Naruko

di afterhour
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bello come la luna ***
Capitolo 2: *** Una rompicoglioni ***
Capitolo 3: *** Per sempre ***



Capitolo 1
*** Bello come la luna ***


A volte succedono cose strane.
Ero lì che stavo scrivendo la lemon Sasusaku, e all’improvviso mi è saltata in mente questa cosa.
 Ovviamente l’ho ignorata, non mi interessava, ma quella continuava a ronzarmi in testa, non riuscivo a liberarmene, e alla fine mi sono dovuta arrendere ed ho dovuto buttarla giù.

Non sapendo come classificarla l’ho messa come NaruSasu, anche se non si tratta di Naruto ma del suo alter ego femmina, Naruko, appunto (avete presente il sexy no jutsu?).
Quindi non è yaoi.

Non so assolutamente se possa interessare, ecco…ma se qualcuno si divertisse a leggerla anche solo un pochino sarei contenta.
Sono tre capitoli in tutto e dovrei farli uscire settimanalmente.

Il rating è dovuto più che altro alla boccaccia della nostra donzella.




NARUKO

Bello come la luna




- Cazzo hai da guardare, coglione! –

Naruko fece un gestaccio a quell’idiota e riprese a sfregarsi i palmi delle mani sulle cosce ricoperte da collant neri a pallini arancioni (una chicca). Faceva un freddo boia lì fuori a quell’ora, ma non era un buon motivo per non indossare una mini minigonna e non tenere il giubbotto arancione aperto sul seno abbondante (tutto suo, mica quella roba finta), messo in evidenza dalla maglia attillata.
E che qualcuno provasse a toccarla, lo stendeva con un cazzotto.

Se ne stava seduta sulla panchina, o meglio, sopra la panchina, i piedi dove ci si sedeva e il culo sulla spalliera, ed aspettava il bus, come ogni mattina.
No, non per prenderlo, lei aveva la sua macchina, grazie, parcheggiata come ogni volta lì vicino.
Era lì per lui.

E quasi lo avesse evocato lo vide apparire dalla stradina accanto e camminare fino alla fermata.
 Eccolo lì, bello come il sole, o forse la luna, con quegli occhi neri e quei capelli ancor più neri che contrastavano con il viso pallido, nonché quell’aria sicura e indifferente.
Era uno stronzetto, lo sapeva, ma non importava, le piaceva lo stesso.

 - Ehi bello, vieni a farti un giro? –

Lui si voltò appena e le rivolse uno sguardo di sufficienza prima di salire sul bus senza neppure rispondere.
Stronzetto, appunto.

Ma non poteva farci niente: Uzumaki Naruko era in love.

1.


Era passato un mese dalla prima volta in cui l’aveva visto.
Stava portando in officina la macchina di un cliente quando questa bastarda si era fermata in mezzo alla strada, e dato che non ne voleva sapere di ripartire e suo zio non rispondeva al telefono, aveva dovuto cercarsi la fermata del bus più vicina (ovvero quella accanto alla stazione ferroviaria) ed aspettare.
E poi, all’improvviso, era apparso lui.

Naruko era rimasta a guardarlo a bocca aperta, incantata, mentre lui arrivava alla fermata e prendeva il bus, e non aveva avuto nemmeno un dubbio, sin dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su quella creatura celeste ed aveva pensato: io questo qui me lo sposo.

Si dava il caso che era una specie di cosa di famiglia quella, sua madre si era innamorata a prima vista di suo padre, sua nonna uguale, e così via, su su lungo il ramo genealogico materno, e così lei sapeva che non si trattava di un capriccio, che lui era davvero l’uomo della sua vita.
Infatti quel giorno stesso, quando era tornata a casa, aveva scaricato Kiba, il suo ragazzo, ex ragazzo per l’esattezza, inutile perdere tempo con ripieghi o seconde scelte, lei era una tipa fedele e decisamente monogama.

Il mattino dopo era di nuovo lì, e non appena lo vide gli si avvicinò e gli porse la mano, decisa a non perdere tempo e presentarsi.
Il bastardo aveva ignorato la sua mano tesa ed aveva tirato fuori la tessera dell’abbonamento del bus prima di aggirarla e salirci sopra.
Bastardo.
Aveva giusto fatto in tempo a sbirciare il nome, Sasuke ( se lo era ripetuto duecentomila volte da allora).

Mica si era arresa, non si arrendeva facilmente, non si arrendeva mai, e il mattino seguente era salita in bus con lui, decisa a sederglisi accanto e parlargli, ma l’autista, bastardo anche quello, l’aveva cacciata fuori prima che potesse fare la sua mossa, come faceva a sapere che non aveva il biglietto?
Il giorno dopo era lì con il suo bel biglietto in mano, solo che lui non si era presentato (poi avrebbe scoperto che lui non si presentava mai il venerdì mattina), e infine erano arrivati il sabato e la domenica più lunghi e inutili nella storia dei sabati e delle domeniche, spesi ad aspettare ansiosamente il lunedì.

Nonostante l’interminabile agonia che pareva non finire mai, l’atteso lunedì ad un certo punto era arrivato, però lei nel frattempo aveva cambiato totalmente tattica, tutto perché domenica, presa da un attacco di frenesia improvvisa, aveva avuto la balzana idea di chiamare sua cugina Karin per chiederle consiglio, e quella le aveva proibito di parlargli, seguirlo o simili e le aveva ordinato di farsi vedere lì per caso per almeno un paio di mesi, senza approcciarlo o degnarlo di uno sguardo, fino a quando lui non si fosse abituato alla sua presenza, e solo allora fare la sua mossa.
A pensarci ora si trattava evidentemente di un consiglio idiota, dato che doveva farsi conoscere se voleva conquistarlo, ma al momento le era parso logico, forse perché, lo ammetteva, lei non era esattamente abituata a tipetti come lui, con la puzza sotto il naso, e non era sicurissima di sapere qual era il modo giusto per abbordarlo.
Così si era fidata di Karin e si era limitata a guardarlo in adorazione (e con la bava alla bocca) per una settimana, e a lanciargli qualche fischio o buttare lì qualche apprezzamento per il mese successivo, quando non ce la faceva più.
Non vedeva l’ora di mettergli le mani addosso, perché, diciamocelo, quello era Amore e tutto quanto, per cui l’aspetto fisico c’entrava solo in parte, ma era un così gran pezzo di gnocco.

Mentre lo guardava salire sul bus senza cagarla di striscio, capì che era ora di tornare ai buoni, vecchi sistemi, era stufa di aspettare, il metodo di sua cugina faceva cagare e a questo punto doveva ricorrere a rimedi un po’ più estremi, come salire in bus e attaccare bottone direttamente, e guarda caso il biglietto non usato era ancora lì, a scaldarle il culo dentro la tasca.
 
Domani salgo su, si disse convinta, nel frattempo si stiracchiò e scese dalla panchina, il lavoro all’officina l’attendeva, lei non era mica come quei ricchetti che cazzeggiavano all’università, lei doveva lavorare e guadagnarsi il pane.

 - Ti piace Sasuke Uchiha? – sentì una voce dietro di lei.

Si voltò e notò solo allora un tizio con l’aria mezzo addormentata ed i capelli raccolti in una coda alta, appoggiato alla pensilina.
Non lo aveva mai visto prima ma per quel che sapeva poteva essere stato lì ogni mattina ed esserle sfuggito, lei aveva occhi solo per il bastardo.

 - Sì, e allora? – gli fece con aria di sfida, e dato che quello aveva chiuso gli occhi e si era messo ad ignorarla gli si avvicinò con fare minaccioso.

