Somewhere close to you

di WhiteWinterLady2
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I. Uno - Una proposta inaspettata ***
Capitolo 3: *** II. Due - Tutta colpa delle scarpe ***
Capitolo 4: *** III. Tre - Memorie e amnesie ***
Capitolo 5: *** IV. Quattro - Caviglie e paparazzi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


È strano”.

Cosa?”.

Come sia tutto più semplice quando ci sei tu”.

È una cosa brutta?”.

Oh, no, affatto. È rassicurante”.

Ne sono felice”.

Sai, tu hai cambiato tutto. Hai stravolto le carte della mia vita”.

Ancora non capisco se per te sia un bene o no”.

Certo che lo è. Che domande. Non immagini quanto fosse brutto prima”.

Prima?”.

Sì, prima che arrivassi. Prima era come se non fossi più umana. Non mi sentivo umana, non mi sentivo viva. Non provavo niente, nessun emozione, nulla. Conducevo la mia vita come se fossi una spettatrice nella sala di un cinema, estranea al mio corpo. Sorridevo, ma non ero felice. Mi alzavo ogni mattina, ma era come se stessi ancora dormendo. Parlavo, ma le parole non avevano sapore. Il peggio è che mi rendevo conto di come vivessi, ma mi rispondevo che andava bene così. Solo, ogni tanto, speravo disperatamente che la gente mi chiedesse come stavo veramente e si aspettasse da me la più sincera delle risposte. Speravo che qualcuno prima o poi mi aiutasse a uscirne”.

...”.

A cosa stai pensando?”.

Penso che tutto quello che hai detto vale anche per me. Esattamente.”.

Davvero?”

Ogni parola. Tu mi hai salvato.”

Da cosa?”

Da me stesso. Perché ho rischiato di veder scivolar via i miei giorni senza che avessero un senso. Vivevo un'esistenza senza senso. Ero come morto.”

Ma sei rinato”.

Sì, grazie a te. Non tornerei più indietro, mai più. Sono stanco di vivere nell'ombra”.

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Capitolo 2
*** I. Uno - Una proposta inaspettata ***


Quando la sveglia suonò, come tutte le mattine, pensai che sarebbe stata una giornata stancante di lavoro, come sempre. Avevo sempre amato dormire; purtroppo per me, però, il dovere dettava legge, imponendomi un numero limitato di ore di sonno, sempre non sufficienti, secondo il mio parere. Così mi alzai di malumore dal letto e mi diressi nel bagno.

Lo specchio restituì il mio riflesso: già immaginavo Rossella che come tutti i giorni osservava: “Che brutta cera che hai, Angela. Ti trovo stanca”.

“ Non è nulla, Ross. Solo il mio solito pallore”.

Lei scuoteva la testa, con disapprovazione. “È che non mangi abbastanza, dolcezza”.

“Oh, no, te l'assicuro. Per fortuna c'è chi mi vizia”, replicavo allegra. Evidentemente mi riferivo a lei e a pochi altri, così la grossa signora della macelleria del supermercato sorrideva e, per l'imbarazzo, diventava rossa come il sangue che impregnava il suo grembiule.

Lavoravo là, al Super Market Sempre Pronto, come cassiera. Ero stata fortunata, perché, quando mi trasferii nella mia nuova casa, ebbi quasi immediatamente un impiego sicuro a pochi passi dall’appartamento. Non che ricevessi uno stipendio da favola, certo, però a vent’anni era già molto aver trovato in poco tempo una sistemazione e i soldi con cui iniziare a pagare l’affitto, anche se non bastavano mai e a stento riuscivo a coprire tutte le spese.

E qui arrivò la mia seconda fortuna: la signora Esposito, proprietaria insieme al marito e al figlio di una pizzeria, La Bella Napoli, che, neanche a farlo apposta, si trovava di fronte al mio appartamento.

La signora faceva rifornimento tutti i giorni al supermercato degli ingredienti necessari per le pizze. Le bastò un colpo d'occhio per capire che non ero del posto. Infatti mi domandò: “Sei nuova di qui, non è vero?”. Una domanda retorica, ovviamente.

Fu così che attaccò a raccontare dei tempi in cui anche la sua famiglia si era stabilità lì da poco, di come i clienti fossero inizialmente diffidenti e di come la qualità eccellente della sua pizzeria li avesse successivamente convinti e conquistati. Ricordo ancora la coda immensa che si era creata dietro di lei alla cassa, e di quanto, convinta di avere un pubblico assai numeroso, la signora Esposito fosse su di giri, tanto che prese a parlare a voce ancora più alta e con più enfasi. Alla fine del suo comizio, senza che avessi proferito parola, annunciò di avermi preso in simpatia, e giurò che, se avessi avuto delle difficoltà, non dovevo esitare a chiedere aiuto a lei. Presi la palla al balzo: avevo bisogno di un secondo lavoro.

Così iniziai a lavorare in pizzeria, tutti i mercoledì, i venerdì e i sabato sera, come pure le domeniche mattine.

Audaces fortuna iuvat, la fortuna aiuta gli audaci. Decisamente, la sorte era dalla mia parte e per ora non osavo sperare di meglio. Poteva bastare.

Mantenere un ritmo del genere, comunque, si rivelò un’impresa folle: fu chiaro un paio di mesi dopo. Ogni giorno ero in piedi alle sei; alle sette del mattino iniziavo il mio turno e staccavo alle sette di sera, con una pausa pranzo di circa un’ora. In totale, erano più di otto ore di lavoro giornaliere. In effetti, gli affari non giravano tanto bene per i proprietari, poiché la costruzione dei nuovi centri commerciali aveva alimentato una concorrenza dalla quale il Super Market Sempre Pronto era uscito evidentemente sconfitto. Perciò il personale scarseggiava e una delle poche persone disposte a rimanere tutto il giorno lì, non avendo né famiglia né amici, ero io.

L’unica mia compagnia in quella nuova città desolata era Elena, mia collega al supermercato: trentenne, divorziata e con una figlia dodicenne da crescere. Insomma, una vera donna guerriera del XXI secolo, la signora che porta i pantaloni e i soldi a casa, profondamente femminista e fumatrice accanita, nonché armata sempre della risposta pronta come un soldato per la guerra. Era forte, battagliera, sembrava in uno stato di perenne autocontrollo. Non appena la conobbi, mi imposi subito di prenderla come modello: era l'unico modo che avevo per sopravvivere. Però avrei giurato che ogni tanto, di notte, da sola nel suo letto, anche lei come me avesse pianto.

Una volta finito con il primo lavoro, subito mi aspettava l’altro. La pizzeria era straordinariamente famosa, sia nei dintorni che fuori, e perciò sempre straordinariamente affollata. Le ordinazioni si susseguivano senza sosta; c’erano tavoli da pulire, pizze da consegnare, e di nuovo ordinazioni. In genere la signora Esposito si occupava della cassa e delle stoviglie sporche, mentre il marito e il figlio erano addetti alla cucina. Restavamo spesso aperti fino a notte inoltrata, anche se accadeva quasi esclusivamente il sabato sera, quando coppiette di ogni età, gruppi di amici adolescenti, amanti, parenti, si davano appuntamento per quattro chiacchiere e per gustare il frutto delle magiche mani del signor Esposito (e degli ingredienti del Super Market Sempre Pronto).

 

Uscita di casa, fui subito investita dall’aria fresca e pungente del mattino. Il sole non era ancora riuscito a scavalcare i tetti dei palazzi, ma se ne poteva avvertire comunque la presenza grazie agli splendidi giochi di luce sulle nuvole: rosse, rosa e azzurre insieme.

Per strada non incontrai nessuno. Nell'era della tecnologia, era scontato che la gente preferisse la macchina ai propri piedi; la vita frenetica della città le aveva rubato il tempo, dunque anche la possibilità di scegliere. Ai giorni nostri, il tempo è un lusso per pochi eletti. O almeno così si dice.

Il mio ritmo aveva dovuto adeguarsi: passo svelto, pochi sguardi in giro, nessuna confidenza. Ma, nonostante tutto, non potevo evitare di lanciare qua e là occhiate affascinate, meravigliata del fatto che ancora, sebbene seguissi lo stesso percorso quotidianamente, alcuni dettagli mi erano sfuggiti, fosse soltanto il nuovo allestimento delle vetrine. Del resto, io, andando a piedi, avevo il privilegio di gustarmi un po’ la vita di una città indaffarata.

Per cui camminavo con aria sognante.

Ma subito lo stridio acuto dei freni di un'auto mi fece sobbalzare: un gatto nero le aveva appena tagliato la strada, rifugiandosi poi tra i cassonetti. Non potei trattenere le risate alla vista del guidatore, una donna, che si faceva il segno della croce e altri tipi di spergiuri. Ah, la superstizione!

Arrivata all’angolo della strada, m’imbattei nel primo essere umano che viaggiasse senza l'ausilio di una scatola di latta con le ruote: una vecchina canuta, spingendo una bicicletta carica di buste, dopo aver guardato a destra e sinistra, attraversò sulle strisce ciondolando. La osservai incuriosita: era formosa, ma in un certo senso elegante. Mi incantava il modo in cui, apparentemente senza sforzo, reggesse la bici pesante e allo stesso tempo muovesse le sue forme possenti.

Tutto a un tratto, però, la donna si fermò, là dove il marciapiede formava un angolo retto. Per terra giaceva un barbone, stretto intorno ai suoi abiti stracciati.

Lo guardò incerta, con la fronte corrucciata, ostentando una falsa indifferenza. Rallentò; spostò il peso da una gamba all’altra. Alla fine estrasse un borsellino, talmente piccolo che scomparve tre le sue mani grassocce, ed ne cavò delle monete; le allungò all’uomo, che però non sembrò interessato all’offerta: scosse leggermente la testa. L’anziana donna, allora, parve confusa; per un momento persino offesa. Infine decise di proseguire. Fatti alcuni passi, tuttavia, ci ripensò, e adagiò le monete di fianco al barbone, ricevendo in cambio un cenno di ringraziamento e quello che doveva essere un sorriso.

Svoltai l'angolo, lasciandomi i due alle spalle. Intanto la città sembrava finalmente essersi svegliata: alcune casalinghe aprivano finestre, uomini in giacca e cravatta consumavano velocemente la colazione seduti ai tavoli dei bar, un’autoambulanza iniziava di buon mattino ad assolvere il proprio compito, qualcuno correva a prendere il treno o il pullman.

