Fire

di The queen of darkness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giochi ***
Capitolo 2: *** Incomprensioni ***
Capitolo 3: *** Sotto un cielo infinito ***
Capitolo 4: *** Fuggire, solo fuggire ***
Capitolo 5: *** Salvataggio ***
Capitolo 6: *** In salvo ***
Capitolo 7: *** Attesa ***
Capitolo 8: *** Cure ***
Capitolo 9: *** Una stanza che rappresenta l'universo ***
Capitolo 10: *** Risveglio ***
Capitolo 11: *** Persone ***
Capitolo 12: *** Beccati! ***
Capitolo 13: *** Pace ***
Capitolo 14: *** Spiegazioni ***
Capitolo 15: *** Il signor Miyasama ***
Capitolo 16: *** Nel bosco ***
Capitolo 17: *** E giunse la ragione... ***
Capitolo 18: *** Nuove conoscenze ***
Capitolo 19: *** Incontri ufficiali ***
Capitolo 20: *** Sesshomaru-sama ***
Capitolo 21: *** Complicazioni ***
Capitolo 22: *** Fratelli ***
Capitolo 23: *** Determinazione ***
Capitolo 24: *** Fuoco ***
Capitolo 25: *** Demone razionale ***
Capitolo 26: *** Il demone e la donna ***
Capitolo 27: *** Nella capanna ***
Capitolo 28: *** Pittore ***
Capitolo 29: *** Amarsi ***
Capitolo 30: *** Ridere ***
Capitolo 31: *** Segni ***
Capitolo 32: *** Origliando s'impara ***
Capitolo 33: *** Al demone! ***
Capitolo 34: *** Amiche ***
Capitolo 35: *** Figli ***
Capitolo 36: *** Nell'abbraccio della notte ***
Capitolo 37: *** Ambiziose Partenze ***
Capitolo 38: *** Sollievo ***
Capitolo 39: *** Ricostruire ***
Capitolo 40: *** Nostalgie Estive ***
Capitolo 41: *** Amici ***
Capitolo 42: *** Tecniche umane ***
Capitolo 43: *** Chi-Chi ***
Capitolo 44: *** Darsi del tu ***
Capitolo 45: *** Bambini ***
Capitolo 46: *** Prove di Paternità ***
Capitolo 47: *** Consolazioni ***
Capitolo 48: *** Kaori ***
Capitolo 49: *** Pranzo di famiglia ***
Capitolo 50: *** Lettere ***
Capitolo 51: *** Convalescenza ***
Capitolo 52: *** Guerrieri in visita ***
Capitolo 53: *** Riflessioni ***
Capitolo 54: *** Primogeniti ***
Capitolo 55: *** Novelli sposi ***
Capitolo 56: *** Amore incondizionato ***
Capitolo 57: *** Mute rassicurazioni ***
Capitolo 58: *** Celebrazioni ***
Capitolo 59: *** La vita continua ***
Capitolo 60: *** Al di là del pozzo ***



Capitolo 1
*** Giochi ***


Fra le fronde degli alberi in piena fioritura, soffiava un vento gentile.
Immerso nel bosco, circondato da alberi e natura non ostacolata nella propria opera, stava in ascolto, cercando di catturare la sua singolare preda.
Ad un ascoltatore distratto, sarebbe parso che l’ambiente era circondato da un’immobilità disarmante, ma non era affatto vero: drizzando le orecchie, poteva distintamente avvertire il lieve alternarsi del suo respiro.
Quasi poteva addirittura odorare il fiato tiepido di Lei.
Si mosse furtivo, sposandosi dietro un’altra corteccia.
Ecco, adesso lo sentiva chiaramente: una leggerissima ondata di profumo evanescente, unico e posseduto solo da Lei. Perché, per quanto si sforzassero, i contadini al villaggio sapevano sempre e comunque di terra, e le loro mogli non riuscivano del tutto a celare l’odore delle rape e della fatica dalle mani ruvide e callose.
Ma Lei, anche se passava pomeriggi interi all’aperto un po’ per dovere e un po’ per vocazione, non riusciva mai a confondersi con le erbe mediche, con il sangue di donne partorienti che assisteva, oppure con i misteriosi intrugli che fabbricava.
Manteneva sempre quella vena originale anche nell’olfatto.
Una risatina leggera, nel vano tentativo di essere celata. Sul suo viso si dipinse un sorriso cauto; era certo di averla trovata.
Piccole pozze di luce riuscivano a farsi strada fra le foglie fruscianti e profumate. Doveva ammettere che quel tripudio di suoni e odori un po’ lo confondeva, ma d’altra parte era proprio quello il senso della caccia. La fatica della corsa, il rincorrere la preda, lo scovare l’obbiettivo.
Tutto il riquadro rendeva le ore molto più interessanti.
Senza fare il minimo rumore, spostò i piedi nudi alla base dell’albero dove sapeva era nascosta, e si acquattò alle sue radici, in silenzio. Non osava nemmeno respirare come al solito, trattenendo il fiato dentro ai polmoni, liberandone la minima parte.
Era certo che Lei non l’avesse sentito, perché rimaneva immobile oltre la corteccia, cercando disperatamente e inutilmente di non far rumore.
Lui aveva in viso un’espressione soddisfatta, perché la giovane era migliorata parecchio grazie ai suoi insegnamenti. Ossessionato com’era da un possibile rapimento demoniaco, per altro molto comune quando si trattava di sacerdotesse così dotate, le aveva fornito tutto il possibile per farla stare in campana.
Come muoversi nei boschi, come orientarsi con l’indispensabile, come agire in silenzio…l’antica arte dei samurai mischiata ad un po’ di sano apprendimento casalingo.
Non si mosse, non si voleva spostare. Aspettava che fosse lei a sporgersi dal tronco e vedere la sua schiena rossa, appoggiata lì placidamente.
Le dava le spalle: due corpi divisi da un albero, come una volta. Come quando l’aveva trovato, ormai quasi quattro anni prima. Possibile che fosse riuscito a vivere senza di lei per tre anni? Com’era stato possibile?
-Spiegami come fai a trovarmi ogni volta – disse la giovane con disappunto. –Oggi non ho fatto rumore.
Lui chiuse gli occhi, godendo appieno della sua voce fresca. –Ridevi.
-Ma come si fa a non farlo se mi insegui?
-Anche se ti trattieni lo sai che ti trovo lo stesso.
La sentì sbuffare. –Non c’è divertimento a giocare con te -. Ma il suo tono di voce tradiva tutto il contrario.
Rimasero in silenzio per qualche istante; in quei casi le cose da dire non erano molte, soprattutto se il gioco si concludeva in quel modo calmo e pacifico, che faceva scivolare i concorrenti in una sorta di dolce apatia.
Lui, Inuyasha, avrebbe voluto vederla, ma la consapevolezza che lei era lì, dietro di lui, lo faceva sentire meglio senza bisogno di altre conferme.
-Secondo te è ora di pranzo? – chiese distrattamente Kagome. Lui avrebbe scommesso che cercava di scorgere il cielo, perché quando si perdeva nelle sue riflessioni cercava sempre lì l’ispirazione.
-Al villaggio ho visto Kunieko rientrare – rispose lui, senza aprire gli occhi. L’unica cosa che voleva vedere era lei, la natura se la godeva già da quasi cent’anni, e non era cambiata granché. –Però lo sai che lei entra sempre prima.
La ragazza in questione era la figlia di un contadino vedovo, che viveva al limitare del bosco, ed era il loro punto di riferimento quando partivano, la mattina presto. Ormai diventava sempre più raro che Kagome avesse del tempo libero, e volevano sfruttarlo al massimo. Come a voler recuperare quegli strazianti tre anni.
-Quanto tempo fa?
Già poteva sentirla drizzarsi contro il tronco e sistemarsi i vestiti sporchi di polvere.
-Credo un’ora – rispose con semplicità.
-Oh, accidenti, Inuyasha! Quando pensavi di dirmelo? Miroku e Sango ci aspettano! – sbottò alzandosi.
-Lo sapevano che andavamo nel bosco, quindi credo se lo aspettassero.
La sentì ridere, un suono fresco e allegro che gli fece distendere ogni singolo muscolo. –Che pigrone! Muoviti, alzati, il riso non si cucina mica da solo!
Lui sbuffò chiaramente, appoggiandosi ancora di più contro la superficie legnosa e ruvida. Non aveva assolutamente intenzione di alzarsi, nonostante stesse morendo di fame a causa del gioco di quella mattinata, che andava avanti da ore. Voleva solo godersi la pace nell’aria frizzante e, magari, accarezzarle i capelli…ben sapendo che sarebbe stato impossibile.
Col suo naso allenato poté seguire i movimenti della giovane anche a palpebre serrate, che schiuse solamente quando fu sicuro che Lei gli stava davanti.
Tutta la sua magnifica bellezza di donna quasi ventenne esplose davanti al mezzo-demone: capelli neri e lucenti, occhi allegri con un taglio perfetto e quasi provocante, un viso sereno, la bocca carnosa e rosata, la pelle che sembrava splendere…possibile che una donna umana potesse raggiungere una simile avvenenza?
Per non parlare dei vestiti che indossava quando l’aveva conosciuta, un invito esplicito a fissare quelle gambe snelle e perfette. Cosa che, a dire il vero, aveva fatto senza troppi complimenti.
Kagome gli tirò scherzosa una manica della tunica cremisi, fingendosi impaziente. In realtà sapeva benissimo che se Inuyasha non aveva intenzione di alzarsi avrebbero potuto aspettare anche delle ore.
Alla fine fu lui a cedere, completamente stregato dal suo sorriso. Si alzò rischiando di farla cadere per la sorpresa, dal momento che era in bilico su una radice sporgente.
All’ultimo istante, le posò un braccio dietro la schiena, sostenendola. Così facendo, però, avvicinò pericolosamente i due corpi, che arrivarono ad un soffio l’uno dall’altro. Poteva chiaramente sentire il seno di lei contro il torace ampio e scolpito, celato solo da un minimo di stoffa, così sottile.
-Grazie! – disse lei avvampando, per sorridere imbarazzata e sciogliersi.
Era in situazioni come quelle che lui dubitava di riuscire a continuare così, da buon amico e nulla di più. Il suo corpo era un richiamo irresistibile, e Inuyasha faticava sempre di più per frenare la risposta. Era un uomo, dopo tutto, e con quella ragazza costantemente vicino per  sua stessa decisione il suo autocontrollo minacciava di sgretolarsi.
O meglio, lui adorava la sua compagnia, ma non era da poco che desiderava qualcosa in più.
Perché, a  differenza di ciò che si potrebbe pensare, i due una volta tornati non si erano affatto sposati. I motivi, erano sconosciuti agli stessi interessati: traboccavano di passione l’uno per l’altra, ma non osavano nemmeno abbracciarsi, o tenersi per mano.
Il massimo era che lei lo prendesse sottobraccio, come in quel momento, quando passeggiavano, oppure stargli vicino in ogni momento della giornata.
Inoltre Kaede, sotto pressione dei paesani e dei monaci dei villaggi limitrofi, aveva dovuto celebrare una cerimonia in pompa magna per insignire Kagome a sacerdotessa. La cosa non voleva avere risvolti malvagi, ma era stato solo un modo per ringraziare il gruppo, finalmente riunito, di aver liberato il Giappone da quel terribile demone quale Naraku.
Ma, mentre Miroku era prontissimo a trasgredire come testimoniava la sua stessa amata famiglia, Kagome era costretta alla rigidità da un controllo perpetuo.
Il dolce, caro Inuyasha, si era trovato così beffato. E non poteva fare nulla se non starle accanto, cosa che per lo meno gli donava una felicità immensa.
Ma piccoli incidenti del genere minacciavano di mettere a repentaglio tutta la loro fatica. Ed entrambi finivano imbarazzati e a disagio, senza motivo.
-Speriamo che non siano già arrivati – disse Kagome, tenendosi al braccio di lui. –Sai che figuraccia farli aspettare per tutto questo tempo?
Inuyasha si limitò a sbuffare, scorbutico come al solito. Anche se certi momenti in compagnia gli facevano piacere, in quell’istante aveva in mente ben altre attività. E no, non avevano a che fare col cibo.
Fecero presto a tornare, forse troppo: ad entrambi pareva di essersi addentrati molto di più. Passarono vicino al Goshinboku senza negargli un’altra occhiata piena di ricordi, poi girarono volutamente al largo del pozzo, ancora troppo doloroso per entrambi.
Si immersero così nel pieno centro abitato contadino, dai campi deserti e le zappe abbandonate a terra dopo ore di fatica. La replica era nel pomeriggio, ma per il momento si godevano il pranzo con le famiglie.
Quei pochi ragazzini fuori sul selciato con questa o quella stoviglia da raccogliere salutavano calorosamente la sacerdotessa, che rispondeva senza scomporsi. Faceva finta di niente, persino di essere sottobraccio ad un mezzo-demone.
In realtà, i bambini erano le creature segretamente preferite da Inuyasha perché, anche se lo infastidivano con i loro giochi pericolosi ai danni delle sue orecchie, erano gli unici che l’avessero automaticamente accettato come membro del villaggio. I loro genitori, nonostante venissero aiutati da lui ogni pomeriggio e liberati da qualsiasi demone di passaggio, nutrivano ancora qualche remora nei suoi confronti.
Arrivarono davanti ad uno spiazzo erboso, abitato da una piccola capanna solitaria. Il camino fumava e le porte erano aperte, lasciando passare un vociare allegro di adulti e bambini.
-Ti prego – disse Kagome vacillando, - dimmi che non stanno ancora giocando con le mie pentole.
-Te l’ho detto, era meglio se rimanevamo nel bosco. Potevo pescare qualcosa e accendere un fuoco.
La vide alzare gli occhi al cielo, divertita. –Andiamo, Superman, ho bisogno di una sfuriata -, disse tirandolo per un braccio verso l’interno.
Chi diamine era Superman? 

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Capitolo 2
*** Incomprensioni ***


Rin sapeva per certo che sarebbe venuto, lo sapeva, anche se tutti quanti la scoraggiavano cercando di farle pensare il contrario. Chi erano loro per prevedere le mosse del Signor Sesshomaru?
Un demone potente come lui non poteva certo essere compreso da dei contadini in mezzo al nulla, né tanto meno ciò che lo legava a lei.
In effetti, nemmeno lei avrebbe saputo classificare la gratitudine che provava per il Signor Sesshomaru, però era una cosa sconfinata e indiscutibile basata, essenzialmente, sulla fiducia reciproca.
Lui, l’ultima volta che era andato a trovarla, le aveva detto che sarebbe tornato al novilunio.
E quella notte ci sarebbe stato il novilunio.
Quindi, perché dubitare? Era l’unica creatura che non le avrebbe mai mentito, né saltato un appuntamento.
Infatti , per quanto cercasse di negarlo a sé stesso, non riusciva ad abbandonare la ragazza in quel villaggio solitario. La presenza del fratello non c’entrava nulla; a conti fatti, chi era un imperatore senza un’imperatrice?
Rin non aveva la presunzione di essere tale, ovviamente, e non credeva neppure di aver catturato il cuore freddo e spietato bisognoso d’amore del demone, semplicemente credeva che lei, per lui, fosse essenziale.
Così come il Signor Sesshomaru rappresentava per lei l’aria, l’acqua, la terra su cui poggiava i piedi, passava i pomeriggi a cullarsi che qualsiasi luna stesse vedendo, qualsiasi femmina stesse baciando, lui pensasse lo stesso, e che un angoletto del suo nobile cervello tornasse da lei, seguito dal corpo.
Ignorava cosa il suo adorato Signore facesse, e la sua unica speranza era che, una volta finito, tornasse a casa.
Da lei.
Ormai, infatti, non era così piccola ed ingenua come una volta. Più di un ragazzo le aveva chiesto la mano, nonostante facesse di tutto per scoraggiare tali richieste. Era giovane, questo sì, però non stupida a tal punto da non vedere le viscide occhiate maschili sulle gambe che si stavano allungando e sul kimono teso sul fondoschiena.
Naturalmente non aveva nessunissima intenzione di unirsi in alcun modo con un uomo, e il solo pensiero le causava un moto di ribrezzo incredibile.
Preferiva dedicarsi senza riserve al suo demone centenario, perché era l’unico che non l’avesse mai delusa, e che avrebbe continuato a non farlo.
Scaricò il barile pieno di acqua sporca nel secchio apposito e si trascinò il pesante fardello sul fianco, come al solito. Faceva quei lavori quasi con piacere, perché il Signor Sesshomaru ci teneva che imparasse un mestiere.
Fare la levatrice non le dispiaceva nemmeno così tanto, in effetti, ed era un lavoro interessante rispetto ad una contadina. Inoltre la venerabile Kaede era una brava insegnante, severa, puntigliosa ma efficace.
Con lei imparava velocemente, e ormai le donne che stavano per mettere al mondo un bambino cominciavano a fidarsi di lei. Era particolarmente brava nel curare le ferite in seguito al parto, e la vecchia sacerdotessa pensava fosse a causa dei suoi viaggi con il Signor Sesshomaru, in quanto aveva dovuto arrangiarsi se si faceva male, diventando inconsciamente abile con pezze e cuciture.
Era insensibile alla vista del sangue, perché aveva visto di peggio: dopo la violenza carnale sperimentata sulla propria pelle, non aveva battuto ciglio nemmeno quando il suo demone era tornato per divorare un braccio umano davanti ai suoi occhi. Gli aveva persino domandato se poteva assaggiare.
Sistemò la borsa di Kaede, lasciata aperta in bella vista sul pavimento. Quella signora doveva stare più attenta, quando si cambiava dopo un viaggio. Va bene che stava invecchiando, ma da qui a dimenticarsi l’arsenale sparso in giro, ne passava di acqua sotto i ponti.
Con un sospiro, richiuse il kit nell’armadio, serrando le ante in legno. Non era la prima volta che capitava, purtroppo.
Prese l’arco, e nella luce del pomeriggio,  prese a lucidarlo minuziosamente.
Non aveva la minima idea di come la donna e Kagome riuscissero a maneggiarlo tanto abilmente, in quanto lei era colta da una specie di timore reverenziale solo quando doveva oliarlo.
Era assolutamente incapace quando si trattava di incoccare frecce o tendere corde, e lasciava questo mestiere alle due protettrici del villaggio. Passò i panno sul legno prezioso, rendendolo lucido e funzionale.
Poi prese il prodotto speciale per le rifiniture e si dedicò al lavoro più difficile aguzzando la vista.
La luce filtrava copiosamente dalle imposte spalancate, ma la stanchezza dovuta al compito appena finito nel villaggio vicino le rendeva difficile qualsiasi operazione che andasse oltre al meccanico strofinare.
Era stato un parto difficile: la bambina avrebbe dovuto nascere qualche settimana più tardi, e le contrazioni avevano sorpreso tutti. All’inizio la donna non ci aveva dato importanza, ma quando l’avevano trovata dolorante nella propria capanna le avevano subito mandate a chiamare.
Però il tragitto difficoltoso e la distanza da percorrere non erano stati dalla loro parte, rallentandone l’arrivo di quasi un’ora, nonostante i cavalli spinti al massimo.
La puerpera aveva perso moltissimo sangue, e faticarono non poco per assicurarsi che entrambe rimanessero in vita. Alla fine, però, tutto si era risolto bene, e la ragazza aveva stretto fra le braccia una neonata che avrebbe portato il suo nome. La piccola Rin, quando partirono, già dormiva.
Mentre si dedicava alla corda, la ragazza sperò sul serio che la Rin appena nata avesse la fortuna di incontrare un demone speciale, com’era successo a colei che l’aveva fatta nascere. La sua vita avrebbe potuto avere un senso, se fosse successo, e lei lo voleva veramente.
-Scusate, nobile Rin…siete sola?
Una voce alla porta la fece sobbalzare, col rischio che l’arco le sfuggisse dalle mani. –Eh? Che c’è?
Nel riquadro di luce violenta stava un ragazzo, che le pareva di aver visto al villaggio un paio di volte. Un tipo alto, reso muscoloso dalle fatiche di contadino.
-Scusatemi – disse imbarazzato. –Non volevo spaventarvi.
-Per favore, entrate dentro, questa luce mi abbaglia e non riesco a vedervi in faccia.
L’altro obbedì, rimettendo a posto la stuoia sullo stipite in legno, accomodandosi su un cuscino davanti a lei.
-Se cercate la venerabile Kaede, credo stia dormendo – disse Rin, sorridendo cordiale. Ricordava la domanda fatta dal giovane, e aveva imparato per esperienza che con gli uomini bisognava far credere di non essere mai e poi mai sole e indifese. In effetti non aveva idea se la sacerdotessa ci fosse oppure no, ma di solito si ritirava sul suo giaciglio in paglia per cedere alla stanchezza.
-No, no, non cercavo lei…ero venuto per voi – ammise arrossendo. Quella storia cominciava a non piacerle affatto.
-Vi servono delle erbe?
-Ehm..il motivo della mia visita è leggermente diverso -. Quando parlava non la guardava negli occhi e si torceva le mani callose, sfiancate dal lavoro.
Rin prese in mano una freccia posando invece l’arco. Anche se non la sapeva usare, la punta acuminata conficcata in un occhio doveva fare male lo stesso, no?
-Ecco, vedete… - continuò, spronato dal silenzio della ragazza. –Anche se capisco che ci siamo visti pochissime volte e che non vi ricordate di me…volevo lo stesso chiedervi se vorreste diventare mia moglie.
Alzò lo sguardo e le sorrise timidamente, piegando le spalle dall’umiltà.
La futura levatrice rimase zitta, non osava parlare. Probabilmente, se avesse avuto una famiglia normale, quella presentazione educata e rispettosa avrebbe deciso il suo destino, ovvero abbandonare l’arte che stava apprendendo e dedicarsi al fare bambini e cucinare.
Purtroppo per lui, però, la sua intera esistenza, per quanto misera, era assorbita da un capolavoro chiamato Signor Sesshomaru. Il suo mestiere, la sua anima, il suo cuore e tutto ciò che possedeva appartenevano a lui, e non esisteva nessuno in grado di spezzare questa convinzione.
Apprezzava, naturalmente, il coraggio che aveva avuto il giovane, e il fatto che avesse ignorato la presenza di un demone che andava regolarmente a trovarla lo rendevano ammirevole fra i suoi simili, però sarebbe stato costretto a subire un rifiuto.
La ragazza sorrise, cercando di essere il più delicata possibile. –Mi dispiace, ma io non posso accettare. Non dipende da voi, credetemi, anzi, ho molto apprezzato le vostre parole. Mi sento lusingata, dico davvero. Se questo può consolarvi, non mi vedrete mai sposata con un altro fra i vostri compaesani. È un voto con me stessa, se così si può dire, e la mia vita per il momento non ha spazio per il matrimonio.
Il giovane fece un sorriso triste e sconsolato. –È per quel demone che viene a trovarvi, vero?
Rin annuì, piano. Che senso aveva mentirgli, povero diavolo?
Lo vide scuotere piano la testa, rassegnato. –Mi dispiace se vi ho disturbato. Scusatemi.
Detto questo, uscì dalla porta, nascondendo il viso perché lei non vedesse le lacrime.
In cuor suo le dispiaceva, ma dubitava sarebbe stata una buona moglie. E poi, dopo un po’ di tempo, avrebbe anche dovuto rinunciare a Sesshomaru, e questo era impossibile anche solo da pensare. Lui era il suo sole, la sua ragione di vita. Come avrebbe fatto senza?
O meglio: come avrebbe fatto a sostenere il suo sguardo freddo mentre teneva in braccio figli di cui non era il padre?
Come avrebbe fatto a non aspettarlo nella capanna vuota, trepidante, ma in un’altra a concedersi ad un  marito stanco e così dannatamente umano?
Semplicemente, non ce l’avrebbe fatta.
Sentì l’aria cambiare, in uno scatto repentino, e il vento sul retro della capanna virò improvvisamente direzione. Il suo cuore palpitò: possibile che fosse davvero lui?, si chiese emozionata. Era raro che venisse alla luce del sole.
Subito, si inginocchiò davanti alla specchiera, mettendo a posto i capelli come meglio poteva, abbandonando la faretra in un angolo, ben lucidata. Non c’era verso di cambiare pettinatura: a lui piaceva solo  e sempre la solita, con un infantile codino di lato, allegro.
Si lisciò il kimono, e non pensò nemmeno di truccarsi. I cosmetici l’avrebbero resa ridicola davanti ai suoi occhi, ed era l’ultima cosa che voleva. Bene, era in ordine, anche se ancora indegna di presentarsi davanti a lui.
Per Sesshomaru, avrebbe voluto indossare le stoffe migliori, acconciarsi i capelli nel modo più elegante possibile, raffinare il viso secondo lei spoglio con un trucco sofisticato, ma non poteva. Le mani curate in modo indispensabile, le stoffe semplici che le regalava, i capelli sempre messi al solito modo. Ecco come la voleva vedere.
Che non lo attraesse? Che la vedesse sempre e solo come una bambina innocente? Lei sperava vivamente di no.
Arrossì, mentre girava intorno alla casetta tranquilla, senza riuscire a domare i battiti impazziti del proprio cuore.
Non aveva conferme che fosse arrivato in pieno pomeriggio solo per vederla, ma se conosceva abbastanza il turbine leggero che si lasciava dietro, allora era più che certa che fosse lui.
Con la sola presenza, aveva scacciato il ricordo del ragazzo.
-Rin -, disse solo. Era quello il suo saluto.
Un demone possente, fiero, invincibile, nell’elegante e sobrio kimono bianco temuto dai nemici. Il viso ovale e conosciuto, la cascata gelida di capelli perfetti lungo la schiena forte, l’armatura semplice a coprire un petto sublime. Possibile che potesse essere resa partecipe dallo spettacolo di quegli infiniti occhi gialli senza nessun prezzo da pagare?
-Signor Sesshomaru – rispose, sorridendo. Lui non parlò. –Cosa vi è successo? – chiese allora, preoccupata.
-Nulla -. Non poteva avvicinarsi se voleva vedergli il viso, a causa dell’altezza, così nettamente superiore alla sua.
-È stato un viaggio lungo?
-Sì.
Silenzio. Non aveva bisogno di nient’altro, per farsi cullare da quella freddezza. Era lei l’incaricata di coprire il silenzio, in quel misero spazio erboso circondato dal nulla.
-Sapete, oggi ho fatto nascere una bambina e le hanno dato il mio nome. Aveva anche lei i capelli scuri, nonostante le si vedesse un ciuffo soltanto. Prima, nella capanna, ho pregato per la sua anima. Ho sperato che il mio nome le portasse fortuna – confidò, cercando di essere allegra, celando l’imbarazzo.
Si voltò, senza dargli propriamente le spalle, visto che lui aveva il busto appoggiato ad una possente quercia e la stava guardando. Raccolse delle margherite candide, e le tenne in grembo.
-Secondo voi il nome Rin è di buon auspicio? – chiese, pentendosi subito dopo. Era sbagliato porre certi interrogativi, anche se lui non le aveva mai vietato nulla del genere.
-Devi saperlo tu.
-Giusto, avete ragione. Scusatemi, credo sia stata la stanchezza a parlare per me.
Per un attimo si distrasse, a guardare il cielo. Quando stava sul retro, o in una radura, aveva la sua pace, l’attimo in cui rilassarsi. Poi il suo padrone partiva e lei contava i minuti per il prossimo incontro.
-Rin – disse lui, col suo tono profondo. –Sei in età da marito, ormai. Le ragazze grandi come te a quest’ora sono tutte incinte.
Queste parole la ferirono nel profondo, scavandole un solco difficilmente rimarginabile, intenso e bruciante. Lei si stava sacrificando per il Signor Sesshomaru, si negava una vita stabile per morire sola, nell’attesa di sporadici incontri dietro alla capanna di una sacerdotessa vecchia e raggrinzita, passando le giornate con le mani nei genitali donne altrui per cavarne fuori esseri urlanti condannati all’ignoranza e alla fame, alla miseria. Come poteva dirle esplicitamente una cosa simile?
-Cosa state cercando di dirmi? – chiese cauta. Il sorriso onnipresente smise di illuminarle la bocca.
-Sto dicendo –rispose imperturbabile, - che dovresti trovarti un marito.
-Cosa? – scattò lei. Cosa significava tutto questo? Aveva quattordici anni! Voleva forse vederla gravida e abbandonarla ad una vita infelice?
-Vorrei che tu avessi una vita stabile, Rin.
-Non si chiamerebbe vita stabile, Signor Sesshomaru. Si chiamerebbe vita infelice. Vorreste davvero vedermi portare in grembo un figlio umano? – una lacrima le solcò una guancia. – Avevo sbagliato credendo che voi foste diverso.
Qualcosa di essenziale si era rotto, in lei. In realtà, la sua felicità era costruita su una bugia. –Se volevate liberarvi di me, bastava dirlo subito. Addio – concluse, prima di voltarsi e scappare via.
-Rin, aspetta…- cercò di trattenerla lui, ma fu tutto inutile. Ormai non era più il suo demone.
Le margherite caddero a terra, e lì restarono. 

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Capitolo 3
*** Sotto un cielo infinito ***


Le gemelle, dopo aver torturato le orecchie di Inuyasha per tutto il pranzo, si erano addormentate stremate su una stuoia, sotto la sguardo divertito delle ragazze di casa.
Il maschietto, ancora piccolo per nuocere alla salute del mezzo- demone, lo guardava mugolando delle parole incomprensibili in braccio al padre.
Alla fine, Kagome dovette ritenersi soddisfatta del pranzo: una volta tornati, infatti, avevano scoperto che Sango ne aveva approfittato per portare del riso da casa propria, in quanto già prevedeva il ritardo dei due amici.
Il monaco, invece, era inizialmente rimasto a casa ad occuparsi dei bambini, perché quella settimana era dovuto stare via molto più tempo del previsto per una sorta di test sulle proprie dote spirituali.
A Kagome, a dire la verità, non era molto chiara questa questione, ma la sterminatrice di demoni non era sembrata affatto preoccupata per le sorti del marito. Evidentemente nel posto dove andava non c’erano donne.
-Shippo, come mai non parli? – chiese preoccupata la sacerdotessa. Era rimasto in disparte per tutto il pranzo, mangiando relegato in un angoletto tutto per conto suo.
Nemmeno Inuyasha aveva avuto il coraggio di infastidirlo, visto quant’era tetro.
-Ah, no, nulla – disse, in tono decisamente poco rassicurante. Le nubi si erano addensate sul suo viso innocente di bambino.
Sango sorrise furba alla padrona di casa, strizzandole l’occhio. –Shippo, perché non porti un po’ Kirara a fare un giro? È da una settimana che poltrisce, credo che una bella passeggiatina non le farebbe male. Che ne dici?
Il ragazzino, grato di avere qualcosa da fare, annuì, sembrando leggermente più animato di prima. Si fiondò fuori dalla stanza con l’animale che lo seguiva, obbediente.
Inuyasha e Kagome si scambiarono un’occhiata: non ne capivano assolutamente nulla.
-Delusione d’amore – sospirò Miroku, teatrale.
-Ancora? – sbottò il ragazzo dai capelli color neve, distendendo appena l’espressione corrucciata. Per quanto cercasse di nasconderlo sotto uno strato burbero e intrattabile, lui a Shippo voleva davvero bene.
Non aveva dimenticato il coraggio del bambino in diverse occasioni, e di come avesse contribuito ad unire lui e la sacerdotessa. Certo, non che avesse avuto molto effetto…
-Già – disse il monaco, spezzando i suoi pensieri scivolati di nuovo nella lussuria, - Stavolta era una ragazzina dal villaggio qua vicino. Non riesco a capire come abbiamo fatto a conoscersi, fatto sta che è scoppiato l’amore.
Come ogni volta quando veniva nominato l’argomento, i due coniugi si scambiavano un’occhiata colma di gratitudine l’uno per l’altro.
-Forse passa troppo tempo con te, monaco – disse Inuyasha, prima di alzarsi e uscire fuori.
Kagome tentò di richiamarlo, ma con la coda dell’occhio notò che Sango la richiamò facendole capire di lasciarlo stare. In effetti, per quanto apprezzasse la compagnia della sacerdotessa, in quel momento aveva bisogno di stare solo.
Una volta, sentendo parlare di delusione amorose, avrebbe pensato automaticamente a Kikyo, ma ormai quegli anni erano finiti. Certo, la ricordava ancora, ma preferiva fermarsi a prima degli eventi che l’avevano portato al sigillo.
La pensava a quei tempi, quando capitava, e non al cadavere freddo e insensibile che era diventata. Non gli importava che avesse fatto anche del bene, durante la sua permanenza forzata sulla terra: lei voleva essere uccisa e uccidere anche lui, che aveva capito i suoi piani troppo tardi per evitare tutte quelle sofferenze a Kagome…
Già, Kagome. La ragazza bellissima, gentile, dolce che si occupava di lui. Che aveva fatto costruire la sua casa ai piedi dell’albero dove dormiva di solito, nello stesso posto dove aveva incontrato il demone che si spacciava per sua madre, tantissimo tempo prima.
La ragazza che aveva pensato fino quasi a distruggersi, e di cui non aveva mai accettato la scomparsa fino a quando, dopo un’infinità, era tornata da lui, tagliando per sempre i ponti con il mondo a lei noto.
Era amore, indubbiamente; lei aveva avuto tanto da perdere al di là del pozzo, eppure non aveva esitato a rinunciare per lui.
Proprio quando poteva essere sua, ecco che la spiritualità si metteva in mezzo un’ennesima volta: possibile che gli dei incastrassero sempre la donna che amava con questa o l’altra scusa?
Non pensava certo che avrebbe dovuto scontrarsi con la castità. Insomma, chi mai avrebbe pensato che ad impedirgli di avere una moglie sarebbe stata proprio una cosa del genere?
Era ridicolo. E magari avrebbero deciso di fare uno strappo alla regola solo per darla in sposa ad un inutile umano, che l’avrebbe trattata come una serva per tutta la vita che le sarebbe rimasta.
Quale commissione di sacerdoti ammette il matrimonio tra una sacerdotessa e un mezzo-demone? Solo un gruppo di psicopatici, indubbiamente.
Però, per quanto ne sapesse, tutti lì intorno erano ritenuti sani di mente, e quindi lui poteva solo rimanere inerme a guardarla far nascere bambini d’altri, e non poterne mai avere uno suo.
Gli dispiaceva morire senza figli; avrebbe voluto vedere se era capace di fare qualcosa di buono, ma evidentemente il destino aveva altri programmi per lui.
Con un balzo, si spostò sui rami più alti di un albero qualsiasi, in mezzo a centinaia d’altri. Non vedeva niente se non foglie e rami all’infinito, ma non gli importava. Aveva bisogno di un po’ di pace.
Lasciò passare il pomeriggio, e non reagì neppure sentendo arrivare l’aura demoniaca di suo fratello, il “potente” Sesshomaru, per il suo costante appuntamento con Rin, la splendida aspirante levatrice di poche capanne più in là.
-Che sole, eh? – disse una voce familiare sotto di lui. Il tono era evidentemente perplesso e malsicuro, come se stesse camminando su un campo minato. E, per certi versi, era proprio così.
Lui chiuse gli occhi, stanco nonostante non avesse fatto nulla. Non aveva previsto che, ovviamente, lei sarebbe venuto a cercarlo, perché si preoccupava per lui e gli voleva bene. Un tipo d’amore che non poteva trovare la giusta espressione per colpa di alcuni stupidi voti imposti da un idiota qualunque.
-Kagome, ti prego, ho bisogno di rimanere solo – disse, senza troppa convinzione. Strinse forte un ramoscello appoggiato al suo polso da ore, come per farsi coraggio a respingerla, per reprimere la sensazione che lo stava facendo sentire un bastardissimo verme.
-Mi sembra non ti faccia poi così bene, dopotutto. E poi è tutto il pomeriggio che ne stai quassù – ribatté la ragazza, guerrigliera.
-Sto benissimo su questo ramo – obbiettò Inuyasha, cocciuto. Si odiava per darle sempre contro con la propria testardaggine, ma era più forte di lui.
-Inuyasha, o scendi immediatamente da lì oppure mi ci arrampico, dovesse volerci tutta la notte – disse accusatoria, con un tono che non ammetteva repliche. – E poi – aggiunse, - visto che non sono esperta con questi vestiti ingombranti cadrei di certo e mi romperei una gamba. A quel punto mi avresti sulla coscienza, ti avviso.
Quando lo minacciava così non scherzava mai, ne aveva avuto diverse prove durante gli anni in cui aveva imparato a conoscerla: Kagome diceva sul serio, si sarebbe molto probabilmente fatta male e si sarebbe sentito in colpa in modo a dir poco allucinante.
Inoltre, i suoi istinti maschili si erano attivati subito al pensiero delle sue cosce candide a contatto con la corteccia. Una volta salita cosa avrebbe fatto sullo spazio ristretto del tronco? Indubbiamente sarebbe caduta con gli abiti da sacerdotessa; per evitare che si rompesse qualcosa bastava solo toglierli…
-Perché invece di arrossire non scendi? -. Oh cavolo. Era meglio se si dava una regolata.
Rassegnato e imbarazzato, si allungò dal suo trono provvisorio e scese giù con un unico, elegante salto, atterrando perfettamente in piedi. Ora rimaneva solo quella minaccia a forma di ragazza che lo guardava corrucciata, con tutta l’aria di trattenerlo fino ad ottenere una spiegazione. Che lui non voleva dare.
-Beh? – borbottò scorbutico. –Sono sceso, contenta?
-Un sacco – disse la ragazza sospirando. –Adesso mi spieghi che ti prende?
Lui abbassò il capo, lasciando che la cascata bianca rappresentata dai capelli sottili gli coprisse il viso per buona parte. Guardarla negli occhi era difficile, come mai lo era stato, e il peso di quello che voleva dirle lo schiacciava, perché era la prima volta che le teneva un segreto. Ma la cosa peggiore era che non aveva assolutamente intenzione di rivelarglielo.
Sapeva metterlo in difficoltà come nessun altro. –Niente.
La sacerdotessa sbuffò, evidentemente esasperata. –Inuyasha, ti prego! Sei un pessimo bugiardo. Credi di poter risolvere i tuoi problemi abbracciato ad un pezzo di legno?
-Non lo stavo abbracciando.
-Era una metafora – rispose infastidita. Un attimo di silenzio, poi ripartì, addolcendo il tono e facendolo sentire amato e colmo di zucchero, invece che di muscoli, ossa e organi interni. –Io voglio aiutarti seriamente, non sto scherzando. Mi piacerebbe capire cosa ti preoccupa, per cercare una soluzione.
-Kagome… - disse incerto. –Posso farti una domanda?
La vide sorridere dolcemente. –Tutto quello che vuoi.
Lui prese un profondo sospiro, perché ciò che stava per dire non era affatto facile, e dubitava sarebbe stata altrettanto disponibile all’aiutarlo. O meglio, l’unica cosa che avrebbe voluto fargli, conoscendola, sarebbe stata solo una gran bastonata terapeutica.
-Tu…ti sei pentita di aver attraversato il pozzo, quell’ultima volta?
Lesse chiaramente lo sconcerto attraversarle il viso di porcellana, accompagnato da un profondo dolore condiviso da entrambi.
Sicuramente si stava chiedendo che diritto aveva di insinuare una cosa del genere, e se ne sarebbe andata, furiosa con lui. Visto che ormai era una cosa definitiva, instaurare un dubbio del genere nella sua testa sarebbe stato un crimine, dal momento che anche volendo non sarebbe mai riuscita a tornare al futuro.
Non solo perché il pozzo era completamente chiuso, ma anche grazie a quella che sembrava essere una rete connessa con il potere emanato da Naraku: pareva fosse stato in qualche modo collegato a quel passaggio, anche se nessuno immaginava come. E, dal momento che era sparito, ogni sorta di legame si era interrotto.
Tuttavia, invece che sbraitare o andarsene, la sacerdotessa fece tutto il contrario, assumendo un’espressione più distesa e riflessiva.
Inuyasha la ammirava molto, e seppe in quell’istante di amarla, senz’ombra di dubbio. Nonostante la potenza sconcertante di quell’interrogativo, aveva promesso di dargli una mano, e non si stava tirando indietro.
Il cielo si tinse di un rosso acceso, per assumere un’incantevole sfumatura di un indaco potente nella parte più alta e infinita, facendo calare ombra cupe intorno agli oggetti. Laddove il sole stava sparendo, per dedicarsi alle sue sconosciute mansioni, era esploso un arancione bollente, ancora vivo e intenso. Così colorato quanto effimero, in quanto sarebbe sfumato in pochi minuti, lasciando spazio al cobalto profondo di quella che era l’anticamera della notte.
-Non sono affatto pentita, lo rifarei.
Un  forte respiro trattenuto fluì dal giovane, con un sollievo che lo tormentava con la sua assenza.
-Però – aggiunse la donna, indurendo il viso, - la domanda giusta da porre è un’altra.
Il cielo stava diventando via via più scuro, cullandoli con la sua onnisciente presenza.
-Tu, davvero non sei pentito di avermi accolto al tuo fianco… - la voce divenne un sussurro –…per sempre?
Non aveva neppure bisogno di pensarci: poteva essere un ipocrita, un bastardo, un cocciuto testardo, un mulo, un capriccioso bambino, ma su quello che gli stava chiedendo non aveva nessun dubbio, nella maniera più assoluta. –No, Kagome, sono onorato che tu mi stia accanto, e non puoi immaginare quanto la tua presenza mi renda felice.
-Allora cos’è che ti angustia? – mormorò lei, avvicinandoglisi piano, come se avesse paura di spaventarlo.
Gli poggiò una mano vellutata sulla guancia liscia, con la pelle levigata dalla presenza demoniaca nel suo sangue, che lei non sembrava temere. Un indice leggero, che lo sfiorava appena, ma capace di fare del suo corpo la superficie di un lago senza la minima increspatura.
Nel buio che si stava facendo totale, rischiarato appena da qualche lanterna, quelle labbra stanche di resistere ai loro impulsi maschili, sopiti da tanto tempo, si distesero appena in un sorriso triste. –Non posso averti, Kagome…non sarai mai mia…
Ecco, l’aveva detto, infine. Una confessione fatta di poche parole, ma di mille e uno significati.
Lui amava Kagome, l’aveva amata dal primo momento in cui la freccia era stata tolta dal suo petto arido e solo, da quando si era fatta avanti sulle radici sconfinate di quell’albero centenario. L’amava anche quando lo negava e riteneva impossibile, prima di rifugiarsi nelle sue braccia calde e quasi materne dopo qualsiasi dispiacere. Anche se la sofferenza le tagliava il viso ogni qualvolta che Kikyo faceva la sua mistica apparizione, era sempre stata una roccia, salda e immutabile. Lasciava che le cicatrici le si formassero nell’anima piuttosto che dove tutti potessero vederle.
Proprio come lui.
Erano così maledettamente uguali, ma anche profondamente diversi…partoriti perché trovassero un posto nei loro universi, che non erano medievali praterie oppure piane di palazzi grigi, bensì territori costellati della fondamentale libertà, violata se uno dei due era assente.
Due cuori che pompavano per davvero solo quando messi a confronto, quando uniti e legati per sempre.
Perché era stato così difficile da concepire? Da accettare?
La carezza si fece appena più marcata, e non si ritrasse affatto. –Io lo sarò sempre, non esiste Dio che potrà negarmi questo diritto, Inuyasha. Io ti appartengo.
Trovò il rifugio laddove era sempre stato, ovvero nel petto di un uomo, di una bestia, di una sintesi dei due, l’unico corpo dove entità distinte e discriminate in perenne contrasto fra loro potevano trovare serenità, di due occhi gialli profondi e tristi.
Un abbraccio che li vide avvolti dalla densità della notte, la testa di lui affogata nei capelli corvini, quella di lei rassicurata da un battito regolare dedicatole in ogni singola pulsazione.
Esisteva davvero qualcosa di più perfetto e di più illegale? 

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Capitolo 4
*** Fuggire, solo fuggire ***


La pioggia scrosciava violenta, come mai aveva pensato potesse succedere.
Tutto le sembrava fatto di acqua, le case, gli oggetti, lei stessa. Qualsiasi cosa.
Dopo gli eventi di quel pomeriggio, Rin aveva cominciato a correre, senza nessuna meta, solo per fuggire da quegli occhi gelidi. Se lo diceva ogni tanto che non doveva illudersi, che il Signor Sesshomaru era la persona sbagliata da amare, ma era sempre stato più forte di lei, ci ricadeva sempre.
Per lui, lei non significava nulla, pensava: non era una madre, una sorella, una donna e tantomeno una figlia. Forse, poteva sperare di essere stata un simpatico svago, ma in quel momento non gli serviva più, e aveva cercato di disfarsene.
Si cullava con queste riflessioni del tutto errate, lasciando che il dolore prendesse il sopravvento sulla ragione, che sembrava essere scomparsa. Come aveva potuto credere di significare qualcosa per lui?
Senza che nemmeno se ne accorgesse, però, le lacrime avevano iniziato a mischiarsi alla pioggia, fredda e martellante. Ormai era troppo lontana dalla capanna della vecchia Kaede, che era per giunta partita, inoltre non aveva assolutamente intenzione di passare per il villaggio con i vestiti fradici incollati al corpo stanco. Sicuramente, durante il percorso fatto alla cieca, qualcuno l’avrebbe trovata e se ne sarebbe approfittato, ma nessuno avrebbe mai potuto farle più male di quello che lui aveva causato con delle semplici parole.
Lui era il demone impossibile da avere, senza legami, che spariva per settimane senza dare notizie di alcun genere per fondare chissà cosa chissà dove. Avvolto da una nebbia fitta di mistero e, perché no?, anche bugie.
No, si disse continuando a camminare nel nulla, le sue erano solo verità taciute. Nulla di ciò che le aveva mai detto si era poi rivelata una menzogna, e non voleva togliergli l’unico merito che riusciva a riconoscergli in quel momento.
Perché diamine era così difficile camminare coi sandali nel fango? Ogni passo le pareva di sprofondare sempre di più nella terra molliccia.
Non aveva assolutamente idea di dove stesse andando, e a ogni metro di distanza si rendeva conto che non le importava affatto. Parlando con sé stessa, gli occhi resi ciechi dalla pioggia incessante e i muscoli che sembravano anch’essi bagnati, si disse che in fondo aveva sempre odiato quel villaggio.
Poche capanne spelacchiate invece che la sana solitudine, contadini puzzolenti dagli sguardi libidinosi, latrine marce all’aperto, richieste di matrimonio che fioccavano in ogni momento, una vecchia che stava impazzendo come unica compagnia, sempre così ossessionata dalla sorella morta.
E mia sorella di qua, e mia sorella di là…sempre la stessa storia. Anche far nascere bambini, pensò nel silenzio notturno rotto dalla cascata che franava sulla sua testa, era un compito insulso.
I loro genitori volevano davvero altre sdentate bocche da sfamare a fatica? Lei pensava di no.
Uno schiaffo si abbatté sulla guancia fradicia, con un sonoro schiocco. Era stata lei stessa a darselo.
Per l’impatto volutamente violento, quel corpo già in equilibrio precario cadde di lato, finendo su un cumolo di fango.
“Rin, ma cosa dici? Le persone al villaggio sono brave persone, e la signora Kaede ti ha sempre trattato bene! Che diritto hai di fare certi pensieri?”, si urlò mentalmente.
Solo perché Sesshomaru le aveva fatto del male, ciò non significava che doveva scagliarsi contro coloro che avevano fatto di tutto per farla sentire a proprio agio. Non erano mica obbligati a prendersi in grembo una bambina che aveva vissuto con un demone maggiore, e che parlava continuamente di lui: a costo di subire la sua ira, avrebbero potuto benissimo lasciarla da un’altra parte, additandola come non desiderata.
Erano stati tanto cari con lei, non poteva tradirli in quel modo. Ma non voleva nemmeno tornare indietro: sicuramente non la stavano cercando, perché nessuno amava Rin, e non avrebbe mai sopportato gli sguardi sul suo corpo straziato dal dolore.
Che vergogna avrebbe dovuto subire quando avrebbero notato che il suo amato demone non tornava più?
Tutti coloro che aveva rifiutato, come avrebbero reagito?
Preferì non pensarci, affondando le mani nel terriccio molle nel tentativo di rialzarsi. Attorno a lei c’erano alcuni alberi altissimi, che non riuscivano a ripararla del tutto dall’improvvisa furia della natura, ma non sembrava il bosco nei dintorni della capanna, perché quello lo conosceva. Ogni mattina la si sarebbe potuta trovare a raccogliere erbe mediche fra le radici, mentre canticchiava o pensava a Signor Sesshomaru.
Già, il Signor Sesshomaru, si disse con amarezza. Lui non avrebbe mai più fatto parte della sua vita, ormai.
Riuscì a sollevarsi, ma rischiò di cadere di nuovo.
Non aveva più forze, né volontà di proseguire. Quando scappava dai lupi, ormai una vita prima, ad un certo punto, sentendo il primo morso, aveva avuto la tentazione di arrendersi.
Tanto, si era detta, è tutto inutile, il branco mi sbranerà. Così era rimasta inerte a farsi dilaniare senza muovere un muscolo, sentendo i denti perforarle la carne e imprimerle cicatrici che, ancora adesso, era possibile vedere in controluce.
Aveva un dolore incredibile sulle ferite, ma aveva continuato a non muoversi. Ed era morta.
Ma, mentre allora c’era il Signor Shessomaru, in quel momento era completamente sola. Non aveva nessuno che l’avrebbe aiutata ad alzarsi, nessuno che l’avrebbe portata all’asciutto, niente di niente. Solo sé stessa.
“Sei una bambina forte, ce la farai…” aveva sussurrato la madre, stesa in un lago di sangue. Poi i suoi occhi si erano fatti vitrei e spenti, mentre il suo spirito abbandonava questa vita. A parte il pianto della piccola inginocchiata al suo capezzale cruento, si poteva sentire la risata dei briganti, armati di tutto punto nei resti carbonizzati della casa.
Quella volta non c’era nessun bandito che avrebbe potuto abusare del suo corpo: non aveva scuse per rinunciare.
Le ultime parole di sua madre erano state determinanti, non poteva tradirla. Lei contava sulla figlia, e la figlia non avrebbe mai e poi mai abbandonato le aspettative del genitore. Non le serviva di certo un demone di ghiaccio per sopravvivere in un mondo così spietatamente umano, no?
Certo, il supporto di quelle braccia meravigliosamente forti che aveva solo osservato ad una rispettosa distanza le avrebbe fatto comodo, ma ne aveva già due per conto proprio. E anche questo punto era a suo favore.
Con uno sforzo sovraumano, tese i muscoli al massimo con un potente scricchiolio, e riuscì ad inginocchiarsi.
Strinse le mascelle intirizzite, ed ecco che il suo busto era già eretto. Ora lo sforzo doveva venire dalle caviglie ricoperte da escoriazioni e tagli. Stanca com’era dubitava che avrebbe fatto ancora molta strada, però doveva almeno provare.
Contro ogni senso logico, Rin si sollevò in tutta la propria altezza, muovendo altri passi incerti verso l’orizzonte fangoso.
Era instabile, e sarebbe crollata di nuovo, ma sarebbe andata avanti il più possibile, perché sentiva il bisogno di scappare da quella maledetta capanna e da quella bruciante delusione, dell’unica persona che sperava non la tradisse mai.
Così non era stato, era di nuovo sola. Ma determinata a trionfare.
I capelli le si erano appiccicati in faccia, impedendole qualsiasi visuale veritiera della realtà, comunque buia, bagnata e spietatamente fredda. I suoi occhi erano colmi di pioggia, tanto che non vedeva assolutamente nulla, mentre dalla bocca entravano e uscivano fiotti di acqua gelida, senza che potesse fare nulla per fermarli. La pelle era tutta un brivido per colpa del morso del gelo, che le ricordò vividamente le zanne dei lupi affamati, tanto tempo prima.
Possibile che quando era sola e disperata il ciclo si ripetesse in modo tanto esasperante?
Fu inconscio, questa volta, l’accasciarsi al lato di un sentiero sconosciuto. Non aveva retto che per pochi minuti, ma si sentiva ugualmente fiera di sé stessa, nonostante la testa già bruciasse di febbre e il cuore fosse un sibilo quasi del tutto azzerato.
Ma perché il suo fisico non toccava terra? Perché non sentiva l’umido e molle fango sotto i fianchi ma quella che credeva essere una mano?
All’improvviso la pioggia che le picchiettava il viso si interruppe, dandole un attimo di tregua: aguzzò la vista ormai quasi assente, ma le parve di intravedere una macchia bianca e familiare. L’Aldilà?
-Si può sapere cosa diavolo stai facendo? – disse una voce già mille volte udita, ma che non avrebbe saputo identificare. Era preoccupazione o rabbia quella che la faceva vibrare così intensamente?
-I…io non lo so…non credo di…- ma le parole le morirono in gola, soffocate da chissà cosa di tanto importante.
-Adesso ti porto via di qui – stabilì autoritaria la voce, ma lei non avrebbe potuto opporsi comunque: era una bambola nelle sue mani.
Prima di svenire, il suo pensiero corse al suo signore dallo sguardo ombroso, finito in una località sconosciuta. Che l’avesse già dimenticata?
  

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Capitolo 5
*** Salvataggio ***


-Inuyasha, non potrei mai lasciarti su quel dannato albero per tutta la sera! – esclamò Kagome, stizzita, strizzando una ciocca di capelli fradici.
L’acquazzone che si era scatenato all’improvviso li aveva colti del tutto impreparati, inzuppandoli nonostante fossero scattati subito verso casa.
Ora, nel piccolo e accogliente spazio costituito dalla stanza principale, stavano litigando da mezz’ora perché il ragazzo voleva dormire fuori lo stesso.
-Kagome! Lo sai che non mi ammalo mai!
-E ti sembra una ragione valida? Hai visto com’è il tempo fuori? Non dormirei un secondo sapendoti lì!
Lui grugnì davanti a quella testa dura. Se lui era determinato, la giovane gli teneva abilmente testa.
Lei scosse il capo, liberando uno spruzzo di piccole gocce di pioggia, simili a diamanti fra i capelli corvini, che pendevano flosci e bagnati.
Quando si raddrizzò, però, aveva una terribile espressione da guerra. –Vuoi le minacce? Bene: sappi che se dormirai sul tuo stramaledettissimo albero io ti seguirò, mio caro.
Detto questo, incrociò le braccia sul petto e starnutì cercando di mantenere un’aria dignitosa e composta.
A lui venne quasi da ridere, vedendo quell’esserino cocciuto ben piantato davanti all’unica porta in legno del villaggio, mentre per la seconda volta in un giorno si mostrava temeraria verso la scalata di un albero.
Ma non poteva assolutamente permettere a sé stesso, per quanto lo volesse davvero, rimanere nella stessa casa con lei. Prima di tutto, era una sacerdotessa, e anche se nessuno li aveva visti entrare ne andava della sua rispettabilità, compromessa dal dormire con un mezzo-demone, per quanto innocente potesse essere.
In secondo luogo, non era sicuro sarebbe riuscito a frenarsi sapendola a pochi centimetri di legno di distanza, distesa su un futon con una sola vestaglia leggera addosso, a coprire le curve tanti invitanti…
Se aveva certi sordidi pensieri vedendola addirittura con le vesti pesanti e coprenti da sacerdotessa, figurarsi con un qualcosa di quasi impalpabile.
Perché, per quanta intimità la donna avesse per i suoi oggetti provenienti dal futuro, lui ne aveva trovato un paio lo stesso, attirato irresistibilmente dal suo odore. Era successo qualche settimana prima: lui era seduto su una roccia in cima alla collina sopra al fiume, perché Kagome doveva fare il bucato.
Gli chiedeva sempre di controllare che non arrivasse nessuno, dal momento che approfittava di quei momenti per lavare le cose che le altre donne “non avrebbero compreso”. Il resto lo puliva con la comunità al completo, da bravo membro cittadino, scambiando chiacchiere che a lui sembravano inutili.
Si era però allontanata un attimo e lui, spinto dalla curiosità, aveva frugato un po’ nel cestino, giusto un’occhiata soltanto. E va bene, se doveva essere sincero una volta per tutte, aveva dedicato maggiore attenzione a due indumenti particolari, quelli che sapevano maggiormente di lei. Uno sembrava una specie di oggetto mistico, perché aveva una strana chiusura a ganci, collegata a due pezzi grandi di stoffa tramite una fascia sottile, con un ferro a mezzaluna sotto a quelle due strane sacche, tipo sostegno, mentre l’altro era appunto la vestaglia incriminata, rimessa subito a posto dalla vergogna.
Come si faceva a portare una cosa del genere? Era cortissima e impalpabile!
Per questo non poteva dormire; non era sicuro di riuscire a calmarsi.
-Oh, Kagome, non rompere! Ho la mia veste, va bene?
-No che non va bene! – insistette la ragazza. –Prendi una stuoia, mettiti dove vuoi e stenditi. Basta con queste storie, sono stanca e ho fame. Adesso preparo la cena.
-Ma che hai, sei sorda? Ti ho detto che me ne vado! – obbiettò, scortese come sempre, ma con meno convinzione rispetto a prima.
-Avvertimi quando esci, che prendo una coperta e ti seguo – disse annoiata, tirando fuori delle pentole da una credenza. –Il riso va bene?
-Col cavolo – sbottò lui, contrariato.
-Mi dispiace, ma l’ho finito. Il padre di Kunieko mi ha portato il pesce stamattina, se vuoi.
-Pff! – fu l’unica replica, prima che si mettesse a braccia incrociate fissando la parete, sembrando più che mai un bambino capriccioso.
La sentì ridacchiare, mentre accompagnava il suono meraviglioso con un tramestio di stoviglie. –Se hai intenzione di continuare così, potresti trovarti una sorpresa come una collana magica che può spappolarti al suolo semplicemente sentendo la mia voce…Kaede scalpita per fartene una – disse, ridendo sotto ai baffi.
-Se non sono gradito me ne vado – ribatté acido, ma non le fece il minimo effetto, perché ormai era abituata alla sua intrattabilità.
-Povero questo prigioniero del sistema, trattenuto da una malvagia sacerdotessa – disse divertita, con un sopracciglio sollevato. Aggiunse del sale a ciò che stava cucinando , mescolando con un cucchiaio in legno. –Troverà mai pace?
-Hai poco da prendermi in giro, Kagome – borbottò irritato.
- Eddai, su! Smettila di fare il bambino. Lo dico per il tuo bene, sai? Già è difficile saperti là fuori in circostanze normali, figurati con questo tempo – un tuono sottolineò il concetto.
-Perché, che tempo c’è? -. Aveva improvvisamente voglia di litigare, ma quando la ragazza voleva ottenere qualcosa sapeva prendere le redini del suo carattere e condurlo dove voleva.
-Risponditi da solo, secondo me ci riesci – disse senza guardarlo, prendendo in mano un altro tegame e mettendosi ad arricchirlo con le spezie a disposizione. Il suo naso poteva seguirne i movimenti, le dita che rimanevano profumate di erbe laddove le toccava.
Sbuffò di nuovo. Aveva ragione, e non c’era motivo di contrastarla, anche perché non avrebbe trovato argomenti convincenti.
Poi, in un attimo, si allarmò sentendo un torrente di aura scorrere assieme all’acqua di fuori.
-È quasi pronto – disse Kagome, concentrandosi su un altro coperchio.
-Aspetta un attimo – disse Inuyasha, tornando serio di colpo. –Arriva qualcuno.
Aveva sentito poche volte una concentrazione tanto forte di potere agitato messo insieme, ma non era certo se fosse o no con intenzioni bellicose: sapeva solo che si stava dirigendo verso la capanna, senz’ombra di dubbio.
-Che succede? – chiese la sacerdotessa, allarmata, ma per invitarla al silenzio lui le posò una mano sul polso, tenendolo stretto in modo protettivo.
Qualsiasi cosa fosse, avrebbe combattuto fino alla morte per difendere Kagome, e fino a quando non fosse stato sicuro che lei non correva rischi sarebbe andato avanti. Anche all’infinito.
La donna, con un’occhiata, capì. La loro grande complicità entrò nuovamente in atto.
Se quella maledetta pioggia non avesse neutralizzato il suo olfatto…
Sentirono distintamente due colpi alla porta, per annunciare l’arrivo, ma non fecero in tempo ad aprire che l’uscio si spalancò, facendo entrare anche pioggia e aria fredda.
-Sta indietro, Kagome! – urlò Inuyasha, sfoderando sin da subito Tessaiga, la sua mitica spada che gli pendeva sempre al fianco.
Però, una volta identificati gli ospiti, rimasero così sbalorditi da non riuscire a proferire parola o, se necessario, difendersi.
Nella stanza era apparso Sesshomaru, avvolto dalla sua solita aura di potenza che non sembrava essere stata scalfita dalla pioggia, con un’espressione di vaga preoccupazione umana sul viso liscio. Tra le sue braccia, abbandonato senza quella che sembrava anche solo la minima presenza di vita, c’era un fagotto infangato e completamente fradicio.
Quella bambola rotta e stanca era Rin.
  

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Capitolo 6
*** In salvo ***


Per un attimo, rimasero tutti in silenzio, senza capire fino in fondo cosa stesse succedendo.
L’espressione di ghiaccio del suo demoniaco fratello era attraversata da qualcosa in più del solito distacco, mentre reggeva la ragazza, tenendole il viso verso il proprio petto, come per proteggerla dalla pioggia.
Col suo tono freddo e glaciale, fece il discorso più lungo che Kagome gli avesse mai sentito fare: -L’ho trovata sotto la pioggia, prima. Camminava, non so verso cosa; sembra sia malata ma la donna che se ne occupa è assente e non sapevo dove altro portarla. Tu – disse rivolgendosi alla ragazza, che sobbalzò subito. –Sai curarla?
Lei recuperò in fretta la propria lucidità, attivandosi seduta stante. Nonostante Sesshomaru e la sua apparizione l’avessero sorpresa non poco, voleva bene a Rin, e doveva aiutarla. Faceva parte dei suoi voti: proteggere a tutti i costi la vita, in qualsiasi situazione.
-Ce la metterò tutta – disse sinceramente. –Fammi vedere, per favore.
Sentì Inuyasha ringhiare, ma non gli badò. Lo invitò con un’occhiata a rinfoderare la spada, e il ragazzo obbedì, nonostante non tollerasse affatto la presenza del fratello nella stanza, né tantomeno che si rivolgesse così bruscamente a Kagome.
La sacerdotessa si avvicinò alla paziente, tra le braccia vigorose del Signor Sesshomaru, il sinistro recuperato chissà come. La giovane, era pallida e dalle labbra esangui, mentre gli occhi chiusi avevano macchie violacee attorno alle palpebre.
Non era affatto un buon segno, soprattutto accentuato dai brividi e dalla prolungata incoscienza, ma mantenne un’espressione imperturbabile; anche se non riconosceva la compassione o la preoccupazione fra le scarse virtù del demone, era meglio non rischiare con masochistici esperimenti.
-Da quanto è svenuta?
-Ha cercato di dirmi qualcosa mentre la portavo via da lì, poi ha chiuso gli occhi – disse. Fra le ciglia innevate, filtrava uno sguardo che, anche se gelido, era concentrato esclusivamente sul viso pallido e bagnato di Rin.
Kagome annuì brevemente: poteva trattarsi benissimo di un inizio di polmonite, ma senza i farmaci necessari che si trovavano nel suo tempo avrebbe potuto facilmente degenerare in qualcosa di molto peggio. Rimpianse molto gli ospedali e l’efficacia di una flebo immediata, ma poi scosse immediatamente la testa: lei era lì e ringraziava gli dei ogni singolo giorno per la sua presenza. Non doveva dimenticarlo.
-Inuyasha – disse coincisa – prepara un giaciglio nella mia stanza, poi lasciaci lì i miei strumenti, per favore…e anche le erbe-. Il mezzo-demone non se lo fece ripetere, e corse a fare quanto gli era stato detto.
-Se non interveniamo subito rischiamo di far aggravare le cose. Ma mi serve il tuo aiuto – sollevò lo sguardo verso l’uomo, completamente assorto nel guardarla, come se distogliendo lo sguardo potesse perderla sul serio. Quegli occhi di ghiaccio, capaci di raggelare con una sola occhiata, non si spostarono, e il viso bianchissimo annuì solamente, ma con decisione.
Sesshomaru disprezzava gli esseri umani, li detestava e si riteneva superiore, ma per Rin era persino disposto ad allearsi con una di loro e addirittura assieme al proprio fratello. Aveva appena dimostrato che la vita della ragazza gli stava a cuore come nient’altro, fattore non da poco se si considerava il fatto che Kagome non credeva nemmeno che lo possedesse, quell’organo.
-Bene, ti ringrazio. Dovresti sollevarla e portarla di là, poi posso arrangiarmi.
Senza dir nulla, celando la voce possente nella gola nascosta dalla stoffa bianca, si alzò lentamente, in un movimento fluido, e con innaturale delicatezza rimise Rin nel suo nido, per farsi strada verso la camera.
Aveva un passo cadenzato e per nulla affrettato, tutto pur di non sconvolgere il sonno della fanciulla.
Arrivato ai piedi del letto improvvisato ma comodo il più possibile, posò la ragazza svenuta e si mise in un angolo, silenzioso. Nel frattempo, Inuyasha era sbucato dalla seconda entrata, reggendo l’arsenale da sacerdotessa, per lo più strumenti fabbricati seguendo l’esempio degli attrezzi del suo tempo.
Inginocchiatasi al capezzale della fanciulla, la esaminò, asciugandole prima il viso e togliendo dalla pelle il fango, alla meno peggio. –Ora la spoglio, poi dovrò visitarla – avvertì, ma solo Inuyasha capì l’antifona e se ne andò nella cucina, posto dove Sesshomaru non sarebbe mai entrato a causa dell’odore di cibo.
-Non se ne parla – stabilì il demone. –Io resto qui.
-Vuoi davvero assistere?
-Credi sul serio che potrei avere una qualsiasi reazione davanti ad un corpo umano? – ribatté l’altro, quasi disgustato e con una punta di disprezzo.
Solo recita, ovviamente. –Credo proprio di sì – rispose la donna. –Mettiti lì -, aggiunse poi. Non era il caso di mettersi a litigare in quel momento, con Rin appesa ad un filo.
Il demone non aggiunse nulla, sapendo che la vita della levatrice dipendeva dalla sacerdotessa. Distolse lo sguardo quando la pelle lattea venne esposta, strofinata con un panno per asciugare il più possibile e ricoperta con un kimono per dormire, decisamente comodo e scollato.
In teoria, sarebbe stato quello un vestito consono alle notti di una ragazza che viveva sola, ma Kagome l’aveva sempre destato, preferendo invece abiti comodi almeno quand’era sola. Quindi, rimaneva dimenticato in un cassetto, a disposizione di chiunque ne avesse avuto bisogno.
Cominciò a misurare le pulsazioni e la pressione, usando una serie di oggetti che Sesshomaru non aveva mai visto, appoggiandoli alla pelle fragile della ragazza stesa, quasi moribonda.
Rimase così per un bel pezzo, ascoltando e detergendo questa o l’altra cosa, cominciando a trattare le erbe e a mettere a mollo le fasciature, in una brodaglia che puzzava di medicamento.
-Quando comincerai a curarla? – chiese il demone, impaziente. La giovane, ad essere sincera, si era persino dimenticata della sua presenza, in quanto si era trasformato in un immobile statua di marmo, scolpita in ogni lineamento severo. Seguiva con gli occhi i suoi gesti e non lo si sentiva nemmeno respirare.
-Ho già iniziato.
Un sopracciglio bianchissimo si inarcò, sulla fronte stesa. –Non usi l’energia spirituale?
La ragazza sospirò; ma chi diavolo l’aveva educato, quel demone? Jack lo Squartatore in versione medievale?  -È ancora troppo presto – spiegò, -ma quando dovrò cominciare dovresti uscire, perché la tua aura contrasterebbe la mia e la attutirebbe.
Il demone non replicò, ritornando all’immobilità. Kagome non riusciva a capire i meccanismi insiti nella mente delle specie di cognato, e neppure ci teneva, ad essere sincera.
Era spietato e crudele con qualsiasi essere umano, donne incluse, ma con Rin si mostrava addirittura tranquillo e mite, qualità che erano invece in netto contrasto col suo solito silenzio minaccioso. Non incuteva timore quando la ragazzina gli stava intorno; si erano conosciuti che aveva al massimo nove, o forse dieci anni, ma la sua allegria e maturità le conferivano un’aria più grande.
Era stata assente a lungo, in quel mondo, sicché non sapeva esattamente cosa fosse accaduto in quei tre anni, però al suo ritorno aveva trovato una ragazza bellissima e ancora piena di travolgente ottimismo.
Forse, in quanto donna anche lei, aveva notato che la venerazione che Rin nutriva per il suo signore era ben più che semplice fanciullesco istinto filiale, e si stava evolvendo in qualcosa di più maturo. Amore? Era inevitabile, non si sarebbe affatto sorpresa.
Aveva cominciato a sentirsi quasi contro al Sesshomaru che andava a trovarla con regolarità, riempiendola di false speranze e illusioni. Aveva quattordici anni, un sorriso luminoso e un corpo snello: poteva trovarsi il marito che più le aggradava e godere di un futuro prestigio grazie alla sua posizione, nonostante per la ragazza del futuro quell’età fosse troppo prematura.
Ma tenendola inchiodata così, ad un amore impossibile, le stava facendo sprecare la giovinezza. Quando la donna se ne sarebbe resa conto sarebbe stato troppo tardi, e avrebbe vissuto sola, come Kaede.
Sarebbe rimasta incatenata a quello sguardo immutabile, senza vederlo cambiare mai, sfiorendo al suo cospetto. Che sarebbe successo se, per qualsiasi motivo, Sesshomaru l’avesse lasciata sola? Per lei sarebbe stata la fine.
Ma ora, vedendo l’accanimento con cui il demone ci teneva a saperla salva, a trarla fuori dal fango e dalla pioggia portandola da una sacerdotessa, umiliandosi a chiedere aiuto, le faceva dubitare che la levatrice gli fosse indifferente.
Che senso aveva per un essere insensibile darsi tanta pena per una persona qualsiasi? Ma soprattutto: cosa ci faceva a cercare nei boschi una persona di cui, apparentemente, non gli importava niente?
Gli appuntamenti, i regali, la preoccupazione, l’assicurarsi che stava bene. Fattori creati per passare il tempo?
Credeva di no, anche perché aveva molte altre cose da fare, interrotte per lei.
Il petto della giovane si sollevò un attimo, fremendo, per poi tossire. Era quello l’effetto su cui Kagome stava lavorando, ovvero farla vomitare per espellere l’acqua dai polmoni. Solo che, con un così attento osservatore, non poteva certo ficcarle due dita in gola e aspettare il rigurgito.
I lenti massaggi all’addome, per metà lenitivi e per metà conativi, presero a contrarle le viscere. Aprì leggermente gli occhi, ma dubitava che la febbre avesse allentato la morsa. Non poteva procedere senza essere stata sicura che aveva i bronchi asciutti.
Sesshomaru si rianimò immediatamente, cogliendo prima di tutti il suono roco della sua gola.
-Sta per vomitare – avvertì Kagome, con un lampo di soddisfazione per sé stessa. –La vera cura comincia ora.
Fece appena in tempo a finire la frase che Rin, con una contrazione muscolare, avvertì il primo conato. L’espressione del demone si accartocciò, mentre guardava la ragazza che la spostava su un fianco perché non soffocasse.
In una bacinella, la malata rigurgitò una buona quantità si succhi gastrici e molta più acqua di quel che Kagome pensasse; non era affatto improbabile che, dopo tempo in quello stato, sarebbe morta per annegamento. Sembrava assurdo, eppure il catino ne era una prova tangibile.
Voltandosi appena verso Sesshomaru (dalle sopracciglia aggrottate, le labbra una linea dura che tagliava il viso) disse appena poche parole, cercando di mettersi in comunicazione con il proprio centro spirituale: -Adesso è indispensabile che tu esca, mi dispiace.
-Si salverà? – nella sua voce si leggeva una tangibile preoccupazione, mista a quasi una sorta di smarrimento. Rin era umana, debole e preda della natura. Anche se non ne aveva mai data per scontata la presenza, in quel momento avrebbe potuto perderla irrimediabilmente, trovandosi in balia di sensazioni che non pensava di poter provare.
-Ho buone ragioni per sperarlo – rispose.
- Tenseiga questa volta non può salvarla. La lascio nelle tue mani -. Detto questo, si alzò e richiuse leggermente la porta alle proprie spalle.
Senza perdere tempo, Kagome posò una pezza bagnata sulla fronte bollente della ragazza, ripulendole le labbra spaccate. Applicò l’unguento sul suo palato, approfittando dell’incoscienza, mentre le faceva scorrere sulla gola riarsa un intruglio delle più potente erbe che aveva a disposizione.
Infine, concentrandosi intensamente, fece fluire il minimo indispensabile delle proprie energie fino a formare un flusso costante.
Non era un esperta e l’aveva fatto solo poche volte nella sua vita, ma ce l’avrebbe messa tutta.
-Ci tiene davvero, a te; guarisci in fretta. Fallo per lui – le sussurrò.
Poi si mise al lavoro, già prevedendo che sarebbe stata davvero una lunga nottata. 

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Capitolo 7
*** Attesa ***


Le ore di buio di succedettero tutte identiche fra loro.
Per un demone come Sesshomaru lo strazio dell’attesa si stava facendo sempre più insopportabile e difficile da celare, nonostante il tempo avesse sempre significato poco grazie alla millenaria aspettativa di vita. Il suo viso si manteneva imperturbabile, mentre lo sguardo lontano seguiva mille pensieri diversi.
Aveva deciso di stare accanto alla porta, sedendosi solo per non spaventare la donna una volta uscita. Se fosse stato per lui, la rabbia avrebbe mietuto migliaia di vittime in quel villaggio insignificante, dai mille brusii e mormorii nella quiete notturna.
Era per questo che preferiva la foresta, così mistica e silenziosa. Ogni minimo scricchiolio contribuiva a rendere il silenzio ancor più denso, e l’unico suono che tollerava era il respiro della piccola Rin addormentata.
La stessa che, cresciuta, lottava contro la morte appena una stanza più in la.
Grazie al suo udito straordinario poteva avvertire l’affaccendarsi della donna, alle prese con una ragazza debole e in fin di vita. Sentiva chiaramente lo scorrere del flusso di energia, che si riversava dentro al corpo provato per lenire la febbre.
Inoltre il pizzicore intenso di tutti quegli unguenti odorosi lo infastidiva non poco. L’unico sollievo veniva inconsciamente dalla malata, i cui capelli profumavano in modo singolare.
Era uno dei tanti motivo per cui Rin l’aveva affascinato, ovvero il profumo, una graziosa fragranza discreta che scivolava sulle sue narici dandogli sollievo. Tempestato perennemente da migliaia di odori e suoni diversi senza che potesse porvi un filtro, Sesshomaru otteneva la sua minima parte di pace quando la sentiva intorno a sé, a rischiararne le giornate altrimenti buie.
Era il primo a dichiararsi soddisfatto della sua potente condizione demoniaca, a gioire segretamente di quel dominio smisurato che poteva ottenere su chiunque. Ma rincasare da lei lo rendeva grato come mai poteva dirsi in circostanze normali.
A lui, infatti, era stata impartita l’insensibilità fin da quando era bambino. Un lunghissimo ed estenuante allenamento continuo gli aveva insegnato ad avere un enorme autocontrollo, a sopprimere la maggior parte delle emozioni fino ad arrivare alla consueta freddezza di sempre.
Suo padre era stato spietato a tal punto da non fare una piega davanti al figlio sanguinante, oppure a picchiarlo alla minima manifestazione umana del proprio carattere diventato poi gelido. La sua era stata una vita senza amore, oppure colma di affetto perverso.
Gli era stato insegnato un atteggiamento freddo e distaccato in qualsiasi circostanza, e concetti come pietà e compassione gli erano del tutto estranei. Era solo, quasi completamente, ma per scelta.
Eppure, quell’allegra bambina, aveva saputo dimostrargli col tempo che per gioire non si è mai in errore. Sapeva trarre poesia dalle cose più semplici, come un fiore oppure un gesto gentile. Facendogli compagnia con le sue chiacchiere e vedendolo più come un salvatore che come carnefice aveva attuato un’insita trasformazione nel demone, il quale stava mettendo in dubbio nel suo intimo tutto ciò che gli avevano sempre insegnato con la violenza.
Naturalmente non avrebbe mai cambiato idea sugli esseri umani, ma quella sorta di gratitudine e curiosità nei confronti di Kagome gli era del tutto nuova, come quel sentimento inspiegabile che sentiva per Rin.
La sua espressione non mutava mai, e lui faceva di tutto perché pensieri e sensazioni rimanessero lì dove si erano originati, per non farsi vedere debole o indeciso.
Appariva stoico e difficile da comprendere, cosa che era realmente. Ogni suo singolo sforzo era coalizzato per dissociarsi completamente dagli esseri umani e da ciò che provavano, rendendosi una sorta di guscio vuoto grato solo alla guerra e alla gratificazione che ne derivava.
Ma la ragazza aveva portato una completa rivoluzione nel suo concetto di vedere le cose, dando un’inquadratura quasi delicata a moltissimi aspetti della sua vita.
Vita? Davvero prima di Rin poteva dire di aver vissuto?
Cacciò anche questo pensiero nel dimenticatoio, assieme a molti altri da quando era arrivato alla casa.
Ovviamente, il fatto che oltre alla sacerdotessa ci fosse anche il fratellastro lo infastidiva in modo inimmaginabile, ma doveva portare pazienza per il bene di Rin. Se avesse creato scontri o dissapori, avrebbe distratto la sacerdotessa, compromettendo la guarigione.
Dubitava che vivessero insieme, anche perché non aveva avvertito addosso alla giovane l’odore di Inuyasha, (solo pensarlo gli dava fastidio), e nemmeno la casa puzzava di mezzo-demone, fortunatamente.
Già era uno strazio dover essere rinchiuso in quello spazio ristretto, se poi si aggiungeva anche l’odore avrebbe sul serio rischiato di fare a pezzi qualcuno.
L’appetito bruciante da demone cane in preda all’ira era infatti tornato a fargli visita. Circondato da umani e simili com’era, l’odore invitante di carne a portata di mano si stava facendo irresistibile.
Ancora dovette fare appello al suo autocontrollo sconfinato: Kagome non avrebbe collaborato con anche un solo contadino sgozzato in casa. Doveva tenerlo a mente.
Sentì un sussurro perforare appena il legno: doveva trattarsi di una preghiera, e non era un buon segno. Se cercava aiuto spirituale negli dei voleva dire che stava esaurendo le forze senza miglioramenti.
Dovette assecondare i muscoli, questa volta, altrimenti un muro della casa sarebbe sicuramente crollato. La preoccupazione morse violentemente il cuore, compromettendone il battito regolare che lo contraddistingueva di solito, facendolo alzare di scatto.
Era la prima volta nella sua vita che sentiva una vera e propria contorsione delle viscere, sentendo una voce tanto flebile sussurrare parole intrise di speranza umana. Si detestava per non riuscire ad essere impassibile anche esteriormente, ma l’ansia per la sorte delle sua piccola Rin aveva annebbiato la sua tagliente ragione.
Lei era l’unica che rappresentasse un motivo valido per tornare.
Lei era l’unica che gli sorridesse davanti.
Lei era l’unica che gli chiedeva sempre se stava bene.
Lei era l’unica che si preoccupava per la sua sorte.
Lei era l’unica che gli avesse regalato dei fiori.
Non poteva lasciarla morire, era un crimine anche solo pensarlo. Lì dentro c’era l’unica persona che era stata in grado di scaldare quel cuore gelido che rimaneva incastrato nel petto, l’unica che fosse riuscita a fargli provare qualcosa di più che puro e semplice desiderio di sangue.
Chiunque potesse decidere delle loro sorti sarebbe stato ancor più crudele di lui se gliel’avesse portata via.
Il mormorio si calmò, spegnendosi, fomentando invece il suo turbamento. Non avrebbe saputo dire se fosse stato meglio o peggio avvertire solo silenzio o anche delle preghiere.
Il flusso spirituale si interruppe, e si avvertì un tramestio nella stanza, che lo sconvolse a tal punto che sentì la propria bocca subire una contrazione. Non pensava che così poco potesse fargli mutare un’espressione assunta quasi per inerzia dopo centinaia di anni d’abitudine, ovvero solo il cambiamento di rumore nel lavoro di una sacerdotessa.
Come avrebbe fatto senza di lei?, si chiese smarrito.
Era un ipocrita, e lo sapeva benissimo. Si impose però la calma, in quanto era assolutamente impotente e ammetterlo avrebbe solo facilitato le cose. Non poteva fare nulla, se non aspettare, e tanto valeva farlo come si deve.
Così si risedette, appoggiandosi al muro e distraendosi con il furioso temporale di fuori.
Non riusciva a pensare ad altro che a quel pomeriggio, quando la giovane l’aveva salutato, come al solito, e si era messa a chiacchierare con consueta e rilassante leggerezza..
Era forse l’unico interlocutore in tutto il mondo che non si aspettava altro che silenzio, ed era puntualmente ciò che otteneva. L’odore che sentiva aleggiare là intorno era quello di corpi giovani e gravidi, mentre i suoi occhi inciampavano su ragazze della stessa età di Rin (cos’era per lui? Un’amica? Una parte complementare? Unica compagnia? Una sorta di figlia?) già sposate e in “dolce attesa”, che lo distraevano in parte dalla compagnia della levatrice.
Più volte aveva riflettuto su quanto fosse nocivo che la ragazza venisse associata per automatismo ad un Demone Maggiore; in un villaggio umano, per avere un futuro stabile che si adattava alla loro breve vita, bisognava sposarsi e fare dei figli.
Dubitava però che uno di quegli stupidi insetti avrebbe facilmente ignorato delle visite puntuali di una persona che, per quanto lo negasse con sé stesso, considerava Rin un’estensione fondamentale della propria anima, e si rese conto di star condannando alla solitudine la ragazza.
Lei meritava una vita coi fiocchi, per tutta la bontà che dava gratuitamente. E se ciò significava sparire, quella era la cosa che Sesshomaru sapeva fare meglio.
Cosa gli sarebbe costato viaggiare senza avere un punto fisso? Non accettare mai più ghirlande di fiori profumati? Non sentire la sua risata al ritorno? Non accarezzare la sua morbida guancia che da bambina stava diventando una donna?
Di fatto, nulla. Ma un torrente emozionale sconvolgente lo travolse solo vagliando quella prospettiva orribile e grigia.
Solo con Jaken, come ai vecchi tempi, non era una cosa fattibile. Un servitore devoto non avrebbe mai potuto sostituire Rin, con la sua freschezza, la sua allegria, il suo sorriso. Lei illuminava le sue giornate molto più del sole che spuntava in cielo più per dovere che per piacere.
Mentre tutte le leggi inevitabili dell’universo si ripetevano sempre uguali e fini a sé stesse, Rin costituiva la dolce eccezione che faceva quadrare i conti, e rendeva la normalità sempre nuova ed entusiasmante.
Non voleva sul serio che si sposasse e si facesse una vita, perché sapeva che non sarebbe mai più stata sua. Era egoismo allo stato puro, ne era più che consapevole, ma era anche il primo ad esserne sconvolto.
Nulla, nel mondo, valeva la pena di essere bramato all’infuori del potere, ma lei…lei era diversa. Era nata per incontrarlo, e le loro esistenze erano state rese infelici solo per potersi incontrare.
Fece una promessa a sé stesso, come mai era successo: la guarigione di Rin avrebbe inaugurato un nuovo futuro.
Per quanto dolore potesse costargli, non solo l’avrebbe lasciata scegliere, ma sarebbe stato persino disposto a cambiare, così come era successo inconsciamente con il suo aiuto. Se avesse voluto rimanere con gli umani, lì sarebbe rimasta. Se avesse voluto rimanere sola in una nuova vita, lui sarebbe scomparso.
Se lo avesse voluto affianco, avrebbe fatto di tutto per rimanerci.
Era la prima volta che incontrava qualcuno che gli insegnasse come vivere, e si era rivelata un’esperienza così piacevole e lieta che non vi avrebbe rinunciato a cuor leggero. Il suo spirito demoniaco aveva saputo ritrovare la pace, dopo anni di perdizione.
Un tramestio più acuto degli altri lo fece sobbalzare nuovamente, ma la tranquillità ridiscese sulla casa.
Impose di nuovo a sé stesso la calma, facendo di tutto perché le sopracciglia non si aggrottassero e le mani non tremassero dalla voglia di uccidere qualcuno. La fame sembrava divorargli le budella in mancanza d’altro, e per sopprimerla fece molta più fatica del previsto.
Gli avevano insegnato a concentrarsi intensamente sul dolore per farlo sparire, e fu proprio quello che cercò di fare. Possibile che fosse così devastante quella che gli umani chiamavano “preoccupazione”?
Ebbene sì, lui era preoccupato per Rin. Non avrebbe potuto salvarla un’altra volta, e quella paralizzante impotenza lo teneva inchiodato come una mosca sotto uno spillo, gettato da un bambino crudele.
Non esisteva elemento che avrebbe potuto distrarlo in quel momento, perché bastava risentire la dolce risata via via più matura della fanciulla per sprofondare nel baratro.
Passarono i secondi, i minuti, le ore.
Contava le assi del muro di fronte a lui, partendo da quelle in basso fino a salire, per poi scendere senza azzerare il conteggio. Era arrivato a 8945.
8946…
La pioggia si fece meno intensa, sciamando altrove, e lasciandosi dietro un alone di umidità. La terra doveva apparire molliccia e l’erba eccessivamente verde, incrostata di rugiada gelida.
8947…
Il cielo, immobile spettatore di vite altrui, si ridestò dal suo riposo notturno, cominciando gradualmente ad accogliere nel proprio ventre sfumature appena più chiare dell’opprimente nero senza nessuna stella.
8948…
Le dense nubi grigie e cariche di pioggia si aprirono in parte, lasciando spiragli minuscoli, per far filtrare una timida luce quasi blu, che aprì poi un varco a tutte le altre gradazione di azzurro intenso che esistessero.
8949…
Ed ecco il sole, protagonista delle giornate di ognuno: strascichi di nubi color fumo ne mitigavano lo splendore millenario, pallido e fragile mentre si sollevava a fatica dall’orizzonte.
8950…
Un sussurro appena accennato, che quasi sfuggì alle sue orecchie finissime e attente.
8951…
Il tempo parve dilatarsi, mentre sentiva l’incerto cigolio di una maniglia rudimentale, unica in tutto il mondo allora conosciuto e introdotta solo grazie ai ricordi di una ragazza, nell’azione di abbassarsi.
8952…
Venne il mattino, completo e rosseggiante, attutito appena dal ricordo della pioggia. I prati divennero un tappeto luminoso, i campi una pezza di stoffa marrone intenso e uniforme.
8953…
La porta si aprì. 

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Capitolo 8
*** Cure ***


Era bastato solo un minimo rumore per strappare Inuyasha dalla sua immobilità autoimposta: fissava fuori da quella che Kagome chiamava una finestra il panorama immobile tempestato dalla pioggia, fino a quando le gocce non avevano smesso di cadere ritmicamente com’era successo per tutta la notte.
Doveva ancora ambientarsi con la casa della sacerdotessa, nonostante gli fosse familiare quasi più del suo stesso albero.
Era composta da elementi che nessuno aveva mai visto, come le porte a cardini che avevano fatto dannare il fabbro oppure le lastre di vetro nelle cavità sul muro, che nessun artigiano aveva mai concepito.
Timidamente, al villaggio erano state inoltrate richieste di migliorie di quel genere, ma Kagome scoraggiava certe cose; spesso spiegava che quell’epoca era studiata nelle scuole dal fior fiore degli scienziati, e che eccessivi sviluppi tecnologici avrebbero insospettito troppo gli uomini moderni.
In genere, però, certi attrezzi futuristici destavano più timore che interesse, come nello stesso Inuyasha. Non li comprendeva fino in fondo e preferiva gli oggetti più semplici del suo tempo, come comodi cuscini o verande in legno, lisci e senza troppi meccanismi.
Tuttavia le finestre gli piacevano. Gli permettevano di guardare senza doversi per forza esporre alle intemperie, e il vetro lo incuriosiva non poco. Ci avevano lavorato dietro settimane intere sotto la supervisione della ragazza, e lo affascinava il processo di lavorazione.
Chiunque, però, aveva bruciato i progetti chiamandoli “opera da hanyou”, salvando Kagome da ogni timore.
Così quella dimora modesta e originale se ne stava sola soletta accoccolata alla collina appena discostata dal vero e proprio centro, mantenendo la propria intimità mentre si lasciava vegliare dall’albero, gigantesco e con migliaia di meravigliosi rami intricati.
Lui pensava che quel paesaggio rispecchiasse molto le loro personalità: lei, originale e con i natali nella medesima terra di un tempo completamente differente, rimaneva a disposizione di tutti anche se preferiva mantenere un minimo di pace, e lui, un albero fiero, radicato profondamente nel terreno, quasi eterno e mistico, fiero e solo. Però, le fondamenta dell’abitazione erano pericolosamente vicine alle radici, e i rami sfioravano il tetto, sussurrando contro il legno spiovente.
Erano incredibilmente vicini, eppure tutti quegli occhi là intorno impedivano loro di esserlo davvero.
Così una stava in piedi con pura di forza di volontà e l’altro la sosteneva in qualsiasi momento e si prendeva silenziosamente cura di lei.
Però, nel silenzio profondo della notte per nulla turbato dalla sgradevole presenza di Sesshomaru in quel luogo che per lui rasentava il sacro, risuonò potente il cigolio da fatto irrilevante, ma che parve quasi un’esplosione.
Abbandonò immediatamente il suo luogo di osservazione, lasciando che gli occhi si abituassero di nuovo a degli oggetti dai contorni delineati. Fissare la pioggia cercando di combattere l’oscurità l’aveva estenuato.
Per lo meno, però, era riuscito a non pensare a Kagome, impegnata qualche stanza più in là ad usare la propria energia spirituale per salvare una vita.
Quelle poche volte che era successo, in extremis, lui l’aveva assistita con il proprio potere innato, che non aveva nemmeno bisogno di richiami, dal momento che si trovava dentro di lui. Era stato difficile ugualmente, ed entrambi erano rimasti affaticati, ma non voleva neanche pensare alla ragazza sola in balia del destino, e a ciò che sarebbe potuto capitarle.
Era successo anche ad Ai, una giovane sacerdotessa di qualche villaggio più a nord.
Un demone aveva ferito a morte una donna incinta, mettendo gravemente a rischio le condizioni di entrambi. Lei, pur di dare qualche speranza al nascituro e alla madre, aveva usato ogni sorta di metodo, prima di ricorrere alla propria energia spirituale.
Non era andata a buon fine: l’anima, sentendosi minacciata, aveva cominciato a trasformare inconsciamente  anche l’energia vitale in risorsa utile, finendo per ucciderla. Alla fine la paziente si era salvata e anche il bambino, ma quest’episodio aveva segnato profondamente tutti i presenti.
E anche lui.
Erano migliaia i rischi che si correvano amando una sacerdotessa, ma lui contava sempre di poterla proteggere. Ma in quel caso, come avrebbe potuto intervenire, se neppure le interessate se ne accorgevano?
Questo scherzetto avrebbe ridotto sensibilmente la vita di Kagome, rubandole qualche anno;  già lo angosciava l’idea di perderla sempre dannatamente presto, con anche il fato contro di lui non credeva sarebbe riuscito a reggere.
Una fattucchiera una volta gli aveva spiegato come far vivere una donna tanto quanto il demone che amava, facendoli esistere per lo stesso periodo di tempo, quasi trasformando anche lei in un mezzo-demone centenario. Era un incantesimo potente, ma non gliel’avrebbe mai e poi mai rivelato: solo quando il desiderio sarebbe stato troppo forte avrebbe parlato, ma non prima di allora.
Era una cosa che riguardava un aspetto troppo delicato fra loro per essere nominato in un contesto qualunque, ma tacere lo logorava comunque.
Decise di lasciar stare per il momento, concentrandosi solamente sulla porta che si stava aprendo. In uno scatto fulmineo fu nel corridoio, dove anche il fratello era in piedi, una morsa di preoccupazione a dare una sfumatura rossastra agli occhi, unico segno di turbamento in tutta la sua presenza inquietante e fiera, quasi elegante.
Colei che aveva aperto l’uscio era una ragazza stanca, senza nemmeno la forza di reggersi dritta in piedi, mentre si appoggiava alla porta come per sostenersi.
I capelli corvini e spettinati dalla fatica le coprivano per metà il viso senza nessuna disciplina, mentre gli occhi erano cerchiati da un alone arrossato e una patina lucida. Le guance sembravano addirittura infossate e la pelle pallidissima e tirata assomigliava a cera. Tremava; lievi sussulti ne distorcevano la postura.
-È salva – mormorò con un filo di voce dalla labbra spaccate. –Veglia tu su di lei, io devo…devo riposarmi.
Inuyasha, senza aver paura di nascondere la morsa che gli stava stritolando il cuore, la prese in braccio proprio prima che crollasse.
Era esausta, stremata, ma viva. Viva! Una dormita, un letto caldo e sarebbe tornata la stessa, magari con un po’ di febbre, ma magnificamente illesa.
Nessun delitto sulla coscienza, nessun infortunio fatale, solo tanta fatica che l’aveva spossata, cosa che non era certo un’incurabile malattia. Delicatamente, dimenticandosi completamente del fratellastro maggiore,  la sorresse per le spalle.
Lei lo lasciò fare, ma capirono entrambi che non ce l’avrebbe mai fatta a camminare fino alla sua stanza, distante solo di poche porte. Inoltre, Inuyasha non se la sentiva di rischiare a portarla sulla schiena, in quanto sarebbe sicuramente caduta non riuscendo a sostenersi.
Fu questione di attimi, in cui dovette decidere cosa  fare: alla fine, con uno scatto il più lieve e leggero possibile, la prese sotto le ginocchia, trasportandola in grembo fino alla destinazione; la testa ciondolante di lei si appoggiò immediatamente al suo petto, senza avere la forza di protestare.
Dedicò solo un’occhiata a Sesshomaru, che in quel momento non avrebbe potuto permettersi di giudicarlo.
Era vero, amava una donna umana con tutto il proprio spirito, e anche di più se possibile, ed era forse per effetto della maledizione della sua famiglia.
Amava Kagome, perché era l’unica persone che gli avesse dato incondizionati rispetto e dolcezza, per nulla influenzati da ciò che tutti pensavano sui mezzo-demoni, “esseri né carne, né pesce”. Che dipendesse dalla sua provenienza da un’altra epoca? Non aveva affatto importanza.
Lei gli aveva mostrato un altro mondo celato sotto a quello che era abituato a vedere, doppiamente splendido e colmo di speranza.
E quel fiero e possente, infinitamente triste, Demone Maggiore, riuscì a guardare la loro posa solo con una vena malinconica, senza permettersi la minima sentenza.
La porta che stava per attraversare portava infatti ad un’altra ragazza umana che, inspiegabilmente, amava. Così come lui amava Kagome, forse in modo diverso, oppure nella medesima maniera.
La più dolce delle maledizioni: amare una donna umana. Non riusciva a considerarlo come un peccato, sembrava quasi un favore divino.
Quella lunga ed intensa occhiata si concluse così, mentre entrambi si  comunicavano quello che a parole non potevano esprimere.
Anzi, forse questa volta Inuyasha era avvantaggiato: covando dentro si sé una parte umana riusciva ad accettare più facilmente la faccenda, la propria debolezza carnale, vedendola come ordine naturale delle cose, una parte del proprio spirito a cui non voleva rinunciare.
Per l’altro era di certo un’ardua impresa anche solo da considerare, e la pena di tali problemi lo affliggeva e tormentava. Ma in quel momento esisteva solo un flusso di ansia e sollievo mischiati assieme nei cuori di entrambi.
Presto, il fratello minore si voltò e se ne andò, mentre il maggiore si avventurò titubante nella camera, chiudendo la porta. Non era affar suo cosa sarebbe successo lì dentro, in quell’istante contava solo Kagome, che era pallida e stremata, completamente appoggiata su di lui, abbandonata come se fosse fatta solo di carne.
-Scotti – disse il giovane, posando appena le labbra sulla sua fronte bollente.
La sentì annuire piano contro la veste.
Con un piede nudo scostò un po’ le lenzuola dal giaciglio della sacerdotessa, impregnato del suo magnifico odore, e ve la posò delicatamente sopra.
Si premurò di coprire i tremiti con un gesto protettivo, rimboccando le coperte fino al mento. La sentì rilassarsi istantaneamente, stendere le gambe a lungo tenute inginocchiate, le mani che afferravano il bordo di stoffa spessa.
-Non darmi nulla – gracchiò appena. –Non credo di poter ancora assumere medicine.
-Va bene, ora riposa – disse Inuaysha. Chiuse tutte le imposte per far calare la stanza nel buio più totale, in modo che non le si ferissero gli occhi.
-Dopo…svegliami…- sussurrò, mentre sprofondava nell’incoscienza.
-Certo -. Ovviamente non l’avrebbe fatto.
Si ostinava a tenere gli occhi aperti, nonostante si vedeva chiarissimamente che non ce la faceva più e il suo cervello implorava riposo. Le guance erano arrossate dalla febbre, ma continuava a tremare, dal momento che il resto del corpo era invece gelido.
 -Kagome, faresti meglio a dormire – disse Inuyasha, preoccupato. C’era qualcosa che non andava; era così sfinita che sarebbe dovuta crollare, perché rimaneva sveglia e cercava di mantenersi vigile?
-Posso…posso chiederti un favore? – mormorò.
-Certo – assentì subito. –Qualunque cosa.
-Non riesco a dormire…ho paura di cadere…cadere di lato…ho freddo, non riesco a fermare i brividi… - riuscì a sussurrare.
Lui le si avvicinò lentamente, posandole una mano sulla fronte, constatando che la febbre stava salendo; se non avesse ceduto al più presto si sarebbe affaticata troppo, necessitando di settimane per riprendersi.
-P..potresti stenderti un secondo sul materasso? Solo finché non chiudo gli occhi. Per favore…- disse, arrossendo ancora di più. Le palpebre si facevano sempre più pesanti da tenere aperte.
Inuyasha avvampò violentemente, di colpo. Ritirò la mano come se fosse stato punto, guardando imbarazzato il pavimento.
Non poteva, non poteva assolutamente accettare! Anche se Kagome era malata e non c’era assolutamente nessun sottinteso in quella semplice richiesta, lui stesso si sarebbe sentito un verme. Sicuramente il suo sporco cervello si sarebbe messo in moto all’istante, nonostante il corpo della giovane fosse tremante, debole e spossato.
Lui sapeva che era solo per ricevere più velocemente del calore, ma era una cosa troppo intima per due persone non sposate, era un’imposizione della sua pudicizia d’altri tempi.
Già…due persone sposate. Marito e moglie. Lo sarebbero stati senza quella storia del sacerdozio in mezzo?
Avrebbero davvero convissuto nella stessa casa, nello stesso letto, per tutto il tempo a loro disposizione? Indubbiamente sì.
Kagome era tornata per stare con lui, e con nessun altro, quindi aveva rinunciato a tutto pur di stargli a fianco. Non era forse la più grande dimostrazione d’amore che ci potesse essere?
Però di fatto lei era una persona sacra al villaggio e lui un mezzo-demone. Ma era anche vero che si sarebbe trattato di una notte sola, che non si sarebbero nemmeno toccati, che probabilmente nessuno l’avrebbe mai scoperto e che la ragazza sarebbe stata così incosciente da non ricordarsi nulla.
Fu così che, silenziosamente, lui le si stese vicino, nonostante fosse una posizione che non riusciva a mantenere durante il sonno, e rispose alla presa debole della mano sottile che gli era stata porta.
Un sorriso appena accennato illuminò le labbra stanche. –Grazie – mormorò flebilmente, poi i suoi occhi si chiusero lentamente e il respiro si regolarizzò, fino a segnalare la sua caduta nell’oblio.
Ricominciò a piovere, la casa era immersa nel silenzio. A parte i loro due cuori, che si muovevano sullo stesso ritmo, non s’udiva nient’altro.
Il picchiettio leggero delle gocce sul tetto lo distrasse in mille sconclusionati pensieri, mentre la mano di Kagome rimaneva salda alla sua, come se non si volesse staccare mai.
Anche se non credeva che sarebbe successo, si accorse che stava per addormentarsi; la pace era tale che non oppose nemmeno la minima resistenza.
E, prima di chiudere gli occhi, gli parve quasi di intravedere uno spago sottile, quasi evanescente, legato al proprio mignolo, per arrivare a legarsi anche a quello della ragazza.
Quello spago era rosso.
 
 
 
 
  

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Capitolo 9
*** Una stanza che rappresenta l'universo ***


Sesshomaru non sapeva come comportarsi, non appena varcata la soglia della camera.
Non aveva giustificazioni per quello che le aveva detto, ma soprattutto fatto capire. Con quella storia aveva rischiato di perderla per sempre, solo a causa di una stupida idea campata in aria.
Lui sapeva che Rin non avrebbe mai accettato di vivere in mezzo agli esseri umani, mai; ogni volta che lo vedeva tornare gli ricordava con un’occhiata di non aver aspettato altro per tutta la durata del suo viaggio.
Nella penombra della piccola stanza, si intravedeva appena la sagoma del letto. Le imposte erano serrate e solo un lumino brillava debolmente su un mobile lì per terra, evidentemente per rischiarare il lavoro ormai concluso della sacerdotessa.
Ora sembrava stare meglio di prima, aveva ripreso un po’ di colore sulle guance lisce, prima scavate e pallide. Le ciglia nere erano elegantemente appoggiate agli zigomi, mentre le labbra carnose e rosse rimanevano schiuse, come in attesa del bacio che l’avrebbe risvegliata.
Sesshomaru la trovò bellissima, un’ennesima volta. Il fascino giovane di ragazza nel fiore dei propri anni si rifletteva completamente nell’incoscienza del sonno, arrivato dopo un’estenuante notte di febbre. Riposava serena, quasi sepolta dalle coltri spesse, inseguendo chissà quali fantasie con il cervello finalmente a riposo.
Quali pensieri l’avevano tormentata a tal punto per spingerla ad un gesto così estremo?
Vagare per ore nel fango, sotto una pioggia battente, nella notte più scura senza nemmeno una difesa, cadere nelle braccia dell’ignoto…tutto per delle semplici parole. Era tale il potere del demone su di lei? Un solo discorso, o meglio, l’embrione di una conversazione, era bastato per portarla a tal punto?
Lei lo conosceva il dolore, e anche molto bene: arrivare ad impazzire per esso era stato per lei un rischio vicinissimo, quasi un conforto. Arrivare volontariamente ad ammalarsi per essere assorbiti da esso, soprattutto dopo le esperienze già precedentemente vissute, testimoniava una verità agghiacciante, che quasi non voleva considerare.
Spense la fiamma, stizzito. Rin aveva tentato di uccidersi.
Non aveva opposto la minima resistenza quando lui l’aveva portata via, dopo essere caduta diverse volte. Inoltre non aveva avuto nessuna intenzione di tornare al villaggio, e se non fosse svenuta si sarebbe sicuramente ribellata. Era una ragazza intelligente, quindi sicuramente si sarebbe resa conto della propria debolezza, e del fatto che non avrebbe resistito a lungo sotto alle intemperie.
Anche se era un demone e non poteva ammalarsi per un fatto fisico, persino Sesshomaru evitava di rimanere esposto con una notte così, nonostante non avesse di che temere. La pioggia gli riduceva la sensibilità olfattiva, gli offuscava la vista e ovattava l’udito; inoltre era fastidiosa da sentire fra i capelli, intricarsi alla pelle e impregnare i vestiti.
Era uno spettacolo migliore da godersi a distanza, ma non aveva potuto impedire a sé stesso di uscire comunque sentendo una traccia dell’odore di Rin, che raramente se ne andava dalla capanna in quelle ore.
In effetti, per tutto il pomeriggio, non era stato affatto lontano dal villaggio; troppo adirato con sé stesso per fare qualsiasi viaggio.
Era rimasto straziato vedendo la ragazza fuggire così, rendendosi conto di essere stato ingiusto. Ammettere i propri errori non è mai debolezza, e lui se ne rendeva perfettamente conto. Ma andava contro al proprio orgoglio chiedere scusa alla ragazzina. Avrebbe saputo dove trovarla, in ogni caso, ma l’ira fu troppa. Temeva le avrebbe risposto bruscamente ancora una volta, e se voleva ottenere un perdono doveva essere nello stato d’animo più pacifico possibile. Nel suo caso, la rabbia indicava distruzione.
Era rimasto oltremodo infastidito dal sentirsi condizionato dalle reazioni di Rin, comunque un’umana infinitamente più giovane di lui, ma non aveva neppure potuto porvi rimedio. Così aveva trovato un posto appartato, nel ventre di una montagna, e aveva fatto di tutto per distrarsi con la meditazione, eliminando anche Jaken dalla propria vista.
Ora, invece, si pentiva di non averla seguita. Se ne avesse osservato i movimenti, se solo si fosse scusato e avesse sistemato la questione, la ragazza sarebbe stata salva sin da subito. Ma, distratto dal proprio accrescimento dell’aura, l’aveva obliata per delle ore, col risultato che lui, Kagome e Inuyasha conoscevano.
Inuyasha…si sentì ancora più infimo constatando di invidiare la sua libertà. Non lui, non il fratello in sé, rozzo e di fatto dalla potenza insignificante, ma il fatto che potesse accompagnarsi a chi volesse, il suo infimo orgoglio non ne avrebbe risentito.
Per lui, il matrimonio non aveva significato, in quanto non era un’istituzione demoniaca. Un’usanza troppo umana per essere condivisa, e in quel caso l’amore eterno lo sarebbe stato veramente. Le promesse sono una cosa molto più complicata dei fatti, e nessuno era interessato ad una cosa del genere.
Inuyasha poteva accoppiarsi senza troppi pensieri con chi desiderava, cosa che a Sesshomaru era impedito fare dalla propria educazione. Avevano passato così tanti anni ad impartirgli profonde e radicate tradizioni demoniache che la situazione in cui si trovava ora lo atterriva.
Suo padre era stato così potente da poter trasgredire controllando persino tale aspetto, ovvero fare un figlio con una donna di razza inferiore. Per lui, il significato morale della questione non aveva avuto poi tanta importanza.
Ma Sesshomaru non avrebbe mai sopportato il peso di quella che Inuyasha considerava una splendida maledizione: anche accettando il suo amore per Rin, come avrebbe fatto senza di lei?
Sarebbe morta in un battito di ciglia, se si considerava il tempo che gli sarebbe poi rimasto da vivere, ovvero una cifra intorno ai mille anni, senza contare imprevisti o decisioni autolesionistiche. Rin, invece, ci sarebbe stata per una cinquantina d’anni al massimo, perdendo vigore di anno in anno.
Sesshomaru pensava che questo morire degli uomini dipendesse dalla velocità di crescita. Nel giro di pochi anni si facevano vigorosi e pronti a tutto, per esaurire tutte le forze in altrettanto poco tempo. Che senso aveva prosciugarle senza nemmeno godersele?
Il sole cominciò a sollevarsi velocemente all’orizzonte, poteva seguirne il movimento senza nemmeno guardare di fuori. Ne seguiva il moto ormai da anni, e si ripeteva sempre uguale da centinaia di primavere, senza apparentemente nessun significato. Era l’unico compagno su cui poteva sempre contare, l’unico che non sarebbe scomparso e non l’avrebbe lasciato solo nel suo lungo e triste pellegrinaggio.
Era vero, con Rin si sentiva felice: ma l’avrebbe condannata ad una vita senza figli, senza dimostrazioni d’amore e senza lo straccio di un matrimonio, elementi fondamentali nella vita di una fanciulla.
Non era certo meglio nascondere i propri sentimenti, ma era una sofferenza accettabile, se paragonata all’idea del tempo che li avrebbe divisi irreparabilmente. Certo, esistevano le reincarnazioni, ma lo spirito cambia in così lunghi lassi di tempo, e difficilmente l’avrebbe trovata, oppure si sarebbe fatto riconoscere.
Vagare per cinquecento anni e non essere nemmeno riconosciuto, partire da zero in un mondo che apparteneva agli umani? Sarebbe impazzito di certo.
Un fruscio di coltri, un movimento appena accennato e, nell’oscurità, due occhi che si aprivano lentamente, scontrandosi con una quasi solida parete di buio.
Rin era ormai sveglia, e Sesshomaru fu attagliato dal panico, nonostante solo lui fosse in grado di vederla, in quanto l’oscurità fitta non permetteva alla vista umana di scorgere alcun dettaglio.
La fanciulla rimase ferma, come in ascolto. Le persone comuni, sicuramente, avrebbero cercato di accendere una luce o di riconoscere il luogo in cui si trovavano; lei, invece, se ne stava immobile, senza neanche provare ad usare gli arti snelli e delineati alla perfezione.
Il demone stava facendo di tutto per reprimere sotto il proprio aspetto esteriore tutte le preoccupazioni e i pensieri: si limitò a fermare gli occhi gialli sul viso liscio di lei, che non si decideva a fiatare. Muoveva piano le palpebre, e le ciglia lunghe producevano un fruscio di cui poteva bearsi grazie solo al suo udito sopraffino.
-Signor Sesshomaru, siete voi? – chiese piano, cauta. Aveva il tono di chi si aspettava solo silenzio, ma difficilmente si sarebbe sbagliata, quando si trattava di lui.
-Sì.
Immobilità, ancora. Possibile che riuscisse ad avere un tale controllo anche sulle lacrime, mentre gli occhi si arrossavano senza far scendere la minima goccia?
-Siete stato voi a portarmi qui? – domandò nuovamente. Era suo diritto porre tutti i quesiti che desiderava.
-Sì –rispose ancora, perché non riusciva a pronunciare nient’altro.
Rin non parlò per un po’, rimanendo sempre nella medesima posizione, senza dare neppure il segno di volersi sgranchire dopo ore di incoscienza. Era come una sfida. “Ah, sì, grande e incrollabile demone? Vediamo chi ha più resistenza fra noi due”.
Lui, una statua di marmo, e lei, come se fosse avvolta da un sudario. Immobili, fieri e pieni di malintesi.
-Perché l’avete fatto? – continuò. –Potevate lasciarmi lì, nel fango, il posto meritato da ogni essere umano.
Lui non cercò di far finta di non capire, ma lasciò che trovasse un modo per sfogare la propria rabbia. Un risentimento che, se esternato, poteva concludersi in fretta e far tornare la pace.
-Non volevo che morissi, Rin. Ho…sbagliato a parlarti così, volevo solo capissi che puoi scegliere la vita che desideri -. Ecco, finalmente l’aveva detto, era riuscito a confessarlo. La verità era molto più difficile di una bugia da rivelare.
La ragazza rimase immobile, ma un lieve singhiozzo le scosse il petto fragile. Quante volte aveva sperato di udire quelle parole?
Il demone si sentì profondamente egoista per avergliele negate con il proprio orgoglio, di aver prolungato una straziante attesa solo perché non aveva avuto il coraggio di ammettere i propri errori. Se le avesse confessato il suo amore, forse avrebbe ridotto la sua pena fino a farla scomparire, ma non poteva. Non sarebbe riuscito a sopravvivere per soli cinquant’anni al suo fianco; gli ci voleva un’eternità e forse di più per potersi dire colmo e soddisfatto.
Lei non replicava, abbandonasi a silenziose lacrime. Lui non poteva sopportare di vederla piangere, l’animo vulnerabile disperatamente eclissato dagli altri che custodiva, dedicati alla guerra e all’insensibilità, piangevano con lei, urlavano silenziosamente il proprio strazio.
Non poté fermarsi: quel suono discreto, pacato, triste e infinitamente dignitoso lo stava facendo morire.
Con un singolo, convincente pensiero, vide il proprio braccio animarsi come se appartenesse ad un altro, allungandosi con un fruscio discreto di stoffa e stendere la mano, verso la sua guancia. Stando attento a non sfiorarla con le unghie lisce e letali, accolse la freschezza delle sua pelle così viva assaporandola con solo una porzione di indice, mentre raccoglieva una lacrima salata intrisa di tristezza.
Nel buio e nello sconcerto della camera, essa brillò fulgida per un solo secondo, prima di essere assorbita da quella mano assetata di emozioni, per quanto negative potessero essere.
Rin ormai era troppo sorpresa per piangere ancora, e lo sgomento nel cuore del demone si placò di un po’.
Il corpo fragile e ancora in attesa di guarire si sollevò a sedere grazie ai gomiti, appoggiando stancamente la schiena al muro. Anche se non lo vedeva, tenne gli occhi incollati ai suoi in modo quasi doloroso.
-C’è una cosa che devi sapere – disse malinconico il demone. Era il primo a non capire cosa stesse succedendo al suo cuore che credeva avvizzito, ma aveva comunque bisogno di esternare ciò che lo assillava, dedicandosi però prima alla liberazione da un opprimente fardello che lo angosciava da più tempo.
A luce spenta, due anime si avvicinarono, ignorando sia il giorno che la vita al di fuori di quella stanza.
 
 
  

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Capitolo 10
*** Risveglio ***


Una mano calda, stretta alla sua.
Dei capelli morbidi e sottili intrecciati ai propri.
Un corpo tiepido e rilassato, contro cui si stava completamente appoggiando.
Un braccio che le cingeva la schiena, i muscoli forti e delineati contro la stoffa.
Delle coperte pesanti, di lana.
Kagome aprì lentamente gli occhi, prendendo coscienza del mondo circostante. Aveva dormito tutta la notte, ma sentiva ancora  gli arti indolenziti per la fatica della sera prima: si era spinta al massimo delle proprie possibilità, e ancora adesso le formicolavano le ossa, in una sensazione stranissima.
Il mal di testa non tardò a premere contro ai bulbi oculari; per fortuna era immersa nel buio, altrimenti sarebbe rimasta allucinata dalla luce del giorno. Le palpebre erano pesanti, segno che aveva dormito molto di più di ciò che pensava.
Era al caldo, e si sentiva protetta, cosa che aveva agevolato la sua discesa nel mondo dei sogni.
Con il cervello stanco, aveva viaggiato attraverso un paesaggio indefinito, ma estremamente rilassante. Era tutto una confusione di suoni e colori, ma nel mezzo si trovava una figura rossa, quasi tagliente, che le sorrideva nel modo più dolce che potesse mai immaginare. Aveva allargato le braccia, con le lunghe maniche pendenti, e l’aveva accolta nel suo petto ampio, forgiato da mille battaglie.
Inuyasha. Non poteva essere nessun altro.
Le piangeva il cuore a doverlo vedere e basta, a non poterlo baciare o comportarsi come una ragazza normale assieme all’uomo che amava. Ma era impossibile.
Era rimasta scioccata quando il pozzo l’aveva bloccata nella sua epoca; per tre giorni si era rifiutata di mangiare, piangendo e basta relegata nella sua camera. La disperazione l’aveva assalita pensando che non l’avrebbe rivisto mai più.
I suoi occhi, il suo sorriso rarissimo…scomparsi per sempre.
Si era ripresa solo davanti all’evidenza dei fatti. Lui non l’avrebbe mai potuta vedere così debole ed inerme, e si rassegnò a quella che era l’amara verità, l’ennesima beffa di Naraku.
Aveva faticosamente ricominciato a vivere, studiando e aiutando in casa, ben sapendo però che una parte di sé era rimasta dall’altra parte, in quella che era ormai la sua realtà.
Sua madre, Sota e anche il nonno erano stati incredibilmente cari con lei, delicati fino all’ultimo. Accoglievano le sue brutte giornate facendo finta di nulla, assecondavano i suoi bisogni di pace e ogni tanto la coinvolgevano in progetti casalinghi.
La donna era l’unica che potesse capire come ci si sentisse a rimanere senza la metà che completa lo spirito, in quanto il marito era morto diversi anni prima, ormai. E il nonno, rimasto vedovo, rispettava gli spazi della ragazza quasi religiosamente.
Qualcosa nell’integrità della famiglia, e di Kagome, si era spezzato. Quando girava per la città, aspettava di vedere la divina Kaede, o un uomo a cavallo, e rimaneva spiazzata quando non succedeva.
Usava sempre con meno piacere i mezzi pubblici o le migliorie tecnologiche, pensando nostalgica a quella schiena possente che la trasportava con enorme cura in qualsiasi viaggio.
Era persino arrivata a credere di averlo solo sognato, di essere innamorata di una fantasia: e proprio mentre la follia cominciò a germogliare nella sua testa, il destino le aveva offerto l’occasione di andarsene e ritrovarlo.
E lei l’aveva colta.
Stringendo la sua mano, identica dopo tre anni, come se non fosse passato che un solo minuto, era ritornata nella realtà per cui era nata, in cui poteva dire di aver vissuto.
Ma…era una sacerdotessa, dopotutto. Il potere spirituale era raro, in quel mondo, e il peso delle responsabilità non andava trascurato.
Aveva accettato quel compito anche perché non aveva scelta: inoltre, cos’altro avrebbe potuto fare per rendersi utile? Niente, non era in grado di essere nemmeno una contadina decente.
Così passava le mattine con Jinenji, ad imparare come classificare e distinguere le varie erbe mediche, mentre i pomeriggi si occupava di bambini, malati, orfani o partorienti. Difendeva col proprio arco il villaggio da qualsiasi cosa, e purificava qualsiasi spirito, oppure esorcizzava demoni minori se ce ne era bisogno.
Una routine che la assorbiva, e che rendeva i momenti di riposo doppiamente dolci rispetto al solito. E li voleva trascorrere con Lui, l’unico che riusciva a donarle felicità anche solo con uno sguardo.
Sembrava rimanere impassibile davanti a quella situazione di stallo, e questo la faceva soffrire. Pensava che anche lui ricambiasse, almeno in parte, i suoi sentimenti, invece si dimostrava il solito Inuyasha di sempre.
La svolta era arrivata il pomeriggio prima, quando era praticamente fuggito da casa sua: le poche parole che le aveva detto erano state rivelatrici. Ma allora perché non faceva niente per cambiare la situazione?
Non vedeva assolutamente nulla, e le si stava indolenzendo la schiena. Continuava ad avere caldo, ma era una tiepida e rassicurante situazione, così dolce che una vocina nella sua testa le stava sussurrando di mantenerla. Eppure, sapeva che c’era che non andava al solito modo.
E poi ricordò, in un lampo.
La sera prima bruciava di febbre e stanchezza, in seguito alla cura data a Rin. Poi, era stata accompagnata in camera da Inuyasha, e…
Avvampò di colpo. Aveva dormito abbracciata ad Inuyasha tutta la notte?! A quell’Inuyasha?!
Il cuore cominciò con una serie di battiti impazziti, accompagnati da sudore freddo e viscido, che le strisciò lungo la schiena. Possibile che lui non avesse opposto la minima resistenza e avesse ceduto?
Per quanto disperatamente cercasse dettagli, doveva fidarsi della propria intuizione. I ricordi erano frammentari, ma riconducevano solo a quell’unica possibilità, che in cuor suo sperava fosse vera.
Le sfuggì un singulto, un embrione di risata, pensando che magari si sarebbe risvegliata al fianco di Sesshomaru. Avrebbe preso uno spavento non da poco, altroché! Gli avrebbe fatto fare un infarto seduta stante, a tutti quanti in casa, in effetti.
No, non era il momento di scherzare. Il ragazzo le era stato accanto tutta la notte, dormendole vicino per darle calore, lasciandole la maggior parte dello spazio sul materasso.
Lei sapeva bene quando odiasse dormire disteso, ma il lieve alzarsi e abbassarsi del suo petto dimostrava che si era assopito come un bambino. Molti ne avrebbero approfittato: dormire con una sacerdotessa vergine semi-incosciente non ispirava la pudicizia, come prima virtù, eppure si era mantenuto a rispettosa distanza, accogliendo la sua mano febbricitante senza respingerla ma neppure incoraggiandola.
Forse era rimasto sveglio a vegliarla, per evitare che la sua situazione si aggravasse durante la notte. Sì, era decisamente un comportamento da lui, negarsi il sonno per proteggerla.
Per fortuna, le tenebre coprivano il suo rossore, anche perché era sicura che fino alla radice dei capelli fosse diventata di un colore violaceo, completamente avvolta dalla stoffa speciale di lui.
Infatti, durante la notte, doveva essergli rannicchiata addosso, perché era completamente circondata dai suoi capelli e dai suoi vestiti, che formavano un nido attorno al suo corpo. Le loro mani erano giunte insieme, mentre il braccio libero del ragazzo era posata, protettiva,  sulla sua schiena, piegata per lasciarsi avvolgere meglio.
Una situazione assurda, ma che la colmava di piacere: era la prima volta che condivideva un momento veramente intimo con Inuyasha, che lasciava da parte la sua parte burbera e si metteva a fare il tenero principe.
Quanti romanzi d’amore aveva letto, in quella che sembrava essere una vita precedente? Si immaginava i protagonisti avvolti dalle proprie sventure ricongiungersi nelle ultime pagine, e perdersi in un mare di tenerezze e moine. Erano le parti che apprezzava di più, ma difficilmente Inuyasha gliele avrebbe concesse.
Era per questo che lo amava: la proteggeva e le stava vicino in qualsiasi momento, sforzandosi con tutti i mezzi di fare lo scoglio saldo e forte, ma non ci riusciva così bene come pensava.
Aveva provato a convincerlo che la debolezza era una virtù e non un difetto, ma sembrava non volerla capire; era stato troppo abituato a mantenere una maschera di durezza per essere riplasmato dalle parole.
-Kagome, sei sveglia? – chiese una voce profonda sopra la sua testa. Il suo timbro sembrava amplificato dall’oscurità, o meglio, dall’assenza di luce.
Lei sobbalzò, in quanto pensava lui stesse ancora dormendo. Il suo respiro era così regolare che non le era nemmeno passato per la testa che si fosse destato prima di lei. –Ehm..sì – balbettò.
-Faresti meglio a dormire di nuovo – replicò, spostandosi leggermente per farla stare più comoda. Sembrava così tranquillo e a suo agio…
-P…penso che lo farò – rispose. Quell’atmosfera così intima la metteva a disagio, ma si sentiva stupida avvertendo Inuyasha tanto rilassato, come se fosse una cosa perfettamente normale. Trasmetteva un senso di profonda pace, come se non dovesse temere nulla, che l’avrebbe sempre protetta. Questo contribuiva a farla sentire amata e al sicuro, facendole stendere i muscoli irrigiditi dall’imbarazzo.
-È da tanto che sei sveglio? – chiese piano, contro la stoffa.
-No, non molto. Ho dormito più del solito.
Quella semplice considerazione la fece arrossire forse anche più di prima, ma non fiatò cercando di rimanere impassibile. Era meglio che non fossero faccia a faccia, perché altrimenti lui avrebbe certamente visto il suo viso color cremisi, e non avrebbe sopportato la profonda bellezza di quegli occhi gialli.
- Anch’ io…ne avevo proprio bisogno – disse lei, sentendosi più tranquilla. Potevano quasi fingere di essere una coppia a tutti gli effetti, che si sveglia la mattina e si mette a parlare tranquillamente prima di riaddormentarsi. Un’immagine così tenera che la fece sciogliere.
-Secondo me, ormai ti conviene prenderti la giornata libera, credo sia pomeriggio. La febbre è scesa?
-Sì, credo di sì…mi sento meglio – rispose. – Però…non possiamo lasciare tuo fratello di là…chissà come soffre…
-Sta tranquilla per lui, se ne è già andato – tagliò corto Inuyasha, facendo salire leggermente la mano sulla sua schiena in movimento involontario, che sembrò una carezza.
-Cosa?! – chiese Kagome, allarmata. Era andato via lasciando la ragazza da sola in camera? E loro erano lì a fare i piccioncini?
-Calma…calma – disse con voce profonda, interrompendo ogni suo movimento. –Rin è andata via con lui.
Avvertì un increspatura delle labbra di lui contro la sua testa, un sorriso leggero.
-Oh – replicò soltanto. Ma perché la situazione complottava sempre contro di lei? –Credi che…? – non terminò la domanda, non ne aveva il coraggio. Pensava che avrebbe capito lo stesso, senza bisogno di ulteriori spiegazioni.
-Sì – rispose l’altro subito, potendo sottintendere migliaia di cose.
E così, alla fine, persino la giovane, piccola, innocente Rin, stava meglio di lei, sentimentalmente parlando. Magari si trattava solo di una coincidenza, magari si era fatta riaccompagnare semplicemente alla capanna di Kaede, le possibilità erano infinite, ma decise che non erano affari suoi.
-Beh, sono contenta per loro – disse semplicemente.
Una pressione leggera le si posò sul capo, dolcemente, come un soffio. Un tenero bacio appena accennato e timido. –Ora riposa – sussurrò.
Lei annuì piano. Chiuse gli occhi.
Una mano calda, stretta alla sua.
Dei capelli morbidi e sottili intrecciati ai propri.
Un corpo tiepido e rilassato, contro cui si stava completamente appoggiando.
Un braccio che le cingeva la schiena, i muscoli forti e delineati contro la stoffa.
Delle coperte pesanti, di lana.
Non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte. 

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Capitolo 11
*** Persone ***


Rin lo guardava, immobile. Dal momento che lui la poteva guardare, aveva pensato che fosse meglio accendere nuovamente il lume nella stanza, che illuminava fiocamente lo spazio circostante, lasciando gli angoli in una densa e rassicurante penombra.
Lei non avrebbe proprio saputo dire cosa ci fosse da rivelare, fra loro, ma era anche molto curiosa. Dubitava che l’avrebbe resa partecipe dei massacri che sicuramente compiva tutti i giorni oppure di precisazioni circa il suo impero, quindi non immaginava una questione tanto grave degna di tale presentazione.
Perché, anche se esteriormente appariva freddo e disinteressato come al solito, lei sapeva che in realtà covava molto di più. Il sopracciglio sinistro era leggermente più teso di quello destro, mentre le labbra quasi viola tant’erano fredde rimanevano indurite da chissà quale preoccupazione, che stava turbando anche lei.
I silenzi di cui il demone la rendeva partecipe non l’avevano mai disturbata, ma in quel momento le pareva che una cappa di nervosismo fosse calata nella stanza, creando un’atmosfera opprimente.
Poi, lentamente, la sua bocca si schiuse per lasciar fluire parole profonde e calme, come suo solito: -Kaede mi chiese quanti anni avevi, quando ti portai da lei. Prevedeva infatti che avresti passato diversi anni presso di lei, come le avevo esplicitamente chiesto, e voleva sapere la tua età per, un giorno, darti in sposa.
Una stilettata di dolore percosse il cuore della fanciulla. –Era già tutto programmato dall’inizio? – domandò piano, combattendo contro il pizzicore delle lacrime. Non credeva sarebbe riuscita a frenarle anche questa volta, e non voleva mostrarsi debole per una questione d’orgoglio.
-No, non  lo era affatto. Non è questo che sto cercando di dirti.
-E allora cosa vi preme?
Sesshomaru si prese un attimo di denso silenzio prima di rispondere. –Quando dovetti dirle la tua età, mentii. Non hai quattordici anni, Rin.
Se un fulmine l’avesse colpita, in quel preciso momento, violando il tetto in legno, scavalcando la forza maggiore del demone e bruciando il letto, sarebbe rimasta meno sconvolta. La natura è imprevedibile, e ora anche Sesshomaru, suo degno figlio, lo stava diventando.
Davanti a lei si presentava non più la creatura che andava a trovarla con regolarità, bensì un demone che aveva mentito persino su un carattere fondamentale alla sua persona. Non le lasciò dir nulla, continuando con la sua confessione.
-Il motivo è semplice, ed è stato a causa della mia codardia: se ti fossi sposata, non ti avrei mai più rivisto. Volevo conservare ancora qualche anno. È stato puro egoismo, ma non potevo permettere che qualche inutile, stupido, maleodorante e debole umano avesse il privilegio di dormire al tuo fianco, e ingravidarti scambiandoti per una volgarissima contadina qualunque…
-Signor Sesshomaru, calmatevi – sussurrò Rin, per automatismo. Quando vedeva la sua espressione indurirsi a tal punto sapeva che era arrivato il momento di porgli un freno, e solo il suo nome pronunciato da lei aveva il potere di porre un limite alla sua furia.
-Hai…hai ragione – disse solo, rivestendosi del suo auto controllo. –Ho sbagliato, me ne rendo conto. Spero non ne dorrai se ti ho ringiovanito di qualche anno, anche perché non ha sortito l’effetto sperato.
Lei non ebbe il coraggio di dire nulla, in quanto la rivelazione l’aveva scavata profondamente, lasciandole un ennesimo solco. Lui aveva approfittato della sua amnesia per sfruttarla a proprio vantaggio, ma non si sarebbe mai aspettata una motivazione simile. Il Signor Sesshomaru era…geloso?
-Inoltre, non si potrebbe comunque dire che lo scorrere del tempo per te sia uguale a quello degli umani. I tuoi viaggi nell’aldilà, come ben sai, ti hanno invecchiato di qualche anno.
Rin non poteva credere di sentire una taciuta realtà sostituita da una volgare bugia uscire dalle labbra del demone. Lei lo amava perché era sempre stato onesto, ma ora scopriva che non era così.
O meglio, alla fine aveva chiarito, ma solo perché aveva rischiato la morte, altrimenti sarebbe stato zitto e lei non avrebbe mai saputo le cose nel corretto svolgimento. Ancora non le era del tutto chiaro come mai il demone avesse a cuore la sua situazione sentimentale, e anche perché si preoccupasse tanto delle proposte di matrimonio.
Innanzitutto, lei non le avrebbe mai accettate, e in secondo luogo non si credeva affatto degna di meritare l’amore di Sesshomaru, anzi, era un concetto così astratto che non l’aveva nemmeno preso in considerazione. Era per questo che i conti non quadravano, le mancava un fondamentale tassello, impossibile da trovare per la sua mente.
Non trovava una motivazione convincente a ciò che era successo. Quella che credeva essere Rin, in realtà era già una ragazza. L’età, da lei, non era considerata importante, ma solo perché credeva di sapere per certo la sua. Non aveva mai messo in discussione questa parte di lei, nemmeno una volta.
Insomma, chi non crede di essere vecchio quanto gli era stato detto? Lei si era fidata, eppure questa fiducia incondizionata era stata tradita.
-Quanti anni ho? – mormorò appena. Se il suo interlocutore non avesse avuto un udito da demone cane, avrebbe dovuto farsi ripetere il quesito.
Quegli impassibili occhi di ghiaccio, per la prima volta, non riuscirono a sostenere il peso della realtà. –Quasi diciassette.
Diciassette anni.
Tre anni in più di quelli che credeva avere.
Ora, tutta quella fretta per il matrimonio e la famiglia assumeva un senso. Ecco perché il suo corpo era tanto diverso da quello delle “coetanee”, ecco perché cominciava a reagire diversamente rispetto agli altri ragazzini, ecco spiegata l’urgenza dell’imparare un mestiere.
Kaede, evidentemente, aveva già notato che la ragazza non doveva essere così giovane, predisponendola già per un’età che non era la propria.
Rin si sentiva ingannata, e tradita. Aveva vissuto tre anni prima l’età che credeva avere ora, era stata grande senza nemmeno accorgersene, aveva sprecato parte della giovinezza scambiandola per fanciullezza.
Nessuno, nemmeno il Potente Sesshomaru, avrebbe potuto ridarle indietro quel tempo. Ogni minuto, ogni secondo, aveva vissuto un inganno. Aveva respirato con una bugia, aveva creduto ad una falsa verità. L’umiliazione del tradimento cominciò a farsi strada verso i suoi occhi, bruciando tutte le zone che oltrepassava. Aveva tutto il diritto di piangere, di sfogare il proprio dolore.
Prima venne una lacrima, solitaria. Poi ne arrivò una seconda, e il fardello dei singhiozzi le sconquassò il petto. Si sentiva ancora debole e fragile e, per la seconda volta in due giorni, il demone tradiva la sua fiducia, che lei credeva già sedimentata da anni.
Lui si limitò a guardarla. In quello sguardo impassibile, davvero c’era posto per la compassione?
La ragazza non voleva saperlo. Le aveva spudoratamente mentito per tanto tempo, senza smascherarsi mai, accarezzandole la guancia come se avesse davanti una bambina, e non una donna.
Le lasciava credere quella che era solo una fantasia costruita da lui, per chissà quale scopo. Che diritto aveva di guardarla ancora negli occhi? Come aveva fatto ad illuderla, ben sapendo cosa significasse per lei?
-Che diritto avevate…che diritto avevate di farmi questo? – singhiozzava fra le lacrime. Ormai una diga era crollata e non le importava più nulla dell’aura mistica che la figura emanava, aveva solo bisogno di sfogarsi.
Quel suo essere stoico le stava dando sui nervi, in quel momento. Nonostante le avesse fatto quello, se ne rimaneva immobile, senza provare nemmeno a difendersi. Non avrebbe mai accettato stupide scuse, o magari altre bugie, ma avrebbe almeno apprezzato lo sforzo.
Invece, con viso quasi altero e arrogante, rimaneva lì, senza spiccicare parola, irritandola maggiormente. Non si sarebbe mai scusato, lo sapeva, e questo dimostrava quanto poco ci tenesse a lei.
-Non vi sopporto quando fate così, parlate! Insultatemi, urlate, inceneritemi, ma dite qualcosa! – implorò, per perdersi in un gemito straziato.
Doveva posare una mano sul proprio petto per evitare che il cuore sgusciasse via, valicando la stoffa sottile e semplice del kimono che indossava.
La sua straziante disperazione non veniva dalla storia (che lei non considerava poi così grave) degli anni, perché poteva comunque dire di aver vissuto, ma dalla consapevolezza del tradimento di Sesshomaru. Lei lo riteneva l’unica persona sincera che avesse mai incontrato, ma in quel momento veniva a sapere che non era stato così.
Tutti, nella sua vita, l’avevano ingannata, tutti quanti. Il panorama di desolazione le appariva davanti agli occhi ora in tutta la sua solitudine. Sembrava predisposta ad amare le persone sbagliate, coloro che l’avrebbero sempre e solo fatta soffrire.
Perché lei amava Sesshomaru, tanto e disperatamente, si era aggrappata a lui come unica salvezza e ne aveva sopportato i silenzi, le assenze, le attese, le parole non dette, le atrocità che evitava di compiere quand’era presente. Si lasciava colmare dalle piccole gentilezze che le riservava, al suo cospetto si sentiva speciale, ma era sicuramente una cosa non corrisposta, e lo stava scoprendo adesso.
Era così poco importante, per lui, che non valeva nemmeno la propria età. E ciò la devastava, la bruciava, molto più delle escoriazioni sui piedi o dei lividi sparsi sul corpo. Neanche la febbre era stata capace di ferirla tanto a fondo, il buio dell’incoscienza sembrava rilassante, al confronto.
Un peso le bloccava il respiro, che aveva spazio solo in gemiti e parole sconnesse, bagnate da lacrime amare. Il cuore sembrava aver invertito il ritmo: continuava a battere dolorosamente, ma era come se le membrane e i tessuti che lo componevano si fossero rivoltati, esibendo la parte interna verso le costole.
Si era persino dimenticata della presenza di Sesshomaru, assorbita da quel dolore inestinguibile e profondo. La sua figura era caduta in secondo piano, oscurata da ciò che era successo; alla fine, si era confuso con gli umani che diceva di odiare tanto.
Un fruscio di stoffa la fece ritornare al presente: conosceva perfettamente ogni rumore proveniente dalla sua elegante veste, dopo averli studiati nei suoi lunghi silenzi. Una manica ampia, per custodire chissà quale tesoro, stava scivolando lungo l’avambraccio liscio e delineato alla perfezione del demone.
Essendo uno spadaccino provetto a dir poco, le sue mani avrebbero dovuto presentare segni di sfregamento, ma rimanevano invece lisce, tanto che sul palmo non si intravedevano neppure le linee comuni a tutte le persone. Erano un’unica parte di pelle spianata, bianchissima tanto da evidenziarne le vene vagamente verdi, come un miraggio solido davanti agli occhi dell’osservatore.
Quella stessa mano, dalle unghie piatte, lunghe e scure, dal filo tagliente quasi quanto una lama, si stava avvicinando verso il suo viso, con estrema cautela. Non avrebbe sopportato un altro dolce contatto come il precedente, e cercò di scacciarlo, muovendo la propria per fermare la sua avanzata.
Era inaudito che gli si ribellasse in quel modo, ma altrettanto sconvolgente fu ciò che accadde dopo: la sua mano forte le prese il polso, leggermente ma con fermezza, distraendola dall’avanzata del resto del corpo.
Freddo; le sue dita lunghe e affusolate riassumevano in pieno l’aggettivo. Prima del ghiaccio era nato Sesshomaru: il suo era un tipo di gelo che veniva da dentro, dalle vene.
Sapeva di neve, il suo mistico odore, ma non aveva mai avuto occasione di odorarlo prima, sempre troppo distante per portargli rispetto.
Oggettivamente, fu un fugace attimo, un movimento fluido e unico, in cui tutte le contrazioni superflue e le carezze adatte al caso erano state limate per ottenere essenzialità. Ma soggettivamente, durò un secolo.
Passarono primavere, col profumo dei fiori, estati con la luce calda del sole, autunni con le foglie colorate e inverni, con tutto quel freddo innato e la neve, che gli colorava capelli e sopracciglia in modo sublime, prima che potesse arrivare a vedere il viso vicino come mai prima d’ora.
Le macchie sulle guancie avevano dei bordi irregolari, come delle ferite, mentre il taglio degli occhi tanto pungenti si stagliò nitido nella sua visuale. L’iride combatteva contro il concetto comune di nero: lei credeva solo di aver visto la notte, prima di scontarsi con esse. Due perle scurissime, preziose e perfettamente allungate, che erano appuntate su di lei. Le parve di perdervisi dentro, mentre ne sperimentava la profondità centenaria.
L’ambra che le contornava in un disco aggraziato aveva solcato anni e anni di vita, colmandosi di trasformazioni. Se ora stavano facendo quel gesto, era solo per ammetterla come punto fisso. Non ci sarebbe stata nessun’altra Rin, in quegli occhi a mandorla, in cui ci si poteva specchiare.
Inoltre, non avrebbe mai pensato che la pelle di un essere vivente potesse essere tanto liscia. Nemmeno la minima imperfezione, solo una piana priva di qualsivoglia piega, una distesa candida che ricopriva ad arte il teschio. I tratti virili erano ingentiliti alla perfezione dalla letalità del suo viso.
Chiunque fosse arrivato a tal punto, a poterlo scrutare così nei dettagli, non avrebbe mai potuto raccontarlo a nessun altro; ma poteva dirsi una morte felice, colmandosi di tanta bellezza. Anche lei credeva sarebbe spirata, ma in pace. Quel viso le infondeva sicurezza e familiarità, tant’era armonico.
Le labbra si posarono sulle sue, in un soffio che sapeva di vento invernale. Una pura e bruciante tempesta dell’anima, una bufera di grandine, le si abbatté addosso. Ma, invece che ritrarsi e cercare un rifugio, lei la abbracciò, esponendosi completamente.
Mai aveva assaggiato qualcosa di tanto morbido e vibrante, mai si era colmata così tanto di potere. Perché era di questo che Sesshomaru era fatto, ovvero potenza, invece di volgari ossa, muscoli e tendini. Solo una forza della natura, che si ricreava costantemente, per effetto di leggi imprescindibili.
La stessa mano che le si era posata sulla guancia, delicata quanto un fiore, del tutto inadatta a trasmettere morte in quell’istante, scivolò a descrivere la curva del suo collo, causandole un brivido.
I lungi capelli lisci, compatti e lucidi, presero a solleticarle la pelle della guancia. Quell’angelo etereo aveva scelto lei, come unica compagna di vita.
Quel bacio non era un comune impegno, bensì una promessa. Il bacio di un demone valeva un significato quasi divino, e lui aveva deciso di donarglielo.
Non era un modo per farsi perdonare, non ne aveva bisogno; sapeva che lei, in realtà, non era mai stata arrabbiata con lui.
L’altro braccio la sostenne, posandosi sulla schiena. In un movimento del tutto naturale, Rin gli si espose, facendo scorrere senza più timidezza le mani sulle scapole di lui.
Nonostante il kimono e parte dell’armatura, il suo corpo si poteva avvertire in ogni guizzante nervo anche senza spogliarlo. Le ossa sul dorso erano sue pinne quasi a sé stanti, mentre ogni muscolo aveva identità propria, quasi facendo male nella propria precisione. Era sicura che la pelle della schiena fosse altrettanto candida e liscia, poteva quasi sentirlo, nonostante i capelli le si intrecciassero alle dita. Prese inconsciamente a giocare con alcune ciocche, quasi taglienti, mentre sentiva la stretta farsi più marcata e passionale.
Lui premeva per avere di più, e una spalla del suo kimono preso in prestito scivolò a scoprire la pelle nuda.
Il fuoco delle labbra perfette si spostò in tal punto, lambendo anche la scollatura di stoffa.
Fu questo a destarla: l’abbraccio al demone divenne un appiglio, mentre la stanza si delineava nuovamente ai suoi occhi.
-Aspettate – sospirò a fatica, il suo odore impresso sul viso. Rabbrividiva. –Aspettate un attimo, vi prego.
Lui si fermò immediatamente, bastava un solo comando a farlo interrompere. –Cosa c’è? – la voce si era arrochita dal desiderio, rendendola quasi gutturale, ancor più incisiva.
-Non possiamo…non qui – boccheggiò lei. Le bastava sentire le mani amate sulla schiena per andare in estasi.
Il demone si scostò un poco. Il suo sguardo si era fatto più profondo, mentre la fissava negli occhi, due pozzi scuri che la guardavano con stupita curiosità. –Se vi riferite a quei due di là, probabilmente sono impegnati a fare la stessa cosa.
La semplicità con cui lo affermò la fece arrossire, mentre il volto bolliva sotto la carne. Aveva notato l’uso del plurale, lo stesso che usava con lui, e un brivido di piacere l’aveva scossa. Nonostante fosse quasi sepolto da una solida roccia gelida, sentiva il ventre caldo e languido come mai. –Lo so, ma…non mi sento a mio agio, non so se intendete…
-Intendo – tagliò corto. Si staccò da lei, porgendole una mano. -Se me lo permettete, suggerisco un posto dove potremmo avere la pace che meritate.
Il suo tono era condito da così tanta dolcezza che lei si sciolse. Era la tonalità con cui gli si rivolgeva di solito, ma solo a lei. Ma in quella determinata situazione, le suonò completamente nuovo, anche perché non ci aveva mai fatto caso.
-Portatemi dove desiderate – sussurrò.
Si sollevò col suo aiuto, e raccolse solo una fascia per chiudere il kimono sul davanti, per evitare di sembrare una prostituta. L’occhio impassibile, ora tradiva anche qualcosa di più, rispetto alla solita freddezza distaccata.
-Venite – le disse, conducendola per mano oltre la porta.
Si sentiva una principessa, una regina, tutto per merito di Sesshomaru. Cercando di non far rumore, oltrepassarono la porta dove riposavano la sacerdotessa e il compagno, per uscire dalla parte posteriore della casa, per conservare la giusta intimità.
Prima di partire in volo, lui si voltò verso di lei. Le sue magnifiche e morbide labbra si incresparono lentamente, come mai aveva visto fare.
Rin si colmò d’emozione: quello che il demone le stava regalando era un sorriso, come non ne faceva da millenni. 

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Capitolo 12
*** Beccati! ***


La parte più imbarazzante della giornata, per Inuyasha, avvenne in pieno pomeriggio.
Il sole splendeva così prepotente da filtrare addirittura dalle imposte serrate, disegnando stilettate di luce sul pavimento in legno, mentre il rassicurante calore del corpo di Kagome aggrappato al proprio lo faceva sentire protetto.
Prima, quando l’aveva sentita svegliarsi, aveva ostentato una calma che non possedeva; in realtà si sentiva spaurito come un bambino, cercando di frenare il proprio corpo da reazioni esagerate e inappropriate. Non avrebbe sopportato la vergogna di essere sorpreso con un certo tipo di impulsi a comandare sulla ragione, inoltre aveva timore che Kagome perdesse completamente fiducia in lui. La ragazza era sempre stata paziente, soprattutto negli ultimi tempi, non si arrabbiava più per un nonnulla e prendeva le cose con più tranquillità rispetto ad una volta, però sentire un’erezione contro la propria coscia non doveva essere un’esperienza esattamente piacevole.
Anche se aveva dormito molto più del solito, avvolto dalla quiete, appena aperti gli occhi aveva avvertito il familiare senso si imbarazzo che derivava dall’avere la coscienza sporca. Era stato impacciato a tal punto di rischiare di svegliarla sul serio, ed essere beccato nel mezzo di fantasticherie vietate ai minori.
La verità era che ultimamente non riusciva più a resisterle, e il giorno prima aveva davvero avuto bisogno di sfogarsi. Le cose non sarebbero cambiate lo stesso, ma almeno aveva esternato quello che la ragazza già sapeva, rendendolo esplicito.
Moriva d’amore per lei, e stava davvero cercando un modo per risolvere la questione; in segreto, quando lei era impegnata in lunghi e difficili compiti, viaggiava in diversi villaggi consultando fattucchiere e maestre di veleni, interpretatrici di sogni e donne spirituali. Erano le uniche che ne sapessero qualcosa dei demoni, e non si limitavano ad esorcizzarli e basta.
Il prezzo da pagare per ogni consulenza era un capello, usato assieme all’incenso per raggiungere la trance data dalle droghe, e per essere sicuro di non tirarsi addosso il malocchio, le guardava personalmente mentre bruciavano il filo sottile d’argento puro in un lungo cilindro, per aspirare boccate sognanti.
Tutte quante erano state d’accordo sul medesimo parere, nonostante le avesse interrogate separatamente e in tempi diversi: dal momento che amava una sacerdotessa umana dal grande potere spirituale, l’unico modo per averla, un giorno, era quello di rinunciare alla propria parte demoniaca, come voleva fare con Kikyo.
C’era un però, un mezzo più semplice. Solo che il metodo per raggiungerlo era assolutamente proibito, e le avrebbe negato per sempre la permanenza nel mondo delle sacerdotesse. Avrebbe conservato ugualmente la propria parte spirituale, ma non sarebbe mai più stata accettata come donna pura.
Avrebbe dovuto interrompere il sacerdozio e l’addestramento, che componevano la sua vita, e continuare in uno stato di relegazione che sfiorava l’eterno. Era un sacrificio troppo grande per lei, ne era conscio, e non gliel’avrebbe mai e poi mai chiesto: troppe le cose a cui avrebbe dovuto rinunciare, troppi i rischi che andavano corsi.
Così si congedava, sempre più confuso di quando entrava nelle loro fatiscenti e isolate abitazioni. Le miko, infatti, scoraggiavano la curiosità sui demoni, e si dedicavano solo alla pura spiritualità.
C’erano le streghe, ma esse odiavano gli hanyou, quindi era costretto a girare solo nelle capanne più oscure che un villaggio potesse offrire.
D’altra parte, con un potente quando improbabile sigillo, avrebbe potuto rinchiudere per sempre il demone che era in lui, e vivere da umano.
Era impossibile, infatti, drenare del tutto quella parte di lui; ci sarebbe voluta troppa magia e forza di volontà per essere un progetto realizzabile.
Gli sembrava inutile, però, sprecare tutta la sua natura relegandola in un posto inaccessibile alla sua anima, anche perché gli imprevisti erano moltissimi, e anche durante la sua vecchiaia umana sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa. Ad esempio, dopo la sua morte da uomo, avrebbe potuto risvegliarsi da demone selvaggio e dedito alla distruzione, cosa che non lo allettava affatto.
E poi, quel suo sangue così bizzarro era l’unica cosa che gli rimanesse di suo padre. Il genitore, per lui, era sempre stato fonte di mistero.
Sua madre spesso gli aveva parlato del demone forte ed invincibile dal cuore umano, che mille battaglie aveva combattuto e altri milioni ne avrebbe potuto affrontare. Era pieno di aneddoti sul suo conto, ma nulla di concreto: non aveva fatto in tempo a conoscere il suo viso, la sua stretta, il sorriso che Izayoi riteneva speciale oppure un addestramento che, su Sesshomaru, era stato devastante.
La madre gli aveva confidato, una volta, che lui era stato così duro con il figlio maggiore perché nato da un’unione senza amore. Loro due, in circostanze normali, si sarebbero sposati, e questo faceva di Inuyasha un qualcosa di sacro, l’unico residuo di un amore tanto impossibile quanto eterno.
Quella figura enigmatica poteva essere spazzata via da un esorcismo e, per quanto amasse Kagome, non credeva sarebbe riuscito a farcela. Era una parte di lui diventata fondamentale, e conosceva bene l’impotente sgomento che lo abitava ogni volta che arrivava la Notte, quella dov’era umano completamente e senz’ombra di dubbi.
Un movimento della ragazza lo riscosse un momento, ma quando la sentì tranquillizzarsi stese nuovamente i muscoli. Non ce l’avrebbe fatta a mostrarsi impassibile un’altra volta se si fosse svegliata, avrebbe sicuramente fatto una figuraccia.
Le sue cosce lisce di ragazza snella e bellissima si strofinarono involontariamente contro le sue, regalandogli un caldo brivido.
“Calmo…pensa al sole che c’è fuori…al lavorio dei contadini…al ruscello in fondo al bosco…”, si disse, ma questa volta era impossibile resistere.
Il basso ventre venne aggredito da una fitta tiepida, quasi dolorosa. Dovette stringere i denti per non cedere.
Era stata una cattiva idea, se lo sentiva che sarebbe successo, era inevitabile. Se lavorava di fantasia anche vedendola con grandi pantaloni rossi e ampie casacche bianche, oppure con spessi obi da cerimonia, figurarsi dormendole accanto, in quella posizione, poi!
Come se l’avesse sentito, la ragazza premette le gambe contro di lui, quasi fino ad arrivare ad allacciargliele dietro la vita.
Il suo cervello era una macchina impazzita, che produceva solo pensieri sconnessi e privi di senso logico, per quanto cercasse di evocare un innocente distesa di fiori oppure un campo di terra coltivato, il pensiero di quel corpo completamente abbracciato al suo non lo lasciava in pace.
Era inebriato dall’ottimo profumo di Kagome, una sensuale fragranza di donna mischiata ad una sottile quando evanescente traccia di erbe mediche, che avevano un odore delicato.
Quando l’aveva conosciuta, i suoi capelli odoravano di sapone puramente artificiale, e quell’odore costruito non gli piaceva granché. Ma da quando aveva cominciato a frequentare quel mondo, aveva assunto un profumo molto più naturale, che gi faceva conoscere l’estasi più divina.
In quel momento, a tutti quei fattori si aggiunse anche il petto prosperoso della donna, che premeva contro il suo addome.
Era davvero troppo, stava per scoppiare: com’era possibile che la stoffa non ne attutisse neppure minimante l’effetto, facendola quasi sembrare nuda?
Stava sudando freddo: un senso di vertigine gli precipitò addosso assieme alla consapevolezza di non riuscire più a trattenersi. Voleva baciarla, voleva accarezzarla, voleva farla propria.
Ma non poteva.
Questo frenò immediatamente le briglie sciolte del suo auto-controllo: Kagome era una sacerdotessa, una persona rispettabile e doveva rimanere vergine. Questo era quanto.
Ne andava del suo potere spirituale, doveva ricordarselo. Preferiva l’amarezza al non riuscire a controllare il proprio corpo, che agiva come seguendo un proprio volere. La ragione era ciò che lo distingueva da un’animale qualunque, ed era anche la qualità che gli faceva guadagnare il rispetto della ragazza. Era una virtù che non  poteva perdere, anche per la sua stessa incolumità. La minaccia della collana fatta la sera prima era ancora impressa nella sua memoria, quasi fosse appena stata pronunciata.
All’improvviso, in un movimento che lo colse di sorpresa, la finestra si spalancò dall’esterno. I balconi si aprirono facendo entrare una pioggia di luce intensissima, che lo accecò per un attimo.
Il suo cuore perse diversi battiti, mentre cercava di afferrare la spada. Non vedeva dove metteva le mani, ma non poteva distogliere lo sguardo dalla finestra.
Accadde in un momento: una figura scura, dai bordi splendenti grazie all’essere in contro luce, spuntò dal cornicione, strappandogli un gemito disperato.
Riconobbe subito il ciuffo che sembrava arancione, la coda da piccola volpe e il kimono azzurrino che lo contraddistingueva. –Kagome? – chiese la sua vocine preoccupata.
Shippo. Dannazione!
Appena il bambino realizzò cosa aveva visto, divenne di un colore viola intenso, fino alla radice dei capelli.
La ragazza, completamente abbracciata ad Inuyasha (la cui tunica era leggermente aperta sul davanti), era stesa su un letto sfatto che aveva condiviso con lui, mentre senza nessun pudore lasciava indugiare le gambe contro quelle di lui.
Mugolò disturbata, aprendo piano gli occhi. Una mano del mezzo-demone rimaneva ancora sulla sua schiena, con il suo possessore incastrato in una strana quanto ambigua posizione.
Il bambino aveva iniziato a balbettare sillabe senza senso o connessione, troppo scioccato per articolare un discorso. Non aveva mai visto delle guance così rosse.
Inuyasha, invece, era rimasto come paralizzato; non riusciva più a muovere un muscolo a causa dello sconcertato imbarazzo. La fanciulla, risvegliatasi bruscamente, si stava passando una mano sul viso, confusa dalla luce e dal rumore.
- Inuyasha, che succ…- stava dicendo, per poi recuperare razionalità e rispondersi da sola. Elaborò in un attimo la presenza di Shippo nella camera, la finestra spalancata e la posizione in cui si trovava.
Anche lei arrossì di colpo. –Ship…Shippo…d…dimmi, c..cosa ti serve? – disse a fatica, deglutendo sonoramente.
Cercando di essere naturale, si sedette a gambe incrociate, e Inuyasha si lasciò ricadere seduto di peso, fissando sconvolto la finestra.
-N..niente – rispose incerto il bambino, con gli occhi sbarrati. –Ora…ora me ne vado, eh!
Detto questo, schizzò via.
-Inuyasha – disse lei, senza guardarlo. –Siamo spacciati.
Lui sapeva benissimo a cosa si riferisse; lo sapeva che non avrebbe dovuto cedere, lo sentiva che sarebbe successo qualcosa. Adesso la notizia si sarebbe sparsa per il villaggio, e lei sarebbe stata bollata come prostituta, mentre lui sarebbe stato cacciato per averla compromessa, anche se di fatto non era successo nulla.
Uno scandalo, senz’ombra di dubbio.
-Hai ragione – disse solo.
Un filo di vento fece cigolare il balcone, che sbatté leggermente contro la cornice in legno.
Erano spacciati sul serio. 

