Blake

di jsethrioter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Blake ***
Capitolo 2: *** 15 settembre 2011 ***
Capitolo 3: *** 3 febbraio 2012 ***
Capitolo 4: *** 16 marzo 2012 ***
Capitolo 5: *** 9 giugno 2012 ***
Capitolo 6: *** 1 luglio 2012 ***
Capitolo 7: *** 29 gennaio 2013 - Parte 1 ***
Capitolo 8: *** 29 gennaio 2013 - Parte 2 ***



Capitolo 1
*** Blake ***


 Blake



“Come ti senti?”
Ero seduta su una poltrona e fissavo le scarpe della psichiatra. Erano dei mocassini marroni orrendi. ‘Chissà dove l’ha comprati’ mi chiedevo. Lei nel frattempo scriveva qualcosa su un foglio e mi guardava. Mi guardava come si guarda un cane in fin di vita o una persona malata di cancro, come se non avessi più una speranza di vivere.
Tutti dicevano che avevo dei problemi e che dovevo parlarne con qualcuno, che ero malata di mente, che non ero più me. Per questo mi hanno mandato qui da questa psichiatra che ogni giorno mi fa sempre la stessa domanda sperando che io le racconti tutto quello che ho in testa.
I suoi occhi puntati su di me iniziavano a darmi fastidio allora alzai lo sguardo e iniziai a fissarla, dopo circa mezz'ora posai lo sguardo sulla finestra. Era una bella giornata: il sole era alto nel cielo e non c’era neanche una nuvola.
“Posso uscire fuori in giardino?” le chiesi continuando a guardare di fuori. Impiegò qualche minuto a rispondere: forse era sorpresa di sentire la mia voce  per la prima volta dopo otto incontri.
“Certo. Vuoi che ti accompagni?”
“No.” mi alzai, le sorrisi e uscii dalla stanza.
 
Uscii dall’edificio e andai in giardino dove c’erano molte persone. Le panchine erano tutte piene ma ne riuscii a trovare una occupata da un ragazzo che leggeva un libro. Così andai lì e mi sedetti. Mi voltai verso il tipo per qualche secondo e lui fece lo stesso, gli sorrisi e girai il capo per guardare tutte le persone che erano nel giardino: alcuni erano pazienti, altri erano parenti.
“Sei un paziente?”
“No, stavo aspettando mia sorella. Suo marito ha dei problemi mentali ed è venuta a trovarlo. Tu?”
“Paziente.”
Anche se non lo guardavo, sapevo che espressione aveva in viso. Sapevo cosa stava pensando, è la stessa cosa che pensano tutti quando vedono un pazzo: ‘Meglio che me ne vada, non voglio avere nulla a che fare con una malata mentale.’
“Capito.” rispose con una tale tranquillità che mi sorprese.
“La mia psichiatra pensa che io sia malata di mente. Anche i miei e mio fratello.”
“E tu lo sei?”
“Forse, ma non credo.”
“Allora perché hai lasciato che ti mandassero qui?”
“Qui c’è un po’ di pace, cosa che a casa mia non è mai esistita.”
“Mi dispiace.”
“Sai cosa mi dà fastidio? Le persone che non mi conoscono e parlano di me. Come puoi parlare di una persona che non conosci? Come si fa a giudicarla? Loro mi guardano mentre lancio piatti al muro o urlo e pensano subito che io sia da manicomio. Ho bisogno d’amore e affetto, non di una psichiatra. Non si sono mai soffermati un minuto a pensare a questa cosa.”
“Non hai mai ricevuto amore?”
“Una persona mi amava con tutto il suo cuore e io ricambiavo. Ma per quanto l’amavo e mi faceva del male, ho iniziato a lanciare oggetti, a urlare, a tagliarmi e a drogarmi.”
“Questa persona che fine ha fatto?”
Mi voltai e lo guardai per un attimo. “Quanto tempo hai?”
“Quanto basta per ascoltarti. Comunque, piacere, Oliver.”
“Blake.” sorrisi.

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Capitolo 2
*** 15 settembre 2011 ***


 15 settembre 2011


15 settembre 2011.
Ricordo perfettamente quella data come se fosse ieri: era il primo giorno di liceo e accanto a me c’era Andrea, una ragazza un po’ fuori dalle righe che mi attirava particolarmente.
Aveva i capelli neri, gli occhi verdi e la carnagione chiara. Amavo i suoi occhi, ancora oggi rimpiango di non averglielo mai detto.
Passarono circa tre o quattro mesi e ormai ero persa di lei. Imparai a conoscerla meglio, aveva un carattere difficile: era sempre sulle sue e non socializzava con gli altri compagni di classe. Molto spesso, se qualcuno le faceva una domanda, rispondeva con un tono acido e da menefreghista. Ma con me non si comportava così, ero diversa dagli altri: non la giudicavo, la capivo. Con me era dolce e si preoccupava se prendevo un brutto voto in una verifica, si preoccupava del mio umore, mi rispondeva sempre con un sorriso e più la guardavo, più mi sentivo morire dentro.
Era bella, bellissima.
 

