L'ultimo atto

di Glirnardir
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Parte 2 ***
Capitolo 3: *** Parte 3 ***



Capitolo 1
*** Parte 1 ***


N.d.T.: Questa storia non è mia. Io l'ho semplicemente tradotta per farvi conoscere la meravigliosa autrice Soledad. Per chi fosse interessato alla versione originale, la trovate qui: 
N.d.A.: Questa è una storia ambientata nell'universo letterario, il che significa che gli Uruk-hai nascondo in modo naturale (o comunque quello che per gli Orchi è il modo naturale), anziché essere estratti da pozze di fango. Ho usato un bel po' dei dialoghi originali tratti dal capitolo Gli Uruk-hai de Le due torri. La mia intenzione era quella di mostrare fondamentalmente gli stessi eventi dal punto di vista del nemico.
 
Parte 1
 
...............
 
     Fu così che non assistettero all'ultimo atto, durante il quale Uglúk fu raggiunto e accerchiato proprio ai margini di Fangorn. Ivi fu infine ucciso da Eomer, Terzo Maresciallo di Rohan, che smontò da cavallo e si batté con lui, spada contro spada. E dovunque, sulle ampie praterie, i Cavalieri dallo sguardo penetrante inseguirono i pochi Orchi scampati che ancora avevano la forza di correre.
 
 
Le Due Torri (Capitolo 3: Gli Uruk-hai)
 
...............
 
