Palinodia dei Rocket di NoceAlVento (/viewuser.php?uid=162092)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Regrette rien ***
Capitolo 2: *** Orfani del buio ***
Capitolo 3: *** Con la mia balestra ***
Capitolo 4: *** Kyrielle dei falliti ***
Capitolo 5: *** Elegia per un albatro abbattuto ***
Capitolo 6: *** Tutte tartarughe ***
Capitolo 1 *** Regrette rien ***
I: "Regrette rien"
La
mia storia più cupa e autobiografica.
Questa
è la prima definizione che mi viene in mente per questo monologo.
Premetto che per non rovinare l'impatto finale non scriverò alcun
Dietro la storia,
perciò questo spazio sarà un po' più lungo di quanto intendessi.
Tanto
per chiarire, la Palinodia
non ha alcun legame con il Ciclo, che comunque riprenderà quanto
prima con Involutus.
Ho sentito di doverla scrivere per due particolari ragioni: la prima
è l'inconsueta fase di stanchezza psicofisica che ho attraversato in
questo autunno-inverno 2012, l'altra è il desiderio di rifiatare
dallo stile magniloquente che il Ciclo mi impone e cercare qualcosa
di più leggero – che poi naturalmente leggero non si è rivelato,
anzi, forse scrivere per il Ciclo mi rilassa di più.
Tornando
alla demarcazione di prima, possiamo ora precisare: è cupa perché
racconta una delle vicende più opprimenti che abbia mai partorito e
senz'altro ne detiene il primato tra le fan fictions; è
autobiografica perché è densa di riferimenti più o meno distorti
al periodo in cui è stata concepita e scritta, che pur non essendo
stato per me triste è stato quello in cui più mi sono sentito
gravato da carichi da tutte le parti senza che io avessi intenzione
di accettarli. Una frase nella Palinodia
esprime bene ciò, ma è talmente ben contestualizzata che offrirò un
biscotto virtuale a chi saprà individuarla.
Ah,
breve aggiunta: in origine il racconto doveva essere one
shot, ma mi sono reso conto che sarebbe stato troppo
pesante sia da leggere che da commentare in una sola volta. Come
risultato quelli della Palinodia
sono i capitoli più corti che scriverò mai, wooo~!
Con
l'augurio di non deprimere nessuno,
Novecento
P.S.
C'è un'evidente citazione gaberiana nel testo: tanto per assodare,
essa è quello che è, ovvero un'allusione, e non un mal celato
tentativo di plagio. Non che ci fosse bisogno di chiarire, ma non si
sa mai.
P.P.S.
Perdonatemi i primi due atti, lo so anche io che sono insipidi, ma mi
servivano per poter scrivere i successivi.
*
* *
I: "Regrette
rien"
Qualcuno
entrava nei Rocket perché era nato a Celadon City.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché il nonno, lo zio, il papà… La mamma no.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché si sentiva solo.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché aveva ricevuto un'educazione troppo
puritana.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché "La Storia è dalla nostra parte!".
Qualcuno
entrava nei Rocket perché prima (prima, prima…) era un poliziotto.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché glielo avevano detto.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché non gli avevano detto tutto…
Qualcuno
entrava nei Rocket perché… il colpo di Stato? Oggi, no; domani,
forse; ma dopodomani…
Qualcuno
entrava nei Rocket perché aveva capito che il crimine andava piano,
ma lontano!
Qualcuno
entrava nei Rocket perché Proton era una brava persona.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché Lance non era una brava persona…
Qualcuno
entrava nei Rocket perché “Gli scarafaggi, gli agenti, i
generali. Facile, no?”.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché "Viva Giovanni, viva Archer, viva
Ariana!".
Qualcuno
entrava nei Rocket perché era così affascinato dai fuorilegge che
voleva essere uno di loro.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché non ne poteva più di essere un
fuorilegge…
Qualcuno
entrava nei Rocket perché andava sempre al Celadon Game Corner.
Qualcuno
entrava nei Rocket per moda, qualcuno per principio, qualcuno per
frustrazione.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché voleva comandare tutto!
Qualcuno
entrava nei Rocket perché non conosceva boss, generali, e affini…
Qualcuno
entrava nei Rocket per far rabbia a suo padre.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché aveva scambiato il motto del Team per il
Vangelo Secondo Giovanni.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché voleva essere un miglior Rocket degli
altri.
Qualcuno
entrava nei Rocket perché non c'era niente di meglio…
Qualcuno
entrava nei Rocket perché Celadon City, il Mount Moon, la Pokémon
Tower, eccetera, eccetera, eccetera!
Qualcuno
entrava nei Rocket perché chi era contro era nei Rocket!
Qualcuno
entrava nei Rocket perché non sopportava più quella cosa sporca e
viscida che ci ostiniamo a chiamare giustizia!
