Luce dalle crepe di Kanchou (/viewuser.php?uid=27080)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Risveglio ***
Capitolo 2: *** 2. Ascensore ***
Capitolo 3: *** 3. Inquietudine ***
Capitolo 4: *** 4. Senza mantello ***
Capitolo 5: *** 5. Passo indietro ***
Capitolo 6: *** 6. Vento ***
Capitolo 7: *** 7. Definizione dell'amore ***
Capitolo 8: *** 8. Pilota e navigatore ***
Capitolo 9: *** 9. Sul precipizio ***
Capitolo 10: *** 10. Addio ***
Capitolo 11: *** 11. Liberazione ***
Capitolo 12: *** 12. Una notte ***
Capitolo 13: *** 13. Yuris ormai non c'è più ***
Capitolo 1 *** 1. Risveglio ***
Luce dalle crepe
di Kanchou
1.
Risveglio
La divisa è grigio-nera, stesso
colore del carbone, in contrasto con l’argento dei bottoni, dei gradi e delle
decorazioni di colletto e giro-vita, che il comandante ha voluto lineari, senza
fronzoli. La parte di sotto è una gonna a tubino che sale quasi fino all’altezza
del seno, la parte di sopra un corpetto corto: gonna e corpetto sono stretti non
per esaltare le forme ma per contenerle.
Sophia Forrester si sveglia molto
presto la mattina, si lava rapidamente ma con accuratezza, e non apre mai la
scatola del trucco. All’uscita dalla doccia passa davanti allo specchio e per un
attimo sulla superficie vede riflessa l’immagine bianco latte del suo corpo
snello ma formoso. A volte, per una debolezza della quale dopo si vergogna,
indugia sull’immagine più del dovuto e si trova a guardare il proprio corpo come
attraverso gli occhi di Alex, soffermandosi impudicamente sulle gambe lunghe, i
fianchi femminili, la vita stretta, il seno abbondante, di cui si è sempre un
po’ vergognata.
Fascia bene il seno perché non rompa
la linea austera della divisa, indossa calze spesse, corpetto e gonna, poi gli
stivali di cuoio. Rimangono i capelli. Sono la cosa più importante. Sophia sa
che la vista dei suoi capelli lunghi, setosi, e del loro colore caldo, simile a
quello delle foglie d’autunno, sprofonda il comandante nella malinconia. Sophia
non può modificare il proprio viso né il corpo né la carnagione e nemmeno il
taglio delicato degli occhi. Non può cancellare la propria somiglianza con
Yuris, sua cugina, inghiottita per sempre dal Grand Stream dieci anni prima. Ma
può mascherare lo splendore dei capelli: li imprigiona in due trecce che avvolge
intorno alla testa, come una corona, e chiude a chiave la prigione con un
fermaglio, sopra la nuca. Il fermaglio è la chiave: un giorno Alex, se vorrà,
non dovrà fare altro che usarla.
Quanto al resto, la divisa, gli
occhiali da maestrina e l’atteggiamento rigido e professionale possono essere
sufficienti a evitare ad Alex quella parte di sofferenza di cui lei è
responsabile. Sophia è pronta. E’ trasformata. Il vice-comandante della Silvana
può uscire dalla cabina.
§§§
Quella mattina, mentre Sophia ancora
nel letto apriva gli occhi, nella cabina del comandante Alex si svegliò di
soprassalto. Come non gli accadeva da tempo, era riuscito a dormire per qualche
ora, finché tra le immagini confuse e oscure dei suoi sogni si era formata
quella di Yuris, la donna che amava. Per la prima volta da anni non era tornata
a lui mentre moriva, mentre gridava precipitando nel vortice del Grand Stream.
Alex aveva sognato la luce e l’erba alta, e Yuris che lo avvolgeva, come la
prima volta, e la spirale profumata e incandescente dei suoi capelli che gli
cingeva il corpo e le sue gambe atletiche intorno ai fianchi e il suo seno
turgido contro le labbra e l’odore della sua pelle, leggero, fresco, distillato
dal vento, dalle nuvole, dal cielo di cui la sua carne pareva composta come la
pioggia a primavera.
Il cuore era affondato in un
sentimento di gioia disperata.
La sensazione di lei era diventata
sempre più viva, ma proprio nell’attimo in cui un’onda violenta gli aveva scosso
il corpo, dai capelli di Yuris era emerso un volto diverso, al posto degli occhi
scuri di lei, gli occhi verdi di Sophia. Alex aveva sentito una vertigine di
piacere immenso e di terrore nello stesso istante e si era svegliato così,
sconvolto e spaventato.
Qualcuno aveva detto che soltanto i
morti non sognano. Forse per questo Alex aveva smesso da tempo di sognare, a
parte l’incubo del Grand Stream che divorava Yuris, Hamilcar, George e il
ragazzo idealista e appassionato che era stato lui.
Ma quella visione? Da quale assurda
parte del suo cervello era spuntata?
Alex non voleva pensarci, non voleva
sapere. Cercò di cancellare sotto il getto della doccia ciò che era successo.
L’acqua gelida scorreva sulla testa, sulla nuca, sulle spalle, sul ventre e
lavava via tutto. Così doveva essere.
Dopo, quasi senza accorgersene, si
fermò davanti allo specchio. Alex si sentiva più vuoto, più estraneo del solito
all’immagine riflessa. Dai capelli una goccia scivolò perfidamente alla base del
collo. La seguì con lo sguardo. Lì, in quel punto preciso, tra la clavicola e il
petto, lei amava baciarlo dopo aver fatto l’amore. Rivide, come un lampo
doloroso, la sua mano bianca sopra la propria pelle bruna.
Dieci anni. Un’eternità. Inghiottita
dal tempo. Come tutti i morti, come se non fosse mai
esistita.
Dopo dieci anni, che cosa era rimasto
di lei? L’immagine di quella mano, la traccia sbiadita del suo sorriso. Ricordi
sparsi, scintille di luce che sprizzavano nel buio inaspettatamente, a
tradimento. E lui, che cosa sentiva per lei? Era amore? Era ancora quell’amore? O soltanto il rimorso che
si dimenava nelle sue viscere come un mostro rabbioso?
Si accorse di stringere i denti, di
tremare. Fissò l’uomo nello specchio e lo vide così inerme e solo e giovane,
ancora troppo giovane per quei dieci anni, per tutto quanto.
Un gemito sordo dal fondo del petto.
Non era bene, non era da lui.
La divisa color carbone era già sul
letto, pronta per essere indossata. Era il suo doppio disteso dove dormiva lui,
l’unico Alex possibile, non quello che aveva sognato Sophia, non quello
paralizzato davanti allo specchio e nemmeno quello affamato del corpo di Yuris e
del suo amore. E dell’amore, qualsiasi amore che fosse puro, buono,
appassionato.
Le brache, la camicia immacolata, la
giubba attillata, gli stivali che l’attendente puliva e ingrassava con cura
maniacale, cintura, bandoliera, pistola. La cintura e la sua fibbia, il
lucchetto che chiudeva a chiave i sentimenti, le emozioni e tutte le maledette
tracce della debolezza, della lesione profonda e segreta dell’anima. E i guanti
neri. E la corazza impenetrabile del mantello, il tintinnio del fermaglio
d’argento che lo assicurava alle spalle e dava il colpo di grazia a ciò che non
doveva esistere.
Strato dopo strato, il comandante Row
riprendeva forma. Non c’era esitazione nel suo passo, mentre lentamente
abbandonava la cabina.
Segue capitolo
2…
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Capitolo 2 *** 2. Ascensore ***
2.
Ascensore
Prima che la porta si chiudesse,
Sophia lo raggiunse nell’ascensore che saliva al ponte di
comando.
Entrando, non si accorse che il
comandante aveva avuto una specie di sussulto.
“Buongiorno, signore.” La sua voce
era vivace, quasi giocosa, perché Sophia sapeva come ignorare la tristezza.
Perché era semplicemente contenta che un nuovo giorno fosse cominciato, accanto
a lui.
Questo Alex lo sapeva da tempo, così
come si era accorto che Sophia lo guardava con la coda dell’occhio, quando erano
sul ponte di comando; o di come rimanesse senza fiato se sulla pista di decollo
il vento all’improvviso gli scostava i capelli dal volto. E vedeva anche la
lotta che Sophia combatteva per nascondere il proprio sentimento e far tacere la
ragazza timida, inesperta dell’amore, che affiorava dalla superficie efficiente
e professionale del vice-comandante.
Sophia entrò e per qualche misterioso
motivo non cercò la solita posizione alle spalle di lui, ma si fermò presso la
porta, il viso all’altezza del suo petto. L’ascensore si chiuse e Sophia,
accorgendosi che la nuova collocazione comportava il pericolo di una maggiore
intimità, tentò di apparire naturale, sollevò gli occhi e gli sorrise con tutta
la franchezza di cui era capace. Ma nello stesso momento si rese conto che la
precauzione era stata inutile, perché il comandante non aveva abbassato lo
sguardo e stava immobile e indifferente come se nessuno fosse mai
entrato.
Sophia chinò la testa, controllando e
quasi nascondendo pure a se stessa l’ennesima piccola umiliazione che quel
disinteresse abbatteva sull’accenno di speranza che le scaturiva spontaneo dal
cuore tenero e ostinato appena era in presenza del comandante. Nessun segnale da
parte di lui, mai, quando lei gli gettava quei piccoli ami ai quali sarebbe
stato facile e naturale aggrapparsi per uscire dalla solitudine nella quale si
era rinchiuso. Nessun segnale, nemmeno un accenno, come se neanche si accorgesse
della sua esistenza.
Eppure a volte Alex si confidava con
lei. C’erano momenti, rari come grani d’oro in una miniera ormai esaurita, in
cui Alex le raccontava, seppure con frasi essenziali, il suo passato, lampi di
vita che esplodevano nel buio illuminando per brevi attimi i suoi occhi cupi e
spenti. A volte, nelle battute ironiche che si scambiavano, c’era persino più
intimità che tra due amanti. In quei momenti Alex le concedeva gran parte di ciò
che era rimasto vivo del suo cuore, le briciole sparse e rinsecchite di
un’esistenza che un tempo era stata piena di passione.
Ma c’era una soglia oltre la quale
Sophia non poteva avanzare. Allora Alex le appariva irraggiungibile e remoto
come l’anima perduta di una persona morta, che il cuore continua a desiderare e
rimpiangere pur non avendo alcuna speranza di rivederla mai
più.
“Buongiorno, Sophia.” Alex rispose
con la stessa voce distante di quando impartiva gli ordini sul ponte di comando.
Aveva i capelli ancora bagnati. Sophia pensò che fosse bello, vederlo così. Con
le ciocche lucide d’acqua si portava addosso l’intimità della cabina, quando non
aveva il nero, il grigio, l’argento addosso. Non aveva mai visto la sua pelle,
tranne che il viso e le mani. Tutto il suo corpo doveva avere lo stesso colore
ambrato ed era meraviglioso immaginarlo dorato ai raggi del sole che passavano
dall’oblò e contrastante con il bianco della mano che lo accarezzava. Quella del
suo vice, naturalmente.
Sophia si vergognò di questo pensiero
e arrossì. Controllò che Alex non se ne fosse accorto. Ancora impassibile,
sfuggente. Palpebre mezze chiuse. Che cosa pensava, dove fuggiva, quando aveva
quell’espressione?
L’ascensore saliva dentro la spina
dorsale della Silvana ronzando lievemente.
“Comandante, ha saputo che la moglie
di Campbell ha partorito?” chiese Sophia sorridendo.
“Campbell è stato nella mia cabina,
ieri sera, appena ha ricevuto la lettera” rispose il
comandante.
“E non crede, signore, che sarebbe
opportuno fare qualcosa per lui?”
Il modo che Alex aveva di comunicare
che non aveva capito era un battito delle palpebre tra lo scettico, per
scoraggiare chi volesse solo disturbarlo, e l’interrogativo, per mettere fretta
a chi avesse qualcosa di davvero interessante da dirgli.
“Considerato quanto Campbell sia
importante per tutti noi,” continuò Sophia “sarebbe gentile se a pranzo una
rappresentanza degli ufficiali e dell’equipaggio lo festeggiasse con un brindisi
speciale.”
“Non ho niente in
contrario.”
“La presenza del comandante sarebbe
fondamentale…”
Silenzio.
Alex le rivolse un’occhiata più
obliqua del solito con l’intenzione precisa di intimorirla. Tentativo inutile. A
volte Sophia riusciva a produrre un vero capolavoro di faccia tosta, ciglia
tremendamente seducenti, sorriso indistruttibile, occhi candidi e determinati
che nemmeno l’occhiata “Potrei ammazzare per molto meno” di Alex aveva il potere
di smontare.
“Non credo.”
“Peccato, comandante, l’ho già
promesso a Campbell. E ho anche pensato che un uomo notoriamente generoso come
il nostro comandante avrebbe approfittato dell’occasione per aprire quelle due
stupende bottiglie di vino d’annata che ha comprato all’ultima
asta…”
L’ascensore si aprì, uscirono verso
il portello della sala di comando.
“Sophia…”
“Signore.”
“Credevo di essere io il comandante
della Silvana.”
§§§
Sophia organizzò un pranzo perfetto.
Il tenente colonnello Campbell, timoniere della Silvana, si era sposato tardi e
a trentaquattro anni aveva ora il primo figlio. C’era una tenerezza particolare
sul suo viso, quel giorno, e Sophia pensò che tutti i padri dovessero avere
quell’espressione di quieta felicità. La immaginò sul volto di Alex. Avrebbe mai
provato, il suo comandante, quella gioia? Avrebbe mai disteso il volto in quel
sorriso sereno?
La conversazione era allegra,
spiritosa. Questo era il paradosso della Silvana: che sulla nave più temuta del
mondo, la Silvana che uccide tutti, e con un
comandante tanto introverso, l’atmosfera fosse sempre amichevole e
sincera.
Nella festa persino Alex sembrava
rilassato. E Sophia si sentiva il suo sguardo da felino addosso, mentre lei
scambiava battute con i commensali.
“Questo vino” diceva Campbell “è il
migliore che abbia mai bevuto.”
“Non è curioso” osservò Sophia “come
il vino migliore sia anche quello che tra i vari sapori non faccia mancare una
punta di aspro e di amaro?”
“Filosofica osservazione,
vice-comandante!” esclamò un ufficiale. ”Proprio come l’amore: dolce e amaro.”
“O come la vita stessa! Che mescola
dolcezza e amarezza, gioia e infelicità, e a noi il piacere di assaporarne il
perfetto dosaggio” disse Campbell.
Alex sorrise
malinconicamente.
“E lei, comandante? Non è d’accordo?”
chiese Sophia.
“Il dosaggio perfetto non esiste.
Beviamo sempre un vino troppo amaro” rispose Alex.
“O troppo dolce!” esclamò un
ufficiale.
Sophia continuava a fissare Alex
negli occhi. Curiosamente, lui non li abbassava.
“Se permette” disse Sophia “credo
che non sia soltanto questione di
amaro o di dolce. Credo che il vino migliore sia fatto come le persone migliori.
Il vino buono è quello che ha una storia. Ecco perché le persone migliori, come
il vino amaro, sono quelle che hanno sofferto. Perché hanno una storia. Ogni
storia ha la sua parte di sofferenza.”
Alex l’ascoltava accarezzando lo
stelo del calice con un dito. Era meravigliosa, in quel momento, la regina di
tutti loro. E meraviglioso che dicesse quelle cose.
“A volte la grandine cade sull’uva
matura. Ci sono persone bruciate dalla prima gelata” disse
Alex.
“Ma nessuna gelata uccide la pianta
fino alla radice. Dal dolore, si rinasce sempre,
comandante.”
Un ufficiale propose un nuovo
brindisi. Campbell ringraziò e scoppiò a ridere. Non era felice soltanto per il
figlio appena nato. A quel tavolo aveva appena assistito a un miracolo. Sophia e
il comandante, i loro occhi avvinghiati. Avevano completamente dimenticato la
presenza degli altri.
Continua nel capitolo
3…...
Mi ero ripromessa di rispettare
completamente i caratteri originali. Secondo me la storia di Last Exile è
perfetta così com’è, con un Alex che a Sophia e a se stesso non concede niente,
trovo che sia persino più romantica. Perciò non avevo nessuna intenzione di
scrivere quello che ho scritto, ma poi non ho resistito ad ammorbidire Alex e a
farlo scendere dal piedistallo. Mi piacerebbe sapere se in questa fanfic l’ho
alterato troppo oppure se è rimasto sempre lui, almeno un
po’.
Un’altra cosa: mi sento in colpa –
ehm ehm! – a fargli fare sesso per davvero (a parte il fatto che lemon è lemon e
non mi rimangio niente). Mi sembra di usurpare il cuore dei personaggi. Deciderò
per strada che cosa far combinare a questi due che comunque sono una bomba a
orologeria anche nell'anime.
Grazie per le belle recensioni.
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Capitolo 3 *** 3. Inquietudine ***
3.
Inquietudine
Maledizione, che cosa mi
succede?
Il seggio di comandante non era mai
stato tanto scomodo. Le vibrazioni metalliche della nave, lo scatto e il ronzio
delle apparecchiature di bordo non erano mai stati tanto assordanti. La testa
appoggiata alla mano, Alex combatteva silenziosamente con l’inquietudine che lo
agitava dall’assurdo risveglio di quella mattina. Sophia, che non si era accorta
di nulla, stava alla postazione del vice-comandante come una sentinella sulla
cima di un presidio. Professionale, marziale, apparentemente inattaccabile.
Soltanto lui, dunque, si accorgeva che quella era soltanto la maschera che si
era messa addosso per sentirsi degna di affrontare il mondo? Soltanto lui
vedeva, con la stessa chiarezza di quando un tempo aveva svelato la natura
tenera di Yuris sotto la scorza selvaggia del navigatore, che Sophia era
soltanto una fanciulla insicura e delicata?
Quella mattina era entrata
nell’ascensore riversandogli addosso la violenta sensazione di freschezza e
smarrimento con la quale un colpo di vento disperde i fogli in una stanza. Era
così assurdamente, inconsapevolmente bella! Aveva sollevato gli occhi verso i
suoi come una donna innamorata e Alex, sentendo che non avrebbe potuto
nascondere la propria confusione, aveva allontanato lo
sguardo.
Sophia era raggelata. Alex lo aveva
sentito nitidamente, come aveva sentito – e sentiva ancora nella sala di comando
– il suo odore, il profumo mescolato del sapone e della pelle, leggero,
impercettibile a chiunque ma non a un predatore come lui, la traccia del calore
notturno, un calore fatto di desideri e di fantasie inespresse, che la doccia
non aveva cancellato dalla morbidezza bianca del collo, dal seno compresso
dentro la divisa.
Era raggelata, e lui, con un senso di
colpa al quale aveva fatto l’abitudine, ne era stato contento. Soffriva, Sophia,
si struggeva per lui e subiva la sua indifferenza come una pianta docile che si
fa piegare e percuotere da una tempesta, senza però spezzarsi mai. A volte Alex
la metteva alla prova, la trattava male solo per vedere fino a che punto Sophia
potesse sopportare uno come lui. Si odiava, per questo, quasi quanto odiava lei
perché non scappava, non si ribellava, e perché non gli gridava quello che lui
stesso avrebbe voluto sentire, che era un pazzo, un uomo senza
cuore.
La odiava, quando sentiva, dalla
distanza nella quale si era rifugiato, che soltanto lei, di tutte le persone al
mondo, lo comprendeva. Per questo, perché capiva quanto fosse disperato, Sophia
non gli chiedeva nulla in cambio del conforto discreto che con la sua presenza
gli donava. Un tempo anche lui aveva amato così, con quella devozione, e aveva
provato su se stesso che l’amore, persino quello ricambiato, s’intreccia per sua
natura col dolore.
Un tempo anche lui aveva amato. No,
amava ancora. Amava nel modo più inutile e disperato, perché amava qualcuno che
non era più, polvere nel vento.
In questo non era diverso da Sophia.
Anche Sophia amava qualcuno che era morto dieci anni prima.
§§§
“Siamo in vista di Nordkhia,
signore.”
A Nordkhia andavano per recuperare il carico. Dopo l’ultima battaglia di
Minagith e lo sfondamento delle difese di Anatorey da parte della flotta di
Disith, Marius Bassianus, il consigliere imperiale, aveva scritto ad Alex che
la Silvana, la
nave più sicura al mondo, avrebbe dovuto proteggere e nascondere fino ad un
nuovo ordine la persona che era considerata la chiave dell’Exile. La consegna
del carico, il cui trasporto era stato affidato a Ralph Wednesday, il miglior
corriere della Corporazione delle vanship, sarebbe avvenuta all’ora stabilita e
in assoluta segretezza nel tempio abbandonato di Nordkhia.
Attraverso l’interfono Sophia ordinò
al responsabile dell’hangar di preparare la vanship del
comandante.
“Signore,” disse poi rivolgendosi ad
Alex “è sicuro che sia opportuno andare personalmente a ritirare il carico?
La
Gilda…”
“Tieniti alla dovuta distanza. Se
avvisti la
Gilda, raggiungimi con la Silvana.”
Alex le lasciò il comando. Dopo
alcuni minuti Sophia, da uno degli oblò del ponte, vide sfrecciare la luce
intermittente della vanship da carico nel cielo ormai buio del crepuscolo e
confondersi rapidamente con il chiarore della roccia di Nordkhia che si
intravedeva all’orizzonte. Anche il rombo del motore si allontanava,
estinguendosi nel ronzio costante della Silvana e delle apparecchiature di
bordo.
