Tutto il resto del mondo

di KikiWhiteFly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte prima (II) ***
Capitolo 3: *** Terzo capitolo [prima parte] ***



Capitolo 1
*** I. Parte prima ***


Quando gli altri ci “catalogano”, va da sé che quell'etichetta diventi parte di noi – nolenti, purtroppo, siamo costretti ad accettarla.

Quando gli altri ci etichettano e ci discriminano, va da sé che quell'atteggiamento diventi una sorta di culto; si crea, allora, il peggior fenomeno che la storia abbia mai conosciuto: il conformismo di massa.

La massa si riconosce in un capo, una sorta di autentico leader; gli individui, in particolare i più deboli, subiscono l'influenza di questa indiscutibile autorità e ne diventano immediatamente succubi.

La coscienza di sé si trova ad essere improvvisamente “coscienza dei se” e diventa quasi consequenziale mettere in dubbio qualsiasi fenomeno che vada oltre la singola conoscenza intellettiva dell'uomo.

Abbiamo imparato tante cose nel corso degli anni: costruire armi letali, combattere interi popoli, vincere e, a nostro malincuore, anche a perdere. Abbiamo ricevuto una lezione, ogni singola volta, dai nostri errori; eppure, ironicamente, continuiamo a commetterli all'infinito.

Forse perché è proprio questa la vera coscienza di sé: comprendere che alcune cose si devono sperimentare sulla propria pelle per rendersene davvero conto.







«È una favola, papà?».

Il bambino, grossomodo un ometto di appena quattro anni, strattonò i pantaloni di un uomo visibilmente più grande, pregandolo di continuare la storia che aveva appena cominciato.

«È più reale di quanto si possa immaginare», l'uomo gli accarezzò i capelli, poi sorrise mesto fra sé e sé: «Il protagonista è un certo Arthur Kirkland».







Tutto il resto del mondo



I.





Londra, 1963.





Erano tempi duri, gli anni sessanta: il dopoguerra sicuramente aveva migliorato la situazione sociale ed aveva trascinato, allo stesso tempo, una serie di problemi di natura economica e politica.

Ognuno, nel suo piccolo, si dava da fare ma i danni causati dallo scoppio del secondo conflitto mondiale non potevano essere arginati così facilmente. Perfino le nobili famiglie si trovavano a pagare il prezzo di interi popoli, la crisi si era estesa sino ai ceti più abbienti.



La famiglia Kirkland, fino ad allora, non si era mai trovata in ristrettezze economiche: dacché avevano ereditato le antiche fortezze e le incontaminate terre dei loro avi non si erano mai posti alcun problema. Ovviamente, il tenore di vita non era cambiato così radicalmente: avevano solo dovuto rinunciare a parte della loro servitù, qualche piccolo sacrificio in nome della loro nomina.

Poiché per salvare un nome si era pronti a far tutto, perlomeno nella famiglia Kirkland, persino a prestarsi ad alcuni lavori di bassa leva.



Arthur Kirkland, giovane rampollo inglese, se ne stava compostamente seduto a tavola, bevendo a piccoli sorsi il tè mattutino. Il suo sguardo, a primo acchito, poteva rivelare calma piatta ma, invero, il ragazzino era piuttosto teso.

A breve sarebbe iniziato il suo primo giorno alla cosiddetta scuola pubblica: ogni volta che quell'argomento veniva tirato in ballo, ormai quasi quotidianamente, i suoi genitori ne apostrofavano le qualità con disprezzo. Arthur, d'altronde, non poteva neppure replicare: dal suo punto di vista era una grande scoperta, sin da piccolo era stato educato da istruttori privati.

Il mondo – sulle labbra di un bambino di appena dieci anni era una parola grande – al di là delle mura della sontuosa villa in cui abitava lo aveva sempre attratto, eppure non era mai riuscito a visitarlo.

Sua madre – una donna ricca sin dalla nascita, snob di natura e condizionata dallo status sociale altrui – teneva alla sua educazione, in modo quasi morboso, spesso apostrofava gli altri con un ché di sprezzante, come se fossero cenere da spazzar via: «Figlio mio, tu sei protetto qui. Là fuori darebbero la vita per avere quello che hai tu, non dimenticarlo», gli diceva.

Arthur, a quel punto, si sentiva in colpa: non poteva darle torto, gli bastava guardarsi intorno.

Non tutti i bambini della sua età potevano vantare uno spazio di cui erano gli assoluti padroni, in pochi avevano la possibilità di essere riveriti da una servitù. Vista in quell'ottica, la situazione gli appariva diversamente e, allora, si trovava a far ritorno sui suoi passi.



Tuttavia, anche sua madre si era veduta costretta a fare un passo indietro: a lungo aveva lottato con suo padre – uomo poco incline, invero, ad udire qualsiasi parere al di fuori del proprio –, il quale le aveva espresso le disagiate condizioni economiche in cui si trovavano temporaneamente.

Suo padre era un uomo che si era fatto le ossa, come si suol dire: era nato in una famiglia modesta, aveva potuto proseguire gli studi giuridici solo grazie ad un lavoretto part-time. Alla fine, quasi per fato, aveva raggiunto il sogno di diventare un famoso e stimato avvocato – così, anche il suo status sociale ne aveva risentito.

Peccato che non lo vedesse mai, era sempre in giro “per lavoro” – così, quando c'era, Arthur provava un ingiustificato timore nei suoi confronti e non riusciva mai a parlargli a cuore aperto.

Suo padre si era limitato a dargli una sonora pacca sulla spalla – mingherlino com'era, Arthur l'avrebbe ricordata per un bel po' di tempo –, abbassandosi alla sua altezza e sentenziando freddamente: «Ti piacerà, figliolo, ne sono sicuro».

Quelle erano state le uniche parole che suo padre gli aveva rivolto, da circa un mese a quella parte che non si vedevano. E, anzi, Arthur avrebbe dovuto considerare quella sonora pacca sulla spalla come un incondizionato gesto d'affetto, di solito suo padre non lo guardava nemmeno in viso – a ben pensarci, quando si era abbassato alla sua altezza, Arthur aveva visto per la prima volta il colore dei suoi occhi.



«Signorino Kirkland», Margareth, la sua balia sin da quando era in fasce, lo stava gentilmente premendo di terminare il suo pasto.

Arthur, allora, pulì le labbra con il tovagliolo di stoffa e ringraziò la servitù che in quel momento era in servizio. Poi, si lasciò lisciare l'abito dalla balia, dopodiché si fece allacciare nella maniera più stretta possibile i lacci delle scarpe.







* * *







Alfred Jones camminava tra le strade deserte, a fargli compagnia era solo un alito di vento che pareva spirare da Nord. Stava percorrendo uno dei quartieri più malfamati di Londra, abitava qualche via più in alto – non doveva lamentarsi, doveva pensare alle parole di sua madre: «Devi essere grato di non essere ancora morto di fame, io mi faccio in quattro per darti da mangiare!».

Da quando suo padre era tornato dalla guerra – era un sopravvissuto, non c'era null'altro da aggiungere –, sua madre gli aveva raccontato che non era più lo stesso: i primi anni pareva esser tornato tutto come prima, il cambiamento si era verificato poco dopo la sua nascita.

