Una bambolina di carattere di darkronin (/viewuser.php?uid=122525)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** E' il tempo a essere sbagliato ***
Capitolo 2: *** Ostaggio ***
Capitolo 3: *** Lo specchio è una creazione del demonio! ***
Capitolo 1 *** E' il tempo a essere sbagliato ***
4ͣ^
classificata e premio originalità al contest “La
Ballata delle Emozioni” di phoenix_esmeralda
sul
forum di EFP
Salve
a tutti, questa è una storia che avevo in testa da tempo.
Voleva essere una long ma non avevo abbastanza tempo e voglia per
sistemarla ma ho usato l'idea di base per questo Contest.
Per
chi fosse curioso (e volesse spoilerarsi il finale, perché,
lo ammetto, so essere abbastanza incasinata da far demordere il
lettore) i dettagli dei giudizi saranno a fine pagina (la prima parte è
inerente ai refusi davvero idioti di cui mi sono accorta anch'io leggendo ora -a distanza di mesi, però, a conferma che ho bisogno di molto tempo per non scrivere porcherie- o a tutta la punteggiatura di fine frase che purtroppo dimentico
per strada e che mi è costato un bel 6.5). Non
apporterò le modifiche che mi avrebbero permesso un
punteggio maggiore per questione di correttezza.
A
voi, come alla giuria, la storia così come è
stata presentata. Solo sarà scaglionata perché
è lunga 18 pagine...
E
chissà, magari in futuro la riprendo e vi
spiegherò tutte le cose che non vi dico :)
Buona
lettura
“UNA
BAMBOLINA DI CARATTERE” di DarkRonin
Emozione:
disprezzo
Frase:
“Sono quello che chiamavi se piangevi ogni sera, sono quello
che un po’ odi e che ora un po’ ti fa
paura.”
GIUDIZIO
Khika Liz:
-
Grammatica: 6.5/8
-
Stile e Lessico: 7.5/8
-
Originalità e credibilità della trama: 7/8
-
Caratterizzazione dei personaggi: 7/8
-
Sviluppo dell’emozione: 4/5
-
Utilizzo della frase: 4/4
-
Gradimento personale: 6/6
TOT:
42/47 punti
Una
bambolina di carattere
Sembrava
ieri. Eppure erano passate solo due settimane da che si era liberata
della sua prigionia.
Alzò
gli occhi al cielo, contemplando le nuvole bianche rincorrersi veloci
su di in un prato azzurro. Di quando in quando, le scie degli aerei,
dritte e inflessibili, si intromettevano nei loro giochi.
Le
scie erano bizzarre: seguivano docili l'aeromobile; talvolta gli erano
così affezionate da tralasciare subito il cielo azzurro per
rincorrere la loro guida, a volte erano disobbedienti e lascive e si
attardavano, languide, gonfiandosi alle spalle della loro guida nel
tentativo maldestro di imitare una di quelle nuvole paffute che
punteggiavano il loro viaggio, per poi arrendersi e dissiparsi in un
ultimo tentativo di imitare la pesantezza dell'aria carica
d'umidità che nascondeva la vista delle montagne. Quelle
scie le ricordavano i lunghi bastoncini di legno che osservava danzare
nelle bevande aranciate, leggermente alcoliche che, di quando in
quando, le venivano servite prima di cena. Il liquido, come il cielo e
come lei, si faceva un baffo di quella rigida intrusione e continuava
il suo vorticare, deridendo l'austera figura che era convinta di
imbrigliarne l'essenza.
Non
ci aveva mai fatto caso ma era più che convinta che, prima
della reclusione il cielo non avesse mai avuto simili interferenze. Ma
doveva ricordare a se stessa che il mondo che aveva conosciuto era
stato stravolto nel periodo in cui lei non l'aveva vissuto.
Non
l'aveva detto a nessuno, temendo una punizione supplementare a quella
per la fuga, ma aveva sbirciato, di sfuggita e del tutto casualmente,
quella poca gente che aveva intercettato nelle sue lunghe camminate.
Tanto per cominciare, le fogge degli abiti erano assolutamente
scandalose e indecenti. Li trovava indecorosi lei, che aveva l'ardire
di indossare un paio di vistosissimi bloomers. E i cocchi: erano
completamente spariti, soppiantati in toto da strane automobili che
nulla avevano a che vedere con i modelli più lussuosi che
aveva conosciuto
E
i treni! Se il cielo si era riempito delle scie bianche di numerosi
stormi metallici si era ripulito di quelle nere della motrici a carbone
e che ora vedeva sfrecciare, miracolosamente, in lontananza a
velocità inaudite.
Eppure
le terre che aveva imparato ad amare nel corso della sua adolescenza
erano indubbiamente quelle.
Tante
cose non le quadravano, constatò ancora una volta. Scappare
e allontanarsi un po' ogni volta era l'unico modo per scoprire il mondo
circostante. Ricordava la paura che aveva provato la primissima volta
nel rendersi conto che qualcosa di grosso era avvenuto.
Vinta
la paura, che le aveva impedito di tentare altre sortite nei giorni
successivi, aveva cercato di analizzare la situazione, senza riuscire a
trovarvi soluzione. Quello che la magione poteva offrirle, quanto a
conoscenza, era già in suo possesso. Per tutto il resto, non
poteva fare altro che attingere direttamente alla fonte.
Quindi,
era scappata. Una volta sola. Poi un'altra. E un'altra volta ancora.
Probabilmente,
in quel momento, i domestici la stavano cercando disperati. Ma, questa
volta, lei aveva posto molta più distanza tra sé
e i suoi nuovi carcerieri. Certo, erano gentili e servizievoli. E la
prigione era più ampia, soleggiata. Ma era sempre una
prigione da cui avrebbe dovuto esserle vietato uscire.
Sorrise.
Lei era furba e scaltra. E non era certo docile e mansueta.
Chiuse
gli occhi, del colore del cielo in tempesta e inspirò
profondamente il profumo dei fiori di campo. Era diverso rispetto a
quello a cui era abituata prima. Doveva essere stata la segregazione a
cancellarle i ricordi olfattivi, pensò mentre il caldo sole
di una giornata estiva, che si preannunciava afosa, le bagnava la pelle
delicata come la neve.
Un
improvviso, quanto fastidioso odore di zolfo, arrivò a
coprire il tenue profumo dei fiori di campo. Si tirò a
sedere, meccanicamente in allerta. Qualcosa di pericoloso, le
suggerì la parte rettile del suo cervello, la stava per
raggiungere. Tendendo l'orecchio, però, capì: un
paio di persone stavano dando fuoco, manigoldi, a dei copertoni.
Se
la memoria non l'ingannava, gli pneumatici vulcanizzati avevano al loro
interno una qualche componente sulfurea che li rendeva più
elastici. Ascoltò i loro traffici indistinti per qualche
minuto, rapita dall'odore e dai rumori, finché i delinquenti
non si allontanarono e lei tornò a rilassarsi, stendendosi
nuovamente nell'erba. Impigrita, desiderosa di non tornare a casa ma
nemmeno di allontanarsi ulteriormente, osservava minuziosamente i fiori
attorno a sé, sperando che almeno quelli non fossero
cambiati più di tanto.
Però,
quando una campanula selvatica attirò la sua attenzione,
avvenne qualcosa di strano: la sentì trillare. Era sicura
fosse solo un'illusione, uno scherzo che le giocavano le orecchie non
più abituate ai rumori. Allungò istintivamente la
mano, guantata di pizzo nero, per cogliere lo strano fiore quando,
ancora, ne sentì lo scampanellio.
Un
terrore cieco, inspiegabile l'attanagliò. Una voce le
riecheggiò in testa. Cosa diceva? Chi era che parlava?
Qualcuno la stava mettendo in guardia. La voce di una donna, biascicata
dall'età, si faceva strada, prepotentemente, tra i suoi
ricordi.
Improvvisamente
come era venuto, il panico si dileguò, lasciandola ansante e
stordita.