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Capitolo 13
*** Pace ***


La schiena di Rin, fasciata per modo di dire dal kimono con cui era partita, rimaneva posata sull’erba morbida, che formava un’unica grande distesa verde smeraldo.
Il posto dove l’aveva portata rispecchiava davvero la pace dei sensi che le aveva promesso: non avrebbe saputo dire l’ubicazione precisa, ma si trattava di una valle completamente isolata dal resto del mondo.
Le montagne, imponenti e dalle punte innevate, li abbracciavano conservando una certa intimità, e i pendii grigi fungevano da singolare recinto alla zona. La distesa non era molto grande, diversi chilometri sia in lunghezza che in larghezza, ma era talmente pacifica da sembrare infinita.
Vi erano alcuni alberi, in piena fioritura a causa del delicato periodo dell’anno, e i loro rami spargevano petali rosa quasi evanescenti, accompagnati da un etereo profumo di vita. I tronchi scuri erano un veicolo per tornare alla realtà, così solidi e piantati nel terreno, ma vi si inciampava raramente con lo sguardo: a naso in su, lei era completamente catturata a seguire le capriole danzanti dei fiori nella delicata aria primaverile, in un cielo celeste purissimo, senza il minimo accenno di pioggia.
Alcuni raggi tiepidi di un sole che non era nella sua visuale le riscaldavano il ventre in piccole chiazze, creando uno strano contrasto. Sulla pelle nuda, infatti, c’era un’altra entità che si beava della tranquillità.
Il demone maggiore Sesshomaru, imperatore di un impero sconfinato, potente fra i suoi simili e che non conosceva pari , aveva il capo placidamente appoggiato sulla pancia calda della sua donna, l’orecchio appena sopra all’ombelico, a captare anche il minimo battito del suo cuore.
I lunghi capelli argentei risplendevano fulgidi, facendo invidia a qualsiasi perla; erano sparsi a raggiera, quasi a volerla cingere completamente, a raffreddare ogni minimo punto del suo corpo sereno con la propria freddezza bruciante.
Lo sguardo si posava sui fili d’erba, mentre con il cervello assorbito in chissà quali pensieri le accarezzava distrattamente una mano, con il suo solito modo di fare, ovvero regalandole tenerezza fingendo di non accorgersene.
Lei, dal canto suo, intrecciava leggermente alcune ciocche con le dita libere dalla sua stretta rassicurante, ma i capelli dell’amato erano così lisci che le sfuggivano di continuo, sgusciavano via.
-È impossibile legarvi i capelli – constatò.
-Ci si riesce – replicò lui, con semplicità.
Rin ridacchiò leggermente. Tipico: una risposta incisiva buttata lì con tranquillità. Solo che ora il suo tono non era poi così distaccato, e nessuna riflessione sembrava tanto importante da trascurare la ragazza. E ciò, naturalmente, le faceva più che piacere.
Poteva dire non aver mai provato una pace così profonda, sia interiormente che esteriormente. Sesshomaru aveva avuto il potere di trasformare il suo corpo nella calma superficie di un oceano infinito: celava migliaia di segreti e parti nascoste, ma in giornate come quelle la sua superficie era completamente piatta e calma, senza la minima increspatura.
Che avesse diciassette, quattordici, mille anni, non importava affatto, perché era nata per vivere quel momento, e se lo sarebbe goduto fino in fondo.
Con le dita, spostò un ciuffo dei propri capelli che erano finiti sul viso del demone, il quale appariva ancora più bello sotto quella luce mite.
La pelle sembrava splendere, le macchie viola farsi sottili linee aggraziate sugli zigomi, la bocca essere intensa ancor più del solito, dalla delineazione precisa eppure perfetta, che sapeva essere morbida, fredda e liscia come nient’altro.
-No, lasciali lì, non mi danno fastidio – le disse piano, facendole riposare i capelli lì dov’erano. Già che c’era, ne approfittò per rubarle una carezza sul polso, regalandole un brivido.
Con un solo tocco, lui aveva il potere di farla tremare dentro, con la tempesta di neve che era il suo essere demone la stava impreziosendo di migliaia di sensazioni, che non avrebbe mai provato se non con lui.
Quel momento irripetibile non aveva lasciato spazio a dolore, fraintendimenti e incomprensioni: quelle cose facevano parte di una parte delle loro vite che assorbiva la quotidianità, e quel luogo era assolutamente fuori dall’ordinario. La dolce eccezione che dava un senso a tutto quanto, come una magia.
Rin si sentiva colmata dalla sua compagnia, perché in quell’istante era suo e soltanto suo. Con ciò che era successo, le aveva fatto una promessa di eterno ritorno. Non importava dove andasse, quanto lontano si spingesse, quale cielo solcasse, sarebbe sempre tornato da lei.
Lo sapeva, non sarebbe mai stato capace di negarsi il piacere che Rin era capace di infondergli, con un bacio, un sorriso, una carezza…tutte gioie che non appartenevano alla spada ed erano doppiamente dolci di quelle che, invece, lo erano.
Il luogo dove l’aveva portata, ormai, era colmo della sua presenza, un bacino atto a raccogliere tutti i gemiti e i sospiri, i rochi suoni di gola che scaturivano da chi voleva a tutti i costi dimostrarsi forte, incapace di farsi trascinare del tutto dalla passione.
Sembrava che il demone non volesse abbandonare nemmeno in quel frangente il proprio auto-controllo, quasi avesse paura di perderlo definitivamente. Quando sentiva che la baciava era per trattenere un rauco respiro o un gemito ansante, tutto per dimostrarsi padrone della situazione.
E il suo corpo, che richiamo irresistibile: sembrava di assistere ad una lezione di anatomia, tant’era preciso nei lineamenti. Nemmeno un’imperfezione, solo un blocco scultoreo delineato in ogni singolo, minuscolo dettaglio, che per quanto infinitesimale creava una letale armonia. Quello era un fisico fasciato da nervi guizzanti e perennemente attivi, anche nell’immobilità, forgiato da un continuo allenamento, con pazienti progressi.
Non c’era nessun movimento superfluo: senza troppo perdersi in preliminari, si era lasciato trasportare conducendola dritta al Nirvana. Anche se giovane, Rin poteva dire di aver vissuto una vita intera, fra le sue braccia, trasportata dalla stretta rassicurante.
Quasi era intimorita da tanta bellezza, sentendosi inadeguata. Ma era bastata un’occhiata a farla sentire sciocca per quel pensiero, valorizzandola come la donna più bella del mondo. Da come Sesshomaru indugiava sulle labbra schiuse, sul collo allungato, sulle clavicole bianchissime, lei si convinceva che la scelta del demone era stata a dir poco ben fatta. O almeno, così le faceva pensare.
-Siete bellissimo – sussurrò estasiata, perdendosi a contemplarlo.
Un lieve sbuffo contro la sua pelle. –Non dire sciocchezze – rispose soltanto, continuando a fissare lo stesso punto indefinito.
-Posso assicurarvi di essere sincera – asserì lei, divertita. –Siete la creatura più affascinante che io abbia mi conosciuto.
Un sopracciglio candido si inarcò appena, senza lasciare che il viso si spostasse dal suo addome piattissimo. Alzò invece lo sguardo verso di lei, senza preoccuparsi della reciproca nudità. –È l’atmosfera a farti quest’effetto?
Lei rise. –Siete voi – gli sussurrò. Ottenne solo il silenzio, ma il bacio leggero che gli stampò su una guancia venne accolto ugualmente senza essere respinto.
Una volta non avrebbe mai osato prendere così tanta confidenza con lui. Punzecchiarlo per godersi la sua reazione, osservare il cielo intrecciandogli i capelli, bearsi dei suoi occhi infiniti fino a quando non la baciava per farla smettere.
Rotolarsi con lui nell’erba, ridere del solletico sulla pancia provocatole più o meno involontariamente, sentire le sue dolci carezze sull’avambraccio, leggere e rassicuranti. In quelle occasioni le pareva che il tempo si dilatasse all’infinito, e non le importava di essere senza vestiti, (usando quelli che aveva come coperta), con i capelli scompigliati, un sorriso ebete e le guance arrossate, semplicemente le bastava essergli vicino , possibilmente per sempre.
Per Sesshomaru, quella promessa era eterna, ovvero sino a quando non sarebbe stata in vita. Per i prossimi cinquant’anni sarebbe stato suo e di nessun’altra, non doveva nemmeno temere una cosa del genere, e anche dopo la sua morte era sicura che gli sarebbe stato impossibile trovare un’altra compagna.
Era nell’indole di Sesshomaru, lasciarsi trasportare dalle presenze. Anche se non voleva saperlo relegato in una solitudine auto-indotta, privandosi di qualsiasi compagnia che non fosse la sua, sapeva anche che per lui Rin era irripetibile e unica nei secoli.
Leggermente, tossì: i polmoni non si erano ripresi del tutto dallo schock della notte prima, e si sentiva un po’ debole. La testa era pesante, ma le ossa non le dolevano più, inoltre i tagli e le ferite stavano guarendo velocemente.
La cascata di pioggia gelida si sollevò da lei, nascondendogli parzialmente il viso. –Ora dovremmo rientrare – disse profondamente. In fondo ai suoi occhi si leggeva un leggero rammarico. Che si sentisse in colpa per averla sottoposta ad uno sforzo eccessivo?
Lei sperava di no, perché sarebbe stato in errore. L’aveva seguito più che volontariamente, ed era felice come non mai di averlo fatto. Aveva solo bisogno di una dormita, ma nulla che sottintendesse il suo allontanamento.
Con un gesto gentile, raccolse il suo vestito da terra, posandoglielo sulle spalle con fare protettivo. Non voleva che si ammalasse, non voleva vederla soffrire ancora per causa sua. Il kimono bianco le scivolò sulla pelle, scaldandola leggermente, per poi essere richiuso alla bell’e meglio sul davanti.
Alla ragazza venne da ridere perché, nonostante i gesti sicuri e calmi che aveva usato, le aveva fasciato l’obi nel modo sbagliato: un’apertura sul davanti esibiva il collo per intero fino alla cintura, assottigliandosi, mentre sul fianco si apriva uno spacco lunghissimo, che arrivava fino al bordo, legato in modo che fosse asimmetrico, lambendo il suolo.
-Non si chiude così – spiegò sorridendo. – Guardate, vi insegno.
Le sue mani erano infinitamente più piccole di quelle del demone, così forti ed enormi, dalle lunghe dita affusolate. Gliele prese facendo attenzione alle unghie, con cui poteva tagliarsi, e gli fece prendere la stoffa fra pollice e indice. Non si vergognava più del proprio corpo magro, ormai avevano raggiunto una familiarità tale da rendere la paura e l’inadeguatezza superflue.
Gli mostrò come incrociare sul davanti, avvolgendo la stoffa alla base della schiena, formando un nodo piatto per non  dare fastidio, e lo aiutò ad incrociare la stoffa nel modo giusto, in modo che la scollatura diventasse una “v” elegante e pudica, mentre solo la prima vertebra spuntasse dietro al collo.
La sostenne quando dovette alzarsi; era più debole di quanto pensasse, evidentemente la fatica di quelle ore l’aveva piacevolmente spossata. Kagome gliel’aveva detto di evitare gli sforzi, ma come si faceva a resistere a quel tipo di attività? Sarebbe stato un crimine…
-Perché arrossisci? – chiese lui, guardandola.
-No, no, nulla, non preoccupatevi – spiegò in fretta, per chiudere velocemente un gancio sulla sua spalla e sistemare l’armatura sul davanti.
Quando l’aveva visto spogliarsi con estrema facilità, era rimasta a dir poco sorpresa, perché aveva sempre pensato che la vestizione, per lui, dovesse essere un rituale molto complicato. La piegatura della stoffa, la sistemazione della cintura, l’armatura, la parte più morbida appoggiata sulla spalla, cinghie, lacci, laccetti, cuciture…un disastro da infilare, ma estremamente piacevole in quanto a presenza estetica.
Invece, aveva dato mostra di un estrema velocità. Infilatosi il kimono, aveva stretto con abili gesti la stoffa sul davanti, poi le aveva chiesto tacitamente supporto per le chiusure sulla schiena, e questo era stato tutto. Lei, che indossava una sola vestaglia, ci aveva quasi messo più tempo di lui.
Forse, però, derivava dal fatto che si era distratta a guardarlo armeggiare, spettacolo che non accadeva tutti i giorni.
Lui si infilò con un fruscio le spade alla cintura, che lei sapeva essere letali, a parte Tenseiga, la spada che le aveva ridato la vita, come una madre. Era molto affezionata a quella spada-non spada, perché era stata il veicolo del loro incontro. Sapeva benissimo di non essere stata solo un esperimento,  per quanto Jaken avesse voluto farglielo credere.
-Andiamo.
Le porse una mano, che lei afferrò senza la minima esitazione: abbracciò con lo sguardo il posto, ancora un’ultima volta. –Torneremo? – quelle sillabe erano uscite dalle sue labbra prima ancora che se accorgesse.
-Ogni volta che vorrai – promise lui, prima di prenderla in un abbraccio protettivo e delicato per ricondurla a casa. 

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Capitolo 14
*** Spiegazioni ***


ANGOLETTO AUTRICE: Grazie alle mie straordinarie doti intellettuali *folla grida in lontananza un liberatorio “ti piacerebbe”* sono riuscita a risolvere quest’odiosissimo problema al computer, causato solo da una radicata inettitudine. Mi scuso immediatamente del ritardo imperdonabile e mi inchino implorando venia. Vi amo tutti e…mi siete mancati un sacco!
Quindi, tanti baci e buona lettura ;)
 
 
 
Inuyasha era stato mandato a meditare sul proprio albero nemmeno troppo gentilmente, ma non riusciva a starsene lì zitto e buono. Doveva agire, era l’unica soluzione per fermare il selvaggio bruciore alle mani, per la voglia che aveva di andare a strangolare il bambino impiccione con le proprie mani.
Se quell’impertinente avesse spifferato anche la minima, fraintesa informazione, avrebbero spedito Kagome al rogo per direttissima.
Non era la prima volta che una sacerdotessa trovata in atteggiamenti promiscui venisse giustiziata pubblicamente, dopo un paio di settimane di prigionia. Poteva già quasi sentire i colpi di picchetto che fissavano un palo per terra, in attesa di avvolgere ruvide corde sui polsi del prossimo innocente,  e accendere una pira che spegnesse, oltre ad una vita, anche delle strazianti urla.
Non avrebbe mai sopportato quello spettacolo, e avrebbe fatto di tutto per proteggerla, anche se difficilmente sarebbe riuscito a svelare il fraintendimento. Quando trovavano una scusa, non c’era Tessaiga che teneva in piedi giustificazioni. La sacerdotessa in questione, anche senza nessuna prova certa di compromissione, poteva essere prelevata da casa propria in qualsiasi momento.
Se sapevano che un demone era invischiato nella vicenda, anche se marginalmente, avrebbero subito provveduto a chiamare il miglior esorcista in circolazione. E lui, indebolito e straziato dal dolore misto a senso di colpa, non avrebbe potuto opporre resistenza.
Kagome, la sua dolce e amata Kagome, una volta gli aveva raccontato che, in occidente, la pratica della caccia alle streghe era molto diffusa, in quegli anni che stavano vivendo.
L’idea l’aveva angosciato a tal punto da rubargli notti di sonno, riportandolo a quella volta nella sua vita quando era stato quasi costretto ad assistere ad una condanna a morte.
Si trattava di un ladro colto con le mani nel sacco, che era stato impiccato da dei contadini sue vittime, nella piazza del piccolo villaggio. Era stato allestito un palco rudimentale, e file e file di persone urlavano che giustizia venisse fatta. Con una corda al collo, il condannato aveva cercato di dibattersi, ma senza successo: lo tenevano in quattro, armati da una rabbia ed un odio inestinguibili.
In quel momento si era vergognato di avere il loro stesso sangue nelle vene, che si era ghiacciato appena il corpo aveva cominciato a pendere e scalciare nel vuoto. Il viso si era fatto violaceo, mentre con gli occhi fuori dalle orbite mugolava qualche verso impossibile da identificare.
Aveva distolto lo sguardo, premendo forte le palpebre quasi a voler annullare del tutto i bulbi oculari, ma più spingeva e negava di aver visto, più quell’immagine terribile si faceva vivida nella sua mente annebbiata. Alla fine, il pallido e freddo cadavere che aveva fin da subito cominciato a puzzare, era stato tenuto lì per giorni, sotto il sole cocente.
Per quanto corresse via da quella visione, doveva sempre tornare al villaggio per rubare un po’ di cibo: sua madre era appena morta, era solo e non riusciva a provvedere a sé stesso da solo. Si odiava per dover dipendere di nascosto da quelli aguzzini, orribili assassini, ma non poteva fare altro.
Anche se era solo un bambino, non poteva perdonarsi di aver oltrepassato il cadavere in piena notte, di aver ignorato il teschio che biancheggiava sotto agli zigomi scarni, di non aver fatto nulla con i propri artigli per spezzare la corda e portarlo via da lì. Era stato esattamente come quelle massaie e quei contadini. Aveva fatto finta di non vedere. Poi, quando calavano le tenebre, rubacchiava furtivo qualcosa e spariva nuovamente nei boschi.
Proprio come aveva fatto quel cadavere oscillante.
Scosse energicamente la testa. No, no, no! Kagome non avrebbe affatto subito quel trattamento, non avrebbe mai permesso che un branco di stupidi malpensanti viscidi e ignoranti gli rubassero al donna della sua vita!
La stessa catena di incomprensioni aveva del tutto ucciso il suo rapporto con Kikyo. Se quel maledetto Naraku, tessitore d’intrighi, non l’avesse lasciato in pace, in quel momento sarebbe stato un vecchio umano decrepito sull’orlo della tomba dopo aver vissuto una vita con la sua donna.
Fortunatamente aveva conosciuto Kagome, e non avrebbe permesso a dei deboli uomini qualsiasi di portargliela via. Tutta colpa di Shippo, poi!
Quel deficiente! Chi lo autorizzava a ficcare il naso nelle camere altrui? Traeva delle conclusioni troppo in fretta e, se avesse voluto vivere ancora, avrebbe fatto meglio a tenere la sua boccaccia di volpe ben chiusa. Non si sarebbe fatto scrupoli ad uccidere un bambino, se fosse successo qualcosa a Kagome.
Lei era l’unica che lo frenasse e gli desse un motivo per sorridere, ogni singolo giorno. Con la sua solarità colorava le sue giornate, lo colmava con la sua presenza.
Anche se si affannava per trovare del tempo per loro, riuscendoci, risultava sempre tranquilla e aggraziata. Abbandonati gli sbalzi d’umore di prima, ben sapendo di essere l’unica nel suo cuore, si era fatta una calma ed intelligente fanciulla.
La stessa che, in quel momento, stava cercando il bambino per fornire le sue spiegazioni su quanto era successo. 
Lo aveva ritenuto saggio non appena il silenzio nella stanza era diventato quasi un’altra persona, che li scrutava in attesa di cogliere le loro reazioni. Si era sistemata in fretta e furia, l’aveva spedito sul suo albero calmando il suo desiderio di vendetta con parole gentili ed era corsa via.
Evidentemente sapeva già dove si sarebbe rifugiato, perché si era diretta verso una direzione ben precisa, stando attenta a non destare sospetti con un passo troppo frenetico. Era uno spettacolo del tutto inusuale quello di una miko che correva; l’unica cosa che le ci voleva in quel momento era solo l’apparenza di normalità, per non attirare nessun tipo di attenzione.
Conficcò gli artigli nel legno, premendo con forza. Subito dei lunghi segni si scavarono il proprio posto sulla corteccia, sfregiandola all’altezza di un ramo.
I suoi occhi saettavano d’ira e preoccupazione, molteplici morse all’altezza dello stomaco non gli lasciavano pace. Era assolutamente indifferente alle sorti che gli sarebbero toccate: anche se gli avessero vietato di entrare nel villaggio, non era affatto il tipo che si faceva problemi per certe cose. Avrebbe aggirato la questione senza pensarci troppo su, finita lì.
Era Kagome a preoccuparlo. Lo stress a cui l’avrebbero sottoposta per un fatto insignificante quanto quello l’avrebbe provata moltissimo. Le avrebbero tolto qualsiasi privilegio o diritto, l’avrebbero marchiata a fuoco e cacciata via, nella migliore delle ipotesi.
L’alternativa era la morte sul rogo, ma non voleva nemmeno pensarci. Lei sarebbe sopravvissuta a qualunque costo, l’avrebbe protetta con la sua stessa vita, se necessario.
Non poteva lasciarla morire, perché la propria esistenza si posava completamente su quella della ragazza, preziosa ed inestimabile. Il sole non splendeva senza di lei, le stelle non indicavano nessun cammino, l’orizzonte sarebbe stato nuovamente una linea piatta priva di gioia o di emozioni, a separare l’oggi, triste e vuoto, da un domani assolutamente identico.
Intravide una figura stagliarsi in controluce, ma non riuscì ad identificarla; sembrava solo un’ombra, senza nome e senza volto, che si avvicinava lentamente verso di lui.
Ritirò subito la mano dal legno, lasciando che le schegge penetrassero nella pelle, sentendone ogni singolo quanto minuscolo pezzetto diventare parte di lui. Qualche goccia di sangue sporcò il marrone intenso dell’albero, scivolando in parte sulle foglie fruscianti, perfidi spilli rossi a testimoniare la sua ira profonda.
Aveva bisogno di sentire dolore, doveva assecondare il movimento dei suoi muscoli tesi, altrimenti si sarebbe distrutto da solo. Lasciò che gli occhi vagassero sui bordi di quella persona indefinita, ormai quasi giunta al suo albero; non sembrava averlo visto, in quanto il capo rimaneva abbassato.
Un alito di vento gli portò il suo odore, dolce, forte e determinato, che sapeva di agrumi freschi e succosi, oppure di…innocenza. Sì, quel profumo ammaliante non aveva nemmeno un briciolo di malizia, quasi non sapesse cosa fosse. Una presenza discreta che si posava sulle spalle affaticate di chiunque lo inseguisse, offrendo un singolare ristoro, capace di regalare sollievo immediato.
Non lo avrebbe confuso con altri mille, nemmeno se fosse stato immerso nella valle più profumata esistente. Era Kagome, senz’ombra di dubbio.
Come a voler confermare i suoi pensieri, i raggi caldi del sole splendente si spostarono lungo i bordi dei suoi vestiti, mettendo in risalto una chioma corvina e lucente, lunga, dalla morbidezza invidiabile.
Quei capelli così puliti e perfetti erano stati fra le sue dita solo fino a poche ore prima, fluenti e quasi del tutto domati, ormai, che non avevano bisogno di tradire il loro focoso temperamento più di quanto facessero le sue labbra carnose.
Gli occhi scintillavano, due preziosissime perle nere incastonate in un viso stupendo. Erano la parte focale del suo viso: qualsiasi cosa provasse, la si indovinava dalle iridi color mogano, intense, sensuali. La sua elegante camminata si interruppe, e lei alzò la testa, cercando di scorgerlo fra le fronde nodose.
Lui le facilitò il compito, sgranchendosi con un salto e atterrandole davanti.
Vide Kagome portarsi una mano al petto, spaventata, a trattenere un’esclamazione di sorpresa. Per un attimo, i suoi occhi si chiusero, mentre cercava di riprendersi. Era così…dannatamente bella, in quei momenti.
Aveva bisogno di vederla, di sapere se stava bene e se quel marmocchio aveva parlato, doveva assolutamente tranquillizzarsi.
Non si preoccupò nemmeno di sgridarlo, nonostante nella prima occhiata che gli lanciò si leggesse chiaramente quest’intenzione. Il suo sguardo si posò sulla mano che colava sangue fresco in più punti, migliaia di piccole ferite. Doveva essere senza dubbio uno spettacolo raccapricciante, - frammenti sparsi sotto il primo strato di pelle e minuscoli quanto dolorosi taglietti sparsi sul dorso -, ma la ragazza non assunse affatto un’espressione terrorizzata.
Strabuzzò gli occhi da cerbiatto che aveva, rendendosi dolcissima, ed esclamò: –Inuyasha! Santo cielo! Cos’è successo? Stai sanguinando!
Lui distolse lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore. –Non è niente.
La sacerdotessa alzò gli occhi al cielo, scocciata. –Certo, con te non è mai niente. Avanti, fammi vedere prima che s’infetti -. Prima che potesse obbiettare di essersi auto inflitto quel dolore straziante, un fuoco che lo stava divorando a partire dai muscoli, sentì la sua stretta leggera su un polso mentre la mano veniva sollevata verso di lei, con la chiara intenzione di essere esaminata.
I suoi occhi scrutarono le abrasioni con la massima cura, mentre cercava di toccare solo nei punti intatti e meno dolorosi. Lui la lasciò fare. Sapeva che non c’era modo di distoglierla dalla sua materna preoccupazione per lui, quando s’intestardiva  su certe cose. Inoltre, il suo essere sacerdotessa, implicava avere massima cura delle vite altrui, e lui in quel caso non sarebbe mai riuscito a sottrarsi.
Non c’era verso di divincolarsi, come avrebbe fatto in circostanze normali. Teneva l’arto in una posizione che rendeva impossibile la liberazione senza scatenare un dolore lancinante e, fattore non meno importante, la visuale del suo viso concentrato bagnato dalla luce solare era davvero splendida.
Piano, applicò una leggerissima spinta sul polso, come se volesse condurlo per mano, cosa che fece. Lo portò dentro casa, facendolo sedere su un cuscino in assoluto silenzio.
Poi, presi diversi strumenti di cui solo lei sapeva il funzionamento, prese a lavorare.
Lui stava morendo dalla voglia di sapere come era andato il colloquio, se mai c’era stato, di capire se corressero un pericolo o meno, ma quello non era il momento per parlare. La tensione si era disegnata sui lineamenti della ragazza, mentre applicava una fredda pomata sulla pelle ferita, dandogli sollievo, e si metteva a cacciare ogni singola scheggia dal dorso.
Quella mistura argentea che aveva messo su di lui serviva indubbiamente da anestetizzante, perché l’unica cosa che avvertiva era solo un vago formicolio laddove l’ago toccava. Nella sua opera, zampillò anche un po’ di sangue in più del previsto, ma era sicuro che lo avrebbe curato nel migliore dei modi.
Sulle sue labbra si cominciò a disegnare una domanda impaziente, ma ancora non si azzardava a fiatare; non avrebbe saputo dire cosa fosse a frenarlo, sapeva solo di dover rimanere in silenzio.
Con un panno, Kagome pulì i bordi irregolari dei taglietti, per poi coprirli con un intruglio profumatissimo, evidentemente risultato di diverse miscele. Infine mise delle bende abbastanza strette, e fece gocciolare fra le piegature dell’olio particolare, in piccolissima quantità.
-Domani mattina dovrò toglierti le garze – disse, quasi a sé stessa.
Lui annuì, piano, facendo muovere i capelli argentei.
La sacerdotessa rimise a posto tutte le boccette che aveva aperto, sistemandole minuziosamente nella propria borsa, in un ordine ben preciso. Sembrava pensierosa, immersa in personali riflessioni.
-Shippo… - disse all’improvviso, facendolo quasi schizzare sul soffitto per la sorpresa. -…è stato lui a trovare me, per così dire. Appena mi ha visto è arrossito come non so cosa e ha cominciato a farfugliare -. Lei sorrise al ricordo, mentre Inuyasha distolse lo sguardo, cercando di mascherare l’imbarazzo con un’esclamazione infastidita.
Kagome continuò: -Prima che potesse dirmi qualcosa, gli ho spiegato tutto. Ho detto che, a causa dei deliri della febbre, tu ti eri semplicemente preoccupato per me, tutto qui. È successa una cosa strana.
-C…cosa? – chiese Inuyasha, facendo crollare miseramente la sua maschera da duro. Non era riuscito a trattenere l’esitazione nella voce leggermente stridula.
La ragazza ridacchiò, chiudendo la tracolla e sistemandola nell’armadio. –Mi ha detto che gli dispiaceva molto per me del fatto che tu fossi così stupido, e si è augurato un mio futuro incontro con un “uomo più furbo”.
Inuyasha strinse i pugni per l’umiliazione e il fastidio:- Shippo…maledetto… - ringhiò. In realtà era molto sollevato di questa conclusione. Anche se l’ultima parte del discorso si poteva benissimo obliare, era felice che sia lui che la ragazza fossero salvi, e che il bambino non avesse compreso fino in fondo la situazione.
Fortunatamente non aveva parlato con nessuno della vicenda, facendo in modo che le cose potessero continuare così com’erano.
-Domani dovrò fargli un discorsetto – disse lui, quasi soprapensiero.
Kagome rise, prima di guardarlo preoccupata. –Eddai, Inuyasha! È solo un bambino!
Era più che evidente che si stesse divertendo. –Appunto, deve imparare a rispettare gli adulti.
-Non imparerà di certo con i tuoi metodi – constatò lei, dedicandosi subito alle sue faccende.
-E quali sarebbero i miei metodi, scusa? – chiese inacidito, anche se dentro stava scoppiando di gioia e sollievo.
-Prenderlo a pugni fino a farlo volare via, ecco quali – ribatté lei.
Lui sbuffò, appoggiandosi al muro. Ovviamente non sarebbe andato da Shippo, onde evitare che strillasse qualcosa di equivoco ai quattro venti.
Chiuse irritato gli occhi: non avrebbe picchiato il bambino per non aggravare la situazione, non di certo perché gliel’aveva detto Kagome.
Faceva quello che voleva, lui.  

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Capitolo 15
*** Il signor Miyasama ***


Rin sollevò il secchio, gettandone il contenuto dentro al pozzo.
Dovette scostarsi per non rimanere bagnata dagli schizzi di acqua piovana e medicamenti, sgradevoli da togliere una volta finiti sui tessuti. Nel fare questo movimento, si aggrappò al bordo di una finestra, per sostenersi; se non l’avesse fatto sarebbe caduta a causa di un giramento di testa.
Anche se erano passati diversi giorni da quando si era ammalata, era ancora abbastanza debole, e ogni sera doveva bere le tisane di Kagome, per stabilizzare l’organismo, o così le diceva. Non si era riposata a sufficienza, perché era voluta tornare al più presto al suo lavoro, assieme alla venerabile Kaede.
La donna, infatti, aveva sempre più bisogno di assistenza: anche se godeva di ottima salute nonostante l’età, dimenticava sempre più spesso diversi appuntamenti, aveva sempre la testa fra le nuvole e rimaneva ogni volta più affaticata anche dal minimo spostamento.
La sera, molto spesso, Rin doveva aiutarla a coricarsi e a farla alzare alla mattina, impastare le erbe per lei e selezionare alcune radici. I suoi occhi non erano più abili come una volta, e spesso confondeva gli ingredienti.
Aveva ancora molto da insegnarle, naturalmente, ma aveva cominciato a dispensare la sua saggezza standosene coricata sulla propria stuoia, rendendo di giorno in giorno i compiti della ragazza sempre più delicati. Aveva iniziato come sguattera, poi aveva avuto il permesso di lucidare l’arco e conoscere le erbe, successivamente creava pozioni e balsami ed infine l’aveva iniziata alla sacra arte dell’assistenza alle partorienti, donne estremamente suscettibili con cui era richiesta calma e abilità.
Ogni mossa, le aveva insegnato, costituisce un dolore atroce per loro, per questo è indispensabile essere delicate e veloci, cosa in cui Rin eccelleva. Applicava garze e unguenti, parlava solo lo stretto indispensabile e sapeva anche rassicurare le donne in maniera straordinaria, lenendo il dolore subito dopo con diverse misture perfezionate da lei stessa.
Kaede era stata messa al corrente della vera età di Rin, e aveva considerato saggio non prometterla in sposa a nessuno, ben vedendo l’occhiata di Sesshomaru; la ragazza le era stata grata di non aver fatto domande, anche se probabilmente aveva già capito tutto quanto, senza bisogno di ulteriori spiegazioni.
Si era limitata ad accrescere la sua importanza nel ruolo che le aveva affidato, e questo era stato l’unico cambiamento nel villaggio.
Però, quel dannato secchio doveva continuare a svuotarlo lei, nonostante tutte le promozioni ricevute. Beh, un cambiamento alla volta.
Sospirò, cercando di rimanere in piedi senza barcollare: sentiva un vuoto di stomaco, forse si sarebbe dovuta assentare per qualche istante e mangiare qualcosa. La sacerdotessa Kagome le aveva detto di correre a casa sua se le fosse sembrato di avere nuovamente i sintomi della febbre (se fosse stata male, “correre” era ovviamente metaforico, in quanto era la prima a non doversi sforzare), quindi riteneva abbastanza sensato prendersi una pausa per sapere cosa ne pensava l’esperta.
Naturalmente sarebbe subito tornata al lavoro, poi, ma era solo per tranquillizzarsi; avrebbe preso parole e rimproveri per non essersi riposata tutto il tempo necessario, ma aveva bisogno di un referto sicuro.
Posò il recipiente ormai vuoto lì a terra, tenendosi la schiena dolente con una mano. Si aggiustò la scollatura del kimono, leggermente scivolata per lo sforzo muscolare di pochi attimi prima, e si diresse verso la solitaria collina, distante cinque, forse sei minuti dal centro vero e proprio.
Il cielo non era mai stato tanto celeste, avrebbe giurato di non aver mai visto una simile gradazione di azzurro in tutta la sua vita. Nemmeno una nuvola, solo un’immensa quanto luminosa distesa infinta, che abbracciava tutto lo spazio lì intorno e si spingeva fino ai posti in cui non sarebbe mai arrivata. Quella stessa piana quieta e apparentemente innocua aveva inghiottito la bianca figura di Sesshomaru, ormai due giorni prima.
Era stato pochissimo tempo lei, come suo solito, ma nei suoi occhi ambrati si lesse l’eterna promessa di ritorno. Aveva bisogno di vederla dopo ogni fatica, e lei lasciava che si costruisse il suo impero accettando i suoi successi con silenziosa e suprema comprensione, gioendone quasi. Lei era felice quando lo vedeva sereno, tanto le bastava.
Non aveva bisogno di inutili regali o eccessive attenzioni: lui la colmava di amore nel suo modo originale e sobrio di sempre. E poi, dopo ogni missione personale, tornava con qualcosa per lei, un ninnolo utile alla sua quotidianità oppure per lusingarla.
Delle volte si trattava di oggetti così preziosi da farla arrossire. Stupendi pettini per capelli, arabescate stoffe preziose, bellissimi obi dalla trama ricercata, fermagli intarsiati con la massima cura.
Erano tutti doni intrisi del più profondo sentimento che qualcuno avesse mai provato per lei; anche se erano covati da artigli sporchi di sangue, la loro integrità era indiscutibile. Erano mani che non avevano paura di rinnegare la propria natura sanguinaria, anzi, ne andavano fiere. Le lunghe dita affusolate erano molto più abituate a salde impugnature che a guance femminili, i palmi lisci e privi della benché minima piegatura erano stati formati apposta per la propria arma, e non il contrario.
Quelle labbra che erano ormai sue, innegabilmente, si stendevano sempre più spesso in un’espressione serena. Non arrivavano mai ad un sorriso, com’era ovvio, ma subivano la piega che più vi assomigliava. Una sorta di rilassamento di ogni muscolo, mentre i lineamenti si facevano tranquilli e finalmente liberi dalle oppressioni che li turbavano di solito, qualsiasi esse fossero. Raramente, infatti, le parlava delle proprie preoccupazioni, quasi non ne avesse.
Lei era sicura che ci fosse qualcosa in particolare ad angustiarlo, ma non aveva mai osato domandare, perché era certa che prima o poi lui l’avrebbe resa partecipe. Se ciò non accadeva, voleva dire che il problema si era risolto, e tutto tornava alla loro personale normalità, fatta di sguardi, silenzi e carezze appena accennate contro la sua coscia oppure sul ventre, facendo attenzione che nessuno notasse la minima cosa.
Le mancava tantissimo, anche se si erano sfogati in tutto il loro amore solo quattro giorni prima. Le pareva di essere sua da sempre, ed era effettivamente così. Non voleva lamentarsi, naturalmente, anche perché non ne sentiva affatto il bisogno, però avrebbe voluto averlo di nuovo lì, accanto a lei.
Fantasticò un improbabile futuro che li vedeva insieme, magari mentre lui la aiutava con quei secchi così pesanti, oppure allevare dei figli, nella loro piccola casa, in un comune villaggio, senza doversi nascondere dagli occhi umani…
Umani…sì, umani. Perché se Sesshomaru fosse stato un contadino come tanti altri, le cose sarebbero state terribilmente più semplici.
Scosse la testa, dovendo appoggiarsi ad un albero per sostenersi dopo un altro giramento: lui era l’imperatore di tutti i demoni, come poteva arrivare a desiderare che si confondesse con quelle teste precocemente calve e bruciate dal sole?
Come sarebbe stato il suo nobile principe con le mani callose, i corti capelli neri, il viso abbronzato e privo di segni distintivi del suo casato, la schiena curvata dalla fatica? Un’immagine stridente se paragonata alla forza e potenza da lui emanate in ogni circostanza. Una stupidaggine che non valeva nemmeno la pena di essere considerata.
Finalmente apparve all’orizzonte la casa di Kagome, a distrarla da quei bizzarri pensieri. Era una capanna per certi versi identica a tutte le altre, ma per altri completamente diversa. La forma era standart, e anche il numero delle stanze, però possedeva delle aperture sui muri chiamate “finestre”, protette da una lastra invisibile, e delle eccezionali porte a cardini, che erano sì più comode, ma che la spaventavano a morte.
Certo, un pezzo di legno non le sarebbe mai saltato al collo né nulla di simile, però la sua mente non era abituata a concepire un così strano modo di entrare e uscire dalla casa. Insomma, una stuoia non era molto più comoda?
Non l’avrebbe mai capito.
Con mano stanca batté un paio di colpi sulla superficie liscia, aspettando come di consueto che chiunque vi si trovasse all’interno venisse ad aprire. Kagome era sempre disponibile a nuove visite, non le avrebbe mai negato la possibilità di accomodarsi, e l’avrebbe sicuramente trattenuta per fare quattro chiacchiere, come suo solito.
Stranamente non rispose nessuno. Attese altri minuti, poi riprovò leggermente più forte e aspettò di nuovo, ma niente. Posò l’orecchio contro il legno sottile, pronta a scappare al minimo gemito udito, ma nell’abitazione regnava il più assoluto silenzio. Non era una cosa strana, in effetti: come sacerdotessa del villaggio aveva molti impegni, e quando riusciva ad ottenere del tempo libero lo passava con Inuyasha, nel bosco.
Non aveva nessuna intenzione di andarla a cercare lì, anche perché la questione non era nemmeno tanto urgente. Se il lavoro gliel’avrebbe permesso, sarebbe passata a trovarla verso sera, orario dell’imbrunire, per essere certa di trovarla in casa.
Si voltò e ridiscese il pendio, tornando alla capanna con passo lento. Non aveva voglia di affrettarsi, anche perché erano azioni quotidiane, che compiva sempre, e la voglia di farle, purtroppo, non arrivava mai, anche se preferiva un po’ di sana attività al dolce far nulla.
Si sentiva ancora provata dalla febbre, dopotutto, e se i sintomi fossero continuati avrebbe chiesto a Kaede di consigliarle qualcosa, perché non esisteva donna più esperta di lei in fatto di piante medicinali.
-Signorina! Signorina! – urlò una voce abbastanza lontana. Girò la testa per vedere di chi si trattasse: era un contadino del villaggio, la moglie aveva partorito due mesi prima, ormai, per la prima volta. Un maschietto, dalla salute ineccepibile.
Attese paziente che si fosse avvicinato, e scoprì che non era il solo. Sorrise cordiale al piccolo gruppetto, constatando che non potevano nuocerle in pieno centro abitato, e che le loro espressioni non sembravano neppure intenzionate a farlo.
-Buongiorno – disse educatamente, per ricevere una risposta da ogni giovane lì presente. Erano in cinque, con abiti da lavoro sporchi di sudore e di terra. –Come posso aiutarvi?
L’uomo prese fiato velocemente. –Volevamo chiederle di seguirci, se le è possibile.
Un brivido la percorse partendo dalla base della schiena, facendole portare una mano alla manica del kimono dove Sesshomaru le aveva insegnato a nascondere un pugnale per difendersi. –Posso sapere il motivo?
-Si tratta del signor Miyasama, più volte venerabile e sotto la protezione dei kami. Sua Signoria sostiene di avervi visto l’altro giorno, al fiume, e di essersi innamorato di voi.
Sapeva bene a chi si stesse riferendo.
Il nobile, ricco erede di una famiglia quasi del tutto decimata, aveva fatto erigere il proprio castello pochi villaggi più avanti, e controllava ogni giorno i suoi possedimenti in sella al cavallo purosangue, indubbiamente costoso.
Si trattava di un giovane dal viso abbastanza comune, evidenziato da vestiti e copricapo degni di un principe qual’era, con occhi scurissimi e pelle bianca tipica di chi si espone poco all’aria pomeridiana.
Non gli aveva mai parlato, era proibito: in un paio di occasioni le era capitato di inchinarsi assieme alle contadine da cui era circondata, ma non l’aveva mai nemmeno guardato bene in faccia, perché non era interessata nella benché minima maniera. Le fanciulle del villaggio si pavoneggiavano cercando di diventare le mogli del padrone, oppure le sue concubine, millantando la sua bellezza, ma era sempre stata troppo assorbita da Sesshomaru, il suo unico signore, per farvi caso o incuriosirsi.
Anzi, impegnata nella sua opera di levatrice, faceva di tutto per scoraggiare li sguardi maschili apparendo spettinata e con il kimono sporco di terra, mentre quando usciva dalla capanna di turno, ostentava mani ancora insanguinate per andarle a lavare direttamente al fiume, facendo vedere bene a tutti le dita sottili lorde di un denso liquido cremisi.
Ma a quelle parole ebbe un tuffo al cuore; ricordava di essere andata a lavare dei panni, dopo la partenza del demone, ma non aveva assolutamente notato nessuno. Forse il principe si era tenuto a distanza dal’acqua, sul proprio destriero, e l’aveva guardata lavare la biancheria, completamente sola.
Anche così, però, non riusciva a capire come potesse amarla. Non aveva mai sentito la sua voce, visto bene il suo viso, non sapeva nulla della vera Rin, tantomeno il fatto che il suo cuore fosse già occupato.
Ma sapeva benissimo che quest’ultimo fatto era del tutto irrilevante, di fronte al signore: quello che un padrone decideva, trascendeva le leggi del villaggio. Non importava che una fanciulla amasse un’altra persona, bastava solo fosse di gradimento al proprietario della terra sui posava i piedi, e il suo destino era segnato.
Un  pozzo scuro si aprì sotto di lei, una voragine di tenebra densa e scura, che minacciava di soffocarla. Si portò una mano alla base del collo.
Non era possibile stesse succedendo proprio a lei. Non era bella, né aggraziata, solo una ragazza qualunque, trasandata per scelta e impermeabile agli esseri umani. Inoltre il villaggio pullulava di vergini, perché proprio Rin?
Non riusciva a mettere in ordine i pensieri, e doveva avere la faccia sconvolta, perché il gruppetto la stava fissando abbastanza stranito.
-Capisco l’onore che deve essere per voi, ma vi prego di seguirmi. La attende un cavallo e dei vestiti puliti per celebrare le nozze, che si terranno al sorgere del sole quando la luna sarà pien…
-Non è affatto un onore! – esclamò la ragazza, frastornata. –Io non voglio l’amore di uno sconosciuto! Ho già il Signor Sesshomaru, non mi serve un feudatario qualunque!
Il viso dell’altro si indurì, e nel suo sguardo si lesse la chiara voglia di schiaffeggiarla per ciò che aveva detto. Ma le future spose non potevano essere sfiorate se non dal marito, quindi dovette trattenersi. Decise di cedere ad un’espressione sarcastica, che brillava di cattiveria. –State forse parlando di quel demone? Beh, in quel caso, il nostro nobile e venerabile signore ha già provveduto a tutto: ieri è stato qui uno dei più potenti esorcisti esistenti, che ha provveduto a sigillare il territorio e rendere inaccessibile tutta la zona a quello sporco demone. Quella storia andava avanti da troppo tempo, ormai.
Detto questo, come una sentenza, le prese il braccio in una stretta che non ammetteva repliche, e fece per trascinarla. I compagni osservavano, pronti ad intervenire se necessario.
Rin impuntò i piedi, tornando con la memoria a molto tempo prima, quando un gruppo di briganti l’aveva trascinata nel proprio covo e lasciata nel bosco, morente. Le lacrime cominciavano a bruciarle gli occhi, pungendo come degli spilli, ma decise di non cedere. Era assolutamente ingiusto, ciò che stava capitando, e il dolore per quello che le aveva detto la stava straziando dall’interno.
Oppose resistenza a quel tocco rude, cercando di dimenarsi e attirando l’attenzione degli altri energumeni, che le bloccarono le spalle e anche l’altro braccio: -Lasciatemi! – urlò, sperando di attirare l’attenzione di qualcuno.
Un rivolo di sudore freddo scivolò lungo la sua tempia: erano tutti nei campi, non potevano sentirla; i bambini stavano con Kaede, per tutto il pomeriggio, e le massaie erano andate a filare nell’unica capanna che avesse un telaio, dall’altra parte del villaggio. Era sola, completamente.
Cercò di scalciare, pronta a correre il più velocemente possibile verso la macchia d’alberi più vicina, dove non sarebbero mai riusciti a prenderla, ma la presa era troppo forte.
Cominciarono a trascinarla verso un sentiero scorticandole i talloni fissi al suolo, accusandola di essere una stupida ingrata, ma a lei non importava: cercava di sgusciare via, anche se senza successo.
Era impossibile che un demone potente come Sesshomaru potesse essere respinto da una comune barriera. Niente era stato in grado di fermarlo, ma il dubbio germogliò improvvisamente in lei.  
Era troppo lontano per sentire le sue urla; il potere spirituale avrebbe inebetito i suoi sensi, indebolendolo anche se di poco; i contadini l’avrebbero portata al castello del feudatario, dove si sarebbe sposata; quell’uomo l’avrebbe compromessa per sempre e il demone, una volta aggirato l’ostacolo, avrebbe perso interesse per lei e l’avrebbe lasciata al suo destino.
Si aggrappò il più saldamente possibile a quegli occhi d’ambra, tanto amati quanto ormai irraggiungibili, ma più li memorizzava, più essi si sottraevano, quasi non la volessero più.
-Lasciatemi andare! – sbraitò nuovamente, ma con meno forza di prima. Che senso aveva lottare? Scalciare e dibattersi?
Ormai era come se la decisione fosse già stata presa, e il tocco sgraziato di quei contadini un’ennesima condanna.
Prima di svenire, Rin pensò che non voleva finisse così: non amava il signore, mai l’avrebbe fatto e sarebbe stata la sposa più recalcitrante del mondo, ma a suo marito non sarebbe importato.
E il suo ultimo pensiero corse, ovviamente, al suo amatissimo Sesshomaru. 

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Capitolo 16
*** Nel bosco ***


Stai acquattata fra le radici e muoviti con attenzione, le aveva detto.
E lei lo stava facendo, maledizione, ma era dannatamente difficile: qualsiasi cosa pestasse scricchiolava rumorosamente, mandando al diavolo tutti i suoi sforzi. Inoltre, con tutta quella stoffa addosso era difficilissimo non farsi notare, in quanto le maniche si bloccavano continuamente contro un rametto sottile oppure un rovo sporgente.
Sentì alcuni uccellini cinguettare appena sopra la sua testa, allegramente. Ecco, la sua occasione: sgusciò dal proprio nascondiglio cercando di parare la vista del proprio corpo con gli alberi e, coperta da quel canticchiare leggero, riuscì ad attutire il rumore dei passi.
Si accucciò fra le radici nodose di una grande quercia, sfilandosi lentamente la casacca; sotto indossava una canottiera estiva che si era cucita di nascosto, perché proprio non riusciva a sopportare quella dannata sottoveste di panno.
Legò velocemente i capelli con un nastro e, attenta a non essere vista, oltrepassò l’albero lasciando lì la parte superiore del vestito, muovendosi velocemente verso una direzione precisa, certa di avere la vittoria in tasca.
Inuyasha, placidamente appoggiato su un ramo, la stava pigramente osservando da circa mezz’ora abbondante.
Quando aveva espresso il desiderio di essere lei, per una volta, a cacciarlo, lui aveva acconsentito, dandole addirittura delle dritte. In realtà non si era mai mosso dall’”albero della conta”, dove Kagome aveva cominciato a scandire i secondi per fargli trovare un nascondiglio, talmente concentrata da non accorgersi nemmeno che lui, intanto, si trovava ad un palmo dalla sua testa.
C’era da riconoscere, però, che la sacerdotessa ce la stava mettendo tutta, apparendo come un vero segugio. Per facilitarle il compito, le aveva consigliato di stare sottovento, e stare attenta ad ogni minimo rumore; anche se con lo sguardo non l’aveva mai persa di vista, era meglio evitare che incappasse in qualche pericolo.
E il suo coprire le tracce con il canto degli usignoli: davvero geniale! Lui non ne aveva bisogno, però era rimasto molto soddisfatto notando la sua inventiva.
La cosa esilarante di tutta la mattinata era che, così assorbita dalla ricerca a terra, non aveva mia sollevato lo sguardo quel tanto che bastava per scorgere la stoffa rossa fra le foglie. Il suo vestiario era difficile da occultare, e lui non ci aveva pensato nemmeno, tanto da sembrare parecchio evidente, ma era passato comunque inosservato.
Si stiracchiò assomigliando ad un gatto; quel giorno faceva davvero caldo, e la leggera brezza che frusciava fra ramo e ramo risultava doppiamente piacevole. Il lieve accenno del sudore della ragazza gli stava accarezzando le narici, quasi suadente.
E se l’avesse inseguita a sua volta? Nel bosco nessuno avrebbe mai visto niente…
Si riscosse immediatamente: non poteva e non doveva. Era assolutamente ingiusto, e poi si trattava di un gioco innocente. Perché rovinare tutto con certe riflessioni?
Fissò la casacca bianca abbandonata a terra. Kagome non cambiava davvero mai, senza lasciare del tutto i suoi attrezzi futuristici, come quella fascia di stoffa che le copriva il torace snello, esaltandone ogni singola curva.
Non avrebbe dovuto mostrarsi così sbracciata, essendo un elemento di pura sobrietà per la comunità. La gente dell’epoca non era abituata ad abiti simili, e avrebbe dovuto fare attenzione alla propria nudità. Si mostrava tranquillamente a lui anche con strane gonne oppure singolare kimono con maniche minuscole ed eccessive scollature (le clavicole erano in bella mostra!), perché dava per scontato che non gli avrebbe fatto nessun effetto.
Lui era già stato nel futuro, aveva visto uomini portare cani per strada tenendoli con delle cordicelle legate al collo, oppure bambini che mangiavano strane patate secche, trascinandosi in giro dei bizzarri animali completamente colorati, che volteggiavano in cielo e rimanevano appigliati ai loro polsi solo grazie a sottili spaghi.
Era una realtà affascinante, senza dubbio, ma anche spaventosa: gli era venuto un colpo quando, a scuola, l’aveva vista correre con un maglione e degli strani pantaloni che non le coprivano nemmeno le cosce, rossi come il fuoco.
Se a lei sembrava normale, per lui non lo era affatto, ma non le diceva nulla. Sapeva che era un tipo molto attento, ma la cautela non era mai troppa.
Tese un braccio quel tanto che bastava per raccogliere la stoffa, che piegò alla meglio e tenne in grembo. Non vedere più la veste dove l’aveva lasciata l’avrebbe disorientata, rendendo il gioco molto più interessante. Fra i rami, sorrise. Chissà come avrebbe reagito.
Sentì un fruscio alle sue spalle, ma non ci fece caso. Assieme a lui, c’erano due coppie di usignoli, diversi bruchi e anche qualche formica, e il brulichio delle loro attività lo aveva tenuto occupato mentre osservava il vagare della ragazza.
In quel momento era scomparsa dietro ad un albero poco davanti a lui, muovendosi in modo buffo tutt’intorno alla corteccia, come se fosse un cane in procinto di annusare le tracce della sua preda. La parte illuminata la inghiottì per un attimo, ma gli parve di intravedere comunque qualche ciocca di capelli castani, che dopo essere stati legati erano più difficili da individuare.
Quella coda che la faceva sembrare un’elegante volpe lasciava il collo completamente scoperto, una bianca e liscia curva che terminava in disordinati ciuffi scuri. Le spalle si stavano leggermente abbronzando, segno evidente che la parte superiore del suo vestito scivolava via abbastanza spesso, mentre le braccia candide rimanevano immutate, aggraziate pennellate di perfezione, dai movimenti fluidi ed eleganti.
La schiena formava un unico arco teso, in perenne mutamento. Si piegava, drizzava e ingobbiva continuamente, per accompagnare le varie azioni che il suo lavoro comportava, donando una certa tonicità alle ossa sporgenti. La colonna vertebrale si intravedeva appena attraverso la scollatura posteriore, ma in quel momento era coperta dal fogliame, fitto e verde.
Si domandava come mai avesse smesso di muoversi, sembrando un’unica tavola bianca, ma forse stava captando i rumori come le aveva insegnato; era impossibile che lo sentisse da lì in fondo, ma decise comunque di appiattirsi contro il legno, mentre il vestito ne accompagnava ogni movimento senza fare il minimo rumore.
Kagome ancora non lo aveva sentito, e rimaneva immobile. Lasciò che la propria schiena si appoggiasse piano al tronco, producendo un unico, inudibile, scricchiolio di rametti secchi. Doveva fare attenzione, se non voleva essere scopert…
-BECCATO! – urlò trionfante una voce alle sue spalle, in un unico strillo che fece volare via tutte le creature dotate di ali lì presenti, in un movimento uniforme e repentino.
Inuyasha sentì un brivido che lo percorse da capo a piedi, ghiacciandogli ogni singolo capillare e facendo sprofondare il cuore in un baratro, come se gliel’avessero strappato via in un’artigliata.
I capelli si rizzarono contro la nuca mentre, pochi secondi dopo, due mani sottili gli si aggrapparono ai  suoi fianchi, facendolo sbilanciare. Lui, terrorizzato, annaspò in aria senza più fiato, perdendo l’appiglio che lo teneva in piedi e rovinando al suolo come un frutto maturo.
Il suo petto ebbe un secondo solo per riprendersi dallo shock, quand’ecco che un altro peso vi cadeva sopra, mozzandogli il resto di respiro incastratoglisi in gola. il fardello in questione lanciò un’esclamazione sorpresa, mentre lui, completamente atterrato e sprofondato nell’erba, stava insultando ognuno dei suoi cinque sensi per non aver avvertito una presenza alle sue spalle.
-Ahi ahi ahi – si lamentò Kagome, massaggiandosi un braccio.
Inuyasha strizzò gli occhi, per evitare di essere ferito dalla luce: era stato un bel volo, doveva ammetterlo, però nulla sembrava rotto, ma solo vagamente dolorante. Era stato più che altro lo sbalzo improvviso a sopraffarlo, non di certo la presa in vita. Anzi, quella era stata la cosa di cui si era reso conto per ultimo.
-Stai bene? – chiese a fatica, con voce soffocata. Lui si sarebbe rimesso presto, piuttosto gli interessava la salute della ragazza, di certo più fragile della propria.
La sentì annuire, in uno sfregamento di stoffa, abbastanza incerto ma inconfondibile. Grazie al cielo, non si sarebbe mai perdonato che si facesse male dopo uno stupido gioco…
Un momento. Come aveva fatto a sentirla annuire se non se la vedeva davanti agli occhi? Si concentrò sul proprio corpo, socchiudendo gli occhi alla luce intensa dei raggi solari. Il petto era ancora schiacciato da qualcosa, che aveva a sua volta un movimento regolare e ritmico, ma era anche morbido e confortevole al tatto, sotto al quale si potevano sentire delle sporgenze.
Era del tutto avvolto dal suo profumo, che l’aveva magicamente stordito per qualche attimo; una fragranza rilassante quanto potente, in cui sarebbe volentieri affogato. Qualche capello che non era di certo il proprio gli stava solleticando la faccia, posandosi sbarazzino sulle guance e sgusciando via dalla sua presa.
Kagome. Quella presenza sopra di lui era Kagome.
Si rese conto di cingerle la schiena con un braccio, un movimento che non era riuscito ad evitare a sé stesso, quasi un automatismo, mentre sentiva distrattamente le gambe abbandonate sul fogliame a terra, sopra alle quali si posavano quelle della ragazza.
-E tu? – chiese timidamente. Quella vocina tanto flebile sembrava non volersene andare, e lui non l’avrebbe certo spostata.
-Sì, sto bene – confermò, mantenendo un tono basso di voce. Non voleva che si alzasse; sarebbe rimasto là sotto per tutta la vita, con immensa gioia.
La ragazza si riprese un momento, poi decise di scostarsi, decidendo di appoggiarsi ai gomiti e usarli come perno per mettersi a sedere in modo composto. In un unico movimento scivolò lentamente al suolo, sistemando le gambe sul manto erboso.
Inuyasha poteva capire il perché di quel gesto: se fosse rimasta sopra di lui, per guardarlo in faccia avrebbe dovuto mettersi a cavalcioni, lasciando intendere mille e più sfaccettature.
Non la biasimava affatto, e doveva riconoscere che era stata una buona idea. Entrambi conoscevano benissimo ciò che l’uno provava per l’altra e, se incitati dalla solitudine, potevano arrivare a gesti di cui si sarebbero pentiti.
La bocca rosea di Kagome si schiuse appena, mentre lasciava che il proprio sguardo indugiasse sulla parte più alta di ogni albero; con occhi attenti ne scrutava le cime, ammirava i rami affusolati e, con lo stesso stupore di una bambina, gioiva segretamente del colore delle bacche, pronte per essere raccolte. Era un compito in cui di solito lui l’aiutava, perché faticava non poco per arrivare nei punti più alti, ed erano parti fondamentali per i suoi intrugli.
Era bellissima. La pelle chiara splendeva in tutta la propria morbidezza, le guance liscie erano leggermente imporporate dall’imbarazzo e le iridi erano attraversate da mille sfaccettature.
Era come se le ciglia lunghe non potessero impedire del tutto la fuorisciuta di qualche emozione, un piccolo sentimento che di tanto in tanto sfuggiva dalle proprie barriere e sfociava all’esterno, facendo capolino alla luce del mondo esterno.
Era malinconia quella che provava? Forse un po’ le mancava il mondo dov’era nata e cresciuta, forse le punte verdi di quel bosco non riuscivano a sostituire del tutto quelle grigie dei palazzi, i mostri concavi che usava per viaggiare, o l’aria irrespirabile.
No, non era quello di cui soffriva la lontananza, ne era sicuro. Da quando aveva cominciato a vivere lì, la sua carnagione si era fatta più sana, il suo profumo più dolce, le sue gambe più pronte alle camminate.
Sota, sua madre, il nonno. Erano questi gli elementi insostituibili della sua vita che non sarebbero tornati mai più. Non avrebbe potuto salutarli, né sapere qualcosa di loro.
Una volta aveva espresso la propria amarezza, una volta sola, in una fredda notte d’inverno. Aveva detto che le sarebbe piaciuto vedere il fratellino con la toga da laureando, era incuriosita su che futuro avrebbe intrapreso. Le parole “non lo saprò mai” erano rimaste sospese fra di loro, taciute ma come se fossero state esternate comunque.
Ogni tanto, quando faceva in modo che la sua mente inseguisse personalissimi sentieri, sembrava quasi che li stesse visitando con la memoria.
“Eccomi mamma, sono tornata a casa”, sembrava dire, mentre una donna dallo sguardo più dolce che avesse mai visto allargava le braccia e la faceva diventare parte di sé, come se quel contatto fosse un prolungamento dei novi mesi che avevano condiviso.
Non si sarebbe affatto sorpreso se fossero stati questi i suoi pensieri, anche perché persino lui, se si concentrava, poteva rividere la casa regolare e grigia, con le imposte sempre aperte, la lunghissima scalinata, un vecchietto che spazzava il cortile in pietra, un albero grande e mistico, insofferente al passare degli anni e un capanno, dove si celava l’inizio di tutto.
Quante volte aveva annusato l’aria di terra e chiuso che albergava in quella stanza? Quante volte aveva poggiato i piedi sulle pericolanti assi di legno marcio, intrise di magia? Quante volte era rimasto affascinato dall’aura piena di storia del magazzino, così ricco di vasi e sigilli più antichi di lui?
Aveva tutto il diritto di avere nostalgia di casa, glielo si leggeva in fondo alle pupille; e, anche se era legittimo lamentarsi, rivangare i tempi passati o riflettere su ciò che si era lasciata alle spalle, lei non lo faceva mai.
Se capitava uno di quei momenti, preferiva stare in silenzio. Inuyasha non riusciva ad indovinare cosa veramente custodisse nella sua mente, quale fosse il primo collegamento con il futuro, la cosa più immediata che le tornasse alla memoria.
Forse la sua casa tanto bizzarra era un modo per tenersi gli affetti stretti, nella quotidianità. Le sue amiche, i professori che diceva di temere, la madre, il fratello, il nonno: erano tutti proiettati sulle finestre, nei cardini e negli armadi ad ante, così rari eppure tanto belli.
Quando la vedeva tanto assorta per celare l’imbarazzo, si sentiva un verme schiacciato dal senso di colpa. Se ora non viveva tranquilla nella sua casa con acqua corrente e riscaldamento era solo a causa sua, che l’aveva convinta ad attraversare, per l’ultima volta, il passaggio.
Se Inuyasha non fosse mai esistito, la fanciulla sarebbe stata felice con la propria uniforme verde e bianca, nel proprio tempio, a frequentare la scuola che preferiva e ad uscire con le sue amiche. Avrebbe vissuto una vita normale, tranquilla, senza conoscere l’odore del sangue o le urla strazianti di un soldato ferito. Non avrebbe mai sentito parlare di demoni spietati o ragazzi con le orecchie da cane, spade dal filo affilato o misture medicinali.
La cosa che più lo premeva, però, era sapere se si sentiva soddisfatta della sua nuova vita.
La domanda, ogni tanto, sbocciava dalle sue labbra, ma la tratteneva sempre contro il palato, per evitare di sembrare indiscreto o solo per codardia. “Kagome, sei felice?”, avrebbe voluto domandarle, ma non ne aveva il coraggio. Temeva troppo la risposta per porgerle il quesito; se avesse finto di dire di “sì”, lui sarebbe sprofondato nella disperazione molto più in fretta che ricevendo un “no”. Inoltre, non voleva risvegliare rimorsi o nostalgie, perché non avrebbe saputo come rimediare.
Non poteva confortarla con il proprio amore a causa del suo impegno sacerdotale, e il semplice sostegno di un amico non sarebbe stato abbastanza. In quel caso sarebbe servito un amante, e non voleva assolutamente che andasse a cercarlo altrove.
Con nonchalance, incrociò le braccia dietro la testa, facendosi solleticare dagli steli d’erba fresca.
Lei fissava ancora il cielo, assorta, senza nemmeno accorgersi del movimento. Un usignolo, ripresosi dopo l’improvvisa turbolenza di prima, aveva ricominciato a cantare.
-Sono stata brava, però – disse lei all’improvviso. Nel dirlo, voltò leggermente la testa verso di lui, facendo oscillare la coda di cavallo contro la schiena arcuata e sorridendogli leggermente. La scollatura pronunciata illuminava la pelle chiarissima e morbida in prossimità del petto generoso. Era un dettaglio che non poté non notare.
Le sorrise leggermente in risposta, ma solo per un secondo, recuperando subito la sua espressione annoiata. Sbuffò. –Era ora che facessi un miglioramento.
Lei finse di mettere il broncio. –Guarda che se mi dai soddisfazione anche solo una volta non crolla mica il mondo – borbottò indispettita, incrociando le braccia e guardandolo dritto negli occhi.
Lui chiuse le palpebre, avvolso da un improvviso torpore. –Soddisfazione? Per una sciocchezza del genere?
Finse di non accorgersi della linguaccia che ricevette in risposta, e si concentrò solo sul ronzio di un’ape poco distante da loro. In realtà lui era molto orgoglioso dei suoi progressi, ma non avrebbe trovato le parole giuste per esternarlo; ovviamente lei lo sapeva già, eppure non smetteva mai di fargli domande, e lui gliene era grato. Senza la sua voce sarebbe difficilmente riuscito a resistere allo scorrere del tempo.
Visto che il silenzio si stava addensando pericolosamente, decise di intervenire: in fondo, non serviva mica un complimento lusinghiero o zelante, ma solo la verità. –Beh, sì, sei stata brava – disse velocemente, senza guardarla.
Sapeva già che il calore sulle sue guance non dipendeva solo da un raggio che vi si era posato sopra, ma non poteva farci nulla, succedeva così ogni volta.
Kagome, inizialmente, non rispose. Sapeva quanto raro fosse che Inuyasha dimostrasse ammirazione per lei, accantonando il suo carattere da bambino prepotente, e si godette appieno il momento, pensando quasi di esserlo inventato. Naturalmente chiedergli di ripetere sarebbe stato non solo ingiusto, ma anche inutile; non solo non avrebbe sortito nessun effetto diverso dal farlo innervosire, ma anche non avrebbe ricevuto lodi per un altro bel po’ di tempo.
E per lei, quelle lusinghe spogliate fino ad essere al limite dell’essenziale, valevano più di tutto l’oro del mondo.
Era però una situazione delicata, che avrebbe potuto facilmente rovinare con una parola di troppo o un’eccessiva sorpresa. Doveva trattarlo quasi con indifferenza, mentre accoglieva ciò che le aveva detto, onde evitare che aggiungesse una cosa come “ma vedi di non entusiasmarti troppo, perché hai ancora molta strada da fare per ottenere un vero successo”. Le venne da alzare gli occhi al cielo, quasi potesse sentilro, ma si trattenne.
Era stato cattivo, prima, nascondendosi proprio in cima all’albero che aveva usato per dargli del tempo: si era goduto tutto lo spettacolo dall’alto, ed era sleale. Non solo perché lei non aveva nemmeno valutato l’ipotesi di cercarlo fra le fronde, ma anche per il depistaggio con tutte quelle informazioni e consigli. Li aveva trovati un po’ strani, in effetti, ma era anche stata contenta per quel miglioramento.
D’altra parte, era colpa sua se erano caduti in una posizione equivoca, facendogli perdere l’equilirio e rischiando di farsi male entrambi. L’aveva spaventato a morte, quando gli era caduta sopra l’aveva sentito chiaramente irrigidito…
Avvampò di colpo. Irrigidito…”Kagome, ma cosa vai a pensare!”, si disse imbarazzata, portandosi le mani sul viso bollente. Non era certo il momento per farsi venire in mente certe cose, o per far scivolare lo sguardo proprio in quel punto.
Si riprese in fretta: non poteva ignorarlo del tutto in modo sfacciato, doveva pure fargli capire che aveva apprezzato, ma come?
Intanto Inuyasha stava disteso sull’erba, con apparente distacco, ma in realtà abbastanza stranito. Quella ragazza era davvero incomprensibile: prima gli diceva che non le dava mai merito di nulla e ora faceva finta di non sentirlo! Proprio non sapeva cosa pensare, ma soprattutto fare, con un tipo del genere.
Decise di rimanere immobile. Forse nonaveva udito, ma se si metteva ad arrossire a quel modo voleva dire che qualcosa doveva pur aver capito, accidenti! Perché rimaneva immobile come se non la riguardasse affatto? L’aveva offesa? Ma da quando un complimento poteva essere interpretato in modo tanto perverso?
Gli pareva di essere stato abbastanza chiaro, anche perché lui non era mai stato bravo nei giri di parole, e se il messaggio non veniva recepito  in quei termini, allora non sapeva proprio come esprimersi per farsi capire.
In ogni caso, non avrebbe mai ripetuto niente. Se non aveva capito, che si tenesse i suoi dubbi, lui non sarebbe sceso a compromessi. Quella frase valeva molto di più di quanto poteva sembrare, e le cose preziose vanno esplicitate solo una volta, e basta. Avrebbe perso di significato dirlo ancora, sarebbe sembrato inappropriato.
L’aria cambiò leggermente direzione, portandogli il suo profumo. Sembrava facesse il bagno nella seducenza, da quanto impregnato era di sottintesi, richiami irresistibili al suo corpo.
Come si poteva trattenersi con un odore tanto buono sotto alle narici? Era come un invito ai suoi muscoli di attivarsi, prenderla per i fianchi e attirarla a sé, baciarla, esplorare le sue labbra morbide, imprimere a fuoco la propria presenza su di lei.
Poteva permettersi di fantasticare, almeno quello gli era concesso: lei non avrebbe mica perso la prorpia purezza solo per un paio di pensieri, no? Era l’unica cosa che poteva fare con la donna della sua vita, ovvero sognare, e non avrebbe sprecato nemmeno un’opportunità a sua disposizione pur di sentirla vicina. Molto vicina.
Ad un tratto, però, l’erba si spostò lievemente, e un fruscio di stoffa che si stava avvicinando a lui gli fece muovere involontariamente le orecchie; Kagome si stava abbassando.
Non osò aprire gli occhi, come se le proprie iridi fossero state colme di immagini compromettenti, e non avrebbe avuto il coraggio di guardarla in faccia, non così presto, per lo meno. Dei capelli gli lambirono il contorno della mascella, alcuni si posarono sulle labbra, e un soffio morbido, esitante e timido si posò sulla sua guancia, irridiando calore.
Un contatto appena accennato, eppure non poteva più farne a meno: la bocca di Kagome, il suo fiato caldo, si stavano  già allontando, come se nulla fosse accaduto. E se quella lieve traccia di dolcezza non si fosse impressa per bene sul suo zigomo, forse anche lui si sarebbe convinto di avere una mente particolarmente realistica nei dettagli.
Era stato questo il suo modo di ringraziarlo. Di fatto un piccolo gesto, tenero, per simboleggiare ciò che lo legava a lui, e quanto avesse apprezzato le sue parole. E lui che voleva un discorso in cambio! Cosa se ne sarebbe fatto di un “grazie”, al posto di quel minuscolo bacio, castissimo?
-Divina Kagome! – urlò una voce al limitare del bosco.
Inuyasha si drizzò subito a sedere: la ragazza stava guardando attenta verso la macchia d’alberi, impugando l’arco che aveva tenuto al suo fianco per tutto il tempo.
Avendo tenuto gli occhi chiusi, rimase un momento abbagliato dal sole splendente, ma la sua vista inumana fece presto a riprendersi. Una donna in kimono blu stava correndo verso di loro, trafelata e spettinata, reggendo una pergamena fra le dita.
Che avesse assistito? Ormai non aveva importanza, in quanto l’urgenza in quella figura era quasi palpabile. Più si avvicinava, più i tratti spigolosi di Kunieko si stagliavano chiaramente; alta, magrissima e dalle gambe forti quasi quanto quelle di un uomo, la ragazza riusciva misteriosamente a mantenere una prorpia femminilità, soprattutto quando le fossette le contornavano le labbra carnose.
-Divina Kagome – ansimò avvicinandosi. La ragazza si alzò in piedi, e accolse il foglio sgualcito sui bordi. –È per voi.
-Vieni, Kunieko, siediti – disse subito, facendole posto sull’erba. L’altra cadde praticamente subito, prendendo fiato in ampi movimenti del torace, frenetico nell’atto di recuperare aria sotto le istruzioni di Kagome, che le aveva posato una mano dietro la schiena.
Appena si fu leggermente calmata, le fecero spiegare cos’era successo: riusciva solo a dire che era urgente ma, non sapendo leggere, non avrebbe saputo dare dettagli, farneticando di “Rin”, “Miyasama” e “castello”.
La sacerdotessa srotolò il foglio ingiallito, e lesse le poche righe tracciate in un’elegante calligrafia arabescata. Poi, con sguardo serio, smise di concentrarsi sul messaggio e guardò Inuyasha dritto negli occhi.
-Dobbiamo andare subito al castello – disse. Il viso si era completamente trasformanto, le ciglia aggrottate in un’espressione concentrata.
E lui seppe per certo che era successo qualcosa di grave. 

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Capitolo 17
*** E giunse la ragione... ***


Il pavimento di legno lucidato a specchio era ingentilito da caldi raggi solari, che lo striavano in lunghe fasce luminose.
Rin recuperò la coscienza un passo alla volta: prima di aprire del tutto gli occhi si accorse di essere stesa su un futon comodo come non ne aveva mai sentiti, e le coltri abbastanza pesanti le intiepidivano tutto il corpo.
Appena ricordò gli avvenimenti precedenti all’oblio, però, la magia si interruppe, facendola scattare a sedere, come se fosse stata punta. Con un improvviso senso di colpa, allontanò le coperte da sé in un moto stizzito, facendole finire dall’altra parte della stanza.
Farlo le costò un po’ di fatica, in quanto il braccio era segnato da un livido all’altezza del polso. Annusò circospetta la stanza in cui si trovava, e sentì un inconfondibile puzza di medicamento.
Serrò la mascella. L’avevano drogata.
Ebbe un giramento di testa, ma tentò comunque di mettersi a sedere decentemente, sollevandosi grazie ai gomiti. Tutto il mondo vorticava ad una velocità psichedelica, i contorni degli oggetti si facevano meno netti e il sole sembrava un’unica sfera abbagliante dietro alla veranda spalancata.
Osservò con stupito interesse un ramo di ciliegio, una sottilissima linea marrone contornata da migliaia di fiorellini delicati, di un rosa pallido e femminile, che riusciva a fare capolino lì da lei grazie allo sbucare dal balcone. Possibile che quelle meraviglie potessero accettare di stare nella casa di un così sfrontato malfattore?
L’attimo di stordimento passò, lasciandola formicolante e ancora molto confusa. Avvertiva un vago torpore laddove si potevano vedere delle macchie violacee, segno del trascinamento violento a cui l’avevano sottoposta, mentre le era ancora difficile definire i bordi delle cose, persino di sé stessa.
I suoi sensi erano stati inebetiti da qualche farmaco, e l’effetto stava lentamente sparendo. Riusciva comunque a capire che la stanza dove si trovava possedeva un lusso che non aveva mai visto: le superfici di qualsiasi cosa erano lucidate al massimo, fino a slendere, i mobili erano del legno più pregiato ed elegante, i suppellettili possedevano una grazia unica nelle loro forme arabescate.
In fondo, poteva scorgere una toletta munita di migliaia di fermagli, pettinini, trucchi e gioielli, leggermente saparata dal resto grazie ad un paravento sottile. Sopra vi era un disegno bellissimo, che raffigurava un’elegante dama intenta a truccarsi gli occhi con un pennello sottile, nero quasi quanto i capelli sciolti e fluenti.
Si somigliavano molto: i tratti del viso erano regolari e levigati, la pelle bianchissima e la chioma nera come la pece, solo che la donna del disegno possedeva uno sguardo suadente, una sorta di maliziosa grazia. Un invito taciuto ad indugiare sul kimono elaborato e indossato con attenzione, la mano in una posa singolare, come a voler essere presa con la promessa di condurre in un mondo nuovo ed infinitamente più bello.
Rin ne rimase affascinata, catturata da quello sguardo tanto realistico, che pareva avere una vita propria. Poi tornò a concentrarsi su sé stessa, intimorita da quella silenziosa veglia.
Si rese conto di indossare solo una sottoveste leggera, quasi impalbabile, di pura seta; le stava scivolando contro la pelle seguendo ogni minimo mutare della brezza primaverile. Arrossì violentemente rendendosi conto che qualcuno doveva averla spogliata dei propri abiti, perché non aveva mai posseduto nulla del genere.
Quella stoffa era incredibilmente raffinata e preziosa, l’accarezzava morbidamente, ma non accettava di tenerla addosso: quello era di sicuro un oggetto del suo futuro marito, e lei non voleva nulla che provenisse da lui. D’altra parte non poteva nemmeno rimanere senza vestiti, perché si rese conto di non avere i propri a portata di mano. Rimpianse all’improvviso il tessuto ruvido del suo kimono arancione, che usava in qualsiasi occasione e aveva il pregio di non rovinarsi mai. Non così tanto da essere irreparabile, per lo meno.
Quel contatto sul corpo le faceva ribrezzo. Le braccia di Miyasama avrebbero fatto lo stesso effetto su di lei? O sarebbe stato rude e affrettato, come quel brigante, tanto tempo prima?
Non volle pensare al proprio passato, non in quel momento, anche perché la pena sarebbe stata leggermente più sopportabile con un marito gentile. Se proprio doveva sposarsi per forza (sempre ammesso che fossero riusciti a prenderla una volta scappata dal castello, come si accingeva a fare) che almeno il destino le desse un uomo assente e cortese, e non un ennesimo bruto.
Come se il letto potesse ferirla, si lasciò cadere sul pavimento, scivolando di lato con attenzione. Non voleva rimenere a contatto con ciò che lui poteva aver toccato, anche solo per un attimo.
Ora capiva perché le ragazzine al villaggio lo definivano ricchissimo: possedeva ogni sorta di ninnolo, e anche il più piccolo dettaglio costava il doppio di lei, se l‘avessero venduta come schiava. Anzi, quasi avrebbe preferito sottostare ad un padrone, che non ad un matrimonio forzato: ad un despota non importava che la propria serva fosse innamorata di lui, anzi, poteva anche avere altre relazioni e ad esso non sarebbe fregato nulla. Molto meglio, nel suo caso.
Non era in grado di stare in piedi, si sentiva troppo debole e spossata per provare anche solo a camminare, così si appoggiò sui propri palmi, e avanzò strisciando le ginocchia sul pavimento liscio.
Era una posizione umiliante, ma non voleva rischiare di cadere e perdere nuovamente conoscenza, anche perché avanzando in quel modo avrebbe potuto allontanarsi più facilmente. Ma come poteva sperare che una ragazza a gattoni con una vestaglia di seta superasse la sorveglianza e fuggisse illesa dal castello di un feudatario che avrebbe dovuto sposare?
Era un piano insensato, elaborato in una decina di secondi al massimo, ma la forza della disperazione la spinse a provare.
Arrivò davanti alla porta, ma scoprì con profondo sgomento che era bloccata dall’esterno: non poteva uscire. Si mise a graffiare i pannelli con mani disperate, ma essi non si spostavano di un solo millimetro, lasciandola inchiodata in quella camera senza vie d’uscita.
Un gemito straziato scappò dalla sua gola, mentre lasciava ricadere la testa contro il piano verticale, freddo e insofferente alla sua pena. Era ben saldo nella sua sede, e non sarebbe mica stata una ragazzina narcotizzata a spostarlo dalla sua immobilità.
Quando qualcuno sarebbe arrivato a schiudere l’uscio, sarebbe stata la sua fine. Non solo non avrebbe potuto mai più scappare, ma sarebbe stata ingabbiata da una catena molto più stretta di un paio di erbe mediche miscelate insieme.
Evidentemente le avevano fatto bere la pozione incriminata, perché cominciò a sentire sul palato un gusto amaro e sgradevole, che la fece accasciare ancora di più sè stessa. Anche se non serviva a nulla, le sue mani rimasero aggrappate al chiavistello serrato, mentre il resto del corpo ricadeva verso il basso, senza più forze.
La testa aveva ricominciato a dolerle e i muscoli non rispondevano più ai suoi comandi, creando una bizzarra tempesta dentro di lei. Sentiva che stava per svenire, perché le tenebre avevano comiciato ad addensarsi ai lati dei suoi occhi, singolari spettri che avrebbero popolato la sua vita fino alla fine.
Lanciò un’occhiata alla finestra, ma anch’essa era inaccessibile. Sarebbe caduta di sotto, spaccandosi qualcosa di sicuro e facendo infuriare Miyasama.
-Signor Sesshomaru… - singhiozzò, lasciando spazio alle lacrime. Le mancava da morire.
Era la nota più bruciante che le fosse mai capitato di ascoltare: doleva ogni singolo muscolo al solo pensarlo, i tessuti si infiammavano e il cuore si inabbissava fra delle costole che non volevano più costudirlo, stanche dei continui maltrattamenti a cui l’organo fragile le sottoponeva.
La sua assenza era come un pezzo di carne che le si fosse staccato dal corpo, con una copiosa quantità di sangue. C’era troppo spazio deserto dentro di lei; dov’era la stretta familiare, lo sguardo di ghiaccio, la dolcezza a malapena accennata?
La loro promessa d’amore non era perduta per sempre, perché lei avrebbe continuato a venerarlo fino alla fine dei suoi giorni, come se non potesse fare altro. Ogni singolo gesto, anche il semplice piangere come una ragazzina non tropo lucida, erano impregnati di amore per lui. Qualsiasi movenza, gesto, contrazione, spasmo, era costruito sul suo ricordo.
Quel sapore di neve le mancava tantissimo. Aveva bisogno di baciarlo, in quel preciso momento, per sentirlo vicino, ma non poteva appagare il suo desiderio. Anche se probabilmente non l’avrebbe rivisto mai più, si cullò nel pensiero che lui ci sarebbe stato per sempre nel suo cuore, pronto ad ospitarlo in qualsiasi momento. E che l’occasione per riassaporarlo ancora sulle proprie labbra sarebbe tornata.
Il pannello principale della porta si aprì di scatto, facendola sbilanciare. Non aveva forze nemmeno per stupirsi, si stava spegnendo come una candela, patetica e inerme, limitandosi ad appoggiarsi al pavimento con tutto il corpo.
Anche la sua caduta successe al rallentatore, come in un sogno, spargendo sul legno lucido i suoi lunghi capelli.
Una figura si accucciò vicino al suo viso, e due mani tiepide  (oh, come la mancava la morbidezza di quelle mani!) le presero le guance.
Una voce ovattata mormorò qualcosa, ma lei non sentì nulla: le sembrava di trovarsi sott’acqua, e osservare il mondo asciutto da sotto un lago, cercando di scorgere il cielo tremolante.
I connotati sfocati di quel viso non facevano presa sulla sua memoria, mentre le mani dagli zigomi scivolarono sulle spalle, scuotendola leggermente. Tutta la realtà fu scossa da un violento terremoto, che le regalò una fitta lancinante alla testa, improvvisa quanto un fulmine.
Pregò di scivolare presto nell’incoscienza, perché quegli scossoni, di fatto nemmeno troppo violenti, la stavano uccidendo lentamente. Non capiva più nulla e, se prima vedeva poco, ora era completamente cieca.
Quello che credeva di essere un salvatore la prese in braccio, lei trasformata in un peso morto, e la posò nel giaciglio tiepido di prima. Con sommo piacere, Rin sentì le coperte avvolgerla nuovamente, dandole un attimo di sollievo. Sentiva gli arti pesanti, come se avesse fatto una corsa sfrenata verso la cima della montagna più alta del mondo.
Non sapeva se stava per morire, ma se lo augurò: niente più dolori o sofferenze, niente rimpianti o rammarici; solo il vuoto. Lei ci era già stata, chissà come l’avrebbero accolta.
Prima di abbandonare la ragione, rivide il viso di Sesshomaru, ma solo una volta, destinato a scomparire subito dietro alle sue palpebre pesanti.
“Sii felice, mio principe…”
  

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Capitolo 18
*** Nuove conoscenze ***


Un delicato odore di thè.
Raggi caldi che le bagnavano il viso.
Un velo di coperte morbidamente appoggiato sul suo corpo.
Un cuscino in cui le pareva di sprofondare.
Una luce avvolgente che le si posava discretamente sulle palpebre pesanti.
Anche se avvertiva la bocca impastata e gli arti doloranti in più punti, Rin poteva dire di stare bene: si sentiva calma e rilassata, come se fosse protetta da ogni male.
Quella sensazione di essere amata e al sicuro si radicò in lei, mettendo radici nel suo animo più profondo, come un sortilegio. I ricordi riafforarno, ma non turbarono quella pace; anche se non era assolutamente intenzionata a farlo durare, decise di godersi appieno quell’istante di puro conforto.
Doveva essere stata incosciente a lungo, perché fuori il sole splendeva nel cielo, con singolare arroganza: l’avevano condotta al castello nella prima mattinata, e già mancavano poche ore alla sera.
Sentì distintamente il muoversi delle ali delle api, tozze creature che stavano svolgendo le loro segrete mansioni con la massima cura, appena fuori dalla veranda. Conosceva quello spazio, perché gli incubi che avevano appena smesso di attanagliarle l’intestino si erano tutti concentrati lì.
Lei, in bilico sul cornicione; lei, aggrappata ad una porta che non si sarebbe mai aperta per ospitare la sua libertà; la testa del Signor Sesshomaru, che la guardava con occhi sbarrati e vitrei impiccata ad un paletto fuori dalla sua finestra, la bocca sgomenta e scomposta, migliaia di piccole abrasioni che sfregiavano la sua compatezza.
E, sopra tutte queste immagini terrificanti, stava una figura ammantata di tenebra, sul dorso di un destriero più nero della notte, dal sorriso maligno e la spada insaguinata retta con orgoglio nella mano destra. Quel ghigno malefico e portatore di morte veniva in parte celato da un corpicato elegante, tutto sgualcito dalla battaglia appena compiuta, con conseguente strage.
Nell’incubo, non riusciva né a muoversi né a parlare, schiacciata com’era da un dolore terribile e lacerante, molto più corrosivo di una ferita di spada. Sesshomaru non avrebbe mai più potuto proteggerla, ma solo lasciare ondeggiare i capelli fragili e sottili, come le promesse di un moribondo, dal taglio reso irregolare da una determinata lama che si era abbattuta sul suo collo, stroncandone l’esistenza in un solo momento.
La persona più importante della sua vita, la guardava, troppo sorpresa di essere stata sconfitta da un uomo qualunque a cavallo per consolarla. L’oppressione alle costole era diventata all’improvviso troppo pesante, e avrebbe voluto urlare, ma la lacrime creavano una solida barriera alla base della sua gola, e impedivano la fuoriuscita di qualsiasi gemito.
Non poteva credere che il suo principe fosse perduto per sempre. E, alla spasmodica ricerca di un perché per rendere quel dolore viscerale più sopportabile, era arrivata la ragione, sussurrandole che era solo un sogno, e non aveva senso disperarsi per una cosa che non era accaduta.
“Sesshomaru è potente, non si farà mai sconfiggere da un uomo qualsiasi” aveva pensato, poi. E tutto era evaporato, come una sgradevole nube temporalesca che se ne va facendo tornare il sole.
Anche se era consapevole che non l’avrebbe più rivisto, e di certo non gioiva per questo, era confortata dal fatto che almeno lui avrebbe potuto continuare a portare avanti le proprie ambizioni, ed era questa la parte più importante. Per sé stessa non le importava: la felicità le era sempre stata proposta come miraggio, e l’aveva vissuta, così intensamente da potersene colmare per tutto il resto della sua esistenza. Lui le aveva donato una gioia così grande da non essere quantificabile a parole, e le bastava.
Sapeva di non poter pretendere altro, e si lasciava ammaliare da quel dolcissimo ricordo, che ora sembrava agrodolce contro la propria lingua.
Ma quelle maledette lacrime, perché dovevano venire proprio nel momento di ritrovata serenità, quando si era arresa? Bruciavano, contro la sua pelle; una processione di puro acido, che le stava martoriando le ossa, e sotto di esse i muscoli, lasciando solo…fumo.
Il mattone incastratosi nel suo petto parve sgretolarsi in minima parte, ma dovette boccheggiare per espellere qualche frammento di pura afflizione. Nella sua vita aveva tanto amato e tanto sofferto, ma non temeva né altro dolore, né la morte, anzi, vi guardava quasi con insofferenza, perché nulla poteva essere peggio della lontananza con Sesshomaru.
Chissà come avrebbe ripreso lui la sua nuova vita, senza di lei…l’avrebbe ricordata?
Vedendo dei fiori, avrebbe pensato alle ghirlande intrise di affetto che quella bambina in kimono arancione gli porgeva ridendo?
Sentendo una risata di donna, avrebbe mai pensato a quella che lei gli riservava sempre, come dono dopo un lungo viaggio?
Cavalcando Ah-Un, avrebbe mai più ricordato quante volte quel bizzarro demone l’aveva accompagnata nei viaggi?
-Perché piangete? – chiese una voce tranquilla, al suo fianco.
Rin sussultò, mentre il filo dei suoi pensieri veniva bruscamente spezzato: pensava di essere sola, come la prima volta che si era svegliata. In effetti, era perfettamente sensato che le avessero imposto una guardia, dal momento che aveva aggirato le droghe con cui l’avevano sedata e aveva rischiato di farsi del male.
Quello, probabilmente, era lo stesso che l’aveva riportata al suo letto, per farla riposare.
Fece un enorme sforzo di volontà per fermare il flusso di lacrime, ormai diventato costante, e muovere una mano per eliminarne le tracce fu ancor più arduo. Sembrava essere fatta di legno, rigido e troppo stagionato.
-Niente – gracchiò indispettita, per voltare il capo dall’altra parte. Anche se aveva ancora gli occhi chiusi, e non aveva nessuna intenzione di aprirli, non voleva che nemmeno il riflesso di quella figura si specchiasse su di lei, come se potesse nuocerle anche stando semplicemente seduto lì accanto al futon.
-Dovreste riposarvi – disse allora l’altro, gentilmente. Aveva un tono pacato e leggero nel pronunciare le parole, e quell’inflessione riassumeva perfettamente l’aria che quel posto trasudava, ovvero di una tranquilla quotidianità.
-Non ne avrei bisogno se non mi aveste drogato – ribadì Rin. Voleva chiarire a sé stessa che, per quanto cortese, era stato lo stesso molto sgarbato.
Il suono di una risata appena accennata la sorprese, soprattutto per la grazia con cui scaturì da quel corpo misterioso: assomigliava al volo di una libellula. –Perdonatemi se vi contraddico, ma quello era solo per non farvi avvertire il dolore alle ferite; stavate male, e tutto per colpa di quei bruti che vi hanno trascinata qui -. Il tono si indurì appena, sdegnato.
Cosa significava tutto ciò?
-Lo hanno fatto sotto esplicito ordine – gli ricordò.
-L’esplicito ordine diceva di non usare la violenza, signorina. E loro ne hanno attinto con un po’ troppa libertà, mi sembra.
Piano, schiuse le palpebre e, nella luce quasi accecante, riuscì ad intravedere delle macchie violacee attorno ai polsi, lunghi segni striati che evidenziavano la forma di dita rozzamente sbozzate sulle sue vene. Evidentemente avevano stretto molto più di quel pensasse, e stava cominciando a bruciare.
Lui dovette accorgersi del movimento sotto le coperte, ma non disse nulla. Dal suono, le sembrò che stesse sorseggiando il proprio thè, sempre con molta tranquillità.
A lei stavano saltando i nervi, uno per uno, nonostante le facesse male anche solo muoversi: come faceva quel tizio ad ostentare una così grande padronanza di sé dopo quello che gli era stato ordinato di fare? Insomma, anche se non sapeva il suo ruolo preciso dentro a quel castello infernale, era stato sicuramente ingiusto con lei, e questo era quanto.
Era vero che si era comportato in maniera lodevole, senza approfittarsi della sua parziale nudità e lasciandola riposare, ma stava comunque trattando con una persona lì contro la propria volontà. Se fosse stata davvero una brava persona, l’avrebbe riaccompagnata al villaggio.
Lentamente, si voltò: dal momento che era la sua unica compagnia e la solitudine la stava divorando dentro, che almeno lo guardasse in faccia; magari lo conosceva persino, anche se non aveva mai sentito un timbro tanto aristocratico e ben educato.
Rimase molto sorpresa da ciò che vide, e quasi credette di star immaginando tutto. In fondo, poteva benissimo essere di nuovo sotto l’effetto di droghe, per quel che ne sapeva.
Il suo interlocutore aveva la pelle bianchissima e levigata, senza la minima piega, tanto da sembrare quasi una bambola delicata. I tratti del viso erano estramente virili, anche se si notava una grazia quasi femminea, soprattutto nel naso dritto e sottile e nel taglio degli occhi neri, intensi. Le iridi formavano un disco scuro quasi quanto la pupilla, mentre le labbra erano serenamente stese in un’espressione tranquilla. Non la stava guardando, e ciò le permetteva di scorgerne il profilo regolare, arricchito da dei capelli lunghissimi, insoliti per un uomo. Lei era abituata a vedere mariti e ragazzi con capigliature tipicamente femminili ma, in quei casi, inconfondibilmente maschili: ad esempio Sesshomaru, e Inuyasha, avevano dei capelli meravigliosi, anche se quelli del suo principe erano assolutamente incantevoli.
Quel particolare taglio, però, la lasciò molto sorpresa. Un’unica massa compatta, così morbida e fluente, arrivava a coprire quasi tutta la schiena, e seguiva con docile disciplina la postura delle spalle erette, composte. Il colore era un singolare mogano, schiarito da alcuni riflessi molto simili al miele più denso. Sembrava quasi una corona luminosa, che fungeva anche da mantello una volta scesa sul collo.
Ne rimase incantata, anche se il paragone con il proprio principe demoniaco non tardò ad arrivare e a lasciarla delusa; naturalmente era un uomo bellissimo, giovane e aitante, ma non poteva esistere nessun confronto.
Mancavano gli stemmi marchiati sulla pelle nivea, la luna crescente sulla fronte, l’aria principesca e invincibile. Dettagli che non potevano essere trascurati.
Il giovane non si volse, nemmeno sotto quello sguardo attento. –Vi sentite meglio?
-Un poco, grazie – sussurrò appena. Doveva catturare la sua fiducia, e proprio non se la sentiva di mettersi a bisticciare.
-Gradite del thè? – chiese poi. Lei scosse piano la testa, e lui si voltò appena a guardarla, per fissarla fugacemente e tornando a concentrarsi sulla parete.
-Le somigliate terribilmente – disse lui ad un tratto, dopo attimi di spiacevole silenzio, che nessuno dei due sapeva come riempire.
-Cosa intendete?
Lui si prese un istante per rispondere, continuando a concentrarsi su una parte della stanza che lei non vedeva. Non abbandonò mai la propria espressione tranquilla, semplicemente una nota amara prese possesso della sua voce, rendendola leggermente più grave, in un attimo soltanto. –Alla donna sul paravento – si limitò a dire, facendole cenno col mentoper indicare a cosa si riferisse.
Rin ricordò perfettamente l’arredo che tanto l’aveva colpita, prima: un brivido la percorse pensando a quello sguardo malizioso che ancora li stava vegliando.
-Lei è molto più affascinante di me – rispose, sospirando. Avrebbe voluto solo sprofondare in quel letto e morirci dentro, il più in fretta possibile. Odiava trovarsi lì, fingere di stare bene quando si stava invece sgretolando lentamente oppure dover intraprendere una conversazione con un uomo che non aveva mai visto prima.
-Mi permetto di dissentire – disse lui, sorridendole leggermente. Fu la prima volta in cui la guardò veramente, e fu davvero strano, perché era incredibilmente bello, ma non le fece nessun effetto.
Cominciò a chiedersi che viso avesse suo marito: forse era calvo e gobbo, anche perché visto da così lontano non avrebbe saputo riconoscerlo nemmeno se la scelta fosse stata tra un vecchietto senza una gamba o una giovane fanciulla incinta.
Le guance si imporporarono. –Non sarà con i complimenti che renderete la mia prigionia più piacevole, mi dispiace per voi – chiarì, in un sussurro.
Il viso dell’altro fu attraversato da un lampo di dolore. –Prigionia… - sussurrò addolorato, come se fosse stato colpito duramente.
-Voi come chiamereste un posto dove non vorreste essere ma che diventerà la vostra nuova casa? – mormorò lei di rimando, in tono solo molto triste.
Lui voltò di nuovo il viso, tornando ad osservare i mobili eleganti che vivevano nella stanza. –Perché un matrimonio funzioni, basta che almeno uno dei due ami l’altro – recitò, quasi meccanicamente, come se si stesse convincendo da solo.
Un pallido e stanco sorriso affiorò sulle labbra stanche di Rin: -Non so chi ve l’ha insegnato, ma non è affatto vero.
L’altro rimase in silenzio. –Anche se quest’amore ha colpito all’improvviso, quando tutto sembrava perso, e ha scavato un solco che difficilmente sarà guaribile?
La ragazza non ebbe il coraggio di annuire, vedendo quella creatura tanto straziata dentro. Un po’ si assomigliavano, loro due: entrambi legati ad un proprio, personale trauma, un’esistenza infelice e vissuta a tratti non troppo duraturi di evanescente pace. Questo non giustificava affatto ciò che stava accadendo in quel momento, ma lei si sentì un po’ più vicina a lui.
-Vedete, io non conosco il viso di mio marito. Il suono della sua voce. L’odore dei suoi capelli. La sua risata. A lui non ho mai donato dei fiori, non so quale kimono preferisca indossare e se passeggiare in inverno gli piaccia ugualmente; sono dettagli che non possono essere trascurati, per quanto insignificanti, e io dovrò passare tutta la mia esistenza a scoprirli, senza sapere se le risposte mi saranno gradite o meno. Spero intendiate.
L’altro annuì, piano, come se fosse stato sconfitto da quelle parole, intrise di verità.
Dal momento che la tristezza si era precisamente disegnata su quel volto, Rin cercò di farlo sentire almeno un po’ meglio, prevedendo che quelle sarebbero state le uniche cortesie che avrebbe ricevuto. –Come vi chiamate? Io sono Rin.
Lui, invece che essere sollevato, fece il sorriso più solo e devastante che lei avesse mai visto.
E le parole che pronunciò la distrussero definitivamente: -Mi chiamo Hakihito. Hakihito Miyasama.  

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Capitolo 19
*** Incontri ufficiali ***


La dimora dei Miyasama si stagliava ai piedi di una montagna che cingeva, con i propri versanti, tutto il villaggio e alcuni centri limitrofi.
Era una costruzione imponente, edificata con i materiali più pregiati, il milglior legno disponibile sul mercato e anche il più costoso. Il fior fiore degli architetti si era concentrato su quei progetti titanici, armonizzando l’effetto con diverse verande, tettoie, cortili interni e lunghi porticati esterni dove poter passeggiare al riparo dal sole.
Kunieko, che li aveva seguiti, guardava affascinata come una bambina tutta la struttura, il tetto merlettato dai bordi pungenti e le tegole scure, ognuna più lucida della precedente in file ordinate.
La sorveglianza era ferrea, e dovettero presentare la pergamena enigmatica a cinque guardie lungo il muro di protezione, una barriera arricchita da sigilli magici celati nelle cavità dei mattoni. Inuyasha era rimasto un po’ infastidito da quell’aura, e sentiva Tessaiga agitarsi al suo fianco; a poco serviva che tenesse premuta la mano sull’elsa, come se fosse pronto a sfoderarla, perché comunque non glielo lasciavano fare per questioni di sicurezza.
Dal momento che la sacerdotessa veniva esplicitamente invitata nella tenuta, le avevano concesso di tenere l’arco in spalla, a patto che le frecce venissero legate fra loro da una corda, dicevano, esorcizzante. Se mai avesse voluto nuocere a qualcuno, nella proprietà, si sarebbe scontrata con una scarica elettrica che l’avrebbe momentaneamente stordita.
Lui trovava ridicolo richiederla al palazzo senza nemmeno specificare il motivo e imporle della condizioni, visto tutte le mansioni che la ragazza aveva dovuto rimandare per assistere a quella pagliacciata. E, se non avesse insistito con le unghie e con i denti, persino Tessaiga sarebbe dovuta giacere nel magazzino all’ingresso dell’enorme cancello.
Kagome era davvero furba: dopo la persiquisizione, per quanto umiliante,aveva estratto personalmente la spada per mostrarne il filo rovinato che non poteva nuocere a nessuno. Sapeva bene che, se fosse stato il ragazzo a mostrarla alle guardie, l’avrebbe subito trasformata con il proprio tocco in una letale ascia affilata dal profilo tutt’altro che innocuo.
Nonostante nessun’altra arma fosse stata ritrovata, non sembravano ancora del tutto convinti. Avevano affibbiato al gruppo un loro uomo, vestito come tutti con un kimono blu scuro con lo stemma del casato ricamato sull’obi, indubbiamente costoso e della seta più pura.
“Però, ne ha questo di soldi da buttare”, pensava Inuyasha. Non era mai stato il tipo da fare certi ragionamenti, ma la ricchezza era messa così in bella mostra che era impossibile rimanere indifferenti. Ogni singola persona o oggetto era abbigliata e arricchita da ninnoli, vestiti, arabeschi assolutamente raffinati e ricercati. Anche le cameriere possedevano abiti invidiabili, da semplici principesse, e ognuna sfoggiava acconciature alla moda fra le signore nobili, sembrando un esercito di gente ricca e straricca.
Forse era su questo che si fondava il timore che tutti avevano dei Miyasama: con una così facoltosa proprietà era impossibile non rimanere stregati.
Quello smidollato che li stava tenendo d’occhio li condusse attraverso diversi giardini perimetrati da eleganti stanze lucidate, che affascinarono Kagome a tal punto da zittirla definitivamente. Lui, quando nessuno lo guardava, si concentrava divertito sulla sua espressione a bocca aperta, che rimaneva ammaliata da ogni dettaglio, per quanto insignificante. Un paio di volte, quando delle serve di passaggio si inchinavano rispettose e civettuole ai loro piedi, l’aveva vista sorridere imbarazzata e sistemarsi qualche ciocca dietro l’orecchio, a disagio.
Forse di sentiva inferiore a quelle donne bellissime che la circondavano. Se avesse potuto, lui l’avrebbe presa fra le braccia, sussurrandole che era la più affascinante di tutte: brillava luminosa anche nelle umili vesti di una donna devota alla castità.
La sua bocca rosea, il collo da cigno, gli arti sottili, le gambe snelle, la pelle di porcellana…la regina di tutte le dee, scesa sulla terra per un puro favore divino.
Distrattamente, inciampò in Kunieko, che aveva gli occhi che luccicavano.
-E sta attenta! – sbottò contrariato, per nascondere l’imbarazzo. Kagome non si era accorta di nulla.
La ragazza lo guardò stranita: aveva abbandonato per un momento la sua insolenza battagliera che, ogni volta che si parlavano, li portava a bisticciare. –Come si fa a non distrarsi in mezzo a queste meraviglie?
Lui decise di non rispondere, anche perché l’unica meraviglia che lo stregava completamente si trovava ormai sul soppalco di legno, pronta ad attraversare un’altra stanza.
Decise di seguirla senza fiatare: quel moscone di una mezza calzetta, che in teoria avrebbe dovuto fare da semplice guida, doveva avere più o meno l’età della ragazza, ma continuava a lanciarle occhiate che non gli piacevano per nulla.
Era una bella donna, innegabilmente, e sapere per certo di non essere l’unico a pensarlo gli fece male. Un’improvvisa paura di perderla lo assalì, ma la rabbia prevalse. Sapeva benissimo che Kagome non si sarebbe fatta ingannare da un bamboccio imbellettato, zelante e privo di qualsivoglia qualità, e quel comportamento viscido gli stava dando sul serio sui nervi.
Insomma, che cavolo, era pur sempre una sacerdotessa, giusto? Anche se era il primo a fare pensieri discutibili su di lei, almeno aveva una motivazione valida, ovvero l’amava dopo averla avuta affianco per quasi due anni. Quello lì stava dimostrando di non avere nessun rispetto per le figure religiose, facendo scivolare un po’ troppo lo sguardo sul fondoschiena sodo e così…
-Inuyasha, tutto ok? – chiese preoccupata Kagome.
Lui avvampò ancora di più, annuendole soltanto. Ripresero la marcia, e il soldato non si accorse di nulla; possibile che si potesse essere tanto stupidi? Doveva mantenera un’aria di rispettabilità, accidenti!
Si trovava pur sempre in luogo che manteneva più di un mistero sentro di sé, e chissà cosa sarebbe potuto succedere; quella convocazione improvvisa l’aveva seccato non solo per aver interrotto il loro momento di svago, ma anche perché quel tono urgente non gli ispirava grande fiducia.
Non riusciva a capire cosa volesse un così ricco casato da Kagome, la ragazza disponibile e gentile con tutti che lavorava per il villaggio e viveva sola in una piccola capanna. Insomma, se avevano bisogno di un esorcismo avrebbero sicuramente chiamato un rinomato sacerdote, ma non di certo una giovane fanciulla.
Era infatti nell’indole delle persone ricche disprezzare il lavoro degli umili, aggiungendo ricchezze a coloro che già ne possedevano. Volevano il meglio, anche se delle volte il compito veniva svolto meglio e anche meno dispendiosamente anche da persone poco famose.
Sapeva bene quando ingiusto fosse che per certe cose venissero ingaggiati solo gli appartenenti ad un gruppo ristretto: ne aveva un chiaro esempio con Miroku.
L’uomo, dovendo mantenere una famiglia abbastanza allargata, aveva bisogno di compiere spesso anche lunghi viaggi per svolgere questa o l’altra mansione e racimolare un po’ di denaro per vivere. Inuyasha lo accompagnava, e lo vedeva sempre più stanco e distrutto, come se non si sentisse uomo abbastanza; poteva capirlo, perché il ragionamento che fosse il marito a provvedere ai bisogni di casa era perfettamente sensato.
Poche monete in cambio di giorni di pellegrinaggio erano una miseria, soprattutto perchè richiedevano abbastanza energie e una buona dose di fatica. Naturalmente coloro che li incaricavano facevano ciò che era nelle loro possibilità, trattandosi molto spesso di capo-villaggio molto poveri. Però, stare a lungo lontano dagli affetti lo provava moltissimo.
Amava molto i figli e Sango, nonostane il mezzodemone fosse il primo che, inizialmente, aveva fortemente dubitato della loro unione. Certo, i bisticci c’erano sempre, ma una volta gli aveva confidato che anche quelli contribuivano a farlo sentire l’uomo più fortunato del mondo.
Certe volte, Inuyasha lo invidiava molto. Insomma, una casa, una famiglia, un focolare a cui tornare…erano elementi essenziali per ognuno, soprattutto per lui, che non li aveva mai sperimentati davvero.
Sua madre Izayoi, ovviamente, non gli aveva mai fatto mancare nulla, essendo una principessa, ma delle volte si chiedeva com’era davvero condividere un tetto costruito personalmente con la propria moglie, veder giocare i bambini e godersi la tranquillità. Spesso si era convinto che questa sua impossibilità ad esserecompletamente felice dipendesse dalla sua condizione di essere a metà, né l’uno, né l’altro.
Se fosse stato del tutto umano, una vita da contadino l’avrebbe assorbito in ogni momento; le fatiche di giorno e la pace la sera. Non sarebbe dovuto sottostare a più regole e oneri di quanti già non ne avesse e, se fosse stato nei suoi desideri, Kagome sarebbe diventata sua moglie.
Completamente demone, invece, sarebbe stata una condizione molto più turbolenta, costellata da successi militari e conflitti da cui uscire vincitore con esseri inferiori, l’arroganza tipica di chi è invincibile l’avrebbe accompagnato per sempre.
Un periodo di vita infinitamente lungo da sopportare in completa solitudine, tanto da fargli quasi preferire la monotonia di una breve vita umana, vissuta centinaia di volte più intensamente.
Se fosse nato però come una delle due cose, sicuramente non avrebbe conosciuto la fantastica ragazza che ora gli camminava davanti; niente Sfera, niente Naraku, niente gruppo di compagni, niente Kagome. Ci sarebbe stato un altro Inuyasha, forse più degno di lui, e ne avrebbe seguito le vicende con distacco, forse subendo addirittura l’ira di qualche entità di passaggio, o militari in congedo che si davano alla razzia.
Quindi, in definitiva, si trovava sempre all’inizio del cerchio da cui partiva; quasi cominciava a pensare che era meglio rimanere così com’era, un miscuglio fra le due cose, un esperimento forse non troppo riuscito di un amore che non era potuto sopravvivere.
-Siamo quasi arrivati –annunciò discretamente il ragazzo, mentre li conduceva nell’intestino del castello.
“Meglio, così almeno la smetti di fissarle il sedere, maledetto bastardo”, pensò truce, lanciandogli un’occhiataccia che, anche se si era scontrata con la sua schiena, aveva tutte le carte in regola per fare paura lo stesso.
-Mi spieghi che cos’hai? – chiese Kagome, preoccupata. Non si era accorto che l’aveva affiancato e che, nel frattempo, aveva notato il lampo d’odio che era saettato dalle sue iridi.
-Non ho niente – rispose, scorbutico. In realtà, l’aveva sorpreso e fatto sentire un idiota.
La vide assumere un’espressione pensierosa, mentre ignorava la sua uscita poco elegante come risposta ad una domanda gentile; lasciava vagare lo sguardo appesantito da chissà quale riflessione sulle superfici pulite che li circondavano e abbassava distrattamente il capo se qualcuno si inchinava.
Lui non volle chiedere cosa l’angustiasse, e non solo perché la sua espressione era assolutamente sublime, ma anche non era nella sua natura esternare quello che pensava. Sarebbe sembrato troppo insolito, ma era solo un giustificazione per nascondere la sua codardia. In realtà, aveva paura di chiederle le sue sensazioni, ma soprattutto perchè non lo aveva reso subito partecipe, come invece faceva di solito.
Stava morendo dalla curiosità e dalla pena, ma l’orgoglio, come sempre, aveva stretto le sue catene sulla sua lingua, impedendogli di farle una qualsiasi domanda. Si limitava a camminarle a fianco, beandosi della sua presenza e anche mantenendo uno sguardo torvo mentre si arrovellava su cosa le premeva.
Nel frattempo erano entrati in un’ala del castello abbastanza diversa dal resto: c’erano lunghi tami più sviluppati in lunghezza che in larghezza, e spaventosi drappeggi scuri scendevano come lacrime d’inchistro dalle pareti; non c’erano mobili, e le donne che passavano loro accanto tenevano la testa bassa ed erano velate, con lunghi kimono neri privi di ricami.
La loro guardia abbassò la voce, vedendo bene come stessero osservando straniti la sala gigantesca, come tutto in quella proprietà, che sembrava sconfinata: -Vi pregherei di fare attenzione, per favore. Questa parte del palazzo è stata costruita per celebrare perennemente il lutto per la perdita della venerabile Signora Madre. Seguitemi, siamo molto vicini alla destinazione.
Detto ciò, proseguì nella propria camminata cadenzata alla testa del gruppo.
Kagome gli si fece leggermente più vicina, causandogli un brivido: con le dita scosse appena la stoffa della sua manica, attirandone l’attenzione, mentre usava l’altra mano per corpire discretamente la bocca. Evidentemente non voleva che nessun altro sentisse quello che aveva da dirgli, e lui si sentì stupidamente fiero, mentre si abbassava leggermente verso di lei per captarne i sussurri.
-Questo Miyasama si sta facendo sempre più strano…cosa credi possano volere da me?
-Non ne ho assolutamente idea – bisbigliò lui di rimando. –Ma, in qualsiasi caso, ho Tessaiga dalla mia parte.
Lei lo guardò, sconcertata, negli occhi, muovendo così improvvisamente la testa da trovarsi ad un palmo dalla sua bocca. –Inuyasha, non vorrai mica fare una strage! – sussurrò concitata.
-Ma va! Solo, se ce ne fosse bisogno, taglierò qualche braccio, tutto qui – rispose, per celare l’imbarazzo. Il suo cuore aveva perso un battito quando si era voltata, e il profumo dei suoi capelli lo stava ancora ammaliando. Con la coda dell’occhio, vide Kunieko inchinarsi di fronte ad una serva, e riprendere a camminare cercando di stare al passo con loro. Sembrava non aver visto nulla di equivoco.
-Tu non farai nulla del genere – chiarì perentoria, stringendogli l’avambraccio con risolute dita sottili, che non amettevano repliche. Quando faceva così, con quel faccino corrucciato che la faceva sembrare una tenera caricatura di sé stessa, gli veniva quasi da ridere, ma il tono faceva proprio paura. Sembrava quasi che uno spirito si fosse impossessato della Kagome di sempre, rendendola autoritaria e incredibilmente cocciuta.
Inoltre, con uno sguardo così magnetico, stava seriamente pensando di chinarsi del tutto e baciarla, fregandosene del lutto perenne, del pubblico, della guardia e della ragazza che li stava guardando.
Sapeva bene quanto fosse contro le regole, però non poteva nemmeno rimanere là inchiodato a fissarla come un pesce lesso, quindi si sottrasse bruscamente facendo scivolare via il braccio e sibilando un “non rompere” infastidito, che la fece staccare e chiarire il concetto con un’altra occhiata.
Sdegnata, trotterellò davanti per fargli dispetto, e si mise a confabulare con quel dannatissimo soldato, come se davvero questi trucchetti facessero una presa qualsiasi su di lui. In effetti, gli dava più che mai fastidio, anche se sicuramente stava parlando di qualcosa di irrilevante e senza nessun tipo di secondo fine.
Ma il potere che aveva su di lui, lo sguardo lascivo della guardia che ora le stava anche ammirando la scollatura e il fatto che le avesse risposto male da vero idiota resero determinante la sua ira, facendola sgorgare tutta di colpo. Avrebbe solo voluto prendere quel tipo per il collo e sbatterlo contro il muro, ma si trattenne, lasciando fumare le orecchie e saettando frustrazione dagli occhi gialli, in cui le pupille si erano già ristrette.
-Ecco – annunciò l’insopportabile ragazzino, -siamo giunti a destinazione.
Si inchinò rispettosamente al gruppetto, poi scivolò via, la spada al fianco, per assimilarsi ai corridoi appena percorsi e sparire assieme a mille altre figure.
Quella parte era ancora più diversa da quelle appena viste. I mobili essenziali, pochi vassoi riposti sul pavimento in legno, una stanza semicircolare e delle figure che, sedute su dei morbidi cuscini, si facevano tranquillamente servire del thè.
Un uomo abbastanza anziano, con una folta barbetta a punta, fece cenno di avvicinarsi al loro cospetto, facendoli obbedire sotto il comando di un sorriso implacabile. Mentre prendevano posto, Inuyasha osservò che erano tutti uomini di circa mezz’età, vestiti con abiti ovviamente eleganti ma dalla foggia essenziale, quasi militaresca. Complicati copricapi celavano la sommità delle loro teste, e alcuni portavano una barba curata come colui che ora stava per prendere la parola.
-Benvenuta, venerabile sacerdotessa, e anche a voi, fedeli compagni -. Non sembrò fare una piega vedendo le orecchie inconfondibili di Inuyasha, e i capelli argentei posati con grazia sulla sua schiena robusta e forgiata dalle battaglie. Non si soffermò nemmeno sugli umili vestiti di Kunieko, la quale stava arrossendo ancora impegnata in un profondo inchino. –Lasciate che mi presenti, prego. Il mio nome è Shinosuke Oshinawa, generale del cinquantesimo reggimento a nord della nobile famiglia Miyasama, e sono stato io a richiedere qui la vostra presenza, venerabile sacerdotessa Kagome.
Il mezzo-demone fu percorso da un brivido quando la voce profonda tornò a concentarsi esclusivamente su di lei. Tutti gli altri assistevano, e per il momento non dicevano nulla.
La fanciulla chinò il capo. –Sono onorata, Nobile Generale, dico davvero. Sono solo un’umile sacerdotessa di un piccolo vilaggio, ma mi piacerebbe tanto sapere il motivo della mia presenza nella nobile dimora della Famiglia Miyasama.
L’altro fu evidentemente colpito da tanta educazione, e continuò compiaciuto: -Vi abbiamo convocato, io e i miei colleghi, per una felice circostanza, ovvero il matrimonio del nostro Nobile Signore, Hakihito Miyasama. La fortunata promessa sposa viene dal vostro stesso villaggio, e l’amore reciproco dei due giovani li ha subito colpiti entrambi; sarebbe davvero un gesto cortese quello di officiare al rito, nella vostra infinita grazia.
-Perdonatemi – disse Kagome, abbassando leggermente il capo, sorpresa, -ma non credo di essere degna. Non ho mai officiato un unione tanto sacra.
Inuyasha era invece sconvolto: che novità era mai quella? Il principe doveva essere davvero uno storpio per accettare una moglie da quelle quattro capanne. Le ragazze che vi vivevano, infatti, sarebbero difficilmente potute passare per nobili.
-Comprendo – disse il Generale. Ma non demorse: -Tuttavia vi chiediamo lo stesso di fare questo favore per noi. Nel vostro piccolo siete molto rispettata dalla comunità, e le persone del vostro villaggio si fidano di voi. Questo vi rende un’officiante più che adatta, venerabile sacerdotessa.
-Se allora serve alla gioia del vostro padrone, non è mio desiderio sottrarmi, in quanto la mia decisione non vuole in alcun modo compromettere l’amore fra due giovani anime.
Tutti, nella sala, la guardarono; Inuyasha con curiosità. Kunieko con la solita aria spaurita di quando si trovava in un ambiente che non conosceva. Il Generale con ammirazione. La commissione lì riunita con piacevole stupore.
-Saggia decisione per una ragazza nel fiore degli anni, avete tutto il mio rispetto. Mentre attendete la lieta data, potete soggiornare al castello, dove vi illustreranno il vostro alloggio assieme ai compagni. Se lo desiderate, potete congedarvi.
Kagome chinò rispettosamente il capo, un’ennesima volta. –Mi è concessa una domanda?
-Naturalmente.
-Ecco… - chiese titubante, -…posso sapere il nome della sposa?
Il Generale rivolse lo sguardo ad un uomo dietro di lui, per poi riappuntare il suo affascinante sorriso di uomo maturo su di lei. Un unico luccichio di denti, un’espressione interessata e una distaccata cortesia: -Mi dicono che si chiama Rin.
  

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Capitolo 20
*** Sesshomaru-sama ***


NOTA DELL’AUTRICE: Ciao splendori! :3
Questo capitolo sarà un po’ più cruento del solito, ma non volevo cambiare rating solo per un episodio, così vi avviso qui sopra ;)
Buona lettura!
 
 
Gli occhi si sporcarono di un bagliore rosso, che si stagliò come una promessa di morte nel bosco immerso nella notte.
Le tenebre più fitte avevano avvolto come un sudario i rami intricati dei pini e degli arbusti, rendendoli simili a scheletri fruscianti. L’erba, illuminata a chiazze dalla luce lunare, sembrava attraversata da luccichii grigi, e i rametti secchi scricchiolavano sinistramente al passaggio di una corsa frenetica.
L’immondo rumore di un fiato ansante rompeva il religioso silenzio di una notte di luna piena; il cielo, immensa distesa di velluto scuro e denso, era squarciato da una sfera luminosa ed incandescente, quasi più del sole che era protagonista di tutte le preghiere degli uomini.
I passi pesanti, intervallati da gemiti esausti, facevano in modo che il cacciatore potesse distintamente sentire l’andamento di quell’ inutile fuga, attraverso il sentiero alberato ed infinito.
Sesshomaru non si prese nemmeno il disturbo di annusare l’aria, cominciando a camminare con incedere aggraziato fra i tronchi, senza produrre il minimo suono, lasciando che il gelo lo accogliesse nelle proprie braccia e lo rendesse parte di sé.
Le sue mani di demone sembravano volersi staccare dalla propria sede, e tremavano tant’era il desiderio di dilaniare e distruggere con i propri artigli. L’espressione altera mutò solo per condersi un sorriso, terribile e funesto: se la sua vittima l’avesse visto, sarebbe subito morta stecchita. Senza che si potesse rendere utile.
I denti biancheggiavano dietro alle labbra contratte, di un viola accecante, le guance tirate e gli occhi folli: le pupille si erano ridotte fino a sembrare solo un punto perso in un mare color ambra intenso, attraversata da sprazzi rossastri. Il suo istinto di demone premeva prepotente contro lo sterno, combattendo per uscire.
I contorni del proprio corpo prudevano per la voglia di distorcersi, e le ossa lo infastidivano per il desiderio di deformarsi e lasciarsi condurre dalla trasformazione demoniaca che l’avrebbe rilassato fino a far scatenare nel più sublime dei modi la propria ira.
Ma non poteva lasciarlo andare, pensò stringendo le mani fino a far sbiancare ancor di più le nocche irrigidite, doveva trattenersi. Pregustò silenziosamente il sapore del sangue contro le proprie zanne, che già si delineavano aguzze contro il labbro inferiore. Quelle erano state impossibili da frenare.
Il suo incedere lento e cadenzato subì un tremito quando avvertì un tonfo, poco distante. La sua patetica preda era caduta a terra e ora lottava contro una forza invisibile per rialzarsi in piedi.
Basta, andava bene così: era impaurito abbastanza. Adesso bisognava passare ai fatti.
Sentì il confortante odore di sangue umano, volgare e sgradevole, riempire l’aria prega del profumo del bosco. Evidentemente, quel verme da quattro soldi doveva essersi rotto qualche osso, perché mugolava inchiodato a terra, emanando un’olezzo che risvegliò immediatamente i suoi istinti più discutibili. Gli umani…fragili come bambole e ancora più inutili.
Le viscere si compressero in un’unica contrazione improvvisa. Da quanto non mangiava? Mesi, forse. Era sempre stato allenato a trattenere il proprio appettito, soprattutto per evitare di divorare Rin, per altro fonte di carne tenera a portata di mano, almeno per i primi tempi.
Ma ora, con quell’ammasso di sudore e paura era difficile non lasciarsi coinvolgere dalla voglia di cibo, un corpo alla sua mercè tremante davanti ai suoi occhi, steso sulla schiena con gli occhi ridicolmente strabuzzati all’infuori.
Balbettava versi senza senso, invocando la sua pietà. Davvero credeva che potesse possederne?
Suo malgrado gioì nell’annusare l’odore del terrore. Lo si vedeva dall’espressione distorta, orribilmente sconvolta da ciò che aveva davanti, e si rifletteva nel puzzo di sangue, sudore e urina che egli emanava per sopperire alla terribile minaccia che gli stava di fronte.
Tipico di tutti gli umani secernere una grande quantità di ormoni di fronte al pericolo, come se ciò potesse salvarli. In fondo a quello sguardo pregno di orrore e paralizzante consapevolezza di star per morire, si poteva specchiare chiaramante quella figura bianca e splendente, dallo spaventoso candore.
Sembrava un angelo redentore, con gli artigli che brillavano di riflessi lunari e i denti aguzzi  già sfoderati in attesa del dilaniamento, una corolla argentea che sembrava il riflesso di ali misercordiose sulle sue spalle possenti. Tutto il suo essere sembrava pervaso da una devastante carica di elettricità statica, pronta a scoppiare e sprigionare la propria potenza distruttrice.
Persino la natura si stava ritraendo, anche se abituata alla sua presenza: gli alberi ululavano, le foglie turbinavano mosse da un vento gelido e sibilante fra le fronde, gli steli d’erba venivano strappati con forza da un’entità maligna e portatrice di morte.
L’uomo tremò, assomigliando sempre di più ad un raccapricciante essere inferiore. Il nobile Sesshomaru, brillante nella propria aura di invincibilità, si chinò leggermente verso la faccia sudata e priva di qualsivoglia ritegno. Esso si ritrasse, sentendo il fruscio della cascata di capelli fulgidi dall’abbagliante splendore mentre lo circondavano, affilati come spade.
-V…vi prego…i…io….ho una famigl…famiglia…m…mia moglie – cominciò a piagnucolare, ma lui lo interruppe, senza smettere di guardarlo dritto negli occhi. Non aveva nemmeno il coraggio di sottrarsi, così incatenato al suo persecutore da non poter far altro che ricevere il colpo in silenzio.
La scia di luce verde che illuminò per la frazione di un secondo l’aria, accompagnò con un degno sibilo il sapore di sangue speziato della sua preda. Un unico zampillo regolare, e una zaffata gli arrivò uniforme alle narici, che si tesero per fiutare quella sensazione quasi evanescente, eppure estremamente appagante.
Per quanto cercasse di negarlo, dovette ammettere che quella caccia gli era mancata; lasciare alla preda l’illusione della libertà, braccarla all’improvviso, finirla lentamente…fondamentali punti focali della sua intera esistenza di demone maggiore.
Lui era nato per assaggiare il profumo inebriante del sangue, per fiutare la paura e farne proprio nutrimento, quell’adrenalina colma di freddezza e mascherata da un ferreo autocontrollo era convogliata completamente alle estremità del suo corpo, interamente dedito e concentrato a ciò che stava per compiere.
Quando proprio doveva nutrirsi, gli era necessario per preservare una buona salute, allora si faceva sbrigativo, soprattutto negli ultimi tempi. Prendeva di mira quello che gli serviva e lo finiva con un gesto secco, prima di cibarsene.
Da quando aveva conosciuto Rin, poi, aveva addirittura smesso di accompagnare la discesa nell’oblio eterno delle anime fissandole negli occhi. Guardare le iridi perdere il proprio colore e farsi semplicemente vuote, private di qualsiasi anima o barlume espressivo, gli dava l’estrema certezza del trionfo, e osservava con sguardo gelido tutto il passaggio, fino a quando il corpo non diventava solamente un blocco di carne del tutto inanimato.
L’essere davanti a sé mugolò di dolore, con un lamento allungato dallo strazio, prima di gemere ancora più frignante di prima. Sesshomaru, quando tutto era cominciato, era stato chiaro: aveva posto una domanda e aveva detto che come risposta avrebbe accettato solo la verità.
Una ferita sanguinolenta macchiò il kimono ruvido e grezzo del contadino, disegnando un segno rosso dai bordi sfrigolanti e irregolari lungo tutto l’addome. All’inizio, pareva quasi una frustata; poi, l’acido entrava in azione e cominciava a friggere la pelle e a divorare i tessuti. Lentamente…
Come un  animale ferito, cercò di trascinarsi su un fianco, per guadagnare qualche centimetro dalla morte, ben sapendo che era impossibile sfuggire a quello sguardo implacabile.
Sesshomaru si stava stancando di giocare, anche se si sentiva di secondo in secondo sempre più potente; ritornò al presente, ricordando benissimo che ogni minuto passato nel bosco era un momento in meno per salvarla.
Quel giorno, infatti, stava per tornare al villaggio, dopo aver fatto un viaggio per andarle a prendere una mistura particolare. Quando l’aveva lsciata aveva sentito il marchio potente che le aveva impresso nel corpo, a fondo: ben consapevole di ciò che sarebbe potuto succedere, era corso ai ripari.
Conosceva una donna esperta in piante ed erbe, più o meno lenitive per dolori di varia origine. Dedicandosi furtivamente alla magia nera, possedeva intrugli che difficilmente una sacerdotessa bianca avrebbe potuto fabbricargli spontaneamente, e lui non aveva mai provato gusto nel torturare le donne, che riuscivano comunque a mantersi salde fino alla fine.
Per evitare di diventare il padre di un mezzo demone, aveva chiesto esplicitamente una miscela particolare per evitarle gravidanze inattese; sarebbe stata additata come prostituta, non avendo un marito, e lui non si sarebbe certo rallegrato nel dover avere a che fare con una creatura simile anche solo in parte al fratello.
Lui amava Rin, con tutto il cuore che forse non possedeva nemmeno, ma non sarebbe mai stato disposto a farle partorire un figlio. Implicava sofferenza, prima, durante e dopo. Lei sarebbe sicuramente stata d’accordo con la sua idea, forse si sarebbe ribellata all’inizio, ma alla fine avrebbe capito che era la cosa migliore.
Sulla via del ritorno si chiese però se non sarebbe stata una cosa meschina. La ragazza era un’esperta di medicinali, e sicuramente sarebbe stata capacissima di arrangiarsi se l’avesse voluto. Ma costringerla anche a bere una bevanda per farle inaridire il ventre, seppur momentaneamente, non era un gesto un po’ affrettato?
Ma d’altra parte, lui non avrebbe riconosciuto nel nascituro un frutto d’amore, bensì l’ennesimo condannato a subire una maledizione che, dopo aver regalato la gioia più grande di tutta una vita, toglieva valore militare e costringeva alla solitudine.
Non sapeva bene cosa fare, e decise che ne avrebbe parlato con lei, in quanto più saggia di lui su certi aspetti. Con le femmine di demone non aveva mai dovuto preoccuparsi di certe cose, perché raramente accettavano di portare a termine gravidanze, in quanto erano da loro viste come inutili perdite di tempo e di fatica. Ad esse interessava solo il divertimento, non di certo l’impegno che ne derivava.
Ma le donne umane erano diverse, così attaccate alla famiglia e all’amore. Rin non faceva eccezione, e non voleva che questa qualità ne compromettesse il rapporto con lui, soprattutto per la differenza abissale di vedute su certe questioni della vita.
Magari avrebbe saputo porgergli un’alternativa migliore, e l’avrebbe aiutato a valutarne tutti le sfaccettature, con la calma e l’ottimismo che la contraddistingueva.
Ma, mentre il villaggio si faceva più vicino, la familiare fragranza di dolce fanciulla mischiata a quella della potenza del demone, che l’aveva arricchita donandole un’aura ancor più attraente, completamente nuova rispetto all’essenziale aspetto militaresco che l’odore aveva quand’era su di lui, non si avvertiva.
E questa sensazione non aveva fatto che acuirsi man a mano che le capanne di profilavano all’orizzonte: non poteva sbagliarsi, l’odore di Rin non c’era nei paraggi. E la stanchezza non c’entrava nulla, in quanto proprio mentre era più esausto quella traccia veniva subito catturata e seguita dal suo naso, come sempre accadeva anche nei viaggi molto più impegnativi di quello.
Inizialmente, si era fermato e aveva annusato con attenzione l’aria, in cerca di indizi che potessero accertare il suo momentaneo fallimento, ma non ne trovò; i profumi della natura, del bosco e degli animali lì attorno non lo distraevano minimamente, e anche se là intorno l’odore delle donne incinte si faceva prepotente (per lui bestie e uomini, quando gravidi, avevano tutti lo stesso odore), non vi badò nemmeno per un momento. Con un attimo di terrore, poi sopresso dalla ragione, si mise a frugare in ogni riserva odorosa disponibile negli insediamenti umani lì intorno, ma nulla, nessun risultato.
Abbandonando la sorta di volo che lo portava a spostarsi di solito, si mise a correre, come un volgare mezzo-demone qualsiasi. Aveva bisogno di annullare i propri muscoli sentedoli bruciare per lo sforzo fisico, per sopprimere la preoccupazione.
Migliaia di ipotesi gli avevano tempestato il cervello, e la prima tappa era stata la capanna della vecchia donna che se ne occupava. Senza troppi complimenti, aveva divelto la porta, trovandola seduta a terra ad impastare alcune radici.
Aveva alzato la testa, per nulla sorpresa: anche se le metodologie di tortura non avevano risvolti per nulla nobili sulle persone anziane, lui fu tentato di usarle lo stesso.
La vecchia negò di saperne qualcosa, ma gli disse di rivolgersi a Yokunei, un uomo che viveva poche capanne più in là ed era l’incaricato delle comunicazioni con il feudatario di quei territori. Dal momento che si trovava a scorrazzare perennemente fra un confine e l’altro, avrebbe sicuramente notato qualcosa di strano, se mai fosse sul serio accaduto qualcosa.
Quel che contava, comunque, era che Rin aveva buone probabilità di essere ancora viva. La priorità era quella di metterla in salvo, ovunque essa si trovasse, e riportarla alla pace di una casa, anche se difficilmente si sarebbe fidato nuovamente di quella sacerdotessa.
Era così che era cominciata quella caccia silenziosa e sinistra. Quell’insetto era l’unico che avesse addosso una parte dell’odore di Rin, che si era evidentemente dibattuta e aveva cercato di scappare.
Da cosa, ancora non lo sapeva, ma era deciso ad ottenerlo. Lo aveva fatto allontanare dal gruppo, richiamandolo con la propria aura, e appena si erano trovati faccia a faccia gli aveva rivolto la fatidica domanda: -Lei dov’è?
All’inizio aveva fatto finta di non sapere. Strisciava al suolo, farneticava di un sigillo attorno al villaggio e delle potenza spirituale di un qualche bonzo itinerante. Poi aveva cominciato a piangere, con la prima sferzata, e la colpevolezza era saettata nei suoi occhi; aveva domandato perdono, si era inginocchiato, le lacrime continuavano a cadere sulle sue guance butterate, ma a Sesshomaru non importava assolutamente nulla.
Faceva parte delle leggi dell’universo, e la prima regola era “non toccare la donna di un demone”. E lui l’aveva fatto, solo che, fortunatamente per lui, non in quel modo.
Appena aveva sentito l’odore sulla bambina che aveva salvato con Tenseiga, nel bosco, aveva fatto strage di briganti alla prima occasione, ottenendo giustizia, e se la cosa si fosse ripetuta non avrebbe esistato a divorargli il cuore ancora pulsante, sentendolo scalciare sempre più debolmente contro la propria stretta micidiale e inarrestabile.
Non si era dovuto permettere di farle del male. Ma soprattutto era la bruciante impotenza a dargli più fastidio: tutto era accaduto senza che lui avesse potuto fare nulla per fermarli, per salvarla tempestivamente. E questo perché si trovava da un’insulsa strega per prendere precauzioni sul loro rapporto.
La cosa lo faceva tremare di rabbia, soprattutto verso sé stesso. La ragazza non aveva colpe, soprattutto dopo quello che aveva dovuto passare, ed era naturale che non fosse riuscita a difendersi del tutto. E poi, era chiaro che prima o poi una splendida giovane come lei cadesse nelle grinfie sbagliate, ed era incerdibilmente urtato con il suo istinto per non averglielo suggerito prima.
Comunque, un po’ della pena veniva alleviata dalla sofferenza di quell’orribile creatura strisciante. Per incitarlo a parlare in fretta, lasciò che un singolo artiglio si allungasse leggermente fino a lambire il contorno di una ferita.
Subito, dalla carne sanguinolenta si levò una lieve traccia di fumo, accompagnata da un paio d’occhi fuori dalle orbite e lacrime di pura disperazione.
L’uomo e il demone si stavano guardando: uno cercava di trattenere un lamento di dolore intenso, che minacciava di farlo contorcere come il verme che era.
Quel miserabile contadino sapeva che stava per morire, lo si leggeva chiaramente nelle sue pupille, in fondo, nella parte che lambisce e custodisce l’anima. Due pozzi scuri di paura da essere insignificante, arrossati e ancora lacrimanti, il viso distorto in una ridicola smorfia agonizzante. Quella creatura non l’avrebbe mai lasciato andare, era fin troppo chiaro. Anche quando gli pareva di essere riuscito a fuggire, in realtà era già a conoscenza dell’inevitabile conclusione.
Ma non riusciva, in qualunque caso, ad angustiarsi più di un certo limite. Aveva agito troppo avventatamente, quella ragazza non andava toccata. E dire che quando gli avevano affidato l’incarico, lui ne aveva avuti di dubbi! Sapeva già che era un azzardo, che le levatrici sono invischiate in tresche particolari, ma non vi aveva dato troppo peso.
Gli dispiaceva per sua moglie, questo sì: era stata una brava massaia, si arrangiava in tutte le questioni di casa e filava come nessuna, tanto da renderlo un marito più che fortunato. E il loro filgioletto, sano e maschio, il primo, mica tutte le donne sapevano farne uno così al primo colpo, eh! Inoltre, qualche anno prima, era stata la più bella del villaggio, con i lunghi capelli scuri e le curve invitanti. Si erano scelti a vicenda, per così dire, e ancora vedeva nei propri occhi l’avvenenza della sua verginità accentuata dall’abito nuziale.
Da vedova, la sua vita sarebbe stata difficile, e pregò gli dei che potesse trovare rifugio dal capovilaggio, e condurre un’esistenza dignitosa assieme al bambino.
Per lui stesso, non aveva timori: sarebbe indubbiamente andato all’inferno, ma non aveva importnaza, tutto era preferibile a quella lenta e inesorabile tortura, che gli stava progressivamente bruciando le viscere. Odiava doversi mostrare debole e dolorante, ma era impossibile mantenere un’espressione anche solo vagamente simile a quella del suo aguzzino.
Anche se nella sua ignoranza non poteva concepire appieno il concetto di eterea eleganza, rimase comunque stregato dall’estrema delicatezza di quei tratti marmorei. La sua vista si colmò di terrore e bellezza, in un’unica spirale indissolubilmente fusa, in modo che fosse impossibili separare le due impressioni e analizzarle a fondo.
Piano, le sue labbra si contorsero sentendo un’altra unghia demoniaca violargli la carne: lungo i bordi delle ferite stava perdendo sensibilità, ma egli sapeva colpire laddove il brucire si faceva più devastante. Prima che potesse controllarsi, trovò del tutto inutile cercare di opporsi ancora. La sua fine era nota ad entrambi, non sarebbe mai uscito da quel bosco da uomo in vita, e voleva che il dolore straziante finisse. Non aveva funzionato con le suppliche, ma sicuramente la liberazione sarebbe arrivata con la verità.
I due pozzi d’ambra si incatenarono ai suoi mentre un rantolo usciva lentamente dalla sua gola, pregando silenziosamente che con lui avesse finito: -Alla…t…tenuta dei…Miyasama…
Sentì immediatamente la sferzata al suo addome, ma non riuscì a dispiacersi: ecco, il giusto prezzo da pagare. Nonostante tutto, nei confronti del demone avvertì solo gratitudine, perché lo stava effettivamente liberando dal peso del dolore.
Le cime degli alberi si allungarono all’infinito, fino a congiungersi in un unico cono sopra la sua testa. Piano, come foglie trasportate dal vento, le tenebre apparvero sotto forma di dense nubi ai lati dei suoi occhi.
I muscoli non gli appartennero più, e nemmeno la lacerante tortura al ventre, che cedette con la sua morsa lasciandolo finalmente stare.
Eppure, quegli occhi d’ambra non si levavano dai propri; l’immenso gelo che erano capaci di trasmettere lo avvolse, ghiacciandolo fin dentro le ossa. Un po’ lo mettevano a disagio, ma dentro di essi gli parve di scorgere la sua storia. Non aveva la forza di chiudere le palbebre per interrompere il contatto, perché voleva vedere, per la prima vera volta della sua intera vita, che si stava concludendo.
Nel frattempo, il demone che ne aveva accompagnato la discesa agli inferi, si chiese perché quel cadavere sudato e provato dalla sofferenza stesse sorridendo.
Poi, non appena non ci fu più nulla da analizzare in quelle orbite vuote, volse lo sguardo ad est: era tempo di andare a salvare Rin. 
 

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Capitolo 21
*** Complicazioni ***


-Cosa credi che possa fare? – sbottò Kagome.
Stavano discutendo da ore, ormai, ma non c’era nessuna conclusione all’orizzonte. Entrambi non riuscivano ad arrivare ad un accordo dopo quello che avevano scoperto quel pomeriggio stesso.
Nella sala, dopo la rivelazione, era calato un silenzio assordante: Inuyasha e Kagome si erano guardati istintivamente, e Kunieko, ben conoscendo la storia che la ragazza aveva con il demone, era impallidita di colpo, assomigliando ad un cencio vecchio.
La commissione li aveva guardati, uno per uno, e i loro occhi si erano fatti di colpo sospettosi, come a voler analizzare cosa quel nome significasse per tutti.
Per la sacerdotessa, era il simbolo di un viso sorridente e spensierato che faticava a ricollegare a quello di una simpatica bambina. Vi viveva poche capanne più in là, e l’aveva curata quella che era solo una settimana prima da una brutta febbre, che aveva rischiato di ucciderla. Implicava anche la vista di un maestoso quanto arrogante demone, che aveva sconvolto sé stesso salvandole la vita per quella che era, ormai, la quarta volta, e che l’aveva fatta entrare a pieno titolo nella condanna della sua nobile famiglia.
Per Inuyasha, significava un’umana con infinite possibilità davanti ai suoi occhi che portava l’odore di suo fratello, indossandolo come un vestito prezioso. Un’ enigma apparentemente irrisolvibile nel proprio amore, con cui aveva parlato pochissime volte per paura di sentire qualsiasi cosa. Era anche però colei che aveva reso possibile un significativo progresso con la sua amata Kagome, e le sarebbe sempre stato sinceramente e velatamente grato per questo, anche se difficilmente avrebbe voluto approfondire la loro conoscenza a causa dell’imbarazzante presenza di Sesshomaru, che sembrava perennemente vegliare su di lei con il suo odore.
Per Kunieko, la povera figlia di un contadino vedovo, era la misteriosa ragazza gentile e disponibile, bellissima, con splendenti capelli di mogano puro e lo sguardo ridente, dal kimono arancione e quasi infantile. Quella stessa persona che era capace di sembrare la principessa più bella di tutte quando un discreto venticello che sapeva di promesse accarezzava le pareti della capanna dove viveva con la sacerdotessa del villaggio, una venerabile e anziana donna. Colei che, tempo addietro, l’aveva aiutata diverse volte chiaccherando del più e del meno e che, adesso se ne rendeva conto, urlava di non voler sposare il Signor Miyasama mentre veniva trascinata via.
Gli uomini lì presenti, se quell’occhiata si fosse protratta troppo a lungo, li avrebbero congedati educatamente e i loro corpi, la mattina seguente, sarebbero stati scaricati in un fossato qualunque.
Inoltre, da quando Inuyasha aveva posato la mano sull’elsa della spada, i nervi degli anziani guerrieri e di una decina di guardie si erano subito tesi, quasi dolenti, pronti ad agire alla minima minaccia.
L’interrogativo che però impediva a Kagome di uscire da quella situazione sgradevole era: Rin aveva infine scelto un amore facile e decisamente più conveniente? Che si fosse stancata di aspettarlo in eterno e avesse deciso per l’alternativa meno stressante, meno complicata da gestire e decisamente più vantaggiosa alla sua stessa salute?
No, decisamente no, non poteva essere così. Nella frazione di secondo che seguì, la ragazza si vergognò dei suoi dubbi. Rin amava Sesshomaru alla follia, ed era pure ricambiata, eccezionalmente. Dopo aver sognato quella situazione per così tanto tempo non l’avrebbe certo buttata via a cuor leggero, né tantomeno in modo così affrettato. Non era da lei aspettare che lui fosse lontano per nascondersi dietro ad un matrimonio.
E poi era chiaro che il Generale stava mentendo, altrimenti perché le cose erano avvenute tanto in fretta? Sicuramente l’avevano costretta a quelle nozze improvvise con il ricco nobile, solo per legarlo ai suoi possedimenti più redditizi con una moglie ufficiale e poi una serie di concubine dai centri meno importanti.
Anche perché, seguendo il ragionamento, la ragazza avrebbe avuto anche altre occasioni per sistemarsi, e non poteva sapere di essere la potenziale scelta dal feudatario, in quanto si trattava di un caso dettato dal destino. Quindi, la fanciulla aveva ancora intatto l’amore per il suo bel demone, che di lì a poco avrebbe compiuto una strage di proporzioni epiche.
Un brivido la percorse da capo a piedi: quei palloni gonfiati sarebbero stati destinati a bucarsi contro la cima aguzza di una montagna gelida, per la loro arroganza.
Aveva comunque fatto in tempo a salvare la situazione, nonostante si fosse beccata un’occhiata per nulla rassicurante da parte di Inuyasha che, dopo aver pronunciato il suo discorso, la guardò come un animale parlante. In poche parole, per uscire illesa dalla sala, aveva detto di conoscere la ragazza e che era onorata di essere stata scelta per un evento tanto nobile.
Naturalmente, il mezzo-demone non avrebbe capito in cosa consisteva la sua astuzia, ma dal suo sguardo capì che il discorso non era finito lì e che avrebbe avuto modo di spiegarglielo durante la notte.
Con amarezza, si era inchinata educatamente e gli aveva fatto cenno di fare lo stesso, poi avevano percorso in assoluto e sgradevole silenzio la strada che li separava dalle loro lussuosissime stanze arabescate, delle quali Kunieko rimase totalmente affascinata.
Mentre accarezzava con mani incredule qualsiasi mobile, Inuyasha si era seduto nel centro della camera comunicante e, incrociate le braccia, si era messo a fissare ostinatamente il muro.
Era iniziata una lunghissima e animata discussione, fortunatamente non udibile dal personale del castello, dalla quale l’altra ragazza era praticamente fuggita, andando a rintanarsi nel suo nido principesco, dimenticando l’angoscia grazie al paziente massaggio di un paio di serve.
Solo una volta la videro tornare, diretta alla stanza dei bagni per una sauna rilassante.
Si erano messi a battibeccare per una cosa stupida in realtà, ovvero l’attrazione che Inuyasha credeva ci fosse fra lei e il Generale. Aveva attaccato un discorso che non stava né in cielo né in terra su quanto l’avesse ammaliata con le sue parole melliflue e gli sguardi di cui l’aveva resa partecipe, farneticando di quanto poco le importasse di come, invece, il resto del gruppo poteva reagire di fronte a quella terribile notizia.
Lei era stata troppo infuriata per esporgli il suo piano: possibile che potesse essere così geloso da oscurare persino Rin? Avevano così cominciato ad attaccarsi con piccole cattiverie personali, dandosi dello “scemo” e della “stupida” senza nessuna ragione, il tutto per non affrontare la questione che gravava sulle teste di entrambi.
Alla fine era stata Kagome a tornare alla ragione: -Scemo! La vuoi smettere? Qui c’è in gioco la vita di Rin! Credi quello che ti pare, ma dobbiamo tirarla fuori da qui!
Lui parve riscuotersi, anche se la frustrazione non era scomparsa dai suoi occhi fiammeggianti. Suo malgrado, Kagome doveva ammettere che quando si innervosiva era davvero bellissimo: i tratti principeschi del suo viso regolarissimo e giovane tornavano a fare capolino sulla squadratura della mascella, mentre gli occhi assumevano un cipiglio battagliero che li rendeva ancora più splendenti. I capelli, poi, seguivano in un’unica onda tutti i movimenti del suo capo quando, con le braccia nascoste nelle maniche ampie, si animava accusandola di questo o di quello.
Vide la mano del giovane, - bianca, liscia, sottile ma estramente virile – correre all’impugnatura di Tessaiga; aveva un modo particolare di prenderla quando era intenzionato a sfoderarla, ovvero lasciando scivolare il pollice oltre l’elsa, separandolo dalle altre dita e facendogli lambire la parte in cuoio invecchiato e malmesso che proteggeva la lama. Se vi si appoggiava semplicemente per la forza dell’abitudine, lasciava il palmo ben piantato sulla placca liscia sopra il cilindro che gli permetteva di maneggiarla, lasciando il resto della mano aperta, e i muscoli del tarso rilassati. Una cosa che si poteva notare solo dopo un’attenta osservazione, condita con un po’ di sana attrazione.
In quel momento, comunque, già una parte metallica luccicava verso l’esterno, segno che la stava estraendo per dare il benvenuto alla stanza. Sicuramente avrebbe fatto a pezzi il muro.
-No! – esclamò lei, all’improvviso,  posandogli le mani sopra alle sue. Per un attimo lui la guardò, sorpreso, poi si scostò senza staccarsi dall’arma.
-Beh? – chiese rude. –Che c’è? Andiamo a prenderla, no?
Kagome scosse la testa, cercando di farlo ragionare. Odiava litigare con lui, perché aveva paura che questo li allontanasse, ed era l’unica cosa che non voleva accadesse, non dopo i progressi seppur minimi degli ultimi tempi. –Per favore, sposta le mani da lì. Prova a pensare: adesso usciamo, tu uccidi una decina di guardie e intanto ne arrivano un altro centinaio e, mentre tu le combatti, quelli si prendono me e Kunieko come ostaggi. Non è un piano fatto bene, ti pare?
Cercò di essere il più delicata possibile, ma dai suoi occhi non seppe se c’era veramente riuscita. Per lo meno il suo braccio si stava rilassando, segno che stava almeno considerando ciò che gli aveva detto in modo serio. –Hai ragione – disse solo. –Allora che facciamo?
La rabbia dai suoi occhi stava sbollendo, e lei rimase un attimo frastornata da ciò che le aveva detto. Non era da lui cedere così in fretta, lasciargliela vinta e farle ideare un piano. Inoltre, dal viso sembrava che ce la stesse mettendo per organizzarsi e non lasciar spazio all’orgoglio personale, che sarebbe stato solo fuorviante al caso, delicatissimo.
Lei era sinceramente colpita da quel cambiamento, ma era anche conscia che se avesse tentennato ancora un altro po’ lui si sarebbe scocciato e sarebbe partito in quarta. Fece così finta di non essersi accorta di nulla, lasciando che la soddisfazione germogliasse laddove nessuno poteva vederla.
-È…complicato – disse con amarezza. La stanchezza derivata dalla previsione di un’altra discussione la stravolse, tanto che dovette sedersi stancamente su un cuscino lì per terra.
Era una situazione davvero complicata, perché non potevano semplicemente portarla via dal castello, rapirla e condurla a casa. Innanzi tutto, Miyasama non avrebbe ceduto la moglie così facilmente, e non sapevano nemmeno in che ala del castello fosse. Ammesso che ne avrebbero trovato la stanza, portarla fuori sarebbe stato quasi impossibile, visto il controllo ferreo a cui tutti erano sottoposti.
E poi, anche se riportata al villaggio, di sicuro i viveri sarebbero stati tagliati, gli scambi con gli altri paesi interrotti e diverse incursioni di soldati in congedo avrebbero rovinato i raccolti e messo a repentaglio la vita dei contadini.
Kagome e Inuyasha sarebbero stati banditi per sempre dalla loro casa, e lei non se la sentiva di ricominciare ancora daccapo, proprio ora che godeva di una certa fiducia nel centro e che la gente la trattava come una del gruppo. Questo avrebbe minato irreparabilmente la sua vita nella sua epoca, e anche se Sesshomaru si fosse portato via Rin, che a questo punto era l’alternativa più saggia, loro due sarebbero rimasti in mezzo ad un ciclone ugualmente.
Tutti dubbi che facevano assomigliare il suo cervello ad un vespaio, particolarmente animato. Era ovviamente preoccupata per le sorti della ragazza, ma non avrebbe saputo come aiutarla. Inoltre, il fatto che l’avessero scelta come officiante era un fatto che la lasciava parecchio stranita, in quanto non aveva mai sentito, in quasi un anno di permanenza, che un matrimonio venisse celebrato da una donna. Che fosse una stranezza di Miyasama? Probabile; ma in quel caso opporsi sarebbe stato decisamente sconsigliabile.
L’unica cosa che poté fare fu quella di esporre tutto ad Inuyasha, diramando ogni ragionamento in tutte le possibili situazioni. Lui prese la cosa estremamente sul serio, sedendosi davanti a lei e aiutandola ad analizzare le varie alternative, in cerca di una via di fuga.
Purtroppo la gerarchia di quel tempo li incatenava, e l’irruenza sarebbe stata solo uno svantaggio, in quel caso. Un intervento di Sesshomaru, a quel punto, avrebbe anche potuto peggiorare le cose, perchè difficilmente si sarebbe fatto scrupoli a uccidere tutti quanti con una sola unghiata.
Poco contava che Rin non voleva stare al castello ed era trattenuta contro la propria volontà, perché se anche l’avesse detto ella stessa, un araldo avrebbe prontamente corretto e manipolato le sue parole per far passare i salvatori dalla parte del torto. In questo erano parecchio bravi, moltissimi casi in passato parlavano al posto loro.
Alla fine, quando ormai la luna era alta nel cielo, rimasero ad un nulla di fatto. Kagome ne aveva approfittato per eliminare quell’ingombrante tunica rossa, lasciando le gambe fasciate solo da una gonna più corta e decisamente più comoda.
Inuyasha, invece, si era limitato a sfilarsi la casacca: nonostante fosse comoda, soprattutto in battaglia, cominciava ad avere caldo, e aveva bisogno di muoversi.
Kagome aveva ragione, in quel caso non si poteva agire d’istinto. Non ricordò chi disse che, nei matrimoni nobili, l’amore era l’ultimo dei problemi. Lui non c’aveva mai fatto caso, ma era proprio così.
L’avvenenza di Rin aveva sicuramente fatto decidere il signore, che prendendo moglie in quel posto si stava accaparrando la fiducia degli abitanti e legando alla fioca possibilità di un altro matrimonio anche gli altri villaggi. Le razioni nel luogo natale della sposa sarebbero aumentate, e la protezione rinforzata: questo gli avrebbe dato incondizionati guadagni, folle entusiaste e un flusso costante di concubine giovanissime.
Una mossa astuta, bisognava ammetterlo, che li lasciava però con le mani assolutamente legate, in un nodo particolarmente stretto.
-Ho un’idea – disse lui all’improvviso, animandosi mentre lo sconforto sembrava germogliare nella stanza.
-Inuyasha, non travestiremo Kunieko da sposa e intanto portremo fuori Rin, non se ne parla – disse lei, sconsolata, guardando il pavimento con aria triste.
Lui rimase un attimo interdetto: -Non era quella la mia idea – ribatté, abbastanza seccamente.
Lei alzò il capo, giusto per guardarlo in faccia mentre parlava, invitandolo silenziosamente a continuare.
Lui assunse un’aria furba, lasciandola un po’ sulle spine. Anche se gli rompeva non poco mettere in atto quella strategia, sapeva per certo che era l’unica che avrebbe funzionato, per quanto estrema potesse sembrare.
Avrebbe rischiato la vita, ma era anche un modo per sdebitarsi di tutto ciò che la ragazza aveva incosapevolmente permesso che accadesse.
-Allora… - cominciò lentamente, gustandosi l’espressione interessata di Kagome.
Più parlava, più si convinceva che era la soluzione migliore. E anche la più rischiosa. 

