"Penso
che la cosa più misericordiosa al mondo sia l'incapacità della mente
umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo su una
placida isola d'ignoranza in mezzo a neri mari d'infinito e non era
previsto che ce ne spingessimo troppo lontano."
“Il richiamo di Cthulhu” di H.P. Lovecraft
L’equazione
Tratto dalla
corrispondenza fra Paul Howard, MD, primario dell’Our Mother’s Piety
Hospital, istituto di massima sicurezza per pazienti con forti turbe
psichiche, e il professor Elijah Olafsson, PhD, direttore del Centro
Studi Cosmologici della California.
26 giugno 1984. Sacramento, California.
Caro Elijah,
ti scrivo questa lettera per aggiornarti
sulla storia del tuo collega, Albert Theodore Rosenberg, che venne
ricoverato al mio istituto qualche mese fa. Ebbene, il professore
Rosenberg è stato trovato morto nella cella d’isolamento dell’Our
Mother’s Piety Hospital. L’infermiera del turno notturno l’ha trovato
riverso a terra in un lago di sangue alle 23.15 del 23 giugno. Si è
piantato una penna nella carotide: non ci sono spiegazioni su come il
paziente possa essersela procurata. In un angolo della stanza è stato
ritrovato un foglio, di cui ho allegato una fedele trascrizione a
questa mia, su cui ha scritto le sue ultime deliranti parole,
perfettamente in tono con i suoi discorsi apocalittici. Ho seguito
attentamente il suo caso come mi avevi chiesto e non credo di poter
concordare con la tua valutazione. Può sembrare un controsenso, ma la
pazzia di Rosenberg era, come dire, lucida, anche se non sono sicuro
sia lecito parlare di pazzia. Nonostante ciò, leggendo i suoi ultimi
pensieri mi scorre un brivido freddo lungo la schiena; non credo siano
le parole di un pazzo ma, anzi, di una persona brillante. Credo che i
motivi del suo gesto estremo siano da ricercarsi nel suo lavoro
piuttosto che nella sua condizione psichica.
Fin da quando è stato ricoverato ha
sempre mostrato una nitida consapevolezza, esponeva con molta chiarezza
le sue assurde teorie e non cadeva mai nei farneticanti deliri di cui
mi raccontasti. Era sempre molto garbato e arguto nelle sue
argomentazioni e tutto sembrava fuorché pazzo. L’unica nota stonata in
quel quadro era il profondo orrore che trasudava dai suoi discorsi. La
spiegazione andava cercata nelle occulte letture in cui si dilettava il
professor Rosenberg: non conoscevo, e tuttora non conosco, nessun uomo
di scienza così profondamente ispirato dall’esoterismo e dalla magia.
Mi suonava incredibilmente sbagliato pensare che un uomo di tale
levatura fosse interessato a simili sciocchezze. Nonostante ciò le sue
teorie cosmologiche erano supportate da una ferrea base di fisica e di
matematica. Non mi reputo certamente un esperto del settore, ma non
sono nemmeno un neofita, conosco quelle basi della materia che mi
permettevano di capire la plausibilità dei suoi ragionamenti.
In particolare il mio animo è rimasto
profondamente inquietato dai suoi riferimenti a entità aliene alla
nostra realtà dalle quali, a suo parere, dipendeva la nascita
dell’universo. Più volte mi fece leggere i suoi appunti, fogli
straripanti di formule e equazioni, per mostrarmi le prove delle sue
teorie, ma la maggior parte di esse mi erano incomprensibili. Citava
ripetutamente una formula che doveva ricavare per completare il suo
lavoro, dato che fino a quel momento non aveva nulla per, cito le sue
esatte parole, “far ingoiare il rospo ai miei sciocchi colleghi”. Per
il primo mese i colloqui con il professore furono sempre cordiali. Dai
toni accesi dal punto di vista della discussione, ma sempre tranquilli.