Fissò
l'innocuo e strano fiore con sospetto e curiosità, prima di
imporsi di rimettersi in cammino.
Poi
l'avvertì, alle sue spalle. Una presenza che prima, ne era
sicura, non c'era. E non si trattava di un animale.
Si
voltò lentamente e si trovò a osservare una
persona che, in un certo qual modo, le sembrava di conoscere e di cui,
tuttavia, aveva dimenticato ogni legame.
“Eccoti
qui, finalmente” la sua voce era dura, tagliente. Sembrava
infastidito
Era
un uomo, dall'età imprecisata. Avrebbe benissimo potuto
avere vent'anni come cinquanta. Il portamento era altero e fiero, quasi
superbo. Indossava una semplice camicia appena coperta da una raffinata
marsina nera lasciata aperta sullo sparato agganciato sotto il
colletto. Le scarpe, delle Brogue Wingtips nere e affilate, tirate
così a lucido che sembravano appena tirate fuori dalla
confezione, sbucavano da sotto un paio di ghette bianche sotto un paio
di braghe gessate, le cui righine burro erano così sottili
da perdersi nei meandri delle pagliuzze del fondo color lavagna
La
visione le procurò un tuffo al cuore: lui era l'unico,
veramente, vestito come lei. Insieme non sembrava più essere
fuori dal tempo. Insieme sembrava che fosse il tempo a essere nel
momento sbagliato.
“Ci
conosciamo?” domandò gentile, accennando un
inchino a mo' di saluto, con l'educazione che le era stata impartita.
Lui
l'osservò fermo. E pure, negli occhi, gli ballarono un
vortice di emozioni diverse tra loro: paura e sollievo, rabbia e
attrazione, sorpresa e perplessità. Alla fine le disse,
sbrigativamente e semplicemente, di seguirla. E di non tentare scherzi
“Saprei ritrovarti in capo al mondo”
Una
frase che lei interpretò subito come minacciosa nonostante
il contenuto in qualche modo romantico. Decise, non seppe neanche lei
perché, di seguirlo docilmente. Camminarono in silenzio fino
al limitare dei cancelli.
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
Ciao a tutti, rieccomi qui.
Come detto nell'introduzione, avrei voluto sviluppare la storia come
una long.
Invece, non avendo abbastanza idee ne ho approfittato per usarla per un
contest.
Per ora finisce in modo un pò tronco...
ma chissà, magari un giorno la riprenderò.
Never say never.
E intanto, al prossimo capitolo.
Commento:
Ti
segnalo, intanto, alcuni errori.
•
Se dici "sembrava ieri", allora non puoi mettere "erano passate solo",
altrimenti non c'è coerenza. È più
corretto dire "erano passate già due settimane"
•
"Non ci aveva mai fatto caso ma era più che convinta che,
prima della reclusione [,] il cielo non avesse mai avuto simili
interferenze"
•
"Chiuse gli occhi, del colore del cielo in tempesta [,] e
inspirò profondamente"
•
"Un terrore cieco, inspiegabile [,]l'attanagliò"
•
"Improvvisamente [, così] come era venuto, il panico si
dileguò, lasciandola…"
•
Nella descrizione delle scarpe dell'uomo ci sono un paio di ripetizioni
"Tirate a lucido"-- "tirate fuori" , "un paio di ghette" -- "paio di
braghe"
•
“Il leggero bussare del maggiordomo[ senza la virgola,]
spezzò la tensione e..”
•
“a qualcosa che, a sua volta[,] era legato allo
stemma”
•
"Quindi, sigillò la porta con un giro di chiave che si
infilò nel taschino[.] “Dasa?”
chiamò, distraendola"
•
"cercò di ignorare la sensazione sgradevole che
ciò le comporta[va].
•
"Ma lei, a differenza della principessa persiana, non aveva la lingua
lunga e tagliente [,] né era abbastanza colta per.."
•
"Al di là della soglia si estendeva un ambiente magnifico
che le [che le ricordò] ricordarono, ancora, le sue letture
esotiche.."
•
"E un'idea fantastica arrivò in suo aiuto[.]"
•
"scamosciata e che, a colpo d'occhio[,] simulava l'effetto di un vero
bustier.."
•
"non è stato un buon maestro” lo
schernì lei, sprezzante[.]"
Più
in generale, fai attenzione ai punti a fine frase e alle virgole,
perché fondamentalmente sono state il tuo problema
più grande. Poi le frasi molto spesso risultano ridondanti,
pesanti, sia alla vista che alla lettura e comprensione.
Un’altra cosa. Alla fine dici
“fregandosene” che non c’entra nulla con
il linguaggio che invece hai usato prima.
La
trama è molto originale e sinceramente all’inizio
non ci stavo capendo nulla lol poi alla fine, con la data, ho
realizzato il tutto e sì, ottima idea. Alcune cose comunque
non mi quadrano (come per esempio come faccia lui ad essere ancora
vivo) e sono domande che hai posto e a cui non hai risposto e io sto
morendo di curiosità. Ecco. Una cosa che ho apprezzato
moltissimo sono stati gli accenni al femminismo, penso che sia stato
con quelli che mi hai totalmente conquistata. Per il resto, una buona
storia, la frase usata benissimo e l’emozione abbastanza
presente. I miei complimenti!
GIUDIZIO
DI phoenix_esmeralda:
- Grammatica e sintassi: 6,80/8
La grammatica è il buco nero di una storia che altrimenti, a
mio parere, non ha nulla da invidiare ai libri che compro nei negozi.
Purtroppo ci sono state parecchie sviste, imprecisioni e
scivolate...non errori plateali, ma cosucce qua e là che
andrebbero riviste. Essendo la tua storia mediamente molto
più lunga delle altre che mi sono arrivate, ho tenuto conto
di questo nel punteggio (non penso sia giusto valutare allo stesso modo
storie di 2 pagine e storie di 20). Ti segnalo tutto quello che ho
potuto notare, tra cui anche alcune frasi che risultano molto
appesantite e rendono complicata la comprensione:
1)
“contemplando le nuvole bianche rincorrersi veloci su di in
un prato”: di in un prato.
2)
“Le scie erano bizzarre: seguivano docili l'aeromobile;
talvolta gli erano così affezionate da tralasciare subito il
cielo azzurro per rincorrere la loro guida, a volte erano disobbedienti
e lascive e si attardavano, languide, gonfiandosi alle spalle della
loro guida nel tentativo maldestro di imitare una di quelle nuvole
paffute che punteggiavano il loro viaggio, per poi arrendersi e
dissiparsi in un ultimo tentativo di imitare la pesantezza dell'aria
carica d'umidità che nascondeva la vista delle
montagne.” = qui c’è un problema
più che altro sintattico, la frase è molto
pesante da leggere e difficile da seguire, il mio consiglio magari
è di spezzarla in due.
3)
“Non ci aveva mai fatto caso ma era più che
convinta che, prima della reclusione il cielo non avesse mai avuto
simili interferenze”: virgola dopo
“reclusione”
4)
E i treni! Se il cielo si era riempito delle scie bianche di numerosi
stormi metallici si era ripulito di quelle nere della motrici a carbone
e che ora vedeva sfrecciare, miracolosamente, in lontananza a
velocità inaudite.” = dovrebbe esserci una virgola
dopo “metallici” e dovresti togliere la
“e” dopo “carbone”.
5)
“Scappare e allontanarsi un po' ogni volta era l'unico modo
per scoprire il mondo circostante” = dovresti cambiare il
“per” con “di”, altrimenti
risulta un po’ dialettale.
6)
“La voce di una donna, biascicata dall'età, si
faceva strada, prepotentemente, tra i suoi ricordi” =
dovrebbe essere “biascicata per
l’età” o “a causa
dell’età.”
7)
“e di cui, tuttavia, aveva dimenticato ogni
legame.” = questa frase è proprio sintatticamente
formulata male, nel senso... non puoi dimenticare il legame di una
persona, ma il legame che hai con una persona.
