado, secondo lei deliziosa, ma lui non aveva voluto assaggiarla. Ashe si portava dietro Fran per istruirsi su usi e costumi garif, e Basch li seguiva fedelmente. Ma dopo aver parlato invano con un tale Zayar, si trovarono nuovamente da Spiner, con Vaan che si succhiava le dita per pulirle, malgrado le occhiate furenti di Penelo.

“Se nemmeno i Capo-Villaggio possono aiutarvi, dovete parlare con il Gran Capo. Ma organizzare un’udienza potrebbe essere complicato” riflettè Spiner, a voce alta.

 

“Devo sapere di più sulla Negalite” insistè Ashe, con tono frenetico “non posso tornare sui miei passi ora! Ve ne prego, riferite al Gran Capo che appartengo appartengo alla famiglia reale di Dalmasca, discendente diretta del Re Dinasta Raithwall… e se i garif hanno ereditato la sapienza delle pietre, devono conoscere la Negalite che Raithwall brandiva.”

 

Basch la squadrò ancora: non era nemmeno chiaro se cercava di convincere lui o pensava ad alta voce, o addirittura farneticasse. Non gli piaceva affatto come la Negalite alterava la personalità della principessa. Ma su quel campo, quella notte, aveva fatto bene a lasciarle tenere la pietra. Fare diversamente sarebbe stato come ammettere che la pietra aveva vinto, che aveva sconfitto la sua forza di volontà. L’avrebbe distrutta.

 

“Ma avete prove di questa discendenza?”

 

Alla semplice domanda di Spiner, Ashe si sentì stupida e inadeguata come Vaan l’aveva fatta sentire giorni prima. La voce le iniziò a tremare.

“I-io… no, n-non ne ho.”

 

“Hum. Vedo nei tuoi occhi che sei sincera, bimba huma.”

 

Se il Capo-Guerriero avesse voluto scegliere le parole per distruggerla, Ashe non avrebbe potuto suggerirgli niente di meglio che “bimba huma.” Non reagì, era evidente che non intendeva offenderla.

“Avete la mia fiducia. Il Gran Capo è oltre quel ponte.”

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“Come sapete” spiegò l’Imperatore ai dieci Iudex Magister davanti a lui “avrà luogo un processo militare. E trattandosi di mio… di Vayne Carudas Solidor, un membro della famiglia imperiale, era necessaria una Convocazione Generale.”

 

“Lo scenario mondiale si fa turbolento, per questo è bene per l’Impero che il processo sia celere” la sala intera trasalì nell’udire il senatore Gregoroth interrompere il discorso dell’Imperatore senza alcun preavviso.

 

Persino Drace non potè apprezzare quel gesto di prepotenza: significava mettere in chiaro che si trattava anche e forse soprattutto di un attacco alla persona dell’Imperatore. Non aveva voglia di farsi usare come un burattino dal senato.

 

“Altezza, perdonatemi ma credo che l’udienza vada rimandata” disse lei, interrompendo il senatore a sua volta.

 

L’Imperatore la scrutò con l’espressione impossibile da decifrare che era comune ad ogni Solidor. Si accarezzò la barba per poi chiedere con garbo: “E perché mai, Iudex Magister Drace?”

 

“Anzitutto verremmo ragguagliati solo fra poche ore sull’oggetto del processo. Potremmo voler svolgere delle istruttorie personalmente o con i nostri aiutanti-”

 

“Volete forse dire che non vi fidereste del Senato Imperiale, delle informazioni che noi vi diamo?” s’intromise nuovamente Gregoroth.

 

“Il protocollo impone-”

 

Gramis Gana Solidor alzò una mano ed entrambi si zittirono: “Vi prego di scusarci, Senatore, ma se potesse evitare di interrompere da questo momento in avanti, lo apprezzerei particolarmente.”

 

Qualcosa, nella sua voce dolce e cortese, fu terrorizzante. I senatori ebbero come un brivido collettivo e Christianor, il vecchio amico di Gramis, Christianor che lo aveva tradito, pose una mano sulla spalla di Gregoroth come a fargli capire che aveva passato il limite. Non parlò più.

 

“Drace, dicevate…?”

 

La ragazza riprese senza esitazione: “Vorrei aggiungere che anche con i due membri ancora mancanti, non  arriveremmo comunque ad avere il tredicesimo Iudex Magister, saremmo in numero pari. Ne consegue che la votazione potrebbe concludersi in pareggio. Proporrei la nomina di un Iudex Magister pro tempore nell’eventualità, e questa è una seconda ragione per rimandare.”

 

“Tutto questo non sarebbe accaduto se avessimo sostituito Zecht quando scomparve” fece notare Maxbeth con tono polemico, ma nessuno gli badò: Zecht era scomparso nel pieno del conflitto, e non c’era stato il tempo di indire la Grande Prova di Selezione per Iudex Magister; dopo, si era deciso di aspettare la prossima Grande Prova.

 

Jago sussurrò addirittura qualcosa che poteva essere un’annoiato “chissenefrega” a Damien.

 

“Non occorrerà un tredicesimo voto” disse Bergan con voce roca, e la sua armatura minacciosa si volse ai posti dove stavano i senatori “Ritengo che questa sentenza verrà decisa con ampia maggioranza.”

 

“È una conversazione inutile” ribattè l’Imperatore “il giudice Gabranth ha affari più importanti al momento, ma si unirà a voi al momento dell’udienza. Ma per quanto riguarda il giudice Ghis… egli  non verrà. L’argomento di cui discuterete, come ormai sapete, è la distruzione dell’Ottava Flotta… che il giudice Ghis accompagnava. Ghis non è più tra i vivi.”

 

I giudici mormorarono tra loro, colpiti dalla notizia. Solo Jago non si mosse dalla posizione in cui stava. Vectoriano portò il suo sguardo su Gramis, e persino oltre la patina nera mostruosa che ricopriva il volto del suo vecchio amico Gramis vide preoccupazione. Ma si sforzò di rimanere impassibile.

 

“Quindi siete in numero dispari, non c’è rischio di pareggio” concluse.

 

Drace si rese conto di essere l’unica all’oscuro della notizia che gli altri ufficiosamente già sapevano: l’Ottava Flotta era andata distrutta. Ovviamente non poteva confessare il motivo per cui non aveva saputo prima, che era stata lontano dai confini imperiali, in viaggio con il minore dei Solidor.

 

Paradossalmente però, proprio lei aveva una idea molto precisa di che cosa poteva aver obliterato così tante navi in un baleno: Negalite. La sua angoscia per il destino di Larsa rischiò di farla esplodere. Ma non svelò la minima emozione.

 

“Altezza, la prima obiezione di Drace a mio avviso resta comunque valida.” intervenne Zargabaath.

 

A lui non piaceva affatto come gli eventi sembrassero improvvisamente precipitare. Se avesse avuto più tempo per calmare le acque non poteva che essere un bene.

 

“È anche il mio pensiero” disse piano Vectoriano, con voce ansimante.

 

“Rimandare il voto non altererà la sentenza” aggredì Maxbeth.

 

“Per come la penso gradirei chiudere in fretta questa scocciatura e tornare ai fatti miei” Jago era l’unico a dire solo e semplicemente quello che pensava.

 

“Se posso esprimermi” fece Oleander, con voce di seta “ritengo che il giudizio deve svolgersi con correttezza a prescindere da come la pensiamo. Anch’io appoggio l’obiezione di Drace.”

 

I senatori si agitarono: i loro “alleati” si dimostravano così ingenui da accettare di rimandare per rispetto delle regole. Gregoroth stava quasi per prendere parola di nuovo.

 

“Non manco di apprezzare la correttezza di alcuni di voi” rispose prontamente l’Imperatore “ma preferisco che la questione si chiuda in fretta. Non voglio trattamenti di favore per mio figlio, è già sufficiente garanzia che l’intero consesso sia convocato solo per lui. Come un qualsiasi altro processo militare, avete una settimana per aggiornarvi e poi emetterete la sentenza” concluse, generando uno stupore quasi palpabile.

 

Bergan per la seconda volta diede ad intendere ai senatori che li stava fissando, poi lasciò la sala. Seguirono altri otto, e infine i senatori. Solo Elyona. Si levò l’elmo, il suo volto sereno seppur segnato dagli anni non appariva a Gramis da più tempo di quanto non ricordasse.

 

“Sei ancora bellissima, Elyona.”

 

Sorrise scostando un ciuffo dei suoi capelli ingrigiti, ma i suoi grandi occhi cobalto erano venati dalla tristezza: “Sembra quasi che il tuo Casato sia maledetto, mio vecchio amico.”

 

“Ammetto d’averlo pensato.”

 

“Ho fiducia che questa crisi si risolverà quanto prima. L’Impero prospererà, come è sempre stato, a dispetto delle avversità. L’ho visto accadere, accadrà ancora.”

 

“Temo per l’Impero, ma non quanto temo per la mia anima.”

 

“Le vite si possono spezzare, e così le anime, ma la spada di Arcadia è infrangibile. Ciascuno di noi è un piccolo prezzo per preservarla. È con questo insegnamento che ci hai guidato.”

 

“Vorrei non averlo fatto.” Sospriò “Poiché forse è questa l’origine della maledizione.”

 

Elyona indossò di nuovo l’elmo, e dopo un cenno di saluto, la corrente elettrica attraversò l’aria, e in un lampo azzurro non rimase nella sala nessun’altro che un vecchio padre disperato.

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Il Gran Capo rimase a lungo in silenzio fissando la pietra annerita. Ashe lo divorava con lo sguardo in attesa, come Basch fissava lei, mentre Vaan si grattava ovunque per la noia; Penelo osservava ammirata il suo enorme mascherone che sembrava la sovrapposizione di più maschere, e lunghe e finissime piumette chiare che si allungavano come una barba dal suo volto, ornata da cordicelle multicolori. Fran e Balthier rimanevano sull’uscio, come anche Spiner che osservava rispettosamente senza parlare.

Le fiamme del falò al centro del tendone giocavano con le intarsiature dell’osso, dandogli contorni incerti e onirici. Per qualche minuto, la principessa sembrò quasi smarrita in un sogno, ma il fatto che qualcun altro tenesse la pietra a lungo la metteva visibilmente a disagio.

Alla fine, il Gran Capo parlò, senza smettere di fissare la pietra, con la voce che solo chi ha visto sorgere e tramontare i secoli potrebbe avere, con pazienza e tranquillità.

“Questà Negalite… l’avete usata.”

Gli occhi di Ashe si accesero, ripensando a quello splendore devastante, quel potere che spettava a lei e a lei soltanto: “Non sono stata io a farlo; in effetti speravo voi poteste dirmi come, ed è perciò che sono venuta.”

“Non sai come funziona la pietra. Allora non siamo diversi.”

“Come?” Ashe sbiancò quasi.

Le fiamme si animarono, mentre il Gran Capo le fissava. Si prese ancora del tempo prima di continuare, come se la sua mente disegnasse i ricordi.

“In epoche passate, gli Dei fecero dono della Negalite alla mia gente. Ma il suo funzionamento non ci fu chiaro, e delusi dal nostro fallimento gli Dei si ripresero le loro pietre. Scelsero invece di darle ad un regnante huma, il Re Dinasta, che usò il potere delle pietre per portare pace ai suoi tempi travagliati.”

Mise giù la pietra, finalmente rivolgendosi ad Ashe.

“Che cosa curiosa. Sebbene vi scorra nelle vene il sangue di Raithwall, non potere brandire la Negalite.”

“Non posso… brandirla?” improvvisamente riprese lucidità, come l’avesse investita una doccia gelata “Se comprendo bene, non sapete dirmi come usare la pietra?”

Nella voce del vecchio c’era quasi dell’ironia: “Mi vergogno ad ammetterlo. Ho davanti a me la discendente del Re Dinasta in persona, e non posso dargli alcun aiuto. Ma se anche sapessi dirti come usare la pietra… lo trovereste ben poco utile.”

Gli rimise la pietra in mano. Ashe la prese in mano con poco slancio, quasi senza convinzione. Pareva spenta come qualcuno che fosse stato tradito da un amante. Per qualche secondo, sembro che tutto per lei avesse perso importanza.

“Il myst accumulato nella pietra per le epoche passate è andato perduto, e con esso il potere della pietra. Saranno i tuoi discendenti a brandirla, in un’altra epoca ancora da venire.”

Ma certo, pensò lei, era chiaro. Ecco cos’era stato lo splendore, la potenza impareggiabile della Negalite: myst che si era accumulato lentamente per anni e anni… per millenni, forse. Era stata una stupida a pensare che quel potere, che poi non era che il potere di risolvere i suoi tormenti, si potesse generare per magia dal nulla. Sarebbe stato come barare. Invece quel potere era il frutto di un tempo di attesa pressochè infinito. Era questo il segreto della Negalite: assorbire ogni forma di myst accumulandolo nei secoli, per rilasciarlo solo al comando di chi avesse la volontà e la conoscenza per domarla.

Eccola, finalmente, la verità: non c’era alcun segreto, nessun arcano lasciato per lei dai meandri della storia, che portasse con sé i mezzi per colmare la disparità di forza tra lei e l’Impero. Si era illusa.

Ma il Gran Capo seguitò a parlare: “Questa pietra è svuotata di potere. Vuota, ma anche piena… di sete. Un tremendo desiderio di suggere il mondo intero, fino a prosciugarlo.”

Il suo tono era cambiato, si era fatto distante e grave; anche Ashe si concentrò sulle sue parole, guardandolo interrogativa. Ad eccezione di Fran, tutti i presenti ebbero un brivido inspiegabile a quelle parole.

“Il potere dell’uomo e quello della magia. Del bene come del male.”

Ashe lo fissò con maggior intensità. Lui ricambiò lo sguardo, come la trapassasse con lo sguardo, come se per lei non avesse segreti. E le sue ultime parole gli suonarono come un ammonimento.

“Coloro che desiderano la pietra, sono a loro volta da essa desiderati.”

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Chiedo scusa per il mio silenzio. È stato lungo, ma ben motivato. Siamo oltre metà della storia, sono felicissimo di essere arrivato fin qui con voi.

Ci sarebbero molte spiegazioni per le mie “aggiunte” in questo capitolo e per la mia lunga pausa, ma le darò col capitolo di settembre. Oggi voglio solo dire che questa storia la dedico ad Hagaren.


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Capitolo 30
*** Ostaggio ***


Vayne Carudas Solidor si alzò con comodo, si liberò dalla vestaglia color corallo e dalle stringhe di perle che imprigionavano i suoi capelli corvini, piegando le sue vesti con cura. I servitori si erano ormai abituati al suo modo di fare, era cresciuto come un soldato e non tollerava che fossero altri a fare ogni cosa per lui, quindi era per pura cortesia che assistevano al suo risveglio, nell’eventualità che egli avesse richiesto qualche cosa.

Si era vestito con calma con le sue vesti caratteristiche: i pantaloni neri, poi i guanti color panna, la camicia bianca merlata, subito dopo gli stivali militari decorati d’oro puro; sopra indossò l’abito lungo grigio piombo ornato dai dragoni di livrea dal purpureo al rosso scuro, stemma del Casato; infine la bardatura di decorazioni d’oro e pietre azzurre ciascuna delle quali testimoniava il suo valore militare. Fece il tutto con una calma placida e certosina, ancora una volta tipica di una educazione militare.

“Una buona giornata a tutti voi” apostrofò con assoluta serenità agli attendenti “Vorreste unirvi a me per la colazione?”

Il Console usava ormai da tempo fare colazione con tutti, inclusi guardie e servi. Qualcuno lo vedeva come un ennesimo atto inappropriato di quel Console così originale; altri come un tentativo ipocrita di ingraziarsi la corte; altri ancora, più ingenui, semplicemente si sentivano onorati.

Ma non quel mattino. In quel gelido mattino dalmasco nessuno proferiva parola, e persino i loro pensieri sembravano essere intorpiditi dall’aria fredda portata dal deserto,  che il Sole non aveva ancora riscaldato.

L’ultima Convocazione Generale dei Giudici aveva sentenziato la morte di due Solidor. Adesso un Solidor veniva richiamato alla capitale imperiale in contemporanea con una nuova Convocazione, mentre si spargeva virulenta la voce della distruzione dell’Ottava Flotta per cause sconosciute, forse un attentato suicida della resistenza, forse un inaspettato attacco di Rozarria, o chissà cos’altro. La conclusione era chiara: Vayne Solidor andava a rispondere delle sue colpe, dei suoi errori strategici che erano costati cari all’Impero.

Eppure, se niente avessero saputo delle faccende politiche dell’Impero, avrebbero detto che il Console non aveva conosciuto giorno migliore, tale era il suo inspiegabile buonumore.

Si concesse una colazione abbondante tra il dolce e il salato, con una varietà di pietanze di ogni parte del mondo. Mentre tagliava –facendo ancora una volta da sè- della quiche di formaggio e zucca un servitore, forse incoraggiato dai suoi modi confidenziali, s’azzardò a domandare se fosse preoccupato, causando un brivido di disagio nei commensali.

Da dietro la tazza di tè forte, il Console non cercò neanche di rimettere a debita distanza l’attendente e anzi rispose con la massima sincerità: “Confido che la situazione si risolverà nel migliore dei modi.”

Poi passò distrattamente a conversare delle stagioni di pesca e di raccolto, argomento di cui molto si era interessato nelle ultime settimane come Console.

Nel corso della giornata vi furono altri tre episodi simili, ed alla corte dalmasca non rimase che chiedersi se Vayne Carudas Solidor fosse davvero tanto coraggioso innanzi ad una probabile morte per esecuzione o se, più semplicemente, fosse impazzito del tutto.

Un enigma che rimase senza risposta anche dopo che, nel tardo pomeriggio, lasciò Rabanastre per dirigersi alla Capitale Imperiale, Archades.

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“Coloro che desiderano la pietra, sono a loro volta da essa desiderati.”

Ashe lo ripetè, quasi ipnotizzata, gli occhi ancora fissi sulla pietra in cui aveva riposto tutte le sue speranze, ora infrante. Stranamente non ebbe bisogno di reprimere l’ira o la tristezza. La sua fiducia nella pietra era tale da credere che non poteva finire semplicemente così.

Solo la presenza inattesa di un altro huma sulla soglia del capannone la riportò alla realtà.

“Larsa?” apostrofò Penelo, ed il piccolo principe rispose con un sorriso gentile.

Curiosamente, anche nei giorni a seguire Ashe non avrebbe ricordato gran parte della conversazione con il principe, che pure durò dal tardo pomeriggio fino a sera. Larsa spiegava pazientemente a lei e Basch gli ultimi sviluppi e come intendeva muoversi, ma lei continuava a guardare assente nella stessa angolatura, dove aveva ripreso dal Gran Capo la Negalite nelle mani.

La comitiva si diresse ad uno dei falò spenti dove i garif la sera arrostivano e mangiavano tutti insieme. Ad un cenno di Spiner, i primi garif raggruppati lì, intenti nei primi tentativi di riaccendere il fuoco per la notte, decisero di lasciarlo tutto per loro.

Larsa continuò a spiegare, finchè all’imbrunire Ashe non sentì una parola che riaccese il suo interesse: Bur-Omisace, il nome del Monte Sacro.

“Bur-Omisace?”

“Sì, direi di partire proprio domani. Avrei potuto aspettare una scorta, ma essendoci voi qui ci si presenta una grande opportunità. Possiamo fermare questa terribile guerra, ma mi occorre il vostro aiuto per riuscire nell’impresa.”

“Una… guerra?” si accorse, nel dirlo, di non credere alle sue stesse parole; cos’era, si chiese, quel senso di smarrimento improvviso?

“Certo saprete che il Marchese Ondore guida un’ampia forza ribelle – chiedo venia, un’ampia Resistenza che possa affrontare l’Impero.”

Sì, lo sapeva: proprio lei aveva lasciato quel compito a Ondore, il suo amato “Zio” di un tempo, di unificare sotto un’unica bandiera le numerose, eterogenee e frammentate fazioni anti-imperiali. Da quando partendo aveva lasciato una Rabanastre nella stretta di Vayne e una Bhujerba in fermento, non aveva saputo più nulla dello “Zio” e di come andassero i suoi sforzi.

“Lady Ashe, nessuno dei nostri paesi potrebbe permettersi questo, al momento. L’Impero di Rozarria si muoverebbe, accorrerebbe in aiuto della Resistenza e l’userebbe quale pretesto per muovere guerra ad Arcadia. A quel punto Arcadia non potrebbe far altro che rispondere.”

Certo, adesso capiva cosa le suonava tanto strano.

La guerra con l’Impero, la caduta di Arcadia. Nei suoi primi giorni vissuti come “Amalia”, le erano sembrati un obiettivo impossibile, semplicemente un sogno feroce per cui morire con orgoglio. Poi, c’era stato il Frammento d’Aurora, Negalite divina, che l’aveva avvicinata così tanto e così in fretta a quel sogno. La guerra era diventata una fiaba, un mito, una leggenda che doveva ancora essere scritta in cui lei era la protagonista, la prescelta. Ma pur sempre qualcosa di distante, surreale, ultraterreno.

Invece le sue azioni, con quelle di altri, avevano avvicinato il momento della guerra. Quella reale, attuale. Quella che gli aveva portato via tutto. Quella guerra che le aveva fatto uccidere quel primo uomo, ormai anni fa, stroncandogli la vita con le folgori che lei comandava a malapena, uccidendo per non essere uccisa. La guerra, che Vossler avrebbe così disperatamente evitato a costo del suo onore, e dell’onore di una nazione intera.

Poteva sopportare la responsabilità di tutto questo?

“Lady Ashe, che si vada a Bur-Omisace. Benedetta da Sua Grazia il Gran Kiltias Anastasis potreste legittimamente indossare la corona e dichiarare restaurato il regno di Dalmasca. In quanto Regina, potrete chiedere la pace tra l’Impero e Dalmasca e quindi fermare Ondore.”

“La pace!” sbottò lei, e tutti gli altri –Larsa, Basch, Vaan, Penelo, Spiner, Balthier e persino Fran- sussultarono, colti di sopresa dalla sua rabbia improvvisa.

“Con che coraggio parli di pace? È l’Impero che ci ha attaccato, che ci ha preso ogni cosa a noi cara, ed adesso vorresti me per salvarlo da una guerra?”

Ma l’impeto di Larsa non fu da meno: “Dalmasca sarebbe teatro della battaglia! Cosa ne sarebbe, se si usasse la Negalite in Rabanastre?” e come ultimo atto di sincerità aggiunse parole che costarono care al suo cuore: “Sapete che mio fratello ne sarebbe capace!”

Seguì il silenzio.

“Perdonatemi, ho osato troppo.” Riprese Larsa “Non ho potuto pensare a niente di meglio per evitare spargimenti di sangue. Ma se non avete fiducia in me, allora vi prego: prendetemi come ostaggio nel vostro viaggiare.”

Gli occhi color sabbia chiara di Ashe si incorciarono, sgranati, con quelli nerissimi e quieti del giovane Solidor.

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Il capitano Spiner si esercitava incessantemente sotto le stelle.

Con una danza perfetta, congelò due statue di legno poste a mo di bersagli e nel giro di un istante le polverizzò entrambe colpendole con i calci senza neppure guardarle. Prima che le teste atterrassero, le frantumò ancora, e frammenti di ghiaccio brillante si sparsero nell’erba alta dopo un breve volo nel cielo notturno.

“Siete un abile guerriero.”

“Mi chiedevo quanto ancora avreste fissato senza parlare” ribattè Spiner con sicurezza, alla voce di Basch dietro di lui.

Spiner schivò il diretto capovolgendosi, atterrando in verticale. Un piede del garif bloccò a mezz’aria il braccio di Basch, l’impatto si propagò nelle ossa di entrambi come un rintocco di campana; in un attimo con l’altra gamba si chiuse sul torso del capitano dalmasco per sollevarlo rimanendo poggiato sulle braccia, e infine scagliarlo a terra mulinando su se stesso. Basch, però, atterrò in piedi e in guardia. Il secondo pugno fu ancora deflesso dalla gamba di Spiner, che poi si rimise in piedi a sua volta mentre l’altro recuperava l’equilibrio.

Basch sorrise: “Non male, come amichevole.”

Spiner gli diede una pacca robusta sulla spalla per risposta. Basch rimase in attesa che il garif aggiungesse qualcosa.

“Le vostre questioni tra huma non interessano il mio popolo. Ma vi ho preso in simpatia. Domani vi consegnerò dei chocobo ben ammaestrati, conoscono queste terre e intendono la vostra lingua abbastanza da portarvi dove vorrete. Avrete carne e frutta essiccati quanto ve ne servono.”

“Ve ne ringrazio sinceramente” rispose Basch accennando un inchino “Tuttavia mi domando… cosa vi spinge a tanta generosità?”

“Sono colpito dalla vostra principessa.” Disse dopo averci riflettuto un attimo.

“Sua maestà Ashe?” si sorprese Basch.

“Il Capo-Guerriero che mi ha preceduto” ribattè Spiner guardando le stelle “Kadar.”

Pronunciò il nome con percepibile tristezza, e dopo un sospiro riprese: “Era un grande guerriero. È… mio fratello. Io mi sentivo migliore di lui, e così mi avventurai nella Spirale della Terra, che avete forse avvistato venendo qui.”

“È un luogo da cui pochi ritornano.” Rabbrividì pensando a quanto vicina era stata la sua principessa a perdersi in quelle profondità, distrutta nello scontro tra gli esper dell’Ariete e del Capricorno.

“Volevo dimostrare il mio valore… ma in realtà sarei morto, se mio fratello non fosse venuto a soccorrermi. E per le ferite riportate quel giorno, Kadar perse l’uso delle gambe. Questo fece di me il nuovo Capo-Guerriero, benché fossi infinitamente meno abile di mio fratello.”

Spiner si sedette nell’erba, e così fece Basch.

“Per questo punite voi stesso allenandovi da solo lungo la piana di Ozmone?”

Invece di rispondere, Spiner sembrò cambiare argomento: “A volte si avverte il desiderio di compiere un’impresa impossibile. Di sconfiggere un nemico invincibile. In quell’ostacolo insormontabile vediamo qualcosa che, in verità, ci ha tormentato per tutta l’esistenza.”

