whiteRblood

di inbadlounds
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Everything is so white. ***
Capitolo 2: *** II. His name is... ***
Capitolo 3: *** The most wonderful day of the year ***
Capitolo 4: *** IV. You are not alone. ***



Capitolo 1
*** I. Everything is so white. ***


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Autrice: R i n
Fandom: Glee
Titolo: WhiteRblood
Personaggi: baby!Kurt, baby!Blaine.
Avvertimenti:AU, OOC, Angst, Fluff.
Raiting: Arancione
Note: A fine capitolo. Leggetele, sono importanti.
 
 
 

 
"I bambini non dovrebbero mai dormire.
La mattina seguente si risvegliano
più vecchi di un giorno e
senza che nemmeno te ne accorgi,
sono cresciuti...!"
- Neverland, un sogno per la vita.

 

WhiteRblood _

 
 

Capitolo I. Everything is so white.

 
 
 
Blaine era un bambino di sette anni e odiava molte cose. Tra le tante cose, Blaine odiava il bianco. Rappresentava l’assenza, il vuoto; era trasparente.
Se c’era una cosa che disprezzava di più - ed è difficile da crederci, credetemi - quelle erano le nuvole. Ogni bambino ama le nuvole e si diverte a creare forme di strane creature leggendarie o di oggetti che sicuramente esisteranno da qualche parte; ma Blaine, purtroppo, odiava tanto le nuvole. Per lui rappresentavano l’illusione.
Subito dopo, (nella lista che teneva nel terzo cassetto del comodino, sotto il cioccolato fondente che una volta le aveva regalato un’infermiera) c’era la neve.
Blaine l’amava e al contempo l’odiava. Lo faceva perché appena scendeva dal cielo era soffice, morbida, candida e viveva, poi, appena toccava il suolo, veniva consumata dall’asfalto, sbiadita e sporcata e dopo qualche tempo diventava dura, fredda e morta.
Infine Blaine odiava le mura degli ospedali perché, ogni volta che finiva in quell’odioso edificio, le trovava continuamente immacolate. Non c’era stata una volta – una sola, dannata, volta – che quelle pareti fossero state schizzate di rosso o di qualsiasi altro colore. Erano intoccabili. Il piccolo, fondamentalmente, le detestava perché erano bianche, fredde e candide e nessuna cosa era l’insieme di due opposti.
 
Qualche giorno prima stava giocando con Cooper a palle di neve: mentre altra neve cadeva dal cielo e mentre correva per nascondersi dal fratello, era scivolato da una piccola altura e, cadendo, si era procurato un dolore alla gamba e una grossa ferita alla testa.
Gli avevano raccontato che aveva vinto, quel giorno, perché il suo sangue aveva macchiato il bianco e ora non doveva più preoccuparsi. Lui aveva vinto, poi aveva perso i sensi.
 
In seguito si era svegliato in una stanza dell’ospedale dalle pareti odiosamente bianche, con la testa fasciata di bianco e un flebo al braccio.
Tutto, in quella stanza - notò Blaine - era di colore bianco, persino le tende, gli armadi e la distesa di neve, che s’intravedeva dalla finestra. Case, alberi, parchi, macchine ricoperte interamente di bianco.
Sbuffando, distolse lo sguardo da tutto quel bianco e aguzzò la vista alla ricerca di un qualche colore, di qualsiasi tonalità, finché l’occhio cadde sul comodino, dove c’erano la borsa rossa di sua madre e il telefono nero di Cooper, in netto contrasto con la stanza. Di loro, però, non c’era nessuna traccia.
Blaine si sentiva soffocare in quella camera, era come essere intrappolati in una grossa tela, tessuta da mille fili invisibili e non c’era nessuna, nessunissima via di fuga.
«Mamma? Cooper?» Chiamò il piccolo, tentando di farsi sentire al di là dalla porta. La testa gli faceva male, così tanto male che la vista gli si annebbiava e non distingueva più i colori. Per un attimo gli mancò il bianco.
Entrò un’infermiera, anche lei vestita di bianco, che per prima cosa lo visitò e poi gli comunicò che la madre e il fratello erano a parlare con il suo dottore. Il piccolo ascoltò molto attentamente quella signora dal sorriso gentile finché non le domandò, con una certa impazienza, se poteva uscire a far un giro.
«Non è permesso ai bambini di girare per l’ospedale» gli rispose la signora e, vedendo la smorfia del piccolo, aggiunse: «però ti posso portare nella sala giochi, dove potrai giocare con gli altri bambini».
A quella notizia il piccolo s’illuminò e con l’aiuto della gentile signora si avviarono presso la sala giochi.
Quando arrivarono Blaine notò che il reparto “Neverland” – chiamato in quel modo dalla Dottoressa Sorriso, così aveva deciso di chiamarla Blaine – era tutto tinteggiato di vari colori.
Il bianco, in quel posto, non esisteva.
C’erano pareti blu, viola, gialle, verdi e tanti, tantissimi disegni.
Il riccio si guardò attorno attentamente e mentre l’infermiera lo spingeva dentro la sala giochi, esclamò eccitato «Wow, forte ‘sto posto!».
Quando la Dottoressa Sorriso lo presentò agli altri bambini – chi sulla sedia a rotelle, chi con il braccio ingessato, chi, come lui, fasciato alla testa – tra tanti occhi curiosi e ammalati, solo due sfere di cielo colato riuscirono a incantarlo.
Erano così azzurri che per un attimo scordò la sua ossessione per quel posto. Lo odiava ma, con quegli occhi color del cielo, forse, forse avrebbe potuto odiarlo un po’ meno.
Blaine, più tardi, non sarebbe riuscito a definire il colore di quegli occhi .
Erano mare, cielo e sogni. Erano fanciullezza e dolore. Erano amore e dolcezza.
Che sciocchezza, avrebbe pensato, una persona normale li definirebbe solo azzurri.
Il contatto resistette un attimo, giusto il fruscio d’un battito di ali di farfalla, mentre il cielo e la terra si mescolavano in un vortice di emozioni e poi, come succedeva nelle fiabe, l’incanto si spezzò e rimase solo il vuoto. Ancora una volta il bianco.
Il bambino dagli occhi cielo sparì inghiottito dalle bianche vesti delle infermiere che lo portarono lontano, troppo lontano da Blaine, che rimase lì, intontito e strano, a fissar un punto ormai vuoto nella speranza che quel curioso bambino senza nome tornasse a riempire di colore la sua vita.
Il riccio restò seduto attorno al tavolo, circondato da altri bambini, a colorare, tagliare, dipingere quegli stupidi fogli bianchi.
Di tanto in tanto, al cigolio di una porta o ai rumori di passi leggeri, i suoi occhi cercavano l’infinito e non lo trovavano mai.
Ma si sa, i sogni son desideri, che restano chiusi in fondo al cuor. 1
 

*

 
Più passava il tempo, più Blaine si sentiva vuoto senza quel bambino - anche se non riusciva a spiegarne il motivo.
Era cosi e basta.
Voleva incontrare quegli occhi, voleva guardarli, leggerli e fotografarli nella sua mente e scoprire altre sfumature che vi erano racchiuse; perché Blaine, di quello, ne era sicuro: non si trattava di  semplice azzurro.
Blaine, impegnato in quel turbine di se e ma e,però, parve non rendersi subito conto della macchia di rosso che colorò il suo inquietante foglio bianco.
Furono le urla degli altri bambini a destar dalla trance il piccolo Blaine che, alla vista del sangue, impallidì.
Solo allora si accorse che tutto quel bianco cercava di dirgli qualcosa, ma cosa, ancora Blaine non lo sapeva. Non poteva saperlo; eppure, quando la Dottoressa Sorriso gli fasciò il dito con una garza bianca, Blaine, di nuovo, si convinse che, sì, il bianco gli stava davvero suggerendo qualcosa.
Il piccolo fissò il dito così intensamente che – ad un certo punto – se lo avvicinò alla bocca e gli sussurrò : «Cosa stai cercando di dirmi?» Non ottenne alcuna risposta.
 
Eppure doveva esserci una risposta. Blaine sapeva fosse così.
 
Qualche tempo dopo, mentre Blaine giocava con gli altri bambini, la Dottoressa Sorriso lo chiamò e lo riaccompagnò nella sua stanza, dove, ad attenderlo, c’erano il Dottore, la mamma e Cooper.
A quella vista Blaine si lanciò in una piccola corsa verso di loro ed era troppo eccitato dalla loro visita, tanto da non notare, al momento, gli occhi arrossati della madre e il sorriso fin troppo stirato del fratello. Tuttavia la corsa fu interrotta dal Dottore che si parò davanti al piccolo e con voce gentile lo salutò, allungandogli la mano per poterla stringerla e Blaine capì – non era un bambino stupido, lui – che qualcosa non andava.
Aveva notato che, nei film, quando appariva il Dottore con il camice bianco c’era sempre qualche piccola sventura in giro. La sua è bianca e gli fa tanta paura.
Blaine cercò con lo sguardo la madre mentre il medico lo poggiava sul letto e gli controllava la ferita alla testa.
 «Perché piangi, mamma?»
La giovane donna guardò il suo bambino, con quegli adorabili ricci e quegli occhi color nocciola sfumati di verde, così simili a quelli di suo padre. Dopo tutte quelle brutte notizie non riuscì più a trattenere il suo pianto, e pianse lacrime di dolore, pianse lacrime di rassegnazione, perché non c’era più niente da fare, e pianse, pianse ancora, sotto lo sguardo allibito di Blaine.
 