Qualcuno
credeva di entrare nei Rocket, e forse entrava in qualcos'altro.
(L'attore
è solo sulla scena, appoggiato a un bancone da bar parallelo alla
quinta di sinistra, con il capo chino su un foglio. Accanto a lui c'è
un altro sgabello vuoto. Inizia a parlare a un ipotetico conversatore
lì seduto.)
Ah,
buonasera anche a lei. Uh, come? Certo, si accomodi… (ripone il
pezzo di carta in tasca) No, non si preoccupi, non ha interrotto
niente. Leggevo scartoffie.
Perdoni
l'invadenza, ma che ci fa uno come lei in questa bettola? No, dicevo
per i vestiti. Non sarà mica un agente in borghese, vero?
Ah,
problemi di cuore… Del resto chi non ne ha a questo mondo? Buona
fortuna, sono i più difficili da mandare via.
Io?
No, sono felicemente fidanzato. Però sa, nel passato…
\
Vede
quello là all'angolo? (indica il limitare del bancone) Lui
viene qui ogni sera e si mette sempre nello stesso posto, terzo
sgabello dal fondo, e ordina sempre lo stesso alcolico, ormai da così
tanto tempo che solo il barista sa cosa beva davvero ogni volta. Ci
ho parlato un po', ogni tanto: l'ha lasciato sua moglie dopo
vent'anni di matrimonio.
Ah,
non volevo, mi dispiace… Davvero non si è offeso? Bene, meglio
così.
Come?
Sa, non è il primo a chiedermelo, ogni tanto qualcuno si interessa a
me quel tanto. Se ci tiene posso raccontarle come sono finito qua.
Devo avvertirla però, non è affatto una bella storia. Nel mio
passato ho fatto cose che farebbero accapponare la pelle anche al
peggiore dei criminali.
In
realtà non è difficile da immaginare di cosa stia parlando, siamo a
Celadon dopotutto. Immagino che anche lei si ricordi del periodo di
qualche anno fa in cui il Team Rocket imperversava per Kanto, no?
Ne
sono stato una recluta.
Ah,
ma forse la sto illudendo, non ero affatto importante. Anzi,
probabilmente tra tutti sono stato il più inutile.
No,
non è modestia, ho vissuto una vita ai margini del progetto. Non che
non vi credessi, anzi, spesso sono gli impiegati a essere i più
fedeli alla ditta per cui lavorano. Forse non avevo la malizia
necessaria per la scalata sociale che altri hanno compiuto.
Prego?
Ah, mi spiace, non ho intenzione di dirglielo. Le ragioni per cui
sono entrato sono private e tali devono restare, anche perché ancora
non c'è amnistia per quelli che come me hanno partecipato, e non
vorrei passare dei guai solo per aver parlato troppo dopo aver
bevuto.
Ma
no, mi fido di lei, e le giuro che non le nasconderò niente se
posso, ma davvero, quello non posso dirglielo. Mi capisca.
No,
non è vero, non ho niente da rimproverarmi. Voglio dire, adesso
fanno tutti finta di niente, ci trattano come pezze da piedi, come
bestie, ma non eravamo malvagi. Volevamo soltanto creare un mondo
migliore.
Ah,
lei può prendermi in giro quando vuole, ma era così. Eravamo dei
ribelli, certo, ma non volevamo fare male a nessuno. Qualche vittima
ci fu, lo so bene, ma le assicuro che nessuno di noi si divertiva a
uccidere pokémon. Un mio carissimo amico che era con me a Lavender
stette male per giorni per quello che vide.
Ricorda,
la Pokémon Tower? No? Non si preoccupi, ci arriveremo…
(guarda
l'orologio da polso) Oh, si è fatto più tardi di quanto
pensassi. Le chiedo scusa, la mia fidanzata mi aspetta a casa. Non so
se capisce…
(si
alza, fa per andarsene, poi si ferma) No, certo che non lascio la
storia a metà, io sono qui ogni sera, se lei…
Benissimo,
magari limerò qualcosa per l'occasione.
Però
venga un po' prima, domani.
(Esce.)
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Capitolo 2 *** Orfani del buio ***
II: "Orfani del buio"
II: "Orfani
del buio"
(Rientra.)
Ah,
buonasera. Vedo che è un uomo di parola, sono arrivato da neanche
due minuti ed è già qui. Ancora problemi con sua moglie?
Ah,
me ne rallegro. Quindi è venuto fin qua dentro solo per me? Mi
lusinga… Certo che ho pronta la storia, però mi lasci bere
qualcosa prima. (sorseggia da un piccolo bicchiere sul bancone)
\
\
Dunque,
dicevamo… Beh, non sono molto sicuro di quando è stato l'inizio,
sarò entrato… cinque anni fa, forse. Ai tempi il Team Rocket era
ancora nascosto. Cioè, che esistesse lo sapevano più o meno tutti,
però era un po' come quelle verità che sono di dominio pubblico,
era talmente ovvio che a nessuno interessava. Eravamo una delle tante
gang che si contendevano il controllo di Celadon.
