Luce dalle crepe

di Kanchou
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Risveglio ***
Capitolo 2: *** 2. Ascensore ***
Capitolo 3: *** 3. Inquietudine ***
Capitolo 4: *** 4. Senza mantello ***
Capitolo 5: *** 5. Passo indietro ***
Capitolo 6: *** 6. Vento ***
Capitolo 7: *** 7. Definizione dell'amore ***
Capitolo 8: *** 8. Pilota e navigatore ***
Capitolo 9: *** 9. Sul precipizio ***
Capitolo 10: *** 10. Addio ***
Capitolo 11: *** 11. Liberazione ***
Capitolo 12: *** 12. Una notte ***
Capitolo 13: *** 13. Yuris ormai non c'è più ***



Capitolo 1
*** 1. Risveglio ***


Luce dalle crepe


di Kanchou



1.
Risveglio



La divisa è grigio-nera, stesso colore del carbone, in contrasto con l’argento dei bottoni, dei gradi e delle decorazioni di colletto e giro-vita, che il comandante ha voluto lineari, senza fronzoli. La parte di sotto è una gonna a tubino che sale quasi fino all’altezza del seno, la parte di sopra un corpetto corto: gonna e corpetto sono stretti non per esaltare le forme ma per contenerle.

Sophia Forrester si sveglia molto presto la mattina, si lava rapidamente ma con accuratezza, e non apre mai la scatola del trucco. All’uscita dalla doccia passa davanti allo specchio e per un attimo sulla superficie vede riflessa l’immagine bianco latte del suo corpo snello ma formoso. A volte, per una debolezza della quale dopo si vergogna, indugia sull’immagine più del dovuto e si trova a guardare il proprio corpo come attraverso gli occhi di Alex, soffermandosi impudicamente sulle gambe lunghe, i fianchi femminili, la vita stretta, il seno abbondante, di cui si è sempre un po’ vergognata.

Fascia bene il seno perché non rompa la linea austera della divisa, indossa calze spesse, corpetto e gonna, poi gli stivali di cuoio. Rimangono i capelli. Sono la cosa più importante. Sophia sa che la vista dei suoi capelli lunghi, setosi, e del loro colore caldo, simile a quello delle foglie d’autunno, sprofonda il comandante nella malinconia. Sophia non può modificare il proprio viso né il corpo né la carnagione e nemmeno il taglio delicato degli occhi. Non può cancellare la propria somiglianza con Yuris, sua cugina, inghiottita per sempre dal Grand Stream dieci anni prima. Ma può mascherare lo splendore dei capelli: li imprigiona in due trecce che avvolge intorno alla testa, come una corona, e chiude a chiave la prigione con un fermaglio, sopra la nuca. Il fermaglio è la chiave: un giorno Alex, se vorrà, non dovrà fare altro che usarla.

Quanto al resto, la divisa, gli occhiali da maestrina e l’atteggiamento rigido e professionale possono essere sufficienti a evitare ad Alex quella parte di sofferenza di cui lei è responsabile. Sophia è pronta. E’ trasformata. Il vice-comandante della Silvana può uscire dalla cabina.



§§§



Quella mattina, mentre Sophia ancora nel letto apriva gli occhi, nella cabina del comandante Alex si svegliò di soprassalto. Come non gli accadeva da tempo, era riuscito a dormire per qualche ora, finché tra le immagini confuse e oscure dei suoi sogni si era formata quella di Yuris, la donna che amava. Per la prima volta da anni non era tornata a lui mentre moriva, mentre gridava precipitando nel vortice del Grand Stream. Alex aveva sognato la luce e l’erba alta, e Yuris che lo avvolgeva, come la prima volta, e la spirale profumata e incandescente dei suoi capelli che gli cingeva il corpo e le sue gambe atletiche intorno ai fianchi e il suo seno turgido contro le labbra e l’odore della sua pelle, leggero, fresco, distillato dal vento, dalle nuvole, dal cielo di cui la sua carne pareva composta come la pioggia a primavera.

Il cuore era affondato in un sentimento di gioia disperata.

La sensazione di lei era diventata sempre più viva, ma proprio nell’attimo in cui un’onda violenta gli aveva scosso il corpo, dai capelli di Yuris era emerso un volto diverso, al posto degli occhi scuri di lei, gli occhi verdi di Sophia. Alex aveva sentito una vertigine di piacere immenso e di terrore nello stesso istante e si era svegliato così, sconvolto e spaventato.

Qualcuno aveva detto che soltanto i morti non sognano. Forse per questo Alex aveva smesso da tempo di sognare, a parte l’incubo del Grand Stream che divorava Yuris, Hamilcar, George e il ragazzo idealista e appassionato che era stato lui.

Ma quella visione? Da quale assurda parte del suo cervello era spuntata?

Alex non voleva pensarci, non voleva sapere. Cercò di cancellare sotto il getto della doccia ciò che era successo. L’acqua gelida scorreva sulla testa, sulla nuca, sulle spalle, sul ventre e lavava via tutto. Così doveva essere.

Dopo, quasi senza accorgersene, si fermò davanti allo specchio. Alex si sentiva più vuoto, più estraneo del solito all’immagine riflessa. Dai capelli una goccia scivolò perfidamente alla base del collo. La seguì con lo sguardo. Lì, in quel punto preciso, tra la clavicola e il petto, lei amava baciarlo dopo aver fatto l’amore. Rivide, come un lampo doloroso, la sua mano bianca sopra la propria pelle bruna.

Dieci anni. Un’eternità. Inghiottita dal tempo. Come tutti i morti, come se non fosse mai esistita.

Dopo dieci anni, che cosa era rimasto di lei? L’immagine di quella mano, la traccia sbiadita del suo sorriso. Ricordi sparsi, scintille di luce che sprizzavano nel buio inaspettatamente, a tradimento. E lui, che cosa sentiva per lei? Era amore? Era ancora quell’amore? O soltanto il rimorso che si dimenava nelle sue viscere come un mostro rabbioso?

Si accorse di stringere i denti, di tremare. Fissò l’uomo nello specchio e lo vide così inerme e solo e giovane, ancora troppo giovane per quei dieci anni, per tutto quanto.

Un gemito sordo dal fondo del petto. Non era bene, non era da lui.

La divisa color carbone era già sul letto, pronta per essere indossata. Era il suo doppio disteso dove dormiva lui, l’unico Alex possibile, non quello che aveva sognato Sophia, non quello paralizzato davanti allo specchio e nemmeno quello affamato del corpo di Yuris e del suo amore. E dell’amore, qualsiasi amore che fosse puro, buono, appassionato.

Le brache, la camicia immacolata, la giubba attillata, gli stivali che l’attendente puliva e ingrassava con cura maniacale, cintura, bandoliera, pistola. La cintura e la sua fibbia, il lucchetto che chiudeva a chiave i sentimenti, le emozioni e tutte le maledette tracce della debolezza, della lesione profonda e segreta dell’anima. E i guanti neri. E la corazza impenetrabile del mantello, il tintinnio del fermaglio d’argento che lo assicurava alle spalle e dava il colpo di grazia a ciò che non doveva esistere.

Strato dopo strato, il comandante Row riprendeva forma. Non c’era esitazione nel suo passo, mentre lentamente abbandonava la cabina.



Segue capitolo 2…

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Capitolo 2
*** 2. Ascensore ***


2. Ascensore


Prima che la porta si chiudesse, Sophia lo raggiunse nell’ascensore che saliva al ponte di comando.

Entrando, non si accorse che il comandante aveva avuto una specie di sussulto.

“Buongiorno, signore.” La sua voce era vivace, quasi giocosa, perché Sophia sapeva come ignorare la tristezza. Perché era semplicemente contenta che un nuovo giorno fosse cominciato, accanto a lui.

Questo Alex lo sapeva da tempo, così come si era accorto che Sophia lo guardava con la coda dell’occhio, quando erano sul ponte di comando; o di come rimanesse senza fiato se sulla pista di decollo il vento all’improvviso gli scostava i capelli dal volto. E vedeva anche la lotta che Sophia combatteva per nascondere il proprio sentimento e far tacere la ragazza timida, inesperta dell’amore, che affiorava dalla superficie efficiente e professionale del vice-comandante.

Sophia entrò e per qualche misterioso motivo non cercò la solita posizione alle spalle di lui, ma si fermò presso la porta, il viso all’altezza del suo petto. L’ascensore si chiuse e Sophia, accorgendosi che la nuova collocazione comportava il pericolo di una maggiore intimità, tentò di apparire naturale, sollevò gli occhi e gli sorrise con tutta la franchezza di cui era capace. Ma nello stesso momento si rese conto che la precauzione era stata inutile, perché il comandante non aveva abbassato lo sguardo e stava immobile e indifferente come se nessuno fosse mai entrato.

Sophia chinò la testa, controllando e quasi nascondendo pure a se stessa l’ennesima piccola umiliazione che quel disinteresse abbatteva sull’accenno di speranza che le scaturiva spontaneo dal cuore tenero e ostinato appena era in presenza del comandante. Nessun segnale da parte di lui, mai, quando lei gli gettava quei piccoli ami ai quali sarebbe stato facile e naturale aggrapparsi per uscire dalla solitudine nella quale si era rinchiuso. Nessun segnale, nemmeno un accenno, come se neanche si accorgesse della sua esistenza.

Eppure a volte Alex si confidava con lei. C’erano momenti, rari come grani d’oro in una miniera ormai esaurita, in cui Alex le raccontava, seppure con frasi essenziali, il suo passato, lampi di vita che esplodevano nel buio illuminando per brevi attimi i suoi occhi cupi e spenti. A volte, nelle battute ironiche che si scambiavano, c’era persino più intimità che tra due amanti. In quei momenti Alex le concedeva gran parte di ciò che era rimasto vivo del suo cuore, le briciole sparse e rinsecchite di un’esistenza che un tempo era stata piena di passione.

Ma c’era una soglia oltre la quale Sophia non poteva avanzare. Allora Alex le appariva irraggiungibile e remoto come l’anima perduta di una persona morta, che il cuore continua a desiderare e rimpiangere pur non avendo alcuna speranza di rivederla mai più.

“Buongiorno, Sophia.” Alex rispose con la stessa voce distante di quando impartiva gli ordini sul ponte di comando. Aveva i capelli ancora bagnati. Sophia pensò che fosse bello, vederlo così. Con le ciocche lucide d’acqua si portava addosso l’intimità della cabina, quando non aveva il nero, il grigio, l’argento addosso. Non aveva mai visto la sua pelle, tranne che il viso e le mani. Tutto il suo corpo doveva avere lo stesso colore ambrato ed era meraviglioso immaginarlo dorato ai raggi del sole che passavano dall’oblò e contrastante con il bianco della mano che lo accarezzava. Quella del suo vice, naturalmente.

Sophia si vergognò di questo pensiero e arrossì. Controllò che Alex non se ne fosse accorto. Ancora impassibile, sfuggente. Palpebre mezze chiuse. Che cosa pensava, dove fuggiva, quando aveva quell’espressione?

L’ascensore saliva dentro la spina dorsale della Silvana ronzando lievemente.

“Comandante, ha saputo che la moglie di Campbell ha partorito?” chiese Sophia sorridendo.

“Campbell è stato nella mia cabina, ieri sera, appena ha ricevuto la lettera” rispose il comandante.

“E non crede, signore, che sarebbe opportuno fare qualcosa per lui?”

Il modo che Alex aveva di comunicare che non aveva capito era un battito delle palpebre tra lo scettico, per scoraggiare chi volesse solo disturbarlo, e l’interrogativo, per mettere fretta a chi avesse qualcosa di davvero interessante da dirgli.

“Considerato quanto Campbell sia importante per tutti noi,” continuò Sophia “sarebbe gentile se a pranzo una rappresentanza degli ufficiali e dell’equipaggio lo festeggiasse con un brindisi speciale.”

“Non ho niente in contrario.”

“La presenza del comandante sarebbe fondamentale…”

Silenzio.

Alex le rivolse un’occhiata più obliqua del solito con l’intenzione precisa di intimorirla. Tentativo inutile. A volte Sophia riusciva a produrre un vero capolavoro di faccia tosta, ciglia tremendamente seducenti, sorriso indistruttibile, occhi candidi e determinati che nemmeno l’occhiata “Potrei ammazzare per molto meno” di Alex aveva il potere di smontare.

“Non credo.”

“Peccato, comandante, l’ho già promesso a Campbell. E ho anche pensato che un uomo notoriamente generoso come il nostro comandante avrebbe approfittato dell’occasione per aprire quelle due stupende bottiglie di vino d’annata che ha comprato all’ultima asta…”

L’ascensore si aprì, uscirono verso il portello della sala di comando.

“Sophia…”

“Signore.”

“Credevo di essere io il comandante della Silvana.”



§§§



Sophia organizzò un pranzo perfetto. Il tenente colonnello Campbell, timoniere della Silvana, si era sposato tardi e a trentaquattro anni aveva ora il primo figlio. C’era una tenerezza particolare sul suo viso, quel giorno, e Sophia pensò che tutti i padri dovessero avere quell’espressione di quieta felicità. La immaginò sul volto di Alex. Avrebbe mai provato, il suo comandante, quella gioia? Avrebbe mai disteso il volto in quel sorriso sereno?

La conversazione era allegra, spiritosa. Questo era il paradosso della Silvana: che sulla nave più temuta del mondo, la Silvana che uccide tutti, e con un comandante tanto introverso, l’atmosfera fosse sempre amichevole e sincera.

Nella festa persino Alex sembrava rilassato. E Sophia si sentiva il suo sguardo da felino addosso, mentre lei scambiava battute con i commensali.

“Questo vino” diceva Campbell “è il migliore che abbia mai bevuto.”

“Non è curioso” osservò Sophia “come il vino migliore sia anche quello che tra i vari sapori non faccia mancare una punta di aspro e di amaro?”

“Filosofica osservazione, vice-comandante!” esclamò un ufficiale. ”Proprio come l’amore: dolce e amaro.”

“O come la vita stessa! Che mescola dolcezza e amarezza, gioia e infelicità, e a noi il piacere di assaporarne il perfetto dosaggio” disse Campbell.

Alex sorrise malinconicamente.

“E lei, comandante? Non è d’accordo?” chiese Sophia.

“Il dosaggio perfetto non esiste. Beviamo sempre un vino troppo amaro” rispose Alex.

“O troppo dolce!” esclamò un ufficiale.

Sophia continuava a fissare Alex negli occhi. Curiosamente, lui non li abbassava.

“Se permette” disse Sophia “credo che non sia soltanto questione di amaro o di dolce. Credo che il vino migliore sia fatto come le persone migliori. Il vino buono è quello che ha una storia. Ecco perché le persone migliori, come il vino amaro, sono quelle che hanno sofferto. Perché hanno una storia. Ogni storia ha la sua parte di sofferenza.”

Alex l’ascoltava accarezzando lo stelo del calice con un dito. Era meravigliosa, in quel momento, la regina di tutti loro. E meraviglioso che dicesse quelle cose.

“A volte la grandine cade sull’uva matura. Ci sono persone bruciate dalla prima gelata” disse Alex.

“Ma nessuna gelata uccide la pianta fino alla radice. Dal dolore, si rinasce sempre, comandante.”

Un ufficiale propose un nuovo brindisi. Campbell ringraziò e scoppiò a ridere. Non era felice soltanto per il figlio appena nato. A quel tavolo aveva appena assistito a un miracolo. Sophia e il comandante, i loro occhi avvinghiati. Avevano completamente dimenticato la presenza degli altri.


Continua nel capitolo 3…...



Mi ero ripromessa di rispettare completamente i caratteri originali. Secondo me la storia di Last Exile è perfetta così com’è, con un Alex che a Sophia e a se stesso non concede niente, trovo che sia persino più romantica. Perciò non avevo nessuna intenzione di scrivere quello che ho scritto, ma poi non ho resistito ad ammorbidire Alex e a farlo scendere dal piedistallo. Mi piacerebbe sapere se in questa fanfic l’ho alterato troppo oppure se è rimasto sempre lui, almeno un po’.

Un’altra cosa: mi sento in colpa – ehm ehm! – a fargli fare sesso per davvero (a parte il fatto che lemon è lemon e non mi rimangio niente). Mi sembra di usurpare il cuore dei personaggi. Deciderò per strada che cosa far combinare a questi due che comunque sono una bomba a orologeria anche nell'anime.

Grazie per le belle recensioni.

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Capitolo 3
*** 3. Inquietudine ***


3. Inquietudine



Maledizione, che cosa mi succede?

Il seggio di comandante non era mai stato tanto scomodo. Le vibrazioni metalliche della nave, lo scatto e il ronzio delle apparecchiature di bordo non erano mai stati tanto assordanti. La testa appoggiata alla mano, Alex combatteva silenziosamente con l’inquietudine che lo agitava dall’assurdo risveglio di quella mattina. Sophia, che non si era accorta di nulla, stava alla postazione del vice-comandante come una sentinella sulla cima di un presidio. Professionale, marziale, apparentemente inattaccabile. Soltanto lui, dunque, si accorgeva che quella era soltanto la maschera che si era messa addosso per sentirsi degna di affrontare il mondo? Soltanto lui vedeva, con la stessa chiarezza di quando un tempo aveva svelato la natura tenera di Yuris sotto la scorza selvaggia del navigatore, che Sophia era soltanto una fanciulla insicura e delicata?

Quella mattina era entrata nell’ascensore riversandogli addosso la violenta sensazione di freschezza e smarrimento con la quale un colpo di vento disperde i fogli in una stanza. Era così assurdamente, inconsapevolmente bella! Aveva sollevato gli occhi verso i suoi come una donna innamorata e Alex, sentendo che non avrebbe potuto nascondere la propria confusione, aveva allontanato lo sguardo.

Sophia era raggelata. Alex lo aveva sentito nitidamente, come aveva sentito – e sentiva ancora nella sala di comando – il suo odore, il profumo mescolato del sapone e della pelle, leggero, impercettibile a chiunque ma non a un predatore come lui, la traccia del calore notturno, un calore fatto di desideri e di fantasie inespresse, che la doccia non aveva cancellato dalla morbidezza bianca del collo, dal seno compresso dentro la divisa.

Era raggelata, e lui, con un senso di colpa al quale aveva fatto l’abitudine, ne era stato contento. Soffriva, Sophia, si struggeva per lui e subiva la sua indifferenza come una pianta docile che si fa piegare e percuotere da una tempesta, senza però spezzarsi mai. A volte Alex la metteva alla prova, la trattava male solo per vedere fino a che punto Sophia potesse sopportare uno come lui. Si odiava, per questo, quasi quanto odiava lei perché non scappava, non si ribellava, e perché non gli gridava quello che lui stesso avrebbe voluto sentire, che era un pazzo, un uomo senza cuore.

La odiava, quando sentiva, dalla distanza nella quale si era rifugiato, che soltanto lei, di tutte le persone al mondo, lo comprendeva. Per questo, perché capiva quanto fosse disperato, Sophia non gli chiedeva nulla in cambio del conforto discreto che con la sua presenza gli donava. Un tempo anche lui aveva amato così, con quella devozione, e aveva provato su se stesso che l’amore, persino quello ricambiato, s’intreccia per sua natura col dolore.

Un tempo anche lui aveva amato. No, amava ancora. Amava nel modo più inutile e disperato, perché amava qualcuno che non era più, polvere nel vento.

In questo non era diverso da Sophia. Anche Sophia amava qualcuno che era morto dieci anni prima.



§§§



“Siamo in vista di Nordkhia, signore.”

A Nordkhia andavano per recuperare il carico. Dopo l’ultima battaglia di Minagith e lo sfondamento delle difese di Anatorey da parte della flotta di Disith, Marius Bassianus, il consigliere imperiale, aveva scritto ad Alex che la Silvana, la nave più sicura al mondo, avrebbe dovuto proteggere e nascondere fino ad un nuovo ordine la persona che era considerata la chiave dell’Exile. La consegna del carico, il cui trasporto era stato affidato a Ralph Wednesday, il miglior corriere della Corporazione delle vanship, sarebbe avvenuta all’ora stabilita e in assoluta segretezza nel tempio abbandonato di Nordkhia.

Attraverso l’interfono Sophia ordinò al responsabile dell’hangar di preparare la vanship del comandante.

“Signore,” disse poi rivolgendosi ad Alex “è sicuro che sia opportuno andare personalmente a ritirare il carico? La Gilda…”

“Tieniti alla dovuta distanza. Se avvisti la Gilda, raggiungimi con la Silvana.”

Alex le lasciò il comando. Dopo alcuni minuti Sophia, da uno degli oblò del ponte, vide sfrecciare la luce intermittente della vanship da carico nel cielo ormai buio del crepuscolo e confondersi rapidamente con il chiarore della roccia di Nordkhia che si intravedeva all’orizzonte. Anche il rombo del motore si allontanava, estinguendosi nel ronzio costante della Silvana e delle apparecchiature di bordo.

