Tolto tutto il male, muori

di Shirangel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Your Guardian Angel [Pt. 1] ***
Capitolo 2: *** Your Guardian Angel [Pt. 2] ***
Capitolo 3: *** Your Guardian Angel [Pt. 3] ***
Capitolo 4: *** Nostalgia del totalmente Altro [Extra] ***
Capitolo 5: *** Requiem for a Dream [Pt. 1] ***
Capitolo 6: *** Requiem for a Dream [Pt. 2] ***



Capitolo 1
*** Your Guardian Angel [Pt. 1] ***


Di giorno, siamo i ragazzi che nessuno vede.

Di notte, siamo i ragazzi che tutti vogliono.

Ci prendiamo i tuoi soldi in cambio della nostra dignità.

Usaci pure quanto vuoi, ma ricordati che dopo devi pagare.

Tolto tutto il male, muori

Quando vivi all’inferno ma non sei un dannato ti fai molte domande.

Chi è stato ad aiutarti? Dio? Il destino? O una qualsiasi forza superiore?

Il mio caso è molto diverso.

Non ho mai avuto fiducia negli angeli custodi, ma mi sono dovuto ricredere,

anche se Sasuke non ha le ali e assomiglia molto di più a un demonio.

- I will never let you fall -

Chi torna senza soldi riceve un sacco di botte.

Chi non consegna tutti i soldi riceve un sacco di botte.

Chi guadagna più soldi mangia di più.

Le regole sono poche e facili da comprendere: si basano sui soldi e sulle botte, non ci si può sbagliare. Nonostante ciò c’è sempre qualcuno che sgarra e che poi se ne pente: di solito a provarci sono gli ultimi arrivati, che non sanno ancora come funziona questo posto, ma perfino quelli che sono qui da anni non possono soffocare l’istinto della vita. È l’istinto di un uomo che sta per affogare e cerca disperatamente ossigeno. Anche se è solo una molecola, non importa: basta sopravvivere un secondo in più.

Fino a poche settimane fa c’era un tipo, Kiba, che voleva a tutti i costi scappare da questo tugurio e tornare a casa. Per farlo gli servivano molti soldi e lo sapeva.

Lo vedevo sempre, mentre scendeva dall’auto di un cliente, guardarsi intorno con occhi ansiosi e infilarsi qualcosa in tasca, nelle mutande, dentro un calzino. Forse qualche volta ce l’ha fatta, ma dopo essere stato sorpreso a rubare un paio di volte le guardie hanno iniziato a perquisirlo tutti i giorni.

Sapeva di non potercela fare, ma aveva bisogno di provarci per convincere se stesso di non aver perso la speranza. Ogni tentativo era più fiacco del precedente, ogni colpo ricevuto era più debole del successivo, i suoi passi andavano verso un fine che era anche la fine. Quando è successo non ero nella sua stessa zona, ma Hinata mi ha rassicurato: non c’era stato nient’altro che un calcio che aveva sbagliato traiettoria. È morto in pochi minuti e il suo cadavere probabilmente sta ancora marcendo in fondo a un cassonetto, ricoperto da rifiuti e spazzatura.

Gli occhi bianchi di Hinata ora sono più vuoti di prima.

La sua cecità, secondo le assurde regole del posto in cui viviamo, di norma è un bene: non vede gli uomini che la spogliano e può guardare tutto quello che vuole, anche quello che non esiste. Tuttavia credo che non dimenticherà mai il rumore che ha fatto la testa di Kiba mentre si schiantava contro la punta di ferro di uno stivale, nemmeno se non è stata costretta ad assistervi con gli occhi. Partecipare con il cuore fa sempre più male.

Lei e le altre ragazze sono quelle maggiormente danneggiate da questa situazione: spesso i clienti non usano preservativi e chi rimane incinta viene picchiata finché non perde il bambino. A volte perdono anche la vita.

Ino è morta così e Sakura ha pianto immersa nel sangue della sua migliore amica per ore, poi l’hanno presa a calci perché non si era ancora preparata per andare a battere e allora si è alzata. Quando è tornata il cadavere non c’era più, ma la macchia rossa per terra sì e ha dovuto raschiarla via con le unghie, perché si allargava proprio nel punto in cui ogni notte si riposa dagli incubi del giorno.

Dorme sul pavimento perché i letti sono solo dieci e spettano a chi guadagna di più. Sakura non è brava a fare la puttana ed è stata costretta a procurarsi una vecchia coperta, ma qualche tempo fa qualcuno gliel’ha rubata e ora deve stendersi sulle mattonelle. Sono sporche e fredde e i suoi vestiti sono talmente usurati da non bloccare nemmeno il più lieve soffio di gelo. I corpi coricati accanto a lei, ammassati perché lo spazio non basta, non riescono a scaldarla.

Ha preso la polmonite, ma non lo sa e Sasuke mi ha spiegato che non devo dirglielo se non voglio farle ancora più male. Ora ha lo sguardo sempre fisso nel vuoto e sorride in continuazione, e quando morirà probabilmente non se ne accorgerà nemmeno. Secondo me è da qualche parte nella sua testa con Ino e non tornerà più, nemmeno per dirmi addio, ma almeno non soffre.

Sasuke mi rimprovera quando piango per lei, perché potrei essere nella sua stessa situazione e perché qui dentro non bisogna contare su nessuno. Dice che tutti pensano per sé e che quindi non devo fare affidamento nemmeno su di lui, dato che potrebbe voltarmi le spalle in qualsiasi momento.

Io so che non è vero: Sasuke mi salva ogni notte.

È arrivato qui molto prima di me e sa bene come funzionano le cose: più clienti ti fai, più vita perdi. Vediamo insieme ragazzi e ragazze che giorno dopo giorno non diventano altro che fantasmi di loro stessi, ma vanno avanti perché perfino un’esistenza miserabile come la nostra ci appare una prospettiva migliore della morte.

L’unico che sembra non risentire di tutto questo è Sasuke: secondo lui ci riesce perché è una persona forte, secondo me perché ha qualcuno per cui sopravvivere.

Io.

Se glielo faccio notare si arrabbia e allora sto zitto. Non posso neanche ringraziarlo, perché lui dice di non farlo per me, ma per se stesso. Ci troviamo in una dimensione parallela così lontana dalla realtà che pensare all’amore è impossibile, quindi non l’ho nemmeno preso in considerazione; in fondo credo che nemmeno lui sappia perché mi protegge.

Ogni sera corrompe le guardie con un pompino per convincerle a mandarci nella stessa zona e funziona sempre: questi uomini sono così stanchi di guardare il sesso da essere pronti a chiudere un occhio per averne un po’ anche loro. Mi fanno schifo ma ci servono, quindi nei rari momenti in cui riesco a farlo scaglio contro di loro un sorriso falso quanto l’amore che vendiamo.

Quando ci scaricano in un vicolo, a gruppi di tre o quattro persone, si appostano lì vicino e controllano che i clienti non ci portino via: solo sveltine in macchina, non si arrischiano a farci allontanare. Moriamo come mosche per le malattie veneree, per il freddo, per le condizioni igieniche disastrose, quelli che non ce la fanno più riescono a crepare perfino per disperazione. I nostri guardiani non possono permettersi di perdere altri ragazzi, non quando ne trovano ogni mese almeno un paio appesi al soffitto del bagno.

Io rimorchio un sacco di uomini, ma Sasuke ne attira molti di più. I pantaloni di pelle nera e le maglie stracciate che ci costringono a indossare lo fanno sembrare un modello, anche se non è nient’altro che una puttana, proprio come tutti noi.

Quando un potenziale cliente si ferma davanti a me, il cuore si arresta a entrambi.

«Quanto vuoi?»

La domanda è sempre quella, ma non rispondo mai. Sasuke mi spinge via prima ancora che io possa aprire bocca e guarda l’uomo dritto negli occhi. In quei momenti smette di essere una persona e diventa un niente.

«Prendi me» dice solo. Di norma si tratta di un rifiuto sociale di mezza età, che ci fissa entrambi per qualche secondo ma che poi fa spallucce e se ne frega. Fa salire Sasuke, lo scopa, lo paga, si dimentica di noi e torna dalla moglie.

Se siamo sfortunati, il cliente non si fa convincere tanto facilmente.

«Voglio quello» si intestardisce. Io guardo i nostri aguzzini e spero che non notino nulla di strano, altrimenti sono botte per tutti e due.

Sasuke digrigna i denti. «Io lo faccio senza preservativo» sputa. Se l’uomo non sembra persuaso, aggiunge: «Allo stesso prezzo».

A questo punto accettano tutti. Di solito una scopata senza profilattico costa il doppio della tariffa normale e un affare così non se lo perde nessuno, soprattutto perché Sasuke spesso esige cifre assurde. Molte volte perfino io sono rimasto sbalordito dai soldi che quella gente è disposta a sborsare per averlo appena una ventina di minuti.

Quando un cliente, invece, si ferma davanti a lui, Sasuke mi lancia un’occhiata e io capisco subito. Mentre sale sull’auto mi sento il più grande figlio di puttana del mondo, ma obbedisco al suo sguardo e mi nascondo, cercando di rendermi invisibile finché lui non finisce il lavoro e prende i soldi. Poi torna da me e mi fa segno di avvicinarmi, perché se i guardiani mi vedono in disparte per troppo tempo mi prendono a calci.

Verso le cinque del mattino ci caricano sul furgone e appena arriviamo a casa dobbiamo consegnare i soldi ricevuti. Ovviamente non guadagno mai niente, ma Sasuke mi dà il minimo indispensabile per evitare che io venga picchiato; il resto lo tiene per sé, perché vuole essere tra i dieci che ogni notte hanno diritto a uno dei letti. Mi fa dormire con lui, dalla parte del materasso adiacente al muro, così se qualcuno si avvicina a noi non può comunque raggiungere me.

I dormitori hanno una sola uscita e le finestre sono così in alto che non riusciamo nemmeno a guardare fuori: l’unica porta è controllata solamente dall’esterno e anche se gridiamo non accorre nessuno. Le ragazze vengono stuprate ogni notte, così come molti dei ragazzi più piccoli, e anche i pochi averi che ognuno di noi possiede vengono rubati di continuo. Siamo bestie a immagine e somiglianza di quelle che ci tengono qui, ma nessuno potrebbe biasimarci.

Sasuke ha spezzato il polso a uno stronzo che aveva cercato di violentarmi e gli ha buttato giù metà dei denti. I pompini poteva farli lo stesso, ma la mano era quella con cui tirava le seghe: un guardiano si è incazzato con Sasuke e gli ha incrinato tre costole con un calcio in pieno petto. Da quel momento però nessuno ha più tentato di avvicinarsi a me.

Non capivo cosa lo spingesse a salvarmi, dal momento che lui mi ripeteva sempre che per la sopravvivenza si lotta da soli; la prima teoria che formulai era così stramba che gliela dissi.

«Non vuoi che gli altri mi scopino perché vuoi scoparmi tu?»

In realtà non mi aveva mai toccato, anche se condividevamo il letto ogni notte.

Lui mi aveva risposto con uno sguardo stanco e un sorriso amaro.

«Faccio così tanto sesso che non vorrei farlo più per il resto della mia vita.»

Io continuavo a non capire ma desideravo almeno provarci, come se tentare di comprenderlo potesse essere una sorta di ringraziamento per tutte le volte in cui mi aveva strappato alla morte dell’anima.

«E allora perché ti prendi tutti i miei clienti?»

Lui aveva alzato le spalle. «Se guadagno tanto mi danno più cibo.»

Non ci ho mai creduto. Le porzioni che ci consegnavano erano misere, ma l’altrettanto misero extra che gli spettava per i soldi ricevuti lo divideva con me e ancora non ci bastava. Se fosse stato appena un po’ più magro le sue costole sporgenti avrebbero pugnalato a morte gli uomini che lo fottevano. Fantasticavo spesso su quest’idea.

«E poi lo faccio per le sigarette.»

Quello era decisamente plausibile; ogni tanto il capo del nostro giro di prostituzione incentivava la sua merce più redditizia con una piccola cifra, appena qualche yen, e Sasuke con quei soldi si faceva procurare delle sigarette da un guardiano.

Era il suo unico vizio: avrebbe potuto acquistare qualcosa da mangiare per me o per se stesso e invece si faceva comprare un pacchetto di Marlboro. Lo vedevo fumarne una dopo l’altra, meticolosamente e con una foga disperata, finché non ne rimaneva nemmeno una.

Gli piaceva così tanto che non riuscivo a capire come mai non se le facesse durare un po’ di più. Quando rispose a questa domanda desiderai non averglielo mai chiesto.

«Perché potrei morire domani e allora rimpiangerei di non averle finite quando avrei potuto.»

Il mio sguardo doveva essere decisamente turbato, perché aggiunse una frase che secondo lui sarebbe dovuta assomigliare a quelle che, fuori dalla nostra prigione di specchi, avremmo chiamato battute.

«E poi tu non fumi. Se schiattassi andrebbero sprecate e io avrei venduto il culo per nulla.»

Mi piacque pensare che, per lui, tutto ciò che si trovava al di fuori di noi due non era niente. Ma probabilmente lo aveva detto perché mi riteneva l’unico contatto umano che aveva lì dentro: considerava tutti gli altri, compreso se stesso, inutili negazioni di vita.

Forse lo erano, ma probabilmente io non facevo eccezione. A forza di stare con i morti stavo morendo anche io, e me ne accorgevo mano a mano che vedevo gli occhi di Sasuke spegnersi ogni giorno di più.

