The long and winding road back home to you

di Nagem
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone, nè offenderle in alcun modo'
Questi personaggi non mi appartengono.
 
Capitolo 1.
 
“Non ho capito”, disse Liam.
“Che cazzo c’è da capire? Devi solo scegliere. Vuoi cantare Don’t look back in anger o Wonderwall?” rispose Noel, impaziente, il tono di voce che iniziava a salire.
“Ma perché cazzo devo scegliere?” Liam guardava il fratello con gli occhi spalancati, sembrava che gli stesse parlando in codice. Noel cantava solo qualche B-sides e le due canzoni appena nominate non lo erano. Le avrebbe cantate lui entrambe, no?

E invece pareva proprio di no. Noel alzò gli occhi al soffitto e riprese a parlare: ”Una la canterò io, sbrigati a scegliere altrimenti me le prendo tutte e due! ”. Liam chiuse gli occhi mentre sentiva montare dentro la rabbia, la sentì  ribollire in mezzo al petto e poi su, nella testa. Che cazzo aveva in mente quell’idiota di suo fratello? Perché voleva rubargli la scena? Era lui il cantante, spettava a lui cantare, cos’era quella storia? Con una profonda inspirazione riuscì a ingoiare il fuoco che gli stava salendo in gola. “Wonderwall. Scelgo Wonderwall ” sputò fuori riaprendo gli occhi e fissando il fratello.

Noel emise un impercettibile sospiro di frustrazione. Perché quando c’erano di mezzo i sentimenti doveva essere così contorto? Non sarebbe stato più semplice dire: ”Senti, ho scritto Wonderwall pensando a Meg, è per lei, sono innamorato, voglio cantarla per lei”. Tanto Liam l’aveva capito, per questo l’aveva scelta, glielo aveva letto negli occhi quel lampo di sfida rabbiosa. Non disse niente però, solo uno spento: “Ok”.

Owen Morris, il produttore, riprese a respirare. La tensione tra i due fratelli era spesso palpabile e ogni volta bastava una piccola scintilla per far divampare l’incendio, ma quella sera no, per quella sera l’avevano scampata. Owen lanciò uno sguardo furtivo verso Liam e solo guardandolo si rese conto che la tempesta doveva essere comunque vicina.

Liam incise così il cantato di Wonderwall, non ci mise molto, non ci metteva mai molto, era quasi sempre buona la prima con lui, almeno finchè la voce reggeva. Liam non si rendeva pienamente conto di cosa significava essere un cantante, la sua voce non era uno strumento che si poteva accordare, aggiustare o, alle brutte, sostituire. La sua voce era un dono da custodire gelosamente, da coccolare, da accudire. Lui invece se ne fregava e lo prendeva a schiaffi quel suo dono così prezioso e fragile. Ci rovesciava sopra litri e litri di alcol, lo impolverava di cocaina, fumo e pilloline varie, lo maltrattava con il troppo urlare e le nottate in bianco. Si sentiva invincibile quando stava dietro un microfono, non riusciva proprio a capire che la sua voce non poteva reggere i ritmi e gli stravizi che lui le imponeva.

Dopo Wonderwall avrebbe dovuto incidere Champagne Supernova, ma dopo solo pochi giorni di lavoro, non riusciva già più a raggiungere le note più alte. La band si mise allora a lavorare su Don’t look back in anger, tanto canta Noel, così puoi riposarti un po’ Liam. “Riposarmi? Io non mi devo riposare per un cazzo! – urlò mentalmente Liam – Io devo cantare!”. Scuro in volto, le sopracciglia aggrottate, i pugni stretti dentro le tasche, Liam uscì sbattendo la porta, diretto nel suo paradiso personale, il pub più vicino.

Finito di registrare, la band e il produttore tornarono nella casa in cui erano alloggiati  e … sorpresa! Vi trovarono decine e decine di ragazzi che festeggiavano, tutti ubriachi persi. Rimasero inebetiti sulla soglia a guardare quella sorta di follia collettiva. Dopo un attimo di sconcerto, Noel fece un rapido giro delle stanze finchè trovò quello che cercava, o meglio, chi cercava. Si fece largo a spintoni tra i corpi sudati e urlanti senza togliere un attimo gli occhi dal responsabile di quel casino che se ne stava beatamente in un angolo con una birra in mano a farsi baciare da una ragazza più nuda che vestita. Noel prese la ragazza per un braccio e la spinse in malo modo da una parte, sibilando:”Vattene”. Liam fece un mezzo sorriso, non aspettava altro che il fischio d’inizio. “Come cazzo ti permetti stronzo?” urlò infatti. “Come cazzo ti permetti tu di fare una cosa del genere, imbecille che non sei altro! Siamo qui per lavorare!”, “Ah sì? Beh, a me non sembra che dovessi lavorare oggi! Che cazzo dovrei fare mentre tu canti? Spazzare il pavimento? Lucidarti le scarpe? Eh?”, replicò Liam continuando a urlare.

“Ah, ok, è questo – pensò Noel – gioca a fare la diva offesa. Benissimo.” Gli puntò il dito indice contro, ricominciando ad urlare: “Senti, se non te ne fossi accorto, sono io che compongo. Quelle sono le MIE canzoni, decido IO chi canta, e se voglio farlo io, lo faccio e basta, non devo certo chiedere il permesso a te, chiaro? Tu non sei niente, non sei assolutamente niente, cazzo! Hai solo la fortuna di essere intonato, di avere una bella faccia e un fratello che sa scrivere canzoni, tutto qui. E sì, dovresti lucidarmi le mie fottute scarpe per quello che ti ho regalato, coglione! E ricorda che posso toglierti tutto quando voglio, io non ho bisogno di te, tu sì, eccome”. Chiuse la bocca, il petto si alzava e abbassava velocemente per il gran urlare e sul viso gli si disegnò una specie di ghigno: non gli era sfuggito il cambio d’espressione di Liam sulla frase Tu non sei niente, non sei assolutamente niente e poi come era impallidito su Posso toglierti tutto quando voglio. “Manca poco e si mette a piangere, l’imbecille” sorrise malignamente fra sé e sé Noel.

Ed effettivamente i grandi occhi azzurri del fratello diventarono lucidi, ma non stava per piangere, oh no, no davvero. Liam stava per esplodere. La rabbia del giorno prima che, ingoiata a fatica, si era trasformata in un rivolo ghiacciato entratogli  in circolo, riacquistò di colpo tutto il calore e la potenza della lava che erutta da un vulcano e Liam non si trattene più. Si girò e tirò la bottiglia sulla parete con tutta la forza che aveva facendola fracassare in mille pezzi e poi iniziò a distruggere tutto quello che lo circondava, scaraventò via tavoli, sedie, chitarre, bottiglie, tutto. Le persone, pur avvolte dai fumi dell’alcol e della droga si resero conto di quello che stava succedendo e cominciarono ad assieparsi verso la porta per mettersi in salvo.

Noel rimase sorpreso, non si aspettava una reazione così violenta e suo malgrado si fece contagiare dalla follia ubriaca del fratello. Liam girando per le stanze come un uragano si ritrovò faccia a faccia con il fratello maggiore e fece per tirargli un pugno in faccia, ma era troppo ubriaco e lo mancò, Noel afferrò una mazza da cricket abbandonata vicino a uno scaffale e cominciò a picchiarlo con quella, sempre più forte e sempre più violentemente. Liam cercò di ripararsi il viso con le braccia, ma un colpo più forte degli altri gli spezzò il polso destro, il dolore fu tale che dalla bocca aperta non uscì nessun suono, solo un gemito soffocato, si accasciò per terra piegandosi in avanti e stringendo al petto il polso fratturato con la mano sinistra, offrendo involontariamente a Noel la schiena indifesa. Noel diede qualche altro colpo, come se fosse incapace di fermarsi, poi gettò forte la mazza sul pavimento che rotolò verso le gambe di Liam con un rumore metallico. Rannicchiato per terra con il polso stretto sul petto, con il respiro affannoso e scosso da violente scariche di dolore, Liam guardò il fratello uscire velocemente dalla porta. I suoi occhi erano di nuovo asciutti.
 
“C’è una bella frattura qui, sì – disse il medico del Pronto Soccorso visionando le radiografie di Liam – come hai detto che te la sei procurata, ragazzino?”. Liam stava seduto su un lettino, gli occhi bassi a fissare l’ingessatura bianca che gli copriva il polso e una parte della mano destra. “Ero ubriaco, ho inciampato e sono caduto per le scale”. Il medico si girò verso quel ragazzo dall’aria così triste, guardò un’altra volta l’occhio nero e i lividi che si intravedevano dalla maglietta e scosse la testa. “Sono sicuro che fossi ubriaco, ma diciamo che sei inciampato su una ragazza e poi sei caduto sul pugno del fidanzato”. Il medico sorrise, paterno. “Ho indovinato?”. Liam sorrise di rimando, pensando:” Eh, come no, ci sei andato lontano solo milioni di chilometri”, “Più o meno”, rispose invece. Quel dottore aveva la faccia buona, gli sarebbe piaciuto avere un padre così, riflettè Liam, anzi, gli sarebbe piaciuto avere un padre. E basta. “Dai, ci siamo passati tutti – continuò il medico – poi trovi la ragazza giusta e passa tutto. Fra una quarantina di giorni vai in un qualsiasi ospedale per farti togliere il gesso, ok? Aspetta che ti vado a fare la richiesta per la visita ortopedica, tu non sei di qui, vero?”, “No, sono di Manchester”, “Sì, l’avevo capito dall’accento. Torno subito”. Il dottor Swaiss entrò nella stanza vicina, scrisse velocemente su un blocco prestampato, diede un’occhiata al calendario – che giorno è oggi? – 17 maggio 1995, timbro, firma. “Com’è che ti chiami ragazzino?”, urlò. Nessuna risposta. Sospirando il medico tornò nella stanza delle visite con gli occhi sul foglio che aveva appena compilato. “Come ti chiami? Prima il cognome e poi il nome, per favore”. Di nuovo nessuna risposta. Il dottore sollevò lo sguardo. Nessuno. Nella stanza non c’era più nessuno.
 
 
Allora… ciao a tutti! Questa è la mia prima fan fiction, in testa ho tutta l’ossatura della storia ma mi sono resa conto che metterla per iscritto è difficiiiiiiiiiiiile! Perciò sono ben accetti suggerimenti e critiche!
Il titolo è un verso di “My big mouth”, pubblicata su Be here now.
La descrizione del litigio è ripresa da “Fuori di testa!”, di Paolo Hewitt. Qui le radiografie di Liam : http://beware-of-daftcunts.tumblr.com/post/37135326615/rocknrollstarr-rayos-x-de-la-mano-de-liam

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2.
 
“Dimmi che mi ami”, disse Noel abbracciando stretta Meg appena tornata da una vacanza in Portogallo. Era passato già qualche giorno dal quel furibondo litigio con il fratello, ma Noel ancora non si era ripreso del tutto.

Meg era completamente all’oscuro della faccenda, ma sentì subito che qualcosa non andava. Avrebbe voluto chiedere al ragazzo cosa fosse, ma in quei mesi di relazione aveva imparato a conoscerlo, e sapeva che era praticamente impossibile tirargli fuori le parole se non era pronto per farlo. Quando se la sarebbe sentita, Noel le avrebbe raccontato cosa lo angustiava. E così fu. Di ritorno dalla festa organizzata dalla Go Disc per l’uscita dell’album di Paul Weller, Noel buttò fuori tutto d’un fiato ogni cosa.

Seduto sul bordo di un divano dall’improbabile tessuto a fiori – più adatto a una casa di campagna che non a un appartamento di Camden – Noel parlava, parlava, parlava. Alla fine del racconto, si lasciò cadere all’indietro sullo schienale, e fu come se si fosse tolto un peso enorme dalle spalle. Meg aveva ascoltato quel fiume in piena, con gli occhi che fissavano alternativamente il viso turbato di Noel e il suo riflesso nello specchio. “Cavolo, devo rifarmi la tinta, ho una ricrescita vergognosa”, pensò, prima di rivolgere nuovamente l’attenzione a Noel :”Beh, tesoro, non è certo la prima volta che tu e Liam litigate, no? Farete pace, come sempre.”, “Non è un litigio qualsiasi, Meg. Stavolta è stato diverso. Lui non è mai stato tanto violento. Non con me, almeno. Che cazzo, mi è sembrato di rivedere nostro padre”. Si passò velocemente una mano sugli occhi, come a cacciare via un’immagine che non aveva nessuna voglia di rivedere. “E la reazione che ho avuto io stesso. Voglio dire… stava per terra, non riusciva neanche ad alzare le braccia per difendersi e io continuavo a colpirlo come un pazzo con quella fottuta mazza, non riuscivo a fermarmi. Potevo ammazzarlo, Cristo santo!”. “Ma eravate tutti e due fatti e ubriachi. Aggiungici lo stress per le registrazioni e sinceramente non ci vedo niente di così sconvolgente, tesoro. Lui che dice?”, “Non lo so. Non l’ho ancora sentito. A dire il vero non ho sentito più nessuno. Sono tre giorni che sto chiuso in casa con il telefono staccato. Non ho voglia di parlare con nessuno, farebbero domande a cui ancora non so rispondere”. Meg sorrise: ”Con me hai parlato però”, “Con te è diverso”.

Meg si accostò al petto di Noel e si fece piccola piccola per farsi abbracciare, Noel accolse l’invito e le passò un braccio sulle spalle, facendole poggiare il viso sulla sua spalla e baciandole la fronte. Meg si sentiva commossa ed elettrizzata insieme e abbastanza audace per fargli la piccola proposta che le frullava in mente da un po’: voleva fargli conoscere i suoi genitori. ”Amore, senti. C’è una piccola riunione di famiglia nella casa che abbiamo sull’isola di Guernsey, ti va di venire? Ai miei piacerebbe conoscerti. E poi potremmo andarcene soli soletti sull’isola di Jersey, ci prendiamo qualche giorno di vacanza, lontani da tutti e da tutto. Sono sicura che quando torneremo sarai più rilassato e vedrai le cose con più chiarezza. E far passare un po’ di tempo prima di risentirvi potrebbe far bene anche a Liam”. Noel ci pensò su un attimo. L’idea di conoscere i genitori di Meg non lo entusiasmava, ma per lei sembrava importante. E poi gli piaceva il pensiero della vacanza da soli, senza altre preoccupazioni se non quella di stare nudi il più possibile a fare l’amore. Noel sorrise al pensiero. “Sì, piacerebbe anche a me conoscere i tuoi”.

I giorni di vacanza passarono velocemente e Noel si sorprese a pensare più volte che in fondo Meg aveva ragione. Sì, il fratello era stato davvero pesante ma dopotutto poteva capirlo. Liam non faceva altro che cantare nel gruppo, non suonava nessuno strumento, non prendeva praticamente nessuna decisione, l’unica cosa che sapeva fare era “aprire la bocca e urlare”, come diceva lui. E tirandogli addosso frasi come “Non sei nessuno” e “Non ho bisogno di te”  non aveva fatto altro che rigirare il coltello nella piaga – piuttosto consapevolmente, ad essere onesti -  sbattendogli in faccia la paura più grande che Liam avesse: quella che il fratello maggiore lo buttasse fuori dal gruppo. In fondo anche Noel sapeva cantare, era lui che componeva, era lui il chitarrista principale, era lui il capo, The Chief, come lo chiamavano non a caso.

Quello che Liam non sapeva era che Noel per niente al mondo avrebbe rinunciato a lui, per quanta strafottenza e sicurezza dimostrasse al mondo intero, ancora non riusciva a togliersi di dosso quella timidezza di fondo che si portava dietro. Non gli piaceva avere addosso gli occhi di tutti mentre cantava le proprie canzoni. Gli risultava difficile, se non addirittura penoso, mostrare quello che aveva dentro. Le sue emozioni, i suoi sentimenti, le sue paure, l’intero suo mondo interiore veniva riversato nelle canzoni che componeva e cantare in pubblico per lui significava denudarsi, riusciva a farcela per qualche canzone, dopotutto era un narcisista, godeva dell’ammirazione altrui, ma non avrebbe di certo retto per un concerto intero. Un giorno forse, molto più in là nel tempo, ma per adesso preferiva di gran lunga usare il fratello come barriera protettiva. E poi doveva ammettere che Liam ci sapeva fare. Sembrava nato per stare sul palco, quella testa di cazzo. E aveva una voce da far venire i brividi. Se solo se ne prendesse più cura, sospirò Noel. Dovrebbe imparare a respirare correttamente, a usare il diaframma invece di sforzare in quel modo la gola e assumere una postura corretta. Ma il fratello era refrattario a ogni forma di regola, a ogni imposizione, Noel lo sapeva bene. Era stato così fin da piccolo. Ricordando quel bimbetto biondo che si imbottiva di cereali e dormiva nel letto a fianco al suo, Noel si sentì travolgere da un’improvvisa ondata d’affetto. Ma sì -  pensò scrollando le spalle - quando torneremo in studio gli spiegherò bene la faccenda di Wonderwall, gli dirò che è quella la canzone che voglio cantare e gliene spiegherò il motivo. Lo stronzetto capirà. Ci penso io al mio fratellino. E poi gli insegnerò a suonare la chitarra come si deve, magari riesce a tirare fuori qualcosa di buono da quel cervellino bacato che si ritrova.

Lui e Meg erano tornati in una bella giornata di sole, cosa rara a Londra, faceva già un po’ caldo, era innamorato, stava incidendo il suo secondo disco …. Cazzo! Il secondo disco! Gli faceva effetto solo pensarlo! I suoi sogni si stavano avverando tutti, uno per uno. Noel si sentiva ottimista e pieno di buoni propositi mentre disfaceva i bagagli. Tirò fuori dalla valigia una cintura dei Beatles, osservò la fibbia argentata tenendola sul palmo della mano, era il suo regalo per Liam, il suo modo per dirgli Ehi! Mi dispiace .

Sentì un rumore di passi lungo le scale, passi veloci, passi nervosi. Era Meg che correva al piano di sopra, dove si trovava lui. Entrò trafelata nella stanza, aveva il cordless in mano. Entrando in casa, aveva visto la lucina rossa della segreteria telefonica lampeggiare come impazzita. Durante la vacanza con Meg non aveva voluto accendere il cellulare e immaginava che tornando a casa avrebbe dovuto rispondere a decine di telefonate. “Noel, siediti”, ansimò Meg, con il fiato corto. “Cosa?”, “Ho detto siediti, Noel!” ripetè Meg porgendogli il telefono.

Noel rimase in piedi ma prese il telefono con mano tremante e lo sguardo fisso su Meg: “Pronto?”, “Oh Signore, Noel, tienilo acceso quel maledetto telefono, sono giorni che tento di parlarti!”. Sua madre. Era sua madre. A Noel venne da ridere. Gli era quasi preso un infarto e invece era solo sua madre incazzata perché non le aveva telefonato per dieci giorni! Certo però che era stato uno stronzo, almeno lei poteva chiamarla. Povera mamma! Doveva essersi preoccupata. “Mamma hai ragione! Scusa, ma quell’idiota del tuo figlioletto prediletto mi fa andare fuori di testa e …”, “Noel – sua madre lo interruppe – lascia perdere queste scemenze. Tuo fratello è scomparso, non lo troviamo da nessuna parte. Se n’è andato dal Pronto Soccorso senza aspettare di essere dimesso e non è tornato nello studio in cui stavate registrando. Non è venuto qui a Manchester né è andato a Londra, o almeno non si fa trovare.”.  

La stanza cominciò a girare intorno a Noel, barcollò, fece due passi all’indietro e si sedette pesantemente sul letto. Chiuse gli occhi. Suo fratello scomparso. Pronto Soccorso. “Che ci faceva al Pronto Soccorso?”, “Ce l’ha accompagnato Bonehead, o come cavolo si fa chiamare. Gli hai rotto un polso mentre litigavate. Non ti eri accorto di avergli fatto male?”. Eh no, cazzo. Non me n’ero accorto. E comunque Liam era scomparso. Cominciò a pensare velocemente, scartabellando mentalmente tutti i posti in cui poteva essere andato. Riaprì gli occhi, la stanza non girava più. “D’accordo, calmati – lo disse a sé stesso o a sua madre? – Avete cercato fra quei coglioni dei suoi amici?”, “Sì, certo. Paul ha fatto il giro qui e di quelli a Londra se n’è occupato il vostro manager. Nessuno sapeva niente”. “Magari si è preso una sbronza colossale – o è andato in overdose, ma questo Noel non lo disse ad alta voce – è ricoverato in qualche ospedale e non è in grado di dire come si chiama”. Ma che idee di merda, ti pare che in un ospedale intero non c’è nessuno che lo riconosca?. Infatti. “Noel ma è OVVIO che abbiamo cercato negli ospedali – sua madre era quasi isterica ormai – e se lo vuoi sapere anche negli obitori! Signore, guarda che sono dovuta andare a pensare! Voi e quelle droghe del cazzo! E prima che tu me lo chieda, non è stato neanche arrestato!”. Pensa, Noel, pensa, si disse febbrilmente. Un lampo di luce gli illuminò per un attimo i pensieri, ma precipitò nel buio subito dopo. Un’idea gli era venuta, ma non aveva il coraggio di dirla a sua madre. “Mamma, ascolta. E … e se fosse stato rapito?”. Fece subito sparire l’immagine che gli era apparsa davanti agli occhi, quella di Liam buttato da qualche parte, legato, imbavagliato e spaventato a morte. Buon Dio, ti prego no.  “L’abbiamo fatto presente sia a Scotland Yard sia alla Greater Manchester Police ma ci hanno risposto entrambe che se non riceviamo una richiesta di riscatto o se non c’è nessun indizio, non possono fare niente. Liam è maggiorenne, può fare quello che vuole per quanto li riguarda”.

Ci fu una pausa di qualche secondo, durante la quale Noel incontrò gli occhi di Meg. Si era quasi dimenticato della sua presenza. “Senti, facciamo un passo indietro. Le spiegazioni più semplici sono di norma quelle giuste. Sarà andato in qualche posto sperduto a sbollire in santa pace. Avrà conosciuto una ragazza e si sarà stabilito da lei. Lo sai che tuo figlio è sempre pieno di donne, no?”, Noel tentò di scherzare un po’, tanto per alleggerire la tensione. “Probabilmente sarà così – rispose sua madre, sull’orlo delle lacrime – ma finchè non lo sento mi sembrerà di morire ogni secondo che passa”. “Non dire così, mamma, dai. Vorrà farmi sentire in colpa. Vedrai che presto si farà vivo, e comunque adesso faccio un giro di telefonate anch’io e vado a chiedere a un po’ di persone, va bene? Cerca di stare tranquilla, mammina.” .

Noel chiuse la comunicazione con sua madre e si prese la testa fra le mani. Meg gli si inginocchiò davanti, gli fece sollevare il viso mettendogli una mano sotto il mento e gli disse: “Amore, ti ripeto quello che hai detto a tua madre: stai tranquillo. Si risolverà tutto, le brutte notizie arrivano subito, se gli fosse successo qualcosa l’avremmo già saputo!”. A Noel veniva da piangere. “Il punto è … il punto è che Liam, pur in tutta la sua imbecillità, non darebbe mai una preoccupazione del genere a nostra madre. Qualcosa deve essere successo per forza”. Represse a stento un singhiozzo, ma non potè fare nulla contro il tremito incontrollabile che iniziava a scuoterlo tutto. “Ed è solo colpa mia”.
 
Allooooooooora. E’ in questo capitolo che si entra a pieno titolo nell’AU. I primi avvenimenti sono reali, Noel e Meg andarono alla festa per il lancio di Stanley Road di Weller e solo dopo Noel le raccontò del litigio con l’incazzoso fratellino J, decisero di fare una vacanza prima sull’isola di Guernsey con la famiglia di lei per poi puntare all’isola di Jersey. Quando tornò, Noel regalò realmente una cintura dei Beatles a Liam (fonte: “Fuori di testa!”, di P. Hewitt). Da lì in poi è tutta fantascienza, per nostra fortuna ;-) Anche se pare (e sottolineo pare, a me è sempre puzzato di bufala) che Liam scomparve veramente per un paio di giorni, ma molti anni più tardi, intorno al 2000, se non ricordo male.  Buona lettura!

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3.
 
Peggy Gallagher non aveva avuto il dono di una vita facile, proprio per niente. Aveva dovuto lavorare fin da piccola, rinunciando al sogno di studiare – quanto le piaceva leggere! – trasferendosi dalla sua amata Irlanda alla piovosa e grigia Manchester e infine sposando l’uomo sbagliato, un irlandese violento, avaro, che alzava il gomito e le mani con la stessa frequenza con cui le persone normali si scambiano baci e risate. Nonostante tutto ciò Peggy considerava se stessa una donna fortunata. Dio l’aveva infatti graziata con tre figli, i tre ragazzi più meravigliosi – cuore di mamma – che le potessero capitare.

A questo pensava quel pomeriggio, mentre spolverava il piccolo soggiorno. Con movimenti esperti e sicuri, Peggy non lasciava neanche il più piccolo granello di polvere, mettendo particolare cura nel pulire le cornici delle foto dei suoi figli che adornavano la mensola sopra il camino. Le mani furono scosse da un impercettibile tremolio quando si avvicinarono alla terza foto, che ritraeva un bambino di circa tre anni appoggiato a un triciclo colorato, la manina sulla guancia e il sole ad illuminargli il visetto. Sembrava un piccolo angelo, con quei capelli dorati. Peggy strinse le labbra mentre le lacrime le appannavano la vista “Ah Liam, un ceffone stavolta non te lo leva nessuno. Non mi importa se hai 22 anni e sei più alto di me, stavolta te le do per tutte le volte in cui avrei dovuto dartele e non l’ho fatto. Prima ti abbraccio e ti coccolo come quando eri piccolo e poi te le suono, bambino mio, amore di mamma”. Peggy tirò su con il naso, posò la cornice e continuò tristemente a sploverare.

Erano passate già tre settimane dall’ultima volta che aveva sentito il più piccolo dei suoi figli. Paul e Noel la chiamavano almeno una volta a settimana, ma Liam era molto attaccato a lei, tenero e affettuoso come solo con lei si permetteva di essere e difficilmente passavano più di un paio di giorni senza che le telefonasse. Per questo si era subito allarmata al terzo giorno di silenzio ed era entrata in panico quando quel Paul qualcosa, Bonehead – ma tu guarda che diavolo di nome – le aveva telefonato chiedendole se poteva passarglielo, per sapere se almeno lui avesse intenzione di tornare. “Cosa? Ma non è lì con voi? E Noel?”.

Merda!” aveva pensato Bonehead. Era stato ore e ore nella sala d’aspetto di quel Pronto Soccorso, quando alla fine si era avvicinato al bancone della reception per sapere che accidenti di fine avessero fatto Liam e il suo stupido polso e si era sentito rispondere che il paziente se n’era andato di sua iniziativa parecchio tempo prima, dapprima gli aveva inviato telepaticamente una sequela d’insulti per averlo lasciato lì ad aspettare come un fesso, poi aveva fatto ritorno ai Rockfiel Studios aspettandosi di trovarlo lì, vedendo che non c’era aveva automaticamente pensato che fosse tornato a casa dalla mamma, come faceva sempre quando c’era qualcosa che non andava.

Quello che rimaneva degli Oasis – e cioè lui, Guigsy e Alan – più il produttore e il manager, avevano fatto una specie di riunione telefonica con Alan McGee, capo della Creation Records, l’uomo che pagava fior di sterline per avere una band a metà e uno studio sfasciato. Il piano, decisero, avrebbe consistito nell’aspettare – wow! Un piano degno di 007! Aspettare che i due fratelli, preferibilmente entrambi ma possibilmente almeno Noel, si facessero vivi. Dopo qualche giorno avevano saputo – non da lui perché, com’era nel suo stile, quand’era incazzato spariva e basta – che Noel sarebbe stato via per un po’ insieme a Meg (l’uccellino che aveva cantato). Rimaneva da sapere cosa aveva intenzione di fare Liam. Facile a dirsi, tremendamente difficile a farsi, perché del cantante non c’era nessuna traccia.  Da nessuna parte. Dopo aver fatto concretizzare alla signora Gallagher il peggior incubo di ogni madre – quello di non sapere più niente del proprio figlio – si erano messi in moto tutti quanti per trovarlo. Decine e decine di telefonate, altrettanti chilometri percorsi, non avevano portato a nessun risultato.


Dopo aver finito di spolverare il saloncino, Peggy inforcò gli occhiali da vista, prese il mucchio di lettere che giacevano dalla mattina sul mobile dell’ingresso, accese il vecchio lume azzurro e si accomodò sulla poltrona consunta sorseggiando il tè nella sua tazza preferita, quella di porcellana bianca, con l’orlo dorato e la rosellina rosa dipinta sul davanti. Una bolletta … quattro lettere di fans indirizzate ai suoi figli (a Manchester tutti sapevano dove avevano abitato fino a poco tempo prima) … una cartolina dall’isola di Jersey? Ma che c’è scritto? ….Santo Cielo Noel, amore di mamma, quando imparerai a scrivere meglio? …. E infine una busta semplicissima bianca, con un francobollo strano. Il cuore di Peggy si fermò per un attimo e poi prese a battere come un tamburo. Rovesciò a terra il tè, la sua bella tazza rotolò sotto il divano mentre le lettere e la cartolina si sparpagliavano per il pavimento. Aveva riconosciuto subito la grafia di chi aveva scritto l’indirizzo, nonostante fosse molto più disordinata del solito. Peggy strappò velocemente la busta facendo scivolare fuori un foglio a quadretti, evidentemente strappato dal mezzo di un quaderno. Lo guardò ansiosa per un attimo, prese un respiro profondo e iniziò a leggere.

“Ciao mamma.
Sai che è la prima lettera che scrivo in vita mia? So che sei preoccupata perciò ti dico subito di stare tranquilla, sto bene. Il polso non mi fa più neanche tanto male anche se con l’ingessatura faccio fatica a tenere la penna in mano. Immagino saprai come me lo sono rotto.

Mi dispiace di non averti telefonato, ma prima non sapevo che sarei stato via tanto tempo, e poi non l’ho più fatto perché sapevo che se avessi sentito la tua voce non avrei avuto il coraggio di andare fino in fondo alla decisione che ho preso. Anche adesso so che se ti sentissi, tornerei indietro. Per questo ti scrivo. Non tornerò a casa per un bel po’ di tempo mamma. Non so per quanto, ma per tanto. Non te la prendere con Noel, non è colpa sua, non del tutto, per lo meno.


Sai quanto litighiamo da quando è entrato nel gruppo, vero? Ecco, fino a qualche tempo fa erano litigi normali, lui vuole avere sempre ragione, io pure e finisce sempre che ci scorniamo. Ma ultimamente è diverso. Ultimamente cerchiamo di farci il più male possibile, fisicamente e non. Non so esattamente perché. Sarà per tutte quelle schifezze che ingurgitiamo (scusa mamma), sarà che ci siamo montati la testa, sarà che non siamo fatti per stare troppo insieme … non lo so. So che quando litighiamo è come se mi dividessi in due. Da una parte c’è il Liam buono, che cerca di capire le sue ragioni e che vuole solo fare la pace e starsene tranquillo a fare le sue cose. Dall’altra parte c’è il Liam cattivo, che cerca di farlo arrabbiare di più, che prova un accecante voglia di rompergli la faccia e vedere che succede. E so, sento, che per lui è la stessa cosa.

I nostri litigi sono su un altro piano ormai mamma. E io comincio ad avere paura. Ne ho avuta tanta l’ultima volta che abbiamo litigato, sai? A un certo punto è come se si fosse spenta la luce, non vedevo più niente, non capivo più niente, volevo solo spaccare tutto quello che mi circondava, anche Noel, soprattutto Noel. E poi è successo che lui ha preso quella mazza, che poi non ho neanche capito che cavolo ci facesse lì una mazza da cricket, e ha iniziato a picchiarmi con quella, e lo faceva forte mamma, mi stava facendo male, male sul serio, ma lui ha continuato, mi ha rotto il polso e ha continuato, sono caduto e ha continuato. Non si fermava più. Poi ha buttato la mazza per terra e se n’è andato. Pensavo che da lì a poco sarebbe tornato per vedere come stavo, ma niente. Non gliene importava niente. Capisci che non possiamo andare avanti così. La prossima volta magari succede che uno dei due ammazzerà l’altro senza neanche accorgersene. Non posso fargli una cosa del genere, capisci, vero mamma?


Per questo ho deciso di andarmene. E’ come se mi strappassi un pezzo di cuore, ma non ho altra scelta. Non so fare niente, non sono niente, l’ha detto anche Noel, so solo cantare, ma lo lascio a lui. Dopotutto lui può farlo, io non mi posso inventare da un giorno all’altro compositore, è giusto che il gruppo se lo prenda lui, per quanto mi faccia male anche solo pensarlo. Non so cosa farò, qualsiasi cosa, per il momento, poi magari la troverò la mia strada. E ti prometto che poi torno mamma. Appena mi sentirò più sicuro di me, appena potrò mostrare a Noel che qualcosa so farla anche io, torno. Te lo prometto. Non ti telefonerò ma ti scriverò spesso, ti prometto anche questo.

Tu però mi devi promettere un’altra cosa. Non vi mettete in testa di cercarmi. Ve lo chiedo per favore. Se mi chiedeste di tornare adesso lo farei, mi conosco. Ho bisogno di tempo, anche per ripulirmi un po’. Voglio smetterla di bere così tanto e di prendere tutta quella roba. Mi dovrò regolare per forza se voglio sopravvivere visto che soldi praticamente non ne ho.

Dì a Noel di finire quello stupido disco e vediamo se riesce a farlo entrare in classifica anche qui dove mi trovo adesso, ah ah ah!

Ti voglio tanto bene mammina, ti bacio.

Liam. “


Peggy aveva letto tutto d’un fiato la lettera del figlio e aveva pianto dalla prima all’ultima riga. Un po’ per la commozione di sapere finalmente che era vivo, un po’ per il dolore che le provocava leggere cos’era diventato il rapporto fra due dei suoi figli, un po’ perché era la prima volta che Liam ammetteva a chiare lettere l’uso di droghe, lei lo sapeva, ma vederlo nero su bianco le faceva male, un po’ le era venuto anche da ridere, verso la fine. La preoccupava non sapere ancora dove fosse e soprattutto quando sarebbe tornato, ma era vivo, quella era l’unica cosa che le importava in quel momento.
Alzò il telefono e fece il numero di Noel. Doveva essere lui il primo a saperlo.
 
Dunque. Non mi piace molto com’è venuto il pezzo in cui parlo di Bonehead e degli altri del gruppo, volevo fosse una specie di parentesi nei pensieri di Peggy ma a scriverlo non mi convinceva, così quando mi è uscito  una sorta di pov del vecchio Bone, l’ho lasciato così. Ripeto, non mi piace tanto.
La letterina di Liam…. Per la miseria se è stato difficile scriverla! Volevo che rispecchiasse il suo stile, ma non penso che con la mamma usi tutti i suoi fucking e fuck come fa normalmente. Considerando il tipo di rapporto che hanno penso non sia improbabile che con lei si apra in modo così sincero, anche se onestamente è un po’ difficile immaginarlo capace di mettere per iscritto tanta introspezione, non a quei tempi almeno

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4.
 
Rumore di pioggia. Pioggia scrosciante. Pioggia estiva. Liam si rifiutava di aprire gli occhi, peccato non poter chiudere anche le orecchie. Umidità appiccicosa. Umidità soffocante.  Il lenzuolo gli si era incollato addosso, oltre che arrotolato intorno alle gambe.

“Che posto del cazzo”. Ancora faticava ad abituarsi a quell’afa. Il caldo gli piaceva, ma odiava tutta quell’umidità. Lì le estati erano calde e umide. Il peggio che possa esistere. Beh, no, forse era peggio il freddo e umido. No, decise Liam calciando via il lenzuolo bagnaticcio, vanno bene sia il caldo che il freddo, è l’umidità che fa schifo. Gli avevano detto di goderselo quel caldo perché poi in inverno sarebbero stati settimane e settimane ad almeno 15 gradi sotto lo zero. “Che posto del cazzo”, si ripetè Liam, girandosi a pancia sotto. Se pensava agli eventi dell’ultimo mese gli veniva mal di testa. Per associazioni di idee gli venne in mente nonna Papera, come l’aveva soprannominata fra sé e sé.  Ridacchiò, suo malgrado. Girò la testa dall’altra parte, ma continuava a ridacchiare. “Ma porca puttana, che cazzo rido in questa situazione di merda?”. Girò di nuovo la testa ma fermò il movimento a metà, affondando la faccia nel cuscino.
 
Quando il dottore che l’aveva medicato al Pronto Soccorso era uscito dalla stanza, Liam aveva iniziato a pensare a quello che sarebbe successo di lì a poco: sarebbe ritornato allo studio, avrebbe dovuto constatare i danni fatti mostrandosi molto dispiaciuto e cospargendosi il capo di cenere, avrebbe dovuto chiedere scusa a tutti, avrebbe dovuto chiedere scusa soprattutto al suo fottutissimo fratello, Noel avrebbe fatto finta di niente come al solito e tutto sarebbe ripreso come sempre, fino al litigio successivo. Improvvisamente si sentì soffocare. “No-no-no” si disse, saltando giù dal lettino. Barcollò per un attimo, aveva ancora i postumi della sbronza, si avvicinò alla finestra, guardò fuori. Erano al piano terra. “Com’è che ti chiami ragazzino?”, sentì il medico urlare dall’altra stanza. Si voltò un attimo verso la porta mentre già con la mano sinistra apriva la finestra. Ebbe solo un secondo di esitazione ma poi scavalcò il davanzale e si mise a correre sul piazzale posto nel retro dell’ospedale, cercando di tenersi nascosto fra le ambulanze.
 
Si girò nuovamente sulla schiena e si costrinse ad aprire gli occhi. La piccola stanza era ancora in penombra. La pioggia continuava a scrosciare imperterrita, coprendo tutti gli altri rumori.
 
Aveva camminato per parecchio tempo lungo quella strada asfaltata costeggiata da alti alberi verdi. Gli occhi bassi, le mani affondate nelle tasche. I passi prima veloci, si erano fatti lenti, come se stesse passeggiando, aveva voglia di camminare, di stare da solo con i propri pensieri. Non sapeva dove stesse andando, ma non gli importava granchè, quando si fosse stancato avrebbe chiesto un passaggio a una delle auto che ogni tanto gli sfrecciavano vicine e sarebbe tornato indietro. O magari avrebbe incontrato un pub e si sarebbe fermato lì.

Rabbrividì nel giacchetto leggero, iniziava a fare freddo e il dolore pulsante al polso aveva ricominciato a farsi sentire, si irradiava lungo tutto il braccio fino alla spalla, l’effetto dell’antidolorifico doveva essere svanito. Sì, l’ipotesi del pub cominciò a sembrargli più gradevole che mai. Aveva appena iniziato a guardarsi intorno nella strada in quel momento deserta quando sentì lo strombazzare di un clacson proprio dietro di sé. Istintivamente fece un balzo di fianco per spostarsi e vide passargli vicino a tutta velocità un’automobile vecchissima, evidentemente d’epoca, che altrettanto velocemente come era arrivata si accostò per fermarsi poco più avanti di lui. “Sembra la macchina di nonna Papera”, pensò attonito Liam. Una testa bianca adornata da ricciolini freschi di permanente sbucò fuori dal finestrino “Ed ecco nonna Papera”, le labbra di Liam si piegarono involontariamente in un sorriso divertito.