     Correvano sui campi verdi dei Signori dei Cavalli da quella che sembrava un’eternità - sin da quando avevano ucciso il grande guerriero di Gondor. Man mano che procedevano, Uglúk era sempre più preoccupato. Non si fidava dei piccoli porci di Lugbúrz, e men che meno di quel Grishnákh. Sapeva che l’altro Orco si sarebbe preso i preziosi prigionieri e sarebbe scomparso con loro oltre il Fiume e in direzione di Lugbúrz, se ne avesse avuta l’opportunità, e così avrebbe ottenuto il merito delle valorose gesta degli Uruk-hai lottatori, nelle quali non aveva svolto il benché minimo ruolo.
     Uglúk odiava e disprezzava tanto gli Orchi delle Miniere del nord quanto quelli di Lugbúrz. Era il capo degli Uruk-hai, il primo dei servitori di Saruman il Saggio, orgoglioso portatore della Bianco Mano che dava loro carne umana per renderli forti. Era più forte, più abile e più astuto di quei ratti delle gallerie. Non avrebbe permesso a quella feccia di tradirlo.
     Ma doveva essere cauto. I campi verdi del Paese dei Cavalli erano pericolosi; rigurgitanti di guerrieri bene addestrati, nemici del suo signore. Lui e le sue truppe erano partiti da Isengard con il compito di catturare i Mezzuomini e di riportarli allo Stregone Bianco. Vivi e incolumi - questi erano gli ordini, e sarebbe stato più facile portarli a termine senza due bande di infidi, sporchi idioti che cercavano di mettere le loro avide manacce sulla ricompensa. Tuttavia non poteva nemmeno permettersi di avere alle spalle quei porci, o i cavalieri li avrebbero potuti individuare da un momento all’altro.
     Era già stato costretto ad ammazzare qualcuno dei Nordiani, e avevano percorso un bel po’ di strada quando, giunta da poco la notte, le vedette finalmente tornarono. L’esile luna calava ormai verso occidente, ed erano appena giunti sull’orlo di una parete rocciosa che pareva dominasse un mare di nebbia biancastra. Nelle vicinanze si udiva scrosciare dell’acqua, e Uglúk sapeva di trovarsi nei pressi del burrone che li avrebbe portati verso la pianura sottostante.
     Lugdush trascinò uno dei vermi delle montagne al suo cospetto, e nel crepuscolo Uglúk abbassò sulla gracile vedetta uno sguardo disgustato.
     “Ebbene?” domandò. “Che cos’avete scoperto?”
     Il piccolo Orco si contrasse dalla paura. Bene. Dovevano temerlo.
     “Null’altro che un cavaliere solitario,” riferì la vedetta con uno squittio, “che galoppava verso ovest. Ora tutto è deserto.”
     “Ora, forse,” sbuffò Uglúk. “Ma per quanto ancora? Idioti!” Sferrò un tremendo calcio nelle costole della vedetta, e udì con soddisfazione lo scricchiolio delle ossa che si spezzavano. “Avreste dovuto ucciderlo. Darà sicuramente l’allarme. Quei maledetti allevatori di cavalli sapranno della nostra presenza prima di domattina. Ora dovremo raddoppiare l’andatura.”
     Non parlò agli altri della visione che continuava ad avere sin da quando avevano catturato i Mezzuomini. In questo modo avrebbe rivelato una debolezza, e qualsiasi debolezza non gli avrebbe fruttato che una rapida morte per mano dei suoi ragazzi. La sola cosa che gli Uruk-hai lottatori rispettavano era la forza - venivano procreati per questo, e lo stesso Uglúk era il risultato di generazioni di meticolosi incroci genetici. Era destinato aessere più forte, più abile, più veloce degli altri Orchi, persino più dei suoi stessi simili. Era destinato a mettere al mondo una generazione ancora migliore, alla fine di quello scontro.
     Era in grado di correre giorno e notte senza dormire e senza mai stancarsi. L’unica cosa che non riusciva a scuotersi di dosso erano quelle strane immagini mentali - una specie di oscuro presagio. Tutto considerato non era affatto una cattiva cosa, poiché serviva spesso ad avvertirlo di pericoli incombenti, ma a volte poteva essere… inquietante. E infatti Uglúk continuava a vedere quel liscio volto senza età, incorniciato da lunghi capelli ramati, e quei vividi occhi verdi che studiavano senza posa le loro tracce.
     Sapeva che li stavano inseguendo, e sapeva che almeno uno dei cacciatori doveva essere un Elfo. Non aveva mai visto un Elfo - erano diventati qualcosa di raro in quella parte della Terra di Mezzo, salvo nel Bosco d’Oro, dove nessun Uruk-hai sano di mente avrebbe mai osato metter piede. Non ancora, almeno, non prima di essere sufficientemente numerosi da poter sopraffare quei maledetti arcieri elfici che erano capaci di colpire l’occhio di un uccello a cento passi di distanza, giorno o notte che fosse. Non prima che Saruman divenisse così forte da schiacciare quella fattucchiera elfica che esercitava il proprio dominio sui boschi.
     Ma Uglúk li percepiva. Non molti Uruk-hai erano dotati di questa capacità. Erano stati generati a troppa distanza dalle loro radici. Ma alcuni di essi la possedevano ancora, e Uglúk era uno di quei pochi eletti.
     Aveva percepito l’Elfo già in prossimità di Rauros. Aveva anche notato che parecchi dei suoi ragazzi abbattuti erano stati trafitti da una freccia elfica. Il pensiero di avere un Elfo alle calcagna lo metteva a disagio. Non aveva certo paura di un singolo Elfo - in ogni caso, non prima di trovarsi a portata del suo arco elfico - ma sapeva bene che non si sarebbero sbarazzati di quell’Elfo tanto facilmente, come se fosse stato un Uomo. I sensi degli Elfi erano più penetranti addirittura di quelli degli Orchi - impossibile trarli in inganno.
     Per questo motivo, dovevano affidarsi alla velocità.
     Sfortunatamente, l’intera faccenda stava cominciando a generare una certa impazienza perfino nei suoi ragazzi.
     “Ne abbiamo abbastanza di trascinarci dietro i prigionieri,” ringhiò Lugdush. “Se dobbiamo scendere da questa cresta, anche a loro toccherà adoperare le gambe.”
     “Scapperebbero appena gliele liberassimo,” protestò una delle guardie. “Saranno anche piccoli, ma le creature piccole sono le più furbe.”
     “Loro non sono i soli,” ghignò malvagiamente Lugdush. “Inoltre esistono dei metodi per rintuzzare i loro scherzi che certo non gli piacerebbero, e che non diminuirebbero affatto la loro utilità per il Padrone.”
     Uglúk gettò su Lugdush un rapido sguardo pieno d’ammirazione. Era incredibilmente spietata, anche per essere una femmina, sebbene nessuno tranne un altro Uruk-hai sarebbe riuscito a stabilire il suo sesso; forse nemmeno un altro Orco. Uglúk era sfiorato dall’idea di accoppiarsi con Lugdush, alla fine di quello scontro. Vantava tratti eccellenti e un buon sangue. Insieme avrebbero potuto generare una prole invidiabile.
     Ora, tuttavia, altri piani più urgenti necessitavano di essere approntati. Uglúk aveva bisogno di velocità, e doveva compiacere dei seguaci recalcitranti. Non che i suoi Uruk si sarebbero ribellati contro di lui, perlomeno non prima di un suo eventuale errore, ma era necessario tenere sotto controllo i Nordiani e la lurida marmaglia di Grishnákh.
     Gli altri continuavano a litigare, e gli umori cominciavano già a scaldarsi.
     “Non c’è tempo per un assassinio in piena regola,” disse Lugdush, cercando di placare la sete di sangue degli altri. “Niente giochi, in questa spedizione.”
     “È inevitabile,” borbottò Grúbburz, un tipo piuttosto insipido che gli altri chiamavano lo Sfregiatore. “Ma perché non ucciderli presto, o subito? Sono una maledetta seccatura, e noi abbiamo molta fretta. La sera sta per arrivare, e dovremmo rimetterci in marcia.”
     “Ordini,” disse Uglúk in un profondo ringhio, seccato dal fatto che neanche i suoi compagni più stretti capissero l’importanza della loro missione. “Uccidete tutti ma non i Mezzuomini; devono essere riportati vivi al più presto. Questi sono gli ordini.”
     “A che cosa servono?” chiese Bâshdûl, una femmina particolarmente brutta che si era guadagnata il soprannome ‘la Sbavatrice’. “Perché li vogliono vivi? Forse sono divertenti?”
     “No!” A rispondere non era stato Uglúk, ma Grothrásh, uno dei più grossi componenti della banda Uruk-hai. “Ho sentito dire che uno di loro possiede qualcosa, qualcosa ch’è necessario per la Guerra, qualche gingillo elfico o roba del genere. Comunque saranno interrogati separatamente.”
     Uglúk roteò gli occhi. Di tutti i possibili individui, era stato Grothrásh a origliare il suo colloquio con il Padrone. Peccato che Grothrásh fosse un idiota; inoltre era un tipo che non sapeva mai tenere la bocca chiusa. Comunque era uno dei guerrieri migliori; non poteva permettersi di lasciarlo indietro.
     “È tutto quel che sai?” chiese Bâshdûl in tono petulante. “Perché non frugarli, e scoprire la verità? Potremmo trovare qualcosa di utile per noi.”
     “Questo è un commento molto interessante,” ghignò la voce bassa e lamentosa di Grishnákh, il capo di quella maledetta banda proveniente da Lugbúrz. “Potrei riferire ciò ch’è stato detto. I prigionieri non devono essere frugati né derubati: sono questi i miei ordini.”
     “E anche i miei,” ribatté Uglúk, detestando il fatto che quella misera sottospecie di Orco stesse cercando ancora una volta di scalzarlo dal posto di comando. “Vivi, e nello stato in cui sono stati catturati: guai a torcer loro un capello. Ecco i miei ordini.”
     “Ma non i nostri!” disse uno dei Nordiani con aria belligerante. “Siamo venuti sin qui dalle Miniere per ammazzare, e per vendicare il nostro popolo. Voglio uccidere e poi tornare al Nord.”
     Uglúk fece un sorriso minaccioso, scoprendo una fila di zanne luccicanti nella luce rossa. Alcuni dei Nordiani si contrassero e si fecero da parte.
     “E allora continua pure a volere,” ringhiò. “Io sono Uglúk. Io comando. Io torno a Isengard per la via più breve. Se non siete d’accordo, nessuno vi obbliga a restare. Andate!”
     Il Nordiano gli scoccò un’occhiata carica di odio.
     “Se fossi libero di fare a mio modo, sarebbero morti da un pezzo,” disse, “e anche voi. Voi Uruk vi comportate sempre come se foste speciali, mentre non siete altro che i raccatta-letame di un piccolo e sporco stregone.”
     Uglúk gettò indietro la testa e rise - era un suono terrificante, e non solo per i prigionieri. Vide i Nordiani farsi piccoli ancora una volta, e persino i ragazzi di Grishnákh - creature tozze dalle gambe arcuate, larghe quasi quanto erano alti, e dalle lunghe braccia che sfioravano quasi terra - arretrarono con una certa cautela. Era indubbiamente un bel vantaggio essere un massiccio Uruk nero, ancor più grande di un Uomo; bastavano le dimensioni a spaventare i più piccoli goblin, riportandoli all’obbedienza. O perlomeno bastava nella maggior parte dei casi.
     “Piccolo stregone?” ripeté Uglúk, continuando a ridacchiare con una malvagità tale da far rabbrividire alcuni dei più piccoli Orchi del Nord. “Idioti! Non sapete di cosa state parlando. Ma lo imparerete molto presto. Non c’è scampo da Isengard; e se porteremo allo Stregone Bianco ciò di cui ha bisogno, tutte queste terre saranno presto sotto il suo dominio, e noi cresceremo forti cibandoci di carne di cavallo… e qualcosa di meglio ancora.”
     “Sei molto sicuro di te, Uglúk,” ruggì Grishnákh, “ma non sei ancora arrivato a Isengard. E forse Saruman è diventato il padrone del Grande Occhio?”
     Uglúk snudò le zanne in un sogghigno privo di allegria. “Non ancora. Ma un giorno lo diventerà.”
     “Lo vedremo,” sbottò Grishnákh. “Lo vedremo, idiota!” Radunò intorno a sé i propri seguaci, mormorando sottovoce qualche imprecazione nell’idioma delle Terre Nere. “Uglúk u bagronk sha pushdug Saruman-glob búbhosh skai.”
     Gli altri ruggirono il proprio consenso, e ben presto entrarono in un’accalorata discussione che alle orecchie di Uglúk suonava come una serie di ruggiti e imprecazioni. Diversamente dagli altri Orchi, gli Uruk-hai lottatori di Isengard si servivano della Lingua Nera soltanto per trattare con i loro parenti più deboli. Fra loro adoperavano l’idioma degli Uomini - o meglio una sua versione modificata, piena di parole appartenenti a svariati dialetti orcheschi, ma pur sempre una lingua assai più avanzata.
     Ancora una volta, Uglúk maledisse il destino che l’aveva costretto a collaborare con quei ratti, ma non aveva altra scelta. Non prima di aver raggiunto Isengard. Allora avrebbe avuto l’occasione di ripagarli come meritavano. Ma ora bisognava accelerare le cose, se non volevano restare lì impalati ad aspettare l’arrivo dei cavalieri.
     “E va bene,” acconsentì con riluttanza. “Slegate le gambe a quei sottosviluppati, e dategli un goccetto di acquavite per rimetterli in piedi.”
     Lugdush sorrise malvagiamente e tagliò le cinghie che legavano gambe e caviglie del Mezzuomo più piccolo, trascinandolo per i capelli. La piccola creatura cadde nuovamente bocconi, con gran divertimento degli Uruk presenti; evidentemente aveva le gambe intorpidite. Lugdush bestemmiò e infilò a forza la propria fiaschetta rivestita di cuoio tra i denti del Mezzuomo, versandogli giù per la gola alcuni sorsi di preziosa acquavite ai quali fu alquanto penoso dover rinunciare. Quei piccoli conigli non erano degni di quella prelibatezza che avrebbe preferito conservare per se stessa, per lenire l’indolenzimento delle proprie membra, ma era un sacrificio necessario.
     E sortì esattamente l’effetto previsto. Dopo pochi istanti il Mezzuomo riusciva già a stare in piedi da solo, lanciando occhiate furibonde ai suoi rapitori, che gli fruttarono un altro scoppio di risatine da parte degli Uruk.
     Uglúk annuì, soddisfatto. “Adesso tocca all’altro!” disse. “E non sprecate altro tempo, dobbiamo rimetterci in marcia!”
     Lugdush si diresse verso il secondo sottosviluppato, ancora privo di sensi, e gli sferrò un calcio nelle costole - badando di svegliarlo soltanto, senza causargli seri danni. La creatura emise un gemito ma non si mosse.
     “Portamelo qui,” ordinò Uglúk. “Fammi vedere quella sua ferita.”
     Lugdush tirò su il Mezzuomo e lo gettò ai piedi di Uglúk, tirandolo su in una posizione seduta e strappandogli la fasciatura dalla testa. Uglúk esaminò lo sfregio sulla fronte del Mazzuolo - non aveva un bruttissimo aspetto. Era stato un peccato dover uccidere quell’idiota di Gâbhâk perché aveva danneggiato il prigioniero. Quello stupido era un combattente dannatamente bravo. Ahimè, Uglúk doveva imporre un esempio se voleva che i prigionieri arrivassero al suo Padrone tutti interi.
     “Vivrà,” valutò. “Dammi la medicina!”
     Lugdush gli porse la scatola di legno, e Uglúk spalmò un po’ di unguento nero sulla ferita. Sapeva che si sarebbe rimarginata prima del loro arrivo a Isengard; la medicina del vecchio Grúbkhash faceva sempre il suo lavoro.
     Il Mezzuomo pareva meno convinto di lui riguardo all’utilità dell’unguento curativo del Vecchio Grúbkhash. Lanciò un urlo di dolore, avvertendo il bruciore dell’unguento sulla ferita, e si dibatté selvaggiamente, ma inutilmente, tra gli artigli di Lugdush che lo tenevano bloccato. Questo fatto divertì gli altri Orchi oltre ogni dire; essi presero ad applaudire e a fischiare.
     “Non è capace di prendere la sua medicina,” sghignazzò Bâshrat, un guerriero vecchissimo (almeno per essere un Orco), che non per niente era soprannominato ‘lo Sdentato’; la sua bocca spalancata somigliava a una caverna oscura piena di cose sporche. “Non capisce nemmeno quando una cosa gli fa bene. Eh! Ci divertiremo davvero, più tardi.”
     “Molto più tardi, dico io,” ringhiò Uglúk, mostrando  allo sdentato le proprie zanne, del tutto rispettabili. “Non abbiamo tempo per gli svaghi, ora come ora. Krumkû, taglia i legacci alle gambe e mettilo in piedi. Dobbiamo partire subito.”
     La sua prima guardia obbedì prontamente - potendo vantare il grado di capitano, Uglúk aveva parecchie guardie, e questa era una femmina, abbastanza feroce da farsi affibbiare il soprannome ‘l’Orrenda’ dalla sua stessa gente. Il Mezzuomo si alzò, dopo esser stato costretto a ingollare un sorso della preziosa acquavite; aveva un’espressione pallida, ma spavalda e risoluta. Bisognava riconoscere almeno questo merito a quel piccolo coniglio. Poteva anche essere un idiota, ma certamente non era un codardo.
     E questo avrebbe reso tanto più divertente il suo… interrogario, una volta che fossero giunti a Isengard. Krumkû se la sarebbe spassata un mondo. Lei adorava quel tipo di lavoro.
     “Ehi, voi!” disse Uglúk, trascinando il piccolo idiota lontano dal suo ancor più piccolo amichetto; blateravano qualcosa a proposito di letto e colazione! “Niente scherzi! Cucitevi la bocca. Non parlate fra di voi. Ogni fastidio che darete verrà riferito al Capo, e Lui saprà come ricompensarvi.”
     “Avrete letti e colazioni in abbondanza,” aggiunse Krumkû con un ghigno di spietato godimento; “più di quanti non possiate sopportare, piccoli conigli.”
     “Teneteli d’occhio,” ringhiò Uglúk a voce così bassa da farsi udire soltanto dai propri seguaci. “Non permettete ai porci di Grishnákh di avvicinarsi!”
     Krumkû annuì e ordinò a circa una dozzina dei ragazzi migliori di circondare i due Mezzuomini e di separarli l’uno dall’altro. Cominciarono a discendere uno stretto burrone che conduceva nella pianura nebbiosa sottostante. Raggiunto il fondo, si fermarono sull’erba. Uglúk trasse un respiro profondo. Avevano raggiunto le terre pianeggianti, il che significava che ora avrebbero corso con maggior velocità e facilità.
     Sfortunatamente anche i cavalli del Mark avrebbero goduto di questo vantaggio.
     “Ed ora dritto in avanti!” gridò. “Lugdush, guida tu, sei quella che conosce meglio questi campi. In direzione ovest, anzi leggermente verso nord-ovest. Tutti gli altri, seguite Lugdush.”
     Alcuni dei Nordiani parevano spaventati di fronte alle ampie terre brulle, ove non si sarebbero potuti nascondere dal sole.
     “Ma che cosa faremo all’alba?” domandò uno di loro; una piccola creatura ossuta, del tutto indegna del nome di Orco. Uglúk gli rivolse uno sguardo disgustato.
     “Continueremo a correre,” ruggì. “Che cosa credi?”
     “Forse vuole sedersi sull’erba ed aspettare che i Pellebianchi vengano a partecipare alla scampagnata,” suggerì Krumkû, evidentemente stuzzicata dall’idea di gettare i Nordiani tra le grinfie dei Signori dei Cavalli.
     “E lasciare che indichino ai cavalieri la nostra direzione?” grugnì Uglúk. “Non credo proprio. No, dobbiamo restare uniti.”
     “Ma non possiamo correre alla luce del sole,” protestò debolmente il Nordiano.
     “Correrete con me alle calcagna,” lo minacciò Thraknazh, la seconda guardia di Uglúk. “O altrimenti non vedrete mai più le vostre adorate caverne.” E per aggiungere ulteriore enfasi alle proprie parole, agitò minacciosamente lo scudiscio dalle numerose cinghie, facendo sobbalzare il piccolo Orco.
     Uglúk, esasperato, scosse la testa imponente.
     “Per la Bianca Mano!” ringhiò “A che serve mandare in giro dei vermiciattoli di montagna addestrati a metà in una missione così importante? Correte, maledetti! Correte finché fa notte, o assaggerete la frusta di Thraknazh.”
     A queste parole gli Orchi più piccoli si alzarono subito in piedi, e l’intera compagnia si mise a correre con i passi lunghi e saltellanti caratteristici degli Orchi. Non procedevano in ordine, eccezion fatta per la banda bene addestrata di Uglúk. I Nordiani e quelli di Lugbúrz si spingevano, si urtavano e imprecavano, e più lo facevano più la sferza di Thraknazh accarezzava loro le gambe. In questo modo riuscivano a mantenere una gran velocità, eppure Uglúk non era soddisfatto. Continuava a vedere il volto dell’Elfo e il suo capo curvo, intento a seguire le loro tracce, correndo dietro a loro, così leggero che l’erba si piegava appena sotto i suoi piedi.
 
