Palinodia dei Rocket

di NoceAlVento
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Regrette rien ***
Capitolo 2: *** Orfani del buio ***
Capitolo 3: *** Con la mia balestra ***
Capitolo 4: *** Kyrielle dei falliti ***
Capitolo 5: *** Elegia per un albatro abbattuto ***
Capitolo 6: *** Tutte tartarughe ***



Capitolo 1
*** Regrette rien ***


I: "Regrette rien" La mia storia più cupa e autobiografica.
Questa è la prima definizione che mi viene in mente per questo monologo. Premetto che per non rovinare l'impatto finale non scriverò alcun Dietro la storia, perciò questo spazio sarà un po' più lungo di quanto intendessi.
Tanto per chiarire, la Palinodia non ha alcun legame con il Ciclo, che comunque riprenderà quanto prima con Involutus. Ho sentito di doverla scrivere per due particolari ragioni: la prima è l'inconsueta fase di stanchezza psicofisica che ho attraversato in questo autunno-inverno 2012, l'altra è il desiderio di rifiatare dallo stile magniloquente che il Ciclo mi impone e cercare qualcosa di più leggero – che poi naturalmente leggero non si è rivelato, anzi, forse scrivere per il Ciclo mi rilassa di più.
Tornando alla demarcazione di prima, possiamo ora precisare: è cupa perché racconta una delle vicende più opprimenti che abbia mai partorito e senz'altro ne detiene il primato tra le fan fictions; è autobiografica perché è densa di riferimenti più o meno distorti al periodo in cui è stata concepita e scritta, che pur non essendo stato per me triste è stato quello in cui più mi sono sentito gravato da carichi da tutte le parti senza che io avessi intenzione di accettarli. Una frase nella Palinodia esprime bene ciò, ma è talmente ben contestualizzata che offrirò un biscotto virtuale a chi saprà individuarla.
Ah, breve aggiunta: in origine il racconto doveva essere one shot, ma mi sono reso conto che sarebbe stato troppo pesante sia da leggere che da commentare in una sola volta. Come risultato quelli della Palinodia sono i capitoli più corti che scriverò mai, wooo~!

Con l'augurio di non deprimere nessuno,
Novecento

P.S. C'è un'evidente citazione gaberiana nel testo: tanto per assodare, essa è quello che è, ovvero un'allusione, e non un mal celato tentativo di plagio. Non che ci fosse bisogno di chiarire, ma non si sa mai.
P.P.S. Perdonatemi i primi due atti, lo so anche io che sono insipidi, ma mi servivano per poter scrivere i successivi.


* * *


I: "Regrette rien"



Qualcuno entrava nei Rocket perché era nato a Celadon City.

Qualcuno entrava nei Rocket perché il nonno, lo zio, il papà… La mamma no.

Qualcuno entrava nei Rocket perché si sentiva solo.

Qualcuno entrava nei Rocket perché aveva ricevuto un'educazione troppo puritana.


Qualcuno entrava nei Rocket perché "La Storia è dalla nostra parte!".

Qualcuno entrava nei Rocket perché prima (prima, prima…) era un poliziotto.

Qualcuno entrava nei Rocket perché glielo avevano detto.

Qualcuno entrava nei Rocket perché non gli avevano detto tutto…


Qualcuno entrava nei Rocket perché… il colpo di Stato? Oggi, no; domani, forse; ma dopodomani…

Qualcuno entrava nei Rocket perché aveva capito che il crimine andava piano, ma lontano!

Qualcuno entrava nei Rocket perché Proton era una brava persona.

Qualcuno entrava nei Rocket perché Lance non era una brava persona…


Qualcuno entrava nei Rocket perché “Gli scarafaggi, gli agenti, i generali. Facile, no?”.

Qualcuno entrava nei Rocket perché "Viva Giovanni, viva Archer, viva Ariana!".

Qualcuno entrava nei Rocket perché era così affascinato dai fuorilegge che voleva essere uno di loro.

Qualcuno entrava nei Rocket perché non ne poteva più di essere un fuorilegge…


Qualcuno entrava nei Rocket perché andava sempre al Celadon Game Corner.

Qualcuno entrava nei Rocket per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione.

Qualcuno entrava nei Rocket perché voleva comandare tutto!

Qualcuno entrava nei Rocket perché non conosceva boss, generali, e affini…


Qualcuno entrava nei Rocket per far rabbia a suo padre.

Qualcuno entrava nei Rocket perché aveva scambiato il motto del Team per il Vangelo Secondo Giovanni.

Qualcuno entrava nei Rocket perché voleva essere un miglior Rocket degli altri.

Qualcuno entrava nei Rocket perché non c'era niente di meglio…


Qualcuno entrava nei Rocket perché Celadon City, il Mount Moon, la Pokémon Tower, eccetera, eccetera, eccetera!

Qualcuno entrava nei Rocket perché chi era contro era nei Rocket!

Qualcuno entrava nei Rocket perché non sopportava più quella cosa sporca e viscida che ci ostiniamo a chiamare giustizia!


Qualcuno credeva di entrare nei Rocket, e forse entrava in qualcos'altro.



(L'attore è solo sulla scena, appoggiato a un bancone da bar parallelo alla quinta di sinistra, con il capo chino su un foglio. Accanto a lui c'è un altro sgabello vuoto. Inizia a parlare a un ipotetico conversatore lì seduto.)

Ah, buonasera anche a lei. Uh, come? Certo, si accomodi… (ripone il pezzo di carta in tasca) No, non si preoccupi, non ha interrotto niente. Leggevo scartoffie.

Perdoni l'invadenza, ma che ci fa uno come lei in questa bettola? No, dicevo per i vestiti. Non sarà mica un agente in borghese, vero?

Ah, problemi di cuore… Del resto chi non ne ha a questo mondo? Buona fortuna, sono i più difficili da mandare via.

Io? No, sono felicemente fidanzato. Però sa, nel passato…

\

Vede quello là all'angolo? (indica il limitare del bancone) Lui viene qui ogni sera e si mette sempre nello stesso posto, terzo sgabello dal fondo, e ordina sempre lo stesso alcolico, ormai da così tanto tempo che solo il barista sa cosa beva davvero ogni volta. Ci ho parlato un po', ogni tanto: l'ha lasciato sua moglie dopo vent'anni di matrimonio.

Ah, non volevo, mi dispiace… Davvero non si è offeso? Bene, meglio così.

Come? Sa, non è il primo a chiedermelo, ogni tanto qualcuno si interessa a me quel tanto. Se ci tiene posso raccontarle come sono finito qua. Devo avvertirla però, non è affatto una bella storia. Nel mio passato ho fatto cose che farebbero accapponare la pelle anche al peggiore dei criminali.

In realtà non è difficile da immaginare di cosa stia parlando, siamo a Celadon dopotutto. Immagino che anche lei si ricordi del periodo di qualche anno fa in cui il Team Rocket imperversava per Kanto, no?

Ne sono stato una recluta.

Ah, ma forse la sto illudendo, non ero affatto importante. Anzi, probabilmente tra tutti sono stato il più inutile.

No, non è modestia, ho vissuto una vita ai margini del progetto. Non che non vi credessi, anzi, spesso sono gli impiegati a essere i più fedeli alla ditta per cui lavorano. Forse non avevo la malizia necessaria per la scalata sociale che altri hanno compiuto.

Prego? Ah, mi spiace, non ho intenzione di dirglielo. Le ragioni per cui sono entrato sono private e tali devono restare, anche perché ancora non c'è amnistia per quelli che come me hanno partecipato, e non vorrei passare dei guai solo per aver parlato troppo dopo aver bevuto.

Ma no, mi fido di lei, e le giuro che non le nasconderò niente se posso, ma davvero, quello non posso dirglielo. Mi capisca.

No, non è vero, non ho niente da rimproverarmi. Voglio dire, adesso fanno tutti finta di niente, ci trattano come pezze da piedi, come bestie, ma non eravamo malvagi. Volevamo soltanto creare un mondo migliore.

Ah, lei può prendermi in giro quando vuole, ma era così. Eravamo dei ribelli, certo, ma non volevamo fare male a nessuno. Qualche vittima ci fu, lo so bene, ma le assicuro che nessuno di noi si divertiva a uccidere pokémon. Un mio carissimo amico che era con me a Lavender stette male per giorni per quello che vide.

Ricorda, la Pokémon Tower? No? Non si preoccupi, ci arriveremo…

(guarda l'orologio da polso) Oh, si è fatto più tardi di quanto pensassi. Le chiedo scusa, la mia fidanzata mi aspetta a casa. Non so se capisce…

(si alza, fa per andarsene, poi si ferma) No, certo che non lascio la storia a metà, io sono qui ogni sera, se lei…

Benissimo, magari limerò qualcosa per l'occasione.

Però venga un po' prima, domani.

(Esce.)

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Capitolo 2
*** Orfani del buio ***


II: "Orfani del buio"

II: "Orfani del buio"



(Rientra.)

Ah, buonasera. Vedo che è un uomo di parola, sono arrivato da neanche due minuti ed è già qui. Ancora problemi con sua moglie?

Ah, me ne rallegro. Quindi è venuto fin qua dentro solo per me? Mi lusinga… Certo che ho pronta la storia, però mi lasci bere qualcosa prima. (sorseggia da un piccolo bicchiere sul bancone)

\

\

Dunque, dicevamo… Beh, non sono molto sicuro di quando è stato l'inizio, sarò entrato… cinque anni fa, forse. Ai tempi il Team Rocket era ancora nascosto. Cioè, che esistesse lo sapevano più o meno tutti, però era un po' come quelle verità che sono di dominio pubblico, era talmente ovvio che a nessuno interessava. Eravamo una delle tante gang che si contendevano il controllo di Celadon.

Come dice? Beh, certo che la polizia sapeva tutto, gliel'ho appena… Ah, i traffici illegali. (sorride ironicamente) Mi dica, lei è uno di quelli che credono ciecamente nell'onestà delle autorità? Il governo di Kanto ci sguazzava in quei traffici, i loro emissari erano tra i nostri clienti maggiori.

Domanda legittima. Sì, avevano un certo occhio di riguardo verso di noi, forse avevano intuito che non eravamo come gli altri, che facevamo sul serio. Non che io conoscessi i rapporti dei miei clienti, voglio dire, magari quegli sbirri con cui avevo a che fare compravano anche dai nostri rivali. Quello che intendo è che… non facevano niente per fermarci, mettiamola così.

Dicevo… Sono entrato quando avevo quasi vent'anni, se non ricordo male. Dopo il liceo mio padre mi costrinse ad andare all'università, sa, quella che c'è proprio vicino al Game Corner, e… Beh, si può intuire.

Culture della Comunicazione, la facoltà era quella. Ha presente quegli indirizzi a cui i professori si riferiscono come quelli a cui si va se non si ha niente in mente? Ecco, Culture della Comunicazione ne era il simbolo, entrarci era come prolungare l'agonia dell'indecisione per altri tre anni.

Finì che non ero portato per l'università. Il primo anno ancora riuscii a tenere il passo, poi il secondo fu un disastro. Non so autogestirmi, era una cosa comune a un po' tutte noi reclute. Magari eravamo in basso proprio per quello, perché non riuscivamo a gestire dipendenti.