*

 
Dopo scuola andai in palestra fino alle sette e mezza poi andai in fermata ad aspettare l'autobus per tornare a casa. “Blake!” vidi Andrea venirmi incontro.
“Oi, Andrea!” sorrisi mentre il cuore mi batteva forte.
“Che fai? Vai a casa?”
“Sì, ma l’autobus non passa. Sono qui da mezz’ora.”
“Ah.” Si guardò intorno. “Vieni a casa mia, dai. È vicina e possiamo andare a piedi.”
“A casa tua? O-okay.” Non balbettare, idiota. Pensai.
Sorrise di nuovo e ricambiai. Girammo in una stradina piccola e isolata che di sera era abbastanza inquietante, ma lei era accanto a me e mi sentivo al sicuro.
“Blake.”
“Si?” si fermò di colpo, si girò verso di me e mi guardò negli occhi.
“Sei bella.”
“Ma cosa dici?”
“Sei bella, Blake. Odio le persone, lo sai. Ma tu sei talmente bella che mi fai sorridere il cuore, mi fai star bene.”
“Stai bene, Andrè?”
“Mai stata meglio.” Era serissima, faceva quasi paura. “Sei bella.” Ripeté. Poi si voltò e continuammo a camminare. Calò il silenzio. Non era uno di quei silenzi imbarazzanti, anzi! Mi sentivo a mio agio con lei anche se non parlavamo, scommetto che anche per lei era lo stesso. Tra noi due c’era quel tipo di legame che ci capivamo anche se non parlavamo, mi bastava uno sguardo per capire come stesse e cosa avesse in testa. Ciò che pensava era terribile: voleva morire, voleva scappare. Voleva andare via, cambiare città e paese. Aveva una guerra nella testa e uno tsunami nel cuore, stava male ma sopportava tutto.
Poco dopo arrivammo a casa sua.
“Non c’è nessuno, meno male. Hai fame?”
“No.” Risposi timidamente. Pensavo ancora a quel “Sei bella” che mi aveva scombussolato un po’. Io la volevo tutta per me, volevo che diventasse mia e quello che aveva detto, aveva acceso una piccola speranza in me.
“D’accordo.” Prese una mela e le diede un morso.

Ricordo di essere rimasta a casa sua fino alle dieci e mezza di sera. Cenammo e guardammo un film insieme, poi tornai a casa e per quanto ero stanca, mi buttai sul letto e mi addormentai subito. 

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Capitolo 3
*** 3 febbraio 2012 ***


 3 febbraio 2012


Ogni mattina mi svegliavo sempre con lo stesso pensiero: Sei bella.
Quando Andrea me lo disse era una cosa inaspettata e mi aveva colpita. Sono sempre stata una di quelle persone che ricordano ogni minimo particolare di una scena, ogni conversazione e una cosa come questa, per una innamorata come me, era qualcosa di fantastico e assurdo. Probabilmente, era quel Sei bella che mi spingeva ogni mattino ad alzarmi dal letto ed uscire di casa: avevo un po' di autostima e un po' di speranza. Forse Andrea ricambiava quello che provavo per lei e aspettava solo il momento giusto per dirmelo. Decisi di aspettarla e di farle capire che io, per fare questo passo, ero pronta.

Era il 3 febbraio 2012 e quella mattina andai a scuola più contenta del solito anche se non c'era un motivo ben preciso. 
Presi l'autobus e ricordo che era affollato, quasi non si respirava. C'erano dei ragazzi che si spingevano urtando dei signori seduti, altri che bestemmiavano e altri che urlavano senza motivo. Ho sempre odiato gli autobus, soprattutto per persone di questo genere e per la puzza, ma il tragitto da fare per andare a scuola era corto perciò sopportavo. 
Quando scesi dall'autobus, un ragazzo mi spinse per farlo passare e mi fece sbattere il gomito su un muro. Ricordo di aver pensato 'Figlio di puttana.' Sicuramente gliene avrò dette tante altre peggiori, ma solo questa mi è rimasta impressa. 
Continuai a camminare, feci una salita che mi tolse il fiato per quanto era ripida e arrivai finalmente davanti scuola. Era presto, saranno state le 7.40 quindi ancora non si entrava.