 
     Avevano percorso circa un miglio dalla cresta con quell’andatura forzata, quando la campagna scese con lieve pendio sino a un’ampia e bassa depressione. Qui il terreno era soffice e bagnato, e le loro scarpe chiodate vi sprofondavano, e ogni cosa era immersa nella nebbia che scintillava con pallido bagliore agli ultimi raggi della luna calante. Innanzi a Uglúk, le scure sagome di Lugdush e di quelli che la seguivano più da vicino diventarono confuse, e quindi scomparvero del tutto, apparentemente ingoiate dal buio.
     “Ahi! State attenti adesso!” gridò Uglúk dal fondo della fila. “Non perdete di vista la testa del gruppo, ragazzi, o non vi ritroveremo mai più in questa foschia maledetta!”
     La stessa idea doveva esser balenata anche nella mente del Mezzuomo più piccolo, che si svincolò dalle guardie e fece un brusco scarto, tuffandosi dritto nella nebbia. Fortunatamente non riuscì a saltare molto lontano, poiché lo si poteva vedere ancora, lungo disteso per terra.
     “Alt!” urlò Uglúk. Il solo pensiero che avevano rischiato di perdere uno dei loro prigionieri lo inferociva. “Non fatelo scappare!”
     Seguì un attimo di baraonda e di confusione. Il Mezzuomo con un balzo fu in piedi e si mise a correre. Ma Thraknazh era già alle sue calcagna, maneggiando la frusta con un polso sorprendentemente sciolto per un grosso Uruk nero.
     Il piccolo sottosviluppato poté reprimere a malapena un grido allorché le cinghie dello scudiscio gli si avvolsero intorno alle gambe, fermandolo di colpo.
     “Basta così!” vociò Uglúk avvicinandosi a passo di corsa e afferrando il braccio di Thraknazh proprio mentre il mastro aguzzino si accingeva a vibrare la sferzata successiva. “Ha ancora un bel po’ di strada da fare. Che corrano ambedue! Adopera la frusta soltanto per rinfrescar loro la memoria.”
     Thraknazh annuì con aria risentita; non era un’idiota, e per questo comprendeva l’importanza della velocità. Si sarebbe divertito con quelle miserande creaturine una volta arrivati a Isengard. Oh, eccome si sarebbe divertito! Lui e Krumkû erano una gran coppia, non solo come compagni di fornicazione ma anche come inquisitori. Non vi era mai stato un prigioniero che, interrogato da loro, alla fine non cantasse come un usignolo.
     Non che gli Uruk si curassero del canto degli uccelli, beninteso. Questo paragone era stato inventato dal loro Padrone, il quale, per motivi che essi non erano in grado di comprendere, aveva qualche interesse nelle creature vive. Ma in fin dei conti nessuno aveva mai chiesto loro di capire. Solo di obbedire.
     Eppure Uglúk non si consolava pensando alla roccaforte del loro Padrone. Erano ancora troppo lontani dalla sicurezza che essa rappresentava - e i prigionieri causavano problemi. Era una cosa intollerabile.
     “Ma non te la caverai con così poco,” ruggì al tremebondo Mezzuomo, combattendo il violento impulso di squartarlo seduta stante, membro per membro. “Io non dimentico. Il saldo del conto è soltanto rinviato,” Afferrò il sottosviluppato per i corti capelli ricciuti, lo sollevò fino all’altezza dei propri occhi, e infine lo lasciò cadere rudemente. “Su, in marcia!”
     L’inseguimento proseguì per lungo tempo. Correvano e correvano, con la rapida Lugdush in testa, i Nordiani costretti a seguirla dallo scudiscio di Thraknazh, per il quale era esattamente lo stesso, che i lenti fossero Orchi o Mezzuomini. Maneggiava lo strumento della disciplina con destrezza, e Uglúk guardandolo si sentiva orgoglioso.
     L’altro Uruk era alto quasi quanto lui, e il torace ampio, le spalle muscolose, la pelle scura rilucente di sudore, i capelli arruffati che scendevano a ricoprirgli la schiena, gli conferivano un aspetto ancor più feroce. Ecco come doveva essere un Uruk lottatore. Forse doveva fare di Thraknazh la sua Seconda Guardia. Che prendesse pure il posto di Gâbhâk, quello sfortunato idiota, da quel momento in avanti. Con due compagni di coppia a proteggergli le spalle, Uglúk non avrebbe avuto ragione di temere per la propria posizione. Krumkû e Thraknazh non avrebbero mai permesso all’altro di uccidere il capo e insediarsi al suo posto. La competizione tra due compagni era una cosa potente - e che gli tornava estremamente utile.
     La seconda notte cominciò a crearsi un altro subbuglio tra i maledetti Nordiani. Il loro costante brusio crebbe in un violento clamore; molti di loro esigevano una sosta. Le truppe degli Uruk-hai si accalcarono intorno ai prigionieri, formando un cerchio protettivo, e Lugdush tornò indietro a gran carriera, furibonda per il ritardo.
     “Che cos’aspettate?” vociò. “Dobbiamo proseguire, altrimenti finiremo per farci catturare, maledetti idioti!”
     “Non possono proseguire, non ancora,” sghignazzò Krumkû. “Le loro deboli membra non resistono alle asperità del cammino, poveri vermiciattoli! Io dico di lasciarli indietro, affinché i cavalieri ci si divertano.”
     “No,” disse Uglúk, sebbene con una certa riluttanza, poiché il suggerimento di Krumkû era davvero allettante. “L’unione fa la forza. E dopo tutto anche i prigionieri hanno bisogno di una sosta. Breve, però. Riposiamo e rifocilliamoci finché possiamo - ma presto dovremo ripartire.”
     Si accasciarono tutti quanti sull’erba calpestata. Uglúk ordinò a Gâshag, una delle sue più fide seguaci, di sfamare i prigionieri. I piccoli sottosviluppati avrebbero necessitato di tutte le loro forze per riprendere la marcia. Era già mattino; gli alti picchi delle montagne che giganteggiavano innanzi a loro attiravano i primi raggi di sole. Sulle pendici alle falde delle montagne vi era una scura chiazza che Uglúk sapeva essere una foresta… una nella quale avrebbe preferito non entrare, tranne in caso di massima necessità.
     Lugdush andò a sederglisi accanto sulla riva del fiume rapido e stretto. Gli offrì un grosso pezzo di torta rahdak friabile e la sua fiasca di acquavite.
     “Ti servirà tutta la tua forza,” disse. “I vermiciattoli delle montagne e i maledetti idioti di Lugbúrz stanno per creare nuovi problemi. Devi essere rapido e forte per ucciderli prima che le cose si mettano… al brutto.”
     Uglúk accettò l’offerta dolce e appiccicosa - la torta non era soltanto deliziosa, ma conferiva una forza sufficiente per molte ore. Si diceva che gli Elfi avessero qualcosa di simile; uno snaga, una volta, aveva trovato un pezzo di pan di via accanto al cadavere di un arciere del Bosco d’Oro. Ma si trattava di una galletta calda e secca, aveva detto lo snaga, e sapeva di polvere; l’aveva quasi soffocato.
     Fu tuttavia una sorpresa per Uglúk il fatto che Lugdush fosse disposta a dividere le preziose risorse con lui. Glielo disse. La femmina scoprì le zanne in un sorriso, scrollando quelle sue magnifiche, ampie spalle.
     “Preferisco te rispetto agli altri candidati,” disse. “Con un nuovo capo, dovrei ricominciare a lottare per conquistarmi una buona posizione. Per me è molto meglio se resti al comando.”
     Uglúk ricambiò il sorriso. “Sai, potresti rinforzare ulteriormente la tua posizione,” disse. “Voglio accoppiarmi con te, quando saremo tornati a Isengard.”
     “Ottima scelta.” Lugdush allungò con aria provocante il suo corpo sensuale, nero e lucente. “Ma non pensi che lo stregone s’infastidirebbe se io avessi dei cuccioli in pancia e non potessi più svolgere il mio ruolo di battitrice per qualche tempo?”
     “Lui vuole che ci accoppiamo,” disse Uglúk scrollando le spalle. “E anche noi vogliamo accoppiarci - non mi sembra che siano problemi. Inoltre una buona fornicata rimpolpa sempre il morale delle truppe, e lo stregone lo sa.”
     Lugdush fece un sorriso che le illuminò il volto da un orecchio all’altro, si mise carponi e prese a dimenare il sodo didietro in maniera allettante. “Ti va di rimpolparmi il morale adesso?”
     Uglúk l’avrebbe fatto volentieri durante la breve sosta. Sfortunatamente furono interrotti, poiché le truppe avevano ricominciato a gridare e a discutere animatamente. Pareva che stesse per scoppiare un’altra lite con i ratti delle gallerie. Alcuni di essi facevano cenni verso sud, alle loro spalle, altri verso oriente, mentre Thraknazh maneggiava la frusta e Krumkû giocherellava con il suo lungo coltello - quasi distrattamente, si sarebbe potuto pensare, ma Uglúk sapeva perfettamente che non era così.
     Gâshag e Krumluk si erano già piantati a piè fermo davanti ai prigionieri, pronti a uccidere chiunque tentasse di afferrarli, e Baghâk e Skraluk si stavano precipitando in loro aiuto, insieme al vecchio Bâshrat, lo sdentato, e a Ghashur, che era grande e grosso quasi quanto lo stesso Uglúk.
     D’un balzo Uglúk fu in piedi, emettendo un ringhio impaziente. Era il momento di fare i conti con quei vermiciattoli, ma per la Bianca Mano, cominciavano a stancarlo. Lo avevano appena privato del riposo più perfetto che un Uruk lottatore potesse mai sperare.
     “Volete tornarvene a casa, ai vostri fetidi buchi?” ringhiò. “Benissimo; lasciate i prigionieri a me, allora! Vietato ucciderli, come vi ho già detto; ma se proprio volete gettare via quel che siamo venuti a cercare sin qui, gettatelo pure! Me ne occuperò io.”
     “Ce ne occuperemo noi,” lo corresse Krumkû, accarezzando con un lungo artiglio ricurvo la lama del coltello affilato come un rasoio. “Gli Uruk-hai lottatori faranno tutto il lavoro, come al solito.”
     “Se avete paura dei Pellebianchi, scappate!” aggiunse Uglúk con un ghigno ferino. “Correte! Lì è la foresta,” gridò, puntando il dito innanzi a sé. “Rifugiatevi lì! È la vostra unica speranza. Fuggite! Ma fate presto, prima ch’io tagli qualche altra testa per mettere un po’ più di senno nelle altre.”
     Dopo un bel po’ di grida e imprecazioni, la maggior parte dei Nordiani si diede alla fuga, mettendosi a correre come impazziti lungo il fiume in direzione dei monti.
     “Quanti se ne sono andati?” chiese Uglúk, celando a stento il proprio disgusto.
     “Più di un centinaio,” riferì Thraknazh. “Con noi è rimasto soltanto un pugno di vedette. Non che gli altri usciranno mai vivi da quella foresta, beninteso,” soggiunse con un gran sorriso, decisamente sgradevole. “Ho sentito dire che gli alberi sono… tutt’altro che ospitali da quelle parti.”
     “Che bella liberazione,” ringhiò Uglúk. “Ora non dobbiamo far altro che fare i conti con Grishnákh e la sua canaglia.”
     “Non ne sarei tanto sicura,” disse Lugdush, volgendo a sud uno sguardo inquieto.
     “Lo so,” ringhiò Uglúk. “Quei maledetti allevatori di cavalli sanno che siamo qui. Ma è stata tutta colpa tua, Snaga,” aggiunse, lanciando un’occhiataccia alla piccola vedetta che, ancora una volta, si faceva piccolo dalla paura. “Tu e le altre vedette meritereste che vi tagliassimo le orecchie.”
     “Non ha importanza,” disse Krumkû scrollando le spalle. “Siamo ancora in venti, e venti Uruk-hai, non certo patetici vermiciattoli delle montagne. Siamo noi i combattenti. Vedrete che pasteggeremo con carne di cavallo, o con qualcosa di meglio ancora.”
     “Ammesso che i nostri ‘amici’ non ci procurino prima qualche problema,” ruggì Skaithak, noto anche come lo Storpiatore.
     Uglúk gli scoccò uno sguardo ostile. Di tutti i suoi subalterni, Skaithak era l’unico che poteva minacciare la sua posizione. Quella miserabile sottospecie di Uruk non sarebbe mai stato capace di uccidere un Uomo faccia a faccia, ma era abilissimo nell’uccidere e nello storpiare alle spalle chiunque. Compresi i suoi simili. Inoltre era estremamente bravo a leccare i piedi allo stregone. Queste erano due abilità che potevano tornargli molto utili, se sfruttate al momento giusto. Ed era precisamente per questo motivo che Uglúk teneva sempre un occhio vigile su Skaithak.
     In quel momento, tuttavia, fu costretto a concordare con il suo rivale. Vedendo tornare indietro la marmaglia di Grishnákh - una buona quarantina di Orchi - desiderò quasi che i cavalieri fossero arrivati prima di loro. Quasi.
     “Così, siete tornati?” domandò andando incontro a Grishnákh, che senza volerlo arretrò di un passo. “Ci avete pensato su, eh? O siete stati spaventati da qualche coniglio sbandato?”
     “Sono tornato per accertarmi che gli Ordini vengano eseguiti e i prigionieri non siano molestati,” ribatté Grishnákh con aria furente.
     “Davvero?” disse Krumkû con tono dolce e minaccioso al tempo stesso. “Ma sarà sicuro per voi? Ne dubito. Molto.”
     “E poi è fatica sprecata,” disse Uglúk. “Sarò io a occuparmi di far eseguire gli ordini. L’ho sempre fatto. E ci sono sempre riuscito.”
     “Forse è tornato per qualche altro motivo?” disse Krumkû dolcemente. Uglúk fece spallucce.
     “Perché? Se l’è svignata in fretta per salvarsi la pelle, non è così?”
     “Forse nella fretta della partenza ha lasciato qui qualcosa?” suggerì Lugdush con un luccichio negli occhi. “Potrebbe comunque lasciare qualcosa molto presto. La testa, per esempio.”
     “Ho lasciato un idiota,” ruggì Grishnákh. “Ma con lui ci sono dei ragazzi in gamba ch’è un peccato perdere. Quelli che non si lasciano comandare dalle loro femmine.”
     “I nostri maschi ci seguono,” lo corresse Lugdush, “perché siamo più brave a trovare la giusta via. Blateri di cose che non puoi sperare di capire.”
     “Ah, non posso?” ribatté Grishnákh, scoprendo le zanne. “Sapevo che tu e quell’idiota di Uglúk li avreste messi nei guai. Sono tornato ad aiutarli.”
     Se il suo intento era quello d’impressionare Orchi più grandi e più forti di lui, ebbe una brutta delusione. Tutti gli Uruk-hai riuniti attorno al loro capo si erano messi a sghignazzare al solo pensiero di aver bisogno di aiuto da parte di  Grishnákh e della sua banda.
     “Benissimo!” rise Uglúk con le lacrime agli occhi. “Ma hai preso la strada, a meno che tu non abbia un po’ di fegato per combattere.”
     “Non era Lugbúrz la tua direzione?” chiese Bâshdûl con falsa innocenza. “I Pellebianchi stanno arrivando - da quando in qua sei così ansioso di combatterli?”
     “E a proposito - cos’è accaduto al tuo prezioso Nazgûl?” aggiunse Uglúk. “Gli hanno ammazzato un altro cavallo? O forse stavolta quell’Elfo ha accoppato lui?”
     “Ecco, se l’avessi portato con te avresti fatto forse una cosa utile,” commentò Thraknazh in tono asciutto. “Ammesso che questi Nazgûl siano effettivamente ciò che pretendono di essere.”
     “Tu credi?” domandò Uglúk disgustato. “A cosa ci sono mai serviti gli spettri di Lugbúrz? E comunque cosa potrà mai fare un Nazgûl, oltre a far sì che gli Uomini se la facciano sotto dalla paura?”
     “Nazgûl, Nazgûl,” disse Grishnákh tremando e passandosi la lingua sulle labbra, come se la parola avesse un orribile gusto, sgradevolissimo da assaporare - con grande spasso degli Uruk-hai, che al contrario degli Orchi più deboli non avevano paura degli spettri. “Parli di qualcosa molto al di sopra dei tuoi sogni fangosi, Uglúk!”
     “Illuminami, allora,” disse Uglúk con un gran sorriso, incrociando le braccia sul petto massiccio. “Che cosa pretende di essere il tuo prezioso Nazgûl? Quel che ho visto finora non è certo granché.”
     Grishnákh roteò gli occhi all’indietro - era uno strano quadretto di odio, collera e panico.
     “Imbecille!” ruggì ferocemente. “Ah! Ciò che pretendono di essere! Un giorno ti rincrescerà di aver detto una cosa simile.”
     “Ah, dici davvero?” ghignò Uglúk. “E perché mai?”
     Grishnákh si guardò intorno per assicurarsi che la sua gente non potesse sentirlo -  mostrare una debolezza era tanto fatale per i deboli Orchi quanto lo era per gli Uruk-hai. Ma in quel momento aveva bisogno di avere Uglúk dalla sua parte, perlomeno fino a quando non fossero riusciti a liberarsi della minaccia rappresentata dai cavalieri, perciò s’impegnò a far capire l’Orco più grosso.
     “Ascoltami, idiota,” sibilò. “Dovresti sapere che sono la pupilla del Grande Occhio. Non possiamo permetterci di farli incollerire. Quanto ai Nazgûl alati, non è ancora giunta l’ora. Egli non vuole che si mostrino su questa sponda del Grande Fiume, per adesso, non ancora. Essi servono alla Guerra - e ad altri scopi.”
     “Sai molte cose, a quanto pare,” disse Uglúk, sospettoso. “Troppe, credo.”
     “Forse laggiù a Lugbúrz si domanderanno come mai, e perché,” commentò beffardamente Krumkû.
     “Credete di poter nascondere qualcosa al Grande Occhio?” replicò Grishnákh con un grugnito beffardo. “Se sono stato scelto, credetemi, è perché sono affidabile. E fidato.”
     “Se a Lugbúrz si fidano di te, sono ancora più idioti di quanto pensassi,” disse Uglúk. “E nel frattempo gli Uruk-hai di Isengard sbrigheranno come al solito le faccende più pesanti. Ma non per Lugbúrz; scordatelo. Noi combattiamo per la Bianca Mano, non per il tuo prezioso Occhio Rosso.”
     Si allontanò dalla banda di Lugbúrz, rivolgendosi alla propria gente. “È ora di ripartire,” disse. “Gâshag, Krumluk, tirate su i prigionieri. Krumkû, Thraknazh, fate muovere i ragazzi. Lugdush, va’ in testa alla colonna a impostare il ritmo di marcia.”
     I due che aveva chiamato afferrarono i piccoli sottosviluppati e se li misero in spalla. Le due guardie misero in formazione la truppa, preparandola a ripartire - questa operazione richiese un bel po’ di frustate da parte di Thraknazh, ma si svolse con sufficiente rapidità da accontentare persino Uglúk. Prima di mettersi a correre dietro i suoi, si voltò per scoccare uno sguardo maligno all’indirizzo di Grishnákh.
     “Non star lì impalato con la bava alla bocca!” gongolò. “Riunisci la tua canaglia! Gli altri porci se la son data a gambe verso la foresta. È quel che vi consiglio di fare. Non tornereste vivi al Grande Fiume.”
     “Coraggio!” aggiunse Thraknazh, agitando la frusta con palese godimento. “Si parte immediatamente, dannazione! Io vi starò alle calcagna.”