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Capitolo 22
*** Fratelli ***


L’aria mite che aveva regnato nelle ore di luce era completamente scomparsa, rimpiazzata da un vento gelido e pentrante.
La notte più fitta aveva assorbito nel proprio ventre qualsiasi dettaglio, rendendolo indefinibile e spaventoso, in quanto ogni angolo o pericolo era celato da quella coltre infinita e densa.
Sinistri suoni si alternavano nell’ambiente circostante, ovvero una piana erbosa priva di alberi e piuttosto grande, dai bordi quasi del tutto netti. In quella zona d’erba rada non crescevano né piante né fiori, a causa della potenza spirituale distruttiva lì applicata per impedire il passaggio del demone che ora stava cercando di richiamare.
Una figura seduta a gambe incriociate era il singolare regnante della conca deserta e sterile: il kimono scuro e ampio veniva gonfiato dalle ventate impietose, ma il corpo da esso protetto non si stava spostando di un solo millimetro. La schiena sembrava una lastra di marmo solido, dritto e ben piantato nel terreno, mentre le gambe incrociate terminavano in piedi privi di qualsiasi calzatura, incuranti della terra fredda.
Il dettaglio di maggiore impatto erano i capelli: sottili fili argentati scossi dalla forza della natura, una lunga onda liscia come la superficie di un lago, compatta, splendente. Avevano lo stesso colore della luna, mentre si beavano di qualche suo raggio. Non essendoci piante ad impedirne il passaggio, infatti, alcuni pallidi rivoli luminosi riuscivano a fare breccia nella spessa barriera di nubi.
Inuyasha annusò pazientemente l’aria, più che altro per ingannare il tempo: sarebbe piovuto presto, forse il giorno seguente, all’alba. In segreto, lui amava la pioggia; era rilassante, e spazzava via la maggior parte degli odori invadenti che lo turbavano con il loro olezzo. Certe volte, quando le battaglie con Naraku si facevano aspre, lui aveva cominciato a detestarla, perché mitigava troppo le altre influenze odorose, e rendeva difficile riconoscere anche la propria.
Aveva imparato ad apprezzarla in tempi di pace, quando non era importante seguire tracce o insetti alati.
Lui aveva sempre associato ogni odore a dei fili, simili a quelli che Kaede intrecciava per rattoppare i kimono, che convergevano in un’unica matassa intricata. Grazie al suo naso, riusciva a distinguerli per colore, forma, composizione, robustezza, e a ricavarne una pista abbastanza ordinata e precisa. Era essenziale riuscire a collocare ogni singola fibra in una direzione specifica, altrimenti si sarebbe tutto ingarbugliato di nuovo e sarebbe poi stato impossibile discernere le varie parti.
Bisognava avere pazienza e concentrazione. Quando fiutava con l’intento di scoprire qualcosa, allora escludeva tutto il mondo esterno, e cacciava solo ciò che gli interessava. Non era affatto semplice.
La pioggia, però, era facile da prevedere: tutti i fili che componevano il vestito della quotidianità venivano conditi da una traccia che indicava semplicemente il…nulla. Come per un uomo quando chiudeva gli occhi; per quanto la luce fosse abbagliante, lui ne riceveva solo una piccola parte, e per lui era lo stesso. Quella presenza oscurava tutte le altre, fino a dominarle definitivamente.
All’improvviso, le sue riflessioni vennero interrotte da un flebile odore di sangue umano. Tutta la sua concentrazione venne convogliata in quel punto, tendendo al massimo ogni singolo muscolo.
Le sue narici fremettero prima di dilatarsi al massimo, per captare qualsiasi minima sfumatura, mentre con il corpo si protendeva leggermente in avanti per guadagnare un minimo di terreno, e diminuire leggermente la distanza fra la fonte e lui stesso.
Chiuse gli occhi; la vista l’avrebbe distratto eccessivamente.
Eccolo, ora lo sentiva abbastanza chiaramente. Veniva più o meno dal centro del bosco, verso est, e usciva in gran quantità da un cadavere. Sì, era impossibile che fosse ancora vivo, quell’uomo, perché con quell’eccessiva perdita non sarebbe potuto sopravvivere neppure per un secondo.
Perché non aveva sentito urlare? Con una ferita di quell’entità, sicuramente il dolore sarebbe stato lacerante. C’era però un’altra sensazione, che lo mitigava in parte.
Si allungò verso la parte alberata del paesaggio a lui visibile, per capire da dove venisse precisamente quel secondo odore, posato sul cadavere come una coperta. Non si trattava di un oggetto con una consistenza vera e propria, ma nemmeno una secrezione naturale perché, nonostante sentisse leggermente il puzzo di urina, non era decisamente quello a disturbarlo.
Mise all’opera tutto quanto sé stesso, in quanto gli pareva di aver già sentito quell’odore. Era difficile riconoscere un corpo solo affidandosi all’olfatto, perché un uomo subisce molti cambiamenti dovuti anche al cibo che mangia, ad esempio. Per questo, quando le sostanze corporee smettono di essere prodotte dalla pelle, risulta molto difficile dare un’identità ai morti, perché l’odore delle cose con cui sono venuti in contatto prendono il sopravvento.
Quello che era probabilmente stato un contadino, però, gli era rimasto impresso per quel dannato stelo d’erba che teneva sempre appoggiato al labbro inferiore. Lo ricordava mentre, qualche mese prima, era andato a ringraziare Kagome per la nascita di suo figlio, masticando fastidiosamente quel gambo di un qualche fiore fra i denti guasti. Sapeva che era incaricato di riferire al feudatario l’ammontare esatto dei raccolti e, una volta alla settimana, prendeva un carretto e portava alcuni sacchi al castello.
Un momento: drizzò le orecchie. Il bosco era assolutamente immobile.
Un uomo della famiglia Miyasama sventrato nella solitudine della notte.
Nessun testimone.
Nessun presenza.
Nessun sospetto.
Nessun suono.
L’imminente matrimonio di Rin.
Anche se non era mai stato particolarmente acuto, non ci mise molto a collegare gli eventi a Sesshomaru. Era comprensibile che il demone fosse furioso, e aveva ovviamente cercato la verità laddove gli era più facile trovarla, ovvero da colui che l’aveva personalmente trascinata al maniero.
Con le sue particolari tecniche di estorsione, non doveva essere stato un compito particolarmente difficile trovare le informazioni giuste, e Inuyasha non avrebbe voluto essere quell’uomo per nulla al mondo.
Lentamente, cercando di non produrre il minimo fruscio, si risedette come prima, tornando all’immobilità. Faceva parte del suo piano, e doveva mantenersi fermo per una buona causa.
Ecco dunque spiegata quella strana presenza odorosa sul corpo. Di certo si trattava del micidiale veleno di Sesshomaru, estremamente nocivo, che aveva sperimentato anche sulla propria pelle.
Come faceva Rin, così dolce e innocente, lasciarsi accarezzare da quelle dita così pregne di sangue e atrocità? Persino lui ne temeva il filo acuminato e la piattezza innaturale, accompagnate dal gelo che lo contraddistingueva; eppure, quel terribile senso di morte, sembrava ammaliare del tutto la ragazzina.
Inuyasha dubitava che in quella storia c’entrasse la maledizione della sua famiglia: quando si erano conosciuti Rin aveva al massimo otto anni, forse anche uno in più, e non si può amare una bambina come un’amante, sarebbe stato eccessivo persino per lo spietato imperatore.
Tra di loro correvano quasi mille anni di differenza. Semplicemente, l’animo allegro e spensierato di lei doveva aver colmato un infinto vuoto nel petto del fratello, abituato alla solitudine e all’assenza di calore.
Ricordava il viso di Sesshomaru quando Inuyasha era bambino, nonostante l’avesse visto solo pochissime volte. L’arroganza era dipinta come un ritratto su una tela, e i lineamenti erano contratti in un’espressione severa. Conservava però ancora una certa vena vagamente simile a quella umana, e alcuni sentimenti erano leggermente accentuati in fondo ai suoi occhi.
Quando Kagome aveva rotto il sigillo che lo imprigionava, però, aveva trovato un demone completamente rivoluzionato, dalla piatezza e crudeltà sconfinate. Era impossibile oltrepassare quel viso indecifrabile, e non si sarebbe mai detto che sotto quella scorza marmorea si trovavano delle emozioni, per quanto in profondità venissero nascoste. Sembrava privo di qualsiasi cosa, e che camminasse solo per inerzia, un tipo di abitudine che deriva dalle azioni ripetute per tantissimo tempo, fino a sembrare scontate a chi le pratica.
Manteneva un incedere maestoso che a lui sembrava quello di un manichino, animandosi solo nel mezzo di una battaglia o durante un uccisione. Cacciava raramente umani, in quanto la sua forza non veniva messa alla prova da volgari contadini qualunque, o almeno era questo che Inuyasha pensava. Per quanto bene riusciva a nasconderlo, una traccia di demoni minori gli rimaneva sempre addosso.
Quando, di sfuggita, aveva colto una parte del suo incontro con Rin, stentava a riconoscerlo. Non faceva affatto paura, e ogni singolo nervo sembrava disteso, rilassato; il viso seguiva il moto delle nuvole, con apparente disinteresse, ma si vedeva che era perfettamente concentrato su ogni insignificante chiacchiera fatta dalla fanciulla. E, quando lei era voltata per cogliergli dei fiori, i suoi occhi si posavano su di lei con una profondità che l’aveva addirittura imbarazzato.
Non era rimasto affatto sorpreso dal sentire il suo odore sui vestiti, sul corpo di Rin, e segretamente lo invidiava per questo. Lui non aveva nessun problema a tirarsi contro l’ira di una comunità, perché all’infuori di ciò che gli importava tutto il resto era insignificante. Era così potente da non temere nessuna conseguenza.
Lei, invece, non aveva restrizioni essendo una comune levatrice: per alcune esisteva il voto di castità, ma non era esteso a tutte. Quindi, a suo parere, aveva fatto più che bene a sfruttare la propria libertà.
Quando con Kagome si logorava alla sola vista, trovava una minima consolazione nel sapere che almeno qualcuno potesse godersi la felicità senza porsi troppi limiti. E, anche se odiava il fratello a dismisura, doveva ammettere che si trovava in una situazione migliore della sua. Era sicuro che, nonostante il suo orgoglio sarebbe stato irreparabilmente ferito da questa storia, preferisse un po’ di sano combattimento interiore che non una situazione come quella in cui si trovava Inuyasha. Sicuramente avrebbe detto che quell’indecisione derivava dall’essere un debole e uno smidollato mezzo-demone qualunque.
Era per questo motivo che spesso aveva bramato il potere: poter agitare incodizionatamente alle regole, poter seguire le leggi del proprio spirito e lasciar perdere il resto. Naturalmente non si poteva tornare indietro e avrebbe lottato con tutto sé stesso per prendersi Kagome, dal momento che anche lei desiderava lo stesso. Bastava solo mettere in atto il suo piano, e sarebbe filato tutto liscio.
Povera ragazza, l’aveva lasciata in camera quasi in lacrime. L’aveva scongiurato di non uscire, o di andare al posto suo, ma non aveva voluto sentire ragioni: solo lui era in grado di richiamare Sesshomaru, e non si sarebbe mai permesso di lasciare la ragazza da sola, al buio, in attesa dell’apparizione del demone.
Quasi si era messa a singhiozzare ma, anche con il cuore in mille pezzi, non aveva potuto rinunciare ad andare. L’idea di una battaglia con il fratellastro non gli pareva nemmeno troppo spiacevole, in effetti, e poi era armato bene. Aveva raggiunto una buona intimità con la sua spada, che ora vibrava al suo fianco, reagendo con le scariche spirituali ancora presenti nel luogo.
Nonostante fosse stata una barriera potente, il demone l’aveva sbaragliata in un attimo, forse senza nemmeno accorgersene. In questo stava la sua sconfinata potenza, ovvero non badare alle piccole difficoltà, ma abbattere quelle più urgenti. In quel caso, l’uomo era stato una priorità così importante da arrivare a trascurare persino un sigillo fra i più potenti. Doveva tenere davvero molto a Rin.
In un attimo, un brivido percorse la sua colonna vertebrale, sconvolgendone un attimo la postura. Era da ore, ormai, che cercava di accentuare la propria presenza sfruttando la propria aura, ben sapendo che non doveva desistere per nessuna ragione, e finalmente era arrivata una risposta.
Per quanto cercasse di negarlo, lui e il demone maggiore erano affini, per molte ragioni, per questo era un compito che doveva assolvere da solo. Sicuramente Sesshomaru sarebbe stato attratto da quella potenza demoniaca, per quanto fioca, e le sarebbe corsa incontro.
Non avrebbe potuto fare diversamente, in quanto si trattava del suo stesso sangue. Nel mondo dei demoni è il legame più importante fra persona e persona, una cosa indissolubile e assoluta, che sfiorava l’eterno. Ogni minima variazione nella connessione spirituale veniva avverita da entrambi i soggetti, se si acuiva troppo o, al contrario, arrivava ad annullarsi.
Era questo che stava cercando di fare, ovvero creare un segnale abbastanza forte da destare la sua attenzione. Il suo successo era testimoniato dall’odiato odore, che si stava avvicinando velocemente. Dovette reprimere il proprio istinto per non assumere una posizione di battaglia, ma rimanere inerte al suo posto: aveva tenuto in conto un possibile attacco da parte del fratellastro, e si era mentalmente preparato al dolore; lo trovava in un particolare periodo di turbamento dovuto al rapimento di Rin, quindi la sua vista lo avrebbe oltremodo infastidito.
Forse l’avrebbe ucciso, ma non gli importava. Gli dispiaceva abbandonare Kagome, ma finalmente aveva potuto confessarle il suo amore per lei e poteva dire di essere in pace con sé stesso.
In un lampo, il buio della notte fu squarciato da uno bianco improvviso. Nonostante lo spostamento d’aria avesse minacciato di sconvolgerlo con la sua aura di potenza e odore si sangue, Inuyasha impose a sé stesso di rimanere immobile.
Davanti ai suoi occhi apparve la rappresentazione della morte.
Sesshomaru aveva gli occhi rosseggianti, la cui forma si era allungata, rendendo la pelle ancora più liscia e pallida. La serietà mortale della bocca la faceva sembrare una ferita scolpita nel ghiaccio, resa letale da un paio di zanne affilate che sporgevano lungo il labbro inferiore. La macchie nobili sui suoi zigomi si erano allungate, fino a lambire il naso sottile, che premeva assieme al resto del viso per ospitare la trasformazione demoniaca.
Le unghie splendevano di luce riflessa, incrostate di sangue fresco. La pelle lattea era lorda di striature cremisi, lunghe strisce di puro dolore, che dalle mani si trascinavano fino agli avambracci seminudi. Le ampie maniche del kimono bianchissimo, infatti, erano state ripiegate per dare maggiore spazio alla sua potenza distruttrice, celando la parte di stoffa colorata di rosso acceso.
Inuyasha si alzò lentamente in piedi: non indietreggiò, si limitò a guardarlo fisso negli occhi spietati per un lungo momento, come a sondare le sue intenzioni.
Non era difficile intravedere la sua voglia di ucciderlo in quell’istante, e la sua aura devastante gli faceva fischiare le orecchie. Ogni singolo stelo d’erba sembrava essersi ritratto di fronte a quel devastante senso di annullamento, capace di atterrire con una sola occhiata, come in quel momento.
Per il mezzo-demone era fondamentale mostrarsi perfettamente padrone di sé, e guardargli le iridi fiammeggianti sopprimendo il timore che lo stava divorando era segno di un vago potere. Con quello sguardo stava dimostrando di non avere affatto paura di lui.
Fu un confronto. Da un lato il demone furioso, che stava per perdere la ragione, e dall’altro il fratello, macchia sul loro nobile casato, che cercava di ricondurlo alla sobrietà.
Stava cercando di comunicargli di tornare per un attimo alle leggi umane con il pensiero, e pensare a ciò che avrebbe provocato esplodendo e scatenandosi, uccidendo tutti i presenti al castello. Non avrebbe risolto nulla, e avrebbe messo Rin ancor più in difficoltà.
Per un momento, Sesshomaru sembrò quasi cercare di capirlo, ma non gli era facile ragionare con un mezzo-demone inferiore, soprattutto senza usare le parole.
-Togliti di mezzo – gli ringhiò infatti, aumentando la sua potenza demoniaca da entità maggiore.
Inuyasha non replicò, non disse nulla, continuò semplicemente a guardarlo.
Poi, lentamente, cominciò con il discorso che aveva tanto pensato, limandone ogni aspetto: -Ascoltami, prima. In quel castello si trova, oltre a Rin, anche Kagome. Non voglio che per colpa tua le accada qualcosa e, se ciò dovesse succedere, giuro che passerò il resto della mia vita a cercare di fartela pagare. Esiste un modo molto più sicuro dello sterminio.
-Non userò mezzi da sporco mezzo-demone – sibilò ancora.
-Stammi a sentire! – esclamò l’altro, irato. –Tu non sai quanto odio trovarmi qui, quindi smettila di pensare a te stesso, e prova a metterti nei panni di colei che dici di amare.
Quelle parole ebbero effetto immediato: in uno scatto repentino, il viso di Sesshomaru fu ad un soffio dal suo, facendogli avvertire fino in fondo l’aura che era in grado di emanare con la sola presenza. Un brivido di terrore lo assalì dalla base della schiena fino al collo, ma si impedì la minima dimostrazione di paura di fronte al fratello; l’orgoglio era troppo grande.
Non gli sarebbe importato di morire, però non poteva farlo prima di aver portato a termine il suo piano. Non poteva lasciare Kagome nelle grinfie di quell’assassino spietato, privo di qualsiasi forma di pietà, soprattutto in quel momento. Mantenne un’espressione imperturbabile, per nulla mutata dalla vicinanza di quel profondo senso di baratro oscuro.
Di fronte a lui non c’era altro che un’arrogante e triste figura, disorientata dalla mancanza della sua metà complementare, che dava un senso alla sua esistenza mancante di gioia. Quel demone disperato non esisteva senza il sorriso gentile di una levatrice umana.
-Non ti permettere – disse il fratello e denti stretti. Il suo fiato era gelido.
-Io e te condividiamo la stessa maldizione – sussurrò piano Inuyasha, guardandolo dritto negli occhi.
All’improvviso, quel viso sembrò perdere completamente vita, come se appartenesse ad un morto. La maschera calò all’improvviso, tanto da lasciare Inuyasha interdetto.
I suoi occhi persero la loro profondità, assumendo un aria vacua e colma di desolazione, come un deserto composto da raffiche di vento impietoso, grandine che si abbatteva su un suolo sterile; la bocca abbandonò la sua aria intimidatoria, apparendo come una fessura spogliata di ogni espressività.
Senza Rin, Inuyasha lo comprese a fondo, il fratellastro non poteva esistere, se non come fantoccio vuoto. Presto anche il potere avrebbe perso la sua attrattiva, senza quell’allegra luce a far giocare i suoi occhi spenti. Il demone dipendeva ormai completamente da quella personcina con così tato altruismo da offrire, e non poteva farne assolutamente a meno, per conservare la propria integrità. Inoltre, il bruciante pericolo di perderla a causa di un debole umano non faceva altro che incidere ancora più a fondo il suo cuore, ridotto ad un sfilacciato ammasso di muscoli e carne.
Quell’attimo di debolezza non lasciò tracce: il demone si scostò, la sua aria omicida scese sensibilmente di intensità e il bosco tirò un sospiro di sollievo.
Aveva già compreso cosa il fratello aveva intenzione di dirgli, evitandogli stupidi giri di parole. –Lo farò – disse, recuperando il suo tono insofferente. Lanciò uno sguardo alla luna, poi scomparve, con la stessa velocità con cui era arrivato.
Inuyasha, in un sol colpo, si accasciò al suolo.
Era riuscito a calmare suo fratello.
Ed era ancora in vita. 

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Capitolo 23
*** Determinazione ***


Nello specchio era imprigionata una donna che sembrava finta.
Il viso pareva modellato nella porcellana, liscio e bianco, con la pelle più tirata sugli zigomi regolari, e il mento sottile era una punta aggraziata scolpita nel ghiaccio. Le labbra erano accentutate da una lieve traccia di rossetto rosso, che le faceva apparire un bocciolo di rosa appena schiuso, ancora tenero all’inizio della primavera.
Il naso sottile si stagliava elegantamente in mezzo a quell’espressione che non era un’espressione, vacua e triste. Gli occhi erano pozzi di pura solitudine: sottolineati da un’unica linea nera, dritta, e resi misteriosi dalle lunghe ciglia arcuate, nascondevano un profondo dolore. Le iridi scure brillavano, ma non di certo di gioia, bensì di un senso di abbandono tale da risultare schiacciante anche per qualsiasi osservatore.
I capelli, simili ad un’onda di petrolio lucente, erano raccolti in un’acconciatura particolarmente elaborata; una ciocca posta sulla sommità della testa era separata dal resto della capigliatura da un nastro rosso, mentre le restanti la contornavano rette da pettinini e spille apposite, dai lunghi e sottili ganci.
Non era possibile vederla nella sua interezza a causa di un velo sottile, bianchissimo, posto sul capo con grazia. I bordi erano ricamati con un finissimo pizzo, a delicati motivi floreali, che erano distinguibili dal viso grazie alla sottile linea d’ombra che disegnavano sulla pelle nivea della fanciulla.
La cornice dello specchio non consentiva di vedere completamente il busto, ma la parte superiore era celata da una scollatura a “v”, composta da due lembi di stoffa sovrapposti, tipici dei kimono eleganti.
La seta era eccellente, ed evidentemente costosa. Un unico pezzo bianco splendente, liscio e uniforme, con l’obi ricamato e disegnato da pazienti pennellate, che avevano impresso delicati rami marroni, quasi timidi, arricchiti da fiori d’un rosa pallido.
Lo stesso motivo primaverile ne accompagnava il fianco destro, rendendolo ancor pù sinuoso. Grazie alle gambe snelle, la curva invitante della vita non poteva che essere accentuata da un qualsiasi ornamento.
Chiamare quella figura principessa era poco, per descrivere la sua bellezza: forse la dea delle nevi era molto più appropriato, sia per grazia che per inafferabilità. Quel viso così etereo e distante da quella stanza sembrava appartenere ad un’entità sovrannaturale, a cui le stelle avevano donato un’infinita leggiadria.
Sembrava un origami sfuggente e bellissimo, creato da mani esperte. Sarebbero state da baciare, le dita del creatore di tanto splendore; e persino gli arti della sua creatura riassumevano appieno il concetto di sottigliezza.
Dalle maniche ampie ripiegate nel grembo piatto spuntavano infatti due eleganti dorsi privi di screpolature. Le nocche erano a malapena evidenziati da leggere piegature di pelle, mentre le unghie erano curatissime e liscie, dalla rosea parte superiore. Erano unghie nobili, assieme all’incarnato che profumava di giovinezza e alle ciglia appesantite dalla tristezza.
Rin smise di fissarsi allo specchio, volgendo la testa altrove con un dolore sordo nel petto. Davvero era lei, quella regina che regnava su tutte le regine? Da semplice levatrice era veramente arrivata ad una simile bellezza?
Non era mai stata vanitosa, e mai lo sarebbe stata, ma le fu comunque difficile non rimanere sorpresa. Il distacco donatole dalla pena le fece osservare tutto con occhi oggettivi, e dovette ammettere di essere bella. Non ne gioiva, perché era stato proprio quello ad attrarre colui che, di li a poche ore, sarebbe diventato suo marito.
Desiderò ardentemente dei denti gialli, gli occhi strabici, le gambe storte, le caviglie gonfie e tutto ciò che le donne cercavano di combattere: qualsiasi cosa era preferibile a quella perfezione.
Era inadeguata, tanta bellezza, se non messa accanto al Nobile Sesshomaru. In quel caso il biancore e il pallore non avrebbero potuto essere più appropriati; il viola intenso di quella bocca incredibile si sarebbe posato finalmente su labbra degne di accoglierlo. Gli occhi d’ambra sarebbero scivolati su un corpo appropriato ad accostarsi al suo, ai muscoli essenziali da combattente.
La piccola bambola di porcellana finissima avrebbe trovato il giusto compagno in un demone freddo almeno quanto lei e altrettanto meraviglioso.
Perché Sesshomaru era meraviglioso, come nessuno. Lo splendido taglio degli occhi parlava per lui, assieme alle ombre sugli zigomi, capaci di donare una singolare espressività ad un viso regale e prennemente altero, fiero e arrogante.
Lo avrebbe seguito con incedere lento e aggraziato in ogni sua avanzata, e il timore non sarebbe esistito, perché non c’era nulla che la bellezza dovesse temere.
Forse, se gli si fosse presentata in quegli abiti, con quella stessa espressione affranta e inaridita, l’avrebbe ritenuta degna di accogliere un figlio suo, un giorno.
Con amarezza ripensò al proprio ventre, costretto a portare figli il cui padre gli era sgradito, in un futuro non troppo lontano. Si chiese con insofferenza cosa si poteva provare a svegliarsi, ogni singolo giorno, accanto ad una figura che non si riconosceva come amata, che non si desiderava al proprio fianco. Cosa avrebbe pensato? Quella freddezza l’avrebbe accompagnata per sempre, da quel momento in poi?
Non sopportava, infatti, gli sguardi adoranti che la servitù le riservava in quel momento. A livello sociale, fino al giorno prima non era stata tanto più al di sopra di loro, e invece ora erano pronti ad obbedire a qualsiasi ordine, tranne che a lasciarla andare.
Cosa che trovava totalmente inutile, dal momento che voleva soltanto ricongiungersi con l’amore della sua vita.
Con un unico gesto della mano, li invitò stancamente ad uscire. Pettinatrici, addetti alla vestizione, truccatori e lacchè senza un compito preciso si inchinarono ossequiosamente e si defilarono dalla stanza, facendo scorrere gli imponenti pannelli nel pavimento e premurandosi, una volta usciti, di rimetterli a posto.
Rin ormai aveva persino abbandonato le sue idee di fuga, ben conscia che non sarebbe mai stata capace di uscire viva da lì. Troppe guardie, troppi labirinti, troppe porte chiuse.
Rassegnata, guardò il paravento, pur di non tornare a fissare la superficie riflettente; ora lei e il ritratto si assomigliavano molto, solo che il dipinto manteneva un’aria maliziosa ed eccessivamente civettuola, mentre la ragazza sembrava solo…morta.
Non le importava che ci fosse un’abissale distanza fra loro due, e che probabilmente al suo aspetto sarebbe sempre mancato quel dettaglio attraente e irresistibile, perché da quando Miyasama le aveva fatto capire di ammirare la persona lì raffigurata, lei stava cercando di fare di tutto per non essere anche solo minimamente simile.
La disturbava molto indossare quegli abiti, per quanto eleganti, perché la rendevano quasi uguale a quella donna. La guardò con ulteriore rassegnazione. Sarebbe stata la sua compagna di prigionia, eternamente intenta a truccarsi senza mai riuscire a portare a termine la sua opera.
Magari i suoi occhi, nel frattempo, avrebbero fatto in tempo a spegnersi, e non avrebbe avuto senso cercare di arricchirli con qualcosa di artificiale. Oppure era proprio perché non possedeva più uno sguardo che cercava di farsene uno, senza però completarsi mai. Aveva un bel corpo, un bel viso, ma la sua anima era del tutto assente; forse si era venduta troppo, e non era riuscita a frenare quel fatale compratore.
Bisogna essere parsimoniosi quando ci si cede agli altri, lei lo aveva imparato a sue spese. Regalandosi completamente al suo Principe, non aveva tenuto nemmeno una parte di sé, ed era questo paralizzante senso di incompletezza a tenerla inchiodata lì, senza poter reagire.
In circostanze normali si sarebbe ribellata con ancor più forza rispetto ai tentativi già falliti, ma si accorse che la sua motivazione era l’arrivo di Sesshomaru, che sarebbe sempre corso a salvarla. In quel momento era completamente sola, e non poteva fare altro che arrendersi.
Una tremolante fiamma prese lentamente vita dentro di lei, scuotendola in parte dalla sua apatia: non poteva, non doveva arrendersi a quel modo!
Lei era ancora padrona della sua vita, perché di fatto nessuno la legava a quel posto. Era nubile, fino a prova contraria, e suo marito non era nei paraggi. Quindi, perché non tentare?
In fondo, di lì a poco sarebbe diventata la signora di quel posto, se l’avessero fermata avrebbe sempre potuto raccontare di aver ottenuto il permesso dal futuro sposo, con la scusa di ambientarsi in un posto in cui avrebbe dovuto vivere.
Tornò a guardarsi allo specchio. Ora, finalmente, il suo aspetto era completo. Un fuoco, un enorme incendio, divampava fulgido in fondo al suo sguardo, donando colore anche alle guance. L’aria combattiva la spingeva a non lasciarsi morire.
I perdenti sono coloro che desistono.
Il destino l’aveva sempre perseguitata con i suoi colpi di scena, cosa le faceva pensare che questa volta non sarebbe andata all stesso modo? Aveva cominciato a sottovalutarsi, e questo non andava assolutamente bene.
Dal momento che non aveva nessuna unione con quell’uomo, poteva dirsi la donna di un demone, e questo lo obbligava ad essere forte e fiera di sé stessa. Non era il momento di piangersi addosso. Gli dei non sarebbero intervenuti per una scaramuccia del genere, e avrebbe fatto affidamento sulle proprie forze.
Chi aveva stabilito che era debole? Se lo desiderava, era sicura che sarebbe riuscita a smuovere persino una montagna. Anzi, più ci pensava, più le sembrava geniale: fuggire, rifarsi una vita in un altro villaggio (la zona pullulava di contadini), tornare dopo un paio d’anni e continuare laddove tutto aveva avuto origine.
Miyasama non sarebbe più stato un problema, perché per la vergogna dell’affronto subito avrebbe dovuto sposare immediatamente un’altra fanciulla, legandosi per sempre alla nuova arrivata, questa volta entusiasta.
Sì, era decisamente perfetto!
Guardò furtivamente fuori dalla veranda, ancora socchiusa, lasciando entrare la fredda aria della notte. Era buio pesto, ma grazie a Sesshomaru e all’aspettarlo sempre nella foresta nelle ore più scure, aveva combattuto definitivamente la sua paura dell’oscurità.
Anzi, da qualche anno vi affogava le sue pene d’amore, piangendo dove solo una piana deserta appena fuori dal villaggio poteva accogliere le sue lacrime, e lasciare spazio al sorriso che tutti dicevano di amare.
Con un gesto seccato, levò il velo dal capo, gettandolo a terra. Ne aveva abbastanza di quella cosa sui suoi capelli perché, nonostante sembrasse impalpabile, pesava eccome, con tutte quelle decorazioni.
Ora il suo cervello poteva pensare meglio, e decise di tentare a sondare l’altezza a cui si trovava. Mosse qualche passo incerto verso la finestra, ma guardando verso il cortile interno decise che non era affatto una buona idea: era forse al quarto piano di una villa immensa, e già le pareva di vedere il proprio corpo spappolato al suolo e il kimono sporco di sangue.
Neppure da prendere in considerazione l’idea di usare lenzuola come appiglio, perchè non ce n’erano, o il kimono, perché non aveva la minima idea di come slacciarlo. Non era stata attenta mentre lo intrecciavano attorno alla sua vita sottile, oppure quando l’obi era stato stretto attorno ai suoi fianchi. Sarebbe stato indubbiamente un peccato rovinare quella stoffa tanto raffinata, e decise di lasciare gli strappi e le macchie di fango per quando si sarebbe gettata nel bosco di corsa.
Fece una prova di movimento con le gambe: poteva camminare abbastanza liberamente, anche se la fasciatura era stretta. Non sarebbe andata lontano, ma le sarebbe bastato per trovare un buon nascondiglio; in effetti l’essenziale era seminarli, non per forza spingendosi più distante di loro.
Per precauzione tolse dalla nuca una spilla che sporgeva, torturandola con la sua punta. Magari, dopo tutta la fatica che avrebbe fatto, le si sarebbe conficcata dritta nel cervello, perforandole il cranio! Allora sì, che sarebbe stata fatica sprecata.
Determinata ad uscire da lì a qualsiasi costo, andò verso la porta a passo battagliero, ficcando le unghie nella fessura fra pannello e pannello, spingendo  dal centro verso l’esterno per creare una via di fuga. Sarebbe riuscita a sgusciare anche in pochi centimetri, ne era sicura, bastava solo che si aprisse un maledetto spiraglio…
All’improvviso, le ante si splancarono, tanto repentinamente da farla cadere all’indietro e facendole sbattere il sedere per terra. La prima cosa che provò fu il dolore, per colpa del colpo ricevuto al fondoschiena derivato dalla caduta. La seconda, la paura per chi potesse esserci dietro l’uscio: forse qualcuno per punirla?
Decise che non le importava, che le avessero fatto quello che volevano, tanto non sarebbe rimasta per nulla al mondo. In fondo, più la torturavano come fino a quel momento non avevano fatto, più si sarebbe impegnata ad uscire.
Invece, quando alzò lo sguardo, restò abbastanza sorpresa.
Dritto in tutta la propria statura c’era Miyasama, un’espressione dispiaciuta sul volto bellissimo e le mani che subito si stavano muovendo per aiutarla ad alzarsi. I capelli erano stati raccolti e sistemati sotto ad un elegante copricato principesco.
Con un gesto che Rin non si credeva capace di compiere, allontanò la sua mano, per fargli capire che si sarebbe alzata da sola e che non le importava la posizione che il marito rivestiva. Lei era una donna indipendente, non sarebbe mai stata sua, per quanta cortesia l’uomo avrebbe potuto dimostrare nei suoi confronti. Lui non era Sesshomaru, e tanto bastava per farle provare nulla di più dell’indifferenza.
Nel suo intimo era oltreggiata dal fatto che un debole umano fosse potuto arrivare a quel punto, con una tale sfrontatezza, e che credesse sul serio che lei sarebbe diventata sua moglie, come se stesse trattando con una contadina qualunque, e non con la donna di Sesshomaru-sama.
Anzi, forse non lo conosceva neppure, e questo dettaglio era ancora più infamante. Appropriarsi di colei che era la proprietà di un demone maggiore senza neppure preoccuparsi delle conseguenze lo rendeva un masochista particolarmente stupido, sempre se fosse esistita una combriccola di masochisti intelligenti.
-Vi siete fatta male? – le chiese. Sembrò non voler notare il movimento della giovane, che lo escludeva completamente dalla cerchia di coloro di cui si fidava.  Non lo amava e non lo voleva nella sua vita, cosa che trasparì anche dalla sua espressione, finalmente, battagliera.
Lei si limitò a fare un cenno col capo, in un debole assenso. Lo spirito di prima non l’aveva abbandonata.
-Siete splendida, se me lo permettete – disse, abbassando lo sguardo. Doveva aver capito, infatti, ciò che la fanciulla provava, e anche che non era affatto disposta a sposarlo. Anche se aveva abbassato il tono ed era arrossito, non fece nessuna presa su di lei. Sesshomaru non sarebbe mai stato tanto imbarazzato, e la ragione era semplice: il demone era nato per essere un re, mentre Miyasama non sarebbe mai stato più nulla di un principe.
Nonostante la sua bellezza, l’eccessiva bontà azzerava quasi del tutto il suo fascino proibito, cosa di cui poteva invece bearsi su Sesshomaru. Ogni stretta, ogni sospiro, era intriso di eccitante illegalità, e la giovane non era disposta a privarsene. Uno aveva imparato ad amarlo col tempo, senza bisogno di rapimenti o farse varie. Si era innamorata del suo salvatore, cosa poteva esserci di più meraviglioso?
Dopo anni di struggimento, aveva finalmente ricevuto la conferma che l’aveva resa, in tutto e per tutto, una donna, ed era stato il suo principe a donarle quel privilegio immenso. Per questo il feudatario non sarebbe riuscito, nemmeno in parte, a raggiungere il suo amato, nemmeno con tutto il rispetto di cui la inondava e la riservatezza che le lasciava, nei limiti del possibile.
Aveva usato mezzi illegali per avvicinarla, e ciò minava tutte le opinioni che avrebbe mai potuto avere su di lui, qualsiasi cosa avrebbe fatto nel tempo a seguire. Quella macchia l’avrebbe sbiadito per sempre.
-Mi dispiace, ma non posso, lo sapete –replicò, ma non volle essere acida. Credeva che l’amore non corrisposto fosse molto più corrosivo di alcune semplici parole.
Il giovane chinò il capo, con un sorriso triste appena accennato sulle labbra morbide, per far apparire i suoi connotati doppiamente spenti rispetto a quando era entrato.
-Posso raccontarvi un fatto inerente a quel paravento? – domandò piano. Ormai aveva capito che non avrebbe mai potuto avere Rin, nemmeno se l’avesse sposata. Lei sarebbe stata per sempre legata alla misteriosa figura che lui aveva allontanato per averla con sé, e lei non gliel’avrebbe mai perdonato.
-Se lo desiderate – rispose, gentile. Suo malgrado gli sorrise, perché le dispiaceva sempre vedere le persone infelici, e sapere di esserne la causa la faceva incupire a sua volta. Se fosse stato per lei, tutto il mondo avrebbe sorriso sempre, ma in quel momento il lieve conforto che gli stava offrendo era persino troppo.
-Vi ringrazio -. Alzò leggermente la testa, guardandola negli occhi per un fugace momento e tornare, subito dopo, a concentrarsi sul dipinto.
Rin doveva ammettere che il pittore era stato davvero abile nel riprodurre l’immagine della donna, perché l’idea del movimento appena accennato era perfettamente espressa, così come la vena maliziosa negli occhi espressivi o la piega della bocca, in un discreto sorriso. Ma comunque non riusciva a capire come mai Miyasama lo guardasse sempre più con affetto che con eccitazione.
Soddisfare una curiosità non era mica un peccato prima di andarsene, no?
-Vedete, io sono sempre stato un debole. Da piccolo mi ammalavo spesso, e credo che questo abbia minato per sempre il mio rapporto con le persone. La donna del ritratto mi stette sempre accanto, e per paura che mi succedesse qualcosa mi rinchiuse in una casa principesca, nonostante la nostra famiglia potesse permetteserla a stento. Inoltre, onde evitare che mi sentissi solo, mi circondò di servitori e dei loro figli, e fu così che vissi, fino ad una decina d’anni fa.
Fece una pausa, durante la quale Rin assorbì le informazioni ricevute e cercò di dar loro un senso.
Continuò: -Lei si ammalò gravemente, ancora molto giovane: i medici dissero che era per la frustrazione derivata dalla vedovanza e dalla gestione degli affari, cioè la casa in cui vivevo. Nonostante i dolori strazianti, mi chiamava al suo capezzale ogni giorno, e si manteneva vigile per raccontarmi questa o l’altra storia.
Lo vide sorridere leggermente al ricordo. Quelle confidenza stavano dando profondità alla sua figura, che fino a quel momento era stata avvolta dal mistero più totale. Rin decise di non turbare il suo racconto con qualche domanda, anche perché vederlocosì tristemente assorto era preferibile alla devastazione che assumeva innanzi alla sua sposa.
-In quello stesso periodo cominciai ad intraprendere trattative commerciali per ottenere denaro, e il progetto andò a gonfie vele. Fu grazie ad esso che riuscii a pagare medicine ed esperti da tutto il mondo: formavano una processione continua di illustri luminari della scienza davanti alle porte della sua camera, fino a quando non sembrò stare meglio, anche se aveva perso quasi tutto della vecchia sé stessa. I capelli che tanto amava erano tutti…bianchi -. Tale parola fu pronunciata con strazio sincero, tanto da lasciarla turbata, anche se non la guardava.
-Comunque, pochi giorno dopo, andai a trovarla, visto che diceva di stare bene ed essere attiva come una volta – la sua espressione si indurì. –La trovai riversa sul pavimento, con i polsi squarciati; aveva preferito morire che rimanere un’invalida.
La mascella si contrasse perché non vedesse quanto raccontarlo l’ebbe provato: -Quella donna era mia madre.    
 
Rin rimase sconvolta per un momento. Si portò una mano alla gola, per fermare l’orrore, e un’altra rimase inchiodata al suo fianco, senza che riuscisse a muoversi. Il racconto, intriso di affetto e amore per quella figura, era completamente distorto dal finale crudele e selvaggio.
I suoi occhi increduli scivolarono sul dipinto, vedendolo ora molto diversamente. Non era malizia, la luce nelle pupille, bensì disperazione; quel pennello non serviva a farsi belle, ma ad annullare l’immenso dolore che la logorava.
Una fine tragica da suicida, per una vita vissuta nel tentativo di soddisfare il figlio. Un racconto che, per quanto straziante, non gli rese più gradita la presenza del ragazzo nella stanza.
Ovviamente le dispiaceva che avesse dovuto vivere quel trauma orribile, e sapeva cosa si provava a vivere senza genitori, dal momento che aveva provato la stessa cosa sulla propria pelle, però non si poteva sposare una persona per compassione. Non pensava che Miyasama l’avesse fatto per farle pena, ma solo aveva bisogno di sfogarsi, raccontare il suo strazio a qualcuno.
Forse si sentiva in colpa, l’origine della sua malattia, eppure non avrebbe mai più potuto rimediare. Ed era ammirevole che non avesse cercato di dimenticarla del tutto, anche se quella continua presenza la inquietava.
Sentì con maggiore urgenza il desiderio di uscire da quell’atmosfera opprimente, soffocante. Non voleva rimenere con lui, con lo spettro di sua madre o tutta l’aura di…incompletezza, emanata da tutto il castello; desiderava solo tornare nei boschi con il suo unico, vero principe.
La stanza fu scossa da un violento tremito. L’espressione di Miyasama mutò radicalmente, mentre l’orecchio si tendeva per captare ogni singolo rumore: gesto stupido, visto che non era un demone cane…
L’odore di zolfo schiaffeggiò le narici di Rin, sempre più spaventata. Accadde in un attimo: la porta venne divelta, si sentì in lontanza un’altra esplosione, urla di uomini, il calore delle fiamme e…
Il viso intriso di rabbia del Signor Sesshomaru si appuntò su Hakihito.
In fondo ai suoi occhi erano ben chiare le sue intenzioni.
I perdenti sono coloro che desistono.  

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Capitolo 24
*** Fuoco ***


Inuyasha doveva saperlo che Sesshomaru aveva fatto di tutto per capire solo quello che gli faceva comodo: si stava dando dello stupido per averlo lasciato procedere in quel modo, senza neppure essersi assicurato che avesse capito ciò che doveva fare.
In fondo, un Demone Maggiore non si sarebbe mai fatto comandare da un mezzo-demone, soprattutto se gli interessati erano loro due. Erano in conflitto da una vita, cosa lo spingeva proprio in una situazione tanto delicata a fidarsi di lui? Ripensandoci correndo verso la villa, si dimostrava sempre più folle come piano.
La vicenda che aveva immaginato era lineare e semplice, ovvero far giungere l’interessato al castello e farlo parlare con Miyasama, per chiarire chi dovesse andare con chi. Era fondamentale la presenza di Rin, e aveva incaricato Kagome di assicurarsi che la fanciulla fosse presente.
Infatti, se lei avesse assistito a quello che sperava sarebbe stato un dialogo civile, Sesshomaru si sarebbe trattenuto dal fare una carneficina, perché non uccideva mai se lei poteva vedere.
All’inizio, trattandosi di una bambina con un passato orribile alle spalle, non lo faceva per risparmiarle traumi o ulteriori problemi. Notando però quanto lei fosse poco suscettibile, aveva volontariamente evitato di mangiare corpi decomposti davanti ai suoi occhi, perché se avesse voluto farla vivere in mezzo agli umani non avrebbe certo dovuto farglieli vedere come del cibo.
Forse era anche una sorta di rispetto verso la specie a cui Rin apparteneva: divorare il corpo di un proprio simile, oltre che ad una certa impressione, poteva anche urtarla sensibilmente, magari facendola sentire inferiore allo stesso demone.
Inuyasha scartò quell’ipotesi; probabilmente non esisteva un vero motivo, ma di certo non era per rispetto verso gli esseri umani, in quanto il suo odio per loro era risaputo. Non sarebbe mai sceso a compromessi con nessuno riguardo alla loro sofferenza, e su questo non c’erano dubbi.
Comunque la sua fiducia verso il fratellastro si era del tutto azzerata quando aveva sentito il primo boato, accompagnato da ordini abbaiati nell’aria e rumori di armi che venivano inutilmente estratte dai loro foderi. Urla di uomini, strilla di donne, odore di buciato e una potenza distruttiva inarrestabile.
Per questo ora correva, avanzando al massimo delle sue possibilità. Nemmeno quando davanti a lui c’era Naraku in persona sentiva la stessa urgenza, stendendo crudelmente i muscoli per allungare quello che era un passo già di per sé al di fuori del normale. Il motivo era semplice: Kagome era lì dentro, in quell’inferno di fuoco e fiamme, con torri simili a pire e un caldo allucinante, che riusciva ad arrivare fino al suo viso come se si trovasse sul posto.
L’aria della notte aveva presto assorbito la puzza di pelle che va a fuoco. Ebbe un flash di tutte le stanze che aveva visto mentre bruciavano.
Non avrebbe esitato a sfoderare Tessaiga, per qualsiasi ragione al mondo, persino per uccidere Sesshomaru. La rabbia che gli stava montando nel petto non era nemmeno lontanamente paragonabile a quella dell’altro che, in quel momento, stava distruggendo l’edificio.
Se alla sacerdotessa fosse stato torto anche un solo capello, avrebbe fatto una strage, lo promise a sé stesso, perché la fanciulla era entrata sana lì dentro e sana doveva uscire. Non c’erano scuse o mezze misure, anche se capiva lo stato d’animo del demone.
Quando giunse finalmente ad uno spiazzo rovente, capì che la situazione era persino più grave di ciò che aveva immaginato.
L’ingresso si era trasformato in una gigantesca bocca incandescente, per metà fusa fino a creare un’apertura simile ad una ferita di spada. Le fiamme cingevano nel loro mortale abbraccio la maggior parte delle mura, mentre guardie grandi come formiche cercavano di arginare il distastro con inutili ed energiche secchiate d’acqua. A terra qualche carcassa carbonizzata rendeva il quadro ancor più grottesco.
Le iridi di Inuyasha si colmarono di fuoco, fino a lacrimare. Guglie arancioni avevano sostituito il tetto, e gli parve di morire vedendo le scintille avvicinarsi pericolosamente agli alloggi dove riposavano Kagome e Kunieko.
La mano tremante corse all’impugnutura della spada, nel suo cuore solo desolazione e una vena di isterismo. Non volle neppure vagliare l’ipotesi che la donna potesse essere perita fra le fiamme.
Sfoderò l’arma e balzò oltre la cancellata, i talloni morsi dal torrente inarrestabile di un incendio demoniaco. Quello spettacolo apocalittico era il riassunto più efficace che qualcuno potesse fare sulla potenza devastatrice di suo fratello, che stava per mettere a rischio la vita persino dell’amata.
Per un momento pregò che Rin e Kagome si trovassero nella stessa ala del palazzo semi-distrutto in pochi minuti, perché almeno sarebbe stato sicuro della sua salvezza. Anche se era stato avventato, era più che sicuro che la fanciulla non avrebbe corso il minimo rischio.
Oltrepassò le ceneri di quello che doveva essere un paravento: la carta a motivi floreali era chiazzata da ampi buchi dai bordi neri, che andavano allargandosi. Fece fatica a farsi largo fra i presenti a causa del continuo via vai di persone, servi e nobili, chi per cercare una via di fuga, chi per proteggere il palazzo.
Coloro in kimono blu mantenevano una freddezza invidiabile, anche in confronto a lui che, invece, stava urgentemente passando fra una stanza e l’altra scaraventando porte all’esterno. Ogni servitore sembrava avesse un preciso compito da rispettare, cosa fatta nel modo più ineccepibile, se considerati tutti gli elementi lì presenti.
Arrivò in una parte che gli sembrò familiare, laddove l’aria era più respirabile. Il fumo non opprimeva i polmoni e c’erano meno persone, che se ne stavano comunque andando verso le parti distastrate e cadenti. Respirò ampiamente l’aria fresca, lasciandosi colmare da un po’ di pace: era la sala di Lutto Perenne, così come l’avevano chiamata, e il ritratto della signora lo stava guardando beffardo da sopra il suo scranno. Lei ormai non doveva più temere la morte, e osservava con altezzoso distacco le vicende che spingevano gli esseri umani in vita a sembrare un branco di terrorizzate pecore.
Avendo cura di non essere notato, Inuyasha le fece una linguaccia, nonostante fosse conscio del fatto che non era il momento per simili scemenze e che doveva cercare Kagome. Rin era caduta in secondo piano rispetto alla possibilità che la sua amata stesse soffrendo, perché anche se da un lato gli dispiaceva ragionare in termini così egoistici, lei veniva prima di tutto.
Cercò freneticamente nello spazio immenso, setacciando ogni stanza che si aprisse nelle parti laterali, ma le camere erano state evacuate, lasciando solo futon disfatti e anonimi, spogliati fino a diventare essenziali, per rispettare la compostezza del posto.
Non poteva affidarsi al suo naso, e si faceva sempre più disperato sentendo il fumo avvicinarsi e non riuscendo a trovarla da nessuna parte. Tendeva le orecchie al massimo, come se potesse sovrastare il rumore di voci che si accavallavano oppure di urla straziate dei corpi divorati dalle fiamme.
-Kagome! Kagome! – cominciò ad urlare, disperato, abbattendo i pochi pannelli rimasti ancora in piedi, per accedere più facilmente ad altre parti del castello.
Malediva mentalmente sé stesso e Sesshomaru per tutto ciò che era successo. Alla fine l’avrebbe ucciso, pungolandolo lentamente con la spada che voleva possedere ma che era incapace di usare, prendendosi il riscatto di una vita intera.
Sentì già il sangue bollire nelle vene a quella dolce prospettiva, mentre il suo istinto demoniaco faceva in modo che gli artigli si acuminassero minacciosamente. In fondo, cos’aveva da perdere? Non sapeva dov’era Kagome, non sarebbe più riuscito a salvarla e una sensazione lacerante al petto lo stava lentamente uccidendo. Sembrava non avere più un cuore, e che la circolazione stesse stagnando, animandosi solamente per spingerlo a contrarre i muscoli delle mani.
La sua fedelissima spada vibrò, segno che stava perdendo del tutto il controllo. La vista offuscata tornò lucida, le orecchie smisero di appiattirsi contro la testa e il bagliore sanguigno nelle iridi si diradò; anche se non poteva vederlo chiaramente sapeva che era comparso.
Cercò di rimanere saldo il più possibile, razionalizzando nonostante la situazione invitasse al panico. Il fuoco abbracciava ormai tutta la costruzione e gli uomini non sarebbero mai riusciti a spegnerlo prima dell’arrivo del giorno, impedendo a coloro che si trovavano all’interno di fuggire. Sesshomaru si trovava probabilmente ai piani superiori, ma dal momento che una scalinata stava bruciando e non aveva idea di dove si trovassero le altre sarebbe dovuto partire dall’esterno. Questo dopo aver trovato Kagome, ovviamente.
Una vampata di aria incandescente gli lambì la schiena, segno che l’incendio si stava espandendo anche lì. Doveva fare in fretta, se voleva tirarla fuori viva e senza bruciature.
Sentì una porta spalancarsi, poco davanti a lui, e una tunica rossa sbucò dall’apertura, tuffandosi verso una stanza più fredda delle altre. Subito richiuse l’uscio dietro di sé, come per tenere lontane le fiamme che li stavano circondando; su di essa si appoggiava una persona che sembrava moribonda, in un kimono azzurro e semplice, annerito dal fumo.
-Kagome! – esclamò. L’ondata di sollievo che lo invase quando la riconobbe fu indescrivibile: il nodo che gli stava agitando le viscere si sciolse immediatamente, gli istinti demoniaci furono cacciati laddove avevano avuto origine e Sesshomaru, Rin, Miyasama o chiunque altro persero la loro importanza, come se mai ne avessero avuta.
La ragazza sollevò lo sguardo cerchiato di rosso, stanco e provato: la cenere sul viso era stata in parte lavata via dalle lacrime, che le avevano bagnato le guance, mentre sia le maniche che i bordi dei pantaloni erano bruciacchiati, con diverse striature anche sul kimono bianco. Evidentemente, nella fretta, una parte di esso si era lacerata, lasciando intravedere la stoffa al di sotto.
Rinfoderò Tessaiga mentre, spinto dalla gioia, le correva incontro. Il suo sollievo non era paragonabile a nulla.
Kunieko, che si era appoggiata alla ragazza, si spostò con una mano sulla parete opposta, lasciando loro un po’ di spazio. Anche lei aveva la pelle cadaverica e alcune tracce nere a macchiarle viso e vestiti, ma sembrava stare abbastanza bene, se non per la debolezza delle membra.
-Inuyasha! – rispose la giovane, illuminandosi. Si reggeva a stento, ma il suo primo pensiero non era stato per sé stessa,e lasciò che l’amato la abbracciasse con slancio, rischiando di farle male.
La stoffa profumava esattamente come sempre, quella traccia virile e familiare, calda e accogliente, quasi rude ma perennemente disponibile nei suoi confronti, come una casa. Trovò la pace, immersa nel rosso rassicurante del suo petto ampio, dal respiro appena affannato, proprio come nel suo sogno.
Mentre tutto il resto andava letteralmente in fiamme, lui era il suo punto fermo, immutabile, che aveva fatto di tutto per trovarla, e ora ci era riuscito. Circondata dai suoi lunghi capelli argentei e dalla gioia palpabile di lui, si sentì amata e protetta. Era sicura che l’avrebbe portata fuori di lì, risolvendo tutto in fretta.
Perché Inuyasha era fatto così, manteneva sempre la promessa data a qualsiasi costo, anche se visto dall’esterno non sembrava una persona affidabile. Per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa, sarebbe arrivato anche a distruggersi pur di tenerla al suo fianco, per sempre.
Kagome lo sapeva, e non poteva dirsi più felice che in quel preciso istante. All’improvviso le costrizioni del sacerdozio le sembrarono insostenibili, con quelle assurde regole da rispettare e che impedivano ai religiosi di avvicinarsi davvero a Dio, ovvero amando liberamente chi si desiderava.
Inuyasha aveva fatto tantissimo per lei, in molte occasioni, c’era sempre stato e non l’aveva mai tradita, non abbandonandola nemmeno vedendo i suoi impegni verso la comunità. Le viveva affianco, come un’ombra, ed era pronto a tenerla in piedi in qualsiasi momento che richiedesse il suo aiuto. Le forniva un motivo valido per andare avanti ogni singolo giorno e che aveva dato alla sua vita la svolta necessaria a renderla speciale.
Nel cuore sentì germogliare finalmente, in tutto il suo splendore, il sentimento più nobile che avrebbe mai potuto provare, ovvero l’amore. Era giunta allo stadio ultimo di tale sentimento, che poteva bruciare molto più del fuoco che imperversava nella notte stellata.
Ciò che provò le fece quasi male. Molto più delle bruciature superficiali sparse su tutto il corpo, della cenere che aveva inalato, della paura e di qualche graffio. Lo stava sentendo per Inuyasha, e seppe che non ci sarebbe mai stato nessun’altro. Lui era l’unico e il solo, e doveva averlo, come per una sorta di diritto divino.
“Amor ch’a nullo amato amar perdona”, diceva un libro, ma non ricordava quale…ma nulla le sembrò più appropriato per quel momento, come se il poeta avesse atteso loro due come soggetti di una passione sventurata.
Eppure il destino si poteva cambiare, lo avevano dimostrato a sé stessi. All’inizio della loro avventura si odiavano a vicenda, avevano imparato a detestarsi e non sopportavano l’idea di dover viaggiare insieme; ce l’avevano fatta, anche quando sembrava troppo difficile continuare il cammino, e nonostante tutto i pericoli erano stati abbattuti. Non poteva permettere che la stupidità mettesse a rischio il loro rapporto, perché sentiva di essere nata per quell’istante.
Quando i suoi palmi avevano sfiorato il legno vecchio e logorato della freccia conficcata nel petto del ragazzo, lo stesso che era diventato poi il suo riferimento e su cui ora posava la guancia, sapeva che tutto avrebbe assunto un senso. Lo scorrere del tempo, il vivere in un tempio, il demone nel pozzo, la Sfera…tutto creato per un motivo, che le era stato lampante all’improvviso.
In un attimo di fronte ai suoi occhi si era aperta la verità, sotto forma di una lunga strada da percorrere. Quando aveva attraversato il pozzo per l’ultima volta, accogliendo la mano amata e familiare con il movimento più naturale del mondo, credeva di essere giunta a fine percorso; rimanendo aggrappata alla sua tunica familiare, invece, si accorgeva che la luce era davanti ai suoi occhi e splendeva: se l’avesse afferata avrebbe potuto vedere chiaramente il mondo per com’era davvero, e sarebbe stata felice.
Anche se lei non poteva saperlo, anche il ragazzo stava pensando le stesse cose. Kunieko era praticamente scomparsa dalla sua mente, obliata da quel corpicino sottile che non gli pareva vero, mentre lo stringeva per sincerarsi che fosse tutto reale. Non gli sarebbe sembrato strano accorgersi di aver sognato tutto quando, e di essere ancora alla ricerca della sacerdotessa.
Non gli importava più di nulla, solo di tenerla stretta a sé, come se non sapesse fare altro. Le accarezzava i capelli sporchi di fuliggine, la schiena provata dalla fatica e sentiva le sue scapole sotto le dita, stagliarsi nette contro la stoffa calda. Chissà l’inferno che aveva passato senza di lui, le sfide di un attacco improvviso, che dovevano averla colta alla sprovvista.
Non per la prima volta il pensiero di averla quasi persa del tutto si fece dolorosamente strada nel suo petto, percuotendolo come solo i pensieri sanno fare, ovvero con inaudita violenza e senza preavviso, che lo sconvolse per la sua gravità. Kagome era fragile, vulnerabile e poteva benissimo finire preda di una delle molteplici sfide a cui la vita la sottoponeva.
Stavano spercando il loro tempo insieme. Sarebbero potuti sparire da un momento all’altro, come origami persi in un mare tempestoso; la carta di sarebbe sciolta, lasciando l’altro vittima di un terribile naufragio. Non sarebbe potuto sopravvivere sena di lei, né avrebbe voluto.
E ripensare alla paura e all’orrore che aveva provato credendo in una sua possibile scomparsa lo lasciò quasi stordito. Aveva bisogno di sentirla vicina e viva, abbandonando anche solo per un istante quella spiacevole sensazione di debolezza e inutilità.
Fu per questo che la gioia della sua presenza lo fecero lievemente scostare da lei, in modo che i soli capelli riuscissero a lambire le sue guance morbide. Le prese una mano, accarezzandola con il pollice, senza riuscire a realizzare di poterla finalmente vedere davvero.
Anche se era sporca e stanca risplendeva di un’eterea bellezza, lo sguardo affascinante ora di nuovo colmo di luce, come se avesse raggiunto la soluzione di un impossibile enigma. Lasciò che l’altra mano si poggiasse sulla sua guancia: si stava raffreddando dopo l’eccessivo calore che l’aveva arrossata.
Lei socchiuse le ciglia, dolcemente, per godere appieno di quell’innaspettata carezza. Raramente si lasciava trasportare dalla tenerezza, e si pentì di non averla cullata prima, quando non c’erano pericoli che avevano il potere di accorciare l’incontro.
La sua bocca rosata si schiuse, e lui non seppe resisterle.
Fu il tempo dello sboccio di un fiore, dell’arrivo della primavera, del sorgere del sole, della nascita di un bambino, della scoperta dell’amore, del mistico sollievo che solo la felicità poteva dare.
Mentre lasciava che il suo viso si abbassasse coprendo chilometri e chilometri di strade percorse e demoni uccisi, mentre le sue mani tenevano un corpo ricco di sogni e aspettative, mentre lo stupore faceva presa mordente su di lui, si ritrovò a sorridere piano.
Quel tocco liberatorio gli parve incredibile. Com’era stato facile coprire le distanze!
Era stata la cosa più naturale del mondo eliminare tutto fuorchè lei. Le sue labbra morbide lo accolsero come un ospite atteso, dandogli una leggerezza immane, impossibile da dimenticare.
La bocca di lei scivolò su quella di lui, i fiati caldi si fusero in uno solo, rendendoli partecipi di un’unione che rasentava il sacro. Aspettare era stata l’unica soluzione per godere appieno di quel contatto appena accennato, ma destinato sin da subito a rendersi più marcato.
Con un movimento che lo sorprese, fu Kagome a cedersi completamente, stringendo le dita incredule sulla sua schiena. Lui si lasciò pervadere e colmare, conoscendola tramite quel tocco lieve e delicato.
Le labbra di lei erano morbide e tiepide, conservando il sapore della gioventù e dell’innocenza. Sembrava di assaggiare il frutto più prelibato che potesse esistere, dolce, in attesa solo di quel singolare estimatore, completamente perso nella vastità di tale emozione.
Non volle rovinare tutto con la presa del suo bacino bruciante, lasciado sciogliere tutta la tensione in quell’unione definitiva: tanto l’aveva sognato, tanto l’aveva desiderato che ora non poteva far altro che assorbirne ogni singolo istante.
La cenere copriva con un velo le loro bocche, ma a nessuno importava. Lasciarono velocemente danzare le loro lingue, anche se lei era timida e quasi timorosa di lasciarsi completamente andare. Non aveva certo paura di lui, ma sentiva un sollievo tanto grande che, paragonandovi la sua vita intera, le sembrava di essere finalmente guarita da una qualche malattia.
-Ehm…scusate se vi interrompo, ma…il fuoco… - farfugliò Kunieko. Anche se non la stavano guardando era sicuramente arrossita.
Sentì la ragazza irrigidirsi fra le sue braccia. Lentamente, le labbra ritornarono due elementi distinti, lasciando ad entrambi cuori traboccanti di felicità, tanto che parve loro di scoppiare.
Il ritorno al presente fu brusco, ma avevano bisogno di concretezza, senza neppure avere il tempo di riprendere fiato: videro l’altra a disagio, che aveva evitato di assistere integralmente alla scena, guardare le fiamme che stavano tornando protagoniste.
Kagome avvampò un momento, passandosi la lingua sulle labbra. Gli scoccò solo un’occhiata, prima di mettersi a sostenere la contadina, che aveva avuto un malore. All’improvviso si era accasciata contro il muro in un giramento di testa.
Inuyasha sfoderò nuovamente Tessaiga: forse poteva usare un qualche colpo per arginare almeno un po’ l’incendio distruttivo, nella pallida speranza che potesse servire. In quel momento contava solo trovare Sesshomaru e cercare di non far accadere l’irreparabile, per uscire vivi da quella che era diventata una situazione disastrosa.
-Ha respirato troppo fumo, credo abbia bisogno di uscire al più presto – gli disse, toccando la fronte pallida di Kunieko con fare esperto.
Lui annuì, pieno di un determinato ardore che lo spingeva a cercare quel bastardo e a conciarlo per le feste. –Mi dispiace, ma io devo andare subito, altrimenti…
La vide annuire, spezzando la sua frase. Poi gli sorrise, dolce come solo lei sapeva essere: -Mi basta che mi indichi una via d’uscita, poi riesco ad arrangiarmi.
Lui rimase un attimo stordito, e fu tentato di baciarla ancora. Baciarla! Non poteva credere di essere appena riuscito a farlo, dopo averci ricamato tanto sopra ed essersi arreso.
Le indicò un punto lungo la parete, uno squarcio causato da Tessaiga, da dove entravano fiotti di aria gelida. –Dovreste passarci – disse.
Lei mimò un “grazie” senza voce, osservando brevemente il punto d’uscita. Sistemò meglio Kunieko contro la propria spalla, reggendola in maniera da non esserne troppo appesantita, per riuscire a camminare e a salvarsi.
-Inuyasha? – domandò, di spalle.
Lui stava già per proseguire oltre, ma si fermò con un brivido, ancora frastornato da ciò che aveva trovato il coraggio di fare. Gli sembrava di essere pervaso da una scarica elettrica, che andava dalla base della sua schiena fino alla radice dei capelli, acuendo la sua sensibilità in maniera notevole.
-Ho fiducia in te – gli disse. Poi scavalcò la ferita sul muro e la vide sparire nel buio della notte, verso un riparo. 

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Capitolo 25
*** Demone razionale ***


La lama si conficcò nel pavimento in legno, spezzando l’armonia delle assi lucidate a specchio.
All’improvviso, l’ambiente sembrò pervaso da una surreale immobilità: il clangore delle due spade che si erano appena incrociate aveva lasciato l’eco nella camera, come se il rumore si fosse impregnato a fondo nei mobili e fra i muri.
Dalla finestra si poteva scorgere una distesa di velluto scuro squarciata da torri infuocate, di un arancione disarmante. Vampate di calore si mischiavano all’aria gelida, e risalivano verso l’alto assieme alle urla di uomini e ai loro passi frenetici.
Inuyasha si permise di sospirare di sollievo fra sé e sé. Se fosse arrivato un istante più tardi, Miyasama sarebbe sicuramente stato decapitato; Sesshomaru infatti aveva già premuto il filo di una spada qualunque, probabilmente impugnata prima dal suo avversario, contro la gola del nobile, riverso a terra con lo sguardo fisso in quello del demone.
Rin assisteva con occhi sbarrati, rintanata in un angolo, lontana dalla battaglia in mezzo allo spazio. Il principe aveva un taglio su una guancia e una manica sgualcita, segno che lo scontro andava avanti da più di un solo momento.
Il mezzo-demone ancora non riusciva a capire come aveva fatto a trovarli, anche perché con quel tripudio di fumo e cenere non aveva potuto fare affidamento sul proprio olfatto, però alla fine, vagando fra corridoi identici, era arrivato in un’ala molto più lussuosa delle altre. Le grida l’avevano condotto dove ora si trovava, facendolo osservare il fratello di spalle proteso verso la sua vittima.
Non aveva pensato troppo a ciò che stava facendo, agendo d’istinto. Mentre li cercava aveva ripetuto al suo istinto demoniaco che era essenziale far rimanere in vita il feudatario, e vedere l’incolumità di quest’ultimo minacciata aveva dato corpo alle sue riflessioni.
I tendini del braccio erano scattati autonomamente, facendo in modo che Tessaiga saetasse contro quella del fratellastro, bloccandone l’avanzata. Era stato un gesto improvviso che non era mai riuscito a compiere prima, ovvero cogliere di sorpresa il guerriero.
Evidentemente quel disastro di suoni, calore e odori doveva averlo distratto, ma quando intravide di sfuggita i suoi occhi capì che le cause erano ben diverse: un bagliore rosso fuoco aveva fatto risplendere la pupilla e i tratti del viso risultavano tirati, con la dentatura che biancheggiava sotto alle labbra.
Si stava trasformando in un demone cane vero e proprio, abbandonando le proprie spoglie antropomorfe per sostituirle alla sua vera natura, decisamente più devastante in quanto a potenza. Il suo ferreo autocontrollo si era frantumato appena entrato nella stanza, evidentemente; non si era nemmeno preoccupato di far uscire Rin, il che implicava un’ira smisurata.
Il momento di gloria di Inuyasha durò poco, perché con uno scatto del polso Sesshomaru liberò la lama, rozza e volgare rispetto alle armi che usava di solito, e appuntò la sua occhiata gelida su di lui. Per lo meno il rossore era scomparso.
A lui tanto bastava, in quanto era essenziale che si calmasse almeno un po’ e concentrasse la sua attenzione da un’altra parte.
-Togliti di mezzo – disse il maggiore, con tono glaciale e disinteressato.
-Non se ne parla, maledetto. Cosa credi di risolvere facendo una cosa del genere? – sbraitò l’altro. Proprio non riuscì a trattenersi, pensando al viso striato di nero di Kagome e allo svenimento di Kunieko. Quel dannato per pensare a sé stesso aveva messo a rischio delle vite innocenti, creando un inferno di fuoco e cenere.
Fortunatamente, il demone non si scomponeva così facilmente una volta recuperato almeno un minimo di calma, perché non badava troppo a ciò che il fratello diceva o sosteneva. Anche in altre situazioni non aveva dato troppo peso anche ad esclamazioni peggiori, reagendo con assoluto disinteresse da creatura superiore.
Anche se quel frangente era leggermente più delicato degli altri, Inuyasha sperò di poter sopravvivere quel che bastava per vedere Kagome in salvo, soltanto quello. Fra loro le cose avevano assunto, finalmente, una piega migliore, ma era comunque una strada tutta in salita.
Decise di non pensarci, in quel momento, perché aveva bisogno di rimanere concentrato su ciò che stava accadendo.
Il re dei demoni, all’inizio, non replicò, non vedendone il bisogno. Era fin troppo chiaro che non avrebbe mai rispettato le decisioni di un essere inferiore come suo fratello, però per un istante decise comunque di prendere in considerazione ciò che gli era stato detto.
Suo malgrado, era arrivato a capire cosa quel rozzo analfabeta stava cercando di dirgli, e anche se la ragione era disposta ad elaborare un pensiero di senso compiuto al riguardo, l’orgoglio ebbe la meglio. Avevano rapito la sua donna mentre era assente, non aveva potuto fare nulla per impedire a degli stupidi umani di portarsela via, e la cosa più spontanea era prendersi la giusta vendetta.
Lui era al di fuori del codice umano, e quando gli si faceva un torto di tale entità il minimo prezzo da pagare era la morte. Non aveva ragionato, troppo sconvolto per elaborare uno straccio di strategia, facendo strage di quelle insulse e patetiche creature. Aveva fatto loro comprendere l’inferiorità in cui sguazzavano, quanto la loro vita fosse insignificante per le entità superiori, infliggendo il giusto castigo.
Materialmente non aveva nemmeno appiccato il fuoco, ma era stata solo una conseguenza; l’acido dei suoi artigli aveva corroso una qualche sostanza, dando inizio all’effetto più catastrofico che potesse sperare.
In quel momento però, dovendo trovarsi nello stesso posto con due più che sgradite presenze, dovette ammettere nel suo animo che era stata una follia. Se lui era indifferente alle leggi umane, Rin doveva rispettarle rigidamente, vincolata dalla sua condizione. Se i feudatari si fossero vendicati, magari durante un’altra sua assenza, sarebbero tornati punto e a capo. Non poteva certo porle una balia, non solo perchè sarebbe stato assurdo, ma anche del tutto inutile.
Inoltre, anche se lo sgarbo che quel verme aveva inflitto ad entrambi era di proporzioni immani, doveva riflettere con la calma che lo contraddistingueva. Essendo così impulsivo come si era dimostrato aveva rischiato di assomigliare al mezzo-demone, e ciò non era assolutamente accettabile.
Mettere a rischio l’incolumità di Rin era stata una follia dettata dall’istinto, e lui doveva sapere cosa comportava abbandonarsi ai propri istinti animaleschi, soprattutto se si covava una parte selvatica nel proprio sangue. Quando animale e uomo si fondevano insieme ci si potevano aspettare solo catastrofi: non era forse stato addestrato ad uccidere questo problema con la ragione?
Era necessario usarla in quel momento più che mai, specialmente per il bene della fanciulla.
Non si fermò a guardarla, perché la sua bellezza era quasi straziante,e lo avrebbe irrimediabilmente reso una bestia assetata di sangue. La tristezza su quel viso meraviglioso gli aveva pugnalato il cuore, e sapere di esserne stato la causa non rese la pena più lieve, anzi, la intensificò a livelli inimmaginabili.
A causa della sua impulsività aveva messo a serio rischio la salute dell’amata, non avrebbe mai potuto vivere con al consapevolezza di averle fatto del male.
E poi dovette ammettere che la teoria di Inuyasha avrebbe semplificato a dir poco tutte le possibili trattative: a meno che quell’uomo non fosse stato patetico fino a quel punto, non avrebbe certo speso troppe parole in quell’inferno di fuoco e macerie incandescenti.
Così decise di ignorare l’esclamazione di quell’inetto del suo fratellastro e si rivolse a Rin, senza guardarla, cercando di non far trasparire nulla dal suo tono di voce: -Rin, esci fuori.
L’ordine era perentorio e tassativo, che non ammetteva repliche, anche se in quel momento aveva solo bisogno di sentirla vicina, per sincerarsi che stesse bene. Si vergognò immensamente nel suo intimo per essersi indebolito a tal punto, ovvero arrivando a desiderare la sua donna in un momento del genere, (in cui avrebbe dovuto interessargli solo la guerra), ma trattenne tutto quanto sotto uno strato di imperscrutabilità che lo contraddistingueva in qualsiasi situazione.
La ragazza, sentendosi interpellata per la prima volta dopo diverso tempo, sussultò. Prima era schizzata il più lontano possibile dalla furia del suo signore, anche se il suo cuore ebbe avuto un balzo nel petto.
All’improvviso si era sentita rinascere, vedendo che Sesshomaru non si era affatto dimenticato di lei ed era venuto a riscuotere il proprio tributo di sangue. Oltre alla paura per l’irruzione era sopraggiunta la consapevolezza di non essere sola, che la fece sentire ingiusta con il demone. In fondo, era venuto il prima possibile e, se non si fosse rianimata dopo lo sconforto, avrebbe ceduto all’inevitabilità degli eventi, che lei credeva tassativi e immutabili.
Ciò le aveva fatto anche comprendere l’infinito potere del demone. Anche se si era probabilmente spinto molto lontano, era riuscito ad intervenire sconvolgendo completamente la vita al palazzo. Sentiva infatti il ribollire delle fiamme, di come esse divorassero pazientemente la struttura a partire dalle fondamenta, e i vari scossoni che avevano turbato ancor di più i presenti erano stati causati da energici colpi di spada.
Per lei, aveva raso al suolo un’ imponente costruzione, uccidendo senza distinzioni chi trovava sul proprio cammino. Quel perverso pegno d’amore valeva più di tutto l’oro del mondo nella mente della ragazza, simboleggiando quanto lui tenesse alla sua virtù.
In quel momento si sentì amata come non mai, e riassaporò sulla propria pelle l’ebbrezza di averlo vicino, nonostante fosse freddo e distaccato come suo solito. In privato era completamente diverso, anche se era l’unica che avrebbe potuto cogliere la differenza, e lei stava attendendo impaziente il momento in cui si sarebbero trovati finalmente faccia a faccia, senza nessun matrimonio indesiderato di mezzo.
Ormai Miyasama era completamente sparito dalla sua mente, come se non vi fosse mai entrato. Aveva perso la sia marginale importanza, nonostante il suo sguardo vuoto verso la morte aveva portato la fanciulla ad indentificarsi quasi con il ragazzo. Entrambi avevano a lungo sofferto e vissuto sensazioni sgradevoli, e fu l’ultima volta in cui si sentì partecipe del suo strazio.
Si riprese in fretta da quel torrente di riflessioni, affrettandosi ad obbedire: così andava fatto. Quando Sesshomaru dava un ordine, per quanto sgradevole potesse sembrare, andava portato a termine, perché non dava mai sentenze a caso, e avrebbe portato senz’ombra di dubbio alla sua salvezza. Sapeva benissimo che il demone teneva molto alla sua salute, e non l’avrebbe mai danneggiata volontariamente.
Così annuì brevemente e uscì dall’apertura divelta, spostandosi lungo il muro e sedendosi a terra. Anche se non c’era una divisione fisica fra lei e la stanza, essendo stata tolta la porta, poteva comunque dire di essere vicina ugualmente al suo principe, e si portò le mani al petto per frenare i battiti del proprio cuore impazzito dall’emozione.
Avrebbe atteso, come sempre, perché non c’era mai stata una volta in cui lui non fosse tornato.
Nel frattempo, Inuyasha non riusciva a capire cosa fosse quell’improvviso voltafaccia del demone. Non sapeva se fosse usanza fra i suoi simili trattare in quel modo le donne amate, ma anche quanto docilmente Rin avesse obbedito lo lasciò dubbioso. Se lui avesse detto una cosa del genere Kagome, come minimo sarebbe stato fulminato sul posto, confinato poi nel cosidetto “muro del silenzio” che la ragazza sapeva erigere alla perfezione, escludendolo totalmente per qualche giorno, fino a quando non si scusava.
Comunque, visto l’improvviso interessamento del demone verso il principe steso a terra, ritenne saggio stare in silenzio e tenere sott’occhio la situazione.
Il fumo gli stava tornando alle narici, segno che l’incendio sarebbe presto arrivato anche lì. Avevano ancora poco tempo, e il fatto che tutto fosse stato edificato in legno non aiutava di certo la loro situazione. Se Sesshomaru non si fosse sbrigato a fare ciò che doveva sarebbero morti tutti quanti, e lui non poteva assolutamente permetterselo.
Sentì il demone rivolgersi a Miyasama, ma decise di lasciare sfoderata Tessaiga, perché con quel tipo non si poteva mai sapere.
-Non voglio scendere a compromessi con un insulso umano – disse con disprezzo, - quindi la ragazza viene via con me.
-Nobile demone – rispose a fatica l’uomo, con aria svuotata. Cercò di mettersi a sedere, toccandosi una ferita al labbro, pulendo un minimo del sangue che era gocciolato sul mento. –Mi dispiace che la situazione sia precipitata in questo modo, infatti ero intenzionato a lasciar andare la fanciulla in quanto infelice di rimanere.
L’ammissione gli costò caro, come si poteva leggere nei suoi occhi profondamente tristi e malincomici. Si mise dritto, poggiando le mani sul pavimento per non cadere all’indietro e conservare un minimo di dignità. Il suo discorso non era finito. –Non conoscevo il vostro coinvolgimento, e me ne dispaccio molto. Tuttavia, amando Rin, sono costretto a porvi un interrogativo prima di lasciarla partire.
Sesshomaru, anche se nessuno lo notò, fremette di sdegno. Quell’essere umano stava anche avanzando richieste di fronte ad un torto sfacciato e ad una situazione in cui non poteva assolutamente trionfare.
Inoltre diceva di amare la donna, non sapendo nemmeno tutto ciò che aveva passato, e questo lo poneva in un ulteriore svantaggio; il demone stava facendo uno sforzo notevole per non ucciderlo sul posto, ma non era sicuro che avrebbe resistito a lungo. Vedere la sua carne debole e pensare a ciò che aveva tentato di fare lo rendeva una facile preda che non voleva farsi sfuggire, più che altro per vendicare l’offesa dignità di Rin, i cui diritti erano stati calpestati impunemente.
Trovava ridicolo discutere con esso, ma d’altra parte comprendeva che la situazione era delicata ed era l’unica soluzione per arrivare ad un accordo, raggiungendo i suoi obbiettivi. Poteva considerarsi soddisfatto avendo distrutto la sua dimora, per il momento tanto bastava.
Sentendo il silenzio del demone, il nobile continuò, fulminato dalla sua occhiata colma d’ira. –Voi la renderete felice? Perdonatemi, ma devo saperlo.
Continua a fissarlo dritto negli occhi, con incredibile coraggio. Forse ciò che provava per Rin non era semplice attrazione, altrimenti non si sarebbe fatto tutti quei problemi sul suo conto, arrendendosi e basta. Invece ci teneva alla sua salute e voleva assicurarsi che col demone si sarebbe trovata bene. Implicava che Miyasama sarebbe stato pronto ad offrire tutto per lei, anche la vita, ed era ammirevole.
O almeno così credeva Inuyasha.
Il tempo parve dilatarsi, mentre la risposta del demone tardava ad arrivare. Il pavimento si faceva sempre più caldo, scottandogli i talloni, e l’apprensione per Kagome lo stava divorando.
Tuttavia potè dirsi definitivamente sconcertato quando sentì la risposta indubbiamente sincera che il demone si era impegnato a dare: -Farò del mio meglio.
Era il primo caso storico in cui lui si prendesse la briga si aprire per un attimo il petto arido e segnalare un minimo delle proprie intenzioni, denudandosi nella frazione di un secondo. Si era degnato di non negare al principe ciò che Rin significava per lui, prendendo una solenne promessa, anche se ovviamente il tono non la faceva affatto sembrare tale.
Cercava di mantenersi neutro e imparziale, e la sua rabbia non era sfumata, però per un istante soltanto era stato umano quel tanto che bastava a rasserenare il principe.
Rin, dall’altra parte del muro, sentiva le lacrime premere contro gli occhi, commossa. Sapeva benissimo che sarebbe stata la prima e ultima volta in cui avrebbe potuto godere di quelle parole, ma si volle gustare il momento come se non ci fosse nessun torrente di lava che minacciava di ucciderla. Non poteva credere alle proprie orecchie, e credette di essersi inventata tutto quanto.
Miyasama chinò il capo, con un sorriso triste sul volto. Aveva ceduto, era inutile insistere.
La spada umana venne gettata con sprezzo da un lato, inutile, e il rumore del ferro contro il pavimento si spense lentamente nell’aria immobile.
Sesshomaru lanciò un’unica occhiata al fratellastro, rimasto imbambolato con la spada sguainata: quello che era accaduto nella stanza rimaneva nella stanza. Superfluo anche solo da pensare, perché Inuyasha non era affatto intenzionato a ricordare qualsiasi evento accaduto dopo il suo incontro con Kagome, pochi attimi prima, per quanto si sentisse fiero di sé stesso per essere riuscito a ridare razionalità al demone.
Ovviamente non l’avrebbe ringraziato. Con uno sbuffo scocciato si liberò del contatto visivo, distogliendo lo sguardo. Quelle iridi gialle e profonde lo stavano uccidendo lentamente.
Il demone bianco scomprave oltre la porta; si avvertì chiaramente una breccia aperta nel muro rovente e un fiotto d’aria che si riversava nella sala, poi il nulla. Si era portato via la ragazza, lasciando dietro di sé fuoco e distruzione.
“Ma perché toccano sempre a me i mariti scaricati?” pensò il mezzo-demone, esasperato. Era sicuro che avrebbe dovuto accompagnarlo lui fuori di lì.
Una trave del soffitto si staccò con uno schiocco, e gli precipitò davanti ai piedi. Il massiccio tronco di legno era infuocato, e aveva fatto incrinare il pavimento, ora incredibilmente pericolante.
Ciò lo rese consapevole dell’imminente pericolo, facendolo decidere una volta per tutte ad uscire di lì.
In un movimento fulmineo rinfoderò la spada, sporgendosi verso il nobile, che sembrava una bambola inerte. Non accettò né respinse la stretta del mezzo-demone che, alzati gli occhi al cielo e scagliata qualche maledizione verso il fratello, si affrettò a lasciare quella fornace elegante.
Il suo unico pensiero era Kagome, ed era del tutto deciso a trovarla prima di chiunque altro.
Avevano molte cose da dirsi. 

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Capitolo 26
*** Il demone e la donna ***


Avvolto dall’oscurità della notte, quel luogo sembrava ancor più meraviglioso.
Rin non avrebbe saputo dire dove si trovava con precisione, sapeva solo che era una radura incastrata in mezzo a delle vette altissime e innevate, nonostante la primavera fosse già giunta da un pezzo, ormai, e tutta la natura si stesse risvegliando. La luna, splendente, illuminava con raggi prepotenti l’erba, tanto che sembrava fosse giorno, e le stelle la contornavano come tante fedeli ancelle, ognuna rilucente nella propria personale bellezza.
Una volta Kagome le aveva detto che non erano affatto piccole come sembravano, ed erano lontanissime. Ma in quel momento, incastonate nel cielo scuro, sembravano davvero diamanti in un fodero; se non allungava una mano per coglierli era solo per non derubare la volta sopra la sua testa.
Era freddo, se ne rese immediatamente conto. Il viaggio abbracciata a Sesshomaru le aveva causato brividi lungo tutta la schiena, ma non si sarebbe mai lamentata, in quanto l’alternarsi del suo respiro contro il suo viso, poter godere del suo odore e della morbidezza delle sue stoffe valeva più di tutto l’oro del mondo. Lei sapeva che il suo principe non avrebbe mai potuto scaldarla se non con i propri baci, e lei non poteva pretendere di più.
Le venne da sorridere, nonostante fosse completamente sporca di fuliggine e stesse rabbrividendo: l’atmosfera così tranquilla e rilassante sembrava un altro universo, se paragonato a quello infuocato che aveva tentato di inghiottirla poco prima.
Distrattamente, proprio prima di sparire oltre le nuvole, gli sforzi degli umani raggruppati lì attorno le parvero totalmente patetici, poiché sapevano tutti benissimo che non sarebbero riusciti a salvare nulla dell’antico palazzo. Eppure, nonostante tutto, la perseveranza tipica degli uomini li spingeva ad impiegare qualsiasi mezzo per portare a termine un’impresa disperata.
Guardandoli affannarsi con efficienza sembravano quasi avere qualche speranza di riuscire a spegnere le fiamme. Anche da lì, in quel luogo sconosciuto e affascinante, si poteva cogliere qualche punta rossa che si spingeva a tingere col proprio arancione brillante la compostezza della notte.
Ma era solo un incubo lontano, e Rin lasciò che l’aria gelida ristorasse i suoi polmoni colmi di vapori roventi, provati dalle inalazioni degli ultimi istanti. Ormai la figura del palazzo non si scorgeva nemmeno, e tutto sembrava una pallida ombra rispetto al presente.
Avvolta nel suo kimono eccessivamente elegante, la ragazza si voltò verso il suo principe, colma d’emozione. Era rimasto in disparte, poggiato su un ginocchio e a capo chino.
Tutta la gioia di averlo affianco sfumò davanti a quella posa, che la riempì di preoccupazione. Naturalmente era più che lieta di trovarsi finalmente sola con lui, ma non poté evitarsi comunque di farsi stritolare il cuore dalla solita stretta di ansia. Sapeva cogliere ogni minimo segno sul viso dell’amato, e ora che lo teneva celato la spaventava.
Di solito lo faceva perché non voleva notasse i segni di una battaglia, che ne deformava quasi i tratti rendendoli più feroci; non poteva sapere che quell’aria di assassino spietato a lei pareva soltanto più amabile, perché in quei momenti lui era Sesshomaru, senza doversi nascondere o censurare. Lei amava la sua essenza, per quanto meschina o perversa potesse essere.
Leggermente impacciata nei movimenti, gli si inginocchiò al fianco. Non sapeva bene come procedere, in quanto erano riusciti a dichiararsi solo poco tempo prima, e gli ultimi eventi dovevano averlo provato. Non era abituata a stargli tanto vicina, ma l’afflizione su quel viso meraviglioso non poteva che essere una pietra in più sul petto della giovane fanciulla.
Le venne spontaneo, quindi, posargli una mano sulla spalla, con estrema delicatezza. Rin amava le sue spalle; erano possenti, forti, larghe e ispiravano protezione. Le ossa erano celate da fasci di nervi guizzanti, e quando combatteva le muoveva con affascinanti torsioni, prive di movimenti superflui.
Era la parte del corpo forse più forgiata dagli allenamenti, assieme alla schiena, anch’essa perfettamente modellata in ogni singolo dettaglio. Sentire sotto le proprie dita sottili una tale meraviglia le provocò un brivido lungo la spina dorsale, irrandiando calore in tutto il corpo.
Non si era mai soffermata prima nel cercare di infondergli conforto, abbracciandolo senza riserve, accogliendolo fino quasi a sentirlo parte di sé, ma in quel preciso secondo, che seguì il movimento, riuscì chiaramente a sentire tutto il peso opprimente che quella situazione aveva causato nel demone, e ne fu sconvolta.
Sesshomaru non voleva esternare ciò che sentiva, e lei aveva imparato col tempo ad adattarsi a questo lato di lui e ad indovinarne l’umore, elemento essenziale per conviverci. Anche se al di fuori appariva freddo e imperturbabile, in realtà la fanciulla aveva intuito che lo scorrere della vita lo turbava, con questa o l’altra questione.
Non immaginava però potessero rappresentare un evento di simile portata nel suo animo più recondito. Evidentemente secoli di silenzi e solitudine avevano solcato profonde ferite, cicatrici argentee che tagliavano il suo spirito in lunghe fasce slabbrate. Poteva quasi sentire i bordi sfilacciati e pungenti che le paure e le preoccupazioni avevano inciso, come un crudele punteruolo, nello spazio attorno al suo cuore, solamente sfiorandogli il vestito.
Cercando di non fargli intuire il suo turbamento, lasciò che la presa si facesse più marcata e partecipe del suo dolore. All’improvviso, la rabbia smisurata, il disastro scatenato in un paio di fendenti, l’impulsività che non gli apparteneva e l’urgenza mischiata all’odio cieco assumevano un senso.
Ora Rin aveva la conferma che il demone la amava come chiunque avrebbe mai potuto amare qualcun altro.
Nel mondo non sarebbe mai potuta esistere una passione tanto potente e devastante, viscerale; Sesshomaru si era appoggiato completamente a Rin, senza nemmeno accorgersene, e appena il sostegno aveva traballato tutto il suo mondo si era capovolto, rivelandogli una facciata canzonatoria, infinitamente distante.
Persino la sua forza era stata messa in dubbio, come la resistenza del suo animo. Mentre sentiva le urla delle persone bruciare aveva sul serio pensato di impazzire, privato del cuore. Una pazzia dolorosa, logorante ed estremamente lucida, che spinge chi ne è preda a domandarsi quale sia lo scopo delle sue azioni proprio mentre le sta compiendo. Un delirio impossibile da fermare, disarmante e onnipotente, che lo aveva colto alla sporvvista.
In quel momento aveva assaggiato fino in fondo il potere della maledizione, sentendosi schiavo, ed essendo felice di esserlo. Era quella la parte crudele che il padre gli aveva insegnato a respingere. Non avrebbe mai immaginato che potesse essere tanto nociva alla sua stessa salute.
All’improvviso, le creature che disprezzava da tutta una vita, si erano fatte un ostacolo insormontabile, capace di strappargli via con immondi artigli ciò che aveva faticosamente portato dalla propria parte. Era forse la metà più importante di sé stesso, separata dal resto perché non ne venisse contaminata. E se credeva di aver vissuto anche solo decentemente, cullandosi in successi di fatto effimeri e privi di importanza se paragonati alla sua donna, era solo perché non era riuscito a rincongiungersi con il tassello mancante del suo intimo più profondo, la cui esistenza era stata negata per anni.
Eppure, che strano il destino! Per un soffio della sua stessa pazzia aveva rischiato di perdere il tesoro più prezioso a cui potesse mai aspirare. Non era estremamente assurdo e spossante tutto ciò?
Con quel solo tocco Rin portò alla luce tutti quei pensieri, quelle schiaccianti riflessioni e consapevolezze, in un solo secondo. Non era nelle sue intenzioni rattristarlo, e infatti non lo fece, però gli fece toccare il fondo, facendolo rendere conto del proprio punto debole. Poi, sempre grazie a lei, riuscì a tornare in superficie, ancora più splendido e fiero di prima.
Sapeva ormai quanto fosse imprevedebile la sorte, e non l’avrebbe sfidata mai più, rendendosi potente con i mezzi a sua disposizione, ovvero la conquista. Avrebbe regnato su tutti i demoni, indistintamente, ma Rin sarebbe stata con lui. Non aveva importanza che fosse umana, che fosse debole, che fosse effimera quanto un germoglio primaverile, lui l’avrebbe resa eterna, sapeva come fare.
Non si sarebbe limitato a tenerla nella sua memoria, perché mai gli sarebbe bastato, ma sicuramente esisteva una soluzione a ll’immane e sgradito problema del tempo, e lui l’avrebbe trovata, anche a costo di consumarsi.
La ragazza, quindi, non si aspettava certo che il suo demone, all’improvviso, facesse scattare le braccia attorno ai suoi fianchi. La fierezza del grande Sesshomaru si sgretolò per un attimo: aveva bisogno di essere debole anche solo per un po’, per drenare tutta la fatica e la negatività degli eventi laddove sapeva di poter trovare la giusta comprensione.
E infatti lei, anche se sbigottita da tanta irruenza, accolse quell’abbraccio improvviso e disperato, posando le mani sulla schiena forgiata dalla fatica e ve le lasciò scorrere, come acqua nel letto di un torrente.
Il demone lasciava che i suoi capelli brillanti si mischiassero a quelli scuri della fanciulla, ancora per metà acconciati. Nonostante le prove a cui era stata sottoposta, quell’elegante pettinatura ancora non voleva cedere. Il corpo gracile della fanciulla sembrava etereo fasciato in simili vestiti.
Non era abituato a vederla così: il viso sembrava dipinto, scolpito nel marmo con invitanti labbra rosse, gli occhi erano contornati da ciglia lunghe e morbide, le forme da bambola di porcellana venivano pudicamente evidenziate dalla stoffa ricamata, la vita stretta era una snella curva di puro desiderio arricchita da rametti sottili di ciliegio. Tutto, in lei, contenva una soavità quasi straziante.
Se la trovava bella anche con il viso scurito dal sole, i capelli in un infantile disordine e i vestiti umili che la fecevano comunque sembrare una principessa, allora in quel mentre assomigliava quasi ad una lama, che lo pugnalava con la sua perfezione. Lo strazio era terribilmente agrodolce, ma la consapevolezza che tanto splendore era derivato da quel viscido maledetto rendeva la sua ragione lucida quel tanto che bastava a mantenere vivo un, fioco, barlume di rabbia.
Il kimono elegante non era adatto perché non era stato portato dai suoi artigli appena puliti dal sangue, quei pettinini pungenti e fastidiosi non avevano le ricche trame che, invece, possedevano i suoi doni, tutto quanto aveva un’aria artificiale. Nessun oggetto di quelli aveva una storia e forse fu questo a destare quella creatura vissuta interamente nel passato, ovvero l’artificialità di tali suppellettili.
Rin poggiò la fronte sul suo capo, osando baciargli leggermente la nuca. –Sono qui, mio signore – sussurrò. –Sono qui, nessuno mi porterà mai via da voi.
Una breve litania dall’effetto immediato.
-Potevo perderti, Rin – rispose, ammettendolo per la prima volta anche con sé stesso. Era stato difficile da elaborare, ma alla fine lo fece sentire molto più leggero di prima, come liberato da un fardello particolarmente opprimente.
Lei accarezzò i suoi capelli in un unico gesto. Fu come passare la mano su una tavola fredda rivestita di seta.
-Non preoccupatevi di questo, adesso. Sono con voi, nessuno ormai potrà mai portarmi via – con un gesto nostalgico, lasciò inciampare un polpastrello nella fitta distesa dei suoi capelli gelidi, sentendolo fremere. – Sono completamente vostra, mio signore.
Lui affondò ancor di più la testa nei suoi vestiti, cullandosi nella sua presenza. Si sentiva stanco, dalle membra pesanti, e sapeva di essere in grado di trovare ristoro solo fra le braccia di lei, e nient’altro. Soltanto lì si sarebbe sentito al sicuro, non avrebbe avuto modo di dubitare della propria forza nemmeno per un attimo. Rin lo riconosceva come essere superiore senza il minimo dubbio, e in quel momento era l’unica custode di tale forza, che a lui sembrava scomparsa. Aveva cominciato a dubitare delle proprie capacità, ma lei gli stava ridando vigore.
Stando attento a non farle male, scostò appena la stoffa della sua scollatura, per aprirsi un varco. La puzza di quel maledetto castello sembrava essere una patina viscida sui suoi candidi vestiti, e intaccava il profumo caldo e familiare della fanciulla. Gli unici momenti che Sesshomaru aveva per scaldarsi erano quelli passati con lei, l’unica che riuscisse a fargli scaldare il sangue nelle vene. Non credeva che nemmeno il fuoco avesse quella capacità, e l’incendio che ancora doveva spegnarsi ne era testimone.
Poggiò l’orecchio sul suo sterno denudato, ascoltando i battiti regolari del suo cuore. Era così magra che l’osso si stagliava chiaramente contro la pelle nivea, delicatissima, tanto rassicurante da essere la guardia di un animo puro e sacro. Non si sarebbe mai perdonato di intaccare quella sua spensierata innocenza e la sua irriducibile allegria, perché erano le cose che più lo stregavano di lei.
Lei non disse nulla, rispettando il suo silenzio. Era l’unica che fosse in grado di farlo nel modo più eccellente che esistesse, ovvero dandogli tutta la dolcezza che possedeva. Continuava ad accarezzargli la testa, per la prima volta non era lui a toccarla per sentirla vicina.
Il pulsare ritmico gli fece finalmente capire che era viva del tutto, e in salute. Un suono vigorso e forte, capace di farsi perfettamente udire anche al di là dell’udito fine che lui possedeva. Era sicuro che, anche non avendo le doti di un demone cane, in quel momento sarebbe stato in grado di ascoltarlo lo stesso, senza distrazioni.
Era incredibile la magia che sapeva tessere sui suoi sensi, perché mentre fino a poco prima si sentiva stressato, nauseato quasi, ora poteva dirsi soltanto svuotato, privato di ogni emozione. Si sentiva traboccante d’amore per lei, cosa che mai avrebbe creduto possibile, e le era infinitamente grato di non averlo abbandonato.
L’unica nota dolente era appunto l’odore. A zaffate regolari gli arrivava alle narici quella traccia odiosa, immonda, associabile immediatamente all’orribile viso del “principe”. Come facevano gli umani definire il potere se erano tutti uguali in quanto ad insignificanza?
Nonostante sapesse che la fanciulla poteva aver freddo, slacciò con dita febbrili l’obi, dalla chiusura complicata. Venne colto da una strana frenesia, alimentata dalle mani di lei, ora strette sulla sua nuca.
Con baci caldi e appassionati descrisse tutta la curva del collo. Lasciò le labbra per ultime, in quanto erano il punto maggiormente desiderato. Le pensava quando stava lontano da lei, e contava le ore che lo separavano dal godere di quella morbidezza estatica.
Con infinito piacere lasciò che Rin gli moridcchiasse senza, ovviamente, provocargli il minimo dolore, il labbro inferiore mentre finiva di slacciare quella trappola mortale, atta solo a fargli perdere tempo.
Allentandone la stretta, finalmente, le sue narici ebbero un minimo di sollievo, in quanto l’odore si allontanò un minimo. Lasciò scorrere le mani sulle sue curve invitanti, in quanto il kimono aveva già cominciato ad allentarsi lungo la sua pelle, lasciando intravedere i fianchi.
-Rin…vi desidero – sussurrò, lasciando che le labbra le infuocassero anche le clavicole con il loro gelido rogo. –Devo cancellare quel maledetto da voi…
Non lasciava libere le zanne per il timore di farle male, ma avrebbe desiderato potersi abbandonare completamente, tutto sé stesso per sentirla propria definitivamente, non solo grazie alla traccia che le aveva lasciato nel corpo.
Sentendo però che la stretta non si allentava contro la propria chioma, fu come spinto a puntellare la punta dei denti sulla carne morbida, ricevendo solo gemiti appassionati come risposta.
Poi, all’improvviso, Rin dimostrò di essere la donna che lui meritava di avere al suo fianco, ovvero disposta ad accettare e a vivere ampiamente la sua natura, cosa che non era facile, considerate le lunghe assenze e i silenzi interminabili.
Era difficile da gestire come persona, estremamente complicato in quanto a psiche e a sottintesi, però lei, in una sola frase, si dimostrò capace di poter superare qualsiasi ostacolo.
-Voglio voi, signor Sesshomaru – affermò, decisa. –Non ciò che volete mostrarmi.
Allora, seguendo il significato di quelle parole, il demone poggiò la sua schiena contro l’erba incrostata di rugiada, perdendosi completamente nei suoi occhi scuri, come se fosse la prima volta.
Come se fosse per sempre. 

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Capitolo 27
*** Nella capanna ***


-Ahio! – esclamò Inuyasha, indispettito, per la quarta volta. –Vecchiaccia, quante volte ti devo dire di stare attenta?!
Era davvero esausto. Quello strazio stava andando avanti da quasi tre ore, e solo perché Kagome si era messa in testa che stesse male e avesse bisogno di cure.
Uscendo dal castello, infatti, aveva ricevuto una freccia in mezzo alle scapole, in quanto l’arciere aveva creduto fosse il responsabile dell’incendio e stesse rapendo il loro signore.
A quel punto, il passeggero in tutto e per tutto simile ad un triste manichino, aveva stancamente spiegato l’equivoco.
La sacerdotessa era inorridita vedendolo passeggiare con una freccia nella schiena, ma se doveva essere sincero gli aveva dato appena un attimo di fastidio, nel momento in cui la punta metallica si era conficcata nella carne, facendo presa sui muscoli simile ad un artiglio. La pelle aveva cominciato subito a bruciare, ma ogni volta che contraeva le spalle per estrarla e liberarsi dell’oggetto si scontrava con il bastoncino, ben dritto vicino alla colonna vertebrale. Era un miracolo che non avesse colpito qualche vertebra, ma non riuscì affatto a gioirne; aveva avuto fretta di togliersela rischiando di aggravare la situazione proprio perché Kagome non lo vedesse in quello stato e si preoccupasse inutilmente.
Infatti era proprio ciò che era successo, ovvero la scoperta del mezzo-demone, un paio di strilli spaventati, una ramanzina, qualche lacrima preoccupata ed infine l’orrore rendendosi conto di doverla estrarre. Lui, finita la manfrina, si era anche spazientito abbastanza, però era innegabile che avesse bisogno di aiuto.
Kagome rischiò di svenire appena comprese di essere l’unica a poterlo fare: nessun medico di corte era disponibile in quanto c’erano un centinaio di ustionati gravi, sacerdotesse nel raggio di chilometri erano già impegnate altrove e Kunieko, anche volendo, non avrebbe mai avuto la forza necessaria a liberarlo. Poi, essendo svenuta un altro paio di volte, non era assolutamente nella condizione fisica necessaria per portare a termine l’odioso compito.
Erano rimasti mezz’ora in un punto di stallo, uno ad ostinarsi a stare in quelle condizioni e l’altra ad impallidire ogni volta che la cima piumata sbucava dalla stoffa rossa.
Ma, irritandosi, non faceva che peggiorare la situazione. La punta scivolava sempre più in avanti, e se non aveva perforato un polmone era solo questione di fortuna. Non avrebbe mai ammesso che stava sanguinando copiosamente, perché non voleva negarsi nemmeno una litigata con Kagome: parlare con lei era piacevole persino in quei momenti.
Dopo un po’ però fu costretto ad appoggiarsi ad un tronco, non tanto perché si sentiva debole o dolorante, perché di fatto non lo era, ma bensì per non attirare la sua attenzione su un rivolo di sangue scivolato contro l’avambraccio.
Nonostante avesse cercato di sottrarsi, si era trovato nella capanna nell’unica donna in grado di curarlo: Kaede. Inutile dire che non era stato risparmiato nemmeno lì, poiché l’anziana aveva subito preso togliergli la casacca il più delicatamente possibile e a cercare di estrarre la freccia.
Kagome, la sua dolce, amata Kagome era dovuta praticamente fuggire: non sopportava vederlo reprimere gemiti contro la stuoia su cui era appoggiato, premendo il viso sul il pavimento. Inoltre lo spettacolo non doveva essere dei migliori, ovvero un paletto conficcato nella carne chiara, sporco di sangue e dai bordi allargati dai movimenti.
Ogni vibrazione gli provocava un fastidioso bruciore, accompagnato da un intenso formicolio. Era difficile non battere ciglio quando le pomate fredde venivano spalmate sulla pelle ferita, ma la parte più dolorosa venne quando Kaede estrasse del tutto la freccia. Lo fece senza nessun preavviso, limitandosi a strappare via l’arnese rischiando di creare ulteriori lesioni.
Quello scatto improvviso lo fece sussultare e rimanere senza fiato: gli parve quasi di morire mentre rimaneva inchiodato al suolo, soppraffatto dalla sorpresa. La donna aveva cominciato a spiegare con la calma che la contraddistingueva che era stata costretta ad agire in quel modo a causa dell’infenzione, che stava già per prendere il sopravvento su quel punto, ma lui se ne infischiò lo stesso, mettendosi ad imprecare e a scalpitare.
Ripensandoci in quel momento non era stata affatto una cosa furba, perché in quel modo aveva riaperto i bordi in parte guariti, facendola ricominciare daccapo con il proprio lavoro.
Gli aveva concesso di sedersi, purchè la schiena rimanesse tesa, e lui sfruttò appieno quest’occasione. L’unica cosa che voleva fare era vedere Kagome, nient’altro, soltanto lei. Voleva capire se ciò che era successo al castello sarebbe stato determinante, anche perché in cuor suo desiderava ardentemente che fosse così. Aveva dovuto abbandonare qualsiasi freno per reagire in quel modo, e non era sicuro che sarebbe iuscito a reggere se le cose non fossero cambiate dopo quella svolta. Era il massimo che potesse fare, entrambi lo sapevano: era assolutamente incapace di spingersi più in là e le aveva dato tutto ciò che poteva offrirle, il che implicava l’essere disponibile a donarle anche la vita intera, se lei lo desiderava. Non avrebbe avuto rimpianti se questo l’avrebbe fatta felice, segno del grande amore che lo colmava in ogni singolo vuoto.
Ma Kaede aveva l’aria di trattenerlo per le lunghe, ogni balsamo era un tremito in più. Da tutta la mattina andavano avanti a battibeccare sul pizzicore che la sacerdotessa provocava involontariamente.
-Sta fermo, Inuyasha, o la ferita si riaprirà di nuovo – gli disse, col solito tono calmo.
Lui incrociò le braccia muscolose, sbottando un’esclamazione sprezzante. La donna decise saggiamente di ignorarlo, continuando nel proprio lavoro.
Segretamente, Inuyasha si era sempre chiesto come lo vedesse dopo la morte di Kikyo; in fondo, lui era stato una presenza piuttosto importante nelle loro vite, e il cambio completo di situazione non doveva essere stato facile da digerire. Da misteriosa figura fissa su un albero si era trasformato in un salvatore, una bella rivoluzione se considerato tutto il tempo che era trascorso fra le due fasi.
La donna si dimostrava sempre saggia ed impassibile, ma anche gentile, soprattutto verso Kagome. L’aveva accolta tranquillamente e la stava addestrando personalmente, come si fa con un’allieva qualsiasi e non con la reincarnazione della propria sorella morta.
Inuyasha ricordava quando lei era bambina: nonostante sembrasse molto più anziana di lui non lo era affatto. Alla fine, tutti i contadini, gli uomini, le loro mogli, i soldati, erano spirati nel corso degli anni. La vita era proseguita, rimpiazzando prontamente quelle comparse con altri nomi e visi quasi uguali. La sacerdotessa era l’unica testimone oltre lui di quegli eventi passati, l’unica che potesse ancora serbare un ricordo di cosa volesse dire non conoscere la polvere da sparo e arare i campi in schieramenti specifici, la sola che sapesse cos’erano le annuali cacce agli hanyou e cosa significasse guardare un tramonto in riva al lago, quelle poche volte che c’era stata.
La morte della sorella aveva inciso profondamente la sua esistenza, solcandola a fondo, ma era comunque andata avanti. Lui si era fermato al lutto per moltissimo tempo, nonostante il ricordo di colei che un tempo amava fosse molto meno gradevole di quello della signora.
Era cambiata moltissimo, l’estetica ne era solo la rappresentazione concreta: era una bambina intelligente e un po’ spigolosa, il viso reso serio dalla mancanza di un occhio, i capelli tagliati corti come quelli di un maschietto perché altrimenti albergati da pidocchi. Una ragazzina in gamba ma abbastanza solitaria, dalla buona memoria e grandi doti fisiche. Spesso Kikyo gli aveva parlato della sua eccellenza nel tiro con l’arco e della speranza che, un giorno, sarebbe potuta diventare lei la custode del villaggio.
La vita era davvero strana, perché proprio Kaede assunse quel ruolo, molto prima di quanto chiunque avrebbe mai potuto sperare. Aveva sì e no quattordici anni quando, con assoluta serietà, combatteva temeraria contro demoni e malfattori, prescrivendo nel frattempo cure verso gli ammalati.
Quei fatti gli erano stati narrati, oppure li aveva sentiti, quando lavorava nei campi, al pomeriggio. Se ne stava leggermente in disparte per fare prima, ma le parole gli arrivavano comunque nitide come se gli si stessero rivolgendo direttamente.
Non erano fatti certi, poiché nessuno aveva concretamente assistito, però si vociferava che avesse ultimato la propria preparazione in fretta, trascorrendo alcuni mesi in una capanna al limitare del bosco con una sacerdotessa anziana, poi morta. Quest’ultima era una donna che abitava al villaggio da moltissimo tempo, e dispensava consigli a chiunque ne avesse bisogno.
Questa solitudine auto-imposta, riflessa nello sguardo profondo o nel viso solcato da un fitto reticolato di rughe, la rendeva degna della stima del mezzo-demone: in un certo senso la ammirava, perché non credeva che sarebbe stato capace di rimanere altrettanto indifferente allo scorrere del tempo. Risvegliarsi dopo tutte quelle primavere era stato traumatico quasi, nonostante il mondo, nel complesso, appariva ostile come al solito.
La donna non aveva saltato fasi o passaggi, si era semplicemente adattata alle nuove epoche e alle nuove esigenze, riuscendo a mantenere quella sorta di misticismo appartenente alle epoche passate.
Sentì le mani rugose e calde staccarsi un momento dalla sua schiena: -Torno subito – disse. La sua voce sembrava contenerne diverse, frutto del mutamento di tutte le sue personalità.
Inuyasha non replicò, e non si offrì di aiutarla ben sapendo quanto tenesse alla sua autonomia. Sentì le stoffe alzarsi a fatica da terra con un fruscio e un passo trascicato portarsi faticosamente fuori dalla capanna. Lasciato solo, gli parve di avere del ghiaccio sulla pelle, per effetto dell’aria che agiva sul balsamo lenitivo.
Sbuffò spazientito; il sole era già alto nel cielo, segno che era metà mattinata, e lui aveva bisogno di parlare con Kagome. Aveva paura fosse tornata alle rovine del castello per cercare di prestare aiuto, e proprio per questo era irrequieto; sapeva bene però di non potersi muovere se non a cura finita, il che era ridicolo, considerato che in circostanze normali sarebbe già guarito.
La sua pelle flessibile si stava ricomponendo anche senza misteriose creme, sarebbe bastato solo avere pazienza. E poi gli scocciava non poco fingere di essere un busto di marmo, dalla colonna eretta e fiera. Gli dolevano i fianchi dal desiderio di muoversi o stendersi.
La stuoia dietro di lui venne messa a posto, e si preparò al ritorno della guaritrice, sicuramente tornata con sostanze varie e dall’odore sgradevole, come quelle che aveva addosso e che lo ricoprivano come una patina oleosa.
Ad un tratto, sentì delle mani poggiarsi di nuovo sulle spalle stanche, ma non erano affatto uguali a quelle di prima. Inanzitutto, erano pulite da qualsiasi unguento, liscie e morbide.
La pelle non era affatto raggrinzita, bensì vellutata e fresca. Le dita sottili si muovevano dolcemente lungo i muscoli tesi sul collo, accarezzando con tocco lieve l’area appena sopra alle costole, aggirando la ferita. Ottenne ristoro immediato da quel contatto, capace di fargli stendere ogni singolo nervo: i polpastrelli delicati facevano da guida alle torsioni, indicando loro come fare per stendersi.
La presa mordente del bruciore contro la ferita allentò la sua stretta. Piano, una pezza zuppa d’acqua di ruscello si posò sulla sua schiena, pulendola dalle medicine e dai residui di sangue incrostato alla fuliggine.
-Kagome – sussurrò. La spinta appena accennata delle mani gli avevano fatto inarcare il collo, lasciando che i capelli scivolassero oltre le sue clavicole.
-Shh – mormorò la ragazza, senza interrompersi. Immerse di nuovo la stoffa in un bacinella al suo fianco e riprese a strofinare senza provocargli dolore.
-Mi hai fatto stare in pena, lo sai? – la sua voce era a malapena udibile, ma il sollievo sembrava arricchirla di note anor più armoniose.
Quel massaggio così perfetto stava risvegliando istinti profondi in lui, che non avrebbe saputo spiegare. Sentiva il bacino incredibilmente caldo, ma la sacerdotessa lo invitava tacitamente a rilassarsi sotto la sua protezione, tanto da farlo sentire amato e viziato. Il suo cervello non ragionava, completamente beato da tale sorpresa.
-Mi dispiace – disse, con voce arrochita dal desiderio.
La candida fanciulla ridacchiò, come soltanto lei sapeva fare. Immaginò le labbra rosee in cui avrebbe voluto affogare tendersi appena, a rivelare una dentatura bianca e perfetta. –Non è vero.
Sembrava quasi un gioco, e il vincitore era colui che parlava col tono più basso fra tutti. Ciò rendeva la scena ancor più intima, perché era una conversazione che solo loro due potevano intraprendere, escludendo il resto del mondo.
Ora i movimenti con quella sorta di spugna si erano fatti circolari, senza spezzare il loro ritmo armonioso. La forza applicata era quasi nulla, ma sufficiente ad eliminare sporco e fatica dal suo corpo provato.
Inuyasha aveva davvero bisogno di dimenticare, per un solo momento, cosa significasse essere un guerriero. Le sue mani abbandonarono il peso delle spade, pronte ad accogliere solo splendenti chiome corvine, i suoi occhi divennero sconosciuti al sangue, ma dediti soltanto all’osservazione di corpi agili, le sue orecchie dimenticarono le urla per colmarsi di soavi risate. L’elegante fanciulla dietro di lui era l’incarnazione elegante e graziosa di ciò di cui necessitava nella sua vita.
Da quel momento in poi avrebbe voluto abbandonare per sempre cosa volesse dire uccidere.
Ma non poteva rinnegare sé stesso, non era possibile, anche se tali gesti stavano mettendo in discussione i propri principi.
-Non sapevo sapessi… - si abbandonò ad un sospiro, - fare così.
Ormai non era più padrone di ciò che diceva o pensava, gli bastava solo sentire il profumo di lei, e basta. Volle accarezzarle i capelli, ma non avrebbe mai fatto nulla per spostarsi. Un brivido di lussuria lo pervase pensando che era la prima volta che lei toccava la sua pelle nuda, soffermandosi sui muscoli delineati in superficie.
-Ogni sacerdotessa lo deve imparare – mormorò la fanciulla al suo orecchio, facendolo impazzire. –Fa parte dei nostri compiti.
Lo stava stuzzicando, era evidente. Era fin troppo ovvio che non si impegnava a quel modo con nessuno, e gli bastava ricordare il tocco di Kaede per smascherarla. La donna era stata essenziale nei movimenti, quasi rude, mentre Kagome lo stava vezzeggiando senza riserve, lasciando che le mani solcassero la sua pelle pallida e tonica.
Il bacino era ormai un rogo bollente, tanto da far quasi male. Mai aveva sentito una spinta tanto forte, e si vergognò di sé stesso. Stava quasi tremando.
Una linea infuocata lo pizzicava ogni volta che le dita di lei lambivano una nuova parte della sua schiena, secie se verso il basso, e gli pareva quasi di esplodere aspettando che lei lo facesse, un po’ per distrazione, un po’ per pulire meglio le tracce scure lasciate dalla cenere.
La testa gli vorticava impazzita, balzando da un pensiero all’altro: sicuramente i suoi capell brillavano sciolti, poteva sentirne il profumo, la sua bocca era schiusa in un lieve e malizioso sorriso, di certo le guancie liscie erano irresistibilmente arrossite, il corpo sottile era fasciato in abiti puliti…gli pareva quasi di vedersela davanti agli occhi.
Non era abituato a quella Kagome, ma dovette ammettere che era il lato da lui preferito, fino a quel momento. Assieme anche a tutti gli altri, in effetti.
L’amore che sentiva si manifestava sotto forma di combustione appena sotto la pelle, irradiando più calore del sole, quasi avesse la febbre. In quel caso la medicina sarebbe stata una sola…
Un rigagnolo sottile d’acqua scivolò oltre la sua spalla, solcandogli il petto e gocciolando sull’addome scolpito: fu il culmine, a cui non seppe resistere.
Non gli importò più della ferita o dei danni che poteva provocare, ma si mosse dalla sua immobilità cedendo alle pulsioni umane. Gli parve di fondersi con la ragazza, colta di sorpesa da quel bacio colmo di passione e impazienza, mentre le labbra erano pronte a diventare una sola unione.
Subito, senza lasciare che altro tempo li dividesse, schiusero le bocche per lasciarsi reciprocamente colmare; le dita umide di lei ora erano avvinghiate ai capelli argentei e sciolti. Ogni singola parte di quella massa disciplinata e tempestosa sembrava avere vita propria, mentre anche le spalle godevano del suo tocco simile ad un appiglio sulla pelle nuda.
Non seppe trattenersi, sentendola vicina, e cercando di avere sempre di più, urtò i denti contro i suoi. Questo, invece che infastidirla , le strappò un gemito, che lo spinse a continuare. Il fuoco dentro si lui era talmente caldo da farlo quasi sciogliere di piacere.
Quanto aveva atteso la solitudine con lei, per potersi beare della sua compagnia? Troppo, troppo a lungo. La ragazza conosceva bene l’importanza dell’attesa, e lui seppe che quel tempo era stato calcolato a regolare d’arte.
Le mordicchiò il labbro inferiore, ogni tocco era un sospiro. Ma con essi giungeva anche l’eccitazione crescente; chino su di lei, la sentiva aggrapparsi al suo corpo possente come se fosse l’unico scoglio nel mezzo di una tempesta, ed era fiero di rappresentare tale elemento per lei.
Essendo stata Kagome la sua unica ancora per moltissime occasioni, era lieto di essere ricambiato senz’ombra di dubbio. Lasciò che le sue mani scendesseo lungo i suoi fianchi dolci, portandosi alla chiusura del kimono.
Non sapeva nemmeno lui cosa voleva fare nella casa di una sacerdotessa, nella stanza principale e con uno squarcio in via di guarigione tatuato sotto al collo, ma non aveva assolutamente importanza. Non si sarebbe mai creduto capace di tanta irruenza, e questo di certo dipendeva dalla trasformazione che lo aveva plasmato solo la notte prima.
Troppo presto, forse, si resero conto di ciò che era appena successo; le mani di lui si staccarono dalle sue curve, Kagome arrossì violentemente e i corpi recuperarono le distanze, ansanti.
Nessuno dei due riusciva a prendere fiato.
-Wow – commentò la ragazza.
Il mezzo-demone la guardò stranito. Ogni tanto se ne usciva con esclamazioni sconosciute che lo confondevano, tanto da non saperne qualificare il valore. Era un bene o un male che l’avesse detto?
-Cosa vuol dire? – chiese infatti. Non poteva permettersi dubbi.
La ragazza sistemò una ciocca dietro al proprio orecchio, dopo che era scivolata davanti al viso. Fingendo di aver preservato un minimo di calma, sistemò gli stracci che aveva portato e le varie erbe, lasciate lì da Kaede. –È…un’esclamazione in una lingua occidentale. Non ha un vero singificato ma… - sorrise leggermente, guardandolo, - si usa per quantificare l’incredibile.
Lui dovette fare uno sforzo quasi crudele per non prenderla di nuovo e finire ciò che aveva cominciato, concentrandosi allora sulla schiena ancora umida.
La ragazza aveva ragione: era davvero la parola adatta.
A strapparli del tutto da quel momento che rasentava il sogno, ci pensò la vecchia sacerdotessa, che apparve in quel preciso istante.
Kagome stava chiudendo la sua tracolla per i medicinali. Con le guance di nuovo ad una colorazione normale e i capelli a posto così come quando era entrata sembrava davvero stesse finendo di sistemare le ultime cose prima di andarsene.
-Oh, venerabile Kaede! – disse in tono affabile, sorridendo gentile. Chiuse la borsa, alzandosi. –Vi ho visto nel bosco e ho pensato di concludere io.
Per qualche istante discussero di erbe, poi la ragazza si raccomandò riposo da parte sua con aria di rimproverò e uscì. Inuyasha, stando al gioco, aveva recuperato la sua aria scontrosa di sempre, borbottando appena qualcosa e sistemandosi subito i vestiti.
Come suo solito, aveva passato il pomeriggio in disparte, in angolo della casa, a guardare Kaede bollire questo o quello, giusto per rassicurarla sul fatto che non avrebbe fatto sforzi.
Poi, dal momento che non poteva assolutamente evitarlo, corse al ruscello. Era intenzionato a lavarsi nell’acqua gelida.
Perché, oltre al fumo, doveva calmare anche il proprio cuore, impazzito dopo gli eventi di quella mattina.  

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Capitolo 28
*** Pittore ***


La mano sottile e nivea di Kagome si allungò inutilmente verso un ripiano, vicino più al soffitto che al pavimento. Le serviva un barattolo odoroso ricoperto dallo smalto verde, per impastare quello che era un intruglio assolutamente maleodorante.
Da mezz’ora la osservava affaccendarsi nella capanna, senza tregua. Se ne stava pigramente sdraiato a godere dei raggi del sole, sul suo albero, semi-nascosto dalle foglie. Dal momento che faceva caldo, la finestra della giovane era stata spalancata: lei lo chiamava il “giorno delle pulizie”.
Inuyasha odiava quella giornata con tutto sé stesso, e cercava assolutamente di evitarla quando possibile. La osservava con un certo distacco mettere i materassi a prendere aria e lavare tutte le lenzuola, preparare le erbe oppure passare al setaccio ogni minimo granello di polvere che riuscisse a sopravvivere durante la settimana.
Quando lui le aveva chiesto il motivo di tanto affanno, lei aveva risposto che la casa di una sacerdotessa doveva essere perennemente ineccepibile in quanto ad igiene, lanciandosi in un lungo sermone su quanto fosse importante…beh, non aveva ascoltato proprio tutto, però il tono era abbastanza serio.
Si rifugiava in un posto che gli avrebbe evitato un gran numero di compiti da svolgere, ma abbastanza vicino per continuare a guardarla e non perdersi nemmeno una mossa.
In quel momento si era alzata in punta di piedi, sbuffando, per cercare di arrivare alla meta. Tutto inutile, ovviamente: non ce l’avrebbe mai fatta.
Lei non desistette, continuando con agguerrita perseveranza a muovere le dita nel tentativo disperato di afferrare il barattolo, forse risultato degli intrugli della settimana precedente.
Da un lato, Inuyasha poteva capirla. Avendo poco tempo per gestire tutto, lo sfruttava come poteva, prendendosi avanti con le faccende e risparmiandosi così ritardi o affanni durante un periodo già di per sé colmo d’impegni. Tuttavia svolgere quelle mansioni sembrava divertirla sul serio, senza lasciare spazio a distrazioni di alcun genere. Era questo a lasciarlo sgomento: l’accanimento che la ragazza dimostrava nei confronti della pulizia della casa, e l’energia che metteva in ogni singola azione.
Onestamente non sapeva come facesse a lavorare con quel caldo, perché persino i contadini si stavano alternando nei campi, onde evitare di soffrire eccessivamente. Già qualche volta era capitato che qualche uomo si sentisse male, e la comunità era dovuta intervenire per non far morire la famiglia di fame.
Poté godere appieno della sua faccia stizzita, mentre si rimetteva ad una postura normale. Lanciò uno sguardo crucciato alla mensola, facendolo sorridere divertito. Sembrava una bambina contrariata.
Poi, quando pensava che si fosse arresa del tutto, notò che spariva dalla stanza, andando nel corridoio a lui invisibile. Per un istante si allarmò, in quanto non gli piaceva non averla sotto controllo con la casa priva di serrature e senza la sua guardia a proteggerla, ma si rasserenò quando la vide tornare.
Per poco non cadde dall’albero a peso morto: come diavolo si era conciata?!
Rischiò sul serio di morire, posandosi una mano aperta sul petto per calmare i battiti quasi violenti del proprio cuore impazzito. In un paio di minuti, Kagome aveva sostituito le vesti pesanti con una sorta di vestaglia da giorno, scollata e corta, con la quale sembrava finalmente soddisfatta.
Le braccia candide erano completamente scoperte, così come il collo arcuato e una parte della schiena liscia, per non parlare delle gambe snelle, quasi del tutto denudate. La stoffa leggera ed estiva lambiva appena le cosce, senza arrivare nemmeno al ginocchio. Era un kimono che non aveva mai visto, ma gli causò un brivido, nonostante il sole minacciasse di sciogliere tutti i suoi tessuti.
Si aggrappò saldamente al ramo, deglutendo per reprimere un gemito strozzato. Sin da subito le sue fantasie si accesero, ripensando al giorno prima e a ciò che era successo. Se non ci fosse stata la minaccia di Kaede, fin dove sarebbero arrivati? Nella sala di una sacerdotessa, vicino ad una stuoia al posto di una porta solida, immersi nella frescura dell’aria frizzante…
Santo cielo, perché cavolo doveva sempre scivolare su riflessioni del genere? Non voleva davvero rovinare qualsiasi pensiero in quel modo, ma ogni minimo aspetto era contaminato da quella sorta di eccitazione perenne, quasi dolorosa.
Non gli era mai capitata una cosa del genere, che lo metteva a disagio e lo imbarazzava, poiché non aveva assolutamente idea di come gestirla. Era impossibile da comandare e ancor più improbabile da abbattere, ma anche conviverci non sembrava nemmeno lontanamente fattibile.
La fanciulla, soddisfatta, aveva ripreso con i suoi tentativi, ignara di tutto. Era un supplizio, per lui. Ogni movimento faceva scivolare la veste di qualche millimetro contro la schiena, o sulle gambe, scoprendo altra pelle e altro corpo. I capelli frusciavano contro la sua schiena, ondeggiando alla brezza leggera, e non riuscì a non notare la posa che aveva assunto, provocante e sinuosa.
Possibile che fosse davvero inconsapevole di essere tanto avvenente? Aveva cominciato a dubitarne, perché era così bella che era impossibile non accorgersene. Ogni volta che si guardava allo specchio, come faceva  non giudicare l’immagine lì riflessa incredibilmente attraente?
Ad un tratto, la vide spostarsi sconfitta dall’angolo e andare verso la finestra. La piana dove la casa si ergeva era solitaria e circondata dalla pace, quindi non aveva paura di scorgere nessuna presenza indesiderata; a quell’ora erano tutti impegnati o nei campi o al telaio. Persino Sango aveva trovato qualcosa da fare, andando al fiume per aiutare le compaesane a gestire meglio gli affari di casa.
Miroku era fuori città, di nuovo, ma sarebbe tornato a breve. Shippo stava seguendo i suoi studi demoniaci, che procedevano a gonfie vele, rendendosi degno del rispetto fra le altre volpi. Kohaku non si vedeva da diverso tempo, ma non sarebbe tornato senza prima avvisare. Sesshomaru e Rin erano impegnati a portare avanti il loro idillio personale, ne era più che certo.
Dalla notte al castello non si erano più fatti vedere, e considerato che era passato un giorno intero Kaede aveva persino cominciato a dubitare che sarebbero tornati. Inuyasha non pensava che il fratellastro si sarebbe permesso di arrivare fino a quel punto, ovvero farla vivere sola o portarsela dietro nei propri viaggi, semplicemente non volevano essere trascinati dalla realtà per un altro po’.
Anche lui, se avesse potuto, sarebbe stato alla larga dal villaggio per qualche giorno, giusto il tempo per godersi appieno la sua Kagome e fingere di non avere obblighi oltre a quelli con sé stesso. Sarebbe stato indubbiamente paradisiaco; era forse l’unica cosa che aveva ammirato del fratello, ovvero l’aver avuto il coraggio necessario a scontrarsi con il suo spirito. Forse solo Inuyasha poteva capire quanto faticoso dovesse essere stato per lui ammettere i propri sentimenti, soprattutto dopo gli ultimi eventi.
-Inuyasha! – chiamò Kagome a gran voce. Per farsi sentire meglio aveva portato le mani a cono davanti alla bocca, sporgendosi con il busto verso il prato.
Lui, distratto, ebbe un tuffo al cuore. Lo strillo era stato così forte che per poco non fece un infarto; la sua salute cardiaca era stata messa a repentaglio per due volte in pochi minuti, era meglio se si dava una regolata, oppure non sarebbe sopravvissuto al tramonto.
Accadde in un attimo. La sorpresa per tale richiamo fu troppo grande, e una mano scivolò dal ramo su cui si appoggiava. Incespicò pateticamente per attaccarsi ad un’altra sporgenza, ma la schivò per poco, mentre un secondo urlo gli perforava i timpani, incidendo definitivamente sul suo equilibrio.
Agitando le braccia nel vano tentativo di rimanere aggrappato all’albero, quel fagotto rosso volò come una folgia d’autunno al suolo, producendo una serie di imprecazioni ben poco simili alla grazia che aveva, invece, il fogliame.
Si drizzò subito a sedere, sdegnato. –Kagome! Ma che diavolo fai?! – sbraitò, massaggiandosi un fianco. Se fosse accaduto poche ore prima, la ferita alla schiena si sarebbe sicuramente riaperta, causandogli una fastidiosa e piccola emorragia.
 -Ah, ma allora eri qui! – esclamò la fanciulla, sorpresa. Lui non fece in tempo a rispondergli: -Non stare là per terra, vieni dentro ad aiutarmi, forza!
Lo stava forse prendendo in giro? Ci trovava gusto a prendersi gioco di lui in quel modo tanto spudorato quanto…adorabile?
Scuotendo esasperato la testa, il guerriero si alzò, togliendosi la polvere dai pantaloni ampi. –E adesso che diavolo c’è? – borbottò truce. La cosa che lo infastidiva di più era l’essere stato beccato a spiarla, in poche parole, non tanto la mattinata impegnativa che lo aspettava.
La aiutava sempre volentieri, anche perché sbrigare prima le faccende significava avere più tempo da passare insieme, e questo gli faceva immensamente piacere. Però lo coglieva sempre nei momenti più innopportuni: per fortuna che il suo corpo si era placato subito, altrimenti in piedi si sarebbe trovato in una situazione decisamente imbarazzante.
-Mammia mia, che faccia volenterosa – osservò divertita la ragazza, vedendolo avanzare verso di lei. –Tranquillo, mi basta solo che mi aiuti con un vasetto e poi ti lascio andare.
Poi, con le braccia appoggiate sul balcone, gli regalò un sorriso radioso come non ne aveva mai visti. Le labbra si distesero serenamente, gli occhi brillavano di gioia e la sua pelle splendette più del sole stesso. Era stato un attimo così intriso di purezza che il suo sguardo non cadde sulla scollatura pronunciata, e nemmeno sul ventre piatto a malapena visibile, bensì fu del tutto assorto a godere di quella luce meravigliosa.
Era di un’innocenza tale da far sciogliere ogni nodo, ogni tenebra, a scaldare qualsiasi ghiacciaio. Lui non era escluso, anzi, quel sorriso gli era interamente dedicato, in ogni singolo raggio. Quella ragazza così bella era innamorata di lui, e lui era innamorato di lei, senza riserve. Cosa contava di più?
La sua risatina danzò nell’aria: -Mi spieghi che ti succede? – gli chiese sorridendo, ma con meno intensità di prima.
Lui distolse lo sguardo, arrossendo. –Niente. Allora? Dov’è questo vaso?
Perché doveva essere sempre così sbrigativo? Non poteva farne a meno, faceva parte di lui reagire in quel modo all’imbarazzo. Trattarla male non era mai nelle sue intenzioni, ma lo faceva incosapevolmente, maldendosi sempre per quello; si detestava sentendo la propria bocca pronunciare frasi sgarbate o lapidarie, ma non riusciva a frenarsi.
Forse voleva riconquistare la situazione, oppure semplicemente mostrarsi impassibile, ma falliva miseramente.
Quella santa donna, però, non se la prese affatto, rimanendo allegra. –Passa per la porta principale, è aperta – gli disse, prima di rientrare dalla stanza e socchiudere leggermente la finestra.
Distrattamente, notò che si re-infilava la casacca bianca, riducendo sensibilmente l’effetto devastante che aveva su di lui. A malincuore dovette ammettere che era addirittura meglio così, poiché non sarebbe mai riuscito a guardarla in faccia o a muoversi, se fosse rimasta tanto svestita.
Con un sospiro impercettibile, fece il giro della piccola abitazione, spostando con un indice la lastra di legno chiaro che la separava dal resto. Le aveva detto circa mille volte di tenere sempre chiusa la porta d’ingresso, almeno quella, ma non lo ascoltava mai.  Era così distratta o accaldata, chi lo sa, da esporsi inutilmente a dei rischi inutili, perfettamente prevedibili, tra l’altro. Eppure lei era fatta così, e non riusciva a non amarla anche da quel lato quasi infantile.
Evidentemente non era del tutto abituata all’idea di dover vivere da sola, dovendo occuparsi di questo e quello, tanto da essere assorbita a tal punto da non avere il tempo di chiudere un uscio.
Inuyasha avanzò lungo il corridoio, i tatami che scricchiolavano sotto ai suoi piedi nudi. Tutta la casa profumava di lei, in ogni singolo infisso, e stare lì dentro lo faceva stare bene.
Non fece fatica a trovarla; stava in quello da lei chiamato “soggiorno”, la stanza più grande delle altre e quasi circolare, a dispetto della regolarità del resto. Lì accendeva il focolare quando le capitava e preparava i vari medicamenti, delle volte addormentandosi sulla stuoia, sbadata come sempre.
La vide mentre classificava sul pavimento alcuni contenitori, separandoli per forma e dimensioni. Messi in fila così ordinatamente sembravano quasi fatti apposta, inoltre le particolari colorazioni che lei imprimeva su ogni scatola conferivano a tutto un’effetto molto più allegro. Lei diceva che gli smalti la aiutavano a distinguere gli ingredienti, e lui le credette senza fatica, considerato che non poteva di certo affidarsi all’olfatto.
Senza girarsi, gli indicò il punto esatto dove l’avrebbe trovato. Ovviamente lui non aveva bisogno di tale indicazione, dal momento che l’aveva osservata come un guardone per tutta la mattina.
-Per favore, potresti prenderlo tu? Io proprio non ci arrivo.
Lo so, mia dolce Kagome, lo so.
-Pff! – ribattè. – È una sciocchezza -. A cosa serviva essere tanto aggressivi?, si chiese. Non aveva alcun senso, e poi la ragazza era stata educata a chiedere aiuto, senza nemmeno offendersi per l’uscita poco elegante di prima. Quindi, perché non chiudere la propria dannata boccaccia una volta per tutte?
Ancora una volta, la sacerdotessa lo sorprese, ridacchiando piano mentre, assorta nel suo lavoro, continuava a mettere a posto i barattoli in legno. In mano ne aveva uno verde smeraldo, che faceva slendere ancora di più i suoi occhi color mogano. –Certo – osservò ironica. – Facile parlare quando si è alti due metri!
Inuyasha si limitò a sbuffare, alimentando la risata fresca della giovane donna. In effetti, ora che si allungava per afferrare il contenitore con i propri artigli, doveva ammettere che era abbastanza alto, e che lei non ce l’avrebbe mai fatta ad arrivare fin lassù.
-Chi cavolo è che ti ha messo questa cosa qui sopra? – domandò irritato, prendendo la confezione e riappoggiando i talloni a terra.
-Il falegname – rispose lei, soprapensiero. –Non aveva capito che ci venivo a vivere da sola.
Il ragazzo avvampò all’improvviso, rendendosi conto dopo un attimo di ciò che la fanciulla aveva detto; l’uomo aveva giustamente pensato che, finalmente, lo spettro dai capelli argentati avrebbe potuto sposare la ragazza a cui pensava da tre anni, dopo essersi quasi del tutto logorato.
A dire il vero, persino lui lo pensava, ed era stato nelle sue intenzioni. L’avrebbe fatto anche subito, ma erano rimasti trascinati sull’onda delle celebrazioni e dei festeggiamenti, troppo occupati a cercare di rendersi conto della situazione per correre ai ripari. Ma chi avrebbe mai immaginato una cosa come il sacerdozio di mezzo? Di certo non il falegname.
Questa cosa lo umiliò, quasi, perchè si rese conto che Kagome non gli apparteneva del tutto. Era ancora legata a delle stupide promesse campate in aria, anche se entrambi preferivano quelle fatte prima di separarsi. E persino qualcuno esterno alla vicenda, con cui nessuno del gruppo aveva mai avuto a che fare prima, aveva dato per scontato un futuro insieme, senza nemmeno rifletterci su.
Come avevano potuto essere quelli dei villaggi vicini così crudeli da portargliela via di nuovo? Era stata una vera e propria angheria ingiustificabile, poichè tutti erano a conoscenza del suo malessere, anche grazie a Miroku, che aveva ricamato sulla loro vicenda centinaia di storie strappalacrime da raccontare nelle serate uggiose.
Nessuno  aveva mai interpellato gli interessati, semplicemente avevano agito alle loro spalle. Era arrivata un’ingiunzione ufficiale e il giorno dopo le catene erano state poste sui polsi della sua fanciulla, senza nessun rimedio. All’epoca ancora non sapeva cosa significasse fino in fondo morire di struggimento, ma aveva rischiato di andarci vicino.
-Tutto a posto? – gli chiese all’improvviso lei. Si era voltata e lo guardava da sopra la spalla, preoccupata, interrompendo il lavorio delle sue mani.
Lui si affrettò ad annuire, porgendole il recipiente cilindrico. Nel farlo, un’unghia urtò involontariamente sulla superficie liscia e color pesca, imprimendo una piccola traccia nella distesa immacolata di colore. Una riga bianca e allungata, che ne sfregiava il fianco.
Se ne accorsero entrambi: ecco cosa facevano le sue mani, pensò lui, rovinavano le cose belle.
-Oh – osservò semplicemente Kagome, prima di ringraziarlo.
-L’ho rovinato – osservò lui, dispiaciuto. Ogni volta che si muoveva faceva un disastro.
Lei lo squadrò sorridendo. –Figurati, è da una settimana che devo ridargli colore, ma non ci arrivavo.
Poi, non vedendolo convinto, sparì un istante nell’altra stanza e tornò reggendo una scatolina di legno, rettangolare. Sopra, in caratteri eleganti, era scritto “pittura”, semplicemente, e quando la sacerdotessa aprì la serratura priva di gancio, lui vide diversi pennelli poco più grandi di una mano e abbastanza folti con alcune boccette sistemate attorno, seguendo le gradazioni dei vari colori.
Con uno sguardo incoraggiante, lo invitò a prendere il cofanetto delicato, posando una mano su un pennello. Gli arti lisci e delicati di lei erano completamente diversi da quelli infinitamente più grandi e ruvidi di lui; entrambi avevano i palmi e le dita sottili, anche se in modo totalmente diverso, e la pelle della ragazza sembrava quasi fatta di porcellana.
I polpastrelli da guerriero si posarono lievemente sul legno dell’impugnatura, sotto il sorriso gentile della loro proprietaria. –Avanti, scegli un colore, quello che vuoi.
Lui, a dire la verità, aveva perso tutta la voglia che aveva avuto fino a qualche attimo prima, per quanto già scarsa. Un po’ per lo scaffale, un po’ per il vasetto, aveva cominciato ad afflosciarsi su sé stesso, e l’umore andava ingrigendosi.
Lei, naturalmente, l’aveva capito, e ora stava cercando di farlo sentire meglio. Perché Kagome era fatta così, il suo primo pensiero non era mai per la sua stessa gioia, bensì per quella degli altri. Lei si sentiva felice solo se coloro che le stavano intorno lo erano, e questo la rese ancor più splendida ai suoi occhi.
Inuyasha, titubante, prese la boccetta davanti alla sua unghia, di un bel arancione vivo e allegro. Gli ricordava un sacco la risata della sua donna, che rievocava l’estate in qualsiasi periodo dell’anno.
-C…cosa devo fare? – chiese, giusto per darle un minimo di soddisfazione.
Lei sorrise, e cominciò a spiegare con nonchalance come doveva procedere, a grandi linee. Gli disse di essere spontaneo e che l’effetto più era personale più era bello, ma lui ne dubitava. Era abituato a reggere spade, non delicate setole intinte nella vernice.
Comunque, per farla contenta, mascherò il suo scetticismo sotto una corazza imperscrutabile, e prese a darsi da fare. I primi tratti furono incerti, ma quando la patina creata da lui cominciò a coprire quella che aveva rovinato si sentì leggermente più soddisfatto. La mistura sapeva di frutta, tanto da fargli sospettare che avesse trovato un modo di fabbricarla ella stessa.
Riprendendo le sue mansioni fingendo di non guardarlo, Kagome prese a canticchiare una canzone popolare, che le avevano insegnato i bambini. Essi la strillavano in continuazione, tanto che era impossibile non impararla a propria volta.
Parlava d’estate, di sole e di spensieretazza, l’ideale in quella situazione.
Aggiunse un’altra pennellata umida, vedendo il vaso che cominciava a splendere assieme alla sua soddisfazione.
-Non ti chiedi che fine abbia fatto Kunieko? – chiese la sacerdotessa, dopo un po’.
In effetti lui aveva smesso di pensarci, dando per scontato che fosse tornata a casa. Scosse la testa, troppo assorto per parlare.
Lei ridacchiò, guardando la sua espressione concentrata. –Non ci crederai mai – lo stuzzicò.
Con attenzione, il mezzo-demone posò il piccolo barattolo per terra, completo a metà. Viste le dimensioni ristrette, non era stato difficile da colorare, e l’effetto gli piaceva. Splendeva davvero, ricordandogli la freschezza della donna.
-È tornata a casa, no?
Lei scosse la testa, evidentemente compiaciuta da quel gioco. Una luce da bambina le illuminava lo sguardo.
-Eddai, dimmelo! – Inuyasha ignorò il colore che gli aveva in parte reso le mani arancioni, per guardarla piccato. –Lo sai che non sono bravo con gli indovinelli.
Lei ridacchiò ancora. Sembrava che qualcuno gli stesse facendo il solletico: -Io te lo dico, ma a un patto: mi piacerebbe che tu mi colorassi tutti i vasi.
Lui inarcò un sopracciglio. Era fin troppo evidente che lei, vedendolo preso dal progetto, stava facendo di tutto per appassionarlo a qualcosa, e ne rimase a dir poco strabiliato. Lo splendore di lei non aveva mai fine.
-Solo questo?
La vide annuire convinta. Nessuna esitazione nel farsi rovinare la collezione da un pittore inesperto.
Lui scrollò le spalle. –Guarda che non so quanto ci guadagni…
-Questo lascialo decidere a me –osservò furba. –Ci stai?
-Ci sto.
La vide ridere, di cuore stavolta. –Ti ricordi il Generale, al castello?
Il mezzo-demone annuì, impaziente, senza cogliere il nesso di quella domanda con il contesto.
-Ecco… Kunieko sta per diventare sua moglie.   
 
 
NOTA DELL’AUTRICE: Salve a tutti! Scusate il ritardo, ma ero stata troppo impegnata a combattere contro il blocco dello scrittore per proporvi qualcosa di soddisfacente..anche se nemmeno questo lo è, in effetti. Scusatemi ancora per il ritardo, e vi dò un annuncio: raggiunte le duecento recensioni, caricherò una storia a voi dedicata nella sezione favola, una cosa che progetto da molto tempo ma che non ho mai portato a termine. L’ho scritto adesso altrimenti mi dimentico…chi vorrà, faccia un salto dopo le duecento ;)
Ciao ciao! 

