Una bambolina di carattere

di darkronin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** E' il tempo a essere sbagliato ***
Capitolo 2: *** Ostaggio ***
Capitolo 3: *** Lo specchio è una creazione del demonio! ***



Capitolo 1
*** E' il tempo a essere sbagliato ***


4ͣ^ classificata e premio originalità al contest “La Ballata delle Emozioni” di phoenix_esmeralda sul forum di EFP

Salve a tutti, questa è una storia che avevo in testa da tempo. Voleva essere una long ma non avevo abbastanza tempo e voglia per sistemarla ma ho usato l'idea di base per questo Contest.
Per chi fosse curioso (e volesse spoilerarsi il finale, perché, lo ammetto, so essere abbastanza incasinata da far demordere il lettore) i dettagli dei giudizi saranno a fine pagina (la prima parte è inerente ai refusi davvero idioti di cui mi sono accorta anch'io leggendo ora -a distanza di mesi, però, a conferma che ho bisogno di molto tempo per non scrivere porcherie- o a tutta la punteggiatura di fine frase che purtroppo dimentico per strada e che mi è costato un bel 6.5). Non apporterò le modifiche che mi avrebbero permesso un punteggio maggiore per questione di correttezza.
A voi, come alla giuria, la storia così come è stata presentata. Solo sarà scaglionata perché è lunga 18 pagine...
E chissà, magari in futuro la riprendo e vi spiegherò tutte le cose che non vi dico :)
Buona lettura



“UNA BAMBOLINA DI CARATTERE” di DarkRonin

Emozione: disprezzo
Frase: “Sono quello che chiamavi se piangevi ogni sera, sono quello che un po’ odi e che ora un po’ ti fa paura.”

GIUDIZIO Khika Liz:
- Grammatica: 6.5/8
- Stile e Lessico: 7.5/8
- Originalità e credibilità della trama: 7/8
- Caratterizzazione dei personaggi: 7/8
- Sviluppo dell’emozione: 4/5
- Utilizzo della frase: 4/4
- Gradimento personale: 6/6
TOT: 42/47 punti







Una bambolina di carattere


Sembrava ieri. Eppure erano passate solo due settimane da che si era liberata della sua prigionia.
Alzò gli occhi al cielo, contemplando le nuvole bianche rincorrersi veloci su di in un prato azzurro. Di quando in quando, le scie degli aerei, dritte e inflessibili, si intromettevano nei loro giochi.
Le scie erano bizzarre: seguivano docili l'aeromobile; talvolta gli erano così affezionate da tralasciare subito il cielo azzurro per rincorrere la loro guida, a volte erano disobbedienti e lascive e si attardavano, languide, gonfiandosi alle spalle della loro guida nel tentativo maldestro di imitare una di quelle nuvole paffute che punteggiavano il loro viaggio, per poi arrendersi e dissiparsi in un ultimo tentativo di imitare la pesantezza dell'aria carica d'umidità che nascondeva la vista delle montagne. Quelle scie le ricordavano i lunghi bastoncini di legno che osservava danzare nelle bevande aranciate, leggermente alcoliche che, di quando in quando, le venivano servite prima di cena. Il liquido, come il cielo e come lei, si faceva un baffo di quella rigida intrusione e continuava il suo vorticare, deridendo l'austera figura che era convinta di imbrigliarne l'essenza.
Non ci aveva mai fatto caso ma era più che convinta che, prima della reclusione il cielo non avesse mai avuto simili interferenze. Ma doveva ricordare a se stessa che il mondo che aveva conosciuto era stato stravolto nel periodo in cui lei non l'aveva vissuto.
Non l'aveva detto a nessuno, temendo una punizione supplementare a quella per la fuga, ma aveva sbirciato, di sfuggita e del tutto casualmente, quella poca gente che aveva intercettato nelle sue lunghe camminate. Tanto per cominciare, le fogge degli abiti erano assolutamente scandalose e indecenti. Li trovava indecorosi lei, che aveva l'ardire di indossare un paio di vistosissimi bloomers. E i cocchi: erano completamente spariti, soppiantati in toto da strane automobili che nulla avevano a che vedere con i modelli più lussuosi che aveva conosciuto
E i treni! Se il cielo si era riempito delle scie bianche di numerosi stormi metallici si era ripulito di quelle nere della motrici a carbone e che ora vedeva sfrecciare, miracolosamente, in lontananza a velocità inaudite.
Eppure le terre che aveva imparato ad amare nel corso della sua adolescenza erano indubbiamente quelle.
Tante cose non le quadravano, constatò ancora una volta. Scappare e allontanarsi un po' ogni volta era l'unico modo per scoprire il mondo circostante. Ricordava la paura che aveva provato la primissima volta nel rendersi conto che qualcosa di grosso era avvenuto.
Vinta la paura, che le aveva impedito di tentare altre sortite nei giorni successivi, aveva cercato di analizzare la situazione, senza riuscire a trovarvi soluzione. Quello che la magione poteva offrirle, quanto a conoscenza, era già in suo possesso. Per tutto il resto, non poteva fare altro che attingere direttamente alla fonte.
Quindi, era scappata. Una volta sola. Poi un'altra. E un'altra volta ancora.
Probabilmente, in quel momento, i domestici la stavano cercando disperati. Ma, questa volta, lei aveva posto molta più distanza tra sé e i suoi nuovi carcerieri. Certo, erano gentili e servizievoli. E la prigione era più ampia, soleggiata. Ma era sempre una prigione da cui avrebbe dovuto esserle vietato uscire.
Sorrise. Lei era furba e scaltra. E non era certo docile e mansueta.
Chiuse gli occhi, del colore del cielo in tempesta e inspirò profondamente il profumo dei fiori di campo. Era diverso rispetto a quello a cui era abituata prima. Doveva essere stata la segregazione a cancellarle i ricordi olfattivi, pensò mentre il caldo sole di una giornata estiva, che si preannunciava afosa, le bagnava la pelle delicata come la neve.
Un improvviso, quanto fastidioso odore di zolfo, arrivò a coprire il tenue profumo dei fiori di campo. Si tirò a sedere, meccanicamente in allerta. Qualcosa di pericoloso, le suggerì la parte rettile del suo cervello, la stava per raggiungere. Tendendo l'orecchio, però, capì: un paio di persone stavano dando fuoco, manigoldi, a dei copertoni.
Se la memoria non l'ingannava, gli pneumatici vulcanizzati avevano al loro interno una qualche componente sulfurea che li rendeva più elastici. Ascoltò i loro traffici indistinti per qualche minuto, rapita dall'odore e dai rumori, finché i delinquenti non si allontanarono e lei tornò a rilassarsi, stendendosi nuovamente nell'erba. Impigrita, desiderosa di non tornare a casa ma nemmeno di allontanarsi ulteriormente, osservava minuziosamente i fiori attorno a sé, sperando che almeno quelli non fossero cambiati più di tanto.
Però, quando una campanula selvatica attirò la sua attenzione, avvenne qualcosa di strano: la sentì trillare. Era sicura fosse solo un'illusione, uno scherzo che le giocavano le orecchie non più abituate ai rumori. Allungò istintivamente la mano, guantata di pizzo nero, per cogliere lo strano fiore quando, ancora, ne sentì lo scampanellio.
Un terrore cieco, inspiegabile l'attanagliò. Una voce le riecheggiò in testa. Cosa diceva? Chi era che parlava? Qualcuno la stava mettendo in guardia. La voce di una donna, biascicata dall'età, si faceva strada, prepotentemente, tra i suoi ricordi.
Improvvisamente come era venuto, il panico si dileguò, lasciandola ansante e stordita.
Fissò l'innocuo e strano fiore con sospetto e curiosità, prima di imporsi di rimettersi in cammino.
Poi l'avvertì, alle sue spalle. Una presenza che prima, ne era sicura, non c'era. E non si trattava di un animale.
Si voltò lentamente e si trovò a osservare una persona che, in un certo qual modo, le sembrava di conoscere e di cui, tuttavia, aveva dimenticato ogni legame.
“Eccoti qui, finalmente” la sua voce era dura, tagliente. Sembrava infastidito
Era un uomo, dall'età imprecisata. Avrebbe benissimo potuto avere vent'anni come cinquanta. Il portamento era altero e fiero, quasi superbo. Indossava una semplice camicia appena coperta da una raffinata marsina nera lasciata aperta sullo sparato agganciato sotto il colletto. Le scarpe, delle Brogue Wingtips nere e affilate, tirate così a lucido che sembravano appena tirate fuori dalla confezione, sbucavano da sotto un paio di ghette bianche sotto un paio di braghe gessate, le cui righine burro erano così sottili da perdersi nei meandri delle pagliuzze del fondo color lavagna
La visione le procurò un tuffo al cuore: lui era l'unico, veramente, vestito come lei. Insieme non sembrava più essere fuori dal tempo. Insieme sembrava che fosse il tempo a essere nel momento sbagliato.
“Ci conosciamo?” domandò gentile, accennando un inchino a mo' di saluto, con l'educazione che le era stata impartita.
Lui l'osservò fermo. E pure, negli occhi, gli ballarono un vortice di emozioni diverse tra loro: paura e sollievo, rabbia e attrazione, sorpresa e perplessità. Alla fine le disse, sbrigativamente e semplicemente, di seguirla. E di non tentare scherzi “Saprei ritrovarti in capo al mondo”
Una frase che lei interpretò subito come minacciosa nonostante il contenuto in qualche modo romantico. Decise, non seppe neanche lei perché, di seguirlo docilmente. Camminarono in silenzio fino al limitare dei cancelli.