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Capitolo 2
*** Parte 2 ***


Parte 3

     Continuarono a correre tutto il giorno, con l’indefessa caparbietà di cui soltanto gli Uruk-hai erano capaci, persino più degli Orchi comuni. Non si fermavano mai, solo rallentavano di tanto in tanto per trasferire i prigionieri da un portatore a un altro, cosicché nessuno si affaticasse a causa del peso aggiuntivo. Questo incarico toccò a ciascuno degli Uruk senza eccezioni, salvo la battitrice, il mastro aguzzino e lo stesso Uglúk - loro erano chiamati a compiti di maggiore importanza.
     Benché l’intenzione originale di Uglúk fosse quella d’imbrancare la banda di Grishnákh davanti al proprio gruppo, gli Uruk-hai sorpassarono gradualmente i miserabili ratti di Lugbúrz, che si misero quindi alla retroguardia.
     “Non mi piace,” ringhiò Thraknazh a voce bassa. “Si trattengono di proposito. Dovrebbero precederci di parecchio.”
     “Ma noi siamo più veloci e più robusti,” osservò Krumkû, rompendo con disinvoltura il naso di uno dei ragazzi di Grishnákh che le si era avvicinato un po’ troppo per i suoi gusti.
     “Thraknazh ha ragione,” disse Uglúk. “Quel maledetto Grishnákh ha in mente qualcosa. Tienilo d’occhio, Krumkû, sino a quando raggiungeremo la foresta.”
     “Hai intenzione di entrare nella foresta?” domandò Krumkû, senza nemmeno tentare di nascondere il proprio disagio. Non molte erano le cose in grado di spaventare Krumkû l’Orrenda, ma quegli strani, antichi boschi erano fra esse. Anche Uglúk rabbrividì.
     “Non se è possibile evitarlo, no,” replicò. “Ma potremmo esservi costretti. I cavalli dei Pellebianchi non ci seguirebbero lì dentro… e se lasciassimo giocare gli alberi con i vermiciattoli del Nord - e noi invece non li toccassimo - dovrebbe filarci tutto a meraviglia, credo.”
     “Credi?” domandò Krumkû, incredula. Uglúk alzò le spalle.
     “Spero. Non possiamo combattere a un tempo tutti e due i nemici, alberi e cavalieri, e al momento il rischio minore è rappresentato dai cavalieri.”
     Continuarono a correre, e presto incominciarono a guadagnare terreno persino sui Nordiani che li precedevano. La risoluta Lugdush corse in testa alla colonna, infaticabile, senza riposo, e le sue gambe forti si alternavano incessantemente, come se il suo intero corpo fosse fatto di fil di ferro e corno, e Uglúk si concesse un attimo di piacere, immaginando la splendida prole che avrebbe messo al mondo con quella femmina eccezionale. Lugdush era ancora molto giovane, avendo superato la maturità da appena due anni, e ancora non aveva il permesso di generare. Ma all’età di otto anni non la si poteva certo definire una ragazzina; e Uglúk era fermamente deciso a conquistarsela.
     In quel momento, tuttavia, dovevano correre se volevano raggiungere l’incerta sicurezza della foresta. E così corsero, e Uglúk constatò con sgomento e sospetto che la gente di Grishnákh era davvero in grado di stare al passo con loro.
     Nel pomeriggio raggiunsero davvero i Nordiani. Stavano ormai rallentando sotto i raggi del sole invernale, che pure era debole e pallido. Avanzavano col capo chino e con la lingua ciondoloni.
     “Vermi!” sghignazzò Thraknazh, agitando la frusta per incitarli a correre più veloci. “Siete bell’e cotti.”
     “I Pellebianchi vi acciufferanno e vi divoreranno,” soggiunse Krumkû con un ghigno. “Eccoli che arrivano!”
     Gli altri Uruk-hai vociarono divertiti. Ma Uglúk non era affatto in vena di scherzi. Aveva sentito il grido spaventato di Grishnákh, e guardando dietro di sé vide veramente un gruppo di cavalieri in avvicinamento. I maledetti Pellebianchi erano ancora lontani, ma guadagnavano terreno su di loro come una marea che inondasse pianure ove la gente si smarriva nei banchi di sabbie mobili.
     Uglúk scosse rabbiosamente il capo. In quel momento non sapeva che farsene delle strane immagini di un Mare che non aveva mai visto, come d’altronde tutti i suoi antenati di cui avesse conoscenza. Ordinò a Thraknazh di raddoppiare la velocità, e il mastro aguzzino tornò indietro a passo di corsa, maneggiando la sferza con la solita mano esperta. Non che gli Uruk-hai avessero bisogno d’un qualche incoraggiamento, ma i ratti di Lugbúrz s’impegnavano di più quando erano sotto pressione.
     Il sole stava ormai per tramontare dietro le Montagne Nebbiose, e sebbene quei raggi non spaventassero né indebolissero gli Uruk-hai, Uglúk emise un sospiro di sollievo, vedendo le ombre che si allungavano sulla campagna. Ombre e tenebre erano le loro alleate - essi combattevano meglio di notte. Perfino i porci di Grishnákh levarono il capo e accelerarono anch’essi l’andatura, ora che il sole era scomparso.
     La foresta era scura e vicina, una promessa di salvezza - se vera o falsa non osava ancora chiederselo, ma almeno era una speranza. Mentre superavano i primi alberi solitari, il terreno incominciava a salire con un’inclinazione più ripida. Alcuni degli Orchi più piccoli e stanchi rallentarono involontariamente.
     “State attenti adesso!” sbraitò Uglúk. “Non restate indietro, a meno che non vogliate farvi ammazzare a suon di frecce, idioti! Correte! Correte finché ne avete la forza!”
     Come se volessero aggiungere enfasi alle sue parole, i cavalieri li avevano ormai raggiunti sul lato orientale, e galoppavano sulla pianura mantenendosi all’altezza dei nemici. Il sole calante indorava le lance e gli elmi e luccicava sui biondi capelli sciolti dei cavalieri. A Uglúk non piacque ciò che vide. Non gli piacque nemmeno un po’. I cavalieri li stavano accerchiando, impedendo ai vermiciattoli del Nord e alla marmaglia di Grishnákh di sparpagliarsi e costringendoli ad avanzare paralleli al fiume.
     “Non mi piace per niente,” ringhiò rivolto a Krumkû, che annuì cupamente.
     “Siamo caduti in una trappola,” disse. “Se sopravvivremo, giuro che farò a pezzi quello snaga con le mie nude mani. Se avesse ammazzato quel cavaliere, ora non ci troveremmo in questo maledetto guaio.”
     “Potremmo anche riuscire a battere i Pellebianchi,” ghignò Skaithak, scoccando un’occhiata di sfida all’indirizzo di Uglúk. “Se soltanto avessimo un capo provvisto di attributi.”
     Era una sfida che Uglúk non poteva lasciare impunita, non se voleva conservare la sua posizione. Ma prima che potesse sguainare la spada, una freccia comparve come dal nulla andando a conficcarsi nella gola di Skaithak, e lo Storpiatore, che correva proprio davanti a quelli che portavano i prigionieri, crollò e non si rialzò più.
     Uglúk si guardò intorno, cercando la fonte della freccia, e individuò un gruppetto di cavalieri che maneggiavano grandi archi. Dovevano esser venuti velocemente a portata di tiro, per scoccare frecce contro gli Orchi da un cavallo al galoppo. Erano già caduti parecchi degli inferiori soldati di Lugbúrz - ma questa era la prima volta che uno dei suoi ragazzi veniva ucciso. E sebbene Uglúk non rimpiangesse affatto la perdita di Skaithak, la trovava comunque una cosa inquietante.
     Gli idioti di Lugbúrz rispondevano al tiro alla meno peggio, ma poiché nessuno di essi osava fermarsi, i loro dardi andavano completamente fuori bersaglio. I cavalieri si allontanavano rapidi dalla portata delle frecce come niente fosse.
     “Smettetela, idioti,” vociò rabbiosamente Uglúk. “Così non fate altro che sprecare le frecce. Correte! Correte verso quel piccolo colle davanti a noi - lì potremo organizzare meglio la nostra difesa, semmai non riuscissimo a raggiungere la foresta in tempo.”
 