“È una grande verità nella vita di un guerriero.” La mente di Basch tornò appena un secondo ai campi di Landis, a Noah, a sua madre, a ciò che si era lasciato indietro.

“Ma arriva il momento per quel guerriero in cui viene messo in ginocchio dal suo nemico invincibile. Arriva il momento in cui si comprende la propria stupidità. Capite cosa intendo?”

“Credo di sì.”

“La vostra principessa guerriera capirà ben presto la forza dei dragoni purpurei, le cui gesta arrivano fin qui nel Bancour; capirà la sua presunzione ed il suo errore. Abbiate fiducia in questo: arriverà il momento.”

Il capitano non fiatò nemmeno.

“Quando quel momento arrivò per me, arrancavo come un cane ferito nella sabbia delle Cave di Zertinan. Ero solo e impaurito come mai, e maledivo la mia arroganza. Credevo fosse la fine, finchè nel buio non ho trovato una mano da stringere.”

“Vostro fratello?”

“Sì. Kadar, che avevo stupidamente invidiato e odiato, era venuto a rischiare la sua vita per me. Senza chiedere nulla in cambio, lui era lì per me, per essere fedele anzitutto e soprattutto, a sé stesso.”

I due guerrieri si strinsero saldamente la mano: “Siete generoso e forte, come mio fratello. Ed a voi tributo l’ammirazione che non ho tributato a lui. Buon viaggio, guerriero huma.”

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Fran aprì gli occhi per trovarsi innanzi un manto di stelle circondato dai lunghi fili d’erba che nascondevano lei e Balthier. Il corpo del suo socio, del suo amico e amante, era silenzioso e immobile come sempre nel sonno.

Richiuse gli occhi, l’aveva ancora d’avanti: Feol Warren, la città delle viera sanguemisto nel territorio di Rozarria.

 

Nel cielo color piombo, l’unica fonte di luce era un pilastro di fuoco e lava che torreggiava dal Gran Vulcano Roda verso il cielo eruttando senza sosta. In un crepaccio sotto il Roda, si stendeva a perdita d’occhio quella che un tempo doveva essere stata una grande foresta di alberi secolari, pietrificati dal calore. Proprio quegli alberi ospitavano i cunicoli (warren) dove vivevano le viera sanguemisto (feol), da cui il nome della città.

 

“Non avevo mai visto un paesaggio del genere.”

 

Il ragazzo arcadiano, che si faceva chiamare Balthier, aveva risalito con fatica l’interno di un albero fossilizzato per ammirare il Feol Warren visto dall’alto.

 

Prima aveva girato la città con interesse: gli interni degli alberi cavi erano poliedriche strutture lucide, di materiali simili a marmo o cristallo che variavano dal color limone a girasole al blu mare, progettati per isolare dalla temperatura esterna. In effetti, faceva un po’ freddo. Negli ampi saloni scintillanti le viera sanguemisto si affaccendavano in ogni sorta di attività tipica degli huma, di cui avevano assunto anche l’atteggiamento: c’erano mercati, locande, taverne, biblioteche, armerie, laboratori, si faceva un gran vociare e le più giovani ridacchiavano e scorrazzavano come giovani ragazze huma.

 

Fran aveva seguito il ragazzo senza parlare per tutto il tour e gli aveva fatto da guida fino a quando era voluto uscire fuori, sulla cima dell’albero più alto. Glielo doveva, dopo quanto lui aveva fatto per lei. Comunque, non aveva molto altro da fare.

 

“Diresti che la tua città natale è più bella di questa?” chiese lui, la voce accesa dalla curiosità.

 

“Non saprei…” tagliò corto lei, con tono monocorde.

 

Lui si sedette su una sporgenza carbonizzata, e rimase a fissare la colonna incandescente che si ergeva dal Roda fino a trafiggere il cielo, come ipnotizzato. Non sapendo che fare, lei si sedette accanto a lui.

 

Dopo un po’ ruppe il silenzio: “Perché vuoi andartene?”

 

La sorprese per due motivi. Non aveva mai detto niente sul voler restare o andare al Feol Warren, anzitutto. Ma la cosa più sorprendente era che qualcuno si interessasse a quello che lei pensava o voleva; cosa che accadeva già poco quando era nella sua città natale, e da quando l’aveva lasciata non accadeva mai.

 

“Cosa ti fa credere che voglia andarmene?”

 

“Hai sempre il broncio, non ti piace qui” tagliò corto lui “Dimmi perché.”

 

Non trovò nessuna ragione per negarlo o evitare di rispondere, tranne la riservatezza. Ma la prolungata solitudine l’aveva spinta a rivalutarne molto il valore, visto che l’aveva privata della scelta tra essere riservata e non esserlo.

 

“Non ho trovato quello che ero venuta a cercare. Quello per cui ho attraversato metà di Ivalice.”

 

“Cos’era?”

 

“Nella mia terra… le viera vivono solo per essere viera. Questo è il senso della loro esistenza, e non mi bastava. Qui, le viera vengono solo per non essere viera, e nemmeno questo mi basta. Quello che voglio è….”

 

Fran aprì di nuovo gli occhi. Non aveva più le stelle di Jahara sulla testa, ma il volto del suo compagno. Balthier le sussurrò piano:

 

“Essere liberi di cercare sé stessi.”

 

Le mani di lui percorsero il corpo di lei con la sicurezza di chi segue un antico rituale; lei gli rispose a sua volta a voce bassa: “Credevo che lo volessi anche tu. Ora non ne sono più sicura.”

 

Invece di rispondere, lui la prese per la seconda volta quella notte, con più passione che alla precedente. Lei lo lasciò fare non per sottomissione, ma per essere fedele al loro giuramento: di essere liberi da tutto e, se e quando lo avessero voluto, anche l’uno dall’altro.

 

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Quando Penelo aprì gli occhi e distese il suo corpo acciambellato vicino al fuoco, e non trovò nessuno dei suoi compagni vicino a lei, salvo Larsa.

 

Lui fissava le braci con occhi tristi, mentre giocherellava con il pendaglio azzurro a forma di draghi intrecciati che pendeva sul suo vestito color nero e crema. Accarezzandolo con le dita, il minerale azzurro cambiò colore fino ad assumere la gamma di colori tra il rosso e il viola che caratterizzava i Solidor.

 

“Bei rapitori siamo” fece Penelo sorridendo, ancora assonnata “a lasciare l’ostaggio senza sorveglianza.”

 

Larsa si sforzò di sorridere a sua volta: “Anch’io manco dei tratti di un ostaggio degno di tal nome. Vedete, nemmeno cerco di fuggire.”

 

Ma subito lo sguardo si rabbuiò di nuovo.

 

Penelo prese il tono severo, da sorella maggiore, che l’aveva sempre distinta tra i ragazzi del ghetto: “Guarda, puoi fare due cose. Farti tormentare fino a dirmi cosa cavolo hai, o dirmelo subito e risparmiare tempo.”

 

Stavolta il giovane Solidor rise sommessamente: “Il tempo è certo una risorsa preziosa.”

 

Strinse il pendente, e sospirò: “Una persona mi ha detto di giungere fino a qui per decidere una volta per tutte chi sia veramente colui che chiamo fratello.”

 

“Vayne?” Penelo tremò al solo ricordo della cena con il Console.

 

“E così ho fatto, sono giunto qui…. Per scoprire che la Negalite divina non può essere usata che una sola volta per ogni era.”

 

“Una sola volta… e quindi?”

 

Larsa guardò le braci attraverso il pendente, che lentamente riprendeva il colore azzurro: “Ho creduto che mio fratello fosse interessato alla Negalite come arma per Arcadia. Ma questo non ha senso. Con il solo Frammento del Crepuscolo spera davvero di sconfiggere Rozarria? E davvero spera che Rozarria non abbia almeno uno studioso capace di scoprire i punti deboli della Negalite?”

 

“Scusa Larsa, non afferro il punto.”

 

“Chiedo venia, Penelo. Mi spiegherò più chiaramente: e se mio fratello fosse interessato alla Negalite per scopi non militari?”

 

La ragazza si grattò i capelli color paglia, dubbiosa: “Per quel che so di magia, la Negalite potrebbe avere un sacco di altri usi. Ma tuo fratello non l’avrà studiata per produrre la versione artificiale?”

 

Larsa fissò nel vuoto come se le parole di Penelo fossero rimaste scritte lì, e lui dovesse rileggerle con attenzione.

 

“Forse a te piacerebbe che ci fosse un’altra spiegazione, ma-” non fece in tempo a mordersi la lingua.

 

Lui, comunque, non sembrò arrabbiarsi, si fece solo un po’ più triste in viso, poi ammise: “Hai ragione. Devo smetterla di scappare dalla realtà.”

 

“No, Larsa, scusami…” gli pose una mano sulla spalla “…è tuo fratello, e tu-”

 

“È mio fratello” interruppe lui, con risolutezza “ed in questa occasione, egli è al contempo il mio nemico. È bene comprendere le ragioni del nemico, ma non si deve mai tentare di giustificarlo. Questo me l’ha insegnato proprio lui.”

 

“Ma tu… voi… Non so cosa dire.” Fu quasi tentata di difendere Vayne Solidor, se questo fosse servito a rasserenare Larsa, ma realizzò da sola l’assurdità di quel pensiero.

 

Fu lui a confortare lei: “Non temere per me, Penelo. Devo crescere, accettare la realtà. E poi… quando tutto questo sarà finito, io e mio fratello ci ritroveremo.”

 

“Io lo spero per te. Davvero, Larsa.” e si tenerono la mano l’un l’altro, senza parlare.

 

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Gramis Gana Solidor guardò il fondo dell’ampia zuppiera, perfettamente visibile attraversò il consommé. Ne assaporò un altro po’ con il cucchiaio di ceramica, e il calore del brodo diede un po’ di sollievo alla sua gola devastata dalla malattia, mentre le essenze di carni, erbe e ortaggi sceltissimi gli accarezzarono la lingua.

 

Vayne e Kaent, accomunati dall’amore per la vita marziale, facevano sempre storie da ragazzini per mangiare il consommé. Kaent aveva detto una volta: “C’è il sapore ma il cibo non c’è, è stato buttato via. È una truffa!”

 

Lutho invece, da sempre consapevole e compiaciuto di far parte di una casta di privilegiati, lo adorava, e così Larsa, che oltre ad essere l’ultimo nato era anche, e di gran lunga, il meno polemico dei suoi figli.

 

Spesso, prima della nascita di Larsa, gli occhi neri dell’Imperatore e quelli azzurri di sua moglie correvano giocosamente con lo sguardo da un lato all’altro della tavola, seguendo le ricercate disquisizioni filosofiche in cui si scontravano Kaent, Lutho e il piccolo Vayne, ciascuno con elaborate argomentazioni, sulla correttezza o meno di un’infinità di piccole cose su cui nessun altro nobile avrebbe mai intavolato una discussione, dal consommé all’opportunità di dare “del tu” alla servitù all’accuratezza di certe ricostruzioni storiche del passato di Arcadia.

 

“La nostra famiglia è sempre stata divisa su tutto” pensò l’Imperatore sorseggiando altro brodo.

 

Poi sua moglie era morta dando alla luce Larsa, e i loro pasti si erano fatti più seri e taciturni.

 

In quel momento, con un tremito dell’aria, una figura ammantata di scariche elettriche apparve nella stanza, i barbigli di energia si allargarono sul pavimento scintillando irrequiete. I contorni dell’armatura scura erano tinti di ogni sfumatura dal blu, all’azzurro, al violetto.

 

“Lasciateci” ordinò l’Imperatore con voce perentoria, e i servitori, due dei quali erano caduti a terra per l’improvvisa apparizione, si tolsero di torno trafelati.

 

Appena furono soli, lei si tolse l’elmo coronato di speroni. Sebbene le scariche fossero cessate, parti della sua armatura brillavano di un vivido arancio e rosso, il colore del metallo rovente. Ma il volto di lei era perfettamente a suo agio e sereno.

 

“Buonasera, Elyona. Vuoi unirti a me per cena?”

 

“Ti ringrazio, ma ti farò semplicemente compagnia.”

 

“Semplicemente.” Ripetè l’Imperatore con tono ironico.

 

L’anziana giudice colse subito il significato di quel tono e ribattè, vagamente complice: “Certamente immagini che sono qui per parlarti.”

 

L’Imperatore sorrise con aria d’intesa e le fece cenno di accomodarsi con una mano. La figura incandescente di Elyona sparì da dove si trovava in un istante, ma Gramis non provò il minimo disagio quando la voce di lei gli arrivò dalle sue spalle, dove la giudice era in piedi sul cornicione del palazzo imperiale.

 

“Avrai già fatto i tuoi calcoli.”

 

“Maxbeth, Drace, con ogni probabilità Damien, e forse Oleander, voteranno per l’esecuzione di Vayne. Al contrario Bergan, Gabranth, Vectoriano e con le giuste pressioni Jago voteranno per l’assoluzione. Non saprei dire cosa faranno Zargabaath, Crunir… e tu.”

 

“Sintetico e preciso” commentò lei fissando le prime luci della sera nella capitale imperiale, sotto di loro.

 

“Mi viene nostalgia” aggiunse Gramis “Mi ricorda quando, da ragazzo, lavorai all’elezione del padre di Christianor. Bisognava contare le persone una ad una, e convincerle a votare una per volta; quanto ho girato per i bassifondi, allora, casa per casa! Non mi ricapitò mai più.”

 

“Ricordo quel tempo” confermò lei con un sorriso malinconico “Eravamo giovani…”

 

“Tu eri già una grande giudice. Allora non ti sopportavo, eri un incubo.”

 

“Severa ma giusta!” si difese lei, ed entrambi sorrisero.

 

Poi calò il silenzio, un silenzio che progressivamente si fece sempre più pesante. Gramis, finito con calma il consommé, prese un bicchiere d’acqua fresca dalla caraffa di cristallo e poi si decise: “Cos’è che vuoi dirmi, Elyona?”

 

Elyona si prese ancora un momento per scegliere bene le parole.

 

“Ho cercato di raccogliere informazioni in questi due giorni. Tuo figlio gode di una grande simpatia  nell’esercito. Ma anche alcune famiglie aristocratiche lo appoggiano, e Cidolphus Demen Bunansa, come saprai, è più di un amico per lui. Tuttavia, ciò che l’ha reso ormai una minaccia intollerabile agli occhi del Senato, è la sua crescente popolarità nei cittadini più poveri.”

 

“Non dici nulla di nuovo. Questo clima di paura costante non può che spingere il popolo a cercare una guida forte, capace e combattiva. Una persona più legata al glorioso passato che all’incertezza del futuro. Un abile falco, come mio figlio.” Confermò Gramis.

 

“Più tempo passa più la minaccia di Vayne per la democrazia di Arcadia diventa difficile da estirpare. Per questo, ora che gli errori di Nabudis e dell’Ottava Flotta gli forniscono una scusa, il Senato sta tentando l’offensiva finale per liberarsi di lui.”

 

“Tutto questo lo so già” incalzò Gramis un po’ stizzito “quindi?”

 

“Non consideri il rovescio della medaglia? Se il Senato fallisse… cosa potrebbe fermare Vayne, dopo, se non la guerra civile?.”

 

“Io… saprò farlo ragionare” gli tremò persino la voce, nel dirlo.

 

“Dopo la punizione che gli hai inflitto dubito che ti stia a sentire.”

 

Gramis abbassò il capo: “So che sono stato duro con lui. Come membro dell’esercito, l’ho costretto ad eseguire la sentenza sui suoi fratelli. Aveva tramato per la loro morte, e allora ho voluto che provasse il rimorso di averli uccisi con le sue mani. Un supplizio sottile e crudele, degno del Casato Solidor… della nostra famiglia.” concluse con amarezza.

 

“Non ha senso condannarti adesso per questo” cercò di confortarlo lei.

 

“Ma sono certo di avere comunque un’influenza su di lui. Vayne rispetta il potere, ed io sono l’Imperatore prima che suo padre. Saprò frenarlo.”

 

“Un’ipotetica asse tra Rozarria, Nabradia e Dalmasca è stata una scusa sufficiente per muovere guerra e cancellare due paesi. Questa scelta non reca la tua impronta, dico bene? È piuttosto l’idea  e l’opera di… un abile falco, come hai detto tu. Già adesso riesce a forzare le tue decisioni. Senza la minaccia del Senato, non dovrei credere che passerà ogni limite?”

 

Gramis non tentò in alcun modo di difendersi.

 

“Non nasconderti la realtà” e dopo averlo detto Elyona si rimise l’elmo indosso e la sala fu di nuovo invasa da bagliori di colori freddi e dal crepitio dell’elettricità “se il Senato fallirà in questo tentativo, Vayne diventerà in futuro padrone di Arcadia.”

 

Gramis non si girò nemmeno in quel momento, invece afferrò un piccolo frutto rosso dal vassoio, osservandolo come incerto sul mangiarlo o meno: “E cosa dovrei fare, io? Sarete voi, gli undici Iudex Magister rimasti, a decidere del suo destino.”

 

“Ad eccezione di Bergan ciascuno dei giudici può essere convinto a votare contro Vayne.”

 

Il frutto si spappolò nella mano di Gramis: “È mio figlio! Due li ho già mandati alla forca per l’Impero.”

 

La Iudex Magister mosse un passo verso il baratro e la città sottostante: “Questo lo capisco. Scegli come credi: ti meriti di essere egoista per una volta, se così vorrai. Solo, rifletti con cura su quanto davvero Arcadia può permettersi il regno di Vayne Carudas Solidor. “ e detto questo si lasciò cadere giù, per poi sparire nel cielo con un lampo.

 

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Ashe passeggiò per un bel po’ come una sonnambula, la pietra annerita stretta nella mano sempre sotto il suo sguardo.

 

Basch era andato ad accomodare delle faccende per il viaggio, e così aveva trovato un po’ di tempo per stare sola con i suoi pensieri.

 

La vendetta valeva quel prezzo? O forse era meglio scendere a compromessi, in nome del futuro? Un vero governante non avrebbe forse scelto senza alcun dubbio la pace, nel miglior interesse dei suoi sudditi, mettendo da parte l’orgoglio? Eppure al solo pensiero di deporre le armi innanzi ad Arcadia, al pensiero che nulla di quanto accaduto sarebbe stato ripagato com’era giusto, le nasceva un profondo senso di nausea e di impotenza; come pensare che non fosse così anche per tutti gli altri che avevano perso qualcuno in quella stupida guerra? Davvero i suoi sudditi avrebbero, potendo, scelto la pace e la vita, quando significava essere stroncati dall’ingiustizia e dall’umiliazione al punto da non potersi più nemmeno sentirsi realmente vivi? Tuttavia, cedendo alla vendetta, come si poteva pensare che non ci sarebbero state altre perdite, altri morti da vendicare, che non sarebbe venuto un giorno in cui qualcun altro come lei avrebbe affrontato lo stesso identico dilemma?

 

E così, per ogni elemento che prendesse in considerazione subito un’obiezione si formava nella sua testa, e tutte le domande restavano senza risposta sedimentandosi le une sulle altre.

 

Continuando a camminare instupidita, finalmente vide quella figura bianca in piedi sul ponte, che osservava la luna riflettersi nelle placide acque del fiume su cui sorgeva Jahara. Lo chiamò, ma a voce sufficientemente bassa.

 

“Rasler!” corse verso di lui.

 

La figura eterea sparì subito e lei si ritrovò sul pontile, sola, con Vaan.

 

Il biondino era a pochi centimetri da dove prima era stata l’apparizione di Rasler, e fissava là dove anche lei stava guardando. Lei non cercò nemmeno di celare la sua espressione spaesata.

 

“Tu l’hai visto, no?” chiese a bruciapelo Vaan, una appena una nota mesta nella voce, poi precisò: “Come alla tomba del re.”

 

“Allora lo hai davvero visto anche tu! Ma… perché?”

 

Nel volto del ragazzo la tristezza si mescolò ad una specie di ironia, mentre prese a passeggiare su e giù per il ponteggio: “È strano… prima, non sapevo nemmeno che faccia avevi. E il principe? Sapevo giusto che ne esisteva uno.”

 

Si fermarono a guardare lo scorrere del fiume. Vaan scavava con lo sguardo nella memoria, cercando di fissare i connotati dell’individuo che aveva visto alla Tomba di Raithwall, e poi nel luogo dov’era caduto e il Frammento d’Aurora dopo la distruzione dell’Ottava Flotta Imperiale e, infine, pochi minuti prima. Diede voce al sospetto che aveva da qualche giorno:

 

“Chissà… forse la persona che ho visto era mio fratello.”

Ashe ripensò a quanto era stata dura con lui, dicendogli che non sapeva niente della guerra.

 

“Basch me ne ha parlato” ammise quasi vergognandosi di sé stessa.

 

“Si arruolò, proprio alla fine. Ma per cosa poi? Sapeva che non la spuntavamo.”

 

Non fu sorpresa dalla disapprovazione di Vaan. Anche lei aveva spesso biasimato la sua famiglia, la famiglia reale, quasi incolpandola della situazione in cui si trovava. Cercò di essere di conforto.

 

“Per proteggere qualcosa.”

 

Vaan si risentì: “Cosa può proteggere da morto?”

 

Cercò altre parole che potessero lenire quel dolore. Per lei, però, non le aveva trovate nessuno, e così anche lei ora si trovava impreparata.

 

“È stato diverso per il Principe Rasler? Ne è valsa la pena?”

 

Ashe abbassò lo sguardo. Non sapeva la risposta. Proprio come lei adesso, Rasler non aveva voluto lasciare l’Impero impunito, anche se non si poteva incolparlo di aver desiderato la guerra, a differenza di lei. Comunque sia, ora non c’era più. E lei, che era rimasta, poteva dire che ne era valsa la pena? E dopo la guerra in arrivo, avrebbero detto gli orfani e le vedove di Dalmasca, che ne era valsa la pena?

 

“Odiare l’Impero, avere la mia vendetta. Pensavo solo a questo. Ma non facevo nulla, cioè, capivo che non potevo farci niente. E mi sentivo… vuoto, e solo. E poi… mi mancava mio fratello.”

 

Se lui avesse potuto leggerle nel pensiero, non avrebbe detto parole molto diverse da quelle.

 

“Dicevo roba tipo: sarò un aviopirata, stronzate così. Andava bene tutto pur di non pensarci. Stavo solo… scappando, dovevo scappare dal fatto che era morto. Per questo ti ho seguito.”

 

A parte il fatto che non aveva idea di cosa significasse “stronzate” ma poteva dedurlo dal contesto, si sentì ancora una volta in sintonia con lui. Chiese a sé stessa se veramente aveva avuto un piano in questi anni, per quanto folle o suicida potesse essere, o se semplicemente andava cercando uno scopo, un progetto che le facesse dimenticare di aver perso tutto. Le era rimasto accanto solo Vossler, anche se dopo il suo tradimento le capitava spesso di chiedersi come si era sentito, come ci si doveva sentire guardandola da fuori in questi anni. Forse, come lei si sentiva adesso ascoltando Vaan.

 

“Sai che c’è? Ho chiuso. Ho finito di scappare” annunciò con una certa spavalderia, quasi prendendola di sorpresa “sono pronto a trovare un mio scopo. Delle vere risposte, delle vere motivazioni.”

 

La guardò negli occhi come se volesse attraversarli, e le sorrise come non aveva mai fatto prima: “Stando con te, sento che le troverò.”

 

“Mi piacerebbe saperlo.” Azzardò appena.

 

“So che le troverò.” Ribadì lui, ancora più convinto di prima.

 

Quello sguardo colmo di approvazione e apprezzamento, così inatteso, la spiazzava completamente.

 

Erano così diversi, pensarono entrambi guardando la luna piena, che s’imponeva sul cielo come il suo riflesso faceva nel fiume, quasi circondando loro piccole figure.

 

Lei non aveva mai dovuto pensare a sé stessa, come lui non aveva mai dovuto pensare ad altro che a sé stesso. Lei non aveva mai pensato a cosa significava subire la storia, mentre tutto veniva deciso da altri, mentre lui non aveva mai pensato a cosa potesse significare essere prigionieri delle proprie responsabilità e del proprio ruolo.

 

Ma quando staccarono lo sguardo dalla luna piena, e si ritrovarono l’uno negli occhi dell’altra, solo allora si resero conto di quanto erano entrati in confidenza. E allora, arrossendo, sbottarono entrambi con un frettoloso “Buonanotte!” in coro, prima di girarsi e andarsene ciascuno per la sua strada.

 

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Salve ragazzi, parliamo un po’!

 

È evidente che non riesco a tenere i ritmi di prima ormai da qualche tempo. Me ne scuso, purtroppo non so quando potrò riprendere i ritmi dei primi capitoli (1 x settimana) o quelli tenuti in media (1 x mese). Questa fanfic comunque continua, su questo non abbiate dubbi. Peraltro, a causa della mia grossolana dabbenaggine ho speso ottobre a rileggere parti della prima stesura (semi-cartacea) e a riscrivere o approfondire parti che sono più avanti nella storia creando, di fatto, roba scritta che al momento non posso pubblicare, e questo ha fatto saltare il capitolo di ottobre. Sorry!

 

Altra questione. Juu Nana, sono contento di avere una nuova lettrice! Non preoccuparti, so perfettamente che gli Esper sono 13, ma uno è segreto quindi la leggenda parla, chiaramente, di 12. Sappi che qualsiasi cosa io dica è frutto di accuratissime ricerche svolte su FFXII, FFXII: Revenant Wings, Final Fantasy Tactics Advance, Vagrant Story etc. (per esempio che tipo di armi usano Drace e Zargabaath, ho dovuto cercare come un folle i loro concept-art, introvabili! Oppure, che aspetto abbia il Feol Warren dove le feol viera vivono, o che stile di combattimento usi Al-Cid). Quelle rare volte in cui palesemente vado contro il “canon” (per esempio piazzando magie ed esper dove più mi piace) è esplicitamente per metterli al servizio della storia come penso sia meglio (liberi chiaramente di dissentire). Sempre parlando di “Esper”, nella famosa prima stesura (anzi nella primissimissima) molti scontri non c’erano proprio.

