Be still

di Ever Lights
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** There's nothing stronger than love ***
Capitolo 2: *** How can you remember? ***
Capitolo 3: *** Heaven ***
Capitolo 4: *** Love of a Life ***
Capitolo 5: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** There's nothing stronger than love ***



Be still
Capitolo uno: There's nothing stronger than love.

A Sanya. Lei sa il perché.
(in fondo per gli altri ringraziamenti,
o riempio una pagina solo di questi.)

Bella.

«Tornerai presto?»
Mi baciò la fronte, stringendomi. Sentii le guance inumidirsi contro la sua divisa militare e provai a trattenermi. Percepivo l’odore di guerra, sangue, dolore, sudore, forza e amore su quel tessuto, ma una cosa in particolare mi colpiva e volevo cancellarmela dalla mente: odore di morte.
Ogni volta che mi avvicinavo a quell’uniforme, ogni volta che la prendevo fra le mani e me l’avvicinavo al petto, in lontananza scorgevo delle urla, dei rombi, degli ordini, lo scoppiare di bombe, mitragliatrici che scoppiettavano… Senza accorgermene, chiudevo gli occhi, li serravo e provavo ad allontanarmi da quei rumori.
«Ancora prima che tu possa dirmi ‘ti aspetto’ e sarò qui, amore.» Mi accarezzò i capelli, mentre io nascondevo il mio viso preoccupato e triste sul suo petto. «Ehi, guardami.»
Mi sollevò il mento con la punta delle dita, incatenando così il mio sguardo al suo. «Amore.»
Distolsi gli occhi dai suoi, sbattendo più volte le palpebre, nel tentativo di trattenere le lacrime… Ovviamente, non funzionò.
Piccole goccioline iniziarono a scivolarmi sulle guance; acide solcavano la pelle, corrodendola. Tutto il dolore e la paura si fecero reali e concrete.
«Scusami…»
«No, ehi, non piangere.» Mi asciugò le gote con i pollici. I polpastrelli ruvidi accarezzavano la mia pelle: mi sarebbe mancato immensamente quel contatto.
«Ricordi cosa ti avevo detto?»
«Non è facile vivere questa situazione, Edward.», mormorai, guardandolo intensamente. «Non posso lasciarti andare se non ho la garanzia che tornerai.»
«Ascolta: non voglio riparlarne proprio ora, per rimanere con il magone durante tutto il viaggio, d’accordo? Ti amo, sai che tornerò.»
«Non sai nemmeno tu se sarai di nuovo qui il prossimo anno.», sputai, gettandogli davanti agli occhi la verità.
«Voglio pensare positivo, Bella. Vuoi sentirti dire che anche io non riesco a vivere questa cosa? Bene, nemmeno io ci riesco. Amore, non voglio discutere qui, adesso, ma ti prego: abbi fiducia.»
«La fiducia mi manca, ora.», singhiozzai, mentre le sue forti braccia mi avvolgevano.
«Ti prego, riacquistala. Per me. Non voglio sapere che starai male durante questo tempo di lontananza, chiaro?»
Annuii con poca convinzione, perché sapevo che non sarebbe andata così.
Stavo per contraddirlo ma gli altoparlanti chiamarono un numero. Il numero. Il suo volo.
«Devo andare.»
Non c’era bisogno che me lo dicesse. «Ti prego, appena arrivi lì, chiamami.»
«Sai che lo faccio sempre.»
Posò all’improvviso le labbra sulle mie. Non era un bacio come un altro: sapeva di addio, lo percepivo come un ultimo contatto prima della fine, prima che lui mi scivolasse dalle dita.
Rimanemmo vicini in quel modo per ben cinque minuti abbondanti, fino a che non fu lui a decidere che era giunto il momento.
«Ti amo.», sussurrai. I suoi occhi verdi brillarono per un secondo, per poi rispegnersi.
«Anche io, ricordatelo sempre.»

Qualcuno mi sfiorò la spalla, dolcemente, per farmi ritornare nel presente.
«Tesoro? Tutto bene?»
La mia speranza, la mia voglia che fosse Edward sparì nel momento in cui sentì quelle parole.
Renée mi abbracciò appena, e io sospirai. «Sì, mamma, tutto a posto.»
Sorrisi, provando a confortarla, e lei fece lo stesso. «Vado a terminare il lavoro con Esme. Sei hai bisogno, chiamami, okay?»
Annuii e lasciai che tornasse nella camera adiacente per poter sospirare sottovoce. Negli ultimi mesi le cose erano cambiate notevolmente, alcune per il verso positivo e altre per quello negativo.
Tutte quelle persone che mi ronzavano attorno… be’, erano nella parte intermedia. Si preoccupavano per me, mi sollecitavano a essere più allegra, ma riuscivano a diventare assillanti, chiedendomi senza sosta “Come stai?”, “vuoi qualcosa?”, “cosa ti serve?”, “vuoi stenderti?”, “hai mal di schiena?” e altre domande snervanti.
Ma non potevo non compiacerli, anche perché la risposta era sempre la stessa.
Sussultai quando qualcosa, o meglio qualcuno, si mosse dentro di me, sferrando un calcetto proprio contro la pelle.
Aspettavo un bambino, mio e di Edward, e quel pensiero poteva rendere tutto ancora più che perfetto. Era una piccola parte di Ed sempre con me, nonostante lui fosse lontano.
L’idea di diventare mamma mi rendeva eccitata, ma ogni volta che capivo che un tassello mancava, mi sentivo perduta.
Quel posto vuoto a tavola, lo spazio freddo sul materasso, le coccole al mattino, i baci del buongiorno e della buonanotte… Tutto mancava di lui.
Edward non c’era e la gravidanza, per quel verso, non era magica come avevo sempre desiderato.
Il laptop davanti a me squillò, annunciandomi l’accesso di qualcuno su Skype. E quel qualcuno era proprio Ed.
Riuscivamo a parlarci poche volte, ma appena sentivo la sua voce ogni traccia di tristezza e malinconia spariva. Era come un incantesimo che rendeva tutto… felice.
10:34: Ciao, amore. Ci sono per poco.
Sorrisi leggendo il suo messaggio. Nonostante fossero solo caratteri digitati virtualmente, scatenavano in me uno strano senso di benessere.
Era l’effetto Edward, senza ombra di dubbio.
10:34: Mi bastano questi pochi minuti. Faccio partire?
10:35: Vai pure :)
Cliccai il tasto verde di chiamata e incrociai le dita affinché il segnale di ricevimento fosse abbastanza buono per consentirci qualche momento di felicità.
Pochi secondi dopo, sullo schermo comparve il suo volto, concentrato a capire, come ogni volta, come funzionasse il computer del campo.
«Ciao, amore.»
Il suo sorriso mi scaldò il cuore, e qualche lacrima sfuggì al mio controllo. Maledetti ormoni.
Aveva i capelli di nuovo corti, rasati a zero. La mia ball head… Era ormai diventato il suo soprannome da quando aveva iniziato di nuovo a tagliarseli per lavoro, e come ogni sua cosa mi mancava non poter stringere quelle ciocche seriche fra le dita.
«Ciao…» La forza di parlare mi mancava, ancora. Pensavo di essere diventata forte col passare del tempo, ma mi accorgevo che non era così. Ero sempre la Bella fragile e innocente di otto mesi prima, non ero d’acciaio. Il mio cuore ancora si piegava vedendolo così lontano e non accanto a me, che mi stringeva e mi carezzava il pancione sussurrando dolci parole al suo bambino.
Erano cose che probabilmente mai sarebbero successe, almeno non quell’anno.
«Come ti senti, oggi? Hai avuto ancora dolori?»
Inconsapevolmente, mi carezzai il ventre prominente, pensando a nostro figlio. «Sì, alcune contrazioni durante la notte, ma è normale.»
«Dopotutto siamo alla trentaseiesima settimana, no?», concluse per me, strappandomi una risata. Nonostante tutti i suoi impegni, si teneva a mente a quanto eravamo nel nostro percorso, quanto mancava alla fine e sapeva perfettamente le date delle ecografie, delle analisi e mi chiedeva il prima possibile gli esiti.
Rimasi per qualche secondo in silenzio, fino a che lui non lo ruppe tossendo.
«Posso vedere il mio bambino?», chiese con la voce da cucciolo, perché sapeva che non riuscivo a resistere alla sua tenerezza.
Scuotendo il capo, mi alzai in piedi davanti alla webcam, per poi sollevare la maglia  fino a sotto il seno.
Mi accorsi che i suoi occhi si erano illuminati, sebbene la ricezione video fosse alquanto scadente, ma il suo viso si era contratto in un sorriso orgoglioso davanti a… nostro figlio.
«Cresce…»
«… tantissimo, lo so.», sussurrai, osservando la pelle tirata dell’addome. L’ombelico era ormai totalmente sporgente, e forse un giorno o l’altro si sarebbe squarciato, facendomi esplodere.
«Bella…» Lo sguardo di Edward si allacciò al mio, ma non terminò la frase per via della voce bloccata in gola.
«Che c’è, amore?», lo incitai, e lui abbassò il capo, scrollandolo e singhiozzando.
«Mi manchi, mi mancate. Odio essere qui in questo momento, odio non aver ancora conosciuto in qualche modo mio figlio, odio non esserti vicino, odio tutta questa situazione. Mi manchi, sono in un inferno. Qui non c’è amore, non c’è quello che voglio davvero. C’è solo la guerra, la morte…»
Mi portai una mano alla bocca e l’altra proprio sopra il suo viso, come se avesse potuto toccarmi anche attraverso un computer.
«Ti prego, Edward… Tu tornerai a casa, e anche se non hai potuto toccarmi la pancia, sussurrare sopra la pelle e coccolarci… non importa. Incontrerai tuo figlio quando nascerà, quando sarà un pochino più grande.»
Sbatté il pugno sul tavolo, scacciando via le lacrime. «A me importa invece! Tu… Tu vivi tutto in prima persona, senti i suoi calci tutto il tempo. Io no. Io non so cosa vuol dire poter sfiorare il proprio bambino da sopra la pelle, non ho idea di quello che si prova guardando un’ecografia. Io non sto vivendo tutto davvero. Mi sto perdendo tutti i passi più importanti di questa avventura. Mi sto perdendo le prime foto di mio figlio, i suoi primi movimenti non li ho percepiti sotto la tua pelle… Non conosco nulla di tutto questo.»
«Non… non dire tutto questo, per favore.», mormorai, accorgendomi che stavo piangendo anche io. «Non sarà la stessa cosa, ma hai vissuto a modo tuo ogni gradino importante di questo percorso. Le foto le hai viste pochi giorni dopo le visite, conosci tutte le sfaccettature su tuo figlio… Forse è vero che non potrai mai sentire i suoi movimenti da qui dentro, ma da fuori sì. E poi chi ce lo dice che ci fermeremo a un solo figlio?»
Sorrise appena. «Voglio uscire da qui, voglio tornare da voi.»
«Ce la farai, amore. Solo… pensa positivo. Eri tu che me lo ripetevi spesso, giusto?»
Edward annuì e si affacciò verso qualcuno che lo richiamò. Ascoltò con attenzione per poi fissarmi addolorato.
«Io… devo andare.»
Qualcosa dentro di me – questa volta non il bambino, si smosse e sentii il mio cuore infrangersi di nuovo. Presto non ne sarebbe più rimasto nulla, se continuavo così.
«Sì… Hai ragione.»
Non sapeva più cosa dire, ogni parola forse gli sembrava banale. «Cercherò di tornare appena mi sarà data la possibilità.»
«Stai tranquillo… Stai lavorando, dopotutto.»
Annuì mesto, per poi sorridermi amorevolmente. Nonostante cercasse di nasconderlo, vedevo tutto il suo dolore in quell’espressione.
«Vi amo.»
«Anche noi…», mormorai con le lacrime che scivolavano con nonchalance sulle mie guance. Chiuse la chiamata e iniziai a singhiozzare così forte che mia madre accorse per vedere che cosa mi fosse successo.
Il dolore che mi invadeva il petto era enorme, ma non quanto la consapevolezza che non sapevo quando lo avrei rivisto.
Forse il giorno dopo, forse dopo una settimana… O forse mai. Ed era proprio quello che mi preoccupava: e se non fosse tornato? E se gli fosse successo qualcosa, in quel momento?
Era la cosa peggiore che mai mi potesse accadere.
Lui, Edward, era il mio tutto: il mio sole, la mia ancora, il mio sorriso, il mio cuore. Non potevo pensare a un’esistenza senza di lui, era assurdo, era inconcepibile da parte mia.
Era come vivere senza aria, come se per ventiquattro ore ci fosse stata solo la notte, un cielo senza stelle.
Tutti fatti impossibili, così come la sua assenza nella mia vita.


«Dov’è Edward?»
Urlavo, ero senza voce, nessuno mi sentiva. Sbattevo i pugni contro un vetro, con il viso stravolto dal pianto.
«Dov’è Edward?», continuavo a chiedere, ma non ricevevo risposta. Sentivo mio figlio scalciare prepotentemente, come a rassicurarmi che lui c’era e che dovevo calmarmi, ma non lo ascoltavo.
Infransi il vetro, macchiandomi le mani del mio stesso sangue proteggendomi dalle schegge, e corsi fino a che ebbi fiato nei polmoni.
Mi accasciai sconvolta sulle ginocchia, continuando a singhiozzare e a disperarmi. C’era un silenzio assordante che mi penetrava nelle orecchie, fischiava incessantemente e mi misi le mani sulle orecchie, urlando di smetterla.
Ero sola, ancora.
Ad un certo punto, a pochi metri da me, si illuminò una luce e vidi una bara. Mi issai sulle gambe tremanti e la raggiunsi, affacciandomi. Mi sentii mancare, e mi aggrappai con forza al legno massiccio.
Il suo volto era straziato da profonde ferite, nella sua mano stringeva un ciuccio rosso e al dito portava la fede, anche se non gli era consentito al campo.
Strillai di dolore, e qualcosa di viscido mi corse lungo le gambe.
Ai miei piedi, solo una gigantesca pozza di sangue.


«Stt, amore. Bella, sono qui.»
Spalancai gli occhi, con il fiato corto e il petto che si alzava freneticamente. Mia madre mi stava accarezzando la fronte nel tentativo di tranquillizzarmi.
«Era solo un incubo…», sussurrai a me stessa, e quando percepii un calcetto di mio figlio, tirai un sospiro di sollievo.
Era davvero solo un  brutto sogno… Più che brutto, tremendo. Non avevo mai avuto così tanta paura in vita mia… sembrava tutto così reale. Edward, il suo viso, l’aborto…
Mi venne la pelle d’oca e mi lasciai cullare da Renée, che mi teneva stretta al suo petto.
«Ti va di parlarmi del sogno?», domandò sottovoce, asciugandomi le guance come quando ero bambina.
Scossi il capo e lei non fece una piega. Averla così vicina era la miglior medicina… Dopo Edward. Solo lui era capace di eliminare tutti i miei problemi, di farmi sentire meglio solo con un sorriso. Solo lui poteva.
«Tesoro, sicura di stare bene?» Renée interruppe il flusso dei miei pensieri.
Beh, se essersi appena svegliati da un incubo era sinonimo di stare bene... «Si mamma, perché?»
Mi guardò in modo strano e... protettivo? «Mamma?» la chiamai «C'è qualcosa che non va?»
Accese l’abat-jour e, rivolgendomi un sorriso appena accennato, confabulò qualcosa, per poi uscire dalla stanza.
Cosa diavolo era successo, ora? Controllai di stare bene, o almeno di avere una parva idea di esserlo.
Al contrario del mio sogno, non c’era nessuna macchia di sangue sul lenzuolo in mezzo alle mie gambe, le mie mani non erano ferite e avevo qualche accennata contrazione, come d’abitudine notturna.
Che motivo c’era quindi di guardarmi in quel modo? Non c’era nulla di diverso o preoccupante in me.
Mi asciugai la fronte madida di sudore, e solo in quel momento mi accorsi di scottare: ero in fiamme.
Ora capivo perché Renée era fuggita nella stanza accanto: aveva intuito che qualcosa stava andando per il verso sbagliato.
Respiri piccoli ma profondi, mi ripetei mentalmente, per non andare nel panico. Era una febbriciattola da nulla, no?
Eppure nel giro di qualche secondo mi ritrovai seduta e tremante, con i miei genitori accanto che mi rassicuravano con parole dolci, ma non riuscivo  a sentirli. Il mio cervello era disconnesso, ogni rumore del mondo esterno mi giungevano così ovattati da sembrare muti.
E per qualche attimo capii cosa voleva dire non udire nulla. Era come essere fuori dal mondo, fuori dai tuoi cari, fuori da tutto. Un silenzio così rimbombante che ti trapanava i timpani entrando nella tua testa e ti faceva oscillare e confondere. Così intenso ma allo stesso tempo assente da averti fatto sentire in modo amplificato i tuoi pensieri che ti riempivano la mente. E al momento la mia era piena di domande e di perché che non presto trovarono una risposta.
«Tra poco saremmo in ospedale, tesoro, stai tranquilla.», continuava a dirmi Renée ma a stento comprendevo le sue frasi, anche se alcune parole, come “ospedale”, “dottori”, “bambino” e “soluzione” perforavano quella barriera che il mio  corpo, per via del panico, si era creato.


Uno dei fatti che tutti dovrebbero sapere assolutamente dei dottori è che sono molto pragmatici. In parte è un bene, perché non ti fanno rimanere con il fiato sospeso fino all’ultimo decimo di secondo, ma dall’altra parte è un male perché sono capace di farti cadere il mondo addosso in qualche istante.
«Allora, signorina Swan. Le analisi non riscontrano nessun aumento degli anticorpi e dei globuli bianchi, il che sarebbe segno di un infezione. La febbre è solo portata dallo stress. I monitoraggi come proseguono?»
Alzai le spalle. «Si muove, contrazioni pari a zero.»
«Bene, allora misuro se la febbre è calata.»
Sotto lo sguardo attento e preoccupato dei miei genitori, lasciai fare al medico il suo dovere, sebbene mi trattasse come un numero qualsiasi. Non sopportavo quella condizione, l’essere ammalata e venire curata come se fossi un pacco da spedire o da buttare. Però purtroppo la politica dell’ospedale era quella, e non potevo fare molto per cambiarla…
«Perfetto, la temperatura è tornata nella norma. Vado a richiedere i moduli per la dimissione.»
Appena il dottore uscì dalla camera, alzai gli occhi al cielo e mi lasciai andare sui cuscini della barella.
«Fortuna che stai bene, tesoro.», mormorò mia madre, qualche minuto dopo, accarezzandomi una mano. «Ci hai fatto preoccupare.»
«Sono… Sto bene, stiamo bene, l’hai sentito anche tu, no?»
Annuì e mio padre uscì un attimo dalla stanza, con il cellulare che vibrava.
«Comunque anche lui… anche il bambino sta bene, mamma.», sussurrai, sfiorandomi con la mano aperta il ventre che svettava dalle lenzuola. In risposta, ricevetti un calcetto che mi fece sorridere. Non era successo nulla, anche i dottori avevano detto che il feto era in perfette condizioni.
Socchiusi gli occhi beandomi del silenzio che mi circondava, anche se venne rotto poco dopo da un’infermiera che mi disse che potevo tornare a casa.
Raccolsi le mie cose e con l’aiuto di Renée uscii dalla camera e mi accorsi che Charlie era lì in un angolo a confabulare al telefono, che attaccò non appena ci vide.
In auto rimanemmo tutti in silenzio, e solo quando mio padre aveva parcheggiato l’auto nel vialetto di casa, risentii il cellulare suonare.
«È per te.», borbottò, porgendomi l’apparecchio una volta giunti a casa. Lo appoggiai all’orecchio. «Pronto?»
«Bella, amore, stai bene?»
Mi si mozzò il fiato nei polmoni a quella voce, e il magone risalì la gola. «Edward?»
«Dio, ero così agitato! State bene, tu e il bambino?»
Nonostante la lontananza, era iperprotettivo e nell’oscurità della nostra camera mi ritrovai a sorridere. «Ehi, calmati, stiamo benone.»
«Santo cielo, tua madre mi ha chiamato dicendomi che eravate in ospedale… Ti rendi conto di quanto mi sia spaventato? Stavo morendo di paura.»
«Ehi…», dissi, rimettendomi sotto le coperte. «Va tutto bene, okay? È stato… solo un piccolo malessere, niente di più.»
«Un piccolo malessere?! Bella, hai la minima idea di come mi sia sentito in quest’ora?»
Sospirai. «Amore, ti prego, ascolta: ho avuto solo un po’ di febbre, mi sono agitata perché ho fatto un brutto sogno, d’accordo?»
Lo sentii sbuffare. «Io sono… a chilometri da voi, lo sai, vero?»
«Certo che lo so.»
«E… sapere che stai male, quando io sono lontano, mi strugge. E se ora ti trovassi in travaglio, e io non fossi al tuo fianco, come la metteresti? Una delle cose che non mi perdonerei mai al mondo è perdere la nascita di mio figlio.»
Le lacrime sfuggirono al mio controllo, e mi ritrovai ben presto abbracciata al suo cuscino. «Non dirmi così…»
«No, Bella, è la verità. Nostro figlio ancora non ha conosciuto suo padre, e forse lo incontrerà quando avrà due o tre anni. Come posso vivere con questo rimorso?»
«Edward…»
La sua voce si ruppe per via delle lacrime. «Non lo vedrò nascere, non sentirò il suo primo respiro e il suo primo pianto in sala parto, non lo vedrò prendere peso, non lo vedrò iniziare a gattonare e a camminare… Come posso, amore, come posso resistere? Nell’esercito questo non ce lo insegnano. O la vita, o il dovere per la patria. Voi… voi siete la mia vita, e vi sto lentamente perdendo, ogni giorno che passa.»
«Ascolta», tossii, provando a prendere un po’ di forza. «proprio tu mi avevi insegnato a essere forte e a credere nella fede e nella speranza, e proprio tu stai cancellando le tue stesse parole. Come faccio io a resistere se tu stesso mi dici questo e non mantieni la tua promessa?»
«Non… non mi va di litigare proprio adesso, okay? Ti prego, dormi adesso, lì è tardi
«Certo, chiudiamo sempre i discorsi a metà.», borbottai, maledicendolo mentalmente.
«Ora non voglio, Bella. Dormi. Vi amo
«Anche noi.», risposi, attaccando la cornetta e quella piccola frase mi parve non contenere tutto l’amore che doveva avere. Era stata detta nella rabbia, quasi come una sfida, ma io davvero amavo Edward. E pensare che potevo perderlo…
Scacciai dalla mente quel pensiero, chiudendo gli occhi e provando a prendere sonno, ma ben presto mi ritrovai soltanto a vagare in mezzo ai ricordi.


