Stunning

di The queen of darkness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Paranoid ***
Capitolo 2: *** Angels ***
Capitolo 3: *** Under my skin ***
Capitolo 4: *** Novelle Cusine ***
Capitolo 5: *** Leaves ***
Capitolo 6: *** Music ***
Capitolo 7: *** The pianist ***
Capitolo 8: *** Problems ***
Capitolo 9: *** Sophie and Noah ***
Capitolo 10: *** Family ***
Capitolo 11: *** In the bathroom ***
Capitolo 12: *** Return ***
Capitolo 13: *** Help ***
Capitolo 14: *** Routine ***
Capitolo 15: *** In the silence of the Night ***
Capitolo 16: *** Tragedy ***
Capitolo 17: *** Wake up, lady ***
Capitolo 18: *** Feelings ***
Capitolo 19: *** Life ***
Capitolo 20: *** Mr. Barnowsky ***
Capitolo 21: *** Shopping with Sarah ***
Capitolo 22: *** Fever ***
Capitolo 23: *** Against Betty ***
Capitolo 24: *** Only friends ***
Capitolo 25: *** Flinn ***
Capitolo 26: *** Better than yesterday ***
Capitolo 27: *** Painting ***
Capitolo 28: *** William ***
Capitolo 29: *** Talking about ***
Capitolo 30: *** To draw ***
Capitolo 31: *** Lunch ***
Capitolo 32: *** When everything falls down ***



Capitolo 1
*** Paranoid ***


Le mani le tremavano, con violenti sussulti.
Singhiozzava: le lacrime non scendevano mai in quei momenti.
Inspirò a fondo nei polmoni l’aria puzzolente e stagnante del bagno sporco, le mattonelle umidicce che facevano da palco alla sua azione di sempre.
Da piccoli momenti isolati stavano diventando routine, e questo non le piaceva.
Nascondere i segni era sempre più difficile, giustificare le assenze oramai impossibile, farne a meno un concetto troppo astratto per avverarsi.
Morse violentemente il labbro inferiore, per il momento l’unica vittima delle sue furiose aggressioni.
Doveva chiudere gli occhi ogni volta che succedeva, perché non sopportava l’idea di vedersi di nuovo schiava, e aveva bisogno di sentire subito dopo il rilassamento istantaneo dei muscoli tesi.
Era il suo elisir, non si poteva chiederle di rinunciare. E poi non avrebbe mai smesso, ne era sempre più consapevole.
Avrebbe continuato fino a quando non si sarebbe distrutta anche esteriormente.
La lametta luccicava al suo fianco. Mentre si nutriva di quel piccolo riverbero di luce sembrava quasi innocua, uno strumento di liberazione e non il volgare componente di un vecchio rasoio.
La prese e per poco l’oggetto non cadde di nuovo sul pavimento lurido incrostato di schifo. Era così sudata!
Un sudore gelido e viscido che sembrava sgorgare direttamente dalle vene.
Le budella vennero attanagliate dalla consueta paura che, nonostante tutto, non la abbandonava mai.
Era quello il senso del tagliarsi, forse. L’autolesionismo non era tale senza un torrente violento di emozioni proibite, che spezzavano per un attimo il turbinio del suo cuore schiacciato e compresso dalla solitudine, incastrato fra due soffocanti costole sbarrate dalla scapola sinistra.
Serrò le mascelle tremanti: aveva freddo. Un tipo di gelo capace di presentarsi solo in quei momenti.
Delle volte doveva aspettare qualche momento prima di trovare il punto giusto, in modo da essere sicura di vedere del sangue, il proprio sangue, macchiare la pelle bianchissima.
Si fece strada fra la stoffa grigia della felpa e la rimboccò fino all’avambraccio; ordinate file di tagli regolari e rossastri, macabre linee sottili, fecero la loro comparsa. Odiava vederli.
Cercò di fare in fretta. Sarah sarebbe venuta presto a cercarla e non voleva che la vedesse in quello stato pietoso.
Stupida puttanella, si urlò mentalmente addosso, perché non ti decidi?!
Deglutì sonoramente e appoggiò il freddo metallo sulla carne, nell’unico posto libero.
Ecco come faceva: dal basso per poi risalire. Solo che non molti mesi prima le ferite facevano in tempo a cicatrizzarsi, mentre recentemente doveva crearsi spazio anche vicino al gomito.
Successe tutto abbastanza in fredda, se paragonato all’attesa.
La viscida lama prese il suo tributo dalle vene, e ne uscì un’unica goccia, rossa e brillante, quasi allegra, mentre la parabola si faceva tremolante verso il resto del polso, facendo gocciolare dei rigagnoli a terra.
Tenne gli occhi chiusi ancora per un lungo momento, sentendo il liquido scendere verso il basso.
Era quella la sua pace: tutte le paure, i disagi, le insicurezze, venivano drenati via lasciandole pochi secondi di tregua.
Il mondo poi le crollava nuovamente addosso, e contava i minuti che la separavano dalla sua prossima visita al bagno, con conseguente infinitesimale attimo di calma.
Non ricordava quando aveva cominciato a sentirsi così male, ma era una sensazione che la uccideva e la teneva viva.
Una sensazione devastante che ne fondeva migliaia insieme, e tutte spiacevoli.
Come avrebbe fatto col nuovo lavoro?
Il destino aveva voluto che avesse a che fare con i bambini per guadagnare l’indispensabile, ogni pomeriggio dalle quattro in poi. L’avevano finalmente contattata dopo mille richieste.
Forse si sarebbe distratta, sarebbe riuscita a mettere insieme la sua vita e crearne qualcosa, chi lo sa.
Fatto sta che pulì la lametta con una salvietta mentre la costante sensazione di inadeguatezza e disagio prendeva il sopravvento, avvolgendola di familiare tenebra, e cercò di ricomporsi.
Gettò dell’acqua gelida sulla ferita e attese che il sangue smettesse di scorrere; poi coprì il tutto e nascose l’arma nella tasca dei jeans.
Guardò nello specchio la sua immagine, terribile come al solito.
Bene. Poteva tornare alla sua solita merda di vita come se niente fosse successo.
Come al solito.
 
 
  

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Capitolo 2
*** Angels ***


Si sentiva una turista mentre, con un fogliettino da block notes, girava per le strade alla ricerca della casa giusta.
Una fitta di nostalgia l’aveva presa quando aveva notato l’indirizzo, terribilmente vicino a quartieri residenziali di famigliole felici con mariti premurosi e casalinghe dal caschetto biondo, le cui uniche preoccupazioni erano i saldi di fine stagione o cosa cucinare a pranzo agli allegri figlioletti.
Un schifo. Che, tra l’altro, non aveva mai posseduto.
Aveva sempre odiato le famiglie da copertina, o le famiglie in generale. Erano la finzione fatta persona; i tradimenti, i litigi, le incomprensioni, il marcio, c’erano sempre, eppure si ostinavano a nascondere il loro lato umano sotto strati di felicità costruita su castelli di carta.
Spesso era lei a soffiarci sopra e a far crollare la torre di assi di cuori, un compito che aveva smesso di fare apposta. Semplicemente viveva e lasciava vivere cercando di non entrare mai in contatto con persone che rientravano nella categoria “umani”.
Ecco perché lei e Sarah, diverse come il giorno e la notte, erano diventate amiche.
L’altra era figlia unica di genitori separati che passavano il loro tempo a spendere soldi o a guerreggiare fra loro. Per fare in modo che uno risultasse più simpatico dell’altro le compravano qualsiasi cosa era in loro potere con la scusa di farla felice, ma la studentessa non era certo tipo da farsi abbindolare da cose del genere. Era più sveglia di quel che pensavano.
In realtà, anche se si comportava da persona superficiale, Sarah non lo era affatto. Anche se non leggeva come faceva invece Jane oppure non rifletteva particolarmente sulla vita e i suoi colpi di scena rimaneva comunque una mente brillante e attiva, quando voleva.
Era lei che per il compleanno le regalava dei grossi volumi della letteratura classica da divorare, oppure faceva in modo che il suo mondo non  fosse grigio a tal punto da spingerla a calare la lama una volta per tutte sui suoi polsi, per farla finita definitivamente.
Le era molto grata di non lasciarla mai morire in un bagno lurido.
Svoltò una seconda volta attraverso un incrocio, nel marciapiede lindo e perfetto, mentre il verde intenso dei giardini stava per essere sostituito da un colore decisamente meno artificiale. Le case si facevano più semplici, e lei si rincuorava vedendo steccati leggermente malandati e garage ricoperti dal disordine.
Cercò un riferimento, e riguardò il foglio.
Sì, era la via giusta. Ci era passata diverse volte durante la sua permanenza nella città, cioè da tutta la sua giovane vita, quindi era certa di non sbagliarsi. Camminò lungo la strada per trovare il numero civico e, vedendo il 18 della schiera, si fermò e attese di essere sicura al cento per cento.
L’abitazione era fatta di legno dipinto di bianco, abbastanza elegante ma anche semplice. Nel vialetto non c’erano macchine, anche se l’orario dell’appuntamento era stato fissato il giorno prima, e il prato curato era un po’…spelacchiato. Si scorgevano impronte di scarpe sull’erba che l’avevano reso pieno di piccole dune, come un deserto verde.
Suonò il campanello: “Famiglia Hall”, recitava la targhetta scura, mezzo arrugginita.
Dovette aspettare un attimo prima che il cancelletto si aprisse, e che una testa sbucasse dalla porta in fondo. La casa non era molto grande, quindi calcolò che la famiglia non dovesse essere troppo numerosa.
Non l’avevano infatti avvertita riguardo al numero di bambini di cui occuparsi, e sperava che non fossero sette come quelli della donna sul giornale, una disperata casalinga che voleva farsi una vita del tutto assorbita dai suoi adorabili pargoletti.
Chiuse il cancello dietro di sé e arrivò verso l’entrata, dove stava un ragazzo poco più grande di lei. Al telefono aveva parlato con una donna, una bella voce calda e dall’accento familiare, ma non le sembrava decisamente il caso. Che fosse uno scherzo?
Decise di no. Una persona adulta non avrebbe fatto tutta quella farsa se di mezzo c’era anche un’agenzia.
-Posso aiutarti?- chiese dubbioso il ragazzo, guardandola senza capire.
-Sono la nuova baby-sitter…- disse lei titubante. Possibile che avesse sbagliato casa?
Il viso dell’altro parve illuminarsi. –Ah, già, me l’avevano detto…pensavo però saresti arrivata molto più tardi. Prego, entra.
Detto questo, si scostò per farla passare. Lei sorrise cortesemente, accettando l’invito, e fu accolta in un ingresso originale e pulito, con un appendiabiti di ferro battuto e un tappeto come non ne vedeva da anni, fatto con singolare cura.
-Non devo occuparmi di te, vero?- chiese Jane alzando un sopracciglio, non vedendo la minima traccia di una presenza infantile, come testimoniato dal salotto in ordine e dalla cucina splendente.
Sorprendentemente, il ragazzo si mise a ridacchiare alla battuta squallida, cosa che nessuno faceva da molto tempo. Lei non era tipo da scherzi o che fosse trascinante nell’umorismo, e rimase del tutto spiazzata che la nota di sarcasmo fosse stata accolta con divertimento.
Un mormorio fresco, che la rallegrò inconsapevolmente. Non pensava facesse ridere, o anche solo sorridere. Invece il padrone di casa aveva appena espresso il contrario.
Un piccolo raggio di sole nella desolazione, finalmente.
-No, no, non preoccuparti. Credo proprio ti abbiano chiamata per Kim - affermò sorridendo. –Appoggia pure la giacca se vuoi, io intanto vado a chiamarla.
Jane obbedì, senza dire niente. Sfilò la tracolla borchiata, la coprì col cappotto nero su un gancio e aspettò paziente sulla cornice della porta del soggiorno.
Sentì dei passi sulle scale mentre saliva, per poi scendere accompagnato da una risata gioiosa e una vocina sottile, con un tramestio impaziente di piccoli piedi scalzi.
Un angioletto trotterellò verso di lei non appena la individuò, e la ragazza rimase assolutamente immobile.
La bambina era bellissima, come non ne aveva mai viste: i capelli sembravano soffici mentre ondeggiavano in morbidi boccoli biondi, e gli occhi intelligenti erano azzurri come il cielo terso dell’estate.
Una figura graziosa con un paio di jeans e un maglioncino evidentemente casalingo. Sembrava l’innocenza modellata a forma di bambina.
Non le erano mai piaciuti i capelli biondi, preferendo quasi i propri, marroni e banali. Ma in quel caso non le pareva esistesse colore più adatto di quello, per una testolina tanto graziosa.
Battendo allegra le mani piccole e delicate, la bimba ridacchiò entusiasta. –Come ti chiami?-, chiese con un sorriso da far sciogliere i ghiacciai.
-Io sono Jane - disse lei riprendendosi e abbassandosi alla sua altezza, tipica dei bambini di cinque anni.
Non ricordava chi le aveva detto che ci sapeva fare con i più piccoli, forse il viscido di turno alla Casa, e sperò che tale affermazione fosse ancora valida. Anche se pensava che con Kim l’impresa non sarebbe stata particolarmente ardua.
-Io invece mi chiamo Kimberly…- guardò un attimo indecisa la punta dei propri piedi. Poi rialzò la testa con un sorriso meraviglioso. –Ma tu puoi chiamarmi Kim!
Alla futura baby-sitter venne da sorridere istintivamente, un’azione incerta e lieta come può esserla quella di una persona che non mostra i denti da anni, ormai.
Era da tantissimo tempo che non le veniva spontaneo ridere, o non usare il cinismo per difendersi, stare al gioco e divertirsi. Non ricordava quand’era stata l’ultima volta che qualcuno l’aveva fatta sentire bene tanto da sorridere, ma era comunque molto, moltissimo tempo.
E quella bimba ci era riuscita nei primi dieci minuti di conversazione.
Le prese un dito trascinandola verso di sé leggermente. –Tu sai fare le trecce?
-Sono la cosa che so fare meglio- rispose sinceramente. In effetti era vero, le trecce erano l’unica acconciatura che le riuscisse bene e che, perciò, non faceva mai su sé stessa. Voleva essere brutta, a differenza di Sarah.
L’altra rise di gusto, deliziata, spiegandole che le piaceva moltissimo quando qualcuno le pettinava i capelli.
Jane, oramai, avrebbe fatto qualsiasi cosa Kim le avrebbe detto di fare, presa com’era dalla meraviglia del vederla muoversi, ridere, parlare con la sua pronuncia a volte insicura, ma sempre pervasa da un tono allegro. Completamente affascinata, si era dimenticata del fratello che aveva assistito alla scena sorridente.
I due non si somigliavano per niente. Il più grande aveva una massa di lunghi capelli neri, che lambivano le spalle in un’unica scia uniforme e lucente, lasciata sciolta non di certo per trasandatezza ma solo come gesto di libertà. Gli occhi erano doppiamente più chiari se paragonati a quelli della sorellina, con delle ciglia che sembravano essere state trattate con il mascara, in un effetto copiato e desiderato da migliaia di modelle, mentre la bocca carnosa al punto giusto si stagliava perfetta nel suo viso bianchissimo, pallido quasi  come il suo. Gli zigomi regolari, se visti con una luce diversa, potevano sembrare quasi taglienti, acuminati.
Sognò per un momento di accarezzare la pelle liscia con l’indice, un tocco sicuro fino a scendere verso la mascella, sfiorare il mento, poi la clavicola…
Ma cosa andava a pensare? Era assolutamente inammissibile, l’aveva appena visto e non sapeva nemmeno come si chiamava!
E poi lei era lì per sua sorella, non di certo per lui. Per non cedere all’imbarazzo, decise di fare la prima domanda sciocca che le passò per la testa, ma che ripensandoci non lo era affatto:- A che ora mi caccerete?
Un angolo di quella bocca tutta da assaggiare si alzò in un sorrisetto inequivocabile. –Io torno alle sei- disse. –Posso occuparmene io, dopo. Vero piccola? – aggiunse rivolgendosi ovviamente alla sorella.
La bambina rispose con un assenso cinguettante. Poi, assicuratosi che non  le servisse nient’altro, le affidò Kim.
Si diresse in entrata prendendo un cappotto molto simile al suo, per poi rispuntare un attimo nel salotto. –Bella borsa- disse solo, poi salutò e uscì chiudendosi dietro la porta con tocco leggero.
Jane era rimasta un po’ scombussolata: la gente non le faceva più effetto da moltissimo tempo, ormai, e non capiva come uno sconosciuto neanche particolarmente bello (come testimoniavano il naso interessante e l’altezza molto più elevata della sua)potesse suscitarle una sensazione tanto devastante.
Sicuramente era uscito con la propria ragazza o una folta compagnia di amici, anche se gli abiti scuri e cupi, rischiarati solo dalla presenza della bimba, parlavano di una realtà diversa.
La piccola la guidò abilmente al piano di sopra continuando a parlare a raffica con la sua voce allegra, schivando un pianoforte e una camera lugubre con poster misteriosi dai paesaggi ombrosi o albergati dalla nebbia.
Non ebbe tempo di notare i dettagli: Kim la guidò nella propria camera e, per il resto del pomeriggio, Jane le pettinò i capelli ascoltando affascinata i suoi racconti di anima innocente.
  

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Capitolo 3
*** Under my skin ***


 
Il ragazzo, come promesso, fece ritorno alle sei in punto. Jane e Kim si salutarono e si diedero appuntamento per il giorno dopo.
-A proposito, Jane, io sono Malcolm - le aveva detto con un sorriso prima che se ne andasse.
La cosa che le aveva dato più fastidio di sé stessa era stata la stupida felicità nel rendersi conto che, nonostante fossero passate delle ore e lei si fosse rivolta alla sorellina, lui si era ricordato lo stesso il suo nome.
Malcolm.
E così adesso quella strana figura aveva anche un nome.
Chissà cos’aveva di tanto speciale per averle suscitato una reazione improvvisa tanto strana; non provava attrazione da tantissimi anni, se considerati tutti quelli che aveva vissuto.
Lo dicevano tutti che l’adolescenza era un periodo particolare, ma lei batteva ogni record. Lametta dipendente e adesso anche attratta dagli sconosciuti, poiché lui era tale per lei.
A parte il nome, non ne sapeva assolutamente nulla.
Era questo il motivo che l’aveva mandata fuori di testa: come si faceva a pensare certe cose per una persona di cui non si sapeva nemmeno il benché minimo dettaglio?
Malcolm.
Se al suo cuore bastava davvero così poco per scaldarsi, allora si poteva benissimo dire che il corridoio che stava percorrendo non stava andando verso un bagno lurido. E che in tasca non aveva una lametta da rasoio.
Ebbene sì, alla fine era stato più forte di lei.
Provava ribrezzo per sé stessa al pensiero che Kim avrebbe sfiorato quegli stessi avambracci, ma ormai era diventata la sua unica droga, la dipendenza che riusciva a regalarle un attimo solo di leggerezza.
Il viso del giovane non sbiadiva, e le fece accapponare la pelle l’idea che lui la stesse guardando camminare in quello stesso posto, con residui di manifesti alle pareti di cemento, verso il baratro.
Il rumore della suola delle sue Converse risuonava lugubre e solo nello spazio vuoto.
Quell’ala della scuola era stata abbandonata da anni, con l’unica eccezione dell’aula di arte e quella di chimica. Non erano state fatte le ristrutturazioni per problemi di budget, ma quei due corsi non importavano mai a nessuno, e i pochi partecipanti avevano bisogno di sporcare o intossicare aree con la sicurezza che nessuno ne risentisse.
Perciò era un posto perfetto.
Anche se gli artisti o gli scienziati non erano particolarmente schizzinosi, nessuno se la sentiva di usare quei bagni: mancavano anche gli attrezzi fondamentali per definirlo tale, ed era l’unico posto dove avrebbe trovato la solitudine che cercava.
Non avrebbe mai potuto tagliarsi in santa pace alla Casa, perché fra sorveglianti e ragazzi aveva sempre la bellezza di quattordici persone a ronzarle attorno.
Da un lato quella protezione era comprensibile, ma dopo un po’ che la si viveva risultava opprimente. E, anche se era l’unica a saperlo, con lei facevano più che bene a tenerla sotto controllo.
Si accarezzò la tasca dei jeans, per sentirne la sagoma.
Stava sudando.
Sentì la familiare contrazione delle viscere mentre apriva circospetta la porta della stanzetta lurida e sudicia, facendo attenzione a non essere notata.
Qualcuno, poche stanze più in fondo, stava suonando divinamente un pianoforte. La melodia si aggirava danzando nell’aria, e arrivava a sussurrarle alle orecchie, dolce come un frutto in estate.
Non era un’esperta di musica, ma sentì subito che non era un pezzo facile da suonare, soprattutto in quel modo ricco di sensazioni e di…tristezza.
Sì, chi accarezzava i tasti in quel modo non poteva che essere triste, almeno quasi quanto lei.
Rimase molto sorpresa dal constare che non era sola, perché il mercoledì non c’erano corsi. Lo sapeva bene, frequentando quello artistico.
E nel conservatorio non entrava mai nessuno, da quando il professore incaricato era andato in pensione…
Un brivido la riscosse. Lei era là per un motivo ben preciso.
Come una drogata, si sbrigò ad entrare e ad accucciarsi nel solito angolo puzzolente.
Distese le gambe fino ad appoggiare i piedi sulla lastra che separava la “toilette” vera e propria dal resto, per poi contorcersi e prendere l’oggetto.
Lo rimirò tremante: ecco l’unica cosa che sapesse farle vedere la luce, ormai sempre più frequentemente.
Alzò la manica, e la rimboccò fino al gomito, in un’azione familiare e meccanica. Le ferite del giorno prima dovevano ancora rimarginarsi, e si stagliavano fresche lungo una pelle difficilmente rimarginabile.
Posò la lama fredda su un lembo intonso, e applicò una leggerissima pressione.
Ne sentì immediatamente il morso redentore, le sue gambe ebbero uno spasmo.
Non provava piacere, solo una desolazione talmente forte che aveva il potere di spazzare via l’altra rendendola una bambola inerme. Non lo faceva per spettacolo, o come autocommiserazione: se si tagliava, si odiava, e se si odiava aveva un motivo in più per sopportare l’odio degli altri.
Un ragionamento chiaro solo a chi lo vive. Una situazione di perenne squallore e ansia.
Si prese un istante per assorbire il tutto, ma non penetrò in fondo come avrebbe voluto. Incise solo un po’, un minimo segno rosso a malapena gocciolante, poi si lavò col rigagnolo di acqua che filtrava dal lavandino malandato e mise via tutto.
Quando uscì, la tracolla retta a fatica fra le mani fragili, il pianoforte aveva smesso di suonare. 

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Capitolo 4
*** Novelle Cusine ***


-Chi ti ha insegnato a fare le trecce?- chiese innocentemente Kim, mentre un pomeriggio di un paio di giorni dopo stava seduta a gambe incrociate in attesa di vedere la “magia”, come la chiamava lei.
Le piaceva un sacco godersi la sua reazione mentre passavano il pomeriggio a curare i capelli pressoché perfetti della piccola.
Si metteva davanti ad un grande specchio a figura intera e rimaneva con la boccuccia spalancata ad ammirarsi, creando un spettacolo esilarante.
Persino Jane doveva ammettere che, nonostante fosse un po’ arrugginita, stava facendo progressi, soprattutto con la pratica di quei tre pomeriggi consecutivi. All’inizio si trattava di incerti intrecci, che si facevano via via più sicuri e particolareggiati. Pettinature lungo tutta la testa, alcune che passavano per la fronte, altre solo sopra le orecchie, code di cavallo con relativi arabeschi sotto e quant’altro.
Non pensava sarebbe potuta riuscire a fare delle cose tanto complicate, ma pur di sentire la risatina compiaciuta della bimba avrebbe impegnato tutti i suoi sforzi.
Era la prima volta che si fidavano di lei tanto da affidarle addirittura una bambina, e dal momento che era sotto la sua responsabilità avrebbe fatto il possibile per regalarle dei pomeriggi piacevoli. Da quel che aveva capito i genitori non dovevano essere troppo presenti; la madre l’aveva sentita solo un’altra volta dopo aver preso l’appuntamento, e sempre al telefono. Anche Malcolm sembrava sparito.
-La mia mamma- rispose la ragazza riprendendosi, e passando la spazzola sui capelli setosi, cercando di non farle male.
-Ohhh…e come si chiamava?
Jane sorrise: non pensava a sua madre da tanto tempo. –Rose.
-Rose è stata proprio brava ad impararti- disse la bimba soddisfatta.
La ragazza ridacchiò. –Si dice “insegnarmi”. Imparare si usa per dire che ti hanno spiegato una cosa nuova e tu l’hai capita.
La piccola ridacchiò. All’inizio si indispettiva delle correzioni, normalissime per una bambina di quattro anni, ma quando aveva visto che anche Jane ogni tanto cacciava apposta un errore per farsi correggere l’aveva presa più alla leggera.
Per un po’ rimase in silenzio, ma come al solito non era una situazione destinata a durare a lungo. Kim sentiva sempre il bisogno di riempire gli spazi privi di parole troppo lunghi con la propria vocetta, quasi per mantenere viva l’attenzione.
-E tuo papà?-. Il tono era così tranquillo e inconsapevole che le domande non la infastidirono neppure.
-Mio padre ci guardava mentre ci facevamo le trecce- spiegò la ragazza sorridendo. Era da anni che non ripensava a quelle scene di vita familiare che sembravano appartenere ad un altro universo, millenni prima di quello in cui si trovava, quand’era una bambina vivace e giocosa.
Le sembrò quasi di risentire la voce della madre, così controllata e calda. “Attenta a non farti male”, le diceva dolce quando andavano al parco, in una delle loro non rare passeggiate.
-Sai-, aggiunse, -ogni tanto giocavamo a farci i capelli a vicenda. I miei erano esageratamente voluminosi per fare delle treccine sottili, ci avremmo messo troppe ore e non sarebbe più stato divertente, così io le facevo a lei. I suoi capelli erano sottilissimi.
-Davvero?- nello specchio si vedevano gli occhioni spalancati dall’interesse.
L’espressione di Jane si distese mentre si lasciava trasportare dai ricordi. Non c’erano bare, o incidenti stradali, in quei sogni ad occhi aperti, solo una famiglia felice prima di disgregarsi irreparabilmente.
-Mio padre ogni tanto doveva viaggiare per lavoro, e noi ci mettevamo in ghingheri quando tornava, per dargli il benvenuto. Lui ci chiamava “le sue principesse”.
-Sembra bello- osservò Kim, con una serietà quasi adulta. Ma forse era solo una sua impressione.
-Lo era – confermò la ragazza. –Ecco, finito.
La bambina, distratta dai racconti, si guardò meravigliata che avessero fatto così presto, senza che nemmeno se ne accorgesse. Si trattava di una pettinatura semplice, abbastanza essenziale: un elastico fermava una lunga treccia che si biforcava in due diramazioni dietro alle orecchie.
Le piaceva, nel complesso, e sembrava piacere anche a Kim.
-E’ diventata la mia preferita- disse infatti, con sguardo rapito. Era un gioco facile da fare, con dei capelli tanto morbidi.
Per un attimo le era quasi sembrato di risentire la consistenza di quelli di sua madre, scorrere fra le dita.
  
Tesoro, guarda, si fa così: una ciocca su e una giù. Quella la devi mettere al centro..ecco, bravissima.
 
-Sei brava- disse una voce alle loro spalle.
Jane si voltò di scatto, tornando con uno spavento al presente; si era distratta, non aveva proprio sentito la porta aprirsi.
Malcolm stava appoggiato con nonchalance allo stipite, osservandole chissà da quanto. Guardava la sorella, un leggero sorriso su una bocca carnosa strana su un ragazzo, vestito interamente di nero. Uno zaino era appoggiato ai suoi piedi.
-Ciao – riuscì a dire la ragazza, sentendosi una stupida subito dopo. Ma che diavolo le succedeva?
Ma d’altra parte, cos’avrebbe potuto dire ad una persona con cui aveva scambiato si e no quattro parole in croce una sola volta e che era sparita per tre giorni?
-Ciao – rispose lui, e le sembrò altrettanto imbarazzato. Senza motivo, però, dal momento che era a casa sua e lei stava per andarsene.
Kim saltò tutti i convenevoli, fiondandosi addosso a lui con degli acuti strilli di gioia. Nutriva una vera e propria venerazione per il fratello maggiore, visto come un cavaliere capace di proteggerla da tutti i mali.
L’altro, invece di avere la tipica burbera reazione di un adolescente di più o meno diciotto anni, la prese in braccio ridendo di gusto e la fece roteare diverse volte. I capelli formavano un turbinio che, comunque, non si scompose.
Tornato serio e riappoggiando la bimba a terra, le si rivolse ancora sorridente. –Potresti fermarti una mezz’ora di più, stasera?
-Certo, non c’è problema- disse di getto, senza nemmeno pensarci. In effetto non c’era bisogno di troppe considerazioni: alla Casa di rado facevano storie, l’importante era mantenersi decenti dentro alla struttura, senza bere o drogarsi. E poi erano stati avvertiti del suo nuovo lavoro, e gli aveva anche detto riguardo a possibili imprevisti. Quindi, problema risolto.
Ma perché non poteva andare via al solito orario?
-Sai, tra un po’ mia madre torna dal lavoro e ha chiesto se ti può vedere-, spiegò con tono di scuse.
-Comprensibile – osservò Jane. Rimase lo stesso un po’ delusa, come se si aspettasse un altro motivo per farla restare. “Ma certo, adesso ti invita a cenette romantiche dopo il vostro secondo incontro! Molto maturo anche da pensare, complimenti!”.
Kim si rianimò all’improvviso: - Malcolm, sei capace di cucinare qualcosa di buono?
Lui rimase evidentemente imbarazzato da questa domanda, e cercò disperatamente di trovare una risposta, anche se si leggeva anche un minimo di divertimento nello sguardo.
-Beh -, intervenne Jane, rivolgendosi alla bambina, - Malcolm è stanco, è appena tornato a casa. Che ne dici se la signorina di casa gli fa una sorpresa?
Gli occhi della bimba si illuminarono all’inverosimile, tanto che entrambi temettero potessero esplodere dalla contentezza. –Dici che posso cucinare davvero?
-Certo-, rise Jane.
Lei però si sgonfiò subito come un palloncino bucato, afflosciandosi un po’. –Ma io non so come si fanno le cose buone per Macom-, disse delusa. Aveva qualche difficoltà a pronunciare le “l” nel nome del ragazzo.
-Sono qui apposta per impararti – affermò Jane con aria furba.
- Mannò Jane! Cosa dici! Si dice “insegnarti”! – disse ridendo di gusto la bimba, riprendendo subito l’euforia di prima.
Mentre schizzava fuori dalla stanza al settimo cielo, il ragazzo le rivolse un sorriso grato. Mimò un “grazie” sentito con le labbra, per poi aggiungere ad alta voce: -Vado a farmi una doccia.
Jane gli sorrise e seguì la bimba, per controllare che non si facesse male in tutta quella felicità traboccante.
L’altra la guidò in una grande cucina lucida piena di dispense e cassetti. Chissà come avrebbero fatto a trovare tutto il necessario…
Senza perdersi d’animo, più che altro per tenere intatto l’umore della bambina, trascinò uno sgabello davanti ad un ripiano della cucina, e vi posò sopra Kim. Le mise in mano un mestolo in legno e la tenne impegnata facendole mescolare acqua, farina e zucchero.
-Fino a che non diventa difficile da impastare, va bene? – le disse seriamente, per mantenere in piedi la farsa.
La bimba annuì altrettanto gravemente, dedicandosi al compito col massimo impegno.
Jane aveva in mente di farle preparare col suo aiuto una semplice torta margherita, sia perché impastare divertiva i bambini e anche per non saccheggiare quelle che sembravano risorse infinte. Poi, mentre la sua assistente sarebbe stata assorbita dal progetto, avrebbe pensato ad una pasta semplice da mangiare subito.
Dubitava che Malcolm avesse voglia di piatti elaborati, o che fosse disposto ad aspettare circa un’ora per cenare. Inoltre era l’unico piatto che sapeva per certo le sarebbe venuto bene, una classica pasta al pomodoro senza tanti condimenti. Le nonne italiane servivano a qualcosa, no?
Mise la pasta a bollire, stando attenta che la bambina fosse abbastanza lontana dai fornelli senza scottarsi, ma si rese conto che era così impegnata da essersi a malapena accorta dell’esistenza di un mondo circostante.
Le venne da ridere: sembrava tanto buffa…
 
 “Adesso cuciniamo a papà una bella pasta, che ne dici?”, chiese sorridendo la madre.
 “Sì!”, disse la bambina entusiasta. Amava quando le due facevano qualcosa insieme. Passavano la maggior   parte del loro tempo ad inventarsi giochi per ingentilire le questioni domestiche. Alla fine, Rose rideva come  una matta e Jane finiva cosparsa di ingredienti vari, indipendentemente dal piatto cucinato.
 
Prevedendo il disastro con la farina, Jane pensò bene di fasciare la bambina con un grembiule decisamente troppo grande, e la sua voglia di ridere aumentò a dismisura. Da quanto non s sentiva così leggera?
In soli tre giorni pensava che per lei ci sarebbe potuta ancora essere una speranza.
- Jane! E’ diventato difficile!
- Bene, adesso dammi pure che faccio io. Tu intanto guarda che un giorno lo dovrai fare da sola, eh?
Così la tenne occupata quel tanto che bastava perché arrivasse il momento di buttare la pasta e infornare l’impasto, semplice ma dal buon aspetto, con l’aggiunta degli ingredienti giusti.
Fortunatamente aveva trovato tutto al primo colpo, perché non avrebbe certo voluto stare a cercare utensili vari e magari trovarsi tra le mani robe strane di cui ignorava il funzionamento.
Si sedettero poi a tavola, mentre Jane teneva la bimba impegnata col preparare la tavola come facevano in Italia, il paese a forma di scarpa. Le raccontava della disposizione di posate e piatti, di tanti bicchieri dalle forme diverse usati nelle tavole di re e regine e di come, alcune “persone un po’ matte” facevano addirittura preparare un banchetto per i loro cani, in modo che potessero mangiare assieme ai padroni.
Lei la ascoltava affascinata, ma la verità era che nemmeno Jane sapeva dove aveva imparato tutte quelle cose, o come faceva a risponderle con una certa fantasia. Si era sempre reputata un tipo abbastanza piatto in quanto creatività. Si esprimeva sulla tela, e lì era un altro discorso, perché non si era mai ritenuta particolarmente dotata in arti oratorie.
Malcolm scese dalle scale e le trovò sedute a ridere e a raccontarsi aneddoti come due vecchie amiche; che strana, avrà sicuramente pensato.
Indossava dei jeans neri attillati e una maglietta scura semplice, lavata più volte. I capelli umidi scendevano morbidi sulle spalle.
-E’ pronto? – chiese divertito.
Entrambe annuirono all’unisono. Ma non fecero in tempo a dire nulla perché suonò improvvisamente il campanello. 

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Capitolo 5
*** Leaves ***


Appena Malcolm andò ad aprire, si sentì chiaramente una voce allegra salutarlo con un accento armonioso.
Sicuramente era sua madre, perché Kim si fiondò fuori dalla stanza e si mise a strillare felice saltando da tutte le parti. Delle volte aveva delle reazioni un po’ esagerate, col rischio di farsi del male sul serio.
Jane, abbandonata nella stanza, prima di seguire la famigliola si assicurò che tutti i fuochi fossero spenti, e lasciò loro un minimo di intimità. Le voci principali erano quelle della figlia e della donna.
Il ragazzo aveva parlato poco, con un tono basso decisamente meno ridente del solito. Non che fosse un burlone in circostanze normali, però nei suoi confronti non era mai stato tanto distaccato, e con lei ne avrebbe avuto motivo, visto che non si conoscevano affatto. Forse era stato solo per farla sentire a proprio agio, chi lo sa.
Si affrettò a raggiungere il salone per non fare la figura della maleducata. Le venne spontaneo proteggere da occhi adulti gli avambracci coperti, come se quelle ferite lasciassero un segno anche sulla stoffa, o su ciò che toccava. Le viscere le si contrassero pensando a tutte le volte in cui aveva toccato i capelli di Kim, ma non era affatto il momento per simili riflessioni, soprattutto dovendo presentarsi alla madre dei due.
Voleva fare buona impressione, ne andava del suo lavoro, in primis.
Vide subito un  vestito rosso brillante semi-celato da un’elegante impermeabile classico, beige e lungo, e delle scarpe col tacco stupende. Non le erano mai piaciuti vestiti o accessori, però dovette ammettere che erano davvero eleganti, soprattutto su quel corpo così magro e flessuoso.
La donna si girò verso di lei e sorrise cordiale. –Wow! Se avessi saputo che eri così bella sarei stata più attenta a far girare Malcolm in casa!
Jane sorrise istintivamente. Non era affatto abituata ai complimenti, soprattutto se fatti con una tale sincerità, espressa in modo disarmante.
-Mi chiamo Francesca, ma chiamami pure Francis, è più facile da pronunciare – si presentò, porgendole una mano guantata dalle dita affusolate.
-Io sono Jane – disse stupidamente la ragazza, in quanto la donna lo sapeva già.
-E’ un bellissimo nome, cara -, osservò l’altra sorridendo. Aveva dietro di sé una valigia. –Mhh! Ma cos’è questo buon profumino? – osservò poi, sorpresa, guardando Malcolm. Lui alzò le spalle, come a dire che non ne era responsabile. Era molto freddo in quel momento, se ne stava in disparte senza prendere realmente parte alla conversazione, e il suo viso si intonava perfettamente ai vestiti che portava.
La madre intanto si era già avviata verso la cucina, con la sua camminata sciolta e misurata. Era una donna bellissima, con delicati tratti mediterranei, i quali però non si riflettevano su nessuno dei due figli.
I capelli erano lunghi e ondulati, color cioccolato fondente, mentre il suo fisico rimaneva perfetto e sottile, aggraziato. Non sembrava nemmeno avesse quasi quarant’anni, come le avevano detto. Pareva circa una ventenne, altroché.
E poi, quel tono così melodioso…tradiva una cadenza decisamente molto poco americana. Che fosse straniera? Spagnola, forse?
Ma il nome non sembrava ispanico, bensì italiano. Anzi, era estremamente probabile che venisse proprio dall’Italia, come testimoniavano il gesticolare per sottolineare i concetti e l’attenzione per la qualità degli abiti.
Jane la seguì, con Kim che le trotterellava appresso e tesseva le sue lodi attaccata alla gonna di Francesca, che ascoltava divertita senza dire niente.
Si avvicinò ai fornelli, e sbirciò come una bambina sotto tutti i coperchi, rimanendo piacevolmente sorpresa dal contenuto. –Hai cucinato tu, cara?
-Sì – rispose semplicemente. –Ma Kim mi ha aiutato in modo non indifferente.
L’interessata annuì felice di essere stata ricordata, spiegando che aveva fatto da sola una sorpresa. Avevano deciso di trattare la torta come un gran finale.
-Complimenti, sembra davvero buono…mi mancava la cucina italiana – disse nostalgica la donna. Ma si riprese subito, dicendo che andava a sistemarsi un attimo e che sarebbe tornata subito.
La ragazza ne approfittò per sistemare gli ultimi ritocchi, sotto lo sguardo silenzioso di Malcolm che seguiva il suo mettere la pasta nei piatti e l’assaggiare il sugo per sentire se era salato abbastanza.
-Tutto ok? – gli chiese. Aveva una faccia da funerale che lei era abituata a vedere solo su stessa, ed era un’immagine che cozzava così tanto con le precedenti da farla preoccupare sul serio. Non avrebbe sopportato l’idea di avere a che fare con un altro autolesionista.
Lui annuì piano, non rincuorandola affatto. –E’ stata una giornata pesante.
Jane decise di lasciar stare: quando alla Casa le facevano domande del genere era altrettanto evasiva e non ne cavavano fuori nulla di più. Odiava sentirsi esaminata o suscitare compassione, quindi ritenne saggio dedicarsi alle faccende normali prima che Francesca tornasse.
Era una famiglia un po’ particolare, senza foto di gruppo ma solo dei figli, e anche poche. Il padre era stato nominato solo un paio di volte e descritto come una persona normale, come la madre, del resto, e la piccola le aveva confidato che i due fratelli passavano  molto tempo a casa da soli. Jane aveva ipotizzato che i genitori avessero professioni molto impegnative, e lasciò stare la questione per non far venire malinconia alla bambina.
Però ora aveva una strana inquietudine: Malcolm si era depresso tutto di colpo, il volto scuro e le sopracciglia contratte, mentre l’altra sembrava anche felice di vedere Francesca, la quale era tornata con una valigia e si stava comportando nel modo più normale possibile. C’era di sicuro qualcosa di strano.
-Non vedo l’ora di mangiare, sono proprio stanca! – esordì la donna, tornando, -vuoi una mano, cara? Non serviva ti prendessi questo disturbo!
Si era cambiata indossando un completo che immaginava fosse da casa: elegante e costoso forse più del precedente.
-Non si preoccupi, miss Hall, per me non è affatto un disturbo.
-Oh, ti prego, chiamami Francis. Tutta questa formalità mi fa sentire vecchia!
Jane già prevedeva che avrebbe fatto una fatica bestiale, ma decise di assentire con un sorriso educato. Se faceva buona impressione avrebbe avuto sicuramente tempo per imparare.
Si sedettero tutti a tavola meno che la ragazza, la quale si incaricò di distribuire le porzioni respingendo la debole offerta d’aiuto del ragazzo. Gli lanciò un’occhiata apprensiva senza essere notata. Ad ogni parola della madre sembrava volersi nascondere sempre di più.
Conosceva quello sguardo apatico, quella posa accasciata, quell’espressione da animale in trappola, e aveva cominciato a nutrire una certa simpatia per lui; non voleva credere possibile di aver trovato un altro ragazzo che si sentiva inutile come lei.
Era una sensazione che non augurava a nessuno, nemmeno ad un ipotetico peggior nemico. Tutto sembrava progettato apposta per ferire, e qualsiasi oggetto diventava una fonte di liberazione. Medicine, corde, armi…portavano verso quella che veniva creduta una dolce morte.
Nessuna soluzione, solo un immenso circolo vizioso che trascinava in basso.
E non voleva credere che Malcolm vi stesse cadendo. Aveva bisogno di sapere che c’era qualcuno in grado di sollevarsi e riuscire a camminare.
Dal momento che la fame l’aveva abbandonata ormai del tutto, lasciò che gli altri mangiassero facendo in modo che il proprio piatto rimanesse intatto.
-Dimmi cara, dove hai imparato a cucinare in modo tanto meraviglioso? – chiese Francis ad un certo punto.
-Mia nonna era italiana, è stata lei ad insegnarmi – rispose cordiale. Finse di portarsi qualcosa in bocca, e accompagnò il senso di acidità con una sorsata d’acqua.
-Wow! Come si chiamava?
-Margherita -. Lo pronunciò in un italiano perfetto, come la donna le aveva insegnato. Non era mai stata una persona severa, ma sulla dizione non transigeva errori di alcun genere. Per anni le era rimasto uno strascico dolce nella cadenza, che svaniva con l’andarsene della pratica.
Naturalmente, la signora ne rimase molto colpita. –Ti ha anche insegnato a parlare italiano?
Gli occhi di Kim scintillarono quando annuì, prima di schernirsi dicendo di conoscere solo le basi più semplici. Il massimo era articolare qualche parola alla meglio, ma se mai fosse andata nel paese dubitava che se la sarebbe cavata.
-E’ da anni che non lo parlo più, non ne ho avuto mai l’occasione…mio marito William ogni tanto mi chiede se gli dico qualcosa, perché ne ama il suono, ma non si può certo chiamare un allenamento. Mi sto arrugginendo, e mi dispiace dover rinunciare alle mie radici – spiegò malinconica.
Jane pensò che quella donna era davvero bella, non importava il filo di trucco o no, oppure la stanchezza sul viso. Aveva un fascino che era incontrastabile: forse era stata troppo affrettata pensando che Malcolm non le somigliasse.
Malcolm. Un lampo di preoccupazione le attraversò il cervello, ma si diede della sciocca.
-Anche mia nonna, quando andavo a casa sua, ne approfittava per darmi lezioni. Diceva che era un modo per mantenersi viva.
-Aveva assolutamente ragione – osservò Francesca dolcemente, col tono velato da qualcosa di più profondo. – Mi dispiace molto non aver potuto insegnare l’italiano a Malcolm.
Guardò il figlio con affetto, ma ricevette solo l’ombra di un sorriso da persona rotta dentro.
Nemmeno lei riusciva a sorridere completamente, nonostante a volte Kim la divertisse. Le mancava sempre qualcosa per definirsi felice o spensierata, e fare l’attrice non poteva mai sostituire la realtà.
-Ti ha insegnato bene – constatò soprapensiero. –Hai una buonissima pronuncia.
-Grazie.
-Verità-, affermò l’altra, sorridendo.
Finirono relativamente presto: la porzione del ragazzo era intatta come la propria, e si affrettò a sparecchiare senza dare nell’occhio. Coprire le tracce del malessere per lei era diventato semplice, dopo anni d’addestramento.
Inoltre sapeva quanto spiacevole potesse essere inventarsi patetiche scuse sotto pressanti domande, soprattutto se in pubblico.
Decise di lasciar perdere, quindi, con le preoccupazioni. Per averlo coperto lui le doveva un favore, e glielo fece capire con un’occhiata, sicuramente interpretata nel modo corretto.
Non sapeva prendersi cura di se stessa, figuriamoci di un ragazzo con i suoi stessi problemi. Anzi no, con problemi diversi ma lo stesso modo di cercare di sistemare le cose, peggiorandole e basta.
Kim e la madre si misero a chiacchierare e l’altro insistette con l’aiutarla a lavare i piatti. Anche se si sentiva a disagio, era l’unica soluzione possibile.
Dopo sarebbe tornata alla Casa e ci avrebbe dormito sopra.
Entrambi si ritirarono nella cucina, davanti al rubinetto, e Jane gli porse uno straccio per asciugare. Non fece storie.
Dopo un po’ divenne un lavoro meccanico, e si perse nei suoi pensieri; il corso che stava affrontando per arte, i suoi voti nella media, le ore di studio, le trecce con Kim. Stava recuperando normalità ad una velocità strabiliante, parlando di un tipo instabile come lei.
Aveva appena finito di cucinare per un’enigmatica famiglia e ora rassettava aiutata da uno strano ragazzo che stava riscoprendo in quello stesso momento. Delle volte la vita diventava davvero strana.
Come se non lo fosse già stata abbastanza.
-Grazie – sussurrò appena l’altro. –Mi dispiace che tu…
Jane lo interruppe, col tono di voce più dolce che riuscì a recuperare dopo la sorpresa. –Lascia stare, so benissimo cosa si prova.
L’ombra di un sorriso triste comparve sulle labbra di Malcolm. –Chissà perché, ma lo immaginavo.
-Che vuoi dire? – chiese, perché anche se aveva paura della risposta, era solo per fargli dire qualcosa, di drenare un po’ di tristezza con una conversazione iniziata spontaneamente.
-Appena ti ho visto entrare, ho capito che eri diversa…che mi avresti capito, un giorno.
Silenzio.
Jane non sapeva che cosa dire. Che avesse compreso tutto solo grazie alla forza della disperazione?
Immerse le mani nell’acqua bollente, ma non sentì dolore, solo sollievo. Lasciò che il sapone le lambisse i polsi sfregiati e a malapena coperti da una camicia bianca.
All’improvviso, la vecchiaia che sembrava averla accompagnata per tutta la vita, le ripiombò addosso. Era impossibile dimenticare tutto in un paio di giorni, e lei si era illusa di poterlo fare.
L’altro non disse più nulla, pensando forse che avesse male interpretato le sue parole, credendo che fossero riferite all’aspetto fisico.
Mai così lontano dalla verità. Era una persona che celava troppi oscuri labirinti per fermarsi a bazzecole del genere.
Solo perché indossava abiti dal taglio essenziale, quasi vagamente maschili, camicie e maglioni troppo larghi per il suo fisico minuto, portava i capelli come capitavano e non si truccava non significava che ogni discorso enigmatico andava riferito alla prima immagine che si poteva avere di lei.
E se non usava cosmetici, era perché il suo viso non glielo permetteva: zigomi troppo lisci, naso troppo sottile, labbra troppo femminili per conoscere il tocco di qualsiasi altra cosa che non fosse sapone.
-Scusa se ti ho offeso.
-Non l’hai fatto.
Jane tolse improvvisamente le mani dall’acqua, le asciugò velocemente con un panno e si appoggiò al bordo del lavello. –Ci conosciamo da neanche una settimana, come hai fatto a capire così tanto di me?
-Dicono che tra simili ci si riconosce.
-Dicono bene, una volta tanto -, sussurrò.
Scorse, in quell’istante, un tale abbandono in quegli occhi di ghiaccio che faceva quasi male anche solo da osservare. Era la prima volta che qualcuno la fissava dritto nelle pupille, e non si preoccupò nemmeno di celare dietro lo sguardo tutta l’umiliazione che derivava dall’essere lei.
Era la prima persona a cui permetteva la vista dei suoi più luridi segreti.
Perché aveva capito che li poteva condividere con colui che aveva vissuto altrettante schifezza.
-Oh, santo cielo, mi dispiace moltissimo, ma devo proprio scappare! – esordì Francesca, entrando nella stanza e spezzando bruscamente il contatto visivo fra i due.
Sembrava che non si fosse accorta di nulla, e li guardava mortificata. –Mi hanno appena chiamato.
Kim spuntò nella stanza: -Devi partire ancora, mamma?
La donna le sorrise triste e si inginocchiò alla sua altezza. –Purtroppo sì, angelo mio. Però – aggiunse, - sarò di ritorno prima che tu possa aprire gli occhi.
-Ma i miei occhi sono già aperti, e non vogliono vederti partire – disse sconsolata la bimba.
La madre la abbracciò stretta, mentre con le mani le dava dei colpetti leggeri sulla schiena.
-Dove vai stavolta? – chiese Malcolm, senza tradire nulla. Per lo meno non sembrava più triste.
- Dubai – rispose l’altra. –Devo arrivare entro domattina. Sarà un viaggio abbastanza lungo, ma papà mi ha promesso di arrivare domani, quindi si tratta solo di una notte.
-Deve andare a Washington, mamma – ribatté lui, abbastanza seccato. –Arriverà domani, è vero, ma partirà nemmeno dopo un giorno.
Francesca lo abbracciò stretto. L’ombra dell’indecisione le incupì gli occhi: ogni volta era una sofferenza partire. –Mi dispiace, tesoro- sussurrò.
Poi si rivolse a Jane: -Ti prego, scusami tanto, ma devo scappare. Domani William vorrebbe conoscerti…penso torni nel pomeriggio. Ah, a proposito, era tutto buonissimo!
Le schioccò due baci sulle guance e, salutati nuovamente tutti, si rimise l’impermeabile e sparì in salotto.
Non aveva disfatto la valigia, e se la riportò appresso quando ripartì. La porta di casa si chiuse dietro di lei lasciando dietro di sé casa un silenzio irreale.
Jane sapeva cosa voleva dire essere abbandonati dai genitori, ma nel suo caso non l’avevano voluta lasciare sola apposta. Come si faceva a stare via senza vedere i propri figli per così lunghi periodi?
Malcolm intervenne, prendendo Kim in braccio. –Vieni, principessa, domani chiamiamo la mamma per sapere come sta, va bene?
-Non ha neanche mangiato a torta – disse lei triste, con gli occhi lucidi.
-Non preoccuparti, ci farai colazione domani, va bene? – disse Jane, sforzandosi di sorridere. –La lasciamo in forno e quando ti svegli ne mangi una fetta con Malcolm, va bene?
Dalla spalla del ragazzo, la sorellina annuì piano.
-Bene, allora. Io, se non vi dispiace, torno domani…tra un po’ scade il coprifuoco.
-Tranquilla – disse lui, - ci penso io a metterle il pigiama. Grazie per tutto.
-Figurati.
Prese le sue cose, salutò Kim e diede la buonanotte. Poi, sola nel vicolo buio, si mise a piangere, senza nessuna ragione.
O forse ce ne erano troppe.
  

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Capitolo 6
*** Music ***


Correva per i corridoi, i fogli sottobraccio.
Erano decisamente troppo grandi per stare in una cartella o in qualsiasi altra cosa, e l’unica soluzione era quella di tenerli incastrati sotto l’ascella e sperare che non cadessero.
A mozzarle il respiro era una matita, stretta fra le labbra: nella fretta non era riuscita a metterla nell’astuccio.
La tracolla veniva sballottata contro la sua coscia, e pensò addirittura che le sarebbe spuntato un livido da quanto forte batteva. Pregò che i colori ad olio lì dentro contenuti non si spargessero e macchiassero la stoffa.
Anche perché erano colori preziosi, e le sarebbe dispiaciuto moltissimo perderli per inettitudine.
Svoltò nel corridoio che ben conosceva, attraversando la puzza che sembrava quasi una parete solida e, accelerando ancora il passo, si fiondò su per le scale, alle quali di solito girava intorno.
Erano la via più breve per le aule, ma anche la più pericolante: se i bagni erano presi male, quelle erano ancora peggio.
Naturalmente, non c’erano ringhiere di alcun genere, e i gradini erano spessi solo di qualche centimetro, richiedendo una specializzazione circense a qualsiasi avventore.
Superò anche quella sfida, anche se rischiò di perdere l’equilibrio più di un paio di volte.
Arrivò al piano superiore, se possibile ancor più squallido del precedente, e si mise nuovamente a correre ansimando per raggiungere la fine del corridoio che sapeva d’urina.
Bussò tra volte alla porta, col fiatone che le gonfiava i polmoni. Era una banale lastra di legno con un rettangolo di vetro smerigliato in cima, come per identificare le immagini distorte al di là dell’uscio.
Siamo tutti delle inutili immagini distorte dietro alla brutta copia di un vetro…
-Signorina Fray, finalmente ci ha degnato della sua presenza- , la accolse il professore, un sarcastico fallito con dei capelli bianchi e sparati in aria dopo secoli d’incuria, frustrato dal fatto di non riuscire a vedersi i piedi dagli anni settanta e di essere stato relegato nella parte marcia di un edificio marcescente.
Con una manovra acrobatica Jane riuscì a togliersi la matita di bocca. - Mi scusi, professore, si è trattato di un imprevisto.
Vede, ero proprio nel bagno sotto alle sue scarpe a tagliarmi le vene.
…che nasconde bugie e mancanze, false verità…
-Venga, prego -, disse, mantenendo un tono stizzito. Se non fosse stata la migliore del corso probabilmente non gliel’avrebbe fatta passare liscia così facilmente.
Con un sorriso appena accennato, Jane sgusciò nell’aula, e prese posto nel posto in fondo, attaccato al muro come al solito.
Ormai, avevano smesso di fregarglielo pensando di sfuggire all’occhio del professore, perché lo spazio era così vuoto che un posto valeva l’altro. Nessuno aveva fatto storie davanti al suo desiderio d’invisibilità, semplicemente avevano smesso di notarla quando si sedeva al cavalletto e dipingeva. Una volta finito, lavava tutto e se andava.
Proprio come una prostituta.
…oh, se solo tu, oltre quel vetro, potessi diventare il mio diletto…
Si sistemò sulla sedia, mettendo a posto tutti i pennelli e i colori. L’uomo riprese la sua spiegazione, lasciando vagare lo sguardo fuori dalla finestra, come al solito.
Parlava e si distraeva, quindi finivano sempre per fare dipinti a soggetto libero.
E lei dipingeva chiunque: prospettive, corpi di donne in controluce, busti maschili particolareggiati in ogni muscolo, paesaggi e , più raramente, animali.
Odiava dipingere l’innocenza, piuttosto sfogava il dolore e la rabbia sulla tela, facendo fluire ogni sentimento. E in quel momento ne aveva proprio bisogno.
Sentì, come qualche giorno prima, un pianoforte suonare: le tornò in mente la famiglia Hall, chissà perché.
Lei e Kim si vedevano ogni giorno, fino a sera. Poi lei cucinava, aspettavano Malcolm, scambiavano quattro chiacchiere e se ne andava.
Posò il pennello umido sulla tela, anche se non aveva idea di cosa avrebbe dipinto. Era stanca dei soliti soggetti.
La musica salì impercettibilmente di tono, diventando di una bellezza straziante, una presenza nella stanza, quasi un’altra persona.
Si lasciò guidare da quella rassicurante tristezza, come se fosse una mano posata delicatamente sulla sua che ne seguiva i gesti pazienti.
Alla fine, non aveva conosciuto il signor Hall: aveva avvertito che, avendo solo poche ore libere, non avrebbe fatto in tempo a fermarsi a casa e che, quindi, sarebbe partito direttamente.
Questo era successo il giorno prima, e aveva avuto un effetto devastante su Kim, che si era chiusa in un insolito mutismo da cui ne lei ne Malcolm erano riusciti a tirarla fuori. Era strano vedere quel visetto tutto serio mentre, senza nessun’ombra d’allegria, segnava linee geometriche sul foglio datole. Di solito si esprimeva con mille colori, invece aveva iniziato a prenderne uno a caso e usare solo quello; aveva smesso di disegnare unicorni e interessarsi alle torte. Era scivolata in una terribile apatia, e a Jane faceva male vederla così.
...che posso fare perché tu prenda il posto del dolore qui, nel mio petto?
La musica seguì un’onda di suono, non avrebbe saputo spiegare altrimenti, per poi risalire tutto di colpo, ma sembrando sempre e solo una rassicurante carezza.
Anche se non era un brano per allietare, la stava aiutando non poco.
Alla fine, aprì gli occhi: in quei minuti aveva tracciato figure incerte, corpi a malapena delineati, scuri, che sembravano cercare una propria identità nel disegno. Anche se sembrava un’opera incompleta, decise di lasciarla così: l’avrebbe chiamata “la ricerca dell’identità”.
…mi crederai se ti dico che ho bisogno di te?
Non aveva intenzione di alzarsi, nonostante avesse già finito, e l’insegnante era tutto perso nei suoi ragionamenti mentali. Guardava con sguardo assente il panorama squallido fuori dal vetro sporco, incorniciato da tendine luride e rattoppate.
Sembrava che solo così potesse trovare il suo Paradiso, la sua personale serenità: guardando la natura, le città, l’arte, e trarne qualcosa di proprio. Magari anche lui, a casa propria, si sarebbe seduto a dipingere ciò su cui i suoi occhi inciampavano ogni giorno, cercando lati nuovi o diversi.
Magari anche lui passava del tempo a logorarsi perché non ne trovava. Oppure perché non ce n’erano.
Seppe, in un saettante momento improvviso, che la musica stava per finire. E non poteva lasciare che il pianista scappasse come l’altra volta, e ancora lei si perdesse il suo viso.
Voleva vedere almeno una volta sola l’artefice di tanta struggente magia, che aveva avuto il potere di incantarla.
Alzò la mano, strappando l’uomo dalle sue riflessioni, e chiese se poteva andare a prendere una cosa che aveva dimenticato.
Non fece nemmeno in tempo ad ottenere il permesso che già si era alzata per uscire fuori, ritornare nel corridoio puzzolente e correre a rotta di collo giù dalle scale malandate.
Perché era la seconda volta che ignorava la via più consigliabile, ovvero quella del magazzino, che passava sotto alle aule? Perché aveva fretta.
Ridusse all’essenziale anche i pensieri, come se potessero rallentarla fisicamente; non aveva un’idea precisa di dove si trovasse la sala di musica, ma si lasciò condurre dalla melodia.
Dovette perdersi un paio di volte prima di individuare la biforcazione essenziale al raggiungimento della meta. Corse a perdifiato, quasi a sentire i muscoli poco allenati cedere, attraversò un paio di budelli grigi e giunse a dover scegliere far due stanze anonime.
Nello spazio rettangolare di vetro confusionario e sporco si notava una figura distorta, china su una macchia scura, presumibilmente il piano che tanto la stregava.
Impossibile sbagliare, la musica paradisiaca veniva proprio da lì. L’altro sembrava più un magazzino scuro e abbandonato, privo di qualsivoglia magia.
Cosa stava aspettando?
…se solo tu sapessi che mi faccio del male, o forse già lo sai, …
Non pensò nemmeno di bussare, oppure di annunciare la propria presenza per non far prendere un infarto a quel povero diavolo d’artista che stava lì dentro a cullarla con mani di fata.
Semplicemente, sembrò dimenticare tutta la buona educazione imparata negli anni, la prudenza e il raziocinio: esistevano solo lei e quella musica. Il resto del’universo, per usare un eufemismo, poteva anche andare a farsi fottere.
Posò la mano sulla maniglia arrugginita, e non rifletté nemmeno un attimo. Di getto, spalancò la porta.
…davvero mi ameresti?
 
 
 
 
  

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Capitolo 7
*** The pianist ***


Non seppe dire cosa provò esattamente.
Forse sconcerto, prima di tutto: quella schiena scura le era in qualche modo familiare.
Poi, anche imbarazzo, perché non sapeva come avrebbe potuto giustificare quell’irruzione in prima regola.
Paura? Forse la persona che pensava di star cominciando a conoscere celava aspetti a lei completamente ignoti, tanto per cominciare.
Naturalmente non poteva dirsi del tutto sconvolta, perché di lui non sapeva assolutamente nulla, ma solo pochi e contraddittori dettagli, come se fosse un puzzle con presa in giro finale.
Del tipo che ci lavori un mese, o un anno, e poi, quando lo finisci, manca il pezzetto che da un senso a tutto.
-Jane – disse stupefatto il ragazzo delle meraviglie sonore. Meglio conosciuto come Malcolm.
-Scusa, io non…non volevo interromperti – rispose lei, recuperando un minimo di razionalità.
Quella musica così bella si era interrotta di colpo, bruscamente, lasciandole il piacere a metà. Cosa pensava di trovare, lì dentro? Magari il fantasma di un qualche musicista gigolò?
-No, non ha importanza – disse, ancora sorpreso.
In effetti anche lei era rimasta parecchio interdetta, perché avrebbe immaginato con più facilità uno spaccio di droga, o una biondina lampadata, piuttosto che un nobile passatempo come il piano. Non sapeva nemmeno di frequentare la sua stessa scuola e, fino a quasi una settimana prima, non era a conoscenza neanche della sua esistenza.
All’improvviso, da figura misteriosa e seducente si era trasformato in un intrigante tabù, che suonava melodie struggenti e bellissime, che aveva una sorella che adorava con tutto il cuore e che era perennemente sull’orlo del suicidio, come lei, del resto.
-Dove hai imparato a suonare così bene? – chiese. La situazione era così assurda che nessuna domanda, nemmeno una sugli extraterrestri e simili, avrebbe potuto sembrare bizzarra.
-Prendevo lezioni – con aria distratta accarezzò un tasto bianco lucente, producendo una nota bassissima e a malapena udibile. Non pensava sarebbe potuta arrivare a provare invidia per un pezzetto d’avorio.
-Dunque venivi qui – constatò. Lui annuì e basta.
Tutti i pomeriggi, dunque, senza che lo sapesse, lui si rifugiava nello stesso posto da cui lei fuggiva, puntualmente, ogni mattina. Com’era strana la vita: riusciva a sentirsi viva solo dove cercava di trovare la morte.
-Da quanto lo fai? – chiese. Aveva bisogno di sapere, sapere se anche lui era presente mentre si macellava le braccia. Aveva bisogno di informazioni al riguardo, perché faceva male da pensare. Forse, una disarmante conferma, sarebbe stata meno terribile di una paralizzante incertezza.
-Più o meno da quando sei venuta la prima volta. Anzi, credo di aver iniziato quel pomeriggio – disse, assumendo un’aria riflessiva.
Lei non disse nulla, perché era perfettamente sensato, coincideva con la comparsa della musica nell’edificio; prima non aveva mai sentito nulla di simile e, se invece che rimanere inanimato, il pianoforte fosse entrato in funzione molto prima, probabilmente non avrebbe mai iniziato a tagliarsi.
O meglio, non avrebbe continuato per così tanto tempo.
-Come si chiama questo pezzo? – disse poi, irrequieta. Era la prima ad amare il silenzio, ma in quel momento aveva bisogno di parole, dolci e confortanti, più che altro per non vedere l’espressione infelice di Malcolm.
-“Stunning” – disse. –L’ho scritto l’estate scorsa, ma sto facendo degli esperimenti per completarlo.
-L’hai scritto tu? – chiese Jane, sbalordita.
Il ragazzo annuì. –Già, ma non è completo per niente. Mancano molte parti, deve essere migliorato in più punti e…non mi soddisfa. Non credo riassuma bene quello che provo.
-Capisco come ti senti – sospirò Jane. –Quando la propria creatura non ci assomiglia ci sentiamo insoddisfatti, ma fidati che con il tempo si capisce che è meglio così -. Aveva parlato guardando fuori dalla finestra, adottando quasi la posa del suo professore.
-Corso di arte? – chiese con un lieve sorriso.
-Come lo sai?
-Hai le mani sporche di colore e i biologi non parlano mai di creature riferendosi al loro operato. La monotonia di questo edificio fa un certo effetto, eh?
-Decisamente –assentì Jane, ridendo.
Rimasero in silenzio, immobili, non scomponendosi nemmeno sentendo la campanella e i passi dei pochi studenti nella struttura, che abbandonavano il luogo per andare a casa.
Lei, non aveva nessuna voglia del pranzo squallido che la aspettava alla Casa, oppure di rimanere lì dentro a combattere contro un oggetto luccicante grande meno del suo pollice.
Lui, non voleva allontanarsi dal pianoforte ed essere investito dal torrente di inadeguatezza e solitudine come al solito, tornando per andarsene subito, oppresso dalla sua stessa abitazione.
Entrambi, volevano invece rimanere lì, anche per sempre, senza guardarsi ma sentendosi.
Non avevano bisogno del corpo o della voce per comunicare, nonostante si conoscessero da poco. Avevano moltissime cose in comune, ed erano elementi difficili da trovare in una sola persona, ancor più raro in due.
-Abbiamo in comune delle cose fuori dal comune – disse Jane, soprapensiero. Poi arrossì pensando al senso della sua frase, a cosa sottintendeva. Come osava prendersi certe libertà con un ragazzo appena conosciuto?
Ogni ansia si sciolse, sentendolo ridere. Adorava quel suono, quasi quanto quello del pianoforte suonato da lui.
-Sai cosa ci vorrebbe per completare la tua creatura? – disse timidamente, ostentando sfrontatezza, sicurezza, che non aveva mai posseduto.
Lui la guardò incuriosito, per incitarla a parlare. –Delle emozioni – disse solo, ma lui la comprese al volo.
-Non sono facili da trovare.
-È per questo che la tua opera non è ancora completa. Posso darti una mano a trovarle, se vuoi, perché anch’io ne ho bisogno per i miei quadri. Che ne dici?
-Affare fatto  - disse, intrigato, guardandola sorridente.
-Non ti aspettare droga e simili, solo mezzi legali, ok?
Lui si limitò a ridere di gusto, e fu meglio di mille parole. –Hai fame? – chiese dopo un po’. Lei scosse la testa.
-Nemmeno io. Ti dispiace se rimaniamo qui fino a quando non arriva l’ora di andare via? – chiese titubante, arrossendo.
Per la seconda volta in pochi secondi, Jane scosse piano la testa. Nemmeno un terremoto l’avrebbe schiodata da lì.  