Sentiva una grande tristezza per il
comandante: anni prima Ralph, il corriere, era stato compagno di Alex nella
squadra di piloti di Hamilcar Valca. A quanto pareva, Alex, dopo tanto tempo,
continuava a incrociare il passato.
E laggiù, da qualche parte a
Nordkhia, c’era la tomba vuota di Valca.
Segue capitolo
4…
Ho tardato molto con questo
aggiornamento perché – credetemi – non ho avuto testa e tempo per continuare. Io
scrivo sempre di getto e la forma che leggete è praticamente quella buttata giù
subito. Il problema, quindi, non è scrivere ma cominciare a scrivere e trovare
dall’inizio l’”atmosfera giusta”. Comunque ora la fanfic è in via di
completamento, quindi non dovrete aspettare troppo per i nuovi capitoli. Il 4 è
già finito. Diciamo che scrivere del rapporto tra questi due personaggi non è
facile, sono tutti e due complicati e il loro modo di comunicare i propri
sentimenti non è mai diretto. Inoltre, soprattutto con Alex, in una storia come
questa sono sempre a rischio di finire OOC.
Forse abbasso il rating da rosso a arancione.
Grazie per le recensioni e per la
pazienza!
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Capitolo 4 *** 4. Senza mantello ***
4. Senza
mantello
“Provvedi a sistemare il
carico.”
Alex aveva dato l’ordine direttamente
dall’hangar appena era rientrato nella nave.
Per qualche secondo Sophia rimase
attonita, con l’auricolare sospeso alla mano e sotto la pelle la sensazione
nitida che qualcosa di importante fosse accaduto nel tempio di Nordkhia.
Qualcosa che non riguardava solo la Gilda e l’Exile, ma soprattutto Alex e il suo
passato. Le aveva dato l’ordine con una voce strana. Come avrebbe potuto
definirla? Dimessa, forse incredula e soprattutto molto triste. Sophia sentì una
stretta al cuore. Dominò l’impulso irrazionale che la spingeva ad accorrere
nella sua cabina per consolarlo soltanto perché sapeva che Alex non le avrebbe
perdonato che quell’impulso vincesse sul suo senso del dovere. Sophia teneva in
grande conto le proprie responsabilità, perciò sarebbe stata incapace di
tradirle. Tranne che per una persona. E, in realtà, Alex non la metteva mai in
condizione di contraddirsi: dovere e devozione a lui coincidevano sempre, perché
tutto ciò che Alex le chiedeva era di comportarsi da vice-comandante degno della
sua nave.
Andò ad occuparsi del carico.
Certe volte Sophia - persino
la Sophia, che
non esitava a trasmettere l’ordine di aprire il fuoco su una nave avversaria e
di uccidere centinaia di persone - era sconvolta dalla rudezza del comandante.
Il carico non era altro che una bambina. La bambina più adorabile e
tenera che avesse mai visto. Dormiva nell’hangar, su un divano nella cabina dei
meccanici. Godwin, il capo-meccanico, le aveva detto che la piccola era svenuta
nel tempio, durante l’aggressione della Gilda, e che non si era più
svegliata.
Sophia si chinò su di lei. Respirava
regolarmente, muovendo appena il labbro superiore. Un angioletto dai capelli
biondo platino e il visino puro come prima acqua. Su di lei, sul cappottino
rosso e bianco, era disteso il mantello nero del
comandante.
A Sophia scappò un sorriso.
Il carico. Sì, poteva anche
chiamarla in quel modo, rudemente, disumanamente. Ma si era preoccupato che quel
carico, nell’hangar della Silvana, non patisse il freddo.
§§§
La vanship.
Il lampo argentato che schizzava nel
cielo con la lucentezza magica ed euforica di una stella solitaria. Metallo e
gioia pura, il rumore vivo e inconfondibile che tante volte si era mescolato con
la voce di Yuris, con le sue risate in volo, con il battito del proprio stesso
cuore.
Ora, la vanship materializzata dal
nulla, staccata direttamente dalla sostanza del passato e precipitata davanti ai
suoi occhi.
Alex affondò il viso nelle mani.
Nel buio dentro le palpebre la stessa
vanship si avvitava infinitamente piovendo a capofitto al fondo dell’imbuto
vuoto, vorticoso e spento di luce e di colore, avvinta e sbattuta dalle lingue
informi della corrente fino alla bocca cieca del mostro che non si saziava, per
sempre, lui ancora al posto di pilota, morto non morto, vivo non vivo, svuotato
dal risucchio della vertigine smisurata, urlando al nulla, per sempre inseguendo
l’anima perduta di Yuris.
Non dormo mai. Se chiudo gli occhi, è
soltanto per continuare a cadere. Cadere, vedere nel buio,
cadere.
Il Grand Stream era il pozzo senza
fine, la vanship il sasso precipitato.
La vanship.
L’ultima volta che l’aveva vista,
dieci anni prima, il giorno in cui con le ultime forze aveva lasciato la vanship
a Nordkhia e si era trascinato fino alla porta di Justina, la moglie di
Hamilcar, per portarle la notizia che erano tutti morti. Non aveva soccorso
Justina, non l’aveva presa tra le braccia, quando per il dolore si era
accasciata a terra come un sacco. Per anni si era odiato per questo, quasi
quanto si era odiato per essere sopravvissuto al Grand
Stream.
E dietro Justina, i due piccoli. Li
aveva visti come immagini sfuocate, come le sagome dei pesci nella corrente di
un ruscello. Il velo che allora li aveva separati da lui era lo stesso che
continuava a dividerlo dal mondo. Il velo, o il vetro infrangibile, attraverso
il quale guardava la vita degli altri come uno spettro ormai indifferente, senza
più rimpianto e desiderio tranne che quello di estinguere il proprio nemico e se
stesso in un unico momento.
E chiudere gli occhi per sempre. E
non cadere nel buio, non vedere più.
I due piccoli. Aveva pensato a loro,
negli anni, sempre come li aveva visti quell’ultimo giorno, gli occhi grandi,
sperduti nello sgomento di qualcosa che non comprendevano, mano nella mano,
intimiditi dall’uomo alto e col viso insanguinato che entrando in casa aveva
fatto piangere la mamma.
E invece erano cresciuti, e
nell’attimo stesso in cui li aveva visti lottare nel tempio di Nordkhia, Alex
aveva capito che erano forti, selvaggi, liberi, e che la durezza del mondo non
li aveva sconfitti, anche se erano stati abbandonati da tutti, persino da
lui.
Alex aprì gli occhi e istintivamente
li posò sulla fotografia di loro quattro, quella che per torturarsi teneva sulla
scrivania: Hamilcar e George, Yuris e il suo uomo contro lo sfondo delle
vanship, il giorno stesso in cui avevano sfidato il Grand Stream, il giorno in
cui Alex aveva smesso di dormire. Yuris che non si lasciava scappare l’occasione
di prendere in giro, si trattasse del suo vecchio istruttore o del giovane
troppo serio che l’amava o della macchina fotografica che la stava
ritraendo.
Forti, selvaggi, liberi, proprio come
erano stati lui e Yuris, così erano i due ragazzi di Nordkhia, i figli dei suoi
amici morti.
Per questo la vanship volava ancora.
Per questo di nuovo il dito d’argento sfiorava il cielo.
Per questo? Per
questo?
§§§
Sophia
bussò.
Non udì risposta, entrò, fece due
passi, non osando avvicinarsi troppo al comandante che mezzo disteso sul divano
fissava la finestra.
“Ho pensato di portarle questo,
signore.” Depose sulla scrivania il mantello che aveva trovato nell’hangar. Alex
si voltò e Sophia poté notare con un tuffo nel cuore l’espressione mesta, quasi
languida, del suo viso, e somigliante al tono della voce che poco prima era
passata per l’interfono.
“Ho provveduto a sistemare il carico
come aveva ordinato, signore.”
Alex assentì con un cenno quasi
impercettibile del capo, un fruscio lieve dei capelli scuri o forse della pelle
contro il colletto rigido della divisa. Teneva gli occhi bassi, non per
nascondersi, ma per non affrontare il pietoso riflesso di se stesso che avrebbe
visto negli occhi di Sophia.
“Ralph Wednesday è stato ucciso dalla
Gilda” disse il comandante. La voce si scurì. “Il corriere che ha portato in
salvo il carico non era lui, ma il figlio di Valca. Il suo navigatore, la figlia
di George.”
Sophia sgranò i grandi occhi verdi al
tempo stesso nella confusione di apprendere l’incredibile notizia e nella
consapevolezza del significato immenso che l’incontro di Nordkhia aveva nella
vita del comandante. Il destino si divertiva ad incrociare i fili delle loro
vite, per quanto a loro invisibili, per quanto si sforzassero di tenerli
separati.
“Capisco…” disse Sophia. Aveva
imparato da tempo a distinguere quando fosse opportuno tacere e quando invece
qualche parola ben dosata potesse alleviare lo spirito oppresso del comandante.
Non aggiunse altro, lasciando che la propria compassione fluisse verso di lui
attraverso il silenzio e il pulsare avvolgente e continuo della Silvana.
Alex si alzò in piedi. “I due ragazzi
non hanno preso bene il fatto che il carico sia finito sulla Silvana” disse. Si
mosse lentamente verso di lei, ancora fuggendo il suo sguardo. “Se tentano di
salire a bordo, li scacceremo. Devono stare lontani da noi, da tutto quanto. Sai
come fare.”
Nel linguaggio della Silvana “tenere
lontano da noi” significava usare i cannoni.
Perciò Sophia sorrise e chiese:
“Quello che penso io, signore? Il modo che abbiamo usato quella volta col
corriere imperiale a Othland?”
Richiamato dall’allusione scherzosa,
lo sguardo di Alex sfiorò ammorbidito il volto di Sophia. Strano, pensò Sophia,
come quegli occhi a volte avessero il colore e la lucentezza di vetro
dorato.
“Esatto” rispose Alex, e di nuovo
sfuggendo da lei prese il mantello che Sophia aveva disteso sul
tavolo.
Non era abituata a vederlo indossare
soltanto la divisa. Per pochi istanti, prima che il mantello gli avvolgesse le
spalle, Sophia avvertì la vicinanza snella e solida del suo corpo non ancora
protetto e nascosto dalla cortina di tessuto nero che sempre, senza eccezione,
Alex indossava in sua presenza. Sentì la vita forte e stretta, l’altezza che la
sovrastava senza minacciarla, il collo che improvvisamente indifeso sorgeva a
portata di bacio dal colletto marziale, se solo Sophia avesse trovato il
coraggio di sollevarsi sulla punta dei piedi.
“Comandante…” disse lottando col
rossore. “La vanship che ha portato il carico è forse
quella…”
Lui, già cominciando a chiudere il
fermaglio d’argento che univa sotto al collo i lembi del mantello, si
fermò.
Si trovò a guardare dentro i suoi
occhi, arreso alla sensibilità con la quale ancora una volta era stata capace di
leggergli nel cuore.
Gli occhi che si evitano sono spesso,
in realtà, occhi che si cercano. Con le braccia ora abbandonate lungo il corpo,
Alex non precipitava più nel buio del Grand Stream ma nella tenerezza verde
degli occhi di Sophia, e lei, come un fiore risvegliato dal calore del sole, gli
andava incontro.
Questo, soltanto questo, le sarebbe
bastato per essere felice. Che lui la guardasse così, che si abbandonasse a lei,
fragile, fiducioso, consegnando nelle sue mani i frammenti della propria anima
ferita. Questo le sarebbe bastato per sentirsi forte, più di lui, talmente forte
da affrontare tutto il mondo. Forte come era adesso nella certezza di averlo,
soltanto per quell’attimo, legato a sé.
Non pensò alle conseguenze del gesto.
Sophia osò ciò che pochi secondi prima le sarebbe parso impossibile e sollevò le
mani per chiudere lei stessa il fermaglio. Con le dita, percepì il leggero
sussulto di Alex sotto la piastrina d’argento. Infilò i lacci, li tirò un poco,
chiuse il fermaglio con uno scatto.
Alex la lasciò fare, abbandonato al
piacere incomprensibile di sentire le dita di Sophia a pochi millimetri dalla
pelle. Vicino, troppo vicino alle labbra, lo tentavano il suo odore mielato, la
pelle del viso delicata come latte, il palpito della dolce determinazione ad
essere sua. Sarebbe bastato così poco, sollevarle il viso, baciarle la fronte,
prendere la sua bocca, entrare nel suo bacio, non lasciarla più.
Un dito, chiudendo il fermaglio, gli
sfiorò la pelle sopra il colletto argentato della divisa.
Subito, lo scatto della mano di Alex
per afferrarle il polso.
Le bloccò la mano, l’allontanò da sé.
Freddamente disse: “E’ tempo di
tornare sul ponte, Sophia. La
Gilda attaccherà.”
Segue Capitolo 5…
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Capitolo 5 *** 5. Passo indietro ***
5. Passo
indietro
Nell’hangar i meccanici avevano già
cominciato a riparare i danni subiti durante l’aggressione della Gilda.
L’incendio nell’ascensore da carico era stato finalmente domato e i meccanici,
anneriti dalla fuliggine, si erano messi all’opera per rimettere in sesto le
vanship da combattimento che erano state recuperate.
Sophia si sentiva sollevata. I danni
non erano gravi e per fortuna nessuno dei piloti era morto o ferito gravemente.
Persino i due ragazzi erano tornati incolumi. Era stata un’imprudenza mandarli a
combattere. Sophia, lo stesso comandante, avevano seguito l’istinto e non si
erano opposti alla richiesta di Claus. Ma se ai due ragazzi fosse successo
qualcosa di grave, non avrebbero potuto perdonarsi. Dovevano tenerli lontani
dalla Silvana, aveva detto Alex, e invece non solo non li avevano allontanati
dalla nave, ma non avevano impedito che mettessero in pericolo la propria
vita.
L’hangar rimbombava di rumori
assordanti, le gru in movimento, i trapani, le saldatrici, le unità claudia
accese. Erano tutti al lavoro, nessuno sembrava far caso alla presenza del
vice-comandante.
Sophia era stanca, stordita.
Nell’ultima giornata era accaduto di tutto. E ripensando a quello strano
incontro nella cabina di Alex, ancora non riusciva a comprendere che cosa
concretamente fosse accaduto. Forse niente, forse era stata soltanto
immaginazione.
Perché subito dopo il comandante era
tornato ad essere quello di sempre, distante, insondabile, una roccia salda e
levigata che a lei non offriva alcun appiglio. Gli bastava un solo colpo per
uccidere: così, a sangue freddo, aveva difeso personalmente il ponte e il carico
durante l’attacco. Così, con una sola occhiata indifferente, aveva freddato lei.
Tutto come prima. Nemmeno quel giorno
ciò che Sophia sperava era accaduto. Avrebbe aspettato ancora, un altro giorno e
un altro e un altro ancora.
Si ritrovò proprio davanti alla
vanship dei due ragazzi. Era accartocciata, mezza distrutta,
irriconoscibile.
Ma era proprio una delle due vanship
della foto che stava sulla scrivania del comandante. La vanship di Alex e di
Yuris resuscitata dal passato.
Sophia l’aveva vista tanti anni
prima, visitando l’arsenale di Nordkhia oppure quando Yuris andava a trovare la
giovane cugina nella Città imperiale. A quel tempo Alex sorrideva. Era già
bello, bello come Yuris. Erano perfetti, come il loro modo di volare e di
sfidare il cielo.
In Accademia, a palazzo c’erano forse
ragazzi più belli di lui. Ma Alex era speciale. Era…
Sophia appoggiò la fronte alla
fusoliera della vanship.
Si commiserava, era perduta, se
pensava quelle cose. Non erano degne di lei, del vice-comandante di quella nave
e nemmeno della ragazza che aveva amato Yuris come una
sorella.
Che cosa avrebbe pensato Yuris di
lei, adesso? L’avrebbe odiata?
Sentì un gelo nel
cuore.
Io dovrei odiare te. Io. Perché tu
sei morta e continui a tenerlo per te. Perché lui è vivo e tu non lo lasci
libero. Perché tu non hai mai compreso il cuore di Alex, eppure ti appartiene.
E non è giusto, non è giusto, non è
giusto!
Un ticchettio sul metallo. Le lacrime
che cadevano sulla vanship. Sophia staccò la fronte, guardò le gocce cristalline
che scivolavano sulla superficie d’argento. Il frastuono dell’hangar la
richiamava alla realtà e al suo ruolo di vice-comandante, il vice di
Alex.
No, non la odiava, non l’avrebbe mai
fatto. Ma sentiva una pena immensa per lei, per lui, per se
stessa.
§§§
Alex tornò dall’ispezione ai settori
della nave danneggiati dall’attacco della Gilda. La Silvana, il carico, erano
salvi perché l’equipaggio aveva fatto il proprio dovere: aveva mantenuto il
sangue freddo, proprio come il comandante. Questa era la sola cosa che Alex
trovava rassicurante, che lui, i suoi uomini, la nave funzionassero come una
cosa sola. Fare sempre ciò che andava fatto, senza complicazioni
personali.
A volte si domandava fino a che punto
lui stesso sarebbe stato capace di obbedire a questo principio. Di distruggere i
brandelli di vita ai quali era aggrappato non gli importava, purché ciò non
avvenisse prima di aver ottenuto la morte del suo nemico. Ma fino a quale limite
sarebbe potuto rimanere indifferente al destino degli altri, dei suoi uomini,
dei suoi amici di un tempo, se avesse dovuto sacrificarli per la propria
vendetta?
Da tempo aveva smesso di temere la
risposta. Tutto, avrebbe distrutto il mondo intero, pur di uccidere il Maestro.
E se la debolezza del dubbio indeboliva questa determinazione, gli bastava
fermarsi, appoggiare il palmo della mano alla parete metallica della Silvana e
raccogliere nella carne la vibrazione pulsante che saliva dal basso, dall’Unità
della nave, fondendola col battito del proprio stesso cuore: anche lui era una
macchina di morte, un cuore che pulsava soltanto per
distruggere.
Era follia, ma una follia necessaria.
Ed era quella follia il motivo per cui Sophia si trovava sulla Silvana. Marius,
il Consigliere imperiale, l’aveva messa al suo fianco per sorvegliarlo ed
evitare che la sua furia vendicativa distruggesse l’Exile per colpire Delphine.
Di fronte a questa imposizione Alex aveva dovuto chinare la testa. Marius, il
padre di Yuris, era l’incarnazione del suo senso di colpa. Con lui Alex sarebbe
stato in debito per sempre, perché dal Grand Stream era tornato da solo, e vivo.
Per questo, all’inizio, aveva
trattato Sophia gelidamente, al limite della disumanità.
Per mezzo di lei Marius l’aveva
colpito dove la ferita faceva più male. Attraverso Sophia, Marius non solo lo
controllava, ma alimentava i suoi rimorsi. Perché Sophia somigliava a Yuris
abbastanza da farlo soffrire tutte le volte che lo guardava, gli parlava, gli si
avvicinava. Le prime settimane dopo che Sophia era salita a bordo della Silvana
Alex era stato sull’orlo del delirio. Sophia aveva la stessa bellezza delicata e
gentile di Yuris, gli stessi capelli da accarezzare, da sentirsi piovere
addosso, e quel sorriso che ti faceva perdere la cognizione di te stesso. Gli
faceva male, come una lama nel ventre. Lei che era viva, sorridente,
professionale, mentre Yuris era morte, polvere, dolore, un urlo che si perdeva
nel pozzo senza fondo del Grand Stream.
Col tempo, però, qualcosa era
cambiato. Il cuore pietoso di Sophia si era piegato alla compassione per il
dolore e la follia di Alex; il suo cuore di donna si era aperto al fascino
oscuro e silenzioso di lui. Adesso Sophia era divisa tra la devozione a Marius,
l’uomo che amava come un padre, e quella più irrazionale e ostinata verso il
comandante.
E anche Alex era cambiato. Ora se ne
accorgeva. Tutto ciò che somigliava a Yuris sembrava sparito. I capelli di
Sophia scendevano più chiari e lisci, i suoi occhi verdi non avevano la rabbiosa
voglia di vivere di Yuris, erano calmi, fatti per addolcire e consolare. La sua
pelle delicata, di latte e di rosa, non avrebbe mai preso il colore dorato che
il sole aveva donato alla pelle di Yuris. E la passione di Sophia aveva
un’intensità silenziosa, era amicizia, intimità, intesa, devozione. Ciò che
Yuris non era, era lei. Questo gli faceva paura, più di ogni cosa: che gli
piacesse di lei tutto ciò che a Yuris mancava.
Doveva distruggere anche questo. Non
faceva parte del piano, non era previsto. Lui era morto, lui apparteneva a
Yuris. Tutto il resto era soltanto un’inutile debolezza.
§§§
Claus Valca e Lavie Head entrarono
timidamente nel suo alloggio.
Avevano partecipato al combattimento
contro la Gilda, loro che della guerra avevano vissuto finora soltanto un’eco
lontana. Avevano dimostrato un coraggio incredibile per la loro
età.
Il ragazzo aveva ancora il viso
gonfio di botte – il benvenuto dei meccanici – ma lo sfidava guardandolo negli
occhi.
La ragazza appariva più confusa, ma
non particolarmente intimorita dal comandante.
“Non ho mai visto pilotare una
vanship peggio di così” disse flemmaticamente Alex.
La ragazza storse la bocca e abbassò
la testa, mortificata. Era andata in red-out, una cosa vergognosa per un
navigatore. Claus strinse i pugni.
“Sfido chiunque a pilotare per la
prima volta una vanship da combattimento durante una battaglia come questa!”
gridò il ragazzo.