Suo padre non faceva altro che ricordare gli spari, talvolta si nascondeva sotto il tavolo perché pareva che li sentisse sulla propria pelle, a volte temeva persino per la vita di Alfred – erano ricorrenti le sue parole: «Non puoi mettere a mondo dei figli se il tuo paese non ti garantisce sicurezza!» –, il trauma della guerra si era presentato molti anni dopo, insomma.

Con il passare del tempo, poi, non era affatto migliorato: ben presto si accorsero che non era in grado di lavorare, non solo per le condizioni mentali in cui versava ma anche fisiche. Si era dato all'alcolismo, alla fine, quella era una triste realtà alla quale Alfred assisteva tutti i giorni.

Capitava che lo trovasse fuori dai locali, di notte, talvolta succedeva che suo padre non lo riconoscesse nemmeno – i lividi che portava sulle braccia e sulle gambe, benché mentisse ai più, non se li era fatti per semplice distrazione.

Sua madre non lo cercava più, non aveva bisogno di un marito ubriacone ma di un uomo capace – quelle erano le sue parole, tanto dure quanto veritiere –, tuttavia Alfred non riusciva proprio ad abbandonarlo per strada.

Così, quando aveva tempo, per sopperire alle esigenze economiche, si infilava in un cantiere e cercava di essere utile agli altri operai. Il fatto che avesse appena dieci anni non importava, di solito, probabilmente perché gli si leggevano negli occhi certe cose – così, almeno, gli aveva detto un operaio una volta.

Guadagnava qualche soldo, per mano del capo cantiere, perlomeno contribuiva alle spese economiche. Un giorno, si prometteva ogni sera Alfred, l'odore pestilenziale della sua catapecchia sarebbe stato un vecchio ricordo ed i vicoli malfamati di Londra nient'altro che un triste periodo della sua vita.



In quel momento si stava dirigendo a scuola, l'unica cosa alla quale sua madre non aveva voluto rinunciare era la sua istruzione: aveva conosciuto sin troppo bene il terribile fardello dell'ignoranza culturale, aveva voluto strapparsi anche le vesti ma suo figlio doveva studiare.

«Guarda la fine che abbiamo fatto io e tuo padre», diceva, stringendo le mani ruvide contro le sue.

Fortunatamente sua madre aveva messo da parte un modesto gruzzoletto negli anni passati, quel minimo che gli aveva consentito di iscriversi ad una scuola pubblica di base. Poi, avevano concordato, metà dei suoi guadagni sarebbero serviti a pagarsi gli studi, ci avrebbe pensato sua madre a versare la somma restante.

Alfred teneva entrambe le mani nelle tasche: solo da una parte imbracciava dei fogli bianchi, confezionati in una carta stracciata, tenuta intatta grazie ad uno spago bianco.

Ancora una salita e sarebbe sbucato nel popoloso vicolo di Londra, laddove avrebbe incontrato altri ragazzini della sua età – bambini, ancora, loro mica avevano visto la peggior faccia della vita come lui –, accompagnati dalle loro famiglie.

Alfred non poté giudicare con chiarezza poiché, quando arrivò, un'austera signora – aveva tutta l'aria di essere una maestra – invitava gli alunni a prender posto nelle aule, minacciando la chiusura del portone principale da un momento all'altro. E lui vi entrò, senza batter ciglio, non gli pareva il caso di cacciarsi nei guai il primo giorno.



«Mi scusi», mormorò un ragazzino, un tipo scheletrico, evitando di alzare lo sguardo.

Alfred lo guardò un momento, il che gli bastò per inquadrare la sua classe sociale: apparteneva ad una casata locale di rilevante importanza, senza alcun dubbio, non si notava solamente dal suo abbigliamento – certo che, pensò Alfred, nel suo vicolo avrebbero fatto a pugni solo per i suoi calzini – ma anche dal portamento, così regale da far pensare che si trattasse di un principe.

E, per un attimo, Alfred prese seriamente in considerazione l'ipotesi – i principi, però, non facevano certo istruire i propri figli nelle “scuole pubbliche”, sarebbe stato sdegnoso.



«Ehi», lo frenò Alfred, più risoluto, afferrandolo facilmente per una spalla: «Quando parli a qualcuno, guardalo sempre negli occhi», poi proseguì il suo cammino, infiltrandosi tra la folla di presenti.







* * *





Arthur si sedette composto, come gli avevano insegnato, prendendo posto tra le prime file.

Si guardò intorno, cercando di nascondere l'entusiasmo, tutto gli pareva meraviglioso: la lunga lavagna, i gessi posati sopra la cattedra, le file di banchi di legno e la moltitudine di persone che affollavano l'aula.

Non si era mai sentito più vicino al mondo di così, pensò Arthur, tirando fuori un quaderno dalla copertina rigida ed una stilografica che, per l'occasione, aveva portato a scuola.

Alcuni compagni lo guardavano con disprezzo – eppure, almeno così gli pareva, non aveva fatto nulla di male –, altri mormoravano sottovoce qualcosa che non riusciva ad udire con chiarezza.

Di colpo, il pensiero andò al ragazzino che aveva conosciuto qualche minuto prima al di fuori del portone: non doveva abbassare lo sguardo, no, era un segno di debolezza. E, cosa ben peggiore, stava ereditando da suo padre quella mancanza di rispetto: era stato abituato a non essere preso in considerazione, all'invisibilità, stava solo attuando quel che gli era stato insegnato.

Allora alzò lo sguardo, il più fieramente possibile, indirizzandolo ai compagni; questi, d'un tratto, smisero di sghignazzare convulsamente ed Arthur, per la prima volta nella sua vita, sentì di aver fatto qualcosa di giusto, solo per se stesso.



Fece appena in tempo a realizzare quel pensiero che il ragazzino con il quale aveva parlato qualche minuto prima si materializzò improvvisamente, proprio nell'aula, a quanto pareva stava cercando un posto libero.

Le ultime file erano occupate – sua madre gli aveva raccontato che lì si sedevano gli “asini” –, il ragazzino ne sembrò piuttosto deluso.

Arthur sventolò la mano, sperando che lo notasse, fu un gesto del tutto dettato dall'istinto: così fu, il ragazzo si sedette accanto a lui.

A ben vederlo, a qualche spanna dal suo volto, c'era qualcosa di inqualificabile in lui: forse si stava facendo condizionare dai suoi vestiti, sporchi e stracciati, oppure da ciò che portava sottobraccio; eppure, nonostante le apparenze, Arthur vedeva nei suoi occhi una tristezza di fondo.

Ebbene sì, dietro le lenti spesse, c'era una storia autentica.



«Non fissarmi. Sono solo più povero di te», obiettò il ragazzino, cercando di non far trasparire la rabbia.

«N-Non volevo!», si giustificò lui, «Io sono Arthur. Arthur Kirkland».

Disse, porgendogli cordialmente la mano; il suo compagno di banco lo guardò per un momento dall'alto in basso, rifletté qualche secondo, poi dibatté: «La famiglia Kirkland, eh, corre voce che di questi tempi non ve la passiate bene. Il ché spiegherebbe la tua presenza qui, in effetti. Piacere, Alfred Jones».

La sua fama, a quanto pareva, lo precedeva – o, perlomeno, quella della sua famiglia.

Beh, in tutta sincerità, in quel periodo erano più che altro gli investimenti sbagliati della famiglia Kirkland a precedere la sua nomina, suo nonno portava avanti una grande azienda, ormai da anni, tuttavia negli ultimi tempi aveva dovuto licenziare parecchi dipendenti e ciò aveva fatto scattare la classe degli operai.

