Gymnastic Junior

di Anouk92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La mia vita ***
Capitolo 2: *** Beverley ***
Capitolo 3: *** Beverley (seconda parte) ***
Capitolo 4: *** Sarah ***
Capitolo 5: *** Una guerra silenziosa ***
Capitolo 6: *** Orgoglio, paure, tormenti... ***
Capitolo 7: *** Fiori diversi dello stesso giardino ***
Capitolo 8: *** Il vuoto ***
Capitolo 9: *** Beverley (parte prima) ***
Capitolo 10: *** Male ***
Capitolo 11: *** Fino a che punto preoccuparsi? ***



Capitolo 1
*** La mia vita ***


Tabhita
 
Alle sei del mattino eravamo già tutti in palestra. E questo andava avanti da ben diciassette anni per me.
Alzarsi al mattino era sempre troppo difficile! Non era di certo questione di abitudine!
Anche quel mattino eravamo in ritardo, e mia madre stava sbraitando contro Beverley un’altra volta per la colazione fin troppo abbondante.
Abitavamo da sole da quasi due anni. Io, mamma, Sarah e Bev. Quattro donne in una casa sono fin troppe, specie se c’è una sorta di competitività crescente.
Sarah era in assoluto la migliore ginnasta di tutta la palestra Keeghan, ma non per questo perfetta o con manie di grandezza, anzi aveva sempre riconosciuto di avere problemi alla trave e aveva imparato l’arte dell’umiltà, ma era sempre stata ossessionata dall’idea di non raggiungere la perfezione!
Bev invece era tutt’altro che modesta! Forte, determinata e sicura di sé. La migliore alla trave. Continuamente al lavoro, e a migliorarsi. Abile, instancabile, la sua vita era respirare l’aria della palestra e provare a tutti di essere un’ottima ginnasta!
Poi c’ero io, Tabhita. Quella dalla quale tutti si erano sempre aspettati grandi cose. Quella che aveva valicato la soglia della keeghan per prima e che, da allora non era stata capace di mollare. E sapete perché? Perché Alice, mia madre, era stata da sempre la mia coach, nonché proprietaria della prestigiosa palestra nella quale io e le mie sorelle avevamo l’onore di allenarci!
E si, l’onore…
Quante volte avrei preferito essere più sfortunata e non avere questo famoso e devastante onore!
Il punto è questo; sei un Keeghan? Si? Allora devi allenarti alla Keeghan e come minimo vincere una decina di gare o stabilire dei record o cose così!
Tutto ciò aveva trovato inizio tantissimo tempo prima, quando il padre di mia madre, dopo aver vinto le nazionali, i mondiali e le olimpiadi, aprì la sua grandiosa palestra e costrinse le sue tre figlie ad allenarsi!
Il nonno era stato un campione della ginnastica. La sua specialità?  Parallele simmetriche. Gli riuscivano davvero bene. Così, tutto gasato per i suoi successi sportivi, aveva cercato di trasmettere questo entusiasmo alle figlie. Ma non erano tutte e tre dello stesso parere. Sia mia madre che le zie erano diventate veramente bravissime,ma a poco a poco zia Diane e zia Jo fecero capire al caro nonno che non avrebbero basato la loro vita sulla sua passione. E invece mia madre?
Mia madre, a differenza loro, si appassionò. E la sua passione crebbe ogni giorno di più, tanto da arrivare alle olimpiadi nel ’92 e a vincerle pure!
Aveva sedici anni allora, e furono tempi di gloria sia per lei che per mio nonno, rimasto impressionato dalla bravura della sua seguace! Dopo poco più di un anno per mia madre cambiarono tante cose e la sua carriera da ginnasta terminò alle olimpiadi del ’96 in malo modo. Ha sempre cercato di non andare sul particolare su questo fatto. Si sa solo che nessuno sa cosa realmente le successe! Neppure su internet ho mai trovato qualche articolo sulla fine della sua carriera da ginnasta. E penso che non ne troverò mai!
Comunque sia, a parte queste chiacchiere, mio nonno era stato un campione e altrettanto mia madre, quindi quando ebbi l’età adatta per cominciare un allenamento un po’ più serio che quello dei bambini di tre anni, anche io mi dovetti avvicinare a quel sogno di gloria!
Sono sempre stata brava, ma non avevo mai creduto di diventare la macchina da guerra di mia madre. Lei aveva sempre puntato su di me più che su chiunque altra!
“Perché quando ti impegni riesci come nessun’altro!”-diceva lei.
Ma non le avevo mai creduto. Praticavo quello sport perché ero brava e mi piaceva, ma non avevo mai avuto il coraggio di uscire il naso fuori dalle grandi finestre della Keeghan per cercare qualcosa che non fossero i soliti volteggi o le capriole sul tappeto.
Io non avevo mai avuto il tempo e il permesso di guardarmi dentro un po’ più a fondo e capire chi fossi. Ero una ginnasta, così avevano voluto!
Presi il borsone e uscii di casa, seguendo mia madre, ancora super arrabbiata con Beverley.
Non lo faceva apposta, lei era convinta di fare del bene, perché un atleta soprappeso non sarebbe stato proprio bello da veder volteggiare alle parallele.
“Questa è l’ultima volta che urlo, Bev! La prossima volta ti faccio smaltire in palestra con un’ora di allenamento in più!”.
“Andiamo! Che cosa ho fatto di male adesso?”.
Avevano continuato così per tutto il tragitto casa palestra.
Avevamo quindici minuti di ritardo,e per mia madre era una catastrofe. Infatti non appena fermò l’auto al parcheggio, ci spinse in palestra con tutta la sua forza, urlandoci: “A cambiarvi! Siate veloci!”.
Come disobbedirle?
Non appena arrivate nello spogliatoio, Bev non ci diede neanche il tempo di toglierci le scarpe che già era bella e pronta con il suo body blu vellutato con strass celesti.
“Datevi una mossa, voi due!” - urlò, mentre legava i capelli – “O dovrete vedervela con la mamma alla trave e, considerate le vostre attitudini , non credo possa divertirvi molto!”.
“Bev, piantala! – cominciò Sarah, facendo girare la lunga coda su se stessa e legandola con un elastico di seta – Sei odiosa quando fai così!”.
Le guardai,ancora assonnata. Provai a sciogliere collo e spalle per svegliarmi, ma mi sentivo in una bolla.
“Sarò pure odiosa, ma Tabhita dovrebbe davvero muoversi! Sta ancora dormendo!”.
Sarah mi diede un colpo sul braccio: “Buongiorno! Tabbhy, non per dare ragione a questa cimice, ma davvero hai bisogno di svegliarti sorellina!”.
Beverley rise e scappò in palestra.
“Meno male che è andata via, non la sopporto con quella vocina stridula!” – sentenziai, sospirando.
Sarah sorrise: “Hai ragione, ma ti avverto Tabbhy, siamo arrivate tardi stamattina, quindi alza quel sedere dalla panca, - e dicendo questo mi trascinò per un braccio – e adesso che siamo belle sveglie, andiamo ad appenderci alle parallele!”.
“Dimentichi il riscaldamento…”.
Sarah mi tirò con se e io urlai.
Arrivammo in palestra, ridendo.
“Forza, ragazze!”- ci incitò zio Louis, il secondo allenatore della palestra.
Lui si occupava soprattutto delle parallele. Era il mio preferito.
“Vi voglio super cariche! Riscaldatevi!”.
Così qualche pensiero cattivo andò via dalla mia mente per qualche secondo.
Ecco le nostre giornate tipiche. Siamo ginnaste, è questa la nostra condanna. Sicuramente la mia, perché Beverley aveva dentro una grande passione e Sarah invece si era sempre divertita.
Io avevo sempre sopportato, ma in fondo senza la ginnastica la mia vita non sarebbe stata così intensa.
Mia madre era entrata nel suo ufficio, per sistemare la cose di burocrazia quotidiana. Le zie erano con lei. Zia Diane teneva due caffé in mano.
“Sono in super ritardo, stamattina! Tutto questo grazie a Beverley che è sempre la solita ingorda!”.
Zia Jo ridacchiò: “Allora penso che il caffé non le serva Diane,mi sembra molto più che sveglia!”.
“L’ho notato. Lo vuoi tu, Jo?”.
“No, grazie. Sarebbe il secondo!”.
“Caffè? Come potrei berlo? Sono troppo agitata! Non trovo più i fogli con le firme dei genitori per le gare regionali! Come faccio? Sono tra meno di due settimane e devo presentarli domani!”.
Mia madre le guardò,particolarmente confusa.
“Sta calma!- cominciò zia Diane, posando uno dei caffè sulla scrivania – Ti ricordo che ho messo a posto qui dentro ieri,perchè era un inferno! Le pratiche firmate sono tutte nel secondo cassetto della tua scrivania!”.
“Potevi dirlo subito, invece che farmi cercare come una pazza?”.
Mia madre prese i fogli, mentre le zie sospirarono, rassegnate.
“Devo controllare che non ne manchi neanche uno! – poi le guardò mezzo secondo e sorrise – Sono le sette, voi cominciate a lavorare più tardi, giusto?”.
“Scordatelo, Alice!”- urlò zia Jo.
“Andiamo, io devo andare ad allenare le mie ragazze, sono già in ritardo! Voi non avete niente da fare per questi trenta minuti!”.
“Alice, io…”.
Zia Diane non poté finire di dire di no, che già mia madre le aveva abbracciate.
“Vi ringrazio! Siete splendide!”.
“Alice!”- urlò zia Jo, guardando mia madre scappare via da quel posto.
“Non abbiamo detto di si, Diane!”.
“Ci vendicheremo un giorno, vedrai. Ora al lavoro!”.
Povere zie! Mia madre cercava sempre il modo per affibbiare loro i lavori che meno le piacevano, vale a dire quelli da ufficio!
Stavo provando delle aperture, per riscaldarmi, quando Olive, l’altra coach, per intenderci colei che si occupava del volteggio, mi si presentò davanti, con le braccia incrociate.
Alzai la testa per guardarla.
“Che ha fatto?”- chiesi sentendomi già colpevole di qualcosa.
“Sto aspettando te! Non hai voluto provare l’esercizio di gara, ieri.”.
“Probabilmente non andrei comunque bene al volteggio. Punto solo sulle parallele!”.
Olive si fece seria in viso.
“Alzati, e vieni immediatamente a provare quel benedetto esercizio di gara!”. 
I suoi grandi occhi neri mi penetrarono.
Così mi alzai, rassegnata e raggiunsi la mia postazione.
“Vedi di farlo bene quel Yurchenko!”.
“Il primo salto viene bene,ma quello teso è terribile!”.
“Perché non ti concentri, Tabhita! Hai bisogno di più slancio e più concentrazione!”.
“E’ facile a dirsi. – bofonchiai, guardando la pedana – Concentrazione!”.
Chiusi gli occhi mezzo secondo immaginai nella mia testa il salto teso. Dovevo riuscirci bene. Ero una ginnasta ad alto livello. Potevo farcela.
Presi la mia rincorsa, poi la rondata, battuta sulla pedana e via col salto raccolto, ma il teso non riuscì neanche quella volta. Caddi di schiena.
“Ma perché non devo riuscirci?”.
“Tabhita, sta calma! Devi solo riprovarci un milione di volte!”.
“Prima ci riuscivo, Olive!”.
Lei mi guardò e mi disse: “Lo so, e probabilmente il problema è che sei allungata un po’!”.
“E’ impossibile! Mi alleno tutti i giorni per evitare questo!”.
“Tabhita, non siamo tutti uguali. Anche allenandoti, hai preso qualche centimetro. E’ una questione di ormoni, basterà lavorare un po’ sul controllo del tuo corpo e vedrai che ci riuscirai di nuovo. Prova a fare un normale Yurchenko, finché non sarà perfetto, così avrai il controllo del salto e dello slancio e poi riproveremo con quello che non ti riesce! Abbi pazienza!”.
“Non posso diventare ancora più alta!”.
“Evita di pensarci! Hai preso un paio di centimetri, non è una tragedia!”.
“Ma le ginnaste devono essere piccole per fare quello che fanno. Io come riuscirò a vincere con un semplice Yurchenko? Come potrò andare in nazionale se non riesco a fare gli esercizi perché sono troppo alta?”.
Olive gettò gli occhi al cielo. Come sempre stavo esagerando e ingigantendo la mia situazione.
Mi prese per le spalle e mi disse: “Piantala di blaterare! Fidati dei consigli che ti darò. E del tuo corpo! E’ tuo e lo sai gestire, non si sta compromettendo nulla! Calmati!”.
Annuii, basita. Va bene, avevo esagerato! 