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Capitolo 8
*** Problems ***


Kim non si riprendeva dalla propria apatia, lo avevano constato anche le maestre d’asilo.
Malcolm, infatti, passava lì ogni giorno per portare a casa la sorellina, facendo la strada a piedi. Pensarono che una sorpresa le avrebbe fatto piacere, visto che anche Jane lo avrebbe accompagnato, stavolta, ma la bambina non ebbe nessuna reazione.
Salutò con voce monocorde la ragazza, facendosi prendere passivamente in braccio per appoggiarsi completamente alla sua spalla.
-Scusate…posso parlare con la madre? – intervenne una delle insegnanti, una donna giovane dall’aria serena e cordiale.
-Mi dispiace, non è potuta venire – disse Malcolm, - ma se vuole sono il fratello maggiore.
Lei rimase un attimo incerta sul da farsi, ma gli sorrise lo stesso. –Posso parlarti un attimo?
-Certo…Jane, se volete andate a casa, io arrivo subito.
L’altra arrossì, prima di annuire, incamminandosi sistemando il bizzarro bagaglio per evitare di farle male con la stretta. Era così leggera da sembrare veramente un pacco o un fagotto di stoffa.
-Tesoro, che ne dici se adesso ti insegno a fare le trecce?
Nessuna risposta. Poi, con voce soffocata dalla spalla della ragazza, giunse una flebile sentenza. –Va bene.
-Non ti sento tanto in forma, secondo me hai la febbre.
-Sono malata? – chiese piano. Non sembrava che nemmeno questo riuscisse a turbarla.
-Può darsi. Ma, se vediamo che di febbre non ce n’è, allora rimane solo una cosa.
-E cioè?
-Si chiama tristezza, tesoro, e per quella un po’ di torta e i capelli a posto penso vadano bene.
Nuovamente silenzio. Le sue gambe magre erano appoggiate alla coscia della ragazza, picchiettando piano con la punta delle scarpe.
Malcolm soffriva, o aveva sofferto, dell’assenza dei genitori, infatti Francesca aveva lasciato recapiti, e il padre telefonava molto poco a causa del fuso orario. Quand’erano a casa partecipavano spesso a feste e convegni, come le aveva confidato Kim, quindi non erano presenti nemmeno senza i viaggi a mettersi in mezzo.
Non voleva assolutamente che quella maledetta depressione germogliasse nella piccola, non solo perché era innocente e giovanissima per rovinarsi, ma anche era stata l’unica in grado di farle dimenticare tutto lo schifo che la possedeva di solito.
Con le sue chiacchiere allegre le metteva voglia di ridere, cosa che nessuno faceva da tempo, e il suo sciogliersi in complimenti per le pettinature la faceva sentire orgogliosa.
Amava prendersi cura di Kim, perché anche Kim si prendeva cura di lei. Era reciproco, anche se nessuna delle due se ne era mai accorta.
La bambina, ad esempio, adorava essere presa in braccio, ma in quel momento se ne stava in silenzio; quando tornava a casa, finché non aveva descritto anche l’ultimo, minuscolo particolare della sua mattinata, non era contenta. Le parlava a ciclo continuo, senza interrompersi mai, ma se qualcuno aveva qualcosa da dire lo ascoltava rapita e partiva con la sua raffica di domande.
Era stato il suo entusiasmo genuino a farle rivalutare la propria esistenza. Senza di esso, le strade erano tornate ad essere grigie.
- Kim…hai le chiavi di casa?
La sentì scuotere piano la testa. –Le tiene Malcolm in tasca -. Negli ultimi giorni si stava sforzando di pronunciare correttamente il nome del fratello, facendo fare alla propria lingua archi impossibili contro il palato per essere sicura di ottenere un buon risultato.
-Oh – disse solo-. Sarebbero rimaste bloccate fuori dalla porta fino a quando l’altro non fosse tornato, e in fondo alla strada che si erano lasciate alle spalle non ce ne era traccia. –Beh, vorrà dire che ci siederemo sulla veranda.
La testa della bambina sprofondò ancora di più nel colletto del cappotto, avvinghiandosi stretta alla stoffa come per paura di rimanere da sola.
Camminarono un altro po’, arrivando a svoltare verso la strada principale. Superarono un paio di case uguali fra loro, con i soliti giardini curati, le aiuole colorate e le macchina splendenti parcheggiate dentro ai garage aperti, fino a raggiungere quella di Malcolm.
Come faceva una struttura identica alle altre sembrare completamente diversa dal resto?
Aprì il cancelletto, che sapeva essere perennemente schiuso, ed entrarono nella proprietà, fermandosi sotto la tettoia in legno bianco.
Con delicatezza, lasciò che la bambina si mettesse in piedi sulle assi del pavimento, per poi togliersi la borsa e appoggiarla là vicino. Aveva in viso l’espressione triste tipica dei bambini che non sanno se è meglio piangere o rimanere divorati dall’indecisione verso una sconosciuta alternativa.
-Vieni, siediti qui accanto a me – la incoraggiò Jane, facendole posto sul bordo, in modo che facesse penzolare le scarpe come al solito.
Lei obbedì senza fiatare. Si sistemò la giacca, spostata dal movimento, e rimase in silenzio. Poi, lentamente, le sue gambe cominciarono ad oscillare stancamente avanti e indietro, in quel piccolo spazio di vuoto che per un bimbo significava il mondo. Era ancora troppo bassa per sfiorare l’erba, ma le altre volte ci aveva provato ridendo.
-Allora, com’è andata oggi? – chiese, cercando di dimostrarsi allegra. In realtà era difficile essere di buon umore vedendola tanto triste e vuota.
Sapeva benissimo quanto le domande sembrassero invadenti se non si era dello spirito giusto, ma conoscendo il carattere della bambina pensava che il silenzio fosse nocivo e basta. Con lei, invece, un po’ di sano vuoto non faceva altro che bene; odiava le parole superflue, soprattutto se pronunciate nei momenti meno adatti.
Ma la bambina era allegra e gioiosa, necessitava del calore umano che tanto le mancava. Se si fosse accorta di darle fastidio, avrebbe smesso subito, rispettando il suo mutismo. Altrimenti avrebbe continuato quella sorta di conversazione fino all’arrivo di un sorriso.
Le faceva male al cuore vederla così, assorta in pensieri che un bambino non dovrebbe avere, in carenza di amore genitoriale. Era molto attaccata sia alla madre che al padre, inoltre aveva quattro anni, come si faceva a lasciarla sola? Forse anche a Malcolm era accaduto lo stesso, ma mentre ora cercavano di riallacciare i rapporti, notavano che era impossibile: ormai il loro figlio era diventato una persona completamente nuova e sola, che aveva imparato a bastarsi  e aveva perso fiducia in chi prometteva che sarebbe rimasto.
La bimba non disse niente, ma si mosse per tirare qualcosa fuori dalla tasca del cappotto. –Ci hanno fatto fare un disegno  - spiegò, e il suo tono parve un po’ meno triste del solito.
Le porse un foglio fatto irregolarmente in quattro, con i bordi asimmetrici tipici della piegatura dei bambini.
Jane, ottenendo il permesso con un’occhiata, scartò con dita attente, per paura di stracciare l’opera. Ricordava quanto importante fosse stato per lei l’attenzione per i disegni che faceva, e una volta tornata a casa li mostrava tutti.
  Mamma, guarda! Questa sei tu, con il vestito azzurro, qui ci sono io e questo è papà!
All’interno, su fondo bianco, erano state tracciate incerte forme con diversi pennarelli dalla punta spessa, ricalcate più volte per evidenziarle.
Al centro, c’era la figura più piccola, con dei capelli biondi che arrivavano in quelli che sembravano ciuffi sparsi fino alla schiena, interamente vestita di arancione, il suo colore preferito. Sopra, in nero, c’era scritto “Kim”.
L’altro, invece, stava a destra, e aveva gli arti esageratamente lunghi fasciati di grigio. Sul viso rosato si apriva una lunga linea rossa sorridente, che aveva quasi bucato il foglio.  “Malcolm”, recitava una grafia incerta.
Dall’altro lato, invece, c’era una persona che era una via di mezzo fra gli altri soggetti: aveva i capelli marroni, sparsi confusamente sul capo, mentre anche lei portava vestiti cupi e molto più larghi del corpo, come testimoniavano alcune linee marcate su altre. Provò una certa sorpresa leggendo il nome; “Jane”.
Incredibile, quei personaggi somigliavano sul serio ai modelli reali. Ritratti felici, sorridenti, tranquilli e senza preoccupazioni, come le famiglie nei quadri semplicistici di ogni bambino. Egli al centro, circondato da i genitori ai lati e, se c’erano fratelli, una casa in lontananza, adornata da altre figure.
Ma quelle avevano lo schema tipico proprio di una famiglia. Kim aveva bisogno di figure che le stessero accanto, e le aveva trovate in loro due.
Due persone che non potevano mai essere state così lontane dalla stabilità o dalla normalità erano state riconosciute a tutti gli effetti come parte focale della vita di una bambina. Incredibile come in una settimana o poco più si fossero affezionati.
Jane in quel momento capì che non avrebbe potuto rinunciare facilmente alla famiglia Hall, a Kim e a Malcolm. Perché, anche se in frangenti diversi, stavano vivendo la stessa identica situazione di abbandono.
Dietro, si poteva leggere “Kimberly Hall”, in alto a destra così come insegnavano a metterlo.
-È bellissimo – riuscì a sussurrare Jane, sorpresa. Stava per commuoversi, tant’era la gioia.
L’artista fece un sorriso, il primo da giorni, che ebbe il potere di scaldarla anche se in minima parte. Non era uguale ai soliti, così splendenti e pieni di vita, ma era comunque un progresso. –Visto? Ho disegnato anche le trecce che mi fai sempre – disse, indicandole il foglio.
Anche la ragazza sorrise, seguendo il ditino della bambina, mentre cominciava lentamente ad illustrare dettagli, prendendo coraggio ad ogni frase.
Inoltre, sapendo di essere ascoltata, prendeva entusiasmo: quella è la maglietta che Malcolm indossa sempre, questi sono i vestiti che avevi la prima volta che ti ho visto la prima volta, qui ho messo il sole perché la pioggia era troppo triste… un fiume, finalmente, interminabile.
I suoi occhi andavano illuminandosi; quando Malcolm imboccò il vialetto col suo solito passo tranquillo e perfettamente cadenzato, lei stava addirittura ridendo.
-Buongiorno – disse lui, sorpreso. –Mi sono dimenticato di darvi le chiavi, mi dispiace di avervi fatto aspettare.
-Oh, no, non preoccuparti, ci siamo divertite – disse Jane, con aria complice. La bimba ridacchiò, deliziata. Sembrava un’altra persona rispetto a prima. –Hai visto il meraviglioso disegno di Kim?
Il ragazzo le aveva lanciato un’occhiata interrogativa, e ottenne tale domanda come risposta. Jane non voleva dilungarsi con l’interessata presente, in quanto aveva paura di spezzare la sua allegria. Così lasciò perdere, promettendo spiegazioni a breve.
-No, purtroppo non ne ho avuto il piacere – rispose, sorridendo. Si rivolse poi alla sorella, che cominciò con le medesime spiegazioni appena terminate. Il suo irriducibile entusiasmo sembrava essere finalmente tornato a galla, anche se avrebbe necessitato di altri giorni per sbocciare completamente.
Era pur sempre un miglioramento, per quanto piccolo, e Malcolm decise di goderselo cercando di non notare nulla di strano, comportandosi come al solito; fu una scelta saggia.
Entrarono nella casa, posando i cappotti all’entrata, mentre lei parlava ancora, rideva e trotterellava verso il salotto, per guardare un po’ di TV. Ogni pomeriggio, poco dopo essere tornata a casa, si lavava le mani e stava per qualche minuto sul divano, a rilassarsi.
Jane ne approfittò per rifugiarsi in cucina, con la scusa di prepararle qualcosa da mangiare. Era felice che Kim sembrasse tornata quella di sempre, ma comunque anche le maestre avevano notato qualcosa di strano, e ciò non era un buon segno. Le sarebbe piaciuto sapere cosa era stato riferito, anche perché l’espressione grave del ragazzo la stava facendo preoccupare: aveva in qualche modo ripensato al disegno, e a ciò che significava.
-Cos è successo? – chiese lei, andando alla ricerca di un po’ di pane.
Il ragazzo scosse irritato la testa. –Dicono che i genitori non sono presenti a sufficienza, e che Kim ne soffre.
Silenzio. Jane sapeva quanto questo gli desse fastidio, dal momento che aveva vissuto la stessa identica cosa quand’era bambino. Inoltre il legame che aveva la sorella era molto forte, e odiava vederla stare male.
Le si dedicava più come padre che come fratello, e questo non andava bene né per lui, né per la bimba. Era troppo giovane per occuparsi di un’altra piccola vita, e Kim aveva bisogno del padre e della madre che erano sempre all’estero.
-La cosa che mi fa più imbestialire…- disse il giovane, poi, -è che hanno terribilmente ragione.
Jane finì di preparare la merenda, posandola su una salvietta. –La vedono dal lato sbagliato, secondo me.
-Ah, sì? – chiese Malcolm, vagamente sarcastico, per pentirsi subito dopo del tono usato.
-Sì -, ribadì lei, senza nemmeno farci caso. – Kim ti vuole bene, e non le dispiace affatto stare con te, anzi. Le piace la tua compagnia, ed è felice quando ti occupi di lei, come un genitore. Questo non è giusto, ovviamente, ma avete trovato un punto d’incontro. La cosa che rischia di minare tutto quanto sono le partenze.
-Le partenze? – chiese Malcolm, senza capire. Ormai la ascoltava, interessato. Evidentemente pensava che sarebbe riuscito a capire anche cosa era successo a lui, tempo prima.
-Esatto -, annuì. –Lei diventa triste quando li vede partire, oppure se devono andarsene all’improvviso. È l’abbandono a straziarla: non sopporta che la lascino sola e che se ne vadano altrove. Per un bambino la casa è fondamentale, il fulcro della sua vita; non può essere lasciata così, di punto in bianco. È devastante.
-Lo so, lo so – disse lui, sedendosi e prendendosi la testa fra le mani, in un gesto impotente. –Ma non riesco a convincerli a rimanere a casa, non posso. Il loro lavoro sembra essere troppo importante.
-Ti capisco – disse lei, sorridendo. Diceva sul serio, in quanto sapeva perfettamente come ci si sentisse ad essere soli ed abbandonati, lasciati in balia dei propri problemi. Era una sensazione così forte, violenta e improvvisa che mozzava il fiato, ma se ripetuta così tante volte faceva montare la delusione, affliggeva l’animo a livelli inimmaginabili. 
-Cosa…cosa possiamo fare, allora? – chiese lui, con un filo di voce.
Lui non aveva paura a mostrarsi debole, perché aveva capito e accettato le proprie mancanze. Non si arrendeva ad esse, ma cercava di valicare il problema aggirandone un lato e abbattendone un altro, e lei la trovò una qualità più che ammirevole. Amava Kim a tal punto da essere persino disposto a gettare via la solita commiserazione e farsi avanti verso una soluzione.
Inoltre si sentì incredibilmente lusingata dall’uso del plurale, in quanto l’aveva compresa nella loro strana idea di famiglia. Magari il legame fra loro non era ancora così stretto, ma si stava costruendo su solide basi, e anche a grande velocità.
Poteva sperare in un’amicizia particolarmente profonda, capace di sbocciare solo quando si è completamente e irrimediabilmente soli, ed era proprio ciò di cui aveva bisogno, in modo quasi doloroso.
-Credo che la cosa migliore sia darle tutto il conforto di cui necessita…anche se so che sembra una cosa stupida da dire.
-No, è sensato. Purtroppo non possiamo fare altro -, ammise.
La ragazza sorrise, triste, ricordando il proprio passato. I suoi genitori non l’avrebbero mai lasciata sola, per nessun motivo; non erano stati loro a decidere di andarsene, e anche se era figlia unica, facevano di tutto perché le professioni che amavano non interferissero con la vita familiare.
Suo padre era un fotografo, e spesso veniva chiamato in varie località per documentare torture e atrocità. Delle volte era trattenuto in zone di guerra per mesi, e loro in ansia, a casa, lo aspettavano. Era stato per lungo tempo senza sposarsi, proprio a causa del lavoro: era quasi sempre in viaggio, e non aveva mai avuto un posto fisso dove stare. Era fatto così, alla continua ricerca e scoperta di cose nuove, solo che grazie alla famiglia aveva a chi telefonare ogni sera, spedire lettere anche se non aveva nulla di nuovo da dire e stare a casa il più possibile, godendosi la moglie e la figlia.
Sua madre, invece, lavorava per un’agenzia di moda. Era un lavoro che svolgeva da quand’era ragazza, e lo amava molto. Rimasta incinta, non l’avevano più chiamata come assistente per le sfilate, e dovette perdersi alcune, fondamentali stagioni di stilisti.
Questo la fece soffrire, ma si dedicò ugualmente alla sua vita di madre con ancor più entusiasmo. Era sempre stata una donna energica e sognatrice, con un ottimo gusto; aveva svolto qualche altro compito poco importante fino a ritirarsi del tutto, per stare a casa con la piccola Jane.
Spesso, guardando le foglie cadere o ascoltando il suono della pioggia, assumeva un’aria nostalgica. I suoi lunghi capelli bruni riposavano lisci appoggiati alla spalla, una mano sorreggeva il mento, lo sguardo inseguiva i ghirigori del vento. Migliaia di frammenti volevano innanzi a lei, e spesso la ragazza, a posteriori, si era resa conto di quanto le fosse costato abbandonare la sua passione.
Per questo, Jane riusciva a comprendere anche Francesca: era divorata fra il suo lavoro e la famiglia, senza capire quale fosse il più importante. Forse, vedendo che Malcolm era cresciuto, si illudeva di inseguire una giusta strada, ma non era così.
Sembrava egoista, quando in realtà non lo era.
Lo squillo del cellulare la distrasse da quei pensieri, sorprendendola con la suoneria allegra. Aveva scelto una canzone che non le piaceva proprio perché non chiamava mai nessuno.
Raramente alla Casa si facevano troppi problemi, e pochissime altre persone avevano il suo numero di telefono.
Fece un sorriso tirato al ragazzo, che ricambiò imbarazzato per sparire da Kim, e rispose. –Sì?
-Ciao, Jane, sono io – disse la voce di Sarah, che risultava metallica.
-Sto lavorando – disse piano l’altra. Non era un buon segno che l’amica parlasse a così bassa voce, ma soprattutto che la chiamasse. Preferiva i messaggi, quelle poche volte che doveva contattarla.
-Scusa, ma è urgente – rispose, ancora con un filo di voce per nulla rassicurante.
-Cosa succede? – chiese la ragazza, allarmata. L’ansia stava montando nel suo petto assieme alla rassegnazione: c’erano sempre e solo problemi all’orizzonte.
-È…successa una cosa. Devi venire subito – spiegò enigmatica. Inoltre proprio non riusciva a capire il motivo di quell’inclinazione grave e flebile.
-Dove? Sarah, mi spieghi cosa diavolo succede? -. Si stava infastidendo, ma era anche inverosimilmente nervosa; era stata interrotta dal proprio lavoro, e ora doveva pure mollare tutto? La bambina era in un periodo difficile, non avrebbe potuto sopportare un altro abbandono, anche se sarebbe sicuramente tornata.
-Non posso, non c’è tempo. Vieni alla casa, veloce. Mi dispiace interromperti, ma è urgente, fornirò io stessa spiegazioni, ok?
-Mi stai spaventando -. Ed era sincera. Mai aveva sentito tanta urgenza nella sua voce.
-Sbrigati – rispose solo, poi riattaccò.
Alla Casa. Con Sarah. Squallore. Problemi. Urgente.
Non voleva andare via da Malcolm.
E aveva un bruttissimo presentimento.    

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Capitolo 9
*** Sophie and Noah ***


Sarah avrebbe dovuto trovare una scusa più che convincente per averla fatta staccare circa tre ore prima del previsto e farsi trovare alla Casa, dove non metteva mai piede.
Essendo un ambiente essenziale e pulito il minimo indispensabile, non faceva per lei, che preferiva luoghi chiassosi e molto frequentati dalla “gente giusta”, categoria da cui Jane era esclusa a priori.
Era già entrata nell’atrio, ma non aveva affatto intenzione di togliersi il cappotto, e il freddo non c’entrava nulla. Era così arrabbiata e umiliata che preferiva andarsene appena capito cosa diamine c’era di tanto urgente, piuttosto che trattenersi lì per tutto il pomeriggio.
L’amica sapeva bene quando odiasse trovarsi lì se non era proprio necessario, e il fatto che sopportasse ancora meno che qualcuno vedesse quel posto.
Il mobilio spoglio e composto da un’orribile plastica bianchiccia non faceva che rendere i corridoi vuoti ancora più deprimenti: le piastrelle a terra presentavano macchie di candeggina che non sarebbero mai più scomparse; una volta, qualcuno si era messo in testa di detergere il pavimento in modo innovativo. Ogni camera era uguale all’altra, e non era permesso tenere nessun poster, per avere un maggiore contatto con la realtà. Insomma, per accorgersi di quanto schifo poteva fare la vita.
Cominciò a mordicchiarsi nervosamente il bordo di un’unghia; il tono di Sarah non le era piaciuto per niente.
Raramente la ragazza si era dimostrata preoccupata di qualcuno che non fosse sé stessa, e sentire quella nota grave su un tono che di solito manteneva la più assoluta neutralità l’aveva messa in ansia. Perché andasse lì di sua spontanea volontà, ci voleva una motivazione molto più che seria.
Finalmente la vide, con gli occhi cerchiati di rosso mentre andava avanti e indietro nel corridoio principale. Fra le dita pallide reggeva una bottiglietta d’acqua ancora sigillata, e giocherellava con il tappo fino a rosicchiare tutti i contorni di plastica.
Non l’aveva mai vista così stanca o impaurita: tutta rattrappita su sé stessa, vestita non più in modo impeccabile ma con una semplice camicia e una salopette. Il trucco era stato eliminato per buona parte e nemmeno in modo uniforme, cosa che le fece rendere conto di non aver mai visto il viso acqua e sapone della ragazza.
Le si avvicinò preoccupata. –Tutto bene? Che succede?
Trovava davvero strano essere lei a chiederlo, proprio Jane, che aveva gli avambracci segnati da lunghi sorrisi rossi, che si incideva la pelle in un bagno puzzolente e che frequentava il corso di arte solo per non andare alla Casa appena finite le lezioni.
La vide annuire in fretta: odiava mostrarsi debole. –Devi vedere una tipa…è venuta qui per parlarti.
-E cosa vuole? – chiese. Stava cominciando ad impazzire sul serio, e una terribile ansia la morse vagliando la possibilità che qualcuno l’avesse scoperta e che ora l’avrebbero obbligata a seguire degli incontri psichiatrici.
Avrebbe dovuto dire addio a Malcolm, perché non si sarebbe mai più fidato di lei, e a Kim, perché non si lascia un bambino nelle mani di una pazza suicida.
-Te lo deve spiegare. È in fondo al corridoio, mi hanno chiesto di non dirti niente…mi dispiace, io… - stava dicendo, ma Jane la interruppe; era troppo straziante sentirla sconvolta. Aveva bisogno della solita roccia, truccata e vestita all’ultima moda che parlava di saldi e svendite, alleviando un po’ il peso della solitudine.  
-Grazie, Sarah, grazie davvero. Siediti, adesso vado a parlarle e sono qui fra un attimo -, la rassicurò, anche se dento di sé non era affatto tranquilla. Se l’altra era rimasta così profondamnete toccata da una cosa che nemmeno la riguardava, come poteva sperare di uscirne illesa?
Assicuratasi che l’amica si calmasse, si diresse laddove le era stato indicato. Conosceva bene quella stanza: ogni martedì c’erano dei controlli psicologici lì dentro, e lei li passava per il rotto della cuffia. Compilava un questionario cercando di essere il meno strana possibile con le risposte e riusciva misteriosamente a vincerla ogni volta.
Bussò leggermente, le ginocchia che le stavano tremando vistosamente. Avrebbe voluto solo scomparire dentro al pavimento, per sempre.
Le parve di sentire un invito ad entrare; lo accolse spingendo la maniglia senza troppa decisione. La lucida porta di un verde spento si aprì con lentezza esasperante, mettendo in luce la scrivania e gli scaffali tremendamente vuoti, che mettevano più tristezza che voglia di acculturarsi.
Seduta su una sedia in plastica blu c’era una signorina abbastanza giovane, con lunghi capelli biondi perfettamente lisci e un tailleur molto professionale. Accanto a lei, un collega leggermente più anziano, anche lui in completo scuro. Emavano una terribile aria di serietà, anche se lei sorrideva cordiale, e l’altro cercava di farla sentire a suo agio scartabellando alcuni fascicoli.
Evidentemente, facevano in modo che la ragazza intrecciasse un rapporto con Jane, e l’uomo sarebbe intervenuto dopo.
-Ciao, Jane. Prego, avvicinati pure, accomodati – disse lei ragazza. –Io sono Sophie Kinney, mentre lui è Noah Mandell.
-Buongiorno – rispose lei educatamente.
Sophie aveva un portamento elegante, e svolgeva ogni singola azione con una sorta di grazia innata, che la rendeva delicata come una fata dei boschi. Noah, invece, aveva il tipico viso dei disillusi, di quelli che fanno un lavoro per così tanto tempo fino a quando non perde il proprio senso, se mai ce l’ha avuto. Si sentì molto più vicina a lui che alla sua assistente, in quanto quello sguardo perso le era infinitamente più familiare.
Prese posto davanti a loro, cercando di nascondere il più possibile il disagio all’altezza degli avambracci: aveva quasi paura che quella signorina riuscisse ad oltrepassare con lo sguardo la stoffa e riuscire a sondare la sua fragilità. Sperando che non notasse il movimento, posò una mano laddove il bordo lambiva la pelle, sigillandolo da sguardi indiscreti.
Fin troppo ovvio che dovevano già aver intuito qualcosa.
Noah le sorrise leggermente, con il viso triste e vagamente spento, per concentrarsi subito dopo su dei fogli densi d’inchiostro. Aveva lineamenti squadrati, attraenti, con la parte inferiore coperta da una rada barba brizzolata, che gli dava un’aria adulta. Anche le tempie erano ingentilite da spruzzi più chiari, precisi contro i folti capelli scuri.
Sophie prese in mano un fascicolo beige, e si mise a sfogliarlo pensierosa. –Jane…ti hanno detto perché siamo qui?
La ragazza rimase un attimo interdetta. Non sapeva qual era la risposta corretta da dare; se avesse detto di sì, forse si sarebbero infastiditi per la storia della segretezza, oppure con un no li avrebbe infastiditi con una presentazione da fare. In entrambi i casi l’indecisione giocava a suo sfavore.
La donna, intanto, la stava guardando interrogativa, mantenendo un’espressione cordiale. Forse pensava che fosse impazzita.
-No, non ne so il motivo – disse lei.
-Bene – rispose la donna, per poi fare un attimo di silenzio. Noah continuava a concentrarsi sui pezzi di carta, come se fossero la cosa più importante del mondo.
All’improvviso, il viso della collega si fece serio, tutto in un colpo, tanto che Jane, sul momento, si spaventò. Ora non sembrava più una giovane dipendente di una qualche organizzazione statale, bensì una diligente donna in carriera, elegante e composta. –Io e il mio collega siamo due agenti federali, Jane.
La gravità di quelle parole la intimorì. Le apparve il viso spaventato di Sarah, e la sua mente cominciò a rimbalzare freneticamente da un pensiero ad un altro.
Si chiedeva come mai una coppia proveniente dall’FBI volesse parlare con lei; come potevano le sue malefatte in un bagno pubblico far scomodare gli USA; cosa poteva aver fatto di tanto grave da poter costituire un pericolo per il resto del mondo.
Aveva sentito parlare di una qualche divisione speciale che interveniva in casi gravi, ma il suo non le pareva tanto diverso da quello di migliaia di altre persone. Non aveva mai fatto del male a nessuno (se si escludeva lei stessa dalla lista), e non possedeva assolutamente nulla che potesse renderla una minaccia. Inoltre, non ricordava nessun caso che potesse giustificare la presenza di due cariche così altolocate proprio alla Casa, in quella stanza scialba e priva di altri toni che non fossero il verde pastello e il bianco asettico.
Trovarsi in mezzo a quella manica di disperati rendeva quell’apparizione ancora più misteriosa. Cosa poteva aver fatto di tanto strano da poter turbare a quel modo persino l’impassibile Sarah?
-È per qualcosa che ho fatto? – chiese con un filo di voce.
La ragazza sembrò tornare affabile come prima, mentre si lasciava andare ad una risatina leggera: -Oh, no, assolutamente – disse, facendo sentire Jane incredibilmente sollevata.
-E allora qual è il motivo? – domandò. Era curiosa ma anche spaventata dalla risposta: doveva comunque trattarsi di qualcosa di molto grave se loro si trovavano lì, a parlare con una problematica ragazzina.
I capelli di Sophie scivolarono leggermente sui bordi del suo viso regolare e affascinante, nascondendo parzialmente i suoi occhi. Sembrava stesse scegliendo le parole per dirle qualcosa di parecchio importante, a giudicare dall’espressione non esattamente allegra.
Evidentemente non si trattava di un argomento facile da rispolverare, e un bruttissimo presentimento germogliò in lei, come un rampicante parassita. Si sentiva soffocare: forse si stavano facendo tanti problemi a parlarle sotto l’avviso di un’instabilità mentale, o un’acuita fragilità emotiva. Alla Casa erano molto bravi ad inventarsi epiteti dal suono sinistro.
Il suo sguardo si posò su Noah, ma sembrava che egli avesse optato per un ostinato silenzio. Non aveva fatto una piega davanti alla reazione della collega, e sembrava non fosse nemmeno intenzionato ad inetrvenire alla situazione.
Perché? In cosa bisognava intervenire? Cosa c’era di tanto importante da rivelare?
L’agente sembrò cercare di dire qualcosa, e il viso disperato di Jane si aggrappò a lei, nella speranza di far luce su quella visita per nulla rassicurante.
Tuttavia le parole sembrarono morirle in gola, per l’ennesima volta. Nonostante i tentennamenti sembrava ancora perfettamente padrona di sé, per nulla debole, e l’adolescente la ammirò molto per questo. Non sembrava per nulla in difficoltà, anzi, quasi fosse ancora perfettamente padrona della situazione.
Quasi la invidiava, fasciata nel suo completo nero e gessato, elegante e dall’aria importante. Sembrava costoso, il che implicava una buona emancipazione economica, derivata da una posizione difficilmente trascurabile nell’ambiente dove lavorava. E, vista la sua giovane età, voleva dire che aveva una mente acuta e una spiccata concretezza per avere una posizione in un mondo tanto maschile come può esserlo un’ente governativo di tale rilievo.
Fattori che accentuarono l’ansia crescente di Jane, mentre considerava il silezio destinato ad allungarsi sempre di più.
All’improvviso, la ragazza sembrò decidersi, togliendo la baby-sitter dal disagio di un’incitazione a contuare a parlare: -Da quanto tempo vivi alla Casa Famiglia?
Casa famiglia. Non aveva nessun senso chiamarla così, perché quel gruppo di drogati, alcolizzati o autolesionisti non possedeva nemmeno l’estetica di una famiglia, tantomeno lo spirito. Non erano legati da nessun senso di amore comune o fratellanza, e si trovavano lì solo in attesa del compimento della maggiore età. Solo questo.
Aveva sempre odiato il cartello arancione nel giardino, prima di giungere alla cancellata scura. Le scritte scolorite parlavano di un luogo di riabilitazione dove ricostruirsi un’identità, ma la sua non aveva fatto altro che sgretolarsi sempre di più. Già le era difficile riconoscere di trovarsi a “vivere” lì, se poi si sommava anche la presenza di Sarah, allora il groppo nella sua gola si faceva una presenza perfettamente delineata all’altezza della trachea, che le impediva persino di piangere.
-Sette anni – mormorò. Ormai non le importava nemmeno sapere del motivo della loro visita, voleva solo nascondersi nel bagno maleodorante e annullarsi per sempre a colpi di lametta. Con un indice tremante accarezzò la sagoma in rilievo nella sua tasca, che sembrò appoggiarla in modo rassicurante. L’unico elemento che nella sua vita ci sarebbe sempre stato.
Sophie abbassò il capo. Fortunatamente non commentò il dettaglio che nessuno, in quell’arco di tempo, si era fatto avanti per prendersela a carico. Quella particolare Casa aveva anche la possibilità dell’adozione, ma nessuno la sfruttava praticamente mai.
-Ehm… - riprese, e fu l’unica traccia di esitazione nel suo tono neutro e concreto. –Ci troviamo qui per l’incidente dei tuoi genitori, di… - controllò le scartoffie, -…otto anni fa.
La ragazza alzò stancamente lo sguardo. Ecco, il colpo di grazia, la tragedia più devastante della sua vita.
-Sai se qualcuno poteva costituire una minaccia per loro? Un nemico? – chiese, nel vano tentativo di essere delicata.
-Cosa volete? – li interruppe lei, acida. Improvvisamente si era stancata di quelle figure che stavano compromettendo la sua stabilità.
Sophie abbassò lo sguardo solo per un altro breve momento. Era un invito esplicito ad abbandonare i giochi di parole, per altro molto irritanti, e farsi definitivamente avanti. Noah continuava a non parlare.
-Abbiamo buone ragioni di credere che l’incidente che avvenne tanto tempo fa…non fosse affatto un incidente. Crediamo  che i tuoi genitori siano stati assassinati. 

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Capitolo 10
*** Family ***


Jane era rimasta paralizzata, quando la notizia aveva cominciato a gravare nell’aria pesante come un fardello.
Non aveva voluto sentire altro. Era semplicemente scappata da quelle parole, uscendo dalla stanza e dai richiami di Sophie, sul cui tono ora c’era solo dispiacere.
Aveva ignorato lo sguardo curioso di chi incontrava, odiando ogni singola occhiata. Anche loro avevano i loro scheletri nell’armadio che erano ben diversi da semplici ossa, eppure trovavano sempre il tempo di giudicare il prossimo come se fosse la cosa più importante del mondo.
Sedicenni alcolizzati, ragazzine promiscue, tossicodipendenti in età prepuberale, ecco le sole cose che quel posto potesse offrire. Non uno straccio di gioia, solo desolazione e tristezza. Non avrebbe mai superato il proprio trauma stando rinchiusa lì dentro, avrebbe solo aggravato la situazione.
Ma, più cercava di allontanarsi, più si scontrava con elementi della propria vita, come le stanze dove aveva vissuto, i distributori d’acqua che aveva più volte saccheggiato, i corridoi che aveva pulito durante i suoi turni, la sala pittura che costituiva il suo rifugio più intimo, essendo sicura di essere sola.
Si stava perdendo in quel mare fatto da pavimenti freddi e quadri impersonali, e fuggì proprio nell’ingresso, dove i genitori rimasti in vita potevano andare a trovare i figli quando il tribunale lo permetteva.
Flinn, ad esempio, aveva il padre in galera per omicidio colposo, in seguito ad una rissa; andava lì ogni mercoledì, e portava al figlio un qualche souvenir dal carcere, ad esempio una lattina firmata da tutti i criminali che, si raccontava, avessero compiuto rapine quasi impossibili da effettuare oppure rapimenti in cui avevano guadagnato un sacco di soldi.
Il crimine riassunto in un barattolo di latta privato del suo contenuto da labbra avide, esposto poi orgogliosamente sul ripiano della stanza.
Anche lei, se avesse potuto, avrebbe allineato come trofei le foto di suo padre, o gli schizzi di sua madre, oppure qualsiasi disegno che avrebbe potuto fare ad una scuola normale, qualcosa che testimoniasse la sua crescita nel tempo, e che non la congelasse all’epoca del lutto.
Chiuse la porta del bagno dietro di sé, rifugiandosi sulle piastrelle pulite del pavimento. Anche se ogni camera aveva la propria, esisteva una toilette comune, più che altro ad uso del personale. Era quasi sempre vuota, e questo la rendeva un posto perfetto.
Stranamente si sentì rincuorata dalla pulizia di quel posto, antisettico e poco accogliente. Alla fine poteva dire di vivere davvero solo nei cessi pubblici, cosa che conteneva dentro di sé una forte contraddizione. Era dentro le loro celle fredde che provava emozioni, laddove faceva volontariamente scorrere il proprio dolore, guardandolo gocciolare sul pavimento in piccole dosi.
Il veleno capace di liberarla dalle oppressioni di cui era vittima.
Si prese la testa fra le mani, circondata dal gelo di un grembo che non la voleva con sé. Le gambe dovettero piegarsi per riuscire a ritagliarsi uno spazio sul suolo inospitale, la schiena invece si stendeva sulla parete. Chiuse bene la lastra che la divideva dalle file di orinatoi, pregando che non entrasse nessuno. Gli esseri umani potevano solo essere distruttivi in quel momento.
Con le dita fra i capelli cercava di domare i pensieri che le affollavano la testa, con un disordine immane, che minacciava di soffocarla: la parola “omicidio” era la più dolorosa da vagliare.
Con un dolore sordo nel petto, ricordò quella giornata d’inverno, l’ultima dove fossero stati tutti insieme.
Lei aveva appena otto anni, ed era tutta presa dal microcosmo dei bambini, composto dai coetanei, dalla mamma e dai disegni, così pregni di concentrazione da comportare un tatuaggio di pennarello fino ai gomiti.
Era raro che sia la madre che il padre fossero a casa nello stesso momento, poiché di solito si alternavano se uno dei due doveva stare via.
Rose era meravigliosa quel giorno, come se tutti i fiori sbocciassero solo per merito suo: era da quasi una settimana che non aveva avuto la possibilità di abbracciare il consorte, e lo aspettava impaziente con la figlia. Per l’occasione si era truccata, cosa che faceva raramente, indossando abiti all’ultima moda. Sembrava splendere mentre sorrideva o rideva per ciò che lui, scherzoso, le faceva notare.
Suo padre aveva il suo fascino, vestito con il proprio impermeabile beige “mille stagioni”, come lo aveva soprannominato ironicamente la moglie, e i capelli pettinati all’indietro. Era tornato la sera prima dall’Afghanistan,e non aveva vuto il tempo di tagliarli. Gli arrivavano alle spalle, mossi e castani, brizzolati solo un po’ sulle tempie.
Anche lui era felice, sorrideva e amoreggiava discretamente con la sua eterna compagna, tenendo la manina sottile di sua figlia e facendola roteare in braccio solo per il gusto di sentirla strillare di gioia.
Tutti e tre, a modo loro, si stavano godendo il momento di leggerezza, insieme, facendo una passeggiata senza una meta precisa. I due adulti chiacchieravano e si interrompevano per dare attenzione alla piccola Jane, entusiasta della “gita” a sorpresa. Era stata una cosa improvvisa, infatti, che tutti si fossero ritrovati a casa. Quella sera avevano in programma di guardare un film stesi sul divano e poi andare a dormire.
Avevano davanti a loro un paio di giorni di dolce quotidianità casalinga e avevano deciso di goderseli fino in fondo.
L’adolescente lì incastrata sorrise lievemente, ricordando quanto si sentisse felice: non esisteva nulla di più piacevole che godere del loro calore.
Poi tutto quanto era andato in pezzi, irrimediabilmente, lasciando dietro di sé scorci di vite infrante e vissute a metà, alcune concluse, altre che lo sarebbero state a breve.
Spesso si era domandata perché dovesse capitare una tragica fatalità proprio a quella coppia, felice e spensierata, estremamente attenta quando si trattava di viaggiare e che non aveva mai fatto del male a nessuno. Chi si era preso il diritto di spezzare le loro vite?
Non lo sapeva. Conducevano una vita estremamente selettiva in fatto di conoscenze, e a parte alcuni rapporti superficiali con dei colleghi non avevano amici stretti o confidenti. Tutta la loro vita era assorbita dalla famiglia, dagli affetti che li legavano e null’altro.
Nessuno poteva odiarli fino a tal punto, ovvero…ucciderli. Flash sconnessi di auto accartocciate, braccia insaguinate e occhi vitrei le attraversarono la mente, con la stessa velocità del camion contro cui si erano scontrati.
Da quel che le avevano raccontato era stato un frontale, ma l’altro era fuggito senza lasciare tracce, abbandonandoli al loro triste destino. Bare, cimiteri albergati da calma esasperante, funerali strazianti, e dolore. Dolore. Solo dolore.
Non si era mai del tutto ripresa da quella ferita, ma col tempo aveva imparato a conviverci. Ogni tanto portava qualche orchidea, il fiore preferito di sua madre, sulle loro tombe, stava a guardare inespressivamente le scritte che le macchiavano e se ne tornava alla squallida Casa, con un magone che non riusciva a digerire del tutto. Sempre un po’ più rotta rispetto a prima, quando fingeva che quell’evento non la toccasse o mentre asseriva con la psicologa che era tutto passato.
Una cosa che sapeva fare bene era, appunto, mentire. Non si faceva scrupoli a guardare una persona dritta negli occhi e a sparare una balla, perché in fondo lei ci guadagnava soltanto. Aveva imparato che per sopravvivere era necessario pensare prima di tutto a sé stessi, ed era una cosa in cui eccelleva.
La sua permanenza nel mondo era già difficile, e non voleva lasciare che le altre persone minacciassero di rovinarla ulteriormente. Viveva per conto proprio, cercava di non fidarsi di coloro che la circondavano e manteneva un rapporto superficiale con chiunque le stesse intorno.
Sarah era l’eccezione, ma solo perché si comportava allo stesso modo. Avevano problemi diversi e diverso modo di reagire, ma in fondo erano uguali; per questo motivo non entravano mai in collisione, minacciando di rompersi.
Ripensare alla sua amica le fece tornare in mente la sua presenza lì, e la tentazione di tagliarsi divenne insostenibile.
Si morse a sangue il labbro inferiore: non poteva farlo alla Casa, non proprio lì. Era un voto con sé stessa, ovvero che quel posto non si sarebbe mai preso le sue debolezze, mai.
La sua testa sprofondò ancor di più fra le spalle, come se volesse sparire. Non riusciva a collegare tutti gli avvenimenti di quel giorno, e si ritrovò a pensare a Kim, incredibilmente.
La bambina si era appena ripresa dal viaggio del padre ed ecco che spariva anche lei. Chissà come stava adesso, con Malcolm.
Già, Malcolm. Per colpa di Jane non sarebbe potuto andare a suonare quel pomeriggio, e aveva intuito quanto questo significasse per lui. Privarlo della sua personale perdizione che effetto avrebbe avuto su di lui?
Non lo sapeva, anche se si sentiva incredibilmente in colpa. Gli avambracci cominciarono a prudere, togliendole quell’attimo di tregua che aveva cominciato a sentire all’improvviso.
In fondo, pensava, si meritava quella pena. Non faceva altro che rovinare la vita delle persone che le stavano attorno, senza che potesse rimediare almeno in minima parte ai danni che causava. Si trattava di ferite irreparabili, il più delle volte, e nessuno era in grado di trovare la garza giusta per sistemare le cose.
Jane era l’infezione di coloro che provavano a volerle bene. Per la sua testardaggine rifiutava il loro affetto, e li drenava con il suo essere scostante, frustrante e irritabile. Era nata per stare sola, e se lo fosse sempre stato sarebbe stato meglio per tutti.
Rose sarebbe stata ancora viva.
Damon, suo padre, anche.
Una lacrima le solcò la guancia, imprimendo un solco infuocato che le scottò la mascella, lungo tutta la sua parabola.
Sarebbero stati tutti felici se lei si fosse levata definitivamente di mezzo, lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Ma era stata troppo codarda per mettere in atto ciò che avrebbe risolto tutto. E non era per un istinto di conservazione, non ce l’aveva mai avuto.
Era solo…una sorta di vigliaccheria, che la rendeva una zecca attaccata alla vita che diceva di non volere. Era puro egoismo, oppure godeva nel rovinare le esistenze degli altri?
Non conosceva la risposta, ma si sarebbe impegnata per trovarla.
Abbandonò la testa contro le piastrelle fredde, lasciando che le lacrime scorressero libere contro la sua pelle. Si sarebbe licenziata, era l’unica soluzione.
Aveva provato un affetto istintivo per la bimba, ma era troppo speciale per potersi permettere di rovinarla. Vagliò con orrore l’ipotesi che lei, un giorno, si sarebbe potuta tagliare per colpa sua. No, non se lo sarebbe mai perdonato.
Portò le mani al viso, nel vano tentativo di asciugare gli zigomi levigati. Immaginava di avere gli occhi arrossati e la pelle umida, ma non le importava nemmeno un po’, anzi, sarebbe voluta rimanere lì per sempre.
Era raro che piangesse, ma quando accadeva era molto più liberatorio, perché un minimo della tempesta che la scuoteva se ne andava, dandole l’illusione di leggerezza.
Sentì distrattamente la porta aprirsi, ma non si mosse. Non era sicura di ricordare come si facesse, e non si sarebbe affatto stupita di non riuscire ad alzarsi ancora, e camminare senza strisciare a terra.
Il suo primo pensiero fu che si trattasse di Sophie, ma lo escluse, perché i passi non erano certo quelli di una persona con i tacchi.
La sconosciuta passò in rassegna tutte le porte. Con un mugolio muto, cercò di sistemarsi rimanendo lì incastrata, riuscendo ad avere un  goffo risultato. Poteva trattarsi di una curiosa o, peggio, di Sarah. Non avrebbe mai sopportato di farsi vedere così.
Un paio di scarpe da ginnastica logore apparvero davanti ai suoi occhi. Avevano i bordi sfilacciati ed erano fatte di stoffa, basse e nere, con alcune cuciture distrutte ai lati. Chissà perché, ma le pareva di averle già viste da qualche parte.
Non sarebbe stato affatto strano, forse appartenevano a qualche ragazza della Casa, ce n’erano un sacco che conosceva di vista. Con alcune non aveva nemmeno mai parlato.
Si preparò all’imminente apertura rituale: non sapeva cosa volesse quella persona da lei, ma pregò affinchè la lasciasse in pace in fretta, poiché non era del’umore adatto a sostenere qualsiasi conversazione. Le ragazze della Casa non avevano mai nulla di interessante da dire, a meno che non si cercasse droga o sesso. In quel caso potevano essere utili.
Con un bussare discreto, la figura si annunciò.
Quel suono la sorprese, ma decise di non reagire. Non solo non ci riusciva, ma lo trovava inutile visto che entrambi erano a conoscenza delle reciproche presenze e l’altra sarebbe entrata lo stesso.
Quelle caviglie, per quanto sottili, non sembravano affatto femminili. Piuttosto appartenevano a gambe estremamente magre, che era sicurissima di aver già osservato, con quei pantaloni neri così particolari…
La porta si aprì lentamente, con straziante drammatismo.
E, dietro di essa, comparve l’ultima persona che pensava di vedere.
-Ciao, Malcolm. 

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Capitolo 11
*** In the bathroom ***


Malcolm, senza dire una parola, si sedette accanto alla ragazza lì rannicchiata.
Ormai, non era più nemmeno Jane, ma solo un guscio svuotato che le assomigliava vagamente, con gli occhi gonfi e arrossati, le guance umide e la bocca tremante. Il labbro inferiore era scosso da patetici singhiozzi, ma per fortuna aveva smesso di piangere come una bambina.
La presenza inspiegabile del ragazzo nella struttura la imbarazzava a tal punto che non riuscì a dire nient’altro: l’aveva trovata accucciata in un bagno pubblico di una casa famiglia, per disperati e orfani. Quest’elemento parlava da solo; a quel punto avrebbe potuto avere solo due ipotesi sul suo passato. Tossicodipendente o figlia di una prostituta clandestina, per cosa avrebbe optato?
Forse, vedendo la sua pelle pallida, sarebbe stato più verosimile una storia nei narcotici che non in una nel mondo del piacere. In fondo, non sarebbe sembrata una donna seducente o promiscua nemmeno per sbaglio.
Anche se i loro corpi non si stavano neanche sfiorando, lei si sentiva comunque al sicuro, ma stranamente esposta. Ormai la più grande fonte di vergogna era a lui conosciuta, e la cosa le dava fastidio. Non sapeva cosa significasse il ragazzo per lei, ma lo sentiva stranamente vicino, nonostante si conoscessero da molto poco e non avessero praticamente nessun legame, a parte Kim.
Si sentiva simile a lui, e sapeva di avere un certo ascendente sul suo animo, come testimoniava la sua preoccupazione in quel momento. Non diceva nulla, ma sapeva che era in pena per lei.
Una cosa che aveva tacitamente apprezzato era stata la mancanza di compassione: le persone come lei avevano bisogno di tutto tranne che, appunto, di essa. Sapere di essere compatita, che qualcuno usasse la sua sorte per ricavarne storie strappalacrime o per sentirsi in pace con il proprio ego, la distruggeva più che aiutarla.
L’unica cosa che necessitava era solo qualcuno che conoscesse un buon metodo per tirarla fuori dalla sua situazione, per evitare che si facesse del male più di quanto avesse già fatto.
E Malcolm le stava offrendo quel tipo di supporto.
Ma la cosa che apprezzava di più era proprio il silenzio. In quel momento non sarebbe stata in grado di dire nulla, troppo odiata persino da sé stessa per non sentirsi oppressa e schiacciata. All’improvviso non le importava più nulla che lui potesse vederla, fu tentata di alzare la manica e mordersi selvaggiamente la pelle con la lametta.
Si calmò solo grazie al profumo del ragazzo. Era alto e magrissimo, incastrato a fatica nel piccolo spazio. Respirava regolarmente, facendo muovere con movimenti ritmici e cadenzati il petto scarno, sotto al quale si indovinava la forma delle ossa.
I suoi capelli nerissimi erano leggermente più lunghi di quando l’aveva conosciuto, lisci e dritti. Non c’erano doppie punte, solo una colata uniforme di un inchiostro profondo, fin sotto alle spalle, tutti pari e tagliati uguali.
Inoltre il viso era magnifico, intriso di fascino. Guardava dritto avanti a sé per rispettare il dolore di Jane, che poteva scorgerne solo il profilo: il naso importante di stagliava fiero al centro della pelle diafana, le ciglia lunghe e arcuate contornavano in una pioggia scura l’iride così chiara da sembrare bianca, un color ghiaccio purissimo e freddo, di rara bellezza. La piega della bocca era semplicemente sublime, carnosa ma al tempo stesso virile, perfetta e rosea. Per la prima volta dopo tantissimo tempo, si sentiva nuovamente attratta da qualcuno, cosa che le dava speranza.
Quasi con timore, lasciò scivolare la testa sulla sua spalla ossuta. La clavicola era pungente, ma non faceva male contro la sua guancia.
Non seppe dove trovò il coraggio per fare una cosa del genere, ma c’era qualcosa nella postura del ragazzo che le offriva conforto, in qualsiasi modo lei avesse voluto trovarlo. Aveva bisogno di contatto umano, ma doveva essere lei a cercarlo, poiché era sicura che se gliel’avesse offerto spontaneamente non sarebbe stata in grado di accettarlo; non era capace di ammettere di avere un problema, e riconoscerlo spontaneamente la aiutava a capire di essere debole.
Lo sentì fremere leggermente, in un attimo solo, per poi stendersi subito dopo. Sapevano entrambi che era il primo passo verso un miglioramento, e andava riconosciuta la giusta importanza.
-Come hai fatto a trovarmi? – chiese lei, con un filo di voce. Per un istante credette che non fosse nemmeno riuscito a sentirla, tanto parlò piano.
Lui fece un mezzo sorriso adorabile. –A casa mia avevi dimenticato il telefono, ma non me ne ero accorto. Quando è arrivata una telefonata non sapevo se rispondere, però poi ho pensato che potessi essere tu per controllare se lo avevi dimenticato da me e…
-Hai parlato con Sarah, vero? – lo interruppe, priva di forza.
-La tua amica?
La sentì annuire contro la stoffa della sua maglietta. –Allora sì, mi ha detto lei dove andare.
Silenzio.
-Sei rimasto sorpreso? – era una domanda fondamentale, che aveva ormai smesso di far male.
Lui scosse la testa, e non parlò. Era una cosa fantastica, quella sorta di telepatia,soprattutto se contornata dal suo profumo. Aveva un odore rassicurante, maschile ma anche estremamente delicato, che sapeva di buono; riuscì a cullarla anche stando semplicemente fermo, una gamba piegata contro il petto e l’altra stesa verso la porta.
Era un angolo privato di dolore e conforto. Tutto il resto del mondo era escluso da quello spazio così denso di emozioni, e Jane non avrebbe saputo esprimere a parole ciò che significava essere là per terra, con lui. Riconosceva soltanto che era un’occasione speciale, quasi una ricorrenza, da segnare la data sul calendario e non dimenticarla mai.
-Io… - disse piano Malcolm, e la sua voce profonda arricchì l’aria, facendo vibrare la ragazza con un fremito sorpreso. -…lo so che non è il momento giusto ma…volevo dirti che ti ascolterò ogni volta che ne avrai bisogno.
Piano, lei alzò la testa, poggiando il mento sulla sua clavicola sporgente e arrivando a fissarlo negli occhi. Celavano la stessa tristezza e lo stesso smarrimento che c’era nei suoi, cosa che la inqueitava e consolava al tempo stesso.
-Perché lo fai? – sussurrò. Era l’unico tassello del puzzle che le mancava, l’unica parte che non si incastrasse col resto, la sola cosa diversa da tutto il quadro, una pennellata di un colore opposto ai precedenti, che macchiava la tela.
Ovviamente le faceva piacere, anzi, era molto più che semplice riconoscenza. Era puro stupore, a dire il vero. Da moltissimo tempo nessuno le concedeva altro che freddezza, e lei non provava nemmeno a ricambiare con una moneta diversa, troppo disinteressata per poterlo fare.
Ciò che le aveva detto, riferito ad una persona instabile come quella appollaita sulla sua spalla, assomigliava molto ad una promessa, di quelle che valgono per sempre. Con quella domanda impertinente e a bruciapelo, Jane gli stava offrendo la possibilità di ritirarsi; non si sarebbe offesa, niente affatto, era solo un modo per evitare future delusioni e altro dolore, da aggiungere al resto.
Lui rimase un attimo imbarazzato da tale quesito, così diretto da sembrare una freccia, soprattutto se l’interlocutrice lo fissava così vicina al suo viso, come a volerlo vedere dentro, per meglio capire le sue intenzioni. Non poteva infatti sapere che la ragazza era parecchio incuriosita da quell’attraente figura, ed ad ogni cambiamento comportamentale rimaneva incredibilmente sorpresa.
Lo vide ponderare seriamente la cosa, come se fosse una questione importante. Il depresso e l’autolesionista che cercavano di tirarsi fuori dal fango con le proprie forze. Che spettacolo commuovente.
-Perché io ci tengo, a te – disse all’improvviso, abbozzando un sorriso timido. Le sue guancie pallidissime si tinsero appena di rosso, rivelando la fatica che aveva fatto per ammetterlo con dignità.
Lei rispose in modo spontaneo, appena un accenno di fiducia nei suoi confronti. Era la prima volta che qualcuno la considerava come essere umano vero e proprio, facendola sentire importante, e poteva dire che era la sensazione migliore del mondo.
Si conoscevano da molto poco, ma forse era meglio così: con il passato avvolto nell’oblio, sarebbe sicuramente stato più sereno scoprirsi lentamente, senza ulteriori shock alle loro teste provate da mille fatiche.
Lui suonava il pianoforte; lei dipingeva. Ognuno dei due aveva dei modi per riconoscersi come essere vivente nel proprio intimo, ma in quel momento si stavano entrambi ammettendo nei reciproci mondi, desertiche lande sconfinate senza orizzonte o confini valicabili.
Questo la fece sentire meno sola e meno triste, avendo affianco un’anima uguale alla sua. Qualche coccio che le feriva il corpo dall’interno si riassemblò, dandole un attimo di respiro.
Piano, rimise la testa com’era prima, ovvero col viso rivolto alle piastrelle del muro. Anche lui, aggiustando appena la propria posizione, continuò a rispettare quel silenzio autoimposto. Era una situazione abbastanza piacevole, perché sapevano di non essere abbandonati del tutto nella tempesta e di poter contare l’uno sull’altro.
Ora le parole di Sophie facevano decisamente meno paura di prima, con la loro schiacciante prepotenza. Il destino non appariva più come la ferocie bestia pronta ad aggredirla con la sua irruenza, e la questione si sarebbe presto risolta. Non sarebbe stato facile, ma era sicurissima che la donna si stesse sbagliando, che non esisteva nessun mostro capace di uccidere così spietatamente la felicità di una tranquilla famiglia qualunque, non di proposito, almeno.
-Grazie – sussurrò, chiudendo gli occhi. Era davvero sincera, lui aveva appena rovesciato il suo mondo.
-Grazie a te, piuttosto – sussurrò Malcolm. La sua voce roca la faceva impazzire ogni volta.
Piano, Jane sorrise.
Aveva voglia di rivedere Kim. 

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Capitolo 12
*** Return ***


Malcolm e Jane camminavano fianco a fianco, in silenzio.
Sembravano due fantasmi vestiti di scuro, la pelle pallida e gli occhi stanchi. La ragazza aveva un’aria assente che la faceva sembrare vecchia, e quando i capelli le scivolavano sulla fronte non provava nemmeno a spostarli. Ne subiva i movimenti sconclusionati, muovendosi per inerzia verso una meta che ben conosceva.
Era stata lieta quando, diversi minuti dopo essere uscita dal bagno, Sarah l’aveva avvertita che doveva andare. Per un attimo aveva avuto l’impressione che mentisse, ma il suo cellulare continuava a ronzare nalla tasca della salopette, e lei si faceva di minuto in minuto sempre più nervosa.
L’aveva abbracciata stretta, poi era sparita. Meglio così; non avrebbe sopportato la sua compassione.
Sophie e Noah erano dovuti tornare nel loro covo di serpi, ma avevano lasciato un biglietto di carta rigida che puzzava d’ufficiale. Brillava sulla scrivania e la signorina Miles, l’incaricata della gestione della casa, l’aveva esortata a prenderlo, con un sorriso gentile. Non aveva nulla, assolutamente nulla, contro quell’adorabile volontaria di mezz’età, così si era infilata il rettangolo in tasca, senza dir niente.
Ora scottava contro il suo fianco, vicino alla lametta. Le parve un accostamento fin troppo azzardato. Era come se gli occhi di Sophie diventassero famelici pur di scorgere un qualsiasi squilibrio.
Il ragazzo era stato davvero molto gentile, offrendosi di accompagnarla a prendere le sue cose da Kim. Una passeggiata le avrebbe fatto bene, e aveva atteso paziente che lei risolvesse tutte le questioni in sospeso bighellonando in entrata. La signorina Miles gli aveva offerto un caffè forte mentre Jane andava a darsi una sistemata, e lo aveva accettato volentieri.
Quel silenzio denso e opprimente si addiceva alla giornata che c’era fuori. Nuvole che promettevano pioggia se ne stavano pigramente stese in cielo, rendendo il clima freddo e pungente.
Jane sperò che piovesse, in modo che tutta quell’atmosfera surreale sparisse, come una nuvola di vapore evanescente. Però, per il momento, la situazione si manteneva stabile, senza avere mutamenti o cambiamenti drastici.
-Al diavolo – disse Malcolm, all’improvviso. La ragazza sobbalzò, strappata crudelmente dai propri pensieri.
Il ragazzo si voltò deciso verso di lei, animato da una strana luce in fondo allo sguardo. Nella strada deserta passò un auto, pigramente, e lui vi rivolse solo un’occhiata per poi concentrarsi nuovamente su di lei.
-Cosa c’è? – chiese lei, spaventata. Lo vide scuotere la testa.
-Jane…stasera non mi sento tranquillo a farti tornare là dentro. Non sei nello spirito giusto, ecco, ti ci vorrebbe un attimo di distrazione. Per cena avevo pensato di portare Kim da qualche parte, giusto per farle vedere qualcosa di diverso, non voglio marcisca in casa – spiegò. Tornò a fissarla dritta negli occhi, il ghiaccio intenso delle iridi la stava bruciando. –Verresti?
La proposta navigò per qualche attimo nell’aria, come un veliero abitato da fantasmi. Jane non sapeva se coglierla; quando aveva pronunciato il suo nome era rimasta letteralmente senza fiato, a causa dell’ardore con cui l’aveva pronunciato. Era come se ogni sillaba che la componesse per lui fosse importante, indispensabile.
Inoltre aveva ragione, non sarebbe mai riuscita a stare alla Casa. Sicuramente quella notte non sarebbe riuscita a dormire, e temeva che i due agenti federali tornassero a farle visita. Non voleva assolutamente ripercorre gli attimi bui del suo passato, rivivere il dolore e lo strazio. Le domande di cui tutti l’avrebbero sommersa la stavano uccidendo già da quel momento, simili a lame affilate conficcatele in pieno petto.
Le ci voleva qualcosa per distrarsi, era vero. Un invito a cena, con lui e Kim. Deglutì. Come una vera famiglia.
Vide quel suo viso così bello divorarsi nell’attesa di una risposta, mentre osservava tutti i pensieri materializzarsi sull’espressione di lei.
L’intimità che avrebbero avuto la tentava come un nettare, ma si rese conto di non avere soldi con sé. Aveva lasciato tutto alla Casa e non aveva affatto intenzione di tornarci; una volta passata da Malcolm a prendere le sue cose sarebbe andata al parco, a leggere un po’. Se non si sbagliava aveva un libro in borsa, come al solito, altrimenti ci sarebbe stata la biblioteca là vicino: era aperta fino a tardi, avrebbe potuto permettersi una serata in solitudine.
-Non ho soldi – gli disse, dispiaciuta. Abbassò il capo.
Stranamente, lui si mise a ridacchiare. –Spero tu stia scherzando – rispose, cercando di rimanere serio. Quando lei alzò lo sguardo e capì che era dispiacere sincero, spalancò i suoi bellissimi occhi color neve, senza apparire per nulla buffo. I suoi lunghi capelli neri vennero scossi da un alito di vento, ma lui li domò mettendo le ciocche ribelli dietro l’orecchio.
-Non ti devi assolutamente preoccupare di questo, lascia che offra io.
Lei scosse la testa: -Non voglio approfittarmi di te…
-Sono io che ti ho invitato - le fece notare. Poi, con tono più profondo e accorato, aggiunse: -Mi sentirei uno schifo a lasciarti tornare là dentro. Una serata diversa ti farà bene, prometto di non portarti lontano e che sarò puntuale; Kim va a letto presto.
Non era affatto quello che la preoccupava, ma sorrise lo stesso. In fondo, era la prima volta dopo tantissimo tempo che qualcuno la invitava ad uscire, anche se quello non si poteva definire un vero e proprio appuntamento. Quindi, perché non accettare?
-Troverò il modo di sdebitarmi – promise, facendolo sbuffare. Questo le causò una risatina, che lui fece finta di ignorare.
Ripresero a camminare vicini, Jane sul bordo del marciapiede e Malcolm nella striscia sottile che divideva la corsia per le auto da quella dei pedoni, una fascia di vernice bianca spessa appena qualche centimetro.
Lui la osservò in silenzio per un po’: aveva le braccia aperte come se fossero ali per rimanere in equilibrio, e l’espressione era assorta sul suo percorso. Posava i piedi con attenzione per non scivolare e sembrava più che mai una bambina. Il cappotto si spalancò ancora di più fino a mostrare la sua felpa nera, evidenziandone la magrezza quasi eccessiva, anche se non pronunciata come nel ragazzo.
-Attenta che cadi – le disse, giusto un attimo prima che recuperasse l’equilibrio.
-Oppure inizierò a volare -, osservò. La manica sinistra scivolò un po’ lungo il polso, e gli parve di vedere delle striature, forse parte di una maglietta a maniche lunghe dalla fantasia bizzarra.
-Vero – ammise lui, -ma sappi che non farò da rampa di lancio.
Lei ridacchio, guardandolo di sbieco: -Nemmeno per una giusta causa?
Lui sollevò un sopracciglio, disegnando un arco perfetto sulla fronte alta e bianchissima, con espressione interrogativa. –E quale sarebbe?
La vide soppesare la questione, facendo di nuovo cadere lo sguardo a terra. Prima la punta del piede destro, poi il tallone ed infine l’altro, posato delicatamente davanti al gemello. Le gambe snelle formavano un compasso umano,  il tronco oscillava per seguire l’equilibrio che minacciava di andare perso da un minuto all’altro.
-La scoperta delle mie capacità… - rischiò di cadere, per poi riaggiustare la posizione -…pirotecniche.
Detto in un tono così concentrato e con un’acrobazia tanto complicata la fece sembrare davvero buffa. Malcolm non poté evitare di mettersi a ridere di cuore, facendo sorridere anche lei.
Si accorsero di trovarsi davanti alla casa di lui, riconoscendola grazie al giardino ondulato e al garage da cui si intravedeva un discreto disordine, dopo anni di incuria e accumulo.
Entrambi rimasero piuttosto sorpesi dal trovarsi lì di fronte, dal momento che la Casa distava diversi minuti di camminata da lì, e a loro pareva di esserci arrivati dopo pochi secondi. Jane bloccò il suo spettacolo da funambola per guardarlo stranita, come per avere conferma del fatto che fossero davvero arrivati. Anche Malcolm ricambiò l’occhiata, ma non c’era davvero ombra di dubbio: la casa era quella, impossibile sbagliarsi.
Era strano, poiché non avevano percorso nessuna scorciatoia. Ma, rendendosi conto della loro distrazione, abbandonarono i pensieri e scoppiarono a ridere, all’unisono.
In effetti in concetto di divertente di quella situazione praticamente non esisteva, ma non aveva affatto importanza. Erano due adolscenti che ridevano poco, nelle loro vite solitarie, non capitava spesso di trovare persone con cui ci si sentiva in sintonia. Perciò godettero appieno di quell’attimo di leggerezza, prima che lui le porgesse la mano e la aiutasse a scendere, come se fosse una dama elegante ad un ballo principesco.
Questa cosa la fece sorridere, ringraziandolo con un inchino. Poi, un dubbio si insinuò nella sua testa: -Ma…hai lasciato Kim a casa da sola per venire da me?
Era una cosa che non aveva valutato prima, solo per un terribile egocentrismo; era stata così presa da sé stessa da non rendersi nemmeno conto che la bambina non c’era, e che non poteva essere stata portata all’asilo o chissà dove. Non si era posta il problema di dove il fratello l’avesse sistemata, facendole sorgere solo in quel momento l’atroce dilemma. Si sarebbe sentita in colpa all’ennesima potenza se alla bambina fosse successo qualcosa.
Fortunatamente, lui scosse la testa. –La signora Forstin si è offerta di badare a lei per qualche minuto, le ho detto che avrei fatto presto; è sorda, per questo non ci fidiamo a lasciargliela lì ogni pomeriggio.
Jane fremette dal sollievo. Doveva sapere che Malcolm non era irresponsabile fino a quel punto. La piccola aveva superato la crisi, sarebbe stato un danno gravissimo abbandonarla ancora.
Questo le diede anche un’ulteriore conferma dell’importanza del suo compito: la signora anziana non avrebbe potuto seguire sempre nel modo migliore la bambina, per questo Jane era un tassello abbastanza fondamentale nella vita dei Fray. Con lei si sentivano tutti più tranquilli, ora lo comprendeva, e questo le scaldò il cuore.
Le chiese se poteva aspettare un attimo; lo guardò suonare il campanello nella casa accanto, mentre lei lo aspettava nel vialetto di casa sua. Visto da dietro si potevano notare le gambe magre e la schiena ampia, che irradiava un senso di protezione indescrivibile a parole. Le ossa sembravano abbracciare chiunque vi si sarebbe posato sopra, e le venne una voglia incredibile di tenerlo stretto contro la propria guancia.
Dal viso del giovane si indovinava che era così per costituzione, ma per una persona che lo vedeva di sfuggita in mezzo ad una folla sarebbe potuto sembrare, senz’ombra di dubbio, un ragazzo che soffriva di una qualche forma di anoressia. Scheletrico, ma non troppo. Semplicemente perfetto.
Riuscì a dimenticare in fretta questi pensieri lascivi a causa di una trottola umana composta da ricci biondi e un maglioncino rosa, che le si abbattè contro ridendo.
-Jaaaaneee! – strillò contenta, con il rischio di ucciderle un timpano o farla cadere all’indietro. Grazie allo slancio, la ragazza riuscì ad afferrarla al volo, facendola roteare involontariamente e poi tenendosela ben protetta contro lo sterno.
Respirò a fondo il profumo dei suoi capelli, il tipico dolce odore dello shampoo per bambini. Anche se era solo un’ora che non la vedeva, le era mancata tantissimo.
Scoprire che non aveva abbandonato il sorriso contagioso la consolò incredibilmente, in maniera a dir poco divampante. La bambina prese sin da subito a chiacchierare, ma la baby-sitter la tenne contro di sé ancora un po’, per assicurarsi che non fosse un miraggio.
-Hey, signorina, vieni un attimo qui – ridacchiò Malcolm, che si stava avvicinando con un cappottino in mano. Jane immaginò fosse di Kim, dal momento che indossava solo un maglioncino abbastanza leggero.
Sfruttando il fascino che esercitava sul fratello, lei rise deliziata, allungando le braccia verso di lui mentre cercava di infilarle il soprabito.
-Fratellone! – gli disse, contenta, e lui non poté evitare di sorriderle, dimenticandosi perché si sentiva in dovere di riprenderla. Si limitò a dire di stare più attenta, poi lei gli volò in braccio e si mise a parlare di questo e di quello, sia con lui che con Jane.
Lui se la caricò meglio in spalla, alzando divertito gli occhi al cielo. –Vieni – disse, rivolgendosi a Jane. -Andiamo a prendere le tue cose.  
Le sorrise e le tese una mano.
Lei, guardandolo dritto negli occhi, si sentì investita da uno strano torrente limpido. All’improvviso, nonostante il gelo di novembre, le parve naturale sentirsi avvolta dal tepore, sorridere e sentirsi bene.
Timidamente, afferrò il suo invito e si lasciò condurre, preda di un sortilegio che non avrebbe saputo spiegare. 