Numerosi, nonché rivoltosi, erano stati gli scioperi di fronte alla grande azienda – i Kirkland, in quel periodo, non erano visti di buon occhio.

«Sì, esatto. È la prima volta che vengo in una scuola pubblica. M-Mia madre ha detto che sarà un'esperienza passeggera!», scattò nervosamente, come a volersi giustificare.

«Sì, certo, quelli come te non restano qui. Si vedono scritto il loro futuro sin dalla nascita», disse Alfred, in tono talmente incisivo che ad Arthur risultò difficile obiettare.

«Quelli come me?», domandò alla fine, più a se stesso che al compagno di banco.

Pareva che Alfred stesse per rivelargli qualcosa proprio in quel momento, quando la voce imperiosa della maestra rimbombò nell'aula.

Poteva sembrare stupido, addirittura surreale, ma ciò che lo emozionò davvero di quel primo giorno fu l'incontro con Alfred Jones – sebbene avessero scambiato poche parole, quest'ultimo gli aveva dato molto più di una chiacchierata.











Il giorno dopo Londra si era svegliata ancora più annebbiata del solito, la strada che fece in compagnia di Margareth gli risultò meno nitida proprio a causa della foschia, si preannunciava maltempo a quanto pareva.

Quel giorno, inoltre, la sua balia sarebbe venuto a prenderlo un'ora dopo – doveva svolgere qualche commissione per sua madre, la quale sarebbe dovuta partire misteriosamente a breve –, ragion per cui Arthur avrebbe dovuto aspettare.

Non gli conveniva fare un giro nei dintorni, rischiava di perdersi, quindi l'avrebbe attesa pazientemente sui gradini al di fuori della scuola.

E così fu, invero, quando finirono le lezioni: Arthur si guardò per un attimo in giro – nella speranza, forse, che Margareth avesse cambiato idea –, le speranze crollarono pochi minuti dopo.

Si sedette sui freddi gradini marmorei, allora, sfilò dalla cartella di pelle il libro di testo – ancor prima che iniziasse la scuola, questi gli erano già stati recapitati a casa –, poi iniziò a leggere.





«Posso dare un'occhiata al libro?», mormorò una voce familiare, prendendo in mano il suddetto oggetto di propria iniziativa.

«Non ho detto niente», dibatté timorosamente Arthur.

«Appunto, lo interpreto come un sì».

Alfred sfogliò con aria disinteressata il libro di testo, poi lo lasciò scivolare sulle ginocchia del ragazzo. Sbuffò, piuttosto laconicamente invero, dopodiché sentenziò: «Sei troppo debole, Arthur. Certe persone potrebbero approfittarsi di te».

Le guance di Arthur si gonfiarono come due palloncini, non aveva mai conosciuto nessuno di più impertinente di Alfred Jones.

Stava iniziando ad odiarlo, sì, profondamente – tuttavia, una parte di sé era incuriosito dai suoi modi poco garbati, nonché dal suo atteggiamento indisponente.

Quindi, si disse, avrebbe dovuto canzonarlo per bene – quello, perlomeno, era l'augurio che si era fatto.

Finché, d'un tratto, il cielo non ruggì contro di loro.



Le nubi, d'un tratto, si condensarono: una pioggerellina sottile eppure fastidiosa, come tanti aghi acuminati, si abbatteva violentemente sui loro corpi.

Ben presto Arthur si scoprì bagnato, allorché corse a ripararsi sotto l'immensa impalcatura della scuola, accanto ad una colonna. Alfred, prendendolo improvvisamente ad esempio, lo seguì a ruota.

Il compagno, a differenza sua, rideva convulsamente – Arthur non se ne sapeva spiegare bene la ragione, ci doveva essere qualcosa nella pioggia che un ragazzino mentalmente chiuso come lui non riusciva a comprendere.

Gli occhiali di Alfred si appannarono, ben presto Arthur riuscì a vedere solo il suo sorriso: d'un tratto, senza alcuna motivazione, si trovò contagiato dalla sua risata.



«Perché stiamo ridendo?», chiese incuriosito.

«Non c'è un motivo. Forse per ingannare il tempo, forse perché in questo modo sentiamo meno freddo», disse Alfred, prendendo in mano gli occhiali e pulendo le lenti su un lembo asciutto del giacchino, «Forse ridiamo di noi».

Sulle labbra di Arthur, d'un tratto, si spense il sorriso; Alfred non aveva detto nulla di male, assolutamente, nella sua mente però erano iniziati a germogliare tanti dubbi. In quel momento voleva essere solo al fianco dell'amico, avrebbe voluto che quella pioggia durasse per sempre.

Le parole, mai come allora, sembrarono essenziali e, in egual maniera, i silenzi.

Arthur avrebbe voluto dire qualcosa – sì, qualcosa di altrettanto speciale –, ma non era mai stato bravo con le parole: sin da piccolo era stato abituato a leggere molto, in molti giudicavano eccellente la sua dialettica e, pur tuttavia, quando si trattava di parlare a cuore aperto si sentiva un ignorante.

Alfred, invece, era diverso: sapeva trovare le parole giuste, proprio nel momento adatto.

Quella volta, però, anche le sue labbra fallirono: optarono, infatti, per uno scontro aperto e si diressero avventatamente sulle gemelle. Arthur ci mise un po' a realizzare ciò che era appena avvenuto, ancor più ad allontanare Alfred da sé – ma, a conti fatti, voleva davvero?

Perché, quei pochi secondi che le loro labbra trascorsero insieme, ad Arthur parve di sentire un piacevole calore arrivargli sino al cuore, gonfiargli il petto e prosciugargli la mente.

La pioggia, quel giorno, era penetrata sin nei loro cuori.

Le mani di Alfred stringevano il suo viso, forse tremavano un po', quelle di Arthur caddero a penzoloni sui fianchi.

Erano sotto la pioggia, fortunatamente nessuno sembrava averli visti, nascosti dietro una colonna che celava molto più di quanto loro pensassero – oltre quel semplice pezzo di pietra c'erano le insidie, i pregiudizi e l'ignoranza della gente, cose che avrebbero potuto solamente arginare negli anni a seguire.

Nella mente delle persone si rifletterà sempre uno specchio: inutile tentare di guardarsi dentro, il riflesso manderà loro una immagine sempre più vera del reale.



«C-Cosa stai facendo?», disse Arthur, scostandolo forzatamente da sé.

«Non ti stavi opponendo, mi sembra», fu la blanda scusante del compagno.

«Alfred! Siamo... ragazzi, non puoi farlo!», esclamò agitato Arthur, strofinandosi la manica della giacca nuovamente contro le labbra.

«D'accordo, non lo farò più».

Arthur non sapeva cos'altro dibattere ma, no, non era furioso: il modo con il quale le labbra di Alfred si erano sposate con le sue, i loro respiri uniti all'unisono e le mani del compagno sul suo viso erano cose che non avrebbe dimenticato con facilità.



«Arthur, Arthur!».

Una voce familiare urlava il suo nome, ragion per cui gli fu impossibile rispondere; Arthur, allora, si voltò e riconobbe la sagoma di Margareth.

Il rumore della pioggia, d'un tratto, si attutì: Arthur non poteva giurarlo ma, almeno così gli pareva, il suo cuore tamburellava sempre più svelto – quasi sembrava che lottasse per uscire fuori dal petto.

