Orchidea Selvaggia

di scandros
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Proposta di matrimonio ***
Capitolo 2: *** La piuma scarlatta ***
Capitolo 3: *** Al sapore di the ***
Capitolo 4: *** Menta e cannella ***
Capitolo 5: *** Il canto d'amore di Ofelia ***
Capitolo 6: *** Occhi di Chimera ***
Capitolo 7: *** Cuore Graffiato ***
Capitolo 8: *** Sogni d'Incanto ***
Capitolo 9: *** Preludio di un'intensa notte di mezz'inverno ***
Capitolo 10: *** Pensieri e parole ***
Capitolo 11: *** Le relazioni pericolose ***
Capitolo 12: *** La via della ragione ***
Capitolo 13: *** Il dolce meriggio ***
Capitolo 14: *** Il Salone delle Feste ***
Capitolo 15: *** Nuda verità ***



Capitolo 1
*** Proposta di matrimonio ***


href="./Cap%201%20-%20Proposta%20di%20matrimonio_file/filelist.xml"> Da qualche giorno oramai nella contea di Middlesburgh si respirava aria astiosa e tempestosa

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

Proposta di matrimonio

 

Capitolo 1

 

 

 

Villa Gatsby, regione di Middlesburgh.

 

Un lampo squarciò il cielo plumbeo. Le colline aldilà del parco secolare sembrarono illuminarsi a giorno in quel pomeriggio invernale. Il vento di febbraio soffiava gelido e impetuoso tra gli alberi spogli, sferzando ogni singolo ramo con astio, quasi a volerli denudare delle più mere verità.

L’ennesimo tuono sembrò ridestare il fuoco che lento scoppiettava nel camino. Il crepitio improvviso di un tizzone ardente sembrò risvegliare il conte Gatsby da uno strano torpore.

Da qualche giorno oramai nella contea di Middlesburgh si respirava aria astiosa e tempestosa e l’oramai cinquantenne conte Gatsby riprese a camminare su e giù per la biblioteca in cerca di una soluzione ai suoi problemi familiari.

-         Caro, così consumerai il prezioso tappeto che hai fatto importare dalle Indie! – gli disse ironica Lady Eleanor, la bella moglie del conte. Arrestò il passo e guardò la moglie, la cui bellezza non sembrava per nulla scalfita dal vecchio signore del tempo. Le andò vicino incedendo con baldanza e aria di sfida. Per nulla intimorita dall’andatura minacciosa del consorte, appoggiò il suo ricamo sul tavolinetto accanto alla poltrona e lo accolse con un caldo sorriso scarlatto. I boccoli castano chiaro ricadevano sulle spalle nude incorniciate dai merletti dell’abito di velluto azzurro.

-         Tua figlia! Mi farà impazzire! – urlò additandola, cercando forse nella moglie una scusante al carattere ribelle e indomito della figlia minore.

-         E’ solo una bambina! –

-         Una bambina? Ha ventidue anni. Dovrei fare come si faceva una volta nel medioevo. La dovevo far rinchiudere in un convento e farle prendere i voti. E invece no. Le sto dando l’opportunità di sposare un ottimo partito dell’alta nobiltà inglese e lei cosa fa? Si mette ad urlare come una pazza gridando al mondo intero che non sposerà mai quel damerino di Lord Benjamin Priceton. Non c’è più rispetto in questa casa! – urlò furente col viso paonazzo dalla rabbia.

-         Avanti, calmati. Vedrai che tra qualche giorno le passerà. –

-         Assolutamente. La conosci fin troppo bene e sai benissimo che quando di prefigge qualcosa, lei non si arrende fin quando non ha raggiunto il suo scopo. –

-         Mi ricorda qualcuno. – gli disse guardandolo ironicamente. Il conte aggrottò la fronte e si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona accanto alla moglie. La tempesta sembrava essere momentaneamente passata.

-         Voglio solo maritarla. Cosa c’è di male? – le chiese con tono cheto e una vena di disperazione. La sua voce tradiva un’insicura richiesta di aiuto.

-         Probabilmente vuole scegliersi da sola il marito….

-         Non se ne parla proprio, Eleanor, ma da che parte stai? E da quando le ragazze di buona famiglia si scelgono da sole il marito? – tuonò infervorandosi nuovamente.

-         Questo è vero, ma non puoi certo dire che Benjamin Priceton sia un santo. E’ nominato in tutti i salotti per le sue doti di ottimo amante. –

-         Eleanor! – esclamò sorpreso da tanta audacia da parte della moglie.

-         Cosa c’è? Pensi che non le sappia certe cose? Capisco il punto di vista di Patricia. Perché sposare un uomo che la tradirebbe sempre e che comunque non la onorerebbe come moglie e madre dei figli che il Signore vorrà donarle? –

-         Perché quell’uomo potrebbe garantirle un ottimo futuro ed è l’unico che pare essere interessato a quella furia scatenata di tua figlia. – rimbeccò caustico.

-         Forse suo padre. Non ti sei mai chiesto come mai Lord Priceton voglia maritare il figlio proprio con Patricia? –

-         Che vuoi dire? – le chiese con sguardo inquisitorio.

-         Arthur caro, desidera coprire tutte le marachelle del figlio con un buon matrimonio nella speranza che finalmente ritrovi un po’ del perduto senno. Come mai Patricia e non Jennifer? Jenny è molto più aggraziata e adeguata al matrimonio, ma sicuramente non la donna giusta che possa far ravvedere Benjamin dalle sue intemperanze giovanili. -.

Il conte si portò i gomiti sulle ginocchia e strinse il capo tra le mani. Sapeva che Eleanor aveva ragione. Era quella l’unica ragione per la quale Lord Priceton aveva chiesto Patty in moglie per suo figlio Benjamin. Jenny era troppo debole per lui, avrebbe subito le angherie e le beghe di quel bel giovanetto, mentre Patricia gli avrebbe dato del filo da torcere. La situazione era complessa e più il tempo passava, più lui non sapeva cosa fare. La proposta di matrimonio di Lord Priceton era giunta inaspettata come un fulmine a ciel sereno.

-         Non vuole incontrarlo. Stamattina mi ha detto che non ha intenzione di vedere Benjamin. –

-         Organizziamo un ballo, vedrai che non potrà sottrarsi. – suggerì Eleanor nel disperato tentativo di riportare la quiete in famiglia.

-         Adesso? –

-         Ma certo caro, un ballo in maschera. Solo per farli conoscere, nulla di più. Cerchiamo di non correre. Magari conoscendosi e conversando potrebbero trovare dei punti in comune. –

-         Chissà, forse la tua non è un’idea poi così malvagia. – le rispose prendendo la candida mano della moglie tra le sue.

-         Vedrai che prima o poi tutto si aggiusterà. Adesso andiamo a prepararci per la cena. Sono le sette. Hai notizie di Julian? –

-         Sì, ho ricevuto un messaggio proprio questa mattina. Sta bene e la sua nave è attraccata al porto di Dover. Presto sarà a casa. – rispose incupito ma sollevato dalle parole della consorte.

-         Bene. Adesso andiamo. – gli disse invitandolo ad alzarsi e prendendolo sottobraccio. – Sei pensieroso? – gli chiese intuendo i malesseri del marito.

-         Penso a Julian e Jennifer. Ritengo che sia ora che anche loro…

-         Ti prego Arthur, una cosa per volta. Prima risolveremo la questione di Patty. Se davvero il conte Priceton vuole che suo figlio sposi la nostra Patty, proveremo a convincerla ad assicurarsi un buon matrimonio ed un futuro decoroso per un’esponente della nobiltà inglese. Per quanto riguarda Jenny e Julian, si vedrà. – gli disse con calma cercando di placare la tempesta che aveva preso il sopravvento nel cuore del conte.

 

 

 

 

 

Villa Priceton, regione di York.

 

-         E così padre, avete pensato bene di propormi sposo alla figlia minore del conte Gatsby. –

-         Esatto Benjamin. Così finalmente metteremo a tacere un po’ delle chiacchiere che circolano sul tuo conto. – rispose soddisfatto Lord Priceton.

-         Di cosa parlate padre? Non mi sembra di aver fatto nulla di male! – disse scherzoso sorseggiando del vino rosso. Il fuoco scoppiettava nel camino ondeggiando qua e là in forti e fluttuanti fiamme colorate. Zampilli lucenti si riflettevano sui vetri e sui cristalli del salotto. Qua e là, i ritratti degli avi Priceton sembravano assistere passivamente alla discussione tra padre e figlio.

-         Tu che ne pensi cugino? – chiese Benjamin rivolgendosi a Oliver Huttinton. Il ragazzo sorrise non distogliendo lo sguardo dal parco che si estendeva oltre la finestra. Le cime degli alti abeti ondeggiavano all’urlo implacabile del vento. Il cuore gli batteva incessantemente. Lo sentiva battere furiosamente contro il petto provocandogli fitte lancinanti. Quell’argomento riusciva ad imbarazzarlo e a provocare nel suo cuore un moto di irrefrenabili emozioni.

-         Non saprei. E’ un argomento in cui non mi cimento molto bene. – rispose imbarazzato passandosi una mano tra i disordinati capelli scuri. Lord Priceton guardò il nipote con tenerezza e ammirazione verso quel giovane il cui destino aveva reso orfano di padre molto giovane.

-         Già, tu sei cresciuto con un’educazione militare, e non conosci ancora bene quali piaceri possa donare la vita mondana. – riprese Benjamin ricordando al cugino gli alti gradi da ufficiale riconosciutigli dalla marina inglese

-         Benjamin smettila. – tuonò Lord Priceton sbattendo sul marmo lucido il bastone dal pomo cesellato. - Un giorno di questo mi ritroverò qualcuno in casa che chiederà la tua testa. Sai bene che con molti di quegli uomini io concludo degli affari. E tu che fai? In mancanza dei mariti ti porti le loro mogli a letto. –

-         Errato padre. Sono le signore che portano a …

-         Taci. Sono stufo di queste stupidaggini. Tu sposerai Lady Patricia Gatsby e metterai la testa a posto. – urlò adirato dal comportamento lascivo del suo unico erede.

-         Perché proprio lei? Ho sentito dire che è una mezza matta. –

-         Non è matta: è anticonformista e ama la libertà. Non le piacciono le costrizioni. – rispose Oliver sorprendendo lo zio e il cugino. Benjamin lo guardò negli occhi scuri come la pece. Vide ardere una strana luce dentro quelle imperscrutabili iridi scure come la grafite.

-         E tu cosa ne sai? – gli chiese con sguardo ammiccante continuando a fissarlo.

-         E’ la sorella minore di Julian, ricordi? E lui è un mio caro amico. Inevitabile non parlare delle famiglie. – ribatté quieto cercando di non perdere il suo proverbiale controllo.

-         Già….e quindi, padre, mi volete dare una donna da domare…

-         No…una che domi te. – esclamò infine imperioso additando il figlio. – Smettila di giocare Benjamin. Io non ci sarò per sempre a coprirti le spalle e prima di andarmene all’altro mondo vorrei saperti al sicuro e maritato. – sentenziò prima di uscire lasciando dietro di se una scia di ira e sconforto.

-         Questa volta mi sa che si è arrabbiato! – esclamò Benjamin divertito dall’imbarazzante situazione in cui si trovava il cugino.

-         Non riesci a fare a meno di scherzare? – gli chiese Oliver preoccupato.

-         Patricia Gatsby. Non me la ricordo. Chissà se l’ho mai incontrata in qualche salotto. – si chiese perdendo lo sguardo nel profondo rosso scarlatto del vino che brillava nel calice di cristallo. Oliver gli sorrise.

Quel nome gli faceva battere il cuore. La bella e ribelle Patricia Gatsby, la figlia indomita e impavida di Eleanor Gatsby, cara amica di sua madre. Ricordava quel giorno in cui, tornando da una corsa a cavallo con Julian, la incontrarono mentre con sua madre risaliva sulla carrozza che le avrebbe riportate a casa. Non avrebbe mai potuto dimenticare quello sguardo. La pelle nivea e due grandi occhi nocciola screziati d’ambra. I capelli lunghi e fluenti che le ricadevano sulle spalle regolari e lisce. Il suo sguardo fiero, la sua sicurezza, la sua aria di libertà e quel sorriso di sfida dipinto sulle labbra scarlatte, una sfida che avrebbe voluto lanciare all’intero mondo della nobiltà. Quell’espressione gli era penetrata nel petto come un fendente che tagliente gli aveva lacerato il cuore.

L’aveva rivista circa sei mesi prima, al porto di Dover. Lui stava rientrando dalle Indie, mentre lei e suo padre avevano accompagnato Julian Gatsby al porto per imbarcarsi con l’ammiraglia diretta in Estremo Oriente. La sua pelle bianca come le alte scogliere inglesi, i suoi occhi profondi e tempestosi come l’oceano da cui tornava.

Non l’aveva più rivista, tranne che nei suoi sogni. Lui sempre schivo e timido, introverso per natura, non aveva mai avuto il coraggio di incontrarla. Si chiedeva se prima o poi ci sarebbe riuscito. Ma forse anche allora sarebbe stato troppo tardi, perché Patricia era oramai promessa a Benjamin.

 

 

 

Jennifer rimirava il paesaggio al di là della finestra della sua grande stanza da letto. Con lento incedere, Patricia la raggiunse alle spalle senza che la sorella se ne avvedesse. Jennifer era bella ed aggraziata, molto somigliante alla loro madre, dai lunghi boccoli di un castano chiaro che incorniciavano un ovale dolce e sereno. Era brava nei lavori domestici, di ottima cultura, frequentava insieme alla madre alcuni dei salotti più in vista dell’aristocrazia inglese.

-         Tutto bene Jenny? – le chiese amorevolmente.

-         Ehm…Patty…non ti ho sentita arrivare. –

-         Ho bussato, anche se la porta era socchiusa. Non mi hai risposto e sono entrata. Stai pensando a lui, vero? – le domandò sedendosi sul sofà vicino il caminetto. La sorella annuì col capo non distogliendo lo sguardo dal tetro e metallico paesaggio esterno.

-         Da quanto non hai più sue notizie? – le chiese Patricia sfregandosi le mani infreddolite.

-         Da quattro settimane. Oramai sono disperata. –

-         Non abbandonare la speranza. Sono sicura che tornerà da te. Lui…ti ama! – esclamò con lieve imbarazzo. Parole del genere che uscivano dalle sue labbra. Com’era possibile? L’affetto che nutriva per Jennifer e  Julian era tale, che sebbene fosse soltanto una giovane donna, non avrebbe esitato a difenderli in nome dell’amore fraterno che li univa.

-         Anch’io lo amo tanto ma…ma non ce la faccio ad aspettare. –

-         Perché non parli con papà e lo convinci  a dargli una mano? –

-         Sei impazzita? Dovrei andare da nostro padre  a rivelargli che sono innamorata di Philip Callaghan, nobile decaduto dopo che ha investito tutti i suoi averi nelle miniere di diamanti in India? –

-         Non capisco. Vi amate alla follia…

-         Dimentichi che il nostro è un amore segreto. I nostri genitori non lo sanno e se papà mi scopre, mi farà maritare con qualche ricco rampollo londinese. –

-         Spiacente mia cara, ma l’atto di follia di nostro padre é toccato a me questa volta. –

-         Ho saputo. Così dovrai sposare Benjamin Priceton. –

-         Non ci penso minimamente. – rispose sicura e beffarda. Jennifer vide balenare una luce di sfida nei suoi occhi nocciola.

-         Ma cosa dici! – chiese esterrefatta e colpita dal carattere sicuro di Patricia. – Patty non puoi tirarti indietro. – aggiunse intimorita dall’atteggiamento della sorella.

-         E chi me lo impedisce? Dovrà trascinarmi con la forza fino all’altare. Non gli permetterò di decidere della mia vita. Io sceglierò con chi trascorrere gli anni avvenire. –

-         Tu sei fuori di senno. –

-         Assolutamente. A costo di farmi diseredare. Preferisco vivere come una mendicante che essere manovrata come un burattino! – sentenziò allargando le braccia.

-         Quanto vorrei avere almeno una parte del tuo coraggio. – le disse accoccolandosi tra le braccia della sorella minore.

-         Al momento giusto riuscirai a tirar fuori le unghie e il coraggio che ti serviranno per combattere e per difendere il tuo grande amore. Ne sono sicura. E se avrai bisogno di una mano, non temere, sorella, io sarò sempre al tuo fianco. Lo sai, non permetterò mai a nessuno di farti del male. –

-         Come potrei fare senza di te? –

-         E’ per questo che ci sono. Vedrai che quando arriverà, Julian ci aiuterà a trovare una soluzione per i tuoi problemi. –

-         E tu? –

-         Io cosa? – le chiese facendo finta di non capire che Jennifer alludeva al suo imminente fidanzamento.

-         Sai a cosa mi riferisco. Come pensi di uscirne da questa storia? –

-         Sicuramente opponendomi. Non potrei mai sposare un damerino dell’alta nobiltà solo ed esclusivamente per essere la mogliettina che si accontenta di un marito che si diverte con le nobildonne inglesi. –

-         Patricia! Non sta bene parlare di certe cose! –

-         Dai Jenny, è a te che parlo. Benjamin Priceton è noto per le sue doti di amatore, e a me non interessa avere accanto un uomo del genere che mi prenda in giro ogni giorno della vita trascorsa insieme. Io desidero qualcuno che mi faccia battere il cuore, che mi ami per quella che sono, senza false remore o pudori, infischiandosene della benemerita etichetta dei nobili, che mi faccia provare sensazioni indefinibili, che mi trascini in una passione che mi annebbi fino a stordirmi. –

-         Pa…Patricia…ma cosa dici! – esclamò attonita e quanto mai sorpresa dalle parole audaci della sorella. Le gote si imporporarono di un lieve imbarazzo.

-         Mi hai chiesto cosa vorrei…ecco cosa! Vorrei poter amare indefinitamente, al solo scopo di ricambiare un sentimento ardente che un uomo può provare per me. -.

Jenny guardò ancora allibita e stupefatta la sorella, i cui occhi sembravano pulsare al ritmo del cuore che vivo e vibrante sussultava nel suo petto. Era così bella Patricia, di una bellezza diversa, sensuale, priva di ogni timore. I lunghi capelli le scendevano fluenti lungo la schiena e si muovevano al suo sicuro incedere. La vide allontanarsi dalla sua stanza ancora sognante di quell’amore agognato e che sperava presto l’avrebbe potuta accarezzare. Era quasi certa che pensasse a qualcuno in particolare per il quale avrebbe voluto far battere un cuore assetato d’amore.

-         Povera sorella mia. Tanto sognante verso un futuro promettente…e così sfortunata nel dover sposare un uomo dalla nota fama e che non potrà mai amarla. Perché noi donne dobbiamo soffrire tanto? Oh Philip amore mio dove sei? Come vorrei che tu fossi qui a stringermi tra le tue braccia. Vorrei poter accarezzare le tue labbra così ridenti. Cosa ne sarà di me? Prima o poi, anche io dovrò esser concessa in sposa a qualcuno e so…che non sarai tu il prescelto. Come vorrei andar via e fuggire nelle lontane Indie dove vivere soli e felici, noi due lontani da questa gabbia dorata. – sussurrò con le lacrime che gentilmente le rigavano il volto.

 

 

 

 

 

 

 

 

Villa Huttinton, regione di Nottington.

 

La duchessa Margareth Huttinton di Nottington passeggiava nella serra come di consueto. Anche se la temperatura non era mite, a lei piaceva trascorrere il tempo in quel luogo appartato nella grande tenuta dei duchi di Nottington.

-         Buonasera madre. – disse Oliver raggiungendola e baciandola su una guancia.

-         Buonasera figliolo. Di ritorno da villa Priceton? –

-         Sì madre. Vi porto i saluti della famiglia. -. Lady Margareth assentì con capo in segno di cortesia. Fece cenno al figlio di accomodarsi accanto a lei.

-         Quali notizie mi porti figliolo? -. Oliver era pensieroso. Per tutto il viaggio di ritorno fino a casa, aveva pensato allo sguardo e alle parole del cugino Benjamin.

-         Presumo che lo sappiate anche voi, madre. Lo zio John ha chiesto al conte Gatsby la mano di Lady Patricia per il nostro Benjamin. –

-         Allora è vero? –

-         Sì, madre! – ammise dispiaciuto. Lady Margareth guardò il figlio e nella penombra del luogo scorse sul suo volto disappunto e rassegnazione. Quella notizia l’aveva provato e lei pareva comprenderne il motivo.

-         Povera piccola Patricia. Benjamin è un bravo ragazzo ma adora giocare e sicuramente non è il tipo giusto per lei. –

-         Già, è quello che penso anch’io. Senza contare che è stupido imporre a qualcuno di sposarsi senza sentimento! – ribatté con trasporto.

-         Oliver! – esclamò Lady Margareth quanto mai sorpresa dall’ardito parlare del figlio. Era sempre rimasto al di fuori di certi discorsi soprattutto da tutto quello che concerneva il matrimonio. Si chiese il motivo di tanto interessamento verso tale questione.

-         Scusate madre se ho alzato un po’ la voce. –

-         Non importa Oliver. Sai, oggi è venuta a trovarmi Lady Muriel Sullivan. – gli disse con la sua solita calma. Oliver intuì di cosa le avrebbe parlato. La marchesa Muriel Sullivan da tempo frequentava sua madre nella speranza di concedere in sposa sua figlia Amily al giovane Oliver.

-         Madre…per favore…- le disse cercando di anticipare quanto avrebbe dovuto udire entro poco.

-         Lady Muriel ogni volta mi ricorda che sua figlia Amily è in età da marito e che dovrebbe sposarsi. –

-         Impensabile! – esclamò autoritario alzandosi dal sofà. Lady Margareth lo vide in tutta la sua sicurezza e audacia. Lo sguardo consapevole. Non avrebbe neanche dovuto provare a insistere perché Oliver aveva già deciso. Non avrebbe mai accettato di sposare Amily.

-         Madre, conosco Amily già da tempo e vi posso dire con certezza che sarebbe un’ingiustizia sposarla. –

-         Ma cosa dici! Benedetto ragazzo ma cosa ti prende. –

-         Io non provo che amicizia per Amy e lei corrisponde questo stesso sentimento. Amy non prova amore per me ma per un’altra persona, per un mio caro amico e io non posso assolutamente accettare di sposare la donna amata da un altro. –

-         Oliver, ma ne sei sicuro? – gli chiese interessata alla conversazione.

-         Sì madre. Vi prego, non insistete con questo argomento. Siamo solo amici e la nostra amicizia non potrà mai diventare qualcos’altro. –

-         Chi è costui? –

-         Prego? –

-         Di chi è innamorata la giovane Amily? – gli chiese arditamente e con tono insistente.

-         Se ve lo dico, madre, vi prego di tenere per voi questa confidenza. Julian Gatsby! –

-         Cosa? –

-         Esatto. Si sono incontrati al ballo dato a villa Sullivan lo scorso anno. Si sono innamorati subito. Non capisco proprio perché dovrei intromettermi in questa unione. Nella sua ultima lettera, Julian mi ha detto che al suo ritorno avrebbe chiesto in sposa Amily. Ed io ne sono davvero felice. –

-         Capisco. Ovviamente, da quanto mi dici, la marchesa Sullivan è all’oscuro di tutto questo visto che vorrebbe maritarla a te. –

-         Esatto, e non deve saperlo assolutamente. Ve ne prego madre, non ne fate parola con la marchesa. D’altronde, non penso che la marchesa avrà di che dire. Julian Gatsby è un ottimo partito e sebbene giovane, è un alto ufficiale della Marina Reale. Tra qualche settimana vedrai che sarà in estasi per l’organizzazione del matrimonio di Amily. –

-         E così sia. Se la marchesa dovesse continuare ad insistere su questo argomento, cosa mi suggerisci di dirle? –

-         Semplicemente che al momento sono interessato ad altro e che sto pensando di fare un viaggio all’estero. –

-         Oh ragazzo mio…comunque ben presto dovrai trovare anche tu moglie…

-         Quando sarà il momento, me ne accorgerò madre. Con permesso. Mi ritiro nelle mie stanze. – le disse infine baciandola ancora sulla guancia e voltandole le spalle. Margareth sapeva che il suo cuore batteva per qualcuno e visto l’ardire con cui aveva parlato del matrimonio combinato tra Benjamin e Patricia, intuì che si trattava proprio di quest’ultima. Sospirò e si portò alle labbra la tazza di the fumante. Non avrebbe costretto il figlio a sposare una donna che non amava. Non aveva mai deluso le aspettative sue e del defunto padre. Si fidava di lui e sapeva bene che avrebbe fatto la scelta migliore.

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Capitolo 2
*** La piuma scarlatta ***


Il ballo in maschera

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

La  piuma scarlatta

 

Capitolo 2

 

 

I conti Arthur e Eleanor Gatsby salirono sulla carrozza insieme alle figlie Jennifer e Patricia. Erano stati invitati a cena presso la villa del barone Rumsfield e dopo l’ennesimo invito, il conte aveva pregato la moglie e le figlie di acconsentire. Il barone Nigel Rumsfield era un personaggio molto chiacchierato nei salotti inglesi per il suo carattere severo e spietatamente cinico; di statura alta e corporatura segaligna, aveva uno sguardo sempre vigile, indagatore, con degli occhi sottili di un celeste talmente chiaro che sembrava vitreo.

Era la prima volta che il conte Gatsby portava con se le figlie a villa Rumsfield e si vociferava che il barone volesse indicare una delle due come sua promessa sposa. Arthur Gatsby era stranamente inquieto poiché per quanto la posizione sociale del barone fosse alquanto interessante, non vedeva di buon occhio un matrimonio con una delle sue figlie. Tanto più che per Patricia era già stata avanzata la proposta dal conte Priceton per il figlio Benjamin e Jennifer aveva un carattere troppo sensibile per poter sostenere un matrimonio con un uomo autoritario e assolutistico come il barone.

 

 

Alla fine della strada, il cocchiere imboccò un sentiero alberato costeggiato da vigneti  a perdita d’occhio ancora spogli nel gelido inverno di quell’anno. Patricia non aveva distolto lo sguardo dal finestrino della carrozza. Aveva continuato a guardare il paesaggio con la sua solita aria sognante, non degnando il padre di alcuno sguardo e disegnando nella sua mente a menadito le brughiere inglesi. Il cielo plumbeo tendente oramai al buio stava oscurando le campagne immergendo lo scenario in un tetro quadro dal sapore medievale.

Patricia sapeva che i suoi genitori stavano preparando la lista degli invitati per il ballo in maschera nel quale molto probabilmente avrebbero annunciato il suo fidanzamento con Lord Benjamin Priceton. Questo pensiero era oramai indelebile nella sua mente da vari giorni insieme a quello di sua sorella Jennifer, costantemente in pena per l’amato Philip Callaghan.

Quando il cocchiere fermò i cavalli dinanzi il maestoso portico della tenuta, Patricia sembrò ridestarsi dal suo torpore e seguì la sua famiglia all’ingresso dell’immensa villa. Scese dalla carrozza e si avviò verso il maggiordomo che evidentemente si era già avveduto dell’arrivo degli ospiti. Scambiò qualche breve parola  di pura formalità ed aprì la portiera della carrozza, aiutando i suoi passeggeri a scendere.

Il maggiordomo in alta livrea salutò con profondo inchino gli aristocratici ospiti che avrebbero allietato la serata della tanto bella ma quanto fredda villa. Come un perfetto padrone di casa, il barone li attendeva all’interno della residenza.

-         Conte Gatsby è il benvenuto nella mia dimora. – gli disse stringendogli la mano in segno di saluto. – Milady, siete sempre più bella. – disse a Lady Eleanor inchinandosi per baciarle la mano.

-         Buonasera barone. Vi trovo in splendida forma. –

-         Ma quale beltà vedono i miei occhi. Lady Jennifer, Lady Patricia, siete fulgenti. – disse inchinandosi per salutare le due contessine. Patricia lo guardò con estrema diffidenza, disegnando con gli occhi i tratti marcati di quel viso adulto e del segaligno corpo. Uno sguardo infiammato balenò nelle iridi acquee del padrone di casa.

Il barone fece loro cenno di seguirlo per accomodarsi in salotto dove li attendevano i visconti Victor e Johanna Barnes anche loro ospiti in quella serata. Le dame si accomodarono sui salotti divagando in convenevoli e pettegolezzi da ricche aristocratiche mentre il conte Gatsby, il visconte Barnes e il barone Rumsfield chiacchieravano vicino il caminetto sorseggiando dello sherry.

-         Vi trovo proprio bene Lady Eleanor. Ed anche voi ragazze. Ma quanti anni avete adesso? –

-         Jennifer ventiquattro e Patricia ventidue. – rispose la contessa Gatsby indicando con orgoglio le belle figlie. Jennifer aveva il capo leggermente chino, con lo sguardo attento ai movimenti delle sue agili dita che solleticavano continuamente i merletti dell’abito. Patricia guardava qua e là con circospezione cercando di comprendere quale atmosfera stesse lentamente prendendo forma in quella monotona e tediosa serata. Era una casa priva di anima, della bellezza femminile e di aria familiare. Sembrava il maniero di un despota. Quell’idea la fece rabbrividire e il suo profilo si spostò sulla sorella.

-         Jennifer oramai sei in età da marito. Hai già ricevuto delle proposte? – chiese la viscontessa direttamente alla giovane figlia del conte. Jenny abbassò ancor di più lo sguardo intimidita da quella domanda così diretta e personale.

Come fulminata da una strana sensazione, Patty guardò il barone. I suoi occhi avevano qualcosa di malefico e inquietante e dal loro arrivo non si erano per nulla spostati dalla sorella maggiore. Il cuore vibrava impetuoso. Sentiva che quell’uomo nascondeva qualcosa, non si fidava di lui e non gli avrebbe permesso di mettere in una situazione di disagio la sorella Jenny.

Sua madre continuava a discorrere con la viscontessa nell’intento di eludere le domande indirizzate alle figlie. L’ingresso del maggiordomo che annunciava che la sala da pranzo era pronta, distolse i presenti dalle loro chiacchiere. Precedendo i suoi ospiti, il barone aprì le porte della grande ed elegante sala da pranzo dove la tavola era stata sontuosamente imbandita per i sette commensali.

Il barone sedette a capotavola e ai suoi lati fece galantemente accomodare Lady Eleanor e Lady Johanna. A seguire i rispettivi consorti e di fianco a loro, Jennifer e Patricia. Patty sorrise alla sorella che le sedeva frontale. Era un’espressione dolce e serena la sua, nel disperato intento di tranquillizzarla. Il barone sembrava troneggiare dinanzi la grande finestra che imperiosa si ergeva alle sue spalle. La servitù servì le pietanze in eleganti servizi di fine porcellana inglese e argenti lucidissimi. I cristalli dei bicchieri e delle bottiglie rilucevano sulla tavola tra i colori dei fiori e del tovagliato di broccato ambrato. Jennifer non toccò quasi nulla sebbene sollecitata dallo sguardo di Patricia che la invitava a desinare con loro.

-         Lo sa conte, devo farle davvero i complimenti. Ha delle figlie davvero deliziose. E’ difficile trovare delle bellezze tanto singolari e voi avete davvero due pietre preziose. – disse all’improvviso sorseggiando del vino rosso. Arthur Gatsby lasciò cadere malamente la forchetta nel piatto. Il tintinnio dell’argento sulla porcellana sembrò echeggiare nella stanza. Alzò lentamente lo sguardo verso il barone.

-          Perdoni la mia franchezza: ecco mi chiedevo se fosse possibile chiedere la mano di sua figlia Jennifer. -. Quelle parole rimbombarono dure e taglienti nell’aria già tesa di quella serata. Jenny tremava come una foglia. Gli occhi, già privi di espressione, si empirono di lacrime.

La proposta del barone aveva sconcertato tutti i presenti ma più di tutti proprio le sorelle Gatsby. Lord Arthur Gatsby non sapeva cosa dire. Il visconte gli aveva preannunciato poco prima che il barone avrebbe avanzato una simile proposta ma non si aspettava che l’avrebbe fatto in maniera tanto plateale e durante il convivio.

-         Lady Jennifer. Qualcosa non va? Siete pallida! – le chiese con quella sua voce quasi stridula che avrebbe fatto rabbrividire chiunque.

-         Scusatemi, io…non mi sento molto bene. – sibilò tremolante.

-         Barone, signori, vorrete scusarci. Accompagno mia sorella a rinfrescarsi. – disse Patricia alzandosi e raggiungendo la sorella che a stento si reggeva in piedi. I tre uomini si alzarono in segno di rispetto. Il barone scosse una campanella d’argento e una cameriera giunse velocemente nella sala. Patricia afferrò un braccio di Jennifer e lentamente la condusse fuori dalla sala da pranzo seguendo una cameriera che le indicò un salotto appartato dove riposare.

-         La mia proposta ha avuto un effetto deleterio su vostra figlia! – esclamò con un ghigno di soddisfazione il barone, continuando imperterrito a sorseggiare il suo vino.

-         E’ una ragazza molto emotiva ed evidentemente, come noi è rimasta alquanto allibita dalla vostra proposta. – rispose educatamente e in maniera alquanto formale.

-         Io sono un uomo diretto conte, non amo perdermi in inutili convenevoli e formalità. –

-         Devo pensare che la vostra è una proposta seria? – gli chiese cercando di scoprire le sue mosse.

-         Certamente conte. Senza alcun dubbio. Vostra figlia mi piace e non mi dispiacerebbe se divenisse mia moglie. Comunque vi lascerò il tempo per pensare. Non vi preoccupate, non voglio una risposta immediatamente. Vi chiedo solo di non farmi attendere troppo. Non mi piace aspettare. – disse ridendo.

Lady Eleanor lesse sul suo volto furbizia e cattiveria. Come avrebbe potuto impedire che Jennifer finisse nelle grinfie di quell’uomo dall’aria spietata?

-         Conte, a proposito, ho sentito dire che le miniere acquistate in India vi stanno fruttando bene! Un consiglio da amico: state attento. Ho sentito che Lord Philip Callaghan ha perduto in India tutti i suoi averi. Le miniere da lui acquistate non hanno fruttato nulla e adesso sostiene che non sono quelle che lui ha comprato. Sembra essere impazzito dal dolore e dalla frustrazione. Hi, hi… stupido ragazzino. Questi giovani d’oggi vogliono precedere gli adulti con l’arroganza e il senno di poi…e alla fine si ritrovano un pugno di mosche in mano! – sostenne a voce alta stringendo i pugni trionfante. Il suo sguardo era ardente e ostile. Nelle rughe del viso adulto, si potevano percepire piccole fiamme di lussuria e avidità.