“Blake!” era Jessica, una mia compagna di classe. Era una ragazza davvero simpatica e dolce ma tra lei e Andrea c'era un odio reciproco. 
“Jess! Come va?” 
“Bene, tu? Fortuna che sei qui, mi sentivo sola” mi sorrise.
“Bene, grazie! Da quant'è che sei qui?”
“Dalle 7.00. Andrea ha preso il mio stesso autobus e sta laggiù, ma sai com'é..”
Vidi Andrea appoggiata a un muro con le cuffiette alle orecchie ed il cellulare in mano. Volevo andare a salutarla ma mi dispiaceva lasciare sola Jess. Rimasi dov'ero, tanto Andrea era la mia compagna di banco, le avrei potuto parlare dopo.
“Perché la odi?” chiesi a Jess continuando a guardare Andrea.
“è scontrosa, menefreghista, acida, permalosa, egoista e fredda.”
“Non é vero.”
“Se é innamorata di te ed é dolce e tenera ne sono contenta, ma dovrebbe comportarsi così con tutti.” 
Il cuore mi batteva forte. “N-non é innamorata di me. C-che dici?” ‘Non balbettare, idiota.’
“Si certo.” Alzó gli occhi al cielo e io tentavo di calmarmi.
Suonò la campanella e finalmente entrammo a scuola e andai di corsa in classe. 
Mi ero seduta al mio posto, respirai profondamente e mi calmai.
Era entrata anche Andrea e si sedette accanto a me.
“Ciao Andy!” Con un po' di coraggio mi avvicinai per darle un bacio sulla guancia.
“Ehy!” Mi guardó in modo strano. In genere mi salutava con un sorriso ma quella mattina era fredda. Sapevo che quando era di malumore non bisognava parlarle o sfiorarla perciò mi girai, presi i libri e iniziai a ripassare italiano.
Non parlammo per tutto il giorno. Mi sentivo così male. Non volevo darle fastidio, volevo solamente parlarle. Anche un suo semplice sorriso poteva andare bene, mi migliorava la giornata. Potevamo anche non parlare ma non mi piaceva sapere che era di cattivo umore.
Quando suonò la campanella dell'ultima ora sfrecciarono tutti fuori la porta, lei compresa. Dovevo parlarle allora cercai di camminare più velocemente per raggiungerla ma sembrava che stesse scappando da me. Continuavo a camminare dietro di lei che girò nella stradina isolata che portava a casa sua quando mi fermai.

“Che problema hai?” Le urlai. Si girò e mi guardò.
“Che problema hai?” Urlai più forte e mi avvicinai. Ora eravamo a circa 2 metri di distanza.
La guardavo e avevo il respiro affannoso. 
“Che pro-” mi interruppe “Hai frainteso tutto.” Disse freddamente.
“Cos'ho frainteso?”
“Pensi davvero che Jess abbia ragione su me e te? Pensi davvero di avere una speranza? Tu? Con me? Non mi piacciono le ragazze e non ho bisogno di te. Non ho bisogno di nessuno. Smettila di venirmi dietro. Vai via.”
Si girò di nuovo e riprese a camminare per andare a casa. 
“Tu hai bisogno di me!” Urlai di nuovo ma lei non si voltò, continuava a camminare come se non avesse sentito quello che le avevo appena detto.
Intanto io avevo le gambe tremanti e cuore che mi batteva più forte del solito. Non so come spiegare quella sensazione ma mi sentivo vuota e leggera come una piuma. Rimasi ferma lì per circa dieci minuti, poi tornai indietro, presi l'autobus e tornai a casa.

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Capitolo 4
*** 16 marzo 2012 ***


16 marzo 2012

 
Era passato più di un mese dall’ultima volta che parlai con Andrea e mi sentivo così stanca e senza voglia di vivere. È così quando rendi una persona il tuo tutto: quando se ne va rimani senza niente e ti senti vuota. Ero davvero convinta che andasse tutto bene ma all’improvviso qualcosa ha distrutto ogni mia speranza, sogno e desiderio lasciandomi vuota e spenta. Non ridevo o sorridevo da giorni, mi ero pure stancata di mangiare ma mia madre mi costringeva a farlo. Volevo solo stare sdraiata sul mio letto a dormire.
Arrivò poi il 16 marzo. A nessuno importava di quel giorno ma per me era importante: era il compleanno di Andrea. Forse è una cosa sciocca e infantile ma io ho sempre amato i compleanni. Non so perché ma penso che una persona si senta un po’ più importante quando qualcuno si ricorda il giorno del suo compleanno.
Avevo pensato a quel 16 marzo per mesi. Avevo pensato a come salutarla, a come abbracciarla  e al regalo che le avrei fatto. Ma ora era tutto inutile, Andrea non mi parlava. Non mi rivolgeva parola né a ricreazione né dopo scuola, aveva perfino cambiato banco e si era messa vicino a un tipo di nome Charlie. La gelosia mi stava divorando.
 
“Regalale lo stesso qualcosa!”
“Jess, non dire stronzate.” L’autobus si era rotto e io e Jess stavamo tornando a casa a piedi.
“Ma magari..” la interruppi.“No Jess, non mi riparlerà di nuovo.”
“Ma-”
“E non mi chiederà scusa.” Stava per parlare ma le feci segno di tacere.
“Blake, tu stai male.”
“Capita.”
“Non deve capitare.”
“Ma è capitato.”
“Regalale qualcosa.” Insisteva.
 “Ma che le regalo?”
“Non so.. Andiamo al centro commerciale, dai.”
Prendemmo l’autobus che portava al centro commerciale e iniziammo a girare per negozi cercando il regalo per Andrea. Più giravo per negozi, più pensavo al fatto che stavo per spendere dei soldi in qualcosa che sarebbe finito sicuramente nel cestino della spazzatura.
Entrammo in un negozio di musica: con un CD non avrei mai sbagliato.