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Ciao a tutti, rieccomi qui.
Come detto nell'introduzione, avrei voluto sviluppare la storia come una long.
Invece, non avendo abbastanza idee ne ho approfittato per usarla per un contest.
Per ora finisce in modo un pò tronco...
ma chissà, magari un giorno la riprenderò.
Never say never.
E intanto, al prossimo capitolo.








Commento:
Ti segnalo, intanto, alcuni errori.
• Se dici "sembrava ieri", allora non puoi mettere "erano passate solo", altrimenti non c'è coerenza. È più corretto dire "erano passate già due settimane"
• "Non ci aveva mai fatto caso ma era più che convinta che, prima della reclusione [,] il cielo non avesse mai avuto simili interferenze"
• "Chiuse gli occhi, del colore del cielo in tempesta [,] e inspirò profondamente"
• "Un terrore cieco, inspiegabile [,]l'attanagliò"
• "Improvvisamente [, così] come era venuto, il panico si dileguò, lasciandola…"
• Nella descrizione delle scarpe dell'uomo ci sono un paio di ripetizioni "Tirate a lucido"-- "tirate fuori" , "un paio di ghette" -- "paio di braghe"
• “Il leggero bussare del maggiordomo[ senza la virgola,] spezzò la tensione e..”
• “a qualcosa che, a sua volta[,] era legato allo stemma”
• "Quindi, sigillò la porta con un giro di chiave che si infilò nel taschino[.] “Dasa?” chiamò, distraendola"
• "cercò di ignorare la sensazione sgradevole che ciò le comporta[va].
• "Ma lei, a differenza della principessa persiana, non aveva la lingua lunga e tagliente [,] né era abbastanza colta per.."
• "Al di là della soglia si estendeva un ambiente magnifico che le [che le ricordò] ricordarono, ancora, le sue letture esotiche.."
• "E un'idea fantastica arrivò in suo aiuto[.]"
• "scamosciata e che, a colpo d'occhio[,] simulava l'effetto di un vero bustier.."
• "non è stato un buon maestro” lo schernì lei, sprezzante[.]"
Più in generale, fai attenzione ai punti a fine frase e alle virgole, perché fondamentalmente sono state il tuo problema più grande. Poi le frasi molto spesso risultano ridondanti, pesanti, sia alla vista che alla lettura e comprensione. Un’altra cosa. Alla fine dici “fregandosene” che non c’entra nulla con il linguaggio che invece hai usato prima.
La trama è molto originale e sinceramente all’inizio non ci stavo capendo nulla lol poi alla fine, con la data, ho realizzato il tutto e sì, ottima idea. Alcune cose comunque non mi quadrano (come per esempio come faccia lui ad essere ancora vivo) e sono domande che hai posto e a cui non hai risposto e io sto morendo di curiosità. Ecco. Una cosa che ho apprezzato moltissimo sono stati gli accenni al femminismo, penso che sia stato con quelli che mi hai totalmente conquistata. Per il resto, una buona storia, la frase usata benissimo e l’emozione abbastanza presente. I miei complimenti!



GIUDIZIO DI phoenix_esmeralda:

- Grammatica e sintassi: 6,80/8 La grammatica è il buco nero di una storia che altrimenti, a mio parere, non ha nulla da invidiare ai libri che compro nei negozi. Purtroppo ci sono state parecchie sviste, imprecisioni e scivolate...non errori plateali, ma cosucce qua e là che andrebbero riviste. Essendo la tua storia mediamente molto più lunga delle altre che mi sono arrivate, ho tenuto conto di questo nel punteggio (non penso sia giusto valutare allo stesso modo storie di 2 pagine e storie di 20). Ti segnalo tutto quello che ho potuto notare, tra cui anche alcune frasi che risultano molto appesantite e rendono complicata la comprensione:
1) “contemplando le nuvole bianche rincorrersi veloci su di in un prato”: di in un prato.
2) “Le scie erano bizzarre: seguivano docili l'aeromobile; talvolta gli erano così affezionate da tralasciare subito il cielo azzurro per rincorrere la loro guida, a volte erano disobbedienti e lascive e si attardavano, languide, gonfiandosi alle spalle della loro guida nel tentativo maldestro di imitare una di quelle nuvole paffute che punteggiavano il loro viaggio, per poi arrendersi e dissiparsi in un ultimo tentativo di imitare la pesantezza dell'aria carica d'umidità che nascondeva la vista delle montagne.” = qui c’è un problema più che altro sintattico, la frase è molto pesante da leggere e difficile da seguire, il mio consiglio magari è di spezzarla in due.
3) “Non ci aveva mai fatto caso ma era più che convinta che, prima della reclusione il cielo non avesse mai avuto simili interferenze”: virgola dopo “reclusione”
4) E i treni! Se il cielo si era riempito delle scie bianche di numerosi stormi metallici si era ripulito di quelle nere della motrici a carbone e che ora vedeva sfrecciare, miracolosamente, in lontananza a velocità inaudite.” = dovrebbe esserci una virgola dopo “metallici” e dovresti togliere la “e” dopo “carbone”.
5) “Scappare e allontanarsi un po' ogni volta era l'unico modo per scoprire il mondo circostante” = dovresti cambiare il “per” con “di”, altrimenti risulta un po’ dialettale.
6) “La voce di una donna, biascicata dall'età, si faceva strada, prepotentemente, tra i suoi ricordi” = dovrebbe essere “biascicata per l’età” o “a causa dell’età.”
7) “e di cui, tuttavia, aveva dimenticato ogni legame.” = questa frase è proprio sintatticamente formulata male, nel senso... non puoi dimenticare il legame di una persona, ma il legame che hai con una persona.
8) “E pure, negli occhi, gli ballarono un vortice di emozioni” = il soggetto è vortice, quindi il verbo va al singolare: “gli ballò un vortice di emozioni”.
9) “Avrebbe voluto ridergli il faccia” = “in”
10) “Con uno scatto meccanico, che forse sentì solo lei, le rotelle del cervello completavano una parte del complesso puzzle” = completarono
11) “redingotte” = è “redingote”, con una sola “t”
12) “altre sì” = “altresì”, tutto attaccato.
13) “Danjal “Io ho creato – e sono quindi,” = ci vorrebbe un “ne” tra “e” e “sono”
14) “in paesi – che loro consideravano – arretrati” = ti consiglio, o di mettere la frase tra i trattini in una parentesi, oppure di lasciarla normale senza trattini. Così risulta quasi illeggibile.
15) “i giovani stavano lottando dispotismo e sessismo” : contro dispotismo e sessismo
16) “Se l'aveva iniziata alla libertà del corpo e della mente, come poteva, ora dirsi così contrariato?” : c’è una punteggiatura che rende la frase illeggibile. o_O Tra “poteva” e “ora” quella virgola non ci sta proprio.
17) “Era la prima volta che penetrava in quella parte della residenza e si guardava attorno con l'aria stupita” : “guardò”
18) “Al di là della soglia si estendeva un ambiente magnifico che le ricordarono, ancora, le sue letture esotiche” : “ricordò”, perché il soggetto è l’ambiente, non le letture.
19)“Senta...” disse appoggiandosi con le braccia al bordo della vasca “Ha qualche controindicazione per la brusca e la spugna?” = fino a qui, Dasa aveva dato a Danjal del “voi”. Da questo punto in poi, inizia a dargli del “lei”... °_°
20) “Le pareti erano completamente rivestite di superfici riflettenti. Sembra essere una pinacoteca privata adibita alla raccolta” : dopo il passato remoto, hai messo “sembra” al presente.
21) “Al centro della stanza stava un letto matrimoniale, grande e spartano, rispetto a quelli che ricordava.” = quella virgola dopo “spartano” non ci sta assolutamente.
22) “ Le lenzuola, dall'aspetto caldo e peccaminoso, erano di raso di seta nero” di seta o di raso? o_O
23) “La sua attenzione continuava ad essere calamitata su uno specchio gigantesco” : “da uno specchio”
24) “Sulla sua pelle bianca campeggiavano tre simboli” : si dice “capeggiavano”... non penso che i simboli fossero sul suo collo con la tenda! :D
25) “La verità è che tu sei...una mia creazione...sei un, cosiddetto Golem.” = cosa c’entra la virgola dopo “un”?
26) “Ho letto i diari di Ahimaaz ben Paltiel nei quali segnala le notizie, del nono secolo, relative al Golem” = quelle due virgole vanno tolte
27) “Tu, come tutti i servitori della villa, siete mie creazioni.” = il soggetto è “tu”, quindi “sei una mia creazione”
28) “Due settimane non sono tanti” = tante
29) “Ciò che disse la fece sentire così leggera, che neanche si era resa conto quando quella paura le aveva attanagliato le viscere “ Frase di difficile comprensione, l’ho dovuta rileggere 5 volte per capire cosa intendeva e guardare il pezzo successivo per darle il giusto significato. Prova a formularla in altro modo.


- Stile e Lessico: 7.5/8 Il tuo stile denota una buonissima competenza a livello sia lessicale che descrittivo. Hai una gran padronanza del vocabolario, sai essere precisa e puntuale nel tratteggiare ambienti, vestiari, persone... su questo ti devo fare tantissimi complimenti!
In alcuni punti però ho notato delle ripetizioni, te le segnalo:
1) il cielo azzurro per rincorrere la loro guida, a volte erano disobbedienti e lascive e si attardavano, languide, gonfiandosi alle spalle della loro guida nel tentativo maldestro: “guida” e “guida”
2)“Le scarpe, delle Brogue Wingtips nere e affilate, tirate così a lucido che sembravano appena tirate fuori dalla confezione, sbucavano da sotto un paio di ghette bianche sotto un paio di braghe gessate,” = “tirate” e “tirate”; “sotto un paio” e “sotto un paio”.
3) “Ma lei calò la mano e tentò di aprire la porta. Stava già tentando di scuoterla un'altra volta” = “tentò” e “tentando”
4) “Puoi lavarti anche i capelli, se vuoi. Ma non sfregare sotto l'attaccatura dei capelli...lì versa solo acqua. E con molta cautela” la istruì lui.” = ripetizione di “capelli”
5) “su cui si affacciavano solo le porte di due stanze separate – che andava ad affacciarsi su un terrazzino traboccante ogni sorta di esemplare vegetale” = “affacciavano” e “affacciarsi”
6) “la camicia a collo alto era fermata sul collo da un bel fiocco rosa cipria” = ripetizione di “collo”.


- Originalità e credibilità della trama: 8/8 Beh... sull’originalità non si può certamente obiettare! ^^ Tutti i miei complimenti per l’idea che hai avuto, per la capacità di svilupparla e di lasciare nel lettore quegli interrogativi che lo costringono ad arrivare fino alla fine. La credibilità ci sta tutta... certo, non ho potuto dirlo fino alla fine, perché finché Danjal non confessa la verità su Dasa... della trama si capisce poco o niente! Poi però tutto diventa chiaro e ben strutturato. Certo, tanti dubbi rimangono (ad esempio... come può essere lì Danjal ancora dopo un secolo? Chirurgia plastica estrema? Si è meccanicizzato pure lui... o che?), ma questo fa parte del tipo di storia che hai scelto: una di quelle che spiegano e non spiegano. Esistono in letteratura e se va bene per i super editori va bene anche per me! ;) Davvero brava!

Caratterizzazione dei personaggi: 8/8 La caratterizzazione dei personaggi è ben curata, hai dato particolare peso ai dettagli, alle sfumature, ai cambi d’umore. Non ho fatto nessuna fatica a immaginare Dasa e Danjal come persone reali, devo dire che da questo punto di vista hai fatto un ottimo lavoro!

- Sviluppo dell’emozione: 4/5 Lo sviluppo dell’emozione mi ha lasciata parecchio indecisa. Il disprezzo inizialmente c’è, sia di Dasa verso Danjal per come lui la tratta, sia di Danjal verso Dasa per motivi che a lei paiono incomprensibili. L’emozione inoltre ha anche un suo particolare sviluppo: Danjal alla fine accetta Dasa benché sia così diversa dall’originale e lei, scoperta la verità, smette di disprezzare lui e si limita a essere grata di esistere. Quindi 4 punti per l’emozione ci sono decisamente tutti, ma non ho potuto darti il massimo perché, rispetto ad altre storie, il disprezzo non la fa da protagonista come era l’obiettivo del contest. C’è, viene nominato, ma non è l’emozione portante e chi legge lo percepisce in superficie ma non riesce a condividerlo con i protagonisti. Per questo ti ho dato un punticino in meno.

- Utilizzo della frase: 4/4 L’utilizzo della frase è decisamente interessante, mi ha stupito il modo in cui sei riuscita a calare le parole nella trama. Inoltre la frase non è lasciata cadere così, tanto per fare, all’interno del contesto, ma ha una sua importanza centrale. Certo, non lo si capisce subito, ma una volta arrivati in fondo a tutti i misteri ci si rende conto del suo reale significato. Punteggio massimo ben meritato!