Se c’era una cosa che Blaine odiava con tutto il cuore era vedere le persone piangere, soprattutto se una di queste era la sua mamma. Gli si stringeva il cuore e Blaine era sicuro, molto sicuro: quel bianco gli portava davvero sfortuna.
«Blaine, ascolta attentamente ciò che sto per dire» gli disse la madre mentre il piccolo annuì.
La donna iniziò il suo racconto e il piccolo non perdeva una sola parola di ciò che diceva, anche se di tanto in tanto corrugava la fronte, oppure poggiava la mano sul mento con fare pensieroso, perché, nonostante fosse un bambino sveglio, certe cose ancora gli sfuggivano. Spesso gli parlavano con il linguaggio dei grandi e Blaine non coglieva il vero significato delle parole.
Alla fine del racconto Blaine aveva ancora le idee un po’ confuse, ma quello, a sua madre e Cooper, non lo diede a vedere. Poi sua madre pronunciò una parola e proprio quella parola, per un motivo e l’altro, era rimasta impressa nella sua mente. Fu come viaggiare nel tempo e ritrovarsi in un pomeriggio di novembre di qualche anno prima, nel salotto di casa sua, mentre suo padre pronunciava la stessa parola. Blaine gli chiese cosa significasse, ma il padre fu analogamente ambiguo.
 
«Un giorno sconfiggerai il bianco, Blaine».
 
Forse era per questo motivo che Blaine odiava così tanto il bianco.
Non riusciva a prevalere su di esso, nonostante nel suo armadio avesse soltanto le magliette più colorate del mondo: ma si sa che, quando la volpe non arriva all’uva, va dicendo in giro che è acerba.
Blaine non era un bambino stupido, anzi, era piuttosto sveglio e potete immaginare come la sua mente lavorava frenetica, montando tassello per tassello e trovando una soluzione a quell’enigma troppo complicato per la sua età.
E i tasselli, nella sua testa, si montarono. Quello che Blaine capì fu peggio di una doccia fredda quando fuori c’era la neve e la mamma si dimenticava di accendere i riscaldamenti. O forse era ancora peggio. Fatto sta che a Blaine quasi gelò il cuore.
 
Bianco e Rosso, Vita e Morte.
 
«Oh» esclamò il piccolo quando finalmente capì. Capì che – effettivamente – il bianco gli aveva mandato un segnale.
Come al solito la dura verità – maleducata e rossa –, entra in casa tua senza bussare, così, come se fosse normale infastidire l’anima di un bambino e buttare ai quattro venti tutti i suoi sogni.
Blaine era un sacco arrabbiato, sua madre piangeva ancora e Cooper era tristissimo. Per la prima volta odiò se stesso per non aver capito prima.
 
 
Blaine aveva sette anni e non era un bambino stupido. Era sicuro che la sua malattia – una buona camomilla, la sua copertina preferita e una buona storia – sarebbe passata così com’era venuta. La mamma avrebbe smesso di piangere e lui avrebbe corso con Cooper e giocato ancora con il bambino dagli occhi azzurri. Ma la realtà era che no, non sarebbe guarito così in fretta, e forse nel frattempo avrebbe imparato ad amare un po’ più il bianco. Dopotutto il rosso non è poi un così gran bello colore; non siete d’accordo?
Blaine aveva sette anni e odiava, più di ogni altra cosa, l’ospedale. Tentò di sorridere ma la curiosità lo uccideva, allora domandò a Cooper se quella cosa, l’emofilia, fosse davvero una brutta malattia. 
Con un battito di ciglia, un sussurro appena percettibile, Cooper gli rispose, che sì, lo era; ma ciò che colpì il piccolo, talmente tanto da rendere reale la questione fu che – a detta di Cooper - era la stessa malattia che aveva ucciso il suo papà.
Di suo padre, Blaine possedeva pochi ricordi, aveva quattro anni quando lo aveva abbandonato, li aveva abbandonati, lasciandoli soli. Il più delle volte lo ricordava come un uomo dal volto scuro ma dalla voce potente e severa. Ogni volta che Blaine tentava di dar un suo volto a quella voce, non ci riusciva: doveva sempre ricorrere alle varie fotografie, nascoste nei meandri degli album fotografici di casa Anderson.
Rammentava, però, che avevano gli stessi occhi e che forse, entrambi, odiavano il bianco… e il rosso.
Purtroppo il bambino non godeva di ricordi, di per sé, belli o tristi. Erano ricordi vuoti, memorie bianche, delle immagini nebulose. Un semplice soffio di vento e poi, puff, sparivano.
La sua voce, invece, quella restava: potente, autoritaria eppur così solitaria, triste e rotta, come se morta.
 
«Un giorno sconfiggerai il bianco, Blaine» .
 
Poi Blaine aveva capito. Suo padre era stato sconfitto dal bianco, era stato ucciso da un colore che nemmeno gli piaceva – e forse era stato per quello, pensò.
Blaine si chiese come fosse possibile che suo padre non avesse combattuto, dopotutto lui era un duro  e si sa che i duri non falliscono mai.
Blaine era un duro e avrebbe stretto i denti e combattuto quella brutta malattia. Lui non la voleva e se suo padre non ce l’aveva fatta, lui avrebbe rivendicato il tempo rubatogli per conoscerlo e amarlo.
 
 
Quando sua madre e Cooper lasciarono l’ospedale era già sera inoltrata e Blaine fu portato nella grande sala, dove, assieme agli altri bambini, gli fu servita la cena.
D’impulso alzò gli occhi e cercò, tra vari e innumerevoli sguardi per trovare quelli color del cielo, senza trovarli.
Con un sospiro di rassegnazione il piccolo prese il vassoio che gli fu consegnato e iniziò a mangiucchiare, mentre pensava agli angeli e alla morte (a cui era andato vicino tanto così) e ricordò quello che gli aveva detto Cooper.
«Gli angeli non esistono, sciocco, smettila di frignare.»
Il piccolo tentò di scacciar via quelle brutte parole con un flebile gesto della mano, mentre tentava di trattenere a stento le lacrime e cercando di svagar la mente, iniziò a mangiare il suo pasto. Dopo qualche minuto – che per Blaine rappresentava un’eternità, tanto era afflitto – una voce cristallina giunse alle sue orecchie e catturò tutta la sua attenzione.
Alzò gli occhi e lo vide. Era un po’ lontano ma non ebbe dubbi.
L’angelo senza nome guardava nella sua direzione, senza vederlo realmente. Parlava con la sua Dottoressa Sorriso, notò Blaine, e quando quest’ultimo cercò di spostarsi per aver una visuale migliore, accadde di nuovo.
I loro sguardi s’incrociarono e l’incanto ritornò, eppure Blaine notò che, quella volta, il suo sguardo era scuro, spento, così privo di luce da sembrare morto. Gli occhi azzurri cielo, così sfumati da sembrare cristallini, erano quasi neri. A Blaine apparve stanco, troppo spossato, simile a una fiammella ormai consumata. Voleva alzarsi, andargli incontro e abbracciarlo, raccontargli una barzelletta e cercare di farlo sorridere. A Blaine non piacevano i bambini tristi.
Neppure il tempo di pensarlo che il bambino fu travolto dal bianco, portato via dall’infermiera e come era successo la prima volta, l’incanto si spezzò di nuovo.
Per quel giorno Blaine non vide più il bambino del cielo.
Il piccolo, scoraggiato, finì il suo pasto e chiese alla Dottoressa Sorriso il permesso di tornare in camera.
 
Sentiva una strana sensazione attorno al petto che non riusciva proprio a spiegare, era fastidioso perché faceva un po’ male, giusto quel poco da riuscirlo a sopportare. Arrivò nella sua stanza e vide la luna elevata nel cielo, splendente come non mai. Il piccolo, dentro le mura dell’ospedale, confinato nel suo letto, si girò e rigirò ancora, mentre tentava di prendere sonno.
Il sonno arrivò e trascinò Blaine nei più profondi meandri dell’oblio, tempestato da piccoli incubi che disturbavano il sonno. Inconsciamente strinse il suo peluche e, come per magia, gli occhi del bambino del cielo invasero i suoi incubi, quietandoli.
 
 
 
 

Note:
 
1: famosa strofa della canzone “I sogni son desideri” di Cenerentola.



 


 
N/A :

Buondì, i’m back!
La storia è in corso.
Seguendo – e sperando di rispettare – il progetto originale, sarà composta da dieci capitoli più un finale alternativo.
Un totale di  undici capitoli.
Questa storia è nata per un esperimento, il Flangst, ossia Fluff + Angst e devo dire che mi sta uscendo davvero, davvero, davvero, bene ed ecco spiegato il perché del rating arancione.
Ora, torniamo un attimo alla storia.
Ci sono due punti importanti.
Il primo è, come avete letto, che Blaine è emofiliaco e resterà in quell’odioso edificio bianco.
Eccovi definizione di Emofilia.
Non mi addentro nei meandri di questa malattia e la tratterò molto superficialmente, quindi perdonatemi se sbaglierò qualcosa, risulterò “insensibile” o quello che vi pare, non è voluto.
Il secondo è il titolo. WhiteRblood.
Una persona, leggendo in anteprima questo capitolo, ha già capito cos’ha il bambino dagli occhi del cielo (vi invito ad indovinare chi è!) e avendo capito questo, ha capito il significato di questo titolo.
Il che mi ha lasciato molto sorpresa. E voi, indovinereste?

Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto e aspetto le vostre recensioni, quindi recensite!
Davvero, fatelo, perché non solo mi rendete felice, rendere felice anche il piccolo Blaine (e tutti voglio fare felici il piccolo Blaine, vero?), per cui, siamo troppo curiosi di sapere i vostri pensieri.
 
Un ultima cosa: gli aggiornamenti.
Credo che aggiornerò ogni quindici giorni, o giù di li.
Una volta che avrò concluso la storia, si vedrà.
Quindi, il prossimo capitolo lo avrete tra la settimana di Natale e Capodanno.

 
Se avete dubbi, domande, curiosità o per sapere quando aggiorno
potete trovarmi alla mia pagina facebook Rin(marshmallown).

 
A presto,
Rin.

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Capitolo 2
*** II. His name is... ***


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2

Autrice: R i n

Titolo: WhiteRblood

Avvertimenti: AU, OOC [essendo, i protagonisti, dei bambini], Angst, Fluff.

Raiting: Arancione

Note: A fine capitolo. Leggetele, sono importanti.

 

 

 

WhiteRblood _

 

 

Capitolo II: His name is…

 

 

 

Quella mattina Blaine fu svegliato dal tintinnio di campanellini, mentre una flebile luce faceva capolino nella sua stanza.

La neve aveva smesso di scendere dal cielo, lasciando comunque un delizioso strato sul terreno, e ora Blaine riusciva a scorgere benissimo cosa accadeva nel grande cortile che circondava l’edificio.