“Che CD hai intenzione di prenderle?”
“Non ne ho idea.” Intanto davo un’occhiata ai vari CD esposti.
“Mh, Fun?”
“Non è il suo genere.”
“Paramore?”
“Nah.”
“One Direction.” Le lanciai un’occhiataccia.
“Scusa, scusa! Dai sbrigati.”
Trovai l’ultimo CD dei Black Veil Brides e lo presi in mano.
“Trovato!” sorrisi a Jess e andai a pagare.
 
Pensavo: ‘Stai facendo una stronzata, Blake. Torna indietro e posa il CD’ ma qualcosa mi tratteneva lì alla cassa. Era come se non riuscissi a muovere le gambe per andare indietro.
 
“Solo questo?”
“Che?” ero talmente distratta che non ascoltai il commesso.
“Prendi solo quel CD?” ripeté.
“Ah, sì!” mi sorrise e io ricambiai. Pagai, presi la busta e uscii dal negozio.
Sospirai.
 
“Bene, ora andiamo a casa di Andrea.” Disse Jess.
“S-si.”
 
Uscimmo dal centro commerciale e andammo con l’autobus a casa di Andrea.
Eravamo sulla stradina isolata e iniziavo a tremare, il cuore batteva all’impazzata. Mi fermai, chiusi gli occhi e respirai profondamente mentre Jess mi guardava. Pensavo seriamente di non farcela poi riaprii gli occhi e Jess mi abbracciò dolcemente sussurrandomi all’orecchio “Ce la puoi fare, tranquilla.”
Ripresi a camminare e arrivai davanti casa di Andrea. Citofonai.
“Chi è?” era la madre.
“Salve signora, s-sono B-Blake, un’amica di A-Andrea. Devo dare una cosa a sua figlia.”
“Certo, sali!”
Aprì il cancello e salii le scale mentre Jess mi aspettava giù appoggiata a un muretto. Il cuore mi batteva sempre più forte e le gambe mi tremavano, più mi ripetevo di stare calma, più mi agitavo.
 
Entrai in casa e salutai la madre che mi accolse. Andrea aveva sentito la mia voce e venne da me.
“Che fai qui?”
“Io torno a stirare i vestiti. Ciao Blake!” la madre se ne andò, eravamo sole. Ero terrorizzata di quello che poteva dirmi.
“Che fai qui?” ripeté.
“V- volevo darti questo.” Presi il CD dalla borsa e glielo diedi.
“Cos’è?”
“Un regalo. Oggi è il tuo compleanno, no? Buon compleanno.”
“Sì, non dovevi.”
“Ma volevo farlo.” Mentii.
Mi guardò per alcuni minuti che sembravano l’eternità.
“Grazie.”
“D-di niente. Comunque, è meglio che vada.”
“Sì, è meglio.” Non volevo sbagliarmi ma nella sua espressione c’era un velo di tristezza.
“Allora.. Ciao.” Cercai di sorridere.
“..Ciao.”
Scesi le scale di corsa e andai da Jess.
“Fatto.” Dissi.
“Come ti senti?”
“Male.”

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Capitolo 5
*** 9 giugno 2012 ***


9 giugno 2012
 

 
Dopo il 16 marzo qualcosa cambiò e per questo, non smetterò mai di ringraziare Jess per avermi convinta a comprare quello stupido regalo. Tornò tutto com’era prima ed io e Andrea parlavamo ancora più. Era di nuovo la mia compagna di banco ed era gentile, non solo con me ma con tutti. Ogni giorno vedevo quei suoi grandi occhi verdi e il suo sorriso che mi illuminavano la giornata. Era davvero troppo bella, nessuno poteva competere con lei. Era cambiata, sembrava quasi felice. Non sapevo quanto sarebbe durata questa felicità e avevo paura di rovinare tutto. È sempre stato così con lei: ero felice e mi sentivo a mio agio ma ero costantemente terrorizzata dal fare un passo falso e rovinare tutto. Era facile rompere il rapporto con lei, non si curava mica di riaggiustarlo, la sua legge era: “Se mi vuoi ancora, torna e dimmelo. Se no, addio”. Accettavo ogni suo difetto, insicurezza, paura e anche se mi urlava contro arrabbiata, la lasciavo perdere per non litigare. Se sbagliavo e si arrabbiava, chiedevo scusa in continuazione oppure le davo ragione per evitare discussioni inutili. Penso di essere stata stupida in quei momenti ma cos’altro potevo fare? Ero innamorata di lei e non potevo permettermi di perdere una persona così. Lei era come un diario segreto chiuso con un lucchetto al quale corrispondevano solo due chiavi: una per lei e una per quella folle persona che tentava di capirla. Non ci volle molto per capire che ero io la persona destinata a quella seconda chiave. C’erano giorni in cui mi permetteva di aprire il lucchetto e leggere qualche pagina ma quando andavo troppo in fondo nei dettagli, dovevo smettere di leggere o si arrabbiava. Conoscevo tante cose di lei, non perché me le diceva ma perché le leggevo nei suoi occhi e nel suo modo di fare. Un suo sguardo era pieno di messaggi che solo io riuscivo a percepire. Era una persona particolare, interessante e complessa che non tutti sapevano apprezzare: non riuscivano a capirla. Era difficile amarla, ma non impossibile o noioso. Aveva bisogno solo d’affetto e io ero pronta a darglielo.
 