Sentiva una grande tristezza per il comandante: anni prima Ralph, il corriere, era stato compagno di Alex nella squadra di piloti di Hamilcar Valca. A quanto pareva, Alex, dopo tanto tempo, continuava a incrociare il passato.

E laggiù, da qualche parte a Nordkhia, c’era la tomba vuota di Valca.


Segue capitolo 4…



Ho tardato molto con questo aggiornamento perché – credetemi – non ho avuto testa e tempo per continuare. Io scrivo sempre di getto e la forma che leggete è praticamente quella buttata giù subito. Il problema, quindi, non è scrivere ma cominciare a scrivere e trovare dall’inizio l’”atmosfera giusta”. Comunque ora la fanfic è in via di completamento, quindi non dovrete aspettare troppo per i nuovi capitoli. Il 4 è già finito. Diciamo che scrivere del rapporto tra questi due personaggi non è facile, sono tutti e due complicati e il loro modo di comunicare i propri sentimenti non è mai diretto. Inoltre, soprattutto con Alex, in una storia come questa sono sempre a rischio di finire OOC.

Forse abbasso il rating da rosso a arancione.

Grazie per le recensioni e per la pazienza!

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Capitolo 4
*** 4. Senza mantello ***


4. Senza mantello



“Provvedi a sistemare il carico.”

Alex aveva dato l’ordine direttamente dall’hangar appena era rientrato nella nave.

Per qualche secondo Sophia rimase attonita, con l’auricolare sospeso alla mano e sotto la pelle la sensazione nitida che qualcosa di importante fosse accaduto nel tempio di Nordkhia. Qualcosa che non riguardava solo la Gilda e l’Exile, ma soprattutto Alex e il suo passato. Le aveva dato l’ordine con una voce strana. Come avrebbe potuto definirla? Dimessa, forse incredula e soprattutto molto triste. Sophia sentì una stretta al cuore. Dominò l’impulso irrazionale che la spingeva ad accorrere nella sua cabina per consolarlo soltanto perché sapeva che Alex non le avrebbe perdonato che quell’impulso vincesse sul suo senso del dovere. Sophia teneva in grande conto le proprie responsabilità, perciò sarebbe stata incapace di tradirle. Tranne che per una persona. E, in realtà, Alex non la metteva mai in condizione di contraddirsi: dovere e devozione a lui coincidevano sempre, perché tutto ciò che Alex le chiedeva era di comportarsi da vice-comandante degno della sua nave.

Andò ad occuparsi del carico.

Certe volte Sophia - persino la Sophia, che non esitava a trasmettere l’ordine di aprire il fuoco su una nave avversaria e di uccidere centinaia di persone - era sconvolta dalla rudezza del comandante. Il carico non era altro che una bambina. La bambina più adorabile e tenera che avesse mai visto. Dormiva nell’hangar, su un divano nella cabina dei meccanici. Godwin, il capo-meccanico, le aveva detto che la piccola era svenuta nel tempio, durante l’aggressione della Gilda, e che non si era più svegliata.

Sophia si chinò su di lei. Respirava regolarmente, muovendo appena il labbro superiore. Un angioletto dai capelli biondo platino e il visino puro come prima acqua. Su di lei, sul cappottino rosso e bianco, era disteso il mantello nero del comandante.

A Sophia scappò un sorriso.

Il carico. Sì, poteva anche chiamarla in quel modo, rudemente, disumanamente. Ma si era preoccupato che quel carico, nell’hangar della Silvana, non patisse il freddo.



§§§



La vanship.

Il lampo argentato che schizzava nel cielo con la lucentezza magica ed euforica di una stella solitaria. Metallo e gioia pura, il rumore vivo e inconfondibile che tante volte si era mescolato con la voce di Yuris, con le sue risate in volo, con il battito del proprio stesso cuore.

Ora, la vanship materializzata dal nulla, staccata direttamente dalla sostanza del passato e precipitata davanti ai suoi occhi.

Alex affondò il viso nelle mani.

Nel buio dentro le palpebre la stessa vanship si avvitava infinitamente piovendo a capofitto al fondo dell’imbuto vuoto, vorticoso e spento di luce e di colore, avvinta e sbattuta dalle lingue informi della corrente fino alla bocca cieca del mostro che non si saziava, per sempre, lui ancora al posto di pilota, morto non morto, vivo non vivo, svuotato dal risucchio della vertigine smisurata, urlando al nulla, per sempre inseguendo l’anima perduta di Yuris.

Non dormo mai. Se chiudo gli occhi, è soltanto per continuare a cadere. Cadere, vedere nel buio, cadere.

Il Grand Stream era il pozzo senza fine, la vanship il sasso precipitato.

La vanship.

L’ultima volta che l’aveva vista, dieci anni prima, il giorno in cui con le ultime forze aveva lasciato la vanship a Nordkhia e si era trascinato fino alla porta di Justina, la moglie di Hamilcar, per portarle la notizia che erano tutti morti. Non aveva soccorso Justina, non l’aveva presa tra le braccia, quando per il dolore si era accasciata a terra come un sacco. Per anni si era odiato per questo, quasi quanto si era odiato per essere sopravvissuto al Grand Stream.

E dietro Justina, i due piccoli. Li aveva visti come immagini sfuocate, come le sagome dei pesci nella corrente di un ruscello. Il velo che allora li aveva separati da lui era lo stesso che continuava a dividerlo dal mondo. Il velo, o il vetro infrangibile, attraverso il quale guardava la vita degli altri come uno spettro ormai indifferente, senza più rimpianto e desiderio tranne che quello di estinguere il proprio nemico e se stesso in un unico momento.

E chiudere gli occhi per sempre. E non cadere nel buio, non vedere più.

I due piccoli. Aveva pensato a loro, negli anni, sempre come li aveva visti quell’ultimo giorno, gli occhi grandi, sperduti nello sgomento di qualcosa che non comprendevano, mano nella mano, intimiditi dall’uomo alto e col viso insanguinato che entrando in casa aveva fatto piangere la mamma.

E invece erano cresciuti, e nell’attimo stesso in cui li aveva visti lottare nel tempio di Nordkhia, Alex aveva capito che erano forti, selvaggi, liberi, e che la durezza del mondo non li aveva sconfitti, anche se erano stati abbandonati da tutti, persino da lui.

Alex aprì gli occhi e istintivamente li posò sulla fotografia di loro quattro, quella che per torturarsi teneva sulla scrivania: Hamilcar e George, Yuris e il suo uomo contro lo sfondo delle vanship, il giorno stesso in cui avevano sfidato il Grand Stream, il giorno in cui Alex aveva smesso di dormire. Yuris che non si lasciava scappare l’occasione di prendere in giro, si trattasse del suo vecchio istruttore o del giovane troppo serio che l’amava o della macchina fotografica che la stava ritraendo.

Forti, selvaggi, liberi, proprio come erano stati lui e Yuris, così erano i due ragazzi di Nordkhia, i figli dei suoi amici morti.

Per questo la vanship volava ancora. Per questo di nuovo il dito d’argento sfiorava il cielo.

Per questo? Per questo?



§§§



Sophia bussò.

Non udì risposta, entrò, fece due passi, non osando avvicinarsi troppo al comandante che mezzo disteso sul divano fissava la finestra.

“Ho pensato di portarle questo, signore.” Depose sulla scrivania il mantello che aveva trovato nell’hangar. Alex si voltò e Sophia poté notare con un tuffo nel cuore l’espressione mesta, quasi languida, del suo viso, e somigliante al tono della voce che poco prima era passata per l’interfono.

“Ho provveduto a sistemare il carico come aveva ordinato, signore.”

Alex assentì con un cenno quasi impercettibile del capo, un fruscio lieve dei capelli scuri o forse della pelle contro il colletto rigido della divisa. Teneva gli occhi bassi, non per nascondersi, ma per non affrontare il pietoso riflesso di se stesso che avrebbe visto negli occhi di Sophia.

“Ralph Wednesday è stato ucciso dalla Gilda” disse il comandante. La voce si scurì. “Il corriere che ha portato in salvo il carico non era lui, ma il figlio di Valca. Il suo navigatore, la figlia di George.”

Sophia sgranò i grandi occhi verdi al tempo stesso nella confusione di apprendere l’incredibile notizia e nella consapevolezza del significato immenso che l’incontro di Nordkhia aveva nella vita del comandante. Il destino si divertiva ad incrociare i fili delle loro vite, per quanto a loro invisibili, per quanto si sforzassero di tenerli separati.

“Capisco…” disse Sophia. Aveva imparato da tempo a distinguere quando fosse opportuno tacere e quando invece qualche parola ben dosata potesse alleviare lo spirito oppresso del comandante. Non aggiunse altro, lasciando che la propria compassione fluisse verso di lui attraverso il silenzio e il pulsare avvolgente e continuo della Silvana.

Alex si alzò in piedi. “I due ragazzi non hanno preso bene il fatto che il carico sia finito sulla Silvana” disse. Si mosse lentamente verso di lei, ancora fuggendo il suo sguardo. “Se tentano di salire a bordo, li scacceremo. Devono stare lontani da noi, da tutto quanto. Sai come fare.”

Nel linguaggio della Silvana “tenere lontano da noi” significava usare i cannoni.

Perciò Sophia sorrise e chiese: “Quello che penso io, signore? Il modo che abbiamo usato quella volta col corriere imperiale a Othland?”

Richiamato dall’allusione scherzosa, lo sguardo di Alex sfiorò ammorbidito il volto di Sophia. Strano, pensò Sophia, come quegli occhi a volte avessero il colore e la lucentezza di vetro dorato.

“Esatto” rispose Alex, e di nuovo sfuggendo da lei prese il mantello che Sophia aveva disteso sul tavolo.

Non era abituata a vederlo indossare soltanto la divisa. Per pochi istanti, prima che il mantello gli avvolgesse le spalle, Sophia avvertì la vicinanza snella e solida del suo corpo non ancora protetto e nascosto dalla cortina di tessuto nero che sempre, senza eccezione, Alex indossava in sua presenza. Sentì la vita forte e stretta, l’altezza che la sovrastava senza minacciarla, il collo che improvvisamente indifeso sorgeva a portata di bacio dal colletto marziale, se solo Sophia avesse trovato il coraggio di sollevarsi sulla punta dei piedi.

“Comandante…” disse lottando col rossore. “La vanship che ha portato il carico è forse quella…”

Lui, già cominciando a chiudere il fermaglio d’argento che univa sotto al collo i lembi del mantello, si fermò.

Si trovò a guardare dentro i suoi occhi, arreso alla sensibilità con la quale ancora una volta era stata capace di leggergli nel cuore.

Gli occhi che si evitano sono spesso, in realtà, occhi che si cercano. Con le braccia ora abbandonate lungo il corpo, Alex non precipitava più nel buio del Grand Stream ma nella tenerezza verde degli occhi di Sophia, e lei, come un fiore risvegliato dal calore del sole, gli andava incontro.

Questo, soltanto questo, le sarebbe bastato per essere felice. Che lui la guardasse così, che si abbandonasse a lei, fragile, fiducioso, consegnando nelle sue mani i frammenti della propria anima ferita. Questo le sarebbe bastato per sentirsi forte, più di lui, talmente forte da affrontare tutto il mondo. Forte come era adesso nella certezza di averlo, soltanto per quell’attimo, legato a sé.

Non pensò alle conseguenze del gesto. Sophia osò ciò che pochi secondi prima le sarebbe parso impossibile e sollevò le mani per chiudere lei stessa il fermaglio. Con le dita, percepì il leggero sussulto di Alex sotto la piastrina d’argento. Infilò i lacci, li tirò un poco, chiuse il fermaglio con uno scatto.

Alex la lasciò fare, abbandonato al piacere incomprensibile di sentire le dita di Sophia a pochi millimetri dalla pelle. Vicino, troppo vicino alle labbra, lo tentavano il suo odore mielato, la pelle del viso delicata come latte, il palpito della dolce determinazione ad essere sua. Sarebbe bastato così poco, sollevarle il viso, baciarle la fronte, prendere la sua bocca, entrare nel suo bacio, non lasciarla più.

Un dito, chiudendo il fermaglio, gli sfiorò la pelle sopra il colletto argentato della divisa.

Subito, lo scatto della mano di Alex per afferrarle il polso.

Le bloccò la mano, l’allontanò da sé.

Freddamente disse: “E’ tempo di tornare sul ponte, Sophia. La Gilda attaccherà.”


Segue Capitolo 5…

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Capitolo 5
*** 5. Passo indietro ***


5. Passo indietro


Nell’hangar i meccanici avevano già cominciato a riparare i danni subiti durante l’aggressione della Gilda. L’incendio nell’ascensore da carico era stato finalmente domato e i meccanici, anneriti dalla fuliggine, si erano messi all’opera per rimettere in sesto le vanship da combattimento che erano state recuperate.

Sophia si sentiva sollevata. I danni non erano gravi e per fortuna nessuno dei piloti era morto o ferito gravemente. Persino i due ragazzi erano tornati incolumi. Era stata un’imprudenza mandarli a combattere. Sophia, lo stesso comandante, avevano seguito l’istinto e non si erano opposti alla richiesta di Claus. Ma se ai due ragazzi fosse successo qualcosa di grave, non avrebbero potuto perdonarsi. Dovevano tenerli lontani dalla Silvana, aveva detto Alex, e invece non solo non li avevano allontanati dalla nave, ma non avevano impedito che mettessero in pericolo la propria vita.

L’hangar rimbombava di rumori assordanti, le gru in movimento, i trapani, le saldatrici, le unità claudia accese. Erano tutti al lavoro, nessuno sembrava far caso alla presenza del vice-comandante.

Sophia era stanca, stordita. Nell’ultima giornata era accaduto di tutto. E ripensando a quello strano incontro nella cabina di Alex, ancora non riusciva a comprendere che cosa concretamente fosse accaduto. Forse niente, forse era stata soltanto immaginazione.

Perché subito dopo il comandante era tornato ad essere quello di sempre, distante, insondabile, una roccia salda e levigata che a lei non offriva alcun appiglio. Gli bastava un solo colpo per uccidere: così, a sangue freddo, aveva difeso personalmente il ponte e il carico durante l’attacco. Così, con una sola occhiata indifferente, aveva freddato lei.

Tutto come prima. Nemmeno quel giorno ciò che Sophia sperava era accaduto. Avrebbe aspettato ancora, un altro giorno e un altro e un altro ancora.

Si ritrovò proprio davanti alla vanship dei due ragazzi. Era accartocciata, mezza distrutta, irriconoscibile.

Ma era proprio una delle due vanship della foto che stava sulla scrivania del comandante. La vanship di Alex e di Yuris resuscitata dal passato.

Sophia l’aveva vista tanti anni prima, visitando l’arsenale di Nordkhia oppure quando Yuris andava a trovare la giovane cugina nella Città imperiale. A quel tempo Alex sorrideva. Era già bello, bello come Yuris. Erano perfetti, come il loro modo di volare e di sfidare il cielo.

In Accademia, a palazzo c’erano forse ragazzi più belli di lui. Ma Alex era speciale. Era…

Sophia appoggiò la fronte alla fusoliera della vanship.

Si commiserava, era perduta, se pensava quelle cose. Non erano degne di lei, del vice-comandante di quella nave e nemmeno della ragazza che aveva amato Yuris come una sorella.

Che cosa avrebbe pensato Yuris di lei, adesso? L’avrebbe odiata?

Sentì un gelo nel cuore.

Io dovrei odiare te. Io. Perché tu sei morta e continui a tenerlo per te. Perché lui è vivo e tu non lo lasci libero. Perché tu non hai mai compreso il cuore di Alex, eppure ti appartiene. E non è giusto, non è giusto, non è giusto!

Un ticchettio sul metallo. Le lacrime che cadevano sulla vanship. Sophia staccò la fronte, guardò le gocce cristalline che scivolavano sulla superficie d’argento. Il frastuono dell’hangar la richiamava alla realtà e al suo ruolo di vice-comandante, il vice di Alex.

No, non la odiava, non l’avrebbe mai fatto. Ma sentiva una pena immensa per lei, per lui, per se stessa.



§§§



Alex tornò dall’ispezione ai settori della nave danneggiati dall’attacco della Gilda. La Silvana, il carico, erano salvi perché l’equipaggio aveva fatto il proprio dovere: aveva mantenuto il sangue freddo, proprio come il comandante. Questa era la sola cosa che Alex trovava rassicurante, che lui, i suoi uomini, la nave funzionassero come una cosa sola. Fare sempre ciò che andava fatto, senza complicazioni personali.

A volte si domandava fino a che punto lui stesso sarebbe stato capace di obbedire a questo principio. Di distruggere i brandelli di vita ai quali era aggrappato non gli importava, purché ciò non avvenisse prima di aver ottenuto la morte del suo nemico. Ma fino a quale limite sarebbe potuto rimanere indifferente al destino degli altri, dei suoi uomini, dei suoi amici di un tempo, se avesse dovuto sacrificarli per la propria vendetta?

Da tempo aveva smesso di temere la risposta. Tutto, avrebbe distrutto il mondo intero, pur di uccidere il Maestro. E se la debolezza del dubbio indeboliva questa determinazione, gli bastava fermarsi, appoggiare il palmo della mano alla parete metallica della Silvana e raccogliere nella carne la vibrazione pulsante che saliva dal basso, dall’Unità della nave, fondendola col battito del proprio stesso cuore: anche lui era una macchina di morte, un cuore che pulsava soltanto per distruggere.

Era follia, ma una follia necessaria. Ed era quella follia il motivo per cui Sophia si trovava sulla Silvana. Marius, il Consigliere imperiale, l’aveva messa al suo fianco per sorvegliarlo ed evitare che la sua furia vendicativa distruggesse l’Exile per colpire Delphine. Di fronte a questa imposizione Alex aveva dovuto chinare la testa. Marius, il padre di Yuris, era l’incarnazione del suo senso di colpa. Con lui Alex sarebbe stato in debito per sempre, perché dal Grand Stream era tornato da solo, e vivo.

Per questo, all’inizio, aveva trattato Sophia gelidamente, al limite della disumanità.

Per mezzo di lei Marius l’aveva colpito dove la ferita faceva più male. Attraverso Sophia, Marius non solo lo controllava, ma alimentava i suoi rimorsi. Perché Sophia somigliava a Yuris abbastanza da farlo soffrire tutte le volte che lo guardava, gli parlava, gli si avvicinava. Le prime settimane dopo che Sophia era salita a bordo della Silvana Alex era stato sull’orlo del delirio. Sophia aveva la stessa bellezza delicata e gentile di Yuris, gli stessi capelli da accarezzare, da sentirsi piovere addosso, e quel sorriso che ti faceva perdere la cognizione di te stesso. Gli faceva male, come una lama nel ventre. Lei che era viva, sorridente, professionale, mentre Yuris era morte, polvere, dolore, un urlo che si perdeva nel pozzo senza fondo del Grand Stream.

Col tempo, però, qualcosa era cambiato. Il cuore pietoso di Sophia si era piegato alla compassione per il dolore e la follia di Alex; il suo cuore di donna si era aperto al fascino oscuro e silenzioso di lui. Adesso Sophia era divisa tra la devozione a Marius, l’uomo che amava come un padre, e quella più irrazionale e ostinata verso il comandante.

E anche Alex era cambiato. Ora se ne accorgeva. Tutto ciò che somigliava a Yuris sembrava sparito. I capelli di Sophia scendevano più chiari e lisci, i suoi occhi verdi non avevano la rabbiosa voglia di vivere di Yuris, erano calmi, fatti per addolcire e consolare. La sua pelle delicata, di latte e di rosa, non avrebbe mai preso il colore dorato che il sole aveva donato alla pelle di Yuris. E la passione di Sophia aveva un’intensità silenziosa, era amicizia, intimità, intesa, devozione. Ciò che Yuris non era, era lei. Questo gli faceva paura, più di ogni cosa: che gli piacesse di lei tutto ciò che a Yuris mancava.

Doveva distruggere anche questo. Non faceva parte del piano, non era previsto. Lui era morto, lui apparteneva a Yuris. Tutto il resto era soltanto un’inutile debolezza.



§§§



Claus Valca e Lavie Head entrarono timidamente nel suo alloggio.

Avevano partecipato al combattimento contro la Gilda, loro che della guerra avevano vissuto finora soltanto un’eco lontana. Avevano dimostrato un coraggio incredibile per la loro età.

Il ragazzo aveva ancora il viso gonfio di botte – il benvenuto dei meccanici – ma lo sfidava guardandolo negli occhi.

La ragazza appariva più confusa, ma non particolarmente intimorita dal comandante.

“Non ho mai visto pilotare una vanship peggio di così” disse flemmaticamente Alex.

La ragazza storse la bocca e abbassò la testa, mortificata. Era andata in red-out, una cosa vergognosa per un navigatore. Claus strinse i pugni.

“Sfido chiunque a pilotare per la prima volta una vanship da combattimento durante una battaglia come questa!” gridò il ragazzo.