“John!”, vicino alla testa sbucò anche un braccio grassottello, che si agitò in direzione di Liam. Il ragazzo si girò, ma non vide nessuno. “Joooohn!” continuò a urlare la proprietaria del braccio che sventolava come una bandierina impazzita “Io sono vecchia ma tu sei rimbambito!”. Liam rimase interdetto, poi si avvicinò a grandi passi verso la vecchietta fino a trovarsi faccia a faccia con lei “Ma quanti cazzo di anni ha, 180?” pensò, osservando le rughe che spiegazzavano quel viso anziano dagli occhietti chiari. Gli stessi occhietti si spalancarono sorpresi contemporaneamente alla mano che si sollevava a coprire la bocca. Per un attimo Liam pensò atterrito di aver fatto quel commento poco gentile ad alta voce “Oh, scusami tanto – fece però lei – sembravi davvero mio nipote! Eh però pure voi giovani che vi vestite tutti uguali!”. Lo squadrò da capo a piedi da dietro le lenti spesse e prima che Liam potesse replicare continuò:”Ma che hai fatto alla faccia e alla mano? E dove stai andando a piedi da solo? Ti sei perso? Sei vestito troppo leggero, non siamo mica in estate ancora!”. La vecchietta parlava veloce tanto quanto guidava e altrettanto velocemente cambiava argomento: ”Ma come sei pallido! Hai anche gli occhi lucidi. Hai la febbre? Sai ero infermiera io, una vita fa. Come ti chiami? Vieni, ti do un passaggio. Forza su! E sali, non ho mica tempo da perdere io!”.

Liam per tutto il tempo non aveva fatto altro che aprire e chiudere la bocca, non appena provava a rispondere a una domanda ecco che gliene veniva posta un’altra. All’invito di salire in auto – che poi era più un ordine che un invito -  stava per opporsi ma aveva l’impressione che l’arzilla nonnetta non si sarebbe accontentata di un semplice no. Avrebbe ricominciato con quella mitragliatrice di domande e al solo pensiero Liam si sentì frantumare le palle. Aprì la portiera pregando che non gli rimanesse in mano e si accomodò nel vecchio sedile di pelle bordeaux.

La vecchietta sorrise soddisfatta e partì sgommando. “Allora? Non mi hai ancora risposto!” Se chiudi un attimo quella cazzo di bocca! “Come ti chiami?”, “Liam” rispose velocemente cercando di batterla sul tempo. “Liam? Sei irlandese? Ho avuto un fidanzato irlandese.” disse, curvando a destra ad alta velocità. Liam si aggrappò al sedile per non essere catapultato in braccio alla signora. ” I miei genitori sono irlandesi – boccheggiò – Io e i miei fratelli siamo nati a Manchester”. “Adesso che ti sei deciso ad aprire bocca lo sento che sei del Nord! Santo Cielo che accento!”, altra curva, stavolta a sinistra. A Liam venne da vomitare. Fottuta sbronza! “Te l’hanno ingessato da poco quel polso, vero? Si vede da come lo tieni, tutto rattrappito contro il corpo. Puoi anche stare normale sai? Mica ti cade quel gesso!” Mi fa male porca troia, lo tengo così perché mi fa male! “Non ho paura che mi cada è che –“ “Ma perché hai un occhio nero?” Ma vaffanculo! Mi rompi i coglioni con tutte queste domande e poi non te ne frega un cazzo delle risposte! “Sono caduto dalle scale”. La vecchia signora fece appena in tempo ad evitare la collisione con un altro veicolo che procedeva in direzione opposta, si girò verso Liam che con occhi sbarrati fissava la strada e gli rispose:”Ti ho detto che ero infermiera? Quei lividi non sono da caduta dalle scale. Hai fatto a botte e ti sei beccato un bel pugno dritto nell’occhio. Secondo me c’entra una ragazza”, gli fece l’occhiolino. Liam sbuffò. Ma perché cazzo pensate tutti che debba fare a botte per una fottuta scopata? “Eh signora, non le si può proprio nascondere niente. Avrebbe dovuto fare il poliziotto invece che l’infermiera”. La signora rise “Ho avuto un fidanzato poliziotto. Anzi, due”.  Peccato non avere 150 anni in più, allora.

Liam si sentì improvvisamente molto stanco, la vecchietta continuava a ciacolare imperterrita, probabilmente gli stava raccontando di tutti quei suoi fidanzati, ma non la sentiva più. Gli faceva male tutto il braccio e parte della schiena, sentiva l’occhio gonfio e aveva i brividi. Forse aveva davvero la febbre. E poi aveva sonno. Non si accorse nemmeno di chiudere gli occhi e si riscosse solo per la brusca fermata dell’auto, dopo un po’ di tempo, non avrebbe saputo dire quanto. Dieci minuti, mezz’ora.

Guardò fuori dal finestrino e vide una casa di mattoni a due piani, con il tetto grigio scuro sul quale si intravedevano tre comignoli, anch’essi di mattoni. Proprio al centro della costruzione si stagliava una robusta porta di legno. Ma che cazzo … ?  “Allora siamo d’accordo, chi tace acconsente”. Un attimo. Diceva a lui. “Mi scusi signora, ma siamo d’accordo per cosa?”, “Ah, voi ragazzi, sempre con la testa fra le nuvole a pensare alla fidanzata!”Ancora. “Siamo d’accordo sul fatto che rimani a dormire a casa mia stanotte, va bene? Non ti faccio mica andare in giro da solo di notte io!”. Cristo santo, ma con quale checca crede di avere a che fare? Sono anni che vado in giro da solo di notte. A Burnage, poi! ”Signora, senta, lei è molto gentile, ma io non credo proprio che –“ fece per scendere dall’auto ma un capogiro prima e una fitta particolarmente dolorosa poi, gli fecero bloccare frase e movimento a metà. Fottuta nausea. Fottuto polso. Fottuto Noel . “Lo vedi? Non stai bene. Su, dentro. Non farmi stare qui fuori a congelare, sono vecchia, io!”.  Liam si fece spingere docilmente attraverso la porta. Il fuoco era già acceso nel camino della bella stanza in cui entrarono e il tepore che vi regnava gli fece ricordare il freddo che stava provando. Fu scosso da un paio di brividi che aumentarono le pulsazioni dolorose del polso. Istintivamente se lo strinse al petto.
 
Liam, ancora sdraiato, sollevò il polso ingessato per guardarlo meglio. Erano almeno due settimane che non gli faceva più male, niente di niente, neanche il più piccolo dolorino. Era pure ora, mancano solo un paio di giorni e finalmente potrò togliere questo fottuto coso.
 
“Te l’avevo detto che eri vestito troppo leggero! Siediti qui che vado a cercare un termometro e una coperta e per l’amor del cielo non vomitarmi sul tappeto!”. Liam si sedette su un divano e chiuse di nuovo gli occhi. Cazzo se era stanco. Decise che era meglio sdraiarsi e nel farlo si tolse diligentemente le scarpe, altrimenti nonna Papera mi sgrida, pensò sbadigliando.

Quando Margaret rientrò nel soggiorno lo trovò che dormiva. Lo coprì con il plaid scozzese che aveva trovato e lasciò il termometro sul tavolino di legno e cristallo posto davanti al divano. Gli poggiò una mano sulla fronte. “Scotta, ma non troppo. E’ abbastanza usuale una leggera febbre dopo una frattura”. Si sedette sulla sedia a dondolo e prese a guardarlo. Era un bel ragazzo e le ricordava davvero suo nipote. Chissà che gli era successo. Aveva buttato là una battuta su un’eventuale ragazza – a vent’anni c’entra sempre una ragazza – ma dal tono ironico in cui lui le aveva risposto aveva capito che doveva esserci dell’altro dietro. Forse è finito in un brutto giro. Magari si droga. Ma no, che andava a pensare. Gli fece una carezza sui capelli e se ne andò a dormire.

I tre giorni che seguirono furono tra i più pacifici e tranquilli che Liam avesse mai vissuto. La signora Margaret lo curava e coccolava come se fossero davvero nonna e nipote. A volte si sbagliava e lo chiamava John, poi si rendeva conto e si scusava. Una volta Liam le rispose:”Mi chiami pure John se le fa piacere, tanto è il mio secondo nome e poi lo conosce John Lennon?”, “Chi?”, “I Beatles”, “Ah quelli con i capelli lunghi che suonavano?”, Oddio. Dai, è anziana. “Sì, quelli  con i capelli lunghi che suonavano. Ecco, John Lennon era uno di loro ed era un fott – eeeehm – un genio. Un genio, davvero”.

Almeno tre volte al giorno davano vita a uno strano balletto in cui lui le diceva che se ne doveva proprio andare e lei di rimando gli chiedeva – ordinava – di restare ancora un giorno. Liam faceva finta di farle un favore, la realtà era che non aveva nessuna voglia di andarsene. Gli piaceva quella specie di limbo, gli piaceva essere viziato da quella buffa vecchietta che parlava veloce come un treno saltando da un argomento all’altro senza nessun costrutto e gli piaceva essere trattato con quella tenerezza. Liam era abituato a ispirare sentimenti del genere nelle donne e quella signora gli piaceva sul serio, gli ricordava sua mamma, le zie con le quali era cresciuto e sua nonna, che viveva in Irlanda e che non vedeva ormai da un secolo. In cambio dell’ospitalità ricevuta, non doveva fare altro che stare lì, pacioso, ad ascoltarla. Era un po’ strano per lui, da sempre iperattivo e festaiolo, ma insomma, stava male e appena andava un po’ più in là con i pensieri, sentiva l’ormai familiare senso di soffocamento.

Sapeva comunque di non poter stare lì per sempre, ma non voleva, proprio non voleva oh cazzo, no! tornare ai Rockfield Studios, non voleva trovarsi quello stronzo del fratello davanti che aspettava solo il momento giusto per buttarlo fuori dal gruppo. Il mio gruppo gli urlavano insieme il cervello e il cuore. Il respiro si fece affannoso. Di nuovo. Riportò il più velocemente possibile l’attenzione su quello che gli stava raccontando la signora Margaret “… e quindi le cose vanno davvero bene per il mio John. Mi dispiace solo che si sia trasferito così lontano. Io l’aereo non lo prendo di certo. Non sono mica arrivata a 80 eccetera anni per schiantami con uno di quei cosi! Poi lui e la moglie non fanno altro che fare bambini, perciò anche lui non può spostarsi più facilmente come faceva prima. Pensa che sta ritardando l’apertura del nuovo cantiere in quella cittadina, mi pare si chiami Dalmeny, perché la moglie ha appena partorito! Poi da maniaco del controllo qual è, gli operai li vuole scegliere lui, uno per uno e – “ . Una luce improvvisa squarciò i pensieri di Liam. Il cuore prese a battergli furiosamente nel petto. No, è troppo anche per te, gli diceva quel po’ di materia grigia che ancora gli rimaneva. Eccola, eccola la soluzione! gli urlava invece la pancia. Fu un attimo. “Dove ha detto che si trova suo nipote?”, “Nel Saskatkewan”, “Sì, ma prima. Prima ha detto un altro posto!”, “Ah sì. In Canada”.
 
Ormai doveva alzarsi per forza, altrimenti sarebbe arrivato in ritardo. Aprì le persiane con un colpo solo, facendole così sbattere sul muro con un colpo secco. Gli arrivò una folata di vento caldo che sapeva della pioggia caduta fino a quel momento. “Dalmeny del cazzo. Che tempo di merda” disse ad alta voce.
 


Da dove iniziare? Dal perché il Canada? Volevo, nell’ordine:
-         un posto lontano, quindi via tutta l’Europa!
-         un posto freddo (almeno d’inverno), perché sarà più attinente al bel po’ di solitudine che toccherà affrontare al nostro Liam più in là, quindi via tutti i posti caldi tutto l’anno!
-         un posto non troppo diverso da un normale contesto occidentale, quindi niente Liam tra le renne lapponi  o tra i pinguini del Polo Sud e niente Liam dentro un igloo J
-         niente Stati Uniti, troppo banale.
In più volevo un posto piccolo ma ben organizzato, cerca cerca cerca *non ha un kezz da fare style* , e alla fine sono capitata su ‘sta Dalmeny.
Perché nonna Papera? Mi serviva un personaggio che aiutasse Liam, materialmente o no, ad andarsene, perché quando lui se ne va dal Pronto Soccorso non ha ancora deciso di scappare, è una decisione estemporanea che prende per caso. Inizialmente avevo pensato a una ragazza ma …. Liam con una ragazza? Scontato, scontatissimo. Un uomo? Già c’era stato il medico con cui aveva parlato nel primo capitolo, non mi andava un altro personaggio maschile. Così, non so da dove, è spuntata fuori questa vecchietta svampita e chiacchierona che guida come una pazza (o come la sottoscrittta). Mi è servita anche per rendere il capitolo un po’ più leggero di quanto magari  potevate aspettarvi.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5.
 
Finisci il disco”, gli aveva detto Liam per bocca di Peggy, neanche fossero le sue ultime volontà dettate su un fottuto testamento.

Noel non riusciva a credere di essersi preoccupato così tanto per lui. Si era reso ridicolo facendo decine di telefonate e rompendo i coglioni a tutte le persone che conosceva chiedendo come un idiota: ”Scusa, sai per caso dov’è mio fratello?”.  Che poi dire preoccupato era usare un eufemismo, Noel aveva passato i dieci, anzi undici, giorni più brutti della sua vita. In quelle 264 fottutissime ore aveva provato tutta una serie di sentimenti che normalmente non associava al fratello. Ansia, senso di colpa, voglia di vederlo, di parlargli, di dimenticare e perdonare qualsiasi cosa, di abbracciarlo. Aveva perfino pianto.

E poi era successo quello che avrebbe dovuto aspettarsi fin dall’inizio, trattandosi di quell’imbecille cosmico: si era risolto tutto in una bolla di sapone. La testa di cazzo era solo saltato sul primo aereo che aveva trovato. La testa di cazzo non era morto, non aveva avuto incidenti, non era stramazzato al suolo con un’overdose, non era stato rapito né arrestato. La testa di cazzo aveva semplicemente deciso di lasciarlo nella merda, ideando il piano più diabolico che mente umana avesse mai potuto partorire. Beh, magari adesso esagerava, quello contorto fra i due era lui, i ragionamenti di Liam erano sempre di una semplicità e di una logica schiaccianti. Lo stronzo aveva esclusivamente voluto ripagarlo con la stessa moneta: Noel aveva giocato con le sue paure durante quella furibonda litigata? Bene, aveva deciso di farlo anche lui, lasciandolo senza cantante. E quel suo “finisci il disco” a Noel sembrava tanto una frase lasciata a metà, la cui seconda parte avrebbe dovuto essere: ”… se riesci a farlo senza di me”.

Ora, in realtà la soluzione era semplice, semplicissima. Talmente semplice e scontata che Noel più ci pensava e più si infuriava, gli sembrava quasi di sentire il fratello sghignazzare. Bastava che cantasse lui. Facile no?Eh, facile per un cazzo!  Merda! Merda! Merda!

Erano le quattro del pomeriggio e ancora non si decideva ad uscire dalla sua stanza ai Rockfield Studios. Stava seduto sul letto sfatto, con la schiena poggiata alla testiera, le ginocchia al petto, in mano una sigaretta accesa da troppo tempo. Se la portò alle labbra, si accorse che era ridotta ormai solo al filtro e la schiacciò stizzito nel posacenere ricolmo. Lo prese con una mano mentre con l’altra si aiutava ad alzarsi e lo poggiò sul davanzale. In piedi in mezzo alla sua stanza fece correre lo sguardo intorno a sé. I suoi occhi si fermarono sulla chitarra, si chinò su di essa, prendendola con un movimento veloce, come se da quella chitarra dipendesse la sua vita. Era un pensiero stupido ma nel passato in effetti era stato così. La chitarra, la musica, gli avevano salvato la vita. Erano riuscite a fargli scorgere la speranza di un futuro luminoso davanti a sé, appena oltre la merda che era costretto a vivere. 

Mentre strimpellava accordi senza senso, gli tornavano alla mente, come dei flash, alcune immagini di quella che era stata la sua infanzia. Sua madre, il suo sorriso dolce, le braccia accoglienti e morbide. Lui che balbettava. La maestra che lo sgridava perché non leggeva veloce come gli altri bambini. Gli infiniti prati irlandesi, di un verde che faceva male agli occhi. Le enormi e pesanti mani del padre. I mattoni rosso cupo delle case, tutte uguali, di Burnage. Il pallone con cui giocavano lui e Paul. Gli occhi di Liam, da sempre troppo grandi per il suo viso minuto. Su quest’ultima immagine, cessò bruscamente di suonare, si alzò di scatto con la chitarra in mano e uscì dalla stanza, sbattendo tanto forte la porta che il muro alle sue spalle tremò.

Entrò nello studio di registrazione che mai gli era sembrato tanto buio e cinque facce si sollevarono a fissarlo. Le espressioni erano interrogative, un tantino ebeti, a dire il vero. Era evidente che si aspettavano delle risposte da lui. La dipartita del fratello aveva posto tutta una serie di problemi da risolvere e decisioni da prendere. Alla svelta.

Primo problema. Liam aveva inciso già metà album. Cosa ne dovevano fare di quelle tracce? Dovevano tenerle? In quel caso i singoli pubblicati avrebbero avuto la voce di un cantante che non faceva più parte della band. Forse avrebbero dovuto registrarle di nuovo cantate da Noel. Ma se Liam alla fine avesse deciso di tornare?

Secondo problema. La stampa. Avendolo cercato per mare e per monti, la notizia della sparizione di Liam aveva iniziato a circolare e per quanto avessero chiesto a tutti di mantenere un certo riserbo, più di un giornalista aveva cominciato a subodorare qualcosa. Anche qui Noel non sapeva che pesci prendere. Al primo che glielo avesse chiesto direttamente, avrebbe dovuto ammettere che sì, Liam aveva lasciato? Oppure avrebbe dovuto indire una conferenza stampa e sganciare lui stesso la bomba? Ma poi che cazzo avrebbe dovuto dire? Ebbe una fugace visione di sé stesso alle prese con microfoni e telecamere:

Liam è entrato in una clinica in culo al mondo per disintossicarsi.

Liam ha ricevuto la sacra chiamata e ha deciso di farsi frate.

Liam ha scoperto di avere un QI altissimo e il Cern l’ha assunto per spiegare i misteri dell’universo.

Per qualche motivo gli sembravano tutte versioni più serie di quanto avrebbe dovuto dire in realtà: Liam si è offeso, io ho cercato di spaccargli la testa con una mazza, lui si è offeso di più e se n’è andato a fanculo da qualche parte. Sapeva che nessuno si sarebbe fatto bastare questa spiegazione e avrebbero iniziato subito a scavare alla ricerca di chissà quale notiziona. Non trovando niente, se la sarebbero inventata e chissà per quanto quella fottuta storia sarebbe andata avanti.

A Noel tuttavia non sfuggiva un particolare: tutto il polverone che sicuramente si sarebbe sollevato avrebbe assicurato al suo disco una grandissima pubblicità a costo zero, su questo non c’era nessun dubbio. Certo, se Liam poi fosse tornato avrebbero fatto la figura dei cazzoni sparaballe, ma in fondo in quella cazzo di letterina da prima elementare aveva scritto che sarebbe stato via per molto tempo, no?

“Ok, aprite bene le orecchie. Da oggi riprendiamo a lavorare. Le canzoni cantate dall’idiota resteranno così, le altre le canterò io. Sarà un disco splendido e venderemo a palate. Marcus, organizza una conferenza stampa per domani. Voglio parlare io prima che lo facciano altri”.

E vaffanculo, fratellino.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. ***


Capitolo 6

Liam riprese a tossire. Non aveva fatto altro per tutta la notte, tranne starnutire e soffiarsi il naso, ovviamente. Pensò che solo pochi mesi prima quel suo banalissimo raffreddore avrebbe mandato nel panico un bel po’ di gente, suo fratello per primo, avrebbero chiamato il miglior medico in circolazione e avrebbero cercato di farglielo passare nel più breve tempo possibile. Solo pochi mesi prima quel suo banalissimo raffreddore sarebbe stato visto come una specie di assalto alla sua gola, unica protettrice di quella voce unica e irripetibile, o come una calamità naturale, capace di mandare all’aria una serata o un concerto organizzati nei minimi dettagli da mesi e di far perdere di conseguenza migliaia e migliaia di sterline. Adesso di quel suo banalissimo raffreddore non fregava un cazzo a nessuno.

Imbucò la seconda lettera che aveva scritto a sua madre, racchiusa con tutta la busta in un’altra busta indirizzata a Saskatoon da John, il nipote di nonna Papera, nonché suo nuovo datore di lavoro. Avrebbe pensato lui a spedirla a Manchester. Era una piccola precauzione che Liam aveva preso, nel caso in cui avessero voluto cercarlo. Saskatoon e Dalmeny non erano tanto vicine. Liam si era sentito piuttosto ridicolo quando aveva raccontato tutta la storia a Margaret e si sarebbe volentieri chiuso dentro un tombino quando l’aveva sentita ripetere tutto al telefono. Ascoltandola parlare e spiegare e argomentare e obiettare e bla bla bla al telefono – Dio solo sa quanto doveva essere costata quella telefonata - si era quasi convinto a lasciar perdere quel suo cazzo di piano da quattro soldi.

Contemporaneamente, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, John stava pensando che probabilmente la sua povera nonna era definitivamente uscita di senno per fargli una telefonata del genere, cianciando a ruota libera di un non meglio precisato cantante (“Famoso, eh John! Io non ho idea di chi sia ma lui dice di essere famoso”) di un non meglio precisato gruppo, che lui avrebbe dovuto assumere per il suo nuovo cantiere di Dalmeny. Tanto per cominciare non capiva come un cantante ottantenne avrebbe potuto essergli d’aiuto in un cantiere. Appurato che il tizio in questione non era coetaneo della sua nonnina, non capiva cosa cavolo ci facesse un cantante di vent’anni famoso accampato a casa di sua nonna. Non voleva soldi (“Dice che ce li ha”) ma un lavoro qualsiasi in un qualsiasi posto lontano, o quantomeno una base di partenza. Stremato e mezzo intontito dalla chiacchiera selvaggia della nonna aveva acconsentito almeno a ospitarlo il giorno del suo arrivo in Canada.

Quando qualche giorno più tardi Liam suonò alla sua porta, John si stupì di non trovarsi davanti il viscido raggiratore di vecchiette che si era immaginato, ma un ragazzo dall’aria stanca, spaesata, con un polso ingessato e un occhio cerchiato di giallo. Si stupì maggiormente quando lo vide sedersi sul pavimento e mettersi a giocare come se niente fosse con i suoi figli di cinque, tre e due anni. Si stupì soprattutto di sua moglie, che passò in meno di cinque minuti dall’essere oltremodo incazzata dal dover ospitare un perfetto sconosciuto a casa propria al mettere fra le braccia dell’ancora perfetto sconosciuto anche il suo bambino più piccolo, di sole tre settimane. Liam era sempre stato bravo con i bambini, gli piaceva farli giocare e si divertiva sul serio con loro. “E’ tutto facile con i bambini- disse una volta a sua madre che gli aveva fatto notare quel lato di sè - sono semplici, diretti, onesti: ridono se sono felici, piangono se sono tristi, ti ignorano se gli stai antipatico”. Liam sentiva una certa affinità con loro ma non possedeva una sufficiente capacità di autoanalisi per capire coscientemente il motivo per cui si sentiva così a suo agio con i più piccoli. Semplicemente, era lui stesso ad essere così: semplice, diretto, onesto. Certo, lo era a suo modo e comunque quello che era normale e perfino auspicabile in un bambino poteva diventare deprecabile e maleducato in un adulto, ma insomma, Liam pensava sul serio che tutto sarebbe andato meglio se la gente - Noel - fosse stata chiara e limpida come i bambini.

Erano passati più di quattro mesi da quella sera e il caldo appiccicoso che tanto aveva detestato aveva lasciato il posto a un autunno molto rigido. Il lavoro nel cantiere non gli piaceva granchè, ma era faticoso e questo gli permetteva di pensare il meno possibile, occupato com’era a salire e scendere dalle impalcature, a sollevare pesanti sacchi di cemento, a imparare come funzionavano i vari mezzi meccanici.

Quando John gli chiese perché avrebbe dovuto assumerlo, Liam non aveva saputo rispondere. In effetti perché avrebbe dovuto? Perché stava simpatico a sua nonna? Gli unici lavori vagamente manuali che aveva svolto dopo la scuola comprendevano costruire staccionate e scavare buche per terra… ottime competenze mr. Gallagher! “Non sai fare nient’altro?” gli chiese sconsolato John. So cantare, gli avrebbe voluto dire. So stare su un palco. So catturare l’attenzione di centinaia di persone solo con la mia voce, senza bisogno di dimenarmi e gesticolare come un cazzone. Ma … “No”, rispose in un soffio. John si era grattato nervosamente la nuca e Liam ricordava bene la sensazione di disagio che gli aveva artigliato il petto. “Hai voglia di imparare?”. Non me ne può fregare di meno, avrebbe dovuto sinceramente rispondere ma fece uno sforzo, vedeva come quel poveraccio cercasse di arrampicarsi sugli specchi pur di accontentare la nonna, e Liam stesso voleva ricompensarli per la fiducia che gli stavano dando. Aveva una voglia matta di mandare tutto a puttane, di alzarsi di scatto da quella cazzo di poltrona beige dicendo:”Scusate, mi sono sbagliato, torno in Inghilterra, torno a fare l’unica cosa che amo fare”. Aveva voglia di tornare piccolo, di accoccolarsi tra le braccia di sua madre e respirare forte il suo profumo di buono. Aveva voglia perfino di rivedere suo fratello, di chiedergli scusa e ricominciare da capo.

Tu non sei niente, non sei assolutamente niente.

Posso toglierti tutto quando voglio.

Le parole di Noel gli esplosero nel cervello. La sensazione di disagio aumentò la sua morsa sul petto, il cuore prese a battergli più forte e il respiro si fece affannoso. Ormai quegli attacchi d’ansia stavano diventando un’abitudine. Cercò di controllarsi e rispose a mezza voce: “Sì, certo. Ho bisogno solo di un po’ di tempo, di mettere qualche soldo da parte e capire cosa voglio fare”. Io lo so cosa voglio fare! sentì urlare una voce da qualche parte della sua testa ma si affrettò a zittirla. “Mia nonna dice che i soldi ce li hai”. “Sì, non sono ricco sfondato come quello str… come mio fratello, sono a stipendio settimanale come il resto della band, ma il mio bel conto in banca ce l’ho. Il punto è che voglio toccarlo il meno possibile. E’ una storia lunga, ma il succo è che devo dimostrare di potercela fare da solo. Quei soldi sono miei, me li sono guadagnati lavorando come gli altri, ma è mio fratello a scrivere le canzoni che suoniamo e per questo è convinto che in qualche modo me li abbia regalati lui”.
Quando John gli chiese : ”Quel gesso quando lo togli?”, Liam capì che l’aveva spuntata. Non sapeva se sentirsi felice o disperato.

Imbucata la lettera, Liam fece per voltarsi e ci mancò poco che andasse a sbattere con il culo per terra. “Ma che cazzo … ?” borbottò tra sé e sé, abbassando lo sguardo: aveva messo il piede su una lastra di ghiaccio. Già si forma il ghiaccio sulle pozzanghere qui? Ma è solo il 2 di Ottobre!
 
 
Nello stesso momento, a svariate migliaia di chilometri di distanza, e con tutt’altro tipo di umore, anche suo fratello Noel stava fissando aggrottato del ghiaccio. Un’enorme scultura di ghiaccio, per essere precisi, a forma del logo OASIS. Non gli piaceva molto la metafora che quella scultura gli suggeriva: il ghiaccio si scioglie facilmente, e dopo chissà quante ore di lavoro, l’artista che l’aveva realizzata si sarebbe ritrovato con una poltiglia d’acqua in mano. A lui non sarebbe successo così, no cazzo, no davvero. Non dopo tutta quella fatica, quel lavoro, quel sudore, quelle paranoie. Era alla festa per il lancio di “(What’s the story) Morning Glory?”, il suo secondo fottutissimo disco. Realizzato contro le aspettative di tutti.

Avevano avuto un bel successo già con “Definitely Maybe” ma adesso avrebbero sfondato sul serio, Noel ne era certo. Ne era talmente convinto che era riuscito nell’impresa tutt’altro che facile di convincere anche gli altri membri della band, il suo manager e soprattutto il suo editore. Bonehead, Guigsy, Alan – che per altro non aveva assolutamente voce in capitolo essendo appena entrato nel gruppo - Marcus Russel e Alan McGee… beh, nessuno di loro era particolarmente contento della piega che stavano prendendo gli eventi e soprattutto della decisione di Noel di andare avanti lasciando perdere il fratello.

Mentre lui spiegava per filo e per segno come intendeva procedere, gli altri si guardavano di sottecchi fra di loro e scuotevano la testa. “Canterai tu?” chiese alla fine Bonehead, “Perchè è un problema?” rispose ironico Noel, “No, ma … il cantante è Liam, è sempre stato lui”, “Ma che cazzo significa? Io posso cantare come e meglio di lui”, “Sì, sì, sai cantare Noel, ma insomma… oh, cazzo! Un conto è essere un cantautore un altro è essere un frontman! Merda, Noel lo sai anche tu!”, “Beh, non è che Liam si sprecasse tanto sul palco, eh?”. Bonehead sospirò contrariato. Gli altri continuavano a lanciarsi sguardi eloquenti. Chi avrebbe avuto il coraggio di dirgli quello che era palese? Si fece avanti Marcus, alzò lo sguardo dalla sigaretta e lo piantò dritto negli occhi chiari di Noel: “Il punto è proprio questo Noel, Liam non aveva bisogno di “sprecarsi tanto” come dici tu. Che ti piaccia o no tuo fratello è nato per stare sul palco, ha l’atteggiamento naturale della star, e o ci nasci con quel tipo di carisma o ti attacchi. Non  si può imparare, è un modo di essere e basta”.

Noel si sentì ferito, deluso, arrabbiato, amareggiato... tutto insieme e tutto nel giro di un secondo. Ma come cazzo osavano quei patetici stronzi preferirgli quell’imbecille del fratello? Già lui si sentiva cagare in mano all’idea di stare al centro del palco non solo a cantare, ma a cantare le proprie canzoni, e quelli che facevano invece di ringraziarlo? Mettevano in dubbio il suo talento? Si mostravano indecisi? Ma vaffanculo!  Gli occhi di Noel si assottigliarono: “Ma se hai sempre detto anche tu che è la musica ad essere importante e non “l’atteggiamento da rockstar”! Quella volta che Liam si è fatto arrestare sul traghetto per Amsterdam? Mi sembra che allora te ne fregassi dell’atteggiamento da rockstar! Mi sembra che allora volessi solo una band sul palco o no?”.

Fino a quel momento Alan McGee era stato in silenzio. Seduto dietro la sua scrivania, la testa bassa, le braccia conserte. Continuando a tenere lo sguardo basso, come se fosse perso nei suoi pensieri, interruppe con voce tranquilla ma decisa la discussione fra il compositore di maggior talento che avesse mai avuto nella sua casa discografica e il suo ottimo manager: “Ascolta Noel, non è sfiducia nei tuoi confronti, assolutamente, è che mi sembra tutto molto affrettato. Perché intestardirsi con il proseguire senza Liam? Diamogli un po’ di tempo, sono sicuro che tornerà. Io ho messo sotto contratto una band composta da cinque persone, una delle quali faceva il cantante. Se questo cantante non c’è più, per quanto mi riguarda non c’è più neanche quella band”, “Ma lui se n’è andato! E’ lui che ha lasciato il gruppo!”, “E infatti nessuno sta dando la colpa a te. Non sei uno sprovveduto Noel, sai benissimo che una gran parte del vostro successo lo devi anche a Liam. E non sto parlando delle ragazzine innamorate del bel faccino di tuo fratello, ma del fascino del vostro rapporto. Il modo di stuzzicarvi, le litigate, le interviste in cui vi azzuffate…. Per qualche motivo, alla gente piace tutto questo”. Noel era furente: “Alla gente piacciono le mie canzoni, la mia musica e - ” “E il tuo cantante” lo interruppe risoluto McGee. “E’ vero, Noel , è assolutamente vero, le canzone fanno una band ma è il cantante a presentarle al mondo, e per quanto questo ti possa irritare non puoi farci niente. La gente associa le tue canzoni alla voce di Liam, non alla tua. E’ un azzardo far uscire il disco adesso, con i Blur dietro l’angolo poi! E’ un rischio troppo alto che non so se posso e voglio permettermi.”.

Ci fu qualche attimo di silenzio. Alla fine Noel tirò fuori il pacchetto di Benson & Hedges che aveva in tasca, estrasse una sigaretta, l’accese tirando una profonda boccata di fumo e buttò sulla scrivania di McGee il pacchetto mezzo vuoto, come se gli lanciasse una sfida. L’editore alzò gli occhi verso il volto immobile di Noel, che già lo fissava. “Sai che c’è? – disse Noel - C’è che un bel po’ di altre case discografiche, anche molto più grandi della tua, ci hanno offerto contratti, anche molto più generosi del tuo. E sai che altro c’è? C’è che o mi fai fare questo cazzo di disco o io me ne vado”. Noel si appoggiò allo schienale soddisfatto. Non stava bluffando, c’erano stati davvero dei contatti con altre case discografiche, ma aveva sempre rifiutato le loro offerte. Sapeva che gli assi erano tutti in mano sua.

McGee soppesò le parole di Noel. Porca troia, quello era un ricatto bello e buono! Ecco che succedeva a sbronzarsi con chi si tiene sotto contratto, gli doveva essere sfuggito qualcosa sulla situazione finanziaria della Creation Records e Noel ne stava approfittando per fare quello che voleva. Dopotutto poteva andargli peggio, quel ragazzo era davvero la gallina dalle uova d’oro, non faceva altro che tirare fuori gioielli da quella chitarra. Sospirò: ”Spero per tutti e due che le cose vadano come pensi tu”.
 

Ciao a tutti! Allora, il capitolo inizia con qualche altra spiegazione sull’arrivo del nostro baldo giovine in Canada. Il fatto di quanto sia bravo con i bambini è vero, l’ho letto più volte (qui una delle tante: “What’s the nicest thing Liam’s ever done for you?”, “(…)Being nice to my daughter, I suppose. He’s crap with adults but give him a kid to play with, and he’s a big softie. — Noel Gallagher (Hot Press, October 2001)). E’ vero che dopo la scuola ha lavorato “costruendo staccionate e scavando buche in terra” ed è vero che fino a un certo punto tutti i membri del gruppo tranne Noel avevano uno stipendio settimanale. Noel ha da (quasi) subito preso soldi a palate per via dei diritti.
La scultura di ghiaccio con la scritta OASIS è vera e venne realizzata davvero per la festa (che fu poi un’esibizione) al Virgin Megastore di Londra per l’uscita di WTSMG? , proprio il 2 Ottobre 1995.
Purtroppo per il rosso pelato (Alan McGee) è vera anche la storia della situazione finanziaria della sua casa discografica che, nonostante il super mega successo degli Oasis fallì miseramente pochi anni più tardi.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

Attenzione: in questo capitolo c’è una scena di sesso abbastanza esplicito. Ho pensato a lungo se cambiare il rating ma alla fine ho deciso di lasciarlo arancione. Se per qualcuno di voi è necessario cambiarlo me lo faccia sapere e provvederò immediatamente!

Cereali e latte. Ecco. L’unica fottuta cosa che non era cambiata nella sua vita era la colazione. Accese la radio e si issò sullo sgabello, sistemandosi alla meglio su quella specie di bancone che delimitava l’angolo cottura del minuscolo monolocale. Tazza davanti, cucchiaio in mano, sguardo perso davanti a sé, un sacco di pensieri che gli girovagavano per la mente. Guardava le pareti azzurre, se l’era verniciate da solo, prendendo un secchio di colore dal cantiere. Erano venute bene, qualche sbavatura qua e là ma insomma, come primo tentativo poteva ritenersi soddisfatto. Guardò il letto, pensando che finalmente sua mamma sarebbe stata contenta: lo rifaceva appena alzato, subito dopo aver fatto cambiare l’aria. Così appena esco dal bagno mi posso pure congelare meglio. E lavava con attenzione le poche stoviglie che usava. E spazzava. E lavava il pavimento. Qualsiasi cosa pur di non pensare. Qualsiasi cosa pur di non impazzire.

All’improvviso, il latte gli andò per traverso e mancò poco che gli uscisse dal naso. Sputacchiò cereali su tutto il bancone tossendo, annaspando alla disperata ricerca di un po’ d’aria. Non è possibile. Cazzo, non è possibile. Quella era la sua voce. Alla radio. Wonderwall. Non è possibile. Liam fissava attonito il piccolo stereo che si era comprato, quasi si aspettasse di vederlo trasformare in un mostro. Non aspettò che la canzone finisse, si avventò sulla presa e la staccò con violenza dal muro, facendo cadere a terra quello che rimaneva della propria colazione. Altrettanto violentemente aprì la porta e si fiondò giù per le scale. Aria. Aveva bisogno d’aria. Si ritrovò in strada quasi senza accorgersene e prese a camminare velocemente in direzione del cantiere. L’aria gelata gli graffiava il viso e gli faceva lacrimare gli occhi, ma Liam non ci faceva neanche caso. Il cuore aveva aumentato a dismisura le pulsazioni e ne poteva sentire il rimbombo nelle orecchie. La gola chiusa aumentava la sensazione di soffocamento.

Arrivato nei pressi del cantiere dovette fermarsi, non poteva farsi vedere in quello stato, si appoggiò con la schiena a un albero, chiuse gli occhi e si costrinse a rallentare il respiro, nella speranza che lo facesse anche il battito cardiaco. Inspira, Liam. Gonfia la pancia con l’aria. Conta fino a tre. Espira. Dai, di nuovo. Si sentiva un emerito cazzone seguace di qualche teoria new age, ma controllare in quel modo la respirazione era l’unica cosa che lo aiutasse quando l’ansia gli attanagliava i pensieri. Piano piano, cominciò a sentirsi meglio. La morsa sulla gola si fece meno pressante e il cuore ricominciò a battere a un ritmo decente. Decise che poteva anche correre il rischio di pensare. La vita a cui aveva tanto dolorosamente rinunciato gli si era ripresentata davanti all’improvviso e per Liam era stato come ricevere inaspettatamente un pugno in pieno viso, così, a freddo. Ingenuamente, non aveva mai pensato che avrebbe potuto sentire gli Oasis in radio, e la cosa l’aveva colto totalmente impreparato. Per quale cazzo di motivo Noel aveva pubblicato un singolo cantato da lui? Wonderwall, poi. Aveva pensato che quella sarebbe stata la prima canzone che il fratello avrebbe re-inciso con la sua voce. E invece no. Perché? Era un tentativo di ritrovarlo? Perché magari qualcuno avrebbe riconosciuto la sua voce? O al contrario, era una presa in giro? Una sfida? Oppure Noel stava cercando di dirgli qualcosa? Forse, semplicemente, per qualche oscuro motivo non era stato possibile registrare di nuovo le canzoni che Liam aveva già cantato?

“Liam ma che cazzo fai? Giochi a nascondino?”.  Liam riaprì gli occhi e si trovò davanti il volto sorridente di Matthew, uno degli operai del cantiere. “No, no, io … io stavo …  stavo prendendo fiato, ho fatto una fottuta corsa per arrivare in orario”.