Alex si alzò in piedi, ma se ne
sarebbe pentito, se avesse avuto coscienza della ragione profonda di questo
gesto. Ora li sovrastava, proprio come dieci anni prima aveva guardato dall’alto
due bambini di nemmeno cinque anni la prima volta che aveva visitato la casa di
Hamilcar, loro due intimiditi nello stesso modo, le testoline, una bionda e una
rossa, che si sollevavano come a guardare la cima di una montagna o la vanship
in volo e poi sgranavano gli occhi e scoppiavano a ridere, rassicurati dal
sorriso buono dello sconosciuto.
Poi lo sconosciuto era diventato
l’amico dei loro papà, quello che portava i regali e per il quale la mamma
preparava sempre la crostata di mirtilli. La crostata, i biscotti di Justina. A
volte Alex ne sentiva ancora il sapore, subito associato al profumo di legno e
lavanda della casa e allo scricchiolio che faceva la soglia quando ci metteva il
piede sopra. Justina amava leggere. Lui le portava i libri dalla capitale, lei
in cambio gli preparava le marmellate e gli cuciva i bottoni delle
camicie.
Quanto doveva essere cambiato, se
ancora non l’avevano riconosciuto! Erano sempre intimiditi, ma lo squadravano,
determinati a dimostrargli che non gli appartenevano, che era lui quello in
debito con loro, in debito della loro fiducia e della protezione di Alvis
Hamilton, quella che lui chiamava il
carico. Aveva dimenticato che al mondo esistessero occhi tanto
puri.
Alex aveva voglia di sorridere.
“Proprio non mi sopportano” pensò.
Ma disse: “Non ho mai visto pilotare
peggio di così una delle mie vanship. Tuttavia nessuno avrebbe saputo fare di
meglio, al primo combattimento.”
Ora sul volto dei due ragazzi
riconobbe la stessa espressione incredula che dieci anni prima facevano quando
portava loro un regalo inaspettato.
Rassicurato dalle parole del
comandante, Claus scambiò un’occhiata con Lavie e disse: “Noi…Noi vorremmo
rimanere sulla Silvana finché la vanship non sarà riparata
e…”
Alex attivò apposta quella che sapeva
essere la faccia più gelida.
Provvedimento inutile. Claus
continuò: “…E per proteggere Alvis.”
Sempre più Alex aveva voglia di
sorridere.
“Fate come vi pare” disse. Poi li
congedò.
Appena la porta si chiuse, Alex si
domandò se anche loro due, come il sentimento per Sophia, non fossero altro che
un’inutile complicazione.
Segue Capitolo
6…
Davanti a voi avete ancora tanti
capitoli, perché questa storia è lunga. Per leggerla ci vogliono l’ostinazione
di Alex e la devozione di Sophia. Ma il premio sarà un’indigestione di
romanticismo.
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Capitolo 6 *** 6. Vento ***
6. Vento
“Tu sei tutto matto, Jim.” Il tenente
Giese parlava dalla postazione di Sophia, che occupava in qualità di sostituto
del vice-comandante quando né lei né Alex erano sul ponte. “Il comandante non
farebbe mai una sciocchezza come questa.”
Tra gli ufficiali della Silvana Giese
aveva una particolare devozione per il comandante Row. Gli piaceva che Alex
arrivasse sempre al sodo delle cose. Per esempio, sul vascello che Giese aveva
servito prima di salire a bordo della Silvana, lui che aveva i capelli ispidi,
spessi, indomabili, era costretto a sprecare molto tempo passando sulla testa
creme ed inutili colpi di pettine prima di presentarsi con un aspetto
accettabile al comandante e all’equipaggio. Ad Alex, invece, interessava
soltanto che fosse un buon ufficiale e che non sprecasse il suo tempo in
sciocchezze. Se la capigliatura gli impediva di portare il berretto, allora del
berretto poteva fare a meno e trattenere i capelli con una fascia, come si era
abituato a fare.
“Se volesse davvero attaccare il
cuore della Gilda,” continuò “l’avrebbe già fatto molto tempo
fa.”
Jim Suarez, una delle due vedette,
non aveva staccato gli occhi dal binocolo della propria postazione. “Sei tu
quello che non vuole ancora rendersene conto” disse. “La cosa è nell’aria. Il
potenziamento del sonar, i nuovi cannoni. E ora questa strana
segretezza…”
“Ma non siamo davvero più forti di un
anno fa” osservò Giese. “Perché ora?”
Nessuno sapeva come rispondere. O
meglio, nessuno aveva il coraggio di rispondere. L’idea di andare a combattere
il Maestro non era proprio esaltante. Suarez si concentrò sul binocolo, gli
altri semplicemente fecero finta di non aver sentito. Classico esempio di
silenzio imbarazzato.
Che alla fine venne rotto da
Campbell. “Non pensarci, Giese” disse. “Qualunque cosa succeda sarà per il
meglio. Il comandante sa quello che fa.”
Giese sospirò.
“Però nervoso, il comandante, è
nervoso, ultimamente!” esclamò Suarez.
“Davvero!” disse l’altro ufficiale di
vedetta.
“E secondo me” disse Suarez “la Gilda
non c’entra per niente questa volta.”
A queste parole Blackwood, il grosso
ufficiale di macchina, scoppiò a ridere; sogghigni a stento trattenuti
rimbalzarono da un lato all’altro del ponte. Campbell, come ufficiale più
anziano, non poteva permettersi di ridere per una cosa del genere e si
controllò. Soltanto Giese e Wina, l’addetta al sonar, si guardavano confusi
perché non avevano capito niente.
“C’è qualcosa che io e Wina non
sappiamo?” domandò Giese.
I sogghigni
raddoppiarono.
“Il fatto è questo, Giese” disse
Suarez. “Non so se ti sei accorto di dove vadano a finire un po’ troppo spesso
gli occhi del comandante, da qualche tempo, ma per me ci sono grosse possibilità
che in futuro comandante e vice spariscano dal ponte con una certa frequenza.
Insieme.”
§§§
Lo trovò che l’attendeva sulla
terrazza del ponte di comando.
Stava appoggiato alla balaustra di
metallo a guardare il freddo azzurro del cielo, astratto come una statua, il
guardiano di pietra di un tempio in rovina.
Quando Sophia arrivò, lui non si
mosse. Il vento era la carezza che lei non poteva dargli e passando tra i
capelli li faceva ondeggiare con una leggerezza quasi innaturale, come se l’aria
fosse acqua. In momenti come quello le ricordava persino il ragazzo di dieci
anni prima. Gli occhi diventavano più morbidi, le labbra delicate si
schiudevano, il collo si offriva al vento. Era fatto per l’aria aperta, per gli
orizzonti liberi e i sogni che si materializzavano nelle nuvole e nei mille
colori del cielo.
Era bello, troppo, come un lago in
una terra ghiacciata, come il cielo al crepuscolo. Sembrava assurdo che le
persone potessero provare paura di lui. Temevano i suoi occhi freddi, da
sopravvissuto. Ma lei non l’aveva mai temuto. I suoi occhi non erano freddi e
vuoti. Erano occhi di una purezza sconfitta, che si ammorbidivano oscuramente,
quando intravedevano scintille di verità nelle persone, quando lei scherzava per
smontare la sua riservatezza o quando si concedevano come un dono non meritato
la contemplazione del cielo.
“Parlerai della gara di Horizon Cave
ai due ragazzi, Sophia.”
Quella voce tranquilla e profonda,
che le faceva tremare il cuore.
Sophia annuì. “In che termini,
signore?”
“Desidero che abbiano i mezzi per
vivere lontano dalla Silvana. Claus non accetterebbe mai il mio denaro. Ma il
premio della gara è ricco e Claus è il pilota migliore che io abbia mai visto:
se gli diamo la squadra di supporto di cui hanno bisogno per riparare la vanship
della gara, vincerà.”
Alex si preoccupava dei due ragazzi!
Dunque, era vero: qualcosa era accaduto, da quando Claus e Lavie erano saliti a
bordo della nave, qualcosa si era acceso in lui. Forse perché quei ragazzi così
innamorati del volo erano lo specchio delle sue speranze perdute o perché erano
affamati di vita, d’amore, di esperienza, nonostante tutto, la perdita dei
genitori, la guerra, l’orrore del mondo. Sulla vecchia vanship ricomparsa dal
passato c’era ancora qualcosa del vecchio Alex.
Dunque, soltanto con lei, con l’unica
donna della sua vita, Alex era tornato il comandante di sempre, e non si sarebbe
lasciato toccare ed amare mai più. E anche lei era tornata ad essere il suo vice
professionale e affidabile, una paio di occhiali per coprire la dolcezza degli
occhi, una divisa per contenere la grazia del corpo.
“Se permette, signore, credo che
Claus si rifiuterà di lasciare la nave comunque.”
“Vedremo. C’è sempre la possibilità
che dopo la fine della gara, ai box non trovi i meccanici ad attenderlo…” disse
Alex. Era adorabile, con quell’espressione ironica sul volto. Non si sentiva
indifeso, se la guardava in quel modo.
“Capisco” disse Sophia. “E guarda
caso con i meccanici sarà sparito anche il carburante. La vanship non potrà
tornare alla Silvana perché sarà rimasta a secco.”
“Occupati della
cosa.”
“Comandante…”
La faccia ironica, anzi beffarda,
adesso era quella di Sophia. La faccia di quando scherzavano, quella di sempre.
“Ha considerato il fatto che Claus
non prenderà la cosa molto bene?”
Alex le sorrise misteriosamente e
rispose: “Avrei dovuto, Sophia?”
Segue Capitolo 7…
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Capitolo 7 *** 7. Definizione dell'amore ***
7. Definizione
dell’amore
Era stata una giornata memorabile,
che valeva dieci anni di lotte e sacrifici.
Per lui - non per Sophia, la quale
non aveva smesso di stringere i denti nella paura che si facesse ammazzare - era
valsa la pena di scendere a terra da solo e senza scorta, diritto tra le braccia
di coloro che odiavano persino sentir pronunciare il suo nome. Era tornato sulla
nave con gli stivali schizzati di sangue e la pistola scarica. Ma ne era valsa
la pena.
Adesso Alex possedeva il più grande
potere del mondo.
Nella Horizon Cave, mentre Claus
vinceva la gara, Alex aveva
incontrato il Graf, il tutore di Alvis Hamilton, la bambina che era considerata
la chiave dell’Exile. Il vecchio gli aveva affidato la piccola e con lei lo
stesso futuro dell’Exile. Dalla sua bocca Alex aveva ottenuto anche il mysterion
degli Hamilton, uno dei quattro versi che permettevano di controllare
l’Exile.
Il Graf, scegliendo Alex come custode
di Alvis, aveva scavalcato lo stesso imperatore.
“Comandante, le affido la bambina”
aveva detto il vecchio “perché lei è un uomo libero.”
Libero dalla sete di potere e di
ricchezza, che aveva avvelenato l’imperatore, libero dalla politica, dalla
storia, dalle relazioni che costringono gli uomini ad agire soltanto nel proprio
interesse.
Alex sapeva di essere arrivato ad una
svolta decisiva. D’ora in avanti sarebbe stato completamente solo contro tutti.
Avrebbe dovuto difendere Alvis dall’imperatore, dalla Gilda, da chiunque tentasse di impossessarsene. Avrebbe
portato un enorme peso e ne era contento.
Perché il Graf non aveva considerato
tutto.
Alex era libero, tranne che da una
cosa: la furia della sua vendetta.
L’Exile, ciò che fosse davvero, gli
era indifferente. A lui serviva solo per annientare il Maestro e la Gilda. Dopo,
non avrebbe esitato a distruggerlo.
§§§
Da qualche parte nel ventre della
Silvana l’equipaggio festeggiava la vittoria di Claus.
Claus era tornato perché Deeo
Eraclea, il fratello minore del Maestro, l’aveva riportato indietro. Non c’era
niente da fare, era destino che i due ragazzi di Nordkhia rimanessero a
bordo.
La musica saliva subdolamente per la
nave, come un serpente pigro ma determinato. Un flauto, un’armonica, un violino,
una chitarra e i ritmi alternati di una giga allegra e saltellante, per chi volesse buttarsi nella danza, e
di una ballata malinconica, per invogliare alla bevuta e a raccontare qualche
bella storia.
Sofia non era dell’umore giusto per
partecipare.
Di farsi vedere in giro triste
com’era non aveva voglia. Si chiuse nella cabina e dimenticando di accendere la
luce gettò all’aria gli stivali e la giubba e si ritrovò seduta sul bordo del
letto. D’altra parte, il cielo oltre l’oblò, con tutte quelle stelle, era
sufficientemente luminoso per non annegare nel buio.
Persino là dentro arrivava la musica.
Impossibile dire come riuscisse a passare, da quale fessura, da quale perfido
condotto che nascosto dentro la nave si metteva d’impegno a torturarla
così.
Alex era sicuramente nella sua
cabina.
Dalla Horizon Cave era tornato con
un’espressione sottile e feroce sul viso. “Ho ottenuto il primo mysterion” le
aveva detto. Solo quando sentiva di essere vicino al Maestro si comportava così,
come un predatore che ha messo la zampa sul collo della preda.
La musica, la musica, non c’era modo
che cessasse di torturarla.
A che serviva se non poteva
ascoltarla con lui?
Da ragazza aveva danzato con
istruttori, compagni d’Accademia, corteggiatori ai quali pareva una grazia
immeritata di poter sfiorare nel valzer l’erede al trono di Anatorey. All’epoca,
qualche volta, sotto quegli occhi affascinati da lei, aveva osato pensare di
essere bella.
Ma bella non era, se lui non la
desiderava come donna. Alex non l’avrebbe mai invitata a danzare. A lui
importava soltanto della sua vendetta.
Avrebbe voluto gridare che
smettessero di suonare, che la musica cessasse di salire alla sua cabina e non
la torturasse più.
Danzare con lui…In quale vita sarebbe
potuto accadere?
Si distese a braccia aperte, arresa
all’infelicità di quei pensieri e all’ossessione della
musica.
Che le avvolgesse la vita con un
braccio e la stringesse a sé, che le prendesse la mano con la propria, dita
intrecciate, e la guardasse negli occhi, sorridendo. Del resto del mondo,
nessuna traccia, un deserto luminoso, un pianoforte gentile da qualche parte,
soltanto per loro, nessun ricordo del passato, nessuna paura del futuro. E che,
alla fine del ballo, le accarezzasse il viso inebriato dai giri di danza e
portandole la mano dietro alla nuca, le sollevasse la testa e appoggiasse le
labbra alle sue.
Come sarebbe stato? Come l’avrebbero
toccata, quelle labbra? Sarebbero state morbide o forti o avide o arrese?
Come?
Inavvertitamente Sophia aveva portato
la mano sulla bocca. Le labbra, al tocco delle dita, si svegliavano come per un
bacio, si donavano sensualmente contro la sua volontà. Mentre le dita
scendevano, un brivido passava nel collo, il seno s’inturgidiva di desiderio.
Come sarebbe stato sentire addosso, sul seno, su ogni parte del corpo, la mano
di lui?
La carne, quella cosa oscura e
sconosciuta che l’assaliva a tradimento, come ora - la bocca che si schiudeva
verso qualcosa che non sapeva definire, il seno, il ventre che si tendevano
appena li sfiorava, tanto da far male, la vista che si perdeva in immagini
ignote e sconvolgenti - anche quella apparteneva a lui, perché nella realtà
impossibile in cui Alex l’amava e la baciava c’era anche il contatto del suo
corpo.
Essere una donna, a che serve se non
devo esserlo per lui?
Le assalì il petto un dolore sordo,
l’impulso di piangere. Voleva gridare, battere i pugni sul letto, impazzire,
lasciarsi andare.
Ma non lo fece. Tornò a sedersi,
respirò profondamente, strinse le ginocchia nelle mani.
“Non piangerò. Perché non è giusto.
In fondo, lui è più infelice di me” disse a bassa voce.
Non doveva piangere, da sola in
quella stanza. Era notte, ma decise di tornare sul ponte di comando. Lassù la
musica non arrivava.
Prima di uscire nel corridoio,
appoggiò la testa alla porta e chiuse gli occhi.
Chi sia lui, a chi appartenga, non lo
ricordo più. Il suo corpo è il mio, la sua voce viene dal mio stesso cuore. Lo
amo. Lo amerò per sempre. Nessuno al mondo sarà mai amato quanto lo amo io. Lo
amo. Questa è la sola certezza della mia vita. La sola che voglio
avere.
§§§
Deeo Eraclea, il fratello di Maestro
Delphine, non era come Alex si aspettava. Non aveva un briciolo di moralità e
sembrava che per lui la vita dovesse ridursi a una continua successione di
esperienze divertenti; tuttavia, il suo cuore, per quanto immorale, era puro. A
dispetto della parentela con Delphine, non era un arrogante criminale senza
rispetto per la vita umana. Da lui Alex ricevette la rivelazione del secondo
mysterion, quello degli Eraclea.
Decisamente quella giornata era stata
favorevole. Aveva ottenuto due mysterion e un prigioniero prezioso. Molto presto
avrebbe finalmente sfidato il Maestro.
Alex si era gettato sul divano, ma
sapeva che non avrebbe dormito. Prima, appena tornato dalla Horizon Cave, era
crollato sulla poltrona e forse per la stanchezza di quella interminabile e
difficile giornata era sprofondato nel sonno. Aveva dormito per due ore di fila,
un miracolo. Per una volta l’incubo - Yuris che gridava nel Grand Stream, il
sorriso beffardo di Delphine, la vanship che precipitava nel vortice – aveva
tardato ad arrivare.
Da qualche parte della nave, forse
l’hangar, veniva la musica di una ballata.
C’era stato un tempo in cui aveva
amato la musica, perché a un taciturno come lui permetteva di esprimere ciò che
inutilmente avrebbe cercato con le parole; e c’era stato un tempo, dopo la morte
di Yuris, in cui l’aveva odiata, perché la musica gli ricordava che era ancora
vivo. Adesso, di solito, gli era indifferente, come quasi tutto.
Il flauto che accompagnava la ballata
saliva lungo la Silvana come una spirale d’argento.
Certe volte, in particolare dopo aver
bevuto, gli pareva che la realtà si sdoppiasse, come un abito e la sua fodera, e
che tra il mondo dei vivi e dei morti non vi fosse alcuna barriera, ma si
specchiassero l’uno nell’altro.
Adesso alla musica del flauto si
sovrapponeva quella di un’orchestra da ballo di dieci anni prima. Sembrava
reale, come allora, più reale del flauto e del battito pulsante della nave. Si
avvicinava, diventava più forte e avvolgente, mentre lui saliva la grande
scalinata verso la luce. C’erano cristalli, lampadari immensi, voci, fiori,
strascichi di gonne.
Yuris indossava un abito bianco e i
guanti lunghi, tra i capelli i nastri che le aveva regalato lui. Era già bella
con la giacca e gli stivali da aviatore: in abito da ballo era un sogno che
toglieva il fiato.
“Sei sicuro di saper ballare il
valzer, Alexander Row? Non mi farai fare un pessima figura, spero” gli aveva
detto, mentre le offriva il braccio per entrare nel
salone.
“Dubito che ti importi qualcosa di
fare una pessima figura a un ballo.”
“Allora che ne pensi di cominciare
subito, amore mio?”
E l’aveva baciato davanti a tutti,
alle dame arrossite d’imbarazzo, agli ufficiali impettiti, e anche sotto gli
occhi di Marius, il consigliere imperiale, che aveva dovuto fare l’abitudine
all’indole ribelle della figlia. Accanto al vecchio tutore, mano nella mano,
Sophia ragazzina, incoronata di fiorellini bianchi, sorrideva divertita e
affascinata dall’irriverenza della cugina.
Molte altre volte lui e Yuris avevano
danzato insieme. Certe sere, a Nordkhia, mentre sistemavano la vanship per il
giorno dopo, alla musica di un grammofono scassato che lei, solo lei, riusciva a
far suonare a furia di calci, cominciavano a ballare, ridendo come due stupidi
perché, sporchi di grasso in quel modo, sembrava buffo stringersi e guardarsi
negli occhi. Lei, dopo, cantava la stessa canzone fino a casa, testarda, perché
non riusciva mai a ricordarne le parole. Si gettavano nella vasca, si lavavano
insieme spruzzando l’acqua dappertutto e non capivano più niente, facevano
l’amore fino a sfinirsi. E non si addormentavano mai senza ripetersi ancora una
volta che si amavano, che sarebbero stati per sempre l’uno
dell’altra.
Le aveva promesso di comprarle un
grammofono nuovo per il suo compleanno. Non aveva fatto in tempo a mantenere la
promessa.
Yuris, Yuris, amore
mio…
Di nuovo al buio, sul divano, con la
spirale della musica e anni d’insonnia a pesare sul corpo.
Yuris, amore mio. Com’è possibile
amare così tanto qualcuno che non esiste più? Perché si può conoscere quella
felicità, nella vita, ma soltanto per un attimo, e poi rimpiangerla per sempre,
fino all’ultimo giorno?
O il mio cuore è troppo
ostinato?
E perché questo nome – Sophia,
Sophia, Sophia - continua ad affiorare dalle mie labbra contro la mia volontà,
contro la mia ostinazione?
Come posso lasciare che accada? Tu
sei morta, tu non senti più, ed io…
§§§
Nemmeno lui poteva rimanere da solo
nella cabina, quella notte.
Salì sul ponte di comando, lontano
dalla musica.
Forse non l’avrebbe fatto, se avesse
saputo che anche Sophia aveva avuto la stessa idea.