 

Altre volte invento di sana pianta. Parlerò di Rozarria (nel capitolo che ho appunto scritto a ottobre) e di Rozarria non si dice praticamente niente della maggioranza dei giochi ambientati in Ivalice. In FFXII si parla di tredici bureau per i Iudex Magister, ma nel gioco ci fanno conoscere solo sei giudici (Gabranth, Ghis, Bergan, Zargabaath, Drace, Zecht) perciò ho ben pensato di metterne assieme altri sette (Damien, Vectoriano, Oleander, Crunir, Jago, Maxbeth ed Elyona) visto che sto cercando di approfondire o completare, scegliete voi, la splendida storia tratteggiata da FFXII. Comunque compariranno tutti molto poco, finita la Convocazione Generale.

 

Infine, voglio parlarvi di Elyona. Mi piaceva l’idea di un giudice di livello “soprannaturale”, ma ho voluto pensare ad un personaggio poco convenzionale. Raramente il membro più potente di una organizzazione è un’anziana signora, e praticamente mai accade che non sia coinvolta nella trama principale (visto che diamo per scontato che, in un mondo immaginario, non succede niente di importante se non quello che stiamo leggendo). Ho voluto “puntellare” questi luoghi comuni con questo personaggio.

 

Per finire, un’ultima cosa. Valentina, se ancora mi leggi o se mi legge tua sorella, spero aver presto tue notizie. Ti auguro di superare questo momento, e ti auguro ogni bene.

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Capitolo 31
*** Speranza ***


I grigi della prateria oltre Jahara erano cambiati in rosa e arancio e adesso si avviavano al loro naturale colore giallo via via che il sole si alzava in cielo, quando in lontananza apparvero quattro piccole figure, sollevando la polvere. Uno era un chocobo dal piumaggio aureo e scintillante, una varietà nobile e rarissima, montato da due moguri. Gli altri tre erano chocobo verdi, notoriamente abili nel muoversi per zone rocciosce e scoscese.

Venuti da un ranch appena fuori il villaggio, i moguri erano stati chiamati da Spiner per accompagnare il loro gruppo fino alla giungla di Golmore, che separava la piana di Ozmone dalle catene montuose.

“Ecco che arrivano” commentò il capo-guerriero, e allungò il boccale di legno verso Basch.

Basch sorseggiò appena il latte di nanna con miele, la loro spartana colazione, e poi corrispose il brindisi.

“Gli spiriti di queste terre v’assistano” augurò il garif.

Avevano parlato a lungo, quella notte, delle loro battaglie e dei loro rimpianti, di Kadar e di Noah, parlato apertamente come si fa solo con quegli sconosciuti che siamo destinati a non rivedere più, con cui possiamo essere totalmente sinceri. Basch sapeva che come le donne hanno un’amicizia che è loro e loro soltanto, che gli uomini non capiranno mai del tutto, così solo due uomini potevano sapere il legame particolare che nasce tra compagni d’arme, quel misto di fiducia, ammirazione e rivalità reciproca.

Dalla scomparsa di Vossler non erano rimaste persone sulla terra con cui potesse dire di avere quel legame. Pian piano la guerra stava corrodendo il suo mondo, portandogli via ogni volta qualcosa di più. E forse, un giorno, non sarebbero rimasti amici né fratelli, né chiacchierate sotto le stelle, né brindisi né risate, solo guerrieri laceri ed esausti che avanzavano nella mischia per massacrarsi.

Ne era certo: niente poteva giustificare tutto questo.

Cercò la principessa con lo sguardo. Si era comportata stranamente quella mattina, svegliandosi all’alba e scambiandosi lunghe occhiate con Vaan. Poi era andata a cercare Larsa Ferrinas Solidor, e quando il suo sguardo la trovò, era fuori da una tenda con lui a discutere a bassa voce.

Il principe era intento appunto a risponderle, visibilmente soddisfatto: “Speravo proprio che avreste acconsentito. Ne sono lieto.”

Qualche raggio del primo sole mattutino si soffermò appena sulla pelle chiara di Ashe, ancora infreddolita. Ponderò bene cosa dire.

“In cuor mio ho ancora dubbi. Ancora domande. Spero, lungo la strada, di trovare le risposte.”

Non si riferiva solo alla fiducia nei confronti di Larsa Solidor, ma questo lui non poteva saperlo: la mole di dubbi, incertezze, rimorsi e rancori che le dava il tormento era accuratamente sigillata dietro una maschera di austerità, così come doveva essere. Se avesse mostrato un minimo segno di cedimento sarebbe diventata facilmente manipolabile nell’eventualità che intenzioni di Larsa non fossero limpide quanto sembava.

Il giovane nobile sorrise, con una punta appena di trionfo: “Ammetto di avere un’altra ragione per invitarvi. C’è una persona che ci attende a Bur-Omisace, che gradirei incontraste.”

“Chi sarebbe mai?”

“Un nemico, ed anche un amico” rispose, con quell’inflessione di voce, quasi affettuosa, che si assume quando si parla di qualcuno degno di fiducia e stima.

“Dovrete attendere per vedere con i vostri occhi” concluse infine, in risposta allo sguardo perplesso di lei.

“Quel Larsa tiene ai suoi segreti” commentò Vaan mentre lui si allontanava verso Penelo, intenta in qualche attività manuale.

“Non lo fa con malignità” Ashe si sorprese quasi delle sue parole.

Vaan si grattò sotto il naso con un dito, con un gesto tipicamente infantile, prima di aggiungere: “Non è malaccio, almeno per essere un imperiale.”

In un promontorio appena un metro sopra di loro, Balthier smontò e rimontò rapidamente il suo fucile dopo averne pulito alcuni pezzi, poi fece un rapido ripasso mentale delle varie boccette, polveri e infusi che portava nel grosso marsupio.

Fran si muoveva lentamente sotto la luce fredda del mattino, con una specie di danza che imitava le arti marziali, un tipico esercizio delle viera per ritrovare forma fisica dopo il risveglio.

Con un percepibile rumore di sterpaglie, Basch salì alle loro spalle.

“Il Monte Sacro Bur-Omisace sta all’estremo nord del Jagd Ramoda. Come saremo nello Jagd non dovremo più temere d’essere braccati dalle aeronavi imperiali.”

“Non sperarci troppo. Ricorderai che il Leviathan ha navigato dritto nello Jagd Yensa giusto sopra la Tomba di Raithwall.”

Basch annuì, seccato. Era molto meno ragionevole portarsi dietro un ospite come Larsa se si poteva essere inseguiti dagli imperiali. D’altro canto, avevano ben poca scelta: Basch aveva accolto con segreto sollievo la rivelazione del Gran Capo Anziano che la Negalite non potesse scatenarsi nuovamente, perché la principessa aveva finalmente perso il demone che la tentava – o era almeno lecito sperarlo. Ma a questo punto il gruppo era privo di scopo e direzione e la proposta del giovane Solidor era, più che la migliore, l’unica disponibile.

“Vololite che funziona anche in pieno Jagd” riflettè Balthier ad alta voce “Sai che c’è dietro la Negalite. Non sorprende che siano così presi da questa roba.”

Il pirata lanciò uno sguardo provocatorio che il capitano raccolse immediatamente, rispondendo: “E tu cos’è che cerchi, Balthier? Sei una benvenuta mano d’aiuto, ma perché?”

“Temi che stia aspettando di rubarmi la Negalite, eh? Non posso dire mi sia nuovo, che si dubiti dei miei motivi. Tuttavia, niente potrebbe essere più distante dai miei intenti.”

Lo sguardo si fece ancora più affilato e sarcastico: “Devo far giuramento solenne sulla tua spada, o qualcosa del genere?”

“Le mie scuse” borbottò Basch, innervosito “Ma devo sapere da che parte stai. Sua maestà conta su di te. E sembri avere un interesse per la pietra.”

Solo in quel momento Fran piantò gli occhi sul compagno.

“Sono qui solo per vedere come finisce la storia. Ogni protagonista che si rispetti farebbe lo stesso.”

 

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L’armatura nera e lucida emise un sospiro pesante e sofferente, prima che la persona al suo interno, o quel che ne rimaneva, prendesse nuovamente parola.

 

“Sei… sicuro… Gramis?”

 

“Mi sembra l’unica via percorribile, Vectoriano.”

 

Le venature rosse lungo la superfice nera pulsarono gonfiandosi. Gli occhi sferici verdognoli che tempestavano la corazza si puntarono al pavimento, e poi di nuovo all’Imperatore di Arcadia,  fissandolo con lo sguardo di qualcosa di ormai ben poco umano.

 

“Se… lo riconosceremo colpevole… chiedere la grazia non servirà… a nulla. Il Senato non si lascerà sfuggire questa… occasione per liberarsi di Vayne… definitivamente.”

 

“Devo tentare, è mio figlio. Mi sembra l’unica via che possa salvare lui e l’Impero. Accontenterò il Senato, dimostrando che tuttavia non possono disporre dei Solidor come vogliono.”

 

Vectoriano non disse nulla per un po’. L’uno accanto all’altro, osservarono la Capitale sotto il loro sguardo. Solo i respiri pesanti del Iudex Magister si sovrapponevano al vento e ai pochi rumori della città che li raggiungevano.

 

“Gramis” lo chiamò con voce profonda “Quando mi dissero… che questo male mi avrebbe distrutto in pochi anni… mi chiesi che scelte mi rimanevano.”

 

Si sforzò visibilmente di parlare senza interruzioni. Il suo vecchio amico si voltò verso di lui, intristito dal ricordo di quando aveva saputo di quel cupo destino. Era stata una delle tante ferite del suo animo nella lunga storia della sua reggenza.

 

“In apparenza… le scelte erano… due. Vivere in pace… i pochi anni che restavano. Oppure allungare la mia vita finchè… mi era possibile.”

 

“Vectoriano…”

 

“Ma in verità non ho mai avuto… scelte. Per me… non essere più un giudice, un guerriero… non poter servire l’Impero, non poterti guardare le spalle… era esattamente come essere già morto.”

 

Prese un gran respiro. Gramis chinò il capo.

 

“Io ti sono grato, ma…”

 

“Vayne non è diverso. Metterlo in catene… sarà come ucciderlo. Lui stesso reagirà come se la sua  vita fosse in gioco... Non accetterà… alcun compromesso.”

 

Nella barba candida dell’Imperatore si disegnò un’espressione infastidita: “Avete tutti paura di quello che può fare. Se mi sfiderà, lo sconfiggerò. Sono suo padre e soprattutto, diversamente di lui, sono io l’Imperatore di Arcadia.”

 

“Lui sfiderebbe… anche un dio, per ciò in cui crede.”

 

“Certamente: perché lui è mio figlio.”

 

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Da quando avevano lasciato i chocobo all’entrata del crepaccio, Vaan camminava con le braccia dietro la testa come si stesse stiracchiando, masticando pezzi di carne essiccata fino a succhiargli tutto l’aroma di carne e fumo, per poi sputare qua e là nell’erba palle masticate. Penelo non smetteva un attimo di sgridarlo mentre Larsa, sforzandosi di mostrarsi a suo agio, cercava di spiegare a Vaan l’importanza delle buone maniere senza metterci neppure una punta d’arroganza, anzi cercando di porsi allo stesso livello degli argomenti che Vaan poneva in elogio alla cafonaggine più nera.

 

Balthier e Fran camminavano più avanti, controllando spesso i lati del crepaccio.

 

Poco dietro tutti loro, Ashe spiegava al suo capitano quali erano le opzioni a disposizione.

 

“Un’alleanza tra Dalmasca e l’Impero?”

 

Basch si sorprendeva sempre più. La principessa cambiava nel carattere a velocità spaventosa durante il loro viaggio. Non solo era arrivata a rispettarlo, chiedeva addirittura la sua opinione e prendeva seriamente in considerazione la proposta di pace. Eppure era proprio lei la ragazzina immatura, viziata e vendicativa che aveva salvato dall’aeronave Shiva.

 

“La ragione mi dice che questa è l’unica via” ammise lei a denti stretti “Dobbiamo evitare a tutti i costi la guerra con l’Impero. Eppure temo la vergogna che dovrò sopportare. Se solo avessimo la forza…”

 

Ma quella forza non c’era mai stata e persino il sogno di quella forza, la Negalite Divina, era ormai irraggiungibile. La principessa ne era visibilmente infelice: forse, pensò Basch, la sete di sangue non l’avrebbe mai più lasciata del tutto, proprio come lui ritrovava in ogni combattimento la bestia omicida che un tempo era stato.

 

“Forse” cercò di consolarla “sarà una vergogna per voi, o per me. Ma per Dalmasca… è speranza!”

 

Cercò di imprimere in quella singola parola tutto il significato che poteva evocare, perché toccasse il cuore di lei e l’aiutasse a decidersi, definitivamente.

 

Ma lei, al contrario, fece una smorfia come dovesse ingoiare qualcosa di amaro: “E potresti semplicemente accettarlo, tu?”

 

Il Capitano sospirò: “Dopo la truffa di Vayne, ho perso ogni onore. Ma non per questo dimentico di onorare i miei giuramenti da Cavaliere. Se potessi salvare una persona, una sola dagli orrori della guerra… sopporterei per questo ogni vergogna, e ne avrei orgoglio.”

 

Ashe si fermò nell’erba verde che ondeggiava al vento, fissando gli occhi tristi e gentili del suo ultimo, fedelissimo soldato. Lui continuò, con tono calmo ma risoluto.

 

“Non ho potuto difendere nemmeno la mia terra natia. Che vergogna dovrei temere, ormai?”

 

Lei abbassò lo sguardo, rimettendosi in cammino: “La mia gente odia l’Impero. Non lo accetteranno.”

 

Continuava a credere che le sue ferite fossero quelle del suo popolo, e Basch non era certo di poterle dar torto. In effetti, solo la fede nelle sue idee lo spingeva a insistere. Nelle sue idee, e nella sensazione che lei, un giorno, avrebbe abbandonato l’indecisione e scelto com’era meglio.

 

“C’è speranza…”

 

Gli occhi di entrambi si posarono su Vaan, Penelo e Larsa che litigavano e ridacchiavano, dandosi spintarelle, come tre ragazzini qualunque.

 

“…la speranza di un futuro dove potremo stringerci le mani come fratelli.”

 

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Vayne impiegò qualche minuto a comprendere cos’era successo.

 

Stava passeggiando distrattamente, senza alcuna scorta come da lui richiesto, per le strade di Nalbina. La fortezza, i cui sotterranei erano da anni adibiti a città-prigione, proprio secondo una sua idea, in superficie brulicava di vita: bancarelle, venditori ambulanti, lavoratori a cottimo, contrabbandieri più o meno esplicitamente tollerati dall’Impero, e soprattutto piccole e grandi imprese che si affaccendavano nella proficua ricostruzione di quella che un tempo era stata Nalbina, forte, inespugnabile e bellissima.

 

Il Console Solidor stava appunto ammirando una guglia dove si intrecciavano pietre gialle e azzurre, accarezzate da alte palme lussureggianti. Era stata ricostruita quasi identica a come Vayne la ricordava durante la guerra, anche se l’aspetto vagamente artificioso rivelava che era una costruzione postuma rispetto al resto della torre.

 

Ci volle appena un istante: sembrò che fosse calata repentinamente la notte. Ma guardandosi intorno, realizzò che la città non era piombata nel buio, piuttosto era come se la normale colorazione della realtà si fosse invertita, ed una luce nera e bianca avesse ricoperto tutto. Ogni cosa, ogni persona era diventata silenziosa e completamente immobile.

 

Un mastro artigiano, intento a tirare qualcosa al suo giovane apprendista, era rimasto paralizzato nel gesto, il legno sospeso a mezz’aria tra lui e il ragazzo. Un commerciante era immortalato mentre contava le monete che uscivano da un sacchetto, queste ferme nell’atto di cadere davanti alla sua faccia soddisfatta. Un Seeq teneva la bocca aperta nell’istante prima di addentare un grosso frutto.

 

Vayne cercò con lo sguardo, e finalmente la trovò: stava dritta in piedi su una parete, il cerchio magico che lui riconosceva con facilità splendeva di tonalità verdi intorno a lei. Si staccò, lasciandosi cadere a rallentatore giù fino alla sabbia della strada. Camminò lentamente verso di lui.

 

Dalla forma slanciata ed elegante dell’armatura madreperlata, e dalla cascata di riccioli dorati che sfuggiva all’elmo, s’intuiva quanto incredibilmente bella dovesse essere.

 

“Salute, Generale Vayne Carudas Solidor, Console di Dalmasca.”

 

“Salute, Iudex Magister Oleander” ribattè lui, canzonando gentilmente il suo tono cerimonioso “Vedo che l’estensione dei vostri poteri non è esagerata dai racconti: fermare lo scorrere del tempo in una città intera richiede… una certa maestria, senza dubbio.”

 

“Ognuno ha i suoi talenti” osservò lei con la sua inconfondibile voce armoniosa.

 

“E perché mai mi merito una tale esibizione dei vostri?”

“L’aeronave sarebbe arrivata all’imbrunire e vi avrebbe portato ad Archades in due giorni. Abbiamo preferito anticipare i tempi. Visto che dall’incidente dell’Ottava Flotta non fate che andare avanti e indietro tra Rabanastre e Archades, abbiamo pensato di alleggerire il peso di questo viaggio.”

 

Tese la mano sottile verso il Console: “Vi teletrasporterò personalmente.”

 

“Una giusta cortesia, visto che potrebbe essere l’ultimo viaggio che farò mai” notò Vayne con un sorriso carico di sfida.

 

Lei non rispose nulla.

 

Lui la provocò ancora: “Si dice che conoscete il corso del tempo come nessun’altro in Ivalice. Che potete vedere il passato ed il futuro non meno di quanto ciascuno possa girarsi a destra o a sinistra. Che vedete il destino chiaramente quanto io vedo questa strada che ho sotto i piedi.”

 

“Così si dice” minimizzò lei.

 

“E non è forse così?”

 

“Si dice anche che voi non credete nel destino, come il Dottor Cid. E…non è forse così?”

 

Vayne si avvicinò alla mano tesa di lei, sorridendo ancor più apertamente: “Al contrario, credo nel destino… e nel nostro potere di mutarlo. Se potessi vederlo, in effetti, sarebbe un grande vantaggio. Scrutare nel futuro e mutarne il corso…”

 

“Come avete detto” interruppe lei “Vedere il futuro per me non è più difficile che girare l’angolo di questo rione per vedere cosa c’è oltre. Tuttavia, non per questo potrei far apparire o sparire da questa strada quel che desidero, semplicemente perché li ho davanti agli occhi, o allungarla, accorciarla o piegarla usando giusto il pensiero.”

 

Vayne le strinse la mano, continuando a parlare: “Se foste un architetto, potreste cambiare il corso di questa strada con facilità; se foste un console potreste decidere chi vi transita e chi no, e se foste un ricco mercante decidereste cosa si vende e cosa no, e così via. Nulla è immutabile.”

 

“Una conversazione interessante” riconobbe lei con cordialità, per poi intonare “Te Le Ga!”

 

Un vortice come di vetri arancioni si aprì intorno a lei, inghiottendo la sua figura e poi stendendosi lungo le loro mani congiunte al braccio di Vayne, che sparì anche lui in pochi secondi. Nel rione di Nalbina tutto riprese a scorrere come se nulla fosse accaduto, e pochi notarono la figura di quello che sembrava un nobile arcadiano, scomparsa all’improvviso.

 

Vayne e Oleander si ritrovarono sul ponte d’atterraggio del palazzo imperiale, Archades si stendeva nella sua interezza sotto di loro.

 

“Spero” commentò sarcastico “di poter ancora conversare con voi, ho una cosa molto importante da chiedervi” non le lasciò neanche un secondo per chiedere cosa fosse, certo che lei non lo avrebbe mai domandato, e aggiunse “Certo, se sarò ancora vivo.”

 

Lei lasciò la sua mano senza rispondergli.

 

“Voi, naturalmente, sapete già se sarà o non sarà. Mi dolgo di non godere dello stesso privilegio.”

 

“Veramente credete che sia un privilegio?” chiese lei, per la prima volta con una punta d’amarezza.

 

“No.”

 

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Sul fondo del crepaccio, passato un piccolo corridoio di pietra, erano subito arrivati nella più strana foresta che Vaan avrebbe mai avuto modo di vedere.

 

Gli alberi, enormi, si incurvavano gli uni contro gli altri intrecciando i rami, così che sembrassero quasi le navate di una cattedrale. Le fronde nascondevano quasi completamente il sole di cui filtravano appena pochi raggi colorati dalle foglie. Le corteccie antichissime erano coperte da spessi strati di muschio e assaltate da spirali di rampicanti, questi a loro volta con i loro piccoli fiori multicolori, dai colori tanto brillanti da sembrare fosforescenti, non avevano niente da invidiare alle illuminazioni festive di una grande città. Le poche pietre messe in fila da qualcuno secoli addietro, perché rimanessero dei sentieri che la giungla risparmiava, erano sconquassate dalle radici. Golmore era il regno della natura che ancora s’imponeva sulla civiltà senza tollerare intromissioni.

 

Vaan, Larsa e Penelo emisero in coro dei sospiri sbalorditi, ma Fran si voltò immediatamente verso di loro ponendo un indice davanti alle labbra, un gesto inequivocabile.

 

In effetti, i numerosi richiami di animali di ogni tipo che eccheggiavano da ogni lato, i fruscii che appena si udivano tra i rami fitti, e la sensazione costante di essere osservati, diedero anche a Vaan l’idea che non avevano alcun interesse a far notare la loro presenza. Basch e Balthier imbracciarono le armi, e così Fran subito dopo, senza alcun commento.

 

Camminarono per ore, sempre seguendo Fran che con un cenno muto indicava la direzione semmai capitava un bivio. Ad ogni rumore un po’ più forte del sottofondo della giungla, si giravano di scatto e aspettavano. Dopo un po’ avevano percorso una distanza, calcolò Vaan, che non invidiava nulla all’intera estensione per lunghezza di Rabanastre.

 

L’esperienza gli ricordava molto le Gallerie di Barheim: tutti con i nervi a fior di pelle, ogni angolo celasse qualcosa di pericolosissimo pronto a farli a pezzi. Tutta questa cautela gli dava l’orticaria, avrebbe preferito prendere le cose più semplicemente, non fare troppi progetti e, se capitava qualche brutto imprevisto, improvvisare un modo per cavarsela.

 

Così pensava quando per sfogarsi diede un calcio a qualcosa di simile ad un grosso carciofo che si ritrovava per terra. Ebbe il tempo di domandarsi come mai gli altri davanti a lui non avevano visto una pianta così sproporzionata, poi fu la pianta stessa a rispondergli: dalla base sbucarono otto radici che il carciofone usò per spostarsi come avrebbe fatto un polpo, e arrampicarsi su un tronco all’altezza del viso di Vaan.

 

“Ma che…”

 

Il resto accadde in pochi secondi. Il “carciofo” si aprì completamente fin quasi a rivoltarsi, rivelando una fila di denti aguzzi e sprigionando un’odore disgustoso, paragonabile solo al fetore che sprigionava l’esper Chuchulainn, a Garamsythe. Vaan espresse sonoramente il senso di nausa per il puzzo insopportabile, prima che Basch con una spallata lo facesse arrivare a terra, per scaraventare al contempo la creatura in aria con un manrovescio.

 

Un fiotto di qualcosa di scuro uscì da quella bocca enorme mentre la creatura roteava in aria, sembrava liquido per quanto era denso, ma evaporava rapidamente come gas. Nella traiettoria casuale di quel getto i rampicanti avvizzivano, il muschio si anneriva e il legno sembrava marcire.

 

La cosa cercò di rialzarsi solo un secondo prima che Penelo formulasse un “Fi Ra” sprigionando un globo di fiamme iridescenti che gli scagliò contro, incenerendo un’area perfettamente circolare dove si trovava il mostro.

 

Appena due secondi dopo, Fran e Balthier spararono due colpi nei rami poco sopra Vaan, e cadde una cosa identica a quella, che apriva e chiudeva lentamente la bocca agonizzando. Un terzo, che aveva provato a strisciare al lato del gruppo, fu trafitto da Larsa tre volte in pochi secondi con il suo lungo stocco prima ancora che si aprisse.

 

Solo a quel punto Vaan si rimise in piedi, tutto dolorante per la botta ricevuta.

 

“Cosa… cosa sono?” chiese Penelo con voce tremante.

 

“Morlboro, le creature più venefiche di Ivalice” descrisse Fran senza smettere di fissare il punto in cui erano caduti “Ma non sono il nostro problema peggiore.”

 

“Infatti no” ribattè Vaan “cavolo Basch, mi hai sfracassacellato tutto!”

 

“Ti ha risparmiato vari giorni di sonnolenza, vomito, smarrimento, cecità e asma” intervenne Balthier, anche lui senza osare voltarsi “Il veleno del Morlboro resta in circolo a lungo e può anche uccidere.”

 

“Ne ho sentito parlare…” commentò Larsa mentre con un fazzoletto puliva la lama impiastricciata di una melma scura.

 

Vaan fece come per scaldarsi le spalle, rabbrividendo al pensiero: “Bè, allora… grazie Basch.”

 

Solo Ashe notò: “Perché voi due avete lo sguardo fisso lì e non vi muovete?”

 

Fran spiegò a bassa voce: “Esattamente dietro di noi ci sono due predatori: Iaguaro. Cacciano approfittando di altre creature che distraggono le prede.”

 

“Astuti” commentò Larsa, senza scomporsi, ed evitando di voltarsi a sua volta.

 

“Per intelligenza e capacità magiche non hanno niente da invidiare a voi huma” confermò Fran.

 

Basch continuò: “Forse aspettavano proprio questo momento per attaccarci. Se li fissiamo adesso, capiranno. E se non li abbattiamo in fretta, ne chiameranno altri. Per questo gli diamo le spalle.”

 

“Ma allora cosa-” il biondino non fece in tempo a finire la frase.

 

“Penelo, senza voltarti…” suggerì Balthier.

 

“Shel La Ga!” con la formula della ragazza un muro di luce iridescente comparve appena in tempo per deflettere dei frammenti fiammeggianti che avrebbero colpito proprio lei, sbucati chissà dove tra gli alberi e l’erba dietro di loro.