Si voltò, allora, evitando di incrociare lo sguardo di Alfred: temeva che avrebbe notato il repentino rossore che gli colorava le guance – la verità era che la pioggia non smise più di battere impetuosa, da quel momento in avanti.











* * * *







Storia dedicata ad Emiko e Roro, due meravigliose personcine, tanto fluff. ;__;

No, aspetta, meglio non dire fluff – dopo quel contest ci basterà per una vita, right Rò? <3

Seriamente: ve la dedico perché sapete condividete lo stesso amoreH che nutro per questa magnifica coppia *coff. Okay, è la prima volta che ci scrivo su ma li ho sempre amati tantissimo. <3*

Quindi, ecco, spero di farvi cosa gradita.

Perché di USUK non se ne ha mai abbastanza (??) – slogan random. XD





Saranno giorni che sto lavorando a questa storia... ma che dico, mesi!

In verità doveva partecipare all'USUK contest ma, ehm, vari contrattempi mi hanno impedito di scrivere la storia. E, sinceramente, mi dispiaceva stendere un testo “a tirar via”.

Nella mia mente questa storia c'è da mesi, vi spiego: questa che avete letto – vi ringrazio, in tal caso. <3 – è la prima di quattro parti. Originariamente erano tre parti ma questa prima parte sul mio pc occupa venti pagine e non mi sembrava il caso di postarle tutte insieme oggi.

Indi, il prossimo capitolo sarà il completamento di questa parte.

Le parti restanti, invece, saranno dedicate ad altri due periodi di vita di Arthur ed Alfred.

Vi spiego: questa fan fiction – a cui tengo molto, credo che sia uno dei lavori più grandi in termini di lunghezza che abbia mai fatto. XD – si propone di narrare la storia di Alfred ed Arthur dagli “albori”, per così dire, fino ad arrivare ad un età matura.

Capirete una volta concluso questo “periodo”, con il completamento della prima parte.

Perché questo titolo?

Dunque, voi dovete intendere “il resto del mondo” come delle persone: costoro sono, ad esempio, la madre di Arthur o, non so, l'austera maestra a cui accennavo. Sono, insomma, coloro i quali pensano che il mondo obbedisca a certi schemi imprescindibili.

La seconda parte chiarirà la scelta di questo titolo, comunque.

Inoltre, in questa storia mi propongo di mostrarvi la crescita dei singoli personaggi: mi scuso anticipatamente se vi saranno sembrati OOC ma dovete tener conto delle esigenze. La guerra non è ancora tanto lontana, anzi, la disoccupazione dilaga, negli anni '60 inoltre si evitò per un pelo lo scoppio di un altro conflitto mondiale (questa è una curiosità, per chi non lo sapesse).

E, in questo desolante scenario, ci sono delle caste: la famiglia Kirkland, ad esempio, fa parte di questa categoria. Arthur è un ragazzino a modo, cresciuto però in una “gabbia d'oro”, oltre alla quale non può uscire. Va da sé che il suo carattere ne sia stato condizionato, al punto che è la città stessa ad agitarlo, la scuola, il contatto con le persone. Stesso discorso vale per Alfred, sebbene la situazione sia completamente diversa in questo caso.

Ultima cosa, poi mi dileguo: il discorso iniziale è frutto dei miei pensieri, sì, ispirati però ad una serie di correnti filosofiche... i post-marxisti, in primis, i filosofi degli anni '30-'40 e diverse teorie freudiane trattanti l'omologazione ed il conformismo di massa.

Smetto di assillarvi ma volevo che fosse tutto chiaro.

Ultimissima cosa: il rating cambierà a seconda dei capitoli. Per ora metto “rating verde” ma sicuramente sarà modificato. ;D



Al prossimo capitolo,

Kì.

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Capitolo 2
*** Parte prima (II) ***


Tutto il resto del mondo



II.









«Sai, Margareth, preferirei che mi venissi a prendere più tardi», disse d'un tratto Arthur, facendosi accompagnare dalla balia a scuola.

«Ma, signorino, vostra madre non lo permetterebbe e –».

«E non lo saprà mai. Torna a casa solo di notte fonda, ormai», Arthur rabbuiò un po' lo sguardo, disse quella frase con un moto di vergogna.

Margareth non rispose, evidentemente c'erano cose che non poteva rivelargli ancora – ma, pensò Arthur fra sé e sé, non era necessario un genio per intuirne la ragione.

«E va bene», sospirò infine. «Come volete, signorino. Fate attenzione, mi raccomando», mormorò infine, lasciandolo all'entrata.





Non passò molto tempo, invero, Arthur e Alfred diventarono amici.

Il carattere arrogante e pretenzioso di Alfred si era ammorbidito con il tempo o, almeno in presenza di Arthur, pareva essere così. Probabilmente quel tipo di carattere era d'aiuto nella società londinese, ecco perché di fronte agli altri Alfred palesava una certa freddezza.

Non avevano più tirato in ballo ciò che era successo appena una settimana prima, evitavano l'argomento per semplice imbarazzo. O, chissà, Alfred stava semplicemente rispettando il suo rifiuto.

Arthur rimuginava giorno e notte, invece, specialmente quando si trovava da solo: a ripensarci non gli era parso così strano che Alfred avesse poggiato le labbra sulle sue, anzi, ricordava bene le sensazioni che aveva provato.

Quando Arthur si fermava a riflettere, il suo cuore accelerava improvvisamente: i battiti diventavano sempre più frettolosi, martellanti, sentiva la mancanza di quel piacere.

Affrontare il discorso era, in ogni caso, fuori questione: dopo un rifiuto così categorico, Arthur non nutriva assolutamente la pretesa di rivangare la questione.

La sua prospettiva, però, era destinata ben presto a cambiare.

Quel pomeriggio sia Alfred che Arthur vagavano per i vicoli silenziosi di Londra – almeno a quell'ora –, quando Alfred fu attirato da un volantino attaccato su una vecchia colonna di legno.

Recitava una protesta, a primo acchito, sembrava che si progettasse una grande manifestazione. Arthur lo seguì silenziosamente, non era così strano trovare dei volantini in giro per strada: il clima londinese, se non quello internazionale, in quel periodo pullulava di proteste. Sembrava che il mondo avesse qualcosa da dire, si iniziava a sentire un'atmosfera ribelle.

La signora Kirkland si era sempre tenuta a distanza di sicurezza da tutto ciò; nondimeno, aveva pregato il figlio di non prendere mai parte alle forme di protesta.

«Il mondo è fatto così, Arthur: non siamo tutti uguali, sai? Noi siamo di rango superiore, la nostra intelligenza ci permette di distanziarci da quei contadini ignoranti».

Erano fredde le parole di sua madre, erano pronunciate con disprezzo: quando Arthur ci pensava, non vedeva affatto il divarico a cui accennava sua madre.

Gli stessi contadini a cui si riferiva con tanto sdegno erano, in realtà, la fonte del loro benessere: era solo grazie ai loro servitori e, nondimeno, agli agricoltori che suo padre aveva assunto per coltivare i loro immensi appezzamenti di terra, se potevano permettersi un tale stile di vita.

Allorché, Arthur ricordava le sagge parole di suo padre: «Figliolo, non dimenticare mai che proveniamo tutti dalla stessa terra. E che ci tramuteremo tutti nella stessa cenere, indistintamente».

