Almost lovers

di Violet_forevah
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** An old new life. ***
Capitolo 3: *** 2. Deep insights. ***
Capitolo 4: *** Let's talk. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Dicono che prima di morire vedi tutta la tua vita scorrerti davanti agli occhi: tutti i momenti, belli o brutti che siano; quelli che avresti preferito dimenticare e quelli che non pensavi di ricordare. Per me non è stato così. Quando la macchina di mio padre è slittata fuori scontrandosi su un grosso albero che, con tutta probabilità, non sarebbe dovuto essere lì, l’unica cosa che ho visto è stata la sua faccia, distorta da un urlo e dal faticoso ma vano tentativo di ritornare nella corsia. E poi… il buio.
Dopo quelli che a me sembrarono millenni, ripresi conoscenza, su una barella. Era tutto offuscato, eppure riuscii a distinguere il paramedico che mi urlava parole che a stento sentivo.  Mi chiedeva il mio nome, se sapessi dove mi trovavo. “Dove sono?”, pensai. Volevo chiederglielo, ma non riuscii ad aprire la bocca; ero bloccata. Poi divenne di nuovo tutto nero.
 
Mi risvegliai con un forte mal di testa. Quando aprii gli occhi fui assalita dalla luce del sole, così potente da stordirmi. Avevo una flebo nel braccio sinistro, collegata ad una macchina che emetteva un lento e regolare ‘bip’.  Alzai la testa a fatica e scorsi mia madre seduta su una poltrona vicino alla porta della stanza. Sembrava invecchiata di dieci anni: i suoi occhi, solitamente allegri, erano cerchiati da occhiaie profonde; la bocca era tesa, ma non sorrideva. Quando si accorse che ero sveglia venne vicino al mio letto, mi accarezzò la fronte e mi sussurrò: «Ei, piccola. Come ti senti?». Aveva assunto quel tono che usava quando ero bambina e mi sorrideva tristemente. Fu allora che mi ricordai di mio padre. «Dov’è papà, mamma?», gemetti con voce roca. I suoi occhi si riempirono di lacrime. «Lui è…non ce l’ha fatta, Sophie». Quelle parole mi colpirono come una doccia fredda. “Non può essere vero”, pensai. “E’ solo un brutto sogno, solo uno stupido incubo.” Ma non era così. Mio padre era morto…ed era tutta colpa mia.
 
Tutto quello che riuscivo a sentire era dolore. Ero stata io a distrarre mio padre dalla guida, provocandolo dicendogli che sarei andata a dormire dalla mia amica Amy, anche se lui non voleva. L’avevo fatto arrabbiare.
Mia madre tentò di consolarmi, dicendo che non era colpa mia, che lui non avrebbe mai voluto vedermi così.
Ma io non ce la facevo. E più il senso di colpa aumentava, più sentivo la mia testa esplodere.
 
Due giorni dopo il medico decise che ero sana fisicamente abbastanza per tornare a casa; solo fisicamente, ma non mi importava.  Quel pomeriggio ci sarebbe stato il funerale e dovevo esserci. Mia mamma mi portò in ospedale un suo vestito di pizzo nero, molto semplice. Mentre mi cambiavo mi guardai allo specchio: mi sembrava assurdo vedermi sempre uguale, con il mio fisico esile da bambina, i capelli scuri mossi che circondavano il mio viso forse un po’ troppo squadrato, e che mi scivolavano sugli occhi grandi e scuri da cerbiatto, quando nella mia vita erano cambiate così tante cose. Coprii con il trucco i segni del pianto ma non riuscii a togliere la tristezza dai mie occhi. “Com’era quel proverbio?”, mi chiesi. “Gli occhi sono lo specchio dell’anima.” Ed era così vero.
 