I Rocket li conoscevo già, comunque. Sommariamente, diciamo, quanto può saperne uno che guarda quello che succede in giardino dalla finestra di casa. I miei compagni, invece, loro sì che c'erano dentro. No, non tutti membri, e a dire il vero quelli che lo erano non facevano molto per nasconderlo. Tanto cosa vuole che gli facesse la polizia? No, in parte erano clienti, sa, a quell'età poi…

Alla fine per una serie di eventi sono rimasto invischiato anche io. Il primo giorno, quando fui introdotto al Team… Quello me lo ricordo ancora. C'erano queste chiamate in cui anche dieci o quindici nuove reclute erano convocate nel nascondiglio sotto il Celadon Game Corner e mandate nel mucchio, tutte insieme, come una mandria di mucche al macello. Certo, potevi entrare anche da solo, ma… da solo? No, non faceva per me. In gruppo ci si sente più sicuri, si ha più coraggio, e per entrare nei Rocket ce ne voleva.

Sembrò una cosa d'altri tempi. Ha presente quelle scene di vita di cento, duecento anni fa? Con la gente che danza al ragtime suonato dalla banda? Ecco, il sentore fu lo stesso. Mi sarei aspettato qualcosa di solenne, invece no, non c'era neanche un alto funzionario a presidiare. Giusto uno, un tal Hermann, uno che neanche aveva capito perché si trovasse lì, ma aveva una bella faccia e quindi ce l'avevano messo. Se la sbrigò in qualche minuto, presumo per uscire il prima possibile da quella situazione.

Il mio amico Lynn, uno che conoscevo dai tempi del liceo, mi guardava da lontano, annuendo di tanto in tanto e sfoggiando un sorriso a trentadue denti alla fine. Sembrava felice.

Dico sul serio. Uno direbbe che poco importava che fossi entrato nei Rocket, voglio dire, a me se Lynn si fosse iscritto a Culture della Comunicazione poco avrebbe cambiato. Lì no, era diverso, era come un amico che per strane circostanze diventa tuo fratello. Una cosa che sognano tutti i bambini, insomma.

Fu come un punto di non ritorno. Uscirne era impensabile, mi avrebbero ucciso… o peggio.

Oh, certo che esiste di peggio, la morte in quei casi è come salvarsi da un destino crudele. Dopo la caduta dei Rocket molti furono i suicidi, tra cui Lynn stesso. A dire il vero non so motivarmelo.

Una cosa però la so: il Team Rocket diventava la tua vita. Non esisteva qualcosa come fare altro quando ci eri dentro, ne eri completamente assorbito. Per dire, il primo mese e qualcosa già lo passavi quasi tutto là sotto il Game Corner, senza uscirne, a seguire un corso in cui ti insegnavano le basi per il comportamento in missione. Solo dopo ti lasciavano uscire, ma mi creda, ti tenevano d'occhio. Ti sentivi costantemente spiato, al punto che molti preferivano vivere nella base di Celadon, dove quantomeno era loro garantito un minimo di privacy visto che non potevi denunciare nessuno da là. Con questo meccanismo perverso attiravano sempre più persone alla causa, facendo leva sulla grande famiglia, come la chiamavano, e le reclute finivano per trovarsi in simbiosi con il resto del Team.

E se i Rocket fallivano era come se fallissi un po' anche tu, anche se magari a quella missione non avevi partecipato. Eri corresponsabile perché non eri più Miguel, il giovane speranzoso, eri la recluta numero 215. E come parte del tutto, se il tutto si smembra tu non esisti più, sei spersonalizzato.

Non parliamo poi di quando eri coinvolto anche tu nell'incarico, se andava male era l'apocalisse in terra. E il nostro primo compito… Beh, bene non finì.

(tossisce) Mi scusi, sa, sono un po' raffreddato. Forse qualche bicchiere in più mi aiuterà… (beve)

\

Dicevamo? Ah, certo, l'inizio. Cerulean City.

Fu Lynn a dirmi che ero stato chiamato. Al tempo ero dentro da due, tre mesi forse, che per i Rocket è un niente ma per me era stata un'eternità, avevo perso le speranze. Capire se eri stato chiamato poi non era così facile, non è che andavi in Condominiums Road e leggevi su un manifesto le convocazioni. Era tutto molto più nascosto. E che problema c'era? Nessuno entrava nei Rocket senza un contatto. A dire il vero, i più solo con uno.

Perché si sorprende? La grande famiglia era dentro, non fuori. I Rocket non erano una compagnia, non era uso entrare in gruppo. Non era neanche un vanto, a dire il vero.

O forse mento a me stesso, forse eravamo solo egoisti. Vede, introdurre una recluta voleva dire assumersi la responsabilità delle sue azioni, e se il tuo amico fosse impazzito per una qualche ragione avrebbero perseguitato te. Perché rischiare? Dov'era il vantaggio nell'avere più amici là dentro? In fondo, un uomo con un orologio sa sempre che ore sono, con due non è mai sicuro.

Stavo dicendo… Il viaggio per Cerulean avvenne durante la notte, lo ricordo come fosse ieri. L'arrivo, poi, quello fu spettacolare. Era estate e il sole stava sorgendo in una luce dorata. Ci aveva messi tutti di buon umore. Ovviamente per noi significava solo essere più propensi a compiere la nostra missione: quello era il nostro desiderio in quel momento.

Due erano i bersagli, e ben precisi. Uno squadrone si diresse verso la Cerulean City vera e propria, con lo scopo di causare quanti più danni possibili in modo da attrarre la polizia. L'altro, ben più numeroso, si infiltrò nel Mount Moon con lo scopo di prelevarne dei fossili.

Fu un attacco frontale, si può dire, il primo nella storia del Team Rocket, e io e Lynn ne facevamo parte! Riesce a immaginare di meglio per noi? Eravamo davvero parte di qualcosa di grande!

Il nostro gruppo fu inviato al livello più basso delle grotte sotterranee del monte. Un vero e proprio labirinto, da soli non ce la saremmo mai cavata.

Per fortuna c'era Proton. Lui sì che era un grande condottiero. Ci istruì su dove andare, ognuno di noi, ancora mi ricordo il suo modo di parlare, crudele e spaventoso.

(si alza e mima il discorso in una voce impostata e decisa) “122”, diceva, “tu vai a nordest e tieni d'occhio l'accesso… E tu, 67, coprilo qualche metro più in là. Voi due”, e guardava me e Lynn, “venite con me”.

(si sposta verso il lato destro del palco) Ci portò dalla parte quasi opposta, e mise Lynn a fare da guardia all'unica via che ci arrivava. Poi mi diede in mano una pala e mi disse “Avanti, ora scava”. Io non ho mai avuto braccia forti e dopo due minuti già non ce l'avrei fatta più; ma ero nei Rocket, e non obbedire avrebbe significato finirne fuori in un niente.

Una domanda comunque gliela feci. Mi presi questa soddisfazione. “E tu dove vai?”.

A non farmi prendere dalla polizia”, rispose. Non è che si potesse discutere un granché, con quella partenza.

(si siede) Ah, Proton, chissà oggi dov'è finito. So che ha avuto una parte in quello che è successo a Goldenrod un po' di tempo fa. D'altronde era uno che sapeva farti stare al tuo posto, un leader nato. Potevi mica dirgli niente.

E manco a farlo apposta, dopo due minuti già non ne potevo più. Il tempo di estrarre due fossili di cui neanche sapevo il valore ed ero già a carponi su quel terreno spigoloso a torturarmi le ginocchia e a grondare sudore. Ma se ho scelto Culture della Comunicazione ci sarà un motivo, no?

Chiamai Lynn una, due, tre volte senza risultato, volevo che mi desse il cambio, e pensai che era proprio un bell'amico a sparire proprio allora. Così stavo per andare a cercarlo, e mi sbuca di fronte dall'angolo lui. Era un ragazzino di undici anni vestito di rosso, e la prima cosa che mi venne in mente fu che Lynn aveva fatto il suo lavoro davvero male per farlo passare.

Ai tempi non c'era l'usanza di avere propri pokémon, anche perché quasi tutti quelli che entravano nel Team Rocket erano ex-universitari, giovani senza futuro, non certo allenatori. Quindi Giovanni ne metteva a disposizione per tutti i membri indistintamente. Ovviamente non è che tu andavi al deposito di Poké Ball e ti sceglievi le tue, no: i grandi capi prima si tenevano i pokémon migliori e poi ti passavano solo quelli più deboli, e tu finivi per girare con una squadra come la mia, ancora l'ho in mente. Un Grimer, un Voltorb e un Koffing. Ma per uno che non aveva mai allenato, del resto, bastava e avanzava.

Beh, lui era di un altro livello. Mi abbatté in tre turni, con solo il suo dannato Pikachu. Tre Tuonoshock.

Boom.

E sa, una volta che tutta la tua squadra è fulminata, poco puoi fare… Così gli ho offerto uno dei fossili. Non ho idea del perché, magari per esorcizzare la mia sconfitta. Con il senno di poi è stata una cosa che forse non avrei dovuto fare. Perché? Non si preoccupi, ci arriveremo.

Per mia fortuna c'era gente, là nello squadrone, che sapeva scavare meglio di me. Il bottino non fu tutto questo granché, e anzi la missione non andò bene. L'avevo detto, no?

Ma ero un novello, quindi a me andava a posto così. Era la mia prima missione, già avere estratto qualcosa era un successo! Come? Ah, il fossile… Helixfossile, può essere? No, niente di valore, da quella spedizione ne avevamo recuperati cinque o sei di quelli. Qualcuno però aveva trovato un'ambra vecchia o qualcosa di simile, se ho capito bene era piuttosto rara. La loro fine… Furono venduti ad alcuni musei del mondo. L'ambra finì a Pewter City.

Per quanto riguarda Cerulean in sé… Se la filarono con noi quasi tutti. Uno di loro era rimasto in una casa, però, o almeno così mi hanno raccontato. Aveva trovato una buona MT, ma era una pazzia restare allo scoperto, e l'ha pagata cara. Nel Team Rocket non si transige.

Ma ora sapevano. La polizia, la gente, tutti avevano capito che facevamo sul serio. Fu un risultato importante per noi, che fino al giorno prima eravamo trattati alla stregua di trafficanti di periferia.

\

Hm? (guarda l'orologio da polso) Di già? Non è presto?

Capisco, la moglie. Beh, non le do tutti i torti. A domani allora. Come? Certo che ho altro da raccontarle, non finisce mica qui la storia. E per fortuna. (inizia a sorseggiare a tratti)

\

\

(Esce. Una volta dietro le quinte parte il suono di una sirena di ambulanza che si dissolve dopo una decina di secondi.)

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Capitolo 3
*** Con la mia balestra ***


III: "Con la mia balestra"

III: "Con la mia balestra"



(Rientra. Il passo è lento e ha il lutto al braccio. Oltre ai due sgabelli di prima ve ne è un terzo, vuoto, posto all'angolo più distante del bancone.)