Erano cose sulle quali riflettere, sì, forse troppo grandi per un bambino di appena dieci anni.



«Vieni, Arthur», disse Alfred, sventolando una mano in alto.

Il ragazzino si avvicinò, osservando con attenzione ogni particolare del manifesto: era un foglio di carta leggermente stropicciato, al cui interno c'era una grande foto – a giudicare dall'abbigliamento, si trattava di giovani patrioti di umili origini –, mentre di lato delle cubitali iscrizioni.

«Il mondo che vorrei», Arthur lesse sottovoce il titolo, fermandosi a riflettere un momento sulle parole.

«Nel mondo che vorrei non esistono razzie, non esistono discriminazioni sociali.

Nel mondo che vorrei c'è una sola ragion d'essere: se stessi, senza alcuna vergogna.

Il popolo finora non si è mai lamentato, di questo bisogna prenderne atto, perché non è mai stata data loro la possibilità di farlo.

Se pensavate che le guerre ci avrebbero indebolito, vi sbagliate di grosso. Le guerre hanno ucciso i nostri cari, hanno provocato fame e malcontento, ci hanno privato della libertà e, infine, della vita.

Eppure siamo ancora qui, coi nostri figli, e loro un giorno saranno con i loro figli.

Qui, in questa città, a gridare a tutto il resto del mondo una sola parola: libertà!».



Arthur lesse attentamente quelle parole, temeva che il significato sarebbe potuto sfuggirgli se solo ne avesse tralasciata una. Alfred rimase con le mani in tasca, fissava il volantino con aria seria, Arthur non gli aveva mai visto tale espressione in volto.

Poi, i loro sguardi si incrociarono e sembrava che si parlassero: annuirono silenziosamente, convinti che le parole avrebbero potuto solo essere un peso in quel momento.

Camminarono qualche minuto così, fianco a fianco, conoscevano ambedue la meta da perseguire. Era uno di quei posti comuni, forse un po' fuori zona, tutti i cittadini londinesi si fermavano un minuto – o forse più – di fronte al simbolo dei caduti delle guerre.

Alfred e Arthur avevano appena dieci anni, sì, eppure percepivano l'immensa storia alle loro spalle – e non perché fosse sui libri di storia, no, piuttosto per il fatto che si sentiva nell'aria.

Bastava guardare negli occhi delle persone, invero, per leggere la vera storia.

Poiché gli avvenimenti non erano solo date, cause e conseguenze: anche se non ci si soffermava mai abbastanza, in realtà dietro le guerre altro non c'erano che persone. Vittime, sì, dietro di sé si lasciavano familiari, grida, lacrime e silenzi – le parole, all'epoca, non potevano dir troppo.

Arthur si voltò dalla parte dell'amico e, senza alcun pudore, gli strinse forte la mano; Alfred parve stupito, dopodiché lasciò che le loro dita si intrecciassero e si mandassero un piacevole calore dall'una e dall'altra parte.

Quindi, approfittando di quell'attimo di quiete, Arthur trovò il coraggio di proferir parola.

«Proveniamo tutti dalla stessa terra. E ci tramuteremo tutti nella stessa cenere, indistintamente», sospirò, «mio padre ha ragione, per una buona volta».

Accennò un sorriso, pensando che il genitore sarebbe stato davvero contento di sapere che suo figlio aveva preso con tale considerazione quella frase.

«Sì. Andiamo a casa», disse Alfred, spintonandolo leggermente. «Dovresti lasciarmi andare, altrimenti la gente...», lasciò cadere la frase, Arthur aveva già intuito la conclusione.

«M-Ma io non voglio».

Solo un attimo dopo si accorse di ciò che aveva appena detto, troppo tardi per scusarsi – ormai Alfred aveva sentito, forte e chiaro –, così, non potendo tornare indietro sui suoi passi, Arthur strinse ancor di più la mano del compagno e, anzi, osò addirittura avvicinarsi più del dovuto.

Quindi, con un ultimo slancio, avvicinò timorosamente le labbra a quelle di Alfred: quest'ultimo non arretrò, anzi, approfondì il contatto con maggiore sicurezza. Sicuramente ambedue erano confusi, quella situazione era talmente complicata da costringerli a rinnegare se stessi.

Il mondo in quel momento sarebbe potuto passare di fronte ai loro occhi e loro non l'avrebbero visto, quella era l'unica certezza a cui si aggrappavano saldamente.

Quando, poi, le loro labbra trovarono la forza di liberarsi da quella presa, nessuno dei due disse nulla. Camminarono fianco a fianco, ancora, sino ad arrivare in paese – ma, stavolta, mano nella mano.









La mattina successiva Arthur si alzò di buon mattino, a giudicare dalla luce penetrata nella stanza dovevano essere all'incirca le cinque.

La verità era che non riusciva a dormire, sulle labbra gli era rimasta una strana sensazione: pur folle che potesse sembrare, era come se Alfred non lo avesse mai abbandonato – nemmeno in sogno.

In ogni caso, ormai non riusciva più a conciliarsi con il sonno; quindi, non sapendo bene cosa fare, aprì la porta della camera e scese lentamente le scale. Tuttavia, c'era qualcosa che gli impediva di andare oltre: dal portone principale provenivano dei rumori ovattati, Arthur non riusciva bene a distinguere cosa fossero.

Quindi, agì con prudenza: percorse velocemente il corridoio che lo separava dalla camera dei suoi genitori ma, con sua somma sorpresa, quando aprì la porta non vi trovò nessuno.

Allora si fece forza, in fondo non sapeva ancora cosa aspettarsi al piano di sotto; ma, di tutte le cose che avrebbe potuto immaginare, quella era la peggiore. In un misero ritaglio di luce, Arthur vide sua madre: più si avvicinava, tanto più i rumori ovattati prendevano forma.

Sua madre si stringeva ad un uomo – un altro uomo, più giovane e aitante di suo padre, a prima vista anche abbastanza ricco –, a giudicare dal fatto che non riusciva a reggersi in piedi non doveva essere completamente in possesso delle sue facoltà mentali.

Eppure, osservando con più attenzione, sua madre lo baciava con trasporto – come se già lo avesse frequentato, Arthur temeva che quella storia andasse avanti da molto tempo –, armeggiando distrattamente con la cintura dei pantaloni dello sconosciuto e facendogli cenno di seguirla al piano di sopra.

Arthur, allora, colto il messaggio, si avviò rapidamente nella sua camera e chiuse a chiave la porta.

Nella sua mente, in quel momento, le immagini erano più vivide che mai e il pensiero che sua madre tradisse suo padre lo demoliva psicologicamente, conducendolo ad un pianto liberatorio.



Fu svegliato solo qualche ora dopo, a causa del bussare insistente di Margareth.

«Signorino, vi conviene alzarvi. Arriverete tardi a scuola!».

Arthur, sentendo quelle parole, si destò; l'unico motivo che gli permetteva di alzarsi era proprio il fatto che avrebbe visto Alfred, di lì a breve, magari sarebbe riuscito anche ad aprirsi e confidargli i suoi dissidi interiori.

Quindi, strofinandosi la manica del pigiama sulle guance, fece scattare la serratura ed aprì la porta; poi, oltrepassando la soglia, lanciò uno sguardo alla camera in fondo al corridoio.