 
Il cimitero di Evanston, Illinois, era così piccolo che mi chiesi dove mettessero tutti i cadaveri; non eravamo così pochi in quel paesino, dopo tutto.  Alla cerimonia partecipammo in pochi: i miei nonni morirono prima che nascessi e mio padre non aveva fratelli. Per me e mia madre era meglio così, non volevamo sentire parole di finto cordoglio provenire da sconosciuti, gente che ci avrebbe compatito senza nemmeno conoscerci. Durante tutto il discorso del pastore fissai la lapide di marmo bianco. Ci avevano inciso poche parole, che per me non avevano significato: “Jack Richardson: 18 ottobre 1962- 27 luglio 2012. In ricordo di un amabile marito e di un padre devoto.” “ Davvero credevano che bastassero quelle parole per ricordare mio padre? Lui non credeva in questo, nella vita dopo la morte. Diceva sempre che quando sarebbe arrivato il suo momento, avrebbe preferito essere cremato e sparso nella natura” , pensai. Ma ormai non aveva più importanza. Dopo la cerimonia tornammo a casa a piedi, senza dire una parola. Mi fissai le scarpe per tutto il tragitto, non volevo vedere l’espressione di mia madre, mi bastava starle vicina per sentire il suo dolore. Avevo un mal di testa tremendo, non voleva finire. Come se non avessi già abbastanza problemi. Arrivammo a casa e io corsi subito in camera mia, al secondo piano. Mi buttai sul letto, tolsi il vestito quasi strappandolo via. Volevo solo mettermi il pigiama e dormire. Dormire, dormire, dormire… finché tutto il dolore non fosse scomparso. Andai in bagno per lavarmi i denti e mi fermai un secondo davanti allo specchio... rimasi paralizzata vedendo il mio riflesso. I miei occhi, di solito scuri, quasi neri, erano bianchi. Bianchi e lucenti, come fatti di quarzo. Sbattei più volte le palpebre con violenza. Poi ricontrollai, ed era di nuovo tutto normale. Tornai in camera dimenticandomi completamente di lavarmi i denti. Mi infilai nel letto. “Era solo un’illusione ottica”, pensai. “Avevo gli occhi lucidi e hanno riflesso la lampadina del bagno.”
 
Una parte di me lo credeva veramente, che era solo una reazione al mal di testa e al troppo piangere. Ma l’altra parte non riusciva a togliere quell’immagine dalla testa, e più la rivedevo, più mi sembrava reale.
 
 
 

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Capitolo 2
*** An old new life. ***


                                                                                                  1. An old new life.



Passai tutto il mese di agosto in casa. Furono le settimane più lunghe della mia vita, le più dolorose. In ogni oggetto e in ogni gesto che compievo rivedevo mio padre. Trascorrevo la maggior parte delle giornate a letto, ma quando mia madre tornava dal lavoro tentavo di comportarmi normalmente. Le preparavo la cena, la aiutavo in casa per non farla faticare troppo, mi sforzavo di parlare di cose frivole come prima, anche se ormai per me non contavano più nulla.  Ma il peggio veniva di notte: ero perseguitata dagli incubi. Più che altro erano immagini frammentate di mio padre, di quando ero piccola; ma spesso rivedevo gli ultimi secondi della sua vita, sentivo di nuovo le urla e mi svegliavo di soprassalto gridando. Il più inquietante era quello in cui mi trovavo in cima ad una gigantesca scala, piangevo e mi dimenavo, senza saperne il motivo. Poi nel sogno i miei occhi sbiancavano, esattamente come avevo visto nello specchio, o credevo di aver visto. In quei casi correvo nel letto di mia madre, la abbracciavo stretta fino a riaddormentarmi. 
 
Però c’erano dei momenti che spezzavano quella che mi sembrava un eterna lotta contro i miei pensieri: quando Amy e Luke, i miei migliori, e, a dire la verità, unici amici, mi venivano a trovare. Quando si presentavano alla mia porta, l’una bassina, magra, ma con una quantità infinita di capelli ricci color oro; e l’altro, alto almeno una spanna più di lei e con un sorrisino sarcastico stampato in faccia praticamente sempre… non potevo fare a meno di sorridere.  Insieme guardavamo film stupidi e serie TV di qualità mediocre, leggevamo giornalini di gossip, giocavamo ai videogiochi e mangiavamo schifezze. Erano gli unici che mi riuscivano a far divertire davvero in quel periodo.  
 