«Sai che… essere la moglie di un militare è una delle imprese più difficili del mondo?»
Eravamo distesi sul mio letto, nella casa dei miei genitori, pochi minuti dopo che lui mi aveva fatto la fantomatica proposta di sposarlo.
Posai appena le labbra sulle sue, stringendomi al suo petto. «Mh… ne ho una vaga idea.»
Rise e mi carezzò la guancia. «Sul serio, Bella. Non è una cosa da tutti i giorni, sposarsi con un ragazzo dell’esercito.»
Lo fissai in quei suoi occhi così belli da perdermici dentro. Il verde smeraldo, in quel momento, stava brillando di felicità per la risposta che gli avevo dato e quella luce ancora non si era spenta, e pensai che non lo avrebbe fatto tanto presto. «Mi pare di averti risposto di sì.»
«Mi avrai risposto anche di sì, ma sei sicura della tua scelta?»
Aggrottai le sopracciglia, sperando che stesse scherzando. «Mi stai chiedendo di cambiare il mio responso, o cosa?»
Sorrise. «Non ho detto questo. Solo… non voglio che tu prenda la decisione troppo alla leggera.»
«Io so quello che voglio.» Marcai decisamente troppo sul verbo e lui se ne accorse, ma non lo feci ribattere. «E io voglio sposarti, voglio vivere il resto dei miei giorni con la consapevolezza di averti al mio fianco, di amarti e di tenere al dito un anello con su inciso il tuo nome.»
«È lo stesso che voglio io.»
«Ma?», lo incitai, posando una mano sul suo petto. Sospirò pesantemente e appoggiò la fronte contro la mia.
«Ma io non voglio sapere che, mentre io sarò lontano, a migliaia di chilometri da te, vivrai nel dolore e nella paura di perdermi. Solo l’idea di procurarti tutto questo…»
Sentii la sua voce incrinarsi e lo fermai, adagiando la mano che prima era sul torace sulla sua bocca. «Stt…»
Una lacrima gli scivolò lungo la guancia. «No… Ehi, non piangere, Edward.»
«Come farò a sopravvivere laggiù immaginandoti stare male? Come posso lasciarti qui da sola?»
«Non mi lascerai da sola…», sussurrai, provando a dargli un po’ di conforto. «Io sarò forte se saprò che tutto andrà liscio. Non ti basta sapere che ti amo e che credo in te?»
In tutta risposta, posò le labbra sulle mie, suggellando un bacio che cercava di aiutare entrambi ad essere tenaci.
«Qualunque cosa accada… Io ti amerò sempre.», mormorò dopo esserti staccato da me.
«Anche io, sempre.»
Vidi sul suo volto affacciarsi un sorriso. «Allora… Quindi è ufficiale che diventerai la moglie di un militare?»
«Non hai bisogno di una risposta, mio soldato.», sussurrai e lui avvicinò il mio viso con la mano.
«Hai accettato la sfida…»
«E vincerò, mio caro. Io vinco sempre.», scherzai e lasciai che ridesse sulla mia bocca, per poi lasciarsi andare in quel contatto che non meritava di essere fermato, perché racchiudeva tutta la speranza e l’amore che provavamo reciprocamente l’uno per l’altra. Era il mio soldato, e lo avrei aspettato sulla porta di casa, pronta ad amarlo come avevo fatto durante l’attesa di riaverlo fra le braccia.


Angolino tutto mio :3        
Saaaaaaaaaaaaaaalve. Allora... Ebbene sì, sono ancora qui! Diciamo che questo doveva essere un regalino di Natale, ma per motivi ieri non ho potuto postare... va bene lo stesso, no? :3
Per chi non mi conoscesse, salve: sono Ever e mi faccio spesso odiare perché inizio FF nuove a tutto spiano... Lulu, tu ne sai qualcosa, vero? *coff*
Però questa mini long (ebbene sì, solo mini, per sfortuna - o fortuna: tre capitoli più un epilogo e forse qualche extra, se non allungherò ulteriormente la storia, ma non penso.) mi è nata dal cuore, e avevo un infinito bisogno di scriverla e postarla. Per cui, spero di finirla presto, tanto tre capitoli e un epilogo si scrivono in fretta... E poi tornerò a scrivere le altre ff, don't worry, non le ho abbandonate, come potrei?
Ebbene... Niente, in realtà non so cosa dire. O forse sì. spero solo che alcune personcine nuove si facciano sentire, per dirmi che cosa gliene pare dell'idea.. Okay, non molto natalizia, maaaaaa vi prego di aspettare. Però preparate lo stesso una bella di fazzoletti, okay? Non si sa mai lol.
Avevo detto che alla fine ci sarebbero stati i ringraziamenti... Sì.
Allora, in primis Sanya, come ho già detto, e lei sa perché. Buona parte della storia mi è stata dettata inconsciamente da lei, e per questo voglio dedicarle la mini long. Sii forte, tesoro, come la nostra Bella, okay? So che leggerai tutto questo dopo, però voglio che tu lo sappia da subito.
Poi Simona e Jess Vanderbilt, perché loro sapevano tutto dall'inizio, e mi hanno aiutato a sviluppare l'idea, a modo loro. Thanks girls <3
A Bianca, Anya e a Simona (again) perchè questo è il mio regalo di compleanno per loro. Anche se in ritardissimo, spero lo accettiate, ve lo faccio con amore <3
A Lulu, perché le ho tenuto nascosto tutto HAHAAH e non le ho detto nulla fino ad adesso, e so che mi ammazzerà perché ho postato qualcosa di nuovo e non dovevo (!)
A Giuls, Francy, Aurora, Marti, Cami, MaryFely e a tutte le altre (sanno chi sono) perché a modo loro rientrano in questa ff, e perché, come alle ragazze sopracitate, voglio un mondo di bene e perché credono in me e vorrebbero uccidermi quando penso che non so scrivere.
Direi di finirla anche qui, o divento troppo monotona (blablabla).
Vi aspetto presto con il secondo capitolo (dovrebbe arrivare al massimo fra 4 gg, non di più.) E quindi aspetto numerose le vostre recensioni (positive o negative) che siano, perché voglio sapere tutto ciò che pensate su questa mia idea. Per me è importante, so...
Ci sentiamo in settimana :)
Kisses,
Giulia.

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Capitolo 2
*** How can you remember? ***


Be still

Be still
Capitolo due: How can you remember?


Bella.

Non era la neve (assente) che cadeva in piccoli fiocchi imbiancando tutto, non erano le canzoncine natalizie che si sentivano nei negozi, non erano le case addobbate che facevano sentire l'atmosfera natalizia a casa nostra.
Era Edward. Era sempre stato lui a farmi amare, in un modo particolare, quella festività. Riuscivamo a vivere quel periodo dell'anno nella più totale armonia che si poteva desiderare, rimanendo a casa a guardarci un film oppure a coccolarci davanti al camino. Andavamo spesso per una settimana o poco più in Canada, per prenderci un po' di tempo per noi stessi e rimanere da soli.
Ma quell'anno sarebbe stato diverso, completamente. Mancavano appena tre giorni a Natale, in casa non c'era neanche l'albero o fuori in giardino le luci non erano neanche state disposte. Il soggiorno in Canada non era stato prenotato, i film erano sullo scaffale, sotto un'immensa coltre di polvere.
E, cosa più importante, Edward non c'era. Quel pensiero pulsava tremendamente nella mia testa, e mi chiedevo come avrei mai fatto a trascorrere il giorno di festa senza averlo vicino a me. Era una tortura, non meritavo di viverla.
«We wish you a merry Christmas, we wish you a merry Christmas, we wish you a merry Christmas and a Happy New Year!
Good tidings we bring, to you and your kin. Good tidings for Christmas and a hapy New Year
Alice canticchiò intorno a me, ridendo gioiosa. «Dai, Bella! Canta con me!»
Sorrisi, solo per farla felice. «Perché non canti con i bambini? A me non va.»
Si voltò per tornare nella camera accanto, ma poi mi fissò interrogativa. Forse si era accorta del tono che avevo usato: duro e gelido.
«Oh, tutto okay?»
«Mh-mh.», bofonchiai, sedendomi sul divano. Non fece altre domande e se ne andò.
Sospirai pesantemente. Forse avevo pregato fin troppo che tutta quella preoccupazione nei miei confronti sparisse...
Ancora una volta era cambiata la situazione. Da una di totale ansia e domande verso di me, dove appena facevo un verso tutti accorrevano, eravamo passati ad una di totale menefreghismo.
Pure Renée, che fino a una settimana prima si era spaventata da morire – vedi l'episodio dell'incubo con conseguente febbre e corsa al pronto soccorso, ora non si sbilanciava a vedermi con le lacrime umide, né mi chiedeva cosa mi fosse successo.
Le persone sono così volubili...
Ormai la sera mi ritrovavo a piangere in silenzio, pensando a tutto il dolore che mi portavo dentro, e quello era l'unico modo per sfogarmi. Neanche accarezzarmi il pancione sentendo i calci del bambino mi aiutava più a calmarmi.
Mi alzai goffamente dal divano, guardando fuori dalla finestra. Il giardino, spoglio, evidenziava ancora di più la mia voglia di trascurare quel Natale.
Sgattaiolai in camera, scivolando come un ladro in camera mia. Perlustrai con lo sguardo tutto l'ambiente, dalle tende lilla al letto ancora sfatto. Il suo cuscino era rannicchiato contro il mio, perché ormai era diventata abitudine consolidata stringerlo a me e inspirare a fondo il suo profumo prima di prendere sonno.
Dieci secondi dopo mi ritrovai davanti al suo armadio, a fissare quei pochi vestiti che Edward aveva lasciato a Jacksonville, a casa.
Perché quella era casa sua, nostra. Strinsi al petto una sua T-Shirt, quella comprata alle cascate del Niagara qualche estate prima, talmente usata che le scritte si stavano sbiadendo.
Colta da un magone improvviso, richiusi le ante e fissai il soffitto.
Quell'ambiente cominciava a starmi stretto, come tutti i vestiti che avevo nell'armadio che non mi entravano più, come la fede nuziale che mi stringeva l'anulare.
La fede, quell'anellino d'oro perfettamente incastrato nel dito. Aveva ancora un senso, per me, quel piccolo simbolo?
A me, non serviva per rappresentare l'amore che provavo per Edward, per il fatto che eravamo indissolubilmente legati davanti a Dio. Ma sarebbe servito, quando, per puro caso, Ed se ne sarebbe andato? Quando mi avrebbe lasciato sola, con suo figlio in grembo? Sarebbe servito davanti alla sua bara, avvolta nella bandiera americana, al suo funerale? Sarebbe servito, un giorno, per spiegare al nostro bambino che avevo amato suo padre così tanto da non riuscire a lasciarlo andare?
Quanto mi sarebbe servito quell'anello?
Dovevo tenerlo lì dov'era o lasciarlo a casa? Appoggiarlo al comodino avrebbe voluto dire che era la fine, lui non c'era, dimenticarlo, in poche parole. E io non volevo. Dimenticarlo era proibito, solo il pensiero mi faceva male, mi bruciava gli occhi, i polmoni. Mi ronzava nel cervello, annebbiandolo.
Scacciai subito quel pensiero, e decisi quello che dovevo fare.
Indossai un paio di jeans larghi e una felpa pesante. Nonostante l'ingombro del pancione, riuscii a legarmi le scarpe e mi infilai un cappotto pesante.
Scesi al piano di sotto furtivamente, cercando di dare meno nell'occhio possibile vista la marmaglia di gente che insediava il mio salotto. Tutti presi a cantare canzoni di Natale, a ridere e a pensare al domani.
Tutte cose impossibili per me. Potevo farlo, sì, ma non quando Edward non era al mio fianco, non quando non sentivo i suoi passi per casa.
Se lui non c'era, per me non aveva senso tutto quello. Non aveva senso vivere quel Natale come tutti gli altri.
Mi richiusi il portoncino alle spalle e fuggi lungo la via deserta, camminando velocemente per allontanarmi il prima possibile da quel buco. Quando fui abbastanza lontana perché mi vedessero, decelerai il passo, con il fiato già corto.
Le strade erano completamente vuote, segno che tutti erano in casa a finire gli ultimi preparativi, a divertirsi con i propri familiari e a provare le ricette che sarebbero state cucinate alla vigilia.
E in un attimo rividi me e Edward, in cucina, insieme, un anno prima.

«Stai bravo.»
Cacciai via le mani di Ed dalla ciotola dove stavo mescolando la salsa per l'arrosto, su cui girava come un avvoltoio già da mezz'ora abbondante.
«Voglio assaggiare, dai.», borbottò come un bambino impaziente. «Solo... Una punta di cucchiaio, non di più.»
«Non se ne parla!», esclamai, guardandolo negli occhi, pronta a difendermi dal suo sguardo da cucciolo. «Prima devo finirla! E poi fredda e cruda non è buona!»
«Ma chi se ne importa! Fammi assaggiare, su!»
Mi afferrò la mano che teneva la frusta e la sua bocca si avvicinò famelica all'utensile, ma io fui più veloce e mi scansai dalle sue braccia.
«Eh, no!», risi, correndo per casa con il mano la ciotola. Avremmo combinato guai, ne ero certa. Sentivo i suoi passi correre dietro di me, nel tentativo di raggiungermi.
Ben presto mi ritrovai in salotto, e scivolai per terra cascando nel tappeto.
«Ti ho presa!» Le risate di Edward si espansero per tutta la stanza, e vittorioso mi tolse dalle mani la salsa.
«E meno male che non era buona da cruda, eh?», borbottò, lanciandomi una frecciatina. Provai a sfuggire dal suo controllo, ma aveva ben capito che l'unico modo per tenermi ferma era sedersi sul mio bacino.
«Smettila! Così la finisci tutta e poi...»
Non mi lasciò terminare la frase che posò la bocca impiastrata. La sua lingua sapeva di salato, lo stesso gusto della ricetta... E sapeva di Edward.
Non controbattei ma risposi ben volentieri al bacio, lasciandolo appoggiare la terrina sul tavolo accanto a noi e poi allacciare le mani dietro al suo collo, spingendolo più verso di me.
«No, okay... Non era tanto male, infondo.», sussurrai sulle sue labbra, mentre non sentivo altro che i nostri respiri colmare il silenzio del salotto sotto i nostri gesti affrettati.

I ricordi procuravano dolore ancora di più della sua assenza. Le lacrime presero a scorrere e mi incamminai per le stradine che portavano oltre le colline, dove c'erano quei paesini sconfinati e tranquilli, dove io e Edward avremmo sempre voluto abitare.
Lì, dove l'erba dei prati era secca e gelata e gli alberi erano senza foglie, era visibile come ciò che provavo potesse manifestarsi anche su un posto. Perché, in qualche modo, rappresentava il mio dolore.
Scivolai via anche da lì, percorrendo un sentiero sterrato che portava ad un luogo a me caro.
Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dal vento. Sentivo le onde scrosciare sugli scogli e infrangersi, i gabbiani stormivano lontani, la brezza mi carezzava il collo e i capelli.
Quando rivolsi lo sguardo al cielo, ascoltai le nuvole rombare sopra la mia testa, grigie e cupe, quasi tristi. Che volessero piangere come me? In realtà sperai di no.
Feci per controllare l'ora sul cellulare ma mi fermai ancora prima di aver messo la mano in tasca. L'avevo spento, perché nessuno mi avrebbe dovuto cercare, ma tanto sapevo non sarebbe successo. Avevo bisogno però anche di un po' di tempo da sola, per pensare, per sentire le parole nella mia mente urlare e venire spazzate via dal vento, uscire dal mio corpo e trovare spazio per ribellarsi. Volevo solo percepire appieno i movimenti del mio bambino, come mai avevo fatto, neanche le sere in cui non riuscivo a prendere sonno e mi fermavo ad ascoltarlo con una mano accanto all'ombelico e un sorriso stampato in viso. Era un momento per, finalmente, recuperare tutto ciò che avevo perso in quei mesi, dove mi sembrava di essere stata spenta, senza anima, senza nulla per cui vivere, quando invece ce l'avevo proprio dentro di me, ma il dolore non lasciava spazio per niente che non fosse lacrime e urli muti nel cuore della notte.
Sulla spiaggia, nel nostro piccolo angolo di paradiso personale, il tempo sembrava essersi fermato. Tutto era come me lo ricordavo: sabbia mista a ciottoli, la roccia deformata dal sale, gli scogli a un centinaio di metri dalla riva... Esattamente come tanto tempo prima.
Ci eravamo costruiti, diciamo, quel posto tutto nostro, sebbene spesso fosse affollato di gente. Ma quando non lo era, quando non si sentiva altro che il mare mormorare e i gabbiani stridere, lavoravamo quel posto come se fosse stato creta. Immaginavamo di costruirci un capanno con le barche, un piccolo chiosco per i bambini. Cambiarlo e volgerlo a nostro piacere.
Senza accorgermene, mi ritrovai seduta a pochi metri dalla riva, con i palmi delle mani sulla sabbia, il viso rivolto verso il cielo, gli occhi chiusi, l'udito assente.
Dentro di me sentivo le voci mie e di Edward, nel momento in cui mi fece scoprire quel posto, quando mi aveva fatto sentire una donna per la prima volta, quando avevo capito che in un corpo possono viverci due persone senza grossi problemi.