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Capitolo 13
*** Help ***


Kim era seduta tranquilla, mordicchiando una patatina fritta.
Non aveva mangiato molto quella sera, dicendo che all’asilo un bambino aveva compiuto gli anni e li avevano imbottiti di dolci. Jane non stentava a crederci, dal momento che aveva visto qualche bandierina svolazzare ancora all’ingresso, reduce di una piccola festa. Ricordava quando le aveva parlato di come funzionava nella struttura, e che non vedeva l’ora di compiere gli anni per farsi regalare le caramelle.
Malcolm stava sorseggiando una coca ghiacciata, e lei si chiedeva come facesse a non avere mal di stomaco.
Quella sera si erano fermati al McDonald, un ristorante entro le loro possibilità. Jane si era accorta di avere qualche spicciolo in borsa, sufficiente a pagare almeno la propria parte, ma il ragazzo non aveva voluto sentire ragioni: per lui era un piacere offrirle almeno una cena del genere.
-Andiamo, Jane – le disse, divertito, - mi sentirei un barbone a non permettermi nemmeno una cosa del genere.
Erano scoppiati a ridere quando, a metà serata, un senzatetto era entrato per davvero. Naturalmente avevano evitato di farlo sfacciatamente, ma avevano aspettato che si sistemasse in un angolo appartato prima di abbandonarsi ad una risatina complice. Non era di certo per deriderlo, ma solo per gioire delle stranezze del destino.
La bambina era stata felicissima di quel cambio di programma, chiacchierando entusiasta per tutta la durata della cena su questo o quello, segno della sua euforia. Il fratello aveva spiegato che era raro che uscissero, ma quando succedeva Kim non poteva essere più felice.
Fu una serata tranquilla, leggera e spensierata. In quel momento avevano finito da un pezzo, guardando le strane sculture delle cartacce sul tavolo di plastica in un silenzio sereno.
La piccola aveva smesso di parlare per un attimo, giusto il tempo di bere un sorso della sua aranciata. Poi riprese, pensando a ciò che voleva dire: -Jane, domani ci facciamo le trecce?
Lei sorrise automaticamente. Adorava quando la rendeva partecipe dei suoi piani innocenti, e tutta la sua vita sembrava trovare uno scopo quando le intrecciava i capelli in mille acconciature, oppure se la pettinava all’infinito dopo aver fatto il bagno. Kim era entusiasta di quella parrucchiera a domiciglio, ma non per vanità: si sentiva al sicuro quando delle mani le modellavano le ciocche lunghe e setose, sentendo meraviglie che si componevano sulla nuca.
-Certo- le disse. Poi brindò della sua risata facendo incontrare il proprio bicchiere di carta con quello della bimba.
Malcolm le osservava, sorridendo leggermente e facendo di tutto per sembrare distaccato dalla situazione. –Vorrà dire che sarò lieto di andarmene, vero?
Jane ridacchiò, guardandolo in tralice senza essere, però, accigliata. –Potremmo usare i tuoi, se proprio insisti. O no, Kim?
La sorellina rise in risposta, con un “sì” entusiasta. L’espressione di lui divenne preoccupata, forse immaginandosi con un bel paio di trecce appoggiate languidamente alle spalle.
-Non se ne parla nemmeno – sentenziò, mettendo il bicchiere sul tavolo come per sottolineare il concetto. Kim scoppiò a ridere.
-Perché no? – osservò Jane, fingendo di essere seria, -potrebbe essere divertente.
-Esatto – ribadì Kim, annuendo.
Lui si trovò circondato da due fuochi, una situazione da cui era difficile uscire rimanendo illesi. L’avevano incastrato recitando la parte delle aguzzine, ma più ci pensavano, più la trovavano una cosa fattibile.
Voltandosi per guardarla meglio, appoggiò un gomito sul tavolo e rivolse il viso completamente verso Jane. Erano seduti vicini, con la bambina di fronte che li stava guardando con un sorriso, presto destinato a diventare risata.
-Perderei tutta la mia dignità.
-Beh, non necessariamente. Potresti pagare per il nostro silenzio – propose la baby-sitter, aprofittandone per prendere un altro sorso di Sprite. Lo stava guardando con un bagliore negli occhi, segno che si stava divertendo a stuzzicarlo. E con lui era lo stesso, stava seguendo il ragionamento solo per aiutarla in quella conversazione scherzosa.
Le piacque un sacco quell’intimità che si era creata, contribuiva a rendere l’aria leggera e respirabile. Le tensioni si sciolsero per un attimo, lasciandola finalmente libera di pensare e agire come una ragazza normale. Non aveva mai desiderato nient’altro: diventare parte della massa, confondersi fra i visi delle persone e rimanere nell’anonimato per sempre. Essere una qualunque.
-Ah, sì? – chiese Malcolm, interessato. –E in cosa consisterebbe questo riscatto?
Jane appoggiò i gomiti al tavolo, assumendo un aria pensierosa. Cosa poteva chiedere in cambio senza lasciare spazio a malizie o cose del genere? Era facile rovinare tutto, le serviva un’idea.
Kim la fissava in silenzio, godendosi ogni singolo sviluppo che la serata stava prendendo. Il locale era semi-vuoto, i pochi clienti rimasti stavano uscendo, e il ragazzo annoiato alla cassa era uscito sul retro per fumare una sigaretta. Lo si vedeva dai denti gialli che era un fumatore, la ragazza sarebbe stata pronta a scommetterci.
L’insegna parlava di “apertura 24 ore su 24”, quindi non si preoccuparono di fare tardi, anche perché non erano nemmeno le nove.
 -Ci sono – esclamò lei all’improvviso, trionfante. Lo fissò con occhi fiammeggianti, illuminati dalla nuova idea. –Potresti darci lezioni di pianoforte.
Per un attimo ci fu solo silenzio. Il viso del ragazzo rimase impassibile per una frazione di secondo, prima di contorcersi per non ridere. La mascella si indurì e la bocca divenne una linea tremolante, prima che abbassasse lo sguardo per recuperare un contegno.
A vederlo così buffo, persino a Jane venne da ridere, ma si trattenne. Non le sembrava di aver detto nulla di particolare, solo una semplice affermazione che nascondeva solo la serietà con cui era stata offerta.
Ovviamente, se non avesse voluto non l’avrebbero costretto a farsi le trecce, però il riscatto era ugualmente valido. In quel caso sarebbero state loro due ad essere debitrici, ma l’interesse nei confronti della musica superò ogni cosa: le venne nuovamente voglia di imparare a fare qualcosa, e non era un progresso trascurabile, vista l’apatia con cui tendeva ad affrontare la vita.
In realtà, il piano era lo strumento che la affascinava di più. Non era mai stata un’alunna particolarmente brillante, riuscendo a distinguersi dalle altre solo per le letture che amava intraprendere, però anche riguardo alla musica non aveva mai avuto inclinazioni fuori dalla norma. Il senso del ritmo tendeva a scarseggiare, rendendola anche una pessima ballerina; sapeva leggere le note anche se era un po’ meccanica nell’eseguirle con uno strumento qualsiasi, e riconosceva la difficoltà legataal suo nuovo scopo, però le venne voglia di tentare.
Kim osservava i due in silenzio. Una scintilla di allegria rendeva ardente l’azzurro cielo dei suoi occhi vispi. Sapeva che il fratello era un musicista eccezionale, e quando lui era distratto nelle sue melodie era rimasta affascinata ad ascoltarlo, senza essere notata. Forse Jane pensava che non sarebbe stata interessata ad imparare a suonare, però almeno dal canto suo parlava sul serio. L’avrebbe tenuta occupata a pensare ad altro, per lo meno.
Malcolm, non appena capì che questa volta faceva sul serio, soppesò con altrettanta gravità l’offerta, facendo oscillare la coca rimasta nel bicchiere come se fosse wiskey.
La guardava di sottecchi, forse valutando quanto il gioco valeva la candela. Anche a lei veniva da ridere, ma rimase seria.
-Per me va bene – disse, sforzandosi di indurire il tono, - però sono un insegnante molto severo.
-Imparo in fretta – rispose Jane, con tono da film d’azione, dove i protagonisti si stanno pavoneggiando lanciandosi botta e risposta spassosi.
Lui ridacchiò, scuotendo piano la testa. Poi finì il liquido rimanente tutto in sorso e lanciò un’occhiata complice alla sorellina. –Che ne dici, scappiamo?
Lei sorrise, stroppicciandosi gli occhi e sbadigliando un “sì” assonnato. Si alzarono e presero i soprabiti, poi Jane aiutò la bimba a rivestirsi, tenendola in braccio. Le gambe magre del peso leggero oscillavano contro le sue anche, e la testa era sprofondata nella spalla, esattamente come quando l’aveva riportata a casa quel dannato pomeriggio.
Quante cose erano successe da quel momento? Aveva appena scoperto che forse qualcuno aveva ucciso i suoi genitori e stava per prendere lezioni da un ragazzo che quasi non conosceva; considerato il resto della sua vita, si poteva dire che quei cambiamenti l’avrebbero tenuta occupata fino alla mezza età. Sempre se ci fosse arrivata.
Con un cenno al ragazzo dietro al bancone, apatico e grigio, Malcolm uscì, ficcando le mani in tasca. Anche lei sorrise nervosamente al cassiere, che rispose con un lieve segno di coscienza. Non sembrava assonnato, solo terribilmente disinteressato allo scorrere delle altre esistenze, forse anche della propria.
-Ti pesa? Se vuoi la porto io.
Jane si limitò a scuotere la testa, stringendola di più a sé perché non prendesse freddo. Un’aria gelida che sembrava voler mordere le ossa di chiunque avesse il coraggio di avventurarsi nel buio della sera, avvolto solo dall’insopitale gelo delle nubi, si era subito resa protagonista del loro percorso.
Per un po’ camminarono in silenzio, lei semi-sommersa dai ricci di Kim e dal suo respiro regolare, cullato dai passi cadenzati. Non mentiva se diceva che non pesava affatto, perché era talmente leggera da non provocarle nessuno sforzo, in più aveva trovato una posizione comoda e avrebbe potuto portarsela in grembo all’infinito.
Passarono davanti ad un quartiere composto da sole case gialle, le cui luci opache brillavano senza più forze dalle finestre ai piani inferiori. Erano così uguali che non si potevano distinguere l’una dall’altra, se non fosse stato per le aiuole, recintati sprazzi di colore, diversi da quelli dei giardini vicini. Una casa in particolare aveva delle rose splendide, dalla corolla carnosa e scura, tanto da sembrare quasi un delicato cuore ancora pulsante.
-Qui una volta ci abitava mia zia – disse lui, pensieroso. –Poi si è trasferita in Florida.
-Davvero? – chiese Jane, sorpresa. Non perché non gli credesse, ma pensava che non avesse parenti nei dintorni.
Lui annuì brevemente, lanciando uno sguardo intenerito a Kim. Però le sue pupille fissavano le sue, avvolgendola con un calore insolito; avvampò di colpo. “Ma certo, stupida, è ovvio che sta guardando sua sorella!” si disse, per scacciare l’imbarazzo.
-Era una donna in gamba, molto sveglia ed energica. Non era nemmeno tanto vecchia, però decise di punto in bianco che questa città le stava stretta, e così si trasferì…ma credo l’abbia fatto solo perché lei e mio padre non sono mai andati d’accordo.
Si prese una pausa, e il silenzio tornò a comporre una presenza fra di loro. Quello scorcio sul suo passato ebbe un effetto strano, poiché a Jane parve quasi che si stesse confidando. Non fece domande per non sembrare invadente, ma aveva come l’impressione che quella non sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbero parlato insieme degli anni trascorsi.
Ripresero la loro marcia, fino a quando non raggiunsero casa Hall. Immersa nelle tenebre, sembrava quasi verniciata di un colore più intenso, ammaliante, e le assi che la componevano li fissavano con i loro occhi immobili. Il giardino era attraversato dai riflessi di alcuni lampioni, regolari guardie piantate lungo la strada, mentre il garage sembrava una grande bocca chiusa, dietro la quale si indovinava il biancore di qualche dente. Non si chiudeva mai completamente a causa di un pannello spostato verso l’interno, unica modifica della struttura regolare.
Il ragazzo armeggiò per un po’ con le chiavi, poi le fece segno di entrare: la fece passare per prima e richiuse il cancello alle loro spalle. Ripetè lo stesso gesto cavalleresco anche con la porta d’ingresso, facendole accendere la luce del soggiorno.
-Vai pure di sopra, se vuoi – le disse con voce bassa e profonda, in un tono calmo per non svegliare Kim. –La sua stanza è…
-In fondo a destra – gli rispose, con un sorriso. Rimase un attimo interdetto, ma poi gli venne da ridere, e le mostrò lo spazio con un braccio teso.
Jane salì le scale con attenzione. Erano in betulla, di legno chiaro, e un impianto di illuminazione si avviluppava lungo tutta il loro percorso, in modo che qualsiasi avventore riuscisse ad orientarsi senza rompersi una gamba.
In quel momento la bambina rappresentava una difficoltà per vedere dove appoggiava i piedi, ma riuscì comunque a raggiungere il secondo piano senza incidenti. Passando lungo il corridoio non poté evitare di buttare l’occhio sull’uscio semi-aperto della camera di Macolm. Anche nell’oscurità si riusciva ad intravedere qualche poster spettrale e il bordo di un letto rifatto da poco, con lenzuola evidentemente pulite.
La cosa che all’inizio l’aveva sorpresa era stata la totale mancanza di disordine nella sua camera: lo standard dei ragazzi della sua età era il caos, quando si trattava di stanze da letto, un totale luogo di perdizione. Ma lui non sembrava affatto il tipo. Disciplinava tutto nella sua vita e lo faceva, ne aveva l’impressione, per avere qualcosa di sicuro e immutabile dalla propria parte, un punto fisso in cui ritrovare la pace e la serenità.
L’attimo passò in fretta, però, decisa a raggiungere la stanza di Kim al più presto. Aprì la porta con la spalla, poi scivolò all’interno e accese l’interruttore, cercando di non fare rumore.
Assicurandosi di non averla svegliata, la sdraiò sul letto e cominciò a toglierle il cappotto bottone dopo bottone, per poi cercare di sfilarlo con delicatezza. Sciolse il nodo del maglioncino e la lasciò in cannottiera. Lei mugolò soltanto, cercando di stendersi su un fianco.
Così facendo le permise di toglierle i pantaloni definitivamente, assieme alle scarpe, sostituendoli abilmente con il suo pigiama di lana, anch’esso rosa. Le rimboccò per bene le coperte, attenta ad ogni suo minimo respiro per controllare qualsiasi cambiamento della sua espressione distesa. Non appena le coperte le lambirono il collo, si rannicchiò contro il cuscino, sembrando più che mai piccola ed indifesa: le guance rosee, a contatto con il guanciale candido, sembrava una pesca in piena fioritura, mentre i boccoli biondi erano disposti a raggiera attorno al viso.
Jane la guardò per un attimo, sorridendo leggermente. Era una visione che ispirava una grande serenità, ovvero poter godere appiena dell’innocenza di Kim, della purezza dei suoi lineamenti e del suo spirito di bambina. Era così…delicata. Ora cominciava a capire perché Malcolm fosse tanto protettivo nei suoi confronti.
Si alzò piano e spense la luce, senza far rumore. Scivolò fuori dalla stanza, facendo scricchiolare appena la porta e tenendola socchiusa, perché sapeva quanto la bimba temesse il buio. Lasciò accesa una sola lampadina appena fuori dalla sua stanza ricca di peluches e carta da parati in colori pastello, lasciandosi alle spalle la profonda quiete che aveva provato.
Delle volte le era difficile capire come facesse il ragazzo ad avere come unica compagnia una bambina di quasi cinque anni. Per quando Kim fosse piacevole e simpatica, forse delle volte veniva spinto dal desiderio di trovarsi accanto qualcuno di più adulto, magari. I maschi erano molto più soggetti delle femmine a cercare un riconoscimento nella collettività, lo aveva letto su una qualche rivista mentre stava in chissà quale sala d’attesa.
Insomma, per un adolescente non doveva essere facile prendersi cura da solo di una bambina di quell’età, né tantomeno non avere nessuna chiacchierata all’infuori di quelle che la sorellina poteva offrirgli. Come faceva a non aver mai voglia di evadere, di scappare? Come faceva a sopportare la sua vita che, delle volte, doveva essere davvero pesante?
Era questo che Jane si chiedeva, il dubbio che la tormentava. Forse, vedendo una persona pressappoco della propria età gli doveva aver fornito un attimo di svago. Davvero Jane rappresentava una sorta di novità, per lui? Non si era mai vantata nella sua vita, però riconosceva di non essere una persona come tutte le altre.
Scese in soggiorno, stingendosi nel prorpio soprabito. Nella casa non faceva freddo, ma all’improvviso cominciò a sentirsi a disagio, senza nessun motivo. Non aveva ragioni di essere fuori posto, ma aveva come paura di cosa sarebbe potuto succedere, un timore senza nessun fondamento.
Vide una luce accesa nella penombra, e immaginò che Malcolm fosse in cucina. Chissà perché ma, da quando l’aveva visto, non sembrava il tipo da guardare la TV, forse derivante anche dalle sue passioni poco comuni rispetto ai ragazzi della sua età. Una persona originale, non c’era dubbio, ma anche estremamente intelligente; aveva avuto modo di sperimentarlo nelle loro non troppo frequenti conversazioni.
-Oh, Jane – disse, ancora girato di spalle. Era in piedi davanti al lavello e stava trafficando con qualcosa che non riusciva a vedere. Da sopra la spalla le lanciò un’occhiata con l’abbozzo di un sorriso. –Vieni pure.
Lei rimase sulla soglia ad osservarlo un altro po’, poi si decise a varcare l’uscio con passi incerti, neanche fosse su un terreno minato. Notò la sua tracolla appoggiata alla sedia, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata e, con dita tremanti, la prese, stringendola contro la propria spalla. Quel contatto familiare parve rincuorarla, poiché nulla le era familiare come il fruscio della stoffa rovinata e sempre sul punto di rompersi definitivamente.
Seguendo un ordine implicito, si accomodò su una sedia lì accanto, guardando la sua schiena lavorare per un altro po’.
-Ti va del thé? – chiese senza voltarsi, e lei mormorò un assenso debolissimo. La stanchezza degli ultimi eventi l’aveva spossata molto più di quanto pensasse, e l’idea di tornare alla Casa non la allettava per nulla, come se fosse il coronamento di una giornata all’insegna della sfortuna.
Il ragazzo posò sul tavolo due tazze fumanti e le si sedette davanti, notando che si era rimessa la borsa. Appena questo particolare venne scorto con discrezione, Jane si sentì quasi in dovere di toglierla nuovamente, sentendo un peso togliersi dal petto.
Sul viso di Malcolm si alternava una certa apatia e anche stanchezza. Doveva essere stata una gionata pesante anche per lui, lontano dalla sua amata musica, e lei capì come si sentiva. L’espressione sconfitta era quella tipica delle persone che si stanno perdendo, cercando di non affogare nel mare dei propri problemi. Basta davvero molto poco a gettare una persona instabile nello sconforto più totale, un attimo, un pensiero ed ecco tutti gli spettri allungare gli artigli, mordere le carni e sguazzarci dentro.
Forse era l’unica che sarebbe stata in grado di capirlo, e il ragazzo ne era fin troppo consapevole. Così come Jane si rendeva conto dell’intimità involontaria della situazione, ovvero bere del thé in una cucina in penombra, dopo aver messo a letto una bambina e stando alzati a chiacchierare. Possibile che non fosse solo un sogno?
-C’è una cosa che…mi piacerebbe dirti, Jane – disse, combattuto. Lei dovette reprimere un brivido sentendo il proprio nome sulla sua bocca, ma riuscì a guardarlo negli occhi e non deglutire. Un gran bel passo avanti.
-Dimmi.
Lui si prese le tempo. Cominciò a giocherellare il manico rivestito di smalto azzurro pastello, che assomigliava molto agli occhi di Kim. Non ai suoi, perché sembravano più che altro quelli di un cieco.
-Ecco…non so se riuscirò a spiegarmi bene ma…mi è sembrato che tu riuscissi a capirmi, qualche giorno fa. È stata una sensazione istintiva e c’entra con la tristezza – si azzardò a guardarla in faccia, ma riabbassò subito le sue ciglia meravigliose. –Pensavo che potessi spiegarmi come si chiama il mostro che piano piano, con pazienza, divora ogni pezzo di me.
Concluse la sua frase con un sorriso triste e appena accennato, sconfitto. Il peso di quella richiesta d’aiuto la schiacciò come un crudele carrarmato, dal momento che ora aveva la conferma che Malcolm soffrisse del suo stesso disturbo.
Per anni si era illusa che fosse solo colpa dell’adolescenza, più che altro per non fare i conti con una dilagante depressione, opprimente, malsana e innaturale. Lei era stata una bambina felice, leggera e dolce, come aveva potuto trasformarsi nella larva inequivocabile che era diventata? Ormai anche solo guardandola si poteva indovinare il suo stato di non-vita, un scivolare nell’abisso sempre più a fondo, sempre più inesorabilmente, sempre più…definitavamente.
La prima cosa che provò fu un paralizzante attacco d’ansia, travolto poi dalla rassegnazione che poteva benissimo riassumere il suo animo. Il suo segreto più oscuro era stato rivelato, ma non per essere diffuso a degli ipotetci quattro venti, solo per cercare di far luce su una situazione analoga. Probabilmente stargli vicino non sarebbe mai stata una buona idea, ma almeno avrebbe potuto capire cosa l’angustiava, come poteva liberarsene.
Malcolm aveva ragione: aveva bisogno di darci un nome, giusto per identificare sé stessi. Era stanca del proprio modo di fare, del fatto che non reagisse mai, ma subisse soltanto. Era ovvio che la vita non le avrebbe mai dato nulla, se non cominciava a pretendere qualcosa; e a quella realizzazione doveva arrivarci anche lui, poiché aveva avuto il potere di affascinarla e farle passare gli unici momenti piacevoli degli ultimi sette anni.
Alzò lo sguardo. Era ora di cambiare, di diventare una persona nuova. Fu per questo che prese un profondo respiro, e cominciò a parlare di cose che aveva sempre sentito il bisogno di obliare.
-Quello che hai detto è l’unica spiegazione che riesco a trovare. Un mostro, una creatura che è sempre stata nei nostri corpi. Forse il male che ci sta divorando, perché non ti nasconderò di esserne succube, è sopito dentro ognuno di noi, ma sono le tragedie della vita ad alimentarlo; per essere onesta con te, Malcolm, non ho proprio idea di come farlo morire di fame, ma sarei lieta di progettare quest’omicidio con te. Che ne pensi?
Lui la fissò a lungo. Il vapore del thé saliva in lente e pigre nuvole davanti al suo viso, rendendo caldi i suoi lineamenti gelidi. Era così bello che lei avrebbe voluto perdersi in quei connotati senza rimpianti, lasciarsi annegare nella loro regolarità e nella loro singolare e affascinante irresistibilità. Sicuramente le altre ragazze della sua età l’avrebbero trovato troppo particolare, ma per lei era assolutamente sublime.
Piano, sorrise.
E sorrise anche lei.
All’improvviso, lui le prese delicatamente una mano, portandosi le dita sottili vicino alle labbra. Jane socchiuse gli occhi, e sentì sulla pelle il fuoco ardentente del suo fiato leggero, prima che la bocca calda e morbida vi si appoggiasse lentamente, in eterno. Fu un contatto a malapena accennato, galante, ma lei poté asserire di non aver mai provaton nulla di simile in vita sua.
-Ci sto – disse piano. Lei riaprì gli occhi.
Stava ancora sorridendo.  
  

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Capitolo 14
*** Routine ***


La settimana seguente trascorse tranquillamente.
Sophie e Noah divennero solo un brutto ricordo, e il loro biglietto giacque nel cestino spezzato esattamente a metà; Jane non voleva avere assolutamente avere nulla a che fare con loro due e, dopo aver buttato via il recapito, si sentì addirittura meglio.
Kim era una bambina fantastica. Passavano i pomeriggi insieme e la ragazza aveva preso di nuovo l’abitudine di cucinare qualcosa di semplice per Malcolm, il quale si era trovato costretto ad accompagnare la passione per la musica con degli allenamenti di basket, sport che odiava. La sua insegnante di educazione fisica sosteneva che, grazie alla sua altezza, poteva essere un buon elemento per la squadra della scuola, conosciuta nei dintorni per la sua abitudine di perdere qualsiasi partita. Aveva capito di non potersi sottrarre quando Francesca, tornata a casa per un paio di giorni all’inizio della settimana, si era rivelata entusiasta dell’idea che il figlio potesse trovare uno sfogo fisico, probabilmente ignorando la frequentazione del conservatorio.
Per questo motivo Jane aveva smesso di essere accompagnata da lui al pomeriggio per andare verso l’asilo a prendere Kim: quando non si rintanava nella stanza col pianoforte lo si poteva trovare in palestra, con i capelli legati in una coda alta e uno sguardo di disapprovazione sul volto.
Persino lei si chiedeva come potesse essere d’aiuto un ragazzo così magro e senza esperienza, però una volta aveva sentito alcuni suoi compagni di squadra chiacchierare entusiasti della nuova formazione. Evidentemente Malcolm aveva del talento, anche se per dimostrarlo avevano dovuto tagliare un sacco di tempo per parlare o vedersi, avendo orari del tutto differenti.
A Jane dispiaceva moltissimo, perché trovava la compagnia del ragazzo molto interessante; con lui passava dei momenti sereni, le pareva di essere accettata da almeno un altro essere umano ed era già qualcosa. Avrebbe voluto raccontargli dei suoi progressi con l’autolesionismo, ma il tempo era una questione relativa: non gliene aveva parlato prima e non aveva senso farlo quando non c’erano i momenti appropriati, così gioiva nel suo intimo dei segni che cominciavano, seppur lentamente, a guarire.
A dire la verità non era del tutto merito suo, bensì di un’impresa edile. Da quel che aveva capito era scoppiato uno scandalo per la tenuta della struttura dove frequentava i corsi d’arte, e la scuola era corsa ai ripari firmando in fretta e furia un contratto per la ristrutturazione dei locali. Questo aveva sospeso le attività per un tempo indeterminato, cioè qualche mese di sicuro, dove anche i bagni erano compresi. Guardando i progetti come li avevano esibiti in classe sembrava che ne sarebbe spuntato fuori un tempio in acciaio e vetro, paganamente associato ad attività ricreative di annoiati studentelli. Da un lato era una cosa positiva per molteplici motivi, ma a lei non piaceva ugualmente; ormai il posto le era diventato familiare, non avrebbe sopportato di trovarsi nuovamente spaesata in un luogo che non conosceva. E poi, inutile negarlo, gli avambracci le prudevano fastidiosamente, segno che non vedeva l’ora di ricominciare a tagliarsi.
Tuttavia, una volta che anche le toilette sarebbero state sistemate, non avrebbe più avuto privacy, o nulla del genere. Semplicemente doveva andare alla ricerca di un altro luogo appartato dove ferirsi, anche se in quel periodo non ne sentiva il bisogno: lo studio e Kim assorbivano la sua vita, in modo da evitarle stupidi attimi di sconforto o momenti riservati alla depressione.
Quella sera, ad esempio, la bambina era euforica. Si era svegliata da poco dal riposino pomeridiano, dopo aver dormito molto più del solito, e sembrava stesse per esplodere dalla gioia.
Il padre sarebbe tornato a casa per quasi una settimana, poiché non aveva più viaggi di lavoro in vista per tutto il mese. Avrebbe svolto un normale lavoro d’ufficio fino a quando la sua presenza non sarebbe stata richiesta altrove, e ciò voleva dire che i pomeriggi li avrebbe passati in famiglia, dando a Jane fin troppo tempo libero.
Credeva infatti che, stando così tanto tempo lontano da casa, l’uomo avrebbe voluto passare la vacanza assieme alla famiglia, e da quel che aveva capito anche Francesca si sarebbe trattenuta per un breve periodo in città.
Jane non voleva fomentare troppo le fantasie della piccola, limitandosi ad ascoltarla e basta. Dubitava che la famiglia avrebbe davvero avuto modo di riunirsi seriamente, dal momento che spesso gli imprevisti portavano a disdire i ritorni ancor prima dell’arrivo a casa.
Aveva fin da subito trovato strano che un matrimonio potesse essere tenuto insieme con continue assenze e visite tanto sporadiche, ma ancor di più non trovava un nesso con la crescita dei propri figli e un lavoro tanto scostante, che non aveva neppure capito in cosa consistesse. Come facevano William e Francesca vivere una storia d’amore attraverso distanze interminabili e possibilità concreta di non fare ritorno anche per mesi interi? Chiamavano di rado, davano le proprie notizie solo il minimo indispensabile ed erano adorati incondizionatamente da una bambina di cinque anni, meravigliosa e vivace. Lei non avrebbe mai potuto gestire una situazione del genere a cuor leggero, ma la coppia non sembrava preoccuparsene; non capiva come, ma non stava certo a lei giudicare, così smise di farsi domande inutili e riprese a cucinare, annuendo di tanto in tanto per farle capire che la ascoltava.
-Sarà bellissimo, Jane – ripetè Kim, sognante, per l’ennesima volta. –Mio papà e la mamma mi porteranno al parco come l’ultima volta e mangeremo anche lo zucchero filato, sai?
-Certo – disse distrattamente. Posò il mestolo sull’orlo della pentola e controllò lo stato della bistecca. Cuoceva lentamente a fuoco basso, senza bruciarsi o annerirsi ai bordi, il che era più di quanto avrebbe potuto sperare.
Quella mansione nel contratto non c’era, ma lei era più che lieta di svolgerla lo stesso, visto che cucinare le piaceva. Inoltre nessuno aveva nulla da ridire, soprattutto Malcolm.
-E anche andremo all’asilo insieme ogni mattina, guarderemo i cartoni e potrò vedere la mamma per una settimana intera!
-È fantastico – confermò Jane, sorridendole appena. Non era ancora abile con i sorrisi fatti senza spontaneità, ma la bimba era troppo entusiasta per accorgersene. La vita che sognava era di una semplicità quasi commuovente, e stava descrivendo come eccezionali le cose che una normale famiglia viveva ogni volta che ce n’era l’occasione.
“Anche noi, una volta, facevamo queste cose”, pensò inespressivamente. Ormai i ricordi dei suoi genitori andavano sbiadendosi, e cercava di renderli nebulosi con tutte le sue energie. Meno li ricordava, meno le sarebbero mancati, no? Trovava stupido attaccarsi a fantasie sul passato, poiché nulla avrebbe mai potuto cambiare come stavano le cose, ovvero di schifo; nemmeno il più elaborato e particolareggiato sforzo mentale avrebbe potuto tirarla fuori dalla Casa o renderle la vita più sopportabile, quindi perché mettersi a desiderare l’impossibile?
Si spostò accanto all’altro fornello, controllando meticolosamente la padella che stava riposando sul fuoco. Ormai aveva quasi ultimato tutto quanto, non aveva senso stare lì a ciondolare, anche se aveva voglia di stare in piedi. I talloni le formicolavano, segno che doveva camminare o appoggiarvi peso, giusto per sentirsi più viva e uccidere l’impazienza. Quei pochi minuti in cui poteva vedere Malcolm e scambiarsi giusto un paio di parole erano diventati i suoi preferiti, i più importanti della sua vita.
La compagnia del ragazzo le mancava davvero moltissimo, contando soprattutto che non aveva mai potuto godere appieno di una conversazione decente con lui. Erano sempre stati interrotti da qualcosa o qualcuno, tipo l’ora tarda oppure una voce al cellulare, cose di questo tipo. Una situazione straziante che si era fatta sempre più terribile col passare del tempo, ovvero l’impossiblità di vederlo e, semplicemente, parlare con lui.
Non sapeva spiegare la sua voglia di guardarlo sorridere, di sentire cosa aveva dire, di camminare nella stessa porzione di marciapiede e avere voglia di stringergli la mano e infilarsela in tasca, come se fosse un tesoro prezioso. Mai poteva di aver provato una cosa simile, e chiedersi se funzionava allo stesso modo nei cuori di entrambi era troppo doloroso; anche se non capiva cosa provava o come poteva chiamare quel bisogno di sentirlo vicino sapeva già che sarebbe stato devastante essere una presenza insignificante nella sua vita. Forse dipendeva dal fatto che Malcolm la faceva sentire meno sola di quello che era realmente, in quanto il suo modo di vedere le cose assomgliava tantissimo al suo, e le sarebbe dispiaciuto rendersi conto di non essere assolutamente nulla nella sua vita, nemmeno qualcuno di familiare o simile nell’approccio con la propria vita. Niente più di questo.
Spense il fornello sotto alla carne, chiedendosi se davvero si stesse innamorando di una persona che conosceva pochissimo e, soprattutto ultimamente, che non vedeva quasi più.
Mentre faceva questo si rese conto che Kim aveva smesso di parlare. Si voltò all’improvviso, spaventata dal rendersi conto di averla zittita con la mancanza di una risposta ad una domanda che non aveva sentito; quelle stupide riflessioni minacciavano di intristire Kim, e voleva assolutamente evitare una cosa del genere. Amava vederla allegra.
-Tesoro, scusami, mi sono persa un passaggio – ammise, affranta.
La bimba la guardava con i suoi grandi azzurri spalancati, mentre la fissava interrogativa. Aveva la posa composta dei bambini che “fanno i bravi”, con le mani appoggiate in grembo e le gambe che penzolavano nel vuoto. La sedia era così alta che doveva farsi aiutare sia a salire che a scendere, approfittandone per godere di un abbraccio.
-Niente – disse, scuotendo la testa. –Ho pensato che forse parlare di queste cose ti rende triste.
Jane, all’inizio, non capì a cosa la bimba alludesse. Dal momento che si era persa nei propri pensieri, credette che Kim avesse male interpretato ciò che aveva visto, ovvero una ragazza assorta con sguardo assente mentre si concentrava sulle pentole. Tuttavia quelle parole avevano un significato molto più profondo di ciò che ci si poteva aspettare da una bambina di quell’età, poiché sottintendevano la perdita della famiglia della ragazza. Forse sentire quei progetti avrebbe potuto turbarla, e doveva ammettere di aver pensato al passato anche se solo per un istante; le parve di sentire la risata di suo padre nelle orecchie come se fosse ad un passo da lei ma, ovviamente, non era possibile.
Si chinò alla sua altezza, intenerita. Le prese il naso fra il pollice e l’indice e le diede un buffetto, facendola ridacchiare.
Non doveva assolutamente permettere di mostrarsi debole, e Kim doveva avere qualcuno con cui confidarsi. Aprì la bocca per spiegarle di non preoccuparsi di certe cose, ma la porta si aprì e le interruppe.
In un solo momento il cuore di Jane si gonfiò dopo un attimo di smarrimento al pensiero che potesse essere Malcolm, e le venne una voglia terribile di truccarsi o sistemarsi, schizzare al piano di spra e rintanarsi in un angolo mentre il ragazzo mangiava ciò che aveva cucinato, ma rimase ferma. Cercò di mantenere la calma mentre si alzava e lanciava uno sguardo complice alla piccola, che cominciò subito a sorridere e, poi, a chiamare il fratello.
Sacca in spalla, il fantasma di un essere umano si affacciò sul cornicione della porta. Il viso era ancora più pallido del solito, tirato, attraversato dalla stanchezza; le labbra non avevano quasi la forza di sorridere e le palpebre sembravano pesanti persino a lei.
Aveva tolto la divisa rimpiazzandola con gli abiti con cui andava in giro di solito, sembrando quasi un teschio con un mantello nero e una falce in mano. Fortunatamente riusciva a tenersi in piedi senza barcollare, ma Jane non si sarebbe affatto sorpresa di trovarlo addormentato sul pavimento, con i capelli lasciati umidi dalla doccia fatta nello spogliatoio. Alla ragazza veniva quasi da ridere, perché le sembrò solo terribilmente tenero, ma le parve inappropriato, così si trattenne.
Persino Kim ebbe qualche remora nel gettarglisi contro, avvicinandosi guardinga. La sua stanchezza era così palese che aveva quasi paura di avvicinarsi a lui, come se si potesse spezzare da un momento all’altro oppure cadere a terra e svenire direttamente, senza nessuna avvisaglia.
-Hey, vieni qui – disse lui, con voce roca. Posò la sacca a terra e piegò le ginocchia sorridendo, allargando le braccia come per trovare l’equilibrio e abbracciarla insieme. Lei accettò l’invito con attenzione; strinse le sue braccia sottili sulla sua schiena ampia, senza riuscire a cingerlo per intero, e lui indugiò su quella stretta come per volersi capacitare di averla vicina dopo un allenamento estenuante.
Quando Kim trotterelò via da lui, il ragazzo si rialzò a fatica e si appoggiò ad una sedia, accasciandosi contro lo schienale. Jane sistemò il cibo sul piatto prima che si raffreddasse e glielo mise davanti.
Lui la guardò dritto in viso, sorridendo. –Grazie – mormorò, poi prese la forchetta. Mangiava lentamente, assaporando a piccoli bocconi come se non potesse sopportare dosi maggiori oppure più saporite. Jane si chiese se non si fosse scottato il palato ma, vedendo le spalle curve e gli occhi vacui, decise che era meglio tacere.
Per Malcolm quello era un periodo difficile. Il ritorno dei genitori non gli era mai troppo gradito, soprattutto quando si trattava di periodi eccessivamente lunghi rispetto al solito. Doveva trovare insostenibile stare in casa con le persone che erano quasi degli sconosciuti per lui e fingere di essere una famiglia felice; forse gli allenamenti lo aiutavano a sfogare tutta la sua frestrazione nello sforzo fisico, in modo da azzerare la viglia di intristirsi. Essere depressi, infatti, richiede più energie di quanto ci si potrebbe aspettare.
Decise di lasciarlo stare: andò in entrata e prese il soprabito. Fuori faceva freddo, visto che era gennaio inoltrato. Non era tardi, eppure il cielo era così scuro da sembrare già notte, inducendo ad una terribile apatia. Aveva sempre voglia di dormire, in inverno, e preferiva tapparsi in camera con un buon libro che andare in giro, anche perché non accadeva quasi mai che qualcuno la invitasse in un qualche club, nemmeno Sarah; non perché non i frequentasse, ma proprio perché sapeva l’avversione che la ragazza nutriva verso i luoghi affollati, bui e rumorosi. Aveva smesso di offendersi dal silenzio de suo cellullare perché, anche se chiunque le avesse chiesto di schiodarsi dalla Casa, avrebbe rifiutato comunque.
Sistemò con attenzione la sciarpa sul collo, alzando il bavero e infilandola sotto, ben stretta sulla laringe. Calcò il cappello sulla testa, a coprire orecchie e capelli, mentre ficcò i guanti in tasca, visto che ormai non aveva senso proteggere dei dorsi già screpolati.
Proprio mentre stava infilando la borsa a tracolla sulla spalla, nella posa che le era più familiare, un tocco leggero sulla spalla la fece sussultare. Si voltò quasi con timore e, con suo grande sconvolgimento, si ritrovò ad un palmo dal viso cadaverico del ragazzo.
-Grazie mille per tutto, Jane – disse, piano. La sua voce aveva raggiunto una profondità inimmaginabile grazie al tono grave che la stanchezza gli faceva adottare incosapevolmente, facendola sentire quasi una privilegiata per poterla ascoltare ad una distanza tanto irrisoria.
Questo le fece quasi socchiudere gli occhi, provocando un rossore simile ad una nuvola temporalesca sul suo viso. Non le era mai capitato che le fosse così vicino, con quel sorriso sonfitto tanto irresistibile alla sua mente, e on riusciva a smettere di pensare alla sua bocca così vicina e ai capelli che rischiavano di sfiorarla continuamente.
-Non ti preoccupare, lo faccio volentieri – disse. Non avrebbe mai saputo spiegare com’ebbe fatto a parlare normalmente in quell’occasione, e preferiva rimanesse un mistero anche con sé stessa.
Malcolm annuì, come se fosse la cosa più naturale del mondo, poi la lasciò andare. Sulla via del ritorno Jane si chiese cosa l’avesse spinto  presentarlesi così all’improvviso, per dire una frase tanto stupida, tra l’altro. O meglio, un ringraziamento è sempre gradito, però il contesto era assolutamente bizzarro, soprattutto contando che le aveva detto delle parole simili proprio qualche minuto prima.
Inoltre non era da lui entrare di soppiatto in una stanza e sbucare alle spalle con l’intenzione di sorprendere o, forse, spaventare. Perché era chiaro che lei non sarebbe mai riuscito a vederlo in quella posa, visto che dava le spalle alla cucina senza riuscire ad intravedere nemmeno lo stipide.
L’unica che non cambiava mai era Kim, assonnata nel suo pigiama mignon con i pesci disegnati sopra. Lei lio aveva trovati un po’ inquietanti, ma alla bambina piacevano un sacco, visto che quella era diventata a pieno titolo la sua fantasia preferita. Una volta le aveva detto che le pareva di essere una sirena, avvolta nelle coperte assieme ai pesciolini rossi, e Jane aveva riso per quest’ottimismo incondizionato.
Quando arrivò alla Casa, l’ingresso era illuminato, ma non c’era nessuno nei paraggi. Ne approfittò per salire con attenzione in camera sua, spogliarsi e chiudersi dentro.
Si infilò sotto le coperte e respirò il delicato profumo delle lenzuola fresche e pulite, in cui si sarebbe volentieri sepolta anche in quel momento. Pur di scacciare il viso morente del ragazzo dalla sua vista, decise di prendere il libro che stava leggendo e di continuarlo ancora un po’, anche se non ne aveva particolarmente voglia.   
Doveva fare di tutto per concentrarsi del tutto su sé stessa, e non su quelle sensazioni spiacevoli che potevano minare il suo precario equilibrio, già minacciato dalle rivoluzioni estetiche in fase di completamento nell’edificio dove passava un sacco di tempo, e non sempre a scopi nobili.
Divorò un centinaio di pagine in quasi un’ora e mezza, ma non si sentì nemmeno provata. Le parole scorrevano liscie sulla carta e leggerle era stranamente facile, mentre sentiva la rassicurante trama della storia delinearsi precisa nella sua testa, come se stesse guardando la scena di un film. Come scrittura si poteva fare di meglio, ma il disperato desiderio di evasione la spinse a trovare quel libro estremamente coinvolgente, tanto che le mancava già poco alla fine quando si trovava attorno alla mezzanotte.
Nonostante non avesse sonno, fece per allungarsi verso la lampada, quando un ticchettio al vetro la distrasse. Controllò meglio l’orologio, ma non aveva sbagliato a guardare: qualcosa aveva fatto rumore contro la sua finestra, era chiaro, solo che non riusciva a vedere all’esterno a causa delle tendine serrate.
Rimase sotto le coperte, immobile. Non dovette attendere molto; un altro suono simile al precedente tamburellò sulla lastra, dandole la certezza che qualcuno desiderava parlare con lei. Chi poteva mai volere qualcosa a quell’ora della notte da una che usciva poco come Jane? Ipotizzò che il ragazzo della sua vicina di stanza (un tizio di nome John, o forse Josh) avesse confuso le finestre, poiché spesso i due si trovavano per delle poco caste uscite notturne.
Scostò scocciata le coltri ormai tiepide, rimettendo il libro sul comodino. Nella fretta non mise nemmeno il segno.
I piedi si socntrarono con il pavimento freddo, ma questo non la disturbò: piuttosto che un ragazzo alla finestra per tutta la notte, preferiva di gran lunga le piante congelate. Scostò in fretta le tendine e aprì il vetro, tirandolo su con uno scatto delle braccia.
Quando si sporse, però, vide che non era affatto il fidanzato dell’altra ragazza, bensì l’ultima persona che avrebbe pensato di vedere, soprattutto in quel momento.    

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Capitolo 15
*** In the silence of the Night ***


Malcolm, sorridente e quasi luminoso con la sua carnagione cadaverica, guardava in alto verso la sua finestra. Il corpo fasciato da abiti scuri e i capelli sembravano un tutt’uno con la notte, tanto da far credere che di lui esistessero solo il viso e le mani.
-Hey – le disse, con voce bassa e profonda. Erano mille le cose che potevano essere adatte a quel momento, eppure lui scelse quel saluto familiare, come se si trovasse per caso in un giardino di notte e fosse quasi sorpreso di trovare lì anche lei.
Lasciando cadere nella ghiaia il sassolino che era intenzionato a lanciare, si mise le mani in tasca, assottigliando maggiormente la possibilità di scorgere qualcosa di lui.
Jane, dal canto suo, era sconvolta. Non solo perché era notte inoltrata, ma anche perché lui era andato alla sua finestra, si era messo a lapidare il vetro per ottenere la sua attenzione e adesso la fissava, che un sorriso che si faceva sempre più incerto di minuto in minuto.
La ragazza non sapeva cosa fare, e rimase paralizzata. Lui sembrava essersi rimesso in sesto dopo l’aria a dir poco moribonda di appena poche ora prima, ma lo stesso non si poteva dire per la baby-sitter: aveva i capelli arruffati e spettinati, il viso stanco e gli occhi arrossati dallo sforzo di venire assorbita dalle parole su carta stampata. Inoltre era in pigiama, ovvero una maglietta senza più forma, grigia e anonima, forse appartenuta prima ad un uomo particolarmente grasso, dal momento he le cuciture erano così dilatate da farle tranquillamente da vestito e, all’occorenza, mantello. Ciò implicava avere le gambe completamente scoperte, un’esperienza piacevole fino ad un certo punto a contatto con l’aria invernale.
Il ragazzo rabbrividì, poi cercò recuperare una certa aria cospiratoria: -Hai voglia di fare una pazzia? – le chiese, complice. In piedi, con le mani nascoste nel cappotto, sembrava davvero il palo per una rapina.
Jane sembrò recuperare in quell’esatto momento la sua facoltà di parola, perché si rianimò all’improvviso, arrossendo e stringedosi le mani al petto, come per nascondersi. Grazie al cielo era in maniche lunghe, altrimenti avrebbe di sicuro notato le lunghe striature rossastre sui suoi avambracci.
-Malcolm? – lo aggredì, sotto voce, -si può sapere cosa diavolo ci fai qui? Hai idea di che ore sono?
Non era da lei essere una bacchettona, ma in quel momento era rimasta troppo sorpresa per poter dire qualcosa di sensato, oppure di senso vagamente compiuto. Quel ragazzo era in grado di dare alla sua vita una piega inimmaginabile, tanto che le sembrava di essere caduta in un romanzo: la confusione che provava nei suoi confronti non fece altro che acuirsi maggiormente grazie a quel nuovo, inaspettato, gesto.
Lo vide stringersi nelle spalle, senza perdere l’aria allegra. –Ti ho vista un po’ giù stasera, così ho pensato di portarti in un posto.
Questa frase venne detta con una così grande naturalezza da lasciarla spiazzata a livelli incredibilmente alti. Come poteva dire una cosa tanto meravigliosa con un sorriso spensierato e l’aria di ragazzo innocente? Sembrava che quello che stava facendo per lei, quel miracolo in piena notte, fosse in realtà una cosa da nulla, un’azione assolutamente normale e non una cospirazione.
Si rese improvvisamente conto dell’intimità della situazione, ovvero trovarsi al buio con lui verso una destinazione che non conosceva e a tutti i pericoli che ciò voleva implicare. Tuttavia lei non dubitò nemmeno per un secondo nella serietà di quel discorso, e non le venne per nulla spontaneo fare la sospettosa, nemmeno per un attimo fu diffidente. Nutriva una fiducia cieca per Malcolm, e sperava che lui potesse dire altrettanto di lei.
Ma era troppo frastornata per poter fingere che ciò non l’avesse spiazzata. –Che posto? – chiese stupidamente, sbattendo le ciglia. Le si stava intirizzendo il naso, e le guance erano già gelate.
Lui si guardò un attimo intorno, stringendosi addosso il cappotto. –Ti dispiace scendere? Mi sto congelando.
-Oh, scusami! – esclamò lei, rendendosi conto di averlo tenuto esposto al freddo della notte per sottoporlo ad uno stupido e inconcludente interrogatorio. –Dammi due minuti.
Dal suo viso non riuscì a capire se quella prospettiva lo allettasse o meno, ma decise che non le importava. Mica poteva girare a gambe nude in piena notte! Sarebbe morta d’ipotermia, senza avere nemmeno il tempo di riscaldarsi. Visto come stava lui anche se era imbaccuccato nella sua sciarpa, non osò immaginare come doveva essere senza pantaloni.
Richiuse la finestra e aprì l’anta dell’armadio. Agguantò una canottiera, una maglietta a manche lunghe e una felpa pesante, accompagnandola con un paio di jean esageratamente attillati, (ma anche gli unici ad essere a portata di mano) e un bel paio di anfibi neri, che coprivano a stento i suoi calzini di lana spessa qualche centimetro. Si spogliò avendo cura di tenere le tende chiuse e aggiunse cappotto, berretto e sciarpa al tutto. Non si era mai troppo prudenti, e non voleva prendersi il raffreddore o, peggio, l’influenza.
La cosa che si chiedeva era come facesse ad essere tanto vispo, considerato che non troppo tempo prima sembrava stesse per addormentarsi in piedi. O era un attore straordinario oppure gli bastavano poche ore di riposo per sentirsi meglio.
Non sapeva per cosa optare, ma ispirava molta più fiducia la seconda, così decise di fidarsi di quella. Scese piano le scale dopo aver chiuso a chiave la sua porta, come faceva sempre anche se stava all’interno; non le piaceva l’idea che qualcuno potesse andare a frugare fra i suoi miseri averi, e quella precauzione la faceva sentire meglio.
Alla Casa non c’erano orari: chiunque poteva entrare o uscire quando voleva, visto che quella specie di portinaio all’ingresso era ubriaco fradicio tutte le otto ore di turno su ventiquattro. Era assolutamente inaffidabile e dalla memoria a breve termine, e a volte faceva cilecca pure quella. La guardiola doveva esserci per normativa di legge, con tutti i gentori violenti che potevano nuocere ai figli nella struttura, ma delle volte gli orari dell’assistenza sociale erano così strani che non era uno spettacolo insolito quello di una visita alle due o alle tre del mattino.
Così si erano tutti abituati a vivere un po’ come capitava, bastava che si tornasse sempre sani, sobri e salvi. Ovviamente chi usciva per farsi una dose, quando rientrava, veniva riconosciuto e punito subito, ma tutti i tossici erano sottoposti ad uno stretto regime di disintossicazione tanto da far persino passare la voglia di un’azione clandestina.
Jane non usciva praticamente mai nemmeno nelle ore diurne, quindi non sarebbe stato un problema stare via qualche minuto. Non aveva intenzione di trattenersi di più, visto che era anche stanca. Oltrepassò in silenzio la portineria vuota, anche se illuminata, e si tuffò all’esterno, completamente buio e freddo.
Il gelo fece presa sulle sue viscere, e per incassare il colpo dovette stringere addominali e mascelle. Si guardò disperatamente intorno alla ricerca del ragazzo, ma non riusciva a vedere niente. Con l’indice già rigido sollevò una levetta, e una lampadina nuda penzolante dal soffitto illuminò fiocamente la veranda piastrellata e triste.
La sagoma di Malcolm si stava avvicinando a lei, dal prato fino all’ingresso. Un fremito d’emozione la percorse pensando che in pochi secondi l’avrebbe visto, avrebbe presto parlato nuovamente con lui, ma decise di distrarsi ascoltando i ronzii della lampadina, di certo in grado di ipnotizzarla in poco tempo. Non sapeva perché voleva escludere a priori che Malcolm le piacesse, ma forse era un modo come un altro per non soffrire, o per non crearsi false illusioni; essendo un ragazzo così bello avrebbe di certo aspirato a qualcosa di meglio di una piccola e insificante autolesionista.
Appena la riconobbe, stretta dalla stoffa e in piedi sull’ingresso, le sorrise, e le sventolò una mano in segno di saluto. Lei rispose con lo stesso gesto e un sorriso forzato sulle labbra: era troppo congelata per poter fare qualcosa di meglio.
-Andiamo? Magari camminando ci scaldiamo – le propose, porgendole un gomito.
Lei guardò il suo braccio senza capire l’allusione per lunghi, imbarazzanti momenti. Lui rimase lì nel suo gesto cavalleresco senza capire cosa avesse fatto di male, mentre lei cercava di decrifrare cosa desiderasse che facesse. Non sapendo come reagire, infilò incerta il proprio braccio incastrandolo con il suo, e rimase subito attirata dal suo calore. Era il movimento più naturale del mondo, e i loro corpi sembravano essere fatti per combinarsi in quell’esatta posizione.
Malcolm pareva soddisfatto, facendole leggermente scendere il marciapiede ed invitandola a camminargli affianco.
-Si può sapere la destinazione? – chiese lei. Un ciuffo di capelli le scivolò dal berretto, ma decise di lasciarlo lì, visto che entrambe le mani erano impegnate a crogiolarsi nel loro nido tiepido.
Il ragazzo la guardò un attimo, con aria furba, poi ricominciò a fissare la strada davanti a lui. La luce dei lampioni gli davano un’aria ultraterrena, come quella di un angelo vendicatore sceso in via del tutto eccezionale sulla terra, come per festeggiare un avvenimento insolito. I suoi occhi non erano mai stati tanto chiari e attraenti.
-No, ma posso prometterti di tornare presto. È abbastanza vicino – spiegò enigmatico, per poi ridacchiare quando sentì il suo sbuffo contrariato. Non le piaceva tutto quel mistero, anche se contribuiva a rendere tutto maledettamente intrigante.
Mentre camminavano, Malcolm cominciò a parlare con un tono quasi dolce, malinconico ma anche estremamente sereno. La sua voce assomigliava ad un abbraccio, e lei decise che i suoi passi sarebbero stati cullati da essa per tutta la durata del viaggio; a meno che non fosse assolutamente necessario non l’avrebbe mai interrotto, lasciando che quella melodia di perdesse nella notte, illuminandola.
-Ti ricordi quella volta che mi offristi di insegnarmi a trovare le emozioni giuste per completare “Stunning”? Beh, sento di esserci vicino, Jane.
Come al solito lei adorò il modo in cui il suo nome rotolava sulla sua lingua, irridiato di significato e affetto. Con lui era del tutto sicura che qualcuno, almeno una persona in tutto al mondo, teneva a lei, ed era la sensazione migliore del mondo, l’unica in grado di saziarla.
Non replicò, per lasciargli il tempo di completare il discorso.
-Quando ti vedo con Kim provò tenerezza, perché mi sembrate davvero due principesse.
Il velo della notte coprì il rossore delle sue guance, anche se il ragazzo non la guardava, e sorrideva leggermente verso la loro meta.
-Quando, invece, sono riuscito a chiederti aiuto, ho provato pace…un senso di completezza – disse. Le lanciò una breve occhiata: -Capisci cosa intendo?
Jane sorrise, nel gelo, prima di annuire piano. Ovviamente avrebbe sempre saputo interpretare le cose che passavano per quella testa complicata e bellissima, e forse era l’unica in grado di poter affermare con piacere che almeno avrebbe provato a svelare tutti gli arcani misteri di quella persona che le stava cambiando la vita.
Lui si ritenne soddisfatto da quella muta risposta, ma non aggiunse altro in proposito. Lei si sentì stranamente lusingata dal sapere che lui la osservava, e notava piccoli dettagli della sua personalità sconosciuti ai più. Non avrebbe mai potuto immaginare di riuscire a suscitare anche sentimenti positivi, così belli da poter definire un’opera della portata di “Stunning”. I pochi scorci che aveva assaggiato erano assolutamente sublimi, ed erano entrambi arrivati nei momenti peggiori delle sue giornate. La prima volta, avendolo udito solo di sfuggita, non era riuscita a bloccare l’immenso allargarsi del baratro sotto ai suoi piedi, e aveva ceduto.
La seconda, però, era riuscita a resistere e a svelare il mistero che aleggiava attorno al ragazzo. Nonostante gran parte della sua vita le fosse sconosciuta, poteva dire di conoscerlo, di saper prevedere parte dei suoi pensieri e di avere fiducia in ciò che faceva. Era stata colei che non aveva avuto dubbi riguardo al suo successo negli allenamenti ,e non si era sbagliata. Nonostante sottovalutasse ampiamente sé stessa, sapeva che con Malcolm nessuna battaglia era mai persa.
Dopo qualche istante, si ritrovarono davanti ad un edificio imponente, dal colore indefinibile. Sembrava completamente grigio, ma era impossibile confermarlo neppure con la luce dei lampioni, troppo fioca per illuminarlo. Malcolm si staccò un istante dalla stretta, con profondo rammarico della ragazza, e si mise ad armeggiare con un mazzo di chiavi. Salì brevemente le poche scale che sopraelevavano l’ingresso e, con un’occhiata, la invitò a seguirlo.
C’era una luce così rassicurante nei suoi occhi che lei non esitò un solo momento. Accettò la sua mano per salire e copiò obbediente il suo percorso, sentendo i passi rimbalzare fra le pareti vuote e inanimate.
-Questo, una volta – disse lui, - era un prolungamento della palestra. Ma essendo scomodo è passato in disuso da quasi una decina d’anni, diventando provvisoriamente un conservatorio per gli artisti che non possono permettersi l’affitto di una stanza per suonare.
Si voltò verso di lei, dopo averla invitata ad entrare in una porta. Man a mano che procedevano lui accendeva le luci, fino a far illuminare tutto il budello giallo canarino che li aveva condotti lì.
-Proprio come me – commentò, facendola ridere.
Jane, entrando, si ritrovò in una piccola stanza male illuminata, con le pareti imbottite con confezioni di uova incollate con il fronte sul muro, insonorizzando la camera alla bell’è meglio. In fondo c’era un pianoforte nero e lucido, bellissimo, con scintillanti tasti d’avorio che sembravano un sorriso smagliante. Un semplice sgabello color notte vi stava davanti, mentre il resto era costituito solo da mura e solitudine. Una piccola finestra vicino allo strumento si affacciava su una distesa di cemento con linee tracciate con il gesso a terra, per giocare a basket.
La ragazza rimase a bocca aperta: anche se non c’era molto da vedere, fece comunque un giro su sé stessa per abbracciare tutto con lo sguardo, fino a tornare a Malcolm. Lui stava appoggiato alla porta con le chiavi in mano e un sorriso compiaciuto. La stava guardando con una certa intensa luce negli occhi, proprio laddove l’iride diventava più chiara e ipnotica.
Non volle analizzare il suo sguardo, anche perché non ne ebbe materialmente il tempo: lui chiuse la porta appoggiandola soltanto al riquadro in legno e si mise a contare i componenti del mazzo, assorto.
-Il custode ha sentito che suono, devono averglielo detto alcuni miei compagni di squadra. È vecchio e soffre d’artrite, quindi non riesce ad essere presente più di tanto… - alzò il viso, assurbendo un’aria furba -… ed è anche un appassionato di musica.
Jane, in un attimo, capì la sua presenza lì, collegandola a quelle parole. Ora il piano, la notte, il custode, persino la struttura assumevano un senso: fiducia, musica e condivisa solitudine. Era questo di cui Malcolm voleva vivere, e basta.
La ragazza si sentì onorata dall’essere ammessa in quell’attimo di pace, e rimase doppiamente sorpresa quando lo vide accomodarsi al posto del musicista e farle cenno di imitarlo. Ormai l’ora non aveva più senso, visto che le pareva di essere scivolata in un’altra dimensione, dove gli esseri umani erano soltanto una minuscola cornice di sentimenti ben più nobili.
Timorosamente, gli si accomodò accanto, tenendo una rispettosa distanza da lui, come se improvvisamente lo temesse. Lui sorrise per farla sentire a suo agio, ma ottenne solo il risultato di renderla più nervosa.
Con l’indice affusolato, accarezzò un tasto apparentemente a caso, in un gesto che doveva essergli estremamente familiare. Si vedeva che la sua passione era legata alle note e al piano, poiché appena erano stati sommati alla stessa stanza la bellezza di entrambi era a dir poco raddoppiata, tanto da rendere lui, il musicista dannto, assolutamente irresistibile.
Lei si morse il labbro: aveva avuto un’improvvisa voglia di baciarlo del tutto irrazionale, e arrossì per la propria sfacciataggine, anche se mantenuta nella sfera del proprio intimo. Non sarebbe mai riuscita a confidare a nessuno una cosa del genere, nemmeno a Sarah; era una sensazione personale, troppo profonda per essere condivisa. Non sapeva essere spigliata come certe ragazze, aveva bisogno dei suoi tempi per mettersi a suo agio.
-Ti ricordi quando barattammo una lezione di pianoforte? – chiese, assente.
Lei annuì. –Certo, con Kim.
Un lampo la fulminò. Kim. Se il ragazzo era lì con lei, per portarla in quello strano posto, l’angioletto addormentato dov’era? Dalla signora sorda oppure lasciato incustodito? Sperava nessuna delle due, ma non le veniva in mente nessuna soluzione palusibile.
La domanda doveva essere così palese sulle sue labbra che lui si affrettò a fornire una spiegazione.
-Oh, non preoccuparti, stasera è tornata mia madre.
Francesca? Come mai era a casa?
Adesso la pazzia, come la chiamava lui, assumeva un altro senso. Forse aveva avuto così tanto bisogno di evadere che persino una stramba ragazzina in piena notte era stata una scelta migliore che rimanere a casa. Non lo interpretò come un modo per usarla, anzi, lo vide come il gesto di fiducia che era. Lui si stava appoggiando così tanto a lei che quasi si sentiva lusingata, ed era del tutto intenzionata a non deluderlo.
E poi si era dimenticata che, in qualunque caso, il ritorno dei genitori era previsto lo stesso, quindi era stata solo una sua dimenticanza.
Decise di non aggiungere altro, fissando la tastiera ammiccante. Parte della sorpresa iniziale lasciava ancora i suoi strascichi, avvolgendola assieme al freddo di una stanza senza riscaldamento. Dal tasto che lui stava toccando uscì una nota, bassissima, limpida e ammaliante. Non avrebbe mai immaginato che la sua vicinanza e la penombra potessero farla rabbividire molto più dell’aria gelida che soffiava di fuori.
Si strinse nel suo cappotto, pendendo dalle sue labbra: -Questo è un “do” – le spiegò, sempre senza guardarla.
Il suo viso era completamente concentrato su quella bianca distesa immacolata. Le spalle avevano assunto la stessa identica posizione di quando, settimane prima, lo aveva visto suonare a scuola, nella vecchia area riservata al conservatorio. Le scapole fornivano il loro immobile abbraccio alle costole, e sembrava che la sua intera ossatura sentisse il bisogno di allargarsi per contenere meglio la musica. Le sue mani erano già pronte a sciogliere ogni nodo della sua anima contro l’impersonalità della notte; anche se non era chiusa a chiave, quella stanza avrebbe serbato per loro quei momenti rendendoli gli unici spettatori.
Jane, giusto per non fargli capire che stava guardando soltanto lui, posò un indice affusolato davanti a sé, producendo una nota dalla stessa intensità di quella che aveva appena suonato il ragazzo, solo che con un tono molto più grave e vibrante.
-Quello  è un “mi” – le disse, divertito. La ragazza aspettò qualche secondo, poi ne indicò un altro, facendolo emettere un rauco gemito. Puntualmente, lui rispose al suo quesito con precisione e tranquillità. Così cominciò una sorta di gioco, secondo il quale lei premeva dei punti a caso e lui la illuminava dicendole il loro nome, sempre appena dopo averli ascoltati.
Presto smise di guardare i tasti che toccava, visto che stava seguendo l’ordine con cui apparivano davanti al suo polpastrello, e si prese del tempo per fissarla. Jane era così concentrata a far suonare ogni singolo anfratto dello strumento che non si era accorta di quel minuzioso esame visivo al quale era sottoposta, decidendo di lasciar cadere lo sguardo solamente sulla sua opera. Ormai aveva memorizzato gran parte delle note che aveva toccato, e fece per dirglielo, trionfante.
Jane sollevò lo sguardo, incontrando quello di Malcolm. Non poteva sapere quanto lui l’avesse ammirata, durante il loro passatempo, e non si pose nemmeno il problema di chiedersi se quel contatto era stato involontario oppure no.
Semplicemente, rimase catturata in quel colore così meraviglioso: era una tavolozza dove trionfava l’azzurro, lo stesso del cielo d’estate. A causa dell’ombra, però, la pupilla sembrava allungarsi, fino ad incupire nettamente lo spazio attorno ai suoi confini, dipingendolo di un delicato color ghiaccio. Lampi più scuri attraversavano l’iride, facendole scorrere neve al posto del sangue nel proprio corpo. Ogni volta, guardare le sue ciglia era un brivido d’emozione, una curva netta su un’auto da corsa lanciata al massimo, fare bunging-jumping giù da un burrone con sotto acute stalattiti.
L’esperienza più spericolata e rassicurante giaceva in fondo a quello sguardo, sempre sotto forma di una fiamma celeste.
Le venne spontaneo, forse per il sonno, o forse per l’emozione, socchiudere le palpebre, fino ad avere davanti solo il ricordo di quegli occhi. In questo modo sentì ancor più chiaramente la mano grande e tiepida che si posava con delicatezza sulla sua, e un respiro accellerato quanto il proprio farsi più vicino.
I capelli scuri che tanto amava si avvicinarono così pericolosamente che poté sentirli solleticarle il viso, le guance, bagnare la sua pelle arida. Il cervello aveva totalmente smesso di funzionare, e il rombo del sangue nelle sue orecchie divenne assordante, facendole quasi prudere le mascelle, da quanto le aveva contratte.
Non volle difendersi da quel dolce assalto, semplicemente decise di lasciarsi vincere, arrendendosi spudoratamente a lui. Ecco, ne era sicura, era vicinissimo. Socchiuse gli occhi per non perdersi nemmeno un millimetro di quel viso meraviglioso, soprattutto se si trovava a quell’irrisoria distanza, però ci fu qualcosa, forse il lampo dello sguardo totalmente spianato di lui, a farla irrigidire.
Erano davvero ad un palmo l’uno dall’altro, tanto che i nasi stavano per toccarsi. Tuttavia nei loro occhi l’una lesse l’impeto dell’altro, tanto da far loro pensare realmente a cosa stava succedendo.
Malcolm aveva la mano posata sulla sua, e la spostò leggermente, sembrando recuperare razionalità. Quell’improvviso guardarsi li aveva fatti scivolare nell’imbarazzo più totale e, non sapendo bene se continuare o no, decisero che non era buona idea.
Spalancarono del tutto le palpebre: uno sgradevole senso di disagio si fece strada fra di loro risultando determinante nelle loro scelte. Si staccarono, sedendosi nuovamente composti, abbassando i visi arrossati dalla situazione. Lei non aveva il coraggio di fissarlo di nuovo, e parte del torpore stava ancora stagnando in lei, senza più essere piacevole; faticava a credere che non fosse stato soltanto un sogno. Aveva paura di svegliarsi e trovarsi sola, alla Casa, ma anche la spaventava l’idea che non ci fosse nessuno che aveva tentato di baciarla.
Baciarla…baciarla?! Era davvero quello che stava per succedere? No, sicuramente si stava sbagliando; insomma, lei era una ragazza problematica, la baby-sitter di sua sorella, mica una persona desiderabile! Non aveva mai avuto corteggiatori in passato, tantomeno ne aveva desiderati, e ora si ritrovava con il dubbio di interessare a Malcolm.
No, sicuramente era stato solo un errore, un impeto velocemente corretto. Sarebbe accaduto l’irrimediabile se fosse andato fino in fondo, ovvero si sarebbe innamorata. Avrebbe poi sofferto, perché per lui ci sarebbero state solo delusioni, e nient’altro, quindi era meglio lasciar perdere l’argomento senza neppure provare ad approfondirlo. Storia vecchia sin da allora, si disse.
-Scusami, io…non… - cominciò a farfugliare lui, ma lo interruppe con voce che non sarebbe stata nemmeno lontanamente ferma neanche dopo migliaia di anni.
-No, non…non devi scusarti. Lascia stare – concluse. Quell’episodio l’aveva gettata nello sconforto ma, fortunatamente, Malcolm tacque.
Lei ritirò le mani dalla tastiera, fissandola improvvisamente con orrore, come se potesse aggredirla da un momento all’altro. Voleva solo dimenticare al più presto quello che era successo, anche se temette che dopo quell’evento i suoi rapporti con Malcolm si sarebbero interrotti per sempre. Era un pensiero insostenibile, ma si rese conto che era meglio così.
Con uno schiocco che aveva un sapore definitivo, il ragazzo chiuse il pianoforte, che ridivenne una macchia nera attaccata al muro, come se fosse una chiazza di muffa.
-Credo sia meglio andare – disse sommessamente, per poi alzarsi. Lei lo imitò, visto che per la prima volta non aveva il minimo dubbio sul fatto che avesse ragione. Era decisamente la soluzione più saggia, non avrebbe sopportato di stare lì dentro per un solo minuto di più.
Le diede il tempo di uscire e chiuse la porta a chiave.
Poi, voltandosi, Jane quasi sperò di non fare ritorno a quel luogo.
Mai più. 

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Capitolo 16
*** Tragedy ***


QUEEN HA RAGGIUNTO UN’ILLUMINAZIONE: Scrivendo con un sottofondo musicale, mi sono accorta che questa storia può avere come colonna sonora la canzone “Coma Black” dei Marilyn Manson, almeno per la prima parte. Non prendete paura per l’autore, non è più cattivo di tanti altri. E la canzone merita ;)
Questo capitolo, vi avviso, sarà un po’ più crudo degli altri, e dopo ho aggiunto anche un asterisco che vi chiedo di non ingnorare, per favore. Non preoccupatevi per quello che accadrà, fidatevi di me, ok? :D
Kisses.
  