Infine i miei occhi si posarono su Elena, che, come sempre, fumava la sua prima sigaretta della giornata (anche se io ho sempre dubitato che fosse la prima) in piedi, appena fuori l'uscita del supermercato.

“Buongiorno” mi accolse sorridendo.

“Buongiorno”.

“Mi sa che nemmeno stamattina Rossella avrà pietà di te”.

Sospirai. “Che ci posso fare? È la mia faccia. E, finché non avrò i soldi per farmi una plastica, mi conviene tenermela; non ne ho una di scorta”.

Elena spostò la sigaretta di lato, tenendosi il gomito con l’altra mano. “Tesoro, se continui a fare questa vita, nemmeno la chirurgia estetica riuscirà a salvarti. Ma lasciando perdere i rimedi artificiali, conosco un'alternativa naturale che, sono sicura, ti tirerà un po’ su”. Mi sorrise come solo lei era capace di fare, sollevando un angolo della bocca e mostrando i canini: l’espressione di chi ha trovato la soluzione del problema e tutti gli altri no. Personalmente speravo che mi consigliasse un buon medico o farmaci da comprare in un erboristeria.

Quello che mi disse però fu altro.

“Stasera esci con me”.

Sgranai gli occhi e involontariamente la mia bocca formò una grossa O. Inutile dirlo, la mia faccia doveva sembrare quella di un bambino il giorno in cui gli viene detto che Babbo Natale non esiste, o quella di un commensale che, volendosi servire il bis, si vede soffiare via l'ultima porzione. In ogni caso, una faccia da ebete.

“No, no, non posso”.

“Oh, andiamo, Angie! Stai diventando uno zombie a furia di lavorare e basta. Guardati! Sei un essere umano anche tu, santo cielo; prima o poi cederai se non ti concedi un attimo di svago!>>.

Ci pensai su. La proposta mi faceva tremendamente gola; erano mesi che non uscivo di casa per andare a divertirmi. E, a ben pensarci, anche se avessi voluto, non avevo amici con cui uscire né conoscevo i posti giusti. Non mi era mai venuto il mente di chiederlo ad Elena, soprattutto perché...

“Ehi, aspetta un attimo. E Jessica? Non vorrai mica lasciarla da sola, vero?”.

Jessica era la figlia di Elena, una bambina che avevo visto molto poco, anche se al primo sguardo non avevo notato nulla di innocente in lei. Era già adulta, o almeno si sforzava di apparirlo.

“La nonna non avrà nulla da ridire. Piuttosto farà la predica a me; vedrà bene di ricordarmi di non portare un uomo buono a nulla come il mio ex marito, e soprattutto di non tornare a casa incinta”.

Era infatti così che aveva conosciuto il padre di sua figlia. Una storia nata da semplice attrazione fisica e nulla più.

“Mia madre può stare tranquilla”, sbottò, come scacciando antichi pensieri; ma subito dopo, come se non avesse detto niente, in tutta serenità aggiunse: “Stasera si va a caccia di giovanotti!”.

Alzai gli occhi al cielo e scossi la testa. “Mica li odiavi, gli uomini?”.

Elena fece un ultimo tiro, poi lanciò il mozzicone nel tombino ai suoi piedi. Alzò piano la testa e fissò i suoi occhi chiari come il ghiaccio nei miei. “Chi ti ha detto che voglio averci qualcosa a che fare? Voglio vederli soffrire- Voglio farli crepare di desiderio”.

Mi rivolse lo stesso sorriso di prima, solo che ora era intinto di un nuovo significato. Mi stava facendo venire i brividi, e subito mi pentii di tutte quelle volte in cui riflettevo che, se la reincarnazione non era una favoletta, avrei voluto nascere uomo, perché mai avrei fatto a cambio con gli esseri umani di sesso maschile che avessero anche distrattamente incrociato la strada di Elena.

“Comunque oggi non posso uscire. Devo lavorare in pizzeria, lo sai”, dissi quando mi fui ripresa.

Elena sbuffò. “Dai, la signora Esposito è pazza di te, e suo marito è buono come le pizze che cucina! Non si arrabbieranno se per una volta non vai”.

Abbassai gli occhi. “Non so...”, borbottai.

La verità era che mi sembrava ingiusto approfittare della gentilezza dei mie capi solo perché volevo andare a divertirmi; ma forse avrebbero capito: in fondo era mercoledì e la gente era poca. Una possibilità poteva esserci.

“E va bene”, mi arresi alla fine. “Verrò con te stasera. Ma dove mi porti?”.

Il sorriso di Elena occupò tutto il viso in larghezza: per un momento mi sembrò ringiovanita, a tal punto da ritornare adolescente e rivivere i momenti che una gravidanza precoce non le aveva concesso di gustarsi. “Vedrai, è un posto veramente carino: non troppo affollato, buona musica, ottimi cocktail. Ti piacerà”.

Sembrava non essere felice così da molto tempo, e io non tardai a farmi coinvolgere. “D’accordo allora. Più tardi telefono in pizzeria e chiedo un giorno di permesso”, riassunsi.

“Non potresti aspettare che la signora Esposito venga a fare la spesa?”, mi fece notare Elena.

Feci una rapida riflessione, poi costatai: “No, creerei una coda lunghissima alla cassa: la signora è molto loquace”.

“L'ho notato”. Elena ridacchiò. “Be', in realtà l'hanno notato tutti”. Nel frattempo eravamo entrate nel supermercato e stavamo indossando le nostre divise.

“Il figlio non ha proprio preso dalla madre...”.

“Chi, Matteo?”, chiesi stupidamente io. Era il loro unico figlio, logico che Elena stesse parlando di lui; infatti non mancò di sottolineare la mia stupidità con un'occhiataccia. “Credo che quel ragazzo abbia un debole per te”.

Lasciai stare i bottoni del grembiule per un attimo per fissare sbigottita la faccia divertita della mia amica. “E tu che ne sai?”

“Mah, girano voci...”.

“E cosa direbbero queste voci?”.

“Stasera ne riparliamo. Ora ci conviene sbrigarci, mi sa che oggi il capo ha messo per terra il piede sbagliato, quando è sceso dal letto”.

La mia prima preoccupazione, quando arrivò la pausa pranzo, fu prendere il telefono e chiamare la signora Esposito, la quale, con mia meraviglia, sembrò contenta che per una volta pensassi un po' a me e mi svagassi, perché, diceva, era la conferma che mi ero ambientata.

“Ma certo che puoi prenderti una sera libera, cara”. Non c’era bisogno di vederla per capire che la mia salvatrice aveva le guance rosse e piene per il sorriso. “Lo sai che per me sei come una figlia, ormai”.

Il suono di quelle parole fece crescere in me un calore che non provavo da tempo.

“La ringrazio con tutto il cuore, signora”.

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Capitolo 3
*** II. Due - Tutta colpa delle scarpe ***


Dalla casa dei miei genitori tolsi tutto ciò che mi apparteneva, quando me ne andai, in modo che di me non rimanesse traccia, quasi nessun indizio della mia antica presenza. Come se non fossi mai esistita.

Durante il trasloco, dunque, ebbi cura di impacchettare tutte le mie cose, anche quelle più inutili, come un vestito piuttosto elegante che avevo messo al matrimonio di una mia lontana parente e un paio di decolleté con laccetto, le quali osarono toccare terra una volta soltanto. Quasi mi ruppi una caviglia, per causa loro, e preferii abbandonarle per sempre nella loro scatola in fondo alla scarpiera.

Eppure, come spesso si dice, anche le cose inutilizzate presto o tardi trovano l’occasione per ritornare a nuova vita, e perciò decisi di indossare abito e scarpe per la serata con la mia amica. Elena mi aveva dato appuntamento fuori da casa mia, dato che tra le due era l’unica che possedeva una macchina. Io non avevo i soldi né per la patente né tanto meno per l’auto.

Quando fui pronta, con molta calma scesi le scale, attenta ad ogni passo: su quella sottospecie di trampoli mi sentivo altamente instabile e insicura. Di fatto non passò molto tempo prima che iniziassi a maledirmi ad ogni singolo gradino per aver optato per i tacchi, rimpiangendo, con crescente sconforto, le vecchie e comode ballerine.

Fu con non poco sollievo che sospirai quando arrivai al pianterreno sana e salva.

Uscita dalla palazzina, trovai Elena ad aspettarmi appoggiata allo sportello della macchina, l'immancabile sigaretta tra le dita. Persino da lontano notai che sbatteva impazientemente l’indice contro il polso, ricordandomi che ero in folle ritardo. In effetti, avevo impiegato più tempo del necessario per scendere quattro rampe.

Le lanciai uno sguardo implorante. Abbi pietà. Un secondo, ora arrivo...

Cercai, a destra e a sinistra, un semaforo e constatai che, per mia sfortuna, il più vicino mi avrebbe fatto percorrere cinque volte la strada che mi separava dall’auto della mia collega. Caddi nel panico: non sarei mai riuscita a mantenere l'equilibrio così a lungo. Dovevo per forza attraversare la strada senza l’ausilio delle strisce pedonali.

Maledettissime scarpe!

Guardai da una parte, poi dall'altra, e, nel momento in cui fui sicura di non correre rischi, mi affrettai a raggiungere il marciapiede di fronte.

Quello a cui non prestai attenzione, però, fu l'infido tombino tra le due corsie.

Il tacco si incastrò in una fessura e io rovinai sull’asfalto.

Da quell’istante in poi, il tempo iniziò a scorrere molto lentamente...

 

Due enormi occhi gialli si avvicinano sempre di più. Occhi terribili, che bramano il mio dolore.

La scarpa rimane conficcata nel tombino, e, nonostante i miei iniziali tentativi di liberarmi, dopo pochi secondi (o forse molto di più) non ho più le forze per lottare, né tanto meno per ragionare.

Un sudore freddo mi percorre incessantemente la schiena.

Non sento più nulla... Nessuna delle parole che Elena, completamente paralizzata, urla... Nessuna delle grida delle persone che passeggiano...

Eppure, ai margini del mio campo visivo, le vedo muoversi e decifro il loro sgomento.

Ma i miei occhi rimangono concentrati sul mio carnefice, spalancati quanto quelli della macchina che, inesorabilmente, mi viene incontro. Occhi luminosi che mi sfidano e che sanno già di aver vinto.

Poi, le tenebre eterne calano sul mondo...

È la fine.

Trattengo il respiro per quelli che mi paiono una manciata di minuti, ma non accade niente.

Mi sento sollevata, mi viene quasi da ridere. Morire è stato così facile, indolore, non come mi ero spesso immaginata. Non mi sono neanche accorta della differenza.