La trovò lì, in piedi alla solita
postazione, ed era troppo tardi per tornare indietro.
Lei lo salutò, ma evitò di guardarlo
e continuò a rivolgergli le spalle per tutto il tempo, perché quella notte non
poteva sperare di trovare dentro di sé anche la forza di nascondere ciò che
sentiva.
Alex, osservandola dal seggio di
comandante, combatteva coi propri rimorsi.
Il rimorso di sentirsi
improvvisamente vivo, lui che non
aveva il diritto di vivere, di sentire.
E il rimorso di avere permesso che
Sophia si legasse a lui.
Si domandò se gli avvenimenti che
stavano per irrompere nelle loro vite l’avrebbero allontanata. Sarebbe stato
meglio, pensò. Non doveva seguirlo, e lui non avrebbe mai dovuto permettere che
fosse coinvolta fino a quel punto. Sophia meritava una vita migliore di quella
che aveva sulla Silvana. E il suo amore, un giorno l’avrebbe donato ad un uomo
capace di renderla felice e di starle accanto quando fosse salita al trono. Un
uomo più forte di lui e che non le avrebbe mai spezzato il
cuore.
Curioso, gli era difficile pensare
chi potesse essere, quell’uomo. In realtà, nessuno era degno di Sophia. Lei
stessa ancora non si rendeva conto di quanto fosse speciale. Era un sole che non
sapeva di brillare.
Toccarla sarebbe stato come sentire
il calore stesso della vita. Toccarla, affondare in lei, farsi avvolgere dal suo
corpo, posare la testa nel suo grembo.
Dimenticare…
Stava impazzendo: aveva l’Exile a
portata di mano, stava per attaccare la Gilda, tra poco l’imperatore gli avrebbe
mandato contro mezza flotta, e si faceva prendere da quell’assurda confusione,
proprio ora che doveva essere invincibile, nel nome di Yuris e degli amici
morti. Si era concesso di vivere fino a quella vendetta. Come poteva essere
debole adesso?
Ma quel frammento di pelle scoperta
tra il polsino e il guanto del suo vice…improvvisamente aveva voglia di portarlo
alle labbra, di baciarlo, di morderlo, di sentire che lei tremava per questo.
Maledizione, moriva dalla voglia di farlo.
Segue capitolo
8…
A questo punto, direi che li abbiamo
fatti logorare abbastanza. Cominciano ad essere fritti a puntino. Quindi,
vediamo che cosa succede.
Prima, però, faccio una pausa e
ringrazio chi mi ha letto e ancora di più chi mi ha
recensito.
Shatzy e Zoe, siete troppo buone! Vi
adoro.
|
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Capitolo 8 *** 8. Pilota e navigatore ***
8. Pilota e navigatore
Dall’alto della fortezza, aveva
atteso la battaglia finale per quasi un terzo della propria vita. Aveva visto
cambiare i colori del cielo e girare l’arco luminoso delle stelle, e osservato
nel dolore fino a che punto, e con quale miseria, gli uomini fossero capaci di
dimenticare. Si era preparato pazientemente, silenziosamente, ogni giorno, ogni
ora, ogni minuto, affilando la spada, studiando il campo, calcolando e
prevedendo le mosse del nemico, ma per quanto a fondo l’avesse scrutato, quasi
trapassandolo, aggredendolo con occhi da rapace inquieto, l’orizzonte era
rimasto nudo come una scacchiera vuota.
E lui non si era perso d’animo. Ogni
giorno, ogni ora, ogni minuto, quella desolazione l’aveva reso più determinato.
Mai abbassare la guardia, mai. Disporre le proprie pedine, attendere, osservare.
E stringere i denti, restare aggrappato all’ultimo, tenace brandello di vita. Il
presidio era tutto. Tutto dipendeva da questo, da quanto avrebbe saputo
resistere alla sfida di quella remota desolazione, da quanto sarebbe stato
pronto nel momento in cui sull’orizzonte vuoto fosse apparsa la chimera dal volto
candido e le labbra di rosa.
Lui contro di lei, e la sua spada
temprata, la Silvana, contro il castello di inganni e di illusioni del Maestro.
Lei, Delphine, gli aveva conficcato una spina nella carne. Gli doleva, lo
torturava, presenza fissa e straziante al centro del suo corpo. Ma quel dolore
piantato in lui era la radice dalla quale fioriva la sua
forza.
§§§
Da quell’orizzonte, si alzava
finalmente un pennacchio di polvere. Alex era pronto a sguainare la
spada.
E alla mossa decisiva della partita
col Maestro, al punto di congiunzione di tutte le trame, il destino lo
intralciava seminandogli davanti le pedine impazzite dei suoi affetti, Sophia, i
due ragazzi di Nordkhia, e ora Vincent. Che sciocco era stato, a non pensarci
prima!
Saliva al luogo dell’appuntamento con
la consapevolezza crescente di aver saputo da sempre, dentro di sé, che sulla
via dell’Exile gli sarebbe spettato di difendere la Silvana dai cannoni di
Vincent. Era stato un pensiero informe, ma presente, forse pure tra quegli
incubi tenaci in cui il passato si distendeva sul presente deturpandolo come una
maschera grottesca. Aveva già udito quel sibilo di vento sulla rupe, quel
graffiare solitario dei propri stivali sulla pietra nuda, e già sapeva come gli
sarebbe apparsa la sagoma bionda e bianca di Vincent e come gli avrebbe sorriso,
riesumando l’occhiata allusiva che da ragazzo gli gettava un attimo prima di
cominciare l’allenamento di scherma.
Del passato si era ostinato a
conservare e difendere solo ciò che era morto e perduto, respingendo come
zavorra inutile ciò che di esso rimaneva vivo. Aveva creduto di poter scegliere
o scartare i pezzi da disporre sulla scacchiera. Loro, Sophia, i ragazzi,
Vincent, il suo passato vivo, non erano previsti nel gioco, perché non erano più
parte di lui, così aveva creduto. Ma aveva fatto male i calcoli. La partita col
Maestro era soprattutto una partita con se stesso, e loro, nonostante i suoi
sforzi per tenerli lontani, appartenevano ancora alla sua storia.
§§§
Da anni, ad ogni incontro, si
squadravano con la stessa confidenza di duellanti che avessero una vecchia sfida
in sospeso.
Il luogo selvaggio, una torre
d’avvistamento diroccata in cima a un picco grigio, desolato, alla fine del
mondo, sembrava scelto apposta per un duello. Un vento gelido soffiava da uno
degli sbocchi del Grand Stream incombente in alto, al centro del cielo notturno,
come un occhio maligno.
“Ci rivediamo,
Alex…”
Tutte le volte Vincent cercava,
scherzando, di fare il sentimentale e di rievocare i vecchi tempi, ma nemmeno
lui era abbastanza illuso da pensare che le cose non fossero
cambiate.
Tra di loro c’era un muro che nessuno
aveva la volontà o la forza di scavalcare.
Difficile dire se, a costruire quel
muro, fosse stato l’incupimento di Alex piuttosto che l’ambizione di Vincent. Ma
il cuore, in fatto di amicizia, conosceva crudeli trabocchetti e non risparmiava
ad entrambi l’amarezza di vedere nell’uomo presente l’esasperato esito
dell’amico di allora, l’amato compagno d’Accademia. Mentre alla luce della
torcia raggiungevano la sala maggiore della torre, Vincent sentiva risuonare nel
passo indolente del comandante Row, il rinnegato, quello mite e felpato del
ragazzo con il quale la mattina scendeva lo scalone delle camerate. E nella
percezione di Alex, la risata del comandante Vincent Alzey, astro nascente della
flotta imperiale, era soltanto la versione disincantata di quella impertinente e
adorabile con la quale da ragazzo sfidava l’ottusa soggezione degli altri
allievi e la riservatezza ombrosa del suo migliore amico.
Ma c’era un differenza fondamentale
tra loro due: Alex guardava il suo interlocutore attraverso il vetro della
consapevolezza. Sapeva, prima di sentirlo, ciò che Vincent gli avrebbe detto.
Conosceva, come fosse già avvenuto, l’esito del loro
incontro.
E quando, con il conforto bollente
del caffè tra le mani, Vincent lanciò il siluro: “Sua Maestà l’Imperatore è
preoccupato per il carico. Ho ricevuto l’ordine di portarlo nella capitale e di
fare rapporto sui mysterion…” Alex avvertì soltanto il gelido contraccolpo di un
tiro che lui stesso aveva fatto esplodere.
E in quel momento, proprio mentre le
labbra di Vincent scandivano l’ultimatum dell’imperatore, Alex si trovò a
ricordare, in un flash della memoria, una vecchia conversazione tra loro
due.
Sentiva risuonare nella testa la voce
adolescente di Vincent.
“Io proprio non ti capisco, Alex” gli
diceva. “Come puoi preferire le vanship alla flotta imperiale? Com’è possibile
che tu scelga di pilotare quella specie di carretta, potendo diventare il
comandate di un’intera nave?”
Era stato nell’Arsenale imperiale,
poche settimane prima che Yuris cadesse nel Grand Stream. Alex, mezzo
rannicchiato sotto la vanship per stringere un bullone, gli aveva risposto
scuotendo le spalle.
Ma Vincent, invece di innervosirsi,
si era allungato contro la carlinga con fare da sbruffone. “Ho capito!” aveva
esclamato. “È per la ragazza. È per lei, vero?”
Dal basso, con un’occhiataccia, Alex
aveva bofonchiato: “Secondo me sei diventato scemo.”
“Io? Se il motivo è una donna, posso
capirlo. Ma per qualsiasi altro motivo no. Non lo capisco e non lo capirò mai.
Lo scemo se tu.”
Alex, così provocato, si era alzato
in piedi, si era appoggiato col gomito alla vanship e faccia a faccia con
l’amico l’aveva sfidato scherzosamente dicendo: “Vediamo, Vince. Facciamo
un’ipotesi. Facciamo che un giorno l’imperatore ti ordini di usare la tua nave
per distruggere una città. Non una fortezza, sto dicendo una vera e propria
città, con vecchi, donne, bambini. Tu che faresti?”
“Ah, questa è una domanda stupida!
L’imperatore non ordinerebbe mai una cosa del genere. Il codice della cavalleria
impone che…”
“Sì, lo so. Ma tu che faresti, se ti
desse proprio questo ordine?”
“Senza dubbio obbedirei,
nell’interesse dell’imperatore e della nazione.”
Alex aveva abbassato gli occhi a
terra e cominciato a dare con la chiave inglese che stringeva in mano qualche
lieve colpo alla carlinga, come per assecondare col quel ritmo i pensieri che
gli scorrevano nella testa. Poi aveva detto: “Bene, Vince. Allora facciamo che
un giorno l’imperatore ti ordini di ammazzare una persona che ti è cara. Carichi
i tuoi cannoni e comandi di aprire il fuoco sapendo che dall’altra parte c’è
qualcuno che ti vuole bene.”
Vincent era esploso in una risata
incredula. “Questa sì, è una domanda cretina. Sei un caso disperato. Non posso
credere che sia questo il motivo per cui hai mollato
tutto.”
Alex non si era unito alla risata; al
contrario, aveva preso un’espressione seria, tesa, e la chiave inglese aveva
aggiunto una nuova sequenza di colpetti sul metallo.
“Vince, sai qual è la regola più
importante per quelli che volano con le vanship?”
Sulla risata di Vincent il tono grave
di queste parole era caduto come una doccia fredda. Aveva taciuto, tuttavia,
perché capiva quando Alex stesse per aprire la scorza del suo
cuore.
“Il navigatore non abbandona mai il
suo pilota; il pilota non abbandona mai il suo navigatore” aveva detto
Alex.
E aveva chiuso la frase con uno di
quegli sguardi intensi e disarmanti dai quali Vincent aveva da tempo perso la
speranza di riuscire a rimanere indenne.
Strano come ora il dilemma che Alex
aveva posto all’amico si stesse realizzando. Forse Vincent aveva dimenticato
quella vecchia conversazione. O
forse si trovava lì per dimostrargli di non temere la propria risposta.
In ogni caso, anche Alex aveva già
deciso.
“Non posso consegnarti il carico”
rispose.
Vincent sgranò gli occhi. Nel suo
smarrimento momentaneo, tuttavia, e nello sguardo remoto che lo seguì, Alex
trovò la certezza definitiva che Vincent non avrebbe avuto alcuna pietà per
nessun membro dell’equipaggio della Silvana, che si trattasse di un vecchio
amico o della figlia dell’imperatore che gli stava al fianco come
vice.
Da quel momento una sensazione
gelida, metallica si insediò nella gola di Alex. Sotto gli stivali, mentre
tornava alla vanship da carico, la roccia sembrava diventata vischiosa,
molle.
Vincent avrebbe concentrato tutta la
sua determinazione nello sconfiggere la Silvana. Non l’avrebbe fatto per la fedeltà
all’imperatore e nemmeno per l’ambizione, ma soprattutto per rimarginare la
ferita infetta che da molto tempo Alex aveva inflitto al suo orgoglio di uomo e
di soldato mettendo in crisi i suoi valori, la sua fiducia in se stesso e il suo
antico affetto per l’amico. Vincent aveva scelto.
Ma Alex avrebbe giocato a modo suo,
secondo regole e principi che niente avrebbe potuto modificare. Quella che stava
per compiere sarebbe stata la sua
mossa, a qualsiasi costo.
Il pilota non abbandona mai il
navigatore, il navigatore non abbandona il pilota.
E i vecchi amici non si uccidono.
§§§
Sophia rabbrividì nel vento gelido
che spazzava la piattaforma di atterraggio della nave.
Le luci lampeggianti della vanship da
carico apparvero nella lontananza fredda e plumbea del cielo notturno. Alex
tornava.
Sembrava che dalla sua partenza poche
ore prima fosse passata un’eternità. Sophia aveva sofferto. Al buio, nella
cabina del comandante, senza il timore che lui la sorprendesse, si era trovata
ad assecondare il dolore fisico nel quale si era addensato il desiderio per lui.
Era stato come farsi dilaniare viva da una belva. Da quando era salita a bordo
della Silvana, e prima, dall’istante in cui ancora ragazzina aveva cominciato a
sentire che la propria anima si tendeva naturalmente verso quella di Alex, da
allora non aveva mai provato un dolore così intenso ed una confusione così
devastante.
E non soffriva soltanto perché lui
non ricambiava il suo amore. Sophia sentiva di aver toccato quel fondo verso il
quale aveva cominciato a cadere tanto tempo prima. Si era affacciata sul
precipizio il giorno in cui aveva conosciuto Alex, il giovane pilota innamorato
di Yuris, e poi non aveva fatto altro che cadere, cadere senza sosta. Come Yuris
nel Grand Stream.
Aveva toccato il fondo ed era
perduta. L’impatto aveva disintegrato la donna forte, sicura, affidabile. Non
c’era il vice inflessibile, la persona sulla quale tutta la nave poteva contare
nei momenti di crisi. Al suo posto era rimasta una ragazzina fragile e sciocca,
che non aveva saputo resistere al fascino del suo superiore di grado e che si
era nascosta sulla Silvana perché aveva paura del mondo. Così credeva. Aveva
fallito, perché non era forte. Non era altro che uno stendardo strappato,
sbattuto dal vento.
E non la confortava il fatto che Alex
stesse tornando.
Lui, la sua presenza fisica, non
faceva che ribadire la sconfitta di Sophia su tutti i
fronti.
Era smarrita. A peggiorare il suo
stato, il messaggio di Marius arrivato quella notte l’avvertiva che l’imperatore
era infuriato con il comandante della Silvana e che attendeva da lei una prova
di fedeltà.
Fedeltà. A chi? A un uomo che non
conosceva, che aveva incontrato soltanto in occasioni ufficiali e che non le
aveva mai dimostrato né fiducia né affetto? A un vecchio che stava lentamente
affondando nella follia del sospetto e della sete di dominio?
Oppure ad Alex, che in nome di quella
parola, fedeltà, stava distruggendo la propria vita?
La vanship del comandante spalancò il
bozzolo di nubi nere che aveva avvolto la Silvana e atterrò a pochi metri da
Sophia. Lui era di nuovo a bordo della nave. Saltò sulla pista, le camminò
incontro, forte e solido come sempre, per turbarla, per travolgerla con la sua
presenza troppo seducente, il fruscio dei suoi abiti, il suo odore
sfuggente.
Pensare che tutti lo consideravano un
rinnegato, un uomo senza onore. Lei, di quelle parole astratte sulle quali si
fondava il codice della cavalleria - fedeltà, onore, fiducia - aveva cominciato
a comprendere il significato soltanto accanto a lui, vedendo come diventassero
sacrificio, anima, alimento della vita, e come potessero plasmare un corpo, uno
sguardo, un gesto nella stessa maniera in cui il fuoco di una fornace plasma e
tempra la lama di una spada.
Fedeltà. L’àncora che le impediva di
affondare, il filo tenace che continuava ad unirla ad Alex nonostante il
naufragio del suo cuore di donna.
Alex, aiutami. Sono sola, come te. Ma
io non ti abbandonerò mai. E chi sosterrà me, chi mi conforterà, in questo
cielo?
§§§
Quando sul ponte comunicò che la
Silvana avrebbe affrontato la Urbanus in battaglia, Alex avvertì distintamente
lo smarrimento nel cuore di Sophia.
La conosceva troppo bene per non
sapere che proprio quando sembrava debole e incerta e il suo corpo perdeva la
rigidezza dell’ufficiale per ritrovare la morbidezza della donna, Sophia
diventava più forte, come se da quel tremare nascosto, da quel soffrire timido
scaturisse come un’energia la sua capacità di comprendere più a fondo la natura
del mondo.
Ma Alex si augurò che questa volta la
battaglia contro l’imperatore la costringesse ad abbandonarlo e a lasciare la
solitaria lotta della Silvana per tornare alla sicurezza della Capitale. Doveva
andarsene ora, e sarebbe stata la scelta più assennata.
La sentiva troppo turbata per
permetterle di restargli accanto. Prima, nell’ascensore, quando lo sbalzo di
potenza della claudia aveva fatto sussultare e oscurare la nave, gli era caduta
addosso ed era rimasta per tutto il tempo con la testa contro il suo petto. Non
aveva mai fatto una cosa del genere. Non si erano mai toccati così. E lui non
aveva mai provato la sensazione della sua testa, la sua fronte, la sua guancia,
appoggiata esattamente dove gli batteva il cuore. Sembrava, piccola e indifesa
contro il suo corpo, un uccellino impaurito.
Stringerla a sé era fuori
discussione. Lei era il suo vice, maledizione.
In ogni caso, pensava Alex, quello
non era il momento adatto per assecondare simili debolezze. La Urbanus arrivava,
Alex era già tutto proteso verso la battaglia che avrebbe deciso il suo
destino.
“Comandante, posso parlarle?” chiese
Sophia.
Uscirono dalla sala del ponte di comando,
chiudendosi la porta dietro le spalle perché nessuno li udisse. Sophia lo
affrontò, improvvisamente risoluta. Gli chiese spiegazioni. Ne aveva tutto il
diritto. Alex tradiva l’imperatore, lei era figlia dell’imperatore. In fondo,
Sophia stava mettendo in gioco molto più di lui, con quella battaglia.
Le rispose freddamente che non era
obbligata a rimanere sulla Silvana.
Alex non aveva altro da aggiungere.
Si voltò per tornare sul ponte, impugnò la maniglia della porta.
“Aspetti!” gridò lei, e con uno
scatto gli trattenne la mano tesa sulla maniglia.
Alex la fissò diritto negli occhi. Si
toccavano, un’altra volta, la mano nuda di Sophia avvolgeva la mano guantata di
Alex.
Lei abbassò lo sguardo, solo per un
attimo, e quando lo rialzò aveva il volto contratto, indignato. Non era facile,
per lei, sostenere gli occhi di Alex, così fermi nella richiesta di spiegazione
per quel comportamento. Ma dal suo volto sorgeva una nuova determinazione,
qualcosa di inarrestabile e avvolgente, come il calore che la sua mano
trasmetteva al corpo di Alex attraverso la stoffa nera del
guanto.
“Sono il suo vice-comandante. Non lo
dimentichi!” disse Sophia con forza, come un rimprovero per aver dubitato di
lei.
Il colpo scoccato arrivò a segno.
Alex vide l’attimo preciso in cui forava la corazza e lo colpiva con una potenza
alla quale non era preparato. Restò senza fiato, accogliendo le inaspettate
risonanze del colpo nella sfera metallica in cui fluttuavano nascosti ricordi ed
emozioni.
Qualche settimana prima aveva sognato
di amarla.
Su di lui, nel suo abbraccio, dentro
l’onda scintillante dei capelli di cui percepiva l’odore con troppa nitidezza,
avevano brillato quegli stessi occhi verdi e puri e quella rivelazione immensa
che all’improvviso emanava dal suo sguardo come il sorgere di un nuovo sole.
Yuris non
c’era.
Aveva desiderato inconsapevolmente
che Sophia, prima o poi, si ribellasse e, trovando il coraggio di puntare gli
occhi nei suoi, mettesse a nudo la sua fragile e disperata lotta per cancellare
da se stesso la vita e la passione. Lo sfidava, alla fine.
Con quegli occhi, con quella
indignazione, gli stava dicendo che non era solo, che non aveva lottato
inutilmente, che l’avrebbe seguito in capo al mondo perché si fidava della
fermezza del suo cuore.
Lei, il suo vice, non gli rimaneva
accanto perché l’amava, ma perché si fidava di lui. Contro ogni logica si fidava
di Alex Row il rinnegato, il traditore, e dichiarava guerra al resto del
mondo.