Il mio fidanzato, Ben, purtroppo, era al campeggio organizzato dalla nostra scuola e non poteva passarmi a trovare. In compenso mi tempestava di messaggi e chiamate per sapere come stavo e ebbi la sensazione che si sentisse in colpa per non potermi stare vicino.
Ben Kingsley era il ragazzo più buono che conoscessi; il classico ragazzo americano: biondo, alto, muscoloso e capitano della squadra di football della scuola. Quando cominciammo ad uscire insieme quasi non credevo che una persona come lui avesse notato una come me. Con lui ero più estroversa: lui rideva alle mie battute deprimenti e io non mancavo una sua partita per nulla al mondo.
 
Ma quando Amy e Luke tornavano alle loro vite e Ben staccava il cellulare per andare a dormire…allora la mia tortura ricominciava. Pochi giorni prima del ritorno a scuola mia madre mi accompagnò a Chicago a fare un po’ di shopping. Era una tradizione per noi. Passammo la giornata in centro, ma io ero svogliata e avevo la testa da tutt’altra parte. Quella sera tornammo a casa senza aver comprato nulla così, mia madre, durante la cena mi accennò: «Sophie, tesoro, io e lo sceriffo Kingsley stavamo pensando…ecco credevamo che ti potrebbe far bene andare da uno psicologo, per sfogarti un po’, visto che con me non ci riesci». - «CHE COSA?!?» lo dissi così forte da farla sobbalzare. «Io non ho bisogno di uno strizzacervelli, non sono pazza». In realtà ultimamente dubitavo della mia salute mentale anch’io, soprattutto dopo l’episodio dello specchio. Ma non dovevo essere curata, volevo solo essere capita. Cercai di calmarla: «Mamma, davvero non ne ho bisogno. Sono stata un po’ giù ultimamente ma…è perché mi manca papà. Sempre». Mi prese la mano delicatamente e mi baciò sulla fronte. «Manca anche a me, tesoro. Ma dobbiamo andare avanti, non più possiamo vivere così», mormorò.
Aveva ragione, lo sapevo. Il giorno prima dell’inizio del mio terzo anno di liceo decisi di lasciarmi tutto alle spalle: ogni incubo e ogni brutto pensiero. Avrei cancellato dalla mia testa la visione del mio riflesso dei miei occhi. Dal giorno dopo l’unica cosa che avrei mantenuto di quel mese sarebbe stato il ricordo di mio padre. Un ricordo bello, della mia infanzia, dei momenti passati insieme in famiglia… non quello dei suoi ultimi istanti di vita.
Sarei andata avanti perché, come aveva detto mia madre, era quello che dovevo fare. Ma dentro di me sapevo che non sarebbe stato così semplice.
 
Il primo settembre ricominciarono le lezioni. La Evanston High School era una normalissima scuola americana: l’edificio era grande e abbastanza banale, costruito con mattoni rosso scuro, insomma, una scuola come tante. Non ero assolutamente pronta per tornarci, ma sfoggiai il mio miglior sorriso finto e mi buttai a capofitto nella ripetitiva e monotona vita da liceale.
 
Amy e Luke mi vennero incontro agli armadietti. Abbracciai forte Amy, affondando il viso nei suoi capelli al profumo di fragola. Luke mi sorrise e disse, con il solito tono ironico: «Sei fresca con un fiore…. hai presente quelli che nascono nei cimiteri?» - «Grazie mille, è molto incoraggiante», risposi. «Gli amici servono a questo, no?». Mi prese sottobraccio e mi spinse in classe.
 
Per fortuna le prime tre ore furono leggere: inglese, francese e storia. Storia era la mia preferita, non tanto per gli argomenti, quanto per l’insegnante. La signorina Joyce era la persona più adorabile del mondo. Era gentile con tutti, conosceva il nome e la data di nascita di tutti i suoi alunni, partecipava a tutte le feste di paese e cucinava per i senzatetto. Dopo l’incedente mi portò a casa un cesto pieno di dolci deliziosi, ricordandosi addirittura della mia allergia alla cannella. Faceva da mamma a tutta la città, ma non aveva una famiglia propria, anche per questo tutti le erano vicini, non volevano lasciarla sola.
 
