Hope never leaves

di Fiorels
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Never alone ***
Capitolo 2: *** Never getting back together ***
Capitolo 3: *** Never give up ***
Capitolo 4: *** Never see you again ***
Capitolo 5: *** Hope never leaves ***



Capitolo 1
*** Never alone ***


HNL - cap 1
Ehhhhhhhhhhhhhhhhhhhh….
Eccoci qui e finalmente si può dire che è arrivato il Natale. Perché per noi non è Natale finché le nostre menti malate non partoriscono una nuova mini ff natalizia, perciò tutte insieme urliamo…
Jxjchjdhvjhdvsbbhjdsbvshbsdhh *________*
Ok, facciamo le persone serie u___u (Seh, come no).
Ok, dicevamo. Come sapete l’ispirazione per la ff ‘Ogni battito del mio cuore’ è scemata nei mesi, e ci siamo rese conto che per necessità, tempi e modalità, le mini ff sono meglio per noi. Sono più flessibili e ci permettono di scrivere ma con più libertà. Perciò anche quest’anno siamo qui a proporvi una storia che (almeno per noi) è mooooolto valida e avvincente. Come al solito ci saranno momenti corrispondenti a queste faccine:
*______* -> ahahah i momenti amati da tutti ;
 
T______T ->  aehm… i momenti in cui ci maledirete;
 
O_____O -> ci conoscete perciò tali momenti abbonderanno hihihiih;
 
Vogliamo ricordarvi che se nel corso della storia ci saranno alcune situazioni che riguarderanno ambiti specifici come medicina, legge, o altre professioni, beh... ecco, tenete la mente un po’ aperta perché anche se ci siamo informate alcune volte dovete lasciarci un po’ di ‘licenza narrativa’ o saremo volutamente un po’ vaghe ahahah.
La ff non è stata pre-letta da nessun essere umano vivente che ci abbia garantito la riuscita della nostra storia, ahah, quindi ognuna di voi legge materiale inedito!! Perciò, mi raccomando, fateci sapere *_____*
La ff è quasi totalmente pre-scritta quindi il postaggio è garantito ogni cinque giorni ;)
Ok, ci pare di aver detto tutto…perciò siamo onorate di dare il via all’oroginale annuale mini ff Natalizia di Cloe & Fio!!! 
(suggerimento musicale)


 
Pov Kristen
23 dicembre 2015, Londra
 
C’è qualcosa di terribilmente strano nel Natale.
In quel periodo dell’anno è come se tutto il mondo all’improvviso fosse più bello, più giusto, più equo, più… più felice. Tutti corriamo in giro per le strade innevate a comperare regali per persone che magari conosciamo solo di vista perché, si sa, è Natale. Ci affanniamo a cucinare dolci e cene di sei portate per parenti che a malapena vediamo un paio di volte all’anno perché, si sa, è Natale. Ci ritroviamo persino ad accantonare i nostri problemi personali per preoccuparci degli altri e dei meno bisognosi perché, si sa, è Natale e tutti dobbiamo almeno cercare di essere più buoni.  La cosa davvero strana, però, è che tutto questo non è uno sforzo per la maggior parte delle persone; è come se insieme alle decorazioni, agli alberi, al vischio e ai dolci alla cannella ci instillassero anche una dose di buon umore, di gioia, di allegria e di… di speranza. E si diventa persone migliori; almeno per quel mese all’anno ci riserviamo la prerogativa di vedere il mondo a tinte colorate, di pensare che, perché no, le cose dal primo gennaio andranno davvero meglio.
Ma la volete davvero sapere la cosa più strana del Natale?
La magia.
La cosa più strana è che non importa quanto la tua vita possa essere tremenda, quanto tu sia triste o scoraggiato; ci sarà sempre in quel lungo mese di dicembre, per tutti noi, almeno un minuto, almeno un secondo, almeno un istante, in cui sentiremo la magia nell’aria e crederemo che qualcosa che avevamo sempre reputato impossibile, possa accadere. E allora ci sentiamo pervasi di fede e di qualcosa che non è nemmeno possibile definire se non come magia. E sì, tutto questo, nei luoghi anche più strani oppure nei più comuni. C’è a chi succede a casa propria davanti ad un camino, a chi succede mentre è imbottigliato nel traffico e a chi… a chi succede mentre si trova al centro di un aeroporto affollato dai classici viaggiatori.
Proprio come accadde a me.
Il momento in cui sentii che quelle feste di Natale sarebbero state diverse da qualsiasi avessi mai vissuto prima.
Rob sbadigliò appoggiando la fronte contro la mia spalla, dopo aver lasciato cadere sonoramente le nostre due valige a terra.
“Tranquilla, non preoccuparti, non avevo bisogno di aiuto. Ma grazie di esserti offerta, eh” si lamentò.
“Oh, andiamo! Per una volta che ti faccio fare l’uomo forte e macho non dovresti proprio lamentarti. Sei tu quello che si lamenta sempre del fatto che io ti consideri un pappamolle che inciampa dappertutto.”
Mi guardò storto. “Questo perché mi consideri un pappamolle che inciampa dappertutto.”
Gli baciai la punta del naso. “Questo perché è vero. Piuttosto, vedi di non sbattere le valigie con tutta quella forza. Ci sono i regali per le tue sorelle e per i tuoi genitori lì dentro e non vorrei che si rompessero per colpa tua.”
“Sì, padrona!”
Ridemmo come due stupidi finchè non raggiungemmo un angolo un po’ appartato della grande sala ritiro bagagli e mi guardai furtivamente intorno cercando di monitorare la situazione. La zona era relativamente tranquilla ma sapevo che il peggio doveva ancora arrivare e si sarebbe manifestato nella folla oceanica di parenti e amici che accoglieva le persone che tornavano a casa per le feste. Per cui la nostra vera missione iniziava ora.
Mi aggiustai guanti e cappellino, calandomelo il più possibile sugli occhi; poi feci lo stesso col cappello da baseball di Rob e i suoi occhiali da sole.
“Ti rendi conto che sembriamo assurdi?” protestò “Cappello di lana e guanti per te e occhiali da sole per me? Siamo spaiati.”
“Siamo originali” ribattei “E soprattutto irriconoscibili. Sembriamo forse Kristen Stewart e Robert Pattinson? No, sembriamo…”
“Kris, posso ricordarti che noi siamo Robert Pattinson e Kristen Stewa…”
“Shhhhhhh” gli tappai la bocca con la mano, voltando freneticamente  il capo da una parte all’altra. “Vuoi che ci scoprano? Non urlare!”
Solo una vecchietta sembrava averci notati ma riportò subito la sua attenzione altrove. Per fortuna!
“Lo sai che siamo in incognito! Questa è la nostra missione segreta e se la farai saltare me la prenderò con te.”
Rob si abbassò un poco gli occhiali da sole e premette la mano sulla mia fronte  come a voler accertarsi che non avessi la febbre.
“Scemo, smettila.”
Provò a trattenerlo ma un risolino, l’ennesimo da quando gli avevo esposto il mio piano qualche giorno prima, gli increspò le labbra.
“Ripetimi ancora una volta perché non possiamo arrenderci al fatto di essere famosi e sopportare la cosa come abbiamo sempre fatto” domandò.
“Perché quest’anno ho deciso così” sentenziai “Perché per una volta voglio che tutti si chiedano dove siamo senza saperlo, perché per una volta sono convinta che viaggiando soli e acconciati come normali turisti nessuno ci riconoscerà. Dai, sarà divertente!”
I suoi occhi si assottigliarono. “Nessuno ci riconoscerà eh”
“No!” esclamai entusiasta “Insomma, pensaci! Abbiamo passato gli ultimi tre Natali da quando ci siamo sposati in qualche posto esotico o fuori mano o remoto e alla fine ci hanno scoperti comunque e abbiamo dovuto firmare sempre almeno una dozzina di autografi e fare foto e…”
“E cosa ti fa pensare che quest’anno non succederà? Quelli erano posti esotici” intervenne “E questa è Londra, con milioni di abitanti. Tutti sanno che i miei genitori abitano qui e…”
“Ahah! Qui sta il bello! Negli ultimi anni abbiamo depistato i paparazzi! Ora sono tutti all’erta di trovarci mentre ci crogioliamo al sole ai caraibi e invece… bam! Eccoci qui, dove nessuno ci aspetta! Sono un genio!”
Non rispose ma un suo sorriso a trentadue denti mi informò che lo avevo convinto o, quanto meno, aveva deciso di non protestare con me.
“Tanto lo so che ti mancano i tuoi” lo punzecchiai “Specialmente la tua mamma.”
“Ed è così, lo sai” rispose. Ci tenevamo per mano, camminando tra la folla che aveva riempito quasi interamente la zona arrivi dell’aeroporto di Heathrow; sembravano tutti così presi dalla frenesia delle feste da prestare pochissima attenzione a due ragazzi che, per una volta, erano solo due sconosciuti in mezzo ad un mare di gente.
Trattenni il respiro finchè non salimmo sani e salvi a bordo di un taxi e, dopo aver dato l’indirizzo, il tassista partì, immettendoci nel traffico della capitale inglese.
Lanciai un’occhiata divertita a Rob che aveva la faccia schiacciata contro il finestrino e guardava fuori come… come solo una persona che rivede la propria casa dopo mesi può fare. Poteva anche dire che i nostri ultimi Natali passati a fare i neosposini erano stati fantastici ma sapevo che stare a Londra durante le feste gli era mancato; i Caraibi e la Polinesia erano stati epici, pieni di sole, spiagge tiepide, nottate abbracciati, fare l’amore quando e dove volevamo…
Ma quest’anno era giusto venire a Londra.
Lo sentivo nel profondo delle ossa.
Era la cosa di cui entrambi avevamo più bisogno.
Avevamo bisogno di casa, di famiglia, di tè fumante, biscotti caldi, pudding…
“Un penny per i tuoi pensieri?” sussurrò roco al mio orecchio. Neppure mi ero resa conto che si era sporto verso di me e le sue labbra mi sfioravano l’orecchio “A che pensavi?”
“Al pudding.”
Rob alzò un sopraciglio. “A me ricoperto di pudding? O a te ricoperta di pudding e io che lo lecco? Mmm, se ben ricordo, a quest’ora l’anno scorso, eravamo in Polinesia e io stavo leccando un’altra parte anatomica del tuo corpo…”
Scoppiai in un risolino quando le sue dita iniziarono a solleticarmi, aiutate dal buio della macchina. Se non che il tassista scelse proprio quel momento per rivolgerci la parola e indagare sulla provenienza dei suoi passeggeri. Pessimo tempismo!
E, cosa ancora più pessima, quando ci chiese da dove venissimo Rob fu sul punto di dire tranquillamente che venivamo da Los Angeles. Presi in mano la situazione immediatamente.
“Io sono texana” imitai la mia migliore parlata strascicata del sud. Rob scoppiò a ridere e si beccò una gomitata nelle costole. “E lui è, ehm…mio fratello. Ma non parla, poverino. Lui è mmm…” sperai che l’uomo non ci avesse visti parlottare a bassa voce prima “è muto.”
Rob emise una sorta di grugnito di protesta che gli valse un’occhiata compassionevole del tassista. “Oh poveretto. Mi spiace tanto.”
Mi limitai a borbottare un ‘grazie’, non sapendo quanto a lungo mi sarei trattenuta io stessa dal ridere a crepapelle.
Erano passati si e no 20 secondi quando sentii il telefono vibrarmi in tasca. Lo estrassi e lessi un messaggio di Rob.
‘Sarei muto adesso? Anche sordo, cieco e storpio?
Ho sviluppato Qualche altra malattia invalidante
nel corso degli ultimi cinque minuti o sono a posto?’
La voglia di ridere si faceva più pressante ma riuscii a contenermi e a continuare il nostro giochetto.
‘Tu e la tua linguaccia stavate per rovinare tutto.’
‘Ricordavo che ti piacesse la mia lingua :P’
Il buio non gli diede la soddisfazione di vedermi arrossire.
‘Pervertito. Sarà meglio che ti comporti bene. Ricorda che sono
Tua moglie e questo fa di me il tuo capo.’
Ammiccò verso di me ma non disse nulla.
‘Il capo eh?’
‘Sono sempre stata io il capo, bello mio ;)’
Scosse la testa, sogghignando, ma vidi le sue dita esitare sullo schermo del telefono, cancellare ciò che aveva digitato e poi riscrivere da capo. Quando la sua risposta arrivò sul mio telefono con una vibrazione sentii le dita della sua mano intrecciarsi a quelle della mia.
‘Quando prendevo i bagagli e ti ho lasciata da sola… ti ho vista che fissavi il vuoto e sembravi..piena di pensieri.
Stavi pensando ancora a quello?’
Non avrei dovuto essere stupita dalla sua domanda. Lui era mio marito ma era anche il mio migliore amico, il mio confidente, la persona che aveva sofferto come me per la notizia che avevamo ricevuto meno di due mesi prima. Era colui che mi conosceva meglio di chiunque altro al mondo, spesso molto più di me stessa…
Lui conosceva il mio dolore. Lo aveva diviso con me in quello studio medico e lo divideva con me ora. Era un’altra delle cose che, in fondo, ci avrebbe legati per sempre.
Aspettai a rispondergli fino a quando fummo scesi dal taxi e ci ritrovammo con le nostre valigie sul vialetto di casa dei suoi genitori. La mano di Rob non aveva mai lasciato la mia, neppure per un secondo, e mi dava un calore che nemmeno il gelo dell’inverno poteva scacciare.
“Non stavo pensando a quello” sussurrai “O meglio, forse sì. Forse una parte di me stava pensando anche a quello. Ma quello a cui davvero pensavo era il Natale, al fatto che rende tutto migliore, meno… negativo. Capisci?”
I suoi occhi non si erano mai staccati dai miei ma quando fece per parlare lo bloccai, posando le dita sulla sua bocca.
Sapevo quello che avrebbe detto.
Che eravamo giovani, che avremmo provato e riprovato e ancora, ancora e ancora, che saremmo andati da mille dottori, che potevamo pensare a mille vie diverse se fosse stato necessario. Sapevo che le sue non sarebbero state solo parole dette al vento per farmi stare meglio; sarebbero state sincere e lui ci avrebbe creduto veramente mentre le diceva.
Ma in quel momento non era ciò che avevo bisogno di sentirmi dire; la speranza che avevo sentito in aeroporto era ancora chiara e forte dentro di me.
“Non pensiamoci ora. Pensiamo solo a divertirci e a goderci le feste con la tua famiglia”
“La nostra famiglia” mi interruppe baciandomi con le sue labbra fredde e calde allo stesso tempo.
“La nostra famiglia” mormorai.
E, nonostante il dolore degli ultimi mesi, permisi a me stessa di essere di nuovo felice.
 
 
“Sai, sono davvero felice che siate venuti e che almeno quest’anno non ve la siate battuta alle Hawaii” disse Lizzie passandomi un bicchiere di champagne. Presi un lungo respiro che mi permise di assimilare i profumi tipicamente natalizi che permeavano la casa e non potei fare a meno di pensare che anche io ero felice di essere lì, circondata dal calore che solo la famiglia ti può dare. Quel pensiero, tuttavia, mi diede anche una fitta di vergogna al cuore. Li consideravo davvero la mia famiglia anche se tra noi non c’erano legami di sangue: mi avevano accolta e amata dal primo momento e mai, mai, neppure quando avevo fatto scelte stupide che avevano fatto soffrire il loro stesso figlio, mi avevano allontanata o giudicata.
E allora perché quando due mesi prima una parte del mio mondo, una parte che un tempo neppure credevo di volere, mi era crollata addosso, non avevo detto loro nulla?
Peggio, avevo addirittura chiesto a Rob di non dir loro nulla.
Perché non ero pronta, perché si sarebbero preoccupati per me, perché mi avrebbero chiesto incessantemente come stavo e cosa provavo e…
Tutte scuse.
La sola ragione per cui avevo chiesto a Rob di non raccontarlo era perché mi vergognavo. Di essere diversa, di essere sbagliata… difettosa.
Come se avesse potuto leggere nei miei pensieri, Clare intrecciò il braccio al mio e mi massaggiò la mano con amore.
“Allora, Kristen, i tuoi genitori come stanno?”
Ed ecco un’altra ragione per cui amavo il calore e la solidità della famiglia Pattinson. I miei genitori avevano divorziato tre anni prima ma in realtà erano anni che le cose non erano state più come un tempo. Mi amavano, amavano i miei fratelli, ma non era giusto che continuassero a stare insieme solo per dare la parvenza di una famiglia felice che non esisteva.
Meglio essere realisti e andare ognuno per la propria strada, questo aveva detto mia madre; senza rimpianti e senza rancore. E forse una parte di me sapeva che aveva ragione, ma saperlo non mi aveva fatta sentire meno spaesata quando davvero si erano separati. O meno sola, o meno persa.
Ripensandoci, quella del 2012 era stata l’estate più schifosa della mia intera esistenza, per più di una ragione.
Prima che i miei pensieri prendessero una spiacevole direzione, mi voltai, rivolgendo un sorriso stentato a Clare.
“Bene. Ma sai come sono… papà passava le vacanze da alcuni amici, la mamma è in Australia per un progetto a cui sta lavorando e i ragazzi…” feci un gesto vago con la mano “Beh, lo sai come sono fatti. Ognuno ha amici diversi e preferiscono trascorrere le feste così. Di certo non con la loro noiosa, sorella sposata.”
Avvertii la mano di Rob scivolare all’interno della tasca dei miei jeans, lasciandomi una carezza; solo per farmi sapere che era lì con me, vicino al mio cuore.
“A me piaci anche se sei noiosa e sposata” disse, divertito.
Ridemmo tutti e quattro, la tensione stemperata da quella  battuta. A pochi passi da noi Victoria rovesciò un bicchiere di champagne che stava riempiendo, facendolo cadere a terra con un tonfo secco.
“Scusate, scusate! Mamma non fare quella faccia, pulisco io. Subito, subito, subito.”
Detto fatto, in meno di un minuto e ancora prima che suo marito Mark si offrisse di darle una mano, era andata e tornata con un grosso straccio e sul pavimento non restava neppure una gocciolina di vino.
Non potei fare a meno di chiedermi se per caso non avesse già bevuto un po’ troppo perché era da quando eravamo arrivati che sembrava… su di giri.
“Mi chiedo che le succeda” borbottò Clare.
“In effetti è peggio del solito” aggiunse Rob “Di solito, quella schizzata sei tu Lizzie. Vic è relativamente normale.”
Questa frase ovviamente ottenne l’effetto sperato, ossia iniziare una battaglia all’insulto più cattivo tra Rob e Liz. E, anche se era esattamente contro lo spirito natalizio che tanto amavo, non riuscii a trattenere una risata ricordando come io stessa non avessi fatto altro con i miei fratelli . I battibecchi, le litigate, le prese in giro… Non credevo che lo avrei mai detto ma ora che eravamo cresciuti mi mancavano terribilmente.
Rob e Lizzie, inutile dirlo, non erano cresciuti poi così tanto, evidentemente.
Proprio quando ero certa che Clare li avrebbe presi ciascuno per un orecchio e trascinati in castigo in un angolo, fu Vic a intervenire, battendo leggermente con un cucchiaino contro il suo bicchiere per attirare l’attenzione di tutti.
Quando anche Liz distolse il suo sguardo imbronciato da Rob con un’ultima linguaccia, Vic prese la mano di suo marito Mark e…
E quello fu il momento in cui capii.
Anzi, forse lo avevo saputo sin da quando mi ero resa conto di quanto sembrasse eccitata e felice e entusiasta e… bella. Bella in quel modo particolare e inconfondibile di una persona che è sempre uguale eppure ha qualcosa di tremendamente diverso dentro di sé.
“Beh, io e Mark abbiamo una cosa importante da dirvi” annunciò. “Aspettiamo un bambino.”
Le guance le si colorarono di rosa e il mio sangue si fece di ghiaccio.
In meno di un istante fu come ritornare al dolore di qualche mese prima.
 
“Lo sai che andrà tutto bene, vero?” mormorò Rob al mio orecchio “Sta’ tranquilla”
Annuii veloce. Cercava di confortare me quando si vedeva lontano un miglio che lui era altrettanto agitato e preoccupato; la sua gamba non smetteva di muoversi su e giù, quasi in sincrono con quel maledetto orologio bianco attaccato alla parete bianca, vicino alla finestra con gli infissi bianchi…
Perché gli studi dei medici dovevano essere sempre così? Si presumeva che il bianco fosse un colore che avrebbe dovuto trasmettere pace e calma?
Beh, si sbagliavano di grosso. Si sbagliavano terribilmente.
Perché la sola cosa che avrei voluto fare in quel momento era urlare, piangere o vomitare. Vomitare almeno avrebbe dato un po’ di colore alla stanza. Cercai di mettermi su un sorriso tirato ma non venne fuori altro che una smorfia.
“La maggior parte della gente ci prova per mesi o anni, anche. Non è mica come nei film che sbam, basta una volta sola, no?” continuò Rob. La sua gamba sbatteva sempre più velocemente. “In fondo non è moltissimo che hai smesso di prendere la pillola. Non c’è ragione di preoccuparci.”
La sua voce era così al limite che non potei non chiedermi chi dei due stesse davvero cercando di convincere.
“E quando il dottore ci dirà che è tutto a posto e che dobbiamo solo stare tranquilli potremo andare a casa…”
“A fare sesso?” scherzai. O almeno ci provai; dopotutto stava cercando di rassicurarmi da giorni, tentando di restare positivo mentre io mi consumavo dall’ansia. Il minimo che potevo fare era fare finta di crederci.
“Sì” i suoi occhi si illuminarono alla mia battuta “E ho anche una sorpresa a casa che ci aspetta per quando…”
Non riuscì mai a finire la frase.
Sentimmo la porta aprirsi e poi richiudersi alle nostre spalle e bastò quel clic a farci capire che, nel bene o nel male, da quel momento in poi avremmo potuto smettere con le finte rassicurazioni che continuavamo a darci a vicenda.
Il medico si sedette alla sua scrivania  con un sorriso calmo che non mi tranquillizzò affatto. Avrei scommesso tutto quello che avevo che quello era il classico sorriso standard dei medici, indipendente dalla notizia che stavano per comunicare. Per farti stare calma e poi…
Zac.
“I risultati degli esami sono arrivati. E purtroppo non ho buone notizie.”
Dovetti ammettere che ebbe la gentilezza di non indugiare con frasi fatte. Arrivò dritto al punto.
Zac.
Un taglio netto. Avrebbe dovuto fare meno male, vero?
No… no.
Non face affatto meno male.
 
“Oh mio Dio ma è meraviglioso!”
“Tesoro, sono così felice per te! Ed emozionata! Il nostro primo nipotino!”
“Se sarà un maschietto lo chiamerete come me, eh?”
“Sarà una femminuccia! E come secondo nome pretendo Elizabeth, che dopotutto è uno dei più bei e tradizionali nomi inglesi, no?”
Le voci eccitate della famiglia Pattinson intorno a me, mano a mano, mi riportarono alla realtà.
Un bel respiro, Kristen.
Non ero in California, nello studio asettico di un medico.
Ero a Londra, era Natale ed era stata appena data una delle più belle notizie che si possano sentire in una famiglia. Una di quelle poche notizie che cambiano la vita ma solo in modo positivo, portando più allegria e più gioia e…
E allora perché diavolo mi sentivo come se mi avessero appena sparato dritta al cuore?
Oh sì, giusto. Perché io non avrei mai potuto dare quel genere di notizia.
Mai.
In tutta la mia vita.
“Oh Kris, ma ti stai commuovendo?” Vic mi strinse in un abbraccio che mi lasciò stordita. “Awww, no dai!”
“Io…”
Le parole mi ostruivano la gola, ma la mia mente vorticava a mille all’ora. Era ovvio che si aspettavano che le mie lacrime fossero di gioia. Vic era come una sorella, i Pattinson erano una famiglia… la mia famiglia. E non ero ancora così morta dentro da non sentire di essere davvero felice per lei. Lo ero, Vic era fantastica e si meritava il meglio dalla vita, ma…
Deglutii il groppo che mi impediva di respirare e mi asciugai la lacrima che mi colava lungo la guancia.
Ero un’attrice, no? Dovevo solo concentrarmi sulla parte del mio cuore davvero felice per lei e ignorare tutto il resto.
Potevo farcela.
“Io… è… fantastico e… davvero è una notizia stupenda e…”
Forse, dopotutto, non ero un’attrice così brava.
“Kris, accidenti, Ruth non ti aveva detto di chiamarla per quel… quel contratto?” intervenne Rob. Mi resi conto che nemmeno lui era riuscito a dire una parola. “Aveva detto che era terribilmente importante. Forse dovresti chiamarla.”
I nostri occhi si incrociarono e capii, capii in un istante che mi stava dando una via d’uscita. La raccolsi con gratitudine borbottando qualcosa di non meglio definito e facendo ondeggiare il telefono per far capire che sarei andata a telefonare.
Ricominciai a respirare solo quando l’aria fredda del giardino mi congelò le lacrime sulle guance e, dopo aver alzato il viso al cielo, mi accorsi che stava nevicando.
La neve… un’altra delle cose che più di tutto mi facevano sentire quella speranza tipica del Natale. E adesso?
Adesso nulla.
La sensazione che qualcosa sarebbe accaduto, che qualcosa di bello sarebbe successo, che avevo provato prima all’aeroporto era svanita come se non fosse mai neppure esistita.
Come un’illusione.
Sentii le braccia di Rob circondarmi da dietro ancora prima di avvertire il suo respiro caldo contro la pelle gelida e umida della mia guancia.
“Vorrei…dovrei sentirmi…”
“Shhh, lo so” sussurrò “Non è colpa tua. Non è colpa tua.”
 