 
Nei giorni seguenti, Malcolm, semplicemente, scomparve.
Quando, quella stessa sera, Jane venne riaccompagnata a casa, quasi sperò non avere più nulla a che fare con lui. L’imbarazzo e l’impressione di essere stata usata la schiacciarono con tutta la loro opprimente violenza, e la consapevolezza che non sarebbe riuscita a dormire per un solo minuto divenne presto realtà.
Per tutta la mattinata seguente, a scuola non riusciva a pensare ad altro che al profumo di lui, al calore della sua mano affusolata, dei capelli sul suo viso, degli occhi color ghiaccio così vicini come quando stavano quasi per… non aveva nemmeno il coraggio di pronunciare quel verbo, né nei suoi pensieri né tantomeno a voce.
Aveva spento il cellulare e atteso che quella settimana si rivelasse interminabile, così come stava accadendo. Naturalmente il fatto che i suoi genitori dovevano essere a casa era una tortura per lui, e fu per questo che cominciò presto a preoccuparsi; nonostante tutto, sentiva di essergli vicina in quanto a pensieri e sensazioni e, anche se l’aveva gettata nella confusione più totale con il suo gesto, aveva lo stesso paura che quel periodo in famiglia gli facesse sul serio del male.
Poi pensò che com’era riuscito ad evadere nel cuore della notte, avrebbe sicuramente trovato un modo di sopravvivere durante il giorno, così si tranquillizzò. Il fatto che non avesse nemmeno provato a chiamarla prese piano piano a diventare un tassello importante, e la sensazione di essere stata vista come momentaneo svago assunse bordi pericolosamente netti nella sua testa. Anche se le risultava difficile immaginarsi un Malcolm manipolatore e spietato, aveva imparato col tempo che le persone sanno essere molto diverse da come si presentano.
La sera controllava le chiamate o i messaggi, ma nulla. Sarah, notando quanto fosse buia in quei giorni, decise saggiamente di lasciarla stare, dedicandosi a cercare di fare la persona normale e ripsettando i suoi silenzi. Era un tacito accordo fra amiche: nel momento del bisogno, ognuna delle due doveva lasciare l’altra da sola a leccarsi le ferite, fino a quando non era lei stessa a volere aiuto.
Erano due persone che pensavano allo stesso modo, anche se in contesti diversi, quindi il loro orgoglio non poteva essere ferito nemmeno con la minima offerta di aiuto. Si sarebbero sentite deboli, preferendo sopportare il dolore che cercare compassione.
Fu per questo che Jane poté cuocere nel suo brodo, crogiolandosi in mille dubbi ed incertezze. In circostanze normali, sarebbe corsa nel bagno malandato a sfogarsi, forse sbagliando totalmente approccio con le sventure, ma almeno sarebbe precipitata di nuovo nella realtà, accettando più facilmente come stavano veramente le cose.
 Come se ciò non bastasse, Kim le mancava da morire. L’idea di aver corroso i rapporti con il fratello la spaventava anche per le ripercussioni che avrebbe potuto avere sulla bambina, ma si diede della stupida; lei andava lì per fare il suo lavoro, mica per essere il surrogato di una madre. Lei si era affezionata alla bimba quasi quanto ella stessa teneva ormai a lei, e quella settimana si preannunciava doppiamente straziante, anche sotto questo punto di vista. Il terzo giorno di lontananza si sentì meschina per non aver fatto nemmeno una telefonata, ma si consolò con il pensiero che lei sarebbe stata così entusiasta della presenza dei genitori da non soffrirvi particolarmente.
Quando quella mattina l’insegnante di letteratura inglese diede l’annuncio della momentanea interruzione nei lavori di ristrutturazione, un lampo le aveva perforato il cuore. Significava non solo che l’opera di rimessa in sesto dell’edificio ci avrebbe messo più tempo, ma anche che gli operai non sarebbero stati nei paraggi per qualche tempo, forse fino a sabato, se era fortunata.
Per tutto quel pomeriggio non riuscì a scacciare quella notizia dalla sua testa. I locali non erano più pericolanti di quanto non lo fossero prima, e la mancanza di Malcolm mista ad una profonda vergogna la stavano divorando dentro. Non sarebbe successo nulla di male se, sgattaiolando lì dentro, si fosse tagliuzzata un po’, anzi; sarebbe stata meglio, e poi avrebbe smesso. Non badò al fatto che si diceva la stessa cosa ogni volta prima di ricaderci, semplicemente la trovò una buona idea.
Fu per questo che lasciò Sarah all’ingresso per percorrere la strada da sola, quel giorno. Le disse che aveva dimenticato l’astuccio in classe e si era rituffata nell’edificio per andare a recuparlo.
-Ci vediamo domani – disse, poi si sistemò i libri sottobraccio e aspettò che gli studenti uscissero in gran parte dall’ingresso, permettendole di entrare. Superò velocemente i corridoi familiari e deserti, lasciandosi alle spalle file e file di armadietti luccicanti visti ogni giorno.
Aggirò la guardiola, anche se era deserta. Alcune lezioni si tenevano nel pomeriggio, quindi le bidelle erano tutte o quasi impegnate a rendere decenti i pavimenti zeppi d’impronte infangate giusto per mantenere una certa decorosità. Come sempre passò sotto allo striscione per le prove delle cheer-leaders, ignorando le scritte rosse; Sarah ogni tanto prendeva parte agli allenamenti, ma le sue compagne non le stavano molto simpatiche a causa della loro invidia nei confronti della sua avvenenza.
Jane fece in fretta ad attraversare il prato dietro la scuola, trovandosi faccia a faccia con l’edificio tanto noto. Forse aveva sottovalutato i lavori in corso, perché le finestre erano sprangate così come le porte, e altissime impalacature di legno recintanavo ogni singolo muro. Teloni di plastica svolazzavano spinti dal vento, creando un’atmosfera lugubre all’intera zona.
Sempre più incerta, si strinse il volume di aritmetica al petto, e scavalcò senza difficoltà la piccola staccionata eretta per non intralciare i lavori. Ovviamente sapeva che alcune coppiette usavano ancora il palazzo per i loro comodi, le restava solo da capire quale entrata sfruttassero per introdurvisi.
Studiò velocemente la struttura. Sul fronte principale non ci poteva accedere grazie ad un’imponente piattaforma in legno e ferro eretta apposta per sorreggere la facciata, mentre dal lato sinistro una parte di muro era stato abbattuta crollando con un cumulo di macerie. Da un pezzo particolarmente grande di cemento sporgevano raggrinziti  artigli di metallo rugginoso, che ne componevano le fondamenta.
Rabbrividendo per il freddo, la ragazza si spostò verso destra: dove prima sorgeva l’aula di arte, al secondo piano, ora c’era solo un’immenso macchinario con un gancio penzolante qualche metro la sua testa, come se fosse una forca medievale. Decise che avrebbe del tutto ignorato ogni possibilità di entrare da lì.
Camminò in tondo per qualche attimo, ma dovette spostarsi quando sentì arrivare delle voce dietro di lei. Si acquattò dietro un albero a caso, cercando di rimanere nascosta dal tronco; sapeva di avere un fianco scoperto, ma la si poteva vedere solo se lo spettatore le avesse dato le spalle. Fu allora che la vide: un piccola porta di legno, dietro al telone, era stata scavata nel muro per dare accesso agli operai. Essendo solo una lastra non aveva una serratura, quindi con un po’ di fortuna sarebbe riuscita ad estrarla ed entrare.
Il viso le si illuminò di oscuro piacere al pensiero che avrebbe presto potuto tagliarsi, e questo la spaventò ed elettrizzò al tempo stesso. Possibile che fosse diventata così dipendente dalla lametta che aveva nella tasca dei jeans? Credeva di riuscire a smettere ma, pensando nuovamente a Malcol, si ricredette, e ricevette la spinta necessaria ad uscire dal suo nascondiglio.
Si avvicinò alla porta. Era essenzialmente un blocco di legno marcio a misura umana, posato sullo stipide. Si intravedeva il corridoio che dava sul conservatorio e, a sinistra, verso i bagni. Lo scostò velocemente con un braccio, e la superficie cedevole le lasciò il passo.
Scivolata all’interno, rimise l’asse così come l’aveva trovato, e si mise a camminare febbrilmente verso i bagni. Ovunque, negli angoli, sui muri, vicino alle stanze senza porte simili a bocche prive di denti e anche davanti ad ogni singolo stipide c’erano macchie di vernice bianca e polvere di cemento color avorio. Alcune parti erano state rovinate più di altre, e le incrostazioni sulle pareti giallo canarino risultavano ancora più evidenti di prima, con le loro bolle di stucco gonfie d’aria e porzioni di muro completamente denudato.
Jane doveva ammettere che era uno spettacolo desolante. Anche se non aveva mai visto l’edificio nel pieno del suo splendore doveva ammettere che lo preferiva prima, quando non era un posto rattoppato come se fosse stato ferito; così dava un senso di abbandono, soprattutto quando i primi attrezzi ammonticchiati negli angoli cominciarono a fare la loro comparsa. Forse nel timore che potessero essere rubati erano stati lasciati indietro solo alcuni fra i più miseri, come dame che aspettano il ritorno dei loro amati.
Si affrettò a fare quello che doveva, orientandosi a fatica nella struttura. Le scale erano state del tutto abbattute, e sostitute con qualcosa di posticcio in plastica blu. Pochi pioli sgangherati e un po’ di schoch erano più che sufficienti a fare da tramite fra i due piani.
Dopo qualche minuto di ricerca, scoprì che i bagni non erano stati devastati come il resto della struttura. Come unico cambiamento si notava l’assenza dei water, ma di questo non poteva che gioire, visto che erano la cosa più sporca che avesse mai visto. Al loro posto erano rimaste le vuote cavità dei tubi, in  attesa di essere a loro volta sostituite.
Tutta la stanza puzzava di stucco fresco, rendendo l’aria quasi irrespirabile; si tappò naso e bocca con una mano e si arrischiò addirittura a sedersi nel solito posto, riuscendo a stare comoda con le gambe finalmente libere dell’intralcio del gabinetto.
-Ti sono mancata? – sussurrò alla stanza, come se le pareti potessero davvero sentirla. Tirò freneticamente fuori dalla tasca la sua lametta vecchia e leggermente scheggiata, e la osservò per la prima, vera volta.
Era un minuscolo rettangolo allungato, più o meno grande come il suo pollice. Al centro c’era una fessura sottile, che si estendeva quasi per tutta la forma della lama, tagliente ai lati. Quel disegno vuoto le aveva sempre ricordato una nota musicale, anche se non aveva niente a che fare. Riguardandola meglio si accorse che sembrano due parentesi graffe messe vicine come a formare una linea chiusa, ma era sicuramente una sua impressione.
Trattendendo l’oggetto fra il pollice e l’indice, tirò su la propria manica sul braccio sinistro, il più facile da colpire. Tutte le strisce allungate dei suoi peccati tornarono a sorriderle, anche se molto più pallide rispetto al solito. Sotto alle più fresce ( e meno marcate) si potevano notare delle ombre scure, che ne seguivano più o meno la forma affusolata; erano i fantasmi del suo passato, che le facevano costantemente visita.
Era un vero peccato, perché stava quasi guarendo. Presto avrebbe dovuto arrendersi a lasciar passare le cicatrici in vista del caldo, ma era sicura che non ci sarebbe mai riuscita del tutto, come succedeva ogni anno. I segni le avrebbero sempre fatto una macabra compagnia, doveva arrendersi all’evidenza.
Il suo respiro divenne improvvisamente più affanoso, come sempre quando si guardava le braccia. Solo che, in quell’ambiente dilatato dai colpi di martello, il suono risultò doppiamente angosciato e amplificato, come quello di un animale in trappola. Perché era questo che Jane era sempre stata, una specie rara che viene cacciata e cercata, ferita e lasciata a morire da qualche parte.
La sua solitudine devastante era così nociva alla sua salute proprio perché era autoimposta; non erano le persone il problema, era lei. Si ostinava a non voler risolvere le cose, a non prendere in mano la sua vita, a cercare sempre la felicità laddove non l’avrebbe mai trovata.
Le venne persino il sospetto di non voler essere felice, visto i risultati che aveva avuto in tutte quelle frenetiche ricerche nell’io interiore. Tutto marcio, tutto da buttare. Un frutto troppo maturo che, cadendo al suolo, esplode, facendo insudiciare la terra con la sua polpa puzzolente e immonda.
Inoltre la sua pelle nuda, in quell’istante, prese a bruciare. Ormai era il suo corpo stesso ad incitarla nel suo grottesco rituale, perché si era accorto prima di lei di esserne schiavo. Nemmeno aveva tentato di ribellarsi, aveva semplicemente ceduto all’evidenza delle cose. Era lei a modellarsi al mondo, senza cercare di fare il contrario.
Un essere così infelice, così deviato, poteva davvero dirsi umano? Jane era solo capace di rovinare le cose, e non aveva mai creato nulla di suo, di puro; non era in grado, dal momento che le sue mani avrebbero macchiato tutto quanto.
Fu così che arrivò alla soluzione che stava accarezzando da anni, ormai. Era senza senso strofinarsi contro un bagno ruvido per trovare la pace, anche scavalcando recinzioni e cartelli di proibizione. Il suo bisogno si faceva sempre così forte da impedirle di pensare lucidamente, come una tossica. Era dipendente dal proprio sangue, una persona malata.
Solo che nessuno avrebbe potuto curarla, ne era sicura: era assolutamente cosciente di quello che faceva, e avrebbe finito per fare del male a tutti. A Sarah, a Kim, oh Kim!, e anche a Malcolm. O meglio, lui era riuscito a scappare in fretta, forse interpretando segnali che le altre persone non sapevano cogliere. Forse, vista da più vicino di poteva scorgere meglio il suo marciume e venirne disgustati; si, doveva essere andata proprio così, se lo sentiva.
Da un lato era meglio, perché quello che stava per fare avrebbe rovinato lo stesso ogni singolo sforzo che lui avrebbe fatto nei suoi confronti. Poggiò la lametta fredda lungo la sua carne, ma ebbe una sensazione del tutto diversa, questa volta.
Il suo respiro era diventato così normale da non poter indovinare che stesse piangendo lacrime amare. I suoi occhi non erano affatto annebiati, e riuscivano a vedere nuove verità ovunque. La sua mano aveva finalmente smesso di tremare. Nel suo cuore tutto aveva preso il proprio ordine, anche se aveva rischiato di farla morire soffocata.
-Sono io la sola e unica responsabile della mia morte – disse, con voce chiara e sicura. Mai aveva usato un tono tanto preciso e limpido. Era davvero destino; affidò quella verità alle pareti, e lasciò loro il compito di custodirla a chiunque l’avesse trovata.
Quasi le parve di immaginare il proprio corpo gettato in una fossa, bianco e freddo, immobile, assieme a centinaia d’altri. “Per una vita e una morte anonima” le avrebbero scritto addosso, cucito con un filo nero sulla sua pancia. Non seppe perché, ma si sentì estremamente sola, e per la prima volta questa non fu nemmeno la sensazione peggiore.
Premette.
Premette.
Affondò.
Si spinse oltre confini che non aveva mai valutato di sfiorare, e si sentì squarciata a e guarita.* Nulla avrebbe mai più potuto farle del male, nemmeno sé stessa, perché stava fuggendo. Solo che non era la solita fuga, la nota e vecchia impotenza, ma un momento dove prese finalmente in mano il suo destino e ne faceva il posto che desiderava.
Non fermò il proprio braccio, neanche se il dolore era il più terribile che avesse mai provato, ma avanzò fino a valicare persino sé stessa.
Rivide nella sua mente la Jane bambina, con un bel sorriso e un’espressione felice. Il suo cappotto rosso tagliava l’aria color carne, oppure era sangue? No, da piccola non era mai stata ferita, nemmeno per sbaglio. Vicino a lei una donna, sottile e sempre più evanescente; non sapeva perché aveva deciso di rievocare quell’immagine, ma forse voleva vedere Rose un’ultima volta.
Certo, perché sua madre le sarebbe sempre mancata, sempre. Non sarebbe mai riuscita a guarire dalla sua assenza quasi quanto da non si sarebbe mai rimessa da quello squarcio, ne era certa.
Non seppe quando non poté più avanzare, ma aspettò che la mano diventasse molle e sfuggisse al suo controllo. Mentre rivedeva il viso di suo padre, le parve di sentire una bellissima melodia, come non ne aveva mai ascoltate prima. O meglio, la conosceva, ma era come se fosse la prima volta che le sue orecchie arrivavano a percepirla in tutta la sua bellezza.
Perché staccarsi da quell’uomo faceva così male? Perché il fatto che quelle due strane sagome stessero sparendo le lasciava un così terribile vuoto dentro?
Non vide luci, non vide corridoi che portavano verso le nuvole. Rivide solamente il suo viso, triste e bagnato di lacrime, ma anche quello scoparve presto, lasciando il posto a scossoni violenti sulle sue spalle. Terremoti che, per quanto forti, non riuscivano ad essere avvertiti da lei se non come piccoli cerchi concentrici sulla superficie di un lago.
-Jane! Jane! Svegliati, Jane! – gridava qualcuno, ma lei lo sentiva sempre più piano, fino a quando non smise di ascoltarlo.
L’unica cosa che le rimase impressa anche prima di chiudere le palpebre fu un’immensa distesa di ghiaccio senza confini, senza limiti, di un colore così strano che si domandò a quale luogo appartenesse. Erano difficili da guardare a causa di un immenso dolore che vi stagnava nei meandri, come quelli di un fondale marino, però ne rimase incredibilmente ipnotizzata.
Avrebbe continuato a fissarli, ma le rimaneva poco tempo. Un peccato, però.
Non ebbe occasione di pensare altro; infatti, svenne.
 
 
*Attenzione, ragazze. L’asterisco che ho messo prima, quando Jane comincia ad esaltare quello che fa, è un indice che serve a farvi capire che non è una cosa da imitare o da intraprendere. È una ragazza che soffre e cerca conforto nella medicina sbagliata; spero che leggendo vi siate accorte di quanto stupido sia il suo modo di reagire.
Io appoggerò sempre le persone in grado di andare avanti, e con questo capitolo lancio un’appello; la mia è solo una stupida storia, ma spero veramente di cuore che chiunque si immedesimi in Jane trovi la forza di reagire. Ragazze, siete tutte delle persone splendide. Non buttatevi via. 

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Capitolo 17
*** Wake up, lady ***


Jane non seppe dire come si sentì quando, lentamente, le sue palpebre cominciarono a schiudersi.
Pesante, forse. La sensazione di essere stata riempita di sassi come il lupo della celebre favola la lasciava atterrita, tanto da impedirle qualsiasi movimento. Non sentiva nessun peso sopra al suo corpo, quella sensazione di essere inchiodata al suolo faceva male, era vero, ma si trattava soltanto di un fatto nella sua testa.
Il braccio sinistro le doleva tantissimo. Il braccio del cuore, non si diceva forse così? Il ramo della vita; stava bruciando come se qualcuno l’avesse cosparso di benzina e gli avesse dato fuoco, poggiando più volte il crudele fiammifero sulla pelle per essere sicuro che si scaldasse per bene.
Il resto del corpo, però, le parve quasi rilassato: si rese conto di essere seduta contro qualcosa di duro, avvolta dal tepore rassicurante di un corpo umano. Da qualche parte, c’era una musica delicatissima che riempiva l’aria. Era morta, forse?
No, non poteva essere. Nonostante avesse ricordato gli eventi di quel pomeriggio fino al drammatico culmine del suo dolore non aveva l’impressione di essere ormai defunta, come se fosse stato scritto nel suo DNA un modo per riconoscerne i sintomi; lei si era sempre immaginata il sonno eterno come un’immensa distesa buia, infinita, e non una così piacevole sensazione di pace.
Cercò di muovere il braccio, ma non ci riuscì, e la pesantezza era in parte responsabile. Temette quasi di aver lesionato il muscolo, di aver reciso qualche nervo ma, se fosse stato così, sarebbe stata in un ospedale. Infatti trovava improbabile che nella struttura non sentisse odore di calcestruzzo e vernice fresca.
Ricordava quando, da bambina, aveva avuto una brutta febbre; sua madre l’aveva subito portata all’ospedale più vicino, ed era stata ricoverata lì per quasi quattro giorni. I letti erano scomodi, le lenzuola sembravano fatte di carta, l’aria puzzava di medicinale, le pareti erano spoglie e i visi tutti sciupati, tutti uguali. Non c’era un rilassante silenzio intervallato da note leggere eppure ammalianti, niente di tutto ciò.
Quindi si arrese, e smise di tentare. Non aveva la più pallida idea di dove fosse finita, né perché la testa non le dolesse e tutto, in lei, sembrava normale. A parte l’avambraccio destro, ovviamente. Muovendolo ancora, si rese conto che era stato fasciato, infatti delle bende fresche le stavano solleticando la pelle.
Aprì piano la bocca: le labbra parevano incollate fra loro, e aveva la gola secca. Non sapeva cosa avrebbe detto, perché nella sua mente era ancora tutto confuso. Anche aprendo gli occhi vide solamente una porzione di soffitto – immaginò fosse tale – riempire tutta la sua visuale con un bianco accecante, anche se innaturale. Erano le sue iridi annacquate, forse, a distorcere la realtà.
Un gemito solo uscì dalla sua bocca, accompagnato da una smorfia di disappunto. Non riusciva a mettere insieme i pezzi della situazione e creare qualcosa di sensato, perché si sentiva ancora troppo intorpidita per poterlo fare.
-Jane? Sei sveglia? – chiese una voce profonda vicino a lei. La conosceva, era sicura di averla già sentita prima; ascoltarla nuovamente la riempì di gioia e paura.
-Malcolm? – gracchiò. Un brivido la scosse dalla testa ai piedi. Ora, se davvero si trattava di lui, il suo più grande e immondo segreto sarebbe stato finalmente sviscerato, e tutti i loro progressi insieme sarebbero stati del tutto vani. Sapendo che lei era arrivata ad un tale livello di autolesionismo, sicuramente non si sarebbe mai più fidato a lasciarle in custodia la sorella, in quanto una bambina così piccola non potrà mai stare con una ragazza che ha tentato, piuttosto palesemente, di togliersi la vita. Forse c’era la piccola speranza che lui avrebbe potuto capirla, ma avrebbe dovuto rinunciare al suo posto lo stesso: magari non lui, ma i suoi genitori non avrebbero mai permesso una presenza del genere di fianco alla piccola Kim.
-Sì – rispose il ragazzo. Il suo tono era così tagliente che le fece male, di nuovo, e il braccio prese a dolere più forte di prima. Solo che in quel momento la voglia di tagliarsi era davvero poca.
Non ci fu bisogno di aggiungere nient’altro e, a conti fatti, Jane non ne sarebbe stata in grado. Quella freddezza era comprensibile, in fondo lei gli aveva taciuto cose fondamentali, ma non riusciva ancora a capire cosa il ragazzo ci facesse lì, ovunque quel luogo si trovasse. Chi le aveva fatto le fasciature? Chi le aveva salvato la vita?
Avrebbe tanto voluto rispondersi, ma non ne era in grado. Mano a mano che la ragione tornava, riprendeva il possesso delle varie parti del suo corpo. Le sue gambe erano parzialmente stese sul pavimento, rannicchiate anche contro il suo petto. Le parve di averne migliaia da gestire, quando in realtà erano sempre e solo le solite due; la testa era appoggiata al petto di qualcuno, come il busto. Il lieve alternarsi di un respiro leggero l’aveva cullata fino a quando non aveva riacquistato conoscenza.
Chiuse gli occhi per un breve momento, assaporando a fondo quel profumo meraviglioso: Malcolm. Era lui, non c’erano dubbi. Era il ragazzo che ora la stava tenendo stretta, come se avesse paura che stesse per sfuggirgli da un momento all’altro; non sapeva che non si sarebbe mai mossa da lì, per nulla al mondo.
-Cos’è successo? – sussurrò piano. La stoffa della maglietta rese la sua voce ancor più flebile di quello che era e, per un attimo, temette che lui non avesse sentito ciò che gli aveva chiesto. Lo sentì sospirare, facendo sciogliere ogni dubbio circa la sua freddezza di prima: in realtà era stato solo terribilmente preoccupato per lei, e questo l’aveva fatto reagire in modo più duro di quanto volesse.
La ragazza, protetta e a sicuro, ascoltò attentamente ogni singolo battito del suo cuore. Lo sterno era ben delineato sotto alla sua guancia, e non avrebbe desiderato altro che avere lo stampo di quell’osso inciso per sempre appena sotto all’occhio, come per avere una prova tangibile di essere davvero lì, con lui.
-Dal principio? – chiese Malcolm, sullo stesso tono. Jane annuì e basta.
-Allora…oggi non ci sarei stato per tutto il giorno; avevo gli allenamenti questo pomeriggio ed era in programma che tornassi tardi, così i miei sono andati all’asilo con Kim per una roba organizzata assieme ai genitori.
Jane ascoltava come una bambina, attenta ad ogni singola parola.
-Dalla finestra dello spogliatoio ti ho visto andare dentro alla scuola vecchia, e mi sono chiesto perché. Non volevo pedinarti, però pensavo che in qualche modo l’acesso fosse tornato agibile e avevo una voglia pazzesca di mettermi a suonare.
La ragazza sorrise fra sé e sé ascoltando quelle parole, ma si preparò già alla seconda parte del discorso che avrebbe pronunciato.
-Ti ho seguito, e più lo facevo più mi accorgevo che quello che stavi per fare non sarebbe stato del tutto legale. Per un attimo ho pensato che avresti fumato qualcosa di forte, tipo marijuana o roba così ma, Dio, nessuno mi aveva preparato per una cosa del genere.
Lo disse con un tono così straziante che per la prima, vera volta Jane si rese pienamente conto di quello che aveva fatto, e continuato a fare. Con quei tagli, incideva anche la vita di coloro che li avrebbero visti. Sarah, la sua migliore amica, li avrebbe interpretati come un’incapacità personale di aiutarla quand’era infelice; se non si era mai accorta di nulla, magari si sarebbe sentita responsabile di quel dolore. Malcolm, invece, era solo colui che si era preoccupato di una salute che lei rovinava volontariamente. Non avrebbe mai saputo immaginare lo stato pietoso in cui l’avrebbe trovata: in un lago di sangue, sporca, ferita, in lacrime e disperata, un fagotto di essere umano causa di tutte le colpe che la schiacciavano.
Certo, il lutto era stato parte integrante di quel deperimento interiore, ma poteva benissimo dire diu averlo superato da un po’. Ormai si era arresa all’evidenza che i suoi genitori non sarebbero mai più tornati a casa, e aveva fatto pace con i loro spiriti; non l’avevano abbandonata di proposito, e smise di accusarli di cose che non avevano fatto.
Restava un solo confronto, che la spaventava a morte: Damon e Rose come avrebbero reagito di fronte a certe cose? Cosa avrebbero potuto dire davanti allo scempio che lei aveva sistematicamente attuato sulle sue stesse braccia? Le stesse che usava per abbracciare Kim. Le stesse che la aiutavano nella pittura. Le stesse che copriva con maniche e maglioni. Le stesse che erano state la tela dove, in tenera età, disegnava tutti i fiori che vedeva nel campo vicino a casa sua.
Colpirle era stato un ferire anche il passato. E si rese conto che, finchè avrebbe continuato a farlo, non sarebbe mai stata in grado di guardare al presente, di ottenere dei successi, di andare avanti. Il suo unico desiderio era quello di poter finalmente voltare pagina, ma per farlo aveva bisogno di smettere. In fretta.
Malcolm continuò. Si sentiva chiaramente che era scosso, molto più di quando aveva iniziato, e le teneva le mani strette sulla schiena per evitarle di fuggire, o sincerarsi che stesse bene.
-Eri…insanguinata. Non ho pensato a niente, sono entrato e ho cominciato a pulirti con la carta che c’era lì, ma non bastava. Niente sembrava funzionare, Jane, e ho avuto paura di averti persa per sempre.
La ragazza lì rannicchiata avrebbe voluto urlare. Avrebbe voluto piangere o sfondarsi le orecchie a suon di musica a tutto volume. Avrebbe voluto ridere, oppure disperarsi, ma anche tutt’e due nello stesso momento. Avrebbe voluto sfiorargli il viso e sussargli che andava tutto bene. Avrebbe volto accarezzargli i capelli per ore e ore, fino a quando non si sarebbe addormentato. Avrebbe fatto di tutto per fargli capire quanto davvero avesse amato quel suo gesto, e quanto lo ritenesse importante, fondamentale.
Non esistevano parole per dire cosa sentisse veramente nei suoi confronti, e la gratitudine era solo uno di quei termini, e neppure troppo azzeccato. Lasciò che le proprie braccia ferite scivolassero lungo i suoi fianchi dritti e lo avvolgessero, come una cintura. Fece sprofondare il viso ancora più affondo nei suoi abiti, in lui, e sentì come una scossa, un brivido fatto di dolcezza, quando il battito del cuore del ragazzo rallentò il suo pulsare frenetico.
La voce che si era incrinata venne ridistesa da un sospiro lievissimo, un soffio, e lei sentì che con quel misero gesto era riuscita fargli capire davvero quante cose la legassero a lui, una persona speciale e unica. Ovviamente era solo una minima parte di ciò che avrebbe potuto fare, ma si ripromise di sdebitarsi per tutto quanto ciò che le aveva offerto.
-Sai, è stato in quel momento che è successo un miracolo. Io ti chiamavo e ti scuotevo, ma sembrava davvero che fossi morta. Ho avuto paura, non lo nego. Ed è stato allora che apparve la persona meno simile ad una divinità che io abbia mai visto: Barnowsky.
Jane drizzò la testa di scatto, collegando subito quel nome ad un viso più che familiare, contornandolo immediatamente con una zazzera arruffata di capelli grigi e una camicia azzurra troppo tesa sul ventre. Quell’uomo era stato colui che aveva tenuto per molti più anni di quelli che aveva sempre vissuto le lezioni di arte nell’ala nord dell’edificio cadente, senza mai ricevere aumenti o promozioni.
Era lo stesso che l’assecondava quando doveva dipingere e si sedeva su uno sgabello quando stava aspettando di far asciugare il colore, fingendo di leggere qualche articolo su una rivista per dissimulare la curiosità. Sapeva per certo che, una volta uscita dall’aula, la tela veniva esposta e ammirata.
-Il mio professore di arte? – chiese attonita. Le viscere le si compressero al pensiero che persino lui avesse visto quello spettacolo e la frenesia dettata dalla paura rischiò di sconvolgerla, soprattutto pensando alla futura e possibile presenza di Sophie, però Malcolm la rassicurò con un bacio leggerissimo sulla testa, rispedendola nel suo nido fatto di ossa, muscoli, pelle e stoffa.
-Stai tranquilla, non agitarti – sussurrò con dolcezza. Tanto bastò a fermare qualsiasi insurrezione da parte sua, facendola acquietare all’istante. –Appena mi ha visto mi ha detto di spostarmi; ha preso in mano la situazione usando la poca acqua che usciva dal lavandino e una manciata di pezzi di carta igenica. Ha coperto tutto quanto, mi ha aiutato a rivestirti e mi ha chiesto se ci fosse un posto dove portarti per fare una bella fasciatura. Io non volevo assolutamente portarti in ospedale, e nemmeno lui, così il primo luogo a cui pensai è stato casa mia. È stato grazie a Barnowsky se adesso posso dirti queste cose, sai?
Jane si sentiva immersa in un mare popolato dai dubbi, a partire da quella figura apparentemente marginale che ora assumeva un ruolo totalmente diverso. Non era mai stata abituata ai cambiamenti e nella sua vita ce n’erano stati fin troppi, cosa portava quell’uomo a preoccuparsi così tanto per lei?
-Gli ho chiesto se voleva restare ma, una volta assicuratosi che stavi bene, se ne andato. Ha detto di aver avuto un impegno urgente e, se devo essere onesto, credo che questa cosa l’abbia sconvolto più di quanto mi abbia voluto far vedere. Alla fine non si capiva più, è stato comprensibile che volesse tornare a casa.
-E tu? – chiese piano lei, alzando appena la testa. L’espressione interrogativa di Malcolm la spinse ad appoggiare un indice sulla linea netta del suo zigomo, in un movimento che l’aveva sempre tentata moltissimo.
-Io cosa? – sussurrò di rimando. La stava fissando dritto negli occhi ma, per la prima volta, lei non temeva che lui la guardasse, anzi, era lieta se lo faceva.
-Vorresti andartene? – domandò. Aveva bisogno di saperlo; ormai si sentiva un po’ più in forze, ce l’avrebbe fatta a tornare alla Casa senza fornire spiegazioni. In ogni caso non ci sarebbe stato bisogno di darne, ma trovarsi lì fra le sue braccia rischiava di diventare una cosa gradita soltanto a lei, ed era un  pericolo che stava scongiurando con tutta sé stessa. Ammettere di amare Malcolm, dopo quel momento, divenne più facile. Quello che aveva fatto per lei valeva sicuramente di più di una passeggiata fino alla Casa.
Un angolo delle sue labbra perfette si sollevò in un sorriso inequivocabile. –Mai.
Per Jane, annullare la distanza fra quel viso e la possibilità di essere felice equivalse allo scorrere della primavera. I fiori sbocciarono, appassirono e rinacquero ancor più splendidi di prima, un vento le scompigliava morbidamente i capelli, e la brezza sottile di una promessa estiva rideva fra le sue costole, facendo venire voglia anche a lei di sorridere.
Per Malcolm, abbassarsi e baciare finalmente quella bocca a lungo desiderata significò vedere il tempo scorrere all’inverso davanti alle palpebre chiuse, dall’istante in cui le aveva parlato per la prima volta a quello di adesso, in cui era viva e vegeta contro il suo petto e gli stava accarezzando una guancia.
Fiati, vite, sentimenti, emozioni, labbra: fusero tutto quanto. Quelle di lui erano vellutate e fresche, come se fossero anch’esse una delle tante piante che aveva visto fiorire in pochi attimi. La sua bellezza tanto devastante si fuse in un movimento di solo e incontrastato rispetto reciproco; Malcolm non lasciava scivolare le mani più in basso del dovuto, non lasciava che la sua lingua premesse per esigere un altro tributo, non permise che le gambe si attorcigliassero e dessero vita alle sue pulsioni; si limitò ad appoggiare solamente la bocca alla sua, con leggerezza e dolcezza, lasciando che fosse lei a decidere fino a che punto arrivare.
Quando si staccarono per non andare oltre, si sorrisero. Era la cosa più sincera che Jane avesse mai donato, persino più della tristezza e del dolore.      
Si riappoggiò al suo petto: ormai, quel calore era tutto suo. Suo e di nessun’altro, e avrebbe fatto in modo che così sarebbe stato per sempre, e anche di più. Questa volta era decisa a trionfare su sé stessa invece che lasciarsi dominare dalla terribile e schiacciante depressione dilagante, di cui era stata succube per troppo tempo.
Una manica le scivolò a coprire le bende sull’avambraccio destro. Era blu e decisamente troppo grande. Se la portò agli occhi, esaminandola interrogativamente.
-Oh, è mia – spiegò il ragazzo, sopra alla sua testa. Le accarezzò piano la schiena, evidenziando quanto i suoi vestiti le stessero larghi. –La tua era completamente sporca, non mi piaceva l’idea di lasciartela addosso…non dopo che Barnowsky l’ha usata per pulire tutto.
Non poté evitarlo: Jane si mise a ridacchiare. Anche se era successo una cosa tragica e aveva perso una felpa, la cui assenza sarebbe stata difficilmente giustificabile, si sentiva così leggera che, se non fosse tenuta a lui, aveva l’impressione che avrebbe cominciato a volare. Il sapore di Malcolm era ancora lì, sulle sue labbra, e quel posto era perfetto.
Si scambiarono qualche battuta affettuosa e anche qualche altra carezza, ma non se la sentirono di ironizzare troppo. Persero la cognizione del tempo e, quando lui le sussurrò all’orecchio di riposarsi, per Jane non ci fu più nulla di naturale al mondo che chiudere gli occhi e addormentarsi.
Questa volta, serenamente.  

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Capitolo 18
*** Feelings ***


Per la seconda volta in un solo giorno, Jane si svegliò avvolta dal tepore di un corpo stretto al suo. Mentre recuperava la ragione, sorrise: Malcolm non se ne era andato, anzi, quando si spostò aprì piano gli occhi anche lui, e le sorrise.
Fu un attimo solo, in effetti, ma le venne più che naturale rispondere con lo stesso identico gesto, e lasciarsi abbracciare ancora, assonnata. Sentiva le gambe anchilosate, ma non si sarebbe mai mossa da lì, per niente al mondo.
-Che ore sono? – mormorò, passandosi stancamente una mano sul viso. La manica blu e morbida della felpa di Malcolm scivolava ben oltre il polso, facendola sentire piccola come una bambina.
-Quasi le cinque – rispose; fece scorrere una mano sulla sua schiena, scaldandola e rincuorandola allo stesso tempo. Il bruciore all’avambraccio sinistro si era del tutto fermato, ma non ebbe il coraggio di scostare le fibre dell’indumento per controllare che le bende non fossero sporche di sangue, non era pronta.
L’avrebbe fatto alla Casa, nella sicurezza della sua camera, lontana dalla dolcezza del ragazzo e dai sensi di colpa che il suo salvataggio le aveva provocato nel petto.
-Senti – disse lui, all’improvviso, - non mi piace l’idea di farti rimanere lì dentro da sola.
Si stava certamente riferendo alla sua stanza minuscola alla Casa, con una sola finestra, un letto singolo e un armadio che rubava tutto lo spazio disponibile. Anche se le piaceva perché poteva avere la propria privacy, doveva ammettere che delle volte era davvero claustrofobica.
Continuò con quella che sembrava una proposta: -Quindi ho pensato di…non so, fare qualcosa di diverso. Che ne dici?
Jane sistemò meglio la guancia sul suo petto, riflettendo su ciò che le stava chiedendo. Ora sapeva di avere un impegno sentimentale con lui, e questo la spaventava; a parte la paura di deluderlo, perfettamente comprensibile visto il suo stato, temeva che avrebbe dovuto dedicarvisi troppo, o che avrebbe finito per stancarsi della sua compagnia.
Non voleva incatenarsi ad una persona perché non era capace, ma sentiva il disperato bisogno di averlo accanto in qualsiasi momento. Per lei quella non era una semplice cotta adolescenziale, e nemmeno un banale colpo di fulmine, bensì la consapevolezza di aver trovato qualcuno con cui condividere qualsiasi cosa, di ogni natura. Non aveva commentato le sue cicatrici, non le aveva intimato di non farlo mai più, non si era messo ad accusarla né tantomeno l’aveva abbandonata: si era assicurato che stesse bene, le aveva dato addirittura i propri vestiti e non la stava buttando via nemmeno in quel momento.
Si rendeva conto che forse era prematuro passare subito una serata insieme, ma ne aveva disperatamente bisogno. Bramava la sua compagnia, aveva bisogno di sapere che qualcuno teneva alla sua salute.
-Ci sto – disse piano, sprofondando ancora di più nella sua maglietta. Mai un’ossatura le era parsa tanto accogliente.
Anche se non poteva vederlo in viso, era sicura che stesse sorridendo, lo sentiva. Lo conosceva molto più di quello che avrebbe mai potuto immaginare, e si era stupita di lei stessa quando aveva indovinato, in passato, alcune sue reazioni o comportamenti.
All’improvviso, però, le sorse una domanda: -E i tuoi?
Stavolta fu certa del suo sorriso, perché potè chiaramente sentirlo dal tono della voce: -In teoria oggi avrei dovuto avere gli allenamenti fino alle sei, ma posso benissimo dire di dovermi trattenere di più; a loro non importa quando rientro, l’importante è che io sia in condizioni decenti. E poi, anche se fingessimo di essere un’allegra famigliola, non inganneremmo nemmeno noi stessi.
Queste parole le fecero tornare in mente la Casa. In fondo, nessuno di loro aveva qualcosa in comune con l’altro, e non si sforzavano di appianare le differenze; tutti quanti la frequentavano perché sancito dal tribunale o dagli assistenti sociali, ed era comunque un posto che offriva un tetto e del cibo gratuito. Gli assistenti, per quanto volenterosi, non controllavano mai tutti i ragazzi, anche perché alcuni tendevano a diventare violenti se prede di troppe costrizioni, così lasciavano correre un sacco di cose.
A Jane faceva comodo, anche se era la prima ad ammettere che non era un buon sistema di gestire le cose. Spesso aveva bisogno di prendere un po’ d’aria, e in estate usciva anche molto tardi, senza che nessuno la fermasse. Il massimo era che, dopo tre ore, un assistente cercava il ragazzo sul cellulare oppure al recapito che aveva lasciato, e se sentiva che era tutto a posto allungava il permesso d’uscita di qualche altra ora. Se invece la persona non rispondeva, allora si andava a cercarla; quando si progettava di stare via anche per una nottata intera, allora lì bisognava avvertire, ma per il resto erano lasciati liberi.
Ovviamente questa libertà di movimento era dettata solo dal disinteresse completo che albergava nella struttura. Tutti rispettavano le regole e cercavano di convivere civilmente, ma nessuno se la sentiva di passare lì dentro più tempo del dovuto. I pasti comuni erano un fallimento, perché c’erano ben pochi partecipanti che evitavano di trovarsi lì agli stessi orari, così come le attività ricreative erano spente e poco frequentate. Lei, pur di sfuggirvi, aveva seguito corsi extra a scuola, entrando nella struttura in cui aveva rischiato di morire. Gli unici momenti in cui tutti erano nello stesso posto, quindi, era quando si trovavano in fila per l’assistenza psicologica, ma neanche lì nessuno diceva granchè.
Ed era una cosa davvero molto, troppo triste.
Fu per questo che decise di non commentare, chiedendogli solo di passare prima per la propria stanza a cambiarsi. Com’era prevedibile, Malcolm acconsentì, l’aiutò ad imbaccucarsi nel proprio cappotto e la accompagnò verso la Casa, in una delle loro piacevoli passeggiate silenziose.
William e Francesca erano sicuramente due bravissime persone. Lei era una donna materna, solare e allegra, ma come il marito aveva commesso l’errore di portare avanti la carriera rispetto a tutto. Entro una ventina d’anni si sarebbero trovati entrambi in pensione, oppure delegati a compiti maggiormente sedentari, e a quel punto i loro figli sarebbero stati del tutto degli estranei.
Malcolm avrebbe avuto quasi quarant’anni: famiglia, lavoro, casa…sicuramente sarebbe fuggito da quella città, magari senza neppure avvisare. Kim, invece, avrebbe appena finito gli studi, magari con una laurea, e si sarebbe spostata per trovare un ruolo soddisfacente alle sue ambizioni, dimenticandosi totalmente di due figure che non aveva mai visto durante tutta la sua infanzia. Perché, se continuavano di questo passo, l’entusiasmo della bambina sarebbe sparito presto, vedendo che le sue ombre di riferimento rimanevano invece in disparte; le sarebbe stato immensamente più facile fare affidamento solo sul fratello, ed era quello che rischiava si accadere.
I due coniugi si sarebbero accorti troppo tardi di ciò che avevano causato, ma il pentimento non avrebbe certo cambiato le cose. Francesca era l’unica fra i due che si fosse resa conto del pericolo che correvano, ma ormai non era più capace di risolvere la situazione. E Jane pensava che lo stesso valesse per il marito.
Decise di non pensarci e, in un gesto naturale, prese la mano del ragazzo e se la infilò in tasca, stringendola forte.
Lui alzò un sopracciglio: -Rapimento?
-Mio – confermò lei, senza guardarlo. Poi gli si avvicinò e gli permise darle un bacio discreto sulla guancia, scaldandole tutto il viso. In lontananza di vedeva già la figura del palazzo, simile per certi versi ad un enorme condominio, con un giardino modesto e una cancellata del tutto inutile, visto che non copriva i lati.
Rimasero a guardarla in silenzio, avvicinandosi piano. Nessuno dei due aveva voglia di entrare, ma fuori faceva freddo e non avevano nemmeno posto in mente; Malcolm era serio quando aveva fatto la sua proposta, ma Jane era sicura che non avesse riflettuto nemmeno per un istante sulla meta da raggiungere.
Dovette alzare la testa per guardarlo negli occhi, incredibili pozzi di ghiaccio. –Vuoi salire un attimo? Così magari pensiamo a dove andare.
Lo vide arrossire leggermente. –Io ci sto, ma…si può fare?
Jane ridacchiò. Forse si era fatto l’idea sbagliata del posto in cui viveva; solo l’anno prima una ragazza era stata arrestata per prostituzione il giorno del suo diciottesimo compleanno, e ogni suo cliente passava per la porta d’ingresso ogni sera, si levava il capello e salutava affabilmente i presenti.
E poi non dovevano fare mica nulla di male, in fondo avevano scoperto quello che l’uno provava per l’altra solo da poche ore. E, anche se non lo disse, Jane aveva l’impressione che per sentirsi pronta riguardo a certi argomenti avrebbe dovuto aspettare un bel po’.
-Se vuoi ti potrei anche restituire la mano, ma sappi che tasche calde come le mie non ce ne sono da nessun’altra parte.
-Davvero? – chiese divertito.
-Davvero. Lì dentro lo sanno tutti che questa stretta è solo un atto di carità, quindi non preoccuparti, ok?
-Ok – confermò sorridendole, e stava quasi per chinarsi a baciarla, prima di capire che non era una buona idea. O meglio, Jane non aveva nulla in contrario, ma era meglio non dare troppo nell’occhio; la coppia di passanti che aveva appena superato il marciapiede aveva tutta l’aria di essere particolarmente affamata di affari altrui, e non vollero dare loro questa soddisfazione.
Jane prese coraggio: era la seconda volta che il ragazzo doveva assistere a quello squallore in cui era costretta a vivere ogni giorno, da troppi anni. Forse ricordava l’atrio essenziale che invitava senza troppe cerimonie ad andarsene, oppure il terribile angolo caffè, con un paio di tazze sul ripiano e un frigo da campeggio. Magari avrebbe guardato deglutendo la porta di sicurezza con chiusura antipanico destinata agli incontri con i genitori violenti, e la scala anonima che si inoltrava nei piani superiori, freddamente allungata.
Ma non era decisamente il momento di tirarsi indietro. Forse, abituandosi ad assimiliare la presenza del ragazzo nella struttura, avrebbe avuto ricordi più piacevoli o sensazioni migliori da ricollegarvici dentro, probabilmente trovando quel posto leggermente migliore di quello che era realmente. Una vana speranza, lo sapeva, ma tentare non aveva prezzo.
Superarono mano nella mano la cancellata passando nel lato dove non c’era mai stata, trovandosi sotto al porticato dove si erano incontrati qualche sera prima. Jane armeggiò con le chiavi: di solito a quell’ora c’erano pochissime persone, all’interno. I volontari giocavano a carte nella sala comune, dall’altro lato dell’edificio, le ragazze uscivano e vagavano fra i locali e i ragazzi andavano chi in sala giochi, chi a stare con gente che conoscevano. Anne, una ragazza piuttosto simpatica del suo stesso piano con cui andava piuttosto d’accordo, era malata, ma anche in circostanze normali si muoveva poco, un po’ come lei. Forse sarebbe stata l’unica minorenne ancora presente all’interno.
-Vieni – lo invitò, per spalancare la porta e lasciarlo passare. Lui obbedì senza spiccicare parola, ben sapendo quanto lei odiasse trovarsi lì. Adorava il rispetto che aveva per lei, e si appuntò mentalmente di ringraziarlo per quello.
-Oh, buongiorno! – disse una voce alle loro spalle. Squillante, allegra. La signorina Miles, senza dubbio.
Jane si voltò di scatto, sopresa: si ritrovò davanti una donna bassa, leggermente sovrappeso e con un vaporoso caschetto di capelli color miele, in un’acconciatura che si manteneva identica per tutto l’anno. Nonostante la mezza età, non cambiava mai; erano anni che il suo aspetto si manteneva uguale, e le foto di quand’era giovane mostravano una ragazzina in carne con un sorriso solare e un paio di mocassini ai piedi. Sommandoci qualche anno si aveva l’aspetto attuale della signorina, così chiamata dal momento che non aveva mai avuto un marito.
 -Buongiorno – salutò Jane, presto imitata da Malcolm.
-Volete un po’ di caffè? – chiese gentilmente lei, offrendo un contenitore pieno di liquido scuro fino all’orlo.
-No, grazie – disse Jane, sorridendo. Malcolm era appena arrossito come se fosse stato beccato a fare qualcosa di assolutamente illegale, e stava avvampando sempre di più senza sapere come reagire.
-Oh, non importa. E tu chi sei, giovanotto? – chiese gioviale. Il ragazzo, com’era prevedibile, divenne ancora più rosso. Alcune ciocche corvine ricaddero sulle spalle, scivolando in avanti.
-Mi chiamo Malcolm Hall – disse, forse essendo fin troppo formale. Era quello il comportamento dei ragazzi quando gli si prentava il proprio padre? Eppure la signorina Miles non incuteva timore nemmeno se fosse stata con una pistola in mano, poiché la sua espressione la incatenava in un sorriso perennemente disteso e disponibile, rendendola simpatica al primo impatto.
-Benvenuto, Malcolm Hall. Ora devo andare – disse poi, senza perdere l’espressione allegra. – Lascio il caffè qui, in caso cambiaste idea…divertitevi!
Detto questo, sparì nel corridoio con le ciabatte ai piedi. Era una donna amante della pulizia, ed evitava sempre di lasciare impronte di fango sul pavimento che, comunque, puliva ogni giorno.
Il ragazzo liberò il respiro tutto di colpo, come se l’avesse trattenuto durante quella breve conversazione. Jane ridacchiò, ma preferì non dire nulla in proposito; lasciò che le sue guance tornassero di una colorazione normale e salì la scala, assicurandosi che lui la stesse seguendo.
Forse si era sentito in imbarazzo per il sottinteso lasciato aleggiare nell’aria dalla donna, e a ripensarci era stata una scena davvero divertente. Quasi due metri di ragazzo completamente messi K.O da una donnicciola che non era nemmeno un quarto di lui, con affondi mirati e precisi sui punti deboli…doveva ricordarsi di fare una chiacchierata con quella signora, perché era da tantissimo tempo che non aveva modo di parlare un po’ con qualcuno nella struttura.
Per grande fortuna del ragazzo, il corridoio era deserto. Lo guidò silenziosamente davanti a tutte le camere, fino ad arrivare sul fondo. La sua era la numero dodici, con tanto di numero dipinto a caratteri cubitali sopra; era un po’ scolorito, ma manteneva comunque la propria dignità.
Riprese il mazzo dalla tasca e si mise a frugare fra le chiavi tintinnanti. Ognuno alla casa ne possedeva uno, per ogni evenienza, ma il più delle volte quasi tutti ignoravano le funzioni dei vari oggettini; persino lei aveva difficoltà ad immaginare cosa aprissero gli altri, limitandosi ad utilizzare quelle per il cancello, l’entrata e camera propria.
Jane si spostò leggermente, lasciando libero l’ingresso. Nonostante la porta non fosse aperta del tutto, l’interno era stato esposto quasi per intero: il letto, l’armadio, aluni disegni appesi alle pareti, un comodino e una sedia. Non c’era poi molto da vedere, in effetti, per essere la camera di un’adolescente.
La ragazza alzò un sopracciglio. –Guarda che non ti mangio mica, sai? – disse, osservando il suo timore ad entrare.
-Non ci sono signore con i capelli dorati lì dentro, vero? – scherzò Malcolm, ma forse era molto più serio di quel che pensava.
Lei scosse la testa sorridendo, prima di invitarlo definitivamente ad entrare con una leggera spinta sulla schiena. Il ragazzo, appena varcata la soglia della camera, cominciò a guardarsi intorno, senza soffermarsi su nulla in particolare. Jane lo lasciò alla sua esplorazione, prendendo una maglietta pulita da un cassetto.
-Senti, io vado un secondo a cambiarmi, ma posso sentirti se mi devi chiedere qualcosa, ok? – disse, guardandolo per un momento.
Lui si sedette sul letto, cercando di mettersi a suo agio. Era così grande che era impossibile non farlo sembrare fuoriposto, e i capelli lunghi fino alle clavicole pendevano attorno al suo viso come per proteggerlo dalle insidie. Si spostò il ciuffo, infastidito, oltre la fronte, liberando il viso; non le era mai parso tanto sexy come quando lo fece, ma decise di ignorare quest’ultimo fatto, assieme al cigolio insistente delle reti, che gemevano sotto al suo peso.
-Posso sopravvivere – confermò, guardandola con un’eccessiva aria di serietà in viso. Lei non poté evitare che una risatina sbocciasse dalle sue labbra, prima di scuotere rassegnata la testa e di entrare nel bagno, premurandosi di chiudere per bene la porta dietro di sé.
Visto che quella stanza aveva il lusso, assieme a poche altre, di avere un bagno privato, aveva lasciato i vestiti della serata che avevano passato insieme lì a marcire, appoggiati sul bordo della doccia. Quando doveva lavarsi li spingeva via quasi con disgusto, per rimetterli lì quando aveva finito. Li prese in mano: le parve quasi di poter riassaporare quel quasi-bacio che si erano scambiati quella sera, e l’atmosfera che si era creata. Doveva ammettere, però, che quello che era seguito era stato cento volte meglio.
Cercando di ignorare il fatto che lui fosse ad una sola porta di distanza, e per altro molto sottile, si tolse il soprabito, indugiando sulla felpa che le aveva prestato. La stoffa era stata resa particolarmente comoda da tutti i lavaggi che aveva affrontato, allargando ancora di più le cuciture che la tenevano insieme. Anche se sembrava davvero gracilissimo quando lo si vedeva in giro, doveva ammettere che aveva dei vestiti giganteschi, e quella gliel’aveva data perché gli stava “troppo stretta”. Non osava immaginare come dovesse essere avere addosso una maglietta che, invece, gli andava larga.
Non appena liberò il proprio corpo da quel mare di cotone dovette scontrarsi con le fasciature tanto odiate. Erano ordinate striscioline bianche che le avvolgevano l’avambraccio latteo, dal polso fino al gomito; non aveva avuto modo di conoscere la vera entità della ferita, ma da come prudeva doveva essersi scarnificata a fondo. Il ragazzo aveva soltanto detto che non aveva danneggiato nulla di significativo, ma aveva perso tantissimo sangue.
Dovette ammettere che era stato fatto un ottimo lavoro, perché le bende erano state disposte con cura e fermate sia con minuscoli gancetti ad uso sanitario che con dello schoch fatto apposta, rendendole impossibili da allentare. Per cambiarle, il giorno seguente, avrebbe dovuto spostare tutto quanto, ma non vedeva macchie in superficie, né spostamenti dolorosi, anzi. Decise di lasciarle così, preoccupandosene a tempo debito.
Nella stanza dall’altra parte della porta, invece, si udiva un leggero tramestio. Evidentemente il ragazzo stava vagando nel piccolo spazio per conoscere qualcosa in più di lei. In effetti, anche se c’era davvero ben poco nella camera, ogni oggetto parlava di lei.
-Jane? – chiese lui, con voce smorzata.
Lei sussultò: si stava togliendo la cannottiera in quell’esatto momento. –S..Sì?
-Sei tu la bambina della foto sul comodino? Quella con la cornice verde? – chiese.
Jane, semi-nuda e con le braccia alzate come se fosse in arresto, fece mente locale. Aveva un solo comodino, vicino al letto, e sopra c’erano tre fotografie: una ritraeva lei e Sarah, in uno scatto abbastanza recente, con addosso un paio di cappelli buffi, la seconda era un’istantanea di lei, in costume, a cinque anni e un altro era un primo piano di quando aveva all’incirca la stessa età della precedente. Quest’ultima aveva una cornice come quella che era stata descritta.
-Sì – confermò sfilandosi l’indumento. Prese dalla sedia una maglietta blu scura e se la infilò in fretta. Era larga e sembrava nuotarci dentro, e cercò di arginare il problema ficcandola dentro ai pantaloni senza pietà.
-Wow – commentò il ragazzo nell’altra stanza, - eri davvero bellissima.
Questa cosa la fece fermare, all’improvviso. Aveva freddo dove la pelle era esposta, il bagno non aveva il riscaldamento, ma sentì il bisogno di bloccarsi un momento al suono di quelle parole; nessuno le aveva mai detto una cosa del genere. Mai qualcuno si era fermato a guardare le sue fotografie e a farle i complimenti per l’aspetto che aveva, non con un tono tanto sincero e…innamorato. Sì, perché l’intonazione che Malcolm aveva usato tradiva una dedizione nei suoi confronti che la faceva quasi arrossire: aveva scelto le prime parole che aveva avuto in mente, e c’entravano tutte con la bellezza che Jane non si era mai riconosciuta addosso.
Non aveva mai fatto fatica a riconoscere l’avvenenza su Sarah o altre ragazze, ma anche quando si guardava allo specchio non notava niente di particolare nel proprio viso, o sul suo fisico, anche se non aveva nulla da ridire; non si lamentava del proprio aspetto perché, alla fin fine, non le interessava apparire in un certo modo, così non si era mai nemmeno posta il problema di come risultasse alle altre persone.
In quel momento, però, qualcosa la spinse ad affacciarsi oltre alla maglia che si stava infilando e a guardarsi dritta negli occhi. La prima cosa che notò fu che era arrossita; una lieve nube di un rosa pallido le illuminava le guance candide, facendo risaltare la forma appiattita degli zigomi lisci. Gli occhi brillavano. Erano scuri, di un marrone intenso, e non si era mai fermata prima ad analizzare l’iride che quasi si fondeva con la pupilla o la luminosità delle ciglia arcuate, femminili. Le sopracciglia erano due linee sinuose che li racchiudevano in un morbido abbraccio, e si avvicinavano fino ad ospitare il naso allungato e sottile. Le labbra carnose avevano i segni dei denti tatuati addosso: il rosa chiaro si faceva fin troppo intenso grazie alle screpolature e a dei minuscoli taglietti sul labbro quasi…sensuale? Si poteva definire così la sua bocca?
In effetti aveva una bella forma, curvata, attraente. Aveva avuto l’impressione che le labbra di Malcolm vi si posassero sopra alla perfezione…
Il riflesso nello specchio cominciò ad avere le guance ancora più rosse di prima, dandole un aria da bambina. Quella figura con la pelle candida e le clavicole perfettamente delineate era davvero la piccola, triste Jane? Quella che portava il peso dei propri spettri stampato sulle braccia?
Si rese conto che il silenzio si era allungato un po’ troppo, lasciando forse Malcolm preda dei dubbi. Prese in mano la situazione, distogliendo lo sguardo e infilandosi definitivamente l’indumento.
-Stai dicendo che adesso non lo sono più? – scherzò. Prese in mano i jeans e prese ad infilarseli, divertendosi ad immaginarlo in difficoltà.
-Ovvio che no. Anzi, credo che tu sia cresciuta più che bene – replicò. Dal suono sembrava che avesse preso in mano un’altra cornice, forse vicina alle precedenti. L’importante era che non si avvicinasse all’armadio, visto che la sera prima aveva buttato tutto quanto alla rinfusa, e saperlo alle prese con reggiseni usati non la allettava più di tanto.
Rise per affogare l’imbarazzo. Nel riflesso, la strana ragazza che aveva appena imparato ad apprezzare stava arrossendo ancora, forse anche più di prima. Inoltre, ormai era pronta ad uscire, visto che aveva ultimato l’eterna preparazione. Con un pensiero improvviso si rese conto che, se fosse morta, non avrebbe mai potuto provare emozioni simili, o sentirsi amata e apprezzata. Questo la spinse ad aprire la porta e a tornare nella camera.
Fuori, Malcolm era seduto sul bordo del letto, come prima, solo che ora teneva in mano la foto e sorrideva leggermente. Con il pollice, ripassò il bordo, come per lasciare una carezza alla bambina lì ritratta. Jane rimase molto colpita dalla tenerezza con cui impresse quel piccolo gesto sul vetro; pareva quasi amasse anche la sua infanzia, il suo presente, colei che era diventata, tutto quanto, in un unico istante, e lei si chiese come fosse possibile.
In fondo, non era niente più che una ragazza problematica, incapace di rendersi conto del proprio destino e assumere un atteggiamento corretto nei confronti di esso, come fanno le altre persone. Quel ragazzo le aveva appena dimostrato che non gli importava, ma l’avrebbe seguita in ogni suo passo, fino a quando l’andatura malferma sarebbe stata in grado di diventare una dignitosa sfilata. E anche allora si sarebbe goduto lo spettacolo, in prima fila.
Lei gli si mise vicino senza dir nulla. Era così strano vederlo in quella stanza che dovette assimilare il concetto con calma, prendendosi del tempo. Le spalle larghe e possenti erano curvate verso la fotografia, il suo viso bellissimo era steso in un’espressione serena, i capelli lunghi scivolavano sulle clavicole, coprendole.
Piano, fece scivolare un braccio magro sul suo fianco, e lei si lasciò stringere, accoccolandosi contro di lui; il suo corpo era il nido perfetto che aveva sempre cercato, e aveva più che mai bisogno di sentirlo al suo fianco, per avere la certezza che non l’avrebbe mai lasciata.
-Quanti anni avevi? – chiese, a voce bassa.
-Credo più o meno l’età di Kim – sorrise, - forse un po’ più grande.
Nella foto stava ridendo: non era vista di fronte, ma gli occhi scuri e più arrotondati erano fissi sull’obbiettivo; mostrava un sorriso allegro mancante di un dente, mentre due simpatici codini spuntavano dalla sua testa, come per aggiungere un tocco di brio a quell’espressione felice.
Dietro alle iridi scure si leggeva soltanto innocenza, e nient’altro. Quella bambina era davvero bellissima proprio perché non conosceva il dolore, non era stata ancora contaminata dal lutto.
Malcolm le posò un bacio leggero sulla tempia. –È passato così tanto tempo, da allora – commentò, senza riferirsi a nulla di particolare.
-È vero, sono successe tantissime cose – rispose lei, con una certa amarezza. Nella sua mente il sorriso materno di Rose prese lentamente a sbiadire, come una fotografia sotto la superficie dell’acqua, inesorabilmente. Il viso di Damon, invece, era rimasto tutto sommato presente, con i denti che luccicavano appena dietro alle labbra a malapena distese.
-Ti va di parlarne? – chiese il ragazzo, sommessamente. Quando pronunciò quelle parole, usò un tono così delicato che la fece quasi sorridere. L’idea di rivangare tutto, per l’ennesima volta, le fece male, soprattutto a livello emotivo. Era stata una giornata a dir poco difficile, ma sentiva di aver bisogno di lasciare a qualcuno la capacità di capire, assieme a lei, di superare il fatto.
Non ne aveva mai parlato con nessuno, nemmeno con Sarah, nonostante la ragazza si fosse resa disponibile per possibili confidenze. Con lui sentiva che c’era qualcosa di diverso rispetto all’amica, ma era terribilmente diffidente nei confronti di tutti. Era stanca, logorata da quella storia, incapace di superare il lutto. Malcolm non era un tipo curioso, ma anche lui aveva sperimentato sulla propria pelle l’esperienza devastante dell’abbandono.
L’aveva salvata da morte certa, forse sarebbe addirittura riuscito a tirarla fuori dal suo stato vegetativo e a darle persino un motivo per continuare a vivere.
Senza dire una parola, Jane lo invitò a stendersi, lasciando che continuasse ad abbracciarla. Non c’era nessuno sottinteso, anche se all’inizio lui era un po’ impacciato da quella posizione, forse pensando al viso della signorina Miles. Le serviva per concentrarsi, e ben presto lasciò affondare la propria testa fin troppo affollata da pensieri sgradevoli nella sua stoffa profumata, riflettendo su ciò che doveva dire.
Poi, quasi timorosamente, il silenzio della stanza cominciò a riempirsi di parole. E il peso del loro significato le parve, ancora, troppo forte per poter essere sopportato da una sola persona.    

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Capitolo 19
*** Life ***


Ben presto, Jane sentì il bisogno di guardarlo negli occhi. Dalla posizione accovacciata che avevano assunto, quindi, si rimisero seduti, uno davanti all’altra.
Dal momento che il racconto non era arrivato ad una piega significativa, Malcolm pareva ancora abbastanza tranquillo, tutto sommato. Teneva una gamba piegata sotto l’altra che pendeva fuori dal letto, e si stava torturando il bordo di un’unghia. Lei, ogni tanto, si permettava di mordicchiarsi un po’ il labbro, fino a quando non sentiva sopraggiungere il fastidio derivato da una nuova ferita. Così, smetteva.
Per dare un senso a quello che sentiva il bisogno di rivelare, decise di partire dalle cose più allegre, dai ricordi più spensierati, e lasciò che le emozioni piacevoli che essi portavano con sé la avvolgessero in un mite torpore, come per preparala a ciò che avrebbe dovuto affrontare.
-Mia madre si chiamava Rose. Lavorava nel settore della moda, ma non ho mai capito bene quale fosse il suo compito principale; si doveva spostare spesso per seguire le varie sfilate, le stagioni, e aggiornare con articoli interessanti la rivista per cui scriveva. Non era una semplice giornalista, ricopriva una carica piuttosto importante. Quando conobbe mio padre, era a Parigi: nello stesso edificio organizzavano sia la promozione della nuova linea di foulard per la primavera che una mostra di fotografia; lui era un fotografo di guerra, senza un posto fisso a cui fare ritorno e con il fascino dell’uomo vissuto.
Jane sorrise al ricordo, ma non lasciò che la interrompesse.
-Lei dovette tornare relativamente presto in America, ma si tennero in contatto. Da quel che mi hanno detto si erano subito sentiti attratti l’uno dall’altra, ma il tempo era stato davvero troppo poco. Quasi un anno dopo, mia madre si trovava in ospedale per assisterlo, dopo che era stato di ritorno da uno scenario particolarmente violento. Avevano intrecciato una relazione ufficiale da qualche settimana appena, ma già temevano di doversi separare.
Malcolm sembrò del tutto partecipe della sua storia, sfoderando una mezza-risata per il tono con cui aveva pronunciato “relazione ufficiale”, ma ancora una volta la lasciò parlare, annuendo di tanto in tanto per farle capire che la ascoltava.
-Andarono a vivere insieme, ma non si sposarono mai. Diciamo che non ne ebbero l’occasione, perché lei rimase incinta poco tempo dopo e dovette contemporanemente ritirarsi dal suo ruolo lavorativo, svolgendo mansioni più alla portata di una futura madre.
-Anche la mia voleva fare così – sussurrò lui. Lei colse l’amarezza nella sua voce; alla fine era chiaro ad entrambi qual’era stata la scelta che Francesca aveva fatto, forse facendo sentire il figlio meno amato di quello che era.
La ragazza stava per dirgli qualcosa, cercare di rincuorarlo, ma lui non gliene lasciò il tempo. –Vai avanti.
Non era un ordine, ma solo un modo per dimenticare ancora quello che i suoi gli avevano fatto, l’abbandono che aveva subito. Anche se la storia che si apprestava a confessare non era molto più allegra, decise lo stesso di andare avanti senza aggiungere ulteriori commenti, ma toccandogli piano il dorso delle dita affusolate.
-Quando nacqui, mio padre era in Bangladesh. Rose mi raccontò che non aveva voluto parlargli per giorni dopo quel fatto, visto che lui era partito nonostante mancasse poco al parto; dimenticò il broncio quando vide le cento rose rosse che lui le inviò poco prima di tornare a casa, e su ognuna di esse c’era attaccato un bigliettino su cui aveva scritto qualcosa.
Malcolm ridacchiò. –Lui si che sapeva come farsi perdonare – osservò, e questo contribuì a rendere l’atmosfera un po’ meno opprimente.
Sotto il suo sguardo gentile, si sentì leggera parlando di quanto tranquilla fosse la loro vita assieme, di come fosse felice per il semplice fatto di poterli vedere e di quanto li avesse amati. Si persero ricordando aneddotti sulla propria infanzia di fatto irrilevanti, scoprendo di aver frequentato lo stesso parco-giochi e di aver avuto entrambi la bronchite.
Piccole cose, assaggi di vita vissuti nell’arco di pochissimo tempo, anni felici e spensierati. Erano solo dettagli più o meno indispensabili a creare un fragile castello di carta, a procrastinare l’inevitabile.
Confidandosi a vicenda qual’era il proprio piatto preferito quando si andava all’asilo o descrivendo questa o l’altra professoressa, stavano cercando di tessere una certa intimità. Quel momento non  aveva nulla a che fare con l’amore che l’uno sentiva di provare per l’altra, bensì solo con un’amicizia che volevano costruire. L’intera cornice che risuonava delle loro risate divertite, rendeva la trama principale leggermente più facile da raccontare.
Il sole aveva appena iniziato a calare quando lui, prendendo un cuscino e appoggiando la schiena sulla testiera del letto, le scoccò uno sguardo intriso di tenerezza. –E poi?- chiese semplicemente.
Jane deglutì. Era decisa a non far evaporare del tutto l’allegria che era riuscita a provare fino a pochi istanti prima, servendosene per riuscire ad andare avanti. Sapeva che prima o dopo i racconti sulla sua infanzia si sarebbero esauriti, facendola tornare al tema principale e al più doloroso.
Aveva atteso abbastanza prima di dire quelle parole a qualcuno. Aveva aspettato sedici anni di Case famiglia, assistenze psicologiche, incontri all’ospedale, accompagnamento in seguito ad eventi traumatici e amicizie abbastanza superficiali di poter confessare finalmente ad un essere in carne ed ossa quale fosse stata la vera causa del suo deperimento interiore e, da qualche tempo, anche esteriore.
Sin da quando aveva pronunciato la prima parola, aveva capito che presto sarebbe giunta la resa dei conti. Bastava analizzare la storia nella sua interezza: mancava tutto fuorchè quell’unico, devastante e fondamentale passaggio per poter spiegare a Malcolm perché era diventata la ragazza che si trovava di fronte.
Non sarebbe stato facile. Non lo era mai stato e non lo sarebbe diventato all’improvviso, ed era stata un illusa a credere di poter rendere la pillola più piacevole con solo qualche risatina o racconto innocente, perché d’altra parte quella stessa ragione inconfessabile l’aveva spinta ad un autolesionismo spesso estremo, non si trattava di una favola.
Jane non era la sventurata principessa rinchiusa in cima ad una torre. Jane era la ragazza instabile che cercava di nascondersi fra la folla, di sparire, di cercare pateticamente ristoro nella sofferenza, di annegare i propri spettri nel mare dell’indifferenza, senza riuscirci. Guardando Malcolm negli occhi, capì di amarlo, e che non avrebbe mai potuto ripagare adeguatamente ciò che aveva fatto per lei.
Tuttavia non riuscì a scorgere nulla all’infuori della possibilità di un’amicizia, e non di una relazione stabile. Quello non era però il momento di gettare anche lui nel disappunto; aveva estremo, viscerale bisogno di confessare a qualcuno cosa la opprimesse, ed era arrivato il momento propizio.
-Vivemmo felici. Per pochissimo tempo; una sera, tornando a casa da una cena al ristorante, furono travolti da un altro veicolo. Morirono entrambi sul colpo.
Ecco, l’aveva detto. Veloce come una pugnalata e non meno indolore. Una ferita secca, allungata e dai bordi netti, sanguinante come un fiume in piena e a malapena contenuta nel suo giovane corpo. Tutti gli anni in cui l’aveva lasciata senza bendaggi avevano fatto in modo che marcisse e cominciasse a bruciare sempre di più, invece che rimarginarsi. Ma non avrebbe mai immaginato che dirlo ad alta voce, per la prima volta, avrebbe potuto renderlo tanto reale.
Morti. Rose e Damon erano morti. Giovani, innamorati, innocenti, ma morti. Non sarebbe mai successo che, un giorno, tornassero da lei e la abbracciassero, le sussurrassero che andava tutto bene, le recitassero la buona notte se faceva un brutto sogno, anzi. Erano i loro corpi sanguinanti a popolare ogni suo incubo da quasi otto anni, le loro figure scheletriche e vagamente accusatrici componevano tutti i propri rimorsi.
Lo schianto di un’auto contro un’altra vettura aveva portato via ogni affetto dalla vita di Jane, riducendola ad una larva che le somigliava vagamente nell’aspetto. Era andata avanti per inerzia senza mai progredire davvero, in modo da cercare ancora con sguardo speranzoso il sorriso di sua madre o i capelli lunghi di suo padre tra la folla, pensando di poterli scorgere per davvero.
Se qualcuno somigliava loro le si straziava il cuore. Per un attimo riacquistava la propria vita, aveva di nuovo cinque anni, andava sull’altalena e rideva quando doveva dire le filastrocche, si faceva abbracciare se aveva freddo e amava lo zucchero filato come tutti i bambini. Il tempo la artigliava nuovamente con dita adunche e crudeli non appena realizzava quanto si fosse illusa.
Erano mamma e papà, due persone splendide ed energiche, sventrare dall’inteliatura metallica di un mezzo crudele.
Vetri infranti, macchie di sangue, una collana di perle sull’asfalto, occhi vitrei, la mano di suo padre che, prima dell’oblio, aveva cercato quella già fredda della moglie, per un’ultimo saluto. Come a voler dire “addio, Rose, ti amerò per sempre”. Nemmeno la morte sarebbe riuscita a spezzare quello che loro avevano sentito sin da quel giorno, nella galleria d’arte, quando si erano appena intravisti nel corridoio.
Nessuno avrebbe mai potuto cancellare la dedizione con cui avevano continuato a cercarsi,e così sarebbe stato sempre. Damon avevav cercato Rose anche quando sapeva che non avrebbe mai più potuto raggiungerla, anche seppellito in un rottame bollente, anche in mezzo ad una strada, di notte, con le sirene dei soccorsi come macabro sottofondo. 
La coppia non beveva, non l’aveva mai fatto. Damon aveva il diabete; un goccio e sarebbe finito all’ospedale. Rose, ogni tanto, assaggiava del vino bianco, ma comunque non era lei alla guida, quella sera. Il sonno non poteva essere stato loro nemico, visto che lui era abituato a fare ore su ore di veglia in attesa di un’esplosione, una bomba, una granata, un uomo che spara, un attentato o chissà cos’altro. Non era stato nemmeno uno di questi elementi ad ucciderlo, bensì un guidatore che era riuscito a sparire nella notte, senza lasciarsi dietro nessuna traccia all’infuori di due persone agonizzanti.
Cos’avrà pensato lui vedendo sua moglie diventare sempre più fredda? Cos’avrà provato sentendo che la sua mano, per la prima volta, non rispondeva alla stretta? Perché, nonostante fosse destinato a diventare un freddo cadavere nel giro di poco tempo, aveva lo stesso tenuto la moglie, come se avesse voluto condurla di persona verso un altro mondo?
L’auto che sbanda, l’impatto, le urla, il sangue. Sembrava quasi che uno consolasse l’altra, stesi a faccia in giù sui sedili, le cinture di sicurezza orridamente strappate dall’urto, delle ferite terribili che ne straziavano le membra.
Un improvviso groppo alla gola minacciò di soffocarla. Aveva da anni cercato di far sparire quell’immagine dalla sua testa, visualizzato momenti felici che ave trascorso con i suoi genitori quand’erano in vita. Nonostante la nostalgia si acuisse invece di scemare, cercava comunque di sentirsi meglio; tutto pur di non rievocare la tragedia.
Ma non aveva funzionato. Non appena ebbe scaricato il peso di quella parola –morti – il dolore si era fatto all’improvviso concreto. Da nube scura che la minacciava con continue possibilità di intensificarsi e investirla improvvisamente, era diventata una sensazione uniforme, che l’aiutò a superare del tutto l’inevitabilità della cosa.
Stava morendo dentro. Lo aveva fatto quando aveva scoperto il dettaglio della presa per mano, avvertendo l’ennesima sferzata del destino contro di sé. Era stata una situazione ingiusta, ma per la prima volta della sua vita si rese conto che non si poteva cambiarla. Non aveva senso aspettare o farsi del male, perché comunque la cosa sarebbe rimasta permanente; Damon e Rose non avrebbero mai più varcato la soglia di casa, abbracciati, non l’avrebbero portata a fare una passeggiata. Mai più.
Tuttavia, nonostante avesse preso coscienza di queste cose e aveva un’altra persona che sapeva ciò che era successo, il dolore si fece lo stesso insopportabile. Era come un coltello dalla lama seghettata contro la sua gola, che la stava strangolando e pugnalando al tempo stesso, impedendo al minimo filo d’aria di passare attraverso la trachea. Quando soffriva si sentiva stanca, ma in quell’istante le parve che il suo corpo stesse andando a fuoco, che la sua anima bruciasse e la ustionasse, che la sua pelle fosse così sottile da diventare una carta argentata da gioco, di quelle che i prestigiatori usano per impressionare le persone.
La stanza, le pareti, i mobili sembravano altrettanto sconvolte da quelle parole appena dette. Come a dire “oooh, finalmente tutto ha un senso!”.
Svelato il mistero, svelata Jane, sviscerata un’autolesionista. La casa dove aveva sempre vissuto era stata venduta, i vestiti di sua madre dati in beneficienza, i pochi averi di suo padre sigillati in una scatola che, per quanto avesse cercato di dimenticare dove l’aveva messa, si trovava nel magazzino della Casa, a sua disposizione. Lì aveva messo anche i libri di scuola vecchi e i quaderni che non usava più.
Aveva visto il disagio degli assistenti sociali di fronte ad un’orfana senza parenti che non voleva più parlare, e si era riunchiusa in uno strano mutismo.
Tesoro, questi sono i vestiti del papà, i gioielli di mamma e alcune cose che c’erano in casa. Le diamo a te, va bene? La voce della donna che glieli aveva dati era stata incerta soltanto all’inizio, ma quando si era trattato di darle in mano il pacco non aveva più fatto storie.
Nelle pareti di cartone erano rinchiuse cose che non aveva mai osservato da vicino, e che non aveva mai più fatto dopo il lutto.
C’era il familiare impermeabile di Damon.
C’erano alcune fotografie di loro due prima di vivere insieme oppure insieme alla figlia.
C’erano gli splendidi orecchini che Rose aveva ricevuto per il compleanno.
C’era il taccuino di suo padre, e tutte le sue annotazioni in quella disordinata calligrafia.
C’erano le sue camicie enormi per una bambina, tutte bianche o beige.
C’erano degli anelli di lei.
C’erano delle riviste di moda collezionate per anni, con appunti a margine delle nuove tendenze oppure delle stoffe migliori.
C’erano delle altre foto senza cornice di bambini che stavano per morire di fame.
C’erano dei deplian per questa o l’altra sfilata di moda, mostra d’arte o rappresentazione teatrale e anche qualche biglietto del treno già obliterato.
C’erano degli elastici per capelli che Rose usava per farle le trecce.
C’era qualche vestito di quando Jane era piccola, e il suo orsacchiotto preferito.
C’erano dei libri ordinatamente impilati e dal dorso sgualcito, alcuni in tedesco, altri in urdu, tutte lingue che suo padre conosceva alla perfezione.
C’erano dei pezzi di passato, dei cocci infranti che, per quanto cercasse di mettere insieme, non componevano nulla, c’era l’evanescente profumo di due vite perse in una notte invernale. C’era la freddezza di due lapidi solitarie, una accanto all’altra, come un tragico eppure efficace pegno d’amore.
L’aria si era fatta improvvisamente irrespirabile. La ragazza si rese conto di essere stata forse troppo violenta nell’esprimere quello che era successo, troppo cruda. Esistava modo e modo di dire le cose, e lei aveva esagerato trattandosi di Malcolm; forse l’aveva messo a disagio con la propria rivelazione anche perché, a conti fatti, come avrebbe potuto lui rispondere a qualcosa del genere?
L’aveva incastrato in una situazione ingestibile e, se la tristezza non fosse stata così schiacciante anche per lei, l’avrebbe volentieri abbracciato. –Scusami, non volevo essere così…diretta – disse, senza forza.
Le era bastata una frase soltanto per dirsi sconfitta e annientata. La sera della cena fatale doveva esserci anche lei; si era ammalata il giorno prima, e l’avevano affidata alla vicina di casa. Era da tanto tempo che non si vedevano ed era perfettamente sensato che volessero passare un po’ di tempo insieme e, per quanto Rose fosse stata recalcitante, alla fine andarono lo stesso.
La cosa che annientava Jane era che su quell’auto avrebbe dovuto esserci una bambina. Se lì fosse stata, un fatale incidente d’auto l’avrebbe uccisa assieme alla sua famiglia; non avendo parenti prossimi, tutti gli averi dei tre sarebbero andati in beneficienza, e quel tristissimo scatolone impregnato di frasi non dette sarebbe stato finalmente buttato da qualche parte. Ci sarebbero state tre lapidi nel cimitero, tre mazzi di fiori posati da qualche passante impietosito da una sorte infausta, e non una ragazzina autolesionista che cerca di darsi la morte in un bagno pubblico.
Non sarebbe mia esistita una Jane “triste”, una larva di ragazza. L’impatto era stato così improvviso che forse non se ne sarebbe nemmeno accorta; gli ultimi attimi li avrebbe passati assieme ai suoi genitori, nella tranquillità e nel tepore che solo loro riuscivano a darle. Sarebbe stato molto più giusto, lo aveva sempre pensato.
Aveva iniziato con l’incolpare Dio; “Perché non hai fatto andare anche me, quella sera?”, chiedeva spesso, ma era rimasta straziata dal suo silenzio indifferente ai drammi che stava vivendo, così aveva smesso di provare. Si era arresa all’evidenza di essere ancora viva e che qualcuno, umano o divino, le aveva rubato la possibilità di essere felice. Li aveva salutati per l’ultima volta quella maledetta serata; suo padre le aveva baciato la fronte per sentire se era scesa la febbre. Di lui le rimaneva soltanto quello.
-L’unica cosa che volevo era essere lì – sussurrò in un gemito roco.
Le braccia di Malcolm la sorressero quando credette di star per cadere. Non fece nulla per bloccare la loro avanzata, non ne ebbe la forza; era stato troppo per un giorno solo.
Rivivere il lutto, amare una persona, quasi morire, cedere il posto alla disperazione, sentirsi vuota a causa della mancanza di una telefonata…rivisse tutto in ordine inverso nello spazio di un secondo. Da quel giorno scalò nel tempo fino a ripercorrere settimane, mesi, anni, esperienze, visi, espressioni, dolori, emozioni, tagli, lacrime, sangue, piastrelle, solitudine, spensieratezza, esseri umani. Più si concentrava sui fotogrammi della sua vita, più le risultò lampante la crudeltà degli eventi, la loro inevitabilità.
-Mi dispiace… - mormorò fra le lacrime - … mi dispiace…
-Sfogati, Jane. Lascia uscire i tuoi demoni.
Erano frasi ripetute nell’infinito di una vita. Ben presto formarono una litania che attirò parole, parole che attirarono singhiozzi e singhiozzi che attirarono confessioni. Gli disse persino, incespicando nelle sillabe e premuta contro la sua maglietta, quanto intensamente avesse desiderato morire nonostante avesse solo otto anni, quanto inutile reputasse la propria vita e di come questa situazione non avese fatto che peggiorare.
Lui, con infinita calma, raccolse ogni suo gemito e parola nell’infinita compresione che sapeva darle, facendole scoprire l’importanza di ognuna di esse. L’aiutò a sviscerare tutto lo schifo, il marciume accumulato negli anni fino a quando, finalmente, la ragazza si sentì vuota.
Le faceva male il petto per le scosse del pianto, gli occhi bruciavano non essendo abituati alle lacrime, ma nel suo cuore c’era solo un’immensa pace. Tutto quanto quello che non aveva avuto il coraggio di dire era stato espresso, lasciandola in pace, senza rigirare più il coltello nella piaga.
Uno ad uno, gli spettri del suo passato uscirono dal suo spirito. Nonostante avesse provato la forma più primordiale del dolore, le parve di cominciare la lunga strada verso l’accettazione di questo, senza temere più le facce che ricordava, gli eventi che aveva vissuto, ciò che aveva provato. Erano tutti incatenati nel passato; non potevano nuocerle.
Nella camera era entrato il buio più totale da qualche minuto, o forse ora. Le sagome degli oggetti si intravedevano appena: esisteva solo il respiro di Malcolm, il suo odore.
Piano, allungò il braccio ferito verso il comodino e accese la lampada. Una soffusa luce gialla riempì il piccolo spazio appena sufficiente a tenere incollati i due corpi.
-Ti dispiace se restiamo qui, per un po’? – domandò Jane, con voce gracchiante. Nonostante tutto, aveva riacquistato di nuovo l’innocenza di una bambina.
-Anche per tutta la vita, se vuoi – rispose Malcolm. La sua voce era profonda, ma non tradiva nulla all’infuori del sollievo per averla fatta stare meglio, nonostante tutto.
Lei chiuse gli occhi. Si sentiva come se tutti gli anni vissuti fra quel momento e la sua infanzia non fossero mai esistiti. Era una persona nuova, rinata, ma non ancor abbastanza forte per superare altre possibili insidie.
-Così sia – osservò, con un timido sorriso.
E lui mantenne la propria promessa. 