Bambini e infermiere insieme - oh, notò Blaine, se erano felici! Parevano così vivi - addobbavano un enorme pino verde e rigoglioso.

Blaine sentì l’allegria riempirgli le vene e desiderò correre giù più in fretta possibile e partecipare alla decorazione nell’albero – amava il Natale: era sempre stata la sua festa preferita - e per nulla al mondo si sarebbe privato di tale gioia. Ospedale o no.

Si vestì frettolosamente – poté giurare di aver indossato la maglietta al contrario – e corse nel corridoio. Un’infermiera, però, lo spedì dritto dritto in mensa a fare colazione.

Blaine, per la prima volta dopo tanto tempo, si accorse che quell’edificio pullulava di bambini: solo ed esclusivamente piccole anime ingenue e indifese.

Tutti – dal piccolo George che piangeva da mattina a sera e teneva le manine ferme con del nastro ad Anita che, invece, non aveva neppure un capello - erano accomunati da una sola cosa: uno sguardo spento e malato. Quasi morto.

La cosa turbò parecchio il bambino che, per evitare ogni dubbio, chiese all’infermiera se quel posto fosse un ospedale. La donna rispose che «Sì» e sorrise «ma è un ospedale un po’ particolare. E’ una clinica, piccolo Blaine».

 

Una clinica pensò Blaine. Una clinica bianca. Blaine odiava il bianco, eppure in quel posto così bianco aveva conosciuto un nuovo colore e forse, grazie agli occhi cielo - mare, avrebbe odiato un po’ meno quel posto. Giusto un po’, si ripromise.

Arrivarono in mensa che Blaine ancora pensava a quell’inaspettato bambino dagli occhi color cielo. Forse fu il destino – perché Blaine cominciava a crederci davvero, nel destino –, ma in fondo alla stanza, tra le teste basse e affrante di molti bambini, gli occhi del piccolo si posarono dritti su una sagoma china. A pochi passi da lui, si accorse che era proprio il suo amico “occhi del cielo”.

Il riccio rimase a fissarlo, sorridendo appena per evitare di spaventarlo – era bravo a sorridere, Blaine, aveva un sorriso così radioso – e notò che l’amico, visto così da vicino, somigliava davvero ad un piccolo angelo: uno di quelli che la mamma usava per tappezzare ogni angolo della casa. Angeli in cera, angeli in ceramica, angeli in terra cotta, angeli in plastica. Blaine ce l’aveva lì, a pochi passi, in carne ed ossa. Sorrise ancora.

Aveva una pelle chiara, occhi azzurri circondati da lunghe ciglia, una zazzera castana e un adorabile nasino all’insù. Sembrava una bambola di porcellana, come se fosse stato scolpito e poggiato lì, in quel posto, a dare luce quando la si era persa.

Blaine notò che era perso in chissà quale pensiero, perché i suoi occhi, un po’ più vivaci dal loro primo incontro, erano assorti. Sembrava fissasse il vuoto e nemmeno la presenza di Blaine sembrava destarlo dalla sua trance.

 

«Ciao».

Il bambino dagli occhi cielo sussultò e si voltò verso Blaine che lo guardava impacciato, mentre tentava un sorriso. Con lo sguardo puntato addosso, il bambino gli rispose un flebile «Ciao» e dopo averlo guardato a sufficienza, si apprestò a finire la propria colazione. Qualche minuto dopo, però, Blaine gli rivolse di nuovo la parola.

«Posso sedermi accanto a te?»

Il bambino dagli occhi cielo rimase perplesso, dopotutto era la prima volta che qualcuno chiedeva la sua compagnia. Era sempre stato un bambino solitario e preferiva giocare per conto suo.

 

Quali fossero i pensieri del bambino dagli occhi cielo, Blaine non poteva saperlo e quando lo vide annuire, tirò un sospiro di sollievo.

«Tu come ti chiami?» chiese il riccio, mentre l’infermiera gli serviva la colazione.
Blaine notò che il bambino impiegava un po’ prima di rispondere e si limitava, comunque, ad annuire con la testa o borbottare l’essenziale. Blaine si rattristò.

Nonostante ciò continuò a fissarlo, poiché il suo viso era come quello di un angelo, qualcosa che non ti stanchi mai di vedere. Proprio come il Natale.

 

«Kurt».

Era quello, dunque, il nome del bambino dagli occhi cielo.

Kurt.

Lo ripeté svariate volte, per sentire come suonasse sulle proprie labbra.

Le dischiudeva, poi batteva i denti sulla lingua e lasciava scivolare il nome nella gola.

Kurt.Kurt.Kurt.Kurt.

Era meravigliosamente perfetto.

Aveva appena trovato un amico con un nome perfetto.

Con quel dolce pensiero in testa Blaine terminò la sua colazione, di tanto in tanto lanciando piccole occhiate a Kurt che, avendo finito da un pezzo la sua colazione, stava con la mano appoggiata alla testa e gli occhi socchiusi mentre sospirava.

 

Nel farlo, notò Blaine, corrugava le sopracciglia, mostrandogli un’espressione sofferente.

Blaine rimase ad osservarlo mentre socchiudeva gli occhi e faceva leggeri sospiri. Era calato il silenzio, tra loro, e Blaine non riusciva a smettere di fissare Kurt.

Stava male ma non riusciva a capire cosa avesse… Era sicuro che non fosse un semplice mal di pancia, perché nemmeno lui stava male così.

Gli chiese se volesse andare a giocare nel cortile, magari aiutando la Dottoressa Sorriso a decorare l'albero, perché gli avrebbe fatto bene stare un po’ all’aria aperta. Glielo disse nella speranza che quel piccolo angelo si riprendesse e cominciasse a sorridere, perché Blaine ne era sicuro, doveva avere un bellissimo sorriso nascosto lì da qualche parte.

Kurt lo fissò, come faceva sempre prima di rispondere - un po’ come per misurare le parole, un po’ per cercare di capire cosa volesse da lui - e gli disse che no, sarebbe andato.

«La odio, la neve» gli disse, semplicemente.

 

Oh. La odi davvero?

 

«Anche io, la odio» rispose Blaine, ingenuamente. Sentì il cuore battere forte forte, come quando aveva lanciato una palla di neve talmente lontano da sentirsi il braccio intorpidito. Allora si era sdraiato sulla neve, col fiatone, e aveva sentito il cuore battere prepotentemente.

Eppure Kurt rimase a guardarlo, sospettoso. «Se la odi, perché ci vai?»

 

Quando Blaine rimase solo, sentì di aver paura di quel posto. Allora corse, girando a destra e poi ancora a destra e a sinistra, finché non arrivò dinanzi una grossa porta con una targhetta affissa. Era un gatto spaparanzato su un grosso cuscino, e citava: Kurt Hummel , 350.

Era la sua camera.

Blaine si sentì tanto felice. Apriva e chiudeva la bocca in continuazione, con il petto che si alzava affannosamente. Era talmente fantastico aver trovato la sua stanza, che poco gli importò che il bambino non gradisse tanto la sua compagnia.

Blaine faceva cambiare idea a tutti e ce l’avrebbe fatta anche con Kurt.La camera era tinteggiata di un azzurro chiaro, con degli schizzi arcobaleno su ogni parete. C’erano un lettino, un armadio e un comodino, su cui era appoggiato un libro delle favole. Dall’altra parte della stanza c’erano degli scaffali pieni di libri, cassette e peluche, ma quello che colpì di più Blaine furono i vari giochi, nell’angolo della stanza. Il bambino fece un passo in avanti, titubante all'idea di entrare in una camera senza aver chiesto il permesso, soprattutto visto che di Kurt non c’era nemmeno l’ombra.

Guardandosi un attimo attorno e vedendo che non c’era nessuno nel corridoio, Blaine entrò.

Dopotutto, non stava facendo nulla di male, pensò.

 

Gironzolò a destra e a sinistra, attratto da tutte quelle meraviglie che Blaine aveva sempre desiderato vedere, ogni giorno. Ricordò che sua madre, una volta, mentre dipingevano la cameretta, gli vietò di tingerla di rosa – era il suo colore preferito – e di disegnarci degli unicorni.

L’attenzione di Blaine, però, fu attirata da una teiera, con dei piattini e tazzine colorate. Era un bellissimo servizio da the.

 

Blaine aveva avuto poche e rare occasioni di vederne uno e ricordò quando, tre Natali prima, ne aveva chiesto una nella sua letterina. Ricordò anche che il giorno dopo, scartando il regalo, aveva chiesto a sua madre se per caso Babbo Natale l’avesse confuso con qualche bambino. Perché Blaine ne era sicuro, lui non aveva chiesto un modellino auto comandato.

Quando Blaine aveva chiesto a sua madre come mai non aveva ricevuto quello che aveva chiesto, la donna aveva risposto che ormai era grande per chiedere regali del genere e solo le bambine più piccole potevano. A sentire quella risposta il piccolo aveva fatto spallucce e prendendo il nuovo giocattolo era messo a giocare nella veranda.

La sua veranda si affacciava su quella del vicino e notò Blaine, anche la sua amica, Sally - un anno più grande di lui - era l), a giocare. Aveva ricevuto un servizio da the - Blaine provò molta invidia - ed era circondata da peluche, tutti seduti assieme ad un tavolo.

Quel giorno Blaine scoprì quanto l'invidia potesse essere dolorosa (e che anche le bugie facevano male, poiché sua madre gli aveva detto una grossa, grassa, bugia). Pianse di nascosto, in bagno, mentre cercava di far entrare dell’acqua nella sua stupida macchina.

Provò un'inspiegabile invidia di fronte a quel gioco che tanto desiderava e che, chissà per quale scherzo del destino, si trovava nella stanza di Kurt.

Non è giusto pensò il piccolo mentre, per la prima volta in vita sua, prendeva una tazza colorata e se la portava in bocca, facendo finta di sorseggiare il the, immaginandosi seduto assieme all'orso Bear e al coniglio Buggy a chiacchierare del tempo o del gran galà a Villa Orsini. Oh, quanto gli sarebbe piaciuto partecipare con loro a un meraviglioso party…

 

Blaine aveva appena versato dell’altro the e stava gesticolando mentre raccontava ai suoi amici immaginari quanto fosse tremendo l’odore dell’alcool e della plastica ospedaliera, quando la porta si aprì.