(si ferma a metà strada) Ah, buonasera, mi ha preceduto oggi. L'ora è la stessa, dice? Può essere. Ho rallentato un po', stasera. Questo… (guarda il lutto, prosegue fino al banco) È il ricordo di un conoscente. L'ha visto anche lei, tra l'altro. (indica il terzo sgabello) Ricorda, due sere fa? L'uomo che si sedeva sempre lì, a bere ogni sera. Ieri notte è entrato in coma da alcool. Dio solo sa cosa ci fosse in quel bicchiere, sapevamo un po' tutti qui che sarebbe successo.

E da lì a… Insomma, il passo è breve. Si è spento questa mattina, verso le dieci. Il suo funerale sarà dopodomani a mezzogiorno, ma dubito che qualcuno ci andrà. Forse neanche io dovrei…

\

Comunque\

Comunque è un altro pezzo di una bella storia che se ne va\

Fa uno strano effetto, sa? Non racconto fatti di ere passate\

Cinque anni\

Quante cose possono cambiare in cinque anni?\

Il mondo è sempre uguale, sempre a girare nei suoi moti millenari\

Siamo noi\

Noi che non siamo in grado di accettare che non siamo che maree che vanno e vengono\

\

Ah, la sto confondendo. Mi perdoni, è che… Non capita tutti i giorni, ecco. Non si preoccupi, tra non molto le sarà tutto più chiaro. Ero rimasto a Cerulean, giusto? (beve, questa volta una sorsata più lunga)

\

\

Molto bene, vediamo di riprendere il filo.

Dopo quella missione ci tennero in blocco per due mesi. A quanto pare era una cosa alquanto comune, lì lo chiamavano embargo. L'attacco frontale era naufragato e avevamo riportato fossili di scarso valore, quindi ci rinchiusero nella base sotterranea proprio qui a Celadon e tanti saluti, vi faremo sapere. Che vuole, metta che uno di noi si facesse prendere dal rimorso e andasse a raccontare tutto… Siamo tutti più vulnerabili quando falliamo. E noi Rocket ne affrontammo di fallimenti, eccome.

In quei due mesi non feci praticamente niente, solo ordinaria amministrazione. Del resto in embargo non puoi neanche trafficare: quello lo lasciavano agli altri, i professionisti, gli scarafaggi. Sì, così li chiamavamo. Noi rischiavamo di finire in galera a Cerulean e loro se la facevano con i drogati nei vicoli, e alla fine chi poteva servire il Team erano loro. Scarafaggi, questo erano.

Là dentro, sotto il Game Corner, non potevamo fare niente. Cioè, potevamo fare tutto, il che equivaleva a niente. Così ho passato quei due mesi a guardare una porta.

Già, una porta. L'ho guardata per tanto tempo che la ricordo ancora a memoria. Era nera, metallica, blindata, non lasciava filtrare niente. Stava in fondo a un corridoio polveroso.

Era la porta per l'ufficio di Giovanni.

Come? Ah, non ne ho ancora parlato? Giovanni era il leader supremo del Team Rocket. Beh, non lo vedevamo spesso, anzi, a vantare di ricordare la sua faccia sono in pochi, ancor meno quelli che ci hanno parlato. Diciamo che era un po' un fantasma, un'istituzione che gente come Proton invocava quando pretendeva ubbidienza cieca. Il suo carisma ignoto entrava in gioco quando i nostri superiori accennavano a perderlo. E visto che non era una persona ma un simbolo, il suo prestigio non sarebbe mai morto.

Due mesi a guardare quella porta, nascosto lontano dal corridoio. Ogni tanto qualcuno con la paura in faccia la apriva, entrava, la chiudeva, poi dopo qualche minuto ripeteva il gesto, di solito con un volto più ansiogeno di prima, e se ne andava di buon passo. Quando però l'entrata si apriva senza che nessuno prima fosse entrato mi nascondevo, perché voleva dire che Giovanni stava uscendo, e guai avesse saputo che lo spiavo.

Una volta però sono rimasto. Non so che mi fosse preso. Forse perché era tardi ed ero stanco, e ci ho messo un po' a capire che stesse succedendo, o forse perché qualcosa dentro di me voleva restare lì. Sono stato impalato alla mia postazione per due, forse tre secondi. Poco? Forse, ma l'ho visto.

Mettiamo in chiaro: il corridoio era buio. Quello che ho scorto l'ho scorto grazie alla luce dell'ufficio che filtrava dall'apertura, prima che la spegnesse. D'accordo, in realtà non l'ho praticamente distinto dal buio. Ma di una cosa sono sicuro, diamine: era basso.

Basso!

Capisce? Il leader dell'organizzazione più potente di Kanto era qualcosa come due terzi di me! Come poteva trovarsi così in alto nella scala sociale? Io, io mi ero sempre fatto un vanto perché ero quasi un metro e novanta, e poi arriva questo Giovanni che è uno e sessanta e ha più soldi di quanti io ne vedrò mai! E quel ragazzo che mi ha umiliato nel Mount Moon, mi dico, anche lui era basso! È tutto un complotto, un dannato complotto!

\

In altri momenti sarei rimasto lì a parlare da solo per ore. Per fortuna rinsavii, e me ne andai in fretta.

Poi, dopo i due mesi, l'embargo fu rotto e ci assegnarono subito una missione. Eravamo tutti abbastanza freschi, Cerulean era nel passato, e anche io che di solito non dimentico avevo lasciato dietro di me l'incontro con il ragazzo. L'idea di tornare in azione, poi, mi esaltava come non mai.

Questa volta toccava a Lavender. Nel viaggio notturno fummo accompagnati da Petrel, uno dal comportamento molto più mansueto di Proton. Non aveva pretese di comando, molti si chiedevano come fosse arrivato a essere generale, sembrava uno di noi.

Ciò però aveva un prezzo: non era pronto ad affrontare una crisi. Certe volte, anni dopo l'accaduto, mi sono ritrovato a pensare che con uno come Proton a prendere in mano la situazione non sarebbe successo quanto è successo. Ma la storia non è giusta. Beffa, capovolge, ci costringe a mondi sbagliati in tempi sbagliati, e lamentarsi di come è stata sleale con noi è inutile.

Ci muovemmo la mattina presto, lasciando Celadon e aggirando Saffron per non dare troppo nell'occhio. Arrivammo a Lavender Town di prima mattina, ma il cielo era nuvolo, senza traccia di quell'alba che avevamo visto a Cerulean. Tra l'altro mi pare di ricordare che Lynn, anche lui chiamato, avesse preannunciato un temporale. Forse era un segno, non saprei.

Come? Ah, l'obiettivo, certo. La Pokémon Tower, ovviamente. L'idea era abbastanza semplice: rapire degli esemplari di Cubone per venderne i teschi. Nessuna idea è semplice però quando devi attuarla, e così fu anche per noi.

Ci introducemmo intorno alle sette e qualcosa nella torre. Ricordo ancora Petrel, con la sua voce gracchiante, che disponeva le reclute per impedire ai medium che affollavano in preghiera l'edificio di intervenire. Non era normale però. Non facevano resistenza, non si opponevano, sembravano non essere nemmeno coscienti.

Cosa fanno?”, ricordo di aver chiesto a Lynn, “Perché non attaccano?”.

Forse hanno paura, vai a capire”.

Una risposta me la sono data, io. Erano i fantasmi, secondo me li possedevano. Per qualche ragione volevano che noi salissimo ai piani superiori. Nei mesi successivi mi sono domandato spesso se in non so che modo sapessero già cosa sarebbe successo e ci avessero assecondati per puro sadismo.

Come? No, non parlo di pokémon. Lei non crede ai fantasmi veri, quelli di persone? No, immaginavo. Fino ad allora neanche io. Ma avrebbe dovuto vederli, diamine, i loro occhi erano qualcosa di indescrivibile, erano vacui e insieme infiammati, e nessuna delle due al contempo. Liberissimo di non credermi, certo, ricordi: i fantasmi sono ciò che noi crediamo essi siano. Non hanno una loro essenza.

Quando arrivammo all'ultimo piano, ci si parò un vecchio davanti, affermando di chiamarsi Fuji e di volerci impedire di fare qualsiasi cosa stessimo facendo. Ancora mi spiace per la sua ingenuità.

No, non lo uccise: Petrel lo sconfisse e lo costrinse a rimanere con noi. Io, che ero uno dei pochi arrivati fino a lassù, gli chiesi perché. Mi rispose (con voce stridula) “Così prendiamo due piccioni con una fava”.

Non ha capito? Sul momento nemmeno io, ma in realtà è abbastanza facile: il vecchio era l'ostaggio perfetto. Con lui prigioniero la polizia non avrebbe osato avvicinarsi, e noi l'avremmo fatta franca. Quanto a me, io rimasi come ho detto al piano più in alto, con lo scopo di appropriarmi dei Cubone.

Ah? Sì, ha senso come domanda. Ma vede, non era nostro obiettivo affrontarli in battaglia. Ci avremmo messo troppo tempo. A noi, noi che eravamo stati scelti per quel compito, diedero\

\

\

(beve, poi si alza nervosamente) Diedero delle armi. Non ricordo di che tipo, né penso importi qualcosa. Armi. Noi non eravamo preparati, ce lo dissero lì. Come se fosse la cosa più normale del mondo. E io\

\

(calcia il suo sgabello, inizia a parlare con voce rabbiosa) Se ti danno una penna e un foglio bianco, che cosa puoi fare?

Oh, magari all'inizio pensi ad altro, non hai l'impulso. Non c'è nessuna ragione per cui dovresti scrivere. Perché? Non ha senso. Sono padrone di me stesso.

\

Ma dentro una stanza fredda e chiusa, a passare le ore. Solo, tu e il foglio e la penna, a guardarvi come degli idioti.

Impazziresti!

E alla fine proprio per questo scrivi. Per rimanere padrone di te stesso.

\

\

Un Marowak cercò di resistermi. Sì. Era un Marowak, non un Cubone.

Anzi, una Marowak, si vedeva dagli occhi. Ancora ce l'ho in testa, quel teschio bianco e le sue rigature grigiastre, e il suo dannato osso in mano. Voleva difendere i suoi piccoli. Che le importava se in quel momento io non potevo fare altro?

Una penna e un foglio.

Io non volevo. Lei mi ha costretto.

Mi tira quel maledetto osso.

Dritto\

in\

fronte.\

Un dolore atroce. Lei ha idea di quanto faccia male? Da dietro iniziano ad urlare. Uno si avvicina, fa per tirarle un calcio, e lei di nuovo con l'osso. E io ancora non ragiono, e Petrel dal fondo ci urla di sbrigarci, che c'è qualcuno che sta aprendo la strada alla polizia salendo la torre.

Chi?”, chiede qualcuno.

Un bambino”, ci fa.

E io ancora non ragiono, mi premo la fronte con il palmo della mano, mi sento morire, e mi sale al cervello l'immagine di quel maledetto ragazzino in rosso che mi ha umiliato al Mount Moon. Io non ci pensavo da mesi, e mi torna in mente proprio lì, in quel momento.