Alex si alzò in piedi, ma se ne sarebbe pentito, se avesse avuto coscienza della ragione profonda di questo gesto. Ora li sovrastava, proprio come dieci anni prima aveva guardato dall’alto due bambini di nemmeno cinque anni la prima volta che aveva visitato la casa di Hamilcar, loro due intimiditi nello stesso modo, le testoline, una bionda e una rossa, che si sollevavano come a guardare la cima di una montagna o la vanship in volo e poi sgranavano gli occhi e scoppiavano a ridere, rassicurati dal sorriso buono dello sconosciuto.

Poi lo sconosciuto era diventato l’amico dei loro papà, quello che portava i regali e per il quale la mamma preparava sempre la crostata di mirtilli. La crostata, i biscotti di Justina. A volte Alex ne sentiva ancora il sapore, subito associato al profumo di legno e lavanda della casa e allo scricchiolio che faceva la soglia quando ci metteva il piede sopra. Justina amava leggere. Lui le portava i libri dalla capitale, lei in cambio gli preparava le marmellate e gli cuciva i bottoni delle camicie.

Quanto doveva essere cambiato, se ancora non l’avevano riconosciuto! Erano sempre intimiditi, ma lo squadravano, determinati a dimostrargli che non gli appartenevano, che era lui quello in debito con loro, in debito della loro fiducia e della protezione di Alvis Hamilton, quella che lui chiamava il carico. Aveva dimenticato che al mondo esistessero occhi tanto puri.

Alex aveva voglia di sorridere. “Proprio non mi sopportano” pensò.

Ma disse: “Non ho mai visto pilotare peggio di così una delle mie vanship. Tuttavia nessuno avrebbe saputo fare di meglio, al primo combattimento.”

Ora sul volto dei due ragazzi riconobbe la stessa espressione incredula che dieci anni prima facevano quando portava loro un regalo inaspettato.

Rassicurato dalle parole del comandante, Claus scambiò un’occhiata con Lavie e disse: “Noi…Noi vorremmo rimanere sulla Silvana finché la vanship non sarà riparata e…”

Alex attivò apposta quella che sapeva essere la faccia più gelida.

Provvedimento inutile. Claus continuò: “…E per proteggere Alvis.”

Sempre più Alex aveva voglia di sorridere.

“Fate come vi pare” disse. Poi li congedò.

Appena la porta si chiuse, Alex si domandò se anche loro due, come il sentimento per Sophia, non fossero altro che un’inutile complicazione.



Segue Capitolo 6…


Davanti a voi avete ancora tanti capitoli, perché questa storia è lunga. Per leggerla ci vogliono l’ostinazione di Alex e la devozione di Sophia. Ma il premio sarà un’indigestione di romanticismo.

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Capitolo 6
*** 6. Vento ***


6. Vento



“Tu sei tutto matto, Jim.” Il tenente Giese parlava dalla postazione di Sophia, che occupava in qualità di sostituto del vice-comandante quando né lei né Alex erano sul ponte. “Il comandante non farebbe mai una sciocchezza come questa.”

Tra gli ufficiali della Silvana Giese aveva una particolare devozione per il comandante Row. Gli piaceva che Alex arrivasse sempre al sodo delle cose. Per esempio, sul vascello che Giese aveva servito prima di salire a bordo della Silvana, lui che aveva i capelli ispidi, spessi, indomabili, era costretto a sprecare molto tempo passando sulla testa creme ed inutili colpi di pettine prima di presentarsi con un aspetto accettabile al comandante e all’equipaggio. Ad Alex, invece, interessava soltanto che fosse un buon ufficiale e che non sprecasse il suo tempo in sciocchezze. Se la capigliatura gli impediva di portare il berretto, allora del berretto poteva fare a meno e trattenere i capelli con una fascia, come si era abituato a fare.

“Se volesse davvero attaccare il cuore della Gilda,” continuò “l’avrebbe già fatto molto tempo fa.”

Jim Suarez, una delle due vedette, non aveva staccato gli occhi dal binocolo della propria postazione. “Sei tu quello che non vuole ancora rendersene conto” disse. “La cosa è nell’aria. Il potenziamento del sonar, i nuovi cannoni. E ora questa strana segretezza…”

“Ma non siamo davvero più forti di un anno fa” osservò Giese. “Perché ora?”

Nessuno sapeva come rispondere. O meglio, nessuno aveva il coraggio di rispondere. L’idea di andare a combattere il Maestro non era proprio esaltante. Suarez si concentrò sul binocolo, gli altri semplicemente fecero finta di non aver sentito. Classico esempio di silenzio imbarazzato.

Che alla fine venne rotto da Campbell. “Non pensarci, Giese” disse. “Qualunque cosa succeda sarà per il meglio. Il comandante sa quello che fa.”

Giese sospirò.

“Però nervoso, il comandante, è nervoso, ultimamente!” esclamò Suarez.

“Davvero!” disse l’altro ufficiale di vedetta.

“E secondo me” disse Suarez “la Gilda non c’entra per niente questa volta.”

A queste parole Blackwood, il grosso ufficiale di macchina, scoppiò a ridere; sogghigni a stento trattenuti rimbalzarono da un lato all’altro del ponte. Campbell, come ufficiale più anziano, non poteva permettersi di ridere per una cosa del genere e si controllò. Soltanto Giese e Wina, l’addetta al sonar, si guardavano confusi perché non avevano capito niente.

“C’è qualcosa che io e Wina non sappiamo?” domandò Giese.

I sogghigni raddoppiarono.

“Il fatto è questo, Giese” disse Suarez. “Non so se ti sei accorto di dove vadano a finire un po’ troppo spesso gli occhi del comandante, da qualche tempo, ma per me ci sono grosse possibilità che in futuro comandante e vice spariscano dal ponte con una certa frequenza. Insieme.”



§§§



Lo trovò che l’attendeva sulla terrazza del ponte di comando.

Stava appoggiato alla balaustra di metallo a guardare il freddo azzurro del cielo, astratto come una statua, il guardiano di pietra di un tempio in rovina.

Quando Sophia arrivò, lui non si mosse. Il vento era la carezza che lei non poteva dargli e passando tra i capelli li faceva ondeggiare con una leggerezza quasi innaturale, come se l’aria fosse acqua. In momenti come quello le ricordava persino il ragazzo di dieci anni prima. Gli occhi diventavano più morbidi, le labbra delicate si schiudevano, il collo si offriva al vento. Era fatto per l’aria aperta, per gli orizzonti liberi e i sogni che si materializzavano nelle nuvole e nei mille colori del cielo.

Era bello, troppo, come un lago in una terra ghiacciata, come il cielo al crepuscolo. Sembrava assurdo che le persone potessero provare paura di lui. Temevano i suoi occhi freddi, da sopravvissuto. Ma lei non l’aveva mai temuto. I suoi occhi non erano freddi e vuoti. Erano occhi di una purezza sconfitta, che si ammorbidivano oscuramente, quando intravedevano scintille di verità nelle persone, quando lei scherzava per smontare la sua riservatezza o quando si concedevano come un dono non meritato la contemplazione del cielo.

“Parlerai della gara di Horizon Cave ai due ragazzi, Sophia.”

Quella voce tranquilla e profonda, che le faceva tremare il cuore.

Sophia annuì. “In che termini, signore?”

“Desidero che abbiano i mezzi per vivere lontano dalla Silvana. Claus non accetterebbe mai il mio denaro. Ma il premio della gara è ricco e Claus è il pilota migliore che io abbia mai visto: se gli diamo la squadra di supporto di cui hanno bisogno per riparare la vanship della gara, vincerà.”

Alex si preoccupava dei due ragazzi! Dunque, era vero: qualcosa era accaduto, da quando Claus e Lavie erano saliti a bordo della nave, qualcosa si era acceso in lui. Forse perché quei ragazzi così innamorati del volo erano lo specchio delle sue speranze perdute o perché erano affamati di vita, d’amore, di esperienza, nonostante tutto, la perdita dei genitori, la guerra, l’orrore del mondo. Sulla vecchia vanship ricomparsa dal passato c’era ancora qualcosa del vecchio Alex.

Dunque, soltanto con lei, con l’unica donna della sua vita, Alex era tornato il comandante di sempre, e non si sarebbe lasciato toccare ed amare mai più. E anche lei era tornata ad essere il suo vice professionale e affidabile, una paio di occhiali per coprire la dolcezza degli occhi, una divisa per contenere la grazia del corpo.

“Se permette, signore, credo che Claus si rifiuterà di lasciare la nave comunque.”

“Vedremo. C’è sempre la possibilità che dopo la fine della gara, ai box non trovi i meccanici ad attenderlo…” disse Alex. Era adorabile, con quell’espressione ironica sul volto. Non si sentiva indifeso, se la guardava in quel modo.

“Capisco” disse Sophia. “E guarda caso con i meccanici sarà sparito anche il carburante. La vanship non potrà tornare alla Silvana perché sarà rimasta a secco.”

“Occupati della cosa.”

“Comandante…”

La faccia ironica, anzi beffarda, adesso era quella di Sophia. La faccia di quando scherzavano, quella di sempre.

“Ha considerato il fatto che Claus non prenderà la cosa molto bene?”

Alex le sorrise misteriosamente e rispose: “Avrei dovuto, Sophia?”



Segue Capitolo 7…

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Capitolo 7
*** 7. Definizione dell'amore ***


7. Definizione dell’amore



Era stata una giornata memorabile, che valeva dieci anni di lotte e sacrifici.

Per lui - non per Sophia, la quale non aveva smesso di stringere i denti nella paura che si facesse ammazzare - era valsa la pena di scendere a terra da solo e senza scorta, diritto tra le braccia di coloro che odiavano persino sentir pronunciare il suo nome. Era tornato sulla nave con gli stivali schizzati di sangue e la pistola scarica. Ma ne era valsa la pena.

Adesso Alex possedeva il più grande potere del mondo.

Nella Horizon Cave, mentre Claus vinceva la gara, Alex aveva incontrato il Graf, il tutore di Alvis Hamilton, la bambina che era considerata la chiave dell’Exile. Il vecchio gli aveva affidato la piccola e con lei lo stesso futuro dell’Exile. Dalla sua bocca Alex aveva ottenuto anche il mysterion degli Hamilton, uno dei quattro versi che permettevano di controllare l’Exile.

Il Graf, scegliendo Alex come custode di Alvis, aveva scavalcato lo stesso imperatore.

“Comandante, le affido la bambina” aveva detto il vecchio “perché lei è un uomo libero.”

Libero dalla sete di potere e di ricchezza, che aveva avvelenato l’imperatore, libero dalla politica, dalla storia, dalle relazioni che costringono gli uomini ad agire soltanto nel proprio interesse.

Alex sapeva di essere arrivato ad una svolta decisiva. D’ora in avanti sarebbe stato completamente solo contro tutti. Avrebbe dovuto difendere Alvis dall’imperatore, dalla Gilda, da chiunque tentasse di impossessarsene. Avrebbe portato un enorme peso e ne era contento.

Perché il Graf non aveva considerato tutto.

Alex era libero, tranne che da una cosa: la furia della sua vendetta.

L’Exile, ciò che fosse davvero, gli era indifferente. A lui serviva solo per annientare il Maestro e la Gilda. Dopo, non avrebbe esitato a distruggerlo.



§§§



Da qualche parte nel ventre della Silvana l’equipaggio festeggiava la vittoria di Claus.

Claus era tornato perché Deeo Eraclea, il fratello minore del Maestro, l’aveva riportato indietro. Non c’era niente da fare, era destino che i due ragazzi di Nordkhia rimanessero a bordo.

La musica saliva subdolamente per la nave, come un serpente pigro ma determinato. Un flauto, un’armonica, un violino, una chitarra e i ritmi alternati di una giga allegra e saltellante, per chi volesse buttarsi nella danza, e di una ballata malinconica, per invogliare alla bevuta e a raccontare qualche bella storia.

Sofia non era dell’umore giusto per partecipare.

Di farsi vedere in giro triste com’era non aveva voglia. Si chiuse nella cabina e dimenticando di accendere la luce gettò all’aria gli stivali e la giubba e si ritrovò seduta sul bordo del letto. D’altra parte, il cielo oltre l’oblò, con tutte quelle stelle, era sufficientemente luminoso per non annegare nel buio.

Persino là dentro arrivava la musica. Impossibile dire come riuscisse a passare, da quale fessura, da quale perfido condotto che nascosto dentro la nave si metteva d’impegno a torturarla così.

Alex era sicuramente nella sua cabina.

Dalla Horizon Cave era tornato con un’espressione sottile e feroce sul viso. “Ho ottenuto il primo mysterion” le aveva detto. Solo quando sentiva di essere vicino al Maestro si comportava così, come un predatore che ha messo la zampa sul collo della preda.

La musica, la musica, non c’era modo che cessasse di torturarla.

A che serviva se non poteva ascoltarla con lui?

Da ragazza aveva danzato con istruttori, compagni d’Accademia, corteggiatori ai quali pareva una grazia immeritata di poter sfiorare nel valzer l’erede al trono di Anatorey. All’epoca, qualche volta, sotto quegli occhi affascinati da lei, aveva osato pensare di essere bella.

Ma bella non era, se lui non la desiderava come donna. Alex non l’avrebbe mai invitata a danzare. A lui importava soltanto della sua vendetta.

Avrebbe voluto gridare che smettessero di suonare, che la musica cessasse di salire alla sua cabina e non la torturasse più.

Danzare con lui…In quale vita sarebbe potuto accadere?

Si distese a braccia aperte, arresa all’infelicità di quei pensieri e all’ossessione della musica.

Che le avvolgesse la vita con un braccio e la stringesse a sé, che le prendesse la mano con la propria, dita intrecciate, e la guardasse negli occhi, sorridendo. Del resto del mondo, nessuna traccia, un deserto luminoso, un pianoforte gentile da qualche parte, soltanto per loro, nessun ricordo del passato, nessuna paura del futuro. E che, alla fine del ballo, le accarezzasse il viso inebriato dai giri di danza e portandole la mano dietro alla nuca, le sollevasse la testa e appoggiasse le labbra alle sue.

Come sarebbe stato? Come l’avrebbero toccata, quelle labbra? Sarebbero state morbide o forti o avide o arrese? Come?

Inavvertitamente Sophia aveva portato la mano sulla bocca. Le labbra, al tocco delle dita, si svegliavano come per un bacio, si donavano sensualmente contro la sua volontà. Mentre le dita scendevano, un brivido passava nel collo, il seno s’inturgidiva di desiderio. Come sarebbe stato sentire addosso, sul seno, su ogni parte del corpo, la mano di lui?

La carne, quella cosa oscura e sconosciuta che l’assaliva a tradimento, come ora - la bocca che si schiudeva verso qualcosa che non sapeva definire, il seno, il ventre che si tendevano appena li sfiorava, tanto da far male, la vista che si perdeva in immagini ignote e sconvolgenti - anche quella apparteneva a lui, perché nella realtà impossibile in cui Alex l’amava e la baciava c’era anche il contatto del suo corpo.

Essere una donna, a che serve se non devo esserlo per lui?

Le assalì il petto un dolore sordo, l’impulso di piangere. Voleva gridare, battere i pugni sul letto, impazzire, lasciarsi andare.

Ma non lo fece. Tornò a sedersi, respirò profondamente, strinse le ginocchia nelle mani.

“Non piangerò. Perché non è giusto. In fondo, lui è più infelice di me” disse a bassa voce.

Non doveva piangere, da sola in quella stanza. Era notte, ma decise di tornare sul ponte di comando. Lassù la musica non arrivava.

Prima di uscire nel corridoio, appoggiò la testa alla porta e chiuse gli occhi.

Chi sia lui, a chi appartenga, non lo ricordo più. Il suo corpo è il mio, la sua voce viene dal mio stesso cuore. Lo amo. Lo amerò per sempre. Nessuno al mondo sarà mai amato quanto lo amo io. Lo amo. Questa è la sola certezza della mia vita. La sola che voglio avere.



§§§



Deeo Eraclea, il fratello di Maestro Delphine, non era come Alex si aspettava. Non aveva un briciolo di moralità e sembrava che per lui la vita dovesse ridursi a una continua successione di esperienze divertenti; tuttavia, il suo cuore, per quanto immorale, era puro. A dispetto della parentela con Delphine, non era un arrogante criminale senza rispetto per la vita umana. Da lui Alex ricevette la rivelazione del secondo mysterion, quello degli Eraclea.

Decisamente quella giornata era stata favorevole. Aveva ottenuto due mysterion e un prigioniero prezioso. Molto presto avrebbe finalmente sfidato il Maestro.

Alex si era gettato sul divano, ma sapeva che non avrebbe dormito. Prima, appena tornato dalla Horizon Cave, era crollato sulla poltrona e forse per la stanchezza di quella interminabile e difficile giornata era sprofondato nel sonno. Aveva dormito per due ore di fila, un miracolo. Per una volta l’incubo - Yuris che gridava nel Grand Stream, il sorriso beffardo di Delphine, la vanship che precipitava nel vortice – aveva tardato ad arrivare.

Da qualche parte della nave, forse l’hangar, veniva la musica di una ballata.

C’era stato un tempo in cui aveva amato la musica, perché a un taciturno come lui permetteva di esprimere ciò che inutilmente avrebbe cercato con le parole; e c’era stato un tempo, dopo la morte di Yuris, in cui l’aveva odiata, perché la musica gli ricordava che era ancora vivo. Adesso, di solito, gli era indifferente, come quasi tutto.

Il flauto che accompagnava la ballata saliva lungo la Silvana come una spirale d’argento.

Certe volte, in particolare dopo aver bevuto, gli pareva che la realtà si sdoppiasse, come un abito e la sua fodera, e che tra il mondo dei vivi e dei morti non vi fosse alcuna barriera, ma si specchiassero l’uno nell’altro.

Adesso alla musica del flauto si sovrapponeva quella di un’orchestra da ballo di dieci anni prima. Sembrava reale, come allora, più reale del flauto e del battito pulsante della nave. Si avvicinava, diventava più forte e avvolgente, mentre lui saliva la grande scalinata verso la luce. C’erano cristalli, lampadari immensi, voci, fiori, strascichi di gonne.

Yuris indossava un abito bianco e i guanti lunghi, tra i capelli i nastri che le aveva regalato lui. Era già bella con la giacca e gli stivali da aviatore: in abito da ballo era un sogno che toglieva il fiato.

“Sei sicuro di saper ballare il valzer, Alexander Row? Non mi farai fare un pessima figura, spero” gli aveva detto, mentre le offriva il braccio per entrare nel salone.

“Dubito che ti importi qualcosa di fare una pessima figura a un ballo.”

“Allora che ne pensi di cominciare subito, amore mio?”

E l’aveva baciato davanti a tutti, alle dame arrossite d’imbarazzo, agli ufficiali impettiti, e anche sotto gli occhi di Marius, il consigliere imperiale, che aveva dovuto fare l’abitudine all’indole ribelle della figlia. Accanto al vecchio tutore, mano nella mano, Sophia ragazzina, incoronata di fiorellini bianchi, sorrideva divertita e affascinata dall’irriverenza della cugina.

Molte altre volte lui e Yuris avevano danzato insieme. Certe sere, a Nordkhia, mentre sistemavano la vanship per il giorno dopo, alla musica di un grammofono scassato che lei, solo lei, riusciva a far suonare a furia di calci, cominciavano a ballare, ridendo come due stupidi perché, sporchi di grasso in quel modo, sembrava buffo stringersi e guardarsi negli occhi. Lei, dopo, cantava la stessa canzone fino a casa, testarda, perché non riusciva mai a ricordarne le parole. Si gettavano nella vasca, si lavavano insieme spruzzando l’acqua dappertutto e non capivano più niente, facevano l’amore fino a sfinirsi. E non si addormentavano mai senza ripetersi ancora una volta che si amavano, che sarebbero stati per sempre l’uno dell’altra.

Le aveva promesso di comprarle un grammofono nuovo per il suo compleanno. Non aveva fatto in tempo a mantenere la promessa.

Yuris, Yuris, amore mio…

Di nuovo al buio, sul divano, con la spirale della musica e anni d’insonnia a pesare sul corpo.

Yuris, amore mio. Com’è possibile amare così tanto qualcuno che non esiste più? Perché si può conoscere quella felicità, nella vita, ma soltanto per un attimo, e poi rimpiangerla per sempre, fino all’ultimo giorno?

O il mio cuore è troppo ostinato?

E perché questo nome – Sophia, Sophia, Sophia - continua ad affiorare dalle mie labbra contro la mia volontà, contro la mia ostinazione?

Come posso lasciare che accada? Tu sei morta, tu non senti più, ed io…



§§§



Nemmeno lui poteva rimanere da solo nella cabina, quella notte.

Salì sul ponte di comando, lontano dalla musica.

Forse non l’avrebbe fatto, se avesse saputo che anche Sophia aveva avuto la stessa idea.