“Non è colpa tua. Troveremo una soluzione…qualcosa. Ma non pensare che sia colpa tua neppure per un secondo. Okay?”
Non annuii, troppo stanca anche solo per provarci. Che senso aveva? Entrambi ora sapevamo che era colpa mia. Lo era e nulla di quello che avrebbe detto Rob avrebbe cambiato le cose.
Il medico era stato chiaro come il sole nella sua diagnosi.
Rob non aveva nulla che non andasse. Lui era sano e perfetto.
Io… io ero quella danneggiata, fatta male. Questo si era chiaramente evinto tra tutte le grandi parole mediche che ci aveva propinato quel pomeriggio; quando lo avevamo guardato sconvolti era stato chiarissimo. Il mio utero aveva qualcosa che non andava, non era adatto ad accogliere un bambino, non permetteva all’embrione di attecchire, la mia possibilità di restare incinta era meno… meno del 2%.
Era inutile continuare a dire che non era colpa mia.
Perché lo era.
Passai oltre Rob e salii le scale. Forse se avessi chiuso gli occhi, la mattina dopo mi sarei svegliata e avrei scoperto che era stato solo un brutto sogno, nulla di più. Evidentemente, però, Dio non ce l’aveva avuta a sufficienza con me perché quando arrivai in cima al pianerottolo mi accorsi che dalla cameretta attaccata alla nostra proveniva una luce.
Era una stanza che avevamo adibito a magazzino ma, da quando avevamo iniziato a provare ad avere un bambino, sapevamo che quella sarebbe stata la sua cameretta un giorno…
“L’hai lasciata accesa tu?” mormorai.
“Sì” Rob mi posò una mano sul braccio cercando di indirizzarmi verso la nostra stanza “La spengo dopo. È stata comunque un’idea stupida e… andiamo a letto.”
Fu in quel momento che capii.
La sorpresa di cui mi aveva accennato dal medico.
Mi staccai dalla sua presa ed entrai.
Tutte le sue scartoffie, i mille fogli e scatoloni che lo avevo rimproverato di depositare lì senza un ordine preciso erano spariti. Era rimasto solo il mobile marrone su cui una piccola abat-jour faceva luce. Le pareti, una volta bianche, ora erano arancione chiaro, perfette per la cameretta di un neonato.
Neutre perché avevamo sempre detto che non avremmo voluto sapere il sesso. C’erano così poche sorprese nella vita, no?
“È un bel colore. Allegro.”
“Kris…”
“La culla l’avrei messa qui” continuai senza riuscire a fermarmi “Non troppo vicino alla finestra per evitare i raggi del sole. Il fasciatoio lì perché è la parete più larga e c’è spazio per tanti scaffali e…”
“Kris… sono un idiota. È stato stupido, io credevo di…”
“Credevi di essere normale” mormorai “E lo sei. Quella sbagliata sono io.”
Sgusciai fuori dal suo abbraccio e, prima che me ne rendessi conto, ero seduta a terra, in camera nostra, la testa posata contro il bordo del letto, le lacrime che fluivano libere sulle mie guance.
Quando Rob mi raggiunse non lo allontanai ma mi lasciai cullare dal suo abbraccio finchè in me non rimase neppure più una goccia d’acqua. Non sapevo se fossero passati minuti o ore ma la stanza si era fatta sempre più buia.
Fu lui il primo a spezzare il silenzio.
“Andremo da altri dottori.”
Scossi il capo. “Siamo stati a Berkeley, dal più famoso specialista di tutto il sud-ovest.”
“Beh andremo da qualcuno più famoso, più bravo, più…”
“No, invece non lo faremo.”
Non avrei avuto la forza di sentirmi ripetere la stessa cosa ancora e ancora e ancora. Io sapevo che in me c’era qualcosa che non andava, lo sapeva il mio cervello e lo sapeva il mio cuore. Prima lo avessi accettato e prima…
Le braccia di Rob mi massaggiavano cercando di darmi un calore che non avrebbero mai potuto infondermi.
“Sai che c’è stato un tempo in cui non mi sarei mai vista come madre?” le parole mi uscirono prima che le fermassi “Che non avrei mai pensato di volere un figlio, di avere bisogno di un figlio… E poi quando lo volevo pensavo che sarebbe arrivato subito, senza fatica, senza sapere che non avrei mai… mai potuto averlo, invece.”
La voce mi si spezzò.
“Non funziona così. Dio non ti sta punendo. Questa non è colpa tua…”
“Lo so.”
Non era vero, non lo sapevo. Ma quello che sapevo era che se avesse detto un'altra volta ‘non è colpa tua’ non avrei più risposto della mia sanità mentale.
“Prendiamoci un paio di giorni per metabolizzare la notizia, okay?” mormorò. Sentii le vibrazioni delle sua parole contro la mia pelle, le sue braccia sollevarmi e poi dormii.
Dormii sperando di svegliarmi in un mondo diverso.
 
Ma non era successo.
Mi ero risvegliata nello stesso mondo.
Lo stesso mondo in cui mi trovavo adesso, distrutta anche dopo mesi.
 
 
Riaprii gli occhi quando sentii la porta della stanza aprirsi e richiudersi. Rob entrò con in mano un panino e un bicchiere di Coca-Cola.
“Ehi.”
“Ehi.”
“Non sei scesa per il pranzo, perciò ho pensato che avessi fame adesso. I miei erano un po’ preoccupati.” Indugiò “Io ero molto preoccupato. Sono preoccupato.”
Guardai distrattamente l’orologio sul comodino che segnava le tre del pomeriggio del 24 dicembre, ma il mio sguardo fu subito ricatturato dal tormento che leggevo negli occhi azzurri di mio marito. Non avrei voluto farlo soffrire così. Avrei voluto essere capace di dimenticare, di superare… avrei voluto solo essere capace di dargli un figlio.
Dio! Perché la sola cosa che desideravo al mondo era anche la sola cosa che non avrei mai potuto avere?
Non fu, però, questa la domanda che uscì dalle mie labbra.
“Tu lo sapevi, vero? Di Victoria, del… del bambino.” Faceva male persino dirla quella parola. “Per questo non volevi che venissimo per le feste. Per questo volevi andare in un posto lontano. Per darmi la notizia con calma e non farmi fare la figura della pazza asociale con i tuoi.”
Chiuse gli occhi, prendendo un grosso respiro e scuotendo il capo. “Non lo sapevo. Ma è mia sorella e nell’ultimo mese mi era sembrata un po’ strana e... la conosco da tutta la vita, Kristen. Sapevo che lei e Mark ci stavano pensando e quando mi ha detto che aveva notizie meravigliose ho fatto due più due.”
Mi limitai ad annuire. Non provai neppure a frenare la singola lacrima che mi scivolò lungo la guancia davanti ai suoi occhi pieni di dolore.
“Perché sei ancora con me?” mormorai “Perché non mi odi?”
Erano mesi che mi ponevo quella domanda ma quella era la prima volta che raccoglievo il coraggio necessario. Una parte di me mi diceva che ero una stupida se pensavo che Rob, l’uomo che avevo sposato e che mi rispettava più di chiunque altro al mondo, potesse abbandonarmi perché ero… ero sterile. Ma d’altro canto non potevo fermarmi dal sentirmi sbagliata; non potevo smettere di pensare che non avrei mai potuto dargli una vera famiglia.
Nel momento in cui quella frase mi era uscita di bocca, il viso di Rob aveva subito una trasformazione; da colmo di dolore a colmo di pura rabbia.
“Come puoi dire questo? Tu lo sai quanto ti amo. Tu… sei la mia famiglia. Non ti potrei mai lasciare” afferrò il mio viso con forza “Io non ti vorrò mai lasciare!”
Posai le mani sulle sue, fissandolo con altrettanta determinazione. “Io non posso avere figli.”
Contemporaneamente entrambi ci alzammo dal letto, fronteggiandoci.
“Tu non puoi partorirli. È completamente diverso!” esclamò, fissandomi come se fossi io quella che non capiva. Quella che rendeva la situazione più terribile di quanto fosse. “Potremmo avere una madre surrogato o… o adottare. Pensaci! Pensa ai tuoi fratelli, Kris. Li ameresti di più se fossero biologicamente tuoi?”
“È diverso e lo sai” sbottai. Come poteva non capire che era totalmente diverso? Quella non era una situazione ipotetica! Questi eravamo io e lui e il figlio che non avremmo mai avuto. “È così sbagliato aver immaginato un bambino con le mie orecchie a sventola, o una bambina scoordinata come te? È così sbagliato?”
“Kris… no, non è sbagliato. Ma…” allungò una mano per accarezzarmi ma mi scostai di un passo. Non volevo la sua pietà, non volevo il suo dolore.
Volevo una vita diversa in cui almeno quel mio unico singolo desiderio potesse realizzarsi.
“Non ho bisogno di un figlio che assomigli a me. Non mi serve. Non me lo farà amare di più.” Sussurrò.
“Tu non capisci” risposi “Non è  te che guarderanno con pietà, con compassione. Non sarai tu a sentirti sbagliato continuamente.”
“Kristen…”
Tornai a letto e gli voltai le spalle. Non c’era nulla che potesse fare o dire per farmi stare meglio, lo sapevamo entrambi. Nell’ultimo mese credevo di aver trovato un equilibrio, di averlo accettato, ma ora mi rendevo sempre più conto che non era così.
Avevo fatto finta di accettarlo, avevo fatto finta di essere felice, ma dentro… dentro qualcosa si era rotto per sempre.
Appena fu uscito dalla porta sentii la voce di Lizzie rimpinzarlo di domande; probabilmente aveva sentito tutto e, se la conoscevo abbastanza, presto lo avrebbe saputo Victoria e poi Clare e poi tutti quanti. Erano una famiglia unita e si confidavano, trovavano forza l’uno nell’altra.
La prospettiva di passare la Vigilia di Natale a essere guardata come la povera, depressa Kristen mi fece rivoltare lo stomaco e, per la prima volta da quando ero una ragazzina, sentii la parte codarda di me, la parte che scappava quando aveva paura, farsi prepotentemente spazio. Quando sentii il rumore di un auto uscire dal vialetto, mi affacciai a guardare. Di certo Rob li aveva convinti di quanto avessi bisogno di stare un po’ sola ed erano andati tutti via, pensando che avessi solo bisogno di riposarmi.
E in effetti avevo bisogno di stare sola. Lontana da tutti. Ma per molto più tempo di un paio d’ore.
In meno di dieci minuti, con un borsone pieno di roba al mio fianco, ero su un taxi diretta in un luogo dove speravo non mi avrebbero trovata.
 
 
La casa sull’isola di Wight era stata una delle poche cose che io e Rob avevamo voluto in modo totale sin dal primo momento. Spesso avevamo discusso per ore sul colore di un mobile, su come dipingere la camera da letto della nostra stanza a Los Angeles, su mille cose stupide, solo per punzecchiarci a vicenda e poi finire a letto a fare pace. Ma la casa sull’isola… quella casa era stata nostra sin dal secondo in cui vi avevamo posato gli occhi sopra.
Così come l’isola era stata un rifugio sin dalla prima volta in cui ci eravamo venuti, qualche anno prima di sposarci per una mini vacanza e una parte del nostro cuore era rimasta lì.
Non appena ero entrata in casa, però, un paio d’ore prima, avevo sentito le pareti stringersi su di me, pronte a soffocarmi. Ogni cosa mi ricordava Rob; ogni dettaglio, ogni mobile, ogni libro. La sua chitarra…
Avevo staccato il telefono una volta messo piede sul traghetto ed erano passate ore.
Di certo mi stavano cercando. Di certo Rob era fuori di sé dalla paura..
Infilai la giacca e mi misi a camminare senza una meta ben precisa tra le stradine illuminate dalle luci; tutto pur di non restare fra quelle quattro mura. La gente era poca in giro ormai, troppo presa a festeggiare la vigilia di Natale con i propri famigliari, a scartare regali desiderati da mesi, a divertirsi. Il freddo era così terribile da penetrarti nelle ossa e l’aria era carica di umidità per la tempesta di pioggia e vento che si era abbattuta sulle coste poco dopo il mio arrivo. Era appena passata ma aveva lasciato un cielo grigio e ancora carico di pioggia. O forse neve.
Ma a me non importava del freddo che passava attraverso il panno del cappotto.
Almeno quello era qualcosa che riuscivo a sentire, a percepire. E dopo aver passato mesi a non sentire nulla, qualunque cosa era ben accetta.
La sabbia della spiaggia era bagnata e gelida quando mi ci sedetti sopra ma la mia attenzione fu catturata solo dal mare scuro e tempestoso davanti a me. L’acqua scura vorticava in onde così alte e minacciose da incutermi paura.
Avrei voluto le braccia di Rob a stringermi per farmi sentire al sicuro ma, dopotutto, ero stata io ad andare via, io a voler restare da sola.
Ora non avevo più il diritto di desiderare un bel niente. Tanto meno lui.
Avvertii gli occhi bruciare al pensiero di quanto male gli stessi facendo. Ma lui continuava a dire che non era colpa mia, che avremmo trovato altre soluzioni, che avremmo superato anche quella…
Io non volevo altre soluzioni.
Volevo sentirmi normale, non danneggiata e imperfetta.
Volevo essere di nuovo io, la Kristen a cui mi sembrava di aver detto addio quel giorno allo studio medico.
Io volevo un bambino.
Fu assurdo e incredibile ma fu proprio mentre quel pensiero mi attraversava  la mente che sentii il rumore per la prima volta.
Subito non ci prestai caso, pensando fosse il guaito lontano di qualche cane. Presto, però, mi accorsi che non era un guaito.
E non era affatto lontano.
Mi alzai, iniziai a camminare, percorrendo diverse decine di metri verso il punto in cui si trovava un gruppo di scogli più scuri del resto della spiaggia.
Mi fermai, pensando che se fosse stato davvero un animale ferito avrebbe potuto essere pericoloso, ma la curiosità fu troppo forte e prese il sopravvento su tutto il resto.
Si dice che in ogni vita ci sia un punto di svolta. Un momento così chiaro e definito da farti sentire come se fossi stato colpito al petto, non potessi più respirare e il tuo cuore sappia, semplicemente sappia, senza la più piccola ombra di dubbio, che la tua vita non sarà mai più la stessa.
Per me, Kristen Stewart, quel momento fu quando per la prima volta posai gli occhi su di lei.
Nulla fu più come prima.  
_______________________
Beneeee, detto questo noi ci ritiriamo in attesa dei vostri commenti, sperando che ci siano o___o  
Ci sentiamo tra cinque giorni, se siamo ancora tutti vivi ovviamente u.u 
Nel caso, boh, vi abbiamo voluto bene e anche se a volte volete ammazzarci, inutile sprecare tempo che tanto ci pensano i Maya :') 
Un bacio! 
Cloe & Fio xx



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Capitolo 2
*** Never getting back together ***


HNL - cap 1
Hola girlssss! 
Scusate, avevamo detto cinque giorni e ne sono passati sei, mea culpa (di Fio xD); ho avuto un casino di cose da fare... 
Anyway ora siamo qui (fanculo Maya!!! u___u) a postare il secondo capitolo e a ringraziarvi per aver letto/recensito il primo e a aver aggiunto la storia tra le preferite e blabla... 
Come sempre, siamo felicissime di condividere qualche piccola storia con voi, quindi speriamo che vi piaccia ancora di più :) 
Vi lasciamo subito alla lettura! 
C'è un suggerimento musicale dal secondo pov ;) 