 

“Davvero intelligenti, avrebbero attaccato il mago per primo…” commentò Larsa, immediatamente tutti si voltarono nella direzione dell’attacco.

 

Balthier prese Vaan sottobraccio: “Vai, cretinetti!”

 

“Come?”

 

“Solo tu tra di noi sei così svelto da poterli seguire in duello. Appena li terrai buoni un po’ interverremo noi. È il tuo momento!”

 

“Ehi aspet-” prima di finire, fu calciato fuori dalla barriera rotolando per terra più volte fra l’erba.

 

E finalmente li vide, erano due splendidi e regali felini dal manto giallo maculato, con dei lunghi barbigli multicolore sul muso. Gli si avventarono subito addosso, ma gli riuscì più facile di quanto lui stesso aveva creduto anticiparne i movimenti, rotolare fuori protata dai loro artigli, e saltare sulla corteccia di un’albero dove si tenne con i piedi ed una mano.

 

“Sono qui! Venite!”

 

 Mentre il primo Iaguaro si piazzò ai piedi dell’albero, bloccando i movimenti di Vaan, il secondo congiunse i barbigli sopra la testa; i lunghi baffi iniziarono a splendere mentre l’animale pareva quasi borbottare qualcosa: di certo preparava un altro attacco magico. Il primo iniziò una lenta rampicata verso il biondino.

 

Ashe fu subito dietro di loro, e intonò senza scomporsi: “Slo Uv”; le iridi dei suoi occhi divennero disegni di luce vermiglia, simili a due piccoli orologi: la stessa luce rossastra avvolse il primo Iaguaro rallentandone i movimenti mentre quello si avvicinava a Vaan.

 

Non più sotto tiro del primo Iaguaro, Vaan schizzò in aria e roteando su sé stesso trafisse l’altro con la spada color rosso sangue e l’altra ornata da gemme simili a occhi. Da una ferita uscì un alto schizzo di sangue scuro come pressurizzato, e dall’altra un getto di polvere luminosa dove si mischiavano azzurri e violetti. Interrotto l’attacco magico, il Iaguaro urlò di dolore correndo scompostamente e rotolandosi per terra, fino a schiantarsi violentemente contro un albero. L’altro, appena fu libero dalla magia di Ashe, si scordò dei due avversari e corse verso il suo simile, ferito.

 

“È finita” commentò Balthier avvicinandosi “le ferite della Sanguinaria continuano a estrarre sangue a lungo, e quelle della Tritamago frantumano la forza magica.”

 

Il Iaguaro ancora sano congiunse i barbigli sul primo: con una luce bianca, tentò in tutta evidenza di curare il compagno, che dimenava convulsamente le zampe non riuscendo più ad alzarsi. Sangue e magia continuavano a fuoriuscire innaturalmente dal suo corpo, come risucchiate fuori da una forza invisibile.

 

Vaan guardò le lame che aveva in mano, per poi rinfoderarle e lamentarsi: “E così non sapevi niente di queste spade, furbone? Ho fatto bene a tenerle, bagatto che non sei altro.”

 

Balthier lo ignorò di proposito causandogli il consueto fastidio; Vaan stavolta gli diede un pugno sulla spalla, ma anche così il pirata continuò a fingere di non notare la sua presenza. Caricò l’arma, puntando ai due animali. Fu Larsa ad abbassare prepotentemente la canna del fucile, ricevendo un’occhiata interrogativa.

 

“È finita, lo avete detto voi. Non c’è bisogno di ucciderli.”

 

“Caro principino, quelli volevano cenare con te” protestò lui stizzito.

 

“Quello sano impiegherà ore a curare il compagno ferito, sempre che ci riesca. È ragionevole dire che non dovremmo correre rischi lasciandoli lì, come sono.”

 

“Perché non azzerare i rischi del tutto?” malgrado le sue parole il giovane Solidor non accennò a lasciare l’arma.

 

“Non si uccide per capriccio. E poi” proseguì indicandoli con gli occhi “Se possono provare affetto per i loro simili, meritano rispetto.”

 

Balthier sorrise divertito, e con uno strattone liberò il fucile portandoselo alle spalle: “Così sia. Sei un arcadiano molto strano, Larsa Ferrinas Solidor, e senza dubbio sai essere d’intrattenimento.”

 

“Ne sono lieto” ribattè lui con una impercettibile nota d’ironia.

 

“Torniamo sul sentiero” tagliò corto Fran, indifferente.

 

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Camminando a fianco di Bergan, Zargabaath non riusciva a trattenere il consueto senso di inquietudine che il suo collega emanava, mettendo i brividi addosso anche ai Iudex Magister suoi pari. Non era tanto la sua forza che temevano, quando quella peculiare forma di determinazione che senza esitare sfocia nella crudeltà più nera.

 

Non era chiaro se Bergan fosse del tutto incapace di rendersi conto del disagio che ispirava, o se di converso lo ignorasse di proposito, forse perché gli altri non erano abbastanza importanti ai suoi occhi da curarsi di come li faceva sentire oppure, al contrario, proprio come modo di relazionarsi consapevolmente scelto, che dava a Bergan quel preciso vantaggio psicologico derivante dalla paura.

 

In un modo o nell’altro, nessuno mai aveva pensato di mettersi a conversare apertamente con Bergan di quanto volutamente o meno suscitasse orrore nel profondo dell’animo, e Zargabaath intendeva continuare questa tradizione di silenzio sull’argomento. Preferì piuttosto chiedergli quanto fosse preoccupato per le sorti del Casato Solidor visti gli accadimenti.

 

“Il Senato può giocare agli intrighi, ma Lord Vayne non cadrà facilmente. L’intero corpo militare attende solo un suo ordine, dal Consiglio di Guerra alla singola divisione, al singolo reparto.”

 

Zargabaath si limitò ad annuire. Il fatto che processare ed eventualmente giustiziare Vayne Carudas Solidor significasse rischiare una ribellione nell’esercito ed una guerra civile era una circostanza tragica e angosciante per chiunque. Ma per Bergan sembrava esserci un qualche cosa di glorioso.

 

“Quale lama meglio di questa può colpire i nemici dell’Impero?” insistè, per rimarcare il concetto.

 

“Vostro Onore mi ricorda Zecht, due anni orsono.”

 

Zargabaath quasi trasalì nel sentire l’intervento della voce femminile alle loro spalle. Se c’erano due colleghi con cui non voleva trovarsi nella stessa stanza erano Bergan e Drace. Avevano visioni configgenti su ogni singolo argomento e non sembravano mai intenzionati a nasconderlo neppure per buona educazione.

 

“Egli, come voi, ripose la sua fiducia nella forza di Lord Vayne, e che ne è di lui? Scomparso senza lasciar traccia in Nabudis!” si poteva quasi sentire nel tono della ragazza il sorriso di sfida nascosto dall’elmo argenteo.

 

“Non ascolterò malignità sul Iudex Magister Zecht! Era un nobile guerriero. O forse…” anche Bergan doveva star sorridendo, dietro l’elmo affilato “considerate malriposta la sua fiducia in Lord Vayne?” chiese, in via puramente retorica: nessuno ignorava le pesanti riserve di Drace su Vayne.

 

Lei comunque non tentò di essere sottile o indiretta più di lui: “Vayne ha preso le vite dei suoi stessi fratelli. È spietato, oltre ogni ritegno.”

 

“Spietato, dite? Se solo lo fosse ancor più di così!” a Zargabaath parve di sentire la ragazza raggelare, alla pesante allusione fatta alla sua stessa vita, alla sua stessa incolumità.

 

“Non dà tregua ai traditori, nemmeno se sono del suo stesso sangue. Si addice a colui che dovrà reggere il peso dell’Impero” concluse, affrettando il passo, per chiarire per l’ennesima volta il suo pensiero sul destino di Vayne.

 

“E potremo noi reggere il peso del suo regno?” chiese lei, sottovoce, a sé stessa, per poi rivolgersi al giudice accanto a lei: “Zargabaath, che mi dici tu? Certamente non credi davvero che i suoi fratelli fossero traditori.”

 

“Ciò ritenne sua eccellenza Lord Gramis” chiuse lui, cercando come sempre di non sbilanciarsi troppo “E voi dovreste frenare la lingua, Drace. Quella faccenda è da tempo passata.”

 

In effetti, era lei una delle poche che non si riferisse alla fine di Kaent e Lutho con circonlocuzioni come “quella faccenda”, “quel certo fatto”, o “quegli orrendi avvenimenti”. Lei, come pochissimi altri, violava la regola non scritta di cercare di dimenticare l’ultimo dei tanti fatti di sangue che c’erano stati nella reggenza di Gramis Gana Solidor come Imperatore di Arcadia, quello di cui, in assoluto, l’Imperatore meno gradiva che si ricordasse.

 

Gabranth sembrò sbucare fuori dall’ombra di una colonna come uno spettro, interrompendo il filo di pensieri che li legava: “Vostro Onore, la Convocazione sta per iniziare. Lord Vayne ha raggiunto il palazzo.”

 

Avevano avuto notizia giusto poche ore prima che Oleander si era recata personalmente a prelevarlo da Nalbina, accelerandone il ritorno di diversi giorni.

 

Zargabaath accelerò anch’egli il passo  con un frettoloso “Arriviamo!”, e nel corridoio rimasero soli, Gabranth e Drace.

 

Loro due non si erano mai capiti molto, anche se, come del resto era stato anche per Bergan, ciascuno di loro aveva consacrato la propria vita a servire uno degli ultimi tre Solidor rimasti in vita e aveva modellato sé stesso per essere idoneo a questo compito: da questo, erano accomunati. Da quando l’Imperatore aveva affidato la protezione di Larsa a Gabranth, i due Iudex Magister avevano avuto più contatti, scambi di informazioni e opinioni, ambedue nell’interesse del piccolo Solidor.

 

“Lord Larsa è partito per Bur-Omisace” esordì lei rispondendo alla tacita domanda di Gabranth “Spera nell’aiuto del Gran Kiltias per fermare la ribellione. Dubito che ciò basterà a contenere Ondore, ma anche un piccolo inciampo alle sue operazioni sarebbe benvenuto. Rallenterà un po’ l’invasione di Rozarria, dandoci il tempo di cui tanto bisogno abbiamo per allineare le nostre difese.”

 

“Come sperava sua eccellenza” finalmente Gabranth vedeva più chiaro sul perché l’Imperatore non aveva stroncato sul nascere la pretesa di Larsa di imbastire degli azzardati negoziati di pace: sperava di sfruttare a suo vantaggio l’idealismo del suo stesso figlio.

 

Drace scelse deliberatamente di omettere qualsiasi riferimento alla Negalite e alla ricerca di Larsa sull’argomento. Non sapeva ancora di chi si poteva fidare fino a quel punto.

 

“Quale che sarà il risultato, sono compiaciuta dei risultati di Lord Larsa. Posso già vedere le facce stupite di quegli infidi senatori. Pensano che sia facile tirare i fili dall’ombra per un Imperatore bambino, ma scopriranno presto che Lord Larsa non è un burattino.”

 

Gabranth soppesò con calma le parole della ragazza, e decise di ribattere con sincerità e realismo: lei sembrava avere veramente a cuore unicamente Larsa, e quindi per obbedire al meglio all’ordine dell’Imperatore poteva, e doveva, considerarla come un vero alleato.

 

“Sì. Il Senato sarebbe assai compiaciuto di un Imperatore burattino. Saprete, Drace, quanto il Senato teme e disprezza l’abilità di Vayne? Quando realizzeranno la verità, che Lord Larsa non è un docile agellino cui far da pastore, mostreranno le zanne per divorarlo.”

 

Lei apprezzò l’onestà di quell’analisi pessimistica, e sorrise compiaciuta. Gabranth era quel genere di persona di cui, proprio perché abituata a trame e tradimenti, era opportuno riporre la più totale fiducia. Anticiparlo, se avesse voluto pugnalarla alla schiena, sarebbe stato impossibile; e se invece davvero voleva sostenerla, nessuno era migliore di lui per guardarsi le spalle.

 

“Siete nel giusto” ammise “parlerò di questa faccenda con sua Eccellenza appena potrò.”

 

Anche Gabranth si compiaque di sé stesso: riavvicinare Drace all’Imperatore poteva essere un buon risultato, e le parole di lei sembravano propendere a questo.

 

“E tuttavia” proseguì lei con solennità “Teniamo a mente che sta a noi, in questo frangente, di proteggere Lord Larsa da ogni minaccia. Siamo d’accordo?”

 

“Certo” confermò lui con semplicità.

 

La loro alleanza era iniziata.

 

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Vaan vibrò una seconda, poderosa spallata nell’aria. Per un momento, nel vuoto apparve quella che poteva essere una ragnatela splendente, o un complicato intreccio di simboli, poi scomparve ancora. Vaan rimbalzò indietro fino a cadere a terra.

 

Basch, Ashe, Penelo e Larsa guardavano il vuoto disorientati. Balthier guardò Fran, che sospirò.

 

“Cos’è?” chiese il ragazzo, ancora a terra.

 

“La giungla ci nega il passaggio.”

 

Ashe provò anche lei a toccare quel muro invisibile, e chiese: “Che abbiamo fatto noi?”

 

“Non noi. Io.”

 

Dopo la brevissima risposta, si mise a camminare sul ciglio di un dirupo che costeggiava la strada pietrata, affacciato sugli alberi torreggianti.

 

“Che cavolo voleva dire? Com’è che dovremmo passare?” si lamentò Vaan.

 

La viera sembrava scrivere qualcosa a mezz’aria con il dito, lasciando una scia fosforescente.

 

“Fai una comparsata?” chiese il suo socio, dietro di lei, e lei colse la sfumatura preoccupata della sua voce.

 

“La faccio.”

 

“Pensavo te ne fossi andata una volta per tutte.”

 

“Le nostre opzioni sono limitate.”

 

Da dietro di loro, il ragazzo continuava a cercare di attirare la loro attenzione chiamandoli, mentre il resto del gruppo guardava ora la barriera, ora Fran, vagamente smarrito.

 

“Lo faccio per te tanto quanto per me.”

 

“Eh?” Balthier finse di non capire.

 

Lei piantò i suoi occhi scuri in quelli del suo compagno: “Sei a disagio. La Negalite ti angoscia?”

 

Finalmente l’aveva detto. Aveva dato un nome al motivo di tutte le loro atipiche “discussioni” di quei giorni, ai loro silenzi, ai loro dubbi, alle loro paure che si protraevano dal giorno in cui Vayne Solidor, portandoli in manette, aveva visto qualcosa di familiare nel volto del pirata… e dal momento in cui Larsa aveva pronunciato la parola “Negalite”… da quando il Iudex Magister Ghis aveva parlato dei Draklor Labs. La paura di lei di perderlo aveva un nome preciso, il nome di quel passato di cui sapeva così poco ma che, ne era certa, non aveva mai lasciato del tutto il suo compagno.

 

E lui, ancora una volta, evitò di rispondere. Ma vide nei suoi occhi senso di colpa, rassegnazione, e quasi delle tacite scuse, cose che raramente comparivano in quel volto aristocratico e spavaldo. Allora lei parlò, e anche lei mostrò una dolce, comprensiva rassegnazione quasi irriconoscibile.

 

“Lasci che i tuoi occhi tradiscano il tuo cuore.”

 

E con calma, riprese a tracciare linee nell’aria.

 

“Ma che fai?” intervenne Vaan.

 

“Lo scoprirai presto.”

 

Fran aveva appena finito di parlare, quando una cascate di fogliame spiovente si generarono a mezz’aria, formando un ponte verdeggiante verso l’alto. Di nuovo, lui, Larsa e Penelo sospirarono per lo stupore.

 

“Andremo a chiedere aiuto alle viera, che vivono più avanti.”

 

“Scommetto che… saranno felici di rivederti dopo tanto, no?” si chiese Penelo.

 

Fran abbassò lo sguardo, intristita, mentre Balthier si girò dall’altra parte imbarazzato.

 

“Non sono benvenuta. Sono un’ospite indesiderato nella loro foresta.”

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 Chiedo scusa a tutti! Per dicembre mi ero preso una pausa, ma questo capitolo (di gennaio) era pronto da giorno 10. Ero convinto di averlo uppato, e invece non lo avevo mai fatto. Spero di non  ripetermi per febbraio!

 

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Capitolo 32
*** Fuggitivi ***


Di tutti i posti strani ed esotici, di tutte le avventure improbabili, di tutti i pericoli e gli azzardi di cui Vaan si nutriva, di tutti quelli che si era lasciato indietro e di quelli che ancora lo attendevano avanti, avrebbe sempre ricordato quell’unico posto, e quell’unico giorno, come il momento in cui avrebbe voluto essere da tutt’altra parte, il momento in cui essere in pace a casa sua sembrava una prospettiva più allettante.

Eruyt, là dove le ultime viera pure vivono – un luogo unico, mitologico, di alcuni mettevano persino in dubbio l’esistenza.

Tra le foglie candide illuminate dal sole e i tronchi imponenti coperti da secolari tappeti muschiosi bruni e verdi, una ragnatela di corde, ponteggi, e piccoli alloggi di legno la cui forma ricordava vagamente un seme disegnava l’intreccio il villaggio

Il villaggio, malgrado la nomea, sembrava spandersi a perdita d’occhio al di sopra della Giungla di Golmore, eppure lontano dalla lotta per la sopravvivenza che si combatteva tra le liane e le radici del mondo sottostante; ed anzi, immerso in un religioso silenzio che faceva sì che, malgrado la sua estensione che rivaleggiava con le città dalmasche, l’intero Eruyt sembrasse quasi essere nella foresta per caso, come non volesse dare troppo disturbo facendo troppo rumore.

Tutto questo avrebbe costituito un’esperienza travolgente e irresistibile per Vaan, se l’atmosfera nel villaggio non fosse stata indefinibilmente spaventosa, quasi agghiacciante.

Le viera erano a prima vista assolutamente identiche a Fran per il fisico scolpito dal colorito scuro, i visi al contempo infantili e antichi incorniciati da chiome color platino e sormontati da lunghe orecchie pelose, per il curioso abbigliamento che sembrava dipinto sulla pelle con tinture che variavano tra il plumbeo, l’avorio e il rosa; erano però diverse per atteggiamento, sempre che di atteggiamento si potesse parlare: perlopiù, stavano appollaiate su qualche ramo o sedute su qualche balconata, scrutando come ipnotizzate i più svariati fenomeni naturali quali il volo di un insetto, il moto delle nubi, o la caduta di una foglia; sembravano ascoltare il fruscio delle foglie pallide o il canto di uccelli distanti, e accarezzare i muschi scuri come si accarezza qualcosa di amato.

Un comportamento che solo in parte ricordava quello che occasionalmente assumeva Fran quando sembrava riflettere, ma aveva qualcosa di più intenso, quasi qualcosa di drogato. Soprattutto, Vaan notò che loro sette entravano in un villaggio relativamente affollato senza che nessuno, o quasi, reagisse in qualsiasi maniera alla loro presenza se non, raramente, con brevissime occhiate distratte che non potevano interpretarsi come amichevoli; su un pontile poco distante Vaan scorse due piccoli moguri, attrezzati da esploratori: certamente erano visitatori anche loro, e non ricevettero alcun tipo di trattamento diverso dal loro.

Ma più di tutto, a destare orrore in Vaan fu il fatto che nessuna viera reagì, né in bene né in male, al fatto tra i sette visitatori ce n’era una, Fran, che con innegabile evidenza apparteneva alla loro specie e persino alla loro stirpe, insomma qualcuno che era certamente nato e vissuto lì, in Eruyt, come loro. A Vaan venne quasi da pensare che le viera vedessero le cose in modo tanto diverso che l’apparenza di Fran, identica alla loro, non diceva loro proprio nulla sulla persona di Fran, proprio come non avrebbe detto nulla portare lo stesso cappello o la stessa acconciatura.

Per qualche ragione Fran era estranea quanto lo erano loro nella terra di Eruyt. E non solo per le viera ma anche per lei stessa – non sembrava curarsi delle sue simili, stese o aggrappate ai rami, né per quelle adagiate in contemplazione, né di quelle rarissime che si spostavano con passo lento ed etereo per i pontili, quasi fossero per lei altrettanto invisibili.

Durò poco, comunque: Fran percorse appena una manciata di passi in un grande spiazzo di spesso legno chiaro, che ricordava una forma floreale squadrata, il quale in tutta evidenza costituiva uno degli ingressi principali al villaggio, e poi piantò i piedi a terra.

“Più avanti nel villaggio troverete lei… Mjrn. Conducetela a me. Lei… saprà perché la cercate.”

Non disse altro né si mosse più, rifugiandosi nel suo tipico atteggiamento contemplativo che la rendeva un po’ più simile alle abitanti di Eruyt, seppur diversa in qualche dettaglio che a Vaan sembrava ineffabile e indecifrabile eppure di assoluta importanza.

E, cosa più strana di tutte, il suo socio, il suo amico, il suo amante, il suo inseparabile Balthier non sembrò stupito né preoccupato né interessato a commentare in alcun modo nulla di tutto ciò che a Vaan sembrava così innaturale. E questo bastò a convincere anche Larsa, Penelo, Ashe e Basch a fare altrettanto.

E con ostentata discrezione, lasciarono Fran all’ingresso di Eruyt per fare come lei aveva chiesto senza dire una parola.

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Dormendo nell’erba alta, realizzò, i due huma dovevano non averla notata affatto.

Si sporse quel minimo che bastava per vederli. Uno, in uniforme bianca e armatura scura, portava le vesti di un giudice imperiale arcadiano; si era appena tolto l’elmo, rivelando un viso saggio ma stanco, ingrigito dagli anni.

L’altro portava vesti anch’esse di gusto arcadiano, tipicamente aristocratiche, di un morbido color crema intrecciato di arazzi rosso sangue; piccoli occhiali rettangolari di aspetto prezioso; i capelli lunghi ma drizzati ad arte per sembrare ribelli, e il pizzetto disegnato con precisione, davano l’idea di una cura certosina e vanitosa dell’aspetto; la regolarità del viso, i contorni nobili e austeri, esercitavano un fascino innegabile persino su di lei, una viera.

Il primo era in piedi, e la sua figura incombeva sul secondo, pigramente appoggiato ad un piccolo arbusto sul ciglio dello strapiombo, con aria sconsolata.

“Dissoluto, vanitoso… crudele e spietato… ben vestito, va in giro con una rarissima Schiantadraghi .48 Crimson e porta degli occhiali di cristallo dalmasco…” il giudice attempato diede un calcio alla rivoltella che stava pigramente nella mano del ragazzo, un oggetto quasi artistico d’oro bianco e dal calcio in pelle di drago rosso; il ragazzo non reagì mentre lo disarmava.

“Descrivi un tipo molto affascinante” ribattè l’altro con triste ironia.

“…ha modi scorbutici e sarcastici. Il dossier su di te era precisissimo in ogni dettaglio.”

Il giudice si sedette accanto al ragazzo, e si accese un oggetto strano che a lei sembrò tanto un rametto, ma che iniziò ad emettere fumo. Sembrava dargli un certo piacere, quasi che lo rilassasse. Doveva essere un aggeggio degli huma meno conosciuto delle armi e delle aeronavi.

“E così ti ho trovato.”

“Ci hanno provato in molti. Devi essere un buon segugio.”

“Lo sono. Ah, per la gloria di Faram! Aspettavo da tempo una promozione…”

“Eh… valgo così tanto?”

“Assolutamente. Ma dimmi, c’è una cosa che non capisco…” aspirò e sbuffò con gusto.

“Sono ansioso di fugare i tuoi dubbi.”

“Mi domando perché dopo mesi di fughe geniali in ogni capo del mondo, dopo averti e faticosamente trovato non opponi alcun tipo di resistenza. Hai una certa abilità con la pistola, dopotutto. Non hai più voglia di scappare? E se fosse, perché allora non sei tornato?”

Il ragazzo rimase a lungo in silenzio, e il giudice lo rispettò aspettando pazientemente la risposta mentre fumava. Lei ebbe per un momento l’idea di alzarsi e andarsene, scendendo giù per il dirupo verso Ambervale; ma non le riusciva di convincersi a farlo. Dopo un po’, il ragazzo decise di rispondere.

“L’unica vita che conosco è quella a cui non voglio tornare e non tornerò mai. Ma ho scoperto che non ne ho un’altra verso cui correre.”

L’altro riflettè un po’ su quelle parole, tributandogli qualche minuto di silenzio: “Di certo saprai che non andrai mai sulla forca… in compenso, purtroppo per te, tornerai proprio a quella vita che ripudi…” finì di fumare e si alzò in piedi: “In ogni caso, non è affar mio. E visto che non vuoi combattere, procedo a riportarti a casa.”

“Non voglio battermi, è vero, ma non ho detto che collaborerò.”

“In tal caso ti conviene batterti…” si alzò in piedi “…ma come hai detto tu stesso, per cosa dovresti batterti mai?” e tese eloquentemente una mano per aiutarlo a rialzarsi.

Quando il ragazzo sgranò gli occhi stupito, anche il giudice si girò verso quel che stava guardando: lei. La punta della sua freccia era in linea retta con il cuore del giudice, che non mosse un muscolo.

“Cosa ci fa una viera in territorio rozarriano?”

Non rispose, ma gli occhi erano fissi in quelli del giudice che l’aveva interpellata. Ma non le sfuggì che gli occhi del giovane arcadiano la squadravano da centimetro a centimetro.

“Non abbiamo nulla contro di te. È solo una questione tra huma. Ce ne andremo subito.”

“Vattene tu, da solo. Finchè puoi.”

A prescindere da chi fosse e da quanto potente potesse essere, nessuno era mai indifferente alle minacce quiete e glaciali che solo una viera poteva esprimere.

“Non siamo in territorio imperiale, quindi non mi trovo obbligato a giustiziarti per intralcio alla legge. Ma vale comunque la legge della forza, se mi obbligherai ad usarla. Ora vattene.”