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Capitolo 20
*** Mr. Barnowsky ***


L’appartamento del professor Barnowsky era una pura contraddizione fra stili, epoche e utensili lì dentro contenuti.
Lo spazio era piccolo e accogliente: la porta principale sembrava essere vegliata dall’interno da due statuette africane intagliate nel legno con vestiti variopinti e piumati, mentre nel corto corridoio che portava alla cucina erano appese alcune foto in bianco e nero di esploratori inglesi, un giovane che reggeva un pesce gigantesco fra le braccia e un ritratto di una donna bellissima, con un sorriso aperto.
I muri fino al salotto erano dipinti di un caldo color senape. Il divano marrone scuro si intravedeva da dietro il cornicione della porta spalancata, contornato da librerie zeppe di libri. Erano stati ordinati secondo il colore del dorso, avendo cura di ogni singola sfumatura; dal beige fino al giallo canarino, dal blu notte all’uovo di pettirosso, in migliaia di edizioni e volumi di diverso spessore. Questo dava una certa profondità alle pareti. Jane le aveva fissate affascinata, ma l’uomo l’aveva subito guidata oltre.
La cucina, dove ora si trovavano, aveva uno stile vagamente retrò. Il lavello e il piano cottura conservavano quel tocco anni cinquanta che li rendevano terribilmente affascinanti, mentre il frigo arricchito di foglietti ingialliti sembrava appartenere letteralmente ad un’altra epoca. La porta doveva essere tenuta chiusa da un lucchetto, e sulla parte superiore una scritta scolorita recitava “ghiacciaia”.
Senza nemmeno chiederle il motivo della sua visita, l’aveva fatta accomodare attorno al piccolo tavolo circolare, di un bel color celeste acceso. Tutta la stanza seguiva le tonalità del mare, e diversi dipinti raffiguranti fondali e barriere coralline li cingevano come in un abbraccio.
-Un po’ di thè? – le domandò.
Al suono della sua voce così familiare, la ragazza trasalì. –Sì, grazie.
-Zucchero, limone o latte?
-Solo i primi due, per favore. Abbondanti, se si può.
Forse fu solo una sua impressione, ma le parve che l’uomo facesse un mezzo sorriso. –Buongustaia – commentò solo, togliendo una teiera dal ripiano.
Mentre versava l’acqua fumante in due tazze di coccio bianco, Jane si prese qualche secondo per osservare meglio la stanza. La cucina sembrava essere il centro della casa, visto che ogni altra sala nell’appartamento conduceva ad essa, e vi era una porta per ogni lato.
-Ha davvero una casa splendida, signor Barnowsky – commentò. Lo ringraziò quando le porse la tazza, ma lui non rispose, limitandosi ad un cenno.
La ragazza non avrebbe mai immaginato che il suo professore di arte, - un uomo sulla cinquantina con una zazzera di capelli grigi, aggrovigliati, un naso importante e occhi a malapena visibili di un verde acceso – potesse avere una tale eccentricità nell’arredamento.
Non le pareva fosse sposato, anche se portava quella che sembrava una fede su una piccola catenina al collo.
-Bisogna essere eclettici per apprezzare questa casa – prese un sorso di thè, - comunque ti ringrazio.
Su questo, aveva indubbiamente ragione.
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale entrambi bevvero dalle loro tazze. L’aroma da lui scelto sembrava inclassificabile, ma era davvero buonissimo. Il sapore era delicato quanto quello di un fiore, ma speziato al tempo stesso, mantendo una nota vagamente zuccherata forse dovuta all’aggiunta generosa di cucchiate bianche. Solleticava il palato senza scottarlo, e le diede immediatamente ristoro.
Le temperature, infatti, si erano abbassate parecchio oltre lo zero, toccando quasi il limite quella stessa sera. Non potè comunque permettersi di saltare quell’appuntamento; certo, sapeva dove abitava il proprio professore dopo averlo cercato sull’elenco, ma era ancora incerta sul disturbo che gli aveva arrecato.
Fu tentata di andarsene via senza dirgli nulla riguardo al ritrovamento, ma si mantenne calma e immobile sulla sedia.
L’uomo non fece pressioni di nessun tipo affinchè parlasse, anzi. La lasciò libera di decidere quando prendere la parola, sicuramente conscio di quale fosse il motivo della sua visita. Fissava senz’ombra di noia una radio vecchio stile appoggiata al ripiano, pensieroso, e le rughe sulla sua fronte si erano accentuate.
Anche in quella stanza, una parte era stata adibita a libreria: non si trattava di manuali di cucina, ma di classici letterari e non. Notò alcuni titoli noti, tra cui Jack London e il suo mitico Zanna Bianca e anche qualcosa di Agatha Christie, ma anche romanzi disincantati come quelli di Bukowsky o Palanihuk.
Ne rimase piuttosto sorpesa, ma alla fine era compresibile: qualcosa nel freddo sarcasmo dell’uomo la portava a pensare che quegli autori non fossero stati messi lì a caso.
-Non ha paura che le copertine si rovinino? – chiese lei. Doveva spezzare il silenzio in qualche modo.
-Oh, ce n’è la possiblità – rispose l’altro, molto tranquillamente. Seguì lo sguardo di lei per fissare i volumi. –Ma il cibo non avrebbe lo stesso sapore, senza di loro.
-Capisco cosa vuol dire.
-Non ne dubito – non lo disse con scherno, e neppure con eccessiva serietà. Jane fissò gli occhiali da lettura con la montatura sottile poggiati sopra ad un giornale ingiallito sugli orli, e non rispose.
Il silenzio si stava nuovamente addensando. Gli occhi della ragazza si erano già colmati della stanza in ogni suo minimo dettaglio, e non sapevano più dove posarsi se non in grembo. La magia della bevanda calda le stava intorpidendo i muscoli, ma nulla le impedì di rabbrividire pensando a quando sarebbe dovuta uscire di nuovo.
Si accorse che tirarla ancora lunga non aveva nessun senso, tanto valeva parlare subito e chiaramente. Era andata lì con uno scopo ben preciso, sarebbe stato ingiusto rubare al professore ancor più tempo di quanto gli aveva già fatto sprecare, quindi tanto meglio andare al sodo.
Posò con attenzione la tazza sul bordo del tavolo, facendo oscillare un po’ del liquido scuro rimasto.
-Signor Barnowsky… - cominciò, incerta.
-Sì?
-Ecco, vede, mi scusi se l’ho disturbata, questa sera, ma volevo parlarle a proposito di quella mattina di qualche giorno fa…
-Lo so – la interruppe. Lei rimase un attimo interdetta, ma l’uomo continuò parlando lentamente, senza aggressività.
-In circostranze normali, Jane, dovrei denunciare tutto alla presidenza, farti espellere per violazione di edificio in ristrutturazione, mancata partecipazione all’ultima lezione e iscriverti ad un corso di aiuto psicologico con tanto di invadente strizzacervelli sette giorni alla settimana, capisci?
La ragazza annuì mestamente.
-Tuttavia, si può dire che tu abbia un certo tempismo. Mi sono licenziato esattamente quattro ore prima che arrivassi tu.
Questa frase la lasciò senza parole. Socchiuse le labbra violacee per il freddo senza nemmeno accorgesene, tant’era sorpresa.
Il signor Barnowsky insegnava in quella scuola da molto prima che arrivasse l’attuale preside, nonostante non fosse affatto vecchio. Era stato relegato nell’edificio in fase di ampliamento quand’era ancora una struttura coi fiocchi, e ne aveva assistito al decadimento senza fare una piega. Era l’ultima persona a rischio di licenziamento e nessuno, in quasi trent’anni di carriera, aveva avuto nulla da ridire sul suo metodo d’insegnamento o sul suo comportamento in classe.
Non aveva ragioni valide per buttare via un lavoro sicuro alla sua età, soprattutto perché difficilmente ne avrebbe trovato un altro.
Forse leggendo lo sconcerto sul suo viso, le fornì una spiegazione: -Quando venni assunto in quella scuola ero uno dei pochi professori che avesse una specializzazione nella propria materia. Alcuni non erano nemmeno laureati; mi misero nella struttura per i corsi pomeridiani, accantonandomi sempre di più. Diversi giorni fa ho letto nel piano di rinnovamento che la maggior parte dell’edificio sarà adibito a laboratori per gli specializzandi in chimica; un vero spreco, considerando che il loro professore non presiede quasi mai di persona agli esperimenti, ma ha incaricato di tutto al suo apprendista biologo, un esasperato ventenne con troppe idee comuniste sotto ai capelli sporchi.
Alzò con noncuranza le spalle, finendo il proprio thé: -Perciò ho deciso di levare le tende.
Jane assorbì le informazioni in silenzio. Da un lato, capiva Barnowsky molto più di quello che avrebbe mai immaginato. Alla fin fine, nessuno l’aveva mai preso sul serio in tutta la sua carriera nonostante avesse una preparazione più che ineccepibile, fino a sfiorare il limite: gli scienziati del settore di destra avevano avuto sempre più spazio, relegando il corso d’arte a poche stanze quasi del tutto prive di vernice.
Persino lei ammetteva che avevano esagerato, questa volta.
-Se posso permettermi… cosa ci faceva ancora nell’edificio?
Ebbe ancora l’impressione che sorridesse. –Appena assunto nascosi diversi compiti dei primi studenti che io abbia mai avuto. Li avevo messi lì come una capsula del tempo, e la nostra scommessa fu di vedere quando avremmo potuto riprenderceli per un rinnovamento. Li stavo raccogliendo per ridarglieli.
-È stata una fortuna, allora – commentò Jane.
-Proprio così.
-Cos’ha intenzione di fare, adesso? – domandò lei, con un filo di voce. Stava a lui interpretare nel modo giusto la domanda, capire a cosa si riferisse realmente.
-Chiederti perché diamine una ragazzina così giovane si stesse per fottere la vita in un bagno lurido, ad esempio.
Ancora una volta, Barnowsky aveva dimostrato di non essere uno stupido e, in quel caso, giocava a suo sfavore.
-Nella mia carriera – riprese, - ne ho viste tante. Ho assistito personalmente al cambio di epoche, alunni, ideologie e modi di fare, ma mai una volta sola non ho capito da cosa fossero spinti. Non ho intenzione di denunciare il fatto, se è questo che ti preoccupa – chiarì, - semplicemente non mi piaceva l’idea di lasciarti andare senza che capissi quanto insensato fosse il tuo gesto.
Nonostante non ci fosse nulla di divertente, Jane sorrise. Forse era il tono che aveva usato, l’informalità di alcune parole, la sorta di svagatezza che nascondeva una profonda intelligenza oppure il sollievo a farla stare meglio, a farla sentire più leggera.
Quello era un professore molto particolare, che le sarebbe di sicuro mancato. Era molto più moderno di tanti che dicevano di esserlo.
Sapeva di dovergli della spiegazioni, solo che non aveva proprio voglia di rimettersi a spiegare tutto daccapo. Era stato logorante dirlo persino a Malcolm, figuararsi al suo ex-insegnante di arte! Non era il tipo da dare compassione o mettersi a tamponarsi gli occhi in seguito ad un racconto drammatico, anzi, probabilmente sarebbe stato il genere di persona che si fa improvvisamente pungente senza motivo, e non avrebbe potuto sopportarlo ancora.
Damon e Rose erano stati sufficientemente turbati nelle ultime ventiquattro ore, non aveva senso farli riemergere ancora. Non si sentiva pronta, il lutto non era stato affrontato del tutto. Inoltre, non poteva dire di avere confidenza con lui, o almeno non così tanta da poter condividere una storia del genere.
Si mordicchiò il labbro, incerta. Ancora una volta, fu l’uomo a salvarla da quella situazione.
-Non è importante, adesso – sospirò. –Mi basta solo vedere che stai bene. L’unica cosa che spero è che tu abbia smesso di fare cazzate.
La ragazza si affrettò ad annuire. Di sicuro la lametta non la attraeva più come prima, ora che ne aveva saggiato gli effetti devastanti.
Certo, c’erano stati moltissimi cambiamenti nella sua vita, ma sentiva che la nuova Jane non era ancora sbocciata del tutto. Ci voleva tempo, pazienza, ma soprattutto costanza, ed erano cose che per il momento aveva solo in parte.
Ci sarebbe stata un’altra possiblità di ricominciare, ne era certa, e ci stava provando con tutta sé stessa. Da un lato era persino meglio che lui non avesse insistito per farsi raccontare tutta la storia, l’avrebbe solo messa a disagio.
-E, dimmi, come sta quel povero diavolo? – chiese a bruciapelo.
Jane sbiancò. –Parla di Malcolm? – domandò a sua volta, la voce a malapena udibile. Parlare di lui l’aveva subito scaldata dalla testa ai piedi, ma le provocava ancora un certo imbarazzo pensare a cosa li legava. Solo la sera prima se ne era andato abbastanza tardi, salutandola con un bacio malinconico, e da allora l’aveva già sentito al telefono un paio di volte.
Pochi attimi prima, infatti, gli aveva parlato sempre tramite cellulare: gli aveva chiesto se era del tutto sicuro di quello che stava facendo con lei, e se non fosse saggio prendersi un momento per riflettere sulla cosa e digerirla completamente. Più che per sé stessa, l’aveva fatto per salvaguardare anche lui; non era sicura, infatti, di riuscire a renderlo felice o di non essere troppo protagonista della sua vita.
L’ultima cosa che voleva era farlo star male, non si sarebbe mai perdonata di essere fonte anche dei suoi problemi.
-Non ho idea di come si chiami – rettificò Barnowsky, - solo che l’ultima volta che l’ho visto mi sembrava leggermente sull’orlo di un infarto.
-Sta…bene, credo – disse Jane, abbassando lo sguardo. Da come avevano concluso la comunciazione, le era sembrato abbastanza confuso.
Il professore sollevò un sopracciglio. –Credo?
-Cioè, so – si corresse lei, cercando di apparire molto più sicura di quanto non fosse già.
L’altro sospirò. Prese in mano la tazza e cominciò ad esaminarla come se non l’avesse mai vista prima in vita sua. –Di quel ragazzo so solo due cose – disse. Inutile dire che aveva un certo spirito di teatralità.
-La prima è che non esiste nessuno in grado di suonare il pianforte tanto divinamente come fa lui. E la seconda è che è innamorato perso di te.
Jane avvampò. “E io sono innamorata persa di lui”, avrebbe voluto dire, ma sarebbe suonato ipocrita dopo aver molto probabilmente gettato tutto all’aria. Incontrava una persona unica, speciale e bellissima e, in neanche quarantotto ore, le spezzava il cuore, faceva del male anche a sé stessa e mentiva davanti ad una tazza di thè ancora fumante.
Davvero era una persona così spregevole? Se il professore l’avesse saputo, le avrebbe salvato lo stesso la vita oppure avrebbe posato una mano sulla spalla di Malcolm dicendo “ragazzo, lascia perdere, non ne vale la pena”? Era davvero quello il risultato di tanti anni alla Casa?
Preferì non pensarci. Piuttosto che mettersi a balbettare cose senza senso, decise di essere sincera.
-Ho paura di aver rovinato tutto, signor Barnowsky, quindi non so se la seconda sia ancora valida.
-Attenta. Non sto parlando di cotta adolescenziale, né di colpo di fulmine. La malattia di cui è vittima gli impedisce di badare troppo alle cavolate che una ragazza in crisi vuole affrontare da sola, ma lo fa andare avanti fino a quando lei non accetterà il suo aiuto. Vedi di non farlo diventare uno zerbino – concluse.
-Non potrei mai – disse Jane. Quasi poteva dire di essersi offesa.
-Infatti ho deciso di non pensare nemmeno all’ipotesi che lo faresti volontariamente – annunciò lui con una certa soddisfazione.
Santo cielo, erano più le cose che non diceva che quelle che rivelava…quando si sarebbe deciso a parlare per esteso?
Inoltre le sembrava così strano parlare di certe cose con un insegnante che era invetabile sentirsi a disagio sulla piccola sedia.
Ancora una volta rapita dall’ambiente, si rimise ad osservare i quadri alle pareti, dimenticando presto cosa l’avesse spinta a rabbuiarsi un attimo prima. Era più forte di lei, l’arte la mandava in tilt.
-Li ha fatti lei?
-Sì.
-Tutti?
-Sì. Quasi trent’anni fa.
- Dipinge ancora?
-Non come una volta.
Jane piegò un po’ la testa di lato. –Cosa intende dire?
-Intendo dire che non sono un pittore così abile come lo ero un tempo. La scuola mi ha inflaccidito.
La ragazza rimase in silenzio per un attimo, assimilando quelle parole. Chissà quante dovevano essere state le rinuncie di Barnowsky per scegliere la vita che poi condusse. Non doveva essere stata una decisione semplice, la sua, visto che aveva buttato al vento i migliori anni della sua vita. Si chiese se avesse mai avuto una moglie, ma decise di non chiederglielo, per non sembrare troppo indiscreta.
-Signor Barnowsky? – chiese, quasi timidamente.
-Sì.
-Grazie.
Lo disse così, di getto, spontaneamente. Non ci pensò troppo sopra, decise di smettere di arrovellarsi troppo sempre attorno alle stesse cose e lo disse col cuore, o con quello che ne era rimasto. Con una semplice parola manifestò tutta la gratitudine che provava nei suoi confronti per averle, di fatto, salvato la vita. Le aveva fatto capire moltissime cose, le aveva aperto gli occhi, l’aveva posta davanti alla realtà di avere ancora tantissimi anni davanti a sé, decisamente di più di quelli alle sue spalle. Non aveva senso gettare subito la spugna; e, per tener fede a quell’immenso dono che le aveva fatto, decise che avrebbe messo a posto le cose con Malcolm: la paura le aveva impedito di fare troppe cose, nella vita, era ora di guardare al futuro. E non riusciva a vederlo senza di lui.
-Di nulla – rispose l’uomo, semplicemente. Il suo sguardo si fece serio per un momento, prima di recuperare la sua solita aria disincantata. –Un thè in inverno fa sempre bene.
Jane ridacchiò sotto ai baffi: entrambi sapevano qual’era il vero significato del ringraziamento, ma ogni tanto andava bene anche sdrammatizzare.
-Oh, a proposito. Se vuoi, già che sei qui, posso cambiarti la fasciatura.
La ragazza si morse nuovamente il labbro. –Mi scusi, ma…preferirei non farle vedere di nuovo le cicatrici…sa com’è, io non…
-Ho capito – tagliò corto lui. –Allora torna studentessa per un attimo, ti insegno come si fa.
 Aveva svelato su di lei più quell’uomo in mezz’ora che non la sua psicologa in otto anni.
Jane sorrise.
Era bello, essere compresi.    

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Capitolo 21
*** Shopping with Sarah ***


Per le settimane seguenti, Malcolm fu nulla più che un amico.
Jane era smarrita e confusa da questo suo comportamento: era il ragazzo di sempre, solo che non si arrischiava a fare nulla di forzato oppure più dolce di una semplice amicizia.
Le prese per mano, i baci, le carezze, gli sguardi intrisi di tenerezza, sembravano essere scomparsi. Lei non aveva il coraggio di fare il primo passo, e rimaneva congelata nel dubbio di aver rovinato irrimediabilmente le cose con quella stupida telefonata.
Aveva ripreso a rivedere Kim ogni pomeriggio, con i soliti orari che era stata abituata ad avere prima della pausa. I suoi genitori telefonavano molto più spesso e, a parte qualche pianto per il primo giorno, la bambina aveva superato bene la loro partenza.
Tuttavia la ragazza era assente, lontana. Doveva combattere contro sé stessa e i propri impulsi, il dover fare finta di nulla e l’esasperazione per il comportamento di Malcolm.
Si era innamorata di lui, inutile negarlo. Forse era successo addirittura nel primo giorno che l’aveva conosciuto, difficile dirlo, e aveva bisogno della sua vicinanza per avere un buon motivo per lasciar svanire le cicatrici. Era difficile cambiare le garze e guardare i segni rossi senza poterne aggiungere di nuovi, come se fosse dipendente da una qualche droga. Quando la tentazione si faceva troppo forte, allora ripensava al suo colloquio con Barnowsky, e le veniva voglia di andare avanti, di resistere.
Credeva di morire ogni volta che lui tornava a casa e, a parte una certa distaccata cortesia, non si avvertiva nient’altro. Si limitava a chiederle com’era andata, come stava e faceva qualche battuta insignificante; Jane fingeva di ridere e che fosse tutto a posto, salutava Kim e spariva, perché in qualche modo le pareva che fosse giusto così. Dopo un po’ aveva persino perso la consapevolezza di essere amata da lui, e la spiacevole sensazione di essere stata usata le bloccò lo stomaco con un nodo sgradevole.
Passavano i giorni, le ore, i minuti e cercava di dedicarsi alla pittura nella sua stanza, alla scuola e alla bambina, ma non era facile. Le mancava il tassello che aveva imparato ad apprezzare con la sua vicinanza, e cioè la presenza di una persona amata nella sua vita.
Desiderava Malcolm più di ogni altra cosa al mondo, ma sapeva di non avere nessun diritto di reclamarlo ancora. In fondo, era stata tutta colpa sua, della sua indecisione, della sua insicurezza se ora si era allontanato, e non lo biasimava nemmeno; persino lei, nei suoi panni, sarebbe fuggita a gambe levate da quella che assomigliava ad una relazione.
Questo non le impediva di soffrire, ovviamente. Le sembrava quasi che il suo cuore fosse diventato preda di una tagliola, e respirare era diventata un’impresa a dir poco faticosa; sembrava quasi che del cemento armato l’avesse colmata fino al cranio, tappando ogni singolo poro. Delle volte si soprendeva di sentire il cuore pompare allo stesso ritmo e il sangue scorrere ugualmente, perché le pareva che dentro di lei tutto fosse stagnante e putrido.
Era questo l’effetto che il ragazzo le aveva fatto. Era questa la pena che doveva scontare per la sua colpa.
Nonostante la situazione che stava vivendo, comunque, non si era affatto pentita delle rivelazioni che gli aveva fatto. L’aveva aiutata tantissimo, e di questo gli sarebbe stata per sempre debitrice, aveva saputo consolarla con le parole che nessuno aveva mai usato prima, le stesse che si erano rivelate quelle giuste. Era sicura che non sarebbe andato a dirlo a nessuno e che avrebbe tenuto tutto per sé, inoltre quel minimo di sollievo che aveva provato aveva escluso, almeno momentaneamente, il lutto dalle sue pene.
Certo, il pensiero era ancora troppo doloroso da vagliare, ma le pareva comunque sopportabile. Aveva imparato a conviverci, ma decise che, almeno per il momento, sarebbe stato saggio non andare al cimitero. Sentiva il bisogno di recuperare una certa stabilità e non poteva permettersi di crollare proprio ora che aveva iniziato a lottare.
In quell’istante, Sarah le camminava vicino dopo un pomeriggio di shopping. Si era accorta che da qualche tempo Jane aveva la testa da un’altra parte ed era decisa a darle un attimo di svago.
L’aveva convinta a spendere qualche soldo in vestiti, cosa che di norma la ragazza non faceva mai. Nel suo armadio c’erano principalmente felpe e magliette larghe, semplici e coprenti, ma l’amica aveva deciso che era ora di un rinnovamento.
Per fortuna Jane aveva imparato a nascondere i segni rossi, così cambiarsi in camerino non era un problema. Col tempo aveva imparato che, se non  stuzziacava la pelle con delle nuove ferite, si rigenerava più in fretta, visto che si trattava solo di tagli superficiali e di bassa entità. Alcuni spirali che prima le sembravano decisamente troppo profonde per sparire, in quel momento erano visibili soltanto in controluce, sotto forma di una piccola elica allungata come il simbolo del DNA.
Reggeva una busta di carta con dentro un vestito nero, semplice, e qualche maglietta poco costosa, ma dalla fantasia diversa dal solito.
-Santo cielo – commentò Sarah, ironica, - io dico che il tuo portafoglio stia sospirando di sollievo.
Jane la guardò di sbieco. – Guarda che non la prima cosa che compro, sai?
-Lo so, lo so – disse l’altra, sollevando gli occhi al cielo, - intendevo che è la prima cosa glamour che compri.
La ragazza sbuffò, ma lei non le lasciò il tempo di dire altro.
-Jane, dovresti valorizzarti di più. Sai, vestirsi con decine di taglie di più della propria non è appagare al massimo il concetto di sensualità.
Ecco, sempre la solita storia. Era da anni che la ramanzina era identica e fine a sé stessa. Una volta, quando le aveva fatto notare di dire sempre le stesse cose, si era sentita rispondere che se avesse seguito il consiglio forse si sarebbe annoiata di meno, quando l’ascoltava.
-Non mi interessa essere sexy – si difese. Era una pallida scusa, ma sperò che questo le facesse cambiare argomento.
-È proprio questo, il problema. Dovresti desiderare di piacere per lo meno a te stessa.
-E a che scopo?
-Per sentirti meglio, è ovvio! – ribattè l’amica, con stupore sincero nella voce.
Sembrava quasi non credere alle sue orecchie, sentendo discorsi del genere. Delle volte, soprattutto quando si parlava di moda, si accorgevano di vivere in due mondi completamente differenti, di muoversi su diverse lunghezze d’onda: dove una era precisa e accorta quando si trattava di saldi, estetica e cura personale, l’altra usava vestiti comodi e confortevoli, senza badare troppo che le proprie curve fossero messe in risalto o cose del genere.
Visto che Jane aveva saggiamente deciso di non ribattere nulla, fu Sarah a cedere con un tono di voce più dolce, quasi carezzevole.
-Quello che voglio dire, è che tu sei una bellissima ragazza. Non sai quante vorrebbero avere un fisico come il tuo, oppure un viso tanto delicato! È un peccato che tu non voglia curare certe cose, anche perché se un giorno dovessi pentirtene, allora sarebbe troppo tardi.
-Lo escludo – rispose l’altra, cercando un tavolo libero al bar dove avevano deciso di fermarsi, - non credo che tra qualche anno mi sveglierò pensando alle mie occasioni passate. Essere bella non è un obbiettivo che voglio raggiungere…oh, guarda là in fondo! Due sedie libere!
Prima che l’amica potesse continuare, Jane si fece strada fra la folla, chiedendo educatamente permesso ed aggirando abilmente ostacoli più grandi, sgusciando in fretta verso il proprio obbiettivo.
Sarah stava per ribattere, ma fu costretta a seguirla, risentita. Quando lei si metteva in testa una cosa, non c’era verso di farle cambiare idea, nemmeno con le scuse più convincenti. Era testarda, questo sì, ma mai quanto Sarah; nemmeno lei temeva uno scontro, soprattutto quando si sentiva dalla parte della ragione.
Per entrambe fu difficile superare la barriera di corpi, ma si sedettero con gratitudine nel loro angolo ben illuminato, abbastanza lontane dal caos che regnava nel locale. Appoggiarono le proprie borse una sedia libera trovata nel tavolo affianco e si presero qualche secondo per sospirare, sollevate.
Avevano passato tutto il pomeriggio in piedi, in giro per vetrine. Se fosse stato per Jane, un’ora sarebbe stata più che sufficiente per fare tutto quanto; l’altra ragazza, invece, aveva insistito per fermarsi un po’ dappertutto, magari anche per niente, allungando la loro camminata di un sacco di tempo. D’altra parte, quando aveva accettato l’invito, la bruna già prevedeva un pomeriggio frenetico. E , come al solito, non era stata delusa.
-Non è un obbiettivo che vuoi raggiungere perché lo sei già – sussurrò Sarah, appiattendosi contro il tavolo e avvicinandosi a lei, di soppiatto. Prima che l’altra potesse fare una sola mossa, si raddrizzò e sorrise al cameriere, scandendo chiaramente qual’era la sua ordinazione.
-Un frullato alle fragole con ghiaccio, se possibile, e una tazza di caffè forte. Anzi, facciamo un milkshake – annunciò con il sorriso più smagliante del mondo.
-B…bene – balbettò il ragazzo. Jane aveva l’impressione di averlo già visto, da qualche parte; forse, dal modo concentrato con cui scribacchiava sul taccuino, poteva essere stato uno di quelli del corso di chimica. Gli occhiali esageratamente grandi, non di certo tenuti in quel modo per moda, erano forse un’indizio.
-E lei, signorina? – chiese, rivolgendosi all’amica.
-Oh… - si riprese, sfogliando velocemente il listino. – Un thè freddo alla pesca va benissimo, grazie.
Ritirò i loro menù plastificati e assicurò che sarebbe tornato subito. Con tutta quella gente, Jane ne dubitava parecchio, ma decise di credergli. In fondo, non aveva nessuna fretta, e stare seduta non poteva che farle piacere.
Sarah finse di dedicarsi ad un catalogo preso in omaggio da un negozio di scarpe. Alcuni modelli dai colori accesi illuminavano la copertina, e i tacchi vertiginosi erano stati messi in bella mostra per attirare clientela. In effetti, da come la maggior parte delle persone guardava ammirata gli opuscoli, si poteva dire che l’agenzia pubblicitaria aveva fatto un buon lavoro; alcuni paia abbastanza economici, (considerati gli standart del negozio), avevano un primo piano, mentre altri, più raffinati e forse sobri, stavano all’interno delle pagine patinate, in attesa di essere portati alla luce.
Il colore di un sandalo che Sarah aveva contemplato ammirata era lo stesso che, sulla tela, diventava di una gradazione più scura. Era un rosso particolare, che le ricordava il corallo, ma la sua bellezza si poteva ammirare solo sulla tavolozza, vista la sua abitudine di assumere strane sfumature incontrando la base bianca.
-Ah, ma guarda un po’, queste erano le stesse scarpe di Beyoncè! – disse, eccitata, mostrandole un paio di sandali chiassosi.
-Belli – rispose meccanicamente Jane, seguendo un rituale.
L’amica ridacchiò. –Non sei per niente convincente.
-Tanto se ti dico cosa penso davvero ti arrabbi – rispose l’altra, con un’alzata di spalle.
Sarah sollevò un sopracciglio: -Dimmi cosa ci trovi di male in questi splendori.
Con un piccolo sospiro, la ragazza si preparò a dare la sua analisi. –Il giallo della punta non sta bene con il viola del cinturino. Inoltre credo che quel verde sia troppo aggressivo se sommato al fucsia sul bordo, e non ha importanza che siano solo punteggiati, si nota tanto lo stesso. Inoltre il tacco mi sembra sproporzionato al resto, ma nel complesso la forma non è male. La cosa migliore è la stoffa nera di fondo, secondo me.
Lei stette in silenzio, senza dir nulla. Assorta, girò pagina e le mostrò di nuovo un altro paio. –E questi?
Jane ci mise un po’ a capire che le stava chiedendo un parere con la dovuta serietà.
-Ecco…la pelle di struzzo verde oliva non è che mi faccia impazzire. E poi la punta così spigolosa deve fare un male terribile al piede…per non parlare delle borchie sulla scollatura, sono troppo aggressive.
-Non sono così lunghe, se le vedi da vicino – le fece notare l’amica.
-Oh, ma non è quello il problema. È proprio il fatto che ci sono a non essere bello.
Furono interrotte dal cameriere, lo stesso di prima, che appoggiò due bicchieri colmi sul tavolo davanti a loro, con il conto messo sotto a quello di Sarah. Come per presentare alla propria proprietaria che stava per bere, annunciò il nome della bibita prima di porgergliela.
Infine, scomparve fra gli altri, confondendosi fra la folla in attesa di pagare il conto. Tanti, senza essere visti, avevano saltato quel passaggio.
-Beh, mia cara, ti faccio i miei complimenti – disse la ragazza dopo un po’. Prese in mano la cannuccia e la usò per mescolare il liquido rosato. –Hai fatto delle ottime osservazioni.
-Grazie – disse Jane, sorpresa, senza capire se la stava prendendo in giro oppure no.
Sarah alzò piano le spalle, senza dire niente. Non era l’unica che aveva bisogno di essere tirata su di morale; qualche settimana prima, infatti, aveva litigato con Oliver, il suo ragazzo da sempre.
I due si erano conosciuti diversi anni prima, dal momento che erano nella stessa classe. Lei era la tipica bambina bionda, con occhi azzurri e ciglia femminili, con quella punta di cattiveria che riusciva a renderla estremamente attraente nei confronti di chiunque. Lui, invece, era sempre stato, semplicemente, bello.
Tantissime ragazze amavano perdersi nei suoi occhi verdi e brillanti; di notte sognavano il suo ciuffo di capelli biondi perfettamente pettinati o le labbra morbide, estremamente virili. Altre ancora, invece, erano rimaste estasiate dai lineamenti perfetti del volto, oppure dal fisico asciutto e scolpito.
Come carattere conservava una certa arroganza, ma anche una sorta di gentilezza. Non gli piacevano le persone snob e non era mai stato uno di loro, nemmeno potendoselo permettere, e sapeva anche essere un ragazzo serio appassionato di biologia, giochi per il computer e motorini. Passava ore in officina da suo zio, da quel che Sarah le aveva raccontato.
In poche parole, la loro sembrava una relazione destinata a non durare più di qualche settimana. La maggior parte degli studenti, a scuola, aveva previsto che i due ragazzi più popolari in assoluto si sarebbero messi insieme, e altrettanto facile era stato immaginare il fatto che l’amore sarebbe sparito presto.
Dopo quasi sei anni, comunque, nessuno dei due avrebbe potuto essere d’accordo. Da cosa adolescenziale e forse un po’ infantile, il loro rapporto si era evoluto notevolmente, portandoli a fare sempre affidamento l’una sull’altro incondizionatamente. Certo, c’erano stati dei litigi quasi fatali, ma alla fine tutto si era risolto.
Da quel che Jane sapeva, però, il periodo che stavano attraversando non era dei migliori. Il giorno stesso in cui era arrivata Sophie alla Casa, Sarah aveva avuto una discussione con lui; si erano detti cose orrbili, rinfacciato tutto quello che non avevano potuto fare e quanto tempo avessero sprecato. Avevano concluso di essere troppo giovani per impegnarsi con una storia così importante, e lei aveva confessato di essere terrorizzata da una continuazione ancora più indissolubile con lui. Ne era innamorata ancora, forse più di prima, ma aveva vacillato, ma lui non era lì a sostenerla, preda dei suoi stessi dubbi.
In quel periodo non erano ufficialmente in guerra, ma la battaglia sarebbe scoppiata presto. Si respirava acida aria di calma ma, per certi versi, era ancora peggio di uno scontro vero e proprio.
-Stai pensando ad Oliver? – chiese Jane, a bruciapelo. Sarah rischiò di morire soffocata con la propria bevanda, visto quant’era persa nei suoi pensieri.
Non capitava mai che fosse preoccupata a tal punto da trascurare il resto, mai. Inoltre, era da anni che diceva quanto le fragole fossero il suo “cibo depresso”, e non aveva flirtato con il cameriere con sufficiente convinzione. Era nella sua indole assicurarsi che il fidanzato fosse abbastanza geloso di lei (cosa non impossibile, del resto) e di essere ancora una ragazza desiderabile.
-Sì – ammise, con un certo sconcerto. –Ma non mi va di pensare a lui, adesso.
Ecco, le bastava soltanto questo. Capire che era il momento di lasciar stare un argomento delicato e passare ad altro con disinvoltura, in attesa che tutto tornasse al proprio posto.
-Anzi - aggiunse dopo un po’, - parlami piuttosto della tua, di vita sentimentale.
Lo disse con un sorriso così furbo che Jane avvampò all’improvviso, mentre il viso di Malcolm le apparve davanti agli occhi con soprendente chiarezza. Si poteva davvero chiamare relazione, quella che avevano loro? O meglio, che avevano avuto?
C’era stata un’intesa molto forte, qualche bacio, momenti insieme e tantissimi istanti da condividere, nonostante si fosse consumato tutto nell’arco di poco tempo. Poteva dire di aver vissuto appieno solo standogli vicino e lasciandosi abbracciare, con la cura e la dedizione che solo lui sapeva darle. Non era un amore romantico, il loro; c’erano complicità e risate, più di tutto il resto. Si poteva parlare di amore incondizionato e logorante, questo sì.
-Ecco! – esclamò Sarah, trionfante. –Lo sapevo che c’era qualcuno! E sono anche sicura di sapere chi è – osservò con occhi da volpe.
Jane finse nonchalance. –Ah, sì? Beh, ti sbagli.
-Dalla tua reazione non si direbbe proprio.
-Beh, perché, che reazione ho avuto?
-Andiamo, sei diventata più rossa di un semaforo!
A quest’affermazione, fatta con una mezza risata, la ragazza non sappe più cosa controbattere. Farfugliò qualcosa di incomprensibile ma, alla fine, decise di raccontarle le cose essenziali; d’altra parte, era pur sempre la sua migliore amica. Aveva il diritto di sapere. E poi, visto quanto bene le aveva fatto esprimersi a parole, forse sarebbe riuscita a ricavarne anche un po’ di sollievo.
-Ehm…Ecco… – cominciò, - in effetti qualcuno c’è.
Lei non la interruppe, ma appoggiò il mento sul palmo della mano e si mise in ascolto, interessata. Curiosa. Avida di dettagli. Jane deglutì.
-Ci siamo conosciuti non tanto tempo fa, e…mi è subito sembrato di avere una strana sintonia, con lui. Per certi versi è speciale come nessuno. Suona il piano divinamente e sa sempre indovinare come mi sento, riesce a sorprendermi con le cose più assurde, e…sa farmi sorridere quando è l’ultima cosa che voglio fare.
Sarah sorrise leggermente, ma la lasciò parlare.
-Forse è successo tutto troppo in fretta e ho avuto paura, non lo so, ma aveva fatto davvero tanto per me. Mi ha salvato la vita – disse, e non stava affatto scherzando. L’amica non capì il paragone, ma non fece domande, - e mi ha resa più felice. Sembrava quasi che fossimo destinati a stare insieme, c’è stato anche un bacio, ma ho paura di aver rovinato tutto. Qualche settimana fa gli ho detto che, forse, avevamo fatto tutto troppo in fretta, ed è da lì che è diventato nulla più di un amico.
Deglutì di nuovo. L’amica adesso aveva uno sguardo più attento, critico. Jane, d’altra parte, si sentiva svuotata, un’altra volta. Davvero la sua storia con Malcolm poteva riassumersi così? Era davvero così spoglia, così adolescenziale come non credeva potesse essere? A conti fatti, erano quelli gli eventi principali, eppure stentava a crederci persino lei.
Le sembrava davvero che sotto ci fosse stato molto di più, una relazione così lampante da essere senza dubbio vera. Raccontata così, invece, aveva la stessa effimera consistenza di un sogno, di una fantasia ad occhi aperti, e il comportamento di entrambi sembrava voler tradire solo un’appagata voglia di svago.
Certo, si erano appoggiati nei momenti difficili, ma ora che entrambi si sentivano meglio avevano già preso strade diverse e, cosa assolutamente mostruosa agli occhi di Jane, con quelle parole risultava inevitabile, come se fosse stato scritto fin dall’inizio che sarebbe finita così, senza possibilità di ritorno.
Era l’ultima cosa che la ragazza volesse, però. Lei amava Malcolm, ne era certa; era stato capace di farle provare cose mai sperimentate prima, con lui aveva una sintonia incredibile, unica. Sapeva quanta fatica si facesse nell’intessere un’amicizia solida, e pareva che loro ci fossero riusciti. L’evoluzione in amore le era parsa la cosa più spaventosamente bella del mondo: aveva vissuto per un po’ in un leggero universo di dolcezza, ma non era pronta quando aveva deciso di farsi calciare via. La nuvola di zucchero filato su cui era seduta si era dissolta, lasciandole solo le mani appicicaticce e la schiena sporca di rosa.
Sarah, nel frattempo, non si era mossa. Se il cervello umano fosse stato fatto di ingranaggi da oliare, allora dietro le sue pupille si sarebbe visto un moto forsennato di cigolanti pezzi di ferro lucente. Da un lato, Jane era curiosa di sapere il suo verdetto, ma dall’altro temeva davvero molto il confronto.
-Quello di cui parli è lo stesso che c’era quel giorno, vero? – chiese, dopo un po’. Inutile specificare a quale occasione si riferisse.
-Sì – ammise mestamente.
-Beh, Jane, se è lui allora non hai di che temere. Certo, è belloccio, ma ha un fascino difficile per le ochette della nostra età, quindi fidati, loro non saranno un problema – disse coincisa, prendendo un altro sorso dal bicchiere.
-Lo so, ma non è questo che… - cercò di dire la ragazza, ma Sarah fu in grado di interromperla semplicemente annuendo.
-Ho capito, lasciami finire. Forse tu non te ne rendi conto, ma sei una bella ragazza e, grazie a Dio, non tutti sono così stupidi da non accorgersene.
Jane stava per protestare, ma dal’espressione determinata dell’altra capì che era meglio lasciarla continuare senza metterci bocca.
-Da quando siamo entrate, già due persone non hanno mai smesso di levarti gli occhi di dosso. Parliamo del cameriere? Beh, avrebbe voluto darti ben altro che un semplice thè, credimi – asserì, facendola avvampare. Continuò senza farsi interrompere da alcuna obiezione: -Quel tizio aveva il tipico sguardo di chi non vede nient’altro all’infuori dell’oggetto del suo interesse, e in questo caso sei tu, cara la mia bambolina. Se adesso vuoi lasciarti prendere dalle fisime del tuo cervello malato, non sono nessuno per impedirtelo, ma fidati quando ti dico che quello ti muore dietro. Sta solo aspettando di vedere come hai deciso di comportarti.
Silenzio. Jane fissò la superficie immobile del suo thè, scura e torbida, che doveva ancora assaggiare. Come aveva fatto Sarah a dirsi così sicura della propria opinione dopo un semplice resoconto?
Lei non conosceva Malcolm, l’aveva visto solo una volta. Si erano salutati di sfuggita per pura cortesia, nell’atrio della Casa; non avevano avuto modo di parlare, dirsi qualcosa o fare amicizia, e comunque non sarebbero lo stesso andati d’accordo, visto i due caratteri completamente differenti.
Tuttavia, in un certo senso, il discorso che l’amica aveva fatto la spingeva a crederle. Per un primo periodo aveva pensato davvero che l’avesse semplicemente usata, ma non era di certo nell’indole del ragazzo fare così. L’unica cosa di cui entrambi avevano bisogno era la compagnia, nulla di più; non avrebbero mai fatto nulla per respingerla con giochi crudeli.
L’ipotesi che stesse aspettando soltanto lei non era solo terribilmente romantica, ma anche verosimile: si adattava perfettamente all’immagine di ragazzo riservato e rispettoso, come si era sempre dimostrato nei suoi confronti. Forse, male interpretando la telefonata fatidica, aveva inteso che le servisse del tempo e un appoggio da amico, ed era quello che le stava dando. Magari la amava addirittura e non voleva confessarglielo per non turbarla, in quel caso sarebbe stata davvero una situazione assurda!
Si sarebbe sentita davvero una creatura orribile se l’avesse incatenato in uno stato tanto paradossale delle cose.
All’improvviso, mentre Jane stava ancora riflettendo su quello che aveva appena sentito e pensando a qualche obiezione da fare, Sarah le scoccò un’occhiata furba che non prometteva nulla di buono.
-Sai…alle ragazze non è mai piaciuto dover agire per prime. Se davvero ti ama, allora che lo dimostri.
- È… - cercò di dire Jane, ma non sapeva nemmeno lei come continuare.
-Ho un piano – disse Sarah, furba. –E non potrai rifiutarti dal metterlo in atto. 

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Capitolo 22
*** Fever ***


Il progetto di Sarah, in poche parole, era quello di renderla irresistibile. Lei era dell’idea che se fosse stata tirata a lucido, Malcolm avrebbe ceduto al suo fascino e non sarebbe riuscito a trattenersi ancora a lungo; questa concenzione forse un po’ troppo ottimistica di come conquistare un ragazzo non aveva potuto evitare a Jane ore e ore a casa dell’amica, per una seduta “esteticamente rigenerante”.
Ora, correndo allarmata verso casa di Kim, si sentiva stupida: era dovuta uscire in ritardo a causa di una telefonata di Oliver, durante la quale l’amica aveva voluto rimanere da sola, e Malcolm le aveva detto che poteva anche prendersi il pomeriggio libero, visto che la bambina era malata.
Invece di insistere, era andata a rifugiarsi in biblioteca. La donna che stava perennemente dietro il bancone la conosceva, visto che era praticamente l’unica cliente, così faceva in modo di riservarle un angolo dove passasse poca gente e ci fosse il meno rumore possibile. Quando Jane leggeva, chiunque fosse attorno a lei spariva, non aveva importanza quanto trambusto fosse capace di fare; tuttavia era grata di quella premura e accettava con un sorriso il suo posto privilegiato.
Naturalmente aveva spento il cellulare, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze. Certo, era stata in ansia per Kim, ma le ore erano letterlamente volate, e non si era accorta di quanto velocemente il tempo fosse passato, né che l’ora di chiusura l’avrebbe costretta ad andarsene prima del previsto.
Non essendo una persona circondata da gente in pena per lei, spesso capitava che il suo telefono giacesse in borsa per giorni, senza ricevere nemmeno un’occhiata. Forse, quella sera, aveva voglia che qualcuno l’avesse cercata, magari durante un’illusione qualsiasi. Prese in mano l’oggetto, lo accese e aspettò.
Fu una vera e propria fortuna, pensò svoltando nella via conosciuta. La schiera ordinata di case bianche le si parò di fronte, e si sentì un’usurpatrice nell’interrompere quella calma consuenta con il ritmo forsennato del suo respiro. Non era abituata a correre, tantomeno con un simile gelo, e farlo non la faceva sentire particolarmente in forma.
Nelle ultime due ore, Malcolm l’aveva chiamata quasi sedici volte, senza contare dei messaggi che le chiedevano urgentemente di contattarlo. Quando, divorata dall’ansia, si era decisa a comporre il suo numero, si sentì spiegare in fretta che Kim era peggiorata drasticamente, e che avrebbero dovuto correre all’ospedale. Lui non sapeva come far scendere la febbre ed era da qualche minuto che gli pareva addirittura priva di vita. Sua madre sarebbe tornata solo entro un paio d’ore, e non avrebbe potuto aspettare ancora.
Inutile dire che Jane era partita come un razzo verso casa sua, incolpandosi della propria stupidità. Kim non si ammalava spesso, e questa era stata la sua prima mancanza; se una bambina è di costituzione debole, la prima caduta sarà la peggiore, era risaputo. Anche lei, quand’era piccola, era stata cagionevole di salute, ma la prima volta in cui si era ammalata era stata certamente la più pericolosa.
In secondo luogo, era chiaro che c’era qualcosa di anomalo nel non volerla in casa solo per una motivazione così stupida. Anzi, ripensandoci, la sua presenza doveva essere stata essenziale proprio perchè sottolineata dalla febbre. Se Malcolm le aveva dato del tempo libero, era solo perché non aveva voluto rimanere solo con lei e una bambina ammalata un pomeriggio intero, magari colmo di silenzi imbarazzanti e un’atmosfera opprimente.
Per colpa sua, c’era andata di mezzo Kim. Ed era l’unica cosa che si era ripromessa di evitare.
Affannosamente, si affrettò ad entrare nel cancelletto degli Hall. Lui doveva averlo lasciato aperto per farle fare prima, infatti anche la porta di casa era rimasta semplicemente socchiusa. Quando lei doveva arrivare, e suonava il campanello, lasciare libera la via principale era una cosa scontata, solo per evitarle di dover bussare due volte.
All’improvviso, la regolarità della facciata immersa nell’ombra della sera le parve nuova. Era come se il giardino familiare, il garage che si intravedeva dalla serranda rotta oppure la stessa, piccola veranda, fossero state contaminate da qualcosa di diverso.
Le finestre erano chiuse e buie; le camere sembravano dormire; l’ingresso era agitato da un bagliore soffuso e poco convinto. Deglutendo, la ragazza cercò di recuperare fiato e un po’ di calore, perso completamente da quando aveva dimenticato il cappotto in camera. Aveva infatti fatto in tempo a tornare nella sua stanza prima di raggiungere il ragazzo, e non si era lasciata i minuti necessari per rivestrisi.
Decise di entrare velocemente; se avesse continuato ad indugiare all’ingresso, non sarebbe stata utile a nessuno dei due.
Salì i gradini verniciati di bianco con una sorta di timore, poi aprì del tutto la porta d’ingresso. I cardini cigolarono sinistramente.
-Malcolm? – chiamò, con il respiro affannoso. La parte più dolorosa da sopportare erano le orecchie: sembrava stessero per staccarsi dal gelo che le aveva attanagliate.
-Sì, eccomi – disse il ragazzo, cupo. Spuntò dalla porta della cucina, parzialmente illuminata; era vestito di scuro, come suo solito, ma questa volta sembrava quasi che i suoi abiti fossero un prolungamento naturale della pelle, e non un’aggiunta.
-Kim? Dov’è?
-Di sopra. Adesso la vado a prendere e la carico in macchina – disse, coinciso.
-C’è qualcosa che posso fare? – si offrì subito la ragazza. Se l’aveva chiamata era perché aveva bisogno di aiuto, e lei avrebbe fatto di tutto per darglielo il più presto possibile.
Lui ci pensò un po’ su, come per essere sicuro. –Ecco…magari un cambio per lei, e robe simili. Non saprei cosa portarle, credo che tu..sì, insomma, sia più abile di me in queste cose.
La ragazza annuì brevemente, in un tacito assenso. Il compito che le chiedeva non era affatto difficile: si sarebbe trattato di raccogliere qualcosa per lei e di metterlo in una borsa. Forse anche la propria sarebbe stata abbastanza capiente.
Senza parlare, il giovane si fece seguire su per le scale. Persino il suo modo di camminare sembrava tradire preoccupazione, visto che non aveva saputo come comportarsi di fronte a quell’emergenza. Era stato crudele da parte dei genitori sottoporlo subito ad una prova del genere, visto che la stessa salute della bimba era stata messa a rischio.
Entrambi si ritrovarono nella camera dalle pareti rosa della piccola, che stava stesa sul proprio letto. Sembrava che la febbre l’avesse rimpicciolita, costringendola a farla stare acciambellata su sé stessa. I lunghi capelli biondi erano abbandonati sul cuscino come se non le appartenessero più, e le guance erano arrossate dal calore della temperatura corporea. A Jane si strinse il cuore quando Malcolm si avvicinò, ma decise che non era il momento per dispiacersi.
-Kim – le disse lui, dolcemente, - per favore, alzati un attimo. Adesso ti porto in macchina, ok?
La bambina non rispose, ma la vide allungare le braccia con poca convinzione. Come sotto tacito accordo, anche la ragazza si mise a parlare a bassa voce, dando modo all’atomosfera cupa di continuare a vivere nella casa.
-Aspetta, mettile una coperta addosso – consigliò, prima di porgergliene una poggiata su una sedia.
Lui obbedì in fretta, sistemandola in braccio e coprendola protettivamente, come un genitore farebbe con il proprio bambino. Uscì dalla stanza facendo attenzione sia a camminare senza svegliarla che a dove metteva i piedi, per non scivolare o farla cadere.
Jane decise che non era il momento di pensare. Se avesse indugiato ancora, non avrebbe dato modo a Kim di ricevere le cure necessarie abbastanza tempestivamente, cosa che andava assolutamente evitata. Aprì velocemente le ante dell’armadio: decise di prendere una piccola sacca arancione per mettere dentro lo stretto necessario, almeno per quella notte.
Prese un pigiama e della biancheria pulita, per poi aggiungere uno spazzolino trovato in bagno, del dentifricio, un bagnoschiuma e shampoo per bambini, elastici per capelli e una spazzola. Spinse un po’ per farci stare anche il suo peluche preferito, ma alla fine riuscì anche a mettere qualche succo di frutta e un paio di calzini bianchi. Insomma, le pareva che per il ricovero, almeno nell’immediato, sarebbe potuto bastare.
Scese di fretta le scale, rischiando anche di cadere. Aveva deciso con sé stessa che più si sbrigava, meglio era, poco contava se si fosse fatta male. Nel vialetto, Malcolm aveva già caricato la bambina sui sedili posteriori di un auto grande, scura e lucida, e si stava affrettando per chiudere la porta di casa. Jane aveva avuto l’accortezza di spegnere le luci mentre scendeva.
Non si dissero niente quando si incrociarono sulle scale, ma lei se ne accorse appena. Non era il momento di dedicarsi a problemi personali, bastava soltanto che riuscissero a collaborare quel tanto che bastava per portare la bambina al pronto soccorso. Guardandola meglio, stesa sui sedili posteriori senza quasi nessun accenno di vita, Jane si rese conto che era l’unica soluzione possibile.
Decise di stare seduta con lei, e poggiò la sua piccola testa sulle proprie ginocchia, spostando i capelli dalla sua fronte sudata con una mano. Le sarebbe servito un panno fresco, ma non c’era tempo: per quell’istante era importante offrirle conforto.
-Jane? – mormorò ad un certo punto. –Sei tu?
La sua voce era così fioca che quasi non si sentiva.
-Sì, non preoccuparti. Sono qui, adesso starai meglio – rispose, con un peso sul cuore. Non voleva che parlasse troppo per non affaticarsi.
Come sperava, la bambina socchiuse gli occhi e si lasciò cullare. Fuori, Malcolm aveva finito di sistemare la porta e stava già salendo alla guida, chiudendo finalmente lo sportello e lasciando il gelo invernale al di fuori del finestrino. Anche se aveva una spessa coperta di lana sulla schiena, Jane non poteva essere sicura che quell’ondata di freddo non le avesse provocato danni.
Scostò un’altra ciocca con le dita e sfiorò la pelle accaldata. Era davvero bollente.
Malcolm mise in moto con una certa fretta. I fari illuminarono la parete bianca del garage, ma sparì in fretta dopo che fu ingranata la retromarcia. Si voltò per scendere dal vialetto ma, una volta imboccata la strada, decise di mantenersi concentrato sulla strada davanti a lui viaggiando ad una velocità costante.
Jane non sapeva che avesse la patente, ma in fondo doveva immaginarselo. Doveva avere ormai diciotto anni, era del tutto normale che sapesse guidare. Inoltre, era sensato persino che la famiglia avesse una macchina, a casa, visto che una volta tornati i genitori dai viaggi avrebbero avuto bisogno di un mezzo per spostarsi. In fondo, lo stile del veicolo le ricordava i mezzi preferiti da suo padre per spostarsi: erano sufficientemente grandi per trasportare persone in comodità, erano funzionali, potevano sopportare diversi tipi di strada e percorrevano senza difficoltà anche grandi tragitti.
La ragazza non amava trovarsi nell’abitacolo a causa di ricordi spiacevoli, ma si concentrò sulla bambina per paura che peggiorasse. Lui svoltò e si immise nella strada principale, fortunatamente poco trafficata, ma all’ospedale mancava ancora tanto, troppo tempo, e la prospettiva la esasperò.
-Jane – disse lui, ad un tratto. Incrociò i suoi occhi sullo specchietto retrovisore: -Potresti chiamare mia madre? Il mio cellulare è sul sedile, vicino ai piedi di Kim. Il numero è salvato in rubrica sotto al suo nome.
La ragazza annuì e allungò un braccio fino a toccare, sulla pelle scura del posto passeggero, un oggetto rettangolare e freddo.
–Cosa le devo dire? – chiese, prendendolo.
-Non lo so…avvisala che siamo partiti.
Lei si affrettò ad obbedire: lo schermo si illuminò sotto le sue dita impazienti, mentre cercava di fare mente locale su quale tasto era meglio premere. “Tasto”: trattandosi di un touch-screen, le sue difficoltà erano leggermente aumentate rispetto al normale.
Aguzzò lo sguardo, mentre un’altra curva veniva macinata. Riuscì per pura fortuna a trovare la rubrica, e scorse sotto la lettera “m” tutti i risultati, ottenendo solo una sconfitta come esito. Ripensò velocemente a quello che le aveva detto, cercando di fare in fretta. Il tempo era l’unica cosa che non poteva concedersi, e doveva dedicarsi a Kim per tenere la febbre sotto controllo.
“Il numero è salvato in rubrica sotto al suo nome”.
Sotto al suo nome.
Si rese conto di aver cercato sul posto sbagliato. Il rapporto che aveva con sua madre non era così familiare come aveva pensato e, mentre memorizzava il suo numero, l’aveva inserito non sotto l’appellativo “mamma”, bensì “Francesca”. Questa cosa gettò un’ombra sulla visuale di Jane, che le fece ancora una volta provare un bruciante dispiacere per lui, che era ben lontano dalla compassione.
Premette il tasto verde di chiamata e se lo portò all’orecchio, in attesa. Nel frattempo, le luci della città scorrevano ai loro fianchi come se fossero insofferenti delle loro sventure.
-Malcolm, tesoro? – chiese una voce, apprensiva, non appena la linea diede segno di aver ricevuto la rischiesta di conversazione.
-No, miss Hall, sono Jane – disse la ragazza.
-Jane? – chiese la donna, confusa. Lei si maledì all’improvviso, prima di capire che era meglio dirle in fretta quello che doveva comunicarle.
-Sì, sono venuta per dare una mano a suo figlio. Mi ascolti, noi adesso siamo in macchina, verso l’ospedale. Entro un paio di minuti arriveremo al pronto soccorso.
-Kim? – si limitò a dire.
-È qui con me, sta dormendo. La febbre è salita, ma sembra stabile.
Un sospiro sofferto coprì l’altro capo. –Oh mio Dio…tesoro, dopo potresti chiamarmi ancora? Secondo la hostes ci vorranno altre due ore prima dell’atterraggio.
-Certo, non si preoccupi. Appena arriviamo le farò una telefonata – assicurò la ragazza. Seguendo i cartelli, potè vedere il ragazzo imboccare la via più breve per l’ospedale.
-Grazie, grazie mille – disse, sollevata. –Arriverò il prima possibile. Mi dispiace, io…
-Non si preoccupi – rispose la ragazza, addolcendo il tono. –Adesso siamo arrivati. Vedrà, starà bene.
Aveva provato ad essere rassicurante, giusto per darle un attimo di pace, e sembrava aver alleviato almeno in parte la sua sincera ansia materna. Tuttavia una madre in pena è difficile da calmare, quindi Francesca parve stare un po’ meglio solo in mancanza di alternative. Non poteva fare nient’altro, essendo ancora su un aereo.  
-Lo spero. Grazie, tesoro. A dopo.
-A dopo – concluse Jane, poi riattaccò. O, almeno, sperò che la conversazione fosse chiusa.
-Tieni pure tu il telefono – disse Malcolm, all’improvviso. La sua voce sembrava quasi severa. –Non hai il suo numero e non avrebbe senso fartelo memorizzare adesso.
-D’accordo, lo metto in borsa – concesse Jane. Non riusciva a capire come mai non si fosse offerto di chiamare lui la madre, una volta arrivati all’ospedale. La preoccupazione che sentiva per la sorella gli stava torcendo le viscere, era evidente, ma lei non avrebbe saputo spiegare come questo fatto incidesse sui rapporti che già aveva con Francesca.
Forse nelle sue parole si poteva leggere la tacita accusa di non essere presente, a causa di un ennesimo viaggio chissà dove. Kim era stata male e lei non c’era, e questo probabilmente era stata una colpa imperdonabile che si sarebbe aggiunta, negli anni, a tutte qulle che la donna aveva precedentemente commesso. Si chiese come mai non avesse nemmeno provato a contattare il padre, ma non le parve il caso di chiederglielo in quel momento.
Continuò a guidare in silenzio per qualche minuto. Sullo specchietto, si intravedeva l’ombra di uno zigomo affilato, di una guacia scavata, una porzione di naso dritto e grande. L’occhio era escluso da quella parte di viso visibile, ed era un peccato: aveva il colore più meraviglioso che avesse mai visto, e le dispiaceva dovervi rinunciare anche in quel momento.
Era una cosa stupida, lo sapeva, ma probabilmente non avrebbe mai più avuto occasione di osservarlo da vicino, e non era pronta a privarsi del tutto della sua bellezza. Se avesse potuto tornare indietro, non gli avrebbe mai detto quelle cose al telefono, non avrebbe mai alimentato quei dubbi sulla loro storia.
Se li sarebbe tenuta per sé, magari vi avrebbe ragionato in seguito nell’intimità della propria camera, ma non gli avrebbe esternati e, probabilmente, sarebbe stata felice con il ragazzo al suo fianco.
Proprio in quel momento, vide la luce rossa di una croce brillare sopra alla sua testa, con un bagliore decisamente sinistro. Guardando oltre il sedile davanti a sé, poteva notare alcune ambulanze ferme in una piazzola, e un imponente edificio parzialmente illuminato, con alcuni scivoli davanti all’entrata principale. Il riflesso di alcune persone sedute all’interno dava un tetro benvenuto ai nuovi arrivati, e alcuni uomini in uniforme stavano bazzicando là intorno portando sulle spalle dei borsoni di primo soccorso.
 
  -Piccola Jane? Non preoccuparti, il papà è qui adesso.
 
Le dita di lei si strainsero istericamente sul bordo del plaid rosa della bambina, mentre dei ricordi spiacevoli si insinuavano nella sua testa al momento sbagliato. Chiuse gli occhi, serrò le palpebre per un secondo, e si concentrò su Malcolm che parcheggiava. La testa smise di ronzare, le orecchie abbandonarono il loro fastidioso fischio e la realtà recuperò bordi netti a cui appoggiarsi.
Il ragazzo scelse un posto sufficientemente vicino all’entrata e anche abbastanza lontano per non dare fastidio ai veicoli dell’ospedale. Spense la macchina e si voltò un attimo verso i sedili posteriori, lanciando un’occhiata apprensiva alla sagoma addormentata e rannicchiata della sorellina.
-Come va? – chiese, con voce grave.
Jane si riprese. –Non è né migliorata, né peggiorata.
Lui sospirò. –D’accordo. Aiutami a portarla fuori.
Aprì lo sportello, e l’aria della sera le morse la pelle lasciata in parte scoperta a causa degli indumenti sottili. Si rese conto di essere stata stupida: aveva appena iniziato a scaldarsi quando già si rassegnava a dover rischiare di nuovo un’influenza, e tutto perché non aveva avuto il pensiero di doversi portare un soprabito.
Sospirò a contatto con l’aria serale, assicurandosi che la bambina fosse ben coperta dalle coltri color pastello. L’importante, alla fin fine, era che lei stesse meglio, e non che Jane avesse oppure no freddo a causa della propria stupidità.
-Tieni – disse Malcolm, all’improvviso, - prendi questa.
Voltandosi, scoprì che le stava porgendo una giacca scura. Era sua, senza dubbio, perché la grandezza della stoffa le faceva pensare anche alla misura della felpa che le aveva prestato. Visto che non diceva nulla, troppo sorpresa per parlare, lui si affrettò a parlare con un lieve rossore sugli zigomi.
-L’avevo lasciata in macchina l’ultima volta che sono salito. Secondo me faresti meglio a coprirti, sai…per non ammalarti.
Jane sorrise, incerta, quasi commossa da quello che era un semplice gesto gentile. Dall’ultima volta in cui si erano parlati, non era più abituata a qualcuno che le desse attenzioni, infatti Sarah raramente si abbandonava a gesti gentili nei suoi confronti, proprio per una questione caratteriale. Inoltre, notando la sua premura, si sentì quasi subito più calda rispetto a prima, e sperò di non essere arrossita. Per il bene di Kim, la accettò in fretta, sfiorandogli involontariamente le dita.
-Grazie – mormorò. Lui annuì e basta, ancora imbarazzato.
Dopo quel breve momento in cui non avevano saputo bene come reagire, si mossero in fretta per portare dentro la bambina. Lui la prese in braccio, mentre Jane si occupava delle chiavi e della borsa, dove all’interno aveva messo la sacca per Kim. Ringraziò mentalmente Sarah per avergliene regalata una grande per il compleanno.
-Secondo te da che parte si entra? – le chiese, dopo che si furono avvicinati a quello che sembrava un ingresso.
-Direi da questa parte. Vedi? Ci sono delle persone dentro, e non mi sembrano medici.
L’ipotesi non si rivelò azzardata: quella al piano inferiore era una sorta di sala dove c’erano dei cartelli per i vari piani, e alcuni distributori di cibo per i parenti che dovevano sorbirsi i turni di notte. Ogni tanto passava qualche infermiere, ma spariva quasi subito in uno dei tanti ascensori che c’erano nella fila alla parete. Era un posto ampio dove nessuno sembrava avere fretta; bastava solo qualche ora all’ospedale per assumere un’espressione stanca e assonnata, come quella che aveva la maggior parte delle persone che camminavano loro incontro.
 
  -Tu non sei mio padre!
 
Fu Malcolm a prendere l’iniziativa. Vide un medico vicino ad un ascensore, in attesa che si aprisse, e gli si avvicinò. Jane li vide parlare fra loro e si affrettò a raggiungerli e, da quello che sentì, le parve che gli avesse fatto il punto della situazione. L’uomo aveva un viso serio, grave, come se avesse ascoltato con la massima attenzione e adesso fosse quasi preoccupato.
-È il tuo giorno fortunato, ragazzo – gli disse, all’improvviso. –Lasciami pure la bambina e aspetta al nono piano. Non appena l’avranno visitata, ti avvertirò.
Poi si voltò, escludendoli dalla loro visuale. –Angela! Massima priorità al piano nove!
A quel richiamo, una ragazza giovane in camice bianco drizzò le spalle e smise di chiacchierare con la sua collega. Aveva i capelli raccolti in due trecce brune un po’ infantili, e il viso era spruzzato di lentiggini. Recuperò un’aria professionale sentendo ulteriori istruzioni dal dottore, e un altro paio di infermieri vennero ad aiutare l’uomo a portare Kim in una delle tante stanze.
 
-Piccola bastarda! Cos’hai detto? Prova a ripeterlo sei hai il coraggio!
 