Il Paradiso, però, non è bello quanto nelle descrizioni dei preti: è tutto così scuro e vuoto e sperduto...

La prima cosa che penso è: Che imbroglioni! Ci hanno sempre presi in giro!

La seconda: Qui non mi piace.

La terza: Ci vorrebbe un bel designer di interni.

Non sono in grado di definire cosa mi aspettassi, nemmeno se credessi nell’aldilà, ma sicuramente non il Nulla. È impossibile, non posso accettarlo.

Poi, ad un tratto, un pensiero mi folgora: Sono all'Inferno!

E infatti comincio a sentire delle voci. All’inizio un paio, poi decine, centinaia... Tutte molto alte. Migliaia di lingue che non riesco a decriptare.

Mi sembra di vivere uno di quegli incubi orribili dai quali ti svegli urlando.

Voglio tornare indietro! Fatemi tornare indietro, vi prego!

Mentalmente rivolgo suppliche disperate a Chiunque abbia creato questo posto.

Quasi voglio urlare. Strapparmi i capelli. Mordermi le mani.

Tutto questo vuoto mi sta facendo impazzire. Non c'è niente di niente, solo nero, triste e solitario nero, che mi inghiotte sempre di più, sempre di più...

Poi, come se le mie preghiere fossero state ascoltate, un paio di mani, spuntate chissà dove, si posano sotto di me e mi sollevano in aria.

È il ritorno alla vita. O forse sto andando in Paradiso.

 

Ricominciai a vedere: le insegne dei negozi, i fari delle auto in sosta, le bolle di luce dei lampioni, persino il flash di una macchina fotografica. E poi tante persone che correvano verso di me, senza che ne comprendessi il motivo, chi con sangue freddo, chi con manifesto senso di panico. In linea generale, però, potei constatare che, fra tutti quegli individui, i quali, molto probabilmente, mi vedevano per la prima volta e, altrettanto probabilmente, non mi avrebbero incontrata più, la preoccupazione era il comun denominatore.

Riconobbi i signori Esposito, che, avendo la pizzeria di fronte al mio appartamento, erano accorsi subito, con le facce di chi è sul punto di morire di crepacuore. Il figlio, dietro di loro, con un’espressione inintelligibile, era più pallido di un fantasma. Con loro c'era persino qualcuno dei clienti più abituali.

Intanto Elena si stava facendo largo a gomitate tra la folla, con le mani che si agitavano in aria come se stesse annegando. Nonostante tutto quel frastuono, era capace di far sentire ogni sua singola imprecazione.

“Largo! Fate spazio! Sono la sua migliore amica, accidenti! Lasciatemi passare! Guardoni di merda! Fatemi passare!”.

Volevo rassicurarla, dirle che stavo bene, che non mi ero fatta un graffio, volevo sorriderle, dimostrarle che non doveva preoccuparsi. Anzi, che nessuno dei presenti aveva motivo di essere preoccupato.

Volevo. Ma ogni movimento sembrava costarmi una fatica immane: ero letteralmente pietrificata.

Ed era come se stessi fluttuando, come per magia.

In effetti, qualcuno mi teneva tra le braccia. Qualcuno di cui riuscii solo a scorgere il petto, prudentemente lontano dal mio corpo.

“Shh, andrà tutto bene. Calmati, andrà tutto bene”.

Ma io sono calma. Ma cosa vi prende?, tentai di dire, ma le mie razioni erano intenzionate a ribadire il contrario. I denti sbattevano forte tra loro. A malapena respiravo. Le immagini roteavano fastidiosamente in un vortice confuso di colori.

Cercai di alzare la testa per guardarlo in faccia, per riconoscerlo e, nonostante le parole si ostinassero a rimanere incastrate nella gola come spine, chiedergli spiegazioni e poi ringraziarlo per il suo gesto galante; ma un capogiro violento mi dissuase: i miei sensi mi stavano abbandonando.

Be', grazie.

Presto sarei svenuta.

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Capitolo 4
*** III. Tre - Memorie e amnesie ***


Una musica dolcissima mi cullava lentamente, al ritmo delle onde del mare.

La voce di un uomo, la più bella e delicata che avessi mai udito, che cantava una canzone che, in un modo o nell'altro, ricordavo di aver già ascoltato.

 

Far far away

Or wherever I am

I'll finally find

Somewhere close to you...

 

La mia fronte premeva contro qualcosa di caldo e morbido, piacevole da toccare, ma di cui non capii l'identità. Allungai una mano per verificare: al tatto sembrava un tessuto, lino o cotone, impossibile per me specificare il materiale, di sicuro però un abito. Una camicia, forse. Sì, probabilmente si trattava di una camicia. Ma di quelle senza i bottoni.

Intanto il canto proseguiva, adagio, suadente.

 

In Heaven, in Hell

Wherever I am

I swear I'll find

Somewhere close to you...

 

Racchiudeva il potere di un amore immenso, senza confini.

All'improvviso mi sentii talmente stanca, talmente infelice e depressa, talmente pervasa da quella dolcezza sconfinata che le prime lacrime sgorgarono senza che me ne rendessi conto. Imprecai subito tra me e me, poiché era così sciocco piangere per una canzone, così stupidamente infantile, soltanto perché un uomo con una voce angelica mi stava tenendo teneramente tra le braccia, accarezzandomi come se fossi la sua dea, la sua unica ragione di vita, sussurrandomi parole che credevo mai nessuno avrebbe pronunciato per me...

Aspetta! Sono tra le braccia di un uomo?

Aprii di colpo gli occhi, che non sapevo fossero serrati.

Rimasi a bocca aperta.

Un viso che non riconobbi restituì il mio sguardo, che, per quanto stralunato, iniziò a perlustrarlo da cima a fondo, estasiato: iridi azzurre più del cielo, sopracciglia gentilmente arcuate, labbra carnose, naso proporzionato, niente barba, il tutto incorniciato da capelli lisci e lunghi, che finivano sotto le spalle, di un colore a metà strada tra il bronzo e l'oro. Mi ricordava vagamente l'Achille interpretato da Brad Pitt.

La perfezione fatta persona, insomma.

Lui sorrise divertito.

Dovevo avere proprio una faccia da cretina.

 

And I fought and fell

In Heaven and Hell

But I swear I'll be

Somewhere close to you...

 

Il suo sorriso irradiava una luce celestiale, di una soffice tonalità dorata.

Mi passò le dita tra i capelli, così, con infinita delicatezza, come se temesse di farmi del male, e continuò a cantare per me.

Volevo dire qualcosa, anche solo chiedergli come si chiamava, ma le parole non mi venivano; restavano impigliate sulla bocca, dove comunque si poteva leggere tutto quello che c'era da sapere: che ero totalmente, incommensurabilmente, smisuratamente persa per lui. E più lo guardavo, più mi pareva che il chiarore aumentasse d'intensità, in un trionfo di luce e brillanti. Un leggero venticello, poi, gli scompigliò i capelli, trasportando fino a me la sua fragranza: rose e lavanda insieme.

Sono in Paradiso?, pensai.

Tutto sommato, non mi sembrò un'idea così balzana.

Allora lui deve essere un angelo.

Sì, il ragionamento filava. Logico che era un angelo.

 

Wherever we'll go

Whatever we'll do

We'll finally meet

In that Somewhere that's close to you...

 

La canzone terminò, vibrando sull'ultima nota.

Un silenzio imbarazzante calò immediatamente su di noi. Un silenzio pesante, che mi metteva a disagio, e che ero determinata a cancellare. Era giunto per me il momento di dire qualcosa, di avviare una conversazione, di chiedere spiegazioni, perché, diciamolo, mi sentivo parecchio confusa, ma, ancora, le parole mi morivano sulle labbra. Qualsiasi cosa pensassi pareva una banalità.

Domandai la prima cosa che mi venne in mente. E anche la più stupida.

“Sei un angelo?”.

Come risposta ottenni una risatina allegra e leggermente ironica. Odio ammetterlo, ma, nonostante fossi un pochino offesa, mi piaceva da matti.

Poi annuì.

E, per confermare, dispiegò le sue ali bianche.

Rimasi, se possibile, ancor più a bocca aperta – ormai non mi stupivo più del mio stupore – e, sebbene la parte più razionale del mio cervello mi stesse avvertendo che sotto sotto qualcosa non quadrava, non feci a meno di pensare che nulla poteva andare meglio di così.

Be', forse qualcosina...

Come se avesse appena letto ogni singola fantasia nel mio cranio, l'uomo – o, dovrei dire, l'angelo – si fece di colpo serio, di una serietà quasi spaventosa, scrutandomi con le belle sopracciglia aggrottate. Di nuovo, il silenzio pervadeva l'aria, un silenzio, stavolta, carico di attesa.

Schiuse appena le labbra con fare malizioso: aveva decifrato ogni mio desiderio.

Disse qualcosa che non capii, ma il suono della sua voce mi piacque più di quanto fosse lecito.

Lo sta per fare per davvero? Oh, no!

Dita calde e leggere mi sfiorarono una guancia, mandandomi scosse elettriche in tutto il corpo.

Ma che sta succedendo? Ho vinto forse alla lotteria? È uno scherzo? Se è uno scherzo non fa ridere per niente. Una tale fortuna, un uomo – be', forse un uomo – così seducente, così affascinante, così dolce, così...

Poi si saldarono intorno alla mia nuca. Forti, decise.

Oh, no! Oh, no! Sta accadendo tutto così in fretta... Per davvero! A me! È troppo bello per essere...

E lì la mia mente smise di ragionare. Il suo volto si stava avvicinando inesorabilmente, sempre di più... sempre di più... di più... più...

Sì, baciami.

Gettai la testa all'indietro, pronta ad accogliere il bacio. Ardevo dal desiderio di conoscere il sapore delle sue labbra, la loro consistenza, l'esatta forma e sostanza. Non aspettavo altro che le nostre fronti si toccassero. Stavo quasi per chiudere gli occhi...

… Quando un guizzo catturò la mia attenzione.

E lì inorridii.

L'angelo non c'era più.

L'angelo non era mai esistito.

L'angelo ora era un mostro.

Dalle gengive, come spade sguainate, pronte a uccidere, spuntarono dei denti aguzzi e giallastri, che sbordavano dalla bocca livida, ormai senza labbra. La pelle, che fino ad un attimo prima credevo di velluto, si stava gradualmente ricoprendo di chiazze violacee e squame di rettile, dure e scintillanti, mentre i capelli, quei lunghi e bellissimi capelli, assumevano sempre più la forma di esili serpenti, che si rizzarono tutti verso di me, sibilando e minacciandomi con le fauci spalancate. Le ali d'angelo si sgretolarono, lasciando il posto a decine di tentacoli guizzanti.

