L'anima del mezzo demone

di _Lakshmi_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Shinigami ***
Capitolo 2: *** Fuoco ed Elettricità ***
Capitolo 3: *** Il Risveglio... ***
Capitolo 4: *** Occhiali e piume... ***
Capitolo 5: *** Ricordi dimenticati... ***
Capitolo 6: *** La difficile decisione ***
Capitolo 7: *** L'anima di un demone ***



Capitolo 1
*** Shinigami ***


Blue Rose

L'anima del mezzo demone

Primo Capitolo:

Shinigami

 

Guardai il cielo grigio screziato di azzurro.
Era una di quelle calde giornate di fine primavera dove le rose ormai sbocciate profumavano l’aria con un aroma delicato, purtroppo coperto dallo smog delle fabbriche.
Dai bambini (pochi) che giocavano per le strade ai mercanti che incitavano gli acquirenti a comprare le merci esposte sulle bancarelle, potevo dedurre che la vita era nel pieno delle sue forze.
Al contrario della sottoscritta perché non avevo dormito molto, per non dire niente.
Brancolavo per le vie di una città a me estranea, in cerca di un negozio di un becchino. Già, perché era stato portato lì un cadavere piuttosto importante (per me almeno) e volevo scoprire più dettagli possibili sulla sua morte. Magari avrei scoperto l’assassino e gli avrei fatto passare le peggiori torture dell’Inferno, perché nessuno si doveva intromettere con il mio lavoro.
No, non preoccupatevi, non sono una criminale o una poco di buono, sono soltanto una Shinigami.
Essendo una delle poche donne a svolgere un incarico così importante (forse anche l’unica), spesso venivo giudicata più severamente dei miei colleghi e per questo non volevo tornare con un fallimento sulle spalle.
Dovevo dimostrare di non essere debole, di essere all’altezza dei miei infami compiti.
Non ero mai stata fortunata, in particolar modo con questa professione, perché finivo sempre a creare disastri, oppure a dovermi scontrare con delle creature chiamate Soul Reaper. Non conoscevo alla perfezione i loro poteri, perché morivano prima per mano della mia Falce. Sapevo soltanto che, per qualche arcano motivo, questi esseri squartavano le vittime nei modi più brutali per poi rubarne l’anima e svanire nell’ombra.
Non le divoravano come facevano i demoni, le tenevano unicamente con sé, forse per consegnarle poi ad una sorta di capo.
Battei il pugno destro contro il palmo sinistro. Non ero una persona che si arrendeva facilmente, per la prima volta un Soul Reaper mi era sfuggito -avendomi battuta in velocità- ma gli avrei dato prova che il fuoco -se istigato- può causare un incendio.
<< Scusi signorina>> chiese timidamente una bambina << vorrebbe comprare una rosa?>>
Mi fermai ad osservare i colori stupendi di quei fiori che variavano dal rosso cremisi fino al giallo più brillante. A catturare la mia attenzione però fu una rosa dai petali blu: era bellissima, perfetta e senza spine.
Cominciai a rovistare nelle tasche, accorgendomi soltanto in quell’istante che mi restavano soltanto pochi spiccioli, con i quali sarei riuscita a pagarmi a malapena un pranzo (e neanche dei migliori). Fu allora che quella bimba di sette anni mi guardò con uno sguardo dolce, con gli occhi azzurri colmi di lacrime e con la mano tesa per ricevere i soldi.

Demonio, pensai, porgendole le monete adatte per comprare quel fiore dannato.
Lei sorrise, poi corse da un altro ignaro passante stringendo a sé il bouquet, mentre io rigiravo fra le dita quell’unica rosa blu.
Non riuscivo dire di no a chi mi guardava in quel modo. Era una mia debolezza.

 
Camminai non so per quanto tempo. Londra era una città tanto sporca quanto grande, infatti mi persi una o due volte, finché non vidi la fatidica insegna su cui c’era scritto: UNDERTAKER.
In quel momento mi sembrò di essere giunta nella terra promessa, perché non ne potevo più dei cittadini londinesi che mi squadravano dall’alto in basso, come se fossi una demone, soltanto perché non indossavo la moda femminile di quel tempo (bensì una divisa maschile da Shinigami con tanto di cravatta). Ciò evidentemente aveva fatto scandalo soprattutto fra le donne.
Se fosse stato per me, sarei andata in missione direttamente con la mia camicia da notte nera rammendata con toppe a forma di conigli bianchi, ma secondo i miei superiori non mi donava un’aria molto seria.
Tuttavia in quell’uniforme stavo letteralmente evaporando, tanto che, per sopportare di più il caldo cittadino, fui costretta a slacciare la maglia bianca per i primi due bottoni e utilizzare i fogli su cui c’erano scritti i nomi della gente che dovevo mietere come ventaglio. Normalmente seguivo rigidamente le regole, ma la volontà era diventata quasi nulla a causa del sonno arretrato e dell’afa insopportabile.
Entrai, osservando il caos di quel luogo: era la casa dei ragni e l’impero dello sporco, più o meno come il mio appartamento. Anzi, forse la mia casa era ancora più disordinata a causa della moltitudine di animali che accudivo, tutti con un folto pelo, il quale d’estate cadeva come le foglie in autunno, trasformando il parquet in una moquette multicolore.
Non c’era ombra del proprietario, quindi decisi di aspettare qualche minuto prima di andarmene.
Squadrai il negozio, notando diverse bare di ottima fattura disposte come se fossero dei divanetti, una moltitudine di contenitori posati su diversi scaffali e mensole. Scorsi persino la ricostruzione uno scheletro con tanto di muscoli e organi.
Non c’era molta luce, però riuscii a muovermi agilmente per curiosare un po’. Raggiunsi addirittura un vaso nero contenente dei biscotti a forma di ossa.
Il mio stomaco appena li vide fece un rombo sordo. Era da un giorno che non mangiavo nulla e quei dolcetti mi parvero alquanto invitanti.
Dovetti usare tutto il mio buon senso per resistere alla tentazione e allontanarmi successivamente dalla biscottiera, fermandomi davanti ad una cassa da morto leggermente socchiusa posta verticalmente contro una parete. Mi parve di vedere un luccichio dorato al suo interno, ma la mia attenzione fu richiamata da un coperchio che, cadendo sul pavimento, causò un rumore sinistro, il quale mi fece sobbalzare. Dopotutto c’era il più assoluto silenzio e un suono così cupo era stato come un filmine a ciel sereno. 
Mi avvicinai per sistemare la bara, ma proprio quando sfiorai il coperchio in legno, una mano mi si appoggiò sulla spalla. Il mio viso passò dalle tonalità fredde del blu per la paura fino ai colori caldi come il rosso per il nervoso.
Non ci pensai due volte: afferrai il mal intenzionato per un braccio e lo scaraventai contro la parete; poi, prendendo i due pugnali che tenevo ben nascosti nella giacca, glieli puntai alla gola.
<< Che intenzioni hai?>> ringhiai.
<< Ehehehe... sei tu che sei entrata nel mio negozio>>
Ed infine diventai di una tinta bordeaux per la vergogna. Avevo agito con troppa superficialità, seguendo il mio impulso e rischiando così di ferire colui che mi avrebbe dato una mano.
Riposi i coltelli in una tasca interna della giacca, poi aiutai l’uomo ad alzarsi. La sua reazione però fu piuttosto bizzarra: invece di innervosirsi (il minimo), continuava a sghignazzare.
Alzai lo sguardo per vederlo in volto, notando che tra il mio viso e il suo c’erano sì e no tre centimetri. Il cuore ebbe un sussulto, per un attimo non mi ressero nemmeno le gambe, perché non ero abituata a trovarmi così vicino ad una persona estranea.
Indietreggiai di qualche passo, poi lo studiai: aveva i capelli grigiastri, lunghissimi e lisci, tranne per una sottile treccia, mentre gli occhi erano coperti da una folta frangia premuta da un bizzarro cappello nero con un’infinita coda, della medesima tonalità della tunica. L’uomo portava anche una fascia color cenere sulla spalla destra, la quale era annodata in vita e degli stivali neri che facevano appena capolino da sotto la bislunga veste.
La mia attenzione fu attirata da un’evidente cicatrice sul volto e da un’altra sulla gola, anche se quest’ultima era seminascosta dal colletto dell’indumento. Mi domandai come avesse fatto a procurarsele, ma i miei pensieri s’interruppero quando sentii quella voce sinistra.
<< Come ti chiami?>> mi domandò facendo un ampio –ed inquietante- sorriso.
<< Mi può chiamare Pandora. Senza fare troppi giri di parole, sono arrivata qui per chiederle un favore: so che il cadavere di un barone anziano è stato portato qui...>>
<< Quindi vorresti delle informazioni, dico bene? >> si avvicinò di nuovo a me ed io indietreggiai ancora un po’ per mantenere le distanze << Ihihihi... devi sapere che tutto ha un prezzo>>
<< Dovrei ancora avere un po’ di soldi>> dissi, frugando nella tasche per recuperare tutte le monete che possedevo.
<< Ma io non voglio i soldi della regina...>>
Smisi immediatamente di cercare. I miei occhi verdi-giallastri si fermarono su quella figura longilinea, tentando di capire il senso della frase. Come non voleva i soldi della regina? E con cosa altro potevo pagarlo?
Prima di fidarmi di una persona, doveva passare molto, molto tempo e non facevo eccezioni per nessuno, in particolar modo per quell’essere;  e prima di pensar bene, avevo la maledetta abitudine di pensare male e quella frase, lasciata in sospeso, di certo non mi aiutava a considerare una qualsiasi via positiva.
Lo afferrai per la tunica e lo tirai verso di me, guardandolo con odio. I miei occhi erano diventati improvvisamente di una tinta rossastra appena ebbi l’intuizione dell’altro modo per saldare il favore.
<< Se lo può scortare! Io non vado a letto con il primo che capita, perve...>>
<< Fammi beare di una risata e ti dirò ciò che vuoi>> concluse facendo il suo fatidico sorriso.
Una risata?
All’inizio pensavo anzi, speravo che mi stesse schernendo, perché non avevo molto senso dell’umorismo, ma alla fine capii che, se volevo le informazioni, dovevo fare un piccolo sforzo e accontentarlo.
Mi sedetti su una cassa da morto e cominciai a pensare a una battuta, una qualsiasi, ma erano tutte fin troppo deprimenti.
Non riuscivo più a ridere da quando mio padre mi aveva abbandonata. O perlomeno, sì, ridevo, ma non riuscivo mai a farlo con... sincerità e ciò intaccava la mia comicità.
Mia madre era morta poco dopo avermi partorito, quindi mi ero affezionata molto a lui. Si era sempre comportato con gentilezza nei miei confronti: mi aveva aiutato nei momenti più difficili, mi aveva insegnato ciò che conosceva e mi aveva raccontato diverse storie della buonanotte per farmi addormentare quando le ombre della notte non me lo permettevano. La mia preferita narrava di una bellissima principessa dai capelli candidi (mia madre), la quale, in un giorno di fine primavera, incontrò il suo principe, uno Shinigami.
Avevano vissuto parecchie avventure insieme, finché la morte non si portò via la nobile ragazza. Soltanto poi scoprii che di nobile quella donna non aveva niente e che, mettendomi al mondo, mi aveva dipinto un destino ricco di ostacoli, forse fin troppi.
Il primo di essi fu l’abbandono da parte di mio padre: durante la festa chiamata Natale (che da quell’anno in poi avevo iniziato ad odiare) lui svanì, lasciandomi nelle sgrinfie degli Shinigami, i quali, essendo una mezzosangue, non mi guardavano con grande rispetto.
Quando mi sentivo sola, rigiravo fra le dita una rosa blu realizzata con pietre preziose, regalatami per il mio quinto compleanno, sperando che con quel semplice gesto egli sarebbe tornato indietro.
Perché una rosa blu?