 
-Piano nono – ripetè il dottore, prima di sparire, - andate lì.
-Aspetti! – cercò di trattenerlo Malcolm, ma lui era già sparito assieme ai suoi accoliti, in un battito di ciglia.
Imprecò sottovoce, mordendosi il labbro inferiore. –E adesso? – chiese, nervosamente.
Jane, affogata nella giacca fin troppo grande per la sua taglia, gli posò una mano sull’avambraccio, in apprensione. La testa le girava ancora, ma decise di ignorare la sensazione. Non sapeva perché, ma all’improvviso stralci di passato erano ricomparsi davanti ai suoi occhi; forse a causa dell’ospedale, aveva ricominciato a rivedere pezzi di vita che non aveva mai voluto raccontare a nessuno.
-Non preoccuparti, se la tengono loro allora vedrai che starà bene – disse, con voce dolce, ma le era difficile mantenere la calma. Coprì il tremore alla mano con l’avanzo di stoffa della manica, fin troppo lunga per le sue braccia.
Vide l’espressione di lui stendersi un minimo, mentre rilassava le mascelle. Il nero lo faceva apparire ancora più magro di quello che era. Distrattamente, come se stesse pensando ad altro, le sistemò il collo della giacca, sfiorando leggermente la pelle mentre cercava di non far scivolare giù le spalle.
-Hai…hai ragione. Ho bisogno di qualcosa di caldo. Un thè, qualsiasi cosa. C’è un distributore qui. Che ne dici?
Era l’invito più contorto che le avesse mai rivolto, ma lei sorrise ugualmente, per tranquillizzarlo. Quel thè avrebbe fatto bene anche a lei, nonostante non avesse più freddo.
-Va bene – concesse.
Accolse il suo piccolo sorriso come se fosse un tesoro e lo seguì nei corridoi dell’ospedale come se fosse l’unico in grado di regalarle la salvezza. E di portarla lontano dai ricordi spiacevoli.  

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Capitolo 23
*** Against Betty ***


Jane sbirciò dalla tenda che occultava in parte il vetro della stranza per controllare che Malcolm non facesse follie. Era ancora agitato, visto che le poche notizie ricevute non sembravano positive, e non la smetteva di vagabondare tra il letto dalle lenzuola di carta e la finestra. Guardava fuori per un breve momento, lasciava che le luci della città ai suoi piedi si riflettessero nel suo sguardo, e poi ripartiva per la sua esplorazione, mangiandosi le unghie.
-Sì, non si preoccupi, signorina Miles – disse la ragazza, sistemando il telefono sotto la guancia.
Un sospiro metallico diede una nuova cadenza alla risposta. –Va bene, tesoro, lo sai che di te mi fido. Lascia che ti porti un cambio, qualcosa…
-No, no, non è necessario, verrò io stessa a prenderlo – si affrettò a dire Jane, spaventata. Distolse lo sguardo dalla camera che avevano loro assegnato in attesa di Kim, improvvisamente angosciata all’idea che qualcuno potesse invadere la sua stanza.
-Come vuoi, allora – disse l’altra, vagamente rincuorata. –Troverai aperta la porta sul retro, se ti serve. Ci sarà Jeff, di turno, domani mattina.
Fra sé e sé, la ragazza sospirò di sollievo. –Grazie, grazie davvero. Arrivederci.
-Riguardati, tesoro – rispose la signorina Miles. La nota materna nella sua voce era resa meccanica dal cellulare. –A domani.
Chiuse la comunicazione con una vaga inquietudine. La donna non aveva avuto reazioni particolari quando le aveva praticamente vietato di entrare in camera sua, e sperò che non si insospettisse ed entrasse lo stesso. Non c’era nulla di compromettente, ma Jane mal sopportava presenze estranee nel suo personale luogo di riposo, visto che era l’unica stanza al mondo capace di farla sentire a casa.
Aveva spostato il letto, comprato lenzuola nuove con i soldi racimolati da un lavoretto estivo, appeso disegni sull’armadio, spostato i propri vestiti negli ordini che preferiva e rivoluzionato lo spazio con una serie di accortezze che le parevano più familiari al suo modo di essere. Quel posto parlava di lei, dei suoi libri, dei suoi quadri, di tutto quanto di più caro avesse al mondo. Sotto al cuscino, riposavano le foto dei suoi genitori.
-Come va, adesso? – chiese la ragazza, entrando nella stanza d’ospedale. Ne avevano assegnato una in previsione dell’ammalata, ancora in fase di visita, che sarebbe presto arrivata, visto che quella sera il reparto pediatria sembrava particolarmente affollato.
Il ragazzo parve riscuotersi dal suo viaggiare senza meta. Sembrava ancora più alto, incastrato nel piccolo spazio colorato. I tentativi di rendere la camera più allegra avevano soltanto peggiorato la situazione.
-Meglio – rispose, passandosi una mano sul viso. –Prima un’infermiera è passata e mi ha detto che la stanno ancora visitando, e che la terranno tutta la notte in osservazione. Forse entro domani possiamo andare a casa, ma… - scosse piano la testa, - lei dice che è meglio prendersi un attimo per la convalescenza.
Jane si sforzò di sorridere. - È già una buona cosa che ti abbiano detto che potrà andare a casa presto.
Il ragazzo annuì, poco convinto. –Sì, hai ragione. 
Non avendo nient’altro da dire, lui si sedette sul letto e si prese la testa fra le mani. Quella posizione ricordò a Jane qualcosa, ma non seppe identificare il ricordo con abbastanza precisione. Era un’immagine sfocata, arrivata all’improvviso, che aveva lasciato dietro di sé una sensazione spiacevole di…sporcizia.
Si sostenne appoggiando una mano sulla cassettiera lì vicino, cercando di calmare i cerchi concentrici in cui la superficie arancione era sprofondata, e cercò di scacciare la risata di lui, il suo fiato pesante, dalla sua testa. Se non aveva raccontato a Malcolm tutto del proprio passato, quella volta, era per il motivo che le tornò lucido alla memoria, in un baleno: quel periodo della sua infanzia faceva semplicemente e oggettivamente schifo. Chissà se Sophie ce l’aveva nei propri fascicoli dell’FBI.
-Tutto ok? – le chiese il ragazzo, stranito.
Jane si riscosse. Si sforzò di sorridere: -C…certo, certo. Sto benissimo. È solo che…non mi piacciono gli ospedali, ecco tutto.
La fece sembrare una cosa da poco, ma capì di non essere stata convincente. Il ragazzo non insistette, ma non si dimostrò totalmente convinto dalla sua versione dei fatti; lo ringraziò mentalmente per non aver cercato di fare inutili indagini, mettendola in difficoltà con domande pressanti.
-A proposito – continuò lei, per affogare il disagio che sentiva nel petto, - ho chiamato tua madre. Dice che l’aereo è atterrato, e che noleggiando un’auto sarà qui fra circa un’ora.
-Per eccesso o per difetto? – chiese Malcolm, sarcasticamente.
-Per difetto, temo – sospirò Jane. Appoggiò la borsa e vi frugò dentro. –Visto che ho fatto quello che dovevo fare, ti ridò il telefono. Una certa Betty ti ha inviato un messaggio.
-Betty? – domandò, sorpreso. Allungò una mano e accettò l’oggetto che gli stava porgendo. La ragazza annuì, con un vago senso di malessere; evidentemente anche la sua nuova ragazza era preoccupata per lui.
Non era certa che avesse una nuova fiamma, ma in fondo al cuore se lo sentiva. Certo, Malcolm era un solitario, ma era un bel ragazzo, e questo non era un dettaglio trascurabile. Sicuramente, a giudicare dal nome, si sarebbe trattato di un’ennesima approfittatrice, dal momento che si sarebbe dimostrata tutto zucchero e caramello per i primi tempi, e poi sarebbe diventata una dispotica opportunista.
Lei si morse la lingua, mettendosi una mano sugli occhi stanchi. Non conosceva la ragazza in questione, e non poteva permettersi di giudicarla. Se Malcolm l’aveva scelta, qualche qualità doveva pur averla, no? E poi non stava a lei decidere le misure della felicità del ragazzo, bastava solo che stesse bene, null’altro.
-Grazie – disse lui. Prese in mano il telefono e, scusandosi, uscì dalla stanza per fare una chiamata. Jane era sicura di conoscere la destinataria.
Rimasta sola, in ogni senso, la ragazza decise di prendere il libro che stava leggendo, e sedersi sulla sponda del letto. Aprì dove aveva messo il segno e l’odore di pagine ingiallite la fece stare un po’ meglio; era un profumo rassicurante, avvolgente e immutabile, un punto saldo nella sua vita.
I suoi occhi corsero sulle righe d’inchiostro abbastanza distrattamente, per trovare il segno. Vagava fra le lettere fino a quando tutte si mescolarono fra loro, creando un guazzabuglio nero di grafemi in una lingua sconosciuta. Man a mano che la sua fantasia si intrometteva, le sembrò quasi che il ritmo immobile del susseguirsi delle parole formassero una figura: aveva curve sinuose e lunghi capelli mossi, e delle labbra arricciate che erano l’unico dettaglio visibile.
Di quest’ipotetica persona si potevano vedere solo i bordi. Capendo che il suo cervello stava cercando di dare un’aspetto alla fantomatica Betty, Jane chiuse gli occhi, li stropicciò e notò con grande piacere che i significati arcani del libro si stavano svelando a lei solo sottoforma di drammi scritti, senza disegni strani.
“Non mi avrai in mano tua, cervello!”, pensò divertita, accigendosi a leggere. Solo che le sembrava che l’inchiostro fosse melassa; non riusciva ad afferrare nessun significato concreto. Coglieva solo parole qua e là, senz’ordine, ma non era capace di mettere insieme delle frasi. Quando si imponeva concentrazione poteva stare calma solo per pochi secondi.
Betty tornava sempre, con velocità e tenacia esasperanti. Delle volte era bruna, e aveva un bellissimo sorriso mentre rimaneva languidamente abbracciata ad un’improvvisa visione di Malcolm. Delle altre era bionda, e le sue labbra imbottite di lucidalabbra usurpavano impunemente quelle del ragazzo. Provò addirittura ad immaginarsela rossa e minuta, con delle lentiggini a colorarle le guance perennemente imbarazzate e una pelle diafana celata da un estivo vestito a fiori.
No, non esisteva, decise. Non avrebbe ceduto; chi fosse Betty, quale fosse il suo aspetto o che colore avessero i suoi capelli non erano affari suoi. Sperò che fosse bella, molto più bella di lei, e in un istinto di masochismo le attribuì tutte le doti che a lei mancavano.
“Che sia una ragazzina magra, splendida, dagli avambracci intatti, con un’allegria contagiosa e un sacco di buone virtù riassunte nel volontariato!” pensò, piccata, decisa a non dare soddisfazione alla sua psiche.
Era così assorta nel lanciare invettive a sé stessa tramite un’idealizzata Betty che non si accorse del ritorno di Malcolm. Il ragazzo tornò nella stanza con un’espressione più distesa e tranquilla, ma Jane non se ne rese nemmeno conto.
Lui si appoggiò allo stipide della porta, osservandola. Guardava la linea degli zigomi piatti, la bocca carnosa semi aperta dalla concentrazione, le ciglia che celavano in parte gli occhi scuri e la pelle candida, liscia, increspata solo da attimi di tragedie crudeli che lei stessa aveva deciso di ricordare perennemente, con decisi tagli all’altezza delle braccia. Come sempre, la trovò bellissima, soprattutto perché non si rendeva conto di esserlo; troppe ragazze avevano la presunzione di essere splendide, e questo rubava loro moltissima spontaneità.
La prima cosa che aveva notato di lei era una certa goffaggine per nulla simulata. Era stato questo ad incuriosirlo: di solito, una ragazza così avvenente non aveva problemi relazionali, e Jane era anche simpatica ed intelligente, ed era per questo che non capiva cosa potesse impedirle di essere popolare. Poi, conoscendola meglio, aveva visto nel profondo dei suoi occhi la luce tipica di chi resta, qualsiasi cosa egli faccia, un destinato all’esilio. Solo che lei l’aveva accettato, se l’era auto-imposto. Ed era stato l’inizio che aveva segnato il suo inevitabile, e sempre più forte, innamoramento per lei.
 Quasi bruciava dal desiderio di riportare tutto a quell’idilliaco pomeriggio in cui aveva potuto trattarla come propria ragazza, ma si era ormai rassegnato all’evidenza di essere stato stupido; era andato troppo veloce, aveva fatto le cose di fretta, e lei aveva ceduto solo per un attimo di debolezza. Se c’era qualcuno degno di amarla, pensava, allora non era lui.
-Cosa leggi? – chiese il ragazzo, facendola trasalire.
-N…niente, niente – si affrettò a dire Jane. Posò il volume accanto a sé: -Non riesco a concentrarmi. Sono troppo preoccupata.
Non era affatto una bugia: stava letteralmente fremendo per saperne qualcosa della bambina, ma sembrava che il tempo si fosse cristallizzato.
Malcolm, senza dir nulla, le si accomodò vicino, mantenendo una rispettosa distanza. Con un brivido, Jane ripensò ossessivamente a cosa avrebbe pensato quella Betty della situazione, e come avrebbe reagito nello scoprire cosa c’era stato, seppur per un breve momento, fra loro.
Basta, doveva smetterla, stava andando fuori di testa. Doveva assolutamente pensare ad altro, altrimenti sarebbe sicuramente impazzita a furia di rimuginarci sopra. Solo che, quando si preparava a scacciare il pensiero, un altro si faceva strada dentro di lei, e non le dava pace. Non sapeva decidersi su quale fosse peggiore, ma capì perfettamente che non poteva sopportare il peso che la seconda possibilità portava con sé. Decisamente meglio Betty, se si volevano paragonare le due scelte.
-Sono così in ansia per lei -, ammise lui, dopo un po’.
-Anch’io – confessò Jane, a sua volta.
-Cosa si fa in questi casi? Voglio dire, per alleviare la tensione. Ci dev’essere un modo.
La baby-sitter si strinse nelle spalle. –Potendo io mi farei un bel bagno bollente con un libro in mano, ma sono sicura che qui non vedano il mio desiderio di buon occhio.
Suo malgrado, Malcolm ridacchiò. Ci fu solo silenzio, ma quel suono parve rischiararlo un po’, rendendolo meno pesante, meno ricco di frasi non dette ma incofessabili ugualmente.
Era un’immobile situazione di stallo, dove tutto l’imbarazzo o i ricordi spiacevoli davano tregua ai loro possessori e, semplicemente, sparivano, si dissolvevano. Certo, però, non era una cosa destinata a durare, e a Jane sembrò che passassero anni prima che quel silenzio si interrompesse.
-Mi manchi, Jane – sussurrò lui, ad un certo punto. Lo disse con un tale livello di sofferenza sincera nella voce che sembrava una spugna impregnata di dolore.
Jane ne fu scossa, intimamente. Era come se avesse parlato non al guscio che lei aveva al di fuori, bensì a tutto ciò che lei teneva dentro, serbato dentro di sé così stretto da essere ormai impenetrabile. Con una sola frase, così piccola da sembrare insignificante, Malcolm aveva sgretolato tutte le finte difese che aveva eretto negli anni, con una fatica atroce ma anche una debolezza incurabile.
Forse era la situazione fine a sé stessa ad aver reso spaventosa l’eco di quella confessione, ma anche la disarmante sincerità con cui l’aveva resa partecipe delle sue ansie. Si era esposto: era vulnerabile e sofferente quasi come lei.
Esisteva davvero qualcosa con cui replicare? La ragazza non ne era affatto sicura, ma in fondo al suo cuore sapeva che le cose da dire in quel caso erano davvero poche. Malcolm si era esposto, era stato sincero, aveva sviscerato il suo io più profondo per farle capire quanto davvero fosse stato sconvolto dagli eventi, e lei doveva per forza ricambiarlo con la stessa dose di rispetto.
-Anche tu – disse, in un soffio. Ma anche le sue parole galleggiarono nell’aria tanto prive di consistenza da dare l’impressione di non essere state dette. Il silenzio che seguì quell’affermazione accentuò l’impressione di essersi immaginata tutto, e di non aver detto nulla.
-E allora…perché? Perché non sono stato capace di renderti felice, Jane? – domandò. Non c’era affatto curiosità nella sua domanda.
Il modo in cui pronunciò il suo nome la spogliò completamente non solo degli abiti, ma anche di qualsiasi difesa emotiva avesse contro il mondo intero, sventure incluse. Divenne così fragile in un solo momento che quasi si pentì di aver risposto alla chiamata, quella sera, e di aver abbandonato Kim con quell’uomo dal camice bianco.
-Non…non dire così – disse. – Sei importante, per me, come nessuno lo è mai stato.
-E allora cos’è che è andato storto? – chiese ancora, fissandola.
-Questo presuppone che ci sia stato qualcosa da rovinare – osservò Jane. Per un attimo avesse sperato che il ragazzo abbandonasse il discorso e lo lasciasse cadere nei meandri della dimenticanza, ma non era affatto possibile.
-Vero – ammise il ragazzo, a fatica.
Lei non aggiunse altro. Si era illusa che la replica sarebbe stata diversa, che Malcolm cercasse di difendere il sentimento che li aveva legati fino a poche settimane prima, che non si limitasse a riconoscere nella ragazza la verità di aver sviscerato il passato, ma che negasse la sua affermazione e che urlasse che aveva sbagliato, che qualcosa di meraviglioso li aveva veramente coinvolti. Non dicendolo sembrava quasi che non esistesse, e valutò l’idea di rimanere in silenzio per sempre. Poi, però, si decise a parlare, giusto per fare in modo di mettere chiarezza nella propria testa e ordinare i pensieri.
-Ecco…credo dipenda molto da me, sai? Per anni non ho voluto alcun contatto con le altre persone, quindi è stata una sopresa sentirmi così in sintonia con te. Certo, mi hai visto in momenti pietosi della mia vita, dove ho veramente toccato il fondo…e sappi che ti sarò sempre debitrice.
-Tu non mi devi niente – disse Malcolm, con un sorriso rassegnato.
-Sì, invece – rimarcò la ragazza. –Senza di te non ce l’avrei mai fatta.
-Io non…non ho saputo aiutarti. Da solo sono stato così incapace che hai rischiato di… - voleva continuare a dire, ma gli mancò la forza di pronunciare quella parola specifica, come se portasse in grembo un potere oscuro e pregno di sfortuna.
-Morire – completò Jane, con voce atona. Non si curò della gratitudine del ragazzo nell’aver continuato al suo posto. –Ma sbagli se credi che non sia dipeso da te.
-Non voglio che tu ti creda mia debitrice, né che a legarti a me sia solo una stupida gratitudine.
-E allora cosa dovrei darti, Malcolm? – chiese, sperduta. –Cosa vuoi che mi leghi a te?
Il ragazzo non rispose, impotente di fronte a quell’ennesima frase. Sembrava che Jane si sforzasse di non capire, e non si sarebbe affatto sorpreso di trovarla al suo fianco con le dita nelle orecchie cantando una filastrocca per distrarsi.
Per un istante, lui prese in seria considerazione l’idea di dirle quanto veramente la amasse, come fosse rimasto sconvolto dalla potenza di questo serntimento innegabile, di come non avesse mai porvato nulla di simile per nessun’altro, nemmeno sé stesso, ma alla fine rinunciò. Lei non era pronta ad ascoltarlo, né tantomeno ad accettare quanto lui aveva da dirle; sarebbe stato annientato da una qualsiasi risposta negativa o errata di fronte ad una disperata dichiarazione d’amore, e non poteva sopportarlo. Non in quel momento.
Fu lei, sorprendentemente, a reagire. Gli posò una mano sul braccio, e nei suoi occhi si dipinse una profonda tristezza. Malcolm non riuscì a non guardarli nel profondo, perché quel colore lo faceva impazzire; il suo tocco leggero scottava come il fuoco, e la sua testa prese a vorticare d’emozione vedendo che non ritraeva la mano.
-Io…è stata tutta colpa mia. Non sto scherzando, Malcolm. Ho rovinato tutto. Non puoi sapere quanto mi dispiaccia, ma veramente non sono capace di fare qualcosa di buono. Per me è sempre stato così; uccido il bene nelle persone.
Lentamente, lui le posò una mano sulla guancia, e si stupì di quanto aderisse alla sua pelle morbida. –Non dire così… - sussurrò.
Lei distolse lo sguardo. –Lo so che non vuoi rinunciare alla nostra amicizia…non so come fai a starmi vicino dopo tutto quello che ho fatto…
-Perché, cos’hai fatto, Jane? – le chiese, dolcemente.
-Ci ho allontanati… - mormorò, poco convinta.
Malcolm, con estrema delicatezza, le accarezzò la guancia anche con l’altra mano, prendendole il viso come se volesse veramente guardarla per la prima volta. I suoi occhi incontrarono quello sguardo triste, sperduto, la sua bocca si schiuse in un pallido sorriso di fronte a quelle labbra meravigliosamente screpolate, il suo respiro divenne incosciamente calmo e rassegnato.
-Hai parlato di amicizia – le ricordò.
La ragazza annuì. I suoi occhi sembravano quelli di un cerbiatto smarrito.
-È questo quello che vuoi tra noi? – domandò allora, a voce bassa. Aveva bisogno di un’ultima conferma, della risposta decisiva che avrebbe segnato per sempre la sua idea nei suoi confronti.
Il ragazzo non voleva perdersi in inutili deliri d’amore per lei. Certo, sarebbe stato difficile in caso di affermazione resistere alla tentazione di implorare il suo spirito per un bacio, ma avrebbe resistito. Non avrebbe permesso a sé stesso di infastidire la vita di Jane, già fin troppo complicata dal tempo stesso, con assurdi sensi di colpa; aveva solo bisogno di capire cos’era veramente nei suoi desideri, e si sarebbe svenato per farglielo avere.
Lei tardava a rispondere, ma le sue guance esangui arrossirono, con un colore simile a quello die fiori in primavera.
-Certo, come quello che vuoi tu da me – disse, catturata dal suo sguardo. L’iride così azzurra da sembrare tagliente le stava ferendo l’anima.
Lui, con molta fatica, tolse le mani dalle sue guance. Non sapeva dire cosa provava esattamente in quel momento, ma si accorse con cupa rassegnazione che in fondo se lo aspettava.
Lei, invece, tolse la mano dal suo avambraccio e, senza guardarlo, disse delle parole che lo fecero riflettere.
-E poi tu adesso hai una ragazza, giusto? Non serve che ti preoccupi per me, posso…cavarmela.
-Ragazza? – domandò Malcolm, con tetro divertimento. –E da quando, scusa?
Lei continuava a fissare il muro e ad arrossire, torturandosi le dita delle mani. –Beh, sono sicura che ne hai una.
Il ragazzo sospirò. –Sicura, eh? E cosa te lo fa pensare?
Jane lo guardò, improvvisamente decisa a farlo smettere con quei giochetti mentali. La stava forse prendendo in giro? Era palese che si era innamorato di qualcuna!
-Non lo so. Si può dire che me lo senta.
Lui sollevò un sopracciglio, scettico. –Ma davvero? Le tue doti di preveggente lasciano davvero molto a desiderare.
Jane si stupì del suo tono acido, e ne fu ferita. Ferita perché improvvisamente anche lui andava in cerca di un litigio, di uno scontro, così come lo voleva anche lei. Non si accorse della stupidità del fatto, né di quanto fosse da bambini comportarsi così, ma fu sempre più decisa a continuare e a portare a termine
-Certo, quasi quanto le tue doti di bugiardo! – strillò, piccata.
-Bugiardo? Io non ti ho mai mentito!
-Ah, no? E adesso cosa stai facendo? – commentò con aria di sfida.
-Sto parlando con una ragazzina che deve aver scambiato mia zia Betty per la mia nuova fiamma – disse, gelidamente.
Il suo viso sembrò congelarsi in un’espressione di marmo che lei non aveva mai visto, e che le fece paura. Il volto, ormai, era così freddo nei suoi confronti che le pareva impossibile un qualsiasi riavvicinamento con lui.
Inoltre, anche lo spettro di Betty era stato violentemente ucciso. Non aveva messo in dubbio il suo presentimento nemmeno per un istante, e si trovava ora a dover fare i conti con un sospetto del tutto sbagliato con cui l’aveva caparbiamente accusato, senza avere nessuna prova all’infuori della sua cocciutaggine.
L’aveva persino bollato come bugiardo…come aveva potuto permettersi di fare una cosa del genere? Da quando era diventata una persona così stupida?
-Oh… - disse, confusamente. – I…io…mi dispiace…
Balbettò, per poi recuperare un minimo di lucidità e prendere una decisione. –Scusami, ho bisogno di un po’ d’aria.
Malcolm non disse nulla, semplicemente si scostò per lasciarla passare. Jane, come una vigliacca, aprì la porta dell’ospedale e si mise a camminare, speditamente, verso una qualsiasi porta anti-incendio che potesse portarla fuori da lì. 

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Capitolo 24
*** Only friends ***


Kim stava riposando nella camera d’ospedale.
L’avevano riportata soltanto poche ore prima, attorniata da infermieri e medici in camice immacolato, spiegando che aveva una brutta forma di polmonite: sarebbe stato meglio tenerla ricoverata all’ospedale ancora per qualche giorno, per sicurezza. Sostenevano che tali patologie erano dure da sconfiggere e che, già che si trovavano nella struttura, era meglio fare le cose per bene.
Francesca aveva fatto in tempo ad arrivare prima che la riportassero. Jane l’aveva coperta: quando il medico curante aveva aspramente chiesto dove fosse stata mentre la bambina stava male, la baby-sitter aveva sostenuto che si trovava in cerca di una farmacia aperta per comprare un’analgesico. La decisione di andare all’ospedale era stata presa all’improvviso, e la donna era tornata a casa per prendere dei vestiti puliti durante l’attesa.
Era un ragionamento verosimile che sembrò rincuorare lo staff. Dopo essersi assicurati che la bambina stesse bene e fosse stabile, erano spariti, indicando semplicemente il campanello per le emergenze.
Una tazza di caffè fumante apparve davanti ai suoi occhi: Francesca gliela stava porgendo con un sorriso stanco.
-Grazie – mormorò la ragazza, accentandola. Non impazziva per la bevanda, ma aveva bisogno di rimanere sveglia.
La donna le si sedette accanto. Indossava un maglione grigio che le stava largo, e aveva una coda disordinata di capelli mossi appoggiata alla spalla sinistra. Era pallida, con le occhiaie e sembrava sinceramente preoccupata. Di tanto in tanto, guardava il letto con apprensione.
-Mi hai salvato la pelle, prima – disse, senza guardarla.
-Stava arrivando comunque – ammise l’altra, semplicemente, alzando le spalle con noncuranza.
-Oh, ti prego, dammi del tu, se puoi – la pregò la donna, sorridendo. –E sono in debito con te, da oggi.
-No…non si preoccupi. Ero solo in ansia per Kim: altro trambusto non le avrebbe fatto bene.
Francesca fece un sorriso triste. –Se ti serve qualcosa, sai di poterti rivolgere a me.
Jane rispose malinconicamente al sorriso, poi tornarono entrambe a guardare la parete. Le infermiere avevano consigliato loro di uscire dalla camera per lasciare la bambina tranquilla, e le due si erano sedute di fronte al vetro, dando le spalle al letto. Malcolm aveva stabilito di aver bisogno di schiarirsi le idee, ed era sparito.
-Delle volte, Jane, ho come l’impressione di aver fallito – momorò Francesca, ad un certo punto.
-Cosa…cosa intende dire?
Francesca scosse piano la testa, forse non accorgendosi che Jane non aveva rispettato l’informalità.
-Quando guardo Malcolm mi accorgo che…è cresciuto. È diventato un uomo, ormai: ha la patente, si arrangia, ha la propria vita e io…io non ne faccio parte. Lo vedo, sai? Quando ci sono io in giro lui diventa diverso, più cupo. Ed è colpa mia: al lavoro mi dicevo anno dopo anno che avrei fatto in tempo a rimediare, ma adesso mi accorgo di essere stata un’illusa.
Jane avrebbe voluto consolarla, ma non era quello di cui Francesca aveva bisogno in quel momento. Lasciò che si confidasse con lei.
-Kim è ancora piccola, e lei ha un carattere diverso. La amo come amo suo fratello, ma ho sinceramente paura di rovinare la sua allegria, il suo carattere meraviglioso. Non voglio costringere Malcolm a comportarsi da padre, perché non è giusto e William è stupendo in questo ruolo…però se penso che mia figlia era ammalata e io mi trovavo a duemila piedi di quota…
Lasciò cadere la frase, sconsolata. Bevve un’amara sorsata con sguardo perso, esembrò davvero la persona più triste del mondo.
Finalmente, dopo diversi dubbi, Jane capì che la scelta di Francesca non era stata facile come aveva inizialmente pensato; doveva amare molto la propria professione, a tal punto da sacrioficare un notevole spazio alla famiglia, tuttavia ora si stava pentendo di quella decisione.
Non esistevano sipari abbastanza consistenti da mettere davanti ai suoi occhi: la situazione era come l’aveva descritta, e lei se ne rendeva conto benissimo.
Probabilmente Malcolm non sarebbe stato d’accordo, ma Jane cominciò a sentirsi leggermente più vicina a Francesca di quanto avrebbe pensato, e comprese come dovesse vivere quella situazione. La sua figura sfuggente stava ora assumendo bordi netti e precisi, con uno spessore e un’amore di madre difficile da estinguere.
Questo le fece tornare in mente il sorriso di Rose. Era una donna così meravigliosa, così dolce…delle volte si era ritrovata a pensare che fosse nata esattamente per essere madre. Anche lei aveva auto un lavoro imegnativo, ma non aveva esitato a rinunciarvi; diceva che il red carpet non faceva bene ad una donna incinta, e che i bambini sono terribilmente maldestri con stoffe e tessuti delicati, “non avrebbe nemmeno senso fargli trovare una casa tappezzata di stoffa e vestiti all’ultimo grido!”
Per uscire dall’imbarazzo, la baby-sitter posò una mano sulla spalla della donna, cercando di confortarla.
-Ma lei è arrivata, per quanto può valere. Ha telefonato, si è tenuta aggiornata, ed è riuscita a superare diversi confini di stato in un’ora senza nemmeno un’auto a noleggio. Non tutti sarebbero disposti a fare così e, mi permetta, ci sono migliaia di genitori molto peggiori di lei, in questo mondo. E poi sia Kim che Malcolm sanno perfettamente quanto difficile sia questa situazione per lei, e anche quanto bene voglia loro.
Francesca abbozzò un sorriso: -Per ora serve solo che lei stia bene.
-Giusto – commentò la ragazza. Si concentrò sulla superficie piatta e bollente della propria tazza.
Dopo qualche attimo di silenzio, la madre ridacchiò fra sé e sé, con una sorta di nostalgia nella voce, quasi stesse ricordando degli episodi degli anni addietro.
-Sai come io e William ci siamo conosciuti?
Jane scosse la testa.
-Era…era estate. Io avevo diciassette anni, lui quasi ventitrè. Ero andata in vacanza in Italia con la mia famiglia e, dopo una cena particolarmente sostanziosa, avevamo deciso di andare un po’ al luna park del paese, giusto per passare il tempo.
La ragazza annuì per far vedere che la seguiva, ma non ce ne fu bisogno: ormai lo sguardo di Francesca era perso nei meandri della memoria.
-Mia sorella minore insisteva per andare sulle montagne russe, ma non se la sentiva di andare da sola, e mi costrinse a salire con lei. Io, se devo essere onesta, ne avrei fatto a meno: avevo praticamente un arrosto intero che mi passeggiava nello stomaco!
Entrambe ridacchiarono, soprattutto quando la donna disse che il suo vestito sembrava un palloncino, gonfiato dal peso del cibo.
-Comunque, facemmo quel benedetto giro, e poi anche un altro, perché a lei era piaciuto moltissimo. Quando scesi, il mondo era come immerso in un frullatore. Barcollai come un’ubriaca, mi appoggiai ad un muretto e vomitai anche l’anima.
Lo disse con un sorriso sotto ai baffi quasi imbarazzato, ma terribilmente divertito, al pensiero.
-Quando alzai lo sguardo, mi ritrovai faccia a faccia con il ragazzo più bello che avessi mai visto. E le punte delle sue scarpe spuntavano da una pozzanghera di succhi gastrici.
-Oh cielo! – esclamò Jane, ridendo. Non le era difficile vedersi il momento davanti agli occhi.
-Proprio così: cielo! È stato quello che ho pensato, volevo sprofondare! Davvero, pensavo di essere completamente sola! Diciamo che mi ripresi soltanto dopo, dallo shock, ma prima che potessi scusarmi lo vidi guardare quello schifo con un sorriso, e dire “Oh! Addio, scarpe della domenica!”.
Jane rise di cuore. Dopo la tensione delle ultime ore e la litigata con Malcolm le ci voleva proprio un momento di leggerezza, e Francesca glielo stava offrendo.
-L’ha presa abbastanza bene – osservò Jane con un mezzo sorriso.
-Oh sì, quello sì. La prese così bene che mi invitò persino fuori per un gelato, commentando: “Ma solo se il tuo stomaco regge!”.
Fece un sorriso dolce, prima di continuare con il racconto. A Jane pareva davvero una bella storia, perché la punta di tenerezza che Francesca imprimeva in ogni parola rendeva tutto più vivido, e dava un’idea ben precisa di cosa dovesse veramente legare i due coniugi: l’amore.
-Fu il primo di una lunga serie d’incontri. Cominciammo a frequentarci più o meno seriamente, ma lui aveva un sacco di ammiratrici, e io ero gelosa. Così per lunghi periodi io fingevo di essere arrabbiata e lui fingeva di non inviarmi una rosa al giorno per farmela passare, fino a quando non formammo una coppia fissa e ci fidanzammo.
-Quanto tempo avete aspettato prima del matrimonio? – chiese Jane.
-Non molto. Quando ci siamo conosciuti eravamo entrambi molto giovani, e persino a me sembrava un azzardo ufficializzare la cosa anche dopo due anni, ma alla fine capimmo che non aveva senso procrastinare ancora. Dopo tre anni e mezzo di fidanzamento ci sposammo, e un anno dopo, il giorno del nostro anniversario, concepimmo Malcolm nell’albergo che sorgeva al posto di quello splendido luna park.
Jane arrossì un po’, ma sorrise.
-È davvero una bellissima storia – disse la ragazza, con sincerità.
-È vero, anche lui me lo dice sempre – rise Francesca. –Mi ricordo, quand’è nato Malcolm, tutti i festeggiamenti che abbiamo fatto: William lo portava in giro chiamandolo “il mio erede al trono”. Lo prendeva in braccio con tanta disinvoltura che avevo sempre paura che gli cadesse dalle braccia, e lo sgridavo sempre.
-Non riesco proprio ad immaginarmi Malcolm da bambino. Insomma…è così alto!
-Vero? – esclamò Francesca. –Delle volte, quando guardo le sue spalle larghe, mi sembra impossibile pensare che una volta era poco più grande di quest’avambraccio!
-I ragazzi crescono tutto in una volta – commentò Jane, - non hanno passaggi intermedi.
La donna annuì. –Assolutamente vero.
La sentì sghignazzare da sola, con sempre maggiore soddisfazione. –Quando aveva l’età di Kim, Malcolm era biondo, e aveva una foresta di capelli ricci a forma di aureola.
Jane dovette trattenere a fatica una risata sbalordita. –Davvero?
Francesca fece di sì con la testa, prima di tirare fuori il portafoglio dalla tasca dei jeans e trarre una polaroid sgualcita su un bordo: -Guarda tu stessa.
La ragazza prese la fotografia con attenzione, fissandone solo il retro bianco con una leggera sbavatura giallastra. Luglio, 1999 c’era scritto, in una calligrafia elegante e affusolata.
Lentamente, quasi con timore di ciò che avrebbe scoperto, voltò il rettangolo di carta, e rimase assolutamente estasiata dall’istantanea. In piedi, con un enorme sorriso felice, c’era un bambino magrissimo dalla carnagione pallida. Aveva un costume da bagno rosso fuoco, e sullo sfondo si potevano vedere le onde del mare e un piccolo castello di sabbia, in parte crollato su un fianco.
La cosa che la soprese più di tutti furono i capelli: erano come un cespuglio dorato, una cascata di riccioli biondi e perfettamente delineati, ancor più netti di quelli di Kim. L’espressione era di pura gioia; il visetto magro aveva anche due splendide fossette.
Forse nel tentativo di sembrare un vero “macho”, stava esibendo fieramente verso il fotografo i suoi bicipiti invisibili, tenendo le braccia nella classica posa plastica che hanno i culturisti in TV. Fissando meglio i lineamenti ancora molto infantili, poté notare una certa somiglianza con il Malcolm che conosceva.
Il taglio della mascella, gli zigomi abbastanza appuntiti, gli occhi di un azzurro limpido e meraviglioso, la fronte alta e liscia, magari anche le fossette. Nei suoi sorrisi che raramente faceva, ne restava ancora una traccia.
Vedendo quel piccolo ricordo di un’innocente estate al mare, Jane si accorse di quanto le mancasse. Non le era piaciuto per niente cosa si erano detti prima, e si rese conto di essere stata una stupida a trattarlo in quel modo, senza motivo. L’unica cosa che poteva davvero ricordare con chiarezza era che lui si era difeso, dicendo di non averle mai mentito. Era vero; forse era l’unica persona a non averlo mai fatto.
L’unica cosa che Malcolm le aveva veramente dato sinceramente, e senza riserve, era il proprio cuore. Era stata un’idiota a trattare male un ragazzo d’oro come lui. In fondo voleva solo essere suo amico, no? Cosa c’era di male in questo? Anzi, dal momento che ne aveva pochi di così fidati, forse non era consiglibile fare troppo la schizzinosa.
Restituì la foto a Francesca, e insieme fecero qualche commento divertito. Da come la donna guardava l’istantanea, traspariva tutto il suo profondo amore materno. Inoltre, il fatto che avesse una sua foto accanto a sé in ogni momento, denotava che non era mai veramente assente, e che pensava costantemente ai propri figli.
-Vado a vedere come sta – sussurrò lei ad un tratto, alzandosi.
Jane annuì, e guardò inespressivamente il suo caffè, ancora pressochè intatto; ne aveva bevuto solo qualche goccio.
Aspettò pazientemente che la donna fosse entrata e che si fosse seduta accanto al letto, accarezzando dolcemente la fronte della figlia, per prendere un foglietto di carta da un tavolino basso lì vicino. Non si chiese cosa ci facessero dei post-it di una ditta finanziaria, lì a fianco, ma facevano al caso suo. Frugò per un po’ nella propria tracolla, poi trasse una penna dalla tasca interna: ne portava sempre una con sé.
Trionfante, si assicurò che nessuno potesse spiarla. Francesca era tranquilla vicino a Kim, e di Malcolm nemmeno l’ombra.
Si chinò completamente sulle proprie ginocchia, usandole come superficie improvvisata, e si mise a scribacchiare poche parole, frettolosamente, sul misero spazio bianco.
 
Caro Malcolm,
scusami tanto per prima. Sono stata davvero stupinfantile. E sì, anche stupida.
Non avevo nessun diritto di insultarti come ho fatto, e non capisco come mai abbia potuto dirti delle cose tanto orribili. Per quanto vale, non volevo offenderti; sono solo nervosa per conto mio e me la prendo con gli altri.
Mi dispiace tanto.
Jane.
 
Lo rilesse un paio di volte, sentenziando di avere una calligrafia orribile. Poi lo piegò a metà, e vi scrisse sopra un inutile “per Malcolm”. Se lo mise in tasca.
Cercando di non attirare troppo l’attenzione, buttò il bicchiere di carta spessa nel primo cestino che trovò, infine prese l’ascensore e selezionò il tasto per il “piano terra”. Nervosamente, cominciò a mangiucchiarsi il bordo di un’unghia; la scusa ufficiale, se Francesca l’avesse cercata, era che aveva sentito il bisogno di andare a prendere un po’ d’acqua, ma che la zona macchinette era chiusa. Lo sapeva benissimo perché, nell’attesa, aveva potuto leggere con tutta calma gli orari del chiosco.
Se le avesse fatto notare di aver lasciato sia i soldi che la borsa al piano di sopra, poteva usarla come scusa: “la mia intenzione era quella di andare a prendere da bere ma, vedendo di aver dimenticato i soldi, sono tornata indietro”. Semplice, no?
A Jane non piaceva mentire, ma aveva una sorta di arte nel farlo. Era un’esperta della necessità di dire bugie, e non ne aveva mai raccontate più grandi di quanto non potesse gestirne. Odiava ingannare le persone e non lo faceva quasi mai, ma se succedeva usava solo delle scuse innocenti.
 Finalmente giunta a destinazione, si strinse nella propria felpa e, prendendo il coraggioa due mani, uscì nel parcheggio buio e deserto. Non c’era un’anima viva, e pregò che non le succedesse niente.
Si aggirò per un po’ fra le macchine, guardandosi dietro le spalle, senza trovare nulla. Poi, ricordandosi dove Malcolm aveva parcheggiato, individuò la sua auto e, furtivamente, mise il biglietto tutto sgualcito sotto al tergicristalli, prima di scappare a gambe levate da quel luogo orribile.
Rientrò nell’atrio gigantesco con un sospiro di gratitudine. Si sentiva una stupida, ma sapeva di aver fatto la cosa giusta; non avrebbe mai avuto il coraggio di darglielo di persona.
Non se la sentiva ancora di entrare in camera e guardare il piccolo viso di Kim immerso nelle lenzuola bianche, così fece una piccola deviazione. Aprì una porta antipanico ed entrò in terrazza, respirando l’aria gelida a pieni polmoni.
Si appoggiò al parapetto, a guardare le luci della città. Si perse completamente nel panorama bellissimo e desolante di tutte quelle vite lì accatastate, che le si stendevano davanti ai piedi; sembravano tante piccole formiche luminose.
Con una mano cercò di diradare uno sbuffo di condesa uscito da un sospiro. Decise che era meglio respirare brevemente e solo lo stretto necessario, perché l’aria tagliente nei polmoni faceva male. Un po’ di dolore l’avrebbe resa lucida, ma stava cercando di allontanarsi dai tempi in cui gioiva della propria sofferenza.
Il buio si faceva sempre più fitto, e cominciò a venirle sonno. Era sempre così: a contatto col freddo, le palpebre si facevano pesanti, il cervello scivolava nella melassa e la testa era improvvisamente troppo pesante da sostenere. L’avrebbe voluta staccare e posare sul comodino, onde evitare incubi e pensieri sgraditi, e rimetterla al proprio posto solo la mattina dopo.
-Hey – disse una voce, dietro di lei.
Jane sussultò. Si girò di scatto, col cuore a mille: non aveva sentito la porta aprirsi.
Tirò un doloroso sospiro di sollievo quando riconobbe la sagoma di Malcolm contro la luce dell’interno, ma allo stesso tempo il suo cuore ebbe uno spasmo notando il biglietto umidiccio che il ragazzo teneva fra indice e medio, con espressione interrogativa.
-Hey – rispose la ragazza, prima d’intonazione.
-Mi sembrava una multa – commentò il ragazzo. –O magari la minaccia di qualche paramedico incazzato.
-“Se non togli questa macchina da qui, l’ambulanza servirà a te. E non arriverà” – disse Jane, cercando di immaginarsi quale poteva essere un messaggio intimidatorio da parte di un infermiere.
Un angolo della bocca di Malcolm si sollevò in un piccolo sorriso. Piano, il ragazzo si avvicinò, fino ad andarle vicino.
-Non sei stupida – sussurrò al vento invernale.
-Quindi avevo fatto bene a cancellarlo? – mormorò Jane. Si strinse contro la stoffa che indossava come se questa potesse proteggerla.
Aveva gli occhi che lacrimavano: un po’ per il freddo, un po’ per la vergogna di quello che gli aveva detto, anche se neppure Malcolm si era risparmiato. Erano stati entrambi troppo impulsivi.
Lui annuì, facendo oscillare qualche ciocca di capelli scuri. Alla ragazza tornarono in mente quelli che aveva quand’era piccolo, e sorrise.
-Cosa c’è di divertente?
-Niente. Ho…visto una tua foto da piccolo – spiegò la ragazza. –Eri biondo – constatò poi.
Il ragazzo assentì, leggermente divertito.
Ci fu solo il silenzio, per un po’, e il quieto mormorio del traffico in sottofondo.
-Allora…restiamo amici? – chiese il ragazzo, nel buio.
Jane guardò i suoi lineamenti parzialmente illuminati: la mascella, la guancia, l’occhio, il naso, la curva delle sopracciglia, l’arco sensuale delle labbra, la piega dei capelli sulla fronte, un ciuffo che ricadeva di traverso sulla tempia. Era bellissimo.
Lei trovò la forza di annuire, maledendosi di non urlare cosa realmente volesse da lui, cosa realmente provasse nei suoi confronti.
-Posso fare una cosa, prima? – domandò lui, sommessamente.
-Io…credo di sì. Sì – affermò, con più decisione. Le sarebbe piaciuto che lui afferrasse il suo biglietto e lo buttasse oltre la ringhiera.
Con sua grande sorpresa, sentì una mano grande e tiepida posarsi sulla sua guancia. Era un tocco esasperante per la propria gentilezza, una carezza appena accennata eppure così pregna di desiderio da fare quasi male.
Due labbra calde si posarono sulle proprie morbidamente, con grazia. Inconsciamente, Jane portò le braccia dietro al collo di Malcolm, per meglio accogliere quella divampante gioia mista a passione che sentiva nel petto, e che si stava sciogliendo diffondendo il proprio raggio in tutto il corpo, sottoforma di dolci fremiti.
La sua schiena si inarcò e, allo stesso ritmo, le dita di Malcolm si aggrapparono frenetiche alla stoffa della sua felpa, donandole tutto il calore che possedevano. Le sue labbra si schiusero nel movimento più naturale della sua intera vita, donandosi a lui con completo trasporto.
Inutile cercare di trattenere la propria lingua, non aveva senso. Nella dolce carezza di Malcolm, Jane si lasciò del tutto andare. Si dimenticò persino di respirare: le sembrava che prima di essere stata solo una corda tesa, prima di quel momento, annodata in più punti, continuamente tenuta sotto sforzo; il ragazzo la stava liberando da quell’orribile senso di plasticità, insegnandole l’unico modo per essere felice.
Troppo presto, ecco quando finì: troppo presto. Il sapore di Malcolm, l’impronta della sua lingua, la sinuosità delle sue labbra, il dolcissimo e involontario scontro con i suoi denti, i movimenti famelici delle manidibole che avevano animato quei baci disperati e famelici, quei dolcissimi morsi fatti di movimenti lenti e dolorosamente innamorati, rimasero impressi su Jane.
Aveva ancora i piedi tesi sulla punta e gli occhi chiusi quando, con un solo sospiro, Malcolm pronunciò parole con voce affannata, divertita.
-Solo amici, come ti avevo promesso.
  

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Capitolo 25
*** Flinn ***


Quella notte, Jane aveva dormito poco e male. Nonostante le insistenze di Francesca, si coricò rannicchiata su una sedia vicino al letto dove riposava Kim, mentre la donna le si stese a fianco e le accarezzò i capelli fino ad addormentarsi.
Malcolm, quand’era sicuro che gli occhi della ragazza e della madre erano chiusi, si permetteva di sbirciare la sorella dal vetro, senza trovare il coraggio di entrare. Forse era stato troppo avventato, sulla terrazza, ma non aveva neppure visto nessun segno di dispiacere da parte della ragazza, anzi; si sentiva leggermente in colpa verso Kim per sentirsi così…riscaldato dal ricordo, tuttavia non poteva farne a meno. Si manteneva sveglio grazie al caffè e girava per il reparto senza una meta, come uno spettro.
La ragazza, invece, decise di avere bisogno di un cambio di vestiti urgente. Guardando l’orologio, si accorse che erano già le sei e mezza di mattina: in circostanze normali avrebbe dato di matto, a doversi svegliare così presto, ma non avendo praticamente chiuso occhio se non per brevi momenti le parve quasi un sollievo. Il fatto che fosse domenica, poi, le parve ancora più meraviglioso.
Per prima cosa, si sgranchì per bene. Sentiva le gambe anchilosate e le braccia formicolanti, e le ci volle qualche minuto prima di riuscire a stare in piedi con la schiena dritta. Guardò sconsolata la sedia: aveva lasciato una chiara impronta sulla stoffa, dove poco prima era incastrato il suo corpo.
Vedendo che Francesca era ancora addormentata, ne approfittò per usare il piccolo bagno della camera, una stanzetta attigua con grandi sanitari bianchi e lucidi, che incutevano un certo timore. Il tappetino, quando vi ci posò sopra i piedi, scricchiolò orribilmente.
Grazie al piccolo specchio sopra al lavandino, riuscì a valutare completamente l’entità dei danni provocati dalla mancanza di sonno. Due vistose occhiaie scure erano pesantemente appoggiate sotto agli occhi, lucidi e arrossati, mentre la pelle era pallida e bianca, molle come se fosse fatta di impasto farinoso. Tuttavia, le parve di notare una certa luce in fondo alle iridi: come se fosse divertita, ammaliata e profondamente innamorata, tutto in una volta.
Le sembrò quasi che Malcolm avesse lasciato un’impronta su di lei, perché le parve che il suo viso fosse completamente diverso. Non era solo la stanchezza, ne era certa: era stato quel respiro, quelle labbra, quei denti, persino quella saliva a plasmarla, a trasformarla in qualcosa di totalmente diverso.
Le aveva infuso una certa grinta, non c’era nulla da dire. Le sembrò di sentirsi quasi più sicura di sé, ma fu solo un’impressione passeggera. Se non aveva dormito, infatti, era stato solo perché aveva pensato tutta la notte a quel momento, all’infinetesimale istante che avevano condiviso a suon di baci ingordi, che l’aveva sciolta laddove prima stava gelando, che aveva completamente stravolto in un fuoco liquido il suo ventre paralizzato.
Ora era totalmente confusa. Quell’impeto, quel calore, non potevano essere reazioni imposte a comando sul proprio corpo, era impossibile. Lei non era certo un’esperta in tal campo, però si rendeva perfettamente conto che quella spinta che il corpo di lui aveva subito verso il suo non era stata affatto calcolata, anzi, gli era venuta spontanea. La presa delle sue mani sulle guance si era fatta possessiva, bramosa, ma lui l’aveva soffocata e…oh! Quanto avrebbe voluto Jane che fosse andato fino in fondo, persino lì, nella fredda aria invernale!
Il riflesso spettrale sullo specchio arrossì vistosamente. Jane si affrettò a cancellare tutto aprendo l’acqua del lavandino e strofinandosi energicamente il viso con una temperatura gelida. La sua schiena era attraversata da scosse glaciali, ma non le importava, anzi: più sveglia era, meno pensieri di quel tipo avrebbe fatto.
Inoltre, ad aggravare la situazione c’era la costante sensazione che lui le fosse vicino, attaccato, per la precisione. Le sarebbe tanto piaciuto godere di un altro momento simile, ma lui era diventato così imprevedibile, così indomabile! Non sapeva più come comportarsi per evitare un ennesimo disastro. E poi era letteralmente impossibile che lei potesse anche solo accettare una semplice amicizia con lui, completamente fuori discussione.
Si asciugò con asciugamano che sembrava fatto di carta, poi lo appallottolò e buttò il residuo umidiccio nel cestino. Notò che sembrava aver ripreso un po’ di colorito, alla meno peggio: si lavò velocemente i denti e provò a pettinarsi i capelli con le dita ma, non ottenendo risultati, decise di legarli in una coda alta con un’elastico giallo acceso che aveva in tasca.
Lo possedeva da quando anadava all’asilo, e lo usava ormai solo per le emrgenze.
Dopo un attimo di indecisione, decise di sfilarsi il maglioncino di dosso, rimanendo in cannotiera. Le risultava insostenibile andare in giro con quel capo tutto stropicciato e con le pieghe evidenti del suo peso, che ne avevano momentaneamente deformato alcuni lati durante il suo rigirarsi sulla sedia, così lo sfilò da sopra alla testa e se lo mise sottobraccio.
Indossò velocemente la felpa, chiuse la zip fino al collo e si mise il cappotto, sperando che sarebbe bastato a proteggerla contro il freddo. Quando uscì, comunque, prese anche la sciarpa.
Si sentì come un agente segreto quando riuscì ad aprire e richiudere la porta senza fare rumore, rilassandosi poi quando arrivò nel corridoio. A quell’ora c’era poco movimento: i familiari che avevano passato la notte lì erano andati a fare quattro passi nella stanza dei giochi, la più grande di tutto il piano, mentre le poche infermiere che dovevano cambiare il turno erano nella guardiola.
Ne salutò un paio con un sorriso tirato, poiché ci aveva parlato il giorno prima, poi sgusciò nell’ascensore. Fece appena in tempo: le due lastre argentee stavano per chiudersi, ma un uomo all’interno riuscì a farla entrare senza subire danni.
Non fece in tempo a ringraziarlo che subito dovette spalancare gli occhi dalla sorpresa.
-Signor Barnowski? – esclamò.
-Così pare – rispose l’uomo, laconicamente. La squadrò da capo a piedi: -Buongiorno anche a te, comunque.
Jane arrossì. –M…mi scusi. Buongiorno.
-Che piano? – domandò ancora l’uomo. A differenza di lei, non sembrava affatto sorpreso dal trovarla lì, quasi fosse un corridoio di scuola e non l’ascensore di un ospedale.
-Primo, per favore.
L’entrata era allo “0”, così chiamato perché al di sotto non c’era nient’altro, ma aveva bisogno di qualcosa da bere prima di andare a prendersi i vestiti alla Casa. Se non si era fatta accompagnare era perché il tragitto non era lungo, e poi aveva bisogno di schiarirsi le idee facendo quattro passi.
-Dimmi un po’, cosa ci fai tu qui? – domandò Barnowski, sembrando solo incuriosito.
Era davvero strano che le facesse quella domanda, perché era vestito con una bianca vestaglia da paziente, a cui aveva aggiunto un inutile berretto da baseball, una felpa blu di una squadra locale e un paio di scarpe da ginnastica vecchio modello, con i calzini verdi che coprivano i polpacci magri e coperti da una scura peluria.
-Sono venuta ad assistere un’amica – disse la ragazza, a disagio. –E lei, invece? Sta bene?
Lui srollò le spalle con noncuranza. –Esami di routine.
Quella spiegazione non la convinse troppo, ma non volle essere invadente. In fondo, se l’uomo non aveva risposto con un “sì” oppure un “no” voleva dire che erano affari suoi, e che lei non c’entrava nulla e non doveva immischiarsi. Non le piaceva spiare nella vita della gente, le bastava la propria.
Quando il silenzio cominciò ad allungarsi troppo considerati i tempi di un viaggio nel cubicolo, il professore decise di intervenire.
-Jane, come ben sai non potremmo più continuare i corsi d’arte. Ma mi dispiace, perché eri un’alunna molto dotata; quando vorrai, mi troverai al parco alle tre e mezza, di domenica. Le tele le porto io.
La ragazza rimase interdetta: balbettò qualcosa di incomprensibile, ma il signor Barnowski si toccò appena la visiera del cappello e fece un cenno col capo. Subito dopo, le porte si aprirono e lui uscì, con passo tranquillo, al piano “3”. Senza che entrasse nessun altro, la corsa riprese con esasperante lentezza.
Jane, ancor più presa in contropiede, si appoggiò alla parete laterale del mezzo, passandosi una mano sugli occhi. Mai il professore l’aveva lodata oppure distinta dagli altri studenti, né aveva palesato il desiderio di continuare ad insegnare anche al di fuori della sua ormai finita carriera alla scuola che lei frequentava. 
 Che forse volesse dipingere con lei come suo pari? Scosse la testa, scartando subito quella possibilità.
No, era un pittore con troppa esperienza alle spalle per mettersi a giocare con una ragazzina della sua età. Suo malgrado, comunque, si accorse che la scelta del posto era perfetta: il parco era un luogo affollato, ricco di spunti artistici da prendere in considerazione, e non includeva la possibilità di trovarsi da sola con lui in uno spazio chiuso.
Serrò le palpebre, mentre un’ulteriore ondata di brutti ricordi tornava a farle visita. Uno scampanellio le annunciò che era arrivata e, preda di un attacco di calustrofobia improvviso, uscì barcollando dall’ascensore e si mosse in fretta verso le scale, saltando la tappa della bibita. La gola era secca, certo, ma non sarebbe riuscita comunque a bere granchè.
Appena uscita all’esterno, pochi minuti dopo, le parve di stare un po’ meglio. Respirò l’aria a pieni polmoni, con gratitudine, ma dovette smettere in fretta: era vestita con abiti troppo leggeri, e dovette stringersi nel cappotto per non battere i denti.
Cominciò a camminare, lentamente. Nelle ore di educazione fisica, in genere non aveva problemi con nessun esercizio, ma i suoi preferiti erano senza dubbio quelli dedicati alla respirazione. Le davano calma, placavano lo spirito agitato sotto al suo sterno con singolare tranquillità.
Le bastava posare un piede davanti all’altro per riuscire a mettere ordine fra i vari pensieri che la agitavano, e sentirsi meglio. In fondo, quella di Barnowski era stata una semplice proposta. Niente di troppo intimo perché la loro conoscenza non era così profonda, nulla di scandaloso viste le due età completamente differenti e zero equivoci, visto che il luogo era pubblico e a quell’ora molto frequentato.
Se doveva essere onesta, era rimasta dispiaciuta all’idea di non poter più seguire gli studi di arte. Le lezioni le davano modo di esprimere quello che sentiva dentro usando i colori, non le parole, e questo le donava un singolare sollievo. Forse non era una brutta idea, e poi il sabato non aveva nulla da fare: la mattina aveva scuola, certo, ma il week-end non rientrava nel suo contratto di lavoro.
Non le costava nulla provare a vedere di cosa si trattava, e sarebbe stato altrettanto facile cacciare una scusa qualunque per porre fine agli incontri.
Per quanto riguardava Malcolm, preferiva non pensarci. Era una questione spinosa, tutto sommato, e molto più complicata di quanto non sembrasse, e le serviva la giusta concentrazione. Preferì accantonare la cosa, almeno per il momento, e concentrarsi sul turno di quella mattina.
Il giorno prima, la signorina Miles le aveva detto che ci sarebbe stato Jeff, per tutta la mattinata. Era un uomo tranquillo, che amava chiacchierare ma sapeva scegliere il momento giusto per farlo. Non cercava di bloccare gli adolescenti in conversazioni spiritose quando li vedeva giù di morale, ma si limitava a preparare del caffè e sedersi al tavolino pieghevole, con una copia del giornale in mano e una tazza fumante nell’altra.
Era una persona che sapeva mettere le altre a proprio agio, poiché non obbligava nessuno a fare niente. Davanti a qualsiasi piccola infrazione del codice poteva anche chiudere un occhio, e non faceva storie. Quando si trattava di questioni più gravi, però, era intransigente, e rispettava ciecamente il regolamento, riuscendo comunque a distinguere quali potevano essere le attenuanti adatte al caso.
Portava in qualsiasi stagione un paio di pantaloni corti, beige, al ginocchio, che lo facevano sembrare un pescatore. Colmava la mancanza di stoffa con un paio di calzini di lana irti sopra alle scarpe da muratore, con lacci scuri e robusti. Aveva una vastissima scelta di maglioni a collo alto, di solito indossati con camicie di flanella, e teneva un paio di baffi spessi, color castano chiaro, ben curati e arricciati sui bordi.
Questo gli dava un’aria ancor più bonaria, e quando sorrideva sembrava davvero uscito da un fumetto americano. Diceva di venire dal Massachussets, ma nessuno lo sapeva per certo. Va detto che, comunque, il suo repertorio di storie divertenti riguardo allo stato d’origine era più che mai ampio, e questo faceva sinceramente credere che fosse nato e cresciuto lì.
Tornando brevemente al presente, Jane attraversò velocemente il prato davanti alla Casa, e si sbrigò ad entrare dalla porta dal retro. Non aveva voglia di vedere nessuno e stava per morire congelata: salì in fretta le scale e tirò fuori la chiave della sua camera.
-Hey, pretty girl – disse una voce alle sue spalle, facendola sobbalzare.
-Ciao, Flinn – rispose, prima ancora di voltarsi. Era l’unico a chiamarla in quel modo.
Appena si girò, sorridendo, poté notare la chioma di un bel colore arancione acceso che stava dritta come la cresta di un pappagallo sulla sua testa. Il viso magro del ragazzo risentiva di quella strana pettinatura, ma il contrasto formato da piercing, orecchini e treccine che pendevano dalle orecchie distoglieva l’attenzione dalla follia ostentata dal suo parrucchiere.
Flinn era figlio di un uomo che stava scontando quindici anni in prigione per omicidio colposo, a seguito di una rissa. Evidentemente ubriaco, suo padre si era battuto fino a quando dell’avversario era rimasto solo una sorta di manichino sanguinante, le cui uniche parti integre erano i molari, lo zigomo sinistro e il gomito destro.
A Flinn non importava poi molto della sorte toccata al genitore. Non faceva altro che arrendersi alle piaghe della vita, passando senza un solo lamento da un riformatorio all’altro, di stato in stato, fino a quando non era arrivato nel luogo più vicino al carcere dove c’era suo padre.
Il ragazzo fece un sorriso sghembo, mostrando un’ombra di denti irregolari. Aveva i lineamenti sottili, piuttosto magri, e gli occhi piccoli, che spesso si riducevano a due fessure. Sembrava continuamente stanco, perché non li teneva mai completamente aperti, e ostentava l’espressione di chi ha l’aria di non provare un completo interesse per quello che gli succede intorno, ma di essere uno spettatore passivo e annoiato.
Il corpo praticamente anoressico era fasciato in abiti bizzarri, coloratissimi, smorzati dai pantaloni color fango e una pazzesca moltitudine di braccialetti in cuio nero arricchiti da borchie eccentriche.
Per lei era quello che più assomigliava un fratello. Era l’unico con cui poteva dire di andare d’accordo ed era stato il primo che era riuscito a farla parlare quando era arrivata lì, visto che era andato a trasferirsi alla Casa nel suo stesso periodo.
-Come va la vitaccia? – chiese, tirando fuori dalla tasca una sigaretta.
Jane ridacchiò: il fumo era una delle cose che avrebbero mandato Jeff in crisi esistenziale.
-È molto ingarbugliata – rispose sinceramente, - e la tua?
Lui alzò le spalle. –Il Pollo mi ha lasciato.
Bradley “Il Pollo” McKeagan era un ragazzo di strada, conosciuto soprattutto per la sua abitudine di vendere dischi rap incisi da lui. Non viveva in quella città, ma a parecchi chilometri di distanza, in un sobborgo abbastanza malfamato di gente nera, di cui faceva parte. L’aveva visto solo in foto: treccine che seguivano la linea del cranio, labbra carnose, occhi vispi e vestiti larghi.
Flinn aveva una sorta di accordo, con lui: il ragazzo bianco avrebbe prestato il suono del suo basso per i suoi demo, e Il Pollo avrebbe fatto sentire le sue magie sonore in giro, per aiutarlo a farsi un nome. Era stata un’amicizia così strana e intensa che si erano meritati il soprannome di “Fidanzati”. E ora, ogni volta che un litigio interrompeva i contatti, avevano loro stessi l’abitudine di farsi trattare da innamorati dal cuore spezzato.
-Mi dispiace – si limitò a dire Jane, imbarazzata.
-Anche a me – replicò il ragazzo, con semplicità. –Sigaretta?
-No, grazie.
Flinn tirò fuori anche un accendino e se la accese, sedendosi sull’ultimo scalino prima del piano. La ragazza, improvvisamente bisognosa di compagnia, gli si accomodò a fianco. Sapeva per certo che Flinn non l’avrebbe mandata via, anche perché quando si confidava con qualcuno aveva sempre bisogno di gente attorno.
-Sai… - cominciò, guardando un punto imprecisato davanti a sé, - …ho saputo dei federali. So cosa si prova; mi dispiace per te.
Jane rimase parecchio sorpresa da questa frase. Certo, nella Casa le informazioni giravano molto velocemente, ma nessuno aveva fornito dettagli sulla visita che aveva ricevuto, e Sophie e Noah avevano l’aria abbastanza discreta quando si trattava del loro lavoro.
Ovvio che se anche la minima voce fosse trapelata a quel punto chiunque lì dentro sarebbe stato intento a chiacchierare a tal proposito, ma lei non aveva mai sentito nessun commento di quel genere nemmeno nel refettorio, che si era trovata a frequentare un giorno per sbaglio.
Questa semplice considerazione le fece tornare in mente la sgradevole sensazione di oppressione e malinconia che derivavano dalla brutta notizia ricevuta. Inghiottì la propria saliva e, con essa, delle lacrime che non voleva versare per niente al mondo, e poi si decise a sorridere nervosamente. Era inutile prendersela con Flinn, perché lui era sempre molto informato su qualsiasi cosa; ma, non essendo interessato ai pettegolezzi, era anche l’unica persona in grado di tenersi tutto per sé, non dimenticare mai e rendersi perfetto per tenere un segreto al sicuro.
-G…grazie – balbettò.
Il ragazzo fece un gesto di noncuranza, aspirando un’altra boccata. Entrambi guardarono le affusolate volute di fumo volteggiare nell’aria davanti ai loro visi.
-Il mio consiglio è di richiamarli – continuò, aumentando il disagio della ragazza. –So benissimo che è una rottura, però non molleranno l’osso fino a quando non otterranno quello che vogliono. Sono pagati, per farlo.
-Così me ne libererò? – riflettè Jane, in un mormorio.
-Esatto – assentì lui, prendendo un altro respiro dalla sigaretta, che brillò nelle sue mani prima di venire divorata dalla cenere, che aveva già cominciato a cadere.
-Vedrò quello che posso fare – bisbigliò Jane, affranta.
Era davvero impossibile mantenere la serenità, nella sua vita. Non aveva una spalla su cui piangere, nessun confidente valido, né una buona notizia o soddisfazione. Kim era malata, Malcolm al di fuori della sua comprensione, Flinn abbattuto e Sarah presa dalla sua relazione burrascosa. Com’era giusto che fosse, ogni persona aveva la propria vita, e non le dava occasione di distrarsi dalla sua nemmeno per un momento.
Se doveva essere del tutto sincera, si era persino dimenticata dei due agenti, venuti ormai secoli prima a far traballare la sua salute mentale. Forse il loro biglietto da visita giaceva ancora in fondo al cestino, poiché non lo svuotava da molto tempo. Decise che se l’avesse ritrovato, avrebbe seguito il consiglio dell’amico, altrimenti avrebbe lasciato perdere e atteso nuove mosse dalle schiere nemiche.
Per il momento, decise, aveva troppi problemi per la mente. Si chiese con una punta di macabro divertimento come avrebbe reagito la cara Sophie sapendo del suo tentato suicidio; ci sarebbe andata a nozze. Non avrebbe potuto fare molto, però, visto che in una casa famiglia c’era già.
E poi, chissà se nei suoi fascicoli c’era qualcosa inerente al mostro. Magari qualche riga, giusto per far notare fino in fondo il fallimento totale dell’unico affidamento che avesse mai dovuto sopportare nella sua vita, l’emblema di quanto l’umanità potesse essere ripugnante.
No…no, pensare a certe cose non le faceva bene. Rimase in silenzio a fissare il fumo grigio di Flinn uscire dalla sigaretta, ormai ridotta ad un mozzicone a malapena brillante, e non dire nulla.
-La cosa migliore è che so perfettamente che tornerà – disse lui, più che altro a sé stesso, - lì dove sta lui non ci sono bassisti validi. I negri non si scomodano per certe cose; gli serve un bianco, e so che di essere io. Quindi devo solo aspettare che torni a pagarmi le sigarette, e non fare niente nel frattempo. Sì, è la cosa migliore.
Jane capiva perfettamente come lui doveva sentirsi. Brad era il suo unico amico, l’unico ponte che gli permettesse ogni week-end di prendere il treno e allontanarsi da quella maledetta città, dalla Casa e dai suoi abitanti. Era grazie al famoso “Pollo” se poteva trovare qualcosa da fare ogni pomeriggio e coltivare le cattive abitudini, spesso in senso letterale.
Entrambi dovevano all’altro qualcosa ma, attorno a questa pura formalità, si era costruito un saldo rapporto amichevole. In fondo, erano entrambi estremamente soli: Jane aveva sempre meno occasioni di incontrarlo, tantomeno di parlarci assieme, quindi non poteva dire di essere per lui una confidente fidata.
Si sentiva molto legata a Flinn, questo sì. Aveva solo otto anni quando aveva deciso di lasciarsi morire di fame, ed era lui che sgattaiolava fino alla sua porta per portarle un po’ di cioccolata dal settore maschile. Avendo sofferto di disordini alimentari, infatti, non aveva problemi a farsi dare tutto il cibo di cui aveva voglia, e non lo mangiava mai: diceva che era una fissazione difficile da uccidere.
Era grazie a questo espediente se erano diventati amici. Si erano solo un po’ allontanati, ecco tutto.
-Ovvio che Bradley ha bisogno di te – confermò Jane. –Le sue canzoni non avrebbero lo stesso effetto, senza il tuo basso.
-È quello che dico anch’io – annuì Flinn. Sembrava leggermente rincuorato.
Spense la sigaretta sullo scalino, soffiò sul mozzicone e se lo ficcò nella tasca della giacca sbrindellata.
-Scusa, pretty girl, devo andare – disse alzandosi. –Ci si vede.
Jane sorrise, guardandolo scendere con meticolosa attenzione. –Certo. Salutami Jeff, quando scendi.
Strappata la promessa, la ragazza si alzò. Accarezzò piano la maniglia della porta, con un barlume di nostalgia per la sua vecchia casa, poi trovò la forza di entrare.
Prima di fare quel che doveva, però, si buttò un attimo sul proprio letto e, con la testa sprofondata nel cuscino, respirò a pieni polmoni in profumo di shampoo e sogni che vi erano impressi sopra.  