«Edward, ti prego.»
«No, silenzio. E non sbirciare.»
Il fiato caldo di Edward mi solleticava la pelle dietro l'orecchio, il collo, il lobo, la guancia.
«Ma è proprio obbligatorio tutto questo?», mormorai, con la voce tremante. Mi aveva messo una benda sugli occhi appena saliti sulla sua auto e ancora non si era degnato di dirmi dove mi stesse portando.
«Mh, già. E ora st, ascolta soltanto, d'accordo?»
Non risposi e sbuffai soltanto, e percepii sotto i miei piedi della sabbia tiepida, scaldata dal sole di metà settembre. Aprii la bocca per dire qualcosa ma fui colta alla sprovvista da un fruscio accanto a me, poi da uno scroscio d'acqua, degli starnazzi.
«Dove sono?»
Edward sorrise. «Attendi ancora qualche minuto.»
Essendo scalza, sentii ben presto qualcosa di freddo e umido sfiorarmi i piedi, e lanciai un gridolino di sorpresa.
La benda stretta attorno al mio viso si allentò e le dita di Ed la tolsero. Rimasi ancora un po' con gli occhi chiusi, fino a che non percepii le labbra calde del ragazzo sulle mie.
«Eri tutta impaziente, e ora non guardi?»
Risi e dischiusi le palpebre. A parte il bellissimo viso di Edward davanti al mio, alle sue spalle vidi il mare, le onde blu morire sul bagnasciuga, i gabbiani bianchi  sopra le nostre teste, il cielo terso che si perdeva con l'orizzonte, la sabbia fine e chiara.
«Cosa diavolo...»
Ed posò la mano sulla mia bocca, per zittirmi. «È il mio regalo di compleanno da parte mia, per te.»
Tutto divenne lucido, segno che le lacrime stavano per fare capolino. «Cosa? No, ehi. Sei pazzo!»
Mi strinse al suo petto, carezzandomi la schiena. «Manco avessi speso un capitale, amore.»
Mi aveva chiamata amore. Succedeva spesso, ma in quel momento le sue parole mi bruciarono la pelle, la baciavano. Quel termine aveva definitivamente mandato i miei neuroni all'altro mondo.
«È tutto bellissimo, è un regalo stupendo.», mormorai. Per alcuni, sarebbe stata una delusione, ritrovarsi il giorno del proprio compleanno in una spiaggia deserta, e non magari con qualcosa di sfarzoso addosso.
Ma per me, quello che davvero importava, era il gesto, il pensiero che Edward aveva avuto. Era vero, forse non era nulla di speciale,  quel posto, ma per me, era semplicemente perfetto. Rappresentava in qualche modo lui, e me, insieme.
«Vieni.» Ed mi prese la mano e mi portò fino ad un angolino lontano da occhi indiscreti, dietro una serie di piante basse, dove il sole arrivava appena.
Mi fece sedere su una coperta che forse aveva messo lui mentre io ero bendata, la schiena contro una roccia. I nostri sguardi si incatenarono, i suoi occhi diventarono specchio dei miei.
Pochi secondi dopo, la sua bocca sigillò la mia, e ben presto sentii la sua lingua scollare le mie labbra. Lo lasciai fare, ma lo fermai quasi subito, impaurita.
«Dammi... Dammi un secondo.»
Mi fissò sconcertato... e intenerito. Dove era tutto il mio coraggio, in quel momento? Me ne sarei scappata ben volentieri a gambe levate, eppure il mio desiderio nei confronti di Edward era troppo forte, e come una calamita mi avvicinai di nuovo a lui.
Mi inginocchiai sulla sabbia e allacciai di nuovo le braccia al suo collo, posando le labbra sulle sue. Erano morbide, vellutate, e soprattutto trasmettevano tutta la voglia che provava nei miei confronti.
Slacciai la sua camicia, gettandola dietro a un cespuglio, e lui fece lo stesso con la mia. Le sue labbra percorsero il profilo della mia mascella, scendendo verso la spalla, posandoci sopra piccoli tocchi.
Ben presto, mescolati al suono delle onde infrante sugli scogli e alle grida dei gabbiani, si percepirono respiri affannati, parole sussurrate al vento e mugolii silenziosi.
«Ti amo...», mormorai contro la sua fronte, socchiudendo gli occhi.
Ogni termine, ogni sussurro, ogni respiro che affiorava sulle nostre labbra traspirava un amore così forte da parere impossibile.
La mia mente era affollata da mille pensieri, dai ricordi che avevamo passato assieme. Tutti incredibili, ma nessuno riusciva a battere quel momento.
«Ti amo anche io, immensamente.», soffiò sulla mia guancia, portandomi ad un passo dal paradiso. «Ti sto facendo male?»
Scossi il capo, sebbene dentro di me sentii qualcosa rompersi e una lacrima mi sfuggì. «No, sto bene.»
Dolcemente, con la punta delle dita, cancellò via quella piccola traccia di dolore dal mio viso, per poi baciarmi di nuovo, per poi farmi perdere ancora una volta il controllo della realtà.
Niente poteva superare l'attimo in cui divenni una donna, completa, assieme a lui. Niente era meglio di quello.
Ero nel mio angolo di paradiso personale, con la persona che amavo, e, momentaneamente, mi bastava.

Il peso dei ricordi era terribile, e in più era tutto volontario. Rifugiarmi nel passato mi serviva, in qualche modo, per sentirlo accanto a me, per sapere che lui era ancora vivo, che non mi aveva lasciato mai, nonostante ora si trovasse a migliaia di chilometri da me.
Posai una mano sulla pancia, e cominciai a fantasticare con la mente. «Ciao, piccolino.», sussurrai, e sperai con tutta mia stessa di ricevere una risposta che non arrivò.
«So di averti un po' trascurato, ultimamente. E mi dispiace tantissimo, però la mamma ti promette che non capiterà più, okay? È solo che...»
All'improvviso non sapevo cosa dirgli, se fargli veramente quel discorso. So che poteva sentirmi, ma avrebbe avuto un senso quel discorso per lui, che ancora non aveva visto i miei occhi, il mio viso, il mondo intero?
«Tu conosci la mia voce, mi senti tutti i giorni, ti accarezzo dalla mattina alla sera. Però sai, piccino, c'è una persona che vorrebbe fare tutto questo e non può. È il tuo papà.»
Fissai le onde che arrivavano piene di schiume sul bagnasciuga. «Solo che... non è qui, da come ti sei accorto. È lontano, tanto, e non so quando sarà qui. Ma anche lui ti vuole bene, lo sai? Ti ama, ti ama proprio come me. È triste perché sa che fra poco tu arriverai e forse lui non sarà qui. Ma lui già ti conosce, quando parliamo assieme lui ogni tanto ti vede. Sa come cresci, come sei bello e già sa che sarai uguale a me. Io, in realtà, amore, spero che tu abbia preso tutto da tuo papà, perché è bellissimo, dolce, ha un carattere forte.»
Un calcetto arrivò proprio in direzione del palmo della mia mano, e sorrisi. «Però non posso dirti dove si trova. Lì c'è tristezza, decine di persone muoiono ogni ora e pochi lo sanno, non sanno cosa sia la felicità. Ci sono solo spari, scoppi, urla... E il tuo papà è lì, e non se lo merita. Ma il tuo papà è un soldato, amore, e quindi il suo dovere è proteggerci, anche da lontano.
E fra poco è Natale, e non sarà qui. È il primo natale senza di lui, purtroppo. Però... però lo penserò tutto il tempo, perché è sempre nel mio cuore, e mamma lo ama immensamente. Non riesco a stare un secondo senza pensare a lui, e rabbrividisco tutte le volte che penso a cosa potrebbe succedergli. È un posto terribile, quello in cui è adesso. Ogni secondo rischia di morire, di andarsene per sempre da noi. E io... io non potrei mai sopportarlo, amore, mai. Un'esistenza senza papà è come il giorno senza sole, la notte senza luna e stelle. Sarebbe terribile...»
Quando iniziò a piovere, non mi mossi. Lasciai che le goccioline di pioggia si mischiassero con le lacrime, che mi scivolassero lungo il viso indifferente, che mi bagnassero i capelli.
«E ora vedi? Anche gli angeli piangono, come la mamma. Ma non dovrei piangere, non dovrei. Non fa bene né a me né a te, ci renderebbe tristi. Purtroppo però mamma non riesce a essere felice, se papà non è qui. Quando ho scoperto di averti dentro di me, lì sì che ero felice, e spaventata, perché non sapevo cosa fare... Ero sola, indifesa, e tu già eri grande come un fagiolo. Avevo paura di perderti, avevo paura che anche tu te ne andassi, che mi lasciassi sola. Non avrei sopportato tutto questo. Ma tu sei forte, amore, sei rimasto con me per tutto il tempo. Anche se sei un birichino perché ancora nessuno ha capito se sei un maschietto o una femminuccia... Io spero che tu sia un bel bambino con gli occhi verdi e i capelli rossicci, uguale a tuo padre, così avrei sempre una parte di lui con me. Ma se fossi una bambina so che saresti bella come il sole, con le guance sempre imporporate e i capelli color dell'oro e rossicci, ricci, lunghi e morbidi; gli occhi grandi e luminosi, che riflettono la tua voglia di vivere. Saresti la bambina più bella del mondo, saresti la mia principessa, ti amerei come si può amare l'ultima cosa sulla terra. Ti amerò perché sei la mia bambina, dentro di te custodisci la migliore parte di me, hai i miei pregi e i miei difetti. E il tuo papà ti amerà perché sarai la cosa più cara che ha qui, perché il tuo sorriso lo rallegrerà nei momenti bui, perché quando vedrà il tuo viso crederà come davvero abbiamo potuto fare un capolavoro come te.»
Risi della mia poca modestia, ma mi veniva naturale parlare a mio figlio in quel modo, come se già mi capisse, come se già mi amasse.
«Ti amerà perché sarai il suo angioletto, la sua peste, il suo cuore, perché la sera ti stringerà al suo petto e ti dirà quanto sei importante per lui, perché le notti che passeremo insonni ti cullerà per farti addormentare e ti sussurrerà all'orecchio le ninnananne più dolci che esistono. Ti amerà perché... perché sarai tu, perché capirà cosa si è perso in questi mesi, perché sarai la cosa più importante per entrambi, sarai l'incoronazione del nostro amore, tutto ciò che abbiamo sempre desiderato.»
Avevo iniziato a singhiozzare molto forte e qualcuno chiamò il mio nome da lontano. Probabilmente era solo una mia impressione, ma quando mi sentii toccare la spalla capii che non mi ero immaginata nulla.
«Cristo santo, Bella!»
Charlie aveva il fiato corto, teneva le mani sulle ginocchia e mi fissava incredulo. «Cosa ci fai qui?»
Scossi il capo, cercando una risposta, ma lui mi aveva già presa in braccio e portato il auto. «Dio mio, sei fradicia!»
Mi posò in una coperta calda sul sedile, stringendomi a sé per qualche secondo. «Mi hai fatto preoccupare...», mormorò con voce così bassa che a malapena distinsi le parole.
«Scusa, papà...», risposi sottovoce, e lui mi lasciò andare, sedendosi accanto a me.
Non mi rivolse più la parola per tutto il tragitto, e mi rannicchiai su me stessa, con le braccia attorno alla pancia, come a proteggere mio figlio. Arrivati a casa, mi sollevò di peso e mi scortò fino in salotto, adagiandomi sul divano. Mia madre subito mi fu accanto, e mi prese la mano.
«Dio mio, Bella, amore...»
«Sei uscita fuori di testa per caso? Ti abbiamo cercata per tutto il tempo!», gridò spazientito mio padre, con gli occhi lucidi. Tutta l'ansia provata ore prima stava venendo a galla.
«Charlie...», lo riprese mia madre, guardandolo severa. «Non mi sembra il caso di fare scenate proprio ora.»
«Renée, è il momento invece! Ti rendi conto di quello che sarebbe potuto succedere? E se fosse caduta, o se si fosse fatta male, ed era da sola? Se fosse successo qualcosa al bambino e lei non poteva chiedere aiuto a nessuno?»
Abbassai il capo, con le lacrime pronte a uscire. Mi sentii tremendamente in colpa, in quel momento, perché non avevo badato alle conseguenze che poteva comportare quella mia azione. Non avevo considerato il fatto che ero da sola, con un bambino in grembo... non avevo pensato a quello che sarebbe potuto accadere.
«Non mi sarebbe successo nulla, papà...», tossii infreddolita. Quelle parole scatenarono ancora di più l'istinto protettivo di Charlie.
«Questo lo dici tu! Ma non sempre le cose vanno come vorremmo noi, Bells! Ci pensi se davvero fossi scivolata e avessi battuto la testa? Cosa avresti fatto?»
Nascosi il viso sotto alla coperta, respirando più profondamente per non scoppiare a piangere come una bambina.
«Davvero, Renée... Non può comportarsi in questo modo, adesso. Non è più una bambina, è adulta ormai, e aspetta un bambino!»
«Char, per favore.»
Mio padre sbuffò e io alzai lo sguardo. «Posso andare in camera o no?»
Mi sentii tanto un'adolescente dopo un litigio con i propri genitori. Quando raggiunsi la mia stanza, caddi sul pavimento, piangendo come mai prima di allora. Tutto quel peso, tutti quei problemi erano troppo, per me.
In quel momento, davanti ai miei occhi vidi il campo di battaglia. Pieno di colonnine di fumo che salivano verso il cielo, rendevano tutto offuscato. Non mi fu difficile trovare Edward.
Mi venne da vomitare quando, con la mia immaginazione, vidi il suo volto, pieno di sangue e ferite aperte. Aveva gli occhi aperti, tesi all'indietro. Le iridi verdi scomparivano oltre le palpebre.
La divisa a chiazze era macchiata di colore rosso, un po' ovunque. Sul petto, sulle gambe, accanto al collo... in mano, teneva ancora un'arma.
Non trattenni un urlo, anche se sapevo benissimo che era tutto frutto della mia mente.
«Non ci sei... Non ci sei...», sussurrai, la fronte appoggiata al pavimento. «Perché non sei qui? Perché, amore mio?»

La calca all'aeroporto era incredibile. Decine di famiglie, la mia compresa, erano stipate in un angolo nell'attesa dell'arrivo di quel dannatissimo aereo, che avrebbe riportato a casa i soldati, dopo mesi di lontananza.
«Chissà come sta Edward...», sussurrai, con le mani congiunte sotto il mento. Alice sorrise della mia impazienza e mi carezzò la schiena.
«Starà bene. Non è la prima volta che si allontana, lo sai. Se la cava sempre.»
Per lei era facile. Da quando suo fratello si era arruolato, lo avevano chiamato tre volte prima che io lo conoscessi e quella era la prima vera occasione che stavamo così lontani. Era vero, forse solo due mesi non erano nulla in confronto all'anno intero che Esme e Carlisle avevano vissuto senza sapere se loro figlio sarebbe tornato in patria... vivo.
Per loro non era stato facile appoggiare il desiderio di Edward, ma dopotutto, quale genitore avrebbe voluto vedere il proprio bambino in guerra?
Eppure loro avevano detto di sì, avevano visto Ed salire su quell'aereo e avevano pregato notte e giorno affinché non gli succedesse nulla. E la gioia che avevano provato vedendolo correre verso di loro era indescrivibile.
«Lo spero, Ally.», sussurrai, e il mio cuore iniziò a battere freneticamente. Mezz'ora dopo l'intero reggimento ci raggiunse, e non resistetti quando vidi Edward in mezzo a loro.
Gli corsi incontro e lui mi prese al volo, stringendomi a sé. Le lacrime furono incontenibili, i singhiozzi inarrestabili. Era lì, con me, era di nuovo tornato a casa.
«Edward...», continuavo a bisbigliare sulla sua spalla, mentre lui mi circondava con le sue forti braccia.
«Sono qui, amore mio, sono qui.», mormorò, catturando il mio viso fra le mani. I suoi occhi erano lucidi, le iridi verdi brillavano per la felicità, e sembravano urlare al mondo intero che anche quella volta ce l'aveva fatta.
Posò le labbra sulle mie e il bacio che ne seguì fu il vero contatto che mi fece capire che non stavo sognando. Il mio soldato, il mio Edward, era di nuovo con me, e mi stava stringendo con tutta la forza che aveva in corpo.
«Mi sei mancato tantissimo...», dissi sulla sua bocca e lui sorrise fra le lacrime, vedendo che indossavo il suo bracciale. Me lo aveva regalato una settimana prima che partisse, ed era stato terribile vederlo ogni giorno al polso senza avere la consapevolezza se lui sarebbe tornato.
«Non potevo non fare ritorno, lo sai...», rispose e si asciugò il viso con la manica della divisa. «Mi sei mancata da morire pure tu...»
Gli carezzai la mano e mi accorsi che si era chinato su un ginocchio, issandosi sull'altro. Aprii la bocca per dire qualcosa ma non uscì neanche una parola e il suo viso comparve un sorriso, il suo sorriso. Dio, come mi era mancato...
«Cosa... cosa stai facendo?», confabulai confusa, e lui mi fece segno di stare in silenzio. Stavo andando in iperventilazione.
Non so come ci riuscì, ma estrasse dalla tasca una scatolina blu, e quando l'aprì, il fiato mi si mozzò.
«Isabella Swan, prometto qui, solennemente, davanti a tutte queste persone, di non lasciarti mai più sola a soffrire. Ti amo e ti amerò fino a che questo pazzo cuore non si fermerà, perciò vuoi farmi lo straordinario onore... di diventare mia moglie?»
Annuii confusamente e ripetutamente e lui mi accolse sul suo petto. «Sì, sì e ancora sì...»
Mi baciò dolcemente, e capii che le mie preghiere, a qualcosa, erano servite.
«Non ti lascerò mai più, te lo prometto. Non rimarrai mai più sola, sarò sempre qui al tuo fianco, per sempre.»
Con quelle parole, sigillò il suo giuramento sulle mie labbra e tutta la tristezza, la rabbia, il dolore e la paura scomparvero dal mio corpo, lasciando solo il posto alla cognizione che il mondo ora poteva anche finire, perché Edward era accanto a me.
«Rimarrò sempre qui...», sussurrò ancora, e sì, nulla ormai poteva separarci, nessuno poteva dividerci, niente poteva spezzare il nostro amore senza prima distruggerci.



Angolino tutto mio :3        
Io avevo avvisato sui fazzoletti, eh. Sono serviti?
Strano, ma vero, sono riuscita a scrivere questo capitolo in 4 gg :o
Be', anche se sono successe un paio di disavventure, come ad esempio il pc che ha deciso bene di lasciarmi per sempre a piedi, dicendo alla sua scheda madre di bruciarsi per non farmi scrivere -.- Fortuna volle che avevo salvato tutto su un archivio (dovevo formattare) e quindi eccomi qui :D
E poi, vi do un consiglio spassionato: NON INSTALLATE PER ALCUN MOTIVO LINUX. Mai.
È uno schifo, non lo sopporto. Mi ha cancellato mezzo capitolo (5 pagine) e ho dovuto riscriverle in un'ora... Se non è sfiga la mia.
Allora, cosa dire? Vedere ben 34 persone che hanno messo Be Still fra le seguite solo per il primo capitolo... è emozionante. Non pensavo facesse così tanto "clamore", in qualche modo... E poi ci sono le 14 personcine che l'hanno messo fra le preferite e le 2 fra le ricordate <3
E poi le sette recensioni.. awwwwwwwwwwwww brodo di giuggiole proprio!
Comunque, davvero, mi avete reso una persona felicissima. Questo progettino è importante per me, molto, e vedere che c'è gente che lo apprezza... Be', dire che mi fa felice è insulso, e non renderebbe a sufficienza l'idea.
Non so quando aggiornerò all'ultimo capitolo (OMG, mi fa strano dirlo çWç). Sicuramente nel 2013 :) Peenso, mal che vada, il 2 o il 3, quindi abbastanza presto :)
So, attendo ancora le vostre recensioni, che mi fanno taaaanto felice (a chi non lo fanno? lol) e niente :) Spero che vi sia piaciuto questo capitolo (come al solito mi è nato dal profondo del cuore).
Ci si legge ;)
BUON INIZIO 2013, CON LA SPERANZA CHE SIA UN ANNO MIGLIORE PER TUTTI. (iniziamo magari con qualche foto robsten, che dite? lol)
Un bacione, alla prossima,
Giulia.

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Capitolo 3
*** Heaven ***


Be still

Be still
Capitolo tre: Heaven




“Si vede che lo ami.”
“Da cosa?”
“Dagli occhi. Lo guardi come se potesse
cadere in pezzi da un momento all’altro.
Lo guardi per salvarlo”.

Bella.

«Buon Natale, amore.»
Una leggera pressione sulle labbra mi fece aprire lentamente gli occhi. Il viso di Edward era a poca distanza dal mio, e sopra vi era stampato un sorriso sghembo. I suoi occhi erano ancora lucidi dal sonno e la sua bocca impastata.
«Mh... Buon Natale.», sussurrai, stiracchiandomi per bene contro il suo petto.
«Oggi dobbiamo fare il grande annuncio.», mormorò Ed, svegliandomi così completamente e mettendomi in ansia.
«Sarai con me, a dirlo?»
Mi carezzò dolcemente a guancia, sorridendo. «Io ci sarò sempre per te...»