 - Ehi, dico a te, come hai detto che si chiama di cognome? –

L’altro aveva aperto un occhio e l’aveva fissata un momento.

 - Ti rendi conto che piace a molte ragazze? – sentenziò invece di rispondere.

 - Embè? E a me che me ne frega?–

 - Credi di essere il suo tipo? –

 - E perché? Cos’ho che non va? Ho tutte le mie cosette a posto! –

Quello aveva chiuso ancora gli occhi ed aveva ripreso ad ignorarla, non prima di avere borbottato qualcosa su una seccatura, o simili.
Va bene, a mali estremi estremi rimedi, in guerra e in amore era tutto permesso ecc…ecc… non intendeva farsi sfuggire neppure la più piccola opportunità e questo tizio poteva rivelarsi utile: era giunto il momento di usare l’astuzia, che non si dicesse in giro che Uzumaki Naruko era un’idiota (alle superiori se l’era sentito ripetere abbastanza, e se non fosse stato che aveva una personalità forte forse l’avrebbero anche convinta, i bastardi).

 - Hai bisogno di un passaggio bello? Sono in macchina – gli fece melliflua.

 - E in cambio vuoi informazioni su di lui? –

 - Esatto! –

  - Affare fatto – acconsentì il tipo e lei si sfregò le mani, soddisfatta.

Il tizio doveva andare lontano e lei sarebbe arrivata in ritardo al lavoro, ma avrebbe recuperato in pausa pranzo e ne valeva assolutamente la pena, e così si diressero insieme alla macchina parcheggiata lì vicino.

 - Arancione? – domandò scettico quello mentre saliva sul suo gioiellino, una
Mini Cooper cui aveva truccato il motore.

 - Sì, bella eh?!-

 - Di sicuro quando c'è nebbia si nota – fu l’unico commento.

Ma a lei francamente non fregava niente di quello che pensava il tipo della sua macchina. Piaceva a lei, e non doveva piacere a nessun altro, anche se non le sarebbe dispiaciuto scorrazzarsi in giro il suo bel Sasuke, in futuro.

 - Allora, dimmi tutto quello che sai, cognome?- attaccò subito, non era lì per perdere tempo.

 - Uchiha -

Uchiha, Sasuke Uchiha, Naruko Uchiha. Ottimo.

 - Vive da solo o con i suoi? –

 - Da solo. E’ orfano –

Anche lei era orfana, i suoi erano morti in un incidente d’auto quando era piccola, era cresciuta con gli zii, la sorella maggiore di suo padre e il marito, e se non era un segno del destino questo, non sapeva cosa potesse esserlo.
Erano proprio anime gemelle loro due.
Non preoccuparti piccolo, costruiremo la nostra famiglia e ti scalderò io quel cuore solitario.

 - Incidente? – domandò curiosa.

 - No, li ha fatti fuori il fratello maggiore, in un raptus…è pazzo, sente delle voci…lui era presente, era un bambino, dicono che sia rimasto in stato catatonico per diverso tempo dopo –

Cazzo…le scesero un paio di lacrime (aveva la lacrima facile), fortuna che quel poveraccio non aveva ucciso anche lui, o non avrebbe mai conosciuto l’uomo della sua vita, e questo non glielo avrebbe mai potuto perdonare, pazzia o non pazzia.
Comunque, come sospettava, il suo futuro marito aveva proprio bisogno di lei.
Non preoccuparti piccolo, ci sono io.
Ma era inutile fare le sentimentali, lo avrebbe consolato quando fosse giunto il momento, ora aveva bisogno di informazioni utili.

 - Dove va con quel bus? – domandò dopo essersi soffiata rumorosamente il naso.

 - In facoltà, fa ingegneria –

 - Perfetto… il mio uomo non deve essere solo bello, lo voglio anche intelligente -

 - Per compensare? –

  - Cazzo dici coglione! Solo perché la scuola mi faceva schifo non significa che sono stupida! Sveglia! – gli urlò poco dopo perché pareva addormentato – dimmi le cose più importanti che siamo quasi arrivati! Quando finisce, dove mangia, dove va in giro dopo la scuola, dove è casa sua…-

Alla fine era riuscita a cavargli fuori qualcosa di interessante, prima di scaricarlo a destinazione: Sasuke Uchiha dopo aver mangiato (non si sapeva dove) andava in biblioteca (quella comunale vicino alla facoltà, che non sapeva dove fosse non avendoci mai messo piede) e vi rimaneva fino a sera, dopodiché andava in palestra (bene, le piaceva che il suo uomo si tenesse in forma) e tornava a casa tardi, in un paesucolo lì vicino in cui abitava anche il tizio, Shikamaru (per quello sapeva tutte queste cose).

Era arrivata in officina in ritardo (lei faceva il meccanico nell’officina di suo zio, ed era piuttosto brava modestamente) e Jiraya le aveva fatto una delle sue memorabili cazziate, per cui era stata costretta a fottersi metà pausa pranzo per recuperare.

Alle due, dopo essersi sistemata i capelli e la faccia, se ne uscì diretta alla biblioteca (non sapeva perché cazzo lo zio la guardasse sospettoso, non poteva andare in biblioteca? Non ne aveva il diritto, non era una cittadina anche lei? Non poteva avere voglia di leggere un libro? ), con un hamburger in mano, lo avrebbe mangiato lì.

Essendo la prima volta che ci entrava fu richiamata più volte (non si poteva entrare con la borsa e non si poteva neppure mangiare in sala, il che era davvero stupido! In pratica non si poteva fare niente!) prima di riuscire a mettere piede in sala studio, munita di due numeri del suo manga preferito, carta e penna, il cellulare e il portafogli in tasca.
Le ci volle parecchio per trovarlo, non pensava che quel posto fosse così grande, ma alla fine riuscì a beccarlo: se ne stava seduto da solo in un tavolino un po’ defilato, più piccolo degli altri, e l’unica sedia libera (nell’altra c’era lui) era occupata da una pila di libri.
Rimase per qualche istante a guardarselo abbagliata.
Ovviamente sapeva che era alto e bello e tutto quanto, ma era la prima volta che lo vedeva senza cappotto e poteva ammirarlo in tutto il suo splendore.
Aveva una felpa nera abbastanza aderente, senza cappuccio né cerniera, e una delle maniche, quella del braccio con cui si reggeva la testa, era tirata su fino al gomito.
Era un braccio perfetto.
Davvero.
Avrebbe potuto innamorarsi di quel braccio, avrebbe potuto rimanere a guardarlo per ore e non stancarsi mai.

Ancor più determinata, se possibile, si diresse dalla sua parte e senza chiedere il permesso che già sapeva non avrebbe ottenuto, spostò i libri per terra e si piazzò sulla sedia.

 - Cosa fai? – le chiese seccato lui.

Era la prima volta che sentiva la sua voce e ecco…ecco…anche la voce era perfetta, quasi si commuoveva, e pensare che quella creatura perfetta era sua! Se non era fortuna questa!

 - Mi siedo! – esclamò tutta allegra.

Lui la guardava ora, ma proprio proprio la guardava, quegli occhioni scuri guardavano proprio lei, e la vedevano perfino.
Si sentiva rimescolare tutta.

Udì appena gli shhhh! indignati dei vicini e notò solo di sfuggita un paio di ragazze che tentavano di ucciderla con lo sguardo.

 - E’ occupato – le replicò secco, con quella sua bella voce sensuale, avrebbe potuto ascoltarlo per ore.