In effetti, appena conclusa la frase constatò in pochi attimi che lei non abbassava l’arco, quindi spostò il corpo fuori tiro troppo velocemente perché lei potesse seguirlo, e sfoderò le due spade che distinguevano un giudice imperiale mentre una freccia fischiava a un millimetro dalla sua spalla.

“Braveri!” intonò più veloce che poteva mentre guadagnava distanza con delle capriole all’indietro, e le sue vene presero a risplendere di un intenso verdazzurro, a quel punto si portò in piedi su una gamba sola; il piede che teneva in aria, caricato di forza magica, sferrò numerosi calci che il giudice parava pignolo con la spada corta, mentre il suo tacco deviava come poteva i colpi con la spada lunga; quegli urti producevano rumori ritmici, come rintocchi di campana. Lei, difendendosi in equilibrio su un piede, con le braccia cercò un’altra freccia e tese l’arco.

“Pro… ge… lum” intonare una formula magica nella mischia si rivelò piuttosto faticoso e il giudice ne approfittò: riuscì a farle perdere l’equilibrio colpendole di piatto la caviglia, e a sbilanciarla all’indietro. Ma era tardi, una densa nebbia nivea avvolse la freccia e quando la scoccò si fece ghiaccio nell’aria, quindi si scompose in più frammenti lunghi e sottili che il giudice riuscì a fatica a schivare; la seconda freccia arrivò immediatamente cogliendolo colse impreparato, e non trovò di meglio che frantumarla con un contrattacco, prendendo in pieno volto un’esplosione di aria gelida. Cadde al suolo intorpidito.

Lei riprese fiato, mentre lentamente l’energia magica defluiva al di fuori di lei. Il giudice non si sarebbe rialzato presto, e atrofizzato dal gelo non rappresentava comunque un pericolo serio.

Camminò lentamente verso il giovane, ancora immobile e seduto sull’arbusto. Solo i suoi occhi avevano reagito, e da allora non lasciavano mai la figura di lei; il resto del corpo era rimasto come inanimato.

In un istante, si trovò entrambe le lame circondare a forbice il suo collo sottile. Da dietro giunse la voce del giudice: “Magia verde, la specialità delle viera. Impressionante coordinazione di armi e magia. Forse non lo sai, ma è proprio alle tecniche viera che è ispirato l’addestramento di un giudice.”

Solo in quel momento notò che l’erba sotto i suoi piedi era stata congelata solo in parte, lasciando intatto e verde un semicerchio dalla forma precisa; il giudice doveva aver formulato una barriera magica in pochi secondi.

“Volevo farti i complimenti, prima della-”

Un forte rumore lo interruppe.

“…fine” concluse il giovane arcadiano.

Il resto del corpo del ragazzo era ancora immobile, e gli occhi non avevano mostrato alcuna inflessione. Ma la mano aveva raggiunto la Schiantadraghi e aveva fatto fuoco, centrando la fronte del suo inseguitore. Il giudice andò scompostamente a terra, a faccia in giù, rivelando uno squarcio nel cranio.

Lei tremò un istante al pensiero di quanto facilmente gli huma si uccidevano tra simili; le era difficile abituarsi, le viera uccidevano raramente animali selvaggi, solo per cacciare, e lo consideravano un infausto evento. Ma ormai era tardi per pensare al suo popolo, alle regole a cui era abituata.

Si portò a sedere accanto a lui.

“Perché mi hai salvata?” chiese dopo un po’.

“Potrei chiederti lo stesso.”

Ancora silenzio. Lei ascoltò in pace il rumore del vento.

“L’unica vita che conosco è quella a cui non voglio tornare e non tornerò mai. Non ne ho un’altra verso cui correre” disse infine lei.

Poi sorrise lievemente: “Devo ringraziarti per avermi prestato le parole per esprimerlo. L’oratoria non è un’arte in cui le viera siano versate.”

Il sorriso di lei era bello e prezioso, come lo sono i sorrisi di chi non sorride facilmente. Lui sorrise di rimando, e aggiunse: “Immagino che tocchi a me rispondere” a queste parole, lei assentì con un cenno.

“Sei davvero molto bella. Presumo di essermi un po’ stufato delle ragazze huma. Vorrei portarti a letto, e sarebbe stato difficile se quello ti decapitava. Non sarebbe impossibile certo, ma… non è quello il genere di depravazione che gradisco.”

“Cosa ti fa pensare che io accetterei?”

“Non ci sono al mondo due donne uguali, ma certamente non ce né neppure una che mi rifiuterebbe. Consideralo pure un fardello a cui mi sono abituato col tempo.”

Invece di scurirsi in viso oppure offendersi, lei rispose con un’espressione carica di curiosità penetrante. Era difficile sostenere quello sguardo a lungo.

“Che c’è?” chiese per spezzare la tensione.

“Mi chiedevo se usi sempre la provocazione per nascondere la solitudine.”

Stavolta lui sorrise ancor più di prima, sorpreso. Ma la sua espressione, inaspettatamente dolce, irradiò una tristezza infinita che le diede la sua risposta. Senza aggiungere nulla, il ragazzo si portò in piedi e si affacciò sul dirupo.

Sotto di loro scendeva, ripidissima, una parete curva di un materiale giallo scuro e trasparente perfettamente liscia, a stento interrotta da qualche arbusto che era stato a sua volta vetrificato, come un intero canyon di ambra lucida. Sul fondo, come protetto dalle pareti ambrate, si sviluppava in lunghezza una piccola città di case basse, piena di verde, con un campanile che svettava in alto. Ambervale, dove gli imperatori di Rozarria si ritiravano nei periodi di riposo.

“Eri diretta ad Ambervale anche tu?”

Lei accettò il chiaro intento di cambiare discorso e rispose concisa: “Ero di passaggio.”

“Conosci questo posto?”

Lei rispose come recitando da un testo: “Quando la città stato di Roth Sa sollevò le armi contro il Re Dinasta, egli fermò la guerra mostrando il suo potere. Con una spada di luce che si abbatteva dal cielo, inflisse una cristallina ferita nella terra dove l’esercito di Roth Sa avrebbe marciato. Ivi nacque la Valle Ambrata, gioiello dell’ovest.”

Lui rimase in silenzio un istante, prima di mettersi a ridere sommessamente: “Già. Interessante. Bè io la conoscevo per le sue cantine strepitose. Ti va di bere qualcosa?”

Annuì con poca convinzione.

“Non fare quella faccia indifferente. Non c'è posto più tranquillo per due fuggitivi come noi.”

“Non ho detto di essere in fuga. E non lo sono.”

La guardò con aria di sfida: “Forse non fuggi da qualcuno, ma sicuramente da qualcosa. Fammi compagnia ad Ambervale. Sarà una lunga discesa ma ne varrà la pena.”

Che ne sarebbe valsa la pena lei non aveva avuto dubbi, sin dal primo istante.

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Dopo qualche minuto Vaan si decise a chiedere: “Ma dove cavolo stiamo andando di preciso?”

“Di preciso, da nessuna parte” rispose Balthier.

“Ma allora come-”

“Aspetta e vedrai” lo bloccò il pirata “a volte ciò che cerchi trova te”.

Percorsero un ponteggio verso un altro spiazzo di legno lavorato, sormontato da un’impalcatura che gli dava l’aria di un lussuoso gazebo da tè. La risposta non tardò a mostrarsi: prima ancora che Vaan potesse solo sentirne il rumore, una dozzina di viera li avevano circondati. Capì subito che dovevano essere le guerriere di quella tribù – portavano delle maschere che ne coprivano il volto, rendendole più minacciose.

“E-ehi… salve…” azzardò lui “Mjrn vive qui, no? Siamo qui per vederla. Dove-”

“Ora ve ne andrete.”

La piccola folla si divise per far passare colei che aveva parlato. Aveva capelli lunghi e lisci e semplici vesti rosate e nere. Ma malgrado la semplicità dell’abbigliamento, il rispetto con cui le altre la fecero passare dimostrò inequivocabilmente la sua importanza.

“Non permettiamo agli huma di aggirarsi per le nostre terre” proseguì lei; aveva una voce setosa, ma ferma e severa.

“Ce ne andremo subito, appena vedremo Mjrn” ribatté il biondino, per nulla intimidito, e anzi con tono di sfida.

Penelo e Larsa mostrarono disagio, mentre Ashe si avvicinò per prendere Vaan e sconsigliargli di proseguire le trattative. Ma la viera, per un attimo sorpresa da quella insolenza, subito dopo esibì un freddo: “Se la trovate, fate pure.”

“Bene!” sbottò il ragazzo, e le voltò le spalle “Faremo da soli.”

“Ah!”

Vaan aveva esattamente davanti alla faccia la ragione dell’espressione sorpresa della viera: Fran, immobile davanti a lui, incrociava con gli occhi ciascuna delle sue simili, come se finalmente riuscisse a vederle.

“Ho sentito la voce della foresta. Dice che Mjrn non è nel villaggio. Jote… dov’è andata,?”

Nessuno ebbe il tempo di chiedere se si conoscevano, perché Jote rispose provocatoria: “Perché lo chiedi? La foresta ci dice dov’è andata. O forse… non puoi sentirla?”

Camminò lentamente verso di lei, e a tutti sembrò che il villaggio si fosse fatto ancor più silenzioso. Si trovarono infine faccia a faccia. Gli occhi di Jote accusavano Fran, che dal canto suo sosteneva lo sguardo senza incertezze.

“…non puoi. Le tue orecchie sono assordate dai loro gretti chiacchiericci, immagino.”

Nessuno dei compagni di viaggio di Fran ebbe da chiedersi chi fossero “loro”, ma a nessuno parve il caso di mostrarsi offesi.

“Le viera che abbandonano la foresta non sono più viera. Mjrn, anch’essa, ha lasciato il suo abbraccio.”

“E per questo le ripudiate?” malgrado l’apparente calma di sempre, Balthier nascondeva nel profondo una considerevole irritazione.

Jote non si scompose: “È la volontà del villaggio: le viera devono vivere in comunione con la foresta. Tale è la Parola Verde, tale è la nostra legge.”

“Pensaci tu a mantenere la vostra legge, però facci il favore di non starci tra i piedi. La troveremo da noi.”

All’intrusione di Vaan, gli altri sembrarono quasi rabbrividire. Penelo annotò mentalmente di dovergli uno schiaffo. La principessa si domandò quante delle regole d’oro della diplomazia aveva mandato in frantumi con una frase sola. Solo Jote, sorprendentemente, non sembrò a disagio, ma piuttosto aggrottò la fronte per appena un secondo.

La viera allargò le braccia e prese un gran respiro. Le altre si diradarono ancora di più, e le foglie intorno ad Eruyt presero a frusciare con intensità sovrannaturale. E tuttavia, appena alzarono lo sguardo alle fronde, d’un tratto fu di nuovo silenzio.

“Nostra sorella… ha lasciato la foresta per dirigersi ad ovest. Vagabonda in cunicoli dove gli huma nascondono sé stessi in vesti di ferro gelido. Così ha parlato la foresta.”

Appena conclusa la frase, si girò per andarsene, ma fu subito interrotta da Fran: “Le viera nascono parte della foresta, ma non è questa l’unica fine che possiamo sceglierci.”

Jote non si voltò nemmeno a risponderle: “Ancora le parole che ho già sentito cinquant’anni fa.”

Silenziosamente com’erano arrivate, le guerriere viera sparirono e l’atmosfera di tensione svaporò così come si era creata.

“Non male Vaan” commentò Balthier, ma non gli diede il tempo al ragazzo di rallegrarsi per uno dei rari riconoscimenti che gli faceva “Non mi aspettavo informazioni da lei... cosa diceva di gente nei cunicoli?”

“Le miniere di magilite di Henne… credo intendesse quelle” ipotizzò Larsa “Nel Bancour, a sud di Ozmone. È una colonia imperiale, ci saranno soldati.”

“È un problema? In marcia.”

“Fran!” l’intero gruppo si voltò verso Vaan.

“Sì?” la viera lo squadrò insospettita.

“Mi chiedevo… sai, quel che ha detto quella Jote… che gli hai detto lo stesso cinquant’anni fa?”

“Il punto è…?”

Vaan alzò lo sguardo grattandosi la testa, come se cercasse qualche suggerimento sospeso a mezz’aria, e poi chiese perplesso: “Fran… quanti anni c’hai?”

Lei s’incamminò senza rispondere, e Ashe lo guardò male. Basch gli diede una pacca imbarazzata sulla spalla, mentre Baltier si avvicinò sospirando.

“Bel colpo, Vaan” commentò sconsolato.

“Sorprendentemente maleducato” commentò Larsa a metà tra divertimento e disapprovazione.

“Cresci, per piacere!” lo sgridò Penelo, andandosene.

Dopo la gaffe non gli restò che mettersi al seguito del gruppo con aria contrita.

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All’inizio le era sembrato un grande uccello, più grande di come li avesse mai visti. Poi si era resa conto: si trattava di uno dei costrutti con cui gli huma s’ingegnavano a cavalcare nel cielo, sfidando le leggi naturali.

Ma, come spesso accadeva, la natura si dimostrava più sapiente della scienza, e il cielo restava agli huma precluso: l’aeronave, avventuratasi nello Jagd probabilmente per errore, precipitava lentamente mentre la sua corazza artificiale fremeva e scoppiettava, la sua anima finta creata dagli uomini era resa folle dal myst dello Jagd.

Fran decise che aveva fissato l’aeronave fin troppo a lungo; si lasciò cadere alle fronde sottostanti, l’intera Giungla di Golmore sembrava in fremito, gli animali urlavano per la paura e fuggivano dalle tane, percependo la minaccia imminente. Cercò Jote con lo sguardo.

La trovò, stava pregando sulla carcassa di un molboro. Probabilmente la creatura si era allarmata come tutte le altre ed era incappata in Jote, che aveva dovuto ucciderla prima di subire il suo potente veleno; i tagli regolari, inflitti da precise lame d’aria che non lasciavano traccia, erano proprio la firma di sua sorella, eccezionale nel manipolare il vuoto con la magia nera.

“Jote!” chiamò, ma la sorella non interruppe la breve cerimonia che una viera deve dedicare ad ogni vita che spezza.

“Jote!” chiamò ancora.

“Lo so” reagì lei, concludendo il rituale toccando il corpo della sua vittima.

La terra iniziò a tremare: era il chiaro segno dell'impatto. Jote mantenne la calma: la Parola Verde impone di non temere la morte, conclusione necessaria del proprio ciclo vitale. Fran raggiunse la sorella e fissò per un attimo il povero molboro, vittima innocente delle circostanze.

“Mi spiace” commentò, e Jote annuì: uccidere ciò che non si deve mangiare era considerato un segno negativo dalle viera più anziane, e di lì a breve ci sarebbero state le competizioni per determinare chi era degno del sacerdozio, a cui Jote teneva molto; poteva portarle sfortuna.

“Andiamo a vedere” continuò Fran.

“Dobbiamo tornare al villaggio e dare l'allarme” si oppose l’altra.

“Voglio andare a vedere!” e dopo averlo detto, lo mise in pratica senza attendere risposta.

Jote si gettò d’istinto all’inseguimento della sorella con una punta di inconfessabile soddisfazione: anche lei voleva vedere quella strana cosa volante, se qualcosa ne era rimasto, ma non voleva disobbedire agli usi della loro gente; tuttavia, inseguire Fran costituiva una valida scusa per farlo.

Dopo ore di salti tra un ramo e l’altro, raggiunsero finalmente il relitto. Fu una delusione: trovarono ben poco oltre fiamme e metallo che cedeva, e devastazione per chilometri di giungla.

Fran cercò spasmodicamente degli huma che fossero sopravvissuti, ma nessuno era uscito dalla carcassa, che emanava un odore insopportabile di plastica bruciata, l'orrida sostanza che gli huma usavano per mille applicazioni dopo aver profanato il sangue nero del sottosuolo per poterla produrre. Quel tanfo venefico consumò velocemente la curiosità di Jote, che insistè fino a convincere la sorella a tornare al villaggio.

In serata, con le altre sorelle avrebbero osservato dall'alto di Eruyt le colonne nere che si ergevano dal solco scavato dall'aeronave, una ferita di fumo e brace nel verde di Golmore, che la giungla avrebbe impiegato anni a risanare.

Mjrn, la loro sorellina più piccola, osservava tenuta per la mano dal loro padre, che insisteva per riportarla a casa dove avrebbe preparato la cena per le numerose sorelle. A differenza di altre piccole viera, non pianse nemmeno una volta, e nel corso della cena pose numerose domande a Fran e Jote.

Jote non dimenticò mai la quantità di vite di huma e animali che era stata stroncata in pochi secondi senza alcun motivo giustificabile, salvo l'insaziabile desiderio degli huma di trascendere i propri limiti. In quei mesi maturò la determinazione di proteggere il villaggio dai mali del mondo esterno, distinguendosi sempre più come una delle migliori candidate per il sacerdozio.

Ma se dopo quell’episodio l’interesse di Jote per il “mondo esterno” mutò radicalmente, avrebbe presto scoperto che quello di Fran invece, cresceva di giorno in giorno.

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L’ingresso di Henne non era troppo diverso dagli interni delle miniere di Lhusu: ampie pareti irregolari di roccia sembravano contenute a stento dalle travi e impalcature, segno che la civiltà aveva dovuto costringere il sottosuolo ad accettarla con un lavoro lungo ed estenuante. Le rocce, però, non splendevano come un cielo stellato com’era a Lhusu, la magilite era stata a lungo sfruttata fino quasi ad esaurirla, e restavano appena poche venature di magia giallognola che si arrampicavano come arbusti ricurvi lungo le pareti.

Ma l’aria stanca e prosciugata non era certo la cosa più inquietante. Corpi di soldati e ricercatori erano stati schiantati qua e là, frantumati contro travi ammaccate dal forte impatto che li aveva sbalzati, spezzati come bambole rotte, graffiati da qualcosa di feroce. L’ingresso era stato teatro di una carneficina.

Larsa si chinò verso i suoi concittadini con aria affranta. Nessuno di loro dava un seppur minimo cenno di vita. Nessuno di loro, pensava il giovane Solidor, avrebbe mai rivisto la propria casa. Chiuse gli occhi ad uno dei ricercatori, che li aveva tenuti spalancati con espressione indifferente, probabilmente era stato ucciso con un colpo al collo prima di capire cosa stesse succedendo.

“Ricercatori dei Draklor Labs… cosa facevano qui?”

“Ricerche” commentò cinicamente Balthier.

Ashe si avvicinò ad una venatura sul muro, che sfumava dal giallo al verde smeraldo. Percorse col dito le sue volute simili a rampicanti, persa nei suoi pensieri. In quel preciso momento, qualcosa le gocciolò sulla guancia, e avvertì un odore di frutta troppo intenso per essere naturale.

“Ehm… Ashe?”

La principessa alzò lo sguardo paralizzata, senza ascoltare Vaan che la chiamava. In quel preciso istante Basch la prese in braccio con uno scatto e si gettò di lato, prima che una massa fluida si schiantasse a terra.

Altre due colarono a terra nello stesso punto. Le gelatine verdastre si sollevarono cambiando lentamente forma. A Vaan venne quasi da vomitare: avevano assunto l’aspetto di una statua di cera che, nello sciogliersi, cercava disperatamente di mantenere una forma umanoide. Sopra l’apertura appiccicosa che imitava una bocca, si schiusero una moltitudine di occhietti acquosi che a Vaan ricordavano quelli di un polipo.

Il braccio di una di quelle cose si allungò, la sua estremità prese la forma di un’ascia che fu evitata dal collo di Vaan con un pronto balzo all’indietro. Il biondo scattò in avanti per contrattaccare, e in quell’istante una delle creature balzò a sua volta, si espanse in aria fino a prendere la forma di una membrana, e intercettò Vaan come un tappeto gommoso rimandandolo a terra. Nell’atterrare su di lui prese la forma di un compatto cilindro che evitò rotolando a destra, mentre il pavimento roccioso sotto di lui veniva frantumato dal colpo.

Arrancò per avvicinarsi al resto del gruppo. Con la coda dell’occhio vide Basch spappolare il terzo mostro con un poderoso fendente mentre reggeva la principessa in spalla con l’altro braccio, ma i due pezzi divisi fremerono un po’ per poi prendere le forme di due mostri identici al primo. Basch non si fermò neppure un istante a riflettere e corse anche lui verso gli altri sei.

Vaan si rese conto di emanare un fortissimo odore di cedro.

“Cosa sono?” chiese Penelo mentre correva ad afferrarlo per le spalle.

“Budini” illustrò Fran pazientemente “dovreste conoscerli – voi huma li cacciate per mangiarne le membra come dessert. Deve averli attirati una grande forza magica.”

“Grazie della lezione, utile come sempre! Fa qualcosa!” mentre il ragazzo si avvicinava agitato a Fran, Balthier lo fermò mettendogli disinvoltamente una mano sulla faccia.”

“Sono liquidi, è inutile usare la forza bruta…”

Come impensieriti dal numero degli avversari, i budini arretrarono un attimo. Poi si sovrapposero l’uno all’altro fino a prendere riprendere la forma di un’unica creatura grande il quadruplo. La creatura sembrava sforzarsi per mantenere una forma coerente.

“Penelo, mia cara” fece Balthier “ti apprezzerei, se possibile, più di quanto ti apprezzo già, se ci usassi la cortesia di stupirci con i tuoi talenti magici.”

“I-io? Ma-”

In quell’istante la cosa prese la forma di un unico grande tentacolo che schioccò come una frusta andando a trafiggere il cranio di Balthier, ma in quell’istante cerchi magici d’avorio la circondarono come a ingabbiarla, ruotarono mutando colore in verde, e il tentacolo s’immobilizzò perdendo colore fino a diventare nero. Gli altri riconobbero l’effetto della magia che fermava il tempo.

Balthier osservò la punta, a pochi millimetri dal suo occhio, e commentò: “Un intervento provvidenziale, principessa.”

Ashe sembrava stringere l’aria stessa tra le mani, con aria concentrata: “Non durerò a lungo.”

“Uhm… dunque…” Penelo sembrò indecisa per un attimo.

“Il colore indica che è affine all’aria, quindi subisce l’azione consumante del fuoco” illustrò Fran, e Penelo non se lo fece dire due volte.

Ma appena colpita da una minima fiamma magica, la massiccia gelatina sembrò ribollire dall’interno e scoppiare in grosse bolle di cui restava solo gas. Con un minimo attacco magico, la creatura sembrò soffrire mostruosamente e disintegrarsi fino alla completa sparizione.

“Wow, Pen” commentò il biondino stringendola con un braccio, a cui lei rispose con un sorriso imbarazzato.

“Cos’hai da ridacchiare tu?” indicò il pirata, rivolto a Larsa.

“Nulla. Vi trovo solo molto migliorati… come squadra, intendo” si complimentò il giovane Solidor.

“Commovente” minimizzò Balthier “piuttosto mi viene da chiedermi che razza di fonte di magia può averli richiamati. Non escono facilmente dal sottosuolo.”

“Ho idea che lo sapremo presto... e senza troppo entusiasmo” commentò Fran, incamminandosi nelle profondità di Henne.

“Non può mai parlare esplicitamente?” si lamentò Vaan.

Balthier strinse le spalle: “Da quando la conosco sto ancora aspettando che succeda.”

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Il risveglio fu lento e piacevole. Pian piano si abituava alle camere d’albergo degli huma –o, in questo caso, costruite da moguri per ospitare gli huma- e il senso di costrizione lasciava spazio alla curiosità per i mille comfort che i capricciosi huma s’ingegnavano a procurarsi.

Portò il suo corpo completamente nudo alla finestra. Sotto, si allungava il paesaggio di Moag, la città dei moguri.

Un labirinto di muri spigolosi, alti, e lucidi come specchi, grigi e marmorei; le luci che venivano dal fondo delle mura, tanto alte da non lasciar vedere il fondo, splendevano di vita al punto da far credere che la città intera fosse avvolta da un fuoco multicolore. Dalle fondamenta si alzavano i rumori meccanici degli automi che i moguri costruivano in continuazione a imitazione degli esseri viventi, intrecciando tecnologia e magia. Malgrado ciò, l’aria era pulitissima e su molti balconi spiovevano piante fiorite. A confronto dell’avanzatissima scienza dei moguri, le macchine degli huma sembravano imitazioni grottesche.

Lontano, all’orizzonte, dove il cielo era coperto da una cappa scura, s’intravedeva una linea di luce arancione: l’eruzione perenne del Vulcano Roda, che si erano lasciati alle spalle mesi fa assieme alla cocente delusione che lei aveva trovato nel Feol Warren, ai suoi piedi. Si trovava a pensare che a parte il suo nuovo compagno di viaggio non aveva niente e nessuno; ma si sorprendeva, dentro di sé, felice di questo.

Pensando al suo compagno, lo cercò nell’appartamento; guardava allo specchio il nuovo volto dai capelli più corti, sbarbato, privo di occhiali.

“Socia, sono assorbito da una meditazione su temi di capitale importanza…” si espresse col gesto di percorrere le guance con le dita “…sulle basette. Pensi che mi starebbero bene?”

Lei si appoggiò, nuda, sul muro per guardarlo di sbieco. Lo squadrò senza parlare.

“Noto che anche a te serve molto tempo per ponderare la faccenda. Questo è giusto. Inoltre… considerate le influenze rozarriane nel mondo dell’alta moda, credo che ci darò un taglio con il rosso e mi dirigerò magari su colori dorati, che ne pensi?”

Di nuovo non rispose subito, poi chiese placidamente: “Stai cambiando il tuo aspetto per somigliare meno a qualcuno?”

Dal poco tempo che si conoscevano, era già diventata una consuetudine che lei lo cogliesse in contropiede con le sue osservazioni. E il suo evitare di rispondere con un sorriso era altrettanto abituale.

“Vorrei dirti che non mi ero accorto di quanto sei bella, ma sarebbe falso. Quindi ti salterò addosso senza le dovute frasi preparatorie, sempre se non hai nulla in contrario.”

“Pensavo ti fossi stancato... sono ore ormai…”

Il sesso tra huma e viera era stata una scoperta per entrambi. Ma entrambi si divertivano a provocare l’altro, a fingere che solo l’altro volesse. Entrambi preferivano anche fingere d’ignorare quanto cercassero non l’incontro di due corpi, ma il conforto tra due anime ferite.