Il nome di Lord Philip Callaghan risuonò nella mente di Lady Eleanor. Subito associò l’immagine della figlia e del nobiluomo uniti da un bacio rubato, celati furtivamente dai roseti della loro serra. Non aveva mai rimproverato la figlia per quell’atto così passionale poiché nei loro sguardi aveva visto un sentimento sincero e profondo. Era un segreto che serbava nel cuore e che le aveva provocato infinita tristezza, allorquando il quotidiano inglese più rinomato aveva pubblicato la notizia del fallimento di Lord Callaghan nelle miniere acquistate in India. Aveva anche intuito che i malesseri della figlia erano legati al momento negativo che stava attraversando il marchese Callaghan e all’improvvisa proposta di matrimonio avanzata dal barone.

 

 

 

Jennifer era ancora tremante e scossa dalla richiesta del barone.

-         Io…io…aiutami Patty…aiutami ti prego…non voglio! – esclamò prorompendo in un pianto dirotto.

-         Non ti preoccupare Jenny, vedrai che si aggiusterà tutto. Parlerò io con nostro padre e vedrai che sistemeremo la questione. Non ho alcun dubbio che ci riusciremo. Adesso calmati. C’è sempre una soluzione a tutto. Ti prometto che non sposerai quell’uomo. Non ti sfiorerà neanche con un dito. Lui non ti merita. E’ un uomo infimo capace solo di far del male alla gente. Adesso chiudi gli occhi e riposati. Vado ad avvertire che stai meglio e torno da te. – le disse sorridente fingendosi serena e quieta.

Sapeva benissimo che se il barone voleva Jennifer in sposa, avrebbe trovato il modo di averla. Strinse i pugni e respirò intensamente. Percorse il corridoio e bussò alla prima porta, quella da cui era uscita poco prima.

-         Scusate se vi interrompo ancora. Desideravo dirvi che Jennifer sta meglio ma preferisce riposare in salotto. Se non vi dispiace, torno da lei a farle compagnia. – disse con sguardo basso per evitare di incontrare ancora quegli occhi taglienti che sembravano spogliarla.

-         Certamente Lady Patricia. Se vi occorre qualcosa, chiamate subito qualcuno della servitù. Fate come se foste a casa vostra. – le disse guardandola avidamente.

-         Vi ringrazio barone, siete molto gentile. – rispose inchinandosi e congedandosi dalla sala da pranzo. Appena si fu richiusa la porta alle spalle, Patricia si sentì percorrere da un brivido. Fu investita da un’improvvisa folata di aria gelida. Si guardò intorno nella penombra dei lumi sistemati lungo il corridoio le cui mura erano percorse da ritratti di avi e statue di marmo.

-         Ma che…- pensò scorgendo un’ombra scura in fondo al corridoio, nella direzione in cui c’era il salotto dove riposava Jennifer. Preoccupata, con passo incalzante, corse verso il salotto prestando attenzione a non urtare la porta socchiusa. L’aria si faceva sempre più fredda, sembrava quasi che qualcuno avesse lasciato le finestre aperte. Si strinse nel vestito di seta e merletti che le fasciava un corpo giovane e bello. Entrò nel salotto e vide Jennifer riposare sul sofà estenuata da quella serata. La porta finestra che dava sulla terrazza era socchiusa, la brezza invernale muoveva leggermente le tende in damasco. Si avvicinò per chiuderla ma scorse nuovamente un’ombra. Incuriosita, scostò lentamente l’anta della porta finestra e silenziosamente uscì sulla terrazza. Fu investita da una ventata gelida. Il freddo era pungente e lei non aveva alcun mantello per coprirsi. Schiuse gli occhi cercando di vedere meglio nella tetra notte illuminata solo dalle stelle e da qualche lanterna accesa qua e la in giardino. Avvertì una presenza alle spalle e sussultò per il timore. Tentò di girarsi ma qualcosa le impedì di farlo e di gridare aiuto.

-         Sssttt….non parlate. Non voglio farvi del male. Se mi promettete di non gridare milady, vi lascio andare! – sussurrò la voce nella notte oscura. Il cuore le era arrivato in gola. Sentiva il sangue fluire velocemente nelle vene e il gelo della notte sfiorarle il petto scoperto. L’uomo la fece voltare verso di lui. Era avvolto in un mantello nero e il viso era coperto da una maschera di tessuto che aderiva lungo tutto il volto lasciando scoperti solo gli occhi e le labbra. Sul capo aveva un cappello a tesa larga con una piuma scarlatta. Lasciò la ragazza e si scostò leggermente da lei accennando un sorriso su quella maschera scura.

-         Ma…chi siete? – chiese lei ancora paralizzata dall’inaspettato incontro. La luna piena illuminò i loro volti. La pelle nivea di Patricia sembrò brillare alla luce della luna e i suoi occhi parevano due pietre preziose incastonate in un ovale perfetto.

-         Una bella donna come voi non dovrebbe girare di notte tutta sola in un posto del genere. –

-         Non fatevi celia di me! Chi siete? – gli chiese impetuosa indietreggiando di qualche passo. Avrebbe voluto avere una spada da brandire per potersi difendere da quel losco individuo.

-         Non temete milady, non desidero farvi del male. –

-         Cosa volete? – gli domandò tenendo le distanze.

-         E’ meglio che rientriate o vi prenderete un malanno. –

-         Come osate tanto ardire. Voi non sapete chi sono io! – gli intimò superba e altera additandolo.

-         Voi siete Lady Patricia Gatsby. Non sta bene che una dama del vostro rango si aggiri da sola nei giardini di uno sconosciuto. –

-         La vostra audacia non ha limiti. Come osate dirmi cosa devo fare o come devo comportarmi! – inveì non alzando la voce. Stranamente, passato il sussulto del primo attimo, Patricia si sentiva a suo agio in compagnia di quello strano soggetto.

-         Chi siete? – gli chiese nuovamente non avendo ricevuto risposta alla sua prima domanda.

-         Qualcuno mi chiama La piuma scarlatta. Dovete rientrare milady o vi prenderete un malanno e non desidero essere artefice del vostro malessere. –

-         Siete tanto gentile quanto spudorato, cavaliere. –

-         Consentitemi di dirvi milady che il mio ardire è pari alla vostra loquacità. –

-         Come osate! – esclamò irritata alzando il braccio per schiaffeggiarlo. Il cavaliere le afferrò il polso fermando quel gesto tanto poco signorile per una nobildonna. I loro occhi sembravano penetrare l’uno nell’altra. Patricia si sentiva denudata delle sue vesti, quegli occhi scuri sembravano esser stati scagliati nel suo petto come dardi infuocati.

-         I cani stanno abbaiando. Potrebbe essere entrato qualcuno, presto controllate il giardino! – esclamò qualcuno con una voce che si faceva sempre più vicina a loro.

-         Muovetevi incapaci, ispezionate le terrazze. – gridò qualcun altro impartendo rigorosamente gli ordini. L’abbaiare dei cani si faceva sempre più intenso e cruento. Il cavaliere spinse Patty dietro una colonna di marmo coprendola con il suo mantello nero. Patty sgranò gli occhi guardando quell’uomo che cercava di celarla agli occhi indiscreti dei guardiani del barone.

-         Voi…- sussurrò, ma le parole le morirono in gola sul sorgere. Nell’intento di farla tacere e di passare inosservati, il cavaliere strinse la dama tra le braccia e posò con ardore le labbra su quelle della giovane contessa che incredula non seppe reagire a quell’atto tanto esasperato quanto passionale. Fu lungo e spontaneo, irriverente e furioso, il suo primo bacio dato ad un estraneo, ad uno strano cavaliere probabilmente braccato dalle forze d’ordine. Il cuore sembrava essersi abbandonato a quelle emozioni si tumultuose. Lentamente le palpebre si chiusero quasi a voler imprimere nella mente quel contatto così ravvicinato con un uomo, le braccia strette attorno al suo esile corpo per proteggerla, il mantello nero a celare quell’atto di insana passione. Riaprì gli occhi sfiorando con le dita le labbra ancora umide e calde. Si guardò intorno cercando il suo respiro, il calore sulla sua pelle. Non c’era più, era andato via in maniera silenziosa, con lo scatto felino di un gatto. In lontananza poteva udire le voci dei guardiani e l’abbaiare insistente dei cani e vicino a lei, l’eco del battito accelerato del suo cuore.

-         Patty! – esclamò la voce flebile e lamentosa di Jennifer. La udì chiaramente e la riportò alla realtà. Con il pensiero al cavaliere, rientrò richiudendosi la porta finestra alle spalle con il cuore ancora ansimante per quell’attimo così emozionante.

-         Jenny, cara…come ti senti? – le chiese cercando di celare quell’emozione ancora dipinta sul volto. Si accovacciò ai piedi del sofà regalando alla sorella il più amabile e sincero dei suoi sorrisi.

-         Un po’ meglio. Vorrei tanto poter andare a casa, per sentirmi più al sicuro. –

-         Fin quando sei con me, sei al sicuro. Se vuoi torno in sala da pranzo e dico a nostra madre che preferisci tornare  a casa. Anche a me non piace questo posto e tanto meno il barone. Quell’uomo riesce a mettermi a disagio e poi…sento che è un tipo losco, poco affidabile. –

-         Scusami Patty. Ti sto dando talmente tanti pensieri che…. Dovrei essere io a proteggerti, a prendermi cura di te e invece mi rendo conto di avere sempre bisogno dell’aiuto di qualcuno, soprattutto del tuo. Vorrei tanto avere almeno un po’ del tuo coraggio. – le disse con gli occhi lucidi per l’emozione.

-         Jenny, tesoro, sei mia sorella ed è naturale che ti voglia bene e che ti protegga. L’età o gli anni che ci dividono non hanno alcuna importanza per me. Ti prometto solennemente che tu non sposerai il barone! – le disse cercando di rincuorarla seppur consapevole che si sarebbe trattata di una promessa difficile da mantenere. Lord Benjamin Priceton. In quel momento le apparve la sua immagine dinanzi agli occhi. Sia lei sia Jenny erano condannate dal destino a sposare due uomini che neppur lontanamente amavano o per i quali non nutrivano qualche sentimento particolare. La piuma scarlatta. Quel nome poetico, leggiadro, libero, echeggiò nella sua mente provocandole un improvviso rossore sulle gote.

-         Tutto bene? – le chiese Jenny guardandola completamente assorta dai suoi pensieri.

-         Ehm…sì, certo. Devo escogitare qualcosa che ci porti via da Lord Priceton e dal barone Rumsfield. – rispose sorridente. Il cuore le batteva forte e dovette respirare profondamente per riprendersi da quell’improvvisa emozione. Jenny non smetteva di guardare la sorella sicura che qualcosa l’avesse profondamente turbata seppure in maniera positiva. Il pensiero di Patricia volò al fratello Julian che ben presto sarebbe tornato a casa. Avrebbe parlato con lui e insieme avrebbero cercato una soluzione ai numerosi problemi che in pochi giorni sembravano aver portato scompiglio nelle vite delle contessine Gatsby.

 

 

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Capitolo 3
*** Al sapore di the ***


Carissimi/e,

 

Orchidea Selvaggia è tornata con il suo III capitolo.

 

Prima di lasciarvi alla lettura, desidero spendere due parole su quanto recentemente accaduto.

Vi dico subito, senza troppi preamboli, che con i numerosi plagi subiti ai danni di Tradimento d’Amore e a causa di tutti i problemi occorsi nella sezione di CT, avevo palesato ad Erika la mia volontà di togliere le storie.

Tradimento d’Amore ha significato tanto per me, esattamente come tutte le altre mie storie. In ciascuna, cerco di riportare al meglio quelle che sono le mie emozioni, dal sorriso alla lacrima, dalla gioia alla tristezza e per questo motivo, aver subito plagi mi ha letteralmente gettata nello sconforto, facendo maturare in me l’idea di allontanarmi dal sito.

Scrivere è un hobby, una passione ma è soprattutto un modo per comunicare, esternare le proprie sensazioni. Subire un plagio significa essere derubati di quelle emozioni che ciascuno di noi vorrebbe preservare come uniche e rare, nel bene e nel male.

 

Io…beh…spero che incidenti gravi come quelli occorsi a me, e a tutti gli altri autori plagiati, non accadano più. EFP ci ha dato la possibilità di conoscerci attraverso le nostre parole, di instaurare preziose e sincere amicizie, ha dato voce e corpo ai nostri pensieri. Non violiamo le nostre idee e i nostri sentimenti con il plagio.

 

Grazie a tutti e buona lettura

 

 

p.s. Un ringraziamento speciale a chi mi ha esortata a tornare a scrivere e a chi mi segue sempre con tantissima devozione. Un abbraccio e un bacio affettuosissimo. E grazie a tutti coloro che hanno atteso tanto il mio ritorno. Kisses at all

 

 

ORCHIDEA SELVAGGIA

di Scandros

 

Al sapore di the

 

Capitolo 3

 

 

 

Lord James Priceton continuava a rimirare il fuoco del camino, certo forse di poter trovare una soluzione ai suoi patemi nel lento ondeggiare delle fiamme.

-         Le lingue di fuoco possono rivelare ben oscure verità, Milord. –. La voce della bella e avvenente cameriera gli giunse melodiosa all’udito e le ciglia si schiusero in un lento movimento delle palpebre avvizzite dall’età.

-         Judith, non dire sciocchezze. L’unica verità è la realtà che viviamo, il suolo che calpestiamo e non le chimere del nostro fervido immaginare. Tanto più le fantasie irriverenti che dei tizzoni ardenti che scoppiettano in un camino, possono rivelare. – rispose alla fida cameriera.

-         Non siate così pessimista, Milord. Ecco, dietro quella fiamma chiara ne scoppietta una scura. – mormorò quasi a fil di voce.

Il conte volse lo sguardo a lei quasi preoccupato dal cambiamento di tono nella sua voce.

-         Ci sarà un incontro…casuale! – continuò non distogliendo gli occhi dall’ancheggiare sinuoso dei veli lucenti.

-         Che porterà tanto scompiglio…e che nasconde un passato oscuro….- sibilò dimentica della presenza del conte.

-         Cosa dicevi delle fiamme? – rimbeccò lui quasi a lesinare il completamento di quella frase.

-         Ehm…che porteranno travolgente passione, Milord. – rispose attendendo che il rossore sulle guance si attenuasse e che l’occhio vigile del suo padrone non avvertisse dell’imbarazzo momentaneo.

Il conte la ascoltò quasi rapito da quello sguardo sicuro che continuava a scrutare ogni minima sfumatura degli accecanti zampilli. La giovane cameriera di origini slave sembrava catturata e assorta dal lento ardere e dalle scintille che illuminavano l’oscuro incavo come tante lucciole all’imbrunire.

Il sordo bussare alla porta della biblioteca li destò dai pensieri.

-         Padre, mi avete fatto chiamare? – chiese Benjamin entrando nella grande biblioteca.

La baldanza del suo incedere era pari solo a quella della sua parola. Il sorriso ironico era sempre presente su quel viso dai tratti marcati e magnetici.

I suoi occhi scuri si posarono su Judith, china dinanzi al focolare e intenta a ravvivare i tizzoni.

Il protendersi della donna in avanti evidenziò la procace e audace scollatura che più di una volta il giovane Priceton aveva accarezzato avidamente. Da umile addetta alle pulizie delle stalle, grazie alla sua bellezza, Judith si era ritrovata a servire ai piani alti dei Priceton divenendo la cameriera personale del padrone. I suoi servigi, ovviamente, non si erano limitati all’ambiente domestico. Talvolta aveva allietato la solitudine di Lord James Priceton ed altre, allettata dalla bellezza beffarda e sanguigna di Benjamin, aveva ceduto alle sue avances, prodigandosi per lui in danze sensuali e pratiche amatoriali di sapiente esperienza. I suoi occhi castani parevano intinti nella terra bruciata delle brughiere scozzesi, imperscrutabili e seduttori, e perfino il libertino cavaliere tanto amato e declamato nei salotti inglesi, non aveva potuto che cedere alle malie di quella creatura appassionata.

-         Sì Benjamin. Ti ho fatto chiamare. – rispose Lord Priceton indicando al figlio la poltrona al cospetto della sua.

Non amava conversare con lui, soprattutto poi averlo di fronte alla sua persona, in tutta la sua prestanza giovanile. Benjamin era un uomo oramai, sebbene a volte il suo comportamento rasentava quello infantile. Tuttavia, la sua presenza riusciva a metterlo in soggezione e in estremo disagio.

Il figlio si rivelò essere più accondiscendete del solito e si accomodò sulla pregiata seggiola. Quasi intimorito dallo sguardo cupo del padre, Benjamin volse gli occhi alla sua sinistra verso Judith, ancora china, intenta a ravvivare i fuochi del camino. La folta chioma ricadeva sulla schiena arcuata e Benjamin non poté, non rivivere nei suoi occhi, le carezze che avevano percorso ogni traccia di quel corpo amabile. Sorrise compiaciuto e il padre parve avvertire i suoi pensieri. Schiuse per un attimo le palpebre quasi a voler voltare pagina ad un libro già letto, ma il figlio, e i suoi pensieri rocamboleschi, parvero essere indelebili al suo sguardo.

-         Dicevo…è arrivato l’invito al ballo a villa Gatsby! –

-         Ballo? –

-         Sì…il conte Gatsby ha organizzato un ballo in maschera al quale tu, - disse additandolo, Benjamin, prenderai parte per conoscere la tua futura moglie. –

-         Ma io conosco già Patricia…- rispose con sufficienza e distendendo la sua schiena sulla poltrona. Il conte arcuò le sopracciglia con disappunto. L’irriverenza del figlio non aveva limiti.

-         Il giorno in cui ti troverai senza il becco di un quattrino e rincorso da nobili e borghesi bramosi di giustizia nei tuoi confronti, ti assicuro Benjamin, che vorrò essere presente per non muovere neppure un dito per salvare il mio unico figlio. –

-         Padre, -

-         Non commentare! – esclamò stizzito e levandosi dalla poltrona. – Tu sposerai Patricia Gatsby, altrimenti, ti assicuro Benjamin, che potrai anche cominciare a trovarti un lavoro come stalliere da qualche parte. Sempre, che tu ne sia capace. Patricia Gatsby è un ottimo partito e dovresti rendermene grazie. E’ una fanciulla bella e intelligente e appartiene ad una della famiglie aristocratiche più in vista del Regno. E’ ora che tu cresca Benjamin. Io non ci sarò per sempre a coprire le tue spalle. – aggiunse serafico. Le sue parole erano rintronate in tutta la stanza, tra i testi antichi e contemporanei che arricchivano gli scaffali. Il giovane Lord alzò lo sguardo verso il padre.

-         Padre…io vorrei…poter provare qualcosa per Patricia…ma…e poi non ho neppure l’abito…

-         Smettila! – urlò contrariato. – Questa volta ubbidirai ai miei ordini Benjamin Priceton. Questo pomeriggio partirai alla volta di Villa Gatsby per ringraziare dell’invito personalmente e per confermare la tua partecipazione al ballo. Al ballo sarà ufficializzata la proposta di matrimonio e tu, dinanzi alla nobiltà inglese, Benjamin Priceton, chiederai personalmente a Patricia di divenire la tua sposa. – rispose infine incamminandosi adirato verso la porta. Solo il silenzio sembrò seguire le orme del conte, la stessa muta eco che scese nella stanza dopo la sua uscita.

-         Padroncino, -

-         Ah Judith…che grama vita. Perché devo essere costretto a sposare una donna che non amo e che conosco appena? – chiese con sguardo infantile, appoggiando il capo allo schienale alto della seggiola.

-         In fondo…sono solo un pover uomo che cerca il vero amore! – mormorò con voce canzonante scatenando il riso sulle labbra della cameriera.

Judith gli si avvicinò ammaliata da quel suo fare sempre sognante e divertente. Non riusciva a resistere ai suoi sguardi e a quel suo modo di parlare e di rendere sempre tutto molto occasionale. Levò una mano fino a sfiorargli, con le affusolate dita, la gota liscia. L’unghia limata alla perfezione iniziò una danza di minuscoli gesti volti a disegnare i contorni del viso mascolino. Benjamin alzò gli occhi scuri verso di lei e non poté che rimanerne affascinato.

-         Tu, mi fai uno strano effetto, Judith….- le disse invitandola ad avvicinare il viso al suo.

-         Quale? – chiese pungente e stuzzicante.

-         Mi vien voglia di baciarti! – esclamò attirando a se il capo della donna, chino su di lui, e lambendo con impeto quelle labbra rosse e carnose.

Lei rispose con invadente passione, quasi a voler dar lezione di argomento al suo giovin signore, ma l’avidità e l’esperienza, seppur la giovane età, con cui riusciva a toglierle il fiato, le confermarono che non aveva alcun bisogno di spiegazioni o pratiche. Quando finalmente, dopo lunghi ed interminabili istanti, riuscì a staccarsi da lei, Benjamin sorrise soddisfatto accarezzandole le gote prima e i generosi seni poi. Lei comprese che il bacio non era stato che un amorevole stuzzichino ma che il bel giovane, aveva fame e sete di lei. Gli tese la mano invitandolo ad alzarsi e a seguirlo oltre un percorso che li avrebbe visti amanti improvvisi e fuggiaschi.

 

 

 

* * * * *

 

 

 

La dimora dei Sullivan era immersa in un bosco di alti e protettivi aceri. Ogni qual volta Julian solcava quel cancello e la carrozza si addentrava lungo il viale, sentiva il cuore gonfiarsi in petto. L’idea di rivedere la sua amata Amily dopo mesi di lunga separazione, lo eccitava e disarmava allo stesso tempo. Se da una parte ambiva un solo istante in cui l’avrebbe trattenuta tra le braccia, dall’altra parte, temeva che il perdurare della sua assenza, avesse in qualche modo potuto offuscare i sentimenti e le promesse che la giovane Sullivan nutriva per lui.

Man mano che il cocchio si avvicinava, sentiva il respiro venirgli meno e la cravatta al collo stringersi in maniera quasi vitale. Lady Eleanor posò lo sguardo sul figlio maggiore e sorrise all’idea che quel the del pomeriggio, gli avrebbe restituito un amabile sorriso.

Sebbene mai così plateali, conosceva bene i palpiti segreti dei figlioli e se da un lato sperava che ben presto Julian chiedesse a Amily di sposarlo, dall’altro attendeva il miracolo che avrebbe restituito dignità ed onori al povero marchese Callaghan tanto spasimato dalla figlia Jennifer.

Si riavviò un ricciolo nella tesa del cappello socchiudendo gli occhi e rimembrando il giorno in cui, qualche mese prima, nella loro bella serra, aveva sorpreso Jenny tra le braccia di Philip Callaghan.

Il suo primo istinto era stato quello di avvicinarsi alla coppia e coglierli in flagranza ma, il cuore generoso di una madre, aveva suggerito di lasciare a quei due poveri amanti, i loro attimi di perduto amore. Qualche giorno dopo, tra copiosi singulti, Jennifer le aveva confessato che Philip era braccato da un potente nobile e pertanto era stato costretto alla fuga.

Non poté far a meno di indirizzare lo sguardo verso la figlia e notare il capo chino e l’espressione dimessa.

Strinse il labbro in una leggera morsa avvertendo il sapore del rossetto che le colorava a perfezione.

Nigel Rumsfield. Il solo nome, echeggiato silenziosamente nella mente, la faceva rabbrividire e ancor di più all’idea che il flessuoso corpo della figlia potesse in qualche modo essere sfiorato dagli occhi gelidi e inanimati del barone.

Aveva chiesto a Jennifer di accompagnare lei e Julian cercando in qualche modo di far evadere la figlia dai pensieri funesti della proposta di matrimonio giunta dal barone.

Quella richiesta quanto mai impensabile e improponibile, era arrivata nel momento in cui Philip Callaghan era lontano chissà dove, privo di qualsiasi sostegno materiale e con un titolo nobiliare in precario equilibrio. Marchese quasi del tutto decaduto a causa di cattivi investimenti nelle miniere di preziosi in India, il giovane rampollo dei Callaghan, si era armato di tutto il suo coraggio, dell’orgoglio e della dignità che lo avevano da sempre contraddistinto, ed era partito chissà dove alla ricerca disperata della giustizia che avrebbe potuto restituire lui e la sua casata agli antichi albori.

Sospirò percorsa dai brividi e dall’immagine torva e spigolosa del barone. Chiuse gli occhi nel tentativo di cancellare quell’inquietudine che non avrebbe sicuramente reso piacevole quel the.

Il rossore dipinto sul volto incerto di Julian le restituì il sorriso e la distrassero da ben altri pensieri.

-         Julian, ti senti bene, figliolo? – gli chiese solleticando l’imbarazzo del giovane erede dei Gatsby.

-         Ehm…certamente madre, cosa vi fa pensare che io possa star poco bene? – le domandò con la deferenza e la devozione di un figlio amorevole.

-         Nulla, solo un lieve color porpora sulle tue gote. Sarà per il freddo pungente di questo febbraio. – ammise scherzando.

-         Madre, vi prendete celia di me? – chiese impacciato e voltandosi verso la sorella minore. – Jennifer, tutto bene? – le chiese comprendendo il motivo del disagio. –

-         Oh…beh…io…-tentennò chinando gli occhi sulla mantella scura che avvolgeva il suo aggraziato corpo. – Ma certo, tutto bene. – concluse sistemandosi il cappello.

Il cocchiere arrestò la corsa dei cavalli tirando le redini. Dopo qualche istante, sceso dal suo sellino, aprì la portiera della carrozza invitando i passeggeri a scendere.

Julian precedette la madre e la sorella, invitando prima la genitrice e poi Jennifer, a scendere i gradini del cocchio.

Una folata di vento gelido li investì ricordando loro che l’inverno perdurava nelle sue temperature poco miti.

Incedette di qualche passo porgendo le braccia alle sue compagne di viaggio incamminandosi poi verso il portico.

Il portone in legno decorato della grande dimora, si aprì e il maggiordomo si chinò riverente, pronto ad accogliere gli ospiti.

Dietro di lui, appena scese dalla lunga scalinata in marmo italiano, le figure di Lady Muriel e Lady Amily comparvero quiete e sorridenti.

Lady Eleanor incedette al passo del figlio e della figlia Jennifer verso le padrone di casa.

-         Mia cara, è un onore avervi qui nella mia dimora. – esclamò Lady Muriel stingendo le mani inguantate della contessa.

Il suo sorriso di pura convenienza e cortesia era tanto lucido quanto artefatto. Dietro di lei, la giovane Amily risplendeva in un abito di velluto verde smeraldo che metteva in risalto i suoi caratteristici boccoli ramati. I suoi occhi sorrisero nel denotare come, lo sguardo della bella figlia dei Sullivan, era immerso nell’espressione beata di Julian. Quelle che un giorno le erano giunte come banali chiacchiere di salotto, erano la pura realtà ed erano magistralmente dipinte sui loro volti.

Cupido non avrebbe potuto intingere meglio il suo pennello d’amore. Julian e Amily continuavano a scambiarsi scorse di intesa tralasciando la povera Jennifer ad un ruolo meramente secondario.

-         Lady Muriel, ho avuto il piacere e l’ingegno di condurre con me i miei figli maggiori Julian e Jennifer. –

-         Oh lo vedo Lady Eleanor e non posso che giovarmi di questa bellissima ventata di giovinezza. Amily desiderava da tempo rivedere la sua amica Jennifer. -.

Amily parve scuotersi a quelle parole. Le erano sembrate quasi un dardo stizzito da parte della madre che sicuramente aveva trovato alquanto sconvenienti gli sguardi di intesa che lei e Julian non avevano mancato di dedicarsi.

-         Lady Muriel, vi trovo in splendida forma. Perdonate la mia ineducazione se ho tolto brevi istanti al saluto. – le disse chinandosi a baciare gentilmente la mano ben levigata della dama.

-         Oh Julian non temete. Vi trovo bene. –

-         Certamente Milady e sono compiaciuto di poter asserire lo stesso di voi e della vostra amabile figlia. – aggiunse sorridente. Qualsiasi dama, non poteva non restare conquistata dall’educazione e dal sorriso quieto che Julian riusciva a trasmettere. La sua voce melodiosa e serena, era fonte di buon ascolto da parte dei convenuti.

-         Jennifer, mia cara. La vostra bellezza è oramai chiacchiera nei salotti dell’alta aristocrazia inglese. – disse diretta alla bella contessina.

-         Lady Muriel, vi ringrazio per le belle parole. Consentitemi di dissentire: quanto da voi appena pronunciato è invero. La bellezza che regna nel cuore è ben altra cosa di quella del volto. –

-         Bella e saggia. Mi complimento ancora Lady Eleanor. – asserì compiaciuta da quel dialogo.

-         Amily, posso dire altrettanto di voi. Siete uno splendore, cara. – disse Lady Eleanor cercando di mettere a proprio agio la timida ed eburnea erede dei Sullivan.

-         Milady, vi ringrazio del complimento. E’ un piacere avervi come nostri ospiti. – disse senza levare lo sguardo sui presenti.

I suoi occhi intinti nell’ambra scura dell’Europa dell’Est, celavano ben altre immagini. Le labbra che avevano scandito quelle parole di convenienza, erano bramose di lambire quelle sottili e rosse del giovane Julian.

Lady Muriel chiese al maggiordomo di raccogliere i soprabiti degli ospiti e alla cameriera di far strada verso il salotto nel quale avrebbero gustato il loro the.

Le due madri precedettero i giovani figli sorridenti ammirando gli splendidi ritratti e gli argenti che decoravano i mobili antichi dei corridoi che disimpegnavano verso il salotto. Subito dietro di loro, Julian, Amily e Jennifer le seguivano.

Il giovane Gatsby, a capo chino, cercò con la coda dell’occhio il volto cereo di Amily. Sussultò, quando complice un tappeto leggermente rialzato, si sbilanciò leggermente in avanti e la sua mano sfiorò quella affusolata della giovane amata.

Amily arrestò il passo in preda alle travolgenti emozioni che quel tocco delicato le aveva procurato. Il rossore che investì il suo volto era tale che solo una fragola matura avrebbe potuto competere con un colore simil vivo. Voltò il profilo verso Julian, scandendo similmente il suo nome sulle labbra imbarazzate.

Jennifer si soffermò invitata dall’incedere lento della coppia, notando l’imbarazzo evidente sui loro volti. Magnanima e divertita da quei primi passi impacciati, sorrise loro incedendo di qualche passo.

Notando le sagome orami lontane delle belle madri, Julian si girò verso Amily sorridendole col cuore.

Sul volto ben rasato e adorno di ciuffi castani, Amily si soffermò a sorridere. Lui continuava a non staccare gli occhi dall’ovale perfetto e simile alla porcellana della ragazza, da quei riccioli ramati che Botticelli avrebbe spasimato per dipingere e fermare nel tempo.

-         Amore. – sussurrò sulle labbra.

-         Amore. – restituì Amily sfiorando ancora quella mano che nei sogni della notte aveva più volte desiderato stringere tra le sue dita.

Jennifer sorrise dimessa pensando al tribolato e mesto amore che nutriva per Philip Callaghan.

-         Philip, amore mio, dove sei? Torna per me…prima che sia troppo tardi. –

 

 

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Capitolo 4
*** Menta e cannella ***


ORCHIDEA SELVAGGIA

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

Menta e Cannella

 

Capitolo 4

 

 

 

 

 

Quando il cocchiere tirò le redini, i cavalli arrestarono il passo nel parco antistante la grande e sontuosa dimora dei Gatsby. Entrambi i giovani partiti aristocratici conoscevano bene quei luoghi poiché avevano già fatto, in precedenza, visita al giovane amico Julian Gatsby.

Il maggiordomo li accolse col dovuto cerimoniale, per il quale la scuola inglese era maestra di servitù, invitandoli a seguirli in uno dei salotti dislocati lungo l’ala sinistra del palazzo. Dipinti d’epoca, che ritraevano gli avi dei conti, si alternavano a paesaggi stagionali delle brughiere inglesi e delle lande scozzesi.

Seguendo il segaligno cerimoniere, giunsero in una gran sala tappezzata di broccati chiari e adorna di salotti in stile settecentesco di provenienza francese. Il mobilio, seppure imponente, era in placida armonia con le pareti e i sofà. Cuscini dalle lunghe frange e grandi nappe erano posati un po’ ovunque in una geometria sicuramente studiata. Gli appliques ai muri emanavano una luce soffusa che ben si sposava con le fluttuanti fiamme di due grandi caminetti posti agli angoli opposti dell’ampia stanza.

-         Vi annuncio subito, signori. – esclamò Charles col capo chino e riverente mentre una cameriera prendeva i loro soprabiti.

Benjamin cominciò a girare per la stanza cercando curiosamente qualcosa e soffermandosi dinanzi uno scrittoio sormontato da uno specchio di smisurate proporzioni. In un gesto a lui consueto, si drizzò di profilo e volse lo sguardo verso la superficie argentea che gli rimandava puntuale, l’immagine di un gentleman inglese dai bei tratti e dallo sguardo vispo.

-         Che gli farò alle donne! – esclamò narciso e impettito stirandosi la giacca lungo le anche. Poi allungò le mani verso il volto, esaminando le unghie perfettamente curate e di parvenze quasi femminili.

-         Cosa stai guardando cugino? – chiese ad Oliver intento a rimirare oltre i cristalli.

-         Un cavallo che galoppa sulla neve. – rispose pacato e sereno.

I suoi occhi immersi in una lago di onice nera non riuscivano a distogliere lo sguardo dall’immagine di una fiera Patricia che cavalcava il suo destriero con la leggiadria e la maestria di un’amazzone. Una folata gelida portò via il cappello della sua uniforme in velluto. Levò il braccio nel tentativo fallito di recuperarlo per la tesa. Il vano sforzo si dipinse sul suo volto accigliato e su un’imprecazione poco femminile che Oliver le lesse sulle labbra porpora.