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Capitolo 26
*** Better than yesterday ***


Jane stava mescolando il proprio thè caldo senza la minima ombra di gioia.
Si sentiva abbattuta, come se avesse perso una battaglia importante contro sé stessa; in effetti, una volta entrata nella propria stanza, non aveva potuto evitare di ripensare alle parole di Flinn. In fondo, il ragazzo aveva ragione: i federali non si sarebbero fermati davanti ai capricci di una ragazzina.
Forse sarebbe stato davvero molto meglio se lei avesse agevolato le cose, anche perché se avessero deciso di prendere le informazioni a loro necessarie per vie traverse avrebbe potuto anche beccarsi una denuncia per intralcio alla giustizia.
Naturalmente, all’inizio, non ci aveva pensato. La sola idea che potesse davvero trattarsi di omicidio l’aveva distrutta, e già ripensare a quanto successo le faceva venire il panico. Tuttavia capì che sarebbe stato meglio rendere la cosa un processo indolore, e quindi ripescò il biglietto da visita dal fondo del cestino, per altro semi-vuoto, e se lo ficcò in tasca.
Ora, all’ospedale, le parve che il fianco bruciasse, laddove il pezzetto di carta entrava in contatto con la stoffa; aveva sostituito quell’improbabile accostamento di vestiti con una felpa semplice e un paio di jeans puliti, portandosi come scorta una maglietta, ficcata in borsa.
Si sentiva un po’ meglio, comunque, poiché le sembrò di aver preso la decisione giusta. Forse i federali avevano ragione, magari i suoi genitori erano davvero stati assassinati da un mostro crudele.
E, ripensandoci meglio, l’intera storia si sarebbe conclusa in fretta. Non c’erano stati testimoni, autopsie, resoconti attendibili e tutto era stato archiviato come un comune incidente stradale. Il veicolo colpevole della tragedia era scomparso nel nulla, senza lasciare traccia; né targa, né modello, né colore, niente di niente. Neppure una sgommata.
Quindi, molto probabilmente, il caso sarebbe stato archiviato per mancanza di prove, i faldoni rimessi nel loro polveroso scatolone e Jane avrebbe potuto tirare un profondo sospiro di sollievo. Tutto quanto sarebbe tornato ad essere la stessa fatalità crudele di un tempo e avrebbe potuto lasciarsi il tempo di cicatrizzare la ferita nel modo dovuto.
-Caffè? – chiese Malcolm, spuntandole da dietro alle spalle.
Come seguendo un riflesso condizionato, Jane sussultò sentendolo arrivare. Era stata così immersa nei propri pensieri da non rendersi nemmeno conto di quello che stava facendo. In fondo, le riflessioni che stava seguendo erano molto più importanti di qualsiasi altro dubbio.
-No, grazie – rispose, scuotendo lievemente il capo. Solo allora lui si accorse del bicchiere di plastica marroncina che si stava raffreddando fra le sue mani.
Malcolm alzò le spalle e apoggiò la schiena alla parete, pensoso. Sembrava non si stesse concentrando su nulla in particolare, e quell’espressione assorta lo faceva apparire bello come un dio. La ragazza cercò disperatamente di non fissarlo con sguardo adorante, ma non poté sapere di esserci davvero riuscita.
Ripensando involontariamente a quanto successo in terrazza soltanto la sera prima, avvampò di colpo. Fortunatamente, però, lui non sembrò accorgersi di nulla, e sorseggiò la bevanda calda con aria distratta.
-Ho sentito che Kim si è svegliata – commentò Jane, giusto per fare conversazione. Non riusciva a sopportare il silenzio fra loro due.
Malcolm annuì. –Ha detto solo poche parole, perché era ancora molto stanca. La febbre è salita un po’, ma l’infermiera dice che è tutto normale; insomma, normale per quanto può esserlo tutto questo.
-È pur sempre un miglioramento – sospirò Jane, - non sopporto di vederla così, addormentata come se fosse una bambola di cera.
-Hai ragione – ammise. Bevve un altro sorso di caffè, che aveva l’aria di essere amarissimo e bollente.
Jane si ritrovò a pensare che sarebbe stato bello ritrarre Malcolm in un quadro; il suo viso seguiva forme davvero molto interessanti, e pareva quasi che i suoi occhi annullassero la vista dei comuni mortali per concentrarsi su qualcuno di inesistente, effimero.
-Tutto ok? – le chiese.
Lei arrossì: -S…sì, certo.
-Senti… - cominciò Malcolm, con lo sguardo rivolto altrove, - non ce la faccio più a stare qui dentro. Non so cosa inventarmi per passare il tempo, e continuare ad andare su e giù come un idiota sta cominciando a darmi fastidio. Che ne dici se…andassimo da qualche parte?
Notando la sua espressione sbigottita, si affrettò ad aggiungere: -Qui vicino, nei dintorni. C’è il conservatorio dietro l’angolo e…. mi chiedevo se… magari potremmo…
Jane fece un sorriso intenerito, visto che il ragazzo non sapeva più che pesci pigliare. Non le piaceva vederlo in difficoltà, così lo interruppe.
-Per me va bene.
-C…cosa?
-Ho detto che per me è ok – ripetè. – Anch’io ho bisogno di andarmene, almeno per un po’. Il conservatorio va benissimo… mi piacerebbe sentirti suonare ancora.
-Oh – disse Malcolm, senza aggiungere altro. –D’accordo allora.
Finì il suo caffè buttando indietro la testa per berlo più in fretta, e riemerse con una smorfia di vago disgusto. Accartocciò il bicchierino stringendolo in mano e buttò quella sorta di avanzo nel cestino. Jane lo imitò.
Camminarono vicini senza dire una parola, e scesero le scale di comune accordo. Entrambi procedevano velocemente con il costante rischio di inciampare, ma a nessuno pareva importare.
Sfilarono rapidamente nella hall, tetra a quell’ora del pomeriggio, ed entrarono in contatto con l’aria gelida di inizio dicembre. Il vento, che la sera prima aveva giocherellato con le sue ossa, in quel momento si era trasformato in un vero e proprio preludio di burrasca. Sicuramente, se ci fosse stato il mare, a quel punto le onde sarebbero state più alte di Malcolm.
La ragazza si ficcò le mani in tasca, prima di cominciare a seguirlo; la sciarpa non bastava come scudo contro il freddo, e presto si ritrovò a rabbrividire, le viscere contorte.
-Allora… ehm… a che ora devi rientrare stasera? – chiese il ragazzo, dopo qualche minuto di silenzio.
-Alle sei.
-Ah – commentò, senza nessuna espressione particolare.
-Prima che sia buio pesto, insomma – spiegò, senza che nessuno l’avesse richiesto.
-Beh, mi sembra giusto. Insomma, non sarei tranquillo a saperti in giro per strada nell’oscurità totale.
La ragazza sorrise. –Wow, “oscurità totale”.
Anche lui si permise di sollevare l’angolo della bocca. –Bello, eh?
-Molto poetico.
-Uhm. Potrei darmi alla prosa.
Stavolta Jane rise di gusto, e subito dopo svoltarono in una strada laterale. Dopo quella sera dove si erano quasi baciati per la prima volta, lei si ricordava un po’ la strada.
-Dove stiamo andando c’è il riscaldamento, vero?
Lui non rispose subito, ma parlò solo quando la sagoma dell’edificio apparve all’orizzonte. –Lo spero.
Jane lo guardò di sottecchi: -Sai che non è molto rassicurante da dire, vero?
Il ragazzo si limitò ad annuire, con un vago sorriso sul volto. Era davvero bello quando faceva così, ovvero quando la sua espressione si rilassava e lasciava che tutti i suoi connotati si distendessero. Pareva quasi un altro, molto più sereno e…meraviglioso.
Come l’altra volta che c’erano stati, lui tirò fuori un mazzo di chiavi dalla tasca della giacca e armeggiò per un po’ con la serratura, prima di lasciarla passare dalla porta principale, seguendola all’interno.
Jane, appena mise piede nella struttura, si rese conto che avvertiva uno strano tepore, e ne fu quasi grata. Qualcuno doveva essersi ricordato di accendere i temosifoni, per altro molto vecchi e scrostati, e ora almeno nel corridoio si poteva godere di una pallida ombra di caldo.
-Dev’esserci il signor Truman in giro – commentò Malcolm, prima di sorriderle, - e in questo caso è una fortuna.
-Non è che lo disturbiamo venendo qui? – chiese la ragazza, preoccupata.
Lui, procedendo verso la stanza dell’altra volta dove si trovava il piano, ridacchiò divertito. –Se c’è lui, vuol dire che ci sono anche altre persone. Ora che è in pensione istruisce i ragazzini delle elementari sul “mondo degli insetti”. L’altro giorno mi ha dato quello che sarà il centesimo opuscolo.
-Oddio – disse lei, divertita.
-Già – aprì la vecchia porta e lasciò che entrasse prima lei, - si può benissimo dire che, comunque, per dei genitori impegnati lui sia un messia.
-Che schifo, però – commentò lei, storcendo il naso – un’ora con la faccia attaccata ad una vetrinetta per analizzare questa o l’altra formica.
Stavolta Malcolm, accedendo la luce, fece una risata di cuore e, come sempre, il suono così allegro e scoppiettante le fece venire voglia di unirsi al suo divertimento.
-Non crederesti mai a quante tipologie di formiche esistono in questo mondo – disse enigmatico, prima di affaccendarsi a prendere un paio di sgabelli e a trascinarli accanto allo strumento, scuro e appoggiato al muro come una bestia dormiente.
-Non dirmi che anche tu hai frequentato i suoi corsi – disse Jane, sbalordita.
Lui la guardò da sotto in su, chinato com’era per regolare l’altezza della seggiola senza schienale. –E dove credi che l’abbia conosciuto, sennò?
La ragazza gli camminò intorno, fino ad arrivare davanti al piano. Nonostante nessun altro a parte Malcolm lo suonasse, era lucido e ben tenuto, per nulla dall’aspetto abbandonato o trascurato. Alzando il copritastiera, scoprì una chiostra ordinata di tasti color avorio, intervallati da rettangoli allungati e scuri. Ne premette leggermente uno con dita distratte e una nota bassa ballò per un secondo nell’aria che andava riscaldandosi.
Lui le si avvicinò dietro la schiena e poggiò, quasi con timore, le mani suoi fianchi. La ragazza rabbrividì e chiuse gli occhi quando sentì che le labbra di lui le si posarono sul collo. Fu una scossa elettrica così forte che le sembrò quasi di scoppiare, di non riuscire a trattenere tutta l’emozione dentro di sé, e provò paura, un insano terrore, quando cominciò a considerare dei semplici impicci il capotto, la sciarpa, la felpa e tutti i vestiti che indossava.
-Aspetta… - sussurrò, sentendo la bocca di lui spostarsi sul suo orecchio. Intercettò la sua mano, posata sul ventre, e la strinse con forza. Tremava.
Un’ondata di brutti ricordi si fece strada nella sua testa, tanto che la bocca divenne impastata e le palpebre si serrarono, istantaneamente, mentre il corpo si faceva più freddo e rigido del marmo. La stanza, il piano e Malcolm scomparvero, lasciando il posto alle orrende e melliflue parole del mostro, alla presa delle sue viscide mani sulle cosce da bambina, mentre artigliava la pelle candida e cercava, senza successo, di farla propria. Per fortuna l’ultima volta, quando davvero credeva che l’avrebbe violentata sul serio, era riuscita a gridare.
Il ragazzo si bloccò all’istante, e la voltò per guardarla negli occhi. –Hey, Jane. Jane! Cosa succede?
La scosse leggermente, poi la abbracciò con forza, ma una certa delicatezza.
-Bambina, non preoccuparti, non voglio fare niente – la rassicurò, tenendola attaccata al proprio petto, ma lei non aveva ancora la forza di parlare.
Rispose debolmente a quel gesto rassicurante e riuscì ad articolare a fatica qualche parola, lentamente.
-Tutto…tutto bene. Scusami – disse. Farfugliò un “mi dispiace”, ma Malcolm le fece cenno di stare in silenzio.
-Shh… è stata colpa mia. Per favore, perdonami – le disse, sprofondando nei suoi capelli. –Non lo farò mai più.
Lei gli accarezzò piano la testa, timorosa quasi di fargli male: -No… no, non dire così. Ho solo bisogno di più tempo e… un giorno ti spiegherò perchè.
- Non sei obbligata – le mormorò.
-Lo so, ma sento che è il momento di farlo.
Rimasero così, in piedi, per un altro po’, a trarre calore l’uno dall’altra, ma ad un certo punto decisero di sciogliersi e mettersi a sedere. Sfilandosi i cappotti, li lasciarono appoggiati all’appendiabiti arrugginito che c’era vicino allo strumento. Malcolm le prese la mano, e giocherellò un po’ con le sue dita, nervosamente; fissava i tasti come se dovesse leggervi chissà quale parola arcana.
-Ti ho rovinato la giornata, eh? – sussurrò Jane.
-Non potresti mai – disse lui di rimando, a bassa voce. Sciolse il palmo dall’intreccio.
Piano, lentamente, seguendo solo il filo della memoria, le sue mani cominciarono a dipingere leggeri movimenti nell’aria invernale. Non appena i polpastrelli si posavano sui tasti come farfalle, subito delle note armoniose, estremamente delicate, prendevano vita appena sopra alle unghie.
Istintivamente, la ragazza chiuse gli occhi, e si lasciò guidare. Tutti i colori freddi dell’inverno fiorirono davanti ai suoi occhi seguendo delle onde, dei ghirigori estremamente eleganti, delle forme ricciute e delicate, fino a comporre un’unica linea dritta e arabescata.
Quei suoni le ricordarono con spaventosa lucidità gli occhi del ragazzo. Nel frattempo, la nostalgica melodia era salita di tono, con una graduale intensità, e la stava ammaliando con degli sbalzi di note sempre più complessi, ma comunque tremendamente facili da ascoltare.
Era una strana tristezza, quella comunicata dalla musica. Una solitudine avvilente, struggente, disarmante, devastante… ma incantevole. Mai la depressa linea dei suoi pensieri più cupi e scuri le era parsa così stucchevole e meravigliosa. Rovesciò la testa all’indietro e, mentre ascoltava, si dimenticò persino di avere un corpo.
Furono i minuti più belli di tutta la sua vita. Poi, all’improvviso, le dita di Malcolm si interruppero bruscamente proprio quando un ponte musicale stava per essere completato. La linea arabescata si storse e franò come un castello di carte agitate dal vento, e Jane riemerse da quel sabba silenzioso con una piccola smorfia di disappunto.
-Per il momento non sono riuscito ad andare avanti – confessò, avvilito, Malcolm. Lasciò che le proprie mani si posassero mollemente sulla tastiera.
-È “Stunning”? – chiese Jane, rapita.
Lui annuì brevemente.
-Sai, per me “Stunning” ha un significato speciale. Parla un po’ del destino. Quando ho iniziato a comporlo non ti conoscevo ancora, ma già ti guardavo. A scuola, quando per caso mi passavi vicino in corridoio, oppure per strada; mi pareva strano che una ragazza così bella fosse sempre da sola. Ho cominciato a scriverlo pensando a te, Jane. E poi… beh, e poi sei venuta a casa mia.
Lei battè le palpebre, come per recuperare la vista.
-Stai dicendo che tu mi “conoscevi” già  da prima? – suonò molto più come un’affermazione che come una domanda.
-Sì.
-E…cosa pensavi? Di me, intendo – non riusciva a capirne il motivo, ma all’improvviso quell’insignificante dettaglio le parve fondamentale.
Lui alzò le spalle fingendo, miseramente, noncuranza.
-Beh… che eri bella. E avevi una bella voce. E delle belle mani. Anche gli occhi, la bocca, i capelli e le gambe erano belli. Sono belli – si corresse.
Lei non riusciva a dire niente. Semplicemente, lo guardava.
-E poi, un giorno, ti ho sentito parlare. Eri con una tua amica: ad un certo punto hai riso, ed è stato così bello vedere la tristezza abbandonarti, Jane, che ho dovuto per forza scriverci una canzone sopra.
Lei sorrise, ancora immersa in una specie di meraviglioso sogno da cui era restia a svegliarsi.
-Ma “Stunning” è malinconica…. Bellissima, senza dubbio, ma estremamente nostalgica – notò.
-Hai ragione – assentì lui, - è vero. Questo perché quando ti ho incontrata per la prima volta mi ero ormai rassegnato a doverti solo guardare da lontano.
-E come mai? – all’improvviso, Jane si riscosse. Era rimasta ancora stregata dal modo in cui aveva pronunciato il suo nome.
-Non sono mai stato bravo con le persone, in generale – ammise lui, abozzando un sorriso.
Senza dir nulla, la ragazza infilò una mano sotto al suo braccio e posò la testa contro la sua spalla. Anche sotto al cappotto si poteva indovinare la lunga forma delle ossa; solo lui poteva essere bello anche con un fisico quasi scheletrico.
Aveva capito a cosa Malcolm avesse alluso, e adesso si sentiva bene, in pace. Con sé stessa, con lui, con gli altri, persino con i suoi genitori. Era così bello, stare lì abbracciati, immersi in un calore puramente artificiale e circondati da delle note appena sfumate, la cui traccia era rimasta impressa sulle pareti. Trovò che quella situazione fosse così terribilmente romantica che avrebbe persino potuto commuoversi.
Lui la tenne vicino a sé senza dare segno di volerla respingere. Sembrava pensieroso.
Ad un tratto, Jane alzò piano la testa e lo guardò dritto in volto: gli occhi erano così azzurri da far male.
-Baciami – disse.
E lui lo fece.

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Capitolo 27
*** Painting ***


-Sei nervosa?
Sul vialetto di casa non c’era nessuno. Le chiavi tintinnarono nella sua tasca, ma il movimento delle gambe  attutì il suono. A passi svelti, si affrettarono verso una piccola stradina deserta, bagnata dalla timida luce del sole dietro alla coltre di nubi scure che gettava una lugubra ombra sui profili degli oggetti.
-Un sacco.
La ragazza si strinse nel cappotto, attese che il semaforo fosse verde e corse sulle strisce pedonali, puntando con cipiglio sicuro la via principale, una grossa arteria che tagliava la città esattamente a metà. Lui si affrettò per starle dietro.
-Ma dai, non preoccuparti! Al limite passerà tutto il tempo a fissarti con aria truce e a parlare con voce severa…
La figura sottile di lei si girò, interrompendo la propria marcia, con un’espressione sbigottita. Anche lui fu quasi costretto ad andarle addosso per arrestare la camminata, ma fece in tempo a bloccare l’andatura e a guardarla dritta negli occhi, accusatori.
-Malcolm!
Lo fissò per qualche secondo.
-Eh, scusa…
Jane sbuffò. Era domenica, precisamente le tre del pomeriggio, faceva freddo e il signor Barnowsky la aspettava al parco per la sua enigmatica lezione di arte. Per tutta la settimana aveva avuto il terrore di arrivare in ritardo e l’ansia di quello che avrebbe potuto dirle. Con quell’uomo non si era mai sicuri di niente.
-Jane! Secondo me stai prendendo questa cosa troppo sul serio. Insomma, voglio dire, è solo una cosa informale! Dipingerete insieme per un paio d’ore e poi ognuno per la propria strada, no?
I due si fermarono davanti alla cancellata imponente del parco cittadino. Era una piana verde intervallata da possenti alberi secolari, con un sentiero tortuoso in terra battuta che si diramava in tutto lo spazio, per offrire ai malati di jogging il giusto percorso. Era davvero enorme, e parecchio pittoresco. In estate, quando non c’era il rischio di un congelamento, le graziose fontanelle nei pressi del minuscolo laghetto artificiale venivano azionate dalle otto di mattina alle nove di sera.
-Tu dici?
Rabbrividì. Il pensiero di dover stare seduta all’aperto per così tanto tempo le fece contrarre le viscere.
-Sì – rispose Malcolm, con tono più dolce rispetto a prima.
Posò le dita sui contorni della scollatura del cappotto, disegnando con le dita le cuciture. Sembrava pensieroso, e non la guardava in faccia.
-Vuoi che entri con te? – le chiese.
La ragazza scosse la testa con un risolino. –Sarei esagerata. Davvero, non serve; comunque è stato un pensiero carino.
Lui annuì brevemente.
-Senti…. – cominciò Malcolm, - …stai attenta a non ammalarti, eh?
La ragazza sorrise. Da quando Kim era stata dimessa lui era diventato iperprotettivo con entrambe.
-Ok. Non preoccuparti.
-Posso baciarti? – le chiese, a bruciapelo.
Lei lo guardò, sconvolta.
-E se ci vedesse? – bisbigliò, guardandosi attorno.
-Andiamo, Jane! – esclamò il ragazzo con un sorriso, - Non è mica Mazinga!
-Ah, sì? E chi te lo dice?
Lui fece un sospiro concessivo e condiscendente allo stesso tempo. –Va bene, va bene. Niente bacio. Però promettimi che farai la persona ragionevole e non starai sul chi vive per tutta la lezione, ok?
Jane sospirò. –Ok. Ci proverò.
-Brava – le baciò la fronte. –Ah, e non dimenticare che sei bellissima.
La ragazza arrossì tutto in un colpo, e le guance le si riscaldarono immediatamente quasi per un effetto soprannaturale. Sentì il sangue affluire alle tempie e abbassò imbarazzata lo sguardo.
-Stupido – mormorò, - non è vero.
-Eh sì, invece. E adesso muoviti, altrimenti arriverai in ritardo.
-Giusto! – esclamò lei, battendosi una mano in fronte. Trafelata com’era gli diede persino un bacio a fior di labbra e si avviò quasi correndo verso il luogo dell’incontro.
-Ricordati che ti vengo a prendere! – le disse, alzando la voce perché lo sentisse bene.
-Sì! – rispose, ma era ormai già lontana. Lui la guardò proseguire lungo la stradina per un altro po’, dopo di che scosse piano la testa con un mezzo sorriso e tornò a casa, con le mani in tasca.
Jane, nel frattempo, si era stretta nel proprio cappotto, ma il freddo ne era solo vagamente responsabile. Dal momento che Malcolm aveva insistito per farle tenere la felpa azzurra, quela che era stata del ragazzo una volta, aveva deciso di indossarla a mo’ di consolazione e conforto. Essendo troppo larga, l’aveva riempita mettendosi due cannottiere e una maglietta felpata a maniche lunghe. Si rese conto di aver un po’ esagerato, ma ormai era troppo tardi.
Camminò a passo veloce, guardando ovunque alla ricerca del professore. Non aveva fissato un preciso luogo d’incontro, e ora si trovava un po’ spiazzata; odiava gli imprevisti.
Barnowsky era imprevedibile, questo era vero, ma nutriva anche una vera e propria passione per il mare. Ricordandosi della casa del professore, le vennero in mente moltissime fotografie che ritraevano fondali marini, pesci, o lui stesso da giovane con una muta da immersioni. Per questo si diresse il più in fretta possibile verso i piccoli laghetti artificiali.
C’erano poche persone, quindi non fece fatica ad individuare la figura curva su un cavalletto che stava a pochi metri dalla riva, armata di pennelli e tavolozza. Alcuni passanti lo guardavano ma, visto che rimaneva immobile, se ne andavano presto: non erano intenzionati ad aspettare esposti al freddo le follie di un vecchio pazzo.
Forse Malcolm aveva ragione; quella era una pazzia bella e buona. Sarebbe stato decisamente meglio godersi una domenica tranquilla a casa, a leggere favole alla piccola Kim e rubare baci nascosti al ragazzo, ma ormai aveva dato la sua parola.
O meglio, Barnowsky aveva girato il discorso in modo che lei fosse costretta a dare il proprio consenso, e visto che la stava aspettando prima di cominciare voleva dire che si era aspettato sin dall’inizio il suo arrivo.
La ragazza sospirò: era davvero tanto difficile per quell’uomo dire esplicitamente quello che pensava?
Si avvicinò allo specchio d’acqua ghiacciato; se lo strato non fosse stato così sottile, una moltitudine di bambini ci avrebbe pattinato sopra.
-Buongiorno, signore – disse, a bassa voce.
L’uomo si voltò e, per la prima volta da quando lo conosceva, sorrise: -Oh, buongiorno, signorina Fray. Prego, si accomodi.
Non volendo cercare spiegazioni per il strampalato uso di quel tono formale, così tipicamente scolastico, la ragazza si sedette sulla seconda sedia da aula che era posata lì vicino, sull’erba. Strinse le mani a pungo nelle tasche: sapeva di non poter dipingere con i guanti.
-È da molto che aspetta? – chiese.
Lui scosse la testa. –Arrivo in anticipo di proposito.
Fece scivolare la manica sul polso, scoprendo un orologio piuttosto malandato: -E tu sei perfettamente in orario.
Si rilassò sentendo che aveva ripreso ad usare un tono più sciolto e usuale nei suoi confronti. Forse all’inizio voleva solo prenderla in giro, visto che anche lei aveva usato l’epiteto “signore”. Se avesse potuto, avrebbe alzato gli occhi al cielo.
-Allora – esordì l’uomo, - quanti pennelli ti servono?
La ragazza mostrò la propria tracolla. –Mi sono permessa di portare i miei pennelli personali e i colori che uso di solito. Non per disprezzo nei confronti dei suoi materiali, ovviamente, ma solo perché ormai sono abituata ad usare questi e, visto che presto dovrò buttarli, mi piacerebbe godermeli fino all’ultimo.
-Bene, molto bene – rispose, mascherando la sorpresa. –Sono convinto però che una tela ti serva.
La ragazza ridacchiò. –Si, quella sì. Dentro non ci stava.
Lui le porse una tela di stoffa ruvida di medie dimensioni, rettangolare, e lei la posò con attenzione sul cavalletto malandato.
-Ottimo – stabilì lui. –Per quanto riguarda acqua e stracci puoi usare i miei; io bagno poco i pennelli. E comunque, spero di poter sorvolare sulle introduzioni tradizionali, visto che sono quasi due anni che frequenti i miei corsi. Mi auguro che qualcosa tu l’abbia imparata.
Forse fu il tono burbero a cui era abituata oppure il viso da uomo scorbutico a farla sentire a proprio agio, Jane non seppe dirlo. Però le parve quasi che tutta l’ansia di cui era stata vittima fino a poco prima fosse stata del tutto infondata.
-Ora – continuò, - mi atteggerò a professore. L’unica cosa che dovrai fare, per migliorare i tuoi soggetti e le tue tecniche, sarà lasciarti trasportare. Guarda questo lago ghiacciato, l’albero, persino la gente che passa, e dipingi quello che ti ricorda. Non quello che vedi ma quello che senti. Non sto parlando di astrattismo, sia chiaro.
Jane era parecchio confusa. –Scusi, signore, ma non ho…
Lui alzò una mano per farle segno di tacere, e lei si interruppe all’istante. –Ti prego, non chiamarmi signore, e nemmeno professore. Usa “Barnowsky”, “Ted”, quello che vuoi, ma non signore. Mi fa sentire vecchio.
Lei assunse un’espressione interrogativa: -Ted?
-Teodore Rudolf Barnowsky jr. in persona – borbottò, e lei si trattenne dal scoppiare a ridere. Non avrebbe mai immaginato che potesse avere un nome così complicato.
Lui fu rapido a passare oltre.
-Se tu in questo paesaggio ci vedi, che ne so, una spiaggia, allora dovrai dipingere una spiaggia. Se ti ricorda una persona che conosci, dipingi quella persona. Se è troppo misero per le tue aristocratiche doti di pittrice, riproducilo semplicemente e ci lavoreremo sopra. Capito adesso?
Il tono di malcelata impazienza la fece ridere, ma cercò di non farlo proprio esplicitamente.
-Sì, adesso ho capito. Grazie.
-Aspetta a ringraziarmi.
Suonò più come una premonizione fatale che una frase di circostanza, ma ormai lei si sentiva completamente rilassata.
Cominciò a guardarsi intorno, osservando ogni minimo dettaglio; il nevischio sottile di quei giorni aveva lasciato le proprie tracce sui profili dei rami spogli degli alberi, sull’acqua immobile del piccolo lago e sugli steli imbiancati dell’erba. Alcune carte di caramelle si erano compattate con il suolo, e zolle di fango cristallizzato sembravano pronte a rotolare via appena arrivato il disgelo.
Attorno, i pochi passanti sembravano spaventapasseri, cappotti con le gambe. Camminavano a testa china con il viso infossato nelle spalle e il passo rapido; faceva davvero freddo.
Si concentrò più intensamente. Lo stridio delle oche nelle gabbie del parco arrivava nitido fino a lì. Probabilmente qualche bambino aveva dato loro da mangiare, ed era una mossa sbagliata, poiché continuavano a fare chiasso fino a quando non provvedevano i guardiani ad imbottirle di mangime.
L’insieme era un po’ deprimente, ma cercò di metterci del proprio. Con estrema e congelata lentezza, uno schema prese forma nella sua mente ma, prima di posare le prime sottili linee con la matita per guidare il colore in un secondo momento, cercò di visualizzare ogni dettaglio del quadro che aveva in testa.
Aveva sempre avuto una speciale predilizione per le opere con un senso, soprattutto se venivano usate delle metafore per estrapolare la realtà dalle immagini. Cercava sempre di fare dei disegni di impatto visivo, ma raramente il risultato la soddisfaceva.
Tracciò pochi segni sulla ruvidezza della tempera e, quando si sentì più sicura, intinse il pennello più sottile nel colore nero. Lo mischiò con un grigio che definiva “tiepido”, un colore fortemente influenzato dall’avorio, e cominciò il proprio lavoro.
Barnowsky la stava osservando, ma lei non se ne accorse. Le bastavano pochi minuti per entrare completamente nel progetto che voleva realizzare, e si faceva così assorta che era quasi impossibile distrarla.
Questo il professore lo sapeva, e riconosceva in quella specie di trance artistica un forte talento che la ragazza non si rendeva conto di possedere. Era rimasto fortemente scosso quando, per una grande stupidità adolescenziale, la ragazza aveva cercato di cessare per sempre quella grande dote che le era stata donata.
Se non fosse stata fortunata, avrebbe potuto lesionarsi in modo permanente i nervi nell’avambraccio, compromettendo i movimenti delle dita affusolate per sempre. Sarebbe stato un sacrilegio.
Per sciogliere l’adrenalina, Barnowsky quella sera stessa aveva dipinto, furiosamente; aveva tirato fuori dalla mansarda tutte le tele ingiallite che aveva accatastato con gli anni di inattività e aveva cominciato prima con scarabocchi atterriti, e poi con veri e propri soggetti.
In realtà, la protagonista di quel caos di rosso, di bianco e di nero era solo una: Jane. Era il suo viso quello che si intravedeva dalle linee sinistramente orchestrate, dai segni confusi che squarciavano il quadro, dalla sinuosità letale delle curve della morte.
Il risultato era stato forse il quadro più meraviglioso che l’insegnante, nella sua intera vita, avesse mai fatto. Ritraeva la ragazza come l’aveva trovata, ovvero incastrata e svenuta sotto un lavandino sporco di calce e vernice scrostata. Il suo corpo era mollemente accasciato, apparentemente privo di respiro, sul pavimento: i polsi rivolti verso il soffitto rivelavano crudeli tagli netti, privi di indecisione, che arrivavano fino al gomito.
Ma la cosa realemente sconvolgente erano gli occhi. Vuoti, disperati, sofferenti e disillusi, velatamente marroni e a malapena sporcati di verde, gli stessi occhi tristi che si era ritrovato a fissare per tanto tempo. Se si inclinava la testa, quei connotati per lui assumevano la forma di alcuni un tempo amati ma che ora voleva dimenticare; non sapeva perché, ma quel dipinto gli dava speranza e angoscia allo stesso tempo.
La ragazza, soprattutto ora che era così impegnata da dimenticarsi di lui, assomigliava davvero molto alla donna che aveva disperatamente cercato di dimenticare. Solo che provava nei confronti della giovane una curiosità e protezione che difficilmente avrebbe sentito nei confronti di una sconosciuta.
I due trascorsero quasi un paio d’ore in completo silenzio. Vicino a loro si era radunata una certa folla, che bisbigliava dei commenti di apprezzamento dietro le loro schiene.
Verso le cinque del pomeriggio, intirizziti fino alle ossa, stabilirono che era ora di smettere: il sole stava sparendo all’orizzonte.
Il professore non volle nemmeno guardare il quadro che la ragazza stava per ultimare, poiché le sembrava di violare la sua privacy spiando un’opera da terminare. Le diede un telo sgualcito e le disse di finirlo a casa, quando aveva tempo, oppure l’avrebbe completato la domenica successiva.
-Sempre se vorrai venire, naturalmente – aggiunse.
-Ma certo! – si affrettò a dire lei, -Mi sono divertita molto, oggi, è stato interessante. Domenica prossima alle tre salvo imprevisti, quindi?
-Certo, certo. È un po’ troppo scuro adesso per i miei gusti. Non devi tornare a casa da sola, vero?
Lei scosse la testa, arrossendo. –No, no, mi vengono a prendere. Devo fare solo un tragitto breve, stasera.
L’uomo annuì. –Bene, allora. Arrivederci.
-Arrivederci! – salutò, cominciando ad allontanarsi stringendosi la tela al petto.
Quel quadro stava venendo bene, e si sentiva fiduciosa nel risultato. Le piaceva l’idea di completarlo in solitudine ma, soprattutto, al caldo. Il freddo la aiutava a pensare, ma in quel momento le articolazioni ne stavano pagando le conseguenze e sicuramente le sarebbe venuta la febbre; quella sera avrebbe chiesto alla signorina Miles un po’ di sciroppo.
Come aveva promesso, Malcolm si fece trovare all’ingresso del parco. Appena la vide le corse incontro e, con immenso sollievo della ragazza, le avvolse una seconda sciarpa attorno al collo, abbracciandola stretta.
-Allora? Com’è andata? – chiese.
Lei lo abbracciò con gioia sincera. Le sembravano passati secoli dall’ultima volta in cui l’aveva visto, e aveva pensato a lui in ogni istante. Soffriva dell’assenza di quel particolare profumo di muschio, la faceva sentire al sicuro. Strofinò il naso arrossato contro il suo petto.
-Benissimo, direi.
-Ma cos’hai qui? – domandò lui, incuriosito, tastandosi la pancia per meglio identificare quella forma rettangolare che lo stava stringendo.
-Questo è il mio quadro – spiegò lei, - ma non posso mostrartelo, perché non è finito.
Lui la fissò per un secondo, sciogliendosi dall’abbraccio, e scoppiò a ridere. –Ma non è giusto!
Anche lei sorrise. –Eh, lo so. Ma sono queste le regole, mi dispiace.
-D’accordo – cedette, - ma quando lo completerai esigo di vederlo. Sono sicuro che sarà splendido.
-Tu mi sopravvaluti troppo, sai? Quando passerò la notte con le mani sporche di olio a fumare sigarette senza filtro in un antro di due metri per tre mi sentirò fortemente sottopressione per le tue aspettative stratosferiche.
-Che esagerata che sei! Due metri per tre? Sarebbe già tanto se ti lasciassi uno sgabuzzino!
Lei gli puntò l’indice sul cappotto. –Spi. Ri. To. So.
Incamminandosi, lui la aiutò a tenere la misteriosa opera d’arte e, con la mano libera, la teneva sottobraccio.
-Sei sicura che si sia asciugato? Sarebbe un peccato che tutti i colori si mischino prima ancora che io abbia potuto vederlo.
-Sì, ho controllato – disse lei, sbirciando la stoffa contro il fianco di Malcolm, che ricopriva la tela, - con il freddo è più facile che si asciughi in fretta.
-Uhm, speriamo.
-Eddai, non prenderla così male! Non sarebbe mica una tragedia se decidessi di tenerti il “quadro del mistero” nascosto!
Lui rise di gusto, stringendola con affetto e baciandole leggermente la sommità della testa. Erano completamente soli per strada.
-Che tipo di soggetto hai dipinto che non posso vedere? Un ritratto di me senza vestiti? – chiese, provocandola.
Lei arrossì, ma non si tolse la soddisfazione di rispondere a tono: -Dovresti posare per me, prima. È così che si fanno i nudi: il modello si stende e il pittore… lo raffigura.
Malcolm deglutì, rallentando il passo. Non disse niente per un po’, e Jane si godette fino in fondo il fatto che fosse in difficoltà. Non era mai stata brava con i doppisensi scottanti, ma aveva imparato qualche utile trucchetto grazie alla compagnia di Sarah, molto più disinvolta con l’argomento.
E poi in quel momento si sentiva tranquilla, visto che c’era nell’aria solo una scherzosa e leggera malizia.
Il ragazzo sospirò, aggiustando il quadro nella mano destra.
-Ma perché quella volta invece di prendere lezioni di pianoforte non mi sono iscritto al corso d’arte?
Jane scoppiò a ridere. Si dovette persino portare la sciarpa davanti alla bocca per riuscire a smettere, e rimase quasi a boccheggiare per la mancanza di fiato.
-A proposito, signorina, dovresti seriamente darmi lezioni. In disegno sono uno schifo, recupero l’insufficienta solo con gli scritti di storia dell’arte. L’unica cosa che ho imparato a disegnare è la casa fatta con un rettangolo sotto e un triangolo sopra.
Lei gli posò la testa sulla spalla, allegra. Si sentiva particolarmente bene, quella sera, e l’idea di passare una piacevole serata con Kim per poi cenare tutti insieme la fece solo stare meglio.
-E le finestre? – chiese.
-Le finestre non le metto. È troppo difficile farcele stare entrambe.
Questo la fece scoppiare un’altra volta.
-Addirittura a questo livello? Dài, non ci credo.
-E invece è tutto vero – sospirò il ragazzo. Ormai erano quasi arrivati.
-Insomma, è come me in contatto con un pianoforte – ammise Jane, - premo tasti a caso fino a quando non mi si stancano i timpani. Un classico.
Lui fece una mezza risata. –Non essere così tragica.
Estrasse le chiavi dalla tasca e armeggiò con il cancelletto che, ora che era stato riparato, dava molti più problemi di quando era rotto.
-Con il piano bene o male si può imparare – disse, facendola entrare per prima, - in fondo si tratta solo di premere tasti con una certa fluidità. Ma credo che il disegno, se non si nasce proprio portati a farlo, allora è difficile da imparare, perché è qualcosa di molto più creativo. Per questo dubito che la mia umile casetta potrà mai evolversi.
Jane rise di nuovo, entrando nel soggiorno tiepido.
-Aspettami un attimo qui, vado a prendere Kim dalla vicina – le disse. Appena finì di parlare, gli squillò il cellulare.
Le fece un segno di scuse e si mise a parlare. Dopo nemmeno un minuto, era già più pallido anche se, essendosi ritirato in entrata, Jane non poteva sentire cosa stava dicendo.
All’improvviso ripiombò in soggiorno, dove Jane si stava togliendo il soprabito e bisbigliò: -Mio padre torna stasera da un viaggio d’affari. Vorrebbe conoscerti. Che gli dico?
La ragazza deglutì. Il sangue prese a rombarle nelle tempie, con forza. Si morse il labbro e, prima di ragionare, annuì con veemenza.
Il ragazzo fece un sorriso nervoso.
-D’accordo, papà. Sarebbe… sarebbe perfetto. A che ora hai detto che torni?  
 

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Capitolo 28
*** William ***


-Dici che sono troppo appariscente? – bisbigliò Jane, davanti allo specchio.
Malcolm coprì una risatina con la mano.
-No, fidati – ripetè. Era forse la terza volta che cercava di rassicurarla ma, vista la situazione, ci sarebbe voluto ancora parecchio tempo prima che la ragazza si sentisse effettivamente tranquilla.
L’immagine riflessa nella cornice argentata era di pura e semplice disperazione. Una ragazza dai lineamenti sottili e le sopracciglia arcuate stava fissando con atroce sgomento i capelli, indecisa se mantenerli acconciati così com’erano in una crocchia disordinata, oppure scioglierli.
Malcolm la preferiva con le ciocche che ricadevano sulle spalle, poiché quando la baciava era piacevole sentire le punte dei suoi capelli castani contro i propri, color pece, tuttavia non si azzardava a dirlo per paura di confonderla ancora di più. Alla fine, Jane guardò disperata l’orologio e sobbalzò.
-Oddio, sono già le sette! Devo preparare la cena!
Detto questo, scappò fuori dal bagno mordicchiandosi un’unghia.
Con un sospiro, il ragazzo rise fra sé e sé e la seguì, a lente falcate. La adorava quando faceva così: era estremamente bello cercare di rassicurarla e, nel frattempo, godersi lo spettacolo di lei che correva da una parte all’altra della casa preda dei dubbi.
-Jane, hai visto che bel disegno che ho fatto? – cinguettò Kim, docilmente seduta al tavolo con un pennarello rosso in mano.
La ragazza, con un sorriso improvvisamente sereno, posò lo straccio appena agguantato e le si sedette affianco. Prima di qualsiasi altra cosa, lei doveva prendersi cura della bambina: poco importava il resto. E, visto che era stata recentemente malata, aveva quasi l’obbligo di viziarla in tutti i modi possibili e inimmaginabili.
-Wow! Che bello! – si congratulò lei, guardando il foglio.
La piccola, gonfia d’orgoglio, puntò con l’indice la figura incerta e allungata di quella che sembrava una ragazza in vestito blu.
-Vedi, questa sei tu quando sarai una principessa. Ho disegnato anche il velo, e questi punti rossi sulla gonna sono tutti i tuoi diamanti.
Jane rimase per un attimo senza parole, poi scoppiò a ridere, sopresa. –Oh mio dio, Kim, ma è bellissimo! Questo vestito è stupendo!
-Ti starebbe bene con i capelli messi così! – esclamò la bambina, elettrizzata, e cominciò a palparle qualche ciocca scivolata fuori dalle altre, raccolte.
Anche Malcolm la pensava allo stesso modo; quel tipo di pettinatura rendeva molto più sottili i suoi lineamenti e la faceva sembrare giovane e al tempo stesso elegantissima. Con i capelli sciolti era più sensuale; considerato che doveva avere un incontro con suo padre, Malcolm sperava che non avrebbe dovuto puntare sulla seduzione.
La ragazza le baciò leggermente la testa, mentre Kim già aveva preso un altro foglio e la stava ritraendo in “abito da sposa”. Il tratto era più o meno lo stesso, con l’unica differenza che i colori andavano da un rosa sfavillante ad un azzurro acceso, per non parlare dell’enorme fiocco arancione che le aveva posato in cima alla testa.
Malcolm cominciò a preparare la tavola con un mezzo sorriso. Gli piacevano quei momenti allegri, lo facevano sentire veramente parte di una famiglia normale. Lanciava occhiate prima a Jane, che continuava a chiacchierare con la bambina mentre sistemava le varie pentole, e alla sorellina, intenta a chiedere se i dettagli sartoriali apportati al disegno erano o no di gradimento della modella.
-La parte sopra va bene se la faccio rossa? – chiese la bimba, con la sua vocina sottile.
-Starebbe benissimo, secondo me – approvò Jane.
-E il giallo?
-Ancora meglio. Sarebbe perfetto sul diadema.
-Cos’è un diadema?
-La corona delle principesse – spiegò Jane. –Va bene la pasta al sugo?
La bambina annuì, continuando a colorare.
Nel frattempo, la ragazza aveva preso il cellulare dalla propria tracolla, con aria preoccupata. Malcolm la guardò interrogativamente, ma lei rispose solo con un’occhiata angosciata. Gli fece cenno di tenere d’occhio il cibo e corse in soggiorno.
-Pronto? – chiese, timorosamente.
-Parlo con la signorina Fray Jane? – domandò una voce femminile dall’altro capo, abbastanza sbrigativamente.
-S…sì – ammise. –Posso sapere con chi sto parlando?
-La prego di attendere un momento soltanto – rispose quest’ultima, con tono leggermente più gentile. –L’agente Kinney desiderebbe parlare con lei il prima possibile.
Il cuore di Jane smise semplicemente di battere. Kinney. Kinney Sophie, la stessa donna longilinea che le era andata a far visita alla Casa quelli che parevano ormai anni prima. Chiuse gli occhi, ma il buio che aveva cominciato ad addensarsi ai lati della sua visuale non scomparve affatto. Poggiò la mano sul bordo del divano per sostenersi ma, sentendo le ginocchia tremare, decise di accomodarsi. In quell’esatto momento, una scarica d’adrenalina serpeggiò dai piedi fino alla testa, mandandola nella confusione più totale.
Nell’attesa, strinse spasmodicamente il biglietto da visita incastrato in tasca, un po’ spiegazzato ma ancora perfettamente leggibile.
-È ancora in linea? – chiese nuovamente l’operatrice.
-C…certo – disse, con un filo di voce. Deglutì a vuoto.
-Bene. Adesso le passerò la chiamata. Si sente bene? – l’ultima domanda non fu dettata da un sincero compatimento, ma più che altro da una sorta di rito. Sembrava essere la domanda a cui chiunque chiamasse l’FBI doveva rispondere, e lei decise di mentire nonostante fosse palese che tutto stesse andando storto.
-Naturalmente, certo – balbettò, in fretta. –Non si preoccupi.
Non c’era assolutamente pericolo che la signorina dall’altra parte del telefono avesse a cuore le sue sorti; infatti, appena finì la frase di circostanza, si udì il “click” di un tasto premuto e Jane dovette attendere qualche altro secondo.
-Jane? Jane Fray? – chiese una voce familiare.
Per la seconda volta nel giro di qualche minuto, la ragazza sobbalzò. –Sì, sono io. Parlo con la signorina Sophie Kinney?
Ebbe l’impressione che avesse sorriso. –Sì, sono io. Ti prego di scusarmi per l’ora, ma si tratta di una questione piuttosto urgente.
-La prego, mi dica. Nessun disturbo.
-Ecco… - l’esitazione nell’intonazione non le piacque per niente, perché l’agente aveva l’aria di una persona estremamente sicura di quello che voleva, e che non aveva bisogno di pensare due volte sulle cose da dover dire. Se dimostrava quella sorta di vulnerabilità sentimentale voleva dire che non era di certo una cosa allegra.
Un sospiro. –Non per telefono. Quando ci possiamo incontrare?
A Jane parve che qualcuno le avesse infilzato lo stomaco con un oggetto appuntito, poiché le mancò il respiro.
-N…non lo so. Domani, credo – cercò di riprendersi in fretta, pensando con lucidità. – Sì, domani per me va bene. Ho una pausa di un paio d’ore dopo pranzo. Se per lei è ok…
-Naturalmente – disse subito l’agente. In sottofondo, si sentì il graffiare di una matita contro la carta.
-D’accordo – ricapitolò la donna, con il tono gentile reso leggermente metallico dal telefono. –Come punto d’incontro suggerirei il bar vicino al tuo alloggio. Sai, non vorrei avere troppa gente che ti conosce intorno… non voglio che diventi una cosa imbarazzante.
Malgrado tutto, Jane ne fu vagamente rincuorata. –La ringrazio, per me è perfetto.
L’altra la stava già salutando, ma la ragazza la fermò. –Ah! A proposito… mi scuso per non averla richiamata. È solo che…
Si era mentalmente preparata un discorso, ma le parole le morirono in gola. Non sapeva bene perché, ma non aveva avuto il coraggio di disseppellire il passato un’altra volta, non dopo tutta la fatica che aveva fatto per rinchiuderlo nei meandri della memoria.
Era stato un percorso lento e doloroso, costantemente minacciato anche dal dettaglio più minuscolo, e sarebbe stato inutilmente pesante dover rivivere tutto ancora una volta, senza nessun preavviso.
Sophie, al contrario di quanto avesse previsto, fu molto comprensiva, e assunse un tono quasi materno.
-Non preoccuparti, Jane, è comprensibile. Siamo stati noi a piombare nella tua vita da un giorno all’altro, è solo che quando un caso è così… poco recente, non so se mi spiego, qualsiasi attimo potrebbe essere essenziale. Non potevamo perdere altro tempo, e… abbiamo voluto vederti subito. Ma, a dire la verità, non mi sono mai aspettata una tua chiamata.
Quest’ultima rivelazione la lasciò interdetta. –Cosa…?
Una leggera risatina la fece arrossire. –Tratto molti più casi minorili di quanti tu possa immaginare, mia cara Jane. E per stasera dimentica tutto, divertiti. Ci vediamo domani.
La ragazza avrebbe voluto dire qualcosa di sensato, ma non le venne in mente niente. Rispose al saluto e aspettò qualche secondo  prima di rialzarsi.
Si sentiva inebetita, in un certo senso, ma quella telefonata aveva avuto il potere di farle pensare con un po’ più di lucidità. Sophie non si era affatto adirata per il fatto che non l’avesse più contatta, anzi. E questo la rendeva stranamente calma e serena, visto che non si era tirata addosso l’ira di un’agente federale;  inoltre l’incontro del giorno dopo, almeno da parte sua, sarebbe stato definitivo: in quell’occasione avrebbe spiegato che non era pronta per rivivere il trauma e che avrebbe detto tutto quello che sapeva solo lì, e basta.
Non era disposta ad aprire l’armadio e a salutare i propri scheletri, non ancora. Da quando Malcolm e il professore le avevano salvato la vita, si sentiva come se le avessero fatto un dono. Era consapevole che non se non avesse cementato quel periodo di apparente calma non sarebbe mai stata preparata ad affrontare il futuro.
Le piaceva vedere le cicatrici sbiadire fino quasi a scomparire, e le sarebbe sembrato imperdonabile aggiungerne di nuove.
In quell’esatto momento, sobblazò con un singulto: due mani grandi le si erano posate sulla schiena con dolcezza, ma non aveva sentito i passi provenienti dalla cucina.
-Oh Dio, mi ha spaventato – sussurrò in un soffio a malapena udibile.
Malcolm si scusò, sedendosi accanto a lei.
La fissava di sottecchi, come se non si capacitasse di come avesse fatto a diventare così pallida in un paio di minuti al telefono. Trovò il coraggio di parlare soltanto dopo qualche secondo.
-È tutto ok?
Procedette così cautamente che a Jane sgorgò spontaneo un sorriso. Gli prese una mano e la strinse, ancora leggermente nervosa.
-Sì, non preoccuparti. Un giorno, senza fretta, ti spiegherò anche questo. Ma adesso non ci posso pensare, altrimenti credo che potrei entrare in paranoia.
Lui rispose al contatto accarezzandole pensieroso le dita, accettando il fatto che non fosse pronta a parlarne. Aveva imparato che per combattere la fragilità bastava solo avere pazienza e, avendo tutta l’intenzione di starle vicino una vita intera, si rendeva conto che ne avrebbe avuto il tempo.
Si sentì comunque in dovere di cercare di tranquillizzarla almeno un minimo.
-Per quanto riguarda mio padre… - disse, incerto, - non devi agitarti. È una persona molto alla mano, gli piace conoscere gente nuova e ci sa fare, con le persone. Non hai motivo di sentirti in imbarazzo. Sono sicuro che gli piacerai moltissimo.
Lei fece un sorriso dolce. Si guardò dietro le spalle e, scorgendo la sagoma di Kim china sul suo foglio, si permise di dargli un piccolo bacio su una guancia fredda.
-Grazie – sussurrò.
Gli tenne la mano ancora qualche secondo, ma poi si sentì pronta per alzarsi. Tornarono in cucina fingendo assoluta nonchalance, ma la bimba non sembrava essersi accorta del fatto che si erano momentaneamente allontanati nel soggiorno.
Reggendo, trionfante, la sua opera d’arte, la esibì fieramente ad entrambi, e ricevette lodi e apprezzamenti sinceri. Jane non avrebbe mai indossato una cosa del genere, come qualche altra decina di milioni di persone, ma trovò comunque il disegno splendido anche per il semplice fatto che era stato delineato con cura. Inoltre la lusinga di esserne il soggetto principale aveva contribuito a farglielo sembrare davvero bello.
Si sedettero a tavola tutti e tre, vicini, e si misero a parlare della loro giornata per ingannare il tempo. Kim era rimasta estasiata dall’idea che la ragazza avesse dipinto al freddo e al gelo, con l’unica compagnia di un uomo scorbutico, per tutto il pomeriggio, ma accettò con una sorta di reverenziale importanza il fatto che non potesse ammirare l’opera da lei partorita.
Malcolm, invece, aveva finito i compiti di algebra con la sorellina, l’aveva messa a dormire e aveva guardato un film. Prima del finale, però, era dovuto passare a prendere Jane, che era congelata. A quel punto, la bambina raccontò che dalla vicina aveva iniziato una partita a memory, e la vecchia signora si era rivelata un’insospettabile campionessa.
-Trovava tutte le figure dieci minuti prima che potessi anche solo vederle – raccontò, imbronciata, muovendo il pennarello in un movimento vagamente accusatorio.
-Secondo me imbrogliava – intervenne Malcolm. Non sembrava l’avesse detto solo per rassicurarla, anzi, pareva del tutto convinto di quell’affermazione.
-Che motivo avrebbe una signora di più di settant’anni di imbrogliare una bambina di cinque giocando a memory? – interrogò Jane, per farlo rinsavire.
Lui alzò le spalle. –Forse tenere in auge il proprio record.
La ragazza stava per ribattere che non era una scusa convincente, ma in quell’esatto momento suonò il campanello. Era stato un trillo deciso e squillante, tanto che Kim trasalì prima di fare un enorme sorriso.
-Papà! – esclamò, al settimo cielo, e abbandonò il proprio arsenale da disegno di punto in bianco per fiondarsi alla porta.
Malcolm, con un sosprio rassegnato e divertito al tempo stesso, la rassicurò con un’occhiata e seguì la sorella minore nell’altra stanza. Per non farsi vedere placidamente accomodata mentre la famiglia era in fermento, Jane si alzò dalla sedia senza troppa convinzione; alla fine, decise di affacciarsi dalla porta della cucina e accogliere l’uomo con una formale stretta di mano.
Sì, si disse, era la cosa giusta da fare: avrebbe pensato che lei fosse una persona seria e responsabile, e cioè la scelta migliore per sapere Kim in buone mani. D’altra parte, doveva fare la migliore impressione possibile, no?
Fu Kim ad aprire l’uscio, eccitata dal nuovo arrivo. Con una certa fatica, insistette per aprire il pesante portone d’ingresso blindato e lo trascinò fino al muro, lasciandolo spalancato. Chiamò nuovamente il padre, che stava risalendo il vialetto, e una risata allegra e gioviale le arrivò in risposta.
-Principessa! – esclamò il signor Hall, arrivato all’ingresso, - Fammi vedere quanto sei cresciuta!
Senza la minima esitazione, lasciò a terra la borsa da viaggio, un mazzo di fiori e un peluche e la abbracciò, facendola vorticare in aria, con somma gioia della bambina. Dopo averle fatto fare due giri completi, se la tenne in braccio e le domandò come andava a scuola con aria decisamente complice.
Jane non poté impedirsi di sorridere davanti alla scena; non si era aspettata un ritorno così caloroso da parte del signor Hall che, per qualche ignota ragione, aveva immaginato come scorbutico e taciturno, un po’ una copia educata del professor Barnowsky.
Inanzitutto, si rese conto che il suo aspetto era ben lontano da qualsiasi aspettativa. Aveva un fisico atletico e asciutto, nascosto da pantaloni beige dal taglio costoso e una camicia bianca, lasciata intravedere di sotto al pesante cappotto scuro che indossava, ed era molto alto, e quasi doveva tenere china la testa per entrare dalla porta.
Era indubbiamente un bell’uomo, come testimoniavano i capelli biondi e folti e i tratti squadrati del viso, e le ricordò un po’ Malcolm. Forse il sorriso sghembo, che su di lui aveva un’aria accattivante, oppure la piega delle labbra quando parlava, ma le parve quasi che il figlio avesse preso molto più da lui che da Francesca.
-E tu, ragazzo? Cosa sono quei capelli così corti? – ironizzò, bonariamente, abbracciando anche lui. Aveva lasciato andare Kim per un attimo dandole il peluche e ora stava rivolgendo la sua attenzione al figlio, scherzando.
-Ciao, papà – rispose lui, rispondendo goffamente al gesto d’affetto.
-Certo che non ti si può lasciare a casa nemmeno un paio di giorni che già mi superi in altezza, eh? – disse, dandogli vigorose pacche sulle spalle. Il fisico gracile e magro di Malcolm sembrava essere un diretto derivato di quello del padre, a cui erano stati sottratti parecchi chili di muscoli.
Finalmente parve accorgersi di Jane, che stava sorridendo educatamente, in disparte. Aveva osservato la scena e si era resa conto, se lui e Francesca fossero stati meno assenti, avrebbero potuto costruire una famiglia fantastica.
-Wow… - mormorò, con evidente soddisfazione, - … che bella signorina!
Si avvicinò con fare cordiale e lei, un po’ imbarazzata, gli strinse la mano tesa proprio come aveva immaginato di fare.
-Molto piacere – disse, cercando di dissimulare il disagio, - io sono Jane.
-William. Piacere mio, Jane – rispose l’altro, affabilmente. –Francis mi aveva detto che eri bella, ma davvero non immaginavo così tanto!
La ragazza arrossì per un riflesso condizionato.
-Grazie – balbettò. Quel carattere così espansivo era stata una vera sorpresa.
William Hall rise. La sua risata aveva un bel suono cristallino e allegro, e faceva venire voglia di unirsi alla sua allegria; quando la moglie le aveva spiegato che era una persona che amava andare alle feste, e che vi si trovava sempre al centro dell’attenzione, lei non avrebbe mai immaginato che potesse aver riassunto la sua impressione su di lui così facilmente.
Malcolm lo aiutò a portare le valigie all’interno, ma lui gli rispose che poteva lasciarle lì dov’erano, con noncuranza.
-È stato un viaggio lungo, Mal. Lo farò io dopo, non preoccuparti… comunque grazie – disse, guardandolo con evidente soddisfazione.
Tornò a concentrarsi su di lei. Sembrava vagamente mortificato.
-Mi dispiace di non essermi presentato prima, Jane, ma è stato un periodo orribile. Più il Natale si avvicina, più il lavoro si accumula… e purtroppo non posso sdoppiarmi, non ancora almeno, altrimenti lo farei volentieri.
-Non si preoccupi – si affrettò a dire lei, - capisco benissimo quanto possa essere difficile.
Lui le sorrise, rinfrancato. –Sei una ragazza molto saggia, allora. Ma credo che adesso dobbiamo preoccuparci di un problema non trascurabile: la cena.
Malcolm accennò ad una risatina. –Jane ha pensato anche a questo.
Le si schermì, imbarazzata. –Beh, non è del tutto vero… mi hai aiutato anche tu, no?
L’uomo non stava più ascoltando, infatti le prese la mano, grato. –Oh, grazie al cielo! Ti ho già detto che mi fai un’impressione sempre migliore ogni secondo che passa?
Prese Kim in braccio e si diresse in cucina con tono allegro, proclamando la frase “chi vuole vedere cosa c’è di buono in pentola?”.
La ragazza, in piedi, rimase sorpresa. Non si era aspettata una tale profusione in lodi e ringraziamenti così all’improvviso, visto com’era poco abituata a ricervene in circostanze normali. William sembrava tuttavia sincero, come se non stesse adottando la tattica di molti, ovvero adulare il nuovo arrivato per non farlo sentire in imbarazzo. Quell’informalità gioviale ed estremamente sciolta la stava già mettendo a proprio agio, ed erano solo ad inizio serata.
-Visto? – bisbigliò Malcolm, precedendola in cucina.
Lei fu costretta a dargli ragione: si sarebbe aspettata davvero molto di peggio.
Nel frattempo, nell’altra stanza, padre e figlia stavano chiacchierando allegramente come due compagni di classe. Lei, com’era ovvio, si lasciava vezzeggiare dal genitore con evidente piacere, e lui traeva una grande soddisfazione nel lusingarla e sentire tutto quello che aveva da dire. Sembrava stesse recuperando tutto il tempo in cui era stato via.
-Carissima Jane, voglio sperare che tu ti fermerai a cena da noi – le disse, vedendola entrare, - e se fosse il contrario, parlerò io personalmente con chiunque richieda la tua presenza.
Alla ragazza venne naturale accennare ad una risata. –Non si preoccupi, signor Hall. Posso rimanere, se le fa piacere.
-Ovviamente – replicò l’uomo. Mentre giocava con Kim, il fratello maggiore e la baby-sitter si affrettarono a servire e, chi prima e chi poi, si sedettero tutti a tavola.
Come poté constatare con un certo sollievo, Malcolm sembrava avere molto più appetito di quando avevano cenato con la madre, ormai quasi un mese prima.  Quella volta aveva espresso il proprio avvilimento con ogni fibra del proprio corpo, ma in quell’istante non le parve altrettanto intristito; forse dipendeva dal fatto che Francesca se ne fosse partita subito dopo, e invece William sembrava intenzionato a rimanere in casa almeno un giorno o due.
Dopo averla lodata per il cibo, il signor Hall si pulì gli angoli della bocca con un tovagliolo e cominciò a parlare con tono tranquillo, informale.
-Allora, Jane – esordì – ho saputo che frequenti il corso d’arte.
Sembrava più un’affermazione che una domanda, ma lei si sentì comunque in dovere di dare una risposta. Lanciò un’occhiata a Malcolm come per fargli capire che lo riconosceva colpevole di quella soffiata e si affrettò ad annuire.
-Sì, è vero. Da quasi tre anni, ormai.
L’uomo assentì con il capo. –Come farai a seguire i corsi dopo i vari tagli di bilancio? Ho saputo che si darà maggior spazio nelle materie scientifiche, dall’anno prossimo in poi.
-Io e il mio professore siamo rimasti in contatto, anche perché ero stata l’unica sua allieva a non aver cambiato corso dopo le prime lezioni. Credo che la reciproca sopportazione mi abbia reso più simpatica, nei suoi confronti.
Hall accennò ad una risatina divertita: -Barbowsky, eh? L’ho incontrato alla riunione dei genitori, l’anno scorso. Mi è sembrato un tipo… interessante.
Anche Jane ridacchiò. –Lo è, senza dubbio. L’unico difetto è il suo nascondere le buone virtù che possiede sotto a tutti i suoi difetti.
-Era la prima cosa che si notava, ad essere onesti. Non metto in dubbio la sua bravura, comunque; diverso tempo fa, fece una mostra assieme ad altri pittori, e il suo tratto era decisamente il più affascinante. Sono un grande appassionato di pittura, e cerco di non farmi mai sfuggire i talenti più nascosti, quando posso.
Le strizzò l’occhio, assaggiando un altro boccone. Dalla sua espressione, doveva essere di suo gradimento.
-Credo anche che sia un errore imperdonabile lasciare che la matematica prenda il sopravvento sulle altre materie. Insomma, sono sicuro che sia importantissima, ma l’arte non andrebbe mai presa così sottogamba.
Jane si trovò completamente d’accordo con lui.
-Sono però sicuro che a Malcolm la cosa vada più che bene, vero, Mal? – esclamò poi, e la smorfia del figlio non fece che confermare le sue parole.
Dopo le risate generali, finirono le proprie porzioni e la ragazza si alzò per spreparare.
-Ti prego, Jane – disse l’uomo, facendole cenno di lasciar stare, - non potrei mai obbligarti anche a pulire tutta questa roba. Non è una tragedia se, per una volta, gli uomini di casa si prendono le proprie responsabilità casalinghe, no?
Fece l’occhiolino al figlio, che rispose con un sorriso spento. Non aveva parlato molto, ma Jane aveva l’impressione che avesse preso quel ritorno molto più alla leggera.
La famiglia si spostò in salotto e, per un breve momento, sarebbe potuta rimanere anche la ragazza. Senza essere osservata guardò l’orologio: erano solo le nove e mezza. La signorina Miles non si sarebbe mai arrabbiata per un così lieve ritardo.
-Jane – annunciò William, quando si fu seduta, - se vuoi domani potrai prenderti un giorno libero… sarò infatti a casa per un paio di giornate, non lo so ancora. Il mese prossimo ho tre settimane di ferie, e credo che possa concedertele anche tu.
La ragazza sorrise, leggermente delusa. –La ringrazio, signor Hall, ma per me non è affatto pesante accudire Kim. È una bambina meravigliosa.
L’interpellata arrossì, ma riprese a giocare senza dire niente. La guardò, comunque, con profonda ammirazione e un sorriso contento, ricambiato dalla complice.
L’uomo parve soddisfatto da quella risposta. Il figlio era impallidito visibilmente, però, alla prospettiva di avere almeno uno dei due genitori in casa per così tanto tempo.
-Sono contento che tu la veda così. Sai, io e Francis eravamo molto incerti sull’assumere una baby-sitter, ma devo dire che non mi pento. Mi sento sicuro all’idea che Kim stia con te.
-Grazie – mormorò la ragazza.
-Di nulla, di nulla – rispose, cordiale. Guardò il proprio orologio da polso.
-Si è fatto tardi – osservò. – Qui c’è qualcuno da mettere a letto. Me ne occupo io… tu intanto accompagna Jane a casa, va bene? – disse, rivolgendosi al figlio.
Ben contento di avere una scusa per uscire di casa, Malcolm si alzò e andò a prendere il proprio cappotto.
-N…non è necessario – cercò di dire la ragazza, - non serve che vi prendiate questo disturbo.
Ma il signor Hall fu categorico: disse, senza avere tutti i torti, che con quel buio non era consigliabile per una ragazza andare in giro, e si sarebbe sentito molto più tranquillo se Malcolm l’avesse accompagnata in auto. Diceva che, nonostante tutto, gli pareva una misura di sicurezza accettabile.
Jane ringraziò, sorridendo, salutò la piccola Kim con un bacio sonoro in fronte e strinse nuovamente la mano al signor Hall, dicendosi felice di averlo conosciuto. Poi prese le proprie cose e uscì con il ragazzo.
Fuori faceva freddo: l’aria gelida e impenetrabile della notte sembrava formare un muro davanti ai suoi occhi, che cominciarono subito a lacrimare. Sentì la presa rassicurante e morbida di altra stoffa contro le spalle e si voltò, con un sorriso.
Incontrò gli occhi azzurrissimi di Malcolm, che sembravano sorridere anche se la sua bocca era immobile. Come aveva immaginato, le aveva posato sulle spalle una pesante sciarpa.
-Andiamo? – chiese.
La ragazza gli si strinse contro. –Certo.
Si avviarono, mano nella mano, alla macchina. E il pensiero che forse non avrebbe potuto vederlo per così tanto tempo smise di terrorizzarla come quando l’aveva concepito.
 