- Gradimento personale: 5.8/6 Il mio gradimento è stato indubbiamente alto, apprezzo il genere, lo stile, l’originalità, il finale... insomma, l’intera storia mi è piaciuta moltissimo e ti dico con sincerità che potrebbe tranquillamente confondersi con un libro già in vendita! ^^ L’unico problema che mi ha un po’ pesato nella lettura è che, fin quasi alla fine, uno va avanti a leggere senza capire niente... E’ ovvio che non sia chiaro il fattore dei “tempi diversi”, della prigionia, di lei che non ricorda... fa parte della trama; però andare avanti a leggere e non capire per svariate pagine, può diventare un po’ pesante. Questo è l’unico neo rilevato in una storia altrimenti splendidamente strutturata!
PS: ho trovato bellissimo il pensiero di Dasa quando, trovando Danjal vestito come lei, pensa che insieme non sono sbagliati per il tempo, ma è il tempo a essere sbagliato! ^^

- TOT : 44.10/47 punti


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Capitolo 2
*** Ostaggio ***


Lui le aveva fatto la strada e lei, per riempire il vuoto di una comunicazione che non aveva nemmeno accennato un timido decollo, si era concentrata sullo studio dettagliato di quello strano uomo, mai visto prima, che sembrava conoscerla così bene. Non apparteneva certamente alla servitù, viste le stoffe e la fattura pregiate dei capi che indossava. La pelle naturalmente dorata ma non scottata dal lavoro nei campi lo posizionava, sicuramente, nella nobiltà. I capelli erano neri come la notte e gli occhi sembravano due tizzoni roventi in qualche modo sedati da uno strato ghiacciato. I lineamenti erano spigolosi ma non erano di così facile attribuzione etnica. Che fosse il suo fidanzato? Possibile? Facendo mente locale, aveva scoperto di non ricordare molto della sua vita prima. Solo sprazzi di immagini significative, fotogrammi di quel cinema sfarfallante cui aveva assistito in compagnia....in compagnia di chi? Non lo ricordava. Eppure, ne era certa, era stato uno spirito libero.