Come
dice? Beh, certo che la polizia sapeva tutto, gliel'ho appena… Ah,
i traffici illegali. (sorride ironicamente) Mi dica, lei è
uno di quelli che credono ciecamente nell'onestà delle autorità? Il
governo di Kanto ci sguazzava in quei traffici, i loro emissari erano
tra i nostri clienti maggiori.
Domanda
legittima. Sì, avevano un certo occhio di riguardo verso di noi,
forse avevano intuito che non eravamo come gli altri, che facevamo
sul serio. Non che io conoscessi i rapporti dei miei clienti, voglio
dire, magari quegli sbirri con cui avevo a che fare compravano anche
dai nostri rivali. Quello che intendo è che… non facevano niente
per fermarci, mettiamola così.
Dicevo…
Sono entrato quando avevo quasi vent'anni, se non ricordo male. Dopo
il liceo mio padre mi costrinse ad andare all'università, sa, quella
che c'è proprio vicino al Game Corner, e… Beh, si può intuire.
Culture
della Comunicazione, la facoltà era quella. Ha presente quegli
indirizzi a cui i professori si
riferiscono come quelli a cui si va se non si ha niente in mente?
Ecco, Culture della Comunicazione ne era il simbolo, entrarci
era come prolungare l'agonia dell'indecisione per altri tre anni.
Finì
che non ero portato per l'università. Il primo anno ancora riuscii a
tenere il passo, poi il secondo fu un disastro. Non so autogestirmi,
era una cosa comune a un po' tutte noi reclute. Magari eravamo in
basso proprio per quello, perché non riuscivamo a gestire
dipendenti.
I
Rocket li conoscevo già, comunque. Sommariamente, diciamo, quanto
può saperne uno che guarda quello che succede in giardino dalla
finestra di casa. I miei compagni, invece, loro sì che c'erano
dentro. No, non tutti membri, e a dire il vero quelli che lo erano
non facevano molto per nasconderlo. Tanto cosa vuole che gli facesse
la polizia? No, in parte erano clienti, sa, a quell'età poi…
Alla
fine per una serie di eventi sono rimasto invischiato anche io. Il
primo giorno, quando fui introdotto al Team… Quello me lo ricordo
ancora. C'erano queste chiamate in cui anche dieci o quindici nuove
reclute erano convocate nel nascondiglio sotto il Celadon Game Corner
e mandate nel mucchio, tutte insieme, come una mandria di mucche al
macello. Certo, potevi entrare anche da solo, ma… da solo? No, non
faceva per me. In gruppo ci si sente più sicuri, si ha più
coraggio, e per entrare nei Rocket ce ne voleva.
Sembrò
una cosa d'altri tempi. Ha presente quelle scene di vita di cento,
duecento anni fa? Con la gente che danza al ragtime suonato dalla
banda? Ecco, il sentore fu lo stesso. Mi sarei aspettato qualcosa di
solenne, invece no, non c'era neanche un alto funzionario a
presidiare. Giusto uno, un tal Hermann, uno che neanche aveva capito
perché si trovasse lì, ma aveva una bella faccia e quindi ce
l'avevano messo. Se la sbrigò in qualche minuto, presumo per uscire
il prima possibile da quella situazione.
Il
mio amico Lynn, uno che conoscevo dai tempi del liceo, mi guardava da
lontano, annuendo di tanto in tanto e sfoggiando un sorriso a
trentadue denti alla fine. Sembrava felice.
Dico
sul serio. Uno direbbe che poco importava che fossi entrato nei
Rocket, voglio dire, a me se Lynn si fosse iscritto a Culture della
Comunicazione poco avrebbe cambiato. Lì no, era diverso, era come un
amico che per strane circostanze diventa tuo fratello. Una cosa che
sognano tutti i bambini, insomma.
Fu
come un punto di non ritorno. Uscirne era impensabile, mi avrebbero
ucciso… o peggio.
Oh,
certo che esiste di peggio, la morte in quei casi è come salvarsi da
un destino crudele. Dopo la caduta dei Rocket molti furono i suicidi,
tra cui Lynn stesso. A dire il vero non so motivarmelo.
Una
cosa però la so: il Team Rocket diventava la tua vita. Non esisteva
qualcosa come fare altro quando ci eri dentro, ne eri completamente
assorbito. Per dire, il primo mese e qualcosa già lo passavi quasi
tutto là sotto il Game Corner, senza uscirne, a seguire un corso in
cui ti insegnavano le basi per il comportamento in missione. Solo
dopo ti lasciavano uscire, ma mi creda, ti tenevano d'occhio. Ti
sentivi costantemente spiato, al punto che molti preferivano vivere
nella base di Celadon, dove quantomeno era loro garantito un minimo
di privacy visto che non potevi denunciare nessuno da là. Con questo
meccanismo perverso attiravano sempre più persone alla causa,
facendo leva sulla grande famiglia, come la chiamavano, e le
reclute finivano per trovarsi in simbiosi con il resto del Team.