 - Ah sì? Be’, tanto rimango poco – minimizzò lei per nulla impressionata, e avrebbe voluto continuare a fissarlo estasiata, ma aveva ancora in testa i suggerimenti di sua cugina, e decise di mettersi a leggere i suoi manga e fare la preziosa.
Con la coda dell’occhio notò che lui alzava le spalle e riprendeva a studiare.
Di contro fece finta di leggere e continuò a sbirciarselo per tutto il tempo.

 - Cosa studi? –  gli chiese solo ad un certo punto.

 - Sssh! –

Ma quanto rompevano lì!

 - Cosa studi? – riprovò con un tono di voce più basso.

Nessuna risposta.

 - Io sto leggendo un manga molto interessante, ma potrei studiare qualcosa anche io dato che ci sono…sai dove ci sono libri di meccanica? – gli fece per darsi un tono.

Nessuna risposta.

Bastardo.

 - Faccio la meccanica – continuò – la meccanica donna, figo no?! –

Niente.

 - Mi piacerebbe tanto vederti sorridere – sospirò.

A quel punto almeno lui aveva alzato lo sguardo un attimo prima di riprendere a leggere.
E va bene, era un osso duro.
Si passò il resto del tempo a sbirciarlo di nascosto, ignorando i morsi della fame (aveva dovuto lasciare in borsa il suo hamburger) e tenendo a freno la voglia di farlo reagire, non era stupida e capiva che qui c’era bisogno di una strategia.
Prima di alzarsi gli scrisse un bigliettino e glielo lanciò sul libro aperto, poi si allontanò ticchettando sul tacco medio (più alto non sapeva usarlo) degli stivaletti alla caviglia, non prima di avergli rimesso a posto i libri sulla sedia, che qualche oca non pensasse di sedersi lì e provarci con il suo uomo.
Ignorò i soliti shhh!, neanche camminare si poteva, lì.

Uscì a stomaco vuoto, si mangiò l’hamburger freddo in macchina, e tornò al lavoro piuttosto soddisfatta, sul bigliettino aveva messo il suo numero di cellulare da una parte, nell’altra aveva scritto: “Sei bello come la luna, e i tuoi occhi sono il buio della notte”.
Modestamente.
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Ed ecco qua il primo capitolo: riuscirà la nostra eroina a conquistare il suo principe azzurro?

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Capitolo 2
*** Una rompicoglioni ***


Eccomi ancora qua con questa coppia improbabile!
Questo è un capitolo di transizione ed è visto dalla parte di Sasuke, per cui non è molto allegro.
Il prossimo, e ultimo, è lunghissimo (sono ancora indecisa se dividerlo in due o meno) ed è ancora dalla parte di lei…eh eh.




Una rompicoglioni


Sasuke pensava che la sua vita si spandesse a cerchi concentrici invece di seguire una linea immaginaria, come se dal punto in cui i suoi erano morti, lui guardasse all’indietro e non proseguisse più in avanti, e come se da quel punto stesso scaturisse un’onda nera che ricopriva il futuro, ma anche il passato, quello di una famiglia perfetta che non era mai esistita, intenta com’era a nascondere la vergognosa verità di un figlio affetto da malattia mentale.

Un altro punto fermo, da cui partiva un altro cerchio, era il giorno in cui suo fratello era uscito dal manicomio criminale (un luogo orribile) ed era stato internato in una casa di cura non troppo lontana da lì: attorno a quel punto lui aveva programmato la sua vita, come attorno al venerdì si raccoglieva la sua settimana.
Anche la facoltà l’aveva scelta in base a questo, ingegneria non gli piaceva particolarmente ma i soldi dei suoi non sarebbero durati all’infinito, e un giorno (il prima possibile) lui avrebbe dovuto guadagnare abbastanza per permettere ad Itachi di vivere in un buon istituto.

Sasuke amava suo fratello, lo amava perché era l’unica famiglia che aveva, e perché sapeva che non era in sé quando aveva ucciso i suoi, e che spesso, quando era cosciente, soffriva orribilmente, divorato dai rimorsi.
Eppure, anche, lo odiava, lo odiava perché aveva ucciso la mamma e il papà, perché lui aveva assistito a quel momento, aveva visto tutto quel sangue, lo aveva pregato terrorizzato di fermarsi, e lo odiava perché lo teneva legato a quel punto in eterno. Perché era la sua famiglia ma anche la sua catena: sapeva di doversi occupare di lui per sempre.

Itachi… a volte stava bene, a volte male, a volte era lucido, sereno, a volte era delirante e distantissimo, mentre altre volte i farmaci lo tenevano in uno stato semicosciente.
Lo vedeva ogni venerdì, e lo sentiva spesso.
Suo fratello lo chiamava col cellulare che gli aveva regalato anni prima per il compleanno, di solito quando era agitato, o stava male, e non avendo alcun senso della misura lo chiamava anche di notte se ne sentiva il bisogno, anche dieci volte in mezz’ora.
Sasuke rispondeva quando poteva, a volte non rispondeva per ore, troppo stanco, e a volte spegneva il cellulare, anche se si sentiva in colpa (si era imposto di spegnere il cellulare ogni volta che entrava in biblioteca, era il suo angolo di pace).

La sua vita era quella: lezioni, studio, biblioteca e poi palestra, fino a venerdì, il punto centrale.
Era cosciente di organizzarla in uno schema fisso, costante, grigio, come se in quel modo potesse controllarla, come se in quel modo fosse possibile controllare gli scoppi di follia, gli schizzi rossi di sangue, i sussulti di emozione, il trillo estenuante del telefono.  
Ma stava bene così, non amava gli imprevisti, il rumore, e non credeva nell’amicizia, tanto meno nell’amore.
Non si fidava di nessuno, non ci riusciva più.

2.


Era lunedì, e non appena arrivato in biblioteca appoggiò una pila di libri sopra la sedia che non usava, non che servisse a molto: ‘quella’ si presentava ogni giorno, toglieva i libri senza chiedere e si sedeva tranquilla accanto a lui.

Non sapeva come avesse fatto a trovarlo, forse lo aveva semplicemente pedinato, non ne sarebbe stato sorpreso, era da un po’ che lo importunava.
Era una rompicoglioni.
E una rompicoglioni estremamente insistente considerato che era sempre lì.
Una ragazza normale dopo un po’ si stancava di essere ignorata e passava ad altri, ma quella non sembrava per niente scoraggiata (non era a posto, doveva essere matta, o ritardata), ed ora minacciava di rovinargli quell’angolino di pace che si era ritagliato, cui teneva particolarmente, e in più con quella sua invadenza rischiava di creare un precedente.
Naturalmente aveva spesso considerato l’idea di cambiare posto, ma sapeva che non sarebbe servito a niente, che quella lo avrebbe seguito, e almeno finché rimaneva lì per poco e non lo disturbava più di tanto, era meglio provare con la solita tattica ed ignorarla, semplicemente… per quanto fosse ottusa prima o poi avrebbe capito l’antifona.

  - Eccomi qua – gli fece quel giorno tutta allegra mentre appoggiava dei libri sull’angolo del tavolo – ho anch’io un sacco di roba da studiare oggi – spiegò indicandoli.

Come no.
Già gli pareva strano che sapesse leggere e scrivere.
La guardò liberare la sedia e piazzarsi seduta di fronte a lui, spudorata come sempre (e il fatto che non fosse in grado di vestirsi con un minimo di gusto non l’aiutava).

 - Oggi sono felice – gli spiegò mentre sfogliava uno dei libri senza neppure far finta di leggerlo – a dire la verità sono spesso felice, cerco di godermi la vita –
Lo sbirciò prima di aggiungere:
 – Non è che mi sia andato sempre tutto rose e fiori, ma sono una lottatrice – e poi – sono orfana da tempo, come te –

Lui non aveva detto niente, non aveva alzato lo sguardo, aveva solo aggrottato la fronte, infastidito, considerando freddamente che se attaccava con quegli argomenti lo costringeva ad andarsene e cambiare biblioteca, cosa che preferiva evitare.