Nessun “buongiorno, amore”, nessun bacio o carezza, nessuna luce che filtrava appena dalle tapparelle, nessun Natale uguale agli altri.
Quel pensiero martellava la mia testa da ore, e non avevo chiuso occhio quella notte, piangendo sotto l'onda di ricordi sulle feste in cui Edward aveva partecipato a partire dal primo anno di fidanzamento.
Il primo cenone il giorno del Ringraziamento a casa dei suoi.
Il primo albero decorato assieme l'otto dicembre.
La prima vigilia fuori con gli amici.
Il primo Natale passato con le nostre famiglie ancora scettiche sul nostro rapporto.
Il primo Capodanno per i locali, a ridere e a pensare a come quell'anno fosse passato in fretta.
Il primo San Valentino, con il viaggio a Los Angeles, lontano da tutti, da soli.
Le nostre prime esperienze, le risate nate da uno sguardo solo, i fugaci tocchi in pubblico...
Quanto mi mancava tutto quello? C'era un modo o una parola per descriverlo?
Mi sfiorai la guancia e mi accorsi che era umida. Stavo piangendo, di nuovo, dopo poco tempo che ero finalmente riuscita a smettere.
La cosa più difficile da assimilare, oltre all'assenza di Edward, era il fatto che io non diventavo forte, dopo tutto quel tempo. Ogni volta che mi passavano davanti agli occhi immagini di me e lui, insieme, mi ritrovavo a singhiozzare per poi non finire più. Era snervante.
«Devo essere forte.», mormorai a me stessa, vestendomi per scendere al piano di sotto. «Non starà via in eterno, tornerà.»
Ma quella convinzione mi morì sulle labbra quando accesi il cellulare e mi accorsi che non aveva risposto al mio messaggio inviato la sera precedente.

A Kabul è già Natale, e in realtà non so che augurio scrivere, vista la situazione. Spero che tornerai presto a casa, perché io e il bambino non vediamo l'ora di vederti, e lui vorrebbe conoscere il suo papà. Ti amo, sii prudente, come sempre.
B.

Arrivai al punto di pensare che la mia “presenza” e preoccupazione gli dessero fastidio. Erano quattro dannati giorni che non si faceva sentire, ai miei SMS non rispondeva, agli squilli non richiamava, su Skype era sparito... Al campo dicevano che stava bene, quando riuscivo a contattare il suo ufficiale, ma mai una volta gli passarono il telefono per farlo parlare con me, mai.
Quindi, i fatti erano due: o era molto occupato, oppure... Oppure qualcosa fra noi era cambiato. La lontananza poteva eccome distruggere un rapporto, sgretolarlo e soffocare gli amanti fino a farli morire...
Ci saremmo ritrovati così, prima o poi? Sarebbe successo?
«Buongiorno, tesoro. Buon Natale.» Mia madre mi baciò la guancia quando arrivai in cucina e meccanicamente risposi con un «Anche a te» appena sussurrato.
«Vuoi aprire i tuoi regali o poi vuoi farlo stasera quando torniamo da casa di Esme e Carlisle, cosicché sei più tranquilla?»
Alzai le spalle e le scossi un poco, cercando di dare importanza alla questione. «È uguale.»
«Allora facciamo con calma stasera, dai. Ora mangia qualcosa, okay?»
Mi carezzò i capelli e mi mise davanti una tazza piena di tè fumante. Subito dopo, al richiamo di mio padre in garage, si sistemò la vestaglia e lo raggiunse.
Si sarebbe prospettata così, la giornata? Con finti abbracci, sorrisi, sentimenti non reali? E poi? Saremmo tornati alla solita calma ricca di indifferenza?
Sospirai e guardai le foto sulle pareti, accanto a me. Renèe aveva deciso di appendere alcuni ricordi riguardanti me da bambina... in realtà aveva sepolto i muri di casa nostra.
Lì, vicino a me, c'erano immagini della vacanza che avevano organizzato i miei genitori il secondo anno in cui io e Edward eravamo fidanzati... E ovviamente avevano fatto di tutto per far partecipare anche lui, sebbene volessimo passare due settimane da soli.
Quelle foto riscossero in me ricordi che non volevo tornassero a galla, sebbene fossero felici.
Il cellulare davanti a me vibrò per un lungo secondo e in quel lasso di tempo sperai fosse Edward, ma purtroppo non fu così.

Buongiorno, stellina! Buon Natale! Ti aspettiamo a casa nostra per pranzo ;)
Alice

Come ci riusciva? Come poteva vivere tutta la gioia natalizia quando suo fratello non c'era? Evidentemente, solo io mi facevo i complessi mentali, e non pensavo altro che a Edward...
Finii la colazione e poi ritornai in camera mia, almeno per cercare qualcosa di carino da indossare, nonostante la mia allegria fosse sotto i piedi...
Ma proprio quando passai davanti allo specchio, mi fermai di colpo. Qualcosa attirò la mia attenzione come mai prima d'ora, e lo avevo sempre avuto davanti ai miei occhi.
Mi soffermai su quella pancia che ogni giorno cresceva sempre di più, dove dentro custodivo il bene più prezioso che mai avessi potuto avere.
In quei nove mesi, mai davvero mi ero accorta di quanto fosse... meraviglioso proteggere una vita dentro di sé. Mi vergognai del fatto che, alla fin fine, non mi ero occupata così tanto di mio figlio, tanto ero preoccupata per Edward.. E, come lui, mi ero persa, in qualche modo, tutte le bellissime emozioni che si potevano provare.
«Oh... Ehi, ciao, amore...», sussurrai, tirando su la maglia del pigiama fin sotto il seno. Accarezzai il punto in cui la pelle formava un bozzo, e istintivamente sorrisi. «Buon Natale anche a te, piccolino...»
Rimasi per una mezzora abbondante a fissare quell'immagine allo specchio e a fotografare da ogni angolazione ogni centimetro di pelle testa, per catturare quegli istanti e non lasciarli mai più andare via.
«Bella, tesoro? Tutto bene?» Renée comparve sulla porta, e un sorriso fece capolino sul suo volto quando mi vide sussurrare parole dolci al mio bambino.
Arrossii quando mi accorsi della sua presenza e cercai di sembrare il più naturale possibile. «Ehm... Sì, va tutto bene. Stavo cercando qualcosa da mettermi...»
In un secondo, tornai bambina, quando all'età di quattro anni io mi sedevo sul letto e mia madre mi proponeva i vestiti per la festa. Sebbene fossero passati vent'anni, la situazione in quel momento era la stessa: scartavo senza pietà tutte le idee di Renée, che rideva delle mie espressioni abbastanza disgustate per i suoi abbinamenti dell'ultimo minuto.
Alla fine, optammo per una camicia bianca e un paio di jeans, cadendo così nella banalità ma rimanendo sempre il più comode possibile... O, per lo meno, io lo ero, visto il pancione terribile che avevo.
«Sei bellissima, Bells!», sussurrò quando finii di vestirmi. «Ma c'è qualcosa che non va?»
Scossi il capo e lasciai che mi pettinasse i capelli, fissandola attraverso lo specchio. «Va tutto bene, mamma.»
Sorrise. «Ti conosco, tesoro, so come sei fatta, e so che adesso sei giù di morale.»
«Sto...»
Non terminai la frase e abbassai il capo, sentendo le lacrime pungermi gli occhi.
«Ehi...» Renée mi strinse al suo petto e come d'incanto mi lasciai completamente andare fra le sue braccia, come facevano i bambini dopo aver combinato un guaio o detto una bugia, e si sentivano tristi.
«Mi manca, mamma, mi manca terribilmente. È come se una parte di me fosse stata strappata via e ora avessi un vuoto dentro. Mi sembra di urlare e nessuno mi sentisse... è straziante. Voglio che torni, voglio che ritorni qui, da me. Sono sola, sono persa.»
Sono persa.
Ero così da troppo tempo.
Mi sentivo persa come un giocattolo dimenticato.
Mi sentivo persa come una lettera in mezzo a un mucchio di cartacce.
Mi sentivo persa come una collana al fondo di un cassetto.
Mi sentivo persa come delle parole dette senza un'intenzione seria.
Ero persa, letteralmente.
«Ma tu amore non sei sola, c'è il tuo bambino.», mormorò mia madre, asciugandomi le lacrime, un tentativo che fu invano.
«Non è la stessa cosa, mamma! Non è la stessa cosa! Edward non c'è, non so quando tornerà, e nessuno mi può assicurare che arriverà a casa sano e salvo, nessuno!», sbraitai osservandola negli occhi. Dentro quelle pozze grigie potevo vedere tutto lo strazio che stava provando vedendomi in quello stato, e il suo cuore si stava penando perché non poteva fare nulla per aiutarmi.
«Ora basta... Sttt, amore... La mamma è qui, la mamma è qui.»

«Dove ti sei fatta male, piccola?»
Avevo quasi sei anni ed ero caduta dalla bicicletta quella mattina di aprile. Erano i primi tentativi di andare in bicicletta senza le rotelle di sicurezza; fino a che Charlie rimaneva al mio fianco, non mi succedeva niente, ma quella volta avevo deciso di provare da sola, perché mio padre era a lavorare, e mia madre era indaffarata a finire i preparativi per il compleanno della nonna.
«Al ginocchio. Mi fa tanto male, mamma!», piagnucolai, pulendomi il viso con i pugni sporchi di terra.
Renée mi acconciò una ciocca ribelle dietro all'orecchio e mi carezzò la guancia. «Stt, non è nulla, gioia.»
«Ma mi fa male!», esclamai, ricominciando a piangere. La donna mi prese fra le sue braccia, stringendomi al petto e accarezzandomi i capelli. «Stt, amore. La mamma è qui, la mamma è qui.»
Erano bastate quelle parole per farmi calmare nel giro di pochi minuti. «Ora do un bacino alla bua e passa tutto, okay?»
Annuii e lei posò le labbra sulla piccola sbucciatura sulla gamba, per poi baciarmi la fronte.
«È passato, scricciolo. La mamma è qui.»

«Ora passa tutto, ci sono io qui.»
Nonostante fossero passati anni, sapere che la situazione non era cambiata mi faceva capire che l'amore di Renée era sempre lo stesso, non era mutato.
Ero ancora la sua bambina innocente e indifesa, il bocciolo di rosa che doveva essere custodito come un gioiello prezioso. Nella sua mente, quando mi guardava, vedeva ancora la piccola che borbottava nella culla, la bimba di quattro anni al corso di danza, che si muoveva come una paperella, la peste che correva per casa strillando come un aquilotto, la ragazzina impacciata alle prese con i primi amori, la donna che si sposava con un militare.
Ma ero sempre la sua bambina.
«Ora, ascoltami: rinfrescati il viso, sciacquatelo, poi magari ti trucchi un pochino mentre io mi vesto, okay?»
Annuii poco convinta e mi asciugai le guance con il dorso della mano, provando a sorriderle. Forse quel periodo di menefreghismo era solo stato una mia immaginazione, tutti si erano preoccupati davvero per me anche se non me n'ero più accorta stufa com'ero...
«Dai, vado a prepararmi. Voglio trovarti pronta e con un sorriso stupendo stampato in viso.»
Uscì dalla stanza con la stessa velocità con cui era arrivata e dietro di sé lascio il suo profumo. L'odore di mamma, di amore, di compassione, di tenerezza... Tutto ciò che poteva servire a descrivere la donna perfetta qual era Renée.


La gioia del Natale mi penetrò la pelle poco per volta a casa di Esme e Carlisle, dove le canzoncine a tema riempivano l'aria, accompagnate dalle risate dei bambini che ospitavano.
L'animo dei miei suoceri era infinito, l'amore che donavano per dei bambini ogni anno era indescrivibile. Non erano loro nipoti, ma bambini di un orfanotrofio della zona, bambini senza genitori, senza l'affetto di qualcuno che li amasse davvero. Abbandonati perché classificati come errori, come sbagli da non ripetere mai, come oggetti da buttare via senza degnarli di uno sguardo.
Come si poteva? A quel pensiero mi carezzai il grembo, pensando a mio figlio. Io... non avrei mai fatto una cosa del genere, non quando si trattava del sangue del mio sangue, l'unione e il cuore di ciò che avevo creato con la persona che più amavo sulla Terra. Ma non l'avrei mai fatto neanche se non fosse stato lui, perché un neonato non si poteva gettare via come se nulla fosse. Non si poteva, quale essere umano ci sarebbe mai riuscito?
«Terra chiama Bella.»
Sbattei più volte le palpebre e mi accorsi che Alice mi stava fissando di sbieco. «Tutto okay?»
«Sì, va tutto bene, stavo solo pensando.», sussurrai e presi il piatto che mi stava sporgendo. «Lo porto a tavola, così poi possiamo sederci.»
Annuì e mi sorrise, per poi tornare ai fornelli. Quando entrai in sala da pranzo, vidi Esme e Carlisle ballare sulle note di una vecchia canzone, che probabilmente aveva segnato la loro giovinezza. Accanto a loro, Renée e Charlie sorridevano abbracciati l'uno all'altra.
Non era la prima volta che assistevo a una scena del genere, però ogni volta l'effetto era lo stesso: l'amore, nonostante gli anni, non si rompeva ma si rafforzava sempre più, fino a diventare un anello indissolubile.
Mio padre era visibilmente a disagio: odiava ballare, o almeno questo diceva lui, dato che mia madre mi raccontava sempre che quando erano fidanzati spesso e volentieri era lui a portarla sulla pista.
Li lasciai fare e finii di apparecchiare il tavolo. Non mancava nulla, o almeno così mi sembrava.
«Bella, vuoi aprirli dopo i regali?»
Perché lo chiedevano proprio a me? «Sì, ora mangiamo che poi si raffredda tutto.»
Quando tutti ci sedemmo ai nostri posti, mi accorsi che davvero qualcosa di diverso c'era, e da brava masochista capii che era Edward.
Quel pensiero mi perseguitò per tutto il pranzo e quasi non toccai cibo, tanto ero giù di morale. Perché non poteva essere un Natale uguale agli altri? Che male avevo fatto?
Più volte mia madre mi incitò a mangiare qualcosa, ma appena avvicinavo la forchetta alla bocca un senso di nausea mi risaliva la gola e dovevo fermarmi.
Mi estraniai dal gruppo quando il piccolo Nick mi richiamò a giocare con lui. Era un bambino bellissimo, i capelli neri erano una cascata di ricci su quel viso così candido e innocente e gli occhi azzurri impreziosivano il suo volto.
«Tochiamo?»
Mi sedetti accanto a lui e lo ascoltai parlottare fra sé e sé. Ogni tanto si girava verso di me e mi sorrideva, oppure posava la manina aperta sul mio pancione per ascoltare i movimenti del piccolo.
«Ma il bibbo ti muove?», domandò dopo un po', guardandomi con gli occhioni spalancati.
«Sì, guarda.» Appoggiai la sua mano accanto al punto in cui poco prima era arrivato un calcetto, e quando il bambino percepii un movimento sotto la sua mano, ridacchiò stupito. «Ti muove! Ma mi vede?»
Sorrisi, carezzandogli i capelli. «Vederti no, ma ti sente.»
«Mi tente?» Sul suo viso vidi tutta la curiosità e le mille domande che gli invadevano la testa. «Quindi se pallo, mi tente?»
«Certo.» Si avvicinò alla pancia e borbottò qualcosa contro la maglietta, attendendo una risposta.
«Ma non lipponde!», disse dispiaciuto. Era così tenero... Come si poteva considerare errore un angelo come quello?
Qualche minuto dopo, mentre ero ancora immersa nei miei pensieri, tutti gli altri arrivarono in salotto, ridendo e sorridendo.
«Iniziamo con i regali per i bambini.», esclamò Esme e Nick e la sorellina, Ania, strillarono avvicinandosi all'albero. Li osservammo scoppiare in lacrime quando scartarono i pacchetti e trovarono i doni che avevano desiderato. Forse mai avrebbero provato quella gioia, in orfanotrofio...
Dopo toccò a Esme e Carlisle, e successivamente ai miei genitori, che mi abbracciarono commossi. Avevo deciso di regalargli un viaggio per solo loro due, visti i sacrifici che avevano fatto per me i quei mesi per starmi accanto, per aiutarmi nel percorso e per farmi sentire meno sola.
«E ora tocca a Bella.» Alice si avvicinò a me e mi sussurrò all'orecchio che era necessario ciò che stava per fare... E mi bendò.
Mi preoccupai leggermente  per quello che stava succedendo. Perché rendermi cieca? Cosa c'era che dovevano nascondermi?
«Si può sapere il perché?», chiesi scettica e mia madre mi zittì carezzandomi i capelli.
«St, tranquilla.»
Attorno a me qualcuno iniziò a trafficare e a spostare mobili, e sentii Charlie e Carlisle ridere per chissà quale motivo.
Passarono altri minuti e la benda che mi avevano legato attorno agli occhi fu sciolta.
Davanti a me trovai un enorme pacco di cartone, quelli che si usano durante i traslochi, con tantissime scritte stampate sopra. Lo scotch chiudeva tutte le fessure e guardai i presenti come per chiedere una risposta, che non arrivò.
«Non lo apri? È il tuo regalo, su!», mi incitò Alice, battendo velocemente le mani sulle gambe.
Sospirai e ripresi a fissare quel pacco. Pensai che contenesse l'intero arredamento per la stanza del bambino, però chi poteva dirlo?
Con un paio di forbici tagliai l'adesivo che chiudeva il lato davanti a me. Non c'era carta da imballaggi o polistirolo dentro, ma il vuoto. Era uno scherzo?
Poco dopo, quando provai a sforzare il cartone ma qualcuno all'interno della scatola mi afferrò le mani, fermandomi e facendomi sussultare. Il pacco cadde a terra e trovai a pochi centimetri dal mio viso degli occhi verdi lucidi.
I suoi occhi verdi.
«Edward.», mormorai e il mio respiro si fermò.
E poi fu come incontrarlo una seconda volta. Fu di nuovo come se il centro della gravità cambiasse  nuovamente, sballottandomi e confondendomi. Fu come se il sangue scorresse in senso opposto nelle vene, come se il cervello non rispondesse più ai miei comandi e come se il tempo si gelasse.
Vedere i suoi occhi fu la goccia che fece traboccare il vaso. Risentire il suo viso sotto le dita era la più bella sensazione e niente il mondo avrebbe potuto eguagliarla, in quel momento. Il suo profumo era sempre lo stesso, non era cambiato e ora mi carezzava la pelle come stavano facendo le sue mani.
«Sei qui...»
Le sue labbra sfiorarono le mie, e la sua pelle ritornò realtà, tutto divenne reale. Tutto era tornato normale, perché lui era lì, Edward c'era di nuovo.
«Ti avevo promesso che sarei tornato...», mormorò e mi accorsi che stava piangendo esattamente come me. La sua fronte era a contatto con la mia, i nostri nasi si sfiorarono e le sue mani si posarono al lato del mio viso.
«Hai mantenuto la promessa...» Le parole mi scorrevano sulla bocca e scivolavano via assieme alle mie lacrime. La felicità era a livelli indescrivibili, incontenibile.
«Dovevo tornare, dovevo...» Si chinò all'altezza della mia pancia e nascose il viso fra le mani, singhiozzando ancora più forte.
Tutta l'angoscia che aveva vissuto in me per mesi in un instante sparì, lasciando posto a svariate emozioni contrastanti. Non mi curai del fatto che avevo alcune piccole contrazioni, che tutti ci stavano guardando e nemmeno se avessi potuto fare qualcosa di errato.
In quel momento non c'era nient'altro che noi, solo noi due, nella nostra bolla felice, estranei alla tristezza, all'odio e a tutte le altre cose negative che avrebbero potuto dividerci.


Edward. (Suggerimento musicale, ascoltatelo on repeat u.u)

L'aria che si respirava in America era formidabile, ancora meglio se si trattava di Jacksonville, a casa mia, con la donna che amavo, soprattutto se l'ossigeno aveva l'odore dei suoi capelli e della sua pelle, se sapeva di amore e di speranza... Di Bella.
Sembrava un sogno essere in un posto dove non c'erano spari, urla, pianti, bombe, sabbia che volava... Essere lontano da lì, dalla morte.
Ogni giorno, a Kabul, mi svegliavo e ringraziavo Dio se ero ancora vivo, se qualcuno non aveva attentato alla nostra tenda, se non c'erano stati attacchi nel cuore della notte.
Essere sul filo del rasoio sarebbe stato più confortante rispetto a tutto quello. Non avere la speranza di potersi svegliare ancora dopo essersi coricati era tremendo, perché in un secondo potevi perdere tutto, pure te stesso. Bastava meno di un minuto per farti dimenticare tutto, per farti finire all'altro mondo, per renderti cenere.
Era un pensiero che trovava sempre posto nella mia mente e spesso mi chiedevo cosa avrebbero fatto a casa sapendo che non c'ero più.
«Non dire mai una cosa del genere», mi ripeteva sempre Bells, quando parlavamo al cellulare e le dichiaravo quello che pensavo.
«Non potrebbe succedere niente di più brutto.», continuava sulle lacrime. Non riuscivo mai a finire davvero un discorso, soprattutto se lei si metteva a piangere; non potevo neanche rimanere lucido sapendo che stava male per me, per una mia decisione.
Allontanarmi da lei a marzo fu problematico, ma lo fu ancora di più non tornare indietro e ritirarmi quando mi inviò un sms, una sera, mentre io mi stavo preparando per una nuova giornata.

Averti qui adesso, sarebbe la cosa più bella del mondo. Dovrei parlarti, chiamami appena puoi.
B.