La trovò lì, in piedi alla solita postazione, ed era troppo tardi per tornare indietro.

Lei lo salutò, ma evitò di guardarlo e continuò a rivolgergli le spalle per tutto il tempo, perché quella notte non poteva sperare di trovare dentro di sé anche la forza di nascondere ciò che sentiva.

Alex, osservandola dal seggio di comandante, combatteva coi propri rimorsi.

Il rimorso di sentirsi improvvisamente vivo, lui che non aveva il diritto di vivere, di sentire.

E il rimorso di avere permesso che Sophia si legasse a lui.

Si domandò se gli avvenimenti che stavano per irrompere nelle loro vite l’avrebbero allontanata. Sarebbe stato meglio, pensò. Non doveva seguirlo, e lui non avrebbe mai dovuto permettere che fosse coinvolta fino a quel punto. Sophia meritava una vita migliore di quella che aveva sulla Silvana. E il suo amore, un giorno l’avrebbe donato ad un uomo capace di renderla felice e di starle accanto quando fosse salita al trono. Un uomo più forte di lui e che non le avrebbe mai spezzato il cuore.

Curioso, gli era difficile pensare chi potesse essere, quell’uomo. In realtà, nessuno era degno di Sophia. Lei stessa ancora non si rendeva conto di quanto fosse speciale. Era un sole che non sapeva di brillare.

Toccarla sarebbe stato come sentire il calore stesso della vita. Toccarla, affondare in lei, farsi avvolgere dal suo corpo, posare la testa nel suo grembo.

Dimenticare…

Stava impazzendo: aveva l’Exile a portata di mano, stava per attaccare la Gilda, tra poco l’imperatore gli avrebbe mandato contro mezza flotta, e si faceva prendere da quell’assurda confusione, proprio ora che doveva essere invincibile, nel nome di Yuris e degli amici morti. Si era concesso di vivere fino a quella vendetta. Come poteva essere debole adesso?

Ma quel frammento di pelle scoperta tra il polsino e il guanto del suo vice…improvvisamente aveva voglia di portarlo alle labbra, di baciarlo, di morderlo, di sentire che lei tremava per questo. Maledizione, moriva dalla voglia di farlo.



Segue capitolo 8…



A questo punto, direi che li abbiamo fatti logorare abbastanza. Cominciano ad essere fritti a puntino. Quindi, vediamo che cosa succede.

Prima, però, faccio una pausa e ringrazio chi mi ha letto e ancora di più chi mi ha recensito.

Shatzy e Zoe, siete troppo buone! Vi adoro.

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Capitolo 8
*** 8. Pilota e navigatore ***


8. Pilota e navigatore



Dall’alto della fortezza, aveva atteso la battaglia finale per quasi un terzo della propria vita. Aveva visto cambiare i colori del cielo e girare l’arco luminoso delle stelle, e osservato nel dolore fino a che punto, e con quale miseria, gli uomini fossero capaci di dimenticare. Si era preparato pazientemente, silenziosamente, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, affilando la spada, studiando il campo, calcolando e prevedendo le mosse del nemico, ma per quanto a fondo l’avesse scrutato, quasi trapassandolo, aggredendolo con occhi da rapace inquieto, l’orizzonte era rimasto nudo come una scacchiera vuota.

E lui non si era perso d’animo. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, quella desolazione l’aveva reso più determinato. Mai abbassare la guardia, mai. Disporre le proprie pedine, attendere, osservare. E stringere i denti, restare aggrappato all’ultimo, tenace brandello di vita. Il presidio era tutto. Tutto dipendeva da questo, da quanto avrebbe saputo resistere alla sfida di quella remota desolazione, da quanto sarebbe stato pronto nel momento in cui sull’orizzonte vuoto fosse apparsa la chimera dal volto candido e le labbra di rosa.

Lui contro di lei, e la sua spada temprata, la Silvana, contro il castello di inganni e di illusioni del Maestro. Lei, Delphine, gli aveva conficcato una spina nella carne. Gli doleva, lo torturava, presenza fissa e straziante al centro del suo corpo. Ma quel dolore piantato in lui era la radice dalla quale fioriva la sua forza.



§§§



Da quell’orizzonte, si alzava finalmente un pennacchio di polvere. Alex era pronto a sguainare la spada.

E alla mossa decisiva della partita col Maestro, al punto di congiunzione di tutte le trame, il destino lo intralciava seminandogli davanti le pedine impazzite dei suoi affetti, Sophia, i due ragazzi di Nordkhia, e ora Vincent. Che sciocco era stato, a non pensarci prima!

Saliva al luogo dell’appuntamento con la consapevolezza crescente di aver saputo da sempre, dentro di sé, che sulla via dell’Exile gli sarebbe spettato di difendere la Silvana dai cannoni di Vincent. Era stato un pensiero informe, ma presente, forse pure tra quegli incubi tenaci in cui il passato si distendeva sul presente deturpandolo come una maschera grottesca. Aveva già udito quel sibilo di vento sulla rupe, quel graffiare solitario dei propri stivali sulla pietra nuda, e già sapeva come gli sarebbe apparsa la sagoma bionda e bianca di Vincent e come gli avrebbe sorriso, riesumando l’occhiata allusiva che da ragazzo gli gettava un attimo prima di cominciare l’allenamento di scherma.

Del passato si era ostinato a conservare e difendere solo ciò che era morto e perduto, respingendo come zavorra inutile ciò che di esso rimaneva vivo. Aveva creduto di poter scegliere o scartare i pezzi da disporre sulla scacchiera. Loro, Sophia, i ragazzi, Vincent, il suo passato vivo, non erano previsti nel gioco, perché non erano più parte di lui, così aveva creduto. Ma aveva fatto male i calcoli. La partita col Maestro era soprattutto una partita con se stesso, e loro, nonostante i suoi sforzi per tenerli lontani, appartenevano ancora alla sua storia.



§§§



Da anni, ad ogni incontro, si squadravano con la stessa confidenza di duellanti che avessero una vecchia sfida in sospeso.

Il luogo selvaggio, una torre d’avvistamento diroccata in cima a un picco grigio, desolato, alla fine del mondo, sembrava scelto apposta per un duello. Un vento gelido soffiava da uno degli sbocchi del Grand Stream incombente in alto, al centro del cielo notturno, come un occhio maligno.

“Ci rivediamo, Alex…”

Tutte le volte Vincent cercava, scherzando, di fare il sentimentale e di rievocare i vecchi tempi, ma nemmeno lui era abbastanza illuso da pensare che le cose non fossero cambiate.

Tra di loro c’era un muro che nessuno aveva la volontà o la forza di scavalcare.

Difficile dire se, a costruire quel muro, fosse stato l’incupimento di Alex piuttosto che l’ambizione di Vincent. Ma il cuore, in fatto di amicizia, conosceva crudeli trabocchetti e non risparmiava ad entrambi l’amarezza di vedere nell’uomo presente l’esasperato esito dell’amico di allora, l’amato compagno d’Accademia. Mentre alla luce della torcia raggiungevano la sala maggiore della torre, Vincent sentiva risuonare nel passo indolente del comandante Row, il rinnegato, quello mite e felpato del ragazzo con il quale la mattina scendeva lo scalone delle camerate. E nella percezione di Alex, la risata del comandante Vincent Alzey, astro nascente della flotta imperiale, era soltanto la versione disincantata di quella impertinente e adorabile con la quale da ragazzo sfidava l’ottusa soggezione degli altri allievi e la riservatezza ombrosa del suo migliore amico.

Ma c’era un differenza fondamentale tra loro due: Alex guardava il suo interlocutore attraverso il vetro della consapevolezza. Sapeva, prima di sentirlo, ciò che Vincent gli avrebbe detto. Conosceva, come fosse già avvenuto, l’esito del loro incontro.

E quando, con il conforto bollente del caffè tra le mani, Vincent lanciò il siluro: “Sua Maestà l’Imperatore è preoccupato per il carico. Ho ricevuto l’ordine di portarlo nella capitale e di fare rapporto sui mysterion…” Alex avvertì soltanto il gelido contraccolpo di un tiro che lui stesso aveva fatto esplodere.

E in quel momento, proprio mentre le labbra di Vincent scandivano l’ultimatum dell’imperatore, Alex si trovò a ricordare, in un flash della memoria, una vecchia conversazione tra loro due.

Sentiva risuonare nella testa la voce adolescente di Vincent.

“Io proprio non ti capisco, Alex” gli diceva. “Come puoi preferire le vanship alla flotta imperiale? Com’è possibile che tu scelga di pilotare quella specie di carretta, potendo diventare il comandate di un’intera nave?”

Era stato nell’Arsenale imperiale, poche settimane prima che Yuris cadesse nel Grand Stream. Alex, mezzo rannicchiato sotto la vanship per stringere un bullone, gli aveva risposto scuotendo le spalle.

Ma Vincent, invece di innervosirsi, si era allungato contro la carlinga con fare da sbruffone. “Ho capito!” aveva esclamato. “È per la ragazza. È per lei, vero?”

Dal basso, con un’occhiataccia, Alex aveva bofonchiato: “Secondo me sei diventato scemo.”

“Io? Se il motivo è una donna, posso capirlo. Ma per qualsiasi altro motivo no. Non lo capisco e non lo capirò mai. Lo scemo se tu.”

Alex, così provocato, si era alzato in piedi, si era appoggiato col gomito alla vanship e faccia a faccia con l’amico l’aveva sfidato scherzosamente dicendo: “Vediamo, Vince. Facciamo un’ipotesi. Facciamo che un giorno l’imperatore ti ordini di usare la tua nave per distruggere una città. Non una fortezza, sto dicendo una vera e propria città, con vecchi, donne, bambini. Tu che faresti?”

“Ah, questa è una domanda stupida! L’imperatore non ordinerebbe mai una cosa del genere. Il codice della cavalleria impone che…”

“Sì, lo so. Ma tu che faresti, se ti desse proprio questo ordine?”

“Senza dubbio obbedirei, nell’interesse dell’imperatore e della nazione.”

Alex aveva abbassato gli occhi a terra e cominciato a dare con la chiave inglese che stringeva in mano qualche lieve colpo alla carlinga, come per assecondare col quel ritmo i pensieri che gli scorrevano nella testa. Poi aveva detto: “Bene, Vince. Allora facciamo che un giorno l’imperatore ti ordini di ammazzare una persona che ti è cara. Carichi i tuoi cannoni e comandi di aprire il fuoco sapendo che dall’altra parte c’è qualcuno che ti vuole bene.”

Vincent era esploso in una risata incredula. “Questa sì, è una domanda cretina. Sei un caso disperato. Non posso credere che sia questo il motivo per cui hai mollato tutto.”

Alex non si era unito alla risata; al contrario, aveva preso un’espressione seria, tesa, e la chiave inglese aveva aggiunto una nuova sequenza di colpetti sul metallo.

“Vince, sai qual è la regola più importante per quelli che volano con le vanship?”

Sulla risata di Vincent il tono grave di queste parole era caduto come una doccia fredda. Aveva taciuto, tuttavia, perché capiva quando Alex stesse per aprire la scorza del suo cuore.

“Il navigatore non abbandona mai il suo pilota; il pilota non abbandona mai il suo navigatore” aveva detto Alex.

E aveva chiuso la frase con uno di quegli sguardi intensi e disarmanti dai quali Vincent aveva da tempo perso la speranza di riuscire a rimanere indenne.

Strano come ora il dilemma che Alex aveva posto all’amico si stesse realizzando. Forse Vincent aveva dimenticato quella vecchia conversazione. O forse si trovava lì per dimostrargli di non temere la propria risposta.

In ogni caso, anche Alex aveva già deciso.

“Non posso consegnarti il carico” rispose.

Vincent sgranò gli occhi. Nel suo smarrimento momentaneo, tuttavia, e nello sguardo remoto che lo seguì, Alex trovò la certezza definitiva che Vincent non avrebbe avuto alcuna pietà per nessun membro dell’equipaggio della Silvana, che si trattasse di un vecchio amico o della figlia dell’imperatore che gli stava al fianco come vice.

Da quel momento una sensazione gelida, metallica si insediò nella gola di Alex. Sotto gli stivali, mentre tornava alla vanship da carico, la roccia sembrava diventata vischiosa, molle.

Vincent avrebbe concentrato tutta la sua determinazione nello sconfiggere la Silvana. Non l’avrebbe fatto per la fedeltà all’imperatore e nemmeno per l’ambizione, ma soprattutto per rimarginare la ferita infetta che da molto tempo Alex aveva inflitto al suo orgoglio di uomo e di soldato mettendo in crisi i suoi valori, la sua fiducia in se stesso e il suo antico affetto per l’amico. Vincent aveva scelto.

Ma Alex avrebbe giocato a modo suo, secondo regole e principi che niente avrebbe potuto modificare. Quella che stava per compiere sarebbe stata la sua mossa, a qualsiasi costo.

Il pilota non abbandona mai il navigatore, il navigatore non abbandona il pilota.

E i vecchi amici non si uccidono.



§§§



Sophia rabbrividì nel vento gelido che spazzava la piattaforma di atterraggio della nave.

Le luci lampeggianti della vanship da carico apparvero nella lontananza fredda e plumbea del cielo notturno. Alex tornava.

Sembrava che dalla sua partenza poche ore prima fosse passata un’eternità. Sophia aveva sofferto. Al buio, nella cabina del comandante, senza il timore che lui la sorprendesse, si era trovata ad assecondare il dolore fisico nel quale si era addensato il desiderio per lui. Era stato come farsi dilaniare viva da una belva. Da quando era salita a bordo della Silvana, e prima, dall’istante in cui ancora ragazzina aveva cominciato a sentire che la propria anima si tendeva naturalmente verso quella di Alex, da allora non aveva mai provato un dolore così intenso ed una confusione così devastante.

E non soffriva soltanto perché lui non ricambiava il suo amore. Sophia sentiva di aver toccato quel fondo verso il quale aveva cominciato a cadere tanto tempo prima. Si era affacciata sul precipizio il giorno in cui aveva conosciuto Alex, il giovane pilota innamorato di Yuris, e poi non aveva fatto altro che cadere, cadere senza sosta. Come Yuris nel Grand Stream.

Aveva toccato il fondo ed era perduta. L’impatto aveva disintegrato la donna forte, sicura, affidabile. Non c’era il vice inflessibile, la persona sulla quale tutta la nave poteva contare nei momenti di crisi. Al suo posto era rimasta una ragazzina fragile e sciocca, che non aveva saputo resistere al fascino del suo superiore di grado e che si era nascosta sulla Silvana perché aveva paura del mondo. Così credeva. Aveva fallito, perché non era forte. Non era altro che uno stendardo strappato, sbattuto dal vento.

E non la confortava il fatto che Alex stesse tornando.

Lui, la sua presenza fisica, non faceva che ribadire la sconfitta di Sophia su tutti i fronti.

Era smarrita. A peggiorare il suo stato, il messaggio di Marius arrivato quella notte l’avvertiva che l’imperatore era infuriato con il comandante della Silvana e che attendeva da lei una prova di fedeltà.

Fedeltà. A chi? A un uomo che non conosceva, che aveva incontrato soltanto in occasioni ufficiali e che non le aveva mai dimostrato né fiducia né affetto? A un vecchio che stava lentamente affondando nella follia del sospetto e della sete di dominio?

Oppure ad Alex, che in nome di quella parola, fedeltà, stava distruggendo la propria vita?

La vanship del comandante spalancò il bozzolo di nubi nere che aveva avvolto la Silvana e atterrò a pochi metri da Sophia. Lui era di nuovo a bordo della nave. Saltò sulla pista, le camminò incontro, forte e solido come sempre, per turbarla, per travolgerla con la sua presenza troppo seducente, il fruscio dei suoi abiti, il suo odore sfuggente.

Pensare che tutti lo consideravano un rinnegato, un uomo senza onore. Lei, di quelle parole astratte sulle quali si fondava il codice della cavalleria - fedeltà, onore, fiducia - aveva cominciato a comprendere il significato soltanto accanto a lui, vedendo come diventassero sacrificio, anima, alimento della vita, e come potessero plasmare un corpo, uno sguardo, un gesto nella stessa maniera in cui il fuoco di una fornace plasma e tempra la lama di una spada.

Fedeltà. L’àncora che le impediva di affondare, il filo tenace che continuava ad unirla ad Alex nonostante il naufragio del suo cuore di donna.

Alex, aiutami. Sono sola, come te. Ma io non ti abbandonerò mai. E chi sosterrà me, chi mi conforterà, in questo cielo?



§§§



Quando sul ponte comunicò che la Silvana avrebbe affrontato la Urbanus in battaglia, Alex avvertì distintamente lo smarrimento nel cuore di Sophia.

La conosceva troppo bene per non sapere che proprio quando sembrava debole e incerta e il suo corpo perdeva la rigidezza dell’ufficiale per ritrovare la morbidezza della donna, Sophia diventava più forte, come se da quel tremare nascosto, da quel soffrire timido scaturisse come un’energia la sua capacità di comprendere più a fondo la natura del mondo.

Ma Alex si augurò che questa volta la battaglia contro l’imperatore la costringesse ad abbandonarlo e a lasciare la solitaria lotta della Silvana per tornare alla sicurezza della Capitale. Doveva andarsene ora, e sarebbe stata la scelta più assennata.

La sentiva troppo turbata per permetterle di restargli accanto. Prima, nell’ascensore, quando lo sbalzo di potenza della claudia aveva fatto sussultare e oscurare la nave, gli era caduta addosso ed era rimasta per tutto il tempo con la testa contro il suo petto. Non aveva mai fatto una cosa del genere. Non si erano mai toccati così. E lui non aveva mai provato la sensazione della sua testa, la sua fronte, la sua guancia, appoggiata esattamente dove gli batteva il cuore. Sembrava, piccola e indifesa contro il suo corpo, un uccellino impaurito.

Stringerla a sé era fuori discussione. Lei era il suo vice, maledizione.

In ogni caso, pensava Alex, quello non era il momento adatto per assecondare simili debolezze. La Urbanus arrivava, Alex era già tutto proteso verso la battaglia che avrebbe deciso il suo destino.

“Comandante, posso parlarle?” chiese Sophia.

Uscirono dalla sala del ponte di comando, chiudendosi la porta dietro le spalle perché nessuno li udisse. Sophia lo affrontò, improvvisamente risoluta. Gli chiese spiegazioni. Ne aveva tutto il diritto. Alex tradiva l’imperatore, lei era figlia dell’imperatore. In fondo, Sophia stava mettendo in gioco molto più di lui, con quella battaglia.

Le rispose freddamente che non era obbligata a rimanere sulla Silvana.

Alex non aveva altro da aggiungere. Si voltò per tornare sul ponte, impugnò la maniglia della porta.

“Aspetti!” gridò lei, e con uno scatto gli trattenne la mano tesa sulla maniglia.

Alex la fissò diritto negli occhi. Si toccavano, un’altra volta, la mano nuda di Sophia avvolgeva la mano guantata di Alex.

Lei abbassò lo sguardo, solo per un attimo, e quando lo rialzò aveva il volto contratto, indignato. Non era facile, per lei, sostenere gli occhi di Alex, così fermi nella richiesta di spiegazione per quel comportamento. Ma dal suo volto sorgeva una nuova determinazione, qualcosa di inarrestabile e avvolgente, come il calore che la sua mano trasmetteva al corpo di Alex attraverso la stoffa nera del guanto.

“Sono il suo vice-comandante. Non lo dimentichi!” disse Sophia con forza, come un rimprovero per aver dubitato di lei.

Il colpo scoccato arrivò a segno. Alex vide l’attimo preciso in cui forava la corazza e lo colpiva con una potenza alla quale non era preparato. Restò senza fiato, accogliendo le inaspettate risonanze del colpo nella sfera metallica in cui fluttuavano nascosti ricordi ed emozioni.

Qualche settimana prima aveva sognato di amarla.

Su di lui, nel suo abbraccio, dentro l’onda scintillante dei capelli di cui percepiva l’odore con troppa nitidezza, avevano brillato quegli stessi occhi verdi e puri e quella rivelazione immensa che all’improvviso emanava dal suo sguardo come il sorgere di un nuovo sole.

Yuris non c’era.

Aveva desiderato inconsapevolmente che Sophia, prima o poi, si ribellasse e, trovando il coraggio di puntare gli occhi nei suoi, mettesse a nudo la sua fragile e disperata lotta per cancellare da se stesso la vita e la passione. Lo sfidava, alla fine.

Con quegli occhi, con quella indignazione, gli stava dicendo che non era solo, che non aveva lottato inutilmente, che l’avrebbe seguito in capo al mondo perché si fidava della fermezza del suo cuore.

Lei, il suo vice, non gli rimaneva accanto perché l’amava, ma perché si fidava di lui. Contro ogni logica si fidava di Alex Row il rinnegato, il traditore, e dichiarava guerra al resto del mondo.