 - So che fa male parlarne, ma andava detta – pareva avergli letto nel pensiero quella.

 - Stai zitta – le sibilò, seccato per averle anche solo replicato.

Non era poi così facile ignorarla, in più non si offendeva mai, anzi, le rare volte in cui lui apriva la bocca, e non certo con garbo e gentilezza, lo guardava estasiata, facendolo innervosire ancora di più.

Almeno dopo non aveva più parlato… e quasi, quando taceva, anche se continuava a sbirciarlo non molto discretamente, poteva tollerarla, bastava non guardarla, perché tutto quell’arancione gli faceva male agli occhi.

Anche quella volta, prima di andarsene, gli lasciò uno di quei bigliettini che si ostinava a scrivergli.
Lo lesse in fretta prima di accartocciarlo e buttarlo, suo malgrado curioso: se non altro quella aveva fegato, non si poteva negare, ed era davvero una lottatrice, doveva dargliene atto.
 Questa volta non era neanche così orrendo, stava migliorando:
lasciatemi sulla tua bocca e sulla sabbia essere felice,
essere felice perché sì,
perché respiro e perché respiri

Le corrispondeva in fondo, non aveva mai conosciuto una persona così sfacciatamente allegra e di buon umore, sempre.
Il giorno dopo sarebbe andato a trovare suo fratello in clinica, e avrebbe avuto proprio bisogno di un po’ di allegria.
Come no.
 
Dopo essere stato in palestra (aveva bisogno di scaricare la tensione) tornò a casa con l’ultimo treno, come sempre, ed entrò nella sua casa vuota giusto in tempo per andare a dormire, come sempre.
Il giorno dopo andava a trovare suo fratello, ed iniziava tutto di nuovo.
__

I giorni passavano, concentrici, avvolti attorno al venerdì.

Prima di lunedì di solito aveva completamente rimosso l’esistenza di quella tizia svitata, ma per qualche strano motivo man mano che il tempo passava non gli dava più così fastidio vederla arrivare, era volgare, stupida e rompicoglioni, eppure non lo disturbava più di tanto: se riusciva a non aprire troppo quella boccaccia poteva anche arrivare ad abituarsi alla sua presenza, nonostante continuasse a sbirciarlo, sempre senza discrezione.

Un paio di settimane più tardi erano ancora lì, e ormai era davvero, quasi, un’abitudine.
Non aveva mai conosciuto una donna così tenace e così incapace di accettare un rifiuto, e normalmente diventava estremamente intollerante con quel tipo di persone, ma lei, a differenza delle altre, era incredibilmente semplice, ingenua, e a suo modo innocente, e questo la rendeva se non altro innocua: non era qualcuno da cui doveva guardarsi le spalle perché tentava di fregarlo con qualche sotterfugio, o da temere perché si nascondeva dietro a maschere, a parole finte, o atteggiamenti fasulli, era tutta lì, limpida e trasparente, e in un certo senso la sua gioia di vivere si spandeva attorno a lei, lucente come i suoi capelli troppo biondi ed i suoi occhi troppo azzurri.
Per quanto potesse sembrare paradossale era in qualche modo riposante avere a che fare con lei, come una giornata di sole abbagliante dopo tanta pioggia.

In fondo bastava solo portare pazienza, prima o poi se ne sarebbe andata.

- Oggi c’è il sole, e sono felice – lo salutò quel giorno.

- Oggi piove, e sono felice perché la pioggia mi pulisce la macchina – gli aveva detto una volta.
O anche:
 - Oggi è nuvoloso, ma io sono felice lo stesso, perché posso vedere te –

I suoi tentativi di conquista erano abbastanza patetici, quasi quanto la sua camminata sui tacchi alti o i suoi accessori di cattivo gusto.

 - Acc… - gli fece poco dopo (per nulla imbarazzata dal fatto che il suo stomaco si fosse rumorosamente fatto sentire) – devo mettere qualcosa sotto i denti, o crepo –

Era sboccata, stupida, e volgare.
E a suo modo metodica.

Non poteva parlare molto, in biblioteca, ma per un quarto d’ora circa gli buttava là diverse frasi, ed ogni volta gli accennava ad alcune cose di sé.
Ad esempio un lunedì gli aveva spiegato che non aveva molte amiche, perché le altre donne la trovavano invadente e rompiscatole (chissà perché, eh?), e che un tempo si era sentita molto sola, ad esempio a scuola, un posto che aveva odiato, in cui si era ritrovata totalmente emarginata.
Un’altra volta gli aveva raccontato del suo primo ragazzo, aveva quindici anni, quando, sue parole testuali, era così stupida che pensava che per farsi amare bisognava farsi toccare le tette. Poi era cresciuta ed aveva iniziato a mollare schiaffoni, ma non doveva preoccuparsi, a lui non ne avrebbe mai tirati (e gli avrebbe anche lasciato toccarle le tette, supponeva, che non erano neppure male, forse un po’ eccessive, come tutto in lei).

Infine, il giorno dopo, aveva asserito convinta che per come era lui, uno così chiuso in se stesso, era probabile che non avesse mai avuto una ragazza, non che fosse un problema per lei, per niente, gli avrebbe spiegato lei come fare, e se doveva dirla tutta le andava benone dato che era gelosa, ed anzi un po’ le dispiaceva di non averlo aspettato anche lei, aveva proprio sprecato il suo corpo con gentaglia.

Nonostante l’immensa stupidità del discorso si ritrovò a trattenere un sorriso, e subito si bloccò, per un momento incredulo.
Era da una vita che non sorrideva, che non provava nemmeno l’impulso di farlo, ed era illogico questo, come se i sorrisi, l’allegria, la felicità, potessero essere contagiosi.
Sciocchezze.

Ma intanto, con queste frasi risibili, che comunque non riusciva a non ascoltare, se ne volavano via le settimane, e arrivava il venerdì, e c’era la visita a suo fratello.

Il lunedì ritornava come una valanga di colori, e frasi sussurrate, anche se ogni tanto lei si dimenticava di parlare piano e qualcuno intorno la zittiva con rabbia.

Ogni volta se ne andava per prima (al lavoro supponeva, se la immaginava con una chiave inglese in mano, in tuta da meccanico) e gli lasciava un bigliettino accartocciato con il suo numero da una parte, ed una frase dall’altra.
Dopo la prima frasetta orrenda era migliorata parecchio, forse troppo, e presto aveva annusato puzza di bruciato.
Aveva fatto finta di niente fino a quando un giorno non gli era venuta la curiosità di controllare: era bastato digitare qualche parola su google per scoprire che si trattava di versi tratti da poesie di Neruda.
L’idea che spacciasse versi celebri per suoi (anche se non lo aveva dichiarato esplicitamente lo aveva fatto intendere), era così ridicola che non aveva potuto non sorridere di fronte al computer.
Ed era la prima volta che sorrideva dopo anni.

Eppure ormai gli capitava spesso di trattenere il sorriso.
Un giorno ad esempio gli aveva raccontato che nonostante i suoi fossero morti in un incidente stradale a lei piaceva guidare, tantissimo.

 - Una volta ti porto al mare, è bello d’inverno, ti piacerebbe – gli aveva detto.

Ed era strano perché era vero, a lui piaceva molto il mare d’inverno, gli era sempre piaciuto.

 - O se preferisci andiamo a fare un giro senza meta, così, allo sbaraglio – aveva rettificato il giorno dopo.