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Capitolo 2
*** Beverley ***


Beverley
 
Davvero non riuscivo a capire perché Tabhita fosse così rigida! Alla fine era brava e tanto, ma sempre così nervosa e incapace di rilassarsi.
Viveva di rigide pressioni. Ecco il suo problema.
La mamma aveva sempre cercato di fare finta di niente, ma alla fine anche lei si era sempre resa conto del problema.
Guardai mia sorella cadere di schiena una decina di volte, mentre passavo la magnesia, fino a che quel patetico spettacolo non diventò noioso. Scossi il capo e saltai, attaccandomi alle parallele. Cominciai con delle semplici rotazioni, per riscaldarmi. Mi era sempre piaciuto guardare il mondo che si deforma sotto i miei occhi in quel modo, mi faceva sentire bene. Mi faceva sentire parte del mondo.
Non sono mai stata brava ad inserirmi. In fondo, bisogna dire che mi è sempre piaciuto essere una voce fuori dal coro. Tutti temevano la trave e mia madre, la tremenda campionessa olimpica in questa disciplina in cui non puoi perdere la concentrazione neanche mezzo secondo, io invece ero subito diventata la migliore.
Essere la migliore mi aveva sempre fatto stare bene, mi faceva sentire diversa e speciale. E io volevo solo questo: essere speciale!
Saltai giù dalle parallele. I biscotti avevano cominciato a muoversi nel mio stomaco.
Pensai che forse mia madre aveva ragione a richiamarmi ogni mattina, ma i biscotti sono sempre stati il mio tallone d’Achille. Non sapevo contenermi. Il risultato delle mie laute colazioni era che per le prime due ore di allenamento stavo male e rischiavo di vomitare ovunque mi trovassi.
Decisi di passare del tempo alla trave a fare dei semplici esercizi per evitare l’ulteriore scombussolamento del mio stomaco. Finché mia madre non se ne fosse accorta, non avrei dovuto sopportare i suoi lunghi discorsi su quanto una dieta equilibrata incidesse sul rendimento di un atleta e del suo allenamento.
Di quei discorsi ne avevo abbastanza.
Mentre mi avvicinavo alla trave, mi sentii toccare la spalla.
“Bev! Sei pallida come una pallina da ping pong! Scommetto che hai lo stomaco sottosopra!”.
Era Maxime. La mia migliore amica e decisamente una delle migliori atlete della palestra .
Era bellissima con quelle lunghe onde bionde raccolte in una coda sempre impeccabile e gli occhi azzurri grandi e pacati. Aveva un sopraciglio alzato in senso di rimprovero e le braccia incrociate. Stava attendendo una mia risposta.
“Troppi biscotti!”.
Lei scosse il capo.
“Quando ti deciderai a darci un taglio?”.
“Con i biscotti? Mai!”.
Ridacchiò: “Non intendo con i biscotti, ma con l’essere esagerata?”.
“Mi dispiace Maxime, ma lo sai che sono fatta così! Esageratamente esagerata!”.
Camminavamo verso la trave. I miei occhi erano fissi su quell’attrezzo.
“Spero che sia una cosa positiva, anche se l’esagerazione non porta nulla di buono!”.
La rassicurai, in tono scherzoso: “Tranquilla, non morirò!”.
“Di morte naturale no di sicuro! Ma conosco un paio di persone che ti ucciderebbero volentieri!”.
Era vero. Ero insopportabile a volte.
Sarah era perfetta in tutto quello che faceva, Tabbhy era il pupillo di mia madre solo perché era la più grande e aveva meno possibilità di partecipare a delle gare, e io cosa facevo? Facevo sacrifici enormi per essere la migliore e fino ad allora ero riuscita in questo solo alla trave, che era finita per diventare la mia ossessione e motivo di prese in giro nei confronti di qualche antipatica ginnasta che ovviamente non mi sopportava.
“Si, hai ragione!”- sentenziai, salendo con una spaccata super aperta sulla trave.
Maxime mi osservò.
“Stendi bene le punte, Bev!”.
Annuii.
Sentivo tutti i muscoli in tensione, rimasi in quella posizione per un po’, guardando le punte dei miei piedi. Ero soddisfatta.
Maxime appoggiò una gamba alla trave e si stese per bene.
“Olive ha detto che ho un talento naturale per il volteggio.”.
“Te ne sei accorta solo ora, imbranata?”.
“Pensavo di essere solo un’illusa, Bev!”.
Illusa? Maxime era una delle atlete più portate per quell’attrezzo che io avessi mai visto, dopo Sarah, ovviamente. La mia sorellina aveva ormai vinto praticamente più gare di chiunque altra al volteggio e aveva addirittura stabilito il record del maggior numero di vittorie consecutive.
Record che io mi ero già prefissata di battere. Il mio pregio? Non arrendermi mai.
Il mio difetto? Andare contro ogni limite.
Può essere invalidante per un’atleta voler scavalcare tutto e tutti. A volte ti fa diventare semplicemente spietato.
Ecco come ero io. Spietata.
“Non sei un’illusa! Sei veramente brava e non vedo l’ora di poter battere Sarah in quel cavolo di record… volevo dire, non vedo l’ora che tu la batta in quel record!”.
Non volevo dire quello.
“Così poi potrai battermi tu?”.
Mi schiarii la voce, piegando una gamba.
“Essere competitivi è un’ottima cosa!”.
“Entro certi limiti, Bev!”.
Tagliai corto.
“Jason ti ha detto qualcosa su di me?”.
“Perché avrebbe dovuto?”.
“Non lo so. A volte ho l’impressione che voglia provarci con me e ieri ho visto che parlavate…”.
“Si, mi ha chiesto… una cosa.”.
“Cosa?”.
“Lascia stare! Sono scemenze, Beverley.”.
Maxime che non voleva dirmi una cosa era grave.
“Sono la tua migliore amica e ti dico sempre tutto, quindi perché non vuoi dirmi questa cosa?”.
“Perché ci rimarresti male.”.
Non capii. Poi provai a pensare un secondo. Ecco Jason le aveva chiesto di frequentarsi! Per questo non voleva dirmelo.
Poi lei ricominciò: “Ascolta, a te piace?”.
“Che c’entra questo?”.
“Rispondi e basta!”.
“Non lo so. Non mi fa impazzire, però a volte c’è feeling…”.
“Bev, ti do un consiglio. Lascialo perdere!”.
“Vuole te?”.
“Me? Che scherzi? Assolutamente no!”.
“E allora chi?”.
Maxime cambiò gamba.
“Sarah.”.
Sospirai. Chi poteva attrarre un ragazzo carino che piaceva a me? Sarah! Era così ovvio!
“Ci sei rimasta male, vero?”.
“Cosa ti ha chiesto su Sarah? Tu stai sempre con me!”.
“Mi ha chiesto di prendere quante più informazioni possibile da te.”.
Inghiottii un gomitolo di lana. Mi morsi le labbra.
Non era possibile.
“Non fa per te, Bev. Credimi!”.
Annuii, non troppo convinta.
“Non fa per me…”- sussurrai tra me e me, mentre lo vidi attaccato agli anelli, volteggiare con una potenza inaudita.
Mi veniva di nuovo da vomitare.
 

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Capitolo 3
*** Beverley (seconda parte) ***


Beverley (2° parte)
 
Inutile dire che la mia giornata era passata velocemente. L’allenamento era stato,come sempre, faticoso e stressante. Ancora di più lo era divenuto dopo la triste notizia di Maxime.
Non avevo fatto altro che guardare Jason. Avevo notato gli sguardi che ogni tanto lanciava a mia sorella, e con mio gran stupore, notai anche che lei ricambiava.
Conoscevo bene quel sorrisino a mezze labbra e gli occhi da cerbiatta che sventolavano le loro ciglia in maniera a dir poco esagerata.
Mi ero illusa alla grande.
Mentre mi stavo riposando dieci secondi, mia madre mi mise una mano sulla spalla.
Trasalii. Conoscevo quel tocco.
Mi girai. Come cavolo faceva ad essere sempre così irrimediabilmente impeccabile. Quei muscoli delle braccia sembravano essere sempre sotto sforzo. Aveva un fisico da atleta nonostante non si allenasse da tanto.
Notai lo sguardo accusatorio. Non mi aveva ancora torturato quel giorno. Non era difficile per me immaginare cosa potesse volere.
“Bev, cortesemente, se non ti è di troppo disturbo, potresti salire sulla trave e farmi vedere quel benedetto esercizio?”.
“La tua gentilezza mi sconvolge!”.
Ovviamente era ironico!
“Sali! Forza!”.
Come disobbedirle? Era lei il capo. Così cominciai con l’esercizio che aveva messo a punto lei stessa il giorno prima.
Ci preparavamo per le gare regionali ed io, atleta emergente, avrei dovuto vincere qualcosa.
Stavo eseguendo perfettamente ogni cosa, fino a che non arrivai a quella rondata maledetta.
Caddi con l’eleganza di un elefante. Nonostante ciò riuscii a rimanere in piedi.
“Bev!- mia madre mi guardò- Si può sapere cosa ti passa per la testa oggi?”.
Una montagna di cose mamma, ho appena scoperto che il ragazzo al quale credevo di piacere, preferisce mia sorella a me e che ha cercato di usarmi per sapere qualcosa su Sarah, che tra l’altro, ricambia perfettamente e per questo motivo mi sento uno schifo.
“Niente. Sono solo un po’ stanca!”.
Sarebbe stato bello dirle quello che mi passava per la testa.
Mia madre non avrebbe gradito molto che Sarah si potesse interessare ad un ragazzo. Non ci aveva mai proibito di frequentare dei ragazzi, ma aveva sempre voluto in qualche modo scoraggiarci in questo senso, per tenerci concentrate sul nostro obbiettivo.
Eppure inghiottii di nuovo quel gomitolo di lana, strinsi i denti e respirai. 
“Non voglio che tu ti faccia male! Per cortesia, concentrati! Sono abbastanza stanca anche io oggi! E’ tutto il giorno che non faccio altro che vedere pratiche, fogli e…”.
“Ok ho capito! Mi concentro!”.
Non sopportavo quando si lamentava con me di quanto fosse stanca, del suo lavoro stressante da ufficio e da quanto si fosse impegnata per mettere a punto un esercizio che mi permettesse di vincere una medaglia.
Preferivo quando mi lasciava lavorare e mi dava dei semplici consigli su come migliorare tutto quello che facevo, anche punzecchiandomi di tanto in tanto.
Provai quell’esercizio parecchie volte, fino a che non fu quasi perfetto.
Mia madre si stancò sul serio di vedermi insicura e nervosa, così mi fermò prima di farmelo finire -per l’ennesima volta.
Aveva capito che non c’ero con la testa, e lei non faceva altro che ripetere ogni volta che se un’ atleta non è concentrato finisce per farsi male e che prima di compiere anche il più banale degli esercizi bisogna annullare tutti i pensieri della nostra mente e concentrarsi soltanto su quello che si sta per fare.
Evidentemente io, quel giorno, non ero così concentrata come avrei dovuto.
Andai a cambiarmi per tornare a casa. Notai che Sarah era uscita qualche secondo prima.
“E’ con Jason. Stanno parlando.”- mi informò Maxime, spingendomi verso lo spogliatoio.
“Non c’era bisogno che tu me lo dicessi.”.
“Si invece. Non voglio che ti illudi! E conosci tua sorella. In fondo ce li vedo bene insieme! Tu ti meriti di meglio, Bev!”.
“Probabile… - mi infilai la maglietta- Ma se li becca mia madre… sono finiti!”.
“Stavano solo parlando. Sono insospettabili per il momento!”.
“Già. Mia madre poi,non sta attenta minimamente a queste scemenze. Non se ne accorgerebbe neanche se si baciassero dinanzi ai suoi occhi!”.
La stavo sottovalutando troppo, lo so.
 “Ehi!- Melinda, mia cugina, la figlia di zia Diane, era appena entrata – Ho una gran voglia di andare a dormire!”.
Si sedette accanto a me.
Nel frattempo entrarono le altre due mie cugine, le gemelle di zia Jo. Slanciate e magre come Sarah, ma con lunghi capelli biondi e con due grandi occhi azzurri. Erano la copia spiccicata di mia zia.
Megan e Alexis, così si chiamavano. La prima non era troppo talentuosa, ma Alexis era un genio!
Aveva invettiva da vendere e tanta energia.
Si sedettero anche loro per cambiarsi.
Alexis cominciò a parlare, chiedendomi se avessi provato già i miei esercizi di gara.
Risposi di si, ma che dovevo migliorarli parecchio.
“Io ho problemi solo col nuovo esercizio al volteggio. Arrivo obliquamente!”- aveva scherzato un po’.
Maxime disse: “Come Tabhita!”.
Solo allora ci pensai. Dove era Tabhita?
Che cretina che ero stata! Era a fare da palo a Sarah e Jason!
Mi ci sarei giocata la testa, e così mi vestii di corsa e andai verso l’uscita.
Eccola lì, cellulare tra le mani e sguardo rivolto verso la sua destra.
Le urlai: “Tabbhy! Ti cerco da un’ora!”.
Sobbalzò.
“Che ci fai qui?”.
“Potrei chiederti la stessa cosa!”.
Era nervosa. Più del solito.
“Sto coprendo Sarah! Ma non dirlo a nessuno, ti prego!”.
Beccata!
“Sarah? Come mai?”.
“Jason… ehm, stavano parlando.”.
“Parlando?”.
“Spero che stessero solo parlando,ok? Sta zitta, stanno tornando.”.
Vidi Sarah tornare e al suo seguito lui. Jason era uno spaccone. Aveva sempre una aria di autosufficienza sul viso. Si prendeva gioco di chiunque gli si trovasse di fronte, eppure era incredibilmente affascinante.
“A domani, ragazze!”- salutò lui, quando fu di fronte a noi.
Ricambiammo il saluto e notai di nuovo lo sguardo di complicità tra lui e Sarah.
Che orrore!
“Allora?”- cominciò Tabbhy.
“Allora cosa?”.
Sarah stava cercando di non farmi capire nulla. Voleva tenermelo nascosto.
“Ho capito.- dissi, piuttosto seccata – Me ne vado!”.
Sarah deglutì.
Mi ero appena girata per rientrare in palestra e cercare mia madre, quando Tabhita mi afferrò il braccio destro.
“Non andartene!”.
La guardai. Era spettinata. La coda era spelacchiata. I suoi grandi occhi marroni mi stavano implorando.
Si rivolse a Sarah e le disse: “Lo sa. Gliel’ho detto io! Dammi della stupida o qualsiasi altra cosa e non ti aiuteremo neanche mezza volta! Io mi fido di Beverley, e devi dirglielo.”.
Lo aveva fatto in qualità di sorella maggiore o di capitano della squadra?
Per Sarah ero sempre stata la piccola rompiscatole di famiglia. Diceva che con me non si poteva parlare perché spifferavo tutto a tutti.
Eppure annuì, rassegnata e forse anche leggermente delusa.
“Bene..- cominciò – non c’è molto da dire in realtà.”.
Provai a scorgere un minimo di dispiacere nei suoi occhi, ma niente.
O non aveva capito quanto stessi male io, o semplicemente e, come sempre, lo sapeva e non riusciva a dimostrarmi che le importasse qualcosa.
“Sto con Jason.- tagliò corto – O meglio, ci stiamo provando. Questo è quanto, Bev. Non devi dirlo assolutamente alla mamma o alle altre! Succederebbe una tragedia!”.
Lo sapevo eccome!
“Immagino. Quindi… con Jason – provai a nascondere il mio rammarico e inghiottii di nuovo quel gomitolo di lana, e porca miseria quanto pungeva – Bene,non dirò nulla e congratulazioni…”.
“Congratulazioni per cosa?”- chiese mia madre, uscendo dalla palestra e infilandosi il cappotto.
“Per il nuovo esercizio alle parallele! – intervenne Sarah, fingendo un sorriso – Ne sono entusiasta! Sarò la migliore!”.
“Te lo auguro, sempre se Tabhita anche questa volta non deciderà di dare il meglio di sé!”.
Tabbhy guardò mia madre, storcendo il naso.
Io rimasi in silenzio anche durante il viaggio per tornare a casa. Non mi importò neanche che mia madre non mi avesse neppure menzionata nel suo discorso.
 Guardavo fuori dal finestrino.
La pioggia aveva cominciato a picchiettare sull’auto, il cielo non era mai stato così cupo.
Non si vedeva la luna, né le stelle.
Mi rifugiai nella mia stanza appena possibile. Mi addormentai tra le lacrime, col solito gomitolo nella gola.
 