Morivo con lui, e mi piaceva.

Note burocratiche:

Questa fan fiction si è classificata prima al concorso Naruto… all star! indetto da Shark Attack e sta partecipando al contest La speranza vive in una creativa realtà indetto da HopeGiugy sul forum di EFP.

Note dell’autrice:

Innanzitutto sono ancora sconvolta dal bellissimo giudizio della giudice *_* Poi sono in crisi perché a questa storia ci sono affezionata ma mi ha fatto impazzire per scriverla. Dura solo tre capitoli e io ho già in mente uno spin-off, e questo è molto male perché è improponibile scrivere ancora su ‘sta fan fiction. È un parto mentale e quasi fisico.

Bon, drammi personali a parte spero vi sia piaciuta e imploro un commentino, giusto per dirmi di darmi al paracadutismo senza paracadute, ci tengo molto a sapere cosa la gente pensa di ‘sta roba >.<

Grazie della lettura e buona serata! :) Ci vediamo la settimana prossima per il secondo capitolo.

shirangel

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Capitolo 2
*** Your Guardian Angel [Pt. 2] ***


Tolto tutto il male, muori

 

Non si fugge da una prigione di specchi: rischi solo di andare a sbattere contro te stesso.

Io e Sasuke ci abbiamo provato, davvero. Io ho sbattuto contro la mia solitudine, lui contro il suo odio.

La cosa peggiore è che, se tentassimo insieme, ce la faremmo; da soli però non siamo niente.

 

- I’ll stand up with you forever -

                                                                                                              

Non ho ricordo né di mia madre né di mio padre: l’unica nozione che appresi dai direttori dell’orfanotrofio riguardava la loro morte, avvenuta in circostanze poco chiare e che non mi furono mai spiegate nel dettaglio. Non mi sorpresi molto quando venni a conoscenza del fatto che la maggior parte dei ragazzi che vivevano con me condividevano un vissuto, se non identico, simile al mio.

L’unica eccezione era Sasuke. Lui era orfano perché suo fratello aveva trucidato entrambi i loro genitori, insieme a tutta la famiglia, e poi era scappato. Non potevo immaginare quanta sofferenza il mio compagno di sventura si portasse dentro, ma anche da fuori mi appariva così amara che non volevo nemmeno provarci.

Per avere queste misere indicazioni sul suo passato avevo collezionato una frase alla volta, estorcendogli informazioni con molta pazienza, perché alle mie domande rispondeva con monosillabi oppure non rispondeva affatto. Forse era egoistico da parte via voler scavare in quell’ammasso purulento di dolore, ma ritenevo che solo mettendo a nudo la sua anima sarei potuto entrare dentro di lui.

Non ci riuscii comunque: Sasuke Uchiha rimase per sempre il mistero più insondabile della mia vita. Non gliene feci mai una colpa.

La parte più intima di sé che accettò, seppur malvolentieri, di condividere con me, era quella riguardante il suo unico desiderio. Anche in questo si discostava da me e da tutti gli altri: non voleva fuggire da lì, gli bastava solo uccidere suo fratello e poi riposarsi morendo. Mi faceva venire i brividi, ma mi affascinava pensare che ci fosse qualcuno libero dall’ossessione di abbandonare tanta miseria, sebbene la sua agonia fosse molto più crudele della nostra. Lui moriva più lentamente di noi e i suoi coltelli erano più affilati dei nostri.

Quando aveva quindici anni era stato adescato da Orochimaru, colui che gestiva il nostro incubo, e per lui era stato l’inizio della fine. L’uomo aveva promesso che lo avrebbe aiutato a trovare Itachi se si fosse unito alla sua schiera di ragazzi maledetti e Sasuke ci aveva creduto. Erano passati tre anni e ancora ci credeva. O almeno faceva finta di farlo.

Forse si era accorto del mio stupore nello scoprirlo tanto ingenuo, perché per giustificarsi aveva aggiunto che Orochimaru era stato in contatto con Itachi per lavoro, in passato. Quale fosse il genere di lavoro di cui si erano occupati non aveva voluto dirmelo, ma non facevo fatica a immaginarlo, considerando la principale fonte di introiti del nostro aguzzino.

Trafficking. Anche dopo due anni non riuscivo a credere di essere coinvolto in una situazione di cui prima sentivo parlare solo al telegiornale. Non riuscivo a credere nemmeno di essere stato tanto stupido, in realtà: ero fuggito dall’orfanotrofio quando avevo appena sedici anni e avevo vissuto per strada, chiedendo l’elemosina e rubacchiando quel che potevo. Non ci era voluto molto prima che i trafficanti di prostitute mi acciuffassero.

Al contrario di tutti quelli che vivevano con me, non mi preoccupavo minimamente dei soldi: sarei potuto fuggire anche senza niente in mano, per me l’importante era andarmene. Avevo già vissuto con le tasche piene solo di paura.

L’unico problema era che, avendo o non avendo del denaro con sé, era impossibile scappare: forse era per questo che tutti gli aspiranti fuggitivi si affannavano a mettere da parte quel che potevano.

Perché era l’unica cosa che potevano fare per illudersi di starsi avvicinando alla libertà. Il ricordo di Kiba che si fa ammazzare per qualche moneta e un paio di banconote ancora mi tortura.

Io avevo provato a rubare, all’inizio, giusto per impegnarmi in qualcosa, e i lividi non si erano cancellati dalla mia pelle per una settimana; lo sguardo che mi aveva lanciato Sasuke quando se ne era accorto mi aveva fatto pensare che volesse aggiungerne qualcun altro, ma non lo fece mai.

Bastavano i suoi occhi. Erano quelli la mia punizione più grande: vederli vuoti anche quando era arrabbiato era come ricevere una pugnalata nei polmoni a ogni respiro. Tenevo a lui in un modo che non capivo, ma andava bene lo stesso. L’affetto mi salvava dal baratro, per quanto assurdo e malato fosse, anche se penso che mi abbia fatto male più di tutto il resto. Quando tocchi il fondo arrivi a un tale punto di annullamento da non accorgertene nemmeno, quando sei a metà strada tra la vita e la morte ogni secondo è una consapevolezza che ti distrugge.

Sasuke si infuriò anche quando persi la mia unica occasione di lasciare l’inferno. Probabilmente perché avevo preso la scelta che aveva preso anche lui.

Eravamo appena all’inizio di un turno e il guardiano si era allontanato di qualche passo per pisciare, ignaro che il suo collega nel furgone si fosse appena addormentato. Ino, non ancora morta, si dava da fare nel vicolo lì accanto con un cliente. Non c’era nessun Cerbero a sbarrarmi la strada, eppure non potevo approfittarne.

Avevo un istante per decidere e una vita per pentirmi. Sasuke mi sibilava all’orecchio, furioso, di correre, di sbrigarmi, di andare via da quella fogna.

«Ti copro io, idiota! Vattene, cazzo, muoviti!»

Era così agitato da confondermi. L’unica cosa che riuscii a dire fu una frase che entrambi non scordammo più.

«E tu?»

Lui no, lo sapevo. Ma non potevo andare senza chiederglielo, non sarei potuto andare comunque. Mi sentivo appiccicato al suo destino come un prigioniero alla sua catena. Non era amore, né un sentimento fraterno: nemmeno adesso so cosa fosse, so solo che, pur inconsciamente, capivo di non doverlo spezzare.

Quelle due parole segnavano la mia rinuncia, e lui ne era così consapevole da odiarsi.

I suoi occhi, a metà tra la rabbia e lo shock, mi spiegavano ogni cosa: mi voleva lontano da sé perché non poteva seguirmi, né io dovevo restare. Avrei fatto qualsiasi cosa per lui, ma questo no.

«Se non alzi il culo da quella panchina giuro che ti…»

Poi ammutolì. Il guardiano era tornato e per il puro gusto di esercitare il suo potere mi aveva appioppato un calcio sugli stinchi. Aveva colpito solo me, ma ci aveva ucciso entrambi.

Sasuke non me lo disse mai, quello che mi avrebbe fatto, né lo fece. Mi odiò soltanto con tutto il cuore e mi spinse via con cattiveria quando un uomo si fermò davanti a me: fu ancora più doloroso del solito vederlo scendere da quella macchina al posto mio, con le tasche piene e il cuore vuoto. Gettò i soldi ai miei piedi con tutto il disgusto che riuscì imprimere in quel gesto e la sua rabbia mi fece bene. Avevo bisogno di lei, volevo sentirmi male. Volevo che il mio dolore fosse acuto quanto il suo.

«Prendi – disse solo. – Continua a vivere per niente. Muori per niente, se è quello che vuoi.»

Non gli dissi che avrei voluto morire per lui, né mi chiese perché avevo rinunciato alla fuga. Credo lo sapesse, comunque.

Sapeva tante cose, Sasuke, anche se non ci voleva credere.

Orochimaru non gli avrebbe consegnato suo fratello, lui non sarebbe comunque stato in grado di uccidere Itachi, noi saremmo morti entrambi lì e io probabilmente per primo, lasciandolo solo col suo odio e costringendolo così a rivolgerlo verso se stesso.

Sapeva tutte queste cose, Sasuke, ma faceva finta che non esistessero.

Non poté però ignorare il fatto che, quella stessa sera, lo presi per mano e iniziai a correre un attimo prima di salire sul furgone che ci avrebbe portato a casa. Volevo scappare dal primo momento in cui ero stato catturato, non l’avrei mai negato, ma avevo bisogno che lui venisse con me perché da solo non potevo farcela. Da solo non potevo vivere e senza di lui non potevo morire.

Durò appena pochi istanti e fu bellissimo: l’aria era più fresca e la luna più brillante, in quella porzione di spazio e di tempo in cui avevamo smesso di essere puttane che si drogavano l’uno dell’altro ed eravamo più simili a due ragazzi innamorati.

Sorrisi, stupido, e il mondo, bastardo, ricambiò.

Poi Sasuke mi strattonò all’indietro, riportandomi bruscamente nel luogo della mia mente dove eravamo di nuovo schiavi, ed evitò che il coltello del guardiano contro cui stavo correndo mi infilzasse la pancia.

L’uomo alzò il braccio e la lama incise un taglio verticale tra le sopracciglia. Il sangue mi colò sugli occhi e il mondo ridiventò rosso, esattamente come prima.

«Salite sul furgone, pezzi di merda.»

Sasuke mi guidò verso il veicolo e io mi lasciai condurre, ferito come se il pugnale mi avesse davvero squarciato lo stomaco. Mi voltai e vidi i nostri fantasmi che scappavano e andavano a vivere.

«Sei un imbecille.»                                                                           

Non mi sforzai nemmeno di annuire, ma rifiutai di lasciare la sua mano e lui accettò di stringere la mia. Non eravamo sicuri se eravamo appena scampati alla morte o se era stata la morte ad evitare noi, fatto sta che eravamo ancora suoi prigionieri.

Non c’era bisogno di spiegargli perché avevo tentato così scioccamente di scappare, pur sapendo che non ci sarei mai riuscito: avevo bisogno di provarci e fare finta che i suoi sacrifici per me non fossero stati inutili. Lui non mi aveva impedito di trascinarlo via perché sapeva che ci avrebbero fermato e che necessitavo di quella pietosa corsa verso il nulla come dell’aria. Così come per lui era indispensabile rimanere lì e pensare di avvicinarsi ogni giorno di più a suo fratello, anche se non era vero.

Eravamo così diversi. Lui odiava, io – nel mio egoistico modo di farlo – amavo. In realtà volevo amare per non essere solo. Lui odiava per provare qualcosa. Non so chi dei due fosse più miserabile, forse lo eravamo entrambi così tanto da stare insieme per illuderci di essere persone.

Quella notte lo baciai. Non volevo ringraziarlo per avermi salvato ancora una volta: lo facevo per me, avevo bisogno di sentire cosa si provava ad essere liberi come i nostri fantasmi che erano scappati via da noi. Lui accettò senza scomporsi e io non capii se lo stava aspettando da quando ci eravamo conosciuti o se voleva solo accontentarmi.

Eravamo stesi su un letto pagato con la sua dignità venduta, sotto lenzuola sottili come carta scambiate con la sua anima in pezzi, ma non ci importava. Eravamo sporchi, stanchi, pieni di lividi e con le occhiaie, magri da far paura e vuoti da fare schifo, ma non ci importava. Non avevamo alcuna possibilità di sopravvivere né di poterci innamorare l’uno dell’altro, ma non ci importava.

Avevo il labbro spaccato perché la guardia mi aveva punito con un pugno in piena faccia, ma Sasuke mi leccò via il sangue senza badarci. Mi eccitai subito sentendo il suo corpo contro il mio, ma non ci venne neanche in mente di scopare.

Quella era la nostra rivincita contro tutti i bastardi che ci compravano ogni giorno. Potevano avere il nostro corpo, ma tutto il resto apparteneva a noi e non glielo avremmo mai consegnato. Ci stavamo baciando e quello bastava, quello non lo avrebbero mai preso. Sarebbe stato per sempre nostro: era un puro e semplice inno a quella vita che ci stava abbandonando.

Non ne parlammo, né lo facemmo più: troppa speranza non fa bene a coloro che camminano sul braccio della morte. 

Quella notte rimane ancora oggi il mio ricordo più prezioso, che non cederò mai a nessuno.

Quella notte capii che anche i morti possono amare.

Riuscii ad aggrapparmi solo a quella notte quando Sasuke mi lasciò.