Sorrise all’esternazione mascolina e all’indomita energia della damigella cara al suo cuore. Le lunghe ciocche brune si sparsero sulla brezza invernale e al giovane duca di Huttinton parve di perdere il controllo dei sensi. La sua bellezza impetuosa era pari al suo coraggio ed era perfettamente incastonata nelle iridi dal sapore forte e vitale della brughiera.

-         Oh Patricia, come sei bella gentil fanciulla. Se solo le mie labbra riuscissero a raccontarti quello che il mio cuore sente! Se solo il tuo udito potesse ascoltare quel che ho da raccontarti nei miei lunghi silenzi. Oh, come vorrei stringerti tra le braccia. Accarezzare i tuoi lunghi capelli scuri, le tue gote eburnee e le labbra sanguigne. Oh bellissima creatura, perché la vita è così avversa? Perché qualcuno ha deciso che devi andare in sposa a chi non ti merita e cerca solo giubilo ed estasi nella compagnia femminile? – pensò mesto Oliver celando nella profondità dell’animo il rammarico per l’unione che presto avrebbe legato Patricia a Benjamin.

-         Ma guarda….e quella dovrebbe divenire la mia consorte? Non capisco proprio perché debba maritarmi con una ragazzina capricciosa e impertinente come Patricia. Io ho bisogno di ben altro. – sogghignò Benjamin passandosi una mano tra i capelli.

-         Già…non lo capisco neppure io cugino. Davvero non comprendo perché Patricia debba sposarti. – rispose serafico.

-         Non capisco cosa intendi dire, Oliver! – ribatté fintamente tediato dalla mera constatazione del cugino.

-         Tu non cerchi l’amore in una donna, Benjamin. Per te va bene qualsiasi donna si faccia portare comodamente a letto. – rispose piccato.

L’argomento Patricia non era tra? sicuramente leggero e il fatto di averla già perduta in partenza, predisponeva Oliver sulla difensiva.

-         Quanto pathos nelle tue parole. Non comprendo. Le donne non mi pare che siano mai state il tuo primario interesse. Tu pensi solo alle tue navi e ai tuoi uomini, a divenire un perfetto ammiraglio al servizio di Sua Maestà. Patricia è una fanciulla deliziosa….e chissà, forse potrebbe anche stuzzicare la mia fantasia…

-         Smettila Benjamin, abbi un po’ di contegno. – rimandò acre.

Il giovane conte di Priceton non rispose all’ammonimento del cugino. Qualcosa, nel suo tono di voce, lo turbò e lo rese inquieto e mal disposto a continuare quel dialogo.

Comprese, tuttavia, che se a lui Patricia non interessava, molto probabilmente, lo sguardo infuocato della giovane Gatsby aveva fatto breccia nel cuore del cugino. Se così fosse stato, le cose si sarebbero nettamente complicate.

-         Buonasera signori! – esclamò il conte Gatsby entrando all’interno della stanza sorridente.

-         Conte, i miei ossequi. – esclamò riverente Oliver precedendo il cugino Benjamin. L’ironico dandy inglese imitò il giovane parente salutando colui che entro poco tempo sarebbe divenuto il suocero.

-         A cosa dobbiamo la vostra gradita visita? – chiese invitandoli con un gesto ad accomodarsi vicino al camino.

-         Siamo venuti a ringraziarla dell’invito al ballo, conte. –.

Il conte Gatsby scosse lievemente una campanella d’argento e il maggiordomo si presentò riverente al suo cospetto. Con un semplice cenno del capo, l’uomo dai tratti magri si allontanò per tornare velocemente accompagnato da una cameriera con un vassoio d’argento. La teiera fumante emanava un gradevole profumo di the naturale. Charles dispose il vassoio sul tavolino vicino il salotto e ordinatamente sistemò le tazze di fine porcellana al cospetto dei tre commensali. Poi, con fare del tutto naturale, la donna di semplici fattezze, scoprì una coppa contenente zollette di bianchissimo zucchero di primissima qualità; ne seguì una con zucchero di canna, un’altra con cannella e infine una terza con foglie di profumata menta piperita. Un gradevole succo, caldo ed opalescente fumava dalla lattiera vittoriana, accanto un vassoio più piccolo contenente tipici biscotti inglesi.

-         Benjamin, raccontatemi di vostro padre. Come sta Lord Priceton? – chiese Arthur Gatsby nel tentativo di sciogliere la tensione di quell’incontro così repentino.

Era palese che nel bel mezzo della conversazione, avrebbe dovuto fare qualche accenno a quella richiesta di matrimonio giunta da Lord Priceton.

-         Molto bene conte, nonostante l’età, è ancora un uomo nel pieno delle sue prestazioni. -.

Quell’ultima affermazione suonò strana al conte Gatsby che storse lievemente il labbro volgendo lo sguardo ad Oliver.

-         E vostra madre Oliver? –

-         Vi porge i suoi più cari saluti, conte. Gode di buona salute, grazie. Spero che anche Lady Eleanor stia bene. –

-         Sì grazie, Oliver. Oggi non è in casa. E’ uscita accompagnata da Julian in visita a Villa Sullivan. Sono spiacente che non vi siate incontrato con Julian. –

-         Non mancherà sicuramente occasione. – rispose sorridente e sinceramente dispiaciuto per non aver potuto incontrare l’amico.

Il conte versò il liquido nelle tazze. L’ambra scura languida si sparse all’interno delle pareti di porcellana esalando profumi intensi. Immediatamente dopo, offrì loro zucchero e foglie di menta.

Oliver affondò il suo cucchiaino, prima nel verde smeraldo della piperita e poi nelle sfumature esotiche della cannella. Benjamin lo imitò aggiungendo del latte al suo the alla menta. Il conte invece si versò solo dello zucchero e del latte.

-         Un gusto particolare cugino. – notò Benjamin.

-         Sì, ho imparato a berlo in India. E’ stato un indiano al servizio sul vascello a farmelo degustare. Le foglie verdi del the mischiate a quelle della menta e intinte nel biondo della cannella. Dovresti provarlo Benjamin. – gli suggerì ammiccando ad un sorriso quasi di scherno. Il conte sorrise alla gentile schermaglia tra i due gentiluomini notando, già dalle prima battute, la differenza caratteriale tra i due.

-         Oh no, grazie. Preferisco gli antichi sapori inglesi. Sai bene che sono ancorato alle origini più di quanto chiunque possa immaginare. – biascicò mieloso e cantilenante.

-         Permettetemi conte, di chiedervi come sta Julian. – chiese Oliver portandosi la tazza di fine porcellana di Bavaria alle labbra.

-         Molto bene. E’ giunto da qualche giorno. Voi Oliver, come mio figlio, sentite il richiamo del mare e quando le onde cantano, non potete fare a meno di seguirle. Com’è andato il vostro ultimo viaggio? –

-         Bene conte, è stato più proficuo di quanto mi aspettassi prima di partire. Sapete che unitamente alla flotta reale, ho interessi anche commerciali nelle Indie. –

-         Sì, me ne è giunta voce. Mi sembra che anche voi abbiate investito parte dei vostri averi nelle miniere di preziosi. –

-         Esattamente, ma non quelle in India, bensì in Birmania. Miniere di rubini, Milord, di primaria bellezza e purezza. In India e a Ceylon ho intrapreso trattative per il commercio di spezie. –

-         Bene. Vedo che siete alquanto indaffarato. Sicuramente il tempo per pensare ad altro non lo avete. – aggiunse il conte eludendo alla compagnia del gentil sesso. Oliver, evidentemente imbarazzato, pensò velocemente ad una forma conveniente per glissare l’argomento suo tallone d’Achille.

-         Effettivamente di tempo ne ho molto poco, anche perché, credetemi conte, è mia intenzione legarmi ad un affetto in maniera definitiva. Ho molta stima e deferenza nei confronti dell’animo e della persona femminile. – rispose dando voce alle sue idee.

Benjamin unì le labbra in un sorriso ironico pensando a tutte le opportunità perdute dal cugino che sebbene abile stratega tra gli oceani, era notoriamente un vinto in campo sentimentale.

Il conte assentì col capo guardando entrambi e cercando di leggere sui loro volti la verità di quelle parole.

-         Benjamin, - disse volgendo lo sguardo al futuro genero, - Voi conoscete il motivo di tale ballo. Ho ricevuto la richiesta di vostro padre a maritare mia figlia Patricia. –.

Quelle parole echeggiarono nella stanza rimbombando in un’eco infinita.

Oliver le sentì penetrare nel suo cuore come dardi pregni di veleno mortale. Una punizione che il destino aveva, ineluttabilmente, deciso di infliggergli. La sua bella che presto sarebbe andata in sposa al prodigo cugino. Sentì il fiato venir meno e qualsiasi esclamazione che il cuore avrebbe voluto gridare, morir soffocata in gola. Lo stomaco gli si strinse in un groviglio di rovi spinosi. Lo sconforto stava celermente prendendo il sopravvento.

Arthur Gatsby cercò spontaneamente lo sguardo sul duca di Huttinton quasi avvertendo il suo disagio. Ma non proferì verbo. Anche lui, pareva non esser convinto di quelle parole poco prima proferite. Le sentì vacue e incerte, così impalpabili e estranee. Sua figlia Patricia chiesta in sposa per Benjamin Priceton.

Assottigliò gli occhi quasi a voler dar corpo a quelle parole e, per la prima volta dacché giunta, a capacitarsi della realtà.

-         Esattamente conte, ne convengo. – rispose in tono con l’argomento e palesando un volto privo di ironia e stranamente consenziente.

Oliver sospirò lievemente non tollerando l’atteggiamento di finta cortesia volto solo ad esternare l’interesse paterno.

-         Io sono molto compiaciuto dell’interesse da parte vostra nei confronti di Patricia e spero davvero, Benjamin, che il vostro non si riveli essere un semplice matrimonio accomodatore. – aggiunse il conte Gatsby risoluto e tuttavia dando seguito a quella conversazione di pura convenienza. - Voi comprenderete, certo, che la mia famiglia nutre di notevole stima a corte e la genealogia del casato è priva di scandali e dicerie. Il nostro casato nei secoli, ha sempre basato la propria vita sui profondi valori familiari e morali, senza mai scendere a inutili e scomodi compromessi. – esternò posando la tazza sul tavolo.

-         Buonasera!- esclamò una voce femminile interrompendo il quasi monologo del conte.

Tagliò la tensione come una lama affilata, ma Oliver al dolce udir di quelle parole parve rinvenire dallo stato di celato disinteresse verso la questione. La stanza era vuota e nulla li circondava. Vedeva solo la sua bella figura avvolta nei velluti della divisa e circondata di un’aura profonda e passionale.

Allorquando Patricia sfiorò i suoi occhi, con un breve cenno dello sguardo, Oliver avvertì un lieve imbarazzo dipingersi sugli zigomi. Udì sonori i colpi del cuore in petto, temendo per un istante che anche la giovane donna potesse percepirne l’intensità e ridere di lui.

Precedendo Benjamin, si levò nella sua imponenza palesando agli occhi della giovane contessa, un fisico atletico e ben tornito frutto della dura vita militare. La contessina gli dedicò un sorriso amabile e sobbalzò, quando Oliver anticipando quanto avrebbe dovuto fare il cugino, si inchinò a baciarle la mano. Come poche volte era accaduto nella sua vita, il duca di Huttinton aveva seguito l’istinto del cuore e aveva fatto quel gesto che aveva alimentato ulteriormente i sospetti di Benjamin.

-         Oliver, da quanto tempo non ti vedevo. Il tuo sguardo è sempre così dolce e tranquillo, un sicuro porto nel quale rifugiarsi. – pensò compiaciuta dalla visita inattesa del duca di Huttinton.

La mano di Oliver tratteneva gentilmente quella di Patricia coperta dal guanto in pelle della divisa da amazzone.

-         La tua mano unita alla mia…come già una volta era accaduto. Cosa mi succede? Perché oggi, come allora, avverto una strana sensazione, quasi sconvolgente. Vorrei correr via, rifugiarmi dove i tuoi occhi di onice non possano scorgere il mio turbamento. Dove sono la mia sicurezza, la mia superbia e la mia arroganza? – pensò non riuscendo a staccare i suoi occhi dal volto del bel duca.

Un colpo di tosse del conte Gatsby parve riportare i due ragazzi alla realtà. Perfino l’inossidabile e imperturbabile Patricia, sobbalzò e si colorò lievemente.

-         Patricia, quale onore rivedervi. – disse Benjamin chinandosi e baciando la mano della futura moglie.

-         Il piacere è mio Lord Priceton. – rispose quasi tediata dalla sua intromissione. Era certa, come non mai, che lui non era l’uomo che desiderava avere a fianco per tutta la vita.

Lei, che sognava da sempre l’amore travagliato e passionale, ricco di colpi di scena e fatto di un sentimento puro e indissolubile, costretta dal volere paterno e dall’etichetta dell’aristocrazia, a sposare un damerino re dei boudoir femminili.

-         Ho disturbato qualcosa? – chiese al padre inclinando il capo.

-         No mia cara. Il duca di Huttinton e il conte di Priceton mi hanno omaggiato di una visita per ringraziarmi dell’invito al ballo che si terrà tra qualche tempo. -.

Patricia annuì posando il cappello e il frustino su una poltrona. I giovani nobili erano ancora in piedi e impettiti in attesa che la damigella prendesse posto al loro salotto.

- Ci deliziate della vostra  compagnia?

 

 

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Capitolo 5
*** Il canto d'amore di Ofelia ***


ORCHIDEA SELVAGGIA

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

Il canto d’amore di Ofelia

 

Capitolo 5

 

 

Arthur Gatsby si lisciò i baffi e sospirò. Prima o poi avrebbe dovuto affrontare il discorso con il futuro genero, e quella visita di cortesia, era forse il momento giusto per farlo. Levò lo sguardo sulla figlia che, come un’audace amazzone,  lo fissava con espressione impenitente e contrariata.

Nei suoi occhi leggeva il disappunto verso i pensieri che affollavano la mente paterna, nei confronti di quella proposta che aleggiava nella loro sfarzosa dimora. Poco distante, Patricia poteva ben distinguere i lineamenti superbi del promesso marito.

Sebbene fosse cosciente del fascino emanato da Benjamin, non riusciva a guardarlo con espressione amorevole o tanto meno affettuosa.

Qualcosa, nel suo cuore, continuava a suggerirle che il giovane Lord Priceton non era l’uomo giusto per lei. Ma come poteva sfuggire all’inclemente sorte?

Si sentì avvampare al solo pensiero di percorrere al fianco del padre la navata centrale della cattedrale, di giungere ai piedi dell’altare sontuosamente abbigliata, in attesa che un importante celebrante giunto da Londra, potesse dar voce alla funzione che l’avrebbe resa Lady Priceton.

Avvertì quasi una sofferenza avvilupparle il cuore, scorrerle nelle vene rilasciando il fluido della malinconia. Si sentiva fortemente nostalgica.

Fu allora che cercò riparo altrove e voltando il profilo, incrociò quello di Oliver.

Da quanto tempo la stava guardando? Aveva mai smesso di farlo dacché aveva posato la tazzina di fine porcellana nel piattino?

No, ne era certa. Non aveva smesso un solo attimo di dedicarle il più dolce ed amabile degli sguardi, di una purezza e di una gentilezza che solo un cuore importante potevano avere.

Arrossì ancora, ma non per l’ira di un matrimonio congeniato ed organizzato senza il suo assenso: lui era lì, non meno bello del cugino, fiero e di animo nobile, a difenderla.

Patricia inclinò leggermente il viso e Oliver se ne avvide, al punto tale da sorriderle di rimando e da inclinare, a sua volta, il proprio profilo.

La fanciulla sorrise ancora di quel gesto quasi infantile ma decisamente premuroso e riguardoso al tempo stesso.

-         Che buffo! – pensò la contessina portandosi una mano alle labbra per mascherare un riso di ilarità.

Un colpo di tosse del conte parve ristabilire i ruoli e i toni dell’incontro.

-         Patricia tesoro, perché non mostri ad Oliver la tua collezione di dipinti? Io devo scambiare qualche chiacchiera con Benjamin. – disse il conte con espressione cupa ma decisa.

Patty non obiettò e non fece alcun cenno di rimostranza. Oliver si alzò e le tese la mano per aiutarla ad alzarsi.

Il suo galateo e la sua cavalleria erano decisamente esemplari.

Il conte sorrise ricordando in quei gesti, l’oramai defunto Duca di Huttinton, con il quale in gioventù era stato amico.

Patricia non proferì parola e precedette Oliver lungo il corridoio donde gli invitati erano giunti.

-         Figlia mia, non so se sto facendo la cosa giusta, ma almeno a te vorrei garantire un futuro sicuro e lungi dall’invischiarsi con quel viscido del Barone Rumsfield. Cercherò in ogni maniera di evitare che Jennifer vada in sposa a quel verme, ma intanto voglio assicurarmi di sistemare almeno te. Perdonami se accetto quindi la proposta di Lord Priceton e ti concedo in sposa a Benjamin. Il casato dei Priceton potrà garantirti agi e benessere, un titolo nobiliare che consoliderà la tua posizione alla corte della Regina. – pensò seguendo con lo sguardo la figlia e l’aitante Duca di Huttinton.

Oliver seguiva le movenze della giovane contessa beandosi di quel passeggiare leggiadro ma grintoso allo stesso tempo.

Si era innamorato di Patricia a prima vista, un colpo di fulmine che gli era balenato negli occhi nel momento stesso in cui l’aveva veduta scendere dalla carrozza.

Ricordava bene i lunghi capelli al vento, tenuti appena da un cappello a tesa larga. Proprio come quel pomeriggio.

Le sue irdi, due topazi scuri, dalle sfumature calde della terra inglese, come intinti nei profumi ardenti e suadenti dei migliori brandy del Regno. Gli bastava pensarla o il solo pronunciare mentalmente il suo nome, per imporporare le guance.

E in quel momento la vedeva proprio dinanzi ai suoi occhi, precederlo in una stanza dove probabilmente sarebbero stati soli, loro e i rispettivi pensieri.

Giunsero dinanzi una porta a due ante e Patricia la aprì agilmente. Una stanza di smisurate proporzioni si aprì ai loro sguardi. Le alte porte finestre si snodavano lungo tutta la parete frontale e la luce che ne entrava era accecante e quasi invadente. Oliver si portò una mano agli occhi per potersi fare ombra e distinguere i maestosi dipinti e gli affreschi di cui erano adorne le pareti.

Il riverbero parve dissolversi allorquando, nel silenzio della stanza, quasi guidato da uno strano magnetismo, solcò l’uscio e incedette verso una tela incorniciata ad arte da un legno in stile barocco.

-         Ofelia! – pronunziò a bassa voce, ma non tanto perché Patricia non lo ascoltasse.

Sembrava catturato dall’immagine perfettamente riprodotta nel dipinto. La contessina lo fissava rapita dal suo sguardo interessato e profondo. Dove lo stavano conducendo i pensieri?

-         Esatto. Vi intendete di arte, Oliver? – gli chiese piacevolmente colpita dal suo interesse verso i quadri che distrattamente passò in rassegna voltando il profilo a destra e manca.

-         No, sarebbe osare troppo dire che mi intendo di arte. Ma, conosco questo quadro e la storia del personaggio. – disse avvicinandosi e lambendo la cornice opulenta. – C’è un salice che cresce di traverso sul ruscello e specchia le sue foglie canute sulla vitrea corrente; con esso ella fece fantastiche ghirlande di ranuncoli, ortiche, margherite e lunghi fiori color viola. –

-         Shakespeare, Amleto. Sono le parole pronunziate dalla regina Gertrude mentre descrive la morte di Ofelia! – esclamò Patricia sempre più sorpresa dal romanticismo del cavaliere a lei caro. – Sono sorpresa, non lo nego. Posso chiedervi come mai conoscete questo brano dell’Amleto? –

-         I canti e i brani di Shakespeare mi hanno accompagnato nelle lunghe navigate nei mari delle Indie, Milady. Ma la conoscenza del brano la devo a John Everett Millais, il pittore di questo quadro che voi possedete. La storia di Ofelia mi ha molto colpito! Una fanciulla che decide di morire poiché il proprio fidanzato uccide il padre. Un sentimento nobile, un attaccamento alla figura paterna, un affetto incommensurabile. Ofelia lotta contro l’amore nutrito per Amleto e alla fine decide di concedersi alla nenia della morte, cercando ristoro nell’infinito. Shakespeare ne ha cantato le lodi, ma Millais ne ha dipinto il volto, incastonandolo nel tempo. -.

Patricia non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli occhi che fieri continuavano a rimirare il dipinto: uno scintillio particolare li animava, un’eco romantica e indefinita, di rara beltà. Era sempre più rapita da quello che stava ascoltando il suo cuore. E lo sentiva battere con vigore, tanto che il petto le doleva e temeva lui potesse ascoltarne il fragore.

-         Sapevate che ogni fiore dipinto ha un suo preciso significato? – le chiese allungando la mano verso la tela e muovendo le dita ad indicare uno ad uno i fiori posati sull’acqua.

-         Il papavero simboleggia la morte, la margherita l’innocenza, il nontiscordardimè il ricordo, la rosa la gioventù e la bellezza. – disse con voce flebile e cheta palesando la conoscenza del dipinto. .

-         La violetta la fedeltà e la morte precoce e la pansé, - sussurrò voltandosi verso di lei, - la pansé, piccolo fiore dai delicati colori, indica l’amore infelice. – concluse catturando definitivamente il suo sguardo.

Patricia sentiva pulsare i suoi occhi all’unisono col cuore: comprendeva che i suoi sensi stavano per venir meno. Sentiva le labbra secche, ma non aveva neppure l’ardire di sfiorarle per umettarle.

Oliver le si avvicinò abbastanza perché lei potesse distinguerne il buon profumo. Socchiuse gli occhi, quasi a voler respirare l’atmosfera romantica ed esotica che lui emanava, per poterne preservare il ricordo per sempre.

Quando sollevò le palpebre, lo rivide di fronte a lei: non si era mai accorta di quanto fosse bello e aitante il giovane Huttinton. Il suo fisico, sebbene fasciato da un abito d’ alta sartoria inglese, si presumeva essere ben tornito e dai muscoli scolpiti dalla vita di mare.

I ciuffi neri e ribelli gli davano un’aria romantica da poeta bohémien.

Era immobile, incapace di flettere qualsiasi muscolo o semplicemente di biascicare un suono.

Udiva roboante il richiamo del suo cuore.

Sobbalzò quando le dita irriverenti del Duca si posarono sulla gota. Le sentì lisciare la pelle cerea in un gesto d’affetto e stima. Temette che lui potesse avvertire il calore del volto carminio d’imbarazzo. Ma la sensazione era così piacevole che non ebbe il coraggio di ritrarsi.

-         Ed io Oliver….io quale fiore sarei? – gli chiese ammaliata dalle movenze e dagli sguardi carichi di inattesa seduzione del giovane aristocratico.

Attese qualche istante prima di parlarle ancora. Nella sua espressione c’era così tanta dolcezza ed innocenza che Patricia desiderò tuffarsi in quei laghi infiniti.

-         Voi Patricia sareste un fiore di una bellezza inenarrabile, dai petali vellutati e dal profumo immortale, come quelli che ho potuto vedere nei miei viaggi. Raro, come un’orchidea dai toni forti e sensuali, intinto nel rosso scarlatto delle vostre labbra, con sfumature oscure e selvagge, uniche nella loro atipicità. Voi siete un’orchidea selvaggia, regina di bellezza e di coraggio, indomita e anticonformista, umile e di gran cuore. – le disse con voce melodiosa rubandole qualsiasi parola.

-         Oliver…oh mio Dio Oliver! – pensò non riuscendo a distogliere i suoi occhi da quelli scuri del giovane Duca. – Duole il cuore in questo petto, desideroso di esplodere di un sentimento a me sconosciuto. Ti ho sempre pensato come uomo innocente e puro, quasi virginale. Ti scopro invece seducente e seduttore. I tuoi sguardi mi hanno rapita, adesso ti prego, Oliver, raccoglimi nel tuo abbraccio e lascia che io possa perire nella beatitudine del tuo sentimento e dei tuoi sussurri d’amore. – pensò ardita sentendosi quasi soffocare.

-         Patricia, creatura splendida che rifulgi dinanzi a me. Come vorrei poterti stringere tra le braccia, non lasciarti più andare, ma io…io non posso, fanciulla dei miei sogni: sei già promessa sposa ed io…sono solo un inetto infelice! – pensò Oliver velando lo sguardo di un’ombra di malinconia.

Sentì immenso lo scoramento per quei pensieri arditi che avrebbe voluto pronunziare a voce alta. Il dolore era immenso e inevitabile. Lui, Oliver Huttinton era arrivato troppo tardi e nulla avrebbe potuto impedire il matrimonio di Patricia con Benjamin Price.

-         Patricia, perdonatemi! – esclamò quasi rinsavito dal gesto arduo che aveva commesso.

Ritrasse la mano e arrossì dall’imbarazzo. Avrebbe desiderato celare il turbamento fuggendo via in groppa al suo destriero nero. Invece era lì, in quella gabbia dorata accanto alla donna amata e nel disperato tentativo di porre fine a quello scompiglio interiore.

-         Oliver…

-         Perdonatemi, non avrei mai dovuto. Il mio è stato un atto di debolezza. Voi siete, - sussurrò mesto, - siete promessa sposa a Benjamin! – aggiunse infine voltandole le spalle nell’arduo tentativo di celare lo smarrimento e lo sconvolgimento emozionale di cui era vittima.

Patricia rimase a guardargli le spalle immaginando ancora il caldo abbraccio che avrebbe potuto avvolgerla. Sentì gli occhi umidi e il cuore infranto dalla delusione.

Cosa vedeva nelle iridi? Solo le lacrime che le serravano le labbra dal proferire altre parole. Si portò una mano alla bocca e le sfiorò, quasi cercando di sedare la sua inquietudine.

Oliver era fortemente attratto da lei. Non era il tipo d’uomo che corteggiava una fanciulla per il capriccio di una notte. Era un gentiluomo lui.

Julian gliene aveva parlato in termini entusiasti e non peraltro ne era diventato grande amico. A differenza di Benjamin, Oliver aveva rispetto per le persone e per i sentimenti e sapeva che tra le sue braccia avrebbe trovato solo un grande amore.

Lo sentiva. Avvertiva sentimenti che mai prima aveva avuto occasione di provare, in particolar modo per un uomo.

Perché suo padre aveva accettato la proposta di Lord Priceton?

Perché Oliver Huttinton non si era fatto avanti prima del cugino Benjamin?

Perché mai lei doveva sottostare al volere paterno e all’etichetta della rigida aristocrazia inglese?

Desiderava fuggir via da quella sontuosa dimora che somigliava più ad una gabbia dorata che ad una casa ricolma di affetto familiare.

Ma dove sarebbe andata? E con chi sarebbe andata?

-         E se io non lo sposassi? – chiese di soppiatto. Lo vide drizzarsi e voltarsi esterrefatto da quanto aveva appena udito.

La vide fiera e superba, pronta a brandire le armi e a combattere. Sembrava la reincarnazione di un’eroina cui il coraggio era pari in grandezza solo al cuore e all’acume. Dinanzi agli occhi gli si parò l’immagine di una Patricia vestita come Jean d’Arc, la rivoluzionaria ed eroina francese.

Il turbinio di pensieri quasi si arrestò. Solo quella frase vorticava ancora nella sua mente. E nel suo cuore. Era una dichiarazione quella? Come poteva intendere una frase del genere?

-         Patricia…ma, cosa dite? –

-         Perché qualcuno deve impormi chi sposare? Perché devo unirmi ad un uomo che non mi suscita alcun sentimento? Perché non posso amare liberamente un altro uomo? – gli domandò infine con fomento.

Nelle sue parole c’erano veemenza e passione, e arrivarono dritte al cuore del giovane duca. Gli occhi nocciola brillavano di un riverbero quasi innaturale.

-         Patricia…io non so cosa dire! –

-         Dite di sì. Dite a vostro cugino che volete sposarmi voi! Non ve lo negherà. Lui non è innamorato di me. Questo è solo un matrimonio congeniato da Lord Priceton per far acquietare i piaceri del figlio! – osò rimbrottare senza alcun timore.

Oliver l’ascoltava quasi sconcertato. L’acume di Patricia, la sua forza, il suo carattere indomito ed anticonformista di cui aveva tanto sentito parlare si spingeva fino a quel punto?

Si sentì annichilito da quelle parole, e dalla richiesta d’aiuto che la fanciulla gli stava declamando.

Cosa doveva fare?

S’incupì. Perché Patricia gli chiedeva di andare contro le rispettive famiglie per chiederla in sposa?

Per salvarla dalle braccia di Benjamin Priceton o perché nutriva un sentimento per lui?

Questo dubbio divenne tarlo in un istante.

Benjamin Price. Era lui il problema. Patricia non voleva divenire la consorte di un prodigo che adorava solo i piaceri della vita mondana.

Ma perché? Perché? Possibile che avesse letto nel suo cuore, che avesse sfiorato il diario del suo animo e letto i versi d’amore che serbava per lei?

No. Il suo era anticonformismo. Desiderava andare contro il volere paterno e se questo significa sposare un altro uomo, l’avrebbe fatto.

Lei non voleva divenire la Duchessa di Huttinton per amore, ma semplicemente per non convolare a nozze con Benjamin Priceton.  

-         Perché voi uomini siete liberi di poter scegliere, mentre noi dobbiamo sottostare ai doveri e ai voleri familiari? – gli chiese dando così adito a tutte le sue supposizioni. - Mia sorella Jennifer è stata chiesta in sposa, anche lei. –.

Quell’ultima frase parve sollecitare la sua attenzione. Jennifer Gatsby chiesta in sposa da qualcuno.

Philip! Cosa ne sarebbe stato de l suo amico Philip Callaghan?

-         Ma…da chi, se mi è concesso chiederlo? – domandò dimenticando le sue pene d’amore.

-         Il Barone Rumsfield. -.

Quel nome tuonò nella sala dei dipinti ove parve calare un velo oscuro. Oliver aggrottò la fronte e gli occhi si chiusero in due strette fessure. La figura segaligna gli apparve nelle iridi. Rivide i lineamenti spigolosi di un volto dagli zigomi alti e gli occhi infossati, glaciali, quasi demoniaci.

-         Vostro padre non può permettere che Jennifer sposi il Barone. –

-         Ne sono consapevole, ma…

-         Patricia, - le disse con trasporto afferrandole le mani, - voi non sapete: quell’uomo è estremamente pericoloso. La sua vita è piena d’ombre oscure e si vocifera che sia coinvolto in affari loschi e nel fallimento delle miniere del Marchese Callaghan. –

-         Oliver….

-         E’ un essere abominevole: qualsiasi donna dovrebbe restargli lontano. Non esiterebbe a calpestare voi e tutti i membri della vostra famiglia per poter allungare le sue viscide mani sul patrimonio dei Gatsby. –

-         Come sapete tutto questo? – gli chiese interessata all’argomento ma non sciogliendo le dita dall’intreccio.

-         Philip Callaghan è un mio caro amico. Se non mi credete, provate a parlarne con vostro fratello Julian. Sono certo che la pensa esattamente come me. Perfino il mio simpatico cugino Benjamin si tiene a debita distanza da quel bruto. Credetemi Patricia, non è la persona idonea per maritare vostra sorella e poi, Philip….-. Patricia assentì lasciando intendere al duca che conosceva i particolari della relazione che vedeva uniti in un amore segreto la sorella e il marchese Philip Callaghan.

Gli occhi di Oliver non erano più dolci e smarriti, ma ardevano di un sentimento a lei sconosciuto. Cosa stava pensando Oliver?

Perché all’improvviso il suo volto si era adombrato?

Le voci provenienti dal corridoio parvero ridestarli e con immediatezza, si sciolsero dall’intreccio sconveniente, loro malgrado.

Oliver la fissò ancora per immortalare il suo sguardo nell’anima. Avrebbe voluto donarle il cuore e la passione che gelosamente serbava per lei, ma il destino li voleva presto cugini acquisiti.

Le sagome di Benjamin Price e del Conte Arthur Gatsby si avvicinarono sorridenti e tranquille. Il Conte guardò la figlia e parve scorgere nell’espressione, disappunto e avvilimento. Di rimando, sfiorò con gli occhi il Duca di Huttinton, sul cui volto era dipinta una strana ed evidente malinconia. Era certo che qualcosa era accaduto tra i due, e che probabilmente avrebbe cambiato il futuro dei presenti.

Guardò in ultimo Benjamin Priceton che nonostante l’aria stravagante, aveva ben recepito la tensione tra il cugino e quella che durante il ballo in maschera sarebbe divenuta la sua fidanzata ufficiale.

 

 

(*) La frase riportata in color arancio è pronunziata dalla Regina Gertrude in Amleto di Shakespeare

 

Desidero ringraziare tutte le persone che mi seguono con entusiasmo e che ogni volta mi dimostrano calore ed affetto.

Un ringraziamento particolare a lithtys e Lidy88…che hanno commentato Gocce di Memoria. Avrei voluto ringraziarVi personalmente ma non so come contattarVi. Pertanto colgo quest’occasione.

E ringrazio ancora chi ha lasciato un commento alla mia poesia Soffio d’Amore.

 

Very special thanks to: Alex (impagabile amica), Diane (my sweetie, my words will never be enough to thank you for your help), Michela (dai che ce la farai con quegli squinternati!!!), Ale Kanou (con la quale condivido il Mal d’Africa) e tutti…ma proprio tutti coloro che mi seguono, Mystic, Sakura, Milena, Marialuisa….and so on….

 

 

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Capitolo 6
*** Occhi di Chimera ***


ORCHIDEA SELVAGGIA

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

Occhi di chimera

 

Capitolo 6

 

 

 

Il freddo era pungente ma nonostante l’ultima folata gli avesse sferzato la gota, era ancora lì immobile dietro la siepe a rimirare l’imponente villa. Lo sguardo seguiva con premura e minuzia qualsiasi movimento, anche il più impercettibile, in una ricerca quasi convulsa di un qualcosa di impalpabile e infinitamente distante.

Gli occhi scorrevano a destra e manca le luci e le sagome che i cristalli riverberavano. Il mantello lungo ma consunto lo copriva a stento e il rossore sulle guance era palese segno della rigida temperatura. Con i pugni serrati sotto il manto di lana si sfregò gli occhi bagnati da piccoli fiocchi che candidi e ignari portatori di gelo, ricadevano gentilmente dalle nuvole.