Il blu, bambina mia, è il colore che più ti dona, diceva ogni volta quando concludeva un racconto ed io ero quasi completamente assopita.
<< Perché quell’espressione triste?>> mi domandò il proprietario del negozio con una voce cantilenante.
Lo guardai negli occhi, poi balzai in piedi.
<< Nulla che ti possa interessare>> sospirai << comunque... ho trovato un modo per donarti una risata>>
I miei occhi brillarono di luce propria per un attimo, un luccichio talmente inquietante che per qualche secondo riuscii a togliere il sorriso persino al becchino, donandogli invece un’aria preoccupata.

 
Forse sarà passato un quarto d’ora, forse mezzora, non sapevo bene quanto di preciso perché non avevo portato con me l’orologio. Tuttavia sapevo di per certo che l’uomo era stato messo K.O. dalla sottoscritta.
Era afflosciato sulla bara, con un rivolo di bava su entrambi i lati della bocca e ogni tanto biascicava anche qualche parola scollegata l’una dall’altra.
D’altronde, a mali estremi, estremi rimedi.
<< Allora? Mi darete le informazioni che mi servono?>> domandai mentre mi sistemavo la giacca.
Lui improvvisamente si rianimò, restando qualche attimo a fissarmi con il suo solito sorriso, poi si avvicinò e mi sfiorò il volto con uno dei suoi lunghi artigli neri.
<< Aveva un espressione così sofferta in volto... dev’essere stato ucciso da un animale con degl’artigli molto lunghi, circa cinque o sei centimetri, perché è riuscito a penetrare nella carne, proprio qui>>
Senza che nemmeno me ne accorgessi, il becchino ora si trovava alle mie spalle e, poggiandomi le unghie all’altezza del cuore, continuò a parlare.
<< Non si può sapere se era stato ucciso da una creatura oppure da più?>> domandai, allontanandomi leggermente.
<< Mhm... non si può dire con certezza. Mi è capitato un altro cliente ridotto nelle stesse condizioni, si chiamava...>>
La porta d’entrata si spalancò, facendomi sobbalzare.
Mi girai per vedere chi era entrato, scorgendo la stessa bambina che qualche minuto prima mi aveva venduto la rosa blu. I suoi capelli castani, lunghi fino alle spalle, erano sporchi di sangue, come il volto dai lineamenti dolci e l’abito semplice, lungo fino alle ginocchia.
Correndole incontro, riuscii a prenderla in braccio prima che cadesse a terra.
<< Mamma...>> mormorò prima di perdere i sensi.
Chi poteva aver fatto questo ad una bambina? Doveva essere una persona spregevole. Oppure non era affatto una persona, perché mentre la porta si chiudeva vidi degl’occhi completamente rossi che mi osservavano.
Era stato come un invito a combattere ed io non mi sarei tirata indietro per nulla al mondo.

 

Fine primo capitolo!

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Capitolo 2
*** Fuoco ed Elettricità ***


Secondo Capitolo

Secondo Capitolo:
Fuoco ed Elettricità

 

Le persone parlavano, ridevano, oppure compravano le merci esposte sulle bancarelle, osservando con occhio critico i prodotti in vendita.
Una vita tranquilla, talmente calma da sembrare quasi irreale. Una vita ignara di ciò che sarebbe accaduto.

Con la lama insanguinata e gli occhi rossi come le fiamme dell’Inferno, osservavo il corpo deforme del Soul Reaper che a grande velocità mutava in una poltiglia nera. Ormai si poteva distinguere solamente il cranio e la colonna vertebrale, il resto era già decomposto.
Non riuscivo più a controllare la rabbia per ciò che mi aveva detto: Pensi che lui mi abbia mandato da solo? No... lui ha mandato un caro amico. Sai, in questo momento sta strisciando  per la città... ahahaha, non c’è dio al mondo che possa salvare la Regina e il suo popolo.
Ero caduta in una stupida trappola, perché mentre ero impegnata a combattere, una creatura molto più forte di quella che stavo fronteggiando si muoveva indisturbata per le vie di Londra. Dovevo fermarla.
Non che fossi una sorta di paladina della giustizia, ma non volevo essere rimproverata da William per un eventuale “hai lasciato che un mostro mietesse le anime...” e sentire per un’altra volta tutte le regole che gli Shinigami dovevano seguire.
Rifoderai la spada corta, riponendola nella borsa a tracolla nera, poi, dopo essere uscita dal vicolo cieco, cominciai a girare per le vie della città, cercando il fatidico mostro. Doveva avere doti di mimetismo elevate, visto che non riuscii né a vederlo né a percepirne la più lontana presenza.

<< Sei in un vicolo cieco>> sussurrò una voce alle mie spalle.

Mi voltai, notando soltanto delle persone che camminavano tranquillamente. Ogni tanto mi donavano un’occhiata dall’alto in basso, ma nessuno si era fermato per parlarmi.
Forse era soltanto frutto dell’immaginazione e delle ore di sonno arretrate, oppure semplicemente la mia paura profonda di essermi smarrita stava parlando nella mia mente.
Non sapevo dove andare e soprattutto in che punto di Londra mi trovavo. Seguivo la massa a testa bassa, sperando che (così, per magia) il nemico mi sarebbe comparso davanti. E poi cosa avrei fatto? L’avrei affrontato davanti a tutti, compromettendo la vita della gente?
Beh, in questo caso non esisteva alcuna alternativa. E poi avrei fatto comunque del bene: il becchino avrebbe avuto un lavoro extra.
Già, il becchino. Era l’essere più strambo che avessi mai incontrato.  Un po’ mi dispiacque di avergli dato in custodia la bambina ferita. Insomma, non aveva scritto in volto sono una persona affidabile (nemmeno io a dir la verità, il mio simpatico soprannome infatti era Lady Crash a causa dei miei piccoli e rari disastri che avrebbero potuto far saltare in aria un’intera abitazione a sei piani).
D’un tratto la mia attenzione fu catturata da un luccichio proveniente in una strada secondaria. Pensando che potesse trattarsi del fatidico mostro, mi avvicinai, tenendo la mano vicino alla borsa, pronta ad afferrare la spada se mai ne avessi avuto la necessità.
Appena fui a metà del vicolo, improvvisamente tutto si scurì e qualcosa di piumato mi rubò gli occhiali.
Per un attimo mi trovai smarrita, perché nella mia assoluta miopia non riuscivo più a vedere nulla, soltanto qualcosa di sfuocato e candido che balzellava poco distante da me, nell’ombra.

<< Uno Shinigami senza gli occhiali è come un pollo alla vigilia di Natale...>> la voce fece una breve pausa, poi continuò << Spacciato>>

Sforzai la vista -utilizzando anche i miei poteri demoniaci- così riuscii a distinguere a grandi linee la figura.
Rimasi senza parole, credendo quasi che si trattasse di un sogno, ma purtroppo era la cruda realtà.
Avevo davanti a me un gallo parlante con indosso un gilet nero, una cintura a cui erano appese delle boccette contenente un liquido verde brillante e, soprattutto, degli occhialini tondi con le lenti del medesimo colore del fluido nelle fiale.
Sopra di me, a coprire il sole, si trovava un grande telo scuro logoro. La luce riusciva ugualmente a illuminare, anche se debolmente, la scena a causa dei rattoppi fatti con superficialità.

<< Daveeero?>> dissi, trattenendo a stento una risata.

<< Certo, si sa che voi giovani fate affidamento totale su ciò che vedete... aspetta, stai ridendo?>>

Richiamai la mia Death Scythe personalizzata, la quale fece indietreggiare il volatile.

<< Ma voi non usavate unicamente attrezzi per il giardinaggio?>> disse gonfiando le piume.

<< Beh... insomma... diciamo che si può usare anche per il giardino: taglia gli alberi perfettamente. Chissà i polli...>>

<< Sono un gallo! Porta rispetto! Io una volta ero uno Shinigami potentissimo! Il nome Frederick incuteva terrore... nei tempi d’oro...>>

Aggrottai la fronte poi avanzai stringendo l’impugnatura della falce con ambedue le mani. Volevo riavere indietro i miei occhiali, avevo fatto molta fatica per guadagnarli e vederli in mano ad un'altra persona mi innervosiva.
Fra le reclute, io ero sempre stata quella più sfortunata, perché a causa della mia natura nessuno mi vedeva di buon occhio. E quando venne quel benedetto giorno in cui presi gli occhiali, in cuor mio quelle lenti significavano che finalmente ero riuscita a diventare ciò che non ero e che non sarei mai stata.
Per questo c’ero così legata.
Quando ormai pochi passi mi separavano dal gallo, qualcosa mi prese per le gambe e mi trascinò via. Tentai disperatamente di aggrapparmi a qualsiasi oggetto, ma fu tutto inutile.
Era tremendamente forte e persino quando impiantai la Death Scythe nel terreno per frenare il rapitore fu un completo fallimento. Vidi la mia ascia bipenne allontanarsi sempre di più, come le persone che scappavano via urlando.
Venni sollevata in aria per poi essere scaraventata violentemente al suolo. Non feci nemmeno in tempo a riprendermi che finii contro il muro di una casa.
Appena ricaddi a terra, vidi finalmente il nemico, quello che era stato mandato a dare una mano al Soul Reaper per distruggere la città.
Era un serpente piumato sulle sfumature del rosso, a grandezza d’uomo, con canini lunghi una ventina di centimetri e occhi cremisi puntati su di me. Spalancò le fauci e con la lingua biforcuta cercò di prendermi, ma fui più lesta nel trasformarmi in corvo e volare verso la mia falce.
Volavo come una disperata verso l’arma, perché una cosa era certa: a mani nude non avrei mai ucciso quell’affare. Mi ritrasformai in umana e disincastrai l’ascia appena in tempo, infatti riuscii a parare il colpo e poi, con un lesto balzo all’indietro, evitai che i denti del rettile si conficcassero nella mia carne.
Studiai i movimenti fluidi dell’animale, il quale ruggiva, gonfiando anche le piume per intimorirmi.
Scattai in avanti, cercando di farlo indietreggiare il più possibile con attacchi veloci. La bestia contrattaccò con una potente sfiammata che evitai per puro miracolo, poi tentò di infilzarmi con la coda affilata come una lama.
Mi ferì superficialmente la gamba sinistra, in compenso però io potei trafiggerlo con l’ascia. L’animale ringhiò sofferente, ma non demorse: con una rapidità che sfiorava quasi la luce impiantò i suoi denti nel mio fianco destro.
Era una morsa di ferro, con la quale riuscì ad iniettarmi il suo veleno mortale. Per liberarmi utilizzai una potente scarica elettrica, seguita poi da un colpo di Death Scythe per allontanarlo.
Poggiai una mano sulla parte ferita dalla quale provenivano delle fitte allucinanti.
Respiravo affannosamente, ripetendomi nella testa che non potevo arrendermi e di continuare a combattere.
Tuttavia, ad ogni colpo che infliggevo mi sentivo sempre più debole, sempre più lenta, sempre più impotente. Arrivai persino a non reggermi più in piedi.