 
Pov Kristen
Non riuscivo a staccare gli occhi dalla piccola figura che aveva attirato la mia attenzione, forse convinta di stare sognando, incredula davanti ai miei sogni e alle mie speranze che prendevano finalmente vita, proprio sotto i miei occhi.
Possibile che, per una volta, il cielo avesse davvero ascoltato le mie preghiere, possibile che qualcuno lassù avesse davvero avvertito le mie grida silenziose e disperate, possibile che stesse davvero succedendo?
Mi guardai intorno velocemente, per assicurarmi che non ci fosse nessuno, ma la spiaggia era già quasi totalmente buia e non si vedeva ombra di anima viva, eccetto quella che si muoveva con tranquillità e dolcezza dentro la malandata barchetta di legno, intrappolata tra le rocce in riva al mare.
Per un secondo solo fui indecisa sul da farsi, ma mi bastò chinare nuovamente gli occhi su quel fagotto per realizzare che quello era il mio destino, che la svolta che stavo aspettando era arrivata e, prima ancora di prenderla tra le braccia, sapevo che avrebbe cambiato la mia vita per sempre.
Mi chinai e l’osservai ancora per qualche istante, ascoltando bene i rumori provenienti dalla sua bocca; non era un pianto, quanto più un lamento, una tacita e inconscia richiesta di aiuto. Il genere di lamento di chi è perso e non sa trovare la via di casa e cerca qualcuno che lo guidi.
Io sarei stato quel qualcuno per quella piccola, decisi senza pensarci mentre allungavo le braccia e, con estrema delicatezza, la tiravo su.
Era così piccola, − non doveva avere più di un mese − soprattutto avvolta in quell’ammasso di coperte che sembrava inghiottirla, ma si riconoscevano facilmente i lineamenti di una bambina.
“Da dove vieni fuori tu…?” sussurrai più a me stessa che a lei e, senza nemmeno accorgermene, presi a cullarla.
Non so se il movimento la spaventò o se, chissà, le ricordasse il dondolio del mare e delle acque che l’avevano trasportata fin lì, ma iniziò a piangere e mi sentii tremendamente in colpa e spaventata.
Che le avessi fatto qualcosa? E se aveva qualcosa di rotto o stesse male per altro?
Cercai di fare mente locale velocemente e di pensare quanto più razionalmente possibile, ma la ragione aveva abbandonato la mia mente nel momento in cui i miei occhi si erano posati su di lei e sapevo che non l’avrei recuperata presto.
Mi lasciai guidare dall’istinto e presi a dondolarmi di nuovo, canticchiando parole dolci.
Si calmò un po’, con enorme piacere e sorpresa, ma mi resi presto conto che non potevo restare lì.
Non potevo rischiare che qualcuno mi vedesse, inoltre il freddo della sera iniziava a farsi sentire decisamente troppo e non potevo tenere la bambina fuori più di quanto, probabilmente, non fosse già stata.
“Sssh” continuai a cullarla. “Ora andiamo a casa. Tranquilla, piccolina.”
La strinsi a me, diedi un’ultima occhiata alle prime stelle nel cielo e poi voltai le spalle per dirigermi verso le strade in cemento.
Mi affacciai dietro una delle case che davano sulla spiaggia per assicurarmi che non ci fosse nessuno per strada e, in effetti, erano totalmente vuote. Le poche persone che vi giravano prima dovevano essere rientrate in casa per prepararsi al cenone della Vigilia e per un attimo il mio pensiero andò a Rob, a quello che stava facendo, al fatto che sicuramente mi stava cercando e morendo non avendo mie notizie.
Lasciai il pensiero andare via in fretta, troppo in fretta, e tornai a concentrarmi sulla piccola, infreddolita, tra le mie braccia.
Camminai a passo svelto, continuando a dare un’occhiata in giro, sentendomi quasi una ladra, finché non fui finalmente al sicuro nel piccolo giardino di casa, poi sulla veranda e infine dentro.
Chiusi la porta alle mie spalle e mi sentii finalmente al sicuro. La bambina stretta al mio petto e i ricordi di un’intera vita sotto i miei occhi.
Mi sentii per un secondo persa, senza Rob. Era la prima volta in cui vivevo qualcosa del genere senza di lui, senza la necessità di accendere il telefono e parlargli, senza la voglia di averlo accanto a me; non sapevo davvero il perché, forse avevo semplicemente paura che lui mi avrebbe portata alla realtà che odiavo mentre io ne stavo già costruendo un’altra.
Ancora una volta, spensi tutto ciò che del mio corpo era collegato a lui e pensai a una sola cosa unicamente: la bambina e il fatto che in quella casa non avessimo niente per prendersi cura di un bambino.
Non latte, pannolini, tutine calde, calzini, biberon… niente. Niente di niente.
Ma non mi diedi per vinta, intenzionata a non essere per nulla una pessima madre ancora prima di cominciare. Quella era la mia chance, la mia svolta, la candela di speranza che si era finalmente accesa e aveva trovato la luce, e io non avrei permesso a niente e nessuno di farla spegnere. Non a Rob o chiunque altro né, tanto meno, alle mie insicurezze.
Potevo farlo, sapevo che potevo.
Andai in salone e, continuando a tenere la bambina in braccio, aggiustai tutti i grandi cuscini in modo da formare una piccola fortezza in cui posi la piccola.
Si era calmata, e con la luce potei notare i suoi occhi, blu come il mare, lucidi e le guance arrossate. Chinai la fronte sulla sua e la sentii immediatamente calda. Non mi ci volle molto a capire che sicuramente doveva avere la febbre e non potei fare a meno di chiedermi cosa dovesse aver passato e quanto tempo fosse stata effettivamente fuori al freddo.
Come ci era arrivata una bambina di un mese su una barca? Cosa ci faceva?
O forse qualcuno l’aveva semplicemente abbandonata lì…?
Non seppi darmi risposta a quelle domande, ovviamente, e decisi di non pormele più. Non avevo bisogno di avere una risposta al passato, ma solo di guardare al presente e al futuro.
“Andrà tutto bene, piccola. Te lo prometto.”
E, prima che potessi pensarci troppo sopra, uscii chiudendo la porta a chiave.
Di certo non avrei trovato un supermercato aperto la vigilia di Natale ma anche su un’isola doveva esserci una farmacia di turno. Non avevo torto e, grazie a Dio, non mi ci volle nemmeno molto a trovarla. Misi su il cappuccio e la sciarpa fin sopra la bocca così che fosse impossibile riconoscermi, ed entrai.
Il reparto neonati era più grande di quanto mi aspettassi da una farmacia e, sebbene ce ne fosse motivo, decisi di non soffermarmi troppo. Avrei avuto tempo per vedere quali pannolini erano più adatti o quali biscotti erano più ricchi di vitamine.
Al momento tutto ciò di cui avevo bisogno era di tornare a casa, da lei, col minimo indispensabile. Presi un pacco di pannolini, latte liofilizzato, un biberon, un ciuccio dei più piccoli, salviettine, un termometro auricolare e qualche paio di calzini di lana e di tutine invernali che non mi aspettavo di trovare lì.
Andai alla cassa e mi informai con la dottoressa di turno sul da fare con un neonato in caso di febbre.
“I neonati hanno di norma una temperatura più elevata della nostra quindi se sono decimi non c’è da preoccuparsi. Se aumenta fino a 38 circa, gli dia una di queste. Vedrà che scenderà subito.”
Sperai vivamente che avesse ragione mentre univa le supposte al conto e, uscita dalla farmacia, corsi letteralmente a casa.
Entrai in un piacevole tepore e mi compiacqui di aver acceso i riscaldamenti appena arrivata quel pomeriggio. La piccola era, ovviamente, dove l’avevo lasciata e sembrava stare già molto meglio.
Gli occhi blu erano più vispi e svegli e, non so se fu un caso, ma appena mi vide affacciarmi su di lei, prese a muoversi con più foga tra le sue copertine.
Le tolsi quell’ammasso di pezze umide da dosso e rivelai la tutina che aveva. Era… strana e particolare, quasi antica. Certamente molto vecchio stile, viola e con una specie di salopette nera che rafforzava il tutto. Riscaldai i vestiti nuovi vicino a un termosifone per un paio di minuti prima di spogliarla totalmente. Anche i calzini erano particolari, di lana ma fatti a maglia. Si vedeva bene senza prestarvi nemmeno molta attenzione e il pannolino era un semplice panno con due spille attaccate alla vita, come quelli di anni ed anni prima.
Quando fu pronta, sembrava un’altra bambina, la mia bambina.
Non mi vergognai di quel pensiero ma, anzi, mi riscaldò il cuore. La presi finalmente di nuovo in braccio e sentii il calore della sua guancia a contatto con la mia. Mi ricordai della febbre e gliela misurai subito ma non toccava i 38 quindi mi rilassai e potei finalmente prepararle il latte e darle da mangiare.
Inizialmente rifiutò il biberon, ma quando pressai la tettarella per fare uscire un po’ di latte, sembrò intuire subito, spalancò gli occhi e vi si avvinghiò come se non vedesse cibo da giorni, e chissà se era effettivamente così.
Le diedi il tempo di respirare tra una poppata e l’altra per non farla strozzare, calcolai le giuste dosi e fui capace di farla digerire qualche minuto dopo.
Incredibile come tutto mi venisse così spontaneo, nonostante non avessi mai davvero avuto a che fare con neonati prima, non in senso così stretto almeno, non come dovrebbe una madre.
Chissà che la mia conoscenza non fosse dettata da tutto il tempo passato a leggere libri ogni volta che speravo di essere incinta, ogni volta che speravo di non sentirmi dire che, anche stavolta, l’embrione non si era creato.
Ma quella bambina, quello scricciolo che si era addormentato tra le mie braccia, era la speranza. Era la prova che non è vana, che vale la pena esprimere un desiderio a una stella cadente ogni tanto.
“Sei con la mamma adesso. Dormi tranquilla, amore mio…”
È possibile amare qualcuno così tanto e così in fretta? La mia storia con Rob non mi aveva mai fatto mettere in dubbio l’amore a prima vista, ma questo era qualcosa di diverso.
Qualcosa di sublime e imprescindibile. Qualcosa di mio, come niente lo era mai stato prima.
Ero totalmente e incondizionatamente innamorata di lei, e mentre le posavo un leggero bacio sulla fronte liscia, sapevo già che lei avrebbe riempito tutti gli ovuli vuoti che il mio corpo aveva ospitato negli anni.
Non so quanto tempo restai ferma, immobile, davanti al camino, incantata dalla delicatezza del suo viso; sicuramente quanto bastasse per farmi abbassare ogni barriera, perdere il contatto con il mondo esterno e sussultare impaurita quando sentii il campanello.
Il terrore si impossessò di me davanti all’eventuale possibilità che potesse essere la polizia.
Non può essere. Nessuno ti ha vista. Stai tranquilla, non hai fatto nulla di male.
Eppure il campanello suonò di nuovo e io sobbalzai proprio come prima, svegliando la bambina. Accarezzai l’idea di lasciarlo lì a suonare da solo, con chiunque fosse dietro quella porta, ma sapevo che non era saggio. Chiunque fosse, sapevo, sarebbe tornato a cercarmi.
Io e Rob non avevamo amicizie sull’isola e lui aveva le chiavi e poteva benissimo aprire da solo se avesse intuito dove fossi.
Adagiai la piccola nella fortezza costruita prima sul divano e chiusi le vetrate scorrevoli e colorate del salone alle mie spalle mentre andavo verso la porta d’ingresso.
Qualunque cosa sia, nega. Nega tutto. Nessuno lo verrà mai a sapere.
Promisi a me stessa mentre, tremante, camminavo lenta.
Nega, nega tutto. Non hai notato né sentito niente di strano. Non hai visto né preso nessuna bambina. Non ne sai nulla.
Il campanello suonò ancora una volta proprio mentre la mia mano girava le chiavi nella serratura.
“Kristen!”
La voce di Rob, come una doccia d’acqua calda dopo ore di pioggia, attraversò la porta ed ebbe il potere di calmarmi e rilassarmi istantaneamente.
Non sapevo ancora bene come affrontarlo ma certo era un sollievo in confronto al pensiero di dover parlare con la polizia.
Aprii la porta e me lo trovai davanti, con le mani rosse dal freddo, il viso esausto e terrorizzato e i capelli umidi. Entrò in casa in un passo solo e mi abbracciò come se non ci fosse un domani, salvo poi lasciarmi andare un secondo dopo e assumere uno degli sguardi più duri che gli avessi mai visto in tanti anni.
Prese l’iPhone dalla tasca e scrisse qualcosa velocemente – immaginai fosse un messaggio per avvisare gli altri che mi aveva trovata e che stavo bene – per poi tornare a fissarmi, più scosso e duro di prima.
“Che cazzo ti passa per la testa!? Me lo spieghi!?” prese ad urlare, costringendomi a stringere gli occhi per un paio di secondi. “Sai cosa vuol dire lasciarti casa libera per farti respirare e non trovarti dentro quando torno?! Lo sai che vuol dire?! Non trovare i tuoi vestiti, non riuscire a raggiungere il tuo cellulare, non avere la minima idea di cosa possa esserti passato per la testa?”
“Mi dispiace…” sussurrai, sentendo improvvisamente addosso tutta la colpa che avevo cercato di scaricare altrove.
“Non me ne fotte che ti dispiace! Non bastano le scuse, Kristen, cazzo! Lo sai dove sono andato prima di venire qui? Lo sai il primo posto che mi è venuto in mente? Il Tamigi. Sono andato al Tamigi e ho pregato di non vedere polizia e gente affollata attorno al punto da cui una donna si era appena buttata nel fiume. Sai che cazzo vuol dire temere che la persona che ami di più al mondo si sia uccisa?”
Un brivido mi percosse la spina dorsale al pensiero. “Rob… non lo farei mai. Lo sai.”
Si portò le mani in viso e asciugò il sottile strato di lacrime che gli inumidiva gli occhi.
Le presi tra le mie e sentii il gelo percorrere i nostri corpi.
“Ho temuto il peggio”, disse con voce rotta dalla paura.
“Non sono a quel punto, Rob. Davvero. Sto bene. E poi sai che non amo nuotare, se proprio volessi, farei un salto da qualche altra parte…”
“Kristen…” ringhiò, e capii che non era il momento di sdrammatizzare con scherzi. Non era il momento di sdrammatizzare affatto. Era morto di paura per me e non potevo dargli torto. Mi ero comportata da egoista ma, in fondo, ne era valsa la pena e l’avrei rifatto altre mille volte sapendo l’esito.
“Rob, guardami.” Ubbidì. “Non voglio lasciarti, in nessun modo, e ora più che mai voglio sentirti vicino.”
“Sono qui, amore. Sono qui, lo sai…” chinò la sua fronte contro la mia e restammo immobili per un paio di minuti prima che io sentissi un flebile vagito provenire dall’altra camera. Alzai gli occhi per notare una qualche reazione di Rob ma li teneva ancora chiusi. Era evidente che non doveva averci fatto caso, soprattutto perché non poteva certo immaginare che nella camera appena adiacente ci fosse un neonato; ma io che lo sapevo, lo avevo sentito eccome.
“Tu lo vuoi un bambino, Rob?”
Alzò il viso e prese il mio tra le sue mani ancora infreddolite. “Io voglio te.”
“Non è la riposta alla domanda.”
“Kristen…”
“Rispondi e basta, sì o no. In tutta onestà.”
Sospirò. “lo avremo, Kristen. Te lo prometto. In un modo o nell’altro.”
“La domanda, Rob. Sì o no?” incalzai.
“Sì, lo voglio. Sai che è così.”
“E… cosa faresti per averne uno?”
Sembrò indugiare un po’ prima di rispondere. “Qualunque cosa…”
“Me lo prometti?”
“Sì, certo. Te lo prometto.”
E sorrisi, sperando che non si pentisse presto di quella risposta.
“Okay. Devo presentarti qualcuno.”
E non potei descrivere le espressioni che dovette assumere il suo viso perché non permisi nemmeno a me stessa di vederle, o non sarei stata capace di spiegargli tutto.
Lui doveva vedere prima di sapere; doveva innamorarsi proprio come era capitato a me e doveva sentire di non aver bisogno di risposte. Era l’unico modo.
Presi la bambina, ormai completamente sveglia, e tornai da lui.
Vidi il suo sguardo passare dall’incerto al pensieroso, all’incredulo, ad altre tremila emozioni a cui non avrei saputo nemmeno dare un nome.
“Kristen…”
“Non è bellissima?”
Mi avvicinai e gli permisi di guardarla meglio. Lui chinò il viso e un sorriso perfetto fece da arco agli angoli della sua bocca, mentre con un dito sfiorava le guance calde della bambina. “Lo è…” sussurrò, specchiandosi in quegli occhioni blu, così simili ai suoi.
“Ma cosa…? Chi è?”
“È un miracolo, Rob. È un segno… lo capisci?”
“Veramente no. Di chi è?”
“Dovevo farlo. Lei era lì, e sarebbe morta se non l’avessi presa… Non potevo lasciarla lì, dovevo farlo. Era la cosa giusta da fare. E ha un po’ di febbre ma starà bene. Andrà tutto bene.”
“Kristen” la voce di Rob divenne sempre più seria e incerta, incapace di capire una sola parola di quello che stavo dicendo. “Mi spieghi, per favore? Di chi è questa bambina?”
“Non lo so” dissi con un filo di voce, esasperata. “Era in una barca abbandonata, sulla spiaggia. Freddissima, sola. Piangeva ed io ero lì. Dovevo farlo, capisci?”
Continuavo a ripetere le stesse parole sperando che, col tempo, avrebbero assunto un senso per Rob ma era evidente dal suo viso che stavo fallendo miseramente.
Dovetti spiegargli per filo e per segno come si era svolta la mia giornata fino al momento del suo arrivo.
“D’accordo. Hai fatto la cosa giusta. Ora dovremmo portarla alla polizia dell’isola.”
“NO!” non controllai i decibel della mia voce né il movimento protettivo che automaticamente mi fece indietreggiare da Rob.
“Kristen…?”
“No!” ripetei.
“D’accordo, magari stasera no. Andremo domani.”
“No, Rob. Non la porteremo a nessuna polizia. Né stasera, né domani, né mai.”
E forse quello fu il momento in cui lui capì quali fossero davvero le mie intenzioni; quello che ancora non sapeva era la mia determinazione a fare in modo che nessuno le attaccasse.
“Che intenzioni hai?” chiese in ogni caso.
“La terremo noi. Starà con noi e crescerà con due genitori che la amano.”
Vidi il suo viso aprirsi in un moto di compassione che, con me, non aveva mai avuto. “Kristen… sai che non possiamo…”
“Sì che possiamo. Lo desideriamo e abbiamo la possibilità di mantenere un bambino. Possiamo.”
“Non si tratta di possibilità! Ti rendi conto di quello che dici?”
Avanzò verso di me ma io indietreggiai ancora.
“Si tratta proprio di possibilità. Questa è la mia e non la lascerò andare.”
“E come pretendi di fare? Dire che hai partorito una bambina in una notte?”
“Diremo che l’abbiamo adottata, e da quando ti importa di quello che pensano gli altri?”
“Kristen, ma che cazzo dici? Ti rendi conto di quello che esce dalla tua bocca?”
“Rob, hai promesso che avresti fatto di tutto!”
“Era prima che mi proponessi di rubare un neonato!”
“Ma non si tratta di rubare! L’abbiamo trovata, è diverso!”
“Trovata in una barca, su una spiaggia. Potrebbe avere dei genitori là fuori! Dei parenti, un padre! Una madre!”
“Sì, una madre tanto brava che l’ha lasciata in mezzo all’oceano!”
“Non sappiamo quello che è successo e non sta a noi saperlo! Dobbiamo denunciare la cosa e lasciare che si occupino della bambina!”
“Per farla passare da un istituto all’altro in attesa che qualcuno venga a reclamare la sua scomparsa? O magari in affidamento, in qualche casa in cui rappresenti solo un buono pasto? Come puoi essere così meschino, Rob?”
“Dio santo, non sono meschino! Sono solo realista, a differenza tua. Stai perdendo il contatto con la realtà. Ti prego, ascoltami! Non possiamo tenerla senza dire niente, te ne rendi conto? Chiederanno, faranno mille domande. Come si fa a tenere segreta una bambina? Senza contare che se un giorno dovesse presentarsi qualcuno e si scoprisse tutto rischieremmo di finire in carcere, non so se ti è chiara la situazione.”
“È un rischio che sono pronta a correre.”
“Non con il mio appoggio!”
“Non ti sto chiedendo il permesso, Rob. Lei è mia.”
“Cristo Santo, Kristen! Ora smettila! Lei non è tua!” urlò così forte da far pianger persino la bambina.
Ormai eravamo distanti anni luce e io non ascoltavo nemmeno più quello che diceva, tanto ero presa dal desiderio di proteggere la piccola.
“Non voglio più parlare. Sono stanca.”
“Ah, sei stanca? Ti ho cercata per un intero pomeriggio, sono quasi morto dalla paura di quello che poteva esserti successo, vengo qui e mi trovo a dover combattere con te e tu sei stanca?”
“Ho detto che non mi va di parlare!”
“E quando vorresti parlare? Sentiamo!”
“Ah, non lo so! Magari tra una ventina d’anni, quando Hope sarà cresciuta e non sarà più messo in dubbio che è mia.”
“Hope? Kristen, non puoi averle dato un nome!”
“Invece l’ho fatto, e l’ho fatto da sola come, a quanto pare, dovrò fare molte altre cose, ma non importa. Ce la farò anche da sola, Robert. Non credere certo che le mie decisioni dipendano da te!”
“Devono farlo, invece! Tu devi rendermi conto se decidi di rovinare la tua vita! Siamo sposati, cazzo!”
“Allora, forse, dovremmo lasciarci, perché io non cambio idea!”
Iniziai a salire la scale che davano al piano di sopra, cercando disperatamente di calmare la piccola.
“Sì, brava! Lasciamoci pure! Che importanza ha! In fondo è quello che fai ogni volta che abbiamo dei problemi. Tu scappi e mi escludi dalla tua vita pensando che non possa capire come ti senti o cosa provi. Ti chiudi in te stessa pensando di avere ogni ragione del mondo e mi sbatti in faccia ogni porta che cerco di aprire per venire da te, proprio come quando-”
“Eravamo d’accordo di non parlarne più.”
Mi ero fermata di scatto ma non avevo girato il viso. Fissavo le scale di legno sentendo quel tasto tornare a schiacciare forte contro ogni parte di me e dolere come un cuore stretto in un pugno.
“Il 13 Settembre 2012, tu mi hai guardata negli occhi e mi hai detto: non parliamone mai più.”
“Mi dispiace, non volevo dirlo…”
Un sorriso amaro mi dipinse il viso mentre cercavo di trovare la forza per sputargli in faccia qualcosa di molto cattivo.
Mi voltai e affrontai il suo viso. “Sai una cosa? Invece penso proprio che volessi dirlo.”
“No, Kristen. Non avrei aspettato tre anni per parlarne se avessi ancora avuto problemi con quella storia. Era un modo stupido per farti capire che-”
“Cosa, Rob? Per farmi capire cosa? Che qualunque cosa faccia, io sbaglio sempre? Io sono quella che ci mette due anni per prendere una decisione, io sono quella che si lascia incastrare, io sono quella che bacia un quarantenne in una stupida macchina in mezzo alla strada, io sono quella che tradisce il ragazzo migliore del mondo, io sono quella che non può avere bambini, io sono quella sbagliata!”
Rob mi fissò truce e ferito per qualche secondo.
“Mi stai mettendo in bocca parole non mie.”
“Ti sto mettendo in bocca quello che leggo tra le righe.”
I nostri occhi si sfidarono, i miei seri e carichi di rabbia; i suoi esausti e… dispiaciuti.
Sembravano chiedere solo riposo ma non avrei mai potuto concederglielo, non se significava rinunciare a Hope. Avevo preso la mia decisione e non l’avrei abbandonata.
“Kristen…”
“Chissà, magari è meglio così. Forse, dopotutto, sono davvero sbagliata. Forse non vado più bene per te, non funzioniamo più…” una lacrima mi scese sul viso al solo pensiero delle parole che stavano per uscire, incontrollate, dalla mia bocca.
Rob la notò. “Amore…”
“Io… io mi sono rotta, Robert. Mi sono rotta e noi non ci incastriamo più…”
“Io mi incastrerò sempre a te, mi adatterò sempre, lo sai.”
“Ed è questo che non va bene. Tu… sei come succube. L’amore per me ti rende cieco.”
“Se mi rendesse cieco, ti appoggerei senza combattere questa guerra.”
“Io ti ho tradito, Robert. Dovresti… odiarmi. Avresti dovuto sputarmi in faccia, lasciarmi e non tornare mai più.”
“Non era così semplice. Lo sappiamo entrambi.”
“Perché tu non hai voluto che fosse semplice!”
“Certo! Perché farei di tutto per te, ma non perché sono tuo succube o incapace di ragionare con la testa piuttosto che col cuore. Non lo faccio perché non ho scelta, lo faccio proprio perché ne ho una e scelgo te. Sceglierò sempre te.”
“Non stavolta, a quanto pare.”
“Ti sbagli. Sto scegliendo te anche questa volta. Sei tu che stai mettendo altro prima di noi.”
“Sto mettendo un figlio prima di noi.”
“Pensi che non lo voglia anche io? Pensi che non desideri crescere un figlio con te? Ma voglio farlo alla luce del sole e senza il timore che qualcuno possa portarmelo via nel cuore della notte. Potrei essere egoista ed appoggiarti in questa pazzia ma non lo faccio perché so che ci rovinerà. Se non ti fermi, ti rovinerà.”
Mi fermai a riflette per la prima volta da quando avevamo iniziato quella estenuante conversazione; ma le sue parole volavano via come foglie al vento e la loro consistenza semplicemente non reggeva il confronto col peso che avevo tra le braccia. E forse aveva ragione lui, forse sarebbe stata una rovina, ma quale rovina maggiore poteva esserci per una donna del vedere il desiderio di diventare madre svanire ogni giorno di più?
Rob non lo capiva perché non poteva provare quello che provavo io, ma ero già rovinata. Non avevo nulla da perdere.
“Io terrò questa bambina, Robert. Con o senza di te.”
E salii le scale senza aspettare la sua reazione.
Istintivamente andai nella nostra camera e, stringendo Hope, lasciai che qualche lacrima copiosa scendesse lungo le guance mentre vedevo, dalla finestra, le stelle in cielo, proprio sopra il nostro posto speciale.
Non potei fare a meno di pensare a come sembrasse triste il cielo quella sera, nuvoloso, come se le stelle stesse fossero spente: nessuna bruciava, nessuna cadeva. Non c’erano più desideri da esaudire lassù e mi convinsi di stare facendo la cosa giusta.
“Tranquilla, piccolina. Starai con me…” sussurrai a Hope per farla calmare, mentre guardavo i suoi occhietti colmi di lacrime chiudersi pian piano.
Non contai i minuti, ma non passò molto prima di sentire i passi di Rob nella stanza. Non mi voltai, non fiatai, non feci nulla se non continuare a guardare il cielo scuro e quel posto sotto di esso.
Dove eravamo finiti?
Avvertii le mani di Rob sui miei fianchi e mi sentii subito meglio. La sua voce calda iniziò a sussurrare al mio orecchio: “Scusami, scusami, scusami…”
Appoggiai la schiena al suo petto e lasciai che mi stringesse tra le sue braccia. Non ci fu bisogno di dire altro, sapevo per cosa erano quelle scuse così come sapevo che non significavano un suo cambiamento di idea, ma decisi di approfittare della momentanea conciliazione per prendere un po’ di tempo.
“Rob…”
“Mmh…?”
“Lo so che è una pazzia ma, ti prego, non portarmela via ora che l’ho trovata. Non… non farlo…”
Sentii il suo respiro caldo schiudersi in un sospiro sul mio collo. “Kristen…”
“Un paio di giorni. Solo un paio di giorni! TI prego… Due giorni per valutare le opzioni…”
Sembrò molto incerto ma, quando perse i suoi occhi nei miei, cedette.
“D’accordo, un paio di giorni…” acconsentì, e io mi lasciai cullare dalla speranza che passando anche una sola ora con quella bambina se ne sarebbe innamorato come era successo a me, ma avrei pagato oro per sapere quello che davvero gli passava per la testa.
“Vuoi tenerla un po’?”
“N… non importa. Non voglio…”
“Dai, Rob. Non morde mica! Sta dormendo, fai attenzione a non svegliarla” lo interruppi prima che potesse spezzare i miei intenti e con un movimento fluido e calcolato, gli misi la piccola tra le braccia.
Le sue mani corsero subito al posto giusto, proprio come avevano fatto le mie, e lo vidi, nei suoi occhi, quel luccichio che gli avevo visto solo quando gli avevo detto che aspettavo un bambino.
“Stai benissimo con un bimbo in braccio…”
“Sì, eh?” si aprì in un sorriso che mi scaldò il cuore. Annuii, emozionata, e non potei fare a meno di sporgermi e baciarlo. Un tacito grazie, una preghiera che tutto andasse per il verso giusto.
Ci stendemmo sul letto; lui continuava a tenere Hope tra le braccia, io mi stesi accanto a lui e mi lasciai cullare dalla sua ninna nanna.
“Mi dispiace, piccola…” furono le ultime parole che sentii, ma ero già troppo catturata dal mondo dei sogni per capire che non erano rivolte a me.
 
Pov Robert  (suggerimento musicale)
 
Cosa ne sarà di lei?”  
“Beh, per il momento se ne prenderanno cura gli assistenti sociali, mentre noi cerchiamo di rintracciare i genitori o i parenti più prossimi.”
Annuii. “E se… se non si trovasse nessuno?”
“In quel caso andrebbe in affidamento.”
Sentii un brivido percorrermi la schiena e provai un senso di colpa improvviso e inaspettato. “Capisco… Senta, io le lascio il mio numero di telefono. La prego di chiamarmi se ci sono problemi o qualsiasi novità. Se c’è bisogno di soldi… qualsiasi cosa…”
Scrissi velocemente il numero su un pezzo di carta trovato sulla scrivania e lo lasciai al poliziotto al quale avevo spiegato la faccenda fino ad ora.
“Certamente. Non esiterò.”
Sospirai pesantemente e guardai dentro la cesta che avevo utilizzato per trasportare la piccola fino alla centrale di polizia.
Aveva gli occhi completamente aperti e mi guardava come a chiedermi cosa ci facessimo lì. Mi chinai quel poco che bastava per baciarle la piccola fronte e lei afferrò il mio dito fermo sulle sue coperte.
“Buona fortuna, piccolina…”
Salutai il poliziotto velocemente e uscii prima di commettere un crimine e rapire davvero quella bambina. Passeggiai a lungo sulla spiaggia e mi fermai ad osservare le prime luci dell’alba prima di tornare a casa.
Non ero pronto ad affrontare Kristen. Non ero pronto a difendermi dai suoi attacchi sulle mie bugie; le avevo promesso un paio di giorni e invece avevo approfittato del suo sonno per fare proprio ciò che mi aveva pregato di non fare, ma non avevo avuto scelta.
Era così accecata dal desiderio di diventare madre, dalla rabbia contro se stessa e dal dolore che la notizia di non poterlo mai essere le aveva creato, da perdere totalmente il contatto con la realtà. E se lei volava troppo in alto, toccava a me restare con i piedi per terra e tirarla giù, prima che si avvicinasse al sole e si scottasse troppo.
Hai fatto la cosa giusta, mi convinsi mentre entravo in casa e prima o poi Kristen lo avrebbe capito, pensai.
Ma dovetti ricredermi quando la vidi di fronte a me, sulla porta di ingresso, pronta ad accogliermi.
“Dov’è?”
Non risposi.
“Robert, dov’è la bambina? Dove sei stato?”
La voce le tremava dalla rabbia e  sapevo che non sarei durato ancora a lungo.
“Robert, dove sei stato!?” urlò, stringendo i pugni.
“Mi dispiace, amore.”
Spalancò gli occhi pian piano e strinse la mascella. Ogni parte del suo corpo fremeva e si avvertiva anche a distanza.
“Che cosa hai fatto…? Che cosa…”
“Era la cosa giusta da fare…”
“CHE COSA HAI FATTO!?”
“Kristen!”
“Ridammela! Ridammi la mia bambina! Riportala qui!”
“Non posso, Kristen! Non posso io e non puoi tu! Quella bambina non appartiene a te!”
“E a chi allora? Allo Stato? Al mare? A due genitori che si sono messi in mare con una bambina di un mese?”
“Non è una cosa che ti riguarda.”
“Lo è eccome, invece!” mi aggredì, ringhiando mentre si avvicinava sempre più minacciosa. “L’ho trovata io, Robert! Io! Non tu né nessun altro. Sarebbe morta senza di me, la sua vita dipende dalla mia e la mia dalla sua. Ma tu non lo capisci questo, vero? Tu non puoi capire cosa si prova perché il problema non sei tu, sono io. Sono io che sono vuota, senza senso, sterile” calcò l’ultima parola con così tanto schifo e ribrezzo da farmi accapponare la pelle per la rabbia che provava nei confronti della sua condizione.
“Lo capisco, invece. Lo capisco perché io sono l’altra metà di te. La tua gioia è la mia e il tuo dolore è il mio! Lo capisco meglio di quanto credi, Kristen. Ed è proprio il dolore che provi che dovrebbe aprirti gli occhi. Pensa se avessi perso tua figlia e qualcuno se la prendesse senza nemmeno assicurarsi della tua esistenza. Come ti sentiresti? Non c’era pace in quella bambina, non ci sarebbe stata pace d’animo con lei, non in questo modo e so che fa male ma è stato giusto così.”
“Smettila di dire che è giusto così, smettila! Cosa c’è di giusto in tutto questo? Spiegamelo, Rob, perché io non lo so.”
“È giusto dare a quella bambina la possibilità di trovare i suoi genitori.”
“E i nostri bambini mai nati? Anche quello è giusto? I miei ovuli vuoti, sono giusti? I nostri sogni, la cameretta arancione, il mio ventre piatto… è tutto giusto?” scosse il capo con un’espressione di rammarico. “Niente di tutto questo è giusto Robert, niente.”
Mi passò davanti ed aprì la porta.
“Dove vai?”
“A riprendermi mia figlia.”
“Kristen, non dire cazzate! Vieni qui! Non puoi!” l’afferrai per un braccio e la strinsi a me, ma fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mi allontanò di scatto e prese a prendermi a pugni sul petto.
“LASCIAMI STARE! LASCIAMI STARE, HO DETTO!”
Ma io non esitai a stringerla ancora di più a me, facendo forza contro i suoi schiaffi.
“Lasciami andare! Devo andare da lei! Tu me l’hai portata via! Ridammi la mia bambina! Avevi promesso, Roberto! Io ti odio! Ti odio! Lasciami stare! Ti odio… ti odio… Io ti odio…” scoppiò in lacrime e, sfinita, si accasciò per terra.
 
 
Di tutte le possibilità che avevo vagliato su come avremmo passato questo Natale, quella di stare seduto sul divano a fissare il fuoco mentre mia moglie passava la giornata a piangere nel letto, senza rivolgermi la parola, senza dubbio era la più remota.
Continuavo ad osservare le fiamme, ipnotizzato dal rumore scoppiettante della legna secca che continuavo ad aggiungere imperterrito, sperando che quel calore placasse almeno minimamente il gelo che era calato in casa.
Era quasi sera e Kristen non si era alzata dal letto, nemmeno per mangiare.
Mi ero affacciato alla camera diverse volte per trovarla sempre nella stessa posizione; decisi di provare ancora ma non ebbi maggiore fortuna.
Tuttavia stavolta ero determinato a non limitarmi a guardarla solo dalla porta. Entrai e mi sedetti sul bordo del letto, dal lato in cui era girata, solo per vedere il suo sguardo spento e vuoto.
“Amore, vieni a mangiare qualcosa, ti prego…”
“Non ho fame…”
Le carezzai una guancia col dito e bastò a farle cambiare posizione per farmi le spalle.
“Kristen, ti prego, non fare così…”
“Non voglio parlare, Rob. Vattene via.”
“Kris…”
“VIA!”
Il suo tono non poté non scuotermi e fui costretto ad ubbidire. L’ultima immagine che conservai prima di addormentarmi sul divano, fu il suo viso distrutto dal dolore mentre affondava in lacrime nel cuscino.
Quando mi svegliai, fuori era ormai totalmente buio.
Preparai a Kristen qualcosa di caldo ma le mie buone intenzioni divennero vane quando entrai in camera e tutto ciò che restava di lei era un cuscino ancora umido.
La chiamai e la cercai per casa prima di uscire e cercarla nell’unico posto in cui, sapevo, doveva essere andata.
Uscii dal retro e percorsi il vialetto che portava alla spiaggia e poi quello più disconnesso che saliva fino a una piccolissima altura che avevamo scoperto la prima volta che eravamo arrivati sull’isola.
Non era niente di particolare, semplicemente una roccia piatta, e lontana dalle luci misere della città, che permetteva di guardare ogni stella cadente nel cielo mentre il mare si infrangeva sugli scogli proprio sotto.
La trovai lì, in quel posto in cui avevamo riposto ogni nostra speranza, in cui avevamo espresso ogni desiderio fino ad allora taciuto.
Ed era lì che, l’8 Dicembre 2012, il mio più grande desiderio si era avverato.
 
“Un’altra! Non parlare, non pensare! L’ho vista prima io!”
“Io lo esprimo lo stesso! Mi serve!”
“Rob, no! Sei un bastardo se lo fai!”
“Ti giuro che è per una buona causa…questo è un gran bel desiderio!”
“Non me ne importa. Non funziona così! Chi la chiama, esprime il desiderio. Io l’ho chiamata quindi tu ti freghi.”
“Però, bello spirito di condivisione.”
“Con le stelle cadenti non si scherza. Aspetta la prossima.”
“Sì sì, okay. Ti muovi con questo desiderio?”
“Hey, devo pensarci bene. Chiudi il becco.”
E lo chiusi il becco, ma non potei fare a meno di baciarla mentre la vedevo, tenerissima, con gli occhi chiusi e lo sguardo verso il cielo.
“Rob!”
“Cosa? Pensavo stessi desiderando le mie labbra.”
“Pensavi male, caro.”
“Quindi non desideri le mie labbra?”
“Sì, ma non ho bisogno di una stella cadente per averle.”
E si sporse per baciarmi, lentamente e con molta dolcezza.
“Cosa hai espresso?”
“Non si dice, lo sai, se no non si avvera.”
“Ma io posso avverare tutti i tuoi desideri, lo sai.”
“Lo spero…” sorrise quasi timida e insicura.
 
E quello fu il momento in cui capii che Kristen aveva desiderato di essere incinta, per la prima volta. Forse non subito, forse non in un futuro prossimo, ma prima o poi… E il suo desiderio alla fine si era avverato, salvo poi essere distrutto due mesi dopo da un’ecografia e da un ventre vuoto.
 