 
  

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Capitolo 4
*** Sarah ***


Sarah
 
Mi infilai sotto le coperte. Il cellulare si illuminò per qualche secondo. Era Jason, tanto per cambiare. Sorrisi. Quanto era bello poter pensare a qualcuno in quel modo.
Guardai il suo sms.
Sai che mi manchi già tantissimo?
Si, lo sapevo. Mancava anche a me. Avrei voluto abbracciarlo e guardare i suoi grandi occhi scuri. Sorrisi e risposi.
Toc- toc! Qualcuno aveva bussato alla porta.
“Si?”.
Mia madre entrò. Era nel suo bel pigiamino azzurro di raso, avvolta dalla vestaglia sembrava una ragazzina di quei telefilm degli anni ’90.
Indicò il mio cellulare, con una espressione contrariata.
“Dovresti dormire!”.
“Non essere troppo rigida con gli orari, mà!”.
Si sedette sul mio letto, guardandomi teneramente. Mi sollevai, mettendo il cellulare sul comodino.
Mi carezzò il viso e mi spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Volevo darti la buonanotte, tesoro.”.
Mi sentii terribilmente in colpa. Lei, così premurosa, così dolce, ed io cosa stavo facendo?  Le stavo per mentire. Provai allora a non incontrare il suo sguardo.
“Notte, mamma!”.
“Così velocemente? Io volevo farti i complimenti per i flik che hai aggiunto alla trave!”.
Improvvisamente ricordai il nuovo esercizio provato il pomeriggio.
Di solito ero una gran chiacchierona, almeno per quanto riguardasse la ginnastica, i miei progressi e cose affini. Solitamente passavo il viaggio di ritorno dalla palestra a parlare di quello che mi era riuscito bene e dei miei problemi, ma solitamente non ne avevo!
Mia madre si era accorta della mia poca voglia di parlare, quella sera e questo, probabilmente, la stava preoccupando.
“Giusto… - cominciai, provando a concentrarmi sull’argomento – Oggi ho avuto una giornata piena! Sono molto soddisfatta. Vedrai che quest’anno sarò perfetta,mamma! Ora, se non ti spiace, preferirei dormire perché sono estremamente stanca…”.
Non era andata proprio male.
Lei annuì. Stava per alzarsi dal letto, quando il mio cellulare si illuminò di nuovo.
“Quello devi spegnerlo!”.
“Certo, mamma!”.
“Si può sapere con chi parli a quest’ora?”.
Un ragazzo, mamma, e tu lo conosci bene e mi piace da morire.
“Melinda… - mentii, provando a chiudere lì la discussione,che stava diventando leggermente pericolosa – Adesso stacco!”.
“Adesso!” – sottolineò lei, alzandosi dal letto e avvicinandosi a me per darmi un bacio.
Sorrisi, nascondendo perfettamente le mie preoccupazioni.
“Dormi, Sarah! Ti voglio bene!”.
“Anche io mamma!”.
Spense la luce e uscì dalla stanza.
Il mio cellulare si illuminò di nuovo.
Vai a dormire, principessa. E’ tardi e domani dovrai allenarti duramente. Sogni d’oro.
Sorrisi. Risposi e mi persi nei miei pensieri.
Sguardo da ebete e sorriso incontrollabile. Ero innamorata, innamorata come non mai!
 
Il mio primo pensiero, quella mattina fu attaccarmi alle parallele. Dovevo provare una nuova uscita. Volevo aggiungere un doppio avvitamento e ce l’avrei fatta.
E poi da lì potevo girarmi verso Jason senza dare troppo nell’occhio o insospettire mia madre! Ci lanciavamo delle occhiate complici. Era assurdo stare così vicini e non potersi abbracciare! Sospirai. Stavo passando la magnesia con cura, quando Alexis arrivò accanto a me e cominciò a fare altrettanto.
“Ehi, come và con Jason?”.
Impallidii. Come lo sapeva. Glielo aveva detto sicuramente qualcuno, ma chi? Tabhita? Impossibile! Tabhita al massimo diceva le cose solo a Beverley…
Beverley! Lei! Era stata lei a dirlo in giro!
“Con Jason? – provai a far finta di niente – Che vuoi dire?”.
“Andiamo, Sarah! Lo hanno capito praticamente tutti che c’è qualcosa di strano!”.
Avrei ammazzato Beverley, questo era sicuro! Chissà che diamine aveva detto in giro!
Respirai lentamente, cercando di rilassarmi.
“Ti assicuro che non c’è niente! Siamo due amici che si allenano nella stessa palestra, punto! Chi mette in giro queste sciocchezze?”.
“Beh,nessuno… parlano un po’ tutti di questa cosa, Sarah! Inizialmente tutti credevano che lui ci stesse provando con Bev, ma dopo lo abbiamo visto con te più volte, e siete carini insieme, parlate e scherzate sempre insieme! Siamo una piccola comunità, è normale che una cosa del genere diventi uno scoop!”.
“Stai cercando di proteggere Beverley?”.
“Perché dovrei, scusa? Comunque sappi che hai la mia solidarietà! E’ un gran bel ragazzo!”.
Sorrise e se ne andò.
“La ammazzo… - sussurrai tra me e me – Lo sapevo che avrebbe parlato!”.
Provai a concentrarmi e mi lanciai alle parallele.
La mia uscita andava migliorata, ma dopo le prime tre cadute non mi andava di riprovare. D’altronde sentivo la gamba destra infuocata, e il mio ginocchio stava imprecando! Ogni tanto sentivo un dolore strano,in effetti, ma i dolori quando cadi sono così tanti che devi imparare a conviverci, quindi strinsi i denti e mi fermai per qualche minuto.
Jason mi si avvicinò. Era bellissimo nella suo canottiera azzurra e quei capelli scuri spettinati. Notai che  suoi occhi mi stavano scrutando.
“Credo che ci sia un modo per migliorare la tua uscita!”.
Stava sorridendo. Evidentemente era una scusa per stare con me qualche minuto.
“Davvero? – risi, cercando di individuare mia madre –Illuminami allora!”.
“Quando stai per sganciarti dalla sbarra, devi darti una maggiore spinta verso l’alto, e solo così avrai più tempo per arrivare a terra… in piedi, intendo!”.
Mia madre stava lavorando con Bev. Perfetto! Non si sarebbe distratta, ne ero più che certa.
“Si, ma non riesco a concentrarmi!”.
“Posso aiutarti io!”.
Sbarrai gli occhi. Era evidentemente impazzito!
“Si parla di noi in giro! Non vorrei che mia madre venisse a sapere qualcosa!”.
“Non devo fare niente, solo stare qui e dirti quando lasciare la sbarra! Devo solo urlare, Sarah!”.
“Stranamente voglio darti retta!”.
“Allora, forza! Attaccati!”.
Cominciai il mio esercizio. Il mio cuore palpitava vertiginosamente! Ero così strana! Mi sentivo su un altro pianeta e tutto mi sembrava incredibilmente bellissimo, anche il cadere dalle parallele!
“Adesso!” – mi urlò con decisione.
Mi sganciai, eseguendo quasi alla perfezione la mia uscita.
“Fantastico! Adesso devi solo farlo altre cento volte, fino a che non sarà perfetta!”.
Mi strizzò l’occhio e si allontanò da lì.
Notai che Bev mi stava osservando. Avrei voluto andare da lei e sganciarle un pugno in piena faccia,ma dovevo resistere.
Essere una ginnasta ti insegna anche ad avere pazienza e a controllarsi e io sapevo controllarmi perfettamente. Mia madre mi aveva sempre elogiata per questo!
Ero semplicemente perfetta! Pacata, elegante, e impegnata. Per lei ero semplicemente e ottimamente perfetta.
Avrei mai potuto dirle che, in realtà, sentivo un turbinio di sensazioni nel mio cuore e che mi ero innamorata di un ragazzo?
Non sarei più stata perfetta. Non si sarebbe forse più neanche fidata di me, dell’impeccabile Sarah!
Non ero poi così impeccabile,in fondo!
Invidiavo Beverley, da morire! Lei si impegnava giorno e notte per superare sé stessa, e aveva una grandissima grinta! Era caduta milioni di volte, ma non si era mai arresa! Era sempre in piedi, Bev! Sempre forte!
Lei poteva dimostrare insicurezza, indecisione, le era concesso fallire, perché era fatta così! Era normale! Effervescente, e istintiva! Poteva concedersi qualche parola di troppo, o qualche errore in più rispetto a me, ma questo la portava ad essere irrefrenabile. Se decideva di battermi, lo faceva, e se si metteva in testa di vincere si allenava come una matta per riuscirci!
A me riusciva tutto bene, senza molti sforzi. Ero sempre stata così. Quando si dice una talento naturale,forse! Ho sempre dubitato di questo. Non sono mai stata convinta che il mio fosse un talento naturale, diciamo che magari mi ero sempre imposta di sbagliare il minor numero di volte possibile. La mia era quasi diventata una mania di perfezione. E lo era diventata così tanto, da non rendermene nemmeno conto!
Ero diventata perfetta oltre ogni misura, senza più accorgermi di questo.
Era come se mi guardassi da fuori. Sentivo che il mio corpo non mi apparteneva più! Non ero io, come Beverley, a decidere cosa aggiungere, togliere e dove arrivare. Era il mio subconscio!
Il mio corpo faceva tutto da solo e non sbagliava quasi niente, meccanicamente.
Il mio non avere limiti non era mai stata una mia consapevolezza.
Era come se corpo e anima in me si fossero separati, e io non riuscivo a decidermi. Non sapevo più cosa fossi.
Sapevo solo una cosa, avrei vinto una medaglia quell’anno, e non me ne sarei neanche accorta!
 
 

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Capitolo 5
*** Una guerra silenziosa ***


 
 