E
se i Rocket fallivano era come se fallissi un po' anche tu, anche se
magari a quella missione non avevi partecipato. Eri corresponsabile
perché non eri più Miguel, il giovane speranzoso, eri la recluta
numero 215. E come parte
del tutto, se il tutto si smembra tu non esisti più, sei
spersonalizzato.
Non
parliamo poi di quando eri coinvolto anche tu nell'incarico, se
andava male era l'apocalisse in terra. E il nostro primo compito…
Beh, bene non finì.
(tossisce)
Mi scusi, sa, sono un po' raffreddato. Forse qualche bicchiere in più
mi aiuterà… (beve)
\
Dicevamo?
Ah, certo, l'inizio. Cerulean City.
Fu
Lynn a dirmi che ero stato chiamato. Al tempo ero dentro da due, tre
mesi forse, che per i Rocket è un niente ma per me era stata
un'eternità, avevo perso le speranze. Capire se eri stato chiamato
poi non era così facile, non è che andavi in Condominiums Road e
leggevi su un manifesto le convocazioni. Era tutto molto più
nascosto. E che problema c'era? Nessuno entrava nei Rocket senza un
contatto. A dire il vero, i più solo con uno.
Perché
si sorprende? La grande famiglia era dentro, non fuori. I Rocket non
erano una compagnia, non era uso entrare in gruppo. Non era neanche
un vanto, a dire il vero.
O
forse mento a me stesso, forse eravamo solo egoisti. Vede, introdurre
una recluta voleva dire assumersi la responsabilità delle sue
azioni, e se il tuo amico fosse impazzito per una qualche ragione
avrebbero perseguitato te. Perché rischiare? Dov'era il vantaggio
nell'avere più amici là dentro? In fondo, un uomo con un orologio
sa sempre che ore sono, con due non è mai sicuro.
Stavo
dicendo… Il viaggio per Cerulean avvenne durante la notte, lo
ricordo come fosse ieri. L'arrivo, poi, quello fu spettacolare. Era
estate e il sole stava sorgendo in una luce dorata. Ci aveva messi
tutti di buon umore. Ovviamente per noi significava solo essere più
propensi a compiere la nostra missione: quello era il nostro
desiderio in quel momento.
Due
erano i bersagli, e ben precisi. Uno squadrone si diresse verso la
Cerulean City vera e propria, con lo scopo di causare quanti più
danni possibili in modo da attrarre la polizia. L'altro, ben più
numeroso, si infiltrò nel Mount Moon con lo scopo di prelevarne dei
fossili.
Fu
un attacco frontale, si può dire, il primo nella storia del Team
Rocket, e io e Lynn ne facevamo parte! Riesce a immaginare di meglio
per noi? Eravamo davvero parte di qualcosa di grande!
Il
nostro gruppo fu inviato al livello più basso delle grotte
sotterranee del monte. Un vero e proprio labirinto, da soli non ce la
saremmo mai cavata.
Per
fortuna c'era Proton. Lui sì che era un grande condottiero. Ci
istruì su dove andare, ognuno di noi, ancora mi ricordo il suo modo
di parlare, crudele e spaventoso.
(si
alza e mima il discorso in una voce impostata e decisa) “122”,
diceva, “tu vai a nordest e tieni d'occhio l'accesso… E tu, 67,
coprilo qualche metro più in là. Voi due”, e guardava me e Lynn,
“venite con me”.
(si
sposta verso il lato destro del palco) Ci portò dalla parte
quasi opposta, e mise Lynn a fare da guardia all'unica via che ci
arrivava. Poi mi diede in mano una pala e mi disse “Avanti, ora
scava”. Io non ho mai avuto braccia forti e dopo due minuti già
non ce l'avrei fatta più; ma ero nei Rocket, e non obbedire avrebbe
significato finirne fuori in un niente.
Una
domanda comunque gliela feci. Mi presi questa soddisfazione. “E tu
dove vai?”.
“A
non farmi prendere dalla polizia”, rispose. Non è che si potesse
discutere un granché, con quella partenza.
(si
siede) Ah, Proton, chissà oggi dov'è finito. So che ha avuto
una parte in quello che è successo a Goldenrod un po' di tempo fa.
D'altronde era uno che sapeva farti stare al tuo posto, un leader
nato. Potevi mica dirgli niente.