E poi arriva di nuovo l'osso, nello stesso punto di prima, e un verso esasperante della Marowak che continua a difendersi. Mi risuona in testa e si mescola tutto, il dolore, il verso grave e graffiante, la figura del ragazzino, lo strazio, il verso, il ragazzino, le urla delle reclute dietro di me, l'osso torna in mano alla Marowak, il dolore, la stanza gelida mi chiama, Petrel mi chiama, tutti mi vogliono e io non ci sono, non voglio esserci!

\

\

(con voce più calma) Il foglio\

e la penna.\

\

\

\

(respira profondamente) Con un solo gesto zittii tutto. Un solo rimbombo mi fece sobbalzare il cuore, poi più nulla. Tutti ancora gridavano, ma per me non c'era più niente, era come essersi immerso sott'acqua. Il tempo sembrò rallentare, riuscii a percepire ogni istante. Ma uno solo è quello che mi resterà sempre in testa.

Quando i suoi occhi divennero vuoti. Quando il bagliore della vita li abbandonò, ed essi precipitarono nel buio assoluto, prima di roteare verso l'alto, mentre la sua bocca si dischiudeva in un lamento soffocato.

I Cubone che prima stava proteggendo si affollarono intorno a lei, chiamando il suo nome, o poteva essere il mio, non lo saprò mai. Qualcuno mi prese da dietro e iniziò a trascinarmi via. Non opposi resistenza, non avevo nemmeno le forze di trattenere in mano la mia penna, quella con cui avevo scritto quelle righe.

Penso a quel punto di essere svenuto, anche se in effetti mi dissero che era più simile a una specie in coma. Comunque, non mi svegliai fino al giorno dopo in un letto della base di Celadon. L'unica spiegazione che so darmi è che sia stata una reazione del mio corpo per evitare che ammattissi.

Perché ho rischiato. Ho rischiato davvero.

L'ultima immagine che conservo di quella torre sono gli occhi vuoti della Marowak, il suo teschio accasciato al suolo, e i Cubone che la circondavano.

Non ricordo nemmeno che cosa provassi. Forse rabbia, forse frustrazione, forse impotenza, rimorso, conati di vomito, o forse tutte o nessuna. Non ha alcuna importanza.

E questo è tutto ciò che ho da dire a riguardo.

\

\

\

\

Sì, non si preoccupi, sto bene. Chieda pure.

Ah, ha ragione, non l'ho detto. L'uomo che si sedeva sempre su quello sgabello a bere… Il suo nome era Masato, ed era il figlio di quel Fuji che Petrel aveva preso in ostaggio. Nonché il proprietario di quella Marowak.

Ricorda bene, l'ho detto ed è così, ci ho parlato. Un po' più di qualche volta, in realtà. Diciamo che lo conoscevo. I suoi problemi d'amore… Dopo la morte del pokémon non si era più ripreso, e sua moglie l'ha lasciato per insofferenza. Brutta storia.

Perché le suona così strano che fossimo in rapporti stretti? Si guardi intorno. Guardi chi si trova in questa taverna. Siamo dei reietti, dei falliti, degli emarginati. Siamo la fetta di mondo che nessuno vuole, e siamo confinati qui perché il resto della gente pensa di essere troppo perfetta per noi. Se non ci sosteniamo l'un l'altro che fine faremo? Faremmo il gioco di quegli ipocriti.

Già, ipocriti. Chi si trova qua è chi ha accettato la propria condizione di essere umano. Chi non è passato per questa bettola non ha mai davvero compreso se stesso.

Compreso la verità.

Che davanti all'Universo i nostri problemi non hanno senso. Per questo beviamo. Non per dimenticare, quello è per i deboli, quelli al di fuori di qua.

Beviamo per sapere, per ricordare l'Universo.

Beviamo perché quando l'Universo ci soverchia i nostri problemi appaiono talmente piccoli che perdono significato.

Beviamo per guardare oltre quelle montagne che ci impediscono di carpire l'essenza, il noumeno, ciò che ci è precluso.

I pensieri. Quelli che ci illudono di poter arrivare alla perfezione e invece non fanno che allontanarci da essa. Che ostacoli inquietanti, non trova?

\

\

(Esce.)

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Capitolo 4
*** Kyrielle dei falliti ***


IV: "Kyrielle dei falliti"

IV: "Kyrielle dei falliti"



(Rientra con indosso un cappotto e un sorriso nostalgico.)

Ah, buonasera, vedo che anche oggi è qui prima di me. No, questa volta ho camminato a passo normale. (si siede al banco e si sveste degli abiti pesanti) Ha visto che nevicata? Tutto imbiancato. Mentre venivo qui mi sono fermato un po' a guardare i vetri appannati e le luci calde all'interno delle case.

Ricordo solo un'altra volta nel recente passato in cui ne sia rimasto così incantato. È stato un giorno di dicembre di ormai quattro anni fa. Curioso, non le pare? È proprio la parte di storia che devo raccontare oggi. Uno direbbe che la natura stessa sia interessata.

\

Bene, allora\

Che strana domanda mi fa. In effetti è vero, finora prima di iniziare ho sempre bevuto. Ma non ricorda quello che le ho detto ieri sera? L'alcool serve per superare i pensieri, per oltrepassarne la barriera, per ricordare l'Universo.

Ebbene, io non voglio farlo. Non stanotte. Non sono legato al Team Rocket a caso, per un mal disposto senso nostalgico. Non ho dimenticato il mio crimine nella torre, né il mio fallimento generale nel guadagnare una qualsiasi posizione di prestigio. Anzi, non fosse per quello che sto per raccontare odierei i Rocket e il tempo sprecato in quell'organizzazione. O magari mi sarei suicidato alla loro caduta, chi lo sa.

Ma non è così. La storia, o forse il destino stesso si era ritagliato uno spazio perché potessi cambiare idea. Per questo non berrò questa notte.

A questi ricordi io sono legato, ed essi sono legati a me.

Questi ricordi, che pur tanto sono vicini a quelli che disprezzo, sono quanto di più caro ho al mondo. Perché, le dico, noi non siamo né carne né sangue né anima.

Noi siamo la nostra memoria, è lei che ci differenzia l'uno dall'altro e senza la quale non saremmo che copie indistinte l'uno dell'altro.

Ecco perché non li ho persi, ecco perché non ho mai cercato di annegarli nei fumi dell'alcool, ed ecco perché in questa sera di neve l'Universo può aspettare.

Perché se non fosse stato per Amalia oggi io sarei una persona completamente diversa.

\

\

Lavender, Marowak a parte, fu una missione tutto sommato riuscita. Dai Cubone catturati ricavammo parecchio, e poco importava del riuscito intervento della polizia nella torre che ci aveva fermati presto. Nessun embargo, questa volta. Ovviamente a parte me.

Io infatti avevo commesso un reato che raramente al Team Rocket passava impunito: avevo ucciso un pokémon. O meglio, impunito non è la parola giusta. Non è che mi guardassero male per averlo fatto. Inosservato, ecco: un reato che non passava inosservato.

Ora, se fossi stato, non so, Proton, si sarebbe sorvolato. Ma io ero una recluta, ero andato in missione solo due volte, e con i possibili sensi di colpa derivanti ero una mina vagante. Passai i giorni immediatamente successivi al mio risveglio nell'angoscia. Insomma, mi avevano fatto stare là dentro due mesi per aver fallito una spedizione, se quello che Lynn mi raccontava era vero sarei potuto rimanere là dentro anche anni. Tremavo all'idea.

Invece la pena fu abbastanza leggera, tutto sommato: sette mesi. Sì, un'eternità, ma non quanto mi aspettavo. Avevo anche di che essere felice, insomma.

Non ricordo se le ho parlato, l'altro ieri, del corso che toccava alle reclute durante il primo mese. Sì? Meglio, così risparmio tempo. In breve mi costrinsero a ripeterlo, forse per assicurarsi che la mia preparazione fosse adeguata. I primi tempi trascorsero così, imparando nozioni che avevo dimenticato e ricordando quelle che conservavo solo vagamente. Finito il ciclo di lezioni, per me abbastanza noioso rispetto a come, da nuovo arrivato, l'avevo seguito la prima volta, mi ritrovai di nuovo con niente da fare. Non avevo scontato neanche un sesto della mia prigionia ed ero già disoccupato. Tutto bene, insomma.

Così, per ammazzare il tempo, decisi di seguirlo di nuovo da capo. Questa volta però le lezioni mi importavano poco o niente: mi concentrai sulle persone. Già nelle ultime settimane avevo smesso di prestare attenzione, in parte anche perché non sopportavo i tecnicismi che mi costringevano a imparare, che mi ricordavano troppo l'università; e già allora mi ero divertito a osservare le altre reclute, a vedere chi arrivava e chi se ne andava, mentre io nel mio embargo restavo sempre lì, scoglio tra i flutti. E proprio in questa osservazione, poco prima della fine del secondo mese, mi soffermai su Amalia.

Allora ovviamente non sapevo ancora il suo nome. Mi riferivo a lei come recluta 83, il numero che appariva sulla sua uniforme. Io ero il 215, il che significava che lei era nei Rocket da abbastanza prima di me. Già questo avrebbe dovuto mettermi la pulce nell'orecchio, perché il corso avrebbe dovuto seguirlo appena nel Team, e non anni dopo. Un'altra cosa però mi fece aprire gli occhi.

Ero certo di averla notata diverse volte là nell'aula, al punto che non ricordavo una sola lezione in cui non l'avessi vista entrare dalla porta. Io ero lì da ben più del canonico mese di indottrinamento: come si spiegava il tutto? Nei giorni seguenti iniziai a esaminarla per sempre più tempo, arrivando a ignorare intere lezioni per dedicarle la mia attenzione.

La cosa che prima mi saltò all'occhio fu la sua capigliatura, di un colore tra il biondo e il rame, acconciata a caschetto e con due ciocche più lunghe che scendevano dalle tempie. Solo poco più avanti riuscii a scorgerne distintamente il volto, e ne rimasi sconvolto. Non so se lei ha mai incontrato una ventenne che sembri aver mantenuto il volto di una bambina, ma sono quasi certo che sia un evento raro.

Eppure non troverei altre parole per descriverla: tutto, dal sorriso ingenuo agli occhi verde acqua, sembrava rubato a una ragazza di dieci anni al massimo, senza il minimo cenno di quei connotati tipici degli adolescenti. Non so, ha presente lo sguardo? Quello cambia molto quando si cresce, eppure quello di Amalia pareva rimasto tale dalla nascita.

E più scoprivo di lei, più una sola grande domanda mi assillava: come diamine aveva fatto a finire nel Team Rocket?

Voglio dire, io, io ero uno adatto a quel mondo assurdo. Io ero quello incapace di andare avanti con l'università. Io ero quello che non sapeva gestire la tensione di una semplice missione. Che cosa poteva aver mai fatto una come lei per essere equiparabile a me?

Con il tempo decisi che non avrei potuto mai continuare senza saperlo. Non saprei dire perché, ma sentivo che era una cosa che ero in diritto, no, in dovere di conoscere. Così la cercai, un pomeriggio in cui si gelava, per i corridoi nella base. Vagai per un po', e già mi davo dell'idiota da solo. Cosa vai in giro, mi dicevo, ci sono cinque gradi, chi vuoi trovare? Se ne saranno tutti usciti, nessuno resta qua sotto in inverno senza riscaldamento.