Passarono alcuni mesi e arrivò giugno.
In quel lungo periodo trascorso insieme mi accorsi che in lei era cambiato qualcosa. Era molto più dolce e disponibile, mi abbracciava in continuazione, mi dava baci sulle guance e a volte per scherzare mi dava qualche morso. La sentivo molto più “vicina” di prima e questo mi fece pensare molto: ero ossessionata dal pensiero di piacerle, magari aveva cambiato idea e mi voleva. Ne parlai con Jess e lei mi disse che forse avevo ragione ma che non dovevo illudermi perciò decisi di non essere troppo precipitosa e di aspettare un po’ prima di parlarle. Ho sempre odiato aspettare le persone perché sono dell’idea che la vita non si ferma per nessuno e se quella persona non mi vuole, lascio perdere e trovo qualcuno di migliore che non mi faccia aspettare. Ma in quel caso era diverso. Lei era Andrea, non una ragazza qualunque. Qualcosa mi teneva aggrappata alla speranza, qualcosa mi diceva “Non mollare, ne vale la pena”. Jess, invece, mi diceva di lasciar perdere poiché pensava che Andrea non fosse adatta a me. “Lei ha bisogno di una persona forte che le faccia mettere la testa apposto, non una fragile e sensibile come te” diceva sempre.
 
Era il 9 giugno, l’ultimo giorno di scuola.
Andammo tutti in un parco vicino a un lago a farci i gavettoni e tirarci farina e uova, poi decidemmo di rivederci la sera a casa di Matthew, un nostro compagno di classe, che aveva la casa sulla spiaggia per fare un falò e concludere in bellezza l’anno.
Ricordo di essere andata a casa e aver lavato per ben quattro volte i capelli per levare quell’orribile odore di uova.
“Che schifo, Blake”
“Che vuoi, Benjamin?” Ben, mio fratello, era entrato nella mia stanza. Se non mi insultava almeno una volta al giorno non era felice.
“Fai schifo, puzzi di uovo.”
“Me l’hanno tirato oggi al parco. Vai via e non entrare in camera mia senza bussare.” Alzò le spalle e uscì. Non avevo un bruttissimo rapporto con mio fratello, ma non era neanche uno di quei rapporti amorevoli che io ho sempre desiderato. Tra noi era più tipo “Tu sei mio fratello, ti devo voler bene per forza quindi cerchiamo di andare d’accordo”.
Verso le 19.30 passò Andrea a prendermi per andare a casa di Matthew. Quando arrivammo, accendemmo il fuoco e mangiammo così tanto che eravamo quasi sul punto di sentirci male.
Eravamo tutti seduti intorno al fuoco e parlavamo di com’era andato questo primo anno di liceo, ci raccontavamo storie personali e divertenti, ogni tanto qualcuno faceva qualche battuta e ridevamo tantissimo. Poco dopo, però, io e Andrea ci allontanammo e andammo molto lontano rispetto a dov’erano gli altri e ci sdraiammo sulla sabbia ad ammirare il cielo.
 
“Sei il mio numero 9.” Le dissi poco dopo.
“Sono il tuo numero 9?”
“Il 9 è il mio numero preferito.”
“Posso essere paragonata a un numero?”
“Non hai capito quello che intendevo.”
“E cosa intendevi?”
“Intendevo dire che sei come un portafortuna, per me. “
“Un portafortuna?”
“Sì. Hai presente quegli oggetti che pensi portino fortuna ma li tieni solo per essere più sicura di te stessa?”
“Sì, e quindi?”
“Beh, io non ho bisogno di oggetti che mi facciano sentire sicura. Io ho te. Tu sei il mio portafortuna, tu sei tutto.”
“Sono tutto.”
“Sei tutto.”
 
Mi prese la mano e la strinse continuando a guardare il cielo.

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Capitolo 6
*** 1 luglio 2012 ***