A mezzogiorno finalmente incontrai Ben sul muretto nel cortile, mentre ripassavo matematica. Mi corse incontro: «Ei, ma dov’eri finito?», esclamai. «Sophie! Come stai? Dio, quanto mi sei mancata», sorrise e mi baciò velocemente sulle labbra. «Ci vediamo oggi pomeriggio, vero? Ho gli allenamenti, ma poi passo da te». Acconsentii, e lo guardai scappare via. Raggiunsi Amy e Luke in mensa, presi qualcosa da mangiare e mi sedetti. «Allora… era a lezione con voi?» chiese Amy, elettrizzata. «Chi?», risposi. «Ma il ragazzo nuovo, ovvio. Non dirmi che non sai di chi sto parlando!» - «In realtà, no…». Scioccata, Amy assunse il suo tono da giornalista e disse: «Sei un caso perso. Meno male che ci sono io ha riempire le tue lacune. E’ arrivato la settimana scorsa, si chiama Tobias Bryson, viene da Chicago. O, per essere esatti, dal riformatorio di Chicago». Fece una pausa. Era euforica. «E’ stato lì per un anno intero.  In ogni caso, nessuno è certo del perché. Cecile Benson ha detto che ha stuprato una ragazzina, ma gira voce che ha rapinato la Banca Centrale dell’Illinois da solo.» Luke la interruppe: «Marcus Lloyd dice che ha sedotto una ricca donna sposata e gli ha rubato tutto, compresi i vestiti». Amy ricominciò, divertita: «Bhe, ora è stato preso in affidamento dai signori Stewart e frequenta il nostro stesso anno, anche se è più grande, perché ha perso i corsi essendo in riformatorio. Ah, dimenticavo: è dannatamente carino». Risi. Mi stava contagiando con la sua eccitazione.
 
Ricominciarono le lezioni, così mi diressi insieme a Ben nell’aula di chimica. All’inizio era divertente, ma dopo un’ora l’intera classe era sprofondata nella noia. Ignorai il discorso sulle molecole di ossigeno e cercai nella borsa il mio quaderno degli schizzi. Amavo quel quaderno almeno quanto amavo disegnarci sopra, e non mi interessava se era rosa con i brillantini e avevo 16 anni. Non lo trovai perciò pensai di averlo lasciato sul muretto poche ore prima. Alla fine delle lezioni dissi ad Amy che li avrei raggiunti dopo poco per studiare insieme, e andai a cercare il quaderno. Mi avvicinai al muretto, ma era già occupato.
 
C’era un ragazzo, appoggiato svogliatamente al muro. Ascoltava la musica con le cuffiette e guardava lontano, non so bene cosa. Spostai lo sguardo sul suo viso, non temevo che mi vedesse, era troppo occupato con i suoi pensieri. La prima cosa che pensai fu che mi ricordava una scultura. Di quelle greche o romane che si vedono nei libri di arte. Aveva i lineamenti marcati e un po’ spigolosi, come scolpiti nel marmo. Ma fu quando vidi gli occhi che rimasi scioccata: erano azzurri, ma non il solito celeste grigiastro. Questi erano più chiari, come il cielo la mattina presto, però tendevano al violetto. Rimasi così a fissarli per qualche secondo, poi lui si voltò e mi vide. Dovevo dire qualcosa, ma avevo la gola secca. «Quello è…insomma io…ce-cercavo…» Stavo balbettando, grandioso. «Come, scusa?» chiese lui, aggrottando le sopracciglia e guardandomi come se fossi pazza. «Sto cercando il mio quaderno, dovrebbe essere sul muretto», dissi schiarendomi la voce. Si girò, lo prese dandogli una rapida occhiata e me lo porse. «Gra-grazie», dissi. Accennò un sorriso finto e si allontanò. “Perché ho fatto la figura dell’idiota totale?”, pensai. Erano gli occhi, mi avevano stordita completamente.
 
Mi girai e vidi Amy e Luke dietro di me. «Oh mio Dio. Ci stavi parlando!», esclamò lei. «Con chi?», le chiesi. «Con il probabile criminale, scema».