Inutile dire che smisi subito ciò che stavo facendo e digitai il suo numero, con il groppo in gola e l'ansia a mille.
Appena sentii la sua voce, capii che era incrinata e c'era qualcosa sotto.
«Adesso però non ti arrabbiare, e non decidere di lasciare il tuo posto, okay?», aveva sussurrato e io avevo solo chiesto di dirmi cosa c'era che non andava. Le sue parole furono un colpo al cuore e dovetti tenermi al letto per non cadere,
«Sono incinta. Aspetto un bambino...»
Il respiro mi si era mozzato in gola e non sapevo più cosa dire, cosa fare, cosa pensare.
«Però sto bene! Stiamo bene... Domani prenoto una visita, devi solo stare tranquillo, okay? Andrà... tutto bene, sono fiduciosa.»
Non avevo più la forza per risponderle, perché in quel momento mi sentii come preso sotto da un treno a centinaia di chilometri all'ora, percepivo il mio corpo maciullato.
La mia risposta non fu quella che veramente desideravo comunicarle. Sembrai un mostro, mi sentii tale tanta era la cattiveria e la rabbia che fecero trapelare le mie parole.
«Cosa? Cristo santissimo, Bella! Ma come? Come fai a dire che andrà tutto bene? COME FAI?! Io sono qui, a rischiare di morire, non so se il giorno dopo sarò ancora qui o meno... E tu mi dici che sei incinta? Dio, non ci posso credere! Ti amo, io voglio un figlio, ma non ora! Non quando non ho la sicurezza di poterti abbracciare di nuovo! Come potrei tirare avanti i giorni qui sapendo che dentro di te cresce mio figlio e io non lo potrò vedere, seguire le visite, sentire i suoi primi movimenti.. nascere? Come potrei, come?!»
Un animale, messo a confronto, avrebbe avuto più amore e delicatezza.
«Tu... non lo vuoi?», aveva mormorato lei, singhiozzando. «È questo?»
Dopo quelle frasi, non sapevo se aveva ancora un senso dirle davvero quello che pensavo.
«Certo che lo voglio! Dio, ho sempre voluto una famiglia con te, lo sai... Ma non in questo modo. Non ora.»
Aveva continuato a ripetermi che tutto sarebbe andato bene, che quella volta non sarebbe successo niente. Io avevo chiuso la conversazione capendo che non ero nulla, in quel momento. Non potevo diventare padre se mi perdevo la prima gravidanza e la nascita di mio figlio, non lo sarei davvero stato.
Erano passate notti in cui pensavo di finirla e fare ritorno a casa, tornare ad abbracciare Bella e condurre con lei una vita normale, passare con lei ogni attimo di quell'attesa. Però spesso mi dicevo che comunque non avrei fatto la cosa giusta, se avessi mollato il mio lavoro, il mio incarico. Lei non sarebbe stata felice, e non volevo ferirla ancora di più.
Ancora mi chiedo come avessi fatto a passare otto mesi lontano da lei, da loro... Dalla mia stessa vita.
«A cosa pensi?»
Averla nuovamente vicino, sentire la sua voce non solo attraverso un telefono, percepirla finalmente sotto il mio tocco sembrava irreale, ancora non potevo immaginare di essere di nuovo accanto a lei.
Scossi il capo, sorridendole e sfiorandole con la punta delle dita la guancia ancora umida. L'idea del regalo era stata mia, non avevo trovato modo migliore per presentarmi davanti a lei, ed era stato un pensiero carino. Avevo fatto ancora centro, perché aveva passato le due ore seguenti a piangere ininterrottamente. «A nulla.»
«Ancora non riesco a crederci che sei di nuovo qui, accanto a me.», mormorò e strusciò il viso contro la mia spalla. Era un vizio che mai si era tolta, e adoravo quel suo particolare che la faceva sempre arrossire.
«Mi sei mancata tantissimo...», sussurrai baciandole la fronte, assaporando di nuovo il suo profumo, che per mesi mi aveva fatto lottare per riaverla.
«Pure tu, amore... Pure tu.» Dolcemente, avvicinò le labbra alle mie e lasciai che quel contatto continuasse fino all'infinito, anche se dopo qualche secondo dovette staccarsi per riprendere fiato.
Le sue mani erano intrecciate alle mie, legate sopra quel pancione prominente. Per tutto il tempo, non avevo fatto altro che guardarlo e chiedermi se davvero potesse esserci qualcuno lì dentro.
«Voglio andare a casa...»
Le carezzai i capelli, aiutandola ad alzarsi. «Sei stanca?»
Annuì e mi sorrise raggiante. «Colpa tua e della tua folle idea.»
Fu difficile riuscire a uscire da casa dei miei genitori. Esme e Carlisle ci misero venti minuti abbondanti a lasciarmi andare, dato che continuavano ad abbracciarmi, e Alice... Be', Alice non smetteva di sorridere, fissandomi. Era stata la mia complice, lei sapeva tutto da mesi ormai. Era stata la prima persona a venire a conoscenza del mio progetto, era rimasta attaccata al filo del telefono per ora a parlare con me per dirmi che ero un pazzo, che non potevo farlo davvero. Eppure avevo convinto i caporali e gli ufficiali, e insieme avevano deciso un grande piano per me, che però ancora tenevo segreto.
Arrivare a casa nostra – nostra, com'era strano dirlo, fu l'apice della giornata. Tutto era come l'avevo lasciato: la cucina era ancora l'angolo speciale con quell'odore onnipresente di cannella, il salotto brillava alla luce del caminetto, la nostra camera profumava ancora di tutte le notti passate insonni ad ascoltare il respiro dell'altro, a rincuorarla e ad asciugarle le lacrime... Il nostro paradiso era sempre lo stesso.
Quando entrai nella nostra stanza mi accorsi che sul comodino dalla parte di Bella c'era il mio braccialetto, le nostre foto e una piccola collana con un angelo e la Madonna.
«Hai...»
«È stato un modo, per me, per sentirti ancora vicino. Non... sapevo come aiutarti, e guardarti mi sembrava un ottimo metodo per salvarti, per farti rimanere forte laggiù.»
La strinsi a me, cullandola dolcemente. «È... una cosa meravigliosa. Anche io avevo al campo, accanto al letto, una tua foto.»
Sorrise contro il mio petto e poi si tirò su, come scottata. «Cosa c'è?», domandai allarmato, e lei spostò il proprio sguardo verso la porta che dava sul corridoio.
«Posso farti vedere una cosa?»
Annuii deciso, e lasciai che mi trascinasse fino al mio studio, o almeno quello che era fino a otto mesi prima. «Non arrabbiarti però, okay?»
Spalancò l'uscio e davanti a me si parò una stanza vuota, senza finestre alle tende, il soffitto e le pareti bianche, un parquet chiaro poggiato a terra, decine di scatoloni, piccoli e grandi, che seminavano l'intera camera.
«Avevo... avevo pensato di arredarla per il bambino, ma ogni volta che entravo qui mi mancava la forza. Non ci sono mai riuscita, non ho fatto nient'altro a parte riempire le scatole delle tue cose, ma non volevo farle sparire. Volevo rendere questo posto perfetto per il nostro bambino, però appena prendevo in mano qualcosa di tuo, non trattenevo le lacrime e dovevo scappare da qua dentro. Ho versato così tante lacrime su questo pavimento... Non puoi immaginare.»
Il mio sguardo vacuo vagava lungo i muri, per terra, accanto a tutte quelle cianfrusaglie che l'avevano ferita ancora più di me...
«E... ora manca poco tempo alla nascita del bambino, e potrebbe accadere anche stanotte... Non abbiamo un posto adatto a lui, non abbiamo le cose necessarie per la sua cura. Okay, abbiamo i pannolini, le tutine... ma ci mancano i biberon, i ciucci, il carosello con le apine da appendere sopra la culla... Non abbiamo nulla, ci manca tutto. Non siamo pronti.»
I suoi occhi rimbalzarono contro i miei e d'impulso le presi le mani. «Ma non ci manca la forza di volontà, amore. Possiamo ancora fare tutto, forse arriveremo un po' in ritardo, ma con lo spirito giusto ci riusciremo, siamo in grado di riuscirci.»
Il suo sorriso mi fece capire che le mie parole avevano fatto breccia dentro di lei. «Posso sempre chiedere alle ostetriche di tenerlo un po' di più dentro, non è un problema.»
Ridemmo entrambi, lei contro di me, e mi fermai quando vidi in un angolo un oggetto che per me era di grande valore.
«Non hai... Perché non hai impacchettato la chitarra?», domandai incuriosito, aggrottando le sopracciglia. Senza accorgermene, mi ero già diretto verso lo strumento e Bella mi fissava interdetta.
«Non.. non ne avevo il coraggio.», ammise, stringendosi nelle spalle. «Lasciandola lì mi sembrava di avere un pezzo di te sempre vivo in questa camera, come a badare che nessuno ci entrasse.»
Presi la chitarra in mano e con lei mi diressi di nuovo in camera da letto, dove ci sedemmo e le dissi di stare in silenzio.
Mi sorpresi di quanta naturalezza mi nacque quando feci scorrere le dita contro le corde, lungo il legno scuro e presi a suonare. Guardavo Bella sorridere davanti a me, ammirata, con le lacrime sul bordo degli occhi, a stringersi le mani tremanti contro la pancia.
In quelle note racchiusi tutto ciò che provavo per lei, tutto il mio dolore per la lontananza, tutto la paura di poter perdere lei e il bambino, tutta il terrore di lasciarla per sempre, tutto l'amore che provavo e avevo provato durante quel lungo periodo, tutta la speranza di rivederla ancora, tutta la gioia di riaverla fra le braccia.
Non mi lasciò terminare il pezzo che si era rifugiata sul mio petto singhiozzando e tremando come una foglia.
«Oh, Edward...», sussurrò e il suo bisogno d'affetto la spinse a fermare le lacrime posando le labbra sulle mie. Sotto le dita riuscivo a sentire tutta l'angoscia che aveva tenuto dentro di sé uscire fuori e farla finalmente sfogare. «Ho avuto tanta paura di perderti...»
«Ehi, stt... Amore, Bella, ora sono qui, sono qui...» Le massaggiai la schiena con gesti lenti e circolari, percependo la calma crescere in lei.
«Non mi abbandonare più...», mi implorò. La sua fu una supplica, un appello, un richiamo di aiuto, un bisogno. Una necessità.
«Non lo farò mai più. Non ti lascerò mai, per niente al mondo. Sarò sempre con te, al tuo fianco.»
Tirò su con il naso e mi guardò intensamente oltre la coltre di lacrime. «Me lo prometti?»
«Te lo giuro su cosa ho più grande al mondo. Non mi allontanerò mai più, non ho bisogno di tutto quell'odio per capire cosa sia davvero l'amore.»
Strofinò gli occhi sulla mia camicia, mormorando un grazie appena udibile.
«Se ci sei tu, non ho bisogno del paradiso.», risposi e nei suoi occhi vidi una luce brillare come poche volte era successo.
«Tu sei il mio paradiso... Sei tutto quello che ho sempre voluto.», continuai e sulle sue labbra lasciai traboccare tutti i miei sentimenti verso di lei.
Era lei, era nostro figlio, era la nostra vita assieme. Era tutto ciò che ci riguardava ad essere il mio posto perfetto, e se avessi potuto scegliere un luogo dove passare il resto dei miei giorni, sarebbe stato quello.
«Sono qui... Per sempre.», promisi, e in quell'istante tutto divenne eterno e perfetto, soprattutto se c'erano in ballo Bella, mio figlio... la mia stessa vita, la mia stessa anima.



Angolino tutto mio :3        
Oddio... Oddio oddio oddio...
Sto piangendo, è la prima volta che pubblico l'ultimo capitolo di una ff, devo farci l'abitudine, vah.
Avete vistooooo? EDWARD IS BACK! Mi pareva un po' ovvio che l'avrei fatto tornare a casa u.u E ora sono insieme *^*
Io avevo avvertito dei fazzoletti, eh eh u.u
Sono serviti? A me sì, taaaaaaaaaaaaaaaanto. Ho pianto come non so cosa scrivendo il capitolo, non è stato facile, ma ci sono riuscita.
Che dite, com'è? Ditemi ditemi ditemi *^* Magari con una recensioncina?
A proposito... Vi rendete conto di quanto siete cresciuti? ç__ç Insomma, venti persone nelle preferite, più di 40 nelle seguite...
Incredibile! Vedere così tanto entusiasmo per questa schifezzina qui... wow! Davvero. Non saprei come sdebidarmi!
Allora, io non vi so dire quando posterò l'epilogo, spero molto presto - prima dell'inizio della scuola (cavolo). Però domenica è il mio compleanno quindi xD Un po' di riposo posso meritarmelo, vero? u.u
Btw, spero che abbiate letto il pov Edward con il suggerimento musicale (non molto indicato, i know) perché mi ha aiutato a scriverlo (:
Ora... niente. Siamo quasi giunti alla fine, e per questo aspetto numerose le vostre recensioni... PLEEEEEEEEEEEEEEASE!
Cmq, ci leggiamo all'epilogo (che brutta parola çWç)
Attendo i vostri commenti <3
Besos,
Giulia.

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Capitolo 4
*** Love of a Life ***


Be still

Be still
Capitolo quattro: Love of a life




Edward.

Aprii gli occhi con il fiatone e la fronte madida di sudore. Mi toccai il petto e trovai il mio cuore che batteva come non mai.
Sto bene, okay. Solo... Devo calmarmi.
Guardai il buio che mi sovrastava, cercando di tranquillizzarmi. Era stato solo un brutto sogno, ero a casa mia, nel letto, con la donna che amavo al mio fianco.
Mi girai verso Bella, che dormiva tranquilla, il viso rilassato, le man strette a pugno attorno alla pancia. Finalmente faceva sogni tranquilli, perché da quanto aveva detto Renée, per molte notti non aveva chiuso occhio, oppure si era svegliata urlando.
Ma da cinque giorni a parte, finalmente dormiva tranquillamente, senza avere incubi.
Al contrario, sembrava che qualcuno si divertisse a far girare nella mia testa le immagini terribili che avevo visto con i miei stessi occhi in Afghanistan. Nel sonno, rivedevo i bambini senza genitori piangere e chiedere aiuto, le donne che per strada recuperavano i cadaveri di mariti e figli persi in guerra, strillavano sopra i corpi e chiedevano al loro dio dove fosse in quel momento di disperazione. Rividi tutti gli abitanti scappare urlando terrorizzati, le anime innocenti prese dai mitra senza un perché.
Mi chiesi il perché di quella mia scelta. Perché avevo deciso di arruolarmi, sapendo bene quello che mi attendeva? Quando ero bambino, il padre di Carlisle, Joseph, veniva spesso a farci visita; era un soldato e quindi per lui era più che naturale parlare delle guerre a cui aveva partecipato, facendomi così appassionare al campo. Un compleanno ricevetti un aeroplano da appendere, che era un modellino di uno militare. Al compimento dei diciotto anni, feci domanda per l'arruolamento, che fu accolta qualche mese dopo.
E ora però mi stavo nettamente pentendo di tutto, soprattutto del fatto che mi ero allontanato per troppo tempo da Bella e mi ero perso la cosa più importante del momento: nostro figlio.
«Ehi... Stai bene?»
Non so come, ma Bella riuscì a svegliarsi e mi stava guardando di sbieco, con gli occhi assonnati.
«Sì, è tutto a posto.», mentii, carezzandole i capelli. Mi sorrise appena e si tirò leggermente su, issandosi sul gomito.
«Oh...», mormorò, massaggiandosi il fianco. Subito mi allarmai e mi sedetti davanti a lei, aiutandola a tirarsi su.
«Amore, che succede?»
Corrugò la fronte e si toccò la pancia, proprio appena sopra l'osso del bacino. «Mi.. mi devo alzare un attimo.»
La seguii fino in bagno, dove si aggrappò al lavandino prendendo respiri profondi. Teneva gli occhi chiusi, la testa reclinata all'indietro, la fronte corrucciata.
«Mi puoi dire che succede?», chiesi allarmato, provando a scostare i capelli dal viso. Cacciò la mia mano, facendomi segno di rimanere in silenzio e di aspettare.
«Era... una contrazione, diversa dalle altre... Ha fatto più male del solito.» Si massaggiò la schiena, accucciandosi sulla mia spalla.
«Ora è passata?», sussurrai sui suoi capelli e lei annuì. «Sì... Ogni tanto capita, ma mai così... è la prima volta, che strano.»
Alzai le spalle e mi chinai all'altezza della pancia, sollevando il maglioncino da notte.
«Ehi, piccoletto... Vedi di fare il bravo, intesi?» Bella rise, carezzandomi la testa. «Non fare del male alla mamma. È vero che non vediamo l'ora di conoscerti, ma se aspettiamo l'anno nuovo è meglio.»
Quando mi risollevai, le labbra di Bella catturarono le mie. «Magari se sta ancora un po' lì dentro, darebbe ancora un po' di tempo a mamma e a papà per preparare tutto.»
«Mh...», sussurrai e lei mi carezzò la guancia.
«Ti amo... E grazie per essere qui...»


«Edward, sei in casa?»
Quando percepii la voce di mia moglie nell'ingresso di casa nostra, mi alzai così di scatto da prendere in pieno la porta in faccia.
«Cazzo!», imprecai, probabilmente così forte che riuscì a sentirmi.
«Va tutto bene?»
Mi massaggiai la fronte, e fui sicuro che presto sarebbe spuntato un bernoccolo. «Sì! Tutto a meraviglia!»
Uscii da lì in un batter d'occhio e raggiunsi Bella in cucina in pochi secondi. Quando vidi che indossava la maglia che avevamo comprato poco tempo prima, un sorriso nacque spontaneo sul mio viso.
«L'hai messa.», mormorai orgoglioso, e quando capì a cosa stessi riferendo, si toccò orgogliosa il pancione.
«Mh, già.» Rilesse la frase in stampatello che c'era scritta sul tessuto chiaro – arrivo a gennaio, e mi guardò negli occhi. «La commessa mi ha chiesto quanto manca ed è stato strano dire che il termine è fra poco più di due settimane.»
Le baciai dolcemente le labbra, carezzando con la mente l'idea che, davvero, ormai la nascita era vicina. «Fra poco stringeremo il nostro bambino...»
«O bambina.», aggiunse lei, sorridendo. «Ti ricordo che ancora non sappiamo nulla su di lui.»
«O lei.», scherzai e mi diede un pugno affettuoso sul petto. «Sbruffone. Ehi, mi dai una mano con la spesa? Ho preso un paio di cosine carine.»
Svuotammo le borse e Bella mi fece vedere tutti gli oggetti che aveva preso per il bambino, tra cui il primo ciuccio. Mi incantai a vedere quanto fosse piccolo e mi chiesi se sarebbe stato così anche mio figlio.
«Cosa guardi?» Bells mi carezzò una guancia e con gli occhi lucidi gli feci notare il ciucciotto che avevo in mano.
«Stavo pensando... a quanto voglio averlo qui, a quante cose mi sia perso...», mormorai, con la voce incrinata, e lei appoggiò il succhiotto sul pianale della cucina e mi abbracciò.
«Ehi...» Mi fissò con uno sguardo addolcito e mi baciò il palmo della mano, per poi posarsela sul pancione. «Non sentirti in colpa...»
«Invece lo sono... Devo esserlo. Io... è stupido, ma è come se non conoscessi il mio bambino...»
Posò entrambe le mani ai lati del mio viso, allacciando i miei occhi ai suoi. «Ora ascoltami bene, chiaro? Le ecografie, gli esami, le visite... tutto questo, era solo una piccola parentesi. Quando arriverà il piccolo, quando lo sentiremo piangere per la prima volta, le notti insonni che passeremo... Quello sarà l'inizio, il vero inizio di tutto.» 
«Comunque sei rimasta sola ad affrontare tutto.», le feci notare e lei sorrise. «Sarà anche vero, ma me la sono cavata egregiamente. Quindi, non tirati giù, okay? Ora sei qui, questo conta davvero.»
Sviai il resto del discorso e le baciai la fronte. «Appena hai finito, devo farti vedere una cosa.»
Aggrottò la fronte, osservandomi. «Cioè?»
«Tranquilla, non devi preoccuparti.», sorrisi e tornai nella stanza accanto, lasciandola con un enorme punto interrogativo.
«Dai, me lo dici?»
La sua voce sembrava quella di una bambina capricciosa e quando voltai il capo verso la porta, la trovai lì, ferma, a guardarmi. Gli occhi erano sgranati e sbatteva velocemente le palpebre.
«Sarebbe una sorpresa...»
Sbuffò. «Sai che le odio. Perché sei così fissato?»
«E tu perché non riesci mai a farmi contento, accettandole?»
Ci ritrovammo faccia a faccia, nella medesima posizioni: mani sui fianchi, visi seri e sguardi che fissavano l'altro.
«Le accetto, ma non sono capace a stare buona... E tu non sai mantenerle segrete.»
Risi ironicamente e le pizzicai il braccio. «Certo. Mi pare che una volta però ci riuscii.»
Capii cosa stavo intendendo e divenne tremendamente rossa. L'unico regalo di compleanno che ero riuscito a darle, un anno, fu renderla finalmente una donna, ma soprattutto la mia Bella.
«Sbruffone. Comunque ho finito, ora posso sapere?»
Sospirai e la feci girare, per poi metterle le mani sugli occhi. «Non dire niente.»
«No, ti prego!», brontolò, provando a scrollarsi di dosso. «Potrei cadere!»
Ma ormai stavamo salendo gli scalini che portavano al piano di sopra e non aveva molto da lamentarsi.
«Se cadi, ti prendo io.»
«Uff... Mi fai almeno vedere?»
Sorrisi sulla sua spalla e scossi il capo. «Neanche per sogno. Adesso stai brava.»
Percorremmo il piccolo corridoio e mi fermai all'improvviso, facendola barcollare.
«Pronta?»