Oh Sophia…

Qualcosa che a stento riusciva a riconoscere dentro di sé, caldo, confortante, e che un tempo aveva chiamato gioia si propagava da quella rivelazione. Se solo per un momento avesse potuto sciogliere la maledetta flemma e passare oltre il vetro e sfiorare non la sua fronte, il suo collo, le sue labbra, ma l’anima splendente che su quelle labbra sbocciava come un fiore d’ulivo fecondo e delicato!

Ma non poteva, non avrebbe mai potuto.

Avvertiva ancora la mano di Sophia oltre la stoffa del guanto. Sorrideva impercettibilmente.

Era proprio vero: il navigatore non abbandona mai il suo pilota.



Segue capitolo 9…



Questo capitolo non racconta molti fatti che non ci sono nell’anime, però dice cose importanti e alla fine dovrebbe avere un unico significato di fondo. Non era facile da scrivere. E poi Alex è un pozzo senza fondo. Ora, però, col prossimo vorrei aprire le danze. Non arrendetevi! Alla fine ce la farò a commuovervi!

Grazie, grazie ancora delle belle recensioni e della vostra tenacia. *_*

Zoe, sui capelli non mi esprimo. Aspetta e vedrai. Grazie per essere tornata addirittura a recensire due volte!

Shatzy, su Marius hai ragione, ma in quel momento, dove dico che gli ha mandato Sophia sulla Silvana per torturare il suo comandante, sto facendo parlare la rabbia di Alex. Comunque è fantastico come tutte le volte mi analizzi ogni cosa, mi aiuta tantissimo a rivedere quello che ho scritto. Ti vorrei commentare tutto quello che mi hai scritto, ma non finirei mai. Grazie ancora!

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Capitolo 9
*** 9. Sul precipizio ***


9. Sul precipizio



A occhi chiusi.

Un deserto bianco, levigato, cieco d’orizzonte.

Niente, nessuna forma, nessun rumore. Silenzio immacolato.

Nemmeno i passi sulla roccia. Corpo immobile, spirito dormiente.

Poi nel vuoto delle orecchie, drop.

Una goccia cade assordante. Una goccia di mercurio nel latte. Grigia, lucida, pesante.

Drop.

Una goccia di metallo grigio.

Onde di bianco che si propagavano intorno, densi cerchi di latte.

Drop.

Precipitare.

Sophia spalanca gli occhi.

Il tuono esplode. Il boato mostruoso squassa la nave, tutto sembra squarciarsi, il metallo, il vetro, la carne, il petto, i denti, le orecchie. Rimbomba nelle profondità, la nave geme, cigola da poppa a prua, come un corpo torturato.

S’inclina, in bilico nel cielo, e cade, cade, risucchiata in basso, nelle nuvole dense, mercurio nel latte.

Sul ponte di comando le pareti si rovesciano, il pavimento pende, sobbalza – esplosioni, colpi sulla corazzatura – Wina si aggrappa al sonar, Giese rannicchiato stringe la testa tra le mani, Campbell miracolosamente in piedi combatte col timone, Alex accanto gli grida ordini nelle orecchie, barcollando quando un altro masso si schianta sulla nave.

Sophia scandisce ordini dentro l’interfono, piegata, avvinta al tubo di bronzo.

Nel fragore assordante delle nubi e della roccia esplosa, la Silvana ferita affonda.

Un altro colpo, più forte, una vertigine.

Sophia sta per cadere. Un mano le afferra la mano.

Alex.

Alla fine di tutto è il precipitare.

All’inizio di tutto è il precipitare.



§§§



L’immenso stridio del metallo strofinato sulla roccia perforava le orecchie e non terminava, era il grido della Silvana ferita, sbattuta sul costone, tirata in basso dai cavi d’ancoraggio delle navi affondate, percossa e frustata dai massi che le precipitavano addosso.

E scintille, metallo fuso, fuoco, vapore si alzavano nell’impatto come pennacchi incandescenti da un vulcano in esplosione, sprizzavano verso le nuvole spesse, illuminavano in sprazzi disperati l’aria cieca della gola chiamata Zanna del Drago. Tutto tremava e gridava.

La Silvana scendeva, scendeva stridendo, sempre più in basso. Le navi nemiche esplosero come bicchieri.

Poi all’improvviso, la caduta si arrestò, passò l’onda dell’ultima esplosione, e dopo un fruscio scese il silenzio.

Ognuno era pietrificato nella propria postazione.

I meccanici stravolti sul fondo dell’hangar. I fucilieri con gli occhi sbarrati. Gli artiglieri scuri di polvere, fradici di sudore e vapore. Alis con la testa tra le ginocchia, disperata per la sorte di Tatiana Wisla. La piccola Hamilton tremante su Lavie svenuta.

Non aspettavano niente, eppure non si muovevano.

Poi dall’oscurità della gola, un suono che gelava il sangue: l’eco dei lamenti dei feriti sopravvissuti all’esplosione delle navi Urbanus abbattute.

“Ne abbiamo uccisi a centinaia…” mormorò Sophia.

Il comandante, con una voce bassa e fredda, ordinò: “Sophia, voglio un rapporto immediato su danni e perdite.”



§§§



Molte ore dopo, uscendo dall’ascensore sulla piattaforma inferiore della nave, Sophia, che camminava come sempre dietro al comandante, sorprese Alex a sfiorare fugacemente la parete di metallo. Sembrò che sotto il guanto la superficie levigata rispondesse al suo tocco con una pulsazione speciale, da amante confidente, come una fanciulla che arrossisce per una carezza inaspettata.

Sophia sorrise. Da dettagli come quello capiva quando Alex era soddisfatto. La Silvana non mollava mai, tenace, ostinata, proprio come lui. Era invincibile. Attaccata come un lupo dai mastini dei cacciatori, aveva distrutto da sola quattro navi nemiche, prima di affondare sotto le nuvole. E ora, rannicchiata sul fondo nebbioso della Zanna del Drago, si leccava le ferite, ma preparandosi a rinascere più forte di prima da quel labirinto di roccia.

Tutto si era concluso nel migliore dei modi per lui. Alvis Hamilton, la chiave dell’Exile, era rimasta a bordo, Vincent si era salvato sulla Urbanus intatta. Di questo Sophia era particolarmente grata al comandante: che non avesse ordinato di usare i proiettili perforanti contro la nave di Vincent e che avesse esposto se stesso al rischio di essere distrutto o catturato piuttosto che cercare di uccidere il vecchio compagno. Provava tenerezza immaginando l’espressione sconfitta di Vincent e la smorfia amara che aveva sicuramente soffocato il suo sorriso brillante.

In ogni parte la nave rimbombava di crepitii da fiamma ossidrica, di colpi di martello, di ronzii più o meno forti di cavi riavvolti, di gru che ruotavano e sollevavano, di manovelle e cardini in scorrimento. Si staccavano le piastre della corazzatura esterna mezza distrutta dall’assalto della flotta Urbanus.

Comandante e vice erano scesi sulla piattaforma metallica sospesa in fondo alla nave per visionare dal basso lo stacco della corazzatura. Sophia inorridì. Da quella angolatura e distanza, i danni sembravano spaventosi. Sopra di loro, lo scheletro metallico della Silvana si spalancava esposto come l’immenso ventre di una creatura, al posto delle ossa un labirinto di barre d’acciaio incrociate, qua e là fiammeggianti per i lavori di riparazione. Le piastre esterne non ancora staccate erano sventrate da squarci lunghissimi, i cui bordi frastagliati erano stati in parte fusi dalle lame con le quali le navi nemiche avevano ferito così profondamente la nave.

In basso, sporgendosi verso l’abisso al bordo del quale la Silvana aveva trovato un appiglio e il termine della caduta, si stendeva la desolazione della Zanna del Drago, un paesaggio sinistro perennemente oscurato da nuvole grigie e dense che impedivano di distinguere il giorno dalla notte. Tra le rocce spoglie affioravano i relitti delle due navi Urbanus che legate alla Silvana con i cavi di ancoraggio erano affondate trascinandola con sé.

E ovunque, come una festa eccessiva e surreale, i fuochi d’artificio delle scintille che le fiamme ossidriche facevano sprizzare dalle piastre di metallo.

“Lei crede che torneranno, comandante?” disse Sophia. “Sarebbe orribile se Claus e Tatiana si perdessero in questa desolazione.”

Sul volto di Alex si posavano i riflessi lampeggianti delle scintille in movimento. A tratti i suoi occhi affilati risplendevano, svelando una sensualità sfumata troppo pericolosa per lo sguardo di una donna innamorata come era lei. Sophia si allontanò rabbrividendo.

“No, torneranno” rispose Alex. “La Wisla conosce a memoria il territorio e Claus non si arrende mai, come suo padre.”

Sophia raggiunse l’orlo della piattaforma e vi si sporse leggermente. Tra lei e il grigio cupo e gelido del precipizio, le scintille piovevano dalla corazzatura come un velo dorato. Con il cuore tremante, udì i passi sonori di Alex che la seguivano e si fermavano alle sue spalle. Festoni di luce scendevano frusciando davanti a loro, esplodevano e svanivano a intermittenza, sfolgoravano più luminosamente prima di dissolversi nell’oscurità spaventosa, scintillanti ali di farfalla, luce vana e splendida nel vuoto.

Alex era proprio dietro di lei, talmente vicino da sfiorarla con il corpo. Sophia ne percepiva il respiro sulla nuca piegata in avanti, verso il nero precipizio.

Rabbrividì ancora.

Sapeva che i suoi occhi la guardavano dall’alto, li sentiva sulla nuca, sulla peluria fine e bionda alla base dei capelli ora intirizzita dal brivido che le attraversava il corpo. Si vergognava di quello sguardo, ma non riusciva a muoversi.

“Hai freddo, Sophia?” Il suo respiro le scendeva sulla nuca come neve soffice, miracolosamente calda.

La voce le mancò. Avrebbe voluto scappare e piangere, o almeno posare una mano sul cuore per provare che batteva ancora. Ma era paralizzata. Il cuore era paralizzato, e l’aria, la nave, il tempo, tutto il mondo fermo in un istante che non doveva essere, non aveva senso nella realtà, ma soltanto nei sogni. Fece forza sulle labbra, le costrinse a muoversi. Riuscì a non balbettare e sorprendendosi di se stessa rispose:

“Non è domanda da porre al proprio vice, signore.”

Nelle sue intenzioni doveva essere una risposta ironica, come di consueto.

Ma Alex non sorrise. Per qualche istante il respiro continuò a posarsi sul collo di Sophia, regolare, vicino, intimo.

“Non è al mio vice, che ho rivolto la domanda” disse.

Erano già uniti in una sola forma, su quel lembo di nave sporgente nel vuoto, incorniciati dalla pioggia di fiammelle che scendeva con magica lentezza.

Sophia si voltò. Non ruotò il corpo, ma soltanto il collo, sollevando la testa all’indietro. Bastò questo lieve movimento per sentirsi avvolgere dal suo calore, la schiena contro il petto di Alex. E lui le prese il mento con la punta delle dita, chinò il capo, avvicinò le labbra alle sue, lentamente.

Fu una carezza di labbra dischiuse.

La sfiorò, con una tenerezza immensa, struggente, condensando in quel passaggio pur così lieve tutto il desiderio che provava per lei.

Staccò la bocca, come sorpreso da ciò che aveva osato fare, e cercò nei suoi occhi il coraggio di continuare. Si avvicinò di nuovo, toccò le sue labbra con un bacio piccolo, breve come una delle scintille che punteggiavano l’aria, e poi con un altro e un altro e un altro ancora, e lei gli rispose, toccando, assaggiando, baciando dove lui la cercava. E mentre univano le bocche immergendosi nel bacio, sempre più avidi di quel sapore e quella morbidezza che provavano per la prima volta, non si accorsero che tutto era già dimenticato, paura, colpa, sofferenza, perché non esisteva altro che il bisogno di quella bocca, e di morirvi dentro, e di cadere l’uno nell’altra.

Sophia fluttuava. Quando sentì entrare dolcemente la punta della sua lingua tra le labbra, emise un gemito, tremò sulle ginocchia, e lui non la lasciò cadere, la strinse più forte, costringendola a disperdere nella sua bocca ogni esitazione. Lei non ebbe più paura. Lasciò che affondasse nel suo bacio. Adesso l’uomo che amava non era più un’immagine inaccessibile, un corpo che incombeva per turbarla, ma finalmente calore, respiro, saliva, e carne che si scioglieva insieme alla sua. Avrebbe potuto gridare e poi morire di felicità, perché non aveva immaginato che questa metamorfosi fosse tanto meravigliosa.

Era dispotico, il modo in cui Alex la prendeva. Sophia sentiva come una necessità che quelle labbra tenere e forti, quelle mani sicure dovessero invaderla, usarla, violarla. E ciò che rendeva la sua gioia quasi insostenibile era l’immediata certezza che Alex aveva desiderato quel bacio quanto lei.

Ma capirono di non essere soli. Come destati da un sogno, udirono passi risuonare sulla piattaforma di metallo. Qualcuno li guardava.

Troppo tardi per nascondersi. Si staccarono, confusi.

Ethan e Mullin stavano impietriti e a bocca aperta all’uscita dell’ascensore.

Sophia arrossì. Alex sollevò la testa nel solito atteggiamento di comando e con perfetta indifferenza domandò che cosa fossero venuti a fare laggiù. Non aveva intenzione di intimorirli, ma i meccanici scattarono sull’attenti con un’espressione tutt’altro che rilassata e Ethan, balbettando d’imbarazzo, rispose:

“Signore, è stato lei a chiederci di avvertirla quando fosse stato possibile ispezionare le riparazioni al timone.”

“Giusto, il timone…” disse il comandante.

A Sophia rivolse una rapida occhiata, nella quale non vi era più traccia di turbamento. Con la testa accennò a muoversi. Bisognava tornare alla realtà. La nave non poteva attendere.



§§§



Dalle nuvole scure che nella notte si erano allentate come un tessuto logoro, finalmente scendeva un riflesso della luce del mattino, giallo, persino tenuemente dorato, che dissolveva in chiazze biancastre i fanali accesi della Silvana.

Alex, in piedi davanti all’oblò della sua cabina, osservava distrattamente le sagome sfuocate della Zanna del Drago. La sera prima Claus e Tatiana erano tornati a bordo della nave sani e salvi, senza nemmeno un graffio. Alex aveva provato una sensazione indefinibile, vedendo di nuovo riuniti Claus e Lavie davanti alla vecchia vanship. Una sensazione gioiosa e terribile, perché gli aveva portato la certezza che in loro due riconosceva qualcosa che lui e Yuris erano stati insieme, due cuori liberi e uniti, legati in volo come le ali di un unico corpo.

Se chiudeva gli occhi, l’incubo tornava sempre, puntuale e ostinato, la vanship, Yuris, il Grand Stream. Ma adesso, se li apriva, vedeva la vanship, i due ragazzi e i loro volti protesi verso il cielo nello stesso sogno di nuvole e azzurro che un tempo era stato il suo.

Aveva di nuovo evitato Sophia.

Non perché l’aveva baciata e stretta tra le braccia. No, sarebbe stato più semplice.

La evitava perché quel bacio era stato troppo vivo, sensuale, intenso, troppo folgorante rispetto a ciò che poteva concedere a se stesso.

La desiderava da tempo, forse da sempre, e ormai doveva accettare questa realtà nella sua vita. Ma fino a quel bacio aveva potuto illudersi di controllarla senza sforzo eccessivo, come riusciva a controllare ogni altro aspetto di quell’esistenza programmata che aveva finalizzato alla distruzione del Maestro. Di quel desiderio, fino ad allora, non aveva avuto piena coscienza.

Adesso, invece, lo torturava. Quel bacio gli aveva aperto gli occhi. Lei si era annidata nel suo cuore e da lì stravolgeva ogni parte del corpo. Gli strumenti del suo potere erano molti, una bellezza morbida e timida che lasciava senza difese, un animo nobile e comprensivo, e persino la vibrazione sottile ma sempre presente di un passato che s’intrecciava con il suo, dei ricordi che condividevano, del dolore comune, delle poche gioie che avevano provato insieme.

E tra quelle gioie, il bacio.

Rincorreva e respingeva la traccia del sapore di quelle labbra meravigliose. Quella carnosità che lo accoglieva appassionata, quella bocca perfetta, che si era appoggiata alla sua come se fosse stata creata soltanto per questo. E il modo in cui gli aveva risposto quando la sua lingua l’aveva invasa, e il languore, e il corpo soffice che non chiedeva altro che di essere percorso dalle sue mani. La voleva ancora, e voleva di più.

“Escluso!” esclamò.

Gli parve che la parola cadesse come un globo di vetro sul pavimento e si disintegrasse.

In quello stesso istante Claus Valca bussò alla porta ed entrò per fare rapporto al comandante.



Segue capitolo 10…



Non credevo che fosse tanto difficile raccontare un bacio!

Grazie di nuovo per le recensioni. Vi adoro sempre di più.

Anche se vi sto facendo logorare quanto i due protagonisti della storia.

Shatzy, la tua recensione era più lunga del capitolo! E perfetta come al solito nelle interpretazioni.

Specifico: quando il giovane Alex dice “il pilota non abbandona il suo navigatore ecc.” vuole dire anche che ci sono valori più forti della cavalleria, l’amicizia, la fiducia, ai quali non potrebbe mai rinunciare. Ecco perché l’episodio gli torna in mente quando incontra Vincent: sa che, nonostante tutto, la legge del suo cuore gli impedirà di uccidere Vincent. Inoltre, Sophia adesso è ciò che Yuris era un tempo: il vice sta al navigatore, come il comandante sta al pilota. Quindi, si è stabilito con Sophia lo stesso rapporto di fedeltà reciproca che c’era con Yuris.

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Capitolo 10
*** 10. Addio ***


10. Addio



Alex raggelò gli ufficiali del ponte comunicando che intendeva attaccare il Maestro subito dopo il completamento delle riparazioni alla corazzatura.

A bordo della nave non c’era nemmeno una persona che provasse un briciolo di simpatia per la Gilda (giacché ormai nemmeno il Principal suo illustre rappresentante, Deeo Eraclea, mostrava né un particolare desiderio di tornare a casa né qualche forma di affetto per la potente sorella). E tutti sapevano che Alex odiava Delphine e che l’unico scopo per il quale la Silvana percorreva i cieli di Prestel – e per cui ognuno di loro riceveva una ricca paga – era quello di trovare uno spiraglio nell’immensa potenza tecnologica della Gilda e di farvi passare la maggiore quantità di fuoco e distruzione.

E nonostante questo, se con la stessa gelida flemma il comandante avesse scagliato una granata carica tra le gambe degli ufficiali – via la linguetta, tonfo dell’ordigno sul pavimento di legno, suo rotolare e sequenza interminabile di secondi nel panico generale – avrebbe ottenuto lo stesso effetto.

Sembrava che Alex ci godesse a fare certe sorprese.

Intanto, nel modo più spettacolare, la Silvana, acciaccata ma solida come sempre, era emersa dalla Zanna del Drago ed era tornata in quota. E perciò, a compensare lo sgomento che gli ordini di Alex avevano procurato all’equipaggio, seguì l’orgoglio di sentire che la lucente sagoma solcava nuovamente il cielo. Con essa, le scie delle vanship mandate in esplorazione che come fili d’argento si staccavano dal corpo corazzato della nave-madre.

Alex stesso era animato da un’energia – riconoscibile dall’espressione assassina degli occhi – che come un’onda dall’orlo tagliente si trasmetteva a tutti i suoi uomini attraverso la raffica di ordini che continuava ad impartire.

A tutto questo si aggiungevano lo sgomento e l’eccitazione prodotti da una strana voce che dalla sera precedente girava per la nave. Si diceva che due meccanici avessero sorpreso comandante e vice mentre se la spassavano sulla piattaforma inferiore, non a caso il posto più isolato della Silvana.

La voce pareva del tutto inverosimile. Il tenente-colonnello Sophia Forrester svolgeva i suoi doveri di ufficiale con la compassata dolcezza di sempre.

E quanto al comandante Row - inutile dirlo – continuava ad esprimere la stessa quantità di sentimento di una batteria di cannoni. O forse meno.



§§§



Era già buio, nella cabina. Il cielo oltre l’occhio tondo dell’oblò si spegneva come la fiamma azzurra di una vecchia lampada a gas.

Allo specchio c’era una giovane donna con gli occhi mesti di un pianto che non si scioglieva. Aveva cominciato a scrivere una lettera, l’aveva interrotta quando una macchia d’inchiostro aveva sporcato la carta immacolata. Era rimasta immobile, inebetita dal ronzio della nave.

La notte prima non aveva dormito. Come avrebbe potuto? Non aveva fatto che rigirarsi tra le lenzuola, stringere il cuscino, lacrimare, ridere, sognare ad occhi aperti, mentre il cuore batteva forte e la speranza le faceva attendere il mattino con la trepida eccitazione di una sposa che aspetta il giorno delle nozze. Ma al risveglio non era andata incontro a uno sposo dagli occhi teneri. Quelli di Alex non l’avevano cercata, e sulle labbra non c’era traccia del dolce desiderio che l’aveva unito a lei in quei pochi attimi di felicità.