“Tutt’altro. La tua… passionalità… mi lascia sbalordito. Per una popolazione di sole donne, poi…”

“Non siamo… esattamente un popolo di sole donne. Circa ogni cento viera c’è un viera maschio. Più che altro stanno sempre a casa perché sono inadatti alla caccia e ai compiti dei sacerdoti. Assicurano la continuazione della specie accoppiandosi con molte viera.”

“Dev’essere una gran bella vita…” commentò lui allontanandosi dallo specchio.

“Per nulla. Consideriamo ben poco i maschi, e a tutti gli effetti siamo una società di sole donne in quasi ogni aspetto.”

“Un po’ incivile.”

“E la maggioranza degli huma che considerazione ha delle vostre donne?”

“Giudizio tagliente, ma corretto” ribattè sedendoti ad un tavolo pieno di appunti “Continuo a chiedermi come fai a sapere così tanto di noi huma…”

“È la Parola Verde… ma forse non capiresti anche a spiegartelo. Cosa fai adesso?”

“Bè malgrado voi viera consideriate i maschi dei buoni a nulla, posso assicurarti che i maschi huma non sono molto meglio. Se lavoro abbastanza a questi progetti, forse potrò nascondere al nostro futuro socio che sono un buono a nulla a mia volta… e forse avremo finalmente un meccanico capace di assicurare la salute presente e futura della nostra nave.”

“Non credevo i moguri fossero così esigenti.”

“Sono cortesi e giocherelloni quanto basta per nascondere che ci considerano dei minorati mentali. Un moguri dev’essere molto impressionato da uno huma per decidere di farci società.”

“Tra parentesi, non ho detto di voler essere tua socia.”

“Lo so. Mi sto preparando al momento in cui infine lo dirai.”

“E se dovessi invece dire il contrario?”

Per la seconda volta da quando si conoscevano gli vide addosso quell’espressione dolceamara. “In quel caso ho un piano di riserva: morire di disperazione. Tu invece, che farai quando ci separeremo?” lo chiese continuando a sorridere.

Lei sorrise di rimando: “Nel caso ci separassimo, avevo anch’io in mente un piano di quel genere.”

Adesso sorridevano entrambi.



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Come qualcuno di voi avrà capito, c'era un motivo molto serio per il mio silenzio. Ovverosia, Final Fantasy XIII. Ritorno a scrivere con la solita solerzia, o magari con una punta in più.

Magari qualcuno noterà ne numerose citazioni, allusioni e ricerche su Final Fantasy Wiki servite per scrivere questo capitolo. O magari no.

Ci sentiamo (leggiamo), magari prima di quanto credereste!

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Capitolo 33
*** Bilancia ***


La chiamò e la chiamò ancora.

 

Ma sua sorella continuò a correre per i cunicoli senza ascoltarla – sebbene “correre” fosse un verbo inadeguato per i movimenti scomposti di Mjrn, paragonabili solo a quelli di una marionetta il cui burattinaio fosse in preda a violente convulsioni. Come trascinata da una forza invisibile che non rispettava l’integrità stessa di quel corpo, Mjrn schizzò qua e là addentro le profondità di Henne, avvolta da un manto di myst denso come Fran raramente ne aveva visti.

 

Balthier e gli altri la raggiunsero a fatica, l’avevano persa nel momento in cui aveva visto sua sorella con la coda dell’occhio.

“Il fetore degli huma. Del potere.”

 

La voce della sua dolce sorellina era irriconoscibile, sovrapposta a un coro di voci maschili e femminili che sembravano venire da un altro mondo.

 

Ashe si portò accanto a Fran, in apprensione: “Cosa le accade?”

 

Mjrn, o qualunque cosa fosse, sgranò gli occhi con orrore e indicò la principessa urlando: “Stà lontana, huma ingorda di potere!”

Basch si frappose tra l’indice di lei e la sua principessa, ma non sguainò la spada: si voltò verso Fran come per chiedere conferma. E in quel preciso momento il corpo di Mjrn si mosse di nuovo come una bambola afferrata per i capelli e corse a zig-zag verso il fondo di un tunnel.

 

“Mjrn…” Fran sembrò riprendersi dallo stupore e guardò il capitano.

 

“Vostra sorella… non le torcerò un capello in più o in meno di ciò che dite voi.”

 

“Mjrn…” la nota affranta nella voce di Fran colse tutti di sorpresa “…io… non lo so… non so cosa le prenda.”

 

Balthier armeggiò un po’ con il marsupio che portava sul fianco. Tirò fuori quattro cilindri lunghi color oro che Vaan non aveva mai visto, li strinse tra un dito e l’altro e poi li mise davanti al volto di Fran.

 

“Ricordati, socia, che sono il protagonista di questa storia. Questo è proprio il tipo di situazioni che il protagonista risolve con un lieto fine insperato lasciando tutti di stucco.”

 

A Vaan sembrò proprio un ottimo momento per rivoltargli la faccia con un ceffone, era il genere di reazione che riusciva bene ad Ashe; e puntualmente costei si mise davanti al pirata con aria sdegnata.

 

“Ti sembra il momento di esibire la tua vanità?”

 

“Ha ragione” la contraddisse incredibilmente Fran sorridendo “ce la farà. Sicuro che cinque basteranno?”

 

“Ne basterà una. O metti in dubbio la mia mira? Che ribalderia! Avrai modo di scusarti dopo.”

 

Corsero entrambi verso il tunnel buio dov’era sparita Mjrn, con inspiegabile buonumore.

 

“Ma che gli prende?” si domandò Penelo con aria smarrita.

 

Ma Vaan invece di risponderle gli corse dietro: “Voglio proprio vedermela tutta questa!”

 

“Bè…” esordì Larsa con un sorriso gentile “È meglio che noi sani di mente non restiamo separati dal gruppo.”

 

“Già” confermò Basch apprezzando la battuta.

 

In quel preciso istante però, le pareti iniziarono a tremare, e con un rumore di legno spezzato una trave cadde ad ostruire il passaggio.

 

“Bella disdetta, un terremoto proprio adesso” osservò Larsa.

 

“Non è un terremoto” corresse la principessa “ma qualcosa di peggio. Conosco la sensazione.”

 

Dietro di lei Belias, il Gigante-Stregone, prendeva forma manifestando agitazione.

 

“Il passaggio è bloccato, che si fa?” la voce di Penelo tradiva la sua preoccupazione.

 

“Basch, cerchiamo di spostare i detriti” ordinò Ashe, mentre l’esper si preparava all’opera.

 

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Vaan non seppe dire quanto aveva corso praticamente al buio, due o tre volte aveva rischiato d’inciampare rovinosamente. I commenti dei due pirati riecheggiavano distorti e incomprensibili per le pareti di roccia, fin quando la luce delle lanterne non iniziò ad affacciarsi dal fondo.

 

Arrivò nel grande spiazzo che costituiva probabilmente una venatura di magilite completamente esaurita. Fran e Balthier erano in piedi, immobili, mentre Mjrn continuava a muoversi in una danza inumana.

 

“È difficile centrarla…” riflettè Balthier ad alta voce mentre cercava faticosamente di seguire i movimenti con la canna del fucile “…il che renderà ancor più significativo il tiro magistrale che seguirà.”

 

Fran ribattè con un ghigno: “Sento parlare ma non vedo sparare.”

 

“Ma che cavolo combinate voi due?”

 

In quel preciso istante il corpo di Mjrn si fermò, e un’ampia apertura luminosa comparve sotto i suoi piedi, una forma circolare che aveva centro nel palmo di lei, ben poggiato a terra. Balthier rimase interdetto dall’imponente figura che stava venendo fuori dal cerchio, e arrivò addirittura ad abbassare l’arma. Fran perse ogni minima traccia di allegria.

 

“Fermati! Mjrn! Non puoi!”

 

La vibrazione magica fu tale che a Vaan sentì una sensazione di solletico. Poi, quella familiare percezione d’irrealtà che accompagnava la comparsa di un esper. Pezzi di cava vennero giù, e anche dall’entrata arrivò l’eco di un crollo.

 

“Socia, da uno a dieci, quanto è brutta la situazione? …Fran? …così brutta?”

 

La viera continuava a fissare la figura. Poi, semplicemente, si inginocchiò.

 

Davanti a lei stava la figura di un vecchio barbuto con ampie corna, interamente formata da rami secchi, rovi, sterpaglie e radici. Il suo corpo sembrava infestare un macchinario antico di metallo dorato, nel cui nucleo pulsava di un bagliore smeraldino; a Vaan ricordava una grossa bilancia, più sofisticata di qualunque ne avesse mai visto nella bottega di Migelo. Sembrava cercare di contenere nei suoi piatti due massi incandescenti, che tremavano costantemente come se scalpitassero.

 

Nessun esper traspirava quanto questo una sapienza perduta e ancestrale, ma anche una follia insondabile e oscura. Vaan e Balthier rimasero incerti sul da farsi, mentre Fran non osò alzare il capo.

 

“Salute, totem del popolo viera, Exodus di Libra, l’Arbitro, albero sacro di Salika, maestro di meteo e comet. Su di noi pende il tuo equo giudizio: che sia fatto il tuo volere.”

 

Persino Vaan sapeva cosa fosse un totem, la divinità tutelare che gli dei antichi, nelle leggende, legavano ad un popolo imponendogli di servirlo. I bangaa, i viera, i numou, gli huma e i moguri avevano tutti ricevuto un totem.

 

Exodus iniziò a muovere le mani come se dirigesse un concerto. I frammenti di roccia si scatenarono in bruschi movimenti che sbilanciarono il macchinario per intero.

 

“Fran-” chiamò il pirata, confuso.

 

La voce di Balthier si perse nel nulla, e così la sua figura. A Vaan sembrò quasi che ogni elemento del mondo come lo conosceva volasse via spargendosi al vento, come una foglie secche. L’ultima cosa che vide fu Fran, ancora a testa bassa.

 

“Non muoverti, non muoverti per nessun motivo.”

 

“Cosa?”

 

“Rimani immobi-” anche lei, e la sua voce, scomparvero.

 

Vaan era in un luogo che non aveva mai visto: una distesa di pietra grigia massacrata da innumerevoli crateri circolari, intervallata da chiazze di alberi scheletriti piegati uniformemente –in tutta evidenza- da violente esplosioni. Qua e là il calore aveva mutato il terreno in un cristallo violaceo e acuminato. Il cielo era percorso da più comete di quante il ragazzo ne avesse visto in tutte le notti della sua vita, e non solo il cielo: qualcuna piombava giù, andando a infrangersi da qualche parte in lontananza generando violenti rumori e spostamenti d’aria; due volte, sferzate di polvere rovente arrivarono fino alle guance di Vaan.

 

Girandosi intorno, distinse una rupe aguzza in lontananza: sotto di essa il cielo sembrava curvarsi. E nella cima, distinse ancora l’esper del segno della bilancia, Exodus, che armeggiava scompostamente. Fran l’aveva chiamato “maestro di meteo e comet”, nomi che aveva sentito tanto tempo prima nelle storie del vecchio Dalan: forze indomite che neanche i maghi neri più esperti padroneggiavano senza problemi.

 

Gli venne da chiedersi per quale esatto motivo un meteorite non arrivava esattamente sulla sua testa, obliterandolo dal creato: gli venne la nausea quando si rese conto che non ne aveva la più pallida idea. Poteva benissimo trattarsi di una clemenza del caso, in sostanza di semplice fortuna.

 

Per quasi un intero minuto non fece che rimanere immobile, come gli aveva detto Fran, eccetto gli occhi con cui cercava qualsiasi cosa che fosse familiare in quel mondo alieno. Poi si rassegnò, dentro di lui si combattevano l’euforia per la situazione incredibile e il terrore di non avere alcun controllo sulla sua vita o sulla sua morte.

 

Portò gli occhi all’esper: i suoi gesti raggiunsero un climax, e s’inarcò all’indietro come fosse all’apoteosi di un’esibizione impareggiabile. In quell’esatto istante si ritrovò nella miniera, con Fran e Balthier accanto, e Mjrn sul fondo della cava; per il totale disorientamento cadde seduto a terra, mentre notava la scomparsa di Exodus, svanito nel nulla assieme al mondo in cui li aveva, per pochi istanti, trascinati tutti e tre.

 

“Presa!” Balthier fece fuoco, centrando in pieno petto Mjrn.

 

Il proiettile generò uno scoppio di luce color limone che si suddivise in molteplici filamenti, come una rete. Questa si chiuse, bloccando il corpo di Mjrn e i suoi movimenti scomposti e legandola ben stretta

 

“Un capolavoro di scienza alchemica, richiede anni di preparazione… e viene sparato in poco meno di un secondo! Ah, è appropriato: così è la bellezza, così è il genio, ineffabile e fugace” poi si voltò verso Fran e aggiunse “mi devi da bere socia. Portiamo a casa la tua scapestrata sorellina.”

 

Mjrn sollevò la testa e parlò ancora con la sua voce ultraterrena: “Famran!”

 

“Come?” chiese Vaan, gli occhi fissi su quelli della viera, che sembravano attraversarlo.

 

“Famran! Perché rifuggi il tuo destino?”

 

“Io non mi chiamo Famran..: io…”

 

“Ti nascondi dietro un nome non tuo, falso come la tua identità, rinnegando il tuo destino. Rifiuti la grandezza che ti spetta. Lasci soli coloro che hanno bisogno del tuo aiuto!”

 

“Non capisco di cosa parli!”

 

La voce prese quasi una nota di tristezza: “I tuoi sogni come pirata… preferisci render vere le tue fantasie infantili che adempiere al tuo ruolo nella storia di Ivalice?”

 

“Il mio ruolo nella storia…?” dopo aver ripetuto quelle parole, restò in silenzio.

 

“Famran! Tu…!”

 

Un secondo sparo, e un’esplosione ai piedi del corpo imprigionato di Mjrn generò sbuffi di fumo colorato, una festa di rosa salmone, azzurro ghiaccio, cobalti e violetti che avvolse l’esile viera. Subito dopo averla respirata, crollò a terra in un sonno artificiale e profondo. Balthier lasciò cadere la cartuccia con una insolita espressione gelida.

 

Nello stesso istante gli cadde di mano una grossa pietra scura che Vaan riconobbe subito come negalite artificiale, la quale si sbriciolò con facilità innaturale. Come vapore da una teiera che si spacca il myst uscì libero dai frammenti e prese forma.

 

Era una figura ultraterrena, dissimile da qualsiasi cosa che appartenesse al mondo di Ivalice, il mondo che Vaan conosceva. Il corpo sembrava scolpito in grezzo cristallo nero, con finissimi intarsi che si avvolgevano in volute e spirali, così da sembrare al contempo qualcosa di assolutamente naturale e mai toccato da mano umana, quanto un’opera d’arte meticolosamente studiata. Era privo di braccia e gambe, come fosse stato creato per fluttuare, e se aveva un volto era coperto dall’ombra di un’apertura simile al cappuccio di una tunica incoronato dalle forme di due ali. Dalla tenebra sotto il cappuccio scolpito nella pietra si distinguevano solo due globi di luce tondi, due occhi che splendevano indifferenti.

 

 

 

Fu un’ attimo, in cui squadrò tutti loro con quegli occhi inumani. Poi anche quella cosa svanì nell’aria.

 

“Scusate, non ero in vena di sermoni” si spiegò Balthier rinfoderando il fucile “e poi sembrava strapazzata. Una dormita le farà bene.”

 

“Cos’era quella cosa… che aveva dentro?”

 

Il pirata strinse le spalle, anche Fran scosse la testa mentre si metteva al capezzale di Mjrn.

 

“È stata quella cosa a dire quelle parole, Vaan… e a dirmi che sono ingorda di potere” concluse Ashe, che doveva essere apparsa alle loro spalle pochi secondi insieme a Penelo, Larsa, e ovviamente Basch.

 

Quest’ultimo la guardò con apprensione, ma badò a non farsi sorprendere appena la principessa cercò a sua volta i suoi occhi.

 

“Ha parlato di me… del mio nome… del mio destino… che cavolo significava quella roba?”

 

“E chi lo sa?” tagliò corto Balthier.

 

“Come sarebbe… ecchilosà?” sbottò il ragazzo “Se tu fossi destinato a qualcosa di grandioso, non vorresti saperlo?”

 

“Ma io so già di essere destinato a grandi gesta. Sono il protagonista.”

 

“Tu hai sempre pensato comunque di essere destinato a qualcosa di grandioso, giusto Vaan?” osservò scetticamente Penelo.

 

“Tanto meglio! Voglio sapere cos’era quel coso volante!”

 

“Lo chiederemo a lei appena si sveglia” suggerì Larsa, riferendosi alla viera dai capelli corti che Fran teneva amorevolmente tra le braccia.

 

“Sei tu?”

 

Mjrn aveva aperto a fatica gli occhi per distinguere appena la sorella, che annuiva. Subito dopo, con un sorriso, piombò ancora nel sonno profondo.

 

 

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Il soporifero alchemico di Balthier cessò i suoi effetti dopo circa un’ora. Dopo che tutti l’avevano aspettata impazientemente, come un parente ammalato di cui si aspetta la diagnosi, finalmente Mjrn fu completamente sveglia.

 

A quel punto dedicò delle occhiate interrogative al gruppetto, intuendo che si trattasse degli amici huma di sua sorella. Dopo un po’ di doverose presentazioni, fu abbastanza in sé da trascinarla fuori dalla cava, fino ad una galleria molto ampia che sembrava più sicura.

 

Dopo un paio di domande sulla sua salute, Fran si decise a chiedere come era arrivata lì. Mjrn ci mise un po’ a rimettere assieme i ricordi, prima di iniziare a parlare.

 

“Quando i soldati huma attraversarono la foresta, il villaggio ne mostrò scarso interesse… fintanto che la foresta stessa non ha nulla da temere, a noi viera poco importa cosa succede nel mondo esterno. Ma in me cresceva il disagio… volevo sapere perché erano venuti…”

 

“Quindi sei venuta qui per saperne di più, e ti sei fatta acciuffare” riassunse Balthier, e al cenno affermativo di Mjrn aggiunse “sei spericolata come tua sorella.”

 

Fran e Balthier si scambiarono un sorriso complice.

 

“Quindi mi hanno presa, e mi hanno sistemato vicino una pietra… hanno detto che il myst sarebbe fluito in me, che le viera sono adatte a questo… allora ho visto la luce venire dalla pietra, e-”

 

“Lo abbiamo visto già” interruppe Fran “Sulla Leviathan, il Frammento d’Aurora ha portato anche me a tale furia… ma lei non è stata presa dal Frammento d’Aurora…”

 

“Negalite artificiale” annuì Larsa “ma questo significa… Penelo, hai ancora la pietra che ti ho regalato?”

 

In risposta al tono stranamente allarmato del giovane, Penelo infilò una mano nel fagotto di Vaan, ed estrasse la pietra geometricamente squadrata, di color blu scuro: “Sicuro, eccola…”

 

“Questa cosa è pericolosa persino oltre ciò che pensavo. Non avrei mai dovuto dartela. Perdonami, non lo sapevo.”

 

Penelo gli sorrise per confortarlo: “L’ho sempre considerato una specie di portafortuna. E se anche è pericolosa, sul Leviatano ci ha protetto.”

 

Ashe ripensò alla massa di fuoco evocata da Ghis, che era stata risucchiata dal Leviatano giusto prima che li obliterasse. Poi diede voce ai suoi pensieri.

 

“C’è uno scopo per ogni cosa, anche per oggetti tanto pericolosi.”

 

Basch rabbrividì alla sottile ma percepibile nota di bramosia nella voce della principessa. Coloro che desiderano la pietra sono a loro volta da essa stessa desiderati, così aveva detto il Gran Capo Garif. Evidentemente la pietra aveva ancora presa su di lei.

 

“Sì, bè, speriamo tu abbia ragione” liquidò Vaan distrattamente.

 

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Il morbido verde di Ozmone, e i relitti metallici che riposavano tranquilli accogliendo il rumore del vento, fecero prendere aria al gruppo, appena uscito dalle miniere. Marciarono per qualche ora, Fran teneva sempre Mjrn a spalla, e lei faceva svariati tentativi di camminare da sola, ciascuno dei quali si interrompeva bruscamente quando constatava che non aveva ancora il pieno controllo delle sue gambe.

 

Dopo un po’ decisero di fermarsi all’ombra di un grosso motore schiantatosi dentro un crepaccio e ormai ricoperto di edera. Stesi all’ombra, per un po’ non dissero nulla e gustarono i rumori naturali della pianura, e quelli dei loro pensieri.

Vaan riprese a pensare alle parole dell’entità misteriosa. Gli davano un autentico senso di gioia: aveva sempre pensato di essere destinato a qualcosa di più della sua misera vita da ladruncolo e ora, seppur non sapendo bene in che modo e perché, ne aveva avuto conferma. Ripensò a quello che aveva detto ad Ashe a Jahara – che le sue fantasie erano solo una fuga, che la morte di suo fratello, la sua impotenza, ogni cosa gli era ancora insopportabile. Ma adesso aveva in mano qualcosa, seppur minima, che era concreta e reale. Un’apparizione che tutti avevano potuto vedere ed udire, che affermava che lui avrebbe cambiato il mondo.

 

Penelo ripensò alla bottega di Migelo, a Migelo stesso che li aveva accuditi, alle sue amiche. Era passato poco tempo, eppure sembrava così tanto, da quando era solo una giovane aiutante rabanastrese con l’hobby segreto e pericoloso di studiare gli incantesimi. Allora era convinta che aprire certi libri fosse la cosa più rischiosa che avrebbe mai fatto e invece solo l’affetto per Vaan era bastato per arrivare fino a quel punto, stupendo più di tutti sé stessa.

 

 

Ashe ripensò a Rasler e ai segni che l’avevano guidata fino a quel punto. In pochi mesi lei e le persone che la accompagnavano avevano visto cinque esper, e tra questi due totem, Adrammelech ed Exodus, ed era certa che nei giorni a seguire sarebbero, per una ragione o per un’altra, incappati nei rimanenti. Erano segni e, come tali, erano prova di un destino, le tracce che gli dei le avevano posto davanti e che si schiudevano l’una dopo l’altra dinnanzi ai suoi occhi. Aveva perso ogni affetto, poi il suo esercito, il suo uomo di fiducia, il potere della Negalite che era suo di diritto. Ma finchè poteva credere che facesse parte di un cammino verso la giusta conclusione, allora era giusto.

 

Basch ripensava a Noah, al morbo chiamato vendetta che affliggeva suo fratello e che un tempo aveva divorato lui, e che certamente insediava ad ogni momento, ad ogni secondo la ragazza fragile e disperata che aveva giurato di proteggere, tentando di farle perdere sé stessa. A Vossler, che aveva voluto a modo suo spezzare quel circolo vizioso di odio e morte, e aveva fallito, e infine alla fede, la sua scelta consapevole di credere in Ashelia B’Nargin Dalmasca, che gli aveva fatto scegliere di difendere lei da Vossler e non viceversa. La fede non richiedeva ragionamenti o elucubrazioni: solo la forza della convinzione.

 

 

Balthier ripensava al suo passato, e subito si dirigeva su altri pensieri. Su Fran, sulla prima volta che avevano fatto l’amore, su Ashe e –gli era lecito sperare- la prima volta che lo avrebbe fatto con lei, sulle donne che aveva avuto prima e dopo Fran. Imprese ancora da compiere, sfide ancora da lanciare, beffe ancora da ideare, piatti da gustare, donne da conquistare. Qualsiasi cosa che potesse distrarlo, qualsiasi storia non fosse la sua vera storia, il suo vero nome, e la persistenza con cui, dall’inizio di quella avventura, il suo passato lo stava lentamente risucchiando verso di sé.

 

Fran e Mjrn si riposarono l’una sulla spalla dell’altra, come da tanto tempo non succedeva e probabilmente, pensò Fran, non sarebbe accaduto più. Sì, ne era convinta – avrebbe rifatto le stesse scelte che l’avevano portata a quel punto, a quel momento. E tuttavia, era anche consapevole di quanto aveva perso. Ma anche di quanto aveva guadagnato: qualcuno che potesse comprendere la sua solitudine e condividerla, ma anche qualcuno che, come lei, era pronto a viaggiare, a scoprire l’ignoto, a riscoprire sé stesso, a rimettersi in gioco. Qualcuno che valeva la pena seguire in questa avventura non sua.

 

 

 

 

 

 

Larsa ripensò a suo padre, suo fratello, e alla sua cara Drace. Ciascuno di loro si sarebbe battuto per la propria idea dell’Impero e per la sua idea del mondo, insomma per la sua giustizia. Lui si ostinava a credere che tutto ciò potesse risolversi in un lieto fine per tutti loro, in un mondo dove ognuno avrebbe potuto vivere in pace. Ed era consapevole di quanto ingenuo potesse sembrare quella speranza, eppure era convinto che fosse proprio quel sogno irrealistico a dare la forza di rendere il mondo migliore a chi ci credeva.

 

Ciascuno lasciò vagare i suoi pensieri, e si riposarono quanto serviva. Alla fine fu Larsa a rompere il silenzio, rivolgendosi alla viera più giovane.

 

“Come vi sentite, Mjrn?”

 

Lei sorrise a quello huma tanto gentile: “Esausta. Ho evocato il totem della nostra gente, stento ancora a crederci; persino i nostri sacerdoti crollerebbero dopo uno sforzo simile. Di certo non avrei mai tentato di farlo, non volontariamente.”

 

Vaan si girò verso di loro: “Ecco, a proposito di questo, Fran… che accidenti è successo prima? Perché quel coso non è riuscito a ucciderci?”

 

“Exodus di Libra non vuole uccidere. Vuole solo giudicare. Egli conduce nella sua dimensione coloro che vuole giudicare, e li mette alla prova. Una prova che noi abbiamo saputo superare.”

 

“Cosa significa questo?” insistette Larsa.