A fissarlo c’era Kurt, bianco come un fantasma.

«Vattene!» Era un sussurro, quello. Eppure Blaine l’aveva udito benissimo.

«Vattene!» Ripeté e a nulla servirono le scuse di Blaine mentre posava malamente la tazza.

L’ultima cosa che vide prima di chiudersi la porta alle spalle, fu Kurt che prendeva la tazza e la rimetteva a posto, con gli occhi bianchi e odiosi. Blaine non riconosceva più il suo amico occhi cielo.

Senza un motivo preciso, una volta che ebbe raggiunto la sua camera, Blaine cominciò a piangere.

 

Fu così che lo trovò, qualche ora più tardi, la Dottoressa Sorriso.

La dolce infermiera  si appoggiò ai piedi del letto e con una mano accarezzò il piccolo corpicino scosso dai singhiozzi.

«Perché piangi, piccolo mio?» Gli chiese, ma il piccolo di parlare non ne aveva proprio voglia, quindi si limitò a grugnire.

 

Si ricordò, improvvisamente, di quando sua madre lo aveva costretto a giocare con quello stupido bambino al parco. Aveva i capelli neri, neri, nerissimi, e si divertiva a gettare fango sulla sua maglietta preferita. Eppure sua madre continuava a costringerlo a restare lì («Perché ho da fare, sto parlando, smettila di frignare e vai a giocare subito con quel delizioso bambino. Non ti sembra delizioso, Carmela? Proprio un ottimo amico per il mio piccolo Blaine».)

Anche quella volta aveva grugnito, indispettito, e aveva imparato che i suoi denti sbattevano troppo violentemente e che la pancia gli faceva male tanto di più.

Con la Dottoressa Sorriso accanto, però, non aveva paura del dolore. Ogni volta che stava male, e poi guariva, la deliziosa infermiera portava al bambino una grossa ciotola di caramelle e cioccolato.

Fu così che, per un po’, Blaine dimenticò la sofferenza di Kurt, che stranamente sembrava essersi ripercossa su di lui, e si lasciò accarezzare dalla sua Signora Sorriso.

 

 

Era scuro fuori quando Blaine decise di parlare alla Dottoressa Sorriso, la quale, per tutto quel tempo, era rimasta accanto a lui, canticchiando un motivetto sconosciuto nella speranza che il piccolo si calmasse. Le disse del suo primo e unico amico, le disse della stanza, le disse dei giochi e di quel servizio da the. Le vomitò addosso, parola per parola, tirando su con il naso di tanto in tanto, strofinandosi gli occhi, ormai rossi dal lungo pianto, per non piangere di nuovo. Solo dopo, le disse la cosa che più lo ferì. Le raccontò di quel suo sguardo, così bianco e freddo – tanto che sembrava morto, e Blaine, per un momento, aveva avuto paura - da fargli gelare persino le ossa. Poi di nuovo, altre lacrime gli bagnarono il viso -  Blaine era sicuro che fossero finite, perché quel giorno aveva davvero pianto tanto tanto –mentre terminava il racconto, per poi accucciarsi sul grembo della Dottoressa Sorriso, vergognandosi di quello che aveva fatto.

Non aveva capito come, ma aveva perso il suo unico amico, forse per sempre. 

 

«A volte per sempre è solo un secondo1» rispose l’infermiera, sorridendogli docilmente.

Blaine la guardò confuso, domandandosi se la dolce infermiera avesse cominciato veramente a parlargli come i grandi, mentre questa gli asciugava gli occhi e gli posava un bacio sulla fronte, decise di raccontargli una storia.

 

«L’hai mai sentita la storia del “Camaleonte e la farfalla2, Blaine?» e il piccolo rispose di no, allora la Dottoressa Sorriso iniziò il suo racconto, mentre sistemava il bambino nel letto.

«Questa è la storia del camaleonte e la farfalla. La storia di due piccoli esseri che, per qualche strano scherzo del destino, si sono incontrati.»

E la dottoressa raccontò di come un triste e solitario camaleonte, costretto a mimetizzarsi con ciò che lo circondava, dopo una caduta dall’albero che ormai considerava la propria casa, cercava un modo di risalire sull’albero. Tuttavia era troppo intontito dalla caduta e, per poterlo fare, partì come un marinaio, via terra invece che via mare. Nel suo cammino, però, si imbatté in quella che poi si sarebbe rivelata la fortuna della sua vita. Una bellissima farfalla imprigionata in un rovo.

«La farfalla è Kurt, vero, Dottoressa?» la interruppe Blaine che, quieto e silenzioso, con occhi attenti, ascoltava la storia.

La dottoressa, invece, lo stupì, rispondendo che poteva benissimo essere lui, la farfalla.

Blaine la guardò confuso, domandandosi come fosse possibile, perché lui di certo non si sentiva una farfalla. Insomma, le farfalle sono bellissime e fragili e poi… volano.

«Che cos’ha fatto, dopo, il camaleonte alla farfalla?» chiese il piccolo, con occhi tanto grandi, quanta lo era la sua curiosità.

«L’ha salvata» gli rispose, semplicemente, la Dottoressa Sorriso.

 

Il piccolo si strofinò gli occhi – gesto che non sfuggì alla Dottoressa che gli intimò di andare a dormire – e, fra un mugugno e un altro, si infilò nel letto mentre la donna gli augurava la buonanotte.

 

«Buonanotte, Blaine» gli sussurrò all’orecchio e il piccolo si abbandonò a sogni confusi, fatti di giochi sbiaditi di luci e ombre, colori che si mischiavano tra loro creando illusioni, e due occhi chiari - quegli occhi – che lo fissavano da così vicino che Blaine pensò che lui fosse davvero lì. Forse era la luce che entrava dalla serranda semichiusa a dar questo effetto o forse, forse, era solo la fervida e stupida immaginazione di Blaine.

 

Quando Blaine venne svegliato dalla Dottoressa Sorriso – «perché è una bella giornata, Blaine! Oggi vai con gli altri bambini a finire di decorare l’albero!» – si chiese se quella notte, effettivamente, avesse dormito o fosse stato tutto un sogno.

Eppure, dando un ultimo sguardo alla sua camera, niente sembrava indicare la presenza di Kurt; sconsolato – e forse leggermente illuso – Blaine raggiunse, strisciando i piedi per terra e indossando una giacca sgualcita, con le maniche troppo grandi, gli altri bambini e andarono fuori.

 

Non si accorse, però, che un bambino con in mano il suo inseparabile o lama peluche, lo osservava dall’alto della sua camera.

 

 

 

1. Citazione tratto dal libro “Alice e il paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll.

2. Il “Camaleonte e la farfalla” è una raccolta illustrata che mi è stata dedicata da un mio carissimo amico. Il succo della storia è quella che viene raccontata nel capitolo, se volete potrei creare l’album sulla mia pagina Facebook , per una lettura. Segnalatemelo nella recensione! J

 

 

 

N/A:

 

Ed eccomi qui, come promesso!

Un altro capitoletto pieno di spiegazioni.
Finalmente appare Kurt, il bambino dagli occhi color del cielo.

Insomma, ora che anche Kurt si è presentato…dal prossimo inizia la “vera” storia.
Cosa succederà? A voi le idee!

PS. Per quanto riguarda la malattia di Kurt, non dico nulla ma continuate pure a indovinare. Se tutto va bene, avrete la verità ufficiale al quinto capitolo J

 

Ringrazio le 7 persone che mi hanno recensito, le ben 18 persone che hanno messa la storia tra le seguite, le 3 persone che l’hanno messa tra le preferite, le 2 persone che l’hanno messa tra le ricordate e le 194 persone che l’hanno semplicemente letta. Grazie, davvero di cuore.

Ci vediamo tra due settimane e nel frattempo colgo l’occasione per farvi tantissimi auguri di Buon Anno (quelli di Natale, erano già nel pacchetto :P)!

 

 

Se avete dubbi, domande, curiosità o per sapere quando aggiorno potete trovarmi alla mia pagina Facebook.

 

A presto,

Rin.

 

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Capitolo 3
*** The most wonderful day of the year ***


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Autrice: i n
Fandom: Glee
Titolo: WhiteRblood
Personaggi: baby!Kurt, baby!Blaine.
Avvertimenti:AU, OOC, Angst, Fluff.
Raiting: Arancione
Note: A fine capitolo. Leggetele, sono importanti.
 
 
 
 

WhiteRblood _

 
 

Capitolo III. The most wonderful day of the year .


Stava correndo, Blaine.
Sentiva i muscoli stirarsi e il respiro farsi pesante. Stava correndo in mezzo al nulla, dove tutto – notò il piccolo – era un ammasso di luci e ombre e sagome sbiadite.
Davanti a lui, una luce bianca.
Il bambino si ritrovò a cercare di rincorrerla, furiosamente, e nemmeno riusciva a spiegarsi il perché.
Lui odiava il bianco e odiava quella luce. Più cercava di prenderla, meno ci riusciva.
La odiava perché gli ricordava Kurt e le sue ultime parole.
Si lanciò nel vuoto, con una mano tesa verso la luce.
Dopodiché si svegliò di colpo.
 
Era solo un sogno, si ripeté più volte, ma nonostante tutto Blaine sentiva il suo cuore battere troppo forte e aveva ancora la mano tesa verso l’alto, dove a guardar bene, c’era il lampadario.
Con un piccolo grugnito e una smorfia, il bambino si rimboccò le coperte fino al naso e raggomitolatosi come un gatto, ritornò a sonnecchiare, continuando il sogno di prima.
Magari se penso che non odio il bianco, riuscirò finalmente a prendere quella stupida luce, pensò il piccolo, abbracciando il cuscino e chiudendo gli occhi per immergersi nel suo sogno.
Per sua sfortuna – o fortuna – l’arrivo della Dottoressa Sorriso interruppe il suo sonno.
 