Ed anche quest’idea non gli dispiaceva anche se sapeva che era irrealizzabile: partire, andarsene via, lasciarsi il passato, tutto, alle spalle.

 - O rimaniamo in città, ci giriamo tutte le bettole e poi votiamo la peggiore, ti divertiresti, e magari sorrideresti una volta –

Questo no, grazie, ma ancora una volta trattenne a stento il sorriso.

A volte invece lo irritava terribilmente.
Come quella volta in cui gli aveva domandato cosa faceva il venerdì: non le aveva risposto, non l’aveva neppure guardata (ogni tanto la guardava).
Il giorno successivo gli aveva chiesto brutalmente se andava a trovare suo fratello.
Sasuke non aveva alzato gli occhi ma aveva stretto appena la dita che reggevano il libro, chiedendosi come lo aveva saputo, o per quale caso era riuscita ad immaginarlo.
La volta dopo gli aveva detto che ci aveva pensato molto, e che suo fratello non aveva colpa e faceva bene ad andare a trovarlo, anche se doveva essere dura.
Ed era così banale come frase da essere più che irritante, quasi crudele, eppure era così banalmente vera che l’aveva fissata sorpreso per alcuni secondi.

 - Un giorno mi piacerebbe accompagnarti – gli mormorò prima di riprendere a far finta di leggere.

E chissà come sarebbe stato entrare in quel luogo grigio, in quel mondo grigio, con una persona che era tutto un colore.

Intanto altri giorni erano passati, erano diventati mesi, e senza neppure accorgersene aveva iniziato a rispondere alle sue domande meno stupide, senza sforzarsi molto.

In qualche modo quella tizia sguaiata ed invadente era riuscita a stabilire un contatto, e non riusciva a dispiacersi per questo, non troppo almeno, perché forse davvero l’allegria era contagiosa, ed era come se qualcosa di tutta quella gioia di vivere, una minuscola parte, impalpabile, quasi impercettibile, rimanesse appiccicata sulla pelle.

- Adesso che arrivano le belle giornate dobbiamo proprio partire all’avventura – gli ripeteva ogni tanto – io e te, da soli, liberi e felici, e in culo tutto il mondo –

Libero, felice…come se potesse essere così semplice.

Era tanto che non si permetteva più di sognare, come era tanto che non sorrideva più, e in fondo non credeva che quel gioco potesse durare ancora a lungo: per quanto ottusa, un giorno si sarebbe accorta anche lei che loro due non avevano niente in comune, come due linee parallele destinate a non potersi incontrare mai, ed avrebbe smesso di imporgli la sua presenza.
E chissà, forse quello sarebbe diventato un altro piccolo punto della sua vita cui guardare all’indietro.

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Questo Sasuke freddo, triste e quasi rassegnato, mi serviva per esigenze di copione, ma non mi pare troppo ooc, in caso ditemelo.
E’ da un po’ che sto accarezzando l’idea di scrivere una storia con Itachi vivo ed affetto da malattia mentale, anzi, avevo anche scritta una shot, con un Sasuke più grandicello che mi piaceva molto, ma non mi piaceva per niente come avevo reso Sakura, e l’ho scartata. Però l’idea di base continua a rimanermi in testa, per cui prima o poi la svilupperò.
 

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Capitolo 3
*** Per sempre ***


Siccome sono molto pigra ho deciso di non dividere in due il capitolo, sperando che non sia troppo lungo, per cui ecco qui l’ultima parte: la ‘tenacia’ (chiamiamola così) della nostra eroina sarà sufficiente a sciogliere il cuore di ghiaccio del nostro eroe?



Per sempre.



Uzumaki Naruko era una persona che tentava di godersi la vita e cogliere l’attimo, allegra di natura, ma questo non significava che fosse stata sempre felice e beata, anzi, la vita era stata dura con lei, a tratti infame, e non si era mai sentita una privilegiata, o semplicemente fortunata.
Era andata avanti comunque, decisa a non lasciarsi abbattere e a continuare a provarci, tutto qui.
Ma ora…ora…dava alla testa sentirsi così, tipo la più fortunata e felice del mondo.

Perché Naruko era felice, ma veramente felice, toccava il cielo con un dito per la prima volta in vita sua, ed ora che era arrivata fin lì, che aveva provato quell’ebrezza, non voleva più farne a meno.
Avrebbe lottato per tenersi stretta quella felicità, con le unghie e con i denti, perché l’amore era la cosa più bella del mondo, ed era assurdo quanto bastasse un niente: il fatto di poterselo guardare da vicino era sufficiente per farla felice.

Nel frattempo di notte non riusciva a dormire, e spesso messaggiava come una pazza con sua cugina, anche se quella disgraziata per lo più le lanciava insulti, ma doveva pur dirlo a qualcuno quanto era felice, e Karin era l’unica donna con cui poteva parlare a parte la zia Tsunade, che però era troppo vecchia.

Aveva anche dovuto procurarsi un libro di poesie, la sua vena artistica si era esaurita con quella prima, bellissima frase sulla luna e il buio, così una volta aveva chiesto per delle poesie d’amore alla bibliotecaria, una tipa che aveva proprio la faccia da bibliotecaria, se esisteva una faccia così, una faccia di una che si credeva di sapere più di te (che ci voleva, era il suo lavoro saperne di libri!).
Aveva ignorato magnanimamente l’aria di sufficienza (l’idea che presto lo avrebbe rivisto la rendeva buona) e la sera stessa si era sfogliata il libro: lui non doveva mica saperlo, poteva continuare a pensare che fosse tutta farina del suo sacco.
Eh!

Le veniva da ridere da sola all’idea.

Le veniva da ridere sempre, troppo felice, troppo, e le settimane passavano in un soffio, così veloci, per poi fermarsi di colpo: il venerdì lui andava non si sapeva dove, ed il fine settimana era sempre lunghissimo e terrificante, speso a messaggiare con sua cugina Karin, a fare strategie, a leggersi poesie di quel tale, Neruda, che non era mica male.
Se ne stava chiusa in casa, non le interessava nient’altro (a volte lavorava in officina anche la domenica, per prendersi avanti e per mettersi via soldi, perché la vita costava e dato che lui studiava doveva pensarci lei).

E finalmente arrivava il lunedì, e lo vedeva, e faceva finta di leggere mentre in realtà se lo rimirava ben bene.
Era…bello.
E intelligente, e aveva classe, e non era così stronzetto come faceva credere.
Era stata così fortunata ad averlo beccato quella volta alla fermata del bus (se pensava che avrebbe potuto non incontrarlo mai si sentiva male), ed era stata una bella fortuna anche per lui, o chissà che vita triste e sola si passava, quello, senza di lei!


3.



Tra loro adesso andava benone, davvero, ogni tanto lui rispondeva, con un sì o un no di solito, ma le bastava , come le bastava l’aria rilassata che aveva con lei, e lo sguardo quasi divertito che le lanciava a volte.
Insomma, sapeva di avere fatto progressi, però era stato un giorno preciso quello in cui si era accorta che ce l’aveva fatta (non che ne avesse mai dubitato).

 - Ti piacciono le bionde? – gli aveva chiesto.

 - No –

Stronzetto.

 - E ti piace almeno l’arancione? –

 - Mi fa schifo –

Bastardo.

Il giorno successivo si era presentata in biblioteca vestita di arancione dalla testa ai piedi, baschetto compreso.
Lui aveva sollevato il capo un momento quando si era seduta, per abbassarlo subito dopo, e mentre lo guardava era sicura, aveva notato…sì, un lato delle sue labbra (belle labbra ben disegnate che voleva baciare quanto prima) si era sollevato appena, come in una specie di sorriso.