Ne raccolse uno e serrò le palpebre per un attimo, quasi assaporando l’intenso contatto con la piccola stella bianca che il cielo aveva lasciato cadere.

Lo portò alle labbra umettandole con quel che ne rimaneva traendo quasi ristoro da quel contatto.

Strinse gli occhi in una smorfia più di dolore che di disappunto e le labbra si unirono in un gesto di evidente malinconia.

Sospirò ancora cercando nei suoi pensieri, nell’anima profonda e a lui sconosciuta, la forza per continuare in quel suo compito tanto mesto.

Riaprì gli occhi seguendo anche con lo sguardo il cocchio che incedeva oltre il viale della sontuosa dimora, verso il portico che l’avrebbe instradato sul sentiero della contea.

Si celò ancor di più dietro il rovo dello stesso scuro colore del manto che poco copriva il corpo adulto riconoscendo il cocchiere alla guida del calesse e comprendendo che gli ospiti si stavano congedando.

Nella piena convinzione di non scorgere altri importanti movimenti, quasi rassegnato, spazzò via la neve che si era posata sul mantello e si incamminò tra i giardini in cerca di quel varco dal quale era entrato. Fu il trotto di nuovi cavalli che lo distolse dal cammino e lo fece prontamente appiattire contro la corteccia di una quercia.

L’imponente fusto riuscì ad occultare la sua figura agli altri, tanto che dal suo canto lui poté scorgere con facilità i volti dei passeggeri del calesse.

Sobbalzò quando i suoi occhi ne disegnarono i perfetti contorni nonostante i pregiati mantelli che li avvolgevano.

Una fanciulla esitò dal varcare l’imponente portone. Il cappuccio ornato di ermellino ricadde sulle sue spalle e i boccoli scuri parvero accarezzati dalla brezza invernale.

Una stoccata gli lambì il cuore e le labbra si mossero in un impercettibile parlare. Slanciò un braccio verso la gentile creatura dal soave incarnato ma non udì l’eco del suo nome portato dal vento.

La giovane contessa si guardò intorno come se avesse avvertito una presenza estranea. Scorse velocemente tra i giardini e lungo il viale donde era arrivata, ma a parte una siepe mossa da una lepre, non intravide altro.

Quasi rassegnata, alzò il profilo al cielo e i suoi occhi incontrarono il manto perlaceo che il meriggio stava per intingere in una pozza di cremisi e ori.

Sibilò poche parole scandite dal cuore e poi, con capo chino, entrò nella villa.

Ma lo sguardo del mendico era ancora lì, posato su di lei, sotto quel portico dalle colonne e dal perfetto stile vittoriano, come se l’ombra o l’essenza stessa della fanciulla fossero rimaste sull’uscio.

Poteva quasi aspirarne il profumo fiorito, sfiorare la pelle di porcellana, immergersi negli occhi scuri come la terra bagnata.

Il cuore gli batteva cosi forte in petto che ne udiva il rimbombo e il torace gli doleva dal palpito amaro e contiguo. Conscio che non l’avrebbe udita, sillabò ancora il suo nome e pianse di sofferenza infinita quando la voce aulica di lei non rispose di rimando.

-         Amore mio….sei così bella, infinita creatura dal volto angelico. Perché il destino ci è così avverso? Perché dolce fanciulla dei miei sogni? Perché i miei occhi non possono cercare i tuoi? E rimango qui, celato dalla natura, a guardarti e a vivere di spine nel petto che fendono e colpiscono ripetutamente questo cuore sanguinante. Rimango così, a cercarti negli sprazzi del vento, nel lento camminare delle nuvole, nel silenzio della mia anima così vuota senza un tuo sorriso. – sussurrò lasciandosi cadere e ricadendo sulle gambe.

-         Grama vita! Cosa vuoi da me, infame destino? Di quale colpa mi sono macchiato per non poter vivere almeno il mio amore? E perché dovrei viverlo se non ho più nulla da offrirle? Come potrei riscaldarla da questo gelido inverno? Come potrei accarezzarla nelle lunghe serate di pioggia se non ho un camino dinanzi al quale rimanere silente a rimirarla? Come potrei semplicemente guardarla se non sono nessuno? – si domandò sempre più avvilito da una condizione sociale che lo voleva alla deriva e alla stregua della povertà dei borghi popolari cittadini.

Levò lo sguardo verso un punto all’orizzonte: nuvole non più compatte, permettevano ad un timido raggio di baciare la terra ricoperta dall’eburneo manto, quasi in maniera irriverente. Come in un’antica leggenda irlandese, ne scorse un fatuo arcobaleno e sorrise, quasi disperato, pensando che forse un leprecorn, laggiù, avrebbe potuto offrirgli la sua pentola d’oro.

Si rialzò non distogliendo lo sguardo dall’evanescente arco di colori e sorrise più per rassegnazione che per coraggio.

-         Vorrei poter credere che gli gnomi, le fate, o qualsiasi elfo magico di queste foreste possano in qualche modo ascoltare le mie preghiere perché lassù, qualcuno evidentemente si è dimenticato di me. Allora parlo a te Natura Madre, aiutami, aiuta un uomo sofferente d’amore, aiutalo a ritrovare la retta via e guidalo sul sentiero della rassegnazione. – proferì spostando gli occhi nello spazio circostante.

Esitò ancora qualche istante per poi stringersi ancora nel manto di lana e avviarsi verso un percorso che già conosceva.

 

 

 

 

Il trotto dei cavalli si era trasformato in un ritmare monotono. Benjamin continuava a guardare oltre il finestrino della bella carrozza cercando qualcosa che potesse destare la sua curiosità.

-         Ah. – sospirò con aria disinteressata e infelice.

Il suo compagno di viaggio inarcò il sopracciglio e lo guardò sotto il cappello dalla tesa larga. Benjamin si passò una mano tra i folti capelli corvini e sospirò ancora.

-         E va bene. Cosa c’è che ti fa sospirare? – gli chiese tediato dal suo continuo spasimare.

Accavallò le gambe e incrociò le braccia in petto pronto ad ascoltarlo. Il giovane Priceton si voltò verso il suo interlocutore e abbozzò un sorriso di scherno.

-         E’ questa storia del matrimonio. Io non mi voglio sposare. Non sono innamorato. -.

Oliver Huttinton guardò il cugino con occhi interrogativi. Quelle parole parevano un sonoro e bruciante schiaffo al suo cuore innamorato della giovane Patricia Gatsby. Ma non poteva palesare al prodigo cugino i sentimenti profondi che nutriva per la contessina. Avrebbe dovuto dimostrarsi disinteressato alla fanciulla, o quanto meno avrebbe dovuto tentare di sembrare tale.

Sembrò contenersi prima di sbottare in una sonora risata. Benjamin parlava di un sentimento nobile come l’amore. Quella sua affermazione suonava ridicola e celia di una realtà ben diversa.

-         Cosa provoca tanta ilarità in te, cugino? – gli domandò quasi offeso dal suo scherno.

-         Ilarità? Benjamin, ti rendi conto di quanto hai appena asserito? Non vuoi sposarti perché non sei innamorato. –

-         E allora? E’ la pura verità. – ammise volgendo il profilo quasi indispettito al finestrino della carrozza.

-         Benjamin, io avrei più rispetto nei confronti della donna alla quale sono stato promesso e nei confronti della mia dignità. Tu non sei innamorato perché non vuoi innamorarti. E non solo di Patricia Gatsby, ma di qualsiasi donna l’aristocrazia inglese ti porga su un vassoio d’argento. Perdona la mia franchezza, cugino. Tu sei un amatore ma non un innamorato. E c’è una bella differenza tra l’uno e l’altro. –

-         Questione di opinione Oliver. Io amo la vita e i suoi lussi. Probabilmente se fossi nato povero non avrei divagato sui sentimenti femminili e chissà, conoscendo la persona giusta, forse avrei anche potuto provare delle emozioni differenti. Il trasporto che provo in un’alcova è quanto di più sensuale ed emozionante i miei sensi possano avvertire. –

-         Cugino! – lo ammonì Oliver imbarazzato dalle parole di Benjamin.

Socchiuse gli occhi in due sottili e argute fessure. L’onice scura riflessa nelle sue iridi parve impenetrabile e incomprensibile e Benjamin comprese che oltre l’oscurità, suo cugino nutriva forse un tormento interiore che aveva confessato solo alla sua anima.

-         Patricia Gatsby. La conosco appena e per quanto sia carina, non è il mio ideale di donna. Penso che mi stancherei subito! –

-         Smettila Benjamin. – tuonò aspro Oliver  risentito dalle sue parole.

Avrebbe voluto godere di un’interminabile silenzio ove parlare ai suoi pensieri.

Il sentir discorrere della sua favorita come di una bambola, sembrò destarlo dal torpore del viaggio e dei pensieri. I loro occhi si incrociarono e parvero ardere di una luce acuta e tagliente. Oliver avvertì un brivido attraversargli la schiena e scuoterlo. Nelle sue iridi apparve un’immagine che non riusciva a dimenticare.

Il corpo svestito del cugino Benjamin oggetto della lussuria e della brama di due giovani ancelle al servizio di Lord Priceton.

Il pensiero che potesse allungare le mani sull’esile e serico corpo di Patricia, gli scatenò una tempesta emozionale e lo fece sussultare. Non aveva mai dimenticato quella scena che il fato aveva offerto involontariamente ai suoi occhi, solo qualche mese prima.

Un Benjamin ubriaco, di ritorno da una battuta di caccia e trionfante tra i cervi catturati.

Il camino acceso con le fiamme fluttuanti e dorate che si muovevano in un’artefatta e sinuosa danza. Le ombre bizzarre dei lapilli e delle lingue dai toni del meriggio dipinte sui corpi nudi e sulle pareti. L’intenso odore del vino rosso versato negli ampi calici di cristallo, mentre gocce rubino lambivano le labbra delle giovani ancelle intente a sfiorare il corpo scultoreo di Benjamin. Un amplesso eccitante e sensuale che l’aveva lasciato inerme e privo di verbo aldilà di quella porta socchiusa.

Sebbene fossero coetanei e nonostante anche lui avesse goduto dei piaceri femminili, non si era mai trovato a constatare con tanta immediatezza e quasi crudeltà, un dipinto così boccaccesco come quello che il cugino gli aveva involontariamente offerto.

Il sentimento sincero che nutriva per Patricia Gatsby l’avevano portato a preoccuparsi su quanto il futuro le stava prospettando.

Se solo avesse avuto più coraggio, avrebbe posto il suo nome in cima alla lista dei pretendenti dell’avvenente contessina. Gli sarebbe bastato parlarne a Julian, esternare al suo caro amico i sentimenti di affetto e amicizia che nutriva per la più giovane delle sue sorelle. Invece, la sua timidezza lo aveva vinto ancora una volta.

E questa volta, il danno pareva irreparabile.

Lord Priceton non avrebbe mai potuto tirarsi indietro dalla proposta di matrimonio. Patricia non era solo un ottimo partito nobiliare o una giovane dal fascino inequivocabile: la sua fama di indomita femminista, esperta cavallerizza e schermitrice, nonché loquace compagna di salotto gli era giunta all’orecchio presentandola ai suoi occhi come la persona giusta per poter domare gli istinti giovanili del figlio.

-         Oliver! Non pensavo che le mie parole potessero imbarazzarti a tal punto. – insinuò con un lampo di malizia negli occhi.

-         Non mi imbarazzano le tue parole Benjamin. Sono abbastanza adulto da aver provato le gioie delle carezze femminili. Tuttavia, tu sai bene cosa penso dei tuoi rapporti precari. Non li condivido. Ho rispetto per me stesso e per le persone al mio fianco. -

-         Sei sempre così serio e pacato, Oliver. Dovresti cercarti una compagna anche tu. – rimbrottò cercando di comprendere la vera natura delle parole del cugino.

All’ultima frase, il volto di Oliver si scurì. Avrebbe voluto donare il suo cuore a Patricia, ma costei era già stata promessa in moglie e per giunta ad una persona che sicuramente non l’avrebbe onorata come moglie.

-         O chissà…forse hai già in mente qualcuno! – gli disse spiazzandolo. - E’ bella Patricia, vero Oliver? –.

La domanda lo colse in fallo.

Il suo sguardo era gelido. Oltre la patina scura, l’anima dei suoi occhi era sgranata, attonita all’affermazione del compagno di viaggio. Possibile che Benjamin avesse compreso quello che era celato nel suo cuore?  Da esperto e valoroso ufficiale della marina militare del regno quale era, Oliver comprese che rivelare i suoi sentimenti al cugino sarebbe stato del tutto deleterio e inopportuno. Per quanto affetto nutrisse nei suoi confronti, era ben conscio del tono canzonatorio con cui Benjamin avrebbe parlato della situazione o semplicemente fatto allusioni, insinuazioni e congetture.

-         Mi infastidisce il tono con cui alludi alle persone, Benjamin. Tutto qui. Tra me e Patricia Gatsby c’è una profonda stima. E’ la sorella del mio migliore amico e sebbene la conosca poco, Julian me ne ha parlato così tanto e bene, che è inevitabilmente entrata nella mia mente e nel mio verbo. Nulla di più. –

-         E comunque questo pomeriggio avete avuto modo di scambiare qualche opinione. – aggiunse riferendosi al momento in cui lui e Patricia si erano allontanati per visitare la galleria di dipinti che offriva Villa Gatsby.

-         Anche perché, al momento sono io a vantare una posizione di vantaggio. In fondo, Patricia sarà presto mia moglie! – asserì pungolando il cugino.

-         Per l’appunto. – ammise con una vena di disappunto. La punta di una freccia avvelenata parve conficcarsi nel suo cuore. Lo sentì languire e gemere di dolore.

-         Oooooooooh -. L’esclamazione sonora del cocchiere e l’arrestarsi della carrozza, insospettì i due nobili cugini.

Oliver si portò la mano sotto il mantello, cercando il calcio della pistola. Sentì chiudersi il guanto intorno all’impugnatura in legno cesellato e parve riacquistare tutta la sua sicurezza. Benjamin scostò la tesa del cappello e la tenda del finestrino. Vide il cocchiere scendere dal sedile di pelle e sentì altre voci discorrere con tono veemente. Guardò il cugino e impugnando la piccola pistola che portava sempre con se quando viaggiava, assentì, quando Oliver mise la mano sulla maniglia e spalancò il portello della carrozza.

-         Che succede, John? – chiese al cocchiere. L’uomo gli indicò due cavalli in sosta su un prato adiacente e due uomini vicini una grande quercia.

-         Vieni qua, bella signorina, dai che ci divertiamo! -            udirono dalla voce sonora e rauca di uno dei due uomini. Coperti da scuri mantelli, i due bravi parevano irriconoscibili agli occhi dei giovani nobili.

-         Dai piccola, mostraci le tue grazie. – intimò l’altro spingendo la donna contro il fusto dell’albero. Il vento gelido di febbraio soffiò pungente tra le fronde innevate. Cumuli di soffice e fredda neve caddero dai rami appesantiti.

-         Ahhhhh…lasciatemi stare, luridi bastardi! –

-         E dai, vieni qua, non fare troppe storie. –

-         Ehi voi! – urlò Oliver avvicinandosi cauto ai due guerci.

-         Andate via, signore. Non vedete che siamo impegnati? – rimandò uno dei due uomini senza degnare Oliver di uno sguardo.

Il duca di Huttinton estrasse la pistola dalla fontina e il suo braccio si allungò verso l’alto. Il colpo fu sonoro e immediato. Il rimbombo echeggiò nel bosco e stormi di uccelli scuri si levarono impauriti dal suono estraneo. In lontananza, delle lepri fuggirono saltellanti verso le siepi più esterne cercando un riparo dagli insoliti ospiti. Tra i cespugli sempreverdi e i rovi della landa, volpi dal pelo ramato corsero via intimidite dallo sparo, abbandonando la loro caccia.

Al tuonare dell’arma, i due loschi uomini parvero sussultare. Attesero qualche istante, prima di girarsi verso i gentiluomini che li avevano disturbati nella caccia alla preda.

Alle spalle dei due, una figura femminile si intravedeva, coperta di cenci lerci, graffiata dai rovi e molestata dagli insulti e dai gesti per nulla galanti. La malcapitata indietreggiò verso il fusto dell’albero, cercando forse un riparo ad altri occhi maschili.

-         Calvin Robertson e Ian MacIttish! – sussurrò Oliver, con un fil di voce abbastanza alto perché Benjamin potesse udire.

-         E tu, come li conosci? – gli chiese senza distogliere lo sguardo dai due e continuando a brandire l’arma celata dal mantello.

-         E’ una lunga storia che mi ha raccontato Philip Callaghan. Sono due degli uomini di Rumsfield. E non sono dei gentiluomini. – aggiunse movendo qualche passo verso i bravi del barone.

-         Andate via di qui. – intimò Benjamin con fare altezzoso.

-         Signore, vi prego, non immischiatevi. Questa donnaccia…

-         Tacete. Non potete definire donnaccia una così deliziosa creatura. – rimbeccò ammaliato dalla bellezza gitana della giovane donna.

-         Lord Priceton ha ragione. Andate via o sarete denunciati per maltrattamenti e tentato abuso su una donna. – aggiunse Oliver facendo leva sul grilletto della pistola.

-         Andiamo via….il barone ci ha raccomandato di non cercare rogne. Non ne val la pena per una donnaccia. – sibilò Calvin Robertson al compagno.

-         E va bene…andiamo via…fatene quello che volete, tanto è solo buona a riscaldare i sensi. -.

-         Se le alzate la gonna è già pronta ad accogliere le vostre virtù, Milord. – rimbeccò Ian MacIttish saltando in groppa al suo cavallo. Accompagnati da un sonoro ghigno, andarono via ad andatura sostenuta, abbandonando la preda ai due benefattori.

Oliver  e Benjamin si scambiarono un breve sguardo. Il giovane Priceton non attese oltre il cugino e incedette verso l’impaurita fanciulla, stretta nei sordidi cenci ridotti in lembi e brandelli dalle mani aguzze che l’avevan sfiorata. Il capo chino sul petto coperto da lunghe ciocche scure. Le braccia a stringersi in un corpo dall’aspetto flessuoso e dalle apparenti sinuosi forme.

-         Signorina! – esclamò Benjamin non titolando la ragazza con alcun fregio nobiliare.

L’aspetto disadorno induceva a pensare che non appartenesse di certo all’aristocrazia o all’alta borghesia inglese.

Nel sentirsi appellare con un epiteto differente dai volgari titoli elargiti dai due bravi, la ragazza parve comprendere che i due gentiluomini al suo cospetto in quel momento non avevano nulla a che vedere con i lerci che avevan appena lasciato il selciato. Nonostante il loro bell’aspetto potesse confare una certa sicurezza, intimorita da ulteriori violenze, stringendosi ancora di più nei lembi di stoffa appesa, indietreggiò al punto tale da sentire la ruvida e gelida corteccia sulla spalla.

-         Ah! – gemette al contatto con il tronco reso viscido dal muschio e dalla neve.

Benjamin tese una mano verso di lei in un gesto amichevole, ma lei cercò sostegno nel legno del grande albero.

Tremante, la sua mano sfiorò le lamelle legnose della corteccia quasi a voler imprimere sulle dita le impronte del gigante del bosco. Avvertì tagliente la patina ghiacciata che si era posata tutt’intorno e trasalì.

-         Non desidero farvi del male! – aggiunse Benjamin con un tono dolce e rassicurante.

Oliver gli si fece più vicino quasi catturato dall’insolita vena affettuosa del cugino.

Col viso coperto dalle lunghe ciocche corvine, non accennò ad alcun gesto verso i suoi due salvatori.

-         Se restate lì, rischierete di ammalarvi. Dovete assolutamente coprirvi. Venite nella mia carrozza. Non temete, non vogliamo dolervi, ma solo aiutarvi. – continuò animato da un sentimento estraneo alle conoscenze di Oliver.

Suo cugino Benjamin pareva tutta un’altra persona. Non capiva, cosa esattamente gli passasse per la mente, di sicuro la sua indole di benefattore l’aveva alquanto sorpreso. Lo seguì con lo sguardo quando, nonostante i rifiuti reiterati della ragazza, cercò di avvicinarsi lasciando fitti solchi nella candida neve da poco posatasi sui sentieri. Neppure per un attimo, Benjamin smise di tendere le braccia a quella creatura impaurita e vittima sicuramente delle sevizie mentali e fisiche dei bravi del Barone Rumsfield.

Quando le fu abbastanza vicino da poter avvertirne il faticoso respiro, Benjamin si accorse che la tomaia era talmente consunta dall’uso, che le scarpe erano velate di una patina umida e fredda. La pelle della ragazza, visibilmente sferzata dalla gelida temperatura, pareva aver assunto un colorito quasi ceruleo. I capelli erano forse l’unico lembo caldo che riuscivano malamente a coprirne almeno il petto. Benjamin sussultò quando, dietro un fitto ciuffo scuro, gli parve di intravedere lunghe ciglia sbattere ripetutamente.

-         Non potete restare qui. Congelerete con questo freddo. – rimbrottò seccato dalla sua ostinazione.

Senza attendere oltre, si portò le mani al bavero del mantello slacciandoselo. Fu subito investito da una folata invernale che sonora echeggiò tra i rami spogli. Sentì il volto sfregato dai suoi uncini polari e chiuse gli occhi quasi a voler accusare del tutto il colpo. Si sentì gelare il sangue nelle vene. Non potevano continuare a giacere nel bosco dove solo la rigida temperatura e la neve che a sprazzi cadeva in morbidi fiocchi, pareva volergli fare compagnia. Risoluto a rientrare quanto prima nel tepore della sua carrozza, Benjamin allungò una mano verso il braccio seminudo della fanciulla, che palpitò al contatto. Le punte delle dita di Lord Priceton  avevano sfiorato leggermente la pelle serica e intorpidita, tanto quant’era stato sufficiente comprendere il disagio della ragazza. Dopo essersi ritratto per qualche istante, riacquistando il vigore consono alla sua spavalderia, Benjamin riallungò il braccio fino a far presa sul gomito della ragazza. Con un unico e forte strattone, la trascinò verso se lesinando moine e gesti cavallereschi. Tese in alto l’altro braccio spiegando al vento l’ampio mantello scuro che fece ruotare intorno alle spalle seminude della ragazza. La strinse a se in un gesto inconsueto e impulsivo. Oliver, strabiliato da quanto i suoi occhi stavano osservando, alzò un braccio verso il cocchiere che comprese. Risalì sulla sontuosa carrozza comandando ai cavalli di incedere di qualche passo per poter accogliere i suoi ospiti.

Impressionata e zittita da quanto stava accadendo, solo dopo qualche istante, la ragazza alzò lo sguardo verso il giovane nobile inglese.

Il profilo di Benjamin si posò su quello della ragazza. Un soffio d’aria pungente spirò su di loro smuovendo con impeto la chioma scura della fanciulla. Fu in quell’attimo che lei, quasi comandata dal soffio, sollevò lo sguardo incontrando gli occhi neri come l’ardesia del cavaliere.

Lo spazio infinito che velava le sue iridi parve sciogliersi in quella pozza scura e impenetrabile che lambiva gli occhi di lui.

Le labbra disidratate parvero scandire un timido ringraziamento, ma prontamente lui chinò il capo in cenno di assenso. Aveva compreso il suo gesto, ma in quel momento doveva risparmiare tutte le sue forze e reagire alla nefasta situazione di cui era stata vittima.

-         Saliamo in carrozza. – le sussurrò invitandola a seguirla e sostenendola per le braccia.

Ma furono sufficienti pochi passi perché Benjamin si trovasse le morbide forme femminili tra le sue braccia. Intirizzita dal freddo e spossata dalla fatica, la fanciulla perse i sensi, fortuitamente sostenuta dalle ampie e vigorose braccia del nobiluomo.

-         Oliver. Presto, aiutami! – tuonò al cugino. Lord Huttinton salì sulla vettura attendendo che il cugino conducesse la ragazza all’interno. Quando raggiunse lo sportello, fu il suo turno di raccoglierla tra le braccia e stenderla sul divanetto damascato. Non appena Benjamin fu salito, Oliver ordinò al cocchiere di andare.

-         E adesso che facciamo? Siamo troppo lontani sia dalla mia sia dalla tua tenuta! – esclamò Benjamin rosso in volto.

-         Thomas! – rispose secco e sicuro di se Oliver. Benjamin parve comprendere e condividere con lo sguardo il pensiero del cugino.

John….corri verso la villa del dottor Becker! – urlò al cocchiere che ben conosceva la strada che di lì a pochi istanti li avrebbe condotti nella dimora di un loro intimo amico: il dottor Thomas Becker.

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Capitolo 7
*** Cuore Graffiato ***


ORCHIDEA SELVAGGIA

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

Cuore graffiato

 

Capitolo 7

 

 

 

 

Gli alti larici che costeggiavano il viale parevano tanti rami cosparsi da polvere di diamante. I giardini antistanti la grande villa erano completamente imbiancati e la fontana al centro del cortile era adorna di brillanti cristalli gelati al freddo delle impetuose temperature.

La bella dimora di campagna rinchiudeva nel suo stile d’epoca la semplicità e la compostezza di una nobiltà di non alto grado. I tetti spioventi degli abbaini si innalzavano al cielo alti e fieri come campanili. Le finestre che si affacciavano in giardino rifulgevano fievoli luci che illuminavano l’interno di quel plumbeo fine pomeriggio.

La carrozza percorse con veemenza l’ultimo tratto del viale arrestando la corsa dinanzi il portico. Il cocchiere tirò le redini e i cavalli si fermarono.

Un uomo avvolto in un mantello scuro scese irruente dalla vettura e con foga salì i gradini che lo dividevano dal massiccio portone. I guanti di velluto impugnarono prima e batterono poi, l’anello sul portale, accompagnando quel gesto con urla insistenti.

-         Thomas! Thomas! -.

Le luci illuminarono le finestre in prossimità del portico e le ante si spalancarono verso l’interno. L’improvvisa aria gelida investì la donna che si ritrasse quasi ferita da quel freddo tagliente.

-         Hanna! –

-         Oliver…Oh mio Dio, cosa vi è accaduto? – chiese la bella donna dalla bionda chioma al gentiluomo.

-         Nella carrozza c’è mio cugino, Lord Priceton con una fanciulla che abbiamo tratto in salvo. Thomas è in casa? –

-         Sì, ha appena terminato una visita. Ma, non esitiamo ancora. Fate entrare vostro cugino e la giovane. – rispose ansiosa ma sicura di quel che stava facendo. – Dorothea, - disse all’anziana governante giunta in quel momento, - avvisa subito mio marito. C’è un’emergenza. Riferisci che stiamo portando una paziente nel suo studio. – aggiunse impartendo precise disposizioni.

La donna portò in avanti la sua figura segaligna e con passo lesto si eclissò lungo l’ala sinistra della villa, laddove il dottor Becker aveva il suo studio medico e l’infermeria. Al consenso dell’avvenente moglie dell’amico Thomas Becker, Oliver corse verso la carrozza riferendo al cugino e aiutandolo a portare la fanciulla all’interno della villa.

 

 

*****

 

Arthur Gatsby attese accanto alla finestra l’ingresso della consorte. Eleanor era sempre bella e solare a dispetto della rigida giornata di febbraio. Lei incedette verso il marito e lo baciò affettuosamente sulla guancia, con un’intimità che da anni li univa in un solido rapporto. Arthur le sorrise e afferrò le mani nelle sue. Chinò lo sguardo sulle esili e bianche dita constatandone la perfezione nonostante l’età oramai non più giovanissima.

-         Sei sempre bellissima Eleanor. – esclamò dedicandole uno sguardo amabile.

-         A cosa devo tanta dolcezza, mio caro? – chiese quasi ironica beandosi nell’espressione malinconica ma rassicurante di Arthur.

-         Forse, amore mio, te lo dico poche volte. Ed erro in questo. Dovrei dedicarti maggiore tempo, prestarti più attenzioni, almeno la metà di quelle che tu riservi a me. -.

Lady Eleanor assottigliò gli occhi nocciola cercando quasi di inquadrare meglio il volto dello sposo, cercando di scorgere oltre quelle iridi scure, i suoi pensieri più profondi e nascosti.

-         Caro, cosa ti preoccupa? – gli chiese conducendolo verso il salotto e accomodandosi al suo fianco.

Lui sospirò e poi tornò a guardarla sorridendo mestamente.

-         Sta accadendo tutto troppo velocemente. Prima la proposta di Lord Priceton per Patricia e ora quella di Rumsfield per Jennifer. Le mie uniche figlie spose entrambe per matrimonio di convenienza, senza poter serbare il minimo sentimento per l’uomo con il quale condividere una vita coniugale. Sto sbagliando Eleanor? –

-         Oh caro, anche io sono turbata ma cerco di celare il disappunto dietro il sorriso per non ulteriormente impensierire le nostre figlie. La proposta di Lord Priceton è sicuramente buffa ma, temo anche fondata, altrimenti non avremmo organizzato il ballo in maschera. Vero, caro? – gli chiese con calma. Lui annuì lisciandosi la barba.

-         Certamente. Benjamin Priceton, sebbene un po’ bizzarro, è sicuramente un ottimo partito e se dovessi ragionare da buon padre di famiglia, non mi farei sfuggire l’occasione di maritare una delle mie figlie ad un giovane estroverso, culturalmente preparato e di eccellente famiglia. Oggi è stato qui. Pensavo le vostre carrozze si fossero incrociate. –

-         E gli hai parlato? –

-         Certamente. E’ venuto con Oliver Huttinton, l’unico figlio di Margareth Huttinton nonché erede di terre e titoli, oltre che ad essere stimato alto ufficiale della marina reale. –

-         Lo conosco e lo apprezzo molto. – rispose compiaciuta nell’udir quel nome. Nei suoi occhi comparve l’immagine del giovane duca alle spalle dell’amata madre. Gli era entrato subito nel cuore, quel suo sguardo gentile, amabile, non aveva potuto che conquistarla e, evidentemente, anche il marito era rimasto colpito dal suo savoir faire.

-         Io forse, sono un po’ burbero, a volte ancestrale in fatto di sentimenti e romanticherie varie, ma credimi Eleanor, c’era qualcosa tra Oliver e Patricia, qualcosa che non saprei spiegarti con parole note al mio verbo. –

-         Alchimia? – domandò incuriosita e sorridente ascoltando il marito discorrere di argomentazioni prettamente femminili. Le labbra si unirono in un riso quasi prorompente nell’immaginare la scena che aveva allietato poco prima uno di quei salotti.

-         Alchimia…sì, penso sia il termine giusto. – rimandò annuendo col capo.

-         Ma…ne sei sicuro, caro? – gli chiese in tono meno scherzoso ma infinitamente dolce. Il conte asserì ancora certo di quel che stava proferendo.

-         Io sono profano in materia, mia cara, ma ero qui, quando è entrata Patricia ed ha trovato Oliver e Benjamin intenti a prendere il the con me. E’ scattato qualcosa tra loro. Non riuscivano a distogliere lo sguardo l’uno dall’altra e sinceramente penso che anche Benjamin abbia avvertito quale strana atmosfera c’era tra loro. –

-         E poi cos’è accaduto? – gli chiese interessata alla storia.

-         Ho chiesto a Patricia di mostrare a Oliver la sala dei quadri. Io sono rimasto qui con Benjamin a parlare della proposta di nozze. Quando abbiamo terminato, li abbiamo raggiunti alla galleria. –

-         E cos’è accaduto? – domandò fremente sperando che il conte non avesse colto la figlia in flagranza di un atto non pudico. Conosceva bene la brama che aveva Patricia di scoprire le gioie dell’amore, quel suo carattere passionale ed irruente e sapeva bene quanto gli occhi della figlia fossero stati in passato conquistati da quelli di Oliver.

-         Qualcosa di sicuro. Nei loro occhi c’era una luce intensa che poche volte ho visto, ma a me familiare. E’ la stessa luce con la quale mi guardi tu amore mio. – sussurrò alla moglie riempiendo il suo sguardo di nobile sentimento.

Eleanor arrossì lievemente sulle gote e il cuore parve balzarle in petto. Il marito non era facile ad effusioni o esternazioni, ma quel giorno, era particolarmente loquace e tutto quanto la rendeva compiaciuta e desiderata.

-         Oliver e Patricia sono innamorati? E’ questo che vuoi dirmi, caro? – insistette portandosi una mano del marito alle labbra.

-         Sono profano Eleanor e non so se il loro possa essere amore, ma di certo Patricia non ha guardato per un solo istante Benjamin, come ha guardato Oliver. E nello stesso modo, Oliver rimirava Patricia, con occhi adoranti e ricolmi di parole. –

-         Se tutto questo è vero, abbiamo un problema serio da risolvere. Come intendi procedere per sanare questa situazione? – chiese al marito.

Arthur Gatsby tacque. Di fronte all’evidenza, non sapeva come reagire. Come avrebbe potuto porre rimedio a quanto stava accadendo?

-         Non lo so Eleanor. Fino a qualche istante fa, ho pensato che in fondo noi siamo ignari dei sentimenti che provano l’un per l’altra perché nessuno dei due ci ha messi al corrente circa questa storia. Potrebbero essere solo mie supposizioni. –

-         Esatto. –

-         Ma poi…se penso ai loro occhi, ai volti imporporati, quasi come se li avessimo colti in flagranza, se penso a tutto questo, mi rendo conto che anche un cieco potrebbe accorgersi che c’è qualcosa tra loro. E allora perché far maritare Patricia a Benjamin Priceton? Ha ragione lei dissentendo, quando nega di voler andare in moglie ad un uomo che non ama. Chi sono io per decidere a chi dovrà donare il cuore e il corpo? – domandò alla moglie cercando una risposta alle sue tante domande.

Eleanor non sapeva cosa rispondere. Il dilemma del consorte era giustificato da quanto aveva potuto constatare con i suoi occhi e non da semplici presunzioni. Lo vedeva tenero e fragile, come non l’aveva mai veduto prima di allora, dibattuto in una questione di non facile risoluzione.