<< Io non posso cadere...>> mormorai, poi guardai il serpente ferito ed urlai << Io non devo cadere!>>

La Falce della Morte si circondò di fulmini, come il resto del mio corpo. Scattai in avanti, attaccando con una ferocia che non pensavo nemmeno di avere.
Tentò di ferirmi con una vampata di fuoco, io risposi con una potente scarica elettrica.
Le fiamme e l’elettricità erano alla stessa potenza, finché un tuono non squarciò il cielo grigiastro e colpì in pieno il nemico stordendolo per qualche attimo.
Corsi in avanti, affondando l’ascia nelle sue carni.
Per difendersi, mi ferì la coscia conficcando la coda-lama fino a raggiungere il femore, ma io non mi mossi di un solo centimetro dalla mia posizione, amputandogli quasi la testa.
Quasi, perché proprio quando stavo per ucciderlo, lui surriscaldò il corpo e il calore saettò nella mia falce, finendo così per ustionarmi le mani.
Lasciai involontariamente l’impugnatura dell’arma, cadendo per terra.
Tentai di rialzarmi, ma fu tutto inutile. Le ferite e il veleno mi avevano indebolita fin troppo, facevo persino fatica a respirare.
Sarebbe finita così? Una vita passata a lottare si sarebbe spenta come la fiamma di una candela esposta al vento?
La bocca dell’animale era spalancata e stava per azzannarmi il collo per rompermelo.
<< io... non... mi... arrendo>> ansimai.
La creatura si ritrovò il mio pugno in gola, ma non fece nemmeno in tempo ad accorgersene che delle pulsazioni elettriche lo paralizzarono, mentre delle saette provenienti dal mio palmo cominciarono a bruciarlo dall’interno.
Intensificai la potenza dei fulmini, urlando anche per il dolore perché sentivo le mie forze venirmi meno. Mi fermai soltanto quando notai la morte del serpente nei suoi occhi un tempo colmi di rabbia, ora vitrei e freddi come il ghiaccio.
Ritrassi la mano, poi rimasi ferma, immobile ad osservare il cadavere che ancora si muoveva a causa dell’elettricità. Ero riuscita ad ucciderlo, ero riuscita a...
Vidi il mondo farsi ancora più sfocato e opaco, fino a diventare completamente nero. Però, invece di crollare al suolo, sentii qualcosa di caldo e di piacevole prendermi al volo.
Riecheggiò nella mia mante una risata per me indimenticabile, unita ai passi dei soldati che accorrevano per vedere cos’era accaduto.
<< Becchino...>> mormorai << Trattami bene...>>
<< Ihihihi... non è ancora giunto il momento per te di riposare in una delle mie bare...>>

 

Fine secondo capitolo!

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Capitolo 3
*** Il Risveglio... ***


Terzo Capitolo

Terzo Capitolo:

Il risveglio

 

Guardavo mio padre mentre leggeva un voluminoso libro antico.
La luce della candela gli illuminava il viso dai tratti dolci, mostrando la pelle perfetta, gli occhi verdi giallastri bellissimi e la lunga chioma mossa e aurea. Teneva la testa leggermente inclinata, concentrato nella lettura, però, appena incrociò il mio sguardo timido, fece subito un ampio sorriso e tese la mano destra, come se mi volesse al suo fianco.
Mi alzai dal mio posto di totale ombra e cominciai a correre verso di lui, anche se fu completamente inutile.
Ogni passo che facevo, si allontanava sempre di più, fino ad abbandonarmi nel più totale buio e solitudine.
Dopo un attimo di completo silenzio, si levarono le risate di alcune figure grigie che nel frattempo mi avevano circondato. Esse mi schernivano, chiamandomi Mostro, Abominio persino Demone.
Effettivamente ero una cosa che non avrebbe dovuto nascere, il frutto dell’unione fra uno Shinigami e un Demone, eppure mi sembrava un accanimento fin troppo esagerato: insomma, anch’io avevo dei sentimenti e loro -quei volti cinerei senza nome- me li avevano calpestati come se niente fosse.
Però, al contrario di ciò che pensavano, io non ero un ragazza debole (almeno caratterialmente). Raccolsi ogni mio granulo di forza e scattai in avanti, pronta a far zittire una di quelle tante sagome con un sonoro pugno in pieno viso. Purtroppo, proprio quando stavo per reagire, la scena intorno a me si scurì improvvisamente, diventando totalmente nera per qualche istante, finché non aprii gli occhi.
All’inizio vedevo unicamente delle figure sfocate intorno a me, poi quando mi abituai alla fioca luce e sforzando anche un po’ di più la vista, quelle forme divennero più definite.
Mi sedetti, guardando il pollo Shinigami che era intento a divorare i biscotti a forma di osso, i quali avevano riscosso abbastanza successo visto che anche la bambina, seduta su una bara poco distante, li stava mangiando.

<< è viva!>> esultò la ragazzina, correndo verso di me.

<< Cavolo... ed io che avevo puntato il contrario>> bofonchiò il volatile << Ehm... va bene se ti pago con fiale di dubbia provenienza? Non ho spicci con me>>

Lei frenò la corsa e si diresse verso il gallo, cominciando poi a scuoterlo come se si trattasse di uno di quei porcellini-salvadanaio. Con un tintinnio acuto, caddero al suolo talmente tante monete e pacchetti di banconote che restai esterrefatta. Nella mia vita non avevo mai visto così tanti soldi tutti assieme.

<< Violet, lasciami! Quelli sono miei, li ho guadagnati onestamente!>> poi, accorgendosi forse dell’enorme sciocchezza che aveva detto, continuò << Insomma... a voi non interessa come li ho guadagnati! Siete soltanto delle vecchie megere>>

Sospirai e poi sobbalzai, notando soltanto in quel momento che mi trovavo in una bara.
Un brivido di freddo mi percosse la schiena: c’era mancato pochissimo alla mia morte.
Non tardai ovviamente a balzare fuori dal luogo del mio futuro ultimo viaggio. Futuro remoto, spero.
Scostai i petali color cobalto dalla mia lunga chioma, notando con orrore che era... candida come la neve appena caduta.
Okay, devo ammetterlo, non ero bionda naturale infatti usavo l’henné per colorarli, però c’era un motivo ben preciso sul perché me li tingevo. Insomma, con i capelli della mia vera tonalità sembravo tale e quale a mia madre (tranne per gli occhi) e visto che lei era un demone, volevo assomigliarle il meno possibile.
Ero cresciuta con una mentalità da Shinigami e per me era molto difficile accettare la verità di non poter mai essere una creatura completa. Ero un Dio della Morte che per combattere si serviva anche dei poteri demoniaci, perché, sebbene ogni volta ricevevo una ramanzina da William e nei casi più gravi rischiavo anche di rimetterci il posto, era nella mia natura. Seppur mi sforzassi di essere una Shinigami in tutto e per tutto, quando combattevo non riuscivo ad utilizzare unicamente la metà delle abilità, poiché avrei rischiato di rimetterci la pelle. Non ero invulnerabile come i miei colleghi, (anche se avevo comunque delle resistenze elevate) quindi mi veniva spontaneo utilizzare ogni mio potere sovrannaturale pur di salvarmi dalla morte.

<< Volete del tè?>>

Il becchino fece capolino da una porta che, con molta probabilità, conduceva ad una sorta di laboratorio. Portava un vassoio su cui erano appoggiati dei contenitori con delle tacche sui lati, o almeno così credevo, perché avevo la vista un po’ annebbiata.

<< Io lo bevo volentieri>> dissi mentre con lo sguardo cercavo le mie lenti. Dove potevano essere andate a finire? Come minimo le aveva ancora fra le ali quel volatile da padella.

<< Ti sei svegliata. Era comoda la bara che ho fatto su misura?>>

<< Ehm... sì... per essere comoda è comoda. Ma... sei stato tu a togliermi la tinta?>>

<< Sì! Ti ha anche cambiato l’abito! Il tuo era tutto rovinato e poi con quella tunica stai molto bene!>> rispose la bambina.

Diventai bordeaux. Dentro di me bruciava un sentimento misto fra imbarazzo e nervoso che sfociò però in un mutismo irreale.
Fin da piccola non avevo mai amato l’idea che qualcuno mi vestisse, infatti William quando voleva farmi indossare degli orripilanti vestiti da bambina doveva sempre chiedere l’aiuto di altri due Shinigami per tenermi ferma. Lui diceva che era faceva tutto ciò per mia madre, infatti lei avrebbe tanto voluto vedermi agghindata come una bomboniera ambulante. Io invece ero convinta che lo Shinigami tanto fissato con le regole possedesse, nel profondo, una mente sadica e bacata, simile a quella di Grell.
Insomma Will, colui che si lamentava tanto dei Demoni, cambiava radicalmente opinione quando parlava di mia mamma, come se in passato l’avesse conosciuta e... avesse provato dei sentimenti.
Ovviamente questa era fantascienza, poiché l’omino di ghiaccio non poteva provare emozioni. Mi aveva presa con sé unicamente perché era stato un preciso ordine proveniente dai piani alti, non di certo per misericordia.
Afferrai la tazza di tè e poi, dopo aver aggiunto tre cucchiai di zucchero e tanto limone, sorseggiai la bevanda assorta nei miei pensieri.
Non riuscivo a comprendere l’atteggiamento di
William T. Spears: si comportava come un iceberg nei miei confronti, però appena mi mettevo in qualche guaio (e ciò succedeva abbastanza spesso) o per recuperare un’anima impiegavo più tempo del previsto, lui era sempre il primo a preoccuparsi (a detta di Grell); poi, ogni volta che completavo un incarico, il pinguino gelido non perdeva mai l’occasione per ripetere le regole che gli Shinigami dovevano rispettare e che nessuno di essi rispettava.
Quanto avevo odiato quel libro di norme che lui utilizzava come Bibbia. Normalmente i genitori leggevano ai figli le storie della buonanotte, non le sanzioni da pagare se uno trasgrediva una legge.

<< Comunque, Shinigami dall’ascia bipenne, non preoccuparti: fra te e l’asse da stiro la differenza è minima>> ridacchiò il pollo.

Avvampai ancora di più tentando di mantenere la calma, anche se la mia mano avrebbe voluto impugnare la falce e  amputargli la testa.

<< Quindi non è che c’era tutta ‘sta vista>> aggiunse poi, raccogliendo le banconote sparse sul pavimento.

Purtroppo i miei buoni propositi di mantenere un minimo di autocontrollo vennero meno, così afferrai il gallo per la gola e lo lanciai contro la porta del negozio. Sfortunatamente, suddetto uscio si aprì e il volatile piombò contro lo sciagurato avventore.

<< Non si ferisce una verginea fanciulla! Soprattutto in viso!>>

Quella voce mi fece raggelare il sangue, perché era fin troppo familiare, fin troppo... Grell. Non avevo altre parole per descrivere quel suono e soprattutto la personalità dell’individuo che lo aveva prodotto.
Grell è un mio collega, un essere piuttosto particolare, con dei lunghissimi capelli rossi come il sangue e degli occhi verdi-giallastri da Shinigami nascosti dietro a degli occhiali con una montatura del medesimo colore della chioma. Forse sarà stato per il suo viso un po’ troppo effeminato, forse per il suo abbigliamento da donna o per il fatto che spesse volte parlava di sé come se fosse una ragazza, però all’inizio l’avevo scambiato veramente per una femmina.
Era stato uno shock scoprire che in realtà si trattava di un ragazzo.
Mi ricordo ancora quel giorno, il giorno in cui smisi di pensare che esistesse un solo Dio della Morte sano di mente.
Da piccola mi piaceva bere il tè con il pinguino di ghiaccio e, oltre alle solite discussioni tipo “come è andata la giornata” e “ricordati le regole degli Shinigami” ad un tratto dissi: “Sai, oggi ho giocato con le bambole con una signora molto simpatica. Si chiamava Grell e sembra che si sia presa una cotta per te!”
William per poco non sputò la bevanda nella tazzina.

“ Pandora... Grell non è una donna e ti consiglio di lasciarlo stare, non è affidabile”
Ovviamente l’Iceberg -invece di mantenere la sua freddezza da Siberia -  poteva essere anche un po’ più delicato, ma in questo modo non sarebbe stato lui.
Grazie a questo episodio della mia vita, smisi per sempre di giocare con le bambole, dedicandomi invece al disegno, a suonare il pianoforte e a studiare con serietà per diventare una brava Shinigami (certo, come no).

<< Panda - Chan?>> domandò il Dio della Morte.

<< Grell? Che...>>

Capii subito il motivo della sua presenza quando entrò un maggiordomo spilungone con i capelli corti neri ( e se devo essere sincera, pure carino), seguito da un bambino vestito da conte e con un occhio coperto da una benda.
Frederick, dopo essersi ripreso dal volo, guardò in malo modo il servitore. Probabilmente si era accorto dell’aura demoniaca che questo emanava.
Vidi il gallo sfiorare con l’ala una delle provette, ma poi si bloccò e balzellò verso di me. Purtroppo però, prima di riuscire a raggiungermi, venne afferrato per il collo da Grell, ma a quel punto intervenne la bambina.