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Capitolo 29
*** Amarsi ***


Verso sera, entrambi avevano le mani e il viso sporchi di vernice.
I termine giusto sarebbe imbrattati: presto l’attenzione si era spostata dai vasi ai corpi, facendo in modo che le pennellate si concentrassero su guance e braccia.
Inutile dire che si erano divertiti come due bambini. Lei aveva tracciato il primo segno, a tradimento, e lui aveva applicato una verde vendetta sul suo zigomo. Era seguito un affondo color cremisi e una gialla risposta, culminati poi in una sorta di dolce battaglia durata un intero pomeriggio.
I capelli color mogano scuro della ragazza erano attraversati da striature variopinte, conferendole un’aria buffa. Sembrava quasi stesse indossando un copricapo adornato da migliaia di striscioline lungo tutta la lunghezza della chioma folta, e Inuyasha non era da meno. Avendo i capelli chiarissimi, l’effetto era ancor più accentuato rispetto a Kagome. Dalla sommità del capo partiva un viola scuro, come se fosse il naturale colore della radice, mentre lungo diverse ciocche si poteva scorgere un tripudio di blu e grigio, mischiato anche a qualche schizzo marrone chiaro.
Essendo in una condizione indecente, il ragazzo fu il primo a cedere. Per quanto il gioco lo divertisse, sapeva di non potersi spingere oltre, anche perché tutta quella tinta si stava seccando, irritando la pelle. Alzò le mani in segno di resa e le scoccò un sorriso divertito, visto il capolavoro che aveva portato a termine col naso di lei, dalla punta rossa e lucida.
-Va bene, va bene, mi arrendo! – esclamò in fretta, rivolgendo le setole del pennello contro sé stesso, giusto  per farle avere prova della sua buona fede.
Lei gli lanciò un’occhiata soddisfatta: -Ah ah! La ritirata del combattente!
Lui sbuffò, con gli occhi lucenti. Si era divertito come non mai, sentendosi leggero come una piuma. Tutte le ansie si erano dissolte, quasi non fossero mai esistite, e anche le incertezze e le insicurezze erano scivolate nel baratro. Racchiusi in quella stanza c’erano molto più di due adolescenti che si stavano macchiando a vicenda; vi si trovava piuttosto una fetta di paradiso, in un formato piccolo per non risultare troppo disarmante al mondo dei vivi.
La beatitudine più profonda era soltanto l’anticamera di ciò che stava provando in quel momento. Mai avrebbe potuto dirsi tanto tranquillo o allegro come in quell’istante. Tutta la sua vita era stata vissuta solo per arrivarle a starle a fianco, pitturarle il viso e godere del suo profumo, della sua risata che ancora danzava nell’aria.
-Non abituatevi troppo, principessa – osservò, fingendo di voler mantenere una dignità. Si guardarono un istante negli occhi e scoppiarono a ridere entrambi, felici. Non sapeva dove aveva trovato tanta scioltezza nel rivolgersi a lei, ma gli fece incredibilmente piacere. Era pur sempre preferibile alle figure impacciate che faceva di solito, o quando si dimostrava solo terribilmente immaturo.
Scuotendo piano la testa, con un sorriso, Kagome cominciò a sistemare i pennelli, intingendone la punta in una piccola bacinella d’acqua fresca. Subito, lo specchio palcido e limpido accolse dentro di sé migliaia di sfumature tremolante, che lo dominarono in pochissimo tempo.
Lui venne rapito da quel movimento delicato, e lei rallentò apposta i suoi gesti per lasciare che la pittura colmasse il recipiente con la sua unicità. Presto, l’acqua divenne una distesa oleosa intrisa di tutti i colori sui loro capelli, l’esatta proiezione di un lungo pomeriggio dedicato all’”arte”.
Dal momento che difficilmente avrebbe potuto lavare in modo soddisfacente o efficace qualcos’altro là dentro, in una vera e propria pozzanghera di smalto, la sua espressione si colmò di disappunto.
La osservò divertito inarcare un sopracciglio, assomigliando sempre di più ad una ragazzina perplessa. La sua espressione si crucciò impercettibilmente verso la sua bacinella inservibile, pensando ad un modo per pulire gli utensili da pitturail più in fretta possibile.
Lui sapeva che teneva poca acqua in casa sua, per le emrgenze, poiché passava fuori la maggior parte del tempo, e beveva da pozzi o ruscelli quando ne sentiva il bisogno. La maggior parte della sua riserva di liquido la riservava per le misture e i balsami che preparava, e che non aveva potuto portare a termine quel giorno, a causa dell’ospite inatteso.
Il viso di Kagome era l’esatto specchio della sua anima. Quand’era pensierosa, il suo sguardo si perdeva ad osservare ogni minimo dettaglio che la circondava, senza trascurare nessun’increspatura che gli oggetti potevano assumere. I suoi occhi diventavano profondi e scuri, le sue labbra si schiudevano leggermente, e quasi gli pareva arrivasse a sorridere, ogni tanto. Più importante o impegnativo era il pensiero, più i suoi tratti si facevano meditativi, attenti. Qualsiasi cosa accadesse intorno a lei non passava inosservata, ma nell’incoscienza vigile in cui scivolava non c’era spazio per un qualche contatto con la realtà, in modo tale che doveva essere chiamata un paio di volte per essere riportata al prsente.
Quand’era triste, invece, i suoi occhi venivano ricoperti da una patina lucida, che le offuscava la vista, lasciando che le mani schermassero subito i suoi sentimenti con movimenti frettolosi. Essendo un tipo esuberante, non le piaceva mostrarsi debole, per cui le lacrime non duravano mai a lungo. Subentrava l’irritazione, che le induriva il tono fino a renderla davvero temibile, oppure l’indignazione, facendo in modo che si allontanasse con una scusa qualunque e si rintanasse per farsela passare.
Le vere volte in cui l’aveva vista abbattuta, faceva di tutto per nascondere il viso fra le spalle, i cui connotati erano come vuoti. Gli occhi parevano vitrei, e sembrava immensamente bella, nella sua pelle pallida e le labbra esangui.
Se sorrideva assomigliava ad una dea. Non c’era altro modo per descrivere la completa metamorfosi del suo intero essere: cantava, ballava, rideva a squarciagola e lasciava perdere qualsiasi sgarbo, poiché il suo buonumore era intaccabile. La luce giocosa nel suo sguardo contagiava chiunque, e i sorrisi che regalava senza accorgersi del loro valore colmavano il cuore anche del più malvagio fra i demoni. Sembrava quasi avesse ingoiato una collana di perle; un po’ le erano rimaste appese alle gengive, le altre avevano reso la sua voce inestimabile.
In quel momento, però, la sua bellezza indiscutibile creva un singolare contrasto con l’espressione crucciata e assorta. Mentre si arrovellava attorno al problema, escludeva in automatico tutto il resto, come esistessero solo lei e l’acqua macchiata di, ora, giallo.
-Cosa c’è? – chiese sorpresa, sentendolo ridacchiare sotto ai baffi.
-È inutile, ti serve altra acqua – osservò. Non poté impedirsi un altro singulto, unico prodotto della risata che stava cercando di soffocare, giusto per non prenderla in giro troppo sfacciatamente.
La vide rabbuiarsi per un istante, e temette di averla offesa. Una lama gli si conficcò in pieno petto, cominciando subito con le maledizioni verso la propria stupidità. Arrivati finalmente a quel punto, non poteva assolutamente permettersi una regressione, non quando aveva il paradiso a portata di mano.
Tuttavia ci pensò lei a distoglierlo dall’imminente disperazione, con una logica molto più intelligente della sua. rabbrividendo, lanciò uno sguardo verso la porta.
-È notte, non mi fido ad andare al ruscello a quest’ora.
In effetti, si rese conto con sollievo, era perfettamente sensato che la giovane avesse paura. Era calata la sera, le stelle brillavano fulgide in cielo e l’aria si era fatta pungente. Anche se non era un’ora tarda, per un essere umano doveva essere difficile scorgere delle sagome con un’oscurità così fitta, accentuata dalle nubi temporalesche che si erano addensate sul firmamento tenebroso poco dopo il tramonto.
Dovette ammettere che faceva abbastanza freddo, di fuori, e che difficilmente l’acqua gelida sarebbe stata piacevole a quell’ora. Inoltre, non volle nemmeno provare ad immaginarsela da sola là fuori, esposta a qualsiasi tipo di pericolo; quando i sensi sono smorzati si vedono pericoli che non ci sono, e si sarebbe di sicuro spaventata a morte.
-Ti accompagno io – affermò deciso, alzandosi. –Tanto è qua vicino, no?
Sapeva bene che i pennelli potevano rovinarsi, se lasciati sporchi per tutta la notte, e non voleva che ciò accadesse. Era una collezione importante per entrambi, dal momento che li aveva uniti per almeno un pomeriggio, riempendoli di felicità. Quei semplici pezzi di legno avevano un significato importante, ormai. E poi, dal momento che poteva benissimo scortarla senza problemi, non c’erano scusanti per rinunciare.
La vide sorridere lievemente. –Non ti preoccupare, non voglio disturbarti… - disse piano.
Lui sorrise appena. Eccola, la solita, altruista e meravigliosa ragazza: quando avrebbe cominciato a pensare un po’ a sé stessa?
-Per me è un piacere – stabilì, incrociando le braccia e appoggiandosi allo stipide della porta. Si doveva ancora abituare del tutto a quella forma singolare e spigolosa, che dopo un po’ urtava i fianchi, però erano un mezzo piacevole, soprattutto quando pioveva o tirava vento.
Annusando l’aria, si rese conto che sarebbe piovuto a breve, nel giro di un paio d’ore. Meglio sbrigarsi, per non perdere tempo.
Con un cenno del capo, la invitò a prendere quello che le serviva, e la vide afferrare il recipiente ancora colmo, con l’intenzione di pulirlo al ruscello. Annuendo soddisfatto, Inuyasha si inoltrò nel corridoio, seguito da lei, e la porta rudimentale si richiuse dietro di loro. Non aveva serrature, per non essere troppo esagerata in quanto ad originalità, e poi era sicura che nessuno sarebbe entrato a causa del timore che i contadini nutrivano per la lastra di legno.
L’aria frizzante che c’era sulla collinetta la fece rabbrividire, e Kagome si strinse nelle spalle. Le prudeva il viso a causa della vernice rappresa, i vestiti si erano leggermente macchiati, ma con un paio di lavaggi sarebbe tornato tutto a posto.
Non voleva nemmeno immaginare lo stato dei suoi capelli, anche perché le poche ciocche rapprese che poteva vedere erano secche e viola, assolutamente orribili. Ricordava quando, nel futuro, era scoppiata la moda del tingersi i capelli; le persone non si erano risparmiate con le fantasie, riducendosi a stati che rasentavano il pietoso. Le venne da ridere pensando che, con qualche pennellata maldestra, aveva una capigliatura che sarebbe costata migliaia di yen.
Il kimono scuro del ragazzo le si stava muovendo davanti, e lei corricchiò per non perderlo di vista, aggrappandosi ad una sua manica ampia, senza dir nulla. Aveva davvero paura del buio, soprattutto in quel posto solitario. La presenza del giovane, però, la rasserenava sempre, come se fosse una sorta di medicina per ogni timore.
Il corpo muscoloso e forte aveva il potere di farla sentire protetta. Nella breve strada che li separava dalla meta, il cui gorgoglio già si sentiva, Kagome si appoggiò leggermente al suo mezzo-demone, un piccolo sorriso ad incresparle le labbra. Era felice, e si sentiva bene.
Un altro brivido la scosse. Di giorno sembrava estate, ma erano le notti il vero problema. Esse avevano conservato il loro clima invernale e spietato, senza dare tregua ai viadanti che si muovevano la sera per sfuggire ai raggi del giorno. Essendo una capanna semplice, casa sua era piena di spifferi, e non aveva potuto abbandonare le lenzuola di lana pesante, sentendosi leggermente ridicola infagottandosi in quei nidi auto-imposti.
Con un fruscio, un lieve tepore la avvolse: alzò lo sguardo, sorpresa, verso Inuyasha, che le sorrise rassicurante. Le aveva posato la casacca sulle spalle perché non avesse freddo, cullandola con il suo profumo.
Lei non sapeva cosa dire di fronte a quel gesto, e non cercò nemmeno di protestare; era troppo raro che lui si lasciasse andare a tenerezze del genere per sollevare questioni inutili, e decise di godere a fondo della cosa per non guastare l’allegria scoppiettante dentro di sé.
Socchiuse gli occhi, avvolta dalle braccia del sonno. Era stata una giornata piacevolissima, e inaspettata. Quando l’aveva chiamato non si aspettava certo che si trattenesse così tanto, già rassegnata ad una sua possibile fuga di fronte ai mestieri di casa. Aveva cercato di togliergli quel muso lungo dal viso bellissimo, e si compiaque di esseci riuscita al meglio. Riusciva ad essere felice solo se anche lui lo era.
Nella notte, videro luccicare all’improvviso le piccole onde d’acqua di quel serpentello tortuoso. Nelle giornate estive, Inuyasha e Miroku immergevano le caviglie nel flutti e pescavano qualche pesce, mentre lei e Sango si godevano la pace del sole, ricevendo qualche schizzo di tanto in tanto.
Avvicinandosi con cautela, Kagome si spostò verso la riva, senza dire niente. Aveva quasi paura di interrompere quel silenzio mistico, e si lasciò trasportare dalla magia. Sentiva il respiro di lui alle sue spalle, e tanto le bastava per sentirsi al sicuro.
Con mani esperte, cominciò a svuotare il contenuto nel letto umido, lasciando che la macchia scura a malapena visibile dal resto scivolasse via. Poi cominciò a raschiare il bordo con le unghie, eliminando le incrostazioni di vernice. Passò anche la parte interna, velocemente, con le dita intirizzite, sbrigandosi  a pulirlo in modo essenziale.
Una mano grande e calda le si posò sulla schiena, facendola fremere. L’avrebbe riconosciuta fra mille: ruvida ma liscia al tempo stesso, dalle dita affusolate e virili, il palmo ampio e abituato alla via della spada, la pelle morbida e resistente contro le sue scapole. Le venne spontaneo inarcare il corpo sotto quel delicato intervento, e la risposta non tardò ad arrivare: con un’unica carezza, sentì che tutta la colonna vertebrale in tensione veniva distesa.
Si vergognò all’improvviso di essere tanto macchiata di smalto, con un ridicolo naso rosso, e desiderò più che mai delle vesti eleganti.
-Kagome – sussurrò una voce roca dietro di lei, ad un soffio dal suo orecchio. –Non ce la faccio più…
Quella confidenza appena accennata la scosse. La mano tanto amata fu affiancata dalla gemella, ed entrambe le cinsero la vita, irradiandola di un fuoco redentore. Il loro tocco era esattamente come se l’era immaginato, rispettoso e passionale, desiderio a stento trattenuto.
Sapeva bene cosa quelle parole significavano in realtà, conosceva fin troppo il loro senso recondito senza la forza di essere celato, e il fatto che il ragazzo la stesse rendendo partecipe della sua pena la riempì d’amore per lui.
Il suo candido, dolce, impacciato Inuyasha si stava affidando a lei, ragionevole e calma, per decidere cos’era meglio fare. Ma per una volta, nella sua vita, non lo sapeva nemmeno lei. Con tutta sé stessa voleva cedere e abbandonarsi a quella stretta, lasciarsi solcare dalla linea di fuoco gelido come se non esistesse altro, ma l’altra metà del suo spirito le imponeva di fare attenzione.
Da quello che entrambi desideravano non c’era ritorno, ne erano consci ma lo bramavano ugualmente. D’altra parte, però, aveva atteso tre anni, più di novecento strazianti giorni, ognuno conficcato come un pugnale fra le costole, che le rodevano ogni singolo muscolo. Una bruciante sensazione di sconfitta che si era risolta in una nostalgia opprimente.
Lo voleva, voleva con tutta sé stessa diventare moglie di Inuyasha, sentirlo proprio al suo fianco, vivere con lui e gioire della quotidianità insieme. Avere dei figli, una casa, una vita tranquilla. Non chiedeva nulla di diverso dalla normalità, eppure gli dei avevano deciso diversamente, ancora una volta.
Un nuovo fardello da sopportare, infinitamente più pesante dei precedenti, un’altra prova da superare. Questa volta non era affatto intenzionata a passare l’esame, non ancora, scegliendo sè stessa prima di ogni altra cosa.
Tirò fuori le mani dall’acqua, lentamente, sentendo il vento mordere spietatamente la pelle bagnata. Posò il contenitore ancora vuoto nell’erba lì accanto, voltando la testa di appena un millimetro, strofinando la guancia contro quella di lui, in un movimento sofferto.
Lasciò che le sue dita accarezzassero le nocche posate ora sul suo ventre, lentamente. Aveva fantasticato mille volte su quelle braccia, e ora lasciava vagare lentamente i polpastrelli freddi sugli avambracci guizzanti e muscolosi, da uomo.
La bocca di Inuyasha scese piano lungo il suo collo, inaugurando la pelle desiderosa d’amore.  Il tocco era lieve e quasi timido, ma assomigliava sempre più ad una colata di lava lungo un versante roccioso. Kagome si sistemò meglio contro di lui, sentendo la forma del suo corpo contro il proprio, e gioendo di quella trasgressione.
-Sicura? – chiese appena lui, per rispetto. Era per questo che lo amava: la rispettava incondizionatamente.
Si diede appena il tempo di annuire, facendo proprie le sue labbra calde e morbide, inesperte, come se fosse la prima volta.
Si lasciò stringere, con un sospiro. Prima di chiudere gli occhi, vide la luna brillare, come un sorriso perlato: rispose anche lei, con labbra tremanti, ebbra d’un sentimento che non avrebbe saputo spiegare.
Non a parole.  

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Capitolo 30
*** Ridere ***


Kagome, quando aprì gli occhi, sentì le gambe dolcemente intropidite.
Il sole entrava prepotente dalla finestra, riversandosi in tutto il proprio splendore sul futon stropicciato su cui era stesa, del tutto abbracciata ad un familiare corpo tiepido.
Con un lieve sorriso, ricacciò la testa fra i suoi capelli argentei, respirandone il profumo e gustandone la morbidezza. Era una chioma unica e perfetta, liscia, perennemente fresca; le aveva solleticato il viso per tutta la notte, e lei vi si era lasciata avvolgere come una coperta.
Muovendosi lentamente per sistemarsi, sentì un braccio forte scivolare lungo il suo fianco nudo, per poi recuperare lo spazio perso e farsi quasi possessivo nella sua stretta. Attirandola al petto ampio e muscoloso, le fece premere le labbra contro le proprie clavicole. La ragazza non poté impedirsi di stamparvi sopra un bacio leggero, per non svegliarlo.
Lasciò che le proprie ciocche brune si mescolassero in minuscole, disordinate e rudimentali treccine a quella meraviglia color neve, sentendosi calda e felice come non mai.
Quella notte era stata assolutamente speciale, per moltissimi motivi. Inuyasha aveva dimostrato tutto il suo amore per lei come uomo, abbandonando per la durata di alcune ore il comportamento di uno scorbutico ragazzino impacciato. Non avrebbe saputo esprimere quanto donna l’avesse resa in quegli istanti, quanto rispetto avesse impresso nella propria stretta; ricambiare era stata la cosa più semplice che avesse mai fatto, con una naturalezza che non credeva esistere.
Erano stati attimi fondamentali. Tutto il suo mondo si era colmato, il cielo aveva ricominciato a brillare e il peso dei suoi impegni era del tutto scomparso. Come faceva a dare amore se lo negava a sé stessa? Aveva bisogno di qualcuno che le stesse accanto, era diventata una cosa impossibile da rinunciare, e avrebbe sicuramente trovato un modo per confessarlo alla Venerabile Kaede, esisteva di certo una soluzione.
Non che si sarebbe affannata per trovarla, sia chiaro. Avrebbe infranto qualsiasi divieto pur di non negarsi la sua stessa vita.
La mano calda del giovane demone risalì piano contro la sua schiena, regalandole un brivido. Kagome appoggiò languidamente il mento contro la sua spalla, ad occhi chiusi, volendo godere fino in fondo del calore della sua pelle quasi ruvida, ma anche estramente vellutata.
Dormiva come un bambino, l’espressione distesa e il respiro regolare, mentre la abbracciava protettivo. Quell’unione aveva migliaia di significati, e lei era decisa a svelarli tutti quanti.
Si era sentita amata, anche quando la pioggia li aveva interrotti. Un barlume di ragione aveva fatto loro capire che non si poteva essere tanto sfacciati, e si erano ritirati nella solitudine della casetta, pronta ad attutire nel silenzio confessioni e gemiti appassionati.
Doveva ammettere che, per quante volte l’avesse immaginato, mai avrebbe potuto prevedere una cosa tanto perfetta. Nel suo mondo, parlare di certe cose fra ragazzine era normale, per quanto la mettesse in imbarazzo. Lei non aveva mai avuto esperienze in campo sentimentale, a differenza delle sue amiche, e guardava certi argomenti con una punta di rossore sulle guance.
Non aveva infatti nessun anneddoto da raccontare, niente da testimoniare in un momento di leggerezza, e stava ad ascoltare leggermente allibita quanto veniva detto. Da come era descritto, comunque, sembrava una cosa molto infantile, quasi un riconfermare una proprietà: il suo spirito di inguaribile romantica ne era rimasto deluso, ma con le successive vicissitudini aveva accantonato la questione, assorbita da questioni ben più importanti di stupide chiacchierate proibite fra amiche.
Tuttavia, da quando Inuyasha aveva dichiarato il suo amore per lei, in modo che fosse decifrabile solo da una persona che lo conosceva molto bene, un lampo si era riacceso nella sua testa. Era rimasta delusa all’inizio, per il proprio voto di sacerdotessa, ma ancora non aveva valutato un aspetto tanto intimo; poi, al castello, tutto le era tornato in mente con estrema dovizia di dettagli.
Le discussioni, i racconti delle senpai, le esibizioni quasi sfacciate in TV, le allusioni continue…non era di certo una ragazza ingenua, ma certe cose, senza la dovuta discrezione, la mettevano a disagio. Le aveva insegnato ad essere una persona composta, e non si capacitava di dover diventare come le sue coetanee, tanto tranquille nel narrare esperienze e sensazioni provate in certi momenti.
Tuttavia, Inuyasha le aveva insegnato che non c’era assolutamente nulla da temere. La guidava dolcemente verso quelli che erano i movimenti giusti, e le sembrò più che normale ricambiare nel donargli sé stessa, come lui si stava dando a lei.
Era stato un momento per riscoprirsi, svelare i reciproci misteri, condito di certo di forse troppa irruenza e molta passione, ma assolutamente sublime proprio grazie all’inesperienza. Non aveva avvertito dolore, fra le sue braccia, e presto anche lui perse il timore di ferirla. Fu perfetto, esattamente fuori dagli schemi, come loro due.
Poterono fingere di essere moglie e marito, e lo furono davvero. Il mattino dopo si sarebbero svegliati nell’incertezza del domani, ma non aveva importanza. Quel sogno li ripagava di tutti i mesi buttati al vento e dei tre anni lontani l’uno dall’altro.
Tre anni…c’erano stati giorni in cui aveva creduto di impazzire. Sua madre e il nonno erano stati i più preoccupati per lei, vedendo la bella Kagome rintanarsi in camera e non avere la forza nemmeno di piangere. Rispettavano il suo silenzio e il suo dolore, e per i primi tempi non le avevano detto nulla, visto che era scivolata in un apatico mutismo.
Riusciva a ripensare solo ai momenti con Inuyasha, alle risate fatte con il gruppo e alle mille avventure che avevano forgiato la sua nuova forza, come una donna sicura di sé stessa e pronta ad affrontare la vita nei suoi pericoli.
Le pareva di sentire il suo nome pronunciato dal giovane, dell’inflessione particolare che vi imponeva con, a volte, preoccupazione, oppure disperazione, amore, coraggio o bisogno di sostegno. Avrebbe trovato tutto ciò di cui aveva bisogno nelle sue braccia, ed era lì che aveva sempre cercato. Anche quando feriva i suoi sentimenti andando da Kikyo oppure rispondendole male, lei sapeva bene l’importanza che ricopriva nella sua vita, e il dolore passava molto più velocemente.
Le ci era voluto quasi un anno per smettere di accucciarsi nel pozzo e singhiozzare, altri sei mesi per chiudere con un catenaccio la porta del magazzino. Delle volte, seduta sul terriccio umido,  si impediva di fare rumore, lasciando che il proprio odore fosse così potente da essere captato anche dalle sue narici, ma non accadeva mai.
Quell’anima in pena non aveva saputo conoscere rassegnazione, per nessun motivo al mondo. Anche se aveva valutato l’ipotesi che lui avesse ricominciato una vita con qualcun’altra al fianco, chi lo sa, lei non abbandonava mai la speranza, che la distruggeva e manteneva al tempo stesso in vita.
Era caduta in uno strano limbo, nel quale nulla aveva senso e niente ne era privo, ma era una sensazione ugualmente logorante. Cominciò a vestirla come un abito: quando studiava, quando si diplomò, quando rincasava e quando cercava di sorridere, intravedendo ciocche candide volteggiare al vento o profondi occhi gialli, gli unici a vederla davvero.
Poi, mantenendo la sua promessa, era tornata a casa; le foglie, gli alberi, l’aria pulita, il cielo azzurro. La natura sembrava sorriderle incontro, come una bambina ridente, e per la prima volta dopo tantissimo tempo la ragazza si risentì giovane e leggera. Strinse la sua mano, immutata e salda, che la accolse nel proprio petto.
Anche se delle volte le mancavano i suoi familiari, sapeva benissimo che loro si erano già rassegnati alla sua partenza. In realtà, Kagome non era mai davvero tornata, solamente il suo corpo si trovava da una parte e il suo spirito da un’altra, a vagare fra chiome fiorite e territori incontaminati.
Lo sentì muoversi al suo fianco, facendola tornare al presente. Evidentemente stava sognando, poiché sospirò leggermente, prima di abbracciarla ancora più forte.
Lei gli fece scorrere le mani dietro la schiena, assaggiando con i polpastrelli ogni singolo muscolo delineato in superficie, la pelle chiara uniforme e tesa. Amava il suo dorso scoplito come una statua marmorea, la faceva sentire al sicuro; e, anche se non sembrava, il ragazzo nascondeva un fisico davvero invidiabile, asciutto ma perfettamente calibrato nella forma dei bicipidi o degli addominali, netti contro la pancia rigida. Quasi si era sentita in soggezione, ma non aveva avuto tempo di preoccuparsene.
Quella carezza parve rasserenarlo, perché con un movimento lento e dolce le baciò piano la testa, forse in un attimo di lucidità. Poi si riaddormentò appoggiato a lei, sentendo le sue gambe snelle agganciate ai suoi fianchi.
Rabbrividendo, Kagome coprì i loro corpi con un lenzuolo spinto sul fondo del letto dai loro piedi febbrili. Sentì subito che Inuyasha godette di quella decisione, riconfermando la propria stretta facendola ridacchiare, come se avesse paura che lei se ne andasse.
Poteva dirsi completamente felice in quell’istante: aveva esplorato, vissuto e respirato la gioia, il sentimento incredibile che ancora le intiepidiva il ventre, l’odore del demone su di sé. Non poteva assolutamente dire che qualcos’altro nella sua vita l’avesse fatta sentire allo stesso modo.
E se fosse rimasta incinta?
Strofinò pensierosa la guancia contro la clavicola di Inuyasha, valutandone le probabilità. In effetti, quando i dolci ricordi tornarono sulla superficie placida della sua mente, pensò che c’era una buona probabilità che accadesse. Insomma, non si erano preoccupati troppo di stare attenti, e forse ci sarebbero state delle sue conseguenze.
Distrattamente, sfiorò il collo del giovane con le labbra calde. Se doveva essere sincera, era leggermente spaventata da quella possibilità, dal momento che era ancora molto giovane. Inoltre, essendo una saerdotessa, non credeva che sarebbe stato visto dalla comunità come un lieto evento, ma non avrebbe mai permesso a nessuno di maltrattare i suoi figli.
Aveva sempre considerato sacra la famiglia, e non augurava nessuno di vivere senza padre, nonostante Inuyasha, lo sapeva, non l’avrebbe mai abbandonata, per nulla al mondo. Poi, visto che anche lui aveva vissuto la persecuzione sulla propria pelle, era sicura che non avrebbe mai permesso a nessuno di fare del male al frutto della loro unione, sempre se ci fosse stato. Non voleva d’altra parte che la sua vita cambiasse dopo solo una notte di passione, per quanto desiderasse dei bambini da lui.
Diventare madre era, prima di tutto, una responsabilità non da poco, e decise di pensare seriamente a come si sarebbe comportata. Decise con sé stessa che non avrebbe preso nulla per sfavorire la gravidanza; se era nei piani del destino, non si sarebbe opposta, in quanto riguardava questioni molto più grandi lei. Avrebbe amato suo figlio perché segno dell’amore che la legava al padre di lui, questo sì, e vi si sarebbe dedicata con tutte le sue forze.
Non voleva nemmeno favorire la cosa, però, ma si ritrovò a vagliare queste ipotesi con incredibile tranquillità. Ormai nulla la spaventava, era abbastanza grande da poter decidere cosa fare senza temere le conseguenze.
 Piano, i suoi capelli furono percorsi da un movimento intriso di tenerezza, che li accarezzò in tutta la loro lunghezza. –Buongiorno – sussurrò una voce profonda sopra alla sua testa e lei, d’istinto, sorrise.
-Buongiorno a te – disse di rimando, a voce bassa. Era la seconda volta in vita sua che si svegliava con Inuyasha accanto, solo che in quel caso le circostanze erano decisamente diverse.
Lui non disse nulla, ma le passò i polpastrelli sulla schiena con un movimento impacciato che la fece ridacchiare. Incosapevolmente, le aveva fatto il solletico, e si strinse ancora di più contro di lui.
-C…cosa c’è? – domandò titubante. Nel suo tono c’era già il timore di aver fatto qualcosa di sbagliato, che lo faceva sembrare un dolce ragazzino alle prime armi. Come lei, d’altra parte.
-Niente, niente…ho solo la pelle un po’ sensibile – rispose lei, sorridendo. Il corpo del giovane era sconfinato rispetto al suo, e cullata dal fiato caldo e dal nido amorevole in cui era sprofondata non poteva garantire che sarebbe rimasta sveglia a lungo.
Lo sentì sbuffare, in un suono molto familiare per lei, che la fece tornare ai vecchi tempi. Era una cosa che Inuyasha faceva molto spesso, alzando gli occhi al cielo o incrociando le braccia; le parve quasi di vederlo.
-Scema – disse a voce bassa, ma con un’inflessione tenera diversa dal solito, - dovresti vestirti di più, poi è ovvio che prendi freddo di continuo -. Sentenziato il verdetto, la coprì meglio con la coltre di lana, poiché i raggi non riscaldavano un bel niente, essendo ancora pallidi grazie all’ora mattutina.
A lei venne da ridere, ma si morse la lingua. Sapeva che le stava facendo un discorso serio, e che probabilmente era arrossito, ma voleva stare nello stupore per quella sana e toccante preoccupazione ancora un po’. D’altra parte, era raro che facesse dimostrazioni tanto lampanti a parole di quanto tenesse a lei, per cui tanto valeva stare in silenzio e lasciarsi stringere, cosa che aveva intenzione di fare.
Stiracchiò i piedi con un movimento involontario, muovendo le dita fino a sfiorargli un polpaccio. Lui, per tutta risposta, si aggiustò su un fianco, per tenerla meglio e stare anche comodo.
La sacerdotessa sapeva che per lui non doveva essere facile dormire in quella posizione , essendo abituato a riposare solo per bervi tempi addosso ad una parete o incastrato fra i rami di un albero. Non si prendeva mai tempo a sufficienza per mettere i pensieri a tacere e trovare un minimo di ristoro, ma lui era fatto così. Perennemente attivo, forse tormentato da mille cose da fare o forse no. Per il timore di lasciarla sola ed indifesa senza nessuno a vegliare sul suo sonno, rimaneva vigile solo per assicurarsi che andasse tutto bene, e il suo momento di rilassamento era interrotto da ogni suono o rumore diverso dagli altri, ovvero ogni singolo fruscio.
Teneva sotto controllo continuo la casa, e lei non credeva che sarebbe stato facile fargli perdere quest’abitudine. Per quanto le facesse piacere, era anche essenziale che il ragazzo trovasse un attimo di pace.
Ad un tratto, Kagome cominciò a ridere. All’inizio si trattò di un semplice singulto a stento trattenuto in gola, poi divenne una risatina di sottofondo, impercettibile, fino a trasformarsi in una vera e propria risata a pieni polmoni. Per un motivo tanto stupido, poi!
Inuyasha sentì chiaramente la schiena di lei percorsa dai tentativi di occultare quella forma di ilarità, e all’inizio di preoccupò nuovamente di aver fatto qualcosa di sbagliato. Per soffocare il meglio possibile l’improvviso scoppio di divertimento, premette il viso contro il suo petto, ma non riuscì a far altro che aggravare la situazione; più si sentiva ridicola per ciò che stava facendo, più continuava a farlo, come per una sorta di reazione a catena.
-E adesso mi spieghi cosa diavolo ti succede? – chiese lui. Impossibile decifrare il suo tono, ma era tutto tranne che infastidito. Era sempre bellissimo vederla ridere, soprattutto se in modo tanto appassionato.
Kagome faticò non poco per riprendere fiato, dovendo addirittura staccarsi a malincuore e stendersi a pancia in su, le unghie aggrappate alle lenzuola. Lui continuava a guardarla incuriosito, pensando che nusa fosse ancora più bella, nonostante guardandola non potesse impedire alle sue guance di arrossarsi, avedo flash-back di quando, quella notte, si trovava nella stessa identita situazione.
Dal momento che non accennava a calmarsi, lui si stese su un fianco per ammirarla meglio, poggiando la testa su una mano sollevata grazie al gomito, puntellato sul materasso. Il suo petto si alzava e abbassava freneticamente, mettendo in risalto i seni, mentre il corpo si contorceva per bloccare le risa.
Sembrò ritrovare un attimo di pace, guardandolo con occhi scintillanti, fisso nelle pupille. Mentre lui era occupato ad avvampare, lei si pportò una mano alla bocca e parlò con voce tremolante: -Ho passato la notte più importante della mia vita con il naso verniciato di rosso.
Ci fu un attimo di serietà assoluta. Poi scoppiò di nuovo e fu costretta a girarsi di schiena per contenrsi.
In effetti, a ben pensare, Inuyasha notò nuovamente diverse strisce di pennello lungo il collo e il viso, mentre alcuni residui si stagliavano abbastanza nitidi contro i capelli. Le poche gocce di pioggia a cui si erano involontariamente esposti la sera prima avevano tolto qualcosa, ma non molto, e anche lui ripensò improvvisamente alle sue condizioni, più o meno simili a quelle della ragazza.
Fu tentato improvvisamente di ridire, ma cercò di trattenersi. Ma era impossibile: lei era così buffa! L’effetto quasi disarmante del suo corpo mozzafiato veniva certamente amortizzato dal naso vivace, reso impossibile da trascurare grazie alla punta rossa, sbiadita ma ancora in parte presente.
Sembrava una di quelle maschere che, nei teatri, indicavano i personaggi ubriachi, e ne evidenziavano i segni evidenti di instabilità. Non riuscì proprio a fermarsi, e cercò di nascondere in tutti in modi il suono debole e roco che usciva dalla sua gola, partendo dalle viscere.
Era impossibile da arrestare. Per una persona che rideva molto poco, preferendo godere in silenzio di ciò che accadeva intorno, si trattava di un evento nuovo e difficile da gestire; poi scoprì che non desiderava affatto smettere, e lasciò che quel poco di verso rauco che era in grado di produrre scaturisse incontrastato.
Kagome si voltò sorpresa, dal momento che era la prima volta che lo sentiva ridere. Sapeva bene di assistere ad una meraviglia unica e praticamente irripetibile, così decise di non metterlo in imbarazzo, fissandolo come una bestia rara. Lo abbracciò e rise con lui, gioendo della comicità della cosa, e ascoltando quella melodia così tipicamente maschile, tanto strana quanto stupenda se accostata a lui.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo impiegarono a concludere quella situazione, ma forse fu anche troppo breve. Rimasero avvinghiati, grati di essere vicini l’uno all’altra.
I loro corpi erano fatti per essere vicini, accostandosi come se non esistesse nulla di più importante, e in effetti niente contava tanto come quegli istanti, schegge di attimi da vivere insieme.
Decisero silenziosamente che quella sarebbe stata la prima di tante, lunghe notti; ne valeva assolutamente la pena. Nessuno dei due si sarebbe fatto scrupoli a tenere segreta la cosa, anzi, forse il proibito li avrebbe stregati ancora di più.
Essendo vicini non temevano le conseguenze, ben conoscendo i limiti umani su certe cose. E il loro amore non era di certo fra quelli, ma li trascendeva ampiamente.
Poi, un discreto bussare alla porta li fece sobbalzare entrambi, interrompendo l’attimo di leggerezza. Kagome strabuzzò gli occhi, incredula come una cerbiatta, ma sembrò recuperare la calma immediatamente.
-Basterà fingere di non essere in casa – bisbigliò, aggrappandosi a lui come se fosse un appigglio, una barriera contro i pericoli.
Lui ricambiò tendendo le orecchie, ceracando di identificare l’estraneo all’esterno che osava turbare la loro pace.
Ci fu un attimo di silenzio, poi altri colpi poco decisi e un lieve richiamo.
-Divina Kagome? – domandò una voce fuori dall’uscio.
Quella era, incinfodibilmente, la voce di Rin. 

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Capitolo 31
*** Segni ***


Kagome aveva capacità organizzative incredibili. Velocemente, riuscì a coprire le parti di vernice secca sui suoi capelli con un nastro, mentre si rivestiva e lo invitava, silenziosamente, a fare lo stesso.
Dicendo nel frattempo a Rin di aspettare soltanto un attimo, gli spiegò a bassa voce di dover rimanere chiuso lì e di non uscire per nessun motivo, nessuno;  raccolse i suoi vestiti, e lui la osservò legare l’obi alla bell’è meglio sulla vita sottile, cercando di assottigliare la scollatura esagerata. Si guardò velocemente allo specchio che li aveva vegliati per tutta la notte, cercando di togliere il rossore dal naso, con il suo solito senso pratico.
Andare dalla ragazza, invece che rimandare l’appuntamento fingendo di non essere in casa, faceva parte dei suoi doveri e anche della sua vocazione. Non avrebbe mai potuto respingere una persona che aveva bisogno d’aiuto, in qualsiasi situazione ella stessa si trovasse, perciò voleva offrire tutta la propria disponibilità all’amica anche se, così facendo, avrebbe dovuto rinunciare ad una mattinata con Inuyasha.
Lui, sistemandosi la casacca, capì che il tempo a sua disposizione non era affatto scaduto, anzi: era certo che Kagome sarebbe tornata e che gli si sarebbe dedicata ancor più di prima, se fosse stato possibile.
Quelle ore trascorse insieme avevano lo stesso sapore del miele sulla sua pelle ora coperta dalla stoffa, la sua mente custodiva tutto con gelosia in migliaia di preziosi ricordi. Ogni movimento e sussurro della giovane gli aveva fatto capire che non aveva assolutamente nulla da temere, in quanto quella sarebbe stata soltanto una delle molte notti che li aspettavano.
Fu questo a spingerlo ad obbedire, sedendosi a gambe incrociate in un angolo della stanza e nascondendo gli avambracci incrociandoli nelle maniche ampie. Il sole gli stava dando fastidio, in quanto doveva essere passato diverso tempo dall’alba, però preferì rimanere immobile per ottenere un maggiore contatto con la realtà.
Quella mattina l’aveva ascoltata respirare per un po’, prima di riassopirsi, ma ripensare a ciò rischiava di mettergli nostalgia. Era difficile non cercare nemmeno di trattenerla, tuttavia, a malincuore, capì che la cosa giusta da fare era lasciarla andare. Soltanto così avrebbe potuto dimostrarle tutto l’amore che provava, ovvero dandole libertà. Lui rispettava il suo ruolo e le sue passioni, e tanto bastava per esprimere ciò che a parole era assolutamente incapace di realizzare.
Kagome diede un’ultima occhiata alla stanza: il futon giaceva tutto spiegazzato al centro, segno evidente dei loro crimini, ma ormai non avrebbe mai fatto in tempo a sistemarlo. Sapendo bene che l’avrebbe fatto arrossire, ma giocando sul fatto che non poteva fiatare, mandò ad Inuyasha un bacio leggero, posando le labbra sul palmo della mano e poi soffiando leggermente verso di lui.
Si girò e inforcò la porta notando soddisfatta che, come aveva previsto, la pelle delle sue guance sembrava rovente.
Nonostante vivesse ormai da mesi in quella casupola, ora le pareti e i corridoi le sembravano terribilmente diversi. Era come ogni singolo muro di legno si fosse impreziosito, arricchendosi di dettagli che non aveva mai notato prima. Quella casa assomigliava quasi ad una figlia, per lei. All’inizio era solo un progetto nella sua testa, che prendeva lentamente forma attraverso pennellate insicure su un foglio nella stanza che Kaede aveva adibito a sua camera provvisoria, poi cominciò piano piano a manifestarsi tramite infissi per le finestre e mobili rudimentali, dall’aspetto grezzo.
Doveva ammettere che per alcune cose si era fortemente ispirata al tempio dove aveva abitato al di là del pozzo, ed era anche abbastanza evidente. Però era riuscita a dare alla sua nuova parte di vita un aspetto proprio, nuovo e innovativo. Non aveva voluto però esagerare con la modernità, e l’epoca Sengoku, con la rigidità dei lineamenti, le linee dritte ed essenziali, si fondeva perfettamente con il futuro, pregno di una strana armonia.
L’aveva vista crescere dalle fondamenta, assistendo alla creazione di ogni singolo pezzo. Aveva partecipato ai lavori di costruzione,  guidando il fabbro per rendere bene il vetro, assistito al montaggio di ogni singolo pezzo e passato le notti a sistemare questa o l’altra cosa. Da come ne parlavano gli abitanti, non avevano fatto particolare fatica per edificarla, ma a lei era sembrata comunque un’impresa titanica. Poi, soddisfatta, aveva potuto godere appieno del frutto dei suoi sforzi, assistendo a mo’ di ringraziamento la vecchia Kaede quando Rin era troppo impegnata e gli acciacchi si facevano sentire.
Non poté impedire alla propria mano di scorrere lungo la piattezza del muro, con il palmo. Inuyasha aveva arricchito ogni superficie con il suo caldo respiro, diventandone parte. Ora sembrava finalmente completa, in ogni suo angolo.
Lentamente, raggiunse la porta con un improvviso buonumore. L’ebrezza dell’illegalità appena compiuta la faceva sentire leggera come una piuma, invincibile: nessuno sarebbe venuto a conoscenza di ciò che era successo, era il loro personale angolo di segretezza, il più intimo e dolce dei segreti.
Aprì l’ampia superficie lignea, sentendo il cigolio dei cardini, il suono rilassante che non oliava per pura incapacità personale. Ormai le era diventato familiare come se fosse il respiro stesso della costruzione, e non sapeva se sarebbe stata in grado di rinunciarvi anche chiedendo aiuto a colui che l’aveva montata.
Prima di accorgersi della ragazza, intirizzita all’ingresso, venne investita da un crudele refolo di aria freddissima; non credeva che d’improvviso il tempo sarebbe potuto cambiare tanto drasticamente, ma il cielo che si stava riempendo di nuvole grigie, nonostante il sole ancora prepotente, rendeva l’atmosfera quasi surreale, a causa dall’apparenza di calore smentita dal gelo.
Si sentì in colpa per aver fatto attendere la ragazza sulla soglia, con un tempo del genere, però di certo non poteva sapere che potesse essere tanto gelido, quasi si trattasse dell’anitcamera dell’inverno arrivata troppo in anticipo. Poi, stringendosi nel kimono, si rese conto che nell’epoca Sengoku tali repentini cambi di temperatura non erano rari, proprio a causa dell’aria pulita e incontaminata. Nel mondo a cui era abituata, le auto e i trasporti pubblici influenzavano pesantemente il clima, rendendolo molto più caldo e meno soggetto a cambiamenti. Le stesse pioggie erano un fenomeno molto più prevedibile, con addensamenti di nubi e altri fenomeni nei giorni precedenti.
Senza indugiare oltre, le sorrise e la fece entrare. Lei accolse subito l’invito, lasciando che il pannello sbattesse dietro la sua schiena e accogliesse le sue membra raffreddate.
La pelle di Kagome, resa tiepida dal dolce risveglio, aveva iniziato a raggiungere una temperatura più bassa a contatto con l’esterno, ma l’ulteriore sbalzo le causò uno starnuto. Si riebbe in fretta, strofinando le braccia contro quelle di Rin, stretta nel suo scialle bianco.
-Accidenti, scusami tanto! – esclamò. –Se sapevo che faceva tanto freddo non ti avrei mai fatto aspettare lì fuori!
La vide ridacchiare, con il suo solito modo spensierato quasi da bambina, ma ora anche stranamente adulto. –Non preoccuparti, Kagome-chan, non potevi esserne a conoscenza!
Ora, le due giovani stavano ridendo e scambiandosi convenevoli. La sacerdotessa era lieta che l’altra avesse finalmente lasciato da parte le formalità, chiamandola in modo confidenziale. Le ci erano voluti mesi per non darle del voi, dal momento che la ricordava come una figura più grande di lei di diversi anni e quindi a cui doveva rispetto. La donna, d’altro canto, aveva faticato abbastanza all’idea di doverla ora trattare quasi come una coetanea, anche alla luce della sua età finalmente smascherata. L’istinto di protezione nei suoi confronti non era del tutto sparito, facendola assomigliare per lei ad una sorellina minore, ma le pareva quasi che Rin godesse di quelle attenzioni, di avere qualcuno con cui chiacchierare oppure a cui rivolgersi in caso di bisogno.
Un’amicizia reciproca, la loro, che andava costruendosi lentamente, ma molto solida.
Senza perdere tempo, Kagome la invitò nel piccolo soggiorno. Alcuni vasi erano rimasti a terra, mentre quello che stava pitturando Inuyasha giaceva incompleto da un lato. Rabbrividì di piacere ripensandolo lì accanto, in silenzio, ma non lasciò che il suo lieve sorriso non tradisse più del necessario. Era un ricordo prezioso che andava custodito come tale, doveva tenerlo a mente.
-Ho interrotto qualcosa? – chiese la giovane, entrando nella stanza.
La padrona di casa si riebbe dai suoi pensieri: -Eh? Ah, no, nient’affatto, accomodati pure. Un po’ di thè?
Rin annuì, sedendosi su un cuscino lì a terra. Aveva assunto la grazia di un cigno, e lo sembrava anche nei candidi lineamenti distesi. Le ciglia scure formavano mezzelune eleganti sulle sue guance pallide, e lo sguardo scintillava di gioia in qualsiasi momento, rendendola un pozzo traboccante di…speranza. Sì, guardandola si riacquistavano sentimenti inusuali all’associazione con l’aspetto fisico. I suoi connotati erano così sereni che ispiravano solo una grande calma, indispensabile a chiunque.
Sembrava proprio che Sesshomaru le avesse donato qualcosa di sé da portarsi sempre addosso, a prescindere dai vestiti che le portava o dai gioielli che usava come dono speciale.
Con gesti esperti, la sacerdotessa mise un piccolo tegame sul fuoco morente, riattizzandolo come poteva. Aveva sempre avuto il timore di un incendio, per cui di solito lasciava che durante la notte si assopisse. Controllando che il pavimento non fosse annerito, fece scaldare un po’ d’acqua. Poi le si sedette di fronte in attesa che bollisse.
La giovane ospite teneva le mani in grembo, vestita, ora lo notava, con più strati di stoffa sovrapposti. Sembrava davvero una principessa.
Kagome aspettò che fosse lei a parlare per prima. Quando una persona andava da lei molto più che per una semplice visita, sforzarla a dire di cosa aveva bisogno non era mai consigliabile. Inoltre, trovava la compagnia di Rin molto piacevole: alcune volte, nei primi mesi in cui era tornata in quell’epoca, andavano a fare il bagno con Sango e alcune altre contadine giù alle terme, oppure si trovavano al fiume per i panni, o fra i campi. Delle volte, capitava di incontrarsi anche da Kaede, ed erano casi in cui entrambe si trattenevano ad aggiornarsi sulle ultime notizie come se fosse assolutamente indispensabile.
Anche se Rin non indossava abiti pregiati, ma solo tessuti semplici e dalle linee quasi geometriche, prive di decorazioni, risultava ugualmente nobile e raffinata, una vera e propria dama altolocata che andava a far visita ad una conoscente, in una fredda mattinata primaverile.
Presto, la donna prese due tazze molto semplici e le riempì di infuso di thé, prima di aggiungerci la giusta dose di aromatizzante. In mancanza di zucchero aveva imparato ad arrangiarsi come poteva. Le porse una delle due, sorridendo, e la ragazza la ringraziò chinando leggermente il capo e accettandola fra le mani diafane.
Per un po’ rimasero ancora in silenzio, perse nei propri pensieri. Sorseggiavano la delicata bevanda calda sentendola scorrere in gola come nettare, seguendo ragionamenti più o meno complicati. Anche se l’altra  non poteva saperlo, Kagome aveva la testa completamente concentrata su Inuyasha, in camera sua. l’aveva chiuso dentro, e sperò per un momento di non tradirsi con un sorriso o un rumore da parte sua, ma poi si diede quasi della stupida per tale pensiero. Era del tutto decisa a diventare sua moglie, che senso aveva far di tutto per nascondersi?
-Kagome-chan… - disse Rin, ad un certo punto. Sembrava incerta, guardando ad occhi passi il bordo della sua tazza.
Lei le sorrise, piano, in quanto sapeva che era arrivato il momento di sapere. In effetti era un po’ curiosa sulle ragioni di quella visita, ma decise di non sforzarla, accogliendo con il silenzio quanto stava per dirle.
-Come credo tu già sappia, io e…io e il Signor Sesshomaru… - le guance le si imporporarono, impedendole di andare avanti. Le parole che desiderava dire galleggiavano però nell’aria, senza bisogno di essere esternate.
La sacerdotessa sorrise, con una risatina leggera per nulla schernitrice. Sistemò meglio la foglia nella sua tazza, osservando il picciolo sollevarsi fino a bucare la superficie, in segno di buona fortuna. –Sì, Rin-chan, ho capito.
L’altra chinò leggermente il capo, grata che l’avesse tolta dall’imbarazzo. Nonostante le guance arrossite la facessero sembrare infinitamente più giovane di quello che era, continuò nel suo discorso con un lieve sorriso. –Ebbene, dopo gli ultimi spiacevoli eventi io e il Signor Sesshomaru abbiamo avuto del tempo per stare insieme, prima che dovesse partire di nuovo.
Fece una piccola pausa, per poi riprendere. –Tali fatti l’avevano turbato ma, essendo come ben sai restio ad esibire il suo carattere, teneva tutto celato dentro di sé.
Kagome ascoltava attenta, bevendo lentamente la sua parte di thè. Profumava di fiori, facendo salire pigramente un filo sottile di vapore caldo, che le stava umidificando il viso in una piacevole sensazione di tepore. Decise di non interromperla, lasciandola parlare notando il suo disagio a confessare tutto. Non era affatto obbligata a raccontarle dettagli sulla sua vita privata, ma era evidentemente un tassello fondamentale per aiutarla a risolvere un qualche problema, e sapeva di potersi fidare.
Infatti, ogni donna spirituale di qualsiasi villaggio era vincolata dalla segretezza, dal momento che il suo compito era quello di aiutare le persone a stare bene. Vivendoci dentro, aveva capito che quell’epoca era molto più complicata di ciò che pensava, e si era resa conto di essere un vero e proprio riferimento per la comunità.
-Ecco…io volevo che si sentisse bene, e volevo stare bene anch’io. La nostra felicità ha la stessa origine, ovvero la serenità l’una dell’altro. Così ci siamo lasciati trasportare, per dimenticare tutto quanto.
Si mordicchiò leggermente il labbro inferiore in un attimo di nervosismo derivato dal disagio. Kagome capì che la storia che aveva intenzione di raccontarle terminava lì, ma non sapeva proprio dove cercare la soluzione di chissà quale intoppo. Non riusciva a mettere insieme i pezzi.
-Scusami Rin, ma non riesco proprio a capire – fu costretta a rivelarle.
La vide abbassare il capo. –Sono così terribilmente umana, Kagome.
In un lampo, la sacerdotessa ricollegò quell’ultima rivelazione alle parole appena sentite. Rin era la donna di un demone, e questo comportava prestare una particolare attenzione a ciò che si faceva in intimità; lei stessa, la sera prima, aveva dovuto fermare Inuyasha con un lieve gemito, per evitare che diventasse una cosa troppo violenta. Covando dentro di sé un istinto demoniaco, la tipica irruenza tornava in superficie, mentre la terribile forza di cui disponevano perdeva i propri inibitori a causa del piacere.
Fra demoni era una cosa che non portava conseguenze, ma le fanciulle umane erano molto più fragili. Anche se questo ragionamento la fece arrossire, comprese che la ragazza che le stava di fronte, altrettanto rossa e anche amareggiata, aveva avuto a che fare con tale potenza, forse danneggiandosi.
Tuttavia non c’era assolutamente nulla di cui vergognarsi: erano entrambi alle prime armi, dovevano ancora imparare a trattenersi. Nonostante nemmeno Kagome fosse un’esperta, aveva compreso che tale problema era assolutamente risolvibile tramite la sincronia nei movimenti. Essendo Rin e Sesshomaru una coppia affiatata, non avrebbero avuto difficoltà a viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda, però lì non avrebbe saputo come aiutarli; era una questione troppo soggettiva perché si potesse mettere in mezzo, magari dando anche consigli sbagliati.
Poggiò piano la tazza a terra e prese con dita calde quelle della fanciulla. Aveva già gli occhi lucidi e un’espressione amareggiata.
Sorridendole per confortarla, sperò che il suo discorso sarebbe stato chiaro abbastanza da farle capire qual’era il nocciolo della questione: -Non c’è assolutamente nulla di cui aver timore, mia cara. Dovete semplicemente abituarvi, ecco tutto…ma non credo ci vorrà poi così tanto tempo.
Per sdrammatizzare, fece una risatina. –Insomma, non offenderti ma..si parla di Sesshomaru! Fino a qualche giorno fa non credevo neppure fosse in grado di sorridere!
Questo parve rincuorare un po’ la fanciulla, che si concesse un piccolo sorriso. –E se si stancasse di me, Kagome-chan? Se la fragilità del mio corpo lo annoiasse?
La sacerdotessa scosse con forza la testa, rischiando di rivelare il capo annerito dalla vernice scura. –Non credo proprio. Ti ama troppo per lasciare che una stupidaggine del genere rovini la vostra meravigliosa storia.
Non scherzava quando riteneva stupenda la loro relazione. Nei romanzi d’amore raramente si riusciva a trovare un’avvincente intreccio di millenni e purezza concentrati in due soli amanti. L’amore proibito fra un potente demone maggiore e una levatrice, conosciuti quando lei era solo una bambina in grado di regalare sorrisi a chiunque, compreso uno spietato assassino…un animo in pena finalmente placato.
Nel futuro aveva letto parecchi libri che parlavano di storie che volevano assomigliare a quella, ma che non ne eguagliava il trasporto oppure la vividezza. Poter vedere i protagonisti portare avanti quell’incosapevole miracolo con tanta tranquillità la stupiva sempre un po’, ma trovarsi circa cinquecento anni prima della propria nascita aveva, già di per sé, dell’incredibile, quindi l’effetto sorpresa era leggermente attenuato rispetto al normale.
Senza dire una parola, la ragazza gli fece capire con uno sguardo che aveva bisogno di farle vedere le ferite: ecco così spiegata la presenza dello scialle.
Kagome le sorrise, dicendole che poteva spogliarsi tranquillamente, poi si voltò e chiuse bene la porta. Anche se sapeva che Inuyasha era in camera e che non si sarebbe mosso da lì, le pareva molto più corretto nei confronti della paziente aumentare la distanza fra i due; inoltre passavano molti meno spifferi con il divisorio ben sigillato, in modo da evitare che si prendesse qualche malanno.
La levatrice, lentamente, tolse la stoffa bianca drappeggiata sulle sue spalle fino a lasciare il kimono di cui era vestita completamente esposto. Poi, con lenti gesti, sciolse la chiusura e lasciò che la stoffa le scivolasse contro le spalle, posandosi fluidamente a terra con un dolce fruscio.
Kagome si impose di rimanere imperturbabile mentre assisteva, anche se notava la pelle bianca macchiata da rose violacee, lungo il collo oppure sul petto. La fanciulla, vedendo il proprio vestito arrivare alle anche, decise di fermarlo, lasciando l’altra metà del corpo fasciata dalle fibre di cotone candido.
La pelle pareva di ceramica, inoltre era molto più magra di quanto la ricordasse, longilinea ma comunque affascinante.
Sospirando impercettibilmente, la invitò in silenzio a darle le spalle, per misurare l’entità delle ferite. La biancheria intima le sosteneva ancora i seni, ma non era necessario toglierla se non lo desiderava.
Ciò che le serviva era già lì a terra. Spalmò una pomata contro i lividi su alcune chiazze sulla schiena e ripassò dei segni che sembravano delle unghiate lungo le scapole, senza fiatare. Voleva lasciarle un minimo di intimità con sé stessa, dal momento che sembrava stesse per mettersi a piangere.
Sulla schiena della sacerdotessa dovevano esserci delle lesioni simili, solo che molto più attenuate, poiché il ragazzo aveva saputo trattenersi in modo ammirevole. Quelle su cui stava passando le dita possedevano una certa profondità, un corpo centrale color rosso fuoco e bordi slabbrati che tendevano al blu scuro.
Inoltre c’erano minuscole sfregature anche in alcuni punti della schiena, ma nulla di grave. Poteva succedere in qualsiasi momento di prendere qualche botta, soprattutto con il lavoro che faceva Rin, e pensava che quelle non derivassero direttamente da Sesshomaru. Le curò comunque, stringendo il tutto con fasciature fresche. Fra le bende mise anche qualche foglia di erba medica, come le aveva consigliato Jinenji stesso un paio di mattine prima.
Il gigante buono sosteneva infatti che le piante avessero doti eccezionali, bastava solo saperle sfruttare. E da come Rin sospirava, capì che aveva ragione, in quanto il rilassamento che la ragazza aveva avuto la diceva lunga sul fastidio che doveva aver provato.
Sulla traccia appena accennata di un morso sul collo concentrò meno attenzione. Cercava di essere svelta, per non causarle troppo bruciore, e di fare nel modo meno imbarazzante possibile per non metterla a disagio.
Dopo pochi minuti poteva dire di aver finito. Lasciò che si rivestisse senza guardare, togliendo la pentola dal fuoco e lasciandola raffreddare; era sua intenzione utilizzare l’acqua per impastare una particolare miscela che Kaede le aveva consigliato di provare, ottima per i mal di testa o i sintomi influenzali.
-Grazie mille – la sentì sussurrare.
Lei le sorrise, voltandosi appena. –Figurati, non c’è di che.
Ci fu un attimo di silenzio, denso e quasi opprimente, poiché era evidente che la ragazza aveva ancora qualcosa da dirle. Se fosse stato per Kagome, sarebbe benissimo potuta restare anche per tutto il giorno, e non aveva affatto fretta che se ne andasse, però sembrava indecisa su cosa fare. Anche se non la poteva vedere, lo aveva intuito dalla conoscenza che aveva di lei.
-Kagome-chan… - disse incerta. –Avrei un altro favore da chiederti.
-Dimmi – sorrise l’altra, girandosi del tutto e riprendendo la tazza.
La levatrce si era fatta più coraggio rispetto a prima, ma nei suoi occhi si leggeva un profondo rammarico, misto a divorante indecisione; evidentemente non erano i segni ad angustiarla più di tanto.
Si schiarì la voce, per poi parlare in un tono basso e rauco: -Ho paura di essere incinta. 

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Capitolo 32
*** Origliando s'impara ***


Kagome rimase inchiodata al suo posto, senza riuscire a dir nulla.
Inuyasha, dall’altra stanza, era riuscito a sentire tutto quanto, e ora fissava inorridito la porta come se potesse fargli del male. Era schizzato contro la parete rischiando di far rumore, per posare subito la mano sull’elsa di Tessaiga in un movimento più o meno involontario.
Quando, all’inizio, aveva cominciato ad ascoltare ciò che veniva detto, aveva cercato di distrarsi. Non era mai stato facile per lui separare i suoni e gli odori, per questo si stava sforzando di trovare un punto qualsiasi in cui lasciar vagare i propri pensieri.
 A conti fatti, avrebbe avuto anche la fonte di distrazione perfetta, parlando di Kagome, ma la cosa rischiava di degenerare in qualcosa di decisamente inappropriato, quindi decise di lasciar perdere. Sentiva già il pube prudere per la voglia di passare un'altra notte di quel genere, perciò decise di cercare svago altrove. Non era il caso, con la ragazza così vicina alla camera.
Tuttavia era pur sempre un demone cane, anche se per metà, ed era ovvio che il suo udito gli procurasse delle grane. Aveva alzato gli occhi al cielo quando si erano messe a scambiarsi le solite moine da donne, del tipo “oh, ma sei splendida!”, oppure “santo cielo, che scialle morbido!” e cose di questo genere. Non sarebbe mai riuscito a trovare un senso a tutti quei convenevoli, quando si trovava con Miroku non servivano tutte quelle smorfie e gentilezze!
Erano solo inutili arricchimenti che non servivano alla conversazione vera e propria, rendendo le visite interminabili. Si era morso la lingua per non sbuffare, ricordandosi della sua situazione.
Solo che la mancanza di altri suoni gli rendeva quasi impossibile ignorarle: i contadini al pomeriggio andavano al castello per le opere di costruzione, e i bambini stavano con Kaede per passare del tempo fra i boschi. Artigiani, fabbri e tutte le donne erano impegnati a costruire utensili per il castello bruciato, e alcuni stavano ancora spegnendo delle zone più inclini ad incendiarsi nuovamente. Il fratellastro aveva fatto un disastro.
Anche se pensare a Sesshomaru come suo parente gli dava fastidio, non riusciva ad impedire a sé stesso di creare un collegamento. Da ciò che sua madre gli diceva, quand’erano piccoli si assomigliavano molto; lei era troppo giovane per aver visto la sua forma infantile,tuttavia quel glaciale adolescente le rimase impresso. Non sarebbe cambiato per quasi cent’anni, durante i quali Inuyasha ne sentì solo parlare, e quando lo rivide ogni traccia di quell’ipotetica somiglianza erano del tutto sparite, per sua fortuna. Non avrebbe mai perdonato a sé stesso di sembrare una donna, come si ripeteva spesso pensando all’aspetto aggraziato di Sesshomaru.
Comunque, l’odore del thé riuscì ad ammaliarlo per un po’. Si perse nei vapori caldi che poteva immaginare, rievocandoli dalla sua memoria. Sognò lunghe spirali sinuose di condensa, che salivano come attratte dal soffito, la chiusura di una sinistra stanza con un’immensa vasca scavata al centro, piastrellata e riempita di fumante acqua profumata.
Al centro, rivide chiaramente Kagome che gli si avvicinava, sollevata dal vederlo vivo anche se quasi del tutto privo di forze. Il fatto che fosse completamente nuda gli fece balzare il cuore nel petto anche in quell’istante, facendolo arrossire violentemente e riconcentrare, suo malgrado, sulla conversazione spostata ora nel “soggiorno”.
Le aveva sentite muoversi verso il centro della casa, mentre ancora si stavano aggiornando su stupide notizie qualunque. Parlavano di nuove nascite, come se importasse davvero qualcosa: nascevano bambini di continuo, che senso aveva impararne i nomi?
La cosa che più lo lasciava sorpreso era l’accogliere sempre quei fatti come se fosse un avvento irripetibile, una festività eccezionale e non la quotidianità di quasi ogni settimana. Come se non bastasse, ogni minuscolo progresso nella crescita dei pargoli diventava fonte di stupore; alcune massaie perdevano pomeriggi interi a parlare del “piccolo Toishi che ha imparato a camminare! Vedessi com’era tenero!”.
Scosse la testa, rassegnato. Avrebbe dovuto sorbirsi argomenti del genere per tutto il tempo.
Ad un tratto, però, aveva perso un pezzo di frase e aveva sentito molto chiaramente il fruscio di vesti che venivano tolte. La porta si serrò, ma fu tutto inutile. Poteva avvertire qualsiasi cosa succedesse nella stanza, suo malgrado.
Il suo naso gli aveva fatto capire che Rin si stava togliendo i vestiti, forse per essere visitata. Sapeva quasi di ferite, e aveva il tipico, immondo odore del demone che amava, spalmato addosso in modo più o meno uniforme. Solo che la traccia di sangue non derivava dall’olezzo tipico delle donne in un particolare periodo del mese, più che altro sembrava essere causata da tagli, o meglio, morsi.
Che fosse colpa di un qualche animale selvatico? Sesshomaru avrebbe fatto una strage comunque, e rabbrividì pensando che forse se la sarebbe presa con lui, anche se era assolutamente innocente.
Fiutando meglio per confermare i propri sospetti, si accorse però che la concentrazione dell’odore di Sesshomaru era molto più forte, mischiandosi in modo curioso alle ecchimosi. Non erano lesioni fresche, ma in parte cicatrizzate o parzialmente guarite; prima che Kagome tappasse tutte le piste con le sue misture misteriose, un terribile dubbio si insinuò nella sua testa.
Possibile che…l’avesse ferita lui? Apposta?
Era impossibile, concluse, poiché sembrava persino premuroso quando le si trovava accanto. Dubitava che le avrebbe fatto del male coscientemente, non se lo sarebbe mai perdonato. Anche se non sembrava, infatti, il sguardo custodiva molto più di semplice indifferenza, e preferiva obliare ciò che poteva costituire la sua debolezza, ovvero una traccia d’umanità a stento celata dal suo animo ormai quasi del tutto marcito.
Inuyasha non era mai stato perspicace, lo diceva persino a sé stesso e Miroku e Shippo non sprecavano mai i momenti per ricordarglielo, però in quel momento un lampo attraversò la sua testa. Quella notte, con Kagome, aveva chiaramente sentito il bisogno di snudare le zanne e flettere ogni singolo muscolo.
Aveva voglia di fare del male. Era rimasto in balia di sé stesso quel tanto che bastava per disegnare pallide scie di pressione sul suo corpo, ma nella sua mente era scattata una molla, un freno, una leva: la sua parte umana lo stava incatenando, imponendogli di frenare le sue stesse mani. La stringeva e la assaporava con una forza a stento trattenuta, ed era innegabilmente strano, però riuscì a capire che se si fosse lasciato andare non sarebbe stata la stessa cosa.
Lui amava Kagome, la consapevolezza di farle del male aveva distrutto il romanticismo che voleva farle vivere. Riconosceva però che, se lei avesse avanzato la richiesta di lasciarsi andare, lui non sarebbe riuscito a trattenersi. Il bacino era un fuoco divorante, le viscere contorte, la testa un turbine immerso nel suo profumo, le labbra avide e le mani tremanti: dubitava che il suo sangue umano avrebbe fatto grandi progressi, di fronte ad una richiesta del genere.
E Rin amava Sesshomaru. Era disposta a fare di tutto pur di avere l’impressione che fosse felice. Anche lasciare che strane ferite fossero ricoperte da un sottile velo di saliva, disegnate sulla sua schiena. Perché era certo che si trovassero lì: collo e schiena, i punti più esposti a denti e unghie, dopotutto.
Avvampò all’improvviso per la gravità di quelle consapevolezze. Accidenti, una cosa era immaginare una situazione del genere, un’altra era averne conferma. Ripensò con un moto di disgusto a tutte le volte che Rin lo aveva abbracciato, attaccandogli come un morbo l’odore pestilenziale del compagno, così intimamente impresso nelle sue carn…
-Ho paura di essere incinta.
Era quella la frase che ora lo teneva inchiodato alla parete, con una smorfia nauseata stampata in faccia. Le dita frenetiche si erano aggrappate al lenzuolo ancora impregnato di sudore, le gambe stavano per metà distese e per metà in tensione sul pavimento.
Sesshomaru, forse, stava per avere un bambino. E non una creatura qualunque, non uno di quei fagotti di cui discutere nei villaggi riguardo al latte ingurgitato o ai progressi motori, bensì un essere destinato all’esilio, alla condanna, alla derisione e alla solitudine.
Un mezzo-demone.
Esattamente come Inuyasha: non era forse Sesshomaru che odiava con tutto sé stesso quell’immonda stirpe, la cosiddetta macchia sul casato, la sbavatura di potenza repressa in un corpo senza arte né parte? Il suo naso si arricciava se ne incontrava uno, quando ne uccideva la vedeva come una liberazione, piuttosto che riconoscerla come immotivata strage.
Persino la levatrice lì accanto, troppo dannatamente vicina, aveva il timore di ciò che questo poteva significare. Il demone maggiore non l’avrebbe presa affatto bene.
Sapeva le sue responsabilità di sicuro, conosceva il ruolo che aveva avuto nella formazione di quel nuovo individuo dalla presenza incerta, eppure non avrebbe saputo conoscere ragioni. Che Inuyasha sapesse, i mezzo-demoni erano le cose che il fratellastro disprezzava di più al mondo, forse anche più degli esseri umani. Se si riteneva superiore a tutte le classi biologiche esistenti in natura, non poteva che nausearsi di fronte alla vista di una sintesi mal riuscita di tutti i suoi fastidi, poco contava che ci fosse di mezzo il proprio sangue. Non si sarebbe mai perdonato una svista del genere, e che Rin abortisse non avrebbe avuto effetto: il danno era fatto, ormai la consapevolezza che quella cosa era esistita anche per un solo secondo l’avrebbe schiacciato, assieme all’evidenza che sarebbe potuto succedere ancora.
Per quanto amasse Rin, quello era troppo, Inuyasha lo sapeva, gli pareva quasi di leggerlo nella mente del maggiore.
Se annusò lo fece per il bene di quel figlio. Voleva sapere, ora spinto da un’improvvisa partecipazione emotiva, se sarebbe stato oppure no parte del mondo, un giorno.
Chiuse gli occhi, tremante, e lasciò che gli odori di quella casa non lo influenzassero. Escluse Kagome, la vernice, il sudore, l’amore, il sole, i fiori e il legno, tutto quanto cadde nell’oblio come se fosse immerso nell’aqua. Un infito mare virtuale inghiottì tutti, all’infuori di Rin e del suo ventre.
Si spinse così a fondo che gli parve quasi di essere custodito di nuovo nel grembo materno, come se si trovasse ad esplorare non solo con l’olfatto il luogo che doveva per forza trovarsi disabitato. Esplorò con la forza delle proprie narici i battiti del suo cuore giovane, fino a lambire il ritmo del suo respiro.
Gli parve di affogare in quell’odore poco piacevole, ma sentì di essere vicino alla meta. Dovette dimenticarsi di avere un corpo per evitare di muoverlo e rovinare quello stato di profonda concentrazione. Gli parve di nuotare nella vasca riempita di colei che era Rin, la sua essenza. Sentì l’odore dei suoi vestiti: terra, pioggia, vento, freddo, cotone.
La sua pelle puzzava di demone e profumava di sali da bagno naturali, di…frutta. Sì, sembrava quasi l’odore delle pesche, o qualcosa di molto simile. Arrivò ad annusare la sua intimità, con un moto d’imbarazzo, e la scoprì come tutte le grazie di una giovane ragazza dovrebbero essere. Macchiate di un odore estraneo, questo sì, ma non nascondeva nulla che non avrebbe dovuto esserci.
Riemerse stremato, lasciando che il busto si appoggiasse a terra con profondi e tremanti respiri. Doveva ristabilizzare le boccate fattesi irregolari dallo sforzo sovraumano che aveva appena compiuto, lasciando che l’aria inspirata diventasse pari a quella espirata, ad una velocità accettabile. La testa sembrava una miscela di ricordi e sensazioni, causandogli un cupo ronzio alle orecchie.
Quasi sorrise: Rin non era incinta. Era molto, molto meglio così.
Sarebbe stato assolutamento un disastro, ne era certo. Lei non sarebbe uscita illesa da quella storia, e nemmeno suo figlio. Meglio rimandare il più possibile, giusto per vedere se i cambi nella mente del fratello sarebbero stati tanto epocali quanto quelli sperati per allevare una creatura mezzo sangue.
Ma ne dubitava fortemente.
-Purtroppo io non ho le doti necessarie a…darti certezze, ecco. Se ti distruba andare dalla divina Kaede potremmo sempre chiedere ad una sacerdotessa nei villaggi vicini.
Inuyasha si rialzò senza fare rumore, sistemandosi i vestiti e la spada. Si sentiva indolenzito, ma subito il calore delle membra lo ristorò, avvolgendolo in una dolce apatia.
-No, no, non ce n’è bisogno…non ho nessuna prova ai miei sospetti, Kagome-chan. Mi sembrava solo una conseguenza normale, capisci?
Appoggiò la schiena al muro, sistemandosi trattenendo un’imprecazione: Tessaiga era scivolata lungo il suo fianco con un piccolo “tling”, e sperò che nessuno ci facesse caso. Nell’altra stanza, fortunatamente, la conversazione riprese.
-Ma certo, ma certo. È normale dubitare, no? Però ti consiglierei, magari più avanti, di andare comunque a fare una visita, non si sa mai. Hai presente Ayame-chan, la moglie di Umuzai-kun?
Chiuse gli occhi, lasciando che le ciglia nivee gli solleticassero gli zigomi. Rimise gli avambracci nei loro giacigli di stoffa, poiché quella posa lo aiutava a concentrarsi sugli odori di fuori, e quindi fuggire alla conversazione che stava ancora diventando tipicamente femminile.
-Certo. Ha partorito la settimana scorsa il secondo maschietto, giusto?
Un nido d’api era incastrato sotto al tetto, doveva dirlo a Kagome. Le sentiva ronzare e aveva paura che si facesse pungere, come suo solito. Anzi, forse era meglio che si arrangiasse da solo, meglio evitarle stupide e pericolose idee.
-Macchè, erano due gemelli! Sani, per fortuna. Però, ad esempio, nemmeno lei sospettava nulla, solo che un giorno –così, di punto in bianco!- è svenuta, e quando l’hanno portata da Kaede è venuto fuori che era già alla fine del primo mese!
Il terreno aveva bisogno di essere seminato, poteva chiaramente sentirne l’odore. Era la tipica fragranza di un suolo che si prepara a diventare fertile, proprio come le donne.
-Santo cielo, pensa che sorpresa! Ma davvero, due? E non si era accorta di nulla?
Gli venne un brivido ripensando a quando, diverso tempo prima, si era allarmato a tal punto da urlare a Kagome dove fosse stata. Quando lei lo aveva guardato in tralice, con tutte le ragioni del mondo, lui aveva spiegato che era ferita. “Stai sanguinando, maledizione!”, aveva esclamato. Davanti a tutti. Quel giorno, il familiare “a cuccia” era risuonato doppiamente forte nell’aria.
-Proprio così, Rin-chan. È per questo che mi piacerebbe farti visitare…sai, Kaede non ha fatto in tempo ad insegnarmi come vedere i segni, anche perché questo sarebbe il compito di una levatrice esperta.
Ad un tratto, Inuyasha si accorse di un forte odore di uomini. Sentì i loro fiati avvicinarsi correndo, trafelati e impauriti, mentre un rumoroso tramestio si agitava lontano da lì. Si mise dritto, in ascolto, e concluse che i contadini si stavano avvicinando in direzione della casa, forse in cerca di Kagome.
La conversazione fra le due fu interrotta da un tremendo bussare. Sentì le giovani riscuotersi e farsi attente, prima che Kagome si alzasse e andasse alla porta.
-Divina Kagome – ansimò un uomo. Un prepotente odore di sangue fresco e dello stampo di un aura demoniaca stagnò nell’aria, acuto. –Divina Kagome…
Il suo respiro divenne un rantolo agonizzante, a causa di una ferita forse molto profonda. La donna si agitò subito, forse cercando di arginare il danno, ma i compagni dell’uomo si afrettarono ad intervenire nel discorso, terrorizzati.
-Divina Kagome, presto! C’è un…demone! Un demone ci sta attaccando!
Prima che il giovane potesse concludere le sue parole, però, Inuyasha aveva già afferrato Tessaiga e, con un balzo, si stava dirigendo subito fuori dalla finestra.
Dritto verso il pericolo. 

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Capitolo 33
*** Al demone! ***


Kagome aveva lasciato nella propria casa l’uomo ferito, indicando a Rin dove premere per fermare il sangue. Era stata una lezione a dir poco riassuntiva, poiché un altro ruggito sovraumano aveva impedito alla donna di trattenersi oltre.
Dal momento che non sapeva se la ragazza fosse o no incinta non se la sentiva di esporla ad inutili rischi, così capì che la cosa migliore era farla rimanere nell’abitazione. Sesshomaru si sarebbe infuriato se le fosse successo qualcosa e, anche se lei non trovava giusto rimanere con le mani in mano mentre delle persone rischiavano la vita, rimase nel salone ugualmente.
Guidata dai contadini era corsa al limitare del villaggio, ma non ce n’era affatto bisogno: un enorme demone simile ad un qualche insetto dotato di zampette tozze e pelose squarciava il cielo con grida acute e fastidiose.
Appena lo vide impallidì, ma non di certo per la sua aura, infatti non costituiva un pericolo maggiore di altri, però la sua forma era decisamente spaventosa; il corpo centrale era formato da una corazza scura, enormi scaglie che ne proteggevano il corpo sinuoso e allungato, mentre l’addome era composto da morbidi cuscinetti chiari. Inoltre le zampe si muovevano aritigliando l’aria con movimenti disperati, come se stesse per cadere e cercasse disperatamente un appiglio. La parte superiore del corpo era staccata da terra, mentre la coda si muoveva con ampie torsioni, sollevando nuvole di terra secca.
Trasse subito una freccia dalla feretra, tenendo saldamente l’arco. Facendolo, avvertì l’arrivo di Miroku, annunciato dal tintinnare del suo bastone.
-Kagome! – urlò, per sovrastare il rumore, -da quanto tempo questo coso è qui?
Lei scosse la testa, impugnando l’arma e prendendo la mira meticolosamente. –Non lo so!
Sentiva l’adrenalina entrare in circolo come una droga, miaschiandosi al sangue e comiciando una spericolata corsa nelle sue vene, fino ad arrivare al cuore, dal battito accellerato.
Conosceva quella familiare sensazione di euforia, derivata dal potere spirituale che si gonfiava come vele al vento. Sapeva per certo che la freccia che stava tenendo, ruvida fra le sue mani, avrebbe portato redenzione e purificazione. Perché era così che funzionava ogni volta: il corpo del demone sarebbe stato depurato dalle influenze estranee che lo spingevano ad agire, e il colpo le avrebbe provocato il fremito della vittoria, la consapevolezza di aver fatto la cosa giusta.
L’arco si era fatto una linea snella fra le sue mani, che le ricordò il corpo flaccido e mostruoso che si agitava davanti ai suoi occhi, e intravide Inuyasha atterrare nella piana, Tessaiga già sguainata dal suo fodero consunto e l’espressione quasi feroce, mentre si apprestava a studiare il proprio nemico.
Anche se era lontano potè chiaramente sentirlo sbuffare: -Miroku! Non perdiamo tempo, è una nullità!
Eccolo, il suo istinto. Il cacciatore, colui che abbatte e mortifica la preda, la rende nulla che un semplice mucchietto di cenere, l’avversario annoiato dalle potenze equilibrate ma comunque distruttive. Qualcosa nel suo animo lo spingeva a cercare il nemico insormontabile, come per sconfiggere tutte le insicurezze che lo agitavano ogni giorno.
Maggiore era il pericolo, maggiore la soddisfazione di abbatterlo. Prima di escludere il resto del mondo dalla sua visuale, Kagome sorrise. Ormai lo conosceva bene.
Una zaffata di vento fece volare le ampie maniche, tirandole all’indietro con il rischio di sbilanciarla. Anche se si stava tenendo a distanza per prendere meglio la mira, il fetore pestilenziale del nemico lì premuto la fece vacillare per un attimo. Il corpo dell’insetto si spostò in avanti, sommergendola con la propria ombra.
Un altro stridio e le sue orecchie fischiarono, mentre l’arco si sbilanciava dalla presa e necessitò di essere nuovamente sistemato. “Accidenti!”, pensò, stando attenta a non far cadere la freccia.
-Sango non è potuta venire! – urlò Miroku, forse per rispondere ad un’esclamazione spazientita di Inuyasha. Si irritava per un nonnulla in battaglia, anche se era incredibilmente attraente quando lo faceva.
I suoi lunghi capelli argentei venivano scossi da un vento selvaggio, e l’espressione che già si preparava al trionfo lo faceva sembrare un principe vittorioso, poco abituato a non vincere qualsiasi battaglia. Il suo sguardo diventava un fuoco ardente, la bocca si storceva in un sorriso che non lasciava scampo.
Talvolta, se l’intralcio non cadeva subito, le sue morbide orecchie si appiattivano sul cranio, confodendosi con la massa agitata che si trovava come capigliatura. Anche in quel momento, una formica in confronto al demone-insetto, fissava dal basso la torre di carne in movimento, forse valutando il momento o il punto migliore in cui colpire. Con certi casi da lui reputati inferiori non voleva sprecare tempo, volendo finire le cose in fretta.
Kagome tese il braccio fino a quanto le fosse possibile. Stese poi l’altro, e i suoi polpastrelli fecero da appoggio alla punta acuminata della sua freccia purificatrice, portatrice di potenza bianca. I muscoli dell’avambraccio cominciarono sin da subito a pizzicare, ma non c’era spazio per nient’altro che non fosse il suo bersaglio.
Kaede le aveva insegnato che la concentrazione era tutto, molto più della bravura o della fortuna; certo, erano doti indispensabili, però non sarebbero mai state possedute da un arciere distratto. La sua mente si colmò delle parti anatomiche di ciò che voleva eliminare, mirando ai punti fissi che era sicura non si sarebbero mossi. Quegli improbabili fianchi, infatti, erano continuamente scossi da fremiti e scatti, impossibili da mirare.
Il suo occhio divenne come quello di un falco. Quando sentì che tutta la propria energia si stava immagazzinando in quel singolo punto, ovvero la sua mano, tese la corda con attenzione. Ne sentì lo scatto, capì che era arrivata al limite quando l’arco si irrigidì.
Il legno continuò a mantenere elasticità, tuttavia poté chiaramente avvertire il filo sottile che la separava dall’eccesso. Si permise un piccolissimo sorriso: aveva trovato il punto perfetto.
Fu il movimento più naturale che esistesse, unico e assolutamente fluido, un’unica e sciolta trazione de muscolo delle dita. Si trattava quasi di una svista, una sorta di trascuratezza. Bisognava soltanto far scappare la corda, come un bambino giocoso, lasciarla libera di scaricare il proprio attrito per spingere la freccia nell’aria, nel punto che aveva scelto.
I polpastrelli si piegarono giusto in tempo per sentire il bastoncino di legno liberarsi dalla stretta e partire dove gli era stato ordinato. La piumatura ne regolò la parabola perfetta, proprio verso la testa del mostro, che stava ancora ruggendo la propria ira.
La scia rosata lasciata dalla sua energia spirituale la abbagliò per un istante, in cui permise a sé stessa di ritenersi soddisfatta del proprio operato. Qualche secondo e la pelle sarebbe stata attraversata da quell’esorcismo in piena regola, la creatura avrebbe raggiunto l’aldilà e i contadini avrebbero potuto respirare nuovamente, senza l’oppressione della paura.
Però non si era accorta di Inuyasha. Con la coda dell’occhio vide Tessaiga abbassarsi con un risucchio d’aria non indifferente, come pregna di un potere preso in prestito e restituito con gli interessi. Nelle battaglie, l’energia che il ragazzo sapeva imprimervi era assolutamente fondamentale, e aveva permesso loro di proseguire nel loro cammino, ma in quel momento non andò assolutamente bene.
Cercò di urlare il proprio disappunto, ma la potenza distruttiva del vento entrò in collisione con quella pura della sacerdotessa, spezzando all’istante sia la freccia che la sua orbita.
Prevedendo il disastro, Kagome urlò l’unico avvertimento utile a pieni polmoni: -Giù!
Si buttò indietro, il più lontano possibile da quel che sapeva sarebbe stato un distastro. Le sue stoffe strisciarono lungo il terreno arido, sollevando della polvere, e il loro spessore le evitò di sfregiarsi il viso e le braccia.
Nell’esatto momento in cui anche Miroku obbedì, comprendendo ciò che era stato chiaro anche alla sacerdotessa, l’aria semplicemente esplose.
Il vento, la forza che aveva smosso, le punte degli alberi vennero attratte dal centro esatto della piana, come se qualcuno le avesse tirate verso di sé all’unisono, per poi essere violentemente respinte dallo stesso individuo. Un tira e molla che fece sbalzare chiunque all’indietro, rendendo i corpi umani semplici pezze.
Kagome chiuse forte gli occhi, parandosi il viso con gli avambracci. Il mondo divenne un inferno di rumore e confusione, dove il cielo divenne terra e la terra divenne polvere, in un mix psichedelico e confuso. Qualche sassolino le si conficcò nei polpacci ora scoperti, mentre sentiva il proprio corpo atterrare con forza a terra e strisciarvi sopra per un considerevole tragitto.
Il vento divenne un’arma impazzita, e le urla del demone si fecero ancora più acute, di puro dolore. Ecco cosa succedeva se due forze d’attacco non venivano conciliate: il pericolo veniva scambiato con quello del secondo attacco, creando un’esplosione di elementi. Evidentemente il colpo di Inuyasha aveva pensato che quello di Kagome fosse la cosa da abbattere, e aveva cominciato ad opporvisi. Tuttavia la forza spirituale non era così incline a farsi sopraffare, quindi si era creato un rimescolio estramente distruttivo.
La prima cosa che le venne da fare fu quella di urlare migliaia di ingiurie contro Inuyasha. Non era forse lui quello che reputava l’incontro troppo poco stimolante? Da quando in qua si doveva mettere a combattere per conto proprio, senza nemmeno prendersi il disturbo di controllare lo stato dei compagni?
D’altra parte, lei aveva fatto lo stesso, ma le orecchie presero a fischiarle così forte persino da coprire il suono dei propri pensieri. Fu abbagliata da una luce violenta, e sentì la polvere in bocca e nei vestiti, impastandole la lingua e seccandole la gola.
Fortunatamente si era scansata in fretta, altrimenti avrebbe potuto rompersi qualcosa. Era stesa a pancia in giù, e cercò di rialzarsi per mettersi a sedere. Nel farlo sentì una fitta alla schiena, e decise di aggrapparsi ad un albero per sollevarsi. Le ginocchia le tremavano, ma a preoccuparla era Miroku: era stato inghiottito dal turbine.
Lo intravide appoggiato con la schiena contro una quercia, la testa a ciondoloni sul petto. Parve riaversi, e guardarsi confuso attorno per studiare la situazione.
Un forte odore di sangue le punse le narici. Fu costretta a voltarsi a causa di un altro spostamento d’aria, che puzzava inconfondibilmente di demone. Il gigantesco insetto si era mosso, ma una parte del suo corpo era completamente maciullata. La carne si apriva in due bordi ripiegati su sé stessi per esibire delle interiora annerite e sanguionolente, mentre il resto del corpo era attraversato da abrasioni di una certa entità che vomitavano sangue verde.
La testa si dibatteva come impazzita nel cielo ormai privo di nubi. Faceva ancora freddo, ma la momentanea detonazione aveva contribuito a scaldare l’aria, rendendola simile ad una fornace.
Kagome capì che, spinto dall’agonia, il mostro li avrebbe presto attaccati, così decise di intervenire. L’arco le era fuggito dalle mani, e non riusciva a trovarlo. La faretra era ancora attaccata alla sua schiena, ma le frecce giacevano là per terra, una spezzata a metà.
Tastò freneticamente nella polvere per cercare qualcosa con cui difendersi, e trovò una parte di roccia dalla punta tagliente e affilata. Era dura e pregna di scanalature laterali, che rendevano qualsiasi sua faccia estremamente acuminata; poi era pesante, ma non sarebbe riuscita a garantire un risultato soddisfacente viste le dimensioni del demone.
Si accorse che il suo corpo immondo si stava trascinando ruggendo verso la macchia d’alberi, ad una velocità che lei non avrebbe mai sospettato. Roteò in fretta il braccio con tutta la propria forza emettendo solo un gemito affaticato. Nella sua mano la pietra di notevoli dimensioni incise un solco, ma lo ignorò.
Non fece in tempo a prendere la mira, si limitò soltanto a tirare con tutta la propria forza. Vide la traiettoria tremolante dell’arma disegnarsi in cielo, senza convinzione. Per un attimo temette che si sarebbe inclinata fatalmente e sarebbe caduta prima di arrestare la corsa del demone, e se esso non avesse continuato a muoversi forse sarebbe successo, tuttavia la punta riuscì ad incastrarsi nella sua enorme testa lucida e triangolare, conficcandosi a fondo grazie ai movimenti disperati che lo scuotevano.
Questo provocò uno strillo che squarciò l’aria con il proprio tono acuto, ma come previsto l’avanzata si arrestò. Il corpo distrutto perse l’equilibrio, sbilanciandosi fatalmente all’indietro, mentre le zampe si agitavano senza sosta per trattenere qualsiasi cosa verso la salvezza.
-Kagome! – urlò Inuyasha, cominciando a correre verso di lei. La ragazza sentì il labbro sanguinare, mentre si voltò verso il guerriero imprudente che avanzava, dando le spalle a Miroku.
Appena vide il suo viso il calore parve abbandonare definitivamente il corpo: vicino ad un lungo taglio lungo la tempia si apriva un’espressione in pena. Per lei.
Sembrava che il terrore gli stesse scavando i sentimenti, estorcendoli con la stessa forza di una tenaglia rovente, lei ebbe come l’impressione che tutta quell’afflizione derivasse dal suo stato. Che l’esplosione l’avesse davvero ridotta così male?
Nonostante le orecchie le fischiassero ancora, riuscì a sentire chiaramente l’urlo di Miroku:- Kagome, sta giù!
Nella sua vita nell’epoca Sengoku aveva imparato diverse cose, tutte utili a vivere serenamente in un periodo turbolento. Una di queste era l’obbedire senza chiedere spiegazioni, perché in una battaglia non c’era tempo per rilettere.
Fu per questo che si chinò in uno scatto piegando completamente il busto e arrivando a toccare terra con il naso. Rimase piegata così fino a quando, una frazione di secondo dopo, sentì una ventata scuotere prepotentemente la zona sopra la sua schiena.
Qualcosa di decisamente inquietante le sfiorò la stoffa, inondandola di chissà quale liquido. Era una cosa molliccia e maleodorante, che percorse rasente il suo corpo un lungo tragitto e si scagliò con un tonfo contro un albero, spezzandone la corteccia. La violenza dell’impatto era stata tale da mandare in frantumi il legno; se non si fosse spostata, la sua schiena avrebbe fatto la stessa fine.
Sentì una sensazione stranissima all’altezza del collo: evidentemente lo spostamento d’aria le aveva fatto rizzare i capelli lungo la testa, e se li sarebbe trovata tutti davanti al viso. Timorosamente alzò lo sguardo. Conficcata nel legno c’era una zampa che si muoveva disperata, colma di filamenti neri e una sorta di sostanza appiccicosa e giallognola, simile a muco.
Alzò piano il busto, sentendo il kimono scivolarle lungo le spalle.
Non fece nemmeno in tempo ad alzarsi che un nuova ventata la sconvolse, anche se era molto più contenuta rispetto alla prima. Inuyasha si era gettato contro i resti del mostro, urlando il proprio grido di battaglia e anche qualche imprecazione.
Il suo piede nudo sfruttò il corpo del demone come perno d’appoggio, per spiccare un ulteriore balzo verso la testa della creatura ancora urlante. La lama di Tessaiga sprofondò senza difficoltà nella carne morbida ed esageratamente gonfia di quella specie di collo voluminoso, recidendolo di netto e separandolo dal resto del corpo.
Cadendo a terra, la figura ammantata di rosso si spostò lateralmente e poi, con un altro fendente, diede il colpo di grazia all’intero corpo, di cui non rimase altro che uno scheletro gigantesco, lungo tutto la piana e contenuto  stento nella conca formata fra il bosco e l’inizio del villaggio.
Kagome assistette irritata e affascinata alla sconfitta del demone, conscia del fatto che sarebbe potuto finire tutto decisamente prima.
Il viso del giovane venne abbandonato dalla rabbia che l’aveva animato fino a pochi secondi prima, assumendo una calma matura e saggia, la quiete del vincitore. Sapeva di aver trionfato, e si prendeva qualche secondo per osservare la carcassa del nemico e rinfoderare la spada.
In un gesto lento, la voluminosa lama di Tessaiga si ridusse ad un filo sgangherato e cigolante, nascosto poi dal cuoio consunto. Ritornò a pendere al suo fianco, facendo recuperare all’asta scura il proprio peso e ribilanciandola verso il basso, nella posa naturale che aveva di solito.
I suoi occhi gialli si persero per un attimo nella vastità dello scheletro nemico, abbracciando le spoglie sfirgolanti che stavano sparendo. Il suo viso ottenne un crucciato rilassamento poiché, anche se i muscoli sembravano di fatto distesi e a riposo, in realtà le sopracciglia scure rimanevano aggrottate e la bocca pensierosa, in una piega molto particolare. Le labbra sottili e ben modellate sembravano voler lasciare il passaggio di qualche parola, forse un commiato o un commento sulla battaglia, ma i denti vagamente appuntiti tappavano qualsiasi suono.
Lentamente si voltò e si incamminò verso di loro. Miroku, vicino a lei, scosse la testa rassegnato e sospirò. Con una smorfia dolorante si massaggiò un braccio, per ricambiare lo sguardo complice di Kagome con un’alzata di spalle, come a dire “che ci vuoi fare? Lui è fatto così”.
Il vincitore aveva lo stesso incedere lento e aggraziato di una modella che sta sfilando su un lungo palco, con i rilettori puntati addosso, pavoneggiandosi nell’attenzione di tutti. Il paragone non la fece ridere nemmeno un po’, perché dall’espressione determinata sembrava del tutto deciso a mettersi a bisticciare, e lei sapeva di essere dalla parte della ragione.
-Scemo! – esclamò, scattando in piedi. –Si può sapere cosa avevi intenzione di fare?!
Lui si infervorò, deciso a dirgliene quattro. –Tu, piuttosto! Potresti avvisare invece che metterti a scagliare frecce a destra e a man…
Divenne all’improvviso pallido come uno spettro, e le parole gli morirono in bocca, abitando per qualche secondo sulla “o” formata dalle labbra schiuse. Balbettò qualcosa di incomprensibile, per poi puntare un artiglio argenteo verso di lei, la mano tremante.
La fissava ad occhi sbarrati, come se avese visto qualcosa di orribilmente spaventoso. Lei non capì e arrossì di colpo, temendo di avere condizioni talmente pessime da suscitare addirittura terrore.
-Cos..cosa c’è? – chiese titubante, spaventata ora dalla risposta.
Persino il monaco si era ghiacciato sul posto, squadrandola con occhi sgranati e, tuttavia, indecifrabile.
Per un po’ i due non dissero nulla. Il mezzo-demone si limitava a rimanere scioccato e a boccheggiare come un pesce in piena crisi epilettica. Come immaginava, fu il monaco a prendere la parola per primo, accostandosi al ragazzo e cercando di usare un tono delicato.
-Ehm…Kagome…i..i capelli – disse a fatica, studiando un modo indolore per dirglielo, ma fallendo miseramente.
Fu assalita da un attimo di terrore pensando che, magari, aveva notato la vernice e l’aveva scambiata per sangue. Questo non avrebbe comunque giustificato la reazione di Inuyasha, che ne era responsabile, ma poi le venne in mente con un brivido che non aveva vernice rossa sulla capigliatura.
Uscendo li aveva lasciati sciolti, e aveva improvvisamente paura di scoprire cosa ci fosse di tanto grave.
-Cos’hanno i miei capelli che non va? – chiese incerta, mancante della solita sicurezza che la contraddistingueva.
In un gesto spontaneo si portò le mani dietro la testa, come se fosse in arresto. Era una cosa che faceva pesso, ovvero abbracciare la chioma voluminosa con entrambe le mani per legarla in una coda alta, o solo per godere della sua rassicurante presenza.
Quando lo fece in quel momento, però, si accorse di stringere l’aria. In una morsa di terrore, risalì lungo il collo e finalmente trovò delle ciocche irregolari, tagliate da una cesoia impietosa.
I filamenti scuri sulla zampa nella corteccia assunsero un senso; lo spostamento d’aria assunse un significato; la sua schiena piegata per evitare la tragedia una causa; il non sentire peso sulla spalle una conseguenza.
I suoi folti capelli scuri erano spariti, sostituiti da un taglio netto ed irregolare che le lambiva a stento le spalle.
E, in un attimo di lucidità, Kagome strillò.     

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Capitolo 34
*** Amiche ***


Sango le stava accarezzando i capelli, preoccupata. Anche se Kagome non poteva vederle il viso, sentiva chiaramente che stava trattenendo il respiro, come se avesse paura che il proprio fiato potesse innescare una bomba.
In mano, reggeva un semplice coltello da cucina. Le dita tremanti da sterminatrice le presero una ciocca, indugiando sulla morbidezza dei capelli setosi.
La sua chioma era sempre stata fonte d’orgoglio anche nel presente, poiché nessuna fra le sue coetanee aveva la pazienza di farsi crescere così tanto i capelli, anche se sbuffavano di volerli lunghi. Li trattava con il massimo riguardo, lavandoli quand’era necessario e usando olii particolari, delicati.
Era l’unica vanità che si concedeva, la sola cosa che ammetteva come bella nel proprio aspetto. Per lei aveva sempre avuto un’importanza fondamentale sentire il collo coperto, le orecchie ben protette da quell’onda morbida, la schiena accarezzata dalla loro presenza.
La cullava, la faceva sentire inconsciamente sicura. Era motivo di vanto, e abbassava compiaciuta lo sguardo quando qualcuno si complimentava con lei per essi. Infatti, la sua acconciatura era l’unica cosa che la diversificasse da Kikyo, e per lei questo era sempre stato un cruccio insormontabile.
Era stanca di tutti coloro che notavano la somiglianza, anche se da quando era tornata nessuno aveva fiatato. La sacerdotessa era sparita, e anche il suo ricordo ormai contaminato. Tuttavia, anche se faceva finta di niente, lei avrebbe voluto urlare di essere Kagome, non una persona morta da cinquant’anni che aveva reso un inferno di rimorso la vita di un ragazzo speciale, eppure rimaneva sempre zitta. Nel suo animo, però, si compiaceva della propria chioma.
Kikyo aveva i capelli liscissimi, taglienti come carta. I suoi, invece, erano doppiamente scuri e morbidi, piccole e dolci dune, scendevano discplinatamente mantendo però una loro personalità. E lei li amava per questo.
Inuyasha li accarezzava e guardava spesso. Erano stati, per certi versi, il veicolo della loro storia d’amore, forse la parte più importante di tutti i loro innumerevoli significati.
Per questo, seduta sui propri talloni nella capanna dell’amica, le veniva da piangere. Si era finta forte, poiché a conti fatti c’erano tragedie ben peggiori, però non poté evitare a sé stessa che la spiacevolezza della situazione le crollasse addosso. Aveva gli occhi lucidi, ma la sua schiena si manteneva stoicamente dritta per non tradire nulla.
Con tutto il coraggio di cui era stata capace aveva porto l’arma alla donna, chiedendole se poteva portare quelle ciocche sbrindellate ad un’altezza pari per tutte. Il problema stava proprio nell’irregolarità eccessiva del taglio, che desiderava sistemare. Tanto ormai il danno era fatto, no?
Si era rivolta a Sango non solo per l’appoggio e la discrezione, ma anche per l’abilità che la donna aveva con lame e coltelli. Sapeva maneggiare spade con maggior facilità di un mestolo, anche se era in grado di eccellere in entrambe le discipline, e questo la rendeva una parrucchiera perfetta.
Se ne fosse stata in grado si sarebbe arrangiata, ma le mani le tremavano. Di questo si era accorta anche la sterminatrice, che aveva accolto la sua presenza senza fiatare. Rispettava il silenzio dell’amica quel tanto che bastava per non farla crollare, anche se prima di procedere le aveva chiesto più volte conferma.
L’unico problema stava nel contatto: prendendo le ciocche  le sfiorava involontariamente il collo, facendo in modo che si accorgesse sino in fondo della nudità da cui i capelli, una volta, la proteggevano. Ogni incisione era una stilettata di dolore, una scossa elettrica fino ai piedi, che le si propagava lungo la spina dorsale come un morbo incurabile.
Sapeva di star esagerando, ma non riusciva a vederci dei lati positivi. Tutte le donne nell’epoca Sengoku, TUTTE, portavano i capelli almeno sotto le scapole. I suoi, ora, arrivavano alle spalle.
All’inizio era stata così furiosa con Inuyasha che, se Sango non avesse fatto uscire tutti, avrebbe volenteri preso a pugni il suo viso dispiaciuto. Volendo cercare il pelo sull’uovo era stata tutta colpa del suo attacco sconsiderato, e se non aveva fatto attenzione ai movimenti di Tessaiga era solo perché era certa che non avrebbe combattuto contro un nemico reputato troppo scarso da lui stesso.
 La zampa non sarebbe volata via e non avrebbe reciso così di netto la sua capigliatura fluente se non fosse stato scagliato nessun attacco esplosivo contro il corpo principale, e in qualsiasi caso il demone poteva essere ucciso anche lasciandolo intatto, semplicemente con un esorcismo. Perché Miroku era rimasto impalato davanti alla creatura?
Si pizzicò l’interno di una guancia. Stava scagliando colpe a caso, e non andava bene. La verità era che era stata solo sfortuna, nulla di più; sarebbe potuto succedere in qualunque caso, e già da qualche giorno al villaggio si stavano diffondendo i pidocchi. Questione di tempo e se li sarebbe dovuta tagliare lo stesso, demone o no.
Alla fine ognuno aveva la propria parte di responsabilità, ma nessuno più di altri. In quel momento, comunque, non sarebbe stata pronta a vedere nessuno lo stesso. Sentire le farneticazioni di Inuyasha, Miroku che cercava di sdrammatizzare, Shippo che la guardava incuriosito o Kaede che la fissava dicendo cosa diavolo le fosse saltato in mente…no, aveva bisogno di silenzio. Di attimi per riflettere.
Sango era capace di darle la calma che cercava, e lavorava discretamente dietro di lei, capendo bene che doveva cercare di non toccarla. Doveva aver intuito la fragilità dell’amica, così rimaneva chiusa in un religioso silenzio, rispettandone la pena.
Solo che…era così ingiusto. Insomma, era l’unica cosa di lei che le piacesse, la sola. Non credeva a nessuno quando le parlava di avvenenza, ma se si trattava dei capelli non aveva nulla da ribadire. Soltanto assentiva senza sembrare vanitosa, perché era la verità. Erano oggettivamente belli, era innegabile.
Non sapeva perciò se il suo viso estramente femminile sarebbe stato bene con un’acconciatura corta, alle spalle. Perché l’epoca Sengoku non era certo famosa per i suoi hair-stylist, bensì per le capigliature quasi ridicole dei samurai, completamente calvi sulla sommità della testa e con un orribile codino sulla nuca.
Fu scossa da un singulto immaginandosi con un taglio simile: a quel punto era decisamente meglio calva, piuttosto che conciata in quel modo.
Sentì le dita di Sango irrigidirsi. –Kagome-chan…tutto a posto? – domandò titubante. Forse pensava che fosse impazzita, e non era un’ipotesi così inverosimile.
Lei scosse piano la testa, sentendo che le mani della donna si erano già ritratte. –Sì sì, non preoccuparti. Sei brava con i coltelli, lo sai?
Kagome non seppe perchè lo disse, forse aveva solo bisogno di alleggerire un po’ l’atmosfera oppure, improvvisamente, sentiva che una chiacchierata le avrebbe fatto bene. Un misto delle due cose, magari,  e si sarebbe sentita meglio.
Nessuno poteva prevedere cosa le frullasse nella testa in quel momento, nemmeno lei stessa; la compagnia di Sango la rilassava sempre, anche se si stava accorciando a causa dei suoi impegni di madre e donna di casa. Non era facile essere la moglie di Miroku poiché, anche se non faceva più sul serio, ne approfittava per sgattaiolare sempre via verso le ragazze più giovani, e lei lo beccava a fare il cascamorto. In un certo momento, Kagome aveva addirittura pensato che essere ripreso da lei quasi gli piacesse, come se fosse un modo per confermare a sé stesso l’amore della consorte nei suoi confronti.
E anche Sango, sotto sotto, godeva del tenerlo in pugno, di vedere quanto la amasse e le obbedisse. Anche se ogni tanto sgarrava, entrambi sapevano che non ci sarebbe stato spazio per nessun tradimento. Chissà se un giorno anche lei ed Inuyasha sarebbero stati in grado di gestire un rapporto tanto solido…
Sentì la ragazza ridacchiare alle sue spalle, riprendendo in proprio compito. Ogni “zack” era un colpo al cuore, un flagello nei confronti delle sue carni, ma parlare la aiutava a distrarsi.
-In effetti, da quando è nato Usuke non ho praticamente più avuto tempo per gli allenamenti…devo ammettere che un po’ mi mancano – disse, nostalgica.
-Ti sei mai pentita della vita che hai scelto? – chiese Kagome. Si morse la lingua: non voleva sembrare insolente, e poi l’altra aveva pur sempre un coltello in mano. Non era consigliabile offenderla come temeva di aver appena fatto.
Sango ponderò seriamente la domanda, senza arrabbiarsi o accigliarsi. Si stava arrovellando per dare una risposta esauriente, anche se la sacerdotessa era certa di conoscere già la soluzione del quesito.
-No, non credo che pentirsi sia la parola esatta. Certo, c’erano cose insostituibili nella mia vita di prima, e ora fare la madre ha dimezzato il mio tempo libero, però sento che se non avessi i miei piccoli furfantelli non sarei soddisfatta – concluse ridacchiando, senza distrarsi da ciò che stava facendo.
Anche la sacerdotessa sorrise. Sapeva che nell’epiteto era incluso anche il marito, che la donna non si stancava mai di viziare quand’erano soli e di comandare se si trovava con altra gente attorno. Erano davvero una coppia invidiabile, capace di dividersi i compiti equamente e senza discutere mai; che lei sapesse, non avevano mai litigato una volta da quando si erano sposati, e i piccoli battibecchi dovuti agli atteggiamenti ambigui del marito, assunti di proposito per provocarla, andavano sempre a finire in un pegno d’amore, come un bacio oppure un regalo.
La giovane pensava che i due fossero un ottimo esempio per i loro bambini, e che li avrebbero cresciuti al meglio.
-Se devo proprio essere onesta, Kagome-chan, l’unico che mi manca più di tutti è Kohaku – ammise mesta. Con un brivido, Kagome sentì un altro ciuffo cadere sul pavimento, come se il suono dello schianto fosse qualcosa di incredibilmente rumoroso.
Si concentrò sulla confidenza dell’amica, perché capì che aveva bisogno di parlare: Sango si apriva raramente con gli altri, e i suoi segreti erano perle preziose e fragili. Anche se con Miroku poteva trovare tutto l’appoggio necessario, in quel momento aveva più che mai bisogno di un parere femminile. Lei e Kagome non si parlavano da molto tempo, purtroppo, e sentivano di dover recuperare il tempo perduto.
-Ecco… - continuò, - … all’inizio non ero molto d’accordo sul fatto che diventasse uno sterminatore. Sai com’è, pericoli, assenze, viaggi, armi... non è una vita stabile se si è soli. E poi questi sono tempi di pace, il che vuol dire pochi e sporadici incarichi e paghe misere. So che sembra brutto da dire, ma era la guerra che ci permetteva di vivere dignitosamente.
Kagome non annuì, ma confermò le sue parole cercando di offrirle tutta la propria comprensione. –Capisco cosa vuoi dire, non è difficile da immaginare.
Questo spronò Sango a continuare, abbattere l’ultima diga che fermava il flusso dei suoi pensieri. Era da molto tempo che non si confidava con qualcuno, aveva bisogno anche solo di parlare del più e del meno, forse nemmeno di avere un altro parere. Semplicemente, si trattava di tirare fuori le ansie e le preoccupazioni per sentirsi meglio, tutto qui.
-Non piace molto l’idea che se ne stia sempre per conto proprio, allenandosi e basta. Stare in una comunità stabile gli farebbe bene, anche perché persino al nostro villaggio, se non ci fosse stato nessun altro, avremmo rischiato di impazzire. Potrebbe farsi male ed essere ovunque, e in quel caso sarei l’ultima a saperlo. Questo mi fa preoccupare in un modo che non ti dico…
Kagome sapeva davvero cosa si provava, in quanto lei stessa con Sota sentiva la medesima cosa. Un’apprensione quasi materna, un legame viscerale bruscamente interrotto, che non le permetteva di avere sue notizie o sincerarsi che stesse bene. La casa era lontana non solo in senso fisico, ma anche spirituale: non avrebbe saputo quantificare gli anni che la dividevano dai suoi affetti, eppure cercava di rassegnarsi ed andare avanti, giorno per giorno.
Sango continuò sia il discorso che la sistemazione dell’acconciatura, ma Kagome decise di non farci caso più di tanto, facendo in modo di essere completamente assorbita dal racconto.
-Io ho tre bambini da gestire, una casa piccola e un marito fortunatamente devoto, e non è poco. Gli ho chiesto se desiderava venire a stare da me, anche Miroku era d’accordo, ma lui ha rifiutato. Dopo quello che ha passato con… - deglutì. Nessuno riusciva più a nominare il suo nome serenamente, come se farlo potesse seriamente farlo tornare fra loro.
-Ho capito – disse Kagome.
La sentì deglutire. –Grazie – mormorò. Poi riprese: -Insomma, ho paura per lui, Kagome-chan. Per quanto mi dica di non preoccuparmi non ce la faccio, e Kirara non sa parlare, ed è l’unica a passare molto tempo con lui.
La sua voce aveva assunto una sfumatura addolorata, che non la rendeva però affatto debole. Sembrava ancora la donna forte e determinata che era sempre stata, solo che riusciva anche ad ammettere di avere una debolezza, e questo era parte della sua energia.
-Lo so che forse queste mie parole non ti aiuteranno affatto, Sango-chan – disse piano Kagome, - ma Kohaku sa badare a sé stesso. Non è solo, ha Kirara al suo fianco, e sono due combattenti validi. Come hai detto anche tu, questo è un periodo di pace, grazie al cielo, il che vuol dire che i pericoli sono tali entro un certo limite. E per quanto riguarda la sua esperienza poco piacevole con chi sappiamo…nel mio tempo si diceva “ciò che non ti uccide, ti fortifica”.
La sterminatrice, dietro di lei, rimase in silenzio. Il movimento del coltello contro i capelli continuava ad essere misurato e preciso, come se nulla la preoccupasse. Era questa la sua grande abilità, ovvero non lasciare che i suoi sentimenti intaccassero l’azione delle mani, mantendosi marziale e controllata in ciò che faceva. Quando pensava, scaricava l’attenzione su ciò che adoperava, sbrogliando la matassa delle sue riflessioni nella meccanicità del tagliare.
La lama era sufficientemente affilata per non darle il minimo fastidio, scorrendo liscia e letale lungo le zone devastate dall’urto.
La sentì sospirare impercettibilmente. –Hai ragione, Kagome-chan. Ora che mi ci fai pensare sono tutti motivi validi, ma è pur sempre il mio fratellino – disse. Poi poté sentirla sorridere dietro di lei: -Caspita, quello sì che è un bel proverbio!
Le spalle di Kagome furono percorse dal fremito della sua risata, ma la ragazza seppe ritrarre il coltello in tempo prima di aggravare la situazione.
-Beh, insomma… - commentò. – Mi sembra abbastanza triste come cosa.
-Insegna ad essere più resistenti, Kagome-chan.
Le parole dell’amica avevano un significato che non credeva di voler riconoscere. Poteva immaginare a cosa si rierisse: le ferite del passato, le battaglie, gli scontri, le umiliazioni e i periodi difficili, ma in quel momento la sacerdotessa volle obliare tutto quanto, altrimenti era certa che sarebbe scivolata nei soliti, ingombranti dubbi.
Era davvero sicura che quel tipo di vita che stava facendo sarebbe stata soddisfacente? Non era mai stata una ragazza ambiziosa, nemmeno quando ne aveva avuto l’opportunità. Il suo obbiettivo più grande era quello di concludere decorosamente gli studi, e c’era riuscita; non aveva raggiunto il massimo, ma andava bene così. Poteva continuare a ritenersi una studentessa modello e le nozioni non erano del tutto sparite dalla sua mente, anche se vedeva i calcoli algebrici sbiadire poco a poco dalla memoria.
Quando ancora non conosceva Inuyasha aveva poco più di quattordici anni, ed era ancora troppo presto per pensare al futuro. Non era mai stata la tipica adolescente che sogna ad occhi aperti la carriera che la porterà al successo o la vita casalinga, anche perché la mentalità occidentale ne aveva molto influenzato il giudizio. Aveva cominciato a chiedersi se il matrimonio e il lavoro potessero davvero custodire tutta la sua esistenza, e si era risposta di no. Per quanto avrebbe potuto amare una persona, non sarebbe mai riuscita a vivere confinata in un appartamento minuscolo con dei figli, a fare le pulizie come una brava donna di casa.
Certo, l’idea di una famiglia le piaceva, ma non avrebbe dovuto assorbire ogni lato di sé. In quel momento era conscia dell’età in cui viveva, il che voleva dire minor libertà di movimento, ma la allettava la consapevolezza di essere importante per la comunità, che potesse rendersi utile. Era quel tipo di professione stimolante di cui aveva bisogno, incidenti ai capelli a parte.
Con Inuyasha non sapeva bene come risolvere la questione. Lo amava e lo voleva al proprio fianco, nulla da dire riguardo a questo. Era il “come” a tormentarla: come sposarlo? Come vivere assieme? Come superare la barriera invalicabile di impegni e pregiudizi?
-Kagome-chan, a cosa stai pensando? Ti sento tesa – disse la donna.
La giovane si riscosse. –Oh, a nulla, Sango-chan. Sono un po’ scombussolata, ecco tutto.
Capì, però, che c’era una domanda che l’altra voleva farle, ma che non trovava il coraggio di esplicitare. Fose si trattava di un dubbio illeggittimo, di una curiosità femminile oppure, ancora peggio, di qualcosa riguardo a lei e al mezzo-demone.
-Posso farti una domanda? – chiese la sterminatrice, titubante. Kagome annuì leggermente, tanto da farle posare il coltello sul pavimento con un tintinnio, e prendere il pettine d’osso. Con un brivido, la sacerdotessa di chiese se lo strazio era finalmente finito.
-Ecco, stamattina ho visto Rin entrare da casa tua – disse piano. –Se sono troppo indiscreta, era venuta per Sesshomaru?
Sango non era mai stata un’impicciona, né una pettegola. Quando andavano al fiume per lavare i panni, era l’unica che ascoltava senza dire nulla, astinendosi dal commentare la vita degli altri e limitandosi a strofinare la biancheria fino a farla profumare di fresco. Se domandava qualcosa era per uno scopo ben preciso, non di certo per malignare o dire cose sgradevoli.
Era stata abituata a vivere in un ambiente maschile, e gli uomini non si interessano del cosidetto “gossip”, perciò certi affari da quartiere le erano del tutto estranei. Fu per questo che Kagome si sorprese, dal momento che l’amica non chiedeva mai nulla di quel genere.
-Purtroppo non posso dirtelo – spiegò lei con tono di scuse, - però come mai ti è venuto questo dubbio?
La donna, alle sue spalle, rise di gusto, fermando del tutto il movimento delle mani onde evitare di spettinarla. I gesti lenti fino a quel momento ne avevano quasi favorito la discesa nell’oblio del sonno, ma rimase troppo meravigliata per assopirsi: raramente la si sentiva ridere tanto liberamente, ed era una gioia per le sue orecchie. La sua voce bassa e controllata era estremamente femminile e melodica, come un canto.
-Quello che c’è tra loro è abbastanza evidente Kagome-chan, nonostante la presenza di lui qui un po’ mi disturbi. Comunque se te l’ho chiesto è perché qualche giorno fa, prima dell’incendio al castello, per capirci, l’ho visto bighellonare qua intorno. Lo so che sembra strano, parlando di lui, però ho visto Mirei avvicinarglisi e cominciare a chiacchierare, sai com’è fatta.
Una nota dolce si intromise nella sua voce, parlando della figlia, ma continuò il racconto: -Lui seguiva il discorso con la sua solita serietà, ma vedevo che la guardava pensieroso…quasi nostalgico, capisci? Inizialmente ho pensato che gli ricordasse Rin però…Mirei è molto più piccola di quanto lo era lei quando si sono conosciuti.
Kagome ci pensò un po’ su. –Non so proprio cosa dirti, Sango-chan. Non mi sembra il tipo che sappia trattare con i bambini, ma a quanto pare ci siamo sbagliati tutti sul suo conto…ti ha dato tanto fastidio? – chiese, a bassa voce. Una certa inquietudine la invase pensando al dubbio che Rin aveva avuto, quella mattina, ma decise di non dire nulla, anche perché Sesshomaru era un tabù assolutamente irrisolvibile, almeno per lei.
Sango scosse la testa, facendo frusciare la sua chioma ancora fluente e luminosa. –No, sai che non è un tipo rumoroso. Però… - prese un profondo ed enigmatico sospiro - … sai che io i demoni sono abituata ad ucciderli, più che a vederli come bambinaie.
Kagome fu percorsa da un brivido lungo tutto il corpo per la crudezza di quell’affermazione detta alla leggera. In fondo era vero, nonostante tutto. Sango era, prima di tutto quanto, una sterminatrice di demoni, ed era stato il compito principale della sua vita per un sacco di tempo. Non si poteva biasimarla se ancora rimaneva attaccata ai pensieri di quand’era nubile, prima di conoscere il gruppo.
Aveva imparato ad accettare, lentamente, demoni e mezzo-demoni al fianco, fino a fidarsi di loro e a farne propri compagni, ma Kagome capiva che non doveva essere stato un percorso facile da compiere. Era ovvio che nutrisse ancora qualche remora nei confronti di guerrieri che li avevano minacciati in passato; lei stessa era spaventata dal cognato. Le bastava pensare all’occhiata che le aveva lanciato quando l’aveva chiamato “fratellino”. Le veniva ancora la pelle d’oca.
-E poi, di qualsiasi stirpe siano, gli uomini quando parlano con i bambini hanno una sola intenzione, cara Kagome-chan – disse, dando gli ultimi ritocchi col pettine. Ella non fece in tempo a capire l’allusione, poiché la ragazza la fece concentrare su ben altre cose.
-Ecco fatto! – esclamò soddisfatta, per porgerle da sopra la spalla uno specchietto a forma di cerchio. Kagome deglutì.
La resa dei conti, dunque. Avrebbe riconosciuto il viso riflesso su quella lastra piatta? Sarebbe stata tanto diversa da com’era prima, quando poteva vantare una lunga capigliatura?
Posò lo specchietto sul grembo, e continuò a guardare in avanti, sul muro della casa spartana. Sango, dietro di lei, stava sistemando i coltelli con la maniacale cura che la prendeva ogni volta che aveva a che fare con una qualsiasi arma. Il suo compito era finito, e non sarebbe certo stata lei ad invitarla ad uscire. Le visite le facevano sempre tanto piacere, soprattutto se erano di Kagome, e stare qualche minuto lontano dai bambini la aiutava a stendere i nervi ed essere meno nervosa, anche con loro. Fino a che se ne occupava Miroku, era tranquilla, poiché il marito sapeva essere davvero molto premuroso, quando voleva.
La sacerdotessa non sapeva dire se era pronta, e lasciò ai suoi sensi il tempo per abituarsi a quella nuova carezza lungo il collo, fino alle spalle. Le punte solleticavano le clavicole, come spinte da una brezza leggera. La stessa che c’era quando giocava nel bosco con Inuyasha, fra le fronde fruscianti e il profumo delicato dei fiori…
-Kagome? Sei qui? – chiese una voce. Subito dopo, un paio di artigli spuntarono dal bordo della stuoia d’ingresso, per poi aprire senza troppe cerimonie. La presenza se la portò fin sopra la testa, nascondendo in parte i lunghi capelli argentei e l’espressione affranta, ma anche impaurita dalle possibili sgridate che avrebbe potuto ricevere. Il rosario brillava al suo collo, come ordinati grappoli d’uva scura, così invitanti con il loro richiamo.
-Oh – disse solo, non appena la vide.
Inuyasha spalancò i suoi grandi occhi gialli, profondi come l’universo intero, in cui si poteva trovare la propria identità. Kagome rimase come paralizzata per un momento.
No, non andava bene che lui la vedesse per prima! E se fosse stata brutta? Ridicola? Infantile? Come avrebbe potuto stare ancora con lui se trovava il proprio aspetto insoddisfacente?
La sua tunica rossa sbucava appena dalla porta, e si portò prontamente una mano dietro la nuca, nel suo consueto gesto per indicare imbarazzo. Farfugliò qualcosa d’incomprensibile, sembrando solo un cucciolo sperduto ed incredibilmente tenero.
Le parve quasi di sentire la parola “bellissima” sbocciare dalla sua bocca, ma l’aria fu trapassata dallo stesso coltello che le aveva appena sistemato i capelli, conficcandosi nello stipide della porta ad un soffio dal viso di Inuyasha.
-Accidenti! – sbottò Sango, gli occhi fiammeggianti. Kagome si voltò verso di lei, sconvolta: era appoggiata su un ginocchio, mentre il resto del corpo era in tensione, un braccio steso in avanti con la mano ancora in posa per tenere un’arma che, in quell’istante, aveva formato un chiaro avvertimento per il mezzo-demone.
-Inuyasha! Quale parte del “stai fuori di qui” non hai capito?! – sbraitò. Poi, vedendo che non si muoveva, urlò: - Vattene subito!
La porta si rischiuse con la stessa velocità con cui si era spalancata, lasciando Kagome in uno stato decisamente sconvolto. Era successo tutto in un attimo, e l’autorità di Sango aveva trovato il modo di essere sfogata nella sua solita maniera, ovvero con un colpo micidiale e stupefacente deviato all’ultimo. Un solo millimetro e Inuyasha avrebbe potuto dire addio al suo naso.
La donna si risedette, recuperando una posa da persona elegante ed educata. Le mani in grembo, le ginocchia piegate, la treccia appoggiata sulla spalla.
-Uff… - commentò. –Certo che il tuo amato Inuyasha è proprio una testa dura, eh?
  

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Capitolo 35
*** Figli ***


Rin lo guardava, assorta.
Il viso era leggermente voltato verso l’orizzonte, con gli occhi che si perdevano nella vastità del paesaggio e la bocca stesa in una lunga riga violacea, quasi stesse per morire d’ipotermia.
I lunghi capelli argentei erano disposti a raggiera attorno al viso delicato, intrappolando migliaia di riflessi fra le loro ciocche, un paradiso fatto di specchi e fili sottili, setose lame con cui graffiarsi i polpastrelli.
Sesshomaru si stava prendendo un momento per annegare nei propri pensieri, mentre lei lo accarezzava piano sul collo o, a volte, sulla testa, descrivendo la lunghezza della sua chioma lucente. Erano istanti preziosi, perché forse solo in determinate occasioni lui poteva dirsi tanto sereno, rilassato e, nel senso più spoglio del termine, felice. Lei lo sapeva, e faceva di tutto per garantirgli un minimo di pace, tuttavia i suoi pensieri non riuscivano ad essere soffocati nella sua abbacinante bellezza, anzi. Sembravano proprio animati da essa.
Qualche mattina prima era andata dalla Venerabile Kaede, e aveva chiesto a lei consiglio. Dopo un’attenta visita abbastanza imbarazzante, il dubbio era stato risolto: il suo grembo era vuoto come era meglio che fosse, aveva sentenziato la donna, prima di dedicarsi ad altre faccende.
Doveva ammettere che quasi le dispiaceva, dal momento che si era auto-convinta di avere un nuovo problema da gestire ma anche un grande impegno. In quei giorni aveva ricollegato improbabili e immaginari segnali solo a quell’inevocabile spiegazione, dovuta anche ad una serie di fatti che la facevano avvampare soddisfatta.
Il pensiero di essere l’origine di una creatura che potesse avere anche solo un minimo della magnificenza di Sesshomaru l’aveva stregata, intessendo la sua trama a fondo nella sua mente. Si era sentita onorata da tale riflessione, poiché mai si sarebbe ritenuta degna di un simile privilegio. Aveva già posto l’obbiettivo di come l’avrebbe educato e quale nome avrebbe scelto, ma sicuramente sarebbe ricaduta su una scelta nobile, per far in modo che il sangue del padre trovasse il giusto orgoglio in quella nuova vita.
Sapeva benissimo il parere di Sesshomaru riguardo ai mezzo-demoni, e questa cosa l’aveva spaventata. Il rapporto, se così si poteva chiamare, che lui aveva con suo fratello urlava a gran voce tutto il suo disprezzo. Ogni volta che Inuyasha gli passava accanto storceva il naso, parlava con lui lo stretto necessario e fantasticava di ucciderlo, lei lo sapeva fin troppo bene. Le sue ciglia non riuscivano del tutto a nascondere la sete di sangue che gli contraeva le viscere ogni volta che se lo ritrovava fra i piedi.
Non che l’altro fosse da meno, in effetti, ma avevano imparato col tempo a mantenere un rapporto civile basato, essenzialmente, sull’ignorarsi reciprocamente. Sesshomaru era abile a rassegnarsi alle decisioni della natura, anche perché era l’unica che l’avrebbe accompagnato in tutto il suo cammino, la sola in grado di resistere al passare degli anni senza mutare, proprio come lui.
Tuttavia un figlio non si può ignorare. Dal momento che per arrivare a non fare caso al fratello c’erano voluti decenni d’ira logorante, era perfettamente sensato pensare che con il possibile nascituro sarebbe accaduto lo stesso, ed esso non avrebbe avuto né una madre con le zanne né una spada grande quasi due metri in grado di manipolare i venti. Avrebbe odiato anche lei di riflesso, perché non era riuscita ad evitare quell’”incidente” e aveva macchiato nuovamente il sangue della loro famiglia.
Non avrebbe mai accettato di uccidere una loro creatura, anche perché era prima di tutto sua. Kagome le aveva spiegato una volta che, fin dai primissimi giorni della gravidanza, il cuore del bimbo in arrivo già cominciava a battere. Lei ebbe un attimo di panico alla prospettiva di una richiesta del genere, ma decise di scacciarla dalla testa: Sesshomaru sapeva essere una persona ragionevole, non le avrebbe mai posto un’alternativa del genere, ben sapendo quanto significasse per lei.
Questo ovviamente non voleva dire che avrebbe accettato l’impegno di essere padre. Partendo dal fatto che non aveva avuto un esempio sano in tutta una vita centenaria, lei non era tanto sicura che sapesse come gestire la cosa, ovvero educare in modo civile una persona. Molto probabile era la prospettiva che li avrebbe abbandonati al loro destino, ma lei tremava al solo pensiero.
Vedendo il viso dell’amato leggermente teso, spostò la sua mano sottile sulla sommità del suo capo, appoggiatole in grembo, e prese a far scorrere le dita in quella pioggia gelida che lui portava con tanta disinvoltura. Le parve quasi di avere le mani umide, ma in realtà erano solamente congelate.
Riprendere il contatto con lui non fu una buona idea, infatti si rese conto che sotto a quella chioma incantevole si celava uno spirito spietato. Anche se in quel momento sembrava più innocuo di una margherita forse non avrebbe mai esitato a voltarle le spalle, a lei e al loro bambino. Se lui non voleva una seccatura, allora la lasciava perdere, senza sprecare tempo in inutili soluzioni. Forse la amava troppo per ucciderla ma, sempre ammesso che il futuro figlio fosse stato salvo, non avrebbe mai potuto fare l’uomo di casa, e questo Rin l’aveva sempre saputo.
Fin dal primo bacio conosceva perfettamente cosa il suo ruolo implicasse, e l’aveva accettato serenamente. Lei voleva solo il suo amore, ed era ciò che lui si stava sforzando di darle, però non credeva che quel sentimento pallido e fioco, inesperto, avrebbe potuto sopportare una responsabilità tipicamente umana.
Inoltre non avrebbe saputo dire quanto avrebbe resistito senza di lui. Il solo pensiero di non averlo accanto, per la durata di una vita intera, le faceva sprofondare il petto in un baratro oscuro, dominato da spettri e tenebre. Sesshumaru era il suo sole, la ragione che la spingeva ad alzarsi ogni mattina e a coricarsi alla sera, aspettando il nuovo giorno; era lui che l’aveva svegliata dalla morte, e non solo una volta, perciò il minimo che poteva fare per lui era dare un senso a quello che le aveva permesso di avere.
Rin, oltre che innamorata, gli era follemente riconoscente per questo, ma un figlio andava ben oltre quello che lui sarebbe stato disposto a gestire. E poi, anche se credeva di conoscerlo, Sesshomaru era così misterioso! Chi poteva dire che tutta la sua dedizione non fosse altro che un modo di passare il tempo, di distrarsi oppure di cercare un attimo di quiete?
Il suo polpastrello inciampò in un filo d’erba, e decise di ripartire dall’alto. L’espressione di lui non cambiò, rimanendo concentrata su ciò a cui stava pensando; fortunatamente non l’aveva turbato, così riprese a coccolarlo come solo a lei era concesso fare.
Dentro di sé si vergognò di quei dubbi: l’aveva riportata in vita, l’aveva salvata dalla malattia, le aveva concesso la possibilità di scegliere la propria esistenza, non era forse amore quello? Avrebbe benissimo potuto lasciarla in balia dei lupi, quella volta, eppure l’aveva accettata al suo seguito senza mai cacciarla via, nonostante per lui non dovesse essere stato facile trascinarsela appresso per tutti quegli anni. Inoltre aveva fatto in modo che fosse libera, e se ora era legata a lui in quel modo era solo perché era stata una sua decisione. Era sicura che lui avrebbe interrotto tutto e obliato l’argomento se lei ne avesse espresso il desiderio.
Questo non cambiava le cose che il rischio di una gravidanza era palpabile, assolutamente reale. Non era solo una fantasia, persino in quel momento poteva covare dentro di sé la fiamella di una nuova esistenza, ed esserne totalmente all’oscuro. Questa cosa la riempiva d’angoscia, poiché non sapeva proprio cosa fare.
Sapeva qual era il trattamento delle ragazze madri, delle occhiate e degli insulti a loro riservati, delle umiliazioni continue e delle difficoltà. Già debilitata dall’assenza di Sesshomaru non poteva essere certa di riuscire a superarle da sola, e questo implicava rendere il piccolo vulnerabile.
Se le donne senza marito erano mal viste, allora era meglio non parlare neppure dei mezzo-demoni. Chi se ne sarebbe preso cura? Chi l’avrebbe protetto? Quello zio così particolare e burbero, vestito di rosso? La dolce ragazza di cui era innamorato? Il monaco e la sterminatrice già assorbiti dall’essere genitori?
Quel figlio sarebbe stato suo e di nessun altro, non era affatto intenzionata a cederlo a chiunque altro. L’avrebbe cresciuto e allevato al meglio, insegnandogli le difficoltà della vita cercando di non mostrargli una visione troppo tenera del mondo, oppure esageratamente cruenta. Avrebbe allevato una persona splendida, e già sentiva di amarlo, anche se per il momento non esisteva nemmeno.
Era conscia che la responsabilità andava equamente divisa, poiché se non fossero stati in due non ci sarebbe stato nessun nuovo individuo di mezzo, però non se la sentiva nemmeno di usare il figlio come una sorta di ricatto. A parte che non avrebbe avuto alcun effetto, però non lo trovava giusto: era pur sempre un essere umano, non di certo una merce di scambio! Andava trattato con la dignità che meritava, e non c’era nulla di peggio di un padre recalcitante con una potenza tanto dirompente come poteva esserlo Sesshomaru.
Ora che ci ripensava, suo figlio non sarebbe mai stato né umano né demone. Non esisteva un riconoscimento per lui, le altre persone non avrebbero saputo che farsene di un essere così. Insomma, a lei non importava un accidente del sangue che si trovava dentro ai corpi, e si limitava a curarlo se usciva fuori, però non poteva certo dire la stessa cosa per il resto del mondo. Fin troppo ovvio che il suo bambino si sarebbe dovuto arrangiare, un giorno, e lei non sarebbe mai stata in grado di seguirlo passo passo nella sua vita; solo Sesshomaru ne sarebbe stato in grado, ma dubitava che ne sarebbe stato interessato.
Una morsa le attanagliò lo stomaco. Non era giusto…perché certi problemi dovevano capitare proprio quando il cielo era a portata di mano? La frustrazione la fece sospirare, mentre tornava ad infilare una mano fra i suoi capelli argentei e delicati, ma robusti come una fanciulla non potrebbe mai avere.
Insomma, in circostanze normali sarebbe stato perfetto: due innamorati, un figlio e una famiglia a cui fare sempre ritorno, un pilastro che avrebbe accompagnato ognuno dei suoi componenti nel lungo viaggio della vita, e l’avrebbe sempre sostenuto durante le sfide o i pericoli. Una base solida in cui lasciar fluire tutto l’amore che si sapeva donare, e se Sesshomaru ne avrebbe potuto dare poco lei avrebbe compensato con il suo, tanto sentiva di poter straripare di felicità a quella prospettiva.
Sarebbe stato un sogno, ma tale doveva rimanere. Il suo bel demone non vedeva nel matrimonio nessun tipo di riconoscimento, poiché non faceva parte delle sue usanze. Fra i suoi simili il romanticismo si riduceva a darsi piacere quando capitava, quasi predendoselo con la forza, giusto per poter dire di aver passato qualche momento lontano da battaglie e scontri. Lei, ovviamente, ne era stata al corrente si dall’inizio, ma ora che diventava una fantasia palpabile faceva male al cuore.
Un groppo alla gola si formò quasi subito, così reale da sembrare cemento. L’impossibile è il più squisito dei mali, ma anche quello che crea i danni maggiormente irreparabili, proprio perché viene sempre sottovalutato. Era la prima a dirsi che non necessitava di un matrimonio per amarlo, ma alla fine quando le pareva di poter essere ugualmente felice, ecco che la consapevolezza comincia ad allontanarsi irrimediabilmente.
Rin era una persona che rideva e amava sorridere, sempre e comunque, ma in quei momenti la vita la stava mettendo in seria difficoltà; poteva arrivare anche a non riuscire più ad offrire a Sesshomaru i suoi sporadici momenti di pace, e a lei importava solo che lui si sentisse bene. Sapere di essere la causa del suo rilassamento agiva in modo a dir poco benefico sul suo animo, e tanto le bastava.
Il suo polpastrello incontrò nuovamente la terra: si era distratta un’altra volta. Indispettita con sé stessa, cercò di reprimere il bruciore alla gola, giunto all’improvviso, e fece una smorfia per impedire alle lacrime di scendere. Sarebbe sembrata patetica, e non voleva magari doversi sorbire uno sguardo di disapprovazione da parte sua, così si affrettò a rimettere le dita al loro posto e riprendere con il loro massaggio lenitivo.
Ma le sembrava di incappare continuamente in migliaia di frammenti di osso, taglienti, che le stavano scorticando le mani, e fu costretta a smettere. Ritrasse i palmi come se fosse stata punta, e una mano grande e fredda si disegnò improvvisamente sul suo polso.
Era una presa gentile ma ferma; ben presto il suo capo le abbandonò il grembo e un paio di profondi occhi gialli si soffermarono sul suo viso per scorgere ogni minimo segno del suo turbamento.
-Rin, mi spieghi cos’hai? – chiese con voce profonda. Sembrava stesse cercando di trattenersi, ma lei sapeva che era furioso. Le parve quasi di vedere la delusione sul suo bel viso così liscio, tanto da farla sentire stupida ed inadeguata.
Davvero aveva pensato di contare qualcosa per lui? Sesshomaru era un grande demone, un condottiero, un imperatore. Al suo fianco aveva bisogno di una donna energica e pronta a tutto, non di certo una che aveva la stessa durata di un fiore di pesco primaverile e altrettanta fragilità. Insomma, Rin avrebbe fatto meglio a dimenticarlo per sempre, prima che fosse troppo tardi per entrambi.
Non era giusto che lui si dovesse sorbire tutti i problemi che gli procurava, era puro egoismo da parte sua. Non aveva nessun diritto di tenerlo inchiodato a lei in quel modo, ed era fin troppo ovvio che non volesse anche solo l’ombra di un erede da lei; aveva calcolato troppo in fretta le sue possibilità con quella serie di riflessioni affrettate.
Quelle considerazioni si rivelarono molto più amare di ciò che pensava, e fece fatica ad assimilarle mantenendo la calma. Avrebbe solo voluto piangere, ma sapeva bene che Sesshomaru non voleva vederla debole, così fece di tutto per trattenersi e lasciarsela passare.
Distolse lo sguardo, però: mentire a quegli occhi era assolutamente impossibile, sarebbe stato un crimine.
-Nulla, Signor Sesshomaru – mormorò, sembrando patetica persino a sé stessa. Evidentemente doveva avergli fatto male con la stretta sui capelli, per questo l’aveva distratto dai suoi pensieri, di certo molto più importanti dei propri.
Sorprendentemente, la sua guancia venne irradiata da un gelo intensissimo, all’altezza del mento. Piano, la mano di Sesshomaru le costrinse a voltare la testa verso di lui, con un movimento delicato e studiato per non farle male. Aveva avuto cura di spostare le unghie in un’angolazione in cui il filo non la sfiorava, tutto per non lasciarle segni sulla pelle.
Aveva maleinterpretato nuovamente le sue intenzioni? O non voleva lasciare nemmeno un’altra traccia su di lei? Se fosse stata vera la prima ipotesi, allora si sarebbe immensamente vergognata, altrimenti avrebbe lasciato il posto alla rassegnazione.
-Lo vedo quando menti – sussurrò lui con voce roca, intensa. Le sue ciglia nivee si abbassarono, e le pupille più scure della notte stessa ricaddero sulle labbra di Rin, carnose e vermiglie. Lei le aveva morse poco prima, e si vedeva ancora la traccia dei denti.
Lui fece passare il pollice sul labbro inferiore, e il frescore lenì il fastidio. Lei socchiuse gli occhi, sopraffatta dalla sua vicinanza, e lui ne approfittò per lasciare che il dolore affiorasse nella superficie delle iridi ambrate, giusto perché lei non potesse vederla. Odiava sentire quanto stesse male, e il non sapere cosa ci fosse ad angustiarla lo faceva fremere dentro, come se un esercito di falene avesse preso possesso delle sue interiora, e le stesse divorando.
  Lei però aprì di nuovo le palpebre, e il demone si affrettò a cancellare ogni turbamento nel proprio autocontrollo. Non andava bene stressarla più del necessario.
-Mi dispiace…i…io – farfugliò. Lui la interruppe posandole un indice sulle labbra schiuse, con estrema delicatezza. Aveva quasi paura di poterla mandare in pezzi con un semplice tocco troppo forzato, e non voleva assolutamente vederla piangere. Quando lo faceva la sua fragilità la rendeva così tremendamente bella che non avrebbe saputo dare il dovuto rispetto ai suoi sentimenti, lasciandosi piuttosto trascinare dal proprio corpo.
-Credo di sapere cosa c’è – le disse. Era da giorni che ci pensava, e più si arrovellava, più capiva di non riuscire a venirne fuori. Ogni volta che gli sembrava di intravedere una soluzione capiva di dover abbandonare almeno un po’ il proprio orgoglio, ma non ci riusciva, era più forte di lui. Sapere quello a cui andava incontro lo allarmava, e provava una paura mai sperimentata prima.
Il problema era un possibile figlio, e ne era fin troppo consapevole. Le donne demone non avevano nessun legame etico con quello che facevano, e una vita in più o in meno sotto le loro gonne non faceva poi così tanta differenza. Ma lui sapeva che Rin era speciale proprio perché curava ogni singolo aspetto della sua vita, e riteneva importante persino le sciocchezze come i fiori o i capelli. E lui la amava per questo.
Però non poteva dire che se ne rallegrasse. Dall’odore la sua donna sembrava pura così come quando l’aveva incontrata, e questo lo ammaliava e affascinava, tuttavia sapeva che non sarebbe durato a lungo. Non avrebbe mai potuto rinunciare ai loro incontri, per nulla al mondo; era l’unica cosa che al momento lo tenesse in vita.
Se doveva essere sincero con sé stesso, però, l’idea non gli piaceva per niente. Il suo disprezzo per i mezzo-demoni non aveva fine, e non sapeva nemmeno quando avesse cominciato a nutrirlo. Semplicemente non ne aveva mai tollerato la presenza, dal momento che quelle creature erano preda di tutti i vizi più aberranti di entrambe le specie.
Bastava guardare Inuyasha: debole, rozzo, dalla mente chiusa e fin troppo semplice, senza nessuna ambizione o carta per ottenerla, non era nemmeno in grado di sfruttare al meglio i doni che il loro padre, sorprendentemente, aveva voluto dargli. E tutto perché? Perché amava una donna umana e si stava incatenando per sempre ad una vita che non avrebbe mai potuto condurre, a causa della sua diversità. Attratto dagli umani ma respinto da essi, senza trovare pace. Quando se ne sarebbe accorto?
Per questo dare alla luce una creatura del genere non lo entusiasmava, se così si poteva dire, ma se davvero amava Rin, allora doveva scendere ad un compresso davanti alla realtà delle cose. Il rischio che correvano si faceva palpabile di momento di momento, e la loro goffa attenzione riguardoa d inutili dettagli era solo un procrastinare l’inevitabile.
Quando aveva deciso di lasciarla al villaggio si era ammonito duramente: anche se soffriva a non averla più intorno come una volta, sapeva che era necessario. Un demone non offre nessuna garanzia verso la felicità, anzi, tende a distruggerla. Lui era un essere appartenente al sangue, alla violenza, alla guerra; non era fatto per proteggere e preservare una vita, tanto che la sola idea gli provocava un ribaltamento viscerale. Insomma, come avrebbe fatto a gestire un mezzo-demone? Il solo pensiero di concepire qualcosa di vagamente simile al fratellastro lo nauseò.
Era stato educato nel modo più crudo che esistesse, e ormai l’odio di era sedimentato a fondo nel suo cuore, tanto che per un certo periodo aveva addirittura considerato l’ipotesi di essere diventato completamente insensibile allo scorrere degli eventi, in attesa dell’oblio eterno e rassicurante. Rin aveva spazzato quelle fredde prospettive.
Si sentiva un mostro a negarle un semplicissimo desiderio, ovvero quello di avere una famiglia. Lei si era sempre rassegnata all’idea di essergli legata solo come loro due potevano capire, ma evidentemente con un futuro figlio in mezzo le cose cambiavano. Era fin troppo ovvio che desiderasse una famiglia, ed era questo uno dei tanti motivi che l’aveva spinto a farla avvicinare agli umani.
Nei suoi occhi scuri leggeva quasi una sorta di divertimento nel vedere quello che entrambi vedevano come gioco, e cioè fingere di essere soddisfatti da quella situazione ma conoscendo, nell’intimità dei pensieri, cosa pensassero realmente della razza umana. Era straordinario trovare una ragazza tanto fredda nei loro confronti, ma anche molto obbiettiva e misurata. Non si perdeva mai nei suoi pensieri samguinari, ma riusciva a trovare la giusta misura della propria indifferenza, e in questo era molto più abile di lui; anche per questo lei gli era indispensabile, perché leniva ogni sua ferita o preoccupazione.
Ma un figlio…era troppo per lui, decisamente troppo. Non avrebbe saputo come comportarsi, e non aveva affatto intenzione di fare come suo padre, ovvero picchiandolo fino allo sfinimento, riducendolo ad una larva di ghiaccio e odio, poiché non se lo meritava. Riconosceva la sua responsabilità di padre ma aveva un dannatissimo blocco mentale nel concepirsi in quel ruolo, irrealizzabile.
D’altra parte non aveva nessun diritto di negare a Rin almeno questo, solo che non poteva prometterle di essere presente. Una cosa del genere implicava problemi, e lui desiderava solo la sua amata per conto proprio, nella loro rassicurante solitudine fatta di dialoghi silenziosi e sorrisi di fanciulla, artigli di demone e fiorite ghirlande che sapevano di ragazza umana.
Non sapeva nemmeno come avrebbe fatto a presentarsi nel ruolo di padre, una figura che deve essere un riferimento e un centro nella vita di un bambino. Le sue lunghe assenze e il carattere scontroso, che effetto avrebbero avuto su una creatura innocente? E la sua condizione di mezzo-demone? Troppo dolore per lui, in un mondo che sapeva essere molto più spietato dei demoni che diceva di temere.
Fortunatamente, Rin rispose al contatto, posandogli a sua volta una mano sulla guancia, quasi con timore. Il suo calore rassicurante gli fece socchiudere gli occhi, irradiando un tepore che non gli apparteneva, vivendo sempre con una pelle molto più ghiacciata della neve.
Doveva aver indovinato cosa la angustiava, e gli parve quasi che lei stesse leggendo i pensieri che si affacciavano sulle sue iridi. Ora la sua espressione era quella di una bambina curiosa, mentre si sforzava di dare un senso al suo silenzio sempre più interminabile: sapeva che non sarebbe mai riuscito a spiegare tutto a parole, e tentava di evitargli quel fastidio.
Gli venne quasi da ridere, in senso figurato, naturalmente; lei provava in tutti i modi di non creargli problemi di fronte ad un discorso con la propria amata e lui non aveva nemmeno il coraggio di ammettere le proprie debolezze! E poi aveva anche il coraggio di definirsi un guerriero.
-Rin… - mormorò. In quel nome racchiuse tutte le insicurezze e i dubbi che lo stavano tormentando quasi quanto stavano facendo con lei; mise anche l’amore che non riusciva ad esprimere se non in modi contorti e anche la vigliaccheria che sentiva di provare nei confronti dell’unica donna che sarebbe stata protagonista della sua vita e la voglia di proteggerla, persino da sé stesso.
Il polpastrello caldo della fanciulla scivolò vicino al suo mento. –Mi dispiace ma…io…non so cosa fare…non questa volta – gli disse. Nel suo tono vibrava una sincerità disarmante.
Un angolo della bocca del demone si incurvò verso l’alto, senza che potesse trattenersi. –Nemmeno io – le confidò, per poi avvicinare il suo viso e premere la sua frustrazione contro le labbra di lei, sempre così dannatamente pronte ad accoglierlo.
La sentì sospirare, per poi ridacchiare quando si furono staccati. Gli appoggiò la fronte sulla sua, guardandolo fisso negli occhi: fortunamente la tristezza sembrava volata via, evaporata, lasciando il posto ad una scintilla divertita in fondo allo sguardo, la solita luce giocosa che le apparteneva.
-Secondo me – sussurrò, - voi avete sempre avuto una concezione sbagliata dei mezzo-demoni.
A quella parola, lui rischiò sul serio di snudare le zanne, ma si distrasse guardando la pelle lattea illuminata dal sole del loro angolo di paradiso personale; sapeva già dove quel discorso sarebbe andato a parare, e da un lato le era grato di rompere finalmente l’opprimente peso di quelle parole non dette. Inoltre era curioso di sapere cosa gli avrebbe detto, che spiegazioni aveva tratto.
Senza dir nulla, la invitò a proseguire, per farle capire che la ascoltava.
-Insomma, nel mondo circostante si vede come demoni e uomini siano in conflitto. Non riescono a trovare un punto d’incontro, uno teme l’altro e giocano ad uccidersi, per paura di stare a sentire quello che uno vuole esprimere oppure imporre. Stupido, non vi pare?
Lui si limitò ad annuire, poiché ormai era completamente catturato dal tono dolce della sua voce e dallo scintillio ammaliante nei suoi occhi. Le circondò la vita con le braccia e la avvolse nel proprio kimono slacciato, sentendola mettersi comoda contro il suo petto, scaldandolo improvvisamente.
-Invece in un solo corpo ognuno di essi riesce a trovare un equilibrio, mi capite? Il sangue scorre al suo posto, il cuore batte, il fisico di muove, il vigore spinge a voler creare qualcosa. Se nessuno di loro è mai riuscito a fare nulla è perché sono sempre stati abbandonati troppo presto, ancora quand’erano troppo bambini per arrangiarsi.
Sesshumaru, inaspettatamente, riuscì a capire. Lui sapeva cosa voleva dire ricevere un’educazione terribile ma, se gli fosse mancata anche solo quella guida, non avrebbe mai saputo orientarsi nell’universo, riuscendo a ritagliarsi uno spazio sempre maggiore nel potere. Per quanto distorto, l’insegnamento di suo oadre gli aveva garantito di rimanere in vita abbastanza a lungo da guadagnare il giusto spazio fra tutti gli altri, e a brillare come uno spietato astro nel cielo.
Anche Inuyasha sarebbe potuto diventare così? Una creatura capace di sfruttare le proprie debolezze facendole diventare dei pregi? Probabilmente sì, ma gli era mancato il sostegno. Così come tutti i mezzo-demoni che aveva conosciuto, rimasti soli prematuramente ed impreparati alle insidie nelle loro strade.
Quel che Rin stava facendo era farlo andare contro corrente, persino lontano dai propri principi demoniaci, era come se fosse disegnato nel suo organismo, l’odiare quelle persone, anche se non ne aveva nessun diritto. Con il tempo aveva creduto di essere nel giusto, e improvvisamente si rendeva conto che forse si stava sbagliando. E non aveva nessuna difficoltà a concepirlo.
La sentì sbadigliare: troppe rivoluzioni per un giorno solo.
-Dite che ce la faccio a dormire un po’? Da Kaede avrei subito qualcosa da fare, e sono distrutta.
Lui le passò distrattamente le labbra sulla testa, assorto nelle nuove riflessioni che ora lo impensierivano. –Abbiamo tutto il tempo che vuoi – le disse, con voce profonda.
Poi, mentre il respiro di lei si faceva sempre più regolare sulla stoffa del suo abito, una nuova verità piano piano scavava il suo posto nella mente ghiacciata del demone, da troppo tempo rimasta immutata nelle proprie convinzioni.
 
 
SPAZIO DELL’IMPERDONABILE AUTRICE:
Ragazze! Scusatemi un sacco! Sono stata davvero cattivissima ma, se vi può consolare, mi siete mancate tantissimo! Prometto di tornare ad essere presente, ma in questo periodo avevo davvero pochissimo tempo per scrivere o vivere, (vedete vio cosa scegliere xD) e quindi Fire è giaciuta per un po’ nei meandri Windows. Mi dispiace un sacco :(
Posso solo promettervi di affrettarmi con il prossimo capitolo, e di certo giungerà prima di questo!
Vi voglio tanto bene (spero che voi ricambierete xD)!!
Kisses,
The Queen. 