“Okay, ma ora tu chiudi gli occhi così non mi freghi la prossima!”
“Cosa? No!”
Ma prima che potesse ribellarsi la intrappolai con le braccia in modo che tenesse il viso totalmente chino sul mio petto.
“Fai la brava o ti butto a mare.”
“Pfft, non camperesti un giorno senza di me!” disse con voce soffocata contro la mia giacca, ed aveva ragione; ecco perché avevo bisogno di una stella proprio in quel momento.
E come se il cielo mi stesse ascoltando, la stella più luminosa di quella notte squarciò il cielo lasciando una via luminosa ed io espressi il mio desiderio.
“Okay, puoi aprirli.”
“Espresso il gran bel desiderio?”
Annuii, sorridendo. “Sposami, Kristen.”
“C… cosa?” sbarrò gli occhi, presa totalmente alla sprovvista.
“Sposami.”
“Sì, okay, in futuro.”
“No, presto. Il venti di questo mese.”
“Rob…”
“Siamo a Dicembre del 2012. Voglio sposarti prima che finisca il mondo.”
Rise. “Rob, non dire sciocchezze, dai. Il mondo non finirà.”
“E se finisse?”
“E se finisse, vorresti sposarmi solo per quello?”
“E perché ti amo e voglio passare il resto della mia vita con te…”
Capì, finalmente, che ero serio e non scherzò più. “Dici davvero?”
“Dico davvero…”
Il 2012 era stato un anno un po’ particolare per noi, pieno di alti e bassi, ma se ne avevo tratto qualcosa era la sicurezza. Ero sicuro di voler passare la mia vita con quella donna e avevo desiderato che per lei fosse lo stesso.
Sorrise. “Sei un grande idiota.”
“Perché?”
“Perché non avevi bisogno di una stella cadente perché ti dicessi di sì…”
 
Non avevamo mai conosciuto i desideri dell’altro ma da due anni, seppure non l’avessimo detto, entrambi sapevamo che stavamo desiderando la stessa cosa, l’unica cosa di cui sentivamo la mancanza, l’unica cosa che, quel giorno, le avevo portato via.
Di certo non avevo bisogno di chiedere cosa stesse desiderando in quel momento ma sembrava che le stelle fossero troppo poche per cadere per lei.
Mi avvicinai e le misi una coperta sulle spalle. Lei non mosse un muscolo mentre mi sedevo accanto a lei.
“Buon Natale, amore…”
“Mi hai mentito, Rob” rispose, prendendomi totalmente alla sprovvista. “Mi fidavo di te… E tu mi hai guardato negli occhi e mi hai mentito. Mi hai preso in giro.”
“L’ho fatto per te. Non ho avuto scelta.”
“L’hai avuta, invece. L’hai detto tu stesso. Stai con me perché lo scegli e sceglierai sempre me.”
“Ed è così.”
Lei chinò il viso e per secondi interminabili guardò la roccia scura su cui eravamo seduti.
“Ma stavolta hai scelto male, Rob. Voglio il divorzio.”
Le sue parole arrivarono come una doccia gelata in pieno inverno: inaspettate, pungenti, dolorose e insopportabili.
Si alzò senza aggiungere altro, lasciandomi solo a metabolizzare il significato di quelle parole dettate, senza dubbio, dalla rabbia ma comunque pesanti.
Alzai gli occhi al cielo lentamente, in tempo per vedere una delle poche stelle in cielo cadere davanti ai miei occhi, e desiderai che fosse tutto un brutto incubo.
Ma cosa poteva sperare di ottenere da delle stelle che non esaudivano più nulla da tempo?
_______________________
Ebbene sì, Kristen è leggermente impazzita, lo sappiamo anche noi... Ma abbiate pietà, povera cucciola :( 
Oddio, dovevo scrivere un casino di cose ma ora ho la mente vuota .___. E' Cloe quella brava a fare le note introduttive e finali ç___ç 
Vabbè, intanto... chi indovina come ci è finita Hope in mezzo al mare e qual è la storia dietro? 
Un capitolo intero come premio a chi ci arriva *-* (tanto nessuno ci arriverà mai muhahuahua siamo state le ore a elaborare qualcosa di sensato huahua). 
Aw, ma immaginate se Rob avesse davvero chiesto a Kristen di sposarlo prima della fine del mondo? ç_ç A quest'ora lei sarebbe Mrs. Pattinson... asdkhaks *-*
 Okay, basta con gli scleri... E approposito di fine del mondo (AHAHAHA facciamoci na grossa risata a riguardo AHAHA), ho scritto una piccola shot a tema, passate se vi va :) 
Okay, dovrebbe essere tutto. 
Vi salutiamo e vi "diamo appuntamento" tra cinque giorni. 
Buon Natale a tutti e buone feste *-* 
Cloe & Fio xoxo (è finito Gossip Girl ç___ç <--- il pianto è un pò finto perchè a me non piace poi chissà quanto ma vi sono vicina u.u ahahaha)


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Capitolo 3
*** Never give up ***


HNL - cap 1
Buonasera a tutte voi!!!!!!

Per prima cosa speriamo che tutte abbiate passato un Natale meraviglioso, che vi siate ingozzate e abbiate trovato sotto l'albero tanti bei regali!!!
Ed eccoci qui con un bel regalo, anche se in ritardo, tutto per voi: il cap 3 di HNL dove ci sarà un salto temporale e qualche flashback.
Speriamo vi sia tutto chiaro ;)

Vi ringraziamo per le recensioni, i seguiti&preferiti e in generale per tutto l'affetto che continuate a mostrarci!!!!! (a noi e alla piccola Hope).
Vi mandiamo un bacio super mega enorme e.... A mercoledì ;D
*________*
un bacio,
Cloe&Fio



 
Pov Kristen
Los Angeles, Ottobre 2019
 
“E quindi pensava di vestirsi da Biancaneve. Questo però succedeva venerdì, perché oggi ha deciso di vestirsi da Cenerentola. Insomma, io avevo già detto alla sarta tutti i dettagli per Biancaneve! A volte penso che mi manderà fuori di testa! Potrei strozzarla!”
La donna, di cui non ricordavo il nome, continuava a parlare e parlare come se fossimo amiche di vecchia data. Ed ero certa che non lo fossimo: primo perché ci conoscevamo da sì e no tre settimane e secondo, beh… secondo perché onestamente davvero nemmeno riuscivo a ricordare il suo nome.
Forse iniziava per… B?
Bl…
Blaire?
Blake?
No… mmm, Belinda!
Ecco come si chiamava! Belinda!
“Tu a volte non avresti voglia di strozzarle?” domandò, lasciandomi di stucco. Chi diavolo chiedeva una cosa simile a una donna che conosceva da tre settimane?
“Non che intenda sul serio, ovvio” si affrettò a rettificare “Ma a volte avere un figlio è orribile! Non pensi anche tu?”
Avrei voluto risponderle che no, non lo pensavo affatto. Che se solo avesse saputo cosa significasse sentirsi dire di essere sterile e senza alcuna possibilità di portare un figlio dentro di sé, allora non avrebbe mai detto una cosa simile. Avrei voluto risponderle che dare per scontata la benedizione di avere un figlio era una cosa tremendamente sbagliata.
E non che non sapessi quanto stancante essere una madre, fosse. Ora lo sapevo anche io. Sapevo che i bimbi erano rumorosi, disordinati e a volte semplicemente, semplicemente arghhh; eppure ogni istante, anche i più stancanti, erano comunque stati i più belli della mia vita.
Mi sentii scaldare dentro quando la ragione della mia esistenza trotterellò fuori dal cancello.
“Beh, Belinda ehm...”
“Io mi chiamo Blaire”
Merda.
“Beh, Blaire, ehm… è stato un piacere parlare con te. Ci vediamo lunedì, ok?”
“Va bene, Kristen.” Agitò la mano mentre mi allontanavo in fretta “prendiamoci un caffè un giorno di questi!”
Ma ormai non la sentivo più, non davvero perlomeno. La mia piccolina era tra le mie braccia e per la prima volta in tutto il giorno tirai un grosso sospiro di sollievo. Forse ero patetica, ma da quando aveva iniziato l’asilo il mese precedente, mi ero trasformata in una di quelle mamme iperprotettive e super preoccupate. La prima settimana le avevo misurato la febbre ogni giorno al ritorno da scuola, con grande divertimento di mio marito. Io, comunque, ancora non ci trovavo niente di divertente; era un fatto provato che tanti bambini chiusi in un unico ambiente creassero un covo perfetto per i germi.
Mmmm, ora che ci pensavo sembrava un po’ calda. Forse una volta tornate a casa potevo…
“Mamma, non ho la febble.” Hope batté gentilmente la mano sulla mia “Sto bene!”
Ok, essere rassicurate dalla propria figlia di quattro anni era decisamente patetico, perciò mi limitai ad annuire contro la sua esile spalla mentre camminavo verso l’auto.
Le domandai come fosse andata la sua giornata e lei iniziò a raccontarmi nei dettagli tutte le attività che aveva svolto coi suoi compagni; ancora una volta mi stupii di come parlasse bene, articolando tutte le vocali. Era sempre stata una bimba precoce ma un solo mese di asilo le aveva fatto fare progressi ancora maggiori. E da come era entusiasta dei compagni e dei colori e dei giochi e della maestra si capiva che adorava andarci.
Certo, mi mancavano i momenti in cui eravamo solo noi due a casa. Le ultime tre settimane, ad esempio, erano state tremende; Rob stava finendo le riprese di un film a san Francisco e io, che mi ero presa una pausa fino a dopo le vacanze natalizie, mi ritrovavo a casa a girarmi i pollici. O a tentare di fare la casalinga, cosa che onestamente non mi riusciva benissimo eccetto che per la cucina; ero una cuoca piuttosto in gamba ma per il resto…
Ripensai ai boxer di Calvin Klein di Rob che quella mattina avevo trasformato in un bel rosa confetto e scossi il capo tra me e me. Dovevamo cambiare la lavatrice perché di certo doveva essere rotta!
“Mamma mi stai ascoltando?!” Hope catturò la mia attenzione alzando il tono di voce e guardandomi con disapprovazione per essermi distratta “Ho detto che la maestla ha detto che ci sarà una festa di Halloween e allora noi dobbiamo complale un costume, ok?”
Ah, allora era questo ciò per cui Blair era tanto preoccupata.
“Ok” risposi “Che costume ti piacerebbe?”
“Mmm, non lo so. Pelò folse ho un’idea!”
Mise su il sorriso furbetto che di solito significava guai ma mai mi sarei aspettata ciò che mi disse quando tornammo a casa. Tolti i vestiti per la scuola si era seduta sul divano a giocare con il mio i-pad e, mentre ero in cucina a prepararle la merenda, annunciò con grande enfasi che voleva essere me per Halloween.
Oh, cosa?
Era vero che non controllavo ossessivamente internet per sapere a che posizione fossi delle ‘più belle attrici di Hollywood’ ma non pensavo di essere diventata così orribile da rappresentare una maschera di Halloween.
O almeno lo speravo.
Avevo solo 29 anni, per la miseria.
Mi bastò un’occhiata alla schermata, però, per capire cosa Hope intendesse.
“Sei stata una vampila mamma! Non lo sapevo! Voglio essele una vampira come te! Voglio essere te vampira per Halloween” esclamò, quasi rovesciando il bicchiere di latte “Posso? Eh, ti pleeeeeeeeeeeeeeeeeeeego, posso? Eh? Eh? Peffavooooole?!”
Automaticamente mise su la sua miglior espressione da cucciolotto indifeso e sperduto, correlata da occhioni blu mare spalancati e sbattimento di ciglia così forte da creare un uragano. Ma questa volta non aveva motivo di pregare, perché non vedevo alcun motivo di non farla vestire da vampira. Dopotutto non mi stupiva che Hope non avesse voluto vestirsi come una principessa o una fatina.
Lei era… era una bambina speciale. Era la mia bambina speciale; unica, imprevedibile, fantastica, dolce. E anche testarda e combattiva, cose che a volte facevano impazzire me e Rob, ma non l’avremmo cambiata per tutto l’oro del mondo. Specialmente dopo ciò che avevamo passato per averla.
Passammo i minuti seguenti a parlare di rossetto rosso sangue, cipria bianca per farla diventare super pallida e, perché no, anche un bel vestito bianco e fluttuane macchiato di sangue finto. Forse un po’ macabro ma se bisognava diventare una vampira meglio farlo con stile, no?
Mano a mano che parlavamo, però, il sorriso di mia figlia si fece più debole, quasi come se non fosse del tutto felice.
“Tu pensi che papà ci sarà alla festa velo?”
“Oh tesoro, sì, sì, certo che sì” mi affrettai a rassicurarla. “Papà dovrebbe tornare domani e ad halloween mancano quasi venti giorni, non preoccuparti.”
Alzò i suoi occhietti su di me e lessi in loro lo stesso sentimento che riempiva anche i miei.
“Mi manca papà…”
“Lo so, tesoro, manca anche a me.”
Ci mancava, ci mancava disperatamente. E non importava che fosse a sole due ore di macchina, che ci sentissimo spesso e che il giorno dopo sarebbe stato di nuovo a casa; Rob era la nostra roccia, era il collante che teneva tutto insieme. Se non ci fosse stato lui sarei impazzita, e non  metaforicamente. Probabilmente avrei rovinato tutto, avrei fatto qualche follia e ogni possibilità di essere genitori sarebbe svanita per sempre per noi.
Senza di lui, chissà dove Hope sarebbe finita.
Senza di lui, chissà dove io sarei finita.
Chiusi gli occhi cercando di non pensarci, ma il ricordo di quel natale 2015 si ripresentò prepotentemente e, con lui, la follia che mi era uscita dalla bocca…
 
 
“Ma stavolta hai scelto male, Rob. Voglio il divorzio.”
Dopo averlo detto mi ero alzata, ero tornata indietro, in casa, e avevo iniziato a fare i bagagli. I pochi vestiti che avevo portato con me da Londra, buttati di nuovo dentro la borsa da cui li avevo tolti solo poche ore prima.
Prima di incontrare Hope, prima che qualcosa dentro di me cambiasse, prima che Rob lo distruggesse…
Come aveva potuto farlo? Come? Aveva promesso che ci saremmo presi un paio di giorni per pensarci, per valutare le opzioni, e invece lui aveva agito alle mie spalle, senza un pensiero, senza…
Lacrime di rabbia mi colarono lungo le guance mentre mi sdraiavo sul letto, in attesa dell’alba. Come aveva potuto guardare quella bimba negli occhi e lasciarla alla polizia? Come? Non aveva sentito lo stesso legame speciale che avevo provato io quando l’avevo presa in braccio? Fredda e bagnata? E adesso chissà con chi era, chissà dov’era, chissà se per lo meno era al caldo e se le avevano dato da mangiare?
Come aveva potuto farlo? Come?
Ma più le ombre della notte si diradavano e più il mattino si faceva vicino, più mi rendevo conto che in realtà avrei dovuto chiedermi il contrario. Come avevo anche solo potuto pensare per un istante che lui avrebbe voluto tenerla? Rob non poteva capire quello che avevo sentito io e mai avrebbe potuto farlo. Lui era normale, lui avrebbe potuto avere figli suoi un giorno, lui non sapeva cosa significasse essere costantemente consapevole di essere… sbagliata. Difettosa.
Non potevo fargli una colpa per questo.
La colpa era mia, solo mia.
Non parlammo per tutto il viaggio di ritorno sul traghetto, neppure ci guardammo in effetti. Lui rimase dentro mentre io me ne stavo sul ponte incurante del freddo e del vento; era così assurdo che neppure riuscissi a sentirlo? Ero così gelata dentro che ormai la temperatura dell’aria e quella del mio cuore erano uguali?
Forse, forse sì.
Quando il taxi parcheggiò davanti a casa Pattinson, Rob scese ma io indugiai.
“Può aspettare un paio di minuti per favore?”domandai all’autista.
Riconobbi a stento la mia voce, come se neppure fosse la mia. In effetti non mi sentivo affatto io; era come se fossi entrata in un ruolo che avevo letto in un copione e stessi cercando di recitare la parte alla perfezione.
Vederla in quel modo fu la sola cosa che mi permise di pronunciare quelle parole.
“Rob…”
Si voltò di scatto, come se fosse stupito che gli avessi rivolto la parola, gli occhi colmi di speranza.
“Kris, ti prometto che i miei non… non diranno niente. Ma possiamo andare in hotel se preferisci. Possiamo starcene in pace per i fatti nostri. Parlare.”
Il suo sguardo era così speranzoso, eppure non ebbi la forza di abbassare gli occhi.
“Quello che ho detto prima…”
“Lo so che non lo pensavi. Eri arrabbiata, ma so che non lo pensavi.”
Fece un passo avanti ed istintivamente io ne feci uno indietro.
Presi un lungo respiro.
Sette anni e tutto finiva così…
“Io sì. Io lo pensavo.”
Si immobilizzò, pietrificato.
“Quello che è successo mi ha fatto capire che lasciarci è la cosa migliore. Forse lo sapevo da mesi, ma cercavo di negarlo a me stessa. Tu meriti di meglio. Io non ti renderò mai felice e tu non... non potrai mai capire.”
Si passò le mani fra i capelli prima di tornare a guardarmi.
“Kristen...”
“No” scossi il capo. Che senso aveva dire altro? “È meglio così. Quello che hai fatto mi ha aperto gli occhi e ho capito…”
“Quello che ho fatto è stato fare la cosa giusta!” esclamò, incredulo “Kristen, tu ora non ragioni perché se lo facessi capiresti che la tua idea era folle. Folle!”
“Non era folle per me!”
Una lacrima di dolore mi scivolò lungo una guancia e la sua espressione rafforzò ancora di più la mia decisione.
“Visto? Non vogliamo più le stesse cose” gracchiai. Cercai di contenere il flusso di lacrime, certa che se le avessi lasciate libere di cadere non avrei avuto la forza di andare avanti. “Lo faccio per entrambi. Lo faccio…”
“Non ti azzardare” la sua voce era così gelida che i miei occhi scattarono verso l’alto nonostante non volessi vedere l’espressione di disprezzo nei suoi. “Vuoi farmi fare la parte del cattivo perché io non sono sterile e tu sì? Ok, va bene, sarò il cattivo della situazione. Ma non ti azzardare, non osare dire che lo fai per me. Se te ne vai lo fai per te. Lo fai perché sei una codarda e tutto quello che fai quando hai paura è prendere armi e bagagli e scappare.”
Mi voltai per impedirgli di vedere quanto le sue parole mi avessero ferito. Feci un passo verso il taxi.
“Kristen, se sali su quel taxi, questa volta è davvero finita.”
Deglutii il dolore che mi impediva di respirare e annuii.
“Addio, Rob.”
La porta del taxi che richiusi dietro di me fu l’ultima cosa che sentii prima di bisbigliare all’autista il nome del luogo in cui volevo andare e, poi, accasciarmi sul sedile.
Incredibilmente, meno di un ora dopo mi trovavo nello stesso aeroporto in cui solo due giorni prima avevo sentito che qualcosa di importante nella mia vita sarebbe successo.
Beh, era successo, pensai amaramente.
Due giorni prima avevo un marito e adesso ero sola al mondo.
Ma forse era giusto così, forse tutto era semplicemente andato come era destino. Trovare quella bambina, sentire ciò che avevo sentito, il fatto che Rob l’avesse riportata via senza pensarci due volte…
Forse negli ultimi mesi mi ero solo illusa con me stessa; lui non vedeva la situazione come la vedevo io, non poteva provare ciò che provavo. Non appena aveva visto Hope aveva usato la ragione, non aveva pensato a come fare a tenerla con noi.
Ero certa che fosse devastato per non potere avere un figlio con me, ma un giorno avrebbe potuto averlo… con qualcun’altra.
La sola idea mi fece salire la bile alla bocca, ma con quale diritto?
Io l’avevo lasciato, io me n’ero andata il giorno di Natale, io stavo per prendere un volo per Los Angeles pronta a svuotare casa nostra dalle mie cose.
E mentre me ne stavo lì, a cercare segni che mi facessero capire che avevo davvero fatto la cosa giusta, qualcosa successe.
Un miracolo? Un caso?
Forse. O forse fu semplicemente un vero segno, mentre quelle che io avevo cercato così disperatamente erano solo scuse.
Quello che era reale era ciò che successe davanti a me, in quell’aeroporto: una madre che aveva perso il suo bimbo di cinque anni tra la folla, salvo poi ritrovarlo pochi minuti dopo, in lacrime in un angolo. Qualcuno aveva sorriso, qualcuno aveva pianto e qualcuno aveva tirato un sospiro di sollievo. Ma io ero rimasta paralizzata. E in un attimo le parole di Rob mi avevano inondato la mente.
“Potrebbe avere dei genitori là fuori! Dei parenti, un padre! Una madre!”
Questo aveva detto. E aveva ragione.
Quanto ero ipocrita a provare sollievo per la donna che aveva ritrovato il suo bambino e poi desiderare con tutto il mio cuore di tenere una neonata che per quanto ne sapevo poteva avere una famiglia che la stava cercando nel terrore più totale.
“Miss Stewart?” una hostess si chinò su di me. Il fatto che conoscesse il mio nome e si preoccupasse di avvertirmi di persona, un chiaro privilegio riservato ai passeggeri della prima classe. “Stiamo per imbarcare. I passeggeri della prima classe per primi e lei è l’unica.”
Ebbi solo la forza di deglutire e guardarla sconsolata. “Cosa sto facendo?”
Non sapevo se parlavo con me stessa, con Dio, col fato o con chiunque altro potesse darmi una risposta. A quel punto l’avrei accettata perfino da quella hostess se l’avesse avuta.
“Ehm…, sta per salire su un aereo?”
Indugiai un paio di secondi ma sapevo, ormai sapevo, che se avessi messo piede su quell’aereo non avrei solo rotto per sempre le cose fra me e Rob, avrei per sempre rotto il rapporto che avevo con me stessa. Che tipo di persona stavo diventando?
“No, non credo salirò.”
“No?” domandò confusa.
“No.”
 
Rob era seduto sul pavimento della sua stanza con l’aria distrutta, sulle gambe il suo pc portatile e in un mano il cellulare, mentre con l’altra muoveva freneticamente il dito sul cursore del mouse. Ma gli bastò vedermi per far cadere tutto a terra in un secondo. Si alzò in piedi, mi fissò per un intero minuto, poi fece un passo, poi un altro e infine... mi diede uno schiaffo. Non forte, non tanto forte da farmi male, ma abbastanza forte da farmi bruciare la pelle. Abbastanza forte da svegliarmi. Fu come essere svegliata del tutto da un orribile incubo in cui mi ero rinchiusa io stessa.
Lo superai e mi lasciai cadere sul letto con la testa fra le mani.
“Non volevo farti male.”
“Non me ne hai fatto” scossi il capo, guardandolo come se lo vedessi per la prima volta dopo mesi “Mi serviva, Dio, mi serviva da un sacco di tempo.”
Sentii il peso del suo corpo al mio fianco. “Sai quanto male hai fatto tu a me invece? Ogni singola volta in cui dicevi che non ti capivo, che non potevo neanche lontanamente immaginare come ti sentissi. Sai cosa volevo urlarti? Volevo urlarti che sapevo esattamente come ti sentivi. Perché se tu non puoi avere un bambino, allora nemmeno io posso avere un bambino” indugiò un attimo “Io non lo voglio un figlio con qualcun’altra. Né ora né mai. Te ne rendi conto?”
Annuii, pronta a parlare, ma quando i miei occhi si posarono sullo schermo del pc, aggrottai la fronte, confusa.
“Che stavi facendo?”
Mi guardò come se fossi pazza. “Prenotando un volo per LA, ovvio.”
“Ma… quando sono salita sul taxi hai detto…” non riuscii a terminare la frase, ripensando a quello che avevo provato quando mi aveva dato quell’ultimatum.
‘Se sali su quel taxi è finita.’
“Lo so quello che ho detto” sussurrò.
“E allora perché? Perché stavi venendo?”
Mi carezzò la guancia in modo che lo guardassi fisso negli occhi.
“Perché non posso vivere senza di te.”
Una lacrima tiepida mi scivolò lungo la guancia e non tentai neppure di fermarla.
“Non voglio il divorzio, Rob” gracchiai “Non lo voglio ora, né mai, né...”
Non riuscii ad andare avanti, il respiro troppo corto per poter parlare.
“Lo so” mormorò “E so che mi ami, anche se sei tornata di corsa solo per i mille messaggi che ti ho lasciato in segreteria su Hope...”
“Cosa?” La sorpresa per le sue parole mi fece dimenticare per un attimo il groppo alla gola “Quali messaggi?”
“Quelli che ti lascio da più di un’ora sul cellulare.”
“Il mio cellulare è sull’isola di Wight. Non l’ho nemmeno preso con me.”
La sua espressione si fece confusa, almeno tanto quanto la mia. “Allora… allora perché sei tornata indietro?”
“Perché non posso vivere senza di te.”
Vidi i suoi occhi divenire umidi. Le sue mani strinsero con più forza il mio volto.
“Kris, ti amo alla follia, ma ora metto in chiaro due cose. La prima è che sì, sei sterile” rabbrividii alla durezza delle sue parole ma mi resi conto che non mi fecero tanto male quanto mi sarei spettata. “E questo non ti rende sbagliata, diversa, o inutile. Ti rende vulnerabile, umana e perfetta. Ti rende la mia Kristen. Un giorno avremo un bambino, o una bambina o un mucchio di bambini e non importerà come li avremo. Saranno nostri comunque. Intesi?”
“Intesi” abbozzai un piccolo sorriso e le mie labbra si tesero sulle sue, tiepide. “E la seconda cosa qual è? Hai detto due cose.”
“La seconda è che la prossima volta che scappi non mi limiterò a darti uno schiaffo. Verrò ovunque ti trovi e ti prenderò a calci nel sedere così forte che non te lo scorderai mai. Chiaro?”
“Chiaro.”
Lo abbracciai sorridendo ma, all’improvviso, le sue parole di poco prima mi tornarono alla mente.
“Che c’entra Hope ora?”
“Ok” sospirò, afferrandomi per le spalle “Non alzare troppo le tue speranze ora, intesi?”
“Rob...”
“Quando ho riportato la bimba indietro ho lasciato il mio numero. E mi hanno chiamato i servizi sociali dell’isola. Vogliono che racconti come l’hai trovata alla polizia e… poi ho telefonato all’avvocato di famiglia dei miei. Voglio capire se ci sarebbe la possibilità di seguire il suo caso, di…”
“Rob, quando l’ho trovata ho davvero sentito una connessione speciale con lei. Davvero… non so neppure come spiegarlo. Anche se ho fatto e detto cose tremendamente stupide, quello… quello era vero.”
“Lo so” annuì “E non so come andranno le cose con lei. Non so se ha una famiglia da qualche parte. Non so nulla. Ma so che voglio scoprirlo.”
“E io so che voglio aiutarla” terminai per lui.
Non so come, ma qualcosa di speciale era successo quando l’avevo presa tra le braccia. Mi aveva cambiata dentro, in più di un modo.
Se avesse avuto una madre che la amava lì fuori, allora l’avrei aiutata a tornare da lei e se non l’avesse avuta… se non l’avesse avuta allora mi sarei assicurata che avesse una famiglia disposta ad amarla. Che fosse con me e Rob o con qualcun altro, non l’avrei delusa.
“Insieme?”
Rob mi prese la mano. “Insieme.”
 