La dolce Dottoressa, mentre lo aiutava a vestirsi, gli ricordò il programma del giorno.
 
«Come sai – iniziò la Dottoressa, con occhi brillanti e le guance tutte rosse – tra pochi giorni è Natale e qui siamo soliti a festeggiarlo con un bellissimo balletto, a cui assisteranno i vostri genitori. Quindi oggi passerai tutta la giornata assieme agli altri bambini, con la Dottoressa…» E qui Blaine si perse, perché la Dottoressa Sorriso pronunciò un nome strano e davvero difficile e Blaine lo dimenticò subito «…Che vi dirà cosa fare».
 
«Verranno la mia mamma e Coop?» chiese il piccolo, illuminandosi.
Blaine era felice, perché li avrebbe rivisti.
Solo allora realizzò quanto e come gli mancavano.
Da quando era arrivato in quella clinica – ed erano passate poche settimane, ma per Blaine era come se fosse passato molto di più – il suo unico pensiero era stato Kurt. Il bambino dagli occhi color del cielo.
Il piccolo si sentì veramente in colpa per aver trascurato la propria famiglia e decise di rimediare facendo un disegno, quella sera stessa, una volta tornato dalle prove.
 
Il pensiero di Kurt gli provocò una fitta di dolore all’altezza del petto e Blaine si chiese se anche lui ci sarebbe stato quel pomeriggio. Sentiva la sua mancanza e voleva davvero, davvero, tornare ad essere suo amico. Come, ancora non lo sapeva.
 
Dopodiché la Dottoressa lo spedì a far colazione e Blaine, quando arrivò una volta in sala mensa, dopo aver preso il suo vassoio, si sentì chiamare.
«Blaaaine! Blaiine! Siamo qui!» lo chiamò un bambino, che il piccolo riconobbe come Marc, il quattrodenti. Aveva solo quattro denti perché, come aveva detto un pomeriggio gli altri li aveva presi il topolino e “il topolino Lino ne ha più bisogno di me, Blaine, deve in qualche modo mangiare tutto quel formaggio!”.
Blaine, in tutta risposta, fece spallucce.
Raggiunse il tavolo dove c’erano Marc e gli altri bambini e subito si intromise nella conversazione. Stavano parlando del gioco dei Pirati.
«Anche io voglio fare il pirata!» Esclamò, entusiasta, il riccio, contrastando il vociare degli altri.
«Non puoi fare il pirata, Blaine, sei troppo basso1». Constatò Justin, il bambino con il braccio gessato, con una faccia seria che lo fece imbronciare.
«Allora farò il Capitano!» esclamò il piccolo, mettendosi una mano sull’occhio a mò di benda e alzandosi sulla sedia. «Ora sono alto, più di tutti! Quindi farò il Capitano!» affermò, incrociando le braccia attorno al petto.
«E va bene, per questa volta sarai tu, il Capitano» gli disse Justin.«Ma per la prossima volta, devi crescere» terminò, puntandogli un dito di avvertimento.
«Come posso crescere velocemente?» chiese Blaine, grattandosi la testa, pensieroso.
«Bevendo latte» gli sussurrò Marc. «Con me ha funzionato» continuò il quattrodenti, sporgendosi verso Blaine. «Sono cresciuto tanto così» e gli indicò la distanza tra il pollice e l’indice.
«Wow, allora bere il latte fa veramente crescere!» esclamò il piccolo, ma subito dopo gli venne un dubbio. «Marc, ma come hai fatto a capire che sei cresciuto tanto così?» domandò, curioso.
«Ho chiesto alla mia dottoressa di disegnarmi una riga sul muro, da terra fino all’alto e ogni giorno, quando mi alzo, mi spiccico sul muro e la dottoressa mi mette un segno dove sono cresciuto.»
Blaine rimase stupito da questa rivelazione e non vedeva l’ora di parlarne con la Dottoressa Sorriso e farlo anche lui. Così lo avrebbe mostrato anche a Cooper, che stava diventando grande.
«Però» lo raccomandò Marc, guardandolo negli occhi «devi ricordarti di bere tutte le sere il latte caldo, altrimenti non funziona!» concluse, strabuzzando gli occhi e sputacchiando dappertutto.
Blaine lo rassicurò con un sorriso.
 
Un’ora dopo Blaine e i suoi amici si trovavano, insieme ad altri bambini, nel salone con la Dottoressa Balbettante – perché, come gli sussurrò Marc, “ogni volta che si imbarazza, comincia a balbettare” – e iniziarono a scaldare la voce.
Dovevano cantare “The most wonderful day of the year”2 e fare una specie di balletto.
 
Diverse ore più tardi, Blaine non riusciva a credere a tutto quello che era successo, pensava fosse stato tutto un sogno eppure non era così.
Ha partecipato a quello che lui ha definito il secondo giorno più bello della sua vita.
Lo spettacolo di Natale.
Non riusciva ancora a crederci, perché tutto era accaduto così in fretta ed era tutto un miscuglio di rosso, verde e giallo. La cosa che lo aveva fatto divertire di più era stata travestirsi da tanti piccoli elfi, e per la prima volta Blaine aveva indossato delle orecchie a punta.
Non vedeva l’ora che arrivasse Natale, per mettere in mostra tutto quello che avevano fatto, davanti alle loro famiglie.
 
Era sera inoltrata quando Blaine si recò in camera per andare a dormire, dopo aver passato la serata a giocare con Marc e gli altri nella sala giochi, e quasi si dimenticò del latte.
Si picchiettò la fronte, dandosi dello schiocco – e meno male che Marc prima di andare via gliel’aveva ricordato! – e trotterellando ritornò in mensa e chiese alla cuoca un bicchiere di latte.
«Mi raccomando, Blaine! Fai attenzione!» Gli urlò la cuoca, mentre il piccolo era già sulla via del ritorno, con il bicchiere davanti a sé, attento a non farlo cadere.
 
Fu così che lo trovò Kurt, nel corridoio.
Stava svoltando l’angolo quando si imbatté in Blaine, con la lingua in mezzo alle labbra, l’espressione concentrata, gli occhi stretti a due fessure e puntati solo ed esclusivamente sul bicchiere.
Kurt si bloccò all’improvviso mentre Blaine sembrò non accorgersene e andò avanti nella sua direzione. Per fortuna Kurt fu più svelto e si spostò di lato, permettendo all'ignaro Blaine di continuare la sua camminata.
Kurt avrebbe voluto scusarsi con Blaine, sapeva di aver esagerato, ma non lo fece. Non ora. Scappò via, prima che Blaine potesse accorgersene ma svoltato l’angolo si fermò ad osservarlo attentamente, prima che questi sparisse dalla sua vista.
Blaine arrivò alla sua stanza, poggiò il bicchiere sul comò e tirò un sospiro di sollievo, mentre si asciugava qualche piccola goccia di sudore con la manica.
«Whoah, che impresa titanica!» Esclamò il piccolo a nessuno in particolare.
Soddisfatto dell’impresa, s’infilò il nuovo pigiama – gli era arrivato giusto quella mattina e si era dimenticato di aprirlo – e notò con un grugnito che era un altro pigiama di Cars.
Mugugnò, perché non sopportava quelle stupide macchine  – e sua madre continuava a non capirlo – e avrebbe preferito gli ometti gialli3 di Cattivissimo Me, piuttosto.
E poi, guardandolo meglio, non aveva nulla di speciale: era tutto bianco, con quelle stupidissime macchinine al centro.
Il piccolo Blaine sospirò rassegnato, perché è inutile, tanto la mamma non riuscirà mai a capirci niente, di vestiti.
«Signor Bianco, io e lei proprio non andiamo d’accordo!» Brontolò il piccolo, gesticolando con la mano. Dopo l’ennesimo sbuffo si passò le mani tra i riccioli e mugugnando cose incomprensibili, mosse la testa a destra e a sinistra, mentre gli sfuggivano parole come “matto”, “i ricci mi diventeranno bianchi, domani” e avrebbe continuato così ancora per molto tempo se non fosse stato per una risata cristallina che interruppe il suo monologo.
Il bambino si girò verso la fonte del rumore e, individuatola, spalancò gli occhi.
Perché davanti alla porta c’era Kurt, con entrambi le mani sulla bocca, che cercava di trattenere una risata.
«Kurt»
Lo sussurrò, il suo nome, Blaine. Aveva paura che sparisse e per questo saltò giù dal letto così velocemente da inciampare persino nei suoi stessi piedi e cadde di sedere; eppure Kurt rimase fermo lì, immobile, appena all’entrata della sua camera. No, non sta andando via.
 
Il bambino dagli occhi cerulei si guardò attorno nervosamente, ma il corridoio era deserto perciò si azzardò a fare un passo timoroso verso la stanza di Blaine. Un passo, non di più.
Kurt osservò attentamente Blaine per qualche secondo, poi prese un bel respiro e sputò tutto quello che gli doveva dire, proprio come gli aveva detto la Dottoressa Sorriso.
«Mi dispiace. Non volevo essere così cattivo con te. Spero che mi perdonerai.»
 
Kurt lo disse con poca convinzione, con lo sguardo altrove e gli occhi – Blaine l’aveva notato subito – opachi, e il biondo sperò che facesse finta di niente e lo lasciasse andare.
Per l’ennesima volta, il riccio lo sorprese.
«Tu non vuoi essere mio amico» sussurrò Blaine e quella verità fece male, talmente male che si sentì come se stesse bruciando dentro, mentre gli occhi gli diventavano umidi. Non voleva davvero piangere davanti a Kurt, ma non ce la fece e sentì qualche lacrima bagnargli il viso.
 
Quella scena sembrò far sbloccare qualcosa in Kurt e quando se ne accorse era ormai troppo tardi.
Blaine aveva smosso la sua anima, il suo cuore e l’intero suo mondo.
 
«Ma io voglio essere tuo amico. Tu vuoi essere mio amico e tenermi per mano?».
 