Si può arrivare ad odiare la propria voce? si chiese esasperato Liam qualche giorno più tardi, mentre lavorava seduto su un’impalcatura a diversi metri da terra . Stava sentendo di nuovo quegli accordi così familiari e allo stesso tempo così lontani. Sembrava che ogni fottuta stazione radio di ogni fottuto stereo di ogni fottuta persona o locale di quel fottuto buco di cittadina si fossero coalizzati contro di lui. Sentiva Wonderwall in continuazione, ovunque andasse, e ogni volta avvertiva l’impulso di scappare. A casa era facile, la radio non l’accendeva neanche più, il problema era fuori. Soprattutto al cantiere. Là c’era sempre una radio accesa, era un modo per svagarsi, per non sentire la fatica di un lavoro pesante e ripetitivo. Come ogni volta che l’aveva sentita, il cuore mancò un battito e poi impazzì. Liam strinse forte la mascella, fissò lo sguardo davanti a sé, le nocche che stringevano la pialla diventarono bianche per lo sforzo. “Merda”, si lasciò sfuggire a mezza voce. Matthew, che gli lavorava a fianco lo guardò, fece cadere la pialla e gli disse:”Ma che hai? Sono giorni che sei strano. Più del solito, intendo”. Liam continuò a lavorare come se schiaffare cemento su quei cazzo di mattoni fosse l’unica ragione della sua vita. “Non ho niente. Anzi sì – si voltò verso Matthew - non ne posso più di questo schifo di canzone! Ma non si può spegnere quella cazzo di radio?”. Matthew trasecolò. “Ma quale canzone?”. Grande. A me prende un infarto tutte le volte e gli altri manco la sentono. “Questa. Sei sordo?”. Matthew stette un attimo in ascolto. “Ah sì – rise – effettivamente si sente spesso. E’ di quel gruppo inglese, no? Beh, dovresti essere contento se dei tuoi connazionali hanno successo all’estero!”. “Ma di che cazzo parlate? Sembrate due di quei liceali strafatti che passano il tempo parlando di musica perché non hanno un cazzo da fare!”, li interruppe Karl sghignazzando. “Ma niente. Liam è solo invidioso perché mentre lui se ne sta qua a costruire muri, altri inglesi se ne vanno in giro per il mondo a fare successo!”. Le labbra di Liam si incresparono in un sorriso, ma durò un secondo. Quei due cazzoni gli stavano simpatici, e anche gli altri operai del cantiere. Erano quasi tutti originari di Dalmeny, o almeno delle vicinanze, ma lo avevano accolto come se fosse uno di loro. Era gente semplice, ma di quel semplice buono che a lui piaceva, lo faceva sentire a casa. E poi non gli avevano mai fatto domande, probabilmente intuendo che non avrebbe avuto voglia di rispondere.

Non era comunque dell’umore per scherzare. Quella sorta di equilibrio che aveva tanto faticosamente raggiunto in quei sei mesi stava vacillando in modo molto pericoloso, Liam lo poteva percepire chiaramente. Era sempre stato un ragazzo dal temperamento irrequieto, in perenne movimento, voleva sempre divertirsi, fare qualcosa di nuovo, avere gente intorno, non aveva mai sopportato il silenzio. Il silenzio lo inquietava, lo rendeva nervoso. Eppure, proprio in quel periodo così difficile per lui, in cui era totalmente confuso e pieno di domande senza risposte, in cui a prevalere erano i sentimenti di ribellione e protesta, Liam si era obbligato, per sopravvivere, a dimostrare adattabilità e ragionevolezza, a tenere sotto controllo l’instabilità che aveva sempre contraddistinto il suo carattere, ad essere più disciplinato e professionale che mai. Si costrinse ad impedirsi quelle esplosioni di emozioni che erano sempre stati una sua costante. Ma non farle vedere all’esterno non significava farle scomparire, solo soffocarle. E per Liam tenersele dentro equivaleva a devastarsi. Era in questo contesto così fragile che la bomba denominata Wonderwall era esplosa. Ovviamente il problema non era la canzone in sé, quanto ciò che quella canzone, o meglio, il sentirsi in radio, rappresentava: tutto ciò che era importante per Liam, tutti i suoi sogni realizzati, tutto ciò per cui aveva lottato e che aveva dovuto – voluto – lasciare. Si era detto miliardi di volte che aveva preso la decisione giusta, per sé e per suo fratello, ma altrettante volte aveva maledetto quel suo essere così istintivo. Se fosse stato più razionale, se si fosse fermato a pensare come avrebbe fatto qualsiasi persona normale, non si sarebbe mai trovato in quella situazione di merda. E adesso si sentiva come un vetro pronto ad esplodere in mille pezzi.

Quella sera uscì con gli altri ragazzi del cantiere. Lo faceva poco, un po’ perché difficilmente si sentiva dell’umore giusto, un po’ perché non sapeva quanto sarebbe riuscito a tenere fede al suo proposito di non bere in un luogo pieno di tentazioni. Quella sera però si sentiva strano. Avvertiva un malessere, una sensazione diffusa di disagio, non voleva stare solo. Dalmeny e dintorni offrivano poco in termini di divertimento, soprattutto in inverno, con quel freddo polare, così si trovavano tutti sempre negli stessi due locali con la musica troppo alta. Un paio di isolati prima di arrivare, l’auto su cui viaggiavano Liam e i suoi colleghi si affiancò a un’altra auto parcheggiata. Liam diede un’occhiata distratta al tizio seduto dentro e i suoi occhi si spalancarono per la sorpresa. Era uno di quelli, lo capì immediatamente. Aveva una certa esperienza in merito, e quelli li riconosceva subito. Si fece un piccolo appunto nella mente, chissà, magari poteva tornare utile. Entrarono nel locale, una specie di discopub alla buona, pieno di gente sudata, fumo e l’immancabile musica sparata a millemila decibel. Esattamente il tipo di posto dal quale normalmente Liam si sarebbe tenuto molto alla larga, non gli dispiaceva la folla e il fumo non gli dava fastidio, figuriamoci,  ma detestava quel casino cacofonico che qualcuno osava chiamare musica, a quel volume poi, era impossibile pensare di fare due chiacchiere e non pensava neanche lontanamente di mettersi a ballare come un coglione.

Si mise seduto in un angolo, il tempo di accendersi una sigaretta che gli arrivò una birra in mano. Poca roba, pensò. Ma le birre diventarono presto due, poi cinque, poi otto, poi si trasformarono in Cuba Libre, poi in Jack Daniel’s, poi in qualcos’altro e poi perse il conto. Quella merda di musica non gli dava più fastidio e chiacchierava a ruota libera, con tutti e con nessuno. Urlava per sovrastare il rumore e rideva, rideva e non pensava. Non pensava e parlava, e non pensando parlava troppo. Cianciava di dischi, di canzoni, di stare sul palco, del microfono “sempre troppo alto o troppo basso, dovrei avere qualcuno che me lo sistema, non dovrei farlo io, sono la star io, la gente viene per vedere me, non quello sfigato depresso di mio fratello”. Nessuno lo ascoltava sul serio, erano tutti troppo sbronzi, solo Matthew lo seguiva un po’ interdetto. “Liam forse stai esagerando, stai bevendo troppo”, “Aaaah, amico, non hai ancora visto niente”, “Senti, perché non usciamo a prendere un po’ d’aria?”, “Giusto! Hai ragione! Esco a prendere aria! C’è giusto un  mio amico qua fuori che ne ha tanta di aria! Vedrai che ne darà un bel po’ anche a me!”. Cazzo, è andato del tutto pensò ridacchiando Matthew. Si sentì un po’ in colpa mentre lo guardava barcollare verso l’uscita: Forse dovrei seguirlo e accertarmi che non vada sotto a una macchina – pensò –ma è talmente sbronzo che farà due passi e poi vomiterà anche l’anima. Ma Liam era abituato davvero a ben altro e comunque il repentino abbassamento di temperatura lo rese ben più lucido di quanto avrebbe dovuto essere considerato l’alcool che aveva in corpo. Eccolo là il mio amico pensò andando dritto verso l’auto parcheggiata che aveva visto un paio d’ore prima. Ci fu un breve scambio di parole, Liam gli allungò qualche banconota e l’altro ricambiò con una bustina. “Posso fare qua?” chiese Liam “Sì, ma sbrigati”, gli rispose quello senza neanche guardarlo. Liam preparò tutto con poche e abili mosse e … Ciao Charlie, mi sei mancata.

Sceso dall’auto dello spacciatore, si appoggiò al muro e chiuse gli occhi sorridendo. Dopo sei mesi di forzata pulizia la sostanza fece immediatamente il suo lavoro e gli andò dritta nel cervello rendendolo euforico. Ok, adesso ci siamo pensò, mentre rientrava nel locale. Stette un attimo sulla soglia guardandosi intorno, poi avanzò velocemente all’interno. Erano mesi che non si sentiva così eccitato e privo di pensieri. “Ciao Liam! Era un bel pezzo che non ti si vedeva in giro, esci con il contagocce tu!” urlò una voce femminile dietro di lui. Liam sorrise. Jenny. Perfetto, adesso va ancora meglio. Si voltò prendendo la biondina per mano e attirandola a sè con un movimento unico, la baciò. Lei rise. Via libera. “Sono venuto qua solo per te, lo sai?”, le sussurrò all’orecchio. “Bugiardo! – rise ancora lei – Ma ti perdono se vieni subito a casa mia senza farti rapire da qualcun’altra come hai fatto la volta scorsa”, gli rispose guardandolo maliziosa e atteggiando le labbra in un finto broncetto. “Adoro quando mi perdoni”, continuò lui tenendola sempre stretta a sé.

Più o meno un quarto d’ora dopo si stavano baciando come forsennati nella piccola stanza da letto rosa e verde acqua di Jenny.  Liam si muoveva nervoso, quasi a scatti, era diverso dalle altre volte, quasi fosse mosso da un’urgenza che poco aveva a che vedere con quello che stavano facendo. Jenny se ne accorse subito ma non gli disse niente, le piaceva troppo sentirsi percorrere tutto il corpo dalle sue mani. Lo aiutò a sfilarsi il maglione, poi prese a slacciargli la camicia e gliela tolse rapidamente, staccandosi il meno possibile dalle sue labbra. Lui si chinò, la prese velocemente sotto le cosce per sollevarla, lei con un piccolo salto agevolò quel movimento e gli strinse le gambe intorno ai fianchi. Liam continuava a baciarla con foga quasi senza concedersi respiro, fece due passi in avanti, sempre tenendola sollevata, la buttò sul letto e le si distese sopra iniziando ad esplorarle il collo con le labbra e i denti mentre lei quasi si sentiva ustionare la pelle al suo tocco. Jenny sentiva il desiderio crescere come un fiume in piena e si contorceva strusciandoglisi addosso mentre gli passava le mani sul petto, sulle spalle, scendendo sulle braccia forti, accarezzando quella pelle così liscia e calda. Quasi tremando da quanto fremeva, gli slacciò la cintura e i jeans facendoglieli scivolare sui fianchi insieme ai boxer, Liam li calciò via, poi le mise le mani sotto il vestito e le tolse il minuscolo tanga di pizzo nero facendolo volare giù dal letto, si abbassò e prese a baciarla e leccarla proprio là. Jenny affondava le mani nei capelli di lui mentre il respiro diventava sempre più affannoso e i suoi sospiri assomigliavano sempre più a gemiti, e li strinse forte quando il piacere la travolse completamente, lasciandola bagnata e stordita. Ma Liam ancora non aveva finito, l’afferrò per le gambe portandosela più vicino e le entrò dentro, chinandosi per darle un bacio che sapeva di lei. Si mosse prima lentamente e poi aumentò sempre più il ritmo lasciandosi guidare febbrilmente dal respiro incalzante di lei. Jenny, già su di giri, venne quasi subito e Liam la seguì, qualche spinta dopo.

Esausto e sudato, si lasciò cadere sul cuscino. Jenny, ancora vestita tranne che per le mutandine, gli si strinse vicino, accarezzandolo sul petto nudo che si alzava e abbassava velocemente. Liam guardava fisso davanti a sé, senza parlare. Lei lo osservava di profilo, trovandolo bellissimo. Quei folti capelli castani, la bocca ben disegnata, la pelle liscia e chiara. Quei grandi occhi azzurri. Si sentiva un po’ a disagio, lui continuava a stare in silenzio e lei non sapeva bene che fare. Non lo conosceva da molto, ma le volte che erano stati insieme si era comportato in maniera diversa, molto diversa. Fu quando si sollevò, appoggiandosi sul gomito piegato, che si accorse con sgomento delle pupille dilatate di lui. “Oh cazzo! Ma che hai? Ti senti bene?” gli chiese allarmata. “Ma perché cazzo mi domandate tutti come sto? Sto bene, porca troia, sto benissimo, non sono mai stato meglio!” urlò violentemente lui, alzandosi di scatto e iniziando a rivestirsi con movimenti rabbiosi. Jenny si ritrasse spaventata, senza capire il perché di quell’aggressione verbale. Non poteva sapere che Liam stava solo sperimentando la fase down della cocaina sniffata mezz’ora prima. Intanto lui si era rimesso boxer e jeans e si voltò verso di lei mentre si abbottonava la camicia. La vide guardarlo con occhi spaventati e provò un lieve senso di colpa. “Dai, non guardarmi così” le disse salendo con le ginocchia sul letto e allungandosi verso di lei per baciarla sulla guancia mentre finiva di allacciarsi la camicia. “E’ stata solo una giornata di merda. Anzi, è proprio un periodo di merda. Tu sei stata fantastica comunque, come sempre. Ci vediamo, ok?”. Si infilò frettolosamente il maglione, prese il cappotto e se ne andò.
 
Ooooook! Anche nella sperduta Dalmeny è arrivata l’eco dell’Oasismania scoppiata con Wonderwall! Questo perché sto cercando di ripercorrere – per quanto possibile ovviamente dato l’AU – quello che realmente accadde in quel periodo. Charlie è uno dei tanti nomi della cocaina.

Approfitto per ringraziare tutti voi che state seguendo questa ff, soprattutto quanti l’hanno inserita tra le storie seguite o nei preferiti: GRAZIE GRAZIE GRAZIE! Non me l’aspettavo e mi sono commossa *sniff sniff*. Ovviamente critiche e suggerimenti sono sempre ben accetti!

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8.

Noel abbandonò il palco per primo, nell’aria ancora le note degli strumenti distorte dagli amplificatori. Camminava velocemente ma dovette rallentare per forza con tutte quelle persone che gli si facevano incontro, tutti volevano salutarlo, stringergli la mano, fargli i complimenti. Gli occhiali scuri a nascondere gli occhi e un sorriso che andava da una parte all’altra del viso, lui se li prendeva tutti quei saluti, quelle strette di mano, quei complimenti. In altre circostanze si sarebbe mostrato – come suo solito - arrogante e privo di quel minimo di diplomazia che serve a rendere più facile la vita, ma quel giorno no, quel 27 Aprile 1996 aveva davvero voglia di sentirsi dire: “Bravo!” o qualsiasi altra declinazione possibile, il maggior numero di volte. Perché quello che era appena terminato era il più grande concerto che i suoi Oasis avessero mai fatto a Manchester. A casa.  Erano riusciti a riempire il Maine Road! Ancora non riusciva a crederci. In quello stadio ci era cresciuto, partita dopo partita, anno dopo anno. Mentre suonava e cantava, CANTAVA!  – cazzo, ancora non riesco a credere neanche a quello! -  gli sembrava ancora di rivedersi, bambino e appena appena ragazzino, a urlare e gesticolare ed esultare (beh, esultare poco, il City ha sempre fatto cagare). E adesso, tutta quella gente era corsa lì per ascoltare dal vivo la sua musica. Era davvero un vaffanculo gigantesco a tutti coloro che non ci avevano creduto, che lo avevano preso per il culo, che avevano cercato di distruggerlo. Partendo dal più stronzo degli stronzi, suo padre, passando per gli insegnanti che lo avevano sempre ritenuto un incapace, e arrivando fino a suo fratello Liam. Ah beh, avrebbe dato chissà cosa per vedere le loro facce in quel preciso momento. Mentre pensava così però, si sovrappose, solo per mezzo secondo, non di più, tanto che se ci si fosse soffermato non avrebbe saputo dire se l’aveva effettivamente pensato o no, un altro pensiero, un “Mi manchi” scappato da chissà dove.

Diverse ore più tardi stava osservando Meg e le sue amiche che, impegnate in una conversazione assolutamente senza senso, ridevano e schiamazzavano. “Sembrano un gruppo di fottute oche ubriache” pensava allegramente Noel stravaccato su un divanetto, mentre la festa volgeva al termine. L’aria stagnante era satura di fumo e quasi opalescente, gente ubriaca era appoggiata ovunque, cicche ormai spente e bottiglie disseminavano il pavimento. La testa reclinata sullo schienale, un sorriso reso vacuo dalla droga stampato sul viso, la mano che saliva pigramente verso le labbra per aspirare il fumo dell’ennesima sigaretta. “Come vanno le vendite?” chiese ad Alan McGee, seduto mollemente vicino a lui. “Esattamente come quando me l’hai chiesto mezz’ora fa, Noel”, “Ripetimelo”. McGee ridacchiò e in una sorta di cantilena, rispose: ”Continuano-a-salire, continuano-a-salire, continuano-a-salire. L’ho ripetuto abbastanza volte?”, “Per adesso sì, ma fra mezz’ora voglio risentirlo”, “Aaaaah, ‘fanculo!”. Ci fu qualche secondo di silenzio e poi Noel riprese, parlando lentamente, come a gustarsi ogni singola parola che pronunciava: ”Spero per entrambi che tu abbia ragione”. “Eh?”. “O qualcosa del genere”. “Senti, qualcuno fra noi due ha bevuto troppo, che cazzo stai dicendo?”, “Mah… mi stavo solo chiedendo se ricordavi quello che mi hai detto quando ho voluto continuare a registrare senza Liam”, “Mmmm… ti ho detto così? Beh, è stata una mossa vincente dopotutto, avevi ragione Chief”, “Io ho sempre ragione Alan”.

Come Noel aveva calcolato, dopo la conferenza stampa in cui aveva dato la notizia della fuga e della successiva sparizione del fratello, sui media inglesi non si era praticamente parlato d’altro. Alcuni, almeno all’inizio, avevano pensato solo a una bieca mossa pubblicitaria, ma la maggior parte delle gente si era lasciata prendere dall’ondata emotiva generale e la popolarità degli Oasis era schizzata alle stelle. Non era tanto la fuga di per sé ad interessare, quanto il fatto che nessuno sapesse dove fosse andato e per settimane si era scatenata una vera e propria caccia all’uomo. Giorno dopo giorno si erano susseguite notizie su presunti avvistamenti, neanche si trattasse di un fottuto disco volante. Quando sembrava che l’Inghilterra avesse iniziato a pensare ad altro, era uscito “(What’s the story)Morning Glory?”, la curiosità aveva di nuovo preso il sopravvento e le vendite avevano superato tutte le aspettative. Le recensioni erano state tiepide, più di quanto Noel si sarebbe aspettato, ma le canzoni piacevano, eccome se piacevano. E con l’uscita di Wonderwall sembrava che davvero fossero giunti a una svolta decisiva per la loro carriera. Noel aveva visto giusto anche sulla decisione di lasciare la voce di Liam sulle tracce che aveva già registrato, in un gesto che era piaciuto, aveva fatto la figura del fratello amorevole, cosa che, ad essere sinceri, non era mai stato più di tanto.

La prima volta che aveva dovuto affrontare un concerto intero da solo, per poco non se l’era fatta addosso. Era abituato a piccoli set acustici, ma cantare per un’ora e mezzo di seguito era tutta un’altra faccenda. Retto com’era da un’incrollabile fiducia in sé stesso, era sicuro che sarebbe andato bene ma le gambe gli tremavano lo stesso. Sapeva che tutti i presenti avrebbero confrontato la sua performance con quella di Liam e Noel non era tanto sicuro di uscirne vincente. In qualche modo era riuscito a sopravvivere – sì, si sentiva davvero quasi un sopravvissuto – e concerto dopo concerto le cose erano andate sempre meglio, anche se forse non sarebbe mai riuscito a superare quel nervoso che lo attanagliava prima di entrare in scena.
 
Che quartiere di merda”, pensava Meg guardando Burnage sfilare davanti al finestrino dell’automobile. “Tesoro, ogni volta che veniamo qui mi chiedo come cazzo hai fatto a viverci in questo posto”, “Non è che avessi molta altra scelta”, “Oh sì, lo so. Ma è tutto così deprimente qui”, Noel rise: ”E’ uno dei motivi per cui ho iniziato a scrivere canzoni, non sapevo che cazzo fare tutto il giorno. In alternativa avrei potuto spararmi un colpo in testa”. La lussuosa automobile guidata da un autista si fermò all’indirizzo prestabilito e Noel si affrettò a scendere dirigendosi dritto verso la porta di una casetta di mattoni rossi, del tutto identica alle altre vicino, che aprì armeggiando un attimo con la maniglia. Meg continuava a guardarsi intorno infastidita, ma Noel non se ne accorse, si sentiva di buonumore ogni volta che vedeva Peggy, anche se ultimamente aveva avuto davvero poco tempo per lei.

Il piccolo salone era pieno persone, c’era suo fratello maggiore Paul, gli zii e i cugini, che li salutarono festosamente, ma Noel andò direttamente in cucina dove era certo di trovare sua madre. Peggy era lì infatti, intenta a ultimare i preparativi del pranzo aiutata dalle sorelle. “Noel!” lo abbracciò stringendolo forte e lui ricambiò la stretta: “Ciao mamma!”. Si erano visti già il giorno prima ovviamente, Peggy assisteva sempre ai concerti a Manchester e qualche volta anche a quelli a Londra, ma vedersi a casa era ovviamente un’altra cosa. Meg si fece avanti a fatica tra quella bolgia di irlandesi trapiantati nel nord dell’Inghilterra, non le piaceva avere addosso tutta quella gente di cui a stento capiva l’accento, ma Noel sembrava tenerci così tanto. Si stampò in faccia un sorriso che sperava sembrasse caloroso almeno la metà di quelli che le venivano rivolti e si preparò anche lei a ricevere l’abbraccio di quella che un giorno, forse, sarebbe diventata sua suocera. “Meg, che bello vederti! Ma perché vi siete incaponiti a stare in albergo, potevate dormire qui la scorsa notte!”. Meg si sentì legare i denti al solo pensiero. Rinunciare a quella meravigliosa suite in quello splendido hotel per stare in quella… in quella… stamberga? Grazie al cielo Noel si era guardato bene anche solo a ventilarla quell’ipotesi assurda. “Ma no, Peggy. Non volevamo disturbarla troppo”. Si fissarono negli occhi qualche secondo, ognuna sperando che l’altra non cogliesse i propri sentimenti: “Questa ragazza non mi piace per niente” stava pensando infatti Peggy. Noel sorrideva guardando quelle donne che amava così profondamente, felicemente ignaro dell’ostile scambio sotterraneo che c’era stato fra le due.

Il resto della giornata passò velocemente, con Noel impegnato a tenere banco con la sua famiglia, tutti lo tempestavano di domande e ridevano rumorosamente degli aneddoti che raccontava. Ogni tanto guardava sua madre come a cercarne l’approvazione, in un gesto automatico che aveva avuto fin da piccolo, ma, nonostante l’accoglienza affettuosa che come sempre gli aveva riservato, quel giorno succedeva una cosa strana: la madre evitava il suo sguardo. Più Noel cercava di catturarlo, più lei si ritraeva. Verso sera, quando tutti i parenti se ne erano andati e anche Meg aveva fatto ritorno in hotel con la scusa di voler salutare un’amica in partenza, era rimasto solo con il fratello, mentre Peggy stava al piano di sopra sistemando qualcosa. Seduti senza parlare su due poltrone diverse, uno di fronte all’altro, entrambi fissavano il camino spento. Fu Noel a rompere per primo il silenzio. “Mamma oggi era strana. C’è qualcosa che dovrei sapere?”, “No”, “E allora perché appena la guardavo distoglieva lo sguardo?”, “Vedi per caso una fottuta sfera di cristallo? Che vuoi che ne sappia? Chiedilo a lei”, rispose aggressivo Paul. Noel lo guardò aggrottando le folte sopracciglia: ”No, tu lo sai invece. Perché cazzo mi rispondi così?”. Paul portò lo sguardo azzurro sul fratello, piegando la testa di lato: “Allora l’indovino sei tu. Sì, io lo so cos’ha la mamma e se non fossi uno stronzo montato ci arriveresti anche tu. E so anche cosa cazzo ho io. Te ne fotte qualcosa per caso?”, “Te l’ho appena chiesto mi pare”. Noel iniziava ad irritarsi sul serio. Ma che cavolo stava succedendo? Cinque minuti prima erano tutti felici e contenti per lui e ora? “C’è che mi sono rotto i coglioni di fare il figlio che raccoglie i cocci. Tu fai la rockstar miliardaria che suona negli stadi e gira per il quartiere in Rolls Royce. Quell’altro pezzo di idiota scompare nel nulla da un giorno all’altro facendoci morire tutti di infarto. Almeno prima in quelle merdate di lettere scriveva qualcosa. Adesso solo “sto bene” e vaffanculo!”. Noel stava per rispondere qualcosa a proposito della Rolls ma ne venne interrotto dalla voce di sua madre che scendeva le scale: ”Paul, Noel, fatela finita di litigare e non vi permettete di parlare in questo modo in casa mia!”. I due fratelli deposero le armi e si limitarono a lanciarsi sguardi bellicosi di tanto in tanto, esattamente come avveniva quindici anni prima quando erano solo dei ragazzini. Certe cose non cambiano mai.

Peggy si sedette sul divano in mezzo alle poltrone, dalla parte più vicina a Noel. “Noel ascolta…” iniziò, e dal tono di voce Noel capì immediatamente. C’entra il piccolo bastardo. Infatti. “E’ quasi un anno che Liam se n’è andato”, “Lo so”, “Ecco … inizialmente ero talmente sollevata dal sapere che fosse vivo che le lettere mi bastavano. Ma adesso… adesso….oh, accidenti! Adesso non mi bastano più. E’ mio figlio e io pretendo di sapere dove sta, cosa fa, chi frequenta. Ho bisogno di saperlo”. Si sentiva a disagio, era come se stesse chiedendo a suo figlio il permesso di cercare l’altro figlio, in una situazione assurda. Non avrebbe saputo spiegarne il motivo, ma per quanto strano potesse sembrare sentiva di voler avere la “benedizione” di Noel. Forse voleva solo sapere se gli importava qualcosa del fratello minore, perché sapeva che non sarebbe bastato ritrovare Liam per far andare a posto le cose fra loro due. “Perciò ho deciso di assumere un investigatore privato per trovarlo”, concluse tutto d’un fiato.

Noel non rispose subito. Sapeva che prima o poi qualcosa si sarebbe mosso. Era una situazione di stallo, o Liam di punto in bianco avrebbe deciso di tornare, oppure la madre si sarebbe messa a cercarlo. Avrebbe scommesso sulla prima ipotesi, non pensava che il fratello avrebbe resistito tanto a lungo, e invece….“Non aveva detto che non voleva essere cercato?” azzardò. “Beh, non mi interessa. Sono sua madre e faccio quello che voglio. E poi aveva promesso che avrebbe continuato a scrivere e invece ha smesso. Se infrange lui stesso le regole che si è inventato da solo figurati se mi faccio problemi io”. Alle parole “invece ha smesso”, Noel si allarmò. “Ma come ha smesso? Paul ha detto –“. Cogliendo quel lampo di preoccupazione nello sguardo di Noel, Peggy sospirò rinfrancata, reprimendo a stento un sorriso. “Sì, sì, le manda – lo interruppe – ma da qualche tempo scrive solo che sta bene e basta. Evidentemente non sta bene neanche per niente - logica tipicamente materna – e io voglio sapere perché”.

Mentre tornava in hotel, seduto sui sedili posteriori della Rolls che McGee gli aveva regalato per Natale a nome di tutta la Creation Records, Noel ripensava alle parole di sua madre. In effetti era quantomeno strano che Liam non si facesse vivo da un anno, a parte quelle stramaledette lettere, che comunque a quanto pareva non davano chissà quali dettagli sulla sua vita. Sapevano dal francobollo e dal timbro postale che venivano spedite dal Canada, ed esattamente da Saskatoon, ma era lì che Liam viveva? Forse sì, forse no. Noel era veramente sicuro di volerlo sapere? Forse sì, forse no. Continuava a guardare fuori dal finestrino puntinato di gocce di pioggia, la tempia poggiata sul vetro freddo. Pensando a tutto e a niente nello stesso tempo. Passava in rassegna tutto quello che era successo in quell’ultimo anno, i concerti, i dischi che avevano venduto, le interviste. Ricordò tutti gli atteggiamenti da primadonna di Liam che gli avevano sempre dato fastidio, le sue sbronze moleste, le cattiverie che gli uscivano di bocca quando era incazzato.  Ripensò a quell’ultima litigata furiosa, a quello che gli aveva detto, a come lo aveva colpito. Rivide quegli occhi così grandi e quel sorriso dei momenti buoni che in tutta la vita era riuscito a vedere solo su suo fratello. Dove cazzo sei Liam? Forse sì, forse voleva davvero saperlo.
 




Dunque gli Oasis hanno fatto il botto anche senza Liam? Mmmm… non proprio. Non mi sembrava verosimile che un disco che ha venduto la bellezza di 20 milioni di copie fosse un fiasco totale solo perché il cantante s’è dato alla macchia, quindi sì. (WTS)MG? è comunque un successo, il gruppo sta diventando veramente famoso in tutto il mondo, Noel ha lo stesso ricevuto la sua Rolls Royce per Natale (quale maschietto non vuole una macchinina per Natale ???), MA … ho cercato di immaginare un successo meno sfolgorante di quello che hanno avuto realmente, con un Maine Road riempito solo per una sera e non due, ad esempio. Ma vivendo felici e giocondi e ignari nel loro bel AU, loro che ne sanno di come sono andate realmente le cose?! Ah, le recensioni furono davvero, in un primo momento, tiepidine!

Quando parlo della difficoltà di Noel a cantare per un concerto intero, riprendo quello che lui stesso disse in Behind the Music a proposito dell’MTV Unplugged in cui dovette sostituire Liam all’ultimo momento, qualcosa tipo:”Stavo morendo, letteralmente morendo, su quel palco”.

Eeeeeehm, si capisce che Meg mi sta sui marones?

Grazie ancora a tutti voi che leggete, anche senza commentare, e che inserite questa storiellina nei preferiti, cominciate ad essere tanti e a me fa davvero davvero piacere!

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

Mal di testa. Fortissimo, martellante.

Sete. Acuta, insopportabile.

Sonno. Tanto da far male.

Luce. Troppa. Il tenue chiarore delle 6 del mattino da dietro le persiane chiuse e la tenda tirata. Comunque troppa.

Un peso sulla spalla e un miliardo di formiche rosse che gli mordevano il braccio.

Ce la posso fare, pensò Liam cercando di liberare braccio e spalla dal peso della ragazza seminuda che gli dormiva sopra. Sì, ce la posso fare, continuò mentre la faceva rotolare di fianco. La ragazza mugolò infastidita ma continuò a dormire pesantemente. Liam si mise in piedi. Ok, ce l’ho fatt – non riuscì a finire la frase che un potente svarione lo mandò quasi a sbattere con la faccia per terra, se non si fosse aggrappato più per sbaglio che per prontezza di riflessi a una provvidenziale seggiola.  Procedendo a tentoni e cercando di dominare la nausea montante, riuscì ad arrivare al frigo, ad aprirlo – Maledetta lampadina! pensò strizzando gli occhi -  a trovare una bottiglia, a svitare il tappo e, dopo un tempo che gli era parso interminabile, finalmente a bere l’agognata acqua. Il che però non fece altro che aumentare la nausea e, grazie solo alle  minuscole dimensioni del proprio appartamento, fece appena in tempo ad arrivare in bagno. Quando ne uscì, provò di nuovo a bere e questa volta l’acqua gli rimase giù. Si sforzò di mangiare un po’ di pane, prese un paio di aspirine, si fece una doccia e finalmente si sentì di nuovo quasi umano.

Stava quasi per uscire quando si ricordò di … come cazzo si chiamava? beh, della mora con i capelli sparpagliati sul cuscino e, tornando sui suoi passi, prese a scuoterla con una mano: ”Oh, Bella Addormentata! Sveglia! Devo andare a lavoro!”. La ragazza si voltò infastidita ma non accennò a svegliarsi. Ah no, no! Non esiste che questa stronza rimanga a poltrire senza problemi per tutto il giorno quando io ho dormito solo tre fottutissime ore! Continuò nella propria opera di convincimento e finalmente la ragazza aprì gli occhi:“Che cazzo vuoi?”, “Buongiorno delicatezza! Devi andartene subito. Rivestiti – disse mettendo nella mano dell’ancora mezza addormentata senza nome una minuscola palletta nera che originariamente era stato un vestito – e sbrigati”.

Con qualche differenza, come il colore dei capelli dell’immancabile ragazza o il numero delle volte che si trovava ad abbracciare il water, questa era la routine mattutina che Liam viveva almeno tre, spesso quattro, di norma cinque volte a settimana. Da quella sera di qualche mese addietro in cui per la prima volta aveva di nuovo ceduto all’alcol e, soprattutto, alla cocaina, Liam sembrava aver mandato all’aria il suo proposito di darsi una ripulita e di riuscire a condurre una vita normale. La sua sembrava una parabola parallela e opposta a quella che stava vivendo il suo ex gruppo e in particolare suo fratello. Più loro – LUI! - avevano successo, più Liam sentiva di scivolare verso il basso, come se stesse cadendo in un pozzo con la totale impossibilità di aggrapparsi a qualcosa. Non riusciva neanche a rallentarla quella caduta, figuriamoci a fermarla. Ogni volta che gli capitava di ascoltare qualche canzone del fratello o di intravedere qualche servizio in televisione, avvertiva chiaramente il proprio sangue intorbidirsi per la rabbia e il rancore e l’invidia e … il … dolore. Dolore sì, oltre che repentini istinti omicidi provava anche un genuino dolore. A se stesso confessava che stava soffrendo, ma non lo avrebbe ammesso con nessun altro, naturalmente.  Soffriva le pene dell’inferno e ci volevano tutti i trucchi di un attore consumato – cosa che lui non era – per nasconderlo. Non sapeva, proprio non aveva idea, di come uscire da quella fottuta situazione in cui si era ficcato con le proprie mani – Coglione! Coglione! Coglione! – Provava un disprezzo profondo per se stesso e per quel suo dolore, si rendeva conto di essere oltremodo stupido, lo sapeva. Avrebbe benissimo potuto tornarsene a Manchester, sua madre sicuramente non aspettava altro, ma che razza di figura avrebbe fatto? Preferiva di gran lunga schiantarsi sul fondo di quel cazzo di pozzo, piuttosto che tornare a casa con la coda fra le gambe. E così faceva. Ci si schiantava più che poteva, cercando di farsi ogni sera più male.

L’ironia di tutto ciò non gli sfuggiva, a volte lo trovava quasi divertente: continuava a comportarsi da alcolizzato tossicomane come quando era una ricca rockstar in ascesa anche adesso che doveva alzarsi alle sei del mattino per cercare di arrivare in orario a quello schifo di lavoro che gli avevano praticamente regalato. Usciva quasi ogni sera e si stordiva fino a quando gli riusciva difficile ricordare come si chiamava. Consumava quasi tutto il suo stipendio in alcol e droga, stando attento solo che gli restassero abbastanza soldi per pagare l’affitto di quel buco in cui abitava. Ci manca solo che mi sfrattino così poi devo andare a dormire sotto un ponte, che poi neanche ci sono qui i ponti – ridacchiava tristemente dentro di sé– per lo meno ancora scopo gratis.

Quella mattina, appena entrato nel cantiere, si rese subito conto che era una giornata particolare, di quelle che capitavano circa un paio di volte al mese: il trambusto degli operai che si muovevano molto più velocemente e ordinatamente del solito, unito alla mancanza delle urla con le quali si chiamavano normalmente da una parte all’altra dell’ampio spazio. Doveva essere giornata di visita del Capo, come lo chiamavano rispettosi gli altri. O di John, come lo chiamava semplicemente lui. I suoi colleghi si erano sempre stupiti di quella confidenza, non che John fosse chissà quale eminente personalità, e non era neanche un distinto quanto anziano signore, era un semplicissimo uomo di circa 35 anni che aveva la stoffa dell’imprenditore, ma per tutti era comunque il proprietario di quella ditta che stava costruendo il primo centro commerciale della provincia di Saskatoon, colui che pagava gli stipendi, il Capo, appunto. Perché non sanno come lo fa rigare dritto la nonnina, sogghignava silenziosamente Liam ogni volta.

Quel giorno però a Liam non importava granchè. Le tempie continuavano a pulsargli dolorosamente e non riusciva a togliersi gli occhiali da sole perché la luce ancora lo infastidiva, facendogli aumentare il mal di testa. Si stava dirigendo di malumore verso la sua postazione quando vide proprio John che lo chiamava: ”Liam, puoi venire un attimo? Ho bisogno di parlarti”. Benchè la frase fosse stata pronunciata come un invito, in realtà era un ordine: John si era voltato per tornare nel piccolo prefabbricato che fungeva da ufficio senza neppure voltarsi a controllare la risposta. Merda, oggi no. Neanche domani e se per questo neanche ieri, ma oggi no, per favore. Ma logicamente Liam doveva seguirlo per forza, ed è ciò che infatti fece.

John si sedette sulla sua poltrona da ufficio, con le rotelline sotto e lo schienale ergonomico. Con un cenno della mano invitò Liam a fare altrettanto con la sedia posta dall’altra parte della scrivania e lo guardò sedersi scompostamente davanti a sé. “Puoi toglierti quegli occhiali per cortesia?”. Liam percepì una freddezza insolita nel suo tono e una certa irritazione tenuta a bada a stento. Avvertì un brivido premonitore mentre faceva quanto gli era stato richiesto. John lo fissò per qualche istante e Liam provò una piccola fitta di vergogna sapendo ciò che stava squadrando: il viso smagrito, gli occhi arrossati, le occhiaie scure, la barba incolta da giorni. Sperò ardentemente che almeno le pupille gli fossero tornate del diametro normale. Abbassò velocemente lo sguardo, come per evitare che John gli scaraventasse giù quella flebile speranza con un commento. “In ottima forma, Liam, complimenti. Come sempre negli ultimi mesi, a dire il vero. Il tuo segreto qual è?”. Prima che potesse rispondere, John continuò: “Litri di birra e superalcolici sicuramente. Poi che altro? Qualcosa che si ficca su per il naso, immagino, visto che sembri affetto dal raffreddore più lungo della storia. Poi? Pillole? Quali? Almeno sappiamo che non ti fai di eroina visto che hai le pupille di un cartone animato”. Colpito e affondato.

Come sempre quando veniva attaccato, Liam si difese aggredendo a sua volta: “La chiacchiera facile devi averla presa da tua nonna, vero John?”, “Non ti azzardare neanche a nominarla quella poveretta di mia nonna! L’hai intortata per bene con la storiella strappalacrime del povero cantante in crisi d’identità, desideroso di farsi valere solo con le proprie capacità”, “Guarda che io non racconto stronzate, chiaro? E poi per quale cazzo di motivo avrei dovuto farlo?”, “Ah, non lo so, ma se avessi saputo che eri un tossico col cavolo che ti avrei assunto”. “Non sono un tossico, va bene? Non so cosa cazzo ti hanno raccontato e neanche chi l’ha fatto, ma – “, “Fammi capire, sei talmente fatto che pensi di stare a Manchester o a Londra? Ma hai visto che posto è questo? Gli abitanti non arrivano a 1.500, sai che ci vuole a venirle a sapere le cose! E comunque quanto tempo è che non ti guardi allo specchio? Basta guardarti per rendersene conto”. Liam fremeva. Quella discussione stava prendendo, anzi, aveva già preso, una piega che non gli piaceva per niente. “Ma poi a te che cazzo te ne frega di quello che faccio io nel mio tempo libero? Che sei? Un fottuto prete?”,”Nel momento in cui metti a rischio la vita dei miei operai presentandoti in cantiere non completamente lucido e magari pure ancora sbronzo mi interessa eccome”. Liam rimase interdetto. Non aveva mai considerato la situazione da quel punto di vista. John continuò: ”Non mi piace sbattere le persone per strada da un giorno all’altro, perciò considera questa conversazione un avvertimento. Non ce ne sarà un altro. Se io o qualcuno dei capisquadra ti ripeschiamo anche una sola volta in queste condizioni, scordati pure questo lavoro. E con la nomina che ti sei fatto, non credo che ne troverai un altro facilmente, non da queste parti almeno”.