La metamorfosi peggiore, però, fu quella degli occhi: due orride fessure scure, prive di ciglia e di palpebre, sulle quali le pupille disegnavano un paio di righe nere, sottili e, soprattutto, desiderose del mio sangue.

Avrei voluto morire subito. O addormentarmi per sempre. O svegliarmi dall'incubo.

Invece buttai fuori tutta l'aria che avevo nei polmoni in un urlo, ma alle mie orecchie non giunse alcun suono, né tanto meno all'essere orripilante che mi ghermiva tra le sue grinfie, poiché non si scompose.

Anzi, strinse sempre più gli artigli attorno a me.

Tentai di liberarmi, inutilmente. Scalciavo, mi dimenavo, scuotevo la testa disperata. Inutilmente. Gridai ancora. Sempre inutilmente.

Tra le sue zanne, oscillando da una parte all'altra, spuntò una lingua bluastra e biforcuta, che si allungò avvicinandosi a me. Non avevo scampo: si spalmò sulla mia faccia, viscida e appiccicosa, per poi scendere lungo il collo, sinuosa. Disgustosa.

Ero al colmo della nausea: lo stomaco era sul punto di rivoltarsi. Ma non feci nulla: tutte le mie forze, persino quelle più istintive, si erano prosciugate.

Poi la lingua mi entrò in bocca, soffocandomi.

Gorgogliai una supplica disperata, ma non uscì altro che suono strozzato.

Il mostro non smetteva di invadermi.

Ti prego, pietà! Ti prego! Ti prego!

Tutto vano.

Non riuscivo più a respirare.

Non. Riuscivo. Più. A. Respirare.

Non riuscivo a...

A-iut...

Stavo morendo.

 

Spalancai le palpebre con il cuore fuori dal petto, e con un sibilo inalai profondamente l'aria, colma di gratitudine.

Il mio letto, le mie coperte, il mio cuscino, la mia finestra, la mia stanza, insomma, mi circondavano, caldi e accoglienti, ma ci volle qualche secondo prima che me ne rendessi conto e che constatassi, non senza sollievo, che si era trattato solo di un sogno, un comune, banale, semplice sogno. Un brutto sogno. Un incubo.

Rabbrividii in tutto il corpo al solo ricordo: bastava che chiudessi appena gli occhi per rivedermi alla mercé del demone. Se c'era una cosa che non volevo fare a nessun costo era addormentarmi di nuovo, col rischio di ripiombare ancora in quello scenario da film horror. Istintivamente mi venne da scostare di più le lenzuola dal volto, affinché potessi respirare meglio. Ma subito un odore acre mi urtò violentemente le narici: la mia acerrima nemica, la nicotina. Tossii forte per purificarmi da quel puzzo stomachevole.

“Scusa per il fumo, ma non mi sembravi abbastanza cosciente per rendertene conto. E poi questa me la devi. Mi hai fatto quasi morire insieme a te”.

Il profilo di Elena, illuminato dalle luci della strada, si stagliava netto contro il buio della stanza, rannuvolato di tanto in tanto dal vapore che le usciva violento dalla bocca. Buttai fuori un sospiro di sollievo e quasi mi venne da ridere: per l'ennesima volta mi stupivo della schiettezza della mia amica, efficiente in qualunque momento. Soprattutto quando era incazzata nera. A me spettava scoprire per quale motivo, anche se un po' avevo paura. Quantomeno non avrei più pensato all'incubo.

Allungai il braccio quanto bastava per accendere l'abat-jour sul comodino, cosa che tuttavia mi costò una fatica enorme. L'intero corpo era stato per tutto il tempo raggomitolato in posizione fetale, irrigidito, gli arti intorpiditi, stretti al torace, come se fossero stati costretti in uno spazio troppo piccolo.

Dicono che i sogni non sono altro che veri e proprio viaggi, accessibili solo per l'animo umano e dal quale l'uomo soltanto può uscirne, talvolta persino fisicamente stanco. Be', io mi svegliai stanchissima.

Accesi dunque la luce. Vedere il volto stropicciato di Elena mi riconnesse definitivamente al pianeta Terra.

“Cos’è successo?”, domandai con voce roca, mentre una mano sorresse prontamente la testa, che cominciò a girarmi non appena l’alzai, con troppa velocità, dal cuscino.

Il mozzicone finì in un posacenere improvvisato con un po’ di stizza, insieme all’ultima boccata di fumo.

“Cos’è successo? E me lo chiedi? Te l’ho già detto: sei quasi morta! Ma per fortuna te la sei cavata con una caviglia slogata, un paio di abrasioni e un leggero shock. Il dottore è uscito poco fa. Ti ha lasciato delle medicine nel caso dovessi sentire dolore.”

Sgranai gli occhi: dottori? Medicine? Che cosa mi ero persa? Non rammentavo assolutamente niente, niente di niente.

“Potresti spiegarmi meglio?”

Mi rispose con un gesto impaziente, sfinito. “Cosa c'è da spiegare ancora?”. Anche il tono di voce era mutato, più stridulo. “Sei caduta mentre attraversavi la strada e per poco una gallina con un Suv non ti riduceva in polpette. Contenta ora?”

Era evidente che l’episodio avesse scosso più lei che me, dato che i miei ricordi più recenti si ostinavano a restare sotto la coltre di un totale blackout.

Con cautela, mi tirai su e adagiai meglio la schiena contro il cuscino. Poi la invitai a sedersi sul letto, nel tentativo di tranquillizzarla.

Adottai un'espressione più rassicurante possibile. “Perché non ne parliamo un po'? Ti va?”, dissi.“Va tutto bene ora.”

Non era vera una parola: la caviglia pulsava e pareva percorsa da lingue di fuoco, i muscoli si erano trasformati in pietra, la testa in un macigno e avvertivo qualche bruciore qua e là sulla pelle. La mia collega, però, era troppo distratta per dar retta alle mie bugie. Si bevve le mie parole e si rilassò.

“Ci hai spaventati tutti, lo sai? Per poco al povero signor Esposito non veniva un infarto e dovevamo chiamarla per lui, l’ambulanza. Ma a quanto pare hai un culo così e la sfiga deve farsene una ragione...”

“Ah, niente ambulanza per me?”. Volli ridere, ma il dolore ebbe la meglio.

“No, c’era un dottore lì vicino e ti ha visitato lui. Ti sei risparmiata la seccatura di andare al pronto soccorso; una bella fortuna. Ah, per la cronaca, le tue scarpe sono rimaste intatte.”

Le scarpe!

Tutto a tratto ricordai: il tacco che si incastra nel tombino, gli occhi malefici dell’automobile, lo stridio delle gomme sull’asfalto, le grida di paura, il buio... Tremai: non volevo tornare nel Nulla.

“Ti senti bene? Hai bisogno di qualcosa? Sei sbiancata di colpo.” Subito Elena si era fatta così apprensiva, così... materna, che non potei non pensare che, proprio nel momento in cui credevo di essere riuscita a comprendere fino in fondo la sua personalità, ecco che mi mostrava un altro lato nascosto di sé.

Sorrisi senza convinzione, impegnandomi tuttavia per persuaderla. “È tutto ok. Chissà Rossella come commenterebbe il mio stato”.

Stavolta non ci cascò. Mi fissò a lungo, seria.

Infine disse: “Comunque le ho buttate. Le tue decolleté, intendo.”

In quel momento pensai che non potevo avere amica migliore. Solo un'amica poteva capirmi così bene.

I suoi denti scintillarono. “Sapevo che non le avresti mai più volute vedere in vita tua.”

“Già, hai indovinato. Avrei dovuto disfarmene molto tempo fa. A quest'ora non eravamo in un pasticcio simile”. Sospirai ad occhi chiusi, cercando una posizione più comoda: la caviglia non mi dava tregua.

“Ma che ore sono?” le chiesi poi all’improvviso.

“È notte fonda e tu mi devi un favore. Per colpa tua perdo un giorno di lavoro”

“Come se ti dispiacesse”, sbuffai.

Mi rivolse uno dei suoi sorrisi felini. “Preferirei essere salvata da uomini misteriosi, sai? È molto più entusiasmante.”

La fulminai con sguardo interrogativo: questa non l'avevo proprio capita. E mi resi conto troppo tardi di essere arrossita. Dannazione. “Di cosa stai parlando?”

Elena se la prese comoda, ignorando deliberatamente la mia domanda, e fece per accendersi un'altra sigaretta, ma una mia occhiata truce la dissuase.

“Su, dai. È inutile che fai la finta tonta. La macchina non si è mica fermata da sola. Quella sottospecie di Barbie ossigenata non ti ha nemmeno vista. Idiota neopatentata... A quest'ora saresti bella spalmata sulla strada.” Sbottò rabbiosa, come se avesse voluto racchiudere lì tutti gli insulti e il disprezzo per una donna evidentemente incapace alla guida. “Per tua fortuna c’era il barbone”.

La mia faccia espresse stupore all'ennesima potenza, perché la mia collega ridacchiò al colmo del divertimento.; intanto la sensazione di essermi persa un pezzo della mia vita si faceva sempre più insistente. “Non capisco più nulla.”, mi lamentai scuotendo la testa.

Elena sospirò profondamente. “Ti devo proprio spiegare tutto, eh?”. Si concesse una pausa per riordinare la sequenza dei fatti, poi riattaccò: “Non appena sei caduta, dal nulla è sbucato il tuo eroe. Probabilmente era nascosto dietro una macchina o un cassonetto, che ne so. Il tempismo comunque non gli è mancato: è comparso subito dopo che ti sei adagiata sull’asfalto. Si è piazzato tra te e la macchina a braccia larghe, poi ti ha sollevato e ti ha stesa svenuta sul marciapiede. E dopo... è sparito. Uhm, in effetti non l'ho più visto...”

Mi ha sollevato e stesa sul marciapiede.

Sì, ora il puzzle era completo: le mani che si posano sotto di me per tirarmi su, la sensazione di fluttuare e quelle parole che volevano rassicurarmi. Shh, andrà tutto bene. Calmati, andrà tutto bene. Tutti i miei ricordi avevano senso.

Poi un incomprensibile calore salì dal petto fino ad ostruirmi la gola.

Mi aveva salvato la vita. Un perfetto sconosciuto mi aveva salvato la vita.