Tabhita
 
Lo sapevo! Il mio esercizio al corpo libero era terribilmente più difficile delle volte precedenti.
Dopo il flick, mi lanciai di corsa verso il centro del tappeto per chiudere in spaccata. Avevo appena cominciato la mia corsa, stavo per prepararmi alla chiusura, quando..
“Tabbhy!”.
Qualcuno aveva urlato il mio nome e improvvisamente scivolai, come se avessi preso una buccia di banana e mi ritrovai col sedere per terra e una gran voglia di urlare contro chiunque mi avesse chiamato!
“Oh,mio Dio! Ti sei fatta male?”.
Eccolo lì, era stato quel cretino del mio migliore amico a chiamarmi.
“Tyler!”- urlai abbastanza arrabbiata.
Avevo una gran voglia di strozzarlo.
Si abbassò, per aiutarmi ad alzarmi da terra,ma feci di no con la testa.
Si sedette accanto a me. Aveva un foglio in mano.
“Stai bene?”.
Gli diedi un colpo sulla testa.
“Certo che sto benissimo dopo l’ennesima caduta! Soprattutto visto e considerato che questa potevo proprio risparmiarmela!”.
Cominciò a ridere. Ma che gli stavo parlando a fare? Mi aveva fatto cadere! Non avrei dovuto rivolgergli nemmeno la parola, invece ero lì, a dargli quasi delle spiegazioni.
“Smettila! Non sono dell’umore giusto!”.
“Andiamo! Avresti dovuto vederti! Che faccia che hai fatto, mentre sei caduta come un sacco di patate! Le ginnaste non cadevano con grazia ed eleganza?”.
“Ah ah… ridi quanto ti pare! Quando avrò una medaglia d’oro al collo vedremo!”.
“Se cadi in quel modo, te la lanceranno da una finestra la medaglia!”.
Sospirai.
“Non aiuti! – mi imbronciai e, indicando ilo foglio chiesi – Cosa c’è lì?”.
“Era per questo che ho urlato! Qui, Tabbhy, c’è il mio sogno!”.
“Cioè? Una cassa di dinamite per corrispondenza? Eri fissato con queste cose, tempo fa!”.
“Ero un ragazzino! Qui c’è la mia possibilità di diventare quello che ho sempre desiderato! Un avvocato!”.
Deglutii. Glielo presi dalle mani, quasi strappandoglielo.
“Sei impazzito? E’ la risposta da Stanford!”.
“No, in realtà è solo la conferma della mia richiesta di partecipazione al test di ammissione. Pensi che ce la farò?”.
“Si, che ce la farai! Tu sei un genio! Quindi hai deciso?”.
“Si, ho deciso.”.
“Ma non avevi detto che avresti fatto le olimpiadi prima? Mia madre si arrabbierà moltissimo, lo sai!”.
“Si, so bene che lo farà. Così ho preso una decisione! Lascerò la ginnastica.”.
“Non ha senso! Tu sei un’atleta fantastico! Devi continuare ad allenarti e andare alle Olimpiadi!”.
“Tabbhy, dovrei aspettare un altro anno e non mi va! Voglio andare al college. Continuerò ad allenarmi lì, ma non voglio perdere tempo! Il mio sogno è lì, non qui o alle Olimpiadi!”.
Lo guardai. Aveva deciso.
Mi sforzai di sorridere e dissi: “Allora, sono felice per te! Per il tuo sogno!”.
Si riprese il foglio. Mi guardò un istante.
“Tu? Hai deciso?”.
No.
“Si.”.
“E allora?”.
“Io farò le Olimpiadi. L’anno prossimo andrò al college. Il piano è questo. Cercare una borsa di studio.”.
“Io mi auguro che questo sia il tuo di piano. Vado agli anelli e poi a parlare con tua madre. Fammi gli auguri!”.
“Auguri…”- balbettai senza molta enfasi.
Tyler si alzò da terra e corse fino agli anelli.
Ecco. Anche lui aveva preso una decisione. E io? Io l’avevo davvero fatta la mia scelta?
Da tutta la vita sognavo di entrare al college. Volevo fare legge anche io. Sospirai.
Rimasi seduta lì ancora qualche minuto. Cadendo mi ero fatta davvero male.
Non ero mai stata sicura di voler andare alle Olimpiadi, ma era tutta una vita che lavoravo per questo e non mi sembrava sensato ritirarmi solo un anno prima. Era solo un anno, in fondo.
Provai a scacciare questi pensieri dalla mia mente.
Mi sentivo particolarmente incapace in quel periodo di vita. Ero totalmente fuori controllo.
La mia testa era perennemente altrove, e il mio corpo ne risentiva.
Non avevo mai diviso la mia vita in compartimenti, come Sarah, per esempio!
Io facevo tutto insieme,così come mi era sempre venuto naturale.
Non mi ero mai posta delle regole o cose di questo tipo.
Era per lo più mia madre ad impormi delle vere e proprie regole.
Mi sentivo appesantita dalle mie preoccupazioni, schiacciata dai miei dubbi e dalle mie incertezze.
Chi era Tabhita Keegan? Chi sarebbe diventata?
Una campionessa olimpica o un avvocato a soli ventuno anni?
Mi morsi le labbra. Dovevo alzarmi, altrimenti sarebbe venuta mia madre a farmi rabbrividire.
Era terribile quando mi vedeva “riposare”! Diventava una specie di furia.
Così, mi alzai da terra e ricominciai il mio esercizio da capo.
Effettivamente Sarah e Jason stavano cominciando a dare un po’ nell’occhio. A volte sparivano per qualche minuto e con loro, di conseguenza anche io. Qualcuno doveva pur evitare che mia madre facesse esplodere la terza guerra mondiale!
Facevo spesso da palo, a volte chiedendo a Bev di aiutarmi, ma lei era schiva e molto spesso mi aveva mandato a quel paese.
“Devo allenarmi, io! Non posso fare da baby sitter a quei due, Tabbhy! E non dovresti neanche tu!” – ecco cosa mia aveva detto quella mattina.
Era da un paio di giorni che la vedevo particolarmente insofferente, specie nei confronti di Sarah.
Si allenava più del solito, rimaneva fino a tardi alle parallele.
“Voglio batterti, quest’anno! E devo battere anche Sarah! Se non riesco in questo,non valgo nulla!” – era stato questo il suo modo per dirmi “non mi rompere”!
Come darle torto d’altronde?
Se voleva vincere doveva allenarsi e migliorarsi. Era terribilmente testarda e questo era risaputo in tutta la palestra, ma non credevo che si sarebbe messa così sotto pressione.
Così cambiai aiutante.
Da Bev, passai a Maxime. Non si poté dire di essere molto contenta, ma era stata quella più disponibile.
Si, perché oramai tutte le ragazze sapevano di Sarah e Jason. Erano,come dire, lo scoop del momento! La coppia della palestra! I due campioni indiscussi.
Così chiesi un po’ a tutte le ragazze di aiutarmi,ma nessuna di loro fu disponibile a darmi una mano, tranne Maxime.
La cosa strana fu che, dopo il suo consenso, Beverley smise di parlarle.
Allora mi insospettii.
La faccenda era questa. Sarah a casa non aveva più rivolto la parola a Bev, perché la riteneva responsabile delle chiacchiere messe in giro su lei e Jason. Bev si era incavolata da morire a sentirle dire quelle scemenze, tanto da fingere che non esistesse,inoltre non aveva più rivolto neanche il saluto a Maxime, la sua migliore amica!
Evidentemente era rimasta offesa dalle parole di Sarah ma,essendo una gran chiacchierona, sarebbe venuto anche a me di pensare che potesse essere la responsabile dei pettegolezzi.
Fin qui, per,nulla di strano. Ciò che mi suonava strano era stato invece il fatto di aver cancellato Maxime dalla sua vita.
C’era sicuramente qualcosa che io non sapevo!
Dopo aver fatto da palo, rientrai in palestra.
Era martedì mattina.
Entrai, come sempre, cercando di respirare costantemente.
(Perché, si, oramai la palestra mi faceva questo strano effetto).
Mi misi accanto a Bev, che si stava riposando qualche secondo sul tappetino.
Punte tese e labbra serrate. Era la sua posizione da settimane!
“Mi dici che cos’hai?”.
Mi guardò, torva.
Avrei dovuto evitare una domanda così diretta.
“Hai finito di fare da guardia del corpo?”.
“Si. – risposi, secca, senza dare a vedere il mio essere stufa – E tu hai finito di tenere il broncio a chiunque ti passi davanti? Sai, alla trave ti toccherà sorridere se vorrai battere qualcuno!”.
“Lasciami in pace!”.
“Solo dopo che mi avrai detto la verità! Perché non parli con Maxime?”.
“Perché credevo stesse dalla mia parte! Invece no! E’ come te. Anzi, peggio! Lei è come Sarah!”.
Ero confusa.
“Che vuoi dire con questo?”.
“Io credevo che Jason ci stesse provando con me, mi sono illusa, e poi ho avuto il colpo di grazia! Maxime lo sapeva e adesso li aiuta! Che bella amica che ho! E anche Sarah lo sapeva! Lei è solo subdola ed egocentrica!”.
“Ehi, ehi! Che stai dicendo? Io non credo che Sarah sapesse questa cosa, e poi si sono innamorati! Non puoi tenerle il broncio a vita!”.
“Sei proprio convinta che non si fosse accorta di nulla? E poi non le tengo il broncio, almeno all’inizio non l’ho fatto! Poi se ne è uscita con le solite accuse e non è stata per niente carina! Invece di Maxime cosa puoi dirmi?”.
“Che le ho chiesto, praticamente in ginocchio di aiutarmi! La mamma si è accorta che sono sparita un paio di volte e avevo bisogno di qualcuno che mi desse una mano! Tu ti eri rifiutata e ho chiesto alle altre di aiutarmi ed è stata l’unica a mostrarsi leggermente disponibile, così ne ho approfittato!”.
“Cosa? Hai chiesto aiuto alle altre? Se Sarah venisse a sapere una cosa del genere allora si che andrebbe su tutte le furie!”.
“Lei non deve saperlo! Sto solo cercando di aiutarla e di non giocarmi il posto in squadra! Prova tu a fare una cosa del genere!”.
“Infatti io non ho alcuna intenzione di mettere a rischio la mia carriera sportiva per aiutare quella lì!”.
“Lascia perdere Sarah! Senti io so cosa significa vedere che un ragazzo preferisce a te un’altra. E’ bruttissimo, ti senti rodere dentro dalla rabbia. Ti senti con un groppo alla gola. Non è bello!”.
Bev stava piangendo.
“Pensa se questa persona è tua sorella! E’ dieci volte peggio, Tabbhy! Mi sono sentita tradita!”.
“Non credo che l’abbia fatto apposta, Bev! E’ egocentrica, ma non ti farebbe del male in questo modo. Sei sempre sua sorella.”.
La abbracciai.
“Prova a dimenticare e non pensare a quello che ti ha detto. E’ stato stupido da parte sua, e scommetto che se ne accorgerà presto! Invece, ti consiglio di tornare amica con Maxime. Prima di tutto lei manca a te e tu manchi a lei e,secondo, non credo che mi abbia aiutata credendo che tu te la saresti presa. E’ difficile capire cosa ti passa per la testa,a volte. Non incolpare Maxime.”.
Ecco cosa c’era dietro ad un broncio tenuto a lungo e a un silenzio fin troppo prolungato, per Beverley!
Quando smise di piangere, mi ringraziò.
Ero sua sorella, era il minimo che potessi fare per lei.
Non sapevo se le mie parole avrebbero portato qualcosa di positivo, ma Bev stava già molto meglio.
Presi un bel sospiro e mi lanciai verso le parallele.
Bev voleva battermi, ma non gliel’avrei data vinta molto facilmente!
 
 

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Capitolo 6
*** Orgoglio, paure, tormenti... ***