Liam non rispose. Non riusciva a crederci. Gli stava facendo una ramanzina? Lo stava minacciando? Ma chi cazzo credeva di essere? Respirava con movimenti veloci e profondi, stringendo forte pugni e mascella, pronto ad esplodere. Ma. Non se lo poteva permettere, non più. Era un dato di fatto, era la realtà e quella era la prima volta che Liam ci sbatteva sul serio la faccia. Più di ogni altro momento negli ultimi quattordici mesi. Non poteva prendere a pugni il proprio datore di lavoro, eh no. Non funziona così nel mondo reale. Nel mondo reale devi fare buon viso a cattivo gioco. Soprattutto quando hai torto marcio. Soprattutto quando hai di fronte una persona che ti ha aiutato senza sapere neanche chi fossi. Forse per la prima volta nella sua vita, Liam, pur ingoiando amaro, chinò la testa. “Ci siamo capiti?”, lo sollecitò John. Liam annuì lentamente, sbattendo ripetutamente le palpebre sugli occhi stanchi. “Per oggi puoi tornartene a casa”. Si alzò dalla sedia e stava per uscire quando John lo fermò: “Domani sarò ancora qui, tienilo presente, se hai qualche lettera da darmi”. Liam annuì di nuovo, sempre senza dire una parola.

Tornò a casa. Si mise subito a letto ma non riuscì ad addormentarsi. Passò ore a guardare il soffitto. Si alzò solo verso sera, strappò un foglio da un quaderno e scrisse l’ennesimo “Sto bene” da inviare alla madre, più per placare i sensi di colpi che per altro. Stava per imbustare il foglio quando, improvvisamente, si fermò. Restò per qualche istante immobile, con la busta bianca in una mano e il foglio a quadretti nell’altra, lo sguardo fisso sulla radio muta. Di colpo, aprì le mani, lasciando che la busta e il foglio cadessero sul pavimento.

Silenziosamente.

Il caos era tutto nella sua testa.

Uscì anche quella sera.




Ma ciaooooooooooo! Sì, Liam ha deragliato completamente, ma d'altra parte un Liam tutto casa e lavoro era decisamente OOC, no? Anche se - e immagino l'abbiate capito già da mò - i primi sei mesi in cui era stato così bravino erano un po' un limbo, doveva ancora scontrarsi con la realtà! 
Cheers!!!!!!

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

“Noel dai! Andiamo!”, “Mamma, sì! Fammi chiudere casa almeno!”, “Lo sapevo, siamo in ritardo!”, “Ma quale ritardo! Mancano ancora dieci minuti ed è qui a due passi! Con la macchina quanto vuoi che ci mettiamo?”, “Beh, dì al tuo autista di sbrigarsi però”.

Erano mesi e mesi che Liam non si devastava in quel modo. Aveva preso, bevuto e fumato tutto quello che si era potuto permettere. Aveva fol–leggiato tutta la notte e senza neppure essere andato a dormire era arrivato, non sapeva bene come, forse per la forza dell’abitudine, davanti al cantiere che a quell’ora aveva appena aperto i cancelli agli operai più mattinieri.

Peggy era in fibrillazione e Noel, per compensare, ancora più lento e pigro del solito. Erano passati già tre mesi dalla richiesta della mamma di cercare un investigatore privato e adesso che finalmente avevano un appuntamento, non stava più nelle pelle. Anche in auto continuava a tormentare i manici della borsa. Povera mamma, pensò Noel. Si sentì un po’ in colpa per aver perso così tanto tempo, ma con tutti i concerti in giro per il mondo, gli impegni promozionali e l’organizzazione del concerto di Knebworth a cui mancava sì e no un mese, davvero non aveva avuto un secondo. Avrebbe potuto pensarci Paul, ma lei aveva insistito per  qualcuno che lavorasse a Londra, perché “tutte le persone importanti abitano a Londra, e io non voglio certo affidare mio figlio al primo sprovveduto che passa”. Meg si era offerta di fare una ricerca delle migliori agenzie investigative della Capitale e Noel aveva scelto la North Court Investigations, solo perché gli era piaciuta, ritenendola familiare e quindi in qualche modo rassicurante, la dicitura “North”.

Ma beeeeeneeeee, eccomi qua. Oh, ma sono ubriaco, non posso mica entrare, se ammazzo qualcuno poi John-fottuto-Capo si mette a piangere. Ma gli ubriachi tossici prendono mai buone decisioni? Col cazzo. Liam Gallagher prende mai buone decisioni? Col cazzo. Perciò entro perché io sono Liam-fottuto-Gallagher-fottuto-cocainomane-fottuto-ubriacone-fottuto- ex cantante-fottuto-operaio e faccio quel cazzo che voglio.

Dopo pochi minuti, come previsto, si fermarono di fronte un elegante palazzo color panna, tutto colonnine di marmo e grandi finestre trasparenti. L’entrata era costituita da un portone alto, sormontato da una finestra più grande delle altre, da cui sventolava un’enorme Union Jack. Tanto per passare inosservati, pensò Noel. Entrarono in una sala  arredata in stile minimalista e iper moderno, in piacevole contrasto con l’evidente eleganza antica della facciata. Noel ovviamente non fece caso a quelle finezze, occupato com’era ad osservare l’architettura dell’avvenente segretaria che gli indicava l’ufficio del signor Richardson. Aspettandosi una via di mezzo tra Sherlock Holmes e James Bond, si sentì deluso quando vide l’uomo di mezza età che gli tendeva la mano da dietro un’enorme scrivania di noce scuro. Sua madre invece sembrò innamorarsi all’istante, probabilmente vedendo in quel signore in sovrappeso il salvatore di suo figlio.

Saliva sull’impalcatura con le gambe malferme, ma sembrava non accorgersene. Anzi, a ogni passo prendeva più forza, più velocità. Iniziò a lavorare facendo più chiasso possibile. “Perché stai qua?”, gli chiese alle sue spalle una voce che conosceva. Scoppiò in una risata ubriaca: ”Oh, merda Matthew! Me lo domando da più di un anno!”, “No, intendevo perché lavori alla mia postazione”. Liam si guardò intorno e tornò a ridere sguaiatamente:”Beh, devo essere sbronzo sul serio allora, non me n’ero accorto per un cazzo!”. Fece per allontanarsi ma si bloccò immediatamente, come fosse colto da un pensiero improvviso. Si voltò e puntò rabbiosamente l’indice verso Matthew: ”Sei stato tu!”, urlò. L’altro lo guardò con gli occhi spalancati per la sorpresa: ”Ma che dici? Sono stato io a fare cosa?”, “Gliel’hai detto tu a John! Sei stato tu, stronzo che non sei altro!”. Solo allora Matthew sembrò accorgersi dell’aspetto sconvolto e trasandato di Liam, che indossava ancora i vestiti del giorno precedente. “Ma che hai fatto? Sei ubriaco? Sei fatto?”, “Tutte e due le cose insieme, a dire il vero – mormorò mentre gli si avvicinava minaccioso – ma non cambiare discorso, pezzo di merda!”, “Oh senti, datti una calmata!”, Matthew finalmente reagì, ovviamente non gli piaceva essere insultato, ma quell’attacco a sorpresa l’aveva colto assolutamente impreparato.

“Allora – disse Richardson dopo essersi presentato e aver stretto loro la mano – cosa posso fare per voi?”. Noel stava per aprire la bocca ma fu investito dal fiume di parole che uscì rapidissimo da Peggy, che per l’agitazione parlava con un accento irlandese ancora più marcato del solito. Diede un’occhiata al signor Richardson ma lo vide tranquillissimo, probabilmente era abituato a gestire l’ansia dei suoi clienti, o potenziali tali. Un punto a tuo favore, amico.

Matthew aveva familiarizzato piuttosto velocemente con Liam, accomunati com’erano dalla giovane età e dagli stessi gusti musicali. Lo trovava simpatico, era piacevole parlarci. Nonostante di chiacchiere ne facessero parecchie lavorando fianco a fianco, Liam era stato bravissimo nel non svelargli praticamente niente di sé. Parlava poco e malvolentieri del suo passato e della sua famiglia, così, dopo più di un anno, le uniche cose che Matthew sapeva di lui erano che aveva una mamma e due fratelli maggiori, che il padre era un uomo violento che gli aveva rovinato l’infanzia, che venerava John Lennon. Punto. Non era mai possibile approfondire il discorso con lui, alla domanda “Come mai sei andato via dal tuo Paese?” aveva risposto con un evasivo: ”Avevo voglia di cose diverse, di gente diversa” ed era apparso subito chiaro che non avrebbe detto niente di più. Matthew aveva rispettato quella riservatezza, anche se gli era sembrata un po’ strana. Aveva percepito in Liam qualcosa di oscuro, qualcosa che non avrebbe saputo definire in maniera diversa, qualcosa che rimaneva ben nascosto fra battute e risate ma che si esplicava benissimo in quello che stava succedendo in quell’istante.

“Siamo qui per mio figlio Liam, è scomparso da più di un anno e non sappiamo niente di lui. E’ maggiorenne ma non mi dica che può fare quello che vuole perché se me lo sento dire un’altra volta divento pazza. Ha litigato con questo qui – indicò Noel che la guardò sorpreso -  litigano sempre, due emeriti stupidi, ed è scomparso”. “Con scomparso che intende esattamente? Proprio nessuna notizia? Nessun indizio? Niente di niente?”, “Beh, non proprio. Manda regolarmente delle lettere dalle quali sappiamo che dovrebbe essere in Canada”, “Le avete portate?”, “Sì, certo. E ho anche delle foto”. Peggy mise tutto sulla scrivania di Richardson, che ignorò completamente le foto e concentrò la propria attenzione sulle lettere. “Posso leggerle?”, “Certo, ma non parla mai del posto in cui abita. Nelle ultime poi non dice proprio niente e basta”.

Negli ultimi mesi era cambiato, a un’occhiata superficiale poteva sembrare in meglio, usciva molto spesso, sembrava più rilassato, più a suo agio, quasi felice … No, felice non era la parola giusta, c’era qualcosa che stonava, ma Matthew non era molto abile nell’esplorare la psiche umana. Vedeva che beveva, beveva tanto, ma sembrava reggere bene l’alcool, dopotutto gli inglesi sono forti bevitori e ancora di più lo sono gli irlandesi, Liam era un inglese di origine irlandese, quindi non ci vedeva niente di troppo strano. In realtà Matthew e gli altri colleghi con cui uscivano la sera si erano anche accorti che qualcosa in più del bere la faceva, ma … insomma … non si esce mica per fare le prediche agli amici, no? Si esce per divertirsi. E Liam sapeva essere divertente come nessun altro. E soprattutto come nessun altro attirava le ragazze, ulteriore motivo per non metterselo contro.

Dopo averle lette tutte, l’investigatore si appoggiò allo schienale della sedia, che cigolò lievemente. “Avete idea del perché potrebbe essere andato lì?”, “No, non sapevo neanche dell’esistenza di questa Saskatoon”, ammise sconsolata Peggy. “E’ che mio fratello – per la prima volta Noel prese la parola – è piuttosto… come dire … impulsivo, diciamo così. Probabilmente avrà preso il primo aereo in partenza”, “Come sapete che è andato in aereo?”, “Non lo sappiamo con certezza ma dubito che sia andato in Canada a nuoto” rispose Noel, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Peggy. “Potrebbe aver preso una nave, o un cargo. E’ importante sapere com’è andato via perché potrebbe farsi spedire le lettere dal Canada ed essere a Pechino”, spiegò coinciso Richardson. “Non può farsi dare l’estratto conto della sua banca? Lì dovrebbe esserci scritto dove ha acquistato il biglietto, sempre che l’abbia acquistato, e magari da lì si potrebbe risalire al posto in cui è andato”, chiese timidamente Peggy. “Mi dispiace signora, ma non possiamo avere accesso a questo tipo di  informazioni. Questa è un’agenzia seria, non aggiriamo mai la legge”, “Oh, non volevo dire … io … io credevo che…”, “Signora non si preoccupi- rispose dolcemente Richardson sporgendosi per prendere una mano di Peggy -  è che si ha una certa idea degli investigatori privati, ma questa non corrisponde mai alla realtà. Magari potessimo fare gli effetti speciali che tutti si aspettano, il nostro lavoro sarebbe molto più facile”.

Gli effetti delle sue serate cominciavano però a notarsi anche sul lavoro, ultimamente era facile vederlo arrivare la mattina ancora un po’ su di giri, ancora un po’ alticcio o francamente ubriaco del tutto, e Matthew e gli altri sempre più spesso si trovavano a fare dei veri e propri salti mortali per nascondere le sue magagne, come avrebbero fatto d’altronde con qualsiasi altro di loro. Erano un gruppo affiatato, si fidavano l’uno dell’altro, non ci vedevano niente di male a coprirsi le spalle a vicenda. Per questo Matthew era rimasto letteralmente basito quando Liam lo aveva accusato di aver detto non si sapeva bene cosa al Capo. Poteva comunque immaginare a cosa si riferisse e si sentiva ferito, quasi oltraggiato. Ma come? Io rischio il posto per te e tu che fai? Mi accusi di essere una spia? . Liam intanto aveva preso a spintonarlo, alzando sempre più la voce. Ancora una volta, come era successo spesso in passato, se la stava prendendo con chi gli stava più vicino. Matthew, offeso e arrabbiatissimo, rispose con altri spintoni. Gli spintoni diventarono più violenti e la distanza fra loro si accorciò. Il primo a caricare il pugno fu Liam, che planò con tutta la forza e la rabbia che aveva immagazzinato fino a quel momento sullo zigomo dell’altro. Matthew, superato l’attimo di sconcerto che il dolore improvviso gli aveva procurato, rispose. Liam barcollò all’indietro, ma non si fermò, completamente dimentico di trovarsi a più di tre metri di altezza. Intanto sotto l’impalcatura si erano accalcati gli altri operai, che seguivano la lotta fra i due con il fiato sospeso. Tanta era la sorpresa che nessuno si decideva a salire per dividerli.

“Come intende procedere allora?”, chiese spazientito Noel. Quel tizio aveva quasi fatto piangere la mamma, che certo non aveva bisogno di angosciarsi ulteriormente. “Dovremo cercare di ricostruire passo passo tutti gli spostamenti di suo fratello a partire dall’ultimo luogo in cui è stato visto”, “Ma non sarebbe meglio concentrarsi subito su questa fottuta Saskatoon?”, Noel cominciava davvero ad averne le palle piene di quella maledetta storia, prima fosse finita, meglio sarebbe stato. “No. Prima dobbiamo essere sicuri che si trovi realmente lì. Mi rendo conto che vi sembra di perdere tempo, e probabilmente sarà così, probabilmente sarà davvero in Canada, ma per esperienza vi posso assicurare che è meglio perdere poco tempo prima che molto tempo dopo”. “Ecco, secondo appunto la sua esperienza, sarà possibile rintracciare mio figlio?”, chiese Peggy. “Non lo so dire, signora. Sicuramente avrà preso delle precauzioni per non essere trovato. Però da quello che mi avete detto, sembrerebbe una fuga non pianificata, quindi è lecito pensare che non abbia avuto il tempo né il modo di cancellare ogni traccia, ed è su questo che noi lavoreremo. Noi siamo del mestiere, lui no”.

Liam, più avvezzo nel fare a botte, stava avendo la meglio su Matthew, quando tutta la benzina che aveva in corpo improvvisamente gli si rivoltò contro. La vista si appannò, la testa prese a girargli e perse l’equilibrio. Solo all’ultimo momento riuscì ad aggrapparsi in qualche modo a un tubo dell’impalcatura. La testa gli continuava a girare e non riusciva a mettere a fuoco quello che aveva davanti. Nonostante questo, provò ugualmente a raddrizzarsi. Nel farlo però il senso di vertigine aumentò a dismisura, mise un piede in fallo e, senza neanche rendersene conto, cadde all’indietro nel vuoto.

Peggy uscì rinfrancata da quell’incontro. “Questo signor Richardson mi piace, Noel. Sono sicura che presto avremo notizie di tuo fratello”. Noel stava per salire in auto quando il cuore gli mancò un battito. Alzò lo sguardo e fissò il cielo grigio di Londra. Si sentiva angosciato. Che cazzo mi succede?

La vista era tornata chiara e Liam fissò lo sguardo sul cielo. Sdraiato in terra, gli occhi spalancati, la bocca semi aperta. Sentiva un ronzio nelle orecchie. Un vociare convulso. Tante persone si muovevano agitate nel suo campo visivo ma lui seguitava ostinato a guardare il cielo. Com’è azzurro. Non c’è neanche una nuvola. La vista si appannò nuovamente. Il ronzio aumentò fino ad ingoiare ogni rumore.

“Noel! Ti sei incantato?” chiese Peggy, sporgendosi dal sedile per guardare il figlio che non si decideva a entrare in auto. Noel si affrettò a sedersi vicino alla madre. Si sentiva agitato e non ne capiva il motivo. Per tutto il breve tragitto non disse una parola. Continuava a tenere lo sguardo fuori dal finestrino. Non sapeva perché, ma non riusciva a smettere di guardare il cielo.


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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11

Legò i lunghi capelli scuri in uno stretto chignon maledicendo il taglio scalato che le faceva ricadere sempre qualche ciocca sul viso. Un minuto per tagliarli, un’eternità per farli ricrescere, pensò sbuffando mentre osservava il risultato dei suoi sforzi nello specchio tondo appeso nello spogliatoio. Si sistemò meglio la tuta bianca, infilò gli zoccoli rosa e uscì in corsia.

“Buongiorno Sophie!”, la salutò vivace l’infermiera al bancone del reparto, “Buongiorno Mary – replicò lei con la bocca mezza piena della brioches che aveva preso al volo prima di uscire di casa – qualcosa di nuovo per me oggi?”, “Mmm … penso di sì, sai?! Mi pare che ieri ne abbiano mandati su tre dal Pronto Soccorso … fammi vedere … no, due, quello di stanotte è ancora in sala operatoria, ecco qua le cartelle”, “Grazie Mary, ci prendiamo un caffè fuori dopo?”, “Sìììììììì, ti devo raccontare del tipo fantastico con cui sono uscita ieri sera!” trillò felice Mary, “Eh, non avevo nessun dubbio”, rispose sorridendo Sophie. Si avviò verso le stanze di degenza sbocconcellando poco professionalmente quello che restava della brioches e occhieggiando nello stesso tempo le cartelle cliniche che aveva in mano. Dunque, vediamo… 81 anni, uomo, frattura del femore… 23 anni, uomo, doppia frattura del bacino… ok, prima il vecchietto.

Appena sveglio, Liam non ricordò dove fosse. Gli sembrava di stare in una nuvola: il soffitto, le pareti, le porte… era tutto bianco latte. Alla sua destra si apriva una finestra che si sviluppava in orizzontale e che occupava più della metà della parete. Cercò di sollevarsi per guardare fuori ma nel farlo sentì esplodere un dolore terrificante che lo tenne inchiodato al letto. Confusamente e in modo frammentario gli ritornò in mente quanto era successo il giorno prima: il litigio con Matthew, il volo dall’impalcatura, l’impatto con il terreno, le sirene dell’ambulanza, le luci di un corridoio che correvano sopra di lui. Rimase immobile con gli occhi chiusi, cercando di far sparire le ultime ondate di dolore, ma niente da fare. Quella bordata shockante si era assopita, ma restava un dolore sordo, continuo, alla base della schiena, al quale si aggiungevano delle fitte lancinanti a sinistra. Forse se respiro più piano, forse se non respiro proprio… pensava delirante.

“No, no, no! Non ci siamo! Non fare finta di dormire che lo so che sei sveglio!”. Liam aprì di colpo gli occhi che vennero però accecati da una lucina, fece per richiuderli girando la testa da una parte per il fastidio, ma una mano gli prese il mento e lo fece voltare di nuovo: “Aprili bene, fammi vedere… ok, tutto a posto. Sono la dottoressa Jones e tu sei ricoverato allo Spruce Manor Special Care Home. Ti ricordi perché?”, “S-sono caduto da un’impalcatura”, rispose con la voce più rauca che avesse mai avuto in vita sua. “Perfetto, ti ricordi bene. Nella caduta hai riportato, oltre a tutta una serie di contusioni, un trauma cranico commotivo che secondo la TAC e a quanto vedo danni non ne ha fatti, e due fratture: una all’acetabolo sinistro e l’altra all’ala iliaca corrispondente”. Interessante….non sapevo di avere le ali. E che cazzo è l’acebaubau? Vedendo l’espressione interrogativa di Liam, la dottoressa spiegò: ”Per fartela breve, ti sei rotto il bacino in due punti, di cui uno, l’acetabolo, è la cavità in cui si inserisce il femore. Per tua fortuna sono fratture composte, per cui non è stato necessario intervenire chirurgicamente. Ora devi stare a letto per 30-40 giorni, facendo solo fisioterapia passiva, poi inizierai –“, “Cosa?” – la interruppe Liam – “Non posso alzarmi? Per 30-40 giorni? Ma non posso stare qui per tanto tempo!”. La dottoressa Jones lo guardò, con un sopracciglio alzato e un sorrisetto ironico: ”Oh, sono sicura che se ti impegni puoi farcela”, “No, non penso proprio - rispose ostinato Liam - tanto per cominciare ho un lavoro”. Veramente non sapeva se ce l’aveva, ma tecnicamente nessuno lo aveva licenziato. Non ancora almeno. La dottoressa si sedette sul bordo del letto, intrecciò le dita su un ginocchio e continuò: “Questo non ti impedisce di startene immobile”, “Lei non capisce, io non sto sdraiato in un letto a fare niente per più di un mese!”. La dottoressa rimase in silenzio per qualche istante, poi, tirando via il lenzuolo gli disse:”Va bene, mi hai convinto, se riesci ad alzarti ti dimetto all’istante così domani puoi provare di nuovo a romperti l’osso del collo, magari questa volta ti riesce”,”Ma non mi posso muovere!” quasi urlò Liam. Ma da dove saltava fuori quella? Era una sadica che si divertiva a giocare con i pazienti? “Ecco, stiamo dicendo la stessa cosa. Non ti puoi muovere. E sarà così per tutto il prossimo mese, e anche di più se non la smetti di agitarti. Vie d’uscita alternative non ne esistono. Devi dare il tempo alle tue ossa di ricalcificarsi e questo avverrà tanto prima quanto più te ne starai buono buono a fare niente, come dici tu. Ah ma ecco la dottoressa Lambert, la fisioterapista. Ciao Sophie ”e così com’era entrata, con un gran svolazzare di camice, la dottoressa Jones uscì dalla stanza.

Liam neanche si voltò a guardare chi era entrato, tanto era sconvolto. Come cazzo era potuta succedere una cosa del genere? Ma perché ultimamente dovevano capitare tutte a lui? Tanto per cominciare si sentiva come una vecchietta con l’osteoporosi, con tre fratture in neanche un anno e mezzo. E quella storia di stare in ospedale per oltre un mese … ma perché? Perché? “Ah boh. Destino?”. Liam tolse le mani dagli occhi e si voltò confuso verso la persona che aveva parlato. “Dicevo, forse è il destino” riprese sorridendo lei. Cazzo, ho pensato ad alta voce. “Magari da questo incidente nascerà qualcosa di buono”. “Non penso proprio. Per come mi stanno andando le cose è più probabile che rimanga zoppo a vita”, rispose tetro lui. “Mah, forse una lieve zoppia potrà rimanere ma iniziando subito con la fisioterapia abbassiamo le probabilità di molto”. “Un attimo, posso davvero rimanere zoppo?”, Liam era attonito. Ma è un incubo in cui quello che penso diventa realtà o cosa?  

Sophie iniziò a spiegargli in cosa avrebbe consistito la sua riabilitazione, ma si rendeva perfettamente conto che non la stava ascoltando più. Non si preoccupò molto, succedeva spesso che i pazienti costretti a lunghe degenze inizialmente fossero storditi, sapeva che era tutta questione di ambientamento. Aveva calcolato di iniziare con i primi esercizi nel pomeriggio, ma pensò che qualche semplice rinforzo della muscolatura avrebbe potuto distrarlo.

 

Strimpellava con la chitarra già da un po’, il solito quaderno con la copertina nera aperto davanti, la penna abbandonata sul divano. Aveva una certa melodia in testa e qualche parola, ma faticava a metterle insieme. La strana sensazione provata il giorno prima, quella sensazione oscura, densa di angoscia, carica di un panico freddo ma allo stesso tempo rarefatta, quasi trasparente, era stata sostituita da un’ansia molto più terrena e concreta, determinata dal fatto che sua madre non era scesa a Londra solo per l’appuntamento con il signor Richardson ma anche per fare dei controlli approfonditi su un nodulo che si era scoperta al seno poco tempo prima. Testarda, autoritaria e indipendente com’era – da qualcuno Noel doveva pure aver ripreso – era assolutamente voluta andare da sola in ospedale, con la scusa che se fosse andato con lei, l’ospedale stesso si sarebbe riempito di fotografi e giornalisti. Noel sorrise ricordando la discussione con Peggy: “Non vorrai farmi finire sulla prima pagina di qualche giornale in camicia da notte, vero Noel?!”.

Il lieve sorriso si spense subito e la ruga che faceva da termometro delle sue preoccupazioni o delle sue arrabbiature, e che per anni era stata appannaggio quasi esclusivo di Liam, si fece ancora più marcata. Non andartene mamma. Ho ancora bisogno di te. Avrò sempre bisogno di te. Il pensiero di sua madre e quello di suo fratello si alternavano in una sorta di girotondo che di giocoso non aveva proprio niente.  Per quale cazzo di motivo te ne sei andato stronzo? urlò disperatamente nella sua mente.

Da quando Liam era partito quella era la prima volta che Noel ne sentiva veramente la mancanza. Quei quattordici mesi di lontananza erano stati talmente pieni di novità, preoccupazioni, sfide vinte, obiettivi raggiunti, sogni realizzati, che non aveva avuto neanche il tempo di rendersene concretamente conto. Era solo in quel momento così difficile per lui, con la persona più importante della sua vita che forse avrebbe perso prima del tempo, che avvertiva in pieno l’assenza dell’unica persona al mondo che lo avrebbe capito fino in fondo. E la sentiva in modo così acuto, così prepotente da risultargli quasi impossibile da pensare, come se tutti gli anni passati insieme nella stessa cameretta, a pochi centimetri l’uno dall’altro, li avessero resi in qualche modo dipendenti a livello viscerale, fisico.

C’era anche Paul, ovviamente, con il quale aveva condiviso tutta la vita, e Meg. Sapeva che anche loro avrebbero capito, che con loro avrebbe potuto parlare. Ma il punto era proprio questo: come ogni volta in cui di mezzo c’erano i sentimenti che provava, lui non aveva nessuna voglia di parlare; non riusciva neanche a immaginare di poter perdere Peggy, figuriamoci parlarne. Con Liam sarebbe stato completamente diverso invece. Si sarebbero aperti una birra davanti alla tv e senza neanche mezza parola, avrebbe saputo che lui capiva, che lui provava lo stesso dolore, lo stesso smarrimento, lo stesso senso di ingiustizia (Papà dovrebbe avere il dubbio di un fottuto tumore, non la mamma!) che sentiva lui. 

C’era anche un’altra sensazione, che Noel non riusciva a indagare fino in fondo, ma che si traduceva in una specie di parallelo fra la possibile perdita di chi lo aveva sempre protetto e la perdita oggettiva di chi lui aveva sempre protetto. Sentiva di aver mancato qualcosa nei confronti di Liam, come se in qualche modo l’avesse spinto ad andare via, come se avesse tradito la fiducia che il fratello doveva aver riposto in lui.

Erano pensieri strani, ai quali Noel non era abituato, pensieri e prese di coscienza che lo facevano star male ma che stavano producendo un risultato che conosceva, quello sì, perfettamente: a poco a poco, quelle parole sparse e quegli accordi che gli giravano in testa da ore iniziarono a prendere corpo, quasi materializzandosi davanti a lui. 

…con tutte le cose intrappolate nella mia mente … dimmi che resterai per sempre e un giorno, per tutto il tempo della mia vita … maledetta la mia situazione e i giochi a cui ho giocato … non andare via … sembra che sappiamo solo come mostrare i sentimenti sbagliati … non andare via … ho bisogno di più tempo per fare le cose giuste …
 






Ok ok ok …. So che Don’t go away non c’entra un emerito cappero con Liam, ma mi è capitato di riascoltarla in radio mentre pensavo a questo capitolo e non ho potuto non inserirla quella meraviglia!

In “Brothers: from childhood to Oasis, the real story”, la biografia scritta dal fratello Paul, viene spiegato che Peggy non venne ricoverata per il dubbio su un tumore, come titolarono tutti i giornali, ma per una forma piuttosto grave di pneumotorace. Dato che inserire questo particolare mi avrebbe procurato tutta una serie di complicazioni, ho lasciato la “spiegazione ufficiale”.

Approfitto per ringraziare di nuovo tutti voi che continuate a seguire. Un grazie speciale a chi trova il tempo per commentare, in pubblico e in privato … you are my Wonderwall!!!!

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12

Liam camminava per il corridoio del reparto. Piede destro. Piede sinistro. Avanzava lentamente, appoggiandosi con una mano alla parete. Si sentiva bene ma aveva imparato a sue spese che era meglio non fidarsi dei momenti di apparente benessere. Appena pensava di potersi permettere una velocità appena superiore a quella di una tartaruga centenaria ecco che qualcuno, spuntato da chissà dove, gli conficcava un coltello nel fianco sinistro, lasciandolo senza fiato. Erano passati circa due mesi dall’incidente, tre settimane da quando si era rimesso per la prima volta in posizione verticale, resistendo per la bellezza di sette secondi prima di accasciarsi di nuovo, e ben poco virilmente, sul letto.

Appena uscito dal corridoio girò a destra, trovandosi davanti un doloroso bivio: scale o ascensore? Ascensore, ascensore! Imploravano le sue ossa appena rinsaldate e i suoi muscoli ancora mezzi addormentati dalla forzata inattività. Non ti azzardare, eh?! A scendere prendi pure l’ascensore, ma a salire devi fare le scale, gli ordinava una voce che aveva imparato a conoscere bene negli ultimi due mesi. Una voce che poteva essere la più dolce del mondo, quasi fosse fatta di miele, ma che poteva trasformarsi nella più dura delle pietre un attimo dopo. La voce di lei. Ok, piccola, vada per le scale, sospirò tra sé e sé.

Dopo circa un secolo e mezzo – tanto gli era sembrato di metterci a salire quelle maledette scale – e con un fiatone da andare in iperossia, Liam si trovò davanti quella che era la sua destinazione: il bar dell’ospedale. Sapeva che avrebbe dovuto attraversare l’intera sala fino ad arrivare all’ultimo tavolino, giù giù, in fondo. Tanto per rendermi le cose semplici. Era lì che si riuniva sempre con le sue amiche che lavoravano nel reparto. Mentre si avvicinava vide infatti tre ragazze, solo su una tuttavia concentrò la sua attenzione. Quella più giovane e carina, quella con l’aria meno tipica del Canada, quella che sembrava appena uscita da scuola: la più graziosa e delicata delle tre. Quella che al grido di “Ommiodiocomesièfattotardimaperchèsonosempreinritardooooo?” quasi lo travolse alzandosi come una molla impazzita. “Ma cazzo, Sophie! Mi sono appena rimesso in piedi!”, “Oh Liam, scusami! Sono in ritardo!” schiamazzò lei, raccattando di fretta la borsa. “Lo so”. Percependo una nota stonata in quella risposta, Sophie si girò a guardarlo, Liam con aria canzonatoria continuò: ”E’ inutile che corri. Sei in ritardo per la mia seduta. Sono io il paziente che ti aspetta da un quarto d’ora”. Sophie abbozzò un sorrisetto, scorrendo mentalmente la sua agenda: “Mmmm, pare proprio di sì”.

E così, tempo qualche secondo, fecero a ritroso la strada che aveva percorso faticosamente Liam pochi minuti prima. “Ma che cavolo, non puoi usare le stampelle che ti abbiamo dato invece di trascinarti aggrappandoti al muro? Giuro che non ti si può guardare!”, “Io non uso nessuna fottuta stampella. E non mi trascino. Cammino, io”. Entrarono in ascensore e Sophie lo guardò sospettosa: “Non mi dire che l’hai preso anche prima!”, Liam alzò gli occhi al soffitto sbuffando:”No, ho fatto le scale. Ma lo sai che sei una rompipalle? Potresti sforzarti di essere un po’ più simpatica l’ultimo giorno!”. Sophie rise, rise di quella risata che a lui piaceva tanto. Ti illumini tutta quando ridi, avrebbe voluto dirle. “Ma quanto sei drammatico. “L’ultimo giorno”. Ti dimetteranno pure domani ma tanto se vuoi tornare a camminare decentemente ti aspettano almeno altre sei settimane di fisioterapia. Perciò rompo le palle quanto mi pare”. Liam sorrise. Gli piacevano quei battibecchi, gli piaceva parlare con lei.

Non sapeva esattamente quando aveva iniziato a piacergli. Forse quella volta che bloccato a letto ormai da due settimane, gli sembrava che sarebbe morto di lì a poco se non avesse respirato dell’aria vera e lei, solo guardandolo, senza che lui dicesse niente, aveva aperto la finestra, fregandosene dell’afa di agosto che aveva reso bollente perfino l’aria condizionata.

O forse quella volta che gli aveva chiesto, durante un esercizio particolarmente snervante: ”Te la senti di forzare un po’ di più?”; “NO - avrebbe voluto urlare lui, il sudore che gli incollava i capelli alla fronte e un dolore che gli faceva vedere le stelle - Non voglio forzare proprio un cazzo di niente! Voglio solo essere lasciato in pace!”. Ma poi i loro sguardi si erano incontrati e vedendola così concentrata, così sicura di quello che gli stava chiedendo, era stato capace solo di annuire.

O forse la prima volta che avevano pranzato insieme, proprio in quel bar. “Ma esci da questa stanza, adesso che puoi! – gli aveva detto lei – Te ne stai sempre rintanato qui. Hai bisogno di muoverti”, “Non me la sento di andarmene in giro ancora”, aveva chiosato lui, “Non devi andartene in giro, basta che vieni al bar di sopra, un paio di rampe di scale ti faranno solo che bene”, “Di sopra?! Ma ci metterò una fottuta eternità!”, “Ci metterai il tempo che ci metterai, a chi vuoi che interessi?”, “Ecco perché sei sempre in ritardo, Sophie”.

O forse la prima volta che l’aveva vista ridere.

Sophie invece sapeva esattamente quando tutto era iniziato. Era successo il giorno del loro primo incontro, quando era tornata da lui nel pomeriggio. Era in ritardo come al solito e si era quasi scontrata con un uomo che era evidentemente appena uscito dalla stanza in cui lei era diretta. Nello spostarsi per evitare la collisione le era caduta la pila di cartelle cliniche che doveva ancora compilare e che aumentavano ad ogni paziente con cui lavorava. L’uomo che aveva quasi investito l’aveva aiutata a raccogliere tutto, il tempo di qualche frase di circostanza e poi si erano salutati. Aveva aperto di corsa la porta della stanza e si era fiondata dentro, cominciando a blaterare di quanto riuscisse a perdere tempo senza sapere neanche il perché. Si era avvicinata al letto cercando tra le tante che aveva in mano la cartella di Liam e poi … E poi aveva alzato lo sguardo e aveva contemporaneamente avvertito distintamente il proprio cuore compiere una capriola. Aveva pensato incontrollabilmente, senza accorgersene, che non aveva mai visto, sul volto di nessuno, un azzurro così intenso, violento, ha gli occhi che ardono, letteralmente. Non sapeva perché la mattina non ci avesse fatto caso, non riusciva proprio a capacitarsene. Come ho fatto a non accorgermene? Sembravano più splendenti, più vivi, sembravano, no, erano, lucidi. Ha pianto? E poi allora è così che succede, è così che in un attimo ti cambia la vita. Da quel momento per lei era cambiato tutto anche se a vederla dal di fuori nessuno – men che meno lui, che la conosceva appena – l’avrebbe mai notato.

D’altra parte non poteva essere che così, nessuno doveva accorgersi di niente. Non sarebbe stato professionale nè etico e di sicuro non avrebbe giovato alla sua carriera mettersi a fare la svenevole con un paziente. Così si era limitata ad esserci. Era stata lì quando gli avevano permesso di provare ad alzarsi per la prima volta dopo un mese. Era stata lì quando aveva capito che tornare a camminare non sarebbe stato facile come aveva pensato. Era stata lì quando aveva avuto voglia di fare quattro chiacchiere. Era stata lì quando aveva lo sguardo perso fuori dalla finestra e quell’espressione di sofferenza dipinta sul viso. Era stata lì e basta, con una assiduità un tantinello strana, ridacchiavano le amiche, ma lei assicurava che lo faceva solo perché sembrava così solo, perché era lontano dalla sua casa. E teneva per sé la voglia di accarezzargli il viso. E si sforzava di pensare solo a ossa, tendini e muscoli quando avrebbe voluto solo concentrarsi su occhi, capelli e pelle.

Sophie aveva anche ben presto capito che c’era qualcosa che non andava nella vita di Liam, anche perché si sarebbe aspettata da un ragazzo così giovane un via vai di amici e soprattutto la presenza quasi continua di familiari ... la mamma, il papà … e invece in quasi due mesi di degenza aveva ricevuto pochissime visite; va bene, non era di lì, ma esistono gli aerei e l’Inghilterra non era certo su Marte! No, Sophie ne era certa: doveva essere successo qualcosa, qualcosa che andava al di là del suo problema con alcool e droghe (lui gliene aveva parlato tenendo gli occhi bassi, come se stesse rivelandole un gran segreto ma a lei, pur  apprezzando il valore di quella confidenza, era venuto quasi da ridere: lo sapeva chiunque avesse accesso alla sua cartella clinica, dove erano registrati i risultati delle analisi fatte quando era stato portato al Pronto Soccorso la mattina dell’incidente).

Una delle persone che gli avevano fatto visita era stato John. Quando Liam l’aveva visto entrare nella stanza, il giorno dopo quella ridicola sceneggiata che l’aveva portato quasi ad ammazzarsi, aveva provato l’impulso di scappare. E l’avrebbe probabilmente fatto se non gli fosse stato impossibile anche solo mettersi seduto. Così fece quello che aveva sempre fatto in situazioni simili: indossò la maschera dell’attaccabrighe arrogante. “Come ti senti?” chiese gentilmente John, mentre si sedeva sull’unica sedia a disposizione. “Piantala con i convenevoli. Sappiamo entrambi perché sei qui” attaccò ostile Liam.