Impazzito prima ancora di parlarle. Non precisamente quello in cui speravo.

Invece, per un miracolo inatteso, la vidi da sola, seduta a un enorme tavolo, assorta nei suoi pensieri.

\

\

(si alza e inizia riprodurre i movimenti descritti nel racconto) Dapprima mi fermo, poi inizio ad avvicinarmi e mi sento morire dentro, perché la sto disturbando per una ragione stupida. A un certo punto penso anche di girarmi e correre via, ma non se ne parla, mi dico, perché non mi darei pace e sverrei dall'imbarazzo a ogni incontro. E se poi ci mandassero in missione assieme? No, è proprio fuori discussione.

D'accordo, penso, è facile, e nel frattempo mi sono già visto almeno tre volte la discussione che voglio intavolare. È tutto pianificato. Cosa può andar storto?

\

A un certo punto lei alza la testa e dice “Ciao”.

Ecco, è finita, è saltato tutto. Dovevo iniziare io, ora il piano è rovinato! E poi dovevo darle del lei, e ora invece devo cambiare strategia! Sono già impazzito?

Ciao”, rispondo per inerzia.

Ti serve qualcosa?”.

Ah, in effetti… Voglio dire, ho notato che sei sempre alle lezioni, al corso sulle missioni”.

Già”. Sorride. Ha un timbro di voce infantile e maturo al tempo stesso, qualcosa che non avevo mai sentito prima.

Io… ho visto che sei lì da parecchio, anche se il corso dura un mese. Io ci vado perché non ho niente da fare, non posso uscire per un po' di tempo”.

Ah, anche tu?”.

Già”.

Già. Che razza di risposta è? Chiedile perché, chiedile quanto, diamine, ne hai di opzioni e tu vai su già? È colpa tua, è tutta colpa tua, hai mandato tutto al diavolo.

Io mi chiamo Amalia, tu?”.

Amalia, che bel nome. Familiare ed esotico insieme. “Io Miguel, piacere”, rispondo, ma nella mia testa rimbomba la stessa frase: non fare l'idiota.

Non fare l'idiota.

Non fare l'idiota.

Scusa, ma tu come mai sei chiusa qui?”.

Sono uno scarafaggio”, risponde, “Due mesi fa la polizia mi ha quasi arrestata per contrabbando. Quindi mi tengono qua”.

\

\

(si siede) Non so se può capire la sensazione di ingiustizia che provai in quel momento. Non solo Amalia era in un'organizzazione per derelitti come i Rocket, non solo era costretta a portare sulle spalle quell'appellativo che prima mi era sempre sembrato naturale e che ora mi ripugnava, ma era anche stata segregata come me nel sotterraneo. Mai come allora io e il Team eravamo stati così distanti.

Nelle settimane successive parlammo sempre più spesso. Non so dire se al tempo mi fossi innamorato, interpretavo ciò che provavo verso di lei più come un misto di ammirazione e compassione. Una cosa è certa: con Lynn sempre più preso dalle sue missioni con i Rocket, Amalia divenne l'unica persona con cui potessi parlare.

Scoprii molte cose di lei che la sola osservazione non mi aveva rivelato: per esempio era una scrittrice. Mi spiegò che quello era il motivo per cui frequentava il corso: i Rocket non le avrebbero mai permesso di scrivere per conto suo, aborrivano queste pratiche creative, e Dio solo sa cosa sarebbe successo se fosse stata scoperta. In occasione delle lezioni, però, poteva dissimulare come appunti i suoi lavori.

Non era una grande artista, in realtà: io stesso, che non ero propriamente un letterato, volendo potevo scrivere meglio di lei. Eppure, per qualche strano fenomeno, quando vedevo la sua mano muovere la penna sul foglio le parole sembravano acquistare una profondità del tutto nuova, e apparivano perfette nella loro collocazione.

Le settimane che seguirono furono tra le migliori della mia vita. Dico sul serio, difficilmente ne ricordo di paragonabili. Sembravo avere trovato una mia collocazione, finalmente, in quel mondo di pazzi. Io, sempre stato chiuso per natura, stavo prendendo contatto con quell'Universo al di fuori di me che era altrettanto spettacolare.

Forse di più?

\

\

E poi è dovuto crollare tutto. Come un castello di carte distrutto quando stai per mettere l'ultima al suo posto. È venuto giù tutto.

\

A dicembre, in un giorno di neve a Celadon, circa a metà dell'embargo, fu data uscita libera a quelli che come me si trovavano reclusi. Un giorno soltanto, dalle sette alle diciannove. A quanto ho capito eravamo in tre o quattro, e pare fosse una cosa abbastanza comune lasciare uscire in un giorno d'inverno, immagino perché d'inverno si può fare poco. Giusto evitare di andare in posti più freddi, diciamo.

Di prima mattina io e Amalia ci eravamo dati appuntamento nell'atrio appena prima delle scale che portavano al Game Corner. Lì mi disse molte cose, e anche se sul momento non capii perché, a posteriori erano quasi una confessione di quello che stava per fare. Comunque mi fece promettere di non rivelarle mai a nessuno, quindi temo dovrà rassegnarsi.

Una cosa però la posso dire. Quel giorno, non so perché, le chiesi perché era entrata nei Rocket. Non che mi aspettassi risposte, e infatti non ne arrivarono.

Però mi raccontò una leggenda, un mito della tradizione di una civiltà antica. Secondo quanto raccontava, il mondo non era altro che un disco piatto che poggiava su una gigantesca tartaruga.

Non ha senso, risposi, su cosa poggia la tartaruga? Lei rise, come se avessi chiesto la cosa più ovvia del mondo, e mi spiegò che quello avrei dovuto capirlo da solo. La ragione per cui era entrata era la base della tartaruga.

Che base fosse?

\

\

Non me lo rivelò mai. (si ferma come sovrappensiero)

\

L'ultima frase che mi disse prima di salutarmi fu: “Ritrova il contatto con la Natura”. Poi se ne andò per la sua strada, senza che io avessi capito che volesse dire.

Era il mio giorno libero, in ogni caso. Come l'avrei sfruttato, non lo sapevo. A dire il vero avrei preferito che non ci fosse stato, perché stavo benissimo con lei là sotto. Ma lei non ci sarebbe stata comunque, quindi a quel punto che senso aveva ignorarlo? Le prime ore di libertà le spesi così, a pensare cosa fare delle rimanenti. Una po' come la vita, non trova?

Poi a un certo punto mi convinsi che Amalia aveva ragione. “D'accordo”, mi dissi, proprio ad alta voce, per esserne più sicuro, “sei stato laggiù per mesi, devi ritrovare la Natura”. Non sapevo bene come, ma dovevo. Mi misi a riflettere: cosa significava per me la Natura? E mi risposi: “Beh, da piccolo ti piaceva andare al mare. Da quanto non ci vai?”. Parecchio.

Così andai di filato alla stazione di Celadon, senza bagagli e con solo i soldi per il biglietto, e presi un treno per Fuchsia City, che era l'unica spiaggia che ricordavo. Quando scesi si ghiacciava, anche se non nevicava più. Saremo stati vicino allo zero, ma non mi importava, nella mia testa risuonava quell'ordine categorico. Dovevo ritrovare la Natura.

La spiaggia era desolata e coperta di conchiglie rotte, non proprio come me la ricordavo. Oltretutto era pure nuvolo e l'acqua aveva un colore spento. Andava bene, comunque.

Mentre viaggiavo me ne ero sempre più convinto. Dovevo immergermi, fossi dovuto morire congelato. Mi spogliai, anche se tanto non mi sarei mai asciugato, ma tornare dai Rocket con i vestiti fradici sarebbe stato imbarazzante. E poi non vestivo qualcosa di diverso dall'uniforme da mesi. Non se ne parlava proprio, dovevo preservarli.

Iniziai ad avanzare verso l'acqua con lenta certezza. Non appena mi sfiorò un'onda avvertii una fitta gelida. Era davvero fredda, ma fredda da toglierti il respiro.

No, devo proseguire, così avanzo fino a quando tutto il mio corpo meno collo e testa è sprofondato in quel mare glaciale.

\

Non provo niente.

Sì, insomma, mi aspettavo chissà quale rivelazione, ne ero seriamente persuaso. E poi era stata Amalia a dirlo, non potevano essere state parole al vento.

Poi un dubbio mi fulmina, così, all'improvviso.

Che cosa sto cercando?

La Natura?

E che cos'è?

Come posso trovare qualcosa che per sua costituzione non è sussistente, che i filosofi si sono arrovellati nel definire?

Qualsiasi cosa io facessi sarebbe una forzatura. Io so quello che voglio, non sarebbe mai spontaneo. Ma la Natura è spontanea, quindi senza quella semplicità non potrò mai vederla, mai riuscirò a scorgerla attraverso la maschera della finzione. Cerco un atto, un atto genuino e istintivo. Devo essere sicuro di non interferire.

Ma non è possibile non interferire. I nostri pensieri sono incontrollabili, e se io per esempio ora mi soffermo sul cielo o su un oggetto non sarò mai veramente sincero. Sarà chiaro che non lo sono. Non posso ingannare la Natura.

\

Forse ho capito. Devo andare sotto completamente. Se lo faccio il mio istinto di sopravvivenza non potrà che subentrare impedendomi di morire e riportandomi alla luce. È il solo gesto autentico che possa compiere in questa situazione.

Lo faccio, e via con un'altra fitta e altro fiato mozzato.

\

Ma ne valeva la pena.

\

Quando riemersi e inevitabilmente inspirai l'aria aperta mi sembrò di essere rinato. Riuscivo di nuovo a vedere. Rimasi per un po' fermo a fissare l'orizzonte immobile e le nuvole che delineavano strane figure sullo sfondo della cappa grigiastra.

Poi abbassai lo sguardo fino a notare un solo, unico riccio di mare che galleggiava sulla superficie trasparente, e rimasi a osservarlo per un minuto o forse più, lui soltanto, finché un rigonfiamento dell'acqua non lo sommerse e non lo vidi più risalire.

\

\

Avevo ritrovato la Natura?

\

\

\

\

\

Non importò nulla\

perché\

quando tornai\

crollò tutto.\

\

La attesi fuori dal Game Corner, tra le strade innevate e le luci delle case. Finché fu possibile, finché non giunsero le diciannove. Poi rientrai, ma anche lì vegliai fino all'alba successiva, nascosto sotto le scale che portavano di sopra, sperando di vederla scenderle. Magari era in ritardo. Magari era\

\

(sospira) No, non lo era. Non puoi essere in ritardo, con i Rocket. Se n'era andata, era fuggita. Il che, visto che parlavamo dei Rocket, equivaleva a dire che era morta.

Nessuno fugge, lo ricordi: “Una volta dentro, dentro per sempre”.

\

\

Amalia lo sapeva. Sapeva che l'avrebbero uccisa.

Ma aveva fatto una scelta.

La scelta tra restare chiusa in un buio sotterraneo in attesa di tornare a infrangere la legge o rincorrere la libertà per poche ore. Entrambe le vie conducevano alla morte, era tutto sul dolore il dilemma.