-         Mio caro, non lo so. E’ una situazione così strana per noi, per la nostra famiglia. E se parlassi con Patricia chiedendole conferma dei suoi sentimenti? Con me forse si confiderebbe? – intervenne in suo aiuto.

-         Eleanor, se anche Patricia ti confermasse che è innamorata di Oliver, domani c’è il ballo nel quale sarà ufficializzata la proposta di matrimonio. E poi seguirà un fidanzamento ufficiale e in seguito le nozze. E non possiamo rimandare tutto questo. Sai che scandalo? E cosa dovrei dire domani a Lord Priceton? Che mia figlia è una fanciulla capricciosa e preferisce negarsi al figlio? O che preferisce il nipote Oliver Huttinton? Così, in un colpo solo, oltre allo scandalo per un rifiuto plateale, potrei aggiungere anche una faida familiare. -

-         Caro….-

-         No Eleanor, temo sia troppo tardi per porre rimedio a tutto questo. Oramai metà del Regno sa che Lord Priceton ha chiesto la mano di Patricia per il figlio Benjamin. Immagini l’onta di disappunto, come screditerebbero noi e i Priceton per un eventuale rifiuto? –

-         Ma forse, il bene di nostra figlia è più importante dei pettegolezzi di corte. – disse lei cauta guardando il marito dritto negli occhi. Il cuore le batteva con impazienza.

-         E se tutto questo fosse solo frutto di miei pensieri? Se in realtà Oliver avesse subito solo il fascino di Patricia ma non la ama? –

Eleanor era atterrita e inerme. Non sapeva come contrastare i dubbi del marito, come porre sollievo ai suoi angusti pensieri. Si strinse a lui per trasmettergli solidarietà e affetto, per semplicemente dirgli, che non era solo e che lei lo amava come uomo e come padre dei suoi figli.

Se solo avessero avuto un po’ di tempo, tutto quello non sarebbe mai accaduto.

Ma Eleanor sapeva anche che il marito difficilmente si sbagliava e se da burbero e poco sdolcinato compagno, aveva avvertito quello che era nato tra Patricia e Oliver, sicuramente il tutto aveva un solido fondamento. Se Arthur aveva esternato quei pensieri, era certa, fossero certezze.

 

 

*****

 

 

Il passo lieve era assolutamente privo di eco sul manto bianco. Si avvicinò alla porta del cottage e rimase perplessa nel constatare che fosse solo socchiusa.

-         Lisabeth! – esclamò cauta smuovendo leggermente l’uscio.

-         Entra pure, tesoro! – rimandò una voce femminile di rara dolcezza.

Come si trattasse della prima volta, si guardò intorno con circospezione, disegnando con gli occhi, le mensole sulle quali anfore di svariate misure, curiosi ninnoli, pentole e mestoli in rame erano disposti con un ordine quasi maniacale.

Sulla parete a destra dell’ingresso, scoppiettavano i tizzoni ardenti in un camino adorno di pietre utilizzate per i muretti a secco. Il tepore della stanza era immediato e adorabile. Entrò nella stanza abbassando il cappuccio che ne velava il volto e sorridendo alla donna che rimestava vicina al focolare.

-         Sapevi che sarei venuta? – le chiese riferendosi implicitamente all’uscio socchiuso.

-         Ma certo mia cara. Accomodati vicino al camino o prenderai freddo. -. Patricia seguì il consiglio e si slacciò il lungo mantello, sedendo su una poltrona in tessuto floreale posta di fronte al camino. Oltre la grata che limitava i legni poteva beare i suoi occhi dei colori accesi delle fiamme. Lapilli dorati sembravano quasi infrangersi contro le iridi nocciola, lontane chissà dove, in pensieri profondi che la portavano al limitar del sogno.

-         Siamo pensierose mia cara? – le domandò avvicinandosi alla damigella con una tazza fumante.

-         Cos’è? – le chiese aspirandone il gradevole profumo.

-         E’ una tisana di melissa e fiori di Bach. Ti aiuterà a rilassarti. – rispose con il suo consueto sorriso materno.

L’afferrò tra le mani avvertendo subitaneamente il calore pervadere prima i guanti e poi la pelle. Il tepore di quell’angolo in fondo ai poderi dei Gatsby era immane e di rara beltà. Luogo di sicuro ristoro agli ostacoli della quotidianità.

Sollevò la tazza fino alle labbra e dopo averne aspirato ancora il gradevole odore, si umettò le labbra che fremettero al contatto col liquido caldo.

Restò così, ad assaporare tra le labbra la bevanda e a rimirare le fluenti lingue di fuoco.

-         I tuoi sospiri non troveranno tregua tra i tizzoni ardenti. – sibilò Lisabeth accomodandosi nella poltrona accanto a quella sulla quale sedeva Patricia.

-         Il tuo cuore è in pena e i tuoi occhi sono bagnati del suo abbraccio. – continuò bevendo anche lei la tisana.

-         Lisabeth, aiutami, ti prego! – esclamò voltandosi verso la donna con espressione malinconica e insicura.

Lisabeth aveva sicuramente passato i sessant’anni, forse anche di un decennio, ma Patricia non lo sapeva e non aveva sete di conoscere l’età della sua confidente. Di lei ricordava sempre, quel sorriso amabile, quelle sue parole gentili e perfette per qualsiasi occasione, le pozioni e i filtri che celava tra le pentole e le ampolle sparse qua e la nel cottage. E i suoi occhi così chiari, simili a dei cristalli di luna.

Le rughe le solcavano il volto seguendo un preciso disegno che non ne alterava i lineamenti, una volta certamente molto attraenti. La pelle, laddove non presentava i segni dell’età, era liscia e compatta e di un colorito roseo tipico degli irlandesi.

-         La tua anima si dibatte mia bella fanciulla. Anche se la mente non sa chi scegliere, il tuo cuore lo sa, piccola mia. –

-         Sono disperata Lisabeth. Disperata. Domani ci sarà un ballo in maschera e mio padre ufficializzerà la proposta di matrimonio che mi ha fatto Lord Priceton. –

-         Ma tu non vuoi sposare Benjamin Priceton perché non lo ami, giusto? – le chiese schierandosi sulla poltrona e socchiudendo gli occhi.

-         Certo che non voglio sposare quel buffone di corte! – esclamò alzandosi con veemenza. Appoggiò la tazza su un tavolino vicino il camino e prese a camminare nervosamente nella stanza.

-         E’ borioso, vanesio e frivolo e troppo sicuro di se. Un egocentrico e figliol prodigo. Perché mai dovrei sposare un ragazzino viziato dai piaceri della carne e dalle agiatezze e oziosità della vita? Perché dovrei sposare qualcuno che…qualcuno che…

-         Che non ami? –

-         Mia cara, ahimè questa è la pena e l’infausto destino delle nobili fanciulle. A noi gente comune è consentito provare sentimenti senza limitazionie imposizioni della società. –

-         Ti prego Lisabeth, non mi ricordare i doveri di un titolo nobiliare, di un rango sociale che non mi sono scelta. –

-         Cosa vuoi che ti dica, Patricia? Che sei innamorata di un altro e che l’etichetta di corte, una proposta di matrimonio, vi divide dal coronare il vostro sentimento? –

-         Allora vuoi dire che anche Oliver….-. Lisabeth sorrise ed annuì leggermente.

-         Tu hai visto qualcosa…le tue carte ti hanno detto qualcosa…-

-         Carte? Oh no tesoro mio, non sono le carte a parlarmi ma la Natura immensa, e loro mi hanno raccontato quel che accade nella vostra dimora. E mi hanno anche confidato che un giovane bello e coraggioso ti ama dal profondo del cuore ma i doveri verso la famiglia lo istigano a tacere. –

-         Perché? Solo perché sono cugini lui non può rivelarsi a me? Perché manderei all’aria un matrimonio preordinato? Triste vita. –

-         Fanciulla mia! – le disse indicandole la poltrona dalla quale si era alzata. – Calmati, perché i presagi e il tempo parleranno di voi. Non devi avere fretta. –

-         Ma il ballo è domani e tutti sapranno che Lord Priceton mi ha chiesta in moglie! – esclamò paonazza.

-         Tesoro, dai retta a me. Il tempo aggiusterà tutto. Ricordati che quel che porta il vento gelido di febbraio è solo di passaggio. Una brezza mite spirerà dai mari del sud e porterà il sereno con se. -.

Patricia tacque incerta se calmarsi o meno dopo quel discorso che poco le diceva ma qualcosa presagiva. Lisabeth non si era mai sbagliata. Le sensazioni e le premonizioni dell’anziana irlandese si erano da sempre rivelate portatrici di verità.

-         Dimmi piuttosto, come sta Jennifer? Sento che è triste e inconsolabile. – le chiese guardandola dritta negli occhi.

-         Un uomo, molto potente l’ha chiesta in moglie. E lei, come sai, ama Philip Callaghan. E’ fuori di senno, mesta e irrimediabilmente angosciata. Philip sembra scomparso e l’uomo che la vuole sposare…oh Lisabeth solo il Signore sa l’impressione meschina e riprovevole che mi ha fatto. Lo sguardo arcigno, su un volto aguzzo e spigoloso sembra essere la parte migliore che ha. Incute timore, paura, ansia, al sol vederlo. – raccontò con enfasi pronunciando quelle parole con tremore e rimorso.

-         E’ un uomo cattivo, dovete impedire il matrimonio di Jennifer, ad ogni costo! – concluse alzandosi.

Il volto aveva assunto un’espressione grave. Patricia non riusciva a distogliere i suoi occhi dal viso di Lisabeth. Raramente l’aveva veduta così contratta e preoccupata, forse mai dacché la conosceva. I suoi occhi erano cupi e la voce fredda e distaccata, quasi metallica.

Comprese che la sua confidente nonché governante di una vita, aveva veduto qualcosa che lei ancora non sapeva e ne aveva anche avvertito un pericolo imminente.

Doveva scoprire cosa si celava dietro le sue preoccupazioni e cercare di porre rimedio alla tempesta che si era abbattuta sulla sua famiglia.

 

 


 

 

Passiamo ai ringraziamenti:

 

Alex Kami: beh…che dire…ogni tua recensione è magia per i miei occhi e per il mio cuore. Ma è soprattutto per il tuo aiuto, per il tuo sostegno e per la tua amicizia che ti ringrazio!

Sheria: Ornella…amica mia…tu non sai quale infinito piacere è per me ricevere tue news. Ti ho pensato tanto durante questa tua lunga assenza. Inutile dire che attendo trepidante il tuo aggiornamento.

SaKura Chan: non so se riuscirai a  leggere il nuovo capitolo visto il gran daffare che avrai questo week end. Ehi stella…non mollare, ok?

Rossy: grazie mille per il tuo affetto, per la tua grande considerazione e per la stima che da tempo nutri nei miei confronti

Sara: come per Rossy…grazie piccola…per il tuo affetto…e perdonami se non riesco a farmi viva più spesso. Diciamo che me lo pongo come proposito per il nuovo anno.

Alex: grazie per la tua recensione….hai proprio un bel nome J! Sai…in realtà,,,,in questa fic le coppie hanno di che pensare…proprio come in una bellissima storia d’altri tempi…intrighi, cappe, spade, duelli…etc….poverini…hanno di che farsi passare il mal di testa J

 

 

 

 

 

E ringrazio tutte le persone che mi seguono con affetto e che mi scrivono.

 

Con queste poche parole di Emily Dickinson, dedico a tutti il mio più sincero augurio per uno splendido Natale ed un Prospero Anno Nuovo. Alessandra

 

 

 

 

Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano
Se allevierò il dolore di una vita o guarirò una pena
o aiuterò un pettirosso caduto a rientrare nel nido
non avrò vissuto invano.

Emily Dickinson

 

 

 

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Capitolo 8
*** Sogni d'Incanto ***


ORCHIDEA SELVAGGIA

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

Sogni incantati

 

Capitolo 8

 

 

 

 

 

Voltarsi continuamente nel suo giaciglio, non l’aveva di certo aiutato ad assaporare le dolci braccia di Morfeo. Contrariamente alle sue aspettative e necessità, Benjamin non aveva potuto cogliere neppure il minimo sibilo del sonno o della stanchezza di cui comunque era schiavo.

Nelle sue iridi scure brillava l’immagine della giovane fanciulla che nel tardo pomeriggio che aveva preceduto l’ansiosa notte, lui e il cugino Oliver Huttinton avevano soccorso.

Con un gesto di stizza allontanò le lenzuola dal corpo e si drizzò su a sedere.

I tizzoni ardevano nel camino e il profumo degli incensi allineati sul ripiano sopra il focolare, disperdevano un gradevole profumo di vaniglia.

Era certo, fosse l’ennesima trovata di Judith di ammaliarlo e di rendere la sua alcova sempre più confortevole.

Scese dal baldacchino lasciando che i piedi toccassero il marmo gelido d’inverno.

Serrò le palpebre con un moto di stizza quasi a voler abituarsi alla fredda temperatura del pavimento.

Lentamente, sentì rifluire il sangue che gli si era ghiacciato nelle vene al contatto con la superficie.

Nei suoi occhi, sempre l’ammaliante figura. Eppure, l’aveva veduta solo per poco e fino al momento in cui l’amico Thomas Becker gli aveva consigliato di rincasare.

Adagio incedette verso il camino fino a chinarsi per aggiungere un legno asciutto. Immerso nei pensieri, la sua mente volò oltre i lapilli incandescenti intenti in balzi e danze sinuose.

Era lì, oltre quel fiammeggiare intenso, di là dell’oro che pareva fluire dal basso verso l’alto in tutte le sue movenze.

Ne scorgeva chiaramente lo sguardo altero, i lineamenti celati dai capelli scomposti e sognava di lei, di quella sua pelle serica desiderando avidamente di poterla carezzare, di immergersi negli occhi dei quali non aveva potuto scorgere il colore e l’intensità.

Lui, Benjamin Priceton, di nobili natali, noto rubacuori  e impenitente casanova, amante dei lussi e avvezzo ai piaceri delle alcove, chiacchierato amante nei salotti femminili, era perduto per una giovane che aveva sottratto alle volgari braccia di due bravi in cerca di puro divertimento.

Strinse le dita in due pugni serrati ripensando alle avide mani di McIttish e Robertson bramose di sfiorare la pelle della ragazza. Le nocche s’imbiancarono sfumando nel perlaceo e le vene divennero di un evidente ceruleo.

Avvertì un moto di rabbia serrargli il petto. Possibile che l’effetto della giovane donna aveva sulla sua mente fosse proprio quello?

Lui, che al solo schioccare le dita si ritrovava, le damigelle più avvenenti, si riscopriva fortemente appassionato nei confronti di una sconosciuta.

Brandì un lungo ferro e lo insinuò nel camino attraverso la grata para-lapilli. Con evidente disinteresse, smosse alcuni tizzoni alimentando le vampe che, come nutrite di nuova linfa, s’intrecciarono tra loro salendo in un’incandescente fiammata.

Voltò il profilo alle finestre scorgendo un tiepido malva sfumarsi nel rosa dell’aurora.

Stava albeggiando. Doveva prepararsi.

 

 

 

*****

 

 

 

 

La figura alta e scolpita era appoggiata allo stipite di un’ imponente vetrata. Una mano tratteneva la lunga cortina di broccato, scoprendo i cristalli trasparenti che ne riverberavano l’immagine. L’ombra si allungò sul pavimento di marmo italiano di un caldo rosso dalle venature arancio.

Il giungere del mattino si dipingeva lentamente sul manto bianco colorandolo di tinte dai sapori mistici. Ad est il sole sorgeva e un timido bagliore sembrava incastonato al centro della linea dell’orizzonte. In un cielo sgombro da cumulo nembi, la fulgida stella attendeva di saltare in volta per illuminarne il giorno.

La pace regnava nel parco antistante la villa: tutto taceva nell’immacolato candore di quel febbraio rendendo l’atmosfera stranamente ovattata.

Sospirò levando gli occhi sull’astro del mattino che ancora brillava in cielo. Assottigliò gli occhi in due strette fessure nel tentativo di scorgere un segno di buon auspicio in quella giornata che l’avrebbe visto sconfitto in amore.

Quella sera, il ballo a Villa Gatsby avrebbe ufficializzato il fidanzamento tra la sua adorata Patricia e il cugino Benjamin Priceton.

Per quale motivo la vita gli era così ostile? Perché doveva soffrire per un amore che peraltro sentiva essere corrisposto?

Perché, ne avvertiva certezza, la minore dei figli dei Gatsby era sicuramente invaghita di lui e non aveva affondato le braccia tra le sue solo per poter sfuggire al matrimonio imposto con Benjamin.

In cuor suo sapeva che l’amazzone ribelle e passionale che aveva conosciuto, era una ragazza che cercava solo i suoi spazi, la sua dimensione in seno ad una società troppo conservatrice e rigida e forse retrograda.

Ma come avrebbe potuto minimamente pensare lui, di avere qualche speranza di sposare Patricia o semplicemente di poter godere dei suoi sguardi d’amore?

Ammesso che anche lei corrispondesse quei sentimenti, la promessa di matrimonio li divideva ed era certo che suo zio, Lord Priceton, non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione di maritare il figlio e allontanarlo dalle dicerie di corte.

Era difatti, quest’ultimo, profondamente tediato dal comportamento libertino del suo unico erede e nel tentativo di sedare gli animi dei mariti e dei fidanzati adirati per le avances di cui Benji si faceva autore, aveva pensato bene di maritarlo. Patricia Gatsby era la donna ideale per lui. Per nulla stucchevole e melensa, si diceva di lei che avrebbe potuto benissimo impersonare La Bisbetica Domata, proprio come nella commedia shakespiriana.

Ma lui, Oliver Huttinton la vedeva come un fiore selvatico, un’orchidea selvaggia, di quelle rare e preziose che aveva veduto nelle Indie.

Gli occhi intinti di nocciola e cannella parevano profumare delle terre esotiche dell’estremo oriente. I capelli scuri erano talmente lucenti da sembrare intinti nel velluto più pregiato e le labbra scarlatte, perfettamente disegnate con il rubino più inestimabile.

Era così che la vedeva: unica, inconsueta e singolare, un giunco flessuoso al vento caldo delle colline terrazzate dove, nelle lontane terre, le foglie di tè si smuovevano dolcemente cantando una nenia profumata e aspergendo innumerabili pozze delle loro trasparenze (*).

Chinò le palpebre e rivisse in un sol momento i paesaggi da lui tanto amati e vissuti e la scorse lì, avvolta in un telo di seta d’un rosso lucente a fasciarle il corpo flessuoso e un velo di oro a coprirle le spalle d’avorio. Come una nobile fanciulla di una casta indiana, Patricia era l’immagine della donna da lui anelata e nei sogni bramata, colei nei cui occhi perdersi e la cui pelle profumava di loto all’incedere delle carezze.

 

Si passò le mani tra i capelli sospirando all’idea della serata che l’avrebbe visto, ancora una volta, nel ruolo dimesso di secondo.

Gli sembrava di udire il melodioso stormire dei violini all’incedere delle coppie più in vista della corte inglese, e al centro del salone, Patricia con accanto Benjamin.

Stretti in un valzer dal sapore viennese, li immaginava danzanti tra gli iridescenti brillii dei lampadari, le maschere colorate degli invitati, il loro muoversi sulle note dolci e musicali, sotto gli sguardi curiosi e tra i chiacchierii e le invidie dei presenti.

Loro due…insieme.

Riaprì gli occhi e una stella cadde dall’alta volta trascinando la sua scia nel tenue indaco che colorava l’orizzonte.

Nel suo lungo meditare, aveva quasi dimenticato la ragazza che avevano tratto in salvo il giorno prima di ritorno da Villa Gatsby.

Doveva andare da Thomas Becker per accertarsi circa le condizioni di salute della ragazza. Lui e Benjamin erano stati testimoni di un tentativo di violenza e se le fosse accaduto qualcosa, avrebbero potuto far perseguire i bravi di Rumsfield.

Scosso dal pensiero della giovane donna e dell’effetto che aveva sortito sul cugino, decise che doveva raggiungere quanto prima la dimora dell’amico medico.

Era certo che quella giornata sarebbe stata lunga e foriera di novità che avrebbero di sicuro cambiato il futuro di qualcuno.

 

 

 

*****

 

 

 

Accovacciata sul divano, godeva del tepore dei flutti ambrati. Levò una mano all’aria, disegnando le voluttuose fiamme con un dito. L’ampia veste da camera la copriva disordinatamente, lasciando le nude gambe scoperte nel loro candido bianco. Le ombre dei fuochi giocavano sulla pelle nuda disegnando forme astratte.

Lo sguardo era perduto nel cuore nel quale, disperatamente, cercava una ragione plausibile a quello che in poche ore, sarebbe divenuto il suo destino.

Quale ragione avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi? Perché mai doveva divenire la schiava di un piacere saltuario e la chiacchiera di scherno dei boudoir?

Un brivido la percorse, dalla schiena fin su al capo. Scossa, guardò tra le spire di fuoco e le parve di scorgere un volto a lei familiare.

Sulle labbra sibilò il suo nome, con un tocco gentile che accarezza il cuore: Oliver.

Voi Patricia sareste un fiore di una bellezza inenarrabile, dai petali vellutati e dal profumo immortale, come quelli che ho potuto vedere nei miei viaggi. Raro, come un’orchidea dai toni forti e sensuali, intinto nel rosso scarlatto delle vostre labbra, con sfumature oscure e selvagge, uniche nella loro atipicità. Voi siete un’orchidea selvaggia, regina di bellezza e di coraggio, indomita   anticonformista, umile e di gran cuore.”.

Le parole che Oliver le aveva dedicato nel salone dei quadri erano oramai indelebili nell’anima e sembravano essere fonte e nutrimento delle sue ore.

Non una rima tratta da una poesia o da una prosa, ma solo parole gentili, spontanee come dardi innamorati che le avevano colpito il cuore. Sapeva, Patricia, che quel giorno, Oliver le era entrato nel profondo della sua essenza, per sempre.

Le dita le sfiorarono le labbra.

Il suo primo bacio.

La piuma scarlatta.

Dov’era l’uomo mascherato che l’aveva tratta in salvo nella dimora del Barone Rumsfield?

Quel bacio bruciante come un marchio a fuoco: lo ricordava come se fosse accaduto solo qualche istante prima. Avvertiva il contatto umido, la pressione ardente delle labbra del cavaliere sulle sue e il cuore scoppiare in petto in preda all’emozione sconvolgente.

Le gote si imporporano subitaneamente al pensiero delle sensazioni travolgenti che aveva provato. Si sentì mancare il fiato e venir meno il verbo.

-         Oliver! Piuma Scarlatta! Chiunque voi siate, vi prego, salvatemi! – esclamò con un sibilo quasi impercettibile.

 

 

*****

 

 

 

Celata dall’oscurità, Jennifer guardava la sorella attraverso la porta schiusa. Sembrava l’amante disperata di un quadro, musa perfetta e attrice di un amore sofferto che un pittore barocco avrebbe avuto piacere d’immortalare in un dipinto di rara perfezione.

-         Patty, sorella mia. Come sei bella e struggente. Quel che non dici traspare nei tuoi occhi, così soli e drammaticamente sofferenti. Priva di confidenza, leggo un tumulto interiore che non ti da pace. Unite da un simil destino, entrambe andremo in sposa a uomini che non desideriamo. Cosa sarà di te tra le braccia del lascivo Benjamin Priceton? E dei tuoi sogni d’amore? Ma forse erriamo noi. Forse è giusto perseguire un destino che qualcuno ha già scritto per noi. Dobbiamo quindi, lasciare che l’inevitabile avvenga? Cosa ne sarà del nostro affetto quando vivremo separate da uomini così differenti tra loro? – pensò con patema nell’anima.

Si strinse nella vestaglia ricamata e provò immensa tenerezza per quella sorella che la consolava continuamente sull’amore disperato che nutriva per Philip Callaghan, su quella proposta di matrimonio che le era giunta dal Barone Rusmsfield.

E lei cosa faceva per sua sorella Patricia? Vinta dalle numerose debolezze, Jennifer non aveva il coraggio di opporsi ai voleri paterni; e neppure a quanto nel quotidiano si susseguiva e agli intrighi che qualcuno ordiva alle sue spalle.

E così, sebbene contraria, era certa di andare verso un cammino che l’avrebbe vista avvolta dall’oblio. L’uomo che l’aveva chiesta in sposa era inquietante e lei nutriva un forte timore.

Una lacrima le solcò il viso, ricadendo dagli occhi castani sulla gota immacolata. Ne sentì il sapore salino allorquando lambì le labbra sottili e rosee.

-         Philip, amore…dove sei? Portami via.  – pensò coprendosi il volto e correndo via in corridoio in una silenziosa disperazione.

 

 

 

 

*****

 

 

MacIttish continuava la sua corsa al galoppo del cavallo dal manto pezzato. Era giovane ma forte e riusciva a sostenere il suo peso nonostante l’andatura incalzante e la gelida neve lungo il percorso.

Finalmente intravide i pinnacoli dei tetti appuntiti dei torrioni della grande dimora.

Il Barone lo attendeva smanioso di leggere quella missiva che giungeva direttamente dal porto di Madras.(**)

Quando finalmente giunse al portico, trovò uno stalliere ad attenderlo, svegliato di buon ora come di consueto e destato dal vivace e sonoro galoppo.

Scese dalla groppa dell’animale con gesti sicuri e quasi arroganti. Gli stivali di fattura pregiata aderirono al terreno ghiacciato dalla brina del mattino, ma spalato della neve che era caduta quella notte.

Con i suoi occhi acuti guardò il giovane stalliere: quasi intimorito, l’adolescente si strinse nella giacca imbottita, afferrò le redini del destriero e lo condusse, a capo chino, nella stalla dove sarebbe stato rifocillato e accudito.

Il maggiordomo della superba ma spartana residenza aprì le pesanti porte in legno e salutò con deferenza il capo dei bravi del Barone. Raccolse il mantello e il cappello a falda larga che lasciò cadere sul pavimento e lo seguì, con lo sguardo, salire due per volte i gradini della scalinata che conduceva al piano superiore.

Dato il grado e il ruolo che ricopriva, Ian MacIttish aveva accesso alle stanze del maniero e si comportava con autorità e alterigia con tutto il personale domestico. La boria che ne contraddistingueva il carattere era palese sul volto spigoloso e poco piacevole allo sguardo.

Diede una veloce scorsa alla biblioteca dove spesso il Barone soleva intrattenersi, ma oltre quella porta, c’erano solo le maestose ed alte librerie ricoperte di volumi.

Un ghigno si posò sul viso tracotante. Immaginò allora, il Barone nella sua alcova a bearsi delle insolenze e delle carezze quasi sfrontate di due avvenenti ancelle.

Il suo padrone era un estimatore delle bellezze femminili e raramente era solo nel suo giaciglio notturno. A qualsiasi ora della notte, adorava circondarsi di quelle presenze che trattava con irriverenza e insolenza trasformandole da creature da amare a semplici prede di puro godimento.

E lui, Ian MacIttish, le sere che non era di guardia con i suoi bravi, o fuori dalla residenza per qualche importante missione nella quale si necessitava della sua presenza, si nascondeva nell’anticamera attigua alla stanza del suo signore.

Le parete sulla quale si ergeva il maestoso ritratto del Barone sul suo cavallo da caccia, nascondeva, in una siepe accuratamente dipinta, un foro.

E quel buco insolente, altri non era che lo spioncino di una porta dell’anticamera a ridosso della quale c’era un’imponente poltrona in stile barocco, dall’altro schienale e che ben celava il piccolo segreto.

Ed anche in quell’attimo, nonostante l’albeggiare, Ian pensò di entrare nell’anticamera che già tante volte aveva offerto ai suoi occhi delle scenografie boccaccesche.

Spostò lievemente l’ampia seduta dorata senza addurre alcun rumore, e si precipitò a guardare.

La visuale si aprì direttamente sul baldacchino ed offrì, come ben pensava, delle figure che gli provocarono un sussulto.

 

I camini laterali al sontuoso giacinto rilucevano delle calde fiamme. Si movevano intensamente in una irrefrenabile danza che si rifletteva sul pavimento marmoreo.

Le tende delle alte finestre erano leggermente scostate, a voler far entrare nell’alcova la flebile luce dell’alba.

Il sangue gli si gelò nelle vene e il fiato gli venne meno:il Barone, completamente privo di qualsiasi indumento, riverso su un fianco, il gomito appoggiato ad un drappo d’oro e una mano a  reggergli il capo.

Una donna, coperta da una semplice sottana nelle tinte dell’avorio, gli offriva i seni prosperosi che lui baciava avidamente come stesse mangiando un frutto maturo. Un’altra, senza veli, gli carezzava con maestria e accuratezza le gambe, fino ad insinuarsi laddove il minimo tocco lo lasciava gemere di piacere.

Ian osservava la scena immaginando se stesso in una posa greca, come un Adone, esattamente come il suo padrone.

Lo sguardo si spostò a destra ove un pittore in evidente stato d’imbarazzo, cercava di cogliere ogni singolo sussulto di quella scena dal forte erotismo che avrebbe dovuto riprodurre per il commissionario.

-         Vedete, mio caro artista, - disse il Barone staccandosi dal petto femminile che pur gli si offriva con voluttà, - non dovete imbarazzarvi per questo i vostri occhi stanno osservando. Io sono un intenditore e un ammiratore della beltà e mi piace dominare le mie prede. Sono bensì conscio della perfezione del mio corpo e dell’effetto che genera nell’universo della donna. Ed è per questo, che mi pregio di far godere queste affascinanti creature, farle beare della mia presenza. E allora, perché non far gioire anche coloro che non possono avere il privilegio di sfiorarmi? – chiese narciso.

Il suo smisurato ego lo poneva al di sopra di qualsiasi altra persona.

Nigel Rumsfield era determinato e risoluto circa il suo aspetto. Credeva avidamente di essere un uomo affascinante e di rara potenza, e che in virtù di tali caratteristiche, il mondo avrebbe potuto agevolmente cascare ai suoi piedi.

Il pittore, di età sicuramente adulta, ma forse non troppo per aver già vissuto tali scene, parve non occultare a dovizia l’imbarazzo.

 

Il Barone si mise a sedere e con un sorriso di scherno sulle labbra, con un gesto celere afferrò la sottoveste della donna e gliela strappò di dosso. Fu un gesto nel quale aveva voluto affermare la sua predominanza, il suo potere e l’assoluta sottomissione delle presenze altrui al suo cospetto. La donna, come l’altra, si offrì così denudata, con i seni procaci, alti e sodi, a sfiorargli il viso.

Fu un gesto immediato quello dell’uomo, che si avventò nell’incavo con cupidigia e avarizia, mentre l’altra fanciulla non cessava di lisciargli il corpo con il suo.

Il disagio del pittore era tale, infatti, che aveva stretto gli occhi in sottili feritoie dalle quali scorgere le parti da dipingere.

Non era il nudo in se stesso che lo turbava, ma l’atmosfera di evidente lascivia che esternavano l’uomo e le due donne sue succubi prede di pura passione.

Se il Barone aveva avuto l’intento di far riprodurre il peccato della lussuria, vi era sicuramente riuscito.

Nel quadro, il signore del maniero avrebbe voluto solo se stesso, ma aveva detto al maestro d’arti che per poter riprendere in pieno tutte le sue emozioni e quella sensazione di abbandono che solo la pura passione poteva dare, doveva avere due donne al suo fianco che lo deliziavano con carezze languide e astuzie d’amore.

Mentre intingeva il pennello nell’ocra d’oro del velato panneggio sul quale aveva già abbozzato il corpo steso del Barone, negli occhi del pittore balenarono le immagini di concupiscenza e impudicizia, con cui le due fanciulle si erano concesse ai piaceri dell’uomo.

E lui, senza alcuna remora nei confronti dell’estraneo, parzialmente occultato dalla tela sul cavalletto, aveva approfittato prima dell’una e poi dell’altra compiacendosi ed estasiandosi delle rosee femminilità.

-         Non sono vanesio mio caro pittore, ma solo certo che vedendomi, chiunque possa provare estasi e appagamento dei sensi. Devo costituire davvero un bel vedere per coloro che in maniera occulta si celano chissà dove! – esclamò facendo seguire un ghigno alla sua affermazione.

Ian trasalì deglutendo. Nigel Rusmfield era astuto e sagace. Sapeva, evidentemente, che qualcuno usava il ritratto frontale all’alcova per dilettarsi delle sue scene di sanguigna passione.

Il ghigno divenne riso fino ad esplodere in una sonora risata che fece rabbrividire il pittore.

 

 

 

 

 

 

 

Molti di voi saranno forse rimasti sorpresi da quest’ultima parte che mi vede descrivere una scena alquanto “out of my stile” (fuori dal mio consono stile)…non è un’inversione ma semplicemente una maturazione di questa storia, dove le scene di passione saranno nuovamente citate (eh eh….piccolo spoiler) e saranno parte integrante delle caratteristiche peculiari di alcuni dei protagonisti, proprio come lo è il Barone Nigel Rumsfield.

 

 

Ringraziamenti a tanti, ma proprio tanti di voi che con affetto mi seguono da tanto tempo e mi scrivono sempre entusiasti. Vi adoro.

 

 

 

 

 

(*) Sembra che un’antica leggenda racconti che alcune foglie, trascinate dal vento, si posarono su una polla d’acqua. A contatto con le foglie, la superficie cristallina mutò colore e, incuriosito, il passante volle assaggiare l’acqua intinta. Fu così che nacque il tè.

(**) Madras o Chennai, località marittima e porto commerciale dell’India.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Preludio di un'intensa notte di mezz'inverno ***


ORCHIDEA SELVAGGIA

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

Preludio di un’intensa notte di mezz’inverno

 

Capitolo 9

 

 

 

 

 

 

Determinato nel suo scopo, nonostante i rosei folgori dell’alba ne illuminassero le vesti brune, imperterrito si era appiattito contro la colonna. Attendeva che la lascivia del Barone permettesse alla curiosità e al desiderio di potere di primeggiare. Una folata di vento lo investì sferzandogli il volto coperto. Non poteva esimersi da quella missione e dal conoscere il motivo della frenetica corsa di MacIttish.

Un suo fido informatore gli aveva confermato che il capo dei seguaci di Rumsfield era corso sulla strada che imboccava verso Southampton per incrociare una missiva in arrivo dall’Estremo Oriente.