Senza preavviso, arrivarono le lacrime.

Tutto lo stress, tutta la tensione e la paura, sommati all'incubo di poco prima, sgorgarono sotto forma di fiumicelli di liquido salato, insieme al pensiero che, là fuori, da qualche parte, dovevo la vita a qualcuno.

“Ehi, ehi, che fai?”, chiese subito Elena allarmata, facendo sfoggio ancora una volta del suo lato buono e sensibile. “Perché piangi? Che succede?”.

Mossi la testa a destra e a sinistra in segno di negazione. Non mi andava di parlarne.

Di slanciò mi abbracciò. “Su, su. Ora è passato.”, mi disse con dolcezza, cullandomi un po'. “Adesso riposa, ne hai un gran bisogno”.

Ricambiai l'abbraccio con gratitudine. Nuove lacrime, stavolta di commozione, si aggiunsero alle altre e le imbrattarono la camicia fresca di lavanderia. Ma non ci badò.

Rimanemmo così per dei minuti interi.

Poi il suo cellulare vibrò.

“Oh, chi cazzo è adesso?”, ringhiò, ritornando la Elena di sempre: la mia scontrosa, pungente, irriverente Elena. Anche se non fu così rapida da riuscire ad asciugarsi gli occhi senza che me ne accorgessi.

Si alzò dal letto e ritornò alla finestra, dandomi la schiena. “Pronto?”.

Una voce piuttosto infuriata ribatté dall'alto capo.

“Sì, mamma, ho visto l'ora, ma non sai che è successo...”.

La madre evidentemente la interruppe, perché lasciò in sospeso la frase.

“Prova a farti gli affari tuoi, una volta tanto! Ti devo ricordare quanti anni ho?”.

Un paio di scambi rapidi, qualche battuta più lunga, poi dall'altra parte riattaccarono. Elena ritornò al letto esasperata.

“Perdonami, era mia madre. Si chiedeva che fine avessi fatto, vista l'ora. Ha pensato bene che fossi a letto con qualcuno, pensa un po'. Pff... A trent'anni vengo ancora controllata dalla mamma... Come se le riguardasse con chi scopo...”. Alzò gli occhi al cielo, tenendo strette tra i denti tutte le imprecazioni che le correvano alla mente. Ma non mi sfuggì il velo di preoccupazione che la rendeva irrequieta.

Capii che era meglio lasciarla tornare a casa. “Forse è il caso che tu vada, Elena”.

“Sicura? E chi ti darà una mano?”

“Starò benone, non preoccuparti. Ho solo una caviglia slogata, non sono mica in fin di vita. Hai la mia autorizzazione ad allontanarti dal mio capezzale.”

Mi rivolse un sorriso appena accennato, come se volesse scusarsi.

“Ok, se lo dici tu... Be', allora vado”.

Le sorrisi di rimando, facendo un cenno per incoraggiarla. “Corri”.

“Se hai bisogno di me, per qualunque cosa...” e si portò una mano a forma di telefono all'orecchio.

Annuii. Quanto avrei voluto che restasse. Ma subito dopo anche il suo braccio sventolante che mi salutava sparì oltre la porta che si chiudeva lentamente.

Ritornai a sdraiarmi sotto le coperte, prestando molta attenzione ai movimenti: la caviglia era insopportabile, così decisi di prendere uno degli antidolorifici lasciati dal dottore. Dopodiché spensi la luce dell'abat-jour e cercai di rimettere in ordine i pensieri.

Ero stata a un passo dalla morte, ma qualcuno, un estraneo, un barbone, mi aveva tratta in salvo per un pelo.

Chissà come avrebbero reagito i miei genitori se lo avessero saputo.

Chissà come stavano Matteo e i signori Esposito a quest'ora.

Chissà che fine aveva fatto il clochard. Chissà che aspetto aveva. Chissà perché l'aveva fatto. Avrei voluto quanto meno ringraziarlo, in ogni caso. Ma l'avrei mai ritrovato?

Mi accorsi che, più che ordine, nel mio cervello si aggrovigliavano decine di fili diversi destinati a creare ancora più caos, e il gran mal di testa che, come sempre, le lacrime mi procurano, sommato a quello che già avevo, di certo non fu d'aiuto e, anzi, non produsse altri effetti se non un immediato sonno.

E questa volta senza sogni.

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Capitolo 5
*** IV. Quattro - Caviglie e paparazzi ***


La sveglia suonò alle sei. Come sempre.

Mugugnai rumorosamente in segno di protesta – È già ora? –, sentendo avvicinarsi l'inizio di un altro giorno esasperante, e con una mano cercai a tastoni di zittire l'allarme.

Azione sufficiente a risvegliare i dolori in tutto il corpo, e specialmente nella mia caviglia.

Come una valanga, mi tornarono alla mente i ricordi della disavventura del giorno prima e la conversazione notturna con Elena, ogni azione, ogni frase, ogni spaventosa paura, e conclusi, alla fine, che il tempo di separarsi dal letto per me non era ancora arrivato. In altre parole, non sarei dovuta andare al lavoro.

Stimai, però, che era almeno il caso di avvisare il capo. Visto il suo caratteraccio, non si poteva mai sapere.

Non vorrei scatenare l'Apocalisse...

Nonostante le fitte, stesi il corpo il più possibile per raggiungere il cordless sul comodino, composi il numero e aspettai. Ero sicura che avrebbe risposto, a quest'ora era sicuramente già sveglio.

E infatti ci volle solo qualche squillo prima di sentire un: “Pronto?”.

“Giorgio, buongiorno. Sono Angela”.

“Oh, Angela, ciao. Se chiami per il lavoro, non ti devi preoccupare. Mia figlia era a La bella Napoli ieri sera e... mi ha raccontato dell'incidente...”.

Grugnii, sperando che non mi avesse sentita. Oh, bene. Chissà quanti altri l'hanno visto.

“E comunque Elena ha già chiamato e mi ha spiegato tutto”.

“Per cui non ci sono problemi se oggi non vengo?”.

“Assolutamente! Resta a casa per questa settimana. Hai bisogno di rimetterti in sesto”.

Per tutta la settimana?!

Era giovedì, il che significava che fino al lunedì successivo sarei rimasta in malattia. Ero allibita. Questo decisamente non era quello che mi aspettavo dal mio capo, sempre con i nervi a fior di pelle per ogni minima sciocchezza. Suonava tutto molto strano, troppo strano. Per un momento pensai di aver sbattuto forte la testa contro l'asfalto la sera precedente e di essere piombata in un universo parallelo dove il Gigi del Super Market Sempre Pronto era un uomo gentile e che, soprattutto, ti chiamava per nome. Lui che usava sempre e solo l'appellativo signorina, spesse volte decorato da un ehi, tu. Poco importava se eri giovane, vecchia, sposata, vedova, single, fidanzata, separata, sull'orlo di un divorzio, sui cinquant'anni, una bambina di sei mesi, un'adolescente con l'acne o addirittura un uomo. Per Gigi il registro dell'anagrafe era pieno di signorina scritti in colonna in bella grafia.

Mostrai il mio scetticismo. “Ehm... Ne è proprio sicuro? Per tutta la settimana?”.

Ma certo! Pensa a guarire per ora. Ci rivediamo lunedì, Angie”. E riattaccò.

Quell'ultimo Angie mi scosse più di tutto il resto. Una così ampia confidenza non era normale.

Rabbrividii. Sì, decisamente, il mondo si è veramente ribaltato.

Tornai dunque ad accoccolarmi sotto le coperte, con il piumone tirato fin sopra la testa e le lenzuola ben strette intorno, e non passò molto tempo prima che la mia mente cominciasse a fare strampalati ragionamenti su un possibile rapimento alieno di cui il mio capo era stato probabilmente vittima, segno che il senno mi stava abbandonando e che mi sarei presto riaddormentata.

 

Fu una mattinata lunga e difficile.

Tanto per cominciare fui svegliata dal suono del campanello, che mi annunciava che qualcuno mi voleva alla porta. In realtà in un primo momento neanche me ne accorsi, tanto ero ancora lontana dal mondo reale. Ma quando fui abbastanza cosciente, lamentai che mi ci sarebbe voluto un secolo per fare soltanto qualche metro.

Un minuto, arrivo!”, avvisai allora urlando. Poi, con movimenti studiati, uscii dal letto e, un'eternità dopo, un po' saltellando, un po' sostenendomi alle pareti, riuscii a raggiungere l'ingresso.

La vista della padrona della casa di cui io ero solo un'affittuaria, la signora Rosalba, da tutti detta Alba, mi spiazzò.

Ciao, Angie”, mi salutò. “Ti ho portato questo”, e mi mise tra le braccia qualcosa di bianco e pesante, che, capii un secondo più tardi, era una pirofila coperta da stagnola. Mi prese talmente in contropiede che non fui in grado di farfugliare altro che un: “Grazie”.

Be', ho pensato che magari ti avrebbe fatto piacere qualcosa di caldo da mangiare... Dato che, sì, insomma, non puoi muoverti molto”. Notai che il suo sguardo si era spostato sulla mia gamba fasciata e, contemporaneamente, mi domandai come poteva conoscere tutte quelle informazioni, dato che erano trascorse neanche dodici ore dall'accaduto. Certo, non potei non ricordare che la signora in questione adorava le notizie fresche fresche... L'incidente doveva aver fatto scoppiare un bel casino. Contornato da un bel boom di pettegolezzi.

Sì, grazie. In effetti è un gran sollievo. Sarà un pranzo ottimo”. Qualunque cosa sia.

La signora Alba sembrò soddisfatta di aver compiuto il suo dovere di ospite. “Bene, allora... Buon appetito”. Ridacchiò impacciata, tra il divertito e il nervoso. “E se hai bisogno di me, sai dove trovarmi”.

Certamente, al piano di sopra, dove non potrò arrivare coi miei piedi.

Senz'altro. Be', allora la ringrazio di tutto”.

Mi sorrise con il suo sorriso cavallino. “Di niente, cara”.

Richiusi la porta alle mie spalle, stranita per la seconda volta in poche ore. Non che la signora Rosalba non fosse una persona disponibile, questo no, però... Ecco, le gentilezze erano veramente una rarità. Era molto più propensa a squadrare gli inquilini del suo appartamento come se fossero dei potenziali criminali e a non fidarsi di nessuno. Evidentemente, la mia quasi morte doveva avermi fatto guadagnare qualche punto.

Scossi la testa. “Tra poco mi diranno che gli asini volano e i procioni ballano la macarena”.