E
manco a farlo apposta, dopo due minuti già non ne potevo più. Il
tempo di estrarre due fossili di cui neanche sapevo il valore ed ero
già a carponi su quel terreno spigoloso a torturarmi le ginocchia e
a grondare sudore. Ma se ho scelto Culture della Comunicazione ci
sarà un motivo, no?
Chiamai
Lynn una, due, tre volte senza risultato, volevo che mi desse il
cambio, e pensai che era proprio un bell'amico a sparire proprio
allora. Così stavo per andare a cercarlo, e mi sbuca di fronte
dall'angolo lui. Era un ragazzino di undici anni vestito di rosso, e
la prima cosa che mi venne in mente fu che Lynn aveva fatto il suo
lavoro davvero male per farlo passare.
Ai
tempi non c'era l'usanza di avere propri pokémon, anche perché
quasi tutti quelli che entravano nel Team Rocket erano
ex-universitari, giovani senza futuro, non certo allenatori. Quindi
Giovanni ne metteva a disposizione per tutti i membri
indistintamente. Ovviamente non è che tu andavi al deposito di Poké
Ball e ti sceglievi le tue, no: i grandi capi prima si tenevano i
pokémon migliori e poi ti passavano solo quelli più deboli, e tu
finivi per girare con una squadra come la mia, ancora l'ho in mente.
Un Grimer, un Voltorb e un Koffing. Ma per uno che non aveva mai
allenato, del resto, bastava e avanzava.
Beh,
lui era di un altro livello. Mi abbatté in tre turni, con solo il
suo dannato Pikachu. Tre Tuonoshock.
Boom.
E
sa, una volta che tutta la tua squadra è fulminata, poco puoi fare…
Così gli ho offerto uno dei fossili. Non ho idea del perché, magari
per esorcizzare la mia sconfitta. Con il senno di poi è stata una
cosa che forse non avrei dovuto fare. Perché? Non si preoccupi, ci
arriveremo.
Per
mia fortuna c'era gente, là nello squadrone, che sapeva scavare
meglio di me. Il bottino non fu tutto questo granché, e anzi la
missione non andò bene. L'avevo detto, no?
Ma
ero un novello, quindi a me andava a posto così. Era la mia prima
missione, già avere estratto qualcosa era un successo! Come? Ah, il
fossile… Helixfossile, può essere? No, niente di valore, da quella
spedizione ne avevamo recuperati cinque o sei di quelli. Qualcuno
però aveva trovato un'ambra vecchia o qualcosa di simile, se ho
capito bene era piuttosto rara. La loro fine… Furono venduti ad
alcuni musei del mondo. L'ambra finì a Pewter City.
Per
quanto riguarda Cerulean in sé… Se la filarono con noi quasi
tutti. Uno di loro era rimasto in una casa, però, o almeno così mi
hanno raccontato. Aveva trovato una buona MT, ma era una pazzia
restare allo scoperto, e l'ha pagata cara. Nel Team Rocket non si
transige.
Ma
ora sapevano. La polizia, la gente, tutti avevano capito che facevamo
sul serio. Fu un risultato importante per noi, che fino al giorno
prima eravamo trattati alla stregua di trafficanti di periferia.
\
Hm?
(guarda l'orologio da polso) Di già? Non è presto?
Capisco,
la moglie. Beh, non le do tutti i torti. A domani allora. Come? Certo
che ho altro da raccontarle, non finisce mica qui la storia. E per
fortuna. (inizia a sorseggiare a tratti)
\
\
(Esce.
Una volta dietro le quinte parte il suono di una sirena di ambulanza
che si dissolve dopo una decina di secondi.)
|
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Capitolo 3 *** Con la mia balestra ***
III: "Con la mia balestra"
III: "Con
la mia balestra"
(Rientra.
Il passo è lento e ha il lutto al braccio. Oltre ai due sgabelli di
prima ve ne è un terzo, vuoto, posto all'angolo più distante del
bancone.)
(si
ferma a metà strada) Ah, buonasera, mi ha preceduto oggi. L'ora
è la stessa, dice? Può essere. Ho rallentato un po', stasera.
Questo… (guarda il lutto, prosegue fino al banco) È il
ricordo di un conoscente. L'ha visto anche lei, tra l'altro. (indica
il terzo sgabello) Ricorda, due sere fa? L'uomo che si sedeva
sempre lì, a bere ogni sera. Ieri notte è entrato in coma da
alcool. Dio solo sa cosa ci fosse in quel bicchiere, sapevamo un po'
tutti qui che sarebbe successo.