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Capitolo 3
*** 2. Deep insights. ***


2. Deep insights.
 
Quel pomeriggio studiai con Amy e Luke; non che ci fosse molto da studiare, visto che avevamo appena cominciato i corsi. Dopo solo mezz’ora, eravamo già ritornati a spettegolare sul ragazzo nuovo. Dalla loro conversazione saltarono fuori le teorie più assurde: Amy arrivò perfino a dire che poteva essere l’assassino di Kennedy, mascherato da un radicale intervento di chirurgia estetica. Mi sembrava così strano che fosse un criminale; non aveva il viso che ci si aspetta da persone del genere, sembrava piuttosto un normalissimo ragazzo, con l’aggiunta dello sguardo da cucciolo smarrito. Si divertivano moltissimo, e così anch’io. Poi cominciammo a parlare della partita, la prima del semestre. Tutta la scuola era in fermento perché la squadra avversaria aveva la fama di non averne persa una. Sentivo un misto di ansia ed eccitazione.
 
Quella notte non ebbi i soliti incubi, fortunatamente. Sognai invece gli occhi di Tobias Bryson. Erano ovunque, milioni di occhi azzurri.
 
La mattina dopo mi alzai prima del solito, volevo arrivare a scuola presto, per ripassare un po’ senza l’enorme chiasso pre-partita. In quel periodo faceva ancora abbastanza caldo, così mi avviai a piedi, assaporando l’aria carica di profumo di pancakes e caffè caldo. Vedevo intorno a me l’estate sfuggire via lasciando il posto all’inverno gelido. Il primo senza mio padre.
 
Così, immersa nel mio mondo personale, non feci caso alla persona che camminava nella direzione opposta alla mia. Gli andai addosso, facendo cadere quello che aveva in mano. Mi chinai per raccogliere tutto: erano fogli stampati su carta lucida. Balbettai delle scuse alzandomi; davanti a me c’era in Signor Martin, il nostro postino. Sembrava arrabbiato, probabilmente avevo sgualcito il romanzo che tentava di scrivere da ormai sette anni.
Mi correggo, era arrabbiatissimo. «Potevate prestare un po’ più d’attenzione, Signorina Richardson, o almeno tentare di non calpestare le pagine», sbottò. «Mi dispiace», risposi, a denti stretti. Non mi dispiaceva affatto. Dov’era finita la buona educazione? Almeno io mi ero scusata. Bisogna essere in due per scontrarsi. Mi girai e proseguii senza salutare. Quell’incontro mi aveva fatto infuriare.
 
Come avevo previsto, a scuola non c’era ancora nessuno. Mi sistemai su una panchina nel cortile e aprii il libro di chimica…ma dopo poco mi ero già persa nei miei pensieri. Anche se ci provavo con tutta me stessa, non riuscivo a cancellare la discussione di quella mattina dalla mia testa. Era assurdo che vedere il Signor Martin arrabbiato mi avesse fatto alterare così tanto, ero quasi serena prima, nonostante fossi spaventata dalla mancanza di mio padre. Mi era parso di sentire la sua rabbia, come se fosse… mia.
 
Fui scossa dal suono della campanella. Decisi che ci avrei pensato dopo e mi diressi in classe. Salutai velocemente Luke nel corridoio, entrai nel laboratorio di chimica e mi sedetti aspettando l’arrivo di Ben. Entrò con un sorriso stampato sul volto, salutando tutti allegramente. Si accomodò accanto a me e mi diede un bacio sulla guancia. Non potei fare a meno di sorridere: Ben aveva la risata contagiosa quel giorno.
 
Le prime ore passarono velocemente, le lezioni non mi interessavano, ero troppo presa dai miei dubbi. Iniziai a pensare di avere qualche problema al cervello, forse avevo sbattuto troppo forte la testa. O forse la perdita di mio padre mi aveva reso troppo…empatica.
 
Verso l’ora di pranzo ritornò il mal di testa. Era meno forte dell’ultima volta, ma mi dava comunque fastidio. Entrai nella mensa e mi avvicinai al bancone, osservando distrattamente il cibo esposto. Mi girai e lo vidi: era lontano, nella parte riservata ai dolci. Afferrò un muffin al cioccolato, alzò quegli occhi che tanto mi ossessionavano e si accorse di me. Sembrava indifferente a tutto, come se si sforzasse di allontanarsi dal mondo. Mi sentii arrossire violentemente, così abbassai gli occhi e finsi di essere estremamente presa da un’insalata di pomodori. “Perché mi ritrovo sempre a fissarlo?”, pensai. “Già ho abbastanza problemi, non mi posso permettere di aggiungere anche un probabile criminale alla mia vita. Archivierò Tobias Bryson nella parte del mio cervello delle cose da dimenticare, dopotutto, ho Ben: che me ne importa di lui? Non lo conosco nemmeno”.
 