Beverley
 
 
  “Scusa.”.
Mi voltai a guardare da chi provenissero quelle parole.
Due occhioni azzurri mi stavano implorando.
Maxime era lì, di fronte a me, col suo body viola con gli strass.
Si sedette sulla panca, accanto a me. Credevo di essere rimasta da sola ad allenarmi fino a tardi.
“Tu, che ci fai qui? Ancora, intendo…”.
Strinse le spalle e mi rispose: “Anche io voglio vincere.”.
Presi il mio borsone e tirai fuori i pantaloni.
Mi piaceva l’odore dello spogliatoio a fine giornata.
Era particolarmente gratificante!
“E’ ovvio…” - mormorai, cercando di stare quanto più tranquilla possibile.
“Bev… forse non avrei dovuto appoggiare Tabhita! Credevo che non ti saresti infastidita così tanto. Sono stata un po’…”.
“Traditrice?”.
Mi morsi le labbra per quello che avevo detto.
“Stavo per dire superficiale,ma se credi questo…”.
Scossi il capo.
“Scusa. Credevo di non esserci rimasta troppo male, invece sono giorni che sento un blocco allo stomaco!”.
“Sai, la migliore amica serve anche a sfogarsi, Bev.”.
Sospirai. Lo sapevo così bene, eppure mi veniva così difficile dire come mi sentivo! Non volevo essere giudicata né aiutata! Io ero Beverley Keegan, e dovevo cavarmela da sola.
“Non posso parlarti di questo! Dovrei avere già superato questa cosa, perché è stata solo un’illusione! Una stupida cotta.”.
“Si,ma ti ha fatto male. Specie per la storia di Sarah, ma io ho sbagliato. Dovevo rimanere con te e invece non ho saputo dire di no a Tabbhy. Era davvero disperata!”.
“Posso immaginarlo! Tabbhy impazzisce spesso. Si lascia coinvolgere troppo da Sarah!”.
Mi porse la mano. Mi sembrava di essere tornata bambina. Quante volte avevo litigato con Maxime da piccola!
Solitamente era perché non rispettavo le regole di un gioco o perché una delle due disturbava l’altra, insomma cose da bambine.
La guardai. Sapevo che fare pace con lei era la cosa più giusta, ma dentro di me qualcosa stava continuando a bruciare. Sentivo rabbia.
Avrei voluto il suo appoggio, invece mi sentivo quasi tradita!
“So che sei arrabbiata, ma voglio chiederti scusa, qui e adesso!”.
Il gomitolo in gola cominciò a bloccare le mie vie respiratorie. Stavo provando a inghiottirlo, ma niente, non c’era verso di farlo scendere.
“Non… - respirai a fondo, la guardai e continuai – Non so se riuscirò a comportarmi bene con te.”.
Ci era rimasta malissimo. Glielo lessi in viso.
Ritrasse la mano.
“Credevo che per te non sarebbe stato difficile perdonarmi. Non hai mai portato rancore e adesso? Bene, sarà meglio lasciare stare! Io sono ancora qui e non rifiuterò mai la tua amicizia, ma non ti aspetterò a lungo, Bev! Adesso non sono più io a dovermi scusare!”.
Afferrò la borsa e scappò via da quella stanza.
Era arrabbiata, veramente arrabbiata.
Io invece ero stata una stupida.
Avevo rifiutato la mia migliore amica.
Il gomitolo era ancora in gola. Quella volta stavo male sul serio.
Avevo perso Maxime, per il mio stupido orgoglio.
Solamente per il mio orgoglio.
Non riuscii a dormire quella notte.
Nella mia mente si affollavano miliardi di pensieri. Le lacrime avevano inzuppato il mio cuscino morbido e profumato. Troppa paura di voler bene, troppa paura di stare male di nuovo.
Era questa la verità. Pur essendo una ginnasta, e nonostante il mio coraggio e la mia testardaggine io avevo paura. Di cosa? Di me stessa. Delle emozioni che non ero capace di controllare!
Molto spesso i nostri peggior nemici siamo proprio noi stessi. Ed ecco il mio problema, io ero la mia peggior nemica!
Mi madre lo aveva sempre detto che mi sarei fatta male, prima o poi.
Vivevo con due sorelle completamente diverse e io, che ero quella più emotiva, non potevo che differenziarmi ulteriormente da loro.
Tabhita aveva sempre vissuto all’ombra di mia madre, coltivando un sogno che non era il suo e imponendosi degli obiettivi che non le avevano permesso di tirar fuori le sue vere capacità, sempre molto riservata e fuggitiva nei confronti di mia madre, un’ottima confidente ma troppo poco convinta delle sue capacità.
Sarah, invece, era la tipica figlia perfetta. Voti perfetti, occhi verdi, capelli perfetti, un corpo da ginnasta perfetto, senza fronzoli per la testa e molto controllata. Lei si che sapeva tenere a bada le proprie emozioni! Almeno prima che Jason le facesse perdere la testa. Era sempre stata bravissima, ma estremamente perfezionista!
Io non riuscivo a non esternare i miei sentimenti. Mia madre lo sapeva bene.
Se ero nervosa, tutti diventavano nervosi. Se avevo paura, tutti si sentivano insicuri.
Ero particolarmente empatica e riuscivo con i miei modi di fare anche ad influenzare chi mi stava accanto.
Ero testarda. Se volevo fare un esercizio ci riuscivo, ma a differenza di Sarah non avevo bisogno di lavorare per ore per raggiungere la perfezione, ci arrivavo in meno tempo.
Mia madre aveva sempre detto che il mio era un talento “preconfezionato”. Una cosa naturale, praticamente!
La mia esuberanza, però, e anche il mio non riuscire a controllarmi, troppo spesso mi avevano cacciato nei guai.
A volte, senza rendermi conto di cosa stessi facendo mi trovavo in situazioni a dir poco paradossali.
Situazioni in cui non riuscivo a mettere da parte il mio orgoglio, in cui non ero in grado di inghiottire quel gomitolo e andare avanti.
Situazioni in cui la mia bocca si apriva senza il mio consenso.
E con Maxime era successo proprio questo. La bocca si era aperta da sola, il gomitolo non era riuscito ad attraversare la trachea e io non ero riuscita a volerle bene come avrei dovuto fare.
TUM, TUM, TUM!
La sveglia non era ancora suonata, ma un rumore strano mi aveva costretta ad aprire gli occhi.
“Santi numi! – mormorai, tra me e me, mettendo la testa sotto il cuscino – Che diamine succede?”.
I miei capelli scuri,non molto lunghi, profumavano di pino silvestre. Adoravo quello shampoo! Li odorai per qualche minuto, provando ad ignorare il  rumore persistente, quando ad un tratto le mi gambe si spostarono senza il mio controllo e mi ritrovai in piedi di fronte alla porta di Tabhita.
Il rumore proveniva da lì.
Aprii la porta, senza farmi il benché minimo problema, e urlai: “Si può sapere che stai combinando?”.
Sgranai gli occhi.
Mia sorella era impazzita.
La trovai a testa in giù, in verticale, con i piedi piantati a muro.
Scese di colpo, tracciando un arco con la schiena.
“Potenziavo i miei addominali!”.
“Alle cinque del mattino?”.
Alzò le spalle.
“Non volevo disturbarti, Bev!”.
Ero arrabbiata da morire! Come le era venuto in mente di mettersi a fare esercizi di notte?
“No? Beh, abbiamo un muro in comune! E’ normale che se sbatti i piedi in continuazione io lo senta!”.
Ma poi che ci faceva già in tuta a quell’ora? Era impazzita!
“Volevo solo…”.
Le feci cenno di non continuare.
“Ti prego, non dire altro! Vai a dormire piuttosto! Abbiamo la sveglia già fin troppo presto! Non anticiparla di ore!”.
“Non posso… io devo allenarmi!”.
“Lo fai in palestra, come tutte noi! Che ti è preso, si può sapere?”.
Sospirò e diventò seria in viso.
“Chiudi la porta. Non mi va di svegliare la mamma o, peggio ancora, Sarah!”.
Chiusi la porta e mi girai verso di lei.
Sciolse i capelli mossi e si sedette sul letto, ancora disfatto.
La interrogai con lo sguardo.
“Non riuscivo a dormire, Bev.”.
“Se può consolarti, - mi sedetti accanto a lei – neppure io!”.
Si tolse le ginocchiere e si passò una mano fra i capelli.
“Perché hai pensato di allenarti a quest’ora?”.
La domanda suonava strana, ma era quello che volevo sapere.
“Per non pensare.”.
Ci fu un momento di silenzio imbarazzante.
“Sai, non sono riuscita a perdonare Maxime.” – esclamai, sia per parlare di qualcosa, sia perché questo pensiero mi stava logorando.
“E come stai?”.
“Uno schifo…”.
“Morale della favola?”.
“Devo implorarla di perdonarmi, adesso!”.
Annuì. Abbozzò un sorriso,poi tornò seria.
Non avevo idea di che cavolo le stesse passando per la testa.
“Ok, spara! – cominciai, decisa – Che ti succede?”.
Mi fissò un attimo e poi, quasi fosse una cosa di quotidiana routine, disse : “Penso di voler lasciare la ginnastica.”.
Che cosa? Era a un passo così dal diventare una campionessa, e voleva tirarsi indietro? Era ovvio che aveva perso il lume della ragione.
Probabilmente la mia espressione non doveva essere troppo rassicurante, perché Tabbhy aggiunse quasi subito: “E’ solo un’idea. Non dico che lo farò. Ho lavorato tanto per arrivare fin qui!”.
“Appunto! Non puoi mollare adesso! Che senso avrebbe allora tutto quello che hai fatto finora?”.
“Non lo so… voglio andare al college. So solo questo, Bev! Oggi Tyler è arrivato tutto contento con la sua lettera dal college, convinto di voler sacrificare la ginnastica per quello, per il suo vero sogno! Questa cosa mi ha messo in crisi. Io mi sono sempre detta che avrei fatto le Olimpiadi e poi avrei pensato all’università! La mamma mi ha sempre detto questo… ma io da me cosa voglio? Io chi sono?”.
“Sei l’unica a poterti dare una risposta, credo. Insomma, sei un’ottima atleta, e hai lavorato tanto. Potresti aspettare un anno prima di andare al college. Non si muore mica se ci si laurea a 23 anni! Come dici tu, però, qui il discorso è un altro, tu cosa vuoi da te?”. 
Scosse il capo, mise la testa tra le gambe, piegate sul petto.
Non lo sapeva. Doveva liberarsi dei suoi pesi per capirlo. Dei pregiudizi!
Si era sempre sentita inutile e sempre spinta da mia madre, ma se non si fosse liberata della sua ombra non sarebbe riuscita a trovare la sua strada.
Qualunque esse fosse stata. 

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Capitolo 7
*** Fiori diversi dello stesso giardino ***


Sarah
 
Beverley ce l’aveva ancora con me. In fondo sapevo il perché, ma mi era più comodo far finta di niente. Non volevo il giudizio di nessuno su di me.
Se anche innamorarsi era un errore allora cosa mi era rimasto di poter fare?
Il vero problema stava diventando la sua indifferenza nei mie confronti. Mi faceva male sapere che mia sorella non voleva probabilmente avere più niente a che fare con me e che mi avrebbe ancora più allontanata dalla sua vita! In più la mamma si era resa conto della tensione tra noi due e aveva già cominciato a fare mille domande, e questo mi preoccupava parecchio, perché non sapevo fino a che punto sarei riuscita a tenerle nascosto Jason.
Mi sistemai sul tappetino. Direzione volteggio.
Amavo quella sensazione di vuoto che si creava sotto i miei piedi, tutte le volte che spiccavo il volo a tutta velocità! Sembrava veramente di stare volando! Riuscivo per pochi secondi a rimuovere qualsiasi pensiero.
Olive si avvicinò. Mi stavo sciogliendo le braccia e le spalle.
Evidentemente aveva notato una certa rigidità in me, perché quando aprì la bocca la frase che le sentii pronunciare non poteva essere proprio considerata d’incoraggiamento.
“Sarah, non pensare, ti prego. Sai eseguire questo esercizio alla perfezione, oramai! Sta rilassata e fallo come sempre!”.
La guardai un secondo. Braccia incrociate, occhi spalancati ed espressione supplicante.
Annuii.
Sorrise e si allontanò.
“Parti, solo quando ti senti pronta.”.
Respirai a fondo. Fissai l’ostacolo di fronte ai miei occhi.
Era solo una cavallina! In fondo, si trattava di un ostacolo come tanti altri.
Tutte le volte che doveva lanciarmi in quella corsa suicida, dovevo ripeterlo un paio di volte, prima di partire.
La mia testa non era molto sicura di quello che sarei riuscita a fare,ma le mie gambe pulsavano di eccitazione, pregustandosi la corsa, il mio addome fremeva dalla voglia di contrarsi per brevi istanti, sfidando ogni legge della fisica, le mie mani ribollivano, desiderando di poter spingere quanto più possibile il resto del corpo in quel folle volo.
Era tutto assurdo! Mi bastava affidarmi al mio corpo per superare tutto.
E così partii senza accorgermi di nulla. Presi la rincorsa e mi lanciai del mio doppio salto. Scesi perfettamente.
Abbozzai un sorriso. Sentii il ginocchio scricchiolare, ma niente di grave. Ci ero abituata!
Sentii Olive battere le mani.
“Ottimo! Era proprio questo, quello che volevo vedere da te, Sarah! – rivolgendosi alle altre aggiunse – E’ questo quello che voglio da voi, ragazze! E’ la grinta giusta! La giusta sicurezza!”.
Sicurezza? Per me era un tuffo alla cieca, ogni volta. Lasciavo che fossero i miei muscoli a rispondere di tutto.
Sentii battere nuovamente le mani, però stavolta dietro di me.
Mi voltai di scatto.
Mio padre era lì, di fronte a me. Con la sua giacca ben stirata e la camicia bianca. Gli occhi verdi, fissi su di me e un gran sorriso. Chissà se mia madre si era accorta della sua presenza!
Gli corsi incontro.
“Papà!”- urlai, finendo tra le sue braccia.
Mi abbracciò forte, stringendomi a sé.
Avrei dovuto essere arrabbiata con lui, ma non ci riuscivo.
Se ne era andato a New York, con un’altra donna. Ci aveva praticamente lasciato da sole, eppure ero capace di avercela più con mia madre che con lui. Ero sempre stata la sua “pupilla”!
Non sapevo perché, ma mi aveva sempre guardata con particolare riguardo. Gli piaceva il mio carattere, la mia sicurezza, il mio autocontrollo… tutto quello che non aveva Beverley, per farla breve.
“Che ci fai qui?” – gli chiesi, continuando a stringerlo.
“Mi sono preso una settimana di ferie, per venire a firmare i documenti del divorzio, tesoro.”.
Sentii un blocco allo stomaco. Divorzio. Era come se questa parola mi provocasse una specie di terribile allergia.
Deglutii, continuando a stringerlo. Trattenni le lacrime. Avevo pianto abbastanza per mesi, anzi per anni.
“Sei diventata bravissima, una vera campionessa!”.
Mi staccai da lui e sorrisi amaramente.
“Voglio vincere tutto, papà!”.
Rise e mi guardò.
“Sai, per caso dove sono le tue sorelle?”.
“In giro per la palestra. Se può interessarti, mamma è lì – indicai la trave – con Bev… e ti sta fissando!”.
Lo sguardo glaciale di mia madre era terribile. Metteva paura.
In fondo, tutte le volte che lo rivedeva, era costretta a ricordare quello che era successo. E allora diventava gelida.
Non la sopportavo proprio, quando doveva trattarlo come uno sconosciuto. Non era giusto. In fondo mio padre, l’aveva amata e tanto.
Per me la colpa era stata sua. Si. Di mia madre.
Aveva cominciato a diventare ossessiva. Continuamente attenta alla nostra dieta, ai nostri allenamenti, ai risultati positivi e negativi e sempre meno presente in casa.
Quando finivamo gli allenamenti, faceva venire nostro padre a prenderci, mentre lei rimaneva fino a tardi ad allenare le ragazze sulle quali puntava quell’anno o a elaborare nuovi metodi di allenamento per me e le mie sorelle.
Mio padre aveva passato così tanto tempo da solo! E lei? Non si era accorta di nulla! Non gliene era mai importato molto di papà.
“Loro saranno delle campionesse, Luke!”.
Ecco cosa diceva a mio padre, tutte le volte che lui tentava disperatamente di portarla a casa prima o tutte le volte che la sentiva parlare degli allenamenti o di quello che non potevamo mangiare.
Beverley era sempre stata una golosona. Amava tutto ciò che si presentasse sotto la forma di cioccolato!
Per mia madre era stato un gran bel problema riuscire a evitare che mangiasse tutto quello che le faceva gola, e spesso si scontrava con mio padre per la caramella di troppo o il gelato comprato di nascosto al parco, la domenica mattina.
Chi dei due avesse ragione? Non mi sono mai reputata abbastanza saggia da decidere o da giudicare.
Forse mia madre era esagerata, ma mio padre sapeva essere veramente superficiale, alle volte.
Nella mia testa, il tradimento di mio padre passava in secondo piano rispetto alla scarsa presenza di mia madre. Tutto qui.
Di contro, avevo dovuto notare obbligatoriamente che l’atteggiamento di mia madre nei nostri confronti era migliorato parecchio, da quando mio padre se ne era andato. Si era addolcita. A volte, era addirittura, molto affettuosa.  
La mamma ci venne incontro, facendo cenno a Bev di rimanere alla trave.
“Alice. – bisbigliò mio padre, piuttosto in imbarazzo – Ti trovo in forma.”.
“Grazie, Luke. – rispose in tono altezzoso, incrociando le braccia – Stai disturbando l’allenamento, lo sai?”.
“E’ quello che pensi da una vita.”.
Colpo basso. Zero a uno per mio padre!
“Ti avevo chiesto di non venire in palestra!”.
“Mi trovavo in zona e non ho resistito, volevo vedere questa campionessa!”.
Sorrisi, e poi provai a decifrare lo sguardo di mia madre.
Aveva un mezzo sorrisetto che denotava un certo fastidio.
“Se non la lasci allenare, non diventerà mai una campionessa!”.
“Andiamo mamma!”.
“Coach, Sarah! Coach!”.
Sospirai. Era molto infastidita!
“Ehi, papà. – Tabbhy arrivò dalla parte opposta a mia madre e fece un gesto di saluto con la mano – Che sorpresa…”.
Non sembrava molto sincera o contenta.
Lei, a differenza mia, ce l’aveva sia con mia madre che con mio padre. Diceva che la mamma era un dittatore, mentre nostro padre si era comportato da vigliacco e da bambino. In fondo ce l’aveva più con mio padre. Era più facile avercela con lui, perché non se la prendeva mai.
Faceva solo lo stupido.
Per me era una forma di difesa personale. Per Tabbhy era vigliaccheria.
Per Bev era stupido!
“Ciao, Tabbhy! – mio padre le rubò un abbraccio – Sei più alta!”.
“Purtroppo…” – commentò, seriamente dispiaciuta.
“Bene, mi manca solo la piccola di casa..”.
“Se avrà intenzione di mollare l’allenamento per te.”- riprese mia madre, molto arrabbiata.
“Sono suo padre… non ci credo che non vuole vedermi!”.
“Pensavi che le sarebbe passato? Che un giorno avrebbe dimenticato che suo padre l’ha letteralmente abbandonata?”. 
Io e Tabbhy ci guardammo qualche secondo.
“Andate ad allenarvi immediatamente, prima che vi faccia uscire da qui direttamente domani sera!”.
“Va bene…” – annuii, provando a immaginare di cosa avrebbero parlato senza noi.
Salutai mio padre e mi precipitai alle parallele.
“Prima o poi mi rivolgerà la parola, Alice.”.
“Non essere insistente. E’ arrabbiata con te. E come darle torto? Ora, ti prego, esci da qui!”.
Mio padre sospirò e se ne andò.
Camminava lentamente.
Si voltò, prima di uscire. Guardò Beverley, ancora alle prese con la sua amata trave. I loro sguardi si incrociarono per mezzo secondo.
Aprì la porta ed uscì.
Sentii il cuore stringersi dentro al petto.
“Rilassati, Sarah. Se ne è andato!” – mormorò Tabhita, mentre sistemava i paracalli alle mani.
“Perché ce l’avete tutte con lui?”.
“Perché ha rovinato tutto.”.
“Aspetta! – la afferrai per un braccio – Non credi che la colpa sia anche della mamma?”.
“Perché dovrebbe esserlo?”.
“Perché per anni è stata distante, e non…”.
“Non ricominciare con le solite balle! Sarah, difendi papà quanto ti pare, tanto le cose non cambieranno mai! Lui ha tradito, lui se ne è andato! Lui!”.
Si liberò dalla mia presa e se ne andò.
Rimasi lì, immobile. Perché non riuscivamo ad essere unite? Perché non eravamo in grado di pensare la stessa cosa.
Una gran voglia di piangere e troppi pensieri per la testa.
Chi aveva ragione? Perché Beverley non riusciva a parlare con nostro padre?
Cosa eravamo in realtà?
Forse il frutto di una notte senza televisione. Il frutto di un amore destinato a sfiorire. O forse dei fiori, molto diversi tra di loro, costretti a crescere nello stesso giardino. Costretti a guardare l’uno il colore degli altri, senza poter fare niente per cambiarlo.
Sorelle. La nostra unica certezza. Ecco cosa eravamo sempre state ed ecco cosa saremmo state per sempre.
Qualsiasi strada avremmo percorso, qualunque percorso saremmo state costrette a imboccare, qualunque vallata saremmo state in grado di attraversare, saremmo state per sempre sorelle.
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Il vuoto ***