 

 

Note dell’autrice:

Innanzitutto devo ringraziare tantissimo tutte le persone che hanno recensito: non sapete davvero quanto mi ha fatto piacere che la storia vi piaccia! Sarà che sono indecisa per natura, poi anche per il fatto di questo tema un po’ “inusuale” ero molto in ansia. Intendevo aggiornare una volta alla settimana, ma le recensioni dello scorso capitolo mi hanno colpita tanto che ho deciso di farvi aspettare un po’ meno (anche perché ho un briciolo di tempo oggi per farlo :DD). Vi ringrazio tutti ancora una volta, anche chi ha dato una possibilità a questa storia leggendola. Ci sentiamo la settimana prossima per l’ultimo capitolo, e magari per chi è interessato con qualche informazione sull’eventuale raccolta di spin-off di “Tolto tutto il male, muori” (che d’ora in poi per ragioni di tempistica chiameremo TTMM). Saluti e abbracci,

shirangel

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Capitolo 3
*** Your Guardian Angel [Pt. 3] ***


Tolto tutto il male, muori

 

Volere Sasuke faceva parte di me, ma averlo sarebbe stato innaturale.

È incredibile quanto spesso il bene coincida con il male. Dio non può esistere.

È stupido che l’amore faccia soffrire. L’amore deve morire.

Non sopporto l’idea che ci sia qualcosa di così schifoso.

 

- I’ll be there for you through it all -

 

La chiamavamo casa, forse per illuderci di averne una, ma non lo era. Era un capannone abbandonato fuori città, dove mangiavamo il minimo indispensabile per non morire di fame, dove dormivamo abbastanza da non svenire mentre ci facevamo scopare, dove nessuno veniva a verificare il motivo per cui un edificio così fatiscente non era stato ancora abbattuto. Per questo potevamo ringraziare il capo della polizia, fedele cliente del giro di Orochimaru, che tanto cortesemente ignorava la nostra umile dimora.

Ecco perché non nutrivamo speranze di alcun tipo: non c’era possibilità di una perquisizione, o di una pattuglia chiamata per investigare su eventuali schiamazzi notturni. Il mondo ci aveva lasciati a noi stessi, non ci vedeva, era arrivato a dimenticarsi della nostra esistenza.

Di notte era diverso. Di notte doveva soddisfare i suoi bisogni sessuali. Allora il capo della polizia veniva a cercarci, si sceglieva un ragazzo efebico e accomodante e lo montava fino a non poterne più. Poi lo restituiva e tornava ad essere un cittadino di tutto rispetto.

C’era così tanto schifo nel mondo che spesso mi sorprendevo di quanto tenacemente fossi attaccato alla vita; poi guardavo Sasuke e capivo perché non potevo arrendermi.

Sasuke non mi aveva lasciato andare. Sasuke non mi aveva mai abbracciato, né accarezzato, né tanto meno mi aveva detto una sola volta che teneva a me. Sasuke era capace di ignorarmi per giorni, Sasuke si sarebbe fatto ammazzare pur di proteggermi.

Sasuke riuscì ad aiutarmi anche nel giorno in cui mi congedai da questa vita.

Erano settimane che stava da schifo, ma non poteva smettere di prostituirsi né mi permetteva di lavorare al posto suo; l’unica cosa che mi dava un po’ di sollievo era che, ormai, i clienti lo sceglievano sempre più raramente per quanto male si era ridotto.

Era dimagrito ancora di più e io aspettavo con ansia le urla degli uomini assassinati dalle ossa che la morte gli stava strappando via dal corpo, ma non vennero mai. Spesso bruciava tutta la notte per la febbre e io per curarlo non avevo nient’altro che la mia disperazione.

Se domandavo dell’acqua ai guardiani per placare la sua sete, mi prendevano a bastonate: lui mi imponeva di non chiedere nulla, anche se sudava così tanto da essere a un passo dalla disidratazione. Mi sentivo così inutile che arrivavo a ridere della mia assoluta pateticità.

Una sera mi feci scopare da un guardiano perché permettesse a Sasuke di rimanere a casa, almeno per quella volta; appena ebbe finito mi picchiò e mi ordinò di buttare il mio amico giù dal letto perché il furgone sarebbe partito nel giro di pochi minuti. Non mi vergogno nell’ammettere che piansi, e che piansi per me. Solo per me.

Costringevo Sasuke a stare in piedi sferrandogli pugni alla base della schiena con tutta la forza che il mio corpo denutrito aveva; non gli facevo male, ma almeno raddrizzava le spalle e non dava nell’occhio. Avevo visto troppi malati essere uccisi a sangue freddo per non aver paura che la stessa sorte toccasse a lui: lì dentro una bocca inutile smetteva di essere sfamata molto presto.

In poco tempo fu costretto a buttarsi in mezzo alla strada per fermare le macchine e dovette quasi implorare i puttanieri al suo interno di farlo salire. Ormai si vendeva a prezzi bassissimi, ma pochi erano disposti a scopare uno che, oltre ad essere morto dentro, lo sembrava anche fuori. Ben presto diventò così debole da non riuscire a impedirmi di lavorare per tutti e due.

Non ne ero capace: spesso venimmo picchiati entrambi perché i soldi non erano abbastanza, e non riuscii mai a procurargli uno dei letti. Sono stato io a rubare la coperta a Sakura, ma tanto a lei non serviva più e io dovevo salvare Sasuke. Ce lo avvolgevo dentro e coprivo i buchi del tessuto usurato con il mio corpo e lo abbracciavo così stretto da mozzargli il respiro. Spesso mi svegliavo di botto e senza riuscire a impedirmelo strofinavo le mani con forza lungo tutto il suo corpo temendo che gli si fosse bloccata la circolazione. Non serviva a niente: era sempre più freddo.

Gli altri ragazzi ridevano per come mi affannavo a trascinarmi dietro un fantoccio vivo solo perché il cuore si ostinava a pompargli il sangue nelle vene. Probabilmente avevano intuito prima di me che si era beccato l’AIDS, ma sono contento che non me lo vennero a dire. Solo adesso capisco perché Sasuke mi aveva consigliato di non ribadire a Sakura la sua polmonite: finché nessuno lo dice ad alta voce, puoi fare finta che non esista.

Fu per la mia ossessione di scaldarlo che mi venne l’idea di dormire sotto il letto occupato, solitamente, da un ragazzino di nome Gaara; mi ero accorto che di giorno il sole, attraverso le finestre, batteva in quel punto e speravo che un po’ di quel calore latente lo aiutasse a smettere di tremare. Era solo una sciocchezza, ma pensarlo mi era di un conforto che nessuno estraneo alla mia situazione potrebbe mai immaginare.

Fu perciò per merito suo e della sua malattia che, la notte in cui morii, mi trovai in quella posizione così favorevole. Lui si accorse molto prima di me che il soffitto stava venendo giù e con un calcio, forte di una grinta che non capii mai da dove tirò fuori, mi spinse sotto il letto in un paio di secondi che mi sottrassero alla morte. Riuscii ad afferrarlo per un braccio e tirarlo verso di me appena prima che una trave precipitasse nel punto preciso in cui si trovava un attimo e una vita precedente.

Le urla delle persone che conoscevo bene mi graffiavano il cuore, le altre mi irritavano solamente le orecchie. Ringraziai il cielo che Sakura fosse morta la settimana prima e che non avesse dovuto sopportare anche quell’ennesima tortura.

Sentivo parecchi ragazzi vicino a me che provavano a scappare verso la porta, ma venivano stroncati molto prima di raggiungerla; eravamo nell’angolo più lontano dall’uscita e sapevo che non ce l’avrebbero mai fatta. Forse io sarei riuscito a correre abbastanza velocemente se fossi stato solo, ma con Sasuke sulle spalle non avrei percorso che pochi metri prima di venire falciato da un proiettile volante. L’idea di lasciarlo lì non mi sfiorò nemmeno: tanto valeva provare a vivere senza polmoni.

Qualcosa piombò giù dal soffitto e stroncò Gaara, lontano da me solo un materasso, con un rumore sordo; appena prima che il letto si affossasse verso di noi mi spostai sopra Sasuke per proteggerlo con il mio corpo. Qualcosa spingeva contro la mia schiena, ma io sentivo solo la sua voce che mi sussurrava «Idiota» all’orecchio.

Riconobbi le urla furiose di Temari che si accasciava sopra il corpo di Gaara, il suo fratellino, e le sopportai fino a che non divenne così naturale ascoltarle da non farci più caso. Quando non le avvertii più mi resi conto che era morta, assassinata da uno dei tanti pezzi dell’inferno che stava venendo giù. La nostra prigione voleva che crepassimo con lei.

Il sangue di quei due poveri disgraziati inzuppò il materasso e ben presto cominciò a gocciolare su di noi. Prima mi bagnò i capelli, poi vidi che anche il viso di Sasuke si stava macchiando di rosso. Lo ripulii, più e più volte, ma non facevo in tempo a finire che già si era sporcato di nuovo. Smisi solo quando le mie mani non furono così pregne di sangue da lasciare tracce ancora più scure sulla sua pelle.

Allora iniziai a baciarlo. Non per rendere quegli ultimi istanti i migliori della nostra vita, ma solo per dare un senso a un’esistenza che sembrava non averlo. Non se doveva finire in quel modo, schiacciata sotto un letto.

Lui ricambiò meccanicamente, ma a me piace pensare che avesse apprezzato quel gesto, anche se perfino a me sembrava patetico. Però era piacevole e a tratti addirittura dolce.

Mentre ci baciavamo, lentamente e senza fretta, sentivamo ancora grida di dolore e rumori orrendi di ossa schiacciate. Un calcinaccio grosso il doppio del letto precipitò a poca distanza da noi, precludendoci una fuga che ci eravamo già silenziosamente negati. Non c’era bisogno di dirlo ad alta voce, sapevamo che saremmo rimasti lì per quel che rimaneva del nostro per sempre.

A un certo punto Sasuke fu troppo stanco anche per muovere la lingua dentro la mia bocca e con una mano mi costrinse ad appoggiare la nuca contro la sua spalla. Guardai affascinato quelle dita bianche e affilate, ridotte a pallidi avanzi di quello che erano una volta, ma la mia condizione non era migliore della sua. Non mi sentivo più i gomiti a forza di usarli come appoggio per non gravare sul suo corpo emaciato e la schiena mi si era irrigidita da un pezzo a causa di quella posizione innaturale, eppure la cosa peggiore era ascoltare i respiri senza voce dei cadaveri sopra di noi. Ogni tanto un braccio o una gamba si irrigidivano nel rigor mortis e le molle del materasso scricchiolavano sotto quel movimento improvviso.

Rimanemmo in silenzio per un po’, ad ascoltare la disperazione degli altri che si spegneva insieme a noi.

«Te ne sei accorto anche tu?»

Impiegai un po’ per capire che quella era la voce di Sasuke e non un sogno nella mia testa, sempre più vicina al vuoto.

«Di cosa?» sfregai il naso contro il suo collo per cercare di scaldarlo, ma ormai eravamo entrambi talmente congelati da non poter giovare l’uno del calore dell’altro. Lui parve non accorgersene nemmeno e capii che non sentiva più freddo.

«Siamo liberi.»

Non ebbe bisogno di spiegarmi le sue parole, probabilmente non avrebbe avuto neanche la forza di farlo.

Era vero. Quel terremoto ci aveva tolto tutto il male da dentro le viscere, ci aveva epurato e adesso eravamo liberi.

«Liberi di morire» lo sussurrai contro le sue labbra. Non riuscivo a impedirmi di sfiorarle con le mie, ansioso di percepire un respiro che non c’era. 

Lui sbuffò e se fosse stato ancora vivo mi avrebbe dato un pugno.

«Vai a vivere, idiota.»

Io feci per ribattere, ma la mia voce si sovrappose a quella che fino a un attimo prima avevo ignorato, sebbene le sirene dei pompieri ormai fossero insopportabilmente acute.

«Qui, venite qui! Ce n’è uno ancora vivo!»

Me le ricordo ancora, queste parole. Le sogno ogni notte. Le vedo in ogni volto che incontro. Le sento durante i miei incubi peggiori.

Il rumore delle macerie che venivano spostate e l’odore della vita che tornava furono le percezioni che più mi scombussolarono i sensi in quel momento. La luce del giorno filtrava senza impedimenti, ora che non c’erano più i muri di buio ad ostacolarla, e quando voltai il viso mi privò della vista. Non riuscii a distinguere il volto dell’uomo accucciato vicino a me a causa della mia temporanea cecità e flash di bestie che mi stupravano sopra i sedili posteriori di un’automobile mi costrinsero a ritrarmi verso il muro alle mie spalle.

Gli occhi del vigile del fuoco mi cosparsero della sua pietà.

Allungò una mano verso di me, cercando di raggiungermi nella bolla senza spazio né tempo che avevo creato sotto quel letto. Io mi strinsi Sasuke addosso come un bambino fa con il proprio peluche.

«Non avere paura. Sono qui per aiutarti.»

«Sono venuti» mormorai all’orecchio del mio amante maledetto. «Sasuke, sono venuti a prenderci.»

L’uomo senza volto guardò prima lui e poi me.

«Lascialo andare, ragazzo.»

La sua voce sembrava quasi dolce, ma la mano che tese verso di me si chiuse sulle mie dita, costringendomi a smettere di accarezzare il viso di Sasuke.

«Lascialo andare. È morto.»