 
     Nessuno degli Orchi ebbe bisogno d’un incoraggiamento, neppure gli idioti di Lugbúrz. La notte scendeva rapidamente, ma fu soltanto dopo il calar della notte che i cavalieri accerchiarono gli orchi preparandosi alla battaglia; un fatto che Uglúk trovò strano e inquietante al tempo stesso. Gli Orchi riuscirono a raggiungere il piccolo colle che aveva indicato, ma essi non potevano più andare avanti, benché i margini della foresta fossero ormai molto vicini.
     “Probabilmente mezzo miglio, non di più,” mormorò Lugdush, “forse anche meno. Tentiamo di raggiungerla?”
     Uglúk scosse la testa massiccia. “No; non vedi i cavalieri davanti a noi? Ci hanno tagliati fuori, quei maledetti Pellebianchi.”
     “Ci hanno completamente circondati,” lo corresse Lugdush in tono cupo.
     Parlava a voce bassa, ma non abbastanza per le orecchie aguzze dei ratti di Lugbúrz, che andarono in preda al panico al pensiero di esser caduti in trappola. Uglúk cercò di tranquillizzarli, con il discutibile aiuto di quel doppiamente maledetto Grishnákh, affinché non sprecassero energie prima che scoppiasse la battaglia vera e propria, ma non c’era modo di ragionare con quegli ottusi idioti. Un gruppetto si allontanò e proseguì la corsa verso il bosco - più tardi, tre soli tornarono.
     Grishnákh, naturalmente, era furioso, e cercava di scaricare tutta la colpa addosso Uglúk, come ci si poteva aspettare.
     “Ebbene, eccoci qui,” sghignazzò. “Ottima guida! Spero che il grande Uglúk ci riconduca fuori.”
     Uglúk non gli prestò la minima attenzione. Aveva ordini da dare, truppe da organizzare. La situazione era precaria nel migliore dei casi - ma ciò nonostante confidava ancora nella forza e nel coraggio dei suoi ragazzi, se solo fossero riusciti a difendere il campo fino all’arrivo dei rinforzi. Mauhúr non li avrebbe lasciati morire e marcire in quella trappola per topi, di questo era certo. Non esistevano veri e propri legami tra due Uruk nati dalla stessa femmina, nemmeno tra due cuccioli gemelli come Mauhúr e Uglúk. Ma oltre ad avere legami di sangue erano anche alleati… e conoscevano entrambi il loro dovere verso lo stregone e verso la famiglia.
     “Mettete giù quei Mezzuomini!” ordinò a Skarburz e a Krumghash, i due portatori attuali. “Tu, Azdreg, e altri due, sorvegliateli bene! Non devono essere uccisi, a meno che i luridi Pellebianchi non penetrino sin qui. Capito?”
     Azdreg, uno dei ragazzi migliori, che Uglúk aveva addestrato personalmente e scelto appositamente per questa pericolosa impresa, annuì seccamente e fece come gli veniva ordinato. Uglúk abbassò la voce a un ringhio quasi inudibile.
     “Finché sono vivo, li voglio vivi. Ma non fateli gridare, e badate che nessuno venga a salvarli.”
     Azdreg annuì ancora una volta. Era tanto leale a Uglúk quanto poteva esserlo un qualsiasi Orco - ossia metteva unicamente i propri interessi al di sopra di quelli del suo capo.
     “Legategli le gambe!” ordinò, e le altre guardie eseguirono l’ordine senza alcuna pietà.
     Nel frattempo, Thraknazh cercava di organizzare e assettare le truppe, con l’aiuto della sua fidata frusta. Tutto questo avveniva con gran baccano, naturalmente, col mastro aguzzino e i suoi aiutanti che sbraitavano, i ratti di Lugbúrz che ruggivano e facevano tintinnare fragorosamente le armi, e i vermi delle montagne del Nord che squittivano come maialini impauriti.
     Si radunarono sul colle, nascondendosi e riposando come meglio potevano nella notte fredda e silenziosa. Seduto sulla sommità della collinetta, Uglúk osservava torvo i piccoli falò che si accendevano tutt’intorno a loro, un cerchio perfetto.
     “Distano un lungo tiro di freccia,” osservò Ashluk, l’arciere migliore del gruppo. “Da qui riuscirei a colpirli.”
     “Forse sì,” borbottò Uglúk, “se si mostrassero alla luce. Ma quelli non lo fanno, e… Ehi, stupidi ratti.” D’un balzo fu in piedi, dirigendosi a passo di corsa verso i soldati di Lugbúrz, che si erano messi a tirare inutilmente sui fuochi. “Piantatela di sprecare le frecce, o vi ritroverete con una testa in meno!”
     “Inutile tentare di far qualcosa prima che compaia la luna,” concordò Lugdush.
     “Potrebbe volerci metà della notte,” disse Thraknazh. “Un tempo sufficiente per fare ciò che va fatto.”
 
 
     Tutti gli Uruk-hai nei dintorni piantarono su Uglúk uno sguardo trepidante. Non erano degli idioti; sapevano bene che rischiavano di essere uccisi nell’imminente battaglia con i cavalieri - dal primo all’ultimo. Erano presi in trappola, e fondamentalmente non avevano via di scampo.
     Uglúk esitò. Da una parte dovevano accoppiarsi prima della battaglia per mettere incinte le femmine, sperando che alcune riuscissero a mettersi in salvo e ad assicurare la sopravvivenza della loro schiatta. Ciò che va fatto, aveva detto Thraknazh. Lo sentivano nel sangue: l’impulso di affermare la successiva generazione del clan.
     D’altra parte, gli Uruk-hai condividevano una caratteristica particolare con gli odiati Elfi: per dare vita alla prole, dovevano rinunciare a una parte di sé. Si diceva che due genitori elfici sacrificassero parte della loro essenza - il loro fëa, come lo chiamava lo Stregone - per chiamare al mondo una nuova vita. Gli Uruk-hai sapevano di dover rinunciare a una grande quantità di energia per dare vita alla prole, almeno temporaneamente. E in effetti l’atto riproduttivo indeboliva i due partecipanti in modo considerevole per un paio d’ore a seguire. E questo non potevano permetterselo, nelle attuali circostanze.
     Eppure Uglúk sapeva che l’istinto di assicurare la sopravvivenza della loro stirpe avrebbe trionfato al di sopra di più assennate considerazioni. Accadeva sempre così. Era semplicemente troppo forte per essere ignorato. La cosa migliore era cedere immediatamente all’impulso, in modo da avere almeno un po’ di tempo per riprendersi dalla fatica. Quel poco tempo avrebbe potuto fare la differenza tra la vita e la morte.
     “Hai ragione,” disse a Thraknazh con un pesante sospiro. “Dobbiamo farlo, e dobbiamo farlo subito, finché siamo in tempo. Che Bâshdûl sorvegli i prigionieri. Sceglierò i più adatti alla riproduzione.”
     Era suo diritto compiere quella importantissima scelta. Il capo era lui. Ma la scelta era davvero ardua. Avevano con sé soltanto una manciata di femmine, escludendo Krumkû, che era già impegnata, e Lugdush, che Uglúk aveva scelto per sé. Per quanto riguardava le altre, Bâshdûl era sterile e perciò inutile, ed era per questo preciso motivo che veniva sempre destinata alle missioni pericolose - era sacrificabile. Gâshag era ormai troppo anziana per partorire. Restavano dunque quattro femmine, e quasi tre volte tanti maschi impazienti tra i quali dover scegliere.
     Dopo una breve riflessione, Uglúk scelse i quattro ragazzi più grossi, forti e leali che aveva a disposizione: Azdreg, Krumghash, Skarburz e Ghashur. Lasciò fuori Grothrásh e alcuni ragazzi straordinariamente forti ma alquanto lenti di cervello. Più tardi avrebbero avuto bisogno di tutte le loro forze per la battaglia. A maggior ragione perché gli altri sarebbero stati indeboliti.
     “Sapete quel che dovete fare,” disse alle coppie scelte. “Assicuratevi di mettere incinte tutte le femmine - e che si mettano in salvo, a qualunque costo. Domani, loro - e i cuccioli che avranno in seno - saranno forse tutto ciò che rimane del nostro clan.”
     Gli altri annuirono tetramente. Erano i migliori e i più intelligenti della loro generazione; con loro non c’era bisogno di mentire. Avrebbero fatto ciò che andava fatto, orgogliosi di poter preservare il loro ottimo lignaggio. Gli Uruk presi  singolarmente erano sacrificabili, ma il clan doveva sopravvivere.
 