Quando i primi camerieri li notarono e corsero a chiamare il maggiordomo, lo vide rilassarsi.
“Padron Danjal...” lo apostrofò il vecchio servitore. Era stempiato e canuto, con grossi baffoni che gli coprivano le labbra e un paio di pince-nez a cavallo del naso aquilino.
Danjal folgorò con lo sguardo il vecchio servitore, ma disse solo “Ringrazia il cielo che non sia successo nulla a Dasa, in tutte le volte che le avete consentito la fuga.” quindi, l'afferrò per il polso e la strattonò all'interno della grande casa. “D'ora in poi vigilerò io stesso sulla tua sicurezza. Non ti abbandonerò mai più” ringhiò in un suono gutturale simile a una bestia.
La condusse, ora con una gentilezza sconcertante, lungo gli ampi corridoi, fino a raggiungere il grazioso salottino in cui Dasa prendeva abitualmente il tè delle cinque.
“Accomodati” la invitò, lasciandole la mano e affacciandosi un istante oltre la soglia, forse a dare ordini alla servitù.
“Faccio già come se fossi a casa mia. Da due settimane. Non ti disturbare” avrebbe voluto rispondergli sprezzante. La realtà era che si sentiva stordita e avere qualcuno che le dicesse cosa fare le rendeva tutto più semplice.
“Dasa, Dasa...” mugugnò Danjal andando a prendere posto nella poltroncina accanto al sofà dove si era accomodata, computa e impettita. Appoggiava il viso sulla mano, l'indice vicino all'occhio, quasi a massaggiarsi la tempia, le altre dita quasi a coprirgli la bocca. Sembrava studiarla e valutare come comportarsi. Si alzò, evidentemente a disagio, e passeggiò fino alla grande finestra. “Mi hai molto deluso” disse infine.
Lei sgranò gli occhi. Deluso? Chi? Quel damerino che neanche faceva lo sforzo di presentarsi? A distanza di oltre due settimane. Avrebbe voluto ridergli il faccia, ma si trattenne, come si addiceva a una signorina di buona famiglia.
Passò un minuto buono, durante il quale Danjal non fece che fissarla insistentemente. Il leggero bussare del maggiordomo, spezzò la tensione e il giovane gli consentì di entrare, armato di tè speziato, il cui aroma si diffuse istantaneamente in tutta la stanza, impregnando ogni angolo.
Ora Dasa sapeva che il nome del vecchio era Bies: finalmente qualche informazione su cui elucubrare.
Bies...
Quel nome le scatenò un lawāmi, un lampo di cocienza, come lo chiamano i Sufi di cui aveva tanto letto prima della reclusione.
Con uno scatto meccanico, che forse sentì solo lei, le rotelle del cervello completavano una parte del complesso puzzle. Dasa, Danjal e Bies erano tutti nomi legati a qualcosa... a qualcosa che, a sua volta era legato allo stemma che ricorreva in tutta la casa come un marchio, sulle maniglie, nella carta intestata, sui cancelli, sulle posate e sui servizi di finissima porcellana come sui ricami decorativi delle redingotte e dei grembiuli della servitù: due triangoli rovesciati, la base in comune e le estensioni che si arricciolavano a creare la struttura di una A, la cui stanghetta orizzontale era composta da una V in carattere tipografico. Poi, le parole del giovane risultarono essere particolarmente evocative quando, rampognando i servitori, si appellò al nome del casato: Alastor era il nome che legava tutto e che, dal profondo della sua memoria, cercò di trascinare in superficie tutto ciò a cui esso era vincolato. Quasi per avvisarla.
Danjal si interruppe all'improvviso e congedò l'uomo. Quindi, sigillò la porta con un giro di chiave che si infilò nel taschino “Dasa?” chiamò, distraendola dal suo tentativo di comprendere.
“Ha detto che l'ho deluso” disse soltanto fissandolo in quegli occhi impenetrabili. Lui sbuffò e si sedette scompostamente, facendola arrossire.
“Ti lascio sola per un po' di tempo...e guarda cosa mi diventi...” sputò con livore. Dasa era sconcertata. Cos'aveva mai fatto? Oltre indossare i pantaloni e andare in bicicletta? E, ovviamente, mal sopportare il controllo maschile sulla sua persona. “Io ti avevo creata in un modo. E tu sei diventata tutt'altro. ”
Quell'uomo non conosceva bene le parole o, forse, non voleva usarle, pensò. Quello che provava non era solo delusione. Era qualcosa di più profondo e cocente: era disprezzo.
E c'erano tanti modi per dimostrarlo, non che uno risultasse meno abominevole o più facile da sopportare di un altro. Poteva fingersi offeso o deluso; avrebbe potuto anche decidere di prendersi gioco di lei, con ferocia e cattiveria; o sbandierare ai quattro venti i motivi per cui lei l'avrebbe deluso (e in virtù di quale rapporto, tanto per completezza d'informazione); o, ancora, fingere di non considerarla abbastanza importante da degnarsi di risponderle, anche se questo atteggiamento avrebbe avuto ragion d'essere solo nel caso in cui lei, la colpevole, avesse dimostrato attaccamento nei confronti di quell'uomo che cominciava a infastidirla coi suoi modi arroganti. Poteva, altre sì, decidere di fregarsene e non calcolarla proprio, se era un così grande errore. Ma, visto che lui aveva scelto la tattica più crudele, cercando di farla sentire in colpa, senza fornirgli alcun contesto, motivazione o scusa, lei si sarebbe attenuta a quell'ultima opzione. Disprezzo chiamava disprezzo, soprattutto se gratuito e ingiustificato.
Perché poteva pure disprezzarla per comportamenti vergognosi che non avesse capito. Ma lui sembrava capire e non accettare, di conseguenza, il fatto che lei fosse uscita dal seminato. Un seminato, a suo avviso, totalmente invisibile.
Così, incrociò le braccia, rifiutando il tè e cercando di convincersi di essere sola nella stanza.
Danjal, nel frattempo, si era coperto gli intensi occhi neri venati da bagliori rossastri con la mano, quasi a schermarsi da una visione orrenda. Rimasero in quella posizione di stallo per lunghi minuti.
Dasa aveva finito per sorseggiare il suo tè, senza averlo realmente gustarlo, troppo infastidita da quella strana situazione. Poggiò la delicata ceramica sul tavolino intarsiato e fece per alzarsi: il suo ospite non esisteva, non era presente nella stanza – continuava a ripetersi - e, dunque, lei era libera di fare come se fosse stata sola. Ma Danjal sollevò subito lo sguardo infuocato, incenerendola e Dasa cercò di ignorare la sensazione sgradevole che ciò le comporta.
“Dove vai?” le domandò non appena le sue dita sfiorarono la maniglia, dimenticandosi che fosse chiusa a chiave.
Un attimo di esitazione: sarebbe stata cortesia rispondere. Ma lei calò la mano e tentò di aprire la porta. Stava già tentando di scuoterla un'altra volta, convinta che fosse solo bloccata, quando Danjal la strattonò, reclamando la sua attenzione
“Non ti ho dato il permesso di andartene” sibilò irritato. Dasa lo studiò, ora, con malcelato fastidio. Quindi abbassò lo sguardo sul proprio polso, quasi potesse cambiare le cose solo osservandole. “Torna a sedere, dobbiamo parlare” Il tono si era fatto improvvisamente gentile. Tutto le puzzava di imbroglio, ora. Lui si sedette, lei, orgogliosa, rimase in piedi, appoggiata pervicacemente alla porta: la posizione le dava un senso di sicurezza, quasi potesse fuggire in un istante di distrazione del suo nuovo carceriere. Notata la sua muta risposta, Danjal fece spallucce “Come preferisci”
“Dunque, Dasa...” cominciò, studiandola intensamente, dopo un attimo in cui, forse, aveva raccolto le idee. Le braccia erano abbandonate sul grembo, le lunghe gambe accavallate pigramente: decisamente un atteggiamento poco signorile. Dasa assottigliò gli occhi: si era fatta confondere dall'aspetto di quell'uomo e non sarebbe caduta due volte nello stesso errore. “Immagino che tu non ti ricordi di me. Altrimenti non credo proprio mi guarderesti a quel modo e non mi parleresti così freddamente” Un sopracciglio, scettico, scappò involontariamente al suo controllo: pensava di avere a che fare con una stupida?
“No, Messere, sono sicura di non aver mai avuto il piacere di incontrarla né, tanto meno, conoscerla” replicò fredda. La buona educazione la spinse a rispondere a mute domande anche quando non avrebbe desiderato far altro che andarsene di là
Lui chinò il capo, meditabondo. Quindi, sospirò “Ti ho creata io così...ma certo non pensavo di correre un rischio simile. Sono stato via per un po'... e sei diventata così indisciplinata. Vesti anche alla maschiaccia.” scosse la testa, deluso “Oggigiorno, l'epiteto corretto per designare una donna come te sarebbe teppista.” A Dasa sfuggiva qualcosa, qualcosa di importante. Ma non diede a vedere questa sua ignoranza per non mettersi, da sola, in posizione di svantaggio. Lei era fiera, orgogliosa. Forse un po' restia alle leggi impartite dalla classe maschile. Forse, durante la sua prigionia, quei termini avevano assunto un valore spregiativo. “Io sono il padrone di questa tenuta” si presentò, finalmente, Danjal “Io ho creato – e sono quindi, a ogni buon diritto, possessore – tutto ciò che trova all'interno del perimetro che tu, così spesso, hai valicato senza permesso”
“Mi permetto di dissentire” disse lei, interrompendolo con voce calma ma ferma “Io ero prigioniera.”
“Certo. Io stesso ti ho rinchiusa in quella stanza” le rivelò senza il minimo segno di rammarico “Io ti ho creata per quello che sei”
“Mi ha creata il Padreterno, compresa la mia vena ribelle. Lei, per quanto ne so, potrebbe, eventualmente, aver solo alimentato una tendenza preesistente” sibilò lei, punta nel vivo “Inoltre, un così abile carceriere, non dovrebbe liberare la sua preda”
“Il tuo abile carceriere, come mi chiami tu, ti ha rinchiusa lì dentro solo per il tuo bene. Mi sono dovuto assentare e ti ho messo al sicuro. Nessuno doveva trovarti” replicò lui, freddo.
C'era qualcosa che non tornava, in tutto il suo ragionamento. O forse, lei non era in grado di comprendere un essere così cinico e calcolatore. Era disgustata dalla sola possibilità che esistessero persone del genere.
“Benissimo” acconsentì, reggendogli il gioco “Allora gradirei che il mio Signore mi concedesse il permesso di farmi un bagno. Due settimane e la servitù mi ha impedito l'accesso ai bagni. Non mi sembra il trattamento che deve ricevere qualcuno che va protetto”
“L'acqua fa male” tagliò corto lui, considerando chiuso il discorso.
Dasa trasecolò. “Ma...” obiettò, incapace di credere alle proprie orecchie “Ovunque nel mondo esistono addirittura sistemi pubblici per l'igiene personale: dalle saune dell'estremo nord, agli hammām delle regioni arabe ai bagni pubblici giapponesi... e già ai tempi dei romani...”
“Basta così!” tuonò l'altro, spazientito, mettendola a tacere “Le tue fantasie, alimentate dalle assurde mode di quest'epoca così bizzarra, qui non troveranno alcuno sfogo. L'acqua fa male. Il bagno in sé, fa male. Porta le più terribili malattie se non anche alla corruzione, visto che mi citi proprio l'epoca romana. Fine della discussione”
Dasa, a quel punto, abbandonò ogni pretesa di cautela, infervorandosi “Oh, certo, Padrone, allora perché non mi obbligate a rientrare nell'orrenda gabbia di tortura che è il corsetto? Perché non mi impedite ancora i movimenti con innumerevoli crinoline? I medici, e addirittura gli architetti, di tutto il mondo sono concordi nel demonizzare un certo codice suntuario che prevede...” l'improvvisa, quanto sguaiata, risata di Danjal la interruppe, facendole stringere i pugni per mantenere la calma
“Una suffragetta... Ci manca solo che tu voglia tagliare anche i tuoi bei capelli...”
Avrebbe voluto rispondergli che anche in paesi – che loro consideravano – arretrati, come quelli del vicino oriente, proprio in quegli anni, i giovani stavano lottando dispotismo e sessismo, ottenendo grandi risultati. Ma era meglio tacere le informazioni che aveva acquisito dai libri: guai che quello pensasse anche che dovesse rimanere illetterata. Improvvisamente si trovò a desiderare essere altrove. Avrebbe voluto avere l'arguzia e la mente fredda della sua eroina, Sharazade e far capitolare quel borioso che si permetteva di trattarla come una bambola. Ecco cosa voleva: che lei stesse zitta, che non pensasse e si limitasse a essere graziosa. Come una bambola. Ma lei, a differenza della principessa persiana, non aveva la lingua lunga e tagliente né era abbastanza colta per rigirarlo come un calzino. Chiuse gli occhi un istante, cercando di calmarsi.
“Chiedo solo di potermi fare un bagno. Anche alla fonte, se all'interno della villa i bagni sono così sporchi da ospitare colonie di ratti. Devo indossare i guanti anche per mangiare...” protestò.
Danjal la studiò intensamente. Aveva soffocato una risata quando lei aveva accennato ai ratti ma si era subito ricomposto.
Si batté, quindi, i palmi delle mani sulle cosce, prima di alzarsi “E sia... ma ti laverò io” impose.
Dasa sbiancò. Non c'era proprio limite al peggio. Certo, una signorina di buona famiglia non poteva certo arrangiarsi nello sbrigare compiti tanto terreni. Ma farsi lavare da un uomo era fuori discussione: quello doveva essere malato. Ricordava qualcosa degli scritti di Freud. Certo era che aveva qualche disturbo serio se non si accontentava nemmeno di spiarla.
“A te” precisò lui, vedendo la strana espressione sul suo viso “...l'acqua fa male! E nessuno della servitù saprebbe come comportarsi nel caso ti succedesse qualcosa.”
“Mi lavo da sola!” protestò lei, imbarazzata
“Oh, ma guarda...finalmente un residuo della Dasa che avevo creato... dimmi, amore mio, ora ti ricordi anche di me?” domandò divertito mentre la raggiungeva. Le passò molto vicino, nel tentativo di raggiungere la maniglia. Una vicinanza sgradita e inappropriata.
Ma subito si avviò lungo il corridoio. Non l'attese, anche se, sicuramente, s'aspettava che lei lo seguisse. Dasa non rispose alla domanda e trottò al suo seguito, rapita da un dettaglio che continuava a comparire nel loro scambio di battute: lui continuava a porsi come suo creatore. Ma in quale senso? Se l'aveva iniziata alla libertà del corpo e della mente, come poteva, ora dirsi così contrariato?
La condusse nei sotterranei umidi della villa, illuminati da strane torce appese direttamente al soffitto. Era la prima volta che penetrava in quella parte della residenza e si guardava attorno con l'aria stupita e rapita di un bambino. Sembrava quasi – si vergognò nel formulare l'ipotesi – un atto di stregoneria. Idea assurda, suggerita da letture assurde, ma che avrebbe giustificato alcune cose.
Si riscosse quando sentì l'uomo armeggiare con gli ingranaggi di una pesante porta di legno massiccio. Al di là della soglia si estendeva un ambiente magnifico che le ricordarono, ancora, le sue letture esotiche. Maioliche decorate sulle pareti, mosaici sul fondo di una vasca grande quanto due stanze. Fiotti bianchi sgorgavano incessanti da diverse fonti, riportando quel fondale decorato sul pelo dello specchio d'acqua e creando giochi ottici di spettacolare bellezza.
Danjal le indicò un paravento “Farai il bagno nella vasca più piccola” disse indicando una piccola conca poco distante dalla grande vasca.
“Mi arrangio, grazie!”
Lui sbuffò, forse arresosi, ormai, alla sua testardaggine “Resterò dietro il paravento...”