Allora io vidi il collo rivolto all’indietro di Sasuke, i suoi occhi spalancati verso il nulla e le sue braccia abbandonate tra le mie, e mi diedi dello stupido perché non me ne ero accorto prima. Mi immobilizzai esattamente come quel cadavere e il vigile del fuoco dovette trascinarmi via con la forza, ma io sento di essere ancora lì.

Sono morto sotto quel letto con Sasuke.

O forse sono con i nostri fantasmi che quel giorno erano fuggiti, lasciandoci indietro.

Non può importarmi. Non m’importa, sono con lui. C’era e c’è sempre stato.

Forse l’ho sognato, forse l’ha detto, forse è stato il suo cadavere a sussurrarmelo all’orecchio, però l’ho sentito.

Ti amo.

Me lo ricordo bene, suonava proprio così. Al presente.

E vivo, vivo come Sasuke non era mai stato. Libero come solo la morte lo aveva reso.

 

 

 

 

Muori con me, vuoi?

Lo voglio.

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

E così TTMM è conclusa Y___Y in realtà non sento alcun senso di perdita perché da una parte dura tre miseri capitoli, dall’altra nel mio computer è finita da un pezzo.

E poi non è davvero finita :D Metterò “conclusa”, ma aggiornerò di tanto in tanto con capitoli autoconclusivi o divisi in due, massimo tre capitoli, che trattano di altri personaggi all’interno dell’universo di TTMM. Naturalmente compariranno saltuariamente anche i nostri Sasuke e Naruto, dato che le prossime vicende saranno ambientate per forza di cose a quando ancora il giro di prostituzione esiste, cioè prima della morte di Sas’ke. Ora, i pronostici li faccio belli, ma in realtà non so assolutamente quando comincerò a postare. Sto già scrivendo una bi-shot legata alla serie per questo concorso, ma ci vorrà un po’ (anticipazioni? Bhè, ci sarà Kakashi *_* e Zabuza *__* e Suigetsu *___* accoppiati allegramente tra loro o ognuno per conto suo? Lo scoprirete u__u). Per il resto non ho idee. Cioè, mi stuzzica scrivere qualcosa su Gaara e Tem, magari con l’intervento di Shika, oppure su Sakura e Ino, o magari un finale alternativo o la comparsa di Itachi (<3)… non lo so. Voi che ne dite? Si accettano suggerimenti!

Bene, non ho davvero altro da dire se non che… sono commossa. Questa fic mi ha dato tanto e spero che abbia dato qualcosa anche a voi. Di sicuro le bellissime recensioni che mi avete lasciato mi hanno spronato a non far morire così questa fic, almeno per un po’. Quindi grazie, davvero, a tutti quelli che hanno recensito e a chi ha letto questi tre capitoli. Sarei davvero felice se mi diceste cosa ne pensate di questa ultima parte, indubbiamente la più difficile da scrivere, magari anche chi finora ha letto in silenzio.

Grazie, grazie a tutti voi! Spero che ci sentiremo presto con TTMM e chissà, magari qualche altro lavoro che posterò a breve. Baci per tutti <3

Vostra shirangel

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Capitolo 4
*** Nostalgia del totalmente Altro [Extra] ***


Eccone un altro.

Non so se mi faccia ancora pena vederli piegati in due sul pavimento, o se ormai ci sia talmente abituato da poterci passare sopra senza neanche rendermene conto. Non che mi importi: fa schifo comunque. Noi, questo posto, chi ci compra. Schifo totale.

«Ehi, alzati» questo è nuovo, lo riconosco dalle spalle. C’è ancora un po’ di carne sopra. «Dico a te, levati dalle palle.» Tempo tre settimane e verrà spolpato vivo. Gli do al massimo un mese.

Il ragazzo tossisce e uno schizzo di sangue mi arriva sulle scarpe. Mi sono quasi deciso a dargli un calcio per spostarlo e poter raggiungere il mio letto, quando mi afferra un polpaccio. Non so per quale motivo il suo gesto mi blocchi; sarà la forza con cui mi stringe, o il fuoco che ha negli occhi mentre si gira a guardarmi, ma io lo vedo vivo, così vivo da non morire. Non subito, almeno.

«Dammi una mano» dice, e il suo tono riesce a mostrarsi baldanzoso anche se sta strisciando con almeno un paio di costole incrinate su un pavimento lurido. Sono tentato dal mandarlo a farsi fottere, poi penso che mancano ore al mio turno e che posso anche spendere qualche minuto per rimettere in piedi quell’idiota. Almeno potrò passare, visto che si trova proprio davanti al mio letto.

Lo afferro per la collottola e lo tiro su senza troppi complimenti. Lui non si regge in piedi e quasi mi cade addosso.

«Mi chiamo Naruto.»

«Pensi che mi interessi anche solo lontanamente?» lo spingo verso il muro perché possa appoggiarvisi. La mia buona azione quotidiana l’ho fatta. «Cerca di non starmi troppo tra i piedi, idiota.»

Sembra indeciso se ringraziarmi o sputarmi addosso. Sii grato, pivello, perché nessun altro ci avrebbe pensato due volte a lasciarti lì per terra.

«Non mi dici il tuo nome?» la mia totale indifferenza sembra non tangerlo nemmeno. Devo essermi arrugginito. «Bene, allora. Ti chiamerò semplicemente bastardo.»

Sogghigna, l’idiota. A quanto pare non si è ancora reso conto in che razza di posto è capitato, ma non sarò certo io a fargli da guida turistica. Lo sorpasso con un menefreghismo così plateale che lui mi grida dietro qualcosa. Non lo ascolto, non lo farà nessuno. È solo un altro poveraccio che fra poco, se sarà sfortunato, morirà restando in vita. Se ha un minimo di culo, schiatterà davvero.

Non gli dico il mio nome perché non ha bisogno di chiamarmi. Se avesse bisogno di una mano non lo aiuterei.

Che muoia da solo, come facciamo tutti.

 

 




Nostalgia del totalmente Altro




 

Il ragazzo nuovo ha contraddetto le mie aspettative.

Tempo una settimana e già ha mollato. Noi almeno ci proviamo, a sopravvivere, a lui sembra che non importi. Si rifiuta di salire in macchina con i clienti e questo ai guardiani non è sfuggito; sembra che godano come bestie quando trovano l’ennesima scusa per tormentarci, ma non me ne sorprendo. Loro sono bestie, proprio come noi.

Gli altri ridono, gli chiedono che sapore abbia il cemento. Io lo guardo e sto zitto. Lui si rialza e mostra loro il dito medio. Perde sangue dal naso.

Ai nostri aguzzini non piacerà. Basta una settimana, in questo posto, per capire se sarai uno di quelli che fra cinque anni sarà ancora qui a vendere il culo oppure uno che fra cinque ore dormirà dentro a un cassonetto o in fondo al fiume. Il biondo tende pericolosamente verso la seconda ipotesi, ma non so quanto questa sia una brutta prospettiva. Se non hai niente per vivere, allora fatti un favore e muori. Qui nessuno di noi vive. Sopravviviamo ed è penoso.

Quel ragazzo è così stupido da darmi sui nervi. Ecco, si avvicina un’auto e lui manda il proprietario a cagare. Un altro volo sul marciapiede; stavolta il naso se lo è rotto davvero. È un miracolo che abbia ancora tutti i denti, ed è decisamente assurdo che non ci pensi un attimo a rialzarsi. Un pugno tra le scapole, di nuovo con la faccia sul cemento. Basta poco per capire che non imparerà mai.

Il cliente cambia preda e accosta davanti a me; io gli chiedo il doppio della tariffa e lui sbuffa ma comprende che non è serata. Tra il biondo psicopatico, Kiba che ne ha prese tante da essersi ridotto a un cumulo di ecchimosi ambulanti,  e quel tipo, Gaara, che sembra perennemente pronto a uccidere qualcuno, non so chi sia il male minore. Il bastardo accetta il fatto che, se vuole scopare, gli tocca pagarmi a peso d’oro. È conveniente essere l’unica scelta.

Nemmeno ci provo, a compiacerlo. Fa tutto da solo e pare non dargli fastidio; ormai mi illudo che non ne dia più nemmeno a me. Quando torno dagli altri quel povero cane del ragazzo nuovo è seduto per terra con l’occhio sinistro già in procinto di gonfiarsi.

La mia mano si allunga verso di lui dotata di volontà propria. Guardarlo mi dà fastidio.

«Il cliente era tuo» sbotto. «Prendi questi dannati soldi.» gli lascio cadere le banconote sul grembo. A me non servono, ho già racimolato abbastanza da pagarmi il letto. Domani niente porzione extra,  però, ma tanto il cibo fa cagare e moriremo tutti di fame comunque, quindi che importa? Fame di cibo, di libertà, di vita, ognuno ha la sua. Qualcuno anche di morte, e sono fortunati perché è la più facile da raggiungere. Basta smettere di lasciarsi vivere.

Lui sembra interdetto. Cristo, perché non ci arriva? Se torna a mani vuote anche stanotte quelli lo ammazzano. E meno puttane hanno, più turni fanno fare a quelli rimasti. Non ho intenzione di farmi rompere il culo più del dovuto per colpa di un ragazzino piagnucoloso, quindi farà meglio ad accettare quei dannati soldi.

«Nella merda ci siamo tutti. Alzati e smetti di piangerti addosso.»

Lui è seriamente intenzionato a picchiarmi, lo vedo dai suoi occhi. Non gli conviene, dato che parte decisamente svantaggiato, ma non mi tirerei indietro. Sfogare questa rabbia che mi mangia il fegato sarebbe una buona cosa, una volta tanto.

«Sei proprio un bastardo.» dice. Poi si ferma una macchina e forse è per questo che non mi colpisce, ma ha una paura fottuta e non ce la farà mai a salirci. Io gli lancio un’occhiata di sfida e in quel momento capisco che invece ci riuscirà, anche solo per non darmela vinta. Gli trema la mano sulla maniglia dello sportello. Poi la macchina lo inghiotte, lo fotte e lo vomita venti minuti dopo.

La distruzione totale di un essere umano, sia nel corpo che nello spirito, non dura nemmeno mezz’ora. Non servono che venti schifosi minuti per ridurci a patetiche imitazioni di vita. Basta così poco che non abbiamo nemmeno il tempo di disperarci mentre succede: accade e basta.

Il biondo ha le tasche appesantite ma sospetto che non siano i soldi a piegargli le spalle verso terra

Dio, se piange dovrò davvero prenderlo a calci in culo.

Quasi a volermi contraddire di nuovo, alza gli occhi e il suo viso è fermo. Si ficca una mano in tasca e rovescia il suo contenuto ai miei piedi.

«Tu non hai nessun diritto di trattarmi come una nullità.» Solo un tipo come lui può mostrarsi agguerrito dopo essere stato trattato come il più misero degli oggetti da un pervertito qualunque. Gli altri ragazzi dopo il primo cliente si chiudono in se stessi fino a inghiottirsi, forse cercando un’anima che non c’è più. Lui sta in piedi come un gladiatore sopravvissuto all’arena, e mi dà sui nervi perché prima di diventare un guscio vuoto anche io ero così. Vorrei esserlo ancora.

Vorrei fargli notare che si sta trattando come una nullità da solo, ignorando quella che probabilmente è l’unica possibilità di sopravvivere che ha, invece mi limito ad accennargli con il mento alle banconote sparse sul marciapiede.

«Fra neanche un mese sarai pronto a uccidere per una manciata di yen in più.» sogghigno. «Proprio come tutti noi. Raccoglili o li rimpiangerai a ogni calcio che ti spezzerà le ossa.»

Con al coda dell’occhio vedo Kiba che guarda tutto quel denaro con la bava alla bocca. Lui viene pestato da tre sere di fila perché non guadagna abbastanza e sembra pronto a confermare la mia ipotesi; Hinata di tanto in tanto lo aiuta, ma stasera non c’è e posso capire il limite che un essere umano non può in alcun modo oltrepassare. Kiba vuole vivere. Kiba non può sopportare di venire picchiato una sola volta in più. Kiba ha raggiunto l’ultimo stadio: è una bestia in tutto e per tutto.

Kiba vuole quei soldi. Kiba è pronto a qualsiasi cosa per averli. Poi però vede la mia occhiataccia e resta dove si trova.

«Non voglio debiti con nessuno, tanto meno con un bastardo come te.» blatera intanto il biondo.

Io gli volto le spalle senza nemmeno guardarlo perché mi ha stancato e qui si devono conservare le energie per qualcosa che valga la pena.

 «Qui c’è la vita o c’è la morte. Non ci sono vie di mezzo. Dei tuoi debiti non importa niente a nessuno.»

Lui non vale la pena. Uno stupido in grado di gettare la sua vita al vento non può valere la pena.

Non risponde e io quasi sorrido quando, un paio di minuti dopo, sento il tintinnio delle monete che vengono raccolte e cozzano l’una contro l’altra. Allora pure lui si spezza.

Sto ancora ghignando quando una mano si infila di forza nella tasca dei miei jeans. Sento il peso di qualcosa che prima non c’era e provo l’irresistibile impulso di picchiarlo. Cristo, allora è davvero così stupido come sembra! Non lo pesto solo perché ci penseranno i guardiani tra poche ore, e poi perché se comincio a discutere con uno in procinto di finire schiacciato dalla realtà significa che sono davvero messo male.