Oh Sophia…
Qualcosa che a stento riusciva a
riconoscere dentro di sé, caldo, confortante, e che un tempo aveva chiamato
gioia si propagava da quella rivelazione. Se solo per un momento avesse potuto
sciogliere la maledetta flemma e passare oltre il vetro e sfiorare non la sua
fronte, il suo collo, le sue labbra, ma l’anima splendente che su quelle labbra
sbocciava come un fiore d’ulivo fecondo e delicato!
Ma non poteva, non avrebbe mai
potuto.
Avvertiva ancora la mano di Sophia
oltre la stoffa del guanto. Sorrideva impercettibilmente.
Era proprio vero: il navigatore non abbandona mai il suo
pilota.
Segue capitolo
9…
Questo capitolo non racconta molti
fatti che non ci sono nell’anime, però dice cose importanti e alla fine dovrebbe
avere un unico significato di fondo. Non era facile da scrivere. E poi Alex è un
pozzo senza fondo. Ora, però, col prossimo vorrei aprire le danze. Non
arrendetevi! Alla fine ce la farò a commuovervi!
Grazie, grazie ancora delle belle
recensioni e della vostra tenacia. *_*
Zoe, sui capelli non mi esprimo.
Aspetta e vedrai. Grazie per essere tornata addirittura a recensire due
volte!
Shatzy, su Marius hai ragione, ma in
quel momento, dove dico che gli ha mandato Sophia sulla Silvana per torturare il suo comandante, sto
facendo parlare la rabbia di Alex. Comunque è fantastico come tutte le volte mi
analizzi ogni cosa, mi aiuta tantissimo a rivedere quello che ho scritto. Ti
vorrei commentare tutto quello che mi hai scritto, ma non finirei mai. Grazie
ancora!
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Capitolo 9 *** 9. Sul precipizio ***
9. Sul
precipizio
A occhi chiusi.
Un deserto bianco, levigato, cieco
d’orizzonte.
Niente, nessuna forma, nessun rumore.
Silenzio immacolato.
Nemmeno i passi sulla roccia. Corpo
immobile, spirito dormiente.
Poi nel vuoto delle orecchie,
drop.
Una goccia cade assordante. Una
goccia di mercurio nel latte. Grigia, lucida, pesante.
Drop.
Una goccia di metallo
grigio.
Onde di bianco che si propagavano
intorno, densi cerchi di latte.
Drop.
Precipitare.
Sophia spalanca gli
occhi.
Il tuono esplode. Il boato mostruoso
squassa la nave, tutto sembra squarciarsi, il metallo, il vetro, la carne, il
petto, i denti, le orecchie. Rimbomba nelle profondità, la nave geme, cigola da
poppa a prua, come un corpo torturato.
S’inclina, in bilico nel cielo, e
cade, cade, risucchiata in basso, nelle nuvole dense, mercurio nel
latte.
Sul ponte di comando le pareti si
rovesciano, il pavimento pende, sobbalza – esplosioni, colpi sulla corazzatura –
Wina si aggrappa al sonar, Giese rannicchiato stringe la testa tra le mani,
Campbell miracolosamente in piedi combatte col timone, Alex accanto gli grida
ordini nelle orecchie, barcollando quando un altro masso si schianta sulla
nave.
Sophia scandisce ordini dentro
l’interfono, piegata, avvinta al tubo di bronzo.
Nel fragore assordante delle nubi e
della roccia esplosa, la Silvana ferita affonda.
Un altro colpo, più forte, una
vertigine.
Sophia sta per cadere. Un mano le
afferra la mano.
Alex.
Alla fine di tutto è il
precipitare.
All’inizio di tutto è il
precipitare.
§§§
L’immenso stridio del metallo
strofinato sulla roccia perforava le orecchie e non terminava, era il grido
della Silvana ferita, sbattuta sul costone, tirata in basso dai cavi
d’ancoraggio delle navi affondate, percossa e frustata dai massi che le
precipitavano addosso.
E scintille, metallo fuso, fuoco,
vapore si alzavano nell’impatto come pennacchi incandescenti da un vulcano in
esplosione, sprizzavano verso le nuvole spesse, illuminavano in sprazzi
disperati l’aria cieca della gola chiamata Zanna del Drago. Tutto tremava e
gridava.
La Silvana scendeva, scendeva
stridendo, sempre più in basso. Le navi nemiche esplosero come
bicchieri.
Poi all’improvviso, la caduta si
arrestò, passò l’onda dell’ultima esplosione, e dopo un fruscio scese il
silenzio.
Ognuno era pietrificato nella propria
postazione.
I meccanici stravolti sul fondo
dell’hangar. I fucilieri con gli occhi sbarrati. Gli artiglieri scuri di
polvere, fradici di sudore e vapore. Alis con la testa tra le ginocchia,
disperata per la sorte di Tatiana Wisla. La piccola Hamilton tremante su Lavie
svenuta.
Non aspettavano niente, eppure non si
muovevano.
Poi dall’oscurità della gola, un
suono che gelava il sangue: l’eco dei lamenti dei feriti sopravvissuti
all’esplosione delle navi Urbanus abbattute.
“Ne abbiamo uccisi a centinaia…”
mormorò Sophia.
Il comandante, con una voce bassa e
fredda, ordinò: “Sophia, voglio un rapporto immediato su danni e
perdite.”
§§§
Molte ore dopo, uscendo
dall’ascensore sulla piattaforma inferiore della nave, Sophia, che camminava
come sempre dietro al comandante, sorprese Alex a sfiorare fugacemente la parete
di metallo. Sembrò che sotto il guanto la superficie levigata rispondesse al suo
tocco con una pulsazione speciale, da amante confidente, come una fanciulla che
arrossisce per una carezza inaspettata.
Sophia sorrise. Da dettagli come
quello capiva quando Alex era soddisfatto. La Silvana non mollava mai, tenace,
ostinata, proprio come lui. Era invincibile. Attaccata come un lupo dai mastini
dei cacciatori, aveva distrutto da sola quattro navi nemiche, prima di affondare
sotto le nuvole. E ora, rannicchiata sul fondo nebbioso della Zanna del Drago,
si leccava le ferite, ma preparandosi a rinascere più forte di prima da quel
labirinto di roccia.
Tutto si era concluso nel migliore
dei modi per lui. Alvis Hamilton, la chiave dell’Exile, era rimasta a bordo,
Vincent si era salvato sulla Urbanus intatta. Di questo Sophia era
particolarmente grata al comandante: che non avesse ordinato di usare i
proiettili perforanti contro la nave di Vincent e che avesse esposto se stesso
al rischio di essere distrutto o catturato piuttosto che cercare di uccidere il
vecchio compagno. Provava tenerezza immaginando l’espressione sconfitta di
Vincent e la smorfia amara che aveva sicuramente soffocato il suo sorriso
brillante.
In ogni parte la nave rimbombava di
crepitii da fiamma ossidrica, di colpi di martello, di ronzii più o meno forti
di cavi riavvolti, di gru che ruotavano e sollevavano, di manovelle e cardini in
scorrimento. Si staccavano le piastre della corazzatura esterna mezza distrutta
dall’assalto della flotta Urbanus.
Comandante e vice erano scesi sulla
piattaforma metallica sospesa in fondo alla nave per visionare dal basso lo
stacco della corazzatura. Sophia inorridì. Da quella angolatura e distanza, i
danni sembravano spaventosi. Sopra di loro, lo scheletro metallico della Silvana
si spalancava esposto come l’immenso ventre di una creatura, al posto delle ossa
un labirinto di barre d’acciaio incrociate, qua e là fiammeggianti per i lavori
di riparazione. Le piastre esterne non ancora staccate erano sventrate da
squarci lunghissimi, i cui bordi frastagliati erano stati in parte fusi dalle
lame con le quali le navi nemiche avevano ferito così profondamente la
nave.
In basso, sporgendosi verso l’abisso
al bordo del quale la Silvana aveva trovato un appiglio e il termine della
caduta, si stendeva la desolazione della Zanna del Drago, un paesaggio sinistro
perennemente oscurato da nuvole grigie e dense che impedivano di distinguere il
giorno dalla notte. Tra le rocce spoglie affioravano i relitti delle due navi
Urbanus che legate alla Silvana con i cavi di ancoraggio erano affondate
trascinandola con sé.
E ovunque, come una festa eccessiva e
surreale, i fuochi d’artificio delle scintille che le fiamme ossidriche facevano
sprizzare dalle piastre di metallo.
“Lei crede che torneranno,
comandante?” disse Sophia. “Sarebbe orribile se Claus e Tatiana si perdessero in
questa desolazione.”
Sul volto di Alex si posavano i
riflessi lampeggianti delle scintille in movimento. A tratti i suoi occhi
affilati risplendevano, svelando una sensualità sfumata troppo pericolosa per lo
sguardo di una donna innamorata come era lei. Sophia si allontanò
rabbrividendo.
“No, torneranno” rispose Alex. “La
Wisla conosce a memoria il territorio e Claus non si arrende mai, come suo
padre.”
Sophia raggiunse l’orlo della
piattaforma e vi si sporse leggermente. Tra lei e il grigio cupo e gelido del
precipizio, le scintille piovevano dalla corazzatura come un velo dorato. Con il
cuore tremante, udì i passi sonori di Alex che la seguivano e si fermavano alle
sue spalle. Festoni di luce scendevano frusciando davanti a loro, esplodevano e
svanivano a intermittenza, sfolgoravano più luminosamente prima di dissolversi
nell’oscurità spaventosa, scintillanti ali di farfalla, luce vana e splendida
nel vuoto.
Alex era proprio dietro di lei,
talmente vicino da sfiorarla con il corpo. Sophia ne percepiva il respiro sulla
nuca piegata in avanti, verso il nero precipizio.
Rabbrividì
ancora.
Sapeva che i suoi occhi la guardavano
dall’alto, li sentiva sulla nuca, sulla peluria fine e bionda alla base dei
capelli ora intirizzita dal brivido che le attraversava il corpo. Si vergognava
di quello sguardo, ma non riusciva a muoversi.
“Hai freddo, Sophia?” Il suo respiro
le scendeva sulla nuca come neve soffice, miracolosamente
calda.
La voce le mancò. Avrebbe voluto
scappare e piangere, o almeno posare una mano sul cuore per provare che batteva
ancora. Ma era paralizzata. Il cuore era paralizzato, e l’aria, la nave, il
tempo, tutto il mondo fermo in un istante che non doveva essere, non aveva senso
nella realtà, ma soltanto nei sogni. Fece forza sulle labbra, le costrinse a
muoversi. Riuscì a non balbettare e sorprendendosi di se stessa rispose:
“Non è domanda da porre al proprio
vice, signore.”
Nelle sue intenzioni doveva essere
una risposta ironica, come di consueto.
Ma Alex non sorrise. Per qualche
istante il respiro continuò a posarsi sul collo di Sophia, regolare, vicino,
intimo.
“Non è al mio vice, che ho rivolto la
domanda” disse.
Erano già uniti in una sola forma, su
quel lembo di nave sporgente nel vuoto, incorniciati dalla pioggia di fiammelle
che scendeva con magica lentezza.
Sophia si voltò. Non ruotò il corpo,
ma soltanto il collo, sollevando la testa all’indietro. Bastò questo lieve
movimento per sentirsi avvolgere dal suo calore, la schiena contro il petto di
Alex. E lui le prese il mento con la punta delle dita, chinò il capo, avvicinò
le labbra alle sue, lentamente.
Fu una carezza di labbra dischiuse.
La sfiorò, con una tenerezza immensa,
struggente, condensando in quel passaggio pur così lieve tutto il desiderio che
provava per lei.
Staccò la bocca, come sorpreso da ciò
che aveva osato fare, e cercò nei suoi occhi il coraggio di continuare. Si
avvicinò di nuovo, toccò le sue labbra con un bacio piccolo, breve come una
delle scintille che punteggiavano l’aria, e poi con un altro e un altro e un
altro ancora, e lei gli rispose, toccando, assaggiando, baciando dove lui la
cercava. E mentre univano le bocche immergendosi nel bacio, sempre più avidi di
quel sapore e quella morbidezza che provavano per la prima volta, non si
accorsero che tutto era già dimenticato, paura, colpa, sofferenza, perché non
esisteva altro che il bisogno di quella bocca, e di morirvi dentro, e di cadere
l’uno nell’altra.
Sophia fluttuava. Quando sentì
entrare dolcemente la punta della sua lingua tra le labbra, emise un gemito,
tremò sulle ginocchia, e lui non la lasciò cadere, la strinse più forte,
costringendola a disperdere nella sua bocca ogni esitazione. Lei non ebbe più
paura. Lasciò che affondasse nel suo bacio. Adesso l’uomo che amava non era più
un’immagine inaccessibile, un corpo che incombeva per turbarla, ma finalmente
calore, respiro, saliva, e carne che si scioglieva insieme alla sua. Avrebbe
potuto gridare e poi morire di felicità, perché non aveva immaginato che questa
metamorfosi fosse tanto meravigliosa.
Era dispotico, il modo in cui Alex la
prendeva. Sophia sentiva come una necessità che quelle labbra tenere e forti,
quelle mani sicure dovessero invaderla, usarla, violarla. E ciò che rendeva la
sua gioia quasi insostenibile era l’immediata certezza che Alex aveva desiderato
quel bacio quanto lei.
Ma capirono di non essere soli. Come
destati da un sogno, udirono passi risuonare sulla piattaforma di metallo.
Qualcuno li guardava.
Troppo tardi per nascondersi. Si
staccarono, confusi.
Ethan e Mullin stavano impietriti e a
bocca aperta all’uscita dell’ascensore.
Sophia arrossì. Alex sollevò la testa
nel solito atteggiamento di comando e con perfetta indifferenza domandò che cosa
fossero venuti a fare laggiù. Non aveva intenzione di intimorirli, ma i
meccanici scattarono sull’attenti con un’espressione tutt’altro che rilassata e
Ethan, balbettando d’imbarazzo,
rispose:
“Signore, è stato lei a chiederci di
avvertirla quando fosse stato possibile ispezionare le riparazioni al
timone.”
“Giusto, il timone…” disse il
comandante.
A Sophia rivolse una rapida occhiata,
nella quale non vi era più traccia di turbamento. Con la testa accennò a
muoversi. Bisognava tornare alla realtà. La nave non poteva
attendere.
§§§
Dalle nuvole scure che nella notte si
erano allentate come un tessuto logoro, finalmente scendeva un riflesso della
luce del mattino, giallo, persino tenuemente dorato, che dissolveva in chiazze
biancastre i fanali accesi della Silvana.
Alex, in piedi davanti all’oblò della
sua cabina, osservava distrattamente le sagome sfuocate della Zanna del Drago.
La sera prima Claus e Tatiana erano tornati a bordo della nave sani e salvi,
senza nemmeno un graffio. Alex aveva provato una sensazione indefinibile,
vedendo di nuovo riuniti Claus e Lavie davanti alla vecchia vanship. Una
sensazione gioiosa e terribile, perché gli aveva portato la certezza che in loro
due riconosceva qualcosa che lui e Yuris erano stati insieme, due cuori liberi e
uniti, legati in volo come le ali di un unico corpo.
Se chiudeva gli occhi, l’incubo
tornava sempre, puntuale e ostinato, la vanship, Yuris, il Grand Stream. Ma
adesso, se li apriva, vedeva la vanship, i due ragazzi e i loro volti protesi
verso il cielo nello stesso sogno di nuvole e azzurro che un tempo era stato il
suo.
Aveva di nuovo evitato
Sophia.
Non perché l’aveva baciata e stretta
tra le braccia. No, sarebbe stato più semplice.
La evitava perché quel bacio era
stato troppo vivo, sensuale, intenso, troppo folgorante rispetto a ciò che
poteva concedere a se stesso.
La desiderava da tempo, forse da
sempre, e ormai doveva accettare questa realtà nella sua vita. Ma fino a quel
bacio aveva potuto illudersi di controllarla senza sforzo eccessivo, come
riusciva a controllare ogni altro aspetto di quell’esistenza programmata che
aveva finalizzato alla distruzione del Maestro. Di quel desiderio, fino ad
allora, non aveva avuto piena coscienza.
Adesso, invece, lo torturava. Quel
bacio gli aveva aperto gli occhi. Lei si era annidata nel suo cuore e da lì
stravolgeva ogni parte del corpo. Gli strumenti del suo potere erano molti, una
bellezza morbida e timida che lasciava senza difese, un animo nobile e
comprensivo, e persino la vibrazione sottile ma sempre presente di un passato
che s’intrecciava con il suo, dei ricordi che condividevano, del dolore comune,
delle poche gioie che avevano provato insieme.
E tra quelle gioie, il
bacio.
Rincorreva e respingeva la traccia
del sapore di quelle labbra meravigliose. Quella carnosità che lo accoglieva
appassionata, quella bocca perfetta, che si era appoggiata alla sua come se
fosse stata creata soltanto per questo. E il modo in cui gli aveva risposto
quando la sua lingua l’aveva invasa, e il languore, e il corpo soffice che non
chiedeva altro che di essere percorso dalle sue mani. La voleva ancora, e voleva
di più.
“Escluso!”
esclamò.
Gli parve che la parola cadesse come
un globo di vetro sul pavimento e si disintegrasse.
In quello stesso istante Claus Valca
bussò alla porta ed entrò per fare rapporto al comandante.
Segue capitolo
10…
Non credevo che fosse tanto difficile
raccontare un bacio!
Grazie di nuovo per le recensioni. Vi
adoro sempre di più.
Anche se vi sto facendo logorare
quanto i due protagonisti della storia.
Shatzy, la tua recensione era più
lunga del capitolo! E perfetta come al solito nelle
interpretazioni.
Specifico: quando il giovane Alex
dice “il pilota non abbandona il suo navigatore ecc.” vuole dire anche che ci
sono valori più forti della cavalleria, l’amicizia, la fiducia, ai quali non
potrebbe mai rinunciare. Ecco perché l’episodio gli torna in mente quando
incontra Vincent: sa che, nonostante tutto, la legge del suo cuore gli impedirà
di uccidere Vincent. Inoltre, Sophia adesso è ciò che Yuris era un tempo: il
vice sta al navigatore, come il comandante sta al pilota. Quindi, si è stabilito
con Sophia lo stesso rapporto di fedeltà reciproca che c’era con Yuris.
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Capitolo 10 *** 10. Addio ***
10.
Addio
Alex raggelò gli ufficiali del ponte
comunicando che intendeva attaccare il Maestro subito dopo il completamento
delle riparazioni alla corazzatura.
A bordo della nave non c’era nemmeno
una persona che provasse un briciolo di simpatia per la Gilda (giacché ormai
nemmeno il Principal suo illustre rappresentante, Deeo Eraclea, mostrava né un
particolare desiderio di tornare a casa né qualche forma di affetto per la
potente sorella). E tutti sapevano che Alex odiava Delphine e che l’unico scopo
per il quale la Silvana percorreva i cieli di Prestel – e per cui ognuno di loro
riceveva una ricca paga – era quello di trovare uno spiraglio nell’immensa
potenza tecnologica della Gilda e di farvi passare la maggiore quantità di fuoco
e distruzione.
E nonostante questo, se con la stessa
gelida flemma il comandante avesse scagliato una granata carica tra le gambe
degli ufficiali – via la linguetta, tonfo dell’ordigno sul pavimento di legno,
suo rotolare e sequenza interminabile di secondi nel panico generale – avrebbe
ottenuto lo stesso effetto.
Sembrava che Alex ci godesse a fare
certe sorprese.
Intanto, nel modo più spettacolare,
la Silvana, acciaccata ma solida come sempre, era emersa dalla Zanna del Drago
ed era tornata in quota. E perciò, a compensare lo sgomento che gli ordini di
Alex avevano procurato all’equipaggio, seguì l’orgoglio di sentire che la
lucente sagoma solcava nuovamente il cielo. Con essa, le scie delle vanship
mandate in esplorazione che come fili d’argento si staccavano dal corpo
corazzato della nave-madre.
Alex stesso era animato da un’energia
– riconoscibile dall’espressione assassina degli occhi – che come un’onda
dall’orlo tagliente si trasmetteva a tutti i suoi uomini attraverso la raffica
di ordini che continuava ad impartire.
A tutto questo si aggiungevano lo
sgomento e l’eccitazione prodotti da una strana voce che dalla sera precedente
girava per la nave. Si diceva che due meccanici avessero sorpreso comandante e
vice mentre se la spassavano sulla piattaforma inferiore, non a caso il posto
più isolato della Silvana.
La voce pareva del tutto
inverosimile. Il tenente-colonnello Sophia Forrester svolgeva i suoi doveri di
ufficiale con la compassata dolcezza di sempre.
E quanto al comandante Row - inutile
dirlo – continuava ad esprimere la stessa quantità di sentimento di una batteria
di cannoni. O forse meno.
§§§
Era già buio, nella cabina. Il cielo
oltre l’occhio tondo dell’oblò si spegneva come la fiamma azzurra di una vecchia
lampada a gas.
Allo specchio c’era una giovane donna
con gli occhi mesti di un pianto che non si scioglieva. Aveva cominciato a
scrivere una lettera, l’aveva interrotta quando una macchia d’inchiostro aveva
sporcato la carta immacolata. Era rimasta immobile, inebetita dal ronzio della
nave.
La notte prima non aveva dormito.
Come avrebbe potuto? Non aveva fatto che rigirarsi tra le lenzuola, stringere il
cuscino, lacrimare, ridere, sognare ad occhi aperti, mentre il cuore batteva
forte e la speranza le faceva attendere il mattino con la trepida eccitazione di
una sposa che aspetta il giorno delle nozze. Ma al risveglio non era andata
incontro a uno sposo dagli occhi teneri. Quelli di Alex non l’avevano cercata, e
sulle labbra non c’era traccia del dolce desiderio che l’aveva unito a lei in
quei pochi attimi di felicità.