Cinque secondi dopo il mio sguardo si incollò di nuovo su di lui, mentre usciva in cortile. Era magnetico.
 
Saltai l’ultima ora con una scusa e uscii dalla classe. Non riuscivo proprio a concentrarmi, la testa mi girava. Per i corridoi erano appesi gli stendardi della squadra, blu e gialli, con il leopardo simbolo della città disegnato sopra. Oltrepassai la porta d’ingresso e mi incamminai verso casa. Girando l’angolo vidi il ragazzo nuovo che mi fissava, evidentemente aveva saltato scuola anche lui. Al contrario di me non spostò lo sguardo, perciò rimanemmo a guardarci per qualche secondo. Mi chiesi perché lo facevo. Non sono particolamente bella o interessante.
Non riuscii a sostenere il suo sguardo era troppo accecante, troppo penetrante. Affrettai il passo e me ne andai. Sentivo i suoi occhi bruciare sulle mie spalle.
 
Quella sera lo stadio della scuola era gremito. Ci saranno state un migliaio di persone. Per arrivare al mio solito posto dovetti spintonarne qualcuna e inciampare un milione di volte su altre, con la mia solita grazia da ippopotamo. Amy e Luke erano già lì, armati di nachos e hot dogs. Ne presi una manciata e cominciai a mangiare avidamente. Nel frattempo loro discutevano dei giocatori, era assurdo sentirli, perchè parlavano ad una velocità impressionante e si completavano le frasi a vicenda. Dopo poco fu dato il fischio di inizio. La gente urlava, si sbracciavano per incoraggiare i loro amici, figli, fidanzati. Per un po’ lo feci anch’io, ma mi dovetti fermare: la testa mi girava troppo.
Vedevo tutto sfocato, gli occhi mi bruciavano, le mani erano sudate e non riuscivo a farle smettere di tremare. C’era troppa gente. Troppe persone che urlavano, troppo rumore, troppe emozioni tutte insieme. Strinsi i pugni fino a conficcare le unghie nei palmi. La testa mi stava esplodendo.

Alzai gli occhi e lo vidi. Era lui, Tobias. Mi guardava dall’altra parte della balconata. Strinsi gli occhi per vedere meglio. Mi era parso di aver visto… “Non è possibile”, pensai. I suoi occhi erano bianchi. Come i miei, quella sera di luglio. Color quarzo, quasi trasparenti. Ora la testa mi girava ancora più veloce, avevo le vertigini. Mi girai verso Luke, annaspai. Lui aveva uno sguardo spaventato. Fu l’ultima cosa che vidi, poi cedetti e caddi nel buio più totale.

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Capitolo 4
*** Let's talk. ***





3. Let's talk




Mi svegliai in un luogo piccolo e silenzioso, certamente non era lo stadio della scuola. Non aprii gli occhi, ero ancora spaventata per quello che avevo visto e provato.
Sentivo un forte odore di disinfettante; lentamente spalancai le palpebre e le sbattei per schiarirmi la vista. Davanti a me c’erano Amy e Luke, accovacciati su delle barelle traballanti: ero nell’infermeria della scuola. Tossii un paio di volte, Amy mi si avvicinò: «Come stai? Ci hai fatto prendere un colpo! Non sapevamo che fare e ti abbiamo portato qui, per fortuna nessuno ci ha visto, sai, per via dei tuoi…» - «…Occhi da zombie psicopatica», concluse Luke.
Mi misi a sedere: «Che cosa mi sta succedendo?», chiesi sull’orlo del pianto.
Decisi di rivelargli i miei dubbi, se c’erano delle persone di cui mi potevo fidare erano quei due. «Io…ho sentito la mia testa esplodere. Mi sono sentita sovraccarica di emozioni. Come se provassi quelle di tutte le persone alla partita… e ho ceduto».
 