«Te ne pentirai.» gli dico solo. Anche se sono girato dall’altra parte, sento comunque che sta sorridendo. Pensa davvero di aver vinto una battaglia? La guerra non si combatte tra di noi, ci siamo tutti talmente indifferenti che non avrebbe senso. È la morte a sfidarci ogni giorno, l’idiota lo capirà presto. Forse smetterà di perdere tempo e si deciderà a svegliarsi. Altrimenti, ci sarà una puttana in meno a battere la notte. E basta. Non cambierebbe nulla: noi siamo invisibili anche a quelli che ci fottono.

Mi sfilo le banconote dalla tasca e le getto a Kiba, che le prende al volo. Vorrei vedere la faccia stravolta dalla rabbia del biondino, ma resisto giusto per non abbassarmi al suo livello. Deve capire che siamo inutili, che non possiamo esserci d’aiuto nemmeno l’uno per l’altro. Kiba stasera ha il culo parato – sempre che abbia rinunciato all’assurda mania di nascondere i soldi, visto che lo beccano sempre – ma domani sarà nella stessa situazione di oggi e non lo aiuterà nessuno. Arriverà a chiedersi se è valsa la pena di sopravvivere un giorno in più, visto che lo sappiamo tutti che ha le settimane contate. Quando si arriva al punto in cui si trova lui, è impossibile tornare indietro. È troppo a fondo per risalire; lo sa solo lui quanto ossigeno gli rimane prima di affogare, ma a occhio e croce direi che la sua scorta d’aria è quasi a secco.

Quando torniamo a casa perdo di vista l’Idiota – ho deciso che lo chiamerò così, non mi interessa il suo nome e non sono nemmeno sicuro di ricordarmelo – ma immagino che si stia prendendo la sua dose di carezze. Non ha trovato nessun altro cliente e i soldi che aveva non bastano. Kiba si è infilato quelli che gli ho dato io nelle mutande e ora sputa sangue. Mentre Hinata lo medica vedo che gli mancano un paio di denti.

Mentre mi avvicino al letto trovo proprio la persona che non volevo vedere prona sul pavimento lì accanto. Lo ignoro completamente, ma noto comunque la posizione innaturale in cui è crollato: di sicuro lo hanno colpito alla schiena. Vorrei proprio vedere come dormirà, stanotte, dato che non può stendersi né sul dorso né – le sue costole non sono ancora guarite – a pancia in su. Rantola e tossisce mentre uno stronzo che passa lo urta senza nemmeno accorgersene. Quello che avrebbe dovuto capire già dal primo giorno: non ci vediamo nemmeno tra di noi. E va bene così, o morire ogni giorno farebbe ancora più male.

Non mi interessa. Davvero, me ne frego. Ma non mi farà dormire per tutto il resto della notte se continua così, e in fondo il denaro che ho gettato a Kiba era suo.

«Li sognerai, quei soldi» lo sbeffeggio, senza riuscire a trattenermi. Magari imparerà la lezione. «Sempre che riuscirai a prendere sonno. Il pavimento non deve essere troppo comodo, dopo i calci che ti sei beccato alla schiena.»

Si muove appena. Deve stare male sul serio. «Muori.»

«Non prima di te. Lo sai, vero?» sono duro, ma ne ha bisogno. «Non reggerai ancora a lungo se continui così.»

Esplode in un attacco di rantolii prima di poter ribattere. «E a te che cazzo te ne frega? Non so nemmeno come ti chiami.» Quindi è questo che vuole. Non lo accontento.

«Assolutamente nulla.»

«E allora sta’ zitto.»

«Idiota.»

Ce ne stiamo in silenzio per  un po’. Respira male.

«Senti, ma come fai? E poi, mi dici come ti chiami?»

«A far cosa?» non so nemmeno perché gli rispondo. Non mi interessa, voglio solo dormire. Meno stai sveglio, meno devi pensare.

«La puttana.»

Sospiro e mi sbatto una mano sulla fronte. Sarà una conversazione lunga, accidenti a me che perdo tempo a parlargli. Me ne pentirò per il resto dei miei giorni, ma lo afferro per la collottola e lo trascino sul letto. È molto più leggero di quel che pensassi, o forse i calci gli hanno tirato via tutto quello che teneva dentro. Sospetto che se lo scuotessi sentirei che non c’è più neanche l’anima, lì dentro. È successo troppo presto perfino per gli standard di questo posto.

«Non ti muovere troppo, non tirare calci e non disturbarmi per nessun motivo» lo avverto. «O ti sbatto per terra prima ancora che tu riesca ad aprire la bocca.»

Lui, da perfetto idiota, sta per dire qualcosa. Sono più veloce di lui.

«Zitto, ho detto.» lo minaccio. «Non ho nessuna delle risposte che cerchi. Non le ha nessuno. L’unica cosa che devi fare è sopravvivere, tutto il resto non conta. Se per tirare avanti devi pugnalare il tuo  migliore amico, lo fai. Se devi mangiare un sacco di merda, lo fai.»

Mi guarda come se stessi enunciando il discorso del secolo. Non so come, ma riesco a trattenermi dall’alzare gli occhi al cielo.

«E soprattutto, se devi fare sesso con uno sconosciuto, anche se ti fa schifo non ti tiri indietro. Lo fai e basta.» Perché gli parlo? Non mi ascolterà e morirà nel giro di due settimane. È fiato sprecato, e se non voglio finire come Kiba devo conservarlo. «Ora dormi.»

Non faccio in tempo a girarmi dall’altra parte che lui già sta parlando. Maledetto idiota.

«Come fai?»

«Che cazzo ne so, lo faccio e basta!» esplodo, ma non lo butto giù dal letto. «Inventati qualcosa. Senti la mancanza di qualcosa, qualunque cosa sia lontana da questo mondo, anche se non esiste, e pensa che quando uscirai – anche se, ovviamente, non uscirai mai – la riavrai. Scegliti una speranza qualsiasi e credici, dannazione, ma non chiederlo a me. Non sono la tua balia e mi stai anche sulle palle.»

Il silenzio dura appena un po’ di più.

«Tu che cosa sogni?»

Chiudo gli occhi, esasperato. «Mi chiamo Sasuke.» sbotto. «Contento?» Spero che gli basti perché non posso dargli altro. Non ho nient’altro.

Lo sento sorridere – diamine, perché riesco a sentirlo sorridere? – ma almeno adesso tace.

Evidentemente gli basta.

 

 

Note dell’autrice:

In teoria sì, doveva esserci una bishot con Suigetsu, Kakashi e Zabusa. In pratica no perché ho scritto solo un capitolo e non riesco ad andare avanti. E mi mancavano questi due idioti di Sasuke e Naruto. E poi ho trovato finalmente Minima Moralia di Adorno, e da Adorno ho pensato a Horkheimer, e da Horkheimer mi è venuta in mente questa bellissima espressione del “Nostalgia del totalmente Altro”, da cui Sasuke-lo-stronzo ha tratto il suo discorso incitatore <3

E poi volevo sapere come si erano conosciuti i nostri due eroi ç_ç Spero vi sia piaciuta almeno un pochino e vi ringrazio ancora per tutti i vostri adorabili commenti. E un grazie particolare va a ladyaoi che ha segnalato la storia per inserimento tra le scelte del sito. Non ho parole per dire quanto sono commossa. A presto (spero),

shirangel

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Capitolo 5
*** Requiem for a Dream [Pt. 1] ***


 

Requiem for a Dream

- I’m searching for the sky I lost -

 

Quando lo schiacciano contro un muro, con il viso pressato su mattoni freddi d'indifferenza, Suigetsu sorride.

Mentre qualcuno abusa di lui sul sedile posteriore di un'automobile, Suigetsu continua a sorridere.

È quando deve dormire che smette di farlo, perché non può più sognare di affondare i denti nella giugulare dei suoi oppressori. Le loro urla di dolore non sembrano più reali di una fantasia dimenticata e lui è da solo con i suoi incubi.

~°~

Il sole, fuori, picchia più forte del solito sul mondo che a loro è precluso; i ragazzi senza vita lo odiano perché, lo sanno, non è roba per loro. Preferiscono vedere solo il buio piuttosto che osservare da lontano la luce che non possono raggiungere.

Suigetsu guarda lo spicchio di cielo che si intravede dalle finestre, posizionate così in alto che riesce a sbirciare solo cose troppo lontane per sembrare vere. Seduto sulla porzione di pavimento che quella notte gli ha fatto da letto, non può fare altro che aspettare. La vita gli scorre davanti ma non dentro, non riesce a fermarla né a farla rallentare.

Karin lo guarda come un avvoltoio. Vede che è distratto e lei può approfittarne, perché i guardiani stanno per distribuire la colazione e lei ha sempre così fame che negli ultimi tempi si ritrova sempre più spesso a mordicchiarsi inconsciamente la pelle dell'avambraccio. Un giorno si mangerà viva e allora sarà libera di implodere. È pronta a rubare il pane dalla bocca di Suigetsu, anche se sa che i suoi denti sono affilati e che se si chiudono lei ci lascerà ben più di qualche dito.

Ma ha fame e non c’è niente di più importante.

Juugo, quel maledetto ragazzone tutto cuore e psicosi, vede i suoi occhi e le mette una mano su una spalla. «Non lo fare.»

Lei se lo scrolla di dosso, incattivita. «Io non ho nessuna intenzione di schiattare qui dentro, a differenza tua.» sibila, con gli occhi ridotti a una fessura. Ma il suo corpo la contraddice, perché i gomiti sembrano voler trapassare la pelle tirata, il seno è scomparso e gli zigomi ormai occupano gran parte del suo viso scarno. È già morta.

Lei sta peggio di Suigetsu e Juugo, perché lei è una ragazza e lo sanno tutti cosa succede alle ragazze. Sono le più deboli e perfino un bambino potrebbe rubar loro da mangiare. Si consumano troppo in fretta e i ragazzi, che al lavoro vengono fottuti, mentre tutti dormono fottono loro. Le donne, lì dentro, non sopravvivono mai troppo a lungo.

Stavolta è Karin a deconcentrarsi e perde l'occasione di rubarsi un pezzetto di vita che le sarebbe tornato, in fondo, poco utile. E poi Suigetsu adesso è tutt'altro che distratto.

Oggi a servire la colazione c'è Momochi.

Mentre passa a distribuire quel pasto infame Suigetsu lo segue con gli occhi, senza perderne nemmeno un movimento. Quando tocca a lui Zabuza distoglie lo sguardo e gli nasconde tra le mani una doppia porzione. Le dita del ragazzo si chiudono attorno a quelle dell'uomo, Karin le vede sbiancare dalla forza con cui cercano un contatto.

Zabuza lascia che quelle mani gli scivolino addosso, senza ricambiare né scansarlo. Come se non esistesse. Se ne va ed è come se non si fosse mai fermato.

«Comodo scoparsi uno dei guardiani, vero?» mormora la ragazza, masticando lentamente. «Forse dovrei cominciare a farlo anche io.»

«Non credo che qualcuno ti vorrebbe, racchia come sei.» ribatte Suigetsu, ma non si fa guardare in faccia perché la delusione è cocente. Sperava che sarebbe durato di più. «Non mi sorprende che tu sia uno schifo, a fare la puttana.»

«Almeno io non mi vendo per un tozzo di pane a chi gestisce questa merda!»

«Balle.» glielo sputa in faccia, sull’orgoglio, sul pizzico di dignità che è rimasta a entrambi. «Uccideresti tua madre per qualcosa da mangiare.»

Karin non risponde più perché è vero. Quella massima vale per tutti i suoi compagni di prigionia.

Suigetsu torna a guardare Zabuza, che sta ancora passando tra i ragazzi, quelli stesi per terra come loro tre e i fortunati dieci che si sono meritati il privilegio di dormire su uno dei letti. Quel dannato posto e le sue regole.

Quel “dannato posto” in realtà è il più grande giro di prostituzione minorile di tutto il Giappone, anche se nessuno ha il coraggio di chiamarlo così. Ragazzi e ragazze ammassati dentro un capannone fuori città che di notte strisciano fuori e si vendono per non morire. L'unica cosa che cercano dalla vita sono i soldi, perché se non ne guadagni abbastanza vieni punito, se ne racimoli una buona quantità ti becchi un doppio pasto e uno dei letti. Ma nemmeno Suigetsu è un granché a fare la puttana e dorme per terra.

Karin ora guarda uno di quelli che, secondo la perversa logica del loro mondo, viene chiamato fortunato. Momochi gli sta distribuendo una doppia porzione proprio in quel momento, direttamente sul letto sgangherato che occupa.

Uchiha Sasuke. Un tempo Karin lo fissava di continuo, stregata dalla sua bellezza, adesso i suoi occhi riflettono solo tutto quel pane che il ragazzo ha tra le mani. Lo divide con il biondino accanto a lui e Karin farebbe qualsiasi cosa per essere al suo posto.

Zabuza esce e il rumore dei ragazzi che masticano lo stesso boccone infinite volte per farselo durare di più non basta a coprire il clic dell’unica porta che viene chiusa a chiave.

Anche Juugo adesso sta guardando Naruto e Sasuke che si spartiscono lo scarno pasto, così come condividono il letto. «Loro sopravvivono perché si aiutano a vicenda.» osserva. «Forse dovremmo fare così anche noi.»

Suigetsu guarda i suoi due compagni e si sente legato a loro solo dalle circostanze. Fuori di lì non li avrebbe neanche degnati di uno sguardo, ma in quel posto si sono trovati e hanno cominciato a starsi vicino perché, in fondo, sono uguali nell'essere diversi. I ragazzi lì dentro sono orfani strappati dalla strada, figli indesiderati comprati alle famiglie, bambini qualunque rapiti dalle loro case. Suigetsu spacciava, Karin rubava, Juugo uccideva. Erano marci fin dal principio e quel posto, forse, è la loro naturale destinazione. Loro tre sono gli unici a non avere paura dell’inferno.