All'improvviso mi preoccupai di sapere che ore fossero. Le lancette mi risposero che erano le nove passate. Convenni, allora, che era inutile rimettersi a letto e che ora la giornata era veramente iniziata.

Sospirai, le mani sui fianchi. “A noi due, nuovo giorno”.

 

In piedi, davanti allo specchio dell'armadio, completamente nuda, tranne che per la caviglia fasciata, e con l'accappatoio sulle spalle, la mia immagine riflessa era peggio di quanto pensassi.

Un'ispezione veloce mi informò che le mani, i polsi e le ginocchia erano ricoperti di macchie – rosse per le abrasioni, blu per le ecchimosi –, più un taglio lungo ma poco profondo, di cui non mi spiegai l'origine, sul polpaccio sinistro. In generale era da dire che, tutto il mio lato sinistro, quello che evidentemente aveva toccato l'asfalto per primo, era un disastro, a cominciare dal livido enorme sul fianco, che faceva male solo a guardarlo, figuriamoci a metterci le dita. L'aspetto peggiore, tuttavia, era in assoluto quello della mia faccia.

Innanzitutto un bel bernoccolo dolorante sulla fronte mi confermò che in effetti avevo sbattuto la testa, ma la cosa che più mi inquietava erano le occhiaie: nonostante le beate ore di sonno, sembrava che non avessi dormito per niente.

Sospirai malinconica. Mi mancavano solo un paio di cenci maleodoranti e la bava alla bocca e poi sarei stata perfetta per un film sugli zombie. L'andatura claudicante già ce l'avevo.

Accidente, faccio proprio schifo sui tacchi, mi dissi, e, allo stesso tempo, giurai solennemente a me stessa che non avrei più rimesso delle scarpe alte in vita mia, mai più, nemmeno sotto tortura.

Mi buttai sul letto, sovrappensiero, riflettendo su come avrei potuto riempire la giornata. È assurdo come quanto una persona speri di avere del tempo libero e come poi non sappia che farsene, è un controsenso. Considerando la mia scarsa possibilità di deambulare, poi, non avevo molte scelte.

Finora ero riuscita soltanto, e non senza fatica, a mettermi sotto la doccia, il che mi aveva costretto ad una delle cose più imbarazzanti della mia vita: cellofanare la caviglia. Il mio tentativo di cambiare la fasciatura, infatti, era miseramente fallito: una volta constatato che non sarei riuscita a riprodurla, lasciai perdere e, dato che non si doveva bagnare, la ricoprii come potei.

Adesso, però, la questione si faceva più pressante. Se dovevo guarire in tempo per lunedì, era necessario che la caviglia venisse medicata.

Mi dedicai, per un buon pezzo, alle mie ferite di guerra, armeggiando con cerotti, pomate, disinfettante, garze e l'apposito nastro adesivo. Poi mi concentrai sulle fasce sulla gamba: con delicatezza, tolsi il fermaglio che le teneva strette intorno alla caviglia e le sciolsi lentamente, cercando di memorizzare a ritroso tutti i passaggi che il dottore aveva fatto, fino a quando non incontrai la mia pelle nuda.

Ma non ero pronta per quello spettacolo.

Mi sfuggì un gemito per il dolore.

Tutto il piede era un miscuglio di colori, ognuno dei quali indicava l'anomalia della situazione. Si passava da un rosso paonazzo al nero-bluastro, toccando tutte le tonalità intermedie. Io stessa non pensavo che il corpo umano potesse colorarsi di una così vasta gamma di sfumature, e quasi me ne spaventai. Per non parlare del gonfiore: la caviglia sana era grande almeno la metà.

Questo sì che fa male solo a guardarlo. E stavolta non era uno scherzo.

Agguantai la pomata e la spalmai dall'estremità inferiore della tibia in giù con massaggi leggeri, attenta a non premere troppo. Subito il contatto del gel fresco sulla pelle in fiamme mi fece stare meglio. Poi toccò alla garza: ne presi un lembo e incominciai ad attorcigliarlo intorno al piede. Il segreto, mi dissi, è fasciarla stretta ma non troppo, quel che basta per immobilizzare la caviglia. E devo ammettere che il risultato finale non fu niente male.

Finite le medicazioni, non mi restava altro da fare. Di cimentarsi in lavori casalinghi non se ne parlava neanche. Non che la casa non ne avesse bisogno, anzi, la signora Alba mi avrebbe rifilato una super ramanzina se avesse scoperto in che stato era. C'era roba da lavare, altra da stirare, mensole e mobili impolverati, le lenzuola da cambiare, la cucina in disordine ed era rimasta nell'aria un vago sentore del fumo delle sigarette di Elena; per non parlare del pavimento del bagno, completamente allagato dopo il mio tentativo di sistemarmi. Dovevo rimboccarmi le maniche, non avevo scuse, ma l'esperienza sotto la doccia mi era bastata per capire che non ero autosufficiente nei movimenti.

Dunque desistetti e, sbuffando e brontolando, mi portai con lentezza sul divano del salotto.

Bene, se non posso rendermi utile, che posso fare? Vagliai varie alternative, ma nessuna mi entusiasmava.

Poi mi tornò alla mente quello che Elena aveva esclamato appena il giorno prima – mi sembrava passata un'eternità. Stai diventando uno zombie a furia di lavorare e basta. Guardati! Sei un essere umano anche tu, santo cielo; prima o poi cederai se non ti concedi un attimo di svago!

Hai ragione tu, Elena”, dissi mesta a me stessa. “Ci vuole un po' di tempo solo per me”.

Ricordai l'espressione decisa della mia collega, determinata a staccarmi a qualunque costo dal mio mondo fatto di casa e lavoro almeno per una sera; riaffiorò alla memoria il viso tondo e preoccupato di Rossella, la macellaia del Sempre Pronto, alla vista della mia faccia da morta vivente; mi risuonò nella testa la voce allegra e incoraggiante della signora Esposito quando le avevo telefonato la mattina precedente.

Sì, oggi mi sarei dedicata a me soltanto.

Mi alzai di scatto, stranamente felice della mia scelta, e corsi, si fa per dire, in camera mia: sul comodino c'era un bel libro che mi attendeva e che non aprivo da settimane. Lo presi. Presi anche una coperta e un paio di cuscini dall'armadio. Poi ritornai al divano, dove posai il mio piccolo tesoro, ma non ero ancora soddisfatta. C'era ancora una cosa di cui avevo bisogno.

Mi fiondai in cucina. Presi l'occorrente. Accesi il gas.

L'odore del caffè si diffuse nell'aria in un battibaleno.

Ah, ora sì che posso morire contenta”.

Mentre aspettavo che la mia dose di caffeina fosse pronta, sbirciai sotto la stagnola della signora Alba.

Nella pirofila erano adagiate delle meravigliose lasagne. Mi vennero le lacrime agli occhi. Era una vita che non ne mangiavo, almeno da... dal trasferimento, e infatti il mio stomaco brontolò rumorosamente, avvisandomi che ne esigeva una porzione. Tuttavia l'ora di pranzo era ancora piuttosto lontana, per cui mi imposi di resistere. E poi la mia tazza di caffè quotidiana non me la toglieva nessuno.

La caffettiera gorgogliò, segno che dava ufficialmente inizio alla mia fase relax.

Con la tazzina in mano, ritornai adagio al divano. Sotto braccio tenevo un paio di siberini che sarebbero sicuramente stati una manna dal cielo per la caviglia dolorante. Mi preoccupai, inoltre, di rendere il mio giaciglio il più confortevole possibile, ragion per cui sistemai con cura i cuscini e disposi gli oggetti in modo che, nel caso in cui ne avessi avuto bisogno, fossero raggiungibili anche senza dovermi alzare.

Bene. Tutto era pronto.

Mi apparve strano, ma tutto questo mi rendeva euforica.

Mi accoccolai con calma sul divano. I cuscini erano perfetti là dove li avevo posti. Uno di essi, piccolo e morbido, mi sosteneva il piede malato, su cui poggiai i siberini freschi. La coperta completava il tutto. Ora non mi restava che appropriarmi del caffè e immergermi nella lettura.

Con la tazza in mano, recuperai il romanzo – I pilastri della terra, un libro leggero leggero –, lo aprii, tolsi il segnalibro, e...

Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin

e mi chiamarono al citofono.

In tutta sincerità, in un primo momento mi spaventai. Da quando mi ero trasferita lì due mesi prima non l’avevo mai sentito suonare: per me era qualcosa di nuovo. Un attimo dopo, comunque, compresi quello che implicava: mi sarei dovuta alzare.

Non riuscii a trattenere un’imprecazione.

Quando potrò avere un attimo di pace?

Zampettai fino al citofono. Ringraziando il cielo, non c'era nessuno nei paraggi, perché lo spettacolo doveva essere veramente patetico.

Giunta alla cornetta, però, indugiai per un momento, fantasticando su chi, in strada, aspettava di essere ricevuto. In tutta probabilità si trattava soltanto di pubblicità o venditori ambulanti, tuttavia mi fermai lo stesso a pensare. Forse… Forse poteva essere… No, non era credibile, non lo avrebbero mai fatto. Scossi in fretta la testa per togliermi quel pensiero, per impedire che si insinuasse troppo a fondo dentro di me e diventasse una speranza. Alzai decisa la cornetta.

“Sì?”.

Una voce femminile, tanto stridula quanto snervante, rispose dall’altro capo. “Angela Savier?”.

“Sì, sono io”.

“Buongiorno, sono Tessa Arrigoni, giornalista del quotidiano locale”.

Mi impietrii. Una giornalista?! Che vuole una giornalista da me?

Come se mi avesse letto nel pensiero, Tessa chiese: “Posso rivolgerle alcune domande?”.

Lì per lì rimasi interdetta. Perché mai una giornalista voleva porre delle domande a me? Non potevo credere che fosse a causa dell’incidente. Insomma, alla fin fine non era successo nulla, io stavo bene, tutti stavano bene, la tizia che quasi mi aveva investito non aveva dovuto andare in galera e il mio salvatore, a quanto pareva, si era volatilizzato. Non c’erano morti da piangere, famiglie da consolare, particolari commoventi su cui ricamare, non c’era niente.

Allora perché diavolo avevo una giornalista sotto casa, ansiosa di intervistarmi?

Poteva essere che…

Ma sì, poteva darsi che fosse a causa del misterioso barbone. In fondo, era lui la componente più intrigante di tutta la faccenda: la comparsa tempestiva, il salvataggio, la sparizione improvvisa… Qualcosa mi diceva che lui era la chiave di tutto.