Le parole gli uscirono di bocca prima che potesse fermarle e Kurt si sentì all'improvviso vulnerabile e spaventato per un  futuro rifiuto.
“Non dovevo farlo” pensò, mentre guardava Blaine, attendendo una risposta che forse non sarebbe arrivata.
Avrebbe voluto scappare, Kurt. Voleva fuggire lontano da tutto e tutti, rinchiudersi nel suo mondo, dove non esisteva tristezza e - oh! - Blaine sorrise. “Forse non ha rifiutato, del tutto, la mia proposta” pensò.
Sì, Blaine stava sorridendo perché aveva visto che Kurt lo voleva, lo voleva veramente perché quando l’ aveva detto, quando aveva pronunciato quelle parole, i suoi occhi si erano illuminati ed era così felice che non resistette alla tentazione e si gettò addosso a lui, per abbracciarlo.
Quel brusco e inaspettato movimento fece perdere l’equilibrio ad entrambi, che cascarono di sedere e, dopo qualche secondo a fissarsi, scoppiarono a ridere.
Il fracasso venne sentito dalla Dottoressa Sorriso che, insospettita, entrò nella stanza di Blaine e vedendo i due bambini ancora svegli – e soprattutto Kurt, fuori dalla sua stanza, violando il coprifuoco – li rimproverò.
Dopo la ramanzina, Kurt fu costretto ad andarsene – non voleva beccarsi un’altra strigliata! –  salutò Blaine e baciò la Dottoressa Sorriso  per poi correre in camera sua, sperando che nessun’altra infermiera lo i rimproverasse, essendo in giro durante il coprifuoco.
 
Intanto la Dottoressa Sorriso stava aiutando Blaine a mettersi nel letto, mentre il piccolo gli raccontava della giornata, soprattutto della scoperta del latte che faceva crescere e di aver fatto finalmente pace con Kurt.
Con un sorriso a trentadue denti, il bambino bevve il suo latte e poi, stremato dalla giornata, crollò fra le braccia di Morfeo, con un sorriso sulle labbra.
 
 
I giorni passavano tanto in fretta che Blaine non se ne rese conto e di punto in bianco si svegliò che era già Natale.
«È Natale!» Esclamò il piccolo, mentre la Dottoressa Sorriso entrava per vestirlo e prepararlo per la recita.
«Oggi quanto sono cresciuto, Dottoressa?» domandò curioso il bambino, guardando la stecca dove erano segnate delle linee.
«Sei cresciuto di due centimetri, in questa settimana, Blaine. Devi aver pazienza!» rispose entusiasta la Dottoressa, eppure Blaine non ne sembrava felice.
«Solo?! Ma è troppo poco! Non sono cresciuto abbastanza! Lo sapevo io, che dovevo bere più latte!» Si lagnò, mentre la Dottoressa scoppiava a ridere.
«Non ti preoccupare, Blaine! Crescerai! – lo rassicurò, puntandogli il dito contro – Sì, tu crescerai! Ora preparati, tra poco andiamo in scena!» gli disse e Blaine scoppiò a ridere, perché la Dottoressa aveva imitato suo fratello senza rendersene conto, ed entrambi si avviarono verso il salone.
La sala era ghermita di persone: parenti, famigliari e amici più stretti erano venuti ad assistere alla recita e – notò Blaine, mentre sbirciava da dietro il sipario – sulla destra, o sinistra? Blaine si confondeva sempre, c’erano sua madre e suo fratello che lo salutarono non appena lo videro, facendolo illuminare.
Mentre una dottoressa, la narratrice, annunciava agli spettatori che lo spettacolo aveva inizio ed iniziava ad introdurlo, dietro le quinte Blaine si sentiva parecchio agitato.
Era la sua prima recita e temeva che qualcosa andasse male, ma quando sentì una mano poggiarsi sulla sua e vide due occhi azzurri che lo fissavano sorridenti, si calmò.

Mentre la narratrice annunciava l’inizio dello spettacolo, tutti i bambini appostati dietro il sipario, presero un respiro profondo e andarono in scena.
Dopo due ore di battute, balli e cori, Blaine non riusciva a crederci.
Il pubblico stava impazzendo, tra applausi, fischi e molte esclamazioni ed era stato tutto così perfetto, così magico, così fantastico che Blaine si sentiva davvero come se fosse un eroe e avesse appena salvato la sua città preferita. Non era mai stato meglio.
Quando raggiunse la sua mamma e Cooper, Blaine notò che stavano parlando con una famiglia.
C’era un uomo con un cappello da baseball in testa, una donna dal viso gentile e un ragazzo molto alto, che si guardava attorno spaesato.
“È molto più alto di me” pensò il piccolo, s squadrandolo quel strano ragazzo. Dovevano avere più o meno la stessa età eppure sembrava più grande o forse era dovuto dall’altezza.
“Probabilmente beve tanto latte, la sera”si convinse il riccio, mentre raggiungeva la sua famiglia.
«Blaine! Tesoro!» Lo salutò la mamma e il piccolo poté giurare – mentre ricambiava - di aver visto quel buffo signore con il cappello guardarlo in modo strano e… sorridere.
 
«Papà!» Gridò una voce alle sue spalle – che Blaine, successivamente, identificò come quella di Kurt – e il piccolo si girò giusto in tempo per vedere l’amico e quell’uomo, suo padre, stringersi in un abbraccio, mentre la donna sorrideva felice e il bambino a fianco… mangiava.
 
«Tu bevi il latte prima di andare a dormire?».
Glielo chiese così, su due piedi, senza pensare al fatto che era una domanda personale e che forse lo avrebbe imbarazzato, eppure quello strano bambino gli rispose qualcosa, ma Blaine non capì cosa, perché stava parlando con la bocca piena.
 
«Finn! Un po’ di educazione! Non si parla con la bocca piena!» Lo sgridò la donna, che Blaine suppose fosse sua madre.
 
«Scusalo, fa sempre così» Gli disse Kurt, avvicinandosi, con la mano stretta in quella del padre.
«Comunque lui è Finn, mio fratello. Lei è Carole e lui è mio padre, Burt.» Li presentò Kurt e Blaine li guardò attentamente, perché quella era la famiglia di Kurt, eppure Blaine – che, dopotutto, era un bambino tutt’altro che stupido - notò che Kurt non chiamò Carole sua madre e si stava domandando il perché, quando all’improvviso Cooper, spingendo da una parte il fratello minore, si presentò all’angelo dagli occhi color cielo.
 
«E così tu saresti quell’adorabile angelo dagli occhi color cielo?» esclamò il moro, facendo imbronciare Blaine e far facendo alzare uno sopracciglio al piccolo Kurt.
«Piacere, io sono Cooper, il fratellone dell’hobbit» si presentò, allungandogli la mano.
In tutta risposta, Kurt lo guardò dubbioso e dopo aver cercato lo sguardo di suo padre – alla ricerca di un consenso, forse –gliela strinse.
 
La giornata terminò così, con entrambe le famiglie a parlare del più e del meno, mentre i tre piccolini giocavano nella piccola stanza.
Quello per Blaine fu il miglior Natale di tutta la sua vita.
 
 

Note:

1: L’avrete riconosciuta tutti, vero? È la famosa battuta del famoso spot yogurt Fruttolo – pirati .
2:  The most wonderful day of the year è una delle mie canzoni natalizie preferite, nel Glee.
Ecco un link – la potete trovare anche nella 2x10 - : clikc me .
3: Gli ometti gialli di Cattivissimo Me sono questi e io li amo troppo *3*
 

 
N/A:

Ta-daaaan!
Eccomi qui, come vi avevo promesso!
Inizio a dire che mi sono divertita un mondo a scrivere questo capitolo, soprattutto la scena di latte e di Marc *-* Adoro Marc, il quattrodenti!  
Molto fluffuoso, vero? *occhi dolci*
Finalmente abbiamo un inizio con i piccoli Klaine. Che ne pensate? J
Spero che apprezziate questo Kurt e io tendo a renderlo il più ic possibile ma potrebbe sfuggirmi di mano…quindi fatemi sapere!
E si, ritorna Cooper! ( Smettetela di fissargli i pettorali, lo so che lo state facendo!), godetevelo perché non so quando tornerà! JJ
 
 
Prima dei ringraziamenti un ultima cosa: gli aggiornamenti.
Poiché sono in una specie di blocco con i capitoli Lspero di riuscire ad aggiornare entro due/tre settimane, giù di li. Mi scuso in anticipo per i ritardi, cercherò di fare del mio meglio!
 
Ringraziamenti:
Questa storia ha, finora, 12 recensioni, 5 preferite, 3 ricordate e ben 33 seguite. Senza contare le visite. Le vostre recensioni sono davvero bellissime. Ogni volta mi commuovo e siete una vera ispirazione per me. Grazie, davvero *3* Grazie! Spero di non deludervi!
Quindi, vi ringrazio davvero tanto e spero seguirete e recensite questa storia fino alla fine.
 
 
 Ps. Ho fatto un banner alla storia - che amo un casino, tra l'altro - e mi stavo domandando, qualcuno è bravo/a con le fan art? \o/ 
Se ne trovate, linkatemele <3 
PPs. Mi scuso con l'html. A volte ho dei seri problemi con questo coso :s
 
Se avete dubbi, domande, curiosità o per sapere quando aggiorno potete trovarmi alla mia pagina Facebook.
 
 
Un bacio,
R i n.

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Capitolo 4
*** IV. You are not alone. ***


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IV:

 

 

 

Autrice: R i n
Fandom: Glee
Titolo: WhiteRblood
Personaggi: baby!Kurt, baby!Blaine.
Avvertimenti:AU, OOC, Angst, Fluff.
RaitingArancione
Note: A fine capitolo. Leggetele, sono importanti.
 
 
 

 

WhiteRblood _

 
 

Capitolo IV: You are not alone.
 

 

Le feste natalizie, così come l’arrivo del nuovo anno, terminarono con il giorno dell’Epifania.
Una brutta e vecchia megera dagli stracci tutti sporchi, le scarpe rotte, accompagnata da una scopa, era arrivata, quel giorno, alla clinica St. Mary1 e Blaine giurò di non aver mai visto una strega tanto brutta. Quella strega, dopo aver salutato i bambini – e Blaine ebbe l’impressione che se li volesse mangiare, i suoi amici – si era seduta su una poltrona e si era messa a ciarlare con loro. Nonostante ciò, il piccolo era del parere che quella donna fosse pericolosa, peccato che i suoi amici non fossero del suo stesso parere, visto come pendevano dalle sue labbra.