E
da lì a… Insomma, il passo è breve. Si è spento questa mattina,
verso le dieci. Il suo funerale sarà dopodomani a mezzogiorno, ma
dubito che qualcuno ci andrà. Forse neanche io dovrei…
\
Comunque\
Comunque
è un altro pezzo di una bella storia che se ne va\
Fa
uno strano effetto, sa? Non racconto fatti di ere passate\
Cinque
anni\
Quante
cose possono cambiare in cinque anni?\
Il
mondo è sempre uguale, sempre a girare nei suoi moti millenari\
Siamo
noi\
Noi
che non siamo in grado di accettare che non siamo che maree che vanno
e vengono\
\
Ah,
la sto confondendo. Mi perdoni, è che… Non capita tutti i giorni,
ecco. Non si preoccupi, tra non molto le sarà tutto più chiaro. Ero
rimasto a Cerulean, giusto? (beve, questa volta una sorsata
più lunga)
\
\
Molto
bene, vediamo di riprendere il filo.
Dopo
quella missione ci tennero in blocco per due mesi. A quanto pare era
una cosa alquanto comune, lì lo chiamavano embargo. L'attacco
frontale era naufragato e avevamo riportato fossili di scarso valore,
quindi ci rinchiusero nella base sotterranea proprio qui a Celadon e
tanti saluti, vi faremo sapere. Che vuole, metta che uno di noi si
facesse prendere dal rimorso e andasse a raccontare tutto… Siamo
tutti più vulnerabili quando falliamo. E noi Rocket ne affrontammo
di fallimenti, eccome.
In
quei due mesi non feci praticamente niente, solo ordinaria
amministrazione. Del resto in embargo non puoi neanche trafficare:
quello lo lasciavano agli altri, i professionisti, gli scarafaggi.
Sì, così li chiamavamo. Noi rischiavamo di finire in galera a
Cerulean e loro se la facevano con i drogati nei vicoli, e alla fine
chi poteva servire il Team erano loro. Scarafaggi, questo erano.
Là
dentro, sotto il Game Corner, non potevamo fare niente. Cioè,
potevamo fare tutto, il che equivaleva a niente. Così ho passato
quei due mesi a guardare una porta.
Già,
una porta. L'ho guardata per tanto tempo che la ricordo ancora a
memoria. Era nera, metallica, blindata, non lasciava filtrare niente.
Stava in fondo a un corridoio polveroso.
Era
la porta per l'ufficio di Giovanni.
Come?
Ah, non ne ho ancora parlato? Giovanni era il leader supremo del Team
Rocket. Beh, non lo vedevamo spesso, anzi, a vantare di ricordare la
sua faccia sono in pochi, ancor meno quelli che ci hanno parlato.
Diciamo che era un po' un fantasma, un'istituzione che gente come
Proton invocava quando pretendeva ubbidienza cieca. Il suo carisma
ignoto entrava in gioco quando i nostri superiori accennavano a
perderlo. E visto che non era una persona ma un simbolo, il suo
prestigio non sarebbe mai morto.
Due
mesi a guardare quella porta, nascosto lontano dal corridoio. Ogni
tanto qualcuno con la paura in faccia la apriva, entrava, la
chiudeva, poi dopo qualche minuto ripeteva il gesto, di solito con un
volto più ansiogeno di prima, e se ne andava di buon passo. Quando
però l'entrata si apriva senza che nessuno prima fosse entrato mi
nascondevo, perché voleva dire che Giovanni stava uscendo, e guai
avesse saputo che lo spiavo.
Una
volta però sono rimasto. Non so che mi fosse preso. Forse perché
era tardi ed ero stanco, e ci ho messo un po' a capire che stesse
succedendo, o forse perché qualcosa dentro di me voleva
restare lì. Sono stato impalato alla mia postazione per due, forse
tre secondi. Poco? Forse, ma l'ho visto.
Mettiamo
in chiaro: il corridoio era buio. Quello che ho scorto l'ho scorto
grazie alla luce dell'ufficio che filtrava dall'apertura, prima che
la spegnesse. D'accordo, in realtà non l'ho praticamente distinto
dal buio. Ma di una cosa sono sicuro, diamine: era basso.
Basso!
Capisce?
Il leader dell'organizzazione più potente di Kanto era qualcosa come
due terzi di me! Come poteva trovarsi così in alto nella scala
sociale? Io, io mi ero sempre fatto un vanto perché ero quasi un
metro e novanta, e poi arriva questo Giovanni che è uno e sessanta e
ha più soldi di quanti io ne vedrò mai! E quel ragazzo che mi ha
umiliato nel Mount Moon, mi dico, anche lui era basso! È tutto un
complotto, un dannato complotto!
\
In
altri momenti sarei rimasto lì a parlare da solo per ore. Per
fortuna rinsavii, e me ne andai in fretta.
Poi,
dopo i due mesi, l'embargo fu rotto e ci assegnarono subito una
missione. Eravamo tutti abbastanza freschi, Cerulean era nel passato,
e anche io che di solito non dimentico avevo lasciato dietro di me
l'incontro con il ragazzo. L'idea di tornare in azione, poi, mi
esaltava come non mai.