1 luglio 2012

 
Ormai era evidente: ad Andrea piacevo. Molto spesso si incantava guardandomi, mi teneva sempre per mano e mi abbracciava in continuazione. Sorrideva spesso e non perdeva occasione per mandarmi dei “segnali”. 
Come sempre, andai a casa di Jess e ne parlai con lei.
“Stai diventando pazza.” Mi disse.
“N-non è vero!”
“Allora se è come dici tu, perché non te lo dice? Lo sa che tu sei persa di lei.”
“Perché è troppo orgogliosa.”
“Lasciale perdere le persone orgogliose.”
“Mi spieghi perché ti dà tanto fastidio questa cosa?”
“Perché ti ho vista troppe volte scoppiare a piangere a causa sua.”
Silenzio.
“Non può essere sempre tutto perfetto, Jess.”
“Peccato che in tutta questa storia non c’è neanche qualcosa di semplicemente buono.”
“Stronzate. Hai visto quant’è felice e simpatica ora?”
“Avrà capito che per vivere ha bisogno di amici e non solo di sé stessa.”
“Non è una cattiva persona.”
“Non l’ho mai detto. Penso solo che non sia adatta a te.”
“Stai dicendo un mucchio di stronzate.”
“Sei venuta te qui a parlarmi, non ti ho mica chiamata io. Se non ti sta bene quello che dico, quella è la porta.
“Grazie.” Sospirai, presi la borsa ed uscii da casa di Jess. Sapevo fin dall’inizio che mi avrebbe detto quelle cose ma almeno per una volta, invece di demoralizzarmi, speravo mi aiutasse. Nonostante questo, non me la presi molto. Jess non voleva essere cattiva o scortese, era solo schietta e se una cosa non le piaceva, lo diceva senza farsi tanti problemi. Non era come me che per ogni cosa si poneva mille domande e non dormiva la notte. Ricordo, infatti, di aver passato una notte in bianco a pensare ad Andrea, a ciò che avrei dovuto dirle e a farmi tanti “film mentali”.
 
 

*

 
 
Era il 1° luglio e stranamente stava piovendo a dirotto. Ero sull’autobus per andare a casa di Andrea: ero decisa a parlarle. Il cielo era grigio scuro e le strade erano allagate e io, come al solito, non avevo l’ombrello. Sinceramente, avevo anche un po’ di timore a scendere e fare tutta la stradina di casa a piedi da sola. A ogni modo, prenotai la fermata, scesi e mi incamminai per andare a casa di Andrea. Quando arrivai ero ormai completamente bagnata, quasi non riuscivo a tenere gli occhi aperti per colpa della pioggia. Riuscii comunque ad intravedere due sagome sotto il gazebo di ferro del giardino e capii che erano Andrea e la madre che stavano mettendo al riparo i vestiti stesi e le varie cianfrusaglie sparse qua e là.
 
“Andrea?” urlai. Lei si girò e mi guardò.
“Blake? Che ci fai qui? Sta piovendo a dirotto!” urlò anche lei per farsi sentire.
“Ti devo parlare, è urgente.”
Andrea si girò verso la madre che tornò su casa e ci lasciò da sole. Aprii il cancello e mi avvicinai un po’.
“Io lo so che non è il momento migliore per dirtelo e so che tu non vuoi parlarne perché sei troppo orgogliosa per affrontare questo discorso. Ma vedi, io voglio te. Voglio stare con te, ora. Ho bisogno di sapere che tu sei mia e di nessun altro. Perché solo il pensiero che qualcun’altro possa volerti, mi uccide. Allora devo sapere ed essere sicura che tu starai solo con me, tutto il resto non conta. Non posso dirti che starò con te per sempre, non te lo posso promettere. Ma posso promettere di farti sorridere e di starti accanto nei momenti più brutti fin quando lo vorrai. Io lo so che tu hai bisogno di tempo, lo so che non vuoi parlarne, ma ora sono qui davanti a te ad umiliarmi per chiederti di  diventare mia. Non c’è un giorno in cui io non pensi a te. – mi avvicinai di più – Diventa mia e cercherò di renderti felice quanto tu rendi felice me con un semplice sorriso.”
 Avevo detto tutto questo urlando per sovrastare il rumore della pioggia e le parole uscivano dalla bocca da sole. Non vedevo molto bene, ma riuscii a intravedere delle lacrime che ricoprivano il viso di Andrea. Subito dopo, mi corse in contro, prese il mio viso tra le mani e mi baciò. Tutto quello che volevo era tra le mie braccia. Ricordo benissimo le sue mani calde, nonostante il freddo, sul mio viso e le sue labbra morbide e delicate a contatto con le mie. Tremavo e avevo dei brividi lungo la schiena, ma non era il freddo. Il temporale ormai era passato in secondo piano, c’eravamo solo io e lei ora.
“Promettimi anche che non te ne andrai quando sarò insopportabile e ti tratterò male involontariamente. Perché so che succederà e non voglio mandare tutto a puttane, come sempre.”
“Te lo prometto.”
Mi baciò di nuovo, poi  mi prese per mano e andammo su casa per asciugarci. Mi prestò dei suoi vestiti e rimasi per tutto il resto della giornata da lei.
 
Fu sicuramente quello il momento più intenso e bello di tutta la nostra storia.

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Capitolo 7
*** 29 gennaio 2013 - Parte 1 ***


 29 gennaio 2013 – Parte 1

 
Tante cose accaddero dopo quel 1° luglio e molte furono belle ma solo due sono i giorni che ricordo bene: il mio compleanno e quando ci lasciammo.
 
13 novembre 2012
Iniziai la giornata come al solito: mi alzai, presi dei vestiti a caso, andai in bagno per lavarmi e vestirmi e poi uscii di casa, senza fare colazione, per andare a scuola. I miei erano usciti di casa presto quindi il primo che mi fece gli auguri fu Benjamin, mio fratello.
Presi l’autobus e andai a scuola. In fin dei conti, fu una giornata tranquilla oltre al fatto che appena mi giravo tra i corridoi qualcuno mi faceva gli auguri di buon compleanno.
 