Poi lentamente il suo atteggiamento cambiò: sembrava essere diventato
impaziente. Durante le nostre sedute giornaliere passeggiava per il mio
studio e s’interessava poco alla conversazione. Spesso farfugliava
qualcosa a proposito di un’equazione che sembrava essere risolubile e
ammettere una soluzione univoca. Ogni volta che si avvicinava a una
finestra lanciava uno sguardo inquisitore verso il cielo e poi si
ritirava, lontano dalla luce. Col passare dei giorni diventava sempre
più silenzioso, fino al punto da rifiutarsi di parlare delle sue teorie
dicendo semplicemente che prima o poi anche noi avremmo capito, che
tanto tutto era segnato. Le infermiere mi dissero che non usciva più
dalla sua stanza, in cui teneva sempre le persiane chiuse, e mangiava
sempre meno, indebolendosi. La settimana seguente dovemmo trasferirlo
al pronto intervento e nutrirlo tramite flebo. Sembrava quasi che
avesse perso la volontà di vivere. Incuriosito da quell’inspiegabile
cambiamento, frugai nella sua stanza e trovai il quaderno che gli era
stato dato dopo il ricovero: era stato frequentemente adoperato e
mostrava un’usura non indifferente. Le prime pagine erano molto
ordinate e vi erano esposte le sue teorie e vari ragionamenti e ipotesi
sull’argomento. Era tutto scritto in maniera chiara e con un
impeccabile uso della lingua. Vi era anche una notevole quantità di
formule matematiche che mi risultarono troppe ostiche da comprendere.
Va esplicitato che sul quaderno non c’era nessuna data, ma associai
quella prime pagine ai giorni dei nostri primi colloqui, quelli più
accesi e dibattuti. Con il procedere della lettura mi accorsi che
l’ordine andava sempre più velocemente degenerando. La scrittura
diventava più fitta e confusa: parole e equazioni si alternavano senza
soluzione di continuità e alle volte si accumulavano sui bordi del
foglio. Vi erano diversi grafici ma erano stati coperti dalle altre
scritte. Anche là si notava un estremo cambiamento nella personalità
del professor Rosenberg, ma non si trovava nessuna indicazione del
motivo. Le pagine caotiche e incomprensibili continuavano per quasi
tutto il quaderno, fino a un punto in cui s’interrompevano
all’improvviso. Non saprei dire se l’interruzione era sensata perché, a
onor del vero, non avevo compreso nulla di ciò che vi era scritto. Dopo
una decina di pagine bianche la scrittura riprendeva, ma in un’altra
lingua! I caratteri erano filiformi, per cui mi ricordavano l’arabo e
al tempo pensai appunto che fosse proprio quella lingua. Ora non ne
sono più tanto certo e sono convinto che fosse un linguaggio estraneo
alla nostra cultura, nulla che aveva a che fare con l’umanità, ma
qualcosa che Rosenberg aveva imparato da antichi e orribili culti che
aveva studiato. Come nella prima parte, anche là le parti scritte -
assumendo che quei segni fossero una scrittura - s’intervallavano
regolarmente a formule e simboli matematici. Il quaderno si concludeva
con un’equazione - non la ricordo con precisione ma era terribilmente
complicata - circondata da punti interrogativi e una strana frase in
inglese: “Danzate e ballate! Danzate e ballate in Suo onore”; il suo
senso potrai capirlo quando leggerai, se non lo hai già fatto, le sue
ultime parole.
Comunque, dopo una settimana di cure
riprese le forze e poté tornare nella sua stanza, per cui riprendemmo
le sedute. Quando gli chiesi il perché di quel suo cambiamento, non mi
seppe rispondere e mi disse che non ricordava nulla di quanto fosse
avvenuto nei giorni precedenti. Non ricordava né il suo improvviso
mutismo né la sua inappetenza. Come se nulla fosse accaduto riprese a
esporre nuovamente le sue assurde teorie. In parole povere, riprese la
solita routine e continuò per tre settimane. Ormai mi ero convinto che
il professor Rosenberg non fosse pazzo, ma solo un po’ eccentrico e che
l’incidente che ti costrinse a farlo ricoverare solo una banale
casualità, come lui aveva sempre affermato. Ammetto che quando gli
infermieri vennero ad avvertirmi stavo preparando le carte per le sue
dimissioni.
Nulla più di sbagliato! Rosenberg aveva
dato fuoco alla sua stanza. Il medico di turno aveva visto del fumo
filtrare da sotto la porta e aveva subito chiamato la sicurezza.
L’allarme antincendio non era suonato perché Rosenberg l’aveva
manomesso. Quando entrarono nella stanza trovarono il paziente,
circondato dalla fiamme, con le braccia al cielo che urlava frasi in
qualche lingua sconosciuta. Mi dissero che sembrava stesse pregando. Un
uomo della sicurezza aggiunse che aveva chiaramente sentito il
professore pronunciare più volte la parola “Azathoth”.
Avviai subito un’inchiesta interna per
capire come un paziente di fosse procurato il necessario per provocare
un incendio. Rosenberg ne era uscito indenne, e lo feci rinchiudere
nella cella d’isolamento, soprattutto per la sua sicurezza. Là non
c’era nulla che potesse usare per farsi male, solo mura imbottite.