John sospirò. Avesse avuto dieci anni di meno, ci sarebbe stato da prenderlo per un orecchio e dargli una bella scrollata. Gli era preso un colpo quando l’aveva visto per terra, con gli occhi sbarrati che sembravano non vedere niente e nessuno, dopo un volo di oltre tre metri. Era sempre molto scrupoloso quando si trattava della sicurezza dei propri operai, si sentiva in un certo senso responsabile per loro, non gli era mai successo niente del genere. Quel ragazzo era davvero una mina vagante. Non era stato sempre così, i primi mesi erano filati lisci come l’olio, ma poi era cambiato drasticamente. “Se vuoi che me ne vada lo faccio subito”. Con quattro figli era abituato a gestire i capricci dei ragazzini. Liam pensò confusamente che non era quello che voleva, solo che … si vergognava, si vergognava da matti. E si sentiva in colpa. Scusati! Scusati subito! Sentì la voce risoluta della mamma. Non importa sbagliare, capita a tutti, l’importante è capirlo e chiedere scusa. Questo gli diceva sempre sua madre ma lui non era mai stato capace di farlo. E anche quella volta non fece eccezione, quelle poche sillabe gli rimasero tristemente in gola.

“Fai quel cazzo che ti pare” fu la rasoiata che gli uscì al loro posto. Di nuovo, non avrebbe voluto dirlo, ma ormai l’aveva fatto e per lui non c’era modo di correggere le proprie parole, non sotto lo sguardo limpido, onesto, di John. “Va bene. Visto che posso fare quel cazzo che voglio, lo faccio volentieri. Tanto per cominciare, sei licenziato. Poi da oggi con le tue lettere ci puoi fare degli aereoplanini e provare a lanciarli dalla finestra, se sei fortunato con i venti magari a Manchester ci arrivano. E ti dico una cosa che so già che ti entrerà da un orecchio, girerà per il vuoto cosmico e poi uscirà dal naso: tornatene a casa. Appena sarai in grado di reggerti in piedi, prendi il primo aereo e parti. Vai da tuo fratello e parlaci. Non per riprenderti la tua vita, quella gliel’hai regalata e ormai è sua, ma per risolvere il casino che hai creato. Sempre che quel poveraccio abbia ancora voglia di sentire le tue stronzate”. John si alzò dalla sedia, aprì la porta e prima di uscire chiudendosela alle spalle si voltò e gli disse: ”Crescere. Si chiama crescere, Liam”.

In condizioni normali Liam si sarebbe arrabbiato, anzi, infuriato. Avrebbe iniziato a tempestare in giro, spaccando tutto quello che poteva, anche e soprattutto lo sventato interlocutore che si era permesso di parlargli così. Ma in quella situazione, in cui doveva sforzarsi anche solo per respirare, non c’era nessun fuoco a divampare e si sentì improvvisamente stanco, molto stanco. Gli sembrava che avrebbe potuto disintegrarsi da un momento all’altro tanto si sentiva esausto, privo di forze. E fu in quel momento che successe qualcosa di strano, qualcosa che non accadeva da molto, moltissimo tempo.

L’immagine della porta chiusa pochi momenti prima da John si fece confusa, tremolante, poi si sciolse totalmente scivolando via in due lacrime, una per occhio. Rotolò per gli zigomi, passò per le guance  e morì sulle labbra socchiuse. Se le asciugò passando rapidamente le mani sul viso, mentre già altre lacrime premevano per uscire. Il pensiero di tornare a casa si fece largo prepotentemente acuendo la sensazione di solitudine e disperazione. Con gli occhi della mente si vide aprire la porta di casa e riabbracciare sua madre e i suoi fratelli, mentre qualcosa di caldo gli si accendeva dentro, qualcosa di dolce, qualcosa che lo faceva sentire protetto e al sicuro. Ma subito dopo si fece di nuovo buio, e fece di nuovo freddo. E le lacrime si seccarono completamente. Non posso, non posso farlo.

Mentre la stava ancora fissando, la porta si aprì di nuovo. Per un attimo pensò che John fosse tornato indietro, pronto a dargli un’altra possibilità che lui si sarebbe di nuovo fatto scappare, ma si sbagliava. Era la fisioterapista che aveva conosciuto qualche ora prima.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13

Fissava impalato l’entrata di Abbey Road. Non era mai stato particolarmente sentimentale, men che meno lo si poteva definire romantico, ma stare davanti agli studi in cui avevano registrato i Beatles gli faceva sempre un certo effetto, doveva ammetterlo. Si sorprese a pensare a quel tardo pomeriggio di qualche anno prima, quando si era seduto, aveva acceso la radio e si era goduto il passaggio di Columbia, allora ancora su demo. Era la prima volta che una sua canzone veniva trasmessa e aveva pensato:”Beh, almeno a questo ci sono arrivato”. E adesso eccolo, solo una manciata di anni più tardi, pronto a registrare il suo terzo disco, proprio lì dove erano passati i suoi amati Beatles. Quasi un passaggio di testimone. Sorridendo fra sé e sé varcò la soglia.

Dopo il successo dei primi due, il mondo intero non si sarebbe certo accontentato di un disco qualunque. E Noel lo avrebbe fatto felice, quel pazzo, folle mondo che si era totalmente piegato a tutti i suoi desideri incoronandolo miglior compositore della propria generazione, simbolo vivente della rinascita del rock’n’roll inglese, della Cool Britannia, del Britpop, regalandogli il disco più monumentale e fottutamente rumoroso della storia. Aveva pronte già un bel po’ di canzoni, scritte sull’isola di Mustique, dove era andato in vacanza con Meg, Johnny Depp e Kate Moss quando per sua madre era stato scongiurato il pericolo di un tumore. Era una sorta di nuovo inizio per lui, una specie di album solista, a dirla tutta. Sì, c’erano ovviamente Bonhead, Guigsy e Alan ma… come dire…. non è che dessero questo gran contributo musicalmente parlando, Alan era anche dotato di un certo talento ma gli altri due…. Che ci fossero loro o qualsiasi altro non avrebbe fatto alcuna differenza. La differenza che avrebbe fatto invece suo fratello, ma ormai Noel si era convinto, rassegnato, tranquillizzato – non aveva idea di quale fosse il termine più corretto – del fatto che Liam non sarebbe più tornato, non per fare dischi almeno.

Tutto ciò che aveva provato qualche tempo prima, quella tremenda nostalgia, quel cocente rimpianto, quell’amaro senso di colpa, era stato frutto solo ed esclusivamente della paura e della preoccupazione per la salute di sua madre, Noel ne era sicuro. Noel se lo raccontava sempre. Anche mentre si stordiva con l’alcool. Anche e soprattutto mentre sniffava l’ennesima striscia della giornata.  Si sentiva bene, fottutamente bene, in quella vita da ricca rockstar, tutti lo volevano, tutti lo cercavano, poteva permettersi di dire le peggiori puttanate e più ne diceva e più famoso diventava e più i suoi dischi vendevano. Era pieno di soldi, più di quanti avesse mai pensato di vederne in tutta la vita, viveva in una casa fighissima e girava il mondo. Il tutto facendo l’unica cosa che sapeva e amava fare.

La prima cosa che vide entrando nello studio fu la pelata un tempo rosso fuoco di Alan McGee. Scuoteva la testa. Sprofondati, quasi nascosti, in un divano di pelle nera c’erano Owen e Bonehead, gli altri erano assenti ingiustificati. Noel alzò gli occhi al cielo. Problemi. Problemi del cazzo. Infatti. “Ah, Noel, giusto te cercavo!”. La voce del boss della Creation era stridula, qualche ottava sopra il suo solito. A Noel saltarono i nervi solo a sentirla. “Che c’è?”, “C’è che questa roba fa schifo!”, “Allora non è roba mia”. McGee lo fissò accigliato:”Senti, davvero non sono dell’umore giusto per i tuoi giochetti”, “Io non compongo niente che faccia schifo. Quindi non è roba mia”. “Invece sono cose tue e cazzi miei, purtroppo. E’ … è … è … sovraprodotto, non lo so … per dire, quante cazzo di parti di chitarra hai sovrapposto? Sette? Otto? E’ un casino!”, “Per la precisione dieci e se è un casino… beh, perfetto, era esattamente così che doveva suonare”.

McGee era furioso. Sapeva esattamente quale fosse il problema. Il successo, la fama, i soldi e tutto il loro malsano contorno … tutto era arrivato insieme e troppo velocemente e l’effetto finale era stato quello di una bomba. La dipartita di Liam la miccia che l’aveva fatta esplodere. Noel cominciava a non starci più con la testa, iniziava a mostrare i primi segni di una pesantissima tensione che probabilmente riusciva a tenere sotto controllo a stento. Le quantità di droghe che prendeva erano aumentate in modo direttamente proporzionale sia al crescere del suo successo sia alla facilità con cui poteva procurarsele. Ed era questo il segno perverso e indiscutibile che marchiava a fuoco la direzione che stava prendendo. La cosa peggiore era che non se ne accorgeva minimamente. Lui era davvero convinto di stare bene ma l’impressione che McGee aveva di lui guardandolo, era quella di una persona che sta affogando. Se almeno avesse vicino una persona con la testa sulle spalle invece di quella gallina drogata! Peggy abitava ancora a Manchester e probabilmente non vedeva suo figlio abbastanza spesso da rendersi conto di come stavano realmente le cose. E per quanto riguardava lui … beh, Noel era arrivato a quel punto della carriera in cui poteva permettersi di cambiare casa discografica praticamente a suo piacimento, anzi, avrebbe potuto tranquillamente finanziarselo da solo il disco e lui davvero, davvero, non poteva permettersi di perdere gli Oasis e tutta la carrettata di soldi che gli procuravano.

Ascoltando le prime produzioni delle nuove canzoni, le sue supposizioni si erano rivelate drammaticamente esatte. McGee lavorava da vent’anni nel mondo della musica e ne aveva viste abbastanza da esserne praticamente certo: quel disco, così come stava venendo fuori, non sarebbe piaciuto. Non solo non avrebbe venduto neanche lontanamente quanto (What’s the story) Morning Glory?, ma proprio non avrebbe raccolto i riscontri trionfanti che Noel si aspettava. Era preoccupato. Seriamente preoccupato. Aveva investito tanto su quel gruppo, sul talento di Noel… non poteva lasciare che andasse tutto a puttane. Certo, aveva previsto catastrofi anche quando Liam se n’era andato, ma stavolta era diverso, molto diverso. L’anno precedente, lui stesso si era dovuto dare una calmata e si era fatto ricoverare per disintossicarsi, perciò decise almeno di salvare il salvabile. Per prima cosa, bisognava dare una ripulita alla band, Noel in particolare, rendendogli almeno difficoltoso, se non proprio impossibile, avere accesso agli spacciatori. Via da Abbey Road, subito, il prima possibile. Troppo al centro di ogni cosa, reale e immaginaria. Poteva portarli nel Surrey, in aperta campagna, ai Ridge Farm Studios. Poi si sarebbe dovuto inventare qualcosa per indorargli un po’ la pillola, perché dalla reazione che Noel aveva avuto poco prima era sicuro come l’oro che non gliela avrebbe data vinta tanto facilmente.  Qualcosa sulla pressione dei fotografi sempre a caccia di qualche scoop poteva andare bene, Noel odiava avere gente intorno a spiarlo.
 




“… e sai, è così incredibilmente bello parlare con lui, ha una sua opinione su tutto e ha un modo di ragionare e di vedere le cose… non so, diverso, strano, ma in senso positivo. Dipende forse dal fatto che è di un altro paese?”. Sophie e Mary non erano a pranzo nel solito bar dell’ospedale, ma da Mood’s, locale del padre di Sophie, una sorta di tavola calda, avendo avuto entrambe lo stesso giorno libero. Davanti ai tramezzini di roast-beef e ai frappè al caffè, Sophie raccontava all’amica di quella relazione che stava nascendo piano piano, giorno dopo giorno, lentamente. “E’ così sicuro di sé, di quello che dice e pensa. Parliamo, parliamo, parliamo … sembra che gli argomenti non ci manchino mai”, “Della sua famiglia poi ti ha detto qualcosa?”, chiese Mary. “Praticamente niente, cambia subito discorso. E davvero non me la sento di fargli troppe domande in quel senso”, “Certo che è strano”, “Sì”.

Mary diede un morso al tramezzino e bevve un sorso di frappè: “Adoro il frappè di tuo padre, è così dolce e denso. Comunque, non capisco proprio perché continuare a raccontarvi a vicenda  questa balla dell’”amicizia”. Si vede lontano chilometri che siete innamorati persi”. Sophie arrossì violentemente e si finse occupatissima a mangiare, anche se neanche si rendeva conto di cosa stesse infilando in bocca. “Dai Mary, conosci la nostra situazione…” sussurrò guardando di sottecchi il padre che lavorava dietro il bancone. “Santo Cielo, quale situazione? L’ha finita o no questa benedetta fisioterapia???”, “Sì ma … non vuol dire, tutti sanno che è stato un mio paziente e …”, “Ma fai sul serio Sophie? Tutti chi? Chi vuoi che se ne ricordi? E anche se fosse? Che ci sarebbe di male?”. Già, che ci sarebbe di male? pensò Sophie e mentre pensava così si vide fra le braccia di Liam, così sveglio e amante della musica, con quell’accento che suggeriva re e castelli, poesia inglese e ribellione irlandese. Quegli occhi azzurri. Quella voce, musicale e profonda, un tantino aspra ma gradevole. Era una visione estremamente piacevole.

Quasi materializzato da quei discorsi, Liam entrò nel locale e si diresse verso le due ragazze che parlavano fitto. La prima a vederlo fu Mary: “Ciao Liam! Stavamo giusto parlando di te!” quasi urlò puntando nella sua direzione il cucchiaino che gocciolava frappè. Sophie spalancò gli occhi per la sorpresa e l’imbarazzo, ma si riprese subito, si voltò – lanciando contemporaneamente un’occhiataccia all’amica – e gli disse: ”Sì, le stavo raccontando di quanto mi hai fatta dannare durante le sedute, mi hai rimbambita con tutte quelle chiacchiere!”. Mary si alzò e fece per accomiatarsi: “Io devo andare ragazzi. Ci vediamo”. Con un tono deciso e un sorriso che a Mary sembrò d’intesa, Liam la salutò a sua volta per poi rivolgere a Sophie uno sguardo di totale e concentrata attenzione. E’ anche uno sguardo molto sexy, notò Mary. E’ un ragazzo dall’aria straordinariamente sexy.

E fu solo a Sophie che Liam rivolse uno dei suoi sorrisi caldi, radiosi, mentre sottovoce le diceva: “Buongiorno piccola”. Sotto quello sguardo, sotto quel sorriso pieno di magia, Sophie si sentì rimescolare tutta dentro. Si perse un secondo, un secondo di troppo, a osservare quel volto che le sembrava di vedere dappertutto quando non era con lui. Poi ricambiò il sorriso e con voce dolce gli chiese se era pronto per il colloquio con suo padre.

Sì perché dopo il licenziamento dal cantiere di John, il ricovero e la fisioterapia, Liam aveva bisogno di un lavoro. Anzi, Sophie si era spesso chiesta come avesse fatto a tirare avanti senza stipendio per oltre tre mesi senza mostrare mai un briciolo di preoccupazione e quando alla fine glielo aveva fatto notare, lui era caduto dalle nuvole. Ovviamente – ma questo Sophie non poteva certo saperlo – Liam aveva attinto al suo conto in banca e tutto preso com’era da lei e dalla fisioterapia che gli avrebbe permesso di ristabilirsi completamente, si era del tutto dimenticato  – oh cazzo! E’ vero! - che le persone normali hanno bisogno di lavorare per vivere . Le aveva risposto, eludendo abilmente la sua domanda, che si sentiva parecchio strano all’idea di tornare a fare l’operaio e che gli venivano i brividi al pensiero di salire nuovamente su un’impalcatura. Così per Sophie era stato naturale dirgli che a suo padre serviva una mano nel locale e che se voleva, poteva pensare lei a fissare un colloquio. “Sei una contraddizione vivente, sai piccola? Perennemente con la testa tra le nuvole ma piena di senso pratico. Ti adoro".

Ora, lì da Mood’s, Liam guardava Sophie con un’espressione per lei indecifrabile, un misto di ansia, eccitazione e preoccupazione: “A dire il vero mi sento un po’ nervoso. Non ho mai lavorato come cameriere”.

Non le disse che era nervoso perché aveva avuto la netta sensazione di essere seguito. E non le disse che quella settimana l’aveva avuta quasi tutte le volte che era uscito. Non le disse nemmeno di aver visto il riflesso di un flash sulla vetrina di un negozio, che si era voltato di scatto senza però vedere nessuno e che gli erano tornati in mente, in maniera vivida e violenta, i tempi in cui era inseguito da fotografi e giornalisti.

Non le disse niente di tutto questo e si lasciò semplicemente cullare dalle parole di lei: “Andrà tutto bene, non preoccuparti Liam”.
 


Capitolo un po’ di transizione un po’ no. Capitolo in cui ho gettato le basi per lo svolgersi degli avvenimenti futuri, per entrambi i fratelli. Noel con le tormentate registrazioni di Be Here Now e  quello stress che iniziava a consumarlo e che esploderà più avanti con gli attacchi di panico, e, dall’altra parte dell’Oceano, Liam, che si sta innamorando della sua Sophie ma che ancora non riesce a lasciarsi andare completamente. Soprattutto adesso che sa di essere stato trovato. Da chi? Beh, dai, è facile.

E’ vero che la prima canzone degli Oasis che passò in radio fu Columbia, è vero che Noel voleva fare di BHN il “disco più rumoroso della storia”, è vero che non venne capito (Noel stesso lo odia), è vero che alla lunga non vendette quanto si sperava (anche se le vendite furono comunque di svariati milioni eh! Una decina se non ricordo male); è vero che durante la registrazione girava moltissima droga e che McGee era moooooooolto preoccupato. E’ vero anche che andò in rehab l’anno precedente e che prese tutto il gruppo e lo trasferì di peso nel Surrey, ufficialmente per la pressione dei paparazzi.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14

Dalmeny

Dopo essersi sfilato il grembiule blu scuro (“Un grembiule? Ma porca miseria, sembro mia nonna!” aveva pensato il primo giorno di lavoro da Mood’s, tempo prima) Liam si rimise il maglione e il pesante piumino bianco e uscì nell’aria freddissima e ghiacciata del Dicembre canadese. Il cielo era scuro da diverse ore ma le strade sfavillavano di lucine colorate: la piccola Dalmeny si preparava a festeggiare il Natale 1996, ormai alle porte.

Camminava veloce, mentre la neve fresca scricchiolava sotto ogni suo passo e il suo respiro si trasformava in nuvolette bianche, gli occhi erano resi appena lucidi da quell’aria gelata, quasi elettrica. Si sentiva leggero, mentre salutava e veniva salutato da quasi ogni persona che passava, erano lontani i tempi in cui viveva appartato, con la voglia di scappare invece che di socializzare con gli abitanti della minuscola comunità che gli era capitata in sorte quando aveva scelto di andarsene. Erano lontani quei tempi che ricordava come un tunnel lungo e buio, in cui usciva dal suo monolocale solo per andare al cantiere e gli sembravano distanti anni luce, anche se temporalmente erano in realtà più vicini, i mesi in cui passava la notte a devastarsi facendo la spola fra gli unici tre pub di zona. Scosse la testa, quasi a scagliare via lontano quei ricordi, non aveva nessuna voglia di intorbidirsi i pensieri, non quella sera, non di nuovo.

Meglio pensare a Sophie. Doveva decidersi a parlarle, lo sapeva. Più tempo avrebbe aspettato, più rischiava di farsi sfuggire di mano il tutto. Gli era sempre più difficile comportarsi normalmente in sua presenza, da “amico”. Gli era ormai quasi impossibile mostrarsi indifferente quando gli raccontava cosa aveva fatto la sera precedente e magari nel racconto si intrufolava pure quella testa di cazzo, quello Steve Vattelapesca, il suo ex storico. Oppure quando gli parlava di qualche nuovo paziente e lui non poteva fare a meno di pensare che avrebbe messo le sue mani sulla pelle dell’imbecille che si era rotto qualche stupido osso mentre avrebbe fatto meglio a rompersi la testa. Anche in quel momento, mentre ci pensava, sentiva ribollire il sangue.

Non riusciva a capire perché continuasse a rimandare. Di cosa cazzo devo avere paura? In compenso la situazione si era andata anche complicando. Non era uno stupido e sapeva che l’avevano trovato. Per quasi un mese qualcuno lo aveva seguito e probabilmente anche fotografato. Quando vivi anche per breve tempo l’esperienza di avere fotografi che si appostano in ogni dove solo per beccarti mentre – strafatto -  vieni buttato fuori da un locale, impari a riconoscere la sensazione di essere spiato. E questo aumentava la sua fretta di dire a Sophie chi era in realtà prima che lo scoprisse da sola guardando la televisione. Bisogna che mi sbrighi. Fanculo a tutte le paranoie da fighetta! Girato l’angolo, Liam intravide la sagoma ormai familiare della casetta bianca, al cui interno Sophie si stava dando un gran da fare.

Quel giorno aveva passato una quantità di tempo davvero considerevole a progettare e modificare vari menù, e a progettare e modificare i suoi piani su come avrebbe dovuto vestirsi per la serata che aveva in mente. Alla fine si era costretta a desistere in entrambe le occupazioni e si era detta che sarebbe andata benissimo una qualsiasi cenetta e un qualsiasi abbigliamento: cavolo Sophie, dopotutto è solo Liam. Ecco, il punto però era proprio quello.

Il loro rapporto era sicuramente cresciuto, diventando molto più profondo e articolato di quanto lei avesse potuto sperare agli inizi, però, però … non si muovevano di un centimetro. Sapeva, e lo sapeva perché se lo sentiva, nel cuore, nella pancia, nella testa, nelle vene, che il loro era un legame di quelli forti, di quelli destinati a durare, di quelli che ti fanno vivere e respirare e ardere dentro, ma allo stesso tempo avvertiva chiaramente, in maniera forte, decisa, una certa ritrosia da parte di lui, e avvertiva altrettanto chiaramente che quella diffidenza non aveva niente a che vedere con lei, con loro. Era innamorato, lo sapeva, almeno quanto lei lo era di lui, lo aveva capito da tanti particolari, da quanto la cercava, da come la guardava, da come le parlava, sempre con quella luce negli occhi e quel modo di farla sentire al centro di ogni cosa, al centro di tutto. Capitavano momenti in cui smettevano di parlare e si guardavano e sembrava che stesse per accadere qualcosa o che almeno il mondo si stesse fermando ma poi… tutto riprendeva uguale e a lei sembrava che quell’attimo in cui tutto si era cristallizzato, quasi scomparendo, fosse accaduto solo nella sua mente. Lui non sembrava geloso e neanche curioso delle altre persone che potevano essere presenti nella sua vita, come si suppone che sia quando si è innamorati. E in effetti lei era gelosa, anzi di più, lei odiava tutte le ragazze che lui aveva avuto in quel periodo folle, precedente al loro incontro. E se lui le avesse ancora frequentate? Si vedevano spesso ma non stavano sempre insieme. Sophie quasi non riusciva a pensare all’eventualità che lui fosse toccato, accarezzato, baciato, da qualcuna che non fosse lei.

Toccarlo, accarezzarlo, baciarlo… quante volte era stata a un passo dal farlo ma quel qualcosa che sembrava tenerlo lontano da lei e che lei non riusciva proprio ad immaginare cosa potesse essere, la faceva sempre desistere. Ma quella sera no. Quella sera sarebbe stata diversa. L’anno stava per finire e lei non voleva iniziarne un altro con ancora quella situazione strana, ambigua, senza un colore preciso. E’un pensiero decisamente stupido, Sophie, disse una vocina nella sua testa. Ah sì? Non me ne frega un cazzo. Bene, adesso iniziava anche a parlare come lui.

Si era fatta un lungo bagno caldo, dal quale era emersa tutta liscia e profumata. Biancheria intima di seta. Vestito nero. Durante l’attesa il sangue le scorreva rapido nelle vene, il cuore le batteva forte per l’ansia. Poi aveva sentito quei passi noti, decisi, inequivocabili. Liam faceva i tre gradini del suo porticato sempre di corsa. Il bel Liam, con il suo piumino bianco, quelle fossette appena accennate e gli occhi grandi, luminosi, intensi. Liam che la prese fra le braccia e la baciò di un bacio che sembrava non finire mai mentre i loro corpi aderivano per intero l’uno all’altro. Oddio Sophie, stai delirando. Ovviamente Liam l’aveva salutata con il solito bacio sulla fronte e un abbraccio veloce, frettoloso. “Non sono in ritardo. Ti offendi?”, le aveva chiesto ridendo, mentre la sorpassava per entrare in casa.

All’interno tutto era come l’ultima volta che c’era stato, solo un paio di giorni prima. La grande stanza che fungeva da ingresso, soggiorno e cucina era ordinata e pulita come sempre, con le pareti dipinte con i colori caldi del sole che si sposavano a meraviglia con il lucido parquet di ciliegio e gli addobbi dorati dell’albero di Natale. Eppure … c’era qualcosa di diverso, Liam lo avvertì subito, appena entrato. Non era propriamente una sensazione negativa, quanto più una tensione, un senso di attesa, come di qualcosa che stava per succedere, ecco. Iniziò a sentirsi nervoso, la qual cosa risultò parecchio disturbante per uno come lui, che raramente si sentiva a disagio. Seduto su una sedia della cucina, guardava Sophie che cicaleggiava come sempre, ma anche qui … non riusciva ad inquadrare cosa, ma c’era un che di diverso. La trovava bella come al solito, mentre si muoveva aggraziata tra i fornelli e il tavolo, quasi senza fare rumore. Parlava e rideva e chiedeva e rideva di nuovo ma … ecco! Ecco che c’è! Sembra intimidita. Sophie timida? A Liam venne da ridere. La timidezza era un tratto che davvero non le apparteneva. Sensibile sì, delicata pure ma timida … no di certo. Il senso di disagio diminuì e aumentò la curiosità.

Mentre Liam era perso nelle proprie congetture, Sophie aveva in mente una cosa e una cosa soltanto: seguire con l’indice il contorno della sua bocca. Sfiorargli semplicemente le labbra, subito.  Sorrise. Si voltò verso di lui. Vide che la stava osservando. Potè sentire il sorriso diffondersi su tutto il volto, sulla bocca e negli occhi. Lo fissò a sua volta. Pensò: ma perché non dovrei? Perché non toccarlo, e basta? Anche Liam sorrise di rimando. Trattenne un attimo il respiro prima di sussurare: ”Adesso però mi devi dire che c’è. Mi devi dire cosa ti ha fatta sorridere così”. Sophie gli si avvicinò. Il cuore le batteva forte. Chinandosi verso di lui che era ancora seduto con le braccia poggiate sul tavolo, allungò la mano e con un dito, molto lentamente, seguì il profilo esterno della sua bocca, quel piccolo, sottile rilievo, delicato e sensibile come un nervo scoperto. Morbido al suo tocco come già sapeva che sarebbe stato. “Ecco” disse. “E’ questo che ho appena pensato di fare”.

Liam respirava veloce ma sommessamente. Istintivamente, senza pensarci, si era alzato e aveva fatto un passo in avanti, avvicinandosi a lei. La sovrastava con la sua altezza e lei era costretta a tenere il viso sollevato, per poter continuare a guardarlo negli occhi, cosa che non avrebbe smesso di fare in quel momento per nessuna ragione al mondo. In un angolo remoto della coscienza lui sapeva esattamente cosa non avrebbe mai dovuto fare e ciò che stava accadendo rientrava a pieno titolo nella categoria. Non avrebbe mai dovuto permettere né a lei ne tantomeno a sé stesso di arrivare fino a quel punto, non prima di averle detto la verità su chi era, sul suo passato. Era come ingannarla, mentendole senza mentire veramente. Ma era poi così importante? Liam non ne era più tanto sicuro. Lei sapeva che c’era qualcosa che non le aveva detto, doveva essersene accorta, Liam ne era certo, non poteva esserle sfuggito con quella sua intelligenza viva, vibrante. Eppure lo amava ugualmente. E’ strano, pensava con quel barlume di lucidità che ancora gli rimaneva e che comunque lo stava abbandonando, è strano sapere tante cose l’uno dell’altra senza essersele mai dette, e sapere entrambi di esserne comunque al corrente. I loro volti si avvicinavano lentamente, mentre continuavano a guardarsi negli occhi, con i respiri affrettati, accelerati, che avevano già trovato un loro ritmo comune. Le loro labbra erano a pochi millimetri. Nel momento in cui lei si sollevò sulle punte per colmare quella distanza minima, lui le aveva già affondato una mano fra i capelli della nuca tirandola a sé, mentre con l’altra mano le premeva forte sulla schiena, schiacciandola di fatto contro il suo corpo. Fu un bacio lungo, cercato, voluto, continuato. Assaporando, conoscendo e riconoscendo, amando.

Quando si staccarono, fu naturale per entrambi incamminarsi verso le scale che portavano al piano di sopra, verso la camera da letto di Sophie, l’unica stanza in cui Liam non era ancora mai entrato. Lei fece per aprire la porta, ma poi si fermò per un istante e gli disse: “Mi fai così felice. Per come sei. Già ora. Sul serio”. Quella sensazione, promessa di un momento intenso e felice, goduto senza fretta, non li abbandonò per tutta la notte, nella piccola stanza color lavanda di Sophie, nel suo letto. Quella stanza che a entrambi sembrò un’isola lontana, calda, circondata da un mare di ghiaccio, dalla neve e dal buio fitto della notte.

Diverse ore più tardi, svegliandosi simultaneamente, guardarono tutti e due l’orologio: erano quasi le cinque del mattino. Una strana mezza luce filtrava dalla cittadina non ancora sveglia attraverso le delicate tendine della finestra. “Cazzo, le cinque! Ecco perché sto morendo di fame”. Fu Liam a dirlo, ma avrebbe potuto tranquillamente essere Sophie, che si svegliò completamente e si accorse di non aver mai avuto una fame del genere. “Vado a prendere qualcosa da mangiare. Tu aspettami qui”, gli disse alzandosi. Le piaceva l’idea di servirlo a letto. “No, tu non vai da nessuna parte senza di me” le rispose lui sollevandosi a baciarla. “Prepareremo qualcosa insieme”. E questo a lei piacque ancora di più.

Si alzarono compiendo gesti sorprendentemente familiari per due persone che non si erano mai svegliate insieme prima di allora, mentre girovagavano per la cucina e preparavano, fra un bacio e l’altro, degli enormi panini con quello che lei aveva con tanta cura preparato per cena. Sophie aveva i capelli in disordine, con la frangetta tutta spettinata, il viso era arrossato, l’accurato trucco degli occhi si era un po’ sfatto, ciò nonostante Liam non riusciva a staccarle gli occhi di dosso tanto la trovava bella. Continuando a guardarla, pensava. Pensava a cose che non avrebbe voluto pensare. A cose che non avrebbe voluto dire. A cose che invece sapeva di doversi anche sbrigare a dire. Mise giù il panino. “Sophie…”. Lei sorrise. “Sophie, ascolta. Conosci gli Oasis?”.

Sophie rimase interdetta. Ok, gli argomenti che Liam tirava fuori potevano essere molto più stravaganti ma insomma… dopo una notte del genere, dopo essersi sussurati le frasi più romantiche del mondo ed essersi accarezzati per ore facendo l’amore per buona parte della notte, non era del tutto normale mettersi per prima cosa a parlare di musica, no? Comunque, fece uno sforzo e cercò di seguirlo. “Eeehm… gli Oasis dici? S-sì, certo che li conosco. Chi non li conosce?”. “Ecco…”. Non sapeva come proseguire. Non era bravo con le parole. C’è qualcosa che non va, pensò Sophie. “Sai…”. C’è davveroqualcosa che non va. Posò il panino anche lei: “Che c’è? Ti piacciono? Vuoi andare a un loro concerto?”. Era frastornata, lo guardava con gli occhi spalancati, non sapeva che pensare. “No … sì … cazzo, hai presente il cantante?”, “Noel Gallagher, certo”. Liam si stava quasi per sentire male. E si sentiva ridicolo. Tutta quell’agitazione per cosa? In fondo non le aveva mai raccontato nessuna bugia. Semplicemente non le aveva raccontato tutta la verità sul suo conto. Non ci era riuscito. E Dio solo sapeva se ci aveva provato. ‘Fanculo. “Sì, Noel. E’ mio fratello”.

Sophie non afferrò subito. Ma qualcosa cominciò a girarle per la testa, qualcosa che aveva letto …. qualcosa di cui aveva sentito parlare tempo addietro … non riusciva a ricordare bene … una di quelle informazioni che si dimenticano ma per qualche ragione non si cancellano completamente … qualcosa riguardo a questi Oasis, e al loro cantante. Non quello di adesso, prima … ce n’era un altro prima … due fratelli… Fece un salto all’indietro, scattando in piedi e rovesciando la sedia. Liam ebbe un sussulto, non aspettandosi quella reazione da parte di lei. “TU! Tu sei… eri … il loro cantante!” .

Londra gennaio 1997

Furioso. Furibondo. Più incazzato di tutte le volte che era stato incazzato. Noel si sentiva una merda. Eh sì, perché solo una merda poteva provare quello che aveva provato lui quando gli era stato comunicato che avevano trovato il fratello, dopo una ricerca di quasi sette mesi, dopo una scomparsa di venti. Suo fratello. Il suo piccolo, dolce, indifeso fratellino. Sì come no.

Quando il signor Richardson aveva aperto davanti a loro tutto il dossier che riguardava Liam, riempiendo la scrivania di fogli, documenti e fotografie grandi come un foglio formato F4, Noel aveva iniziato a guardare fuori dalla finestra. E mentre sua madre pendeva dalle labbra del tizio obeso e mezzo calvo che non avrebbe mai dovuto trovarlo, che avrebbe dovuto fallire, lui aveva continuato a tenere ostentatamente lo sguardo sui tetti dei palazzi vicini.

Non avrebbe dovuto trovarlo questo signor Richardson del cazzo. E’ così che sarebbero dovute andare le cose. Tanto Liam prima o poi sarebbe tornato, di questo Noel era più che sicuro. Perché dargli tutta quest’importanza? Quando avrebbe deciso che ne aveva avuto abbastanza, Liam sarebbe tornato. Perché suo fratello era fatto così. Perché suo fratello non era altro che un ragazzino viziato che batteva i piedi per terra finchè non aveva ottenuto quello che voleva. Aveva voluto dimostrare non si sapeva bene che cosa e comunque aveva cercato di far sì che lui, Noel, implorasse il suo ritorno perché incapace di proseguire senza di lui. Quello era stato il piano del suo fratellino. Quello e non altro. E si aspettava, oh, sicuro che se lo aspettava, che l’avrebbero cercato, figuriamoci se la mamma avrebbe resistito ad aspettare chissà quanto tempo il suo figlioletto preferito, che lei considerava ancora, nonostante il metro e ottanta di altezza e i 24 anni suonati, un bambino. Un bambino innocente da proteggere dalle insidie del mondo. Ma figuriamoci. Casomai è il mondo che deve essere protetto dai capricci di Liam. Ma perché? Per quale cazzo di ragione – si chiedeva Noel – alla fine doveva sempre riuscirci? Perché alla fine Liam otteneva sempre, sempre, sempre, tutto quello che voleva senza il minimo sforzo?

Poteva già prevedere quello che sarebbe successo da lì a poco tempo. Tutta la sacra famiglia sarebbe andata a riprendere il figliol prodigo in quel cazzo di posto in culo al mondo … che poi che razza di figliol prodigo era se andavano loro a prenderlo e non era lui a tornare? Ma capirai, sua madre non si sarebbe posta minimamente il problema. E lui lo avrebbe di nuovo avuto fra le palle nella band, come se niente fosse successo. Già se lo vedeva Noel, a sparare minchiate nelle interviste. Sono andato alla ricerca di me stesso, ma siccome non ho trovato niente ho deciso di benedirvi di nuovo con la mia presenza … Ma lui non voleva, non voleva assolutamente riaverlo nel gruppo. Non voleva tornare di nuovo in secondo piano. Perché non importava che fosse lui a scrivere la musica, i testi, a mixare i dischi, a prendere ogni singola decisione e a caricarsi il peso di tutte le responsabilità … no, non importava, non era mai importato. Alla fine l’immagine, la faccia degli Oasis sarebbe tornata ad essere quella da schiaffi di Liam, che non faceva altro che cantare e combinare casini e scopare e ubriacarsi. E non era giusto. Non era giusto.

Mentre quell’incompetente del signor Richardson che non era stato in grado di leggere nei suoi desideri più nascosti, più reconditi, continuava a parlare di Canada, signore anziane, cantieri, incidenti, ospedali, tavole calde (e se fosse stato di un altro umore sarebbe stato anche divertente per Noel provare a dare un senso a quell’ammasso di parole, ad esempio, che ci faceva la parola “cantiere” in una frase in cui c’era anche Liam, lui che non aveva mai faticato in vita sua?) Noel si faceva sempre più scuro in volto, sempre più insofferente. Ho bisogno di una striscia. Adesso.

Finalmente quella tortura finì e per Noel fu un sollievo trovarsi di nuovo in macchina, anche se sua madre non faceva altro che guardare una foto enorme di Liam preso in primo piano. Forza, facciamola finita. “Quando vuoi partire?” chiese a sua madre. “Ho il treno domani mattina, non te lo ricordi?”. Noel sbuffò. “Non per Manchester. Per andare a prendere Liam. Sai che stiamo registrando, devo saperlo per tempo, per potermi organizzare”. Per potermi sballare per bene così da non capire un cazzo. Peggy rimase interdetta, non aveva neanche pensato a quella eventualità. “Ma io non ho nessuna intenzione di andare a prenderlo, Noel. Non ho mai detto niente del genere. Tornerà da solo quando se la sentirà. Io volevo sapere dov’era e come stava realmente. Adesso che lo so e che ho la possibilità di contattarlo se dovesse servire, per me va bene. Ha anche ricominciato a scrivere lettere decenti”.

Noel, una volta tanto, rimase senza parole. “Non vuoi andare da lui?”, “Non voglio forzarlo a tornare. So che sta bene. E questo mi basta. Francamente tesoro, se tu vuoi andare da lui - ”, “No, no, no! Hai ragione, non ha senso andarci”. A Noel quasi non sembrava vero. Cambiò subito umore tornando ad essere il solito Noel ciarliero. Dentro di sé continuava a pensare che non sarebbe stato costretto a riprenderlo nel gruppo. Non sarebbe stato costretto a nessun passo indietro per fargli di nuovo spazio. Niente più risse. Niente più litigate per motivi assurdi. Niente più Liam.

Niente più Liam.

Era quello che voleva, no? Quella rabbia cieca era scomparsa all’istante, quindi sì, era quello che voleva.

Niente più Liam. Senza nessun dubbio era quello che voleva.

E quel qualcosa che gli si era spezzato dentro era solo frutto della sua fottuta fantasia.
 


Ciao a tutti! Vado subito al sodo: so che Noel qui sembra psicolabile, ma il mio intento era quello di rendere evidente quanto il loro rapporto sia contorto. Trovano Liam? S’incazza. Capisce che non è comunque costretto a rivederlo? Si rattrista. Non so se ci sono riuscita.
Quando Liam ha la sensazione di essere stato ritrovato pensa automaticamente a qualche giornalista, essendo ovviamente all’oscuro della storia dell’investigatore.
Ah, volevo sottolineare un particolare che pensavo non servisse sottolineare, ma lo faccio perché mi è stata fatta notare quella che sembrava un’incongruenza: perché Liam manda lettere e non semplicemente delle mail? E soprattutto com’è che nessuno lo riconosce quando su Internet si trova di tutto? Ora, so che voi siete svegli e manco vi siete posti il problema, ma lo spiego comunque: semplicemente perché il tutto si svolge in anni in cui Internet non c’era! 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15.