«Sapete, vengo da molto, molto, lontano…» La sua voce era rauca, quasi un sussurro, eppure i bambini non si perdevano una parola, al contrario di Blaine. Iniziò a guardarsi attorno, nella speranza di notare Kurt e andare da lui e lasciar stare quella stupida ciarlatana. Perché, lui, alla storia che la Befana arrivasse da molto, molto lontano a cavallo di una scopa, proprio non ci credeva. 

Neanche esistevano, le scope magiche!

Incurante della vecchia, Blaine cominciò a gironzolare per la stanza, alla ricerca del suo amico.

Ma di Kurt, nemmeno l’ombra.

Rassegnato, il piccolo tornò dai suoi amici e quella Befana - notò Blaine con una punta di sofferenza - era ancora che ciarlava e ciarlava ancora, gli occhi fissi davanti al nulla, senza accorgersi di niente attorno a lei, tant’è che il piccolo pensò che oltre ad essere brutta fosse pure cieca.

Blaine ascoltava quella vecchia parlare ma le parole non raggiungevano mai le sue orecchie, sembrava che si fermassero a metà strada e poi girassero per conto loro, nella stanza. Di conseguenza, il piccolo si perdeva a fissare una mosca che gironzolava indisturbata, sopra le loro teste e, quando ne aveva abbastanza si metteva a giocare con i lacci delle scarpe.

Non seppe per quanto tempo andò avanti con quello stupido gioco, ma proprio nel momento in cui ne ebbe abbastanza, la vecchia Befana si alzò.

Dopo circa dieci minuti buoni – il tempo che la vecchia impiegò ad alzarsi e raggiungere la cesta, poco lontana, che aveva portato con sé – il piccolo aveva tra le mani una calza di stoffa, grande quanto il suo braccio, con dentro tante leccornie.

Blaine, ricevuto il regalo, sicuramente inaspettato, si sentì giustamente un pochino in colpa – ma giusto un po’ – per non aver ascoltato quella povera vecchia.

Titubante, il piccolo le si avvicinò e chiamatola – Blaine dovette urlare parecchio ed anche forte, perché quella, oltre ad essere vecchia e rauca era pure sorda – la ringraziò del regalo.

Ma Blaine era un bambino altruista e gli dispiaceva che il suo amico non ne avesse una.

«Posso avere un’altra calza, per favore, vecchia Befana?»

Glielo chiese con dolcezza, e i suoi occhi si fecero grandi e tondi – occhi pieni di speranza e fanciullezza – come se fosse un piccolo cucciolo bastonato.

Nonostante ciò, la vecchia Befana non si scompose di un millimetro e nulla, nemmeno gli occhi dolci di Blaine, la fecero intenerire.

«Ne hai già una, piccolo furbacchione!» Gli rispose la vecchia, sputacchiando qua e là.

Il piccolo s’imbronciò e sentiva che gli occhi cominciavano ad inumidirsi perché voleva assolutamente quell’altra calza. Doveva averla, a tutti i costi!

«Ma non è per me, stupida vecchia megera!» Le disse, alzando gli occhi al cielo, con fare ovvio – perché lui non era assolutamente un bambino egoista! – «È per il mio amico Kurt! Oggi non l’ho visto e forse sta male. E lui non c’è l’ha, la calza, e non voglio vederlo triste per questo, Signora Befana!»

La Befana finse – un po’ troppo, per i gusti di Blaine – di esser sorpresa e mentre borbottava qualcosa che il piccolo non riusciva ad afferrare, cominciò a trafficare nella cesta, alla ricerca della calza. Dopo infiniti minuti, gliene porse una.

«Va', corri dal tuo piccolo amico!» Gli disse la vecchia e Blaine non se lo fece ripetere due volte.

Cominciò a trottolare con due calze che sbattevano di qua e di là e arrivò alla camera di Kurt, e qui si fermò, perché, dopo aver aperto la porta – e bussato due volte, per educazione –lo vide, sdraiato sul suo letto che respirava affannosamente, proprio come Blaine, reduce dalla corsetta.
Per qualche minuto nessuno dei due parlò.

«B-Blaine» .

La voce di Kurt era appena un sussurro, eppure alla vista di Blaine, sorrise.

«Stai male?» domandò stupidamente il riccio, ma il biondo lo rassicurò che non era nulla di cui preoccuparsi.

«Ti ho portato questa» gli disse Blaine «l’ha portata la Befana, una vecchia megera» concluse, mettendogli la calza sul letto, in modo che fosse a portata di Kurt. «Sai, dice che viene da lontano, quella lì, e su una scopa. Roba da matti, vero, Kurt?»

Il bambino tossicchiò un «Grazie» e sorrise.
Entrambi iniziarono a scartare le leccornie – e ce n’erano davvero di tutti i gusti e di tutti i tipi, tutte incartate in vari colori – e ce n’erano talmente tante che ad un certo punto Kurt dovette fermarsi e con una mano spostarsi il ciuffo impregnato di sudore. Così facendo alcuni capelli gli rimasero nella mano e Kurt, con la coda dell’occhio, guardò Blaine –tanto intento a scartare di qua e di là da non accorgersi di niente – mentre con un gesto veloce buttò i capelli per terra e tornò a scartare le sue leccornie, facendo finta di nulla.

«Kurt, assaggia questo!» Gli disse, ad un certo punto Blaine, porgendogli un cioccolatino.
Fu in quel momento che il riccio si fermò a guardare prima le leccornie i dolci ancora da scartare e poi Kurt, tutto sudato.

«S-Stai bene, Kurt?» Gli chiese, di nuovo, Blaine.
Odiava vederlo in quello stato e nonostante Kurt continuasse a dire di si, il piccolo era sicuro che gli stesse nascondendo qualcosa.

«Sì, Blaine. Sì, s-sto bene»

Ma Blaine continuava a non crederci e notò che a ogni sforzo che faceva gli mancava il respiro.

Sembrava stanco, affaticato.

Blaine voleva aiutarlo, lo voleva davvero. Solo… non sapeva come.

Poi gli venne un’idea – ed era proprio una grande, geniale, bellissima, idea – e Blaine rise della sua stessa genialità, dandosi mentalmente dello stupido per non esserci arrivato prima.

Si scusò con Kurt – perché lui era un gentiluomo, dopotutto! – e sfrecciò in camera.

Cominciò a rovistare nel grande armadio alla ricerca del travestimento che gli aveva regalato Cooper, quello dal mantello blu.

Si mascherò talmente in fretta che non si accorse di aver indossato due scarpe di color diverso e la maschera al contrario.

Nel giro di cinque minuti, ritornò da Kurt, vestito da… Da cosa era vestito, esattamente?

«B-Blaine…Come ti sei conciato? Ma i cap- i capelli, B-Blaine?» Gli disse Kurt, tra un eccesso di risa e l’altro. «Ti sei v-visto i capelli, Blaine?» E Blaine, imbronciandosi, si passò una mano tra i ricci, borbottando un “non è colpa mia se ho se ne ho tanti”.

«E comunque, mio giovane amico, mi presento. Io essere Sogeking2, il Re dei Cecchini, futuro Re dei Pirati. Mi ha mandato il mio amico Blaine per una missione!» Gli disse, inchinandosi una volta che ebbe finito.

In tutta risposta Kurt alzò un sopracciglio e corrugò la fronte.
«Sono quasi sicuro che tu sia Blaine, invece.»

«No, mio giovane amico. Io essere Sogeking!»

«No, invece!»

«Si, invece!»

E alla fine Kurt si arrese e decise di stare al gioco di Blaine, dopotutto, vestito così era davvero divertente.

«Ok, Snopegink!3 Hai vinto. Ehm, d- dov’è l’Isola dei Cecchini?» Chiese Kurt, con curiosità.

Non poteva far una domanda migliore, perché Blaine per tutta risposta si illuminò – e credetemi, il suo sorriso era talmente grande da abbagliare persino il sole d’estate – e allargando le braccia gli esclamò : «A Neverland, l’Isola che non c’è!»

«Anche qui esiste un posto chiamato Neverland, sai…» iniziò a dire Kurt, ma venne bloccato da Blaine che iniziò a ripetere, tappandosi le orecchie, «No! No! No! No!»

«Kurt, non capisci proprio niente! Neverland esiste davvero, credimi! Bisogna prendere un po’ di polvere di fata e seguire una stella».

«Una stel-?» chiese Kurt, ma non fece in tempo a finire la domanda che Blaine lo interruppe di nuovo.

«Seconda stella a destra, questo è il cammino e poi dritto fino al mattino. Poi la strada la trovi da te, porta all’isola che non c’è.4» Gli cantilenò Blaine, e Kurt ne rimase incantato tant’è che batté le mani a più non posso, nonostante un movimento del genere lo affaticasse troppo e, ripresosi, si limitò a domandare.

«Ma c- come posso trovare un’Isola che non c’è?» gli chiese Kurt.

«Credendoci, Kurtie, solo credendoci5

Per tutta risposta Kurt si limitò ad alzare un sopracciglio, perché quella non era una risposta.

Per niente.

«Come dovrei fare, per crederci?» chiese Kurt, scettico.

Quella domanda, Blaine non se l’aspettava. Insomma, quando Cooper aveva detto la prima volta, lui ci aveva creduto subito. Per cui, il piccolo ci mise un po’ prima di rispondere perché stava pensando un modo per far credere a Kurt che l’Isola che non c’è esistesse per davvero.

Ma come, Blaine non ne aveva idea, per cui iniziò a passeggiare per la stanza, facendo svolazzare il mantellino blu. Con i pollici sulle tempie borbottava “spremiamo le meningi. Le meningi spremiamo” come se fosse un rituale sacro e ... oh!

«Kurt» disse Blaine, con voce seria, mentre si sistemava la mascherina che gli scendeva lungo il naso. «Ascolta. Una volta, mi imbattei in un elefante rosa che st-»

Il racconto, però, venne smorzato da Kurt, che  alle parole elefante rosa era scoppiato a ridere – e questo ferì un poco Blaine, perché non gli piaceva quando lo prendevano in giro ma d’altro canto era felice di veder ridere così di gusto Kurt – e tra un singhiozzo e l’altro il biondo gli disse che non o esistevano gli elefanti rosa.