8)
“E pure, negli occhi, gli ballarono un vortice di
emozioni” = il soggetto è vortice, quindi il verbo
va al singolare: “gli ballò un vortice di
emozioni”.
9)
“Avrebbe voluto ridergli il faccia” =
“in”
10)
“Con uno scatto meccanico, che forse sentì solo
lei, le rotelle del cervello completavano una parte del complesso
puzzle” = completarono
11)
“redingotte” = è
“redingote”, con una sola “t”
12)
“altre sì” =
“altresì”, tutto attaccato.
13)
“Danjal “Io ho creato – e sono
quindi,” = ci vorrebbe un “ne” tra
“e” e “sono”
14)
“in paesi – che loro consideravano –
arretrati” = ti consiglio, o di mettere la frase tra i
trattini in una parentesi, oppure di lasciarla normale senza trattini.
Così risulta quasi illeggibile.
15)
“i giovani stavano lottando dispotismo e sessismo”
: contro dispotismo e sessismo
16)
“Se l'aveva iniziata alla libertà del corpo e
della mente, come poteva, ora dirsi così
contrariato?” : c’è una punteggiatura
che rende la frase illeggibile. o_O Tra “poteva” e
“ora” quella virgola non ci sta proprio.
17)
“Era la prima volta che penetrava in quella parte della
residenza e si guardava attorno con l'aria stupita” :
“guardò”
18)
“Al di là della soglia si estendeva un ambiente
magnifico che le ricordarono, ancora, le sue letture
esotiche” : “ricordò”,
perché il soggetto è l’ambiente, non le
letture.
19)“Senta...”
disse appoggiandosi con le braccia al bordo della vasca “Ha
qualche controindicazione per la brusca e la spugna?” = fino
a qui, Dasa aveva dato a Danjal del “voi”. Da
questo punto in poi, inizia a dargli del “lei”...
°_°
20)
“Le pareti erano completamente rivestite di superfici
riflettenti. Sembra essere una pinacoteca privata adibita alla
raccolta” : dopo il passato remoto, hai messo
“sembra” al presente.
21)
“Al centro della stanza stava un letto matrimoniale, grande e
spartano, rispetto a quelli che ricordava.” = quella virgola
dopo “spartano” non ci sta assolutamente.
22)
“ Le lenzuola, dall'aspetto caldo e peccaminoso, erano di
raso di seta nero” di seta o di raso? o_O
23)
“La sua attenzione continuava ad essere calamitata su uno
specchio gigantesco” : “da uno specchio”
24)
“Sulla sua pelle bianca campeggiavano tre simboli”
: si dice “capeggiavano”... non penso che i simboli
fossero sul suo collo con la tenda! :D
25)
“La verità è che tu sei...una mia
creazione...sei un, cosiddetto Golem.” = cosa
c’entra la virgola dopo “un”?
26)
“Ho letto i diari di Ahimaaz ben Paltiel nei quali segnala le
notizie, del nono secolo, relative al Golem” = quelle due
virgole vanno tolte
27)
“Tu, come tutti i servitori della villa, siete mie
creazioni.” = il soggetto è
“tu”, quindi “sei una mia
creazione”
28)
“Due settimane non sono tanti” = tante
29)
“Ciò che disse la fece sentire così
leggera, che neanche si era resa conto quando quella paura le aveva
attanagliato le viscere “ Frase di difficile comprensione,
l’ho dovuta rileggere 5 volte per capire cosa intendeva e
guardare il pezzo successivo per darle il giusto significato. Prova a
formularla in altro modo.
- Stile e Lessico: 7.5/8
Il tuo stile denota una buonissima competenza a livello sia lessicale
che descrittivo. Hai una gran padronanza del vocabolario, sai essere
precisa e puntuale nel tratteggiare ambienti, vestiari, persone... su
questo ti devo fare tantissimi complimenti!
In
alcuni punti però ho notato delle ripetizioni, te le segnalo:
1)
il cielo azzurro per rincorrere la loro guida, a volte erano
disobbedienti e lascive e si attardavano, languide, gonfiandosi alle
spalle della loro guida nel tentativo maldestro:
“guida” e “guida”
2)“Le
scarpe, delle Brogue Wingtips nere e affilate, tirate così a
lucido che sembravano appena tirate fuori dalla confezione, sbucavano
da sotto un paio di ghette bianche sotto un paio di braghe
gessate,” = “tirate” e
“tirate”; “sotto un paio” e
“sotto un paio”.
3)
“Ma lei calò la mano e tentò di aprire
la porta. Stava già tentando di scuoterla un'altra
volta” = “tentò” e
“tentando”
4)
“Puoi lavarti anche i capelli, se vuoi. Ma non sfregare sotto
l'attaccatura dei capelli...lì versa solo acqua. E con molta
cautela” la istruì lui.” = ripetizione
di “capelli”
5)
“su cui si affacciavano solo le porte di due stanze separate
– che andava ad affacciarsi su un terrazzino traboccante ogni
sorta di esemplare vegetale” =
“affacciavano” e “affacciarsi”
6)
“la camicia a collo alto era fermata sul collo da un bel
fiocco rosa cipria” = ripetizione di
“collo”.
- Originalità e
credibilità della trama: 8/8 Beh...
sull’originalità non si può certamente
obiettare! ^^ Tutti i miei complimenti per l’idea che hai
avuto, per la capacità di svilupparla e di lasciare nel
lettore quegli interrogativi che lo costringono ad arrivare fino alla
fine. La credibilità ci sta tutta... certo, non ho potuto
dirlo fino alla fine, perché finché Danjal non
confessa la verità su Dasa... della trama si capisce poco o
niente! Poi però tutto diventa chiaro e ben strutturato.
Certo, tanti dubbi rimangono (ad esempio... come può essere
lì Danjal ancora dopo un secolo? Chirurgia plastica estrema?
Si è meccanicizzato pure lui... o che?), ma questo fa parte
del tipo di storia che hai scelto: una di quelle che spiegano e non
spiegano. Esistono in letteratura e se va bene per i super editori va
bene anche per me! ;) Davvero brava!
Caratterizzazione dei personaggi:
8/8 La
caratterizzazione dei personaggi è ben curata, hai dato
particolare peso ai dettagli, alle sfumature, ai cambi
d’umore. Non ho fatto nessuna fatica a immaginare Dasa e
Danjal come persone reali, devo dire che da questo punto di vista hai
fatto un ottimo lavoro!
- Sviluppo
dell’emozione: 4/5 Lo sviluppo
dell’emozione mi ha lasciata parecchio indecisa. Il disprezzo
inizialmente c’è, sia di Dasa verso Danjal per
come lui la tratta, sia di Danjal verso Dasa per motivi che a lei
paiono incomprensibili. L’emozione inoltre ha anche un suo
particolare sviluppo: Danjal alla fine accetta Dasa benché
sia così diversa dall’originale e lei, scoperta la
verità, smette di disprezzare lui e si limita a essere grata
di esistere. Quindi 4 punti per l’emozione ci sono
decisamente tutti, ma non ho potuto darti il massimo perché,
rispetto ad altre storie, il disprezzo non la fa da protagonista come
era l’obiettivo del contest. C’è, viene
nominato, ma non è l’emozione portante e chi legge
lo percepisce in superficie ma non riesce a condividerlo con i
protagonisti. Per questo ti ho dato un punticino in meno.
- Utilizzo della frase: 4/4
L’utilizzo della frase è decisamente interessante,
mi ha stupito il modo in cui sei riuscita a calare le parole nella
trama. Inoltre la frase non è lasciata cadere
così, tanto per fare, all’interno del contesto, ma
ha una sua importanza centrale. Certo, non lo si capisce subito, ma una
volta arrivati in fondo a tutti i misteri ci si rende conto del suo
reale significato. Punteggio massimo ben meritato!