Tabhita
 
La presenza di mio padre mi aveva in qualche modo turbata. Avevo sempre cercato essere neutrale il più possibile, ma inconsciamente avevo condannato più mio padre di mia madre.
Averlo in giro, per casa, sentire la sua voce. Saperlo lì, a una camera di distanza mi inquietava.
Era stata mia madre a insistere perché venisse a casa e non andasse in giro a cercarsi un albergo.
Sapevamo tutti dei suoi debiti e, considerando il fatto che solo un anno prima stava per essere buttato fuori di casa,non ci tenevamo affatto a fargli spendere altri soldi per una camera da sessanta dollari a notte.
Era un ottimo medico mio padre e guadagnava bene, ma dopo la sua storia con la donna per la quale aveva lasciato mia madre, aveva perso un mucchio di soldi e si era indebitato.
La donna che aveva, in pratica, rovinato la nostra famiglia non si era fatta molto scrupoli. Aveva visto il cretino di turno,in piena crisi matrimoniale, medico, ben accreditato, anche piuttosto carino e che aveva fatto? La cosa più ovvia! Se lo era accaparrato, lo aveva spremuto per benino fino all’ultimo centesimo e poi se ne era andata con un giocatore di baseball.
Morale della favola, mio padre, povero stupido, era rimasto solo, a New York con debiti dalle cifre esorbitanti e ore e ore di straordinari in ospedale. Era un chirurgo molto conosciuto.
Aveva incontrato così mia madre.
Lui, giovane laureando in medicina e lei, giovane promessa della ginnastica e già campionessa olimpica infortunata gravemente alla schiena. Era riuscita a superare l’intervento brillantemente e grazie al sostegno psicologico di mio padre, aveva anche avuto il coraggio di tentare la seconda corsa alle Olimpiadi.
La corsa che ebbe una fine alquanto tragica, perché alla fine Alice Keegan non gareggiò, per motivi che a me e alle mie sorelle rimanevano sconosciuti e oscuri.
La loro era una di quelle storie romantiche in cui il medico si innamora del paziente e insieme mettono su famiglia e passano tutta la vita insieme finché morte non li separi.
Ecco per mia madre e mio padre era bastata una donna provocante, un po’ di indifferenza e tanto rancore per separarli.
Così una mattina, dopo le solite urla, mi ero svegliata grande di colpo.
Ero già abbastanza grande, ma nell’istante in cui realizzai che la mia famiglia si era frantumata mi sentii costretta a fare un salto in avanti di almeno una decina di anni!
Mi ero sentita dire che non saremmo più stati una vera famiglia, che mio padre se ne sarebbe andato con un’altra donna.
E io cosa ero? Non ero più la sua principessa? No. Ero solo una bocca da sfamare con un mantenimento forzato da mandare ogni mese insieme a  una cartolina di auguri.
Il mio mondo era andato in pezzi. Mio padre, il mio unico uomo, il principe delle favole che desideravo per me era diventato un mostro.
Tuttavia, il mio carattere malleabile e la mia voglia di perdonare, mi avevano aiutata a seppellire il rancore e ad andare avanti.
Così, dopo essermi sforzata, andando contro le mie forze, di rispondere alle sue chiamate, di parlargli, di dargli un po’ di me, ero riuscita a costruire un dialogo con lui.
Molte volte avevo parlato con lui del mio futuro.
Questo con lui potevo farlo!
Per mia madre il mio futuro sembrava essere scontato. Olimpiadi, medaglie, una borsa di studio e una buona università.
Per me, invece, il mio futuro era un punto interrogativo.
Da già due anni stavo pensando di fare legge.
Volevo diventare un avvocato.
Mio padre lo sapeva, perché quelle volte che era riuscito ad estorcermi delle informazioni, aveva fatto in modo che io gli parlassi di quello che avrei voluto fare dopo le Olimpiadi.
Gli avevo parlato della Columbia. Volevo andare lì. Volevo studiare legge lì, a New York.
Era il mio sogno!
Era stato entusiasta al sentirmi pronunciare quelle frasi.
Potevo nascondere le mie aspirazioni a mia madre, ma con mio padre era più difficile, perché lui aveva anche guardato sempre al lato pratico della vita. Non potevamo essere solo ginnaste.
Dovevamo essere anche qualcos’altro.
Anche mia madre sapeva queste cose, ma lei era più come me. Cercava di non affrontare i problemi con largo anticipo.
Perché? Per paura, era così ovvio!
Affrontare dei problemi, ammettere delle cose ovvie, attraversare delle crisi o compiere delle scelte comporta sempre un certo rischio. Se non hai abbastanza coraggio da rimetterci qualcosa di tuo allora è più facile non provarci affatto. Lo fai solo per proteggerti.
Ecco, io stavo cercando disperatamente di proteggermi. Da cosa? Da tutto ciò che avrebbero comportato le mie scelte, dall’affrontare mia madre, ma soprattutto mi proteggevo dalle mie aspettative, da me stessa insomma.
Da un lato volevo fare le olimpiadi, continuare a stare nella mia squadra e fare la ginnasta, ma stavo cominciando a sentire qualcosa di strano. Mi sentivo quasi forzata a fare quello che facevo da una vita.
Perché perdere un anno?
Per le olimpiadi? E ne sarebbe valsa veramente la pena? Se non avessi portato a casa alcuna medaglia?
“Tabhita! Vuoi deciderti a cominciare?”- la voce di mia madre risuonò nella mia testa, secca, decisa.
Mi fece cenno di salire sulla trave.
Sospirai e cominciai il mio esercizio.
“Stendi bene le punte!”.
Le punte. Dovevo stenderle meglio.
“Le aperture devono essere quasi esasperate, Tabbhy!”.
La mia spaccata aveva fatto un po’ schifo.
“Sorridi!”.
Sorridere? Mentre mi preparavo a eseguire una uscita con doppio avvitamento alla perfezione?
Sorrisi, preparandomi alla rincorsa.
Almeno ci provai. Arrivai a terra con i pedi ben uniti e alla fine caddi come una stupida.
“Ahia!” – urlai, col sedere per terra.
“Tabhita!”.
Mia madre si inginocchiò accanto a me.
“Stai bene? Era praticamente perfetto. Come hai fatto a cadere?”.
“Sto bene… - sbuffai, seccata,  - Ho solo perso il controllo.”.
Non riuscii a trattenere le lacrime. Non era il dolore fisico a farmi piangere. Era nella mia testa il problema!
Era nel mio cuore!
Mi sentivo terribilmente confusa,come se un vento fortissimo mi stesse strappando via dalle mie certezze, come se volesse stravolgere la mia vita.
Avevo paura. 
“Scusa, mamma!” – mi alzai di scatto e corsi verso l’uscita della palestra, annegando nelle lacrime.
“Tabhita!”- mia madre mi corse dietro, piuttosto preoccupata.
Perché ero esplosa proprio in quel momento? Perché non ero riuscita a trattenermi ancora un po’?
Mi ritrovai all’ingresso. Mi appoggiai con la schiena a una delle colonne di marmo e scivolai fino al pavimento. Singhiozzando.
“Tesoro! – mia madre si mise lì, accanto a me, senza provare neanche a toccarmi – Cosa è successo?”.
“Non è niente! – provai a mentire, senza alcun risultato, visto i lacrimoni agli occhi e la mia tensione emotiva alle stelle – Ho solo tanta… voglia di riposarmi!”.
Non potevo dire confusione, non potevo dire paura. Non a mia madre.
Mi carezzò i capelli con una mano, molto dolcemente.
“E’ forse per tuo padre?”.
Si, anche.
“Si. E’ che averlo in giro mi fa stare … male.”.
In parte era veramente così. Certo, non avrei potuto aggiungere che stavo male perché averlo lì mi rendeva più difficile nasconderle i miei dubbi!
Annuì. Mi baciò la fronte.
“Hai ragione, tesoro. Mi dispiace.”.
Lo so mamma. L’ho sempre saputo che dietro alla tua fermezza non hai fatto altro che nascondere il tuo dolore, la tua frustrazione, il tuo matrimonio fallito.
Questo, però, non ha mai cambiato le cose.
Aveva cominciato a piovere.
L’aria era improvvisamente diventata fredda. Frizzante.
Gli alberi lasciavano i loro arbusti piegarsi sotto le raffiche di vento.
Lo stesso vento tempestoso che mi stava facendo piegare ai dubbi.
Quei dubbi che non avevo mai avutoli coraggio di affrontare. Quelle paure che era sempre stato meglio rimandare.
Non potevo più rimandare. Il mio cuore ero stufo di rimandare, di aspettare, di far finta di niente.
Lui si era stancato di me! Del mio modo assurdo di tenere tutto dentro. Della mia incapacità di decidere. Della paura che avevo di me stessa, di tutto quello che non conoscevo di me, di tutto quello che non avevo avuto il coraggio di scovare dentro il mio essere.
Tabhita non era solo una ginnasta. Era una figlia, era una giovane donna.
Tabhita ero io!
Rimasi quasi due ore sullo stesso tappetino a distendere le punte e a “esasperare” le mie aperture.
Il viso rivolto verso la finestra grigia. Lo sguardo al di là del vetro. La mente persa nei miei pensieri. Il cuore stretto come in una morsa.
Avevo annullato tutto. I rumori, le parole, lo sbattere i piedi contro il trampolino, le urla di mia madre..
Non sentivo più nulla.
Mi aveva dato il permesso di stare in stand by.
Avevo annullato ogni cosa.
Per la prima volta in tutta la mia vita mi sentivo diversa. C’ero solo io in quella palestra.
C’era solamente Tabhita. E non doveva preoccuparsi dei problemi delle sorelle. Non doveva migliorare i suoi esercizi. Non era costretta a cadere. A farsi male ancora, senza un vero motivo.
Ero immersa nel vuoto e lo amavo. Potevo sentire per la prima volta il sapore della libertà. Ed era buonissimo.
Sapeva di estate, di fiori appena raccolti, di rugiada mattutina, di un tramonto sulla spiaggia, di una giornata di pioggia piena di sole, di famiglia, di libri vecchi profumati di sapere immenso ed infinito, di una tazza di cioccolata calda davanti a un camino, di lenzuola profumate e pulite, di poesia, di una bacio lento e appassionato, di domenica in chiesa e di candele che illuminano il buio di una stanza chiusa e senza fessure.
Sapeva di amore di madre. Di carezze di padre.
Di dolcezza di un bimbo piccolo e bisognoso di cure.
Sapeva di infinito. Era così bello!
Stavo vivendo nell’infinito da dentro una stanza, chiusa, buia, grigia, che puzzava di sudore e di regole.
Solo regole.
Puzzava di disciplina e io non ne potevo più.
Dentro la mia testa sentii come un campanello d’allarme suonare fortissimo e dirmi: “Insegui il tuo sogno! Qualunque esso sia! Non chiuderti in te stessa, ma spiega le ali e vola via Tabbhy! C’è un mondo grandioso che ti aspetta. Un mondo pieno di mille possibilità. Un mondo in cui non importa chi sei stata, ma chi puoi e vuoi essere. Resta solo una domanda ed è chi vuoi essere?”.
Chi volevo essere?
Guardai Tyler. Stava volteggiando agli anelli.
Respirai l’aria della palestra ancora una volta. Non sapevo ancora cosa volevo, ma ero sicura di una cosa, se volevo andare al college dovevo almeno fare un tentativo.
Non avevo paura di mia madre, ma di me stessa. Paura di mettermi in gioco e non riuscire.
Paura di fallire.
 