Bella.

«Pronta?»
Evidentemente, in più di cinque anni di relazione, Edward ancora non aveva ben capito cosa intendessi per “Odio le sorprese”.
Ogni volta che mi riservava qualcosa, finivamo sempre per discutere. Come al solito, era tutta colpa sua, perché era lui a decidere tutto quanto.
Forse erano state le brutte esperienze del passato a portarmi verso quell'odio ricorrente per i regali inaspettati. C'era stato un anno, forse per il mio decimo compleanno, dove Charlie mi portò a fare un giro per i boschi. Adoravo passare il tempo con mio padre, e quella volta non fu tanto diverso, all'inizio. Mi portò sulle spalle, nonostante il mio non gracile peso, e ridemmo per tutto il sentiero. Giunti al torrente, mi aveva lasciato giocare con l'acqua, ma sui sassi scivolai e battei violentemente la testa. Risultato: commozione cerebrale e un braccio rotto, proprio il giorno del mio compleanno. E mio padre aveva fatto tutto di nascosto.
Da quel momento iniziai a odiare le feste e le sorprese, peccato che Edward non ne tenesse mai conto.
«Posso aprire gli occhi?»
«Tu prima rispondimi.», disse mio marito, e potei sentire il suo sorriso contro il mio orecchio. «Sei pronta?»
Annuii e le sue mani si allentarono sul mio viso, per poi sparire del tutto. Ci trovavamo davanti alla porta della cameretta di nostro figlio, ancora a soqquadro. Ci mancavano pochi passi per terminare il lavoro, e in due giorni avevamo pitturato le pareti, appeso i chiodi per delle future fotografie e disposto tutte le luci notturne.
«Che ci facciamo qui?», domandai, allacciando i miei occhi ai suoi. Sul suo volto ricomparve il solito sorriso sghembo e prese a giocare con le mie dita.
«Non ti arrabbiare, okay?»
«Perché dovrei?» Tutto diventava sempre più sospetto, eppure il suo viso mi ingannava.
Indicò la porta. «Basta che non diventi una furia.»
Alzai le spalle, non capendo, e unì la mia mano alla sua e abbassò la maniglia, prendendomi poi per i fianchi e spingendomi leggermente all'interno della stanza.
In pochi secondi passai da una situazione di totale confusione a una di stupore e incredulità assoluta.
«Ma cosa...»
Le lacrime risalirono gli occhi, pungendo sui bordi e rendendo l'immagine davanti a me sfocata.
Tutto sembrava un paradiso. C'era la culla, il fasciatoio, la sedia a dondolo con la coperta, le tendine verdi in tinta con il resto della stanza...
«Edward...», singhiozzai, portando le mani alla bocca. Non avevo parole per descrivere quello che mi si parava di fronte. Fino alla sera prima la stanza era vuota, fatta eccezione per le lucine e il lampadario, ma la culla, il cassettone con i vestitini e i pannolini, le lozioni sopra il fasciatoio, il carillon non c'erano.
Dal vuoto incontrollabile alla vita, letteralmente. Quella stanza ora pullulava di vita e gioia.
«Ma come hai fatto?» Intanto mi ero avvicinata al lettino, che avevamo scelto pochi giorni prima in negozio e subito portato a casa con l'aiuto dei miei genitori. Ora il legno bianco risplendeva sotto la luce chiara del lampadario, il paracolpi con gli orsetti cucito da Renée brillava e sotto le copertine già mi immaginai nostro figlio riposare tranquillo, con i pugni stretti e il respiro regolare.
«Ho approfittato del fatto che ero da solo in casa. E tua madre comunque è un'ottima aiutante, dovrò tenerlo presenta ancora di più dopo il mio ritorno.»
Sorrisi fra le lacrime e accarezzai il carillon appeso sopra la culla. Aveva i personaggi di Winnie the Pooh appesi, che penzolavano dai cordoncini colorati. Pensai già alla melodia che si sarebbe espansa in tutta la camera quando sarebbe giunto il momento della nanna...
«Un giorno se la vedrà con me... Com'è possibile che con la lingua lunga che si ritrova riesce sempre a tenersi buoni tutti i segreti? Non è giusto.», mi lamentai scherzosamente e Edward rise. Rideva come un tempo, era di nuovo lui, lo stesso uomo prima dell'ultima partenza.
Mi sedetti sulla sedia a dondolo, cominciando a oscillare. La mia mente vagò ancora, disegnando una delle immagini del mondo più dolce che potesse esistere: io e nostro figlio accoccolati una vicino all'altro, nel cuore della notte, ad ascoltare i nostri respiri. Lui attaccato al seno e io ad accarezzargli i capelli rossicci, come quelli di suo padre.
«È perfetta, è come l'avevamo sempre immaginata...», mormorai quando Ed mi strinse fra le sue braccia. Il legno bianco dei mobili era divino accostato al verde chiaro delle pareti e all'azzurro del soffitto.
«E sarà perfetta anche per lui...», aggiunse lui fra i miei capelli, osservando il capolavoro che aveva compiuto da solo.
«Sarà tutto perfetto, quel giorno.»



«Allora, vediamo un po' questo bambino.»
Non ero mai stata così agitata in vita mia prima di allora. Edward stringeva convulsamente la mia mano, tremando, e io aspettavo solo di vedere mio figlio sullo schermo di quel computer.
«C'è qualcosa che non va?», chiese la dottoressa, vedendo tutta la nostra preoccupazione manifestarsi all'improvviso. Scuotemmo in capo in contemporanea, per poi sorridere.
«Edward è la prima volta che vede il bambino... Dal vivo, attraverso un'ecografia.»
La donna annuì e posò l'ecografo sulla mia pancia.
«Ehi, calmati.», sussurrai a Ed, carezzandogli la guancia con la mano libera. Posò il capo accanto alla mia spalla, e poi sentire il suo fiato spezzarsi a intervalli irregolari.
«Allora, eccolo qui.»
Pochi secondi dopo, sul monitor comparve mio, nostro figlio. Ormai ero abituata a vederlo, per via delle visite mensili, ma Edward... Edward rimase totalmente fulminato. Smise di respirare e le sue lacrime mi inumidirono i capelli. «Ehi...»
Gli baciai le labbra, portandogli rassicurazione e lui sorrise, e fu uno di quei sorrisi di commozione, i più belli che potesse mostrarmi.
«È lui...», mormorò e io annuì convinta. «È il nostro bambino.»
«Qui c'è la testa, già in posizione. Poi queste sono le braccina, la colonna vertebrale, le gambe e i piedini.»
«Sono enormi!», commentò ridendo Ed e mi unii a lui. In effetti, non era tanto uno scricciolo, nostro figlio.
«Be', bisogno anche contare che siamo alla trentottesima settimana. Nelle ultime quattro settimane il bambino acquista anche più di un chilo di peso.»
La fissammo allarmati, già pensando alla nascita di un vitello, e non di un neonato di normali proporzioni.
«Ma non è la situazione di questo feto, potete stare tranquilli.»
Prese tutte le misure, dicendoci che erano nella norma, e poi girò la tanto agognata rotellina.
Per quanto possibile, Edward cominciò a piangere più violentemente di prima, ascoltando il suono del cuore del bambino. Ora per lui il pensiero era diventato quasi reale, non più un sogno remoto. Non doveva più vederlo attraverso un computer, ascoltare la mia voce o vederlo crescere con in sottofondo gli spari e altri rumori. Adesso c'eravamo solo noi e nostro figlio, tutto stava diventando concreto.

«Bella addormentata...»
Il naso di Edward percorse il profilo della mia mandibola, e la sua barba mi fece solletico.
«Mh...»
Provai a girarmi dall'altra parte ma lui mi bloccò con le sue braccia, baciandomi il collo. «Devi svegliarti.»
«Ma ho tanto sonno...»
Rise e mi carezzò la guancia mentre io aprivo lentamente gli occhi. Mi ero sdraiata sul divano e avevo pensato di risposarmi un secondo solo, e invece mi ero addormentato...
«Lo so, amore. Ma dobbiamo andare a casa di Rosalie e Emmett.»
«No...», confabulai, con sguardo triste. «Possiamo rimanere a casa? Non me la sento.»
«Dai, un piccolo sforzo.»
Sbuffai e mi alzai goffamente. «Se proprio dobbiamo...»
Quando feci per tirarmi su in piedi, ebbi un capogiro e quasi caddi a terra, se Edward non fosse stato tanto rapido da prendermi.
«Ehi, che c'è?»
Scossi il capo, confusa. «Non penso di riuscire a raggiungere il bagno da sola...»
Mi cinse i fianchi e, una volta in bagno, mi fece sedere sulla seggiolina accanto alla vasca. «Ora va meglio?»
Annuii appena, sorridendo. «Sì...»
«Hai qualche contrazione?»
«Un paio, ma è normale, lo sai ormai...», sussurrai, accarezzandogli i capelli.
«Te la senti di vestirti?», domandò e mi aggrappai alle sue braccia, sollevandomi lentamente. Qualche secondo dopo, lo fissai intensamente negli occhi, irrigidendomi.
«Che succede?»
Qualcosa di viscoso e caldo mi colò lungo la gamba e mi pietrificai, con me ogni singola cellula del mio corpo. «Edward.»
Si spaventò, vedendo il mio volto impallidire, e mi scostò i capelli dalla fronte. «Parlami, che succede?»
«Penso... Penso si siano rotte le acque.»
Silenzio.
«Non sono sicura, però... Ma mi sa che si è rotto qualcosa, qui sotto.», mormorai spaventata, e i nostri occhi si puntarono verso la piccola pozza d'acqua ai miei piedi.
Mi fece risedere sulla sedia, visibilmente agitato. Andava da una parte all'altra della stanza, con le mani fra i capelli; sudava freddo, tremava e borbottava qualcosa sotto voce.
«Edward!» Il mio urlo lo fece tornare alla realtà e tornò vicino a me, porgendomi le mani da stringere. Ah, no, quella contrazione non era per niente leggera, proprio per nulla.
«Sotto... Sotto il letto, c'è il borsone. Prendilo, lì dentro ci sono i miei cambi e quelli per il bambino. Poi vieni a riprendermi, e andiamo subito all'ospedale.»
Feci come aveva detto e io mi abbandonai contro lo schienale, guardando che ora fosse. Le diciannove e cinquanta, e mi sembrò veramente troppo presto per far nascere mio figlio.
Nella mia mente si affollarono migliaia di domande: era sano, era grande abbastanza, avrebbe avuto bisogno di aiuto...
Però mancavano solo due settimane al termine... C'erano neonati che nascevano anche al settimo mese e sopravvivevano benissimo, ma mio figlio ci sarebbe riuscito?
All'ospedale mi diedero subito una stanza, facendomi cambiare velocemente, e tre infermiere furono pronte a controllarmi.
«Ascolta, tesoro, adesso devi aprire le gambe, okay? Così noi controlliamo a quanto sei.»
Strinsi spasmodicamente la mano di Edward, terrorizzata, e obbedii mantenendo il controllo.
Essere esposta agli sguardi di tutte quelle persone era tremendo, ma imbarazzarmi era pressoché impossibile.
«Unisci le caviglie e divarica le gambe, così. Potrai sentire un pochino di pressione, ma sarà una cosa momentanea.»
Come avevano previsto, percepii una pressione dolorosa che mi fece gemere, ma dopo pochi secondi svanì.
«Sei di quattro centimetri! Quasi a metà, andrà tutto bene. Se hai bisogno, chiama.»
Nelle ore seguenti, non feci altro che suonare il campanello per chiedere di spostarmi, dato che stare sdraiata mi era impraticabile.
«Stai andando benissimo, amore. Sei bravissima.», mi mormorava all'orecchio Edward, ma io non gli davo molta retta, presa com'ero da assecondare i respiri al dolore.
«Fa troppo male...», sussurrai, asciugandomi la fronte. Ed mi strinse le mani, baciandomi le guance.
«Lo so, amore...», rispose, inginocchiandosi davanti a me. Non mi mollava un secondo, teneva sempre lo sguardo fisso su di me.
«Aspetta...» Puntellai le mani sulle ginocchia, incurvando la schiena all'indietro. L'espressione di Edward mi fece capire che da fuori doveva sembrare una bruttissima situazione, e in effetti lo era sul serio.
«Sta andando tutto bene, sei bravissima.», disse mio marito, carezzandomi le braccia. «Sei bravissima.»
Gli sorrisi nonostante la contrazione e mi concentrai ancora di più. «Che ora è?»
«Le dieci e mezza, stai tranquilla.»
«Hai avvisato Rosalie ed Emmett? Solo in quel momento mi ricordai del nostro impegno e subito Ed mi tranquillizzò. «Sì, hanno detto di godere appieno di questo momento.»
Emm e Rose avevano già potuto vivere l'esperienza di diventare genitori ancora prima di noi, e sapevano perfettamente come mi sentissi in quel momento.
«Allora, ricontrolliamo questa mamma?» L'infermiera entrò nella stanza battendo le mani, quasi come se si trattasse di un grande evento.
Strinsi la mano di Ed quando ricominciò il dolore. «Fa troppo male!»
«Lo so, cara, lo so, ma ricordati che tutto questo serve per far nascere il tuo bambino.»
«Inventassero il teletrasporto!», grugnii e qualcuno nella stanza rise, ma io non la pensavo allo stesso modo.
«Ascolta, sei di cinque centimetri. Lo so che sembra che tutto vada lento, ma è del tutto normale, okay? Cammina un pochino, usa la palla... Fai qualunque cosa ti aiuti, va bene?»
Annuii un paio di volte, anche se mi sembrarono solo parole al vento. Tutto, per conto mio, stava andando veramente male, non potevo sopportare ancora tante ore di dolore.
«Torniamo fra un'ora.», promisero e ci lasciarono di nuovo da sola.
Guardai Edward negli occhi e sentii le lacrime salire. «Ed...»
«Ehi, ehi.»
Cominciai a piangere e singhiozzare sempre più forte, mentre le sue braccia mi circondavano. «Ehi, perché fai così?»
«Ho paura, Ed, ho tanta paura...»
«Di cosa, amore?» Mi massaggiò la schiena dolcemente, posando le labbra sul mio collo.
Tossii. «E se fosse ancora troppo piccolo? Se qualcosa andasse pronto? E se non fosse pronto?»
«Hai paura di non essere tu quella pronta?», mormorò e le sue parole mi colpirono, ma forse era proprio quello il suo intento.
«Cosa intendi?» Corrucciai le sopracciglia e lui sorrise. «Sembra che tu abbia paura... per te stessa. Stai andando benone, sei bravissima.»
«Lo dici tanto per farmi piacere.», mugugnai, tirando su con il naso.
«No, invece. Quante donne pensi che vivano questo momento con i tuoi stessi timori? Hai sentito la dottoressa ieri, ha detto che il piccolo è totalmente formato e se dovesse nascere non ci sarebbero problemi.»
«E se qualcosa andasse storto?», domandai scettica. Era impressionante come fossi diventata pessimista: per tutta la gravidanza ero sempre stata di ottimo umore e avevo sperato per il meglio... E all'improvviso la situazione si era capovolta in extremis...
«Perché devi pensare al peggio?» La sua voce divenne bassa ma seria al punto da farmi capire che stavo ragionando nel modo sbagliato.
«Perché non mi aiuti?», ribattei. «Cosa dovrei fare per aiutarti?»
«Smetterla con queste domande.», sibilai fra i denti e sentii il viso diventare bollente. La sua mano si arpionò alla mia immediatamente, stringendola.
«Respira, amore, respira.», sussurrò sulla mia fronte. «Come hai imparato al corso.»
Guardarlo negli occhi mi dava sicurezza, vederlo accanto a me era una prova che non mi aveva abbandonata. Non avrei mai pensato che lui sarebbe stato vicino a me in quel momento, perché troppo spesso lo immaginavo ancora lontano, in quella terra che procurava solo morte e distruzione.
«Hai visto? Sei bravissima.», ripeté ancora. Stava diventando una nenia, una specie di ninna nanna per le mie orecchie.
Gli carezzai una guancia appena mi sentii meglio. «Ti amo.»
Mi posò un bacio leggero sulle labbra. «Anche io, amore. Devo continuare a dirti che hai la situazione sotto controllo?»
Scossi il capo, ridendo, e Edward sorrise. «Voglio vederti così, sei bellissima.»
Alzai gli occhi al cielo e con il suo aiuto mi alzai in piedi. «Uh, mi reggono.», mormorai stupita, quasi fosse una specie di miracolo.
«Ce la fai?»
«Basta che mi stai vicino e non mi fai cadere.», risposi. La sua espressione fu rassicurante, quasi come a dirmi “Questo mai”.
«Magari faccio un giro nel corridoio...», sussurrai, ma non appena feci un passo percepii altro liquido colarmi lungo le cosce.
Guardai Edward con faccia disgustata e lo scacciai. «Che schifo, Dio mio... Continuo a lasciare acqua ovunque.»
«Vuoi che chiamo qualcuno?»
Scossi il capo. «No, no, adesso mi asciugo.»
Mentre mi ripulivo con un pezzo di carta, il cellulare di Ed cominciò a vibrare contro il legno del tavolino.
«Chi è?»
Guardò il display. «È mia madre.»
«Rispondi.», mormorai soltanto, sedendomi sul lettino. Strinsi la sponda quando arrivò l'ennesima contrazione, e Edward mi guardò impotente.
«Ciao, mamma. No, non sono a casa.»
In quell'istante mi feci sfuggire un lamento che dopo pochi secondi divenne un urlo incessante.
«Sono in ospedale, Bella è in travaglio. No! Rimanete dove siete, non so per quanto ne avremo ancora. Come vuoi che stia? Le fa male tutto, hanno detto che deve sopportare. Sì, se c'è qualche sviluppo ti chiamo, stai tranquilla.»
Chiuse la conversazione e subito accorse accanto a me. «Sono qui, amore.»
Inclinai la testa all'indietro, picchiandomi il ginocchio. «Fa male, fa male...»
Di nuovo un altro grido prese posto nella mia bocca e non riuscii a trattenerlo. Il volto di Edward divenne pallido e si inginocchiò davanti a me, con gli occhi lucidi.
«Cosa devo fare?», chiese. Lo aveva già fatto per non so quante volte, e capii che si sentiva inutile lì, forse perché capiva che non poteva darmi una mano.
«Che ore sono?»
Si asciugò la fronte e guardò l'orologio. «Sono adesso le undici e mezza.»
«Solo? Non ce la faccio più!», piagnucolai e lui mi carezzò il ginocchio nudo. «Sì che ce la fai.»
«No, invece! Sono stanca, ho sonno, non ho mangiato nulla, e non c'è traccia di miglioramento!»
Nel giro di pochi secondi iniziai a singhiozzare e Edward schizzò in piedi, uscendo dalla stanza. Rimasi per qualche minuto da sola e quando tornò, era violaceo in viso e si scortava un'infermiera.
«È stravolta, non vede? Non potete darle nulla?»
Passai il dorso della mano sugli occhi, mentre la donna mi guardava. «Lei come si sente?»
«Come vuole che stia?», strillai, afferrando la mano che Ed mi stava porgendo. Lasciai che la contrazione passasse, mentre loro mi fissavano.
«Mi fa troppo male! Mi sta spaccando in due!»
La donna sospirò e mi fece distendere. «Ora controlliamo, e vediamo cosa fare.»
Lasciai che facesse il suo dovere e Edward posò la fronte sulla mia. «Va tutto bene.»
«Voglio solo dormire.», mormorai e altre lacrime presero a scorrere.
«Ehi ma qui ormai siamo quasi alla fine! Chiamo la ginecologa!», esclamò e con ancora i guanti corse fuori.
Mi spaventai e iniziai a respirare più velocemente, mentre mio marito mi massaggiava la schiena. «Hai sentito? Manca poco.»
«Allora, cosa succede a questa mamma?» La ginecologa entrò nella stanza, indossando i guanti. «Mi hanno detto che bisogna fare in fretta.»
«Tiratelo solo fuori!», borbottai stringendo gli occhi. Perché il dolore non passava? Non avrei sopportato ancora molto.
«Avanti, controlliamo e...»
Si bloccò e Edward accanto a me si irrigidì. «Che succede?»
«Forse è il caso di andare in sala parto, questo bimbo ha deciso che è giunto il momento di nascere.»
Nei minuti dopo tutto divenne confuso. Attorno a me si erano proiettate cinque infermiere ed eravamo in un'altra stanza. Edward continuava a chiedere quanto ci sarebbe voluto e gli rispondevano solo di svestirmi e di calarmi nella vasca, perché ormai il tempo era alle strette.
«Ascolta, Bella, sei di quasi nove centimetri. Adesso appena senti il bisogno di spingere, fallo, nessuno ti ferma. Adesso c'è?»
Scossi il capo, accasciandomi sul bordo della vasca. «Voglio dormire...»
«No, ora devi rimanere sveglia, tesoro. Se facciamo in fretta, poi puoi dormire quanto vorrai.»
Le mani di Edward impugnarono le mie e mi guardò. «Abbiamo quasi finito, fra poco conosceremo nostro figlio.»
«Voglio solo che stia bene...»
Scostò una ciocca di capelli dai miei occhi. «Starà bene, siete forti entrambi.»
Stavo per sorridere quando una fitta risalì la pancia e percorse la schiena. «Cazzo, cazzo, cazzo...»
«Spingi, Bella!»
Incatenai i miei occhi a quelli di Ed e con tutte le forze feci come mi avevano detto. Da fuori dovevo sembrare un mostro, avevo il viso contratto in una smorfia terribile.
«Benissimo! Stai andando perfettamente!», dissero le infermiere e Ed annuì. «Cosa ti dicevo?»
Chiesi di girarmi, così da appoggiare la schiena contro il bordo della vasca. Edward non mi mollava un secondo, e teneva le mani sulle spalle, allacciate alle mie.
Il dolore era tanto intenso da annebbiarmi completamente. Non so quanti minuti passarono, ma a ogni spinta sentivo solo le forze mancarmi e sprofondare.
«Bella, svegliati!»
«Sono sveglia...», mugugnai con la voce impastata. Le labbra di Ed si posarono sul mi orecchio. «Sveglia, amore, dai.»
«Ca... Canta per me...», mormorai e presi a tremare, mentre una contrazione crebbe dentro di me. Un'infermiera, vedendo il mio colorito diventare paonazzo, mi diede una pacca bonaria sul ginocchio piegato.
«Se vuoi urlare, fallo! Se ti aiuta, puoi fare tutto ciò che vuoi.»
Mi lasciai andare e tutti sussultarono, tranne Edward. «Bravissima, amore.»
«Ti prego... ca... canta.», lo implorai e sottovoce cominciò a mormorare la mia canzone preferita.
«Be still and know that I am with you
Sorrisi nonostante il dolore. «Sei con me, lo sarai sempre...»
Mi carezzò una guancia. «Be still and know that I am here
«Sei qui... Sei qui per noi.»
«Be still and know that I am with you
La ginecologa mi incitò a spingere di nuovo, perché mi stavo rilassando forse fin troppo. «Avanti, Bella, si vede la testa. Vuoi farla nascere negli ultimi istanti dell'anno vecchio o nei primi dell'anno nuovo?»
Sgranai gli occhi ma subito dopo li richiusi e strillai. Urlai così tanto che la voce mi si mozzò a metà e strinsi senza controllo la mano di Ed, che non dette segno di cedimento. Lo stavo massacrando, ma più il dolore aumentava, più capivo che non avevo ancora sentito nulla di quello che mi aspettava.
«Perfetto, dai! Questa è l'ultima!»
«Io scommetto che non è vero...», scherzai e Edward sorrise. «Avanti!»
Obbedii e qualcuno rise quando la dottoressa mi sfiorò il braccio. «Dai, Bella!»
«Io lo sapevo che non era l'ultima...», dissi e  quando ripresi ad urlare, mi resi conto di non essere l'unica a farlo.
Dall'acqua riemersero le mani della ginecologa che tenevano un corpicino rosso e ricoperto di roba bianca. Me lo posò sul petto e in quell'istante tutto il dolore svanì.
Il sonno sparì e guardai il bambino, che aveva gli occhi appena aperti. Lo sfiorai, e divenne reale. Non fu solamente più un mio sogno, una mia immaginazione, il sogno di una vita. No, era diverso, in quel momento. La sua pelle non fu un disegno tracciato dalla mia mente; il suo viso, così perfetto, ebbe finalmente una forma, ed era ancora più bello di come me l'ero sempre immaginato.
«Sei stata bravissima!»
Edward, al mio fianco, mi prese il viso fra le mani. «Sono così orgoglioso di te.»
Piangeva, e mi resi conto che non era l'unico a farlo. Sui nostri volti, rigavano lacrime, per la prima volta in tutta la serata, di felicità.
«Ci ha messo più di mezz'ora a nascere, con quattro ore di travaglio alle spalle, ma guardate che capolavoro!», esordì la dottoressa e sorrisi. Sorrisi perché era vero: non era stato il dolore, le spinte, i pianti, le contrazioni, le strette, la paura a farmi capire che stavo diventando madre. La consapevolezza divenne tale quando avevo visto mio figlio, nostro figlio uscire dal mio corpo e posarsi su di me.
Gli occhi di Edward lo fissavano come solo una volta aveva guardato un'altra persona: me.
Ad un certo punto, rise di gioia fra le lacrime. Sul suo viso comparve un sorriso di amore e stupore allo stesso tempo.
«Cosa c'è?», sussurrai stremata, perché proprio non capii cosa c'era da ridere.
Posò le labbra sulle mie, con urgenza, e rimasi esterrefatta. «I miei presupposti non sono stati vani, dopotutto...»
Ancora non intesi e la dottoressa mi accarezzò il braccio. «È una splendida bambina, Bella.»
Sgranai gli occhi e il mio cuore si fermò nell'istante in cui la sua voce, la voce di mia figlia, si propagò nella stanza.
«E che voce che ha la signorina!»
Guardai il suo corpicino che si dimenava, i pugnetti che si agitavano a pochi centimetri da mio petto. Fu come un colpo di fulmine improvviso, quello che mi colpì. Il mondo smise di girare per un attimo infinito, tutti gli orologi smisero di rintoccare, i fuochi d'artificio fuori dalla clinica si spensero all'istante. Mai come in quell'istante capii quanto forte potesse essere l'amore di una madre verso la figlia, non avevo mai percepito tutta la gioia che i miei genitori scoprirono quando mi videro nascere. Non c'erano parole per descrivere come il mio cervello e il mio corpo si sentissero in quel momento, ma i miei occhi non mollavano quelli di mia figlia, che forse già aveva capito chi fossi.
Era straordinario vedere come una cellulare composta da due parti diverse di due persone che si amano potesse fondersi, formarsi e dare vita a un bambino.
«Sei stupenda, amore mio...»
La voce mi mancava e forse quella frase gliela avevo detta con il pensiero. Non smise di strillare e le labbra di Edward si appoggiarono ancora una volta sulle mie. Rividi quel bagliore nei suoi occhi che c'era stato in pochi momenti della sua vita, dal nostro primo incontro alla sorpresa il giorno di Natale.
L'amore di una persona non si divide, ma si moltiplica ogni volta che qualcuno di nuovo le fa battere il cuore.”
Avevo letto spesso quella frase sulla cornice portafoto che mia madre mi aveva regalato, e in quell'istante, come una scossa, compresi ancora. Era la stessa sensazione che avevo vissuto quando Edward mi aveva guardata intensamente negli occhi per la prima volta, come quando avevo capito di amarlo più di ogni altra cosa. E ora sapevo cosa voleva dire dare la vita a un'altra persona, mia figlia ne era la prova. Il battito del mio cuore, in quel momento, era la prova di tutto il mio amore, di tutti i tentativi, le lacrime, la paura, la forza, la speranza che avevo racchiuso in me mentre attendevo il ritorno di Ed.
Il tempo era passato inesorabile, e nella mia mente rividi l'immagine di quel test positivo, la prima ecografia dove lei era grande quanto un fagiolino, i primi vestitini, la pancia crescere passo per passo... Erano tutti ricordi che si erano fusi in nostra figlia, erano attimi che mai sarebbero andati persi.
«Sono così orgoglioso di te...», mormorò di nuovo Ed. La sua bocca sapeva di sale, così come probabilmente la mia. Le sue mani si posarono ai lati del mio viso, ma le mie non lasciarono andare il corpo della bambina che adesso si stava tranquillizzando.
«È stupenda...», dicemmo in coro e la dottoressa si avvicinò a noi, con le forbici in mano. «Vuole tagliare il cordone?»
Stranamente, oltre le mie aspettative, Edward si fece avanti e con mano tremolante spezzò quel legame che aveva tenuto collegate me e la piccola per nove mesi.
«Ti amo, ti amo, ti amo.», sussurrò una volta tornato accanto a me. «Mi hai reso l'uomo più felice di tutta la Terra, oggi.»
Sorrisi. «Devi dire grazie a lei, non a me.»
«No, dico grazie a te perché sei tu che l'hai messa al mondo. Sei tu la sua mamma, l'altra parte inestimabile di lei.»
Ripresi a piangere e contai le dita della sua mano. «Cinque dita per manina...»
«Due occhi grandissimi sul viso...»
«Tutto al posto giusto... È perfetta, è esattamente...»
«È lei, è nostra figlia.», concluse Edward per me. «Però non possiamo chiamarla Perfect.»
Ridemmo insieme, come due bambini spensierati. «No, in effetti direi di no.»
«Volete una foto assieme, così magari poi pensate ben bene al nome?», propose un'infermiera e non ce lo facemmo ripetere due volte.
«Può farci una foto mentre la bacio?», chiese Ed dopo il primo flash. Alzai un sopracciglio. «Cosa?»
«Ti prego.», sussurrò, posando le labbra sulle mie nell'istante in cui la fotocamera scattò per la seconda volta.
«Siete perfetti! E direi che questa bambina ha scelto proprio il giorno giusto per nascere. Il primo gennaio a mezzanotte e tre minuti!»
Ancora una volta mi meravigliai e rimasi senza parole. Una sorpresa dopo l'altra...
«So esattamente che nome darle.», mormorò Edward, carezzando il braccio, così piccolo, di nostra figlia.
«Cioè?»
Il suo sguardo fu così intenso da farmi capire in un istante solo cosa intendesse, lasciandomi poi sola per andare a sbrigare le pratiche burocratiche.
Mi chinai verso l'orecchio della bambina, carezzandole la testa piena di capelli scuri.
«Benvenuta, amore mio. Sei la nostra vita, la nostra meravigliosa gioia.»