 

Fu Mjrn a rispondere: “L’Arbitro fu creato dagli dei infondendo giudizio ad un albero sacro di Salika, perché nella sua sapienza secolare giudicasse e facesse ordine. Nessuno sa di preciso cosa gli sia successo dopo… qualcuno afferma che assorbì la malvagità del mondo che giudicava… o forse si rese conto che l’ordine perfetto era irraggiungibile nella mutevole realtà delle cose. Sia come sia, maturò l’ambizione di portare l’ordine assoluto: il nulla eterno e sconfinato, il Void. Per questa ambizione si ribellò agli dei che lo condannarono a subire il sigillo e, in seguito, ne fecero dono al mio popolo.”

 

“So che i sovrani degli huma ricevettero l’esper del segno dei pesci come totem” commentò Ashe.

 

Fran annuì: “l’acquario andò ai sapienti moguri, il capricorno ai coraggiosi bangaa, la vergine ai pii numou.”

 

“Ma non avete spiegato un accidente” si lagnò Vaan.

 

Fran ebbe una punta impercettibile d’impazienza: “Gli dei hanno punito Exodus conferendogli il dominio su meteo e comet… i poteri del caos assoluto, che colpiscono a caso, e risparmiano a caso. La legge dell’Arbitro Exodus è la legge del caos, proprio come il giudizio della giungla è affidato al caos; non può essere ingannato, convinto, sviato, intimidito o corrotto: il caos è equo. Questa verità paradossale rappresenta la maledizione degli dei, che lo ha condotto alla follia, ma per noi viera rappresenta il giudizio definitivo.”

 

“Insomma se ho capito bene… non siamo morti per puro caso?” insistette dando voce ai suoi sospetti.

 

“È un modo di intendere la cosa” assentì lei.

 

“Bella roba!” sbuffò il ragazzo “voi viera state proprio fuori.”

 

“Si può considerare un segno anche questo” considerò Ashe “e cosa significa stare proprio fuori?”

 

Vaan ignorò la domanda: “Sembri contenta, Ashe… ma per me tutto sto casino dei segni e delle profezie e del sangue reale… è proprio scocciante.”

 

“Prego?”

 

“Bè pensaci… siamo abituati a queste storie pazzesche, queste leggende… ma quanti di noi ci credono veramente?”

 

“A dire il vero noi viera… ci abbiamo sempre creduto” disse Mjrn, timidamente.

 

“Noi huma no… o meglio… non ci poniamo proprio il problema!”

 

“Temo che il punto non mi sia chiaro” rimarcò Ashe, senza però nascondere l’interesse.

 

“Sono un cesso con le spiegazioni…”

 

“Sei un… un che?”

 

“Ehm… cerca di dire che non è molto bravo!” s’interpose Penelo, evitando un ulteriore imbarazzo.

 

“Cerco di dirlo meglio… Le leggende sono leggende giusto? Non ci tocca di chiederci cosa succederebbe se fossero vere. Ma se esistono gli esper… se esistono gli Dei…”

 

“…allora non siamo padroni di nulla” chiuse Balthier, che era rimasto in silenzio.

 

“Dico, se qualcuno scrivesse la nostra storia per noi… che cavolata sarebbe!”

 

“Non capisco” fece Ashe, stupita “è proprio questa l’idea di fede, giusto? Che all’origine ci sia sempre una ragione per ogni cosa… che tutto sia parte di un grande disegno… questo predica il kiltias… no, qualsiasi religione! La fede ispira gli uomini, dà speranza, non la toglie.”

 

“La fede vive del dubbio. Se si perde il dubbio, se si tocca la prova con mano, cessa di essere fede e diventa schiavitù. E gli dei cessano di essere dei e diventano tiranni.”

 

Le parole di Balthier colpirono il giovane Larsa: “Sapete, ho già sentito queste parole…”

 

“Ho rubato la citazione, ma non ricordo a chi. Uno famoso? Un pirata di successo non può ricordarsi a quanta gente ruba!” tagliò sbrigativamente il pirata, ma a Larsa non convinse affatto, e anche Fran guardò il suo compagno storcendo la bocca contrariata.

 

“Non so. Io vorrei decidere da solo cos’è giusto. Mi seccherebbe se qualcuno me lo dicesse” concluse Vaan.

 

Basch annuì: “Il bene non si trova nei libri di religione, nelle leggende o nelle dottrine. Ciò che è giusto fare dobbiamo saperlo noi, cercando nel nostro animo. La giustizia viene da noi.”

 

Penelo guardò Vaan in ammirazione. Era certamente cresciuto, e sarebbe probabilmente cresciuto ancora, pensò. Tutto sommato non aveva rimorsi per averlo seguito.

 

Ashe, invece, guardò il cielo, guardò al futuro, ancora una volta piena d’incertezze.

 

“C’è un’altra ragione per cui l’esper della bilancia è il totema del mio popolo” riflettè Mjrn ad alta voce “come per Exodus, la nostra esistenza è la ricerca di un equilibrio… tra i nostri sogni e la nostra missione di proteggere la foresta. Sono sempre meno le viera che riescono a rinunciare alla ricerca della felicità per rispettare la Parola Verde… nei secoli passati, molte hanno lasciato il villaggio mischiandosi agli huma.”

 

Fran accarezzò affettuosamente i capelli a caschetto di Mjrn, stringendosi addosso quel suo viso così simile al suo, sebbene dai contorni più dolci.

 

“Ho sempre pensato che la ricerca della nostra giustizia fosse una maledizione per noi, come per il nostro totem” continuò lei “ma forse non ha nulla a che vedere con l’essere viera o non esserlo. Forse, ogni essere di Ivalice è alla ricerca di un equilibrio… di ciò che è giusto.”

 

“Certamente! Huma e viera non sono poi così diversi, no?” considerò Vaan.

 

“Già!” rispose Mjrn, con un sorriso carico d’allegria.

 

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“Ho già saputo… ho sentito la foresta sussurrarmi.”

 

Jote aveva allungato la mano lasciandone cadere qualcosa, che Vaan afferrò in caduta giusto in tempo. Era una gemma dalla forma affusolata, che splendeva di molteplici colori chiari.

 

“La Lacrima di Lente. È un lasciapassare, attraversate la foresta e lasciateci. Andatevene altrove.”

 

Vaan aspettò che aggiungesse qualcosa, ma nulla. Non gli restò che voltarsi per andarsene con aria rassegnata, imitato dagli altri.

 

“Non può essere tutto qui!” sbottò Mjrn “L’ho visto, fuori da questo villaggio… Ivalice sta cambiando! Noi viera possiamo stare qui a non far nulla?”

 

La rabbia di Mjrn si scontrò con l’impassibilità nel volto e nella voce della sorella: “Ivalice è per gli huma; la foresta, e soltanto la foresta, è per noi.”

 

“Ma questo è sbagliato! Ci nascondiamo tra gli alberi mentre il mondo là fuori è in movimento!”

 

Finalmente, per una volta, le viera sparse qua e là per il villaggio parvero accorgersi di qualcosa, e risvegliarsi dal torpore. Ma gli sguardi che rivolsero a Mjrn non lasciavano dubbi: erano tutt’altro che convinte dalle sue parole appassionate.

 

“Anche io voglio vivere libera… lasciare la foresta!”

 

Girandosi arrabbiata, si trovò Fran a pochi centimetri dal suo volto.

 

Fu perentoria: “Non lo fare.”

 

Mjrn sembrò colpita in piena faccia da qualcosa. Gli affiorarono lacrime negli occhi.

 

“Devi stare lontana dagli huma

. Vivi nella foresta. Insieme, con la foresta. Questa è la tua strada.”

 

“Ma Fran… sorellina!”

 

“Non sono più una di voi. Ho rigettato la foresta e il villaggio… ho conquistato la mia libertà. Ma il mio passato è perso per sempre… le mie orecchie non sentono più la Parola Verde. Questa… solitudine è ciò che vuoi, Mjrn?”

 

Balthier guardò Fran, la sua amata socia. Non dubitò che ogni parola di quel discorso fosse stata meditata per decenni, che ogni sillaba gli costasse moltissimo. Ma Fran non mostrava esitazioni e Mjrn, come lei aveva voluto, era visibilmente scossa.

 

“Sorellina…” chiamò, implorante, ancora una volta.

 

“No, Mjrn” la fermò lei, e aggiunse con durezza “Ti resta solo una sorella ora. Dimentica la mia esistenza.”

 

Fu troppo per lei. Scappò via piangendo, e gli occhi di Fran poterono finalmente, per una frazione di secondo, mostrare tristezza. E così quelli di sua sorella Jote, che era rimasta in silenzio, mostrarono la stessa tristezza e anche, sorprendentemente, comprensione e solidarietà.

 

Appena Mjrn se ne fu andata, le viera intorno a loro ripresero la loro meditazione impenetrabile, dimenticandosi di Fran e dei suoi compagni, e dimostrando una volta per tutte che le viera esistevano ad Eruyt fintanto che ne rispettavano le leggi: per questo la ribellione di Mjrn era stata presa in considerazione mentre la presenza di Fran veniva ignorata; Fran non era che un’ombra ormai, uno spettro venuto dal mondo esterno indegno della loro attenzione.

 

“Mi spiace avertelo fatto fare” disse Jote appena riuscì a riprendere il suo contegno.

 

“Lei va contro le leggi della foresta. Io ho rigettato queste leggi. Era meglio che ci parlassi io che colei che deve far rispettare quelle stesse leggi.”

 

Jote chinò il capo in segno di riconoscenza.

 

“Ho una richiesta... ascolta la Verde Voce per me. Io ho paura… ho paura che la foresta mi odi.”

 

Balthier non ricordò di aver mai sentito quel tono vulnerabile e quasi infantile in Fran, e certamente in futuro non l’avrebbe sentito per molto altro tempo. Lo inquietò: temeva per lei, per la risposta che poteva ricevere.

 

Jote allargò le braccia e di nuovo come alla loro prima visita il vento soffiò nel bianco delle foglie come mai si era sentito fuori da Eruyt. La sacerdotessa respirò profondamente. Poi guardò Fran, con un sorriso confortante e insolito su quel volto severo.

 

“La foresta ha nostalgia di te. Della bambina che teneva fra i suoi rami.”

 

Anche Fran sorrise, era un sorriso ironico e triste: “Una bugia gentile, questa.”

 

Appena diede le spalle a Jote, lei aggiunse: “Fa attenzione. La foresta prova invidia per gli huma che ti hanno portata via.”

 

“Sono una di loro ora. Non è così?” minimizzò lei.

 

L’espressione di Fran non mutò di una virgola, ma Balthier capì che sforzo le costava guardare Jote in faccia mentre pronunciava queste parole: “Addio, sorellina.”

 

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Solo dopo qualche minuto il gruppo notò che Fran si era immobilizzata a guardare una parete ricoperta di vegetazione lussureggiante e Balthier tornò indietro quasi a scuoterla per una spalla.

 

Fran non distolse un solo istante gli occhi dal pendio, e Balthier realizzò che si muoveva ritmicamente, come respirasse. Vide la sua compagna affascinata e intimorita al contempo dall’entità che pian piano si staccava dal groviglio della giungla.

 

La massa di liane aggrovigliate, foglie verdeggianti, rocce aguzze, funghi ammassati, rossi fiori carnosi, si spostava paziente ma inesorabile verso la viera e il pirata, mentre gli altri cinque dietro di loro si forzarono ad avvicinarsi al duo, per non lasciarli soli. Prendeva una sagoma che chiunque, su Ivalice, conosceva bene: un enorme dragone, ricoperto dalla Giungla di Golmore che gli era cresciuta addosso per secoli.

 

Persino Vaan sapeva che i draghi, tra gli esseri più antichi di Ivalice, erano tutti, senza eccezione alcuna –o così credeva- costretti da un enorme anello magico di metallo lavorato che gli cingeva il collo, simbolo chiaro e inequivocabile degli dei che, prima ancora dell’Alleanza di Galtea, li avevano sottomessi e costretti all’obbedienza. Il fatto che quel drago fosse in tutta evidenza libero da qualsivoglia anello o altra forma di costrizione significava avere al cospetto un essere che aveva resistito persino agli Dei del mondo antico, di prima del kiltianesimo. La paura si mescolò, come sempre gli accadeva, all’entusiasmo che gli attraversava la pelle, l’estasi dell’avventura.

 

Fran si lasciò scappare un sorrisino ironico: “Avevi ragione, Jote… la foresta è gelosa.”

 

“Un altro… giudice, o arbitro, o quel che sia, della tua gente?” domandò seraficamente Balthier al suo fianco, mentre la mano scivolava con calma verso il fucile, tentando di non indispettire la bestia con movimenti affrettati.

 

Gli occhi si aprirono, fissandoli con malizia. Il respiro del drago produsse un fragore che sembrò scuotere gli alberi di Golmore dalle fondamenta fino alle cime, invisibili agli occhi.

 

“No. Egli è l’Antico, un dragone già vecchio quando la foresta doveva ancora nascere. Per noi rappresenta la passione e la brama.”

 

“Fico” commentò Vaan mentre la creatura sembrava sgranchirsi, facendo tremare la terra “come lo stecchiamo questo bestione?”

 

“È meglio che ve ne andiate” ribattè Fran “il suo veleno è letale per chi non appartiene al mio popolo.”

 

“Nessuno ti lascerà qui!” protestò immediatamente Penelo.

 

“Vi raggiungo dopo. Del resto, se io non fossi con voi, avrebbe continuato a dormire.”

 

Il drago si scrollò di dosso qualche pianta di troppo, e puntò il gruppo come un qualsiasi predatore.

 

L’esortazione di Vaan fu coperta dal rumore di aria pressurizzata. Da ogni singolo poro dell’Antico un gas denso, dall’odore dolce e intossicante, spruzzava in getti ordinati verso l’alto, ammassando una coltre nubiforme sopra le loro teste.

 

“Troppo tardi per il bel discorsetto eroico, si direbbe!” ironizzò Balthier dando una gomitata d’intesa a Vaan “ora si crepa tutti.”

 

“E se così fosse cos’hai da ridere?” si stizzì il biondino.

 

“Rido perché sei scemo” spiegò tranquillamente Balthier “e, comunque, non ho mai sentito di qualcuno che si salvasse la vita piangendo e strappandosi i capelli, quindi meglio andare all’altro mondo col sorriso.”

 

Ma mentre parlava gli tremava la voce per i nervi. Nessuno di loro poteva semplicemente voltarsi e scappare, certi che avrebbero ricevuto una zampata altrettanto fulminea –e mortale- alla schiena se ci avessero provato. Restavano così, come topi incantati da un serpente.

 

Il gas iniziò a scendere verso il basso dividendosi in filamenti che rifrangevano la luce del attraverso i rami. Ovunque fossero andati, sarebbero stati comunque avvelenati e, stando a Fran, rapidamente sarebbero morti.

 

“Dovete andare” ripetè Fran, indicando con gli occhi un’apertura sotto delle spesse radici.

 

Ma a quello che successe subito dopo, persino lei sgranò gli occhi. Ogni singola particella di gas nell’aria s’incendiò, muovendosi disordinatamente come se un vento infuocato soffiasse dal basso.

 

Dietro di lei, dietro le spalle di Ashe, Belias di Aries agitava la sua arma mandando a fuoco la nube di spore. L’odore dolciastro svanì lasciando posto all’aria bruciata.

 

“Principessa…” sbalordì Balthier.

 

“Non uno di noi sarà perso lungo la strada. Siete tutto l’esercito di cui dispongo. Fran! Il Gigante-Stregone lo tratterrà. Fuggi anche tu con noi! Adesso!”

 

Il dragone e l’esper si fronteggiavano, ciascuno dei due tenendo l’altro sotto scacco. Ma persino Belias sembrava intimorito al cospetto dell’Antico.

 

“Non c’è molto tempo, Fran!”

 

Vaan prese la viera per il braccio: “Per una volta sono d’accordo con Ashe!”

 

“Sottoscrivo” aggiunse Balthier.

 

Tutti e sette s’infilarono nel cunicolo, un attimo prima dell’impatto violentissimo tra le due creature mitologiche.

 

 

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Chiedo scusa a tutti. Questo capitolo che state leggendo, seppure scritto in ampia parte ex-novo rispetto alla prima stesura, era in effetti pronto già ad aprile. I mesi che sono seguiti da aprile ad oggi sono stati traumatici per me, l’inizio di un periodo –ancora in corso- tutt’altro che lieto, ed ecco perché non l’ho postato fino ad adesso. Mi spiace molto.

 

Comunque sia sono tornato, per quanti hanno avuto la pazienza di aspettarmi finora. Non vale un granchè come giustificazione (anzi) ma, in questo periodo, non siete certo i primi nè gli ultimi che ho deluso profondamente. Spero che almeno voi perdoniate! Il capitolo di settembre arriverà... entro settembre, si spera!

 

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Capitolo 34
*** Golpe ***




Bergan aprì gli occhi. Il suo respiro, nella penombra della sala operatoria, gli suonò come il verso di un animale morente.

“Come ti senti?”

“Non cercare di indurmi a credere che t'importi.”

“Non m'importa infatti” constatò il Dottor Cid con voce neutra “o per meglio dire, non m'importa per la tua salute. Tuttavia... i soli minerali impiegati valgono una fortuna, quanto le ricerche che li hanno resi compatibili con la tua anatomia, e ancor più sono costati i chirurghi. Persino questi controlli mensili hanno un costo notevole.”

Un ringhio interruppe i discorsi dello scienziato, poi il giudice riuscì ad articolare meglio i suoi pensieri: “Non scoraggerò i vostri protettori morendo. Non è il mio destino. L'unico dolore che provo al momento è quello che mi procura ascoltarla.”

Cid sbuffò: “Vedo che ritieni che l'unico modo di servire il tuo principe è torturando e macellando. Ma il tuo disprezzo mi è indifferente quanto quello degli altri topi da laboratorio. Se il suono della mia voce ti è sgradito, comunque, ascoltiamo la tua. Descrivimi le tue sensazioni nelle ultime settimane.”

Bergan prese a seguire delle forme invisibili, un caleidoscopio di colori nell'aria che solo i suoi occhi riuscivano a delineare.

“Vedo cose strane. Animali, forse... o forse no. Forme luminose nell'aria. Ma solo... se cerco di vederle. Come se ...ci fosse un altro mondo sotto la pelle di questo...”

“Il mondo spirituale, quando l'occhio si abitua a vedere il myst comincia a distinguerne le forme. Tra breve inizierai a riconoscere gli spiriti da cui originano le formule magiche.”

“Mi inquietano. Sembra che ci osservino tutti. Poi... sento qualcosa che si muove. Come scarafaggi sotto la pelle.”

“E' una allucinazione tattile. Le pietre si saldano al tuo sistema nervoso” spiegò Cid con una punta di noia, mentre prendeva appunti “altro?”

“Mi sembra che... mi sembra di sapere più cose... di averle sempre sapute... di avere intuizioni che... come se qualcuno mi dicesse sempre cosa dovrei fare.”

“Ad esempio?”

“Sua eccellenza Vayne... devo stargli vicino.”

“Non mi sembra una novità. Non lo hai sempre fatto, forse?” il giudice sentì la voce di Cid allontanarsi, anche se non si disturbò a cercarlo con lo sguardo mentre lo scienziato certamente percorreva il laboratorio cercando qualcosa.

“E' diverso... voglio dire vicino... fisicamente. Devo proteggerlo... so cosa può accadere... come infinite possibilità che si dipanano come arabeschi sotto i miei occhi” la sua voce si faceva sempre più confusa, più tremante “è proprio come disse lei... i frammenti di destino possono manipolare la storia. E ora... sento nelle mani la mia.”

“Sono contento di sentirtelo dire” commentò il Dottor Cid, inespressivo, mentre scriveva in un piccolo quaderno rilegato “sono certo che faremo grandi progressi.”

“Confermata degenerazione dello stato di salute mentale in tempi e modi coerenti alle aspettative” annotò con espressione indifferente.

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Avevano percorso un lungo corridoio di radici intrecciate fino a che la temperatura non era scesa sempre più. Appena all’aperto, l’aria purissima e gelata aveva ferito le narici di Vaan.

Intorno, tutto era roccia nera e lucidissima e neve di un bianco accecante. Il cielo era una distesa screziata di grigi in perpetuo movimento. Le Gole di Paramina, proprio come Vaan le aveva immaginate dai racconti del vecchio Dalan.

Poco distante dal cunicolo che si erano lasciati alle spalle, come non aspettasse altro che loro, c’era un emissario arcadiano con un pesante bagaglio che, avrebbero scoperto presto, era pieno di vestiti. Larsa doveva aver previsto che il loro abbigliamento non fosse adatto alle gole e aveva arrangiato quel soccorso.

Ashe indossò un lungo abito dalla linea sottile, in seta argentata, che copriva ogni centimetro del suo corpo, compresi i capelli sotto un ampio cappuccio. Orlato da morbide piume rosso purpureo, ne accentuava al contempo la purezza e la regalità, tanto che persino Vaan la squadrò ammirato. Anche Larsa indossò un abito simile, ma di taglio maschile e di color grigio piombo, con orli di piumaggio avana. Sulla schiena, eloquentemente, erano cuciti i dragoni intrecciati del Casato Solidor, ma in gemme verdi e azzurre opposte al solito rosso e viola che simboleggiava la sua famiglia.

Al contrario, Vaan e Penelo scelsero due tute integrali grigie; erano pensate per lavori umili, ma favorivano l’agilità dei movimenti. Lei si concesse anche una lunga sciarpa blu scura ornata di stelle d’oro, che in altri tempi simboleggiava la maestà dei maghi, e la lasciò cadere leggiadra sul suo corpo con un pizzico di vanità e orgoglio per la sua arte magica, che la resero in qualche modo più matura, più femminile agli occhi del suo compagno, quegli occhi che era intento a nascondere con due grossi occhialoni da esploratore per proteggere i suoi sguardi insistenti e curiosi dai pericolosi riflessi della neve.

Mentre tutti loro salvo Fran, come sempre favorita dalla leggendaria adattabilità del popolo viera ad ogni sorta di clima, erano occupati a indossare abiti consoni all’ambiente, Vaan inquadrò qualcosa di sfuggita. Si sporse un po’ nello stradone di neve sotto il loro, seguendo con lo sguardo quella che poteva sembrare una fila di formiche che avanzava freneticamente. Erano persone, realizzò con un certo raccapriccio, persone che avanzavano in fila vestite di stracci nella neve alta.

Si ricordò che nei racconti di Dalan, il Monte Sacro era meta di masse di poveri, emarginati, rifugiati di guerra, esuli della più varia estrazione che trovavano accoglienza nelle sue pendici dal clima mite, vivendo della carità del Gran Kiltias e dei suoi sacerdoti. Allora, aveva pensato con disprezzo a queste lunghe processioni di mendicanti che attraversavano mezzo mondo per chiedere l’elemosina. Ma adesso, vedendoli procedere stancamente nel freddo, non poteva dubitare dell’assoluta necessità della loro scelta: nessuno avrebbe affrontato una simile traversata, se non costretto dalla vita.

Man mano che il tepore invadeva il suo corpo, quasi si vergognò di potersi permettere quei vestiti caldi mentre a pochi metri da lui aveva luogo quella disperata processione. Ma fu Balthier a dare voce ai suoi pensieri prima di lui.

“Mentre l’Impero sfila in parata per le grandi città, i profughi vanno a piedi scalzi nella neve” osservò aspramente Balthier mentre indossava un soprabito color avorio decorato da pelliccia nera, tempestato di lussuose gemme d’ambra.

Larsa si volse immediatamente verso di lui, intento a non farsi sfuggire la provocazione: “Per questo voglio la pace, che fermi quanto prima la guerra e allevi le loro sofferenze. E mio padre sceglierà la pace, ne sono certo.”

“Lo farà?” il pirata lo squadrò gelidamente dal basso all’alto “Sembri sicuro di te. Non si conosce mai a fondo qualcun altro, nemmeno il proprio padre.”

Mentre si allontanava con un viso carico di amarezza, si calcò in testa un corto cilindro nero per proteggersi dal freddo, o forse per nascondere il suo sguardo. A Larsa non rimase altro da fare che abbassare gli occhi, come se fosse stato obbligato a vergognarsi della sua famiglia. Vaan gli mise quasi una mano sulla spalla, poi si interruppe imbarazzato, cercando le parole giuste da dire.

“Non prenderla nel modo sbagliato ok?”

Non fece neanche in tempo a domandarsi quale fosse il “modo giusto” perché era evidente che Balthier aveva parlato per ferire il giovane aristocratico. Larsa però comprese il suo intento, e ringraziò cercando di stirare un malinconico sorriso.

Ashe non distoglieva gli occhi di un millimetro dal punto in cui si dirigeva la processione di mendicanti, quasi fosse insensibile a qualsiasi altro avvenimento: “Il Monte Sacro ci attende. Andiamo.”

Si incamminò senza aggiungere altro; Basch, protetto da una corazza arcadiana scura pensata per le operazioni invernali, si mise al suo seguito con sguardo cupo. Lo stesso fece Fran con Balthier. Vaan e Penelo misero le braccia sulle spalle di Larsa per incoraggiarlo a seguirli.

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Tinta dai colori caldi del tramonto, Archades sotto di loro sembrava ancor più rossa, ancor più fiera e indomabile di sempre. Quasi che la sete di sangue venisse dalla capitale stessa, e loro non fossero altro che burattini nelle mani violente della storia.

L’Imperatore Gramis era in piedi, una mano ancora appoggiata alla sua scrivania. Suo figlio Vayne era rimasto immobile e impassibile ad ascoltare tutto quello che aveva da dirgli, e poi si era preso il suo tempo per pensare una risposta.

“Questa crisi non cesserebbe alla mia scomparsa. Il Senato odia persino l’esistenza del Casato Solidor. È nostra necessità trovare modo di ridurli al silenzio.”

Pur dette con calma e compostezza, queste parole avevano fatto tremare l’Imperatore per l’emozione. Nella lunga storia dell’Impero non c’era stato un solo “Senator Primus Inter Pares” che non avesse sognato di liberarsi dal controllo del Senato ed esercitare il ruolo di Imperatore nel più totale arbitrio. Ma ovviamente, ad ogni Imperatore prima di lui, compresi i suoi antenati Solidor che avevano occupato questo ruolo, non era sfuggita la realtà: che l’unico modo di ottenere questo risultato era spezzare i fondamentali equilibri che reggevano l’Impero e scatenare quindi una guerra civile.