 - Vedo che a te piace proprio – le fece con quella voce profonda che la faceva impazzire.

Era la prima volta che le rivolgeva la parola senza essere interpellato, e sembrava… contento.
Sorrise soddisfatta perché le aveva parlato per primo, perché aveva scoperto che Sasuke Uchiha apprezzava che lei mantenesse le proprie idee (cioè, i propri colori, che era lo stesso più o meno), e soprattutto perché quasi, quasi, le aveva sorriso a sua volta, lui che non sorrideva mai.
Un suo sorriso valeva proprio una vittoria.

Quel giorno era tornata al lavoro che camminava ad un metro da terra, il sorrisone che le andava da un orecchio all’altro, e da allora era andato tutto di bene in meglio, davvero.

Non parlavano molto, non potevano mica lì dentro (e più che altro parlava lei), ma lui a volte rispondeva con più di una parola, e già era contenta che ascoltasse, perché lo sapeva che ascoltava, l’ascoltava sempre, e non era una cosa così scontata, non era che tutti ascoltassero tutti, che davvero ascoltassero (non alla cazzo, senza badarci veramente).
A volte poi le faceva quella specie di sorriso, e così sapeva che era felice anche lui.

Nel frattempo si era organizzata e si era fatta dare dalla simpaticona alcuni romanzi per i lunghi week end, oltre a libri di meccanica che a dire la verità non leggeva, ed aveva anche iniziato a mangiarsi il suo hamburger di nascosto, mentre nessuno la guardava.
Aveva fame, va bene? Quella in fondo era la sua pausa pranzo, non aveva mica tutto quel tempo da perdere!

A lui non piacevano gli hamburger anche se le sembrava impossibile.

 - Acc…mi toccherà imparare a cucinare – gli aveva replicato quando lo aveva saputo, lui aveva sollevato appena l’angolo della bocca, e lei aveva ridacchiato felice.

Aveva sempre pensato che fosse una stronzata, e invece era proprio vero che l’amore era una specie di magia, perché era come incantata: felice, sempre felice con lui, e lui era felice con lei, ne era sicura.
Erano proprio una bella coppia.

Una volta, mentre se ne stava lì a mangiare piegata all’ingiù, seminascosta dal tavolo, era arrivata la tipa della biblioteca, la simpaticona (che per qualche motivo la odiava, non che non fosse abituata, c’erano un  sacco di donne che la odiavano, chissà perché) e lei aveva fatto sparire il panino mangiucchiato schiacciandolo sotto un libro di Sasuke, scambiando uno sguardo con lui.

 - E’ proibito mangiare qui dentro –

 - Embè? Mica stavo mangiando – le fece dopo aver mandato giù un boccone intero a fatica.

 - Mi hanno riferito che stavi proprio mangiando –

Brutte spie. Scommetteva che era una di quelle troiette gelose di lei perché era la ragazza di Sasuke.

 - E hanno sbagliato, non mangiavo, sono ligia alle regole io, odio i teppistelli… forse è perché stavo masticando una gomma, vero Sas’ke? –

Ecco, la tipa si era voltata verso Sasuke e lui l’aveva guardata dritta negli occhi, e sapeva che quella era un po’ scombussolata, sapeva esattamente quanto quegli occhi potessero scombussolare.

 - Non l’ho vista mangiare –

La simpaticona aveva sorriso ed aveva iniziato a scusarsi, una scena penosa, era anche un po’ arrossita prima di allontanarsi.

 - E’ proprio stupida – concluse lei prima di riprendere a mangiare, tutta soddisfatta del fatto che il suo Sasuke l’avesse difesa ed avesse mentito per lei.

Quel giorno aveva imparato un’altra cosa su di lui: Sasuke Uchiha non era uno spione e non lasciava la gente nelle peste.

Nel frattempo un altro mese era passato e aveva dovuto procurarsi un nuovo libro di poesie, non voleva pescare due volte dalla stessa roba, era una persona fine, lei…be’…magari non sembrava, ma era fine dentro.
Certo che… chi l’avrebbe mai detto che un giorno si sarebbe ridotta a leggere romanzi e poesie il sabato sera, invece di uscire!
Ma chi se ne fregava dei sabato sera.
La vita le sorrideva, il mondo le sorrideva, Sasuke Uchiha le sorrideva.

A dire la verità avrebbe potuto passarsi anche tutto il resto della vita così, a guardarselo per un paio d’ore dal lunedì al giovedì, e a sognare di baciarselo sotto la luna, ma un giorno era successa una cosa incredibile.

Era lì che gli guardava le mani.
Aveva delle mani bellissime, dalle dita lunghe, e lei si vergognava un po’ delle sue manacce tarchiate, piene di calli e dalle unghie perennemente macchiate di oli per quanto tentasse di usare i guanti.
Per un po’ le aveva nascoste, vergognosa, ogni volta che lui alzava lo sguardo.

 - Hai delle mani bellissime - gli fece quella volta perché proprio non era capace di stare zitta – le mie invece fanno schifo –

Lui le aveva preso la mano prima che riuscisse a nasconderla, e…era la prima volta che si toccavano e il suo cuore non riusciva a fermarsi, ed era assurdo perché le stava solo tenendo la mano e non era una timida verginella, ma quel contatto, quel primo contatto, la mandava totalmente nel pallone.

 - Sono mani di una persona che lavora, non hanno niente che non va –

Non importava quello che le diceva, non aveva neanche tanto ascoltato, importava che la stava toccando, e quello sguardo, e lei si sentiva morire dall’agitazione.
La mano di lui era morbida, e fresca, e a lei pareva di essere bollente, non riusciva ad immaginare come si sarebbe sentita il giorno in cui fosse riuscita a baciarlo, forse sarebbe svenuta, forse anche morta.

Ma poteva anche morire per lui, non le importava.
Sarebbe morta felice.
Quasi quasi glielo scriveva nel bigliettino la prossima volta.

Nel frattempo non faceva più così freddo e le giornate iniziavano ad allungarsi, e loro due non avevano ancora fatto il famoso giro in macchina, come gli faceva notare spesso, ma era lo stesso come se avessero fatto un lungo viaggio insieme, era un viaggio spirituale o qualcosa del genere.

- Quando finisci? – gli chiese una volta.

 - A giugno mi laureo –

 - E poi? –

 - Dipende. Potrei andare all’estero per la specializzazione –

Questo era un colpo basso, e improvvisamente si sentì davvero morire, si poteva morire di crepacuore?
Eh no cazzo…non poteva morire prima di averlo almeno baciato! Era il minimo sindacale quello.

 - Devi proprio? – gli chiese – Be’, non che sia un problema per me – osservò subito dopo – magari andiamo insieme, un posto in un’officina lo posso trovare dappertutto – spiegò, figuriamoci se lo lasciava solo, con le arpie che giravano per il mondo.

Lui l’aveva guardata con un mezzo sorriso, quasi un sorriso vero (era bellissimo), prima di riprendere a leggere, e secondo lei era proprio contento che avesse deciso di andare con lui.

Se ne era tornata a casa un po’ preoccupata, ma neanche tanto, in fondo lui aveva detto ‘forse’, c’era ancora tempo e l’indomani lo avrebbe rivisto, ed anche il giorno dopo, e la settimana dopo.
Facevano in tempo a succedere un casino di cose, e in caso si organizzava.

Nel frattempo era già finita la settimana ed aveva dovuto aspettare il lunedì, e quel lunedì era anche arrivata in ritardo (era spuntato un cliente all’improvviso, che aveva una fretta dannata, e lo zio l’aveva messa sotto nonostante le sue proteste), era la prima volta che rischiava di perdersi l’appuntamento ed era incazzata come una biscia.
Era entrata affannata, sudata, e quasi si era lanciata sulla sedia per non sprecare un minuto di più.