E se Ian MacIttish, amante dei lussi e della comodità, della lussuria e della superbia, si era personalmente scomodato per ritirare quel messaggio, era evidentemente qualcosa di estremamente importante. Una missione palesemente vitale che il Barone aveva dovuto affidare al suo miglior uomo per non incorrere in errori.

Con la coda dell’occhio, attento che nessuno potesse intravedere la sua sagoma dal parco ancora dormiente, scorse velocemente all’interno della stanza.

Le tende erano scostate per permettere alla luce di filtrare nella camera. Una piccola fortuna di cui approfittare.

Seppure fugaci, le immagini che si sovrapposero alla sua vista lo lasciarono allibito.

Non era certo la prima volta che assisteva ad uno spettacolo del genere, ma la cupidigia, la brama incontenibile con cui ghermiva le generose forme delle due donne, quella concupiscenza, avevano dell’inverosimile.

Di fronte all’alcova, un pittore in palese stato di imbarazzo cercava di completare una parte della tela, accompagnato dallo sguardo del segaligno Ian MacIttish il cui volto languiva in un desiderio irrefrenabile, nella smania di voler prender parte al succulento banchetto orchestrato dal suo padrone.

Rimase lì, immobile e senza emettere respiri, quatto contro il muro, in attesa di un movimento da parte di uno dei partecipanti alla strana colazione.

Il freddo era pungente ma non poteva esimersi dal suo compito. Nulla avrebbe potuto farlo desistere.

-         Ora basta! – urlò il Barone allontanando con veemenza le nudità femminili dal suo corpo. Le donne si ritrassero spaventate ma compiaciute delle ore trascorse in compagnia del loro padrone.

Scesero dal giaciglio e trascinando con loro delicati, seducenti, quasi svenevoli lembi di lenzuola ricamate. Smorfiose e suadenti, incedettero verso Ian.

L’uomo si lasciò circuire dai loro vezzi e dai movimenti appassionati. La mano sinistra, ascoltando il comando istintivo della brama, si posò sulla natica della più giovane delle donne.

Si strinse sul sodo gluteo e si insinuò velocemente tra le gambe della ragazza. Quando ebbe sfiorato la sua femminilità, chiuse gli occhi trasalendo d’eccitazione sentendo la sua virilità raggiungere apici forse mai prima addivenuti.

-         IAN! – urlò sadico il Barone riportando alla realtà il bravo.

Il momento topico che aveva atteso dacché si era nascosto nella stanza attigua, era stato leggermente assaporato e violentemente smorzato dalla voce trasalente del suo padrone.

Riaprì gli occhi e incontrò lo sguardo bruciante del Barone. Sdraiato tra i damaschi del suo letto, esponeva ancora il corpo nudo dalle fattezze greche sul quale stava silenziosamente lavorando il pittore.

-         Non è il momento di pensare alle gioie del piacere! Non trovi? – gli domandò indicandogli la vestaglia riversa su una poltrona. – Messere, lei può congedarsi per oggi. La manderò a chiamare. – disse al pittore rivolgendosi a lui con un epiteto medievale ma che ben si addiceva ad un maestro d’arti pittoriche.

Ian lo osservò solo per un attimo. Non riusciva a sostenerne lo sguardo che avrebbe potuto incenerire anche il più valoroso degli eroi. La sua sete di potere, l’avidità, la brama di ricchezza, ne avevano fatto un uomo spietato e pronto ad uccidere pur di ottenere quanto si era prefissato.

Aveva lasciato che Ian guardasse prima di nascosto, e poi dal vivo, le peccaminose scene di cui era stato protagonista, per dimostrargli che non temeva nulla e nessuno, tanto meno il giudizio di uno dei suoi sgherri.

Il suo era un desiderio di supremazia, un voler gridare al mondo che lo circondava, che il più forte era lui e che non si fermava di fronte a nulla.

 

Afferrò la veste da camera eseguendo il compito impartito e gliela pose ad una vicinanza tale che poté prenderla facilmente. La stanza era pregna dell’odore del sesso, di vino e di incensi orientali che bruciavano nell’arguto compito di profumare l’aria.

Sistemati i pennelli e le pitture, spostato il cavalletto in maniera tale che non intralciasse il passaggio, il pittore sollevò il cappello e il mantello da una sedia e seguì le donne, coperte solo dalle lenzuola, fuori dalla stanza.

-         Allora, la lettera? -.

Allungò la mano a sufficienza per poter stringere tra le dita la missiva che giungeva dall’Oriente.

La aprì con veemenza rompendo il sigillo dell’ufficiale da lui delegato per i suoi affari nelle Indie.

 

Illustrissimo Barone,

 

Con l’augurio più sincero che Sua Signoria abbia a trascorrere un periodo accogliente e fruttuoso nelle campagne inglesi, desidero comunicarLe i risultati delle nostre ricerche e dei lavori appena terminati per l’annessione delle nuove terre.

Come da Sua Signoria prospettato, le già miniere appartenute al decaduto Marchese Philip Callaghan stanno concedendo i frutti anelati.

I nuovi filoni trovati dai minatori locali sono di rara bellezza e l’estrazione sembra facilitata dalle rocce non molto dure.

Nella mia prossima missiva le elencherò la stima delle estrazioni di pietre preziose e il loro attuale valore di mercato unitamente ad un dettaglio delle possibilità di vendita al mercato locale..

Il Marchese sembra scomparso nel nulla e solo un suo fido messo brancola nel buio cercando le prove della disfatta del suo padrone.

 

Come mi aveva chiesto, un mio fedele ufficiale ha raccolto la documentazione relativa alle proprietà del Conte Arthur Gatsby.

Dalle prime stime e valutazioni, sembra che le stesse siano le più redditizie in questa parte delle Indie e garantiscono al Conte un commercio con l’Inghilterra e le Americhe davvero ambizioso.

 

Ho eseguito i suoi ordini e contattato lo scrivano Murudeshuar di Bombay per redigere l’atto di proprietà delle terre dei Gatsby.

Seguirà a breve una mia relazione circa le ricchezze considerate nell’affare Callaghan e Gatsby.

Con dedizione e porgendoLe i miei ossequi,

 

Lord Teodhor Boones.

 

 

Il Barone strinse la lettera che aveva letto a voce alta e rise dal profondo dell’animo. Nei suoi occhi balenò la sete di potere che lo vedeva compromesso in affari loschi ma che gli stavano fruttando  ricchezze inestimabili.

-         Povero Callaghan. Stupido ragazzino che ha osato intralciare il mio cammino. Ecco cosa succede a chi osa mettermi i bastoni tra le ruote. – rimbrottò facendo segno a Ian di versargli qualcosa da bere.

-         Barone dobbiamo preparare un viaggio in India? – gli chiese riferendosi al contenuto della missiva.

-         Per adesso no Ian. Attendiamo la prossima lettera di Boones. Se è come sostiene lui, allora ben presto annovererò anche le miniere di quello sciocco di Arthur Gatsby tra le mie proprietà. -. I suoi occhi scintillavano di potere e Ian temette di rimanerne folgorato.

-         Ma possiamo fidarci di Murudeshuar? – gli chiese interessato all’argomento. Più potere e ricchezze accumulava il Barone, più era certo il suo ruolo al fianco di un importante personaggio come lui.

-         Certo che possiamo. Due delle sue figlie sono ostaggi di Boones. Non potrà tradirci. E’ un abilissimo scrivano che riesce ad imitare alla perfezione qualsiasi tipo di calligrafia e a riprodurre perfino i sigilli. Con lui al nostro fianco, è stato molto semplice poter raggirare Callaghan. –

-         Con permesso Barone, ma è proprio certo che Callaghan non scoprirà mai il raggiro ai suoi danni? –

-         E come dovrebbe? Scovalo e ammazzalo, Ian. – tuonò senza remore. – Non avrà il tempo neppure di respirare, non dovrai dargliene. Fino a che è vivo è una mina vagante. Ma non appena avrà raggiunto il padre all’altro mondo, potremo essere certi che non avrà di che nuocere. Murudeshuar e Boones non parleranno mai. Solo loro sanno che è stato redatto un atto ufficiale nel quale si comunicava a Callaghan che c’era stato un errore nell’assegnazione delle miniere. E così, a lui sono andate quelle già prive di filoni e a me, quelle prolifiche e che mi renderanno imponenti ricchezze. La burocrazia indiana è corrotta dal colonialismo inglese. Fino a che noi saremo lì, non potremo che recitare la parte dei padroni. –

-         E con il conte Gatsby come faremo? –

-         Farò in modo che riceva una lettera dalle Indie, un atto ufficiale nel quale, sotto la giurisdizione e la legge della Regina, si dichiara un effettuato accertamento sui suoi suoli e dal quale si evince un vizio di forma nell’assegnazione delle cave. Motivo per il quale, come nel caso Callaghan, le miniere tornano sotto il demanio del Regno a disposizione per nuova assegnazione. Ed ovviamente, il mio nome sarà in cima alla lista per l’acquisizione delle cave. – disse portandosi il bicchiere di cristallo alla bocca. Si umettò le labbra con il liquido rosato e parve bearsi di quel bruciore che lentamente scese dalla bocca allo stomaco.

-         E poi…- continuò guardando Ian dalle strette fessure oculari, - il Conte Gatsby non mi preoccupa. Ho chiesto in moglie sua figlia Jennifer. Sarà più facile del previsto annoverare le sue proprietà. Di fronte alla disfatta delle Indie, gli paleserò l’alleanza che ne verrà con il matrimonio con la figlia. –

-         Mi permetta padrone, ma Jennifer Gatsby non mi sembra la donna giusta per voi. Mi sembra una fanciulla fragile e indifesa. –

-         Sei uno stupido Ian. Ti facevo più perspicace. E’ proprio in virtù di questa sua debolezza che ho chiesto in moglie Jennifer. E’ un fiore di cristallo, bello ma fragile. Non reggerà molto al matrimonio al mio fianco. Mi darà un figlio e dopo la sua nascita non mi servirà più. Alla sua morte avrò accumulato la dote che spetterà a lei e alla sua progenie e, in ogni modo, stretto alleanza con il Conte Gatsby. – rispose sagace.

 

 

Aveva sentito abbastanza. Non poteva restare lì ancora. Sarebbe stato scoperto.

Oramai il sole era salito in cielo e il malva aveva dato spazio all’azzurro.

Adesso però comprendeva come fosse decaduto il Marchese Callaghan e soprattutto conosceva il tipo di burrasca che stava per abbattersi sul conte Gatsby e sulla sua famiglia.

Quanto si diceva di Rumsfield era poesia al confronto del suo reale essere. Era crudele e spietato e non aveva mai avuto remore a calpestare vite umane per i suoi affari.

Senza fare alcun rumore, saltò giù dal balcone e corse nel parco coprendosi dietro le siepi.

Il suo destriero era già pronto per trarlo il salvo.

La Piuma Scarlatta saltò in groppa al purosangue dal manto di velluto nero, e tirando le redini, gli intimò la corsa.

 

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Capitolo 10
*** Pensieri e parole ***


ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

 

 

 

 

 

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

Pensieri e parole

 

Capitolo 10

 

 

L’anziana governante corse alla porta destata dal sonoro bussare.

-         Santo Cielo, Lord Priceton. Ma è poco più dell’alba. Vi sentite bene? – gli chiese riconoscendo l’uomo alla porta.

-         Certamente Dorothea. Mi spiace avervi destato. –

-         Beh…oramai è fatta! – sentenziò la donna leggermente piccata, prendendo il soprabito e il cappello del giovane conte.

-         Thomas è in casa? –

-         Sì, venite. E’ nella sala da pranzo. Gradite fargli compagnia per la colazione? – gli chiese precedendolo.

-         Volentieri. – rispose sorridendo. Ascoltando i lenti e flebili mugugni della donna, la seguì fino al salone nel quale il maggiordomo stava servendo la colazione al padrone di casa.

Thomas volse lo sguardo verso la porta e restò allibito nello scorgere l’imponente figura dell’amico.

-         Cosa può averti destato così di buona lena? – gli domandò ironico.

-         Ti prego, amico mio, non farti celia di me. – rispose allargando le braccia in un gesticolare molto confidenziale.

-         Assolutamente. Ben lungi dal farlo. Ma fammi tirare ad indovinare. Sei qui per la fanciulla. Vero? –

-         Esatto. –

-         Accomodati e fammi compagnia. – gli disse indicando la sedia dallo schienale ricco di ornamenti in legno.

-         Il signor Conte gradisce fare colazione? – chiese il maggiordomo avvicinandosi all’ospite.

-         Ti ringrazio, Hugh. – rispose. Afferrò una tazza di fine porcellana Rosenborg e la rigirò versandovi del tè. Il liquido ne discese fumante come una colata d’ambra brunita disperdendo nell’aria un gradevole aroma.

-         Hanna? – domandò Benjamin notando l’assenza della  bella padrona di casa.

-         Ha vegliato a lungo la fanciulla che avete portato qui ieri sera. Era stanca e le ho consigliato di riposare ancora un po’. Non voglio che si affatichi. –.

Hugh ricomparve con un carrello ricolmo di uova e pancetta, formaggi e confetture, pani dolci e salati fumanti. Il profumo pervase la stanza fino a solleticare le narici dei conviviali.

Quando la tavola fu imbandita alla perfezione, il maggiordomo si eclissò chiudendo la porta dietro di se e lasciando i commensali liberi di conversare privatamente.

-         Adesso ovviamente mi dirai a cosa devo la tua visita mattutina! – disse Thomas imburrando un pane caldo.

Benjamin sospirò e unì le labbra in un ammiccante sorriso. Girò il cucchiaino nella tazza da tè e lo ripose nel piattino avorio facendolo leggermente tintinnare.

-         Queste porcellane sono perfette per degustare un buon tè. – sussurrò aspirando il profumo e il calore della bevanda.

-         Hanna ha un ottimo gusto e predilige le porcellane danesi. (*)

-         Già. –

-         Allora? Ti ho chiesto come mai non sei ancora sotto morbide coperte abbracciato ad un flessuoso corpo femminile. –

-         Avanti Thomas, non inizierai anche tu con queste dicerie! –

-         Dicerie? Benjamin siamo amici da tanto di quel tempo che ti conosco meglio del fondo delle mie tasche. Faccio il medico e sono spesso in visita in nobili dimore nelle quali inevitabilmente si chiacchiera. E indovina? Il tuo nome compare spesso sulle labbra delle mie pazienti. –

-         Ebbene Thomas, non so come giustificare questa mia celebrità. – rispose evitando lo scontro sull’argomento e ironizzando circa le chiacchiere dei boudoir.

-         Penso tu abbia già tentato a sufficienza di divincolarti. Ad ogni modo, sta bene. La fanciulla che tu e Oliver avete soccorso è salva. Ha trascorso una notte tranquilla. Lo svenimento è stato causato da un calo della pressione e dal freddo. Era intirizzita dalle gelide temperature. Non indossava che cenci. Con un’alimentazione corretta ed una vita più sana, potrà riprendersi velocemente. –

-         Bene. Ne sono compiaciuto! – esclamò portandosi alla bocca della pancetta croccante.

La colazione era davvero ottima e i due amici desinavano alternando i lauti bocconi alle chiacchiere disincantate.

-         Benjamin, Hanna mi ha detto che c’è un ballo dai Gatsby questa sera. –. La domanda ricadde come un opprimente macigno nell’atmosfera cheta della sala.

Ed inevitabilmente piombò il silenzio a testimonianza di quanto aveva appena asserito il medico.

I quadri che adornavano le pareti rivestite di tessuto pregiato sembravano avere occhi che scrutavano ovunque.

La visita di Benjamin non era casuale.

Thomas lo sapeva.

C’era qualcosa di cui avrebbero dovuto discorrere, qualcosa che sentiva, in maniera quasi empatica e che avrebbe cambiato il corso dei giorni di molte persone.

-         E mi ha anche detto, che ci sarà un annuncio questa sera. –

-         Thomas, ti prego…

-         Benjamin, forse dovresti essere nella tua sontuosa dimora a profumarti, preparare gli abiti con i quali chiederai in sposa Patricia Gatsby! – gli disse guardandolo dritto negli occhi.

Benjamin lasciò cadere la forchetta nel piatto e sospirò. Poi reclinò il capo all’indietro e si passò le mani tra i folti capelli bruni.

-         Non lo farò! -.

La breve frase echeggiò roboante nella sala. Thomas, atterrito dall’affermazione dell’amico, non smise un attimo di guardarlo. Sebbene Benjamin non volesse sostenerne lo sguardo, sentiva che per una volta non stava giocando.

Quelle parole erano tanto serie quanto risolute.

Benjamin Priceton, quella sera, al ricevimento dei Gatsby, non avrebbe chiesto Patricia Gatsby in moglie.

-         Che hai detto? -. Le parole gli uscirono spontanee come se da tempo avesse formulato la frase, in attesa solo di pronunziarla.

-         Che non chiederò Patricia in moglie perché non andrò al ballo di questa sera. –

-         Tu stai scherzando! – rintronò Thomas balzando in piedi.

-         No, per una volta, ti assicuro, amico mio non sto scherzando. – rispose sorseggiando il tè.

-         Non dire scempiaggini! – proruppe il medico battendo i pugni sul tavolo. Le stoviglie risuonarono in un tintinnio ordinato quasi orchestrato. Il volto di Thomas era colorito di un rossore a lui sconosciuto. Lord Priceton lo scrutò focalizzando i suoi occhi vividi e le gote imporporate.

-         Ma che ti prende? – gli chiese Benjamin non comprendendo il disappunto dell’amico.

-         Ma ti rendi conto in quale posizione metterai i Gatsby? E tuo padre? Ha organizzato tutto per poterti dare in moglie ad una fanciulla di buona famiglia. –

-         Non la amo! –

-         Oddio non posso credere alle mie orecchie. – inveì tenendosi le tempie con i palmi delle mani.

-         Non ti capisco Thomas. E’ la mia vita. Perché te la prendi tanto? –

-         Perché mi dispiace per tuo padre, che si da il caso essere il migliore amico di mio padre. E perché ogni qual volta vado da una paziente mi sento gli improperi dei nobiluomini traditi che vorrebbero metterti in cella a marcire e buttar via la chiave chissà dove. Tu non te ne rendi conto Benjamin, ma il tuo libertinaggio ti porterà solo guai e prima o poi qualcuno vorrà seriamente metter fine alle tue bravate da adolescente immaturo. Non sai quanto mi costa sentire certe rivelazioni. E se me le riferiscono è perché sanno che siamo amici. Mi stai, anzi ci stai mettendo tutti in una posizione scomoda. – tempestò rivelandogli quanto già in altri tempi gli aveva palesato.

-         Ti ringrazio dei consigli Thomas. Sei come un fratello per me ed io non posso che apprezzare quanto fai per la mia persona. Non temere. Riuscirò ad affrontare mio padre. –

-         Dubito fortemente. Sono convinto che questa volta tuo padre ti esilierà in qualche baracca nel lontano oriente. E forse non farebbe male. Probabilmente un po’ di misticismo ed un periodo ascetico ti rinfrancheranno della vita perduta. –

-         Lei è bellissima. I suoi capelli così lucenti e i gli occhi impauriti. L’esile corpo tra le braccia che cela un cuore passionale e un corpo da carezzare. –

-         Stai vaneggiando. Ma se provi qualcosa per lei, perché non vuoi sposarla? –

-         Di cosa stai parlando? – chiese Benjamin non comprendendo le allusioni dell’amico. Thomas lo guardò stranito. Evidentemente discorrevano di due argomenti differenti e non collimanti.

-         Pensavo stessi parlando di Patricia! – sostenne Thomas tornando a sedersi.

Benjamin lo guardò sorpreso e divertito, al punto tale da ridere dell’espressione del dottore.

-         Cosa’hai da ridere tanto e in maniera così sguaiata? – gli chiese cercando di comprendere il motivo ma senza successo.

-         Rido, perché non parlo di Patricia. – rispose trattenendosi dal ridere scompostamente .

L’espressione di Thomas era ancora più enigmatica. Non comprendeva donde volessero portarlo le parole di Benjamin.

-         Di lei Thomas…sono innamorato follemente…di lei! Della fanciulla che abbiamo salvato. Mi è bastato guardarla una sola volta per esser colpito al cuore da un fendente d’amore! – echeggiò balzando e gesticolando come su un palcoscenico teatrale.

Lo sguardo del medico era atterrito. Benjamin Priceton, conte di un così nobile casato, invaghito di una povera zingara tratta in salvo in un bosco da due sgherri.

Lui, l’ambito e chiacchierato Casanova della corte inglese, pronto a perdere l’onore e forse la sua immane eredità, nel nome di un sentimento a lui da sempre sconosciuto.

-         Ma…cosa dici! Neppure la conosci. Non sai come si chiama e poi…era vestita di cenci smessi e consunti. Probabilmente appartiene ad una classe sociale inferiore alla tua. A questo non ci pensi? –

-         Non mi importa nulla Thomas. Io voglio lei. La desidero con tutto me stesso e ne tu ne nessun altro potrete impedirmi di vederla o di amarla. -.

Esausto dalle parole e dalle idee bizzarre del giovane Conte, Thomas ricadde sulla sedia privo di forze o idee da suggerire alla stravaganza dell’amico.

-         Tu non sai quello che dici. –

-         Thomas…amico mio, mi conosci. Non ho mai provato simili sentimenti per qualcuno. E’ la prima volta che il mio cuore batte. Io non voglio bearmi del suo corpo. Desidero amare il suo cuore. Capisci? –

-         Ma…a Patricia non pensi? Questa sera si aspetta che tu la chieda in sposa, che ben presto le metta un anello al dito e la sposi. E invece non ti vedrà! Come pensi di comportarti nei suoi confronti? Non pensi alla sofferenza della sorella di Julian? –

-         Ci penso e ti dico che non ne soffrirà. Al contrario, mio caro amico, mi ringrazierà per non averla chiesta in moglie. –

-         Ma cosa dici mai? Sei fuori di senno. Perché mai dovrebbe esser contenta di non fidanzarsi con un buon partito come te? –

-         Perché non la amo e soprattutto, perché non mi ama lei. -. Ancora una volta, le parole gli morirono sul nascere e non seppe come controbattere a Benjamin.

 

 

 

Il ridondante bussare parve distogliere la quiete.

-         A…Avanti…- sibilò appena Thomas ancora sconvolto dalle dichiarazioni di Benjamin.

-         Buongiorno signori. – annunciò la voce pacata di Oliver Huttinton.

Thomas guardò l’amico trattenendosi il volto con le mani, ancora sconcerto da quanto ascoltato. Quello che stava per accadere, avrebbe di sicuro portato scompiglio nella mondanità della corte inglese e qualcuno avrebbe potuto rimetterci il titolo e l’autonomia finanziaria.

-         Mi sembrate sconvolti. Tutto bene? –

-         Certamente! – esclamò Benjamin appiattendosi la giacca sui fianchi con fare disincantato.

Il medico indicò una sedia al nuovo ospite che senza lesinare, si accomodò in attesa che il maggiordomo gli portasse il necessario per desinare con gli altri commensali.

-         Perché ho come la sensazione di essermi perduto qualcosa di importante? – chiese con voce appena sussurrata, quasi a voler invogliare l’amico o il cugino a dar voce.

-         Parlavamo del ballo di questa sera a Villa Gatsby. – proruppe Benjamin guardando il cugino.

I suoi occhi scuri si specchiarono nelle onici brillanti del giovane Lord Huttinton. Benjamin conosceva quello sguardo, l’aveva già veduto. Celava un fervore tale che gli aveva riconosciuto durante le battaglie con i pirati nelle acque orientali dell’Indocina, allorquando, a bordo della sua ammiraglia, Oliver aveva condotto i suoi uomini alla vittoria contro uno dei tanti battelli che predavano le navi europee.

Suo cugino era un abile combattente, dalle particolari doti di comando e fina strategia. Solo vedendolo all’opera, si poteva ben comprendere il valore e il coraggio nascosti dietro il volto di buon giovane di un’altolocata famiglia inglese.

Quell’infervoramento, l’animosità e il livore che leggeva adesso in quello sguardo gli incutevano un certo timore.

Oliver sembrava aver già compreso donde la conversazione avrebbe portato e si pentì, forse, di esser andato dall’amico Thomas Becker a parlargli di questioni importanti.

-         Oliver, dobbiamo parlare di una certa questione. Ne ho già discusso con il nostro amico Thomas. Ti prego solo, cugino mio, di lasciarmi spiegare, di ascoltarmi attentamente e di non pensare minimamente che mi stia facendo celia di te. –

-         Continua…- gli disse incrociando le braccia sul petto e fissandolo in maniera risoluta, tagliente come il fendente di una spada.

-         Oliver, ho deciso che non prenderò parte al ballo! – esclamò continuando a passeggiare intorno al tavolo, alla ricerca forse di un punto ben definito dove sostare e dar verbo al suo proclama.

-         Temo di non aver ben inteso quanto hai detto. –

-         Io…non andrò al ballo. Non presterò promessa di fidanzamento a Patricia Gatsby e non la sposerò. –

-         Tu stai vaneggiando! – rimbeccò balzando in piedi.

Al suo levarsi, la sedia cadde all’indietro e il sordo rumore echeggiò nella stanza.

Thomas parve riprendesi dal suo stato di limbo temporaneo nel quale aveva cercato di estraniarsi dalla conversazione che quasi certamente, sarebbe generata in una discussione fomentata da sentimenti molto profondi.

-         Tu sei fuori di senno. Ti rendi conto di quanto stai asserendo Benjamin? Tuo padre ti disidererà e questa volta lo farà sicuramente. E a Julian, a Patricia, alla famiglia Gatsby, non pensi? Vuoi giocare anche con loro Benjamin? – gli urlò contro brandendo il tavolo nervosamente tanto che le nocche si colorarono di un bianco lucente.

-         Non la amo. Perché mai dovrei sposare una donna che non amo? – rimandò fissando il cugino con astio.

-         Perché c’è un accordo tra le vostre famiglie e il conte Gatsby ha accettato la proposta di tuo padre. – esclamò in risposta non senza una palese smorfia di sofferenza. Ammettere che la sua Patricia era divenuta un oggetto di scambio, gli doleva in petto come una ferita lacerante. Non solo era stata promessa in sposa a qualcuno che non amava, ma costui la stava rigettando come una vecchia e consunta bambola.

-         Oliver, non blaterare stupidaggini. Sappiamo entrambi che è una situazione che farà più comodo a te che a me. –

-         Dannazione, cosa stai dicendo Benjamin? – gli chiese in tono penoso. I suoi occhi si chiusero in strette ma aguzze feritoie da cui l’immagine di Lord Priceton parve quasi distorta.

-         Sappiamo entrambi che in fondo al tuo cuore, speravi che io abbandonassi la malsana idea di sposare Patricia. – replicò con tono pacato ma risoluto.

Quello che Oliver ascoltò, fu solo la roboante eco del suo cuore che martellava in un petto fin troppo lacerato dagli eventi.

Benjamin aveva ragione: gli stava consegnando Patricia su un piatto d’argento e senza timore delle conseguenze che aveva patito.

La più giovane dei Gatsby avrebbe così potuto coronare il suo sogno di non sposare un partito da lei anelato o scelto. E forse lui, con un po’ più di coraggio, avrebbe potuto tentare un approccio diverso con la bellissima contessina.

Un guizzo di gioia parve quasi balenare oltre la profondità delle pozze scure ma un’amara sensazione accompagnava l’atmosfera fin troppo tesa.

Fissò il cugino ben conscio che non avrebbe cambiato idea e che forse lui, soltanto lui, avrebbe potuto calmare le ire del conte Priceton quando avrebbe saputo.

-         Perché Benjamin? Perché vuoi dare adito ad uno scandalo? –

-         Lei ha rapito il mio cuore ed io non posso guardare più altra donna. – rispose dimesso accomodandosi su una poltroncina.

Thomas assisteva alla discussione incredulo e timoroso di quel che avrebbe potuto scatenarsi all’indomani del rifiuto.

Già sentiva nella sua mente i vocii femminili che spettegolavano circa il rifiuto di Benjamin Priceton a Patricia Gatsby e soprattutto la rabbia del conte Gatsby e del conte Priceton.

La porta si aprì e con sommo gaudio, il dottor Becker vide l’immagine solare e soave della bella moglie.

-         Si è svegliata. –

 

 

 

 

 

(*) Non ho resistito dall’indicare una particolarità della cultura e del costume danese, influenzata dal mio recente viaggio a Copenaghen. Le porcellane Rosenborg hanno la lucentezza dell’avorio e il prestigio di delicate rose accuratamente dipinte. Una delizia per gli estimatori del genere.

 

 

 

Ringraziamenti:

-         alle mie sempre care amiche Alex, Serena, Ale Kanou, Sakura, Maki, Solarial, Rossy, Elisa, Micky…

-         A Melanto….Vale scusa se sono in arretrato con la lettura di Huzi….spero di riparare al più presto.

-         A Luxy…Stella grazie per i complimenti…non ho ancora letto la tua Calendar Boys ma sono contentissima stia riscuotendo tanto successo.

-         A Onlyhope alla quale chiedo scusa per non aver ancora risposto alla sua mail…penso che l’aggiornamento atavico la dica lunga circa il mio poco tempo disponibile.

-         Ancora a OnlyHope, Krystel Draggory, Lisanna, Makiolina per aver recensito una mia storia per la prima volta, con la speranza che vorrete tornare a leggermi con piacere.

-         Ad Angie…Maybe…a day, you’ll read this my poor story...I’ll be there waiting for you. I’ld like to wish you a wonderful and special birthday. Lots of kisses

-         A Diane…sorry for waiting my reply…I’ll write you shortly. Kisses to you and Daphne.

-         E ancora ad Alessia (Ale mi sto perdendo un sacco di puntate di Nana…sob sob), Sara, Noemi, Elisa e tutte coloro che mi seguono sempre con affetto.

-         E poi un abbraccio speciale a Babytvb…dai Mary che ce la farai! Io sono qui…noi tutti siamo qui. Spero che il mio sorriso ti giunga immediato e sincero e che si posi sulla tua guancia per ridarti un po’ di fiducia.

 

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Capitolo 11
*** Le relazioni pericolose ***


ORCHIDEA SELVAGGIA

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

Le relazioni pericolose

 

Capitolo 11

 

 

Lady Muriel Sullivan si era alzata di buona ora certa che quella giornata appena annunciata dai tenui colori dell’alba, sarebbe stata foriera di successi immediati.

Impettita nel bustino stringato, riflesse la sua immagine nello specchio che, ne rimandò una figura alta e snella dai toni irlandesi.

Riavviò i capelli perfettamente annodati in una crocchia elaborata e sorridente, si apprestò a bussare alla camera della figlia Amily.

Sospirò prima di solcare l’uscio e con sguardo smagliante, avanzò verso l’alcova nella quale la giovane Sullivan giaceva dormiente.

-         Avanti tesoro, la giornata è lunga e dobbiamo già iniziare a prepararci. Oggi è un giorno grandioso. –

-         Madre vi prego….- biascicò voltandosi dall’altra parte del giaciglio.

Scontenta dell’accoglienza poco affabile della figlia, Lady Muriel afferrò il copriletto di pregiato damasco e lo riversò ai piedi del letto.

Il cambiamento di temperatura era evidente e sebbene i due focolari dell’ampia stanza fossero accesi, l’aria era notevolmente fredda.

-         Su su mia cara. Oggi è il grande giorno. – continuò perseverante sedendosi sul bordo del letto.

Finalmente la curiosità della giovane Sullivan parve solleticata dal tono ridente e morbido della madre e si sollevò leggermente mettendosi a sedere.

Seppure scarmigliati, i capelli di un lucente fulvo risaltavano nella penombra del mattino e il viso diafano riluceva come preziosissima porcellana.

-         Madre, cosa dite? Di cosa state parlando? – chiese carezzandosi il volto pura immagine di un sonno non proprio dorato.

-         Mia bellissima figlia, oggi ci sarà il ballo a Villa Gatsby ed io ho intenzione di chiedere alla Duchessa Margareth Huttinton di interessarsi affinché suo figlio Oliver ti chieda in sposa. – rispose quasi in estasi per il pensiero tanto avido quanto felice che aveva appena formulato ad alta voce.

Atterrita da quanto asserito dalla madre, Amily continuava a fissarla con occhi sgranati ed espressione incredula.

Ne avevano già parlato altre volte e aveva sempre dissentito alle proposte materne. Evidentemente, le sue parole non avevano sortito l’effetto sperato perché Lady Muriel insisteva nel voler maritare la figlia al bell’Oliver.

Ma se non voleva sposare nessuno dei partiti proposti dalla madre, ancor meno avrebbe voluto maritarsi con Oliver, suo grande amico e che nutriva, corrisposto, una sincera simpatia per Patricia Gatsby.

Certo, la proposta di matrimonio di Benjamin Priceton nei confronti di Patricia Gatsby aveva cambiato la situazione e in breve tempo, Oliver Huttinton sarebbe di certo salpato su una delle sue navi nel disperato tentativo di dimenticare l’amor giammai conquistato.

-         Non posso farlo. -

-         Cosa? – chiese guardandola incuriosita dall’avventatezza della figlia. – non ho ben inteso le tue parole. Non vuoi sposare Oliver Huttinton? –

-         Esatto madre. Ve ne avevo parlato in altra sede. Io non sposerò qualcuno che non amo e soprattutto Oliver Huttinton. –

Lady Muriel si levò in piedi e i tacchi delle sue scarpe risuonarono sonori sul pavimento di marmo.

-         Non decidi tu ragazzina. Si parla del tuo futuro e se riuscirò nel mio intento, puoi star certa che entro l’anno tu diventerai la nuova Duchessa di Huttinton. – rispose serafica richiudendosi la porta alle spalle.

Amily rimase sola nella sua stanza, circondata da quanto di più bello, lussuoso e confortevole una giovane donna avrebbe mai potuto desiderare.

Ma cosa desiderava lei?

Lei anelava all’abbraccio di Julian, del bel figlio del Conte di Gatsby che, se si fosse fatto avanti, le avrebbe risparmiato non poche paturnie e drammi da parte della madre.

Era certa che la madre avrebbe accolto la proposta di Julian come perfetta e che avrebbe sicuramente sostituito il pensiero di Oliver nei confronti del giovane Gatsby.