 
     Non era così che Uglúk aveva immaginato di accoppiarsi con la splendida Lugdush, ma doveva accontentarsi. Se fossero sopravvissuto, si sarebbe potuto divertire e compiacere in seguito. Ora doveva concentrarsi sul metterla incinta - ed era tutt’altro che un compito facile. Sebbene gli Uruk-hai fossero sempre lieti di fornicare per svago, creare una nuova vita richiedeva un notevole sforzo… da parte di ambedue i partecipanti. Non era sufficiente montare la femmina per la durata di qualche affondo e qualche grugnito.
     Fortunatamente questa non era la prima copula di Uglúk, che quindi sapeva perfettamente cosa fare e cosa aspettarsi. Tutto ciò che rimpiangeva era di non avere il tempo e la tranquillità necessari per godere dell’atto come si conveniva. Lugdush si concedeva meravigliosamente al dominio del compagno, il suo corpo sensuale era caldo come le fornaci nelle viscere di Orthanc, e le sue membra così lisce e forti. Dedicando una minuscola parte della propria mente ai requisiti fisici, Uglúk si avvicinò al compimento quasi troppo presto, mentre la parte più grande e importante della sua mente aspettava ciò che era sul punto di arrivare: il momento davvero importante del loro accoppiamento.
     Eppure lo colse alla sprovvista. Il contatto tra la sua mente e quella di Lugdush fu come un fuoco vivo, oscuro e distruttivo. Combatterono un istante per il predominio - e quindi si unirono in una sola fiamma oscura e violenta, assai più forte di quanto non fossero i due singoli fuochi, ardente di un calore spietato che nemmeno gli Uruk-hai poterono sopportare per più di qualche tempo. Uglúk sentiva la forza riversarsi dalle sue membra, sgorgare dal suo stesso spirito, e come metallo liquido entrare a fiotti nelle forme che lo avrebbero plasmato per creare un essere nuovo, un essere forte, meraviglioso, pieno d’una bellezza oscura che soltanto gli Orchi sapevano apprezzare. Riusciva quasi a sfiorare quella nuova scintilla che cominciava a prendere forma tra loro due. La sentiva crescere e svilupparsi…
     Incapace di sopportare più a lungo il vincolo mentale, scese di dosso alla compagna, spossato, ma confortato dalla certezza che i loro sforzi erano serviti a qualcosa.
     “Ha attecchito?” domandò per aver conferma della propria sensazione, sapendo che mentre lui poteva sbagliarsi (per quanto improbabile potesse essere questa eventualità), Lugdush non poteva. Era un istinto caratteristico delle femmine - loro sapevano sempre.
     Lugdush, troppo esausta per parlare - l’atto riproduttivo era ancor più faticoso per le femmine di quanto non lo fosse per i maschi - emise un debole ringhio d’assenso. Uglúk le carezzò affettuosamente il didietro.
     “Bene. Adesso riposa come puoi. Devi cercare di svignartela dall’accampamento appena sarai abbastanza forte da camminare. Prima che i Pellebianchi ci attacchino. Voglio che tu te ne vada prima che sia scoppiata la battaglia. Dirigiti verso Isengard, ma nasconditi nella Valle dello Stregone finché non sarai certa che Orthanc sia un posto sicuro.”
     “E perché non dovrebbe?” domandò Lugdush, dando l’ennesima prova degli straordinari poteri di recupero degli Uruk-hai. Uglúk scrollò le spalle.
     “Pare che negli ultimi tempi lo stregone si sia procurato un sacco di nemici. Credo che alla fine sarà vittorioso… ma non voglio rischiare la tua vita - né quella dei cuccioli.”
     “Non saprei dire se siano più d’uno,” ammise Lugdush.
     “È troppo presto,” disse Uglúk. “Ma che siano uno o più, devi portarli al sicuro. Ricordi il nascondiglio del Vecchio Gâbkrísh, appena fuori del Cerchio di Isengard? Lì potrai sparire dalla circolazione per qualche tempo.”
     “E tu?” chiese Lugdush. “Ho una brutta sensazione riguardo a questa battaglia.”
     “Anch’io,” disse Uglúk, “ma ora non possiamo tagliare la corda. Se sopravvivrò, verrò a cercarti. Altrimenti - sta a te proteggere i cuccioli. Anche se ciò comportasse voltare le spalle a Orthanc.”
     Lugdush indicò il proprio assenso con un cenno del capo. Nel creare nuove generazioni di Uruk-hai, provvisti di una mente astuta e penetrante, lo stregone aveva praticamente piantato il seme della slealtà, che dava i suoi frutti nelle situazioni che potevano mettere a repentaglio il punto imperativo della loro esistenza: la sopravvivenza del clan. Sarebbero stati disposti a combattere e a morire per Saruman senza pensarci nemmeno - a meno che ciò non mettesse a repentaglio la prole. Questo era un fatto di cui lo Stregone non era al corrente, e loro erano abbastanza scaltri da tenerglielo nascosto. Non erano più marionette come pensava lo Stregone, non lo erano ormai da molto tempo.
     “Manderò Krumkû con te,” continuò Uglúk. “È più vecchia e forte di te, e per un po’ di tempo sarà molto utile. Ma non ti devi fidare di lei.”
     “Mai fidata,” disse Lugdush con un sorriso stanco. “È pazza, quella.”
     “Infatti,” confermò Uglúk, “e quando avrà le sue smanie da gravidanza potrebbe ucciderti da un momento all’altro, se non presterai la debita attenzione. Se pensi già adesso che sia pazza, dovresti vederla quando ha un cucciolo in pancia. Io l’ho vista - e non ho la minima intenzione di rivederla in quello stato.”
     “E perché allora la mandi con me?” chiese Lugdush.
     “Ti servirà un po’ di protezione nei prossimi due giorni, finché non avrai recuperato tutte le tue forze,” rispose Uglúk. “Anche indebolita, Krumkû è formidabile - in due avrete una maggiore possibilità di uscirne vive. Ma devi separarti da lei non appena ti sentirai forte abbastanza.”
 
 
     Sentendosi sufficientemente forte da poter camminare, il riluttante Uglúk abbandonò la sua compagna (contrariamente a ciò che si possa credere, gli Uruk-hai provavano davvero un certo grado di affetto per le femmine con le quali copulavano - fintanto che questo non metteva a repentaglio la loro vita o la loro posizione) e andò a ispezionare il perimetro dell’accampamento. La luna era appena emersa dalla nebbia, e così si poteva scorgere di tanto in tanto qualche figura illuminata dalla sua bianca luce: erano i cavalieri, che si muovevano in una incessante pattuglia.
     Anche le guardie li vedevano, e non erano contente.
     “Aspettano il Sole, maledetti!” ringhiò Búrztakh, chiamato il Guercio per ovvi motivi; il rubino color rosso sangue che portava incastonato nell’orbita vuota rifletteva la luce dei fuochi. “Perché non radunarci e cercare di aprirci un varco?”
     Qualcun altro raccolse la sua osservazione e si disse d’accordo. Gli altri Orchi appoggiarono questa idea. A nessuno di loro piaceva starsene seduti in una trappola, aspettando di venir massacrati… o arrostiti dalla luce del sole.
     “Vorrei proprio sapere che cosa pensa di fare, il vecchio Uglúk!” aggiunse Búrztakh, versando olio nel fuoco. Era uno degli alleati di Skaithak, e detestava il capo con altrettanta passione. Forse sperava di prendere il posto di Skaithak, cosa che sarebbe senz’altro accaduta se avesse giocato bene le carte.
     “Immagino che ti piacerebbe,” ruggì Uglúk apparendo dietro le sue spalle. “Intendi dire che non penso a nulla, vero?”
     Trovò la reazione impaurita di Búrztakh assai soddisfacente, ma non aveva la minima intenzione di permettergli di svegliare gli altri. Non avevano tempo per questa follia.
     “Ah, sì?” ribatté Búrztakh con aria di sfida, sapendo fin troppo bene che il capo era ancora indebolito dall’accoppiamento e che non avrebbe sprecato energie per uccidere un subalterno ribelle. “O ti si è annebbiato troppo il cervellino, a furia di fornicare? Io dico…”
     Non poté proseguire la  sua invettiva carica di odio, perché Grothrásh, tardo ma leale quanto poteva esserlo un Orco, lo colpì in piena faccia, rompendogli il naso con un solo pugno brutale.
     “Maledetto!” ringhiò il Massacratore. “Sei fatto della stessa pasta degli altri: vermiciattoli e imbecilli di Lugbúrz. Come se non li conoscessi! Inutile contare su di loro per aprirci un varco. Incomincerebbero a squittire e se la darebbero a gambe, e questi luridi allevatori di cavalli sono in numero sufficiente per acciuffarci tutti, se torniamo in pianura.”
     E questo era fin troppo vero, naturalmente, ma il ricordo fece tutt’altro che calmare i nervi degli Orchi.
     “Ma siamo comunque seduti in una trappola per topi,” disse Bagdreg, dando voce alla preoccupazione generale. “Dovremmo cercare di aprirci un varco finché fa ancora buio. I vermi sono più forti di notte.”
     Uglúk scosse la testa. “No, Grothrásh ha ragione. Una sola cosa sanno fare questi vermi: hanno uno sguardo che penetra nel buio come un succhiello. Ma i Pellebianchi pare possiedano una vista notturna migliore di quella degli altri Uomini; e non dimenticare i loro cavalli! Quelli vedono anche la brezza di notte, o così ho sentito dire.”
     “Meraviglioso,” borbottò Búrztakh, tastandosi il naso ancora sanguinante. “E allora perché ce ne stiamo qui seduti ad aspettarli?”
     “Perché c’è una cosa che i nostri furbi amici non sanno,” replicò Uglúk con un ghigno ferino. “Mauhúr e i suoi sono nella foresta, e dovrebbero spuntare da un momento all’altro.”
     Gli altri Orchi non furono particolarmente confortati da questa promessa, ma gli Uruk-hai tirarono un sospiro di sollievo. Le truppe di Mauhúr erano forti quanto le loro - anzi, più forti ancora, poiché i ragazzi di Uglúk avevano subito alcune perdite nei pressi di Rauros - e aiutati dell’altra marmaglia avrebbero potuto intrappolare i cavalieri tra due fuochi, e uccidere Uomini e cavalli indistintamente, guadagnandosi non solo una via di scampo ma anche un pasto alquanto soddisfacente.
     Uglúk ordinò ai ratti di Lugbúrz di collocare alcune sentinelle - non certo pensando di trarne qualche utilità, ma almeno per dar loro qualcosa da fare - e ritornò al punto ove sperava di trovare Thraknazh. Anche il mastro aguzzino stava pian piano recuperando le forze; Krumkû era una compagna esigente, anche in circostanze normali, e metterla incinta era stato un compito… alquanto faticoso.
     “Le femmine sono andate,” riferì. “Krumkû è accompagnata da Lugdush, come ordinato, e le altre due sono partite insieme. Si sa qualcosa di Mauhúr e degli altri?”
     Uglúk scosse il capo. “Non ancora. Ma presto. Mauhúr è furbo; sfrutterà il buio per avvicinarsi.”
     La notte era diventata davvero molto buia, poiché la luna era scomparsa a ovest fra fitte nubi, e perfino i penetranti occhi notturni degli Uruk-hai non riuscivano a distinguere nulla a pochi passi di distanza. La luce dei falò dei cavalieri non giungeva sino alla collina. Ma Uglúk era riconoscente all’oscurità per la protezione che forniva. Lugdush e le altre avrebbero avuto più facilità ad allontanarsi inosservate.
     Thraknazh spostò le possenti spalle per sciogliere i nodi che gli si erano formati nella schiena. Presto sarebbe scoppiata una battaglia, e lui aveva bisogno di tutte le sue abilità, tese e affinate al punto massimo dell’acume. Non era la prima volta che si scontrava con i cavalieri, e sapeva che non sarebbe stato uno scontro facile. Con i Pellebianchi non lo era mai.
     “E adesso?” domandò. Uglúk fece spallucce.
     “Adesso aspettiamo.”