Dalmeny, 21 settembre 1997

Sophie teneva il regalo per Liam con due mani mentre si guardava intorno per il soggiorno cercando il posto migliore per farglielo trovare. L’idea le era venuta mesi prima ma aveva impiegato diverso tempo per decidersi, aveva paura di fare la scelta sbagliata, di forzarlo quando invece voleva solo incoraggiarlo. Non c’era nessuna ragione per abbandonare proprio tutto tutto della sua vecchia vita, qualcosa poteva sempre tenersela, no? Provò ad appoggiarla sul divano ma non le piaceva, così in penombra. Fece una pila di libri sul tavolino e l’appoggiò lì, era in equilibrio precario ma con un po’ di fortuna avrebbe resistito alla forza di gravità. “Ok, qua è perfetta. Adesso devo solo aspettare il festeggiato” pensò guardando il piccolo orologio da polso. Considerando che Liam aveva appena finito il turno calcolò che sarebbe arrivato dopo qualche minuto, visto che Mood’s distava da casa loro poche centinaia di metri.

Ma Sophie, che pure era una ritardataria cronica, non sopportava di aspettare alcunché, soprattutto quando era impaziente ed eccitata come in quel momento. Prese al volo una sciarpa di stoffa leggera e gli andò incontro. Girò l’angolo e lo vide subito, con quella camminata che era un suo segno distintivo e che neanche tutta la fisioterapia fatta l’anno precedente era riuscita a modificare, Liam giurava e spergiurava di aver sempre camminato così, ma Sophie non se n’era mai convinta del tutto. Gli andò incontro sorridente mentre lui sorridendo a sua volta allungava il passo per raggiungerla prima ma Sophie lo spiazzò: erano arrivati uno di fronte all’altra quando lei lo superò di un passo, gli girò intorno e con una mossa veloce lo bendò con la sciarpa. “Ma che cazzo …?”, “Dai non protestare, è una sorpresa, muoviti!” gli disse mettendogli le mani sui fianchi e iniziando a spingerlo verso casa.

Procedettero per un po’ così, Liam davanti e Sophie dietro a dirigere i suoi passi resi insicuri dalla momentanea cecità, battibeccando come sempre. Incrociarono un paio di vicini di casa che li salutarono divertiti: “E’ il suo compleanno" disse Sophie a mo’ di spiegazione continuando ad avanzare. “Ah sì? Buon compleanno allora Liam. Quanti anni compi?”, “Venticinque” rispose lui girando la testa in direzione della voce della vicina, in maniera del tutto naturale, come se stesse avendo con la signora una normalissima conversazione davanti una tazza di tè invece di essere bendato e spintonato malamente. In qualche modo riuscirono ad arrivare a casa. “Ti ricordi che ci sono tre gradini?”, “Non mi spingere così, sembri un fottuto toro a Pamplona!”, “Ma sei lento!”, “Sono bendato Sophie!”, “Ti dico io dove devi andare, con tutta la fatica che mi è costata rimetterti in piedi figurati se non sto attenta!”, rispose lei mentre apriva la porta d’ingresso e lo dirigeva verso il soggiorno. “Ecco, fermo qua … no, non qua, un po’ più a destra … perfetto. Sei pronto?”, “Dai, vediamo che ti sei inventata”. Sophie gli tolse la sciarpa, lui battè un po’ le palpebre per riabituarsi alla luce e … restò a bocca aperta.

Una chitarra. Una Gibson J-200. “Ti piace?” gli chiese sottovoce Sophie. Liam non rispose subito, intento com’era a guardare la chitarra e a respingere tutta una serie di ricordi, dolorosi come spine, che cercarono istantaneamente lo spazio per riaffacciarsi alla sua memoria. “Che … - si schiarì la voce – … che dovrei farci con una chitarra Sophie?” le chiese quasi bisbigliando. “Che razza di domanda, la suoni no?” rispose velocemente lei, fintamente allegra, mentre dentro aveva iniziato a tremare.

Quando, quasi un anno prima, Liam le aveva raccontato tutta la verità su di sé, Sophie aveva faticato non poco a capacitarsene. “Dunque, ricapitoliamo – gli aveva detto ad un certo punto – Tu eri il cantante degli Oasis, avevate già pubblicato un album e stavate incidendo il secondo. Un giorno litighi con tuo fratello e decidi su due piedi di andartene in un posto in cui non ti conoscesse nessuno. Giusto?”, “Beh, manca il tentativo di mio fratello di spaccarmi la testa con una mazza e più o meno un milione di altre ragioni ma diciamo di sì”, “Quindi stanotte ho fatto l’amore con una rockstar” concluse meditabonda Sophie. “Non lo sono da più di un anno e mezzo veramente”. “C’è una cosa che non capisco però. Perché hai dovuto per forza mollare tutto? La fama, il successo, i soldi … Perché? Non potevi semplicemente chiarire con tuo fratello?”, “Tu non conosci Noel. E non conosci neanche me a dire il vero”, “Credo di conoscerti molto più di quello che pensi”, “No, tu non hai idea del punto a cui posso arrivare quando sono pieno di alcool e droga, e allora lo ero continuamente. Ti assicuro che non ti sarei piaciuto neanche un po’”.

Aveva poi proseguito raccontandole delle canzoni di Noel e di quanto lui amasse cantarle, di quanto gli piacesse stare su un palco, della sensazione di aver finalmente trovato il suo posto nel mondo. Le aveva anche detto di come fosse Noel a tenere le redini del gruppo, di quanto cercasse di controllare anche lui, di quanto lui avesse cercato di ostacolarlo in quel senso, facendo tutto il possibile per sfuggire a quel controllo che in quel momento, a posteriori, non percepiva più come una gabbia, come un guinzaglio, ma più come una sorta di scudo protettivo. “Da cosa pensi volesse proteggerti?” gli aveva chiesto Sophie. “Da un po’ tutta la situazione credo, probabilmente anche da me stesso”. Le aveva raccontato di come nell’ultimo periodo avesse avuto paura di perdere tutto, paura che poi aveva fatto da propulsore nella decisione di andarsene: meglio strapparsi il cuore con le proprie mani che stare inermi ad aspettare la fine.

“Mi vado a cambiare” le disse iniziando a salire le scale che conducevano al piano di sopra. Sophie ebbe un attimo di esitazione, ma poi lo seguì. E’ inutile fare finta di niente, prima o poi questo discorso deve affrontarlo. Appoggiata allo stipite della porta, lo guardò sedersi sul letto e rimanere fermo a fissarsi le mani, perso in chissà quali pensieri. Quella era l’unica parte di Liam alla quale lei non riusciva ad avere accesso. Provava ad entrare in punta di piedi, lui sembrava aprirsi un pochino, ma poi la ricacciava subito fuori. Decise di provarci per l’ennesima volta. Salì sul letto e lo abbracciò da dietro, appoggiandogli il viso sulla spalla.
“Dimmi a che pensi”. Silenzio. “Liam?”. Sophie notò un rapido movimento della mascella che gli indurì l’espressione e per un attimo ebbe paura di aver forzato troppo. Ma poi lui sembrò prendere una decisione e buttò fuori: ”Tu non puoi capire Sophie. Magari vista da fuori è la fottuta situazione più facile del mondo, ma per me che ci sto dentro non è così. Non ho nessuna voglia di stare a parlare di quello che è stato e di quello che cazzo poteva essere, perché è inutile”. “Ho fatto male a regalarti quella chitarra?”, “No, non è quello, è che … a che serve? Non faccio più parte di quel mondo ormai. Non ha più senso”, “Ma mi hai raccontato che stavi imparando a suonare. Mica suonano solo le rockstar eh? Puoi suonare anche solo per il piacere di farlo”. Liam scosse la testa sbuffando.

“Sembri uno struzzo” sbottò allora Sophie. “Stai nascondendo la testa sotto la sabbia. Non puoi continuare a scappare da quello che è successo. Due anni e mezzo fa hai preso una decisione. Forse hai preso quella giusta, forse quella sbagliata. Non lo saprai mai. L’unica cosa che sai è che quella decisione l’hai presa e ti ha cambiato la vita. Sta a te decidere in che senso. Non puoi tornare indietro, ma puoi andare avanti. Ma non andrai mai avanti fino a che starai sempre con la testa là. Eh sì caro, perché tu dici di non volerci pensare ma in realtà non fai altro tutto il giorno. Perché solo il fatto di non voler pensare a qualcosa presuppone che a quel qualcosa ci stai pensando eccome”.  Sophie aveva ragione, Liam lo sapeva. “Mi mancano” mormorò più a se stesso che a lei. “Anche qui ti complichi la vita da solo. Per forza ti mancano. Sono la tua famiglia. Perché ti ostini con quelle stupide lettere? Almeno telefona a tua madre! E comunque ormai sarebbe pure ora di rifarti vivo di persona no?” gli rispose Sophie. Qui Liam cambiò di nuovo espressione e quegli occhi azzurri che l’avevano fatta innamorare mandarono lampi di rabbia: ”Eh no. Questo no!”, “Oh Liam! Ancora con quella storia!”.

Liam era sicuro che qualcuno l’avesse trovato l’anno precedente, l’aveva anche detto a Sophie la mattina della sua “confessione”, come la chiamava scherzosamente lei: “Qualche idiota di giornalista ha scoperto dove sono, mio fratello ormai è troppo famoso perché i giornali si facciano scappare la notizia. Vedrai che fra poco qui succederà un casino”.  I giorni erano passati, poi erano passate le settimane e infine i mesi, ma non era scoppiato nessun casino. Inizialmente ne era stato sollevato, ma poi aveva iniziato ad irrigidirsi e alla fine si era proprio incazzato. Noel. C’entra lui, aveva deciso Liam fuori di sé. E’ lui che non mi vuole e chissà quanti cazzo di soldi ha tirato fuori pur di non far trapelare niente. Se mamma sapesse dove sono col cazzo che rimarrebbe a Manchester, correrebbe qui da me.

Quel giorno Liam non toccò la chitarra regalatagli da Sophie. Lei la tolse dal tavolino sul quale l’aveva sistemata e l’appoggiò in un angolo del soggiorno, ormai quasi certa che prima o poi Liam avrebbe capitolato.
Ripresero la loro vita quotidiana nell’insolitamente tiepida aria autunnale di Dalmeny, quell’aria tersa e profumata di pini, querce, aceri e pioppi, con le foglie di ogni colore possibile, dal verde al giallo, dall’oro al rosso. Sophie si era ripromessa di non riprendere più per prima l’argomento, avrebbe lasciato la palla a lui. Probabilmente fu la mossa giusta perché Liam non riusciva a staccare il pensiero dalla chitarra che sembrava aspettarlo, nell’angolo della casa che preferiva, sotto la finestra dalla quale si intravedeva il lago.

Un pomeriggio di qualche tempo dopo la prese in mano, la guardò da vicino e la rimise giù. Il giorno successivo si sedette sul divano e se la mise sulle ginocchia, mettendo le mani in posizione. Neanche il tempo di accorgersi di quello che stava facendo che le dita iniziarono a muoversi, quasi da sole. Prima incerte, poi sempre più sicure … qualcosa ricordava, dopotutto. Quando Sophie tornò dal turno del pomeriggio lo trovò così, nella stanza in penombra, chino sulla chitarra, intento a seguire una melodia che sembrava avere chiara nella mente ma che non riusciva a riprodurre come voleva. Non la sentì neanche entrare. Senza fare rumore Sophie salì al piano di sopra.

Londra, ottobre 1997

“Stronzi. Stronzi che scrivono stronzate” bofonchiò Noel tirando la rivista dalla copertina patinata dall’altra parte della stanza. Meg si scansò appena in tempo per non essere presa in piena faccia. “Giornalisti del cazzo”, continuò lui finendo in un colpo solo quel che rimaneva del liquido marroncino. “Se lanci anche quello m’incazzo Noel, mi incazzo di brutto” fece Meg togliendogli di mano il bicchiere di cristallo e sedendogli in braccio: “Se vuoi tirare qualcosa te la posso preparare io” ridacchiò lei, “Non posso – rispose Noel affondando il viso fra i capelli ossigenati di quella che qualche mese prima era diventata sua moglie – non sono passati neanche venti minuti dall’ultima”, “E dai, lo sai che non mi piace farmi da sola”, lo pregò con voce lamentosa cominciando a baciarlo sul collo. “A questo puoi rimediare facilmente. Basta che scendi di sotto e cerchi uno qualsiasi dei tuoi amici” disse Noel alludendo alla bolgia che folleggiava ubriaca e Dio solo sa che altro al piano terra di Supernova Heights, la sua super lussuosissima casa di Primrose Hill . “Vaffanculo Noel”, “Grazie, altrettanto”.

Le assurde previsioni di McGee si stavano avverando. Ok, il suo Be Here Now era stato un best seller istantaneo con un milione di copie vendute solo nella prima settimana e solo nel Regno Unito, ma non stava ricevendo le critiche positive che Noel si sarebbe aspettato dopo i trionfi di (What’s the story) Morning Glory? . E tutti davano le stesse motivazioni: superbia senza sostanza, troppo rumoroso, tronfio, le canzoni durano troppo … beh, anche per l’album precedente le recensioni erano andate maluccio quindi tutto sommato poteva pure essere un buon segno però … Noel sentiva che c’era qualcosa che non andava. In qualche recesso della sua mente sapeva che quei grandi imbecilli che di musica sapevano solo parlare avevano ragione, sapeva di aver sbagliato i conti, che tutta la baldoria fatta durante le registrazioni e soprattutto la spaventosa quantità di droga che era girata non poteva aver dato buoni frutti. Neanche spostarsi in mezzo al nulla nel Surrey era servito a contenerli, lui e tutto il resto del gruppo.

Ma cazzo, per una volta che si era voluto rilassare, che aveva voluto godersi il risultato di tutta quell’immane fatica, di tutto il suo lavoro – durante altro lavoro, comunque - perché doveva andare tutto storto? Perché doveva sempre stare attento a tutto e a tutti, perché non c’era nessuno che stesse attento a lui? Perché gli altri potevano folleggiare come pazzi tutto il giorno e tutta la notte e lui no? Perché lui non se lo poteva permettere, la risposta già la conosceva. Era luiThe Chief, era lui che aveva la responsabilità di tutta la baracca, lui e nessun altro. Che poi era una responsabilità che si era preso da solo, che , anzi, aveva preteso come moneta di scambio ( Io vi regalo le mie canzoni, il mio sapere di musica più di tutti voi messi assieme e le mie conoscenze nell’ambiente, voi mi cedete tutto il potere decisionale … beh, naturalmente non c’era stato niente di così diretto quando Liam era riuscito a convincerlo ad entrare nel gruppo, ma tutti tacitamente sapevano che l’accordo sarebbe stato quello, anche Liam. Soprattutto Liam) e tutto sommato Noel stesso l’aveva percepito come il giusto prezzo del successo, ma Cristo Santo, che altro avrebbe potuto fare? Se non ci avesse pensato lui a metterli in riga quei quattro imbecilli quando mai avrebbero sfondato? Le sue canzoni, le sue creature, da sole non sarebbero certo bastate senza un po’ di disciplina, senza un po’ di sudore. Già gliele lasciava suonare e per Noel era un po’ come farle violare considerando che il talento negli altri componenti degli Oasis non era certo eccelso, che almeno si regolassero un po’, che cazzo.

Il tour stava andando invece benone, sold out ovunque, era tornato da poco dagli Stati Uniti e a fine mese sarebbe ripartito per la Germania, ma anche lì … era tutto così stressante. Non erano i concerti a pesargli, quelli no, lui viveva, respirava per quei momenti sul palcoscenico, era tutto il contorno ad esasperarlo: le interviste, con tutte quelle domande così simili fra di loro in qualsiasi parte del mondo andasse, le ospitate in televisione dove tutti si affannavano a convincerlo a suonare in playback quando per lui era una specie di anatema, di offesa. Almeno a casa gli avrebbe fatto piacere rilassarsi un po’ ma con Meg e i suoi ritmi da festaiola perenne non era una cosa pensabile.

Noel cominciava a nutrire seri dubbi sulla solidità della loro storia ed era davvero una cosa da ridere considerando che erano sposini novelli. Non ricordava molto né della decisione di sposarsi né tantomeno della cerimonia. Aveva ricordi molto nebulosi di una serata a Las Vegas in cui invece di andare a sperperare un po’ del suo patrimonio in giro per casinò come qualsiasi trentenne multimiliardario (merda, già trent’anni!) si era ritrovato in quella assurda cappella a giurare amore eterno a Meg. Amore eterno. Noel si era sempre chiesto come cazzo fosse  possibile giurare a qualcuno di amarlo tutta la vita ma Meg ci teneva così tanto a diventare la signora Gallagher. Lui non se l’era sentita di negarglielo. Tutto da ridere, no? L’aveva sposata per non darle un dispiacere, che non è un gran bel motivo per sposare una persona. Eppure solo qualche tempo prima non era così, l’aveva amata sul serio rifletteva Noel. Cazzo, già ne parlava al passato. Ma no, decise all’improvviso, sono tutte stronzate, sono solo questi fottuti giornalisti che mi fanno uscire di cervello. Andrà tutto bene. Si alzò dalla poltrona deciso a scendere al piano di sotto e a rilassarsi alla maniera di sua moglie.

La cercò in mezzo a quella massa di persone, stupendosi del fatto che ne conoscesse ben poche, fosse stato a una festa in un qualsiasi locale passi, ma era in casa sua! La vide dopo un bel pezzo, piegata in due da quella risata irritante che aveva solo da sbronza. Noel si sentì congelare da un’ondata di rabbia, gli dava sempre fastidio vederla così, non poteva farci niente. Decise di lasciar perdere, tornò al piano di sopra e prese fra le mani, quasi abbracciandola, la sua chitarra, l’unica ancora di salvezza pulita, pura, che ancora si permetteva di avere nella sua vita.


 
Ciao a tutti! Pardon per il ritardo nella pubblicazione ma ero in vacanza. Pardon pure per il finale moscio ma nonostante abbia ben chiari in mente tutti questi ultimi capitoli la fine di questo proprio non mi usciva. Dato che tutta la storia si fonda sulle vite parallele dei due fratelli scemi, mi piace sempre inserire qualcosa che li leghi a distanza (o per somiglianza o per contrasto), quindi volevo finire entrambe le parti con la stessa scena: loro due che suonano. Purtroppo quella che riguarda Natalino nostro non mi è venuta come volevo, nonostante le due settimane di riflessioni (si vede che le vacanze mi fanno male!). Se vorrete tirarmi frutta e verdura capirò (sono gradite le fragole, grazie.) Al prossimo capitolo!

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16.

Londra, seconda metà del 1998

Svegliandosi dal suo irrequieto dormiveglia da insonne imbottito di psicofarmaci alle quattro del mattino – troppo tardi per prendere un’altra pillola – Noel vide davanti a sè, a mò di gigantesche, incombenti, pietre tombali, una fila di ricorrenze che a lui sembrarono intollerabili. Tre mesi dall’ultima tirata di coca. Tre mesi dal primo attacco di panico. Due mesi dal primo tranquillante. Un anno e tre mesi dal matrimonio con Meg. Tre anni e quattro mesi da quando Liam se n’era andato. Quattro anni e cinque mesi da quello speranzoso … beh, abbastanza speranzoso, sfolgorante Aprile, quando tutto era iniziato con la pubblicazione di Supersonic. E come se non bastasse, c’erano poi tutti gli impegni che lo attendevano: finire di ultimare i dettagli della raccolta The Masterplan con le mille decisioni da prendere, ricominciare con i vari impegni promozionali (di nuovo, il tour è finito solo sei mesi fa, cazzo), le interviste sempre tutte uguali … Noel si sentì già intollerabilmente stanco, senza forze.

“Se riuscissi a smettere anche di fumare, se solo riuscissi semplicemente, ragionevolmente, a troncare” pensò di lì a qualche ora, bevendo il primo thè della giornata e fumando la terza sigaretta (la quarta magari, contando quella fumata a letto verso le cinque) … se solo fosse riuscito a smettere di fumare, sicuramente la sua capacità polmonare che sembrava ridursi a quella di un annegato durante gli attacchi di panico, sarebbe migliorata. Cercò di ricordarsi gli impegni della giornata, gli sembrava di doversi incontrare con qualcuno a pranzo, probabilmente doveva trattarsi di un pranzo di lavoro e decisioni da prendere (lavoro e decisioni, lavoro e decisioni, quand’è che tutto ha smesso di essere divertente?) . Gli ansiolitici che il suo medico gli aveva prescritto per tenere a bada gli attacchi lo facevano sentire immerso in una nebbia che non si diradava mai. Gli sembrava che tutto fosse ovattato e che perfino i suoi pensieri fossero più lenti. Odiava quella sensazione, lo rendeva insicuro. Odiava starsene rintanato in una casa che non era quella in cui abitava di solito solo perché aveva sposato una stronza che non approvava la sua decisione di smettere con ogni tipo di droga, decisione presa dopo un mezzo infarto a cui peraltro lei, la stronza, aveva assistito. Cosa voleva? Che la volta successiva l’infarto gli venisse tutto intero? A Noel non sembrava un’ipotesi da scartare del tutto, per quanto inquietante potesse essere. Qual è la persona che manda degli spacciatori a casa di uno che sta cercando di smettere con quella merda? Non certo una moglie amorevole. Ma che cazzo avevo in mente quella sera? Fottuta segatura? Perchè l’ho sposata? Perché? Oh, certo, non era tutta questa gran tragedia dato che il divorzio esisteva da decenni, ma a Noel sembrava un’altra delle incombenze che gli affliggevano la vita.

Girellò per le stanze senza sapere bene che fare. Mise su un cd, poi lo cambiò, poi spense lo stereo e accese la televisione. Non riusciva più a seguire niente, gli era impossibile proprio concentrarsi. Ma la cosa più spaventosa di tutte era che non riusciva a comporre. Come se il talento si fosse improvvisamente volatilizzato. Niente più droga, niente più talento,  puf! Scomparsi insieme. Era vero che non aveva mai composto niente senza essere più o meno fatto ma Noel non riusciva a credere alla realtà di quella equazione. Semplicemente la sua mente si rifiutava di prendere in considerazione quell’orrenda ipotesi.

La sua musica trascendeva da qualsiasi tipo di sostanza chimica, Noel ne era certo. Ma allora perché non riusciva a tirare fuori niente di niente, il nulla più assoluto, quando era abituato a canzoni che quasi si componevano da sole? Fino a qualche tempo prima, tutto quello che lo circondava per lui si traduceva in musica. Una parola, un gesto, un’immagine … qualsiasi cosa, qualsiasi cosa, che per qualche motivo lo colpiva si frantumava in note che poi lui rimetteva insieme dando alla luce melodie infinite. Tutto era musica per lui. Per questo, per quanto stesse immobile, non stava mai fermo del tutto. Le mani in perenne movimento, la testa che si girava di scatto, gli occhi che guardavano in ogni direzione come se fossero alla ricerca di qualcosa: era come se ogni più piccola parte del suo corpo vibrasse per richiamare l’attenzione di note che vagavano nello spazio infinito, invisibili a tutti tranne che a lui. Noel non lo considerava solo un dono, ma anche un rifugio, un luogo incantato nel quale niente e nessuno poteva fargli del male. E in quel momento sembrava tutto finito. Era per quello che il panico lo attanagliava? Perché il suo dono-rifugio era scomparso? O era il contrario? Non riusciva più a sentire l’ispirazione che lo chiamava impaziente di farsi tradurre in musica perché il panico gli tappava le orecchie? Noel se lo chiedeva continuamente ma la sua testa non collaborava. Il suo cervello era come in panne.

Continuò a muoversi per tutto il giorno come se fosse in trance, fece qualche telefonata, lesse qualche riga di una rivista trovata per caso, uscì per fare un po’ di shopping (Chitarre e scarpe, roba di classe, mica vestiti come faceva sempre quella fighetta viziata di Liam) ma dovette tornare a casa di corsa perché ad un certo punto cominciò a venire giù il diluvio universale. Con una tazza di thè in mano Noel si rifugiò il più lontano possibile dalla signora delle pulizie (Ma come cazzo si chiama? Signora Pitter? Potter?). Qualsiasi faccenda stesse sbrigando, la signora faceva un chiasso infernale, Noel poteva sentire l’ululato dell’aspirapolvere, dei grandi scrosci d’acqua, perfino i gemiti di protesta dei mobili mentre venivano lucidati con l’apposita cera. Finalmente, verso le sei del pomeriggio, la signora se ne andò e allora la casa tornò di nuovo tranquilla e silenziosa. Così silenziosa che a Noel vennero i brividi. Sollevò velocemente la cornetta del telefono ma si accorse che la linea era muta, evenienza tutt’altro che insolita da quelle parti con quel tempaccio. Si attaccò allora al cellulare ma anche lì non c’era campo. A Noel sembrò una coincidenza sinistra. La casa buia, silenziosa, e lui isolato da tutti. No, cazzo, non di nuovo. Corse all’interruttore e accese la luce. Così va già meglio. Gli venne in mente di farsi un bagno caldo. Dovrebbe rilassarmi no? Aprì la porta di un bagno, quello più grande, con la vasca tonda incassata nel pavimento che gli ricordava quella di casa sua, la riempì di acqua calda, accese l’idromassaggio e si immerse lentamente, assaporando la dolce sensazione di tutto quel calore sul suo corpo. Gli sembrò che i nervi si distendessero realmente e sperò di far durare quel bagno almeno un’oretta, in modo da occupare … da ammazzare un’ora di quella serata.

Dopo un tempo che Noel non sarebbe stato capace di quantificare, gli sembrò di sentire degli scricchiolii. Immerso nell’acqua che era andata via via raffreddandosi, si disse che era normale sentire rumori in una casa vuota durante un temporale. Tentò di convincersi mentre sentì quello che poteva essere (ma senza dubbio non è) il rumore lontano del portone di casa che si apriva e poi si chiudeva. Fece scrosciare altra acqua calda e poi si adagiò nuovamente chiudendo gli occhi. Ma. O sono impazzito completamente, cosa probabilissima, o questi sono passi su per le scale si disse riaprendo gli occhi e mettendosi seduto. Era intorpidito dalla lunga immersione nell’acqua calda e nel vapore e così, cercando di tranquillizzare la sua mente che era già partita al galoppo, si prese in giro da solo, dicendo a voce alta: ”Beh, meglio così. Qualcuno è entrato in casa per rapinarmi ed assassinarmi. Fanculo a tutti. Rimarrò giovane per sempre!”. Ma il suo tentativo di sdrammatizzare fallì miseramente e prima di essere assalito dall’immagine di se stesso in versione cadavere si alzò mettendosi frettolosamente l’accappatoio e, compiendo quello che gli sembrò il più  enorme sforzo della sua vita, uscì dal bagno e fece il giro della casa. Nessuno. Ovviamente non c’era nessuno. Nessuno era mai entrato, nessuno aveva mai salito le scale.  In condizioni normali si sarebbe probabilmente fatto una risata (e una striscia) ma ormai, a sera inoltrata e in quello stato, ridere era l’ultima cosa che gli poteva venire in mente di fare.

Tornò in camera da letto per vestirsi. Aveva l’impressione che quei movimenti resi automatici dall’abitudine (aprire il cassetto-prendere la biancheria-infilarla-chiudere il cassetto-aprire l’armadio-prendere una maglietta e un paio di pantaloni-infilarli-chiudere l’armadio) fossero gli unici che fosse realmente in grado di compiere e cercò di concentrarsi su di essi. Cercò di concentrarcisi anche perché non voleva, non di nuovo, non in quel momento, rispondere al Suo richiamo. Lo chiamava, eccome se lo chiamava. Poteva sentirla chiaramente Noel, nella sua mente infestata ormai da mostri e demoni. La sentiva sussurare, gemere e poi quasi urlare. Le diede un’occhiata, così, di traverso, di sfuggita. E solo perché non riusciva ad ignorarla del tutto. Stava lì, come sempre ad aspettarlo. E lui avrebbe voluto, oh se avrebbe voluto, prenderla lì sul letto dove l’aveva lasciata quasi fosse un’amante e compiere altri gesti, anche quelli automatici ma infinitamente più dolci e poetici che infilarsi un paio di mutande. Ma era terrorizzato da quello che sapeva sarebbe successo. L’avrebbe accarezzata facendola vibrare ma dentro di sé non ci sarebbe stata nessuna vibrazione in risposta, dentro sarebbe stato tutto muto e silenzioso come la sua casa che non era proprio la sua in cui nessuno era entrato facendo scricchiolare i gradini, dentro sarebbe stato tutto morto come lui per un momento, un momento solo, aveva sperato che quel qualcuno che mai era entrato lo rendesse. Tutto muto, silenzioso e morto. Nessuna nuova creatura fatta di note e accordi e melodia sarebbe nata dall’incontro fra lui e la sua chitarra. Niente più luce, niente più calore.

Seduto sul pavimento, la schiena poggiata contro la parete, respirava convulsamente, cercando di far entrare più aria possibile nella gola che si era ridotta a una fessura. Sentiva il cuore battere all’impazzata con pulsazioni pesanti che a ogni battito sembravano sfondargli il petto. Era ricoperto da un sudore freddo che stillando goccia dopo goccia lungo la fronte e la schiena lo faceva rabbrividire e l’alternanza di quel freddo intenso e di vampate di calore lo stremava. Le mani e i piedi erano pezzi di ghiaccio ma, formicolando, gli bruciavano. Tremava e gli esercizi di respirazione e di visualizzazione che il suo medico gli aveva insegnato sembrava non dessero sollievo alcuno. La testa era pesante, aveva proprio la sensazione che il collo non riuscisse a tenerla sollevata, ma allo stesso tempo gli sembrava vuota, una sorta di buco nero che ingoiava tutto, la speranza, la gioia, l’amore, tutto quanto. Si sforzava di continuare a pensare, di ragionare, ma i pensieri gli si spezzavano a metà senza dargli pace. “Dura poco, ancora pochi minuti e poi sarà passato … sono pazzo, è per questo che succede, sono pazzo e mi dovranno ricoverare … devo respirare e pensare a qualcosa di bello … sto morendo … il cuore, il cuore non regge, questa volta non ne esco …” .

Ma il cuore resse come tutte le altre volte e mentre con una lentezza esasperante il suo corpo e la sua mente tornavano a uno stato di normalità, Noel si ritrovò spossato, sudato, con un bisogno disperato di dormire e con l’assoluta certezza che non ci sarebbe riuscito.

Manchester, Gennaio 1999

Aveva deciso di passare qualche giorno con sua madre, a Manchester. Generalmente era Peggy a spostarsi a Londra dato che per lui era difficile prendere un treno nel totale anonimato a cui avrebbe aspirato, ma quella volta sentiva il bisogno di rifugiarsi a casa sua, fra quelle pareti così familiari e sicure. A Peggy era sembrato un po’ strano dato che avevano appena passato un bel po’ di tempo insieme durante le festività e si era stupita non poco del fatto che si presentasse da solo e senza fare neanche cenno a Meg, ma non aveva ovviamente fatto domande. Dopotutto le mancava avere suo figlio a casa, le mancava avere a casa tutti e tre i suoi figli a dire il vero. Gli anni erano passati via velocemente e quei bambini erano diventati uomini in un tempo che a lei era parso infinitamente veloce. “Bisognerebbe farli da vecchi i figli, quando si è in pensione, in modo da potersene curare di più, in modo da godersi ogni loro momento”, pensava Peggy.

Le mancava avere un contatto diretto con Liam, le sarebbe piaciuto risentire la sua voce e avrebbe dato qualsiasi cosa per stringerlo in un abbraccio e guardarlo negli occhi. “Oh Santo Cielo Peggy, pensi a lui come se fosse morto. E’ vivo e vegeto, per carità!” rabbrividì mentre affettava le cipolle sul tagliere di legno “Bada a non tagliarti un dito piuttosto”. Doveva dargli tempo, solo quello. Aveva fatto bene ad affidarsi all’agenzia del caro signor Richardson, adesso sapeva esattamente dove si era trasferito, sapeva che lavorava, che viveva in un posto decente e che soprattutto stava bene. Non riusciva neanche a ripensare a quel periodo orrendo senza lettere. Settimane e settimane di silenzio assoluto, assordante, che erano state precedute da mesi di scialbi “Sto bene” a cui lei non aveva creduto neanche per un secondo. Aveva davvero dovuto fare appello a tutta la sua forza di volontà e alla Fede che non l’aveva mai abbandonata – e che tanto faceva arrabbiare i suoi figli – per non lasciarsi andare, per credere ostinatamente che non gli fosse successo niente e se anche qualcosa fosse accaduto realmente, si sarebbe comunque sistemato.

Aveva tentennato nel suo fermo proposito di aspettare che fosse lui a tornare, come le aveva espressamente chiesto, solo quando il signor Richardson le aveva messo in mano il suo indirizzo, e mentre Noel continuava a chiederle quando avrebbe voluto partire per Dalmeny, lei aveva pensato, solo per un secondo: ”Parto il prima possibile e vado a riprendermi il mio bambino”. Ma era stata proprio quella definizione, che le era salita alla mente in maniera del tutto spontanea, a farla desistere. Per la prima volta si era resa conto che il suo bambino non era più tale. E da un bel pezzo ormai. Il suo bambino si era costruito una vita assolutamente indipendente, era stato capace di lasciare tutto quello che conosceva e di abbandonare tutto quello che aveva sempre sognato per un salto nel buio. Naturalmente Peggy sapeva perfettamente che la sua era stata una scelta impulsiva, assolutamente non ponderata, ma alla prima difficoltà avrebbe potuto tornarsene a casa e invece aveva stretto i denti ed era andato avanti con quella testardaggine che Peggy riconosceva come propria. A che prezzo lei non avrebbe saputo dirlo, ma l’importanza del non aver ceduto, neanche quando avrebbe avuto tutte le ragioni per cercare la sua presenza come quando era stato ricoverato, le pareva lampante. Sapeva di averlo viziato, ma era stato un bambino e poi un ragazzino così terribilmente vivace, così difficile da seguire, che lei, costantemente indaffarata e stanca e piena di sensi di colpa, aveva optato per una dolcezza e una comprensione forse eccessive pur di compensare il poco tempo che aveva da dedicargli.

“Mamma, è tutto a posto?” le chiese Noel dopo aver notato gli occhi rossi di Peggy. “Oh tesoro, non ti avevo sentire scendere le scale. Sì, sì, è tutto a posto. Sono solo queste stupide cipolle”. Noel le lanciò un’occhiata dubbiosa, ma non aggiunse altro. Si sedette al tavolo della cucina e aprì il giornale alla pagina dello sport. “Ti ho sentito suonare prima”, lo sollecitò dolcemente Peggy, senza guardarlo, versando l’olio nella pentola. Neanche Noel alzò gli occhi e continuando a leggere rispose quasi con noncuranza: ”Sì, sto componendo qualcosa … ho un paio di canzoni quasi pronte”. Peggy lasciò cadere la cipolla appena affettata nell’olio bollente, che prese a sfrigolare. “Stai meglio”. Non era una domanda e non era un’affermazione. Lasciò la frase in sospeso, così che Noel potesse decidere liberamente se parlarne o meno. In apparenza freddo, cinico e sicuro di sé, Noel nascondeva un’anima delicata e fragile, tormentata e piena di dubbi, che con un niente si feriva e con un niente si chiudeva. E doveva ringraziare quell’abominio del padre per quel regalo, Peggy lo sapeva bene. “Non lo so come sto. Penso meglio, sì … ma non so … queste nuove sono canzoni strane, diverse da qualsiasi cosa abbia mai scritto finora. Un po’ tristi … anzi, veramente  sono proprio tetre” ridacchiò, sempre con quel tono leggero, quasi fosse lui a decidere se stesse male o no. Faceva parte della sua armatura, fingere di aprirsi in modo da accontentare gli altri senza però scoprirsi veramente. Continuando a cucinare Peggy gli rispose: “Sei più forte di quello che pensi, Noel”. Noel alzò la testa a guardare la madre, incredulo e quasi intimidito. Per una volta, non se la sentiva di darle ragione: una persona davvero forte non si deve attaccare agli ansiolitici anche solo per andare a pisciare, non viene travolta dal panico senza nessun motivo, non resta con la moglie solo per abitudine e perché è mentalmente troppo stanco per prendere qualsiasi tipo di iniziativa. Ma Peggy continuò: ”Hai le crepe, le cicatrici e le ferite aperte di chi la propria forza è stato costretto dagli eventi esterni ad usarla, ma ciò non toglie che sia tua, nessuno te l’ha data e non era scontato che tu l’avessi. Essere forti non significa solo aggredire la vita come leoni, esiste anche la forza piccola, quotidiana, quella che consente di andare avanti un pezzettino per volta, quella che ti fa essere abbastanza coraggioso da chiedere aiuto quando necessario”.

Un pezzettino per volta. Noel fu incantato da quella frase. Non avrebbe saputo dire il perché, ma quelle quattro paroline gli scivolarono dentro e lo fecero sentire al riparo. Un pezzettino per volta. Sì, poteva farcela ad affrontare tutto. Non tutto insieme, ma poteva provare ad aggiustare una piccola parte della sua vita per volta. Il suo viso dai tratti duri, marcati, restò impassibile, ma si alzò, cinse la madre con un braccio e la baciò sulla guancia. Peggy lo guardò sorridendo e chiedendosi silenziosamente: “Com’è possibile che fisicamente sia così simile a suo padre quando dentro è l’esatto opposto?”.

Londra, Maggio 1999

Mi ama per come sono, pacchetto completo. Senza volermi cambiare. E non c’è aspetto di me che non conosca, non c’è sfumatura di me che non accetti. Lei sa che fottuto incubo possa diventare quando mi lascio andare, ma lo stesso ha voluto condividere la sua vita con la mia. E sapere che mi accetta anche se sono nero per me è tutto. Sa talmente tante cose di me che se volesse potrebbe farmi tutto il male del mondo, ma quando la guardo mi sento infinitamente tranquillo perché so che non lo farebbe mai”.

Le rare volte che Noel era a casa a Manchester, Peggy aveva cura di lasciare le ultime lettere di Liam in bella mostra su un tavolo del suo saloncino. Lei e Noel avevano un tacito accordo: lei le lasciava lì, lui le leggeva, nessuno dei due ne parlava. E Noel aveva letto e  riletto talmente tante volte quelle poche righe in cui il fratello parlava del rapporto con quella ragazza di Dalmeny da impararle a memoria. Prima di tutto perché  era rimasto sbalordito dal fatto che Liam avesse la capacità di scrivere qualcosa di più profondo di “La mattina mi alzo, la sera vado a letto”. E poi perché l’avevano fatto riflettere. Lui e Meg non avevano niente di simile. Non l’avevano mai avuto, neanche agli inizi. Lui l’aveva amata, questo sì, ed era quasi certo che anche lei doveva averlo amato, ma … non erano mai arrivati a quella conoscenza e fiducia profonda che Liam descriveva.

Guardando sovrappensiero giusto Meg che usciva in tutta fretta da casa, il viso pallidissimo, i capelli spettinati e, incredibile!, senza trucco, Noel pensava onestamente che buona parte della responsabilità in quel senso toccava a lui. Non riusciva quasi mai a lasciarsi andare, le barriere protettive che aveva alzato intorno alla sua anima lo difendevano dalle aggressioni esterne ma lo tenevano anche prigioniero. Si sorprese a desiderare quella libertà che non si era mai permesso: essere libero di aprirsi, di concedersi, di farsi conoscere per quello che era realmente, in barba alla paura di essere ferito, umiliato, deriso per i suoi sentimenti. Ma quella magia non poteva essere compiuta da lui soltanto, doveva trovare la persona giusta. E quella persona non poteva essere Meg. Forse avrebbe potuto esserlo se lui fosse giunto a quelle conclusioni prima, ma ormai gli anni erano passati, loro erano cambiati e il tempo che avevano avuto era scaduto. Lui si era ripulito, lei continuava con il suo stile di vita sopra le righe, non condividevano più niente. Quando non era da qualche parte del mondo in tour, passavano giornate intere senza vedersi, lui chiuso nella sua stanza o in studio a lavorare, lei in giro a spendere i suoi soldi o in stato comatoso per la notte passata a far baldoria. Guardandola rincasare con una bustina della farmacia in mano e precipitarsi su per le scale Noel capì che erano davvero giunti al capolinea: dovevano divorziare, alternative non ce n’erano. Non aveva proprio più senso stare insieme. Dopo mesi passati a scappare da quella decisione che era sempre troppo stanco per prendere, Noel decise di agire subito.