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Capitolo 36
*** Nell'abbraccio della notte ***


Kagome sentiva un familiare torpore prendere possesso delle sue membra stanche a poco a poco, con lentezza inesorabile.
Aveva la guancia appoggiata al petto muscoloso di Inuyasha, in modo che il suo orecchio potesse ascoltare indisturbato il battito del suo cuore. Era un’eco forte e vigorosa, che scandiva con il proprio ritmo il flusso dei suoi pensieri.
Le pareva strano non avvertire la presenza che spesso la solleticava sul collo dei suoi capelli, anche se ormai era passata quasi una settimana dall’orribile giorno. Sango aveva asserito che la sua bellezza non era mutata, e persino a lei sembrava di essere ringiovanita: il viso liscio e ovale era contornato da ciocche uniformi e scurissime, ordinate da pazienti colpi di pettine, rendendo il suo collo più slanciato e protetto dal loro abbraccio.
Aveva trovato Inuyasha vicino al ruscello, quasi un’ora dopo. Se ne stava seduto a gambe incrociate con lo sguardo fisso all’orizzonte, le maniche a serrare la presa sugli avambracci ben modellati. Lei lo aveva potuto vedere solo di schiena, ma sembrava davvero un pilastro, una statua immobile e secolare.
I suoi capelli imprigionavano e riflettevano i raggi caldi del tramonto, creando una gabbia di sfumature rosate assolutamente affascinanti, in modo da farlo apparire avvolto da un’aura mistica, celestiale.
Non aveva detto nullla riguardo al suo aspetto, forse nel timore di fare qualcosa di sbagliato; essendo piuttosto impacciato nell’uso delle parole, si era limitato a donarle una carezza esistante lungo il viso, per poi far soppraggiungere i baci e, alla fine, lasciandosi del tutto andare, ritirandosi in casa.
Delle volte Kagome pensava alla possibile reazione dei loro compagni, oppure dei compaesani, nella scoperta dei loro incontri segreti. Forse Miroku e Sango subodoravano già qualcosa, visto che avevano sempre saputo interpretare più segnali di quanto fosse dovuto, però era grata al fatto che non avessero mai fatto allusioni, non come quando erano in viaggio, almeno. Sarebbe stato frustrante dover subire frecciatine spiritose o doppi sensi, come invece accadeva durante le lunghe marce attraverso il paese o non appena si fermavano da qualche parte, anche in presenza dei capovillagi che dovevano aiutare. Inoltre i coniugi conoscevano bene la loro situazione delicata, e vi si poteva scherzare sopra entro un certo limite.
Tuttavia, anche se le conseguenze la spaventavano, quand’era con lui la sacerdotessa non riusciva a spiccicare parola sull’argomento, lasciandosi trasportare dalla sua dolcezza, dal fatto che le fosse lì con lei e da nessun’altra parte. Sapeva che bisognava per lo meno accettare il fatto di essere dei fuori legge, di star andando contro la concezione di purezza legata all’essere una sacerdotessa, ma Kagome riusciva soltanto a farsi cullare dall’ascedente che esercitava sul suo mezzo-demone, sentendosi amata e protetta, e tanto bastava a farla sentire donna.
Inuyasha aveva attuato una vera e propria trasformazione in Kagome, forse inconsapevolmente. Prima era stata solo una ragazzina innamorata senza nutrire alcuna speranza su un’unione impossibile, fantasticando di un’ipotetico futuro insieme che non ci sarebbe mai stato. Poi, fra le sue mani, era cresciuta, aveva imparato a conoscere sé stessa e i propri limiti, ad analizzare ciò che provava e a riconoscervi la giusta nobiltà. Da quella prima sera Kagome era completamente cambiata; il suo animo stesso era mutato, facendola rendere conto di un sacco di cose che prima ignorava. E tutto grazie a lui.
In quel momento, aveva una mano appoggiata sul suo petto, vicino al viso. Lui l’aveva presa e aveva cominciato ad accarezzarla, fissando assorto il soffito. Di tanto in tanto, lei stofinava la guancia contro la sua pelle calda e sbirciava il suo viso affascinante, guardando la curva decisa della mascella, la dolcezza nei lineamenti a causa dell’influenza materna e i suoi ipnotici occhi gialli, eredità del padre.
Kagome avrebbe voluto annegare in quello sguardo: l’iride sembrava miele in punto di fusione, oro mischiato a venature di giada, ambra screziata di grano, sabbia liquida. Nel centro, un perfetto disco allungato, si stagliava la pupilla, interrompendo o forse arricchendo la magia intessuta dal colore intenso che albergava nel bulbo. Ciglia rade ed estremamente virili smussavano i contorni perfetti della sua vista, assieme alle palpebre. Le piegature della pelle erano eccezionali nei demoni, perché avevano un’incarnato così liscio da non presentare quasi nessuna increspatura, mantendendosi uniforme sulla maggior parte del corpo, persino su mani e ginocchia.
Per non parlare dei muscoli, poi; la piattezza di una copertura omogenea garantiva la massima precisione in ogni singolo, minuscolo guizzo dei nervi, contrazione dei bicipiti, forma di un qualsiasi fascio di tessuti. Per essere più comodo, ad esempio, lasciava che il suo braccio nudo sorreggesse la testa piegandosi dietro al collo, facendo risaltare in modo a dir poco sublime la spalla possente, ma al tempo stesso asciutta.
Lei si era quasi sentita intimorita di fronte a tanta bellezza, ma lui aveva presto scacciato certe paranoie con attenzioni e baci. Sapeva essere un amante valido come pochi, capace di far sentire al centro dell’universo la propria donna semplicemente con un mezzo sorriso. Era infatti inconsapevole di quanto fosse affascinante, e questo contribuiva a renderlo incredibilmente dolce e attento ai bisogni della ragazza, trattata con il massimo riguardo.
Piano, Kagome gli solleticò il petto con i polpastrelli, per poi accarezzarlo lievemente. Si sentiva pervasa da un calore dilagante, anche a causa della sua gamba sovrapposta a quella di lui, come per tenerselo stretto.
In quei minuti di silenzio, quando godevano dei loro respiri, lei rimuginava sulla loro condizione di amanti clandestini. Nel mondo moderno sarebbe stata una storia assolutamente commuovente, ovvero “l’amore impossibile fra due anime dal destino avverso costrette a lottare contro un’epoca che non comprende il loro sentimento e decide di ostacolare i loro progetti di felicità con migliaia di insidie”. Beh, in effetti c’era ben poco da ridere, visto che si trattava proprio di quello.
A conti fatti, la loro unione era un’irregolarità raccapricciante per gli abitanti non solo del villaggio, ma dell’intero Giappone. Un mezzo-demone era visto come una creatura vagamente umana incapace di resistere ai propri istinti, pronta a tutto pur di sopravvivere e completamente stranea a concetti come pietà e amore. Per questo le donne amanti di demoni e non-umani venivano viste come esseri ancor più fuori dal comune dei loro stessi amati, perché era impossibile ai più concepire come si potesse serenamente accettare un destino segnato dalle difficoltà.
Era vero, erano impossibilitati a sposarsi, ma non avrebbero permesso che questo contaminasse il loro rapporto. Stando fra la stretta delle sue braccia, Kagome sentiva di non temere nemmeno l’esilio, il bando, la confisca di qualsiasi cosa fosse di sua proprietà, la perdita di ogni diritto. Lei era sempre stata vista come la strana ragazza dalla gonna troppo corta, proveniente da un’epoca dove i demoni non c’erano, custode di un enorme potere spirituale e associata ad una compagnia parecchio bizzarra nonché assortita con dovizia di varietà.
Per questo motivo non avrebbe fatto caso alle voci, poiché era bravissima ad ignorare chiunque non le interessasse, o mirasse a distruggerla. In questo si poteva dire che assomigliasse a Sesshomaru, anche se in termini molto astratti: anche lui, quando voleva, sapeva dimostrarsi abilmente cieco o sordo.
Inuyasha aggiustò la sua postura, lasciando che una ciocca lunghissima di capelli argentei le finisse sul naso. La scostò amorevolmente, facendola ridacchiare come una bambina. Più o meno innavertitamente la punta delle sue dita le sfiorò il viso, imprimendo una carezza delicatissima. Kagome sapeva bene quanto fosse attento quando la toccava, onde evitare che i suoi artigli la ferissero; il loro filo era tagliente come una spada, e poteva tagliarle la pelle, oppure incidere in superficie la sua guancia, dove spesso si soffermava.
-A cosa pensi? – gli chiese. Il suo fiato caldo si posò sulla pelle fresca del ragazzo che, se avesse saputo che la sua donna si era appena paragonata al fratellastro, sarebbe molto probabilmente inorridito.
Lui scosse lentamente la testa sul cuscino, facendo scivolare la sua pioggia di capelli finissimi su di lei e rispostandola subito. Delle volte si era ritrovata ad invidiare la sua chioma fluente e, di fatto, infrangibile, poiché nemmeno la cesoia più imponente avrebbe mai potuto scalfirli.
-Niente di che – si schernì, provando addirittura ad alzare le spalle per farle capire che non era importante.
Kagome non era decisa a cedere tanto facilmente, perché sapeva che c’era qualcosa che lo stava tormentando. Lo vedeva dalla tensione del viso, dal modo in cui la trattava, ovvero scambiandola quasi per un cristallo in procinto di spezzarsi irrimediabilmente al minimo tocco, e non una fanciulla in carne ed ossa.
Stampò un bacio leggero laddove prima aveva tenuto l’orecchio, per poi puntarci sopra il mento. Ora poteva vederlo chiaramente in faccia, e notò che era leggermente arrossito. Se si faceva così tante remore voleva dire che ciò che stava per dire avrebbe potuto rabbuiarla, quindi dedusse che si trattava di un discorso sul loro futuro.
Inuyasha non era mai stata la persona che prende l’iniziativa ad imbarcarsi in discorsi seri o complicati, più che altro per amor di Kagome; non voleva fare nulla che potesse turbarla e attendeva che fosse lei, la razionale e determinata ragazza dal cuore d’oro, a trarre le conclusioni atte a garantire il loro destino sentimentale, che entrambi si auguravano fosse lungo e felici. Se stava per fare il primo passo anche solo a livello mentale, sicuramente si trattava di un cruccio abbastanza insidioso, di quelli che possono compromettere la natura dolce e delicata di una storia d’amore.
Cercò di scacciare i cattivi pensieri che, subito, avevano preso possesso della sua razionalità, cercando di apparire neutrale. Il chiaro di luna le bagnò il viso con un bagliore latteo, e la punta dei suoi capelli le punse le spalle scivolando fino al corpo si Inuyasha placidamente disteso sotto di lei.
Piano, fece risalire una gamba contro la sua, sentendo immediatamente la sua reazione, senza che tardasse di un solo minuto. Fra sé e sé sorrise, ma si mantenne imperturbabile e lasciò che le sue labbra, brucianti come fuoco, si schiudessero appena contro il suo collo. Potè chiaramente avvertire il brivido di piacere che lo scosse, ma non andò oltre: prima voleva sapere.
-Ne sei davvero sicuro? – domandò nuovamente, inarcando un sopracciglio scuro. Lo vide arrossire, per poi distogliere lo sguardo. Era così tenero quando lo faceva…
La sua schiena fu scaldata da un tocco inaspettato, quando le mani grandi di Inuyasha risalirono lungo le natiche fino a percorrere per intero l’arco teso della sua colonna vertebrale, infuocandola. Aveva imparato a giocare al suo stesso gioco, come se si trattasse di una sfida, solo che si manteneva tutt’altro che imperscrutabile, anzi; sembrava un bambino alle prime armi quando la guardava dritto negli occhi mentre lasciava languide carezze sul suo corpo. Le sue orecchie ebbero uno spasmo, ma si bloccarono immediatamente.
Era deciso a mantenere un contegno, lo si poteva chiaramente leggere nello sforzo in fondo al suo sguardo passionale. Si sporse leggermente verso di lei, lasciandole un bacio castissimo sulle labbra vermiglie, fuggendo subito dopo. Lasciò indugiare il calore di quella stretta ancora un po’, sentendola aleggiare fra i loro spiriti quasi come una  brezza estiva. Sopsirò impercettibilmente mentre Kagome, affascinata, gioì della presenza delle sue dita contro le scapole rette e sotto sforzo.
-Lo vuoi proprio sapere, Kagome? – sussurrò. Adorava quando il suo nome veniva colmato di tanta dolcezza, tanto amore, tanta passione quasi fino a scoppiare. Ogni singola sillaba era impregnata di dedizione e cura nei suoi confronti, nonché di sincerità e correttezza. Il rispetto dell’amore che provava per lei si manifestava solo in quelle poche sillabe, perché lui non usava diminutivi con nessuno; non perché non avesse mai abbastanza confidenza, ma solo per il semplice riconoscimento di un individuo nella sua completezza. Quando arrivava a fidarsi di una persona usava il suo nome e non un pronome, oppure un epiteto, perché non voleva rubare prestigo alla sua opinione di chi gli stava davanti con una frasetta stupida e quasi infantile. Arricciava il naso se Kagome iniziava con i suoi nomignoli simpatici, anche se sotto sotto gli faceva più che piacere. Certo, delle volte il suo spirito guerriero poteva avere qualcosa in contrario a “puffosetto” oppure a “Inu-carino-carino”, ma si limitava sempre a sbuffare e a distogliere lo sguardo.
Lei annuì, piano, catturata dall’intensità del suo sguardo. Nella pallida luce notturna sembrava quasi del tutto immerso nell’oscurità, eccezion fatta per i raggi che riuscivano a riflettersi nella vastità immensa della sua vista. Era capace di illuminare le sue giornate come nessun altro, e gran parte del merito andava a quegli occhi strabilianti.
Inuyasha socchiuse le palpebre, come se soffrisse. Lei cercò di scacciare parte di quella pena con un bacio sulla punta del suo naso, ma non seppe dire se c’era riuscita del tutto. Non la stava guardando, ma se per confidarsi si sentiva più a suo agio così, lei non aveva nulla in contrario; essendo così vicini, un contatto visivo diretto avrebbe distratto anche lei.
-Io…non ti posso offrire nessuna garanzia. Mi piacerebbe essere un punto stabile per te, lo vorrei davvero, però…so di non poterti promettere niente per la tua felicità – sorrise amaramente, spezzandole il cuore, - non sono in grado di darti nemmeno questo.
Per non sentire altro, Kagome si allungò e lo baciò a lungo, tenendo le labbra premute forse troppo intensamente a quelle di lui, senza nemmeno riprendere fiato. Si mosse appena sopra al suo corpo, lo sentì distendersi, e con quel contatto annullò distanze, ottusità, incomprensioni, litigi, passati e futuri, rabbia e tristezza si fusero e crearono solo amore, un’infinita distesa di pace. A lei non importava avere una casa, dei figli e un focolare. Lei voleva Inuyasha, per sempre.
Aveva abbandonato la sua epoca per stare con lui, la sua famiglia: non l’avrebbe mai fatto senza la sicurezza che solo poteva renderla felice, mai. Solo lui era in grado di darle uno scopo, di trattarla come ogni donna avrebbe meritato. Inuyasha era una persona che conosceva cosa voleva dire la solitudine e lo strazio del dolore, soprattutto parlando d’amore: era caduto più di una volta, aveva impresso cicatrici ancora sanguinanti al suo stesso animo, ma aveva sempre fatto in modo che le sue gambe lo facessero rialzare e riprendere il cammino, più forte di prima. Non era indifferente alle insidie, ed era ancora estremamente vulnerabile, ma faceva di tutto affinchè le sue debolezze diventassero dei punti di forza, e Kagome lo amava per questo.
Lei si era presa la responsabilità di garantirgli un futuro felice, non importava come. Fin da quando aveva ammesso di essere innamorata di lui era stata conscia dei limiti che la loro storia avrebbe avuto. Niente matrimonio, niente figli, niente atmosfera casalinga, nessun adorabile demonietto in giro per casa che l’avrebbe chiamata “mamma”. Questo mai. L’aveva accettato con amarezza, ma la presenza di lui schiacciava, annullava tutte le paure e le consapevolezze con la sua disarmante bellezza.
Perché il loro rapporto era bello: si potevano appoggiare completamente l’uno all’altro, senza timore di un tradimento o di una mancanza, entrambi sapevano interpretare ciò di cui l’altro aveva bisogno e si impegnava a soddisfarlo pienamente, libero da ogni legame costrittivo. Non era un’unione opprimente, solo un liberatorio angolo di felicità da edificare con lentezza, adornandolo di ricordi e previsioni sul futuro. Erano due singoli individui che, sommati, ne davano un terzo, emblema completo del loro amore; perché il destino non permetteva loro una realizzazione di ciò che sentivano nei loro cuori?
Le labbra morbide di Kagome si impegnarono a dire tutto ciò senza fiato, senza nascondere la frustrazione o il rammarico, ma nemmeno la noncuranza delle conseguenze, forse aggiunta ad una certa voglia di essere spericolati, di godersi la giovinezza. Inuyasha non si sottrasse, anzi, si dimostrò un animale braccato che ha bisogno di fermare la propria fuga anche solo un attimo, in lei e da nessun’altra parte.
Rimasero fermi a riprendere fiato senza staccarsi nemmeno di un millimetro. Il respiro di uno fluiva nei polmoni di entrambi, così come i cuori battevano su un unico ritmo. Erano impossibili da dividere, e così sarebbe sempre stato.
Essendo Kagome la più abile con le parole fra i due, decise di dare voce a tutti i dubbi che stavano spaventando l’animo del giovane, giusto per rincuorarlo e fargli capire che sapeva cosa stava provando.
-Inuyasha, ti ricordi quel pomeriggio ai piedi dell’albero? Tu mi chiesi se mi fossi pentita di aver scelto questo mondo, e io ti risposi che l’avrei rifatto se mi si fosse presentata nuovamente l’occasione. Ecco, quelle parole sono le più vere che io abbia mai pronunciato: tu, in questa vita, sei tutto ciò che ho. Se parli del nostro futuro, allora anch’io ho la mia parte di responsabilità, poiché i miei doveri di sacerdotessa mi impediscono di darti una casa, e degli eredi. Ma io ti ho scelto, ricordi? E lo farò sempre.
Concluse il discorso con un bacio leggero alla base del collo, per poi tornare a riappoggiare la guancia sopra al suo cuore, sentendolo battere leggermente più forte di prima, segno della sua emozione. Pochissime volte, nella vita del ragazzo, qualcuno aveva dimostrato per lui amore e affetto; quando accadeva, si meravigliava quasi fosse un bambino, poiché sapeva riconoscere nei sentimenti la giusta importanza, a differenza di moltissime altre persone.
-Kagome, io… - cominciò, incerto. Prese un respiro per farsi coraggio, poi riprese a parlare, arricchendo con il suono della sua voce il silenzio della notte. –Forse è un ragionamento stupido, ma sono io a dovermi preoccupare della tua felicità. Se solo non fossi così dannatamente debole, io…
All’improvviso la sua mano libera artigliò il lenzuolo, molto probabilmente incidendo solchi che bucarono la stoffa. La mascella si indurì a tal punto che i denti scricchiolarono, e il suo avambraccio si fece possessivo lungo la schiena fragile dell’amata, tanto da premerla più forte contro il proprio corpo.
Kagome sgusciò via dalla presa ferrea in cui rischiava di rimanere intrappolata e si sedette a cavalcioni su di lui, scoprendosi quasi totalmente. Era la prima a trovare volgare quella posa, ma avrebbe fatto di tutto per tranquillizzare Inuyasha, poiché non voleva permettere a stupide questioni d’onore di minare la loro serenità. Ottenne l’effetto sperato, dal momento che potè vederlo arrossire nonostante l’assenza di luce.
Subito il suo corpo smise di tenere quella mostruosa e quasi violenta tensione, e la parte di coperte artigliate vennero liberate dalla loro costrizione innaturale, venendo restituite con lunghe stalattiti vuote nel centro, laddove poco prima c’erano state le unghie.
Tuttavia Kagome non guardò il materasso semi-spogliato da brandelli di tessuto, il corpo nudo dell’amato, la finestra palcidamente aperta, i loro vestiti gettati quasi con sprezzo in un angolo oppure la spaventosa figura dell’armadio in fondo alla stanza, una sinistra presenza scura, bensì gli occhi gialli da mezzo-demone.
Vi lesse limpidezza, rabbia nei confronti di sé stesso, senso di impotenza, frustazione, tristezza, amore. Quell’ultima scintilla restituiva tutta la bellezza che il ragazzo rischiava di perdere lasciandosi trascinare dall’irruenza, dalla cecità derivata dall’impeto.
Kagome scavò a fondo nello sguardo, senza al tempo stesso nascondersi. Così come Inuyasha era inerme alla sua mercè, così appariva anche lei, senza nemmeno provare a schermare il proprio viso o ciò che pensava.
Lasciò che il bagliore dorato si fondesse assieme alla lava color mogano che si incastonava alla perfezione nei suoi linementi levigati e, lentamente, l’imbarazzo lo abbandonò per seguire con estrema attenzione ogni singolo mutamento nell’animo di Kagome.
Era una sacerdotessa che amava un mezzo-demone; nutriva per lui un attaccamento viscerale ed indissolubile, una sorta di comunione di anime e spiriti, l’unica che le permettesse di svolgere al meglio il compito che i Kami avevano pensato per lei. Una donna forte e determinata, pronta a mettersi in gioco per difendere i suoi sentimenti, per proteggere l’uomo che amava senza riserve, decisa in tutto e per tutto a cedere ogni grammo di felicità in una pura e semplice condivisione di spirito. Sapeva trovare il momento per la depressione derivante dalla sua condizione alla gioia di stare con lui, ed era conscia dei pericoli che correvano incontrandosi nel segreto della notte, e di certo non le piaceva camminare con la coscienza sporca ogni singolo giorno, fingendo di essere la vergine dedita alla protezione del villaggio come unico scopo di vita.
Era un guerriero abituato alla solitudine che amava una sacerdotessa; il suo essere mezzo-demone condizionava ogni singolo aspetto della sua vita, persino l’amore che aveva trovato dopo anni di relegazione in uno stato che assomigliava molto alla morte, imposto anch’esso da una delle poche donne che avevano popolato la sua esistenza. Aveva passato anni terribili con il terrore di essere ucciso, incapace di creare un’amicizia o un rapporto sentimentale, usando il suo essere immaturo come scudo nei confronti del mondo esterno. Aveva da poco scoperto una forza d’animo che non credeva di possedere, e una terribile rabbia lo possedeva se pensava che qualcuno avesse tentato di strappargli la sua amata proprio ora che poteva averla solo per sé; era frustrato dal non sentirsi abbastanza uomo da poterle dare stabilità, e neppure abbastanza demone da non badare al giudizio degli altri esseri umani, succube di rimorsi e di odio verso sé stesso, desideroso di poterla amare alla luce del sole, come una vera e propria famiglia.
Questi pensieri si fusero e si incontrarono, si conobbero e, come i loro proprietari, si innamorarono. Capirono che la vera nudità non arriva togliendosi i vestiti e liberando i propri istinti, bensì approfondendo l’introspezione far persona e persona, in quella dimensione dove il sangue o la posizione sociale non contano un bel niente. Era importante soltanto riuscire a sistemare le cose, vivere in pace come desideravano.
E fu per questo che all’improvviso Kagome capì quello che doveva fare, con estrema chiarezza. Per quanto si fose illusa, la soluzione era sempre stata quella, non c’erano mai state altre vie di fuga. Si sentì quasi stupida per averla scartata in partenza, senza nemmeno provare a ragionarci sopra, eppure capiva perfettamente di esserne tutt’ora spaventata. Non sapeva cosa sarebbe potuto succedere, ma era conscia solo di quanto fosse fattibile; già altre sacerdotesse l’avevano fatto per amore, e lei non sarebbe stata né la prima né l’ultima.
Era il massimo gesto d’amore che le avrebbe garantito l’agognata tranquillità. Se davvero amava Inuyasha, allora era arrivato il momento di dimostrarglielo.
Quasi avesse paura di spaventarlo ( e in quella posizione c’era davvero il rischio che accadesse), Kagome abbassò il volto fino a lambire con il proprio respiro l’orecchio di lui, posto sulla sommità della testa.
Lo sentì fremere, e accarezzò con il respiro la morbidezza di quella superficie tanto inusuale, come una sensuale dimostrazione d’amore. Scandì bene le parole, cercando di rendere la sua pronuncia quanto più chiara possibile: -Domani, io e te, andiamo dalla Divina Kaede e le diciamo che rinuncio ai miei doveri di sacerdotessa. Ufficialmente.
Inuyasha rimase immobile, senza muovere un muscolo. Sembrava quasi che la vita di colpo l’avesse abbandonato, trasformandolo in una bambola inanimata, stesa passivamente sotto al fisico snello di Kagome. Quasi la giovane si ritrasse per controllare che stesse davvero bene, ma decise di continuare a parlare, perché aveva già procrastinato abbastanza con quel discorso di importanza vitale.
Si fece ancor più vicina, poiché gli fosse impossibile non sentire ciò che stava dicendo e reagire di conseguenza.
-Inoltre, conosco un monaco che sarà ben felice di unirci in matrimonio una volta fatto, senza dover aspettare altro tempo inutilmente.
Se sperava in una reazione, allora rimase delusa, perché il mezzo-demone non la toccava nemmeno, avendo abbandonato le braccia lungo il materasso. Per paura di scoprire di averlo ucciso con le sue parole non si voltò, e gli rimase accucciata contro.
Le veniva da piangere; aveva appena trovato la soluzione ma, se Inuyasha non la accettava, voleva dire che non aveva nessun interesse a porre fine a quella relazione clandestina. Forse era stata troppo avventata a pensare che lui desiderasse davvero passare il resto della sua esistenza al suo fianco, e magari si era stancato di aspettarla. Ora che aveva finalmente ottenuto ciò che voleva magari non avrebbe voluto una sposa non più illibata, in quando aveva perso uno stimolo che forse non aveva mai avuto. Era stata una stupida a concedersi senza riserve quando non aveva nulla da preservare. Gli aveva dato tutto, e in quei momenti di silenzio scoprì che tutto era ciò che si era preso.
D’altro canto, Inuyasha rimase così sconvolto da non riuscire a spiccicare parola, nemmeno con il più grande sforzo di volontà. Quella scelta da Kagome era una situazione tanto estrema da essere a dir poco definitiva, e avrebbe gettato la sua vita nella vergogna. Era fin troppo felice di vedere una prospettiva di vita insieme ma se vedendo il disprezzo del mondo contro di lei sarebbe arrivata ad odiarlo?
Inoltre, il tempo che avrebbe potuto vivere al suo fianco era davvero simile, per lui, allo sbocciare di un fiore in primavera. E l’inverno sarebbe giunto fin troppo presto, lasciandolo svuotato così come stava apparendo.
Però…finalmente i suoi sforzi di girovagare da un villaggio ad un altro per vedere fattucchiere e prendere responsi assumeva finalmente un senso ben preciso. Da solo non avrebbe mai avuto il coraggio di esporle ciò che tutte gli avevano confermato al prezzo di un capello argenteo, soprattutto con la ragazza seduta a quel modo su una zona tanto delicata.  
Kagome gli aveva offerto la possibilità di sentire il suo parere e, se voleva sfruttare al meglio il tempo che gli era stato concesso, allora avrebbe fatto meglio a sbrigarsi.
Mosse piano le mani e le riposò sui suoi fianchi sottili, adorate colline di puro e lussurioso piacere. Voltò appena il capo e fece in modo che le sue labbra si posassero vicino all’orecchio della fanciulla, e pronunciò con voce roca poche parole che la fecero sussultare.
-Esiste un altro modo… 

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Capitolo 37
*** Ambiziose Partenze ***


Sango stava lavando il mantello da viaggio del marito giù al fiume, laddove la corrente era meno impetuosa.
La veste scura danzava fra flutti, ma doveva stare attenta a non distrarsi troppo onde evitare di perderla nel letto movimentato del corso d’acqua. Miroku non avrebbe mai sopportato la perdita di un oggetto così prezioso ai suoi spostamenti anche se, come suo solito, non avrebbe protestato.
Nei primi giorni dopo la sconfitta del loro nemico comune, le mani della giovane erano ancora inesperte; aveva dovuto gestire il dolore per la perdita di Kagome e l’allenamento in vista del matrimonio, che si preannunciava imminente. L’uomo che amava era finalmente libero dal vincolo imposto da Naraku, progettando entusiasta nuovi cambiamenti per il futuro che la vedevano come felice protagonista.
Certo, avevano dovuto aspettare del tempo prima di decidersi del tutto, ma solo perché soffrivano troppo per poter andare serenamente avanti. La ragazza era cara ad entrambi, soprattutto dopo aver passato così tante avventure insieme; avevano abbattutto un nemico particolarmente potente con la sola forza di volontà, e avevano saputo trovare un equilibrio nonostante le diversità che rischiavano di dividerli.
La bella Kagome si era dimostrata forte e di mentalità aperta, e non aveva lasciato che la provenienza da un’epoca tanto diversa contaminasse il suo giudizio sull’età Sengoku. Aveva sacrificato parte della sua vita dall’altra parte del pozzo solamente per legarsi ad una causa che non le apparteneva direttamente ma, Sango ne era certa, non appena aveva messo piede su quel suolo, anni prima, ne era già diventata parte. I castelli, i demoni, il potere spirituale erano stati elementi determinanti a legarla a quel luogo, soprattutto grazie all’amore per Inuyasha.
Sango faticava ad immaginarsi un mondo come ne parlava la sacerdotessa. Era nata e cresciuta fra alberi secolari, aveva ascoltato per ore i sussurri dei loro rami, le storie che le chiome raccontavano, e parte della sua vita era anche macchiarsi le mani di sangue durante una battaglia e sopravvivere con il necessario, accettare la scomparsa ingiusta dei suoi cari.
Da quello che aveva messo insieme con i frammenti di racconti della ragazza, deduceva che l’altra avesse vissuto in mezzo a sconfinati palazzi grigi, bare verticali senza cima, mostri concavi completamente sottomessi agli uomini che li sfuttavano per viaggiare e altre cose assolutamente incredibili, come ad esempio i vestiti. Vedendo quanta porzione di pelle rimanesse scoperta aveva strabuzzato gli occhi, ma alla fine ci aveva fatto l’abitudine: aveva smesso di notare le sue gambe camminare di qua e di là al vento, dopo qualche settimana di viaggio.
E, a differenza di ciò che aveva sempre pensato, di Kagome ci si poteva fidare. Magari sembrava anche una ragazzina svagata, intenta a concentrarsi su minuzie quali la bellezza o cose di questo genere, però era una valida compagna nonché elemento sempre fondamentale nella loro caccia. Aveva un carattere forte e determinato che spesso le invidiava, e sapeva sopportare da vera signora tutti gli affronti cui Inuyasha e Kikyo la sottoponevano con la loro stupidità.
Perché Sango non era cieca, e se non l’aveva detto prima era per non impicciarsi: Inuyasha era sempre stato innamorato di Kagome, e basta. Certo, magari all’inizio la ferita di nome Kikyo bruciava ancora, ma era sempre più palese che la vedesse inappropriata a quell’epoca, e se la ricordasse molto più adatta al sepolcro.
La ragazza venuta dal futuro aveva una gentilezza e una dolcezza difficilmente replicabili, anche se sommate ad un caratterino a volte irritante. Il confronto con la donna defunta risultava del tutto a favore della prima, poiché l’altra non aveva fatto altro che portare dolore nella vita del mezzo demone, anche quando potevano stare insieme. Era una persona fredda, distaccata, anche se indubbiamente l’aveva amato; persino lei appariva sempre più stanca di calcare quel suolo e, se doveva essere onesta, non le era mai andata a genio, con la sua superbia.
Insomma, non sapeva cosa avesse trovato Inuyasha in lei; erano due individui completamente diversi, non sapeva trovare un punto d’incontro per entrambi, quando invece con Kagome la dedizione e la cura reciproca era fin troppo evidente.
Gli unici che lo negavano a priori erano proprio gli interessati, ma Sango credeva proprio in quel periodo si rendessero conto di quanto stupidi fossero stati a non godersi prima l’idillio, quando ce n’era l’occasione. Se Kagome si fosse sposata, forse Naraku non avrebbe mai potuto manipolarla come invece aveva fatto e, anche in caso di perdita, potevano dire di aver passato momenti felici insieme. Invece ora si trovavano incastrati in un vincolo indissolubile, dal cui era complicatissimo uscire illesi. Se lui fosse stato umano, forse avrebbero avuto più probabilità di vedere accettata la richiesta di matrimonio, ma con una situazione tanto complicata non vedeva come avrebbero potuto superare la cosa in modo decoroso.
Ricordava bene quanto Inuyasha fosse rimasto provato da quella storia, facendo fallire miseramente tutti i tentativi di occultare il suo dolore. Ogni mattina lo si vedeva guardare in direzione del pozzo con aria nostalgica, per poi sedervisi dentro ogni tre giorni. Quando si nominava l’argomento “spiritualità” o qualsiasi cosa potesse ricordargli Kagome si adombrava irrimediabilmente, passando il resto della giornata sul suo albero, a rimuginare incastrato sui rami più alti. Per settimane si era rifiutato di mangiare, e passava così tanto tempo al pozzo o fra i boschi che Sango temette fosse impazzito.
Era per questo che, ogni tanto, lasciavano che i bambini si divertissero con le sue orecchie, poiché era un modo come un altro di fargli capire che la vita va avanti nonostante tutto, che le cose per cui gioire erano davvero troppe, e che starsene attaccati in modo così viscerale ad un infelice passato non andava bene.
D’altra parte, il colpo per lui doveva essere stato doppiamente forte; prima Kikyo, morta da traditrice, a causa di un inganno, e dopo Kagome, la dolce ragazza relegata in un epoca che aveva smesso di appartenerle. Non aveva una tomba su cui piangere o la consapevolezza, la rassegnazione di poter ammettere che la propria amante era morta, no: la convinzione che dall’altra parte ci fosse Kagome lo faceva ammattire. Magari il terrore che lei avesse scelto una nuova vita al fianco di qualcun altro era forte, ma Sango era certa che non sarebbe bastato un pozzo per far sparire un sentimento tanto nobile, e la ragazza stava sicuramente soffrendo quanto loro della distanza che li separava.
Quando lui rischiava di diventare violento spariva, cacciando ogni preda incontrasse nel suo cammino. Dilaniava con gli artigli animali selvatici sufficienti a sfamare la loro famiglia per un mese, e tutto in poche ore di furia incontrollata. Ma la mancanza di Kagome non sembrava poter essere colmata da niente, tutto quanto aveva perso il suo significato.
Assisteva al suo sguardo vacuo senza trovare parole per consolarlo, senza riuscire a spingerlo ad andare avanti. Lei aveva i suoi figli, il bene più prezioso che le sarebbe rimasto per sempre, ed era un chiaro segno della sua unione con Miroku. Loro la cosa più sacra che potesse desiderare.
Inoltre, Sango era stata abituata alle disgrazie fin da bambina. Con Naraku aveva raggiunto il picco, le sembrò quasi di impazzire di dolore, ma alla fine seppe andare avanti, trovare dei motivi per continuare a vivere e tornare ad essere serena, per lo meno. Inuyasha sapeva che lei poteva capirlo, eppure non aveva mai chiesto aiuto, nemmeno una volta: troppo orgoglio o troppa paura, forse, lo costrinsero a rimanere nell’ombra a leccarsi le ferite come un animale selvatico, ma la donna riusciva a comprendere anche questo comportamento. Nonostante la vita in comunità, infatti, anche lei nutriva un animo solitario, poi placato grazie alla famiglia, quindi conosceva bene l’istinto di dimostrarsi forti, a qualsiasi costo. A posteriori si era accorta di quanto fosse un comportamento stupido, ma non aveva trovato il coraggio di farlo notare a lui, poiché dopo una così sfacciata serie di sfortuna aveva tutto il diritto di scegliere il modo di stare meglio che preferiva.
Strofinando la stoffa sporca di polvere, la donna stentò a riconoscere le proprie mani. Una volta erano liscie, sottili, abituate a reggere armi e falci, anche se le unghie avevano un brutto aspetto a causa del sangue che spesso vi si incrostava. Alle sterminatrici veniva insegnato a non badare alla vanità, perché sarebbe stato del tutto inutile: la loro vita doveva essere dedicata alla battaglia e, anche se coloro che si ritiravano ne avevano l’occasione, nessuno si lasciava andare a slanci di amore per i cosmetici o le stoffe delicate.
Per questo aveva faticato abbastanza ad integrarsi al villaggio. Quando si riuniva con le altre donne non sapeva mai di cosa parlare, dal momento che era l’unica a nutrire ancora la voglia di correre e allenarsi nei boschi, cosa che non faceva più da tempo. Era cresciuta in un mondo per soli uomini, imparando da loro tutto ciò che c’era da sapere sullo sterminio e sulla sopravvivenza; quando si trovava davanti ad un telaio le mancava la fantasia di continuare con i disegni elaborati, intrecciando i fili cercando di non combinare un disastro.
Anche se erano diversi anni che ormai tesseva, si rendeva conto di essere ancora piuttosto maldestra, e di doversi attenere a certi modelli fissi. La lana le tagliava i polpastrelli e le dava fastidio, inoltre non avrebbe saputo da che parte prendere il cotone. Si annoiava a morte quando doveva mettere per iscritto i disegni da replicare, dal momento che le sue mani erano prive di qualsivoglia movimento armonico.
Le linee erano tremolanti e imprecise, per quanto si impegnasse, così le altre contadine avevano imparato a darle una mano quando aveva bisogno. Erano donne gentili, corpulente e madri di nidiate di bambini, però riuscivano a far sentire accettate le ragazze appena sposate, insegnando loro trucchetti fondamentali alla sopravvivenza in casa.
Anche Sango aveva dovuto beneficiarne, poiché era più che acerba in tal campo. Nessuno le aveva mai spiegato cos’era il corteggiamento, né a cosa servisse, e fortunatamente con Miroku non ce n’era stato affatto bisogno.
“Mi sono subito innamorato dei tuoi occhi”, le aveva detto una volta. Sapeva essere davvero molto romantico, anche se lei non era in grado di ricambiare adeguatamente. Non aveva la minima idea di come tentare a sedurlo oppure come essere afettuosa, anche se lo amava palesemente.
Lui non ci faceva caso, lasciava stare e ci teneva al suo ruolo di romanticone di casa, però a Sango sarebbe tanto piaciuto farlo ridere con una battuta audace oppure intenerirlo con un gesto spontaneo, ma sembrava che il suo corpo rifiutasse certi comportamenti.
Quando una donna piuttosto anziana aveva fatto un’allusione circa la sua vita sessuale, Sango si era trovata costretta ad arrossire, e l’altra aveva commentato con un risolino: “Ah, povera gioventù, altro che gli uomini di una volta!”. Non poteva essere più lontana dal vero.
A parte il fatto che suo marito era un amante eccezionale, la ragazza si era trovata estremamente abile a parlare il linguaggio della notte. I suoi muscoli allenati sapevano seguire ogni movimento dell’amante, assecondandolo e soprendendolo. Anche se non c’erano armi, spesso lo paragonò ad una battaglia: lo sforzo fisico era uguale, l’allenamento efficace e l’esaltazione forse addirittura maggiore.
Inoltre il fisico dell’amato si manteneva giovane e in forma almeno quanto il suo, grazie a viaggi e scontri che ancora lo coinvolgevano, con sua grande preoccupazione. Miroku amava l’esercizio fisico, ed era dell’idea che bisognasse adottare uno stile di vita sano per potersi trovare pronti a fronteggiare qualsiasi sfida. Era un concetto assolutamente nobile, su questo non c’erano dubbi, ma delle volte si era ritrovata ad invidiare la sua libertà; quando voleva lui poteva uscire e sfogarsi sul retro, bastonando un albero fingendo che fosse un demone oppure provando a nascondere dei pugnali, e vedere come andava tirarandoli fuori dalle maniche.
Lei non poteva, ovviamente, perché i bambini erano ancora troppo piccoli per stare senza una guida, e non aveva nessuna intenzione di cederli a nessuno, nemmeno per un momento. Forse era un concetto all’antica, ma le avevano insegnato che gli uomini migliori crescono dall’educazione impartita dai genitori, e dalla sua vita aveva imparato che non c’era nulla di più vero. Voleva che la sua famiglia diventasse un punto fisso nella vita dei suoi bambini, e che anche crescendo non avrebbero avuto timore di farvi ritorno.
A lei una casa mancava da anni, e non desiderava che i suoi piccoli “pulcini” dovessero vivere lo stesso. Per qualche tempo aveva addirittura accarezzato l’idea di fondare un nuovo villaggio di sterminatori, ma poi si era accorta di non esserne assolutamente in grado. Era un’idea stupida: nessuno avrebbe aderito e troppe disgrazie erano derivate dal loro ruolo, fornendo diversi motivi per scoraggiare chiunque cercasse di ripetere l’errore. E poi era rimasta incinta subito, avendo ben altro a cui pensare.
-Mamma! Mamma! – gridò una vocetta alle sue spalle. La donna tirò fuori dall’acqua limpida la casacca, ormai splendente, e si voltò: sua figlia Mirei stava correndo a braccia spalancate verso di lei, ridacchiando quando sentiva il vento sul viso. I capelli erano cortissimi, come quelli di un maschietto, a causa di un’epidemia di pidocchi, ma la faccia curiosa e aggraziata non lasciava dubbi circa il suo sesso.
Già prevedendo lo scontro, Sango allargò le braccia con un sorriso, e la bimba vi si gettò contro alla velocità della luce. Lei attutì il colpo grazie ad anni di allenamento, ma non sarebbe successo lo stesso con un’altra ragazza, che sarebbe di certo precipitata nel fiume dietro di lei. A differenza di molte altre madri, Sango aveva saputo mantenere la linea anche dopo i due parti, dettaglio che la rendeva invidiabile dalla maggior parte femminile del villaggio.
La bambina rise divertita quando la donna le fece il solletico sul collo, il suo punto debole. Guardandola nel suo kimono arancione con fiorellini gialli dipinti sul fianco, Sango capì come mai Sesshomaru si fosse avvicinato a lei senza nuocerle: sembrava davvero Rin quand’era piccola, nonostante Mirei avesse appena cinque anni. Naturalmente le differenze c’erano, ma lo sguardo vispo e la risata squillante erano elementi in comune con la solare fanciulla di poche capanne più in là.
-Cosa c’è? – chiese Sango. Le accarezzò una guancia arrossata dallo sforzo, prima di passare una mano sul kimono sporco di terra. Nonostante le avesse raccomandato di stare attenta, aveva i piedi completamente sudici di fango fino alle caviglie.
Le iridi a metà fra il nocciola e il mogano si appuntarono su di lei, sembrando sorridere. Quell’influsso mite nel colore era tutto merito del padre, che le aveva donato anche la lucentezza dei capelli ora spettinati e il carattere positivo.
-Lo zio Kohaku è appena tornato con Kirara-chan! – strillò lei, rischiando di perforarle un timpano.
Sango rimase a dir poco sopresa da quella notizia, visto che raramente il fratello andava a far loro visita a causa dei suoi numerosi impegni. Il petto le si scaldò di sollievo appurando che stava bene, e già non vedeva l’ora di vederlo.
Naraku aveva minato forse irrimediabilmente il loro rapporto, che non sarebbe mai più stato lo stesso di prima. Il peso che il ragazzo aveva sul petto non era cosa da poco, visto che era stato manipolato per uccidere la sua stessa famiglia. L’aveva lasciata agonizzante e le aveva sussurrato all’orecchio di volerla vedere morire, ma Sango sapeva che a parlare non era stato lui, ma solo un mostro che lo aveva trattato come una marionetta.
Quel demone amava gli intrighi, riuscendo a far agire come meglio desiderava i personaggi come pedine su una scacchiera, senza curarsi delle ripercussioni sulle vite altrui dei suoi gesti. Il ragazzino gentile e impacciato era stato presto sostituito da un freddo assassino, uno spietato condottiero, e la ragazza non osava nemmeno immaginare cosa pensava quando rivedeva il proprio passato.
Era per questo che non aveva capito la sua voglia di rifondare il villaggio, contro la sua decisione di sorella maggiore. Ritornare in quei luoghi e rivivere quella stessa vita poteva essere solo nocivo alla sua salute, anche perché non tutto ciò che era collegato al loro passato poteva dirsi piacevole o roseo. Poi aveva capito che ciò gli serviva per sentirsi vivo, impegnandosi nella fondazione di un centro abitato; nonostante fosse molto giovane aveva le carte in regola per essere un buon leader, e lei non aveva mai dubitato di questo, nemmeno quand’erano piccoli. Aveva un cuore d’oro e un animo buono, assieme alla tenacia di chi ha vissuto più sventure che gioie, elementi indispensabili per temprare un guerriero. Persino lei, nonostante fosse infiacchita dalla routine di madre e moglie, era ancora richiesta come la miglior guerriera degli ultimi cinquant’anni, e spesso rifiutare delle rischieste era davvero difficile.
Tornò a concentrarsi sul viso interrogativo della bambina, che era in attesa che la madre si unisse al suo entusiasmo.
-È fantastico, tesoro – disse sinceramente, facendola sorridere di nuovo. –Vai pure da lui e digli che arrivo subito, va bene?
Mirei annuì velocemente, decisa a portare a termine il suo compito e poi, preparandosi a sentire di nuovo il vento che le scompigliava i capelli come le dita di suo padre, schizzò via. Correva velocemente e aveva le basi per diventare un’ottima cavallerizza in futuro, con la forza nelle gambe che aveva fin da quando aveva imparato a camminare…
No, decise Sango, sua figlia non avrebbe mai avuto a che fare con il sangue e lo sterminio. Le avrebbe insegnato al massimo le basilari tecniche di difesa personale giusto a titolo informativo, ma nulla di più; ne aveva già parlato con Miroku, e non vedeva il bisogno di addestrare una piccola bambina alla guerra, come era stata destinata invece lei. Ricordava anni interi passati fra armi e ossa di demoni, invece di godere di giochi con i coetanei o bambole di stoffa, come le altre bambine. Non sarebbe stato giusto negarle l’infanzia, ecco.
Sospirò e piegò velocemente la veste, prima di riporla nel cesto. Era quasi un’ora che si trovava al fiume per strofinare i panni, e aveva le mani gelide e arrossate. Sul dorso la pelle si stava rimarginando dopo le screpolature in inverno, ma doveva ammettere che senza le creme di Kagome sarebbe stata presa molto peggio. Era stata una stagione particolarmente fredda quell’anno, e ci si aspettava una primavera degna di questo nome.
Mettendosi il contenitore di vimini sul fianco, prese a camminare in fretta; voleva vedere Kohaku al più presto e stritolarlo in un caloroso abbraccio, perché le era mancato tantissimo. Non aveva ricevuto sue notizie per tutto il mese, e nemmeno Totosai era in circolazione, dal momento che di solito lo si poteva trovare almeno una volta ogni tre settimane nella piana vicina al villaggio, con qualche lettera o stramberia per gli abitanti. Gli uomini non vedevano di buon occhio quel demone a cavallo di una mucca, ma il gruppo aveva finito per affezionarsi a lui, come per una persona originale ma buona, un aiutante valido che ne aveva seguito le avventure. A parte Inuyasha nessuno gli era più ostile, mentre era pressochè indifferente agli sconosciuti.
Percorse in un attimo la strada in salita verso casa sua, una piccola capanna con il camino acceso e un’aria scoppiettante di vita casalinga. Si era legata a quelle mura che avevano raccolto le urla del parto e anche gli strilli dei pianti notturni dei piccoli, spesso incamerando una sgradevole reazione a catena.
Posò la cesta all’ingresso e si tolse i sandali, riponendoli sul soppalco. Indossò le scarpe adatte alla casa e si affrettò ad asciugarsi le mani sul vestito, in attesa di rivedere il fratello. A sorpresa trovò Miroku, seduto per terra a giocare con Usuke, sul pavimento.
La prima domanda che gli fece non fu inerente a Kohaku, bensì all’altra gemellina, una bambina riservata e mite, a differenza della sorella. Era quella che fra le due più le assomigliava e, spesso, si ritrovava a vedere sé stessa nel viso di sua figlia.
-Dov’è Chitose-chan? – chiese, guardandosi intorno.
Lo sguardo del marito si sollevò verso di lei, fissandola per un istante prima di sorridere. Non badò al fatto che se ne stesse ancora sulla porta, in piedi, col respiro quasi affannoso, ma la trovò invece bellissima come poche altre. Ogni volta che il suo sguardo la percorreva, le sembrava quasi stesse ammirando la stessa Sango di quattro anni prima, come se non fosse cambiato nulla. Il suo amore per lei non era mai mutato, anzi, si faceva più potente di giorno in giorno.
-Oggi aveva l’addestramento con Kaede, ricordi? – le rispose dolcemente, facendola arrossire. Tornò a guardare il bimbo, che stava sbavando lungo tutto la sua mano, appoggiata sul suo pancino per sostenerlo. Miroku non cercò nemmeno di asciugarsi, visto che sapeva quanto sarebbe stato inutile.
-Giusto, hai ragione! – esclamò Sango, portandosi una mano alla fronte, rendendosi conto di essersene completamente scordata. Un dubbio le si insinuò in testa, pungolandola con un certo sospetto: -Come mai Mirei scorrazza coperta di fango?
L’uomo rise, scuotendo piano la testa. Sistemò meglio il piccolo e poi lo prese in braccio, visto che sembrava essersi stancato di salivare su qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Poggiò la testa delicata di Usuke nell’incavo della spalla, rassicurante, e la moglie ripensò a tutti i momenti in cui l’aveva amorevolmente accolta nello stesso nido. Com’era prevedibile, il bambino cominciò subito ad aver difficoltà a tenere gli occhi aperti, soprattutto con il sopraggiungere del leggero movimendo del corpo.
-Persino la venerabile Kaede ci ha rinunciato, con quella peste. Dice che è tutto inutile, le piante non le interessano affatto, così la lascia libera di giocare con i bambini più grandi -. La guardò divertita: -Da come la descrivi sembra una selvaggia.
Alla donna venne da ridere ripensando alla figlia, vista poco prima, ma si trattenne per  non svegliare il figlio, già addormentato. –Abbastanza – disse sommessamente, con un moto di tenerezza.
Lui si alzò per mettere il bambino nella culla, con lentezza. Naturalmente il neonato non si sarebbe svegliato nemmeno con un terremoto, ma non si poteva mai sapere; a volte lo zelo con cui Miroku si dedicava ai bambini la stupiva, in quanto era stata la prima a faticare ad immaginarselo come genitore premuroso. Aveva dovuto ricredersi sin da subito, però.
L’uomo, una volta assicuratosi che Usuke dormisse tranquillo, le si avvicinò, appoggiando un braccio nell’incavo della sua schiena. Con un brivido, lei si lasciò attirare nella sua stretta, lasciando che le posasse un bacio delicatissimo sulle labbra rosee.
Sango amava il rispetto che infondeva in ogni singolo abbraccio, e se lui in pubblico si tratteneva era solo per non violare la pudicizia della moglie e la sua riservatezza. Quando lei tendeva a dimenticare la loro unione, lui la soprendeva con un gesto galante e lenitivo a qualsiasi tensione, in grado di farle passare ogni preoccupazione tanto velocemente quanto piacevolmente.
Fu lei a ritrarsi per prima, sentendo il chiacchiericcio di alcune lavandaie di passaggio; trovandosi a metà fra l’interno e il prato era chiaramente visibile, e non le piaceva che la gente spiasse i fatti propri. Miroku capì e la lasciò andare giusto in tempo, mettendo la mano accanto alla cornice della porta in una posa naturalissima, come se non fosse successo nulla.
-Hai visto Kohaku? – chiese lei, sforzandosi di non arrossire.
L’uomo scosse la testa, perplesso.-No…non aveva avvisato di un suo ritorno.
Sango annuì sbrigativamente. –So dove trovarlo, Mirei mi ha detto che è tornato…arrivo fra un po’, d’accordo?
Il marito le sorrise, sembrando intenzionato a baciarla ancora, ma non osò. Posò le labbra sulla guancia fugacemente per poi ritirarsi in casa, portando dentro il carico di vestiti puliti. Lei rimise a posto la stuoia così com’era prima, non senza lanciare un’ultimo sguardo al bimbo addormentato e, velocemente, si affrettò a superare la radura, passando intorno alle capanne e salutando occasionalmente qualche donna che conosceva.
Quando nessuno potè più vederla, prese in mano le gonne e se le tirò su fino al ginocchio perché, nonostante il kimono fosse stretto, la impacciava nei movimenti. Distese i muscoli e prese a correre ad ampie falcate, così come non faceva da tempo; fu liberatorio, con il vento fra i capelli e la coda che già si disfava al suo passaggio.
Sentì subito i muscoli delle cosce tendersi e assecondarla nella sua momentanea trasgressione, i polpacci nudi fremettero per il contatto con l’aria aperta. Superò un prato verde smeraldo e una macchia d’alberi, verso il piccolo laghetto tranquillo immerso nel fogliame del bosco, il luogo preferito da Kohaku per pensare o per prendersi una pausa. Ricordava di come ci fosse un luogo simile anche vicino al villaggio degli sterminatori, un tempo, e forse era quel dettaglio a renderle la zona doppiamente gradita.
Non fu delusa: si fermò dietro ad una corteccia scura e ammirò la schiena ampia e muscolosa dell’adolescente, il corpo sottile ma sempre più forte, la postura di un uomo seduto su una pietra che fissa l’acqua. Senza fare rumore staccò un rametto dall’albero dietro cui era appostata, spostandosi verso di lui. Non si tradì nemmeno con un fruscio, e doveva tutto all’arte insegnatole da suo padre.
Piano, poté arrivare a distinguere il codino in tutto e per tutto simile a quello di Miroku sulla sua nuca, floscio, e anche la falce imponente ormai impossibile da tenere legata in vita. Era troppo grande e pesante per non essere lasciata a terra, ormai.
Prese il rametto per la punta e lo voltò verso la sua schiena. In un movimento rapido fece pressione sulle scapole, suscitando una risposta immediata. Il corpo del giovane scattò flettendosi in avanti e balzando lontano dal giaciglio improvvisato, voltandosi e facendo saettare una lama argentea da sotto la manica. Il suo viso lentigginoso e giovane era determinato e preciso, per nulla spaventato. La posizione era scattante, impavida nei confronti di un combattimento e senza nessun punto cieco, come constatò lei soddisfatta.
Sango ridacchiò, mostrando la sua arma improvvisata tenendola fra due dita: -Attenzione, signor sterminatore, avrei potuto uccidervi venti volte.
Kohaku si rilassò immediatamente: i muscoli smisero di rimanere in tensione, tornò eretto, lasciò andare la lama dentro alla manica, laddove doveva stare. Si permise di sollevare l’angolo della bocca in un sorriso divertito, dopo aver riconosciuto la sorella maggiore. In quell’arco di tempo era cresciuto notevolmente, diventando un bel ragazzo, giovane e forte.
-Sarei crollato prima dei venti, ve lo assicuro – ribattè, ed entrambi scoppiarono a ridere. La donna non resistette e corse ad abbarcciarlo, rìtenendolo stretto fra le braccia. Finalmente poteva respirare il suo profumo, sentire che stava bene! Tutta la preoccupazione e l’ansia scomparvero, lasciando il posto alla felicità di rivederlo di nuovo, dopo così tante settimane passate all’oscuro delle sue condizioni.
Si staccò leggermente dalla risposta incerta, imbarazzata, del giovane, guardandolo sorridente in viso. –Allora? Come hai passato queste settimane?
Kohaku si risedette sulla roccia di prima, tornando a prendere il mano un legnetto che forse teneva anche prima che arrivasse lei. –Mi sono allenato, passando anche in diversi villaggi del nord, laggiù – con un dito indicò un punto impreciso nel folto del bosco, e lei seppe che l’informazione era precisa. –Chiedevo se c’erano ragazzi che volevano imparare l’arte della lotta, e ottenni diversi consensi. Siamo pochi, ma è sempre meglio di nulla -, concluse, alzando le spalle con noncuranza.
Sango venne fulminata da una bruttissima sensazione, ma si prese del tempo per gioire di quel progresso, diventando invece guardinga e attenta a ciò che le diceva. –Mi stai dicendo che vi stanzierete da qualche parte?
Se era vero, significava che l’avrebbe visto ancor meno. Il fratello si sarebbe sistemato in un altro posto, lontano, battagliando contro demoni e mostri senza di lei, guidando un villaggio per conto suo. Era troppo per una persona così giovane, e anche ingiusto, perché avrebbe dovuto rinunciare alla sua compagnia per tantissimo tempo, ancora una volta.
Kohaku non la guardò. Giocherellava con quello stelo di legno e non osava alzare lo sguardo. –Non lo sappiamo ancora – disse con voce bassa, addolorato, - ma credo sia inevitabile.
Il ramo cadde dalle mani inermi della donna, con un suono che le parve simile ad un’esplosione. Era giusto ciò che il ragazzo stava dicendo, non poteva pretendere che se ne stesse inchiodato alla vita di un piccolo villaggio e neppure che continuasse a viaggiare come un ronin, però la parte di lei che lo vedeva ancora come un bambino indifeso, il suo fratellino, non riusciva a gioire dei suoi successi, delle sue ambizioni.
Il panorama tracciato da quelle parole le parve molto più spaventoso di quello che era, anche se non c’era nessuno motivo per sentirsi tanto atterrita.
Scoppiò, com’era naturale che fosse.
-Inevitabile? – esclamò, allargando le braccia, - che io soffra è inevitabile, Kohaku! Ti rendi conto di cosa accadrà? Non ti vedrò mai più, ecco cosa, non saprò mai più nulla di te!
Il ragazzo rimase sopreso da quello scoppio d’ira, alzandosi per cercare di placarla. –Pensa Sango, calmati! Prova a pensare: tu sei l’unica cosa che mi sia rimasta, non potrei mai dimenticarti. Inoltre tu hai anche una nuova famiglia, adesso, delle responsabilità!
Queste parole la calmarono, ma il ragazzo non le permise di dire nulla. –Anch’io ne voglio una, desidero ricominciare daccapo. Le vedi le montagne, da casa tua? Sì? Sarà lì che andrò, sarà lì che sorgerà il villaggio degli sterminatori, in una valle che ho scoperto essere strategica, grazie a Kirara. Lì non avremmo problemi di nessun  genere, e la stirpe da me interrotta avrà modo di continuare, capisci?
Sango si ritrasse, spaventata. Nello sguardo del fratello brillava la stessa luce che animava quelli del padre, e la somiglianza si fece all’improvviso troppo dolorosa da guardare. Kohaku era cresciuto, ora aveva un seguito e un sogno da realizzare: lei non era nessuno per impedirglielo, e voleva soltanto che fosse felice.
D’altronde era questa la cosa che una donna doveva saper fare, ovvero lasciare che le persone amate raggiungessero il loro destino, custendo nient’altro che un ricordo nel proprio cuore. Serbò il dolore in una parte di animo inacessibile, sforzandosi di trattenere le lacrime.
Gli prese il viso fra le mani e parlò con voce ferma. –Non voglio ostacolare i tuoi obbiettivi, fratello mio, ma ti impongo degli obblighi, poiché ne ho il diritto. Nostro padre mi disse di prendermi cura di te, e sarà ciò che farò; voglio ricevere tue notizie una volta ogni mese, come minimo, anche se non pretendo che tu mi venga a trovare. Fonda il tuo villaggio, parti per le montagne, ma fallo subito, oppure non avrò più il cuore di lasciarti partire.
Detto questo, il giovane la fissò. Con un suo divieto non sarebbe mai riuscito a realizzare i suoi progetti, e Sango si sarebbe pentita di non averglielo lasciato fare. Era un uomo responsabile, e lei una donna forte: nei suoi occhi vide che aveva accettato il peso di ciò che gli aveva detto e che aveva promesso di mantenere l’accordo. Per la prima volta nelle loro vite, il ragazzo le si avvicinò e le posò un bacio su una guancia, leggero ed esitante. –Non ti dimenticherò, sorella mia – sussurrò, e lei capì cosa quelle parole volevano dire.
Non esisterà nessuno in grado di manipolarmi ancora, era il vero significato.
Sango lasciò la presa su di lui, guardandolo un ultima volta. Il viso sottile, i capelli troppo lunghi, lo sguardo intenso, la bocca affasciante, le lentiggini sul naso e sugli zigomi. Kohaku, suo fratello. Il suo amato fratellino.
Con le mani allontanò il suo viso: era giusto così. Lui le sfiorò i dorsi un’ultima volta, risvegliando il suo istinto di guerriera e, con un fischio, rischiamò Kirara, che comparve da un punto vicino allo specchio d’aqua. Con una breve corsa il giovane la raggiunse, vi saltò atleticamente in groppa e scomparve nella vastità del cielo azzurro. Non si voltò nemmeno una volta.
E neppure Sango.   

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Capitolo 38
*** Sollievo ***


Mentre Sango si gettava disperata fra le braccia di Miroku, versando lacrime amare, Inuyasha e Kagome si stavano recando dalla Divina Kaede.
La sacerdotessa aveva gli occhi arrossati dalla mancanza di sonno, ma non poteva essere più determinata nelle sue scelte. Con il suo amato aveva anallizzato il piano per tutta la notte, cercando falle o punti deboli, facendosi spiegare bene tutte le misure da prendere e di cosa avevano bisogno, prima di giungere alla conclusione di non necessitare di nulla all’infuori di loro stessi.
Inuyasha era stato molto preciso nelle risposte, dandole le spiegazioni che aveva bisogno di sapere con la massima serietà. Non si era mai contraddetto, saltando passaggi oppure rendendo i discorsi contorti, ma era rimasto semplice dall’inizio alla fine, senza nasconderle nulla.
Lei gli era grata di questa sincerità, e a posteriori si rendeva conto che l’analisi che avevano fatto era stata del tutto inutile, visto l’elementarietà del piano. Era una cosa senza troppi passaggi, ma con un unico punto focale, che costuiva, assieme alla soluzione, anche il problema.
Decise di non pensarci durante il tragitto, dal momento che non voleva guastarsi l’eccitazione. Finalmente, dopo migliaia di scervellamenti, aveva trovato ciò che faceva al caso loro, ed era anche un metodo ricco di linearità, ovvero la cosa in quel momento più bella del mondo.
Era stanca di doversi complicare la vita con notti insonni, ricerca di misture particolari, possibilità di accordi con il consiglio di monaci, promesse infrante e colloqui con Kaede. Ne aveva colma la misura di certe cose, anche se stava andando in contro ad ulteriori difficoltà.
Però, per quanto l’anziana non sarebbe stata d’accordo, Kagome la sua decisione l’aveva già presa, nel suo cuore, e non avrebbe permesso a nessuno di ostacolarla. Non si trattava solo della consueta voglia giovanile di trasgredire alle regole, bensì del sentimento più nobile e tormentato che il suo animo potesse sopportare. Lei amava Inuyasha contro ogni ragionevole dubbio, e nessuno avrebbe mai potuto frale cambiare idea a questo proposito. Nonostante le difficoltà e due caratteri difficilmente conciliabili cìvoleva a tutti i costi azzerare il doloroso conteggio di quei maledetti tra anni con un futuro felice.  E non esisteva Dio in grado di impedirle di vivere serenamente.
Il guerriero, dal canto suo, trattava ora la sua compagna con la massima cura. Sapeva che non doveva essere stata una decisione facile, vista la posta in gioco, però ormai avevano stabilito di avere degli obblighi, e la falsità non piaceva a nessuno dei due. Preferivano uscire allo scoperto piuttosto che vivere con il timore di essere braccati; magari, in caso di un smascheramento da parte di qualcuno al villaggio, avrebbero addirittura potuto rischiare la vita, e lui non era affatto intenzionato a perderla proprio ora che si era riacceso il lume della speranza.
Una volta, Inuyasha non avrebbe esitato a sacrificarsi per la sua amata, ma in quel momento capiva che lei aveva bisogno del suo sostegno, e non poteva permettersi di lasciarla sola. Mai aveva saputo assaporare nella sua vita il piacere di avere una donna al proprio fianco, e la sensazione si era rivelata mille volte meglio di ciò che gli era stato raccontato dai bardi o che aveva sentito nella sua vita.
Sapeva di poter contare su di lei e lei era certa di saper fare altrettanto, se ce ne fosse stato bisogno. Era stata indubbiamente una notte critica, ma non avrebbe permesso a nulla di sottrargli quella felicità a fatica guadagnata.
Passando, Kagome salutò un paio di contadine. Una di esse, una ragazza piuttosto giovane, era madre di due gemelli maschi, gracili e molto cagionevoli di salute. Lui la ricordava non solo grazie alla sua stazza, ma anche alla sua presenza pressochè continua dalle sacerdotesse del villaggio, mentre si procurava medicine o consigli ogni volta che un’epidemia contaminava il villaggio.
-Venerabile Kagome – la salutò, avvicinandosi con un inchino rispettoso. –Posso chiedervi un attimo consiglio?
Non avevanon decisamente tempo per queste cose, la ragazza lo sapeva fin troppo bene, però, fino a quel momento, rientrava fra i suoi doveri, e non poteva sottarrvisi. Avrebbe avuto i suoi figli sulla coscienza se le avesse negato aiuto; fece capire ad Inuyasha che avrebbe fatto presto e andò incontro allla donna, a pochi passi di lontananza dal demone.
Ue lo guardò con sospetto, chiudendo gli occhi scuri a fessura. –Lui deve proprio ascoltare? – sussurrò in sua direzione. Le stava esplicitamente chiedendo di mandarlo via perché, nonostante frequentasse spesso il villaggio e ne facesse parte, molti degli abitanti non lo vedeva comunque di buon occhio.
Kagome si armò di pazienza, sistemandosi una manica troppo ingombrante. –Mi dispiace, ma deve aiutarmi a raccogliere alcune bacche per la mistura contro i reumatismi – spiegò gentile. Era una scusa assolutamente plausibile, visto che anche in passato l’aveva aiutata davvero per quel compito. Crescevano su un cespuglio particolarmente propenso a farsi dominare dai rovi, rendendo molto difficile arrampicarsi fino ai rami più alti.
Quel pensiero le provocò una fitta di amarezza. In fondo, dopo il colloquio, avrebbe potuto benissimo non aver mai più bisogno di prepare miscele oppure pomate lenitive.
-Capisco… - commentò la giovane. Non poteva avere al massimo trent’anni, ma il peso esageratamente eccessivo la facevano sembrare quasi una cinquantenne, soprattutto grazie alla trascuratezza e alla postura curva assunta dopo anni passati chinata sui raccolti.
-Prego, ditemi come posso aiutarvi – la incitò Kagome. Aveva fretta, non poteva permettere al coraggio di evaporare come se fosse semplice acqua condesata. Stava sudando freddo.
-Oh, certo, scusatemi! – esclamò, facendo sobbalzare l’altra donna che era con lei. –Non volevo importunarvi, solo che ho finito la bevanda contro il raffreddore…mi chiedevo quanto riso occorra per averne un’altra fiala.
La ragazza sorrise. –Non preoccupatevi, ne ho preparate in più. Chiedete pure a Rin-chan, le tiene lei in magazzino; ditele pure che non mi dovete nulla.
La donna fece per protestare, ma Kagome si congedò in fretta, già pronta a riprendere il passo. Si voltò giusto in tempo per accettare i ringraziamenti, poi affiancò Inuyasha e riprese la marcia a passo svelto, con urgenza. Per qualche istante il giovane non disse nulla, anche se aveva ascoltato tutta la conversazione, però alla fine cedette.
-Come mai non gliele hai date tu? – bisbigliò.
Lei cercò di rimanere imperturbabile, senza far trapelare nulla di ciò che pensava. Molto probabilmente Inuyasha avrebbe capito comunque cosa significa la spiegazione che avrebbe fornito, però non le importava. Era meglio se le cose rimanevano celarte, in certi casi, e credeva già che non sarebbe stato facile fingere di non provare assolutamente nessuna emozione in proposito, visto che una parte di lei soffriva parecchio.
-Mi sarei sentita ipocrita a giocare a fare la sacerdotessa per bene – commentò, sempre a bassa voce, poi decise di tacere. Forse era stata troppo dura con lui, e si dispiaque di averlo ferito, però per lo meno ottenne silenzio, ed era tutto ciò di cui aveva maggiormente bisogno.
Se qualcuno avesse cercato di rincuorarla, in quel momento, probabilmente sarebbe andata su tutte le furie. Era di animo irritabile quella mattina, proprio a causa del nervosismo che ancora la manteneva sveglia. Non poteva dare segni esteriori del suo rammarico, e abbandonare tutte le persone che necessitavano del suo aiuto sembrava una prospettiva del tutto aberrante, eppure vi era costretta, l’amore per Inuyasha superava ogni cosa, questo non sarebbe mai cambiato, però in quel momento aveva bisogno di conservare il proprio dolore.
Lui, ovviamente, comprese, e lasciò perdere. Non era il momento giusto per porre domande, e forse per un certo periodo avrebbe dovuto rassegnarsi alla sua tristezza, ma ne sarebbe decisamente valsa la pena.
Superarono un piccolo nucleo di case dal camino fumante, allegre. Erano le abitazioni del frabbro e di alcuni artigiani, assieme anche a colui che, come impegno personale, si era posto il problema di curare uno spazio fatto apposta per le sacerdotesse. Spesso il focolare non bastava per bollire certe radici, e lui aveva messo a disposizione una grande fornace apposta per i loro intrugli.
Era uno scopo veramente nobile, anche a detta di Jinenji.
Jinenji. Con un lampo doloroso ammise che le sarebbe mancato davvero molto. La sua impacciata gentilezza le faceva compagnia tutte le mattine, quando strappare le erbe diventava fastidioso e monotono. Inoltre era lui che la salvava puntualmente da insetti e altre creature piene di zampe, fatto decisamente non trascurabile.
Questo, tuttavia, non riuscì comunque a farla pentire della sua scelta. Si immisero in un sentiero abbastanza frequentato, tanto che sventolare la mano in segno di saluto, dopo un po’, divenne meccanico. Si fermò solo una volta per aiutare una vecchietta a rimettersi in piedi, quando aveva rischiato di incimapare, ma per il resto percorse il sentiero a passo spedito, senza voltarsi indietro. Inuyasha le stava vicino, senza spiccicare parola e con un’espressione mortalmente seria in viso; era palese che stava pensando a ciò che sarebbe successo di lì a poco, ed erano anche gli unici a saperlo.
Quando li vedevano camminare in coppia, tutti sapevano di non doverli disturbare, perché stavano probabilmente andando ad assolvere un compito importante. La vita al villaggio si era modellata a quella di loro due, lasciando gli spazi al dovere che dovevano ricoprire.
Giungere al prato dove Kaede abitava fu la cosa più naturale del mondo, ma anche la più dolorosa. Kagome non ebbe il cuore di fissare il buco dove una volta c’era il pozzo; l’erba non era cresciuta del tutto e c’era un’orribile macchia di terra bruciata, come se il futuro non fosse mai esistito. O meglio, non ancora.
Giunti davanti alla stuoia chiusa, Inuyasha annusò l’odore che proveniva dall’interno: verbena, senz’ombra di dubbio. La donna stava pestando qualche foglia nel suo personale recipiente, forse per creare chissà quale impasto magico. Sapeva essere davvero molto abile a tenere un segreto, e lui sprò che questa sua dote si specchiasse anche quando si parlava di quelli altrui.
Lanciò un solo sguardo alla sua amata, desiderata Kagome, che si permise il primo sorriso della giornata. Era stanca e assonnata, fin troppo lucida e pronta ad una svolta epocale, ma era comunque bellissima. Per farsi coraggio le sfiorò una mano con il pollice, giusto per godere del suo calore. Soprendentemente, lei la prese e la strinse per un attimo, assorbendo ed infondendo forza. Poi le loro pelli tornarono ad essere due entità distinte, fino a quando lei, discretamente, bussò sul riquadro di legno dell’entrata.
-Venerabile Kaede? – chiese piano. Inuyasha nasconse gli avambracci nelle maniche, mordendosi l’interno della guancia. La sua espressione non mutò quando la voce della donna, dall’interno, la invitò ad entrare.
Tutti e due si mossero in fretta, scostando il telo di canapa e venendo assorbiti dalla frescura che aleggiava nella stanza principale. Al centro c’era un fuoco acceso e scoppiettante ma, grazie ad un impianto particolare, si era riusciti ad evitare che il fumo soffocasse tutti gli abitanti o che scaldasse eccessivamente l’ambiente. Su un soppalco appena accennato c’erano un paio di stuoie ammonticchiate vicino al muro e un grosso armadio in legno scuro, zeppo di medicinali estratti dalle piante nei boschi vicini.
Anche se era una casupola spartana, sapeva mantenere un’aria opsitale e quasi allegra. La maggior parte degli abitanti era passata per quelle mura almeno una volta nella vita, e tutti ne conoscevano la posizione delle assi oppure l’ubicazione precisa di ogni singolo pestello.
-Oh, Inuyasha, ci sei anche tu – constatò l’anziana signora. Tossicchiò leggermente, facendo loro cenno di accomodarsi davanti a lei. Era seduta su un cuscino per terra, lavorando su diversi panni odorosi impregnati di altrettante sostanze lenitive. Si solito certi impacchi servivano per le ustioni, e Kagome non si stupì di vederli ancora esposti sul pavimento: al palazzo di Miyasama c’era ancora bisogno di cure per i feriti.
-Come stanno le guardie? – chiese Kagome, dopo essersi seduta su un cuscino di fronte alla sacerdotessa. Inuyasha le si mise accanto, rassicurandola nonostante tutto.
- È stato una attacco che ha lasciato i suoi strascichi – spiegò, con la sua solita aria enigmatica. Si concesse un’occhiata ai due. –Ma voi non siete venuti per questo, dico bene?
A molti i modi di Kaede sarebbero anche potuti sembrare rudi, ma in relatà erano soltanto un’abbreviazione di tante inutili moine. Non le piacevano i giochi di parole, e preferiva accantonare la delicatezza per esprimersi a chiare lettere, senza bisogno di troppi fronzoli da mettere ai suoi discorsi. Qusto la rendeva sì molto chiara nelle spiegazioni, ma quasi brutale quando si trattava di brutte notizie.
La ragazza deglutì, a disagio. In qualche modo aveva immaginato che la donna sarebbe andata dritta al sodo, ma pensava che avrebbe avuto più tempo. Lanciò uno sguardo disperato ad Inuyasha, ma lui aveva già preso la parola.
-Perspicace, vecchiaccia – commentò con voce caustica. Il tono era stato tagliente quanto bastava per rendere la lor presenza ancor più sgradevole; l’atmosfera si fece pesante.
-Inuyasha! – lo richiamò Kagome, rammaricata, ma Kaede le fece segno che non importava.
-Lascialo dire, Kagome – disse. Tossì di nuovo, schermando la bocca con la stoffa del kimono; era sicuramente colpa delle erbe, che producevano un insopportabile odore acre.
In uno scontro che lei non avrebbe mai immaginato, la signora alzò lo sguardo e li fissò dritti negli occhi, prima uno, poi l’altra. Sotto al reticolato di rughe e pelle vecchia si leggeva una profonda comprensione di tutte le cose, anche di fatti all’apparenza insignificante. Quella donna sapeva guardare ben oltre le apparenze, riuscendo a sorprendere chiunque con le sue sempre esatte conclusioni: alcuni dicevano che era quello il suo grande dono, ovvero una sorta di preveggenza. Altri sostenevano che era solo un istinto marcato nello scoprire la verità, ma incuteva timore ugualmente.
Lei fu costretta ad abbassare il viso, poiché sostenere la sua occhiata era troppo. Il guerrier si mantenne impassibile, e la scrutò a sua volta come per dimostrare che non aveva nulla da nascondere. Poi l’anziana si rimise al lavoro, mettendosi a pestare le erbe allo stesso ritmo di prima. Le foglie diventavano poltiglia sotto ai suoi rintocchi, creando un ritmo sinistro.
-Ho capito – disse ad un tratto, e la sua voce risultò doppiamente profonda e grave del solito. –Sapevo che prima o poi sarebbe successo, e non solo perché si tratta di voi due. Quando una sacerdotessa viene eletta troppo giovane, allora è chiaro che insorgano dei dubbi.
Nessuno dei due ebbe il coraggio di dire nulla. Avevano immaginato di dover fornire spiegazioni, avevano preparato discorsi e motivazioni, ma ora la donna si stava dimostrando già a conoscenza della situazione. Non parlavano perché alla fin fine non c’era assolutamente niente da aggiungere, visto che il discorso non avrebbe potuto essere più appropriato di così.
La lasciarono continuare: -Il consiglio ha dovuto fronteggiare in passato esperienze di questo genere, e non è mai qualcosa di facile. Però…il vostro caso, dovete capire, è ancora più complicato di quanto non potrebbe mai essere.
Un silenzio di piombo calò all’improvviso nella stanza. La tensione veniva portata alle stesse dai movimenti ritmici della sua mano raggrinzita, dal suono regolare e pungente di pietra contro pietra, dal fruscio del suo kimono. Inuyasha e Kagome non osavano quasi respirare, perché l’imbarazzo di essere scoperti e la verità schiacciante di quelle parole li stavano annientando.
Nei loro cuori lo sapevano già, non era un discorso composto da elementi nuovi, ma non avevano mai osato tradurlo a voce per paura di sentire il suono lugubre di quelle parole. Pronunciata da Kaede, però, divenne la deduzione più sinistra che potesse esistere.
Tuttavia apprezzavano quanto si stesse almeno impegnando di parlare seriamente al riguardo, visto che era anche solo impensabile che ottenessero un permesso formale, oppure una benedizione. Certo, costituivano un’eccezione, ma il mondo di allora non era moderno abbastanza per consentire loro di sposarsi e fare dei figli, interrompendo il suo voto di castità.
Stavolta fu Kagome a sentirsi in dovere di dire le sue ragioni.
-Divina Kaede, ce ne rendiamo perfettamente conto. Ma, come voi saprete, quello che abbiamo vissuto ci ha portati ad essere molto legati. Lo so che i miei impegni di sacerdotessa potrebbero essere compromessi da un matrimonio, però…
La donna la interruppe con un gesto, l’espressione guardinga. –Cosa intendi dire, ragazza? – chiese, con voce quasi severa.
Per quell’improvvisa interruzione, Kagome si fece piccola piccola, come se volesse sparire in un angolo; ripetè con un filo di voce quello che aveva appena detto, con una convinzione ormai incrinata.
Stavolta Kaede non disse nulla, semplicemente assunse un’aria pensosa. Interruppe il lavorio delle sue mani, bloccando di colpo tutto l’impasto che stava creando. La ciotola strisciò sulle assi in legno quando venne spostata con un gesto, e il pestello cozzò lungo il bordo per il movimento. Ora avevano la sua completa attenzione.
-Ditemi semplicemente come intendete procedere, sarà meglio – borbottò.
Kagome prese un profondo respiro, decisa a concludere quello che era il loro piano. Non sarebbe stato facile spiegarle tutto quanto senza avere almeno un cedimento, ma era del tutto decisa a farsi vedere impassibile e sicura di sé, come per scoraggiarla a stoppare ancora il suo discorso. Sarebbe stato lungo, ma avrebbe comunque seguito la procedura che voleva per ottenere almeno uno straccio di consiglio, o addio, a seconda delle reazioni.
Prese un profondo respiro, e le parve naturale afferrare la mano di Inuyasha e sentire che la sua stretta veniva ricambiata. Il fatto che Kaede lo notò e non disse nulla le infuse forza, poiché ormai non aveva nessun senso nascondersi ancora.
-Inuyasha mi ha informato dell’esistenza di un modo per garantirmi di vivere almeno quanto lui al suo fianco, ed è una strada che intendo percorrere. Prima di esporla, credo sia meglio farvela conoscere così come l’ha presentata a me.
Fece una piccolissima pausa, e la mano di Inuyasha continuava a stringere la sua, con vigore e coraggio.
-Moltissimi anni fa, esisteva una sacerdotessa, Geta. Era molto giovane e devota ai suoi doveri, però le capitò di innamorarsi di un mezzo-demone forestiero, venendo a sua volta ricambiata. La passione per lei fu così grande che, vedendo l’impossibilità di vivere serenamente l’amore, decise di uccidersi: passarono un’unica notte d’amore e, la mattina dopo, si tagliò la gola sulla riva di un lago.
Le dita di Inuyasha presero a carezzarle discretamente un angolo del dorso, senza nessuna provocazione, ma solo rassicurandola.   
-Le cose non andarono come da lei programmato, infatti si svegliò nello stesso indentico luogo dove aveva cercato la morte, completamente guarita dalle sue piaghe. Per un attimo non capì cos’era successo ma, dopo una serie di ricerche, si accorse di essere rimasta incinta. Questo l’aveva resa più forte, in quanto la parte demoniaca dell’amante era la prima che si era sedimentata nel suo ventre, al momento del concepimento.
Kaede ascoltava attenta, senza perdere nessun passaggio. Le sue sopracciglia canute erano incurvate in una smorfia di concentrazione, mentre collegava quel discorso con ciò che la storia stava succedendo.
-Geta capì quindi che la gravidanza derivata da un mezzo-demone e un’umana compone un periodo fondamentale nella vita di una donna dotata di potere spirituale, perché la parte demoniaca, respinta dalla corteccia pura, si attacca alla linfa vitale, rafforzandola.
Gli occhi della giovane ora brillavano: -Questo mi consentirà di stare assieme a lui, per sempre – sussurrò alla fine.
L’altra sacerdotessa non disse nulla, limitandosi a scrutarla. –Che ne fu di Geta? – domandò solo, per cercare sospettosamente un effetto collaterale di quello che pareva più che altro un miracolo.
-Venne uccisa da un gruppo di sacerdoti, perché dopo aver scoperto questo sistema aveva incoraggiato delle ragazze appena iniziate a portare avanti il proprio amore.
Era una dura verità: Geta, vedendo un sacco di giovani divorate da amori impossibili, aveva spiegato loro che non succedeva nulla di dannoso, e avevano preferito levare di mezzo lei e le sue discepole. Se questo metodo non era stato tramandato era stato soltanto per evitare che accadesse un terribile evento che vedesse coinvolte le giovani sacerdotesse, creature destinate alla purezza e alla dedizione.
Visto che la donna continuava a tacere, Kagome valutò persino l’idea di incitarla a parlare, però venne preceduta nelle sue intenzioni da Inuyasha, che sbuffò un “beh?” spazientito, staccando la mano da lei e rimettendosela nella manica rossa.
Questa volta non lo riprese perché capì il suo scoppio; la tensione era così palpabile che  avrebbe persino potuto toccarla. L’anziana signora parve riaversi, e gli lanciò un’occhiataccia prima di dare il suo responso.
-Escludo totalmente l’ipotesi di un matrimonio, ma siete liberi di fare come volete -. Detto questo prese di nuovo i suoi attrezzi e ricominciò a svolgere il suo compito minuzioso, prima che i vari liquidi si seccassero troppo.
-Cosa?! – esclamò Inuyasha. Kagome era rimasta troppo sconvolta per parlare, o per muoversi. Non era sicura di aver capito bene, ma le pareva di aver ottenuto quello che aveva tutte le carte in regola per essere un permesso. La prima parte della frase l’aveva annientata, e aveva visto tutte le sue speranze andare in fumo; aveva paura che la rassegnazione per quel momento avessero coperto ciò che era seguito, ovvero le parole più dolci che sentisse da tanto tempo.
Il suo compagno, per la sopresa, aveva snudato le zanne e posato una mano sulla sua spada, come se Kaede fosse un pericolo. Sembrava intenzionato ad ingaggiare un combattimento in quel preciso istante ma, preso dall’impeto, tornò ad accasciarsi sul suo cuscino, come una bambola inanimata. Era troppa emozione per una volta sola, troppa liberazione in un’unica, violenta botta di adrenalina  liberata.
-E…i miei voti? – chiese flebilemente Kagome. Con un braccio tratteneva inutilemente il corpo di Inuyasha per evitare di scatenare un conflitto con la sacerdotessa, mentre l’espressione già si preparava a cacciare il sollievo dilagante nel suo petto.
Kaede parlò coincisamente e con calma, senza soffermarsi troppo sulla gioia crescente dei due giovani. –Se leggevi attentamente, Kagome, la castità era obbligatoria solo durante l’apprendistato, mentre si fa facoltativa quando il sacerdozio raggiunge la stabilità. Ormai tu hai raggiunto quel livello da un pezzo, persino prima che il pozzo ti inghiotisse. L’unica cosa che posso dirvi, a questo punto, è che manteniate una decorosità quando sarete in pubblico.
Per un momento nessuno parlò o disse nulla. Kaede pestava la verbena come se loro due se ne fossero già andati , e sul viso di Inuyasha brillava un sorriso incredulo. Gli occhi della giovane pungevano per la voglia di mettersi a piangere di gioia, e una lacrima le scolcò la guancia portando, finalmente, rendezione.
Da quanto tempo aveva aspettato che qualcuno la liberasse dall’oppressione che sentiva ogni volta che pensava al suo sventurato amore? Certo, non avrebbe mai indossato un vestito bianco, non avrebbe bevuto il sakè da una tazza immacolata bagnata sull’orlo della saliva del suo sposo, ma era come se Inuyasha fosse già suo marito, per quanto gli foss difficile pronunciare quella parola o ritenersi tale.
Avrebbero potuto vivere insieme e avere dei figli.  Dei bambini. E questo non sarebbe durato come una primavera, come un battito di ciglia condannandolo alla solitudine, sarebbe potuto protrarsi per anni e anni! La cosa aveva i suoi lati negativi, come la scomparsa progressiva di tutti i loro amici e compagni, ma in quel momento non lasciò spazio al dolore, ma solo alla felicità.
Si guardarono negli occhi, all’unisono, e si compresero all’istante. I loro pensieri combaciavano come la solito in ogni singolo punto, rendendoli parte di un’unica unione.
In un solo movimento si abbracciarono, tenendosi stretti. Erano increduli: ad entrambi pareva quasi che i loro corpi avrebbero potuto sbriciolarsi come sabbia e fuggire dalle loro dita.
Ma non sarebbe di certo potuto succedere.
Niente, ormai, li avrebbe divisi. 

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Capitolo 39
*** Ricostruire ***


Se Sesshomaru avesse saputo che andava a curare i feriti del castello Miyasama, forse si sarebbe infuriato così tanto da chiudersi in uno dei suoi interminabili e spiacevoli silenzi.
Erano giorni che non lo vedeva; l’ultima volta in cui si erano potuti abbracciare, ormai quasi una settimana prima, l’aveva avvisata circa un disordine scoppiato nelle terre di suo padre. Ovviamente era suo dovere riportare tutto alla normalità, anche perché quei disguidi fra demoni avrebbero potuto nuocere anche agli uomini.
Ormai, al villaggio, non si faceva altro che parlare di Kagome. La ragazza, di fatto, non era cambiata molto, di carattere, ma il suo ventre sempre più arrotondato occupava pomeriggi interi nelle discussioni fra ragazzine, giù al fiume.
Nei centri contadini, infatti, c’erano degli orari e dei luoghi per ogni singola azione, per mantenere un ordine e una consequenzialità produttiva e utile a tutti gli abitanti. La serpentina di donne curve su teli bianchi in riva al corso d’acqua principale, che scorreva placido tagliando a metà la folla di casupole fatte di paglia, era tutta in fermento.
Dove le acque erano più basse si trovavano le più giovani e inesperte perché, se fosse scivolato qualcosa dentro ai flutti, sarebbe stato facile recuperarlo. Le più anziane si distribuivano lungo il resto della sponda, con fazzoletti colorati in testa e maniche rimboccate. Tutte si davano da fare ma, tra una strofinata e l’altra, c’era sempre tempo per un po’ di sano chiacchierare.
Rin si era spostata da tempo nella parte riservata alle più esperte, poiché con il lavoro che faceva ormai i aveva preso l’abitudine, ma si era stancata che la sacerdotessa fosse l’argomento principale. Di commenti maligni ce n’erano pochi, e tutti si affrettavano a zittire l’impertinente, però era stressante, dopo un po’ di tempo, ascoltare le congetture riguardo al nascituro.
“Avrà le orecchie come il padre?”.
“Oh, speriamo di sì, Baba-san, sarebbe assolutamente squisito!”.
“Per non parlare degli occhi della divina Kagome…te li immagini accostati ad una chioma di capelli bianchissimi?”.
“Accidenti, che meraviglia!”.
“Speriamo che nasca presto!”.
La levatrice doveva ammettere che era stata un’emozione vera e propria constatare che il villaggio era così solidale nei suoi confronti, anche perché ormai Inuyasha era stato pienamente riconosciuto come membro attivo e rispettabile della comunità. Certo, non si faceva vedere in giro più del dovuto e spesso era irritabile, ma da quando la sua donna era rimasta incinta si prendeva cura di lei come se fosse fatta di vetro.
Era bastato vedere le sue attenzioni impacciate e imbarazzate alle donne per sciogliersi in gridolini entusiasti. La maggior parte di loro aveva già dei figli, non era importante l’età, ma nessuna aveva potuto vantare un marito tanto premuroso e gentile, soprattutto se era così bello.
Sembravano uno stormo di ragazzine impazzite, anche le più vecchie, e spesso c’era una lunga processione fuori dalla capanna della donna per sapere come stava e come si sentiva. Portare in grembo una creatura con sangue demoniaco, infatti, era un evento raro, quindi chiunque cercava di tenersi aggiornato come in preparazione ad un‘altra possibile gravidanza fuori dall’ordinario. In soli cinque mesi, Kagome era diventata una celebrità.
Rin era una grande amica della sacerdotessa e, in quanto tale, aveva risentito molto di quell’invadenza. Lavorando tutto il giorno era distrutta, e la sera sarebbe stato l’unico momento in cui avrebbe potuto andarla a trovare senza avere fra i piedi donne impiccione, per quanto armate di buona volontà. Così la sua possibilità di starle vicino e, magari, apprendere come trattare la dolce attesa da un demone (per quanto Inuyasha lo fosse in modo piuttosto marginale) si diradavano sempre di più.
La cosa la faceva ammattire, ma si costrinse a portare pazienza. Per proteggere le sue orecchie da quel chiacchiericcio si era dunque spostata dalle più giovani, magari aiutandone alcune particolarmente impacciate, ma la cosa non era affatto migliorata, anzi.
Se le loro madri discutevano a proposito della “giovane sacerdotessa dal cuore d’oro che aveva coronato il suo sogno di vivere un amore impossibile”, allora lì si elogiavano le qualità soltanto del suo consorte, e d’oro gli attribuivano tutt’altro.
Insomma, uno strazio. Per questo aveva implorato Kaede di farle sbrigare l’odiosa faccenda nella quiete della notte, affidandole invece i malati del castello. Era stata titubante, se doveva dire la verità, quando si era trattato di avanzare quella proposta, ma alla fine si era convinta sentendo che Miyasama avrebbe provvisoriamente vissuto in un altro suo possedimento più a nord, in attesa che le opere di ricostruzione venissero ultimate.
L’anziana era stata ben contenta di cederle il posto: la schiena e i vari acciacchi si facevano impossibili da sopportare con tutta quella strada su cui cavalcare ogni giorno, e aveva preferito di gran lunga girare di casa in casa per far nascere bambini e assumere qualche ragazzina per insegnarle a lavare la biancheria.
Per questo Rin, armata di garze e intrugli medicinali, si accingeva ad oliare l’ennesima pelle deformata dal fuoco. Era meglio che i suoi pazienti non sapessero che lei era stata la causa principale di quel disastro, e forse il suo desiderio di dare una mano agli invalidi era solo un modo per cercare di espiare una colpa.
Prese da un piccolo contenitore rivestito di smalto azzurro un po’ di pomata rinfrescante, e la appoggiò delicatamente sulla carne morbida e informe. Cercò di non rabbrividire quando le sue dita incontrarono una duna di pelle che stava per staccarsi, limitandosi a fasciare dov’era necessario e a curare dove poteva.
Da quella sera erano scoppiati altri due piccoli incendi, in modo che chi non si fosse ferito prima avesse assaggiato il fuoco dopo. Era stato un disastro: quasi centocinquanta feriti, ventisette morti e ottantaquattro ustionati lievi in tre giorni da incubo. Poteva andare molto peggio, certo, ma era lo stesso un bilancio agghiacciante.
Ciò che aveva visto nelle opere di ristrutturazione aveva però dell’incredibile. Si era preparata a scontrarsi con una piana resa brulla dalle fiamme, con poche macerie sparse attorno e uomini che non sapevano da che parte iniziare, e invece aveva subito dovuto ricredersi. Le guardie in grado di muoversi e sollevare pesi avevano allestito un paio di capanne abbastanza grandi al limitare dello spazio immenso, adibite ad infermierie; dentro c’erano stuoie e spazi sufficientemente larghi per ospitare persone stese o sedute, più il personale.
Diverse impalcature di legno e bambù si ergevano fiere attorno ai resti della casa vera e propria, mentre i contadini si davano daffare sotto la guida di artigiani, fabbri, mastri e altri uomini incaricati di sorvegliare i lavori in corso. Una squadra composta dai migliori ingenieri stava sistemando un nuovo progetto per mettere a posto lo splendore perduto dei Miyasama, cercando di inserire il doppio dei giardini e anche delle piccole cascatelle d’acqua dolce, magari vicino ai laghetti per i pesci.
Se sapeva tanti dettagli era tutto merito dell’uomo a cui stava cercando di cambiare le garze: erano ore che andava avanti a parlare dei progetti e si animava arrivando ai punti salienti, rendendo inutile il suo continuo fasciare le ferite.
-Hikuchi-san, se non state fermo sarà costretta a farvi legare – disse Rin, ridendo. L’uomo era magro e piuttosto anziano, con un paio di baffetti bianchi sopra al labbro raggrinzito e una pelata lucida in cima alla testa. La pelle scottata dal fuoco e dal sole indicava che aveva sempre fatto il contadino, ma il suo modo di parlare sottintendeva un’istruzione. Forse, viste le mani callose in modo singolare, aveva lavorato in un cantiere, oppure se ne occupava già da anni.
Comunque, qualsiasi cosa avesse fatto, non sarebbe stata mai più possibile, con quella ferita che copriva tutta la schiena.
-Scusatemi, scusatemi – borbottò. Si rimise seduto a gambe incrociate mentre lei cercava di spalmare un’olio contro le infezioni. -È che forse non avete capito cosa vuol dire mettere il doppio degli stagni fra le mura…
Riprese a narrare i progetti da cima a fondo ma, grazie al cielo, contenne il suo entusiasmo quel tanto che bastava per completare il lavoro.
Quell’uomo così bizzarro le stava simpatico, infatti era già il terzo giorno che si occupava di lui. Era allegro e molto preciso nei suoi resoconti, e doveva aver anche viaggiato parecchio. Le avventure che sfioravano il fantastico uscivano con naturalezza dalla sua bocca, col serio rischio di distrarla dalla sua opera delicata e mandare all’aria tutta la fatica fatta finora.
Era la più giovane e anche una fra le meno conosciute, lì dentro, quindi doveva fare attenzione. Molti malati si trovavano bene con lei perché sbrigava in fretta le sue faccende e addolciva la pillola con qualche risata, ma la maggioranza delle erboriste lì presenti erano dell’idea che i lavori andassero fatti in totale silenzio. Le due più anziane erano arroganti e assolutamente intrattabili, mentre per il resto poteva dire di andare d’accordo con tutte; la maggioranza netta era infatti costituita da donne, se non si contavano i feriti.
Le serve del castello, infatti, dormivano in un’area a parte del castello. Quand’era scoppiato l’incendio erano riuscite ad uscire dalle porte vicino a dov’erano le loro stanze, salvandosi in gran parte. Alcune si erano ritrovate con leggere scottature sulle braccia, oppure sulle gambe, altre avevano solo perso i pochi vestiti che possedevano, ma nel complesso potevano ritenersi più che fortunate.
Una guardia piuttosto giovane le si inginocchiò di fronte, sulla stuoia. Le dava le spalle per farle vedere la ferita.
-Rin-san, siete in grado di alleviare il dolore? – chiese. La sua voce era sofferente, segno che gli antidolorifici usati in precedenza non erano stati particolarmente efficaci. Le serviva qualcosa di nuovo, magari il balsamo che Kaede aveva inventato per far sentire meglio le vittime di un’ustione.
-Certo, vedrò cosa posso fare – disse sinceramente, - però ho bisogno che scopriate il lato del corpo che vi fa male.
Com’era prevedibile, il ragazzo mostrò la schiena, togliendo la stoffa con attenzione. Non appena vide lo scempio che aveva dovuto subire, rabbrividì: la carne era innaturalmente rosea, sfilacciata come se fosse stato frustato e con alcune chiazze più scure nel mezzo. Inoltre la sua consistenza sembrava fin troppo morbida, gonfia e cadente, destinata ad essere resa molle prima del tempo, come se fosse rimasto troppo a lungo immerso in una vasca piena d’acqua.
Era giovane, dovevano avere più o meno la stessa età. Diciassette, forse diciotto anni, un fisico atletico e asciutto, aitante, spalle larghe e muscoli tonici, pronti a lavorare. Invece si ritrovava allo stesso livello di un invalido, con davanti interminabili mesi di riabilitazione e, nel frattempo, la sua famiglia sarebbe anche potuta morire di fame. Di solito quando ragazzi tanto giovani si arruolavano per la protezione personale di un ricco signore, lasciavano a casa la madre e i fratelli. Non era una cosa poi così rara, infatti gran parte de guadagni li usavano per mantenere il loro focolare.
Magari lui aveva una moglie, o dei figli. Cosa avrebbero detto i suoi familiari vedendolo in quello stato? Avrebbero riconosciuto il giovane emanciato, pallido e ferito? Come avrebbe fatto a lavorare ancora con una schiena del genere?
E pensare che era tutta colpa sua. Lui stava facendo affidamento su colei che aveva scatenato il tutto. Se Rin fosse stata zitta e avesse accettato il proprio destino a testa china, forse avrebbe potuto evitare che tutte quelle vite venissero rovinate per sempre.
All’improvviso le venne una gran voglia di urlare contro Sesshomaru, e le sue reazioni spropositate. C’era davvero stato bisogno di uccidere così tante persone innocenti per salvarne una sola? Non poteva portarla via con un po’ più di discrezione?
Quel castello dava da mangiare ad un sacco di giovani famiglie, con gli stipendi e i posti di lavoro che offriva. Quel ragazzo sarebbe anche potuto finire a chiedere l’elemosina in giro per le strade dove passavano i viadanti, piuttosto che continuare ad indossare la sua veste blu scuro e una lancia scintillante in mano.
Perché i Miyasama sì, erano esagerati, però sapevano anche essere onesti. I loro dipendenti venivano regolarmente pagati con stipendi modesti, era vero, però la regolarità era ineccepibile. La maggior parte delle madri nei dintorni si augurava che i figli, in un modo o nell’altro, potessero andare al palazzo, soprattutto se ci si trovava in famiglie contadine. Sesshomaru aveva ucciso la speranza di moltissime persone, e solo per un gesto d’orgoglio.
Prese in mano un panno e cercò di fare meglio che poté contro quelle ferite. No, il suo amato principe l’aveva fatto perché teneva a lei, ma rimaneva comunque imperdonabile. Le mancava ugualmente, tuttavia ci sarebbe stato sicuramente bisogno di fargli un bel discorsetto al riguardo; non poteva mica trattare le persone come bambole nelle sue mani, bisognava tenesse un minimo di rispetto per tutti quanti.
-Ecco, adesso vi metto le bende – disse, quasi soprapensiero.
Sapeva bene che la vita degli ustionati non si limitava ad un prendere confidenza con la nuova estetica. Significava piaghe nei punti più deboli; bruciori quando c’era un clima particolare; malformazioni spesso dolorose; bisogno di stare a riposo il più possibile; rinfrescarsi la pelle con qualcosa della temperatura giusta. Sulla schiena, avere una bruciatura di qull’entità equivaleva a dormire male di notte, a non poter trascinare pesi e nemmeno ad impugnare una zappa. Una guardia del corpo che può fare solo un determinato numero di movimenti non serve a granchè e, a meno che i Miyasama no avessero optato per un cambio di personale, avrebbero dovuto cambiare di ruolo un po’ tutti quanti.
Sistemò le garze e finì la propria fasciatura. Cercò di metterla in modo da coprire tutto senza intralciarlo nei movimenti, poi si premurò di sigillare le suture di stoffa con un collante naturale e gli consegnò un paio di foglie di menta.
-Se doveste sentire dolore anche dopo, magari stasera o prima di venire qui, allora chiamate subito qualcuno che vi metta queste fra una piega e l’altra delle fasciature, va bene?
Il ragazzo guardò prima lei poi le erbe. I suoi occhi si illuminarono di sollievo e le fece un sorriso splendido, come non ne vedeva da giorni.
-Grazie, Rin-san – disse, e lei seppe per certo che era sincero. Nel suo sguardo c’era soltanto liberazione, finalmente giunta dopo ore, o forse giorni, di dolore straziante. Anche se ormai erano passati mesi dal disastro, tantissime persone necessitavano ancora di cure mediche, e le prime pareti erano state faticosamente innalzate.
Il ragazzo, facendo uso di un lungo bastone in legno, si alzò a fatica, e si mise in piedi. Barcollava un po’, ma riuscì a mantenere l’equilibrio e ad allontanarsi; per coloro che non potevano tornare a casa, infatti, era stata messa a disposizione una stanza dove poter mangiare una ciotola di riso, la quale costituiva invece il compenso per i lavoratori incaricati della ristrutturazione dei locali. La manodopera poteva diventare davvero molto costosa e, onde evitare spese al di fuori delle reali possibilità della famiglia, le persone chiudevano un occhio quando vedevano una moglie oppure un bambino sgattaiolare in sala e prendersi da mangiare.
La ragazza, rimasta seduta per troppo tempo, decise di sgranchirsi un po’ le gambe. L’aria della capanna, dopo un po’ diventava opprimente, soprattutto a causa della penombra costante che regnava negli angoli. Non aveva mia sopportato, nemmeno quand’era bambina, il dover stare ancorata al suolo per troppo tempo, le dava fastidio; si sentiva incatenata ad un posto e non vedeva l’ora di poter correre fra i prati, o andare ad intrecciare collanine di fiori per il signor Sesshomaru.
All’aria fresca si sentì decisamente meglio. Camminò in tondo per non intralciare i braccianti, poi decise di stare a guardare sotto una tettoia riparata dal sole. Era piena estate, in un sfolgorante periodo dell’anno in cui gli alberi erano meravigliosamente verdi, gli uccelli cinguettavano senza sosta e il sole si dimostrava instancabile. Da quando Sesshomaru era partito non aveva piovuto una sola goccia di pioggia, ed era la seconda settimana consecutiva che la terra dei campi rischiava di screpolarsi.
Osservò il frenetico lavorare degli uomini; doveva ammettere che i loro progressi erano davvero notevoli, si trattava di vedere muri messi in piedi entro l’arco di una mattinata, e alcuni non facevano nemmeno pause. Nonostante l’afa fosse prepotente e fossero costretti a vestirsi sempre di meno, nessuno voleva arrendersi e lasciare il lavoro incompiuto, anche perchè la presenza dei Miyasama era utile a molte famiglie, giù da quella collina.
Rin decise di arrotolarsi un po’ il kimono sulle caviglie: si stavano gonfiando a causa del caldo, facendole soffrire molto i piedi quando doveva stare seduta.
Fece la stessa cosa alle maniche, lasciando le braccia esposte all’aria immobile e calda. Se non si era rivolta a Kaede per le nausee, i mal di testa e la stanchezza, era perché sapeva benissimo cosa li stava causando. E, si disse divertita, di certo non avrebbe avuto tutte quelle ammiratrici giù al fiume.
Era accaduto all’improvviso ma, stranamente, non se ne era affatto preoccupata. Aveva già fatto dei patti con sé stessa e questa volta non sarebbe scesa compromessi con nessuno, nemmeno con Sesshomaru. Nulla era più importante di ciò che era successo e ancora continuava a vivere ma, per qualche strana ragione, non era ancora riuscita a parlarne con lui. Forse temeva che la scaricasse definitivamente e voleva goderselo ancora un po’, ma ben presto non avrebbe più potuto aspettare.
Si distrasse osservando le nuvole in cielo. Sembravano fatte di schiuma marina, ma molto più leggere e morbide; Kagome le aveva spiegato che erano fatte di acqua, e forse questo aveva rubato loro molta della magia che vi aveva sempre attribuito. Insomma, quelle cose sospese in cielo non erano molto diverse da ciò che usava per pulirsi i vestiti o sopravvivere, che differenza faceva se si trovavano in cielo oppure dove metteva i piedi? Pensare a loro come macchie di liquidi non contribuì a farla sentire più rinfrescata, così decise di rientrare; nella casupola faceva più fresco, forse si sarebbe sentita meglio.
Stava per alzarsi quando, all’improvviso, sentì un forte spostamento d’aria che la rimise seduta dov’era, con forza. Rimase così sconvolta da non riuscire a spiccicare parola, mentre un ammasso di vapore bianco simile a quello condensato sopra alla sua testa faceva apparire le sagome di un ruminante e del suo originale cavaliere.
-Mastro Totosai! – esclamò, non appena identificò il vecchietto in groppa all’animale demoniaco. Nel cantiere erano tutti così presi dalle loro mansioni che non si erano nemmeno accorti di ciò che stava succedendo, e da un lato era un bene: Totosai e gli uomini, in genere, non andavano molto d’accordo.
L’anziano dagli occhi sporgenti la guardò, per poi metterla a fuoco come si deve. Si soffermò sul kimono arancione, sui capelli sciolti e, forse, anche sullo sguardo vispo, fino a raggiungere il lampo del riconoscimento.
-Oh, piccola Rin – rispose, come se fosse un saluto. Era indubbiamente strano e originale, però a lei era sempre piaciuto. Le ispirava quasi tenerezza quando non si ricordava le cose o tendeva ad essere in tutto e per tutto simile ad un innocuo vecchietto, essendo invece tutto il contrario. Era una persona che tendenzialmente si faceva gli affari propri, e per lui Rin sarebbe sempre stata una bambina.
-Buongiorno – rispose educatamente. –Cosa vi porta da queste parti?
Era da tutto il giorno che non aveva modo di vedere visi conosciuti, constatato che coloro che abitavano al villaggio con lei si trovavano dall’altro lato della piana per rimettere in sesto le stanze dedicate ai nobili. Stava diventando nuovamente una costruzione mastodontica, non c’era dubbio, però richiedeva immensi sforzi. Un’altra cosa da aggiungere alla lista di rimproveri da fare a Sesshomaru.
L’anziano signore si strinse nelle spalle magre. –Niente di che, cercavo Sango. Hai per caso idea di dove sia?
Rin sorrise. La donna si dava un gran daffare da un paio di mesi, usando tutte le armi che aveva a disposizione per scavare nel terreno o appoggiare le fondamenta su una porzione di terreno pulito, lavorando assieme al marito e ad altri uomini. Da quando aveva ripreso in mano il falcetto sembrava letteralmente rinata, usando quella vena feroce in modo costruttivo, in senso letterale. La sua fama di “madre guerriera” si era diffusa in fretta, e anche le sue figlie non facevano altro che tesserne le lodi, soprattutto Mirei. Condivideva con il genitore la passione per lo sforzo fisico e per l’arsenale da battaglia che lei teneva in casa, parlando con occhi sognanti della sua mamma “fortissima e imbattibile”.
-Certo. Si trova là dietro – indicò un punto oltre una palizzata. – Superata la prima capanna a destra, c’è un muro che sta per essere tirato su. Lei è l’unica donna, non dev’essere difficile vederla.
Totosai represse la sorpresa e si limitò a ringraziarla e a sbuffare per la lontananza, poiché lei lo aveva visto raramente scendere dalla sua cavalcatura, e difficilmente la mucca sarebbe passata attraverso quella strettoria.
-Senti, glielo potresti dare tu? Io devo tornare presto perché… - disse, poi si arrovellò non troppo discretamente su una scusa da darle, facendo ragionamenti ad alta voce senza rendersene conto.
Rin sorrise di nuovo, ridacchiando sotto ai baffi. Le dita adunche e rugose del vecchio tenevano una pergamena ingiallita, con un sigillo in cera molto semplice, con un ideogramma poco elaborato sul fronte. Il messaggio doveva essere di Kohaku, visto che ormai il demone si dedicava a fare da corriere ufficiale dei due fratelli.
Da quello che aveva sentito, il ragazzo era riuscito a mettere in piedi le radici per costruire un nuovo villaggio degi sterminatori sui monti a nord-est, risquotendo un certo successo. Aveva un seguito notevole, e sempre più ragazzi sembravano interessati a percorrere quella strada. Diverse volte ne aveva sentito parlare, con più o meno scetticismo, ma era sicura che l’impresa sarebbe andata a buon fine. Ricordava bene Kohaku, ed era un ragazzo in gamba.
-Sì sì, non preoccupatevi – disse paziente, e lasciò che le desse la lettera. Se la mise nella manica del kimono, decisa a non leggerla: erano missive molto personali, e a lei non era mai piaciuto ficcare il naso negli affari degli altri.
Salutò con la mano il vecchio quando lo vide sparire, e si lasciò avvolgere dal fumo bianco che accompagnava le sue entrate o uscite di scena; profumava di prato, ed erba appena tagliata. Sembrava quasi di trovarsi immersi in una gigantesca zolla di erba fresca, lontani dall’afa e dal calore soffocanti di una giornata qualunque di luglio.
Ma Rin fece in fretta a riprendersi, sapendo bene di avere un compito da svolgere. Lanciò un ultimo sguardo al cielo e si affrettò a raggiungere la donna, non senza pensare che, alla fin fine, era solo un po’ d’acqua a separarla dal suo amato Signor Sesshomaru.    

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Capitolo 40
*** Nostalgie Estive ***


Kagome, nonostante dovesse rientrare per non far preoccupare Inuyasha, decise di rimanere seduta sul porticato ancora un altro po’.
L’aria calda della sera stava soffiando fra i suoi capelli, accarezzandole le guance e facendola sentire bene, giovane e in forze. Era stata una meravigliosa giornata di sole, e se l’era goduta sotto l’ombra di un’imponente quercia nel fitto del bosco; era troppo caldo per anche solo pensare di fare una passeggiata in mezzo alla natura, e dopo qualche minuto la schiena avrebbe cominciato a dolerle.
Quasi senza pensarci, si passò una mano sul ventre, sentendo che si stava arrotondando sempre di più. Ogni volta che lo sentiva, veniva percorsa da un fremito d’emozione: stava portando in grembo uan vita, una creatura vivente! Magari nel giro di un anno o poco più avrebbe avuto un piccolo Inuyasha che trotterellava per casa, che la chiamava mamma, che piangeva se si faceva male e che aveva bisogno d’affetto se la notte faceva un brutto sogno.
Era stata una benedizione accaduta all’improvviso, poco dopo la scoperta fatta da Kaede. Kagome pensava che, forse, il figlio fosse stato concepito prima, ma decise di non esprimere l’ovvio a parole, per non sembrare troppo sfacciata. Era voluta essere sicura al cento per cento prima di dirlo a qualcuno, e si era ovviamente rivolta a Sango per prima.
Avendo affrontato già due gravidanze, forse sapeva riconoscerne i segni, e avevano passato un pomeriggio intero a discutere e a parlarne. Le sembrava prematuro, infatti, rivolgersi subito all’anziana sacerdotessa, e Rin, come avrebbe spiegato in seguito con una buona dose di mortificazione, non era qualificata per quel genere di visite.
Tuttavia, più i giorni passavano più si radicava in lei la certezza di essere incinta. Erano piccoli episodi a confermare e rafforzare la sua tesi, partendo dal cibo fino ad arrivare a dei leggeri mal di testa, per passare a nausee e irritabilità, soprattutto al mattino.
Alla fine aveva ceduto, presentandosi da Kaede. La donna non aveva fatto storie, anzi, si era addirittura a ridere, cosa che accadeva molto di rado, e aveva confessato di essere molto felice per lei. Inuyasha era stato solo per tantissimo tempo, prima di trovare Kikyo, e una volta l’anziana signora aveva sentito una loro conversazione sul desiderio di avere bambini.
La sacerdotessa, ovvero sua sorella maggiore, non era stata d’accordo, e lui aveva ceduto, per amor suo. Così aveva abbandonato l’idea, tutto pur di starle accanto, però alla fine Naraku si era messo in mezzo e la cosa era stata dimenticata. Ma non da lui.
Kagome spesso si chiedeva come reagisse la donna davanti all’amore che la legava al suo mezzo-demone centenario. Nei primi tempi, aveva addirittura pensato che la guardasse male a causa di questo suo piombare all’improvviso, ma aveva ben presto capito che non era così: Kikyo era ormai morta, ed era forse l’unica persona che vi si era rassegnata dall’inizio. Era stata la prima a cominciare a guardare il lutto con occhi giusti, sapendone riconoscere la gravità e la realtà. Inuyasha faceva parte di un passato che non avrebbe mai immaginato potesse diventare un presente, ed era felice che riuscisse finalmente a farsi una famiglia.
Kaede sapeva bene quanto questo gli stesse a cuore, e si era anche affezionata alla ragazza venuta dal futuro, in un momento critico per la storia medievale.
Quand’era uscita dalla capanna con il responso, sola, si era sentita colmata da una grande responsabilità. Non aveva mai sperimentato in prima persona cosa significasse veramente custodire una vita dentro di sé, avere un bambino nel proprio corpo. Da quando era stata ordinata sacerdotessa, poi, si era rassegnata a non sperimentarlo mai; vedere le altre donne partorire, assisterle durante tutto lo sviluppo del feto, guardarle con gli occhi di una guaritrice sarebbero stati gli unici momenti in cui avrebbe potuto farsi un’idea di cosa volesse dire.
Invece, capendo che quel peso minuscolo che sentiva nel ventre era in realtà un esserino vero e proprio, aveva potuto facilmente farsi prendere da un panico emozionato. Una certa frenesia l’aveva fatta sorridere dall’eccitazione, e il peso dei suoi nuovi doveri l’aveva subito portata alla realtà.
Da quel momento doveva prendersi la responsabilità di proteggere il suo bambino dalle insidie del mondo circostante, e sarebbero state molte. Era pur sempre il figlio di un demone e di una sacerdotessa, non di certo una personalità che passa inosservata. Sicuramente, pensava, troverà un cammino difficile di fronte a sé, ma avrebbe fatto di tutto per garantirgli la felicità che meritava, come tutti.
Aveva aspettato un po’ a dirlo Inuyasha, forse cercando le parole giuste. Stava per diventare padre, ma non aveva assolutamente idea di come renderlo partecipe di quella gioia senza fargli fare un infarto; sapeva bene quanto il giovane desiderasse, nel suo intimo, diventare papà, e aveva quasi il timore che una cosa del genere avrebbe potuto ucciderlo definitavamente.
Alla fine aveva optato per dirglielo delicatamente, ma con tutti i giri di parole che aveva usato lui non ci stava capendo più nulla. Stanca di girare continuamente intorno alla cosa, gli aveva preso il viso fra le mani e, in un soffio, aveva confidato le parole più importanti dell’universo. –Stiamo per diventare genitori.
Non avrebbe mai saputo spiegare cosa accadde in quel momento in lui: forse sconcerto, perché difficilmente se lo sarebbe aspettato; magari paura, non sentirsi all’altezza e il timore di rovinare tutto quanto; sicuramente gioia, dal momento che era la notizia che più desiderava ricevere al mondo.
Molto probabilmente, se lei non l’avesse baciato, sarebbe rimasto paralizzato per tutto il resto della serata, con gli occhi colmi di luce. Dietro l’iride, infatti, sembrava fosse divampato un fuoco di felicità per la consapevolezza di star per diventare padre, di poter finalmente costruire una famiglia con lei.
Sarebbero stati dei genitori fantastici, era questo che gli aveva ripetuto per tutta la notte; erano rimasti abbracciati stretti, come a voler confermare l’uno la presenza dell’altra, e ogni tanto lui le accarezzava timidamente la pancia ancora piatta, forse stentando a credere che dentro vi fosse un bambino. L’aveva ascoltata per ore quando si era messa a parlare di un sacco di fatti riguardanti lo sviluppo della vita nel grembo materno, e si era dimostrato più che mai curioso.
Anche se credeva che non se fosse accorta, Kagome aveva notato benissimo una sola lacrima scendergli lungo la guancia, mentre stava a sentire, ed era per quello che aveva cominciato ad accarezzargli la testa, passando le dita sulle orecchie proprio come piaceva a lui, fino a quando non si era addormentato.
Per certi versi, era come fare da madre anche a lui. Forse si sarebbe sentito orgoglioso di sé stesso, visto che un padre non l’aveva mai avuto, e l’avrebbe accompagnata per sempre con la massima dedizione per essere all’altezza del suo ruolo. Kagome non avrebbe mai permesso, però, che lui rinunciasse al suo spirito guerriero, perché era quello a mantenerlo vivo: se l’avesse privato della sua voglia di combattere, di fronteggiarsi contro diversi avversari, l’avrebbe incatenato ad una vita che avrebbe perso un minimo del suo sapore.
L’unica cosa che voleva era che Inuyasha fosse felice, poco contava tutto il resto. Desiderava più di ogni altra cosa al mondo che si sentisse fiero accanto al proprio figlio, e che lui ( o lei) ricambiasse con un’ammirazione sconfinata per il padre. Le piaceva l’idea che lui potesse diventare un eroe, una figura di riferimento.
Inoltre, quando in villaggio si era sparsa la voce della sua dolce attesa, e non sapeva ancora adesso chi ne fosse stato il responsabile, era stata sommersa dai complimenti e dalle congratulazioni come se fosse esattamente come tutte le ragazze appena sposate che rimangono incinte. Tutte coloro che aveva aiutato con i mal di testa, i raffreddori, le febbri, i reumatismi, ora sfilavano davanti a casa sua a portare chi la medicina contro il malessere mattutino tramandato di generazione in generazione, chi i propri auguri e qualche consiglio.
La cosa, doveva ammetterlo, l’aveva sorpresa non poco, e anche Inuyasha era rimasto stordito da quel via vai di gente in casa ma, vedendendo che i contadini le erano riconoscenti per tutto il bene che aveva fatto loro, si era rilassato e aveva preferito vegliarla da lontano, per rimanere il meno coinvolto possibile in quei salamelecchi.
Così, grazie alla veglia continua degli abitanti del villaggio e di Inuyasha, Kagome poteva dire di sentirsi più che protetta, in qualsiasi momento. Camminare per strada era diventata una sfilata continua, così come andare a trovare Sango o Rin si era tramutato nell’uscita di una celebrità. Con l’andare del tempo questa tenaglia di preoccupazione e curiosità nei suoi confronti si era un po’ attenuata, permettendole di continuare a svolgere serenamente i suoi compiti, ma Inuyasha non vedeva di buon occhio il fatto che continuasse a spostarsi fra le capanne per assistere i malati.
-Non dovresti sforzarti, nelle tue condizioni – diceva, cocciuto, facendo di tutto per evitare la parola “incinta”. Sembrava che quelle sillabe messe assieme lo imbarazzassero a tal punto da non riuscire a pronunciarle, forse collegandole con ciò che aveva permesso il concepimento possibile.
In un gesto protettivo continuò ad accarezzarsi il ventre, passando piano i polpastrelli sulla stoffa fino a scaldarsi. Fra un po’ di tempo sarebbero stati cinque mesi di gravidanza, il che significava che il parto si stava avvicinando.
La cosa la spaventava, se doveva essere onesta. Naturalmente non poteva farne parola con Inuyasha, il quale sarebbe diventato bianco come un lenzuolo e sarebbe caduto nella disperazione più totale, però doveva ammettere che dopo aver visto così tante ragazze patire le pene dell’inferno non si aspettava di certo una cosa indolore. Il pensiero che avrebbe però potuto vedere il faccino di suo figlio le infondeva un minimo di coraggio, se non altro, e cercava di farsi forza con questa consapevolezza.
Sempre più spesso, infatti, aveva cominciato a chiedersi se la scoperta di Geta facesse differenze anche riguardo al parto, ma pensava di no. In fondo, irrobustire l’energia vitale non comportava per forza una maggiore resistenza al dolore, e non conosceva nessuno in grado di districare la matassa dei suoi dubbi; scrivere qualcosa in proposito sarebbe stato proibito, tramandarlo oralmente impossibile e nella storia non era mai più stata documentata l’unione fra un mezzo-demone e una sacerdotessa, perché era un fatto così fuori dall’ordinario che nessuno aveva nemmeno mai concepito un’eventualità simile.
Doveva però ammettere che aveva cominciato a sentirsi più in forze sin da subito, e non era solo una sua impressione. Sango, un giorno, le aveva detto che la sua pelle sembrava splendere, e gli occhi erano molto più profondi ed espressivi del solito; quella dichiarazione da parte dell’amica era stata fatta prima che avesse la conferma definitiva della sua gravidanza. Guardandosi allo specchio doveva ammettere che era vero: sembrava quasi ringiovanita, nonostante avesse a malapena vent’anni.
Sicuramente la leggenda che l’aveva spinta a gettarsi nel vuoto aveva un valido fondamento e, anche se la prospettiva di una vita lunghissima la spaventava, poteva dirsi soddisfatta, in quanto avrebbe vissuto con la sua famiglia fino alla fine.
Già, la famiglia…lei ne aveva avuto un’altra, prima di Inuyasha, prima che l’epoca Sengoku cominciasse a bussare alla porta di casa. Aveva avuto un nonno, anziano e testardo figlio delle tradizioni, un fratellino di nome Sota e una madre dolcissima, serena, capace di smorzare la tensione in qualsiasi momento. Nonostante la vita le avesse riservato tante gioie quanti dolori, lei non si lasciava mai sopraffare; aveva sempre una parola gentile per tutti, sapeva occuparsi della casa e dei bambini in maniera ammirevole.
Kagome l’aveva sempre ammirata moltissimo, perché al suo posto non credeva che avrebbe saputo essere altrettanto forte. Forse sarebbe crollata, invece che dare il giusto sostegno ai propri figli, e in cuor suo si augurava di saper essere una madre brava quanto lei.
Sicuramente, pensò osservando il tramonto fuori da casa sua, sarebbe stata una nonna splendida. Chissà come avrebbe reagito di fronte al primo nipotino…lei, Kagome, sua figlia maggiore che si sposava e rimaneva incinta! Non avrebbe nemmeno potuto immaginare quanto felice avrebbe potuto essere, e invece era destinata a non saperlo mai.
In fondo, quando Kagome era partita, nei suoi occhi si vedeva che aveva capito. Il tempo di un abbraccio ed era già stata consapevole che sua figlia non sarebbe mai più tornata nel presente, per seguire l’amore della sua vita.
Una volta le aveva detto delle parole che l’avevano fatta riflettere: “Una mamma sa molte cose, Kagome…le sente, dentro al suo cuore, e farà di tutto per cercare di non ascoltarle, se darvi voce farà soffrire i propri figli”. Ed era stato proprio ciò che aveva fatto; aveva represso le lacrime e l’aveva lasciata andare verso l’ignoto, in un posto che non conosceva e non avrebbe mai visto in tutta la sua vita.
Si era fidata della figlia, e lei aveva accolto il permesso della madre. Anche se tutta la sua famiglia le mancava moltissimo, ormai aveva capito che era meglio vivere con il loro ricordo nel cuore, senza rimpianti. Il bambino che portava in grembo, infatti, era un chiaro simbolo dello scorrere della vita, senza che lei potesse fare nulla per fermarla. Kagome aveva scelto di proseguire il cammino, e così avrebbe fatto, anche per sua madre, per farle capire che era stata la scelta giusta.
Decise, osservando il sole farsi di un colore sempre più intenso, che avrebbe parlato a suo figlio di che nonna straordinaria aveva avuto, senza però fargli conoscere l’epoca che sarebbe seguita dopo cinquecento anni. Se sua madre, il nonno e Sota non fossero mai esistiti, infatti, avrebbe potuto tranquillamente dire di non avere nessun legame con il futuro. Erano le persone che lo popolavano ad essere speciali, non l’età fine a sé stessa: inquinamento, calpestamento dei valori morali, difficoltà, artificialità…preferiva di gran lunga l’epoca Sengoku, perché sentiva di appartenervi.
Il cobalto scuro che prima stava attendendo in cima alle punte degli alberi cominciò a calare, come un sipario. L’aria si raffreddò impercettibilmente, ma l’atmosfera estiva non venne smorzata nemmeno di un millimetro. Le stagioni, nel medioevo giapponese, avevano manifestazioni così limpide da farla sentire subito meglio, facendole apparire il cielo del suo mondo sporco e opprimente.
Con un discreto fruscio, sentì uno scialle scivolare sulle sue spalle, placando immediatamente dei brividi impercettibili che avevano rischiato di farla starnutire. Sorrise automaticamente: era proprio da lui apparire in quel modo furtivo con una carineria appena accennata.
Posò i polpastrelli sulla stoffa morbida drappeggiatalecon discrezione, e subitò incontrò la sua mano. Era grande, liscia e virile, con le lunghe dita affusolate e gli artigli che potevano anche essere letali. Sapeva per certo che li avrebbe usati solo per difenderla, lei e il suo bambino, da qualsiasi insidia.
Con il pollice, le accarezzò piano il dorso, con un movimento leggero e circolare che la faceva impazzire.
-Dov’eri? – gli chiese, divertita. La signora che abitava lì vicino era appena uscita dopo un pomeriggio di chiacchierate, impedendo ad Inuyasha di entrare per tutto il giorno.
Lo sentì sbuffare. –Giù, ai campi. Delle ragazzine avevano bisogno di aiuto.
Kagome drizzò le orecchie, mentre lui le si sedeva dietro e le cingeva la vita con un braccio, appoggiando il mento sulla sua spalla. Era la posizione che più amava al mondo, perché così poteva sentirlo del tutto vicino a sé, senza che nessuna parte di loro fosse separata dalle altre, in un appoggio completo.
-Che ragazzine? – domandò, con aria indagatrice. Era già da diverso tempo che aveva notato delle attenzioni non troppo innocenti di un gruppetto di persone nei confronti del suo Inuyasha, e  la cosa non le piaceva affatto. Era bello, era giovane, era aitante, ma nessuno lo conosceva per quello che era davvero, e cioè un ragazzo sensibile e di buon cuore, per questo trovava che quei commenti e quelle risatine fossero solo frutto di un’occhiata superficiale che gli toglieva tutti i meriti.
E poi sì, era anche molto gelosa.
Lui le lanciò un’occhiata strana, prima di stringere gli occhi a fessura. –Andiamo, Kagome, non sarai mica gelosa!
Lei voltò il capo verso il tramonto, che stava per finire. –Certo che lo sono – ribatté. Quelle ochette le stavano dando davvero sui nervi.
-Non avranno avuto più di dieci anni – sbuffò, fissando lo stesso punto che stava guardando lei, - e una era caduta in una pozzanghera. Contenta?
Il sollievo le dilagò improvvisamente nel petto. All’inizio del racconto aveva pensato che si trattasse delle sedicenni del paese, che facevano di tutto per attirare la sua attenzione e arrossivano al minimo sguardo, quando invece si trattava solo di un innocente disguido fra bambini, il che non aveva il minimo sottinteso. Per un attimo aveva temuto che quell’incidente nei campi fosse stato orchestrato apposta per farlo intervenire, ma si rasserenò immediatamente scoprendo la verità.
-Moltissimo – cinguettò, stampandogli un piccolo bacio sulla guancia fredda.
Lui borbottò qualcosa che non riuscì a capire e le strofinò lo zigomo sulla spalla, come per farle capire che se l’era presa. Ovviamente entrambi sapevano che non era così, e rimasero a guardare fino a quando non calarono le tenebre, avvolgendoli con il loro abbraccio rassicurante.
-Che ne dici di rientrare? – disse piano Inuyasha. Si preoccupava così tanto per lei che aveva timore di farle prendere freddo in  pieno luglio. Lei amava quelle sue attenzioni, ma fu così tenero che non poté impedirsi una risatina.
-Sono incinta, mica in fin di vita, sai? – disse divertita, voltando appena la testa verso di lui. Il ragazzo ricambiò lo sguardo arrossendo, ma non riuscendo a dire nulla in cambio.
Alla fine, Kagome cedette. Gli prese la mano posata sul ventre fra le proprie e si fece aiutare ad alzarsi. –Dai, andiamo dentro, ho una fame da lupi.
Lui si fece condurre all’interno docilmente, come un cagnolino. La donna aprì la porta e lui, senza fare storie, aspettò che fosse entrata prima di seguirla nell’ingresso. –Ma…Kagome, non è meglio se non cucini?
La risata della ragazza riempì l’aria: fece schioccare un bacio sulle sue labbra, alzò gli occhi al cielo e lo attirò all’interno. –Adesso vediamo di non esagerare, eh? – gli disse, sorridente.
Si richiusero la porta alle spalle.
Miroku, avendo assistito alla scena mentre stava per raggiungere la casa, rimase interdetto. Sango gli aveva chiesto se poteva portare alla sacerdotessa dei vestiti più larghi, in modo da non trovarsi impreparata quando ce ne sarebbe stato bisogno, ma non appena vide le luci spegnersi capì che non era decisamente il momento di disturbarli.
“E bravo il nostro Inuyasha!”, pensò sorridendo. Poi si voltò e, fischiettando, tornò sui propri passi.  

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Capitolo 41
*** Amici ***


Inuyasha, seduto sulle fronde più alte del suo albero, faceva ciondolare un piede in avanti cercando di mantenersi in equilibrio.
Come se fosse una dote naturale, era assolutamente incapace di cadere da quelle altezze, e stava steso in modo tanto ridicolo solo per aveva un’ulteriore conferma di questa sua capacità. Se non era Kagome ad intervenire con i suoi comandi crudeli, poteva stare in bilico anche su un fuscello, riuscendo persino a distendervisi e dormirci sopra per tutta la notte.
Il sole stava sorgendo, alzandosi pigramente dall’orizzonte. Nonostante la notte avesse portato un po’ di frescura, quella pigra apparizione spazzò via tutto, di nuovo. Faceva un caldo soffocante, che faceva appiccicare i capelli umani alle tempie e li faceva crollare, accaldati, sulle proprie zappe. Più di un contadino aveva ceduto con uno svenimento, e al castello Miyasama Rin riferiva che i feriti rischiavano di patire un’ennesima suppurazione.
Quella ragazza era davvero stranissima: prima si faceva salvare con un arrivo degno del miglior stratega militare, e poi andava nel posto per prestare soccorso. Il ragazzo stentava a capirla, ma dopo qualche stranezza aveva rinunciato; già il fatto che andasse d’accordo con Sesshomaru parlava per lei, senza dover aggiungere dettagli.
Il cielo si tinse di una strana colorazione, che lui attendeva per tutta la notte. Più volte si era chiesto se fosse possibile riprodurla su carta, visto la singolare gradazione di arancione: era un colore annacquato, molto leggero, come una pennellata esitante. Il giallo si fondeva con l’azzurro e il rosso, dando vita ad un rosa pallidissimo, che sfociava presto nel colore del sole al tramonto. Sembrava fosse ricoperto da una patina di pioggia, destinato a scomparire nel giro di un secondo, tanto che ogni volta credeva di esserselo immaginato. Era un lampo, un momento, un attimo da cogliere; e i suoi occhi ci riuscivano sempre.
Perché la sua vista non poteva fallire, nemmeno una volta. Quando Kagome gli aveva parlato di una cosa che aveva una strana sigla, lui si era perso dopo pochi secondi. Non poteva credere che i suoi muscoli e il suo sangue fossero riempiti di quella roba, perché nemmeno quando si era ferito così tanto da far uscire le ossa allo scoperto aveva mai visto una cosa simile; lui credeva che ciò fosse merito di suo padre, sia il poter stare in equilibrio in qualunque momento che il poter analizzare i colori dell’alba.
Il Grande Demone Cane che aveva permesso la sua nascita era stata una creatura senza eguali, neppure duecento anni dopo la sua morte. Delle volte si chiedeva se si fosse mai seduto ad ammirare il sole spuntare dalla terra, o fosse stato troppo impegnato per prendersi cura delle piccole cose.
Da quando Kagome aveva fatto la grande e scioccante rivelazione, si era ritrovato a pensare spesso a suo padre. Il problema fondamentale, per lui, non solo era non averlo mai visto, ma neppure riuscire a considerarlo come proprio genitore.
Con Izayoi non aveva mai fatto fatica; gli era stata vicino fino a quando aveva potuto, l’aveva amato moltissimo e si era presa cura di lui, appassendo come un fiore. Era stata una morte ingiusta, la sua, e ancora tutte le cose da dirle rimanevano incatenate sulla sua bocca, senza poter essere espresse.
Ma suo padre, - suo padre! – rimaneva un mistero irrisolvibile. Era morto ancora molto giovane, considerati gli anni che avrebbe potuto vivere, combattendo l’ultima, onorevole battaglia. Spesso sua madre si era ritrovata a narrargli di come si fosse strenuamente battuto per ristabile l’onore da lei perduto, di come l’avesse salvata dalla morte, e Inuyasha stava ad ascoltare, rapito dalla sua voce bellissima.
Tuttavia il pensiero che fosse solo una figura incosistente, effimera, non spariva dalla sua testa. Non aveva neppure mai visto il suo aspetto, solamente un dipinto. C’era un viso macchiato da voglie scure ed eleganti dallo sguardo fiero, circondato da lunghissimi capelli argentei molto più scuri dei suoi e un paio di occhi gialli profondissimi, e quell’immagine si sovrapponeva ad un immenso animale bianco, con gli stessi segni sulla pelliccia.
Erano tutti ritratti fatti da sua madre, ma le sue mani sottili avevano presto smesso di impugnare il pennello; era troppo doloroso, così gli disse. Quand’era un bambino non aveva potuto capire, ma presto aveva imparato cosa volesse dire soffrire per amore.
Anche in quell’istante, mentre osservava lo spazio sopra alla sua testa diventare di un azzurro limpidissimo, si ritrovava a riflettere su com’era ingiusto crescere senza un padre. I bambini al villaggio, per esempio, trattavano i loro genitori da eroi per il semplice fatto di aver impugnato un aratro, e il suo aveva conquistato l’intero Giappone! Da quel che aveva capito non era un tipo a cui piacevano le gratificazioni, ma non avrebbe mai saputo esprimere a parole quanto gli sarebbe piaciuto dirgli quanto fosse fiero di avere un padre tanto forte, tanto potente.
Fu per questo che, nell’istante stesso in cui Kagome gli diede la meravigliosa notizia, promise a sé stesso che sarebbe stato sempre presente. Avrebbe insegnato tutto quello che sapeva a suo figlio, e avrebbe imparato cose nuove pur di fargli da mentore, fino a quando non sarebbe stato in grado di infondere sapere in un’altra creatura. Lo avrebbe guidato nella sua crescita come nessuno aveva fatto con lui, perché non voleva che il bambino proprio e di Kagome dovesse conoscere il peso della solitudine.
La cosa lo terrorizzava a morte, ovviamente. Aveva vissuto solo per così tanto tempo che, ormai, prendersi cura delle altre persone era diventato un concetto quasi astratto. Con Kagome non aveva nemmeno dovuto rinunciare alle proprie abitudini, ma pensava che un figlio potesse portare così tante rivoluzioni da renderlo un perfetto idiota, cosa che non aveva fatto che accentuarsi quando aveva saputo che il fratellastro era venuto a conoscenza della cosa, ma non aveva espresso commenti in merito.
Non voleva essere troppo pressante nei confronti del bambino, ma neppure disinteressato, e non avrebbe saputo come comportarsi se avesse pianto o si fosse fatto male. Ricordava che, quand’era piccolo e aveva appena imparato a cacciare, gli erano scivolate le unghie sul polpaccio, imprimendo un solco molto profondo.
Non aveva avuto bisogno di ricucirsi, per fortuna, visto che in poche ore aveva potuto dirsi guarito, però con l’odore del proprio sangue aveva rischiato di richiamare diversi demoni o altri predatori, rendendosi un facile bersaglio.
Il punto era che non sapeva che percentuale demoniaca avrebbe vissuto nel futuro bambino; di sicuro meno della sua e di certo anche in confronto a Sesshomaru, ma questo costituiva un ostacolo nella strada educativa che gli avrebbe fatto percorrere. Se fosse stato troppo duro con lui, o lei? Se avesse misurato male le sue capacità? Non avrebbe mai potuto convivere con la consapevolezza di aver fatto del male al proprio figlio.
Per lui era una persona quasi sacra; insomma, era anche a causa sua se adesso riposava nel ventre di Kagome, era stato anche merito suo se un giorno avrebbe calcato quel suolo. Non aveva saputo esprimere a parole cosa aveva provato quando lei l’aveva reso partecipe, ma era letteralmente caduto dalle nuvole: non aveva collegato a quell’evento il nuovo odore che aveva avvolto Kagome da lì a diverso tempo, e adesso starle accanto aveva un sapore totalmente diverso.
Le pareva fatta di vetro, splendida e solare come al solito, ma fragile. Continuare a svolgere le sue mansioni come se nulla fosse lo faceva preoccupare, ma lei sembrava stare bene e, visto che stava vivendo la cosa in prima persona, si costringeva a fidarsi. Tuttavia la preoccupazione aveva sempre la meglio, e ogni azione compiuta era vista come un pericolo mortale per lei e il bambino.
Erano fissazioni stupide, ma non era il solo a dover sopportare l’emozione per il lieto evento; si chiedeva che faccia avrebbe avuto, come sarebbe stata la sua voce, come sarebbe stato il suo carattere e tutte cose di quel genere. Forse stare in mezzo alle donne l’aveva contagiato, ma non poteva fare a meno di cercare di captare il suono del suo cuoricino nel silenzio della notte, quando Kagome gli si addormentava al fianco.
Da quando erano andati a dormire sotto lo stesso tetto passare le notti disteso aveva smesso di dargli fastidio, anche se ogni tanto evadeva per appoggiarsi contro la dura corteccia. Anche se la cosa gli mancava sempre meno si manteneva in allenamento per ogni evenienza, tornando sempre in tempo per assistere al suo risveglio. Era bellissimo vederla riemergere dal sonno.
Delle volte correva dei rischi reali alla sua incolumità, soprattutto se si faceva sentire quando sgattaiolava dalla finestra. Era ancora prestissimo e, nel giro di un paio di minuti, Kagome si era svegliata, l’aveva accusato di andare a tradirla con la sua nuova amante, si era messa a piangere sostenendo che in fondo era colpa sua e alla fine era scoppiata a ridere perché “quella povera illusa non riesce a trovare niente di meglio che il marito di una sacerdotessa incinta?”. Alla fine si era riaddormentata, ma lui era dovuto re-infilarsi nel letto e stare attento al minimo movimento. Quando era sorto il sole si era comportata normalmente, come se nulla fosse successo, e lui non aveva avuto il coraggio di dirle nulla.
Per questo cercava di farsi trovare sempre lì, in tempo, e ultimamente usciva sempre più di rado. Tuttavia nella notte aveva avuto la voglia di vedere il colore dell’alba, sapendo calcolare con precisione millimetrica quando si sarebbe ripresentato nella volta in risveglio. Non era stato deluso; si sollevò dal ramo, scese con un balzo e andò verso la capanna, passando per lo spiraglio che aveva lasciato prima di uscire.
-Hey! Psst! Inuyasha, e che diamine, vieni qui! – sussurrò una voce. Il ragazzo si guardò intorno, ma non vide nessuno. Mise tutti i propri sensi all’erta, ma non trovò niente che fosse fuori posto; forse, stando troppo tempo assorto nei propri pensieri, aveva cominciato ad immaginarsi anche dei richiami.
Kagome aveva ragione, un ennesima volta: non bisognava mai esagerare nelle cose, mai. Poggiò di nuovo il piede sul cornicione in legno, pronto a spiccare il salto, ma la voce comparve di nuovo, sempre più infervorata.
Voltandosi per assicurarsi di non essersi immaginato tutto, notò sul limitare della piana un viso spuntare dai cespugli. Aguzzando la vista si accorse che era Miroku: si diede dello stupido per non averne sentito l’odore, ma il caldo aveva inebetito parecchio i suoi sensi.
Guadò prima la finestra e poi il compagno di viaggi; non gli piaceva l’idea di lasciare Kagome da sola, ma forse l’uomo aveva bisogno d’aiuto con un nuovo esorcismo, e sapeva di doverlo aiutare nei suoi lavori. Ovviamente non sarebbe mai partito senza avvisarla, ma  prima voleva sapere cosa vi fosse di tanto urgente.
-Beh? – chiese avvicinandosi a lui. Stava nascosto dietro ad una siepe di un verde scuro particolarmente intenso, reggendo trionfalmente il bastone dorato fra le mani.
-Buongiorno anche a te, Inuyasha, sto benissimo, grazie per avermelo chiesto. Sole splendido, non trovi? – commentò Miroku, con il suo solito tono che gli faceva saltare i nervi.
-Smettila di fare l’idiota, bonzo – sbottò, infastidito. –Se non c’è niente di importante, io torno dentro.
Fece per voltarsi di nuovo, ma le parole successive del monaco lo trattennero.
-Aspetta, aspetta, avevo avvisato Kagome che avresti fatto un po’ tardi stamattina – spiegò, inciampando nelle parole per farcele stare tutte nell’arco di un solo minuto. Il mezzo-demone tornò a scrutarlo in viso, sospettoso.
-Di cosa si tratta? – chiese burbero. Non voleva passare nemmeno un minuto di più se non era necessario, anche perché lo preoccupava l’idea che Kagome avesse bisogno d’aiuto e lui non fosse lì per offrirglielo. Certo, era ancora presto, ma non si poteva mai sapere; non aveva una grande esperienza di dolci attese, a differenza dell’uomo lì di fronte.
Ci fu un tentennamento minimo nella sua voce, segno che sapeva quanto difficile sarebbe stato farlo accettare. –Dovresti seguirmi un attimo a casa mia.
-Cosa? – esclamò Inuyasha. –Non se ne parla, Miroku.
Stavolta il compagno fu costretto a trattenerlo per una manica, stringendo verso di sé per evitare che se ne andasse prima di aver ascolato la proposta. –Devo darti dei vestiti per Kagome, quando non entrerà più nei suoi. Erano di Sango…
Questo lo bloccò. Ovviamente aveva pensato che ce ne sarebbe stato bisogno, però aveva stupidamente immaginato che le donne avessero una qualche tattica per rendere i vestiti più confortevoli, o altre cose del genere. Si rese conto di essere stato un illuso, fin troppo lampante e, per una volta, l’altro sembrava serio.
-D’accordo. – cedette. –Ma facciamo presto!
Miroku sapeva che avrebbe accettato solo alle condizioni dettate da lui stesso, ma era pur sempre una vittoria. Mentre camminavano verso la capanna dal tetto fumante non dissero una parola, non ce n’era bisogno. L’uomo fece scorrere i pannelli di legno all’ingresso e lo fece entrare: Sango era seduta per terra, mentre stava sistemando dei panni candidi appena lavati.
-Buongiorno, Inuyasha – disse, appena lo vide. Lui rispose con un grugnito, come suo solito. Le due bambine stavano correndo attorno alla stanza, allegre, e non appena lo videro corsero incontro a lui, cercando di toccargli le orecchie; fu per questo che evitò di sedersi per terra, restando in piedi al centro della stanza.
Presto, Miroku e Sango convinsero le gemelle ad andare a giocare in giardino, e lasciarono che il silenzio riempisse di nuovo la casa. Lo invitarono a sedersi un attimo su una stuoia con la scusa di offrirgli un thé e, quando si fu accomodato fra sbuffi contrariati e qualche imprecazione a mezza voce, gli si misero intorno con aria poco rassicurate.
Sango tirò fuori da un armadio un fagotto si stoffa, mentre Inuyasha si ritraeva, piano piano, verso il lato della stanza dove poteva scappare in caso di bisogno.
-E ora – esordì Miroku, con un sorriso inquietante, -abbiamo una sorpresa per te, Inuyasha.
Detto questo, la moglie si avvicinò ridendo con l’involucro di fibre in mano, porgendoglielo. Quando lo prese, il mezzo demone ebbe la certezza che il ritardo si sarebbe allungato di molto, moltissimo tempo.
E che i coniugi avevano già iniziato a divertirsi alle sue spalle. 