 - Sono in ritardo – gli fece col fiatone.

 - Lo vedo –

Il tempo era passato troppo veloce, e quando aveva messo la mano in tasca si era resa conto che nella fretta aveva dimenticato la poesia.

 - O porc… - le scappò ad alta voce.

  - Shhh! –

 - E che palle! –

Lui sorrideva ora, davvero sorrideva, e quando sorrideva era proprio bello come una stella, o la luna…sì, la luna…era la sua luna.

 - Ho dimenticato il bigliettino – gli spiegò a voce più bassa.

 – Meglio. Prevert non mi piace molto, preferivo Neruda –

Lo guardò a bocca aperta per alcuni secondi.

 - Quando l’hai scoperto? – bisbigliò, ormai le veniva quasi naturale parlare sotto voce.

 - Per un po’ ho anche pensato che avessi un talento naturale, ma erano versi troppo belli per essere farina del tuo sacco, tenuto conto che il primo bigliettino faceva veramente pena –

 - Be’, non sono mica Neruda, io! –

 - Shhhh! –

 - Ma andate a cagare! – sibilò, ma non era incazzata, anzi, era tutta soddisfatta.

Sasuke Uchiha non l’aveva derisa, e aveva letto sempre tutti i suoi bigliettini.

Prima di alzarsi prese in fretta carta e penna e gli scrisse le prime quattro acche che le venivano in mente: “Sei bello come la luna e le stelle, e fai tremare il mio cuore

Era di fretta, va bene?!

Era tornata al lavoro così felice che quando lo zio le aveva appioppato un lavoretto extra, noiosissimo, che le sarebbe costato buona parte del week end, invece di infuriarsi gli sorrise beata.
L’aveva guardata perplesso.
___

Per il giorno dopo si era preparata un bigliettino che modestamente era un capolavoro (e tutta farina del suo sacco), e non vedeva l’ora di chiedergli cosa ne pensava.
Solo che lui non c’era, era la prima volta che capitava, non aveva mai saltato un pomeriggio (da quel che aveva dedotto veniva anche quando la facoltà era chiusa o doveva fare un esame, si era quasi convinta che fosse per incontrare lei), e c’era rimasta abbastanza di merda.
Cos’aveva da fare di così importante? Già era dura non vederlo per tre giorni di fila!

Non c’era neppure il giorno successivo, e lei aveva iniziato ad agitarsi davvero perché non aveva un indirizzo, né un numero di telefono e se lui spariva…

Quel pomeriggio lo zio le aveva chiesto cos’aveva e non aveva risposto niente: aveva che mancava solo il giovedì, che era l’ultimo giorno della settimana, l’ultimo che contava, ecco cosa aveva.

E giovedì lui non era lì.

Uscì subito dalla biblioteca, avvilita, preoccupata, e ritornò al lavoro sentendosi a terra come non ricordava di essere mai stata, nemmeno quando le stronzette a scuola parlavano tra di loro e si zittivano quando arrivava lei.
L’amore faceva male, non aveva mai capito cosa intendessero prima con questo discorso, ma ora lo sapeva: era come se una mano ti si infilasse nel petto e ti strizzasse il cuore, e poi ti rovistasse nello stomaco fino a farti vomitare.
 
Quel week end non riuscì neppure a messaggiare con Karin, stava troppo male, stava così male che non aveva nemmeno fame, rifiutò perfino l’hamburger che sua zia le aveva portato in camera, doveva essere la prima volta che succedeva.

 - Non sono abituata a vederti triste – le fece la zia accarezzandola.

 - Ho solo mal di pancia – negò spudoratamente, improvvisamente imbarazzata, però quando era rimasta sola si era guardata allo specchio: era davvero triste, triste come…come lui qualche volta.
Le veniva da piangere e qualcosa in gola le impediva di respirare bene.

Ecco, se fosse stata una di quelle persone che restavano con le mani in mano a piangere ed aspettare si sarebbe proprio depressa, ma aveva capito da anni che doveva farsi il culo per ottenere ciò che voleva, così la domenica si era già rotta di frignare, si era rimboccata le maniche ed aveva deciso di agire.
Lunedì mattina era alla fermata del bus vicino alla stazione, in cerca del tizio con la coda alta: quando lo vide lasciò andare un sospiro di sollievo.
Era salva.

 - Vieni, ti accompagno io – gli fece prendendolo per la collottola.

 - Ancora dietro all’Uchiha? – le chiese quello una volta che era riuscita a trascinarlo in macchina.

 - Be’, si può dire che sono la sua ragazza – era vero, no?!

 - Sempre convinta di essere il suo tipo, vedo –

 - Sono il tipo giustissimo per lui, il tipo che lo farà felice – …stronzetto.

Quello non aveva commentato e si era messo a dormicchiare sul sedile.

 - Ehi! Non ti dò mica un passaggio per farti dormire! – lo svegliò immediatamente.

 - Cosa vuoi? – le fece con l’aria un po’ scocciata, come se non fosse lui quello che si approfittava di un passaggio nella macchina di una signora.

 - Dov’è? –

 - E che ne so io…avrà cambiato abitudini per non vederti –

Stronzetto.

 - Se mi dici dov’è ti pago – non aveva mica tempo da perdere in giochetti, lei.

 - Stai scherzando? –

 - No –

 - Sei fuori…davvero… non voglio i tuoi soldi, magari li hai rubati…comunque c’è un po’ di trambusto lì da noi, suo fratello è scappato dalla casa di cura e la gente ha paura –

Ecco cosa era successo, almeno lui non era partito, o malato, ma per un momento si spaventò anche lei, se quello torceva un solo capello a Sasuke lo faceva ritornare sano di mente lei, a pedate sul culo.

 - Sasuke? –

 - Sarà a casa, non credo abbia molta voglia di uscire…la gente dice che ha paura…io credo che sia preoccupato per suo fratello…è la sua famiglia…-

 - Dov’è che abita? – chiese subito, perché mica si faceva distrarre da questo sfoggio di pensieri pseudopsicologici.

 - Non so se posso dirtelo, lo stalking è un reato –

 - E fa a meno, stronzetto… tanto posso trovarlo da sola, è un buco di paese e basta chiedere un po’ in giro –

Lo sentì borbottare ‘matta’, o qualcosa di simile, e lo lasciò dormire fino a destinazione, per cacciarlo poi fuori a calci con una certa soddisfazione.
Tanto ora sapeva cosa fare, non aveva più bisogno di lui.

Ed era pronta.
Il giorno prima aveva detto agli zii che aveva bisogno di una vacanza e si era preparata una borsa con un paio di cosucce dentro.
Era libera come il vento.

Lungo la strada si sentiva nuovamente euforica, la giornata era piena di sole, di luce, di fiori e di verde, e ad un certo punto si era fermata di fronte ad un bel giardino per fregare qualche fiore da portargli.

Arrivò in quel paesucolo di merda in un lampo (col cazzo che andava ad abitare lì, in culo al mondo, una volta sposati avrebbero preso casa in città) e come prevedeva era bastato chiedere un po’ in giro per sapere dove abitava lui.
Era arrivata di fronte a casa sua tutta pimpante, ma dopo essere smontata e avere percorso il vialetto (il cancello era basso, era facile scavalcarlo) si era bloccata come un’idiota davanti alla porta d’ingresso, colpita da una specie di strano attacco d’ansia: era una casa grande, bella, da ricchi, e per la prima volta da quando aveva posato gli occhi su di lui, mesi prima, si sentì, ecco…come inadeguata.
Forse aveva ragione il tizio, forse lei non era adatta.
Vaffanculo, e chi lo diceva questo? Un tizio per strada? E che ne sapeva?
Che ne sapevano gli altri di lei? O di lui?