<< No, signore! Quello è il nostro animaletto domestico, si chiama... ehm... Cocò>>

<< Questa palla di penne ha osato ferire una fanciulla indifesa>>

<< Ma è stata la mamma a trovarlo! E poi papà me lo ha affidato, dicendo di prendermene cura>> disse la ragazzina, prendendo il pollo per le zampe.

Quando Frederick emise un ululato soffocato per il dolore –perché i due stavano giocando a tiro alla fune e la fune in questione era lui- il maggiordomo li richiamò all’ordine. Probabilmente il conte era innervosito dalla scena e gli aveva chiesto di farli smettere.
Il gallo, cadendo su due zampe, guardò in malo modo Undertaker che, nel frattempo, stava ridendo come un dannato.
Io stavo bevendo tranquillamente il tè, anche se mi scappò un risolino quando vidi il volatile con le piume arruffate e una faccia da serial killer. Malauguratamente la mia allegria svanì improvvisamente quando notai una rosa blu posata nella bara in cui avevo dormito.
Un fiore che mi faceva tornare in mente troppi avvenimenti.
Distolsi lo sguardo, per posarlo poi sul volto del becchino. Per un attimo mi parve di intravedere delle iridi verdi-giallastre sotto la folta frangia grigiastra. Erano fisse su di me e, facendo scorrere gli occhi fin sulle labbra, notai la sua espressione incredibilmente seria. Durò un attimo, perché quando si rivolse al bambino, aveva già un ampio sorriso.
Il nobile spiegò perché si trovava lì: voleva infatti avere dei dettagli in più sulla morte di alcuni ragazzini londinesi.
Questa discussione sembrò ferire Violet, allora –con il permesso del proprietario del negozio- l’accompagnai nel laboratorio dove venivano abbelliti i cadaveri.
Non era un posto molto allegro, perché era una stanza cupa, con i muri su cui vi si trovavano delle macchie rossastre e sparpagliate qua e là c’erano delle bare scoperchiate con dentro i morti.
Recuperai un paio di sgabelli e ci sedemmo. Dopo un lungo attimo di silenzio dove si sentivano soltanto le voci in riverbero della stanza adiacente, finalmente si decise a parlare.

<< Io dovevo essere una di quei bambini>> mugugnò << dicevano che non ero forte e poi altre parole in una lingua strana. Allora ho iniziato a correre spaventata, ma mi hanno seguito... e poi sono arrivata qui>>

<< Loro? Erano più di uno?>>

<< Sì, circa quattro o cinque. Erano tutti incappucciati, ma era come se li vedessi soltanto io... non so come spiegarmi, perché anche quando quei signori richiamarono delle spade gigantesche, i passanti continuavano a camminare normalmente >>

Calò ancora l’apparente silenzio.
Non volevo insistere, perché potevo leggerle negl’occhi lucidi una sofferenza ineguagliabile mentre raccontava quell’esperienza.

<< Te ne andrai?>> domandò ad un tratto chinando il capo per non mostrare le lacrime che le scorrevano sul viso innocente.

Come faceva una persona estranea a starle così tanto a cuore?

<< Probabilmente sì, non ho più niente...>>

La piccola corse verso di me e mi abbracciò.

<< Non abbandonarmi! Tu e gli altri siete la mia unica famiglia...>> disse, singhiozzando.

Rimasi stupita a sentire quelle parole, perché mi fecero tornare alla memoria ciò che avevo urlato a mio padre in quel lontano giorno d’inverno.
Era finalmente giunta la festa di Natale, la celebrazione che tutti i bambini aspettavano con ansia per ricevere i regali dai loro familiari. Io mi ero svegliata alla buon ora e correvo felice per casa, pronta a scartare il mio pacchetto.
Purtroppo, come unico dono ricevetti una pugnalata al cuore. Nella scatola infatti trovai una rosa blu, realizzata con pietre preziose, e un biglietto con scritto “Arrivederci, bambina mia”.
Guardando il paesaggio candido fuori dalla grande finestra, notai quella figura longilinea completamente vestita di bianco allontanarsi sempre di più. Si voltò solamente per darmi un’ultima occhiata sorridendo, prima di svanire per sempre dalla mia vita.

<< No, non preoccuparti... io non ti abbandonerò>> mormorai.

La sera ormai tarda aveva avvolto l’Inghilterra in una calda morsa. Le ombre degli imponenti edifici si erano tramutate in delle bislunghe figure storpiate dal chiarore pallido della luna, rendendo tetro e apparentemente irto di pericoli il panorama londinese.
Appoggiata alla ringhiera in ferro dell’angusto balcone dell’appartamento del becchino, posto sopra alla bottega, mi godevo la visione.
In teoria dovevo riposare, perché le ferite che avevo riportato erano gravi, però il materasso che il proprietario del negozio mi aveva gentilmente offerto era... duro come una roccia. L’opzione “B” era quella della bara, ma il mio cervello si rifiutava categoricamente di dormire nuovamente in una cassa da morto.
Sfiorai la Death
Scythe al mio fianco, poi mi concentrai ad osservare i suoi particolari: la pianta rampicante di rose senza né fiori né foglie era in rilievo e si attorcigliava su tutta l’impugnatura; un teschio candido era posto sulla parte che congiungeva il manico alla lama, soffermandomi poi sulla corona di spine che gli cingeva la fronte.
Era imbevuta di un colore rosso cremisi con qualche screziatura nerastra. Il sangue del nemico che avevo abbattuto.
Erano immagini che non riuscivo ancora ad assimilare, perché non avevo mai incontrato una bestia simile e dovevo ammettere che ucciderlo era stata l’impresa più difficile della mia vita. Non esagero, in vent’anni o poco più non avevo mai rischiato di morire in un combattimento.
Mi era già capitato qualche scontro ostico, ma mai così. Nel mio piccolo mondo non c’erano di certo serpenti piumati, esistevano soltanto Umani, Demoni, Angeli e Shinigami ( e anche i Soul Reaper, però, per ora, nella mia testa avevano un ruolo secondario); scoprire che poteva esserci qualcosa di diverso mi aveva lasciata un po’ spaesata.

<< Ihihihi... una ragazza non dovrebbe giocare con le armi>>

Mi voltai di scatto, vedendo il becchino fermo sulla soglia. Mi stava guardando con il suo ormai classico sorriso da far venire i brividi.

<< hai ragione, Shinigami>> risposi, compiacendomi della sua espressione parzialmente sorpresa.

<< Seriamente, sarò pure mezza cieca, ma non così tanto da non accorgermi della tua natura>> aggiunsi facendo un profondo sospiro.

Lui si avvicinò e appoggiò i gomiti sulla ringhiera del balcone, osservando la Londra notturna. Ci fu un attimo di pausa, di silenzio, di riflessione.

<< Sei una ragazza curiosa>> disse senza distogliere l’attenzione dalla città << Mezzo Demone>>

<< E tu sei un becchino bizzarro. Posso sapere il tuo nome?>>

<< Undertaker>> rispose lui << Non hai sonno?>>

<< Sì... no... non lo so. Stavo riflettendo. Sai, all’inizio ero venuta unicamente per sapere più dettagli sulla morte del barone, per scoprire se erano stati più mostriciattoli ad ucciderlo o soltanto uno...>>

<< ti interessi ai cadaveri?>>

Lo fulminai con lo sguardo. Odiavo profondamente le frasi con doppi sensi perché non sapevo mai come rispondere.

<< Provo un profondo rispetto per i morti, sì. Forse è per questo che ho trasgredito alle regole del sacro libro, oltre al fatto che sul momento la vendetta era il mio unico pensiero. Nessuno deve mettersi fra me e il mio lavoro... anche perché riceverei una lunga lista di rimproveri da parte del mio superiore>>

Fu allora che pensai al probabile stato di William. Con indosso la sua camicia da notte azzurra a righe bianche e le pantofole a forma di coniglio, stava sicuramente elaborando un malefico piano per punirmi.
Già, l’omino di ghiaccio non si preoccupava di certo della mia salute. Grell diceva il contrario, ma io non riuscivo a immaginarmi un Will agitato per una persona, soprattutto se quella persona ero io.
Non era mio padre, anche se in definitiva mi aveva cresciuto lui, era soltanto quello che prendeva e mi metteva sulla via del bene. Tuttavia riuscivo sempre a sgattaiolare lontano da quella strada perfetta, trascinandolo involontariamente in enormi guai che poi era costretto a risolvere. Nei suoi confronti ero sempre stata una ragazza indisciplinata e testarda, una palla al piede insomma.

<< Comunque grazie per tutto, Undertaker>> dissi sorridendo leggermente.

<< Hai un sorriso inquietante>> bofonchiò Frederick, il quale si era appollaiato affianco a me.

Diventai bordeaux per il nervoso poi afferrai il pollo e lo scaraventai contro il muro della casa di fronte.
Infine rientrai e mi lasciai cadere sul materasso ad una piazza, ululando poi per il dolore perché con la mia azione avevo rischiato di frantumarmi l’osso sacro.
Mi aspettava una lunga notte insonne, quasi rimpiangevo il mio morbido letto con il mio coniglio di peluche grigio. Era stato il primo e ultimo regalo di William per me, quindi c’ero molto affezionata, anche se me lo aveva donato quando ormai avevo compiuto la maggiore età.
L’espressione imbarazzata dello Shinigami mentre mi consegnava il pupazzo era stata unica, epica. Negl’anni a venire, ripensando all’avvenuto, avevo riso per non so quanti minuti, forse anche per mascherare la gratitudine.
Abbracciai il cuscino in penna, poi serrai gli occhi, cercando in tutti i modi di addormentarmi.


<< Buonanotte, demone>> sussurrò una voce al mio orecchio quando ormai il sonno mi aveva trascinato lontano, un mondo nero, un mondo apparentemente sicuro.

 

Fine Terzo Capitolo!

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Capitolo 4
*** Occhiali e piume... ***


Quarto Capitolo

Quarto Capitolo:

Occhiali e piume...

 

Osservavo i movimenti lesti del nemico: non dovevo perderlo di vista.
Mi voltai e tentai di parare il colpo, ma ricevetti unicamente una dolorosa bastonata sul fondoschiena. Per la ventesima volta consecutiva.
Era passata una settimana scarsa dalla battaglia contro il mostro di fuoco, sette giorni in cui il mio unico pensiero sarebbe stato quello di riposare per recuperare le forze. Tuttavia non riuscivo a rimanere lontana dai combattimenti, così avevo chiesto ad Undertaker una sfida per mantenermi in allenamento, pensando erroneamente che sarebbe stata una passeggiata.
Non fu affatto così.
Per una quarantina di volte il manico della scopa mi aveva colpito lo stomaco, sul sedere e sulla schiena, ma io non demordevo. Doveva pur avere un punto debole quell’ex Shinigami!

<< Ancora una volta!>> dissi, togliendomi la polvere dai pantaloni neri della mia divisa.

<< Non ti arrendi mai?>> domandò il becchino, ridacchiando.