Si poteva impazzire per questo. Provare quella gioia, affondarvi dentro, e poi perderla come uno di quei sogni in cui di notte Sophia s’infiammava e si estingueva per poi svegliarsi piangendo e con l’angoscia di averne perduto il ricordo. Forse era stato un sogno, e quel calore, quelle labbra a contatto col suo corpo non erano mai esistiti.

Portò le dita alle labbra, dove la bocca di Alex si era appoggiata alla sua. Bruciava ancora sulla pelle che sembrava diventata più sensibile. No, non era stato un sogno. Non avrebbe provato adesso quel desiderio di colmare il vuoto del distacco improvviso, come una coppa d’acqua sottratta a un assetato.

Non trovava il coraggio di andare nella sua cabina e parlargli. Come avrebbe potuto?

In quello stesso istante Alex soffriva, ma non per lei.

Claus era entrato come una furia nella sala di comando agitando una fotografia tra le dita. Sebbene aggredito, il comandante gli aveva inspiegabilmente concesso un colloquio privato. Soltanto Sophia ne aveva capito la ragione.

Le sembrava di vedere Alex nella poltrona come svuotato dalle forze, ne sentiva la voce mentre raccontava a Claus quella parte di passato che aveva condiviso con suo padre e a chi appartenesse la vanship. Percepiva, come se fosse presente, la sofferenza sorda che vibrava nelle sue parole. A pochi passi da lei, nella cabina del comandante, il passato e il presente si stavano toccando.

Era inevitabile, d’altra parte. Tutto continuava a mescolarsi e a sovrapporsi, presente e passato, le grandi battaglie e le piccole lotte, come per un progetto misterioso, e forse anche lei, senza saperlo, mentre soffriva di quel sentimento senza speranza che univa il dolore di Alex al suo, era parte di una storia più grande della quale non vedeva i confini, ma che agiva su di lei come un ingranaggio silenzioso e la muoveva verso un destino ancora sconosciuto.

Forse, prima o poi, avrebbe sentito scoccare quel meccanismo dorato, per accorgersi che la sua vita e le sue sofferenze avevano un senso e uno scopo. Sarebbe stato consolante, quella consapevolezza, e scoprire che non era tutto vano, non era soltanto sabbia mossa dentro la clessidra. Il destino di Alex era una linea bianca e netta. Per lui tutto si sarebbe compiuto nel momento in cui avesse ucciso Delphine: un attimo, e lo scatto del grande meccanismo si sarebbe sovrapposto alla sintesi di tutta la sua vita, e una cosa avrebbe dato senso all’altra.

Ma per lei? A che cosa puntava la sua vita, a quale momento di felicità, che potesse rispecchiarsi in qualcosa di più grande?

Ogni cosa sembrava inutile. Soffriva, ma per nulla. Eseguiva, obbediva, comprendeva, ma senza riuscire a cambiare il cuore della persona alla quale era destinata quella devozione. E mentre le persone che amava – Alex, Marius – sacrificavano la propria vita al cambiamento del mondo, lei non era capace di superare l’orizzonte basso del proprio desiderio.

Ma come poteva dimenticarlo? L’abbraccio di Alex era stato la cosa più bella che avesse mai provato nella vita. Le era parso quasi di disintegrarsi in lui, nel calore che l’aveva avvolta, in quel vago profumo che non riusciva a definire, virile, confortante, quasi paterno…

Toc, toc.

Qualcosa bussava contro il vetro dell’oblò.



§§§



Per chi ha conosciuto grandi sogni e li ha visti frantumarsi nella crudezza di un momento, osservare l’aspetto che la delusione prende sul volto di un ragazzo, con l’aggravante di esserne la causa, aggiunge al vecchio carico di amarezza un peso quasi intollerabile.

Alex, poi, aveva perso, o forse non aveva mai posseduto, la capacità di trovare auto-giustificazioni nel destino o nel male di cui lui stesso era stato vittima. Aveva dovuto ingannare Claus - non si era divertito per niente a farlo - ma l’aveva comunque ingannato.

Nel peggiore dei mondi possibili si feriscono le stesse persone alle quali si intende fare del bene, e quello in cui esisteva Delphine Eraclea, padri morivano lasciando bambini di cinque anni, donne innamorate precipitavano da 20000 metri, amici si prendevano a cannonate e fanciulle dalla pelle delicata come latte nascondevano il corpo in scure divise tra pareti di metallo, era un mondo che senza dubbio apparteneva alla categoria.

Nel peggiore dei mondi possibili un bacio faceva soffrire e precipitare in una voragine di rimorsi. Per Yuris, la cui memoria aveva tradito, e per Sophia, che si stava immolando a qualcuno ormai incapace di amare.

Rimorso inutile, come la rabbia che provava adesso contro se stesso e Sophia, differente dall’unico sentimento ancora concesso, l’odio che lo conduceva diritto verso il Maestro come la freccia al bersaglio.

Non aveva chiesto che salisse a bordo, non era stato lui a volere che Sophia lo tentasse né che fosse sempre così perfetta, così in accordo con tutto ciò che lui era, pensava, voleva, e persino con le proporzioni del suo corpo, con il ritmo del suo respiro e ora con la forma e la consistenza delle sue labbra.

Ma era colpevole. E lei era colpevole. Pretendeva che fosse tanto facile soccombere alla dolcezza dei suoi occhi e contemporaneamente tollerare il dolore di essere vivo al posto della persona innocente che aveva amato?

Ma morire non era il male peggiore. Più atroce era vivere essendo già morti e subire i canti di sirena della vita sapendo di non poterne più godere.

All’improvviso il bacio di Sophia non gli appariva più vivo dell’ultimo bacio di Yuris. Comprese con orrore che ciò che sentiva bruciare sulle labbra erano entrambi, l’uno sovrapposto all’altro, e che il secondo e più recente aveva risvegliato il primo.

Ancora una volta, con la straziante disperazione di dieci anni prima, quando si era salvato dal Grand Stream, seppellì il viso in mani contorte, torturato dal dolore lancinante di non riuscire a urlare, di non poter morire urlando.

La fotografia che Claus gli aveva riportato era stata scattata il giorno in cui avevano sfidato il Grand Stream, pochi minuti dopo che le labbra di Yuris e le sue si erano unite per l’ultima volta. Era stato il bacio di due soldati prima della battaglia, la promessa reciproca di sopravvivere. Dietro la casa di Nordkhia, mentre Hamilcar e George salutavano Justina e i bambini, si erano aggrappati l’uno alle labbra dell’altra come alla vita stessa, perché in realtà avevano paura.

“Moriremo?” gli aveva mormorato Yuris.

Paralizzato dall’orrore, non aveva avuto il coraggio di risponderle. E lei, con quella ruvidezza protettiva che smussava gli spigoli delle sue malinconie, gli aveva stretto il volto tra le mani e gli aveva detto: “Io e te, Alex, non possiamo morire. Ricordi? Insieme, il cielo ci ama.”



§§§



Toc toc.

Sophia si voltò tristemente. Un piccione viaggiatore la guardava da dietro al vetro.

Marius

Come un automa andò ad aprire l’oblò e prese la piccola creatura bianca nelle mani. Ne accarezzò la testolina infreddolita, rimandando la necessità di aprire il messaggio contenuto nel cilindretto attaccato alla zampa. Era il suo malumore a suggerirle quel presentimento di sciagura?

Si decise. Lesse il messaggio.

Marius le raccontava gli sviluppi della follia dell’imperatore e l’avanzare inarrestabile della flotta di Disith verso la capitale.

“La tua giovinezza, la forza del tuo cuore sono l’ultima speranza per la pace e la sopravvivenza della nazione” le scriveva, e richiamandola al suo dovere, le chiedeva pietosamente di assumersi il peso della corona al posto di suo padre.

E di parola in parola, di rigo in rigo, le pareva di trasformarsi in uno specchio rotto e che i frammenti si staccassero uno ad uno per cadere nel vuoto.

Cosa? Io?

Avrebbe dovuto pensare alla sacralità di quella richiesta con la quale il Consigliere le implorava di innalzarsi al di sopra di tutto e di diventare responsabile del destino del suo popolo. E invece in lei, contro di lei, si agitava un solo pensiero: non posso, non desidero andare, voglio restare qui, sulla Silvana, accanto ad Alex, fino all’ultimo.

Per convincersi che fosse questa la scelta più giusta, si diceva che Marius sbagliava ad affidare a lei, troppo giovane, senza forza ed esperienza, una fiducia così grande. E altrimenti, come avrebbe potuto, lei, lasciare la nave e rinunciare per sempre alla speranza dell’amore? Come avrebbe potuto sopportare che finisse in quel modo, proprio adesso che lui l’aveva baciata?

Era confusa, più del solito, e combattuta.

Non le rimaneva che un ultimo appiglio.

Sciolse i capelli, si profumò, depose gli occhiali d’oro sulla scrivania. Allo specchio appariva una giovane donna dallo sguardo miope, illanguidita dalla tenerezza di un amore che non riusciva più a contenere dentro se stessa.

Forse lui mi bacerà.

Forse lui mi chiederà di restare.

Uscì nel corridoio per andare a parlare con Alex.



§§§



Dalla divisa sbocciava un profumo bianco di fiori d’acqua, umido di sensualità virginale, riverberante sulla penombra come una sorgente nascosta, che lui, il suo olfatto di animale selvatico, avvertiva irresistibilmente intorbidato da paura e timida volontà di sedurre.

La vedeva come aveva visto sua cugina Yuris un tempo, coi capelli sciolti e quella femminilità gentile e confidente della quale Alex aveva bisogno come dell’unico possibile completamento di se stesso. Ma non era Yuris, e si sovrapponeva a lei con un gioco di specchi e di strane iridescenze, cancellandola senza pietà.

Lo colpì come un pugno nel ventre l’impulso di aggredirla e farla sua, perché Sophia si offriva, ingenuamente, come una ragazzina, fingendo che lo scopo della visita fosse soltanto la lettera di Marius. E provò odio per lei, e rabbia, mentre immaginava di punirla, di scattare in piedi, schiaffeggiarla una, due volte, e sentire la stoffa che si strappava e il suo corpo nelle mani e spingerla sul tavolo, farla gridare di dolore e di piacere, e gridare con lei.

Sophia gli porse la lettera.

Perché? Che cosa pretendeva da lui? Che si disperasse? Che le ordinasse di restare?

E aveva già dimenticato i suoi doveri? Era tanto pazza da scegliere di rimanere sulla nave?

Lesse la lettera, mentre la furia si stemperava in un languore cupo che lo paralizzava lasciandolo inerme e passivo alla tortura che Sophia gli infliggeva col fruscio lento dei capelli e con la tristezza infantile dei suoi occhi verdi.

Lesse, soffrendo e gioendo delle parole che Marius aveva tracciato con mano elegante, pensando che finalmente, per tutti loro, il momento intorno a cui girava il senso della loro vita si stava compiendo: per lui, vendetta e morte; per lei, la luce del mondo nuovo che avrebbe costruito come imperatrice.

Si era persa, per colpa dell’amore che provava per lui, per la debolezza di lui. Doveva aiutarla a ritrovare la sua vera strada.

Non lo capisci ancora? Non è qui, il tuo destino. Non con me. Non con questa morte che mi porto dentro. Vai, fai ciò che devi, e vivi.

Sei libera, Sophia.



§§§



Sapeva come ferirla, il comandante Row, e dove colpire per farle male.

Era andata da lui con la speranza di addolcirlo, forse di sedurlo. Insicura, perché non conosceva il potere della propria bellezza. Era andata in mare aperto senza bussola, credendo che bastasse l’istinto, e si era perduta.

“Sei una donna tanto debole da volere che sia io a dirti ciò che devi fare oppure no?” le aveva detto infastidito.

Così l’aveva messa a nudo, svelando la debolezza che le aveva fatto dimenticare quale fosse il suo ruolo nella storia che stavano vivendo.

La paura di perdere Alex si era trasformata in vergogna. Aveva costruito lentamente l’illusione che almeno donarsi a lui ed essergli fedele a tutti i costi fosse l’espressione più nobile del destino di responsabilità e devozione al quale anche Alex e Marius e un tempo Yuris, Hamilcar, George, erano legati.

“Sono il suo vice, non lo dimentichi” gli aveva detto prima del combattimento con la Urbanus.

Ed era vero. Era stata la scelta giusta. Ma Sophia non aveva calcolato fino in fondo che cosa significasse essere fedele ad Alex. Non si trattava soltanto di affiancarlo nella sua battaglia. La fedeltà che le chiedeva non era nei suoi confronti, ma verso il principio di dovere al quale anche lui aveva sacrificato la vita. Fedeltà era non rinnegare se stessi e il proprio destino.

“Quei capelli…non si addicono affatto a una nave” le aveva detto con una voce dolente.

Comprese di non avere fatto altro che torturarlo. Come ora che i suoi capelli profumavano per attirarlo lontano dalla fedeltà sofferta in cui, malgrado tutto, continuava a trovare amore, ricordo e forza per continuare a vivere.

Sul tavolo, la fotografia di Yuris non faceva che ribadire l’egoismo di cui si sentiva colpevole. Quando era entrata nella cabina, Alex stava pensando alla donna che aveva perduto. Nel sorriso di Yuris, Sophia vide svelata la miseria che l’aveva indotta a pretendere di sovrapporsi a quell’amore incrollabile.

Qualcosa cambiò dentro di lei. Lo amò più di quanto l’avesse mai amato, e nello stesso istante rinunciò a lui, capendo che l’unico modo per completare il loro amore non era l’unione del corpo, ma la fusione reciproca in un destino che li sovrastava e che li rendeva l’uno indispensabile all’altra.

Lo lasciò senza che si salutassero. Non c’erano stati il bacio e le parole che aveva sperato. Ma camminò a passi lenti con un senso confortevole di liberazione che le cresceva in petto.

Uscì all’aperto, nell’aria fresca e libera di una notte che sarebbe stata perfetta per l’amore.

Il vento le passava tra i capelli sciolti con la carezza che avrebbe voluto ricevere dal comandante. Sorrise tristemente al vento e all’oscurità. Sentiva di trovarsi nel punto più profondo del precipizio di dolore e desiderio nel quale era caduta, ma sapeva che da lì, da quel punto oscuro e dimenticato, avrebbe cominciato a salire. Doveva soltanto trovare il primo gradino della scala.

Poi dalla Silvana emerse la testa bionda di Claus Valca.

“Signorina Sophia…”

Anche per lui era stata una giornata difficile. Nell’incontro con Alex entrambi avevano trovato soltanto disillusione.

Perciò, ascoltare le sue ingenue confidenze e persino lo sfogo della sua rabbia contro Alex, portò conforto a Sophia. E Claus, accorgendosi che soffriva, fu premuroso con lei.

“Sei un ragazzo gentile, Claus” gli disse. E senza riflettere lo baciò dolcemente. Sulle sue labbra inesperte cercò il ricordo del bacio di Alex e il battito iniziale di una nuova vita.

Addio, Alex.



§§§



Alex non aveva idea della ragione che l’aveva spinto ad uscire dalla cabina.

Si ritrovò avvolto dall’eco dell’unità claudia che pulsava sulle pareti del corridoio deserto.

Ricordava di essere stato colto da un senso inaspettato di tenerezza, dopo che Sophia gli aveva sorriso per l’ultima volta, e di aver versato del whisky in un bicchiere ma di non averlo bevuto e poi di avere continuato a pensare a quel sorriso come a un dono prezioso col quale Sophia gli aveva detto di non odiarlo, persino adesso, perché aveva ascoltato le parole del suo cuore, non quelle ruvide che gli uscivano dalle labbra.

Perché ora stava immobile davanti a quella porta?

Si era fermato inconsapevolmente nella parte di corridoio in cui si trovava la cabina di Sophia. Fissava la porta chiusa come un oggetto incomprensibile.

Certe cose non possono essere dette senza trascinarne altre che è troppo pericoloso rivelare, perché scardinano tutto, aprono porte che devono restare chiuse.

Ciò che aveva condotto Alex davanti alla cabina di Sophia erano due parole semplici, ma per lui impronunciabili senza il rischio di assistere impotente al traboccare di sentimenti che esprimevano.

Addio, Sophia.

Era bello pensare che fosse libera.

Era andata via, per sempre. Lo lasciava solo. Di lei, forse per un giorno, sarebbe rimasta la traccia luminosa del profumo nell’aria cupa della cabina.

E il suo posto vuoto sul ponte di comando. E le sere in cui non sarebbe passata per commentare la giornata appena conclusa. E i caffè che non avrebbero più bevuto insieme. E la sua ironia affettuosa e gli sguardi confidenti e il rossore quando le parlava e il suo passo protettivo dietro di lui.

Si era comportata come una ragazzina, l’aveva ferito e fatto infuriare, ma dalla cabina del comandante era uscita una donna capace di affrontare il proprio destino.

Posò la mano sulla lastra di metallo.

Addio, Sophia.

Così doveva andare.

Ma all’eco avvolgente dell’unità claudia in perpetuo movimento, si era sovrapposto all’improvviso un ticchettio di passi.

Qualcuno entrava nel quartiere degli ufficiali e camminava verso il corridoio.

Alex staccò la mano dalla porta.

L’unità della nave, il ritmo dei passi sembravano richiamarlo alla realtà, ma, ancora sospeso nella confusione che l’aveva portato fuori dalla cabina, non riusciva a muoversi.

I passi erano ormai dietro l’angolo dell’ingresso al corridoio.

Alex attendeva come se si avvicinassero soltanto per cercarlo.

Qualcuno stava per apparire.

Qualcuno…

Passi calmi e leggeri.

Li riconosceva.



Segue capitolo 11…



Vi siete sorbiti un altro capitolo di follie mentali e quasi senza scene nuove rispetto all’originale. Non l’ho nemmeno corretto, forse lo farò in seguito, e le ultime righe sono buttate giù a caso.

l senso di questo capitolo è abbastanza contorto. Non ve lo spiego, spero ci arriviate da soli.

Non voglio essere troppo noiosa dilungandomi, ma grazie ancora una volta delle recensioni. No, Shatzy, il bacio di Alex non era per niente calcolato. Infatti, guarda il risultato di follia che ha portato.

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Capitolo 11
*** 11. Liberazione ***


11. Liberazione



Sophia lo vide dove non si aspettava di trovarlo e trasalì, restando sospesa al centro del corridoio.

La mia cabina…davanti alla mia cabina…perché?

Appena era comparsa, Alex aveva abbassato gli occhi, ma pure nell’atteggiamento dimesso, aveva la fronte corrucciata come se fosse combattuto.

In quel ripiegamento dentro se stesso, mentre Sophia immobile non osava parlare né quasi respirare, ma poteva soltanto esprimere con gli occhi sgomenti la paura di turbare il comandante più di quanto avesse già fatto, Alex, come risucchiato in un turbine vorticoso, rivisse il lungo passato di dolore e solitudine che l’aveva portato a quel momento, la caduta nel Grand Stream, il giorno in cui aveva indossato la divisa delle Silvana, le notti insonni e tormentate, il sangue versato, le battaglie vinte per cui non aveva gioito, la lotta contro l’amore di Sophia.

E in un attimo, rigettato dal turbine di nuovo nella luce artificiale del corridoio, comprese la verità ovvia che non aveva avuto il coraggio di affrontare, come non l’aveva di guardare in faccia Sophia: che non si era mai sentito tanto solo quanto nell’istante in cui Sophia, dopo l’ultimo sorriso, aveva voltato le spalle ed era uscita dalla sua cabina e dalla sua vita per tornare nella Città imperiale.

Spinto da questa improvvisa consapevolezza, sollevò gli occhi da terra per guardare dentro quelli di Sophia. E le apparve inaspettatamente arreso, senza più la forza e la volontà di combatterla, e languido di una sofferenza dalla quale sembrava chiederle di liberalo, svelando per la prima volta la fragilità inerme, quasi infantile della sua anima, che di lei aveva bisogno, del suo calore, come un bambino della madre.

Sophia capì che le concedeva di amarlo perché aveva rinunciato a lui.

Non sarebbe mai potuto accadere né prima né dopo quella notte. Negli occhi di Alex non c’era il rimorso per averla fatta soffrire in passato o la promessa di una felicità futura che sapeva di non essere in grado di darle. Ma c’era forse il confuso desiderio di liberare almeno per un attimo il sentimento che lo univa a lei e di bruciarlo tutto in una notte. Non avrebbe concesso a se stesso quella debolezza se non fosse stato sicuro che Sophia era finalmente libera.

Una grande serenità si distese su Sophia.