«Uzumaki sopravvive perché Uchiha gli impedisce di morire.» risponde Suigetsu atono.

Karin sbuffa. «È vivo perché Sasuke gli da il suo cibo e si prostituisce al posto suo.» ribatte. «Quel ragazzo non gli dà nulla in cambio. Sasuke sopravvive da solo.»

Ma Juugo scuote la testa. «Aiutandolo si dà un motivo per tirare avanti. Noi quale abbiamo?»

Né Karin né Suigetsu rispondono. Nessun altro in quel capannone potrebbe farlo e ciò spiega perché, almeno una volta al mese, i guardiani devono tirare giù il disgraziato di turno che si è impiccato nel cesso. Suigetsu pensa a Zabuza ma non lo dice, lo tiene per sé. È quanto di più vicino al calore umano che conosce.

Karin lo vede con lo sguardo perso nel vuoto e capisce al volo. «Dì un po’, il tuo padroncino non è geloso?»

«Fatti i cazzi tuoi.» La ragazza non gli dà ascolto e continua a stuzzicarlo perché almeno dimostra di essere viva. Suigetsu la ignora e pensa ad altro.

Il suo padroncino. Nel loro gergo, un cliente che si affeziona a tal punto alla sua puttana da scegliere sempre lui, tutte le notti, da vezzeggiarlo con regalini che poi finiscono sempre nelle tasche dei guardiani. Poi, quando il giocattolo è vecchio o si rompe, viene scaricato per un modello nuovo.

Karin non lo sa, ma Kakashi Hatake non è niente di tutto questo.

 

 

Tre mesi prima

 

Suigetsu vuole morire. Tra poche ore si torna al capannone e lui non ha racimolato che poche centinaia di yen; sono tre sere di fila che viene pestato e non crede che riuscirà a sopportare la quarta.

Karin scende da una macchina con le tasche gonfie di banconote. Si pavoneggia con le compagne ridendo, perché finge che non le importi, pretende di star bene. Un striscia di sangue le macchia l’interno coscia scoperto dalla minigonna striminzita, ma la vede solo lui.

Suigetsu sputa per terra perché gli uomini fanno schifo.

Cammina verso il bordo del marciapiede mentre si sbottona la camicia stracciata fino al petto, si abbassa i jeans già a vita bassa per mettere in mostra il culo e si unisce al gruppetto che schiamazza per attirare l’attenzione degli automobilisti. Uchiha si becca l’unico che si ferma, anche se a lui basta mettersi lì in piedi e guardare il mondo con quella sua faccia da cazzo. Suigetsu crede che la gente lo paghi solo per poterlo prendere a schiaffi. Lui lo farebbe, se avesse soldi da sprecare.

Poi il mondo sembra cristallizzarsi quando una macchina rallenta proprio davanti a lui. Alza il viso per l’ennesima volta mentre fissa il finestrino che si abbassa. L’uomo gli fa cenno di salire e Suigetsu ringrazia un dio in cui non crede. Se fa bene il suo lavoro, se quel tipo ha abbastanza soldi, per quella notte è salvo: avrà un giorno in più, tutto quello che riesce a desiderare. Dovrà staccarsi un pezzo di anima, ma che alternative ha?

Si accomoda sul sedile del passeggero, pronto a snocciolare le tariffe base, l’uomo non lo guarda nemmeno mentre parcheggia in un vicolo là vicino. I guardiani controllano che non si porti via uno dei loro articoli.

«Chi ti costringe a prostituirti?»

Suigetsu resta a bocca aperta. «Cosa…?»

Kakashi Hatake, ventisette anni, spezzato a metà da una tragedia qualsiasi che non mostra i suoi sintomi, prende il portafoglio ed estrae l’ultima cosa che Suigetsu si aspetta.

Un tesserino di riconoscimento della polizia. Potrebbe essere ricoperto di sangue e risultare comunque meno spaventoso di quello che appare agli occhi del ragazzo.

«Sono mesi che indago su questo giro di prostituzione senza scoprire nulla. Chi lo gestisce sembra un fantasma.»

Suigetsu comincia a strattonare la maniglia dello sportello, ma l’uomo è stato più veloce di lui e ha bloccato le portiere.

«Fammi scendere.» annaspa il ragazzo, improvvisamente pallido. Si agita e sente qualcosa di pesante che sbatacchia in fondo al suo stomaco. «Se mi beccano a parlare con uno sbirro sono morto. E tu con me.» Non gli interessa della sorte di quel’uomo, in realtà. La sua stessa vita è la nube di gas e polvere che non è mai diventata stella, ma è l’unica che ha e non è pronto a rinunciarci.

Kakashi gli posa una mano sulla spalla. «Dimmi il nome, ragazzino. Sarai fuori di qui in una settimana.»

Suigetsu fa saettare lo sguardo da Kakashi al buio della notte, temendo che da un momento all’altro salti fuori uno dei guardiani con la pistola puntata. «Io..»

«Una settimana.»

«Io… io non lo so.»

Ed è vero, non lo sa. Non conosce il nome del loro aguzzino. Può scoprirlo, glielo dice, lui accetta di aspettare. Almeno un paio di volte la settimana Kakashi Hatake va a prelevarlo. Lo paga come se volesse scoparlo. Quando fanno l’amore sul serio quasi non se ne accorgono, i soldi che gli dà non comprano quello e lo sanno tutti e due. Ne hanno bisogno, non è il capriccio di una lussuria imprevedibile: vogliono dare a se stessi la possibilità di avere qualcosa di normale. Non ci riescono, ma ne vedono un tenue luccichio: se lo fanno bastare.

Lampante caso di sindrome della crocerossina. Kakashi gli porta da mangiare, antidolorifici per quando lo picchiano, integratori alimentari per non morire nei giorni in cui non c’è. Ha una colpa che evidentemente non si lava solo con acqua e sapone e che sa nascondere bene. Il suo nuovo ragazzo si chiede spesso quale sia il peccato che Kakashi cerca in tutti i modi di spolverarsi via dalla coscienza, ma non glielo chiede mai. Lo renderebbe umano, dietro alla maschera che non ha mai tolto, lo renderebbe vulnerabile d’affetto. Non di amore, Suigetsu non ne è in grado, ma forse non riuscirebbe più a restarne distaccato. Forse cederebbe agli impulsi umani che, per quelli come lui, equivalgono alla morte; né più, né meno.

Non gli piace fare sesso con lui, non gli piace farlo con nessuno. Ma odia ancora di più avere debiti, così finge come con tutti e lo fa innamorare di lui senza neanche rendersene conto. Può essere un vantaggio, senza dubbio lui dalla loro relazione trae molti benefici, eppure quell’uomo non gli fa né caldo né freddo. Vuole molto più bene al cibo che gli porta. Le medicine sono utili, gli integratori li schifa, ma accetta di prenderli per zittirlo. Dietro quel rapporto non c’è altro.

Non è uno stronzo, Suigetsu. Sono stati i suoi carcerieri a farlo diventare così.

~°~

Zabuza arriva poco tempo dopo Hatake. Con lui è molto più facile.

Il guardiano lo trova in ginocchio dietro un cassonetto, nel vicolo in cui deve battere quella sera. Suigetsu sa che sarà punito perché non è con gli altri a mettersi in bella mostra per attirare clienti, ma non gli importa. Sa che verrà picchiato, ma non gli importa. L'ultimo cliente lo ha scopato così forte che ora non riesce quasi a reggersi in piedi, e non può nemmeno prendere in considerazione l'idea di soddisfarne un altro.

Non ha abbastanza sold: una volta tornati al capannone lo prenderanno a calci. Eppure in quel momento stare piegato in mezzo alla spazzatura lo rende felice. Non si è mai sentito così libero.

Zabuza rovina tutto. Lo fissa da dietro la maschera e lui non può sapere cosa sta pensando, ma può prevedere cosa arriverà: non prova neanche a mettersi in piedi.

L’uomo lo sorprende con quella sua voce annoiata. «L'altro guardiano di turno è Hoshigaki.» dice. «È uno stronzo. Ti caccerai nei guai se ti trova.»

Lui non risponde. Un conato gli scuote il petto e si vomita addosso, colto da una nausea improvvisa: quella merda di pasticca che gli ha allungato il cliente doveva essere proprio una schifezza.

Zabuza lo fissa disgustato, poi lo prende per la collottola e lo trascina via. È più alto di lui e riesce a sollevarlo di qualche centimetro da terra. «Stupido ragazzino.» lo sente mormorare, anche se non sembra essere molto più vecchio di lui.

Suigetsu sente in bocca un sapore acido, ma ha paura di sputare per terra perché, se per sbaglio beccasse il guardiano, i calci che gli spettano aumenterebbero vorticosamente di numero. E invece Zabuza lo porta di peso nel furgone con cui trasportano i ragazzi al lavoro, prende un fazzoletto e con pochi movimenti bruschi gli dà una ripulita. Suigetsu spalanca gli occhi mentre l'uomo gli solleva il braccio destro per detergerlo dal suo stesso rigetto. Riceve dalle sue mani una bottiglia d'acqua fresca che gli fa pizzicare le ferite, apertesi sui suoi palmi quando è caduto bocconi nel vicolo, appena dopo essere sceso dalla macchina del cliente.

«Bevi.» ordina lui mentre si accende una sigaretta. Gli tira una merendina e gli fa cenno di mangiarla, ma Suigetsu la divora in pochi morsi. Alzando un sopracciglio, Zabuza scende dal furgone e va a cercare qualcosa nella cabina del guidatore. Torna con mezza dozzina di sandwich confezionati e lo osserva mentre lui li scarta uno dopo l'altro.

L’ultimo boccone sparisce nella sua gola un momento prima che Zabuza termini la sigaretta.

«Dovrei tornare al lavoro, signore.» dice il ragazzo, sulla difensiva. «O finirò sul serio nei guai.»

L’uomo lo fissa per un tempo interminabilmente lungo. Poi distoglie lo sguardo. «Non c’è bisogno. Dirò che sei stato con me.»

Suigetsu apre la bocca e poi la richiude. È plausibile. Ogni tanto i guardiani scelgono un ragazzo o una ragazza dal gruppo che devono sorvegliare e se lo tengono quasi tutta la notte dentro il furgone. Se la mattina non hanno guadagnato abbastanza, come accade la maggior parte delle volte, le botte le prendono lo stesso.

Zabuza sembra leggergli nel pensiero, perché gli chiede quanti soldi ha. Lui risponde e non sono abbastanza, così l’uomo gli allunga qualche banconota da cento. Suigetsu le prende solo dopo qualche istante.

«Hai ancora fame?»

Sì, ce l’ha, e l’avrà sempre. Ma ha divorato il cibo troppo in fretta e adesso rischia di rigettare ancora, così cerca di tenere a bada i conati perché sa che probabilmente non mangerà più così tanto per un pezzo. Non può sprecare nemmeno una briciola.

Zabuza lancia uno sguardo di sufficienza a quel viso pallido, notando il suo malessere. «Se stai male, vomita. Troverò qualcos’altro da darti prima di riportarvi al capannone.»

Ma il ragazzo si tiene le mani sullo stomaco come se volesse trattenere il cibo con la forza.

L'uomo sbuffa. «Avanti, vomita o rischi un'indigestione. Sai meglio di me che i malati non ricevono certo un trattamento di favore.»

Sì, Suigetsu lo sa. Karin poco tempo fa ha avuto la febbre e per tutta la settimana in cui è stata male i guardiani l’hanno presa a calci di continuo per costringerla a stare in piedi. Se avesse impiegato appena qualche giorno di più per rimettersi, il ragazzo era sicuro che l'avrebbero uccisa.

Suigetsu vorrebbe rispondere, ma i conati si fanno insopportabili. Zabuza lo spinge verso la strada per impedirgli di vomitare nel furgone e lui sente l'uomo brontolare mentre gli tiene i capelli chiari. Una volta rigettata anche l'anima il guardiano gli solleva il mento con due dita e gli pulisce la bocca con un gesto rude. Non c'è dolcezza nelle sue mani, eppure per Suigetsu è delicato come una carezza: nessuno lo hai mai trattato così e non si abituerà mai.

«Hai preso qualche droga?»

Il ragazzo tossisce. «Mi hanno dato una pasticca.»

Tornano dentro, gli dà di nuovo da bere e gli ordina di sciacquarsi la bocca.

«Non accettare mai niente. Una volta o l’altra ci resti secco.» Poi se ne va e torna dopo dieci minuti con un sacchetto.

«Fortuna che i pub restano aperti fino a quest'ora» lo sente borbottare. «Tieni, e cerca di non ingozzarti stavolta.»

«Perché lo fa?»

L'uomo sbuffa ancora. «Basta un grazie

Gli occhi di Suigetsu non si scollano dalla sua anima. «Vuole che le faccia qualcosa?»

«Dio, voi ragazzini siete insopportabili! Non voglio un accidenti. Mangia e sta' zitto.»

Lui mangia perché non può fare altrimenti, lo fa lentamente per godersi ogni boccone, ma non riesce a stare zitto. Nel loro mondo non si fa niente per niente e ha paura di scoprire quali saranno le conseguenze di tanta generosità.

«Le sono debitore.»

L’uomo gli getta un’occhiataccia e sembra voler cambiare discorso. «Ti ricordi di un ragazzino di nome Haku?»