Fece per salire il primo gradino quando la sentì urlare:”Noel! Corri, vieni su! Noel! Noel!”. Ma non gli diede neanche il tempo di salire e gli franò addosso continuando a urlare e agitandogli davanti al naso un bastoncino di plastica. “Guarda, guarda qui! Due linee, ce ne sono due! Oddio Noel, oddioooooo!”, “Ma che cazzo è? Due linee di cosa?”, “Ma sei ritardato o cosa? Non lo vedi? E’ un test di gravidanza scemo! Sono incinta!”.
Noel sentì il cuore farsi piccolo piccolo e poi cadergli nel petto. “Non prendevi la pillola?”, “Beh sì, ma con tutto quello che vomito quando sono ubriaca mi stupisce che non abbia fatto cilecca prima. Ma adesso cambio vita, niente alcool, niente droga, niente di niente, come te. Sei contento amore?”. Come faceva a lasciarla adesso che c’era un bambino in arrivo? “Sì Meg. Sono contento”.
 


Alzi la mano chi pensa che il Liam che scrive in quel modo non sia OOC.
*Deserto*
Lo so, lo so, ma voi non sapete che fatica immane sia fargli scrivere ‘ste benedette letterine (ndr: vedi 3° capitolo). Ma è l’ultima, giurin giurella.

Ma quante scale faccio fare, tra salire e scendere, a questi poveracci??? Uahahahaha!

Noel ebbe davvero un mezzo infarto, al seguito del quale decise di smettere con tutte le droghe. Iniziò a soffrire di attacchi di panico e del cosiddetto blocco dello scrittore (del compositore, nel suo caso, ah ah ah) e dovette aiutarsi con degli ansiolitici (regolarmente prescritti dal suo medico). Si trasferì in un’altra casa perché tutti quelli che conosceva si drogavano (ammappete che belle compagnie frequentavi Natalino!) e pare che la sempre simpaticissima Meg gli inviò gli spacciatori più di una volta.

Preparatevi al prossimo capitolo: è quello che non vedo l’ora di scrivere da quando ho iniziato a rompervi i maroni con questa fic!

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17

Dalmeny, 30 Aprile 2000

Mood’s era l’unica tavola calda di Dalmeny. Che fosse per la colazione, per il pranzo o per la cena, o anche solo per gustarsi uno dei famosi frappè del signor Lambert, tutta Dalmeny passava di lì almeno una volta a settimana. Per questo dopo pochissimi giorni che Liam lavorava lì, anni prima, erano giunte strane voci al padre di Sophie. Da uomo schietto e diretto qual era, aveva affrontato subito la questione: “Mi hanno detto che ti droghi, che sei una specie di alcolizzato e che quello che è successo al cantiere non è stato un vero e proprio incidente. Che c’è di vero?”. Preso in contropiede, Liam aveva vagliato la possibilità di negare tutto ma era riuscito a cogliere per tempo un qualcosa in quello sguardo così somigliante a quello di Sophie, che vietava bugie e sotterfugi. Aveva perciò risposto che sì, nei mesi precedenti aveva bevuto come una spugna, aveva preso ogni tipo di sostanza stupefacente gli fosse passata davanti e che quel giorno al cantiere aveva combinato un casino. Aveva anche aggiunto che erano abitudini che aveva già avuto in passato e, nonostante la giovane età, per svariati anni. “Ti stai facendo ancora?” gli aveva chiesto il signor Lambert, al quale già allora non era sfuggita l’assidua frequentazione che aveva con la figlia. “No, non mi faccio dalla notte prima dell’incidente e bevo solo un paio di birre quando esco la sera. Nient’altro. Glielo giuro”. “Sophie lo sa?”, “Sì”, “Si fida?”, “Sì”. Lo aveva fissato per un attimo che a Liam era parso eterno, con le sopracciglia aggrottate e le braccia conserte. “Allora mi fido anch’io. Per me il discorso è chiuso”. E da quel momento in poi non ne avevano più parlato.

Liam finì si sistemare i bicchieri asciutti. Se qualche anno prima qualcuno gli avesse detto che un giorno avrebbe perso del tempo a impilare uno sull’altro degli stupidi bicchieri, gli avrebbe riso in faccia dandogli dell’idiota. Dopo aver riordinato la sala dall’invasione mattutina, se ne era andato nel retro lasciando il suocero alle prese con la preparazione di panini e pietanze varie per il pranzo.

Quasi tutti gli eventi successivi della vita di Liam si misero in moto quel 30 di Aprile, nonostante la giornata fosse iniziata come sempre: stessi orari, stessi ritmi, stesse persone … E niente gli avesse fatto presagire cosa sarebbe successo di lì a poco.

Superstrada Yellowhead Highway SK/16 V

“Bel concerto quello di ieri sera. Niente di eccezionale ma bello. Andy e Gem sono cento volte meglio di Guigsy e Bonehead … ma Cristo Santo, non li potevo mandare a ‘fanculo prima quei due? Avrei dovuto segarli quando Liam se n’è andato. Una band tutta nuova … cazzo, perché non ci ho pensato allora?” pensava Noel sbadigliando.
Si mosse un po’ sul sedile per cercare una posizione più comoda, poi chiuse gli occhi e appoggiò la testa. Dio, quanto era stanco. Era riuscito solo a schiacciare un pisolino sull’aereo, due misere, fottutissime ore. E ci era riuscito solo perché era praticamente svenuto, dopo quasi 24 ore passate sveglio. L’ansia e il nervosismo per quello che stava per succedere non contribuivano certo a farlo rilassare.

Ogni singola volta che in tutti quegli anni era stato in Canada per qualche concerto, era arrivato sfinito alla fine delle date previste. Senza la minima idea di dove fosse Saskatoon, e non avendo nessuna intenzione di mettersi a cercarla su un fottuto atlante o semplicemente chiederlo a qualcuno, anche a Toronto o a Vancover i suoi sensi erano sempre tesi al massimo. Anche non volendo si ritrovava a vagare con lo sguardo tra la folla in cerca di quel viso dai tratti familiari o a tentare di captare quella voce sentita miliardi di volte tra il vociare confuso delle strade. La sera precedente spinto da un impulso che non avrebbe saputo definire,  si era rivolto alla tour manager chiedendole di prenotargli il primo volo disponibile per Saskatoon. Maggie l’aveva guardato come se le avesse parlato in giapponese: “Noel, dopodomani sera devi essere a New York”, “E allora prenotami anche il volo Saskatoon – New York” le aveva risposto uscendo in fretta dall’hotel. Per tutto il tragitto albergo-aeroporto, poi per tutto il volo e adesso su quel taxi che dall’aeroporto di Saskatoon lo stava portando a Dalmeny, non aveva pensato alla decisione che aveva preso e voleva continuare a farlo. Voleva continuare a non pensarci. Perché se si fosse messo a pensarci sul serio, avrebbe detto all’autista di tornare indietro.

In una specie di sonnolento dormiveglia pensava o forse sognava una bambolina di porcellana. Morbida e calda però. E bionda. Anais. Sua figlia. Quando Meg gli aveva dato la notizia della gravidanza, un anno prima, si era sentito congelare. La loro storia era finita, lo sapeva da un pezzo, e infatti, dopo un’iniziale ripresa dovuta a una certa tenerezza che il pancione di sua moglie gli ispirava (“Quando aspettano un bambino le donne sono sempre così carine”, aveva detto in un’intervista), si era sbriciolata definitivamente. Non c’erano state tragedie da Guerra dei Roses, lei si era impuntata su un bel po’ di cose ma lui aveva lasciato correre, gli bastava allontanarsi il più presto possibile. Non aveva calcolato però quanto gli sarebbe mancata sua figlia. Era ovviamente ancora troppo presto per avere un rapporto vero e proprio, ma quando la prendeva in braccio, quando la addormentava, quando lei lo cercava con lo sguardo muovendo le manine e sorridendo quando lo vedeva lui … beh, lui si scioglieva. E tutto il suo distacco, tutta la sua freddezza venivano meno. E si sentiva incredibilmente, stupidamente, immensamente felice. Mi ha fatto proprio rincoglionire pensava, sorridendo con gli occhi chiusi, la testa abbandonata sul sedile.

Dalmeny

Il taxi era ripartito e Noel, in piedi sul marciapiede, continuò a fissarlo fino a quando fu solo un puntino lontano, come se, rimanendo immobile, potesse tenere ben distante il momento che aspettava e temeva allo stesso tempo. Alla fine si costrinse a guardarsi intorno in cerca di un’insegna ben precisa.

La via è questa, non dovrebbe essere troppo lontano,si disse incamminandosi. In giro non c’era quasi nessuno, solo qualche persona che si voltava a guardarlo, ordinaria amministrazione per lui, anche se, considerando le dimensioni di quella cittadina, gli rimaneva il dubbio che quello che pensavano guardandolo non fosse: “Ehi, c’è Noel Gallagher degli Oasis!” ma: “E questo chi è?”. Il cielo plumbeo, l’aria fredda, l’enorme viale fiancheggiato da prati e casette dipinte di bianco o con colori pastello, qualche costruzione di mattoni … tutto gli suggeriva una forte impressione di solitudine che però cozzava con l’allegra serenità che traspariva dalle lettere del fratello. Probabilmente la fonte di illuminazione e piacere risiede tutta in lui – riflettè Noel – una volta che gli levi paranoie e stronzate varie, Liam è una persona sostanzialmente gioiosa, aperta, ricettiva. E’ tutto fuoco e fiamme ma poi quando si calma gli passa tutto. Non si fa mangiare vivo dal rancore.  Non è come me.

“Mood’s” recitava l’insegna dipinta di rosso con la scritta bianca. Il cuore cominciò ad aumentare la velocità con cui batteva. Eccolo. Andò verso la porta con i vetri coperti da tendine colorate. Mise la mano sulla maniglia di ottone lucido, si prese un secondo per respirare e poi esercitò una pressione verso il basso. Era talmente agitato che bastò lo scampanellio che accompagnava lo spalancarsi della porta per farlo trasalire. Il locale era grande e curato, colorato sui toni del rosso e dell’azzurro. I tavolini di legno chiaro erano vuoti, l’unica presenza sembrava essere quella del robusto signore con i capelli grigi che si dava da fare dietro al bancone. Si guardò intorno con il cuore in gola, aspettandosi di vedere Liam da un momento all’altro. “Hai bisogno di qualcosa?”. Noel si voltò di scatto e si trovò di fronte il signore con i capelli grigi. Aveva la gola secca e ci mise un secondo di troppo ad articolare qualche suono di senso compiuto. Il signore gli chiese se volesse sedersi. Noel annuì e si sedette sulla prima sedia che trovò. Sto facendo la figura dell’idiota.

La voce baritonale del signor Lambert chiamò: “Liam, c’è gente al tavolo 3!” e poi si rimise a lavoro dietro al bancone senza perdere di vista un secondo il ragazzo che era appena entrato. Era sicuro di averlo già visto da qualche parte, aveva un non so che di familiare.

Di fronte al posto in cui Noel si era seduto, dall’altra parte della sala, c’era una porta che doveva dare sul retro. Noel fissò lo sguardo su quella porta. Il cuore continuava a martellargli nel petto e anche il respiro accelerò. Oh Cristo, non mi starà venendo un altro attacco di panico? Sono passati mesi dall’ultimo, non può venirmi proprio ora. La porta si aprì.

Liam. Liam che camminava verso di lui senza guardarlo mentre scarabocchiava su un taccuino. Liam che si voltava verso il signore con i capelli grigi dicendogli: ”Possibile che mi lasci sempre le penne che non scrivono?” . Liam che girava dietro al bancone evidentemente alla ricerca di una penna. Liam che ritornava sui propri passi provando la penna sul taccuino. Liam che era sempre Liam, solo più adulto e più … meno … boh, c’era qualcosa di diverso. L’impressione che ne ebbe Noel in quei primi secondi di osservazione  fu estremamente positiva. Ricordava un ragazzino travolgente e divertente, ma anche nervoso, petulante e irritante, perennemente ubriaco e pronto a fare a botte. Ricordava un ragazzino antipatico e arrogante che sembrava sempre in guerra con il mondo, sempre sul punto di infuriarsi. E si ritrovava davanti un giovane uomo dall’aspetto sano, rilassato, tranquillo. Non raccontava cazzate nelle lettere. E’ felice sul serio. Noel ebbe il dubbio di averla fatta lui la cazzata. E se adesso gli rovinassi tutto? Chi mi dà il diritto di venire qui e imporgli la mia presenza?  Dovevo farmi i cazzi miei, ma che cavolo mi è venuto in mente? Non è venuta mamma e sono venuto io? Ma che cazzo di idiota sono. Adesso mi alzo e me ne vado prima che mi veda, se continua a giocare con quell’accidenti di penna e io faccio abbastanza in fretta ci riesco. Ma Noel avrebbe dovuto essere Flash per riuscire nell’impresa visto che ormai Liam era a un passo dal suo tavolo. “Vuoi ordinare?” gli chiese gentilmente alzando finalmente lo sguardo. Noel non seppe cosa rispondere mentre guardava gli occhi del fratello dilatarsi per lo stupore. Liam impallidì e a Noel sembrò di rivederlo durante quella maledetta litigata da cui tutto era iniziato. Anche allora era impallidito prima di esplodere. Ecco fatto. Ricominciamo da dove ci siamo lasciati pensò stancamente. E invece no. Riabbassando in fretta lo sguardo e stringendo la penna con un po’ troppa forza, Liam gli chiese di nuovo se volesse ordinare.

Ora. Per quante volte si era immaginato la scena, aveva previsto sostanzialmente sempre due reazioni da parte di Liam: nella prima s’incazzava e gli sparava un pugno dritto sul naso e nella seconda gli saltava al collo abbracciandolo come un naufrago che si aggrappa alla zattera. Mai, mai, mai, si sarebbe immaginato quella specie di sofferta indifferenza. Preso alla sprovvista, gli rispose che una birra sarebbe andata più che bene. “Non vuoi niente da mangiare?”, “No”.

Liam tornò dietro al bancone, aprì il frigorifero e prese una bottiglia. “Tutto bene?” gli chiese il signor Lambert che aveva osservato in silenzio la scena. “Sì”. “Perché ho l’impressione di conoscerlo?”, “Perché te l’ho fatto vedere in televisione”. Al padre di Sophie si accese finalmente una lampadina: “E’ tuo fratello? Quello famoso?”. Liam armeggiava con l’apribottiglie, ci mise più del dovuto perché le mani gli tremavano e non rispose. “Come mai è qui?”. “Non lo so” disse in fretta. Tornò da Noel, posò sul tavolo la birra aperta insieme a un bicchiere che aveva preso al volo, tirò fuori dalla tasca un mazzo di chiavi e poggiandolo rumorosamente vicino alla birra, gli disse bruscamente: “Quando esci gira a destra, poi all’angolo gira di nuovo a destra. La mia casa è quella bianca con il tetto grigio scuro e tre gradini davanti l’entrata. Aspettami lì”. Senza aspettare la risposta, quasi corse di nuovo nel retro. Il cambio di umore di Liam lo rese in un certo senso più familiare agli occhi di Noel e per qualche strano motivo, la cosa lo calmò. Finì con calma la birra, pagò il conto e si avviò seguendo le indicazioni che gli aveva dato il fratello.

Aspettandosi il monolocale di cui aveva parlato tre anni prima il signor Richardson, Noel rimase piuttosto stupito quando si trovò davanti quella che Liam aveva definito “la mia casa”. E lo fu anche di più una volta entrato. Non sapeva esattamente cosa aspettarsi ma di sicuro non quello che trovò. Non lo colpirono tanto l’arredamento o la composizione della casa, entrambi piuttosto semplici e ordinari, quanto una sensazione di calore, di intimità, di benessere da cui fu investito appena aprì la porta d’ingresso. Era tutto l’insieme a procurargli quella sensazione. Il lieve sentore di lavanda, le tende leggere che riparavano dalla strada ma che lasciavano filtrare la luce, le piantine sui davanzali, i cuscini colorati sul divano, le candele su una mensola … tutto gli parlava di una casa viva e curata con amore. Girava per le stanze, osservava foto, apriva porte e sportelli senza sentire il minimo senso di colpa per quella specie di ispezione, gli sembrava invece qualcosa di ovvio data l’affascinata curiosità che provava per quello che vedeva. Questa deve essere la sua ragazza - pensò Noel guardando la brunetta che gli faceva la linguaccia da un’istantanea attaccata sul frigo con una calamita - Ha cambiato genere. Carina però. Gli venne da ridere quando si accorse che in ogni stanza c’era almeno un angolo con quel tipo di disordine e caos totale che in cuor suo definiva “tipico di Liam” e che aveva riconosciuto subito per averci suo malgrado convissuto per anni.

Alla fine di quella specie di tour nella vita di suo fratello, si sedette sul divano del soggiorno, un po’ incerto su come far passare il tempo in attesa di Liam. Continuò a guardarsi intorno. Un maglione appallottolato e infilato per metà sotto un cuscino. Un paio di orecchini abbandonati su un testo di anatomia (anatomia?) che, se veri, erano di diamanti e rubini(e che a Noel sembrarono decisamente fuori luogo, troppo lussuosi in quel contesto). Alzatosi a guardare più da vicino gli orecchini si accorse che nell’angolo formato dal divano e dalla poltrona vicina, mezza nascosta dalla tenda della finestra stava una chitarra e lì accanto, buttato per terra, un quadernino sgualcito, pieno di orecchie e cancellature. Faticò non poco a credere ai propri occhi quando vide di cosa erano riempite quelle pagine. Accordi e testi. Quelle erano canzoni. Alcune lasciate a metà, alcune terminate, di altre esistevano ancora solo pochi accordi. Da quando in qua Liam componeva? Chi glielo aveva insegnato? Beh, a te chi l’ha insegnato? Imbracciò la chitarra e, quaderno davanti, cominciò a suonarne qualcuna. Erano melodie molto semplici, in alcuni casi elementari, ma interessanti. Molto interessanti. Come sempre quando aveva a che fare con la musica, perse la cognizione del tempo.

Non si accorse della figura che lo fissava rabbiosa ed ebbe un sussulto quando ne sentì la voce. “Che cazzo stai facendo?”, “Oh merda, Liam! Mi hai fatto prendere un colpo!”, “Non credo di dover suonare al campanello di casa mia - gli rispose Liam avanzando velocemente verso di lui e strappandogli di mano la chitarra – e comunque, di nuovo, che cazzo stai facendo?”, “Ho trovato questo – Noel alzò il quaderno – e … sai, alcune non sono per niente male. Ci si deve lavorare un po’ su, certo, e le altre francamente fanno cagare ma ce n’è una che con l’arrangiamento giusto può diventare un fottuto gioiellino. Aspetta, come si chiamava ...” Noel sfogliava il quaderno senza accorgersi dello sguardo del fratello che diventava sempre più scuro. “Oh eccola, parlo di questa, Songbird”.“Spunti dal nulla dopo cinque anni e la prima cosa che mi dici è che scrivo merdate? Ma qualcuno ti ha chiesto un parere? E come cazzo ti è venuto in mente di mettere il naso fra le mie cose?”. A differenza di anni prima, Liam non urlava, ma aveva un tono di voce talmente gelido che se Noel non lo avesse avuto davanti avrebbe giurato che non poteva trattarsi del fratello. “Ma non ho detto che scrivi merdate, io …“, “No, no, certo, per carità … quello cattivo sono io, tu sei quello buono e saggio”, commentò sarcastico Liam, sedendosi sulla poltrona vicino al divano. Si sporse verso il fratello appoggiando gli avambracci sulle ginocchia e intrecciando fra loro le dita: “Hai detto che volevi parlarmi. Avanti, sono tutto orecchi”. Gli fece il sorriso più finto che riuscì a mettere su.

Noel si sentì enormemente a disagio. Come spiegargli qualcosa che non era chiara neanche a lui? Il dubbio di aver fatto una cazzata diventò una certezza. Aveva sbagliato ad andare lì. Ma che cazzo si era aspettato? Se non si faceva vedere da cinque anni doveva pur esserci un motivo no? E quel motivo era lui. Più semplice di così. Liam non aveva nessuna voglia di rivederlo né aveva bisogno di essere salvato. Si era salvato da solo. Stava bene dove stava, stava bene in una vita in cui non c’era posto per lui, era solo lui a farsi tutte quelle seghe mentali, Liam non ci pensava proprio. E magari non gliene poteva fregare di meno della sua vecchia vita. E tutto sommato poteva dargli torto? Le cose alla fine gli erano andate bene. Aveva un lavoro, aveva una casa, era amato da una ragazza che “avrebbe potuto fargli tutto il male del mondo”, era felice e si vedeva. Almeno era stato felice fino all’attimo prima di vedere lui. Strusciò più volte le mani sui jeans scoloriti – e che probabilmente costavano metà dello stipendio mensile di Liam - prima di alzarsi e buttare lì a mezza voce: “Senti, facciamo finta che non sia successo niente, me ne vado, ok?”. Si diresse verso la porta lasciandoselo alle spalle.

Liam non si era mosso di un centimetro, né aveva cambiato espressione, ma gli disse, sempre con quel tono freddo che non gli aveva mai sentito: ”Prova ad uscire da quella fottuta porta e giuro che ti rompo la faccia”. Noel si voltò sorpreso e Liam continuò: ”E meno male che lo stronzo ero io. Tu che cosa sei? Arrivi, dici che devi parlarmi, non dici un cazzo tranne che per spalare merda su cose che non ti riguardano, decidi che ne hai avuto abbastanza e te ne vai. Sei anche peggio del fottuto dittatore che ricordavo, perchè almeno prima qualche diritto di dirmi cosa fare ce l’avevi, adesso neanche sai più chi sono”. Noel si sentì punto sul vivo e ribattè: ”Non è certo colpa mia se non ti conosco più. Non sono mica io quello che è scomparso da un giorno all’altro senza motivo”, “Senza motivo? Io sarei scomparso senza motivo Noel? Ah, a proposito, non ti ho mai ringraziato per avermi fratturato un polso e spaccato una mazza in testa!”. “Cioè, fammi capire bene: te ne sei andato per quello?”, “Dovevo aspettare che la volta dopo mi ammazzassi direttamente? E comunque quella è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Noel era sbigottito. Tornò sui suoi passi e si rimise seduto, mentre Liam lo seguiva solo con lo sguardo, l’espressione che man mano si induriva. “Questa è una cosa interessante. Dimmelo, perché sono cinque anni che me lo chiedo: perché cazzo l’hai fatto?”.

Liam rialzò la schiena appoggiandosi allo schienale, frugò nella tasca posteriore dei jeans tirando fuori il pacchetto di sigarette, l’aprì, estrasse prima l’accendino e poi una sigaretta che mise fra le labbra. Compì quei gesti lentamente e in silenzio. “Non ci arrivi, genio?”. Noel non rispose, ma lo guardò serio, le sopracciglia aggrottate, la solita ruga marcata come non mai. Scatto dell’accendino. Fiamma. Lunga aspirazione. Fumo. “Per colpa tua”. “Sembri un fottuto bambino di cinque anni. Strano che tu non sia andato da mamma a piagnucolare: “Noel mi ha fatto la bua, gnè gnè gnè””. Liam sorrise, ma fu un sorriso amaro. “Sono contento che la cosa ti diverta. Ma d’altra parte deve averti divertito fin dall’inizio. Non ti sarà sembrato vero che il fratellino rompicoglioni si togliesse dalle palle da solo, vero Noelie?”. Il fratello scosse la testa con una smorfia: “Tu sei tutto scemo, lo eri anni fa e lo sei adesso”. “Ma falla finita cagasotto che non sei altro – per la prima volta Liam alzò la voce, per riabbassarla subito dopo - Mi hai usato finchè ti sono servito, poi, quando le cose hanno preso il via avresti voluto buttarmi nel cesso, solo che non avevi le palle per farlo direttamente e hai cercato di fare tutto il possibile perché ti togliessi dall’impiccio io. E hai fatto pure bene - alzò le spalle con noncuranza - visto come sono andate le cose”. Noel continuava impercettibilmente a scuotere la testa.

Liam non aveva proprio tutti i torti, un certo tendersi in quella direzione c’era stato davvero da parte sua, ma i suoi erano stati solo pensieri in libertà, per la maggior parte inconsapevoli o appena appena coscienti. Non aveva mai avuto un intento così brutale, non aveva mai voluto cancellarlo realmente dalla sua vita. Sospirò facendo girare lo sguardo per la stanza, guardando tutto senza però vedere niente: ”Pensi di sapere tutto ma in realtà non sai un cazzo”, “So quello che devo sapere”, “No” fece Noel perentorio. “Non sai un cazzo”. Chinandosi in avanti per spegnere la sigaretta nel posacenere, che tanto l’aveva accesa ma non la stava fumando, Liam borbottò: ”Non fare la vittima. Hai venduto milioni di dischi, sei sempre in televisione o sui giornali. Che cazzo c’è da sapere più di questo?”. Noel chiuse per un attimo gli occhi. La mente che traboccava di ricordi, paure e fallimenti. Il panico. Aveva avuto successo, sì, ma a che prezzo?

“Tu non sai … - la voce gli tremò leggermente - … tu non sai quello che ho passato”. Fu lì che Liam non ci vide più. Balzò in piedi e tuonò: “Quello che hai passato? Quello che TU hai passato? Quello che IO ho passato vorrai dire!”. “Oh poverino, che c’è, vuoi una medaglia perché per la prima volta nella tua vita hai dovuto lavorare?”. Liam gli afferrò un braccio strattonandolo violentemente per farlo alzare. I due fratelli si fissarono a vicenda, immobili, gli occhi colmi di furore e un grosso carico di dolore. I loro occhi avrebbero potuto liquefarsi, in quel violento, cocente, terribile sguardo. “Eccoti qui, finalmente. Adesso sì che ti riconosco fratellino” gli sussurrò Noel. Ma Liam non mollò la presa e riprese: “Hai idea di che significa andare in un posto in cui non conosci nessuno e fare tutto il giorno su e giù da una fottuta impalcatura con 10 gradi sotto zero? E sai che significa caderci da quella fottuta impalcatura? E sai che significa rinunciare a tutto quello che hai sempre sognato, sempre voluto, un momento dopo averlo finalmente toccato? E te mi vieni a dire che non so cosa hai passato? Ma fottiti! Che negli ultimi anni il tuo unico problema è stato quale banca scegliere per i tuoi schifosissimi soldi!”.

Noel divincolò il braccio e Liam lo lasciò andare con una spinta. Ci fu un attimo di silenzio, in cui Noel scelse con cura le parole. “Vedi, il tuo problema è questo Liam: io, io, io … solo a questo pensi e solo di questo parli. Ad esempio avresti potuto chiedermi di mamma, di Paul … per quanto ne sai potrebbero benissimo essere morti”. Liam ammutolì mentre il cuore gli saltava in gola. Noel non proseguiva, aspettando che fosse il fratello a parlare. Quasi balbettando, Liam gli chiese:”Ma non sono morti vero? Stanno bene, vero?”, “Tu che dici?” lo punzecchiò malignamente Noel, tornando per un attimo a quando Liam era piccolo, quando era così facile spingerlo sull’orlo delle lacrime. A Liam intanto sembrava che il cervello gli fosse andato in pappa perchè per quanto si sforzasse, non riusciva a pensare congelato com’era dal terrore che fosse quello il motivo della visita di Noel. C’era qualcosa che non gli quadrava, ma non riusciva a pensare altro che non fosse E’ successo qualcosa a mamma o a Paul o a tutti e due. “E’ … è per questo che sei venuto? Perché gli è successo qualcosa?”riuscì a chiedergli con un filo di voce, gli occhi sbarrati. Ok, può bastare pensò Noel, sedendosi sul bracciolo del divano. Le cose erano sempre andate così fra di loro: Liam partiva in quarta con gli insulti e una voglia matta di prenderlo a pugni, mentre Noel, sapendo che fisicamente avrebbe facilmente avuto la peggio e perché gli piaceva sentirsi concettualmente superiore, lo prendeva per il culo con tutta una serie di giochetti verbali e mentali nei quali il fratello puntualmente cadeva con una facilità disarmante. Non che Liam fosse stupido, tutt’altro, solo che era talmente trasparente e limpido nel riversare all’esterno i suoi pensieri e le sue emozioni in maniera diretta e impulsiva, senza la presenza del minimo filtro, che era per lui praticamente impossibile avere accesso ai meccanismi mentali sofisticati usati dal fratello. Noel aveva dalla sua anche un’innata abilità a giocare con le parole, e questo, tra le altre cose, faceva incredibilmente colpo in una persona che aveva sofferto di una balbuzie atroce da bambino. “Non è successo niente, stanno bene. Ma il punto è che non ti è passato neanche per l’anticamera del cervello di chiedermi qualcosa su di loro come qualsiasi persona sana di mente avrebbe fatto dopo anni passati a non sapere niente della propria famiglia. Hai recitato la parte dell’indifferente e poi ti sei incazzato. Finita lì.”. Liam, che si era appena ripreso dallo spavento di poco prima sbottò con un: ”E’ colpa tua” che suonò maledettamente lamentoso perfino alle sue di orecchie. “Ma mi spieghi come cazzo fa ad essere sempre colpa mia?” fu l’ovvia risposta del fratello.

Sperimentando la frustrazione totale che derivava dal fatto di sapere di essere nel giusto ma di essere incapace per chissà quale motivo di ribattere, Liam si ributtò pesantemente sulla poltrona, i gomiti sulle ginocchia, la testa fra le mani, gli occhi bassi, cercando di dare ordine ai propri pensieri che si urtavano e accavallavano fra loro come un nugolo di api impazzite. E’ perché hai preso la mia chitarra, che suoni meglio di me. Perché hai suonato le mie canzoni, che sono lontane anni luce dalle tue. Perché infatti non ti piacciono. Perché non ti piaccio io. Perché non è bastato stare lontani degli anni per farti cambiare idea su di me. Perché mi hai preso alla sprovvista. Perchè hai invaso il mio mondo senza chiedere il permesso, come sempre. Perché mi mancavi da morire. Perchè mi odi.

Quando, qualche ora prima, aveva alzato gli occhi e si era trovato Noel davanti, aveva pensato in una frazione di secondo e probabilmente tutto insieme: ”Noel! No, è impossibile! Cazzo, è lui. E adesso che faccio? Che vuole?”. Con uno sforzo abnorme, si era costretto a posticipare una reazione, una qualunque reazione, al momento in cui sarebbe stato di nuovo lucido. Se mai fosse successo di nuovo. La prima cosa che aveva deciso era che Noel doveva andarsene, Liam lo voleva fuori di lì subito, non riusciva neanche a pensare di lavorare con lo sguardo del fratello addosso. E si sarebbe sparato nelle palle piuttosto che far sapere a tutta Dalmeny che Noel Gallagher degli Oasis era suo fratello. Pur non facendo i salti di gioia, aveva deciso di mandarlo a casa sua: una volta finito il turno lo avrebbe raggiunto e avrebbe sentito cosa cazzo era venuto a fare.

Quel giorno Mood’s era stato particolarmente preso d’assalto, sembrava che tutta Dalmeny si fosse data appuntamento lì per pranzo. Sophie aveva faticato non poco a raggiungere il bancone e aveva ringraziato il cielo per poter passare oltre la fila e servirsi da sola dato che lo stomaco le brontolava già da un bel po’. Il padre, pur indaffarato come non mai, le aveva fatto cenno di avvicinarsi e mentre continuava a preparare panini e riempire bicchieri di carta, aveva cominciato a raccontarle quanto successo un’ora prima. “Oggi ho conosciuto tuo cognato”, “Chi?” aveva mugolato distrattamente Sophie con mezza foglia di insalata che le sporgeva dalla bocca. “Tuo cognato”. “Mio cognato? Ma di che parli? Io non ho cogn … oh, cavolo! – per poco non si era strozzata – Quale dei due? Paul?” aveva chiesto con un filo di speranza. “Ah, che diavolo ne so. Mica mi vado a ricordare i nomi dei fratelli sconosciuti del tuo fidanzato”, “Papà non scherzare, è importante! Era quello famoso o l’altro?”, “Questa la so! Era quello famoso!”. “Oddio - Sophie si era afflosciata sul bancone – Liam come l’ha presa?”, “Beh, diciamo che ho pensato di dovertelo portare in ospedale. E non sono ancora andato dietro. Dalla confusione che ho sentito deve aver spaccato un bel po’ di roba”. “Oddio – aveva ripetuto Sophie - Ma che si sono detti?”, “Niente. Liam gli ha dato le chiavi di casa vostra e gli ha detto di aspettarlo lì. Il fratello ha bevuto la birra che aveva ordinato, ha pagato il conto e se n’è andato. Senza lasciare mancia, tra l’altro”, “Ho capito. Dov’è Liam adesso?” Sophie si era alzata in punta di piedi per individuarlo tra la folla. “Ah guarda, è facile trovarlo. Basta che segui la scia di tutto quello che sta rovesciando per terra. Anzi, fammi un favore: prendi tu il suo posto e fallo andare a casa perché oggi mi è più d’impiccio che d’aiuto”.

Sophie aveva oltrepassato nuovamente il bancone cercando di farsi largo fra tutte quelle persone e quando finalmente l’aveva visto gli si era attaccata al braccio per richiamare la sua attenzione. Liam si era voltato e il cuore di lei aveva mancato un battito: così sconvolto non l’aveva visto mai. L’espressione era un mix malriuscito tra l’infuriato e lo spaventato. Gli occhi, nel pallore del viso, sembravano ancora più grandi del solito, più lucidi, ma il loro azzurro radioso si era incupito, virando verso un blu profondo, quasi nero. Sempre tenendolo per il braccio, si era fatta seguire fuori del locale. “Come stai?” gli aveva chiesto appena si erano chiusi la porta alle spalle. “Tuo padre ti ha detto di Noel?” Sophie aveva annuito, aspettando la risposta di Liam. “Perché è venuto, Sophie?” le aveva chiesto lui invece. Era agitato, si muoveva ancora più del solito, tremava quasi. “Probabilmente vuole solo parlare”, aveva osservato razionalmente lei. Liam si era passato nervosamente una mano fra i capelli: “Io non voglio parlare”, “E allora starai zitto e lascerai parlare lui”. Lo aveva guardato concentrata, cercando le parole giuste per tranquillizzarlo o almeno per non farlo andare ancora di più nel pallone. Liam aveva mosso la testa in un lento cenno di diniego, fissando un punto indefinito della strada: ”No. Non … non voglio ascoltarlo. Non … Io … io sto bene adesso – l’aveva guardata improvvisamente negli occhi – non penso più a com’era prima, quasi non lo ricordo più, lo sai. Perché cavolo è venuto qua?”, le aveva chiesto di nuovo con un tono di voce che trasudava una sofferenza antica, che veniva da lontano. Sophie aveva deciso in quel momento di prendere in mano la situazione: ”Sai che ti dico? Che dovevi aspettartelo. Non puoi pretendere di decidere tu per tutti. Se non volevi avere una sorpresa del genere dovevi deciderti a muovere il culo prima. Quanto tempo è che ti dico di andare a Manchester o almeno di telefonare? Mettiti nei loro panni, tu te ne saresti stato con le mani in mano ad aspettare per un tempo indefinito?”. Liam aveva abbassato lo sguardo, come a contemplare quell’ipotesi. Bene, ha ripreso a ragionare, Sophie glielo aveva letto in faccia, quasi fosse in grado di vedere le rotelline del suo cervello girare. “E’ inutile che continui a chiedermi come un disco rotto perché è venuto. Ormai è qui, vai a casa e chiediglielo tu di persona il perché. Vedi il lato positivo, dopo quella follia che mi hai regalato, risparmierai i soldi per il volo”, aveva sorriso Sophie, alludendo ai preziosi orecchini che Liam le aveva regalato per il suo compleanno, settimane prima. La frase aveva strappato un sorriso anche a Liam, che aveva replicato: ”Ho ancora quasi tutti i miei soldi, fattelo fare un regalo come si deve qualche volta, piccola”. Sophie gli aveva preso il viso fra le mani, lui si era voltato appena per baciarle il palmo di una. “Hai sorriso” aveva constatato lei. “Allora non è così grave”, “E’ un casino di proporzioni apocalittiche invece. E non so da che cazzo di parte girarmi”. “Sei cambiato Liam. Non sei più quello di cinque anni fa. Inizia a mostrargli questo. Calmati. E poi ascoltalo. Il resto verrà da sé”.  Liam non ne era stato convintissimo, ma le alternative non erano poi molte. Le aveva messo le mani sui fianchi e l’aveva baciata a lungo, come a prendere forza da lei. Quando si erano staccati Sophie aveva mormorato: ”Io vado a dormire dai miei stasera, prendetevi tutto il tempo che vi serve. E se non ti farai vivo entro domani mattina – aveva scherzato - ti manderò la polizia, va bene?”. Ridacchiando Liam le aveva risposto: ”Forse è meglio un’ambulanza”.

Camminando verso casa, aveva ripensato alle parole di Sophie. Era cambiato, lo sapeva lui per primo. Cresciuto, per certi versi indurito, maturato. Aveva cercato di immaginarsi la scena che si sarebbe svolta dopo poco. Si vedeva entrare in casa, salutare decentemente il fratello, chiedergli educatamente se poteva offrirgli qualcosa, per poi sedersi e chiedergli il motivo della sua visita. Si sarebbe mostrato perfettamente calmo e controllato. Aveva iniziato a salire i gradini di casa quando una melodia familiare proveniente dal suo soggiorno lo aveva fatto bloccare di colpo. Sta suonando la mia chitarra. Cazzo – aveva pensato atterrito - sta suonando le mie canzoni. Un attimo. Vuol dire che ha frugato tra le mie cose. Era bastato quel pensiero a mandare in fumo tutti i suoi propositi di mostrarsi disinvolto e noncurante. Blasèe. Sofisticato. La rabbia e il dolore che aveva accumulato avevano preso a sgorgare copiosamente come sangue da una ferita aperta. Da qualche parte nella sua anima aveva fatto di nuovo capolino quella parte di sé che pensava di aver definitivamente distrutto. No, questa soddisfazione non gliela do a quello stronzo, aveva pensato deciso come non mai. Quando aveva spalancato la porta aveva sentito una rabbia sorda e fredda che non aveva mai provato.