<< No>> bofonchiai << Piuttosto la morte>>

Passai all’attacco, carica più che mai, pronta a vincere la sfida (ovvero riuscire a colpirlo e non farmi beccare). Ero velocissima, quasi volavo sulla strada deserta, posta sul retro del negozio. Purtroppo, quando ormai il mio spazzolone stava per sfiorarlo, Frederick si mise in mezzo e così, tentando una brusca frenata, finii per inciampare nel gallo e successivamente piombai addosso ad Undertaker.
Per poco non trascinai a terra quest’ultimo, il quale aveva lasciato l’arma impropria per afferrarmi il polso, impedendomi così di cadere.
Dovetti faticare non poco per trattenere un’imprecazione per il dolore alla testa (visto che avevo preso in pieno il manico della scopa), anche se mi sfuggì comunque un ululato sofferente seguito da un ringhio inferocito, in cui invocavo il nome dello Shinigami pennuto. Seppur con la fronte gonfia e dolente, il male svanì quando mi accorsi che mi trovavo fra le braccia di Undertaker.
Mi liberai dalla stretta e poi balzai all’indietro, tentando di mantenere la calma.
Sentivo le pulsazioni cardiache sin nelle orecchie; il mio respiro era accelerato e sicuramente ero avvampata come se mi fossi sporcata il viso di tintura rossa.
Non ero abituata: rarissimamente qualcuno mi abbracciava e quel qualcuno poi riceveva un sonoro pugno dalla sottoscritta. Ciò nonostante, in questa circostanza il pensiero di colpire Undertaker non mi sfiorava affatto. Probabilmente perché Grell, William e Ronald per me ormai erano come dei familiari, quindi uno schiaffo ogni tanto partiva e soprattutto ritornava.

<< Sei un pericolo pubblico>> sbuffò il gallo innervosito.

<< Sei stato tu a metterti in mezzo! Stupido>>

<< Stupido a me?! Io ero il più famoso alchimista e fabbro fra gli Shinigami! Secondo te chi ha forgiato la maggior parte delle Death Scythe?! Lilith dovresti imparare a tenere a freno quella tua linguaccia da demone!>> si interruppe bruscamente, fermandosi per un attimo a riflettere << Io... ehm... c’è un cliente che aspetta>> aggiunse poi, balzellando via a testa china.

Chi era Lilith? E per quale motivo Frederick, un elemento così importante fra gli Shinigami, era stato degradato?
Mi venne la tentazione di correre verso di lui per chiedergli qualcosa di più sul suo passato, ma alla fine decisi di non infierire. Probabilmente il ricordo di quella ragazza lo aveva ferito nell’animo e quindi voleva restare per un po’ di tempo da solo.
Il gallo Shinigami era un personaggio misterioso, forse anche fin troppo. Lo conoscevo sostanzialmente da poco tempo, da una settimana scarsa, eppure aveva già citato diversi avvenimenti accaduti, i quali sollecitavano la mia curiosità.
Sospirai e poi, mentre stavo camminando verso il negozio, il manico della scopa mi colpì il sedere. Per la ventunesima volta.
Feci un respiro profondo, seccato, poi fulminai con lo sguardo il becchino. Volevo fargli ingoiare quel dannato attrezzo, ma mi trattenni.
O per meglio dire, fui trattenuta a causa di uno squillante rumore di pentolame che cadeva a terra, seguito poi da un urlo primitivo. Probabilmente il verso da australopiteco proveniva da un cliente vivo piuttosto innervosito per l’attesa.
Così, percorrendo il laboratorio a grande velocità, raggiunsi la porta logora che conduceva al negozio e senza pensarci due volte entrai.
Lo vidi.
Fui tentata nel tornare indietro, ma ormai quelle iridi di un verde intenso tendenti al giallo erano fisse su di me. Non avevo mai visto William in quello stato: i capelli corvini, di solito impiastricciati di gel per tenerli in un perfetto ordine, erano sporchi e anche arruffati, come se si fosse appena svegliato; aveva delle profonde occhiaie e gli tremavano persino le mani, probabilmente dopo tutte le tazze di caffè che aveva ingerito per non addormentarsi.
Addirittura la sua divisa, normalmente impeccabile, sembrava quasi una delle mie, perché sia la giacca che il gilet erano in una condizione pietosa e la camicia bianca era macchiata con chiazze di inchiostro e di caffè.
Appena mi vide, riuscii a scorgere la sua espressione un po’ più rilassata, anche se rimaneva pur sempre torva e preoccupata. Mi incuteva timore, perché era fin troppo diverso, fin troppo simile a me dopo una giornata di straordinari.
Un pensiero mi ghermì il cuore, stringendomelo in una fredda morsa: aveva ricevuto forse delle critiche pesanti da parte dei piani alti?
Il pinguino gelido non sopportava i giudizi negativi, la sua vita poteva soltanto essere una lunga linea priva di imperfezioni. I difetti non li tollerava.
Ed io spesso e volentieri facevo parte di quei difetti.

<< Pandora...>> disse con un tono secco, privo di emozioni.

Tutto divenne silenzioso. Persino Violet raccoglieva le padelle cadute a terra in assoluto silenzio, per paura di istigare la sua ira.

<< Will, come mai...>>

<< Otto giorni. Quando il tuo nome è apparso sulla lista... si può sapere quello che ti è saltato in mente?! Pandora Spears, hai trasgredito almeno ad una decina di regole...>>

Spears. Odiavo quel cognome, perché oltre al fatto che strideva con il mio nome, William lo pronunciava soltanto quando creavo dei disastri, per sottolineare il fatto che ero stata affidata a lui... che in fondo ero una sua proprietà. E il pensiero di essere trattata come un semplice oggetto non mi piaceva affatto.

<< Hai ucciso quindici persone, hai fatto uso della tua falce senza permesso, hai distrutto cinque edifici, hai usato i tuoi poteri demoniaci ed hai rischiato persino di morire! Sai cosa comporta?>>

<< E tu sai che esiste una piccola e leggera sfumatura chiamata legittima difesa?! Quel serpente mi avrebbe fatto fuori! Non esistono solamente le regole! E se quei rincoglioniti  londinesi sono stati uccisi dalla bestia, non è colpa mia!>>

La sua falce mi sfilò gli occhiali e li ruppe.
Vidi il negozio perdere di nitidezza, diventando sfocato. Non sapevo se era per colpa delle diottrie in meno o per le calde lacrime che cominciarono a solcarmi il viso pallido cadendo poi sul pavimento scricchiolante, ma in tutta sincerità non mi interessava.
Delle scintille tenui mi illuminarono per pochi attimi i palmi delle mani. Iniziai ad osservare quella fioca fonte di luce.
Non sapevo perché riuscivo a controllare l’elettricità: William diceva che era colpa dei miei poteri demoniaci, ma nessun demone, nemmeno il più forte può aver dentro di sé un simile potere; nessuna delle persone che avevo conosciuto riusciva a mutare i propri arti in un elemento puro... nessuno, quando perdeva il controllo del proprio corpo, diventava un abominio.

<< Ai piani alti sono stati molto chiari...>> il pinguino chinò la testa e fece un breve sospiro << D’ora in avanti non sarai più uno Shinigami...>>

E fu in quel momento che il mio mondo crollò. Avevo l’impulso di dibattere, ma ogni singola lettera rimaneva bloccata in gola. Uscirono soltanto diversi singhiozzi, dei colpi di tosse e dei respiri affannati.
Tutto ciò per cui mi ero impegnata duramente, per cui avevo combattuto si era dissolto.

<< Consegnami la tua Death Scythe>>

<< Perché?! Perché ho trasgredito a due regole?>>

Non ebbi risposta.
Guardai la sua mano tesa, pronta ad afferrare la mia falce, poi i miei pugni i quali sprizzavano dei sottili lampi di energia.
Anche se non facevo più parte di una famiglia, anche se ero sola, non avrei mai smesso di lottare. Se ai piani alti avevano deciso così, la mia vita di certo non si fermava, anzi, continuava.
Ogni volta che inciampavo, ero sempre stata in grado di rialzarmi. Questa era soltanto un’ennesima caduta e seppur dolorosa, dovevo dimostrare la mia forza.

<< Mi ricordo ancora di tutte le volte in cui mi ripetevi “portami rispetto, sono come un padre per te”. Beh, sai cosa? Un padre avrebbe mosso il culo prima. Sei soltanto un menefreghista, ti importa soltanto delle tue regole, del TUO mondo... quando è in pericolo una persona non ti schiodi dalla sedia manco sotto tortura. Già, sono passati otto giorni. E tu dov’eri?>> poi aggiunsi asciugandomi il volto << Sentiti libero ora, non dovrai più badare a me, alla rognosa palla al piede. Se io sono stata uno schifo di Shinigami, tu sei stato uno schifo di padre... anzi... piuttosto che essere figlia tua, preferisco la sedia elettrica>>

Uscii dal negozio e corsi via, scoppiando nel frattempo a piangere. Sentivo il mio nome il lontananza, ma non mi voltai, perché non volevo più rivedere William.
Sapevo di aver detto cose che, con il senno del poi, mi sarei pentita di averle soltanto pronunciate. Forse non si meritava tutto ciò che gli avevo urlato contro, però non avevo del tutto torto. Non mi aveva cercato, non si era interessato minimamente alla mia salute.

Tutti sono capaci di rimproverare, nessuno di ascoltare. Era la frase che ripeteva sempre Grell quando riceveva una “sgridata” da parte del pinguino di ghiaccio. Ovviamente poi lo Shinigami Rosso aggiungeva delle frasi piuttosto ambigue, però perlomeno la prima parte del discorso era sensata.
William non aveva combattuto contro il serpente, anzi, probabilmente si trovava nel suo comodo ufficio a bere la terza tazzina di caffè. Lui non sapeva niente, non sapeva quanto avevo sofferto per rimanere in vita.
Una delle ferite che mi ero procurata sarebbe bastata per uccidere un uomo. Certo, ero resistente, ma non totalmente immune al veleno o alle emorragie.
Mi fermai poco tempo dopo, vicino ad un negozio che vendeva giocattoli di una famosa ditta chiamata Phantom o qualcosa del genere. Fra i tanti balocchi e dolciumi esposti, ne notai uno che attirò in modo particolare la mia attenzione: un coniglio grigio simile a quello che mi aveva regalato l’Iceberg.

<< Possibile che mi perseguiti ovunque?!>> ringhiai, poggiando l’indice sul vetro << Scordati il mio perdono!>> aggiunsi. Accorgendomi poi che stavo parlando con un oggetto inanimato, per la disperazione diedi una leggera testata alla vetrina.

<< Se non si può permettere i nostri giocattoli, non le servirà a nulla prendersela con la vetrina>> disse un bambino, lo stesso di quella volta al negozio di Undertaker.

<< Non ti puoi fare i cavoli tuoi? E poi non accetto consigli da un moccioso che puzza di demone>>

Quanto godetti nel vedere l’espressione stupita del conte-nano? Moltissimo.
Purtroppo quella sua faccia da pesce lesso durò poco, forse per non sfigurare troppo davanti al maggiordomo. Infatti si ricompose subito, assumendo un atteggiamento distaccato, anche se ormai mi ero già dileguata in una delle tante vie secondarie.
Non mi interessava fermarmi a parlare con un bambino spocchioso, vestito in modo elegante. Preferivo camminare a vuoto per Londra, piuttosto che venire schernita da un moccioso con la puzza sotto il naso.

 
Il mio stomaco emise un lamento sordo, quasi di disappunto.
Vagavo da ormai un paio di ore ed il sole era alto nel cielo. Quel cerchio luccicante era molto più luminoso rispetto agli altri giorni, molto più caldo, molto più insopportabile.
Avevo la gola secca, la fronte fradicia e i capelli appiccicati al corpo. La tentazione di sedermi e dormire fu tanta, seppur la strada fosse lercia, ma quando inciampai nei lacci dei miei stivali e finii con il ventre rivolto verso il cielo, intuii che cosa stava accadendo.
Vicino all’accecante sfera di fuoco si trovavano due minuscole macchie nere, le quali non mi piacquero per niente.
Mi rialzai il più in fretta possibile, ma una mano d'ombra mi afferrò e mi trascinò nel muro dell’abitazione. Non compresi come ci fosse riuscita, tuttavia nel giro di qualche attimo mi trovai a penzolare sulla sudicia Londra.
Ero a parecchi metri d’altezza, quasi mi mancava l’ossigeno. Ringraziai il fatto che, essendo mezza Shinigami, potevo fare a meno di respirare.

<< Ehi che ne dici? Se me la porto a letto il capo si arrabbierà?>>

Alzai la testa, ma un calore insopportabile mi investì il viso, così fui costretta a chiudere gli occhi e chinare il volto.