«Certo che esistono!» Esclamò Blaine, sul quasi orlo della disperazione.

Perché Kurt era così diffidente verso la fantasia?

«Ti dico di no, Bl- Songenking

«Invece ti dico di si» Rimbeccò Blaine. «E te lo dimostrerò!»

«Come? Vuoi portare un elefante?» Lo schernì Kurt.

«No! È troppo pesante, Kurt. Però, l’ho visto io! Un elefante tutto rosa!»

«Non ci credo.»

«Si, invece! Lo farai!»

«No, Blaine! Gli elefanti sono grigi!»

«Non sono Blaine!» Lo sgridò Blaine, muovendo il dito come da avvertimento. «E gli elefanti sono grigi perché sono sporchi, Kurt! Dopo che si tuffano dell’acqua, tutta quella sporcizia va via ed escono rosa, Kurt. Rosa. Sono elefanti rosa! L’ho visto in televisione. Esistono per davvero. Devi credermi, Kurt!»

Ci fu un lungo silenzio dopo quella rivelazione. Silenzio che fu interrotto da Kurt, shoccato dalla scoperta.

«Quindi… stai dicendo… che… che quando sono grigi sono tutti… sporchi?» domandò, incerto.

«Si, esatto!»

Blaine era davvero contento che Kurt gli desse, finalmente, ragione.

«Sono contento che tu ci creda, Kurt! Questo è il primo passo per diventare come me!»

«Cioè, un idiota?» gli rispose Kurt, ghignando.

«No, un sognatore!6»

Per tutta risposta, Kurt scoppiò a ridere e Blaine fu davvero contento di esser riuscito nella sua missione.

«Oh, grazie, Songegink

«Di nulla, Kurt!» gli disse Blaine, domandandosi se l’amico storpiasse il suo nome apposta.

 «Ora devo andare, Kurtie! Ho un’altra missione da compiere! Ti porterò Blaine, va bene?»

Kurt fece cenno di sì e mentre il piccolo fece una piccola piroetta su se stesso, facendo svolazzare il mantellino blu e quando fu davanti alla porta sussurrò qualcosa che Kurt non riuscì ad afferrare bene.

 

Blaine, mentre ritornava in camera per togliersi il travestimento, non riusciva a smettere di essere felice. Ci impiegò diversi minuti a togliersi il travestimento – non si sapeva come, era riuscito persino a ingarbugliarsi con i fili – e quando ritornò nella camera di Kurt, la trovò vuota.

Preoccupato, iniziò a cercare Kurt ovunque – sotto il tavolo, sotto il letto, negli armadi e persino nel water, perché aveva l’irrazionale paura che l’avessero rapito gli alieni – e cercò guardò persino nel corridoio, dietro le piante, sotto le panche finché non s’imbatté nella Dottoressa Sorriso e quasi le saltò addosso.

«Dottoressa! Dottoressa! Kurt! Kurt… è sparito! Gli alieni!» Ansimò Blaine.

«Calma, Blaine. Kurt è andato a fare una visita di controllo.»

«Oh. Tornerà presto?» chiese il piccolo. Aveva voglia di Kurt.

«…Per oggi, le visite a Kurt sono finite, Blaine. Quando tornerà sarà molto stanco e avrà bisogno di riposo.»

Blaine, a quelle parole, si dispiacque molto e sperò che Kurt si riprendesse il più presto possibile. Perché vederlo felice era l’unica cosa bella in quel posto così triste.

«Posso lasciargli il mio orsacchiotto, Dottoressa? Credo che ne abbia più bisogno lui di me!»

La Dottoressa annuì e Blaine ritornò di nuovo in camera a prendere il suo peluche e un bigliettino di carta, che successivamente lasciò sul letto del suo amico.

 

Ciao Kurt,

Spero che ti riprenderai presto. Ti lascio il mio Eroe, Neko – non è solo un peluche, non farti ingannare! – che ti proteggerà quando non ci sono!

Il tuo amico, Blaine.

 

Ps: Ogni tanto dagli qualche caramella! È un peluche molto goloso!

 

 

«Ed ora, andiamo a trovare la Ciurma!» disse Blaine, una volta lasciata la camera di Kurt, avviandosi verso la sala, alla ricerca dei suoi compagni.

Quando li trovò, era già pomeriggio inoltrato – se non fosse stato per le varie e stupide infermiere che lo avevano trattenuto un minuto sì e l’altro pure, Blaine era certo che li avrebbe trovati subito! – e la ciurma, come amava chiamarla Blaine, stava giocando all’aperto quando li raggiunse.

Se Blaine avesse avuto un po’ di sale in zucca – era ingenuo, non stupido! – avrebbe fatto dei passi indietro e sarebbe rimasto all’interno dell’edificio, al sicuro. Invece, il piccolo – ingenuo, non stupido! – fece un passo avanti e poi un altro ancora e si ritrovò nel cortile, ricoperto di neve, e i suoi amici stretti in un cerchio a parlottare.

 

«Ehi, Ciurma!» Li raggiunse, finalmente. Blaine era ancora sorridente e non notò le labbra serrate di Justin e il suo sguardo – come quegli della maggior parte dei bambini – shoccato.

«Ehi, ragazzi! Oggi è succ-» Iniziò Blaine, ma venne interrotto bruscamente da Justin.

«Non sei più il nostro capitano, Blaine.» Gli disse Justin, sputando parola per parola.

A Blaine quasi crollò il mondo addosso, perché lui adorava essere il Capitano.

Voleva essere il Capitano.

«Non possiamo accettare che tu passi più tempo con quello strano anziché noi e poi i capitani sono alti, Blaine. Alti, Blaine.» Lo derise il compagno, incrociando le braccia al petto e con un ghigno sul viso.

A quel punto il mondo di Blaine crollò definitivamente e con esso Blaine stesso, tanto che, con il volto rigato dalle lacrime, spinse Justin e gli gridò: «Non è strano! E il suo nome è Kurt!»

A volte la verità fa male. Brucia.

Blaine si sentiva proprio così, bruciare.

Bruciare di rabbia e di vergogna, perché quello che aveva fatto e stava facendo –spingere Justin e gli altri – gli si stava rivoltando contro. Se Blaine avesse avuto un po’ di sale in zucca –era stato stupido, non ingenuo! – se ne sarebbe andato. Invece no, continuava a spingere Justin e a venir colpito a sua volta. C'era chi incitava Blaine, chi Justin e chi urlava, come il povero Marc, di smettere.

Blaine, che veniva sballottato di qua e di là, mentre la testa gli girava e le parole “non ti vogliamo” gli rimbombavano nella testa, stava per scoppiare.

Sentiva che la sua testa stava per esplodere.

 Fu in quel momento – mentre Justin lo spingeva di nuovo forte all’indietro – che successe quello che il piccolo aveva giurato, a sua madre e suo fratello, che non sarebbe mai successo.

Nella spinta, mentre attorno a lui tutto girava, Blaine, non sapendo dove mettere i piedi, scivolò.

Cadde lì, sui gradini che portavano all’ingresso dell’edificio – proprio dove la neve era stata spalata e ammucchiata tutta di lato – e sbatté la testa.

Sentì la tempia pulsare e la testa spaccarsi in due,mentre un rivolo di sangue scivolava dalla sua fronte, e Blaine perse i sensi.

Di nuovo, un grido terrorizzato echeggiò nell’aria, mentre il sangue bagnava tutta la neve attorno al capo di Blaine; dall’altra parte dell’edificio, ciocche di capelli castani tappezzavano il pavimento.

 

 

 

 

Note:

 

1. La clinica “St.Mary” è frutto della mia fantasia.

2. Songeking è un personaggio della ciurma di Monkey D. Rufy, del famoso manga One Piece di Oda. Songeking (ossia Usopp travestito) appare per la prima volta nella saga di Eines Lobby.

3. Sempre nel manga One Piece, saga di Eines Lobby, Nami storpia – volontariamente, credo – il nome di Sogeking. Lo stesso fa Kurt, con Blaine.

4. “ L'isola che non c'è di Edoardo Bennato.

5. Famosa citazione presa da Neverland, adattandola al testo. “Solo credendoci, Peter. Solo credendoci!”

6. «Cioè, un idiota?» «No, un sognatore!» Questa citazione l’ho trovata sul web e sinceramente non ricordo da dove sia presa.

 

 

 

 

N/A:

Ed eccoci qui, con un enorme ritardo!
Mi scuso con tutti i miei lettori, ma sono stata indaffaratissima, oltre a drogarmi di Doctor Who – e si, prende il resto della giornata che mi rimane – non sono più riuscita ad aggiornare.

Inoltre questo capitolo è, per ora, il mio preferito. Una dose insolita di fluff e demenza che mi ha consumato ogni linfa vitale. Eh si, gli elefanti rosa. *fissailvuoto*

 

 

Prima dei ringraziamenti un ultima cosa: gli aggiornamenti.

Dato che sono in blocca da circa due settimane con il quinto capitolo, NON so quando aggiornerò.

Nel caso, mettete la storia nelle seguite/ricordate/preferite e non vi perderete l’aggiornamento oppure mi contattate tramite mp e vi aggiorno J

 

Ringraziamenti:
Questa storia ha, finora, 17 recensioni, 6 preferite, 3 ricordate e ben 44 seguite.

Questo mi riempie d’orgoglio, dico davvero. La mia bambina sta crescendo :’)

Inoltre ci tengo a ringraziare virtualmente in modo particolare : fallingslowly, _Pookie_, fanklain e smiledef14 che (spero tanto di non sbagliarmi) ha fatto questo magnifico, fantastico, stupendo,  banner .

Non so come ringraziarvi, davvero. Ogni vostra parola mi fa scoppiare il cuore. *hugga forte*

 

 

 

 

Se avete dubbi, domande, curiosità o per sapere quando aggiorno potete trovarmi alla mia pagina Facebook.

 

 

Un bacio,

R i n.

 

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