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Capitolo 9
*** Beverley (parte prima) ***


 
Sorry for late! Ho avuto esami su esami e poca ispirazione. Rieccomi qui per il momento!
Beverley
 
Non siamo tutti bravi a prendere la decisione giusta. A volte, qualunque sia la nostra scelta, ci ritroviamo nella posizione di dover chiedere scusa a qualcuno. Come se tutti i si e i no detti fossero volti a fare del male a qualcuno.
Come se scegliere di mettere uno smalto blu, invece che uno verde, potesse cambiarti la giornata.
Ero decisa a chiedere scusa a Maxime. Dovevo salvare l’unica amicizia vera che avessi mai avuto.
Entrammo in palestra. Ero ancora in tuta e avevo la borsa addosso.
Mi fiondai verso Maxime. Era già sul tappetino a riscaldarsi. La lunga treccia bionda era raccolta in un tupè.
Era concentrata.
Si stava stiracchiando, quando si fermò a guardarmi.
Ce l’aveva con me, e mi sembrava giusto.
Sospirai e mi sedetti accanto a lei.
“Maxime, lo so che sei arrabbiata e che mi sono comportata da stupida e da egoista, ma mi sono resa conto che ho fatto male!”.
“Buon per te, Keegan!”.
“Ascolta, ho sbagliato! Non avrei mai dovuto dirti quelle cose!”.
Annuì e continuò a riscaldarsi.
“Ti ho detto buon per te! Pensi che uno scusa, mi dispiace, possa sistemare le cose? Bev, io sono venuta a scusarmi con te per una cosa che non avrebbe dovuto assolutamente metterti in difficoltà, e tu mi hai respinta. Che devo fare? Voglio una prova da parte tua che non stai solo facendo la pentita perché non vuoi stare da sola, ma che sei veramente pentita e dispiaciuta perché ci tieni a me!”.
“Credo che tu abbia tutto il diritto di chiedermi questo, ma come faccio a provarti che sono sincera?”.
“Semplicemente non limitandoti alle scuse! Io ti ho già perdonata, e ti voglio bene, ma voglio un’amica, non un’opportunista accanto!”.
Si alzò e mi guardò. Mi porse la mano.
Alzai lo sguardo verso di lei e sorrisi, nonostante Maxime fosse piuttosto seria in volto.
Afferrai la mano e mi alzai pure io. Mi sentivo sempre una nanerottola di fronte a lei.
“Sarò la migliore delle amiche, te lo prometto!”.
Ci abbracciammo.
“Affare fatto!”- rispose lei, sorridendo.
Era bello ricominciare con tranquillità una giornata come tante altre di allenamento. Beh, quasi!
Non era proprio un giorno normale. Ci stavamo preparando per una gara amichevole con una palestra del Kentuchy.
Sarebbe servita a testare il nostro livello di preparazione e a metterci in mostra di fronte ai giudici. Tutte eravamo determinate ad arrivare alle Olimpiadi, ma bisognava cominciare a farsi vedere fin da subito.
Mia madre aveva cominciato già con i soliti discorsi da pre-olimpiadi, con gli allenamenti esageratamente spacca – schiena, con gli esercizi nuovi e i nuovi salti da provare ecc.
Ci aveva messo sotto torchio. Tutte quante!
“Ehilà! – Tyler mi diede una pacca sulla spalla, tutto sorridente, mentre io stavo al cestello della magnesia – Ho visto che hai un bell’esercizio alla trave!”.
“Guarda che fai male, spilungone! – protestai io, cercando di essere sempre educata – Comunque devo ancora migliorarlo! Devo battere Sarah!”.
“E anche Tabhita! Hai visto come è migliorata ultimamente?”.
Sentii un pugno nello stomaco. Dovevo preoccuparmi pure di Tabhita adesso?
 “Senti bello, non rompere! Si, si, è migliorata, ma la trave è mia! Chiaro?”.
“Wow, bambola! Sei troppo sicura di te,mi pare di capire!”.
“Andiamo, piantala di dire cose senza senso! Cosa vuoi?”.
“Vorrei convincere tua sorella ad uscire sabato.”.
“Sarah?”- urlai, praticamente sconvolta.
“No! Tabhita!”.
“Oh, grazie al cielo! Mi hai quasi fatto venire un infarto!”.
Aveva cominciato a ridere.
“Pensi che possa interessarmi Sarah?”.
“Lei interessa tutti coloro che producono un alto tasso di testosterone in questa palestra!”.
Scosse il capo: “Non a me!”.
“Non ti ho mai considerato effettivamente un uomo! Più una specie di scimmia evoluta o qualcosa di simile!”.
“Non sei molto divertente!”.
Ci scambiammo uno sguardo amichevolmente acido.
Continuai a passarmi la magnesia per bene e gli chiesi, cambiando discorso: “Quindi vuoi uscire con Tabbhy, finalmente! Ma come amici o…”.
“Bev, ti prego! Lo sai che tua sorella mi piace da una vita, è solo che adesso che penso di dovermene andare al college, sono sempre più convinto di dover uscire allo scoperto!”.
“Ok, diciamo che uscite come amici, e tornate con una gran confusione in testa. Quand’è che vuopi uscirci?”.
“Pensavo venerdì sera!”.
“Non se ne parla! Abbiamo un allenamento importante sabato! Mia madre non la farebbe uscire neanche per tutto l’oro del mondo!”.
“Allora quando?”.
“Io quoto sabato. Tu, lei, un ristorantino in centro, un mazzo di rose e paio di paracalli nuovo!”.
“Paracalli?”.
Annuii. I miei paracalli avevano appena ceduto.
“Servono alla tua futura cognata!”.
“Aaah! Ora capisco.”.
Non mi ero mai accorta del bel sorriso di Tyler.  Aveva proprio l’aria di un bravo ragazzo, ma anche un po’ scemo.
Dopo aver fatto mente locale,mi chiese: “Allora, rimaniamo per sabato?”.
“Si, tranquillo! Parlo con mia madre, così non le farà storie. E nel caso in cui fosse Tabhita a fare storie… beh… parlerò pure con lei!”.
Finii il mio discorso con un sorriso brillante stampato in faccia.
Tyler mi abbracciò.
“Sei la migliore, Bev! Ti comprerò i paracalli più resistenti della terra!”.
“E io ti ringrazierò eternamente!”.
“Ehi, voi due! – la voce di mia madre tuonò più squillante che mai, per tutta la palestra, raggiungendo le mie orecchie e anche quelle di Taylor – Vi allenate, o devo venire lì con un bastone”.
“Credo sia meglio che tu salga su queste benedette parallele!”- disse Tylor, mollandomi lì come una sciocca.
Sospirai e andai da Tabbhy, a farmi prestare i suoi paracalli.
In fondo, me lo doveva!
 
 
 
 
 

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Capitolo 10
*** Male ***


 
Sarah
 
“Concentrazione, Sarah! E’ questo che voglio da te!” – urlò mia madre, sull’orlo di una delle sue sfuriate.
Non ero stata particolarmente brillante nel mio esercizio, ma credevo che non sene sarebbe accorta in quel modo.
Mi preparai per il prossimo salto, ma sentii la sua mano calda e decisa afferrarmi la caviglia.
“Finisci bene ogni movimento, e schiaccia bene i piedi sulla trave! Si può sapere che ti succede? Oggi non ne fai una giusta!”.
Mi morsi le labbra.
Aveva ragione, ero con la testa da tutt’altra parte. Avere mio padre in giro per casa mi aveva parecchio deconcentrata, per non parlare del fatto che desideravo ogni giorno di più stare con Jason e che ogni giorno di più non ci riuscivamo affatto!
Il ginocchio pulsava terribilmente! Più del solito.
Mi maledii per aver continuato l’allenamento fino alle undici di sera, il giorno prima.
L’avevo fasciato per bene, per nascondere il gonfiore, anche se mia madre si era già insospettita per bene. Non si era bevuta la storia della tendinite, quella volta.
Stavo per lanciarmi nella corsa per la mia uscita, ma improvvisamente mi fermai lì, sulla trave di legno.
Urlai dal dolore e caddi sul tappetino come un pupazzo.
“Sarah!”.
Mia madre si inginocchiò accanto a me.
Sentivo il ginocchio infuocarsi ogni istante di più. Si era gonfiato negli ultimi due giorni, ma in quel momento era diventato inguardabile.
“Che cosa c’è?”- mi chiese lei, cercando di restare calma.
“Non riesco a muoverlo! Fa troppo male, sta per esplodere, mamma!”.
Zio Louis venne da noi e, insieme a lui le mie sorelle e tante altre persone.
“Alice, che cosa è successo?” – anche lui non riusciva a mascherare la sua preoccupazione.
“Il ginocchio!- mia madre tolse quella fasciatura- Guarda com’è gonfio!”.
Cominciai a piangere.
“Ha sbattuto?”.
“No, non adesso almeno!”.
Zio Louis si rivolse a me, allora, molto serio: “Sarah, dimmi la verità. Hai sbattuto recentemente?”.
Scossi il capo. Era la verità.
“Da quanto tempo è così gonfio?”.
Non potevo dire la verità. Non potevo dire che l’avevo visto gonfiarsi, che sentivo dolore da mesi. Mia madre mi avrebbe ammazzata!
“Non lo so…” – mugugnai, cercando di essere convincente.
Zia Jo arrivò con il ghiaccio tra le mani.
Mia madre insistette: “Ti ha fatto male prima d’ora? Sii sincera!”.
Se le avessi mentito, mi avrebbe mollato uno schiaffo super, perché se ne sarebbe accorta all’istante.
“Delle volte.”. 
Mi fulminò con lo sguardo e si rivolse allo zietto.
“Dove si va?” – chiese lui, con lo sguardo attento.
“In ospedale.” – concluse mia madre, alzandosi e ordinando a tutti di andare ad allenarsi.
“Ehi,- mio padre era appena arrivato – cosa è…Ma quel ginocchio è…”.
“Si va in ospedale, dottor Scheller. Hai una figlia abbastanza bugiarda, come te!”- commentò sarcasticamente mia madre.
Mio padre mi guardò con tenerezza. Provai a sorridere, ma il dolore me lo impedì.
Guardai le mie sorelle.
Erano molto preoccupate. Strano a dirsi, soprattutto Bev.
 
Non avevo detto a nessuno del mio dolore al ginocchio. Dei miei sforzi sovraumani per reggere negli esercizi.
Quindi quella mia caduta sciocca e priva di alcun significato, era stata una sorpresa per tutti.
Ero andata in ospedale con entrambi i miei genitori.
Mio padre aveva voluto toccare con le sue mani quel ginocchio.
Aveva fatto una faccia stranamente preoccupata, ma al mio “Cosa c’è?”, aveva risposto con un semplice “Niente, dovremmo fare una radiografia per capirlo”.
Stavo seduta sulla panca della sala d’attesa.
Avevo ancora le lacrime agli occhi.
Mio padre era andato a parlare con un medico.
Mia madre invece era lì, accanto a me, con una faccia scura e un broncio di sei metri e mezzo.
Non osavo rivolgerle la parola. Troppa paura.
Poi, a un tratto, fu lei a parlare.
“Perché non hai detto nulla?”.
“Avevo paura che non mi avresti fatto gareggiare.”.
Mi fulminò con i suoi occhi scuri e penetranti. Somigliava terribilmente a Beverley, con una differenza: i capelli meno scuri.
“Lo sai che se fossimo a casa ti avrei strigliato già per bene?”.
“So che non appena saremo a casa mi toccherà sentire le tue urla.”.
Annuì: “Mi conosci bene.”.
“Quando firmate per il divorzio?”.
Questo mio cambiamento di discorso improvviso sorprese anche me.
Lei mi guardò, quasi confusa e imbarazzata.
“Domani mattina.”.
“E poi, lui- indicai mio padre – se ne tornerà a New York?”.
“Già.”.
“Bene.”.
“Perché bene?”.
Feci spallucce.
“Mi sembravi entusiasta di averlo in giro. Sicuramente più di Beverley!”.
“Non si sono rivolti la parola da ieri a oggi. Solo un ciao! Ti sembra normale?”.
“Sarah, ti prego. Evitiamo il discorso!”.
“Certo. Comandi tu, giusto?”.
In un’altra occasione un ceffone non me lo avrebbe tolto nessuno, ma in quel caso mio madre fu più buona.
“Esattamente.”.
Mi aveva zittita con una parola.
Era stata geniale.
Mio padre tornò col medico.
“Se siamo pronti facciamo una radiografia e una visita ortopedica!”- ci disse il medico, cercando di essere rassicurante.
Mio padre mi incoraggiò ad alzarmi e mia madre mi seguì.
Il mio cuore batteva a mille. Avevo paura che mi venisse un infarto.
Mi consolai del fatto che ero già in ospedale!
Dopo quaranta minuti di visita eravamo già fuori.
L’ortopedico era stato enigmatico. Aveva girato quelle radiografie in tutte le posizioni possibile.
Io e mia madre ci sedemmo nuovamente su quella panca fredda e grigia.
Mio padre aspettava, passeggiando.
Ero preoccupata da morire. Perché ci stavamo mettendo così tanto?
“Ehi, - mia madre mi cinse le spalle con un braccio – tranquilla! Non devi avere paura, Sarah!”.
“Invece ce l’ho!”.
Mi appoggiai al suo seno. Potevo sentire il battito rassicurante del suo cuore. Tremavo come una foglia.
Lo stesso dottore di prima uscì da uno stanzino. Il suo viso non era più tanto rassicurante.
Cosa stava succedendo?
Il cellulare mi vibrò nella tasca dei pantaloni.
Era Jason, preoccupatissimo.
Cosa ti hanno detto?
Sospirai. Non avevo la forza per rispondergli.
“Allora?”- domandò mio padre.
“Dovremmo fare delle analisi, domani.”.
“Perché?”- continuò mia madre,mollando quell’abbraccio così amorevole e alzandosi di scatto.
“Perché non c’è nulla di rotto, né si tratta di una tendinite. Potrebbe essere altro.”.
Il mio cuore si fermò.
Altro?
“Cosa?”- chiesi, trovando la forza di parlare.
“Un mucchio di altre cose. E’ giusto per stare tranquilli. Per confermare il fatto che forse hai sbattuto senza rendertene conto.”.
Mia madre e mio padre si scambiarono uno sguardo complice.
Erano una coppia fantastica. Perché cavolo avevano deciso di mollarsi non lo capivo proprio!
“Potrei farvi delle domande?”- chiese mio padre al medico.
“Certo. Venga con me.”.
I due entrarono nello stanzino.
Mia madre si mise in ginocchio davanti a me e mi fissò. Mi prese il viso tra le mani e, con voce tranquilla, mi sussurrò: “Si sistemerà tutto. Tutto!”.
Annuii, ma non ne ero più tanto sicura.
 