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Capitolo 3
*** Lo specchio è una creazione del demonio! ***


L'acqua era straordinaria: naturalmente profumata e calda alla giusta temperatura, Dasa fu tentata di assaggiarla per scoprire se avesse anche un gusto particolare.
Sul bordo della piccola vasca trovò, cosa che prima non aveva notato, una spugna, una spazzola e diverse boccette profumate. “Quelli sono i saponi... Non sono un granché: erano quelli che avevo a disposizione al momento”
“Sono buonissimi!” replicò lei entusiasta stappando una bottiglia dopo l'altra: ora sì che le sembrava di essere in uno dei suoi libri
“Almeno hai una spugna naturale...” borbottò Danjal affacciandosi dal paravento, costringendo Dasa a immergersi completamente, fino a coprire anche la bocca “Non così!” le ordinò “Questo sì che è pericoloso! Comportati bene o ti tiro subito fuori di lì”
“Come se potessero esistere spugne artificiali” avrebbe voluto ribadire, ma la precisazione le passò di mente quando lui si affacciò tanto sfacciatamente dal sipario “E tu non guardare!” strepitò lei.
Danjal la accontentò subito. “Sono contento che almeno ora tu riesca a essere meno formale, Dasa...”
“Mi avete mandato su tutte le furie” rispose la giovane, affrettandosi a correggere l'errore
La voce di Danjal suonava, ora, divertita. “Si, certo...come sempre...”
“Che vuol dire?”
“Che ho deciso di mostrarti qualcosa che potrebbe meravigliarti...”
“Dubito esista ancora qualcosa in grado di muovermi stupore”
“Mi sembrava fossi affascinata da questa stanza”
“Certo...è molto bella... e anelavo disperatamente un bagno caldo...” replicò prontamente “Senta...” disse appoggiandosi con le braccia al bordo della vasca “Ha qualche controindicazione per la brusca e la spugna?” domandò una volta che si fu profumata con quello strano sapone liquido e viscoso
“Puoi lavarti anche i capelli, se vuoi. Ma non sfregare sotto l'attaccatura dei capelli...lì versa solo acqua. E con molta cautela” la istruì lui.
“Sarà fatto...” sbuffò lei. Cosa mai poteva avere, di strano, la sua nuca?