Angolino tutto mio :3        
Allora, ora spiego. Questo doveva essere l'epilogo, ma sin dall'inizio sapevo che sarebbe venuto lunghissimo.
Perciò ho allungato Be Still di un captiolo, l'epilogo sarà il 5 :)
Che dire? Mi sono emozionata tantissimo nello scrivere questo capitolo perché è quasi interamente la chiave di tutto. Spero di aver risvegliato in voi lo stesso effetto :)
Stasera sono di poche parole... Anche perché sto continuando a piangere ueueeueu ç___ç Una bella bimba, awwwww!
Il nome non ve lo dico MUAHAHH no, vabbé, lo saprete nell'epilogo :) Perciò do l'inizio al TOTO NOME!
Sparate un nome che secondo voi sarà quello della bambina u.u
Piccolo indizio: è racchiuso nell'ultima parte del capitolo u.u
Ringrazio Simona che mi ha aiuata con il titolo, di sua invenzione... Sappi che però non ti perdono -.- Ancora u.u
Come al solito (bla bla bla) dedico il capitolo alle persone a me più importanti <3
Spero di ricevere tante belle recensioncine :3
Un bacione,
Giulia <3

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Capitolo 5
*** Epilogo ***


Be still

Be still
Epilogo




Bella.

«Dobbiamo per forza?»
Guardai Edward che rideva davanti a me, con quella cinepresa in mano. «Mi pare ovvio. Dobbiamo immortalare tutti i primi attimi di vita di questa signorina.»
Risi con lui e quel movimento scosse per qualche secondo nostra figlia, che dormiva tranquilla fra le mie braccia. «Allora fai in fretta, non vedo l'ora di riposarmi.»
Sorrise e accese la videocamera. «Saluta!»
Mi sembrava tanto una farsa da commedia, così alzai gli occhi al cielo. «Ti prego.»
«Dai, non fare la scorbutica!», borbottò, puntando l'aggeggio verso di me. «Di' qualsiasi cosa.»
Sbuffai. «Inizia tu, sei il più bravo in certe cose.»
Sospirò e girò la cinepresa verso di sé. «Da dove comincio? È l'una e mezza del primo gennaio duemila e tredici, siamo al Memorial Hospital di Jacksonville e be... Oggi è avvenuto il miracolo più grande che potesse capitarmi.»
Guardai la nostra piccola, accoccolata sul mio petto, che respirava velocemente.
«Lei», sussurrò, indirizzando la telecamera verso di me. «È mia moglie, la donna più bella del pianeta.»
Ridacchiai, sminuendo il fatto. «Che ora sembra per lo più uno zombie, dato che non dorme da quanto, sette ore?»
«Stt, rovini il filmino!», mugugnò, per poi tornare a riprendere. «Stavo dicendo. Lei è la donna che oggi ha saputo rendermi la persona più felice del mondo.»
Zoommò il più possibile sul viso della figlia, con un sorriso sul volto che non si poteva decifrare se non si conosceva il perché. «Lei, mia moglie, mi ha reso padre di questo gioiellino qui. E lei... è Zoe Nevaeh Joy Cullen...»
«Sai vero che ci odierà quando sarà grande?», intervenni io, sapendo già come la pensavo su quel nome lungo metri. «Dovrà firmare tutti quei nomi... Poverina.»
«Penso taglierò tutte le parti in cui parlerai a sproposito.», disse Edward, visibilmente infastidito. «Riprendiamo, e ora non dire altro. Dicevo che lei è la nostra Zoe, la signorina che stanotte, a mezzanotte e tre minuti, mi ha rubato il cuore come la sua mamma ha fatto quasi sei anni fa.»
Mi sciolsi a quella frase e accarezzai i capelli di nostra figlia. «Bisogna spiegare che dietro a questo nome c'è un suo significato.», mormorò Ed, totalmente rapito. «Non riuscivamo a metterci d'accordo, prima del parto, perché a me piaceva Joy, a Bella Nevaeh... Che poi mi spieghi come ti è venuto in mente?»
«Hai detto che non posso più intervenire.», borbottai sarcastica.
«Che pizza... Comunque. Alla fine, quando l'abbiamo vista per la prima volta, quando ha deciso di farsi conoscere, ho capito quale nome era perfetto per lei. Zoe è... divino. Significa vita, ed è quello che è per noi questa bambina stupenda. Nevaeh, anche se può sembrare strano, è uno dei nomi che più amo, proprio perché l'ha scelto Bella. È l'acrostico di Heaven, paradiso. E Joy... Be', questo è abbastanza chiaro.»
«Rettifico: ci odierà quando diventerà più grande.»
Borbottò qualcosa sottovoce. «Ti ricordo che ho fatto mettere le virgole fra un nome e l'altro, così per la legge lei potrà firmare con solo Zoe.»
Sorrisi e mi adagiai nei cuscini. «Zoe è... l'amore. È stupenda, morbida, profumata e incredibilmente...»
«Perfetta.», conclusi io, sfiorandole le guance piene.
«Pesa tre chili e cinquecentoventi grammi ed è lunga cinquanta centimetri. È perfetta in tutto.»
«Credimi, il peso si è sentito eccome quando è dovuta uscire.», confabulai e Edward rise. «Su, non fare la melodrammatica.»
«Fai uscire un'anguria da un limone.», constatai e lo feci ancora sorridere.
«Devi essere sempre volgare.», ridacchiò e i suoi occhi brillarono quando Zoe, tra le mie braccia, si svegliò.
«Ecco, l'abbiamo svegliata. Non ha neanche due ore e già le rompiamo le scatole.»
Era così piccola fra le mie braccia... Sembrava essere leggera come una piuma, altro che tre chili e mezzo...
«Ciao, amore.», sussurrai contro il suo naso e le sue labbra si arricciarono. Ben presto la sua voce si espanse per tutta la stanza e in tutti i modi tentai di tranquillizzarla.
«Dici che ha fame?», sussurrai, vedendo che ogni tentativo era invano.
Edward fece spallucce e provai a ricordarmi come avevano detto le infermiere, sebbene fossi molto impacciata.
Slacciai la camicia da notte tanto da scoprire il seno e ben presto la piccola trovò il capezzolo e prese a succhiare.
«Sì, direi che ha molta fame.», mormorò Edward, filmando tutta la scena. Fino a qualche ora prima, glielo avrei proibito, forse per uno stupido fatto di imbarazzo. Ma ora, con Zoe finalmente tra le braccia, era diverso. Essere madre mi rendeva diverso, anche se lo ero da relativamente poco.
Ed spense la videocamera appena vide che cominciavo ad abbandonarmi al mondo dei sogni e mi posò un bacio sulle labbra.
«Vi amo.»
Sorrisi. «Anche noi.»
Zoe, tra di noi, si era un attimo staccata e aveva cominciato a gorgogliare.
«Be', direi che anche lei approva.», rise lui e baciò la testolina della figlia.
                   