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Capitolo 42
*** Tecniche umane ***


Sesshomaru stava immobile, senza riuscire a dir nulla.
Sembrava che tutte le parole da dire, quelle adatte per consolare o rassicurare o esprimere felicità, fossero volate altrove. Non era mai stato un tipo loquace ma, in quel preciso istante, la voglia di serrare la bocca per sempre senza mai più scoprire le zanne per dire qualcosa si fece quasi violenta.
Era stato un duro colpo per il suo spirito, doveva ammetterlo. Si sentiva completamente in subbuglio, come se fosse una pentola pronta ad esplodere, e il suo contenuto era un acido particolarmente letale. C’era rabbia, in superficie, ma non era di certo rivolta a lei, a Rin, alla sua meravigliosa e splendida donna umana.
Era tutta colpa sua, era questo che pensava. Per la prima volta il suo orgoglio lo feriva senza bisogno di aiuti esterni, ma solo con una pura e semplice presa di conscienza. Ci aveva pensato molto, in quei giorni, ma non aveva preso soluzioni, non aveva nemmeno provato a risolvere la cosa e a dare una svolta a quella storia. Non si riconosceva, non era da lui stare con le mani in mano e rimuginare e basta sui problemi, senza cambiare niente.
All’inizio, certo, era stato fuoribondo anche con lei, ma aveva scoperto che non aveva senso. Era conscio che la sua responsabilità era pari esattamente a quella di lui, senza che uno dei due fosse maggiormente colpevole oppure no. Ovviamente il fatto che lei non fosse minimamente preoccupata o scontenta dalla cosa lo aveva fatto innervosire, però non aveva assolutamente senso prendersela per quello che sapeva fosse da sempre nei suoi desideri, perché non aveva mai visto una Rin che disprezzasse la famiglia e che, a differenza di lui, la rinnegasse. Più volte aveva guardato con occhi tristi la luna, magari chiedendosi perché quel viso indifferente non voleva restituirle i genitori.
Quindi, fra i due, il problema era solo il fiero e indomabile Sesshomaru. Ritornare da una guerra e ricevere notizie del genere minacciava davvero di sconvolgere irrimediabilmente la sua sanità mentale; il pensiero di essere la causa di ogni sua sventura, infatti, lo stava corrodendo, ed era la sconfitta più bruciante che qualcuno potesse infliggergli. Nella sua lunga vita aveva avuto modo di confrontarsi con migliaia di avversari, ma la sfida più ostica, da cui non aveva tratto alcuna vittoria, era stata proprio quella contro sé stesso, contro i sentimenti che credeva di aver obliato per sempre.
Eppure doveva, era obbligato a crederci. Sapeva dove si annidava il suo più grande errore, ovvero l’aver sottovalutato in maniera imperdonabile una maledizione. Era stato un processo innescato forse anche prima di suo padre, ovvero cadere senza rimpianti nella tela di una bellissima donna umana, e passare il resto della propria vita con lei o con il suo ricordo. Un’antica leggenda tramandava che tale peso sul loro casato fosse stato imposto da un nemico particolarmente coriaceo, in punto di morte: avrebbe donato felicità, certo, ma anche isolamento e un enorme dolore una volta che la fanciulla in questione sarebbe rimasta uccisa dalla vecchiaia.
Cos’era Rin, se non un petalo aggraziato mosso dal vento? Stavano attraversando la primavera ma, prima che potesse accorgersene, le fredde folate invernali avrebbero reciso lo stelo delicato trascinandola via, nella corrente. Nessuno sapeva come conservare un fiore intatto per centinaia di anni senza fargli perdere la propria bellezza, lui incluso; il pensiero, in quel momento, gli risultò doppiamente angosciante del solito, nonostante si fosse posto migliaia di volte quegli stessi interrogativi.
Aveva ammonito sé stesso, quando quella storia era iniziata. “Non lasciarti trasportare, mantieni te stesso”, si era detto, ma ben presto la danza che lei stava eseguendo davanti ai suoi occhi l’aveva spinto, ingenuamente, ad unirsi senza remore. Avevano ballato con sincronia, eleganza, discrezione, e il risultato era piaciuto ad entrambi, avevano fatto scorrere il piacevole gusto del brivido contro le proprie gole, avevano saggiato fino in fondo il piacere della compagnia, della familiarità, abbandonandosi a sensazioni remote e al tempo stesso sconosciute. Non che fosse colpa di Rin, ovviamente, perché lui avrebbe potuto benissimo sottrarsi dallo spettacolo e fuggire, com’era stato tentato di fare; solo che, per la prima in centinaia di anni, sentiva che sotto la sua corazza c’era spazio per qualcos’altro rispetto alla guerra e alla gratificazione dell’uccidere, del divorare carne e saziarsi di sentimenti discutibili. Ogni volta che il profumo delicato di lei gli solleticava le narici si sentiva rinato, nuovo, vivo. Ed era una cosa che non assaporava da molto, troppo tempo.
Questo l’aveva portato, con suo profondo sgomento, a comprendere Inuyasha. Abbassarsi al livello del mezzo-demone e carpire le sue sensazioni era stato così naturale che non si era neppure trattato di un’esperienza consapevole. Semplicemente, un giorno, si era trovato a riflettere sulla questione, e aveva trovato fin troppo facile lasciare che i pensieri fossero partecipi delle sventure del fratellastro.
Anche Inuyasha stava vivendo, fino a non molto tempo prima, un amore che non sarebbe mai stato possibile vivere. Così come Sesshomaru era un demone che amava una levatrice, lui era un mezzo-demone che era follemente perduto per una sacerdotessa; nella sua momentanea distrazione non aveva saputo cogliere la trama della maledizione che, da tempo, continuava a svolgersi sotto ai loro occhi. Passioni impossibli, sotterfugi, dimenticanze, trasporti, baci rubati. C’era tutto, esattamente come per il grande Generale Cane e la delicata ed effimera principessa, quasi duecento anni prima: se non Inuyasha, figlio di un’unione che il fratellastro aveva da poco smesso di considerare oltraggiosa, perché Sesshomaru non si era accorto della storia che si ripeteva, avendo assistito come spettatore a tutta l’evoluzione dell’iniziale dannazione?
Aveva saggiato con occhio freddo tutto lo strazio che comportava la perdita dell’amore, di cosa sarebbe potuto accadere. Biasimò sé stesso per la prima volta della sua vita per aver dato per scontato di non essere uno dei tanti personaggi dell’assurda tradizione infausta, proprio quando ci si stava gettando dentro senza rimpianti. Una parte di sé aveva capito subito che la cosa non era adatta al suo ruolo di demone, che avrebbe dovuto ben presto concentrarsi sulle tattiche militari invece che sulle donne umane, ma l’altra, quella più forte, l’aveva convinto a bearsi ancora un po’ di quel profumo così splendido. Il suo cervello aveva smesso addirittura di esistere, da quando era riuscito a farla propria.
 E poi, la beffa: Inuyasha e la sua amata, di punto in bianco, avrebbero potuto gustarsi il tempo a disposizione per vivere una vita felice. Visto che ormai per il mezzo-demone la razza non contava affatto, era anche felice di doversi prendere cura di un essere in parte demoniaco e in parte dotato di energia spirituale, arrendendosi all’evidenza che non ci sarebbe mai stata una sua discendenza completamente appartenente ad una o l’altra categoria. Neppure stavolta Sesshomaru faceva fatica ad assimilare il concetto: neanche a lui, se si fosse trovato nella sua analoga situazione, avrebbe badato troppo a certe cose.
Aveva sentito l’odore di Kagome, tempo prima. Incinta, felice, spensierata e macchiata dall’olezzo di Inuyasha, senza accorgersi di portare addosso una così evidente traccia di lui. Non poteva dire di esserne rimasto disgustato perché, anche se aveva difficoltà ad ammetterlo, quella donna aveva un buon profumo di fondo, anche se quello di Rin era nettamente migliore.
Così, assieme alla partecipazione inspiegabile per le sventure del fratellastro e una strana sensazione viscerale che lo cullava quando pensava alla sua donna, si trovò in balia del mostro ben conosciuto della gelosia. Non avendola mai sperimentata in prima persona, non faticava a credere che molti umani ne avessero uccisi altri spinti da essa; era un’esperienza paralizzante ma anche sfiancante che si augurò di domare con il semplice autocontrollo.
Decise di smettere di riflettere. Faceva troppo male: le tempie avevano iniziato a prudere fastidiosamente, e dalla sua espressione rischiava di trapelare qualcosa di indesiderato. Si concentrò piuttosto su Rin, e la sua posa marmorea che tradiva quasi formalità, mentre aveva portato le mani giunte sulle ginocchia e teneva la schiena innaturalmente dritta.
Con l’arrivo dell’estate aveva cominciato ad indossare stoffe leggere, e un unico filo sottile di sudore, impossibile da captare da narici che non fossero le sue, lo deliziava ogni volta che la sentiva muoversi. Inutile dire quanto apprezzasse il suo collo scoperto per fuggire dal caldo, o l’orlo del vestito contro le ginocchia che si permetteva di accorciare quando credeva di essere sola.
Tuttavia, cercò di non prestare particolare attenzione al regalo che, con orgoglio, le aveva fatto appena una settimana prima; non rimaneva mai deluso in quanto a gratitudine da parte sua, perché ogni volta che le dava qualcosa sapeva non solo di ricevere ringraziamenti in abbondanza, ma anche la soddisfazione di vedere tutti i vestiti adagiati sul suo corpo, con fiscale puntualità.
-Ti dispiace ripetere? – chiese dopo qualche attimo, stupendosi di sé stesso. Anche se aveva cercato di non avere un tono truce, non era sicuro di aver ottenuto l’effetto desiderato. Non voleva certo spaventarla, ma solo cercare di capire qualcosa in più sull’intera faccenda.
Stranamente, Rin non sussultò al suono della sua voce roca né distolse lo sguardo: le spalle non si incurvarono minimamente, la schiena non fu attraversata da nessun brivido e lo sguardo sicuro, ma ugualmente dolce, non si lasciò influenzare dalla richiesta.
-Aspetto un figlio – disse, con voce ferma. Un minimo tremore si depositò sulla vocale finale, segno che tutta quella sicurezza era in realtà costruita con la stessa solidità di un castello di carte in mezzo ad una bufera di neve.
Come sospettava, l’impatto di quelle parole nella stanza non fu meno devastante rispetto a prima. Forse gli sembrarono ancora più gelide, perché in mezzo c’era stato un lungo e sgradevole silenzio meditativo, che li aveva lasciati in balia dei propri pensieri. Le sillabe si accartocciarono contro le pareti, ridendo beffarde.
Adesso che farai, grande Signor Sesshomaru? La vendetta vuole la sua libbra di carne, la esige…l’ha fiutata, lo stava schernendo il tono che quella frase aveva assunto nella sua mente. I ricordi annebbiarono tutto, facendo assumere bordi spigolosi a quelle che erano solo poche lettere messe insieme.
Magari, se fossero state disposte in ordine diverso avrebbero fatto meno paura, ma non era decisamente il caso di chiederglielo. Come la prima volta in cui le aveva sentite lo gettarono nello sonvolgimento più lucido che avrebbe mai sperimentato per tutto il resto della sua vita.
Un mezzo-demone che avrebbe portato il suo nome, magari il suo viso. Forse avrebbe condiviso con lui dettagli sull’aspetto fisico che non avrebbero lasciato il minimo dubbio sulla sua origine oppure, come forse era meglio, avrebbe avuto in comune tantissime cose con la madre. Si sarebbe trattato anche di una fusione imparziale fra i due, pregi e difetti compresi, ma non aveva comunque idea di come avrebbe gestito la cosa.
Non aveva potuto controllarlo, e questo lo faceva ammattire. Nella sua esistenza pluricentenaria, si era abituato ad avere estremo dominio su qualsiasi cosa lo riguardasse, in ogni ambito; non aveva importanza se si trattasse o no di inezie, però la consapevolezza di poterle controllare lo stesso lo faceva sentire quasi al sicuro: finchè tutto rinetrava nell’ordine che aveva voluto dare, allora il mondo sarebbe presto stato sotto il suo controllo.
Ma Rin, per lui, era sempre stato un tabù che spezzava i ragionamenti semplicistici con un semplice sorriso, l’unica in grado di dare ghirlande di fiori ad un demone dai capelli argentei e gli artigli sporchi di sangue. Quando, anni prima, l’aveva visto tornare ferito da una battaglia, non aveva aperto bocca. Lui si era steso sotto l’ombra di una quercia per riposare, senza preoccuparsi che quella bambina umana di sette anni non fosse più nei paraggi.
Alla fine, era stato circondato da un delicato profumo di margherite attorno al suo collo: prima che potesse aprire gli occhi, lei lo stava già guardando a debita distanza, sorridendo. Era stato uno fra i primi gesti d’affetto che avesse mai ricevuto e, anche se da tempo ormai i fiori si erano rinsecchiti fino a sbriciolarsi, ne conservava ancora qualcuno nella manica del kimono.
-Ne sei completamente sicura? – domandò nuovamente. Era stata una dura stoccata, lo vide chiaramente dall’espressione del suo viso, però aveva bisogno di sicurezza. Stava ponendo la questione sotto un occhio puramente pratico, anche se in realtà persino lui non la vedeva in quel modo, tuttavia necessitava di una minima base, un fondamento, un qualcosa su cui fare perno di una nuova esistenza prima di consolarla. Sempre se ci fosse riuscito.
-Ovviamente sì – disse lei, sbrigativamente. Così come lui stava cercando di apparire distaccato, anche lei faceva lo stesso. – Ritengo giusto che sappiate, quindi, che io intendo tenere il bambino, con o senza il vostro consenso.
La cosa che ferì più profondamente Sesshomaru fu che, per la prima volta, poté sperimentare cosa significava subire l’atteggiamento che adottava di solito. All’infuori di sé stesso e delle conquiste militari, la supremazia sugli altri demoni, per lui nulla era stato importante. Tutto gli era apparso immerso in un alone di banalità, e mai vi aveva attribuito valore; se aveva cominciato a nutrire qualche dubbio su questo modo di pensare era stato grazie a Rin, ma ora che giocava a fare la regina di ghiaccio stentava a capirla, anche se lo attraeva irresistibilmente. Fu il pensiero del bambino a fermarlo, solo quello.
-Non te lo avrei impedito comunque, Rin – si sentì in dovere di confermare, stancamente. Per la prima volta nella sua vita si sentiva così spossato da non riuscire a proferire nulla di sensato oltre a quello. Quando vide che la sua espressione si incrinò leggermente, però, tutte le sue resistenze ondeggiarono fino quasi a crollare.
Si avvicinò lentamente, quasi per non spaventarla. Aveva imparato ad usare l’estrema cautela nei suoi confronti nei momenti di fragilità, mischiata ad una buona dose di paura di farle del male davvero. Conoscendo la propria natura non era affatto improbabile che potesse succedere, e non era intenzionato a far accadere una cosa simile, non quando così tanti destini si mischiavano in uno soltanto, come una giostra.
Quando l’indice arrivò a sfiorarle delicatamente la guancia, però, fu come se un uragano avesse liberato la propria potenza facendo terra bruciata di tutto il resto. L’artiglio argentato venne oppurtunamente ritratto in tempo, ma nell’istante successivo qualsiasi altra cosa che non fossero loro scomparve. Sesshomaru non ebbe difficoltà ad ammettere con sé stesso di non aver mai provato nulla di simile, e di esperienze ne aveva vissute decisamente troppe; l’isolamento cosciente che si era creato escludeva anche la capanna di Kaede che avevano usato per l’incontro, così come la ragazza aveva voluto: adesso capiva che l’aveva scelta soltanto per avere un luogo familiare attorno, e nulla di più.
-Non sopporterei di lasciarti sola – mormorò. Il suo tono di voce intriso di verità era stato portato ad una tonalità così bassa non sembrare nemmeno reale, ma in fondo era proprio così: quella considerazione poteva dirsi qualcosa di ultraterreno, mistico, unico. L’unica cosa che entrambi sapevano era che non si sarebbe mai  più ripetuta, e forniva un’ulteriore prova della sua dedizione silenziosa nei confronti della giovane.
-Nemmeno io – sussurrò lei, socchiudendo le palpebre. Anche se le labbra erano schiuse, lui non credette fosse il momento oppurtuno per manifestare la sua voglia di sentirla contro di sé, conoscendo la delicatezza della situazione.
La sua vicinanza lo faceva impazzire, certo, però sapeva di non doversi spingere oltre. Seppellì l’ondata di calore sotto un ferreo strato di autocontrollo e lasciò che il groppo in gola passasse.
E poi, gli venne un gesto tipicamente umano che l’avrebbe tirata su di morale. L’aveva imparato dalla figlia della sterminatrice di demoni: stava andando a trovare Rin quando si era imbattuto in quell’energica creaturina che, con occhi spalancati ed espressione incredula, aveva detto: “Accidenti, come siete alto!”. Se non l’aveva incenerita era solo per la somiglianza a dir poco allarmante con Rin; parlando con lei e seguendo i suoi ragionamenti fanciulleschi sul perché avesse “gli occhi tanto tristi”, gli aveva spiegato che forse un abbraccio l’avrebbe tirato su di morale.
Quella tecnica consisteva nel circondare con le proprie braccia il corpo della persona a cui si doveva donare calore corporeo, cercando di non far aderire eccessivamente i corpi ma neppure mantenendo una distanza troppo marcata. Si trattava di calcolare per bene le misure e non stringere affatto, ma far ricadere morbidamente le mani sulla schiena.
Fu quello ciò che cercò di fare. Lentamente, aprofittando del fatto che lei avesse gli occhi chiusi, allargò leggermente le braccia sentendosi un po’ ridicolo. I capelli erano un ostacolo ma, quando la fanciulla capì quello che stava per fare con un misto di tenerezza e sconcerto, si accorse che neppure quel dettaglio aveva importanza. La ragazza lo assecondò nel movimento ma, con suo sommo stupore, si lasciò letteralmente affondare nel kimono del demone, posando la testa sulla sua spalla nel movimento più naturale del mondo, come se l’incavo del mento fosse stato creato apposta per aderire all’arco fra la testa e il busto.
Non fece fatica, quindi, a poggiare le sue mani sulla schiena, in una posizione sia pudica che appassionata. Era la prima volta che sperimentava un gesto umano sotto consiglio di una bambina e, a giudicare dal rilassamento immediato che Rin aveva avuto, poteva reputare l’esperimento riuscito.
-Grazie, Signor Sesshomaru – sorrise piano contro la stoffa.
-Da oggi in poi dammi del tu – rispose il demone. Era da un po’ che ci stava pensando, e trovava sempre più come un impedimento quel tono rispettoso, soprattutto dopo aver raggiunto una simile intimità.
Poté chiaramente sentire di averla del tutto spiazzata con quella nuova richiesta, soprattutto se sommata al primo gesto spontaneo che avesse fatto per avere un contatto fisico con lei. Di solito era Rin a perdersi in moine fino a portarlo all’esasperazione, non il contrario. Lei deglutì, quasi incerta.
-Va bene – disse soltanto. Al demone venne da sogghignare pensando a come avrebbe potuto infliggerle qualche piccola punizione ogni volta che avrebbe sbagliato pronome: mordicchiarle l’orecchio, solleticarle piano una coscia, torturarle piano un lobo dell’orecchio…
Ci fu solo un attimo di silenzio, in cui riuscirono tutto sommato a smaltire il peso delle notizie precedenti, che lo avevano letteralmente annientato. La portata di quelle parole era stata decisamente difficile da digerire ma, sentendo anche il lieve mutamento del suo odore, prese piano piano contatto con la nuova realtà, accorgendosi che i tempi per pensarcu sopra erano passati, ormai.
-Allora? – chiese, quasi timorosamente. Dal tono non sembrava affatto scocciata o desiderosa di sbrigarsi, anzi, trasparì l’infondata paura che quell’abbraccio fosse il simbolo di un addio, questa volta definitivo.
Il demone ci pensò a lungom valutando le possibili risposte da dare. Era ovvio che la ragazza voleva un responso, ed era suo diritto conoscerlo, tuttavia non sapeva come dare alle sue riflessioni appena concluse. Sembrava che ogni pensiero fosse semplicemente sparito, rintanato nei meandri della sua testa. Ovviamente doveva dirle qualcosa ma, per la prima volta, si preoccupò di essere delicato.
-È… una splendida novità – sentenziò. L’esitazione fu celata con un sospiro iniziale, che contenne tutte quante le ansie che cercava, disperatamente, di occultare, senza riuscirsi con troppo successo.
Questa volta, Rin rise di cuore. La frustrazione divenne nuovamente un concetto astratto; con l’orecchio così vicino alla sua bocca, Sesshomaru sentì distintamente il suono come se provenisse da lui stesso. Cosa improbabile, però.
-Oh…quindi cosa si fa? – chiese. Questa sembrava addirittura divertitak, confermando la sua teoria che le donne umane fossero veramente molto, molto bizzarre.
-Mi affiderò a te, come al solito – concluse Sesshomaru.
Non le diede il tempo di dire altro: con un baciò bloccò qualsiasi risposta sulle sue labbra e la stese piano sul pavimento perché, per quanto fosse in grado di controllarsi, Rin era davvero splendida.
Anche con un mezzo-demone in grembo. 

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Capitolo 43
*** Chi-Chi ***


Gli occhi riempiti di legno lo fissavano, immobili.
Le braccia intagliate stavano strette attorno al busto tozzo e malamente ricavato da una parte di quercia inservibile, con alcuni nodi legnosi disegnati sull’addome arrotondato. Il collo era appena abbozzato nel resto del corpo, mentre le gambe sbucavano da una fascia di stoffa avvolta a fazzoletto attorno alla vita.
Una bambola di legno.
Non appena Inuyasha aveva preso il fagotto, era stato colto di sorpresa dalla consistenza dell’involucro, che gli era sfuggito dalle mani. In uno schiocco secco era apparso quello che pareva in tutto e per tutto un infante, con come unica eccezione la mancanza totale di iride e pupilla; persino la bocca minuscola era stata lavorata per sembrare dischiusa, ma gli occhi incutevano davvero timore.
Sango e Miroku faticavano a trattenere le risate, godendosi la sua reazione sconcertata. Quando quella cosa aveva fatto la sua trionfale comparsa, infatti, il mezzo-demone aveva cominciato a ritrarsi sempre di più verso la porta.
-Che diavolo è questo? – sbraitò.
-Il surrogato di tuo figlio – spiegò il monaco, ostentando una tranquillità che gli fece saltare i nervi, - con il quale avrai il piacere di fare conoscenza per tutta la mattinata.
-Non se ne parla! – sbuffò il mezzo-demone. Incrociò le braccia sotto alle maniche ampie e voltò la testa verso la parete, risoluto.
-Oh, andiamo, Inuyasha! – esordì Sango, diplomatica. –Tutti dobbiamo essere preparati ad una nuova nascita!
-Già, e da come tratti Shippo abbiamo fatto bene ad esserci preoccupati per te – chiarì Miroku.
-Si può sapere di cosa state parlando? – proruppe di nuovo il ragazzo. Non riusciva a mettere insieme le frasi che i coniugi pronunciavano alternandosi, e questo lo stava facendo ammattire. Era vero, aveva bisogno di consigli su come trattare il nascituro, ma non ce l’avrebbe mai fatta a sopportare una cosa del genere, soprattutto sotto la supervisione dei due aguzzini.
-Della gravidanza di Kagome, ricordi? – cantilenò la donna, alzando gli occhi al cielo. In quel mentre, il loro figlio più piccolo si mise a strillare con un suono che gli perforò le orecchie. Lei, con molta tranquillità, si alzò e lo prese in braccio, cullandolo fino a placarlo.
A quelle parole, Inuyasha arrossì. Non sapeva bene perché, ma ogni volta che veniva tirato fuori l’argomento si sentiva in imbarazzo, quasi a disagio. Kagome aspettava un bambino, certo, ma forse ad infastidirlo era la luce negli occhi di Miroku, ricollegando quella dolce attesa a ciò che l’aveva provocata.
Nel gruppo, era sempre stato visto anche da sé stesso come quello meno astuto e più impulsivo, che otteneva un discreto e rifiutato successo con le donne. Quando si fermavano nei vari villaggi, aveva dovuto appiattire le orecchie con un certo fastidio pur di far sparire i commenti sul suo conto; Kagome non aveva potuto sentirli, e questo aveva permesso a molte ragazze di continuare a vivere, tuttavia gran parte dei suoi malumori erano proprio originati da certi apprezzamenti inappropriati sul suo conto.
Alcune mettevano a freno la lingua vedendo il suo stato di mezzo-demone, notandolo più che altro come essere ripugnante e pericoloso. Altre venivano attratte proprio dal fascino del proibito, dalle fantasticherie con una creatura né carne né pesce, un forestiero giunto da terre lontane.
Per questo metteva nella battaglia ogni suo sforzo, proprio perché era incapace di gestire la propria relazione con le donne in generale. Le poche volte che aveva amato, -sua madre, Kikyo, Kagome – era andata male, oppure aveva rischiato che accadesse qualcosa di irrimediabile. Forse era uno dei tanti motivi che portava Miroku, da sempre disinvolto con il pubblico femminile, a dubitare delle sue capacità di amante.
Questo, invece di ferire la propria virilità, lo spingeva a ritrarsi e a farsi gli affari propri ancor più del solito.
Il monaco alzò sorpreso le sopracciglia. –Non dirmi che non te lo ricordavi – disse, con uno sbalordimento sincero nella voce.
-Idiota – sbottò l’altro a denti stretti, cercando di fare di tutto per non fissare il bambolotto abbandonato a terra oppure l’infante in braccio a Sango.
Aveva sempre avuto paura dei bambini così piccoli come il figlio della coppia, perché con i propri artigli aveva il timore non troppo infondato di dilaniarli accidentalmente. Non era capace di tenerli in braccio, perchè sembravano quasi intimoriti dal suo odore, né sapeva come gestire pianti o lamentele. Ogni volta fissava intontito uno dei due genitori che si alzava e metteva a posto la situazione in un baleno, mentre per lui era molto più facile farsi prendere dal panico.
Il pensiero che entro non molti mesi avrebbe retto fra le braccia un bambino proprio lo terrorizzò a morte. Se non sapeva nemmeno frenare le proprie unghie da un gesto irreparabile, come avrebbe potuto fare bene il padre?
-Non ti preoccupare, sarà veloce e indolore – disse la donna, in piedi in fondo alla stanza. Aveva un sorriso sul volto che lasciava presagire tutto il contrario.
Un basso ringhio d’avvertimento proruppe dalla gola di Inuyasha non appena Miroku afferrò la bambola e gliela mise sotto al naso. Sapeva di trattamenti per il legno di quercia, assieme all’odore di stoffa pulita e olii alle essenze di fiori. Quel profumo gli era familiare perché era lo stesso che usava Kagome sui propri vestiti: questo gli confermò che ci fosse il suo zampino nella vicenda, e che non avrebbe potuto sottrarsi a quel teatrino, comico solo agli spettatori.
Come se volesse lanciare un segnale d’aiuto, il suo sguardo corse alla figura di Sango. Da quando si era sposata, la sua unica divisa era stata quella di madre di famiglia. Indossava il suo kimono dalla lunga gonna verde senza celare nessuna tenuta da guerra sotto, e questo aveva rubato alla sua immagine moltissimi punti. Era una guerriera eccellente, straordinaria: persino lui doveva ammettere che era uno spettacolo vederla combattere, viste l’agilità e la grazia innata che possedeva.
Qualche volta, mentre accompagnava Kagome a raccogliere erbe oppure si dirigeva ai campi, sentiva la sua voce fredda e marziale mentre si allenava, appena fuori dal villaggio. C’era una grande piana ricoperta d’erba alta e morbida, come se fossero tantissimi capelli, e la mattina presto la si poteva trovare semi-nascosta dai ciuffi in abito nero, con corazze e pugnali al seguito; Hiraekotsu non l’aveva più usato per questioni di sicurezza. La probabilità che potesse uccidere qualcuno era troppo alta per poter rischiare con armi pesanti.
Osservandola reggere con amore quel minuscolo fagottino bianco, si convise che nemmeno la battaglia avrebbe potuto farla desistere dai suoi compiti. Lei amava alla follia i figli e il marito, la casa e la vita del villaggio, tutte cose che non aveva mai avuto. Essendo una donna aveva dei doveri e non sarebbe mai fuggita da essi; il feeling che poteva sentire con lei in battaglia, in quel momento, divenne solo la comprensione di chi sta attraversando la stessa, identica cosa.
Questo significava, quindi, che non l’avrebbe aiutato.
-Lo sai, Inuyasha? – disse lei, con tono quasi di scherno. –Al villaggio dove abitavo una volta c’erano un sacco di bambole identiche a quella lì. Le regalavano alle coppie che stavano per sposarsi, e tutte le persone assistevano alla pratica; era una vera e propria festa. Ce l’avevo in casa per darla a Kohaku – aggiunse poi, e fu costretta ad abbassare lo sguardo.
-Sta bene – chiarì subito Miroku. – Ha mandato notizie anche la settimana scorsa. Dice che da quando si sono stanziati hanno già portato a termine dodici missioni, e non c’è stato nemmeno un caduto.
-Devono fare un bel viaggio da lì ai villaggi… - osservò Inuyasha, pensieroso.
Conosceva il posto dove si trovava il fratello minore della ragazza: era una valle circondata da montagne su un pendio abbastanza ripido, raggiungibile solo con un paio d’ore di viaggio a cavallo. Non aveva nulla di bello, si trattava solo di una distesa di terra brulla su cui far sorgere un accampamento e, negli anni in cui infuriavano guerre e disordini, più di un esercito l’aveva usata per quello scopo.
-Comunque sappi che non sarà questo a salvarti – chiarì il monaco, alleggerendo la tensione all’istante.
-Miroku, maledetto! Non sono un burattino nelle tue mani!
-Oh, lo so, mio caro Inuyasha – spiegò, paziente. –Ma lui – scosse il bambolotto nella sua mano, facendo scricchiolare orribilmente le giunture dell’affare – sì.
A quella vista, lo stomaco del guerriero fece una capovolta. La straordinaria dovizia di dettagli rendeva l’oggetto in tutto e per tutto simile ad un neonato, sufficientemente grande per poter essere usato come simulatore. Quindi, osservando quanta poca cura Miroku avesse avuto nel manipolarlo, ne ebbe ribrezzo come se si trattasse di un bambino vero.
-E va bene, dammi qua! – cedette, afferrando il finto bambino per l’addome con un minimo di cura. Evitò accuratamente di guardare il bonzo negli occhi pur di non scorgere un lampo di trionfo.
-Vedo che facciamo progressi, ottimo – constatò l’uomo. Si godette la risatina della moglie prima di continuare. –Allora, Inuyasha, abbiamo cercato di andare sul sicuro; per quanto diversi, i bambini hanno tutti una cosa in comune.
-E sarebbe? – sbottò il mezzo-demone, già pentito di non essersene andato. L’altro alzò un indice con aria saccente.
-I bisogni fisiologici- disse, e fu come se avesse appena svelato il senso della vita.
-I che? – domandò confuso il ragazzo. Certe volte, fra lui e Kagome, non sapeva per chi disperarsi di più. Uno usava termini ricercati e sofisticati, l’altra invece esordiva spesso con esclamazioni in altre lingue che lo facevano ammattire. Ripensò con un brivido alla parola “wow”, e a cosa il suo ricordo portava con sé.
-Santo cielo, Inuyasha, la cacca! – Miroku pareva esasperato.
Il guerriero spalancò gli occhi, allibito. Fissò con improvviso orrore il bambolotto che aveva in mano come se fosse pronto ad esplodere, per riappuntare con molta calma lo sguardo sul monaco, ancora incredulo su quanto aveva appena detto. Gli pareva davvero impossibile di aver capito bene.
-Insomma, dovrai cambiargli il pannolino – intervenne Sango, accomodandosi accanto al consorte e scoccandogli un’occhiata di rimprovero. Spostò una mano sulla schiena del piccolo e se lo aggiustò sulla spalla: dal visetto rilassato si indovinava che Usuke stava già dormendo.
In un attimo di tenerezza, Miroku accarezzò piano un dito del figlio, sistemando la manina sulla spalla della moglie. Fu un attimo soltanto, ma questo gli fece tornare in mente la sua donna, stesa dormiente in camera, con in grembo il frutto della loro futura felicità. Era ancora così magra che non avrebbe mai indovinato, se fosse stato un umano, la sua condizione, né tantomento sospettato che mancasse così poco alla resa dei conti.
Pareva soltanto avesse mangiato qualcosa più del solito, ma le gambe snelle e i fianchi sottili erano rimasti gli stessi. Assieme ai capelli corti sembrava davvero giovane, creando ulteriore contrasto rispetto all’età del compagno, pluricentenaria anche se non dimostrata esplicitamente.
-Non so come si fa – ammise Inuyasha, mantenendosi guardingo.
-Appunto – si limitò a dire Miroku, e parve quasi fosse la cosa più ovvia del mondo.
Ci furono attimi di silenzio interminabili durante i quali i loro sguardi guizzarono dal bambino di legno al viso del monaco, al suo e a quello di Sango, creando una sorta di triangolo delle occhiate. Nessuno sapeva bene cosa dire e, alla fine, Inuyasha fissò rassegnato il pavimento.
Quella storia lo stava sia innervosendo che avvilendo. Da un lato si sentiva preso in giro, anche perché i due ex compagni di viaggio erano molto più esperti di lui, quando si trattava di bambini. Dall’altro, però, si sentiva anche incampace di offrire qualcosa di buono a colui che stava per nascere perché, a conti fatti, non sarebbe stato in grado nemmeno di provvedere ai suoi “bisogni fisiologici”, o come si diceva.
Non se ne sarebbe sempre potuta occupare kagome, anche perché lei aveva migliaia di altre cose da fare. Ovviamente si sarebbe presa un breve riposo prima di rimettersi a lavorare a ritmo serrato, e lui non avrebbe voluto affidare il bambino a nessun altro. Insomma, avrebbe dovuto badare al figlio senza neppure sapere da dove iniziare, con l’eterna paura di fargli del male ed essendo totalmente incapace di provvedere ai suoi bisogni primari.
A volte l’amore paterno non sarebbe bastato, se ne rese conto. E, mano a mano che il suo avvilimento cresceva, le sue risposte scorbutiche diventavano sempre più taglienti.
Visto che l’atmosfera stava diventando pesante per tutti e il monaco di danni verbali ne aveva già fatti abbastanza, Sango fu la prima a prendere in mano la situazione: diede tacitamente il bambino a suo padre, mettendoglielo bene in braccio, prese la bambola e si sedette accanto ad Inuyasha.
-Quando si ha per moglie una sacerdotessa bisogna sapersi dare da fare – disse, dando voce ai suoi pensieri di prima. –Quindi adesso siamo qui per insegnarti come si fa, ok?
Aveva abbandonato il tono materno nella voce che aveva assunto da qualche tempo, mettendosi a fornire spiegazioni essenziali e dettagliate, accompagnate da gesti lenti. Il bonzo assisteva, assorto, forse ricordando di quando aveva insegnato anche a lui come fare per gestire meglio le due gemelle.
-Allora, devi sollevare questo – spiegò, prendendo fra pollice e indice un lembo di stoffa – e portarlo dalla parte opposta. Poi, quando lo hai tolto, sciogli questa parte e la tiri giù.
Muovendo abilmente le dita sulla vita del bimbo in legno, stava piano piano slacciando la chiusura. All’improvviso, il cotone si aprì in due, e una lingua di tessuto si adagiò davanti alle sue mani.
-Attento a non toccare troppo vicino a dove è coperto, potresti trovare delle sorprese…sgradevoli – disse, storcendo appena il naso.
Ad Inuyasha venne da vomitare. –Lo sentirei dall’odore – disse soltanto, guardando, affascinato, il lavoro appena eseguito. Mentre stava ancora fissando il simulacro, un gesto veloce richiuse il tutto e, sempre dalla mano che aveva invaso la sua visuale, arrivò una leggera spinta che fece rotolare, a faccia in su, il figlio fittizio.
-Prova tu, avanti – lo esortò, ma suonò comunque come un ordine.
Il ragazzo deglutì; cercò di ricordare le mosse della donna con precisione, anche se gli risultò un po’ difficile. Quasi con timore, avvicinò un dito all’involucro fasciatogli in vita, e si sentì l’orribile stridio del suo artiglio contro il legno; in un attimo, una lunga unghiata si aprì sul ventre del bambino, in superficie, esibendo la resina interna non del tutto lavorata.
-Ugh! – si lasciò sfuggire il colpevole, ritraendosi. Aveva appena avuto l’avvisaglia di ciò che temeva. Se il corpicino, invece che di legno,  fosse stato fatto di carne e ossa, come sarebbe andata a finire? Di sicuro il bambino sarebbe rimasto ucciso, o forse gravemente ferito, oppure con una cicatrice che sarebbe sbiadita col tempo, ma comunque tutto per colpa del proprio padre.
Era così maldestro da non riuscire nemmeno a togliere una benda da una bambola, rovinandone la corteccia.
-Attenzione a quelle unghie – lo ammonì Sango. Il ricordo di lei, materna e dolce con il figlio in braccio, strideva completamente con la cadenza marziale che dava ora alle frasi.
-Ci sto provando, maledizione - bocofichiò Inuyasha, cercando disperatamente di affogare il rossore nella concentrazione. Per la paura di ripetere di nuovo il gesto, stava toccando solo con i polpastrelli ma, vista la lunghezza delle unghie, doveva procedere a tentoni, come se fosse cieco o attento ad una minaccia.
Prese a trattare davvero il bambino come se fosse vivo, dandosi dell’idiota da solo. La striscia sulla pancia era ancora lì, lugubre testimone della sua inadeguatezza, come se fosse un monito per le sue future azioni ai danni del fantoccio.
Lentamente, riuscì a togliere la prima parte di stoffa, goffamente. Lo straccio ricadde flaccidamente sul pavimento il doppio del tempo dopo rispetto a quello impiegato da Sango. Si concentrò quindi sulla chiusura in cima, appena sotto a quello che doveva essere l’ombelico. Nella stanza regnava il silenzio più totale.
Non sapeva da che nodo iniziare. Davanti ai suoi occhi ce n’erano due, poco stretti ma comunque saldi, coperti da uno strato di panno per non infastidire l’infante lì dentro contenuto. Da quel che aveva potuto osservare nei lunghi pomeriggi trascorsi con Kagome, era una cosa abbastanza classica e semplice, ma lì per lì gli parve un diagramma irrisolvibile. Sembrava quasi fossero le spirali di due serpenti velenosi, pronti ad azzannarlo al minimo passo falso.
-Muoviti, altrimenti Chi-Chi si sveglia – osservò Miroku, divertito, interrompendo fatalmente la sua concentrazione.
-E adesso chi è Chi-Chi? – chiese frastornato Inuyasha.
-Il bambino di legno. Chi-Chi – disse semplicemente Sango. Il giovane tornò a guardare il bambino, che sembrava leggermente cambiato rispetto a quando non aveva un nome. E così la follia umana non conosceva limiti, se dava il nome ad una bambola; buono a sapersi, se lo sarebbe ricordato.
Dopo altri interminabili minuti, riuscì a sbrogliare la matassa, con suo immenso sollievo. Ma Sango era un’insegnante severa, così gli fece ripetere tutto daccapo fino a quando nemmeno un piccolo striscio si disegnava sulla pancia di Chi-Chi e il pannolino veniva cambiato a buona velocità.
Alla fine riprese la bambola e gli insegnò a mettere la fascia in vita. Quando Inuyasha ripeteva l’esercizio, ormai sicuro della propria vittoria, la donna metteva un dito fra il cotone e il legno, saggiandone la compattezza. Si limitava a dire “troppo lento” se minacciava di slacciarsi, oppure “troppo stretto” se un bambino normale sarebbe rimasto soffocato dalla morsa.
A lui sembrò che passasse un’ora prima che lei si ritenesse soddisfatta. Le mani lunghe e agili da mezzo-demone erano stanchissime, ma aveva imparato piuttosto bene come ritrarre le unghie; alla fin fine era la cosa più importante persino del nodo, perché anche se un po’ largo, era certamente meglio un pannolino enorme che una pancia sventrata.
Nel frattempo, Miroku aveva commentato sarcasticamente l’operato dell’amico, apostrofandolo con battute mirate ma mai offensive. Si era alzato un paio di volte per tranquillizzare il figlio, l’aveva rimesso nella culla e l’aveva anche ripreso in braccio. Aveva sposato un po’ l’uscio per prendere un po’ d’aria e si era anche fermato a parlare con alcune anziane signore che avevano voglia di chiacchierare; a fine mattinata Inuyasha si sentiva un po’ più fiero di sé stesso.
All’improvviso, nonostante avessero avuto pieno potere di trattenerlo, lasciò stare il bambolotto sul pavimento, senza aver completato il nodo.
-Devo andare da Kagome – disse, alzandosi. Era davvero arrivato il momento per lui di levare le tende; nonostante fosse ancora presto, già sentiva il villaggio svegliarsi, e non gli piaceva l’idea che la ragazza lo facesse senza di lui. Per quanto fosse complice anche lei, non poteva lo stesso rinunciare ad assistere al suo risveglio.
Sango recuperò la bambola e la guardò con un po’ di nostalgia. Forse stava pensando ancora a suo fratello, visto che all’inizio l’aveva nominato, oppure ai figli che continuavano a crescere e che aveva imparato ad accudire con quello stesso oggetto in legno.
-Sei stato bravo, devo ammetterlo – disse sorridendo. –Porta a Kagome-chan i miei saluti, per favore. Dille che oggi pomeriggio verrò a trovarla.
Lui grugnì un assenso, mentre apriva le porte per uscire. Fu travolto da Mirei, impegnata a fare la stessa cosa dall’esterno: la bambina gli precipitò sulle gambe sbattendo il naso contro i pantaloni rossi.
-E sta attenta a dove cammini! – sbuffò Inuyasha, ma la bambina non vi badò. Aveva il viso arrossato dalla corsa e i capelli scompigliati, mentre lacrime le bagnavano le guance. Per un terribile momento il ragazzo pensò fosse colpa sua, ma capì presto che non era così.
Sango stette per chiederle cosa fosse successo, preoccupata, ma la piccola non le diede il tempo di dire nulla, agitata: -Madre! Presto! Venite subito! Il Signor Sesshomaru sta per morire! 

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Capitolo 44
*** Darsi del tu ***


Sesshomaru sembrava un dio, steso sotto ad un albero dalle foglie fruscianti. Il verde smeraldo si fondeva in un perfetto connubio con il marrone intenso dei rami nodosi, creando un effetto a dir poco magico.
Quella trama fittissima era stata pazientemente intessuta negli anni come se fosse una cupola. Il caldo estivo, l’afa opprimente, non potevano entrare; sembravano barricati fuori da quella fresca macchia d’ombra.
La schiena gli doleva. Anche se non aveva potuto vederla, sapeva per certo che nel centro c’era una ferita dalle considerevoli dimensioni, con dei bordi netti, incisa a tradimento. Era il segno visibile ancora per poco di uno scontro che l’aveva coinvolto sole poche ore prima, con un nemico abbastanza seccante. L’aveva ucciso, ovviamente: nessuno poteva scorrazzare impunemente nei suoi territori, conquistati grazie alla potenza di suo padre.
Aveva fatto solo un leggero errore di calcolo quando aveva considerato la capacità di dissimulazione degli odori del casato dal quale, assieme a pochi altri già precedentemente eliminati, il demone sconfitto proveniva. L’aveva colpito troppo tardi, la sua lama avvelenata era penetrata in fretta nelle sue carni, senza comunque imprimere nulla di significativo.
Il fastidio che provava fra le scapole era dovuto soltanto all’attività del suo corpo, che si stava rigenerando. Il luogo migliore per permettere al suo organismo di guarire era quell’albero, ma fra Rin e quella sciocca ragazzina figlia della sterminatrice non aveva avuto un attimo di pace.
Era incredibile quanto la seconda assomigliasse, in modo quasi pauroso, alla sua donna quando aveva più o meno la stessa età. La reazione era stata la stessa: si era avvicinata in punta di piedi, quasi con timore di svegliarlo ( non di lui in quanto demone, ma solo come creatura dormiente e, presupponeva, anche sofferente) e lo aveva scrutato da vicino, facendosi più audace.
Aveva sentito le sue manine in miniatura posarsi, abbandonate le remore, sul suo braccio. Aveva fatto un balzo indietro quando Sesshomaru aveva aperto gli occhi.
Le differenze fra le due si notavano una volta assunta una certa vicinanza. Rin aveva un paio di abbaglianti occhi scuri, pozzi di innocenza liquida solcati dal dolore di un’esistenza difficile, mentre la creaturina acerba che gli era stata davanti era ancora sconosciuta alla pena e all’afflizione. La sua levatrice aveva l’abitudine di legarsi i capelli in un modo piuttosto singolare, a differenza della bambina che, invece, li lasciava sciolti o raccolti in treccine minuscole sulla nuca.
-Cosa ci fai qui? – le aveva chiesto, con assoluta calma. Non aveva calcolato che la vista del sangue avrebbe potuto sconvolgerla così a fondo; quando aveva realizzato che si trattava di lei, aveva immaginato forse troppo in fretta che l’influenza materna avesse donato alla bambina uno stomaco più preparato a certi eventi.
Illusioni, ovviamente. Era scoppiata a piangere articolando qualche balbettio senza senso, prima di correre via. E pochi attimi prima, Rin lo aveva visto ed era subito accorsa, allarmata. Gli aveva toccato la fronte con le mani, aveva insistito perché si stendesse, ed era scappata via per prendere sciocchi rimedi umani con cui impiastricciargli la pelle.
Lui l’avrebbe lasciata fare, naturalmente. Il tempo di mettere i suoi intrugli e la ferita si sarebbe rimarginata, dandole la soddisfazione di pensarsi guaritrice, e lui avrebbe fatto di tutto per darle il tacito merito di averlo salvato da una ferita da nulla, giusto per farle avere un po’ di soddisfazione. Dal momento che era una persona discreta, sarebbe andata ad applicargli le medicazioni al fiume; una buona occasione per spogliarla e farsi dare un buon rimedio per stare bene sul serio.
Ora che era incinta avrebbe dvuto stare più attento, però. Quando capitava, soprattutto ai primi tempi, che lui la facesse sua, imprimeva lividi e graffi superficiali, gli stessi che non avevano modo di sbocciare sulla sua carne di demone perché curati all’origine. Per il timore di ferirla oppure esagerare, cercava sempre di trattenersi, ma non era affatto facile.
Nonostante il suo autocontrollo fosse perfettamente allenato a sopportare qualsiasi tipo di pulsione, istinto, sentimento e dolore, non sapeva proprio come contenere il fiume di calore che sentiva solo quando poteva stringerla, baciarla, avvertirla fremere. Ogni suo singolo muscolo si tendeva e rilassava al tempo stesso, e la mente diventava un guazzabuglio di riflessioni sconclusionate, convergenti solo in un tiepido affresco di quello che era, solitamente, l’organizzato magazzino di pensieri.
Sembrava che qualsiasi cosa perdesse importanza, tranne lei. I suoi gemiti, il suo corpo, il suo profumo: nulla poteva tenere la testa alta al confronto. Aveva addirittura provato a concentrarsi su altro, a mentenersi distaccato, ma era impossibile. Non appena Rin avvertiva su di lui il minimo cenno di rigidità emotiva si affrettava a cullarlo come solo a lei era concesso fare.
Se invece si trattava di fare il bagno, era più facile per Sesshomaru governare le proprie spinte animalesche. Lo scorrere dell’acqua fredda tratteneva il sangue nei propri vasi, dando la giusta circolazione. Nessun sbandamento, era tenuto vigile e attento dalla morsa del ghiaccio sulle sue viscere; il corpo di Rin si faceva della sua stessa temperatura, quasi, e questo lo incitava a riportarla presto in un posto più caldo, finalmente sazio.
Anche se con lei non si stancava mai, aveva imparato a farsi bastare i momenti che condividevano. Era stato ferreo con sé stesso: appena aveva realizzato di volerla accanto in ogni istante aveva fatto di tutto per punirsi con delle pause sufficientemente lunghe. Stava a digiuno, per così dire, e la assaporava poco alla volta per non turbarla. Se fosse stato per lui, potendo essere completamente demone, l’avrebbe sfiancata, i loro soliti incontri sarebbero stati solo il preludio di una nottata ben più impegnativa.
-Signor Sesshomaru! – esclamò Rin, trafelata.
Il demone aprì gli occhi che aveva socchiuso solo per godersi lo spettacolo della sua donna, che ora gli stava correndo incontro. Evidentemente, aveva fatto il più in fretta possibile per portargli la “cura miracolosa” che aveva trovato, ed aveva trascurato alcuni dettagli sul suo aspetto.
I capelli, ad esempio, erano quasi del tutto sciolti sulle sue spalle, in una massa d’oro nero fluido e lucido, setoso, in cui lui avrebbe avuto voglia di affogare le mani fino a far consumare la pelle. Le guance erano arrossate in modo adorabile come quando, quasi sei anni prima, gli porgeva le sue collane di fiori, pile odorose di petali fragili che gli solleticavano il naso. Il kimono era leggermente più lento del solito sul collo, mentre la scollatura inferiore lasciava intravedere a tratti una parte di polpaccio latteo; le caviglie sottili si affannavano per muoversi ancor più veloci e il timore che cadesse, per altro non troppo infondato, lo turbò. Non permise però che nulla trapelasse all’esterno.
-Ecco – ansimò, cadendogli a fianco in ginocchio. Gli porse un involto fatto con un fazzoletto azzurro, dal nodo frettoloso e un po’ sfatto. –Questo è il meglio che sono riuscita a trovare.
A lui non importava assolutamente nulla di quella scatola. Le prese il polso con un tocco deciso ma delicato e le avvicinò il braccio, fino a quando il suo viso accaldato non arrivò ad un soffio dal suo. Le sue labbra sapevano di acqua, di fiori, di erbe mediche e di Rin, un profumo che non sarebbe mai riuscito a classificare ma che era, in tutto e per tutto, simile all’estate.
La ragazza rimase un po’ sorpresa nel ricambiare. Salvo rari casi, era lei che si abbandonava a smancerie di ogni genere, e non lui. Quel piccolo pegno d’amore che gli aveva portato per farlo sentire meglio giaceva lì a terra, ma nessuno dei due ci fece caso.
Fu lei a staccarsi per prima, risoluta. Il demone stava quasi per affogare nel suo calore, tramutando un po’ della sua solita freddezza in una pozza di piacere, quando sentì che la guancia tiepida di Rin si stava allontanando, fino a quando della sua bocca gli rimase soltanto il dolce ricordo.
-Signor Sesshomaru, ascoltatemi, per favore. Lo benissimo che i balsami non vi servono, ma fa davvero molto caldo, c’è il rischio che la vostra ferita faccia infezione. Vi prego, siete tutto sporco di sangue…lasciate che vi rinfreschi un po’, va bene?
Cercava di essere acondiscendente, ammettendo persino l’inutilità delle sue amorevoli cure. Ma Sesshomaru era abile quando si trattava di lei, sapeva come raggiungere i propri obbiettivi.
-Quante volte ti ho detto di darmi del tu, Rin? – chiese, a voce bassa.
Questo repentino cambio di argomento la spiazzò, era evidente. Non sapeva cosa rispondere, così si mise a farfugliare e ad arrossire.
Gli occhi del suo amato continuarono a guardarla intensamente, lasciando che l’iride gialla riempisse appieno la sua visuale. Fra le ciglia color della neve, bagnate dal sole estivo, filtrava uno sguardo passionale, accecato da lei, completamente succube eppure ancora dominatore. Sesshomaru non era mai stato bravo con le parole d’amore, non ne aveva mai avuto bisogno; con quell’occhiata non cercò nemmeno per un istante di celarle quello che provava davvero, anche perché nemmeno egli stesso avrebbe saputo qualificarlo adeguatamente e darci un senso compiuto. La sua mano rimase lì, a raffreddarle il polso. Ben presto lei, imbarazzata, distolse lo sguardo, fissando gli steli d’erba, brillanti nel primo pomeriggio.
-Mi d…dispiace, io… - cominciò a dire, ma non servì continuare la frase.
Era questo il problema di Sesshomaru: non sapeva resisterle. Prima la stuzzicava, si godeva la sua reazione, voleva spingerla al limite, ma ogni volta si sentiva sempre più affascinato e catturato, oltre che tremendamente in colpa. Gli pareva quasi di farle un dispetto, anche perché catturarla era estremamente facile: bastava uno sguardo, una carezza appena accennata, uno sfioramento improvviso, chiamarla per nome. Erano piccole cose che ormai lui faceva inconsciamente, persino da quando lei gli aveva detto che era incinta, quella mattina. Nonostante fosse passato pochissimo tempo, già gli pareva di averlo…accettato.
-Scusami, Sesshomaru – disse Rin, all’improvviso.
Lo guardò dritto negli occhi. Le guance erano tornate rosee, gli occhi brillavano, la bocca aveva la sensuale curva di una giovane donna, le clavicole erano bianche linee di desiderio, pennellate di perfezione sul suo collo da cigno. E poi, sorrise.
L’essere demone di lui moriva, appassiva quando lei liberava la sua bellezza, il suo splendore misto alla sua ancora tremenda fragilità, in un sorriso. Poteva avere un suono musicale nella risata, un modo di essere irresistibile quando si muoveva, ma era proprio quando dosava la sua dolcezza e poi la rilasciava, improvvisamente, che Sesshomaru perdeva tutte le proprie inibizioni.
I denti di Rin erano bianchi e ordinati. Le labbra piene, rosse, si erano schiuse come un fiore in primavera, e la delicatezza che i suoi tratti assunsero, come preda di una magia, lo fecero quasi pentire di non averla seguita al fiume senza discutere.
E poi, l’aveva veramente chiamato senza usare quel formale “signor”? Aveva davvero pronunciato con quella bocca splendida il suo vero e proprio nome, lo stesso che suo padre gli aveva dato, tantissimi anni prima?
Un demone centenario che si sente scosso, rivoltato e guarito con una sola parola è un’emozione troppo forte per essere sopportata. Un evento storico, e irripetibile. La dolcezza e l’amore colmavano ogni singola sillaba come nessuno mai prima aveva osato fare, nemmeno quando era un bambino, oppure quelle donne demoni che dicevano di amarlo, di provare qualcosa per lui solo per avere salva la vita, difettavano in intensità.
Rin era sincera, era candida. In ogni cosa che faceva ci metteva passione, con lei poteva dirsi amato, e sentirsi orgoglioso di ricambiare. Niente di ciò a cui la fanciulla si dedicava appariva insignificante o superfluo: la sua grande dote stava nel dare senza aspettarsi nulla in cambio, incondizionatamente. Magari per alcuni poteva addirittura sembrare un difetto, ma era stato proprio quel dettaglio ad attrarre maggiormente Sesshomaru.
Quando l’aveva salvata, sul suo piccolo corpo da bambina c’erano gli odori che nemmeno una donna vissuta avrebbe dovuto conoscere. L’eccitazione dei barbari che avevano fatto razzie del suo candore aveva lasciato un’impronta crudele, che l’aveva spinto a fermarsi. Non c’entrava nulla il fatto che il suo cadavere sbarrasse la strada; non aveva mai visto un cucciolo d’umano morto, e non aveva assolutamente nulla contro di essi quand’erano in tenera età.
Se c’era una cosa che il demone odiava, infatti, erano gli inutili sprechi di vite. Gli uomini non potevano concedersi il lusso di buttare via tante giovani risorse, essendo raggruppati in sparute quantità. Il supplizio che aveva straziato quelle membra innocenti scosse per la prima volta la sua coscienza con la pietà. Si immaginò nella stessa situazione della ragazzina, e di come non sarebbe stato capace nemmeno di decidere di morire sbranato dai lupi. Lei era stata coraggiosa a decidere come volersene andare; gli pareva ingiusto passare sotto silenzio quelle virtù discretamente manifestate.
A Jaken fece intendere che si trattava di una questione puramente pratica legata a Tenseiga, solo per capirne il funzionamento. Ma il servo, nonostante si mantenne fedele a quella dichiarazione senza mai contraddirla, dovette notare il luccichio nei suoi occhi non appena la piccola si rimise in piedi, incerta. Forse la maledizione aveva preso il sopravvento anche allora, non avrebbe saputo dirlo con esattezza, tuttavia era arrivato a non volere assolutamente che lei smettesse di seguirlo, smettesse di sorridere, smettesse di vivere. Era la ragione che lo spingeva ad andare avanti ogni giorno: il coraggio di una bambina sfigurata dai lupi.
Le vere bestie erano gli esseri umani, sembrava l’unica ad essersene accorta.  
Ripensare a tutto ciò che era successo nel frattempo gli regalò un brivido: gli anni passavano, vinceva le battaglie, otteneva successi, tornava sempre da lei con qualche dono diverso, perché se era il Grande Sesshomaru e non un demone qualsiasi era anche merito suo.
L’aveva guardata crescere e fiorire come la gemma più rara e preziosa, stupendosi e irritandosi delle proprie reazioni di fronte a tale avvenenza; aveva deciso di starle lontano, comprendendo cosa il destino avesse progettato per loro. Non riusciva ad impedirsi, però, di tornare ogni volta al villaggio dove le aveva chiesto di restare e dove lei, docilmente, si prendeva cura di piante e nascituri.
Entrambi avevano sempre saputo che quella situazione non sarebbe durata a lungo, però. La bambina sembrava guardarlo quasi con divertimento ogni volta che spuntava nella capanna, e l’occhiata si tramutava in meraviglia se scopriva il regalo. Quell’immagine gli fece sempre più male a causa della bellezza di Rin, così decise di smettere di essere presente mentre lei accoglieva i fiori del suo passaggio.
Non avrebbe comunque mai immaginato che, dopo tutto quel tempo, le cose sarebbero cambiate in modo tanto straordinario. Quella stessa meravigliosa donna, umana, effimera, splendida e sua, ora attendeva un figlio da lui. Un mezzo-demone, un sangue misto, ma pur sempre una creatura fatta anche da lui in persona. Per amore di lei l’avrebbe accettata con tutto sé stesso, pur di riuscire a realizzare in minima parte la felicità della ragazza.
Lentamente, come se temesse davvero di spaventarla, le si avvicinò. Le diede tutto il tempo di respingerlo, se non lo desiderava, oppure di fuggire, se si sentiva offesa. La lasciò libera di decidere cosa fare, ma non potè quantificare il sollievo che provò nella sua immobilità, mentre il sorriso aperto di prima si velava di trionfo. Se non aveva capito così il dominio che esercitava su di lui, allora Sesshomaru non avrebbe davvero saputo come dimostrarglielo in altro modo.
Fu lei, però, ad avere l’iniziativa. Gli posò un bacio leggero sulle labbra, lasciandogli il compito di farlo diventare un famelico desiderio d’amore, che lo spinse ad appoggiarsi su una mano per sostenere entrambi, già pronto a stenderla sull’erba. Una fitta lo fece sussultare, ma la ignorò.
Rin, ovviamente, non era decisa a lasciar correre.
-Aspetta… - mormorò. -…lasciami disinfettare la ferita, dopo prometto di lasciarti in pace…
- È proprio quello che temo – sussurrò lui di rimando.
-Ci vorrà solo un momento… - cercò di giustificarsi, debolmente.
-A maggior ragione può aspettare - tagliò corto, facendo scivolare una mano sul suo fianco. Le sue dita cercarono la chiusura del kimono, mentre Rin cercò di rintrarsi ancora.
-Per favore – chiarì, e questa volta la voce sembrò più ferma, - se non mi lascerai fare giuro che lancio uno strillo.
Sesshomaru si scostò leggermente, mordicchiandole un orecchio con fare provocatorio. –Ah sì?
Il nodo stava stretto nel suo palmo, e si mise all’opera per eliminarlo del tutto e raggiungere il proprio obbiettivo.
-Sì – promise la ragazza. Era leggermente a corto di fiato.
-Griderò così forte che tutti penseranno che sto subendo violenza… - continuò, seguita dalle labbra di Sesshomaru sul suo collo, -…e arriveranno decine di contadini armati di arco e frecce.
La prospettiva gli sembrava così divertente che, se fosse stato nel suo stile, sarebbe scoppiato a ridere. Affondò il viso nella sua scollatura, perdendosi fra la stoffa profumata. Un altro po’, e sarebbe stata completamente nuda. Se non era nei suoi desideri, perché non lo fermava?
-In effetti, sono davvero impaurito da questa prospettiva – ammise, passando piano la lingua sul solco fra le clavicole, -…ma ne vale decisamente la pena.
-Uhm…. – replicò Rin. Reclinò la testa, esponendo spudoratamente il collo per il suo diletto, senza il minimo rimpianto. – Non mettermi alla prova.
Per lui, ogni parola era un brivido. Cercare di posserla sentendosi chiamare con tanta familiarità era un’emozione che non aveva mai sperimentato prima, e doveva ammettere che era a dir poco piacevole. Fece una grandissima fatica a placare le scosse al ventre, il fuoco ribollente che lo stava spingendo sempre di più verso di lei, ma riuscì in qualche modo a trionfare su sé stesso.
Pur di bloccare qualsiasi urlo (lui sapeva che ne sarebbe stata capace e si sarebbe perforato un timpano), tornò ad assaltare dolcemente le sue labbra. Una parte del kimono di lei, così facendo, si macchiò di sangue caldo, vischioso, ma non le diede modo di farci caso.
Non seppe dire quanto rimase così, soltanto si rese conto di dare le spalle al centro abitato, abbastanza lontano, e di tenerla premuta contro la corteccia. Allentò la stretta senza smettere di baciarla, assecondando un ritmo da lei imposto.
Un’esclamazione spazientita alle sue spalle rischiò sul serio di farlo degenerare, evitandogli per un soffio di morderle il labbro con le zanne snudate.
-Beh, non mi sembra proprio che stia per morire! – sbottò quell’inetto di Inuyasha.
Kagome, al suo fianco, era arrossita. I singhiozzi della bambina l’avevano convinta ad uscire di casa, senza nemmeno sistemarsi i capelli nella coda che usava di solito.
-Non guardare, non guardare – si affrettò a dire, spingendo il viso della bimba contro le proprie sottane. Inuyasha aveva incrociato disgustato le braccia. Anche se il corteo poteva vedere solo le spalle possenti e tese di lui, per altro squarciate da un lampo insanguinato impresso sulla stoffa candida, potevano perfettamente immaginare cosa stessero facendo.
-Cosa succede, mamma? – domandò Mirei, affogata nella stoffa rossa. Sembrava più incuriosita che spaventata.
-Niente, niente, non preoccuparti – intervenne Sango, in fretta.
-Accidenti a te, Inuyasha! C’era proprio bisogno di fare tutta questa manfrina? – lo rimproverò Kaede, risentita. Aveva dovuto spostare tutto il proprio arsenale in fretta e furia, senza nemmeno sapere se le proprie medicine fossero adatte a curare un demone, e ora si trovava davanti quella scenetta.
Sesshomaru roteò gli occhi in silenzio quando sentì la risposta abbaiata di Inuyasha, riempita di parole infantili per discolparsi. Com’era prevedibile, intervenne la sua donna a calmare le acque, per poi aggiungere al coro anche i compagni che lo avevano accompagnato nel suo viaggio.
Rin, ovviamente, era rimasta a dir poco imbarazzata dall’incontro, mettendosi  a sedere e sistemando in fretta il kimono, chiudendolo laddove lui l’aveva faticosamente tolto.
-Visto? – bisbigliò. –L’avevo detto io che era meglio andarsene.
Nonostante gli diede un leggero fastidio alla pelle, scosse le spalle con simulata noncuranza, in un gesto che non gli era affatto familiare. –Ci avrebbero cercato lo stesso.
-È vero. Ma forse non ci avrebbero trovato.
-Comunque sia, è tardi, ormai – concluse. Poi si voltò, senza sollevarsi in piedi.
C’era il gruppo al completo. La sterminatrice cercava di coprire gli occhi alla figlia da quando la sacerdotessa aveva preso a bisticciare con il compagno, mentre il monaco si era offerto di aiutare la vecchia a stare in piedi.
-Oh, Divina Kagome, non è forse nobile che Inuyasha si preoccupi per suo fratello?
-Bada a come parli, bonzo! – scoppiò il mezzo-demone, prevedibile quanto un bambino. Abboccava all’amo con nausenante facilità.
-Inuyasha, smettila! – intervenne la donna incinta, un’ennesima volta. Il viso di Sesshomaru si mantenne imperturbabile nonostante la sua apparizione, in quanto non poteva permettersi di giudicare.
Presi com’erano dal loro personale battibecco, li avevano obliati completamente.
-Andiamocene – sussurrò il demone all’orecchio di Rin, e a ragazza annuì debolemente. Lo aiutò a mettersi in piedi anche se non ce ne fu bisogno, si alzò a sua volta dopo aver raccolto le cure e si fece prendere in braccio.
In un solo, elegante movimento, Sesshomaru fu un grado di cominciare a librarsi da terra, tenendosela stretta al petto per assicurarsi di non farle male. L’aria del pomeriggio era ancora tiepida, consentendo a chiunque di mantenere fresco nella memoria il periodo estivo che si stava affrontando, costantemente.
-Ma insomma! – sentì dire al fratello, - si può sapere perché diavolo tutti adesso sono contro di me?!
Sorvolando il cielo terso lanciò un’unica occhiata alla bambina, figlia della sterminatrice. Era la sola del gruppo che guardasse il cielo, visto che le era stato impedito di fare altro, e fissava assorta le nuvole. Non aveva avuto paura di incrociare il suo sguardo quando aveva notato che lo guardava, e ora nei suoi occhi da creatura innocente c’era solo la curiosità e lo stupore di vederlo ancora vivo e vegeto, a dispetto di ciò che aveva pensato.
Lentamente, la piccola bocca rosata si schiuse in un sorriso timido ma comunque aperto. Questo gli fece pensare di dover scambiare qualche parola, con lei, non appena ce ne sarebbe stata l’occasione.
E che, forse, avere un figlio non sarebbe stato poi tanto male.
 
QUEEN SALUTA:
HEYLA!! Buongiorno a tutte/i. Scusatemi i vari ritardi di quest’ultimo periodo, me ne dispiaccio molto ed è sempre una sofferenza stare lontano da voi :- (
Qualche capitolo fa vi avevo detto che, una volta raggiunte le duecento recensioni, vi avrei dedicato un racconto nella sezione favola, come ringraziamento. Ebbene, il proposito non è cambiato; non appena avrò pubblicato ve lo farò sapere :D
Innanzitutto, grazie moltissimo per il vostro sostegno, sono un’autrice fortunatissima ad avere delle persone spendide come voi per lettrici! :D
Vi lascio a questo capitolo un po’ alla “50 Sfumature di Sesshomaru”, ahahah!!
Baci! 

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Capitolo 45
*** Bambini ***


I giorni scorrevano tranquilli, avvolti da una strana quanto confortante serenità. Le settimane trascorrevano senza intoppi, e Kagome viveva la quotidianità con tutta la calma che poteva concedersi.
Era da qualche settimana, ormai, che la venerabile Kaede aveva limitato drasticamente i suoi doveri, confinandola qualche pomeriggio in giro per la piana ad accudire i bambini.
Era un compito che le piaceva: i ragazzini del villaggio si facevano bastare poco per essere felici, ed erano anche estremamente ubbidienti. Non serviva nemmeno che si scervellasse troppo con delle attività da far fare loro, visto che riuscivano a trarre entusiasmo da qualsiasi cosa.
Passavano delle ore a classificare bacche, radici e piante dallo stelo lungo, e la ascoltavano affascinati. Questo le permetteva di riposarsi quel tanto che le serviva e assolvere, allo stesso tempo, le sue mansioni. Quando il pubblico era esclusivamente femminile, insegnava loro come intrecciare ceste oppure rammendare dei kimono; se si trovava immersa solo fra i maschietti, appendeva un fazzoletto ad un ramo e si proclamava giudice della gara di corsa.
Questo li teneva impegnati, anche a gruppi misti. Le ragazze avevano imparato a stare con loro senza farsi problemi, e Kagome riteneva che fosse essenziale per costruire un futuro al villaggio. La maggior parte delle contadine, infatti, non aveva avuto modo di passare del tempo con qualcuno dell’altro sesso se non dopo il matrimonio. Non era la sola a pensare che fosse una cosa traumatica ma, si sa, le tradizioni sono veramente dure a morire.
Per questo cercava di abituare i più giovani a non rinchiudersi in mondi abitati solo da determinate cose, ma di allargare i propri orizzonti. Così, finalmemente, i bambini avevano imparato a leggere, scrivere e sognare.
Alcuni volevano diventare dei pittori. C’era qualche esploratore e un paio di levatrici, assieme ad un’aspirante sacerdotessa e a un futuro medico. Poi vi erano i poeti, i contadini, i fabbri…ognuno si divertiva ad immaginare con occhi nuovi il proprio avvenire, e non sarebbe stata di certo lei a fermarli.
Se qualcuno si faceva male, interveniva sempre Inuyasha. Era fermo e deciso quando si trattava di frenare liti o battibecchi ma, se Kagome lo beccava a controllarla per paura che si facesse male, si ritraeva fra i rami e repingeva le offerte di unirsi ai giochi.
Lei lo lasciava fra i suoi alberi, ben conoscendo il suo carattere suscettibile. Volendo avrebbe potuto usare tutta la sua arte di persuasione per farlo partecipare al gruppo, ma aveva fin troppi bambini da gestire, non gliene serviva uno in più. E non si stava riferendo a quello nel suo ventre.
Essere incinta, nonostante fosse già arrivata al settimo mese di gravidanza, le pareva ancora una cosa stranissima. Era come se alla sé stessa che era abituata a vedere, con cui conviveva giorno dopo giorno, si fosse sommata una sorta di sensazione di completezza. Le pareva quasi che la sua vita di prima fosse stata mancante di un elemento, un tassello fondamentale, ma, a parte questo, non poteva dire con certezza di aver subito altri cambiamenti.
Alla fin fine, rimaneva ancora una ragazza spensierata e lavoratrice. Delle volte si interrogava sul proprio istinto materno, o se nonostante la sua giovane età fosse pronta a sopportare una cosa del genere, e si rispondeva sempre affermativamente. Anche se in Giappone fosse comune che le ragazze aspirassero al matrimonio, infatti, Kagome aveva scoperto questo desiderio solo dopo aver conosciuto Inuyasha.
Certo, era stata una sognatrice incallita, ma mai un’illusa. Anzi, delle volte aveva persino pensato di preferire una vita composta solo dal lavoro: ora vi ripensava inorridiva, visto quanto sarebbe stata vuota.
-D’accordo, bambini – disse, tornando al presente. –Chi arriva là in fondo prima degli altri, vince. L’ultimo dopo viene a contare con me per un giro, va bene?
Ricevette un coro entusiasta come risposta.
-E sia! – dichiarò, accomodandosi sulle radici nodose di un albero. Il tronco dritto e solido la aiutava a sopportare meglio il peso depositato sulla sua schiena.
I ragazzi fremevano per partire. I più grandi avevano da poco compiuto i dodici anni, ed erano nel pieno di quella che sarebbe stata la loro gioventù: erano pronti a qualsiasi sfida, intemperia o fortuna che la vita avrebbe potuto offrire loro, e non vedevano l‘ora di poterne assaporare tutte le sfaccettature.
In un villaggio piccolo come quello, e anche piuttosto isolato, non sarebbe stato facile fare strada, ma non voleva spegnere tutti i loro sogni. Poteva dire che cercava di non fomentarli troppo, ecco, giusto per proteggerli da future delusioni.
Si poteva quasi dire che fosse una sorta di madre o, per lo meno, agiva come tale. All’ombra la frescura di settembre la cinse in un rassicurante abbraccio, e lì diede il via alla gara. Com’era prevedibile, una nuvola di polvere si sollevò laddove prima c’erano stati i talloni dei partecipanti, e prima che potesse sparire passò qualche secondo.
Sentì un fruscio sopra alla sua testa. Nella mente, i numeri del conteggio venivano scanditi lentamente, con precisione, e per evitare che dei pensieri la distraessero cercava di applicare ad ognuno tutte le regole matematiche che aveva imparato a scuola, nello spazio di un secondo.
Il non riuscirci invece che frustrarla, la manteneva serena: almeno così aveva una precisa idea di cosa, fortunatamente, non avrebbe più potuto preoccuparla.
La sfida che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi era in realtà molto semplice.  Un fazzoletto bianco sventolava come un miraggio su un ramo basso di una quercia a diversi metri di distanza da lì; il primo che fosse arrivato, avrebbe dovuto prenderlo e tornare indietro. Vinceva chi tornava al punto di partenza con il trofeo. Poi si faceva una piccola pausa e, se tutti erano d’accordo, si ripartiva.
Ovviamente si ridava puntualmente il via.
-Come sta andando? – chiese una voce sopra alla sua testa.
Kagome sussultò, prima di voltarsi di scatto, il cuore a mille.
-Santo cielo, Inuyasha! – boccheggiò. L’aveva colta così di sopresa, rendendola vulnerabile, che non era nemmeno riuscita a riconoscere il suo timbro profondo.
Inoltre, di solito, non si presentava mai durante le attività pomeridiane, ma sbucava solo se c’era qualche problema. E, vedendo come i ragazzini si stavano affannando davanti al traguardo, le pareva proprio che tutto stesse andando bene.
Vide subito l’espressione del giovane accartocciarsi. Scivolò vicino a lei e si mise seduto a gambe incrociate, facendo sprofondare la testa nelle spalle temendo forse una lavata di capo ma mantenendo un’espressione quasi altezzosa, giusto per farle vedere che era ancora padrone della situazione.
-Scema! Sei tu che ti spaventi per nulla! – si difese, senza guardarla.
Kagome sentì il familiare fastidio montarle nel petto. Sapeva benissimo che era nell’indole di Inuyasha fare così, ma proprio non riusciva a sopportarlo.
-Nulla, eh? Scusami sai se non sono abituata all’apparizione delle persone dagli alberi! – controbattè.
-Beh, dovresti esserlo, ormai! Mi spieghi cosa avresti fatto se non fossi stato io? – teneva gli occhi ben chiusi e le soppraciglia aggrottate, la testa voltata altrove.
Ecco, era successo di nuovo. I suoi nervi avevano cominciato a saltare come popcorn in una pentola.
La faccenda divertente era che solo lui riusciva a farle perdere così spesso la pazienza; con le altre persone riusciva a mantenersi ragionevole fino a quando non si passava il limite, e anche allora non dimostrava niente fuorchè fastidio. Non le piaceva irritarsi, le dava una brutta sensazione allo stomaco, ma non sopportava nemmeno che una persona nella parte del torto si ostinasse ad avere ragione.
-Avrei partorito sul posto, ecco cosa! – esclamò, fissandolo accusatrice. Questo bastò per farlo arrossire, ma non si sarebbe mai arreso per così poco.
-Non dire stupidaggini, è ancora troppo presto!
-Tu sottovaluti il mio potere! – strillò, alzandosi in piedi. Aveva urlato quella frase arci-nota nel futuro così forte che persino i ragazzi si erano fermati, voltandosi per scoprire cos’era successo.
Inuyasha si era ritratto così tanto da guardarla ora con occhi spalancati. Appena di rese conto di aver avuto una reazione esagerata, avvampò, soprattutto sentendo le parole dei ragazzi più grandi.
-Ah, è solo Inuyasha-kun che le rompe le scatole! Forza, continuiamo a giocare!
Da un lato era un bene che avessero ripreso senza particolari scenate o domande, visto che nemmeno lei avrebbe saputo giustificare quell’esplosione improvvisa. Ancora risentita, si risedette, posandosi una mano dietro la schiena per sostenersi: un lieve capogiro aveva sconvolto il mondo davanti ai suoi occhi, rendendolo un turbine di elementi non meglio specificati.
Appoggiò la nuca alla corteccia con una smorfia. Quei leggeri mal di testa non le davano affatto fastidio, anzi, era facile ignorarli, ma si sentiva stupida di esserne stata la causa, per una ragione così sciocca, poi. Inuyasha era il padre del suo bambino, e per certi versi era terribilmente infantile anche lui. Quindi avrebbe dovuto sapere come controllarsi, accettando con il silenzio le sue provocazioni. Tuttavia non ce la faceva mai, e si risolveva sempre in un battibecco che, per quanto poco importante, le faceva dubitare sempre di più della sua pazienza.
-Sei bella quando ti arrabbi – borbottò Inuyasha, distogliendo lo sguardo. Evidentemente stava cercando di rimediare a quello che le aveva detto; era il suo modo di assurmersi la colpa e di chiederle scusa.
Kagome sorrise, intenerita. Era così carino quando arrossiva e faceva finta di nulla! In quei momenti ricordava appieno perché si fosse innamorata di lui, tutto le tornava alla mente con estrema limpidezza.
Era come se fosse il primo giorno in cui se ne rese conto: lo sconvolgimento era stato garnde, ma aveva appurato il tutto con un certo sollievo, visto che ora aveva saputo dare un nome al fuoco che la divorava dentro.  Ogni volta che succedeva una cosa di quel genere, tutto ciò riaffiorava nella sua anima, colmandola.
Al suo fianco aveva una persona davvero speciale.
Questo, però, non l’avrebbe convinta a dargliela vinta tanto facilmente.
-Bugiardo e adulatore – commentò con un sorriso dolce. Vedendo quanto ancora temesse un cambio d’umore con conseguente scarica di parole, cercò di zuccherare ancora un po’ il tono, senza però far vedere quanto l’avesse perdonato. –Facciamo che per questa volta dimenticherò tutto, intesi?
Che fatica trattare con lui!
-Intesi – lo sentì mormorare dopo un po’. –È solo che mi preoccupo per te.
-Lo so, Inuyasha, lo so. Capisco la tua apprensione, ma la mia salute cardiaca non migliora troppo se mi sbucano facce da dietro le spalle.
-Ho provato a chiamarti – si giustificò.
La sacerdotessa alzò un sopracciglio, poi sollevò un indice e gli fece ascoltare attentamente quali erano i suoni principali che coprivano l’aria: urla, risate, sclapicci, corse, canti, filastrocche e fruscii.
Dopo di questa, il mezzo demone abbassò definitivamente lo sguardo, crucciato. Poi, alla sprovvista, la abbraciò stretta, lasciandola senza parole.
I bambini non si erano accorti di niente. Era davvero stranissimo che lui si lasciasse andare a slanci d’affetto così all’improvviso, che la cingesse con ardore e una punta di disperazione quando chiunque poteva vederli. Inuyasha era molto riservato su certe cose, e lei non aveva mai voluto che facesse diversamente, visto che condivideva con lui l’idea che la dolcezza fosse una cosa strettamente personale.
Tuttavia provò indubbiamente un certo piacere nel sentire le sue braccia forti circondarle la schiena, con un moto di preoccupazione sincero. Lei non provò nemmeno a respingerlo, nonostante il singulto incastratole in gola. Fece scivolare le proprie mani sulle sue scapole tese, vi si aggrappò, sentì sotto ai polpastrelli la stoffa rossa tanto familiare, assaporò per l’ennesima volta quel profumo che, a poco a poco, stava diventando anche il suo.
Le sue falangi corsero subito nel punto che più amava, ovvero la nuca. Quando aveva occasione di premersi contro il suo petto, lasciava chei palmi gli sfiorassero il collo, e lei poteva toccare, indisturbata, i batuffoli morbidi di capelli non ancora cresciuti del tutto. La sua chioma era lunga e folta, soprendente per un uomo, ma quella parte rivelava un lato quasi vulnerabile, una sorta di umana concezione della capigliatura. Era decisamente il suo punto preferito: si avvolse subito una piccola ciocca attorno al polpastrello, senza neppure pensarci.
L’altro avambraccio gli solcava trasversalmente la schiena, sentendo le piccole sporgenze delle vertebre. Non sembrava intenzionato a spostarsi da lì, ma i suoi muscoli tradivano un’angoscia così profonda che ne rimase angosciata anche lei.
-Cosa c’è? – bisbigliò al suo orecchio.
-Niente.
-Non mentirmi, Inuyasha – disse dolcemente, sfiorandogli ancora l’attaccatura dei capelli. A questo lo sentì cedere.
-È…successa una cosa.
Il tono vagamente titubante la preoccupò. Al quadro si aggiunse quell’abbraccio improvviso e l’immobilità del suo corpo contro il proprio. Solitamente, si spingeva fino a rubarle un rapido bacio se nessuno poteva vederli, dopo essersene assicurato con tutti i cinque sensi. Lì, invece, erano completamente esposti non solo agli occhi dei bambini, ma anche a quelli di possibili avventori, visto che qualche contadino poteva sempre percorrere la strada all’inverso per andare a recuperare qualcosa.
-Quanto grave? – chiese, con una profonda ansia. All’improvviso il suo cuore era scivolato nel baratro, facendola annaspare sulla riva pur di sottrarvisi.
-Beh…abbastanza, credo – replicò, sempre affondato nei suoi capelli, che stavano crescendo.
-Come sarebbe a dire “credo”?
-Nel senso che non saprei dire se è una bella o una brutta notizia – disse di nuovo, enigmatico.
-Inuyasha, o mi spieghi tutto in dieci secondi oppure ti mordo un orecchio. A sangue – minacciò lei, già pronta a spalancare la bocca.
Lo sentì deglutire e tendere la schiena ancora di più. –Si tratta di Rin. È incinta.
Oh. La prima cosa che le venne da pensare fu quella. L’abbraccio divenne all’improvviso una camicia di forza, particolarmente stretta, ma da un lato era lieta che non fosse nulla riguardante la loro storia. Il loro amore non era in pericolo, e questo la sollevava, ma ammetteva comunque che quella novità andava presa con le pinze.
Aspettare un figlio da Sesshomaru equivaleva a portare in grembo un mezzo-demone, una creatura disprezzata e molto spesso odiata da lui. Ogni qual volta che se ne presentava l’occasione, Sesshomaru mostrava il suo disprezzo senza mezzi termini, privo della paura umana di esagerare con le reazioni e di doverne subire le conseguenze.
Inuyasha era una prova lampante di questa sua avversione: forse era legata ad una questione caratteriale, oppure una ripicca personale che riguardava la sua famiglia, coinvolta appieno nell’avere un mezzo-demone in casa, e spesso Kagome si era convinta che tutto il suo odio fosse originato da quello. Essendo stata Izayoi l’amante di suo padre, probabilmente era comprensibile che il ragazzo non gli stesse a cuore.
Aveva presto capito che non era affatto così; Sesshomaru non sopportava la presenza di tali persone fra tutte le altre, ed estendeva questo suo schifo nel loro confronti a tutti gli elementi di quella categoria. Non era nella sua testa importante il fattore del tradimento, bensì l’aver macchiato il sangue nobile del casato aristocratico. Componevano un’elite fra i demoni, e quell’immagine era stata compromessa forse irreparabilmente.
Certo, quando si trattava di Rin, moltissime certezze si sgretolavano. Kagome era rimasta sin da subito rapita dalla loro storia d’amore, ne aveva seguito gli sviluppi con immenso interesse e una certa palpitazione. Prima poteva avere certe malcelate dolcezze soltanto racchiuse in un romanzo, ma seguire gli sviluppi di un amore proibito con i propri occhi era decisamente un altro paio di maniche.
Quando aveva appreso che la ragazza seguiva il demone nei suoi spostamenti, tutte le cose che credeva di sapere su di lui erano andate in frantumi. Se c’era una cosa che Sesshomaru detestava molto più dei mezzo-demoni, infatti, erano gli esseri umani. Se proprio vi era costretto, sapeva avere un contegno nei loro confronti, ma in genere preferiva ucciderli o evitarli. Più la prima, forse.
Comunque, in quell’istante, Kagome cercò appiglio sulle spalle forti di Inuyasha, sperando con tutto il suo cuore che, ancora una volta, Rin facesse eccezione nel suo rigido codice personale. Lei aveva sofferto così tanto per amore, era ancora troppo giovane per sopportare quella che, nell’epoca Sengoku, era l’onta peggiore di cui qualcuno potesse essere vittima. Lei e suo figlio meritavano il meglio: pregò affinchè anche Sesshomaru se ne rendesse conto.
-Ne parliamo dopo – bisbigliò al suo orecchio, riprendendosi. Non aveva senso chiedergli com’era riuscito a scoprirlo, visto il suo olfatto allenato, e non era il momento adatto per cercare di capire quale impatto emotivo avesse avuto, quella scoperta, su di lui.
Lui annuì piano, sciogliendosi dall’abbraccio. Le si risedette accanto guardando l’orizzonte con aria assorta; nel frattempo, i bambini più alti si stavano sbracciando per arrivare al fazzoletto.
-Non credi di averlo legato un po’ troppo in alto? – chiese Kagome, inclinando la testa. Quel pomeriggio l’aveva incaricato, come al solito, di fissare il punto del premio, solo che, da quella lontananza, non si era resa conto di quanto fosse eccessivo.  
Un ghigno si disegnò sul volto del ragazzo.
-Si devono sudare i propri successi.
“Un ragazzino”, pensò rassegnata Kagome, “Inuyasha è proprio un ragazzino”.
-Non ti sembra di esagerare? – chiese, già prevedendo la risposta.
-Feh! Per così poco! Devono…
- … imparare a farsi le ossa – completò lei, alzando gli occhi al cielo, - sempre la stessa storia.
Lui le avvicinò il viso contro, fino quasi a sfiorarle la guancia con la punta del naso, incuriosito. Forse aveva capito che quel cambio d’umore non sarebbe stato necessariamente nocivo alla sua salute, e si arrischiò ad invadere il terreno nemico.
-E adesso che cosa vorresti dire? – domandò, circospetto. Lei si voltò di scatto, volutamente per farlo arrossire. Compito riuscito, un’ennesima volta.
-Esattamente quello che ho detto – rispose, con aria di sfida. Forse si era fatto più saggio di quello che ricordava, perché non controbattè e se ne stette in silenzio.
Passarono alcuni momenti in cui osservarono lo spettacolo di quei poveri ragazzi, mentre si affannavano per raggiungere il trofeo. Sarebbe stato arduo, però, perché evidentemente quando l’aveva fissato si trovava sopra ai rami, ed erano troppo esili per ospitare piedi inesperti come potevano essere i loro.
La loro unica alternativa era quella di ingegnarsi a trovare una soluzione, ma persino Kagome si domandava come sarebbe andata a finire. Non si alzava perché non sarebbe riuscita comunque a prendere il lembo di stoffa, e aveva solo quello a disposizione, e poi era curiosa di scoprire cosa si sarebbero inventati.
Erano bambini molto fantasiosi, ne era certa. Per certi versi le ricordarono Sota.
-Sei veramente crudele – constatò lei.
-Sei tu, quella buona – ribattè, molto semplicemente, ma era assorto esattamente come Kagome. Forse anche lui voleva scoprire se avrebbero vinto oppure no, contro il suo giochetto infame.
-Uhm… - commentò Kagome, - …da quando ho perso il ruolo di “persecutrice”?
Magari fu solo una sua impressione, ma le parve che Inuyasha avesse sorriso con un angolo della bocca, impercettibilmente.
-Diciamo che non l’hai mai avuto – disse, scrollando le spalle, ma puntò lo sguardo sulla piccola battaglia lì di fronte per evitare altri commenti.
Mostrare il suo lato dolce lo imbarazzava, e la sacerdotessa decise di godersi il suo attimo di gloria in silenzio. Era il suo modo di dirle quanto tenesse a lei e al bambino in arrivo, oltre agli sguardi emozionati al suo pancione ogni volta che la guardava.
Ad un tratto, uno dei ragazzini più piccoli sbucò dal gruppo e si mise a strillare qualcosa, anche se lei non riuscì a capire una parola. Piano piano, tutti i ragazzi si fermarono, stanchi e sudati, e si misero ad ascoltarlo; ad ogni parola, sembravano sempre più persuasi che non stesse dicendo una sciocchezza, e ora nessuno si dedicava agli affari propri.
-Cosa stanno dicendo? – chiese Kagome, incuriosita da quell’aria cospiratoria. Ma, non appena si voltò e vide che Inuyasha aveva un vero e proprio sorriso di trionfo in faccia e che non la stava ascoltando, decise di lasciar perdere.
Forse era stato qualcosa di così importante da distrarre persino lui, che stava muovendo le orecchie per ascoltare meglio. Ignorata, la fanciulla ne aprofittò per prendergli la mano senza venire scacciata; in fondo, cete cose avevano anche i propri privilegi…
Davanti a lei, intanto, avevano ripreso a darsi da fare. I più grandi erano in piedi davanti a quelli più bassi, e i secondi si stavano arrampicando sulle spalle forti dei ragazzi. Le signorine lì intorno raccoglievano fiori e li facevano svolazzare concitate nelle mani come tante frenetiche farfalle, per incitare il loro favorito.
Il bambino si era spostato e osservava il lavoro con occhi critici, continuando a spostare avanti e indietro le braccia per far capire agli altri come dovevano muoversi, affiancato da una bimba più o meno della stessa età. Aguzzando la vista, vide che si trattava di Kai, e della sua sorellina: il giorno prima le aveva detto che gli sarebbe piaciuto fare l’inventore.
Kagome spalancò gli occhi, cominciando a capire. Se la bandierina era troppo alta, allora bisognava trovare un modo per riuscire a salire più in alto, e pareva che l’avessero trovato. Stavano creando una sorta di piramide fra coppie di giocatori; mentre prima la gara era singola, ora c’erano delle squadre.
Vedere un così grande ingegno sfruttato su un gioco banale le riempì il cuore. Alla fine, il suo scopo era quello di spingere i bambini a pensare con la propria testa, senza creare dei rivoluzionari, ma cercando di instillare in loro uno scopo. La maggior parte dei loro padri, fratelli maggiori o nonni, erano rimasti sepolti nella tomba chiamata “abitudine” proprio perché nessuno aveva fatto immaginare loro qualcosa di meglio.
Il loro gruppo, ai tempi di Naraku, era formato da persone che avevano viaggiato e vissuto nuove esperienze, per i quali il diverso compone il normale, e non avevano fatto fatica a miscelare le proprie abitudini l’uno con l’altra. Spesso, proprio per questo motivo, venivano guardati quasi con sospetto ma nessuno di loro, prima d’allora, aveva mai capito il perché. Era stanziandosi in un villaggio che si scopriva il motivo di tanta diffidenza.
Ben presto, il premio fu afferrato, i più giovani scesero dal loro podio e si misero a correre verso il traguardo. Dopo molto più tempo del solito, fra grida trionfanti e risate sollevate, la linea di partenza era scossa da nuvole di polvere e battiti di mani.
Kagome si alzò, ridendo, e si complimentò con ognuno di loro.
-Sono molto fiera di voi! – disse, sorridendo, e tutti le urlarono qualcosa di entusiasta in risposta.
-Inuyasha credeva di farci fessi, eh?
-Chissà cosa pensava di fare!
-Noi non ci cascheremo più!
-Ahaha! L’abbiamo battuto!
Tutti quanti avevano qualcosa da dire, e cominciarono di nuovo a correre sul tragitto inverso per risistemare la bandierina (stavolta ad un’altezza accettabile) e ad iniziare tutto daccapo. Invece che correre ognuno per conto proprio, suggerirono le modifiche delle squadre, e Kagome li aiutò a dividersi attraverso le fazioni in un numero pari di giocatori.
Decise le ultime varianti per rendere il gioco più interessante, partirono di nuovo, pronti a trionfare. Era uno spettacolo davvero divertente vederli in azione, perché sembrava che quel gioco fosse la cosa più importante del mondo.
La sacerdotessa si sedette di nuovo al fianco del suo compagno, sorridendo.
-Perché fai così? – le chiese, burbero; non gli piaceva essere fissato da occhi adoranti, come stava succedendo in quell’istante.
-Sai cosa mi ha appena detto Toishi? – disse, ignorandolo.
-Chi, quello mingherlino con il kimono verde?
-Proprio lui.
La ragazza fece una pausa ad effetto, e il suo sorriso si allargò, non facendogli presagire nulla di buono.
-Beh? – sbottò Inuyasha, infastidito come al solito. Basta un nonnulla per fargli girare le scatole, ma lei fu molto abile a far finta di niente.
-Mi ha detto che da grande vorrebbe essere un mezzo-demone. Proprio come il “signor Inuyasha”. 

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Capitolo 46
*** Prove di Paternità ***


Mirei stava raccogliendo dei fiori da dare a sua madre.
Aveva saputo da sua sorella che la mamma andava pazza per i fiori di campo, e papà aveva spiegato perché: “sono belli e semplici quasi quanto lei”. Il giorno del suo compleanno, ad esempio, aveva fatto un sorriso bellissimo quando sul futon ne aveva trovato un mazzetto e, onorando quella strana festa che Kagome aveva raccontato loro, Miroku le dava sempre dei minuscoli fiorellini bianchi da poco nati sotto il freddo strato invernale.*
Se in quel momento la bambina ci metteva così tanta concentrazione, era solo per risollevare il morale di Sango. Ormai erano quasi due mesi che non ricevevano notizie di Kohaku, e la sua ansia sembrava non conoscere pace. Andava avanti e indietro per casa come un fantasma, faceva il bucato rischiando di lasciar trascinare i vestiti dalla corrente, non riusciva a concentrarsi in ciò che faceva e, al mattino, aveva smesso di andare ad allenarsi nel prato.
Quest’ultimo evento, di fatto, era stata già di per sé una prova evidente della sua sofferenza. Per lei non c’era nulla di più importante dell’esercizio, non si stancava mai di ripeterlo anche alle figlie. Quando Usuke sarebbe cresciuto, avrebbe sicuramente ricevuto un’educazione militare tra le migliori. Un po’ Mirei si sentiva gelosa alla prospettiva, ma in casa era vietato istruirla anche solo in minima parte all’arte delle armi, così si limitava ad assorbire, famelica, quelle ore prima dell’alba dove poteva vedere la vera essenza di sua madre.
Nessuno lo sapeva, ma la bambina sgattaiolava sempre fuori quando lo faceva anche il genitore, con sorprendente puntualità. Amava vedere il suo corpo agile danzare fra le punti lucenti di spade arruginite, di falcetti ricurvi, frecce acuminate e pugnali nascosti. Nonostante i figli e la vita di donna di casa, la tuta nera le stava ancora a meraviglia, adattandosi ad un fisico atletico e scattante.
Eseguiva con precisione ogni singolo movimento, in un furioso balletto tanto letale quanto impareggiabile. La bambina nascosta tra le felci sognava e fantasticava di poterla eguagliare, un giorno, e custodiva gelosamente il proprio posto nascosto come punto d’osservazione. Poi, quando Sango poteva dirsi soddisfatta, la bambina sgusciava nuovamente nel proprio letto, facendo finta di nulla e non vedendo l’ora che arrivasse di nuovo il mattino seguente.
Mirei si spostò un po’ più lontano, per arrivare al gambo di una margherita sottile. Prese lo stelo tra le dita e, con gentilezza, lo raccolse dal suolo, prima di metterlo con attenzione nella sacca di stoffa improvvisata sul ventre. Non poteva accucciarsi troppo per paura di schiacciare le pieghe del kimono arrotolato, così si tendeva fino allo stremo per cogliere solo i fiori migliori.
Il caldo pomeriggio di inizio settembre stava brillando nel pieno del suo splendore. Sopra di lei nemmeno una nuvola, e l’aria tiepida le accarezzava i capelli come la mano paterna. Era un brivido così rassicurante che non si preoccupava nemmeno dello scorrere delle ore; semplicemente, voleva portare a casa la raccolta migliore della sua vita.
Avanzò di qualche altro passo, in una macchia d’erba ricca di piccoli petali azzurri, quasi slavati. Aveva saputo aspettare il momento perfetto: sua sorella era con la Divina Kagome a classificare le erbe mediche, suo padre era in viaggio e sua madre aveva deciso di distrarsi andando a cucire al telaio, al limitare del villaggio. La vecchia signora che lo possedeva era gentile: ogni volta che vedeva arrivare le gemelline, offriva loro qualcosa da mangiare.
Piano, acquattandosi fra gli steli alti dell’erba, aguzzò lo sguardo, certa di aver visto qualcosa muoversi. Il suo sguardo si illuminò: un coniglio! Sì, era proprio un conglietto bianco!
L’animale stava zampettando tranquillamente nella macchia verde, indisturbato. Annusava un po’ l’aria, muoveva le orecchie allungate e si tuffava su qualcosa da mangiare, masticando placidamente qualche gambo di margherita oppure anche un po’ di muschio.
Mirei ne rimase affascinata. Mai prima d’allora aveva avuto modo di osservare un esserino così piccolo da vicino, se si escludevano i bambini umani; sua sorella diceva che era tutta colpa del suo passo pesante, se le creature si spaventavano e scappavano via. Ma non era colpa sua, Mirei ne era certa: se amava ridere mentre correva non era di certo un problema, anche perché in tutte le favole che la madre le aveva raccontato, i coniglietti amavano le risate dei bambini. Solo gli oni malvagi scappavano se ne sentivano una, non di certo dei graziosi batuffoli di pelo.
Non provò nemmeno ad avvicinarsi, questa volta, affascinata com’era dal vederlo mangiare. Aveva imparato con l’esperienza che non è mai un bene infastidire un animale mentre mangia: ne aveva avuto un chiaro esempio con il Signor Inuyasha che, tutto preso com’era dall’ingozzarsi, se l’era presa con Shippo per il semplice fatto che, camminandogli davanti, gli aveva dato fastidio.
Delle volte sapeva essere davvero infantile, quello. Era per questo che spesso si era chiesta come facesse una donna tenera come la Divina Kagome a sopportarlo e, anzi, a volere adirittura un figlio da lui. Se doveva essere sincera, comunque, Mirei credeva fosse per le sue orecchie, le quali ricordavano molto il pelo morbido del coniglio. Quando l’aveva confidato ai suoi gentori erano scoppiati a ridere, ma lei lo pensava sul serio.
La testa dell’animale si voltò di scatto, cogliendola di sorpresa. Nella furia di trattenere un urlo, Mirei ebbe un singulto muto, ma tanto bastò per smuovere leggermente l’erba davanti a sé. L’animale doveva essere davvero molto sensibile perché, rizzatosi sulle zampe posteriori, aveva preso a correre dalla parte opposta come una furia, sparendo presto dalla sua vista. Nel muoversi, aveva emesso solo un leggero fruscio.
-Oh, che peccato – mormorò la bambina fra sé e sé, dispiacendosi di com’era andata a finire. Perché doveva essere sempre tanto maldestra, come diceva sempre sua sorella?
-Ancora tu – disse una voce alle sue spalle. Era profonda, nota e terribilmente minacciosa.
Questa volta, per quanta buona volontà ci avesse messo, Mirei non riuscì a trattenersi: diede sfogo allo spavento di pcoo prima e svuotò totalmente i polmoni con uno strillo acuto e penentrante, che quasi la stordì. Il suono squillante venne interrotto quando, voltandosi, scoprì chi aveva davanti.
Fra l’erba, poteva vedere solo due piedi. Erano comunque molto più grandi dei suoi, e dalle scarpe partivano due solidi pali nascosti dalle pieghe di candida stoffa rigonfia, mordida, che aveva lo stesso odore del ghiaccio. Una cintura colorata faceva da obi, ma la strana chiusura le faceva pensare alla particolarità del vestiario; il giallo svolazzante si univa presto ad un bordo rosso dipinto sulle maniche ampie, come macchie di sangue fresco.
Sollevando ancora un po’ lo sguardo, notò la cima di una lunga stola pelosa, morbida e calda, un’armatura chiusa con ganci sulle spalle e una massa di capelli argentei, perfetti, che ricadeva disciplinata come una colata di neve fusa, ben oltre le spalle.
Alzò la testa un altro po’, ormai senza più nessuna paura. La sua terribile curiosità l’aveva distratta da tutto il resto: doveva scoprire chi era il nuovo venuto e perché non aveva sentito il suo passo dietro di lei.
Il mistero venne svelato da una mezza-luna violacea sulla sua fronte, disegnata perfettamente sulla pelle diafana. Gli zigomi tesi erano colorati da cicatrici della stessa gradazione, sottili linee eleganti che sparivano oltre le orecchie affilate. Il naso stesso sembrava una lama, così dritto e fiero, mentre gli occhi gialli e intensi come la luna la stavano fissando con la consueta compostezza.
-Signor Sesshomaru! – esclamò, meravigliata. Una bambina di quasi sei anni accucciata nell’erba alta che fissava un demone di quasi due metri era uno spettacolo a dir poco comico.
Sesshomaru non rise, ovviamente. –Così sembra – si limitò a replicare, prima di passarle accanto senza voltarsi indietro.
Mirei non era un tipo che si arrendeva così facilmente. Nonostante tutte le cose che aveva sentito sul suo conto, credeva che anche lui fosse una brava persona; se una ragazza meravigliosa come Rin avesse deciso di dargli un figlio, significava che doveva avere moltissime qualità. E poi, anche se parlava poco, aveva una sorta di gentilezza nei suoi confronti che avrebbe comunque voluto ricompensare.
Si sollevò senza curarsi dei fiori, - ora una pioggia che aveva preso a cadere dalle sue ginocchia fino a terra -, e gli trotterellò dietro, fissando solo la sua schiena e le pieghe ordinate del kimono che si muoveva. Dovette sgambettare freneticamente per raggiungerlo, visto che poche falcate superavano nettamente una decina dei suoi passi, ma riuscì comunque ad affiancarlo.
-Ma allora non siete morto – constatò la bambina. Vedendolo così pallido, quasi quasi non ci aveva creduto.
-Non questa volta – disse, laconicamente, senza arrestare la sua avanzata.
-E tutto quel sangue? Come avete fatto a rimetterlo dentro?
-Non l’ho rimesso dentro – osservò semplicemente, continuando a fissare dritto avanti a sé.
Mirei assunse un’espressione dubbiosa. –Come avete fatto a sopravvivere senza?
-La nobile Rin mi ha curato – concesse.
La bocca della bambina di schiuse dalla meraviglia. –Oooh! La nobile Rin dev’essere davvero abile, allora.
-È così – confermò Sesshomaru, senza fermarsi ma rallentando, incosciamente, il passo.
Per Mirei fu un gran sollievo, poter smettere di affannarsi, e ora bastava soltando camminare speditamente per stargli appresso. Aveva ancora molti dubbi su come avesse fatto a rimanere in vita, ma la cosa che la crucciava maggiormente era sapere come facesse ancora a muoversi. L’aveva visto sotto quell’albero, settimane prima: perdeva così tanto liquido rosso che tutto il kimono era inzuppato, e anche sulla corteccia era rimasto qualche segno color cremisi.
 -E…adesso dove state andando? – chiese di nuovo. Quella figura la incuriosiva così tanto che, visto che ce l’aveva a portata di mano, non voleva perdere l’occasione di intervistarla.
-A trovarla.
-A trovare chi? – Mirei proprio non capiva.
-La nobile Rin – spiegò Sesshomaru, con voce di un’ottava più bassa. Sembrava che per un attimo l’ambra nei suoi occhi si fosse schiarita, diventando simile al miele. Ma, non riuscendo a vederlo bene in viso, poteva benissimo darsi che fosse solo un riflesso. Nei capelli argentei, ad esempio, bastava un raggio di sole per far rimbalzare migliaia di sfumature lungo tutta la chioma.
-Le state portando un regalo? – chiese ancora, immaginando che il demone facesse la stessa cosa di suo padre, ogni volta che rincasava da un viaggio lungo.
Il demone ci mise un attimo a rispondere, ma la sua voce distante si fece udire lo stesso: -Sì.
Ancora una volta, Mirei aprì la bocca dallo stupore. –Che bello! E che cos’è?
-È una sopresa – spiegò il demone, dandole solo un’occhiata di sfuggita, - non si può dire.
La bambina rimase delusa, ma capiva che i giochi fra le persone amate andavano rispettati. Aveva sentito al villaggio che Rin aspettava con ansia il suo ritorno, e il regalo era una conferma del fatto che lui le fosse di nuovo accanto; forse, se l’avesse svelato a qualcuno, non avrebbe avuto lo stesso effetto. Fu per questo che decise di non insistere.
-Signor Sesshomaru…posso domandarvi una cosa? – disse Mirei, in un raro momento di silenzio. Non aveva mai smesso di corrergli appresso, e ora si sentiva stanca. Aveva voglia di sedersi, ma non avrebbe mollato l’osso per nulla al mondo.
-Non  mi pare tu abbia fatto altro, fino ad adesso – osservò, lanciandole un’occhiata di sbieco. Non era ostile, però.
-Ecco, è un favore – spiegò la bambina.
Il demone non disse nulla, continuando a percorrere, instancabile, il sentiero. Andava a passo sicuro: era la stessa strada che aveva percorso mille volte per passare dal retro del villaggio ed evitare, nel suo cammino, di dover parlare con degli umani qualunque. In genere era un’astuzia infallibile, ma quella volta non aveva potuto prevedere che avrebbe trovato la ragazzina.
Era così simile a Rin che gli stava facendo male al cuore. Avevano lo stesso timbro di voce squillante, acceso, allegro, che lo faceva sentire veramente a casa; certo, si assomigliavano molto, ma qualche piccolo dettaglio gli ricordava come mai avesse voluto fare della bambina, una volta cresciuta, la sua donna. Il viso della ragazzina vicino a lui era pressochè identico a quello materno. Anche se non aveva avuto termini di paragone da confrontare, era sicuro che Rin avesse ereditato la sua espressione dal padre, così come lei stessa aveva poi rivelato.
-Che genere di favore? – chiese infine, cedendo. Se si fosse trattato di qualcosa che avesse avuto a che fare con gli umani, non si sarebbe affatto sentito in colpa di piantarla lì in asso.
La faccia di lei si illuminò con un sorriso speranzoso. –Una cosa veloce veloce – promise. – Devo solo prendere un fiore da un ramo per la mia mamma, ma è troppo alto, non ci arrivo.
-Quale fiore? – disse, senza arrestarsi.
-Uno di quelli lì – rispose, indicando con un dito una pianta possente, vicino a loro. Il profumo delicato dei suoi frutti prossimi a raggiungere la loro massima bellezza gli aveva solleticato le narici sensibili sin dal suo arrivo.
Non c’era dubbio, la piccola stava puntando proprio quello.
-La magnolia?
-Esatto! – esclamò, entusiasta. –Proprio quella!
Sesshomaru stette nuovamente in silenzio, come meditando su quella semplice richiesta. Per lui non sarebbe stato un problema allungarsi fino ad un ramo e cogliere un fiore, visto che era sufficientemente alto da raggiungere anche petali superiori a quelli desiderati, ma se non accettò fu a causa del suo orgoglio, ancora una volta.
Gli pareva quasi di intessere una sorta di rapporto amichevole con la bambina, se avesse accettato la richiesta. Forse, accontentandola, sarebbe rimasto indissolubilmente legato a quella creaturina curiosa come era già successo con Rin. Ovviamente non sarebbe successo lo stesso che era poi accaduto con la sua attuale donna, fin troppo chiaro, ma mal sopportava di avere troppi ammiratori fra le schiere umane. Sopportava la gratitudine solo se era derivata dal terrore: se un uomo aveva paura di lui, allora non gli sarebbe andato appresso come un lacchè.
Jaken, sua unica compagnia per molti anni, aveva da tempo smesso di infastidirlo con la propria  presenza. Rin, invece, non gli era nemmeno mai stata di peso. Non desiderava, però, avere una nuova ammiratrice con cui doversi fronteggiare ogni volta che fosse entrato al villaggio.
Tuttavia, mentre continuava a risalire il sentiero con una calma che non gli apparteneva nel passo, arrivò ad un bizzarro compromesso. Non era forse vero che Rin era in attesa di un figlio? Quel bambino, o bambina, sarebbe stato esattamente come Mirei; forse, se avesse ereditato dalla madre, ne avrebbe condiviso il temperamento ( e Sesshomaru un po’ ci sperava, perché non si sarebbe mai sentito in pace con sé stesso sapendo di aver fatto avere il proprio carattere ad un’altra persona) oppure l’indole. In quel caso, si sarebbe trovato vicino un’altra personcina perlomeno simile a lei.
Quindi, perché non provare a vedere a cosa portava soddisfare una sua richiesta? Perché non cercare di capire come gestire la situazione? Se fosse capitato con suo figlio, non avrebbe voluto farsi cogliere impreparato. Fu questo a farlo decidere una volta per tutte: il desiderio di essere all’altezza delle aspettative che Rin meritava.
Senza dir nulla, anche perché non avrebbe saputo come spiegarle che l’avrebbe accontentata, si fermò sul limitare del bosco che doveva attraversare, lasciandosi un attimo trasportare dall’intenso e delicato profumo dei fiori.
Anche se non l’avrebbe mai ammesso, la magnolia gli ricordava il profumo di Rin. Quando l’aveva conosciuta, nonostante fosse sporca e insanguinata, appena fuggita da una strage, il suo olfatto aveva trovato sollievo nell’eleganza del suo odore. Quando si vive un’esasperata condizione di continua analisi di fragranze, si prova un sollievo smisurato nello scoprire un profumo tanto dolce quanto discreto; non era un’essenza complicata, e proprio lì stava la sua bellezza.
Amava i capelli dell’amata anche grazie al loro profumo. I momenti migliori arrivavano quando poteva immergere il viso nella sua massa color mogano mentre lei dormiva. In quegli istanti, il mondo intero si dissolveva, senza apparire fino al mattino.
Nel frattempo, Mirei aveva aspettato con ansia un qualsiasi responso. Aveva guardato con disappunto il demone avvicinarsi ad un albero, e per un momento aveva addirittura pensato che fosse sua intenzione distruggere la pianta per farle dispetto.
Niente di tutto ciò, comunque; lentamente, il braccio si era teso in tutto il suo candore, scivolando lentamente fuori dalla manica e mostrando la forma affusolata e guizzante. Le sue dita lunghe e aggraziate si posarono attorno ad un bocciolo semi-dischiuso, e le unghie evitarono con attenzione i carnosi petali bianchi col timore di rovinarli. Bastò solo una piccola stretta per toglierlo dalla sua sede e, con estrema eleganza, il fiore riposò sul suo palmo liscio come se fosse sempre stato quello il suo posto naturale.
Abbassò leggermente la mano alla sua altezza, in attesa. Mirei fissò affascinata la pianta come se fosse un gioiello splendente: le sue dita erano sempre state troppo maldestre per riuscire ad estrarre una simile meraviglia senza comprometterne la bellezza. Agiva troppo in fretta, o troppo approssimativamente, e non riusciva mai a trasportare, nella sua compattezza, il tesoro che aveva colto. Vedendo Sesshomaru all’opera con tanta semplicità, si rese conto di cosa volesse dire l’espressione “tutt’uno con la natura”. Lui era parte integrante di essa.
-Non va bene? – chiese, infastidito, inarcando un sopracciglio candido.
La bambina si riscosse. –Oh, no! È perfetto! La mamma lo adorerà sicuramente!
Lasciò che le venisse affidato il prezioso regalo fra le mani, sentendone la freschezza sui palmi, entrambi stesi per accoglierlo al meglio. Poi, sollevò la testa e sorrise con tutto il cuore.
-Grazie mille, Signor Sesshomaru.
Il demone rimase un attimo fermo, immobile. Non era affatto strano che la sua postura non subisse nessun movimento, tuttavia quell’improvvisa staticità la spaventò un attimo, facendole temere di aver detto qualcosa di sbagliato.
Parve riscuotersi dopo qualche secondo: i suoi occhi recuperarono la solita luce, l’espressione glaciale rimase la stessa e, senza aggiugere altro, si voltò, prima di ripartire per il suo misterioso cammino. Anche se Mirei ne conosceva la meta, aveva sempre l’impressione che lui non fosse affatto legato alla strada, e che il suo viaggio non avrebbe mai conosciuto destinazione; Rin sarebbe stata soltanto una tappa passeggera, fin troppo effimera.
La bambina preferì non pensarci, perché non era il caso di lasciarsi andare a riflessioni così all’infuori del suo modo di ragionare. Si trovava più a proprio agio con delle cose semplici e lampanti, a differenza dei modi di fare di Sesshomaru; con lui era impossibile poter esprimere un giudizio efficace o riassuntivo, perchè era una creatura troppo complicata per essere domata. Tuttavia, si potevano avere delle sensazioni, su di lui, o delle congetture, ma nulla di più.
Se nemmeno i più grandi riuscivano a decifrarlo, allora significava che non era compito suo cercare una soluzione all’enigma da lui rappresentato. Così decise di lasciarlo al proprio mistero e di tornare dalla madre, che di sicuro era già rincasata da un pezzo.
Nel frattempo, dall’altra parte della pianura, Sesshomaru teneva il viso affondato in una chioma color mogano, e lasciava che la stranezza di quel giorno fosse in parte lenita dal tenero abbraccio di due braccia sottili.
 
*Si parla di San Valentino.
<3: Buongiorno! Scusate il ritardo, ma davvero sto schizzando male la maggior parte del tempo. Avete presente la sensazione di avere un collare spinato al collo? No? Beh, nel prossimo capitolo ve lo spiegherò.
Comunque, tralasciando la mia evidente follia, vi faccio le mie scuse più sincere. Siccome mi è venuta l’ispirazione, per rimediare alla mia imperdonabilità a livello “boss”, nel prossimo capitolo cercherò di inserire qualche schizzo fatto da me sulla storia. Del tipo qualcosina su Inuyasha e Kagome oppure fra Sesshomaru e Rin…niente di hot, vi avviso!! :D 

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Capitolo 47
*** Consolazioni ***


Miroku l’aveva imbavagliato, legato ed esorcizzato dentro ad una capanna, ma questo non gli impediva affatto di agitarsi e scalciare come un demonio.
Se un tempo, quando si era ritrovato nella stessa situazione, anche con una ferita alla schiena, aveva avuto urgente bisogno di uscire, in quel momento niente avrebbe potuto ostacolare il suo desiderio di scappare.
Il bonzo non aveva avuto nessun diritto di immobilizzarlo in quel modo, e non era stato per niente furbo nel scegliere la sua prigione: era ancora troppo vicina al denso odore di sangue, al suono assordante delle urla doloranti, dei passi frenetici delle ragazzine sul pavimento della capanna, di erbe pestate e ripestate, di intrugli buttati giù a forza.
“Maledetto!” pensò un’ennesima volta, mentre sbatteva violentemente il piede contro una parete per fracassarla, (o fracassarsi).
Avere sotto le narici quell’odore lo stava mandando in bestia, in una lenta e lucida follia animata dal sangue e dalla sofferenza. Lui doveva essere lì, cosa ci faceva reso inerme in una volgare rimessa ai confini del villaggio? Era innammissibile. Non era neppure riuscito a dirle nulla, l’avevano portato via troppo in fretta, ed era una cosa che non tollerava affatto.
Era un giorno più che importante per lui, e anche per lei. Tutto il villaggio se ne stava con il fiato sospeso ma, per tutti i Kami!, persino dei volgari contadini sconosciuti potevano vederla, tutti tranne lui. Tutta colpa di Miroku e delle sue idee.
“Sei troppo agitato, Inuyasha, le faresti solo del male” aveva detto, piazzandogli una delle sue carte magiche dritta in fronte. Essa ebbe subito l’effetto sperato, perché rimase schiacciato al suolo fino a quando c’era così tanto cordame attorno al suo corpo che persino respirare era diventato difficile.
Dietro la schiena, doveva essersi rotto un dito, perché da quasi un’ora non sentiva più il mignolo, quando invece l’aveva avvertito pulsare prepotentemente solo qualche attimo prima del formicolio al palmo. Le corde stavano logorando la carne di polsi, ginocchia e caviglie, inoltre il fazzoletto sulla sua bocca era impregnato di saliva e imprecazioni non dette, troppo aderente al palato per far passare un solo spiraglio d’aria.
Dentro al suo corpo era come se ci fosse uno spirito maligno: non riusciva a stare fermo, doveva continuare a cercare la fuga e a correre da lei, nonostante avesse le membra a pezzi e il respiro pesante. La forza di diversi esorcismi facevano il loro compito al meglio, perché gli pareva che una mano gigantesca lo stesse tenendo inchiodato al pavimento con ferrea decisione. Solo le gambe e le braccia, per quanto possibile, trovavano modo di divincolarsi e sbattere contro le superfici disponibili.
Ogni volta che una zaffata di odore gli arrivava alle narici, le spinte all’altezza delle viscere recuperavano vigore. Un fuoco liquido e denso stava infiammando i muscoli con energia inesauribile, tanto che si sentì così caldo da sudare, nonostante il freddo glaciale dell’esterno. Era da poco caduta la prima neve dell’anno, anche se un po’ in ritardo rispetto al solito, e si era lasciata dietro solo un fitto strato di ghiaccio scivoloso.
Un’esasperata nuvola di condensa si formò fuori dalle sue narici dilatate. Era più forte di lui: non voleva, eppure doveva fiutare ogni singola traccia di lei, a soli pochi metri di distanza. In ansia, piena di dolore, in una situazione che richiedeva un supporto che non volevano darle.
La sua dolce Kagome urlava e piangeva in preda ai dolori del parto e lui non poteva nemmeno sostenerla, starle vicino! Che rabbia!
Il dolore assunse bordi netti quando sbattè, furioso, la testa al suolo, emettendo un ennesimo tonfo, finora inascoltato. Dentro la fronte esplose una rosa di colori e di buio, così fitto e atrocemente realistico che gli mancò il respiro.
Boccheggiò annaspando, voltandosi e mettendosi steso sulla schiena. Le scapole tiravano per lo sforzo e le mani erano schiacciate dal suo stesso peso, però la presa delle corde che gli attraversavano il petto si era fatta meno stretta, permettendogli qualche avida boccata d’aria.
Il freddo tagliava i suoi polmoni stressati. L’aria sembrava fatta di umide stalattiti taglienti, e gli pareva che la sua gola fosse diventata una rauca grotta, dalle mille insidie alla sua stessa salute. Come aveva fatto a ridursi a quel modo nel giro di poche ore?
Semplice; l’esasperazione della follia e l’impossibilità di muoversi lo stavano spingendo al limite.Voltò appena la testa, ma un occhio era stato reso completamente cieco da un rigagnolo di sangue coagulato dal sopracciglio. Intravide appena una corda strappata alle estremità che era riuscito faticosamente ad allentare, fino a liberarsene. Era stata un’ennesima sicura agli artigli.
Miroku sapeva bene, infatti, quanto dannose potevano essere le sue unghie. Magari non aveva le stesse capacità di Sesshomaru, però il filo tagliente del bordo sarebbe riuscito ad eliminare il problema delle corde in un solo istante. Sarebbe bastato un minimo allungamento, e tutto sarebbe stato risolto; Inuyasha sarebbe riuscito a raggiungere Kagome e a darle conforto, agitato o meno, e questo era quanto.
Tuttavia il monaco era stato abile nel separare un dito dall’altro e rendendo impossibile alle falangi di abbassarsi sulla chiusura. Quello che aveva scalfito dopo migliaia di sforzi, lo sapeva bene, era solo una parte infinitesimale che lo separava dalla vittoria.
Spalancò la bocca con tutta la sua forza, fino a sentire la mascella tendersi. L’aprì ancora di più, ma la stoffa stava ostruendo le vie respiratorie: era stata Kaede a metterla in modo che, se avesse cercato di logorare la stoffa con i denti, sarebbe morto soffocato. E quel giorno non poteva assolutamente permettersi una cosa del genere, era fuori discussione.
Il canino urtò leggermente il bordo superiore, ben arrotolato. Mordendolo con pazienza riuscì ad allentare un po’ la presa sulla sua dentatura, che aveva cominciato a pulsare per lo sforzo di essere trattenuta. Dietro la nuca sentì il nodo tirare, a causa della pressione sul davanti; muovendo leggermente la testa dalla parte opposta, sentì i capelli scivolare dentro la chiusura, allargandola. Ormai sfatta, la pezza di stoffa si fece flaccida fra le sue mascelle, fino a quando la sputò sul pavimento con un gesto deciso.
Le gengive scoperte ricevettero un fiotto d’aria, dopo tantissimo tempo. Il cranio intero sembrò rilassarsi, ma non il suo possessore. Appena recuperata quella piccola vittoria, si mise ad urlare come un forsennato.
-Miroku! Maledetto, apri subito questa porta!! Hey, dico a te, bonzo schifoso! Apri!!!
Con la pianta del piede picchiò la superficie in legno scorrevole, ma non la scosse nemmeno di un millimetro. Imprigionò aria fredda fino a gonfiare le guance e si preparò ad urlare ancora, stavolta più forte, ma non ce ne fu bisogno: i pannelli si aprirono di scatto, cogliendolo di sorpresa e, prima che il pallido sole del pomeriggio potesse raggiungerlo, un’ombra scura gli ficcò un ginocchio fra le costole e gli ostruì la trachea con il manico di un lungo bastone.
-Stammi a sentire, cagnaccio rognoso – sibilò il monaco, a denti stretti, - se non la pianti subito sarò costretto a tagliarti la lingua, hai capito?
Inuyasha conosceva bene sia quella voce, che quello sguardo. Il singolare blu delle iridi si addensava fino a tendere al nero, e tutti i muscoli del viso sembravano tirarsi sulle ossa, restringendosi. Questo lo rendeva più magro e minaccioso, con un tono vibrante che incuteva timore.
Inuyasha sostenne però quella vista con orgoglio: sapeva di essere dalla parte della ragione e non si sarebbe lasciato persuadere, nonostante quella posizione stesse minacciando di spappolargli il fegato.
-Portami. Da. Kagome – scandì, ringhiando a bassa voce.
-Non se ne parla nemmeno – disse l’uomo, deciso, per poi allentare la morsa del suo bastone con un tintinnio di anelli dorati. Posò l’asta sul suo pomo d’adamo, con fermezza ma anche maggiore malleabilità.
Non diede tempo al mezzo-demone di parlare, però spostò il ginocchio regalandogli un attimo di sollievo e dandogli la possibilità di interrompere l’arco formato dalla sua schiena tesa e tremante dallo sforzo.
-Ascoltami bene – cominciò, truce, - so bene cosa si prova. Ci sono passato anch’io. Ma se te ne vai là fuori conciato così, peggiori soltanto le cose. Quelle levatrici sono le migliori del villaggio; con loro Kagome è al sicuro.
-Migliori? – lo provocò Inuyasha, canzonatorio, per poi ruggire: - Migliori?! La senti come grida?! Come sanguina?!
-Le tue percezioni sono acuite dalla disperazione – disse l’altro, lentamente, - che le sue pene siano maggiori della realtà lo pensi soltanto tu. Il suo è un parto normale e sta andando bene, ma non c’è niente che tu possa fare, adesso.
-Quindi tu mi stai dicendo che dovrei rimanere qui zitto e buono mentre lei sta affrontando tutto questo da sola?! – sbraitò il demone.
Miroku rimise il bastone com’era prima, già pronto a bloccarlo in caso di fuga. –Esatto.
-Ma è una pazzia! – esplose Inuyasha, tendendosi verso l’uscio lasciato aperto. Non lo raggiunse; il monaco mise uno dei suoi sigilli sulla fronte, aggiunto ad altri due che aveva già applicato, e Inuyasha rimase immobile al suo posto, con il respiro affannoso e spezzato dall’ansia.
-Se non ti calmi subito, credo proprio che dovrai rimanere legato – disse con calma. – Se mi prometti che stai fermo e tranquillo, allora potrai stare seduto.
Lo fissò, per poi aggiungere: -E ti slegherò i piedi.
Il bonzo aveva giocato slealmente, viste le condizioni delle sue caviglie: erano gonfie, scurite da lividi ed ecchimosi, mentre lunghe strisce sanguinanti parevano pulsare anche agli occhi dello spettatore. Quelle lunghe macchie bluastre e violacee sarebbero state difficili da far scomparire, ma Inuyasha era certo che togliere le corde sarebbe stato un sollievo.
Gli occhi gialli del ragazzo guardarono per bene quel volto familiare. L’aveva visto centinaia di volte, eppure ora cercava di scorgere un minimo segno della sua lealtà; non sapeva ancora se poteva dargli fiducia, visto come si era comportato soltanto poche ore prima. L’aveva legato come un animale e non aveva battuto ciglio innanzi alla sua disperazione. Senza di lui, i piedi non avrebbero fatto tanto male, anzi. La pianta sembrava essere stata spogliata quasi completamente della propria carne.
Fu il dolore a farlo cedere, e nient’altro. Se fosse stato per lui, avrebbe continuato la sua lotta fino a strappare un trionfo, costi quel che costi.
-E va bene – cedette, ma bloccò l’entusiasmo e il sollievo del compagno sul nascere, - però devi dirmi come sta.
Miroku posò il bastone a terra, sollevandosi a sedere e appoggiandosi contro la parete della capanna. Posò l’avambraccio sulla gamba piegata, pensieroso, mentre il suo sguardo si perdeva sulla cornice della piccola finestra oscurata.
-Sta soffrendo molto – disse, con voce calma. – Ma in questa circostanza è del tutto normale. Dicono che sta procedendo bene, non ha problemi respiratori e..entro un paio d’ore dovrebbe aver finito.
Inuyasha sbiancò: -Un..p-paio d’ore?
Il monaco annuì con aria grave, per poi mantenere fede alla sua promessa. Si alzò e lo aiutò a stendere bene la schiena contro il legno, prima di dargli una mano per alzarsi. Poi cominciò cautamente a sciogliere i nodi ai suoi piedi, stando attento a non creare ulteriori lesioni oltre a quelle già esistenti.
Per il ragazzo fu un sollievo immenso: migliaia di piccole pellicine fatte di iuta gli stavano seghettando la pelle, irritando le ferite già scavate nella carne e impedendo al suo corpo di far coagulare il sangue. Doveva ammettere che, da livido da nulla, si era trasformato in  qualcosa di più serio; solo guardandolo si poteva rabbrividire, e quella era solo la parte superiore. Non disse nemmeno che il peggio si trovava sotto, e il bonzo decise saggiamente di non indagare.
-Non mi fido a slegarti le mani – spiegò, raccogliendo le corde, - però fra un po’ potrò sempre cambiare idea.
-Fra un po’? – ripetè Inuyasha, indispettito, - non ti sembra di essere stato troppo eccessivo?
Il monaco lo guardò un attimo negli occhi, con una serietà che non gli apparteneva affatto. Poi scoppiò a ridere di cuore, rovesciando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi lacrimanti. Sembrava davvero che quel suo momento di ilarità fosse alimentato dal suo silenzio risentito, poiché non la piantava più di deriderlo per quello che aveva detto.
Inuyasha avrebbe voluto sbraitare qualcosa di offensivo ma, se l’avesse fatto, non avrebbe mai ottenuto nulla da lui, e l’unica cosa che desiderava era che gli slegasse i polsi. Si limitò ad emettere un basso ringhio, ritraendosi verso la parete anche grazie all’aiuto dei piedi. Con un corpo atletico e allenato come il suo, essere costretto a determinate posizioni a causa delle corde era una tortura insostenibile. Inoltre, il sangue colato dalla fronte aveva cominciato ad accecare anche l’altro occhio, e non aveva sufficiente libertà di movimento per pulirsi e porre fine al problema.
L’uomo di fronte a lui fece persino finta di asciugarsi una lacrima con l’indice, continuando a ridacchiare sotto ai baffi. –Per tutti i Kami, Inuyasha…hai visto quello che hai combinato? Non so se te ne rendi conto, ma c’è una spaccatura enorme fuori dalla porta. Cosa credi di fare in queste condizioni? Vorresti combattere contro tuo figlio perché sta facendo soffrire sua madre? – osservò, quasi ironico.
In realtà, aveva ragione. Quello che lui voleva abbattere era una minaccia inesistente. La sofferenza di Kagome lo mandava letteralmente in bestia, ma non avrebbe potuto fare nulla per contrastarla, questa volta. Le levatrici chiamate ad assisterla non l’avrebbero fatto entrare e, se avesse disobbedito andando lo stesso nella capanna avrebbe solo rallentato il loro lavoro e allungato la sofferenza di tutti quanti.
Non poteva sopportare di sentire le sue urla affrante, e il cuore minacciava di spezzarsi ogni volta che lei rischiava di strillare il suo nome con disperazione sincera, ma non avrebbe potuto intervenire. Se l’avesse fatto, avrebbe soltanto aggravato la situazione.
Queste parole lo fecero riflettere sulla propria impotenza. In fondo, proprio nel momento del bisogno non sapeva essere utile a Kagome, nemmeno da lontano. Dimenandosi e lottando non aveva risolto niente, se non quello di farla restare in pena ben conoscendo il suo temperamento; era sicuro, infatti, che parte della preoccupazione della sacerdotessa fosse rivolta anche alla sua possibile reazione violenta.
Dovette ammettere con un certo imbarazzo che tutti, a parte lui, avevano previstoil suo stato di sconvolgimento e si erano organizzati di conseguenza. Persino Kaede aveva passato del tempo ad intrecciare le funi per immobilizzarlo, senza parlare dell’opera di consacrazione messa pazientemente in atto per essere il più efficace possibile.
Il mezzo-demone rimase, crucciato, nel suo angolo. La cosa che non voleva veramente mostrare era la sua improvvisa paura di mostrarsi al figlio, appena nato. Era terribilmenmre curioso di scoprire quale fosse il suo viso, da chi avesse ereditato i tratti o le caratteristiche, ma da un lato temeva dal profondo del cuore di non essere all’altezza, oppure di spaventarlo con il proprio aspetto. Durante la sua prigionia, nemmeno la faccia era stata risparmiata dai lividi e i graffi, anche se di fatto era stata tutta fatica sprecata.
Una parte di lui era ancora incredula. Insomma, proprio in quell’istante stava per diventare padre a tutti gli effetti; vedere il ventre di Kagome arrotondarsi era stata sì una prova di vita evidente, ma comunque difficile da prendere in atto. Non aveva potuto chiaramente assistere allo sviluppo vero e proprio del bambino, e gli sembrava quasi impossibile che fosse tutto vero.
Da quel giorno in poi, avrebbero dovuto condividere la capanna con un’altra persona. Per tutto il resto della sua vita, si sarebbe occupato di insegnargli quello che aveva imparato col tempo e preoccuparsi costantemente della sua salute, dargli il buon esempio e aiutare Kagome nella sua crescita.
Avrebbe dovuto tenerlo per mano mentre, su gambe incerte, si sarebbe preparato a camminare da solo, e da lontano ne avrebbe guardato il tragitto, sempre più distante da lui. Un altro sé stesso, come aveva da sempre sperato e temuto.
Da una parte, l’idea di avere un figlio l’aveva sempre emozionato per ovvie ragioni: se ne sarebbe preso cura e avrebbe avuto qualcuno da amare incondizionatamente, sarebbe stata la sua eterna prova d’amore e di fedeltà con la donna che adorava. La paura radicata nel suo cuore era la possibile sofferenza a cui il piccolo poteva essere esposto.
Ci aveva pensato tantissime volte, nelle lunghe notti di veglia: alcune albe le aveva viste arrivare con occhi stanchi e cerchiati, magari quando Kagome faceva ancora la spola fra due epoche e lui stava attendendo che tornasse nel passato, vera casa di entrambi. Il piccolo mondo feudale in cui aveva sempre vissuto, non si era mai dichiarato pronto ad accogliere gli ibridi.
Lui era figlio di una principessa importante e un demone maggiore, che regnava su gran parte del Giappone, eppure aveva passato la vita a fuggire e nascondersi, sopportando angherie e insulti solo perché non possedeva le caratteristiche comuni all’una o l’altra specie. Erano stati anni difficili, amari e soli; non avrebbe augurato nemmeno a Naraku di vivere una situazione simile, tanto da arrivare ad odiare persino sé stesso, e la propria natura.
Certo, era vero che lui non avrebbe mai abbandonato suo figlio, ma non si poteva mai prevedere come il mondo avrebbe accolto quella nuova nascita. Dentro di lui sarebbero convissuti due poteri opposti. Uno puro, materno, spirituale, mite, l’altro già infangato da sangue umano, irruento, iroso, rude e burbero. Un tipo di forza allo stato brado, che non aveva mai avuto la possibilità di affilarsi e diventare qualcosa di gestibile.
Avrebbe utilizzato tutto il proprio impegno per farlo sentire amato, su questo non c’erano mai stati dubbi. Ma la cosa che più lo preoccupava era l’ambiente circostante: se un giorno avesse deciso di viaggiare, allontanarsi da loro, come avrebbe potuto affrontare l’opinione del mondo su di lui? Inuyasha non era stato abbastanza forte da uscirne illeso; ancora molte volte gli capitava di avere feroci incubi oppure attimi di sgomento, ma aveva imparato a domare con l’amore per Kagome i suoi timori.
 Inoltre, anche il villaggio che si dimostrava entusiasta della gravidanza della donna avrebbe potuto cambiare idea. Forse vederla incinta era una cosa, e con un pargolo in braccio un’altra. Se avessero cominciato ad offendere lei e il bambino, ovviamente, lui non avrebbe riflettuto un istante e, dopo aver fatto una strage, avrebbe cambiato paese. Sperò con tutto il cuore che queste lugubri ipotesi non si avrassero mai, anche perché l’ultima cosa che voleva era che suo figlio avesse un assassino al posto del padre.
-La smetti di ringhiare? – disse Miroku, bonariamente. –Sembri la pentola della Venerabile Kaede.
-Sta zitto – borbottò Inuyasha, interrotto nel mentre dei propri pensieri.
Il monaco sospirò, appoggiando il bastone a terra. Come sempre, gli anelli sottili tintinnarono fastidiosamente a contatto con le assi in legno, coprendo in parte un ennesimo urlo che lo tese come una corda di violino.
-Ti ricordi quando nacquero le gemelle, tre anni fa? – chiese all’improvviso l’uomo, con un leggero sorriso.
Il mezzo-demone, che non aveva voglia di parlare, annuì.
-Ecco, credevo che mi stesse scoppiando la testa dall’ansia. Pensavo e ripensavo a Sango da sola in mezzo a tutte quelle guaritrici e mi sentivo male per lei. Insomma, due bambine…non sono poche, non so se capisci.
-Credo di poterci arrivare – commentò Inuyasha, indispettito.
Miroku lo ignorò. –Feci persino un voto di castità, quella sera. Ero andato letteralmente fuori di testa, e non avevo nessuno che mi potesse dare delle buone notizie. La sentivo urlare e urlare, e la mia fantasia stava immaginando di tutto. Alla fine, a notte fonda, mi chiamarono, per dirmi che era andato tutto quanto per il meglio. Beh, Inuyasha…quando tenni quei due terremoti fra le braccia, ogni pena svanì – ricordò, sorridendo leggermente.
Il ragazzo capì che gli stava raccontando quelle cose per tranquillizzarlo, ma sembrava più che altro che lo facesse perché erano memorie a lui piacevoli. Mentre parlava, infatti, pareva veramente rivivere l’accaduto.
Inuyasha ricordava quel giorno. Siccome aveva promesso ad un capo villaggio un esorcismo, aveva mandato lui per risolvere la faccenda, abbastanza lontano da casa. Kagome era da poco sparita, non aveva più nessuna notizia di lei, e si sentiva smarrito ed esausto, però aveva accettato lo stesso perché aveva bisogno di distrarsi. Non era riuscito a tornare in tempo per fare qualcosa di utile: quand’era rincasato, il giorno seguente, le due gemelle erano già nate.
Il bonzo recuperò la sua aria di sempre, strizzando l’occhio con complicità. –E, come puoi immaginare, anche il mio voto fu sciolto.
Inuyasha avvampò di colpo: -Monaco pervertito!
-Pervertito? Sango è mia moglie! – esclamò l’amico, ridendo.
-L…lo so, m..ma… - balbettò il mezzo-demone, interdetto. Sapeva benissimo quale parentela avevano i due, non serviva che lo incatenasse con certe risposte. In quei momenti non sapeva mai come reagire e faceva la figura dell’idiota, ma ormai aveva addirittura smesso di prendersela.
Il momento di leggerezza fra i due fu presto interrotto. Entrambi avevano lo sguardo posato altrove che dalla porta, quindi sobbalzarono violentemente quando questa venne aperta con una certa energia, facendo soffiare aria gelida in tutta la stanza.
Rin, appena entrata nella capanna, strillò, trapanando le orecchie provate di Inuyasha. Era tutto il giorno che non riusciva a mettere in ordine i propri pensieri fra urla e richieste d’aiuto, e ora arrivava lei con i propri acuti a turbare la sua apparente pace! Stava davvero per perdere la testa.
La ragazza si posò una mano sul petto, regolarizzando sollevata il respiro. –Oh, cielo, siete voi…che paura mi avete fatto prendere!
Sembrava davvero rincuorata dal vederli lì, tanto che l’occhiata interrogativa di Inuyasha la spinse a concentrare su di lui la propria attenzione. Lo ammonì con voce severa, decisamente comica vista la sua totale incapacità di essere la cattiva della situazione.
-Inuyasha, cosa pensi di fare conciato così? Mi ci vorrà un’ora per renderti meno spaventoso!
-Spaventoso? – sbottò il demone. –Si può sapere cosa avete tutti oggi?
La ragazza appoggiò la propria mano sul ventre arrotondato, in un gesto familiare, mentre si avvicinava a lui. –Cos’abbiamo non lo so dire, ma per fortuna ci manca l’abitudine di sfregiarci il viso a quel modo!
-Aspettate, nobile Rin – intervenne Miroku, preoccupato, - vi aiuto io, non sforzatevi.
Lei stava infatti per chinarsi a slegare Inuyasha, reggendo fra l’ascella e il braccio un involto preparato dalla stessa Kagome come materia di primo soccorso. Se qualcuno fra i bambini si faceva male, sapeva intervenire subito con garze e bende già pronte, senza dover rischiare di far infettare le ferite con attese eccessive.
Ad Inuyasha si contrassero le viscere vedendo un oggetto familiare, ma decise di non pensarci, altrimenti avrebbe fatto del male anche a lei. Da quand’era rimasta incinta, Sesshomaru si era fatto particolarmente protettivo nei suoi confronti, quasi quanto Kagome ne era rimasta entusiasta.
Aveva saltellato con grande preoccupazione di Inuyasha per tutta la casa, cantilenando “Avrò un nipotino, avrò un nipotino!”.
-Non preoccupatevi per me, sto bene – sospirò la ragazza, - magari si potesse dire altrettanto di lui!
-Io sto bene – insistette Inuyasha, ma nessuno lo ascoltò. Sotto presa di Rin, Miroku fu costretto a slegarlo del tutto, ma non gli fu dato modo di fuggire, viste le misure precauzionali prese dal monaco nel recintare la zona di carte esorcizzanti.
Lei ne approfittò per iniziare ad impiastricciargli la faccia con unguenti lenitivi esageratamente odorosi, che lo stordirono, e il bonzo si preoccupò che i suoi piedi fossero fasciati adeguatamente.
-Bene – disse la fanciulla, soddisfatta. Era solo al terzo mese di gravidanza, ma i malesseri non l’avevano risparmiata nemmeno per un giorno. Non aveva ancora iniziato ad ingrassare, anzi, Kaede si diceva seriamente preoccupata della sua eccessiva magrezza, però si sentiva pesante e indolenzita, impossibilitata a muoversi come al solito.
Si pulì velocemente le mani con un panno, prese le sue cose e si preparò ad andarsene. Quando fu sull’uscio, però, si voltò e disse, con voce grave:
-Inuyasha, faresti meglio a sbrigarti. Sei appena diventato padre.
 
 
ATTENZIONE:
Buongiorno! Scusatemi davvero tanto: so di aver menzionato dei disegni, lo scorso capitolo, ma sono assolutamente incapace di caricarli T.T
Vedrò di impegnarmi a metterli nel computer, scusatemi ancora! T.T 

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Capitolo 48
*** Kaori ***


Nell’anticamera c’era puzza di sangue e sudore. Sembrava che i muri avessero assorbito molto più a fondo del previsto le urla e i lamenti, e ora li stessero restituendo a qualsiasi avventore.
La luce soffusa di un paio di candele non era sufficiente ad illuminare tutta la stanza, facendo in modo che alcuni angoli rimanessero bui. Per Inuyasha non era un problema, considerata la sua vista fuori dal comune, ma con i balconi serrati gli sembrava di soffocare. Da una parte, comunque, quella situazione giocava a suo favore, visto che le ferite superficiali sulla pelle scoperta non avevano modo di essere scorte.
Era agitato come mai in vita sua, e neppure la frescura della neve sotto alle piante dei piedi aveva impedito a quell’ustione rovente di continuare a morderlo. Ogni passo era uno strazio, ma ciò lo aiutava a rimanere concentrato su ciò che andava fatto.
Miroku si era raccomandato centinaia di volte durante il breve tragitto di stare calmo, di non permettersi minimamente di urlare o agitare Kagome per qualsiasi ragione; era stanca, in ansia per la sua condizione e anche emotivamente fragile a causa del parto, quindi non bisognava stressarla più di così. Doveva ficcarsi in testa che non era successo nulla di grave e che doveva rimanere calmo, tranquillo.
Non era facile; il bordo di un’unghia aveva persino rischiato di essere morso via dai suoi canini in un attimo di panico. Delle volte invidiava il supremo autocontrollo di Sesshomaru, perché anche nelle situazioni più critiche era riuscito a mantenersi impassibile, riuscendo ad emanare un’aura di calma e freddezza in qualsiasi momento. Ecco cosa gli sarebbe servito, un buon temperamento impassibile: non gli avrebbe di certo fatto male, in fondo.
-Mi raccomando, Inuyasha-kun – disse la donna anziana che l’aveva accompagnato. –Solo silenzio, e nulla più.
Sembrava incapace di dirgli altro; da quando era entrato aveva ripetuto sì e no una ventina di volte quella semplice frase, riuscendo a far rimanere del tutto immobile i tratti del suo viso rugoso e bruciato dal sole. Era piccola di statura, curva e magrissima, ma sembrava emanare una sorta di potenza spirituale che non andava sottovalutata.
Il giovane era troppo in apprensione per mettersi a battibeccare, così si limitò ad annuire senza proferire parola. Le sopracciglia erano aggrottate in un’espressione di pura concentrazione, e ogni dettaglio della piccola casupola era stato memorizzato dalla sua testa come se fosse indispensabile. Il suo corpo teso come una corda di violino, se messo alla prova, sarebbe scattato subito, combinando un disastro.
L’aria pregna di odori sgradevoli sembrava una tenda calata sui presenti, per il momento soltanto loro due. La donna sconosciuta l’aveva guidato attraverso i corridoi costruiti per persone di ben diversa statura, tanto che aveva dovuto avanzare con le spalle curve, e sembrava essere stata partorita appositamente per abitare quei luoghi. Da una manica ampia tirò fuori un lume spento, e glielo porse.
Lui lo prese con una certa urgenza: mal sopportava l’idea di aver lasciato Kagome da sola per tutto quel tempo, e se doveva anche fare i conti con una donna fin troppo lenta nei movimenti, avrebbe rischiato di dare di matto.
Mostrando un’infinita quanto irritante pazienza, illuminò la miccia con uno stoppino allungato. Gli diede un’ultima occhiata: la sua frase rituale sembrava essere stata scritta nelle iridi.
-Grazie – disse lui, sbrigativamente. La vecchia si spostò e gli mostrò una tendina fatta di minuscoli fili di paglia intrecciata, che frusciavano ad ogni movimento. Lui non aveva mai visto una cosa del genere, sembrava quasi una nebbia fitta, dietro la quale si poteva intravedere una figura.
Deglutì sonoramente; aveva atteso quel momento per un sacco di tempo. Da quando Kagome gli aveva dato il lieto annuncio, lui si era chiesto cosa sarebbe successo, come si sarebbe comportato, quanto avrebbe sofferto della fatidica lontananza, ma si rese conto che le sue stime erano state decisamente troppo ottimistiche.
Il cuore voleva scoppiargli nel petto a causa di una miscela letale di sensazioni confuse, contorte e ignote. Erano una cappa spiacevole all’altezza della gola, un nodo che pareva fatto di stoffa; il respiro usciva a fatica, contaminato dall’atmosfera irrespirabile. Inoltre, le pareti strette formavano una bara attorno al suo corpo, improvvisamente troppo ampio per quei luoghi. Le spalle larghe lambivano il legno dei muri, la testa sfiorava il soffitto, i piedi dovevano essere posati con ordine e lentezza per poter passare attraverso le porte.
Aguzzò lo sguardo oltre i fili davanti a lui, che sostituivano abilmente la porta. Dietro, una donna semi-distesa gli dava le spalle. Il busto era dritto, e reggeva qualcosa tra le braccia; stava mormorando una litania sconosciuta con voce calma, materna, tiepida: era un canto rilassante, o forse una preghiera. Non sarebbe stato affatto strano che Kagome, poiché di lei si trattava, si fosse un attimo lasciata il momento di dedicarsi agli spiriti, gli stessi alla quale si era votata.
Chiudendo le palpebre, però, poté chiaramente sentire lo scopo intero della sua vita: il profumo. In mezzo al sangue, al nodo viscido dell’odore di sudore, alla puzza di chiuso, al velo di polvere e di erbe mediche che aleggiava pigramente fra un corridoio e l’altro, si poteva sentire una debole e provata fragranza di agrumi, di casa.
La respirò a pieni polmoni, nonostante fosse la traccia più debole di tutte. Era la stessa familiare e amata traccia che riusciva a farlo sentire bene con la sola presenza. Per anni aveva atteso di poterla riassaporare realmente, attraverso un pozzo ormai disperatamente vuoto oppure la barriera di una memoria che andava offuscandosi e, alla fine, aveva creduto di essere diventato pazzo una volta per tutte.
Quando le sue narici erano state accarezzate dal suo familiare abbraccio, il suo corpo intero aveva iniziato a fremere di gioia e sollievo. Sì, sollievo: per tutto quel tempo la sua spasmodica caccia gli aveva impedito di vivere, mantenendolo continuamente in uno stato di perenne agitazione e ansia, di rimpianti e sensi di colpa, di nostalgie e piaceri dimenticati.
Ora, invece, assieme al suo odore meraviglioso, se ne aggiungeva un altro, ancora più tenero, delicato.
 L’odore di suo figlio.
-Inuyasha? – chiese una voce, debolmente. –Sei tu?
Il ragazzo si sentì punto sul vivo, dandosi dello stupido per aver indugiato. Si voltò un momento per chiedere alla vecchia cosa intendesse di preciso con il suo concetto di “silenzio”, ma lei era sparita, senza lasciare traccia.
“Maledetta vecchiaccia” borbottò fra sé, prima di scostare le liane intrecciate che lo separavano dalla sua donna. Ora la fragranza si era fatta più vicina e palpabile, più vera.
Kagome era lì, davanti ai suoi occhi. Si era lavata i capelli quella mattina stessa, lo ricordava bene, e ora le ricadevano sulle spalle in morbide onde scompigliate, per metà raccolte e per metà sciolte. Il viso stanco, provato, era così pallido da sembrare malato, ma l’espressione sorridente sembrava racchiudere dentro di sé tutta la felicità del mondo; il suo sorriso stesso, raccoglieva una serenità senza pari, come se si fosse liberata da un grande dolore.
Anche se indossava un semplice kimono bianco, tipico delle donne partorienti o afflitte da qualche malessere, sembrava una principessa, tra le più splendide. A Kagome non servivano i gioielli per essere scambiata con una nobile.
-Kagome… - mormorò Inuyasha, non appena vide quel piccolo fagotto che teneva protettivamente tra le braccia.
La ragazza, velocemente, si asciugò una lacrima con la mano libera, senza smettere di sorridere.
-Ce l’abbiamo fatta, finalmente – disse, con una risatina, e a lui si sciolse il cuore. Le si sedette accanto, raccogliendo un’altra lacrima salata con il polpastrello, senza sfiorarla con l’unghia per timore di farle male.
Lei indugiò un attimo su quel contatto, appoggiando la guancia e toccando il dorso della sua mano con la propria. Rimase così ad occhi chiusi, e lui guardò quel viso così bello stendersi poco a poco dopo aver affrontato la fatica del parto.
Provava un’ammirazione profonda per la sua donna. La sua incredibile forza d’animo le aveva permesso di superare anche quell’avversità completamente sola, e di sopportare le pene più atroci senza cedere neanche un momento. Era stata salda, forte, un riferimento per il loro futuro; aveva avuto il perfetto comportamento di una donna di casa, di una moglie e di una madre.
Molte, al posto suo, avrebbero ceduto. Ma non lei; anche se aveva ammesso con sé stessa di essere spaventata dalla prospettiva di un parto in solitudine, non si era tirata indietro e aveva accettato le tradizioni dell’epoca, senza insistere.
-È una bambina – sussurrò ad occhi chiusi. –Una splendida e meravigliosa, piccola bambina.
Inuyasha rimase fermo un istante, immobile, senza sapere come reagire. La notizia lo tempestò come un temporale di spaventosa bellezza, e paura. Sembrò quasi che un fuoco bruciante prendesse possesso delle sue membra e le plasmasse a proprio piacimento, come uno spirito capriccioso.
Difficile quantificare la felicità che provò in quel momento. Fu come assistere allo schiudersi di una rosa bellissima nel pieno della sua stagione di fioritura, oppure quando poté finalmente considerare Kagome sua moglie a tutti gli effetti. Quando aveva potuto prendere la sua mano, nel pozzo, e trascinarla verso di lui, per sempre, senza che nessuno potesse nuovamente mettersi in mezzo nonostante il tempo trascorso, aveva provato un’analoga sensazione di pace.
In cuor suo, aveva quasi sperato che fosse una femmina, anche se non avrebbe saputo spiegarne il motivo. Forse è nello spirito di ogni padre cercare di avere una piccola in casa, anche se chiaramente l’arrivo di un erede maschio l’avrebbe colmato di gioia ugualmente. Magari, con un’altra ragazza in casa, avrebbe potuto sperare di contare sulla fermezza ferrea di un’altra Kagome, e non sull’irruenza di un piccolo Inuyasha.
La delicatezza di una bambina non poteva essere paragonata a nulla. Era sempre stato lieto nell’osservare come Kagome si prendeva cura di tante piccole aspiranti sacerdotesse, mentre insegnava loro giù al fiume qual’era il modo migliore di lavare la biancheria.
-Oh… - disse, accarezzandole piano uno zigomo, - un’altra Kagome in casa, dunque…
Lo affermò sorridendole dolcemente, proprio nell’istante in cui stava aprendo gli occhi. La sentì ridacchiare, e la candela che aveva posato a terra ne illuminò meglio il volto stanco.
-Così pare…preparati ad essere schiavizzato, papà – commentò sottovoce.
Papà; era vero, in quel momento lui era un padre, un marito, un componente della famiglia. Mai, nella sua vita, si sentì tanto reso partecipe nella vita di qualcuno, nell’esistenza di altre persone. Rivestiva un ruolo fondamentale che nessuno aveva mai ricoperto per lui, e giurò solennemente a sé stesso che non avrebbe mai fatto mancare a sua figlia, mai, una figura paterna.
Aveva imparato con una lezione crudele quanto fosse difficile vivere senza i genitori, e avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per non far conoscere mai questo dolore alla nuova nata nella sua famiglia. Avrebbe assicurato con la sua stessa vita che fosse felice, sempre, e sarebbe stata protetta contro qualsiasi insidia.
Se fosse stato un maschio sarebbe stato diverso; ma già tremava alla prospettiva di un matrimonio, un fidanzamento, l’inevitabile allontanamento da casa che avrebbe dovuto subire in futuro. Decise che era ridicolo preoccuparsene così presto,  e fece del suo meglio per sorridere, nonostante fosse emozionato come non mai.
-Non vedo l’ora – disse piano, prima di arrischiarsi a darle un bacio leggero sulla guancia, ritraendo la mano.
Non era nel suo stile fare così, ma quel momento andava ben oltre la normalità, e uno strappo alla regola si poteva anche fare.
-Guarda – mormorò Kagome, intenerita, - guarda quest’adorabile visino.
Scostò piano un lembo di stoffa dal suo petto, in modo da scoprire meglio la testa della bambina, protetta da un telo delicato fatto apposta per non nuocere ai nascituri.
La faccia era piccola e arrossata, come se fosse stata esposta ad un terribile calore. Era come vedere un essere umano in miniatura: il naso, la bocca schiusa, gli occhi chiusi, le guance morbide e arrotondate, un ciuffo sulla sommità del cranio color grigio brillante che proteggeva la morbidezza di due orecchie molto simili alle sue.
-Non vedi come ti assomiglia? – chiese piano lei, sorridendo appena.
Lui, rapito com’era dall’osservare lo splendore di sua figlia, si era persino dimenticato di far battere regolarmente il proprio cuore. Quasi non credeva che il lento respiro della piccola fosse anche merito suo, ed era un avvenimento così affascinante che aveva catturato del tutto la sua attenzione.
Rendendosi conto che Kagome aveva parlato proprio con lui, si concentrò sulla domanda.
-A me sembri assomigli a Kaede – commentò, stranito. C’era un che nei tratti appena abbozzati della piccola che gli aveva fatto sorgere spontaneo il paragone.
-Kaede? – domandò Kagome, guardandolo in tralice.
Lui annuì. –Sì.
-Sai, su una cosa concordo con te – osservò divertita, lanciandogli un’occhiata di sbieco.
-Su cosa? – disse, interessato e sopreso.
-Sul fatto che non sei assolutamente capace di indovinare le somiglianze – ridacchiò, intenerita.
Lui arrossì di colpo. –A…allora, se lo sai, perché me lo chiedi?
Lei alzò piano le spalle, cullando leggermente la piccola che si era mossa, disturbata dai genitori. –Mah, forse avevo solo voglia di ridere un po’ – lo provocò.
-Cosa vorresti dire? – disse, indispettito, Inuyasha. Quando cercava di battibeccare, gli sembrava solo incredibilmente attraente.
-Niente, niente – rispose Kagome, fingendo noncuranza.
Ci fu qualche attimo di silenzio, durante la quale entrambi fissarono la nuova arrivata con una meraviglia esterrefatta. Il cuore di Inuyasha sembrava essere fossilizzato e immobile a causa dell’emozione. Quando aveva visto il suo viso per la prima volta si era come sentito sprofondare, ed era una fortuna che la piccola avesse gli occhi chiusi, altrimenti avrebbe fatto un infarto sul serio.
Kagome, invece, era semplicemente felice, come mai in vita sua. Nonostante il dolore, la sofferenza e la fatica, era più che mai soddisfatta del risultato. Stringeva soddisfatta una creatura meravigliosa, figlia dell’amore che condivideva con Inuyasha, e non avrebbe potuto dirsi più sollevata di questa nascita.
Era conscia di quanta responsabilità avesse improvvisamente avuto, ma le pareva comunque una cosa bellissima da affrontare. Da tutta la vita sognava di diventare madre, e ora finalmente aveva potuto coronare il suo sogno; aveva al suo fianco un marito meraviglioso e una figlia che lo era ancor di più, poco importava che nella loro casa scorresse una vena di sangue demoniaco, per lei non aveva assolutamente importanza.
Le pareva davvero stupido badare a certi dettagli, soprattutto quando si aveva un simile splendore contro il petto. In quella faccina piccola e arrossata si leggeva la promessa di un futuro luminoso, e lei era intenzionata a viverlo appieno, godendosi ogni singolo giorno con la sua nuova famiglia.
L’unica ombra pareva essere lanciata dalla mancanza di una persona importante, o meglio, di tre fondamentali presenze. Il nonno, sua madre, Sota…come avrebbero reagito davanti a quel nuovo arrivo? Quale sarebbe stata la loro espressione? Cosa avrebbero detto?
Purtroppo dubitava che l’avrebbero mai saputo. Certo, forse si erano preparati all’idea che avrebbe avuto dei figli con Inuyasha, che si sarebbe sistemata e avrebbe continuato la sua vita, ma questo era  ben diverso dal conoscere realmente le persone in questione. Con una certa nostalgia, Kagome pensò che le sarebbe piaciuto avere il sostegno di sua madre, soprattutto in un momento così delicato.
Chissà quante cose avrebbe potuto insegnarle sulla gravidanza, sullo svezzamento, sull’educazione di un bambino…come sarebbe stata felice di avere una nipotina!
-Kagome…è normale che dorma di già? – chiese Inuyasha, appoggiando il mento sulla sua spalla.
-La levatrice mi ha detto di sì – rispose Kagome, pensierosa, - però un po’ mi dispiace che tu non le abbia ancora visto gli occhi. Sono bellissimi, sai? Tutti grigi, color perla.
-Rimarranno così?
La ragazza scosse la testa. –Non credo. Anch’io da bambina avevo gli occhi chiarissimi, ma si sono scuriti con gli anni.
-Lo so – ribattè lui, continuando ad osservare la figlia dormire.
-Lo sai? – chiese Kagome, sorpresa. –E come, scusa?
Il ragazzo si prese un momento prima di parlare, come riflettendo su quali erano le parole migliori da usare.
-Diversi anni fa, quando venni a prenderti a casa tua, eri a scuola, così sono rimasto da solo con tua madre.
-Oh… - sospirò Kagome. –Lasciami indovinare: album di famiglia.
-Proprio così – disse Inuyasha, più divertito che altro. –Me ne ha mostrata una in cui tu eri tutta nuda che facevi il bagno.
Kagome arrossì immediatamente, e le sue guance divennero così rosse da sembrare bollenti: -M…ma… Inuyasha!
Lui ridacchiò contro la sua spalla. –Non prendertela con me, libertina che non sei altro.
Lei arrossì ancor più di prima, se fosse stato possibile avrebbe addirittura preso fuoco. –Oh mio Dio, che tiro mancino…come hai fatto a far finta di nulla per tutto questo tempo?
-Andiamo, Kagome! Avrai avuto cinque anni, se non anche meno! – esclamò lui, ridacchiando alle sue spalle. –Oppure ci sono altre foto del genere che dovrei conoscere?
-Ma cosa dici, ovvio che no! – si affettò a dire Kagome.
-Speriamo – osservò con un mezzo sorriso, fingendo una certa malizia che non gli apparteneva affatto.
Lei sembrò distendersi un po’, dopo quella rivelazione, abbandonando in parte la stanchezza mortale delle sue membra. Sembrava essere davvero molto affaticata dal parto, e lui non dubitava che doveva essere stata un’esperienza fisicamente faticosa sotto molteplici aspetti.
Aveva assistito solo una volta, da lontano, alle urla di un donna partoriente. Forse si trattava di una principessa, o una nobildonna, perché uno stuolo di serve si affaccendava nella camera come se si trattasse di un’emergenza castrofica. Lui era ancora troppo piccolo per capire (sua madre era ancora in vita), però aveva subito sentito l’odore di sangue, ed era stato quello ad attrirarlo.
Dalla portata della puzza sembrava davvero che stesse per morire dissanguata, tanto da spingerlo a chiedersi come potesse rimanere in vita perdendo una tale quantità di liquido. Aveva cercato di dimenticare in fretta l’accaduto, però aveva fatto fatica a farlo sparire dalla sua mente.
Forse era stato anche quel ricordo a fomentare la sua ansia nei confronti di Kagome, ma non poteva esserne sicuro. Era innamorato di lei ed era naturale che si preoccupasse, però magari anche quel frammento di immagine aveva contribuito a preoccuparlo. Inoltre l’odore della sofferenza della ragazza si era presentato chiarissimamente sotto alle sue narici tanto da sconvolgerlo, e questo non aveva certo contribuito a farlo star meglio.
Ad un certo punto, nella stanza entrò un leggero odore di fiori di campo. Non era raro che alcune erboriste percorressero la strada del villaggio per portare i loro carichi alle sacerdotesse, quindi non gli sembrò strano sentirle passare. Qualche risata, uno scalpiccio di sandali sul viale, e anche la fragranza sparì, ma lasciò germogliare nella sua testa un’idea.
-Kagome? – chiese piano. Nella penombra la sua voce sembrò amplificata.
-Sì? – chiese lei, cullando dolcemente il sonno della figlia.
-Che ne dici di chiamarla Kaori*?
La ragazza si voltò un attimo verso di lui, sorpresa da quell’iniziativa. Aveva giustamente pensato che lui non avrebbe saputo dare delle alternative soddisfacenti per dare un nome alla piccola, e la questione non le era nemmeno passata per la testa, sopattutto alla luce di quello che aveva dovuto passare.
-Kaori? E come ti è venuta quest’idea?
-Beh, ecco…diciamo che mi ricorda te – ammise.
-Me? – lei sembrava non capirci più nulla. Delle volte Inuyasha dava per scontato dei metodi di ragionamento che non erano affatto ovvi.
-Sì, te. È difficile da spiegare, ma c’entra col tuo profumo.
Kagome arrossì, un’ennesima volta. Era capace di farla sentrire unica come nessuno, tanto da dedicare alla loro bambina il nome delle sensazioni evocate dal suo odore. Incredibile.
-Mi piace, come nome. Penso che si possa fare – gli sorrise, allungandosi leggermente per dargli un bacio a tradimento.
Lui si ritrasse un po’ imbarazzato da quel contatto e, come se gli avesse sentiti muoversi, la donna anziana di prima riapparve con tempismo quasi diabolico nella stanza, facendoli trasalire.
-Bene, avete scelto il nome, finalmente - commentò sbrigativamente, portando un’altra candela.
-Avete origliato? – esclamò Inuyasha, incredulo.
Infastidita, la vecchia megera portò un indice scheletrico davanti alle sue labbra raggrinzite e gli fece segno di tacere. –Silenzio e nulla più.
Poi, prima che i coniugi potessero dire altro, fece loro intendere che Inuyasha doveva andarsene il più velocemente possibile, perché lei potesse occuparsi della donna. Il ragazzo stava per dire qualcosa di scortese e scocciato, ma la ragazza gli fece capire che avrebbero recuperato tempo in fretta.
-C’è un monaco che vi aspetta di fuori – commentò la guaritrice, senza guardarlo.
Inuyasha si alzò, le fece una boccaccia e uscì, cullato dalla risatina di quella che era, ormai, la madre di sua figlia.
   