Suonò e aspettò.

E poi suonò ancora, e ancora.
Magari riposava, o ascoltava musica con gli auricolari.
Suonò altre cinque sei volte per sicurezza.

Quasi cominciava a venirle il sospetto che non ci fosse davvero nessuno in casa, e dopo aver tenuto premuto il campanello per un po’ stava meditando sul da farsi (si piazzava sul vialetto? Cercava una finestra aperta e entrava?), quando qualcuno le aveva aperto.

Era proprio lui, e come al solito nel vederlo lo stomaco le si era rimescolato tutto.
Era sempre bellissimo, e si sentiva felice per il solo fatto di essere lì in piedi di fronte a lui, anche perché da un po’ lo vedeva solo seduto, e lui era alto, e bello, ed ora che si vestiva meno si notava meglio quel fisichetto da mangiare, e quei jeans gli stavano da dio.

- Sono venuta a prenderti – gli fece tutta gasata, con un ghigno che le andava da un orecchio all’altro.

 - A prendermi? – sembrava un tantino sorpreso.

Stanco anche, doveva aver dormito male (non era il solo).
E triste.
Soprattutto triste.
Ma ora era lì lei, no?!

 - Sì, andiamo via, all’avventura…se vuoi andiamo a cercarlo, tuo fratello dico, io e te… -

 - Lascia stare – le aveva replicato, e le aveva chiuso la porta in faccia.

Naruko rimase lì, con i fiori rubati in mano e il cuore un po’ spezzato.
Cazzo…aveva proprio pensato che le avrebbe detto di sì.

E invece voleva rimanere tutto solo, chiuso in quella casa grande e vuota, con quegli occhi così tristi.

Provò a suonare un altro paio di volte, magari ci ripensava.
Niente.

Va bene.
Se lui non la voleva non poteva farci niente, se ne rendeva conto, non era stupida, ma mica poteva andarsene e abbandonarlo proprio ora quando aveva bisogno di una donna che si prendesse cura di lui: era uno che si teneva tutto dentro e scommetteva che si stava facendo un sacco di seghe mentali!
Per cui…ecco… avrebbe aspettato.

Rimase ad aspettare un bel po’ davanti alla porta coi suoi fiori in mano, e poi seduta sullo scalino d’ingresso, infine dentro la macchina.
Nel frattempo era ora di mangiare e il suo stomaco iniziava a brontolare, desolatamente vuoto.

Ad un certo punto non ce l’aveva fatta più ed era andata a cercarsi qualcosa da mettere sotto i denti, si era presa un hamburger e una birra, aveva fatto scorta di vaccate, e poi aveva parcheggiato ancora davanti a casa sua e aveva aspettato in macchina.
Cazzo…si stava annoiando a morte lì, non si era portata nemmeno via l’ultimo libro che aveva preso in biblioteca (da un po’ ne prendeva uno alla settimana, non aveva un c… da fare nei week end, in più si divertiva a rompere le scatole alla bibliotecaria ).

Il pomeriggio era passato in una lenta agonia e prima di sera si era mangiata tutti i panini, e le merendine, e le patatine, e le caramelle, e la cioccolata.
Tra un po’ doveva cercarsi un cesso.

Poco dopo si abbioccò sul sedile.

Si svegliò di scatto, era buio, e guardò l’ora, era presto ma c’era già un silenzio di tomba in quel luogo dimenticato da dio.
Forse poteva farsi un altro pisolino, o cercare un bar aperto per andare in bagno, se la stava facendo sotto, ma poi lo vide, lì fuori, davanti al vialetto di ingresso, che guardava dalla sua parte.

Tirò giù il finestrino.

 - Ehi bello! – urlò – vieni a farti un giro? –

Intuì più che vedere il suo sorriso, ed aspettò che si avvicinasse ed aprisse la portiera dall’altra parte della macchina.

 - All’avventura o alla ricerca di tuo fratello? – gli chiese.

Lui le si era seduto accanto e non aveva detto niente.
Cazzo…com’era bello, anche di notte, soprattutto di notte, perché lui era la luna.

 - Non lo so - le rispose infine – non riesco ad immaginare dove possa essere andato, è sparito…e da una parte sono terribilmente preoccupato per lui, ma da una parte, è come una liberazione –

 - Ovvio che ti preoccupi…ma vedrai che si fa vivo presto, e intanto io sono qui, non ti lascio solo – gli spiegò mentre buttava i fiori ormai appassiti e un bel po’ di cartacce sul sedile dietro (era tentata di aprire la portiera e buttare tutto fuori, ma era davanti a casa sua, magari gli dava fastidio) – e non stare a farti seghe mentali, non è come se fosse colpa tua se ti senti un po’ più libero…è normale con i suoi problemi e tutto –

Lui non aveva replicato, ma c’era abituata, e sapeva che l’aveva ascoltata, come sempre, e che ci avrebbe pensato.

 – …hai mangiato qualcosa? Vuoi un po’ di patatine? – gli chiese poi porgendogli il sacchetto quasi vuoto – Forse ce n’è ancora qualcuna qui dentro –

Lui non aveva preso il sacchetto, però aveva sorriso. Un accenno di sorriso, ma andava benone lo stesso.
 
 - Sei invadente e svitata – le fece mentre si allacciava la cintura – ma sei l’unica persona al mondo che mi fa sorridere ancora –

Era stato allora che si era allungata e gli aveva baciato le labbra.

 - Bene, perché mi piace vederti sorridere – gli replicò prima di baciarlo ancora, con la lingua questa volta, per niente sorpresa del fatto che lui rispondesse al bacio.

Sasuke sapeva di disperazione, e bisogno, e passione nascosta, di cuore cha batteva all’impazzata e di qualcosa che non si poteva più lasciare andare una volta provato.

Si staccò a fatica, la testa che girava e un sorriso tra il beato e il trionfante stampato in faccia, e in qualche modo riuscì ad allacciarsi la cintura con mani che tremavano, per partire subito dopo sgommando, ancora tutta scombussolata.
Questo era il paradiso, davvero… quella notte sarebbero finiti in qualche albergo lungo la strada (pagava lei, si era portata il bancomat), e avrebbe potuto assaggiare ogni parte di lui, finalmente, ma per il momento doveva cercare un bar aperto ed andare in bagno.

 - Il mio scopo è quello di riuscire a farti ridere, un giorno – gli spiegò – ci vorrà un po’, mi sa –
 
 - Pensi di starmi appiccicata così a lungo? – le chiese, ma non era mica seccato, scherzava.

 - Per sempre – proclamò decisa.

Ed era davvero così, per sempre, lo sapeva come sapeva di essere Uzumaki Naruko, perché non tornava indietro nelle sue decisioni, mai, e quando sceglieva era per sempre.


FINE


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Un grazie enorme a tutte coloro che hanno seguito questa storia, che, mi rendo conto, poteva interessare ad un numero ridotto di persone...spero che vi sia piaciuta Naruko, sono (relativamente) soddisfatta di come mi è venuta, la trovo proprio un’ottima persona nonostante il QI non eccelso!:)

Ed ora vediamo se riesco a finire la fic con la lemon: la storia non è granché, per cui dovrei almeno scrivere una lemon memorabile, ma…ehm... un po’ mi vergogno, un po’ mi viene da ridere, per cui non so proprio cosa verrà fuori!

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