Ma allora che c’entravo io? Ne sapevo meno di quella Tessa laggiù, dato che la sera precedente a malapena mi rendevo conto di essere al mondo, figuriamoci se potevo raccontarle qualcosa. No, non le ero di nessuna utilità e le avrei soltanto fatto perdere tempo. E, inoltre, non ci tenevo a far conoscere me e la mia vicenda a tutta la città. Già era abbastanza fastidioso che la sapesse tutto il condominio.

Eppure…

Eppure perché no? Dopo tutto, quanto spazio avrebbe occupato una notizia come quella? Un piccolo trafiletto, in fondo, tra le ultime pagine. Niente di importante. Ed era probabile che Tessa fosse una ragazza con problemi economici che avrebbe tentato qualunque cosa, persino intervistare una persona insignificante come me, pur di racimolare un po’ di denaro per sopravvivere. In altre parole, poteva benissimo trovarsi nella mia stessa situazione. Come potevo abbandonarla?

, decisi, buttiamoci!

“Angela? È ancora lì?”.

Dovevo essere rimasta a riflettere un po’ troppo a lungo. “Sì, ci sono. Può salire”, dissi in fretta.

Qualche minuto più tardi, Tessa comparve alla mia porta. Era piccola e bassa, all’incirca della mia età, con capelli corti e corvini e un paio di occhiali dalla montatura spessa poggiato sul nasino alla francese. Il suo viso, per un momento, tradì sorpresa nello scoprire che eravamo quasi coetanee; anzi, che ero più giovane di lei. Non so chi si aspettasse, ma di certo non me. Un’espressione affabile e professionale, tuttavia, sostituì immediatamente lo sgomento; mi allungò un braccio nell’atto di presentarsi.

“Tessa Arrigoni, molto piacere”.

Strinsi la sua mano piccola e molliccia nella mia. “Angela Savier. Prego, entra”. A questo punto dare del lei non aveva senso. La condussi nella stanza che faceva da salotto zoppicando; volevo conservare un minimo di dignità e, anziché saltellare, cercavo di poggiare il piede malato per terra, stringendo i denti.

Il salotto era un disastro. Mi ero totalmente dimenticata di aver lasciato roba sparsa ovunque, il che non dava sicuramente una buona impressione di me; Tessa, però, simulando cortesia, faceva finta di non accorgersene e si guardava in giro.

“È molto accogliente, qui”, commentò mostrando interesse per alcuni quadri appesi alle pareti.

Ne approfittai per nascondere i siberini sotto il divano. “Sì, abbastanza”, replicai con una vocetta isterica. Intanto chiusi a malincuore I pilastri della terra. “Però non è proprio casa mia”.

Tessa si girò di scatto. “Ah no?”. La luce che improvvisamente si accese nei suoi occhi mi fece paura. Tutta la sua curiosità era viva, adesso, come se dietro quello che avevo appena detto si nascondesse di più. Mi pentii di avere accettato di riceverla. Questa non era una giornalista alle prime armi: era una fredda cacciatrice di notizie.

“È in affitto”, mi affrettai a spiegare con le guance in fiamme.

Se la risposta la deluse, non lo diede a vedere. Ma ancora prendeva tempo, passeggiando per il salotto come se fosse in un museo, senza arrivare al nocciolo della questione: che voleva sapere da me? Mi sentivo sulle spine.

“Posso offrirti qualcosa? Ho fatto il caffè poco fa”, proposi allora.

“Oh, no, non disturbarti”. Mi sorrise. Aveva un sorriso bruttissimo, uno di quelli che deformano le facce della gente e le rendono grottesche anziché graziose. Mi piaceva sempre meno. Ma per lo meno l’invito la indusse a sedersi sul divano. Era ora.

Persino il suo modo di sedere non mi andava a genio: teneva la schiena rigida e le gambe serrate, cosa che dava al suo atteggiamento un che di borioso. Tirò fuori un blocnotes dalla borsetta, lo sfogliò con cura; si munì di penna; prima di aprir bocca, spinse gli occhiali verso la radice del naso con la punta dell’anulare, con un gesto talmente teatrale da far ridere; poi, finalmente, attaccò a parlare.

“Angela, sai già perché sono qui”.

Non ne ho la più pallida idea.

“Sì, posso immaginare”.

“Ieri notte”, proseguì con tono quasi cerimonioso, “sei stata vittima di un terribile incidente, che sarebbe certamente finito in tragedia se non fosse stato per l’intervento di qualcuno…”.

Fin qui nulla di nuovo, era il riepilogo delle mie ultime dodici ore circa. Non dissi nulla. Fremevo mentre attendevo il resto.

“Come ti sei sentita quando hai capito che saresti morta?”.

Involontariamente tirai su un sopracciglio: tutto qui? Mi aspettavo domande più spinose e insidiose, poste con l’intento far vacillare e cadere, di scoprire cose segrete, qualche intrigo, alcuni scoop eclatanti. Poteva darsi che la stessi sottovalutando, ma, be’, vista la situazione, per ora non avevo niente da temere. Risposi con sincerità. “Veramente non lo so dire: ero sotto shock, ho dei ricordi davvero frammentati di quel che è successo. Rammento solo che la macchina mi stava venendo incontro, coi suoi enormi fari gialli, e tutto a un tratto ho visto solo nero e non sentivo più nulla. Mi sono ripresa molto più tardi”.

“E del barbone…”. Si schiarì la voce. “Perdonami, del clochard, ti ricordi?”.

La domanda mi imbarazzò. Sperai che non si notasse. Sì, mi ricordavo di lui, era uno dei particolari più vividi nella mia memoria. Non l’avevo guardato in viso, non conoscevo i lineamenti del suo volto, ma a volte, ripensando all’accaduto, quando meno me lo aspettavo, nella testa mi riecheggiava la sua voce, con il suo timbro, il suo tono preoccupato, e riascoltavo quello che mi aveva detto – Andrà tutto bene. Calmati, andrà tutto bene – quasi fosse una registrazione nel mio cervello. Avvertivo il respiro affannato come se fosse presente, e il velo di paura che permeava le sue parole. Certo, anche lui doveva essersi spaventato a morte: aveva rischiato la sua vita per salvare la mia. Quando ci pensavo mi si scaldava il cuore. Era stato molto coraggioso.

Grazie…

Tessa simulò un colpetto di tosse. “Angela?”. Il suo sguardo interrogativo comunicava una certa perplessità.

Mi riscossi, come se fossi uscita da un sogno. Ancora una volta, le mie riflessioni mi avevano portato più lontano del dovuto. Non mi sarei sorpresa se la giornalista avesse creduto che non avevo tutte le rotelle a posto.

“Sì, mi ricordo”, replicai con slancio, dimostrando di non aver perso il filo del discorso. “Ma non ho idea di che faccia abbia”.

Stavolta il volto della reporter si tinse chiaramente di delusione. Non potei fare a meno di chiedermi cosa si aspettasse che le dicessi, ma, già qualche istante dopo, la fredda determinazione da giornalista si ripresentò, e non ci ragionai più su.

Si sistemò gli occhiali. “Secondo alcuni testimoni, assistere alla scena è stato terribile. Sembrava di essere in un film. Cosa hanno pensato i tuoi conoscenti?”.

Come quesito mi pareva alquanto ridicolo – E io cosa ne so?! Vallo a chiedere a loro! –, ma tenni per me le mie opinioni. “Non ne so molto”, risposi, “però la mia amica, che mi stava aspettando dall’altra parte della strada, era così scossa che per poco non è morta di spavento”. Risi nervosamente. “Ho idea che all’obitorio ci stava finendo lei”.

La ragazza mi guardò con una freddezza tale da farmi rimpicciolire nel divano. Era chiaro che non la trovava una battuta divertente. Si limitò a regalarmi un sorriso accondiscendente, giusto per darmi il contentino, e scribacchiò qualcosa sul notes come se la mia dichiarazione fosse molto importante.

Un attimo dopo, rialzò il mento. I suoi occhi incontrarono il piede fasciato, gonfio e livido sotto le bende, risalirono fino alle mani, i cui palmi, decorati con cerotti e garze, si erano scartavetrati contro l’asfalto, e si soffermarono sul bernoccolo sulla fronte. “Vedo che l’incidente ti ha conciato un po’ male”, giudicò.

“Be’, abbastanza. Ma, al confronto con le ferite di un incidente vero, questi sono solo graffi”.

“Uhm, raccontami”.

Cominciavo a spazientirmi. “Davvero, sono soltanto due tagli, niente che non possa guarire in fretta”.

“E la caviglia?”.

Ma certo, sibilai a me stessa tra i denti. La caviglia. “Il dottore dice che è una slogatura, un po’ brutta ma passerà”. Il realtà non sapevo assolutamente nulla di quello che il dottore aveva detto, riportai semplicemente le informazioni datemi da Elena. Leggermente distorte. “Entro lunedì dovrei essere di nuovo in forma”.

“Sembra molto gonfia per essere solo una slogatura”, mi fece notare Tessa.

Tagliai corto. “Mi fido delle parole del medico”.

Non replicò.

“Passiamo ad altro. Se in questo preciso istante avessi davanti la persona che per poco non ti ha investita, cosa le diresti?”.

Oh, finalmente una domanda con un senso.

Mi concentrai. Confesso che, in tutta quella faccenda, non avevo mai pensato prima alla guidatrice che quasi mi aveva spedito all’altro mondo. Forse perché la vera minaccia, per me, era stata l’auto in sé – con gli occhi gialli ed enormi, che si avvicinavano annunciando la mia morte –, non chi la guidava. Il ruolo del conducente mi sembrava inconsistente, un fantasma, un personaggio ai margini della scena, visto che, di fatto, non ci eravamo mai incontrati – e, fortunatamente, scontrati. Cosa le avrei detto? Di stare più attenta la prossima volta? Di comprarsi una utilitaria se non era capace di governare un SUV? Non sapevo. La verità è che non avevo niente da dirle. Anzi, più in fretta dimenticavo questa storia e meglio era.

“Probabilmente chiederei che stava facendo mentre guidava, dato che non mi ha visto”.

Tessa annotò in fretta, il volto imperturbabile.

Poi si fece serissima, e nelle pupille brillò una scintilla che mi mise i brividi. Si stava preparando a qualcosa di grosso.

E infatti…

“Torniamo un attimo al clochard. Ti va?”.

Annuii senza convinzione.