 

 

 

*****

 

 

 

Il verde smeraldo delle foglie riluceva ai timidi raggi che dalla collina scendevano lenti fino all’antica dimora. Le vetrate della serra sembravano traversate da un fascio luminoso che le rendeva eteree. Il freddo della notte che le aveva gelate, lentamente pareva disciogliersi al tiepido calore dei primi sbadigli del sole al nuovo giorno.

Silente e malinconica, guardava a perdita d’occhio i pochi fiori già presenti sulle piante e che sembravano, con i loro colori, preannunciare una primavera che entro un mese sarebbe finalmente giunta.

Avvolta in un caldo mantello di pregiata lana, Jennifer sedeva da tempo su una panchina che sembrava volerla accogliere come una culla. Era scesa nella serra alle prime luci dell’aurora, quando ancora il blu si stempera nell’indaco e nel rosa, in attesa del chiarore.

La notte appena trascorsa l’aveva veduta succube di incubi il cui protagonista indiscusso era stato il Barone Rumsfield.

Il volto aguzzo, gli occhi di cristallo e la sonora e superba risata l’avevano inseguita durante le ore in cui l’insonnia aveva preso il posto del dolce ninnare.

-         Vorrei essere colui che ti consegni alle braccia di Morfeo nel tinteggiar del violetto e colui che possa risvegliarti con un bacio di Eos al rosa tenue del mattino. –

La poetica frase le giunse inattesa spezzando un silenzio, quasi mistico di cui si era volutamente circondata.

La voce che aveva udito pareva provenire dietro un abete orientale che il Conte aveva fatto giungere dalle terre lontane e che, a tempo debito, avrebbe arricchito uno dei giardini più belli e rigogliosi del Regno.

Jennifer si levò in piedi con il cuore in gola per il timore che qualcuno fosse entrato in quel suo nascondiglio segreto e che l’avesse vista malinconica e mesta, raccolta nei pensieri d’amore e dolore.

Il suo capo sapeva a chi apparteneva quel caldo tono di voce e sentì i brividi percorrerla in una furia quasi inverosimile.

L’eco del pulsar del cuore era talmente sonoro che sembrava stordita dal ridondare. Tremante cercò di stringersi nella manta soffice, quasi a voler cercare un rifugio dalla realtà.

Quanto aveva atteso di sfiorare quel volto con le dita?

Quanto aveva bramato di sentire le sue mani carezzarle il volto, lambirle le labbra?

Cauta, senza far rumore, si avvicinò al vaso e allungò la mano verso un ramo rivestito di gemme smeriglianti che come giade e smeraldi tempestavano di preziosi le fronde.

Le dita vibravano e qualsiasi verbo era serrato in gola.

I suoi occhi castani cercavano ovunque e da nessuna parte un’immagine che da tempo non vedeva e che solo gli anfratti della sua mente oramai ricordavano.

Quello che vide, la lasciò impietrita, attonita nella sua posizione.

L’uomo allungò una mano verso la gota eburnea, cercando un contatto esasperato con qualcosa che da tempo aveva perduto.

 

*****

 

 

Con fare romantico, carezzò ripetutamente la marsina dai toni amaranto che avrebbe indossato quella sera sopra la camicia in seta dal forbito colletto a foulard impreziosito dai pizzi e da un cameo di granato scuro.

Julian amava indossare capi ricercati e l’abito che quella sera lo avrebbe fasciato, gli era giunto da una nota boutique londinese esperta in cerimonie d’alto rango.

Il pantalone alle ginocchia, i calzari bianchi e i mocassini scuri avrebbero completato la mise settecentesca in cui si sarebbe calato.

Sorrise pensando all’espressione meravigliata della dolce Amy che oramai, era certo, non avere occhi e cuore che per lui.

Ed era con quel pensiero nel cuore che l’erede del Conte Gatsby anelava alla sera in cui avrebbe ufficialmente chiesto alla giovane Sullivan di divenire sua fidanzata ufficiale.

Se nei programmi della famiglia non ci fossero stati prima i matrimoni di Patricia con Lord Benjamin Priceton e le ipotetiche nozze di Jennifer con Lord Rumsfield, Julian non avrebbe esitato a condurre Amy all’altare.

Rimirando il sole che imbiondiva il cielo, sorrise immaginando la bella fanciulla che gli aveva rapito il cuore, tra le sue braccia danzare alla melodia dei violini che avrebbero accompagnato tutta la serata.

-         Sembri in estasi! – esclamò una voce calda e materna.

-         Madre. –

-         Ho bussato ma non mi hai sentita. Sono entrata perché ho visto la porta scostata. Tutto bene? – gli chiese avvicinandosi e guardando il bel figlio in tutta la sua avvenenza.

Non poteva che essere orgogliosa dei tre figli che aveva messo al mondo, fiori di bellezza e intelletto i cui nomi erano sovente ripetuti nei salotti mondani.

-         Pensavo a questa sera. –

-         Accompagnerai le tue sorelle. Faranno il loro ingresso al tuo braccio. –

-         Sì madre, come di consueto. Sarà un onore per me. Sarà forse l’ultima volta che accompagnerò entrambe.  – aggiunse con rammarico.

Eleanor lesse nei suoi occhi una sospetta malinconia e comprese che la tristezza del figlio era dettata dalle proposte giunte alle sorelle e che lui non condivideva.

-         Sei ancora in tumulto per le proposte che hanno ricevuto le tue sorelle? –

-         Madre, come non potrei esserlo? – rispose voltandosi verso la finestra.

-         Julian…

-         Patricia in sposa a Benjamin Priceton! Già sento le chiacchiere di quanti si faranno celia di mia sorella e delle passioni del suo promesso sposo. E Jennifer. Madre, dovete opporvi alle nozze con Rumsfield. E’ spietato, senza un briciolo di umanità. Sta tramando qualcosa, ne sono certo. E se ha chiesto Jennifer in sposa, lo sta facendo unicamente perché ha un piano ben congeniato. Vuole usare la nostra famiglia per qualche suo losco traffico e se nostro padre accetterà la proposta, saremo rovinati. -

-         Ma…Julian…ne sei certo? -. Il giovane Conte annuì e prese le mani bianche della madre tra le sue.

-         Madre, nell’ambiente militare si chiacchiera e spesso qualcuno parla un po’ troppo. Si vocifera che sia stato proprio Rusmfield a rovinare il Marchese Callaghan e voi sapete, quanto Philip Callaghan fosse legato alla nostra famiglia. Philip non è mai stato uno sprovveduto, al contrario, e sono certo che quanto gli sia capitato, sia solo opera di quel viscido essere che si cela sotto le spoglie di Rumsfield. –

-         Julian mi stai intimorendo. La mia bambina. Jennifer, povera Jennifer. –

-         Madre mia adorata, ben lungi dalle mie intenzioni incutervi qualsiasi tipo di timore, ma devo, ho il dovere e il diritto di mettervi al corrente del rischio che corriamo. Dovete assolutamente convincere nostro padre a non cedere alle lusinghe del Barone. Sono certa che tanti altri buoni partiti si faranno avanti per chiedere in sposa la nostra Jennifer. – concluse con espressione franca e affettuosa da cui si poteva denotare il sentimento che lo legava alla sorella.

Eleanor guardò il figlio e gli sorrise, innamorata di quella figura protettiva in cui rivedeva il giovane e amato Arthur Gatsby.

Con uno slancio, abbracciò l’uomo che vedeva, nel tentativo di rincuorare e sedare i suoi timori.

 

 

******

 

 

 

Io so bene che dentro la mia stanza
c'è un amico invisibile,
non si rivela con qualche movimento
né parla per darmi una conferma.

Non c'è bisogno che io gli trovi posto:
è una cortesia più conveniente
l'ospitale intuizione
della sua compagnia.

La sola libertà che si concede
è di essere presente.
Né io né lui violiamo con un suono
l'integrità di questa muta intesa.

Non non potrei mai stancarmi di lui:
sarebbe come se un atomo ad un tratto
si annoiasse di stare sempre insieme
agli innumerevoli elementi dello spazio.

Ignoro se visti anche altri,
se rimanga con loro oppure no.
Ma il mio istinto lo sa riconoscere:
il suo nome è Immortalità.


( Emily Dickinson )

 

 

 

La poesia di Emily Dickinson è una dedica a tutte le persone che conosco e ad un’amica in particolare.

A quest’amica desidero dire che nell’amicizia si condividono anche scontri, delusioni, amarezze, ma che se un’amicizia è sincera, va oltre la nebbia di un giorno.

A volte si pensa di essere soli e solo col senno di poi si comprende che non è così.

C’è sempre un angelo, inatteso, sconosciuto, invisibile, che ci veglia nonostante le ombre. Quell’angelo è lì, aspetta solo di soffiare un po’ di luce che possa diradare l’amarezza e di donare un nuovo sorriso.

 

 

Ringraziamenti a tutte le persone che mi seguono sempre impazienti e affettuosamente e con le quali mi scuso per il ritardo occorso nell’aggiornare….siate clementi: il capitolo è stato terminato in una notte insonne!

 

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Capitolo 12
*** La via della ragione ***


ORCHIDEA SELVAGGIA

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

La via della ragione  

Capitolo 12

 

Come Benjamin fosse riuscito a convincerlo dell’insano pensiero e del piano, davvero non lo sapeva. Cavalcava già da un bel po’, quando decise di fermarsi in cima ad una collina per una breve e rigenerante sosta.

Il vento gelido di un febbraio giunto quasi alla fine era davvero sferzante ma lui pareva non accorgersene. Sentiva quelle folate taglienti sul volto e tra i capelli, ma come una maschera di cera, il suo viso non mutò espressione.

Come doveva comportarsi? Le nuvole all’orizzonte sembravano l’immagine esatta dei suoi pensieri: cumuliformi che si abbracciavano l’uno all’altro nel tentativo superbo e quasi malefico di divenire un unico grande nembo. E così parevano le scene che vorticavano nella mente e negli occhi.

Patricia: la sua bella damigella sarebbe stata, di lì a poche ore al centro di uno scandalo se solo lui, Oliver Huttinton, non avesse accondisceso al piano di Benjamin Priceton.

Doveva prender parte al ballo, cercare di parlare privatamente con la minore delle figlie del Conte Gatsby e spiegarle le intenzioni di Benjamin. Ma come avrebbe potuto fare?

Avrebbe dovuto davvero presentarsi sotto le false spoglie del cugino occultando il suo volto con una maschera?

E se qualcuno avesse scoperto il trucco e quindi l’ardire? Cosa sarebbe accaduto?

Benjamin pareva aver pensato davvero a tutto: Oliver avrebbe dovuto fingersi lui, parlare a Patricia palesandole l’intenzione di non sposarla, indi rivelarle i suoi sentimenti, parlare col Conte Gatsby e con il Conte Priceton. In questa maniera, parlando lui in vece del cugino, i colpi sarebbero stati attutiti differentemente e avrebbero cercato insieme una giustificazione ad un inatteso cambio di fidanzamento. L’unico sconfitto, in tal caso, sarebbe stato il Conte Priceton il quale sperava arditamente di ammogliare il figlio per far tacere delle dicerie sempre più veritiere.

Respirò profondamente, col cuore in gola, sapendo che l’impresa cui andava incontro, era decisamente ben più ardua delle altre già affrontate poiché implicava tanto la ragione quanto il sentimento.

Lui così impavido tra le alte onde dei mari esotici, come avrebbe potuto rivelare il grande sentimento che nutriva per lei?

 

 

******

 

 

 

-         Sei l’unico fiore sui cui petali si adagerebbe un raggio di sole! (*) – esclamò dolcemente non distogliendo lo sguardo da quello incredulo di lei.

Le prime luci del giorno che attraversavano silenti le vetrate, la rugiada lievemente dipinta sulle verdi fronde della serra, restituivano un’immagine di lei eterea, quasi impalpabile. Le ombre ne confondevano i lineamenti che lui ben conosceva e che avrebbe potuto riconoscere anche nella cupa oscurità. La vide smuovere leggermente le labbra, nel tentativo, evidentemente difficile, di proferire parola.

Adagio incedette di qualche passo fino a poterne riconoscere perfettamente la sagoma femminile. Un fremito lo scosse in tutto il corpo allorquando vide gli occhi di lei annebbiarsi e fiotti di lacrime rigarle il volto in un’afflizione priva di gemito. Le labbra tremavano ancora nell’incertezza che il volto che le pupille rimiravano, fosse proprio quello da tempo dipinto nel cuore e nella mente.

Lui non riusciva a non guardarla, a non perdersi in quelle iridi così malinconiche e ricolme di un amore fin troppo esasperato e avvinto.

Non attese alcun cenno: semplicemente, le si avvicinò di un altro passo e la tirò a se in un abbraccio in cui lei si perse completamente.

Fu in quell’attimo, che le lacrime silenziose proruppero in singulti disperati e inconsolabili. Stretta tra le braccia di colui che amava, Jennifer pianse di sconforto e scoramento per l’ingiusto destino che li vedeva separati, l’uno in miseria e fuggiasco, l’altra presto sposa ad un uomo meschino.

-         Amore mio, travolgente e inconsolabile. Quale fato ha voluto che ci separassimo? –

-         Philip, aiutami. Portami via, ti prego! – gli chiese in tono implorante. La richiesta di soccorso era talmente esplicita che il Marchese Callaghan comprese in quel momento tutta la sfiducia e lo smarrimento che pochi istanti prima aveva visto dipinti nei suoi occhi.

-         Jenny, cosa accade? Che ti hanno fatto, mio ritrovato amore? – le domandò lambendole la fronte con un casto bacio.

-         Andrò in sposa al Barone Rumsfield! – replicò tutto d’un fiato.

Le braccia di Philip Callaghan si sciolsero dall’abbraccio come il nodo allentato di una corda. Ricaddero pesanti lungo i fianchi mentre uno sguardo attonito recitava perfettamente lo stato d’animo d’incredulità e di drammaticità.

-         Come può essere? – le chiese mentre il pallore prendeva colore sul volto già smunto e segnato dalla sofferenza.

-         Il Barone mi ha chiesta in sposa. Ma io non voglio! Ti prego amore mio, ti supplico, portami via! – implorò lanciandosi sul suo petto e cercando una presa sul saio che lo copriva malamente.

Non aveva parole da farle udire. La sua perdizione era esplicita nell’assenza di verbo, in un’espressione che lei non ricordava appartenergli. Gli occhi parevano vacui e vagare nel vuoto, persi chissà dove.

-         Philip, ti prego, aiutami Philip! – esclamò ancora con la voce impastata dalle lacrime.

Fu allora che lui parve riaversi tornando a guardare l’amata.

Era così bella e pura, dolcissimo fiore che solo lui aveva osato baciare e il cui profumo lo inebriava ogni volta. Ed era ad un passo da lui, dal suo cuore, da quell’amore disperato che potevano serbare e nutrire solo nelle ombre fuggiasche.

Jennifer chiesta in moglie dal Barone Rumsfield.

Il Barone Rumsfield.

Dove passava lui, non respirava più nessuno. Con abili stratagemmi fonti di sapiente stratega, lo aveva ridotto in miseria impossessandosi anche delle sue miniere nelle Indie Orientali. Dopo averlo reso fuggitivo alla legge e randagio perso tra le brughiere, il Barone aveva quindi deciso di togliergli anche quanto per lui era più importante: Jennifer Gatsby.

Ma, non era forse più giusto che Jennifer potesse godere dei privilegi dell’aristocrazia inglese e non degli stenti di un nobile decaduto?

Quel pensiero gli balenò come un raggio nella fitta nebbia.

Cosa poteva offrirle adesso che non aveva più nulla? E la sua famiglia, avrebbe acconsentito alla loro unione? E se avessero deciso di suffragare la folle idea di una fuga, dove avrebbero  potuto andare?

Jennifer parve accorgersi delle titubanze dell’amato e si staccò da lui quasi incredula della mancanza di attenzione e costernazione verso quanto lei aveva proferito.

-         Philip, ma tu…-

-         Jenny! – esclamò abbassando lo sguardo e prendendo le mani di lei tra le sue.

La giovane contessa levò l’espressione esterrefatta sul volto emaciato dell’uomo che le stava frontale.

La barba incolta, i capelli arruffati e lunghi, il volto smunto dalle sofferenze: nonostante l’aspetto poco decoroso e che sicuramente non si confaceva ad un nobiluomo, lei riusciva a trovarlo splendido e affascinante.

Quanto la spaventava, era l’espressione nei suoi occhi e le parole che ancora attendevano sulle labbra, di esser pronunziate.

-         Jennifer, io, non ho nulla da offrirti! – sibilò, ma quel sussurro flebile le giunse come un violento fendente al cuore. Era la premessa di qualcosa che le doleva in petto e che non le permetteva di respirare.

-         Non dire altro Philip, ti prego, non proferire verbo che non sia d’amore…- chiese scoraggiata e sconfortata. Tutta la sua afflizione era dipinta in quel volto che tanto lui adorava e che era fonte di sorsi di vita nei giorni più angusti.

-         Amore mio…io…non so se sia giusto che io sia qui. Non ho nulla da offrire a colei che amo più della mia stessa vita e forse sarebbe più giusto e sensato se…

-         BASTA! – urlò staccandosi da lui e portando le mani alle orecchie. Scosse il capo in segno di diniego. Non voleva ascoltare altro che non fossero rime baciate a decantare il sentimento che li animava.

-         Ti prego Jenny ascoltami. –

-         No Philip. Se non vuoi portarmi via con te…allora vai via…non farmi soffrire ancora per un amore fin troppo disperato. –

-         Non comprendi Jenny! Quello che vorrei di più al mondo, di più della mia stessa vita, sarebbe addormentarmi ogni notte tra le tue braccia e risvegliarmi accanto a te, mentre il sole del mattino ti bacia per destarti. Ma non posso farlo perché non ho più nulla da offrirti. Non posso farlo perché colui che ti ha chiesta in sposa mi ha spogliato di tutti i beni che avevo e mi da la caccia come fossi il peggiore dei fuggiaschi e per la legge del Regno io sono un disertore, un uomo che ha perso tutto e deve pagare a caro prezzo il suo debito verso lo stato. Non sono nessuno Jenny. Sono solo qualcuno da acciuffare vilmente e sbattere in qualche angusta prigione donde venirne alla luce solo per essere condannato. E’ questo che vuoi, Jenny? Affliggerti della mia stessa sofferenza? Scappare insieme a me e vivere di cenci e stenti? –

-         Potremmo chiedere aiuto a mio padre. Lui ci aiuterà. Gli spiegheremo tutto. Ti nasconderà qui fino a che tutto non sarà chiarito e tu potrai finalmente tornare libero di respirare. –

-         Non è così semplice Jenny. Il Barone è più abile di quanto tu possa pensare. Sta circuendo i nobili che hanno acquistato cave nelle Indie Orientali. Ha trovato una squadra di fedeli pronti a vendersi l’anima per lui. Esattamente come ha tolto a me le miniere, lo farà con tuo padre e con altri nobili. Quando il suo potere sarà diventato tale, chiederà alla Regina di essere nominato Governatore delle Indie in maniera tale da colonizzarle personalmente. Tu non sai quali ambiziosi piani abbia già macchinato. Tuo padre presto cadrà nella morsa del Barone, esattamente come è accaduto con me. Ed io non posso permettere che anche tu patisca quello che affligge me. –

-         E quindi dovrei accettare la sua proposta unicamente perché tu non puoi dimostrare la tua innocenza? – chiese cadendo sul pavimento freddo. L’ampia gonna si gonfiò al soffice cadere e ne raccolse la figura gemente.

-         Jenny! – esclamò Philip col volto contratto dal dolore. Si chinò accanto alla giovane donna e levò una mano sul suo capo, accarezzandone i morbidi capelli.

Rimase così, a rimirarla nella drammaticità di quell’espressione, dell’attimo in cui la stava lasciando perché impotente di fronte ad un destino avverso.

I raggi del sole sembravano fasci dipinti da pittori impressionisti: ne lambivano i contorni quasi a volerle conferire un’aura d’estasi, e lui non aveva parole da sussurrare a quella fanciulla tanto amata.

- Amore mio, cuore della mia vita…potrai mai perdonarmi per averti procurato si tanta sofferenza? – le chiese intrecciando le dita a quelle di Jenny.

- Stai con me Philip…resta con me, in tutti i miei giorni, in quelli cupi, in quelli radiosi…in quelli passeggeri in cui dovremo celarci ai volti della gente. Solo tu puoi salvarmi Philip, noi siamo nati per stare insieme. Tutto oramai è meno di nulla, tu sei stato il mio passato, tu sei il mio presente, resta per essere il mio futuro. Cammina al mio fianco Philip, non mi abbandonare. – lo supplicò con il volto oramai avvinto da una maschera di dolore.

Philip la tirò a se e poi le prese il volto tra le mani.

-         Jennifer Gatsby, mai nessuna donna avrà il mio sguardo. A nessuna lambirò le labbra. Nessuna si beerà delle mie carezze. Solo tu e nessun’altra, angelo del mio cuore. – sibilò sfiorandole le labbra con un dolcissimo bacio.

Rimasero così, appassionati nel più semplice e puro contatto d’amore, a respirare quel sentimento che consapevolmente nutrivano vicendevolmente.

-         Addio amore mio. Quando avrò compiuto la mia missione, tornerò da te. Tu…per sempre! – esclamò poi levandosi e dileguandosi in un batter d’occhio.

Jenny rimase immobile, nello stupore di quell’attimo, della promessa, del bacio che si erano scambiati, forse l’ultimo, dell’afflizione di una relazione che non avevano potuto palesare agli sguardi della gente, di cui non avevano potuto che godere nel silenzio e nelle ombre.

 

 

 

******

 

Hanna  e Thomas uscirono dalla stanza con volto stanco ma soddisfatto.

-         Allora? – chiese impaziente Benjamin appena vide l’amico.

-         Sta bene. E’ una donna forte e si sta riprendendo con invidiabile velocità. Qualche giorno di riposo e il calore domestico la restituiranno piena di vita e giovamento. –

-         Le avete chiesto cosa è accaduto? – domandò ai coniugi Becker.

-         Ha detto che si è persa nel bosco e poi è stata presa in trappola da due uomini che avrebbero voluto abusare di lei. Fin quando, fortunatamente, non siete giunti tu ed Oliver a salvarla. Le ho detto che sei qui. Vuole vederti. – concluse Thomas quasi esasperato dalla presenza invadente di Benjamin Priceton.

Ma il giovane Lord sembrava il dipinto del giubilo all’udir quelle parole.

Lo sguardo intrigante ma pur sempre spaurito della bella fanciulla gli era entrato negli occhi e nel cuore e per nessuna ragione, desiderava perdere l’occasione di incontrarla.

Senza attendere oltre, bussò alla porta che li divideva, e attese che la flebile voce di lei assentisse che si valicasse l’uscio.

Lui, così libertino ed egocentrico, istrione dei salotti mondani, si trovava all’improvviso a vestire i panni di un giovane timido ed impettito, insicuro sul verbo da utilizzare verso una giovane che non doveva compromettere perché lo aveva inconsapevolmente sedotto laddove nessuna era riuscita: nell’anima.

Non riusciva a non pensare a lei, agli occhi velati da cristalli di ghiaccio, dove l’infinito sembrava perso oltre un orizzonte che lui bramava di raggiungere.

E nell’attimo in cui lei era così prossima al suo sguardo, un nodo gli serrava la parola e un fremito lo percorse fino a fargli tremare anche le mani.

Con un gesto più usuale che consenziente, abbassò la maniglia ed aprì la porta verso l’interno della stanza.

Il tepore dei tizzoni scoppiettanti era tale che lo investì nel suo dolce profumo e lo avvolsero come in un tiepido e morbido manto.

La sinuosa figura era nel letto, con la schiena e il capo adagiati su soffici guanciali rivestiti di federe abilmente ricamante e i capelli scuri riversi d’un lato, lasciando scoperto il collo dall’altra parte.

Lei lo rimirava, mentre il sole mite del mattino filtrava appena dalle tende semichiuse e le lingue di fuoco danzavano sui muri dipingendo figure conturbanti.

Le parve più alto e prestante del giorno precedente, quando nel bosco l’aveva difesa e salvata dai due bravi.

I capelli scuri di lui parevano intinti nella pece e l’andamento cavalleresco e non baldanzoso ne contraddistinguevano la chiara appartenenza al ceto aristocratico.

Erano ad un passo l’uno dall’altra, due perfetti sconosciuti, con gli sguardi che si cercavano, carezzavano disperatamente in un’alchimia che li vedeva appassionati in uno strano gioco di ruoli. Come in una favola dai sapori antichi, lui, il bel principe, era corso a salvare la donzella in pericolo.

Ma quello che leggevano nei rispettivi occhi, così profondi ed infiniti, era qualcosa che forse, avevano già sibilato in un non lontano passato.

Il presente pareva averli restituiti l’uno all’altra e il futuro, così incerto, li avrebbe forse visti protagonisti di una scena alquanto insolita ma che avrebbero sicuramente brandito appassionatamente.

 

 

(*) La citazione mi è stata dedicata! Era talmente bella che non potevo esimermi dall’usarla. Thanks a lot my DArling!

Scuse infinite a tutti coloro che hanno atteso trepidanti l’aggiornamento. Chiedo sinceramente venia. Il capitolo era pronto da circa due mesi ma varie problematiche hanno procrastinato la pubblicazione.

Inoltre, colgo l’occasione per scusarmi con tutti coloro di cui stavo seguendo le storie e di cui ho sospeso le letture e indi anche le recensioni. Non è cattiva volontà, la mia, credetemi, semplicemente mancanza di tempo e varie problematiche che mi riempiono costantemente la giornata. Spero di avere qualche giorno di tempo, durante il ponte natalizio, per scaricare i vostri aggiornamenti e cercare di mettere al passo con le letture.

Il prossimo chappy sarà sicuramente pubblicato prima di Natale: sarà il mio regalo per tutti voi, e descriverà in pieno una scena d’amore, quindi sarà interamente o quasi (ancora non lo so) dedicato ad una delle coppie più chiacchierate di questa fanfic. Parlerà d’amore, del sentimento più vero, nato da un’alchimia, da uno sguardo, da una sinfonia di emozioni che due persone vorranno e sapranno condividere.

 

Ringraziamenti a tutti coloro che mi seguono con affetto e un abbraccio speciale a DA, Sery e  Ale K. Senza di voi, lo sapete, non saprei come andare avanti! Scopri di avere delle persone accanto, quando ne senti davvero il bisogno e quando queste persone, si dedicano a te senza chiederti nulla in cambio, nonostante, alcune di loro necessitino di aiuto, più di te. Baci immensi. Ale

 

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Capitolo 13
*** Il dolce meriggio ***


ORCHIDEA SELVAGGIA

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

Il dolce meriggio

 

Capitolo 13

 

 

Assorto nei pensieri, colto da improvviso calore, si appoggiò allo stipite della porta intento a rimirare il crepuscolo accendersi sulla neve.

La bellezza di quello scenario era incredibile. La natura sembrava aver intinto i propri pennelli nella tavolozza di uno stimato artista e stava dipingendo con sublime maestria un quadro di ineccepibile e inenarrabile magnificenza.

L’oro profondo dei raggi del dì si era lentamente infiammato di un intenso carminio sfumando nel rosa, per immergersi prima nell’indaco e poi nel cobalto: si rese conto che da profano, avrebbe avuto bisogno di un poeta che con così tanta passione avrebbe potuto scrivere i suoi versi d’amore al ritmare intenso e dolce di quel lento sfumare.

Lui, reo di non aver mai approfondito le arti e le meraviglie che ne derivavano, comprese in quel momento che in fondo, aveva sempre desiderato per se, una donna che amasse i suoi stessi colori (*).

Il manto bianco che si estendeva a perdita d’occhio tra le brughiere, aveva trasformato il paesaggio in un pittoresco quadro da salotto.

Il crepitio di un ramo ardente nel camino lo distolse dall’ammirare una giovane luna apparire timida nell’immensa volta.

Mosse il calice di cristallo e il liquido scarlatto ondeggiò sinuosamente tra le curve trasparenti. Ne aspirò il profumo serrando gli occhi quasi a voler imprimere l’intenso aroma del bouquet fiorito e delle note agrumate del vino liquoroso che stava degustando. Lo portò alle labbra assaporandone qualche goccia, passandosi lentamente la lingua da un angolo all’altro con fare risaputo e minuzia studiata.

Riaprì gli occhi, destato nuovamente dallo scoppiettio nel focolare.

Si volse verso l’uscio che affacciava nella stanza degli ospiti.

I suoi occhi sempre vigili parvero catturati da un qualcosa che andava oltre l’imponente scenario della natura.

Quanto aveva già sentito, quel brivido che l’aveva percorso lungo tutta la schiena e che l’aveva inebriato in un solo istante, sembrava adesso essere solo il primo di tanti sussulti che si rincorrevano sotto pelle.

 

Avvolta in un telo di seta bordeaux, Isabelle incedeva lentamente nella stanza. I capelli lunghi e neri ondeggiavano morbidi ad ogni suo passo balzando tra le spalle nude.

Disegnò la lunghezza della chioma che dalla fronte alta scendeva fluente, fino ai fianchi appena sollevati perché le evidenti bellezze dei glutei non fossero lasciate all’immaginazione maschile.

Confortata dal calore del camino, la fanciulla attese qualche istante rimirando l’abito semplice e immacolato che la consorte del dottor Becker aveva adagiato sul letto. Apparentemente ignara dell’acuto osservatore, Isabelle lasciò scivolare il telo lungo quel flessuoso corpo che avrebbe indotto qualsiasi uomo a sogni proibiti.

La giovane e intrigante si offriva così ai suoi occhi, nella piena nudità di un corpo suadente e giaciglio di perfetta femminilità.

I seni grandi si ergevano fieri a troneggiare su una vita stretta e esile che ricordava tanto la perfezione di una statua neoclassica, ove nel marmo, lo scultore aveva attinto all’estro di sublimi maestri per concepire un’opera degna di nota.

Isabelle si voltò verso l’uscio e il suo corpo si offrì a Benjamin in tutta la perfezione.

Tra le gambe lunghe e ben tornite regnava tutta la sua femminilità, quella che lui tante volte aveva violato provando e adducendo estremi piaceri ma che mai, come in quel momento lo vedeva coinvolto da una insolita passione.

Non riusciva a staccare gli occhi dalle ombre che il calar della sera e le fiamme danzanti riproducevano sulla pelle serica.

Pareva poter sentire il profumo esotico dei sali da bagno che la cameriera le aveva messo a disposizione su ordine della signora Becker.

Sbatté le lunghe ciglia nere arcuandole con fare sensuale. La penombra dipingeva le labbra di un porpora scuro. Le smosse quasi a sibilare un impercettibile canto d’amore.

Senza attendere oltre tempo, Benjamin posò il calice su un tavolino avvicinandosi adagio all’uscio che lo divideva dal suo sogno proibito. Lei levò lo sguardo e, maliziosamente, si accorse finalmente della figura maschile che avanzava verso di lei.

 

Il giovane Lord Priceton sembrava l’Adone di un canto greco. La camicia bianca di seta gli scendeva morbida lungo il torace perfettamente scolpito e i pantaloni scuri fasciavano un intreccio di muscoli che attendevano solo di tendersi al canto dell’amore.

Senza emettere alcun suono, Isabelle si portò un braccio al petto coprendo i seni fieri e la mano al basso ventre nel tentativo di occultare la sua generosa femminilità.

Per nulla imbarazzati, l’uno dall’altra, continuarono a fissarsi, mentre il lento incedere si era trasformato in un palpabile respiro.

Lei poteva sentire tutta la sua mascolinità, sotto la pelle ambrata, che attendeva solo di essere esternata a quell’oggetto di desiderio.

I suoi occhi neri bruciavano di un’intensa passione, qualcosa che, ne era certo, non aveva mai provato prima di allora.

Lei pareva poter avvertire l’ardente fuoco alimentare lo sguardo rovente ed evocante amori inenarrabili.

Levò le braccia verso la donna e gentilmente scostò le sue, scoprendo, ancora una volta, il corpo nudo e perfetto.

Serrò momentaneamente gli occhi quasi a voler imprimere nella sua mente ogni singola fibra di quel disegno di rara perfezione. Poi, con un gesto impulsivo, l’attirò a se e lei trasalì avvertendo subitaneamente la sua evidente mascolinità mal celata dagli indumenti.

La sensazione che provò fu travolgente allorché lui le mosse i capelli e con fare sicuro lasciò che le sue carezze scendessero dal collo fino a chiudersi a coppa sui seni.

Erano lì, tra le sue mani, in attesa solo di esser sfiorati e baciati.

Si allungò su di lui coinvolta da quell’attrazione fatale. Le agili e lunghe dita si insinuarono sotto la morbida seta slacciando la camicia con abilità. Quando il torace rimase nudo, lei trasalì carezzando il petto perfettamente disegnato. Poi le sue dita salirono lungo il mento volitivo e le labbra sottili, sfiorandone gli angoli e carezzando, con il dorso delle mani, le gote e gli zigomi superbi.

C’era ben poco che le loro fantasie potessero ancora immaginare. Con movenze esperte, le dita esili sciolsero dolcemente i bottoni dei pantaloni dalle asole e, scendendo lentamente sulle ginocchia, accompagnarono quel movimento quasi a volersi accertare che il corpo perdesse anche il suo ultimo velo.

Benjamin lasciò che la giovane donna gli sfilasse le calze prima e le scarpe poi, facendolo rimanere nel soffio di un attimo, completamente ignudo.

Avvertì, quasi scottante, il calore del camino sulla sua pelle. E lei lo vide come il Dio Apollo, dalla magnificenza indescrivibile, incorniciato dai flutti dorati e dalle ombre del meriggio che si stemperavano ovunque poliedriche e soffuse.

Inebrianti furono le carezze che Isabelle fece susseguire sulla pelle, salendo con fare sensuale dalla punta dei piedi a fianchi del giovane.

Senza mai distogliere lo sguardo o dare eco ai gemiti che fremevano dentro lui, Benjamin intrecciò le dita a quelle della ragazza, ancora ferme sui fianchi larghi.

Fece presa sulle mani invitandola a drizzarsi.

Quando la sua bella e misteriosa figura gli si parò ancora negli occhi, travolto da una sgorgante passione e dalla brama di possedere quel corpo, le prese il volto tra le mani e lo attirò a se.