- Gradimento personale: 5.8/6
Il mio gradimento è stato indubbiamente alto, apprezzo il
genere, lo stile, l’originalità, il finale...
insomma, l’intera storia mi è piaciuta moltissimo
e ti dico con sincerità che potrebbe tranquillamente
confondersi con un libro già in vendita! ^^
L’unico problema che mi ha un po’ pesato nella
lettura è che, fin quasi alla fine, uno va avanti a leggere
senza capire niente... E’ ovvio che non sia chiaro il fattore
dei “tempi diversi”, della prigionia, di lei che
non ricorda... fa parte della trama; però andare avanti a
leggere e non capire per svariate pagine, può diventare un
po’ pesante. Questo è l’unico neo
rilevato in una storia altrimenti splendidamente strutturata!
PS:
ho trovato bellissimo il pensiero di Dasa quando, trovando Danjal
vestito come lei, pensa che insieme non sono sbagliati per il tempo, ma
è il tempo a essere sbagliato! ^^
-
TOT : 44.10/47 punti
|
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Capitolo 2 *** Ostaggio ***
Lui
le aveva fatto la strada e lei, per riempire il vuoto di
una comunicazione che non aveva nemmeno accennato un timido decollo, si
era concentrata sullo studio dettagliato di quello strano uomo, mai
visto prima, che sembrava conoscerla così bene. Non
apparteneva
certamente alla servitù, viste le stoffe e la fattura
pregiate dei capi
che indossava. La pelle naturalmente dorata ma non scottata dal lavoro
nei campi lo posizionava, sicuramente, nella nobiltà. I
capelli erano
neri come la notte e gli occhi sembravano due tizzoni roventi in
qualche modo sedati da uno strato ghiacciato. I lineamenti erano
spigolosi ma non erano di così facile attribuzione etnica.
Che fosse il
suo fidanzato? Possibile? Facendo mente locale, aveva scoperto di non
ricordare molto della sua vita prima.
Solo sprazzi di immagini
significative, fotogrammi di quel cinema sfarfallante cui aveva
assistito in compagnia....in compagnia di chi? Non lo ricordava.
Eppure, ne era certa, era stato uno spirito libero.
Quando i primi camerieri li notarono e corsero a chiamare il
maggiordomo, lo vide rilassarsi.
“Padron
Danjal...” lo apostrofò il vecchio servitore. Era
stempiato e canuto,
con grossi baffoni che gli coprivano le labbra e un paio di pince-nez a
cavallo del naso aquilino.
Danjal folgorò con lo sguardo il vecchio
servitore, ma disse solo “Ringrazia il cielo che non sia
successo nulla
a Dasa, in tutte le volte che le avete consentito la fuga.”
quindi,
l'afferrò per il polso e la strattonò all'interno
della grande casa.
“D'ora in poi vigilerò io stesso sulla tua
sicurezza. Non ti
abbandonerò mai più” ringhiò
in un suono gutturale simile a una bestia.
La
condusse, ora con una gentilezza sconcertante, lungo gli ampi corridoi,
fino a raggiungere il grazioso salottino in cui Dasa prendeva
abitualmente il tè delle cinque.
“Accomodati” la invitò, lasciandole la
mano e affacciandosi un istante oltre la soglia, forse a dare ordini
alla servitù.
“Faccio
già come se fossi a casa mia. Da due settimane. Non ti
disturbare”
avrebbe voluto rispondergli sprezzante. La realtà era che si
sentiva
stordita e avere qualcuno che le dicesse cosa fare le rendeva tutto
più
semplice.
“Dasa, Dasa...” mugugnò Danjal andando a
prendere posto
nella poltroncina accanto al sofà dove si era accomodata,
computa e
impettita. Appoggiava il viso sulla mano, l'indice vicino all'occhio,
quasi a massaggiarsi la tempia, le altre dita quasi a coprirgli la
bocca. Sembrava studiarla e valutare come comportarsi. Si
alzò,
evidentemente a disagio, e passeggiò fino alla grande
finestra. “Mi hai
molto deluso” disse infine.
Lei sgranò gli occhi. Deluso? Chi? Quel
damerino che neanche faceva lo sforzo di presentarsi? A distanza di
oltre due settimane. Avrebbe voluto ridergli il faccia, ma si
trattenne, come si addiceva a una signorina di buona famiglia.
Passò
un minuto buono, durante il quale Danjal non fece che fissarla
insistentemente. Il leggero bussare del maggiordomo, spezzò
la tensione
e il giovane gli consentì di entrare, armato di
tè speziato, il cui
aroma si diffuse istantaneamente in tutta la stanza, impregnando ogni
angolo.
Ora Dasa sapeva che il nome del vecchio era Bies: finalmente qualche
informazione su cui elucubrare.
Bies...
Quel nome le scatenò un lawāmi,
un lampo di cocienza, come lo chiamano i Sufi di cui aveva tanto letto
prima della reclusione.
Con
uno scatto meccanico, che forse sentì solo lei, le rotelle
del cervello
completavano una parte del complesso puzzle. Dasa, Danjal e Bies erano
tutti nomi legati a qualcosa... a qualcosa che, a sua volta era legato
allo stemma che ricorreva in tutta la casa come un marchio, sulle
maniglie, nella carta intestata, sui cancelli, sulle posate e sui
servizi di finissima porcellana come sui ricami decorativi delle
redingotte e dei grembiuli della servitù: due triangoli
rovesciati, la
base in comune e le estensioni che si arricciolavano a creare la
struttura di una A, la cui stanghetta orizzontale era composta da una V
in carattere tipografico. Poi, le parole del giovane risultarono essere
particolarmente evocative quando, rampognando i servitori, si
appellò
al nome del casato: Alastor era il nome che legava tutto e che, dal
profondo della sua memoria, cercò di trascinare in
superficie tutto ciò
a cui esso era vincolato. Quasi per avvisarla.
Danjal si interruppe
all'improvviso e congedò l'uomo. Quindi, sigillò
la porta con un giro
di chiave che si infilò nel taschino
“Dasa?” chiamò, distraendola dal
suo tentativo di comprendere.
“Ha detto che l'ho deluso” disse
soltanto fissandolo in quegli occhi impenetrabili. Lui
sbuffò e si
sedette scompostamente, facendola arrossire.
“Ti lascio sola per un
po' di tempo...e guarda cosa mi diventi...” sputò
con livore. Dasa era
sconcertata. Cos'aveva mai fatto? Oltre indossare i pantaloni e andare
in bicicletta? E, ovviamente, mal sopportare il controllo maschile
sulla sua persona. “Io ti avevo creata in un modo. E tu sei
diventata
tutt'altro. ”
Quell'uomo non conosceva bene le parole o, forse, non
voleva usarle, pensò. Quello che provava non era solo
delusione. Era
qualcosa di più profondo e cocente: era disprezzo.
E c'erano tanti
modi per dimostrarlo, non che uno risultasse meno abominevole o
più
facile da sopportare di un altro. Poteva fingersi offeso o deluso;
avrebbe potuto anche decidere di prendersi gioco di lei, con ferocia e
cattiveria; o sbandierare ai quattro venti i motivi per cui lei
l'avrebbe deluso (e in virtù di quale rapporto, tanto per
completezza
d'informazione); o, ancora, fingere di non considerarla abbastanza
importante da degnarsi di risponderle, anche se questo atteggiamento
avrebbe avuto ragion d'essere solo nel caso in cui lei, la colpevole,
avesse dimostrato attaccamento nei confronti di quell'uomo che
cominciava a infastidirla coi suoi modi arroganti. Poteva, altre
sì,
decidere di fregarsene e non calcolarla proprio, se era un
così grande
errore. Ma, visto che lui aveva scelto la tattica più
crudele, cercando
di farla sentire in colpa, senza fornirgli alcun contesto, motivazione
o scusa, lei si sarebbe attenuta a quell'ultima opzione. Disprezzo
chiamava disprezzo, soprattutto se gratuito e ingiustificato.