Si schiarì la voce. L'anulare spinse gli occhiali verso la fronte. “Se lo dovessi rincontrare”, disse, “come pensi che lo ricompenseresti?”.

Sgranai gli occhi e per poco la bocca non si spalancò per lo stupore. Odiai ammetterlo, ma questa volta mi aveva colto del tutto alla sprovvista. Finora, tutto quello che mi ero immaginata era di trovarmelo di fronte, un giorno, per caso, e di presentaci l'uno all'altra, di stringergli la mano e di ringraziarlo dal più profondo dell'animo, di guardarlo dritto negli occhi e di promettermi di riservargli uno spazio nei miei ricordi, nei miei pensieri, nel mio cuore, persino nelle preghiere che sarei potuta tornare a recitare, fino a che avessi avuto respiro. Ma, su una ricompensa, proprio non ci avevo ragionato. In fin dei conti era una cosa giusta, una persona che ti salva la vita se lo aspetterebbe. Eppure come si può ricompensare un senza tetto? Dandogli un tetto? Io ne avevo solamente uno, e non era neanche di mia proprietà. Cedendogli del denaro? Anche di quello ero a corto; già bastava a malapena, figuriamoci se avessi dovuto donarne una parte. E poi non ero sicura che fosse la cosa giusta da fare; non conoscevo nulla della vita dell'uomo in questione, del suo passato, e, per quello che ne sapevo, poteva benissimo essere caduto in disgrazia per motivi economici: un affare andato male, un divorzio costato molto caro, un investimento sbagliato, un tenace vizio del gioco... Oppure poteva essere stato un tossicodipendente, eroinomane, alcolista, fumatore di crack o consumatore di altri stupefacenti, che a causa della dipendenza aveva abbandonato tutto, vivendo per strada.

Il problema era che poteva essere qualunque cosa. I soldi potenzialmente risultavano tanto utili quanto dannosi. E, nel caso più spiacevole, di sicuro la mia coscienza non sarebbe stata a posto con se stessa...

Però volevo aiutarlo. Davvero. Sinceramente.

Con qualunque mezzo avessi a disposizione.

Presi un respiro.

“Se solo potessi”, mormorai a Tessa, “gli offrirei tutto quello che ho”.

 

“Allora, ti sei goduta la pacchia, eh?”

Era sera, le otto passate. Elena mi rimproverava dall'altra parte della cornetta, ma ero certa che sul viso avesse stampato uno dei suoi soliti sorrisi felini.

“Anche tu non sei andata al lavoro oggi, o sbaglio?”, la provocai.

“Io ho una famiglia da gestire, cara mia. Non hai idea di quanta energia ci voglia per mandare avanti una casa e stare dietro ad una figlia adolescente, e non ho neanche la scusa di una gamba infortunata”, sospirò stanca, ma si avvertiva la sfumatura di affetto nella sua voce. “Per non parlare del terzo grado di mia madre stamattina. Non ne potevo più!”

Risi di cuore. Per fortuna che c'era Elena.

“Perché? Che ti ha detto?”.

“In poche parole mi ha ricordato come si fanno i bambini”.

“Non ci credo!”.

“Lo giuro! Un discorso molto dettagliato. Oddio, quanto è stato imbarazzante! Mi sembrava di avere di nuovo dodici anni”.

Scoppiammo a ridere contemporaneamente. Mi sentivo sempre meglio.

“Le ho persino raccontato di ieri sera, per filo e per segno, del mancato incidente, di quello che ti è successo, tutto, ma non mi ha creduto. Pazzesco”.

Sorrisi tra me e me. Non volevo farle notare che, in quanto a testardaggine, neanche lei scherzava. Mi morsi la lingua.

“Vabe'. Ma, piuttosto, dimmi un po', come va la caviglia?”

Sospirai rassegnata. La mia caviglia: l'argomento del secolo.

“Sei la milionesima persona che me lo chiede, oggi...”, replicai stizzita.

Per un attimo ci fu una pausa. “Oh, perdonami, non immaginavo. Chissà che rompiscatole che...”

La interruppi ridacchiando. “... E l'unica a cui sono felice di rispondere.”

La si udì emettere un sospiro di sollievo. “Cavoli, Angie, per poco non ti ho preso sul serio. Ti sto influenzando troppo”.

“E io te, a quanto vedo”.

“Non ci contare. Dai, dimmi come va”.

“Non bene come vorrei, ma neanche così male. L'ho medicata e fasciata e tutto, però è gonfiatissima. Ringraziando il cielo la signora Alba mi ha prestato un paio di stampelle, così posso almeno girare per casa senza sembrare un idiota”.

“La signora Alba che presta qualcosa di suo? Questa me la devo segnare...”

“Mi ha anche portato le lasagne, stamattina”.

“Oh, be', allora hai proprio operato il miracolo!”

“Dai, su, non è poi così tirchia”.

“No, è solo una persona geneticamente predisposta al risparmio”.

Mio malgrado, mi misi a ridere. “Esagerata! È che ci tiene, alle sue proprietà”.

“Sì, sì, meglio continuare a pensarla così”.

“Comunque Jessica come sta?”.

“...”

Silenzio dall'altra parte. Per uno, due, tre, quattro...

“Pronto?”

Nessuna risposta.

“Elena, sei ancora lì?”. Fissai lo schermo del telefono, pensando che fosse caduta la linea. La chiamata era ancora attiva. “Elena?”. Mi si ghiacciò la nuca. Avevo paura di aver toccato un tasto dolente, accennando a Jessica; magari sua figlia non aveva digerito il fatto che la mamma si era concessa le ore piccole, la sera prima, trascurandola, e poteva darsi che avessero litigato. Il senso di colpa mi gravò su tutto il corpo, fino in fondo allo stomaco, procurandomi un insopportabile senso di malessere: la responsabilità era soltanto mia.

“Elena, se è per ieri...”

“Shhhh”, mi zittì.

Deglutii il groppo di amarezza che si stava formando in gola e attesi, attesi che dicesse qualcosa, ma dall'altro capo nessuna risposta, nemmeno un bisbiglio, per svariati secondi.

Poi, finalmente: “Oh. Mio. Dio”

Le vertigini mi assalirono. “Cosa? Cosa è successo?”.

“Veloce, gira sul 17, presto!”.

“Perché? Che sta succedendo?”.

“Gira, gira!”.

Schiacciai il pulsante rosso del telecomando. La televisione prese a cantare.

Digitai il 17. Stavano trasmettendo il telegiornale locale della sera.

Mi si fermò il cuore.

... Tragedia sfiorata, ma non consumata, grazie all'intervento coraggioso di...”

Conoscevo quella voce, acuta e irritante. Era stata nel mio salotto, sul mio divano, appena quella mattina – Solo qualche ora fa?

... Tutta la gente radunata in via Verdi ha prestato prontamente soccorso e ha inveito contro la diciottenne al volante della BMW X5. La ragazza è stata scortata in caserma per...”

Era un incubo. Volevo morire.

... senza patente; ora si chiederanno spiegazioni ai...”

Non sentivo più nulla. Non volevo più sentire nulla. Non avrei più sentito nulla.

Mi tappai le orecchie e scossi la testa, ad occhi chiusi. Desideravo ardentemente che non fosse vero. Senza accorgermene, il telefono mi scivolò in grembo.

È solo un sogno è solo un sogno è solo un sogno è solo un sogno è solo un sogno è solo un...

Allora perché non mi svegliavo?!

Tornai a guardare la televisione; solo le immagini, l'audio lo ignoravo. Scorrevano, in rapida sequenza, inquadrature della città; innanzitutto la scena dell'accaduto, a più riprese: la strada per intero, i segni delle frenate sull'asfalto accanto al maledetto tombino, un SUV, uno qualsiasi, che svoltava per imboccare la fatidica via, passando davanti a La Bella Napoli, ancora le frenate, viste da un'altra prospettiva; e poi la caserma, il traffico della città, uno zoom su una volante dei carabinieri, una ripresa dove campeggiavano piedi e gambe di passanti, un'altra strada trafficata, altri passanti, e...

Eccolo! È quello là!”. Dal telefono sulle mie gambe, la voce di Elena si udiva appena, attutita, soffocata.

Non c'era bisogno di specificare a chi si riferisse. Lo vedevo da me.

Perché per un secondo, una piccola frazione di secondo, sullo schermo comparve una strada che ben conoscevo: la percorrevo ogni mattina per andare, calpestando il marciapiede lastricato con il muro scrostato sulla sinistra, fino al punto in cui si formava un angolo retto, che, svoltato, mi avrebbe condotto velocemente sul posto di lavoro. E proprio in quel punto, sulla traversa, sedeva un barbone, immerso nei suoi vestiti logori.

Lo conoscevo.

Era lo stesso che avevo incrociato per un istante la mattina prima.

Inavvertitamente, il muscolo nel petto cominciò a pompare sangue all'impazzata, sempre più forte, sempre più forte, più forte, più forte, più forte forte forte...

Con l'interesse ormai acceso e stranamente emozionata, sintonizzai di nuovo le orecchie sulla modalità on, sperando di captare qualche notizia in più sull'uomo a cui dovevo la vita, ma fui delusa.

... La vittima, fortunatamente, ha riportato soltanto una piccola microfrattura e ha promesso che ringrazierà l'eroico clochard con una lauta ricompensa”. Fine del servizio.

Non ci volevo credere.

Ma non è quello che intendevo!”, esclamai incollerita.

Piombai in un silenzio carico di elettricità, sbalordita.

Era ufficiale.

Quella Tessa Arrigoni mi stava proprio sul cazzo.

Era meglio concentrarsi sul mio salvatore, aveva un influsso decisamente migliore sul mio umore. Infatti subito i pensieri si rasserenarono, più leggeri, più felici, e il cuore tornò a battere in modo agitato.

Richiamai alla memoria l'immagine sullo schermo.

Ora non era più solo un'illusione nella mia testa. Ora avevo negli occhi l'immagine di un uomo in carne e ossa. Ora sapevo dove potevo trovarlo, o almeno tentare di trovarlo. Ora era una presenza corporea, e non aria e suono. Ora potevo parlargli, per lo meno avrei potuto. Ora, ora, ora...

Sì, ma ora? Che avrei fatto?

Ah, che importava? Al momento la cosa fondamentale era che ci fosse. Da qualche parte, là fuori, chissà dove in quel momento, in quel mondo aperto. Ma c'era.

Poteva bastare.

Sorrisi nell'oscurità della stanza.

La voce lontana e ovattata di Elena mi riportò al presente. “Adesso sì che mia madre mi crederà!”.

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