Pov Robert  
 
Entrai in casa in punta di piedi per non svegliare nessuno, ma avrei dovuto immaginare che Kristen sarebbe stata ancora sveglia. Di solito le piaceva scherzare di essere un animale notturno, ma non avrei mai creduto di trovarla in piedi a mezzanotte passata a… cucire?
Kris seduta al tavolo della sala da pranzo, con davanti metri di stoffa nera e una macchina da cucire. Una macchina da cucire.
Soffocai l’impulso di ridere, sapendo che se lo avessi fatto, non sarei mai riuscito a farla spaventare e, invece, rimasi semplicemente appoggiato allo stipite della porta a guardarla.
Era bellissima anche col pigiama verde sbiadito, quello leggermente consumato sul ginocchio sinistro, che si rifiutava di buttare perché, per qualche strana ragione, le ricordava qualcosa di importante, con una matita a tenerle fermi i capelli in cima al capo e con la lingua stretta fra le labbra, il suo gesto classico quando si stava concentrando su qualcosa di importante. Un gesto che nostra figlia aveva copiato e che le vedevo ripetere quando si concentrava mentre colorava un’immagine particolarmente difficile.
Il pensiero di Hope mi fece subito rettificare ciò che avevo detto tra me e me solo pochi istanti prima. Non era così inusuale vedere Kristen seduta su quel tavolo a cucire; forse non aveva mai preso ago e filo prima, ma sin dal momento in cui Hope era entrata nelle nostre vite, aveva fatto di tutto per essere la madre migliore del mondo.
E c’era riuscita.
Questo non significava che era perfetta o che non commetteva mai errori, perché entrambi ne facevamo molti, ma cos’era essere genitori se non cercare di fare del proprio meglio? Se l’amore incondizionato era il metro che misurava la felicità di una famiglia allora eravamo tutti e tre estremamente fortunati ad avere l’un l’altro.
Solo immaginare le nostre vite senza Hope…
Quello era un pensiero che non volevo dovesse mai neppure passarmi per la testa.
Senza fare rumore mi avvicinai a lei e la circondai da dietro con le braccia; la sentii sussultare ma quando si accorse che ero io, molto probabilmente dal mio profumo, si rilassò e scoppiò in una risata nervosa.
“Sei così sexy con questo pigiama…”
“Beh ti consiglio di approfittarne stasera. Domani torna mio marito ed è un tipo molto geloso” scherzò “Potrebbe non apprezzare…”
“Vedremo di utilizzare al meglio il poco tempo che abbiamo allora.”
Feci scorrere i palmi delle mani sul suo ventre liscio e morbido ma, prima ancora che potessi andare avanti, fu lei a prendere in mano la situazione. Si voltò tra le mie braccia e la sua bocca fu subito sulla mia.
“Non so con quale miracolo tu sia riuscito a tornare a casa un giorno prima ma non sai quanto sono felice” la voce le tremò per un secondo “Avevo bisogno di te.”
“Va tutto bene? Cosa…”
Non mi fece dire altro. Le sue dita si intrecciarono alle mie e in silenzio salimmo le scale che portavano alla nostra camera da letto. Una parte di me avrebbe voluto andare da Hope ed assicurarmi che fosse al sicuro nel suo letto, ma la parte che aveva bisogno di mia moglie prevalse. Amavo il mio lavoro ma quando mi portava lontano dalle due persone che rendevano la mia vita completa, allora arrivavo davvero ad odiarlo. Ci amammo in silenzio, soffocando i nostri gemiti l’uno nella bocca dell’altro come avevamo imparato a fare da quando Hope era venuta a vivere con noi. Eppure nel dover fare l’amore in silenzio non c’era imbarazzo o fastidio, anzi, la nostra intimità sembrava essere solo aumentata nel ridacchiare sepolti sotto due piumoni per non fare rumore, nel soffocarci di baci, nel prenderci in giro perché comunque non eravamo mai abbastanza silenziosi. Quando la sentii rilassarsi sotto di me, le mordicchiai il collo ma mi accorsi subito delle sue guance umide. Accesi la luce sul comodino per vedere le sue guance rigate da due lunghe lacrime.
“Kris…”
“Non è niente, davvero” mi interruppe “Io sto bene, Hope sta bene. È solo che oggi ho iniziato a pensare al giorno in cui l’abbiamo trovata, a quello che è successo il giorno dopo, a quello che ho fatto, quello che ti ho detto…”
“Shhh, sdraiati.” Sapevo ciò di cui aveva bisogno in quel momento. Entrambi ci sdraiammo sotto le coperte, la presi tra le braccia e allungai la mano spegnendo la luce. Era sempre riuscita ad esprimersi meglio al buio, sussurrando ciò che pensava nell’oscurità.
“Cosa sarebbe successo se avessi preso quell’aereo, Rob? Avrei potuto rovinare tutto. Forse le nostre vite sarebbero così diverse ora.”
“Sarei venuto a LA e ti avrei preso a calci, te l’ho detto” risi baciandole il capo “Non ti avrei mai permesso di lasciarmi, figurati. Saremmo tornati a Londra da Hope e ora saremmo esattamente qui in questo letto a parlare dopo aver fatto l’amore, ne sono sicuro.”
“Ero così stupida… Pensavo cose assurde, volevo rapire una bambina…”
“Non farlo, Kris” la rimproverai “Non avresti rapito nessuno. Alla fine avresti fatto la cosa giusta. Alla fine hai fatto la cosa giusta, no?”
Erano rare, ma c’erano ancora delle volte in cui Kristen pensava al passato e si auto flagellava; solo che ora non si sentiva più in colpa per il fatto di non potere avere figli, ma per avermi ferito per mesi chiudendosi in se stessa, per avere seriamente considerato di tenere Hope senza dirlo a nessuno e per i mille sentimenti che, a parer mio, non doveva giustificare a nessuno. Neppure a me.
“È solo che ora che so cosa vuol dire essere madre, mi sento tanto stupida. Come potevo pensare che partorire un bambino mi rendesse una madre più vera? Avevo questa convinzione che non poterti dare un figlio biologico mi rendesse inutile. Ero… beh, a un certo punto stavo probabilmente per impazzire.”
“Non stavi per impazzire” esitai “Beh sì, forse un po’ sì.”
“Oh grazie tante!” Mi colpì scherzosamente alla pancia salvo poi posare il capo sul mio cuore.
“Tranquilla! Posso mettermi nei tuoi panni. Era qualcosa di importante che ti è stato strappato. Era ovvio che tu non stessi bene. Immagino come mi sentirei se un giorno diventassi pelato. Insomma, che ne farei di me stesso senza una parte così importante di me come la mia chioma?”
Kris soffocò le risate contro la mia pelle e non potei non assaporare il piacere di poter scherzare con lei su quell’argomento. C’era stato un tempo in cui non avremmo neppure menzionato il fatto che non potesse avere figli. E adesso… adesso potevamo addirittura scherzarci su, farci una battuta di tanto in tanto per esorcizzare la cosa.
Hope ci aveva cambiati e, forse, nel farlo, ci aveva anche salvati.
“Mmm, condivido” giocò “Che cosa farebbe il genere umano senza i tuoi capelli? Sarebbe un lutto per tutto il genere femminile, di certo.”
La sua risata scemò e dalla postura del suo corpo contro il mio capii che stava per dire qualcosa di serio.
“Ricordi la prima volta che l’abbiamo portata a casa? Quando ci hanno detto che poteva stare con noi in affidamento?”
“Come fosse ieri.”
“È stato uno dei momenti più belli della mia vita. E anche i mesi dopo. Solo… ricordo anche il terrore costante.”
Sapevo esattamente di cosa parlava. Visto il chiaro legame che si era formato con la bambina e il fatto che eravamo candidati perfetti sia finanziariamente sia secondo i test, Hope ci era stata data in affidamento. Ma per quanto tempo? Mesi? Anni? Avevamo sin da subito avviato la richiesta di adozione vera e propria, visto che la polizia aveva chiuso il suo caso decretandola come minore abbandonato senza alcun genitore che si fosse mai fatto avanti a reclamarla, ma la burocrazia era quella che era e come facevamo ad essere certi che saremmo diventati noi i suoi veri genitori un giorno? Alla fine eravamo stati fortunati ma quei mesi di incertezza ci avevano logorati dentro. Tanto da farci esitare ad ampliare la nostra famiglia.
“Sai cosa mi piacerebbe? Un figlio con i tuoi capelli leggendari” mormorò.
“Sì?” risposi. Avevamo affrontato qualche volta la possibilità di una madre surrogato ma visto che gli ovuli di Kristen erano inutilizzabili, avremmo dovuto usare quelli di una donatrice anonima. E l’ultima cosa che volevo era che lei si sentisse tagliata fuori e ricadesse nella stessa depressione di quattro anni prima. “Sicura?”
Annuì. “Sarebbe una parte di te e il regalo di qualcun altro. Certo che sono sicura.”
“Magari nell’anno nuovo, mm? Niente mi renderebbe più felice che avere un altro figlio con te.”
“Sì?”
“Sì.”
Baciai le sue labbra tiepide, accoccolandomi meglio contro di lei, conformandomi al suo calore.
Qualcosa mi diceva che per la prima volta da tre settimane a quella parte avrei dormito perfettamente.
E, in effetti, fu così, per lo meno per qualche ora. Alle sette di mattina però ero già perfettamente sveglio, nonostante fosse sabato e nonostante, per una volta, non dovessi essere su un set, su un aereo o a qualche show televisivo. Dicevo sempre di voler passare la giornata a poltrire a letto e poi, quando ne avevo la possibilità, che cosa facevo? Fissavo il soffitto mentre mia moglie russava piano al mio fianco. Non resistetti e presi il telefono, registrando il suono che usciva dalla sua bocca; era terribilmente cattivo da parte mia ma ogni volta che avevo tentato di dirle che russava, lei se ne era uscita ribattendo che era una bugia per prenderla in giro. Beh, ora avevo le prove…
Non resistetti un secondo di più a letto.
C’era qualcosa dentro di me che mi faceva capire che non mi sarei più riaddormentato, neppure volendo. E non era per il russare di Kris, a cui tra l’altro ero abituato da anni. Era solo la voglia, pura e semplice, di attraversare il corridoio, entrare in camera di Hope, svegliarla e stringerla a me fino a imprimermi di nuovo in ogni poro della mia pelle il suo profumo di…
Dio, neppure sapevo descriverlo. Un mix di aria e sole e vento e… e vaniglia.
Non sapevo perché ma Hope profumava da sempre vagamente di vaniglia.
Con un sorriso a trentadue denti mi sporsi in camera sua, ma contrariamente a quanto avevo voluto fare, non la svegliai. Mi sedetti al suo fianco, sul suo lettino rosa che lei occupava solo in minima parte, raggomitolata com’era in un angolo col suo orsetto.
I capelli rossi erano una matassa aggrovigliata sul capo che scostai con non poca fatica, ma avrei fatto qualunque cosa pur di vedere il suo visino. Erano state tre settimane terribilmente lunghe! Si stiracchiò un poco quando le mie dita le sfiorarono la fronte ma si rilassò subito. Sentii una stretta al cuore quando mi accorsi che in meno di un mese era cresciuta. Forse non di molto ma era certamente più grande. Ma com’era possibile? Non sarebbe dovuta restare una bambina ancora per molti e moltissimi anni? Possibilmente per sempre?
Di questo passo presto sarebbe arrivata a casa con un ragazzo psicopatico, drogato o alcolizzato che l’avrebbe messa incinta e sarebbe finita in un orribile matrimonio riparatore.
OK, forse avevo guardato per sbaglio qualche puntata di ’16 anni e incinta’ che mi aveva traumatizzato ma il fatto era che lei era la mia Hope, la mia bambina e di certo avrei fatto sì che la sua vita fosse il più perfetta possibile. E se questo significava comprare un quintale di mattoni e costruirle una torre…
Ok, stavo decisamente impazzendo.
Ma, forse, tutti i padri ad un certo punto avevano gli stessi pensieri assurdi ed iperprotettivi.
Un padre.
 Ecco quello che ero. Solo qualche anno fa non ci avrei neppure pensato. Poi era arrivata la notizia della sterilità di Kris che ci aveva investiti come un tornado e poi… poi era arrivata Hope; e, credetemi, anche lei ci aveva investiti. E aveva portato caos e giochi sparsi ovunque e pianti e capricci e risate e un numero imprecisato di ore a guardare ‘Dora l’esploratrice’, e di tutto questo non avrei cambiato neppure una virgola. Avevo amato, e amavo, Kristen alla follia ma con Hope… con Hope sentivo un sentimento, una proiettività che non credevo fosse neppure umanamente possibile.
Le carezzai le labbra col pollice e forse per reazione istintiva spalancò gli occhioni blu che si posarono, confusi ed eccitati su di me. Le bastò sbatterli un paio di volte per scacciare ogni traccia residua di sonno.
“Sei tonnato!”
Mi gettò le braccia al collo e potei finalmente fare ciò che avevo desiderato sin da quando avevo aperto gli occhi. La abbracciai e sentii il suo profumo che mi era mancato come l’ossigeno.
“Ma mamma aveva detto che tonnavi stasela!”
“Beh sì ma mi mancavate, no? Comunque se preferisci me ne vado e ritorno stasera, eh.”
“No, no, no! Scherzavo!”
Si avvinghiò al mio collo e la feci piroettare in aria finchè non si scostò, fissandomi tutta eccitata.
“Preparami le flitelle per colazione!”
Risi. Hope sapeva che le frittelle erano la sola cosa che non bruciavo in cucina e ogni volta che poteva ne approfittava.
“Ai suoi ordini, principessa!”
A metà delle scale che portavano al piano di sotto, Hope mi diede un lungo bacio sulla guancia.
“Mi sei mancato tanto tanto tantissimissimissimo papà!”
Papà.
Chiusi gli occhi e riassaporai il ricordo della prima volta che quella parola le era uscita dalla bocca.
 
 
“Riesci a crederci?”
Kris sussurrava per non ricominciare a piangere. Le massaggiavo la schiena come a volerla consolare, ma onestamente avevo pianto anche io. Avevo pianto quando l’assistente sociale ci aveva detto che le procedure per l’adozione definitiva erano andate a buon fine.
Non era solo più nostra ‘in affidamento’. Adesso era davvero nostra figlia. Agli occhi del mondo, degli altri e della legge lei era nostra e nessuno, nessuno, avrebbe più potuto portarcela via.
“Sembra un sogno…”
Scossi il capo. “Non lo è Kris, è la verità. Te lo giuro. E’ qui, ed è reale ed è… la giornata più bella della mia vita”
Eppure mi sbagliavo. Mi sbagliavo perché non sarebbe mai stata assolutamente perfetta se non fosse accaduto ciò che successe pochi minuti dopo.
Hope aveva iniziato a parlare da un paio di mesi ma non ci eravamo mai spinti a spronarla a chiamarci ‘mamma’ e ‘papà’; quelle erano parole tabù, nel caso non avessimo ottenuto l’adozione. L’avvocato aveva detto che eravamo candidati perfetti agli occhi della legge ma la paura… la paura non se n’era andata davvero finchè il giudice non aveva approvato in via definitiva.
Per questo motivo quando lei balbettò, esitante ed incerta, ‘papà’ fra le mie braccia, rimasi scioccato. Forse l’aveva sentito in tv o forse Kris si era lasciata scappare quella parola qualche volta di fronte a lei.
Non lo sapevo.
Sapevo solo che non potei frenare la lacrima che mi scese lungo la guancia.
“Adesso” mormorai a Hope “Adesso è diventato davvero il giorno più bello della mia vita.”
 
 
“Mmm, frittelle? E senza di me?” Una Kris ancora terribilmente assonnata entrò in cucina, sfregandosi gli occhi. Mise su un adorabile broncio, mentre ci guardava ingozzarci seduti al tavolo e Hope, per farla arrabbiare, si spruzzò in bocca le ultime gocce di sciroppo d’acero direttamente dal barattolo.
“Io e papino abbiamo fatto le flittelle e abbiamo finito tutto, tutto, tutto e anche tutto, tutto, tutto lo sciroppo!”
“Ah sì eh. Siete veramente cattivi.”
“Nooo, scherzo! Papà te ne ha lasciate due in forno al caldo”aggiunse Hope che non riusciva a dire bugie neppure per scherzo.
“Wow addirittura due? Ti sei sprecato, mio caro.”
Mi fece la linguaccia e quando si chinò per prendere il piatto dal forno, tirai fuori il cellulare e lo posai sul tavolo, avviando la riproduzione del suono che avevo registrato meno di un ora prima. Nostra figlia, che avevo già avvisato, rise non appena Kris sentì l’inconfondibile suono di un russare provenire dall’apparecchio.
Arrossì e mi fissò a occhi stretti come due fessure.
“E quello cosa diavolo è?”
“Sei tu mamma!” esclamò Hope “Russi!”
Kris spalancò la bocca in modo assolutamente comico e puntò lo sguardo da me a Hope, fintamente sconvolta.
“Siete due persone cattive. Molto, molto cattive.”
Sia io che Hope ridemmo ancora più forte e fummo salvati solo dal suono del campanello del cancello esterno a cui Kris andò a rispondere.
Meno di un minuto dopo rientrò in cucina, guardando con orrore la tuta che aveva indosso.
“Dio, proprio ora che sono vestita così!” borbottò “Tesoro, vai in camera tua a giocare mentre io e papà parliamo con una persona?”
“Ok, vado a dare da mangiare un pò di flittelle a Shirley licciolona allora”
Quando fu trotterellata via mi sporsi verso Kris che stava cercando di dare una forma presentabile ai suoi capelli.
“Chi è?”
“I servizi sociali inglesi.”
“Davvero?” domandai confuso “A quest’ora?”
Alzò le spalle, senza sapere che dire. “Beh avevano detto che anche se l’abbiamo adottata ormai da tre anni ci sarebbero state delle visite. Normale routine, no?”
In effetti non era la prima assistente sociale che veniva a fare un controllo ma questo era successo soprattutto il primo anno, poi si erano diradate ed ormai erano molti mesi che non ne avveniva una.
Beh, nulla di male, pensai. In genere le donne che venivano erano persone molto gentili e disponibili e qualcuna, ok a essere sincero più di qualcuna, era più eccitata di conoscere me e Kris che di parlare con Hope.
Ridacchiai. “Abbaglierò anche lei col mio fascino, vedrai.”
Ma ogni voglia di ridere, ogni voglia di essere felice, ogni sensazione positiva che avevo provato da quando ero tornato a casa, fu spazzata via dalla donna che ci trovammo davanti pochi minuti dopo in salotto.
Sui trent’anni, capelli biondo chiaro, vestita in modo elegante, chiaramente a disagio.
Disse di chiamarsi Donna.
Ci disse che, sì, era venuta per Hope.
Ci disse che, sì, era venuta da Londra.
Ma ci disse che, no, non era un assistente sociale.
Ma fu quello che disse dopo a lasciarci totalmente sconvolti, impreparati.
“La bambina che avete adottato. Io... io sono quasi certa…” Indugiò, come se avesse appena commesso un errore nel discorso che si era preparata. “No. Io sono certa che lei sia mia.”
_______________________
Ehm... che dire...? 
Visto che questo è l'ultimo capitolo del 2012, ci sentiamo nell'anno nuovo! ;) 
E' stato un anno pieno di alti e bassi ma, tanto per citare ogni favola che si rispetti, il bene e l'amore alla fine vincono sempre, no? :) 
Beh, forse non sempre, who knows... AHAHA 
Fateci sapere che ne pensate in una recensioncina. Ci fanno sempre tanto piacere ç_ç Vabbè, a chi non fanno piacere? AHAHAHA 
That said...
Un bacio e buone feste ancora! 
Cloe&Fio xx


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Capitolo 4
*** Never see you again ***


HNL - cap 1
Salve gente!

Prima di tutto, ci scusiamo per il ritardo e voglio essere sincera: dobbiamo ancora scrivere l'ultimo capitolo quindi ci siamo prese un pò di tempo AHAHA Onestà, portami via :') AHAHAHA
Ma si sa, è periodo di feste: gente da vedere, roba da mangiare, regali da fare, roba da mangiare, parenti che invadono casa, ancora roba da mangiare....
AHAHA sfido chiunque ad affermare di non essere ingrassato almeno un chilo in queste feste .___.
Oggi è pure la befana, stamm' appost'! HAHAHA
Vabbè, le vostre befanine vi lasciano il capitolo!
Speriamo vi piaccia! Ci sentiamo in fondo :)