Si poteva impazzire per questo.
Provare quella gioia, affondarvi dentro, e poi perderla come uno di quei sogni
in cui di notte Sophia s’infiammava e si estingueva per poi svegliarsi piangendo
e con l’angoscia di averne perduto il ricordo. Forse era stato un sogno, e quel
calore, quelle labbra a contatto col suo corpo non erano mai
esistiti.
Portò le dita alle labbra, dove la
bocca di Alex si era appoggiata alla sua. Bruciava ancora sulla pelle che
sembrava diventata più sensibile. No, non era stato un sogno. Non avrebbe provato
adesso quel desiderio di colmare il vuoto del distacco improvviso, come una
coppa d’acqua sottratta a un assetato.
Non trovava il coraggio di andare
nella sua cabina e parlargli. Come avrebbe potuto?
In quello stesso istante Alex
soffriva, ma non per lei.
Claus era entrato come una furia
nella sala di comando agitando una fotografia tra le dita. Sebbene aggredito, il
comandante gli aveva inspiegabilmente concesso un colloquio privato. Soltanto
Sophia ne aveva capito la ragione.
Le sembrava di vedere Alex nella
poltrona come svuotato dalle forze, ne sentiva la voce mentre raccontava a Claus
quella parte di passato che aveva condiviso con suo padre e a chi appartenesse
la vanship. Percepiva, come se fosse presente, la sofferenza sorda che vibrava
nelle sue parole. A pochi passi da lei, nella cabina del comandante, il passato
e il presente si stavano toccando.
Era inevitabile, d’altra parte. Tutto
continuava a mescolarsi e a sovrapporsi, presente e passato, le grandi battaglie
e le piccole lotte, come per un progetto misterioso, e forse anche lei, senza
saperlo, mentre soffriva di quel sentimento senza speranza che univa il dolore
di Alex al suo, era parte di una storia più grande della quale non vedeva i
confini, ma che agiva su di lei come un ingranaggio silenzioso e la muoveva
verso un destino ancora sconosciuto.
Forse, prima o poi, avrebbe sentito
scoccare quel meccanismo dorato, per accorgersi che la sua vita e le sue
sofferenze avevano un senso e uno scopo. Sarebbe stato consolante, quella
consapevolezza, e scoprire che non era tutto vano, non era soltanto sabbia mossa
dentro la clessidra. Il destino di Alex era una linea bianca e netta. Per lui tutto si sarebbe
compiuto nel momento in cui avesse ucciso Delphine: un attimo, e lo scatto del
grande meccanismo si sarebbe sovrapposto alla sintesi di tutta la sua vita, e
una cosa avrebbe dato senso all’altra.
Ma per lei? A che cosa puntava la sua
vita, a quale momento di felicità, che potesse rispecchiarsi in qualcosa di più
grande?
Ogni cosa sembrava inutile. Soffriva,
ma per nulla. Eseguiva, obbediva, comprendeva, ma senza riuscire a cambiare il
cuore della persona alla quale era destinata quella devozione. E mentre le
persone che amava – Alex, Marius – sacrificavano la propria vita al cambiamento
del mondo, lei non era capace di superare l’orizzonte basso del proprio
desiderio.
Ma come poteva dimenticarlo?
L’abbraccio di Alex era stato la cosa più bella che avesse mai provato nella
vita. Le era parso quasi di disintegrarsi in lui, nel calore che l’aveva
avvolta, in quel vago profumo che non riusciva a definire, virile, confortante,
quasi paterno…
Toc, toc.
Qualcosa bussava contro il vetro
dell’oblò.
§§§
Per chi ha conosciuto grandi sogni e
li ha visti frantumarsi nella crudezza di un momento, osservare l’aspetto che la
delusione prende sul volto di un ragazzo, con l’aggravante di esserne la causa,
aggiunge al vecchio carico di amarezza un peso quasi
intollerabile.
Alex, poi, aveva perso, o forse non
aveva mai posseduto, la capacità di trovare auto-giustificazioni nel destino o
nel male di cui lui stesso era stato vittima. Aveva dovuto ingannare Claus - non
si era divertito per niente a farlo - ma l’aveva comunque ingannato.
Nel peggiore dei mondi possibili si
feriscono le stesse persone alle quali si intende fare del bene, e quello in cui
esisteva Delphine Eraclea, padri morivano lasciando bambini di cinque anni,
donne innamorate precipitavano da 20000 metri, amici si
prendevano a cannonate e fanciulle dalla pelle delicata come latte nascondevano
il corpo in scure divise tra pareti di metallo, era un mondo che senza dubbio
apparteneva alla categoria.
Nel peggiore dei mondi possibili un
bacio faceva soffrire e precipitare in una voragine di rimorsi. Per Yuris, la
cui memoria aveva tradito, e per Sophia, che si stava immolando a qualcuno ormai
incapace di amare.
Rimorso inutile, come la rabbia che
provava adesso contro se stesso e Sophia, differente dall’unico sentimento
ancora concesso, l’odio che lo conduceva diritto verso il Maestro come la
freccia al bersaglio.
Non aveva chiesto che salisse a
bordo, non era stato lui a volere che Sophia lo tentasse né che fosse sempre
così perfetta, così in accordo con tutto ciò che lui era, pensava, voleva, e
persino con le proporzioni del suo corpo, con il ritmo del suo respiro e ora con
la forma e la consistenza delle sue labbra.
Ma era colpevole. E lei era colpevole. Pretendeva che fosse
tanto facile soccombere alla dolcezza dei suoi occhi e contemporaneamente
tollerare il dolore di essere vivo al posto della persona innocente che aveva
amato?
Ma morire non era il male peggiore.
Più atroce era vivere essendo già morti e subire i canti di sirena della vita
sapendo di non poterne più godere.
All’improvviso il bacio di Sophia non
gli appariva più vivo dell’ultimo bacio di Yuris. Comprese con orrore che ciò
che sentiva bruciare sulle labbra erano entrambi, l’uno sovrapposto all’altro, e
che il secondo e più recente aveva risvegliato il primo.
Ancora una volta, con la straziante
disperazione di dieci anni prima, quando si era salvato dal Grand Stream,
seppellì il viso in mani contorte, torturato dal dolore lancinante di non
riuscire a urlare, di non poter morire urlando.
La fotografia che Claus gli aveva
riportato era stata scattata il giorno in cui avevano sfidato il Grand Stream,
pochi minuti dopo che le labbra di Yuris e le sue si erano unite per l’ultima
volta. Era stato il bacio di due soldati prima della battaglia, la promessa
reciproca di sopravvivere. Dietro la casa di Nordkhia, mentre Hamilcar e George
salutavano Justina e i bambini, si erano aggrappati l’uno alle labbra dell’altra
come alla vita stessa, perché in realtà avevano paura.
“Moriremo?” gli aveva mormorato
Yuris.
Paralizzato dall’orrore, non aveva
avuto il coraggio di risponderle. E lei, con quella ruvidezza protettiva che
smussava gli spigoli delle sue malinconie, gli aveva stretto il volto tra le
mani e gli aveva detto: “Io e te, Alex, non possiamo morire. Ricordi? Insieme,
il cielo ci ama.”
§§§
Toc toc.
Sophia si voltò tristemente. Un
piccione viaggiatore la guardava da dietro al vetro.
Marius…
Come un automa andò ad aprire l’oblò
e prese la piccola creatura bianca nelle mani. Ne accarezzò la testolina
infreddolita, rimandando la necessità di aprire il messaggio contenuto nel
cilindretto attaccato alla zampa. Era il suo malumore a suggerirle quel
presentimento di sciagura?
Si decise. Lesse il
messaggio.
Marius le raccontava gli sviluppi
della follia dell’imperatore e l’avanzare inarrestabile della flotta di Disith
verso la capitale.
“La tua giovinezza, la forza del tuo
cuore sono l’ultima speranza per la pace e la sopravvivenza della nazione” le
scriveva, e richiamandola al suo dovere, le chiedeva pietosamente di assumersi
il peso della corona al posto di suo padre.
E di parola in parola, di rigo in
rigo, le pareva di trasformarsi in uno specchio rotto e che i frammenti si
staccassero uno ad uno per cadere nel vuoto.
Cosa? Io?
Avrebbe dovuto pensare alla sacralità
di quella richiesta con la quale il Consigliere le implorava di innalzarsi al di
sopra di tutto e di diventare responsabile del destino del suo popolo. E invece
in lei, contro di lei, si agitava un solo pensiero: non posso, non desidero andare, voglio
restare qui, sulla Silvana, accanto ad Alex, fino
all’ultimo.
Per convincersi che fosse questa la
scelta più giusta, si diceva che Marius sbagliava ad affidare a lei, troppo
giovane, senza forza ed esperienza, una fiducia così grande. E altrimenti, come
avrebbe potuto, lei, lasciare la nave e rinunciare per sempre alla speranza
dell’amore? Come avrebbe potuto sopportare che finisse in quel modo, proprio
adesso che lui l’aveva baciata?
Era confusa, più del solito, e
combattuta.
Non le rimaneva che un ultimo
appiglio.
Sciolse i capelli, si profumò, depose
gli occhiali d’oro sulla scrivania. Allo specchio appariva una giovane donna
dallo sguardo miope, illanguidita dalla tenerezza di un amore che non riusciva
più a contenere dentro se stessa.
Forse lui mi
bacerà.
Forse lui mi chiederà di restare.
Uscì nel corridoio per andare a
parlare con Alex.
§§§
Dalla divisa sbocciava un profumo
bianco di fiori d’acqua, umido di sensualità virginale, riverberante sulla
penombra come una sorgente nascosta, che lui, il suo olfatto di animale
selvatico, avvertiva irresistibilmente intorbidato da paura e timida volontà di
sedurre.
La vedeva come aveva visto sua cugina
Yuris un tempo, coi capelli sciolti e quella femminilità gentile e confidente
della quale Alex aveva bisogno come dell’unico possibile completamento di se
stesso. Ma non era Yuris, e si sovrapponeva a lei con un gioco di specchi e di
strane iridescenze, cancellandola senza pietà.
Lo colpì come un pugno nel ventre
l’impulso di aggredirla e farla sua, perché Sophia si offriva, ingenuamente,
come una ragazzina, fingendo che lo scopo della visita fosse soltanto la lettera
di Marius. E provò odio per lei, e rabbia, mentre immaginava di punirla, di
scattare in piedi, schiaffeggiarla una, due volte, e sentire la stoffa che si
strappava e il suo corpo nelle mani e spingerla sul tavolo, farla gridare di
dolore e di piacere, e gridare con lei.
Sophia gli porse la lettera.
Perché? Che cosa pretendeva da lui?
Che si disperasse? Che le ordinasse di restare?
E aveva già dimenticato i suoi
doveri? Era tanto pazza da scegliere di rimanere sulla
nave?
Lesse la lettera, mentre la furia si
stemperava in un languore cupo che lo paralizzava lasciandolo inerme e passivo
alla tortura che Sophia gli infliggeva col fruscio lento dei capelli e con la
tristezza infantile dei suoi occhi verdi.
Lesse, soffrendo e gioendo delle
parole che Marius aveva tracciato con mano elegante, pensando che finalmente,
per tutti loro, il momento intorno a cui girava il senso della loro vita si
stava compiendo: per lui, vendetta e morte; per lei, la luce del mondo nuovo che
avrebbe costruito come imperatrice.
Si era persa, per colpa dell’amore
che provava per lui, per la debolezza di lui. Doveva aiutarla a ritrovare la sua
vera strada.
Non lo capisci ancora? Non è qui, il
tuo destino. Non con me. Non con questa morte che mi porto dentro. Vai, fai ciò
che devi, e vivi.
Sei libera,
Sophia.
§§§
Sapeva come ferirla, il comandante
Row, e dove colpire per farle male.
Era andata da lui con la speranza di
addolcirlo, forse di sedurlo. Insicura, perché non conosceva il potere della
propria bellezza. Era andata in mare aperto senza bussola, credendo che bastasse
l’istinto, e si era perduta.
“Sei una donna tanto debole da volere
che sia io a dirti ciò che devi fare oppure no?” le aveva detto
infastidito.
Così l’aveva messa a nudo, svelando
la debolezza che le aveva fatto dimenticare quale fosse il suo ruolo nella
storia che stavano vivendo.
La paura di perdere Alex si era
trasformata in vergogna. Aveva costruito lentamente l’illusione che almeno
donarsi a lui ed essergli fedele a tutti i costi fosse l’espressione più nobile
del destino di responsabilità e devozione al quale anche Alex e Marius e un
tempo Yuris, Hamilcar, George, erano legati.
“Sono il suo vice, non lo dimentichi”
gli aveva detto prima del combattimento con la Urbanus.
Ed era vero. Era stata la scelta
giusta. Ma Sophia non aveva calcolato fino in fondo che cosa significasse essere
fedele ad Alex. Non si trattava soltanto di affiancarlo nella sua battaglia. La
fedeltà che le chiedeva non era nei suoi confronti, ma verso il principio di
dovere al quale anche lui aveva sacrificato la vita. Fedeltà era non rinnegare
se stessi e il proprio destino.
“Quei capelli…non si addicono affatto
a una nave” le aveva detto con una voce dolente.
Comprese di non avere fatto altro che
torturarlo. Come ora che i suoi capelli profumavano per attirarlo lontano dalla
fedeltà sofferta in cui, malgrado tutto, continuava a trovare amore, ricordo e
forza per continuare a vivere.
Sul tavolo, la fotografia di Yuris
non faceva che ribadire l’egoismo di cui si sentiva colpevole. Quando era
entrata nella cabina, Alex stava pensando alla donna che aveva perduto. Nel
sorriso di Yuris, Sophia vide svelata la miseria che l’aveva indotta a
pretendere di sovrapporsi a quell’amore incrollabile.
Qualcosa cambiò dentro di lei. Lo amò
più di quanto l’avesse mai amato, e nello stesso istante rinunciò a lui, capendo
che l’unico modo per completare il loro amore non era l’unione del corpo, ma la
fusione reciproca in un destino che li sovrastava e che li rendeva l’uno
indispensabile all’altra.
Lo lasciò senza che si salutassero.
Non c’erano stati il bacio e le parole che aveva sperato. Ma camminò a passi
lenti con un senso confortevole di liberazione che le cresceva in
petto.
Uscì all’aperto, nell’aria fresca e
libera di una notte che sarebbe stata perfetta per
l’amore.
Il vento le passava tra i capelli
sciolti con la carezza che avrebbe voluto ricevere dal comandante. Sorrise
tristemente al vento e all’oscurità. Sentiva di trovarsi nel punto più profondo
del precipizio di dolore e desiderio nel quale era caduta, ma sapeva che da lì,
da quel punto oscuro e dimenticato, avrebbe cominciato a salire. Doveva soltanto
trovare il primo gradino della scala.
Poi dalla Silvana emerse la testa
bionda di Claus Valca.
“Signorina
Sophia…”
Anche per lui era stata una giornata
difficile. Nell’incontro con Alex entrambi avevano trovato soltanto
disillusione.
Perciò, ascoltare le sue ingenue
confidenze e persino lo sfogo della sua rabbia contro Alex, portò conforto a
Sophia. E Claus, accorgendosi che soffriva, fu premuroso con
lei.
“Sei un ragazzo gentile, Claus” gli
disse. E senza riflettere lo baciò dolcemente. Sulle sue labbra inesperte cercò
il ricordo del bacio di Alex e il battito iniziale di una nuova
vita.
Addio, Alex.
§§§
Alex non aveva idea della ragione che
l’aveva spinto ad uscire dalla cabina.
Si ritrovò avvolto dall’eco
dell’unità claudia che pulsava sulle pareti del corridoio deserto.
Ricordava di essere stato colto da un
senso inaspettato di tenerezza, dopo che Sophia gli aveva sorriso per l’ultima
volta, e di aver versato del whisky in un bicchiere ma di non averlo bevuto e
poi di avere continuato a pensare a quel sorriso come a un dono prezioso col
quale Sophia gli aveva detto di non odiarlo, persino adesso, perché aveva
ascoltato le parole del suo cuore, non quelle ruvide che gli uscivano dalle
labbra.
Perché ora stava immobile davanti a
quella porta?
Si era fermato inconsapevolmente
nella parte di corridoio in cui si trovava la cabina di Sophia. Fissava la porta
chiusa come un oggetto incomprensibile.
Certe cose non possono essere dette
senza trascinarne altre che è troppo pericoloso rivelare, perché scardinano
tutto, aprono porte che devono restare chiuse.
Ciò che aveva condotto Alex davanti
alla cabina di Sophia erano due parole semplici, ma per lui impronunciabili
senza il rischio di assistere impotente al traboccare di sentimenti che
esprimevano.
Addio, Sophia.
Era bello pensare che fosse
libera.
Era andata via, per sempre. Lo
lasciava solo. Di lei, forse per un giorno, sarebbe rimasta la traccia luminosa
del profumo nell’aria cupa della cabina.
E il suo posto vuoto sul ponte di
comando. E le sere in cui non sarebbe passata per commentare la giornata appena
conclusa. E i caffè che non avrebbero più bevuto insieme. E la sua ironia
affettuosa e gli sguardi confidenti e il rossore quando le parlava e il suo
passo protettivo dietro di lui.
Si era comportata come una ragazzina,
l’aveva ferito e fatto infuriare, ma dalla cabina del comandante era uscita una
donna capace di affrontare il proprio destino.
Posò la mano sulla lastra di
metallo.
Addio,
Sophia.
Così doveva
andare.
Ma all’eco avvolgente dell’unità
claudia in perpetuo movimento, si era sovrapposto all’improvviso un ticchettio
di passi.
Qualcuno entrava nel quartiere degli
ufficiali e camminava verso il corridoio.
Alex staccò la mano dalla
porta.
L’unità della nave, il ritmo dei
passi sembravano richiamarlo alla realtà, ma, ancora sospeso nella confusione
che l’aveva portato fuori dalla cabina, non riusciva a
muoversi.
I passi erano ormai dietro l’angolo
dell’ingresso al corridoio.
Alex attendeva come se si
avvicinassero soltanto per cercarlo.
Qualcuno stava per
apparire.
Qualcuno…
Passi calmi e
leggeri.
Li riconosceva.
Segue capitolo
11…
Vi siete sorbiti un altro capitolo di
follie mentali e quasi senza scene nuove rispetto all’originale. Non l’ho
nemmeno corretto, forse lo farò in seguito, e le ultime righe sono buttate giù a
caso.
l senso di questo capitolo è
abbastanza contorto. Non ve lo spiego, spero ci arriviate da soli.
Non voglio essere troppo noiosa
dilungandomi, ma grazie ancora una volta delle recensioni. No, Shatzy, il bacio di Alex non era per niente calcolato. Infatti,
guarda il risultato di follia che ha portato.
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Capitolo 11 *** 11. Liberazione ***
11. Liberazione
Sophia lo vide dove non si aspettava
di trovarlo e trasalì, restando sospesa al centro del corridoio.
La mia cabina…davanti alla mia
cabina…perché?
Appena era comparsa, Alex aveva
abbassato gli occhi, ma pure nell’atteggiamento dimesso, aveva la fronte
corrucciata come se fosse combattuto.
In quel ripiegamento dentro se
stesso, mentre Sophia immobile non osava parlare né quasi respirare, ma poteva
soltanto esprimere con gli occhi sgomenti la paura di turbare il comandante più
di quanto avesse già fatto, Alex, come risucchiato in un turbine vorticoso,
rivisse il lungo passato di dolore e solitudine che l’aveva portato a quel
momento, la caduta nel Grand Stream, il giorno in cui aveva indossato la divisa
delle Silvana, le notti insonni e tormentate, il sangue versato, le battaglie
vinte per cui non aveva gioito, la lotta contro l’amore di
Sophia.
E in un attimo, rigettato dal turbine
di nuovo nella luce artificiale del corridoio, comprese la verità ovvia che non
aveva avuto il coraggio di affrontare, come non l’aveva di guardare in faccia
Sophia: che non si era mai sentito tanto solo quanto nell’istante in cui Sophia,
dopo l’ultimo sorriso, aveva voltato le spalle ed era uscita dalla sua cabina e
dalla sua vita per tornare nella Città imperiale.
Spinto da questa improvvisa
consapevolezza, sollevò gli occhi da terra per guardare dentro quelli di Sophia.
E le apparve inaspettatamente arreso, senza più la forza e la volontà di
combatterla, e languido di una sofferenza dalla quale sembrava chiederle di
liberalo, svelando per la prima volta la fragilità inerme, quasi infantile della
sua anima, che di lei aveva bisogno, del suo calore, come un bambino della
madre.
Sophia capì che le concedeva di
amarlo perché aveva rinunciato a lui.
Non sarebbe mai potuto accadere né
prima né dopo quella notte. Negli occhi di Alex non c’era il rimorso per averla
fatta soffrire in passato o la promessa di una felicità futura che sapeva di non
essere in grado di darle. Ma c’era forse il confuso desiderio di liberare almeno
per un attimo il sentimento che lo univa a lei e di bruciarlo tutto in una
notte. Non avrebbe concesso a se stesso quella debolezza se non fosse stato
sicuro che Sophia era finalmente libera.
Una grande serenità si distese su
Sophia.