\

(emozionato) Perché\

Secondo lei perché era entrata nei Rocket? Perché si era rovinata la vita?

Se tutto fosse andato diversamente\

Se ci fossimo incontrati prima\

Avremmo potuto essere io e lei, e non ci sarebbe stato bisogno di quell'illusione del Team Rocket. Avremmo potuto vivere insieme le nevicate, insieme le notti sotto le stelle, insieme le gioie e insieme i dolori. I Rocket non ci avrebbero mai rinchiusi nella loro corruzione, nel loro azzeramento dei sentimenti umani, nella loro somministrazione di falsi ideali e di emozioni irreali.

Invece Amalia era rimasta vittima del suo desiderio di indipendenza. Non me lo disse mai, ma sono quasi certo che fosse entrata nel Team attratta dalla finta autonomia che offrivano, e alla fine invece ne era rimasta schiacciata.

\

E io\

Io ero ancora vivo.

Costretto a portare sulle spalle il peso della Marowak, di ciò che io stesso avevo scritto. Ero senza un amico al mondo, senza una casa, senza l'unica persona che in quelle settimane mi aveva capito e che io avevo amato più di me stesso.

Ma soprattutto ero vivo senza averle detto niente. Di ciò che ho raccontato oggi, e di molto altro. Di ciò che mi aveva insegnato, di ciò a cui mi aveva spinto, del mutamento che aveva innescato. Del percorso che mi aveva spronato a intraprendere e lungo il quale, finché aveva potuto, mi aveva accompagnato tenendomi per mano.

Di ciò che io e lei saremmo potuti essere. Ciò che io avrei voluto che fossimo.

Che io che ero e sono una mente razionale ero pronto a rinunciare a ogni convinzione sull'Universo di fronte all'imperscrutabilità dell'anima, all'evanescenza delle emozioni.

Che senza di lei non c'era tempo né spazio, che aveva trasformato l'inferno in Terra in incommensurabile piacere.

Che vivevo ogni notte come una morte che perdurava fino al risveglio, che non sarei riuscito a sorreggermi da solo, che avevo bisogno della sua voce per non ricadere negli incubi.

Che lei non valeva questo mondo oppressivo, che era oltre ogni perfezione, come un angelo intrappolato nella dimensione dei mortali.

Che non potevo sorridere senza di lei, e che se anche fossi riuscito a farlo non sarei stato che un verbo in attesa del suo oggetto.

Che per la prima volta da mesi ero arrivato a ringraziare il Team Rocket perché l'avevo conosciuta.

\

\

E la cosa peggiore era che ero sopravvissuto a tutto ciò, ritrovandomi con tempo e nessun modo per utilizzarlo.

Come un uomo senza pensieri condannato a un'immortalità meccanica. (inizia a fissare di fronte a sé ignorando l'interlocutore)

\

\

(Si riveste con il cappotto ed esce. La pausa tra un atto e l'altro è più lunga.)

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Capitolo 5
*** Elegia per un albatro abbattuto ***


V: "Elegia per un albatro abbattuto"

V: "Elegia per un albatro abbattuto"



(Rientra.)

\

Ah, buonasera. Questa volta non mi ha anticipato, vero? Sì, non si preoccupi, sto meglio. D'altronde devo ancora raccontare un buon pezzo di storia, no?

Bando agli indugi, direi. (beve)

\

\

Dopo la scomparsa di Amalia avevo ancora da scontare metà dell'embargo. Come le ho già detto, non c'era granché da fare ora. Ma in qualche modo il tempo dovevo pur passarlo, e non ero certo in vena di farmi nuovi amici. Non che fossi in depressione, ma poco mancava.

Ci sono certe cose che sono inevitabili. Come mangiare quando si ha fame. O lo fai o muori, non è che puoi scegliere. Io chiuso là sotto c'ero già stato per qualche mese, ricorda? Dopo Cerulean. Era ovvio che sarebbe finita nello stesso modo.

\

Eh già, la porta.

Fu come rincontrare un vecchio amico. Ci avrei quasi parlato, tanto non c'era nessuno, e poi io volevo parlare con qualcuno. Però mi trattenni.

La osservai per una settimana buona, lì, fermo, senza più incontrare Giovanni che era rintanato là dietro. Poi, poi successe l'imprevedibile.

\

Si immagini la scena. Saranno le sette di mattina, il riscaldamento non è ancora acceso da nessuna parte, e io me ne vado lì con l'aria quasi allegra con l'intenzione di fissare la porta per almeno un paio d'ore. La conosco già a memoria, ma chi se ne frega? O quello o il corso di missioni. Ma quello mi ricorda troppo Amalia, quindi no.

Perciò dicevo, vado lì, e la trovo\

aperta.

Non so se può concepire la mia faccia.

Era spalancata, con la luce accesa e tutto, ma di Giovanni non c'era traccia. Com'è normale, chi si sveglierebbe a quell'ora per andare a lavorare?

Entrai in un misto di euforia e panico. L'avevo osservata per giorni, anche mesi se contavamo il primo embargo, e ora era aperta. Un mondo completamente nuovo, ero come un bambino che scopre una stanza della sua casa, o che riceve un nuovo giocattolo. Dovevo entrare, non c'era alternativa.

Attraversai quell'infinito corridoio polveroso con una paura che neanche può pensare. E se mi avessero preso? Mi avrebbero ucciso! Ah, ma che cambiava? Mi andava quasi bene.

Cado in trance\

entro\

e faccio la cosa più stupida che potessi fare.

Spingo la porta all'indietro. Così, d'istinto.

Tonf-clac. Un suono sordo e una serratura che scatta. Ci metto qualche secondo a capire che cosa ho appena fatto. Mi giro terrorizzato per vedere confermate con orrore le mie peggiori paure.

La chiave non c'è. Mi sono appena chiuso nell'ufficio di Giovanni.

Frugo a destra e a manca per cercarla. Non c'è. Ovviamente, chi lascerebbe la chiave per una stanza dentro la stanza?

È fatta, mi dico, sono fregato. Non posso uscire. Giovanni è l'unico che può aprire, entrerà, vedrà che mi sono intrufolato senza il suo permesso e mi rinchiuderà nelle segrete in un battito di ciglia. Mi maledico in ogni lingua possibile.

Poi subentra un'altra voce, più serena, che mi dice: calmati. Non c'è ragione di deprimersi, ormai la frittata è fatta. Sfrutta bene le tue ultime ore di libertà.

Non ha tutti i torti. Mi guardo intorno: è proprio un bell'ufficio. Spazioso, ben arredato, con una miriade di posti da esaminare. Vado allo scaffale con i libri e mi metto a scorrere i titoli. Io non leggo, quindi non li ho mai sentiti, però non importa.

Poi mi metto a rovistare tra gli scatoloni e ne trovo uno pieno zeppo di cinture da Poké Balls, probabilmente quelle che usa Giovanni nei suoi scontri. Non capisco se siano tutte uguali o no, e poi che mi frega? Ne prendo una da tre sfere, per sentirmi un po' a casa, e me la lego alla vita. Provo un'ebbrezza mai vissuta prima. Io, Miguel, che fino a ora ho solo tenuto con me Voltorb e Grimer, ho una squadra che ha preso in mano il gran capo dei Rocket prima di me! Ora sono io Giovanni!

Già, mi dico. Sono io. Getto un'occhiata alla scrivania, affollata da progetti astrusi sulla Silph Company, e mi sale in testa un'idea balzana. Senza pensarci su due volte mi metto sulla sedia, anche se in effetti è più un trono, e mi fingo il boss del Team che riceve il giovane Miguel.

(si alza e alterna una voce profonda a quella naturale, mimando un dialogo)


Buongiorno, giovanotto”.

Buongiorno, signore”.



Come mai qui?”.

Vede, sono rimasto chiuso qua dentro…”.



E cosa intende fare?”.

Beh, come prima cosa ho pensato di chiedere consiglio a lei”.



Mi spiace, temo dovrà cavarsela da solo”.

Ma lei non ha la chiave?”.



Purtroppo no, ho altri che ci pensano. Io poi sono basso, non posso proprio badare a tutto, ho un Team da mandare avanti”.

E ora che cosa posso fare?”.



Se vuole possiamo parlare un po'”.

Ah, molto gentile, è da una settimana che non parlo con nessuno”.



Come mai?”.

Beh, non sono uno molto socievole. Prima c'era Amalia che mi ascoltava, ma ora se n'è andata”.



Amalia, eh? Una ragazza?”.

Già”.



Non si preoccupi, giovanotto, ne troverà altre. Un bell'uomo come lei, poi…”.

Penso che come lei non ne troverò più, però”.



Non diciamo fesserie, il mare è pieno di pesci”.

Sì, ma lei era speciale… E poi io sono costretto nei Rocket”.



E quindi?”.

Come faccio a cercarne altre in questo stato?”.



Non apprezza i metodi del Team?”.

No, no, non dico questo”.



E allora qual è il problema?”.

Mi faccio coraggio.

Beh, mi scusi, signore, ma tanto per cominciare dovreste accendere i caloriferi un po' di più, perché fa sempre freddo, e io sono fermo qua sotto da mesi a prendermi raffreddori dietro raffreddori. E poi, mi scusi, ma non le pare, se posso, stupido rinchiudere qualcuno qua nella base? E ancora, perché dividere spacciatori e agenti in missione? E in base a cosa si viene scelti? E ancora, scusi di nuovo, ma non capisco il vantaggio di uccidere chi cambi idea, perché siamo uomini e donne, e possiamo sbagliare, non siamo tutti infallibili come lei”.

Non ho modo di sentire la risposta perché un nuovo clac risuona nella stanza. Tutte le paure che mi avevano abbandonato ritornano di colpo. Ecco, ho sprecato i miei ultimi minuti di vita a parlare da solo. Ottimo, Miguel, i miei complimenti.

La porta si apre cigolando. Ecco che entra Giovanni, sono finito. O magari non è lui? Magari è Proton? Non so cosa sia peggio.

Invece non è nessuno dei due.

\

\

È il ragazzo. Quello di Cerulean e di Lavender. Basso, vestito in rosso, con un Pikachu al seguito e quello sguardo da arrogante. È proprio lui.

Allora sei tu”, mi dice, e io non so che rispondere. Certo che sono io. Non credevo però che lui si ricordasse di me.

Finalmente ci incontriamo, Giovanni”. Capisco l'equivoco. Sono nel suo ufficio, alla sua scrivania, è ovvio che creda che sia lui. Strano, perché mi ha pure già incontrato a Cerulean, come fa a non collegare? D'altronde era buio, e poi io stesso a momenti me ne ero scordato. Per lui sono solo uno dei tanti.

Per un momento penso di spiegargli la verità, che non sono io. Ma ripensandoci, perché dovrei? Ho appena passato un quarto d'ora a fingermi Giovanni. Questo è il mio spettacolo. Giovanni sono io.

Sono davvero sorpreso che tu ce l'abbia fatta ad arrivare fin qui”, dico con un accento grave, per fare un po' di scena.