Era chiusa, ovviamente, Arthur temeva che non avrebbe visto sua madre nemmeno quel giorno. Ormai ci aveva fatto il callo, sì, sua madre era una donna dall'aria affascinante e dall'aspetto sicuramente seducente, naturale che gli uomini la desiderassero – il fatto che lei non si curasse del suo unico figlio, invece, non riusciva proprio a capirlo.





Quel giorno, però, Londra era diversa: nell'aria si sentiva un'atmosfera particolare, i volantini venivano distribuiti senza alcun pudore, in ogni parte della città vi erano studenti che protestavano e lavoratori che minacciavano un imminente sciopero.

La paura si era trasformata, sì, era diventata coscienza: poiché non era necessaria né una mente dotta né eccelsa per far valere i propri diritti. Se per anni era passato quell'erroneo modello di comportamento, ciò si doveva solo ai governi che si erano imposti.

Ma di quali governi si parlava, invero?

Sarebbe idoneo definire quegli utopici modelli di comportamento delle vere e proprie dittature, in tutto e per tutto: la prima forma di dittatura era quella che imponeva al pensiero liberale di definirsi tale, era la negazione di se stessi.

Quel giorno l'aria si poteva definire consumata, sì: le barbarie che l'umanità aveva subito fino a quel momento, erano destinate ad essere vendicate per sempre. E la miglior vendetta contro il potere assoluto era la libertà incondizionata.

Era il futuro.



Credendo fermamente in quelle convinzioni, Arthur si avviò all'interno dell'edificio e si sedette al suo posto. Cercava Alfred, di solito si sedeva accanto a lui, tuttavia non lo trovò.

Non doveva stupirsi, probabilmente, quel giorno in molti avevano deciso di non andare a scuola: era più che evidente la ragione, non bisognava spaziare molto la visuale per osservare ciò che stava davvero accadendo.

Inutile dire che Arthur non riuscì a concentrarsi, l'unico pensiero che affollava la sua mente era Alfred, avrebbe tanto voluto parlargli e sfogarsi con lui.

Quindi, quando suonò l'ultima campanella, Arthur si diresse all'esterno immediatamente, schizzando come una scheggia; di certo non immaginava il gran trambusto al di fuori del portone, vi era un enorme folla che si dirigeva nella direzione opposta alla sua.

Arthur lo cercava, ovviamente, sperava che il suo profilo spuntasse tra la folla – così, all'improvviso, magari Alfred lo avrebbe preso per mano –, il cuore gli batteva forte in petto e sembrava che lottasse per rimbalzare in gola.

Poi, in mezzo a quel polverone di persone, una mano lo afferrò; Arthur allora respirò a pieni polmoni, la speranza che Alfred lo avesse trovato non sembrava più così effimera.

«Alfred!», esclamò, fabbricando il primo vero sorriso dopo tanto tempo.

«Signorino, finalmente vi ho trovato!», Margareth esalò un enorme sospiro di sollievo, poi prese il volto di Arthur tra le mani – come per assicurarsi che tutto fosse nella norma, in una giornata così imprevedibile come quella chissà cosa sarebbe potuto accadere ad un ragazzino di appena dieci anni.

«Dobbiamo andare», rispose Margareth, in maniera piuttosto agitata.

«Ma io... Alfred...», bisbigliò, indicando un punto nella folla. «Io devo vedere Alfred!», esclamò infine, divincolandosi dalla presa della balia.

Margareth lo seguì, allora, afferrare un ragazzino così gracile come Arthur Kirkland non fu così difficile; lo prese per le spalle, dopodiché lo voltò verso di sé. Si abbassò alla sua altezza, infine, ciò che stava per dire sarebbe stato un duro colpo da assimilare per il ragazzino e tanto valeva offrirgli tutto il suo appoggio.

«Signorino, dobbiamo andare davvero. Via da questa città, via da questa scuola. Sua madre...», abbassò il tono di voce, come se stesse per confessare un peccato, «... Sua madre ha trovato il modo di iscriverla ad una scuola prestigiosa. Dovrebbe esserne fiero», poi gli aggiustò il colletto e gli tirò un buffetto sulla guancia.

«Un modo?».

Aveva l'impressione che quella imprevedibile soluzione avesse a che fare con l'uomo che aveva visto in compagnia di sua madre. Tante domande affioravano nella mente del giovane Arthur, quando provava a farne una otteneva in risposta solo un religioso silenzio.

La sua preoccupazione, però, era rivolta altrove: Arthur si voltava tra la folla, subiva gli spintoni dei passanti – non si curava di chiedere scusa, preso com'era dalla disperata ricerca –, tuttavia non riusciva a scorgere Alfred. Avrebbe voluto salutarlo, almeno, le parole sarebbero venute fuori autonomamente – quello, perlomeno, era l'augurio che si era fatto –, avrebbe voluto fare tante altre cose ancora.







Era una Londra buia quella che Arthur stava lasciando, in tutta sincerità.

Era una Londra tormentata, agitata, sembrava che stesse per rivoltarsi da un momento all'altro.

Era una Londra mite, a primo acchito, in realtà era perennemente fredda.

Era una Londra senza via d'uscita, ove le parole erano plagiate dall'ignoranza.

Era una Londra debole, il che è semplicemente sinonimo di paura – di cosa? Di tutto.

Era una Londra conservatrice quella che si lasciava alle spalle: la paura, improvvisamente, era diventata una persona.

L'individuo modello, nella fattispecie, era la maestra, era la signora Kirkland, era il futuro marito di quest'ultima.

Quella che Arthur si apprestava a lasciarsi alle spalle, in pratica, altro non era che l'inizio di una storia.





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Oh, beh, dovevo aggiornare prima.

Non sapete la fatica che mi è costata questo capitolo: ho tagliato parti, le ho aggiunte, le ho tolte di nuovo e aggiunte nuovamente. Insomma, è stata proprio una faticaccia. XD

Volevo “esaltare” la parte politica/idealistica – è più forte di me, nulla da fare. °w° –, gli anni '60 sono passati alla storia proprio perché sono stati “gli anni della ribellione”. Non me ne vogliate, eh, ma oltre la storia romantica di sottofondo vorrei che questa fan fiction vi lasciasse ben altro. :)

Che fine avrà fatto Alfred? Ed Arthur dove andrà a finire? Oh, beh, scoprirete tutto nel prossimo capitolo... si preannuncia ricco di intrecci, vi avviso. E, dato che lo scoprirete subito, vi annuncio che la storia sarà spostata undici anni dopo, nel 1974 per la precisione.

Vi avevo detto che questa storia avrebbe narrato la storia di Alfred e Arthur a tutto tondo, uhm. v_v



PS: in questo capitolo è importante frase del padre di Arthur: «Figliolo, non dimenticare mai che proveniamo tutti dalla stessa terra. E che ci tramuteremo tutti nella stessa cenere, indistintamente».

In realtà, a titolo informativo, questa era una frase che mi diceva sempre mio nonno. Con termini leggermente diversi, eh, ma il senso era questo. E credo che siano frasi come queste che mi abbiano sempre permesso di mantenere i piedi ben saldi per terra.



Okay, smetto di annoiarvi. XD

Al prossimo capitolo,

Kiki.







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Capitolo 3
*** Terzo capitolo [prima parte] ***





Tutto il resto del mondo



III.



{Prima parte}







Londra, 1973.



Un uomo giovane, aitante e professionale – almeno a giudicare dalla ventiquattrore, tenuta saldamente in una mano – scese da un treno regionale. Il suo passo era sicuro, la sua espressione imperiosa: guardò per un momento intorno a sé, sperando forse di scorgere qualche sagoma familiare.