“BOO!” ero alla macchinetta di scuola per prendere un caffè quando Andrea mi spuntò dietro facendomi prendere uno spavento.
“Ma sei scema?”
“Molto scema, Picci.” Mi baciò.
“Ti devi far perdonare di tante cose. Aggiungiamo anche questo alla lista, Picci.” Sorrisi.
“Un bacino potrebbe sistemare tutto?” mi guardò facendo gli occhi dolci e il labbruccio.
“Andrea.” La guardai cercando di resisterle ma era impossibile. “Ti odio.”
“Lo so, piccina mia. Vieni qui, vecchiaccia!” Mi abbracciò e mi baciò di nuovo.
“Tieni, questo è per te!” proseguì.
“Non volevo regali, André.”
“Aprilo.”
Aprii la busta e tirai fuori un pacchetto che aveva la forma di un CD. Scartai la carta e lessi: Sleeping With Sirens.
“S-stai scherzando? Andrea? Sleeping With Sirens? Oh mio Dio.” Iniziai a sorridere come una ebete e l’abbracciai così forte che quasi le tolsi il respiro.
“Sapevo che avresti reagito così!” rise. La baciai e l’abbracciai di nuovo.
 
26 dicembre 2012
Tra me e Andrea andava tutto bene, o almeno era quello che pensavo finché non arrivò il 26 dicembre. Non so cosa le fece cambiare idea in quei giorni di festa, so solo che quando il 26 uscimmo era diversa e fredda. Sembrava come se le desse fastidio la mia presenza.
“Andrea?” eravamo sedute su un muretto. Lei guardava a terra e aveva l’aria annoiata.
“Mh?”
“Cos’hai?”
“Nulla.”
Passarono altri minuti e non parlavamo. Lei continuava a fissare a terra e ogni tanto tirava fuori dalla tasca dei pantaloni il cellulare per guardare l’ora. Mi irritava quando non parlava e faceva finta di niente.
“Hai intenzione di stare zitta per tutto il resto della giornata?” le dissi con un tono acido.
“Forse.”
“Andr-”
“Voglio chiudere con te.”
“Che cosa?” un colpo al cuore.
“Non voglio più stare con te, Blake.” Parlava con una tale tranquillità che mi faceva innervosire sempre di più.
“Per quale motivo? Che ho fatto?”
“Nulla, non ho più voglia e basta.” Non mi stava guardando negli occhi, non le credevo.
“Non ti credo.”
“Sai quanto me ne importa?”
“Guardami negli occhi e dimmelo di nuovo.”
Non si voltò e continuò a guardare a terra.
“Ciao Blake.” Scese dal muretto e se ne andò lasciandomi da sola.
 
29 gennaio 2013
Non mi ero rassegnata da quel 26 dicembre. Era passato più di un mese e non accettavo ancora la rottura tra me e Andrea. Ero decisa a parlarle, a dirle tutto quello che mi era passato per la testa in quei giorni, a farla tornare da me.
Era il 29 gennaio. Quel giorno io e Andrea eravamo rimaste a scuola per il corso di spagnolo. Quando terminarono le due ore, uscimmo di corsa da scuola per andare in fermata dove non c’era nessuno. Andrea camminava davanti a me sul marciapiede e io, per non perdere il passo, cercavo di andare più veloce possibile mentre in testa mi ripetevo il discorso da farle.
Poco dopo iniziai ad  urlare.
“Non te ne puoi andare via così, Andrea. Proprio non puoi. Io ti amo e tu ami me, quindi smettila di scappare come fai sempre e affronta i problemi. Io ti amo ma non posso stare con una persona che al primo ostacolo se ne va. E la cosa che odio di più è il fatto che per quanto ti amo, non voglio lasciarti andare e sopporto. Sopporto tutto ma tu continui a farmi del male e io non ce la faccio più.” Non capivo più nulla. Le parole uscivano da sole senza che me ne accorgessi e lacrime mi rigavano il viso. Mi tremavano le gambe, probabilmente sarei caduta a momenti.
“Neanche io ce la faccio più, Blake.” Si girò verso di me. Piangeva anche lei disperatamente mentre scendeva dal marciapiede  e andava in mezzo alla strada.
“Andrea..” dissi con voce soffocata.
“Ti amo, Blake. – guardò infondo alla strada poi si voltò verso di me - Per sempre, lo prometto. Mi dispiace. ”
Non mi ero accorta che c’era una macchina infondo a quella strada che sfrecciava come una Ferrari.
 