Quando riemerse dalla pozza d'acqua, incolume e fasciata in soffici teli di cotone, Danjal si precipitò al suo fianco con un secondo telo, tamponandone delicatamente la pelle della schiena. Le prese, quindi, i capelli, spazzolandoli con cura. Ma a Dasa parve che la sua attenzione fosse focalizzata, ancora una volta sulla nuca. Quando fu praticamente asciutta, lui si defilò, lasciandola da sola a vestirsi. Subito, la giovane ne approfittò per riguadagnare lo specchio d'acqua e scrutarsi il collo. Ma non riuscì a vedervi nulla di strano. Si rivestì, quindi, con abiti nuovi e profumati, che non le appartenevano ma che erano totalmente nelle sue corde e che le andavano anche a pennello. Avrebbe voluto poter contemplare la visione d'insieme. E un'idea fantastica arrivò in suo aiuto
“Danjal?” chiamò e quello si materializzò al suo fianco senza produrre il minimo rumore “E' possibile avere uno specchio? Vorrei poter vedere se sembro tanto ridicola” disse indicando i vestiti.
Alla sua richiesta, però, l'altro parve rabbuiarsi “Lo specchio è una creazione del demonio!” sibilò. “Stai benissimo, non hai bisogno di altre conferme”
Dasa lo guardò esasperata “Se non me lo procura lei, troverò un modo per arrangiarmi, può starne certo...”
Danjal levò gli occhi al cielo “Sì, ti conosco abbastanza bene da sapere che saresti capace di arrampicarti sui mobili e distruggermi un lampadario di cristallo pur di ottenere un frammento utile...seguimi...” La condusse, quindi, di nuovo su per la scala da cui erano scesi e poi ancora su per altre rampe che non aveva mai esplorato. Quella villa sembrava più grande di quanto le fosse sembrato fino a quel momento. Anzi, sembrava quasi un organismo vivente, che cresceva e si modificava.
Salirono al piano più alto, illuminato dal grande lucernario sul soffitto. Oltre l'ultimo gradino si estendeva un largo e corto corridoio – su cui si affacciavano solo le porte di due stanze separate – che andava ad affacciarsi su un terrazzino traboccante ogni sorta di esemplare vegetale che l'uomo potesse aver mai visto. Un piccolo giardino pensile, mistico e proibito che a Dasa ricordò il meraviglioso Crystal Palace dell'esposizione universale. Danjal la guidò oltre la porta sulla sinistra e quando vi mise piede, Dasa rimase esterrefatta. Le pareti erano completamente rivestite di superfici riflettenti. Sembra essere una pinacoteca privata adibita alla raccolta di specchi di ogni forma e grandezza. Al centro della stanza stava un letto matrimoniale, grande e spartano, rispetto a quelli che ricordava. Le lenzuola, dall'aspetto caldo e peccaminoso, erano di raso di seta nero come la notte ma l'insieme era spoglio delle classiche strutture che completavano il talamo. Non che nella camera di un uomo si aspettasse il baldacchino, ma almeno una raffinata testiera in metallo sì.
Scivolò oltre il modesto e incongruo giaciglio e si mise a studiare ogni tipo di oggetto appeso alle pareti. La sua attenzione continuava ad essere calamitata su uno specchio gigantesco che occupava tutta una parete. L'unico altro spazio apparentemente vuoto di tutta la stanza, oltre a un angolino in cui era confinata una scrivania così minimale che Dasa si domandò se dovesse ancora essere portata a termine.
“Una creazione del demonio, eh?” ridacchiò nervosamente addentrandosi all'interno.
“Quello è un armadio” la informò generosamente Danjal, divertito dal suo stupore e sorvolando sul suo commento. Dasa si avvicinò, osservando la figura gemella che le si avvicinava come ipnotizzata. “E meno male che nulla avrebbe più potuto sorprenderti” sghignazzò lui.
“Ritiro tutto” disse lei con umiltà, un filo di rammarico le incrinò la voce. Notò subito la scanalatura che correva, precisa e regolare, per tutta la lunghezza di quella lastra.
“Devi premere, per aprirlo”
Sotto il suo tocco, avvertì il vetro scattare verso di lei. “Posso?” domandò all'ultimo, ricordandosi di cosa si trattasse. Lo vide, riflesso nel vetro, fare un gesto vago con la mano e andarsi a buttare sul letto ancora tutto vestito. Non che desiderasse che si spogliasse! Ma certo non era d'accordo sull'insozzare quelle lenzuola, apparentemente fresche di bucato, con gli abiti sporchi della giornata. Distolse lo sguardo e tornò al suo strano specchio e ne assecondò i movimenti espansionisti. In realtà, al posto di invadere lo spazio antistante, le ante, accompagnate, andarono a sparire nei lati della strana struttura, rivelandone il contenuto: vi stavano stipate centinaia di scarpe di ogni foggia e colore, giacche con strani tagli sartoriali, pantaloni confezionati con i materiali più disparati. Frastornata dal contenuto, Dasa si affrettò a richiudere con cura l'armadio.
Sollevando lo sguardo smarrito, si trovò a osservare la propria figura. Ora era vestita con un corto bolerino a righe panna, ecru e muschio, i cui rever erano impreziositi da diversi bottoni che sembravano ingranaggi zincati assemblati assieme; la camicia a collo alto era fermata sul collo da un bel fiocco rosa cipria che nascondeva l'attaccatura degli jabot che ne valorizzavano lo scarso seno. La gonna era il pezzo più complesso e particolare. Indossandola non aveva avuto affatto percezione dell'effetto finale: la baschina a vita alta, solcata trasversalmente da un paio di fibbie, era in un materiale resistente simile alla pelle scamosciata e che, a colpo d'occhio simulava l'effetto di un vero bustier pur senza costringerla realmente; al di sotto, nella stessa stoffa della giacca, si estendeva un'ampia gonna trattenuta alta su un fianco, in modo da permetterle di camminare agevolmente. Nessuna crinolina, al di sotto, a renderla vaporosa, solo l'uso sapiente di stoffe e tagli adeguati. Al suo posto, un paio di brache, di foggia maschile, aderenti e in tinta con la rigatura del completo, scivolavano all'interno di comodi stivaletti da aviatore.
“Soddisfatta?” domandò Danjal incerto della sua reazione
Dasa annuì “Molto” confermò in tutta onestà.
Lo vide alzarsi dal letto e dirigersi verso la scrivania. “Almeno l'onestà ti è rimasta” commentò soddisfatto “Raccogliti un attimo i capelli” le ordinò mentre si srotolava in mano un prezioso strangolino di pizzo con un grosso cammeo centrale.
Nell'afferrarsi, docilmente, i capelli – mai contraddire il proprio carceriere, padrone o qualunque altra figura fosse, quando vuole farti un presente – Dasa si ricordò il motivo per cui aveva, in realtà desiderato uno specchio. Con abile noncuranza si volse appena verso il suo ospite, tendendo però la coda dell'occhio alla propria nuca. “Voltati!” la redarguì subito lui, quasi che fosse spaventato che lei potesse, inavvertitamente, scoprire qualcosa. E quel comportamento stava, sempre più, alimentando la sua curiosità. Fingendo di accontentarlo, cercò negli altri specchi un riflesso che le tornasse utile. E lo vide. Sulla sua pelle bianca campeggiavano tre simboli, in una grafia che non era certo europea. Non erano caratteri arabi né asiatici.
Un'altra lawāmi la investì come un fiume in piena con la sua sconvolgente rivelazione: era ebraico. E ricordava la scritta europea NON.
Si volse, apparentemente ignara di tutto, verso l'uomo che avanzava. Quando lui le cinse il collo con quel pezzo di stoffa e alzò gli occhi sul loro riflesso per osservare la propria opera, trovò gli occhi chiari di lei che non lo perdevano di vista un secondo e lo fissavano esigendo una risposta. “Cos'ho scritto sul collo?” si sentì domandare a bruciapelo.
Danjal strabuzzò gli occhi, quindi abbassò lo sguardo sulle spalle di lei, lisciandole grinze inesistenti. “Non mi crederesti...”
Dasa roteò gli occhi. “E perché mai?” domandò con acredine
“La Dasa che ho creato io...che eri... non mi crederebbe mai...” disse sconfortato.
Dasa avrebbe voluto urlare per la frustrazione. Quell'uomo si stava dimostrando schizofrenico, mettendo in scena una tale varietà di emozioni e comportamenti paradossali che avrebbe potuto scriverci un libro. Era degna di così poca fiducia se anche fosse stato vero che si conoscevano e che lei era una sua creatura?
Mani ai fianchi, in una posa aggressiva e altera, si voltò a fronteggiarlo “Non so che idea lei abbia di me, ma io non sono la bambolina che crede. Non mi faccio sconvolgere da cose da poco come una qualunque ragazzina svenevole”