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Capitolo 3
*** Parte 3 ***


Parte 3

     Non dovettero aspettare molto a lungo. Presto, grida improvvise provenienti dalla parte orientale del colle li avvertirono che qualcosa non andava. Uglúk dovette precipitarsi per vedere che cosa fosse accaduto… e lanciò una violenta imprecazione. Una mezza dozzina di Orchi della marmaglia di Grishnákh giacevano sull’erba in un cumulo sanguinolento.
     “Pare che le ‘sentinelle’ abbiano preferito riposare piacevolmente, anziché montare di sentinella,” commentò Bagdreg con sguardo accigliato.
     “E parrebbe anche, comunque, che i luridi Pellebianchi non si accontentino di aspettare l’alba lasciandoci riposare,” soggiunse fosco Thraknazh. “Alcuni di loro devono essersi avvicinati al colle e, smontando dalle loro bestie, aver strisciato sino all’orlo del nostro campo e ucciso parecchi di quei maledetti idioti. Che razza di sentinelle.”
     “Ebbene, ormai non ci si può fare più niente,” disse Uglúk con un’alzata di spalle. “Comunque sarebbe meglio prepararsi per un attacco.”
     Thraknazh si allontanò di corsa, elargendo frustate a destra e a manca, non badando a ciò che gli capitava di colpire con le cinghie crudeli. Un po’ di dolore andava sempre bene per tenere i ragazzi sul chi vive. In un lasso di tempo incredibilmente breve, riuscì a disporre le truppe in una formazione accettabile, perfino quegli stramaledetti ratti di Lugbúrz. Quindi si guardò intorno con aria sospettosa, rendendosi conto di aver incontrato molta meno opposizione del previsto.
     “Dov’è Grishnákh?” domandò.
     Seguì un momento d’impacciato silenzio, ma subito dopo si poté udire un orribile urlo roco - l’ultimo grido di un Orco morente, se mai ne avevano udito uno. Dopodiché il silenzio tornò a regnare incontrastato - finché qualcuno si mise a strillare.
     “I prigionieri! Sono scomparsi!”
     Uglúk si precipitò verso il luogo ove aveva lasciato i prigionieri in custodia di Bâshdhul. Con suo totale sgomento, i Mezzuomini erano davvero scomparsi, e quell’inutile femmina giaceva a terra, morta. Uccisa da un pugnale di Lugbúrz, a giudicare dalla foggia.
     “Questa è opera di Grishnákh.” Uglúk digrignò i denti. “Quel dannato ratto li ha portati via. E noi non possiamo seguirlo e ucciderlo.”
     “Non sarà necessario,” disse Azdreg. “L’hanno ammazzato i Pellebianchi. Quell’urlo di prima era suo. È stato messo sotto da un cavallo e ucciso da una lancia, poco lontano dall’accampamento.”
     “E i prigionieri?” domandò cupamente Uglúk.
     Azdreg scosse la testa. “Scomparsi senza lasciare traccia. Forse li hanno presi i Pellebianchi; in ogni caso non saprebbero che farsene.”
     No, pensò Uglúk, i cavalieri non avrebbero saputo che cosa cercare. Non lo sapeva nessuno, eccetto lo stregone. E Uglúk, beninteso, che era al corrente dei segreti di Saruman più di quanto lo stregone potesse immaginare. Saruman era astuto, ma non così astuto come pensava. Non certo astuto al punto di tenere i propri segreti celati a un Uruk-hai curioso.
     Ahimè, quella consapevolezza lo aiutava ben poco in quel momento, poiché era appena riuscito a perdere esattamente ciò di cui lo stregone aveva tentato d’impossessarsi. Per non parlare del fatto che erano ancora in trappola. Una trappola priva di scampo, a meno che non fosse sopraggiunto un aiuto esterno.
     Nuove urla e strilli, provenienti da destra, da oltre il cerchio di falò dei Pellebianchi, in direzione della minacciosa foresta, lo riscossero dalle sue cupe riflessioni. Thraknazh tornò indietro a gran carriera, gli occhi gialli che rilucevano di eccitazione.
     “Mauhúr è arrivato,” riferì, “e sta attaccando i Pellebianchi. Ecco la nostra occasione per contrattaccare! Ora!”
     Uglúk annuì, perfettamente d’accordo, e sbraitò qualche ordine ben piazzato, ma i suoi sforzi furono vani. Tutti imbracciarono le armi e si gettarono all’attacco, disorganizzati e del tutto privi di disciplina. Eccezion fatta per la ventina di Uruk-hai bene addestrati, beninteso. O in ogni caso, di quel che ne restava.
     Tuttavia, per breve tempo, Uglúk sperò che sarebbero riusciti ad aprirsi un varco. Fin quando non udì uno scalpitio di zoccoli al galoppo. A quanto pareva i Pellebianchi non avevano la benché minima intenzione di lasciare sopravvissuti, e pur di conseguire questo fine si arrischiavano addirittura a farsi colpire dalle frecce degli Orchi.
     “Stanno stringendo il cerchio sempre di più,” disse Azdreg. “Non riusciremo ad allontanarci… quei maledetti cavalli sono veloci. Anche più veloci di noi.”
     “Che fine hanno fatto Mauhúr e i suoi ragazzi?” chiese Uglúk, mentre un senso di terrore cresceva sempre più nel suo stomaco.
     “Una compagnia di cavalieri si è distaccata per affrontarli,” rispose Azdreg in tono tetro. “Non mi piace, Uglúk.”
     “Non piace neanche a me,” replicò Uglúk, “ma pare che al momento non sia possibile sferrare un attacco. Quanti imbecilli di Grishnákh si sono fatti ammazzare?”
     “Una dozzina, più o meno. E quando si alzerà il Sole…” Azdreg tacque. Non era necessario aggiungere altro. Sapevano entrambi che cosa dovevano aspettarsi. La notte si stava già facendo vecchia. Non sarebbe durata ancora a lungo. A Oriente il cielo che le nubi avevano lasciato limpido incominciava a impallidire.
     “Che silenzio,” ringhiò Uglúk dopo un certo tempo. “Non sento più il rumore dei combattimenti.”
     “Io neanche,” rispose Thraknazh, abbattuto. “A quanto pare Mauhúr e i suoi ragazzi si sono fatti uccidere o mettere in fuga.”
     “Lui non ordinerebbe mai una ritirata.” Uglúk chiuse gli occhi per un istante; la perdita di un alleato così prezioso era devastante. “Se gli scontri sono finiti, vuol dire che sono morti.”
     “E lo saremo anche noi, molto presto,” disse Thraknazh. “Quando spunterà il Sole, i vermiciattoli e i ratti di Lugbúrz perderanno ogni loro utilità. E noi non siamo più in numero sufficiente da respingere una così gran compagnia di cavalieri. Lo sai anche tu.”
     “Certo,” disse Uglúk annuendo. “Ma ci batteremo strenuamente. Dobbiamo tenerli occupati il più a lungo possibile, ucciderne quanti possiamo. Le femmine hanno bisogno di un buon vantaggio. Domani saranno tutto ciò che rimarrà di noi. Loro, e i cuccioli che si portano nel ventre.”
 
 
     In quel preciso istante, al di là del Grande Fiume e delle Terre Brune, sorse il rosso bagliore dell’alba, simile al fuoco delle più profonde fornaci. Tutt’intorno all’altura, suonarono i grandi corni dei cavalieri, chiamandosi e rispondendosi, e vi fu un improvviso movimento al di là dei falò. Si udì un nitrito di cavalli da guerra, e all’improvviso i cavalieri intonarono un canto nel loro idioma - una lingua lenta e morbida che gli Orchi inferiori non comprendevano, a differenza degli Uruk-hai, istruiti dallo Stregone Bianco, che aveva insegnato loro tutto ciò che poteva essere utile.
 
                   Dal dubbio e dalle tenebre verso il giorno galoppai,
                   E cantando al sole la spada sguainai,
                   Svanita ogni speme, lacero è il cuore:
                   Ci attende la collera, la rovina e il notturno bagliore!
 
     Così cantavano i cavalieri, lo stesso canto che i loro antenati avevano intonato per anni e anni, risalendo sino all’epoca in cui dimoravano presso le sorgenti dell’Anduin, nel lontano Nord. Erano un popolo crudele, e la furia della battaglia ardeva incandescente nei loro cuori, così come ardeva in quelli dei loro avi sin dagli albori della loro razza.
     Per quanto improbabile potesse sembrare, il fuoco di questo canto toccò qualcosa di profondamente sepolto nell’animo di Uglúk. Egli discendeva da una stirpe mescolatasi al sangue dei cavalieri, quando Saruman aveva incominciato a creare le nuove generazioni di Uruk-hai. Non sentiva alcuna affinità di sangue nei confronti dei luridi Pellebianchi, non più di quanta sentisse di averne con i maledetti Elfi - eppure, assai stranamente, lo sfacciato canto dei suoi nemici gli infuse un vigore decisamente necessario. Lo riempì di un fuoco ch’egli credeva ormai estinto.
     Il Sole strisciò sempre più alto nel cielo orientale, e i suoi raggi s’innalzarono sopra le loro teste come un arco di fuoco - come un cattivo auspicio, un presagio di morte. Le note della canzone si spensero, e una voce possente si levò dai cavalieri, gridando nella loro antica lingua:
 
                   Arísath nú Rídend míne!
                   Théodnes thegnas thindath on orde!
                   Féond oferswithath! Forth Eorlingas!
                   
     Con quest’ultimo grido risonante, i cavalieri si gettarono alla carica da Est. La luce rossa dell’alba sfavillava sulle punte di lancia e sulle cotte di maglia come sangue appena versato. Uglúk trasse un profondo respiro, e il suo ampio petto si riempì di trepidazione. Se questa doveva essere la sua ultima battaglia, era pronto a cadere combattendo - e portando con sé tutti i Pellebianchi che fosse riuscito a uccidere.
     I vermiciattoli delle montagne e i ratti di Lugbúrz, naturalmente, impazzirono dal terrore nell’istante in cui venne sferrato l’attacco, scoccando a casaccio le ultime frecce rimaste. E non colpendo altro che le cotte di maglia degli Uomini, sulle quali tutti i dardi scagliati da lontano rimbalzavano innocui.
     Gli arcieri degli Uruk-hai, capeggiati da Ashluk, il migliore arciere fra loro, aspettarono gli ordini, tendendo i grandi archi con le frecce incoccate.
     “Uccidete prima i cavalli,” ordinò Uglúk, “così non potranno travolgerci. In uno scontro corpo a corpo il vantaggio è nostro. Siamo più forti di loro.”
     Gli arcieri annuirono e scoccarono le frecce dalla punta di ferro. Parecchi di quei magnifici cavalli furono colpiti; s’impennarono e caddero, stramazzando nel fango e disarcionando i cavalieri. Altri non riuscirono a fermarsi in tempo e inciamparono su di essi, spezzandosi le gambe. Alcuni cavalieri caddero di sella; le frecce dell’abile Ashluk trovavano sempre il loro bersaglio tra l’elmo e la cotta di maglia, andando a conficcarsi infallibili nella gola di un Uomo dopo l’altro.
     Eppure la schiera si mantenne in perfetta formazione, galoppando sino alla vetta del colle, scendendo dal lato opposto, incrollabili tanto i cavalli quanto i cavalieri, che quindi voltarono su se stessi e ripartirono all’assalto. La maggior parte dei Nordiani e dei codardi di Lugbúrz - quelli ancora vivi, beninteso - cedettero alla vista del muro vivente, costituito da armature e da punte di lancia, che muoveva rapido verso di loro. Compirono un vano tentativo di fuga, correndo in direzioni diverse, ma quasi tutti allontanandosi dalla foresta ove Mauhúr e le sue truppe avevano trovato la morte. I cavalieri, tuttavia, parevano decisi a non permettere loro la fuga. Ruppero la formazione, mettendosi in tre o in quattro alle calcagna di ciascun gruppetto degli Orchi fuggitivi, inseguendoli uno per uno sino alla morte.
 