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Capitolo 29
*** Talking about ***


Jane era irrequieta. Sbirciando l’ora segnata da un’orologio sulla parete, il suo nervosismo crebbe a dismisura, fino a farla sbuffare.
Sophie non aveva l’aria di una persona ritardaria, fin troppo organizzata per concedersi il lusso di far aspettare la gente e, di conseguenza, far slittare ogni suo appuntamento di dieci, fatali minuti. Per questo la ragazza non interpretava quell’assenza come un buon segno: era passato diverso tempo dall’ora stabilita e, anche se non aveva nulla da fare nel pomeriggio, voleva far finire quell’incontro il prima possibile.
Sorseggiò ancora il caffè, ormai freddo. L’aveva zuccherato troppo e ora era una poltiglia dolciastra, scura e appiccicosa; sembrava che il bruno liquido tiepido fosse completamente scomparso, rimpiazzato da un orrendo intruglio.
Il cellulare nella sua tasca vibrò. Questo la fece sobbalzare; afferrò l’aggeggio con una strana urgenza mista a palpitazione.
Jane, dove sei?
Guardò il numero: Malcolm. Tutto il fiato trattenuto venne espirato in un solo momento; per un attimo aveva temuto che si trattasse di Sophie. Digitò la risposta con dita frenetiche.
Devo fare una cosa, non so quanto ci starò.
Aveva deciso di tacere l’intera questione perché non si sentiva ancora pronta a parlarne con qualcuno, e prima voleva risolvere la faccenda. Si era ripromessa di spiegargli tutto quello che avrebbe voluto sapere una volta tranquillizzata dalla fine delle indagini.
Il ragazzo non rispose subito, ma attese quasi un minuto intero. Considerata la brevità dei messaggi che inviava di solito, Jane cominciò seriamente a preoccuparsi di dovergli fornire una spiegazione.
Va bene. Tutto ok?
La giovane sospirò. Si sentiva malissimo a dovergli tacere certe cose, poiché questo contrastava con il proprio istinto naturale a parlargli di qualsiasi cosa. Si fece forza.
Certo. Mi dispiace di non poterti dire di più… lo farò una volta sistemato tutto.
Si mordicchiò l’indice sinistro mentre attendeva la risposta.
Tranquilla.
Jane non era tranquilla per nulla, ma non ribattè per non essere troppo puntigliosa. Era sicura al cento per certo che Malcolm non fosse nemmeno lontanamente convinto che stesse bene, ma decise di contare sulla fioca speranza che il ragazzo fosse più ingenuo di quello che pensasse.
Infilò il telefono in tasca e si curvò sulla propria bibita, ansiosa. Se Sophie non si fosse sbrigata ad arrivare entro i successivi dieci minuti, probabilmente si sarebbe alzata e se ne sarebbe andata, al diavolo quelle stupide ed inutili indagini.
-Jane! – esclamò una voce alle sue spalle.
La ragazza sobblazò, sentendosi vagamente colpevole. Quando si voltò, si rese conto che tutti avevano spostato lo sguardo sulla nuova arrivata e, di conseguenza, su di lei.
Sophie indossava un completo abbastanza informale, nonostante fosse composto da una camicia e una giacca gessata con gonna in tinta, e portava i capelli legati in una sobria coda di cavallo. La pelle luminosa, la camminata sciolta, il fisico longilineo e la grossa borsa scura che reggeva in mano, la rendevano una figura decisamente insolita in quel locale.
Le si accomodò davanti con un sospiro.
-Inanzitutto, permettimi di scusarmi – esordì, mortificata. – Sono di ritorno dalla Florida, c’ero stata in viaggio di lavoro. Mi hanno trattenuta al check-in più del dovuto perché non avevano capito la parola “federale”.
-Non si preoccupi – disse la ragazza, schiarendosi la voce. –Non ho dovuto aspettare molto.
Era una bugia bella e buona, ma non se la sentiva di allungare la minestra con discussioni su chi fosse arrivato prima o dopo e, anzi, era estremamente contenta del suo arrivo perché, ora che ce l’aveva davanti agli occhi, poteva illudersi che sarebbe stato un breve colloquio privo di ripercussioni.
L’agente, intanto, aveva alzato le spalle. Ordinò velocemente ad un cameriere una tazza di caffè forte, e prima di parlare attese che il ragazzo tornasse con la bevanda richiesta.
Si portò il bicchiere di carta alle labbra con un sorriso sincero.
-Come va con la scuola? – chiese.
La ragazza alzò le spalle con noncuranza. –Al solito.
Non c’era molto da dire, in effetti. Non aveva grandi problemi d’apprendimento ed era una studentessa nella media, senza troppi risultati ecclatanti. L’unica materia in cui eccelleva era arte, soprattutto nel corso di Barnowsky, ma non ne fece menzione; era superfluo.
-Alla tua età rispondevo sempre allo stesso modo – disse Sophie, nel vano tentativo di mettere la ragazza a proprio agio, - mia madre andava fuori di testa. Passavamo pomeriggi interi a sopportare inconcludenti interrogatori.
Jane fece l’ombra di un sorriso. Non voleva nemmeno provare a fingere di essere serena, o allegra, poiché non lo era. Voleva solo finire in fretta e andare da Malcolm, farsi abbracciare e rubargli qualche bacio. Non chiedeva poi molto, dalla vita.
Con un sospiro, la donna cambiò tono. Rimase cordiale, ma assunse un’aria decisamente più adatta ad un funzionario pubblico che non ad un’innocua ragazza qualunque.
-Come penso tu abbia già capito, Jane, devo parlarti del caso dei tuoi genitori. Ci sono stati dei nuovi sviluppi, ma volevo essere io a dirteli prima che diventino ufficiali.
Il cuore di Jane smise di battere per un lungo, fatale momento.
Sophie trasse dalla sacca posata per terra un voluminoso fascicolo, e lo posò sul piccolo tavolo del caffè. Scartabellò fino a trovare quello che evidentemente cercava, e i suoi occhi si mossero attentamente fra le righe per avere un riassunto di quello che le stava per annunciare.
-Il caso è diventato federale perché, a quanto sembra, l’assassino potrebbe essere arrivato dallo stato limitorfo. I tuoi genitori stavano guidando su una interregionale che portava al confine, con tutta l’intenzione di prendere una secondaria a metà strada che li avrebbe condotti a casa.
Un attimo di silenzio, poi proseguì.
-L’unica soluzione plausibile è che una vettura proveniente dal senso opposto, e cioè dall’altro stato, li abbia travolti e non abbia arrestato la propria corsa. Non sono state effettuate indagini approfondite, su questo punto, ma abbiamo un paio di modelli d’auto che potrebbero corrispondere ai segni di pneumatici sull’asfalto.
Senza fiatare, le porse due fotografie rettangolari, con sfondo bianco, di un paio di automobili diverse.
-Riesci a riconoscere il modello?
Jane aguzzò lo sguardo. Era frastornata dal sentirsi dire tutte quelle cose, dopo che così tanto tempo era passato, ma decise di essere forte. Non le interessava dare un volto a chi le aveva portato via i genitori, poiché comunque non li avrebbe riavuti indietro, ma per Sophie sembrava indispensabile, e quindi immaginava che, se le avesse dato una risposta, si sarebbe liberata della pesante presenza della donna.
Percorse i dettagli della carrozzeria, la forma delle portiere e le misure dei finestrini, rievocando tutti i minuscoli dettagli della propria infanzia.
Indicò la macchina verde fra le due, un’utilitaria piuttosto banale e antiquata. –Questa ce l’aveva mia zia, morta qualche anno fa. Era piuttosto anziana, e le avevano ritirato la patente da tempo. Non aveva figli, mi pare, e l’ho vista solo un paio di volte. Mi ricordo l’auto perché avevamo una foto, a casa.
L’agente annuì, e tracciò un segno sul suo taccuino aperto. Sembrava persino più concentrata di lei.
Constatando che nessun altro che ricordasse aveva quella stessa vettura, spostò la propria attenzione sulla seconda immagine. Era sicura di aver già visto quel particolare modello: la linea sinuosa dell’auto le evocava strani ricordi.
Aveva impressa in mente l’immagine di quelle stesse ruote impolverate, e la carrozzeria accanto ad uno steccato bianco. Un ricordo preciso, così nitido da sembrare un’istantanea, le tornò alla memoria: le lenzuola del bucato accarezzavano il bagagliaio, e sembravano nuvole agitate dal vento. L’erba verde, poco curata, ne lambiva il parafanghi posteriore, e le sembrava che… sì, l’auto che ricordava era azzurra. Azzurro cielo, così chiara da apparire quasi uno scherzo della propria immaginazione.
In realtà, era la vernice ad essere stinta, ma di questo non si accorgeva nessuno. A fatica, ricordò un nome; appena questo accadde, però, spostò l’immagine con repulsione sincera verso Sophie, e distolse lo sguardo.
Il viscidume tornò prepotente nelle sue viscere, strisciante come un serpente.
-L’uomo… l’uomo a cui mi affidarono aveva lo stesso modello. Identico. La sua auto era azzurra, me lo ricordo; la usava spesso.
Sophie le lanciò un’occhiata penetrante.
-Lui conosceva i tuoi genitori prima dell’incindente?
Jane alzò le spalle, con un groppo in gola.
-Non lo so. Lui e sua moglie volevano adottare un figlio, ho sempre creduto che fosse un caso che fossi stata affidata io.
L’agente, senza guardarla, prese un fascicolo beige dal suo enorme borsone scuro, somigliante ad una bestia addormentata sul pavimento del locale. Sul fronte di quel plico piuttosto voluminoso era impresso il siglillo federale blu scuro per eccellenza, con un’aquila nel centro e delle scritte illegibili attorno alle ali, gloriosamente aperte.
-Si chiama John Washington Carter, giusto? – chiese, analizzando i suoi documenti.
Janne annuì. Era infastidita da quella domanda, e da quelle che sarebbero seguite, poiché l’agente sapeva benissimo le risposte, e quell’inutile controllo non era solo sgradevole, ma anche doloroso.
In tutto il tempo passato a cercare di dimenticare il nome del suo aguzzino, pensava di aver obliato completamente anche quello che le era accaduto per troppo tempo. Malcolm le aveva insegnato che solo il futuro era davvero importante, e che il passato, nonostante la propria rilevanza, sia comunque da mettere su un piano diverso.
“Il futuro sarà il nostro passato” le aveva detto, una volta, e lei se ne rendeva perfettamente conto, e pensava lo stesso, ma era molto più difficile da mettere in pratica che non da accettare.
Risentendo tuttavia quel singolare accostamento di nomi, si accorse di non aver scordato proprio un bel niente. La cicatrice sul sopracciglio destro, i denti ingialliti dal fumo e il reticolato di rughe su un viso stanco, a tratti ambiguo, le solcarono il cervello. Lo rivide con soprendente chiarezza, come se si trovasse di fronte a lei in quell’esatto momento.
Nel frattempo, Sophie aveva assunto un’espressione di marmo. Evidentemente le parole che stava leggendo le si presentavano davanti agli occhi per la prima volta, e il suo volto lasciava trasparire una sopresa tale da aver fatto quasi ridere Jane; chissà quali parole avevano usato per definire al meglio tutte le molestie sessuali di cui era stata vittima, l’opera di quel pervertito.
-Jane, io… - aveva cominciato a dirle qualcosa, ma concluse la propria frase con parole sconnesse.
La ragazza la guardò dritta negli occhi; era vulnerabile, era giovane, ma non era stupida: se Sophie era davvero intenzionata a rendersi utile, allora che la smettesse di essere così incapace come aveva dimostrato e che prendesse sul serio il proprio lavoro una volta per tutte.
Era stanca, troppo sfinita per continuare quella farsa, e si accorse che assumere un atteggiamento passivo non avrebbe portato a nessun risultato utile. La fissò senza un briciolo di pietà negli occhi chiari da cerbiatto, e parlò con voce determinata uccidendo il groppo nella sua gola.
-La prego, mi ascolti. Io non voglio la sua pietà. Va bene? Non me ne faccio assolutamente nulla. Di casi del genere ne capitano di continuo sulla vostra scrivania, inutile negare, e questa sorta di compassione che lei sta provando in questo momento è dovuta al fatto che la vittima, che sarei io, secondo il fascicolo, si trova davanti a lei e si sente in dovere di fingere emozioni umane almeno una volta. Ma, per favore, devo chiederle di essere breve: non sono ricordi che riesumo di buon grado e mi piacerebbe raggiungere il succo del discorso in fretta.
Sophie ricambiò l’occhiata. Era sbigottita, ma anche mortificata. Sicuramente si stava accusando di non essersi preparata adeguatamente nel recepire le informazioni e ora ne stava pagando le conseguenze, ma non portare a termine un caso solo per negligenza personale non sembrava davvero una caratteristica della donna; in fondo, se aveva fatto carriera a quella giovane età in un lavoro tanto complesso, sicuramente non doveva trattarsi di un caso del destino, ed ebbe modo di farle conoscere la propria abilità negli istanti successivi.
Infatti, si scusò. Lo fece abbassando leggermente lo sguardo, ma non la testa, e non lasciando trasparire nessun tipo di nervosismo. Si fece vedere calma e anche sufficientemente dispiaciuta, usando le parole giuste con delle pause più che mai appropriate ma, soprattutto, fu breve.
Lasciò passare qualche secondo e poi afferrò il suo taccuino; le disse che, se preferiva, avrebbe usato un approccio più diretto. Quando Jane annuì, Sophie la spiazzò con questa domanda:
-Potresti dirmi tutto quello che sai su quest’uomo?
Sì, disse Jane. Poteva. E fu così che cominciò il racconto.
John Washington Carter, che preferiva chiamare per cognome, era nato e cresciuto in Virginia. Non era mai stato una persona brillante nello studio e, dopo aver conosciuto Linda Meyers, si sposò e andò a convivere con lei alla giovane età di vent’anni.
La coppia, da quel che sapeva, aveva vissuto serenamente il primo anno di matrimonio ma, a causa del loro desiderio di avere dei figli, furono costretti a rivolgersi ad una clinica dopo ben cinque anni di tentativi falliti. Linda fu l’unica a sottoporsi a tutti gli esami; Jane lo sapeva perché Carter aveva l’abitudine di bere smodatamente a qualsiasi ora del giorno, e così i suoi referti avrebbero potuto risultare compromessi, o così pensava.
Si scoprì che la donna era sterile. Questo fatto ebbe una forte ripercussione sulla vita dei coniugi; Carter divenne violento, ma mai sulla moglie, verso la quale cominciò a provare indifferenza. Spariva anche per lunghi periodi di tempo e tornava a casa la sera tardi. Perse il proprio lavoro poco prima di avere Jane in affidamento e da allora passò ogni singola giornata in casa ad ubriacarsi e fumare.
Linda, invece, attraversò un periodo di grave depressione. Riusciva tuttavia a mantenere una facciata di perfezione in casa che lasciava stupefatti i vicini: in città erano tutti convinti che fossero la coppia perfetta, e che non avessero figli per scelta.
Carter era una persona davvero amabile, nei rari momenti in cui era sobrio, e partecipava attivamente alla vita parrocchiale della cittadina ed era legato ad un gran numero di associazioni benefiche. Quando lo licenziarono, in paese organizzarono una colletta per provvedere al sostentamento immediato della famiglia.
Solo un anno prima dell’arrivo di Jane, Linda tentò il suicidio e venne ricoverata d’urgenza al St. Mary Hospital sotto falso nome. Carter, caricata la moglie morente nel bagagliaio, guidò per due ore e mezza per attraversare il confine di stato e fornì un falso nominativo per entrambi giusto il tempo necessario di un ricovero, sia perché non aveva un’assicurazione sanitaria, sia perché non voleva che l’aura di normalità fosse irrimediabilmente compromessa e svelasse, quindi, una situazione famigliare disastrosa. Grazie ad una fortuna sfacciata, arrivò in un momento in cui l’ospedale era in difficoltà burocratiche, poiché l’improvvisa morte del primario aveva rivelato conti bancari poco chiari, e alcuni reparti vennero chiusi. A Linda bastarono due giorni per riprendersi dal coma farmacologico a cui l’avevano sottoposta, e il marito non attese oltre per riportarla a casa.
Queste cose gliel’aveva raccontate la stessa Linda, in qualche breve momento di allegria. Le preparava il thè con i biscotti, ma solo se Carter non era in casa, e, seduta sul divano del salotto, si lasciava andare a lunghi racconti del passato anche per ore, lo sguardo perso nel vuoto.
Le spiegò anche che era ormai un decennio che chiedevano di poter ottenere l’affidamento di un bambino, ma per ragioni interne avevano sempre dovuto aspettare. L’idea era stata della stessa Linda, poiché era convinta che avere un figlio in casa avrebbe potuto risollevare il morale di Carter, e farle recuperare un rapporto di qualche tipo con il coniuge, il quale non le rivolgeva la parola da anni.
Naturalmente non sarebbe servito a nulla, ma la speranza nel progetto venne riposta lo stesso. Carter superò ogni esame brillantemente e fu dichiarato completamente idoneo ad ospitare e prendersi cura, anche per brevi periodi di tempo, di ragazzini rimasti senza parenti a cui essere affidati.
A causa di alcuni problemi giovanili di lui, prima di poter formulare una formale richiesta di adozione avrebbero dovuto attendere, ma nel frattempo ad entrambi andava più che bene.
Sembrava rinato le aveva confidato Linda, quando ci dissero che avremmo potuto diventare presto genitori, anche se per poco, pareva fosse tornato giovane. Me lo ricordo ancora, sai? In luna di miele, quando parlava di diventare papà, gli brillavano gli occhi; quando gli diedero la notizia aveva lo stesso sguardo di un tempo.
All’inizio, Jane si era rivelata un caso problematico, in casa loro ma, ammorbidita in parte dalla materna gentilezza di Linda e dall’apparente allegria di Carter, era sulla buona strada per ritrovare un minimo di serenità. Ma poi, dopo non molto tempo, Carter si era rivelato un folle e lei era finita all’ospedale a causa dell’aggressione di lui. Linda aveva tentato il suicidio per la seconda volta e ci era praticamente riuscita: erano quasi dieci anni che si trovava in coma irreversibile proprio al St. Mary.
Il cellulare di Sophie vibrò insistentemente sul tavolino da bar, interrompendo Jane dai suoi pensieri. L’agente smise di scrivere freneticamente sul taccuino che aveva in mano e guardò lo schermo con aria corrucciata. Non se lo portò all’orecchio; semplicemente, attese che finisse di squillare.
-Devo andare, è il mio capo – disse, - comunque ti ringrazio tanto per l’aiuto che mi hai dato oggi. Le tue informazioni sono state preziosissime, e prometto che non ti disturberò più per un po’. Quando vorrai essere aggiornata, basta solo che mi chiami.
Si alzò e si rimise il cappotto.
-Grazie – disse Jane. Le sorrise, timidamente.
L’agente ricambiò il sorriso: avrebbe sicuramente potuto contare su una telefonata, questa volta.
 

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Capitolo 30
*** To draw ***


Dopo l'incontro con Sophie, dimenticare fu molto più semplice, per Jane.
Aveva finalmente raccontato tutti i dettagli ad una persona che non fosse un riflesso in uno specchio, e poteva finalmente dire di essersi liberata di una parte del fardello. Ovviamente, prima di ricucire ogni ferita ci sarebbero voluti ancora molti, molti anni, ma la guarigione non le pareva così impossibile come una volta.
Quello che Carter aveva tentato di fare nei suoi confronti era stato orribile, era vero, ma era riuscita a scampare al peggio e ora era definitivamente al sicuro, in quanto l'uomo era rinchiuso in un carcere distante da dove abitava, e tenuto sotto sorveglianza continua a causa del suo comportamento irascibile e delle crisi d'astinenza.
Francesca e William, dopo il malessere di Kim, si sforzarono di essere più presenti. La donna aveva per sempre abbandonato la parte più turbolenta della propria professione - qualunque essa fosse - e ora i suoi impegni erano notevolmente diminuiti; faceva un normale lavoro d'ufficio (anche se ammetteva di sentire la mancanza dei vecchi spostamenti ogni giorno) e le assenze fuori da casa erano state limitate a qualche convegno, cena o mostra che fosse.
Partecipava come una volta a tutte le riunioni più chic, ma aveva ridimensionato il proprio stile di vita proprio per salvaguardare la salute dei suoi figli. Dietro l'amarezza nei suoi occhi, si leggeva ora una nuova luce, anche se era la prima persona a doversi ancora abituare a quello stato di cose.
William, invece, era stato costretto a rimanere in viaggio anche per lunghi periodi di tempo, ma la sua mancanza veniva mitigata dalla parziale presenza in casa della moglie.
Gli orari comunque molto poco flessibili avevano permesso a Jane di rimanere a lavorare per loro, nonostante la diminuzione delle ore che aveva avuto in precedenza. La sua storia con Malcolm doveva rimanere nascosta; se i suoi genitori lo fossero venuti a sapere, sarebbe stata licenziata, e non poteva permetterselo. Quei soldi le servivano per coltivare il suo sogno di viaggiare, sufficientemente lontano da lasciarsi tutto quanto alle spalle.
Kim si era ripresa totalmente dai propri problemi di salute ed era tornata la bambina solare e allegra di sempre. La sua parlantina si era fatta eccezionale da quando la madre  aveva potuto starle maggiormente accanto, con un significativo cambiamento delle sue abitudini in meglio. Il rapporto con il fratello maggiore aveva leggermente risentito di quest'"intromissione" materna, tuttavia in casa il clima era ugualmente sereno, forse di più rispetto al precedente stato di cose.
Il suo rapporto con il professor Barnowsky, nel frattempo, non aveva fatto che acuirsi. Con le temperature troppo rigide per permettere una continuazione esterna del loro corso improvvisato, avevano cominciato a pitturare sotto alle tettoie riscaldate del parco oppure negli angoli dei bar che punteggiavano la città, in completo accordo con il proprietario di turno.
L'uomo aveva una sensibilità e un occhio a dir poco meravigliosi, e sapeva dare interpretazioni interessanti ad ogni cosa vedesse. La guidava con severità e oggettività, dimostrando un lato totalmente diverso da quello esposto durante la sua carriera di insegnante. Per certi versi, questo suo lato caratteriale piaceva molto di più a Jane, poiché le risultava più familiare, più in accordo con l'aspetto esteriore del professore.
Anche se non conosceva nulla del suo passato, aveva l'impressione che nella sua vita avesse sofferto molto, ma che per una coriacea temerarietà fosse restio a superare i dolori passati, e preferisse l'isolamento che il confronto diretto con le altre persone. Era una sorta di debolezza, si era ritrovata a chiedersi, o forse un modo efficace per resistere alle sfide della vita di tutti i giorni?
La ragazza non avrebbe saputo dirlo, ma si tenne le proprie considerazioni per sé. Si era creato un buon clima di lavoro, consolidato in settimane e settimane di vicinanza, e non voleva incrinare la situazione con delle domande invadenti.
-Sai qual é il tuo difetto, Jane? - le disse un giorno.
Le aveva detto di lasciar perdere il primo quadro che avevano iniziato a fare e di seguire degli schemi pre-imposti, in modo da affinare la tecnica e di completare l'opera nel migliore dei modi.
In quel momento si stavano dedicando ad una natura morta, composta da mele e melograni, un bicchiere di vetro ricco di sfumature e noci aperte a metà, come dei cervelli putrefatti sparsi sul tavolo.
-Quale? - chiese lei, visto che il silenzio si allungava.
-Tieni il pennello troppo inclinato verso sinistra; non capisco perché, visto che non sei mancina, ma è un problema, perché rischi di sbavare.
La ragazza, crucciata, interruppe il proprio lavoro e fissò la mano colpevole. Dacché ricordasse, aveva sempre dipinto in quel modo e, effettivamente, qualche volta le capitava di aver bisogno di ripassare un bordo oppure di ri-distendere il colore su una zona in particolare.
-Non saprei - ammise. -Ora che me lo fa notare, concordo con lei, ma ho sempre tenuto il pennello in questo modo. Non capisco il motivo.
Barnowsky intinse la punta del proprio strumento nell'acqua e tracciò una scia bagnata sulla tela, perfettamente dritta e spessa, senza la minima deviazione.
-Vedi? Devi forzare questo muscolo, quello del palmo. Ecco, esatto: ti permette di tenere il pennello dritto. No, il polso devi lasciarlo sciolto, libero... - spiegò. Le fece rivedere il movimento, e Jane provò maldestramente a riprodurlo sulla scorza di una noce, che si stava delineando sulla tela.
Il professore scosse la testa. Le prese una mano, e la mise nella posizione corretta.
Aveva le dita gelide, e grandi, molto di più di quello che si era aspettata all'inizio. Aveva una presa salda e risoluta, ma gentile; la sua guida le permise di muovere i muscoli giusti, e far comparire sul lato più nascosto del quadro un segno trasparente di uno spessore compatto, privo di curvature.
-Viene più omogeneo, in questo modo - disse. Sembrava improvvisamente imbarazzato.
Per qualche istante nessuno disse nulla. Il brusio sotto alla tettoia riparata faceva da sottofondo alla loro opera, ma era un suono rilassante, perfetto per trovare la concentrazione.
Ogni volta che la guardava, Jane aveva l'impressione che Barnowsky ricordasse qualcun altro, qualcuno di molto caro e vicino a lui ma che, per qualche ragione, gli provocava una sorta di sofferenza interiore.
Non avrebbe saputo definire cosa provava quando sentiva quegli occhi stanchi su di sé, ma più che di disagio si trattava di curiosità: c'era così tanto di quell'uomo che ignorava! L'avrebbe mai conosciuto davvero?
In certi momenti di riflessione le capitava di pensare a Malcolm. Il ragazzo era molto presente nella sua vita, e così dolce da farle mozzare il fiato. Solo qualche giorno prima, le aveva mostrato un angolo molto intimo della casa, una soffitta di legno bianco, verniciato con cura, e le pareti basse tappezzate di libri.
"Era qui che mi rifugiavo, quand'ero piccolo" aveva ammesso, imbarazzato. "Con i primi soldi che guadagnai suonando il piano in un locale, comprai lo smalto bianco e mi misi a lavorare sui muri. I libri li ho tutti collezionati con gli anni".
Era bello, per lei, scoprire cose così recondite con il suo animo, poiché le pareva che rendessero più tangibile quello che stavano costruendo insieme. Era sicura che in quel posto non c'era (e mai ci sarebbe stato) nessun altro, e questo l'aveva fatta sentire partecipe di una magia personale, tenuta in piedi solo da loro due, coltivata con amore e pazienza grazie alla loro forza d'animo.
Avevano sfogliato insieme qualche pagina, scoprendo una nuova armonia. Alla fine avevano dovuto scendere, per dare un'occhiata a Kim, ma era sicura che ci sarebbero tornati, e che sarebbe stato speciale.
-Jane... - cominciò a dire Barnowsky, -... Lo so che non sono affari miei, ma...come sta andando questo periodo?
La ragazza rimase piuttosto sorpresa da questa domanda, poiché era molto insolito che l'uomo chiedesse delle cose del genere, ma non interruppe le proprie pennellate; aveva capito che, se si fosse dimostrata stranita dal quesito come in effetti era, lui si sarebbe barricato nel proprio silenzio e non ci sarebbe più stata speranza in un dialogo, almeno per quel giorno.
Aveva un disperato bisogno di parlare con qualcuno, in quel momento; ripensare a tutti i cambiamenti avvenuti le aveva fatto venire una strana voglia di loquacità, e non era abituata a cose del genere. Rifletté attentamente sulla risposta da dare, e cercò di formulare un discorso  che si accordasse con le aspettative del professore, che sicuramente voleva una risposta coincisa, diretta ed esaustiva, senza però rivelare troppo.
-Diciamo che in questi ultimi mesi sono accadute molte cose - disse, cauta, - e che più di una volta mi è capitato di sentirmi smarrita, ma si può dire che stia finalmente bene, e che la mia vita proceda senza troppi scossoni.
L'uomo annuì, in silenzio.
-Bene, ne sono contento - commentò. -Si vede dal tratto che usi, il fatto che sei più tranquilla. Nelle prime lezioni usavi un marchio spesso, marcato, invece adesso la punta è più leggera. Bagna un po' di più quel pennello, già che ci sei: il colore rischia di seccarsi.
La ragazza obbedì. Fece sguazzare la sommità dell'oggetto nell'acqua torbida, guardando le volute di colore dissolversi a contatto con il liquido, dando nuove tonalità alla sorta di impasto che usavano per "pulire" i pennelli.
Ripensò al legame che la univa al professore: non troppo tempo prima, lui le aveva salvato la vita, ripescandola a forza dall'abisso in cui aveva rischiato di annegare. Lui, Malcolm, Sarah...erano stati tutti determinanti nel farle riacquistare un equilibrio.
Scosse leggermente la testa, scacciando certi pensieri: non era il momento di intristirsi. Preferiva stare concentrata su quello che stava facendo, il resto era già passato e non poteva più nuocerle.
-Ho sempre avuto un forte legame con la pittura, penso dipenda molto anche da quello - disse, riflettendo ad alta voce.
-Senza dubbio - assentì il professore.
Dopo di quel breve scambio di domande, non si dissero molto altro. Barnowsky continuò a darle indicazioni su come proseguire l'opera, a consigliarle quali colori usare e che pressione applicare, ma mantenne un tono di voce sommesso e un'espressione indecifrabile. Alla fine delle tre ore sia salutarono cordialmente, dopo aver riposto nei vari astucci tutte le loro cose, e si avviarono per strade diverse.
Jane rimase ad osservare la sagoma del professore che si allontanava per la la via scura e solitaria del parco: curvo, raggomitolato nel proprio cappotto, con i capelli grigi spettinati e le tele ficcate sottobraccio. Chissà che effetto devastante doveva aver avuto l'arte nella sua vita, per renderlo così solo.
Ecco cosa accadeva a chi si dedicava troppo a cose che non si possono comprendere, pensava; rimangono sospesi fra il reale e l'irreale, perdendo gran parte dei loro affetti e delle loro emozioni.
Attraversò con un certo timore l'intricato reticolo di stradine scure, trovando i passaggi a stento. Raggiunse quasi correndo il profilo dell'imponente cancellata, e riuscì a uscire fuori poco prima del definitivo orario di chiusura. Quegli incontri erano una follia, ma le erano graditi proprio per questo, forse.
Individuò subito la macchina della signorina Miles. Per non destare troppi sospetti, e se faceva troppo freddo, lasciava Malcolm a casa e si faceva portare in auto dal sorvegliante di turno, anche se molto spesso toccava alla donna farsi i vari viaggi dalla Casa al parco.
La signorina Miles era stata entusiasta di quella prima, e fondamentale, richiesta di presenza da parte di Jane; mai, in tutto il tempo in cui era stata alla Casa, aveva ammesso di non essere totalmente autosufficiente, e si arrangiava in tutto da sola, senza l'aiuto di nessuno. Per questo la donna non solo era stata felice di darle un passaggio ma, successivamente, di rispettare religiosamente gli orari che la ragazza le aveva dato.
-Ciao Jane! - cinguettò la donna, appena lei aprì la portiera.
La ragazza rispose con un sorriso tirato e, intirizzita, si accomodò sul sedile. Fu difficile mettersi la cintura di sicurezza: la sensibilità alle dita era quasi del tutto sparita.
La signorina Miles la guardò con un po' di apprensione. -Sbaglio o non ti fa molto bene affrontare questo corso, mia cara?
Jane accennò una risata. L'auto partì, seppur con qualche indecisione.
-Temo che si sbagli. Questo corso improvvisato mi aiuta a dipingere un pomeriggio intero...è rivitalizzante per me.
-Ne hai parlato con Miss Froster? - domandò sommessamente l'altra.
Miss Froster era la nuova assistente psicologica dei ragazzi, ovvero una persona che una volta alla settimana fingeva di interessarsi alle sorte di tanti piccoli, disperati, orfanelli. In realtà era piuttosto annoiata durante i colloqui, e fingere di stare bene risultava tutto sommato molto facile. La ragazza scosse la testa.
La signorina Miles non replicò. Rimasero in silenzio per qualche minuto, fatali momenti di imbarazzo che Jane passò fissando ostinatamente fuori dal finestrino il paesaggio invisibile a causa dell'oscurità.
-Jane... - disse cautamente la donna.
Quel tono non le piaceva; era inusuale che la signorina Miles imprimesse una delicata circospezione in ciò che diceva, poiché il suo carattere espansivo le aveva sempre impedito di modulare il proprio tono di voce.
Lei si voltò a fissarla, ma la donna teneva il viso rivolto verso la strada. Sembrava combattuta.
-Ormai sono quasi vent'anni che lavoro alla tua Casa Famiglia - esordì.
"Oh, no" pensò Jane.
-E...beh, sono piuttosto vecchia, come penso tu sappia - disse, ridendo tristemente.
Si voltò a guardare la sua reazione per un secondo, ma rimase concentrata sul tragitto.
-Volevo essere la prima a dirtelo...fra un paio di settimane vado in pensione - ammise.
-No, signorina Miles - disse Jane. Era sconvolta. -Non può... Non...
La donna assunse un'espressione costernata. Sapeva benissimo che per Jane sarebbe stato un duro colpo, poiché era stata lei ad accoglierla il primo giorno, quando era arrivata alla Casa senza sapere che ci sarebbe dovuta rimanere.
Anche se non lo dimostrava spesso, Jane voleva molto bene alla signora, in quanto era stata davvero l'unica con cui sentisse di avere un legame.
-Mi dispiace tantissimo - disse.
Silenzio.
-Mi dispiace tantissimo - ripeté.
La ragazza era troppo sconvolta per parlare. Fissò, senza dire una parola, il parabrezza. Fuori era tutto buio, avvolto da un'oscurità densa e gelatinosa. In fondo, se lo sarebbe dovuto aspettare: erano moltissimi anni che la signorina Miles prestava servizio, e sarebbe stata soltanto una questione di mesi prima che dovesse ritirarsi.
E poi, nonostante avesse dato gran parte della propria vita alla cura della Casa e dei suoi provvisori abitanti, anche lei aveva una famiglia, dei nipoti che nominava spesso e un bravo marito, di cui aveva da poco scoperto l'esistenza e che smentiva categoricamente la leggenda del suo nubilato; aveva sacrificato moltissimo di sé stessa per donarsi al suo lavoro, e ora era giusto che si prendesse del meritato riposo.
Jane lo sapeva, e in cuor suo lo accettava. Tuttavia le risultava difficile rendersi pienamente conto della cosa e dire di esserne felice, poiché non lo era.
Nel silenzio opprimente che si era creato, la signorina Miles parcheggiò sul retro della Casa e  spense il motore. Nessuna delle due si mosse.
-Potrai venire a trovarmi quando vorrai - disse a Jane. -Sei come una figlia per me.
La giovane guardò il suo volto, forse per la prima volta in vita sua. Gli occhi tendenti all'azzurro, le rughe d'espressione venute dopo troppo sorrisi sinceri, i capelli cotonati e tagliati a caschetto da tempo immemorabile. E quel viso, seppur così diverso, le fece tornare in mente quello di Rose, e le immagini finirono per sovrapporsi.
Con la morte del cuore, la ragazza le prese la mano. Sorrise.
-Grazie, per tutto quanto.
Anche la signorina Miles sorrise.
-Vieni, torniamo dentro. Qui fuori si gela.




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Capitolo 31
*** Lunch ***


Jane, come sempre in prossimità del periodo natalizio, cominciò freneticamente a sistemare la propria stanza per renderla adatta ai futuri controlli settimanali, studiò forsennatamente fino alla fine degli esami che concludevano il trimestre e si impegnò a fondo per portare avanti la tradizione delle liste per "i propositi dell'anno nuovo".
Era una cosa che tutti i ragazzi erano incoraggiati a fare, visto che gli psicologi nella struttura erano tutti concordi nel dire che questo espediente servisse all'organizzazione delle loro abitudini. Inoltre, forniva una sorta di materiale per studiare i progressi mentali fatti da ognuno di loro, e quanto ancora le perdite dei parenti segnassero le loro vite.
La settimana precedente al venticinque dicembre la passò alla Casa, dividendosi fra l'imparare nozioni e lo spolverare le varie superfici di camera propria. Malcolm l'aveva avvisata che i suoi genitori si erano presi il primo periodo di ferie della loro vita e, per digerire il fatto di essere entrambi bloccati in casa senza nulla da fare, avevano deciso di usufruire di gran parte delle settimane arretrate. Aveva comunque promesso che sarebbe andato a trovarla il giorno di Natale, per portarle il regalo che le aveva comprato e per farle gli auguri.
Lei portava pazienza, pensando a quanto difficile dovesse essere per lui sopportare quelle costanti presenze che, per tutta la vita, aveva imparato a ritenere effimere.
Proprio mentre stava facendo ritorno alla Casa al termine del suo ultimo giorno di scuola, il suo telefono prese a ronzare.
-Sì? - chiese, non riconoscendo il numero.
-Jaaane? Sono io, sono Kim! - cinguettò la bambina.
-Oh, ciao! Come stai?
-Benissimo! - assicurò lei. -Mamma e papà hanno promesso che rimarranno a Natale con noi, sai? Era da tantissimo tempo che non lo facevano più!
La ragazza sorrise fra sé e sé, fingendo di non esserne al corrente. La ascoltò descrivere entusiasticamente la novità, senza interromperla nemmeno per un attimo. Silenziosamente, guardò l'orologio: aveva promesso al signor Barnowsky che sarebbe andata a trovarlo, quel pomeriggio appena dopo scuola (o meglio, lei aveva fatto la proposta e lui aveva grugnito una sorta di assenso, pulendo i pennelli, per poi dirle che tanto valeva che si fermasse a casa sua per pranzare). Probabilmente, pensava, l'uomo sarebbe stato condannato a mangiare un qualcosa di precotto in solitudine ma, con un certo disappunto, le aveva veementemente impedito di cucinargli qualcosa alla sua offerta di preparargli almeno un unico pasto.
Tuttavia aveva risparmiato i soldi guadagnati dal suo lavoro da Kim proprio per fare i regali alle persone più importanti della sua vita di allora, e non avrebbe accettato un rifiuto quando si trattava di doverglielo portare; su questo era riuscita a farlo desistere. Teneva il pacchetto saldamente stretto nella cartella, preda dell'insensato timore che potesse romperlo.
-Quando mi vieni a trovare? - chiese all'improvviso la piccola.
-N...non lo so - rispose la ragazza, presa alla sprovvista. -Spero presto, perché ho un regalo anche per te.
-Che bello! E che regalo è?
-Questo non te lo posso dire; è una sorpresa. 
-Va bene... - concesse, a malincuore, la bambina. -Però vieni presto, perché è da tantissimissimo che non ci vediamo!
Quel tono squillante rischiava di renderla sorda. La ragazza sorrise, e la rassicurò dicendo che si sarebbero viste il prima possibile.
-Adesso devo andare - spiegò Kim, - a papà serve il telefono. 
-Va bene - disse Jane, - ti richiamo io sul telefono di Malcolm prima di Natale, ok?
La bambina si trovò d'accordo, e riattaccò ridacchiando per chissà cosa. Quella telefonata aveva reso Jane più allegra, perché voleva dire che non si era del tutto dimenticata di lei.
Mandò un breve messaggio a Flinn, per chiedergli di avvisare Jeff alla Casa che non avrebbe partecipato al pranzo comune. Si disse che avrebbe dovuto farlo per diverse settimane consecutive ogni giorno, e che per una volta poteva anche saltare; in fondo non si trattava mai di pasti allegri, ed erano per lo più riunioni silenziose dove si cercava di sbocconcellare il più possibile per allontanare i sospetti di una possibile crisi d'alimentazione.
Camminando velocemente riuscì a raggiungere la casa del professore relativamente in anticipo. Era stanca e, nonostante avesse voglia di parlare con lui e l'idea di fermarsi a mangiare lì la emozionava, non vedeva l'ora di potersi accasciare da qualche parte e dormire.
Come sempre, l'uomo ci mise qualche secondo prima di aprire il portone d'ingresso e darle la possibilità di salire. Aveva come l'impressione, ogni volta che gli faceva capire di essere arrivata, che lui la facesse aspettare qualche minuto di proposito, forse per darsi il tempo di sistemare le ultime cose, di dare i ritocchi finali. Oppure, più semplicemente, era solo un suo modo di fare; lasciare l'ospite in attesa fino alla fine.
-Buongiorno! - esclamò dalla cucina. Aveva lasciato aperta la porta d'ingresso.
-Buongiorno - rispose Jane. Nello stesso istante, il cellulare nella sua tasca vibrò come a farle capire che Flinn le aveva risposto.
Ignorò il messaggio e seguì la scia di profumo. La scena che le si presentò davanti suonò inaspettata: Barnowsky, con uno spesso e liso grembiule giallastro stretto il vita, si stava affaccendando davanti al piano cottura immerso in un vero e proprio caos di tegami, padelle e utensili da cucina.
-Le serve una mano?
-Eh? No, assolutamente, ho tutto sotto controllo. Prego, accomodati. È tutto pronto, devo solo farcelo stare sul piatto.
La ragazza obbedì. Il piccolo tavolo circolare era stato coperto da una tovaglia ricamata dall'aspetto vissuto con un paio di bicchieri dallo stelo lungo posati sopra, due piatti di ceramica e una coppia di posate d'argento. Avevano un aspetto sorprendentemente delicato e familiare, come se appartenessero ad un'altra vita.
-Se non mi trovo in fretta un altro lavoro rischierò di diventare una casalinga coi fiocchi - borbottò l'uomo. Le posò davanti agli occhi una porzione straripante di qualcosa di indefinibile, ma dall'odore invitante.
-Ha un odore delizioso - osservò Jane, sporgendosi verso la pietanza nel tentativo di capire di cose si trattasse.
-Ed é delizioso - aggiunse il professore, servendosi a sua volta e accomodandosi di fronte a lei. - Si chiamano "quiche lorraine", un piatto francese. Me le faceva sempre mia madre, ma queste fanno parte della mia personalissima ricetta personale.
-Non le ho mai sentite nominare prima. Dalla Francia, ha detto?
Barnowsky, dopo averle augurato un buon appetito, annuì. -Dalla Lorrena, come puoi ben immaginare; la vena francese della mia famiglia è sempre stata molto affezionata alle sue tradizioni culinarie. Ho creduto che le uova si chiamassero omelette fino all'età di tre anni.
La ragazza accennò una risatina. Prese la forchetta ma, inaspettatamente, constatò che non le serviva l'uso del coltello: quei cuscinetti che sembravano fatti di pasta sfoglia erano incredibilmente morbidi; appena ne prese un piccolo angolo vide subito il formaggio filante fuoriuscire dalla quiche.
Il sapore era davvero squisito. Non avrebbe mai immaginato che dei gusti così semplici come quello del formaggio e del prosciutto potessero assumere un retrogusto così delicato e aromatico insieme. L'uomo dovette indovinare la sua sorpresa, perché fece un sorriso compiaciuto.
-Buone?
-Spettacolari - assentì Jane. -Sono di gran lunga la cosa migliore che io abbia mai mangiato.
Barnowsky masticò e mandò giù il boccone. -Il problema di voi giovani è che non sapete apprezzare le cose semplici. O meglio; le cose casalinghe. Vi piacciono da morire quelle schifezze da fast food, ma molto spesso dimenticate che ci sono piatti decisamente più buoni, e sani, anche in quelle che ritenete ricette da vecchi.
-Non tutti - intervenne Jane. -Io, ad esempio, ho sempre considerato la cucina una forma d'arte, anche se non sono mai stata particolarmente portata. Mia nonna mi ha cresciuto con la passione per il buon cibo, per le ricette articolate e per i piatti saporiti.
-Era una donna saggia, evidentemente - osservò Barnowsky. -Con me non sono state altrettanto accondiscendenti, visto che ero un uomo; gli ebrei considerano la cucina una roba da donne, e non hanno tutti i torti, visto tutte le limitazioni che hanno quando si parla di mangiare.
-Lei è ebreo? - chiese Jane, sorpresa. Subito dopo arrossì violentemente.
L'altro annuì. -In parte ebreo francese, in parte ebreo polacco. Una strana mescolanza. Non sono mai stato parte molto attiva della vita religiosa, comunque...l'ebraismo, per me, è sempre stato solo fonte di studio. Appena arrivato in America ho ricominciato daccapo.
Per qualche tempo nessuno disse nulla, e mangiarono in silenzio. Jane rimuginò su quanto aveva appena sentito; a stupirla particolarmente era stata l'idea che Barnowsky avesse letteralmente rinunciato alle proprie origini per inseguire una passione, senza rimorsi, come sembrava.
La prima volta che lo aveva visto, al corso d'arte, non lo avrebbe mai immaginato capace di tale coraggio. Tuttavia, ora che aveva imparato a guardarlo sotto un altro aspetto, le veniva più facile capire i suoi comportamenti, le sfaccettature più recondite del suo animo. Tutti quegli strani pomeriggi passati a dipingere in assoluto silenzio le avevano permesso di svelare lati nascosti dell'animo dell'uomo che non avrebbe mai pensato di essere in grado di vedere.
-A proposito... - continuò, dopo qualche attimo, il professore - ...come va con il pianista?
Jane, che stava prendendo un sorso d'acqua, per poco non si soffocò. Si coprì la bocca con le mani, tossendo e cercando di recuperare un certo contegno, sotto quello sguardo completamente impassibile.
-B...bene...
-Uhm - replicò il padrone di casa. - Ne sei proprio sicura?
Recuperando fiato e lucidità, lei annuì. -Certo. Purtroppo non ci siamo visti molto ultimamente, ma mi ha promesso di venire a farmi gli auguri a Natale.
-Ah, quindi frequenta casa tua? - interrogò.
Jane arrossì. -Sto in una Casa Famiglia, non c'è granché privacy.
Per la prima volta dopo diverso tempo, Barnowsky sembrò essere improvvisamente in imbarazzo. -Mi dispiace, non sapevo che...
-Non si preoccupi, non gliel'avevo detto - rispose, alzando le spalle. Bevve un po' d'acqua.
-Se non sono troppo indiscreto...non c'è mai stata la possibilità di una famiglia affidataria?
Aveva abbassato la voce, cercando di parlare con la delicatezza necessaria di quei temi particolarmente difficili; forse per il buon cibo, oppure per la compagnia rilassante dell'uomo, a Jane non sembrò affatto gravoso dare una risposta e, per la prima volta, si sentì libera di parlarne.
-Quando si è più piccoli ci sono maggiori possibilità di venire adottati in modo vero e proprio. Anche con me c'era stata quest'occasione, ma era stata scelta la famiglia sbagliata...e così sono tornata alla Casa.
Lo sguardo che ricevette fu indescrivibile. Ci fu un lungo silenzio.
-Mi dispiace.
-Non c'è bisogno, davvero. In fondo mi trovo piuttosto bene, qui. Sono vicina ai miei genitori...per il resto non mi importa poi molto.
Barnowsky, a causa dei documenti scolastici, sapeva che i parenti di Jane erano rimasti uccisi in un incidente, ma evidentemente ignorava la questione della Casa Famiglia; ora che gliel'aveva detto sembrava piuttosto a disagio, ma cercò di mascherare la sua espressione pulendosi discretamente la bocca con un tovagliolo.
-Eri tanto piccola quando...? - chiese, senza guardarla.
Lei annuì, decisa a chiudere il discorso. -Sufficientemente da venirne segnata.
-Capisco - commentò. Vedendo che entrambi avevano finito, prese silenziosamente i piatti e li portò sul lavello, poggiandoli sul bordo; tirò via i tovaglioli e le posate.
-Vuole una mano? - chiese prontamente Jane. Lui scosse il capo.
-Me ne occuperò dopo...lavare i piatti mi rilassa. Piuttosto...mi sono permesso di farti un regalo. Una cosa stupida, eh, nulla di che... - borbottò.
Jane lo guardò, sinceramente stupita. Gli aveva detto di avergli comprato qualcosa, ma non si aspettava di certo che lui avrebbe ricambiato il gesto; doveva ammettere, però, che questa cosa la faceva sentire bene, la lusingava. Per la prima volta non c'era nessun tipo di sottinteso viscido nel comportamento di un adulto nei suoi confronti, e la cosa si presentava rigenerante ai suoi occhi.
Le porse un piccolo pacchetto incartato, una scatola delle dimensioni di un astuccio per gioielli, avvolto da carta verde.
-La ringrazio... - mormorò, osservando l'oggetto - ...ma davvero non c'era bisogno di...
-Ma certo che c'era - replicò, - altrimenti non ti avrei dato niente. Avanti, aprilo.
Fra sé e sé, lei ridacchiò: sempre il solito scorbutico. Prima di scartare il regalo, però, gli diede quello che aveva pensato per lui, un rettangolo ricoperto di carta azzurra tenuta ferma da due vistosi pezzetti di scotch.
-Come vede è stato incartato in modo un po' casalingo, però...
-Però è bello - concluse lui. Sembrava stupito tanto quanto lei.
Come di comune accordo, si misero ad aprirli all'unisono, ognuno intento a cercare di non rovinare troppo la carta con mosse maldestre; Jane, con crescente stupore, prese in mano una scatola di smalto giallo, delicatissima e leggera, con apertura a scrigno. Le bastò premere con il pollice perché l'apertura scattasse e rivelasse, al suo interno, un bellissimo pendaglio dorato con una catenina finissima che passava sopra l'apertura.
-Che meraviglia! - esclamò. 
Era un gioiello con minuziose decorazioni sul dorso arrotondato, di forma ovale, con un impalpabile gancetto per poter essere indossato. Lo prese con tocco attento e lo guardò preda di un qualche sortilegio.
Il professore la stava guardando, compiaciuto e al tempo stesso malinconico.
-Signor Barnowsky... - disse lei, - ...davvero, è bellissimo, ma non posso accettare...
Lui scosse la testa. -Sciocchezze. Quel ciondolo sembra fatto apposta per te, Jane. Se voglio che ora lo abbia tu, dopo tanto tempo che è in questa casa, c'è un motivo, no? Diciamo che è giusto che tu lo abbia. Non voglio sentire discussioni.
-La ringrazio moltissimo, allora - disse, ancora esterrefatta.
Lui sbuffò, prima di scoprire il contenuto del suo incarto. Si trattava di una scatola rettangolare e piatta in cui erano contenuti diversi pennelli professionali di differenti misure; viste le condizioni in cui versavano gli utensili del professore, le pareva adeguato fargli un dono che fosse coerente con i suoi bisogni (non avendo la minima idea di cos'altro fargli), ma in confronto a quello che le era stato dato le pareva una cosa decisamente troppo misera.
Al contrario delle sue aspettative, Barnowsky fece un sorriso felice e accennò ad una risata. -Fantastico! - esclamò, - Era dagli anni novanta che non mi compravo dei nuovi pennelli....e devo dire che se avessi potuto avrei scelto questa marca. Grazie di cuore.
Jane fece un piccolo sorriso. -Si figuri. Sono contenta che le siano utili.
-Molto - confermò.
Passarono qualche altro minuto a parlare del più e del meno, ma vedendo il sole che già cominciava a calare Jane fu costretta a ritirarsi prima del previsto. Dopo un altro diniego all'offerta di dargli una mano con i piatti, la ragazza ringraziò nuovamente, indossando il nuovo ciondolo, e salutò, congedandosi.
Sulla strada del ritorno non le sfiorò nemmeno la mente di guardare il messaggio ricevuto da Flinn, né di chiamare alla Casa per avvisare del suo ritorno. Non c'era motivo per farlo, visto che non rientrava nelle loro consuetudini.
Passando davanti al cimitero, però, decise di fermarsi un attimo; aveva bisogno di parlare un po' con sua madre. Ci fu un attimo di indecisione; poi, ripensando a quel pranzo, superò il cancello in ferro battuto e promise a sé stessa che avrebbe fatto presto.
E che non si sarebbe fatta prendere dalla malinconia.


NOTA DELL'AUTRICE:
Allora, prima di scusarmi come mio solito per questa catena di ritardi, mi sembra giusto fare una piccola precisazione sulla "quiche lorraine". In pratica è una torta salata di pasta sfoglia con dentro prosciutto e formaggio (ovviamente si possono trovare anche altri ingredienti, ma questa é la ricetta principale). La variante che ho inserito qui sta nella forma: invece di una torta a spicchi, si tratta di una sorta di involtino, nulla di più :)
Come ho accennato sopra, mi dispiace davvero tantissimo di avervi mancato di rispetto in questo modo, ma purtroppo si tratta di una catena di eventi che non posso controllare, e vari impegni impossibili da spostare; me ne dispiaccio moltissimo. Confido nelle prossime vacanze (che arriveranno a breve) per postare il prossimo capitolo! 
Se avete qualche minuto, mi piacerebbe che leggesse la mia nuova bio; mi sembra corretto farvelo sapere.
Un sacco di "Dark Kisses"e un abbraccio,
The Queen.


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Capitolo 32
*** When everything falls down ***


Quando Jane tornò alla Casa era già calata la sera; non era affatto strano che tornasse quando fuori era buio, ma in quella particolare occasione sentiva che avrebbe fatto meglio a sbrigarsi, a tornare il prima possibile.
Al cimitero si era trattenuta più tempo del previsto, per qualche strana ragione, e aveva promesso a sé stessa che si sarebbe tenuta lontana da quel luogo malinconico per un bel po' di tempo, d'ora in avanti. Era come se la ragazza che era entrata da quel cancello in ferro battuto fosse diversa da quella che ne era uscita un paio di ore dopo.
Aveva parlato con i suoi genitori, aveva comprato dei fiori nuovi in un negozietto lì vicino, e aveva stabilito di doversi prendere una pausa, di farsi condizionare meno dal passato per salvaguardare la sua stessa salute mentale. Era passato troppo tempo, ormai, da quel fatidico giorno, e sentiva che era finalmente arrivato il momento di andare avanti, di trovare una nuova strada che valesse la pena di intraprendere ora che non era più sola.
Il suo cellulare prese a ronzare con insistenza, ma non si degnò nemmeno di tirarlo fuori dalla borsa; ormai si trovava all'angolo della strada che l'avrebbe portata alla Casa.
Tuttavia, non appena intravide il vialetto davanti alla cancellata le venne subito voglia di fare marcia indietro, fiutando una sorta di sentore di pericolo: un paio di SUV scuri e lucidi erano parcheggiati di sbieco sulla strada di fronte, mentre diverse persone brulicavano sul prato davanti all'enorme struttura. Non si vedevano adolescenti e dalle finestre proveniva un prepotente bagliore di luci accese: era raro che ogni singola stanza fosse illuminata in un modo tanto sfacciato.
Si acquattò dietro ad un albero, troppo timorosa e confusa per proseguire e, con il cuore in gola, trasse finalmente il cellulare dalla tracolla e guardò il display: tre chiamate senza risposta di Flinn e un messaggio.
"Jane, torna urgentemente. Sta succedendo un casino". Guardò l'ora: era di tre ore prima.
Imprecando, compose il numero e non dovette attendere molto prima che il ragazzo rispondesse.
- Jane? - la sua voce, metallizzata dall'apparecchio, le arrivava distante.
- Sono io - annunciò, senza troppi preamboli. - Che succede?
In sottofondo si sentiva un concitato brusio di voci.
- È successo un disastro, io...non sono sicuro di potertelo dire per telefono - Pausa. - Dove sei?
- Mi sono messa dietro all'angolo qui di fronte per chiamarti, riesco a vedere la Casa anche da qui.
- Per fortuna! Sbrigati, allora, se non torni subito tutto sarà ancora peggio! C'è qualcun altro lì con te?
La ragazza deglutì, improvvisamente spaventata. - No...no, perché?
Le parve di sentirlo scuotere la testa. - Nulla, è solo che all'appello ne mancano altri; ti aspetto qui in entrata, fuori dal cancello.
Chiuse la comunicazione bruscamente e lei si ritrovò a premersi il telefono contro l'orecchio, ascoltando il regolare suono sordo che annunciava la fine della chiamata.
Non aveva idea di che cosa potesse essere successo ma, dalla voce di Flinn, si rendeva conto che era sicuramente qualcosa di grave e non privo di ripercussioni sul suo futuro. Raramente il ragazzo si scomponeva o si agitava se non era il caso. E questa volta sembrava decisamente fuori di sé.
Ebbe un tremito, ma si decise ad essere forte. Doveva onorare la promessa fatta poco prima ai suoi genitori: la prima prova da superare le si stava ponendo davanti agli occhi.
Attraversò la strada fiocamente illuminata di corsa, con il cuore in gola. Alcuni addobbi natalizi erano stati appesi in anticipo sui lampioni e le luci colorate cercavano di dare un tono festoso alla strada. Distratta, si chiese chi potesse averle messe: oltre alla Casa, quello non era un quartiere residenziale. Che si fosse trattato di un ennesimo progetto degli assistenti sociali a cui non aveva partecipato?
Camminando a passo svelto sul marciapiede le parve di scorgere meglio l'attività che si stava svolgendo nel giardino. Quei due grossi veicoli sembravano essere delle auto ufficiali; nell'oscurità le sembrò che avessero uno stemma familiare impresso sulle fiancate.
Davanti al basso steccato scorse una pallida figura in controluce con una zazzera di capelli disordinati in testa: aguzzò la vista. Era Flinn. Gli corse incontro e lo chiamò per nome.
Il ragazzo si girò, ma non le sorrise né rispose al saluto. Al contrario si passò una mano sul viso, ora pallido ed emaciato, e cominciò a rosicchiarsi un'unghia.
- Cosa sta succedendo? - chiese subito.
- Ci sono i federali - disse l'altro, nervosamente, - stamattina Jeff ha staccato il turno e, quando ha salito le scale per assicurarsi che fosse tutto a posto, ha trovato Pat stesa di traverso con la gola squarciata. Morta stecchita.
Jane si portò una mano alla bocca, inorridita: si ricordava della ragazza, era una tipa giovane e sveglia che se stava per conto suo e, a quanto si diceva, era stata in riformatorio per aver picchiato a sangue una ragazzina più giovane fino ad averla mandata in ospedale.
La cosa che la sconvolse maggiormente, però, fu l'idea di cosa tutto ciò realmente significava: se un sorvegliante era stato negligente al punto di non accorgersi che una ragazza veniva sgozzata a pochi metri da lui, allora significava che era arrivata l'ora di un controllo nella struttura. E questo avrebbe significato che i guai erano appena iniziati.
Nello sforzo di pensare con lucidità si premette le dita contro le tempie, ma ottenne solo un mal di testa incipiente. La confusione stava dilagando nella sua mente, le congetture le tempestavano il cervello a pieno regime. Fece la prima domanda che le venne spontanea.
- Hanno trovato il colpevole?
Flinn annuì sbrigativamente. - Ryan del settore maschile. Aveva perso la testa per lei, ma a Pat di lui non gliene fregava niente. A quanto pare si è vendicato.
Jane si coprì il viso con le mani: un assassino giunto dall'ala opposta senza attirare sospetti aveva agito indisturbato per poi andarsene senza essere visto. La situazione non faceva che peggiorare.
- Lui si è subito costituito - chiarì Flinn, - ha spiegato tutto e ha indicato il coltello usato e i vestiti sporchi di sangue. Ovviamente questo non lo ha salvato, né ha reso la nostra situazione migliore. I federali si chiedono come sia possibile che in una struttura di recupero, come la chiamano loro, ragazzi e ragazze si mischino senza sorveglianza, che ci sia un continuo via vai e che le attività formative vengano bellamente ignorate. E hanno ragione a chiederselo. Cazzo, se hanno ragione!
Jane si strinse nel proprio cappotto. Soffriva per Pat, nonostante ci avesse scambiato sì e no qualche parola da quando era lì, e si sentiva inorridita e spaventata dalla situazione. Nella sua testa vide distintamente il corpo gracile della ragazza gettato sulle scale, il sangue sulle pareti, il coltello insanguinato. Scosse energicamente la testa: doveva concentrarsi su altri pensieri.
- Odio doverlo dire - disse, - ma adesso cosa ne sarà di noi?
Il ragazzo alzò le spalle magre. - Non lo so proprio. Da quel che ho capito hanno parlato di chiudere tutto e denunciare il personale. Anche i cuochi, gli inservienti. Tutti; probabilmente finiremo in un centro super sorvegliato, o perlomeno gestito come si deve, e allora addio libertà. Se qualcuno ha ricevuto richieste d'adozione, però, è probabile che venga affidato subito.
Il giovane parlava a raffica mangiandosi le parole. Era agitato come lo era lei, se non di più; nonostante la Casa non fosse il posto migliore in cui vivere aveva i propri vantaggi, uno dei quali era proprio la mancanza quasi totale di una sorveglianza invadente. Ora però Jane si rendeva conto che le regole ferree e la partecipazione obbligatoria a determinati corsi erano solamente le basi di un'organizzazione sociale per ragazzi senza famiglia, e non solo un oneroso obbligo che si poteva ignorare.
Con un groppo alla gola ripensò a tutte le volte che aveva fatto tardi, ai pranzi in refettorio che aveva saltato,  agli incontri settimanali in cui aveva mentito spudoratamente. Non era stata un ospite modello, era vero, ma nemmeno una delle peggiori: aveva semplicemente vissuto senza arrecare danni al suo prossimo e seguenti l'esempio che tutti erano portati a dare, ovvero sfruttando l'autonomia offerta. Che avesse rinunciato a del tempo comunitario per questioni di lavoro era irrilevante: sicuramente sarebbe andata incontro a difficili interrogatori.
- Ma perché ci sono i federali? - chiese, nervosa. Non le piacevano quelle macchine scure. Dai finestrini neri non si poteva scorgere nulla, la vernice lucida rifletteva, imperturbabile, i bagliori della notte senza rimanerne scalfita.
- Sono stati i primi ad arrivare. Adesso sono tutti nella sala comune per interrogare i presenti; ormai l'omicidio è risolto, è diventato secondario. Adesso dicono di doversi occupare di noi.
Jane, sconvolta e terrorizzata, aveva mille domande confuse ed ingarbugliate che le ronzavano in testa, ma non riuscì ad articolarne nemmeno una.
- Che fine ha fatto Ryan? Dove l'hanno portato? E dove pensano di mandarci? E...e Pat? Hanno portato via anche lei?
Flinn rispose al suo tono angosciato con un sospiro greve. I connotati in parte nascosti dall'ombra della notte lo rendevano simile ad un adulto, ad un vecchio. Poco contavano gli orecchini, i piercing e i capelli tinti: quello era un viso che aveva sopportato troppe cose per essere quello di un adolescente. Davvero era quella l'espressione che veniva dopo un determinato numero di anni passato alla Casa? Anche lei aveva una faccia così scura, così disillusa?
- Non so niente. Non so niente.
La ragazza chiuse gli occhi. Questo è un incubo, pensò. Questo è solo un brutto sogno, quando mi sveglierò tutto sarà passato. Pat mi incontrerà sul pianerottolo, ci saluteremo e tutto tornerà uguale a com'era prima.
Aveva bisogno della voce di Malcolm, della sua vicinanza. E anche della lucida freddezza del professore, della sua calma razionalità. Quel pranzo così piacevole sembrava lontano secoli da quel terrificante momento.
- Faresti meglio ad andare dentro - le disse con voce tremante. - Non procedono in ordine alfabetico e può darsi che non abbiano notato la tua assenza.
Jane sperava con tutto il cuore che fosse vero, non voleva dover sopportare altre domande. Tuttavia, soprattutto visto l'interesse dell'FBI nei suoi confronti, dubitava che sarebbe riuscita a passarla liscia.
Di slancio, senza rifletterci troppo, abbracciò Flinn; era da tanto che non si premeva contro il corpo magro di colui che aveva sempre visto come un fratello.
Lui, inizialmente, rimase sorpreso da quel contatto inaspettato, ma subito dopo si rese conto di aver avuto bisogno di un po' di calore umano. La strinse di rimando per un breve momento, poi si sciolsero dalla presa leggermente più rincuorati.
- Vedrai - disse, mettendogli una mano sulla spalla, - ce la faremo.
Lui le fece l'ombra di un sorriso e la incoraggiò ad entrare.
Jane si voltò verso la struttura illuminata a giorno, scorgendo il nastro giallo perimetrante avvolto intorno all'ingresso secondario.
Non sarebbe stato facile.

//

La Casa era una solida struttura ricavata da un'antica villa vittoriana. Alcuni tratti della facciata principale conservavano ancora l'estetica di un tempo, ma l'intero edificio era stato reso spoglio e funzionale. La quarantina di ragazzi ospitati al suo interno erano divisi per sesso in due settori, separati da una fetta di giardino. Visto il numero esiguo di abitanti, ai piani superiori vi erano delle camere piuttosto grandi, doppie, con un bagno in comune, e anche alcune singole con dei sanitari privati.
La stanza più grande collegava i due edifici e veniva di solito usata per delle riunioni oppure delle occasioni speciali: i ragazzi venivano riuniti nella sala, sufficientemente spaziosa per ospitarli comodamente. Il lampadario in cristallo era stato sostituito con un proiettore di ultima generazione e, spesso, venivano disposte delle sedie, delle panche e dei tavoli per organizzare degli incontri con i familiari.
Da quella grossa arteria si diramavano le altre stanze, ovvero la cucina e la mensa annessa, alcune aule per svolgere diverse attività, un cucinino privato per il personale e una serie di camere per gli inservienti che dormivano nel palazzo. Sopra vi erano i dormitori femminili, separati dal resto della casa da una porta blindata posta ai piedi delle scale. Sull'altro lato, invece, si percorrevano un paio di metri e ci si trovava nell'altro settore, che era una riproduzione praticamente speculare dell'ala a fianco, per ospitare gli alloggi maschili, un bagno comune e alle stanze dai molteplici usi.
Ora sembrava che la sala comune stesse per scoppiare; il grande parco all'esterno, da come si intravedeva da un'imponente vetrata, era altrettanto affollato. La porta sbarrata che portava alla camera delle ragazze era sigillata dai nastri ufficiali.
Jane percorse la breve entrata con il cuore in gola, stringendo al petto la propria borsa. Si guardò intorno e riconobbe gradualmente tutti coloro che la circondavano, e si rese conto di averli sempre visti ogni giorno da quasi tutta la vita.
Prima non vi aveva mai fatto caso, ma ora pareva che ogni dettaglio che ricordasse la normalità fosse diventato fondamentale. 
Fissò con sincera angoscia la zona dove si nascondeva la scena del crimine, ma passò subito oltre. Le sembrava tutto terribilmente irreale. 
Fra la folla di adolescenti si aggiravano, efficienti, degli uomini in completo scuro, con visi seri e professionali. Le ricordavano Noah, il collega di Sophie. L'aveva visto una volta sola ma le sembrava che la sua immagine si specchiasse in quella di ogni singolo agente lì dentro.
Mentre all'inizio quella confusione le era sembrata un'accozzaglia vera e propria, si accorse che ogni fila rispettava un ordine. Ragazzini spauriti addossati alla parete aspettavano di essere interrogati; altri, seduti sulle panche, avevano ricevuto una tazza di caffè caldo e si guardavano intorno con sguardo vuoto. Altri ancora, imbaccuccati in cappotti e giacche a vento, stavano ordinatamente aspettando il proprio turno davanti ad un paio di adulti in giacca e cravatta che, dietro ad una scrivania improvvisata, ne stavano prendendo le generalità.
Di Jeff nemmeno l'ombra, così come della signorina Miles. La donna delle pulizie, il cuoco, gli psicologi e gli assistenti sembravano semplicemente spariti. Queste assenze si facevano sentire, e sembravano incredibilmente fuori posto; Jane ne ebbe un brivido. Non vedeva l'ora che quella spiacevole faccenda fosse conclusa.
Non aveva mai temuto per il proprio destino alla Casa, ed era sicura che, in fondo, quel posto non le sarebbe mancato. Nonostante alcuni tratti positivi, si trattava semplicemente di un complesso abitativo comune dove tutti fingevano di trovarsi in una famiglia. Tuttavia ora, dinnanzi all'incertezza del suo destino, sentiva un vago senso di inquietudine farsi strada dentro di lei: l'ignoto la spaventava. La spaventava la possibilità di perdere Malcolm, di essere trasferita lontana dai luoghi che aveva imparato a conoscere.
Si fece forza. Alzandosi sulle punte dei piedi, vicino al muro d'ingresso, le parve di riuscire a vedere più chiaramente chi si trovava all'interno. La calca era così fitta che faticava a respirare, ma deglutendo sonoramente le parve di riuscire a rimettere in ordine le proprie sensazioni.
Avrebbe voluto avere di nuovo Flinn al proprio fianco, ne sentiva acutamente la mancanza. Avevano da poco riscoperto il proprio legame, aveva l'impressione che sarebbero usciti più forti da quella tragedia.
Come in un sogno, però, si sentì afferrare per un gomito da una presa decisa. Sobbalzò ma non oppose resistenza, né si voltò per scoprire chi la stesse trascinando via. Durò un attimo, ma si ritrovò in disparte nel corridoio.
Sollevò lo sguardo e, sbigottita, si trovò a fissare Sophie Kinney negli occhi.
L'agente le sorrise. - Scusami se sono stata brusca ma, come vedi, lì fuori è un po' troppo affollato.
La ragazza annuì velocemente. - Non importa. 
La donna non si perse in convenevoli. - Sono disposta ad ignorare la tua assenza, per il momento, ma abbiamo bisogno di parlare con tutti e tu non fai eccezione. 
- Lo so.
- Bene. Si tratta di una cosa di rito, non sarà una cosa né lunga, né difficile. Ma dovrai essere il più sincera possibile.
- Non si preoccupi, lo sarò - disse, pensando che fosse una cosa scontata e che non avrebbe mentito ugualmente anche se non l'avesse avvisata.
- Spero non ti dispiaccia se sarò io a parlare con te.
La federale sapeva perfettamente che, anche volendo, Jane non si sarebbe potuta sottrarre ma la ragazza si sentì sollevata da questa possibilità perché Sophie conosceva già le sue vicende personali e la familiarità che aveva ormai con la sua figura l'avrebbe aiutata a sentirsi a suo agio.
- Ti serve un momento per riprenderti, oppure...?
- No, mi piacerebbe se potessimo farlo il prima possibile.
Sophie dovette cogliere la sua paura e il suo nervosismo, perché sorrise con fare materno e, posandole una mano sulla spalla, le fece voltare la schiena alla scena del crimine e la condusse in una piccola aula con un tavolo e due sedie. Jane si accomodò per prima, Kinney si pose davanti a lei. Trasse dalla tasca il suo taccuino rilegato, lo stesso dell'altra volta, e aspettò che la ragazza si levasse il soprabito.
- Jane - esordì, - ti hanno già informata di quello che è successo?
- Per sommi capi, sì.
L'altra rimase interdetta, ma sembrò capire che ciò le facilitava a il lavoro. Continuò, imperturbabile.
- Conoscevi Patricia Try?
- Sì.
- Eravate amiche?
- Non proprio; ma abitavamo su dei pianerottoli vicini e capitava ci incontrassimo in corridoio.
- Ti aveva mai fatto delle confidenze circa la sua vita privata?
- No.
E via di questo passo; no, non conosceva Ryan Mercy se non di vista e non gli aveva mai parlato. Sì, non era raro vederlo bazzicare nel settore femminile, come facevano anche altri. No, lei non aveva mai introdotto nessuno dell'altro sesso nell'ala dove c'erano le ragazze né aveva mai visto nessuno farlo.
Poi le domande cominciarono a spostarsi sull'ambito della Casa Famiglia e della sua struttura, facendosi meno specifiche e non inerenti al caso. A causa dello sconvolgimento che ancora la invadeva, Jane faceva fatica a concentrarsi sui dettagli che componevano la sua vita di tutti i giorni, ma sforzando la propria memoria riuscì a fare un resoconto abbastanza preciso delle sue abitudini e di tutta un'altra serie di dettagli tecnici.
Ammise sinceramente di non capire l'utilità delle attività organizzate dalla Casa, ma di parteciparvi la maggior parte delle volte. Disse di andare ad ogni incontro con la psicologa e di non essersi mai rivolta a lei spontaneamente. No, non aveva mai pensato che l'organizzazione fosse carente e sì, spesso si era trovata a dover avvertire di un ritardo.
- Lavoro come baby-sitter per una famiglia nelle vicinanze, la famiglia Hall; ho trovato l'impiego grazie ad un progetto proprio della Casa.
Diede qualche dettaglio circa quest'ultima informazione, esponendo tutto ciò che sapeva. Quand'ebbero finito, quasi mezz'ora dopo, lei si sentiva sfinita e sfibrata. Aveva voglia di rintanarsi in camera propria e di non mettere il naso fuori dalla porta per giorni e giorni.
Fece una smorfia quando si rese conto che non era possibile.
Sophie smise per un attimo di prendere appunti e la fissò per un lungo momento.
- Jane - disse, sospirando, - purtroppo devo chiederti dove sei stata; sai, in circostanze normali saresti già dovuta essere qui.
La ragazza si schiarì la voce. - Sono stata a pranzo del mio ex-professore di arte - arrossì, rendendosi conto che la questione, lasciata detta così, poteva essere fraintendibile - ...per parlare di alcune lezioni che mi piacerebbe riprendere. Poi sono andata al cimitero e ci sono rimasta per un paio d'ore.
- C'era qualcuno con te?
- No, ero sola.
L'agente sospirò. Le chiese il nome del professore, e ne prese nota.
- In linea teorica abbiamo finito; non ho altre domande da farti, sei stata brava.
Lei chinò leggermente il capo. - E adesso?
Sophie Kinney la guardò interrogativamente. - Cosa intendi dire?
- Non credo che io possa tornare alla mia stanza, né rimanere qui ancora a lungo. Non so davvero dove andare.
Era stata forse troppo sincera, tanto che l'agente parve capire perfettamente cosa stesse pensando.
- In effetti questo rimane un problema molto, molto grande - disse, stancamente. - Se non hai nessuno che possa ospitarti stiamo organizzando delle squadre che portano in centrale...non è il massimo, ma per una notte penso sia la soluzione migliore.
Jane inorridì al solo pensiero. Non aveva la minima intenzione di dormire in un contesto austero e ufficiale. Legata com'era alla percezione che le davano i film degli ambienti federali, era decisamente orripilata dall'idea di doversi trattenere in un posto del genere.
All'improvviso ebbe un'idea, che formulò timidamente. Si rendeva perfettamente conto che fosse una follia bella e buona, ma d'altra parte le era insostenibile accettare quell'invito per anime sole e disperate. Ne andava della propria dignità.
Sarah non era disponibile perché, come sempre nel periodo natalizio, si recava in Australia da alcuni suoi parenti e sarebbe tornata solo nel week-end. Le rimaneva solo una possibilità.
Aveva un disperato bisogno di sentirlo. Anche solo per un secondo.
- Posso fare una telefonata? - chiese.
L'altra donna annuì. - Ma certo. Ti aspetto qui fuori.
Senza che l'adolescente dovesse dire qualcosa, Sophie si alzò e si richiuse la porta alle spalle. Beh, meglio così, pensò.
Prese il cellulare e digitò frettolosamente il numero che aveva memorizzato in un millisecondo. Lui le rispose al secondo squillo.
- Hey, ciao.
La sua voce fu un balsamo lenitivo che la fece istantaneamente sentire meglio. Aveva un'intonazione così profonda e virile che la fece tremare dolcemente fin nell'angolo più recondito del suo animo.
- Ciao, Malcolm...
- Che succede? - le chiese subito, allarmato.
A lei venne quasi da sorridere, poiché le era bastato solo sentire il suo tono sfinito e abbattuto per capire che c'era qualcosa che non andava. Questo la convinse ulteriormente che le loro anime dovevano muoversi sulla stessa lunghezza d'onda.
Jane non aveva voglia di nascondersi dietro le proprie parole, così gli espose brevemente la faccenda cercando di minimizzare il tutto per quanto le era possibile. Il solo pensare alla morte improvvisa e insensata di una ragazza così normale la fece sentire nel peggiore dei modi, e sentì un groppo formarlesi in gola.
- Mio Dio... - sussurrò lui, incredulo.
Ci fu un istante di silenzio, ma dopo intervenne di nuovo con rinnovata energia. - Jane, vieni da me. Anzi, ti vengo a prendere. Non è possibile che tu possa rimanere un solo minuto di più in una tale situazione.
Lei, frastornata, si affrettò a ridurre quell'improvviso spirito di iniziativa.
- M..Malcolm, ma cosa dici? Volevo solo sentirti... - arrossì - ...prima di domani. O di quando sarebbe stata la prossima occasione. Sarà una notte lunga e avevo bisogno della tua voce, ma sto bene, te lo assicuro. Ora sono molto più tranquilla.
Dall'altro lato il ragazzo rise.
- Cosa c'è di tanto divertente? - chiese, piccata.
- Tu non me la fai - rispose con voce calda, dolce, - sei terrorizzata ed è comprensibile. Mi sento impazzire io che non c'entro nemmeno di striscio, non oso immaginare come debba sentirti tu. Hai bisogno di tranquillità e di un posto in cui stare al sicuro per un paio di giorni, fino a quando la situazione non si stabilizzerà; e poi sai che a casa mia l'unica cosa che non manca è lo spazio. I miei ti adorano, non daranno problemi. Lasciami prendere la macchina e ci vediamo fra dieci minuti. Aspettami là, arrivo.
Prima che lei potesse solo azzardarsi a dire altro il ragazzo la salutò e agganciò.
Jane rimase a fissare lo schermo che andava spegnendosi, interdetta e confusa. In quello stesso istante, a intorbidire ancora di più le acque, tornò Sophie, reggendo due tazze di caffè fumanti.
- Allora? - le chiese, sollevando un sopracciglio.
- A quanto pare... - disse, titubante, - ...ho trovato un alloggio per stanotte.
- Splendido! - esclamò l'altra, sollevata - Non preoccuparti, comunque, che presto troveremo un'altra struttura idonea.
Sembrava improvvisamente a disagio. Jane decise di toglierla da quell'immotivato imbarazzo alzandosi in piedi e stringendole la mano.
- Mi scusi, ma adesso devo proprio andare, mi passano a prendere. Io...mi dispiace per il caffè, è stato gentile da parte sua. Arrivederci.
La donna la salutò di rimando e la guardò andare via.
Jane, dal canto suo, si sentiva come se la vita stesse per assumere una piega sconcertante, destinata a cambiarla per sempre.
E aveva ragione.





ANGOLO AUTRICE:
Buonasera a tutti/e!
Voi direte "con che coraggio ti ripresenti dopo tutto questo tempo?". E avete maledettamente ragione.
Confesso che non ho avuto la benché minima ispirazione per continuare questa particolare storia per tantissimo tempo, e ancora adesso non mi sento soddisfatta di questo capitolo.
Vi prego di perdonarmi per questo ritardo; sono comunque imperdonabile, lo so. Ma vi voglio bene e questo non è cambiato.
Non so precisamente quanti capitoli ci saranno ancora, ma anche "Stunning" si avvia ormai alla fine.
Grazie per la vostra pazienza e scusatemi ancora,
Dark Kisses.
The Queen.

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