Uno, due passi incerti, e poi corse
da lui, come per spiccare il volo, e si rannicchiò con prepotenza contro quel
corpo che sentiva immenso come il cielo crepuscolare in cui aveva appena
disperso le ultime lacrime. Alex s’irrigidì di smarrimento. Sollevò un braccio –
troppo tardi per fermarla - Sophia era già lì, esile e calda, profumo d’acqua e
fiori, fruscio di capelli, respiro umido contro la stoffa compatta della divisa
e del mantello, e lui non aveva la forza di spingerla via.
Poi, sciogliendosi, quasi mutando la
sostanza che lo componeva, come se l’acciaio della Silvana fosse diventato il
vapore delle nubi che l’avvolgevano, si trovò ad abbracciarla. E attratto dalla
sua calma commozione, chiuse l’abbraccio abbassando il capo e appoggiando le
labbra sulla scriminatura dei capelli biondo scuro. Dalla pelle, nascosto ma non
cancellato dal profumo, saliva mollemente quell’odore mielato che conosceva
bene, la subdola, spesso inavvertita ossessione degli anni, dei giorni passati
accanto a lei.
Sophia non si muoveva, cullata dal
respiro di Alex e da qualcosa che non sapeva spiegare – possibile? – il battito
del suo cuore che le assediava il seno. Le sue labbra, proprio le sue, le
sfioravano una tempia, la carezza più tenera che avesse mai sentito, scendevano,
e toccavano l’orecchio. Tra poco l’avrebbe di nuovo baciata.
Forse.
Sollevò la testa costringendolo ad
allentare un poco l’abbraccio, non per offrirsi al bacio ma per lo strano
impulso di guardarlo. Alex non si difese. Sophia pensò con emozione che non le
aveva mai permesso di fissarlo così da vicino, così lungamente. Il suo viso,
finora, apparteneva più all’immaginazione che all’osservazione, era per lei il
puzzle ricomposto da centinaia di occhiate rubate. Ora, con quell’espressione
dimessa, arreso a lei, si lasciava studiare, il naso deciso sulle linee scarne e
affilate del viso, il mento nobile, le labbra pallide e ferme, il colore caldo
delle pupille, la forma esotica degli occhi che l’ombra azzurrina delle occhiaie
rendeva ancora più delicata e struggente.
Gli prese la mano. Alex indugiò. Lei
gli sorrise come per dirgli “seguimi”, strinse la sua mano, lo guidò nella
propria cabina, oltre quella porta davanti alla quale Alex le aveva detto addio
mentre lei non c’era.
Si ritrovarono nel vano d’ingresso.
Dall’oblò entrava la luce bianca della luna e delle stelle. Non c’era ombra, ma
ovunque il riflesso argentato del cielo. Allo scatto di chiusura della porta,
Alex appoggiò la schiena al muro. Qualcosa lo frenava ancora. Per un attimo
Sophia dubitò di se stessa e della propria sfrontatezza. Ma gli occhi di Alex
erano docili. Sembrava che attendesse di vedere ciò di cui lei fosse capace.
Lo spogliò del mantello, che scivolò
per terra, ai suoi piedi. Alex non si muoveva.
Con la stessa intraprendenza
diligente e metodica, Sophia gli sfilò i guanti, prima il sinistro, poi il
destro, e delle mani nude baciò la punta delle dita, di tutte le dita. Alex la
guardava.
Si sollevò per baciargli il collo. Il
primo bacio fu timido. Ma istintivamente, sentendo la nodosità del pomo d’Adamo
e l’odore virile della pelle e la mandibola severa e il brivido eccitato di Alex
e il suo sospiro, dischiuse le labbra e cominciò a far scivolare dal collo al
mento baci umidi, da gatta, quasi leccandolo. Sotto le mani il cuore di Alex
batteva più rapidamente, il suo respiro si alterava.
Le parve di trasformarsi in un corpo
diverso, in una pianta che germoglia, mentre alzandosi sulle punte dei piedi,
tendendo tutta se stessa, Sophia raggiungeva le sue labbra e lo baciava. Aveva
lo stesso sapore della sera prima.
Quando Sophia si allontanò per
guardarlo, in realtà intimorita da tutto ciò che aveva appena fatto, Alex era
addolcito. Le accarezzò una guancia. E forse sorrideva, mentre dalla guancia la
mano passava sull’orecchio, affondava nei capelli, li lasciava scivolare tra le
dita per tutta la lunghezza, come sabbia fine.
La divisa, da quel momento, era
completamente inutile. Con un gesto istintivo, Sophia aprì la cintura che
chiudeva con lo stemma della nave la giacca militare di
Alex.
La cintura cadde. La fibbia d’argento
tintinnò sul pavimento, tra il mantello abbandonato e gli stivali di Sophia,
come un rintocco…
§§§
La solleva e la spinge contro il
muro. A Sophia manca il respiro dai polmoni, ma lui non le dà tregua, ha fame di
lei, una fame antica, senza inizio e memoria, e la bacia voracemente, le dita
affondate nei capelli come artigli, il corpo che la schiaccia. La bocca di
Sophia si arrende senza lotta e si apre alla bocca, alla lingua dell’unico amore
come il calice al vino, e si lascia prendere, cercare, come farebbe per sempre,
per tutta la vita, se lui lo volesse. Gli chiude le braccia intorno alla nuca
come un fermaglio perché a stento tocca terra con i piedi, e non le importa di
non riuscire quasi a respirare e nemmeno del vortice che la porta in un luogo
sconosciuto, la tana oscura dell’eccitazione che – mentre Alex diventa un
animale - le scuote ogni parte del corpo senza pietà, qualcosa di sordo e
potente e feroce che parte dal ventre, dal sesso, e chiama, urla “ancora, ancora
di più!”
Le piega il collo, lo bacia, lo
morde, e con un solo gesto le spalanca la divisa, la getta via, e affonda nel
suo seno - la bocca, il viso, le mani, i denti, la lingua - e Sophia non sa più
se il gemito lento e stordito che sente sia il proprio o quello che accompagna
il respiro caldo di Alex mentre le tormenta la pelle, mentre le prende le mani e
le preme contro il muro per imprigionarla e sentirla contro di sé e la bacia
ancora a fondo, ed è rude e dolce, perché ha perso ogni
controllo.
Il mondo si muove, le pareti girano,
il biancore della luna esplode negli occhi. E’ ubriaca, ma non ha bevuto. La sua
mente è vuota, e ciò che rimane è la carne tenera e accogliente che di sé
percepisce attraverso la passione incontrollata, i gesti impetuosi di
Alex.
Si ritrova, senza sapere come,
distesa sul letto. Alex le ha sfilato gli stivali e la gonna e ora, con le dita
e la bocca, la spoglia di ciò che rimane. A volte – quando fa scivolare il
reggiseno e morde la curva morbida della spalla, quando le sue labbra impazienti
scendono sul petto - le strappa un gemito che è quasi di dolore. Ogni parte del
corpo di Sophia si risveglia. Non sapeva dello spasimo profondo che inarca la
schiena quando la lingua passa sul seno. E un brivido le frantuma il corpo,
mentre i capelli densi e serici dell’uomo chino su di lei, frusciando, le
accarezzano la pelle.
La divisa cade anche dal corpo di
Alex. Ora, in ginocchio per terra, ai piedi del letto, Alex a torso nudo le
appare non più come il comandante, ma soltanto come un giovane uomo seducente,
forte e asciutto come un arco teso.
D’un tratto Sophia si rende conto di
essere completamente nuda e che quegli occhi appassionati – occhi che non sono
mai stati così belli – la osservano senza pudore. E vergognandosi, fa il gesto
di coprirsi. Ma lui le afferra le mani e strattonandola se la attira contro e la
fa sedere sul bordo del letto. Toccare la pelle nuda di Alex è una sensazione
violenta, come vedere la luce dopo la completa oscurità. Sophia comincia a
tremare convulsamente, vorrebbe persino scappare da lui e dall’intensità di ciò
che le sta accadendo.
“Alex…Alex…è
troppo…”
Lui si accorge di averla travolta con
un’irruenza eccessiva per una ragazza che non ha mai conosciuto quell’intimità.
La abbraccia in modo protettivo, per calmarla, e la accarezza, godendo del
contatto con lei, ora che l’abbondanza del suo seno gli preme contro il petto e
i suoi capelli si disperdono sulle braccia che la cingono. Nell’orecchio le
sussurra cose che lei, confusa, a stento comprende. E poi le dice: “Baciami” e
lascia che sia lei a chiamare la sua bocca, tornando così a meravigliarsi per la
naturalezza con cui le loro labbra si toccano e si legano. Si scambiano baci
sempre più incoscienti e storditi, una catena che potrebbe durare all’infinito e
ricomincia appena l’uno accenna a staccarsi e chiude le labbra, aspettando
soltanto che l’altro le riprenda e le riapra e le
assapori.
Sophia ha sciolto le sensazioni
confuse, accavallate e potenti di prima in un nuovo desiderio, che la porta a
far scivolare la bocca sul petto di Alex, come per appropriarsi dell’odore
ambrato di quella pelle così fine. Lo bacia, lo morde come e dove Alex ha fatto
con lei, e lui sospira lento, piega il collo all’indietro, annientato dal
desiderio che quel tocco umido gli fa infuriare dentro.
Non può permetterle di continuare
così. La distende un’altra volta per baciarla sulla pancia: è soffice,
accogliente e profumata e, affondando lentamente nella sensazione di serenità
che quel contatto gli trasmette, si ritrova ad appoggiarvi il capo. Nemmeno
Yuris gli ha dato quel senso di comprensione fisica, quella sensualità generosa,
e con un’involontaria associazione, lo sfiora il pensiero della morte che presto
gli verrà incontro e non gli appare spaventosa e triste, ma confortevole come
quel ventre delicato che quasi lo avvolge e lo culla.
E non sa che nello stesso momento,
mentre dalla pancia le labbra di Alex scendono più in basso e lei non lo
respinge, ma lo asseconda accarezzandogli i capelli, Sophia pensa che persino
ciò che le sta facendo ora, nella parte più intima del suo corpo, è bello e
semplice come tutto il resto, e all’improvviso sembra che sia sempre stato loro,
nascosto, segreto, come il legame che li ha uniti per tanto tempo. E con
l’esplodere di sensazioni che credeva impossibile potessero diventare tanto
intense, capisce che il loro legame non si spezzerà mai e che il miracolo di
quella notte in cui Alex le dona tutto se stesso, nonostante la separazione e il
destino sconosciuto e terribile che incombe, durerà per sempre.
Poi Alex si distende su di lei e il
suo corpo nudo la sorprende e la avvolge come l’edera una statua. “Ti voglio” le
dice in un modo che non ha niente di implorante, ma sembra un ordine, e
tuttavia, nella profondità sfumata della sua voce, non perde di calore e di
delicatezza.
Sophia rabbrividisce e si lascia
guidare nella direzione verso cui ormai la porta tutto ciò che Alex le fa,
sempre più eccitato, come la bacia, la stringe, la stimola col proprio corpo,
come la imprigiona sotto di sé e intreccia le dita con le sue. Perde la
dimensione del tempo e l’unico ritmo che riesce ancora a percepire è quello che
scandisce la crescita vertiginosa e ormai insopportabile del desiderio che lui
la penetri.
E proprio quando sta per urlare che
non resiste più, Alex entra in lei. Le fa male e affonda nella sua carne vergine
senza esitazione, perché non può più sostenere la barriera che separa la
tenerezza dal delirio della sua passione. Ma mentre Sophia grida e lo graffia
inavvertitamente sulla schiena, si china su di lei.
“Sophia…Sophia, sono io. Sentimi…” le
dice nell’orecchio con una dolcezza che lui stesso non controlla. La accarezza,
mormora cose che credeva di non essere più capace di dire e lentamente comincia
a muoversi. E nella gioia folle, assurda, incontenibile di sentire come la carne
di Sophia lo stringe e pulsa intorno alla sua virilità, non fa che ripetere un
unico pensiero. Non mi stancherò mai di
questo corpo. Mai, mai, non è possibile.
Sophia si abbandona alle onde
inarrestabili che si propagano e si addensano dal punto che Alex tocca dentro di
lei. Prima di annullarsi definitivamente, pensa che il battito cupo del motore
della Silvana si è fermato, perché non lo ode più. Lassù, sul ponte di comando,
siede l’uomo che conduce la nave da guerra più potente del mondo a una vendetta
distruttiva.
Qui c’è il corpo snello e sensuale
che desidera soltanto sciogliersi in lei e trema mentre gli dice, con una voce
sempre più confusa, “Ti amo”.
Gli appoggia la mano sulla nuca e se
lo stringe forte addosso.
Quello che accade dopo è gioia
pura.
Segue Capitolo
12…
E la notte è ancora
lunga…
Ho cercato di non esagerare coi
dettagli per non cambiare il rating da arancione a rosso, ma questo mi ha
portato a rendere il tutto forse un po’ troppo sdolcinato.
Grazie anche questa volta per le
recensioni. E grazie alla nuova lettrice Only_a_illusion. A
presto!
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Capitolo 12 *** 12. Una notte ***
12. Una notte
C’era stato un intervallo non di
sonno ma di oblio nel quale aveva galleggiato serena e protetta come nel ventre
materno. Quanto fosse durato – un minuto? Un’ora? – non sapeva. Dischiuse gli
occhi alla luce bianca che pioveva attraverso i grandi oblò e si accorse che
quella sensazione di calore e di tranquillità non scaturiva soltanto dal
rilassamento che aveva seguito l’ultima ondata di piacere ma anche dal contatto
col corpo di Alex. Si ritrovò con la testa appoggiata al suo braccio. La parte
inferiore del corpo, dal bacino in giù, era intrecciata a quelle gambe lunghe di
cui aveva sempre amato spiare la falcata lenta e le proporzioni perfette dentro
la divisa e gli stivali.
La Luna lo smaterializzava e rendeva la sua
pelle quasi evanescente, bianche come ali d’uccello le ciocche di capelli
disperse tra la fronte, le guance e le lenzuola.
Lo guardò senza osare toccarlo, nel
timore di infrangere la fragile bolla di felicità che li avvolgeva entrambi.
Ora, nella calma e nel silenzio, Alex era completamente
suo.
Tutto il suo corpo giaceva rilassato.
Il corpo armonioso e forte che la maschera nera della divisa le aveva
crudelmente nascosto finora, come le aveva nascosto quella pelle dall’odore
sottile ed eccitante fatta per essere toccata dalle sue mani e baciata dalla sua
bocca.
Non svegliarti.
Tante volte aveva immaginato di
abbracciarlo e si era domandata come sarebbe stato e come l’avrebbe baciata e
toccata, quale aspetto di sé le avrebbe rivelato nell’amore. E nulla, nessuna
immaginazione si avvicinava al contatto reale con l’uomo disteso accanto a lei.
L’uomo che aveva appena fatto l’amore con lei.
Tra poco, domani, tutto sarebbe
tornato come prima. La sua espressione distante, la sua riservatezza cupa.
L’avrebbe dimenticata, si sarebbe pentito di quel cedimento al suo
amore.
Ma era così bello e dolce, adesso!
Soltanto un ragazzo addormentato. Un corpo nudo illuminato dalla Luna e dalle
stelle.
Persino la gioia poteva opprimere il
petto. Si sentiva paralizzata da un sentimento talmente grande che non riusciva
a scioglierlo fuori di sé come l’urlo di piacere gridato tra le sue braccia.
Eppure non desiderava nulla, se non il prolungamento eterno ed immutato di
quell’istante. Guardarlo con la mente vuota. Sentirsi languida, dopo essere
stata presa, inondata da lui. Sentirlo suo.
“Sophia…”
Alex aveva aperto gli
occhi.
§§§
Eppure sapeva di non aver potuto fare
una scelta diversa.
Percorreva la sua carne bianca e
morbida, di nuovo, ancora, come se stesse toccando il nucleo dorato della vita,
ma non era doloroso sapere di farlo per l’ultima volta. Perché non avrebbe
dovuto amarla, mai, e quella gioia, intensa, fresca, commovente, non gli
apparteneva, né più né meno di quanto gli appartenesse il proprio stesso corpo,
l’immagine vuota che portava la traccia, solo la traccia esterna, di qualcuno
che non esisteva più.
Avrebbe potuto dirle ciò che provava
e di quanto fosse vera l’emozione di prenderla mentre lei con passione e fiducia
si abbandonava di nuovo ad ogni suo desiderio. Ma chi avrebbe parlato? A chi
apparteneva quella emozione? Se avesse dovuto ridare forma a se stesso, se
avesse potuto indicare quale fosse la sola immagine che avrebbe guardato allo
specchio senza sentirla estranea, avrebbe scelto quella del ragazzo che stava
accanto a Yuris nella vecchia fotografia. Quello era ancora Alex Row, ed era
morto. E l’amore per Yuris era – insieme all’odio per Delphine - il solo
sentimento che non sentiva estraneo, forte eppure sempre scollato da sé, come
quello che provava per Sophia.
Nella gioia tornò la disperazione.
Sciolse le mani che le accarezzavano il seno, si staccò dal suo corpo, cadde
lentamente sul letto, come se la forza lo stesse abbandonando. D’un tratto gli
apparve tutto orribilmente distante, i raggi di Luna nella stanza, le lenzuola
macchiate, il biancore latteo di Sophia, i suoi capelli
ondeggianti.
Lei, stordita dalle sue carezze, si
sollevò sorridendo, accompagnata dal fruscio dei capelli che le scivolavano
addosso, ma si accorse che Alex, ora seduto con la schiena appoggiata alla
parete e lo sguardo già remoto, non avrebbe continuato a toccarla. Lo stava di
nuovo perdendo.
E lui avvertiva la sua delusione. Era
così tenera, adesso, mentre seduta sulle gambe, con gli occhi spalancati che non
erano mai sembrati tanti grandi, gli chiedeva di non abbandonarla. Era così
donna, avvicinandosi, allungandosi spontaneamente verso di lui per offrirgli il
suo corpo, per richiamarlo a sé con le forme piene del suo seno e la bocca
gonfia e umida dei baci che le aveva appena dato.
Non era mai stata tanto bella.
Sorgeva dal letto come una dea della terra e dell’acqua, sinuosa, femminile,
trasfigurata dall’amore.
Sentì il suo tocco sulle labbra, le
dita che le accarezzavano, le aprivano con prepotenza e cercavano i denti, la
lingua, il sospiro profondo e involontario che sgorgava da lui. Baciò e succhiò
quelle dita che schiudevano la sua bocca per riportarlo alla vita, sottili,
chiare come raggi di sole che fendono l’oscurità, calde come la primavera che
s’insinua nella terra per farla germogliare.
Nessuna gelata uccide la pianta fino
alla radice, gli
aveva detto al brindisi per Campbell. Allora entrambi ignoravano ciò che sarebbe
accaduto. E lei, forse, aveva ragione, non lui, che della pianta sentiva di
essere la radice morta. Ma questo Sophia non aveva detto, allora: perché la
pianta torni a germogliare, occorre il calore del sole. E quel raggio di sole
capace di sciogliere il ghiaccio, penetrare la terra indurita dall’inverno,
fecondare ciò che pareva sterile e morto, la forza tenace e miracolosa che dalla
radice secca faceva sprizzare la verde foglia, voleva essere proprio
lei.
Inerme avvertì su di sé la pioggia
fresca dei capelli abbondanti e sottili e rabbrividì, mentre scorrevano come
acqua sulla pelle al chinarsi di lei sulla sua bocca, sul suo petto. Lo toccava,
lo stringeva, curiosa, inesperta ma determinata a scoprire il suo corpo, a
dargli piacere.
E Alex, cullato da ciò che lei gli
faceva, si trovò a sorridere.
§§§
“Dove hai imparato
questo?”
Sophia si fermò. D’un tratto senti
sul viso una vampata di calore. Doveva essere arrossita.
Lui la stava osservando con
l’espressione tipica da ponte di comando, non da camera da letto. Quella che
pretendeva una spiegazione in meno di un secondo.
La situazione era diventata
all’improvviso imbarazzante.
Finché Alex si era limitato a
sospirare e a tendere, a rilassare il corpo sotto le sue mani e le sue labbra –
come quando gli aveva baciato quel capolavoro di ombelico – non aveva provato alcuna vergogna. Lo
desiderava troppo. Si era sentita, col crescere reciproco dell’eccitazione,
onnipotente e senza alcuna inibizione.
Ora quello sguardo la confondeva,
facendole dubitare di avere esagerato e che le attività alle quali si era
abbandonata con tanto trasporto fossero poco gradite a colui che ne era
l’oggetto.
Ma durante il servizio sulla nave
aveva imparato che nei momenti di crisi la cosa più importante era mantenere la
calma a tutti i costi. Un buon vice doveva dimostrare di essere sempre
all’altezza della situazione. Dopotutto Alex era lo stratega, ma lei era pur
sempre quella che gli risolveva tutti i problemi pratici.
Senza nemmeno spostare la mano dalla
collocazione nella quale la domanda l’aveva sorpresa, rispose:
“Sul ponte di comando,
signore.”
“Non mi risulta che si pratichino
simili cose sul ponte della Silvana” osservò Alex senza scomporsi, avendo la
precisa intenzione di prendersi gioco di lei. Anche perché Sophia imbarazzata
era ancora più eccitante.
“No, signore, ma ciò che ho imparato
è che un buon vice capisce la volontà del suo comandante prima che
parli.”
Il sorriso di Alex offrì il biancore
dei denti alla luce lunare.
“E in questo caso” continuò
tranquillamente Sophia “l’ordine sarebbe stato quello di armare la batteria di
cannoni principale.”
Alex si lasciò andare a una risata
silenziosa. La prese su di sé e stringendole la nuca la baciò con passione.