Suigetsu vede un volto efebico incorniciato da lunghi capelli neri; lo chiamavano “la geisha”. Quelli come lui duravano ancora meno delle donne.

«Non è quello che si è sgozzato con un coltellino svizzero?»

Gli occhi di Zabuza vengono attraversati da un lampo, forse di dolore, forse di rabbia, fatto sta che impiega qualche minuto per rispondere. «Lui è…» scuote la testa. «Eravamo amici. Tu lo hai salvato. E io aiuto te.»

Il ragazzo ci pensa meglio e effettivamente si ricorda di aver spartito qualche pezzo di pane con Haku, all’inizio della sua penosa carriera da prostituta, ma quel periodo era durato poco. Appena arrivati non tutti si rendevano subito conto che lì si moriva da soli, e che stando vicini a qualcuno si accelerava la caduta verso l’inferno e basta.

L’uomo lo fissa. «Come ti chiami?»

«Hozuki, signore.»

Lui scuote la testa. «Voglio sapere il tuo nome.»

«Suigetsu.» Si divincola sulla sedia, è a disagio, non gli va più di star lì. Gli occhi di Zabuza lo fissano in un modo strano che lui non riesce a decifrare, lo paragona a quelli che vede tutti i giorni ma non trova riscontri. Non lo vuole fottere, non lo vuole picchiare, non gli vuole rubare il rancio. Ma allora cosa vuole?

«Acqua luna.» mormora Zabuza. «Più che appropriato, direi. Sei pallido.»

«Perché vengo da Kirigakure, signore.» ribatte lui sulla difensiva.

Lui gli lancia un’occhiata strana, forse divertita o magari solo annoiata. Non lo sa, non lo capisce. Lo farà mai?

«E allora? Anche io sono nato lì, ma la mia pelle non è così chiara.»

Suigetsu vorrebbe rispondere che lui non è costretto a starsene rinchiuso tutto il giorno e a uscire solo di notte. Lui il sole lo vede tutti i giorni. Però sta zitto perché capisce che, se non ci vivi, è impossibile ricordarsi tutti i limiti della loro prigionia.

«Bene, torno a controllare gli altri. Tu puoi restare qui.» getta un’occhiata critica alle sue occhiaie violacee. «Dormi un po’, magari. Sei stanco.»

Lui si stringe nelle spalle. «È Dicembre. I pavimenti sono freddi.» anche la sua voce lo è, perché d’un tratto si ricorda che l’uomo che ha davanti è uno di quelli che lo costringono a dormire per terra. «Non conciliano esattamente il sonno.»

Zabuza rimane interdetto. Si sfila di nuovo il portafoglio dalla tasca e gli dà altri soldi. «Questi dovrebbero bastare per un letto. Domani ti farò avere delle coperte, non posso pagartelo ogni notte.»

Suigetsu non ci pensa due volte ad accettare. Il suo non è un mondo di convenevoli. Stavolta dice grazie e basta.

 

 

Note dell’autrice:

- Suigetsu in Giapponese significa Acqua Luna.

- “I’m searching for the sky I lost” è la traduzione di “Nakushitekeita sora wo sagashiteru”, citazione tratta dalla canzone “Again” di Yui (nella versione usata per la prima opening di FullMetal Alchemist: Brotherhood).

- Questa fan fiction si è classificata 2° al contest “Potrebbe risultare interessante” di Jayu

 

Note dell’autrice:

Ed ecco a voi sui vostri schermi la famigerata ZabuSuiKaka (non si può sentire XDD). Non vedevate l’ora, eh? E niente, oggi intaso la sezione di Naruto ma sono arrivati i risultati del contest (esultate con me \°/) e questa è tutta per _sweetygirl_ che si è appassionata a questo pairing ancora prima di leggerlo. Cara, avrei voluto dedicarti qualcosa di migliore ma dovrai accontentarti. Io ti avevo avvertito che non era venuto fuori un capolavoro, ma tu lo volevi leggere lo stesso quindi è colpa tua u.u

Dunque, è una bishot quindi saranno solo due capitoli. Io non mi smentisco mai e metto il SasuNaru ovunque, nel prossimo avranno un ruolo importante (insomma ò_ò).

Ringrazio tutti quelli che hanno avuto il coraggio di leggere questa cosa. Non piace nemmeno a me, quindi voi potete schifarla del tutto XD Però mi rendereste felice con un commentino, lo sapete **

Tornerò a inquietare i vostri sonni verso sabato/domenica con l’epilogo di Autodistruggimi <3

shirangel

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Capitolo 6
*** Requiem for a Dream [Pt. 2] ***


Requiem for a Dream

- Who are you waiting for in the maze of emotions? -

 

Karin mugola qualcosa nel sonno e scalcia. Forse sogna di mangiare, forse ha un incubo in cui viene stuprata. È impossibile sapere se durante la notte prevalgano le paure o i bisogni animali.

Suigetsu si gira dall’altra parte. Anche se l’unica luce è quella chiara della luna che splende solo nel mondo fuori, vede gli occhi di Juugo e sbuffa. Si volta di nuovo, ma quello sguardo gli trapassa ancora la nuca.

«D’accordo!» dice in un soffio rabbioso, caldo come il mostro che gli divora lo stomaco. Si toglie la coperta di dosso e la getta sopra la ragazza; Karin si è ammalata ancora e non è un bene. Suigetsu serra le palpebre mentre il freddo comincia già a divorargli il corpo, ma almeno gli occhi che lo ammonivano adesso si sono chetati.

Sta per scivolare nel sonno, quando sente una mano che lo scuote bruscamente.

È Zabuza. Lo riconosce dall’odore di uomo che lì non si sente mai. Chi lo aveva lo ha perso, chi è troppo giovane per averlo non lo otterrà mai.

«Bevi.» gli ordina il guardiano, spingendogli una tazza tra le mani. Suigetsu ha lo dita talmente anchilosate dal freddo che impiega qualche secondo per avvertire il calore ustionante della porcellana. Prova a prendere un sorso, ma un bruciore doloroso gli invade la lingua e deve rinunciare.

Zabuza è impaziente; i suoi occhi vagano dappertutto, nel capannone che a quei piccoli scarti umani pare gigantesco, tranne che su di lui. «Sbrigati», gli dice. «Devo tornare di là. Ho lasciato la porta aperta.»

Basta un attimo perché gli occhi di Suigetsu comincino a brillare come fuochi d’artificio, ma sono solo le ultime fiamme di una candela che si sta spegnendo. È un fuoco che nasce e muore dalla bocca di quell’uomo, che vive e viene torturato dalle sue mani e dal suo sorriso tanto raro.

Il guardiano – perché è questo che è – riesce a leggergli dentro prima ancora che lui possa capirsi da solo. «Non ci pensare nemmeno.» brontola, asciutto, ma un guizzo di compassione ammorbidisce le sue parole. «Se sparisce anche solo un ragazzino domani io mi ritrovo dentro a un fosso.»

L’immagine di una fuga folle, vivida come una macchia di sangue in mezzo alla neve nella mente in banco e nero di Suigetsu, esita un po’ prima di scomparire. Quella porta non è mai aperta. Mai, tranne ora. Varcarla e uscire. Non tornare. Vivere.

Ma Zabuza lo ha salvato così tante volte che ormai è come se lo avesse messo al mondo lui stesso. Il ragazzo abbassa lo sguardo e beve dalla tazza il the caldo, che sembra scavarsi a forza una strada nel gelo che lo invade dappertutto. I suoi occhi emanano una luce sempre più fioca finché non si spengono del tutto. Morto.

«Dove l’hai preso?»

Zabuza alza le spalle. «L’ha fatto la donna che stanotte monta la guardia con me. Ora si è addormentata.» lo guarda con fare critico. «Dov’è la coperta che ti ho dato?»

Suigetsu non risponde, ma indica Karin con un cenno del capo. Sa che si arrabbierà e infatti succede. Ormai lo conosce così bene che non può trattenere un lampo di fugace contentezza quando riesce a prevedere le reazioni di quell’uomo tanto complesso

«Santo Dio, ragazzino, ho già abbastanza da fare per tenere in vita te

«Sta morendo.» ribatte lui, ma sa che non è una scusa valida. Sta morendo anche lui, ed è così palese che tutti e due lo sentono nell’aria senza nemmeno dirlo ad alta voce.

Zabuza aspetta che abbia finito di bere, poi gli strappa la tazza dalle mani, perché se qualcuno gliela trova vicino la mattina dopo nemmeno lui riuscirà a tenerlo in vita. Se ne va ed è ancora nervoso per quel ragazzino che non può salvare. Ogni passo è la rabbia contro di lui che non si aiuta e contro se stesso che non può fare quell’ultimo gesto, che sarebbe decisivo e che è l’unico davvero utile.

Suigetsu sta meglio, con il the che gli riscalda lo stomaco vuoto, ma si sente così frustrato che prende in considerazione l’idea di strappare la coperta dal corpo di Karin e avvolgervisi dentro. Non gli importa se domattina della ragazza non rimarrà che un cadavere freddo; lui vuole solo sopravvivere.

Gli occhi di Juugo però sono di nuovo aperti. Lo fissano e gli trasmettono la consapevolezza che, se non sono più abbastanza umani da provare un pizzico di compassione, allora è tempo che muoiano. Suigestu rantola, stringe i pugni e si costringe a dormire, aspettando di sapere cosa ha in serbo per lui quella notte.

Paura o bisogni primordiali? Cos’è che ti fa più battere il cuore, la morte… o lui?

~°~

La sera successiva Zabuza riesce a fargli avere un’altra coperta. Non lo guarda mentre gliela passa di nascosto, lo ignora come se non esistesse. E forse è così, forse sta davvero aiutando un fantasma, forse è questo a farlo impazzire di rabbia.

Karin tossisce e sputa e vaneggia per la febbre, ma si regge ancora in piedi e la sua espressione orgogliosa non accenna a sbiadire. È un’attrice impegnata a fare il tutto esaurito ai suoi ultimi spettacoli e lo sa. Juugo non sembra triste mentre la guarda, non lo è, l’aiuta perché è giusto così. Ma lì dentro è davvero rimasto qualcosa degno di essere chiamato tale?

Suigetsu non riesce a scaldarsi nella misera giacchetta di pelle che lo costringono a indossare, però preferirebbe morire assiderato piuttosto che trovare rifugio nell’auto di qualche cliente. Karin sta morendo e questo gli dà sui nervi, perché è – era ­– forte e se si arrende perfino lei allora loro sono tutti condannati. Non è una vera sorpresa e questo, se possibile, lo stizzisce ancora di più. I sogni vengono mandati al macello prima ancora che riescano ad attecchire nel cuore di qualche povero pazzo, cercare di aggrapparvisi con le unghie fa solo sanguinare le dita.

Nemmeno l’auto di Kakashi che si fa vivo dopo una settimana di silenzio riesce a tranquillizzarlo. Mangerà e si scalderà e avrà tanti soldi da non doversi preoccupare di vendere qualche pezzo di sé per tutta la sera, ma il suo umore non si calma. Se non è stasera, è domani. Oppure dopodomani, o il giorno dopo ancora, o magari tutta la settimana successiva. Non stai a galla nemmeno se qualcuno ti tiene sollevato per la collottola: prima o poi affogherà anche lui.

Il poliziotto riesce comunque a sorprenderlo.

«Ultimamente sono stato impegnato.» si scusa, posandogli un bacio sulla fronte.

Suigetsu vorrebbe scansarsi da quel tocco, ma non ci riesce perché il cibo che sta masticando è troppo buono e l’aria condizionata che gli solletica il viso è troppo calda.

«Hai scoperto il nome?» glielo chiede sempre, ma lui non sa mai cosa rispondere. Lo ha chiesto alla maggior parte dei suoi compagni, ma nessuno lo sa, tutti sono spaventati. Non si fa niente per niente e lui ha ben poco da offrire contro la paura.

Deglutisce un boccone e gli lancia uno sguardo che lo fa rabbrividire. «Il tuo capo lo salverà. Il tuo capo si rifornisce da noi molto spesso. Tutto questo non serve a niente»

Lui sospira e gli accarezza i capelli. Avvicina la mano piano e lentamente, facendo in modo che possa vedere tutti i suoi movimenti, perché ha imparato che i gesti bruschi lo spaventano. I primi tempi si ritraeva di scatto, come se temesse di ricevere uno schiaffo, e a Kakashi ogni volta veniva da vomitare. Ancora adesso ha paura di chiedere che cosa quel povero disgraziato abbia dovuto subire per ridursi così. Suigetsu non si sottrae più al suo tocco, china un poco il capo e gli ricorda un cane che appiattisce le orecchie perché mal sopporta le moine del padrone; lo ha addomesticato, ma non sarà mai suo e non deve scordarselo. Lo ha già fatto e ama quel ragazzo con tutto il suo cuore malandato.

«Ho solo bisogno di quel nome. Ti porterò via da qui, Suigetsu.»

Suigetsu non ci riesce. Né a credergli, né a sperarci, ma si fa forza e finge. Con Kakashi e con se stesso, perché senza sogni si va avanti ben poco e lui ha bisogno di averne uno.

~°~

Karin qualche settimana dopo non si sveglia più.

Suigetsu rimane così scioccato dai suoi occhi, ancora spalancati verso la vita che le è scappata via, da non provare nemmeno a scuoterla. Vorrebbe solo chiuderle la bocca semiaperta, uccisa a metà di un urlo che solo lei ha potuto sentire, e vorrebbe chiudere la sua perché sente qualcosa che gli graffia la gola e non vuole piangere per niente al mondo.