Perché
poteva pure disprezzarla per comportamenti vergognosi che non avesse
capito. Ma lui sembrava capire e non accettare, di conseguenza, il
fatto che lei fosse uscita dal seminato. Un seminato, a suo avviso,
totalmente invisibile.
Così, incrociò le braccia, rifiutando il
tè e cercando di convincersi di essere sola nella stanza.
Danjal,
nel frattempo, si era coperto gli intensi occhi neri venati da bagliori
rossastri con la mano, quasi a schermarsi da una visione orrenda.
Rimasero in quella posizione di stallo per lunghi minuti.
Dasa aveva
finito per sorseggiare il suo tè, senza averlo realmente
gustarlo,
troppo infastidita da quella strana situazione. Poggiò la
delicata
ceramica sul tavolino intarsiato e fece per alzarsi: il suo ospite non
esisteva, non era presente nella stanza – continuava a
ripetersi - e,
dunque, lei era libera di fare come se fosse stata sola. Ma Danjal
sollevò subito lo sguardo infuocato, incenerendola e Dasa
cercò di
ignorare la sensazione sgradevole che ciò le comporta.
“Dove vai?” le domandò non appena le sue
dita sfiorarono la maniglia, dimenticandosi che fosse chiusa a chiave.
Un
attimo di esitazione: sarebbe stata cortesia rispondere. Ma lei
calò la
mano e tentò di aprire la porta. Stava già
tentando di scuoterla
un'altra volta, convinta che fosse solo bloccata, quando Danjal la
strattonò, reclamando la sua attenzione
“Non ti ho dato il permesso
di andartene” sibilò irritato. Dasa lo
studiò, ora, con malcelato
fastidio. Quindi abbassò lo sguardo sul proprio polso, quasi
potesse
cambiare le cose solo osservandole. “Torna a sedere, dobbiamo
parlare”
Il tono si era fatto improvvisamente gentile. Tutto le puzzava di
imbroglio, ora. Lui si sedette, lei, orgogliosa, rimase in piedi,
appoggiata pervicacemente alla porta: la posizione le dava un senso di
sicurezza, quasi potesse fuggire in un istante di distrazione del suo
nuovo carceriere. Notata la sua muta risposta, Danjal fece spallucce
“Come preferisci”
“Dunque, Dasa...” cominciò, studiandola
intensamente, dopo un attimo in cui, forse, aveva raccolto le idee. Le
braccia erano abbandonate sul grembo, le lunghe gambe accavallate
pigramente: decisamente un atteggiamento poco signorile. Dasa
assottigliò gli occhi: si era fatta confondere dall'aspetto
di
quell'uomo e non sarebbe caduta due volte nello stesso errore.
“Immagino che tu non ti ricordi di me. Altrimenti non credo
proprio mi
guarderesti a quel modo e non mi parleresti così
freddamente” Un
sopracciglio, scettico, scappò involontariamente al suo
controllo:
pensava di avere a che fare con una stupida?
“No, Messere, sono
sicura di non aver mai avuto il piacere di incontrarla né,
tanto meno,
conoscerla” replicò fredda. La buona educazione la
spinse a rispondere
a mute domande anche quando non avrebbe desiderato far altro che
andarsene di là
Lui chinò il capo, meditabondo. Quindi, sospirò
“Ti
ho creata io così...ma certo non pensavo di correre un
rischio simile.
Sono stato via per un po'... e sei diventata così
indisciplinata. Vesti
anche alla maschiaccia.” scosse la testa, deluso
“Oggigiorno, l'epiteto
corretto per designare una donna come te sarebbe teppista.”
A Dasa
sfuggiva qualcosa, qualcosa di importante. Ma non diede a vedere questa
sua ignoranza per non mettersi, da sola, in posizione di svantaggio.
Lei era fiera, orgogliosa. Forse un po' restia alle leggi impartite
dalla classe maschile. Forse, durante la sua prigionia, quei termini
avevano assunto un valore spregiativo. “Io sono il padrone di
questa
tenuta” si presentò, finalmente, Danjal
“Io ho creato – e sono quindi,
a ogni buon diritto, possessore – tutto ciò che
trova all'interno del
perimetro che tu, così spesso, hai valicato senza
permesso”
“Mi permetto di dissentire” disse lei,
interrompendolo con voce calma ma ferma “Io ero
prigioniera.”
“Certo.
Io stesso ti ho rinchiusa in quella stanza” le
rivelò senza il minimo
segno di rammarico “Io ti ho creata per quello che
sei”
“Mi ha
creata il Padreterno, compresa la mia vena ribelle. Lei, per quanto ne
so, potrebbe, eventualmente, aver solo alimentato una tendenza
preesistente” sibilò lei, punta nel vivo
“Inoltre, un così abile
carceriere, non dovrebbe liberare la sua preda”
“Il tuo abile
carceriere, come mi chiami tu, ti ha rinchiusa lì dentro
solo per il
tuo bene. Mi sono dovuto assentare e ti ho messo al sicuro. Nessuno
doveva trovarti” replicò lui, freddo.
C'era qualcosa che non
tornava, in tutto il suo ragionamento. O forse, lei non era in grado di
comprendere un essere così cinico e calcolatore. Era
disgustata dalla
sola possibilità che esistessero persone del genere.
“Benissimo”
acconsentì, reggendogli il gioco “Allora gradirei
che il mio Signore mi
concedesse il permesso di farmi un bagno. Due settimane e la
servitù mi
ha impedito l'accesso ai bagni. Non mi sembra il trattamento che deve
ricevere qualcuno che va protetto”
“L'acqua fa male” tagliò corto lui,
considerando chiuso il discorso.
Dasa
trasecolò. “Ma...” obiettò,
incapace di credere alle proprie orecchie
“Ovunque nel mondo esistono addirittura sistemi pubblici per
l'igiene
personale: dalle saune dell'estremo nord, agli hammām delle
regioni
arabe ai bagni pubblici giapponesi... e già ai tempi dei
romani...”
“Basta
così!” tuonò l'altro, spazientito,
mettendola a tacere “Le tue
fantasie, alimentate dalle assurde mode di quest'epoca così
bizzarra,
qui non troveranno alcuno sfogo. L'acqua fa male. Il bagno in
sé, fa
male. Porta le più terribili malattie se non anche alla
corruzione,
visto che mi citi proprio l'epoca romana. Fine della
discussione”
Dasa,
a quel punto, abbandonò ogni pretesa di cautela,
infervorandosi “Oh,
certo, Padrone, allora perché non mi obbligate a rientrare
nell'orrenda
gabbia di tortura che è il corsetto? Perché non
mi impedite ancora i
movimenti con innumerevoli crinoline? I medici, e addirittura gli
architetti, di tutto il mondo sono concordi nel demonizzare un certo
codice suntuario che prevede...” l'improvvisa, quanto
sguaiata, risata
di Danjal la interruppe, facendole stringere i pugni per mantenere la
calma
“Una suffragetta... Ci manca solo che tu voglia tagliare
anche i tuoi bei capelli...”
Avrebbe
voluto rispondergli che anche in paesi – che loro
consideravano –
arretrati, come quelli del vicino oriente, proprio in quegli anni, i
giovani stavano lottando dispotismo e sessismo, ottenendo grandi
risultati. Ma era meglio tacere le informazioni che aveva acquisito dai
libri: guai che quello pensasse anche che dovesse rimanere illetterata.
Improvvisamente si trovò a desiderare essere altrove.
Avrebbe voluto
avere l'arguzia e la mente fredda della sua eroina, Sharazade e far
capitolare quel borioso che si permetteva di trattarla come una
bambola. Ecco cosa voleva: che lei stesse zitta, che non pensasse e si
limitasse a essere graziosa. Come una bambola. Ma lei, a differenza
della principessa persiana, non aveva la lingua lunga e tagliente
né
era abbastanza colta per rigirarlo come un calzino. Chiuse gli occhi un
istante, cercando di calmarsi.