<< Iperione, accuccia>>

<< Uffa... mi togli sempre il divertimento! Vorrà dire che la uccideremo e basta>>

Emisi una potente pulsazione elettrica che saettò lungo il braccio del mio rapitore, così riuscii a liberarmi e successivamente a trasformarmi in corvo per non precipitare.
Osservai le due figure: erano due ragazzi di diciotto anni circa, un maschio non troppo muscoloso e una fanciulla.
Il primo aveva una lunga chioma aurea, sciolta, con una disordinata frangia che lasciava appena intravedere i grandi occhi color azzurro ghiaccio. A sfregiargli i viso divino erano due cicatrici: una simile ad una croce posta sulla guancia sinistra e un’altra che percorreva tutta l’ampia fronte. Aveva una corporatura longilinea, con la pelle pallida sulla quale spiccavano delle ferite quasi del tutto rimarginate, sparse soprattutto sul torso scoperto e sulla schiena, sulla quale spiccavano due estese ali corvine.
Indossava un paio di pantaloni in pelle neri abbinati ad un paio di stivali lunghi fino a metà ginocchio, i quali erano decorati con fibbie e borchie e possedevano anche un tacco abbastanza alto.
La ragazza invece portava un’armatura medievale completamente nera, con tanto di elmo che le copriva il viso. Almeno penso che si trattasse di una donna, perché mi ero fidata della voce, la quale aveva un timbro femminile.
La sua particolarità era quella di riuscire a volare senza l’ausilio di nessun tipo di arto, come se levitasse.

<< Che cosa volete?>> domandai.

<< Eh, molte cose: una promozione, un lavoro decente e un’uscita a cena con questa attraente mezza Shinigami... Pandora, giusto?>> sorrise l’angelo.

<< Come fai a sapere il mio nome?>>

<< Semplice: sono stato io a modificarti i Cinematic Records della tua infanzia. E poi eravamo stati compagni di torture una volta...>>

<< Cosa?! Cosa sai sul mio passato?!>>

Con una mossa fulminea, la sua mano sinistra mi afferrò. Al solo tocco persi la mia trasformazione e così mi ritrovai con la vita appesa ad un filo.
Le sue unghie erano impiantate nel mio collo, mentre le altre dita si muovevano agilmente sulla mia schiena, fino a fermarsi poco sopra l’osso sacro. Sentii poi il metallo di una fredda arma scorrermi veloce sulla pelle.

<< Vuoi veramente scoprire cos’è accaduto?>> sussurrò al mio orecchio.

 

Fine Quarto Capitolo!

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Capitolo 5
*** Ricordi dimenticati... ***


Quinto Capitolo

Quinto Capitolo:

Ricordi dimenticati...

 

Tutt’intorno a me diventò cupo, freddo e silenzioso.
Mi trovavo rinchiusa in un’angusta cella, con i muri grigi screziati di rosso fin troppo vivo e con il pavimento in pietra cosparso di paglia chiazzata di cremisi.
Provavo una strana sensazione di paura.
La fame mi stringeva lo stomaco, non riuscivo nemmeno a reggermi in piedi, forse a causa anche dell’aria gelida e pungente che sibilava nei corridoi apparentemente deserti. Indossavo unicamente dei grigi pantaloni logori e una camicia bianca anch’essa rovinata.
Il freddo penetrava sin nelle ossa, costringendomi a lottare per non morire congelata.
Quando ormai stavo per accasciarmi su un fianco, una fioca luce di una lanterna illuminò le pareti. Pian piano si avvicinava sempre di più a dove mi trovavo.
Sentivo i battiti del cuore sin nelle orecchie. Temevo quella chiarore, perché portava soltanto sofferenza: più di una volta avevo visto dei bambini venire portati via da quegli uomini con il camice bianco e un lume. Avevo provato sulla mia pelle che cosa succedeva, quali torture utilizzavano per constatare la nostra resistenza e forza.
Davanti alle sbarre arrugginite si fermò un ragazzo di all’incirca sedici anni non molto alto, con la carnagione piuttosto chiara; i suoi capelli erano di un rosso ramato, corti fino alle spalle e molto spettinati, con una frangia disordinata che gli copriva parzialmente gli occhi verdi tendenti al giallo. Indossava anche lui una lunga giacca bianca. Il mio primo pensiero fu quello della gabbia, del sangue cosparso ovunque.
Indietreggiai il più possibile mentre lui apriva la porta. Scoppiai quasi in lacrime quando entrò.

<< Stai calma... sono io, Frederick, non ricordi? Scusa se non sono più venuto, ma... sono stato un po’ trattenuto>> sospirò, poi dalla borsa a tracolla color terra estrasse un panino, un piccolo vasetto di marmellata alle fragole e un cucchiaino << Tieni, ti rimetterà un po’ in forze>>

Lo guardai negl’occhi, dai quali non traspariva nessuna emozione maligna, poi mi concentrai sul pane. Sembrava fresco ed incredibilmente succulento, ma prima di mangiarlo, una domanda mi balenò nella testa.

<< Dov’è la mamma?>> chiesi << mi avevano promesso... mi avevano promesso che non le avrebbero fatto nulla>>

<< Tua madre è...>> fece una breve pausa, un respiro rassegnato, poi continuò << Lilith era una creatura fin troppo speciale... e per questo l’hanno sottoposta ad esperimenti disumani. Il suo corpo, già debole di per sé, non ha retto... mi dispiace>>

Guardai la pagnotta nelle mie mani, l’avvicinai alla bocca, ma non riuscivo a mangiarla. La fame era molta, però le lacrime che mi solcavano il viso erano più potenti.
Frederick mi passò una mano fra gli sporchi capelli corti, poi si sedette al mio affianco, poggiando la testa contro il muro. Estrasse una sigaretta da una tasca del camice, poi, avvicinando appena un dito, si accese una piccola scintilla.

<< Sei uno stupido, invece di scappare resti qui>> singhiozzai.

Vidi la sua espressione cambiare radicalmente: da rattristita diventò piuttosto furiosa.

<< Odio quando la gente mi chiama stupido! Sono uno Shinigami molto intelligente, sai? Io sono lo Shinigami alchimista e fabbro più famoso. Sono rimasto qui perché ho fatto una promessa ad una persona... un patto>> disse, poi spense il sigaro e cominciò a mangiare la marmellata << Ti prometto che finché rimarrò in vita, non riusciranno mai a completare il progetto Pandora>>

 
Aprii gli occhi.
Iperione era stato ferito al petto con un’arma da fuoco. Perdeva sangue rossastro, il quale gocciolava sui miei vestiti logori.
Probabilmente a causa della sua disattenzione, il pentacolo violaceo che mi aveva tenuto sospesa fino a quel momento si dissolse, così mi ritrovai a precipitare sulla cittadina di Londra.
Il mio cuore sembrava un tamburo rullante: troppe emozioni, troppe cose a cui non sapevo dare una risposta erano accadute. Non riuscivo più a ragionare con la mente lucida: il mio pensiero fisso era quel sogno così reale. Ma possibile che fosse solamente un’insignificante fantasia? Quelle lacrime, quel freddo, quel sangue...
Provai un’atroce fitta al petto che mi fece tornare al presente. Sulla schiena, lacerandomi la pelle, comparvero delle gigantesche ali scheletriche, sulle quali si formò un vellutato strato di pelle bianca come il latte. Grazie ad esse riuscii a volare, anche se la trasformazione –per niente indolore- continuava, allungando sia i denti, facendoli diventare delle proprie zanne, sia le unghie delle mani, le quali ora somigliavano a degli artigli di rapace.
La vista cambiò drasticamente: se prima vedevo un mondo sfocato, in questo momento riuscivo a scorgere anche gli edifici più lontani, notando i più piccoli dettagli.
Persino la mia chioma crebbe di almeno una ventina di centimetri e per ultimo il mio corpo (tranne sul viso e le ali) fu avvolto da un soffice piumaggio bianco.
Dopo un attimo di smarrimento, recuperai quota in un batter d’occhio, poi, richiamando la mia ascia bipenne, tentai di colpire Iperione, ma questo evitò l’attacco.

<< Un demone albino? Sei una vera perla preziosa, Pandora>> sorrise lui << Io, l’angelo impuro e dio del sole e tu, il demone bianco della distruzione, pari agli dei...>>

<< Non paragonarmi alle divinità, Iperione. Rispondi piuttosto alle mie domande: cosa vuoi da me? E che cos’erano quelle immagini che ho visto?>>

Iperione guardò la città, facendo poi un ampio sorriso.

<< Oh... sono spiacente, ma non posso risponderti mio piccolo demone. Non adesso almeno... Londra sta vivendo un’eclissi fuori programma e non voglio proprio perdermi lo spettacolo>> detto ciò, l’angelo scese in picchiata sparendo poi nello spesso strato di ombra che aveva inghiottito la capitale.

Era successo tutto in brevissimo tempo, tutto in un battito di ciglia.
Seguii il nemico e atterrai in un’oscura strada. La luce del sole quasi non riusciva a penetrare in quel manto cupo, ma possedendo una vista demoniaca non era un grande problema per me.
Una donna, presumibilmente di alta società, osservava stupita il suo compagno mentre quest’ultimo le porgeva una rosa rossa. Non c’era nessuna parola, nessuna emozione.

Tutto era immobile, silenzioso. I passanti erano fermi, come in una fotografia o in un quadro. Eppure mi parve di udire in lontananza un combattimento...

<< Tic... Toc... Tic... Toc...>> scandì una voce femminile e alquanto fastidiosa << Gli umani spendono il tempo in modo inutile>>

Mi voltai, ma non vidi nessuno.

<< Tic... Toc... Tic... Toc... ma a quando pare questo vizio non è solo degli umani>>

<< Chi sei?! Fatti vedere!>> ringhiai, continuando a cercare con lo sguardo.

<< Tic... Toc... Tic... Toc... io sono Crono, l’esperimento del tempo>>

Davanti a me comparve una ragazza con un ampio sorriso smagliante dipinto sul viso, l’unica parte del volto non celata da quella folta frangia corvina. Per il resto, i capelli erano lunghi fino alle spalle, sciolti e scuri come la notte, mentre gli occhi appena visibili erano assai cupi, probabilmente di un colore tendente al nero.
Aveva una corporatura minuta con una carnagione fin troppo pallida, la quale le donava unicamente un’aria malaticcia. Quel gracile corpo era coperto da un voluminoso abito corvino, composto da un corsetto decorato con pietre preziose e un’ingombrante gonna ricca di balze e drappeggi che toccava il suolo. Si riusciva appena a vedere delle scarpe con un tacco piuttosto alto, quasi sui nove o dieci centimetri, naturalmente scure.
Nel complesso sembrava una ragazza di quattordici anni, forse anche a causa dei lineamenti infantili del viso o per il suo atteggiamento irritante che di certo non l’aiutava a guadagnare qualche anno in più.
Rideva, scherzava e addirittura faceva delle battute fin troppo irritanti sul mio conto e soprattutto sulla mia non elevata statura. Doveva morire.

<< Tic... Toc... Tic... Toc... la tua ora è giunta, Pandora>> ridacchiò questa guardando un orologio d’oro sul polso sinistro, mentre alzava lentamente l’indice della mano destra.

Non riuscii nemmeno a pensare ad una frase di senso compiuto che una potentissima onda d’urto mi scaraventò parecchi metri più in là. Appena feci per alzarmi, un secondo attacco allo stomaco mi spedì addirittura dentro un negozio, frantumando persino la vetrina.
Sputai sangue, il quale non solo sporcò il pavimento piastrellato del negozio, ma anche i peluche e le bambole sotto cui ero finita.
Ma gli attacchi non erano ancora terminati.
Sentii una dolorosa fitta al petto. Un’enorme spada a due mani dalla lama color pece mi aveva trapassato il ventre, aprendomi una profonda ferita.
Per salvarmi, colpii Crono con una potente scarica elettrica, poi, trasformandomi per qualche attimo in una saetta, riuscii ad uscire dal negozio.
Era troppo veloce. Non riuscivo nemmeno a scorgere i suoi attacchi, figurarsi a pararli o tentare un contrattacco.
Caddi in ginocchio, assaporando il sangue che velocemente mi risaliva la gola. Con un calcio ben assestato, la ragazzina mi aveva colpito la parte indebolita.