Non dissi loro di Tobias e di quello che avevo visto, ma non sapevo il perché. Forse era solo troppo presto.
 
Amy e Luke mi guardarono per un po’ come se fossi completamente fuori di testa, poi lui disse:  «Sai, Sophie, forse dovresti considerare seriamente l’idea di andare da uno specialista». Amy gli diede una gomitata. «Quello che pensavamo, in realtà, è che forse dopo l’incidente hai avuto qualche problema, il che è assolutamente normale, e che dovresti confidarti con qualcuno, ma non per forza con uno psicologo, potresti farlo anche con noi…siamo qui per te», disse lei con il tono che si usa con i cuccioli di cane. «L’ho appena fatto! Vi ho detto tutto, ed è vero, è stato un brutto periodo ma avete visto anche voi i miei occhi! Cosa gli spiego a uno strizzacervelli?» urlai io. «Noi volevamo solo aiutarti», abbozzarono loro.
Respirai a fondo per calmarmi. «Okay, io…lo so, ma non mi serve un medico». Feci una pausa. «Sono stanca, me ne vado a casa. Ci vediamo domani». Presi le mie cose e corsi via, trattenendo le lacrime.
 
Sotto le coperte, al sicuro nella mia camera, decisi di fare il punto della situazione: in primo luogo, avevo qualcosa che non andava, e che riguardava i sentimenti e le emozioni altrui – o forse i miei? –, ma non sapevo ancora cosa fosse. In secondo luogo tutte le persone a cui tenevo pensavano che fossi pazza o che avessi bisogno di aiuto, e cominciavo a pensarlo anche io, il che era più grave. In terzo e ultimo luogo, avevo visto gli occhi di Tobias Bryson sbiancare esattamente come i miei, perciò eravamo in qualche modo collegati. E questa era una certezza.
 
La mattina dopo andai a scuola con un piano in mente: avrei cercato di controllarmi e non svenire di fronte a mezza scuola, avrei rappacificato le cose con Amy e Luke, ma soprattutto avrei superato la mia timidezza patologica (e il mio terrore) e avrei parlato con Tobias.
 
Le prime ore passarono velocemente, non parlai quasi con nessuno e mi tenni lontana il più possibile dai gruppi di persone per evitare di perdere di nuovo il controllo; sembrava però tutto normale, come se non mi fosse successo niente di strano.
 
Ben era sovreccitato perché a quanto pare avevano vinto la partita della sera prima. Finsi per tutta la mattina di averla seguita per intero, complimentandomi per i punti che aveva segnato. Non che mi importasse davvero, avevo cose più serie per la testa.
Cercai con lo sguardo la testa riccia di Tobias Bryson nelle classi, ma a quanto pare non avevamo lezioni in comune quel giorno. Ne fui sollevata, perché ancora non sapevo cosa dirgli. Gli avevo parlato una volta sola (se quella si poteva considerare una conversazione) e non avevo idea di come cominciare.
 
Incontrai Amy e Luke nel corridoio prima di pranzo.  «Non trovi che Jake Morgan sia carinissimo? Mi ha fissato tutta la mattina», disse lei, su di giri. «Oh, sì, ha dei capelli stupendi. Sareste carini insieme, lui è uno a posto», risposi, entusiasta. Jake era davvero carino, era capitano della squadra di nuoto e una specie di genio matematico. Lui e Amy sarebbero andati d'accordo.
«No, siamo seri, guarda il suo mento: sembra il sedere di una gallina! Non vi ci vedo insieme…insomma non vorresti dei figli che somigliano al didietro di un uccello, vero?», esclamò  Luke. Lo guardai storto per un po’. “Che diamine stava facendo?”, pensai.

Mangiammo insieme, non ci vollero parole per sistemare la nostra discussione, mi bastò che Amy mi abbracciasse e che Luke mi lanciasse patatine fritte a pranzo ed era tutto come prima.
Finsi di non aver parlato con loro dei miei occhi sbiancati, anzi di non averli avuti affatto. Stava diventando un’ abitudine, comportarmi come se tutto fosse normale, quando sentivo l’esatto contrario.
 