“Chiedo solo di potermi fare un
bagno. Anche alla fonte, se all'interno della villa i bagni sono
così
sporchi da ospitare colonie di ratti. Devo indossare i guanti anche per
mangiare...” protestò.
Danjal la studiò intensamente. Aveva soffocato una risata
quando lei aveva accennato ai ratti ma si era subito ricomposto.
Si batté, quindi, i palmi delle mani sulle cosce, prima di
alzarsi “E sia... ma ti laverò io”
impose.
Dasa
sbiancò. Non c'era proprio limite al peggio. Certo, una
signorina di
buona famiglia non poteva certo arrangiarsi nello sbrigare compiti
tanto terreni. Ma farsi lavare da un uomo era fuori discussione: quello
doveva essere malato. Ricordava qualcosa degli scritti di Freud. Certo
era che aveva qualche disturbo serio se non si accontentava nemmeno di
spiarla.
“A te”
precisò lui, vedendo la strana espressione sul suo
viso “...l'acqua fa male! E nessuno della servitù
saprebbe come
comportarsi nel caso ti succedesse qualcosa.”
“Mi lavo da sola!” protestò lei,
imbarazzata
“Oh,
ma guarda...finalmente un residuo della Dasa che avevo creato... dimmi,
amore mio, ora ti ricordi anche di me?” domandò
divertito mentre la
raggiungeva. Le passò molto vicino, nel tentativo di
raggiungere la
maniglia. Una vicinanza sgradita e inappropriata.
Ma subito si avviò
lungo il corridoio. Non l'attese, anche se, sicuramente, s'aspettava
che lei lo seguisse. Dasa non rispose alla domanda e trottò
al suo
seguito, rapita da un dettaglio che continuava a comparire nel loro
scambio di battute: lui continuava a porsi come suo creatore. Ma in
quale senso? Se l'aveva iniziata alla libertà del corpo e
della mente,
come poteva, ora dirsi così contrariato?
La condusse nei sotterranei
umidi della villa, illuminati da strane torce appese direttamente al
soffitto. Era la prima volta che penetrava in quella parte della
residenza e si guardava attorno con l'aria stupita e rapita di un
bambino. Sembrava quasi – si vergognò nel
formulare l'ipotesi – un atto
di stregoneria. Idea assurda, suggerita da letture assurde, ma che
avrebbe giustificato alcune cose.
Si riscosse quando sentì l'uomo
armeggiare con gli ingranaggi di una pesante porta di legno massiccio.
Al di là della soglia si estendeva un ambiente magnifico che
le
ricordarono, ancora, le sue letture esotiche. Maioliche decorate sulle
pareti, mosaici sul fondo di una vasca grande quanto due stanze. Fiotti
bianchi sgorgavano incessanti da diverse fonti, riportando quel fondale
decorato sul pelo dello specchio d'acqua e creando giochi ottici di
spettacolare bellezza.
Danjal le indicò un paravento “Farai il bagno
nella vasca più piccola” disse indicando una
piccola conca poco
distante dalla grande vasca.
“Mi arrangio, grazie!”
Lui sbuffò, forse arresosi, ormai, alla sua testardaggine
“Resterò dietro il paravento...”
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Capitolo 3 *** Lo specchio è una creazione del demonio! ***
L'acqua
era straordinaria: naturalmente profumata e calda alla giusta
temperatura, Dasa fu tentata di assaggiarla per scoprire se avesse
anche un gusto particolare.
Sul bordo della piccola vasca trovò, cosa che prima non
aveva notato, una spugna, una spazzola e diverse boccette profumate.
“Quelli sono i saponi... Non sono un granché:
erano quelli che avevo a disposizione al momento”
“Sono buonissimi!” replicò lei
entusiasta stappando una bottiglia dopo l'altra: ora sì che
le sembrava di essere in uno dei suoi libri
“Almeno hai una spugna naturale...”
borbottò Danjal affacciandosi dal paravento, costringendo
Dasa a immergersi completamente, fino a coprire anche la bocca
“Non così!” le ordinò
“Questo sì che è pericoloso! Comportati
bene o ti tiro subito fuori di lì”
“Come se
potessero esistere spugne artificiali” avrebbe
voluto ribadire, ma la precisazione le passò di mente quando
lui si affacciò tanto sfacciatamente dal sipario
“E tu non guardare!” strepitò lei.
Danjal la accontentò subito. “Sono contento che
almeno ora tu riesca a essere meno formale, Dasa...”
“Mi avete mandato su tutte le furie” rispose la
giovane, affrettandosi a correggere l'errore
La voce di Danjal suonava, ora, divertita. “Si, certo...come
sempre...”
“Che vuol dire?”
“Che ho deciso di mostrarti qualcosa che potrebbe
meravigliarti...”
“Dubito esista ancora qualcosa in grado di muovermi
stupore”
“Mi sembrava fossi affascinata da questa stanza”
“Certo...è molto bella... e anelavo disperatamente
un bagno caldo...” replicò prontamente
“Senta...” disse appoggiandosi con le braccia al
bordo della vasca “Ha qualche controindicazione per la brusca
e la spugna?” domandò una volta che si fu
profumata con quello strano sapone liquido e viscoso
“Puoi lavarti anche i capelli, se vuoi. Ma non sfregare sotto
l'attaccatura dei capelli...lì versa solo acqua. E con molta
cautela” la istruì lui.
“Sarà fatto...” sbuffò lei.
Cosa mai poteva avere, di strano, la sua nuca?
Quando riemerse dalla pozza d'acqua, incolume e fasciata in soffici
teli di cotone, Danjal si precipitò al suo fianco con un
secondo telo, tamponandone delicatamente la pelle della schiena. Le
prese, quindi, i capelli, spazzolandoli con cura. Ma a Dasa parve che
la sua attenzione fosse focalizzata, ancora una volta sulla nuca.
Quando fu praticamente asciutta, lui si defilò, lasciandola
da sola a vestirsi. Subito, la giovane ne approfittò per
riguadagnare lo specchio d'acqua e scrutarsi il collo. Ma non
riuscì a vedervi nulla di strano. Si rivestì,
quindi, con abiti nuovi e profumati, che non le appartenevano ma che
erano totalmente nelle sue corde e che le andavano anche a pennello.
Avrebbe voluto poter contemplare la visione d'insieme. E un'idea
fantastica arrivò in suo aiuto
“Danjal?” chiamò e quello si
materializzò al suo fianco senza produrre il minimo rumore
“E' possibile avere uno specchio? Vorrei poter vedere se
sembro tanto ridicola” disse indicando i vestiti.
Alla sua richiesta, però, l'altro parve rabbuiarsi
“Lo specchio è una creazione del
demonio!” sibilò. “Stai benissimo, non
hai bisogno di altre conferme”
Dasa lo guardò esasperata “Se non me lo procura
lei, troverò un modo per arrangiarmi, può starne
certo...”
Danjal levò gli occhi al cielo “Sì, ti
conosco abbastanza bene da sapere che saresti capace di arrampicarti
sui mobili e distruggermi un lampadario di cristallo pur di ottenere un
frammento utile...seguimi...” La condusse, quindi, di nuovo
su per la scala da cui erano scesi e poi ancora su per altre rampe che
non aveva mai esplorato. Quella villa sembrava più grande di
quanto le fosse sembrato fino a quel momento. Anzi, sembrava quasi un
organismo vivente, che cresceva e si modificava.
Salirono al piano più alto, illuminato dal grande lucernario
sul soffitto. Oltre l'ultimo gradino si estendeva un largo e corto
corridoio – su cui si affacciavano solo le porte di due
stanze separate – che andava ad affacciarsi su un terrazzino
traboccante ogni sorta di esemplare vegetale che l'uomo potesse aver
mai visto. Un piccolo giardino pensile, mistico e proibito che a Dasa
ricordò il meraviglioso Crystal Palace dell'esposizione
universale. Danjal la guidò oltre la porta sulla sinistra e
quando vi mise piede, Dasa rimase esterrefatta. Le pareti erano
completamente rivestite di superfici riflettenti. Sembra essere una
pinacoteca privata adibita alla raccolta di specchi di ogni forma e
grandezza. Al centro della stanza stava un letto matrimoniale, grande e
spartano, rispetto a quelli che ricordava. Le lenzuola, dall'aspetto
caldo e peccaminoso, erano di raso di seta nero come la notte ma
l'insieme era spoglio delle classiche strutture che completavano il
talamo. Non che nella camera di un uomo si aspettasse il baldacchino,
ma almeno una raffinata testiera in metallo sì.