Il giorno successivo andai a parlargli
perché ero curioso. Dal punto di vista clinico questo caso è stato uno
dei più interessanti che ho avuto modo di seguire durante tutta la mia
carriera.
Mi trovai di fronte a un uomo
completamente diverso. Il suo tono era sempre pacato e gentile, ma era
sottilmente sarcastico e alle volte scostante. Quando chiesi le
motivazioni del suo gesto mi rise in faccia e mi disse che ero troppo
stupido per capire. Continuò a inveire, sempre molto compostamente
ammetto, contro tutto e tutti: ce l’aveva con te, John, perché credeva
che volessi appropriarti delle sue teorie; ce l’aveva con me perché lo
ritenevo pazzo; ce l’aveva con tutto il mondo perché “gli uomini sono
stupidi e si credono il centro dell’universo”; soprattutto, fatto molto
interessante, odiava se stesso per aver elaborato la sua blasfema
teoria. Continuava a ripetere che era stato un errore e che certi fatti
andavano ignorati. Una frase particolare, che continuava a ripetere
incessantemente, mi è rimasta in mente: “Non può essere giusto! Ho
sbagliato, devo aver sbagliato!”
Quando provai a interagire con lui per
spiegargli che la scienza in sé è sempre positiva, mi aggredì. Non
fisicamente, ovviamente. Il suo corpo era immobile e non rappresentava
più i suoi sentimenti, come se non interagisse più con la mente ma
fosse solo un guscio. Mi aggredì verbalmente con molta eleganza.
Disse che ero uno sciocco ad
abbandonarmi fiduciosamente nelle braccia della scienza, tutto quello
che ella ci offriva non era che un ingannevole velo che copriva la vera
natura della realtà: caos e orrore. In virtù delle sue teorie era
meglio non porsi domande la cui risposta ci avrebbe fatto impazzire.
Fu la nostra ultima conversazione: era
la mattina del 23 giugno.
Alla fine le sue convinzioni l’hanno
portato al suicidio, ma mi domando se fosse veramente pazzo. E se
invece le sue teorie fossero corrette e si fosse ucciso per via degli
empi orrori con cui la sua mente è venuta a contatto? Come ti ho già
detto, ero pronto a dimetterlo prima dell’incidente dell’incendio
perché non dava nessun segno d’instabilità. Eppure all’improvviso ha
fatto quel che ha fatto.
Perché?
Ripeteva sempre che la teoria era
bloccata da un’equazione che non riusciva a semplificare, una formula
che non riusciva a scrivere in eleganti termini confrontabili con altre
grandezze note. Forse in cuor suo credeva che nei suoi calcoli ci fosse
un errore e che le conclusioni fossero false. Forse questo lo teneva in
vita: la speranza di poter confutare gli incommensurabili abomini che
il suo genio aveva intuito.
E se fosse tutto vero? Se avesse
finalmente risolto quell’equazione dimostrando che quegli orrori di cui
parlava esistono veramente?
Mi hai detto che al tuo centro non ha
lasciato niente di scritto, mentre il quaderno che usava qua
all’istituto è andato perduto nell’incendio. Da un lato non potremo mai
sapere se avesse ragione o no, ma d’altra parte abbiamo la certezza che
nessuno potrà riprendere quelle ricerche abominevoli. Inoltre non
sapremo mai se la sua morte è dipesa da una lucida motivazione
derivante dai suoi calcoli oppure semplicemente se la pazzia abbia
superato i limiti di sopportazione.
Eppure i suoi discorsi di quella mattina
erano lucidi e razionali. Non era un pazzo a parlare ma un uomo, uno
scienziato, che aveva intuito qualcosa di terribile, così terribile da
fargli perdere fiducia nella scienza. Da fargli odiare la Natura
stessa! Quali ripugnanti mostruosità l’hanno così terrorizzato da farlo
arrivare a piantarsi una penna nel collo?
Dentro di me sento che Rosenberg non era
pazzo, probabilmente con il suo genio era avanti coi tempi, troppo
avanti. Possa Iddio perdonarmi ma credo che avesse ragione. La sua
storia mi ha svuotato di ogni iniziativa, ci sono cose che gli uomini
non dovrebbero conoscere. Non ha senso proseguire la ricerca delle
nostre origini se dobbiamo scoprire che non c’è altro che caos.
Non voglio credere che non siamo altro
che un rigetto dei piani di entità primeve, ma sento che è così.
Rosenberg mi ha convinto, sono certo che ha risolto la sua equazione!
Che motivazioni ci sono per continuare a vivere in un mondo che da un
momento all’altro potrebbe cessare di esistere? Credo che la vita non
abbia più senso.
Sono molto scosso.
Saluti,
Peter.