Lui come risposta nemmeno mi parla e estrae dalla cintura una sfera. Lui ne ha cinque, io solo tre, insomma parto già sconfitto. Un attimo, però, sono pur sempre i pokémon di Giovanni. Non mi arrenderò senza combattere. Ne lancio una anche io.

La sua prima scelta è un Charmeleon, la mia un Onix. Sono fortunato, penso, dev'essere la buona stella di Giovanni. Le sue mosse sono inutili contro un pokémon di tipo Roccia, la vinco facile.

Il secondo è un Wartortle. Acqua. Contro un Roccia-Terra non ha neanche senso provare, nemmeno attacco ed è già affossato. Bene, ora ne rimangono solo due. Prego solo che Giovanni abbia pensato a un piano B.

Lancio una sfera che sembra più usurata, come se l'avesse utilizzata di più. È una Persian. Quantomeno non è debole all'acqua, mi dico. Quella, al contrario di Onix, sembra accorgersi che non sono Giovanni, e mi guarda emettendo un verso dubbioso. Ma tant'è, ormai è in battaglia, quindi si scaglia su Wartortle con una violenza inaudita. 1-1, palla al centro.

Tocca a lui, il ragazzo in rosso, e sceglie un Ivysaur. Anche qui nessun vantaggio di partenza, e infatti è una battaglia parecchio combattuta. Ma Persian la spunta per un nonnulla. Ora siamo davvero pari, due pokémon ciascuno. Ma lui non ha ancora giocato il suo asso nella manica, lo so bene.

Eccolo, questa volta non lancia nessuna Poké Ball e si limita a stendere la mano. Tocca a Pikachu. Persian ce la mette tutta, ma è quasi sfinita contro il cavallo di battaglia del mio nemico, non c'è speranza.

Ora siamo alla resa dei conti. Ultimo pokémon. O la va o la spacca. Chiudo gli occhi e spedisco in aria la sfera. Un verso grave e sofisticato scaccia il silenzio.

Rhyhorn.

Rhyhorn! Terra-Roccia! Pikachu non ce la farà mai a sconfiggerlo! Con la coda dell'occhio scorgo la vittoria, ormai è a un passo. Aspettami, le dico, mentre ordino al pokémon di sconfiggere quel dannato topo.

Massimo risultato con il minimo sforzo. Grazie, Giovanni. E tu, bambino, questo è per esserti messo contro Miguel a Cerulean. Ti serva di lezione! Eccolo che lancia la sua ultima Ball. È tutto inutile, tanto.

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\

Mi si gela il sangue.

Non l'ho mai visto, quel pokémon. È una specie di trilobita, un granchio di roccia.

Ma so da dove viene. O temo di saperlo.

No, non può essere!”, mi lascio sfuggire mentre lo esamino dalla distanza. È debole, non può sconfiggermi, è un miracolo se non muore a contatto con l'aria. Ma più lo guardo più me ne convinco.

Richiamo Rhyhorn e getto a terra la cintura. Vorrei andarmene, ma mi ricordo che sono ancora Giovanni, dopotutto, e quindi chiudo dicendo: “Vedo che alleni i pokémon con molta passione. Un bambino però non capirebbe mai ciò che spero di ottenere… Questa volta ti faccio passare”.

Poi, prima di lasciare la stanza, soggiungo: “Spero che ci rincontreremo”. Così Giovanni ti schiaccerà, completo mentalmente. (si siede)

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Quel pokémon si chiamava Kabuto, scoprii anni dopo. È estinto, non c'è modo di catturarlo normalmente. Avevo visto giusto, una volta tanto.

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In non so che modo aveva estratto quel pokémon dal fossile che io gli avevo dato. Ricombinazione genetica, chi lo sa. Non è importante.

Fino ad allora avevo solo un grande peso sulla coscienza: la Marowak. Con il tempo avevo imparato ad affrontarlo, ma restava. Perlomeno, però, era uno.

Ora invece spuntava che da quel fossile era nato un pokémon. Ma non c'era un solo fossile tra quelli da me estratti quella notte: ne avevo due. Che dire dell'altro, l'Helixfossile? Anche da quello sarebbe stato possibile ricreare un pokémon? In quel caso io, cedendolo ai Rocket, l'avevo ucciso.

E tutti gli altri fossili? Solo nella missione di Cerulean ne avevamo estratti a decine. Erano tutti pokémon anche quelli? Quante ali avevamo tarpato con la nostra ignoranza? Perché non ci avevano avvertiti?

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Dopo quel giorno smisi di osservare la porta dell'ufficio e mi rintanai nella mia stanza per i mesi rimanenti di embargo. Non facevo niente, stavo ore a fissare il soffitto, oppure a pensare ad Amalia, anche se per la verità quello era più dannoso che altro. Cercavo di dormire il più possibile, tranne l'ultima settimana in cui mi rimisi in sesto in vista della liberazione.

Combinazione, proprio per il primo giorno di nuovo da Rocket fu stabilita quella che fu rapidamente ribattezzata la missione delle missioni. Cos'era? Un attimo e ci arrivo. Non fu l'unica cosa che successe in quelle ventiquattr'ore.

La mattina rividi Lynn. Erano passati sette mesi dal nostro ultimo incontro, là nella Pokémon Tower. Ci parlammo, ma fu un dialogo freddo. Per carità, lui era rimasto sempre lo stesso, ciecamente devoto alla causa del Team.

Ero io a essere cambiato. Io avevo vissuto la più alta gioia e il più profondo dolore, io avevo scoperto la verità sui fossili, io ero stato Giovanni per un'ora. Non ero più lo stesso, ed ero io quello che non andava. Lui invece era stato promosso a ufficiale, se non sbaglio. Ufficiale Lynn. Suonava bene, devo dire.

Ci scambiammo pochissime parole e poi ci salutammo. Non so se comprese mai cosa mi fosse successo, ma io di certo non glielo dissi. Non potevo più fidarmi, dal mio punto di vista lui era il morto vivente che era divenuto parte integrante dell'organizzazione.

Ma tant'è, Lynn era pur sempre un superiore, e allo squadrone in carico a lui fui affidato anche io. Insomma, la grande missione fu una riunione forzata. Sotto la sua scorza di affabilità penso che anche per lui fosse un peso, credo percepisse che qualcosa non andava. Comunque non si fece problemi. Ci mettemmo in marcia per Saffron di buon'ora, sotto una primavera che si preparava a rinascere.

Perché Saffron? È molto semplice: la Silph Company. La conosce, immagino, la più grande società di Kanto. Lo scopo era prendere possesso della sede centrale, quella in centro città, per estorcere qualcosa al presidente. Non ce lo dissero mai, però io ero stato nell'ufficio di Giovanni e avevo visto tra le scartoffie che doveva riguardare un nuovo tipo di Poké Ball. Tanto alle reclute non serviva avere una ragione: si agiva e basta.

Però io non avevo ancora scordato il ragazzo. Mi aveva battuto perché Kabuto era legato a me, quindi contro il boss in teoria non avrebbe avuto speranza. In teoria.

Ma sapevo che ci sarebbe stato, perché era da lui, ed era inevitabile che mi ci sarei scontrato. Chiedere di sorvegliare i piani più alti sarebbe stato inutile, perché avrebbe sgominato tutte le reclute inferiori e prima o poi sarebbe arrivato a me. Non c'era via di scampo, ero come un albatro ferito che cerca di non schiantarsi al suolo.

Così chiesi a Lynn con il sorriso più disarmante che potessi mostrare di essere messo al pianterreno. Il suo gruppo era destinato al quarto, e io con esso, ma per me avrebbe fatto un'eccezione. Giusto?

Lui acconsentì senza troppe insistenze, tanto non importava, disse, nessuno avrebbe potuto fermarli. Forse ero fissato, ma ci vidi una frecciatina a me. Come a dire: sei una pezza, ti asfalteranno, ma abbiamo qui tutto il Team Rocket in abito da cerimonia, quindi possiamo permettercelo.

Quindi mi diedero una cintura con un Drowzee e un Machop e mi posizionarono a lato dell'entrata, da solo, a scambiare due parole con la piscina del piano terra, pronto a tendere un agguato allo sventurato che entrasse. Per il primo quarto d'ora fu calma totale, tutto lo staff era stato segregato e nessun imprenditore, impiegato o bambino in rosso varcarono la porta.

Ma era solo questione di tempo, lo sapevo, ero un pianeta che aspetta la collisione con il suo satellite. Si avvicinava sempre di più, sentivo la sua forza attrattiva sollevare gli oceani. L'albatro era a due passi dal suolo.

\

Ed ecco che entra, altezzoso come sempre, con il suo Pikachu al seguito, con lo sguardo disorientato. Sono l'unico, laggiù. I miei occhi incrociano i suoi, non c'è bisogno di dire una parola, dubito mi abbia riconosciuto comunque. Parte la sfida.

\

È veloce, per certi versi indolore. Io mando subito il mio Drowzee, lui…

Lui sceglie un pokémon nuovo. O meglio, non nuovo del tutto.

È Kabutops. L'evoluzione di Kabuto, cioè del fossile che gli ho dato. Un segno del destino, non trova? Voglio dire, lui non sa che io ho impersonato Giovanni, eppure mi manda contro proprio la mia nemesi.

Combatto senza trattenermi, voglio dare il meglio di me, anche se del Team non mi importa niente, perché lotto per me soltanto. Tutto inutile: è migliorato in modo sostanziale e io non ho più la squadra di Giovanni. Per Drowzee prima e Machop poi non c'è alcuna speranza.

Aveva ragione Lynn, mi ha asfaltato.

Il satellite mi ha perforato, l'albatro si è sfracellato.

Il bambino se ne va, pronto a sgominare per l'ultima volta i piani dei Rocket. Ho atteso per tre mesi una battaglia durata tre minuti.

\

\

Ma sono in pace. È come essersi liberati di un peso che ti opprimeva. Mi ha sconfitto, ma io ho vinto.

Ho vinto contro i Rocket. Non sono più loro schiavo. Tutto è compiuto. Non provo più rancore verso il ragazzo, non provo più astio per il Team, non provo più fastidio nei confronti di Lynn. Tutto è pace. La penna e il foglio non servono più perché non sono più prigioniero della stanza fredda. Sono all'aria aperta. Ho ritrovato davvero contatto con la Natura, con il mondo, con l'Universo.

Ora c'è solo Miguel, non più la recluta numero 215.

Mi volto. Il ragazzino sta per prendere l'ascensore. Prendo coraggio: “Ehi, tu! Come ti chiami?”.

Red”, risponde con tono distaccato, poi oltrepassa le porte automatiche e preme un pulsante.

Mi giro nuovamente, scorgendo il raggio di sole primaverile che penetra dalla porta in vetro della Silph.

Grazie”, dico, e non so se parlo con lui, o con Amalia, o semplicemente con quel tutto al di fuori di me con cui mi sono finalmente ricongiunto.

\

(Esce.)

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Capitolo 6
*** Tutte tartarughe ***


VI: "Tutte tartarughe"

VI: "Tutte tartarughe"



(Rientra, ha in mano una ventiquattrore.)