<< Muori, demone!>> ridacchiò lei alzando l’arma, pronta a tagliarmi la testa.

Guardai la scia rosso scarlatto, poi osservai il suo sorriso divertito. Serrai il palmo destro, così quel liquido cremisi si tramutò in energia elettrica e, essendo sotto i piedi della ragazzina, la fulminò.
Guadagnai qualche attimo per togliermi dalla portata dell’arma, anche se così facendo mi ritrovai in un vicolo senza vie d’uscita.

<< Tic... Toc... Tic... Toc... è arrivato il tuo momento>> ringhiò, mentre schioccò le dita. Diventò assai veloce, tuttavia ciò non bastò per uccidermi, infatti per puro miracolo evitai il suo attacco, trasformandomi in un fulmine.

<< Impossibile! Come fai ad essere più veloce del tempo?>>

<< Semplice: hai il vestito inzuppato del mio sangue elettrico... questo grazie a tutte le pulsazioni ti rallenta e ti indebolisce>> dissi ritornando normale, poi cominciai a ridacchiare << Se tu usi i tuoi poteri per velocizzarti, io sono le catene che ti impediscono ogni minimo movimento>>

<< Prova ad evitare questo!>>

Sentii il mio corpo rallentare sempre di più, fino a diventare quasi come una statua, mentre lei si muoveva liberamente e, saltando alle mie spalle, fece per darmi il colpo di grazia.
Chiusi gli occhi.
In pochi istanti tutto sarebbe finito. Il dolore, la rabbia, la paura e molte altre emozioni sarebbero diventate soltanto parole al vento.
Ecco, il freddo alito della lama mi sfiorò il collo.
Era finita, avevo perso la partita... per sempre.

Fine Quinto Capitolo!

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Capitolo 6
*** La difficile decisione ***


Sesto Capitolo

Sesto Capitolo:

La difficile decisione

 

Ero sola, circondata da oscurità e da silenzio.
Un vento gelido mi fece rabbrividire, costringendomi a raggomitolarmi come un gatto e a tremare, battendo persino i denti per il gelo. Non potevo fare nient’altro, perché il luogo in cui mi trovavo non c’era nulla, nemmeno il terreno o il cielo.
Ero immersa in un mare vuoto, ma non sprofondavo. Restavo sospesa quasi in un limbo, con la mia lunga chioma candita che fluttuava, allo stesso modo della la mia veste bianca.
La mia vita si era dunque conclusa, quello che vedevo era il mio Inferno. Il mio corpo si trovava ormai in una bara in legno, sepolto sotto metri di terra e di fango, lasciato così a deteriorarsi fino alla fine dei giorni.
Non avrei più potuto impugnare la mia ascia, combattere, litigare con Frederick o... dimostrare ad Undertaker che ero capace di colpirlo, che qualcosa valevo.
Mi aveva sempre aiutato, salvato dalle situazioni più difficili, mentre io, oltre a prenderle di santa ragione e a distruggere Londra, non facevo molto. E tra l’altro, visto che non ero più uno Shinigami, non avevo neanche una casa dove tornare.

<< Le anime non dovrebbero piangere... mi rendono molto triste>>

Fui quasi accecata da una luce calda e abbagliante, che andava affiefolendosi con lo scorrere del tempo. Appena fu abbastanza tenue, riuscii a distinguere la figura di un demone diverso da tutti gli altri, perché seppur nella forma originale non incuteva terrore, anzi mi infondeva calma e tranquillità.
Aveva una liscia e fluente massa di capelli corvina, la quale incorniciava un viso dai lineamenti dolci, aggraziati; i suoi occhi erano fiammeggianti e di un bellissimo verde intenso, in netto contrasto con la sua pelle violacea. Non era molto alto, raggiungeva a stento il metro e settanta, possedeva una corporatura minuta, con delle grandi ali da pipistrello sulla schiena del medesimo colore della carnagione, in quel momento ripiegate.
Indossava soltanto una gonna smeraldina, adornata di pietre preziose e arricchita ulteriormente con dettagli in oro, come la cinta o la fascia. Inoltre portava dei bracciali alla schiava, anch’essi di valore e abbinati alla veste, e persino un crocefisso al collo, semi-nascosto dalla sua folta capigliatura.
Avanzava verso di me, pacato, con le labbra sottili incurvate in un gradevole sorriso. Soltanto quando ormai fra me e lui mancavano soltanto pochi centimetri cominciai ad impaurirmi: i demoni si nutrono delle anime ed io non ero altro che un corpo etereo.

<< Non spaventarti, non voglio mica divorarti. Non mangerei mai la mia nipotina preferita>>

<< Nipotina?>> domandai << Tu sei mio nonno?>>

<< Sbagliato! Io sono il tuo caro zio Eridan! Colui che in più di una situazione ti ha parato il fondoschiena, nonché uno dei nove demoni supremi... insomma... non darmi del befano, capito?! Se no ne subirai le conseguenze>>

I demoni più potenti che un tempo dominavano gli tutti gli altri venivano chiamati Demoni Supremi. Erano nove, ma con un’energia distruttiva pari a centomila eserciti, se non di più. Proprio per questa loro minaccia, dopo un’estenuante battaglia, alcuni sacerdoti erano riusciti a rinchiuderli in un luogo chiamato Tartaro, in onore alla mitologia greca e latina. Soltanto con il sacrificio di nove individui con pari forza i Demoni Supremi si sarebbero risvegliati, per fortuna però non esistevano creature altrettanto potenti.
Era una leggenda che William mi aveva raccontato quando ero soltanto una bambina per farmi addormentare. Ovviamente non avrei mai creduto che fosse realtà!

<< Con la tua morte io mi sono risvegliato dal mio lungo sonno e per questo ti devo ringraziare>>

<< La mia morte? Quindi mi trovo realmente all’Inferno?!>> chiesi, sempre più spaventata.

<< Non esattamente. Ti trovi nel Tartaro, un luogo senza né tempo né spazio. Ti ho portato io qui, perché, beh... ti voglio dare una seconda occasione. Fino ad adesso hai vissuto una vita divisa a metà. Con il mio aiuto, ti farò diventare una creatura unica, liberando tutto il tuo potere, facendoti recuperare ogni tuo singolo ricordo... permettendoti così di attuare la tua vendetta verso quelli che ti hanno ridotta così>>

<< Dov’è l’inganno?>> dissi, guardandolo torva.

<< Nessun inganno. Con il mio addestramento diventerai un cavaliere della mia armata per sempre. Oppure, se preferisci vagare per lo splendido inferno, vai pure! Ti verrò a trovare durante le feste>>

Per sempre. Perché la parola sempre mi terrorizzava così tanto?
Come tutti i demoni, anche questo doveva avere una capacità persuasiva molto elevata, forse non era nemmeno ciò che diceva di essere. Ed io, come una sciocca ero cascata nel suo inganno.
Eppure una parte di me urlava di fidarmi, di uscire da quel luogo vuoto e solitario per respirare di nuovo a pieni polmoni l’aria del mondo.
Lo guardai e lui mi sorrise dolcemente, tendendo la mano dalle agili dita da pianista.
Venire a conoscenza dei miei ricordi. Possedeva realmente un potere simile tale da superare persino quello di un angelo?

<< Chi era mia madre?>> domandai.

Lui fece un’espressione sorpresa, poi si sedette al mio fianco.

<< Ti racconto una storia: ventidue anni fa, c’era un bellissimo demone albino di nome Lilith con una capacità molto importante, ovvero riusciva a riportare le persone in vita... per poco tempo. Per affinare questa tecnica, quasi tutte le notti si dirigeva di nascosto al cimitero, ma le mancava una conoscenza più approfondita sull’anatomia, così otteneva sempre lo stesso risultato. Una sera tarda però, incontrò un becchino di nome Undertaker, il quale, colpito dal suo potenziale e dopo un po’ di tempo, decise di aiutarla cosicché lei, una volta migliorato questo enorme potere, potesse riportare in vita la donna amata dal becchino –una certa Claudia-. Passarono mesi e finalmente si poterono vedere dei progressi. Purtroppo però, mentre la diavola tentava di resuscitare una persona, fu fermata da uno Shinigami di nome William T. Spears. E come si dice... gli opposti si attraggono. Così dopo innumerevoli avventure, lei rimase incinta. Tuttavia, la gravidanza la indebolì notevolmente, tanto che uno Dio della Morte molto malvagio riuscì a rapirla, perché era interessato sia dal suo potere, sia dalla creatura che sarebbe nata a breve. La bambina nacque in un freddo laboratorio e fu chiamata Lilith dalla madre, anche se quest’ultima non riuscì a vivere molto oltre. La piccola in seguito fu soprannominata Pandora, a causa del progetto omonimo>>

<< Aspetta... aspetta un secondo! William sarebbe mio padre?!>>

<< Bingo! Sono sempre stato dell’idea che mia sorella si meritava qualcosa di più, però lei aveva un animo troppo buono>>

<< Ma com’è potuto accadere?! Insomma... William?!>>

<< Eh, William purtroppo non è sterile. Beh, credo che te l’abbiano spiegato che quando un uomo e una donna...>>

<< Certo! Ma... William?!>>

Ero shockata. Sapevo che tutti i miei ricordi riguardanti la mia infanzia erano falsi, quindi anche quel presunto padre, ma non mi sarei mai immaginata che avessi nel corpo parte del DNA di quel rompicoglioni (scusate la parola, ma non saprei come descriverlo meglio).
Forse era per questo che si preoccupava per me. Certo che in tutto questo tempo poteva dirmelo! Insomma, probabilmente mi sarei comportata in modo diverso nei suoi confronti.
Eridan si alzò, ridendo.

<< Cavolo, sei fantastica! Allora, Pandora Spears, vuole venire?>>

<< Sì...>> gli risposi, ancora assorta nei miei pensieri.

Lui mi toccò la fronte con un dito. All’inizio non accadde nulla, poi però si sprigionò una potentissima aura abbagliante, la quale in brevissimo tempo m’inghiottì.
Mi sentivo rilassata, a mio agio, in completa armonia. Infine (purtroppo) tutto diventò buio e successivamente mi ritrovai stesa su un lindo pavimento in marmo bianco, uno dei più pregiati tra l’altro.
Osservavo la mia immagine riflessa: i miei capelli erano acconciati in un perfetto chignon, soltanto due ciocche perfettamente lisce mi incorniciavano il volto dai tratti dolci.
Indossavo: un corsetto blu scuro, ornato con dei minuziosi dettagli che ricordavano dei rami di una pianta rampicante; una gonna stupenda, sembrava una cascata di rose blu, realizzate in un modo talmente reale da farle sembrare persino vere ed infine un paio di stivali neri lunghi fino al ginocchio e con il tacco a spillo.
Mi alzai, poi, con una camminata da ubriaco (non avevo molta stabilità), tentai di raggiungere il demone, ma mi bloccai non appena diedi uno sguardo al giardino: era un trionfo di fontane, fiori coloratissimi ed esotici, con persino un gazebo bianco per le eventuali colazioni all’aperto.
Un bellissimo Ara multicolore mi volò vicino, poi si diresse su un trespolo candido in ferro battuto. La mia concentrazione si spostò allora su uno strano animale, nascosto fra due cespugli, all’ombra di due imponenti alberi.
Vedevo una lunga coda di leone muoversi, ma anche qualche piuma bianca... che creatura poteva mai essere? Tentai di avvicinarmi, ma Eridan mi afferrò per un polso.

<< Vieni, ti devo far vedere la tua stanza>>

<< Che cos’è?>> domandai, indicando gli arbusti.