Com’era arrivato a stare seduto con la testa fra le mani, davanti allo sguardo impietoso di Noel? Per associazioni di idee pensò e poi, rialzando il capo, chiese: “Come mi hai trovato?”. “Dopo un anno che eri andato via mamma ha iniziato a dare i numeri per il fatto di non sapere dove fossi, abbiamo deciso di ingaggiare un investigatore privato e ti giuro che mai nella vita avrei pensato di fare una stronzata del genere. Comunque sia, abbiamo trovato questo tizio, tale Richardson, di cui nostra madre si è praticamente innamorata a prima vista. Gli abbiamo dato l’incarico e … beh, ti ha trovato uno che lavora per la sua agenzia dopo un bel po’ di mesi” gli rispose Noel seduto lì accanto sul bracciolo del divano, le braccia conserte. Altro che giornalisti a caccia di scoop, era un investigatore. Liam lo guardava a bocca aperta: ”Quindi sono almeno tre anni che mamma sa dove sono?”, “Più o meno tre anni, sì”, confermò Noel. Sbam! Altro cartone in piena faccia. “Sono tre anni che mamma sa dove vivo e non è venuta a cercarmi?”, ripetè incredulo più a se stesso che a Noel, che dal canto suo lo fissava con un sorrisetto: Prendi questa egocentrico del cazzo. “Se ti può consolare la cosa ha sorpreso pure me. Fece tutto un discorso sul fatto di lasciarti libero di scegliere quando tornare e bla bla bla. Insomma, cazzate. Io lo sapevo che volevi che ti cercassimo, l’ho sempre saputo. Ti conosco come le mie tasche, fratellino”, rispose Noel. “Non è ... – Liam si passò una mano sugli occhi - … non è per quello”. Sospirò. “Perché sei venuto Noel?” gli domandò sottovoce, guardandolo da sotto in su. Supplichevole. Dimmi che ti sono mancato, ti prego dimmelo.

Noel si sentì di nuovo incerto. “Sinceramente, non lo so. Ho seguito l’impulso del momento. Ogni volta che ho suonato in Canada non ho fatto altro che guardarmi intorno come uno scemo, come se dovessi apparirmi davanti all’improvviso, neanche fossi la Madonna. Ieri sera mi sono detto che quella storia doveva finire, ho detto a Maggie di prenotarmi il volo e sono andato direttamente all’aeroporto”, Liam si dimenticò per un attimo della loro situazione e chiese curioso: “Maggie? Lavora ancora per noi …eeeehm … per te?”, “Sì, è ancora lei la tour manager. E c’è sempre Marcus. E Jason e Phil. Alan no, la Creation è affondata”, “Davvero?”, “Già. Da non credere, eh?!”, Liam annuì, sovrappensiero. Poi: “Ho letto che Bone e Guigsy hanno lasciato”, “Diciamo di sì” rispose Noel con un sorrisetto che Liam conosceva bene e che gli fece sgranare gli occhi: “Li hai cacciati tu? Ma nooo. Quanto sei stronzo?!? Ma perché?”. Noel non rispose. Gli era piaciuto quello scambio, gli sembrava di essere tornato indietro nel tempo, quando ancora riuscivano a parlare come tutti i comuni normali, senza abbaiarsi contro e senza cercare di mettersi le mani addosso per ogni cavolata. Decise che quello era il momento giusto. “No. Adesso è il mio turno. Perché cazzo te ne sei andato? E stavolta non te la cavi dicendo che è colpa mia, stavolta me lo spieghi per filo e per segno”.

Liam tornò con la mente a cinque anni prima. Tornò a quando si sentiva costantemente diviso in due: da una parte c’era la sensazione di invincibilità pura che provava stando dietro a un qualsiasi microfono, dall’altra la costante paura che finisse tutto di colpo. Tornò a quando sembrava fosse tutto bello, a quando saliva sul palco e la folla iniziava a scandire il suo nome, a quando intonava le prime note e aveva la sensazione che la sua voce si liberasse dalla prigionia impostale dalla gola, quasi vivesse di vita propria. Ricordava gli autografi, le groupies che si affannavano ad attirare la sua attenzione, ricordava nottate intere passate a bere e non solo, perché tanto siamo giovani, famosi, ricchi e facciamo quello che ci pare e vivremo per sempre. Ricordava quando, seduto per terra con le gambe incrociate e gli occhi chiusi, la schiena poggiata contro la porta chiusa, ascoltava il fratello comporre. Gli era sempre piaciuto ascoltare la genesi delle canzoni che avrebbe fatto poi vivere cantandole, gli piaceva entrare per un attimo nella testa di Noel: si accorgeva subito quando imbroccava il giro di accordi giusto, quello che non avrebbe cambiato, quello su cui avrebbe costruito tutta la canzone. Gli piaceva quella vicinanza mentale con il fratello. Gli piaceva perché era l’unico momento in cui riusciva a leggergli nella mente , anche se solo per un attimo. Ma non c’erano solo cose belle, cinque anni prima.

Si mosse un po’ a disagio sulla poltrona: “Non ti ricordi come si erano messe le cose fra di noi? Sembravamo cane e gatto”, “Stronzate. Abbiamo sempre litigato”, “No. Non in quel modo”. Noel ricordò quell’ultima volta, quanto si era spaventato per quella mazza che continuava a colpire senza che lui riuscisse a fermarla: “Va bene, te lo concedo, non in quel modo. Poi?”. “Sentivo che volevi mandarmi via, che non mi volevi più nel gruppo, avevo paura che mi avresti dato il benservito da un momento all’altro”, Noel alzò le sopracciglia incredulo: “Mandarti via dal TUO gruppo, Liam? Ma sei fuori? Casomai sarei andato via io”, Liam scosse la testa: “E’ la stessa cosa. Resta il fatto che non mi volessi”. Noel riflettè un attimo e poi: “Ok, per certi versi è vero. Ma tu ti ricordi che razza di idiota eri? Con le cazzate che facevi si sarebbe potuto strozzare anche un cavallo. Sempre ubriaco, sempre fatto, sempre in giro a scopare con qualche troietta delle tue o a fare a botte con qualcuno. Mai una volta che potessi rilassarmi, neanche fossi il tuo baby sitter, per la miseria! E non c’era verso di farti fare un cazzo di soundcheck. E non eri mai in orario per un video o un’intervista, quando ti degnavi di farti vedere, chiaro. E durante i concerti dovevamo sempre stare sul chi va là perché potevi decidere all’improvviso che non ti andava di cantare e te ne andavi al primo pub che incontravi. E sempre lì a cambiarmi i testi. E sempre a lamentarti per qualsiasi cosa. E –“, “Va bene, va bene, basta – lo interruppe Liam alzando una mano in segno di resa – Hai ragione, ero un fottuto coglione. Lo so, lo sapevo anche allora”, “Oh, questo mi rincuora davvero tanto”, fece ironico Noel, innervosito non poco da quei ricordi. “Ma ti sei mai chiesto perché mi comportavo così?”, “Me lo chiedevo di continuo, deficiente. E lo chiedevo a te che mi rispondevi, che te lo dico a fare, che la colpa era mia, che ero noioso, vecchio dentro e che il tuo era l’atteggiamento giusto da rock star. E lo chiedevo anche a mamma che mi rispondeva che dovevo capirti, che eri solo un ragazzino, che prima o poi saresti maturato, che dovevo avere pazienza. E lo chiedevo anche a tutti gli altri che mi dicevano che eri solo in cerca della mia approvazione. Ma che cazzo di approvazione dovevo darti – si piegò in avanti avvicinando il viso a quello del fratello, guardandolo negli occhi - quando qualcuno mi svegliava in piena notte perché la polizia ti stava portando via ammanettato come un hooligan?”, Liam fece per scansarsi distogliendo lo sguardo dal fratello ma Noel lo prese per la maglietta e se lo avvicinò di nuovo: “Quale approvazione Liam? Me lo dici?”.  Lasciò la presa cercando di mantenersi calmo, ma stava arrivando al limite. Anche Liam fremeva, mentre si aggiustava la maglietta spiegazzata. Stava tentando di aprirsi e il fratello non faceva che rigirare il coltello nella piaga. Ma possibile che non ci arrivasse? Era davvero così difficile da capire, porca miseria?

“E’ che tu non capisci …” iniziò continuando a lisciare la stoffa. “Ma che cazzo è che devo capire? – sbottò urlando a quel punto Noel – E’ una vita che cerco di capirti, ma perché devo sempre capirti? Perché non provi tu a capire me per una cazzo di volta? Mi hai lasciato solo in un mare di merda perché eri un bambinetto viziato che voleva per sé tutte le attenzioni, basta! Non ce n’è un’altra di spiegazione!”, Noel si era alzato, imitato subito da Liam: “Io me ne sono andato perché tu volevi che me ne andassi!”, “Ma non ho mai detto niente del genere Liam!, “Non c’è bisogno di dirle certe cose! Certe cose si sentono e basta! Sentivo, sapevo, che ti davo fastidio! Come ho sempre sentito e saputo che a te di me non è mai fregato un cazzo di niente!”, Noel alzò l’indice con fare intimidatorio: “No eh, non farlo, ti avverto. Non iniziare con queste stronzate!”, “Ma è vero! Ed è sempre stato così! Da piccoli, mi mollavi appena potevi, non facevi che lamentarti di dover dividere la stanza con me, eri sempre un alzare gli occhi al cielo appena mi vedevi. Tu non mi hai mai sopportato!”, “Ma tu ti rendi conto di che cosa mi stai parlando? Fra un po’ mi accuserai di averti nascosto il ciuccio! Tu hai avuto un vita fin troppo facile, te lo dico io! Bastava un sorriso o una mezza lacrima e ottenevi sempre tutto quello che volevi! Papà più di due sberle non ti ha mai dato, io venivo regolarmente massacrato, perché? Te lo dico io perché! Perché l’unico figlio che lui riconosceva come tale eri tu! Perché gli facevi fare bella figura con gli amici, era ovvio preferire un bambino bello, che ha la risposta sempre pronta e fa quel cazzo che vuole quando vuole. Faceva più figo, come dici tu, di un ragazzino che ci metteva venti minuti solo per dire “ciao” perché si incastrava su ogni cazzo di sillaba! Gli piacevi perché eri uguale a lui!” Noel sbiancò. Cazzo, ma come mi è uscito? Cercò frettolosamente di riparare: “No, aspetta, non volevo dire questo”. Ci volle un minuto buono prima che Liam rispondesse: ”Potevi prendermi a pugni, mi avresti fatto meno male. E comunque questo spiega molte cose. E dimostra che ho ragione. L’unica volta che non volevo averne”. Noel alzò le mani scuotendo vigorosamente la testa: “No, no, no. Non volevo dirlo, sono solo incazzato. Non penso che tu sia uguale a papà”.

Liam si era girato verso la finestra dando le spalle al fratello: “E invece è proprio quello che pensi. Finalmente l’hai tirato fuori. E pensi anche che sia iniziato tutto con me, perché papà ha cominciato a picchiarvi dopo che sono nato io”,“Papà è sempre stato uno stronzo totale anche appena sposato”, “Ma solo con la mamma. Probabilmente non sarebbe stato il padre dell’anno, ma quantomeno non vi avrebbe picchiati ogni santo giorno. Non c’erano soldi per tre figli e-“ “Non ce n’erano neanche per due se è per questo”, “Ma mamma a voi due vi ha voluti, a me no. Sono arrivato per sbaglio. E comunque avrebbe voluto una femmina. Vedi? Sono stato un casino fin dall’inizio”, tentò di controllarsi sdrammatizzando ma ormai aveva le lacrime agli occhi e la voce gli si andava incrinando. Noel riconobbe quel tremito nella gola del fratello e istintivamente fece un passo verso di lui. Liam continuò: “Per questo mamma mi ha viziato in quel modo, perché si sentiva in colpa”. Voltò per un attimo il viso verso Noel, un lieve e fugace sorriso gli piegò le labbra: ”Pensavi che non me ne fossi accorto? Lo so che sono sempre stato accontentato in tutto. Mi rendevo pure conto che non avrei dovuto approfittarne ma come facevo? Era così comodo”. Stettero per un po’ nella stessa posizione, Liam con lo sguardo puntato fuori della finestra, verso quello scorcio che gli piaceva tanto, dove giù giù, in lontananza, il verde degli alberi si confondeva con l’azzurro del lago, perso in pensieri e considerazioni che gli procuravano un dolore profondo, radicato, che nasceva dal passato. Noel appena dietro di lui, tanto vicino che sarebbe bastato un niente per toccarlo, sapendo di dover dire o fare qualcosa, ma senza azzardarsi a dire o fare niente. “Sai – disse a un certo punto Liam, sempre con quella voce che sembrava sul punto di spezzarsi, ma con un tono dolce, appena velato di tristezza – mi sarebbe piaciuto se nonostante tutto fossi riuscito a volermi bene. Sarebbe stato bello”.

Noel si sentì come se gli avessero sparato. Sentì proprio un tonfo sordo in mezzo al petto e per un attimo ebbe l’assurda certezza che se si fosse guardato, ci avrebbe visto un buco, sul petto. Non fu in grado di rispondere, di nuovo. E Liam continuò, come se stesse parlando a sé stesso, come se stesse pensando ad alta voce: “Ci ho pensato tanto in questi anni e sono arrivato alla conclusione che tutto quello che facevo fosse un modo per sentirmi amato. Se mi avessi mostrato di volermi bene anche dopo aver sfasciato un locale o aver rovinato un concerto, allora magari potevo pure crederci al tuo affetto. Non lo facevo apposta, non stavo a ragionarci su, ma credo che il senso fosse questo”. Si asciugò gli occhi appena inumiditi con una mano, poi si voltò, passò oltre Noel urtandolo leggermente con la spalla per poter passare. Andò verso la cucina e stampandosi in faccia un’espressione di allegria esagerata, scherzò: “E dopo questa gita nella nostra meravigliosa infanzia e nelle nostre menti fottutamente bacate, ti va di bere qualcosa?”. Noel rimase dove si trovava, non riuscendo a stare dietro al cambio di rotta imposto dal fratello. Liam aveva iniziato a parlare ad un volume troppo alto, lo infastidiva. Era scosso, troppo scosso. Si sentì di nuovo immerso nella nebbia, come quando prendeva gli ansiolitici. Di nuovo quella sensazione odiosa di ovatta nella testa. “Attacchi di panico”. Liam smise di parlare e guardò il fratello, che continuò: “Ho sofferto di attacchi di panico. Per parecchio tempo, non riuscivo ad uscirne, non riuscivo più a comporre” disse molto velocemente, quasi mangiandosi le parole. “Una volta, dopo una tirata, mi sono sentito male, male seriamente intendo. Il dottore che mi ha soccorso mi ha detto che mi stavo distruggendo, che mi stavo avvelenando e che l’unico modo per non morire prima del tempo era smettere completamente con ogni tipo di droga. Così ci ho dato un taglio netto. All’inizio non è stato difficile come mi ero immaginato, ma all’improvviso sono iniziati quei maledetti attacchi di panico, così, dal nulla. La prima volta ho pensato che stessi morendo sul serio, che la decisione di ripulirmi era arrivata troppo tardi, ero davvero convinto che fosse un infarto. Ma non lo era, naturalmente”. Mentre parlava Liam era tornato indietro, l’aveva spinto dolcemente ma risolutamente su una sedia della cucina e gli si era seduto accanto. Noel continuava a raccontare, come una brutta favola, di quel tunnel che sembrava volesse inghiottirlo e dal quale era uscito da poco e con una fatica immane. E mentre parlava, parlava, parlava, si sorprese a pensare che quel lato di Liam se l’era proprio scordato.

Lontano da lui si era ritrovato a pensarlo nella sua luce peggiore, che poi era quella più vistosa. L’assoluta arroganza di cui dava prova da sbronzo o perfino da sobrio. L’oppimente volgarità del linguaggio – che poi a voler essere onesti era anche una sua caratteristica, ma sulla bocca del fratello minore, per chissà quale motivo, lo trovava brutto. Le esplosioni delle sue emozioni, talmente dirette da risultare paradossalmente teatrali. Si era dimenticato di quanto Liam potesse essere gentile e realmente interessato agli altri, la sua era una curiosità sincera, buona, ingenua, senza secondi fini. “Ti riferivi agli attacchi di panico quando mi hai detto che non sapevo cosa avessi passato?”, “Soprattutto a quelli, sì” annuì Noel.  Liam stava per aggiungere qualcosa ma si fermò perché aveva colto quelle specie di tic che agitavano le mani, la testa e i piedi del fratello quando doveva dire qualcosa e non sapeva come fare. Peggy faceva sempre finta di niente quando vedeva Noel agitarsi in quel modo e ricordandolo, Liam si dedicò con grande interesse all’ispezione del braccialetto che aveva al polso, facendolo strusciare contro la pelle e mettendosi a contarne la maglie che lo componevano. Aspettando. Finalmente Noel si decise ad aprire bocca: ”Sai, il medico mi disse che è abbastanza frequente soffrire di attacchi di panico quando ci si disintossica. Però io non ero sicuro che fosse proprio così. O almeno penso che non fosse solo quello il motivo. Io credo che … credo che c’entrassi tu in qualche modo”. “Io?” chiese sgomento Liam. “Sì, tu. Il fatto che te ne fossi andato. Credo che … insomma … credo che fosse perché mi sentivo in colpa, anche se mi sarei ucciso prima di ammetterlo. Il primo anno ero talmente incazzato e impegnato che neanche mi ero accorto realmente della tua assenza. Ma dopo …  – la voce di Noel diventò un sussurro - beh, dopo hai iniziato a mancarmi sul serio e te l’ho detto, mi sentivo in colpa. Mi sembrava di aver sbagliato tutto e di non aver capito niente. E prima, quando hai detto che sarebbe stato bello se ti avessi voluto bene …”. Liam, che si era dovuto avvicinare ancora di più per riuscire a sentire il bisbiglio del fratello, si affrettò a rassicurarlo: “Noel ascolta, non ti devi sentire obbligato a farmi chissà che dichiarazione. E’ andata così, non è stata colpa di nessuno. O magari è stata colpa di papà ma sicuramente non nostra. Non fa niente, ormai me ne sono fatto una ragione, non mi importa neanche più”. Noel alzò la voce tornando risoluto a un volume normale: “Importa a me però, soprattutto se sei convinto di una cosa sbagliata. E ora apri bene le orecchie perché te lo dico adesso e poi non te lo ripeterò più finchè campo”. Si costrinse a voltarsi e a guardare il fratello negli occhi, voleva essere sicuro che lo ascoltasse e capisse bene. Era la prima volta che faceva qualcosa del genere e solo lui sapeva quanto gli costasse: “Ti voglio bene, non posso non volertene. E ci ho provato a non volertene, eh?! Quindi posso dirlo a maggior ragione. Ci sono stati lunghi periodi duranti i quali ti ho detestato, ma non sono mai riuscito a fregarmene totalmente di te. E non ci riuscirò mai probabilmente. Sei mio fratello, ti ho visto nascere, crescere e anche se la maggior parte delle volte sei una totale testa di cazzo, ti voglio bene Liam. Capito? Ti voglio bene”.

Fuori il sole era ormai tramontato e i lampioni accesi rischiaravano le strade della piccola Dalmeny. La casa di Liam e Sophie era ancora immersa nel buio invece, perché i due fratelli non si erano accorti del passare delle ore e anche quando più che vedersi erano costretti ad immaginarsi, avevano continuato, con il cuore che batteva come un tamburo, a dirsi cose che nessuno avrebbe mai ascoltato al di fuori di loro stessi. Forse per questo Noel era riuscito nell’impresa di svelarsi in quel modo a suo fratello e Liam dal canto suo si era potuto permettere di accettare quelle frasi semplicemente, senza dover cercare per forza un’obiezione o anche solo una risposta.

Il primo a scuotersi fu comunque lui, si avvicinò all’interruttore della luce ma poi deviò verso il lume. Non si sentiva pronto a guardare il fratello sotto una luce accecante e sapeva che per Noel sarebbe stato ancora più penoso. Sotto quella luce filtrata, delicata, Noel tirò fuori una foto dal portafoglio e la mostrò a Liam: ”Guarda che ti sei perso a scappare di casa come una ragazzina di tredici anni”. Liam guardò con le sopracciglia aggrottate la foto di un Noel neonato, stranamente vestito con una tutina rosa. Solo dopo qualche secondo mise a fuoco quella che doveva essere l’identità di quell’esserino: ”Hai una figlia?”, domandò sbalordito. Noel padre? E questa non se l’aspettava proprio! Noel guardò orgoglioso la foto: ”Hai visto? Sono un fottuto genio pure quando si tratta di fare bambini. Guarda che meraviglia”. Liam riprese la foto e mettendosela vicino al viso gli rispose: ”Certo che è bella. Assomiglia tutta a suo zio”, “Non c’entra un cazzo con te. E’ la mia copia esatta. Solo al femminile”. “E’ vero, ti somiglia tanto. Ma per sua fortuna è bella come me”, continuò imperterrito il novello zio restituendo la foto al legittimo proprietario. “Col cazzo. Se vuoi qualcuno che ti somigli fallo tu un figlio. Ah ti prego fallo. Mi divertirò da morire a vederti passare tutto quello che abbiamo passato noi con te”. Un figlio. Liam non ci aveva mai pensato prima ma l’idea gli piaceva proprio. Sì, gli sarebbe piaciuto avere un figlio. Anzi no, una figlia. Tanto per competere meglio con Noel. E poi un paio di maschietti. Ne voleva uno dietro l’altro, voleva che crescessero tutti e tre insieme. Doveva parlarne con Sophie. Si vedeva già proiettato nel futuro, lui, Sophie e i loro tre figli, belli come il sole. Ma prima doveva sposarla, le cose si fanno per bene. Preso da questi pensieri chiese al fratello: ”Cos’è che dicevi a proposito di Songbird?”

Saskatoon Airport, 1 Maggio 2000

Dopo aver effettuato il check in, Noel fece per affrettarsi verso il gate, ma prima si girò e chiese a Liam: ”Allora, ci penserai?”, “Noel, ne abbiamo parlato tutta la notte, non credo proprio”, “Perché sei un fottuto cocciuto. E ti caghi in mano all’idea”, “Io non mi cago in mano. Mai”, “Come no. Sei un fottuto cocciuto pisciasotto”, “Ma la smetti? Sono solo una persona seria”. Noel lo guardò con un sopracciglio alzato e Liam si mise a ridere: ”Vabbè, una persona quasi seria”. Si fissarono con uno sguardo colmo di sottointesi, di domande, di risposte e di domande senza ancora delle risposte. L’altoparlante annunciò il volo per New York. “Ok, devo andare. Ci vediamo, va bene?”, “Sì, ci vediamo. Per Natale Anais conoscerà lo zio più fottutamente figo della storia”. Inforcando gli occhiali scuri e avviandosi, Noel scosse la testa: ”No, ci vedremo prima di Natale”, “Noel cazzo! Ho detto di no!”. Il fratello non si degnò neanche di girarsi e lo salutò alzando il dito medio: ”Vaffanculo pisciasotto”, “Vaffanculo tu, nano”.
 


Siete arrivati fino a qui? Siete tutti interi? Sì? Oddio, mi commuovo!

Mi dispiace per il capitolo lunghissimo (almeno per i miei standard), non mi piaceva molto l’idea di pubblicarne uno così over size rispetto agli altri, ma l’idea di tagliarlo in due mi piaceva ancora meno. E’ un capitolo importante, anzi, IL capitolo per eccellenza nella mia fic e credo che avrebbe perso in pathos troncandolo, perché è un continuo saliscendi di eventi, umori, emozioni. Se vorrete farmi sapere cosa ne pensate ve ne sarò grata perché è stato un duro lavoro! Sono ben accette anche le critiche ovviamente, anche perché l’ho letto e riletto talmente tante volte che non sono riuscita a darne un giudizio obiettivo!

Ho inserito qualche frase presa da interviste, ve ne sarete accorti.

Le date non sono messe a caso, lo “Standing on the shoulder of giants Tour” fece sul serio tappa a Toronto il 29 Aprile 2000 e a New York due giorni dopo.

Songbird è stata scritta l’anno successivo, ma ci stava taaaaaaaaaaanto bene, no?

Quando Liam pensa agli eventuali figli pensa ovviamente a femmina-maschio-maschio perché così li ha nella realtà (anche se la prima non l’ha mai riconosciuta).
 
La nostra avventura si sta per concludere, il prossimo capitolo sarà l’ultimo e sarà in realtà un epilogo. L’ho immaginato corto, ma non ve lo posso dare per certo perché ho imparato che spesso i capitoli si scrivono praticamente da soli!

Grazie mille a tutti voi che continuate a seguirmi! Su su, ormai lo sforzo è quasi finito !!! Cheers!

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Capitolo 18
*** Epilogo ***


Epilogo

Londra, Wembley Stadium, 21 Luglio 2000

“Jeremy aspetta che mi sposto, qui c’è troppo casino, non sento niente” disse frettolosamente la bionda giornalista al collega che le telefonava dalla redazione. Corse di nuovo nel backstage lasciandosi alle spalle la zona tra il palco e le transenne, i cancelli erano stati aperti da un bel po’ di tempo ormai e lo stadio si era praticamente riempito, per la maggior parte di inglesi ma c’erano ragazzi provenienti un po’ da tutta Europa: gli Oasis di Noel Gallagher erano un ulteriore scusa per andare a visitare Londra per la prima volta o per tornarci di nuovo. “Ok, allora, che dicevi?”, “Dicevo … c’è qualcosa che bolle in pentola Fran, non è normale un soundcheck così blindato, hanno chiuso pure l’area intorno allo stadio. Vedi se riesci a estorcere qualcosa a Noel nell’intervista, magari riusciamo a mandarlo in onda al telegiornale prima del concerto”. Estorcere qualcosa a Noel. Oh, beh, niente di più facile, come no. Tanto non ero già abbastanza agitata, ci mancava solo questa.

Il backstage era il solito via vai frenetico di roadie, giornalisti, ingegneri del suono, tecnici delle luci, vip veri o presunti e un’altra miriade di persone. Noel era alle prese con le interviste pre-show e gli altri componenti del gruppo chiusi nei camerini a chiacchierare, fumare, strimpellare qualcosa, in attesa che il tempo passasse e si arrivasse all’ora fatidica dell’entrata in scena.

Quando arrivò il turno di Fran, Noel, occhiali da sole in faccia, sigaretta accesa in mano e manager qualche metro alla sua destra, era già palesemente stufo. La giovane giornalista si sentì incredibilmente in imbarazzo ma iniziò coraggiosamente a snocciolare la sequela di domande che si era preparata. Noel rispondeva evidentemente annoiato a morte, sembrava davvero che non vedesse l’ora di finirla. E in effetti l’unico guizzo lo ebbe alla fine, quando Fran gli chiese se i fans si sarebbero dovuti aspettare qualche novità. Noel guardò per un attimo Marcus che in risposta scosse la testa e poi tornò con lo sguardo sulla ragazza che aveva di fronte: ”Perché mi fai questa domanda?”. Strabiliata dall’aver ottenuto la sua attenzione, Fran gli rispose leggermente titubante: ”Perché durante il soundcheck è stato impossibile anche solo avvicinarsi allo stadio”. “C’è stato un allarme bomba” spiegò Noel continuando a fissarla, come a saggiarne la reazione. Fran sgranò gli occhi: “Ti hanno fatto provare con un allarme bomba in atto?”, “Eh, non c’è più religione!” chiosò Noel aspirando una boccata dalla sigaretta. Intervenne Marcus: “E’ tardi, dobbiamo andare”. Appena Noel e il suo manager furono usciti dalla stanza, Fran si attaccò al telefono: ”Jeremy, avevi ragione, stanno architettando qualcosa per stasera, mi ha sparato una balla colossale”.

Camminando lungo il corridoio Marcus brontolò: “Un allarme bomba? Ma non ne avevi pronta una migliore?”, Noel ridacchiò divertito aprendo la porta del camerino: “Ma è vero! C’è sul serio una bomba!”. Il sorriso però gli morì sulla bocca non appena guardò nella stanza. Entrò a grandi falcate, guardandosi intorno freneticamente mentre impallidiva: ”Dove cazzo è?” urlò rivolto a Marcus “Dove cazzo è andato? Perché è stato lasciato da solo?”. Marcus non fece in tempo a rispondere che si sentì uno scroscio d’acqua contemporaneo all’apertura di una porta interna al camerino: “Ma che cavolo urli?” chiese Liam uscendo dal bagno. Noel si accasciò su una sedia passandosi una mano sulla fronte: “Tu mi farai prendere un colpo prima o poi. No, dico sul serio. Io morirò perché tu mi farai prendere un infarto”. Liam gli battè una mano sulla spalla tra il consolatorio e la presa per il culo: ”La prossima volta che devo pisciare ti avverto".

Dopo pochi minuti Maggie fece capolino chiedendo se fossero pronti, la domanda di rito che significava una cosa soltanto: è il momento di uscire sul palco. Noel alzò gli occhi sul fratello: “Ci siamo. Tutto a posto? Stai bene?”, “Certo che sto bene, me ne sbatto del concerto. Anzi, non vedo l’ora che finisca: io voglio vedere mamma e Paul” gli rispose sbrigativo Liam, già con un piede nel corridoio. In pochissimi infatti sapevano del ritorno di Liam e sia Peggy che Paul non erano stati tra i prescelti: l’intento era stato quello di fare a entrambi una sorpresa, solo che Liam non aveva previsto l’ansia che gli sarebbe salita al pensiero di rivederli.

Sophie stava immobile a lato del palco. Non riusciva a smettere di guardare il pubblico. Tutta quella gente, decine e decine di migliaia di persone … si sentiva tremare al pensiero che Liam avrebbe dovuto affrontare quella marea umana, non era affatto sicura che ce l’avrebbe fatta. L’aveva anche detto a Noel la sera prima, sfidando il disagio che le procurava parlare con lui. Non erano in confidenza e come avrebbero potuto? Non si erano mai visti né parlati e l’idea che Sophie si era fatta di lui si basava sui racconti, non certo lusinghieri, che Liam le aveva fatto durante quegli anni.

Lei e Liam erano arrivati a Londra il giorno prima ed erano stati infilati in fretta e furia in un suv che li aveva portati in un hotel così lussuoso che Sophie era rimasta stordita. Quel luccichio, quegli spazi così grandi e ariosi, gli arredi preziosi … beveva con gli occhi tutto ciò che la circondava, toccava i tendaggi di seta, sfiorava con la mano il morbido tappeto bianco, talmente candido che sembrava appena uscito dal negozio, osservava il lucido pavimento di marmo e le boccettine argentate del bagno senza osare toccarle per timore di romperle. Liam, appoggiato a una parete con le braccia conserte, la guardava divertito girare nell’enorme suite con lo sguardo trasognato. Improvvisamente però si era fermata e gli aveva chiesto, con un’espressione seria che lui non si aspettava: ”E tu eri abituato a tutto questo?”, “Beh, quando me ne sono andato non eravamo ancora arrivati a questo livello ma più o meno sì”. Una strana sensazione si era impadronita di lei, un misto di incredulità e stupore e … soggezione. Liam, a differenza sua, si muoveva con naturalezza in quell’ambiente così estraneo e per certi versi opposto a quello in cui era abituata a vederlo e questo la metteva in imbarazzo,  in soggezione appunto, come se una volta atterrato in Inghilterra, si fosse trasformato in una persona che lei non conosceva. Non aveva fatto in tempo ad approfondire quel pensiero perché qualcuno aveva bussato alla porta. E finalmente aveva potuto conoscere Noel.

L’aveva visto altre volte in televisione e le era sembrato strano trovarselo di fronte. Non aveva la fisicità di Liam né i suoi tratti belli e regolari eppure la sua presenza faceva colpo, esattamente come quella del fratello. Erano stati gli occhi a colpirla, come era successo anche con Liam, solo che mentre i suoi erano di un azzurro caldo e solare, quelli di Noel, più chiari, risultavano freddi. E Sophie si era trovata a sperimentare sulla propria pelle quello di cui le aveva sempre parlato Liam: la sensazione di essere scrutato dentro, soppesato, perforato, giudicato ogni volta che il fratello lo fissava. Per tutto il tempo che Noel era stato con loro lei era rimasta in disparte e quando poi se n’era andato, con la scusa di rivedere la hall dell’hotel “proprio proprio bellissima”, l’aveva praticamente rincorso raggiungendolo davanti l’ascensore. Un po’ intimorita aveva iniziato a parlare: ”Hai detto che il concerto è andato sold out, questo vuol dire che domani suonerete davanti uno stadio intero vero?”, lui aveva annuito e lei aveva continuato: ”Ma tu sei sicuro… voglio dire, Liam sono anni che … insomma, non è un rischio buttarlo davanti così tanta gente? Non era meglio farlo iniziare con qualcosa di più … ridotto?”. Noel aveva sorriso e il celeste di quello sguardo duro, con grande sorpresa di Sophie, si era addolcito: “Tu non l’hai mai visto esibirsi vero? Ecco, mio fratello è nato per esibirsi, è quello che fa meglio e che gli riesce alla perfezione. Tutti i comuni mortali si innervosirebbero davanti alla bolgia di domani, compreso il sottoscritto che pure c’è abituato, ma Liam no. Lui si ecciterà, andrà su di giri, ma non si agiterà, vedrai”.

La folla rumoreggiava e Sophie era praticamente ipnotizzata da quello spettacolo. Si riscosse con un sussulto solo quando dalle casse venne sparata una musica a tutto volume che rimbombò per tutto lo  stadio: si voltò e vide arrivare prima la tour manager, poi Noel seguito dagli altri ragazzi della band. Per ultimo Liam. Le sembrò che il tempo frenasse rapidamente, quasi a volerle regalare una scena a rallentatore. E fu guardandolo avanzare verso il palco, la camminata sicura, la testa alta, l’espressione concentrata, il viso impassibile, con appena l’ombra di un sorriso che sapeva di sfida, che capì. Liam non si era trasformato in un’altra persona, semplicemente le aveva permesso finalmente di avere accesso all’unica parte di sé che le aveva sempre nascosto. Eccola là quella parte della sua vita che lei non aveva mai visto. Eccolo quel qualcosa da cui era scappato ma che lei gli aveva sempre sentito vivere sotto pelle, quasi fosse un fuoco che gli bruciava dentro. Eccolo là, finalmente adesso ce l’aveva davanti. E le piaceva. E capiva.

Uscirono sul palco prima Alan, Gem e Andy, subito dopo Noel che andò a prendersi l’ovazione da cui era stato ovviamente accolto al centro del palco. Poi successe una cosa strana, che spiazzò il pubblico: Noel, invece di rimanere al suo posto in mezzo al palco, si spostò alla sua sinistra mentre un risolino beffardo gli si disegnava in faccia. Migliaia e migliaia di occhi seguirono interdetti quella deviazione e poi, quasi fossero guidati da un’unica forza, si spostarono al centro del palco. Che sta succedendo? era la domanda che tutti si stavano facendo. La risposta arrivò pochi secondi più tardi insieme a una figura che comparendo alla destra della batteria, la superò e prima di dirigersi verso il microfono sorretto dall’asta si chinò a prendere un tamburello, in un gesto così familiare che tutti i 60.000 presenti, nonostante gli anni trascorsi, riconobbero immediatamente.  Per un attimo nello stadio calò un silenzio surreale e in quell’attimo Liam, senza mai abbassare lo sguardo, si portò sul bordo del palco e lì si fermò, in attesa, le gambe larghe, una mano nella tasca anteriore dei jeans, l’altra a far vibrare il tamburello. L’attimo successivo dal pubblico partì un boato. Liam tornò indietro e come se niente fosse mai successo, come se mai se ne fosse andato, come se negli ultimi cinque anni non avesse fatto altro che quello, si avvicinò al microfono annunciando semplicemente il titolo della prima canzone in scaletta: ”Go let it out!”.

La sua voce si alzò sicura, appena più rauca di come tutti la ricordavano. Mentre procedeva pezzo dopo pezzo guardava suo fratello che suonava pochi metri più in là, guardava Sophie che gli sorrideva emozionata da dietro le quinte, guardava il pubblico senza però vederlo veramente, erano migliaia di persone ma per Liam poteva essercene anche una sola, poteva anche non esserci nessuno, non avrebbe fatto nessuna differenza, avrebbe cantato con la stessa intensità, con la stessa potenza, come se ogni canzone fosse stata l’ultima. Le canzoni scritte da Noel gli entravano dentro e lui le restituiva al pubblico colorate di qualcosa di nuovo, di diverso, di caldo. Come cazzo aveva potuto rinunciare a tutto questo? Come cazzo aveva potuto pensare di poter vivere senza un microfono davanti e una canzone da cantare? Sul palco, sotto i riflettori … era quello il suo posto, quello e nessun altro. Grazie, pensò. Gli uscì dall’anima, spontaneo, verso chi non avrebbe saputo dirlo e anche in seguito, ricordando quel momento, non seppe mai a chi quel “grazie” venne indirizzato, sta di fatto che lo pensò. E pensandolo si commosse, fu un attimo, non se ne accorse nessuno.

Il concerto filò liscio come l’olio e, almeno per Liam, fu velocissimo: gli sembrava di aver appena iniziato a cantare che erano già arrivati alla fine. Non si dilungò troppo nei saluti al pubblico, d’altronde non l’aveva mai fatto, buttò lì un: “Grazie! Ci vediamo!” e corse nel backstage. Madido di sudore, il cuore al galoppo, lo sguardo che si spostava frenetico di viso in viso, procedeva velocemente a zig zag scansando tutte le persone che cercavano di avvicinarglisi. Fece appena in tempo a vedere con la coda dell’occhio un uomo alto e corpulento che si sentì afferrare da dietro: un attimo dopo due braccia forti quasi lo stritolavano da quanto lo stringevano. “Cazzo, mi fai male!” mugolò mezzo soffocato dalla stoffa di una camicia che non era la sua. Ma nella sua voce non c’era traccia di rabbia e non tentava di divincolarsi per sottrarsi a quella stretta: era suo fratello Paul. Lo stesso Paul che senza neanche rispondere gli fece fare un mezzo giro su stesso mettendolo di fronte alla persona che più gli era mancata in quegli anni: sua madre.

Faccia a faccia, occhi negli occhi. Un paio di secondi, non di più, poi sulla guancia di un esterrefatto Liam atterrarono tre ceffoni, uno dopo l’altro, secchi, sonori, da lasciargli il segno. “Non fare mai più una cosa del genere, capito?” gli mormorò sua madre abbracciandolo. Liam chiuse gli occhi e si lasciò abbracciare, quasi cullare, nonostante la statura della madre lo costringesse a stare piegato in due. Respirò a pieni polmoni quel profumo che sapeva di casa, di passato, di piccole gioie e grandi dolori mentre la mamma lo teneva stretto accarezzandogli i capelli, come quando era piccolo e voleva essere tranquillizzato. La guancia sinistra gli bruciava e nonostante cercasse di assaporare il tepore dell’abbraccio materno anche per tutte le volte che lo aveva rimpianto con nostalgia, un po’ gli veniva anche da ridere: doveva aspettarsela una reazione di quel tipo da lei.

Alla fine si staccarono e Liam la prese per mano. Cercò Sophie con lo sguardo dicendo alla madre: ”Mamma vieni, ti devo presentare una persona”.
 
 
 
E così quest’avventura si è conclusa! Ho immaginato un bel Happy Ending, sperando che sia di buon auspicio anche per la realtà (ma ci credo poco!). Ho fatto una specie di gioco delle parti: quello del 21 Luglio 2000 a Wembley fu il concerto in cui tornò Noel dopo aver lasciato il gruppo per circa tre mesi, qui a tornare invece è Liam.

Grazie a tutti voi che avete seguito dall’inizio questo parto della mia mente malata, grazie a chi ha recensito, a chi ha seguito in silenzio, a chi ha inserito questa fic tra i preferiti/seguiti/ricordati, grazie a chi ha inserito la sottoscritta addirittura fra gli autori preferiti (questa ve la potevate risparmiare!!!).

Grazie a GasPanic!, RememberWhen, SheeranIsMyLove e in particolare a MrClean, WindofChange e CharlieMadFerIt, quest’ultime sempre presenti con complimenti (immeritati), suggerimenti e consigli, in pubblico e in privato.

Grazie perché gli AU e le What if? Sono sempre un po’ ostiche e spesso non vengono lette a prescindere.

Grazie ai fratelli scemi. Sono cresciuta con voi, Live Forever lads!

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