 
     “Forse questa è la nostra occasione,” disse Uglúk. “Sono soltanto in tre che ci sbarrano la strada. Muovetevi, mentre gli altri sono impegnati a dar la caccia a quei vermi!”
     Il gruppo ridotto degli Uruk-hai si era mantenuto unito a forma di cuneo nero, spingendosi risoluto in direzione della foresta. Ora si lanciarono alla carica, precipitandosi su per il pendio e avventandosi contro le sentinelle. I Pellebianchi avevano una vista sensibilissima e un buon udito, ma gli Uruk-hai si muovevano con le ombre che ancora ammantavano il terreno, e quando una delle sentinelle li scorse, ormai era troppo tardi.
     “Gárulf! Attento!” gridò il giovane Uomo, prima che una freccia di Ashluk lo centrasse in piena gola.
     L’Uomo al centro non esitò più a lungo di un battito cardiaco, ma fu sufficiente perché Grothrásh si scagliasse contro il cavallo della terza sentinella, quella a destra, investendolo con tutto il peso della sua enorme massa. Il cavallo - più piccolo e leggero dei tipici destrieri da guerra del Mark, benché di temperamento focoso - non riuscì a reggere l’impatto. Perse l’equilibrio e s’impennò, disarcionando il suo giovanissimo cavaliere. Il Massacratore superò il cavallo con un balzo e spaccò in due la testa del giovane Uomo, ossa ed elmo in un sol colpo.
     L’Uomo di nome Gárulf, reso folle e disperato dal proprio fallimento nel salvare il giovane compagno, incitò il destriero da guerra con un grido strozzato. “Avanti, Hasufel!”
     Come comprendendo le parole, la grande bestia color grigio scuro s’impennò sulle zampe posteriori emettendo un possente nitrito, quindi si lasciò ricadere sull’Uruk-hai che aveva Uruk-hai davanti a sé. Gli zoccoli colpirono Grothrásh in pieno torace, spezzandogli le costole con un tonfo impressionante. L’Uomo si chinò sul collo del cavallo, girando la lancia affinché la punta fosse rivolta verso il basso, e afferrando l’impugnatura con ambedue le mani, vibrò un violento affondo. Seguì un grido aspro e presto concluso, e un istante più tardi il fedele, ottuso Massacratore era morto.
     Uglúk lanciò un ululato inferocito. Prima Mauhúr e tutti i suoi ragazzi, e adesso Grothrásh, il suo più vicino alleato e sostenitore… quand’anche fosse riuscito miracolosamente a fuggire, non avrebbe mai riottenuto i suoi antichi poteri. Ma non era quello il momento di rimpiangere l’autorità perduta. In quel momento non avevano che un semplice obiettivo: sopravvivere. Afferrando la lancia di un cavaliere caduto, Uglúk la piantò nel petto dell’Uomo di nome Gárulf, trafiggendo cotta di maglia, carne e osso con forza talmente brutale da far uscire nuovamente la punta attraverso le scapole del cavaliere.
     L’Uomo cadde di sella, e il cavallo, spaventato dall’odore del sangue, fuggì nitrendo di terrore, seguito dal destriero più piccolo e leggero. Uglúk abbassò lo sguardo sul corpo spezzato che giaceva ai suoi piedi e osservò l’Uomo morire.
     Fu una sensazione indescrivibilmente piacevole.
     Ma il grido dell’Uomo più giovane aveva ormai allertato gli altri Pellebianchi che qualcosa non andava presso i margini della foresta. Già gli zoccoli delle grandi bestie tuonavano intorno a loro, e presto furono raggiunti e privati di scampo proprio al limitare dei tetri boschi incombenti, la loro unica possibile via di fuga.
     Ma ormai non era più possibile fuggire. Tutti i suoi ragazzi, eccetto tre, erano già morti, e pochi fortunati erano riusciti a superare il cerchio dei cavalieri e stavano ora tentando disperatamente di fuggire. Riconobbe tra essi il fido Azdreg, e anche Thraknazh, il mastro aguzzino. L’istinto di sopravvivenza aveva finalmente soverchiato la loro radicata lealtà nei confronti del capo.
     Uglúk non li biasimava. Avrebbe fatto lo stesso, se si fosse trovato al posto loro. E se fosse riuscito a tenere occupati i Pellebianchi ancora per qualche tempo, se fosse riuscito a dar loro un buon vantaggio di partenza, forse ce l’avrebbero fatta.
     Affiancato da Krumghash e Skarburz, i due soli rimasti a guardargli le spalle, Uglúk si voltò a fronteggiare i nemici, cercando un modo per ritardare l’inevitabile, per guadagnare tempo affinché i suoi ragazzi fuggiti riuscissero a fuggire. Decise di affidarsi al bizzarro concetto che i Pellebianchi chiamavano ‘onore’.
     Osservando gli Uomini dall’aspetto fastidiosamente simile - tutti alti, dalle lunghe membra e dai capelli biondi, con occhi azzurri come il ghiaccio e volti pallidi, vestiti di cotte di maglia brunite, le lunghe ciocche coperte da elmi leggeri - distinse fra essi quello che doveva essere il capo. L’Uomo era alto più di tutti gli altri, e una bianca coda di cavallo spioveva dal suo elmetto dorato a guisa di criniera.
     “Tu,” ringhiò nella lingua dei cavalieri, “sei tu il capo di questa banda di ribelli e assassini?”
     Per quanto gli Uomini fossero meravigliati di udire il loro idioma nella bocca di quello che ai loro occhi non era altro che un mostro orrendo e malvagio, il loro stupore si tramutò presto in collera davanti alla formulazione della domanda. Ma il loro presunto capo li mise a tacere con una mano alzata.
     “E quand’anche lo fossi?” chiese, e Uglúk riconobbe la voce forte e limpida che aveva lanciato il possente grido di battaglia all’inizio della carica. Era un magnifico esemplare maschio, secondo i canoni degli Uomini - di costituzione robusta quasi quanto quella di un Uruk-hai, e di statura perfino un po’ più alta.
     “In quel caso ti sfiderei a duello, spada contro spada,” disse Uglúk. “Soltanto tu e io - o forse non sei provvisto dell’onore di cui si vanta la tua gente, e non hai il coraggio di scontrati con il capo dei tuoi nemici?”
     Esprimersi nella lingua ampollosa dei Pellebianchi era difficile per Uglúk, abituato com’era allo stile aspro e alla rapida cadenza della propria razza. Ma ne era capace, in caso di necessità, ed era l’unico modo per far sì che l’Uomo lo ascoltasse. Dubitava che in seguito avrebbe avuto modo di preoccuparsi per un possibile mal di testa.
     “Perché dovrei volerlo fare?” domandò l’Uomo. “Ormai vi abbiamo sconfitti, e potremmo comodamente abbattervi con le nostre frecce. Perché sprecare il mio tempo e correre un simile rischio?”
     Uglúk scrollò le spalle possenti. “Pensavo che i cavalieri del Mark fossero tenuti ad accettare una sfida onorevole.”
     A queste parole, gli Uomini scoppiarono a ridere e gli rivolsero sguardi pregni di disgusto.
     “Non vorrai certo accettare una sfida da questa… questa immonda creatura, mio Signore, vero?” domandò il cavaliere alla destra del capo. “Desidera solo far guadagnare tempo alla sua banda - che in questo momento noi dovremmo inseguire.”
     “È possibile,” disse il capo, “ma questa è una sfida al mio onore, Éothain. Non posso sottrarmi.”
     “Onore,” sbuffò l’altro Uomo, e nei suoi occhi avvampò una scintilla di odio. “Gli Orchi non hanno alcun onore, mio Signore! Sono canaglie, vermi, nient’altro.”
     “Forse è vero che non hanno onore,” replicò il capo. “Ma noi sì  - o perlomeno dovremmo averne. Persino nei confronti d’un Orco.”
     “Io non sono un Orco qualsiasi,” grugnì Uglúk, sentendosi giustamente insultato. “Sono Uglúk, capo degli Uruk-hai lottatori, Capitano di Isengard e Primo Guerriero della Bianca Mano.”
     “Vedo che al giorno d’oggi vi date titoli altisonanti,” disse il capo degli Uomini, scuotendo la testa con aria divertita. “Molto bene, allora, sia pure come desideri. Io, Éomer figlio di Éomund, Terzo Maresciallo del Riddermark, accetto la tua sfida.”
     Con queste parole smontò di sella, consegnò le redini del suo grande stallone da guerra nelle mani dell’altro Uomo, quell’Éothain, e sguainò la spada.
     Uglúk era un po’ stordito. Non aveva certo immaginato di trovarsi davanti a un parente del vecchio Re in persona. Inoltre il nome di Éomer era ben noto a Isengard, e di lui si diceva che fosse un feroce guerriero. Ma Uglúk non aveva alcuna preoccupazione riguardo al proprio destino. Sapeva che né lui né Krumghash né Skarburz si sarebbero allontanati vivi. Gli Uomini non li avrebbero lasciati fuggire, anche se fosse riuscito ad avere la meglio su Éomer. Tutto ciò che poteva fare era guadagnare tempo per gli altri.
     “Dovremmo catturarli, mio Signore,” disse l’Uomo di nome Éothain. “Conosceranno certo molte cose su Isengard e sulle sue forze che potrebbe tornarci utili.”
     “No,” rispose Éomer, “non ci direbbero niente. Forse non conoscono l’onore come lo intendiamo noi, ma ritengo che sentano comunque dei vincoli. E in caso contrario, lo stregone avrà certo gettato su di loro un incantesimo.” Si rivolse a Uglúk con la sua lunga spada splendente. “Bene, Uglúk - facciamola finita.”
     Uglúk impugnò lo spadone e si tuffò all’attacco senza alcun preavviso. Se voleva far sì che il duello fosse il più lungo possibile, doveva ottenere l’iniziativa. Ciò si rivelò presto un vantaggio, poiché gli permise di guadagnare sempre più terreno sull’Uomo, costringendolo a compiere mezzo giro nello spazio aperto vicino ai boschi sul quale si battevano. Il cerchio dei cavalieri non si mosse, sorvegliando il perimetro e la preda, affinché Krumghash e Skarburz non potessero fuggire.
     Uglúk ed Éomer lottavano costantemente per avere la schiena rivolta verso il Sole sorgente, di modo che l’astro abbagliasse gli occhi dell’avversario; e così compirono numerose giravolte per conquistare la posizione più vantaggiosa. Uglúk aveva il vantaggio di una forza superiore e di braccia più lunghe, ma anche l’Uomo era forte e abile, e inoltre molto più veloce di lui. L’Uruk cominciò a stancarsi, e nel suo stomaco riprese a formarsi lo spaventoso presagio di una morte incombente.
     Lo scontro fu lungo e spietato. I disperati affondi, frequentemente mirati da entrambe le parti, avrebbero rivelato persino al più inesperto degli spettatori che i due combattenti desideravano una sola cosa: uccidersi. Dapprima i cavalieri tentarono d’incitare Éomer, ma uno dopo l’altro ricaddero nel silenzio, come ipnotizzati dalla dura lotta senza quartiere che si svolgeva innanzi ai loro occhi. Uglúk sentiva il braccio destro farsi sempre più pesante, e capì che presto sarebbe finita.
     Tutt’a un tratto, Éomer si scagliò in un affondo; Uglúk riuscì a stento ad alzare la spada per opporsi all’attacco. Arretrò con un balzo per la prima volta dall’inizio dello scontro, per ottenere qualche attimo di tregua. Ma in quel momento il suo piede scivolò sull’erba pregna di sangue, ed egli inciampò in avanti, verso l’Uomo, che prontamente sollevò la spada e gli trafisse il petto, passandolo da parte a parte. Il tutto accadde così velocemente che il dolore fu quasi impercettibile.
     Uglúk ebbe un’unica, flebile convulsione, tentando come di alzarsi in piedi, ma sapeva che era finita. Ricadde sull’erba, ormai intrisa del suo stesso sangue che sgorgava copioso dalle ferite, e per un fugace momento si domandò che cosa aspettava gli Orchi dopo la morte.
     Avvertì un freddo contatto sulla fronte, e aprendo un’ultima volta gli occhi offuscati, vide il volto del nemico che si protendeva verso di lui.
     “Hai combattuto bene,” disse l’Uomo, e nella sua voce si percepiva qualcosa di simile al rispetto. Uglúk lasciò ricadere le palpebre, fattesi di piombo.
     “Finiscimi,” ringhiò, non volendo assistere alla morte dei suoi ultimi due ragazzi, gli unici rimasti con lui sino alla fine.
     Pensò a Lugdush e al cucciolo nel suo ventre che forse, un giorno, avrebbe mandato avanti la sua stirpe; pensò a Krumkû e alle altre due femmine che, con un po’ di fortuna, a quel punto si erano messe in salvo. E infine pensò ad Azdreg e a Thraknazh, che nonostante tutto sarebbero forse riusciti a fuggire, e proteggere le femmine e i cuccioli, una volta che questi ultimi fossero venuti al mondo.
     Non avvertì nemmeno il secondo colpo che lo liberò dal suo guscio spezzato.

...............
 
     Poi, dopo aver eretto un tumulo sui corpi dei compagni caduti e cantato le loro lodi, i Cavalieri fecero un grande fuoco e sparpagliarono al vento le ceneri dei nemici. Tale fu la fine della scorreria, e mai nessuna notizia di essa giunse a Mordor o a Isengard; ma il fumo s'innalzò nel cielo e fu visto da molti occhi vigili.
Le Due Torri (Capitolo 3: Gli Uruk-hai)

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