 
 

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Capitolo 8
*** 29 gennaio 2013 - Parte 2 ***


29 gennaio 2013 - Parte 2


ANDREA!” urlai e corsi da lei. Era distesa a terra e sotto di lei c’era un’enorme pozza di sangue che le usciva dalla testa.
“Andrea svegliati, ti prego. Andrea..” non riuscivo a vedere più niente per le troppe lacrime. Non riuscivo più a ragionare e continuavo a smuovere il corpo di Andrea.
“Svegliati Andrea, SVEGLIATI!” sentii qualcuno che mi prendeva le braccia e mi portava indietro. Non mi ero resa conto che intorno a me c’era l’ambulanza, la polizia, i miei genitori, i genitori di Andrea e alcuni passanti. Due uomini della polizia mi stavano tenendo e portando lontano dal corpo di Andrea.
“LASCIATEMI! Devo andare da lei. Si risveglierà, devo parlarle. Devo stare con lei. Lasciatemi -  mi dimenavo e i due uomini facevano fatica a tenermi. – Vi prego, lasciatemi. Lei ha bisogno di me, è la mia ragazza, lasciatemi” ma non mi lasciarono. Mi caricarono in una macchina e io non avevo più forze per scappare. Guardavo dal finestrino il corpo di Andrea coperto da un velo bianco e piangevo sempre di più. Tutto quello che accadde dopo non lo ricordo bene, so solo che mi fecero tante domande e io non riuscivo a ragionare. Da quel 29 gennaio 2013, nulla ha più senso nella mia vita. Nulla.
 

*
OLIVER
 

Io e Oliver incrociammo gli sguardi. Aveva gli occhi lucidi.
“Non so cos’ho fatto per meritarmi tutto questo. Sono sempre stata una brava ragazza, non ho mai dato fastidio a nessuno. Mi sono sempre fatta gli affari miei, non ho mai giudicato o offeso qualcuno. Volevo solo un po’ di felicità. E ora non so se essere arrabbiata con lei perché è stata talmente egoista da non pensare a me quando stava pianificando il suo suicidio, o essere arrabbiata con me che le ho dato tutta me stessa e ora mi ritrovo senza niente. – Oliver continuava a guardarmi con gli occhi lucidi. Non ho mai visto nessuno con un tale dispiacere. – Io sono qui perché ho bisogno di ritrovare me stessa, non perché sono pazza. Non so più chi sono. Lei m’ha portato via tutto quello che avevo, non sono più capace di amare, di odiare, di voler bene, di piangere. Ho smesso di abbracciare le persone, ho smesso di ridere e di sorridere veramente. Ho smesso di essere felice. Lei è morta e ha fatto morire anche me. Sono un morto che cammina. Non sono pazza, sono solo morta dentro e aspetto di rinascere. Ma ho un po' paura.”
“Di cosa?”
“Di non riuscire a rinascere, di rimanere così per sempre.”
Oliver mi guardò per un minuto poi si avvicinò e mi strinse a lui. In quel momento mi scese una lacrima.
“È-è un abbraccio?” dissi con la voce soffocata.
“È  un abbraccio, sì - disse continuando a stringermi. – troverai di nuovo te stessa, so che ce la farai. Non sei morta, ti serve solo un po’ di speranza. Ce la puoi fare, Blake.”
Lo strinsi più forte che potevo e continuavo a piangere. Mi sembrava di conoscerlo da una vita.
 

*


 
16 marzo 2017
 
Sono passati cinque anni dalla scomparsa di Andrea e sono successe tante cose.
Innanzi tutto, Oliver è il mio migliore amico e stiamo ogni giorno insieme. Si preoccupa sempre per me, sembra il fratello maggiore che non ho mai avuto.
Mamma e papà hanno deciso di prendersi una vacanza e sono partiti per visitare qualche città dell’America del Sud.
Mio fratello Ben è il solito idiota ma gli voglio un bene dell’anima.

Non ho avuto più nessun’altra ragazza o ragazzo dopo Andrea e, almeno per ora, non ne voglio avere. Una parte di lei vive ancora dentro di me ed  io continuo ad amarla. Mi ha promesso che mi avrebbe amata per sempre e così farò anche io. Devo ancora trovare la persona che accetterà questa parte di me, quest’amore infinito che provo per Andrea che solo Oliver riesce a comprendere.
Lei se ne è andata lasciando un vuoto dentro di me per due anni, stavo quasi per mollare ma Oliver mi ha salvata. Io non sono stata codarda come lei, io non ho preferito rinunciare e scappare: io volevo lottare per la mia vita. Ho cercato un po’ di speranza e sono andata avanti, ho aperto una nuova porta. Lei forse non aveva scelta, forse era davvero disperata e triste che non vedeva la porta per salvarsi e io non sono stata in grado di renderla felice.
Ogni notte sogno quel 29 gennaio 2012 e penso che avrei potuto correre da lei e spostarla dalla strada per salvarla, ma forse doveva andare così: lei voleva andarsene e l’ha fatto sul serio. L
ei, comunque, è nel mio cuore ora e per sempre.
 
 

                                                                                                                                                                             Blake

 
 
Ps. Non glielo dissi mai, forse perché era ed è una cosa sciocca e banale ma amavo quando mi chiamava “Picci”.
 
 
 

 
 
A Jessica che mi ha ispirata a scrivere questa storia.
“Tienes una sonrisa que puede iluminar mi día.”
 

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