Poggiò la ventiquattrore a terra, allora, sfilando dalla manica del giaccone un orologio da polso: regalo prestigioso, non v'era dubbio, sua madre aveva tanto insistito affinché lo indossasse.

Arthur indugiò per un sol momento lo sguardo sulle persone che gli passavano accanto: non era strano trovare una massa di rivoltosi oppure dei messaggeri della pace, i quali distribuivano volantini a destra e a manca. Erano gli anni delle ribellioni, dei nuovi ideali, dei movimenti più o meno radicali, i quali indicavano una situazione di grave instabilità sociale.

Quando Arthur drizzò il capo e vide quel che stava cercando da alcuni minuti, ormai: certo, gli anni erano passati e le rughe d'espressione iniziavano a farsi vedere, così come qualche ciuffo bianco. Eppure, gli occhi di suo padre erano sempre gli stessi: profondi e pieni d'orgoglio. D'altronde, come sarebbe potuto essere il contrario?

Poco dopo l'effettiva separazione dei suoi genitori, sua madre aveva deciso di portarlo con sé in Francia: il suo amante, il quale col tempo sarebbe diventato suo marito, era di origini francesi. Quest'ultimo, poi, aveva a sua volta un figlio, pressappoco della stessa età di Arthur. Si trattava di Frances Bonnefoy, giovane rampollo francese dalle alte qualità intellettive ma non altrettanto morali.

Pur tuttavia, Arthur non si era potuto lamentare: era stato educato da rigorosi damerini francesi, aveva imparato diverse lingue e, inoltre, aveva ampliato i suoi interessi, a partire dall'arte sino ad arrivare all'equitazione. Una educazione a trecentosessanta gradi, così com'era stato suggerito da sua madre.

Non era difficile immaginare che Arthur Kirkland, a vent'anni appena compiuti, fosse un uomo di tutto rispetto: quell'anno, in particolare, aveva deciso di prendere in mano la propria vita e vivere un'esperienza a dir poco formativa nella rinomata Università di Oxford. Ragion per cui, suo padre poteva gonfiarsi d'orgoglio; eppure, quando gli fu abbastanza vicino da poterlo abbracciare, preferì accoglierlo con una sonora pacca sulla spalla e un banale: «Come sei cresciuto, figliolo».

Arthur intese quel gesto come una manifestazione d'affetto, suo padre non aveva tradito le sue aspettative: gli anni che aveva trascorso in Francia, seppur allevato da un patrigno, lo avevano fatto maturare, soprattutto dal punto di vista psicologico. La sua fragilità, che taluni avrebbero potuto catalogare come sensibilità, si era evoluta in una corazza quasi impenetrabile, se non altro quanto bastava per ritenersi un uomo dalla personalità scostante. E la cosa davvero triste di tutta quella situazione era che, nonostante tutto, era davvero figlio di suo padre.

«Il viaggio è andato bene? Dove sono i tuoi bagagli?», chiese l'uomo, osservando con un sopracciglio all'insù la ventiquattrore.

«Mia madre me li farà recapitare, abbiamo convenuto che fosse meglio così».

Suo padre allora annuì, dopodiché borbottò per l'ennesima volta qualcosa sul fatto che fosse cresciuto. Poi, lo sguardo di Arthur andò al quotidiano arrotolato che egli teneva saldamente sottobraccio. Non vedeva un quotidiano inglese da dieci anni a quella parte, provò una piacevole sensazione. A quel punto suo padre, forse nel tentativo di stabilire un rapporto tra di loro, glielo porse; Arthur si lasciò persuadere, poi lo sguardo gli cadde sulla prima pagina.

Il vecchio Arthur Kirkland si sarebbe lasciato sopraffare dalle proprie emozioni, balbettando qualcosa di sconnesso ma il nuovo, molto più prudente, se stesso gli suggerì di mantenere un contegno decoroso.

Si trovava a Londra da pochi minuti e il passato era già pronto ad assalirlo, da non crederci.




~



Alfred Jones osservò con aria compiaciuta l'edicola di fronte a sé, la quale occupava quasi per intero la notizia che, ormai da una settimana, si poteva considerare la principale: “La giovane ereditiera Mary Jane Stuart, figlia del rinomato imprenditore Hartley Stuart, è convolata a giuste nozze con un giovane scapolo di origini americane, tale Alfred Jones”, titolavano i quotidiani.

«Sai, dovresti smettere di fermarti ad ogni edicola».

«Dovrei. Ma dovresti anche tu», rispose prontamente Alfred.

I due risero di gusto, poi s'incamminarono verso la piazza principale: Londra si era svegliata, come quasi ogni mattina, uggiosa. Nell'aria si respiravano tanti odori, molteplici profumi, i quali mascheravano lo smog cittadino. I coniugi Jones ne avevano approfittato per fare una passeggiata, da quando si erano sposati la quotidianità non era mai parsa loro più godibile: probabilmente erano ancora nella “fase luna di miele”, tutto sommato era una condizione che non li turbava.

Forse si erano sposati troppo presto, quella critica era stata mossa da parecchie malelingue, forse Alfred Jones aveva voluto approfittare solo dell'ingente ricchezza che sua moglie avrebbe ereditato, avevano supposto altri. La verità era che Alfred Jones era riuscito a farsi una nomina, si era costruito con le sue mani, si potrebbe dire.

Quando aveva deciso di spostarsi in pieno centro, dopo aver accumulato un modesto gruzzolo, il suo obiettivo principale era diventato quello di arrivare alle vette del successo. E, in verità, la fortuna era piovuta dal cielo – come poche nella vita, invero –, letteralmente: aveva conosciuto Mary Jane Stuart quasi per caso, in una serata come tante altre.

Alfred l'aveva potuta ammirare in tutto il suo splendore: seduta sul bordo di una fontana, con il suo abitino luccicante, un indubbio belvedere per gli occhi di chiunque la guardasse. Alfred si era avvicinato a passi lenti e misurati, per ammirare quella travolgente figura da vicino; Mary Jane aveva alzato gli occhi, piuttosto sconsolata invero, esordendo con un sonoro: «Se siete un borseggiatore questa non è la vostra serata. Se siete un maniaco, temo che questa serata non potrebbe andare in maniera peggiore».

Alfred aveva ridacchiato tra sé e sé, un provinciale come lui non aveva imparato la buona educazione. O, meglio, non aveva avuto l'occasione di poterla apprendere. In ogni caso, passeggiando per le vie londinesi più mondane, aveva avuto l'occasione di osservare il comportamento dei giovani rampolli inglesi e ne aveva potuto trarre ispirazione.

«Non sono né l'uno né l'altro. Vorrei potervi dare una mano, se permettete».

Mary Jane parve rilassarsi, allora, gli porse la scarpa e lasciò che Alfred la esaminasse a fondo. Negli anni aveva svolto tanti lavoretti diversi, apprendendo l'arte manuale. Pur tuttavia, quel tacco non si sarebbe potuto aggiustare senza il magico tocco di un calzolaio e quindi Alfred, desolato, si trovò a dover dare una brutta notizia alla ragazza. Mary Jane in realtà non si mostrò molto dispiaciuta – per una ragazza di classe come lei quelle feste erano ordinaria quotidianità –, più che altro si rammaricò per via del fatto che camminare si sarebbe rivelato difficoltoso.