Appena dopo pranzo scappai via da loro e mi precipitai verso il muretto nel cortile della scuola, sperando di trovare Tobias. Non mi sbagliavo, era appoggiato lì, con le cuffiette nelle orecchie e la testa bassa. Non sapevo che cosa avrei detto, ed ero terrorizzata. Ma dovevo cominciare da qualche parte, così tossii per attirare la sua attenzione. Non si mosse di un millimetro. Tossii ancora. Nessuna reazione: cominciai a pensare che fosse sordo. Mi schiarii di nuovo la voce, questa volta più forte. Niente. Non era sordo, mi stava ignorando. “Che cosa irritante”, pensai e probabilmente lo stava pensando anche lui. Non intendevo lasciar perdere, però. 
«Posso parlarti per un secondo?», gli chiesi con voce tremante. Alzò gli occhi al cielo, quegli occhi che non riuscivo a smettere di fissare, con l'iride così chiara e luminosa, si tolse una cuffietta e disse: «Se ne hai tutto questo bisogno» - «Io…ehm…vorrei chiederti una cosa su ieri sera, alla partita», feci una pausa. «Qualcosa che ho visto prima di svenire». - «E, tanto per sapere, perché lo stai chiedendo a me?». Era indifferente e agitato. Per tutta la mattina mi ero preoccupata su cosa dirgli, non avrei mai pensato che lui non volesse parlarmi.
«Bhe, la cosa che ho visto stava succedendo a te», risposi. Aggrottò le sopracciglia. «Sai, Sophie…ti chiami così, giusto?». Annuii. «Io non ero alla partita ieri, perciò dubito che tu mi abbia visto. Probabilmente mi hai confuso con qualcun’altro». Fece un sorrisino decisamente finto, si girò e rientrò nella scuola.
Ero stupita dalla sua reazione e mi sentivo un’idiota. Ero sicura che fosse lui alla partita, anche se, dovevo ammetterlo, sapeva mentire bene. Ma non per questo mi sarei arresa.
 
Lo seguii nei corridoi, non poteva vedermi, c’erano troppe persone. Girò l’angolo ed entrò in una porta a destra. Aspettai cinque minuti fuori e poi lo feci anch’io; era la biblioteca. Si era seduto sulle poltroncine infondo alla sala, ma non leggeva, ascoltava semplicemente la musica. Nella sala non c'era nessun'altro a quell'ora, era vuota e buia, perfetta per chi vuole stare da solo. Afferrai un vecchio libro a caso dagli scaffali di olmo, mi sedetti sulla poltrona di fronte alla sua e lo aprii a metà. Nemmeno finsi di leggerlo.
 
«Sei consapevole che questo è stalking?», dissi lui rompendo il silenzio. «La biblioteca è un luogo pubblico, sto solo leggendo», risposi fredda. «Sì, “I crimini sessuali nell’Ottocento” di Ronald Hawkins. Deve essere interessante». - «Ci devo fare una tesina», dissi. «Pensi di scriverla al contrario? Sei piuttosto diabolica».
“Perfetto” pensai. “Sto leggendo un libro sconcio al contrario. E con questa siamo a due brutte figure”. Non sapevo perché mi importasse.
Buttai il libro sulla poltrona accanto e decisi di andare dritta al punto, scavalcando le mie paure. «Ieri alla partita, non negare di esserci stato perché non ti crederei, ho visto i tuoi occhi diventare bianchi prima di svenire. E anche i miei lo erano, e non è stata la prima volta. Voglio solo sapere perché.» Ero stata troppo diretta o forse non voleva che gli chiedessi una cosa del genere, in ogni caso, era arrabbiato. Si guardò velocemente intorno preoccupato, poi tornò alla sua indifferenza forzata. «Sophie, fidati di me, oppure no, non mi interessa, ma non è vero. I tuoi occhi non potevano essere bianchi. È impossibile e basta. Ti sei solo immaginata tutto. E anche se fosse, io fossi in te non lo vorrei sapere», rispose a denti stretti.
 
Sembrava che i suoi occhi lanciassero fiamme argentate. Si alzò di scatto e uscì, lasciandomi lì, da sola, con troppe domande e nessuna risposta.

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