Non concedendole un attimo per respirare, si avventò quasi furioso sulle labbra intinte di scarlatto, baciandole con insana brama. Isabelle sentì la pressione delle labbra sulle sue, la lingua cercare la sua e aprire con sicurezza quel bacio, alla ricerca di una profonda eco e di un gesto intimo e che avrebbe potuto e dovuto togliere il fiato ad entrambi.

Allorquando le loro labbra furono stanche di cercarsi in una frenetica movenza, Benjamin non attese oltre, spingendo Isabelle sul giaciglio.

Il corpo disteso nell’alcova gli parve ancora più prezioso di quanto non avesse potuto constatare negli istanti precedenti.

L’eburnea pelle sfidava la brillantezza dell’alabastro più perfetto. Gli intensi occhi di ghiaccio parevano celare segreti infiniti che lui avrebbe voluto svelare.

Prese ad accarezzarle il corpo con un susseguirsi di movimenti che scatenarono in lei il piacere infinito dell’amore.

Quando ne fu sazio, invitato dalle braccia femminili, non attese oltre, stendendosi e avvinghiandosi alla donna per rotolare insieme in un susseguirsi di abbracci e intrecci che nulla avevano dell’amore etereo e platonico.

Stanchi di inseguirsi tra carezze bramanti e baci rubati ai loro respiri, gemettero insieme di acuto piacere quando i loro corpi si fusero in un’unica emozione sentendo, insieme, fluire la vita sotto la propria pelle.

 

 

 

 

 

 

 


 

Fonte d’ ispirazione di questa voluttuosa immagine, è stato il quadro “Il Chiavistello” del pittore francese J.H. Fragonard.

Nel quadro è riproposta l’immagine di un letto disfatto, alcova perfetta di un amore appena consumato, e di una donna appassionata, abbracciata all’amante che sta andando via.

Sebbene non sia la medesima scenografia da me riproposta, quello che maggiormente mi ha colpito del dipinto sono stati i panneggi meravigliosamente intinti nel rosso e nell’oro, l’enfasi del gesto che ripropone un melodramma quasi scabroso poiché si colgono gli amanti in flagranza di un amore adultero. Nel quadro è dipinta anche una mela che, secondo alcuni, riporterebbe al simbolo del peccato originale. Il calore soffuso nel dipinto è sicuro magnetismo agli occhi di quanti amano l’arte della pittura.

 

 

 


E’ un dipinto al quale sono particolarmente affezionata per il grande sentimento che mi lega alla persona con la quale ho scoperto, condividere la passione di questi due amanti.

 


A DA. Non hai bisogno di leggere tutto questo per sapere…ti basta volare oltre i prati immensi che spaziano verso l’infinito…é l’immagine che più ami ricordare.

 

 

Ad Alex Kami. Avevi già letto l’anno scorso la bozza di questo capitolo e ti eri emozionata. Spero di aver fatto altrettanto con la stesura finale.

 

 

A SE. Non piangere ti prego. So che non è la coppia che avresti voluto, ma non temere: nel seguito della storia, ci sarà spazio anche per loro e cercherò di dipingere a dovere, un quadro perfetto anche per loro.

 

 

Ad Ale K. Un po’ ti ci vedo in tutto quest’amore passionale, lo sai? Vola sul tuo ottovolante, ma vai sempre più su…e ricordati, lasciati emozionare. Ale docet!

 

 


A tutti…grazie infinite per le vostre recensioni e per leggermi con costanza.

 

 

 


 

(*) La citazione in realtà dice “ho sempre desiderato una donna che amasse gli stessi colori che amo io”…ed io aggiungerei…”...abbiamo la fortuna, allorquando ci è concesso, di potercene beare…”.

 

 

 

 


        

Auguri auguri e ancora auguri a tutti per un travolgente 2008!

 

 

 


Se dovessi descrivere il 2007, allora vi direi che è stato un caleidoscopio di emozioni che non sempre mi hanno fatta gioire e che, nel finire, mi hanno fatto prendere decisioni particolari…dalle quali sto cercando di far risorgere Ale.

Un giorno, all’improvviso, qualcuno mi ha guardato, ed io di conseguenza. Nelle nostre tristezze, nei nostri tormenti, quei verdi prati immensi son volati nel mare profondo dei tuoi…e ci siamo semplicemente riconosciuti.

Sei stato il Dono più bello e senza di te, lo sai, non avrei potuto tornare a spiegare le mie ali, non avrei potuto rialzarmi, non avrei potuto Amare.

 

 

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Capitolo 14
*** Il Salone delle Feste ***


ORCHIDEA SELVAGGIA

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

 

Il Salone delle Feste

 

Capitolo 14

 

 

Arthur Gatsby si guardò intorno disegnando con minuzia il salone degli affreschi. Le recenti ristrutturazioni che aveva fatto apportare, avevano donato all’ampia sala un’immagine perfetta che ricordava i magnifici soffitti, le cappelle, i murali e le pale propriamente pennellati nelle dimore private e pubbliche dell’Italia artistica.

Lunghe braccia di cristallo si inarcavano tra i lampadari impreziosite da gocce di preziosi vetri di svariate forme e grandezze. Luci e colori riverberavano ovunque e il Conte Gatsby sorrise compiaciuto di quei bagliori dagli effetti prismatici.

La scalinata di marmo che conduceva al piano superiore era stata tirata a lustro e sui corrimani laterali si allungavano veli di organza e dispersi qua e là petali di rosa profumati.

Gli orchestrali erano già sistemati sul pianerottolo della scalinata e melodie di violini echeggiavano ovunque presagendo ad una serata dai toni raffinati.

Entro poco, la sala si sarebbe riempita di coppie danzanti, di colori sfavillanti che si sarebbero rincorsi in danze e movimenti artistici.

Il tintinnio di flutes di cristallo e l’argento dei vassoi avrebbe lasciato la scia tra gli invitati sorridenti, i cui volti sarebbero stati celati dalle maschere più classiche o da quelle più estrose.

Sarebbe stata una festa perfetta per annunciare il fidanzamento di Patricia e di Benjamin Priceton.

-         Mi sembri teso, preoccupato! – esclamò Lady Eleanor giungendo alle spalle del marito.

-         Perdonami cara, non ti ho sentita giungere. -. Lei sorrise amabilmente e lui seppe che qualsiasi cosa fosse accaduta, in lei avrebbe trovato rifugio per dubbi e incertezze.

La rimirò nell’abito azzurro che sembrava esser stato creato per essere indossato da lei.  Nastri di velluto cobalto ricadevano dal bustier sapientemente stringato e dai capelli raccolti in un’elaborata acconciatura.

-         Sei bellissima. Nessuna sarà più pregevole della mia adorata moglie. – sussurrò lievemente imbarazzato per il complimento volto alla consorte.

-         Arthur, sei sempre molto delicato nonostante il tuo aspetto possa trarre in inganno. – rispose cercando di allentare la tensione del momento.

-         E’ tutto pronto. Tra pochi istanti cominceranno ad alternarsi le carrozze e le porte si apriranno agli invitati più in vista della corte. –

-         Già. Sembra di essere in uno dei saloni reali. E’ tutto meraviglioso. – esclamò guardandosi intorno ed osservando con minuzia le composizioni floreali e le ghirlande a festone tra gli archi delle navate laterali, le statue marmoree che sembravano intinte nell’avorio più puro, le luci soffuse alternate a quelle ben più abbaglianti, le candele profumate sospese in ampolle di cristallo, i tappeti e la musica. L’atmosfera era magica e degna dei ricevimenti più belli e sofisticati mai organizzati prima di allora.

-         Mi chiedo, Eleanor, se stiamo facendo la cosa giusta. –

-         Caro, il Signore soltanto può giudicare. Tutto ha una ragione per esistere e se stiamo compiendo questo passo, per il bene di nostra figlia, lo stiamo facendo nella coscienza che sia per garantirle un futuro dignitoso. Se il destino avrà qualcosa in contrario, ne avremo segnali certi e potremo porvi rimedio. –

-         La tua saggezza mi impressiona come sempre. Se non avessi te…- sospirò prendendole una mano e baciandola lievemente. Lei gli sorrise ancora e a lui parve che le labbra gli avessero sfiorato il cuore.

-         Andiamo adesso. I nostri figli hanno bisogno di noi. – gli disse intrecciando le dita a quelle del marito e salendo su per la scalinata che conduceva al piano superiore.

-         Il giovane Priceton non smentisce la sua fama. E’ in ritardo anche oggi, in un’occasione che lo dovrebbe vedere finalmente nel ruolo che gli  è consono e in un comportamento non libertino e scellerato.-

-         Sono giovani e intemperanti. – rispose Eleanor sorridente.

-         Ho una strana sensazione Eleanor. Spero sinceramente che la leggerezza di Benjamin non comporti guai seri. - 

-         Qualsiasi cosa accada, vedrai caro, che si sistemerà. Qualsiasi fiume, anche quello in piena e più selvaggio, alla fine trova il letto in cui adagiarsi e divenire cheto. –

-         Lo spero vivamente. Forse è meglio che chieda notizie a Lord Priceton, visto che almeno lui è già arrivato.- ribatté poi.

 

 

 

Che Villa Gatsby fosse una delle dimore inglesi più belle, era dato certo. Per gli aristocratici del Regno, non poteva che essere fonte d’entusiasmo e piacere prender parte ad un ricevimento organizzato in tale sontuoso edificio. Dai viali antistanti, si scorgevano le luminarie che rifulgevano sui cristalli delle imponenti vetrate come stelle incastonate nel cobalto più denso della volta.

L’effetto era strabiliante e nel loro lento incedere verso la sala, gli invitati parevano inebriarsi dai profumi delle candele che disperdevano gli aromi esotici e dalle fragranze dei fiori. Festoni floreali si alternavano a nastri d’organza e seta tra i vari archi, richiamando le tinte che risalivano lungo i corrimani.

File di tavolini dai tovagliati in broccato si allungavano tra le navate con le loro balze soffici che ricordavano gli abiti delle cortigiane che in pochi istanti avrebbero danzato tra cotale sfarzo.

Il mormorio dei primi invitati si udiva dall’ingresso del salone, laddove due maggiordomi in livrea attendevano i nobili per accoglierli e raccogliere i mantelli e i cappelli.

Le imponenti porte del salone erano spalancate e un cerimoniere ingaggiato appositamente per la ricorrenza, iniziò, poco alla volta, a nominare con tono altisonante, le coppie di invitati che porgevano l’invito.

Arthur ed Eleanor erano al centro del salone, in attesa dei loro ospiti, con fremito e preoccupazione.

Accanto a loro, il figlio Julian in un abito amaranto che ne risaltava i lineamenti delicati.

Le giovani dame in cerca di marito anelavano ad un partito come Julian Gatsby, ma il cuore di costui era già promesso alla bella Amily Sullivan, la cui madre, diversamente, ambiva ad un matrimonio con Oliver Huttinton.

Julian sussultò quando i Sullivan fecero il loro ingresso e intravide la sagoma delicata di Amily.

Eleanor guardò il figlio con la coda dell’occhio e vide nuovamente, la stessa espressione innamorata che aveva scorto in precedenza.

Sorrise compiaciuta al sentimento che evidentemente legava i due giovani e in cuor suo sperò che almeno per il figlio, il matrimonio non dovesse essere di pura convenienza.

Amily incedette a pochi passi dai genitori, balzando nel suo abito verde dai riflessi dorati e che metteva straordinariamente in risalto la carnagione serica e il ramato della chioma.

I Sullivan salutarono i Conti Gatsby e poco dopo, Julian si inchinò a baciare la mano a Lady Muriel e della giovane Amily.

Quando sollevò e sfiorò la sua mano, coperta da un guanto profumato, Julian si sentì mancare il fiato e il verbo. Alzò lo sguardo leggermente per incrociare quello timido dell’amata scorgendo in lei, il barlume del sentimento che nutrivano vicendevolmente.

-         E’ un piacere per me avervi ospiti nella nostra dimora. Lord Sullivan, permettete che chieda a vostra figlia di concedermi l’onore del primo ballo? – chiese Julian ergendosi nella sua figura dai perfetti tratti mascolini.

-         Sarà un onore. – rispose sorridente e guardando la figlia, il cui bon ton imponeva di non contraddire la figura paterna.

Julian sorrise all’accettazione della richiesta e Amily rispose con un lieve cenno del capo, allontanandosi con i genitori verso il tavolo a loro riservato.

Il cuore di Julian palpitava così forte che temette potessero sentirlo tutti gli invitati sebbene l’aulica melodia ad inneggiare nel salone.

Le delicate e affusolate dita delle arpiste parevano scandire i nomi degli invitati unitamente alla voce del cerimoniere.

Le contessine Gatsby furono annunciate e Julian si apprestò a raggiungerle a metà scalinata per accompagnarle al centro del salone.

Gli invitati presenti, sollecitati dalla voce del cerimoniere, volsero lo sguardo verso il fondo della sala laddove i gradini si elevavano fino al piano superiore.

Lentamente, in perfetta sintonia, Jennifer e Patricia scendevano a passo cadenzato, i gradini che le dividevano dalla festa.

Tutti gli occhi erano puntati su di loro ed entrambe avvertirono un forte imbarazzo.

Con un sorriso di complicità e di affetto fraterno, Julian le raggiunse e le guardò estasiate.

-         Siete bellissime, dei fiori di inestimabile splendore. – disse loro con volto ridente.

-         Ho paura Julian! – esclamò Jennifer.

-         Jenny, devi esser tranquilla. Andrà tutto bene, vedrai! – ribatté il fratello prendendola sottobraccio.

-         Il mio promesso sposo non è arrivato? – chiese Patricia sarcastica e con tono tediato. Julian avvertì lo stato d’animo convulso e piccato della sorella minore e le tese il braccio come aveva fatto pochi istanti prima per Jennifer.

-         Non ancora Patricia. Non averne a male con i nostri genitori. Anche se non condividiamo le loro scelte, sono certo che lo stanno facendo unicamente per il bene della famiglia e di ciascuno di noi. –

-         Meno che per il mio. Sposare un prodigo arrogante, vanitoso e tracotante, non lo definirei proprio un bene per la mia persona. – rispose fingendo un sorriso di convenienza da mostrare agli ospiti.

-         Ne riparliamo in un altro momento. Non adesso. – la ammonì Julian cercando di non incalzare lo stato disanimato della sorella.

Arthur ed Eleanor osservarono le figlie che come due gemme preziose, avrebbero brillato di luce intensa tra tutti.

Il color malva dell’abito di Jennifer parve quasi impalpabile tra gli sfavillii della sala e le impunture, i bordi e i nastri bordeaux parevano adagiati sofficemente quasi come su una nuvola. Un’ametista dal perfetto taglio quadrato, riluceva preziosissima su un nastro di velluto bordeaux a cingerle l’esile collo. Due pietre gemelle pendevano dai lobi a rilucere tra i capelli scuri raccolti in una elaborata acconciatura.

Patricia sembrava altera e intoccabile in un abito di seta color champagne, impreziosito da merletti amaranti e fili d’oro. Tra i capelli bruni, un’orchidea dai toni crema screziata di porpora e maculata di oro.

Gli invitati rimiravano estasiati le giovani contesse, elegantissime nel lento ed aristocratico incedere, ma sapevano tutti, che Patricia era promessa in moglie e che per Jennifer era stata avanzata una proposta di matrimonio.

Ma nonostante gli impegni per ambedue, ciascuno dei giovani scapoli presenti in sala, non poté non dissentire dalla sorte che non aveva fatto incrociare loro il cammino con una delle sorelle Gatsby.

Entrambe indossarono le mascherine di velluto e seta coordinate con gli abiti, idonee a celare gli sguardi e a volgerne altri chissà dove.

Patricia voltò i suoi occhi ovunque alla ricerca dell’avvenente Oliver Huttinton e del baldanzoso cugino.

Il Conte Gatsby guardò il direttore d’orchestra che comprese di poter dare inizio alle musiche che avrebbero aperto le danze.

Anche senza Benjamin Priceton e Oliver Huttinton, il ricevimento avrebbe avuto inizio. Il salone era gremito e non potevano attendere oltre lasciando i commensali alla noia e ad un mormorio fatto di pettegolezzi.

 

Un fremito la percorse e uno stato d’ansia improvvisamente si impossessò di lei. 

Avvolto in un completo bianco dagli orli d’argento, un cappello a tesa ampia ed una larga maschera argentata a celarne il volto, Benjamin Priceton fece il suo ingresso destando la curiosità dei tanti presenti.

Patricia lo guardò gelida da dietro la sua maschera, quasi a cercare di contenere il moto di rabbia che stava nascendo dentro lei.

La sua insolenza era tale ed evidente, che avrebbe voluto andargli incontro e schiaffeggiarlo anche solo per rimproverargli il ritardo nel giorno in cui sarebbe stato annunciato il loro fidanzamento. La sua tracotanza sembrava sposarsi perfettamente con irriverenza.

Senza esitare oltre, Benjamin incedette nel corridoio lasciato libero dagli invitati, proseguendo a passo scandito verso Patricia.

-         Patricia, siete il più bel fiore nascosto dietro il manto di una cascata fresca, e vorrei potervi porre al riparo delle brutture di questo mondo, lì, nella caverna che si cela dietro la caduta d’acqua!. – le disse chinandosi a baciare la mano alla futura moglie.

Patricia ascoltò quelle parole attonita ringraziando di avere la maschera a celarle il volto.

Il cuore le palpitava così forte in petto che temette, per un attimo, che qualcuno potesse scorgerlo dall’ampia scollatura dell’abito.

Per un istante avvertì un fremito percorrerla tutta e le gambe quasi venirle meno.

Lei che aveva da sempre sognato di vivere come un’eroina dei romanzi d’amore, adesso era oggetto di una frase tanto galante quanto dichiaratamente d’amore.

Il verbo le mancava.

Cosa avrebbe potuto rispondere a quella voce così suadente e che le era entrata nel cuore come un dardo infiammato?

La voce, così melodica, così dolce, così nota a lei.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** Nuda verità ***



 

ORCHIDEA SELVAGGIA

 

 

Nuda Verità

 

Capitolo 15

 
 
 
 
La rigida brezza dei mari del nord sembrava non intimorire il Visconte Bruce Arper.
Silenzioso, rimirava la prua incedere velocemente tra le acque, aprendo solchi spumeggianti il cui biancore contrastava con il plumbeo tono di febbraio.
Si lisciò i baffi sottili portandosi la pipa tra le labbra. Aspirò il tabacco che emanò un gradevole profumo speziato.
Intirizzito dalla temperatura poco mite, si aggiustò il bavero del soprabito, sempre più perso tra i pensieri.
Di ritorno dall’ispezione segreta nelle Indie, il Visconte Bruce Arper aveva con sé tutto il materiale cartaceo che dimostrava alla corte inglese la corruzione di alti ufficiali e nobili di stanza nelle Indie.
Aveva inoltre la deposizione di uno scrivano di Bombay di nome Murudeshwar, al quale erano state prese in ostaggio e violentate due delle figlie, e al quale, qualcuno di molto importante, aveva chiesto di redigere atti falsi in cui risultavano errori di assegnazione delle cave di gemme preziose.
Dalle nuove assegnazioni, risultavano nomi talmente importanti e altisonanti che avrebbero fatto tremare la Corte.
  • Visconte, domattina attraccheremo a South Hampton. – sibilò alle sue spalle Ted Carter.
  • Sì, e poi ci aspetta il viaggio verso Londra. – rispose serafico.
  • E’ preoccupato? – gli chiese con tono confidenziale.
  • Amico mio, sei al mio servizio da così tanto tempo che oramai conosci bene i miei sguardi e stati d’animo. Sono basito, sconcertato, dal nostro ultimo viaggio nelle Indie. La corruzione della nobiltà inglese, la lussuria e la lascivia con la quale stanno governando la colonia in nome e per conto del Regno, è quanto mai avvilente e ripugnante. L’effige del nostro antico Regno, dei casati più antichi e nobili, messi alla mercé di qualcuno che con passo arguto e felino, ha tessuto una trama perfetta dalla quale sarà difficile uscirne indenni. – disse a tono basso aspirando ancora dalla pipa.
  • Quand’ero bambino, mio nonno esigeva che si studiasse la storia della nobiltà inglese, l’importanza dello stemma reale, la genealogia dei regnanti, affinché formassimo la nostra mente nella loro importanza, affinché amassimo il paese per il quale un giorno avremmo dovuto imbracciare menti e armi. E adesso, nemici ancor più vili di semplici combattenti con un fucile tra le braccia, ordiscono trame inquietanti finalizzate alla cupidigia e al potere più oscuro. –.
Al suo fianco, Ted Carter sospirò. Quanto aveva appena sentito, non faceva che confermare i timori di quanto, la documentazione raccolta, fosse scottante.
L’uomo che da anni seguiva fedelmente, era in pericolo. Tutto quello che solo lui sapeva e di cui non aveva voluto parlare con alcuno, era di importanza vitale. Doveva proteggerlo, a costo della sua stessa vita.
  • Sarà meglio rientrare. Fa freddo e domani ci aspetta un lungo viaggio. –
Il Visconte guardò Ted e gli sorrise affabile.
 
La seta e l’organza color champagne sembravano disegnare un’ellisse perfetta intorno al niveo e argenteo cavaliere. Gli invitati rimiravano estasiati la bellezza della coppia che, al centro del salone, danzava con grazia e sicurezza al canto dei violini.
 
Patricia rimirava il promesso sposo incuriosita dalla sua abilità nell’arte della danza. Sapeva di lui che era noto per l’indole amatoria ma ben lungi dal sospettare che avesse anche una particolare inclinazione verso il ballo.
  • Non avete proferito parola… - sussurrò lei fissando la maschera che ne celava il volto.
  • Patricia, sei splendida. La tua bellezza non ha eguali e l’orchidea che hai tra i capelli è poca cosa in confronto al tuo volto. Lontano, nelle terre d’oriente, ho talvolta pensato a te e oggi che sei tra le mie braccia, vorrei solo poterti stringere e portar via dagli sguardi indiscreti. Desidererei parlarti delle luci che illuminano le notti tropicali, laggiù dove i canti notturni fluttuano tra i profumi delle spezie.– pensò non distogliendo gli occhi dall’oggetto della sua mente.
  • State bene Lord Priceton? – chiese di rimando alla mancata risposta, pervasa da una leggera inquietudine – che io sappia, non siete solito tacere e i vostri eloqui sono risaputi, sebbene me ne sia sempre astenuta in precedenza. – continuò invitando il cavaliere alla risposta.
  • Patricia… - sussurrò, in tono quasi impercettibile.
 
Un brivido, rapido, gelido, le percorse la schiena.
Aveva già udito quel suono, quasi come lo spiffero di un vento che beffardo penetra da una feritoia. L’eco profonda aveva già risuonato nella sua testa e non certo per chiacchiere o dicerie.
Un lieve rossore dipinse le gote e un lampo di calore fluttuò sotto pelle.
  • Voi… - soffiò quasi lei, allorquando vide il cavaliere inchinarsi alla dama, quasi al termine della danza. Il cuore le era balzato in gola impedendole di emettere qualsiasi suono. Un nodo serrato le impediva di aggiungere altro a quel breve interloquire.
Lui la guardò ancora e le prese la mano in gesto di voler continuare la danza.
Negli occhi, non celati dalla maschera, lei scorse la profondità dell’onice, così scura e abissina da sentirsene avvolta.
  • Voi…non siete… – esclamò, quasi in un rantolo, tra lo stupore e l’imbarazzo.
  • Mi perderei ogni istante nei tuoi occhi, abbandonandomi come l’Amore tra le braccia di un fiume…- rispose di getto il cavaliere.
 
Quella frase si insinuò nel petto come una freccia scagliata da un arco: improvvisa, repentina, la avvertì in tutto il suo calore, così bruciante da farla avvampare.
In quel momento, udì solo il battito del cuore. Intorno a lei, i violini non suonavano più, i ticchettii delle scarpe con calpestavano il marmo, i calici non emettevano tintinnii ai brindisi goliardici.
Il frastuono era tale che temette lui potesse udire. La conduceva nella danza con la maestria, senza lasciare che alcuno potesse avvertire il turbamento della sua dama.
  • Oliver… - biascicò.
Sul volto di lui si dipinse un lieve ed amabile sorriso, lo stesso che lei aveva già veduto in altre occasioni e che l’aveva piacevolmente conquistata.
  • Patricia, io…
  • Che scherzo è mai questo? – chiese lei impetuosa riacquistando il suo fervore dopo l’attimo di sbandamento.
Lui accusò violento il tono di voce con cui lei parlò.
  • Dovremmo parlare. – disse lui con tono quieto, facendola volteggiare per la conclusione del ballo.
  • Merito una spiegazione, questo è certo! – rispose fervida.
  • Allontaniamoci. – le disse tenendole ancora la mano e conducendola con grazia sotto una navata laterale, distanti da occhi indiscreti.
Gli invitati non si accorsero di come l’affascinante coppia si era eclissata in un salottino al margine della navata.
Patricia incalzò all’interno del confortevole ambiente, le cui pareti erano rivestite di seta damascata d’un tenue verde salvia.
Gli appliques murali con abat-jours in seta, d’un discreto color lino, erano riccamente rifiniti da cordoncini d’una sfumatura verde intensa. Le luci flebili illuminavano l’ambiente in un’atmosfera intima e soffusa.
Una porta finestra troneggiava sulla parete principale, artisticamente celata da tendaggi di seta che ricordavano le verdi lande mediterranee.
Sulle pareti laterali, spiccavano quadri di paesaggi inglesi abilmente dipinti dalla sapiente maestria di un nobile artista.
  • Allora? – incalzò lei abbandonando la mano di Oliver quasi con impeto, e appoggiandosi leggermente ad un sofà. – Perché questa buffonata? Che succede? Dov’è Benjamin Priceton? E’ una delle sue trovate? – indagò con trasporto abbassandosi la maschera.
  • Patricia, mi dispiace per questo inconveniente ma naturalmente posso spiegarti. –
  • Oliver Huttinton! – esclamò lei con interessato trasporto dipinto in volto. Lo sguardo della giovane dama era cupo e furente. I suoi occhi, corrugati in una smorfia di disappunto, denotavano quanto fosse disanimata dalla celia ai suoi danni.
  • Patricia, è vero, è stato mio cugino Benjamin a chiedermi di prender parte in sua veste, ma… –
  • E non è venuto in mente a nessuno dei due che questa buffonata coprirà di ridicolo me e la mia famiglia? Lord Priceton mi ha chiesta in sposa per suo figlio, e il suo prodigo discendente che fa? Nulla, o meglio tanto, considerato che si fa celia della mia persona. Questo ballo è stato organizzato in occasione della proposta di matrimonio e invece non è altri che una farsa. Sarà stato anche quel damerino di Benjamin Priceton ad orchestrare il tutto, ma io, al mio cospetto, vedo Oliver Huttinton, consapevole e complice di questa pantomima. Non posso che dissociarmi da tutto questo Oliver e sono sinceramente costernata e provata dall’atteggiamento assunto nei miei confronti. –
  • Patricia…- riprese lui chinando lo sguardo. Si era tolto la maschera affinché potesse sostenere la vista della dama senza alcun timore. – Mi faccio altresì ambasciatore della missiva di mio cugino che non convolerà a nozze perché il suo cuore è già oltre. – le disse guardandola.
  • Finalmente una buona notizia. Almeno non dovrò sottomettermi alla sua presunzione. – rispose lei sostenendo quegli occhi neri in cui sembrava ardere il carbone.
  • Oliver, non mi guardare così, perché le mie difese stanno vacillando e non so per quanto altro potrò sostenere un atteggiamento iracondo, senza prima crollare tra le tue braccia. Cosa dicono i tuoi occhi con tale veemenza?– pensò lei, oramai pregna del profumo di lui.
  • Patricia, non è mia indole essere fuori luogo, tantomeno in circostanze particolari come queste, ma credimi, il tutto è stato fatto in buona fede. Benjamin non desidera sposare una donna che non ama, e certamente, tali parole proferite da lui possono sembrare inverosimili, ma quando gli ho parlato, lui era sincero e preso con grande trasporto da un’altra dama. –
  • Sono contenta per lui! – rispose quasi indispettita dall’esser stata messa da parte ad appannaggio di un’altra donna. Si drizzò e continuò a rimirare Oliver con sguardo bruciante.
  • Patricia, - riprese il cavaliere con tono più dolce e affabile, palesando imbarazzo e timidezza sul volto, - se mi sono permesso di avvallare mio cugino in questa follia, è unicamente perché ritengo che la sua scelta sia la più giusta nei tuoi confronti. –
  • Oliver Huttinton, come sai quale possa essere o meno la scelta più consona per la mia persona? – gli domandò in tono di sfida verso colui che evidentemente aveva un notevole ascendente su di lei.
Lui sorrise e si passò una mano tra i folti capelli scuri.
  • E’ giusto! Io non posso sapere cosa sia giusto o meno per qualcuno, ma essere artefice solo del mio cammino. Patricia, se uso un tono così confidenziale, senza aver prima chiesto il permesso, è unicamente perché spinto da un sentimento sincero di profonda stima nei tuoi confronti e verso la tua famiglia. - aggiunse cercando di attenuare l’accento di una conversazione poco rilassata.
Lei si allontanò di qualche passo, voltandosi leggermente. Lui poteva scorgerne il profilo perfetto, la pelle cerea illuminata dalla fioca luce. La sua figura sembrava essere la perfetta immagine riprodotta su una tela da un nobile e sapiente artista.
La chioma scura riluceva di fili cremisi, in una perfetta sintonia con l’orchidea e i nastri dell’elegante abito.
  • Credimi! –
  • Ti fai celia di me, Oliver Huttinton! – esclamò risentita guardandolo dritta negli occhi.
Lui avvertì quello sguardo sferzante, evidentemente sdegnato dal gioco ordito alle sue spalle.
  • Ti chiedo scusa per quanto è accaduto, ma se non avessi accondisceso, se avessi convinto Benjamin a prender parte al ballo in veste ufficiale, allora forse, il fidanzamento prima e il matrimonio dopo, avrebbero avuto il loro corso. –
  • Ebbene? Non era forse così deciso? – incalzò lei stringendo le dita in pugni serrati.
  • Non da te. Non era quello che avresti voluto…- le rispose rimirandola con tenerezza e affetto.
  • Oliver Huttinton! Non mi guardare così. Non devi. Il nostro destino è tessuto dalle nostre famiglie. Io sposerò Benjamin Priceton e tu un’altra nobile dama, forse, come qualcuno sussurra, Amily Sullivan, così tanto amata da mio fratello Julian. Dio solo sa se il mio istinto non voglia adesso che tu prenda il mio corpo in un intenso abbraccio, respirandone il profumo e lasciando che possa fluttuare tra i tuoi più reconditi pensieri.
Dalla navata giungeva la musica intonata dagli archi, artisticamente orchestrata per l’evento. Il brusio di sottofondo si accompagnava ai tacchi e ai cristalli.
Il cavaliere le si avvicinò a piccoli passi per non intimorirla. Con il capo chino dinanzi a lei, le prese le mani tra le sue, avvertendo un leggero tremolio, dettato dall’incertezza e dall’imbarazzo del momento.
  • …se non guardassi già da tempo oltre, probabilmente tu non mi avresti visto, perché io, non mi sarei lasciato vedere, e tu, di conseguenza…- mormorò guardandola con ardore.
Percorsa da un interminabile brivido, Patricia sentì tutte le sue difese venir meno, e la sua sicurezza, vacillare tra le ardite parole del giovane duca.
Inconsapevole, sorpresa dallo slancio, dalla passione, dal trasporto di quelle parole, continuava a tacere senza smettere di rimirarlo.
Gli occhi ardenti di lui si posarono sulle labbra scarlatte, così vellutate da far invidia ad una splendida rosa.
Strinse ancor più le sue mani, quasi a volerle trasmettere il battito che udiva dal suo petto, così irrefrenabile da avvertirne l’eco.
Erano così vicini che poteva captare il dolce profumo della sua candida pelle, così perfetta da sembrare di marmo.
Le linee dell’ovale scendevano lungo il collo, arcuandosi sulle morbide spalle e discendendo in una generosa scollatura che evidenziava tutta la sua femminilità.
In quell’istante, Oliver avvertì il desiderio compulsivo di vietare che altra mano potesse sfiorare quel corpo immacolato e che solo a lui fosse data l’opportunità di amarlo in tutta la sua magnificenza.
  • Patricia! – esclamò la voce irrompendo nel silenzio.
La porta si era aperta del tutto e Julian scorse l’immagine della sorella completamente assorta dello sguardo di Oliver Huttinton.
  • Patricia… - disse con voce bassa, imbarazzato per aver assistito ad un attimo di tale intimità.
  • Julian…- rispose lei guardandolo, quasi rintronata dal profumo della passione.
  • Ti stavo cercando. Devi venire con me. – rispose reclinando lo sguardo.
La giovane contessa rimirò il cavaliere sciogliendosi dalla presa e volgendo in basso gli occhi.
Poi li levò per guardare il fratello, incedendo verso di lui.
Si fermò un istante.
La musica, il brusio delle voci, il ticchettio delle scarpe, il tintinnio dei calici.
Un silenzio tombale sembrava esser disceso sul ricevimento.
 
 
 
…potrei dilungarmi e spiegarVi le motivazioni di un così lungo silenzio…semplicemente, la vita dà e prende, inconsapevolmente, o magari, con estrema cognizione…nella solitudine, nella malinconia, nella sofferenza, la vita ti cambia e ti allontana da luoghi e persone, lasciando vuoti indefiniti.
 
Non posso palesare o promettere un ritorno certo, ma cercherò di scrivere sulla scia di un’improvvisa ispirazione, nei pochissimi ritagli di tempo rubati ad una pausa.
Grazie a coloro che mi conoscono, a coloro che si sono avvicinati da poco ai miei testi, a chi vorrà conoscermi…
A.
 
p.s. Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno lasciato recensioni ai miei scritti, in questi mesi, anni di assenza. Perdonatemi se non ho risposto ma solo recentemente, ho scelto di accedere nuovamente all’account…e rispolverare Scandros…Grazie ancora a tutti e perdonatemi se non ho risposto singolarmente per ringraziarVi.

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