Alfred esordì con una battuta, allora, che avrebbe segnato l'inizio della loro storia: «Potrei invitarvi a camminare con me. Se accettate il mio braccio», disse, abbassandosi alla sua altezza e porgendoglielo. Mary Jane, da quel momento in avanti, non esitò ad aggrapparsi al suo braccio ogni qual volta uscivano insieme.

Poi, il resto era venuto da sé: Alfred aveva fatto la conoscenza di Hartley Stuart, imprenditore di successo, il quale lo aveva invitato a lavorare come suo assistente – anche se non l'avrebbe mai detto, era facilmente intuibile la ragione: non avrebbe mai potuto permettere che sua figlia uscisse con un uomo di levatura così inferiore.

Avevano deciso di sposarsi due anni dopo, senza pensarci troppo, una cerimonia intima ma deliziosa. Alfred aveva accanto a sé una donna che lo amava, un lavoro di successo ed un enorme abitazione. Tutto ciò che aveva sempre desiderato in passato, tutti i suoi sogni erano divenuti realtà. Ecco, la vita che aveva sempre voluto, che aveva sempre invidiato ad Arthur Kirkland.

Lui, ogni tanto, ritornava nei suoi pensieri e si annidava come un tarlo all'interno di una tarsia in legno: seppure fossero passati dieci anni ogni tanto emergeva nella sua memoria e, in mattinate uggiose come quella, la mente non poteva fare a meno di rivangare il passato.



Tuttavia, ben presto avevano iniziato a circolare delle voci riguardo al fatto che Alfred fosse inserito all'interno del business per puro diletto. Ed erano state quelle voci, nonché un certo risentimento morale, a convincerlo a compiere un'azione per la quale nessuno avrebbe mai potuto deriderlo: Alfred Jones si era iscritto nella prestigiosa Università di Oxford e, proprio in quel momento, si trovava di fronte ai cancelli dell'austero edificio.

Lo aveva fatto per se stesso, a dire il vero, per dimostrarsi che con impegno e costanza chiunque poteva arrivare a degli eccellenti risultanti. Erano gli anni Settanta, le università cominciavano ad essere di dominio pubblico, la borghesia iniziava ad avere contorni sempre meno definiti e, allo stesso modo, l'aristocrazia. Il futuro era alla portata di qualunque individuo, in pratica, si iniziava ad affermare una classe di intellettuali senza distinzione e discriminazione sociale. Dai tempi della ribellione universitaria del 1968, erano iniziate a cambiare parecchie cose: il fatto stesso che gli studenti prendessero coscienza di sé, in realtà, era un progresso.

E, quanto più la modernità avanzava, tanto più Alfred Jones si univa a quel grande movimento e varcava i cancelli dell'università della quale aveva tanto sentito parlare da bambino. Pensò a sua madre, a quel punto, la quale avrebbe pianto di gioia al sol vedere quella scena. E poi pensò a suo padre, la visione si fece molto più offuscata, non era un bel ricordo e Alfred si promise che non sarebbe mai arrivato a tanto. Dopotutto, i tempi erano diversi e le possibilità infinite.

«Nessuno che conosci, caro?», domandò Mary Jane, cercando con lo sguardo qualche conoscente.

Alfred negò placidamente con il capo, ancora non sapeva di aver parlato troppo presto.



~



Se c'era una cosa che Arthur aveva imparato ad odiare in Francia erano le abitazioni a più piani. Erano immense e, allo stesso tempo, vuote: a cosa serviva tutto quello spazio se poi, a conti fatti, non veniva adoperato?

Ecco perché aveva silenziosamente ringraziato suo padre per aver comprato una casa più piccola, un appartamento grande quanto bastava per accogliere degli ospiti ma non troppo da perdersi all'interno.

Arthur poggiò le valigie nella camera, esaminando l'aspetto della stanza: un arredamento spartano, proprio come aveva intimamente desiderato. Nella sua abitazione francese era stato abituato al lusso, allo sfarzo, a una serie di cameriere che di volta in volta eseguivano ogni piccolezza. Era bello, per una volta, potersi permettere il lusso dell'indipendenza, quella era una delle ragioni che lo avevano convinto a proseguire gli studi in Inghilterra.

«Se hai bisogno di qualunque cosa...», dichiarò suo padre, lasciando cadere il discorso.

Arthur intuì all'istante, lo congedò con un semplice cenno di capo. Guardò al di fuori della finestra, poi, si accorse per la prima volta dopo tanto tempo quanto gli fosse mancata la pioggia londinese. Era cauta, non faceva troppo rumore, rischiarava l'aria e riempiva la città di odori inesprimibili a parole. Decise di andare a fare una passeggiata, approfittandone per dare una prima occhiata alla futura università. Passeggiando tra le vie, tutto era perfettamente come ricordava: la piazza principale, il celebre orologio che la sovrastava, la residenza della regnante e persino le cose più piccole, i dettagli apparentemente più insignificanti.

Arthur aveva dovuto prendere un autobus che lo conducesse all'interno dell'Università. Solo una volta arrivato alla soglia della rinomata struttura, si accorse di ciò che aveva di fronte: Arthur si addentrò per un sentiero dritto, guardando di tanto in tanto in alto. In Francia ne aveva viste di strutture di quel tipo, pur tuttavia la maestosità era ben diversa; le fronde degli alberi si agitavano smaniosamente, quasi preannunciando i primi venticelli autunnali e fu proprio una folata di vento a scuoterlo con vigore e a fargli scivolare qualche opuscolo informativo.

«Mi scusi, signor- », Arthur notò un brillante, seguito da una fede nuziale, sull'anulare della donna e si corresse: «Volevo dire, signora...».
Arthur fu costretto a lasciare in sospeso la frase, la donna si chinò per afferrare i suoi opuscoli. Poi sorrise in sua direzione e commentò: «Gran bei corsi. Anche mio marito ha scelto questi!».
«Domani è il mio primo giorno, sa», disse Arthur, inserendo gli opuscoli nella tasca del giaccone.
La donna sorrise di nuovo, poi iniziò a farfugliare una serie di futili pensieri. Non era abituato a conversare troppo con le persone, figurarsi con i perfetti estranei. Dopo un tacito momento di silenzio, si scusò e prima di voltarsi e riprendere il suo giro disse solamente: «Beh, penso che conoscerà mio marito allora».



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Note.

Okay, non mi faccio viva da un po'. E originariamente dovevano essere quattro capitoli, ma ho preferito dividere ulteriormente perché il prossimo è il “capitolo centrale”, diciamo, per non appesantire troppo ho preferito optare per questa soluzione. Questa è una panoramica generale, avrete notato qualche cenno storico... l'ho inserito per contestualizzare, ma anche per far capire come in quegli anni fossero importanti gli ideali di libertà, di uguaglianza, di riconoscimento sociale.
Prossimamente arriverà la seconda parte, il tempo di correggerla e revisionarla.
Comunque, vorrei ringraziare tanto tutti coloro che leggono questa storia. Mi sono arrivate tantissime recensioni – e dire che è la prima volta che mi cimento “seriamente” in questo fandom. Che dire, grazie, sono commossa! ç__ç –, ho notato tante letture e tante persone che la inseriscono tra le preferite-seguite-ricordate. Vi ringrazio di cuore per le meravigliose parole. (':

- Kì.


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