*________*
un bacio,
Cloe&Fio

(suggerimento musicale) - che io amo adgfkjadfs ç_ç



 
Pov Kristen
“Non ho mai conosciuto i miei genitori, tutt’oggi non ho nemmeno idea di chi siano. Ho vissuto i primi cinque anni della mia vita in un orfanotrofio, uno di quelli vecchi dove ci sono suore che dovrebbero prendersi cura di te ma in realtà non fanno altro che renderti tutto più difficile. Ero una delle più piccole lì. Non potevano occuparsi di neonati e i bambini più piccoli di me erano sempre e comunque preferiti, tanto che mi chiedessi come facevano le bambina di dieci anni ad avere ancora speranza di essere adottate. Alcune non ci credevano più, infatti. Meredith era una di queste. La conobbi un giorno in cui strillavo come una pazza perché volevo la mia mamma, perché volevo sapere dove fosse, e lei mi prese in braccio, mi cullò e mi disse che sicuramente era in cielo, ma che se le parlavo poteva sentirmi lo stesso. Non so se avesse ragione, ma decisi di crederle e da quel momento fummo inseparabili per molto tempo. Lei era due anni più grande di me, per cui, quando ce lo dissero, fu difficile credere che una coppia fosse interessata a prendere due bambine, di cui una già abbastanza grandicella. Eppure fu così. Fummo adottate insieme, lo stesso giorno, dalla stessa coppia che ci fece sentire a casa in poco tempo.
Joseph e Juliet Blake erano… persone speciali. Quel tipo di persone da cui puoi aspettarti solo bene. Io presi a chiamarli mamma e papà dopo qualche mese, Meredith non ci riuscì mai e in cuor mio sapevo che quelle volte che lo faceva, lo faceva solo per me. In cuor mio sapevo che, in fondo, era uno spirito libero e che si trovava in quella casa solo ed esclusivamente per me… Nonostante questo, fu un duro colpo quando a venti anni, fece le valigie e lasciò casa. Aveva conosciuto un ragazzo Amish e, beh, non so se voi sappiate qualcosa della loro cultura… Sono una comunità religiosa, arretrati, chiusi, attaccati a dei principi guida che li tengono quanto più possibile lontani dalla civilizzazione. Vivono per conto loro, nelle loro comunità ristrette, piccole o grandi che siano. Non è difficile immaginare che i nostri genitori non fossero per nulla d’accordo con questo connubio. Avevano grandi piani per noi: Meredith aveva iniziato la facoltà di medicina, le piaceva anche, voleva diventare una ginecologa o una pediatra, ancora non lo sapeva, ma le piaceva.
Ma forse è vero quello che si dice, che l’amore rende ciechi… perché lei non guardò in faccia a nessuno e non esitò a voltarci le spalle per seguirlo, nonostante le differenze culturali. Era così presa e innamorata da rinunciare a quello che era per diventare qualcun altro, qualcuno di nuovo insieme a lui, e noi cosa potevamo fare?
I nostri genitori tennero il punto, convinti che prima o poi sarebbe tornata sui suoi passi e impedirono anche a me di avere rapporti con loro; per molto tempo non sono riuscita a rintracciarli in nessun modo e mi convinsi io stessa che, in fondo, era meglio così, che lei non volesse essere trovata, che dopotutto era una vita che non aveva mai voluto veramente… Così la lasciai andare.
Gli anni passarono e ormai Meredith era diventata solo un ricordo nel cuore e una fotografia sul comodino…
Quando i nostri genitori morirono in un incidente d’auto, circa sei anni fa, decisi di scriverle. Dovevo metterla al corrente, volevo che fosse presente per loro e per me, volevo che ci fosse per capire come ogni cosa passi in secondo piano davanti alla morte… Ma lei non si presentò. Le scrissi ancora dicendole che… che era un’ingrata, che avrebbe potuto fare uno sforzo e che la odiavo, ma che ero ancora disposta a chiarire e se avesse voluto poteva raggiungermi sull’isola di Wight dove mi sarei trasferita in una casa lasciataci in eredità dai nostri genitori. Ancora una volta non ebbi risposta; mi chiesi anche se avesse effettivamente ricevuto quelle lettere ma darmi il tormento non serviva a nulla, così la lasciai andare, ancora una volta. Pensavo che sarebbe stata la definitiva, quando a inizio febbraio 2013 ricevetti una telefonata che mi informava del ritrovamento di due corpi in mare, nei pressi dell’isola, e del bisogno di un accertamento della loro identità.
Mi bastò guardare una sola volta per perdere tutto ciò che era rimasto della mia famiglia. Il dolore di aver perso tutto, la rabbia, la consapevolezza che era colpa mia mi portarono a partire, nemmeno un mese dopo, per una missione di volontariato in Africa. Dovevo restarci un anno, ma poi divennero due, poi tre…
L’Africa era semplicemente il luogo perfetto per dimenticare il mio dolore e pensare a quello degli altri. Mi ci sono rifugiata per tanto tempo prima di capire che non potevo davvero aiutare chi soffriva più di me se non avessi risolto le mie proprie sofferenze, così sono tornata in America, sono andata in Ohio, alla comunità di Amish in cui, sapevo, appartenevano mia sorella e il marito.
Era giunto il momento di affrontare il passato e cercare delle risposte che mi liberassero del mio senso di colpa… e le trovai! Ma non furono la sola cosa che scoprii quando mi recai lì.
Quando mi presentai a raccontai di ciò che era successo a Meredith, nessuno sapeva niente, credevano che avessero semplicemente deciso di partire e che si fossero staccati dalla vita Amish. In fondo non era per nulla concepito per loro prendere un aereo e raggiungere Londra, anche se era per rivedere una sorella perduta…
Fu allora, quando insieme iniziarono a pregare per le loro anime e per quella della povera piccola, che scoprii che Meredith aveva avuto una bambina.
Mia sorella era incinta e io non lo sapevo nemmeno. Si era messa su una barca con una bambina di un mese per raggiungermi e l’ultima cosa che aveva ricevuto da me era solo odio…
Non potevo crederci all’inizio, ma fui portata a quella che era la loro casa e mi diedero il permesso di restare tutto il tempo di cui avevo bisogno. Iniziai a cercare qualcosa… Qualsiasi cosa che provasse che non era vero, che era tutto un grande errore, ma trovai il suo diario. Pagine piene dei ricordi della gravidanza, del primo mese di vita, dei suoi rimorsi, dei piani del viaggio… e ritratti piegati di una piccola neonata in fasce e una fotografia.
Piansi su quelle pagine così a lungo… Per mia sorella, per suo marito, ma soprattutto per quella povera piccola perché… che speranze aveva potuto avere di affrontare una tempesta su una barchetta di legno?
E fu allora che iniziai a collegare ogni cosa e tutto combaciava alla perfezione.”
Strinsi il braccio di Rob, seduto proprio accanto a me. Avevo ascoltato ogni parola di quella donna, senza interromperla come lei aveva gentilmente richiesto, e avevo sperato di poter tirare un sospiro di sollievo alla fine, di capire che si trattava di qualche malinteso o di qualche scherzo idiota, ma il respiro non accennava a tornare. Anzi, ogni secondo, ogni parola, mi sentivo morire un po’ di più.
Nessuno dei due fu in grado di dire nulla, probabilmente entrambi chiedendoci quale fosse l’inganno che doveva esserci sotto l’intera storia, decisamente ben elaborata; avremmo potuto spegnarla in un secondo, ma nessuno de due fiatò, e fu lei a continuare.
“Io… mi dispiace, io non mi sarei mai permessa di venire qui, a casa vostra, a sconvolgere la vostra vita se non ne fossi totalmente sicura.”
Sconvolgere? Sconvolgere cosa? Quale vita? Non c’era proprio niente da sconvolgere, solo tutto da appurare e da verificare, e se anche una minima parte di quella storia fosse stata vera, ormai era tardi per qualsiasi cosa.
Non c’era nulla da sconvolgere, se non il jet leg di questa donna che presto avrebbe fatto ritorno a casa sua.
“Sono stata due mesi a fare ricerche e ad assicurarmi che tutto avesse un senso, ma più andavo avanti più capivo che non poteva esserci altra spiegazione. Non capita tutti i giorni di ritrovare un neonato abbandonato in una barca su un’isola minuscola e di trovare due cadaveri sugli scogli della stessa isola appena due mesi dopo.”
A quel punto fu Rob a parlare, prendendomi totalmente alla sprovvista. “Senta, Donna… giusto? Io… noi… Siamo addolorati per quello che le è successo, ai suoi genitori, a sua sorella, ma temo che non ci siano modi per essere totalmente sicuri che si tratti della stessa bambina, purtroppo. Certo le vie per esclusione sono consistenti ma non totalmente valide.”
“La vostra bambina ha una voglia, vero?”
Gelai, e Rob insieme a me. Lo sentii irrigidirsi sotto al mio tocco e divenimmo un unico pezzo di marmo.
“C… come?”
“Una piccola macchiolina scura, vicino all’ombelico. Proprio come questa.”
E nel dirlo estrasse dalla borsa una foto di una neonata. Era color seppia e un po’ stropicciata ma non avevo bisogno di colori e di una stiratura per riconoscere la mia bambina; ci sarei riuscita anche ad occhi chiusi.
E quella… quella era proprio lei. Il piccolo fagotto che avevo trovato quella fredda notte sulla spiaggia, la speranza per cui avevo lottato, il piccolo angelo che era entrato nella mia vita, con quella sua peculiare macchiolina scura che avevo sempre adorato e che ora diventava un banale segno di riconoscimento, un infame traditore.
A quel punto la mia gola già secca si prosciugò totalmente e, sebbene volessi, non ebbi la forza di dire nulla.
“La piccola si chiama Sophie, Sophie Charlotte Bennett ed è nata il 7 novembre 2012. Ecco, è scritto tutto sul diario. Potete tenerlo per un po’, se volete, e leggerlo.”
Non osai nemmeno allungare la mano per afferrare il quaderno di cuoio marrone che ci stava allungando, né lo fece Rob, così lo depose semplicemente sul piccolo tavolino che separava il nostri divano dal suo.
Calò un silenzio assordante e decisi di porre fine a tutto e andare al punto. L’ansia mi stava uccidendo e non potevo sopportare di vivere altri cinque minuti a chiedermi cosa quella donna volesse effettivamente da noi.
“Io… la ringrazio per averci cercati ed essersi accertata di tutto prima di venire qui ma… mi sfuggono i suoi scopi ad essere sincera. Si è presentata affermando che la bambina è sua ma noi abbiamo concluso le procedure di adozione già tre anni fa perciò…”
“Sì, lo so… Ma tra le cose di mia sorella ho trovato anche questo.”
Ancora una volta dovetti sopportare la vista di quella mano che allungava un qualcosa sotto i nostri occhi e mentre l’afferravo riuscivo solo a chiedermi quando sarebbe finita quella atroce tortura; e invece mi bastò un’occhiata su quel foglio per rendermi conto che era appena cominciata.
Era un testamento. Era un cazzo di testamento firmato, timbrato e controfirmato da un notaio, in data 3 dicembre 2012, in cui la suddetta Meredith dichiarava, in caso di morte o scomparsa, di lasciare il suo unico vero bene alla sorella, Donna Blake, che si sarebbe presa cura della bambina provvedendo ai suoi bisogni e perseguendo il suo bene e la sua felicità.
Se qualcuno mi avesse chiesto in quale momento della mia vita mi sono sentita morire, adesso avrei saputo rispondere senza esitazioni.
Rob strinse il foglio in un pugno e prese a respirare in modo molto irregolare.
“Sono passati anni ormai. Questo non può avere ancora validità dopo tutto quello che è successo e dopo tutto il tempo che è passato.”
“Lo pensavo anche io, ma come vi ho detto mi sono bene informata prima di venire da voi e, certo non è un caso comune, ma non sono da sottovalutare tutte le condizioni e le situazioni che si sono presentate per cui non si tratterebbe di un caso fortuito.”
“Mi dispiace se le rovino i piani, ma davvero pensa che le convenga iniziare una guerra civilista contro di noi?”
Rob mi sorprese, perché avrei detto le stesse cose se non mi avesse anticipato di pochi secondi.
“Mi sta forse minacciando?”
“Non mi permetterei mai, ma non ho di certo intenzione di abboccare all’amo al primo colpo. Contatteremo i nostri avvocati e andremo in fondo a questa storia.”
“Non chiedo altro. So che posso apparire come la cattiva di turno qui, e se avrò torto sarò la prima a fare un passo indietro, ma se c’è una possibilità di avere quello che mi spetta, combatterò fino alla fine.”
A quel punto scoppiai. “Quello che le spetta!? Ma crede di avere a che fare con un pezzo di terra, per caso!? È una bambina. Stiamo parlando di una bambina!”
“E non è sua.”
“È mia molto più di quanto potrebbe mai essere sua.”
Donna chinò il viso e assunse un’espressione di onesto rammarico. “Sentite, a me dispiace, davvero, e non era mia intenzione esprimermi in questo modo. Ma lei è l’unica famiglia che ho, l’ultima parte che mi è rimasta di mia sorella e lei voleva che l’avessi io…”
“Questo lo vedremo...” ringhiai tra i denti proprio mentre sentii i passi di Hope sulle scale e la sua vocina chiamarci già da lontano.
“Mammaaaaa!” urlò, entrando nel salone e saltellando fino a gettare le braccia alla mia vita. La strinsi d’istinto mentre lei alzavi il viso e lo posava sul mio petto “Mami mi sono scocciata di giocare. Quando mangiamo? Ho fameee.”
“Sì… sì… ora… Ora la mamma ti prepara qualcosa…”
“Sophie…”
Donna aveva riaperto bocca, per dire la cosa più sbagliata che potesse dire in quel momento. Alzai gli occhi per fulminarla ma lei non colse il mio sguardo, troppo presa a fissare Hope come se non credesse ai suoi occhi, come se fino ad allora non avesse ancora realizzato che la bambina esistesse davvero.
Probabilmente era davvero quello che stava pensando, dal momento in cui notai i suoi occhi farsi sempre più lucidi.
“Mamma, chi è Sophie…?” sussurrò Hope, nascondendo il viso dietro il mio braccio protettivo.
“Nessuno, tesoro.”
“E chi è quetta signora? Perché sta qui?”
Non ebbe mai risposta alla sua domanda perché Rob si alzò, improvvisamente, e la prese in braccio.
“Penso sia il caso che ora se ne vada, signorina Blake.”
Donna ci mise qualche secondo per elaborare quelle parole e distogliere da Hope quello sguardo così intrusivo e fastidioso.
“Ce… certo. Vi lascio il biglietto da visita del mio legale ma di sicuro sarà lui stesso a contattare il vostro. Ad ogni modo io sarò in città per una settimana, dopo di ché dovrò ripartire quindi spero che si riesca a trovare una soluzione, almeno temporanea, per allora.”
“La porta è da questa parte” rispose Rob, imperterrito e totalmente scortese e maleducato. Ma d’altronde, chi poteva dargli torto?
Io non ebbi la forza di muovere un muscolo; mi limitai a stare ferma sul posto e aspettare che quella donna uscisse di casa nostra.
“Sei bellissima, piccolina…” disse ad Hope e allungò una mano per carezzarle il viso ma lei si scansò totalmente nascondendo la testa nel collo di Rob e stringendo le braccine attorno a lui.
Fu il suo congedo definitivo.
“Papi, ma chi ela…?”
“Nessuno, amore mio. Su, andiamo a mangiare qualcosa. Va tutto bene.”
E se Hope non fosse stata solo un’innocente bimba di quattro anni, avrebbe capito facilmente che era una bugia dal modo in cui Rob la strinse a sé e la baciò.
Passammo tutta la giornata tra telefono, carte, internet e persino il codice civile, ma non avemmo le risposte che cercavamo e soprattutto non quelle che speravamo.
Era ancora tutto così incerto da dare il mal di testa solo a pensarci. Il caso era troppo particolare per essere discusso per telefono per cui prendemmo appuntamento con i nostri legali per l’indomani.
Hope intanto aveva capito che qualcosa non andava e, quando l’avevo messa a letto, si era gettata tra le mie braccia e aveva sussurrato: “Che succede, mami? Tu e papà avete litigato? Ti plego, non vi lassiate pelò! Ti plego!”
E se il mio cuore aveva smesso di battere quella mattina, ora si era proprio spezzato, in un milione di piccoli pezzi e mi chiesi se potesse esserci altro che poteva sopportare e come avrei fatto se… se…
“No, amore. No! Non piangere! Non ci lasciamo. Non ci lasceremo mai… Non ti lasceremo mai, okay?”
Lei annuì nell’incavo del mio collo e vi lasciò un dolcissimo bacio, mentre io pregavo solo di poter essere in grado di mantenere quella promessa.
Ci misi un po’ a calmarla del tutto, mi stesi accanto a lei per leggerle una storia ma solo quando le canticchiai qualcosa iniziò a chiudere gli occhi.
Avrei voluto essere come lei in quel momento; avrei voluto qualcuno che mi dicesse che sarebbe andato tutto bene e che non ci saremmo mai lasciati e avrei voluto avere quella ingenuità necessaria per crederci senza averne il minimo dubbio.
Restai per molto tempo a guardarla dormire, come non facevo da quando le pratiche di adozione non erano ancora ultimate e c’era sempre la paura che ci fosse qualche intoppo o qualche clausola sfavorevole all’ultimo minuto; come non facevo dall’ultima volta in cui avevo davvero temuto che potesse non essere mia e che me la portassero via.
Lasciai scivolare una lacrima che cadde, bagnando il suo viso. Lo carezzai con l’indice e la raccolsi, desiderosa di rimetterla al suo posto e piangerla ancora e ancora perché… non avevo la forza di piangere lacrime nuove. Avrei voluto che almeno nel pianto avessi una sicurezza, avrei voluto quell’unica, sola lacrima a scendere in continuazione, bloccata in quel frammento di tempo, senza andare avanti. Nascere, crescere, cadere, morire, rinascere…
Proprio quando chiusi gli occhi solo un’istante per desiderare che fosse tutto un incubo, sentii i passi di Rob sulla porta e lo guardai, scioccamente carica di aspettative, ma ottenni solo una scrollata di spalle e un viso preoccupato.
Nonostante tutto, venne a stendersi accanto a noi; la mia schiena contro il suo petto, una mano che stringeva la mia vita e le sue labbra che sussurravano al mio orecchio che sarebbe andato tutto bene e che non ci saremmo mai lasciati.
 
 
E ci avevo creduto, ci avevo creduto davvero che, in fondo, sarebbe andato tutto bene e che non ci saremmo mai lasciati. Ci avevo creduto dal primo momento e ancora ci credevo mentre guardavo Hope ancora addormentata accanto a me. Ci avevo creduto perché non potevo permettermi di pensarla diversamente, ma una piccola voce dentro di me, me lo aveva detto di non crederci troppo altrimenti mi sarei ritrovata vuota, e infatti era esattamente il modo in cui mi sentivo in quel momento: vuota. Ed Hope era ancora con me. Non potevo immaginare quello che avrei provato quando me l’avrebbero portata via.
Avevamo passato una settimana intera a parlare con gli avvocati ma non c’era verso di avviare un processo e chiuderlo prima di mesi. Era una situazione troppo complicata, che richiedeva verifiche e controlli precisi e studiati: un percorso troppo lungo; un percorso durante il quale, come stabilito dal mediatore, Hope sarebbe dovuta stare con la sua effettiva tutrice.
C’era qualcosa riguardo i tempi di scomparsa e morte presunta che non tornava con i tempi dell’adozione. Nonostante i genitori di Hope fossero stati dichiarati morti, nessuno sapeva della bambina per cui il caso poteva effettivamente rientrare nelle condizioni di ignoranza del fatto stesso per cause esterne.
Nello stato della California non c’erano precedenti del genere e i continui contatti con l’isola di Wight per verificare fatti e versioni rendevano tutto più difficile.
Intanto noi portavamo avanti la nostra causa e non ci saremmo arresi finché non avremmo avuto nuovamente la certezza che Hope era ormai nostra.
Era me che chiamava mamma, Rob che chiamava papà. Chiamava noi se aveva fame, sete, sonno. Se voleva giocare, se voleva che le raccontassimo una favola, se voleva un giocattolo, se voleva che le pettinassi i capelli… ogni cosa, ogni piccola cosa del suo universo girava attorno a noi e, per quanto cercassero di convincermi del contrario, io credevo fermamente che quattro anni è un’età abbastanza matura per ricordare un trauma come un allontanamento da quelli che sono i tuoi genitori.
Certo, ad Hope avevamo raccontato di come l’avevamo trovata; l’avevamo posta come una specie di favola di cui lei era la protagonista e ne era rimasta quasi estasiata. Ovviamente non poteva davvero rendersi conto di cosa volesse dire, non faceva mai domande sui suoi genitori perché eravamo noi. Solo noi.
Di certo non avrebbe mai creduto che un’ombra del suo passato sarebbe tornata a riprendersela. E nemmeno noi…
Le carezzai i capelli rossi e una guancia col dito proprio mentre apriva gli occhietti.
Era ancora stanca, si vedeva bene. Avevamo festeggiato il suo effettivo compleanno appena la sera prima, il giorno prima della sua partenza, ma non eravamo riusciti a spiegarle come e per quale motivo sarebbe dovuta andare via da noi per un po’.
Avevo preferito farlo poche ore prima, per evitare troppe domande, lacrime e spiegazioni che non avrei saputo dare.
“Ciao mamma…” salutò con uno sbadiglio.
“Ciao, amore mio…”
“Dov’è papi?”
“È giù a farti le frittelle.”
A quelle parole i suoi occhi si spalancarono e un sorriso enorme le dipinse il visto mentre metteva a sedersi in un secondo.
“Flittelleeeee! Che belloooo! Lo vado ad aiutareeee!”
“No, tesoro, aspetta!”
La fermai, perché proprio non potevo più rimandare, anche se non sapevo dove avrei trovato le forze e le parole.
La presi in braccio e me la sistemai sulle mia gambe. Presi un profondo respiro e cercai di parlarle nel modo più sereno possibile. “Amore ti ricordi la signora che è stata qui ieri per il tuo compleanno?”
Annuì. “Donna? Quella che ti chiama così?”
“Sì, lei.”
“Okay. Che ha fatto?”
“No… non ha fatto niente. Solo che…” dio, dammi la forza. “Ti ricordi quando io e papà ti abbiamo parlato della spiaggia, della barchetta e della tua vera mamma e del tuo vero papà…?”
“… quelli nella favola?”
“Sì, tesoro. Quelli nella favola. Però ora nella favola c’è anche Donna. Lei è la sorella della mamma che stava sulla barchetta con te… e devi andare a stare con lei per un po’…”
Hope assunse un’espressione confusa. “Pecché…?”
Ecco. “Beh… Perché io e papà dobbiamo fare un viaggio lungo lungo…”
“E non potto venire con voi anche io?”
“No, tesoro. Questo viaggio è troppo lungo e i bambini piccoli come te non possono venire. È noioso e ti stancheresti subito.”
“Non mi impotta. Vollio venire pure io!”
Scossi il capo. “Non puoi amore, però è davvero davvero importante che io e papà andiamo. Vedrai che starai bene e poi alla fine del viaggio passiamo a prenderti, okay?”
Non sembrava molto okay per lei, tanto che le si riempirono gli occhi di lacrime.
“Ma pel quanto tempo…?”
“Poco, coccinella. Un mesetto e poi torniamo a prenderti. Va bene così?”
Lei non rispose e una lacrima calda le scese sul viso mentre prendeva i miei capelli e li carezzava molo lentamente.
“Non potto ploprio venire?”
Questa volta non riuscii a rispondere; era decisamente troppo. La strinsi semplicemente a me e lei si accucciò sul mio petto e si lasciò cullare a lungo, finché Rob non entrò in camera e trovò quello che doveva essere il quadro più triste a cui potesse assistere in quella situazione di merda.
Serrò la mascella e gli bastò un mio cenno del capo per capire che glielo avevo detto.
Posò sul comodino la forchetta che aveva in mano e prese Hope da dietro per poi stringersela al petto.
“Cucciolina, papà ha fatto le frittelle! Andiamo a mangiarle, su!”
Hope scosse il capo. “Non le vollio.”
“Come non le vuoi?! Guarda che mi sono impegnato e suono venute più buone di sempre! Devi mangiarle per forza!”
“Non ho fame…”
“Aaaah! Non fare la sciocchina! Andiamo che ci mettiamo anche le gocce di cioccolata sopra!” disse ancora, cercando di tirarla su, prima di lasciare la stanza e lasciare me e le mie lacrime silenziose.
Come un automa, riposi in un borsone un po’ di roba di Hope che avevo preparato la notte prima e, quando scesi giù, Hope e Rob mangiavano frittelle come se nulla fosse, come se fosse solo un altro giorno della nostra famiglia, come se fosse tutto come prima, tutto un incubo, tutto dimenticato, tutto andato.
E l’attesa snervante che seguì la colazione fu la parte più terribile di tutto il teatrino. Era uno di quei momenti in cui sai che qualcosa sta per finire e vorresti solo fermare la tua vita nel momento adatto, un momento in cui si è ancora tutti insieme.
Ecco, avrei voluto fermare la mia vita a quella colazione di appena due ore prima, avrei voluto fermare tutto, avrei voluto non dover preparare Hope, lavarla e vestirla sapendo che non l’avrei fatto per troppo tempo, avrei voluto non doverle asciugare le lacrime ancora e ancora, avrei voluto non farla piangere mai, avrei voluto non spiegarle ancora ciò che stava succedendo con una scusa così futile che non reggeva col bisogno che avevo di tenerla con me per sempre, avrei voluto non sentire mai quel campanello, avrei voluto non doverla lasciar andare.
“Okay, tesoro. Ci siamo. Ricorda che è solo per poco tempo e che ci vediamo presto presto. E ti chiamiamo due volte alla settimana perché dove andiamo non c’è molta linea, però ti penseremo sempre, e saremo sempre con te.”
Presi una collanina dalle tasche dei jeans e gliela misi al collo. Era un semplicissimo ciondolo a forma di cuore con inciso Here sopra.
“Proprio qui…” premetti la mia mano sul ciondolo. “Sempre qui.”
Hope annuì col capo chino e tirò su con il naso prima di gettarmi le braccia al collo e stringermi come mai aveva fatto fino a quel momento.
Avrei voluto che passasse una vita intera prima di dovermi fare forza e scendere quelle scale con la mia bambina in braccio.
Il suo borsone era già all’ingresso, accanto a Donna che aspettava sulla porta insieme a Rob.
Non l’avevo mai visto più morto dentro come era stato in quei giorni, ma mi bastò un secondo per guardarlo e capire che non avevo ancora visto niente.
Ci venne incontro. “Vieni qui, cucciola…”
E Hope si buttò tra le sue braccia e iniziò a piangere, molto silenziosamente, come se sapesse davvero che non era un addio ma solo un arrivederci.
“Un mese. Avete plomesso…” disse tra un respiro mozzato e un altro.
“Un mese, tesoro. Un mese” promise ancora Rob e io non osai guardare Donna per vedere qualunque espressione avesse in viso di fronte a quella promessa. Non c’era ragione di prenderla in nessun modo visto che avevamo già stabilito che per nessun motivo al mondo avremmo rinunciato a un Natale con nostra figlia. Quella era la nostra festa, il nostro giorno e niente e nessuno avrebbe potuto tenerci separati.
Rob mise Hope a terra e io mi chinai insieme a loro per abbracciarla ancora.
E lei ancora si strinse a me, più forte di prima, come se sentisse come ogni abbraccio potesse essere l’ultimo, almeno per un po’.
Eppure fu lei a staccarsi per prima.
Mi carezzò una guancia con la manina e ci guardammo negli occhi per perderci insieme e non lasciarci più.
“Tu sei la sola vela mamma per me…”
Il mio cuore si spezzò, lo sentii andare in frantumi ma le sorrisi e ricambiai la carezza.
“Sì, tesoro. Lo sono…”
Ci abbracciammo per l’ennesima volta prima che Rob la baciasse ovunque e le mettesse tra le mani il suo coniglietto di pezza.
“Non dimenticare Mr Rabbit. Sai che non può stare senza di te.”
“Andiamo Mistel Labbit! Tanto tonniamo presto. Ciao Beal, ciao Bernie. Ci vediamo presto. Fate i blavi!” abbracciò i due cani che erano alti quasi quanto lei.
Misi una mano davanti la bocca per bloccare qualsiasi suono stesse per uscire e restai a guardarla mentre camminava verso Donna che la chiamava.
“Su, Sophie, o perdiamo l’aereo. Ci sei mai stata su un aereo? È bellissimo! Ti ho prenotato il posto accanto al finestrino così puoi vedere tutto e in borsa ho gli Oreo per il viaggio. So che ti piacciono molto, vero? Ho anche l’iPad con me, con tanti giochi sopra per passare il tempo. Tu lo sai usare? Io sono negata, magari mi insegni. Vedrai che starai bene, te lo prometto.”
Hope aveva già preso molti aerei, amava gli Oreo e sapeva usare un iPad abbastanza bene, ma non rispose a nessuna delle sue domande.
“Io mi chiamo Hope” fu tutto quello che disse prima di voltarsi a guardarci.
“Un mese… plomesso?” sussurrò sperando che Donna non la sentisse.
“Promesso…” sussurrai anche io e le lanciai un bacio.
Lei lo afferrò, come facevamo sempre, e me lo rimandò. Lo afferrai anche io e posai la mano sul cuore.
Lei strinse il ciondolo e Mr Rabbit e si voltò per l’ultima volta, perché non ci guardò più mentre percorreva il vialetto e saliva sul taxi.
Quella era stata l’ultima immagine che aveva voluto conservare di noi ed ero contenta perché, almeno per lei, il mio cuore era ancora intatto.
 
 
Inutile dire che quelli che seguirono furono i quarantacinque giorni più lunghi, lenti e pesanti della mia vita. il tempo sembrava non passare mai e vivevo praticamente in funzione delle telefonate settimanali con Hope che, puntualmente, ci chiedeva cosa stessimo facendo esattamente e quanto tempo ancora ci avremmo impiegato.
Sapere di essere lontana da lei ma di poterla raggiungere quando avrei voluto e non poterlo fare, rendeva tutto terribilmente frustrante. Inizialmente avevo anche pensato di trasferirci sull’isola così da poterla vedere; non importava tanto che lei vedesse noi, ma almeno avrei avuto la certezza visiva di come stesse. Rob ovviamente aveva bocciato l’idea ricordandomi le parole del mediatore sull’essere quanto più aperti e disponibili possibili durante la risoluzione definitiva della cosa. Mostrarci gentili e accondiscendenti a tutto ciò che era reputato sano e per il bene di Hope, non avrebbe fatto altro che metterci in luce davanti al giudice; c’era un unico particolare che però stonava in quella canzone mal accordata: il bene per Hope eravamo noi. Io lo sapevo, il mediatore lo sapeva, forse lo sapeva anche Donna eppure faceva di tutto per tenersi quella parte di vita che, in fondo, non le era mai appartenuta.
E più andavamo avanti con i giorni, più Hope era entusiasta del nostro ritorno, più mi rendevo conto che avrei dovuto dirle che non era sicuro che significasse che lei potesse tornare con noi. Inizialmente non lo avevo fatto perché speravo che le cose si risolvessero nel giro di un mese, poi non avevo semplicemente avuto il coraggio, ed ora ero lì. Sull’isola di Wight, sullo stesso suolo di mia figlia; avrei potuto girare per l’isola fino a trovarla e sperare di incontrarla per strada ma non potevo scombussolare i piani in quel modo. Eravamo attesi per il giorno dopo in modo da passare la vigilia di Natale e il giorno di Natale insieme, come avevamo sempre fatto, ma io non potevo non pensare a un albero di Natale che non era stato addobbato con noi, a vestitini rossi che non ero stata io a metterle, a calze che non erano state appese al camino.
C’era qualcosa di tremendamente sbagliato in tutto ciò; nulla aveva senso. Era semplicemente sbagliato.
Persa nei miei pensieri non mi ero nemmeno accorta di aver lasciato la veranda e aver preso a camminare per la spiaggia finché non avevo raggiunto quel posto che da cui io e Rob esprimevamo i nostri desideri da sempre.
Peccato che il cielo fosse ancora troppo chiaro; avrei tanto voluto vedere almeno una stella, anche se non fosse stata cadente, solo per sperare che Hope stesse bene. Non sarebbe dovuta cadere per me; poteva restarsene lì a vegliare sulla mia bambina e io non avrei mai voluto che cadesse.
Ero così catturata dalle immagini dei miei desideri da credere di stare sognando quando sentii l’inconfondibile vocina di Hope mormorare qualcosa che non riuscii a capire.
Forse stavo decisamente sognando, pensai; ma poi giunse forte e chiara, di nuovo.
“Ecco! È quetto! Ci siamooooo!”
E io mi voltai e dalla piccola altura di scogli su cui mi trovavo, la vidi, a metà spiaggia, la mia bambina che si faceva strada tra quei luoghi così familiari per lei. Doveva averli cercati tanto durante quel mese, pensai mentre mi soffermai a guardarla aspettando che alzasse gli occhi solo un secondo e si accorgesse di me.
Doveva farlo. Doveva alzare il capo e vedermi. Non potevo chiamarla, non potevo interferire, ma se era destino allora avrebbe alzato il viso e mi avrebbe vista.
E lo fece. Fu una frazione di secondi in cui sicuramente anche lei credette di stare sognando, ma poi ci guardammo meglio e ci riconoscemmo all’instante.
“MAMMAAAAA!” ripeté diverse volte mentre correva verso di me e solo il sentire di nuovo quel suono mi fece capire quanto mi fosse mancato davvero, quanta fosse stata enorme la mia paura di non sentirlo mai più.
Le corsi incontro a mia volta e la presi in braccio. La strinsi a me più forte che potevo e la baciai ovunque mentre lei continuava a chiamarmi.
“Lo sapevo che stavi qui! Pelò siete in ritaddo! Avevate detto un mese e invece sono passati più gionni!”
Non avrei mai creduto che se ne potesse accorgere o che portasse il conto ma era evidente che la lontananza non aveva giovato a nessuno, su nessun fronte.
“Hai ragione, amore. Scusaci!”
“Non fa niente! Tanto ola non ve ne andate più velo?”
Non risposi, e la baciai ancora.
“Mamma, dov’è papà?” mi disse all’orecchio.
“A casa, amore mio.”
“Lo vollio vedeleeee! Andiamo a casa! Dai, dai!”
Fu allora che mi resi conto che non eravamo inosservate, che non potevamo esserlo. A dire la verità l’avevo notato anche prima ma avevo deliberatamente ignorato gli occhi che avevamo addosso.
Sistemai Hope su un fianco e mi avvicinai a Donna, accompagnata da una donna di colore sulla quarantina.
“Kristen…” sussurrò Donna abbozzando un sorriso che sicuramente era un tentativo di celare la sua contrarietà.
“Donna…” risposi a tono.
“Siete venuti prima.”
“Un giorno di anticipo, non mi sembra molto.”
“No… sono solo… sorpresa…”
Annuii e avrei voluto chiedere come andassero le cose ma mi bloccai per due ragioni: prima di tutto mi resi conto che per nessun motivo mi avrebbe detto che le cose non andavano bene, soprattutto perché lo avevo chiesto mille volte durante le telefonate e lei non faceva che confermare che Hope si stesse abituando alla nuova vita, in secondo luogo non me lo permise e scansò ogni eventuale possibilità presentandomi la donna accanto a lei.
“Lei è Keira, una mia amica africana venuta qui a trovarmi e a passare le feste con me.”
“Keira è troppo blava, mamma! Sa fale i dolci più buoni del mondo, dopo di te pelò!”
Le sorrisi e chinai la mia fronte sulla sua guancia per qualche secondo.
“Dai, Hope, ora andiamo o si fredda la cena.”
Non mi lasciai sfuggire il suo chiamarla per nome e non Sophie. Pensai che dovesse aver rinunciato.
Quello che mi sorprese davvero fu la risposta di mia figlia.
“Ma non hai ancola nemmeno cucinato! E io non la mangio la robba tua ora che sta mamma qui!”
Va bene che sarei stata più che felice di portarmela a casa e cucinare per lei ma non era il modo di rispondere con cui era stata educata da me e Rob.
“Hope! Non si risponde così! Chiedi subito scusa!”
“Ma mamma, è velo!”
“Chiedi scusa.”
Sbuffò e nascose il viso nel mio collo. “Cuuuusa…” sbiascicò e io percepii anche un uffa da qualche parte.
“Però potto venie co te, velo?”
Perché continuava a chiedermi cosa a cui potevo rispondere solo di no?
“Domani, tesoro. Domani veniamo io e papà da te e passeremo tutta la giornata insieme e anche il giorno dopo! Però ora devi andare ancora con Donna…”
“Uffa, mami… Non ce la faccio più io…”
Poche parole che però sembrarono dettate davvero da una genuina stanchezza di tutta quella situazione, troppo strana per lei da poterla capire. Io avrei solo voluto portarla a casa con me, da Rob, e passare il Natale solo noi tre.
E invece fui costretta a separarmi da lei ancora una volta.
“Andiamo Tumaini. Keira prepara piatto che piace tanto.”
“Tu… Tumaini…?”
“Significa speranza in mia lingua.” Mi spiegò Keira mentre allungava le braccia verso Hope che, con le lacrime agli occhi, mi lasciò un bacetto sulla bocca prima di andare in braccio alla sua amica.
“Domani, mamma. Hai plomesso. Non rompele altre plomesse, okay?”
Con cuore in mano annuii e le mandai un bacio, e lei l’afferrò, portandosi anche il mio cuore.
 