(si ferma a metà strada) Ah, buonasera. La valigia? (prosegue fino al bancone, si siede, resta in silenzio per un po')

Doveva succedere, no? Stanno iniziando ad andare a fondo sui nostri crimini. Pare che la Lega Pokémon abbia dato il lasciapassare per perquisire gli archivi del Game Corner, dopo qualche anno di litigi sulla privacy e cose così. C'è il mio nome, là dentro, non posso più restare qua a Kanto. Prenderò un treno fino a Saffron e da lì un aereo.

Curioso, vero? Lì dove tutto finì.

Dove andrò? Beh, non si offenda, ma non glielo posso dire. Mi dia retta, meno sa di me, meno se interrogato dovrà mentire. È un vantaggio per entrambi. Però posso dirle che l'idea che ha avuto la mia fidanzata è stata Unova, una regione ben lontana da qua. L'ideale per farsi una nuova vita lontano dai Rocket.

Come? No, non penso ci saranno problemi di foto o che altro, anche perché dalla mia entrata nel Team sono un po' cambiato. E poi dopo gli avvenimenti di Viridian gran parte delle documentazioni sulle reclute furono bruciate.

Ah, non gliene ho ancora parlato? Rimediamo subito, allora. Ah, prima che me lo chieda, non penso berrò stasera. Sa, preferirei evitare di ubriacarmi prima di una fuga per la vittoria.

Red, come può intuire, sventò il piano dell'attacco alla Silph. Con mia sorpresa riuscì persino a sconfiggere Giovanni, quello vero, non la sua controfigura sbandata. Ciononostante il boss non si arrese, dicendo a noi tutti che aveva altri piani, che i Rocket non finivano lì.

Naturalmente io sapevo bene che non era vero, perché la sua scrivania non aveva altro che progetti sulla Silph. Aveva puntato tutto su quella missione e aveva fallito. Ma cosa vuole, certa gente non sa perdere, così fui confinato ancora un po' in quel sotterraneo che ormai era in fibrillazione.

L'avevano capito tutti, credo. La gente faceva le valigie, salutava i propri amici, vagava a caso per i corridoi. L'unico che ostentava sicurezza era Proton, che continuava a predicare calma, dicendo che non era finito niente. Ma ovviamente nessuno lo ascoltava.

Nel frattempo Giovanni non si vedeva mai, nessuno sapeva perché. Lo scoprii tempo dopo: era tornato alla Palestra che gestiva a Viridian.

Come, non lo sa? Aveva una doppia vita, una copertura per il suo ruolo di boss dei Rocket. Solo che la Palestra era sempre vuota, perché lui passava il tempo nel suo ufficio a Celadon. Negli ultimi tempi penso che qualcuno avesse iniziato a chiedersi perché il più importante Capopalestra di Kanto non ci fosse mai, e quindi aveva iniziato a presenziare di più. Forse per quello avevo trovato il suo posto vuoto, quella mattina.

Fu in un giorno freddo, non troppo diverso da quello in cui avevo parlato con Amalia per la prima volta, che arrivò la notizia: Giovanni era stato sconfitto a Viridian. Non so se mi spiego, non era mai accaduto da quando si era insediato. L'ultimo a passare la prova di quella Palestra era stato Lance, ma al tempo il Capopalestra era un altro che oltretutto si era dimesso dopo quella sconfitta.

No, non ce lo dissero mai, com'è ovvio, ma sia io che lei sappiamo che fu certamente Red a batterlo. Qualche tempo dopo, tra l'altro, divenne anche Campione, in un giro di ruoli che non se ne vedeva di simili da generazioni. In pratica questo ragazzo sconfisse Lance, e quasi subito dopo Red prese il suo posto. Tre campioni in trenta minuti, roba mai vista.

Tornando a quel famoso giorno, Giovanni sciolse il Team. Per tutta la mattina là sotto fu solo un viavai dei generali che bruciavano documenti e quant'altro, ma nessuno aveva la chiave dell'ufficio di Giovanni, quindi gli archivi massimi rimasero intatti.

Io? Come può immaginare non ne fui altro che felice. Potevo finalmente farmi una nuova vita. Ripresi a frequentare la gente, incontrai la mia fidanzata, dopo un po' andai a convivere con lei e via discorrendo. Tutto tornò alla normalità, se tale si poteva definire un mondo senza Rocket. Fu una cosa strana, all'inizio, non dover rendere conto a nessuno di quello che facevo, e c'è da dire che i primi tempi quasi avevo paura a uscire di casa, temendo aggressioni da parte dei civili. Poi la serie di suicidi non aiutò certo, si parlava addirittura di una maledizione.

Poi la cosa si stabilizzò e per tre anni non successe più nulla. A un certo punto, non si sa come, il Team tornò alla ribalta. Non a Kanto, o meglio, qui ci fu soltanto un furto di qualcosa dalla Power Plant, nulla di che. Ma a Johto si fu davvero vicini alla rinascita di quell'incubo.

Io stesso andai a indagare, lasciando Kanto per la prima volta in vita mia. Non volevo riunirmi, ci mancherebbe altro, dopo tutta la fatica fatta per uscirne… Ero solo curioso. E poi là vendono Iramelle a chili, e io vado matto per quei dolci. Non potevo mica tirarmi indietro.

A quanto pare lo scioglimento dei Rocket non era stato granché inteso come tale. Mi spiego, quella di Kanto era sì la divisione più importante del Team, ma pur sempre una divisione. Quando Giovanni dichiarò lo sbando alcuni, tra cui quasi tutti i generali, confluirono nella sezione di Johto, che continuò ad agire nell'ombra.

Fino appunto a tre anni dopo, quando decisero di uscire allo scoperto con una serie di crimini senza capo né coda, si faticava a definirlo Team Rocket senza la brillante mente di Giovanni a guidare il tutto.

Così ebbero la trovata di richiamare il loro boss. Attaccarono la Goldenrod Radio Tower, sperando di diffondere il loro messaggio su scala nazionale e rintracciare così Giovanni. Forse sarebbe anche andato a buon fine, come piano non era niente male. Se mi hanno raccontato bene però un ragazzo li sconfisse costringendoli alla ritirata. No, non Red, non è chiara la sua identità, ma non era sicuramente lui.

Ma tanto era un progetto destinato a fallire in partenza. In confronto ai Rocket originali erano un esercito di mosche cieche, un tentativo di resuscitare ciò che è già morto e sepolto. I morti restano tali, se lo ricordi, per questo so che il Team non tornerà mai più.

È un bene?

Non ne sono sicuro. È un bene per me, lo sarebbe stato per Amalia, arrivo a dire che tutti prima o poi potranno dire di averci guadagnato. Ho aperto gli occhi. Non facevamo il bene della gente, questo è certo.

Ma non facevamo nemmeno il male per loro. Eravamo egoisti, forse, ma non malvagi. Ciò che i secondi Rocket non compresero è che il volere di Giovanni non era ostentare la propria potenza, bensì arricchirsi alle spalle degli altri. Era un uomo molto lucido, nel suo egocentrismo.

E che dire delle reclute con poca personalità, i sottomessi quale ero io al mio arrivo nei Rocket? Per loro senz'altro non è stato piacevole ritrovarsi catapultati nel mondo senza una guida. Ci saranno sempre gli impauriti, quelli che hanno bisogno di essere comandati, ma a differenza nostra non avranno nessun Proton, nessun Archer, nessun Petrel a indicare loro la via della maturità. Qualcuno forse prenderà il loro posto, ma quando? E quanto saranno vicini al loro carisma?

Io, io sono maturato. Il prezzo che ho pagato è stato altissimo, ma senza esso sarei ciò che sono adesso? O sarei un disilluso, uno che ha scoperto che il mondo è troppo brutto per i suoi propositi? Io sono sceso nei bassifondi di Celadon e poi ne sono risalito: per questo la civiltà mi è apparsa idilliaca quando i Rocket sono caduti.

Non so davvero dire se sia meglio o peggio non avere il Team che imperversa per Kanto. Immagino che, come tante cose in questo mondo, solo il tempo potrà dare una risposta.

Ma non sarà mai definitiva. Rimarremo per sempre nel dubbio, nell'incertezza. E questo sospetto sarà ciò che manterrà ancora i Rocket vivi, come accade per i mostruosi regimi autoritari che nella mente dei posteri vengono distorti in positivo.

Sarà tutto sbiadito, come in una vecchia foto in cui il sangue è celato dall'usura e dalla tinta di seppia.

(guarda l'orologio da polso, si alza) Beh, credo che sia giunta l'ora di andare. Il mio treno partirà tra poco.

(inizia ad allontanarsi verso le quinte, poi si ferma a metà strada) Come dice?

Sì, le hanno riferito bene. La Silph aveva un sistema di sicurezza che il Team ha provato a usare per bloccare eventuali interventi.

Vede\

\

\

Io feci trovare l'Apriporta a quel ragazzo. Non avevo più niente da regolare con lui. Ho fatto ciò che Amalia avrebbe fatto.

(sorride malinconicamente) Ha ragione, forse non sono stato tanto inutile dopotutto.

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Sa, ricorda la storiella delle tartarughe? La trovai, la risposta. Durante la mia permanenza a Johto soggiornai a Ecruteak City, una bella cittadina molto legata alle tradizioni. È un mito cinese, se ho ben capito da quel monaco che incontrai.

Da lì in poi sono tutte tartarughe”.

(ride) Non ha senso, vero? Ha perfettamente ragione. È assurdo. L'ultima tartaruga dovrà pur poggiare su qualcosa, altrimenti cadrebbe nel vuoto.

Eppure\

(si volta e rivolge uno sguardo beffardo all'interlocutore immaginario) Eppure il mondo sta su, dico bene?

\

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Quel giorno\

Amalia mi diede anche qualcos'altro. (estrae il pezzo di carta riposto in tasca all'inizio) Lo rileggevo poco prima di incontrare lei in questo bar. È la sua poesia, quello che scriveva durante le lezioni a Celadon. Una specie di prefigurazione di quello che il Team poi sarebbe diventato, dannatamente profetica per quando fu scritta.

Ma non ha importanza. Per me resterà sempre e solo l'unica prova che ho della sua esistenza. Non importa quanto possa invecchiare, quanto la mia memoria possa vacillare, perché lei sarà sempre impressa qui, tra le mie mani.

\

\

Crede che sapesse quello a cui stava andando incontro?

Immagino resterà un quesito senza risposta per entrambi, vero? Rimarrà sempre una storia incompleta, frodata dal tempo e da un'organizzazione che forse nemmeno aveva compreso quanto fosse profondamente marcia al suo interno.

\

\

\

\

\

Addio, dunque. Chissà che non ci incontriamo di nuovo, un giorno. (torna ad avviarsi verso le quinte)

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(Esce.)



Qualcuno entrava nei Rocket perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo.

Perché sentiva la necessità di una morale diversa.

Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno.

Era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.

Perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso,

Era come due persone in una.

Da una parte la personale fatica quotidiana,

E dall'altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo

Per cambiare veramente la vita.

No, niente rimpianti.

Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare,

Come dei gabbiani ipotetici.

E ora,

Anche ora ci si sente in due.

Da una parte l'uomo inserito,

Che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana,

E dall'altra il gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo,

Perché ormai il sogno si è rattrappito.


Due miserie in un corpo solo.

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