Uno, due passi incerti, e poi corse da lui, come per spiccare il volo, e si rannicchiò con prepotenza contro quel corpo che sentiva immenso come il cielo crepuscolare in cui aveva appena disperso le ultime lacrime. Alex s’irrigidì di smarrimento. Sollevò un braccio – troppo tardi per fermarla - Sophia era già lì, esile e calda, profumo d’acqua e fiori, fruscio di capelli, respiro umido contro la stoffa compatta della divisa e del mantello, e lui non aveva la forza di spingerla via.

Poi, sciogliendosi, quasi mutando la sostanza che lo componeva, come se l’acciaio della Silvana fosse diventato il vapore delle nubi che l’avvolgevano, si trovò ad abbracciarla. E attratto dalla sua calma commozione, chiuse l’abbraccio abbassando il capo e appoggiando le labbra sulla scriminatura dei capelli biondo scuro. Dalla pelle, nascosto ma non cancellato dal profumo, saliva mollemente quell’odore mielato che conosceva bene, la subdola, spesso inavvertita ossessione degli anni, dei giorni passati accanto a lei.

Sophia non si muoveva, cullata dal respiro di Alex e da qualcosa che non sapeva spiegare – possibile? – il battito del suo cuore che le assediava il seno. Le sue labbra, proprio le sue, le sfioravano una tempia, la carezza più tenera che avesse mai sentito, scendevano, e toccavano l’orecchio. Tra poco l’avrebbe di nuovo baciata. Forse.

Sollevò la testa costringendolo ad allentare un poco l’abbraccio, non per offrirsi al bacio ma per lo strano impulso di guardarlo. Alex non si difese. Sophia pensò con emozione che non le aveva mai permesso di fissarlo così da vicino, così lungamente. Il suo viso, finora, apparteneva più all’immaginazione che all’osservazione, era per lei il puzzle ricomposto da centinaia di occhiate rubate. Ora, con quell’espressione dimessa, arreso a lei, si lasciava studiare, il naso deciso sulle linee scarne e affilate del viso, il mento nobile, le labbra pallide e ferme, il colore caldo delle pupille, la forma esotica degli occhi che l’ombra azzurrina delle occhiaie rendeva ancora più delicata e struggente.

Gli prese la mano. Alex indugiò. Lei gli sorrise come per dirgli “seguimi”, strinse la sua mano, lo guidò nella propria cabina, oltre quella porta davanti alla quale Alex le aveva detto addio mentre lei non c’era.

Si ritrovarono nel vano d’ingresso. Dall’oblò entrava la luce bianca della luna e delle stelle. Non c’era ombra, ma ovunque il riflesso argentato del cielo. Allo scatto di chiusura della porta, Alex appoggiò la schiena al muro. Qualcosa lo frenava ancora. Per un attimo Sophia dubitò di se stessa e della propria sfrontatezza. Ma gli occhi di Alex erano docili. Sembrava che attendesse di vedere ciò di cui lei fosse capace.

Lo spogliò del mantello, che scivolò per terra, ai suoi piedi. Alex non si muoveva.

Con la stessa intraprendenza diligente e metodica, Sophia gli sfilò i guanti, prima il sinistro, poi il destro, e delle mani nude baciò la punta delle dita, di tutte le dita. Alex la guardava.

Si sollevò per baciargli il collo. Il primo bacio fu timido. Ma istintivamente, sentendo la nodosità del pomo d’Adamo e l’odore virile della pelle e la mandibola severa e il brivido eccitato di Alex e il suo sospiro, dischiuse le labbra e cominciò a far scivolare dal collo al mento baci umidi, da gatta, quasi leccandolo. Sotto le mani il cuore di Alex batteva più rapidamente, il suo respiro si alterava.

Le parve di trasformarsi in un corpo diverso, in una pianta che germoglia, mentre alzandosi sulle punte dei piedi, tendendo tutta se stessa, Sophia raggiungeva le sue labbra e lo baciava. Aveva lo stesso sapore della sera prima.

Quando Sophia si allontanò per guardarlo, in realtà intimorita da tutto ciò che aveva appena fatto, Alex era addolcito. Le accarezzò una guancia. E forse sorrideva, mentre dalla guancia la mano passava sull’orecchio, affondava nei capelli, li lasciava scivolare tra le dita per tutta la lunghezza, come sabbia fine.

La divisa, da quel momento, era completamente inutile. Con un gesto istintivo, Sophia aprì la cintura che chiudeva con lo stemma della nave la giacca militare di Alex.

La cintura cadde. La fibbia d’argento tintinnò sul pavimento, tra il mantello abbandonato e gli stivali di Sophia, come un rintocco…



§§§



La solleva e la spinge contro il muro. A Sophia manca il respiro dai polmoni, ma lui non le dà tregua, ha fame di lei, una fame antica, senza inizio e memoria, e la bacia voracemente, le dita affondate nei capelli come artigli, il corpo che la schiaccia. La bocca di Sophia si arrende senza lotta e si apre alla bocca, alla lingua dell’unico amore come il calice al vino, e si lascia prendere, cercare, come farebbe per sempre, per tutta la vita, se lui lo volesse. Gli chiude le braccia intorno alla nuca come un fermaglio perché a stento tocca terra con i piedi, e non le importa di non riuscire quasi a respirare e nemmeno del vortice che la porta in un luogo sconosciuto, la tana oscura dell’eccitazione che – mentre Alex diventa un animale - le scuote ogni parte del corpo senza pietà, qualcosa di sordo e potente e feroce che parte dal ventre, dal sesso, e chiama, urla “ancora, ancora di più!”

Le piega il collo, lo bacia, lo morde, e con un solo gesto le spalanca la divisa, la getta via, e affonda nel suo seno - la bocca, il viso, le mani, i denti, la lingua - e Sophia non sa più se il gemito lento e stordito che sente sia il proprio o quello che accompagna il respiro caldo di Alex mentre le tormenta la pelle, mentre le prende le mani e le preme contro il muro per imprigionarla e sentirla contro di sé e la bacia ancora a fondo, ed è rude e dolce, perché ha perso ogni controllo.

Il mondo si muove, le pareti girano, il biancore della luna esplode negli occhi. E’ ubriaca, ma non ha bevuto. La sua mente è vuota, e ciò che rimane è la carne tenera e accogliente che di sé percepisce attraverso la passione incontrollata, i gesti impetuosi di Alex.

Si ritrova, senza sapere come, distesa sul letto. Alex le ha sfilato gli stivali e la gonna e ora, con le dita e la bocca, la spoglia di ciò che rimane. A volte – quando fa scivolare il reggiseno e morde la curva morbida della spalla, quando le sue labbra impazienti scendono sul petto - le strappa un gemito che è quasi di dolore. Ogni parte del corpo di Sophia si risveglia. Non sapeva dello spasimo profondo che inarca la schiena quando la lingua passa sul seno. E un brivido le frantuma il corpo, mentre i capelli densi e serici dell’uomo chino su di lei, frusciando, le accarezzano la pelle.

La divisa cade anche dal corpo di Alex. Ora, in ginocchio per terra, ai piedi del letto, Alex a torso nudo le appare non più come il comandante, ma soltanto come un giovane uomo seducente, forte e asciutto come un arco teso.

D’un tratto Sophia si rende conto di essere completamente nuda e che quegli occhi appassionati – occhi che non sono mai stati così belli – la osservano senza pudore. E vergognandosi, fa il gesto di coprirsi. Ma lui le afferra le mani e strattonandola se la attira contro e la fa sedere sul bordo del letto. Toccare la pelle nuda di Alex è una sensazione violenta, come vedere la luce dopo la completa oscurità. Sophia comincia a tremare convulsamente, vorrebbe persino scappare da lui e dall’intensità di ciò che le sta accadendo.

“Alex…Alex…è troppo…”

Lui si accorge di averla travolta con un’irruenza eccessiva per una ragazza che non ha mai conosciuto quell’intimità. La abbraccia in modo protettivo, per calmarla, e la accarezza, godendo del contatto con lei, ora che l’abbondanza del suo seno gli preme contro il petto e i suoi capelli si disperdono sulle braccia che la cingono. Nell’orecchio le sussurra cose che lei, confusa, a stento comprende. E poi le dice: “Baciami” e lascia che sia lei a chiamare la sua bocca, tornando così a meravigliarsi per la naturalezza con cui le loro labbra si toccano e si legano. Si scambiano baci sempre più incoscienti e storditi, una catena che potrebbe durare all’infinito e ricomincia appena l’uno accenna a staccarsi e chiude le labbra, aspettando soltanto che l’altro le riprenda e le riapra e le assapori.

Sophia ha sciolto le sensazioni confuse, accavallate e potenti di prima in un nuovo desiderio, che la porta a far scivolare la bocca sul petto di Alex, come per appropriarsi dell’odore ambrato di quella pelle così fine. Lo bacia, lo morde come e dove Alex ha fatto con lei, e lui sospira lento, piega il collo all’indietro, annientato dal desiderio che quel tocco umido gli fa infuriare dentro.

Non può permetterle di continuare così. La distende un’altra volta per baciarla sulla pancia: è soffice, accogliente e profumata e, affondando lentamente nella sensazione di serenità che quel contatto gli trasmette, si ritrova ad appoggiarvi il capo. Nemmeno Yuris gli ha dato quel senso di comprensione fisica, quella sensualità generosa, e con un’involontaria associazione, lo sfiora il pensiero della morte che presto gli verrà incontro e non gli appare spaventosa e triste, ma confortevole come quel ventre delicato che quasi lo avvolge e lo culla.

E non sa che nello stesso momento, mentre dalla pancia le labbra di Alex scendono più in basso e lei non lo respinge, ma lo asseconda accarezzandogli i capelli, Sophia pensa che persino ciò che le sta facendo ora, nella parte più intima del suo corpo, è bello e semplice come tutto il resto, e all’improvviso sembra che sia sempre stato loro, nascosto, segreto, come il legame che li ha uniti per tanto tempo. E con l’esplodere di sensazioni che credeva impossibile potessero diventare tanto intense, capisce che il loro legame non si spezzerà mai e che il miracolo di quella notte in cui Alex le dona tutto se stesso, nonostante la separazione e il destino sconosciuto e terribile che incombe, durerà per sempre.

Poi Alex si distende su di lei e il suo corpo nudo la sorprende e la avvolge come l’edera una statua. “Ti voglio” le dice in un modo che non ha niente di implorante, ma sembra un ordine, e tuttavia, nella profondità sfumata della sua voce, non perde di calore e di delicatezza.

Sophia rabbrividisce e si lascia guidare nella direzione verso cui ormai la porta tutto ciò che Alex le fa, sempre più eccitato, come la bacia, la stringe, la stimola col proprio corpo, come la imprigiona sotto di sé e intreccia le dita con le sue. Perde la dimensione del tempo e l’unico ritmo che riesce ancora a percepire è quello che scandisce la crescita vertiginosa e ormai insopportabile del desiderio che lui la penetri.

E proprio quando sta per urlare che non resiste più, Alex entra in lei. Le fa male e affonda nella sua carne vergine senza esitazione, perché non può più sostenere la barriera che separa la tenerezza dal delirio della sua passione. Ma mentre Sophia grida e lo graffia inavvertitamente sulla schiena, si china su di lei.

“Sophia…Sophia, sono io. Sentimi…” le dice nell’orecchio con una dolcezza che lui stesso non controlla. La accarezza, mormora cose che credeva di non essere più capace di dire e lentamente comincia a muoversi. E nella gioia folle, assurda, incontenibile di sentire come la carne di Sophia lo stringe e pulsa intorno alla sua virilità, non fa che ripetere un unico pensiero. Non mi stancherò mai di questo corpo. Mai, mai, non è possibile.

Sophia si abbandona alle onde inarrestabili che si propagano e si addensano dal punto che Alex tocca dentro di lei. Prima di annullarsi definitivamente, pensa che il battito cupo del motore della Silvana si è fermato, perché non lo ode più. Lassù, sul ponte di comando, siede l’uomo che conduce la nave da guerra più potente del mondo a una vendetta distruttiva.

Qui c’è il corpo snello e sensuale che desidera soltanto sciogliersi in lei e trema mentre gli dice, con una voce sempre più confusa, “Ti amo”.

Gli appoggia la mano sulla nuca e se lo stringe forte addosso.

Quello che accade dopo è gioia pura.



Segue Capitolo 12…



E la notte è ancora lunga…

Ho cercato di non esagerare coi dettagli per non cambiare il rating da arancione a rosso, ma questo mi ha portato a rendere il tutto forse un po’ troppo sdolcinato.

Grazie anche questa volta per le recensioni. E grazie alla nuova lettrice Only_a_illusion. A presto!

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Capitolo 12
*** 12. Una notte ***


12. Una notte



C’era stato un intervallo non di sonno ma di oblio nel quale aveva galleggiato serena e protetta come nel ventre materno. Quanto fosse durato – un minuto? Un’ora? – non sapeva. Dischiuse gli occhi alla luce bianca che pioveva attraverso i grandi oblò e si accorse che quella sensazione di calore e di tranquillità non scaturiva soltanto dal rilassamento che aveva seguito l’ultima ondata di piacere ma anche dal contatto col corpo di Alex. Si ritrovò con la testa appoggiata al suo braccio. La parte inferiore del corpo, dal bacino in giù, era intrecciata a quelle gambe lunghe di cui aveva sempre amato spiare la falcata lenta e le proporzioni perfette dentro la divisa e gli stivali.

La Luna lo smaterializzava e rendeva la sua pelle quasi evanescente, bianche come ali d’uccello le ciocche di capelli disperse tra la fronte, le guance e le lenzuola.

Lo guardò senza osare toccarlo, nel timore di infrangere la fragile bolla di felicità che li avvolgeva entrambi. Ora, nella calma e nel silenzio, Alex era completamente suo.

Tutto il suo corpo giaceva rilassato. Il corpo armonioso e forte che la maschera nera della divisa le aveva crudelmente nascosto finora, come le aveva nascosto quella pelle dall’odore sottile ed eccitante fatta per essere toccata dalle sue mani e baciata dalla sua bocca.

Non svegliarti.

Tante volte aveva immaginato di abbracciarlo e si era domandata come sarebbe stato e come l’avrebbe baciata e toccata, quale aspetto di sé le avrebbe rivelato nell’amore. E nulla, nessuna immaginazione si avvicinava al contatto reale con l’uomo disteso accanto a lei. L’uomo che aveva appena fatto l’amore con lei.

Tra poco, domani, tutto sarebbe tornato come prima. La sua espressione distante, la sua riservatezza cupa. L’avrebbe dimenticata, si sarebbe pentito di quel cedimento al suo amore.

Ma era così bello e dolce, adesso! Soltanto un ragazzo addormentato. Un corpo nudo illuminato dalla Luna e dalle stelle.

Persino la gioia poteva opprimere il petto. Si sentiva paralizzata da un sentimento talmente grande che non riusciva a scioglierlo fuori di sé come l’urlo di piacere gridato tra le sue braccia. Eppure non desiderava nulla, se non il prolungamento eterno ed immutato di quell’istante. Guardarlo con la mente vuota. Sentirsi languida, dopo essere stata presa, inondata da lui. Sentirlo suo.

“Sophia…”

Alex aveva aperto gli occhi.



§§§



Eppure sapeva di non aver potuto fare una scelta diversa.

Percorreva la sua carne bianca e morbida, di nuovo, ancora, come se stesse toccando il nucleo dorato della vita, ma non era doloroso sapere di farlo per l’ultima volta. Perché non avrebbe dovuto amarla, mai, e quella gioia, intensa, fresca, commovente, non gli apparteneva, né più né meno di quanto gli appartenesse il proprio stesso corpo, l’immagine vuota che portava la traccia, solo la traccia esterna, di qualcuno che non esisteva più.

Avrebbe potuto dirle ciò che provava e di quanto fosse vera l’emozione di prenderla mentre lei con passione e fiducia si abbandonava di nuovo ad ogni suo desiderio. Ma chi avrebbe parlato? A chi apparteneva quella emozione? Se avesse dovuto ridare forma a se stesso, se avesse potuto indicare quale fosse la sola immagine che avrebbe guardato allo specchio senza sentirla estranea, avrebbe scelto quella del ragazzo che stava accanto a Yuris nella vecchia fotografia. Quello era ancora Alex Row, ed era morto. E l’amore per Yuris era – insieme all’odio per Delphine - il solo sentimento che non sentiva estraneo, forte eppure sempre scollato da sé, come quello che provava per Sophia.

Nella gioia tornò la disperazione. Sciolse le mani che le accarezzavano il seno, si staccò dal suo corpo, cadde lentamente sul letto, come se la forza lo stesse abbandonando. D’un tratto gli apparve tutto orribilmente distante, i raggi di Luna nella stanza, le lenzuola macchiate, il biancore latteo di Sophia, i suoi capelli ondeggianti.

Lei, stordita dalle sue carezze, si sollevò sorridendo, accompagnata dal fruscio dei capelli che le scivolavano addosso, ma si accorse che Alex, ora seduto con la schiena appoggiata alla parete e lo sguardo già remoto, non avrebbe continuato a toccarla. Lo stava di nuovo perdendo.

E lui avvertiva la sua delusione. Era così tenera, adesso, mentre seduta sulle gambe, con gli occhi spalancati che non erano mai sembrati tanti grandi, gli chiedeva di non abbandonarla. Era così donna, avvicinandosi, allungandosi spontaneamente verso di lui per offrirgli il suo corpo, per richiamarlo a sé con le forme piene del suo seno e la bocca gonfia e umida dei baci che le aveva appena dato.

Non era mai stata tanto bella. Sorgeva dal letto come una dea della terra e dell’acqua, sinuosa, femminile, trasfigurata dall’amore.

Sentì il suo tocco sulle labbra, le dita che le accarezzavano, le aprivano con prepotenza e cercavano i denti, la lingua, il sospiro profondo e involontario che sgorgava da lui. Baciò e succhiò quelle dita che schiudevano la sua bocca per riportarlo alla vita, sottili, chiare come raggi di sole che fendono l’oscurità, calde come la primavera che s’insinua nella terra per farla germogliare.

Nessuna gelata uccide la pianta fino alla radice, gli aveva detto al brindisi per Campbell. Allora entrambi ignoravano ciò che sarebbe accaduto. E lei, forse, aveva ragione, non lui, che della pianta sentiva di essere la radice morta. Ma questo Sophia non aveva detto, allora: perché la pianta torni a germogliare, occorre il calore del sole. E quel raggio di sole capace di sciogliere il ghiaccio, penetrare la terra indurita dall’inverno, fecondare ciò che pareva sterile e morto, la forza tenace e miracolosa che dalla radice secca faceva sprizzare la verde foglia, voleva essere proprio lei.

Inerme avvertì su di sé la pioggia fresca dei capelli abbondanti e sottili e rabbrividì, mentre scorrevano come acqua sulla pelle al chinarsi di lei sulla sua bocca, sul suo petto. Lo toccava, lo stringeva, curiosa, inesperta ma determinata a scoprire il suo corpo, a dargli piacere.

E Alex, cullato da ciò che lei gli faceva, si trovò a sorridere.



§§§



“Dove hai imparato questo?”

Sophia si fermò. D’un tratto senti sul viso una vampata di calore. Doveva essere arrossita.

Lui la stava osservando con l’espressione tipica da ponte di comando, non da camera da letto. Quella che pretendeva una spiegazione in meno di un secondo.

La situazione era diventata all’improvviso imbarazzante.

Finché Alex si era limitato a sospirare e a tendere, a rilassare il corpo sotto le sue mani e le sue labbra – come quando gli aveva baciato quel capolavoro di ombelico – non aveva provato alcuna vergogna. Lo desiderava troppo. Si era sentita, col crescere reciproco dell’eccitazione, onnipotente e senza alcuna inibizione.

Ora quello sguardo la confondeva, facendole dubitare di avere esagerato e che le attività alle quali si era abbandonata con tanto trasporto fossero poco gradite a colui che ne era l’oggetto.

Ma durante il servizio sulla nave aveva imparato che nei momenti di crisi la cosa più importante era mantenere la calma a tutti i costi. Un buon vice doveva dimostrare di essere sempre all’altezza della situazione. Dopotutto Alex era lo stratega, ma lei era pur sempre quella che gli risolveva tutti i problemi pratici.

Senza nemmeno spostare la mano dalla collocazione nella quale la domanda l’aveva sorpresa, rispose:

“Sul ponte di comando, signore.”

“Non mi risulta che si pratichino simili cose sul ponte della Silvana” osservò Alex senza scomporsi, avendo la precisa intenzione di prendersi gioco di lei. Anche perché Sophia imbarazzata era ancora più eccitante.

“No, signore, ma ciò che ho imparato è che un buon vice capisce la volontà del suo comandante prima che parli.”

Il sorriso di Alex offrì il biancore dei denti alla luce lunare.

“E in questo caso” continuò tranquillamente Sophia “l’ordine sarebbe stato quello di armare la batteria di cannoni principale.”

Alex si lasciò andare a una risata silenziosa. La prese su di sé e stringendole la nuca la baciò con passione.