 
Dopo il racconto del mio piacevole incontro, Rob era decisamente più fremente di me all’idea di rivedere Hope di nuovo e non potevo certo biasimarlo.
Vedere la nostra bambina saltargli addosso e chiamarlo papà come se fosse la parola più importante del mondo, bastò a rimettere insieme i pezzi perduti nel mio cuore.
Per un paio di giorni potevo cercare di concentrarmi sul fatto che eravamo insieme e non preoccuparmi di altro, anche se era maledettamente difficile.
Hope chiamava me o Rob per ogni minima cosa, proprio come se per lei nulla fosse cambiato in quel mese e mezzo: nel suo piccolo mondo andava tutto bene, noi eravamo tornati e tutto era tornato al posto giusto.
Mi resi sempre più conto che avrei dovuto dirle la verità, quella più comprensibile per lei, il prima possibile.
Nonostante il clima di tensione per la buffa situazione, la giornata passò in armonia e decisamente troppo velocemente.
Avevamo portato ad Hope una montagna di regali e lei si era limitata a dire che avremmo potuto scartarli a casa nostra così non ci sarebbe stato bisogno poi di spostarli da un posto all’altro; fu la prima di molte occasioni mancate per dirle quel briciolo di verità che mi ero ripromessa di confessarle.
La sera arrivò troppo presto e Hope si era accoccolata sul petto di Rob, pronta a dormire.
“Mami, mi fai il latte coi biscotti?”
“Certo, tesoro mio.”
Quando Donna rispose per me, a freddarla ci pensò la bambina stessa.
“No, ho detto mamma. Mami, me lo fai tu?”
“Sì, amore… Te lo faccio io…”
Le diedi un bacio sul nasino e uno veloce a Rob.
Mi concessi una rapida occhiata a Donna e, nonostante l’astio di mia figlia, sembrò così intenta a guardarla tra le braccia di Rob, così persa nei suoi pensieri che per un momento sperai quasi che stesse pensando di lasciar perdere tutto e lasciarla tornare a casa con noi.
Ma sapevo che non poteva essere così semplice; scossi il capo prima di dirigermi nella cucina, nonostante non sapessi dove fosse tutto.
Era assurdo. Dovevo preparare un semplice biberon di latte e biscotti a mia figlia e non sapevo dove mettere le mani.
Keira fu la mia salvezza. Aveva sentito Hope dall’altra stanza e mi aiutò volentieri.
“Lei deve essere brava mamma” disse mentre aspettavo che il latte si riscaldasse.
Le sorrisi ma non riuscii a rispondere a quella affermazione se non con un’altra domanda. “Lei come sta?”
E sperai che da quella donna dagli occhi scuri e grandi come il mare avrei auto una risposta sincera.
“Tumaini non felice qui. Sono da poco qui ma vedo che lei non felice. Lei contato i giorni su calendario, aspettava vicino telefono ogni lunedì e venerdì, ieri riso per la prima volta davvero quando ha visto lei.”
Lo sapevo.
“Io capisco Donna. Quando genitori abbandonano o muoiono tu pensi sempre come poteva essere se non era successo. Lei vuole dare Tumaini questa possibilità e non capisce che tutte vite sono diverse e che non puoi decidere vita di altri.”
La guardavo attentamente e mi sembrò di vederla commuoversi ma non potevo esserne certa. Per un secondo lasciai ogni pensiero concentrato su di me e fui trasportata dalla voglia di sapere la storia di quella donna, ma non era né il momento né il luogo.
“Io ho detto Donna: lascia stare bambina, lascia andare, tu non sei meglio per lei. Ma lei non ascolta. Pensa di fare torto a sorella e vuole fare… emm… mend… Non so come dice…”
“Ammenda?”
“Sì! Quello. Vuole perdono. Lei davvero ama Hope, lo vedi. Ma sappiamo che non è meglio per lei. Dottori dicono che bambina è piccola, che dimentica prima o poi. Io dico di no. Quei occhi non dimenticano e anche se memorie sfocano, cuore sta sempre fermo. E cuore di Tumaini è fermo. Batte solo con voi. E Donna non capisce e vuole solo tenerla tutta lei. Vuole chiamare avvocato e chiedere restrizione, non so. Non conosco vostra legge.”
Lei poteva non conoscere la legge ma io avevo ben capito quelle che erano le intenzioni di Donna e se lo cose si fossero messe male sarebbe riuscita nel suo intento con un parere di uno psicologo. Bastava semplicemente appurare che la bambina non dovesse più vedere me e Rob per lasciare che si dimenticasse di noi facilmente.
Se pensava di riuscirsi, però, aveva decisamente sbagliato bersaglio.
Fui sollevata dai miei pensieri da Keira stessa che mi passava il biberon ormai caldo.
“Tu sei brava mamma. Fai cosa giusta per tua figlia.”
Le sorrisi, la ringraziai di cuore e tornammo in salotto insieme.
Hope prese il suo biberon e si accucciò ancora di più tra le braccia di Rob.
“Amore, vuoi andare a nanna, che dici?” le sussurrò Rob e lei annuì.
“Solo se resti a raccontammi una stolia però!”
“Va bene, una sola però, okay?”
Annuì ancora. “Tanto domani tonniamo a casa e me ne racconti tutte le volte che voglio.”
Ecco, era giunto il momento e questa volta non potevamo più evitare.
Keira capì senza che ci fosse bisogno di parlare e trascinò Donna con sé in cucina.
“Tesoro, domani non torniamo a casa.”
Questa volta fu Rob a parlare e gliene fui grata perché io davvero non avrei sopportato altre conversazioni del genere.
“Pecchè…?” sussurrò Hope, allontanando il biberon dalla sua bocca.
“Vedi, devi stare qui un altro po’. Non lo abbiamo deciso noi e lo so che è difficile per te capirlo, ma devi farlo finché mamma e papà non aggiustano un po’ di cose…”
“Voi volete solo viaggiale senza di me! Aveva lagione Donna quando diceva che non mi volevate più!”
“Cosa? Tesoro, no! Non è così!”
Se avessi potuto avere quella stronza tra le mani in quel momento, l’avrei uccisa senza rimorsi.
“Sì, invece! Voi volete liberavvi di me!”
“No, amore, no…”
“No! Avevi detto che tonnavo con voi! State solo lompendo le plomesse! Siete dei bugiardi! Bugiardi!”
Gettò a terra il biberon e Mr. Rabbit e carica di rabbia scese dalle gambe di Rob e corse sopra.
Restammo in silenzio per diversi minuti, ognuno perso nei proprio pensieri, finché non ritenemmo opportuno andare da lei a controllare come stesse e a cercare di farle capire come stessero davvero le cose, ma alle scale non ci arrivammo mai, catturati nell’attenzione dalla voce di Donna proveniente dalla cucina.
Non riuscimmo a capire se stesse parlando da sola, o al telefono o con Keira dal momento in cui non vi era risposta a nessuna delle sue parole. Era un monologo interiore espresso ad alta voce.
“Non si può andare avanti così… Non si può. Lei non dimenticherà mai in questo modo, vedendoli ogni giorno.”
Tremai.
“Penso di non avere scelta… Anche se farà male… ho preso la mia decisione.”
E quelle parole furono come un fulmine che squarciava il cielo in due metà imperfette e mi lasciava nella metà sbagliata; la metà in cui non avrei più rivisto la mia bambina.
_______________________
Okay, precisiamo che non siamo né avvocati, né giudici, né esperte di legge e bla bla, quindi se le cose non vanno davvero così (cioè al 90% HAHAHA) concedeteci questa licenza letteraria. Insomma, io so che la morte presunta, in Italia, è dichiarata 10 anni dopo la scomparsa, (e se non sbaglio ora il termine si è abbassato anche a 5 anni) e solo 2 anni per fenomeni naturali, e bla bla... Ma la legge inglese e statunitense proprio non so, quindi ho preferito mettere in mezzo il processo di mediazione che comunque dovrebbe essere valido in una ipotetica situazione del genere... Spero di non aver scritto troppe stronzatine in ogni caso haha
Mh, penso non ci sia altro da chiarire su questo capitolo. 
Ah! La storia di Hope e tutto quello che c'è dietro. Credeteci: abbiamo passato ore e ore a telefono e su whatsapp a cercare di trovare qualcosa di meno complicato e improbabile ma ogni volta spuntava un "Però così non sarebbe possibile perchè..." ecc ecc... Quindi questa storia è venuta fuori davvero per miracolo, insomma... HAHAHA Boh, visto che è una FF, tutto può accadere, no? u.u Anche che ci sia un lieto fine... huahua 
Detto questo... Mi raccomando, mangiate tutte le schifezze della calza oggi perchè da domani DIETA! AHAHAHA ceeeerto... crediamoci.... 
Voglio proprio vedere quante partiranno con questo intento e abbandoneranno dopo pranzo AHAHAHA (io sarò una di queste, già lo so ahaha)
Vabbè, la smetto LOL 
Buona fortuna con i chili di troppo u.u 
E se non ne avete, andate amabilmente a quel paese, grazie u.u 
Un bacio, buona serata e buon rientro a scuola per chi deve rientrare! (noi no, muhauahuha) 
Che cattive stasera u.u hahaha  
A presto con l'ultimo capitolo!
Cloe&Fio xx


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Capitolo 5
*** Hope never leaves ***


HNL - cap 1

Weeee know. Scusate il ritardo. Ormai è diventata una costante 'sto ritardo. AHAHA
Vabbè, in ogni caso non sarà più un problema d'ora in poi.
Grazie mille per averci seguite in quest'ultima storia.
Ci sentiamo in fondo!

un bacio,
Cloe&Fio



 
Pov Kristen
“No.”
Non poteva farlo davvero. Donna non poteva pensare davvero che separare una bambina dai suoi genitori fosse la cosa migliore per tutti.
Per tutti?
Non era la cosa migliore per nessuno.
Condannava tutti noi ad una vita piena solo di sofferenza e dolore. Se non pensava a me e a Rob avrebbe potuto almeno pensare a Hope. Una bimba di quattro anni non avrebbe mai potuto capire il motivo per cui i suoi genitori l’avevano abbandonata con una sconosciuta! Si sarebbe sentita tradita per tutta la sua intera esistenza e la cosa l’avrebbe distrutta.
L’avrebbe cambiata per sempre.
“No” la voce mi si spezzò in gola ma, anche se rotta, conteneva una determinazione che non avevo mai avuto in tutta la mia vita. “Non possiamo lasciarglielo fare. No. Costi quel che costi.”
Alzai il viso e i miei occhi incrociarono quelli di Rob; c’era stato un tempo in cui lui era stata la persona razionale, un tempo in cui io stavo per fare una follia e lui mi aveva fermato in tempo. E col senno di poi ero stata la prima ad ammettere che prendere una bambina trovata su una spiaggia non era un mio diritto; non era un diritto di nessuno al mondo.
Poi, però, quella bambina era diventata la mia bambina. Avevamo lottato per averla, avevamo fatto tutto quello che potevamo, l’avevamo curata ed amata.
E nel mio cuore sapevo… sapevo che se lasciarla a Donna fosse stata la scelta migliore, allora lo avrei fatto. A costo di morire di dolore, lo avrei fatto.
Ma questa… questa non era la cosa giusta. Come poteva esserlo?
Donna non era la sua famiglia. Il sangue non ti rendeva tale, non faceva sì che un legame fatale si creasse all’improvviso.
Io, Rob e Hope… noi tre insieme eravamo una famiglia.
Per cui avrei lottato, anche se fosse stata l’ultima cosa che avessi fatto.
Gli occhi di Rob rispecchiavano la mia stessa decisione. Non era più l’uomo razionale che conoscevo. Ora era un padre che, come me, rivoleva la sua bambina nel luogo in cui apparteneva.
Mi afferrò la mano e in modo combattivo mi trascinò in cucina.
Immediatamente Donna si immobilizzò, le mani ancora strette al bordo del tavolo com’erano state prima che facessimo irruzione. Come avevo pensato, in cucina non c’era nessuno eccetto lei.
Ci fissammo per un interminabile istante; sembrava stanca e triste ma negli occhi aveva anche un’aria decisa e determinata. L’aria di qualcuno che aveva preso una decisione irremovibile.
“Dobbiamo parlare.”
Quelle due parole furono tutto ciò che disse e bastarono per farmi provare una rabbia che non avevo mai sentito prima dentro di me. Per la prima volta nella mia vita seppi esattamente cosa provava una persona quando voleva fare fisicamente male ad un’altra, quando era così disperata che nessuna azione poteva definirsi non accettabile.
“Abbiamo sentito quello che stavi dicendo. Il discorsetto che ti stavi preparando” Rob aveva una voce carica di un odio che non gli avevo mai sentito.  “E davvero non ho idea di come tu possa anche solo pensare di farlo. Come puoi? Sei la persona più orribile che io abbia mai conosciuto.”
“Come ti permetti tu?” sbottò lei. Il volto una maschera di disprezzo “Tu non mi conosci. Non sai niente di quello che ho passato negli ultimi cinque anni della mia vita! Ho provato più dolore di voi due messi assieme, ho sofferto, mi sono ritrovata sola e...”
Una singola lacrima, non seppi se di rabbia o sofferenza, le scivolò lungo il viso.
Le parole mi uscirono senza che potessi fermarle o anche solo pensarle.
“Se hai sofferto così tanto, come puoi, adesso, infliggere tanta sofferenza tu stessa ad altre persone? Se sai che cosa vuol dire perdere la persona che ami di più al mondo perché tu lo stai facendo a noi?”
Deglutii le emozioni che tentavano di sopraffarmi. “Perché è esattamente quello che stai facendo. Dal primo momento in cui l’ho presa in braccio su quella spiaggia. Lo sai come l’ho trovata? Era bagnata, infreddolita, febbricitante e per un orrendo momento ho creduto che magari fosse perfino morta. Ma non lo era. Lei era la cosa più perfetta che avessi mai visto. Lei era un miracolo, l’ho sempre pensato e lo penso ancora. Siamo una famiglia perché eravamo destinati ad esserlo. Ma non lo capisci?”
Mi sarei aspettata una risposta piccata, una sceneggiata, qualunque cosa tranne la singola sillaba che le uscì dalle labbra.
“Sì.”
“Come?” Rob sembrava più scioccato di me.
“Sì, lo capisco” rispose piano come se ogni parola le costasse un dolore incommensurabile. “Ed è per questo che la decisione che ho preso è che… che lei starà meglio a casa sua.  E casa sua siete voi.”
Rob mi afferrò la mano. Tremava, o forse a tremare ero io. Non lo sapevo, ma sapevo che le sue parole erano state come una bomba su un terreno totalmente impreparato a riceverle.
“Ma hai detto… prima stavi dicendo che avevi preso una decisione” balbettai “Hai detto che...”
“E la mia decisione è che lei deve stare con voi” mormorò, affranta.
Le sue guance erano rigate di lacrime che non sembrava in grado di contenere e, anche se il mio cuore sembrava svolazzarmi nel petto per la gioia, non potei fare a meno di pormi una fondamentale domanda.
Perché?
Perché, se aveva la legge dalla sua parte, ci stava lasciando Hope?
Si era forse stufata? Aveva capito che crescere una figlia non era una passeggiata e che non ce l’avrebbe fatta? Ma se questi erano i motivi allora perché era così devastata?
“Perché?” Rob mi battè sul tempo a parlare.
Lo sguardo di Donna alternò me e Rob prima di posarsi su un punto fuori dalla finestra al suo fianco che dava sull’oscurità del giardino.
“Perché lei non è Meredith” sussurrò piano “Ho passato gli ultimi anni della mia vita a fingere di non essere sola. A viaggiare in capo al mondo cercando di aiutare gli altri nel disperato tentativo di trovare qualcuno, di trovare un posto a cui appartenere. O che almeno mi ricordasse il modo in cui appartenevo a mia sorella. Ma non ci sono mai riuscita, finché...”
“Finchè non è arrivata Hope” conclusi per lei.
Donna annuì con uno scatto del capo. “Mi sembrò un miracolo, quello che stavo cercando. Un ultimo legame con mia sorella. Una persona che ci avrebbe legate per sempre ancora una volta. Avrei amato quella bambina, l’avrei trattata come mia ma più la vedo con voi più capisco che anche se io appartengo a lei, forse… forse lei non appartiene a me. Lei non è Meredith. E non è neanche Sophie. Lei è Hope e la sua casa siete voi.”
Si pulì il viso dalle lacrime residue.
“Perciò firmerò tutto quello che devo e poi penso che potrete portarla a casa con voi. Dovreste andare a darle la bella notizia… penso sia di sopra.”
Rob non perse tempo a correre su per le scale. Un soffio d’aria ed era sparito dal mio fianco.
Feci per seguirlo ma quando i miei occhi si posarono sul viso distrutto di Donna sentii una strana fitta di compassione che non avrei voluto provare alla bocca dello stomaco.
“Per quello che vale…”
“No” mi bloccò con un gesto della mano “Non essere gentile con me adesso o penso che crollerò in un milione di pezzi. Per cui.. .no, non dire niente.”
Annuii solo ma non potei fermarmi da aggiungere qualcosa che avevo pensato sin dal primo istante in cui avevo preso Hope tra le braccia, una neonata portata dal mare.
“Non so se credo in Dio o no. Ma sappi che non credo neppure nelle coincidenze e… e sono sicura che sia stato qualcuno a mandarla da me. Forse Meredith, chissà? E giuro che la fiducia di chiunque sia stato ad avermi mandato Hope, non è stata riposta in vano.”
Non aspettai una risposta che sapevo non sarebbe arrivata. Invece corsi su per le scale e mi bloccai accanto al corpo di Rob, fermo in piedi davanti alla porta della camera di Hope.
Una camera in cui non c’era traccia di mia figlia.
 
 
“E’ lì?”
Quasi strillai dentro l’apparecchio, il cuore che mi batteva a mille e il respiro affannato. Io e Rob ci eravamo divisi per cercarla mentre Donna era rimasta a casa nell’eventualità che Hope tornasse lì o che qualcuno la trovasse e ci telefonasse.
Ma fino ad ora niente.
Erano passate due ore da quando era sparita dalla casa di Donna. Mezzanotte si avvicinava inesorabilmente, i minuti scorrevano pesanti come piombo dentro di me e mille immagini mi bombardavano la mente facendomi impazzire.
Fuori faceva freddo, era buio, era tardi e lei era sola ed era… era così piccola. Le sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa e le eventualità erano alte; e se fosse scivolata? Se fosse andata in spiaggia e fosse…
Un suono strozzato mi uscì dalla gola senza che potessi trattenerlo. Per un minuscolo istante sperai, sperai con tutto il mio cuore che Rob l’avesse trovata ma il suo respiro sconsolato dall’altra parte del telefono distrusse ogni speranza.
“Qui a casa non c’è” mormorò “L’ho cercata dappertutto, ho setacciato tutte le stradine vicino, ho parlato con i vicini. Niente.”
“Nemmeno io” gemetti “Sono venuta in spiaggia, ho chiesto in giro ma sembra che nessuno l’abbia vista. Ma com’è possibile, Rob? È un’isola minuscola in cui abitano quattro pensionati! Insomma, nessuno si è preso la briga di porsi qualche domanda nel vedere una bimba in giro da sola?”
Rob rimase silenzioso per due lunghi secondi e quando parlò sembrò più sconsolato di me.
“Continuavo a pensare che sarebbe venuta qui a casa. È il solo posto in cui sapeva arrivare a piedi. Il posto in cui siamo stati felici tante volte. Non riesco a pensare a nessun altro posto importante o speciale o…”
Tutto a un tratto mi immobilizzai. “Cosa hai detto?”
“Quando?”
“Adesso. Un secondo fa, cosa hai detto?”
“Che non riesco a pensare a un altro posto speciale o…”
“Il posto speciale, Rob!” esclamai, iniziando a correre ancora prima di accorgermi che lo stavo razionalmente facendo “Il nostro scoglio, il nostro posto speciale! Gliene abbiamo parlato, l’abbiamo portata lì e ricordi che cosa le abbiamo detto?”
La risposta di Rob aveva un tono speranzoso per la prima volta da ore.
“Le abbiamo detto che poteva diventare anche il suo posto speciale! Che se si fosse sentita triste o sola poteva sempre venire lì e guardare il cielo!”
“Esatto!”
“Sono a cinque minuti da lì. Faccio una corsa subito.”
Riagganciò senza darmi il tempo di rispondere e, esattamente come stava facendo Rob a qualche chilometro da lì, anche io mi misi a correre.
E come in un film mi sembrò di essere catapultata indietro a quella notte di cinque anni prima in cui la mia vita era stata sconvolta inevitabilmente. Ma, al contrario di quella notte in cui la mia disperazione era dovuta al non avere più nulla da perdere, ora avevo tutto da perdere. Proprio adesso che l’incubo di vedermela strappare via dalle braccia era sparito non potevo neppure tollerare l’idea che le capitasse qualcosa. Corsi e, per la prima volta da mesi, pregai; pregai perché fosse al sicuro, perché nessuno le avesse fatto del male e, soprattutto, giurai che se avessi potuto stringerla di nuovo a me non l’avrei mai più abbandonata.
Mai più…
Quando raggiunsi il punto che dalla sabbia permetteva di arrampicarsi sugli scogli avevo il fiato spezzato e i polmoni doloranti a causa della fatica e dell’aria gelida che mi era penetrata fin dentro le ossa. L’aria salmastra arrivava dal mare poco distante portando con sé anche un umidità fortissima.
E Hope non aveva neppure preso una giacca…
Col terrore nel cuore alzai lo sguardo e per un orribile istante vidi solo la forma accucciata di Rob che sembrava seduto sconsolato in cima allo scoglio.
Non l’aveva trovata. Non era nemmeno lì. Non era lì.
Poi, però, si spostò una frazione di centimetro, quel tanto per farmi capire che stava tenendo qualcosa fra le braccia.
O meglio, qualcuno.
Spinta da una forza che neppure sapevo di avere, corsi verso di loro e solo quando sentii il loro calore contro il mio corpo freddo seppi che davvero era finita. Tutto il dolore, tutta la sofferenza dei mesi passati non avrebbero più potuto farci nulla.
Mi sfilai il cappotto e lo avvolsi attorno a Hope nel tentativo di scaldarla.
“Non piangele mamma!” esclamò lei, sembrando di nuovo la mia bambina e non più la creaturina tradita che mi aveva urlato contro in casa, ferita e arrabbiata “Papà dice che posso stale pre sempresemprissimo con voi adesso!”
Ebbi solo la forza di annuire aggrappandomi ancora di più a lei. Sentii le labbra di Rob posarmi un bacio leggero sulla fronte.
“E’ finita. È tutto finito”
Ancora una volta i suoi pensieri sembravano essere perfettamente in sincrono con i miei, le nostre emozioni una cosa sola.
“Guadda mami, una stella cadente!”
Hope puntò il dito verso il cielo e serrò gli occhi in modo strettissimo, facendomi capire che aveva appena espresso il suo desiderio.
“Mamma tu lo hai esplesso i desidelio?”
Scossi il capo. “Sì. E sai, penso che questo desiderio si avvererà proprio.”
“E come lo sai?”
Sorrisi a Rob e seppi che lui stava pensando alla stessa cosa.
Perché è un desiderio che vale triplo.
Perché ero certa che tutti e tre avessimo desiderato la stessa cosa.
Restare insieme, per sempre.
Accarezzai la guancia morbida di Hope, così uguale e così diversa dalla bambina che il destino mi aveva posato davanti in modo inaspettato.
“Perché ho fede. Perché ho Speranza.” risposi. “Perché neppure per un minuto ho smesso di credere”
Presi un lungo respiro di aria pulita.
“Perché la speranza non ti lascia mai se ci credi davvero.”
E lì, stretta alla persona più importante che avessi mai amato, seppi che era vero.
Ed era proprio il caso di dirlo.
Hope never leaves.
31 Dicembre 2021
 