Scivolò oltre il modesto e incongruo giaciglio e si mise a
studiare ogni tipo di oggetto appeso alle pareti. La sua attenzione
continuava ad essere calamitata su uno specchio gigantesco che occupava
tutta una parete. L'unico altro spazio apparentemente vuoto di tutta la
stanza, oltre a un angolino in cui era confinata una scrivania
così minimale che Dasa si domandò se dovesse
ancora essere portata a termine.
“Una creazione del demonio, eh?”
ridacchiò nervosamente addentrandosi all'interno.
“Quello è un armadio” la
informò generosamente Danjal, divertito dal suo stupore e
sorvolando sul suo commento. Dasa si avvicinò, osservando la
figura gemella che le si avvicinava come ipnotizzata. “E meno
male che nulla avrebbe più potuto sorprenderti”
sghignazzò lui.
“Ritiro tutto” disse lei con umiltà, un
filo di rammarico le incrinò la voce. Notò subito
la scanalatura che correva, precisa e regolare, per tutta la lunghezza
di quella lastra.
“Devi premere, per aprirlo”
Sotto il suo tocco, avvertì il vetro scattare verso di lei.
“Posso?” domandò all'ultimo,
ricordandosi di cosa si trattasse. Lo vide, riflesso nel vetro, fare un
gesto vago con la mano e andarsi a buttare sul letto ancora tutto
vestito. Non che desiderasse che si spogliasse! Ma certo non era
d'accordo sull'insozzare quelle lenzuola, apparentemente fresche di
bucato, con gli abiti sporchi della giornata. Distolse lo sguardo e
tornò al suo strano specchio e ne assecondò i
movimenti espansionisti. In realtà, al posto di invadere lo
spazio antistante, le ante, accompagnate, andarono a sparire nei lati
della strana struttura, rivelandone il contenuto: vi stavano stipate
centinaia di scarpe di ogni foggia e colore, giacche con strani tagli
sartoriali, pantaloni confezionati con i materiali più
disparati. Frastornata dal contenuto, Dasa si affrettò a
richiudere con cura l'armadio.
Sollevando lo sguardo smarrito, si trovò a osservare la
propria figura. Ora era vestita con un corto bolerino a righe panna,
ecru e muschio, i cui rever erano impreziositi da diversi bottoni che
sembravano ingranaggi zincati assemblati assieme; la camicia a collo
alto era fermata sul collo da un bel fiocco rosa cipria che nascondeva
l'attaccatura degli jabot che ne valorizzavano lo scarso seno. La gonna
era il pezzo più complesso e particolare. Indossandola non
aveva avuto affatto percezione dell'effetto finale: la baschina a vita
alta, solcata trasversalmente da un paio di fibbie, era in un materiale
resistente simile alla pelle scamosciata e che, a colpo d'occhio
simulava l'effetto di un vero bustier pur senza costringerla realmente;
al di sotto, nella stessa stoffa della giacca, si estendeva un'ampia
gonna trattenuta alta su un fianco, in modo da permetterle di camminare
agevolmente. Nessuna crinolina, al di sotto, a renderla vaporosa, solo
l'uso sapiente di stoffe e tagli adeguati. Al suo posto, un paio di
brache, di foggia maschile, aderenti e in tinta con la rigatura del
completo, scivolavano all'interno di comodi stivaletti da aviatore.
“Soddisfatta?” domandò Danjal incerto
della sua reazione
Dasa annuì “Molto” confermò
in tutta onestà.
Lo vide alzarsi dal letto e dirigersi verso la scrivania.
“Almeno l'onestà ti è
rimasta” commentò soddisfatto
“Raccogliti un attimo i capelli” le
ordinò mentre si srotolava in mano un prezioso strangolino
di pizzo con un grosso cammeo centrale.
Nell'afferrarsi, docilmente, i capelli – mai contraddire il
proprio carceriere, padrone o qualunque altra figura fosse, quando
vuole farti un presente – Dasa si ricordò il
motivo per cui aveva, in realtà desiderato uno specchio. Con
abile noncuranza si volse appena verso il suo ospite, tendendo
però la coda dell'occhio alla propria nuca.
“Voltati!” la redarguì subito lui, quasi
che fosse spaventato che lei potesse, inavvertitamente, scoprire
qualcosa. E quel comportamento stava, sempre più,
alimentando la sua curiosità. Fingendo di accontentarlo,
cercò negli altri specchi un riflesso che le tornasse utile.
E lo vide. Sulla sua pelle bianca campeggiavano tre simboli, in una
grafia che non era certo europea. Non erano caratteri arabi
né asiatici.
Un'altra lawāmi
la investì come un fiume in piena con la sua sconvolgente
rivelazione: era ebraico. E ricordava la scritta europea NON.
Si volse, apparentemente ignara di tutto, verso l'uomo che avanzava.
Quando lui le cinse il collo con quel pezzo di stoffa e alzò
gli occhi sul loro riflesso per osservare la propria opera,
trovò gli occhi chiari di lei che non lo perdevano di vista
un secondo e lo fissavano esigendo una risposta. “Cos'ho
scritto sul collo?” si sentì domandare a
bruciapelo.
Danjal strabuzzò gli occhi, quindi abbassò lo
sguardo sulle spalle di lei, lisciandole grinze inesistenti.
“Non mi crederesti...”
Dasa roteò gli occhi. “E perché
mai?” domandò con acredine
“La Dasa che ho creato io...che eri... non mi crederebbe
mai...” disse sconfortato.
Dasa avrebbe voluto urlare per la frustrazione. Quell'uomo si stava
dimostrando schizofrenico, mettendo in scena una tale
varietà di emozioni e comportamenti paradossali che avrebbe
potuto scriverci un libro. Era degna di così poca fiducia se
anche fosse stato vero che si conoscevano e che lei era una sua creatura?
Mani ai fianchi, in una posa aggressiva e altera, si voltò a
fronteggiarlo “Non so che idea lei abbia di me, ma io non
sono la bambolina che crede. Non mi faccio sconvolgere da cose da poco
come una qualunque ragazzina svenevole”
“Forse hai ragione...” ammise lui seduto, ora, ai
piedi del letto, le lunghe dita intrecciate davanti alla bocca
“Allora?” sbottò impaziente.
“Perché tanta acredine? Tu eri dolce. Guarda che
non ti sono nemico...” disse nel tentativo di calmarla e
guadagnare un po' di tempo
“Se mi ha plasmato secondo il suo volere, strappandomi alla
mia famiglia natia non dovrebbe meravigliarsi dei risultati. Forse non
è stato un buon maestro” lo schernì
lei, sprezzante
Lui si rabbuiò nuovamente “Perché non
hai alcun ricordo di me? Sono quello che chiamavi se piangevi ogni
sera. Eppure, allo stesso tempo, sono quello che un po' odi e che ora
un po' ti fa paura” disse scuotendo la testa sconsolato
“Dove posso aver sbagliato stavolta?”
domandò rivolto a se stesso e quasi dimentico della giovane.
“Cosa. Ho. Scritto?” sillabò lei, ora
esasperata.
“Non spaventarti...” cominciò lui
“Tu...sei, effettivamente, una bambolina... e non solo
perché sei graziosa, o fragile, o piccolina.” si
affrettò a precisare notando lo scetticismo sul suo volto
“La verità è che tu sei...una mia
creazione...sei un, cosiddetto Golem.”
“Non mi prenda in giro” ribatté lei, per
nulla impressionata “I Golem sono impossibili da creare.