Non riesce a fare niente. Quel corpo emana freddo, non ha bisogno di sfiorare la pelle per assicurarsene. È rigido e bianco e spaventoso: lui lo sa che è quel cadavere a gelargli il sangue nelle vene. Non vuole toccarlo perché altrimenti morirebbe anche lui.

Juugo gli si avvicina in silenzio. Nessuno dei due piange, in fondo è solo un’altra morte. Ce ne sono così tante che non fa nessuna differenza, eppure qualcosa dentro il cuore di Suigetsu se ne va per sempre, insieme a quella ragazza. Sono tutte quelle promesse, implicite e non, che Karin aveva fatto loro. Sopravvivrò, ce la farò, non morirò.

Di tutti quei giuramenti fatti con le dita incrociate dietro la schiena rimane un ammasso di organi e tessuti che ormai non funziona più.

Gli viene da vomitare, ma non lo fa. Bisogna cercare un guardiano che si porti via quel dito puntato verso la libertà con cui fino a poche ore prima Suigetsu litigava e tirava avanti.

Chiama Zabuza perché non può sopportare che lo faccia qualcun altro. L’uomo guarda lei e poi cerca gli occhi di colui che, senza che nessuno dei due lo volesse, è diventato il suo protetto. Si inginocchia accanto alla vita strappata e riconosce la coperta che lui stesso aveva dato a Suigetsu, ma non gliela restituisce e la alza fino a coprire il volto della disgraziata. La prende tra le braccia.

«Ci penso io.»

Suigetsu non lo sente dalle sue labbra, ma sa che Karin non finirà in un cassonetto o in fondo al fiume, come gli altri cadaveri. Sa che Zabuza farà in modo che il posto in cui andrà, qualunque esso sia, le tributi la dignità che merita. Quella che non ha mai avuto.

Il guardiano non lo dice ma Suigetsu lo sa. E capisce anche perché, quando deve ricordare i due uomini che tengono in mano le redini della sua vita, l’incontro con Kakashi gli appare confuso e approssimativo, mentre quello con Zabuza è perfetto e definito nella sua memoria come se lo vivesse ogni giorno.

Lo capisce e ne ha paura.

Non si concede nemmeno qualche minuto per ricordare Karin prima di andare a cercare Sasuke Uchiha. Hatake gli ha promesso una settimana ed è il massimo che può aspettare. Zabuza se ne va e la morte di una prostituta prende solo quel tempo; pochi se ne sono accorti, a nessuno importa. Tenersi in vita è un impegno pressante, pensare a chi non ce l’ha fatta non serve.

Uchiha non sembra propenso ad ascoltarlo perché il suo amico, quello che si trascina dietro ogni giorno, quello per cui combatte tanto ferocemente, sembra non stare molto meglio di Karin. Quando Suigetsu gli chiede il nome del loro aguzzino, però, il suo sguardo scuro saetta verso di lui in un lampo di minaccia.

«Perché lo vuoi sapere?»

Lui non risponde: la storia di quel dannato Uchiha è famosa in tutto il giro di prostituzione. Si è venduto al proprietario del giro perché gli erano state promesse preziose informazioni sul luogo dove si trovava il fratello maggiore, colpevole della strage della loro famiglia. Inutile dire che, in tre anni, non aveva ricevuto alcuna notizia. Ma con il responsabile del giro in prigione le possibilità di averne calerebbero notevolmente, quindi Suigetsu sta zitto e lascia che Sasuke guardi in che stato si trova il suo compagno.

Perché anche Suigetsu è famoso, lì dentro. Lui è quello che, chissà come, ha sempre un sacco di medicine. Ringrazia mentalmente Kakashi e le pasticche che gli nasconde nelle mutande per ogni evenienza.

«Non si fa niente per niente, Hozuki.» sibila Uchiha. La nuca bionda appoggiata sul suo grembo mugola e lui deve decidere quale vita vale di più. Quale sogno è disposto a infrangere. Chi ama di più, tra se stesso e il corpo bollente di febbre che si appoggia totalmente e unicamente a lui.

La pastiglia di antipiretico compare tra le dita di Suigetsu con un tempismo perfetto. Gli occhi di Sasuke si assottigliano. La mano di Naruto ha smesso di cercare la sua. Uchiha stringe i denti e prende la pasticca. La fa scivolare tra le labbra del compagno e la sua voce freme di rabbia mentre sputa il nome Orochimaru tra i denti, come se fosse il più astioso degli insulti.

Suigetsu non ringrazia. Non rimane a guardare se il biondino ce la farà. Non pensa a Karin. Spera soltanto che quella sera Kakashi passi a comprarlo, ma quando questo succede tutta la sua spavalderia viene meno. Quando l’uomo gli chiede quel maledetto nome, lui non può fare a meno di ribattere con un’altra domanda. Quando ottiene la risposta che cerca, quella che deve dare lui gli si blocca in fondo alla gola.

«Che ne sarà dei guardiani?»

«Favoreggiamento di prostituzione, da due a sei anni.» risponde lui, quasi annoiato, di fretta. Vuole sapere il nome, glielo richiede, aspetta.

Suigetsu ce l’ha sulla punta della lingua. Però Zabuza lo ha salvato troppe volte per lasciare che quelle dieci lettere escano dalla sua bocca. Schiude le labbra, ma la voce non esce. Serra le palpebre e mente.

«Non lo so.»

Kakashi lo guarda e scuote la testa. Non lo sa nemmeno lui, che fine farà quel povero ragazzo.

~°~

«C’è un poliziotto con cui vado ogni notte. Vuole sapere il nome di chi gestisce questo posto per poterlo arrestare. Io lo so e voglio dirglielo.»

Non si ferma nemmeno una volta mentre parla. Zabuza sta fumando e forse non ha ascoltato neanche una parola, perché sta guardando fuori dal finestrino e dai suoi occhi chissà che cosa vede.

«Perché lo stai dicendo a me?» sbuffa fuori dalle labbra nicotina e rancore. E l’unica risposta che Suigetsu non si aspettava.

«Non voglio che ti arrestino.»

«Però sono uno di quelli che ti tengono qui. Non mi odi?»

Suigetsu ammutolisce. Tutto il suo coraggio è sparito nel giro di qualche frase e ora non sa più cosa fare delle informazioni che, ne era certo, all’uomo avrebbero fatto piacere. Non si era immaginato un grazie, ma nemmeno quell’ostilità latente.

«Vattene prima che arrivi la polizia.» risponde.

Zabuza se la prende comoda, finisce la sigaretta e l’uccide nel posacenere prima di riprendere la parola. Non sembra spaventato, o nervoso.

«Ora ti spiego quello che succederà.» dice. «Il tuo amico poliziotto aprirà un’inchiesta. Il fascicolo finirà sulla scrivania del suo capo, che avviserà Orochimaru. Entro ventiquattrore voi sarete tutti morti, noi senza lavoro e lui dall’altro capo del mondo a dare il via ad un altro giro di prostituzione. La polizia non si prenderà nemmeno il disturbo di fare irruzione, dato che quando avranno uno straccio di mandato ormai il capannone sarà già stato distrutto da un incendio.» non lo guarda negli occhi mentre parla. Sta ancora spingendo con forza il mozzicone contro la superficie di vetro, più e più volte, macchiandosi le dita di cenere pur di non affrontare il crollo di una speranza.

«Lui lo sa che il capo della polizia è corrotto.» mormora Suigetsu. «Nasconderà l’inchiesta.»

«È il suo superiore.»

«Lui mi salverà.»

Zabuza serra i denti. «Sarà lui ad ucciderti, se va avanti con questa storia.»

«Perché vuoi tenermi qui a tutti i costi?»

L’uomo si spinge sopra il tavolo e ormai il suo volto è a pochi centimetri di distanza da quello di Suigetsu.

«Lo sai, ragazzino» soffia contro le sue labbra. «cosa succede a una puttana che diventa troppo vecchia per battere?»

Non lo vuole sapere. Lo sa già.

«La costringono a fare il guardiano.»

Suigetsu rabbrividisce, ma non per il freddo. L’orrore gli disegna una smorfia sul viso e gli provoca un conato. Si volta dall’altra parte e vomita, sapendo che non guarderà più quell’uomo con gli stessi occhi di prima.

Stavolta Zabuza non gli tiene i capelli mentre rigetta tutto quello che non ha mangiato, forse perché una pallottola che gli perfora il fegato lo inchioda a terra. Il sangue che zampilla dalla ferita è l’unico suono che interrompe il silenzio dopo il fragore dello sparo. L’uomo muore senza nemmeno un gemito, ma il suo ultimo sguardo è per Suigetsu. Non sorride, né piange. Nel suo cuore non c’è rabbia o disperazione, solo tanti rimpianti.

Poteva salvarlo. Non l’ha fatto.

Suigetsu quasi non sente la mano che lo afferra per il collo e lo sbatte contro il muro, perché la chiazza rossa sotto l’uomo che per lui è diventato fonte di vita catalizza tutta la sua attenzione. Cerca gli occhi che, lo sa, non possono più ricambiare i suoi. Deglutisce per impedire a un nuovo conato di sconquassargli lo stomaco. La vista gli si appanna e tutto intorno a lui comincia a girare.

Kisame Hoshigaki lo sta tenendo appeso contro la parete del furgone e sta urlando. Suigetsu lo capisce dal furore che gli deforma il viso, ma non riesce a sentire nulla. Il sangue che goccia gli riempie le orecchie, lo assorda, gli ottenebra i sensi. Annaspa per cercare ossigeno che non gli servirà. C’è un solo nome che gli rimbomba nelle vene.

«Chi è?»

Suigetsu aggrotta le sopracciglia, non capisce, non è la sua lingua. Zabuza lo chiama senza voce ma lui non può aiutarlo. Non riesce più a respirare. Si morde la lingua e i denti affilati perforano fino a trovare il sangue.

«Dimmi chi è quel fottuto poliziotto!»

Allora Hoshigaki non è stupido. Ha capito che Momochi non sceglieva sempre lo stesso ragazzo perché gli piaceva come scopava. Ha capito che c’era qualcosa sotto. Ha capito che la puttana si è innamorata del carceriere.

Oh, dannata sindrome di Stoccolma. Suigetsu sta diventando blu.

Il guardiano urla ancora. Con la canna della pistola lo costringe ad aprire la bocca, gliela ficca in gola, continua a urlare, ma lui scuote la testa e chiude gli occhi. Non distingue se il sapore metallico che sente tra le labbra sia il sangue o l’arma. Distruzione.

Muore ancor prima di sentire lo sparo che gli smembra la vita.

Non è così che doveva andare. Il suo sogno era così giovane, troppo immaturo. Non era ancora giunto il momento del suo funerale.

Kakashi lo cercherà, non lo troverà più. Si chiederà cosa ne è stato di lui? Lo capirà? Magari si servirà di un altro ragazzo per far chiudere il giro di prostituzione. Magari sceglierà qualcun altro su cui riversare il suo amore da peccato.

Suigetsu muore lì e non ha cambiato il mondo. Si è prostituito per poi schiattare come il più schifoso dei criminali. Avrebbe dovuto farsi uccidere subito, Zabuza avrebbe dovuto lasciarlo morire. Prolungare l’agonia è tipico degli esseri umani; la speranza di un futuro migliore, la convinzione che qualcosa cambierà, cercare di credere che non sarà stato tutto inutile. Balle come quelle di Karin che non sarebbe morta. Juugo che blatera di amore e compassione . Zabuza che non lo ha preparato a morire, troppo ansioso di farlo vivere.

Niente di questo ha senso. Non se un ragazzo di appena diciotto anni viene assassinato su un furgone da quattro soldi, nella periferia di una metropoli che balla mentre lui muore. Non se un uomo appena più grande di lui sacrifica una vita che non vale niente per un’altra ancora più misera.

E i cattivi vincono. Ma è davvero una sorpresa?

Suigetsu riceve la sua risposta dalla pallottola che gli ha fatto saltare in aria il cervello.

No. Non lo è. E questa è la cosa peggiore, vero?

Ride, la stronza, mentre lo uccide.

 

 

Note burocratiche:

- “Who are you waiting for in the maze of emotions?” è la traduzione di “Deguchi mienai kanjoumeiro ni”, citazione tratta dalla canzone “Again” di Yui (nella versione usata per la prima opening di FullMetal Alchemist: Brotherhood).

Note dell’autrice:

Come sono cattiva u__u invece di accopparne solo uno stavolta li ho fatti fuori tutti e due. Lo ammetto, il mio OTP in questo caso è il KakaZabu, Suigetsu era solo un intruso xD Però niente, a me piace che muoiano (e muore anche Karin, godo!). Spero anche a voi, ma non sono molto fiduciosa x’’D

Insomma, TTMM ha visto la sua fine. Ormai sono troppo “fuori” da questo ciclo e non ci ritornerò più, non ha senso allungare il brodo, però mi rimarrà sempre particolarmente cara questa storia. Anche se schifo tutto sono affezionata ai miei adorabili sgorbietti <3

E non faccio nomi, ma QUALCUNO (_sweetygirl_ è__é) riconosca il fondamentale e irrinunciabile contributo di Sas’ke in questa storia. Nella mia testa gira sempre tutto intorno a lui XD

Come sempre, mi farebbe piacere ricevere il vostro parere (se volete, potete dire qualche parola in memoria dei fu Zabuza et Suigetsu u_u)

shirangel

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