 
“Toooom, passa il sale!”
“E tu la birra!”
“Ma chi ha messo questa canzone?”
“Mammaaaa, ancolaaaaa!”
“Avete già chiamato mamma e papà?”
“Il tacchino era davvero delizioso, Kristen!”
Le voci nella sala da pranzo continuavano ad affollarsi l’una sull’altra, come sempre in fondo. Si sarebbe potuto pensare che dopo anni in cui avevamo tenuto la cena di fine anno a casa nostra, sull’isola di Wight, mi fossi abituata al caos continuo e frenetico che aleggiava in casa già dalle sette di sera e, in alcuni casi, dal giorno prima. Invece no.
Ogni anno era sempre un qualcosa che mi stupiva e mi travolgeva come un’onda riportandomi, per un momento, indietro al tempo in cui non avrei mai creduto possibile di essere così felice; un tempo in cui avevo quasi perso ogni speranza.
Il periodo di Natale era sempre stato speciale, in qualche modo.
Da anni ormai non aveva fatto altro che portare speranza e buone notizie: sarebbe stato ridicolo negare che fosse il periodo dell’anno che preferivo.
E ogni anno mi rendevo conto sempre di più che lo adoravo: adoravo il casino, adoravo le urla, adoravo avere bambini che correvano per casa. Adoravo quella ventata di vita assoluta che si abbatteva su noi e sulla casa durante le feste.
Eppure, per quanto amassi tutto ciò che comportava, non potevo fare a meno di allontanarmi e ritagliarmi un piccolo, anche minuscolo, momento per me ogni volta.
Era una specie di rito ormai. Dovevo semplicemente trovarmi in una stanza da sola per realizzare e ringraziare di quello che avevo avuto dalla vita.
Quest’anno mi ero ritrovata in cucina senza nemmeno rifletterci. Ero semplicemente entrata per prendere tovaglioli puliti e invece mi ero trovata a fissare la luna, incantata.
E i soliti pensieri si fecero presto largo in me; erano sempre lì, in effetti, ma nessun periodo mi portava a rifletterci quanto questo periodo preciso. Non potevo farci nulla.
Semplicemente non riuscivo a non pensare a quello che era stata e a quanto il destino, che un tempo sembrava prendersi beffa di noi, avesse poi deciso di voltarsi di nuovo e non darci più le spalle.
Ero davvero fortunata, pensai nel momento esatto in cui sentii due braccia avvolgermi la vita da dietro.
Non ebbi, ovviamente, bisogno di guardare per sapere chi fosse. E non necessariamente perché poteva essere solo Rob ad abbracciarmi, ma perché solo lui era capace di abbracciarmi così, riuscendo a farmi sentire nel posto più sicuro al mondo in un solo secondo.
Chiusi gli occhi e poggiai il mio capo al suo che si era chinato per baciare l’incavo del mio collo.
Non mi chiese a cosa pensassi. Non me lo aveva mai chiesto sebbene quello fosse un rito anche per lui: vedermi assorta nei miei pensieri, lasciarmi due minuti da sola prima di venire a riportarmi dolcemente alla realtà.
“Donna è pronta” disse lui, dopo qualche minuto.
E io annuii, quasi emozionata. “Credi che le piacerà?”
Lui non sembrò del tutto sicuro mentre rispondeva. “Non so. Forse non lo capirà ancora bene, ma un giorno lo farà. È giusto che sappia da dove viene…”
Annuii ancora e mi voltai per dargli un bacio a fior di labbra prima di abbracciarmi stretta a lui.
La sala era immersa nel caos più assoluto. Fortunatamente era abbastanza grande da ospitare un tavolo per venti persone, un camino, e un albero di Natale; ma niente la rendeva piena quanto i bambini.
Le bambine ballavano attorno all’albero di Natale, mentre i maschi giocavano a rincorrersi per tutta la casa con le nuove pistole giocattolo che avevano ricevuto per Natale.
A volte perdevo anche il conto di quanti ne fossero.
Tom si era così impuntato sull’idea di avere un maschio dopo Marlowe, che nemmeno la nascita di Jamie lo fermò dal tentare un’altra volta. La terza fu quella buona, grazie al cielo perché non volevo immaginare quante femmine avrebbe avuto intenzione di lasciar sfornare a Sienna prima di avere un Daniel.
Vic e Mark, da canto loro invece, si erano trovati con due maschi in un giro solo e la terza era stata semplicemente inaspettata.
Lizzie invece ci era andata con molta calma e aveva realizzato i suoi piano perfettamente. Prima un maschio e poi una femmina.
Il tutto per un totale di dieci bambini, tra i nove anni e i sei mesi, che urlavano, correvano, ballavano, scherzavano, giocavano e sì, magari a volte diventava leggermente pesante averne tanti insieme in una volta sola, ma non avrei scambiato posto con nessuno e per nulla al mondo.
Quando ritornammo in sala da pranzo quasi nessuno badò a noi, tranne Hope che ballava con Sophie su una vecchissima canzone dei The Lumineers che la radio stava riproponendo da giorni, tra i successi del decennio precedente.
Ci guardò non appena entrammo, come se i nostri occhi fossero magneti e non potessero fare a meno di attrarsi a meno di 100 metri gli uni dagli altri.
Ci regalò un sorriso entusiasta e io colsi l’occasione per ricambiare e farle segno con la mano di raggiungerci.
Non ci pensò due volte a correre da noi, seguita a ruota da Sophie che non perdeva occasione di fare tutto ciò che faceva la sorella, sebbene non con la stessa velocità.
Hope si gettò tre le braccia di Rob mentre io presi Sophie al volo e le schioccai un sonoro bacio sulla guancia.
Andammo in salone e ci sedemmo sui divani.
“Che succede?” chiese Hope, quasi preoccupata, quando vide Donna appoggiarsi allo stipite della porta che separava il salone dalla sala da pranzo.
Sebbene avesse imparato a volerle bene, credo che ancora covasse una qualche forma di risentimento nei suoi confronti, o forse era solo paura che un giorno la portasse via di nuovo.
“Niente, tesoro. Va tutto bene” la tranquillizzò subito Rob.
“Donna è qui per darti una cosa. Un regalo.”
“Davvero? Ma Natale è passato.”
Sì, Natale era passato ma lei non era riuscita a passarlo con noi per cui il suo regalo aveva dovuto aspettare un po’.
“Lo so” aggiunse Donna, unendosi a noi sul divano e reggendo un pacchetto tra le mani. “Ma volevo dartelo comunque. Spero che ti piacerà e ti aiuterà a capire meglio la tua vita quando sarai più grande.”
Era chiaro che Hope fosse più che confusa dalle parole di Donna, ed era totalmente normale e comprensibile.
Non a caso, non aprì subito il regalo, ma lo tenne tra le mani per una manciata di secondi, intatto, aspettando probabilmente che qualcuno di noi le spiegasse qualcosa o che la tranquillizzasse.
Quando capì che nessuno avrebbe detto niente, le feci un cenno con il capo per invogliarla.
Strinse un labbro tra i denti – un’abitudine che aveva decisamente preso da me – e si fece coraggio. Sembrava quasi spaventata all’idea di ciò che ne sarebbe uscito, per cui sembrò quasi sollevata e possibilmente più confusa di prima quando si trovò un diario di pelle tra le mani.
Lo ispezionò per bene prima di commentare. “Ah… wow. Grazie…”
Non sfuggì a nessuno la leggera ironia della sua voce e io non potei trattenere un sorriso prima di renderle le cose più facili. Passai Sophie nelle braccia di Rob e avvicinai Hope a me, facendo in modo che si incastrasse tre le mie gambe.
“Questo diario apparteneva a tua madre” sussurrai, con voce più grave di quanto mi aspettassi da me stessa. Hope alzò lo sguardo di scatto e mi sembrò di vederci un lampo di rabbia o rancore o… non seppi bene come definirlo, ma riuscivo a capirlo.
Non aveva più voluto sentire quella storia dopo quel Natale di due anni prima. Una sera aveva semplicemente detto “Basta con questa storia. Non mi piace” e noi avevamo capito che aveva capito cosa significasse effettivamente.
Non avevamo forzato la mano, soprattutto dato l’episodio che avevamo da poco vissuto, né io avevo una particolare voglia di ricordare a lei e a me stessa che non ero la sua madre biologica, ma sapevo che un giorno sarebbe arrivato il momento in cui sia io che lei avremmo dovuto affrontare il passato, e accettarlo finalmente.
“Mia madre è qui. Non ho altre madri” commentò con un tono saggio che non si addiceva per nulla ai suoi sei anni.
“Sì, invece. Ne hai un’altra in cielo, ed è giusto che tu la conosca e sappia di lei… e di tuo padre.”
“Mamma…”
“Sì, amore. Io sono la tua mamma. Lo sarò sempre, lo sai. E questa cosa fa male anche a me. Lo so come ti senti, okay? Lo so… Ma la vita non è solo presente e futuro, e tu devi sapere da dove vieni e quale è stato il passato che ti ha portata a noi.”
E se per un momento pensai che non avrebbe mai accettato quella realtà, un istante dopo una lacrima calda le calò sul viso per incontrare la mia mano e capii che lei aveva capito, già da molto tempo. Lei aveva capito tutto e la faceva stare male.
E non era altro che un ulteriore motivo per affrontare questa cosa, insieme.
“E poi, amore, guarda che non è mica male avere due mamme e due papà. Loro ti amavano proprio come ti amiamo noi, ti proteggono da lassù e quando vuoi stare sola col cielo puoi parlargli quanto vuoi” tentò Rob.
“Ma non li conosco nemmeno…” mormorò con la voce più spezzata che le avessi mai sentito.
“Ed è per questo che abbiamo deciso che fosse giusto che questo lo avessi tu.”
Continuò Donna, toccando il diario tra le mani di Hope.
La mia bambina non sembrò totalmente convinta, eppure annuì e aprì la prima pagina del diario.
Donna aveva fatto un ottimo lavoro, ricercando vecchie fotografie e allegandole alle pagine con delle graffette nel caso in cui avessero avuto un qualche collegamento con quanto vi era scritto.
“Ci metterò un po’ a leggerlo tutto…” commentò Hope, stringendo gli occhi e cercando di decifrare la prima pagina di scrittura.
“Tranquilla, puoi farlo quando vuoi. E io posso aiutarti se vuoi” si offrì Donna.
“Grazie…” rispose Hope, gentile, ma in cuor mio sapevo che era una cosa che avrebbe dovuto fare da sola, magari anche più in là nel tempo.
Al momento avrebbe potuto limitarsi a guardare le foto se le risultava più facile da affrontare. Difatti era quello che stava facendo, passando tra decina di foto tra una pagina e l’altra – foto della vita di Meredith – quando qualcosa catturò la sua attenzione particolarmente.
“Disneyland Paris…” sussurrò Hope e io allungai il collo per vedere meglio la foto che ritraeva una Meredith e una Donna, bambine, strette tra Minnie e Topolino, con Disneyland come sfondo.
Conoscevo bene quella foto e quello che avrebbe significato per Hope nel giro di qualche minuto.
“Oh, questa è una delle mie preferite!” osservò Donna mentre Hope sfiorava il viso di quella donna, probabilmente rendendosi conto di quanto le somigliasse. Effettivamente Hope era la copia di Meredith. Capelli rossi, occhi blu, labbra sottili, lentiggini. Tutto di lei era ricordava Meredith e viceversa e, sebbene la cosa mi facesse un po’ male, guardai Donna per rendermi conto del dolore che lei stessa doveva provare nel vedere tale somiglianza.
“Meredith aveva pregato per quel viaggio e lo aveva amato, anche se si può dire che fosse un po’ cresciuta. Non lo era, in realtà. È stata una bambina per molto tempo. Disneyland Paris era uno dei suoi desideri. Il primo posto che le veniva in mente quando le chiedevano dove volesse essere…”
“Anche il mio…” sussurrò Hope, sorridendo sinceramente per la prima volta da quando aveva preso il diario.
Io e Rob ci scambiammo un’occhiata, sorridendo. “Davvero, tesoro?” disse lui, fingendo di non sapere quanto nostra figlia ci avesse fatto più volte presente il suo desiderio.
“Siiii, lo sai, papà! Te lo dico sempre che voglio andarci e sei sempre troppo impegnato!”
“Lo so, amore. Ma ti prometto che ci andremo presto.”
“Davvero? Me lo prometti? Quanto presto?”
“Tipo, domani? Va bene?”
Hope la prese come uno scherzo, ovviamente, e stette a quello che credeva fosse un gioco.
“Va bene, andiamo a preparare la valigia!” disse e fece per andare su per le scale, ma si bloccò quando mi vide alzarmi e darle fin troppa corda per essere un gioco.
“Dai, andiamo!”
Si pietrificò e mi guardò incredula.
“Andiamo?”
“Sì, andiamo! Domani. Partiamo nel pomeriggio!”
“State scherzando?”
“No, non stiamo scherzando!” disse Rob e bastò perché Hope scoppiasse in lacrime lentamente.
Io, Donna e Rob ci scambiammo uno sguardo incredulo, divertito e quasi leggermente colpevole, sebbene fossero lacrime di felicità.
Mi si sciolse il cuore e la strinsi a me.
“Tesoro, perché stai piangendo?” le chiesi, senza riuscire a trattenere un sorriso infinito.
“Per… perché… Perché sono felice…” riuscì a dire tra un singhiozzo e un altro e ci vollero un paio di minuti per farla calmare.
Il paradosso per eccellenza: esaudire il suo desiderio e farla piangere.
“Dai! Basta lacrime! Fammi un balletto felice!”
Si staccò e ci guardò per un paio di secondi prima di abbozzare una danza sconnessa, e tutti scoppiammo a ridere. “Ora calmati e vai a giocare, su!”
“Okay! Grazie grazie grazie! Vi voglio bene!”
“Anche noi te ne vogliamo, amore!”
Senza preavviso, prese Sophie dalle braccia di Rob. “Hai sentito, Sophie?? Andiamo a Disneyland domaniiii!” saltellò un po’ sul posto facendo ridere la sorellina, prima di metterla a terra e ballare con lei. Poi la lasciò e saltellò sul posto da sola.
Era letteralmente impazzita. Prese il diario e corse via per poi tornare trenta secondi dopo e posarmelo sulle ginocchia. “Me lo conservi tu, mami? Poi lo leggiamo insieme!”
Annuii e le carezzai i capelli lisci prima di lasciarla andare.
Sophie, nel suo vestitino bianco e rosso, aveva osservato tutta la scena seduta sul tappeto per terra, e stavolta le era stato impossibile stare dietro alla sorella; così si era limitata a guardarla e sorridere, divertita dalla sua euforia, prima di alzarsi, camminare verso di noi e buttarsi sulle mie gambe.
La presi senza nessuno sforzo e Rob, accanto a me, le fece una pernacchio sul collo, facendola ridere come sempre.
Poche risate riuscivano a riscaldarmi il cuore, ma la sua lo faceva in un modo totale e particolare. Probabilmente perché era il motivo per cui ancora credevo nei miracoli.
 
 
Avevo passato la notte intera a rigirarmi nel letto, cercando di trovare un giusto equilibrio tra la miriade di sensazioni che stavano invadendo il mio corpo: paura, terrore, emozione, confusione, amore, gioia, incredulità…
Ma forse quella che aveva la meglio era proprio la paura.
Con il caos del mese precedente, mi ero accorta solo a metà Gennaio che il mio ciclo aveva saltato il mese di Dicembre. Non avevo detto nulla a Rob per non preoccuparlo inutilmente e perché mi ero convinta che probabilmente era la mia stessa condizione ad aver influenzato il ciclo. Tuttavia quando anche Gennaio era passato senza una minuscola macchia rossa, decisi che era il caso di fissare un appuntamento con la ginecologa.
Inutile dire che ormai avevo persino smesso di comprare test di gravidanza tanta era la delusione di vederli negativi ogni volta, per cui quando quello che credevo fosse un follicolo scoppiato si trasformò in un embrione, non riuscii a contenere le lacrime.
Lacrime di… qualsiasi cosa possibile e immaginabile, ma la paura aveva la meglio.
Paura che fosse un sogno, paura che fosse un altro scherzo del destino, paura che l’ecografia fosse sbagliata, paura che il macchinario non stesse funzionando correttamente, paura che fosse andato tutto male, ancora una volta.
Ma quel fagiolo era lì già da due mesi e mezzo e, senza che nemmeno lo sapessi, non gli era successo niente.
Non eravamo mai arrivati tanto lontani; anzi, non eravamo mai arrivati a nessun mese. Ed ora ne erano già più di due!
Sapevo che mai più in vita mia avrei potuto dare a Rob una notizia del genere, perciò non fui semplicemente capace di dirglielo sulla porta di casa appena rientrò quella sera.
Non ci riuscii. Non sapevo perché, semplicemente le parole non erano venute fuori, così come non vennero fuori la mattina dopo.
Mi ero alzata presto, incapace di stare un altro solo secondo a rigirarmi nel letto.
Mi ero messa ai fornelli e avevo preparato la colazione. Solo quando fu completa, mi resi conto di quello che il mio subconscio aveva elaborato componendo, su un paio di pancakes, la scritta SONO INCINTA con… gli M&Ms.
Cosa diavolo mi era saltato in mente?
Non potevo dirglielo in quel modo. Gli sarebbe venuto un infarto senza dubbio!
Stavo per scomporre tutto quando sentii i passi di Rob sulle scale e poi nella cucina e mi pietrificai.
Beh, era evidente che era destino che lo sapesse così, pensai tra me e me.
Così, quando si avvicinò per darmi un bacio, pensai che fosse la volta buona, che avrebbe chinato lo sguardo e trovato quella realtà scritta sotto i suoi occhi, ma niente.
L’idiota aveva ancora gli occhi mezzi chiusi mentre si versava un bicchiere di succo di arancia e si sedeva all’isola della cucina, proprio di fronte a me.
Idiota.
Mi trovai a sorridere tra me e me e lui mi guardò confuso.
“Cosa…? I capelli…?”
Scossi il capo e continuai a fissarlo sorridendo.
“Ho… ho qualcosa tra i denti?” disse e subito vi passò la lingua sopra.
Risi e scossi il capo ancora.
“Allora cosa? Ah, vuoi giocare al cuoco e alla cameriera, eh?” alzò un sopracciglio come se sapesse il fatto suo e io risi ancora perché non aveva capito un bel niente.
Scossi il capo ancora e lui iniziò a preoccuparsi.
“Allora… cosa? Tutto bene, Kristen?”
Annuii, immaginando quanto questo mio comunicare in silenzio dovesse snervarlo, ma non riuscivo a trovare le parole. Dopotutto gli M&Ms potevano parlare per me.
Presi un lungo respiro, afferrai il piatto e glielo misi davanti.
Lui chinò il viso. “Sono incinta…” sussurrò, non capendo. “Guarda, qualcuno ha scritto Sono Incinta sui pancakes. Ma cos-”
Idiota. Lo avevo già detto che era un idiota?
Anche se non potevo biasimarlo.
Alzò lo sguardo e incontrò il mio, senza dubbio lucido delle lacrime che non riuscivo più a trattenere.
“Tu…? Sei…? Sei…? Io? Noi? Siamo…?”
E riuscii solo ad annuire prima di trovarmi tra le sue braccia.
 
 
Era proprio vero, in fondo, che le cose migliori arrivano quando meno si aspettano, proprio come lei. E insieme al ricordo, non potevo non pensare alle mille preoccupazioni, alle visite, alle attenzioni, a fare in modo che niente e nessuno potesse mettere in pericolo quella vita che finalmente cresceva dentro di me, proprio quando in lei ci avevo perso totalmente le speranze.
“È un vero miracolo…” aveva commentato ogni persona che fosse al corrente della mia condizione.
Già, un vero miracolo che ora era lì, sotto i nostri occhi, viva e vegeta e sana e bellissima. La nostra piccola che, eravamo stati entrambi d’accordo di chiamare Sophie per onorare la memoria dei genitori naturali di Hope e di quello che era il suo nome, sebbene non potesse essere più diversa dalla sorella.
Hope aveva capelli lisci, rossi e occhi blu.
Sophie aveva i capelli ricci, di un biondo cenere, e gli occhi verdi.
Non potevano essere più diverse eppure sembrare più uguali ai miei occhi. Entrambe frutto di un amore decisamente più forte di una semplice combinazione di geni.
Hope impazziva per Sophie, e Sophie vedeva solo Hope.
Erano una cosa sola, entrambe accumunate da un destino strano che alla fine le aveva portate a noi.
Ripensai al Natale di sei anni prima, e a come ero passata da non avere nemmeno la più lontana possibilità di un figlio, ad avere due bellissime bambine, venute da chissà dove.
Perso com’ero nei miei pensieri non mi ero nemmeno resa conto che mancavano pochi minuti alla mezzanotte. Sophie aveva richiamato la mia attenzione giocando con i miei capelli.
“Sei di nuovo tra noi?” sussurrò Rob, qualche secondo prima che iniziasse il conto alla rovescia.
“Sì…” sorrisi e chinai il viso per lasciarmi baciare la fronte.
Anche gli ultimi trenta secondi di questo anno passarono troppo veloci ma mi trovai ugualmente a fare un resoconto veloce di quello che era stato: i primi passi di Sophie, il primo giorno di scuola di Hope, le prime parole lette e scritte, i primi suoni sconnessi di Sophie prima di arrivare a dire mamma e papà, e il nuoto, il calcio, la danza, il pianoforte, ogni cosa possibile e immaginabile che Hope aveva voluto provare, e i viaggi, i nostri genitori, i nonni, i nuovi arrivi, i cugini, gli amici…
La mia vita ruotava intorno alle mie figlie e a ciò che di diverso avevano portato alla mia vita, e non avrei potuto chiedere trenta ultimi secondi migliori di quelli in cui ogni migliore immagine ti scorre davanti e tu puoi solo stare a guardarla e sorridere.
“Buon anno, amore…”
“Buon anno a te. Ti amo…”
Ci godemmo lo spettacolo dei fuochi d’artificio dalla terrazza al piano superiore ma Rob trascinò me e le bambine via, prima che finissero.
Ci trovammo per strada.
Hope saltellava avanti e indietro mentre Rob reggeva una Sophie ancora vispa e teneva me per una mano.
Era l’una e sapevamo che ormai a quell’ora sull’isola non c’era nessun pericolo; ciò non impedì a Rob di richiamare Hope e fare in modo che camminasse vicino a noi.
“Ma dove andiamo, Papi?”
“Papi papi papi” ripeté Sophie, facendo da eco alla sorella.
“Vorrei saperlo anche io…” mi aggiunsi.
“Sssh, state zitte tutte e tre.”
E così facemmo. Mi fidavo di Rob, ovviamente. Era la curiosità che mi stava uccidendo, soprattutto quando mi resi conto che avevamo solo fatto il giro dell’isolato ed eravamo tornati quasi al punto di partenza.
“Stai cercando di confondermi le idee o cosa?”
“O cosa” rispose, divertito.
“Sai, a mosca cieca si gioca bendati.”
“Puoi stare un po’ zitta?”
“Uffa! Sono curiosa, dai!”
“Mamma, dai! Abbi un po’ di pazienza!”
“E smettila tu di imitare tuo padre!” schernii Hope, stringendo la sua mano nella mia.
“Ci siamo quasi…”
E lo disse nel momento in cui ci approcciamo alla spiaggia e al nostro posto speciale.
C’era troppo fumo nell’aria per vedere le stelle ma non importava. Ormai eravamo così esperti di quel posto da essere capaci di arrampicarci anche al buio.
“Hey, cucciola! Vieni in braccio a papà!” disse Rob a Hope, prima di passarmi Sophie tutta accucciata nella sua tuta-piumino.
 “Okay, e ora?”
“Ora aspettiamo…” diede un veloce sguardo al suo orologio. “Due minuti esatti.”
E furono i due minuti più lunghi della mia vita a causa della curiosità che mi divorava da dentro.
Stavo per esplodere quando qualcos’altro esplose nel cielo, perfettamente di fronte a noi.
Furono una quindicina di botti uno dopo l’altro, o forse tutti insieme, non ne ero sicura, ma non aveva importanza perché quando si assestarono e vidi la scritta HOPE NEVER LEAVES sullo sfondo nero del cielo, nulla ebbe più importanza.
Nessun dramma, nessun problema, nessuna tragedia…
Sentii un groppo alla gola, gli occhi di Rob su di me e mi strinsi a lui mentre sentivo nascere sulle mie labbra il sorriso più grato che avessi mai avuto sapendo che quella era l’unica verità.

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Niente da dire lol No, okay. Qualcosa c'è. 
Grazie davvero mille per averci seguite, prima e ora, fino a qui. Per averci sempre fatto sentire apprezzate e per averci permesso di conoscere delle persone favolose. Come qualcuno magari avrà capito, il nostro periodo di scrittura di FF ormai è passato. E' giunto al termine, in fondo. Abbiamo avuto più di quanto potevamo mai sperare con quel primo capitolo di "Qui dove batte il cuore" ed è arrivato il momento di andare avanti. E non perchè non amiamo più Rob e Kristen o perchè non speriamo con tutto il cuore che sfornino un bimbo subito (jamm bell! u.u), ma semplicemente perchè è giusto così. C'è un tempo adatto per ogni cosa, no? Ecco, noi abbiamo scritto di loro (o anche di Edward e Bella) durante il loro momento, durante il momento adatto; ma il momento è passato e noi andiamo avanti. :)
Non vogliamo farlo suonare come un addio, perchè questo provocherebbe più lacrime a noi che a voi (ebbene sì, anche noi abbiamo un cuore in fondo haha) ma visto che non pensiamo ci saranno altre fan fiction in futuro, volevamo solo dirvi quanto voi siate state speciali ed importanti per noi. Insomma, con alcune di voi sono nate amicizie vere e proprie, per non parlare degli scleri, delle petizioni, dei conti alla rovescia, dei... (okay, avevamo detto di non piangere ç_ç)... Ma insomma, qualunque cosa accada nelle nostre e nelle vostre vite, di certo non dimenticheremo mai questi "anni di scleri" con voi. 
E' qualcosa con cui siamo anche un pò cresciute quindi qualcosa che ci porteremo dentro sempre. Magari tra qualche anno guarderemo indietro e penseremo "Oddio, che idiote eravamo..." però magari rileggeremo questa piccola nota finale e ci ricorderemo che se qualcosa ti rende felice mentre la fai, allora non è tanto da idioti, dopo tutto, no? 
Okay, stop. Bando ai discorsi tristi!  Vogliamo solo dirvi  che vi vogliamo bene e che le recensioni, gli scleri, le nottate insieme e tutto il resto sono state le ricompense  più belle per le ore passate a scrivere. Vi vogliamo un mondo di bene e... siamo davvero il fandom più speciale del mondo! :')  
Un abbraccio!
Cloe&Fio xx


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