Gramis conosceva molto bene la seduzione ingannevole del massacro: l’idea che ogni spargimento di sangue sia l’ultimo, l’ultima guerra santa per portare una volta per tutte la giustizia dal cielo alla terra. La sua mente si allargò e cadde sulla capitale come un ampio mantello, avvolgendo i quartieri alti dei nobili fino alla città vecchia e al più miserabile dei bassifondi: la sua città, il suo popolo. Quante volte aveva pensato di creare un mondo più giusto per loro versando l’ultimo litro di sangue in più! Quanti uomini che aveva stimato, ammirato, persino amato, aveva condotto al patibolo con la pazienza di un ragno che aspetta la preda, pensando che la storia un giorno lo avrebbe assolto! Eppure, l’ultimo omicidio non giungeva mai; ad ogni nemico abbattuto, un altro seguiva.

A tutto questo ripensò quando le parole di suo figlio dischiusero appena la porta su un’altra gloriosa, quanto inutile strage. Sorrise con sprezzante ironia, dirigendosi sul bordo della sala per meglio vedere la città.

“Necessità, eh? Certo, una necessità.”

Si sporse come se volesse inseguire il tramonto: “Mi domando, forse questa parola ti slega le mani? Non mostri esitazione a risolvere le faccende con il sangue.”

Vayne non si volse a suo padre, ma alzò lo sguardo alla bandiera rossa merlata d’oro che troneggiava sopra di loro, al simbolo stilizzato di due dragoni neri che si avvolgono su una spada. Quegli stessi dragoni che si avvolgevano, rossi e porpora, sulla schiena del suo abito.

“La spada dei Solidor non può giacere ad arrugginirsi nel dubbio” ribattè quieto citando un noto detto dei loro antenati “E siete stato voi, eccellenza, a temprare quella spada.”

Di nuovo, le parole di suo figlio sembravano alludere appena ad un intero universo di significati: del resto, la sua prima passione in gioventù erano stati proprio i miti, le leggende, i simboli. E Gramis tremò di nuovo, pensando a come aveva “temprato” la spada del Casato.

Molteplici guerre di conquista, con le quali aveva risolto solo temporaneamente i periodi di povertà e miseria per gli arcadiani, al prezzo di sottomettere e umiliare intere culture. E quando i militari avevano preso un potere preoccupante, la “Grande Purga” che aveva spedito una folta schiera di suoi ex amici e commilitoni, di eroi di guerra e generali geniali a dormire sottoterra. E ancora, la Seconda Purga che aveva visto il Generale Noon e altri militari che gli erano stati fedelissimi finire esattamente come i suoi nemici, sebbene colpevoli soltanto di dissentire da lui e quindi di mettere in discussione il potere imperiale. E poi ovviamente le continue congiure contro il Senato, che in tutti quegli anni aveva passato al microscopio ogni suo più piccolo gesto per trovare una falla, arrivando persino a seminare discordia tra i suoi figli, come ancora tentavano di fare.

E ovviamente, c’era stata “quella cosa”… i suoi figli che tramavano l’uno contro l’altro per infamarsi con false accuse, conducendo il sangue del proprio sangue ad una pena capitale immeritata. E quando da questa faida era uscito vincitore Vayne, la punizione di suo padre era stata profonda quanto crudele: pretendere che proprio lui fosse l’esecutore materiale della sentenza sui suoi fratelli Kaent e Lutho.

Era certamente vero: la spada dei Solidor, lui aveva saputo temprarla. E non poteva certamente definirsi migliore di suo figlio. Eppure, cosa muoveva l’istinto di Vayne? Un ideale politico, o la voglia di rivalsa sul Senato che aveva avvelenato le loro esistenze?

“È la tua idea… di vendetta?”

“È la mia idea di necessità.”

Per un momento, si rimproverò da solo per aver cercato di ottenere una risposta diretta e sincera da suo figlio. Ma nel tempo che si prese per riflettere, e per respirare l’aria densa dei profumi che ascendevano dalla capitale, Vayne rispose aprendosi totalmente.

“Se non agiamo adesso, non solo il nostro futuro è a rischio.”

Gramis volle finalmente vedere in volto suo figlio, vedere l’umanità che c’era ancora in lui: “Lorderesti le tue mani per mantenere pulite le sue?”

“Le mie mani sono già macchiate di sangue.”

La serenità con cui lo affermò sembrò a Gramis come un perdono, per averlo forzato a uccidere i suoi fratelli. Quel che era stato era stato e suo figlio, ne era certo, non esigeva vendetta contro di lui. Ma allo stesso tempo, Vayne Carudas Solidor era il risultato di quelle azioni, e non sarebbe mai tornato quello che era prima. E tuttavia, c’era ancora Larsa.

Anzi, a dirla tutta, nell’intento di proteggerlo, Vayne era un fratello migliore di quanto Gramis non fosse stato come padre.

“Vedo poche ragioni per fermarle adesso” concluse Vayne.

“Invero, lo sono. E così il Casato Solidor vive ancora” riconobbe l’Imperatore.

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Il Monte Sacro apparve davanti agli occhi di Ashe come lo aveva sentito descrivere dai sacerdoti, un numero infinito di volte. Malgrado si ergesse sopra nubi dense e bianchissime e ancor più bianche distese di neve, che avevano attraversato a grande fatica evitando branchi di fang albini, tormente e ingannevoli distese ghiacciate pronte a frantumarsi e inghiottirli, il cielo era terso e il clima era mite, nel complesso accogliente.

Intorno alla cima fluttuavano altre piccole montagnole che qualche curioso fenomeno gravitazionale faceva girovagare come una aureola di roccia. Il tempio, tripudio colossale di scale, porticati e cupole di maioliche blu, era stato scolpito direttamente dalla roccia e sembrava quasi invitare la risalita, malgrado si trattasse indubbiamente di un’impresa faticosa.

Altrettanto peculiare gli risultò qualcos’altro, di cui però non aveva mai sentito parlare nei sermoni sebbene il motivo si intuisse facilmente: in mezzo tra una parete del monte sacro e un enorme scheletro di dragone fossilizzato si era formata una vallata a mezza altezza, che ospitava una baraccopoli di dimensioni mai viste, un ammasso di tende e catapecchie tanto casuale e sregolato quanto, nel complesso, imponente. Il risultato delle schiere di poveracci la cui miglior prospettiva di vita era pellegrinare fino al Monte Sacro e approfittare della legge di carità assoluta che il Gran Kiltias si auto imponeva.

Fu proprio questa caotica cittadina ad accoglierli per prima. Avvolta nella sua elegante veste invernale, Ashe si ritrovò addosso gli sguardi meravigliati dei rifugiati e le capitò quasi di riflettere sul suo rango, se davvero significasse una qualche superiorità o se non fosse, in certi casi, motivo di vergogna. Non la meravigliò vedere Vaan, Penelo, e persino Basch molto più a loro agio di lei con la povera gente, con cui attaccarono bottone immediatamente e con naturalezza.

Larsa squadrava tutto e tutti come fenomeni curiosi e interessanti. Non gli si poteva rimproverare nulla, certo, ma non si poteva dire che non rimarcasse la differenza di status. Era anche possibile che cercasse qualcuno in particolare, a giudicare da come scandagliava con lo sguardo.

Solo Balthier e Fran sembravano più a disagio di lei, disorientati in qualcosa che sembrava tanto una città ma che, senza ombra di dubbio alcuno, non aveva niente che somigliasse ad un’osteria.

Una piccola creatura pelosa e pasciuta, con lunghi baffi, orecchie pendenti e una coda piatta, venne loro incontro camminando goffamente. Ashe fu quasi tentata di stropicciarsi gli occhi per distinguere la toga cerimoniale del kiltianesimo che quell’esserino indossava orgogliosamente. Si irrigidì quando si rese conto di avere davanti un sacerdote della stirpe dei numou, potentissimi maghi e chierici devoti al Kiltias e protetti dall’Esper di Virgo, il loro Totema sacro. Ad averli accanto veniva difficile credere che persino il più debole e incolto dei numou conoscesse antiche magie per tramutare gli umani in rospi o far piovere comete dal cielo. Ad ogni modo non mancò di salutarlo con un cenno reverenziale del capo.

“Larsa Ferrinas Solidor e Ashelia B’Nargin Dalmasca, immagino” li apostrofò con voce tremolante, ma cortese.

“Siamo onorati di fare la vostra conoscenza, sacerdote” risposero entrambi chinando il capo, quasi in coro.

“Sono lieto anche io. Il mio nome è Babus La’Kleiu-”

S’interruppe perché Vaan dovette coprirsi la bocca per non sogghignare sentendo il nome, ma un feroce pestone di Penelo lo ricondusse immediatamente alla disciplina.

“…e, dicevo, vi posso offrire la modesta accoglienza di questo villaggio mentre il Gran Kiltias Anastasis si prepara a ricevervi.”

“Vi ringraziamo della generosa offerta” risposero di nuovo Ashe e Larsa.

“Ma come generosa offerta?!? Ci fanno dormire in una baracca?” benché Vaan lo avesse semplicemente detto all’orecchio di Penelo, la reazione di lei non fu diversa: gli rifilò un bel pizzicotto che gli lasciò un marchio rosso sulla guancia.

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“Dunque?” per una frazione di secondo, persino Vayne lasciò che la sua voce vibrasse di speranza “Dunque, mi lascerai agire come ritengo giusto?” già alla seconda esortazione lo scetticismo era tornato nella sua voce.

Gramis respirò a fondo prima di rispondere, tenendo gli occhi fissi sugli edifici sotto di lui: “No.”

“Lo avete detto voi stesso, padre: e così il Casato Solidor vive ancora!” insistè l’altro.

“È vero. Non posso negartelo: non ho risposte da darti. Ho sempre agito proprio come tu vorresti agire adesso. Forse, è semplicemente il naturale approdo della rotta che ho iniziato a tracciare io stesso.”

“E tuttavia… ancora non ammettete le mie ragioni” lo punzecchiò Vayne, la cui voce fremeva per i nervi.

“Anche per il più corretto dei metodi esiste una misura. Arrivare all’eliminazione del Senato… ci porta oltre il limite. Arcadia diverrebbe una dittatura. Come potresti garantire cosa succederebbe dopo, a noi o a Larsa… o all’intera Ivalice?”

“Abbiamo sempre avuto il potere nelle mani, che paura può incuterci chiamarlo con il suo nome?”

“Pensi che il popolo accetterebbe di buon grado un autocrate?”

“Il popolo!” sbottò Vayne, reagendo immediatamente a quel botta e risposta sempre più serrato “Il popolo cosa ne perderebbe? Senatori che complottano per scopi incomprensibili e si mascherano con discorsi a loro ancor più incomprensibili, è questa la libertà che garantiamo loro, la libertà di essere raggirati? Noi esistiamo per proteggere il popolo, per porre i bisogni degli altri sopra i nostri, non per discutere-”

“… fino a stordirci di chiacchere” lo interruppe Gramis rubandogli le ultime parole “Credi di essere il primo a parlare così? Il primo a pensare che la democrazia sia una inutile pastoia? Davvero pensi che le tue giustificazioni siano originali?

“Reputate più efficace lasciare che mi processino? E se mi condannassero cosa fareste?”

“Chiederei per te un atto di grazia” ammise a malincuore l’Imperatore, sapendo che Vayne lo avrebbe subito colto in fallo, come puntualmente fece.

“In passato mi avreste tolto la vita voi stesso per dimostrare la vostra forza” ribattè indignato il giovane “ma adesso anteponete le nostre emozioni al bisogno del Casato. Lasciare che mi processino e, peggio ancora, chiedere la grazia, forse salverebbe le nostre vite, ma sarebbe la fine del Casato Solidor e la vittoria definitiva del Senato.”

Qualcosa si spezzò nel volto di Gramis, come se una forza interiore fosse venuta meno, lasciando stupefatto persino Vayne. Proruppe in una tosse violenta che fermò a fatica, e quando si rivolse a suo figlio, ogni traccia della maestà imperiale lo aveva lasciato: era nient’altro che un anziano signore stremato.

“Sarebbe così terribile, figlio? Vivere i nostri giorni in pace, noi tre?”

Gli occhi di Vayne si dilatarono per l’orrore, come se non avesse potuto pensare di vedere nulla di tanto raccapricciante quanto suo padre ridotto semplicemente ed esattamente a questo: un padre.

“Noi tre!” perse per la prima volta ogni traccia di calma “Noi abbiamo un incarico più alto che accontentarci di vivere in pace! La storia ci chiede più di questo!”

“Certo, la storia. Sei traviato dalle favole del Dottor Cid” constatò sconsolato Gramis.

“Favole? È realtà.”

Come Vayne riprese la sua compostezza, anche l’Imperatore sembrò tornare in sé e si riavvicinò al suo trono.

“Realtà. Potresti portare le teorie di Cid in piazza? Affermare che sono verità? Convincere il senato, gli aristocratici, il popolo che ben due guerre erano necessarie, in virtù di queste teorie? Convincerli che la vita dell’Impero, anzi, della civiltà come la conosciamo, è messa a rischio da qualcosa che non hanno mai visto? Convincerli che costruirete un futuro migliore, in cui… le redini della storia torneranno nelle mani dell’uomo?”

Riportò la citazione di Cid con tono carico di sarcasmo.

“Non sta a loro, valutare tutto ciò, ma a noi. Scegliendo di sedere qui, sulla cima del mondo, abbiamo accettato tale responsabilità, che è nostra. Nostra soltanto.”

Gramis si prese svariati minuti di silenzio, prima di concludere: “Le nostre prospettive sono inconciliabili.”

“Come credete” confermò Vayne, con voce improvvisamente meno umana.

“Presumo” proseguì l’Imperatore mentre il suo tono si faceva quasi accademico “che in previsione di questo, tu ti sia preparato all’eventualità di togliermi la vita.”

“E d’altro canto voi vi sarete preparato all’eventualità di impedirmelo.”

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Furono sistemati tutti e sette in un ampio capannone dove i volontari facevano i turni di pausa; i volontari al servizio del kiltias sorvegliavano le baracche, per assicurarsi che non ci fossero soprusi e che un povero non si approfittasse dell’altro.

I due che riposarono con loro si chiamavano Iha e Remely.

Iha era un ragazzo moro un po’ emaciato, e sembrava costantemente in apprensione che qualcosa andasse storto nel campo profughi mentre lui era in pausa. Vaan abbandonò ogni speranza di conversare con lui una volta constatato che non aveva altro argomento di conversazione che il suo compito. Ashe e Penelo, invece, trovavano la sua dedizione e il suo senso di responsabilità ammirevoli e si divisero del brodo di chocobo con lui.

Di lui, Vaan pensò che gli ricordava vagamente Reks, la sua passione e il suo senso del dovere. E come era stato per Reks, non lo capiva molto e per quel poco che capiva, non gli piaceva affatto.

Remely era una viera dall’aria persino più fredda e distaccata di Fran. Aveva capelli lunghissimi e vestiti candidi che chiaramente si rifacevano alla tradizione hume e non a quella del suo popolo. Spiegò a Fran di essere originaria di uno dei villaggi arboricoli limitrofi ad Eruyt, che aveva abbandonato qualche anno dopo la fuga di Fran. Aveva nutrito una curiosità profonda per gli hume, la “razza padrona di Ivalice”, ma dopo averci convissuto per tanti anni era giunta alla conclusione che non avessero niente di speciale se non il fatto di essere in numero superiore a tutte le altre razze civilizzate. Un po’ come insetti, e non c’era dubbio che considerasse tutti i presenti per nulla migliori degli insetti. Ma aveva giurato obbedienza al Gran Kiltias e lo serviva.

Vaan si sarebbe aspettato che Fran prendesse le difese degli hume, ma Fran si limitò ad obiettare pacatamente sulla concezione che gli hume o una qualsiasi altra specie fossero i padroni assoluti del mondo.

Larsa e Balthier stavano seduti agli angoli opposti, assorti nei loro pensieri. Larsa in particolare sembrava teso, come se qualcosa di importante stesse finalmente per svelarsi: di sicuro aveva a che fare con il misterioso invitato di cui aveva accennato a Jahara.

Basch aspettava fuori dal capannone; stava controllando la mobilità e il peso della nuova armatura, senza però mancare di sorvegliare i passanti. Vaan si andò a sedere accanto a lui, interrogativo: “Che fai?”

“Non sono molto tranquillo. Un campo profughi è un posto prolifico per i malintenzionati, anche se forse il Monte Sacro fa eccezione. Noi attiriamo l’attenzione come persone benestanti.”

Sembrava che con lo sguardo mettesse un marchio in fronte a ciascuno che passava o si avventurava a gettare un’occhiata verso l’interno del capannone, benché all’apparenza fosse tutto preso dai suoi esercizi.

Il biondino sghignazzò compiaciuto, e il capitano si distrasse un momento: “Che c’è da ridere?”

“Si vede che non sei cresciuto tra ricconi come quegli altri. Solo chi vede i poveracci una volta al secolo li guarda con gli occhi dolci, come fossero sempre buoni e inoffensivi. Io la conosco la povertà. E quel che vedo qui è un campo… pieno zeppo di ladri.”

In risposta, fu Basch a ridacchiare, prendendogli la testa con la mano enorme e scompigliandogli i capelli: “Bè, tu sei un po’ troppo pessimista invece. Esiste anche gente onesta.”

“Sai che spasso la gente onesta.”

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In una frazione di secondo, Vayne evitò lo spostamento d’aria che sentì arrivare alla spalla e saltò capovolgendosi in aria. Mentre era a testa in giù, si lasciò scivolare dalle mani un cristallo rosso chiaro che scagliò a terra. Dei cerchi magici rossastri si propagarono per la stanza, e il suo obiettivo tornò completamente visibile.

“Vaniga, la magia che rende invisibili… ti devi essere stancato a stare lì fermo tutto il tempo.”

“Una dispelolite” commentò il Iudex Magister Jago “un trucchetto notevole”.

Con un gesto della mano sistemò la sciarpa rossa intorno al collo e poi strinse le cinghie del grosso artiglio con cui aveva cercato di colpire Vayne.

“È un giocatore piuttosto fortunato” si lamentò verso Gramis “Non sarà facile metterlo a dormire senza ucciderlo”.

Gramis non si mosse di un millimetro, e si versò del vino nel bicchiere “Fai solo quello che ti ho detto.”

Vayne riflettè freddamente: con tutti i veleni che Jago era famoso per utilizzare, sicuramente sarebbe bastato un graffio e avrebbe presto iniziato a intorpidirsi, per crollare addormentato in pochi secondi. Tuttavia, neutralizzato l’effetto di Vaniga, non era troppo difficile prevedere i suoi attacchi. Un secondo affondo degli artigli del giudice fu neutralizzato da una capriola all’indietro.

Mentre il suo corpo reagiva, il suo cervello si concentrava sulla strategia. Aveva soltanto un’altra dispelolite, pensò in pochi secondi, ma calcolò che comunque Jago non avrebbe cercato di rilanciare la magia dell’invisibilità, ignorando se lui potesse o meno neutralizzarla ancora cogliendolo di sorpresa; Jago d’altro era un discreto arcanista, capace di avvelenare, assopire o confondere mediante magia, ma Vayne lo avrebbe comunque raggiunto immediatamente con un colpo se solo avesse provato a pronunciare una formula arcana, cosa che un esperto come lui sicuramente metteva già in conto. A conti fatti, dunque, si sarebbe continuato sullo scontro corpo a corpo.

Un terzo assalto di Jago gli mancò la guancia di poco, mentre roteando su sé stesso riuscì a colpire con il tacco l’elmo dalle grandi orecchie, che si staccò dall’armatura finendo a terra. I capelli a riccio di Jago, color carota, si ritrovarono liberi mentre sulla sua guancia scura si allungava un rivolo di sangue, che il Iudex Magister succhiò prontamente dal labbro. La sua espressione era totalmente neutra, quasi apatica.

Perché era così impassibile, riflettè Vayne mentre schivava un altro attacco, stavolta stendendosi a terra d’improvviso? Eppure, doveva amare il gioco d’azzardo e quindi, probabilmente, anche i duelli. Anche suo padre sembrava eccessivamente rilassato, considerando che non era poi certo che Jago potesse stenderlo.

Mentre pensava così, si spinse in aria con le braccia, evitando l’artiglio di Jago che lo inseguiva a terra. Riatterrando, guardò ancora suo padre, che sorseggiava il vino spazientito, ma per nulla preoccupato.

Era ovvio: se anche Jago non ce l’avesse fatta contro di lui, lo avrebbe impegnato in una ardua lotta. Nel tempo che perdevano, sarebbe giunta la servitù per il servizio della sera, avrebbe dato l’allarme per un attentato alla vita dell’Imperatore, e tutto gli sarebbe sfuggito di mano.

Di fatto, immediatamente dopo che suo padre era giunto alla conclusione che lui lo avrebbe eliminato, il miglior momento utile per mettere in pratica tale proposito era esattamente quel momento, finchè nessuno tranne loro due ne era a conoscenza. Tutto ciò, data la presenza di una spia nella stanza, non era più possibile. Occorreva improvvisare.

Si fermò, fissando il suo avversario.

“Jago… cosa avrai per questo servizio?”

Le sopracciglia del volto annoiato di Jago s’inarcarono appena.

“Di certo nulla di entusiasmante. Forse di continuare con la tua vecchia vita? Dev’essere così. Totale impunità per i tuoi vizi di gioco, per la tua carriera diciamo poco esemplare?”

L’Imperatore perse improvvisamente il sangue freddo: “Non chiaccherare Iudex Magister, combatti! Te lo ordina l’Imperatore!”

Jago colse al volo cosa stava accadendo e stirò appena un sorriso: “Stai forse contrattando?”

“Non ascoltarlo!” ordinò Gramis scattando in piedi.

“In questo momento hai in mano qualcosa di incredibile” illustrò Vayne, quasi con la calma di uno studioso che spieghi le sue teorie “Il potere di decidere chi sarà il prossimo imperatore. Ma fra pochi minuti questo potere svanirà, e tu tornerai ad essere quello di sempre.”

Jago storse il naso, e Vayne lesse nella sua minima espressione facciale che aveva visto giusto: Jago detestava la vita e la carriera che aveva lui stesso rovinato. Quella era la chiave per manipolarlo.

“E cosa di meglio posso volere? Sono un Iudex Magister. Per quello che vale.”

“Non rispondergli! Attaccalo!” tentò un’ultima volta l’Imperatore, ma poi abbassò lo sguardo rassegnato e tornò seduto.

“Sei un Iudex Magister in disgrazia” infilzò Vayne, ma subito dopo il suo tono si fece gentile “Ma io farò di più che garantirti una miserabile vita come mio protetto. Ripulirò il tuo nome e ti presenterò come uno dei Giudici a me più fedeli. Sarai una delle persone più influenti dell’Impero.”

Jago sgranò gli occhi, incredulo: “Stai scherzando? Di politica capisco poco e anche la legge mi ha stufato. Col potere che ho avuto finora ho saputo solo ridurmi a quello che sono. Nessuno mi vorrebbe accanto a sé!”

“Certo” assentì l’altro “Cosa penserebbero gli aristocratici? Cosa penserebbe il Senato? Cosa penserebbero i generali? Ma nell’Impero che creerò per noi questa gente non conterà più niente. Potrai anche non comprendere la politica e non scrivere mai più una legge finchè vivi, ma vivrai nella gloria e potrai lasciarti alle spalle il disonore a cui sei abituato.”

Jago abbassò gli occhi, riflessivo.

“Questo è il tipo di potere a cui miro: un potere che è anche libertà. E tu sarai libero di vivere la vita che desideri, per il solo fatto di essere al mio fianco.”

“E' una follia. Qualcosa che nessuno accetterebbe mai. Nemmeno io farei una scommessa del genere” finalmente sorrise, con una smorfia provocatoria.

“Certo... stiamo rischiando, non intendo nasconderlo. Puoi eliminarmi adesso, rispettare i desideri dell’Imperatore ed essere certo del risultato. Ma sappi che lui non potrà mai creare quell’Impero che sogno, non potrà mai darti quello che io ti prometto.”

Jago distolse lo sguardo, ancora incerto.

“Davvero eccezionale” valutò Gramis ad alta voce, sorseggiando dell’altro vino.

“Siamo entrambi qui” esortò Vayne avvicinandosi con calma a suo padre “quindi, Jago, appena avrai preso la tua decisione, agisci senza esitare.”

Poi gli occhi dei due Solidor si incrociarono. Vayne abbassò per un momento gli occhi, per quella frazione di secondo in cui la sua disciplina interiore non riuscì a soffocare il rimorso e il senso di perdita che si avvicinava inesorabile. Gramis quasi sorrise, rivedendo il passato sé stesso in suo figlio, la sua incrollabile determinazione, i suoi impercettibili dubbi.

“E così il Casato Solidor vive ancora.”



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Chiedo scusa a tutti. Di fatto, avendo iniziato a lavorare (per inciso, i miei lettori più attenti avranno già indovinato che lavoro faccio) ed essendo sommerso da altri impegni, avevo intenzione di interrompere del tutto la pubblicazione, come avevo appunto fatto.

Peraltro ho perso, o credo di aver perso, una lettrice a me cara. E sembra che questo sia destino, quando mi impegno molto con una fic. Il che mi ha comprensibilmente scoraggiato.

Però continuo a tornare a leggere questo capitolo, uno dei capitoli che ho scritto anche nella famosa “prima stesura”, e che secondo me vale la pena intera del lavoro – giacchè descrive proprio uno dei tasselli mancanti più importanti, ossia come si conclude il diverbio tra Vayne e il padre. Cosa è successo nella seconda parte della loro discussione, che ha portato alla morte del padre? E’ un pezzo importante di storia che ho immaginato tantissime volte, una delle grandi lacune nella trama del gioco che mi ha ispirato per scrivere questa storia.

Continuo a tornarci e a ricordarmi perché ho iniziato a scrivere questa fic. E alla fine mi decido e dopo mesi mi costringo a pubblicarlo e a ricominciare i lavori. Sperando che ne valga, appunto, la pena.

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