“Forse hai ragione...” ammise lui seduto, ora, ai piedi del letto, le lunghe dita intrecciate davanti alla bocca
“Allora?” sbottò impaziente.
“Perché tanta acredine? Tu eri dolce. Guarda che non ti sono nemico...” disse nel tentativo di calmarla e guadagnare un po' di tempo
“Se mi ha plasmato secondo il suo volere, strappandomi alla mia famiglia natia non dovrebbe meravigliarsi dei risultati. Forse non è stato un buon maestro” lo schernì lei, sprezzante
Lui si rabbuiò nuovamente “Perché non hai alcun ricordo di me? Sono quello che chiamavi se piangevi ogni sera. Eppure, allo stesso tempo, sono quello che un po' odi e che ora un po' ti fa paura” disse scuotendo la testa sconsolato “Dove posso aver sbagliato stavolta?” domandò rivolto a se stesso e quasi dimentico della giovane.
“Cosa. Ho. Scritto?” sillabò lei, ora esasperata.
“Non spaventarti...” cominciò lui “Tu...sei, effettivamente, una bambolina... e non solo perché sei graziosa, o fragile, o piccolina.” si affrettò a precisare notando lo scetticismo sul suo volto “La verità è che tu sei...una mia creazione...sei un, cosiddetto Golem.”
“Non mi prenda in giro” ribatté lei, per nulla impressionata “I Golem sono impossibili da creare. Anche se fosse, dovrei essere un gigante. Ho letto i diari di Ahimaaz ben Paltiel nei quali segnala le notizie, del nono secolo, relative al Golem di Maleventum e alla confraternita di Uria dedita a crearli”
Lui annuì, lieto di non averla spaventata e che, per lo meno, conoscesse parte della storia “Ahimè, non ho trovato alcun materiale al riguardo e mi sono dovuto attenere ai resoconti del rabbino Jehuda Löw ben Bezalel di Praga, cercando di evitare i suoi errori. Tu, come tutti i servitori della villa, siete mie creazioni. La parola che portate sulla nuca, emet, verità, è l'unico modo per infondere vita a un corpo senz'anima. Testi antichi parlavano di problemi legati a questa pratica, alla perdita di controllo della propria creatura, come hai giustamente ricordato tu. E prima di te, molti tentativi si sono rivelati fallimentari. Tu sola sembravi perfetta...”
“Ha detto che anche la servitù sarebbe una sua creazione” lo pungolò scettica
Lui annuì “Loro, però, sono solo dei fantocci senz'anima. Dei veri Golem.”
“Non credo proprio di essere un mostro come quelli dei romanzi di Mary Shelley. Non è stato lei a dire...” l'interruppe Dasa, per niente impressionata “Io ho ricordi!”
“In te ho cercato di riportare l'anima della mia amata Dasa. E sei effettivamente lei, sotto molti aspetti. Ti sorprenderesti dei passi avanti fatti dagli uomini in questo senso.” tacque, valutando se procedere con il racconto “Per te è stata una lunga prigionia. E a ben vedere, in effetti, può definirsi anche tale. In realtà, si è trattato di un lungo, lunghissimo sonno. Da quando sei morta a quando ti ho trapiantata in questo corpo. Dormivi serena e pensavo che il tuo risveglio non sarebbe avvenuto se non dopo molto tempo. Per quello mi sono permesso di allontanarmi. Invece... Sono stato avvisato immediatamente dell'accaduto. Ma rientrare è stato più complicato del previsto”
“Due settimane non sono tanti, ovunque lei fosse...” lo giustificò lei
“Due settimane sono un'eternità nel mondo di oggi. Dimmi. Quanto credi di aver dormito? O di esser stata rinchiusa?”
Dasa meditò a lungo. Aveva pochi indizi su cui sviluppare la sua tesi. Ma la risposta più congrua alle sue constatazioni entravano in conflitto con la sua percezione temporale. Scosse la testa, arrendendosi
“Siamo nel 2035” Sussurrò piano Danjal piantando gli occhi neri nei suoi “E' passato più di un secolo. E quei vestiti, prima che te lo domandi, non sono il normale modo di vestire delle signore del tempo, bensì quello di un sotto gruppo di freak, chiamato Steampunk.
Tu non sei che il suo clone, come si direbbe oggi. Ed ero troppo affezionato al tuo corpo meccanico, su cui ho cominciato a lavorare pochi mesi dopo la tua reale dipartita. Certo...” sorrise stancamente “Oggi avrei potuto usare l'ingegneria genetica e ricrearti tale e quale. Ma la divisione cellulare, spesso, va per i fatti suoi, come nel caso di due gemelli apparentemente identici. La moderna robotica non consente ancora, paradossalmente, risultati motori eccezionali com'era invece possibile a inizio secolo.
Ogni tuo ingranaggio, ogni tuo bullone, l'ho selezionato personalmente tra centinaia; a volte ho costruito io stesso degli ingranaggi che mi servivano e che non esistevano.
Ecco perché l'acqua è così pericolosa, per te.
Inoltre, non avevo cuore di marchiarti a fuoco, come una bestia, o tatuarti come un galeotto, anche se ora si usa e nessuno si sorprenderebbe. Ho usato la preziosa henna che tanto adoravi ma che è sensibile ai lavaggi. Non voglio correre il rischio di cancellare la scritta...”
“Da emet a met, morte” concluse lei. Era, effettivamente, dura da mandar giù come notizia. Ma, stranamente, non le importava più di tanto cosa fosse. O cosa lui credesse che lei fosse. Era viva, e tanto le bastava
“Il risultato, tuttavia, ancora una volta, è dissimile dall'originale.” mormorò afflitto “La Dasa che amavo era sì indipendente ma non era così sfrontata. Era graziosa e pacata. Tu sei un vero monello.”
Ecco spiegata la sua ostilità e il suo comportamento a tratti crudele: lui la disprezzava per essere diversa dall'originale. Non la voleva. Eppure, per ora, non voleva nemmeno cancellarla. “Ho letto che i traumi, talvolta, possono alterare il carattere di una persona” disse soltanto, quasi cercando di andargli incontro e trovare una soluzione che accontentasse entrambi “Un secolo di sonno altererebbe chiunque. E non c'è da escludere il fatto che, forse, in realtà ciò che ricorda lei sia distorto dalla nostalgia. Magari ricorda solo ciò che le fa comodo.”
Danjal sollevò lo sguardo sui suoi occhi che a lei, vedendoli nello specchio, avevano dato l'impressione di essere totalmente autentici.
Ciò che disse la fece sentire così leggera, che neanche si era resa conto quando quella paura le aveva attanagliato le viscere “Sei anche la prima che ha sufficiente coscienza di sé. Che mi risponde, che si crede viva e che cerca una soluzione”. Lui la stava realmente graziando? “Spero solo che non mi disprezzerai per aver cercato di riportarti in vita.”
Dasa reclinò la testa – per caso, quelli che percepiva come muscoli in tensione erano soltanto ingranaggi, molle e cavi che si tendevano? – “Mi concede di restare viva. Cosa dovrei rimproverarle?”
“Di aver profanato il tuo corpo, la tua memoria... tutto. Di cercare un tuo surrogato, per di più meccanico. E'... morboso!”
“Ne è già cosciente” replicò facendo spallucce “Che senso avrebbe mettere il dito nella piaga?”
“Quindi...” domandò Danjal speranzoso “Non mi disprezzi?”
Dasa batté le palpebre un paio di volte. Avrebbe voluto porgli la stessa domanda. “No, affatto” disse soltanto.
Il sorriso che illuminò il volto dell'uomo quasi l'accecò. Era sincero e spontaneo e radioso. Non aveva nulla in comune col ghigno maligno che gli aveva sempre increspato le labbra. La abbracciò di slancio, fregandosene delle sue proteste, riuscendo a farle dimenticare la domanda successiva: se era passato un secolo, lui chi era?
Subito se la scostò di dosso, tenendola per le spalle “Allora vieni, devo mostrarti un po' di cose, quelle cose che, ti avevo detto, ti avrebbero sorpreso.”
“Non mi ha sorpreso scoprire di essere null'altro che una bambola meccanica” replicò cercando di liberare la mano dalla sua
“Vero! Però le cose belle ti lasciano ancora a bocca aperta” disse strattonandola fuori dalla stanza tutto entusiasta “...e poi dobbiamo rimetterci al lavoro.”
“Che lavoro?” domandò perplessa
Danjal si limitò a sorridere con fare cospiratorio “Non ora. Quando te lo dirò, però, sono sicuro che vorrai darmi una mano nella nostra battuta di caccia”
Detto ciò non tollerò oltre l'essere trattenuto. La caricò in spalla e scese in volata le scale, ordinando a tutta la servitù di preparare l'automobile: loro erano, finalmente, in partenza.


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Eccoci alla fine. Questa è tutto il prodotto per il contest e, per ora, la storia non procederà oltre.
Grazie a tutti coloro che sono passati di qua e si sono soffermati a leggere.
a presto!

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