<< Nulla... lo scoprirai domani>> sorrise Eridan << Che ne dici di venire a vedere la tua stanza? Oggi per te niente addestramento, quindi puoi rilassarti quanto vuoi>>

<< Hai una casa fantastica>> dissi, osservando la volta in vetro che ci seguì fino alla fine del portico.

 
Ci vollero almeno una ventina di minuti per arrivare alle camere. Era una villa enorme, stupenda... c’era persino una stanza-terme, simili a quelle degli antichi romani! O una stanza per la musica e le arti! Avrò contato almeno una decina di salotti e un centinaio di altre sale.
Adoravo mio zio, anche se lo conoscevo soltanto da un’ora scarsa. E lo adorai ancora di più quando vidi la mia stanza. Per poco non caddi per terra.
Il letto era a baldacchino, talmente soffice che sembrava stare su una nuvola e con dei cuscini imbottiti morbidissimi. Non tardai a lanciarmi sopra a pesce, per poi affondare in una piacevole sensazione di pace.

<< Ok. Hai visto un po’ la casa>> disse Eridan, appoggiandosi alla porta intarsiata in legno << Goditi questa pace, perché domani ti aspetterà un duro allenamento! E ricordati che la cena è alle otto>>

Mi alzai a fatica, poi raggiunsi l’armadio in legno bianco, il quale aveva raffigurato sulle ante delle scene del mito di Apollo e Daphne, poi lo spalancai.
Dentro si trovavano una miriade di vestiti, scarpe, accessori... il sogno di ogni donna.

<< Sarà almeno la decima volta che me lo ripeti! Non sarà mica così faticoso!>> scherzai, mentre mi dirigevo alla scrivania antica e di grande valore, posta vicino alla porta.

<< Se mi cerchi, sono nella sala grande, dove si terrà la cena>>

<< Ok... ok...>> mormorai, guardando il calamaio colmo d’inchiostro.

Soltanto quando chiuse la porta mi venne in mente un fatto: perché cena? Lui era un demone completo, il cibo degli umani non lo saziava di certo.
Alzai le spalle, noncurante della questione, poi mi stiracchiai e corsi verso il letto, lanciandomi poi sopra. Si stava benissimo, sembrava trovarsi in Paradiso, anzi, forse anche meglio.
Certo, c’era quel fatidico addestramento, ma quanto mai poteva essere faticoso?

 

Fine Sesto Capitolo!

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Capitolo 7
*** L'anima di un demone ***


Settimo Capitolo

Settimo Capitolo:

L'anima di un demone

 

Osservai con odio il vegetale non ben identificato che galleggiava nella minestra. Le mie illusioni sulla presunta cena con portate ricercate si erano letteralmente dissolte.
Fin da piccola avevo sempre opposto resistenza a William, quando forzatamente mi obbligava a mangiare la zuppa, perché essendo mezzo demone le mie papille gustative erano diverse da quelle di uno Shinigami e ingerire la sua minestra per me equivaleva a mandar giù un blocco di acqua tremendamente salata.
Purtroppo lui non riusciva a capire che i miei non erano semplici capricci, così, giorno dopo giorno, mi fece odiare l’alimento. Non riuscivo nemmeno ad avvicinare il cucchiaio alla bocca, perché il tremendo sapore  riaffiorava nella mia testa.
Eridan mi guardò divertito, facendo un sorriso dolce, come se stesse osservando una bambina che disperatamente tentava di fare qualche progresso. Eravamo seduti ai lati estremi di un lunghissimo tavolo rettangolare in vetro, piuttosto spoglio se non fosse per le rose blu poste come centrotavola.

I piatti erano poggiati sopra a delle piccole tovagliette bianche, semplici, al contrario del lavorato calice dorato, nel quale il demone non tardò a versare abbondante vino rosso scarlatto.

<< Non ti piace?>> domandò, facendo un sorriso sornione.

<< Tu... tu lo sapevi!>> esclamai << Si può sapere che vuoi dalla mia vita? Non mi stupirei se mi avessi addirittura uccisa per mettere in piedi tutta questa messinscena>>

<< Gli esperimenti possono raggiungere tre stadi di Enrage: quello chiamato comunemente soft, ovvero che la creatura non riesce più a trattenere il potere, ma comunque in modo ancora molto, molto contenuto; poi si passa all’Enrage puro, vale a dire che la potenza dell’essere raggiunge il doppio o addirittura il triplo della forza iniziale, diventando praticamente una macchina da guerra. Ma tu hai nello scontro con l’esperimento del tempo hai raggiunto direttamente l’ultimo stadio, ovvero l’Overage, cioè l’elemento a cui sei stata legata ha preso il sopravvento, dopo che hai rischiato di perdere la vita. Purtroppo, non essendo più tu a comandare il tuo cervello, sei stata sopraffatta dall’immenso potere e... il tuo corpo si è praticamente disintegrato. Era un macello sai? I tuoi muscoli non erano riusciti a reggere lo sforzo di muoversi alla velocità quasi della luce e si erano ridotti a brandelli>> poi concluse, sospirando << se non fosse stato per William e in seguito anche per Undertaker e Frederick, saresti diventata cenere. Quindi non sono stato io ad ucciderti. Tu mi hai librato dalle mie catene, io adesso ricambio il favore addestrandoti>>

Chinai lo sguardo. Osservavo la mia immagine nel pavimento di specchi che si ripeteva per centinaia e centinaia di volte, perché anche il soffitto era stato rivestito con lo stesso materiale, così come le pareti alla mia sinistra, mentre alla mia destra si trovava un’ampia finestra che dava sul giardino.
Mi sentivo sprofondare, come se con le mie azioni avessi rischiato di ferire una persona a me cara.

<< Non dirmi che ti senti in colpa>> sussurrò Eridan al mio orecchio.

Volsi lo sguardo verso di lui, verso quel demone che continuava a sorridere, seppur stessi soffrendo. Poteva un essere così apparentemente infido essere mio zio?

Non sapevo più a chi credere, a cosa credere. Dal suo racconto sembrava quasi che fossi morta per una sorta di un’autodistruzione. E forse aveva anche ragione, visto che le immagini riguardanti lo scontro con l’esperimento del tempo erano ancora vive nella mia testa, così come il dolore e la rabbia non avevano mai smesso di pulsare dentro di me.

<< La tua piccola anima vacilla>> continuò, con una voce persuasiva << Vedo i tuoi occhi spegnersi al solo pensiero di un passato ormai trascorso e irrimediabile. Sento il tuo cuore piangere mentre cerca senza successo la verità>>

Le sue dita mi sfiorarono le spalle e scesero finché non ghermirono dolcemente i lacci del corsetto e tentarono di scioglierli. Tuttavia io balzai in piedi e, senza neanche pensarci, azzardai a dargli uno schiaffo seguito poi da una serie infinita di insulti, ma lui mi fermò prima, afferrandomi il polso.
Vidi una luce, un luccichio nei suoi occhi verdi e fatui che non mi piacque affatto.
Provai a liberarmi, ma ogni mio tentativo di fuggire si reputava vano; persino quando lo colpii con una scarica elettrica, sperando almeno di ferirlo, non arrecò alcun tipo di danno.
Il mio cuore iniziò a martellare per la paura, i miei occhi erano spalancati, fermi su quella figura che ricambiava lo sguardo. Le parole rimanevano bloccate in gola, timorose di uscire.

<< Lasciami!>> urlai.

<< Perché? Tu ora sei mia, un mio piccolo balocco... il mio passatempo>> rise << Ti addestrerò, come promesso, però prima fammi divertire>>

Mi trascinò verso di sé, con forza, poi mi baciò. Era un bacio ricco di bramosia e più i secondi passavano, più venivo spinta addosso a lui, contro la mia volontà.
Non era di certo uno di quei segni d’affetto che avevo letto in svariati libri. Il suo era un qualcosa di molto più brutale, come se tutti gli anni di prigionia si riversassero in un unico gesto, il quale si tramutava inevitabilmente da dolce a inumano.
Piangevo, piangevo per la mia stupidità, piangevo per l’odio che aveva pervaso del mio cuore. Non avrei dovuto fidarmi, avrei dovuto rimanere all’Inferno a meditare sui miei sbagli.
Riuscii a staccarmi dalle sue labbra quando evocai la mia Death Scythe e la utilizzai per allontanarlo. Nemmeno quest’arma l’aveva scalfito quando avevo tentato di ferirlo ad un fianco, però perlomeno mi aveva aiutato.

<< Stammi lontano, demone>> ansimai, impugnando con entrambe le mani l’ascia bipenne.

<< Ma che bel gingillo... ti va forse di giocare?>>

Con un solo e repentino gesto della mano evocò delle mani di luce, le quali mi trapassarono, privandomi di tutte le energie. Crollai in ginocchio per terra, alzando a fatica il capo per vedere la sua immagine perdere ancor di più di nitidezza, come se la mia miopia non fosse abbastanza.
Si avvicinò, sfiorandomi il mento, avvicinando il suo viso al mio collo.
Io però riuscii ad alzarmi ugualmente, riuscendo a scansarlo, poi, barcollando, strinsi la Death Scythe e la puntai contro di lui.

<< Lilith...>> disse.

<< Pandora, io sono Pandora>> ringhiai << Non sono né Lilith, né tantomeno un tuo giocattolo. Io sono una Shinigami>>

<< Già...>> ridacchiò Eridan << Piacere, io sono Eridan, figlio di Chaos e di Lux, capo dei demoni supremi e sono anche tuo zio. Sei una creatura bizzarra, sai? Metterti contro di me...>> aggiunse, in tono scherzoso.

<< Io sarei quella pazza? Tu volevi fare cose... impure...>>

<< Mi hai fatto divertire>> sorrise, poi aggiunse prima di uscire dalla stanza << Mangia la minestra, altrimenti si raffredda... Pandora>>

Lo guardai mentre lasciava la sala. Dal suo volto cadde una lucente lacrima, la quale si scontrò con il pavimento, diventando una macchia in un mare di perfezione.
Non avevo mai visto una luminosità simile, sfiorava infatti quella pura del sole. Normalmente i demoni non mostravano i sentimenti, erano esseri subdoli, capaci soltanto di torturare gli umani.
Eppure lui sembrava diverso dagli altri, anche se mi aveva aggredita. Forse possedeva anche lui un’anima, in fondo.
A questo pensiero scossi la testa: certe volte riuscivo ad essere proprio un’ingenua, perché i demoni non avevano un’anima, per questo motivo la cercavano da chi invece ne possedeva una. Erano come degli zombie, con la differenza che questi ultimi non erano né creati dall’ombra e né possedevano una volontà propria.

<< Eridan!>> lo chiamai, prima che sparisse nei labirintici corridoi.

Lui si girò e mi guardò con un’espressione interrogativa.

<< Eridan... tu hai un’anima?>> gli domandai.

<< Tempo fa la stessa domanda me la fece Lilith, quando io, accecato dalla potenza, avevo ucciso il nostro unico figlio>> poi sospirò << comunque, purtroppo sì... se non ce l’avessi, sarei un demone libero>>

Ci fu un lungo silenzio, interrotto soltanto da uno stormo di uccelli che copriva, come se fosse una candida nuvola, la calda luce che scaldava la Terra ormai da fin troppo tempo.

<< Io sono un mostro, Pandora>>

<< I mostri non ammetterebbero mai di essere tali. Certo, se mi aggredisci un’altra volta però ti ritroverai la mia Death Scythe impiantata da qualche parte>>

Eridan si voltò verso di me, facendo un’inquietante espressione a trentadue denti. Incrociò le braccia e inclinò appena in capo, ridacchiando.

<< Davvero? Così non sarei un mostro? Bene... in tal caso... domani la sveglia è alle quattro del mattino>>

<< bastardo>> ringhiai.

No, lui non era un mostro. Lui era un demone supremo ed era infinitamente peggio.

 

Fine Settimo Capitolo!

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