“Non vergognarti mai” le disse. Era
tornato serio e le accarezzava le guance e gli occhi.
Sophia, accogliendolo dentro, lo
avvolse con tutta se stessa.
Mentre tornava ad immergersi nel suo
seno, Alex pensò che un tempo, quando era vivo, si sentiva
così.
§§§
In bagno, Sophia scoppiò a
piangere.
Aveva lasciato Alex nel letto. Si era
lavata. Aveva persino passato qualche colpo di spazzola tra i capelli. E aveva
sorriso, ripensando con un capogiro a tutto ciò che avevano fatto.
Allo specchio aveva visto una donna
diversa. Sul corpo c’erano le tracce madreperla del suo seme. La bocca, dove
continuava a percepire il sapore dei loro corpi, era arrossata di baci. Gli
occhi splendevano di una luminosità che non conosceva, sensuale, ferina. Era
diversa, ma avrebbe voluto rimanere così per sempre.
Quante ore alla partenza? La notte
era fonda, mancava ancora tanto al sorgere del Sole. Non aveva nemmeno
impacchettato le sue cose, i libri, le divise, la biancheria. Doveva lasciare la
cabina vuota, come era dovere di un buon ufficiale.
Doveva fare ancora molte cose, prima
di partire dalla nave.
Aveva aperto il rubinetto del
lavandino per far scorrere l’acqua. Si era piegata sulle ginocchia e aveva
pianto.
Questa era la prova più dura. Ne
aveva superate molte, da quando sua madre era morta. Aveva affrontato la
solitudine e le responsabilità che ogni volta il suo ruolo, quello di figlia
abbandonata, di erede al trono, di primo ufficiale, le aveva imposto.
Aveva dovuto lottare, sempre, e dimostrare di essere forte. Ora questo. Lasciare la persona che aveva più cara al
mondo.
Aveva già deciso e accettato. Ma il
passo successivo, andar via per sempre, era ancora il più difficile. Perché
sapeva che non ci sarebbero state altre notti come quella e la carne, la voce di
Alex, sarebbero rimaste solo un ricordo.
O forse no…un giorno…
Accadeva a tutti gli amanti ciò che
era accaduto tra di loro? Era sempre così il sesso? Era sempre tanto intensa,
incontrollabile, persino dolorosa la passione che attraeva ed univa due corpi?
Sorridevano, gli amanti, come aveva fatto lui, con quella dolcezza disperata,
come se fare l’amore con lei gli facesse ritrovare l’essenza di se
stesso?
O tutto questo apparteneva solo a
loro e Alex l’amava, più di quanto avesse la volontà di
ammettere?
Bagnò il viso con le mani.
Non aveva senso piangere adesso.
Avrebbe rovinato tutto. Quella notte il dolore non esisteva.
Chiuse l’acqua. Tornò nella
stanza.
Eccolo, non più nel letto, ma in
piedi, di spalle, davanti all’oblò che aveva aperto per far entrare l’aria
notturna.
L’uomo più odiato e temuto di
Prestel. La sua figura snella contro le stelle. Bellissimo, virile, elegante
come l’aveva visto ogni giorno e come l’avrebbe ricordato per
sempre.
Sophia si avvicinò e si annidò nel
calore della sua pelle nuda. Dall’oblò entrava il fresco della brezza. La stessa
che le aveva accarezzato i capelli poche ore prima, mentre diceva addio alla
Silvana e al suo comandante. La
stessa brezza, le stesse stelle, la stessa notte, sebbene lei fosse così
cambiata.
“Hai freddo?” le chiese, scostandole
una ciocca di capelli dal viso. Era triste.
Sophia scosse la testa. Lo guardò
negli occhi malinconici ma ammorbiditi dalla stessa emozione inesprimibile che provava
lei.
“Sarei dovuto restare laggiù e morire
con loro…”
Lei gli sfiorò le labbra. “Lottare
per vivere” mormorò “è un dovere.”
Le diede un bacio sulla testa, come
un padre, mentre Sophia gli cingeva la vita con le braccia. Il corpo di Alex era
caldo nel fresco della notte. La sua schiena salda come una colonna, il suo
odore tenue e bellissimo. Lo desiderava, le apparteneva.
L’alba era ancora lontana.
Scivolarono in un bacio lungo e profondo. Si amarono ancora, lentamente.
Dolcemente.
§§§
Con la prima luce si rivestì.
Raccolse le parti della divisa sparse per la stanza, gli stivali gettati sotto
la finestra, i pantaloni finiti dietro alla poltrona. La cintura tintinnò
lievemente mentre la chiudeva. Era stata lei a farla cadere per terra all’inizio
di quella notte.
Sophia dormiva. Si inginocchiò
accanto a letto per accostarsi a lei un’ultima volta. Rannicchiata su un fianco, con le
braccia piegate davanti al petto e il labbro superiore che si muoveva
nel respiro, non sembrava molto diversa dalla bambina che aveva conosciuto tanti
anni prima. Non sarebbe mai cambiata. Sarebbe rimasta per sempre pura e delicata
come allora, persino sul trono e nella battaglia, persino tra le braccia di un
uomo.
Non la baciò per non svegliarla.
Il mantello del comandante giaceva
vicino alla porta. Lo prese, lo piegò su un braccio. Non aveva la forza di
indossarlo. Non ancora.
Uscì dalla cabina silenziosamente.
Segue nel capitolo
13…
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Capitolo 13 *** 13. Yuris ormai non c'è più ***
13. “Yuris ormai non c’è
più”
Il portellone della vanship si aprì,
Sophia apparve.
Era seria, come una
sovrana.
Scese il primo, il secondo scalino,
toccò la piattaforma d’atterraggio. Si sforzò di pensare che quello era il suolo
di casa, dopotutto.
Marius la guardava negli occhi con
trepidazione. Sophia non sorrise.
La lunga veste di seta frusciava
intorno al corpo. Non era abituata a quel suono pacato e tagliente col quale si
espandeva l’identità regale tenuta segreta a bordo della
nave.
Abbassò gli occhi, solo per un
attimo. Ancora una volta pensò al corpo che l’aveva stretta per tutta la notte.
Solo la millesima parte dell’amore che Alex era capace di dare. Quello che aveva
dato a Yuris. Immenso. Ora lo capiva.
Le aveva preso il volto tra le mani e
poi accarezzato i capelli per farla addormentare.
Non le aveva detto di
amarla.
§§§
Il comandante non aveva accompagnato
il tenente colonnello Forrester alla pista di decollo. Non rientrava nei suoi
doveri ufficiali.
Aveva osservato l’allontanarsi della
vanship imperiale rossa da un oblò del ponte di comando, ripetendosi che
salutare Sophia sarebbe stato per entrambi comunque più penoso di quell’assenza
di parole.
E quando il puntino rosso era sparito
nell’azzurro splendente della mattina, Alex non era stato capace di rimanere sul
ponte all’improvviso vuoto, con le voci, i rumori quotidiani diventati surreali
ed estranei, con gli ufficiali che ad ogni occhiata sembravano rimproverarlo
tacitamente di quella partenza inattesa.
Uscì all’aria aperta. C’era vento, lo
sentì freddo sulla faccia. E sotto i guanti fini, fredda, quasi gelida, anche la
ringhiera della terrazza panoramica. Alex non sapeva che nello stesso punto, la
sera prima, si era appoggiata la mano di Sophia.
Ma a lei pensava e alle sue mani
tenere.
Yuris…non aveva quelle
mani.
Yuris aveva mani da artista.
Sensibili, nervose, vive, mani che esploravano il mondo come le ali di un falco.
Mani lunghissime, persino troppo, e mobili, snodate come quelle di una
danzatrice, voraci di conoscenza, forti e aggraziate qualsiasi cosa facessero.
Le mani di Sophia erano piccole,
affusolate, sempre in ordine. Si posavano sulle cose con una delicatezza
discreta, come se si accontentassero di portare dolcezza e comprensione, e
cercavano timidamente, ma senza incertezza, senza fragilità. Erano mani fatte
per toccare il cristallo, per accarezzare e crescere un figlio e dare la
felicità a un uomo.
C’era stato un momento in cui nella
notte passata era stato felice. D’improvviso, solo per un attimo, l’inquietudine
e il senso di colpa erano scomparsi e con essi persino il desiderio furioso di
annullarsi dentro il corpo di Sophia.
Ricordava la luce pallida dell’alba
sul suo dolce viso estenuato. Anche lui era sfinito. Aveva chiuso gli occhi, ma
senza dormire, cullandosi del respiro che sentiva accanto a sé. Poi, d’un
tratto, aveva sentito un tocco sulla bocca. Un bacio a fior di labbra, così
piccolo, così delicato da sembrare quasi solo un sogno. Un bacio che non
chiedeva nulla, perché Sophia, credendolo addormentato, non desiderava
svegliarlo. Tutta la semplice grandezza del suo amore era in quel bacio. Non
c’era altro. E lui aveva sentito qualcosa frantumarsi dentro, ma senza dolore,
no, solo con la sensazione che tutto fosse semplice e bello come quel bacio e
come era lei, tutta quanta, il suo viso, il suo odore, la sua pelle
accanto.
Le aveva preso il viso tra le mani.
Perché era la donna più bella del mondo e meritava di più, meritava gioia e devozione. Perché
voleva dirle ciò che provava e mille altre cose. Perché doveva dirle una
cosa…una sola, quella che ancora adesso non riusciva a scollarsi dalla
testa.
Tornò dentro la nave. Salire al ponte
era fuori discussione.
Mentre camminava verso la cabina,
continuava a ripetersi che doveva essere diventato definitivamente
pazzo.
§§§
Da una parte, sopra la porta, apparve
il volto contorto di un condannato legato al palo di un rogo. Più in là,
separato dall’ombra, i denti digrignati di un uomo sotto tortura e lì, proprio
sopra la finestra, la spada del boia che decapitava una fanciulla. Le immagini
sprizzavano dall’oscurità della stanza come nel cielo notturno i lampi di un
temporale lontano.
Non scene complete. Pezzi sparsi di composizioni distese sulla volta della cella da artisti morti
cento e cento anni prima, tutto ciò che degli affreschi la fiamma sulla candela
permetteva di scorgere col suo ondeggiare lento.
Torture. Esecuzioni
capitali.
Come quella che spettava a lei. Tra
un giorno, tra un’ora, forse, secondo la volontà dell’imperatore. Questo era il
destino che un padre assegnava a una figlia.
Padre…
Quante volte aveva pronunciato quel
nome! Eppure mai, mai dalle sue labbra era uscito con la vibrazione del
sentimento che avrebbe dovuto accompagnare quella parola. Padre, Altezza, Sire,
nomi tra loro legati come anelli di una catena di ferro. Padre. Una parola così
vuota per lei.
Aveva sondato il cuore di quell’uomo
corrucciato, vestito di nero, seduto in trono. Gli aveva chiesto pace e pietà
per i disperati di Disith. E lui, suo padre, non l’aveva ascoltata, ma aveva
gettato su di lei le parole dure dell’accusa di tradimento, senza incertezza e
senza dolore.
Anche con lui la sua voce era come
muta. Anche le orecchie di suo padre erano chiuse, il suo cuore
remoto.
E’ destino che io debba aspirare inutilmente all’amore di un uomo.
Alex non l’aveva tenuta accanto a sé.
L’imperatore la condannava.
Inutile. Ovunque io vada, sono
inutile.
Questo era persino più spaventoso
della condanna a morte.
Aveva lasciato la Silvana col cuore gonfio di
dolore, ma confortata dalla speranza di essere utile. Abbandonava Alex, ma per
uno scopo più grande del suo amore.
Ora quel sacrificio aveva perso ogni
significato. Era sola, non amata. Perfettamente inutile.
La gioia provata la notte prima era
svanita come una goccia d’acqua nella sabbia. Nemmeno scavando riusciva a
sentirne il fresco contatto sulle dita.
§§§
“Sophia!
Sophia!”
La voce di Yuris, calda e vivace come
allora, la chiama.
Chiude gli occhi e quando li riapre è
una bambina di nove anni assorta a guardare il cielo.
Un falchetto è passato ad ali distese
nell’azzurro estivo e Sophia, come incantata, ne ha seguito il volo tranquillo
fino alle alte cime del bosco.
“Sophia! Il servizio tocca
te.”
Li vede tutti, ancora sull’erba verde
del piccolo parco del palazzetto che sorge vicino alla Prima Acqua, la purissima
sorgente imperiale. Yuris, come lei in completo da tennis bianco, ha i capelli
legati a coda di cavallo e il bel volto abbronzato e sorridente. Marius studia
una mossa su una scacchiera d’avorio. Ripara la testa dal sole con un buffo
cappello di paglia che Yuris gli ha regalato per scherzo. E qualche metro più in
là, presso il bordo del campetto da tennis sul quale giocavano le due ragazze,
Alex guarda la partita seduto sull’erba. Ha i piedi scalzi e i pantaloni
arrotolati sul polpaccio ancora bagnati per aver camminato nella sorgente.
Fa caldo, ma il fresco alito della
fonte che gorgheggia oltre il boschetto rende l’aria piacevole, di quella
dolcezza estiva che invita alla compagnia e alla
spensieratezza.
“Sophia! Se continui a distrarti,
dovrò giocare con Alex. A tennis fa pena.”
La bambina lancia in aria la palla e
la colpisce tranquillamente con la racchetta. Cresce in altezza a vista
d’occhio, ha gambe lunghe da cavallino. Yuris le dice spesso che anche per lei è
stato così: presto smetterà di allungarsi e prenderà delle belle forme
femminili, perché Sophia le somiglia in tutto.
Nei pochi istanti in cui attende la
palla rilanciata da Yuris, Sophia nota che Alex ha rivolto un occhiolino proprio
a lei. “Se faccio pena,” scherza il ragazzo “è solo colpa della mia pessima
insegnante.”
Sophia segna un punto. “Yuris ha
insegnato a giocare anche a me” dice mentre si prepara a lanciare nuovamente la
palla del servizio “e non sono poi così male.”
“Ah ah!” esclama Yuris.
Alex sorride e si allunga
all’indietro, appoggiando i gomiti sull’erba. “Sì, ma a me ha insegnato
diversamente. Lo ha fatto apposta per impedirmi di
batterla.”
Marius ridacchia senza alzare lo
sguardo dalla scacchiera.
“Papà!” sbraita Yuris.
Sophia corre a recuperare la palla
finita in una siepe. E’ un’ottima scusa per allontanarsi. Sente che le guance le
bruciano, deve essere arrossita e non ne sa il motivo. Forse perché si vergogna
di aver contraddetto Alex o forse perché ha notato lo strano sguardo che Yuris
ha rivolto al ragazzo, uno sguardo così diverso da quelli affettuosi che rivolge
a lei o a suo padre.
Fruga nella siepe e trova la piccola
sfera bianca. Torna indietro palleggiando, ma dall’altra parte della rete non
vede più nessuno. Il campo è vuoto, al posto di Yuris c’è la sua racchetta
abbandonata per terra.
Si volta e li vede. Loro tre sono
insieme, sul prato al bordo del campetto. Yuris si è chinata sulle spalle di
Marius e lo abbraccia. Gli ha spostato le pedine sulla scacchiera per dispetto,
ma il padre ride, mentre lei gli bacia la guancia. Alex le si è messo accanto,
sulla testa ha il cappello di paglia che Yuris ha tolto a Marius, e la fissa
incantato come se fosse la creatura più bella del mondo.
Sophia resta immobile al centro del
campetto. Dall’altra parte, sull’erba, c’è un’armonia che lei non conosce.
§§§
Come sempre, i passi del comandante
risuonavano calmi nei corridoi metallici della nave.
E mentre il fruscio del mantello si
disperdeva alle sue spalle. Alex cercava di ignorare, ma senza successo, la
sensazione di vuoto che percepiva dietro di sé, ora che il camminare di Sophia
non lo seguiva a un passo di distanza, ora che sapeva che nessun corpo avrebbe
sfiorato il suo se si fosse fermato all’improvviso.
Scacciare quella strana sensazione di
solitudine sembrava impossibile, come cercare di allontanare l’ombra proiettata
dal proprio stesso corpo. Gli pareva di essere un insetto invischiato nella tela
di un ragno. Tentava in ogni modo di liberarsi da quella sensazione per
ritrovarsene prigioniero più di prima, come se continuare a ripetersi che tutto
era normale, che la solitudine era la sua condizione necessaria e naturale, non
facesse altro che aumentare l’angoscia per la distanza che lo separava dalla
vanship rossa partita quella mattina e dal respiro tranquillo di Sophia, allo
stesso modo che dieci anni prima le urla gridate nel Grand Stream non erano
servite ad altro che a renderlo più disperatamente inutile mentre il corpo di
Yuris svaniva nella corrente.
La verità era semplice, per quanto
ancora non avesse il coraggio di ammetterla, a se stesso e alla donna che aveva
lasciato mestamente la nave, sconfitta dalla sua ostinazione. Una verità che
bere non era stato sufficiente a cancellare, quella mattina. D’altronde il whisky era
sempre stato inutile, tranne che per vincere l’insonnia o per aiutarlo a
sopportare l’orrore che gli si spalancava dentro a
tradimento.
Nemmeno l’immagine di Yuris era
venuta a soccorrerlo, perché era svanita in una nebbia densa e profonda dalla
quale non era più riemersa, e inutile era stato continuare a cercarla nella
fotografia sbiadita. Del suo volto vedeva i singoli tratti, le labbra
sorridenti, le sopracciglia regolari, gli occhi bruni e dolci, ma senza riuscire
a comporre l’immagine che da allora era almeno riuscito a tenere dentro di sé
con una percezione nitida e costante. Soltanto adesso lei pareva davvero morta,
dissolta non dal tempo ma dalla forza invadente di sentimenti nuovi, non voluti,
disperatamente combattuti.
Si sentiva sull’orlo, non sapeva di
cosa. Solo di questo era certo, che da una parte e dall’altra c’era un baratro
vuoto. Non trovava Yuris, ma non era capace
nemmeno di riempirsi l’anima di Sophia. E questa era la prova di quanto fosse
morto, di quanto ormai somigliasse a un’ombra fredda ed
immobile.
O forse no…forse…
Per due volte, da quella mattina,
qualcuno lo aveva rimproverato, il ragazzo che lo aveva sorpreso a bere nella
cabina e il vecchio che lo aveva battuto a scacchi. Claus aveva difeso
ingenuamente il cuore ferito di Sophia, Recius gli aveva ricordato che tutto ciò
per cui avrebbe dovuto combattere aveva appena lasciato la nave. Nessuno dei due
aveva capito il suo nuovo tormento e quanto fosse tremenda per lui la lotta che
stava combattendo per continuare a difendere qualcosa che avrebbe dovuto dare un
senso alla sua vita e che non vedeva più.
Si sentiva un fantasma, mentre
percorreva lo stesso corridoio deserto in cui Sophia lo aveva trovato la sera
prima. Ora i suoi passi gli giungevano come se appartenessero ad un altro,
forse all’uomo che già, nella confusione di avere scoperto d’amare, aveva
percorso i metri tra una cabina e l’altra e sfiorato una porta e poi baciato la
fronte che si offriva a lui e affondato le mani in capelli soffici e cercato una
bocca per colmare la distanza tra ciò che era e ciò che poteva
essere.
Entrò senza rumore nella cabina del
vice-comandante completamente vuota. Lei non era dentro, non era in nessun
posto. I suoi libri mancavano, gli scaffali erano vuoti, gli spazi desolati.
Tutto era stato lasciato in un ordine anonimo, come se lei non avesse mai vissuto là dentro e nemmeno sulla nave.
Ma l’aria – ogni particella di ciò
che Alex respirava - sembrava ancora impazzire di lei: il suo profumo resisteva
tenacemente, fluttuava sul letto, tra le pareti di metallo, come una creatura
imprigionata in una gabbia.
Era il profumo che aveva assaporato
dal suo collo, assorbito dai suoi capelli, inseguito in ogni parte del suo
corpo, odore di pelle e di fiori nel quale si era stordito, mentre tutto di lei
sembrava dirgli che Yuris non c’era più e che l’unico sorriso al quale avrebbe
voluto rispondere non era quello fissato dalla vecchia fotografia ma quello di
Sophia.
Alex si lasciò cadere sul
letto.
Yuris ormai non c’è più.
Ma no, non era per questo che ora si
sentiva vuoto e solo.
Segue capitolo
14…
Note e
ringraziamenti
Non vedo l'ora di finire questa storia. Non ne posso più! Ma ci sono varie cose da raccontare ancora e spero che non abbiate perso la pazienza.
Ringrazio le persone che hanno letto,
amato e recensito.
Stavolta (ma solo per questa volta), però, lascio una risposta solo
alle due ragazze che non avevano mai recensito prima, perché so che hanno
tardato a farlo per timidezza.
Aleteia – Anche tu hai fatto una gran bella
analisi, non ti è sfuggito niente. Mi piace troppo quando i lettori sentono e si
emozionano proprio come speravo. Sul fatto che Alex sia proprio un personaggio
alla Byron, ti do completamente ragione. Ti dico solo questo: nel capitolo 2,
quello del vino, e poi nel 12, ho messo proprio una citazione da Byron (quando
Alex dice che ci sono piante bruciate dal gelo alla radice e poi nel 12, quando
pensa di essere una pianta uccisa dal gelo, riprende proprio un monologo del
Manfred di Byron.
Halina – veramente, mi sorprendo sempre
quando dicono che nelle mie pagine metto tutte queste emozioni. Io non me ne
rendo conto. Grazie anche a te, è troppo bello sapere che ho un’altra lettrice
così fedele.
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