«Ma quanto è piccola!»
«Amore, ma sei stupenda!»
«Posso tenerla un po'? Ce l'hai da tutto il tempo.»
«Ma se l'ho appena presa!»
Osservai sorridendo quella scena che ormai da qualche ora si ripeteva senza sosta nel salotto di casa nostra. Le nostre famiglie si erano quasi accampate da noi, e tutti volevano tenere in braccio per molto più tempo Zoe.
«Spero non la facciano cadere.», borbottò Edward al mio fianco, che guardava quelle persone spupazzarsi sua figlia.
Gli sfiorai la spalla, appoggiandoci il mento. «Rilassati. Penso che i nostri genitori abbiano un po' di esperienza, no?»
«Mi preoccupo di più di Emmett: è grande e grosso... E se la schiacciasse?»
Risi e vidi il suo migliore amico girarsi con Zoe tra le braccia. «Ti ho sentito!»
Sembrava essere così sicuro di come tenere un bambino... Be', ovvio. Anne aveva ormai un anno e mezzo e ancora ricordavo i primi periodi a casa loro, quando la piccola piangeva e lui si fiondava nella culla per consolarla.
«Hai visto? È  quasi il grande gigante gentile.», mormorai ma comunque Ed non si tranquillizzò.
«La stanno sballottando troppo...», borbottò e capii che avrebbe voluto tenersi la figlia solo per sé. Anche per me era difficile vedere Zoe fra le braccia degli altri, perché... Perché era mia, era nostra, ero gelosissima della nostra bambina. Ancora dovevo abituarmi a non averla dentro di me, e soprattutto non potermela sempre tenere sul petto. Nonostante tutto, era nata da solo un giorno, e forse non era stata un'ottima idea portarla già a casa...
«Ancora mi chiedo come abbiate fatto a creare un simile capolavoro!», esclamò Rosalie, carezzando il viso paffuto della neonata.
Stavo per dire qualcosa, ma Emm mi anticipò. «Eeeh, Rose, come pensi che ci siano riusciti?»
Tutti scoppiarono a ridere e quel trambusto scombussolò Zoe, che iniziò a piangere. Io e Edward ci alzammo assieme e subito prese la piccola fra le braccia.
«Sttt», le sussurrò all'orecchio, cullandola. «Amore, sttt...»
«Probabilmente c'è troppo rumore, e tutto questo la spaventa.», fece mia madre, massaggiandomi le spalle. Dio, ero rigida come un manico di scopa... Ogni volta che Zoe piangeva, mi saliva l'ansia, perché non riuscivo a capire cosa avesse.
E se aveva caldo o freddo, o aveva fame oppure doveva fare il ruttino, oppure aveva sonno o se era solo infastidita da qualcosa...
«Cos'ha?», chiesi allarmata e piano piano il pianto della piccola scemò. «Probabilmente si è solo spaventata.»
Annuii e mi sentii solo inutile. Perché non capivo cosa avesse mia figlia? Tutte le madri avevano una specie di sesto senso e intendevano al volo di cosa avesse bisogno il piccolo. Ma perché io no?
«Quando ha mangiato?», chiese Esme. «In auto, prima di arrivare qui.»
Sì, tre o quattro ore prima, più o meno.
«Allora è probabile che abbia fame... Forse è meglio se andiamo a casa.»
«No!» La mia voce si alzò di qualche ottava e Zoe sussultò. «Non ci dà fastidio, anzi.»
Edward mi posò la bambina fra le braccia, che subito formarono una culla per accoglierla. Quando avevo la piccola, tutto diventava naturale, ma quel pensiero nella mia testa ancora non mi dava pace.
«Ti fa male?», chiese Renée, vedendo la mia espressione corrucciata. «No, no, anzi.»
Guardai mia figlia che teneva una manina sul mio seno. Le guance piene erano segno che, comunque, qualcosa mangiava, dato che quando era nata avevo avuto anche quel timore.
«È proprio una bambolina...», sussurrò Charlie e vidi nei suoi occhi la stessa luce che aveva brillato nei miei occhi quando avevo visto Zoe nascere.
Ebbi l'impressione che la bambina avesse il dono di far innamorare tutte di sé, e come non poteva? Sembrava una bambola di porcellana, con quella pelle così candida, le gote rosate, le mani così piccole...
«In ogni caso, è tardi... Dobbiamo tornare a casa.» Tutti si alzarono e uno per uno vennero a salutarmi, per poi dare un bacio sulla testolina di Zoey.
«Se hai bisogno, tesoro, chiamami.», mormorò mia madre, accarezzandomi i capelli. Io annuii, sorridendo. «Spero che vada bene, la prima notte a casa.»
In casa nostra, all'improvviso, calò il silenzio, rotto solo dai gorgoglii prodotti da Zoe che ciucciava come una forsennata.
«Sono tutti innamorati di lei.» Edward sorrise e si sedette accanto a noi. Ricambiai il gesto, posando il capo sulla sua spalla. «Eh già...»
«Sono un po' geloso, devo ammetterlo.», ridacchiò e mi baciò la tempia. «Vorrei che fosse solo mia...»
«Pensi che anche per me non sia così? È strano non averla più dentro di me... Prima potevo sentirla solo io, adesso tutti la desiderano.»
«La rinchiuderò in una torre fino ai quarant'anni.», bisbigliò contro i miei capelli e insieme ridemmo, per poi tornare a osservare nostra figlia. Ci guardava incuriosita, con gli occhietti spalancati.
«Ha i tuoi occhi...», sussurrai convinta e un sorriso di Edward sfiorò la mia guancia.
«Amore, tutti i bambini nascono con gli occhi grigi, o azzurri. Secondo me diventeranno come i tuoi.»
Scossi il capo, convinta. «Sono certa che no, avrà i tuoi bellissimi occhi verdi. I capelli sono chiari... Be', io da bambina ero quasi bionda, quindi.»
Ed mi scostò una ciocca di capelli da davanti al volto e mi baciò la spalla. «Sei stanca?», mormorò, vedendo il mio sguardo assonnato. Be', in ospedale avevo dormito ben poco, ma mi avevano avvisato le infermiere, dato che i neonati dormono di raro i primi giorni.
«Mh, un po'.», ammisi, carezzando a folta peluria chiara di Zoe. Si era staccata e ci fissava, anche se il suo viso trapelava l'imminente bisogno di dormire.
«Ciao...» Quella frase uscì in un sussurro, contro la fronte della bambina. Con una mano sola riallacciai la camicia e iniziai a cullarla, ma Edward la prese con sé.
«Perché non vai a dormire? Finisco io con lei.», mormorò amorevolmente.
Gli sorrisi. «Anche tu avresti bisogno di dormire, sai?»
«Tu sono tre giorni che non dormi, e hai ancora addosso tutta la stanchezza del parto. Io al massimo ho una mano un po' gonfia, ma cosa vuoi che sia?»
Non so come avevo fatto, ma durante il travaglio le mie contrazioni erano state tanto forti che l'unico modo per scaricare la tensione fu di stringere la mano di Ed... Che si era gonfiata in modo improponibile.
«Dai, vieni.» Presi la mano che Edward  mi stava porgendo e salimmo le scale che portavano nella nostra stanza. Posò Zoe nella culla, accanto al letto, e mi aiutò a indossare il pigiama. Riusciva a essere così dolce anche con poche ore di sonno arretrate...
Mi sdraiai a pancia in su e lui mi adagiò Zoe sul petto. La circondai con le braccia, e sembrava ancora più minuta nell'oscurità.
«Siete bellissime...», disse, accarezzando prima il mio viso e poi quello della neonata. «Ora però dormite.»
Prese a canticchiare la sua ninnananna e dopo pochi secondi mi ritrovai nel mondo dei sogni.


Edward.

La vita, nei miei ventotto anni, non aveva ancora smesso di riservarmi tutte le sorprese possibili. Da quando ero tornato a casa, avevo cominciato a sentire dentro di me formarsi qualcosa simile a una gioia indescrivibile, e neanche io ero riuscito a decifrarla.
Ogni volta che guardavo il pancione di Bella deformarsi sotto i calci della bambina sorridevo, e capivo cosa mi ero perso. Ma in quella settimana avevo recuperato alla grande, avevo fatto tornare a Bella la voglia di vivere la fine di quella gravidanza nel migliore dei modi. L'avevo portata in giro per negozi, le avevo fatto scegliere tutti i vestitini per la bambina e soprattutto le prime tutine: una blu con un camioncino se fosse stato maschio, e una rosa con gli orsetti se fosse stata femmina.
Avevamo preso alla leggera l'idea che il parto potesse anticiparsi, perché tutto era tranquillo e non c'era bisogno di preoccuparsi inutilmente. E invece... Invece la situazione era andata per il verso opposto.
Fu strano vedere Bella stare male, per giunta per colpa mia... Le facevo stringere la mia mano, cercando di darle più conforto possibile nonostante il dolore.
Ma tutto divenne reale per me quando la vidi per la prima volta. Avevo intravisto solo le mani della dottoressa uscire dall'acqua tenendo un corpicino coperto di sangue, pieno di grinze e piegoline, per poi posarlo sul petto di Bella. In quel momento tutto prese il posto giusto nella mia vita.
Sentire la voce di mia figlia per la prima volta, vedere i suoi occhi aprirsi, i pugnetti agitarsi nell'aria... Tutto aveva finalmente un senso, la mia vita aveva acquistato un senso.
Ero nato per amare Bella, e per creare con lei la mia più grande soddisfazione: mia figlia.
La prima volta che incrociai i suoi occhi capii che era mia, era parte integrante di me, lei era metà me, geneticamente. L'avevo guardata così intensamente da intendere che il mio dovere, ora, era proteggerla, così piccola e fragile contro il mondo intero. Il mio cuore si era improvvisamente sdoppiato per una nuova persona, la mia seconda donna.
Ogni fotogramma l'avevo custodito avaramente, nei minuti dopo; avevo fotografato tutto di lei: la prima pesata, le infermiere che la vestivano, Bella che mi sorrideva nonostante il dolore appena passato... Erano i primi passi della nostra grande avventura.
Averla stretta tra le mie braccia, qualche minuto dopo la sua nascita, era stata un'emozione incredibile: era così minuta, così morbida, profumata... così mia, così nostra.
«Benvenuta al mondo, amore mio.» Erano state delle parole che mi erano nate spontanee prendendola in braccio. Ancora non mi capacitavo di essere diventato padre, e anche Bella ancora non assimilava l'idea.
Un pianto cominciò ad espandersi dal baby phone, segno che Zoe aveva deciso di aver dormito fin troppo, forse.
«Ma quanto è passato dall'ultima poppata?» Bella era in uno stato di catalessi e non aveva neanche aperto gli occhi.
«Due ore, ma stai tranquilla, vado io.» Le baciai la fronte e scesi dal letto, per poi dirigermi nella cameretta di Zoe. Piangeva a pieni polmoni, gli occhi pieni di lacrime, le guance umide.
«Ehi, ehi, principessa.», le mormorai, alzandola dal materassino e posandomela sul petto. Più la cullavo, e più i suoi lamenti si abbassavano, fino a diventare un rantolo.
«Brava, amore di papà, brava.» La mia voce doveva suonarle quasi come una nenia, perché si calmò e potei portarla fuori dalla cameretta, arrivando poi nel piccolo soggiorno al fondo del corridoio.
Guardai fuori dalle finestre: il cielo era limpido, senza una nuvola, e potevano vedersi benissimo le stelle, che trapuntavano tutto come minuscoli puntini bianchi.
«Guarda, Zoey, guarda quante stelle.» Mi posizionai in modo che anche la piccola potesse guardare fuori. La leggera luce dei lampioni esterni le illuminarono il viso, e ancora una volta mi persi a rimirarla: gli occhi così chiari, il naso perfetto, le guance paffute, quella piccola bocca a cuore, uguale a quella di sua madre... Ero innamorato, ero innamorato di mia figlia.
«Vedi quelle stelle lassù, amore? Su una di loro, c'è un angelo che ti osserva e veglia su di te, una persona che per noi era speciale ma che ora è lassù... Ma, anche se tu non l'hai conosciuta, tua zia era la persona più dolce sulla terra. Si chiamava Joyce, e il tuo nome deriva da quello, solo che è un'abbreviazione. Era la sorella più grande di papà, oggi avrebbe trent'anni, sai?»
Un groppone mi salì in gola, guardando mia figlia e pensando a quello che era successo. «La mamma l'ha conosciuta e... Anche lei sa che persona meravigliosa era. Purtroppo la zia è volata in cielo quando era giovane, aveva solo vent'anni... Una brutta malattia l'ha portata via, ma ora sta meglio, e da là ti osserva e prega per te, amore mio.»
Un singhiozzo dall'altra parte della stanza attirò la mia attenzione, e quando mi girai trovai Bella sulla soglia della porta che si asciugava le lacrime.
«Ehi, amore...» La chiamai e mi venne vicino, nascondendo il volto sul mio petto. «Stavo.. Stavo ascoltando quello che dicevi.»
«Scusa se ti ho fatta piangere.», mormorai, baciandole la fronte. «È che Joyce mi manca, e tanto anche.»
La mano di Bella si posò sulla mia schiena. «Lo so, amore... Però ora è lassù che veglia su di noi, giusto?»
Annuii. «Spero che le faccia piacere che Zoe abbia il suo nome, anche se un po' storpiato.»
«Ne sarebbe felicissima, tesoro.» Le sue labbra si posarono sulle mie, dolcemente, e sapevo che era un bacio di conforto.
«Spero che continui a guardarci da lì, soprattutto che protegga Zoey...»
Bella mi carezzò la guancia. «Lo farà, lo aveva promesso.»


È passato un altro giorno, e ancora non ci sono notizie.
Ormai attendevo solo di ricevere risposte, un segno, qualunque cosa. Mi sentivo strano, quasi estraniato dal mondo. Improvvisamente, neanche Zoe riusciva a rendermi spensierato e cancellare dalla mia mente ogni traccia di preoccupazione.
«Ehi, Edward, stai bene?»
Bella mi posò una mano sulla spalla. Aveva in braccio Zoey, che continuava a piangere ininterrottamente ormai da un'ora.
Annuii e lasciai che si sedesse. I suoi occhi erano contornati da occhiaie livide, i capelli erano arruffati e aveva l'aria di uno zombie.
«Vuoi darla un po' a me?», chiesi e fece segno di no. «Non si calma in nessun modo... Ho provato a cantarle qualcosa, farle ascoltare la musica, farle i massaggi alla pancia... Nulla, non funziona nulla!»
«Magari ha solo fame...», mormorai e mi lanciò un'occhiataccia. «Ha mangiato solo un'ora fa! »
«Cosa vuol dire? Ha due giorni, quanta fame vuoi che abbia?»
Sospirò. «Ti prego...»
«Riattaccala, vedi se ho ragione!», sbuffai e attaccò Zoe al seno. Secondo i miei presupposti, quella bambina aveva fame, e anche molta.
«Mi prosciugherà, ne sono certa.», borbottò costernata e mi avvicinai a loro. Quella scena ormai si presentava davanti a noi ogni tre ore da due giorni, eppure, nonostante fosse normalissima, continuavo a perdermi davanti a mia figlia e a mia moglie.
«Mi fa male tutto. E meno male che le infermiere avevano detto:”Vada a casa e si riposi!”. E certo, con una figlia che non fa altro che mangiare è facile.»
Risi e Bella mi dette uno scappellotto sulla nuca. «Zitto tu, non ridere.»
«Rido perché penso che se qualcuno entrasse adesso, ci prenderebbe per pazzi.»
«Già, è... Dorme!»
Quella frase le uscì in un sussurro e quando abbassai lo sguardo mi accorsi che la bambina aveva chiuso gli occhietti e aveva lasciato andare il seno di Bella.
«Prima ha fatto a mo' di ventosa.», mugugnò e lentamente infilò un dito nella boccuccia di Zoe, che prese a succhiare la pelle della madre.
«Tienila un pochino tu. Mi è sembrato di sentire il postino.»
Accolsi Zoe ben volentieri e mi persi nell'ascoltare il suo respiro regolare contro il mio petto. Passava dalle urla di totale disperazione al silenzio... Incredibile.
«C'è qualcosa per te.»
Alzai lo sguardo verso Bella, che fissava interrogativa la busta bianca. Già sapevo, e il mio cuore cominciò a correre come mai prima.
«Aprila.», sussurrai e lasciai che si appoggiasse sulla mia spalla.
«Viene dall'esercito.» La sua voce si ruppe, temendo già il peggio.
«Cosa dice?» Cominciò a leggerla velocemente, corrugando sempre di la fronte.
«Allora?»
Il suo sguardo si posò sul mio. «Cosa diavolo è?»
Le tolsi di mano il foglio, e subito capii. «Quello che c'è scritto.»
Mi guardò ancora una volta e i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Vuol dire... Vuol dire...»
Posai Zoe nella carrozzina, aspettandomi che Bella mi saltasse fra le braccia. «Vuol dire che sono in congedo a tempo indeterminato.»
Intese alla perfezione le mie parole e si lasciò andare in un pianto liberatorio. Ben preso la mia maglia fu inzuppata ma poco mi importava: ora Bella sapeva, e io ero felice, leggero.
«Cosa vuol dire?»
Le presi il volto fra le mani, con un sorriso per metà di felicità e per l'altra... Non sapevo neanche come definire quel sentimento così strano.
«Vuol dire che rimarrò, rimarrò qui, con te, con Zoe, con voi.»
Le sue labbra ritrovarono le mie e tutto si scatenò dentro di esso.
Felicità, amore, sollievo, liberazione, rabbia, rassegnazione... Centinaia di emozioni contrastanti, che avevano preso posto nelle nostre anime per troppo tempo.
«La vedrò crescere, sorriderci, fare le prime pappe, i denti spuntare, gattonare, parlottare, camminare... Tutto, questa volta non mi perderò nulla. Starò qui per sempre.»
«Sul serio?»
Annuii, accarezzandole i capelli. «Per sempre, amore mio. Questa volta è una promessa.»
E, da buon gentiluomo che ero, quella volta l'avrei mantenuta. Non le avrei mai abbandonate.
Sul mio viso nacque un sorriso che trapelava tutta la verità di quelle parole.
Eravamo una famiglia: io, Bella, Zoe...
Ero un soldato, ma prima di tutto ero un uomo, un marito, un padre. Eravamo solo noi: fatti per amarci, per rimanere uniti.
«Per sempre.», ripeté Bella, sulle mie labbra. E in quel momento, dentro di me, di noi, nacque una consapevolezza.
Ora avremmo vissuto sapendo che non ci saremmo mai più divisi.
Il “Per sempre”, adesso, era stato marchiato, divenne incancellabile, e dopo tanto tempo, poté essere considerato tale.

Angolino tutto mio :3        
È strano, lo ammetto. Non ho mai scritto un epilogo in vita mia, questa è stata la mia prima volta e... sono leggera, sono felice.
È una sensazione stramba, davvero. Ogni giorno dicevo: oggi posto l'epilogo!, eppure mi mancava sempre la forza per cliccare quel tasto "la tua storia è completa?", per dire addio...
Ma so che tanto non ha senso rimandare, prima o poi avrei dovuto farlo, perciò eccomi qui.
Come dicevo, è strano, per me, scrivere dei ringraziamenti, e aver completato una storia per la prima volta. Ho passato giorni a chiedermi se quello che faccio è buono, serva a qualcosa o se fa emozionare qualcuno... Ancora adesso, mentre scrivo, me lo sto chiedendo.
In qualche modo, con questa storia, ho voluto farvi provare quello che provavo io, quello che centinaia di famiglie, là fuori, sono costrette a sentire, perché qualcuno di caro si è allontanato per amore della Patria, e proprio come questi Edward e Bella non smettono di amarsi anche se li dividono migliaia di chilometri.
Ho amato, ho pianto, mi sono arrabbiata, ho pensato di mollare tutto, scrivendo Be Still, però mi sono ripresa, ho capito che non dovevo essere così, perché a voi, a quanto mi è parso - correggetemi, in caso contrario, è piaciuta.
Se è così, ditemelo e sappiate che mi farete piangere come mai prima!
Però penso che siano dovuti dei ringraziamenti, perché senza alcune persone, ora non sarei qui.
Innanzitutto, voglio dire un immenso grazie alla mia Sanya, la mia dolce e tenera Sanya. Tesoro, tu sai perché ho scritto Be Still, sei stata una delle prime persone a venire a conoscenza del progetto, e sai quanto ci tenevo a portarla a termine. So che per te è difficile leggere questa storia, e non so neanche se passeranno mesi prima che tu arrivi qui, ma non importa. Voglio dirti grazie perché tu mi hai ispirata, tu mi hai dettato inconsciamente tutte le vicende di Edward e Bella di questa fanfiction, tu mi hai fatto vivere emozioni mai provate prima. Metà del merito e dei complimenti spettano a te, tesoro. Ti voglio bene.
A seguire, Simona, Bianca, Lulu, Jess, Aurora e Camilla. Ragazze, grazie a voi sono arrivata qui, perché mi avete incoraggiata a non mollare, a non cancellare tutto solo per un mio dispetto; avete passato ore a ripetermi quanto ci tenevate a Be Still, a quanto vi eravate emozionate e perciò non c'era motivo per mandare all'aria tutto. Voi mi avete sostenuta moralmente per tutto questo tempo, e so che ancora lo farete... O meglio, lo spero! HAHAHAAH. Voi mi dite sempre che quello che faccio è importante e se ho bisogno di scrivere, lo devo fare, non devo fermarmi, non devo lasciare che sia qualcuno a dettarmi le mie scelte. Voi siete le mie muse, siete le mie ispiratrici: parlo con voi, e io so che qualunque cosa scriva, è merito vostro, perché con il vostro amore nei miei confronti, mi date il coraggio di tirare avanti e di tirarmi sempre su, qualunque cosa accada. Vi voglio bene, lo sapete perfettamente.
Ad Ania, che legge assiduamente tutto ciò che scrivo, sebbene non ami moltissimo questo pairing AHAHAHAH ti voglio bene tesoro.
A Mary Fely, perché con lei ho sclerato ore HAHAAHAH grazie tesoro, ti voglio tanto bene.
Alle mie compagne di classe Martina, Erica, Lucrezia e alle altre perché, nonostante mi vergogni da fare schifo, mi seguono e mi dicono sempre che sono brava e non devo mollare mai... Sappiate che mi vergogno tutt'ora! AHAHAHA vi voglio bene :)
A tutti voi altri che avete letto Be Still e magari vi siete emozionati davanti a un monitor - lo spero, e che mi avete seguito fin qui. Vi sono debitrice, e anche se non vi conosco, sappiate che tengo a voi veramente tanto, siete la mai certezza per andare avanti :)
E ovviamente un GRAZIE enorme per avermi seguita nonostante le avversità, anche se i miei aggiornamenti arrivano a ogni morte di papa LOL
Nulla... Non so che dire, in realtà sto piangendo...
Proprio ieri, 7 febbraio, sono passati 3 anni da quando cliccai il tasto "Registrati" qui, su EFP... E quale modo migliore se non completare, dopo così tanto tempo, la mia prima storia?
Ovviamente, aspetto le vostre recensioni, anche di chi non si è mai fatto sentire: sarebbe importante per me perché mi fa capire che il mio non è tempo sprecare e non sono parole al vento.
Detto questo, mi ritiro. Grazie, di tutto, di cuore, dal profondo della mia anima. Mi fate sentire bene, voi.
Un bacio enorme,
Giulia.

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