Questa
volta toccava a Lavender. Nel viaggio notturno fummo accompagnati da Petrel, uno dal comportamento molto più mansueto di
Proton. Non aveva pretese di comando, molti si chiedevano come
fosse arrivato a essere generale, sembrava uno di noi.
Ciò
però aveva un prezzo: non era pronto ad affrontare una crisi. Certe
volte, anni dopo l'accaduto, mi sono ritrovato a pensare che con uno
come Proton a prendere in mano la situazione non sarebbe successo
quanto è successo. Ma la storia non è giusta. Beffa, capovolge, ci
costringe a mondi sbagliati in tempi sbagliati, e lamentarsi di come
è stata sleale con noi è inutile.
Ci
muovemmo la mattina presto, lasciando Celadon e aggirando Saffron per
non dare troppo nell'occhio. Arrivammo a Lavender Town di prima
mattina, ma il cielo era nuvolo, senza traccia di quell'alba che
avevamo visto a Cerulean. Tra l'altro mi pare di ricordare che Lynn,
anche lui chiamato, avesse preannunciato un temporale. Forse era un
segno, non saprei.
Come?
Ah, l'obiettivo, certo. La Pokémon Tower, ovviamente. L'idea era
abbastanza semplice: rapire degli esemplari di Cubone per venderne i
teschi. Nessuna idea è semplice però quando devi attuarla, e così
fu anche per noi.
Ci
introducemmo intorno alle sette e qualcosa nella torre. Ricordo
ancora Petrel, con la sua voce gracchiante, che disponeva le reclute
per impedire ai medium che affollavano in preghiera l'edificio di
intervenire. Non era normale però. Non facevano resistenza, non si
opponevano, sembravano non essere nemmeno coscienti.
“Cosa
fanno?”, ricordo di aver chiesto a Lynn, “Perché non
attaccano?”.
“Forse
hanno paura, vai a capire”.
Una
risposta me la sono data, io. Erano i fantasmi, secondo me li
possedevano. Per qualche ragione volevano che noi salissimo ai
piani superiori. Nei mesi successivi mi sono domandato spesso se in
non so che modo sapessero già cosa sarebbe successo e ci avessero
assecondati per puro sadismo.
Come?
No, non parlo di pokémon. Lei non crede ai fantasmi veri, quelli di
persone? No, immaginavo. Fino ad allora neanche io. Ma avrebbe dovuto
vederli, diamine, i loro occhi erano qualcosa di indescrivibile,
erano vacui e insieme infiammati, e nessuna delle due al contempo.
Liberissimo di non credermi, certo, ricordi: i fantasmi sono ciò che
noi crediamo essi siano. Non hanno una loro essenza.
Quando
arrivammo all'ultimo piano, ci si parò un vecchio davanti,
affermando di chiamarsi Fuji e di volerci impedire di fare qualsiasi
cosa stessimo facendo. Ancora mi spiace per la sua ingenuità.
No,
non lo uccise: Petrel lo sconfisse e lo costrinse a rimanere con noi.
Io, che ero uno dei pochi arrivati fino a lassù, gli chiesi perché.
Mi rispose (con voce stridula) “Così prendiamo due piccioni
con una fava”.
Non
ha capito? Sul momento nemmeno io, ma in realtà è abbastanza
facile: il vecchio era l'ostaggio perfetto. Con lui prigioniero la
polizia non avrebbe osato avvicinarsi, e noi l'avremmo fatta franca.
Quanto a me, io rimasi come ho detto al piano più in alto, con lo
scopo di appropriarmi dei Cubone.
Ah?
Sì, ha senso come domanda. Ma vede, non era nostro obiettivo
affrontarli in battaglia. Ci avremmo messo troppo tempo. A noi, noi
che eravamo stati scelti per quel compito, diedero\
\
\
(beve,
poi si alza nervosamente) Diedero delle armi. Non ricordo di che
tipo, né penso importi qualcosa. Armi. Noi non eravamo
preparati, ce lo dissero lì. Come se fosse la cosa più normale del
mondo. E io\
\
(calcia
il suo sgabello, inizia a parlare con voce rabbiosa) Se ti danno
una penna e un foglio bianco, che cosa puoi fare?
Oh,
magari all'inizio pensi ad altro, non hai l'impulso. Non c'è nessuna
ragione per cui dovresti scrivere. Perché? Non ha senso. Sono
padrone di me stesso.
\
Ma
dentro una stanza fredda e chiusa, a passare le ore. Solo,
tu e il foglio e la penna, a guardarvi come degli idioti.
Impazziresti!
E
alla fine proprio per questo scrivi. Per rimanere padrone di te
stesso.
\
\
Un
Marowak cercò di resistermi. Sì. Era un Marowak, non un Cubone.