*Significa “profumo dei fiori”. 

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Capitolo 49
*** Pranzo di famiglia ***


-Kaoooori! – scandì il monaco, sollevando la piccola bambina davanti al proprio viso, - Fai un sorriso allo zio Miroku!
La bimba lo stava guardando senza la minima reazione, forse squadrandolo con una certa curiosità infantile e, se ne fosse stata in grado, anche con una punta di biasimo.
Lo sbuffo di Inuyasha fu un chiaro segno di mal sopportazione.
-Miroku, smettila! Non è una bambola – si crucciò, quasi invidioso che l’uomo stesse cercando di avere la giurisdizione completa sulla bambina.
Kagome ridacchiò, con una certa malizia nella voce. –Oh, Inuyasha, lascialo fare! Forse sente la nostalgia di un altro figlio.
-L’unica in casa a volere un altro fagottino sono io – sospirò Sango, -Usuke è cresciuto così in fretta!
Il bambino in questione stava gattonando a terra già da un po’, incurante della scena che si stava svolgendo alle sue spalle. In fondo, Inuyasha quasi lo invidiava, perché anche lui avrebbe preferito estraniarsi del tutto e godersi la primavera anticipata di quell’anno, senza dover badare ad inutili discorsi.
Da un lato, però, la cosa lo allietava, perché gli consentiva di godersi la tranquillità che la pace porta con sé. Aveva tanto combattuto per ottenerla, e ora era giusto che ne raccogliesse i frutti.
-Se fosse per me ne farei altri dieci – fantasticò Miroku, sognante, cominciando a cullare Kaori come se fosse la propria figlia.
Sua moglie arrossì, mentre Kagome scoppiò a ridere, imbarazzata.
-Certo che non pensi proprio ad altro – commentò Inuyasha, incrociando le braccia.
-Aspettavo una tua osservazione – ribattè il monaco, ridacchiando sotto ai baffi.
-Sempre il solito – sospirò invece Shippo, che aveva appena finito di mangiare una pesca.
In effetti, se avevano organizzato quel pranzo all’aperto era solo per il suo ritorno: aveva concluso i suoi esami in modo lodevole, e l’ostello gli aveva concesso una breve licenza in vista del nuovo anno che l’avrebbe atteso. Da quello che aveva detto, il periodo di studi era molto faticoso, ma riusciva ad affogare la noia tenendo allenato il cervello con nuovi scherzi da fare ai viadanti.
Inuyasha gli aveva ironicamente chiesto se si sentisse meschino, a lucrare sulle disgrazie provocate agli altri. Quando l’altro aveva detto, con assoluta calma, che diceva così solo perché era stato beffato a sua volta, si erano tutti molto sorpresi che Shippo non venisse picchiato. C’era da dire che, dopo la nascita di Kaori, Inuyasha si era fatto molto più tranquillo e meno impulsivo, come se si stesse impegnando nel dare il buon esempio.
Erano tutti felici di vederlo, visto che stava assente per periodi sempre più lunghi. A sentire lui, gli allenamenti dovevano essere costanti, per non perdere mai la fantasia e l’inventiva. “Per essere un demone volpe”, aveva detto, con evidente soddisfazione, “servono anni di accurata formazione. Non lo si può diventare così, per caso”.
Kagome non vi aveva dubitato, visto che aveva potuto avere un esempio davanti ai suoi occhi di cosa intendesse. L’apertamente scettico era stato Inuyasha, e non aveva esitato ad esternare i suoi dubbi in merito. La cosa positiva era stata che, comunque, nessuno era ricorso alle mani nemmeno una volta, e avevano saputo rimanere civili per tutta la durata del pranzo.
-A proposito – disse Shippo, ad un certo punto, - come sta Rin?
Lui e la bambina, quando Sesshomaru era lontano, avevano stretto una strana amicizia. Semplicemente, se lui soffriva per degli amori naufragati o andati male, andava da lei e le regalava qualche ghianda, oppure le faceva vedere un trucco magico. Lo stupore e i complimenti che lei gli regalava avevano sempre avuto il potere di farlo stare meglio.
Da quasi un anno, dopo il ritorno di Kagome, i due avevano un po’ perso i rapporti. Grazie al suo demone, Rin era cresciuta in fretta, e con la sua azione al castello Miyasama aveva sempre meno tempo per stare al villaggio, dovendo destreggiarsi fra due diverse attività. Ora che era diventata esperta, poi, Kaede le affidava compiti sempre più delicati, tra i quali anche parti particolarmente difficili o gravidanze tempestose.
Queste erano state le cause attribuite al suo malessere, degenerato poi in un malore che l’aveva costretta a letto. Era accaduto poco dopo la nascita di Kaori: Rin era svenuta e da allora non era stata più in grado di muovere un passo senza aggravare la situazione. Per un certo periodo era stata tormentata da una brutta febbre, che l’aveva fatta vaneggiare e delirare per notti intere, e anche crollare esausta all’alba. Diverse donne esperte di casi simili non avevano escluso l’ipotesi che avrebbe abortito, e nessuna di loro si era scomodata troppo per fare in modo che il bambino rimanesse in vita.
Era questa la pena di portare in grembo un mezzo-demone: la forza insita del figlio aveva sconvolto la madre, a tal punto che le sue condizioni di salute erano in serio pericolo. Inoltre, nessuno  teneva troppo a quelle che erano le sorti di un ibrido, che sarebbe nato da un’unione da tutti ritenuta “contro natura”.
Se solo Sesshomaru non fosse stato trattenuto nell’ovest a causa di disordini che minacciavano il suo potere, forse la sua donna sarebbe stata un po’ meglio e, sotto la promessa di una morte lenta e dolorosa, le erboriste sarebbero state spronate a dare del loro meglio. Rin l’aveva visto andarsene a malincuore, nonostante avesse finto di stare bene. Solo la notte prima era stata preda di una crisi violenta.
Kagome si adombrò, ma decise di non far trapelare troppo. Era l’unica ad essere informata della salute della ragazza meglio di tutti loro e, a dire la verità, i compagni erano curiosi di saperne di più sulle sorti di una persona a cui avevano sempre voluto bene.
-Sta…meglio – disse lei, cercando di infondere forza nelle parole che diceva, - le sue condizioni sono stabili.
Fece un sorriso forzato, posando una mano sul capo di Shippo. –Vedrai, si rimetterà in fretta. È una ragazza forte.
A dire la verità, più che esserne sicura, ci sperava vivamente, ma non espresse quest’ultimo suo pensiero. Lesse nei visi degli altri la comprensione di quello che stava accadendo, ma si augurò che il piccolo fosse ancora abbastanza bambino da lasciarsi cullare dalle illusioni dette dagli adulti.
In effetti, negli ultimi tempi le sue gambe da volpe si erano irrobustite, facendosi meno infantili. I capelli erano cresciuti e ora li teneva sotto controllo grazie ad un codino più folto, tenuto da un nastro doppiamente resistente e di colore più scuro. Il taglio degli occhi si era fatto meno arrotondato, allungandosi, e il viso stesso era mutato con delle caratteristiche più sottili, quasi aggraziate. Il busto si stava facendo più forte, più grande.
Anche se fosse diventato alto due metri, pensò Kagome, per lei sarebbe stato sempre il “piccolo Shippo”, con i suoi occhi innocenti e il sorriso infantile, la voce acuta e delle tenere zampette da volpe.
Lui abbassò tristemente lo sguardo, senza dir nulla. –Ci spero davvero – mormorò.
-Massì – disse Miroku, con un sorriso incoraggiante, - non è nulla di grave.
-Anch’io sono stata male, durante la mia gravidanza – lo consolò Sango, maternamente.
-Davvero? – chiese stupito Inuyasha.
La donna gli lanciò un’occhiataccia, prima di osservare duramente: -Davvero. Se tu non mi avessi anche consolato con quella tua zuppa orribile forse potrei anche scusare questa tua perdita di memoria.
Ci fu qualche istante di silenzio, prima che Inuyasha si battesse una mano sulla fronte.
-Ah, ora ricordo! Era la stessa che fecero bere a mia madre!
-Beh – disse Miroku, ironico, - visto il risultato, non le ha fatto un gran bene.
Il ragazzo, com’era prevedibile, si crucciò subito. –E adesso cosa vorresti insinuare, monaco?
In quell’esatto momento, Kaori, che era rimasta chietamente in braccio allo “zio” senza far ricordare ai presenti la sua esistenza con il minimo vagito, si mise a protestare a gran voce di avere fame, con un pianto penetrante e difficile da ignorare.
-Vorrei insinuare che questa bambina sente un improvviso desiderio di affetto paterno – rispose il monaco, prontamente, porgendogli con la massima cura il fagottino urlante.
Inuyasha, un po’ impacciato, prese la bambina fra le mani, cercando di non farle male. Era ancora molto piccola, e la sentiva così fragile contro i propri palmi che quasi aveva paura di romperla. Sarebbe stato davvero un sacrilegio graffiarla con un’unghia.
Guardò il suo viso arrossato dal pianto e dalla fatica di protestare, ma gli parve ugualmente una creatura bellissima. Forse, ora che si era fatta un po’ più grande, poteva quasi dire che assomigliasse a Kagome, ma i capelli sempre più folti e sempre più scuri, screziati di ciocche più chiare, erano i suoi, e anche il bagliore nello sguardo non ancora definito del tutto sapeva di appartenergli.
-Cattivone il papà Inuyasha che non le dà da mangiare – rise il monaco, divertito.
-Visto come la guarda, credo proprio che potrà piangere all’infinito! – osservò Sango, bonariamente.
-Oh, e state zitti! – borbottò Inuyasha, imbarazzato. Arrossì e divenne della stessa tonalità dei propri abiti in un attimo, tanto da incitare ancora di più i due a continuare con le loro battute, prive di scherno o derisione.
-Dalla a me – sussurrò Kagome, con un sorriso dolce sulle labbra. Tese le braccia verso di lui, e le venne naturale portarsela subito al petto con fare materno, sorridendole appena. La bambina,respirando il profumo della madre, si calmò subito, ma rimase contrariata per sottolineare di aver bisogno urgente di latte.
-Bene, noi ci congediamo – disse la sacerdotessa, alzandosi, - qui qualcuno ha fame.
La ragazza preferiva svezzare la bambina in privato, lontana dagli sguardi di tutti. Non si poteva chiamare proprio pudicizia, perché anche quando lo faceva Sango davanti ai suoi occhi non aveva mai dato segno di provarne fastidio, semplicemente era un istinto materno, il voler passare un momento intimo con la figlia.
Aveva visto centinaia di volte donne allattare i loro bambini anche sedute fuori di casa, tranquillamente, ma lei lo considerava qualcosa di sacro e inviolabile, e preferiva farlo da sola. Se Inuyasha era in casa, per lei non costituiva un problema, ma lasciandola sola le pareva quasi di diventare un tutt’uno con la figlia e di avere qualche attimo da ritagliarsi in tutta tranquillità.
Per questo avevano deciso di non spostarsi troppo lontano dalla loro capanna: presto Kaori avrebbe dovuto mangiare e, in previsione di questo, avevano ritenuto saggio stare nei dintorni. Inoltre, il prato che circondava la casa era stupendo e tranquillo, un luogo ideale dove fermarsi per un po’.
-Ancora? – disse Inuyasha, voltando lo sguardo. –È già la terza volta, oggi.
Forse non sopportava troppo tranquillamente la lontananza con la sua bella Kagome e la figlia, ma allo stesso tempo si sentiva troppo a disagio vedendo la moglie in certe occasioni, tanto che non riusciva mai ad assistere serenamente.
La donna lo fulminò con un’occhiata. –Anche tu hai già mangiato tre volte, eppure lei non ha fatto storie, o sbaglio? – osservò, prima di andarsene a testa alta con la piccola in braccio.
Inuyasha sbuffò, sconfitto, e decise di godersi il silenzio adossato alla corteccia bruna del suo albero. Il clima era mite, il sole era reso meno scottante da una fresca brezza primaverile e la chiazza d’ombra li raccoglieva comodamente, invitandoli a fermarsi ancora a lungo.
Anche i due coniugi, seduti vicini, si misero ad osservare il cielo, azzurro e quasi del tutto privo di nuvole. Ogni tanto, Sango alzava un dito e puntava una macchia vaporosa nella volta celeste, e chiedeva al marito a cosa gli facesse pensare. Le risposte le venivano sussurrate all’orecchio, e la facevano ridacchiare come una ragazzina.
Da ormai otto mesi non aveva più notizie di suo fratello Kohaku. Nei primi tempi la disperazione più profonda l’aveva atterrita, trasformandola in una larva. Piano piano aveva disimparato a vivere, nascondendosi sotto le coltri del suo futon e rintanandovisi per giornate intere. La sua depressione formava una nube tale che persino il pianto di suo figlio non era riuscito a scuoterla, anche se alla fine aveva ceduto ed era corsa a consolarlo, vergognandosi della propria apatia.
Miroku era stato un marito prudente, e valido. Si era occupato della casa e dei bambini rinunciando momentaneamente al proprio lavoro, e cercando un modo per scacciare il demone della tristezza dalla sua casa. Pregava ogni mattina presto e dopo cena, tutti i giorni, fino a quando Sango si era decisa a diventare la donna di un tempo.
In casa, lui si affrettava a rassicurarla durante qualsiasi attimo di cedimento, e si assicurava che fosse felice con tutte le proprie forze. Lei, invece, non volendo turbare il coniuge con malumori o altre manifestazioni di aperto disagio, si sfogava con un duro allenamento solitario. Il tempo lo ritagliava fra le mansioni domestiche e i doveri di madre, cercando di non rubare minuti preziosi a nessuna delle sue attività.
Delle volte, si chiudeva in camera di Rin e le cambiava le fasciature. Parlavano per ore: sembrava che le cose da dire fossero migliaia, ora che la sventura le aveva entrambe colpite, anche se su sfere diverse.
Inuyasha credeva che Sango vedesse Kohaku come un figlio, più che come fratello. La sua preoccupazione per lui era sempre stata sincera, sin da quando Naraku aveva allungato gli artigli sul suo destino. In un primo tempo il mezzo-demone aveva pensato che tutta quella sua smisurata dedizione fosse riconducibile ad un bruciante senso di colpa, ma conoscendola meglio aveva compreso quanto si fosse sbagliato.
Per questo era forse l’unico a non trovare strana quest’improvvisa amicizia con Rin. Per la sterminatrice era un modo di rendersi utile e concentrarsi su altro; per la levatrice, era un metodo valido per non impazzire al pensiero di rischiare di non essere degna nemmeno di portare il figlio di Sesshomaru in grembo.
Quell’idiota di suo fratello mancava da quasi un mese; anche quando c’era, si faceva vedere raramente, e delle volte portava Rin con sé verso località sconosciute per non stare assieme ad altri esseri umani.
Fu Shippo a rompere il silenzio: sembrava non sopportare momenti vuoti di conversazione.
-Sango, ho saputo di Kohaku – disse, a voce bassa. –La sua fama si è estesa in tutti i territori del sud.
Inuyasha guardò allarmato il bambino, non senza la voglia di metterlo a tacere a suon di pugni. Certo dovevano avergli detto quanto quell’argomento fosse delicato, quanto Sango avesse sofferto, quanta fatica facesse a non lasciarsi trasportare dal dolore della perdita.
Quando uno sterminatore spariva a quel modo, le ipotesi non erano molte. Vivendo in territori impervi, con l’ira e l’antipatia di diversi demoni contro di sé, si poteva facilmente temere un attacco o una calamità che avesse posto drasticamente fine alle vite e alle avventure di quel nuovo, giovane gruppo. La donna era la prima a riconoscerlo e a saperlo; ne era sempre stata conscia, ed era per questo che aveva rischiato di impazzire quando il tempo si era fatto troppo lungo, interminabile.
Per questo, Miroku cinse apprensivamente il fianco della moglie con un braccio, come per sincerarsi che non svenisse. Sango sembrava fatta di marmo, ma trovò lo stesso la forza di sorridere.
-Ne sono felice – disse piano.
Shippo annuì, con gli occhi brillanti: -Ultimamente hanno avuto molto lavoro. Sai, sulle montagne a nord del Fuji la voce della sconfitta di Naraku era giunta sotto forma di eco, e i demoni avevano deciso di approfittarne. Certamente dev’essere stata una faticaccia: sai che sono famosi per essere particolarmente coriacei.
Sango annuì, pallida, ma il bambino sembrò essere spronato a continuare, narrando e un po’ lodando le ammirabili gesta del ragazzo. La voglia di picchiarlo stava crescendo in modo inarrestabile in Inuyasha.
-Eppure, nonostante i vari impegni, sono riusciti a trionfare. Hanno elaborato un sistema molto intelligente. Non si spostano tutti assieme, ma un considerevole gruppo rimane al villaggio, nel centro; lì, a seconda dei demoni che incontrano, fortificano le case e si danno da fare a creare nuove armi con scambi commerciali, in modo da rendere il villaggio meno pauroso agli occhi della gente. In questo modo tutti si fidano di loro e lasciano che si occupino di sempre maggiori affari. Ingegnoso, non trovi? – chiese, con voce squillante.
Il viso della donna si faceva sempre più cupo e triste, ma annuì ancora.
-È sempre in prima linea, sai? Non esiste scontro capace di sopraffarl….
Inuyasha provò una grande soddisfazione nel colpirgli la testa con un pugno ben assestato. Si può dire quasi che provò sollievo e una certa realizzazione nel sfogarsi e nel bloccare quella crudele oratoria, soprattutto per il bene di Sango. sembrava fosse sull’orlo delle lacrime, e che stesse per cedere.
Sapendo bene quanto la donna amasse farsi vedere forte, di essere tenuta come riferimento immutabile e solido, ritenne saggio non permettere al bambino di continuare con la sua opera di distruzione. Forse inconsapevolmente, le sue parole stavano corrodendo lentamente la ragazza.
-Ma la vuoi piantare?! – abbaiò Inuyasha. –Non vedi quanto soffre per la mancanza di suo fratello?!
Shippo era rimasto inchiodato al suolo tenendosi una mano sulla testa, sconvolto. Sul suo viso si leggeva una profonda confusione, e la sua espressione interrogativa sollecitò Inuyasha nella sua ira, facendogli desiderare un altro colpo. Possibile che non si rendesse conto del dolore che le stava arrecando?
-Ma…io… - balbettò, confuso.
Il ragazzo si preparò a sferrare un altro pugno, arrivato al limite dell’esasperazione, ma una voce fredda lo richiamò.
-Basta così, Inuyasha. Evidentemente non sa che non ha più dato sue notizie – stabilì Miroku, tranquillamente. Spostò la mano sulla spalla della moglie, abbracciandola per offrirle conforto.
Shippo stava in silenzio, il capo abbassato. Era impossibile vederlo in viso, perché il ciuffo arancione gli copriva del tutto l’espressione, e il suo corpo non si muoveva.
Inuyasha non aveva timore di avergli fatto più male del solito, visto che i colpi che gli dava erano perfettamente calibrati per non nuocergli affatto. Se avesse davvero usato la sua forza in tutta la propria potenza, l’avrebbe sicuramente ucciso sul colpo, e non era quello ciò che desiderava. Il bernoccolo sarebbe sparito presto.
-Se non sa le cose allora farebbe meglio a stare zitto! – esclamò Inuyasha, interstardito.
-E a cosa serve picchiarlo, per questo? Lui stava solo cercando di farla star meglio – ribadì il monaco.
-Non poteva parlare di qualcos’altro, allora? – continuò il mezzo-demone, irritato. Ormai era persino sordo a qualsiasi cosa che sarebbe stata detta. –Ci sono tante cose da dire per rallegrare una donna: fiori…chessò…bambini! E invece no, sempre a parlare del disgraziato di suo fratello!
-Inuyasha! – lo richiamò Sango, indignata. Sembrava aver recuperato un po’ di colore sulle guance.
-È vero! – si difese lui, - ammettilo! Uno che non dà più sue notizie per propria ambizione non mi sembra così degno di lode!
-Adesso stai esagerando – intervenì Miroku, pacatamente.
-Sto solo dicendo la verità! – disse ancora lui.
All’improvviso, avendolo obliato completamente, Shippo si mise ad urlare per reclamare attenzione. Si era alzato in piedi di scatto e aveva tirato fuori dalla propria casacca una trottola. Prendendo bene la mira la scagliò dritta in testa ad Inuyasha, per poi tornare a massaggiarsi il punto dolente.
-Brutto stupido, vuoi lasciarmi finire un discorso quando ne inizio uno? Qui il disgraziato sei tu, non Kohaku! – strillò, risentito.
Inuyasha rimase atterrato dal colpo, ma tutti erano troppo sbalorditi per poter intervenire in suo soccorso o dire qualcosa di utile. Sango, gli occhi sbarrati, assisteva attonita, mentre Miroku aveva un’espressione stranita in volto di chi decide, improvvisamente, che non vale decisamente la pena di prendersi troppo disturbo nella difesa di una persona, visto che le soddisfazioni ricavate non possono mai dirsi pienamente tali.
-Se mi lasciavi parlare – continuò Shippo, - avrei potuto mostrare questo a Sango!
Detto ciò, trasse dalla fodera di pelo che gli copriva il busto una pergamena arrotolata. Inuyasha, temendo che si trattasse di un altro dei suoi trabiccoli da demone volpe, si era ritratto proteggendosi la testa, spostandosi fino a raggiungere le radici dell’albero.
Fu Miroku che, incuriosito, si spostò verso il bambino e, nello sconvolgimento generale, gli prese l’oggetto di mano e lesse il sigillo.
-È di Kohaku! – esclamò, strabuzzando gli occhi.
-Esatto – assentì Shippo, con aria saccente. –Me l’ha data prima di giungere qui come scusa di non essersi fatto sentire, e mi ha chiesto di recapitarla a Sango il prima possibile.
-E allora perché non l’hai detto prima! – sbottò Inuyasha, scontroso, dandogli un’ulteriore pacca sulla spalla.
-Perché sei uno stupido, ecco perché- strillò Shippo, massaggiandosi l’arto.
-Ah sì, eh? Adesso ti faccio vedere io chi è lo stupido! – rispose Inuyasha, mettendosi ad inseguirlo con infantile zelo.
Miroku si voltò, in parte rasserenato, verso Sango, ma trovò un posto vuoto. Lentamente, si rese conto che la ragazza aveva preso la pergamena ed era sparita.
In cuor suo, sorrise: da una parte voleva dire che sua moglie possedeva ancora le arti di un tempo, che le avevano permesso di agire indisturbata nonostante il trambusto.
Dall’altro, invece, era lieto per la salute di Kohaku e, di conseguenza, anche di quella di Sango.
Solo che, stabilito questo, non intervenì subito, anzi. Con un mezzo sorriso, si godette lo spettacolo che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi, senza saper dire quale dei due era più infantile dell’altro.       

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Capitolo 50
*** Lettere ***


Cara sorella,
innanzitutto, mi scuso per la mia imperdonabile negligenza nei tuoi confronti. Non sono stato fedele alla promessa che feci quel giorno, e me ne dispiaccio molto.
A dire il vero, il maestro Totosai venne a farmi visita, ormai diverse lune orsono, ma io ignorai la sua presenza a causa di una spedizione, e da allora non ebbi più modo di parlargli. Sapete com’è, quella creatura suscettibile.
Comunque non sto cercando giustificazioni al mio vile comportamento, e chiedo venia per la mia assenza, anche se riconosco che dev’essere ben poca cosa in confronto al dolore arrecatovi.
Come credo puoi constatare dalla mie parole, godo di buona salute. Sembra che il clima montano mi faccia bene: la mia vecchia ferita alla spalla ha smesso di dolere e di tormentarmi, assieme alle innumerevoli cicatrici incise a fondo nella mia anima.
Qui le cose procedono come avevo sperato. Le reclute più giovani hanno preso a chiamarmi “sensei”, per quanto io scoraggi quest’iniziativa. Mi mette in imbarazzo, in tutta onestà; non credo di meritare tanta devozione, soprattutto visti gli ottimi risultati che sono in grado di ottenere con le loro stesse forze.
Molti dei giovani che si sono uniti al gruppo provengono dalle montagne. Passando nei vari villaggi del nord, semi-nascosti da innevate vette pungenti e ferrei regimi dovuti al freddo agghiacciante, abbiamo trovato diverse linee di resistenza organizzate contro i demoni. Pur di respingere i loro attacchi al già scarso bestiame e agli orti ben poco fertili, i ragazzi e anche alcune ragazze di questi luoghi hanno deciso di armarsi e procedere nella loro avanzata.
Riconoscendo in essi una grande qualità di guerrieri, parlammo loro del nostro villaggio, e degli Sterminatori. Non conoscevano l’ordine, nemmeno quello più antico, e allora glielo spiegammo,visto che comunque il luogo inospitale non ci permise nessun spostamento per diverse settimane.
All’inizio erano restii di fronte al nostro progetto, e non ti nascondo che condividevo le loro idee molto più di loro stessi. Tuttavia ho cercato di mantenermi saldo nei miei propositi, così come ti promisi, e alla fine questo si rivelò decisivo. Essi ammisero di voler apprendere le nostre arti e di rendersi utili in tal senso.
Non so se provare sollievo, orgoglio oppure paura. Sono terrorizzato, lo concedo. Questa cosa sta procedendo molto più di quanto potessi sperare, ma è pur sempre un sogno che va avverandosi, e la cosa mi allieta. Certo, le responsabilità sono molte, ma di giorno in giorno mi convinco che si tratta della decisione giusta.
Ovviamente abbiamo stilato un nostro giuramento segreto. Quando abbiamo visto che il gruppo si stava infoltendo, e che i matrimoni al suo interno non mancavano, abbiamo stabilito delle leggi a noi proprie e convenienti a mantenere l’ordine, così questo ci ha portato a stanziarci nei territori che tutt’ora occupiamo. Le popolazioni locali, ammorbidite da alcuni nostri favori, non si sono dimostrate un problema alla nostra salute.
Delle volte, cara sorella, ripenso a nostro padre. Ne ammiro, e forse invidio, il coraggio; mai il suo animo vacillò, mai le sue decisioni si rivelarono azzardate. Seppe essere una guida per il suo popolo così come io mi auguro di essere per il mio, senza mai mettere in discussione la scelta che aveva fatto.
Neppure io dubito della strada che sto percorrendo, lo sottolineo. Tuttavia, nelle notti lunghe e solitarie lontane da casa, da quella che era la mia terra, penso e ripenso alla mia vita, e se ciò che farò potrà essere all’altezza di quello che il futuro merita. Non voglio ritagliare troppa importanza al mio ruolo, perché sento di non meritarla, però so che una guida serve, e che gli Sterminatori sono fondamentali al mondo di adesso.
Qualche tempo fa andai a far visita alla tomba del nostro nobile padre, sai? La trovai lì, immota e triste, ma per qualche ragione mi sembrò familiare. Io non l’avevo mai vista, prima: mi ero sempre fermato al limitare del vecchio villaggio, privo del coraggio che ti è sempre appartenuto, a contemplare le case abbandonate e semi-distrutte, i mozziconi di armi per terra, la polvere che regnava nella desolazione.
Non posso che ammirarti per quello che hai fatto, e disprezzarmi per le mie azioni. Gli ho chiesto perdono, e attendo responso. Forse sono troppo ottimista, ma credo che nel suo cuore lui sappia la verità.
Di accuse nel mio animo ne ho già mosse, e tutte mi vedono come imputato principale. Sarebbe molto più facile usare la follia, l’ambizione come responsabile, ma non ci riesco. Ci ho provato, ma non ce la faccio; so che persone molto più orribili di me hanno calcato questo suolo, e ne hanno lasciato tracce amare, ma questo non mi consola. Quello che sto facendo, forse, vuole essere una piccola riparazione alle cose che non sono riuscito ad impedire in passato.
Ho lasciato un fiore, uno solo; mi vergogno a dire che l’ho colto strada facendo. Spero mi perdoni, ma il dorso di Kirara non è particolarmente famoso per la sua disponibilità a conservare oggetti fragili, siano essi margherite o cuori spezzati. Ho considerato saggio dargli qualcosa di intatto, e di fresco.
Forse a quest’ora è già appassito, forse sarebbe bene portarne un altro, ma non oso. Non ne ho il coraggio.
Magari, sorella mia, non riuscirai a perdonarmi per quest’ultima mia assenza, ma avevo davvero bisogno di pensare. È penoso presentarmi con questa lettera, ma di meglio non posso fare: fra un mese esatto da adesso, giungerò in visita al villaggio Musashi, se mi accetterai. Sono divorato dalla curiosità di rivedere i miei nipoti, lo ammetto. Quando le ho viste l’ultima volta, le gemelle erano già grandi!
Mi permetterai, forse, di parlarti di armi. Certuni, sulle vette dei monti più gelidi, ne preparano di speciali; sono sottili, flessibili ma letali, e hanno una forma davvero bizzarra. Mi piacerebbe fartene osservare una da vicino, visto che hanno voluto farmene dono: certo conosco la tua passione per certe cose, non dimentico quanto il tuo sguardo si facesse luminoso quando circondato da simili oggetti.
Non voglio distoglierti dai tuoi compiti di madre e di moglie, è un mestiere che non mi compete. Mi piacerebbe solo rapirti un momento, senza che nessuno lo venga a sapere. Capirò perfettamente se tu non ti sentirai pronta, non temere. Non insisterò oltre.
 Qui le cose vanno bene, come penso di averti già detto. Abbiamo missioni e rapporti commerciali fiorenti, e fino ad ora non possiamo lamentarci. Ogni mese teniamo delle giornate interamente dedicate agli aspiranti Sterminatori, come si definiscono essi stessi, dove ci dedichiamo a sondare le loro capacità e, all’occorrenza, ad accoglierli fra le nostre schiere. Ci mancano uomini, ma non credo che questo problema si manterrà ancora a lungo: è pieno di guerrieri volenterosi, anche se molti ne ruba l’esercito.
Se vorrai ascoltarmi, sarei lieto di narrarti alcune nostre missioni. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi, se avresti qualche miglioria da suggerire, oppure  qualche consiglio per essere più abili, o più pronti. Le tue parole mi suonerebbero indispensabili.
In ultimo, ti prego di dare tutto il mio affetto alla Nobile Rin. Ho conosciuto da Shippo il suo precario stato di salute, e me ne dispiaccio molto. Certo, mi risulta difficile immaginarla alle prese con simili problemi, ma d’altronde sono passati così tanti anni da quando l’ho vista l’ultima volta, che non mi sembra impossibile credervi.
Lei fu - per poco tempo, lo concedo, - mia compagna di prigionia. Mi sento legato alle sue sorti; mi piacerebbe che tu le esprimessi il mio cordoglio, e i miei migliori auguri.
Oltre che a dei saluti a Miroku, che mi sbrigherò ad incontrare personalmente, mi farebbe davvero molto piacere che tu esprimessi le mie più sincere felicitazioni nei confronti della Divina Kagome e del Signor Inuyasha. Sono davvero contento della loro novità, e mi auguro che siano felici insieme quanto più possibile.
Ovviamente, tutto il mio affetto va a te, cara sorella, anche se mi sento ipocrita a preoccuparmi ora, per mezzo di questa volgare pergamena, della tua salute. Sei sempre nei miei pensieri, tu e la tua famiglia.
Per quanto riguarda me, penso di aver detto abbastanza. Ho una novità da presentarti, se ancora mi accoglierai, e credo che questa possa saziare tutte le tue angoscie – o, almeno, lo spero.
Con l’augurio di vederti presto felice e in buona salute, concludo la mia lettera.
Il tuo sempre devoto fratello,
Kohaku.
 
Queste parole furono lette da Sango con un’apprensione sempre minore, il peso che aveva sul cuore andava scemando. Ogni riga, ogni solco di pennino, ogni minimo poro della carta ruvida su cui il fratello aveva scritto, sembra impreziosire il ricordo che aveva di lui, del suo sorriso, e la voglia di rivederlo si fece bruciante.
Non poteva quantificare il proprio sollievo nel sapere che stava bene, e non riuscì a non sorridere notando la sua esagerata formalità. Quelle parole erano le sue, senza dubbio, e se ne colmò fino a quando le lacrime resero ai suoi occhi impossibile continuare.
Lesse e rilesse sempre le stesse parti, gli stessi punti, e respirò a fondo il profumo di ghiaccio e muschio che la lettera emanava. Passarono delle ore, ma non si alzò: continuò a singhiozzare stringendosi la lettera al petto, grata che tutte le incredibili ipotesi sulla sorte che aveva elaborato col passare del tempo fossero state sbagliate.
Nel frattempo, seduta nella propria capanna, Kagome ascoltava il respiro della piccola Kaori, stesa sul proprio giaciglio. Inuyasha era andato a caccia; Miroku l’aveva seguito per controllare che non rubasse le prede a tutte le specie animali presenti nel raggio di chilometri; Shippo si stava facendo ammirare nel centro del villaggio; Rin era sveglia e stava un po’ meglio, ma aveva detto che avrebbe voluto riposarsi un po’, quel pomeriggio, così l’aveva lasciata sola con Kaede.
Shinichi, un ragazzo simpatico che spesso le portava delle garze speciali dalla Cina o altri manufatti del genere, si era incaricato personalmente di passare da Jinenji per prendere le erbe che aveva rischiesto, e questo le aveva tolto qualsiasi cosa da fare.
Per un po’, Kagome si era scervellata su cosa poteva inventarsi per passare il tempo, ma aveva esaurito le idee. Nelle sue condizioni non ancora del tutto stabili, non voleva arrischiarsi ad esagerare con i lavori di casa o con l’attingere acqua dal pozzo. Inoltre non le piaceva l’idea di allontanarsi troppo dalla figlia piccola, e di lasciarla sola in casa.
Così decise di rimanere lì, magari sistemando qualcosa che aveva accantonato in giorni di pigrizia, ma si ritrovò a maledire il proprio infaticabile istinto di donna lavoratrice. Non c’era letteralmente una pagliuzza fuori posto, non un solo oggetto che si trovasse nella posizione sbagliata. La capanna stava placidamente dormendo, ma l’unica persona che non aveva sonno era proprio lei; Kaori, infatti, era una bambina estremamente tranquilla, e aveva degli orari notturni che le permettevano ben poche rinunce.
La ragazza non era mai stata il tipo grato del rigirarsi i pollici senza aver nulla di concreto da fare, così le sembrava di impazzire. Ascoltava ogni minimo rumore nel tentativo di distrarsi, ma questo non faceva che acuire un’idea forse malsana che aveva in testa da tempo.
Ne aveva parlato persino ad Inuyasha, una volta. Era un progetto stupido nato per caso all’improvviso, durante una delle sue nostalgiche riflessioni sul Goshinboku. Stava lì, davanti a lui, e ne aveva accarezzato la corteccia, nel punto esatto dov’era conficcata la freccia di Inuyasha.
Quando l’aveva trovato, la primissima volta in cui era andata nel passato, non aveva esitato a credere che lui fosse o un dio sceso in terra, oppure una minaccia. Ma, nonostante il comportamento sgarbato, l’indole capricciosa, il carattere da bambino cocciuto, non aveva potuto nascondere a sé stessa quanto si sentisse legata a quello strano ragazzo con i capelli d’argento e i vestiti color sangue.
Ogni carineria da parte sua era un fiore che amava raccogliere e vegliare; quando sentiva che stava per appassire, lui le faceva dono di un altro momento più dolce, e lei si sentiva improvvisamente rinata, in pace col mondo.
Stava pensando questo, davanti al luogo in cui tutto era cominciato; un lungo e triste ragionamento sul tempo che passa, cambia, muta, si fa beffe degli uomini e poi torna uguale, immutato. Rivide nell’alcova legnosa dell’albero lo stesso identico punto dove la freccia l’aveva trafitto, dritto al cuore, lo stesso che lei stava cercando di guarire, e le era sorto un dubbio.
Già una volta, nel presente, aveva potuto osservare quanto gli oggetti di quell’epoca potessero essere conservati nel futuro, apparendo semplicemente dove uno li metteva, come se tutte le epoche passate nel frattempo fossero state solo un inutile abbellimento.
Da quando aveva attraversato il pozzo la prima volta, infatti, Kagome aveva iniziato a documentarsi su cosa potesse collegare presente e futuro; quelli che prima le sembravano testi privi di fondamento, ora nascondevano un fondo di verità. Wormholes, passaggi circolari, linee rette fatte di momenti consequenziali capaci di essere ripercorse in senso inverso, clessidre, macchine del tempo, lancette di orologio, fenomeni paranormali. Tutto ciò che c’era in biblioteca in merito l’aveva affascinata, certo, ma anche confusa, visto che aveva stoicamente divorato volumi su volumi, fino ad averne fin sopra ai capelli.
Nulla le pareva promettente come teoria da prendere in versione integrale, tuttavia questi pezzi del puzzle le avevano permesso di crearsi un’idea generale delle cose, visto che comunque di viaggi al di là della materia fisica ne aveva compiuti parecchi.
Insomma, davanti al tronco dell’albero aveva chiesto a sé stessa: e se io lasciassi un bigliettino qui nascosto, arriverebbe ai miei cari?
Infatti, l’idea di comunicare con loro non si era del tutto tolta dalla sua testa. Non voleva rassegnarsi al fatto che quei tempi fossero completamente ed irrimediabilmente lontani da lei, visto che ormai l’impossibile, alla luce di quello che aveva passato, sembrava un concetto molto relativo. La mamma, Sota, il nonno e altre migliaia di persone che giravano per strade trafficate in tram indossando comodamente dei jeans e masticando una chewing-gum stavano vivendo nello stesso identico momento in cui il fiato si alternava nei suoi polmoni, ne aveva la prova.
A separarli era solo una barriera che non sapeva di cosa fosse fatta, ma che non andava infranta. Non era sua intenzione distorcere le sorti del mondo, ma solo aveva il bruciante desiderio di far sapere ai suoi quanto fosse felice, quanto ancora li pensasse, com’era cambiata la sua vita da quando aveva attraversato il pozzo una volta per tutte.
Non avrebbe nascosto la fatica e le difficoltà, ma le pareva giusto rendere un ringraziamento grandissimo a quelle persone che ancora amava, e che la ricambiavano. Non sopportava quel fastidioso silenzio che aveva coperto i fili del destino che la collegava con loro, voleva far vibrare le corde ancora una volta e far udire la propria voce, a dispetto dei secoli.
Nel silenzio della casa, pensò che forse non era un’idea così inverosimile. In fondo, se lei avesse messo un messaggio in un posto in cui sarebbe stata sicura che si sarebbe conservato, esso sarebbe giunto anche ai suoi cari per forza. Non era forse lo stesso per i monumenti, i siti archeologici, le statue? Passati gli anni, arrivavano fino al presente nonostante tutto, perché il tempo scorreva inesorabilmente ma c’era comunque la possibilità che il passato si annunciasse al presente.
Se non ci fossero state quelle prove, allora come avrebbe fatto il futuro a conoscere la storia?
L’idea prese contorni netti nella sua testa, fino a diventare allettante. Non le importava una risposta; non sapeva come far fare il viaggio inverso ad un messaggio perché non conosceva le dinamiche del tempo, perciò le bastava soltanto la rassicurante idea che qualcuno, dall’altra parte, potesse ricevere sue notizie.
“Kagome, puoi farcela” si cominciò a ripetere. “Ce la puoi fare”.
Presa dalla frenesia del progetto, schizzò in piedi. Avrebbe voluto ridere, urlare, dirlo a qualcuno, ma non poteva svegliare Kaori. Kaori…oh, meravigliosa Kaori! La sua creatura, la sua bambina, un tenero esserino di pochi mesi già in grado di fare i sorrisi migliori del mondo e di parlare quel suo linguaggio incomprensibile, la stessa prova del suo amore per Inuyasha, e del fatto che lui ricambiasse.
Quanto amore si poteva provare per delle persone senza che il proprio cuore rischiasse di esplodere? Non lo sapeva, ma decise che non era il momento. Per non turbarla con movimenti improvvisi e non destarla dal suo riposino, Kagome si spostò nell’altra stanza.
Prese da un cassetto un rudimentale strumento per incisioni, dalla punta sottile, e anche un tipo di vernice collosa e scura. Provandolo su un pezzo di benda fragile come pergamena (che al Musashi era irreperibile, e dall’esterno costava decisamente troppo), vide quanto fosse simile a dell’inchiostro vero e proprio.  
Eccitata, si rese conto che quel tipo di smalto era forse molto più resistente di qualsiasi altro modo di scrivere. Anche nell’epoca moderna, quando si lasciava all’incuria un pezzo di carta con delle scritte sopra, diventava presto illeggibile il messaggio che si voleva recapitare. Le parole sparivano, si slavavano, e addio comunicazione importante.
Forse, quindi, sarebbe stato più affidabile uno strato di materiale per pittura di esterni. Sì, si disse, non era facile scrivere ordinatamente a causa del dover continuamente intingere lo strumento, ma con un po’ di attenzione ce l’avrebbe fatta.
Si rese conto, comunque, che non poteva sprecare quel tipo di benda, e non solo a causa della sua fragilità; era troppo malleabile, non avrebbe resistito per cinquecento anni sepolta da qualche parte, ed era tagliata in strisce, le occorreva qualcosa di più fibroso e consistente. Era difficile scrivervi sopra senza che tutto il nero spandesse e macchiasse i bordi, e non si fidava se pensava all’arrivo delle piogge.
Si ritenne già sconfitta in partenza, visto che non aveva nemmeno la carta. Persino le spalle le si curvarono mentre, subito rassegnata, si arrendeva a riporre la stoffa nel cassetto. Era una follia, pura e semplice pazzia ereditaria, forse, di cui magari sarebbe stata succube anche sua figlia. Come poteva sperare davvero che dopo così tanto tempo un messaggio sarebbe potuto essere recapitato anche solo vagamente leggibile?
Pensò che, inoltre, non avrebbe saputo dove metterlo. Nonostante sapesse più o meno quantificare il terreno che doveva ricoprire la moderna Tokio, si rese conto che la maggior parte della terra sarebbe stata ricoperta da asfalto, le gallerie coperte da cumuli su cumuli di grattacieli, le strade si sarebbero snodate inifnite al posto dei sentieri, sotto terra avrebbe ruggito la metropolitana.
Era rischioso, perché anche ammesso che le sue parole fossero sopravvissute fino all’era moderna, e fossero state scoperte da qualcun altro, era imprevedibile l’uso che se ne sarebbe fatto. Una sacerdotessa che parla di un mondo composto dai demoni proveniente dall’epoca Sengoku sarebbe stata una bella beffa alla concezione moderna del genere umano! E poi gli unici che voleva contattare erano i membri della sua famiglia, non civili qualunque.
Un momento…quella stessa mattina, Shinichi era arrivato dandole un fagotto di fibra intrecciata. A sentir lui, era un materiale prodotto dalle persone più povere che dovevano inviare missive ai parenti lontani. Era una carta in grado di sopportare viaggi lunghissimi e intemperie di qualsiasi specie, per riuscire a portare parole care anche alle distanze più invalicabili. Per questo gliel’aveva proposta come fasciatura, vista la sua qualità di resistenza.
Aveva detto che, se ne fosse stata soddisfatta, il primo carico l’avrebbe offerto lui, per festeggiare l’arrivo di sua figlia, o almeno così aveva detto. Il barlume della speranza si riaccese: ne aveva un rotolo, a casa, non ancora tagliato a strisce. Si trattava di pezzi sufficientemente grandi da fare da fogli robusti.
Muovendosi a rilento per non fare rumore, rovistò nel cassetto attiguo al proprio giaciglio per trovare la carta. L’aveva messa lì poche ore prima visto che non aveva altri posti dove tenerla, e se ne era anche dimenticata.
La saggiò con un polpastrello. Era spessa qualche centimetro, bruna e ruvida, di certo inadatta per proteggere le ferite. Avrebbe potuto tenerla lo stesso, però: ne avrebbe certo fatto un uso diverso, ma quanto mai utile.
Provò a scrivere qualche scarabocchio su un angolo in alto, e vide che la vernice veniva assorbita bene. Anche soffiandoci sopra e sfregando i ghirigori con altri lembi, la chiarezza del tratto non venne smorzata nemmeno da una sbavatura.
L’entusiasmo in lei rinacque dalle proprie ceneri come una fenice. In fretta e furia tirò fuori del tutto il rotolo, lo posizionò davanti a sé e ne prese una parte. Sistemò minuzie come la regolarità delle righe e il tipo di carattere da usare, per poi umidificare correttamente il pennino come aveva visto fare nei film storici.
Tremante d’emozione, cominciò a scrivere di getto le prime parole che le dettò l’istinto.
 
Cara mamma,
non mi sembra vero di scriverti proprio adesso, dopo tutto il tempo passato lontano da casa! Qui è difficile tenere il conto dei giorni, ma anche se sono oggettivamente pochi a me sembra un’eternità.
Indirizzo questa lettera a te perché sento, so che sarai tu a trovarla.
Purtroppo non ho troppi fogli da sprecare con inutili moine ma, credimi, se potessi mi scioglierei in lacrime fatte di parole. Potendo, cara mamma, ti scriverei qualsiasi cosa mi passi per la testa, ma non posso. Anzi, non so neppure se questo biglietto potrà giungerti; spero vivamente di sì, e mi aggrapperò a questa speranza per tutta la mia vita.
All’inizio, mamma, fu difficile per me ambientarmi. Per una settimana intera io e il resto del gruppo cercammo di recuperare il tempo perduto raccontandoci quello che era successo durante quei lunghi anni, e in parte ci riuscimmo. Io ero quella con meno da raccontare, sorprendetemente!
La vita qui è proseguita; come immaginavo, mi hanno ordinata sacerdotessa con una cerimonia durata tantissimi giorni, e mi hanno affidato compiti sempre più importanti. Ora sono un punto di riferimento per l’intero villaggio, e mi hanno tutti accolta come una sorella.
Io sto bene. La mia vita qui prosegue tranquilla, ed è illuminata dalle persone che amo. Nuove novità si sono presentate da poco alla mia porta. Spero di non farti collassare dicendotele tutte!
Io ed Inuyasha possiamo finalmente stare insieme. È stato difficile riuscire a farci accettare come mezzo-demone e sacerdotessa, ma alla fine ce l’abbiamo fatta, e ora siamo felici. Abbiamo una figlia splendida, nata da pochi mesi; si chiama Kaori. È così bella, mamma…la amo da impazzire.
Ho deciso di non tenerle nascosto quale splendida persona ha per nonna, ma credo sia saggio non parlarle del futuro. Spero tu possa capire: persino per me è difficile pensare ai tempi andati senza nostalgia.
Sono felice, mamma, ma mi mancate moltissimo. Da impazzire, oserei dire. In ogni viso sconosciuto credo di vedere i vostri volti, ad ogni angolo spero di rivedere i vostri sorrisi, ma so che non accadrà. Se solo potessi, cara mamma, spenderei parole su parole per dirti tutto per bene, ma non mi è concesso. Santo cielo, quanto vi voglio bene.
Mi auguro davvero che troviate questa lettera. Tu, Sota, (il mio adorabile fratellino!), il nonno… mi piacerebbe davvero potervi vedere un’altra volta, ma quello che ho mi basta. Persino inviarvi una lettera che forse non verrà neanche mai letta mi sembra il coronamento di un sogno!
Non vi ho mai dimenticato, e vi voglio ancora moltissimo bene. Vi auguro un futuro luminoso, e non piangete per me: sono felice, sono completa, sono una donna realizzata. Volevo dirvi solo questo. Certo, nel farlo mi sono commossa, ma non ha importanza!
Mi affiderei volentieri al destino, nel sperare in un incontro. Forse sono folle anche solo a scrivere questo, ma ho bisogno di qualcosa in cui sperare. Purtroppo dubito davvero che io possa reincarnarmi ancora: è già accaduto una volta e, viste le drammatiche circostanze, quasi mi auguro che non succeda più.
Inuyasha una volta mi ha confidato che sentiva di volervi bene. Sai com’è fatto, non l’avrebbe mai detto esplicitamente, però ci tiene davvero molto a voi. Il nonno gli stava particolarmente simpatico, ma non ditegli che ve l’ho detto!
Ecco, ora ho finito la carta. Spero vivamente che questo non sia stato uno sforzo inutile. Vi penso sempre, vi amo più che mai.
Statemi bene!
Vostra,
Kagome.
 
Nonostante gli occhi velati di lacrime, Kagome si sentì in pace con sé stessa. Rilesse il messaggio centinaia di volte ma, per quanto le paresse frivolo, le sembrava che non vi fosse nulla da aggiungere. Era quella, la Kagome che era partita, una ragazza allegra e amante della propria famiglia: era giusto che tenessero quel ricordo di lei.
Piegò accuratamente la carta senza forzature, e la avvolse in altre parti di foglio tagliato in lunghe bande. Quando le parve oppurtunamente al sicuro, decise di aggiungere come chiusura un altro strato di garze meno resistenti, per poi baciarlo piano e darvi la propria benedizione, per quanto potesse servire.
Posò il pennino da incisione e il barattolo di vernice sul tavolo. Chiuse gli occhi, sospirò, si asciugò gli occhi e guardò il soffitto per un po’, in silenzio. Aveva detto tutto ciò che c’era da dire, aveva espresso ogni dubbio o preoccupazione, e stava leggermente meglio nei confronti del suo spirito. Certo, un’opprimente malinconia le bloccava la gola, ma aveva delle persone splendide attorno, e non se ne sarebbe mai scordata.
Guardando dritto avanti a sé con determinazione, capì il luogo perfetto dove nasconderlo: il Goshinboku. Ma certo, era sempre stato la soluzione, l’unico elemento dove era sicura ci sarebbe stata probabilità di essere trovato, poiché si trovava ancora nel tempio della famiglia Higurashi.
Piano, sorrise: ora bastava solo che Inuyasha tornasse a casa. 

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Capitolo 51
*** Convalescenza ***


La camera era buia, e il silenzio si era fatto denso. L’odore di sudore che la impregnava a fondo aveva fatto in modo che ogni singolo mobile assomigliasse ad un contadino appena tornato a casa dopo una giornata di intenso lavoro.
La vestaglia le si appiccicava al petto, affannato dal respiro convulso, e i capelli formavano un fastidioso groviglio che le stava solleticando il collo e ostruendo la bocca. Non aveva la forza di spostare anche solo una ciocca: ogni arto pareva un pezzo di legno affogato dalla burrasca, e reso pesante dai naufraghi che vi aggrappavano per raggiungere la salvezza.
Rin era in uno stato pietoso: forse era solo una sua impressione, ma le pareva che fra le gambe scorresse del sangue. Non era abile come i demoni a percepire gli odori e a classificarli, purtroppo, ma il suo istinto le diceva che un’altra emorragia era in arrivo.
Kaede, la prima volta che l’aveva guardata, aveva pianto. Era fuggita dalla stanza che puzzava di chiuso con un peso sul cuore, e vi aveva fatto ritorno solo un paio di giorni dopo, armata di tutt’altro spirito. Aveva evitato di guardarla in volto, le aveva dato un impasto per far scendere la febbre ed era rimasta con lei fino a che un sonno esausto l’aveva colta.
Per la ragazza, ogni ora era uno strazio, e quasi desiderava la morte. Almeno, ne era certa, ogni dolore sarebbe scomparso. L’afa che le impediva di respirare si sarebbe dissolta; gli occhi a volte ciechi le avrebbero offerto sollievo dopo il continuo lacrimare; le parti intime avrebbero placato il fuoco rovente che le attraversava; il ventre avrebbe smesso di urlare di frustrazione e di trascinare nel delirio della febbre anche lei.
Si era vergognata intimamente di questi stupidi desideri di pace, visto che si trattava pur sempre di suo figlio. Ma, più tempo passava nella solitudine e nelle tenebre della camera soffocante, più si diceva che era meglio così. Considerando i disturbi quotidiani di cui era affetta, suo figlio sarebbe molto probabilmente nato storpio, una creatura malaticcia che non avrebbe superato la soglia dei pochi mesi di vita.
Anche se fosse nato senza un arto, comunque, lei l’avrebbe amato lo stesso, certo, ma si trattava per il piccolo di una sofferenza inutile. Cosa avrebbe detto suo padre di fronte ad un aborto sopravvissuto? Perché lei aveva sentito le scosse del suo animo, e in una delle sue allucinazioni dovute alla febbre aveva persino sentito il fiato degli spiriti infernali sul collo:tu sei fuggita dalla nostra casa, ma tuo figlio non riuscirà a correre altrettanto lontano.
Proprio così le avevano detto. Ma, per quanto serrasse le cosce per combattere la superstizione che un artiglio le sarebbe entrato dentro per uccidere il suo bambino, i dolori non accennavano a diminuire, anzi, non conoscevano fatica.
Nelle prime settimane dopo lo svenimento, infatti, i momenti di lucidità erano così rari che aveva quasi iniziato a preferire il patetico sogno in cui scivolava, inesorabilmente, ogni notte. Il cielo e la terra si erano mischiati, strane risate demoniache colmavano le sue orecchie, bluastri bambini malati ballavano attorno al suo corpo prima di esplodere in una vampata di fuoco verde.
La ferita più bruciante e più sanguinante era quella incisa dalla lontananza di Sesshomaru. Le mancava così tanto che se aveva deciso di cedere alla follia era stato solo perché lui non era presente, altrimenti avrebbe fatto di tutto per mettersi in piedi e dimostrargli di essere degna di lui, invece che contorcersi nella propria agonia senza un solo attimo di tregua.
Fra uno svenimento e l’altro, aveva sentito una guaritrice parlare di una possibile febbre cerebrale, causata dalla concentrazione demoniaca che il feto portava con sé, che anche in caso remoto di guarigione non le avrebbe permesso una ripresa totale delle sue normali attività di un tempo. Questo voleva dire rimanere un’invalida fuori dal mondo inchiodata ad un letto, lasciata a morire nella vergogna generale di aver partorito un mezzo-demone storpio.
Da quel giorno serrò i denti, e si sforzò di rimanere vigile. Anche se gli occhi le si ribaltavano mostrando la loro parte bianca e gelatinosa, lei non mollava la presa sulla propria mente. Mordeva lenzuola quando l’utero sembrava volerle esplodere in corpo, e se la testa era troppo dolente con i suoi crampi interni allora la sbatteva a terra per dare una concretezza al dolore, per altro molto meno intenso di quello che la stava divorando.
Nonostante la maggior parte delle volte vomitasse tutto, si ostinava a mangiare con regolarità un po’ di riso e delle minestre calde. L’unica cosa che non le mancava, infatti, era il torrido sentore estivo, per altro assente trattandosi di freddi pomeriggi di novembre, però si accontentava di qualsiasi espediente pur di dare un minimo di forza al figlio che portava con sé.
In una settimana riuscì a mangiare una zuppa senza vomitarne una sola goccia. Dopo poco più di quindici giorni, riusciva a stare sveglia per sedici ore di seguito senza allucinazioni. Scavandosi i polsi coi denti riusciva persino a far fronte al dolore e, essendo leggermente più in forze, fu persino in grado di parlare e scrivere con una corretta grafia.
Di alzarsi in piedi non era ancora capace, ma fece di tutto per far abbassare la febbre, sottoponendosi passivamente alla serie di intrugli disgustosi che le facevano ingerire. Per la paura di essere contaminate dal “veleno demoniaco”, la maggior parte di sacerdotesse decrepite lasciavano la sua stanza dopo brevi visite per controllare la sua situazione, cambiarla o darle da mangiare, ma a lei non importava. Le bastava poter essere presentabile per Sesshomaru e fornire le maggiori possibilità di sopravvivenza a suo figlio.
Dopo circa un mese di folle agonia, fu in grado di sostenere degli incontri con Sango. Quando la tenda si era scostata rivelando una nuova ospite, lei non aveva potuto reprimere un gemito di sorpresa, ma alla fine era stata più che lieta di parlare con lei. Da quel pomeriggio, più o meno ogni giorno, poteva affogare il proprio dolore nelle parole e nelle cure amorevoli di quella ragazza della quale, in precedenza, non aveva potuto dire nulla se non che era un’amica di Kagome.
Anche Sango nascondeva grandi dispiaceri nella sua anima. A furia di confidenze, ormai l’una era entrata a fatica nel cuore dell’altra, costruendo una solida base per un’amicizia sincera. Si erano avvicinate a causa della solitudine, e ora ne stavano uscendo più forti. Avendo infatti una persona che curava la sua condizione, Rin fu in grado di mettersi a sedere e di stare bene per ore intere, senza contare le notti in cui poteva godere di un profondo sonno senza sogni continuo, fino all’alba.
Certo, erano dei miglioramenti che le consentivano una vita quasi normale, soprattutto negli ultimi mesi, ma quando le crisi scoppiavano faceva sempre più fatica a rimettersi. Come in quel momento: aveva così caldo che le pareva di essere stesa sui carboni ardenti, ma non poteva fare altro dopo aver divelto le coperte. Il suo respiro era ridotto ad un rantolo: Sango, di solito, non veniva mai a quell’ora.
Nonostante tutto, comunque, era grata che il dolore avesse smesso di dilaniarla. Non credeva nemmeno un po’ che il bambino ne fosse uscito indenne: quell’attacco improvviso era stato molto più violento degli altri.
Con un orribile scircchiolio riuscì ad alzare la testa. Come pensava, le lenzuola erano macchiate di sangue fresco e vischioso. Ebbe un moto di sconforto di fronte a quello spettacolo ma, anche se le tempie erano attanagliate da una presa ferrea, decise di non desistere.
Il suo istinto di madre le diceva che il feto era ancora vivo dentro di lei, e tanto bastava. Grazie a Sesshomaru, infatti, aveva scoperto il punto migliore dove poggiare la mano per sentir battere il suo piccolo cuore e, mettendo le dita come lui le aveva insegnato poco sopra l’ombelico, poté sentire un basso suono ritimico che la colmò di speranza.
“Mio figlio è forte”, pensava, “mio figlio è più forte di questo mio misero corpo umano”.
Era una cosa che aveva desiderato spesso, ovvero essere un demone proprio come colui che amava, ma si era da tempo rassegnata all’evidenza di non poterlo essere mai. Sopportando quelle torture indicibili, aveva spesso maledetto il giorno della sua nascita fra semplici contadini; se la sua stirpe fosse stata nobile, se il suo fisico fosse stato in grado di uscire indenne dalle torture, se la sua mente fosse stata insensibile e spietata, pronta a tutto, Sesshomaru non avrebbe certo avuto difficoltà ad avere un figlio da lei.
Tuttavia, quanto era in grado di pensare lucidamente, realizzava che era un desiderio stupido, poiché Sesshomaru le aveva spiegato che le donne demone non sono in grado di amare. Vedono i figli come sgradevoli conseguenze, ma li tengono al loro fianco per non morire di solitudine o usarli, in mancanza d’altro, per i propri piaceri.
Forse era per questo che era stato attratto da Rin, quand’era una bambina, perché lei aveva saputo dargli tutto l’affetto e l’amore di cui era capace. Il suo candore, l’innocenza…era una cosa che le femmine di demone non possedevano, per il semplice fatto che non rientravano nella loro natura.
Strinse i denti sentendo arrivare un’altra scarica di dolore. Si chiese seriamente se potesse sopravvivere; da un lato le sarebbe piaciuto poter vedere suo figlio, cullarlo e crescerlo, ma dall’altro capiva che il momento del parto era sempre più imminente, e il bambino era abbastanza grande per poter essere salvato anche se lei fosse spirata in quello stesso momento.
Represse un gemito di sollievo quando anche il mal di testa sembrò attenuarsi, permettendo alle sue orecchie di cogliere dei passi nel corridoio. Seppe riconoscere la cadenza trascicata della vecchietta che si occupava sbrigativamente di lei, una volta ogni pomeriggio, dal momento che ormai aveva fatto del silenzio la propria voce. Da un lato era grata che fosse Sango, perché odiava mostrarsi debole di fronte alle persone a cui voleva bene, però dall’altro aveva quasi sperato di poter avere un po’ di conforto.
Quando la vecchia fece la sua comparsa, però, aveva stampata in volto una sorta di inquietudine. Appena vide lo scempio delle lenzuola si mise le mani nei capelli con afflizione sincera, rovinando la sua pettinatura perennemente impeccabile, e si mise in ginocchio snocciolando orazioni.
Rin si chiese con interessato distacco se davvero le sue condizioni fossero così gravi da giustificare una tale reazione, e se anche fosse stato vero, allora avrebbe avuto un motivo in più per prendersela con la guaritrice per il mancato soccorso.
La ragazza rantolò qualcosa, sentendo arrivare un formicolio ben poco rassicurante al basso ventre. Cercò di dire qualcosa di sensato, ma la lingua sembrava essere stata legata da uno spago strettissimo, così rimase muta ad emettere rauchi gemiti.
Di fronte a quei suoni sconnessi, la vecchia sembrò sprofondare ancora di più del panico, ma si riprese immediatamente, sistemandosi velocemente il kimono piegato laddove l’aveva artigliato e assicurandosi, con gesti distratti, che i pettini rimanessero al loro posto fra i capelli grigi.
-Non c’è tempo – ansimò, - non c’è più tempo.
Prese, coinvolta in una fretta febbrile, a cercare in tutta la stanza il catino con l’acqua tiepida, continuamente a disposizione, e si accorse dell’oggetto solo dopo pochi minuti che ce l’aveva sotto al naso.
-Forza – la incitò, correndo da Rin e aiutandola ad alzarsi. Nei suoi occhi brillava l’ansia di non riuscire a fare una cosa che la ragazza non capiva prima di un certo limite di tempo. Era così strano vederla affannata che la stessa donna incinta accantonò la propria salute per chiederle cosa non andasse.
Nonostante la voce fosse roca, riuscì comunque a farsi capire. –Cosa sta succedendo?
L’anziana sembrò accorgersi di lei solo in quel momento. La fissò dritta negli occhi con sguardo spiritato, facendole notare che le rughe sembravo essersi spianate dal suo viso, lasciando il posto ad una pelle raggrinzita ma perfettamente tesa, della stessa consistenza della carta.
-Il vostro sposo, il demone – disse a fatica. – È qui, e vuole vedervi.
Rin ebbe un tuffo al cuore. Sesshomaru? Ma…quand’era tornato? Come aveva fatto a non percepire la sua presenza come invece succedeva sempre?
Una scarica di adrenalina le fece vibrare la colonna vertebrale. Non serviva un’erborista per immaginare la carneficina che avrebbe fatto, trovandola in quelle condizioni. Era sudata, pallida, ansimante e ricoperta di sangue su tutta la parte inferiore del suo corpo, senza contare i lividi autoinflitti e i segni dei morsi che le tatuavano le braccia.
Lo stesso futon dove dormiva era zuppo di sudore, e l’aria della stanza era così fetida che si poteva tagliare con un coltello. Certamente sarebbe andato su tutte le furie e, la ragazza dovette ammetterlo, avrebbe anche avuto ragione; non si poteva trattare un malato in quelle condizioni bestiali, nonostante Kagome avesse fatto di tutto per assicurarsi che stesse bene.
Guardò di nuovo la vecchia, che aveva cominciato a spogliarla freneticamente. Rin a malapena si accorse di non avere più la vestaglia addosso, e cercò di dire qualcosa, ma non trovava le parole adatte. Fin troppo chiaro che l’erborista avesse paura per la propria sorte, se Sesshomaru fosse entrato e avesse trovato la sua donna in quelle condizioni.
-Accidenti – sibilò la guaritrice, a denti stretti. –Guardate quanto sangue. Siano ringraziati i Kami che sono solo la conseguenza di tutte le pressioni che avete fatto…se fosse uscito dal vostro ventre ormai non ci sarebbe stata più nessuna speranza.
Detto questo, cominciò a strofinare energicamente la pelle sporca di sangue, stando attenta a non toccare i tagli autoinflitti. Le dita adunche le sfiorarono la pelle delle gambe, del petto e del ventre arrotondato, senza farle male, però quei ruvidi tocchi di spugna ebbero il potere di renderla più pulita.
Era incredibile quanto la donna riuscisse ad essere veloce: assicuratasi che la paziente fosse pulita e maggiormente rinfrescata rispetto a prima, tolse le lenzuola e le diede una nuova vestaglia, spalmando approssimativamente un unguento verdastro sui tagli aperti.
-Che non succeda mai più che vi feriate in questo modo – la ammonì, e sussultò quando la casa fu scossa da un fremito fin dalle fondamenta.
Il cuore di Rin minacciò di fermarsi. Un po’ per l’anomala fretta della vecchia, un po’ per l’inadeguatezza delle sue condizioni e un po’ anche perché non si sentiva ancora del tutto in forze per sostenere una visita, capì che il fatto che tutto quel sangue non venisse dall’utero era una benedizione. Evidentemente il dolore le aveva fatto serrare le cosce così violentemente da provocarle delle abrasioni sanguinanti e, ora che vedeva meglio le lenzuola, capì che la quantità di liquido rosso non era poi così eccessiva come aveva inizialmente pensato.
Guardò la donna affaccendarsi per la camera con un’ansia irriducibile. Ora che si sentiva lavata, le sembrava quasi di stare meglio. Respirava con meno fatica e la pelle aveva perso in parte quella preoccupante colorazione grigiastra. Capì che se non ci fosse stata Sango, la sporcizia accumulata nella camera avrebbe reso impossibile alla piccola e curva donna di pulire sbrigativamente come stava facendo; era la sterminatrice ad assicurarsi che non vi fosse polvere negli angoli e che lo spoglio arredamento fosse lucido.
Piano, con circospezione, Rin finì di vestirsi, e accarezzò il ventre nel tentativo di calmare anche suo figlio. Non le stava facendo del male in quel momento, ma lo scongiurò di starsene calmo per tutta la visita di suo padre.
Se doveva essere sincera, fremeva dalla voglia di vederlo ancora, soprattutto dopo gli ultimi mesi di lontananza. Non era più abituata a lassi di tempo così lunghi, e per un certo periodo si era sentita sperduta, un piccolo puntino nel nulla. Sicuramente lui era al corrente dei dolori che doveva aver patito negli ultimi tempi, ma non sapeva come avrebbe potuto reagire.
Si chiese cosa avrebbe fatto se avesse trovato un uomo deluso dalla sua mancanza di forza d’animo. Aveva ancora un po’ di febbre, che le scaldava la fronte, e le mani le tremavano leggermente, però si poteva dire che non le era mai capitato di stare così bene dopo una crisi. Nelle settimane che erano appena trascorse si poteva dire che la sua salute era migliorata tantissimo, ma non credeva nel suo intimo che Sesshomaru avrebbe gioito di quel minuscolo progresso.
Lui, sempre padrone e comandante della situazione, sarebbe ammattito sapendo di non essere risucito ad impedire alla sofferenza di molestare la propria donna.
-Bene, vi lascio – esordì la donna. Sembrò essersi leggermente calmata rispetto a prima, e aveva interrotto i propri borbottii solo per scambiare qualche parola. –Il vostro colloquio durerà fino a quando sarete in grado di sostenerlo. Alla minima avvisaglia di ricaduta, vi prego, fatemi cercare.
Vedendo che la ragazza annuiva soltanto, pallida, le si avvicinò e si inginocchiò davanti al suo letto, prendendole la mano e facendo mostra di una grande e stabile lucidità. –Nella mia vita mai nessuna partoriente sotto la mia responsabilità ha perso la vita. Ora che ho potuto vedere il vostro amante, capisco perché abbiate deciso di cambiare la vostra vita.
La fissò ancora una volta negli occhi, senza badare alla sua espressione sbigottita. –Vi prego umilmente di perdonarmi.
La vecchia abbassò il capo. Teneva le mani rigide in grembo dopo averle sottratte alle sue, in una posizione di sincero pentimento e profonda sottomissione. Era il tipo di atteggiamento che, all’incirca cinquant’anni prima, insegnavano a tutte le ragazzine: prima che scoppiasse la guerra, infatti, non era raro che i capi-villaggio più influenti andassero a visitare i loro possedimenti durante il giorno, e la prostrazione poteva essere un’opportunità per un buon matrimonio e, di conseguenza, un futuro prospero.
Se la donna aveva assunto quella posizione proprio davanti a lei, quindi, era per dimostrarle delle scuse sincere. Rin non aveva bisogno che specificasse il motivo del suo pentimento, in quanto la punta di disprezzo che aveva lasciato filtrare dalle sue maniere distaccatamente cortesi era stata ugualmente colta. Evidentemente l’aveva giudicata senza nemmeno conoscerla, ma non era stata la sola. Anche le altre donne che si occupavano di lei non erano state troppo velate nell’esprimere quanto poco di buon occhio vedessero la sua condizione di madre di un mezzo-demone.
Rin era troppo sbalordita per parlare. La giovane dalle labbra esangui, i capelli scompigliati posati sulle spalle, il viso scavato da una sorta di digiuno involontario era in netta contrapposizione con il viso severo ma ora compunto di un’anziana guaritrice, dalle mani ammorbidite dagli unguenti che maneggiava ogni giorno e dalla pelle dello stesso colore della sabbia, a causa della sua zona di provenienza insulare.
Si guardarono negli occhi: la ragazza l’aveva perdonata praticamente subito. Se c’era una cosa che apprezzava negli esseri umani, infatti, era la loro capacità di alleviare il male che avevano fatto con delle scuse. Quando decidevano di fare ammenda e ammettere le proprie manchevolezze, aprivano il proprio cuore seppur con un breve spiraglio, e lasciavano intravedere quello che realmente pensavano.
Non fece in tempo a dirle nulla: la vecchia sembrava aver capito da sola. Si alzò a fatica e uscì dalla stanza molto più velocemente di quanto la giovane credesse fosse possibile, alla sua età, e la lasciò sola con i propri pensieri; indubbiamente l’aveva sorpresa con quel suo gesto di pentimento, ma non era ancora sicura di un possibile cambiamento. In cuor suo pensava di sì o, almeno, ci sperava sinceramente.
La tremula luce della camera fu scossa da un’ombra, che però non sembrava tale. Emanava una sorta di candido e letale biancore, come se fosse perennemente riflesso dal suo corpo in una rifrazione involontaria. Come se quelle spoglie mortali fossero ormai abituate alla bellezza scultorea che rivestivano e non facessero nemmeno più caso di quale meraviglia costituissero innanzi agli occhi umani.
Sesshomaru.
Nonostante Rin non fosse un demone cane, poteva benissimo cogliere la fragranza di neve, di storia e di dolore che il demone rivestiva come se si trattasse di una veste intessuta apposta per lui. I suoi capelli erano stati intrecciati assieme al gelo invernale prima ancora che fossero cresciuti del tutto.
-Rin – disse. La profondità della sua voce la scosse: era in collera, un tipo di rabbia potente ed inestinguibile che lo animava sovente, e solo quando la situazione faceva scomodare l’integrità del suo autocontrollo.
La ragazza ne fu turbata, ma non volle darlo a vedere. Forse, se si dimostrava salda nello spirito, avrebbe anche potuto persuaderlo di stare bene, onde evitare che la sua ira si abbattesse su inutili capri espiatori.
-Sesshomaru – ribattè, guardandolo dritto negli occhi. Farlo le fece male: il bagliore rossastro che li animava lo rendeva così bello da lasciarla totalmente abbagliata.
Il demone, senza dir nulla, le si sedette accanto. Era così strano vederlo in quella stanza che lei lo trovò quasi divertente. Se ne stava composto davanti al suo capezzale, prendendole una mano pallida, che quasi parve essere stato lì da sempre, ad ascoltare le sue urla agonizzanti e le sue risate con Sango.
Per la prima volta dopo molto tempo, Rin si sentì in imbarazzo. Non era bella con occhiaie profonde e un’aria malaticcia, e si era ripromessa di presentarsi sempre al meglio davanti al suo demone. La malattia l’aveva fatta cedere, era vero, però anche lui avrebbe dovuto avvisare, invece che piombare lì di punto in bianco.
E poi quel silenzio si stava facendo pesante in modo sgradevole. Lui la fissava così intensamente da farle imporporare debolmente le guance, e sentirsi sotto esame in quel modo non faceva che aumentare la sua paura di dover ricevere brutte notizie, un’ennesima volta.
-Come ti senti? – chiese, all’improvviso, con voce fredda. Sembrava si stesse rivolgendo ad un’estraneo.
-Stanca, ma sto bene – balbettò la ragazza.
-Ho sentito che sei migliorata molto – osservò.
-Avete sentito bene – replicò cautamente. Non si arrischiava ad animare la conversazione con il suo solito chiacchiericcio per paura di essere interrotta, ma il demone non sarebbe stato intenzionato a fare nulla del genere. Dall’espressione altera del viso traspariva solo un’intensa voglia di parlare solo lo stretto necessario, e solo se proprio la questione gli premeva a fondo, sul cuore.
Le sue lunghe dita fredde accarezzarono con una specie di ispezione minuziosa le mani diafane della donna, senza trascurare nemmeno un millimetro. Rin fu attraversata da un brivido di arcano piacere, ma era troppo stanca per anche solo pensare ad una cosa del genere.
-Il bambino?
-Non credo che abbia mai sofferto – rispose la fanciulla, gentilmente.
-Ma tu sì – espresse una logica disarmante. Esisteva un modo delicato di rispondergli senza provocare una strage?
- È stato inevitabile – disse cautamente, - le guaritrici hanno detto che…
-Lasciale perdere – la interruppe, stizzito. Sembrava che solo pensare a loro gli provocasse fastidio.
-V…va bene, come vuoi. Di cosa preferisti parlare? Sei stato via così a lungo… - sussurrò, permettendosi di ricambiare in parte la stretta.
Gli occhi di Sesshomaru, tornati quasi completamente ambrati, si posarono su quel dolce tentativo di riappacificazione. Nonostante fosse stata male, fosse stata sola, fosse stata abbandonata, si stava ancora scusando di colpe che non aveva mai avuto, e di dolori che non avrebbe mai arrecato a nessuno nemmeno di proposito.
-Mi piacerebbe sapere cosa ti preme – disse solo, tornando a riappuntare il suo sguardo su quello della fanciulla. Dietro alle iridi color mogano, si leggevano tanti sentimenti così puri da spezzare il cuore con il loro candore.
All’improvviso, la mano di Rin si fece determinata a stringere la sua. Lui non oppose resistenza. Se lei cercava il contatto fisico, voleva dire che aveva bisogno di appoggio per confessare quello che la angustiava, e se c’era una cosa che Sesshomaru voleva in quel momento era proprio farla stare meglio.
Anche se forse sarebbe stato impossibile, avrebbe voluto colmare con il suo sostegno silenzioso l’assenza che l’aveva strappato via da lei senza che potesse sottrarvisi. Per questo rimase immobile, lasciando che quel piccolo contatto si diffondesse fino ad assumere contorni determinati. Se Rin stava premendo sul suo palmo, era solo per calmare i tremiti.
-Sesshomaru, in questi giorni la mia salute è stata rischio molte volte, non avrebbe senso nasconderlo. Però il bambino sta bene; è forte, dopotutto appartiene alla tua stirpe. Ha ereditato i tratti forti del tuo carattere.
Vedendo come il suo sguardo si era illuminato parlando della vita che portava in grembo, il demone non trovò la forza di dirle nulla, per non interrompere la sua confessione. La fanciulla abbassò lo sguardo e sembrò farsi ancora più pallida.
La fioca luce del lume accanto al suo letto aveva il potere di rendere il suo viso uno specchio: da una parte c’era la parte in penombra, emanciata ed esangue, mentre dall’altra si manteneva quello sprazzo di vita che stava faticosamente conservando, cercando di strapparlo agli artigli dei Kami infernali.
A lui parve quasi trasparente, evanescente, una creatura ultraterrena scesa sulla terra. E, se non fosse stato per il suo ventre teso nello sforzo di far crescere il loro bambino, si sarebbe detta ancora più magra di quand’era partito.
La sua presa disperata risalì lungo il polso di lui, in un movimento che non aveva mai osato compiere. Nonostante fosse fredda, Sesshomaru ne fu riscaldato, e rimase letteralmente sbalordito, ma in modo piacevole, dalla piccola manina tiepida che si posò timorosamente sulla sua guancia spigolosa. Nei suoi occhi c’era una muta supplica, poi espressa a parole.
-Forse, mio principe, non min resta molto da vivere. Ma nostro figlio è forte, può vivere senza di me anche in questo momento. Non è troppo presto, ne sono sicura…devi promettermi che se dovessi morire lo terrai con te, e lo crescerai. Ti prego.
-Tu non morirai – esclamò Sesshomaru. Per la prima volta nella sua vita aveva manifestato nella voce una traccia di sentimento umano: il terrore.
No, era un orrore solo da pensare: Rin morta! La sua Rin, la sua dolce compagna, la sposa che non aveva mai visto celebrato il proprio matrimonio, la donna paziente che gli aveva fatto scoprire l’amore non sarebbe potuta spirare, non in quel momento.
Lei era il suo punto di riferimento, il suo sole. Sarebbe stato perso, perduto senza di lei, senza il suo sorriso e senza la sua risata. La pazzia l’avrebbe colmato laddove prima c’era la dolcezza della sua donna. Se c’era qualcuno che meritava la vita era proprio lei, e nessun’altro su quella terra, nemmeno lui stesso.
La baciò con foga, e disperazione. Non aveva mai esibito un tale accanimento sentimentale nel voler sentire le sue labbra screpolate sulle proprie, nel cercare il suo profumo per un attimo soltanto. La sentì pulsare, la sentì viva, la sentì fortunatamente lontana dalla morte. Era ancora giovane, il suo corpo si manteneva vigoroso e vibrante, non avrebbe mai permesso a nessuno di portargliela via.
La fanciulla si era permessa solo una lacrima, ma le labbra di Sesshomaru divorarono anche quella nel suo dolore di amante.
-Tu non morirai, Rin, non finchè potrò impedirlo – sussurrò accanto al suo viso, ad un soffio da quella bocca.
-Ma…guardami, Sesshomaru, e ammetti che forse non vedrò la prossima alba.
-Mai – si ostinò, - non dirò mai una sciocchezza insensata del genere. Da oggi in poi io ti starò vicino ogni momento; vivrò con gli umani, mi adeguerò alla loro presenza, e tutto finchè nostro figlio non sarà nato.
Nostro figlio. Era la prima volta che Sesshomaru lo chiamava così, che ammetteva la sua esistenza e che concepiva con sè stesso la consapevolezza di stare per diventare padre. Era la prima volta che sentiva di amarlo, così come amava la donna che sarebbe diventata sua madre.
-È una follia! – boccheggiò Rin.
-No, invece – rispose Sesshomaru. Recuperò il proprio contegno e si scostò per permetterle di stare più tranquilla, ma non le lasciò le mani nemmeno per un istante. Se doveva essere sincero, era stato l’orrore di quella prospettiva a renderlo più lucido, ma avrebbe mantenuto il proprio proposito con l’orgoglio e l’ostinazione che lo contraddistingueva.
-Tu…gli esseri umani attorno… - la ragazza scosse la testa. –Impossibile. Sarebbe come far vivere un oni in mezzo ai bambini: ovvio che prima o poi cederà alla tentazione di assaggiarne uno!
-Non dire assurdità, Rin. Non andrò certo a mischiarmi nel villaggio come quell’abominio di mio fratello – disse, disgustato. –Ti starò semplicemente vicino.
-Ma non ce n’è bisogno… - cercò di protestare la ragazza, -non voglio distrarti dai tuoi impegni…
-Nessuna distrazione – s’impuntò Sesshomaru. Si accomodò nell’angolo, a braccia conserte, e le ordinò di riposarsi.
La ragazza, imbarazzata, si portò le coperte fin sopra al naso: -Non ce la faccio se mi fissi a quel modo.
-Allora non ti guarderò – concesse il demone, voltando la testa dall’altra parte.
Rin ridacchiò. –Sai, sarebbe divertente se il bambino ti vedesse – osservò.
-E perché mai? – chiese Sesshomaru, infastidito. Certe volte non riusciva a capire i ragionamenti di Rin.
-Sembri una scultura su una pietra tombale – disse la ragazza, sforzandosi di essere seria. Fallì miseramente.
Il demone non commentò, ma rimase a guardarla ancora per un po’. La ragazza, dopo essersi fatta una risata di cuore, si era stesa e ora stava cercando di addormetarsi sotto quello sguardo vigile, ma non sarebbe stato facile.
Il demone osservava la linea del suo corpo sinuoso, impensierito. Era stato lieto di averla vista scherzare come al solito, nonostante avesse fatto quell’orribile ragionamento sulla sua morte che l’aveva letteralmente mandato fuori di sé, però notava quanto fosse deperita. Il suo naso di demone, comunque, sapeva per certo che non sarebbe morta: un istinto come il suo poteva fiutare prematuramente i presagi di una morte per ammalamento, e Rin non ne presentava nessuno. Certo, era debole, però si sarebbe ripresa.
Ripensò al viaggio che aveva fatto, alle sofferenze che la sua donna aveva dovuto sopportare in sua assenza, ma si rasseggnò all’evidenza che rimuginare non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione.
Lentamente, nella penombra della camera, il respiro della sua donna si fece sempre più regolare, fino ad avvertirlo che si era addormentata sul serio. Sesshomaru chiuse gli occhi, allargò le sue percezioni e, nell’inviolato silenzio, ascoltò il dolce battito del cuore di suo figlio, fino a scivolare in uno stato di rilassamento tale da sembrare quasi un sonno umano vero e proprio.  

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Capitolo 52
*** Guerrieri in visita ***


Kohaku fece ritorno in una fredda mattinata di marzo. La brina doveva ancora scogliersi del tutto quando, stretti nella stessa capanna, Sango, Miroku, Inuyasha e Kagome accoglievano il nuovo ospite.
Era una giornata molto particolare; due anni da quel giorno, infatti, Kagome aveva fatto ritorno nel passato per rimanervi. Il piccolo di Sesshomaru e Rin doveva nascere attorno a quella scadenza; la vecchia Kaede aveva trovato una cura miracolosa alla sua artitre, e ora la si vedeva passeggiare per il villaggio con aria serena; Mirei aveva espresso il desiderio di andare ad abitare con lo zio per diventare una sterminatrice; Chitose stava studiando per essere una brava sacerdotessa in futuro.
Le donne di casa erano tutte molto emozionate, soprattutto Sango. Il ragazzo, a causa di un contrattempo, aveva fatto ritardo di un altro mese, ma aveva continuato a placare l’ansia della sorella inviandole lettere. Nell’arco di trenta giorni, ne aveva ricevute ben sei, e ad alcune aveva anche risposto, nonostante lo stesso Kohaku le avesse sconsigliato di farlo.
In quei mesi in cui era stato via, il ragazzo era cambiato moltissimo. Era diventato alto, slanciato e muscoloso, anche se il suo fisico di manteneva asciutto. Le sue braccia erano forti, e la pelle che le ricopriva era ambrata a causa del sole. Le lentiggini dal suo viso erano quasi del tutto sparite, e quando sorrideva sembrava mantenere ancora quella sorta di goffaggine adolescenziale del quale non si sarebbe mai liberato.
Portava le armi e i panni di sterminatore con estrema scioltezza. Inoltre gli erano cresciuti i capelli, che ormai arrivavano alle spalle, e li teneva legati con noncuranza, come se non vi badasse. Il ciuffo che ricadeva sugli occhi era stato tagliato ireggolarmente per praticità, dando al suo viso un aspetto vissuto; gli occhi verdi scintillavano, e non aveva avuto nemmeno per un istante la voglia di ritrarsi dall’abbraccio della sorella.
Vederlo seduto in casa, a parlare in modo sciolto e fiero dei propri progetti, sembrava davvero piacevolmente strano a Kagome, ma era contenta come non mai di rivedere il ragazzo sano e salvo.
-Allora, Kohaku – disse bonariamente il monaco, - come va fra le montagne?
-Oh, molto bene. Abbiamo trovato davvero un posto ideale; grazie al crinale inclinato, non c’è stato nemmeno bisogno delle fortificazioni, e le abbiamo messe solo su un lato. Ha un’aspetto quasi pittoresco, visto da fuori.
Sango sorseggiò un po’ di thè. –Sono curiosa di vedere cos’hai combinato, lassù. Bisogna che un giorno io venga a sbirciare quello che fai.
-Volentieri – disse il giovane. –Siamo sempre molto contenti di ricevere visite. Sai, è un luogo molto solitario.
-Cos’hanno detto i tuoi compagni dell’amicizia con Totosai? – chiese Inuyasha, che finora era rimasto in disparte.
Kohaku ci pensò su. –Non hanno avuto nulla in contrario. Delle volte, forgia delle armi per noi, ma per il resto non si fa vedere molto spesso. È un solitario, principalmente, e poi dice che con la vecchiaia i viaggi lunghi non fanno per lui.
-Lo diceva anche quand’ero un bambino io – rispose l’hanyou, ironico, facendo ridacchiare Kagome.
-Si può sapere cosa c’è di divertente? – brontolò, guardandola.
La ragazza non poté evitare un’altra risatina. –Sai benissimo che si sta parlando di quasi cent’anni fa!
Anche Kohaku sorrise: -Anch’io è da quando lo conosco che si lamenta di essere troppo vecchio.
La sorella e il monaco confermarono, per poi farsi una bella risata. Inuyasha posò discretamente una mano sulla schiena della sua donna, che stava cullando amorevolmente la piccola Kaori. Non si era fidata a lasciarla a casa da sola, e pensava che una passeggiatina fuori di casa le avrebbe fatto bene; in quel momento, stava recuperando il sonno che non aveva sfruttato durante la notte.
-E, dimmi, in quanti siete adesso? – domandò nuovamente Miroku, mentre Sango gli versava del thè.
-In tutto settantotto uomini e cinquantaquattro donne dalle montagne, mentre venticinque reclute maschili vengono dalla pianura assieme a dodici femminili.
-Come mai questa distinzione? – si interessò Kagome.
-Oh, è solo un’abitudine. Classifichiamo i combattenti a seconda dell’equipaggiamento che sanno usare, e le due tipologie hanno diverse differenze, tutto qui.
-Cosa usano quelli delle montagne? – volle sapere Sango. inutile che si riferiva alle armi.
Quando non c’erano le figlie, infatti, la ragazza si azzardava a parlare di combattimento, oppure a dimostrarsi interessata nell’argomento. Non si arrischiava a sfiorare quel tipo di conversazione soprattutto quando c’era Mirei, a cui bastava una sola scintilla per appiccare un fuoco al riguardo, e la donna si era ripromessa di tenerla lontana da certe cose. Era stato proprio l’istinto alla battaglia a rovinare la propria famiglia; non voleva che la sua bambina fosse costretta ad una vita solitaria a causa della guerra.
Lo sguardo del ragazzo si fece ancor più luminoso, vista la libertà della sorella nei confronti della loro comune passione. Si vedeva distante un miglio che parlare di certe cose lo rendeva più sicuro si sé, e si accinse a spiegare con quella che tutti prevedevano fosse un’estrema dovizia e precisione di dettagli.
-Principalmente lance lunghe, dal gambo flessibile. Spesso sono molto sottili, ma incredibilmente affilate. In alcune zone, invece, usano ancora la selce, e mi è capitato di vedere diversi modelli di falcetto corto interamemte scolpiti in questo materiale. Certo, fondono il ferro, ma per le lance preferiscono le pietre. Dicono che sono più solide. Poi, ovviamente, confezionano particolari katane leggere, ma pochi sono in grado di usarle.
-L’impugnatura è a spirale? – si informò la sorella.
-No, dritta. Forma classica, in genere non supera la spanna. È molto piccola, si fa fatica a tenerla in mano, ma è incredibile quando si tratta di metterci sopra i veleni. È impossibile da sclafire. Senza annoiare i presenti, ne ho una fra i bagagli. Se vuoi ti faccio vedere.
-Volentieri – sorrise la donna, complice e, da perfetta donna di casa riprese a versare il thè ai presenti, prima che si raffreddasse del tutto.
Miroku la guardò con una strana occhiata, quasi sofferente, per poi rivolgersi al fratello. –Sai, in casa non si può parlare di queste cose.
Kohaku assaggiò la propria porzione. –Davvero?
Il monaco scosse la testa, ma fu Inuyasha ad intervenire. –Sango non vuole che sua figlia Mirei si appassioni alla guerra.
Quell’affermazione laconica dipinse una certa decisione negli occhi della diretta interessata.
-È vero, non voglio. Ma non è per cattiveria; le armi hanno già fatto abbastanza del male alla nostra famiglia.
Il ragazzo non disse nulla. Prese un altro sorso di thè, nonostante fosse bollente, e si formò uno spiacevole silenzio pensieroso. Tutti sapevano che l’orgine del loro male era stato Naraku, e Kohaku era stato un tramite importante al suo folle piano, seppur inconsapevolmente. Per questo nessuno si sentiva in grado di obbiettare, ma Sango parve accorgersi di aver esagerato.
-Forse hai paura di saperla lontana da casa – osservò Kagome, delicatamente, salvando la situazione.
-Infatti – confermò la donna, guardandola con gratitudine. –Non mi piace l’idea che mia figlia debba privarsi di tutto pur di inseguire qualche spettro qua e là.
Il marito cercò di calmare i suoi timori. –Su, che esagerazione! E se diventasse come te, Sango? Sei così abile in battaglia! E poi mi pare che tu sia sempre sopravvissuta.
La donna lo guardò con sospetto. –Cos’è  quest’improvviso voltafaccia?
Miroku sollevò le mani in segno di resa. Nel suo intimo, Kagome non potè non notare quanto lisci fossero entrambi i palmi, finalmente liberi dalla propria maledizione. Nonostante tutto, però, il monaco non riusciva a liberarsi del tutto dall’ossessione che l’incubo non fosse finito, infatti teneva ancora un rosario stretto al polso, per qualsiasi evenienza.
-Sango… - disse Kohaku, scegliendo con cura le parole, - …se proprio Mirei è così appassionata posso portarla al villaggio. Solo per qualche giorno – si affrettò a spiegare. – Così forse cambia anche idea.
La donna sospirò impercettibilmente. Si servì per ultima; fissò le volute di vapore con aria nostalgica, e i flutti ne distorcevano leggermente i contorni del viso, come se fosse una creatura effimera. Assunse un’aria pensosa, come se la decisione da prendere per lei non fosse affatto facile.
Kagome, nel profondo del suo cuore, la capiva. Anche lei, se un giorno si fosse trovata di fronte ad una figlia con uno spirito tanto infiammato, avrebbe avuto lo stesso spirito di protezione, ma d’altra parte aveva anche una certa educazione del futuro, dove le scelte prese dai figli erano guardate in modo diverso. Le bastava vedere l’esempio di sua madre, che si era privata per sempre della sua unica figlia femmina solo perché sapeva che sarebbe stata felice.
Aveva imparato che una vita di rimpianti è molto peggio di una vita di errori, e Sango ben presto avrebbe iniziato a pentirsi di non aver assecondato la figlia nella propria passione. Kohaku non stava proponendo un’ipotesi impossibile: facendo vedere alla bambina in cosa consisteva la vita di uno sterminatore, forse avrebbe addirittura cambiato la sua idea sul proprio futuro.
Feriti, demoni morti, esilio, solitudine, armi…si sarebbe stancata presto. Aveva solo cinque anni, in fondo, non sarebbe stata di certo in grado di sopportare tutto quanto.
-Io…io prometto di pensarci – mormorò la donna. –Quanto ti fermerai?
-Al massimo cinque giorni. Non posso trattenermi di più.
-Va bene, allora. Prima che tu te ne vada, ti dirò cosa ne penso – disse, poco convinta sotto lo sguardo incoraggiante del marito.
Lo stesso Miroku si sentì in dovere di prendere la sua mano fra le proprie e di stringerla dolcemente. –Chitose sta già seguendo un apprendistato con la Venerabile Kaede. Non sarebbe giusto che ne seguisse uno anche sua sorella?
-Ma sai benissimo che non è la stessa cosa! Le margherite non tirano fuori gli artigli, non hanno rasoi al posto delle foglie e non possono ruggirti addosso veleni corrosivi, lo sai meglio di me.
-Beh, alcune piante sono velenose – suggerì Inuyasha, cercando di essere incoraggiante.
-Inuyasha! – lo richiamò Kagome, indignata. –Sei stupido o cosa?
-Stupido? Sei tu la scema della famiglia! – ribattè, offeso.
-Su questo avrei qualche dubbio – si intromise Miroku, tenendo ancora la moglie.
-Tu! Dannato! – ringhiò l’hanyou.
-Adesso basta – disse Sango, riportando la calma. Aveva liberato il palmo da quello del marito e l’aveva alzato sia come se esprimesse desiderio di pace, sia quello di picchiare duramente qualcuno. La sua espressione di benevolenza faceva doppiamente terrore rispetto a quando era infuriata.
Suo fratello minore ridacchiò, evidentemente divertito. –Certo che avete l’aria di divertirvi, da queste parti.
-Sì, come no – sospirarono le due donne, all’unisono. La loro reazione involontaria creò un attimo di silenzio, prima di farle scoppiare a ridere.
-Diciamo che loro sono quelle che se la spassano di più – disse il monaco, guardandole con affetto.
-Cosa? – protestò Kagome. –Spassarsela? Con la bambina, la casa e il compito di sacerdotessa? Sono sicura che stai scherzando.
-Per non parlare del bucato – si lamentò Sango, con espressione inorridita. –Stare ore e ore con le mani nell’acqua e la schiena piegata è uno strazio! Non vedo l’ora che le bambine diventino grandi, così dopo posso farlo fare a loro!
-Beata te che hai meno anni da aspettare! A me ci vorranno un altro bel po’ di fatiche prima di delegare il lavoro a qualcun altro!
I tre uomini si guardarono, straniti. Ormai le due donne avevano iniziato ad elencare le fatiche delle loro vite, formando una conversazione a parte, e sembravano così partecipi dei dolori l’una dell’altra che quasi temettero che si commuovessero.
Continuarono ancora per qualche estenuante minuto, poi presero a parlare di quanto il ruolo del marito fosse puramente decorativo, (senza badare al fatto che erano entrambi presenti), e conclusero sostenendo di avere avuto dei destini sventurati, ma comunque costellati di piccole soddisfazioni.
Soddisfatte di essere giunte ad una conclusione unanime, ripresero tranquillamente chi a sorseggiare il thé e chi a cullare pargoli. Ad un tratto, fu Kagome ad interrompere lo stupefatto silenzio.
-Ci sono bambini, nel vostro villaggio?
-Pochi – rispose Kohaku. –Alcune coppie sono venute da noi con i bambini piccoli, ma in genere i guerrieri da poco diventati genitori non entrano subito a far parte del gruppo. Non possono allontanarsi spesso.
-Mhh… e come mai loro non li avete contati? – chiese Sango, divertita.
Come quando era più giovane, Kohaku arrossì. –Ecco…a dire la verità l’abbiamo fatto. Sono cinque; due hanno meno di un anno.
-E come si trovano in montagna? Il clima non è troppo rigido? – si preoccupò Kagome.
-No, nient’affatto. Siamo in un bel posto, da quel punto di vista.
Silenzio. Nessuno, dopo quasi un anno di assenza, sembrava trovare qualcosa da dire. La conversazione ormai languiva, ma era comprensibile. Inuyasha non aveva molto altro da aggiungere, in quanto conosceva il ragazzo solo superficialmente; Kagome, a causa del trambusto di poco prima, stava facendo di tutto per non svegliare Kaori; Sango era assorta nelle proprie preoccupazioni, sul dare oppure no il permesso a Mirei; Miroku si sentiva in pena per la moglie, in quanto temeva un’ulteriore ricaduta sotto al tetto della sua casa.
All’improvviso, Kohaku sorrise apparentemente senza motivo. –Sai, sorella, sono contento di essere tornato. Io…ho una novità.
-C…cosa? – balbettò Sango, assorta. –Una novità?
-Sì, la stessa a cui accennavo nella lettera – spiegò. –Capisco che non te lo ricordi, ti ho scritto praticamente un mese fa di questa storia.
-È vero…ora me lo ricordo – confermò la donna. –Niente di terribile, vero?
Il giovane rise: era un bel suono, musicale e allegro. –No, non per me, almeno. Prima, però, volevo chiederti come sta  la nobile Rin.
Stranamente, fu Inuyasha a rispondere, in tono piuttosto seccato: -Tsè! Quella stupida si è messa a vivere con quell’idiota di Sesshomaru.
Lo sterminatore sollevò le sopracciglia, incredulo: -Sesshomaru? Con gli umani?
-Già! Ogni giorno devo sentire il suo dannato odore in giro per il villaggio!
-Oh, andiamo! – cinguettò Kagome, allegra. –Il fratellino è venuto perché Rin-chan stava male…non è romantico?
-Non chiamarlo così mai più – ribattè Inuyasha, truce e orripilato.
-Quindi sta meglio – cercò di fare il punto della situazione Kohaku.
Fu Miroku a riassumere. –Sì. Al parto manca davvero poco; la data era fissata ieri, ma nulla.
-È vero, sono andata a salutarla proprio ieri sera – disse Sango, sbrigativa. Posò la tazza accanto a sé. –Allora? La novità?
-Appunto – rincarò Miroku, perfettamente immedesimato nel ruolo di “consorte-della-sorella”: -La novità?
Kohaku arrossì di colpo, cercando di sorridere, imbarazzato. Portò le mani in grembo e cominciò a giocherellare con il bordo di un’unghia, nervoso. Si era sentito messo alle strette, e parte della sicurezza di prima si era totalmente dissolta. Forse era la presenza di Inuyasha e Kagome a dargli fastidio, ma si era sempre dimostrato sciolto anche nei loro confronti, prima!
Kagome cominciò davvero a preoccuparsi quando i secondi di silenzio si allungarono. L’incitazione di Sango rimaneva impressa nei suoi occhi, per spronarlo a parlare, ma sapeva benissimo che se avesse detto qualcosa lui non avrebbe più rivelato nulla. Tutti erano curiosi di sapere di cosa si trattasse, ma il ragazzo pareva bloccato.
-Beh? – sbottò Inuyasha.
Kagome si portò una mano sugli occhi, vergognandosi.
 –La delicatezza non è il tuo forte, vero? – commentò Miroku. –Lascia che si prenda il suo tempo.
Anche Sango aveva iniziato a torturarsi un’unghia. Forse era un vizio di famiglia: in quel momento, guardandoli di profilo, si poteva scorgere una certa somiglianza fra i due, che si rifletteva nei connotati sottili di lui e quelli aggraziati di lei.
-Ecco, io… - disse Kohaku. Prese un profondo respiro, poi sembrò in grado di parlare. –Sorella, a causa di un inconveniente non ho potuto fare le cose come sperato, ma entro un paio di giorni rimedierò.
-Cosa…a cos’è che devi rimediare? – chiese la ragazza, con un filo di voce.
Il fratello minore sollevò lo sguardo, e vi si lesse un certo ardore. –Ho una notizia importante da darti – ripetè.
-Ti ascolto – annuì la sorella.
-Io…io mi sono sposato, sorella. E sto per diventare padre. 

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Capitolo 53
*** Riflessioni ***


Nell’esatto momento in cui il ceffone più doloroso e inatteso della storia si abbatteva sulla guancia di Kohaku in seguito alla sua rivelazione, Rin emise l’ultimo, straziante urlo del parto.
Sesshomaru avrebbe desiderato morire, e portarsi nella tomba decine e decine di esseri umani: lui, Demone Maggiore, figlio del Generale che aveva conquistato quasi l’intero Giappone, signore dell’Ovest e di gran parte dell’Est, legittimo figlio di un’altra potente Demone Maggiore protrettrice e custode dell’aldilà, era stato spinto fuori dalla stanza dove stava nascendo suo figlio.
Più che per lo sdegno dell’oltraggio subito, però, ad avergli fatto ribollire il sangue era stato il dolore di Rin. Sembrava di scontrarsi con un’entintà viva e a parte, fatta di urla, pianti, imprecazioni e viscide colate di liquido scuro, inarrestabile, che le uscivano a fiotti dal ventre.
Le guaritrici avevano dovuto far passare un’ora prima di mettersi all’opera a causa di problemi che non aveva compreso. Nonostante gli avessero detto a chiare lettere che era un intralcio a ciò che dovevano fare, le donne gli avevano concesso di rimanerle vicino, e per tutto il tempo la mano della fanciulla era rimasta ancorata alla sua. I loro occhi non si erano separati neppure un istante: quelli nocciola scuro di lei erano spalancati e afflitti dalla paura, mentre i suoi, imperturbabili come sempre, tradivano la gelida consapevolezza di non poter assistere passivamente a quello scempio.
Le contrazioni, così le chiamavano gli esseri umani, avevano iniziato a diventare sempre più violente, tanto che la gola della ragazza si era fatta bruciante a furia di espellere la propria pena a parole. Non l’aveva mai sentita usare un tono aggressivo, mai, ma su quel futon intriso di sudore e di lacrime Rin era completamente trasformata.
Se Sesshomaru fosse stato abituato a vedere delle donne sul punto di partorire, si sarebbe certamente accorto che le condizioni di Rin erano nella norma. Soffriva, certo, ma era anche ammirevole il suo modo di resistere alle fitte lancinanti del ventre; manteneva un contegno tutto sommato ammirevole, anche se un rivolo di sangue scendeva dalle labbra morse per non urlare parole ingiuriose.
Se il demone era tanto intimamente sconvolto, cosa della quale nessuno si accorse, era perché per la prima volta nella sua vita aveva potuto avere esperienza diretta di cosa succedesse davvero alle donne umane, e giurò a sé stesso che sarebbe stata anche l’ultima.
Ad un certo punto, prima che lo spingessero fuori senza troppi complimenti, le unghie di Rin si erano aggrappate con una sorta di spirito animalesco nella presa al suo polso, scavando dei solchi a forma di mezzaluna sulla carne pallida.
-Guai a te se mi metterai ancora le tue manacce addosso – sussurrò, guardandolo dritto negli occhi.
Quella faccenda della castità a Sesshomaru non piacque per niente, però non parlò. Si limitò a ripondere con un laconico “respira profondamente” prima di ritirarsi del tutto nel proprio silenzio.
Ne era rimasto fortemente impressionato. Che il dolore fosse così grande da impedirle persino di scegliere le parole da dire? In tal caso sarebbe stato davvero grave; nemmeno sotto tortura Rin si sarebbe espressa in quel modo.
Comunque cercò di non badarci, dicendosi per la milionesima volta che era quello il prezzo di avere una relazione con una donna umana e che quella era la giusta punizione che gli spettava, visto che aveva corrotto la ragazza e ora lei ne stava pagando le conseguenze.
Non che lui non soffrisse nel sentire quanto dolore lei provasse; semplicemente, il senso di colpa era più bruciante di qualsiasi altra cosa. Gli pareva che qualcosa si fosse insinuato sotto alla sua pelle, appena sopra ai muscoli, e avesse spalmato la propria vischiosa e sgradevole presenza dentro al suo corpo, contaminandolo.
Nella sua vita lunghissima, infatti, non si era mai trovato a dover fare i conti con nessun tipo di pena per la sorte di qualcun altro, escluso persino sé stesso. Si poteva dire benissimo che qualsiasi ferita di guerra facesse meno male di ciò che stava vivendo, perché persino uno squarcio nello stomaco è guaribile, a differenza di anche solo una minuscola scalfittura nell’anima.
Le sue mani prudevano per la voglia di fare qualcosa, ma cosa? Si disse che aveva già fatto tutto il possibile. Per tre settimane era stato una presenza costante nella vita della fanciulla fino a quando, quella fatidica notte, non aveva cominciato a sentire un mutamento d’odore in lei, che si era poi destata con un semplice “è ora”. Una sinistra premonizione che aveva gettato luce prematuramente su quello che stava accadendo.
Le sue orecchie potevano sentire benissimo quello che le donne dicevano, nella stanza, nonostante in apparenza i gemiti sofferenti di Rin, per altro sempre più smorzati, sembrassero coprire ogni parola.
-Non sarebbe dovuto nascere così presto…lei è ancora troppo debole – aveva mormorato la più anziana, poco dopo averlo fatto uscire.
-Non ci pensare, Yuna-sama, non ci pensare. Lo sposo demone sta aspettando suo figlio! – l’aveva ammonita un’altra decrepita ma, a giudicare dal puzzo che emanava il suo flaccido corpo umano, doveva essere leggermente più giovane della prima.
-E se…volesse mangiarlo? – aveva sussurrato, inorridita, un’assistente che aveva da poco superato l’età fanciullesca.
Con grande disappunto e irritazione di Sesshomaru, nessuna delle altre aveva fatto nulla per distrarla da quel pensiero orribile. Perché mai il sovrano del Giappone avrebbe dovuto divorare suo figlio quando, volendo, poteva benissimo sgozzare quella sciocca ragazzina e saziarsi definitivamente?
La sua carcassa sarebbe stata troppo piccola per saziare la sua fame, era vero, però gli sarebbe piaciuta una gustosa alternativa alla carne macilenta di soldati morti in suppurazione. Quando gli capitava a tiro un campo di battaglia, trovava cibo sicuro, ma il suo orgoglio di predatore rimaneva ferito dal doversi cibare di avanzi per altro catturati da mani umane. E poi, di parti integre e commestibili ce ne erano sempre poche. Le teste non erano di suo gradimento.
Un demone maggiore della sua potenza, in circostanze normali, avrebbe necessitato di tanto cibo quanto poteva offrirne, in termini di vite umane, l’intero villaggio Musashi. Soprattutto durante viaggi e battaglie, un corpo demoniaco doveva essere perennemente alimentato da grandi quantità di carne; se lui non faceva stragi ogni giorno per il semplice gusto di mangiare, era perché soffrire la fame gli dava la giusta scusa per rimanere lucido. Poteva benissimo resistere anche mesi senza mangiare, e tutto grazie a famoso addestramento di suo padre, che gli aveva insegnato di non dover dipendere da nessuno, tantomeno dagli esseri umani.
Ogni volta che si trovava a trangugiare membra umane doveva aspettare minimo un giorno prima di presentarsi da Rin, poiché si sentiva sempre colpevole. Quand’era più piccola, per farle capire quanto in realtà fosse cattivo e spietato, aveva portato un braccio umano ancora sanguinante fra le fauci e, con estrema naturalezza, usava le unghie per tagliarne lembi che poi mangiava, voracemente.
Era stata la prima volta che l’aveva visto mangiare. Prima che arrivasse all’osso, il suo unico commento era stato “Sembra proprio buono da come lo mangiate, Signor Sesshomaru. Posso assaggiarlo anch’io?”.
Lui aveva risposto che il cannibalismo non stava bene, ad una bambina così piccola, e lei aveva chinato il capo con un sorrisetto vittorioso. Aveva capito di aver superato la prova.
Per distrarsi, sfiorò il bordo del fodero vuoto di Tenseiga. Qualche ora prima, era scoppiato il finimondo.
La guaritrice più anziana, con un ridicolo kimono verde addosso, aveva insistito affinchè uscisse.
-Se volete che la ragazza si salvi, allora dovete lasciarci lavorare in pace – aveva senteziato, guardandolo dritto negli occhi.
Lui era stato spietato. –Non se ne parla.
-La vostra aura agisce con quella di suo figlio – aveva ribadito lei, sempre calma e al tempo stesso infastidita, - alla vostra sposa rischiano di incrociarsi le budella.
Sesshomaru non sapeva cosa gli umani intendessero con “incrociare le budella” ma, attenendosi ad una nota tortura che spesso utilizzava quando ancora non conosceva la madre di suo figlio, doveva riconoscere che sarebbe stato un processo inutilmente doloroso, che sarebbe culminato con una morte lenta e decisamente poco piacevole.
Lo spettro della morte di Rin si era fatto tangibile, ancora una volta, e si era sentito mancare al solo pensiero. Davanti alla vecchia era rimasto imperturbabile, ma lei doveva aver capito di averlo comunque spinto a rivedere le proprie priorità.
-D’accordo – aveva acconsentito, gelidamente, -però la spada resta qui.
-Non se ne parla nemmeno – aveva ribadito la stessa.
Allora, in un impeto d’ira, Sesshomaru aveva estratto la lama lucente di Tenseiga con uno scatto repentino, e gliel’aveva puntata al collo. Le sue assistenti erano come impazzite: si agitavano per la stanza strillando e blaterando cose senza senso come un branco di galline dentro ad un pollaio in fiamme.
Gli occhi gelidi del demone erano fissi su quelli dell’umana. Il viso grinzoso non aveva fatto nemmeno una smorfia, e si manteneva arrogantemente marmoreo come se lo facesse solo per farlo innervosire.
All’inizio Sesshomaru aveva deciso di punirla in modo esemplare per la propria spavalderia, ma si rese conto che il suo scopo principale non era affatto quello e che, vista l’intelligenza media delle altre donne nella camera, era sicuramente più consigliabile lasciare Rin in mani esperte. Inoltre Tenseiga non aveva il potere di uccidere nessuno, ed era forse per questo che era la spada preferita della sua amata.
Se la voleva lasciare conficcata accanto al suo guanciale era solo per far assorbire alla lama parte della sua pena (e, ora che si trovava all’esterno, poteva constatare che il suo piano stava funzionando). Se la donna fosse stata davvero una guaritrice, allora avrebbe sentito il potere benefico del manufatto. In caso contrario, le avrebbe spezzato il collo e avrebbe intimato, magari sciogliendo un’altra assistente con l’acido come esempio, di proseguire con il lavoro nel migliore dei modi, pena la morte.
Lasciò che la spada si appoggiasse di piatto al collo grinzoso della donna, che continuava a fissarlo. Le urla isteriche delle altre donne non erano finite e Rin, troppo stanca per parlare, stava fissando la scena ad occhi spalancati.
-E sia – concesse, dopo minuti interminabili. –Ma al primo accenno di maligna presenza demoniaca la butterò fuori dalla finestra.
Sempre se fosse riuscita ad estrarla, pensò Sesshomaru, ma non si prese il disturbo di puntualizzare. Andò al letto di Rin, le sfiorò la fronte accaldata con un carezza leggera e piantò la spada ad un centimetro dal suo viso, facendo trattenere il respiro a tutte le presenti.
Ora, in quel preciso istante, si sentiva come un animale in trappola. La sola mancanza di una spada lo stava rendendo pienamente consapevole, in tutte le safccettature della situazione, di cosa stava succedendo.
Un bambino, un mezzo-demone, magari una femmina, un sangue misto, figlio di un demone maggiore e di una levatrice, una creatura instabile, un ibrido, un incrocio fra due razze, un simbolo di due opposti completamente differenti, un neonato stava vedendo la luce in quello stesso momento.
Ed era suo figlio.
Questa cosapevolezza ebbe lo stesso impatto di un’onda violenta contro il suo corpo, e il suo spirito, perché suggellava in ogni singolo e minuzioso dettaglio quella che era la maledizione scagliata dalla sua stessa madre contro suo padre, affinchè tutta la stirpe ne fosse maldetta e compromessa per sempre.
Ripensò ad Inuyasha, e il pensiero sgradevole del fratello minò in parte lo sconvolgimento, e lo mitigò. Quell’…essere, quell’abominio, aveva molte caratteristiche in comune con suo figlio.
Orrore! No, non poteva essere. Il figlio del Nobile Sesshomaru no Taisho-sama non poteva somigliare in alcun modo a quell’aborto mal riuscito e sopravvissuto per uno scherzo dei kami, nient’affatto! Suo figlio sarebbe stato il degno erede di suo padre, mezzo-sangue oppure no, perché la madre stessa era una creatura straordinaria eppure effimera, perché la sua bontà d’animo aveva fatto sì che persino un cuore come il suo, di ghiaccio e ardesia fusa, potesse tornare a vivere.
Aveva mentito alla ragazza quando aveva detto di essere tornato da una guerra territoriale. In realtà, si era recato fino ai confini della regione perché sua madre, a sua volta Demone Maggiore, aveva sentito un odore nauseabondo addosso a lui, e cioè quello di un feto mezzosangue.
-È stato per ucciderne uno, vero? – aveva detto, quando lui le si era presentato al cospetto. –Dimmi che questa è la puzza purificatrice di un ventre dilaniato e di un giovane mezzo-sangue ucciso.
Ma lei sapeva perfettamente che Sesshomaru non si sporcava mai del sangue di persone deboli con stragi inutili, ne era quasi più consapevole di lui stesso. Era stata proprio suo padre, sotto il suo sguardo, ad inculcargli in testa tale principio, e certi insegnamenti erano duri a morire.
Sesshomaru: non ucciderai donne di demone o di uomo nemmeno per cibartene, e tanto meno per piacere personale. Fino a quando non l’avrai imparato, non sarai mai il degno principe di queste terre.
Erano state le sue esatte parole, non le avrebbe mai dimenticate, assieme a tutte le altre. Poteva citare a memoria qualsiasi discorso del genitore, ed era sicuro di non potersi tradire, per lo meno in questo. Era l’unica traccia evidente che rimanesse a suggellare la sua freddezza, che era ormai diventata lo scudo della sua potenza e della sua fama implacabile.
Per questo, quando la madre aveva riconosciuto l’odore della bambina di quel giorno, che gli aveva fatto riportare in vita ella stessa, capì quanto poco conoscesse suo figlio, e quanto poco lo avrebbe mai voluto conoscere. E capì anche che urlare al disonore sarebbe stato inutile, visto che il suo stesso marito si era perduto nell’uguale, medesima e fatale follia, al quale lei aveva posto un eterno sigillo. Non si sorprese di non provare amarezza: in fondo, era anche lei esattamente responsabile quanto lui.
-Mai avrei dubitato di te, Sesshomaru, figlio mio. Eppure non esista nulla che io possa dire per cambiare quanto avvenuto, e nulla che io possa fare per indurti a credere che non me lo fossi aspettato. Lo accetto. Però ora vattene da questa casa e non tornarvi mai più – aveva sancito, e nelle sue parole si poteva quasi leggere un profetico sortilegio che l’aveva spinto, senza troppi ripensamenti, a seguire l’istruzione della madre.
Madre…nella sua intera vita non l’aveva mai vista come una madre. In fondo, suo padre l’aveva scelta fra altre donne demoniache perché la sua prole poteva essere migliore, più forte di una ottenuta con le altre, e in più provenivano dallo stesso ceppo demoniaco. Quindi, più che una moglie era stata un tramite tra lui, Sesshomaru e il potere, l’unica cosa che gli fosse mai interessata in tutta la sua vita.
Inu no Taisho aveva capito prima di chiunque altro che il suo impero vastissimo non poteva essere gestito da una persona qualunque, e per questo aveva cercato di correre ai ripari. Aveva condotto una vita ineccepibile, aveva calcolato ogni singolo dettaglio, solo che non aveva esitato nemmeno per un momento a gettare in pasto alla meledizione tutti coloro che si sarebbero succeduti al trono dopo di lui, e solo per poter sperimentare quello che gli uomini chiamano amore.
“Sesshomaru, figlio mio…un giorno capirai perché agli uomini non dispiace affatto  vivere una vita così breve senza medaglie, sudditi o riconoscimenti” gli aveva detto una volta, ed era la cosa che meno somigliasse ad un insegnamento. All’epoca, il giovane Sesshomaru l’aveva disprezzato, perché era stato un debole.
Ma in quel preciso istante si accorse di essere stato stupido, e che suo padre aveva avuto infinitamente ragione.
 Il pensiero di suo fratello, comunque, non voleva sparire. Lui non aveva avuto nessun consiglio, nessun mentore quando aveva fatto la scelta che l’aveva portato ad avere persino un figlio da una donna umana. Si era semplicemente affidato all’istinto, e non aveva sbagliato. Si vedeva lontano un miglio che adesso era completamente ed irrimediabilmente felice.
Le sue riflessioni vennero interrotte da Kagome, la sacerdotessa. Presentava tutti i sintomi umani di stanchezza: occhi lucidi, pelle pallida, veste sudata, espressione assente.
Sorrise quando lo vide, nervosamente, ma mantenne quel contegno che l’aveva spinto, nel corso del tempo, a ritenerla degna del proprio rispetto anche se era umana. Nonostante tutto, la donna sembrava felice.
-Come fate ad essere così calmo? – chiese, avvicinandosi. Non ottenne risposta, solo una lunga occhiata.
-D’accordo, come non detto – sospirò, alzando le mani in segno di resa. –Ho fatto allontanare tutti dal villaggio, Inuyasha compreso. Vostra nipote dorme nella sua culla nella capanna qui a fianco, ma non credo vi possa disturbare.
Sesshomaru fece un breve cenno col capo: apprezzò immensamente quello che donna aveva fatto, e riconobbe che era stata furba.
-E, cosa più importante, Rin sta bene. È nato, finalmente: un bellissimo e sano maschietto! – esclamò ridendo.
-Ci ha fatto sudare, ma ha già smesso di piangere. Se volete fare loro visita, le sacerdotesse sono uscite: hanno parlato di una minaccia di morte, ma ho fatto finta di non sentire.
Il demone non disse nulla. Il suo petto sembrava completamente vuoto, perché i rimbalzi del suo cuore all’interno erano così forti che gli pareva avessero campo libero. Si alzò e, maestosamente, si mise a camminare verso la capanna, degnando la donna di una sola occhiata.
Kagome stava per mettersi a replicare che un “grazie” oppure un “va bene” poteva anche dirlo, ma che non sia mai che il principe di tutti i demoni si scomodi con un po’ d’educazione, ma venne zittita ancor prima di iniziare.
-Sono in debito con te, donna – disse Sesshomaru, superandola. Poi, con un solo fruscio, entrò nella capanna dove Rin, stremata e felice, lo stava aspettando.  

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Capitolo 54
*** Primogeniti ***


Rin non aveva voluto aspettare i convenevoli per mettersi a piangere: appena aveva visto le spalle del demone superare il cornicione troppo basso per la sua statura, calde lacrime di sollievo avevano iniziato a sgorgare senza possibilità di essere fermate.
Il dolore, una volta che avevano terminato le medicazioni, era completamente scomparso. Si sentiva fiacca ed esausta, ma una strana leggerezza aveva colmato ogni altra sensazione, lasciandola quasi intorpidita.
Così, quando Sesshomaru fece nuovamente la sua comparsa, a lei parve bello da far quasi male agli occhi, doppiamente fiero e possente di come era abituata a guardarlo, così meravigliosamente suo da farla commuovere.
Lui, dal canto suo, si chiese che senso avesse mettersi a piangere senza nemmeno una ragione valida, ma non fiatò. Si rese conto che cercare di ragionare con Rin in quello stato, magari dovendo anche subire altre ingurie da parte sua, era decisamente un’impresa persa in partenza.
-Oh, Sesshomaru, vieni a vedere – singhiozzò la ragazza, con un sorriso luminoso, - guarda che amore!
Parlava con un tono di voce basso e leggermente arrochito dalle urla di poco prima e dall’emozione. Con i capelli scaramigliati, la pelle pallida e gli occhi cerchiati, ma completamente felice, sembrava davvero che Rin fosse la creatura più pura dell’universo. E lo era, senz’ombra di dubbio; Sesshomaru non aveva mai visto una simile bellezza da nessun’altra parte.
Senza dire una sola parola, le si sedette accanto.
Appena entrato nella stanza, aveva subito sentito quel nuovo odore dolciastro, infinitamente delicato, che sapeva quasi da latte zuccherato. Solo che, a differenza della pietanza umana, questo aveva un sentore infinitamente più fragile, quasi acerbo, di essenza viva e incorrotta.
La donna più bella di tutto il Giappone reggeva fieramente la fonte di tale profumo fra le proprie braccia, cullando amorevolmente quello che dall’esterno sembrava solo un fagotto di stoffa senza niente al suo interno.
-Ecco – disse, cercando di ricomporsi, - tienilo in braccio.
Prima ancora di guardare il viso del bambino, Sesshomaru alzò semplicemente un sopracciglio. Lei lo guardò negli occhi come nessuno, in circostanze normali, si sarebbe mai permesso di fare.
-Deve capire che sei suo padre, Sesshomaru. È tuo figlio – spiegò con leggerezza.
Scostò piano un lembo di stoffa morbida e candida, usata appositamente per i bambini appena nati. Per pura e divorante curiosità, Sesshomaru sporse la testa verso di lui, attirato irresistibilmente dalla voglia di conoscere, di vedere.
Ne rimase del tutto sconvolto. Placidamente appoggiato al petto materno, infatti, riposava la cosa più piccola che avesse visto in vita sua. Il petto si muoveva senza nessun fretta, con un ritmo regolare e tranquillo, mentre la pelle ancora leggermente arrossata si rivelava già priva di piegature. Anche senza controllare personalmente, il demone era sicuro che né i palmi delle mani, né le piante dei piedi erano attraversati da nulla che non fosse solo un fragile e ancora giovane strato di incarnato candido.
Il viso fu la cosa che più lo sorprese: era liscio, arrotondato e pieno, ma conservava la fierezza del casato riscontrabile, - con suo profondo disgusto – anche in alcuni connotati del fratellastro Inuyasha. Gli occhi erano chiusi, ma già la forma allungata risultava chiara. Inoltre, cosa che non lo sorprese affatto, i capelli argentei erano già presenti: abbastanza lunghi se considerato che era appena venuto al mondo, ma comunque corti rispetto a qualsiasi demone.
Sulla sommità della testa, un paio di morbide orecchie bianche ebbero un guizzo non appena vi posò sopra lo sguardo. Quel piccolo bambino era il ritratto esatto di Sesshomaru, ma una certa influenza più dolce, così meravigliosamente bella, rendeva il suo aspetto completo, unico; suo figlio era il risultato preciso che si poteva ottenere dal suo viso e da quello di Rin.
-È di tuo gradimento? – domandò la ragazza, divertita, osservando di sottecchi quell’occhiata indagatrice che stava analizzando, pezzo per pezzo, il loro bambino.
-Assolutamente.
Quella risposta l’aveva del tutto spiazzata. Di solito, quando faceva delle battute o scherzava con lui, non si prendeva il disturbo di rispondere, ma stava semplicemente ad ascoltare. Con la mano libera si asciugò l’ultima lacrima, stando attenta a non svegliare il piccolo.
 Piano, lentamente, Sesshomaru allungò l’indice affusolato verso il viso del figlio, mantenendo un’espressione imperturbabile. Solo Rin, che lo conosceva meglio persino di sé stesso, poteva notare quanto in realtà i suoi lineamenti fossero distesi, tranquilli.
Evitando accuratamente di posare l’unghia sulla guancia del neonato, il demone accarezzò leggermente con il polpastrello la curva dello zigomo, fino ad arrivare al mento, in un gesto nostalgico. La sua pelle fredda percorse, in un contatto così leggero da sembrare un miraggio, con quella più calda e viva del bambino, come per creare una sorta di contatto fra i due.
Rin stava guardando tutto con lo stupore che solo la moglie di un demone glaciale può avere. Possibile che Sesshomaru stesse davvero accarezzando suo figlio? Non si stava forse trattando di un delirio derivato dalla fatica del parto?
Sesshomaru, dal canto suo, poteva sentire il pulsare tangibile di una nuova esistenza vibrante, intensa, appena sotto al proprio dito. Gli parve una sensazione quasi magica, a lui che di cose nella sua vita ne aveva viste tante, e rimase incantato ad osservare quel piccolo mezzo-demone che, nemmeno nel più crudele dei casi, avrebbe mai potuto apparire disgustoso o riprovevole.
Inuyasha, quand’era bambino, aveva avuto davvero lo stesso aspetto, oppure si era incarognito con gli anni? Gli esseri da lui definiti immondi, erano davvero tutti così belli e innocenti quanto suo figlio? Perché suo figlio era bello, non era ancora stato influenzato da giudizi sbagliati e falsi miraggi, di lotte per il potere o guerre di conquista; il suo viso era ignaro ad ogni singolo cambiamento politico, demoniaco, atroce misfatto che avenisse attorno a lui, e suo padre quasi lo invidiò per questo.
Si chiese come avesse potuto Inu no Taisho, il grande condottiero, rovinare come aveva fatto con Sesshomaru una creatura così piccola, come doveva essere stato lui da piccolo. Giurò con sé stesso che mai, nella sua intera vita, avrebbe fatto conoscere al bambino tutto il dolore e la freddezza a cui era stato destinato dal padre, molto tempo prima.
A costo di dover avere a che fare con un altro Inuyasha.
-Non so tenere in braccio i bambini – osservò quando si fu riavuto dallo stupore.
La ragazza, che aveva cominciato incosciamente a cullare il fagotto con dei leggeri movimenti delle mani, voltò lo sguardo verso di lui.
-Ci sono qui io, Sesshomaru. E non ti credo nemmeno un po’ – il suo tono era estremamente rassicurante.
-Potrei inavvertitamente spaccargli la testa – la avvertì.
-In tal caso succederà la stessa cosa alla tua – rispose la donna, con terribile calma, tanto da spingerlo a tornare a guardare il bambino, l’unico che almeno per un bel po’ non si sarebbe permesso battibecchi.
Senza rendersene conto, accettò quello che suonava più come un ordine che una richiesta. Guardò attentamente il gesto naturale con cui Rin teneva il bambino, e fece in modo di far assumere al suo braccio destro, l’unico che si fidava ad usare, una posa che vi assomigliasse.
Si sentiva un po’ ridicolo, e per un attimo temette che l’armatura potesse far male al corpicino.
La donna, sorridendo felicemente e con gli occhi nuovamente lucidi, appoggiò con estrema cautela il neonato nelle sue braccia, e Sesshomaru si stupì di come la forma del bambino si adattasse perfettamente all’incavo con il suo petto. Era come se un pezzo del proprio corpo stesse finalmente ricongiungendosi con il resto.
I suoi occhi gialli si persero nuovamente sul viso del figlio. Era come una magia, un sortilegio: ogni volta che lo guardava, rimaneva catturato da quei lineamenti, da quei tratti appena abbozzati e nonostante tutto già precisi. Si chiese se la figlia della sacerdotessa avesse avuto simili sembianze, oppure somigliasse di più alla madre.
Il fagottino non sembrò disturbato da quel cambio di mano, anzi, mosse piano la testa come per accoccolarsi meglio in quella nuova alcova, dormendo serenamente.
-Sai – disse Rin, a voce bassa, - tu fai uno strano effetto sui bambini. Anch’io mi sono innamorata di te quand’ero piccola.
Il demone sollevò lo sguardo su di lei. –Ah, sì?
La ragazza ridacchiò. –Non dirmi che ti ci è voluto un figlio per accorgetene.
-Lo sospettavo – ammise. –È stato questo il motivo che mi ha spinto ad allontanarti.  
Lei non rimase ferita da quelle parole, perché in cuor suo l’aveva sempre saputo. Era sempre stata troppo umile per riconoscerlo, ma aveva capito che Sesshomaru aveva paura dei propri e dei suoi sentimenti, e quindi non aveva mai saputo come comportarsi se non in quel modo.
Inoltre adesso era la madre dei suoi figli, era palese e manifesto a tutti cosa legava realmente quella strana coppia, e lei non aveva paura di tirarsi indietro.
-Cosa temevi? – sussurrò.
-Tutto questo – disse. La sua voce era bassa e vibrante, intensa, avvolgente. Avrebbe voluto farsi abbracciare per sempre da quell’intonazione perfetta, non contaminata da nessun tipo di dialetto o di pronuncia che non fosse quella classica. Lei la adorava.
E capì anche che si stava riferendo al loro bambino, alla loro relazione, al loro amore. Ma non se ne preoccupò, perché era certa che Sesshomaru non l’avrebbe mai lasciata andare. Lo vedeva riflesso nel suo sguardo quando i suoi occhi si posavano sul neonato: anche se era improprio dire così, il demone era felice.
All’improvviso, muovendo a fatica le palpebre, il bambino aprì gli occhi: Sesshomaru, che lo stava guardando, ne rimase assolutamente incatenato. L’iride era grigia, torbida, ma come un cielo rannuvolato si intravedeva al di sotto un raggio infinitamente più chiaro, color miele. La pupilla, invece, era già un punto scuro e profondo.
Mosse gli occhi come se lo potesse veramente guardare anche se, come Rin gli aveva spiegato più di una volta, i bambini appena nati non riescono a vedere sin da subito, ma solo dopo un paio di giorni. Per usare le sue esatte parole: “non possono cogliere le meraviglie del mondo tutte in una volta”.
Il demone si perse in quello sguardo, ancora completamente intaccato da nient’altro se non la primordiale ragione. E quando vide che il naso, due pinne appena accennate sul volto, si stava come muovendo, intese; i demoni cani devono farsi annusare dai propri figli per far loro capire chi è il padre, il capobranco. Inuyasha non aveva potuto se non per un istante cogliere l’odore del loro padre, ma era stato sufficiente per non lasciare dubbi.
Snudando appena le zanne, Sesshomaru portò un polpastrello vicino al naso del bambino e, con meraviglia impossibile da manifestare, lasciò che il figlio esplorasse e comprendesse appieno la carne del padre, il suo odore, per farne riferimento.
Poi, come se fosse compiaciuto di quanto appena avvenuto, richiuse gli occhi e si rimise tranquillo. Il demone ritirò l’artiglio senza smettere di fissarlo, per poi incrociare lo sguardo di Rin.
Stava sorridendo.
-Sarai un padre meraviglioso, Sesshomaru – bisbigliò, - ne sono certa.
Lui non rispose, ma si limitò a squadrarla con un’occhiata penetrante. Si sarebbe sentito in colpa per tutta la vita, sapendo di aver rischiato di rovinare una creatura così delicata. Suo padre non aveva avuto scrupoli nel strappare dalle braccia materne il fagotto ancora urlante, posarlo sull’armatura e ringhiare per farsi riconoscere, per poi impartire sin dalla più tenera età uno spietato addestramento militare.
Questo l’aveva reso freddo, insensibile e spietato, proprio come il genitore aveva sperato. Questo aveva compromesso la sua esistenza irrimediabilmente.
Forse sarebbe stato in grado di sorridere, di gioire della vita, magari senza un grande impero, ma con il cuore sereno. Un debole, ma comunque felice.
Non era da lui fare simili pensieri, ma si accorse che comunque suo padre un dono gliel’aveva fatto: una maledizione. All’inizio non aveva riconosciuto la bellezza di questa zavorra, non aveva compreso come si potesse rinunciare a tutto per una causa tanto stupida ma per la prima volta nella sua vita si rese conto di come avesse potuto, il genitore, buttare tutto al vento per seguire un sogno effimero.
Guardando per l’ennesima volta il bambino addormentato, capì perché suo padre non aveva potuto morire prima di vederne il viso.
Ora capisco, padre, pensò amaramente. Anche lui sarebbe morto serenamente, dopo quel momento.
-Scegli un nome per lui, Sesshomaru – sussurrò Rin. –Spetta a te, questo diritto.
Il demone rimase in silenzio. Apprezzava quel rispetto incondizionato delle tradizioni da parte della ragazza, ma sapeva che il nome del bambino sarebbe dovuto essere frutto di una scelta accurata.
Guardò meglio il suo viso, lo osservò a fondo, lo assorbì in ogni dettaglio. E poi decise.
-Si chiamerà Inuichi*.
Era così assorto che non si accorse nemmeno del frenetico rumore di passi, della fretta inconsueta nella camminata, dell’odore di pelle vecchia e di sudore che si stava avvicinando. Con uno scatto pericolosamente rumoroso, la vecchia di prima, quella che aveva minacciato con una spada al collo, apparve nella stanza, affannata.
-Nobile Rin –ansimò, - ci sono visite urgenti per voi.
-Non posso adesso, mi spiace – ribattè con calma la ragazza mentre Sesshomaru, con un’occhiata assassina, fulminò la donna sul posto per aver osato interrompere un istante simile.
La levatrice scosse la testa. –Temo che non possiate rimandare. Il principe Miyasama chiede di voi.
 
 
*Questo nome non ha un significato preciso, ma è stato più o meno “costruito”. Mi scuso per la mancanza di originalità, ma siccome ho visto che l’altro mezzo-demone primogenito aveva un nome composto dagli stessi criteri (sì, sto parlando di Inuyasha xD), ho pensato che fosse adatto.
“Inu”, come penso si sappia, vuol dire “cane” in senso lato, in questo caso, mentre “-ichi” è semplicemente un suffisso che di solito viene usato per i nomi dei figli primogeniti. Scusate, ma non credevo di poter chiamare John oppure Steven il figlio di Sesshomaru xD 

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Capitolo 55
*** Novelli sposi ***


La moglie di Kohaku era una ragazza giovanissima, che sembrava non avesse nemmeno diciassette anni. Era bassa, sottile come un giunco e la sua pelle sembrava fatta di porcellana, tanto chiara da apparire trasparente. Arrossiva facilmente, e quando lo faceva chinava la testa, educatamente.
Il viso era liscio, magro ma non affilato, e i lineamenti tanto dolci da sembrare disegnati con l’inchiostro. Gli occhi erano scuri, brillanti, e sottilineati da delle ciglia lunghe e arcuate, che le conferivano un’aria sognante; la bocca rossa a forma di cuore era segnata in minima parte dal nervosismo, perché la giovane ogni tanto mordeva il labbro inferiore quando si sentiva sotto pressione. Teneva i capelli legati in una lunga treccia, che scendeva adagiandosi morbidamente alla schiena, con leggerezza; erano lucidi, scuri ma con riflessi mielati, a causa dei raggi solari che erano costretti a sopportare.
Sembrava davvero una bambola mentre, fasciata nel suo kimono migliore adatto per l’occasione, sedeva con aria composta davanti alla sorella del proprio marito.
Solo qualche ora prima, c’erano volute tutte le energie di Inuyasha e Miroku assieme a tutte le persuasioni che Kagome era riuscita a trovare sul momento per impedire a Sango di decapitare il fratello a mani nude.
All’inizio, la notizia era stata accolta solo con una cappa densa di silenzio sbigottito, durante il quale nessuno aveva osato anche solo respirare. La donna, fremendo di sdegno, aveva domandato con assoluta calma come diavolo avesse potuto permettersi di agire lasciandola all’oscuro, e aveva promesso che se non le avesse dato una spiegazione soddisfacente entro dieci secondi gli sarebbe saltata al collo.
Kohaku era sbiancato tutto in un colpo e, visto che i suoi farfuglii non erano stati giudicati degni di essere considerati una risposta, Sango si era protesa verso di lui dapprima con uno schiaffo, poi cercando di dare colpi sempre più forti.
Si era chiusa in ostinato silenzio che era durato un pomeriggio intero. Non voleva parlare nemmeno con Miroku perché, subito dopo averla condotta fuori dalla capanna di peso, aveva cercato di ammorbidirla giustificando il comportamento del giovane. Cercava spiegazioni logiche a quanto avvenuto, ma era evidente che non ne aveva trovato nemmeno una di sufficientemente accettabile.
La sterminatrice era rimasta delle ore con la schiena ancorata alla porta sigillata della propria stanza a braccia incrociate, senza proferire verbo. Alla fine, il marito aveva considerato saggio rispettare il suo silenzio, lasciandola sola con i propri pensieri.
A smuoverla da lì erano stati i pigolii tristi delle gemelle, le quali avevano appena annunciato piene di entusiasmo che una bella signorina era appena arrivata assieme a Kohaku e aveva chiesto di lei.
A dire la verità, la donna si era estremamente emozionata dalla notizia: in fondo, il suo piccolo fratellino era appena diventato un uomo a tutti gli effetti, e presto le avrebbe dato anche un nipotino. Per anni aveva sperato che riuscisse a trovare la pace necessaria per mettere su famiglia, e l’idea che volesse rinchiudersi in un solitario eremitaggio fra le montagne l’aveva terrorizzata.
Si sentiva tradita dal fatto che non l’aveva resa partecipe di questo passo importante nella sua vita. Sango aveva sempre creduto che, ormai, lei fosse la sua intera famiglia, il suo unico legame con il passato, e che quindi fare affidamento su colei che non l’avrebbe mai rinnegato nonostante tutto fosse quasi scontato. Invece, Kohaku si era sposato senza nemmeno prendersi il disturbo di avvisarla, oppure di invitarla alla cerimonia.
Per Sango sarebbe stato un onore conoscere la sposa, magari anche aiutarla nella vestizione cerimoniale, ma erano cose di cui era rimasta totalmente ignara. E si sentiva indignata, tradita, umiliata. Emozioni difficili da far sparire, soprattutto se vi si aggiungeva la rabbia.
Non aveva saputo resistere davanti alle voci delle figlie, e si rese conto di aver avuto una reazione infantile, anche se giustificata. Sperò solamente di aver fatto male al fratello, almeno si sarebbe tolta quella soddisfazione e il chiedere scusa sarebbe sembrato perlomeno motivato.
Il marito l’aveva aiutata a sistemarsi, tranquillizandola. Era molto agitata alla prospettiva di quell’incontro, perché temeva che quanto successo poco prima potesse minare per sempre il rapporto con la nuova consorte del fratellino, oppure con i nipoti che sarebbero nati.
Era stato difficile, ma alla fine Miroku stesso era andato a chiamarli e aveva fatto in modo che potessero accomodarsi nel salone. Le gemelle, una volta capito che era una questione da adulti, erano sgattaiolate in giardino; forse, visto che la sera era ancora lontana, si sarebbero messe a giocare nei campi, dove per altro si potevano trovare tutti gli altri bambini.
Kohaku le aveva salutate brevemente, con un sorriso e qualche parola dolce. Senza farsi notare, aveva dato ad ognuna un paio di dolci allo zucchero di canna, tipici delle zone montane dove ormai abitava, assicurandosi la loro fedeltà incondizionata.
Nessuno, a parte quella breve interruzione, aveva trovato il coraggio di dire altro. La giovane moglie manteneva la propria posa rigidamente, rispettando ineccepibilmente l’etichetta dell’educazione, mentre anche Kohaku sembrava seduto su un letto di spine. Aveva la schiena dritta e le spalle fiere, più larghe di quanto Sango ricordasse.
Miroku, di fianco a lei, la guardava preoccupato, ma lei non vi badava. Era concentrata sul fratello ma, per non sembrare scortese, non manteneva gli occhi fissi solo su di lui.
Com’era prevedibile, fu il monaco che, con tono gentile, si rivolse ad entrambi, spezzando il nervosismo.
-Possiamo sapere cosa…cosa è accaduto nel periodo in cui sei stato via, Kohaku? Sai, ci hai colti un po’ di sorpresa. Quando arrivi qui per la prima volta eri ancora un ragazzino, e dopo fai ritorno con una bellissima signorina al tuo fianco!
L’esclamazione non era cattiva, ma Sango lo fulminò ugualmente con un’occhiataccia. La sposa arrossì, sorridendo leggermente. Aveva una voce sottile che aveva usato solo per salutare.
Il ragazzo si schiarì la voce, imbarazzato.
-Ecco…inanzitutto vorrei scusarmi con entrambi per aver taciuto al riguardo. Da questo mio comportamento è sembrato quasi che me ne vergognassi, ma in realtà non è affatto così. Se non ho detto niente, è perché mi è stato impedito.
-Impedito? – chiese la sorella, con un sopracciglio sollevato.
-Scusate se mi intrometto… - disse timidamente la ragazza, - ma mi sento in dovere di spiegare. Posso?
-Naturalmente! – esclamò Miroku, invitandola a continuare. Sango assentì.
-Io sono nata fra le montagne, molto più a nord di qualsiasi altro insediamento. Siamo una comunità solitaria, che non vede gli stranieri di buon grado: chi riesce a raggiungere i nostri territori, raramente porta buone notizie.
I due coniugi annuirono per far capire che la seguivano, e lei continuò.
-Mio padre, il capovillaggio, decise comunque di far crescere me e i miei fratelli con una mentalità più aperta, meno legata alle tradizioni, perché capiva che il benessere del nostro popolo era a rischio, e che presto ci sarebbe stato bisogno di emigrare altrove.
-Come mai vi sentivate in pericolo? – domandò Sango.
La giovane fece una piccola smorfia che, accopagnata dalla sua voce sottile, la fece apparire quasi una bambina.
-Demoni – disse. Non ci fu bisogno di dire altro.
Dopo Naraku, infatti, i posti preferiti dalle creature demoniache erano state le montagne. Sulle vette c’erano pochi monasteri e ancor meno luoghi di purificazione, inoltre alcuni gruppi di umani sedentari o nobili vivevano da quelle parti e, privi della protezione che si poteva ottenere in pianura, erano facili prede.
-È stato per questo che noi Sterminatori ci siamo spinti così lontano – intervenne Kohaku. –Alcune popolazioni ci avevano chiesto aiuto, ma con il loro villaggio c’è stato un equivoco.
La ragazza storse il naso: -Un equivoco che poteva essere fatale; nessuno riusciva a capire come avessero potuto viaggiare con simili bufere di neve, e da quel che sapevano l’ordine non esisteva più, quindi credettero di avere di fronte dei demoni travestiti. Per decisione di mio padre, tutti i nuovi guerrieri arrivati vennero trattenuti in prigionia per quasi quattro mesi, in attesa che arrivasse un sigillo ufficiale da parte dei gruppi che erano stati aiutati.
-Ma quei capivillaggio erano in litigio fra loro per questioni irrisorie e non volevano più incontrarsi nemmeno per stilare una pergamena di presentazione – aggiunse Kohaku, mordendosi il labbro inferiore.
La sua sposa abbassò tristemente il capo.
-Quindi era per questo che non sei riuscito a dare tue notizie? – volle sapere Sango, con un filo di voce.
Il giovane annuì, con una pena sincera negli occhi. –Mi dispiace – mormorò.
A dire il vero, quella dispiaciuta era la sorella. Per settimane e settimane l’aveva accusato di essere stato egoista, di averla dimenticata, di essersi completamente perso nei suoi sogni di gloria. L’ansia per la sua salute era stata accompagnata da un terribile e puntiglioso sospetto, che aveva minato quella che era la genuina preoccupazione riguardo alle sue condizioni.
Mentre lei era intimamente offesa da questo comportamento, il fratello che aveva giurato di proteggere era stato rinchiuso come un criminale nelle segrete di un posto sperduto, in mezzo alla neve e al ghiaccio, in balia delle decisioni di uomini solitari, guerrieri inaspriti da antiche tradizioni e assurde alleanze arcaiche.
-Mi pare di aver capito che è stato per questo che non hai più avuto modo di scrivere. Ma c’è ancora una cosa che non capisco: come hai fatto a sposare la figlia del tuo più acerrimo nemico? – osservò Miroku, interessato.
-Beh… - arrossì lui, balbettando leggermente, - a dire il vero alla fine la questione fu chiarita, circa dopo sei mesi di permanenza, e per sdebitarsi l’uomo mi offrì la mano di una nobile vedova, sua zia.
Sua moglie tossicchiò leggermente, prima di affrettarsi a spiegare.
-Mio padre è sempre stato un uomo terribilmente geloso delle proprie figlie. Io ho due sorelle, di cui una sposata: suo marito dovette giurare completa fedeltà al popolo, e venne accolto solo perché era nato e cresciuto fra mura domestiche, e lo conoscevamo da sempre.
Il monaco rabbrividì, ma non aggiunse nulla.
-Insomma…io non avevo mai visto quella donna – spiegò Kohaku. –Però durante la prigionia, Asuka* ci portava sempre da mangiare e ci faceva compagnia.
-Era raro trovare stranieri dalle nostre parti – si giustificò l’interessata, arrossendo.
-Dunque è così che vi chiamate – constatò Sango, con un sorriso dolce.
Mentre i due si alternavano nella storia, infatti, aveva notato quanto fossero simili. Timidi, impacciati, ancora profondamente e teneramente giovani, uniti da strane coincidenze del fato. All’apparenza, si sarebbe detto che Asuka fosse una delle tante nobili altezzose tanto comuni a quell’epoca, ma non era affatto così: oltre che estremamente educata, la ragazza non era un tipo difficile da prendere in simpatia grazie anche alla sua semplicità.
A quelle parole, lei arrossì ancora più vistosamente, ispirando un grande senso di protezione nei suoi confronti. Per certi versi, le ricordava Rin.
-Oh, perdonate la mia maleducazione, vi prego! – esclamò, inchinandosi profondamente.
-Non importa – la fermò Miroku, sorpreso. –Non ve ne abbiamo lasciato il tempo. Prego, continuate con il racconto. Ci avete incuriosito.
Lei si scusò ancora una volta, umilmente, prima di lasciare che Kohaku continuasse a parlare.
 -Comunque fosse, la signora in questione morì di tubercolosi pochi giorni dopo. Aveva un figlio della mia età che ci ha seguito al villaggio.
-E la Nobile Asuka? Come avete fatto a convincere suo padre? – insistette Miroku.
-Ci pensò mio fratello maggiore – ammise l’interessata, mestamente, - nutriva una profonda venerazione per lo scopo di Kohaku.
-Beh, non esageriamo – si schermì il ragazzo, grattandosi imbarazzato la nuca.
-Sì, invece è così! – rimarcò la ragazza, - Da noi nessuno aveva mai avuto il coraggio di opporsi ai demoni!
I due coniugi guardarono i giovani vedendoci, forse, una copia di loro stessi. Erano sposati da quasi quattro anni, ma ad entrambi pareva ancora di aver indossato le vesti da cerimonia soltanto il giorno prima.
-Quindi vi siete sposati – Sango riprese gentilmente il filo del discorso.
-Esatto – assentì lui. –Decidemmo di seguire il rituale della regione. Esso prevede una complicata fase di preghiera al tempio e poi l’immediata assegnazione di una casa per gli sposi.
-Ma noi non potevamo – mormorò Asuka, - Kohaku doveva continuare la sua missione e io, in quanto sua moglie, l’avrei dovuto seguire.
Sango, sentendo quelle parole, si accorse di quale amore incondizionato la ragazza nutrisse verso suo fratello. Era stata disposta ad abbandonare la terra dov’era nata e cresciuta pur di seguire il marito, di lasciar perdere le tradizioni e di perdere per sempre la possibilità di una vita tranquilla, sedentaria e sicura.
Non era una scelta facile da compiere per una ragazza sposata da poco, soprattutto se aveva sempre vissuto in un universo ristretto come poteva esserlo quello di un villaggio in montagna. Inoltre, essendo la figlia di un capo, doveva dare l’esempio anche a tutte le altre giovani spose, e di certo non sarebbe stata un simbolo gradito da ricordare per la comunità intera.
Questo le fece venire in mente una storia simile, avvenuta tanti anni prima nell’antico villaggio degli sterminatori.
Un giovane ragazzo di nome Saske, una recluta che non apparteneva alla tribù dalla nascita, si innamorò di una giovane principessa durante una missione. La ragazza lo ricambiava con uguale fervore ma, a causa di rigide regole sociali, era impossibilitata a seguirlo. Per questo, ci furono diverse dispute fra lui e la famiglia nobile, che minacciò persino di rovinare il buon nome degli sterminatori in caso di rapimento della giovane.
Era stata una scelta difficile, ma alla fine il padre di Sango aveva permesso alla ragazza, nonostante fosse una “comune”, cioè incapace di combattere, di venire a vivere nel villaggio. Il padre di lei non vide mai la scelta di buon occhio, ma non poté rammaricarsi più di tanto: morì da cavallo un paio di settimane dopo, e la figlia indossò le vesti del lutto ancor prima di quelle del matrimonio.
Alla fine Saske ebbe sei figli, tutti maschi, che allevò personalmente e divennero componenti della cerchia più fidata di combattenti, della quale faceva parte la stessa Sango. Quella terribile notte, furono fra gli ultimi a cedere, fieramente affiancati da loro vecchio padre.
Tornò al presente, faticando a reprimere la nostalgia. Miroku, che la conosceva bene, si permise di stringerle la mano, e non fece il minimo cenno di volerla ritirare.
-Questo spiega perché non ho potuto avvertirti, sorella mia.
-In che senso? – domandò lei.
-Per la legge del villaggio, se un rituale religioso viene eseguito senza poter essere rispettato in tutte le proprie fasi, viene giudicato imperfetto, e pertanto va tenuto nascosto – puntualizzò Miroku.
Tutti lo guardarono con una sorpresa sincera nello sguardo, come se davvero non credessero che l’uomo potesse essere informato in merito.
-Beh? Che c’è? Sono pur sempre un monaco, no? – si difese.
-Il signor Miroku ha ragione – intervenne Asuka. –Ci hanno vietato di dirlo a qualsiasi persona al di fuori del villaggio. Ho potuto seguire Kohaku solo dopo aver ricevuto la benedizione di mio padre: disse che mi voleva bene, e che l’importante era che fossi felice.
-Abbiamo promesso di tornare una volta ogni due primavere, come minimo – aggiunse Kohaku.
-Mi pare sensato – annuì Sango.
Ci fu un attimo di silenzio.
-Ora vivete al villaggio degli sterminatori? – si informò Sango.
Entrambi i giovani annuirono.
-E aspettate un bambino – concluse Miroku.
Asuka arrossì, guardando Kohaku di sottecchi.
 –Quindi ve l’ha già detto – mormorò, accarezzandosi piano il ventre ancora liscio, sotto la stoffa di un bel azzurro tenue.
-Già – disse allegramente Miroku, prendendo la bottiglia del sakè da un mobile lì vicino, -quindi direi che è il momento di festeggiare!
Sango sorrise: -Per te è sempre il momento di festeggiare.
-E allora? – chiese il marito, sopreso –Che male c’è?
I due novelli sposi si sorrisero, poi Kohaku prese la parola a nome anche di Asuka.
-Scusateci, ma vorremmo chiedervi una cosa importante. Sango, tu sei l’unica persona che mi rimane. Abbiamo promesso al capovillaggio che avremmo completato il rito una volta arrivati a casa della mia famiglia. Se ci sarà possibile, saremmo lieti di ottenere la tua benedizione.
Detto questo, chinò umilmente il capo e, accanto a lui, Asuka fece lo stesso, con la stessa grazia di un fiore primaverile.
Sango si portò una mano all’altezza del cuore, sinceramente sorpresa. In genere, quello che era un compito che spettava al padre dei due coniugi; ma, come aveva detto anche il fratello, lei era l’unica rimasta della famiglia, e lui la riconosceva come una persona di “casa propria”. Non avevano scelto di celebrare le nozze al villaggio degli sterminatori, bensì a Musashi, dove viveva Sango.
E questa era la cosa più bella che qualcuno le avesse mai detto da tanto, troppo tempo. Grazie a quella semplice e rispettosa frase, Sango capì quanto Kohaku fosse importante per lei, e quale compito rivestisse nella vita del ragazzo.
Sorrise con tutto il cuore: -Ne sarei davvero onorata.
Anche i due giovani ricambiarono, sollevati, il sorriso, mentre Miroku versava il sakè. Si trattenne nell’innaffiare d’alcool anche Asuka, dandole invece del thè caldo appena fatto.
In quello stesso momento, sentirono un bussare discreto alla porta, mentre Kagome annunciava a gran voce la sua presenza.
-Sango! Miroku! Sono io, Kagome!
Senza aspettare altri convenevoli, si sentì una serie di borbottii e i pannelli scorrevoli si aprirono, rivelando il viso di Inuyasha, che aveva conosciuto umori migliori.
-Inuyasha! Sei venuto per unirti ai festeggiamenti? – chiese Miroku, allegro. Il giovane ricambiò con un mugugno decisamente poco convinto.
-E scansati! – intervenne Kagome, dandogli una leggera pacca sulla spalla e invadendo la loro visuale.
-Scusate per l’intrusione – esordì, notando Kohaku e una giovane sconosciuta al suo fianco, che pensò dovesse essere la famosa consorte, -ma volevo solo avvertirvi che Rin ha partorito!
Gli occhi di Kohaku si illuminarono: -Davvero?
-Tsk! – rispose Inuyasha, truce, mormorando qualcosa a proposito di “quell’imbecille”.
-Stavamo giusto cominciando a brindare alla salute – osservò il monaco, evidentemente di spirito allegro, -quindi credo proprio che i Kami abbiamo voluto farci un regalo!
Anche Sango sembrava sollevata: -Stanno bene, vero?
La giovane donna, al settimo cielo come se il figlio fosse suo, annuì, mentre Inuyasha si appoggiò al pannello esterno mettendo il muso.
-Direi allora di andare a trovarla – propose Kohaku.
Poi, chinandosi leggermente verso l’orecchio della moglie, le bisbigliò: -Vieni; devo farti conoscere una persona speciale.
 