 
 

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Capitolo 11
*** Fino a che punto preoccuparsi? ***


Tabhita
Non riuscivo a non pensare. Il cielo era grigio e tetro, e il mio cuore triste e dolorante.
Come potevo credere a una cosa simile?
Sarah aveva un tumore e, che mi piacesse o no, era la verità.
La sera che l’avevamo saputo, non era riuscita a trattenere la sua preoccupazione, ma bisogna dire che era stata molto forte.
Neppure una lacrima.
Aveva solo detto: “Potrei non fare le Olimpiadi. Ci pensate?”.
Aveva fissato me e Bev per venti secondi, con gli occhi lucidi e un’espressione difficilmente decifrabile.
Non eravamo riuscite a spiccicare una parola.
Poi sospirò e riprese a parlare: “Almeno adesso il ginocchio non mi farà più male…”.
Lo guardava. Impaurita, ma lo guardava.
Papà aveva deciso di rimanere qualche giorno di più. Aveva intenzione di aiutarci psicologicamente, ma non saprei dire fino a che punto ci sarebbe effettivamente riuscito.
Averlo in giro, ci rendeva tutti nervosi,ma lui aveva deciso che sarebbe rimasto una settimana, sarebbe andato a New York e avrebbe fatto le valigie per tornare a casa nostra.
Non avrebbe mai lasciato la sua piccolina da sola!
Da un lato, ciò mi faceva molto piacere. D’altra parte, però, sentivo una specie di gelosia.
Insomma, sarebbe tornato a casa con noi,ma avrebbe avuto occhi solo per Sarah. Come era sempre stato d'altronde!
Mia madre aveva un’aria non troppo contenta per questo ritorno, e penso anche per Sarah.
Non sembrava una cosa troppo seria. Almeno i medici avevano detto che era stato preso in tempo, che con un’operazione e non troppe terapie si sarebbe ripresa.
Forse non in tempo per le Olimpiadi, ma si sarebbe ripresa.
E Sarah, proprio di questo aveva paura. Di non riuscire a fare le Olimpiadi!
Insomma, le avevano detto che non sarebbe morta, quindi poteva benissimo preoccuparsi per il secondo problema principale:le Olimpiadi!
Papà era andato a New York quella mattina, mentre noi, invece ci stavamo preparando per andare in palestra.
L’operazione di Sarah era prevista per la settimana dopo, e lei  sembrava essere tutt’altro che preoccupata!
Aveva una settimana di vacanza e di riposo e stava cercando di godersela.
Non le credevo molto. Sapevo bene che stava male, ma Sarah era sempre stata così. Quando c’era un problema lei semplicemente faceva finta che non esistesse!
“Bev, hai lasciato il tuo borsone per le scale! Ti sembra normale?”.
“Andiamo mà! Ero di fretta! Mi hai svegliata tardissimo!”.
Scossi il capo. Non era tardissimo, ma lei aveva deciso di alzarsi dal letto almeno venti minuti più tardi!
Sarah arrivò in jeans e maglione.
Non metteva quei vestiti da una vita!
Si sedette con noi a fare colazione.
“Aranciata?”- le chiese Beverley, masticando il suo toast a bocca aperta.
“Oh Bev, che schifo!”- esclamai, buttando gli occhi al cielo.
“Per favore, non cominciamo già alle sei!”- ci chiese mia madre, prendendo il giornale e smettendo di sorseggiare il suo tè.
Sarah aveva preso il latte e stava bevendo,con lo sguardo perso nel vuoto.
Mia madre fu l’unica a rendersene conto.
“Sarah! – posò il giornale – Stavo pensando che forse non ti fa bene venire con noi in palestra senza poterti allenare, – le si avvicinò – forse dovresti fare qualcos’altro… magari…”.
“No. Vengo in palestra, mamma.”.
Io e Beverley eravamo immobili. Guardavamo la scena con una sorta di estraniamento.
“Sai, visto che non puoi fare granché… pensavo che ti sarebbe potuto piacere andare a fare un giro magari!”.
“Da sola?” – sentenziò Sarah, posando la tazza sul tavolo.
“No… Con qualcuno! Voglio dire semplicemente che non sei obbligata a venire se non te la senti!”.
“Studio bene in palestra.”.
“Ma potresti fare altro! Hai una settimana prima di un’operazione, non hai voglia di fare qualcosa che non hai mai fatto prima?”.
“Si.”.
“E cosa? Perché non lo fai allora?”.
“Non lo so, mamma. Forse perché sarei da sola!” – Sarah si alzò dal tavolo e andò in salone velocemente.
Tornò con in mano il suo zaino e gli occhi pieni di lacrime.
“Allora? Quanto deve durare questa colazione? Andiamo?”.
Io e Beverley posammo i nostri piattini nel lavabo.
“Si, ora andiamo. Io e Bev siamo pronte.” – risposi con un fil di voce, ma questo non fece stare meglio Sarah, che invece scoppiò in lacrime.
Mia madre andò da lei. Le tolse dalle mani quello zaino e la abbracciò.
Non l’avevo mai vista così. Sarah non era molto aperta alle “coccole”, per così dire.
Quella era Beverley,e forse anche io!
“Oggi faremo una cosa, io e te! E non voglio sentire scuse! Andiamo a fare  una bella passeggiata, ma tu non entrerai in palestra finché non reggerai questa cosa, è chiaro?”.
Sara non aveva osato dire di no, questa volta!
Mia madre ci lasciò in palestra. In macchina aveva regnato un silenzio surreale, ma si capiva bene che nei nostri cuori c’era tanta preoccupazione.
Era strano fare un allenamento senza mia madre. Non avevo nessuno che mi urlasse contro ogni sei secondi, o che mi desse ordini a manetta!
Mi sentivo stranamente libera in quella palestra!
“Ehi, Tabbhy! – Beverley mi era venuta incontro, mentre sistemavo i paracalli – Sai stavo pensando a stamattina.”.
“Non sei l’unica.”.
“La mamma era molto preoccupata! E poi tutta questa situazione è proprio pesante! Sarah sta male e io non capisco se sia più perché ha paura di quello che ha o perché teme di non potersi allenare per le Olimpiadi!”.
La guardai un secondo. Non era mai capitato di vedere Beverley farfugliare di cose pressoché ovvie!
“Penso siano entrambe le cose.” – tagliai corto, sperando che quel suo monologo terminasse lì.
Non fu così.
“Non credi che magari lei vorrebbe stare con… - e sussurrandomi quasi all’orecchio proferì – …Jason?”.
“Probabile! Ma che possiamo fare? Se la mamma scoprisse questa cosa succederebbe l’inferno!”.
“Oh,non credo proprio! Si sta trovando in una situazione difficile! Vorrei proprio vedere se per un istante non le venisse di pensare prima alla felicità di sua figlia!”.
“Bev, ti prego! Jason è meglio che nella mente di nostra madre rimanga soltanto un nostro amico! Abbiamo già fin troppe difficoltà da affrontare per preoccuparci pure di far uscire Sarah allo scoperto!”.
Detto questo, mi avviai verso le parallele, pronta a lanciarmi.
Evidentemente, però, non avevo tenuto in conto il fatto che Beverley fosse estremamente combattiva,e infatti me la ritrovai alle spalle, pronta a domandare qualcos’altro.
“Ma se invece le organizzassimo un incontro segreto? Non credi che forse voglia venire in palestra anche per vedere lui? Oltre che perché le manca la ginnastica, è ovvio!”.
Mi voltai di scatto. Avevo voglia di mollarle un pugno!
Con tutti i problemi che avevamo voleva crearne degli altri?
Questo si che era tipico di Beverley!
“ Sei impazzita? – urlai, attirando l’attenzione di zia Danielle – Tu sai che ci sono dei problemi seri a casa! Abbiamo due genitori che a mala pena si parlano, una sorella con un tumore e dovremo pure sopportare la presenza di un padre che ci ha abbandonate come cani! Come può venirti in mente anche solo per un istante di dire bugie a nostra madre e magari mettere nei pasticci Sarah? Sei forse stupida? A te non importa, perché tanto sono sempre io ad andarci di mezzo, a pagare per te! A prendermi le colpe per tutte e due! Ma ora basta!”.
Ero esplosa! Bev mi guardò, con i grandi occhioni neri spalancati e piangenti. Avrebbe pianto, se fossimo state altrove.
Ad un tratto sentii una mano sulla spalla.
“Ragazze, che succede?”.
Zia Danielle era lì. I capelli scuri le incorniciavano il viso pallido. Gli occhi erano preoccupati.
Anche i suoi!
Sospirai.
“Niente.. noi.. – guardai Beverley, con il volto non triste, ma peggio – Stavamo solo parlando. E Bev… mi dispiace…”.
Mi resi conto di quello che le avevo appena urlato e mi sentii un verme.
Bev annuì : “Fa niente. Ti ho fatto arrabbiare.. hai ragione tu. Vado ad allenarmi, zia!”.
Bev si allontanò lentamente.
L’avevo uccisa! Ero stata spietata.
“Tabhita, - ed ecco che sentivo di nuovo pronunciare il mio nome, ma stavolta da mia zia – volevo chiederti… ecco, so che state attraversando un momento complicato, ma ci sono altri problemi a casa, tesoro?”.
“Beh… Sarah sta avendo un crollo emotivo. Stamattina mia madre non ha voluto che venisse, perché era veramente.. come dire… giù di morale! Papà tornerà dopodomani e non siamo tutti felici di questo, anche perché averlo in giro è… zia, tu sai già la risposta! Perché mi fai questa domanda?”.
Ero proprio nervosa.
“Perché ti fa bene parlare. Tieni sempre tutto dentro, come facevo io alla tua età! Ti carichi delle responsabilità delle tue sorelle, come me. Cerchi sempre di trovare un compromesso, una soluzione, e di mettere sempre tutto insieme! Finirai con esplodere se non parli con qualcuno.
E’ da almeno un mese che tua madre non fa che parlare di te, di quanto sia preoccupata per te, perché ti occupi di Beverley, ti addossi i problemi di Sarah e non pensi a te stessa.”.
“Dice questo? Di me? Si preoccupa per me?”.
“Si. E credo che abbia ragione! Sei un pilastro per la tua famiglia, ma tu non sei la madre di nessuno. Tu sei una figlia e una sorella. E prima di ogni cosa,sei una ragazza. E spero che tu abbia i tuoi sogni. E lo spera anche tua madre! Ora ti lascio al tuo allenamento, ma tu pensa a quello che ti ho detto e se vuoi parlare… io sono dall’altra parte della palestra, in infermeria!”.
Mi diede una pacca sulla spalla e se ne andò, saltellando sui suoi tacchi.
Deglutii.
Mia madre era preoccupata per me, e anche mia zia.
Io ero una ragazza.
Non ci avevo mai pensato.
Potevo anche io fare degli errori, o avere dei sogni…
Mi attaccai alla parallela.
E continuai a pensare per tutto il tempo dell’esercizio.
Non conclusi con la mia uscita, perché improvvisamente sentii di dover fare una cosa.
Mi lanciai in una corsa sfrenata verso gli spogliatoi, dove era appena entrata Beverley.
Le afferrai il braccio e, respirando affannosamente, dissi: “Hai ragione tu! Dobbiamo aiutare Sarah!”.
“Ma avevi detto che…”.
“Non pensare a quello che avevo detto! Mi faccio schifo da sola per questo! Per non finire nei guai, per essere sempre responsabile, potrei non aiutare Sarah a sentirsi meno sola!”.
Presi una matita dal mio borsone e il quaderno di matematica.
“Che devi fare con quelli?”.
“Non possiamo improvvisare Bev. Ci serve un piano!”.
Ci lanciammo uno sguardo complice e subito cominciammo a scrivere.

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