“Non vergognarti mai” le disse. Era tornato serio e le accarezzava le guance e gli occhi.

Sophia, accogliendolo dentro, lo avvolse con tutta se stessa.

Mentre tornava ad immergersi nel suo seno, Alex pensò che un tempo, quando era vivo, si sentiva così.



§§§



In bagno, Sophia scoppiò a piangere.

Aveva lasciato Alex nel letto. Si era lavata. Aveva persino passato qualche colpo di spazzola tra i capelli. E aveva sorriso, ripensando con un capogiro a tutto ciò che avevano fatto.

Allo specchio aveva visto una donna diversa. Sul corpo c’erano le tracce madreperla del suo seme. La bocca, dove continuava a percepire il sapore dei loro corpi, era arrossata di baci. Gli occhi splendevano di una luminosità che non conosceva, sensuale, ferina. Era diversa, ma avrebbe voluto rimanere così per sempre.

Quante ore alla partenza? La notte era fonda, mancava ancora tanto al sorgere del Sole. Non aveva nemmeno impacchettato le sue cose, i libri, le divise, la biancheria. Doveva lasciare la cabina vuota, come era dovere di un buon ufficiale.

Doveva fare ancora molte cose, prima di partire dalla nave.

Aveva aperto il rubinetto del lavandino per far scorrere l’acqua. Si era piegata sulle ginocchia e aveva pianto.

Questa era la prova più dura. Ne aveva superate molte, da quando sua madre era morta. Aveva affrontato la solitudine e le responsabilità che ogni volta il suo ruolo, quello di figlia abbandonata, di erede al trono, di primo ufficiale, le aveva imposto. Aveva dovuto lottare, sempre, e dimostrare di essere forte. Ora questo. Lasciare la persona che aveva più cara al mondo.

Aveva già deciso e accettato. Ma il passo successivo, andar via per sempre, era ancora il più difficile. Perché sapeva che non ci sarebbero state altre notti come quella e la carne, la voce di Alex, sarebbero rimaste solo un ricordo.

O forse no…un giorno…

Accadeva a tutti gli amanti ciò che era accaduto tra di loro? Era sempre così il sesso? Era sempre tanto intensa, incontrollabile, persino dolorosa la passione che attraeva ed univa due corpi? Sorridevano, gli amanti, come aveva fatto lui, con quella dolcezza disperata, come se fare l’amore con lei gli facesse ritrovare l’essenza di se stesso?

O tutto questo apparteneva solo a loro e Alex l’amava, più di quanto avesse la volontà di ammettere?

Bagnò il viso con le mani.

Non aveva senso piangere adesso. Avrebbe rovinato tutto. Quella notte il dolore non esisteva.

Chiuse l’acqua. Tornò nella stanza.

Eccolo, non più nel letto, ma in piedi, di spalle, davanti all’oblò che aveva aperto per far entrare l’aria notturna.

L’uomo più odiato e temuto di Prestel. La sua figura snella contro le stelle. Bellissimo, virile, elegante come l’aveva visto ogni giorno e come l’avrebbe ricordato per sempre.

Sophia si avvicinò e si annidò nel calore della sua pelle nuda. Dall’oblò entrava il fresco della brezza. La stessa che le aveva accarezzato i capelli poche ore prima, mentre diceva addio alla Silvana e al suo comandante. La stessa brezza, le stesse stelle, la stessa notte, sebbene lei fosse così cambiata.

“Hai freddo?” le chiese, scostandole una ciocca di capelli dal viso. Era triste.

Sophia scosse la testa. Lo guardò negli occhi malinconici ma ammorbiditi dalla stessa emozione inesprimibile che provava lei.

“Sarei dovuto restare laggiù e morire con loro…”

Lei gli sfiorò le labbra. “Lottare per vivere” mormorò “è un dovere.”

Le diede un bacio sulla testa, come un padre, mentre Sophia gli cingeva la vita con le braccia. Il corpo di Alex era caldo nel fresco della notte. La sua schiena salda come una colonna, il suo odore tenue e bellissimo. Lo desiderava, le apparteneva.

L’alba era ancora lontana. Scivolarono in un bacio lungo e profondo. Si amarono ancora, lentamente. Dolcemente.



§§§



Con la prima luce si rivestì. Raccolse le parti della divisa sparse per la stanza, gli stivali gettati sotto la finestra, i pantaloni finiti dietro alla poltrona. La cintura tintinnò lievemente mentre la chiudeva. Era stata lei a farla cadere per terra all’inizio di quella notte.

Sophia dormiva. Si inginocchiò accanto a letto per accostarsi a lei un’ultima volta. Rannicchiata su un fianco, con le braccia piegate davanti al petto e il labbro superiore che si muoveva nel respiro, non sembrava molto diversa dalla bambina che aveva conosciuto tanti anni prima. Non sarebbe mai cambiata. Sarebbe rimasta per sempre pura e delicata come allora, persino sul trono e nella battaglia, persino tra le braccia di un uomo.

Non la baciò per non svegliarla.

Il mantello del comandante giaceva vicino alla porta. Lo prese, lo piegò su un braccio. Non aveva la forza di indossarlo. Non ancora.

Uscì dalla cabina silenziosamente.



Segue nel capitolo 13…

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Capitolo 13
*** 13. Yuris ormai non c'è più ***



13. “Yuris ormai non c’è più”



Il portellone della vanship si aprì, Sophia apparve.

Era seria, come una sovrana.

Scese il primo, il secondo scalino, toccò la piattaforma d’atterraggio. Si sforzò di pensare che quello era il suolo di casa, dopotutto.

Marius la guardava negli occhi con trepidazione. Sophia non sorrise.

La lunga veste di seta frusciava intorno al corpo. Non era abituata a quel suono pacato e tagliente col quale si espandeva l’identità regale tenuta segreta a bordo della nave.

Abbassò gli occhi, solo per un attimo. Ancora una volta pensò al corpo che l’aveva stretta per tutta la notte. Solo la millesima parte dell’amore che Alex era capace di dare. Quello che aveva dato a Yuris. Immenso. Ora lo capiva.

Le aveva preso il volto tra le mani e poi accarezzato i capelli per farla addormentare.

Non le aveva detto di amarla.



§§§



Il comandante non aveva accompagnato il tenente colonnello Forrester alla pista di decollo. Non rientrava nei suoi doveri ufficiali.

Aveva osservato l’allontanarsi della vanship imperiale rossa da un oblò del ponte di comando, ripetendosi che salutare Sophia sarebbe stato per entrambi comunque più penoso di quell’assenza di parole.

E quando il puntino rosso era sparito nell’azzurro splendente della mattina, Alex non era stato capace di rimanere sul ponte all’improvviso vuoto, con le voci, i rumori quotidiani diventati surreali ed estranei, con gli ufficiali che ad ogni occhiata sembravano rimproverarlo tacitamente di quella partenza inattesa.

Uscì all’aria aperta. C’era vento, lo sentì freddo sulla faccia. E sotto i guanti fini, fredda, quasi gelida, anche la ringhiera della terrazza panoramica. Alex non sapeva che nello stesso punto, la sera prima, si era appoggiata la mano di Sophia.

Ma a lei pensava e alle sue mani tenere.

Yuris…non aveva quelle mani.

Yuris aveva mani da artista. Sensibili, nervose, vive, mani che esploravano il mondo come le ali di un falco. Mani lunghissime, persino troppo, e mobili, snodate come quelle di una danzatrice, voraci di conoscenza, forti e aggraziate qualsiasi cosa facessero.

Le mani di Sophia erano piccole, affusolate, sempre in ordine. Si posavano sulle cose con una delicatezza discreta, come se si accontentassero di portare dolcezza e comprensione, e cercavano timidamente, ma senza incertezza, senza fragilità. Erano mani fatte per toccare il cristallo, per accarezzare e crescere un figlio e dare la felicità a un uomo.

C’era stato un momento in cui nella notte passata era stato felice. D’improvviso, solo per un attimo, l’inquietudine e il senso di colpa erano scomparsi e con essi persino il desiderio furioso di annullarsi dentro il corpo di Sophia.

Ricordava la luce pallida dell’alba sul suo dolce viso estenuato. Anche lui era sfinito. Aveva chiuso gli occhi, ma senza dormire, cullandosi del respiro che sentiva accanto a sé. Poi, d’un tratto, aveva sentito un tocco sulla bocca. Un bacio a fior di labbra, così piccolo, così delicato da sembrare quasi solo un sogno. Un bacio che non chiedeva nulla, perché Sophia, credendolo addormentato, non desiderava svegliarlo. Tutta la semplice grandezza del suo amore era in quel bacio. Non c’era altro. E lui aveva sentito qualcosa frantumarsi dentro, ma senza dolore, no, solo con la sensazione che tutto fosse semplice e bello come quel bacio e come era lei, tutta quanta, il suo viso, il suo odore, la sua pelle accanto.

Le aveva preso il viso tra le mani. Perché era la donna più bella del mondo e meritava di più, meritava gioia e devozione. Perché voleva dirle ciò che provava e mille altre cose. Perché doveva dirle una cosa…una sola, quella che ancora adesso non riusciva a scollarsi dalla testa.

Tornò dentro la nave. Salire al ponte era fuori discussione.

Mentre camminava verso la cabina, continuava a ripetersi che doveva essere diventato definitivamente pazzo.



§§§



Da una parte, sopra la porta, apparve il volto contorto di un condannato legato al palo di un rogo. Più in là, separato dall’ombra, i denti digrignati di un uomo sotto tortura e lì, proprio sopra la finestra, la spada del boia che decapitava una fanciulla. Le immagini sprizzavano dall’oscurità della stanza come nel cielo notturno i lampi di un temporale lontano.

Non scene complete. Pezzi sparsi di composizioni distese sulla volta della cella da artisti morti cento e cento anni prima, tutto ciò che degli affreschi la fiamma sulla candela permetteva di scorgere col suo ondeggiare lento.

Torture. Esecuzioni capitali.

Come quella che spettava a lei. Tra un giorno, tra un’ora, forse, secondo la volontà dell’imperatore. Questo era il destino che un padre assegnava a una figlia.

Padre

Quante volte aveva pronunciato quel nome! Eppure mai, mai dalle sue labbra era uscito con la vibrazione del sentimento che avrebbe dovuto accompagnare quella parola. Padre, Altezza, Sire, nomi tra loro legati come anelli di una catena di ferro. Padre. Una parola così vuota per lei.

Aveva sondato il cuore di quell’uomo corrucciato, vestito di nero, seduto in trono. Gli aveva chiesto pace e pietà per i disperati di Disith. E lui, suo padre, non l’aveva ascoltata, ma aveva gettato su di lei le parole dure dell’accusa di tradimento, senza incertezza e senza dolore.

Anche con lui la sua voce era come muta. Anche le orecchie di suo padre erano chiuse, il suo cuore remoto.

E’ destino che io debba aspirare inutilmente all’amore di un uomo.

Alex non l’aveva tenuta accanto a sé. L’imperatore la condannava.

Inutile. Ovunque io vada, sono inutile.

Questo era persino più spaventoso della condanna a morte.

Aveva lasciato la Silvana col cuore gonfio di dolore, ma confortata dalla speranza di essere utile. Abbandonava Alex, ma per uno scopo più grande del suo amore.

Ora quel sacrificio aveva perso ogni significato. Era sola, non amata. Perfettamente inutile.

La gioia provata la notte prima era svanita come una goccia d’acqua nella sabbia. Nemmeno scavando riusciva a sentirne il fresco contatto sulle dita.



§§§



“Sophia! Sophia!”

La voce di Yuris, calda e vivace come allora, la chiama.

Chiude gli occhi e quando li riapre è una bambina di nove anni assorta a guardare il cielo.

Un falchetto è passato ad ali distese nell’azzurro estivo e Sophia, come incantata, ne ha seguito il volo tranquillo fino alle alte cime del bosco.

“Sophia! Il servizio tocca te.”

Li vede tutti, ancora sull’erba verde del piccolo parco del palazzetto che sorge vicino alla Prima Acqua, la purissima sorgente imperiale. Yuris, come lei in completo da tennis bianco, ha i capelli legati a coda di cavallo e il bel volto abbronzato e sorridente. Marius studia una mossa su una scacchiera d’avorio. Ripara la testa dal sole con un buffo cappello di paglia che Yuris gli ha regalato per scherzo. E qualche metro più in là, presso il bordo del campetto da tennis sul quale giocavano le due ragazze, Alex guarda la partita seduto sull’erba. Ha i piedi scalzi e i pantaloni arrotolati sul polpaccio ancora bagnati per aver camminato nella sorgente.

Fa caldo, ma il fresco alito della fonte che gorgheggia oltre il boschetto rende l’aria piacevole, di quella dolcezza estiva che invita alla compagnia e alla spensieratezza.

“Sophia! Se continui a distrarti, dovrò giocare con Alex. A tennis fa pena.”

La bambina lancia in aria la palla e la colpisce tranquillamente con la racchetta. Cresce in altezza a vista d’occhio, ha gambe lunghe da cavallino. Yuris le dice spesso che anche per lei è stato così: presto smetterà di allungarsi e prenderà delle belle forme femminili, perché Sophia le somiglia in tutto.

Nei pochi istanti in cui attende la palla rilanciata da Yuris, Sophia nota che Alex ha rivolto un occhiolino proprio a lei. “Se faccio pena,” scherza il ragazzo “è solo colpa della mia pessima insegnante.”

Sophia segna un punto. “Yuris ha insegnato a giocare anche a me” dice mentre si prepara a lanciare nuovamente la palla del servizio “e non sono poi così male.”

“Ah ah!” esclama Yuris.

Alex sorride e si allunga all’indietro, appoggiando i gomiti sull’erba. “Sì, ma a me ha insegnato diversamente. Lo ha fatto apposta per impedirmi di batterla.”

Marius ridacchia senza alzare lo sguardo dalla scacchiera.

“Papà!” sbraita Yuris.

Sophia corre a recuperare la palla finita in una siepe. E’ un’ottima scusa per allontanarsi. Sente che le guance le bruciano, deve essere arrossita e non ne sa il motivo. Forse perché si vergogna di aver contraddetto Alex o forse perché ha notato lo strano sguardo che Yuris ha rivolto al ragazzo, uno sguardo così diverso da quelli affettuosi che rivolge a lei o a suo padre.

Fruga nella siepe e trova la piccola sfera bianca. Torna indietro palleggiando, ma dall’altra parte della rete non vede più nessuno. Il campo è vuoto, al posto di Yuris c’è la sua racchetta abbandonata per terra.

Si volta e li vede. Loro tre sono insieme, sul prato al bordo del campetto. Yuris si è chinata sulle spalle di Marius e lo abbraccia. Gli ha spostato le pedine sulla scacchiera per dispetto, ma il padre ride, mentre lei gli bacia la guancia. Alex le si è messo accanto, sulla testa ha il cappello di paglia che Yuris ha tolto a Marius, e la fissa incantato come se fosse la creatura più bella del mondo.

Sophia resta immobile al centro del campetto. Dall’altra parte, sull’erba, c’è un’armonia che lei non conosce.



§§§



Come sempre, i passi del comandante risuonavano calmi nei corridoi metallici della nave.

E mentre il fruscio del mantello si disperdeva alle sue spalle. Alex cercava di ignorare, ma senza successo, la sensazione di vuoto che percepiva dietro di sé, ora che il camminare di Sophia non lo seguiva a un passo di distanza, ora che sapeva che nessun corpo avrebbe sfiorato il suo se si fosse fermato all’improvviso.

Scacciare quella strana sensazione di solitudine sembrava impossibile, come cercare di allontanare l’ombra proiettata dal proprio stesso corpo. Gli pareva di essere un insetto invischiato nella tela di un ragno. Tentava in ogni modo di liberarsi da quella sensazione per ritrovarsene prigioniero più di prima, come se continuare a ripetersi che tutto era normale, che la solitudine era la sua condizione necessaria e naturale, non facesse altro che aumentare l’angoscia per la distanza che lo separava dalla vanship rossa partita quella mattina e dal respiro tranquillo di Sophia, allo stesso modo che dieci anni prima le urla gridate nel Grand Stream non erano servite ad altro che a renderlo più disperatamente inutile mentre il corpo di Yuris svaniva nella corrente.

La verità era semplice, per quanto ancora non avesse il coraggio di ammetterla, a se stesso e alla donna che aveva lasciato mestamente la nave, sconfitta dalla sua ostinazione. Una verità che bere non era stato sufficiente a cancellare, quella mattina. D’altronde il whisky era sempre stato inutile, tranne che per vincere l’insonnia o per aiutarlo a sopportare l’orrore che gli si spalancava dentro a tradimento.

Nemmeno l’immagine di Yuris era venuta a soccorrerlo, perché era svanita in una nebbia densa e profonda dalla quale non era più riemersa, e inutile era stato continuare a cercarla nella fotografia sbiadita. Del suo volto vedeva i singoli tratti, le labbra sorridenti, le sopracciglia regolari, gli occhi bruni e dolci, ma senza riuscire a comporre l’immagine che da allora era almeno riuscito a tenere dentro di sé con una percezione nitida e costante. Soltanto adesso lei pareva davvero morta, dissolta non dal tempo ma dalla forza invadente di sentimenti nuovi, non voluti, disperatamente combattuti.

Si sentiva sull’orlo, non sapeva di cosa. Solo di questo era certo, che da una parte e dall’altra c’era un baratro vuoto. Non trovava Yuris, ma non era capace nemmeno di riempirsi l’anima di Sophia. E questa era la prova di quanto fosse morto, di quanto ormai somigliasse a un’ombra fredda ed immobile.

O forse no…forse…

Per due volte, da quella mattina, qualcuno lo aveva rimproverato, il ragazzo che lo aveva sorpreso a bere nella cabina e il vecchio che lo aveva battuto a scacchi. Claus aveva difeso ingenuamente il cuore ferito di Sophia, Recius gli aveva ricordato che tutto ciò per cui avrebbe dovuto combattere aveva appena lasciato la nave. Nessuno dei due aveva capito il suo nuovo tormento e quanto fosse tremenda per lui la lotta che stava combattendo per continuare a difendere qualcosa che avrebbe dovuto dare un senso alla sua vita e che non vedeva più.

Si sentiva un fantasma, mentre percorreva lo stesso corridoio deserto in cui Sophia lo aveva trovato la sera prima. Ora i suoi passi gli giungevano come se appartenessero ad un altro, forse all’uomo che già, nella confusione di avere scoperto d’amare, aveva percorso i metri tra una cabina e l’altra e sfiorato una porta e poi baciato la fronte che si offriva a lui e affondato le mani in capelli soffici e cercato una bocca per colmare la distanza tra ciò che era e ciò che poteva essere.

Entrò senza rumore nella cabina del vice-comandante completamente vuota. Lei non era dentro, non era in nessun posto. I suoi libri mancavano, gli scaffali erano vuoti, gli spazi desolati. Tutto era stato lasciato in un ordine anonimo, come se lei non avesse mai vissuto là dentro e nemmeno sulla nave.

Ma l’aria – ogni particella di ciò che Alex respirava - sembrava ancora impazzire di lei: il suo profumo resisteva tenacemente, fluttuava sul letto, tra le pareti di metallo, come una creatura imprigionata in una gabbia.

Era il profumo che aveva assaporato dal suo collo, assorbito dai suoi capelli, inseguito in ogni parte del suo corpo, odore di pelle e di fiori nel quale si era stordito, mentre tutto di lei sembrava dirgli che Yuris non c’era più e che l’unico sorriso al quale avrebbe voluto rispondere non era quello fissato dalla vecchia fotografia ma quello di Sophia.

Alex si lasciò cadere sul letto.

Yuris ormai non c’è più.

Ma no, non era per questo che ora si sentiva vuoto e solo.



Segue capitolo 14…



Note e ringraziamenti

Non vedo l'ora di finire questa storia. Non ne posso più! Ma ci sono varie cose da raccontare ancora e spero che non abbiate perso la pazienza. Ringrazio le persone che hanno letto, amato e recensito.

Stavolta (ma solo per questa volta), però, lascio una risposta solo alle due ragazze che non avevano mai recensito prima, perché so che hanno tardato a farlo per timidezza.

Aleteia – Anche tu hai fatto una gran bella analisi, non ti è sfuggito niente. Mi piace troppo quando i lettori sentono e si emozionano proprio come speravo. Sul fatto che Alex sia proprio un personaggio alla Byron, ti do completamente ragione. Ti dico solo questo: nel capitolo 2, quello del vino, e poi nel 12, ho messo proprio una citazione da Byron (quando Alex dice che ci sono piante bruciate dal gelo alla radice e poi nel 12, quando pensa di essere una pianta uccisa dal gelo, riprende proprio un monologo del Manfred di Byron.

Halina – veramente, mi sorprendo sempre quando dicono che nelle mie pagine metto tutte queste emozioni. Io non me ne rendo conto. Grazie anche a te, è troppo bello sapere che ho un’altra lettrice così fedele.

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