Anche se fosse, dovrei essere un gigante. Ho letto i diari di Ahimaaz
ben Paltiel nei quali segnala le notizie, del nono secolo, relative al
Golem di Maleventum e alla confraternita di Uria dedita a
crearli”
Lui annuì, lieto di non averla spaventata e che, per lo
meno, conoscesse parte della storia “Ahimè, non ho
trovato alcun materiale al riguardo e mi sono dovuto attenere ai
resoconti del rabbino Jehuda Löw ben Bezalel di Praga,
cercando di evitare i suoi errori. Tu, come tutti i servitori della
villa, siete mie creazioni. La parola che portate sulla nuca, emet,
verità, è l'unico modo per infondere vita a un
corpo senz'anima. Testi antichi parlavano di problemi legati a questa
pratica, alla perdita di controllo della propria creatura, come hai
giustamente ricordato tu. E prima di te, molti tentativi si sono
rivelati fallimentari. Tu sola sembravi perfetta...”
“Ha detto che anche la servitù sarebbe una sua
creazione” lo pungolò scettica
Lui annuì “Loro, però, sono solo dei
fantocci senz'anima. Dei veri Golem.”
“Non credo proprio di essere un mostro come quelli dei
romanzi di Mary Shelley. Non è stato lei a
dire...” l'interruppe Dasa, per niente impressionata
“Io ho ricordi!”
“In te ho cercato di riportare l'anima della mia amata Dasa.
E sei effettivamente lei, sotto molti aspetti. Ti sorprenderesti dei
passi avanti fatti dagli uomini in questo senso.” tacque,
valutando se procedere con il racconto “Per te è
stata una lunga prigionia. E a ben vedere, in effetti, può
definirsi anche tale. In realtà, si è trattato di
un lungo, lunghissimo sonno. Da quando sei morta a quando ti ho
trapiantata in questo corpo. Dormivi serena e pensavo che il tuo
risveglio non sarebbe avvenuto se non dopo molto tempo. Per quello mi
sono permesso di allontanarmi. Invece... Sono stato avvisato
immediatamente dell'accaduto. Ma rientrare è stato
più complicato del previsto”
“Due settimane non sono tanti, ovunque lei
fosse...” lo giustificò lei
“Due settimane sono un'eternità nel mondo di oggi.
Dimmi. Quanto credi di aver dormito? O di esser stata
rinchiusa?”
Dasa meditò a lungo. Aveva pochi indizi su cui sviluppare la
sua tesi. Ma la risposta più congrua alle sue constatazioni
entravano in conflitto con la sua percezione temporale. Scosse la
testa, arrendendosi
“Siamo nel 2035” Sussurrò piano Danjal
piantando gli occhi neri nei suoi “E' passato più
di un secolo. E quei vestiti, prima che te lo domandi, non sono il
normale modo di vestire delle signore del tempo, bensì
quello di un sotto gruppo di freak,
chiamato Steampunk.
Tu non sei che il suo clone, come si direbbe oggi. Ed ero troppo
affezionato al tuo corpo meccanico, su cui ho cominciato a lavorare
pochi mesi dopo la tua reale dipartita. Certo...” sorrise
stancamente “Oggi avrei potuto usare l'ingegneria genetica e
ricrearti tale e quale. Ma la divisione cellulare, spesso, va per i
fatti suoi, come nel caso di due gemelli apparentemente identici. La
moderna robotica non consente ancora, paradossalmente, risultati motori
eccezionali com'era invece possibile a inizio secolo.
Ogni tuo ingranaggio, ogni tuo bullone, l'ho selezionato personalmente
tra centinaia; a volte ho costruito io stesso degli ingranaggi che mi
servivano e che non esistevano.
Ecco perché l'acqua è così pericolosa,
per te.
Inoltre, non avevo cuore di marchiarti a fuoco, come una bestia, o
tatuarti come un galeotto, anche se ora si usa e nessuno si
sorprenderebbe. Ho usato la preziosa henna che tanto
adoravi ma che è sensibile ai lavaggi. Non voglio correre il
rischio di cancellare la scritta...”
“Da emet
a met,
morte” concluse lei. Era, effettivamente, dura da mandar
giù come notizia. Ma, stranamente, non le importava
più di tanto cosa fosse. O cosa lui credesse che lei fosse.
Era viva, e tanto le bastava
“Il risultato, tuttavia, ancora una volta, è
dissimile dall'originale.” mormorò afflitto
“La Dasa che amavo era sì indipendente ma non era
così sfrontata. Era graziosa e pacata. Tu sei un vero
monello.”
Ecco spiegata la sua ostilità e il suo comportamento a
tratti crudele: lui la disprezzava per essere diversa dall'originale.
Non la voleva. Eppure, per ora, non voleva nemmeno cancellarla.
“Ho letto che i traumi, talvolta, possono alterare il
carattere di una persona” disse soltanto, quasi cercando di
andargli incontro e trovare una soluzione che accontentasse entrambi
“Un secolo di sonno altererebbe chiunque. E non
c'è da escludere il fatto che, forse, in realtà
ciò che ricorda lei sia distorto dalla nostalgia. Magari
ricorda solo ciò che le fa comodo.”
Danjal sollevò lo sguardo sui suoi occhi che a lei,
vedendoli nello specchio, avevano dato l'impressione di essere
totalmente autentici.
Ciò che disse la fece sentire così leggera, che
neanche si era resa conto quando quella paura le aveva attanagliato le
viscere “Sei anche la prima che ha sufficiente coscienza di
sé. Che mi risponde, che si crede viva e che cerca una
soluzione”. Lui la stava realmente graziando?
“Spero solo che non mi disprezzerai per aver cercato di
riportarti in vita.”
Dasa reclinò la testa – per caso, quelli che
percepiva come muscoli in tensione erano soltanto ingranaggi, molle e
cavi che si tendevano? – “Mi concede di restare
viva. Cosa dovrei rimproverarle?”
“Di aver profanato il tuo corpo, la tua memoria... tutto. Di
cercare un tuo surrogato, per di più meccanico. E'...
morboso!”
“Ne è già cosciente”
replicò facendo spallucce “Che senso avrebbe
mettere il dito nella piaga?”
“Quindi...” domandò Danjal speranzoso
“Non mi disprezzi?”
Dasa batté le palpebre un paio di volte. Avrebbe voluto
porgli la stessa domanda. “No, affatto” disse
soltanto.
Il sorriso che illuminò il volto dell'uomo quasi
l'accecò. Era sincero e spontaneo e radioso. Non aveva nulla
in comune col ghigno maligno che gli aveva sempre increspato le labbra.
La abbracciò di slancio, fregandosene delle sue proteste,
riuscendo a farle dimenticare la domanda successiva: se era passato un
secolo, lui chi era?
Subito se la scostò di dosso, tenendola per le spalle
“Allora vieni, devo mostrarti un po' di cose, quelle cose
che, ti avevo detto, ti avrebbero sorpreso.”
“Non mi ha sorpreso scoprire di essere null'altro che una
bambola meccanica” replicò cercando di liberare la
mano dalla sua
“Vero! Però le cose belle ti lasciano ancora a
bocca aperta” disse strattonandola fuori dalla stanza tutto
entusiasta “...e poi dobbiamo rimetterci al lavoro.”
“Che lavoro?” domandò perplessa
Danjal si limitò a sorridere con fare cospiratorio
“Non ora. Quando te lo dirò, però, sono
sicuro che vorrai darmi una mano nella nostra battuta di
caccia”
Detto ciò non tollerò oltre l'essere trattenuto.
La caricò in spalla e scese in volata le scale, ordinando a
tutta la servitù di preparare l'automobile: loro erano,
finalmente, in partenza.
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Eccoci alla fine. Questa è tutto il prodotto per il contest
e, per
ora, la storia non procederà oltre.
Grazie a tutti coloro che sono passati di qua e si sono soffermati a
leggere.
a presto!
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