*Asuka – “Il profumo del domani”. 

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Capitolo 56
*** Amore incondizionato ***


Rin aveva pensato, inizialmente, che la guaritrice che aveva portato il messaggio sarebbe morta.
Il singolo fremito delle labbra di Sesshomaru lasciava presagire la fine imminente di quella vita umana, con conseguente spargimento di sangue e soddisfazione assassina in fondo al suo sguardo, ma non successe nulla. Per attimi interminabili, il demone fissò la donna con un disprezzo totale nelle iridi ambrate, e sembrò trovare la calma solo quando si soffermò sul viso dell’amata, sbigottita e nell’attesa di una carneficina.
L’unica altra volta in cui aveva avuto a che fare con Miyasama, Sesshomaru aveva raso al suolo un castello, ustionato gravemente un centinaio di feriti e ucciso decine di servitori. Le ricostruzioni del palazzo si stavano ultimando, e forse era per quello che il principe era tornato in circolazione: non poteva esserne sicura vista la prolungata assenza, ma era dell’idea che ormai la residenza fosse già abitabile.
Il viso innocente di Inuichi immerso nel sonno rimaneva ignaro di tutto il resto. L’ondata di protezione nei suoi confronti fu tale da convincerla a riprenderlo in braccio, onde evitare qualsiasi incidente, e di dire a Sesshomaru con tono calmo che era tutto a posto, e che avrebbe risolto con la forza delle parole la questione una volta per tutte.
-Lascia che la donna prenda il bambino – aveva stabilito, perentoriamente, - non voglio che quel cane lo veda.
E così era stato: anche se a malincuore, la ragazza si era affrettata a soddisfare i suoi desideri. Baciò il piccolo sulla fronte e lo affidò alle cure della guaritrice, che le giurò che l’avrebbe portato nell’altra stanza per finire i controlli sulla sua salute.
Il demone era uscito senza aggiungere altro. Aveva rinfoderato Tenseiga e, come per farle capire che i suoi occhi non avrebbero ritenuto i muri un ostacolo degno di nota alla sua sorveglianza, e le aveva lanciato un’occhiata penetrante che le si bloccò addosso come un tatuaggio.
In quel preciso istante, la porta ebbe uno scatto, un minimo rumore che la fece sussultare. Quand’era uscita, la guaritrice l’aveva chiusa, ed era passato qualche minuto prima che le acque si smuovessero.
Il pannello scorrevole si aprì del tutto, rivelando una figura oltre la porta: grazie alle imposte spalancate e alla luce comunque parecchio evidente dell’esterno, Rin poté osservare chiaramente la foggia pregiata degli abiti, le piegature impeccabili del kimono, la morbidezza della stoffa dei pantaloni, l’eleganza dei disegni impressi sulla casacca maschile e scura.
Impossibile che il principe Miyasama passasse inosservato in mezzo alla folla. La ragazza si sorprese di come vide nuovamente il suo viso, perché le pareva di averlo quasi del tutto dimenticato. Certo, avrebbe saputo riconoscerlo, ma mai avrebbe potuto ricostruire i suoi connotati con matematica certezza.
Era dimagrito molto, in seguito al disastro al castello, e il suo fisico già di per sé asciutto sfiorava lo scheletrico. Questo aveva accentuato i tratti del viso, rendendo gli zigomi più appuntiti e gli occhi dal taglio decisamente e incofondibilmente orientale, obliquo. I capelli erano raccolti in una sorta di treccia sulla nuca, ma erano mutati anch’essi: più corti, forse a causa delle punte rovinate dal fuoco, e con qualche riflesso più scuro di quanto lo ricordasse. Un ciuffo folto gli ricopriva la fronte liscia, ma l’arco delle sopracciglia si poteva facilmente indovinare lo stesso, a causa del movimento che assecondava l’espressione pacata dello sguardo.
Ora che poteva osservarlo meglio, Rin si rese conto che era davvero bello. Trattò la considerazione come un fatto oggettivo, e nulla di più; in confronto a Sesshomaru, anche lui sarebbe sembrato un contadino.
Il principe, non appena vide la ragazza, si inchinò educatamente, piegando il capo. Rin si affrettò ad imitarlo, senza guardare volotariamente l’uomo, che stava chiudendo la porta e le si stava affiancando.
Le si sedette vicino, ma non troppo, con distaccata ed impeccabile cortesia. Non cercò il contatto fisico né tantomeno il discorso di circostanza, e lasciò che la sua voce vibrasse cortese e soave così come la ricordava.
La prima volta che la ragazza l’aveva sentita, era sotto effetto di droghe. Forse era per questo che le era rimasta particolarmente impressa, a differenza di tutto il resto.
-Buongiorno, nobile Rin – disse.
-Buongiorno a voi, nobile Miyasama. Che i kami portino felicità nella vostra famiglia – recitò. Nei mesi in cui era stata costretta a letto, aveva imparato che era quella la formula da rivolgere quando si è al cospetto di una persona di rango superiore.
Solo che, finchè l’uomo stava seduto come una persona qualunque, si poteva quasi dire che quella a sembrare una donna altolocata era lei.
Lui fece un gesto con la mano. –Vi prego, non serve che siate così formale.
Rin abbassò il capo. –Mi dispiace di non avere nulla da offrirvi.
Il principe, sorprendentemente, accennò ad una risata triste, quasi priva di gioia.
-È comprensibile, nobile Rin. No, non agitatevi: dovete riposare. State pure distesa, prometto di non disturbarvi oltre – con la sola voce, scoraggio l’intenzione della ragazza di mettersi seduta sui talloni fuori dal futon.
Stare vicina a quell’uomo, dopo tutto quello che era successo, le creava un certo disagio, quasi una sorta di imbarazzo difficile da scacciare via. Non era affatto colpa del principe, perché si stava sforzando di essere naturale con tutte le proprie forze, ottenendo risultati ammirevoli, però la ragazza non poteva semplicemente tralasciare tutto ciò che era accaduto nello spazio fra la loro prima visita e questa.
Quella strana cortesia era forse peggio di un insulto vero e proprio: se avesse cominciato a lanciare ingiurie verso di lei non si sarebbe offesa, ma solo sentita sollevata. Invece, così facendo, le sue intenzioni di certo non bellicose nei suoi confronti erano incredibilmente difficili da indovinare, e la stavano esasperando come non credeva possibile.
In genere era abituata a decifrare i comportamenti delle persone taciturne. Aveva passato così tanto tempo al fianco di Sesshomaru che ormai un umano un po’ orginale appariva come niente, al confronto; tuttavia sapeva bene che Hakihito Miyasama non era affatto una persona silenziosa qualsiasi, e che la sua innata gentilezza ed educazione costituivano solo uno strato esterno della sua personalità, solo che non lo conosceva abbastanza bene da poter dare un responso attendibile.
Inoltre si sentiva incredibilmente a disagio, avrebbe voluto sparire. E questo era forse l’intralcio maggiore alla sua concentrazione, già messa alle strette dalla sorpresa.
Dal momento che il silenzio stava diventando minacciosamente lungo e denso, tanto che poteva far pensare ad una situazione che si sarebbe protratta per tutta la durata della visita, Rin decise di prendere in mano le redini del discorso.
Lei non aveva mai avuto nulla contro Miyasama. Certo, era rimasta a lungo infuriata con lui per l’oltraggio subito, ma conoscendolo anche solo in minima parte aveva potuto cogliere la sua sensibilità ferita, e il disperato bisogno d’amore. Gli credeva quando diceva che il suo ordine non era stato tanto brutale, e non esitava a ritenere vera la frase che le disse una volta, ovvero che se avesse saputo che lei era già innamorata di un altro l’avrebbe lasciata in pace.
Fu per questo che cercò di farlo sentire a proprio agio e, di conseguenza, di tranquillizzare anche sé stessa.
-Scusate, ma proprio non capisco cosa vi ha spinto a venire qui oggi.
Si morse il labbro: era stata troppo maleducata, lo sapeva. A differenza di quello che si aspettava, però, il principe ridacchiò silenziosamente, guardandola dritta negli occhi.
-Ammiro la vostra sincerità, nobile Rin. Questo mi ha tolto dall’imbarazzo dal continuare un silenzio già di per sé insostenibile; avete perfettamente ragione a pormi questo quesito, è vostro diritto. Sono sicuro che siete già abbastanza provata per conto vostro senza che si aggiunga anche questo colloquio. Ebbene, nobile Rin, sono venuto qui, oggi, per darvi le mie più sincere felicitazioni.
Lo disse con un tono che voleva essere affabile, ma che risultò soltanto spento, pieno di rimpianti e colmo di tristezza. Anche con un solo sguardo di poteva capire che Miyasama era un uomo profondamente infelice, e che della sua vita aveva decimato le gioie solo per potersi rintanare nel dolore, sentimento a lui molto più familiare della contentezza.
Vedendo l’espressione sbigottita della ragazza, il principe si sentì in dovere di continuare.
-Ho saputo da uno dei carpentieri del palazzo che voi eravate rimasta incinta. Spero che possiate perdonarmi, ma ho chiesto a quel buon uomo di darmi vostre notizie. Ho appreso del vostro malessere e delle vostre precarie condizioni di salute, e mi sono permesso di pregare per la vostra anima.
L’uomo abbasso il capo, con un sorriso dipinto nell’amarezza: -Credetemi, ero disperato per le vostre sorti. Ho provato ad inviare qui i medici migliori che io conosca, e la signora che si prende tutt’ora cura di voi è al mio servizio. Mi dispiace immesamente se vi ho recato una qualsivoglia offesa.
Rin non riusciva a parlare, non era capace di dire niente. Si sentiva fiacca e intorpidita, ma soprattutto sorpresa. In un certo modo, il comportamento così devoto del principe la lasciava avvolta nello sbigottimento totale, poiché non riusciva a capire cosa potesse aver spinto l’uomo a prendersi così tenacemente cura di lei, nonostante tutto il male arrecatogli.
Se aveva capito bene, il ragazzo che aveva di fronte aveva fatto di tutto per assicurarsi della buona salute della donna che amava e del figlio di lei avuto da un demone, dopo essere stato rifiutato con tanto di castello distrutto, servi uccisi e territorio bruciato dalle fiamme.
-G…grazie – balbettò. –Non era necessario prendervi un così eccessivo disturbo.
-Invece sì, credetemi – rimarcò il giovane, con quella che poteva assomgliare a veemenza.
Rin non riuscì a contraddirlo: per la prima volta sembrava sicuro di qualcosa, e non voleva gettarlo ancora di più nello sconforto.
Mentre il silenzio si addensava di nuovo, nella stanza, la donna si prese alcuni minuti per pensare a quanto stava succedendo. Il cuore le batteva nel petto al pensiero che Sesshomaru non fosse d’accordo di quella riunione, ma d’altra parte non poteva sottrarsi: le parve anche giusto che chiudesse i conti con il principe, dal momento che se aveva sofferto era stata anche causa sua.
Inoltre si sentiva confusa ed amareggiata. L’assenza di suo figlio fra le proprie braccia òle faceva male come una ferita. Forse, vedere il viso del bambino l’avrebbe fatta sentire più tranquilla; non le piaceva l’idea di quell’allontanamento improvviso immediatamente dopo il parto, e sentiva un disperato bisogno di riposo.
-Come…come procede la ricostruzione del castello? – chiese lei ad un tratto, deglutendo. Era una cosa che le interessava molto sapere ma, per ovvi motivi, non aveva mai potuto chiedere a Sesshomaru di andare a verificare i lavori per lei.
E poi le pareva che parlando il tempo facesse meno fatica a scorrere. Anche perché, dalla posa apparentemente rilassata del giovane, sembrava che non avesse nessuna intenzione di fare in fretta.
-Bene, molto bene. Oserei dire ottimamente – commentò.
Poi le sorrise: -Ho saputo che avete partecipato attivamente alla ricostruzione.
Rin arrossì. –Sì…sì, ecco, io…me ne sentivo quasi in dovere.
-Non dovevate assolutamente – l’espressione del nobile si fece seria tutta d’un colpo. –Nobile Rin…dopo quello che è accaduto mi sono preso del tempo per pensare. È vero: possiedo grandi ricchezze, diverse lussuose dimore, abiti, gioielli, servitù…tutto quanto ciò che un uomo può desiderare. Ma ho commesso un’ingiustizia nei vostri confronti, e l’esito è stato totalmente meritato da parte mia.
La ragazza non si aspettava un discorso del genere. Che fosse venuto per assumersi delle stupide colpe? Che si accusasse dell’aventatezza di Sesshomaru, che aveva decisamente esagerato?
-Non dite così, vi prego – lo fermò sul nascere. –È stata interamente colpa mia. Davvero.
Miyasama la guardò intesamente negli occhi. –Non avevo nessun diritto di trattarvi come ho fatto. Sono stato una bestia; vi prego di accettare almeno le mie scuse per quanto accaduto.
Questo discorso la imbarazzava.  Ad un ascoltatore spietato, molto più di lei, non sarebbe stato difficile concordare con quelle parole, e lasciarsi persuadere dall’implicita lusinga che derivava dall’essere dalla parte della ragione. Tuttavia la ragazza era sinceramente dispiaciuta della piega drastica che la faccenda aveva assunto, e si sentiva talmente colpevole da avere le persone defunte sulla coscienza.
In fondo, si diceva, se si fosse rassegnata chinando il capo al suo destino, nessuno sarebbe morto; o meglio: nessuno sarebbe morto così presto. Bastava semplicemente persuadere Sesshomaru che la sua era una scelta consapevole e lui, che aveva sempre pensato al suo bene prima di tutto, l’avrebbe lasciata in pace al castello.
Ma era una bugia bella e buona raccontata alla sua anima, per sentirsi in pace. Non avrebbe resistito un solo giorno lontana dal suo principe, dal ricordo del suo volto e del suo respiro. Inoltre, se non avesse lottato con tutte le proprie forze, ora non sarebbe stata madre di Inuichi, quella splendida creatura che non vedeva l’ora di riabbracciare.
-Servirebbe a farvi felice? – mormorò dopo aver riflettuto. Cosa le costava dare un po’ di serenità al principe?
-Sì – rispose, senza esitazione alcuna.
-Allora considerate la faccenda risolta, da parte mia, e le vostre scuse completamente accolte.
Il ragazzo le sorrise piano, velatamente, poi si perse a contemplare la stanza della ragazza, osservando i dettagli senza nessuna espressione in particolare.
-Sicura di non voler essere trasferita in una stanza più degna alle vostre condizioni? – chiese lui.
Suo malgrado, Rin si ritrovò a sorridere. Parlò con voce calma, stanca e anche vagamente divertita.
-No, davvero, va bene così. Forse siete voi a vedermi in modo diverso, ma io sono una semplicissima levatrice.
Miyasama sembrò avere qualcosa da dire al riguardo, ma rimase in silenzio. Smise di soffermarsi sui mobili e, all’improvviso, si fece serio. Le prese la mano con fermezza e una strana delicatezza, e la guardò dritta negli occhi: Rin rimase così sorpresa da non trovare il coraggio di muoversi, e rimase ferma a sentire le parole addolorate del principe.
-Nobile Rin, forse non mi crederete mai, ma io vi amo davvero. Sono stato diverse notti credendo di impazzire prima di farvi condurre al castello, e vedendo le vostre condizioni avrei voluto strapparmi via la pelle dal corpo, ve lo giuro. Avete scelto la via più ardua da seguire, ovvero l’amore per una creatura sanguinaria come può esserlo il vostro consorte, ma volevo soltanto dirvi che il mio cuore è ora in pace nel vedervi felice. Tutto quanto ciò che posso chiedere ai Kami è che voi possiate essere la sposa più amata dell’universo.
La ragazza schiuse le labbra dalla sorpresa, ma lo lasciò continuare.
-Voi e vostro figlio occuperete sempre un posto d’onore nei miei affetti. Qualsiasi cosa dovesse servirvi, qualsiasi scherzo la vita dovesse giocarvi, non abbiate nessun timore di presentarvi da me e chiedere aiuto: non esiste niente di mio che non sia anche vostro.
Lo disse con un tale fervore nella voce che la ragazza ne fu quasi spaventata. Davvero l’amore, la dedizione e la passione di Miyasama arrivavano a quel punto? Fino ad amare un mezzo-demone che non era nemmeno figlio suo?
-S…signore, i..io… - balbettò, ma in realtà non sapeva nemmeno cosa desiderasse dire.
-Non importa – la zittì lui, dolcemente. Ritirò le mani dalle sue e lasciò che riappoggiasse i polsi sul suo grembo, senza cercare di toccarla oltre.
Sembrò ritrovare un contegno. –Alla fine, fra nobili si è giunti ad una degna conclusione: la data per il mio prossimo matrimonio è già stata fissata. Si tratta di una pincipessa dell’ovest. Un po’ sciocca, di certo frivola, ma sicuramente molto innamorata.
Suo malgrado, Rin si disse incredibilmente rincuorata da quella nuova notizia, e chinò educatamente il capo.
-Sono contenta di questa vostra lieta notizia – disse, meccanicamente. Anche quella era una frase che aveva sentito spesso. Avrebbe potuto fare di meglio, ma era troppo sollevata per riuscire a pensare lucidamente.
Miyasama fece un sorriso triste. –Questo non cambia affatto quello che provo per voi.
Mosse la manica del proprio kimono in un gesto involontario, mentre prendeva un copricapo che, entrando, portava tenuto sottobraccio. Era elegante, di certo del materiale migliore, ma non esattamente da cerimonia: Rin l’aveva visto addosso ad alcuni feudatari a cavallo, un giorno giù al fiume.
-Ora temo di dovermi congedare. Non vi metterò in imbarazzo chiedendovi di vedere il piccolo, tanto so che il padre non me lo permetterebbe mai.
Era una punta di disprezzo per Sesshomaru quell’intonazione che ne distorceva appena la voce?
-Vi lascio riposare. Quello che avevo intenzione di dirvi ve l’ho detto, e ho potuto constatare con immenso piacere che la vostra grazia si  mantenuta immutata.
Sembrava fosse sul punto di alzarsi, quando ad un tratto sembrò ricordarsi di un cosa.
-Oh, perdonatemi! Ero venuto qui soprattutto per donarvi un pegno – annunciò, aprendo subito una tasca interna del suo elegante kimono da passeggio, da indossare sopra agli abiti usuali.
-Non eravate affatto obbligato, davvero – si affrettò a dire Rin, ma il ragazzo le porse un involucro lo stesso.
-Vi prego di accettarlo. Forse lo considererete un oggetto impertinente, ma mi sono permesso di salvaguardare la salute del piccolo – spiegò.
Rin lo guardò dritto negli occhi, sorpresa: quell’uomo rimaneva per lei un mistero irrisolvibile, tanto che smise persino di preoccuparsi di capire cosa pensava, limitandosi ad accogliere le sue spiazzanti follie quando capitavano.
Non trovò il coraggio di dire nulla e, con tono vagamente imbarazzato, il principe colmò il vuoto di parole con una breve spiegazione.
-È un rosario dalla foggia eccezionale. L’ho fatto forgiare e consacrare personalmente dai migliori monaci itineranti di tutto il Giappone. Si tratta di un manufatto interamentededicato a contenere l’aura demoniaca di vostro figlio, una volta cresciuto, onde evitare che emerga esageramente in superficie e ne divori l’anima.
La ragazza spalancò gli occhi. Cercò di dire qualcosa, ma invano. Cosa poteva aggiungere? Cosa poteva dire? Quali ringraziamenti esistevano per un dono del genere?
Era al corrente di questo problema, poiché una volta si era fermata a chiacchierare con Kagome. L’argomento era rapidamente scivolato su Inuyasha: la donna aveva spiegato a grandi linee in cosa consistevano queste crisi, ma che ormai non ne aveva praticamente più, avendo raggiunto la pace completa. In situazioni di pericolo o di minaccia alla propria o altrui incolumità la vera natura, con l’intento di sopravvivere, sgorgava in tutta la propria ferocia.
Con quel rosario fra le mani, però, poteva ritenersi sicura sul fatto che il figlio non avrebbe mai dovuto conoscere quell’oscura realtà. E tutto per merito di Miyasama.
-Scusate, ma è giunto per me il momento di andare.
Era già in piedi davanti alla porta. La aprì con un movimento lento e misurato, calcandosi il copricapo sui capelli e celandone una parte. Rin parlò in fretta, sapendo che quella sarebbe stata l’ultima volta in vita sua che l’avrebbe visto.
-Addio, nobile Miyasama! – esclamò. –Buona fortuna!
Sentendo questo, il nobile le fece l’ombra di un sorriso. Aveva gli occhi lucidi, ma per la prima volta in vita sua era contento davvero. Qualche secondo dopo, aveva già chiuso la porta dietro di sé, e Rin non l’avrebbe incontrato mai più.
Nel frattempo, invece, Kagome era arrivata davanti alla capanna dove la ragazza riposava. Una giovane assistente aveva chiesto loro di aspettare, poiché la ragazza stava già ricevendo visite.
-Sento il suo odore fetente qua in giro – si lamentò Inuyasha, - Rin non può essere dentro con lui.
Si riferiva al fratellastro. Non si rivolgeva mai a lui direttamente, quand’era infastidito, come se volesse evitare di aggravare ulteriormente il proprio umore con pensieri sgradevoli, quali poteva essere lo stesso Sesshomaru.
Kagome sbuffò sonoramente, dal momento che lo trovava estremamente infantile. Se non avesse avuto Kaori in braccio, l’avrebbe mandato a cuccia senza pensarci su due volte. 
-Comunque sia, tanto vale aspettare – stabilì tranquillamente Miroku. Senza farsi notare dalla moglie, si era portato la bottiglia di sakè da casa, come se fosse pronto ad offrirla alla madre dentro alla capanna.
-Miroku ha ragione – assentì Kohaku. Quando gli occhi si voltarono verso di lui, la giovane ragazza al suo fianco arrossì vistosamente.
Kagome le sorrise maternamente. Aprì la bocca per chiederle qualcosa, ma venne interrotta da uno sbuffo infastidito e seccato di Inuyasha, accompagnato da un’esclamazione decisamente fuori dal suo genere.
Si voltò, seguendo lo sguardo marmoreo degli altri. E davanti ai suoi occhi ci vide Sesshomaru.
Il demone, come al solito, non sembrava affatto intenzionato a parlare con loro. Seguendo la sua natura, non sarebbe stato un problema voltare le spalle al gruppo e sparire, ma qualcosa lo trattenne più del necessario fermo davanti alla casupola.
La sacerdotessa non era brava ad interpretare i suoi stati d’animo, visto che faceva terribilmente fatica anche per quant riguardava Inuyasha, però le parve quasi furente. Insomma, la tipica giornata in cui era meglio lasciarlo stare; sperò vivamente che non c’entrasse affatto con la nascita del figlio.
-Inuyasha – disse lui, seccamente.
Usò un tono così imperioso e vibrante che lo fece assomigliare ad un’ordine. Se quel nome fosse stata un’azione, sicuramente chiunque sarebbe schizzato via per portarla a termine senza un solo lamento.
-Che diavolo c’è?! – disse per tutta risposta il giovane interessato, stizzito.
Un ringhio sottile si formò sulle labbra violacee del demone. Kagome deglutì: se fosse nato uno scontro con sua figlia presente avrebbe ucciso entrambi a mani nude, anche a costo di rendere la bambina orfana di entrambi i genitori.
Un lampo d’odio accese le iridi di Sesshomaru, ma accompagnato da una strana e letale calma. Fece un movimento impercettibile con la testa nella direzione della stanza di Rin, come a volerla indicare; solo un occhio attento avrebbe colto la sottigliezza del gesto e, visto che tutti lo fissavano ad occhi sgranati e sospettosi, non fu difficile indovinare quanto il demone voleva esprimere per l’intero pubblico.
-Prenditi cura di loro mentre sono via – disse, laconicamente.
Poche parole, un onore immenso.
Inuyasha rimase senza parole; Kagome sospirò di sollievo; Miroku inarcò entrambe le sopracciglia; Kohaku ritrasse le dita dal falcetto appuntato alla sua schiena; Sango rimise il coltello al suo posto nella manica, rimettendo in ordine i vari scatti; Asuka si guardò intorno senza capirci molto, ma essendo solo lieta che il misterioso demone se ne fosse andato.
E, prima che chiunque potesse aggiungere altro, Sesshomaru era già sparito.
 
 
ATTENZIONE:
Scusate davvero molto per il ritardo. Consueti blocchi artistici.
Per quanto riguarda la storia, ho una brutta notizia. Per una sorta di fissazione personale, cerco di conclidere ogni mia FF e non con un numero intero di capitoli, oppure un numero che esprima un’esatta metà, come qualcosa che termina in “5”. Lo so, è una cosa strana.
Ecco, semplicemente è arrivato il momento per Fire di conoscere una conclusione. Portarla troppo avanti risulterebbe forzato, e non è ciò che voglio. Pertanto, la storia conoscerà la sua conclusione al capitolo 60.
In quest’ultimo, farò dei ringraziamenti che mi piacerebbe non venissero ignorati. Grazie mille a tutte voi, nel frattempo, per l’affetto dimostratomi fino ad ora; mi avete commossa.
Alla prossima, quindi!
Kisses,
The Queen. 

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Capitolo 57
*** Mute rassicurazioni ***


Nella radura non c’era nessuno; la grande e placida distesa di verde smeraldo era intervellata da qualche piccola e timida margherita, sbocciata grazie all’arrivo della primavera più mite che lui ricordasse da tanto tempo.
Dopo un inverno rigido come quello che era appena trascorso, Inuyasha si sentiva grato di poter vedere di nuovo le chiome degli alberi rifiorire e sentire di nuovo un leggero venticello accarezzargli i capelli. Si sentiva tranquillo e riposato, nonostante non avesse dormito molto.
Era arrivato in quell’ombroso spiazzo da appena qualche minuto, ma già si sentiva irrazionalmente nervoso. Non servì che si guardasse intorno nemmeno per un istante, poiché conosceva il posto a memoria; a passo sicuro, si diresse verso l’albero più alto che c’era fra gli altri, disposti a semi-cerchio per meglio cingere quel posto tranquillo.
Il silenzio fatto di sussurri fra le foglie e placidi movimenti di rami secolari era interrotto solo dai versi incompensibili della piccola Kaori. Da quando aveva imparato come usare la sua vocetta sottile non faceva altro che chiacchierare con chi le capitava a tiro, e sembrava così concentrata sulle proprie parole che spesso Inuyasha si era chiesto se quello che diceva non nascondesse in realtà un significato ben preciso.
Kagome, quella mattina, era stata subito sommersa da diversi impegni più o meno importanti; un paio di signore erano cadute giù al fiume, procurandosi diverse fratture che andavano sistemate. Un bambino molto piccolo aveva una febbre altissima e le sue condizioni di salute erano parecchio incerte. Kaede non riusciva a muoversi a causa del mal di schiena. Jinenji la aspettava per via di certe erbe che doveva procurarle, e il problema della ragazza era che non riusciva a trovare il tempo per fare tutte queste cose insieme.
Per questo motivo il ragazzo aveva approfittato della situazione per prendere la figlia e andare a fare una passeggiata. La vera meta di quella fuga vera e propria non l’aveva detta a nessuno, nemmeno alla sua amata; semplicemente, aveva preso Kaori in braccio, occupata a giocare con alcune ciocche dei suoi capelli, e aveva cominciato a camminare a passo lento, perché aveva paura di spaventare la bambina usando il ritmo con cui di solito trasportava Kagome.
Ora che erano entrambi arrivati dopo quasi un’ora di viaggio, Inuyasha si sentiva meglio. Certo, era agitato per un qualche irrazionale motivo, ma nel complesso quel posto gli infondeva una strana pace dell’anima, che lo faceva sentire teso e rilassato al tempo stesso.
Camminò a passo sicuro sotto la chioma dell’albero imponente, ripensando a tutte le volte che aveva compiuto il medesimo gesto, e si sedette a gambe incrociate davanti ad una lapide scolorita dalle intemperie.
Qualche piccolo rampicante ne rifiniva il bordo, leggermente scheggiato, mentre l’inchiostro che la segnava si stagliava ancora perfettamente leggibile. Attorno, l’erba era ricresciuta in modo uniforme, e accanto era posato un mazzo quasi del tutto disintegrato di fiori appassiti, dai gambi avvizziti e i petali secchi.
Vergognandosi leggermente, si affrettò a sostituire quel misero tributo con un altro di fresco. Aveva scelto dei fiori dalla corolla ampia e i petali di un bel giallo accesso, punteggiato da piccole macchie scure. Avevano un profumo davvero penetrante, che gli stimolava fin troppo le narici; Kagome vi aveva dato un nome, ma non se lo ricordava più.
Nel frattempo, posò con attenzione la piccola Kaori sull’erba vicino a lui, stesa sulla schiena, in modo che la potesse vedere.
Era ancora incredibilmente piccola e fragile, ma i tratti si erano fatti più definiti. Aveva gli occhi grandi e rotondi contornati da ciglia lunghe, mentre le guance paffute erano sempre arricchite da uno splendido colorito roseo, accompagnato da un sorriso privo di denti. L’iride si era scurita in maniera impressionante, diventando di un colore più deciso persino di quello di Kagome.
-Ecco… - disse, impacciato, mentre la sistemava sull’erba. –Fatto.
La piccola lo stava guardando, incuriosita. Sembrava fissarlo con una punta interrogativa, tanto che lui arrossì.
Sulla cima della testa la bambina aveva un piccolo fiocco che la madre aveva fatto per lei. Kagome si divertiva molto a vestire la figlia con abiti sgargianti e minuscoli oggetti di quel tipo, tanto da renderla quasi simile ad una bambola.
Inuyasha non poteva dire di essere categoricamente contrario a questa cosa, anche perché la piccola rideva e la madre ancora di più, però a volte gli pareva un’attenzione esagerata nei confronti di un’infante, e per questo si imbarazzava nel vedere le diverse acconciature di cui Kaori era vittima. Inoltre, come se ciò non bastasse, le orecchie avevano fatto letteralmente impazzire Kagome; erano i punti più colpiti dalla sua dolce follia materna.
Dal momento che la figlia lo stava guardando più intensamente di prima, a lui parve opportuno fare qualcosa. Con dita esitanti, quindi, spostò la propria attenzione sul fiocco che aveva fra i capelli.
-Adesso togliamo questo coso, eh? – le disse, sentendosi un po’ ridicolo.
Senza sfiorarla con le unghie, sciolse il nodo e lasciò cadere il laccio di stoffa con un leggero fruscio. La bambina era bella anche senza tutti quegli orpelli, e si affrettò a rimuoverne un secondo appuntato al kimono rosa, regalo di Sango.
-Molto meglio – approvò fra sé e sé, ficcandosi le due piccole fascette di stoffa nella tasca interna della manica.
Kaori gli sorrise con un piccolo gridolino entusiasta, e allungò le manine verso di lui. Con una minima esitazione, le porse il proprio indice, e lasciò che la piccola lo scrutasse con curiosità infantile, prima di cominciare a volerlo assaggiare. Come prima, fece attenzione che le unghie fossero fuori dalla sua portata.
Presto, rivolse la propria attenzione alla modesta sepoltura davanti ai suoi occhi.
Izayoi, recitava la scritta sul fronte. Vicino c’era una cancellatura; a causa del disonore di essere stata la madre di un mezzo-demone, quelli della sua casata avevano tolto il cognome affinchè lo scandalo non fosse riconducile a loro.
Quand’era più piccolo, la madre gli aveva detto, con un sorriso sereno, che le sarebbe tanto piaciuto essere seppellita in un posto vicino a suo figlio. Un luogo tranquillo, lontano dalle altre tombe, dove avrebbe potuto godersi il proprio meritato riposo.
Lui aveva fatto di tutto per esaudire i suoi desideri. All’inizio era ancora un bambino ma, poco prima di essere sigillato da Kikyo al Goshinboku, aveva fatto spostare la salma in quel posto che non conosceva praticamente nessuno, e in cui i viaggiatori vi si riposavano di rado. Era infatti circondato su ogni lato da una fitta boscaglia, e non esistevano strade delineate per raggiungerlo.
Lui, grazie al suo grande senso dell’orientamento, non aveva fatto fatica a trovarlo. L’unica cosa di cui si rammaricava era che non era abbastanza vicino al villaggio Musashi, ma non era riuscito a trovare nulla di meglio. Sembrava davvero che lì la pace agognata dalla madre fosse respirabile da ogni singola roccia.
Dopo aver fissato la superficie per un po’, sentì arrivare i ricordi. All’inizio erano piuttosto confusi; si trattava di scene di vita quotidiana, sprazzi di normalità che viveva al castello assieme a lei, mentre altri erano solo lampi improvvisi dove vedeva il suo sorriso, o la pelle di porcellana.
Grazie alla sua straordinaria bellezza, Izayoi non era mai stata vecchia. Il suo incarnato pallido non era mia stato solcato da una sola ruga, nonostante l’espressione perennemente nostalgica facesse in modo che il suo viso bellissimo fosse sempre oscurato da una nube di tristezza.
Era stata una madre amorevole e anche abbastanza presente. Abituata alla vita di palazzo, si era presto lasciata persuadere di vivere nello scandalo, e usciva molto raramente persino nel proprio giardino. Guardava i fiori, ne coglieva qualcuno e si rifugiava nella propria stanza, meditabonda.
Quando pioveva, guardava per ore fuori dalla finestra, e appena tornava il sole usciva sulla veranda per bagnarsi i piedi con l’acqua da poco caduta. Spesso faceva riferimenti velati a suo padre, ma solo per brevi momenti; a lui era sempre sembrato che gli anni non avessero attenuato la sofferenza per la perdita dell’amato.
Izayoi era una donna sola; non aveva amici, confidenti o damigelle. La sua nutrice si prendeva ancora cura di lei, ma con un certo distacco. Spesso, la disincantata distrazione di fanciulla innamorata la portava a dimenticarsi di mangiare, e allora la donna più anziana glielo faceva gentilmente presente con una scodella di riso e un po’ di pesce, ma mai nulla più di questo.
Passava molto tempo davanti alla specchiera solo per pettinarsi, e Inuyasha la guardava sempre, affascinato dai movimenti lenti delle sue mani. Gli occhi di lei vagavano nelle fantasie passate e, nel frattempo, raccontava al figlio storie di dame, di principesse e anche di demoni.
Aveva vissuto dedicandosi interamente ad Inuyasha, e si era donata a lui senza riserve. Faceva di tutto purchè fosse felice, e si occupava della prorpia bellezza affinchè il figlio, e il padre attraverso di lui, non fosse mai deluso dal suo aspetto, né si vergognasse di lei. Insegnò ad Inuyasha tutte le cose che un bambino deve sapere, lo istruì personalmente e lo guardò giocare ogni giorno, fino a quando i suoi occhi non si perdevano all’orizzonte, sembrando superare la cancellata che la divideva dal resto del mondo.
Nonostante tutto, ebbe diversi pretendenti, ma li respinse tutti. Diceva di aver già sofferto abbastanza per amore e di non avere intenzione di farlo per la seconda volta.
Negli anni, quindi, per Inuyasha sua madre divenne una figura eterea, quasi una dea oppure una creatura soprannaturale. Era l’unica persona che amasse, e che avrebbe sempre amato. Fu per questo che, alla sua morte, il terreno sembrò mancargli sotto ai piedi.
Le cause della morte di Izayoi non erano mai state chiare. Essendo la donna ancora giovane e in buona salute, ci si aspettava da lei ancora un lungo percorso di vita. Una mattina, invece, la nutrice aprì la sua stanza per svegliarla e la trovò addormentata più profondamente del solito, con un’espressione serena e la pelle pallida.
Chiamarono un medico, ma non c’era già più nulla da fare; in seguito, Inuyasha venne a sapere in seguito che era raro che la principessa dormisse, poiché passava interamente le ore notturne cercando di disegnare il più fedelmente possibile il viso dell’amato, logorando così la propria salute.
Il ragazzo si consolava pensando che, finalmente, la madre avrebbe potuto dormire in pace. Avevano ritrovato nella sua camera il ritratto più splendido che fosse mai stato fatto su Inu no Taisho, appoggiato sul futon, e così il figlio credette che ormai la donna non aveva più motivi per stare sveglia, visto che aveva realizzato il proprio progetto nel migliore dei modi, e aveva deciso di abbandonarsi per sempre.
 Ora, trovandosi di fronte ad Izayoi dopo una così lunga assenza, provò un certo imbarazzo. Con le storie degli ultimi tempi non aveva mai avuto tempo per andare alla tomba della madre, e se ne vergognava immensamente.
-B…buongiorno, madre – balbettò.
Una volta Miyoga gli aveva detto che parlare con i morti era sempre una buona cosa, perché potevano sentire tutto dall’aldilà. Non avendo particolare fede nelle preghiere, Inuyasha si affidò completamente a quel consiglio per tutti gli anni a venire.
-Perdonate la mia assenza, ma… - deglutì, - … sono successe tantissime cose negli ultimi tempi.
Una sottile brezza proveniente da ovest gli solleticò i capelli, incitandolo a continuare, anche se con tono incerto. Ogni volta che si ritrovava coinvolto in quelle desolanti conversazioni con la madre gli era molto difficile confidarsi apertamente come se nulla fosse, all’inizio. In parte perché era abituato a sentirsi bambino al suo cospetto, in parte perché gli era sempre parso che lei fosse abbastanza assente e distratta, quando si trattava di ascoltare le persone parlare, e nemmeno i suoi sporadici commenti oppure osservazioni finali erano mai riuscite a persuaderlo che non lo stesse ascoltando.
Quell’impressione non era scomparsa. Aveva comunque bisogno di parlarle, visto che era da molto tempo che non onorava decentemente la sua memoria, e decise di fare come aveva sempre fatto: ignorare la sgradevolezza del suono inascoltato delle sue parole e fingere che le orecchie materne fossero pronte a dargli conforto.
-Da…da tempo ormai vivo al villaggio. Sono quattro anni, credo – deglutì sonoramente, mentre Kaori palpava con le sue piccole manine anche la zona del palmo. –La vita scorre tranquillamente. Kaede è ancora viva. È la sorella di…
La voce gli mancò, e lasciò la frase a metà. Era sicuro che la madre sapesse di chi stava parlando, visto che gliel’aveva già nominata diverse volte, in precedenza.
-Ci penso, ogni tanto, a com’è finita, e non riesco ad immaginare qualcosa di diverso. Insomma, le cose sono andate come dovevano andare… credo che non ci fosse mai stato un destino differente da questo.
Si interruppe per guardare il cielo, ma durò solo un attimo.
-Preferisco non serbare troppi ricordi di quel periodo. È una storia triste – concluse. La nostalgia non attecchiva da tempo nel suo cuore quando la sua mente scivolava su Kikyo, e da un lato era molto emglio così.
Certo, riconosceva che la giovane aveva subito una fine ingiusta, ma oramai era troppo tardi per qualsiasi atto di pietà, soprattutto considerando l’innaturale prolungamento di cui la vita della sacerdotessa era stata vittima.
-Kagome, la ragazza del futuro, è tornata da tempo. Quasi un anno, mi pare. Ecco…lei…i..io – balbettò. Prese un attimo di silenzio, terribilmente imbarazzato al pensiero di dover confessare tutto alla madre, ma si fece coraggio.
Ricominciò daccapo: -Io e Kagome viviamo insieme. Abbiamo…abbiamo una figlia, Kaori, e in questo momento lei mi sta… - fece una smorfia -… inondando di saliva. Ma va bene così, credo.
Spostò leggermente il dito per evitare che la piccola si scontrasse con il filo tagliente dell’unghia, e questo suscitò un verso di disappunto. Il genitore, abbastanza maldestramente, si affrettò a porgerle nuovamente l’indice, e la bambina riprese a scrutarlo con un cipiglio alquanto concentrato, intervallando quel minuzioso esame con qualche osservazione incompensibile.
Per qualche momento il ragazzo si perse nel guardarla. Era così assorta e così bella da fargli sembrare che avesse una somiglianza completa con Kagome. Anche lei assumeva quella stessa identica espressione quando si trovava a doversi impegnare, e sembrava non esistesse nient’altro al di fuori del proprio compito.
Kaori aveva i lineamenti del viso molto simili a quelli della madre, e per Inuyasha era un sollievo: crescendo somigliante a Kagome sarebbe stato del tutto certo che sua figlia sarebbe diventata bella.
Si riscosse quando il suo sguardo inciampò nuovamente sulla tomba. Fissando la cancellatura, assunse un’aria meditabonda.
-Il monaco e la sterminatrice ci aiutano molto, madre. Dicono che per loro Kaori è come una figlia; la viziano troppo, secondo me. Le fanno regali e moine di continuo.
Fece una smorfia: -Non so, delle volte ho l’impressione che la trattino come un giocattolo. Tsk! – sbottò, - Più che impressione è una certezza!
Izayoi sembrava fissarlo con una sorta di condiscendenza e divertimento tipicamente materni, soprattutto quando si ha a che fare con le stranezze tipiche dei ragionamenti infantili. Questo lo spinse a cambiare argomento, passando ad una questione che gli premeva particolarmente.
Una volta presa l’intonazione giusta, infatti, quei monologhi che volevano essere dialoghi diventavano estremamente sciolti, e le confidenze fluivano sempre con minore difficoltà. L’unico ascoltatore di cui Inuyasha aveva bisogno era qualcuno che stesse in silenzio, senza dire nulla, e che lo lasciasse riflettere per conto proprio sulle cose che lo affliggevano. Per quanto Kagome fosse perfetta in qualsiasi ruolo, non riusciva mai a raggiungere quell’assoluto e inviolabile silenzio che per Inuyasha era sacro.
Lei era la soluzione giusta quando doveva trovare dei rimedi o dei consigli circa problemi irrisolvibili, poiché riusciva sempre ad imprimere una nota dolce e ragionevole al suo solito temperamento sconsiderato.
-Sapete, madre, circa un mese fa è nato un mezzo-demone, al villaggio – riprese. Osservò le foglie, parlando con tono distante e distaccato.
-Non so dire quale sarà il suo futuro, ma per il momento è molto benvoluto. Kagome è letteralmente impazzita per lui. Si chiama Inuichi. Tsk! Inaudito – borbottò. –È nato da chi non sospettereste mai, ve lo assicuro.
Passò oltre; -Per quanto il padre mi sia sgradito, devo onorare una promessa nei suoi confronti. Devo vegliarlo, lui e sua madre, in attesa del ritorno di suo padre. Sesshomaru – poiché proprio di lui si tratta – è andato a risolvere i suoi affari lì, nelle terre a occidente – disse, stizzito.
-Così mi tocca stare dietro a Rin e alle sue follie! – esclamò. Kaori protestò qualcosa a gran voce e lui si affrettò a placarla tenendola impegnata anche con l’anulare, tanto che presto la sua mano intera si fece umida di saliva.
-Insomma – proseguì, a voce più bassa, - io lo faccio per lei. Mica per quello lì. Sì, lo so cosa avreste detto, madre: è sempre tuo fratello, Inuyasha, devi volergli bene. E so forse meglio di voi che avreste tirato in ballo mio padre. Beh, sarebbe stato inutile! – puntualizzò.
Non vedendo risposta, si convinse a recuperare un contegno. –L’altro giorno quella pazza mi ha fatto fare il giro del villaggio tre volte per andare a trovare tutte le partorienti. Tutte! Erano un’infinità! – lamentò.
-Oppure mi ha portato a lavare i kimono al fiume – continuò, piccato, - e a prepare il thè al posto della moglie del fabbro, rimasta cieca per un qualche incidente. Ma dico io, mi ha scambiato per una massaia?
Le morbide gengive di Kaori si concentrarono ora sulla nocca, portandolo alla realtà. Guardò per un po’ il suo sconclusionato mordicchiare, visto che non aveva denti, e capì che se la stava prendendo per niente. In fondo era stato lui ad aver voluto onorare quel tacito giuramento, no? E poi sarebbe stato solo per il primo periodo; una volta tornata ben salda sulle gambe, Rin si sarebbe arrangiata.
A dire la verità si era sempre sentito abbastanza protettivo verso di lei, forse per capire meglio cosa l’avesse spinta a venerare proprio Sesshomaru. Il tabù era rimasto irrisolto, ma la compagnia della giovane non gli dispiaceva, anche perché si era fatta in quattro per Kaori e più di una volta l’aveva accudita, soprattutto quando Kagome era troppo impegnata e lui assente.
Quindi svolgeva il suo compito con piacere. La cosa più fastidiosa di tutte era, però, fare del bene in nome del fratellastro. Non era mica il suo servo!
-È stupido, lo so – si difese, riferendosi al proprio ragionamento. –Forse…forse ho solo bisogno di un attimo per rifletterci. In fondo lo sapete, come mi ha sempre trattato. Spero capiate che per me è stata una novità.
Silenzio. Il vento si era fatto quasi comprensivo; gli parve che una folata gli accarezzasse la guancia proprio come faceva Izayoi quand’era in vita, e questa sensazione gli impresse così tanta nostalgia che gli fece voglia di essere seppellito lì, accanto a lei, per poter ricordare meglio gli avvenimenti della sua infanzia.
Si sentì un po’ meglio, in effetti. D’altronde sapeva che parlare a sua madre gli faceva sempre bene, quando qualcosa lo tormentava.
-Sapete, nel vostro vecchio palazzo adesso vi abita qualcun altro. Quelli della vostra famiglia sono tutti morti; l’ha comprato un nobile di queste parti, non ho capito bene. Però i vostri fiori, quelli che avete piantato voi, sono ancora lì, tutti quanti. Un po’ meno belli di quando li curavate personalmente, ma profumano esattamente come una volta.
Era certo che a sua madre importasse ben poco di quest’ultima notizia, ma gli parve giusto dirglielo comunque. Nessuno dei due era mai stato particolarmente legato a quella casa, anche perché il resto dei suoi abitanti li aveva confinati in un’ala piccola e disadorna senza rendere loro nessun merito.
Solo i fiori avevano portato una punta di allegria: quando si era messa in testa di piantarli aveva chiesto aiuto ad Inuyasha, ed era stata la prima volta in cui le era parsa del tutto presente e concentrata su di lui e il lavoro che stavano facendo.
Nel frattempo, la piccola aveva abbandonato il suo incessante lavorio per cominciare a fare lo stesso con la propria manina. Lo guardava ad occhi spalancati, magari chiedendosi perché quelle del padre non le erano parse altrettanto morbide e minute.
Inuyasha sospirò impercettibilmente mentre si asciugava le dita sul kimono, ma non si trattenne dal carezzarle piano una guancia paffuta. In fondo l’aveva accompagnato senza fare storie, no?
-Madre…ora, io devo…devo andare, temo – annunciò, imbarazzato. – La strada è lunga e…
Le parole gli morirono in gola, e non cercò nemmeno di trovare una degna continuazione. Lasciò semplicemente la frase in sospeso, galleggiante in quella che sembrava una velata comprensione materna, mista ad una dolce rassegnazione.
Di sua madre rimaneva solo una lapide grigia e qualche foglia d’edera, era vero, ma se pensava a suo padre allora poteva dire che erano comunque spoglie dignitose a cui fare ritorno. Del grande condottiero conservava uno scheletro dalle proporzioni enormi e una spada che faceva da sigillo alla propria crudeltà; nessun ricordo, neanche una parola. Niente di niente.
Prima di alzarsi, però, fu assalito dall’indecisione. Vacillò un solo secondo, poi si risedette.
Lanciò un’occhiata esitante alla figlia: le palpebre le si stavano chiudendo e aveva smesso da qualche minuto la sua continua chiacchierata con sé stessa, tanto che sembrava in procinto di addormentarsi pesantemente.
Inuyasha fu assalito dall’indecisione, ma durò solo un attimo.
-Posso…posso restare un attimo qui con voi? Solo un minuto, promesso – si affrettò a specificare.
Abbassò lo sguardo, fissando l’erba color smeraldo con le guance imporporate. –Ecco, io…mi mancate molto. Spero mi permettiate di rimanere ancora un po’.
Visto che Izayoi non diceva nulla, Inuyasha si sentì autorizzato a rimanere. Inseguì le nuvole con lo sguardo, lasciò che il vento gli scompigliasse i capelli e fece di tutto per ascoltare il respiro della terra, il lento e chieto alternarsi dei raggi solari sul suo viso.
Kaori si addormentò profondamente, la manina ancora in bocca.
Piano, nella sua testa, risuonarono dolcemente le parole che sua madre gli aveva detto, tanti anni prima, e che lo costrinsero a posare la fronte contro la lastra tiepida e solitaria, in un infinito circolo di nostalgia, tristezza e desiderio di continuare ad essere felice.
 
Ti voglio bene, figlio mio…
   
ANGOLO QUEEN:
Buongiorno! Questo capitolo mi ha rubato un po’ più di tempo del previsto, ma ne sono abbastanza soddisfatta. Come credo si possa notare, sto facendo di tutto per allungare la minestra xD
Volevo caricarlo domani, ma visto che è il mio compleanno ho lasciato perdere. Mi sono impegnata un sacco per finirlo e solo per amor vostro! ;)
Sperando che vi sia piaciuto, vi lascio in pace fino al prossimo capitolo!
Kisses :)  

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Capitolo 58
*** Celebrazioni ***


-È stata un’ingiustizia! – disse Kagome, ridendo, e abbracciando affettuosamente Kohaku.
Il ragazzo, imbarazzatissimo nei suoi abiti da cerimonia, rispose impacciato al gesto d’affetto, prima che la sacerdotessa sgusciuasse via per riservare lo stesso trattamento ad Asuka, anch’essa splendida nel kimono migliore che la famiglia avesse potuto offrire.
Entrambi, non potendosi permettere grandi lussi o ricchezze, avevano scelto degli abiti di famiglia, usati e dall’aspetto vissuto, ma comunque molto dignitosi. I colori di lei erano sgargianti come da tradizione, e Sango aveva lavato il kimono del fratello così scrupolosamente che sembrava davvero essere appena uscito dalla bottega di un sarto.
I novelli sposi erano appena usciti dal tempio; circa due mesi prima, la famiglia di lei aveva annunciato un imminente arrivo con tanto di preparativi e organizzazioni, in modo che il matrimonio fosse celebrato al più presto. Erano arrivati circa sette fratelli (sarebbero stati molti di più se uno avesse potuto seguire la famiglia e l’altra non fosse stata contagiata da una brutta influenza), i due genitori e una decina di altri parenti, colmi di doni e premure per la sposa.
Kagome, in quel momento, si riferiva alla clausola della tradizione che vietava l’ingresso al tempio durante la cerimonia a chi non fosse parente degli sposi. Essendo figlia di un’altra epoca, si era ormai abituata all’idea che gli inviti potessero essere estesi a chiunque gli interessati desiderassero, ed era rimasta interdetta quando si era ricordata dell’antica usanza.
Solo Kohaku poteva capire a cosa la ragazza alludesse; Asuka non comprese fino in fondo e le sorrise cortesemente.
-Kagome-chan! – esclamò Sango, scendendo le gradinate tenendosi al braccio di Miroku per non cadere. Indossava delle scarpe dalla suola molto alta, uguali a quelle della sacerdotessa. –Come sei bella!
La ragazza arrossì. Inuyasha non le avrebbe mai detto che pensava lo stesso; quella mattina, quando aveva cominciato a prepararsi scrupolosamente per avere i capelli e il trucco al meglio, l’aveva fissata sbigottito. Non avrebbe mai potuto immaginare che i suoi bei lineamenti semplici potessero trasformarsi in qualcosa di molto più raffinato, quasi elegante.
A causa del suo ruolo aveva dovuto mantenersi sobria, e l’assenza di determinati cosmetici in quell’epoca limitava molto la sua fantasia, però quando finì era comunque raggiante. Scacciò il marito dalla stanza quando si trattò di agghindare a festa anche la bambina, e gli intimò di vestirsi con gli abiti che gli aveva preparato corrompendolo a suon di baci. Si trattava di una tenuta molto sobria, lontana dai colori sgargianti che Inuyasha usava di solito, e della sua taglia; non si chiese nemmeno per un istante dove l’avesse trovata, ma obbedì il più in fretta possibile.
Contro ogni aspettativa, la madre era stata clemente con l’abbigliamento di Kaori: l’aveva fasciata in un kimono rosa a fiori, dono di Sango e Miroku, e aveva appuntato sulla fasciatura centrale un semplice rametto di fiori profumati, che di solito alcune nobili intrecciavano sui capelli.
-Oh, ma cosa dici, Sango! – le disse, abbracciando anche lei, - sei splendida oggi!
Quello, per la donna, era stato un giorno molto speciale. In mancanza dei genitori dello sposo, infatti, lei e Miroku avevano bevuto dalle ciotole di sakè ricoprendo il ruolo di una madre e di un padre per il ragazzo, diventando ufficialmente parte della famiglia anche agli occhi degli altri parenti. Con quel gesto, Miroku aveva rinunciato persino ad officiare il rito, come per adottare il ragazzo come figlio.
-E nemmeno questo demonietto scherza in quanto a splendore – ridacchiò Miroku, dando un buffetto sulla guancia paffuta di Kaori.
La bambina, che avrebbe dovuto compiere un anno entro poco tempo, mosse subito le braccia verso di lui, ridendo, come per volersi far prendere in braccio. Il monaco la prese volentieri dalla stretta di Inuyasha, tenendola con uno sguardo che sprizzava gioia da tutti i pori.
Nel frattempo, Chitose stava avanzando verso di loro con l’uniforme da miko. Di comune accordo con i parenti di Asuka, avevano stabilito che le assistenti dell’officiante sarebbero state una del villaggio Musashi e l’altra di quello della sposa. Per questo, Kaede era stata più che lieta di preparare adeguatamente la candidata adatta con settimane di addestramento, visto che era noto a tutti quali fossero le future aspirazioni della bambina.
Rispettosamente, la piccola si avvicinò alla coppia e si inchinò. –Siete la sposa più bella del mondo – disse, rivolgendosi ad Asuka.
La ragazza le carezzò la testa in un gesto materno: -E voi sarete la sacerdotessa migliore di tutto il villaggio.
Quel gesto fece sorridere Kagome, vista la familiarità che entrambe avevano l’una per l’altra. Chitose era molto riservata per natura, e anche quando la ragazza del futuro era tornata dopo i suoi tre anni di “esilio”, aveva nutrito non poche remore nel fare la conoscenza con lei ma, per fortuna, sembrava che con Asuka non avesse lo stesso problema.
Miroku, brillante d’orgoglio, guardò la figlia con gli occhi lucidi, prima di farle i complimenti per la compostezza che aveva mantenuto durante tutta la cerimonia. Era vero; era stata un’assistente molto preparata nonostante la giovane età, e non si era scomposta nemmeno un attimo. Anche l’altra bambina, Tomoko, era stata una valida aiutante, e si assomigliavano così tanto da poter essere scambiate per parenti.
-Che ne dite se andassimo a festeggiare? – propose Miroku. Anche lui indossava le vesti più eleganti che avesse mai posseduto, e lui e la moglie formavano una coppia luminosa e felice.
-Santo cielo, Miroku, non possiamo aspettare un minuto? – gli fece presente Sango, senz’ombra di irritazione.
-Se fosse per te, mia adorata moglie – commentò il monaco, - il sakè bevuto nel tempio sarebbe più che sufficiente.
I presenti risero. Erano venuti ad assistere ai festeggiamenti anche gli altri Sterminatori sotto il comando di Kohaku. Molti erano dovuti rimanere al villaggio per non lasciare i territori incustoditi, ma avevano promesso un lauto banchetto al ritorno del loro Signore, così come lo chiamavano.
In questo modo, il gruppo aveva potuto conoscere meglio i valenti guerrieri che sempre più spesso si sentivano nominare nei discorsi pieni di lodi in cui erano sempre protagonisti. Le donne indossavano kimono molto austeri, dai colori pacati, mentre gli uomini coprivano le tute da combattimento con delle stoffe più morbide e meno lise del solito, di un color grigio scuro. Era impossibile non riconoscerli ma, a differenza di quello che si poteva pensare, erano di ottima compagnia.
-Ma come, di già? – disse Kagome, sconfortata. –Avete già fatto la cerimonia dei sempreverdi?
Fu Sango ad assentire con un gesto del capo, mentre Kohaku si prese la briga di dirle che l’officiante aveva insistito affinchè fosse tutto svolto nei confini del tempio, per mantenere l’unione pura fino alla fine.
All’improvviso, furono interrotti dalla voce di Rin. Voltandosi all’unisono, poterono notare la ragazza venire verso di loro a passo spedito con un bambino in braccio, sorridendo felice.
Da quando il bambino era nato, Kaede aveva insistito per lasciarla vivere da sola. Alla fine la realizzazione di una nuova casa sarebbe stata troppo impegnativa, e così si era giunti al compromesso di lasciare lei e il figlio in un’ala disabitata da anni della villa del capovillaggio. L’uomo, piuttosto anziano, non era mai riuscito ad occupare tutte le stanze nemmeno quando la moglie era ancora in vita, quindi aveva accettato di buon grado la presenza della ragazza.
Sesshomaru veniva a trovarla ad intervalli regolari. Dopo la nascita di Inuichi, Rin aveva completato il proprio apprendistato e, stando ai patti, avrebbe dovuto scegliere se seguire il demone oppure rimanere a vivere in mezzo agli umani; dal momento che la presenza del bambino non era stata prevista, ora la ragazza si trovava vincolata fra due realtà completamente diverse.
Per il momento, aveva detto, preferiva rimanere lì. Una volta che il figlio fosse cresciuto, però, sarebbe partita con Sesshomaru.
-Kohaku-kun! Asuka-chan! – strillò. Ora che si era avvicinata, tutti potevano notare che reggeva, oltre al piccolo e ignaro Inuichi, un enorme mazzo di fiori profumati.
Da quando aveva cominciato a vivere da sola e a lavorare come levatrice, lontana dalle maldicenze e da qualsiasi sgrabo nei suoi confronti, Rin aveva recuperato il carattere espansivo e solare che l’aveva sempre contraddistinta dagli altri, e si faceva benvolere da tutti.
Inuyasha alzò gli occhi al cielo, sbuffando, prima di camminarle incontro.
-Oh, Inuyasha-kun! – la sentirono urlare, - ma ci sei anche tu! Che eleganza!
-Sì, sì – borbottò il ragazzo, - dà qua!
Le prese i fiori di mano e fece in modo di farle tenere il bambino più saldamente, probabilmente rimproverandola dicendo che “se ti succede qualcosa, quell’idiota mi fa la pelle, hai capito?”
-Inuyasha ha preso la sua promessa molto sul serio, vedo – commentò Miroku, osservando la scena.
Kagome alzò gli occhi al cielo: -A chi lo dici! Non fa altro che lamentarsi!
Sango ridacchiò: -Rin è una donna molto attiva; non dev’essere facile starle dietro.
-Rin-chan ha l’aria di essere una fanciulla molto previdente – osservò Asuka, con la sua solita voce musicale.
-Oh, lo è – confermò Kohaku, con un mezzo sorriso, - è solo il signor Inuyasha a preoccuparsi troppo.
-Mamma mia, signor Inuyasha! Quanta formalità! – disse Kagome, bonariamente.
-Già – intervenne Miroku, - puoi benissimo chiamarlo “cagnaccio”, oppure “stupido”.
Kagome gli lanciò un’occhiata di fuoco, ma fu Sango a farlo impallidire davvero, sussurrandogli qualcosa all’orecchio con aria funesta.
-Volevo dire “zietto”! – si affrettò a rettificare, - “amabile zietto” sarebbe persino più appropriato.
Rin, avvicinandosi con il suo solito sorriso aperto, intervenne nella conversazione con una splendida risata.
Inuyasha riservò al monaco un’occhiata truce. –Guarda che ti ho sentito.
Miroku alzò le mani in segno di resa, cosa che fece prendere il braccio di Inuyasha a Kagome come per voler sedare qualsiasi altra obiezione. Con estrema nonchalance, appoggiò leggermente la testa sulla sua spalla, con eleganza, e il ragazzo sentì la morbidezza dei suoi capelli raccolti anche contro la stoffa. Si affrettò a concentrarsi su altro, e decise di riprendersi in braccio la figlia, visto che Miroku stava per incamerarsi in un’animata conversazione con un soldato ancora in divisa, giunto dal villaggio di Kohaku.
-Asuka-chan, lasciatelo dire: sei splendida! – esclamò Rin. La ragazza non era abituata a tutto quell’affetto ma, stranamente, rispose calorosamente all’abbraccio; nelle settimane in cui aveva vissuto lì, si era abituata all’idea che il Musashi fosse un posto fuori dal comune, e i formali inchini fra abitanti venivano tirati in ballo solo nei casi più eccezionali.
-Anche voi, Rin-chan, siete bellissima - rispose la ragazza.
Kagome si trovava totalmente d’accordo con lei; il demone, dopo uno dei suoi frequenti viaggi, le aveva regalato uno splendido kimono bianco, ricamato e dalla stoffa pregiata. Indossandolo, accompagnato da dei pettinini splendidi fra i capelli, la ragazza sembrava davvero una giovane regina.
-A proposito – continuò, rubando il mazzo di fiori dalla mano di Inuyasha, - questi sono per voi.
Fu Kohaku ad accettarli, essendosi appena liberato dell’abbraccio che aveva minacciato di stritolarlo.
-Grazie mille, Rin-chan; non dovevi disturbarti – le disse, divertito.
-Ma per me è un piacere! – esclamò di nuovo la ragazza, con il suo solito entusiasmo. Si adombrò un attimo, e il suo sorriso si contenne leggermente: -Sesshomaru si scusa, ma non è potuto venire. Mi ha chiesto di fare i miei auguri agli sposi anche da parte sua.
-Tsk! – sbottò Inuyasha, - E ti pareva!
Sua moglie gli diede una pacca non troppo gentile sulla spalla, come a dirgli che aveva esagerato. Rin si sentiva in imbarazzo a non essere stata accompagnata, era evidente, eppure il ragazzo proprio non si era saputo trattenere.
Contro ogni aspettativa, Kagome lo ignorò categoricamente e fece un enorme sorriso: -Non preoccuparti, siamo tutti sicuri che tornerà presto.
Questo commento la rese vittima di un abbraccio. –Come farei senza di te, Kagome-chan? – sospirò la donna contro la sua spalla, prima di lasciarla andare, facendola ridere.
 -Signore? – intervenne Miroku, gongolante, - che ne dite di abbracciarvi di nuovo? Così, per rendere questa festa ancora più degna di essere ricordat…
-Miroku! – lo interruppe Sango, stizzita. Kagome si ritrasse per un gesto incondizionato, poiché aveva imparato col tempo a temere l’ira dell’amica: agghindata a festa, con quello sguardo assassino, sembrava davvero un demone pronto all’attacco. Al suo fianco, persino Asuka ebbbe un tremito mentre Kohaku, arrossendo, finse di non avere nulla a che fare con la scena.
Pizzicandogli la guancia, la donna si avvicinò al monaco: -Perché non vai a vedere dov’è tua figlia? Eh? Perché non vai, diciamo…adesso?
Un coro di risatine divertite si levò dal gruppo degli sterminatori, con cui il monaco era subito entrato in confidenza.
-Ottima idea! – convenne debolmente l’uomo, con un sorriso incerto. La moglie mollò la presa e lo guardò camminare con passo svelto verso il prato, dove diversi bambini giocavano a rincorrersi con delle risate gioiose.
Inuyasha aveva assistito alla scena scuotendo rassegnato la testa, come se avesse perso le speranze in un comportamento corretto del compagno di viaggio. Giusto una settimana prima erano entrambi dovuti partire per portare a termine un esorcismo e, come al solito, davanti a lui si era palesata l’immagine di un padre di famiglia nostalgico e follemente innamorato della moglie. Bastava che ci fosse una bella ragazza nelle vicinanze per fargli invece assumere un’aria maliziosa, tanto da far dubitare ad Inuyasha della sua serietà.
In quell’istante, Rin e Inuichi stavano scambiando convenenvoli con le due sorelle più giovani della sposa; erano fanciulle bellissime, ancora nubili, e abituate a mentenere una rispettosa e cortese distanza dalle conversazioni che non le coinvolgevano direttamente. Non avevano fatto fatica a sentirsi a casa propria con la levatrice, dal momento che la ragazza aveva la straordinaria capacità di fare amicizia con tutti quelli che incontrava.
Sango, invece, stava accompagnando Asuka all’interno della propria casa per sostituire le vesti da cerimonia con un kimono più comodo e meno formale, impossibile da indossare senza assistenza. Miroku, come sempre quando si trattava di bambini, si era fermato a giocare a nascondino, fingendo di fare la conta per barare spietatamente.
-Shippo quando arriva? – gli chiese Kagome, all’improvviso.
-Ha detto che avrebbe aspettato il sole allo zenit.
La ragazza guardò il cielo, schermando la luce con la mano libera: -Non manca molto – osservò.
Poi cominciò a guardarsi intorno e, stabilendo che nessuno stava facendo caso a loro, gli tirò leggermente la manica per fargli capire che aveva qualcosa da dirgli. Inuyasha, senza guardarla, abbassò la testa fino a quando la presa della moglie non si allentò per dirgli che poteva bastare.
Come immaginava, subito dopo Kagome prese a bisbigliargli qualcosa in tono cospiratorio, cosa che lo vede sorridere per una frazione di secondo.
-Qui sono tutti impegnati… perché non mi segui un attimo?
Il ragazzo deglutì. Era da diverso tempo che la ragazza non usava quel tono così ricco di sottintesi con lui; più o meno da prima che nascesse Kaori, Kagome non aveva bisogno di adottare trucchi o parole suadenti per rendersi sensuale ai suoi occhi, e l’intimità fra loro era diventata una cosa molto più semplice e appagante da gestire.
Ma ora, quella splendida dea in abiti mortali, abbagliante nella sua bellezza, gli stava solleticando i capelli con il suo fiato caldo, sussurrando parole dalle sfumature molto più proibite di quanto il reale significato potesse lasciare intendere, e lui davvero non potè dirsi sicuro di riuscire a mantenere il controllo.
La fissò ad occhi spalancati, rischiando persino che la figlia gli cadesse a terra dalla sorpresa.
-K…Kagome? – balbettò, - cosa vorresti dire?
La sacerdotessa, notando il rossore sulle guance del ragazzo, non riuscì a non pentirsi del tono volutamente malizioso che aveva appena usato, e avvampò a sua volta.
-Stupido! – lo ammonì, - Smettila di pensare a cose sconce!
-Non sto pensando a cose sconce! – cercò di difendersi lui, inutilmente.
-Guarda che ti conosco – bocofichiò lei, - so riconoscere quando hai voglia di fare il perverito.
Le sopracciglia di Inuyasha si aggrottarono: -Cosa? Pervertito? Sei proprio scema!
-Lo scemo sarai te! – rispose con aria infantile, alzando leggermente la voce. Kaori, notando che la tranquillità fra i genitori stava per essere compromessa da un litigio per un motivo stupido, protestò la propria sorpresa con un gemito, preludio del pianto.
Questo bastò per far ritornare la ragazza alla ragione. Non doveva perdere di vista gli elementi fondamentali dell’idea che aveva avuto: con un sospiro, lasciò sbollire tutta l’irritazione montata così, all’improvviso, per un futile commento di troppo.
-Su, tesoro, vieni qui dalla mamma – intervenì, usando tutta la dolcezza di cui era capace, e la bambina fu fin troppo felice di lasciarsi lusingare nell’abbraccio materno, dimenticando a suon di gridolini entusiasti il motivo del disappunto di poco prima.
Inuyasha cedette la figlia per la seconda volta, cingendo però la vita di Kagome con un braccio.
-Scusa – mormorò a mezza voce.
La ragazza accarezzò la testa della figlia con un gesto nostalgico, prima di dargli un bacio sonoro sulla guancia, lasciandolo sorpreso. Si godette lo spettacolo di lui che arrossiva ancora di più, assomigliando ad un ragazzino confuso, prima di mettersi a borbottare qualcosa di incomprensibile a causa dell’imbarazzo.
Senza dirgli una parola di più, Kagome gli fece capire di aspettarla lanciandogli un’occhiata. Lui la guardò allontanarsi, si gustò fino in fondo l’ancheggiare sensuale in modo involontario dei suoi fianchi, e la osservò parlottare con Sango, uscita un secondo per portare suo figlio Usuke dentro casa, lontano dal caldo torrido che regnava nel giardino.
Essendo solo, Inuyasha si sentì leggermente a disagio. Non sopportava le occhiatine sospettose di cui era vittima da parte degli Sterminatori; in un certo senso, la stessa Sango era stata molto aggressiva nei suoi confronti, durante il loro primo incontro, ma per il resto del tempo aveva sopportato la sua presenza come se si trattasse di un essere umano.
Una volta gli aveva persino confidato di ignorare quasi del tutto, ormai, che lui fosse in parte un demone, e per lei non c’era più nessun problema ad averlo in gruppo. Questa confidenza l’aveva sollevato, l’aveva fatto finalmente sentire parte di una famiglia. Tuttavia, essendo quei guerrieri estranei alle vicende in cui lui e gli altri erano stati coinvolti, nutrivano un’aperta diffidenza nei suoi confronti.
Anche se stavano evitando di fissarlo esplicitamente, era chiaro che lo tenevano d’occhio; per rispetto nei confronti di Kohaku, il quale non aveva notato neppure per un attimo la natura di Inuyasha, non avevano inaugurato un aperto disprezzo, ma il ragazzo era sicuro che non avrebbero atteso un solo secondo senza il capo nei dintorni.
Fortunatamente, Kagome tornò in fretta da lui, ma non gli lasciò nemmeno il tempo di chiederle perché avesse affidato Kaori alle mani della sterminatrice.
-Andiamo – disse solo, in tono gentile, e prese a guidarlo con la sua consueta grazia, tenendolo per il lembo della manica ampia.
Inuyasha emise un solo singulto, ma non trovava le parole adatte per descrivere quello che stava succedendo. Il mistero era alimentato dall’espressione serena della ragazza, che non lasciava spazio a nessuna interpretazione possibile circa il suo stato d’animo.
Quella zona del villaggio lui la conosceva molto bene, poiché molto prima che cominiciassero ad immaginare sé stessi come coppia andavano lì a passare il tempo, in mezzo ai rami e alle foglie fruscianti. In un certo senso, quelli erano i sentieri che avevano dato inizio a tutto quanto: Naraku era ancora un mostro impunito, la sfera non era stata completata, Kikyo si trascinava su questa terra, io demoni agivano a ruota libera, il mondo era sul filo del rasoio, ma lì, in quel bosco inviolato, avevano potuto conoscere attimi di pace.
Per tre anni Inuyasha non aveva avuto il coraggio di ripercorrere quelle stesse strade sterrate, larghe quanto i piedi potessero starci, ma da quando Kagome era tornata, prima della nascita della bambina, vi si rifugiavano spesso.
Ora, standole docilmente dietro e osservando la sua pettinatura seguire la cadenza dei passi leggeri, ebbe l’impressione di ripercorrere il tempo in senso inverso, quando ancora dovevano scambiarsi un solo bacio, e avevano paura che stando insieme troppo a lungo avrebbero potuto compiere l’irreparabile.
-Te lo ricordi, Inuyasha? – chiese dolcemente la ragazza, fermandosi.
Erano arrivati davanti ad uno stagno, circondato da alberi dal tronco sottile in legno chiaro. Le foglie sussurravano i loro segreti fra di loro, e si sentivano come degli ascoltatori privilegiati innanzi ai misteri del bosco. Attorno al piccolo specchio d’acqua c’erano dei sassi, che ne circondavano irregolarmente il bordo.
Era uno spettacolo bellissimo, soprattutto in autunno: allora i colori si facevano più vivi, intensi, palpitanti di vita, ed era davvero meraviglioso potersene stare sotto la pioggia di foglie sgragianti a godersi la quiete.
Lui annuì, poiché non sarebbe mai riuscito a dimenticarlo. Più di una volta si erano ritrovati lì, da soli, l’uno a trarre consolazione dall’altra, e il legame che avevano con quell’angolo di natura non era paragonabile a niente.
-Ecco…  – continuò, con le guance leggermente imporporate, - … stavo pensando alle parole di ieri sera. Sai, il discorso che mi hai fatto.
Inuyasha arrossì, annuendo. Ricordava anche quello.
Davanti all’imminenza del matrimonio di Kohaku, infatti, aveva espresso il rimpianto di non aver potuto sposare Kagome con un rito tradizionale, di non averla potuta vedere con le vesti da cerimonia, agghindata nel migliore dei modi. Era una cosa che pensava da tanto tempo: per colpa della sua doppia natura, aveva negato a Kagome anche il diritto fondamentale di avere un marito, e non se lo sarebbe mai perdonato.
Si sentiva un po’ afflitto, ora che gliel’aveva ricordato, ma la risatina quasi infantile di cui lo rese partecipe cancellò ogni tristezza. Il cuore gli faceva quasi male, a vederla così bella.
-Mi è rimasto impresso, per due ragioni.
Sollevò un indice: -La prima è perché sono innamorata pazza di te, Inuyasha, e soffro se soffri anche tu.
Lui avvampò per la chiarezza di quella dichiarazione, ma Kagome aveva già sollevato il secondo dito.
-La seconda è che tu mi hai reso felice ogni singolo giorno, semplicemente… - ridacchiò - … respirando. Non potrò mai amarti abbastanza per tutta la gioia che mi regali, ma soprattutto perché senza di te non avrei mai potuto avere una bambina splendida come Kaori.
Gli si avvicinò lentamente, ripercorrendo i propri passi, e si alzò in punta di piedi. Si scambiarono un bacio nostalgico, innamorato, con una vena passionale nella pacata dolcezza delle loro labbra congiunte. Ancora con il sapore di lei sulla lingua, Inuyasha la guardò allontanarsi e prendere un paio di rametti da un alberò lì vicino. Su ognuno c’era un fiore, bianchissimo, appena sbocciato.
Gliene porse uno, mentre l’altro lo tenne fra le dita.
-Non mi servono sacerdoti, cerimonie o templi per essere tua moglie, Inuyasha – mormorò. Gli sorrise.
Lui la guardò, senza capire: -Che vuoi fare? – sussurrò in risposta.
Lei appoggiò la fronte alla sua. –La cerimonia dei rami dei sempreverdi* chiude il rito nuziale, giusto?
Lui annuì piano.
-Ebbene, non vedo chi ci obbliga a berci del sakè sopra. Abbiamo tutto quello che ci serve: acqua, amore e due rami appena tolti dalla corteccia; basta solo che tu me lo chieda.
-Chieda cosa?
Lei sorrise, accarezzandogli piano lo zigomo: -Indovina.
Lui chiuse appena gli occhi, godendo di quel contatto. Amava Kagome, da sempre. Sin da quando l’aveva vista, appena schiusi gli occhi dopo cinquant’anni di oblio, aveva capito che il suo destino stava nel cuore della ragazza. Viaggiare, scoprire nuove terre, sconfiggere nemici…insieme. Era destinato a proteggerla e a lasciarsi amare, così come lei avrebbe sempre fatto per lui.
Esisteva maledizione più dolce?
-Kagome…vuoi sposarmi? – bisbigliò a mezza voce.
Ci fu un solo attimo di silenzio, colmo di intensa palpitazione. Ebbe l’insana paura che la ragazza rifiutasse, così, di punto in bianco, e che lo lasciasse là da solo. Si diede dello stupido.
-Sì – disse. Era commozione, quella nella sua voce?
Lentamente, si inginocchiarono sulla riva del piccolo stagno, prede di una strana serenità, e conclusero una cerimonia mai realmente iniziata, con la sola forza della memoria.
Inuyasha non aveva mai saputo le preghiere con precisione, ma le parole che pronunciò nella sua mente erano sincere, anche se rivolte a soggetti piuttosto astratti, per lui. Kagome stava andando con una sicurezza più marcata, ma questo derivava solo dalla dimestichezza che aveva con le orazioni: Kaede gliele faceva ripetere sino allo svenimento durante la sua preparazione.
Passò diverso tempo prima che guardassero galleggiare i rami sullo specchio d’acqua. Il legno sottile si impregnò a fondo, molto più di quanto pensassero e, con loro somma sorpresa, piano piano si inabissarono, facendo sparire tutto fuorchè i fiori, che rimasero sulla superficie come due bianchi puntini aggraziati.
Non poterono godersi lo spettacolo più di tanto, poiché erano stati invitati anche ai festeggiamenti. Si sorrisero e si tennero per mano, per suggellare un’unione creata da molto più tempo di quanto si rendessero conto.
La strada a ritroso parve ad entrambi molto più corta di prima. La percorsero sorridendosi di tanto in tanto, come se avessero perso il cervello durante il tragitto. Si sentivano in pace con loro stessi, tranquilli. Era da tanto tempo che Inuyasha non assaporava una felicità così completa.
Quando tornarono alla casa, tutti i commensali si stavano accomodando. Rin aveva fatto amicizia con la stragrande maggioranza delle dame presenti, ed erano tutte immerse in una fitta conversazione ignorando persino il fatto che Inuichi fosse un mezzo-demone (lui se ne stava palcidamente in grembo alla madre godendosi le moine e i complimenti).
Miroku, come da copione, era stato posto su un cuscino d’onore, e i suoi racconti dalle sfumature erotiche quasi imbarazzanti stavano riscuotendo particolare successo, tanto che ne rideva persino Sango. Asuka, invece, aveva preso posto vicino al padre e a Kohaku; i due sembravano tranquilli, e stavano parlando a proposito di una tal linea politica vigente chissà dove.
Shippo, da poco arrivato, non aveva perso tempo: era già impegnato a conquistare le grazie della piccola Tomoko, strappandola alle attenzioni di Chitose e Mirei. Le due, abituate alle del bambino abitudini straordinariamente simili a quelle del monaco, ridacchiavano complici.
Inuyasha e Kagome conservarono quanto appena successo con il massimo riserbo e lei, quasi indovinando i pensieri del marito, si sedette lontano dal gruppo degli sterminatori. Ad un tratto, il monaco sollevò la ciotola per l’ennesima volta, già leggermente alticcio, e proclamò:
-Salute agli sposi!
Un “agli sposi!” particolarmente entusiasta risuonò assieme ad un forte tintinnare.
Inuyasha e Kagome si guardarono con un sorriso complice, prima di brindare assieme agli altri.
Solo loro potevano capire quanto appena successo.
 
 
*Questa parte si riferisce alla chiusura della cerimonia nuziale, dove gli sposi utilizzano dei rami di sempreverde, incapace di sfiorire, come simbolo di amore perenne. Affidano le preghiere ai rami e poi li lasciano cadere in acqua, oppure nel tempio. Non sono sicura che nel cinquecento fosse in vigore questo modo di celebrare il matrimonio, ma credo sia terribilmente romantico :3
Spero mi perdoniate questa piccola trasgressione : ) 

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Capitolo 59
*** La vita continua ***


Sango aveva insistito per portare il riso, mentre Miroku e Inuyasha stavano tardando non poco nel procurarsi il pesce.
Shippo sbuffò spazientito per l’ennesima volta, cullando con una punta di nervosismo una Kaori che, ormai abbastanza grande, aveva cominciato ad intrecciare margherite con dita paffute. Al compimento del terzo anno d’età, pensò Kagome in quell’esatto momento, avrebbe dovuto comprarle un kimono nuovo.
-Uffa, ma quanto ci mettono? – borbottò Shippo.
O forse avrebbe potuto utilizzare della stoffa avanzata dal proprio. In fondo, ne era stata sufficiente più o meno la metà di quella che la moglie del sarto aveva insistito nel regalarle, in seguito a quel rimedio “miracoloso” contro l’artrite.
-Zio Shippo, guarda che bella collana che ho fatto! – intervenne Kaori, raggiante, portandogli l’oggetto minuscolo proprio davanti agli occhi.
Questo bastò ad intenerirlo.- È davvero splendida – disse.
E poi: -Se quello zuccone di tuo padre si sbrigasse, forse potrebbe vederla anche lui!
Sango, che stava sistemando le ciotole sulla tovaglia rudimentale stesa a terra, non poté impedirsi dal lanciare un’occhiata in tralice al ragazzino.
-Ma la vuoi piantare, una buona volta? – esordì.
Questo non fece che far peggiorare la situazione ancora di più.
–Devi ammettere che ci stanno mettendo troppo! – continuò, crucciato.
-È vero, ma adesso smettila! – rispose, innervosita.
-Se non tornano in dieci minuti, possiamo sempre cominciare a mangiare, no? – disse Kagome, conciliante.
Kaori, non appena sentì la voce della madre dopo qualche minuto di silenzio, fece una giocosa risata, all’improvviso. La cosa destò l’attenzione di tutti e, quando notarono che reggeva un dente di leone con aria trionfante, nessuno riuscì a non sorridere di tenerezza.
La bambina si mise a chiacchierare con estremo piacere di un episodio che tutti conoscevano ormai a memoria, visto che l’aveva già raccontato come minimo un centinaio di volte. Kagome, aiutando Sango a mettere le bacchette sull’orlo di ogni scodella, cosa non facile visto l’appoggio non molto solido, prestò orecchio con un certo divertimento materno per quelle sapeva che sarebbero state parole di lode.
-Zio Shippo, lo sai che questo fiore si chiama “dente di leone”? Papà Inuyasha mi ha spiegato che si chiamano così perché assomigliano alle chiome dei leoni!*
-Ah sì? – disse il ragazzino.
La bambina annuì con profonda convinzione. Poi lanciò uno sguardo a sua madre che annuì, dolcemente, e confermò le sue parole.
-Hai ragione, tesoro, si chiamano proprio così – intervenne. La bambina, a quel punto, allungò le braccia verso di lei e la madre subito la prese, tenendola stretta contro il proprio petto.
Kaori nutriva una profonda ammirazione nei confronti del padre, e passava tutto il tempo possibile nel trotterellargli appresso. Ogni minima ed insignificante faccenda fatta da lui diventava un’impresa eroica degna del feudatario più ardito, e Inuyasha gioiva di questi scoppi di gioia con malcelata soddisfazione.
Inoltre, e questo entrambi lo dicevano non senza una certa dolcezza, la prima parola detta dalla bambina era stata “papà”. Una cosa che aveva fatto commuovere più Kagome che Inuyasha, in verità, poiché era stata dell’idea che un’altra in casa a chiamarlo così oltre a lei stessa era una cosa “davvero meravigliosa”.
C’era da dire anche che Kaori era davvero una bella bambina, anche se un po’ testarda. Assomigliava molto alla madre, ma certe volte, soprattutto quando si faceva pensierosa, il suo profilo assumeva l’aspetto tipico di quello paterno, fino a creare uno strano connubio di connotati.
-Kaori-chan, mi aiuti con questa pentola? – chiese Sango, sorridendo. – È davvero pesantissima!
L’interessata non se lo fece ripetere due volte, e si sottrasse un po’ a malincuore dalle attenzioni materne per correre in aiuto della sua amata zietta. Distribuì con immensa attenzione ogni tazza sulla tovaglia, e si mise a mettere dei piccoli sassi sui bordi proprio come la sterminatrice le stava insegnando, per non far volare via il pezzo di stoffa rettangolare.
Sango si era calata perfettamente nel ruolo di zia, e sosteneva che si divertiva moltissimo ad accudire una bambina piccola come se fosse sua figlia. Dopo la nascita di Usuke, che in quel momento stava facendo delle prove di tiro con l’arco al villaggio, lei e Miroku avevano deciso di comune accordo di non fare altri figli.
Kagome non capiva bene i motivi, visto che comunque erano entrambi ancora molto giovani e la vita era lunga, ma forse poteva trovare nella situazione economica della coppia una risposta: una famiglia di cinque elementi non era facile da mantenere, e il monaco non poteva lavorare più di così se voleva contemporaneamente stare con la sua famiglia.
Inoltre Sango aveva sostenuto che, tra le faccende di casa, l’aiuto ad Asuka e la crescita dei figli aveva già il suo bel daffare, e non sarebbe stata pronta per un’altra gravidanza.
Da una anno a quella parte, inoltre, riceveva spesso delle lettere dal villaggio degli sterminatori per la consulenza speciale che solo lei poteva offrire su armi, addestramenti oppure tecniche di imbalsamazione per i cadaveri dei demoni più recidivi, mantenendo costantemente in vita il lato più battagliero della sua personalità. Era un compito che le piaceva molto, e la riempiva d’orgoglio; si sentiva ancora forte e valente come un tempo e, viste le incombenze domestiche a cui si era poi abituata, non era cosa da poco.
-A proposito, Sango – intervenne Shippo, ad un certo punto, - che fine ha fatto Kohaku?
La donna sistemò meglio una delle ciotole, pendente da un fianco, e parlò con voce calma.
-In questo momento è in montagna, dai genitori di Asuka. Dice che l’aria alpestre farà bene ad Haruki**; anche se era debole di salute, pare che adesso stia meglio. Sai com’è, assomiglia a suo padre – confessò, con senza una punta d’orgogio.
-Ha promesso di venire qui fra un paio di mesi – aggiunse, mettendosi a mescolare il riso affinchè non si attaccasse sulla pentola.
-Anch’io ho una licenza per quel periodo – disse Shippo, - magari posso venire a trovarvi.
Lei fece un sorriso materno. –Sarebbe davvero splendido.
-Sai, dovresti farti vedere più spesso, da queste parti – aggiunse Kagome, ironica. –Quant’è passato dall’ultima visita? Un mese? Forse di più? A Kaori mancavi tanto, e anche ad Inuyasha. Ma sai che lui non lo ammetterebbe mai.
-Hai ragione, Kagome-chan – ammise Shippo, ignorando l’ultima frase, - ma sono molto impegnato in questo periodo. È tempo di iscrizioni e ci sono gli esami finali.
Puntellandosi sui palmi aperti delle mani, Kagome inclinò la schiena all’indietro e si mise a guardare il cielo. Seguì il movimento delle nuvole candide, lasciando che i propri capelli venissero accarezzati dal vento.
-Anch’io non molto tempo fa ero tutta presa dagli esami, prorprio come te – osservò, nostalgica.
Era da tantissimo tempo che non pensava più ai tempi della scuola, al ritmo frenetico dei mezzi pubblici, alle levatacce e agli innocenti pettegolezzi fra amiche. Alle attenzioni impacciate di Hojo, alla cioccolata calda fatta in casa di Erin, alla camicetta rossa di Yuka, ai baffi del professor Gin, ai kimono del nonno che sapevano di naftalina, al suo zaino giallo, e a tutta una serie di cose insignificanti.
Erano le piccolezze del futuro, i lussi più semplici derivati da una vita fuori dai pericoli delle guerre oppure dal concreto rischio di morire per un’epidemia. Un mondo piccolo, magico, sicuro e anche confortevole, per una giovane studentessa di Tokyo con tutta una serie infinita di possibilità davanti agli occhi…
-Cosa sono gli esami, mamma? – chiese Kaori, con un’espressione interrogativa stampata sul volto.
La sacerdotessa si riscosse, prima di sorridere dolcemente.
-Niente, tesoro. Attenta a non rovesciare il thè.
No, quelle cose in realtà non le mancavano affatto. Aveva una figlia splendida che, se non fosse tornata nel passato, non avrebbe mai avuto, e un marito che adorava. La sua vita era meravigliosa anche se doveva usare una latrina all’aperto e non esisteva la TV, no?
-Santo cielo! – esclamò una voce proveniente dal bosco. Un fruscio di rami che venivano spostati e foglie agitate da un arrivo irruento si accompagnò ad un infastidito scapiccio.
-Oh, alla buonora! – esclamò Sango, riparandosi gli occhi con una mano. –Si può sapere cosa cavolo stavate facendo?
Con aria di scuse, Miroku fu il primo a posare una fila di pesci attaccati per il labbro ad una serie di piccoli aghi su un ceppo li affianco, grattandosi la nuca.
-Scusaci, Sango, ma c’era troppa corrente.
-Già… - commentò sarcasticamente Inuyasha, sbucando dal sottobosco in quell’esatto momento.
Kagome si mise una mano davanti alla bocca per non mettersi a ridere a crepapelle, ma non riuscì ad impedirsi almeno un singulto: il ragazzo era fradicio dalla testa ai piedi, tanto che le ciocche di capelli pendevano come tante ciocche staccate l’una dall’altra, le orecchie erano afflosciate ai lati della testa e i vestiti così zuppi da essere diventati aderenti. Il gonfiore sui polpacci dovuti alla forma dei pantaloni si appiattiva ad ogni passo, appiccicandosi alla pelle.
Il monaco fece una risatina.
-Oh cielo – commentò la sterminatrice.
-Dovevi specificare di essere un demone PESCE-cane – disse Shippo, ridacchiando.
-Taci, maledetto! – ringhiò l’altro, innervosito. E poi, rivolgendosi a Miroku: -E tu, tutta colpa delle tue lenze del cavolo! Si può sapere con cosa sono fatte? Ragnatele?
-Oh, andiamo, Inuyasha! – rispose bonariamente, - prova a prenderla con un po’ più di filosofia! Con questo caldo io sarei stato contentissimo di potermi fare un bagno!
-Ah sì? – ribattè, stizzito, - Allora perché non sei andato tu?
Un rivolo di sangue scivolò dal suo labbro inferiore e gocciolò sul mento. Con un gesto veloce, Inuyasha si ripulì con la manica, risentito.
-Papà, stai bene? – chiese timorosamente Kaori.
A quella vista, il mezzo-demone parve rasserenarsi. –S…sì. Sì, tutto a posto.
-Forza, sedetevi. Questo riso metterà radici in pentola se non vi sbrigate a mangiarlo. Avete idea di quanta acqua ho dovuto usare per evitare che scuocesse? Muovetevi. E tu, Inuyasha, prima asciugati – ordinò Sango, con voce marziale.
Miroku, scuotendo piano la testa con una certa soddisfazione, si sedette a gambe incrociate vicino a Shippo, giungendo le mani in preghiera. Kagome, intanto, aveva già riattizzato il fuoco per sistemarvi attorno i pesci.
-E con cosa, scusa? – domandò Inuyasha, esasperato. – Se avessi potuto l’avrei già fatto prima.
-Non importa, dai – intervenne sua moglie. –Lascia stare. Se riesci a resistere stai anche così, magari strofinati un po’ i capelli.
-Giusto! – disse, come se se ne fosse appena ricordato. –Non hai forse portato un altro dei tuoi kimono?
Lei lo fulminò con un’occhiata. –Non pensarci neppure.
Inuyasha alzò le mani in segno di resa, deglutendo. La rabbia della consorte sbollì immediatamente, però, dandogli la possibilità di sedersi e iniziare a pulire i pesci usando gli artigli.
-Papà, cosa stai facendo? – si intromise Kaori, curiosa.
-Pulisco il pranzo – rispose, laconico, ma leggermente impacciato.
-E… non gli fai male, vero? – chiese la bambina, dispiaciuta.
Miroku lanciò ad entrambi un’occhiata divertita, mentre stava arrotolando i fili da pesca con meticolosità e attenzione.
-No, no – spiegò, senza alzare la testa.
-Perché non usi Tessaiga? – domandò ancora.
Sango fece una risatina, ma non intervenì. Era sempre divertentissimo godere delle loro piccole scenette.
-Non… - farfugliò il padre, arrossendo, - … non serve Tessaiga, adesso. Sono troppo piccoli, vedi?
Detto questo, posò l’indice artigliato su una branchia e la mosse verso l’esterno, facendo avere un singulto al cadavere grigio azzurro. La figlia si ritrasse con una smorfia.
-Come puzza! – commentò.
-Cotti saranno molto meglio – intervenne Kagome, accarezzandole la testa. –Dài, vieni ad aiutarmi a sistemare questi rametti, va bene?
-E il papà ce la farà da solo? – volle assicurarsi, non del tutto convinta.
-Ma certo! – intervenne Shippo, alzando un indice con fare seccente - Altrimenti a cosa sarebbero serviti tutti i suoi anni di pratica sotto la mia guida?
-Maledetto – saettò, digrignando i denti, l’interessato, - ti fa comodo sparare le tue battute mentre ho le mani impegnate, vero?
Per tutta risposta, il ragazzino gli fece una linguaccia, pronto a sfoderare una delle sue trottole in caso di risposta manesca.
-Va bene, basta così – disse Sango, calmando i bollenti spiriti, - per oggi ne avete fatte abbastanza, voi due. Ora, Shippo, mi aiuti con questo benedetto tegame, visto che non hai niente da fare?
-Esatto: le donne non dovrebbero sforzarsi – disse Miroku, usando un tono quasi profetico.
-E allora perché non la stai aiutando tu? – chiese Shippo, a metà fra il perplesso e il rassegnato.
-Aiutami e basta – tagliò corto la sterminatrice, e per un po’ nessuno disse più nulla.
Sistemarono i pesci appena pescati attorno allo scoppiettante fuocherello e distribuirono le porzioni di riso e verdure già cotte sulle ciotole, assistendo ad un breve battibecco, per altro molto prevedibile, fra Inuyasha e Shippo. Essendo il piccolo demone volpe ad usare il mestolo, infatti, non aveva mostrato particolare generosità nei confronti del fradicio mezzo-demone.
-Rin quando ha detto che arrivava? – chiese Kagome, ad un tratto.
-Avrebbe aspettato il risveglio di Inuichi  – spiegò Miroku.
-Giusto! – esclamò la sacerdotessa, battendosi un palmo sulla fronte. –Se avessi saputo che giorno era oggi, avremmo fatto un’altra volta!
Miroku sollevò le spalle come a dire che non importava, mentre Inuyasha, premuroso, le prese la mano e gliela rimise in grembo.
-Non dovresti sforzarti così, scema – la ammonì. La sacerdotessa sbuffò.
-C’è qualcosa che dovremmo sapere? – si informò Sango, bloccandosi e drizzando le orecchie.
Lui arrossì, mentre lei scosse pazientemente la testa.
 –Niente, non preoccuparti. Aspettiamo Rin, che ne dite?  
 
///
 
Diverse ore prima, addirittura quando l’alba non era ancora sorta, Rin si mise a spazzolare pazientemente i propri capelli scuri.
Era sveglia già da un po’, e non aveva dormito molto. Ciò nonostante, si sentiva allegra e leggera, e cominciò a canticchiare a voce bassa per non svegliare il figlio, placidamente addormentato ad una sola stanza di distanza.
Lo specchio non le serviva a gran che, visto che la candela  non riusciva ad illuminarlo completamente, tuttavia teneva lo sguardo puntato lì, e faceva scivolare con attenzione il pettine lungo ogni singola ciocca.
-Stai andando avanti da ore – commentò all’improvviso Sesshomaru, dietro di lei.
Senza smettere di canticchiare, la ragazza sorrise.
-Non è vero, ho appena iniziato! – si difese, ridacchiando.
Sbirciò da sopra la spalla la sagoma del suo principe, ancora mezzo-svestito: indugiava sempre un po’, al mattino, prima di rivestirsi, e stava placidamente appoggiato con la schiena la muro tenendo le lenzuola sulle proprie gambe, scomposte, laddove scivolavano durante la loro danza d’amore.
La levatrice era felice quando arrivavano quei dolci momenti. Sesshomaru, nelle sue visite, era estremamente puntuale e, da quando Inuichi aveva compiuto un anno, si tratteneva anche più di una notte. Una volta era rimasto nella capanna persino una settimana. Una settimana! Le era parso di volare.
Alcune volte gli appuntamenti erano programmati, e lui avvertiva quando sarebbe tornato. Delle altre erano visite a sorpresa, brevi e fugaci, dove incontrava il bambino e passavano del tempo insieme.
Ogni momento passato insieme, infatti, era un momento per Rin di sentirsi amata e desiderata, colmata di ogni premura. Per il demone era davvero difficile stare all’abitazione della donna come un marito perché, benchè fosse abbastanza lontana dal centro del villaggio vero e proprio, l’odore e la presenza degli altri esseri umani stuzzicava in modo mortalmente pericoloso il suo appetito e, assieme ad esso, anche il proprio disprezzo.
Inutile dire che Inuichi pendeva dalle sue labbra: era entusiasta quanto la madre della presenza di Sesshomaru, e lo venerava come un dio. Sapeva essere incredibilmente rispettoso ma al tempo stesso anche innocente come ogni bambino, ed era forse per questo che il padre ascoltava, rapito, ogni singola parola che usciva dalla sua bocca minuscola.
-Sai, Sesshomaru, sono tanto felice che tu ti sia fermato, oggi – ammise, dopo qualche attimo di silenzio.
Era ancora intorpidita per le dolci fatiche di poco prima (Sesshomaru era un amante instancabile), e l’ebbrezza mischiata all’emozione amorosa la stava facendo sentire leggera come una nuvola.
Lui non disse nulla. Rin prese un ciuffo di capelli e lo scosse con più energia, fino a quando il piccolo nodo non scomparve del tutto.
-Quando tornerai? – chiese.
-Fra tre giorni – replicò.
-Oh – esclamò, sorpresa, interrompendosi un attimo, - come mai così presto?
Se fosse stato umano, avrebbe alzato le spalle con noncuranza ma, ovviamente, non fece nulla del genere. Da sopra la spalla, Rin lo guardava estasiata, cercando di dissimulare la propria contentezza.
-È una questione veloce – spiegò, asciutto. Non c’era fastidio, nella sua voce, ma solo un certo rilassamento che la rendeva più calma e profonda.
-Beh, devo dire che a me fa comodo – ammise Rin, ripendendo il proprio minuzioso lavorìo. –Così posso averti tutto per me.
Questa frase non passò inascoltata, infatti Sesshomaru sospirò impercettibilmente, rassegnato all’idea delle tenere torture a cui la compagna l’avrebbe sottoposto al proprio ritorno. Persino in quel momento, scaramigliata, con le guance arrossate, gli occhi cerchiati dalla mancanza di sonno e le linee sinuose del corpo ricoperte da una stoffa semplice e grezza indossata per pudicizia, riusciva ad essere bellissima.
Si chiese quale sortilegio avesse usato per averlo fatto innamorare così tanto di lei, e come mai il pensiero di doverle stare lontano per tre soli notti fosse così insopportabile.
-Sei pensieroso – constatò lei, - qualcosa ti assilla?
-Mi domandavo se Inuichi dormisse – commentò solo, rivolgendo lo sguardo al pallore lunare visibile dalla finestra aperta.
Rin fece un sorriso dolce: amava quando lo chiamava per nome.
-Sì, sicuramente è nel mondo dei sogni. Se non senti che si rigira, allora vuol dire che non è sveglio; ha il sonno pesante, sai? Però se vuoi salutarlo prima di andare via lo chiamo. Sarà contentissimo, vedrai.
Come al solito, anche senza dir niente, lei aveva già inteso tutto. Capiva l’attaccamento inaspettato del padre verso suo figlio e lo rispettava con entusiasmo, senza neppure bisogno che il demone esprimesse le proprie richieste a parole.
 La osservò per qualche minuto, in silenzio. La cantilena riprese, con lentezza.
-Ti stai ancora pettinando?
La ragazza fece una risatina. –Colpa tua che mi aggrovigli di continuo i capelli! In circostanze normali ci metto un minuto.
Non le avrebbe creduto nemmeno sotto tortura, ma non lo disse. Si avvicinò di soppiatto e le cinse la vita da dietro, baciandole il collo: sapeva che avrebbe gradito.
Infatti, com’era prevedibile, qualcosa di molto simile ad un miagolio uscì dalle labbra della sua donna.
-Si può sapere perché ti stai preparando così attentamente? – chiese. Affondò il viso nella sua spalla.
-Kagome-chan mi ha invitato ad un pranzo all’aperto con tutto il gruppo – spiegò. – Vorrei essere presentabile, sai com’è.
Un rauco brontolio proruppe da dietro alle zanne, per il momento sbarrate dalle labbra, di Sesshomaru al pensiero che sua moglie sarebbe stata vicina al fratellastro.
Rin interpretò quel verso nel modo giusto, dal momento che si mise a parlare con voce paziente.
-Avanti, Sesshomaru! Non fare così… Inuichi è molto legato a Kaori, e lo stesso vale per Inuyasha! Sono sempre stati molto gentili con me, e guai a dire che mi mancava qualcosa che già me la portavano il giorno stesso.
-Stai dicendo che non ho forse sempre fatto lo stesso? – disse lui, strofinando piano il naso contro il suo collo. Non c’era aria d’accusa nella sua voce, né voglia di litigare.
-Sai benissimo che non è così – gli disse, con una punta di severità. –Mi riferisco ai primi tempi, quando stavi via anche per mesi e io e il piccolo eravano qua, da soli. Non ti ho mai rinfacciato niente, ho semplicemente detto che sono sempre stati gentili con me.
Solo lei poteva permettersi di fargli la ramanzina e di poter rimanere ancora in vita.
-E ci porterai anche Inuichi? – volle sapere.
La ragazza ci pensò un po’sopra, fingendo di ponderare seriamente la cosa.
-Mah, in realtà avevo pensato di appenderlo ad un albero qui fuori fino al mio ritorno.
L’occhiata penetrante del demone la raggiunse anche attraverso lo specchio, e lei la fissò senza interrompere il proprio lavoro. Sospirò.
-Ne abbiamo già parlato, Sesshomaru – disse, con una certa dolcezza di sottofondo.
Era vero, ne avevano discusso. La vincitrice, com’era prevedibile, era stata lei: aveva asserito che non avrebbe mai impedito al bambino di frequentare la cuginetta poco più grande né tantomeno gli zii che si erano sempre presi cura di lui perché, al di là delle avversioni personali di Sesshomaru, Inuyasha e sua moglie erano delle bravissime persone.
Se l’avesse isolato, lasciandolo solo, avrebbe solo ottenuto una brutta copia di un carattere scontroso, irascibile e freddo, e lei voleva solo il meglio per il proprio bambino.
“E poi”, aveva detto, “ero seria quando ti dissi che, appena sarà cresciuto, andremmo via da qui. Quel giorno di tanti anni fa – ricordi? – mi avevi detto che alla fine del mio apprendistato avrei avuto due scelte. Non l’ho dimenticato, e nemmeno tu”.
-Non riesco proprio a capire questa tua testardaggine. Per non parlare dell’odio verso Inuyasha – commentò poi.
-Ne abbiamo già parlato – ripetè lui, gelidamente.
La ragazza sospirò, rassegnata. Posò le dita sottili contro la guancia gelida dell’amato e vi posò una carezza leggera, esistante. Lui non la repinse: non lo faceva mai. Anche se non prendeva l’iniziativa, lei aveva sempre saputo che le tenerezze che gli riservava erano gradite, perché le accettava con un appagato silenzio. Delle volte si chiese persino come doveva essere vivere con un uomo che ricambiava le dolcezze della vita di casa con baci a fior di labbra oppure mazzi di margherite il giorno del proprio compleanno, ma si rese conto che era un pensiero stupido. La silenziosa dedizione di Sesshomaru, il suo regalarle qualsiasi cosa anche se non era assolutamente necessario e il suo amare, senza una sola parola, sia lei che il figlio era la cosa migliore che qualcuno avrebbe mai potuto ricevere.
-Scusami, ho parlato troppo. Come mio solito; lo sai come sono fatta, no? Anche quand’ero bambina dicevo sempre qualche parola fuori luogo, mi spingevo troppo oltre, ma proprio non riuscivo a trattenermi. Non voglio farti andare via irritato, Sesshomaru – mormorò.
Una nocca così fredda da sembrare bollente descrisse la curva del suo zigomo con insospettabile dolcezza. Si fermò, meditabonda, sulla linea del mento, prima che due polpastrelli più lisci del dorso delle mani di Rin ne prendessero la punta con fermezza e la costringessero, sempre delicatamente, ad interrompersi e a guardarlo.
-Non devi scusarti – le disse. Poi la baciò.
Rin non gli permise di andare troppo oltre, anche perché si sentiva stanca. Si disse fra sé e sé che avrebbe completato ciò che aveva interrotto nella prossima visita, prima di allontanarsi con garbo dalla stretta sempre più passionale del demone.
Lui la lasciò andare, poiché mai l’aveva forzata a fare qualcosa contro la sua volontà. Lei continuò a pettinarsi e lui rimase appoggiato alla sua schiena.
-La notte è ancora lunga… - canticchiò la ragazza, con una punta di malinconia, -… e la mia vita sembra così breve, di fronte a queste belle stelle…
Quelle parole misero nel cuore di Sesshomaru una certa tristezza, ma si disse che, almeno per diversi anni, non avrebbe dovuto preoccuparsi: a Rin non l’aveva mai confessato, ma Tenseiga le aveva allungato la vita.
Le aveva sempre mentito per non svelarsi più del dovuto, tuttavia se l’aveva sempre curata con la propria spada era solo per elemosinare decenni, piccoli frammenti di vita che avrebbero potuto passare insieme. Non sapeva di preciso quanto tempo le avesse regalato con le proprie mistiche cure, ma gli parve un numero di anni sufficientemente ragionevole per farle godere appieno la sua futura esistenza da imperatrice al fianco del marito e del figlio.
Cominciando ad intrecciare una ciocca di capelli appena pettinati, si permise di confessare ai propri pensieri il vero significato di quel gesto.
“Questo è il mio regalo per te, mia bella principessa…”
Un lieve sospiro mosse le spalle di Rin.
-Questa canzone è così triste… la cantano i soldati nei campi di battaglia. Li sento, ogni tanto, mentre marciano in prossimità delle vallate: la cantano perché sanno che non riusciranno mai a tornare a casa. È così terribile…
-Perché la canti, se ti incupisce? – domandò Sesshomaru.
Lei fece una risatina malinconica. –Non lo so… forse non c’è un vero motivo. Ha delle belle parole.
Il demone ne dubitava, ma non disse nulla. Si limitò ad ascoltare la sua voce fino a quando, fuori dalla finestra, una timida luce cominciò ad affiorare, illuminando parzialmente lo spiraglio che si gettava sulla camera in penombra.
Con un soffio, spense la candela al fianco della fanciulla.
-Devo andare – disse.
-D’accordo. Un attimo solo: vado a chiamare Inuichi – disse Rin, in un cinguettio improvvisamente entusiasta, e lui la guardò camminare verso l’altra stanza con il tipico passo di una donna che, incosapevole della propria bellezza, sarebbe in grado di far innamorare un insensibile demone centenario.
Proprio come lui.
 
///
 
 Persino Inuyasha, dopo il racconto dell’ennesima barzelletta spinta, si permise un sorriso.
Non sapeva dire perché, ma quel giorno si sentiva felice. Al sole i suoi vestiti si stavano asciugando, così aveva potuto abbracciare la vita sottile di Kagome e sentire la sua figura minuta contro il proprio fianco.
Nonostante stesse ascoltando la conversazione, il suo sguardo vagava su Kaori, tutta presa dallo giocare con Inuichi. Non avrebbe mai smesso di meravigliarsi di essere stato capace di contribuire alla nascita di una creatura tanto splendida.
E, anche se non l’avrebbe mai immaginato, si sentiva molto legato a quello strano bambino con il viso di Sesshomaru e l’espressione di Rin, di cui lui e Kagome si erano più volte presi cura ammirando il suo carattere mite e tranquillo.
Kagome gli lanciò un’occhiata divertita, come per assicurarsi che quel tiepido pomeriggio di fine estate fosse reale, e riprese ad accoccolarsi contro di lui, quasi fosse una bambina. Quante volte, prima della sconfitta di Naraku, si erano ritrovati su quella stessa collinetta per pranzare e godersi la momentanea quiete?
Quasi non poteva credere che ora la pace avrebbe potuto essere permanente. Certo, gli scontri umani c’erano ancora, ma Miroku era speranzoso in una risoluzione breve dei vari problemi politici, e questo avrebbe garantito una serenità a trecentosessanta gradi a tutta la popolazione giapponese.
-A proposito – intervenì Kagome, dopo qualche istante di silenzio, - il padre di Kunieko è venuto a mancare, qualche giorno fa. Lo sapevate?
Rin abbassò tristemente il capo. –Sì, l’ho saputo. Era davvero un brav’uomo!
-Non credevo vivesse ancora al villaggio – commentò Miroku, vagamente rattristato.
-In effetti, ce l’hanno riportato solo per seppellire le ceneri. Da quando Kunieko si è sposata, aveva portato il padre a vivere con lei, e si dice che lui e il Generale andassero molto d’accordo. Giocavano a go in veranda fino a tarda sera – disse Kagome.
-Non erano uno molto più vecchio dell’altro, in effetti – riflettè Shippo, ad alta voce, prima di arrossire.
-Credo che il Generale fosse più vecchio di lui – continuò Sango.
Tutti annuirono, anche se non avrebbero mai potuto sapere che l’uomo in questione aveva una decina d’anni in meno del suocero, nonostante dimostrasse un fascino molto più maturo.
-Chitose mi ha detto di averla vista, l’altro giorno – confidò Sango, - ma non ne era sicura. Era accompagnata da altre due dame, probabilmente le sorelle.
-È da quasi sei anni che la famiglia non tornava tutta al villaggio, dopo la morte della madre – disse Miroku, congiungendo le mani.
-Speriamo che i Kami abbiano pietà delle povere anime di entrambi – aggiunse poi, pronunciando una breve preghiera a mezza voce.
-Sai, è facile dimenticarsi del fatto che tu sia un monaco – commentò Inuyasha, con gli occhi a fessura.
L’interessato rispose con la stessa espressione. –Che cosa vorresti dire?
-Niente, non voleva dire assolutamente niente – intervenne Kagome, lanciando un’occhiata severa al marito.
-Inuyasha, sei sempre il solito zuccone – commentò Shippo, scuotendo il capo con rassegnazione.
-Hey, tu… - ringhiò l’altro, stringendo subito le dita a pugno, pronto a colpirlo.
Il bambino, rendendosi conto di averla detta grossa, si nascose dietro alla schiena del monaco, dove trovò subito protezione. Ci fu un veloce scambio di battute che culminò con la minaccia dell’”a cuccia” di Kagome, da molto tempo dimenticato.
In quell’esatto momento, la sagoma di Mirei si unì ai due bambini sul prato, seguito dal passo più lento e cadenzato della sorella gemella, Chitose. Entrambe si unirono ai giochi e, essendo le più grandi, cominciarono a gestire la situazione ponendosi al comando.
-Oh, eccole qui – sospirò Sango, - ci stavano mettendo davvero troppo! Avevo paura che Kaede si fosse sentita male!
-Sarebbe stato orribile – disse Rin. –Mi sarei sentita estremamente in colpa. È da un sacco che non la vedo.
 -Non angustiarti, la vecchia ha la pellaccia dura – disse Inuyasha, nascondendo le mani sotto alle maniche.
-Inuyasha… - lo riprese Kagome, costernata.
-Beh? Che ho detto?
Cominciò la solita cantilena del “dovresti portarle rispetto”, intervallato dagli sbuffi spazientiti di Inuyasha, ma si interruppe presto. Ormai entrambi avrebbero saputo citare le parole del sermone a memoria, e ad entrambi era venuta voglia di godersi la calura del pomeriggio.
I bambini, intanto, avevano cominciato a giocare “ai guerrieri”, con somma gioia di Mirei.
-Eccola lì, il mio maschiaccio – disse Sango, con voce dolce, causando un sorriso in Miroku.
-Sempre la solita – disse, orgoglioso.
Nessuno dei due avrebbe potuto sapere che, compiuti i sedici anni, Mirei sarebbe partita con il faticosamente ottenuto permesso per il villaggio degli Sterminatori, sotto la protezione dello zio, seguita dal fratello di tre anni più giovane.
Lì avrebbe fatto velocemente carriera, fino a trasferirsi nel villaggio una volta diventata una splendida guerriera ventenne. Per molti anni a venire, la figura slanciata della giovane sarebbe stata associata, per la somiglianza incredibile, con quella della madre.
Chitose, invece, rimase per tutta la vita al villaggio Musashi, diventando la sacerdotessa più potente di ben quattro regioni. Il suo nome prestigioso avrebbe causato moltissimo orgoglio nella famiglia che, composta ormai dai genitori ancora in perfetta salute, si godeva il suo successo dietro alle quinte.
Usuke, alla fine, capì di non essere tagliato per la battaglia, ma rimase accanto alla sorella Mirei. Si dedicò anima e corpo nell’erboristeria, diventando il guaritore ufficiale del villaggio degli Sterminatori e passando gli ultimi anni della sua vita insegnando la delicata disciplina a schiere di reclute più giovani.
-Cos’è quella strana collana che ha Inuichi addosso? – chiese Kagome, aguzzando la vista.
-Non è un rosario, vero? – si informò Inuyasha, allarmato.
Rin scosse la testa, sorridendo. –È un regalo di Miyasama.
Tutti si voltarono verso di lei, dicendo all’unisono: -Miyasama?!
La ragazza annuì, enigmatica. Poi, preso un profondo respiro, decise che raccontare loro l’intera vicenda non sarebbe stato affatto male.
 
///
 
Il principe posò annoiatamente il mento sul palmo della mano, mentre le grida sgraziate di uno shamisen non usato nel modo giusto continuavano a risuonare per la lussuosa stanza.
Sua moglie, una giovane principessa con un’incredibile massa di capelli in testa, era tutta intenta nel pizzicare corde in ordine casuale, provocando un suono più stridulo addirittura della sua stessa voce. Chi avrebbe mai pensato che una donna tanto bella sarebbe potuta essere invece tanto grezza?
La cosa peggiore, era che Miyasama era costretto ad assistere a quella scena pietosa ogni pomeriggio per una buona mezz’ora, a parte quando si trovava in missione militare. Solo che, a differenza dei propri servitori, aveva da tempo smesso di fingere di trovare quei momenti piacevoli.
-Basta così – sussurrò al suo braccio destro, - fai sellare il mio cavallo e inventati una scusa qualunque.
L’uomo si limitò ad annuire ed uscì con discrezione dalla stanza, anche se la principessa era così assorta che non se ne accorse nemmeno.
Tossicchiando educatamente, Miyasama fece un sorriso pacato alla moglie come incoraggiamento, prima di farle un cenno col capo. Indossò il proprio mantello da generale e, con l’elmo sottobraccio, fuggì dalla sala, pronto a rinchiudersi in una tenda e a discutere di strategie militari con gli altri caporali.
Aveva da poco intrapreso la carriera di stratega e già veniva ammirato dai suoi superiori. Pur di fuggire dall’infelicità domestica, il campo di battaglià diventò per lui come una via di scampo.
E sarà proprio su una piana di terra brulla che troverà la morte, in un freddo pomeriggio di marzo: la spada nemica superò le giunture della corazza e raggiunse un cuore che, nonostante stesse per morire quasi dieci anni dopo l’accaduto, fu in grado di sussurrare solo un nome:
Rin…
 
///
 
-Santo cielo… - sussurrò Kagome, estasiata.
Inuyasha conosceva quello sguardo fin troppo bene: aveva la faccia inebetita dell’agguerrita ammiratrice delle storie d’amore impossibili. Quand’era nel futuro, aveva visto in camera sua scaffali e scaffali di titoli di libri conturbanti incentrati su passioni insensate, e la vista gli aveva fatto accapponare la pelle.
-Quell’uomo vi è proprio fedele, eh? – commentò Miroku. Non sarebbe mai riuscito a capire una monogamia così forzata in un uomo celibe, attraente e nel fiore degli anni.
-A parte tutto, si può dire che abbia fatto un bel gesto – si limitò a dire Sango.
Rin guardò assorta la figura del figlio. –Non riuscirò mai a capire perché, ma quell’uomo vuole bene anche ad Inuichi. E, in un certo senso, ne sono felice.
-Bah – sbottò Inuyasha, stizzito – e allora si può sapere perché stai ancora con Sesshomaru?
Kagome stava già aprendo la bocca per fargli una lavata di capo, ma la risata di Rin la interruppe.
-Non hai proprio peli sulla lingua, Inuyasha-kun, lasciatelo dire! – esclamò, con le lacrime agli occhi.
Il ragazzo arrossì lievemente, beccandosi pure una veloce sgridata dalla moglie.
-Eh sì – sospirò Miroku, - si può dire che la delicatezza non è proprio il suo forte.
Questa volta il mezzo-demone non replicò, anzi, lasciò che parlassero. Si perse ad osservare la figlia giocare assieme agli altri bambini sul prato, ascoltando le risate che solo lui poteva cogliere in tutta la loro innocenza.
-Ci sono così tante persone che abbiamo perso di vista – disse Sango, nostalgica, all’improvviso. – Ad esempio, che mi dite di Koga?
-È vero! – esclamò Kagome, entusiasta, - Non l’abbiamo più nominato! Chissà come sta, poverino!
-Poverino? – disse Inuyasha, con una smorfia. –Cos’è tutta questa confidenza?
Sango lo guardò, incredula: -Andiamo, Inuyasha, non dirmi che tu sei ancora geloso nonostante ti abbia sposato e abbiate fatto una figlia insieme!
-I…io non sono affatto geloso! – balbettò, imbarazzato.
-A proposito – intervenì Kagome, ignorandolo e poggiando una mano sul suo avambraccio, - noi due avremmo un annuncio da fare.
Non servì dire altro per catturare la loro attenzione.
 
///
 
Nonostante due esplosioni violente di epidemie mortali, la tribù Yoro sopravvisse ottimamente e continuò la propria esistenza. Anche quando la presenza dei demoni nel mondo conosciuto crollò drasticamente, gli esseri più longevi fra i demoni lupo furono fra gli ultimi a cadere, fieramente e con onore.
Koga, dal canto suo, aveva per sempre abbandonato la via della guerra. Da quando Ayame era rimasta incinta per la prima volta rischiando la vita, aveva finalmente deciso di starsene con la sua famiglia senza mettere inutilmente a repentaglio la propria salute con demoni minori, poiché “se un nemico non è al mio livello, non ha senso nemmeno sconfiggerlo”.
Con sei figli al seguito, aveva minuziosamente sparito il proprio regno in parti uguali, contando anche le femmine, insegnando loro a combattere e a difendere il branco. I suoi fedeli assistenti si occuparono di lui anche dopo il matrimonio: erano loro ad assecondare Ayame in ogni capriccio di donna incinta oppure a giocare con i piccoli se il padre era immerso in difficili problemi territoriali oppure incontri con altri capo tribù.
Durante la sua vita gli capitò spesso di domandarsi che fine avessero fatto Kagome e “quel botolo ringhioso”, ed immaginò che si fossero sposati senza metterlo in dubbio nemmeno un attimo. Tuttavia non trovò mai né il tempo né la scusa di scendere al villaggio, quindi, quando quella bellissima sconosciuta stranamente familiare di nome Kaori asserì di amare suo figlio maggiore, Akio***, lui non sospettò assolutamente nulla e benedì personalmente l’unione.
Quando però riconobbe l’odore sottile di demone cane sulla fanciulla, durante una delle numerose visite che seguirono il matrimonio fra i due giovani, l’unica cosa che disse fu: “Che mi venga un colpo”.
E così fu: la sua tomba fu scavata con tutti gli onori poco dopo la sua prima, e ultima, visita ufficiale al villaggio Musashi, con sommo stupore di entrambe le famiglie.
 
///
 
Inuyasha le prese la mano, titubante, senza spostare il braccio dai suoi fianchi morbidi. Poteva quasi fiutare l’imbarazzo di Kagome nelle parole che stava per pronunciare, ma si fece coraggio e non si intromise, dal momento che la sera prima lei aveva espresso il desiderio di dirlo personalmente.
La fanciulla deglutì, arrossendo esattamente come il marito.
-Ecco, io… io ho sempre desiderato avere tre figli. Da quando io e Inuyasha abbiamo cominciato a vivere insieme, mi sono sempre detta che siamo come una famiglia, per cui… il mio obbiettivo non è ancora mutato.
Sorrise, stringendo con più forza la mano del marito.
Sango e Miroku la fissavano attenti, trattenendo il respiro, mentre Rin, che sembrava aver capito tutto, stava sorridendo con aria complice. I bambini, ignari, stavano ancora giocando alla loro innocente guerra.
Shippo, invece, aveva gli occhi spalancati e fissava la coppia senza capire. Era felice, però: felice che finalmente anche Kagome e Inuyasha lo fossero insieme. Avevano faticato tanto ma, alla fine, l’amore aveva trionfato e, guardando le loro espressioni imbarazzate e innamorate, gli parve di scorgere anche l’ombra dei suoi genitori, morti ormai molti anni prima.
Forse, guardando il suo visetto paffuto che si stava assottigliando in una posa molto più adulta, Kagome potè quasi scorgere un barlume della dorata carriera che il demone avrebbe avuto, ma in quell’istante vi vide sempre e solo il bambino coraggioso che tante volte aveva coccolato e vezzeggiato come fosse suo figlio.
Probabilmente Inuyasha non immaginava nemmeno che, dopo non molto tempo, Shippo sarebbe diventato l’insegnante più famoso dell’ostello delle volpi, dopo essersi diplomato con il massimo dei voti alla scuola  per demoni e averla presa in gestione in seguito alla morte del vecchio proprietario. In seguito, i membri del gruppo tornarono ad essere ospiti della struttura, pernottando nella massima comodità e, ovviamente, lontani dalle esercitazioni delle giovani reclute.
-Dài, dillo! – esplose Rin, al limite della curiosità. Questo fece ridere la sacerdotessa.
Guardò dritto negli occhi di Inuyasha. Fissò l’iride amata e conosciuta, agognata per molto tempo, e la fissò con la stessa gratitudine del primo giorno. Vi scorse amore, e una profonda dedizione, e capì per l’ennesima volta che solo con lui sarebbe potuta essere veramente felice.
-Io…io aspetto un bambino.
Subito dopo, si corresse: -Io e Inuyasha aspettiamo un bambino.
Sorrise: la vita a volte poteva essere davvero meravigliosa.
 
*Dubito che in Giappone, all’epoca, conoscessero i leoni ;) si può dire che li abbia introdotti Kagome :D
** “Lo splendore della vita”
*** “Eroe” (cosa ci si poteva aspettare dal primogenito di Koga, sennò? xD) 

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Capitolo 60
*** Al di là del pozzo ***


Successe in una giornata d’autunno.
Era una di quelle mattinate fredde e così terribilmente malinconiche da mozzare il respiro.
Una donna, con uno spazzino di rami affusolati, stava pulendo l’atrio gigantesco di un tempio shintoista. Aveva da poco finito di lucidare gli infissi e sistemare le offerte dei fedeli, come al solito piuttosto cospicue, e ora doveva solo rendere il giardino presentabile per l’arrivo degli ospiti.
Da quasi trent’anni, ormai, i lavori che doveva fare erano sempre gli stessi. Nonostante la casa, il marito e i figli, un suocero anziano a cui badare, si doveva trovare con puntualità davanti all’altare, per pulire, rasettare, mettere in ordine e guardare gente disfare, puntualmente, tutto il suo operato.
Quando il suo amato Masao* era morto, i bambini erano ancora piccoli. La maggiore, sofferente per la perdita del padre, era stata brava a riprendersi dallo stress emotivo, e lo stesso aveva fatto il più piccolo. Aveva avuto dei bravi figli, non aveva nulla di cui lamentarsi.
Negli ultimi dieci anni, però, sentiva che la stanchezza per la vita di tutti i giorni cominciava a farsi più pesante. Aveva da poco compiuto quarantasei anni, eppure addosso se ne sentiva cento.
Divertita, si accorgeva dei piccoli segni della vecchiaia sul proprio corpo: gli occhiali da lettura senza i quali non riusciva a leggere nemmeno mezza parola stampata, le tempie che andavano imbiancandosi prontamente coperte dalla tinta della parrucchiera, il fiato che si accorciava più facilmente.
Erano le scale il suo vero problema, poiché il tempio ne aveva di grandiose poste proprio all’ingresso. Aveva cercato di persuadere suo suocero ad autorizzare un’entrata secondaria, magari dall’altra parte della collina, ma lui era stato irremovibile: si era fermamente opposto al progetto e aveva acceso un incenso per “la follia della sua povera e ingenua figliola”.
Più che di follia si trattava di praticità; magari di ritorno dal supermercato, con la stanchezza di un’intera giornata appiccicata addosso, non era facile gioire della nuova fatica posta proprio davanti agli occhi. D’altra parte, capiva anche lo spirito conservatore del vecchio, e lo rispettava come aveva sempre fatto.
-Oh! Finalmente! – si lamentò l’uomo, ad alta voce, dietro di lei.
La donna, immersa nelle proprie riflessioni, si voltò: suo suocero indossava un pesante kimono da cerimonia con tanto di copricapo antico, e si stava avvicinando a lei tenendosi una mano sulla schiena.
-Cosa c’è, nonno?
-La schiena, la schiena! Gliel’avevo detto al dottore che se mi impediva di mettere le stecche di balena mi avrebbe fatto male di nuovo, ma non mi ha ascoltato! Ahi ahi! – lamentò, tragicamente.
-Quelle cose orribili? – chiese, sorpresa, -Ma era ovvio che stessero aggravando la situazione!
-Disprezzi per caso i santi rimedi dei tuoi antenati? – la interrogò, con gli occhi a fessura.
In dieci anni era invecchiato quasi il doppio, e sembrava quasi più basso e accartocciato su sé stesso.
-No, ovviamente no – rispose, sospirando, - ma perché hai detto “finalmente”? Non vorrai mica andare al santuario conciato così!
Lui scosse forte la testa. –Ho detto “finalmente” perché era da quasi un’ora che ti cercavo! Si può sapere dov’eri? Avevo paura che ti fosse capitato un accidente!
-Nonno, calmati, ero solo andata a fare la spesa. Ti avevo scritto un biglietto, sul tavolo, dove ti avvertivo che se volevi potevi chiamarmi sul cellulare.
L’uomo fece una smorfia. –Ah, gli occhiali sono a riparare già da tre giorni – brontolò, - e sai benissimo che il cellulare ti fa male al cervello!
-Non è vero – osservò pacatamente la donna, - sono soltanto dicerie. Solo se lo usi troppo ti può provocare disturbi, altrimenti è una cosa come un’altra. Siamo nel 2007, ormai, dovresti adattarti alla tecnologia!
Il nonno bocofichiò qualcosa, ma quando non capì non gli chiese di ripetere. Sicuramente era sempre uno dei soliti commenti.
-Comunque, adesso vado in treno dal medico e mi faccio dare qualcosa, visto che disprezza tanto le mie tisane – annunciò, accusatorio.
-Non è che le disprezza, è solo…
-Le disprezza, le disprezza – tagliò corto, - mi invidia perché io ho sempre avuto il favore degli antenati dalla mia parte. Ah, questi giovani! Credono sempre che sia tutto loro dovuto, persino l’affetto dei parenti defunti!
-Nonno, il dottore ha quattro anni più di me… - gli fece notare, pacatamente.
Lui alzò una mano come per interromperla. –Non ha importanza, per me resta comunque un ragazzino. È difficile riconoscere che le persone invecchiano, se a curarmi quand’ero ancora uno sbarbatello era il padre, prima di lui!
La donna decise di non commentare, sarebbe stato inutile. Riprese a spazzare con calma, senza nemmeno chiedergli se volesse che lo accompagnasse: avrebbe rifiutato.
Com’era prevedibile, l’uomo si perse nelle sue chiacchiere mentre già cominciava ad incamminarsi, alzando anche l’indice al cielo per meglio sottilineare i punti salienti del proprio sermone. Non solo vedeva minacce dappertutto, ma aveva anche la costante impressione che la gente fosse spietatamente schierata contro di lui.
Dopo la partenza della nipote, il signore era molto cambiato. Aveva rivoluzionato le sue abitudini quasi radicalmente, e si dedicava con fervore quasi patologico alla preghiera. Tuttavia manteneva un lucido contatto con la realtà e aveva una buonissima memoria; molto spesso era lui a tenere la contabilità al suo posto, senza nemmeno usare la calcolatrice.
Apprensivamente, seguì la sua camminata traballante per le scale con lo sguardo, fino a quando non scomparve dalla sua vista. Poi, con un sospiro sconsolato, entrò in casa sentendo squillare il telefono.
Forse era la signora Kimura; dopo la morte del figlio maggiore di lei, erano diventate molto amiche. Masao e suo marito erano stati compagni di scuola, e questo le aveva ulteriormente avvicinate. Era stata la corpulenta casalinga a convicerla una volta per tutte a curare il proprio aspetto, soprattutto per quanto riguardava i capelli (visto che la figlia faceva la parrucchiera, aveva avuto anche un certo tornaconto). Se non fosse stato per lei, li avrebbe lasciati così com’erano.
-Pronto? – rispose.
-Ciao mamma, sono io, Sota. Come stai?
-Oh, ciao, Sota! – esclamò. Sorrise fra sé e sé. –Io sto bene, il nonno anche. Lì a Kyoto come va?
Il ragazzo ci pensò un po’ su. –Bene, direi. Ho un sacco di esami in questo periodo, devo studiare tutto il giorno.
-Sono sicura che diventerai il miglior ingegnere del mondo – disse, dolcemente.
Il figlio rise, imbarazzato, dall’altra parte della cornetta. –Eddai, non esagerare!
La donna ridacchiò. Sota era un ragazzo estremamente timido, e da quando era entrato all’univeristà, nonostante le chiamate regolari e le visite frequenti, si vergognava com un bambino di fronte alle lodi dei parenti. Anche il nonno, quando gli diceva di avere un nipote eccellente, si accorgeva di quanto lo faceva arrossire.
Saggiamente, la signora Higurashi decise di cambiare argomento.
-Complimenti per gli esami dell’altra volta, sei stato bravissimo. Ti ho visto un po’ dimagrito, però, lo scorso week-end: non è che non mangi abbastanza?
-No, no. È  solo che la mensa ha dei cibi un po’ scadenti – minimizzò.
-Ammettilo che sei stressato per le prove finali, Sota – sospirò la donna. –Ma con il tuo rendimento non dovresti essere così agitato. Vuoi che ti venga a trovare, questo giovedì?
Lui ridacchiò. –Non serve, mamma, davvero. Sto bene, qui…
Lei sospirò. –Lo so, lo so, sono io che mi preoccupo troppo. E sono sicura che sarebbe fatica sprecata darti delle ricette da fare in casa, giusto?
L’”ehm” imbarazzato che ricevette come risposta fu sufficiente a farle capire l’antifona. Era davvero imbranato con i fornelli, nonostante tutte le sue altre qualità.
 -Ma non dividevi l’appartamento con un aiuto cuoco? – gli ricordò la donna, con un leggero sorriso.
Se ce l’avesse avuto davanti agli occhi, avrebbe potuto constatare che si stava grattando la nuca, a disagio. Faceva sempre così, quando non sapeva bene come rispondere.
-Infatti, ma ha un sacco di lavoro da fare. È sempre al ristorante, tutto il giorno e tutti i giorni; non si prende mai una pausa.
La donna scosse la testa, con un moto di disapprovazione verso quella sorta di schiavitù che i laureandi erano costretti a sopportare.
-E il tuo lavoro alla caffetteria come procede? – chiese. Stava elemosinando minuti di conversazione, ma sapeva anche che avrebbe dovuto aspettare altri due giorni prima della prossima chiamata, ed era ansiosa di godersi la sua voce.
-Bene, bene. Anche lì siamo sempre molto impegnati, ma sono sempre costretto a tirarmi indietro davanti agli straordinari; come ho detto, è un periodo impegnativo.
-La scorsa volta che sono venuta lì, il professor Takamura mi aveva fatto un’ottima impressione. Un signore davvero distinto, mi ricordava tuo padre; mi sembra impossibile che vi riempia d’esami in modo così spietato.
Il giovane fece una risatina. –In effetti, lui è il peggiore.
La donna sospirò, guardando l’ora. Aveva tempo fino alle nove prima di aprire il tempio e, considerando che il nonno era appena partito, non avrebbe visto tornare l’anziano parente prima di mezzogiorno. Conoscendolo, avrebbe trovato sicuramente qualcosa da ridire a proposito di come aveva sistemato l’entrata o fissato gli incensi.
-E… mamma? – chiese, incerto. –Il nonno…come vanno i suoi problemi alla schiena? Continua ad insistere a mettersi quelle cose orribili sotto al kimono?
La signora Higurashi ridacchiò. –No, grazie al cielo! Gliele ho buttate via prima che potesse trovarle di nuovo!
Il giovane fece un sospiro di sollievo.
-Molto meglio. Credo gli facessero ancora più male delle tisane che si mette a sperimentare – confidò.
La donna concordò in pieno con lui, promettendo che avrebbe provveduto anche a quegli intrugli maleodoranti che il nonno ingeriva ad intervalli regolari almeno tre volte al giorno.
-E Akemi** come sta? – si interessò la donna.
Ovviamente, Sota fece una pausa imbarazzata prima di rispondere, come sempre quando in un discorso veniva nominata la sua dolce e cara fidanzata. Anche se si erano messi insieme da poco, alla signora Higurashi pareva ovvio che i due si sarebbero sposati, un giorno: Akemi era una ragazza in gamba ma anche estremamente desiderosa di farsi una famiglia e, se aveva educato il figlio nella maniera giusta, era sicura che questa sua aspirazione sarebbe stata presto soddisfatta.
-B…bene. Ci siamo visti anche ieri… ma in questo periodo è un po’ assente; anche lei sta affrontando gli esami, e la sera è troppo stanca per uscire.
Come la madre immaginava, la ragazza era davvero seria e studiosa.
-È proprio una persona responsabile – la lodò, e il ragazzo non potè far altro che concordare con lei.
All’improvviso, si sentì un brusio insistente di sottofondo, e Sota le chiese di aspettare un attimo in linea. Dopo qualche secondo, il figlio si schiarì la voce.
-Scusa, mamma, ma mi stanno chiamando. Ti dispiace se ci sentiamo domani?
La donna fece un sorriso comprensivo. –Non preoccuparti, tesoro. Salutami i tuoi amici.
-C…certo. Ciao. Ah, e fai gli auguri al nonno da parte mia!
Prima che potesse rassicurarlo, però, il giovane aveva già attaccato.
Con un sospiro, rimise la cornetta al suo posto. Non avrebbe mai capito l’avversione che il figlio condivideva con il nonno nei confronti dei cellulari; si era sempre rifiutato di comprarsene uno e usava ogni volta il telefono pubblico sotto al condominio dove viveva in affitto per contattarla.
Naturalmente, si era spesso offerta di regalargli un telefono, ma lui aveva sempre rifiutato. Diceva che quegli aggeggi non facevano per lui e, vista la terribile dipendenza che ne avevano tutti i suoi coetanei, preferiva farne volentieri a meno.
La signora Higurashi prese uno straccio dallo sgabuzzino dentro casa e si mise a spolverare le cornici del cassettone in ingresso. Era da qualche giorno che non lo faceva: stranamente, in quel determinato periodo dell’anno tantissimi turisti scalpitavano per andare a visitare il tempio, e lei era sempre occupatissima a tenere tutto l’esterno in ordine.
Accarezzò con la stoffa ruvida un ricordo di matrimonio, quando lei e lo sposo erano ancora poco più che ventenni, un’istantanea di Sota, in lacrime a pochi giorni dalla nascita, e infine inciampò nella più dolorosa.
Una bambina sorridente stava in piedi, fiera nel suo grembiule color pesca, davanti all’obbiettivo. Due piccoli codini la rendevano buffa, ma lei non pareva farvi caso: il suo sorriso abbagliante costringeva qualsiasi osservatore ad intenerirsi.
Quella foto l’aveva scattata il primissimo giorno di elementari. La piccola era stata agitata per tutta la settimana e aveva controllato ossessivamente che tutte le penne, i pastelli e i pennarelli fossero a posto nell’astuccio prima di calmarsi. Quella mattina non era riuscita nemmeno a fare colazione: era schizzata fuori dalla porta di casa e, prima di salire sul pulmino giallo, si era voltata e l’aveva salutata con la mano.
Sorridendo, tolse la leggera ombra di polvere dalla fotografia e si dedicò agli altri suppellettili.
“Quante cose sono cambiate da quando sei partita, Kagome” pensò, amaramente.
Indossò il grembiule una seconda volta e uscì all’esterno, malinconica.
Sota era stato il più sinceramente afflitto dalla partenza. Era felice per lei, ovviamente, ma non poteva smettere di pensare a quanto gli sarebbe piaciuto potersi godere la compagnia della sorella maggiore e, con tutta probabilità, anche della sua famiglia.
Si erano tutti rassegnati in casa che il raggio di sole portato dalla ragazza avrebbe ormai brillato solo di luce riflessa, ma avevano continuato dignitosamente le proprie vite. La camera della figlia era rimasta uguale a quando l’aveva lasciata, le sue cose riposte con cura in armadi e cassetti, le sue foto esposte in soggiorno e vicino all’ingresso, i suoi vestiti lavati e stirati attentamente nonostante il tempo passato.
Era un modo per tenerla viva anche nelle mura domestiche. La signora Higurashi sapeva bene che era solo un pallido tentativo di credere che stesse bene, così come avevano fatto anche con la memoria di Masao, ma alla fin fine mancava a tutti l’allegria contagiosa della giovane.
Era stato difficile accettare la scelta che aveva fatto. Quando aveva rivisto Inuyasha dopo il tremendo stato di depressione che aveva passato, la madre aveva notato lo stesso luccichio nello sguardo che lei aveva quando guardava il suo adorato Masao, e aveva capito.
Aveva compreso che se non l’avesse lasciata libera avrebbe solo sofferto, che quello era l’amore della sua vita e che davanti a certe situazioni non si può fare niente se non lasciare che il destino faccia il proprio corso. Nessuno l’aveva mai rimproverata per averla lasciata partire, al contrario, tuttavia quella cupa sofferenza che ormai era diventata rassegnazione gravava sulle spalle della famiglia in modo sempre più insopportabile.
Per lo meno poteva dirsi contenta di saperla viva e in salute, con l’uomo che amava in un mondo che aveva imparato a conoscere, e si consolava pensando di averle fatto un favore tanto grande da essere impossibile da ricambiare.
D’altra parte, una madre deve sapersi sacrificare per il benessere dei propri figli. Come si può crescere un bambino per prepararlo alla vita e poi pretendere che non la viva affatto? I suoi genitori prima di lei non avevano forse sofferto del suo allontanamento da casa, negli anni che furono?
Eppure avevano compreso che sarebbe stata felice, e così era stato. Certo, anche la partenza di Sota era stata un duro colpo, ma il giovane le aveva giurato che, una volta laureato, sarebbe tornato a Tokyo, e questo l’aveva tranquillizzata. E poi il ragazzo era sempre molto attento e presente con i suoi cari, quindi era come se vivesse ancora in casa.
Abbandonando per un attimo le faccende domestiche, la donna si ritrovò ad osservare le cime frondose del Goshinboku.
Nonostante fossero anni che lo guardava, non poteva mai fare a meno di stupirsi della sua arcana bellezza, dell’aria mistica che trasudava da ogni foglia, e della dolorosa concezione che proveniva esattamente dall’epoca in cui si trovava sua figlia.
Quando Kagome aveva raccontato di aver visto il Goshinboku, in quello strano regno in cui era precipitata, la madre aveva già capito che la storia non si sarebbe conclusa con un racconto rocambolesco.
Anzi, era stata conscia di essere solo all’inizio.
“Ecco il tempo che richiede il suo tributo”, aveva pensato, senza nessuna ragione particolare. E aveva avuto ragione.
Si sporse oltre il piccolo recinto, e accarezzò la corteccia ruvida. Le aveva sempre dato uno strano senso di pace.
Ripensando alla risata spensierata di Kagome, seguì con l’indice le linee intricate dell’albero, fino a giungere a quello che le era sempre parso il suo cuore pulsante, la parte più viva di lui. Aveva associato la fortuna del tempio sempre a quella minuscola alcova, a quella rientranza naturale del legno, come se davvero fosse la dimora di una divinità.
Il pensiero della figlia si fece dolorosamente pungente. Il vento aumentò leggermente di intensità e, per evitare di piangere, cosa che pareva ormai inevitabile, volse lo sguardo a terra, in quel quadrato dove l’albero affondava le proprie radici.
Si chinò. I suoi occhi avevano colto uno strano dosso, una sporgenza innaturale. Non ci aveva mai fatto caso, nonostante togliesse le erbacce da lì quasi ogni giorno.
Allungò una mano, curiosa, e palpò il terriccio molle. Il polpastrello stava toccando solo la terra, eppure le pareva che sotto, appena uno strato di qualche centimetro più in basso, vi fosse una scorza più dura, una curvatura di un oggetto nascosto.
Elettrizzata dalla nuova scoperta, corse dentro per recuperare una vecchia paletta da spiaggia nascosta sotto al lavello e un paio di guanti di gomma, che di solito usava per lavare i piatti, e tornò davanti all’albero.
Saggiò di nuovo il terreno, e lo spigolo era ancora lì. Non era qualcosa di appuntito, ma abbastanza solido da non poter essere scambiato con nulla se non con un fagotto.
“Allora non ho le traveggole” pensò. Da un lato era contenta di non essere impazzita, ma dall’altro era terribilmente in apprensione per ciò che avrebbe scoperto.
Si rassegnò, affondando la punta concava nel terriccio vicino alle radici, all’idea che forse qualche bambino aveva nascosto lì sotto un giocattolo per fare uno scherzo. Ma, forse per una sorta di intuito atavico, si rese conto che la sua scoperta non si sarebbe limitata a quello.
Quando la buca fu abbastanza fonda, recuperò un rettangolo imbottito parecchio antico, color caffè, con le striature di garza sulla parte frontale a mo’ di fazzoletto.
Presa da una terribile urgenza, scartò l’involto sentendo la stoffa molle cedere al primo tentativo. Quello che trovò la rese una statua di marmo.
Accarezzò il foglio marroncino ma ancora perfettamente leggibile e, man a mano che le righe in una calligrafia familiare scorrevano davanti ai suoi occhi, non poté impedirsi di coprirsi la bocca con una mano e piangere, come non faceva da anni.
-Kagome…
 
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Accadde in una giornata d’autunno.
Il piccolo Inuyasha stava muovendo i suoi primi passi incerti sul prato. Esattamente come il padre, aveva la gamba destra un po’ meno dritta della sinistra, e questo rendeva il bambino paffuto vestito di rosso tremendamente instabile.
Con un sorriso, Kagome osservò Kaori correre subito in suo aiuto. La sorellina fece raddrizzare il bambino e ne seguì la camminata fino al limitare della piana, per poi tornare indietro ridendo. La somiglianza con il mezzo-demone, nel figlio minore, era impressionante: stessi occhi gialli, stessi capelli chiarissimi, stessa espressione corrucciata.
La sacerdotessa ridacchiò, ma si bloccò di colpo. Un brivido, lungo la schiena, non di certo causato dalla brezza leggera, l’aveva riscossa dai suoi dolci pensieri.
Incredula, guardò in alto, verso il cielo plumbeo.
Poi, lentamente, sorrise.
-Ciao, mamma.
 
*Masao= Uomo corretto (responsabile, attento)
**Akemi = Splendente bellezza.
 
RINGRAZIAMENTI:
Buongiorno a tutte.
Sarebbe doveroso da parte mia scrivere centinaia di righe su quanto siete brave, belle, buone e speciali, per me, però davvero dubito di poterlo fare.
Sicuramente, la prima volta che postai un capitolo in questa splendida categoria, mi ritrovai più che mai sorpresa di ricevere ben quattro recensioni nella prima mezz’ora. È stato una sorta di choc, non so se intendo!
Da quel momento ho capito che il mio lavoro, qui, veniva per la prima volta gratificato da più persone, ognuna più entusiasta e accanita della precedente, e questa cosa mi ha colorato la vita.
Non voglio fare nomi per un senso di giustizia, e poi sicuramente dimenticherei qualcuno, ma voglio dire che il mio cuore appartiene a chiunque abbia recensito, letto e apprezzato questa poco pretenziosa FF sul magico mondo di Inuyasha; leggere i vostri pareri dopo una faticosa giornata di studio era sempre un enorme piacere!
Mi scuso con tutte voi per le mie risposte stereotipate, ma la gratitudine nei vostri confronti mi stordiva così tanto da non riuscire nemmeno a respirare e, di conseguenza, organizzare i pensieri; comunque spero che abbiate ugualmente colto tutta la gioia nascosta dietro ad ogni singolo “ciao” e “alla prossima” presente in ogni risposta :D
Beh…che dire? È dura finire un’avventura durata così a lungo. Sono grata a tutte voi, dal più profondo del cuore; siete le persone che ogni scrittore fai-da-te vorrebbe avere!
E, soprattutto, grazie per avermi sempre supportato e sopportato durante questo difficilissimo periodo della mia vita che ha causato ritardi, errori, frustrazioni e chi più ne ha più ne metta.
Vorrei davvero riuscire a strapparvi un sorriso in questi ormai troppo austeri ringraziamenti, ma sono così malinconica che non so se ci riuscirò :D
A proposito: la famosa storia a voi dedicata sarà una cosuccia di dieci capitoli al massimo nella sezione “Favola”. Verrà pubblicata sicuramente entro sabato, e si chiamerà “Behind the cellar door” :)
Per concludere, vorrei esplicitare il fatto che non ho assolutamente parole per ringraziarvi come si deve. Davvero, vi voglio un mondo di bene, a chiunque di voi!
Grazie per aver reso quest’avventura possibile e sperando che questo non sia un addio,
ciao ciao!
Alla prossima! ;)
Dark kisses <3
 

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