Anzi,
una Marowak, si vedeva dagli occhi. Ancora ce l'ho in testa,
quel teschio bianco e le sue rigature grigiastre, e il suo dannato
osso in mano. Voleva difendere i suoi piccoli. Che le importava se in
quel momento io non potevo fare altro?
Una
penna e un foglio.
Io
non volevo. Lei mi ha costretto.
Mi
tira quel maledetto osso.
Dritto\
in\
fronte.\
Un
dolore atroce. Lei ha idea di quanto
faccia male? Da dietro iniziano ad urlare. Uno si avvicina, fa per
tirarle un calcio, e lei di nuovo con l'osso. E io ancora non
ragiono, e Petrel dal fondo ci urla di sbrigarci, che c'è qualcuno
che sta aprendo la strada alla polizia salendo la torre.
“Chi?”,
chiede qualcuno.
“Un
bambino”, ci fa.
E
io ancora non ragiono, mi premo la fronte con il palmo della mano, mi
sento morire, e mi sale al cervello l'immagine di quel maledetto
ragazzino in rosso che mi ha umiliato al Mount Moon. Io non ci
pensavo da mesi, e mi torna in mente proprio lì, in quel momento.
E
poi arriva di nuovo l'osso, nello stesso punto di prima, e un verso
esasperante della Marowak che continua a difendersi. Mi risuona in
testa e si mescola tutto, il dolore, il verso grave e graffiante, la
figura del ragazzino, lo strazio, il verso, il ragazzino, le urla
delle reclute dietro di me, l'osso torna in mano alla Marowak, il
dolore, la stanza gelida mi chiama, Petrel mi chiama, tutti mi
vogliono e io non ci sono, non voglio
esserci!
\
\
(con
voce più calma) Il foglio\
e
la penna.\
\
\
\
(respira
profondamente) Con un solo gesto
zittii tutto. Un solo rimbombo mi fece sobbalzare il cuore, poi più
nulla. Tutti ancora gridavano, ma per me non c'era più niente, era
come essersi immerso sott'acqua. Il tempo sembrò rallentare, riuscii
a percepire ogni istante. Ma uno solo è quello che mi resterà
sempre in testa.
Quando
i suoi occhi divennero vuoti. Quando il bagliore della vita li
abbandonò, ed essi precipitarono nel buio assoluto, prima di roteare
verso l'alto, mentre la sua bocca si dischiudeva in un lamento
soffocato.
I
Cubone che prima stava proteggendo si affollarono intorno a lei,
chiamando il suo nome, o poteva essere il mio, non lo saprò mai.
Qualcuno mi prese da dietro e iniziò a trascinarmi via. Non opposi
resistenza, non avevo nemmeno le forze di trattenere in mano la mia
penna, quella con cui avevo scritto quelle righe.
Penso
a quel punto di essere svenuto, anche se in effetti mi dissero che
era più simile a una specie in coma. Comunque, non mi svegliai fino
al giorno dopo in un letto della base di Celadon. L'unica spiegazione
che so darmi è che sia stata una reazione del mio corpo per evitare
che ammattissi.
Perché
ho rischiato. Ho rischiato davvero.
L'ultima
immagine che conservo di quella torre sono gli occhi vuoti della
Marowak, il suo teschio accasciato al suolo, e i Cubone che la
circondavano.
Non
ricordo nemmeno che cosa provassi. Forse rabbia, forse frustrazione,
forse impotenza, rimorso, conati di vomito, o forse tutte o nessuna.
Non ha alcuna importanza.
E
questo è tutto ciò che ho da dire a riguardo.
\
\
\
\
Sì,
non si preoccupi, sto bene. Chieda pure.
Ah,
ha ragione, non l'ho detto. L'uomo che si sedeva sempre su quello
sgabello a bere… Il suo nome era Masato, ed era il figlio di quel
Fuji che Petrel aveva preso in ostaggio. Nonché il proprietario di
quella Marowak.
Ricorda
bene, l'ho detto ed è così, ci ho parlato. Un po' più di qualche
volta, in realtà. Diciamo che lo conoscevo. I suoi problemi d'amore…
Dopo la morte del pokémon non si era più ripreso, e sua moglie l'ha
lasciato per insofferenza. Brutta storia.
Perché
le suona così strano che fossimo in rapporti stretti? Si guardi
intorno. Guardi chi si trova in questa taverna. Siamo dei reietti,
dei falliti, degli emarginati. Siamo la fetta di mondo che nessuno
vuole, e siamo confinati qui perché il resto della gente pensa di
essere troppo perfetta per noi. Se non ci sosteniamo l'un l'altro che
fine faremo? Faremmo il gioco di quegli ipocriti.
Già,
ipocriti. Chi si trova qua è chi ha accettato la propria condizione
di essere umano. Chi non è passato per questa bettola non ha mai
davvero compreso se stesso.
Compreso
la verità.
Che
davanti all'Universo i nostri problemi non hanno senso. Per questo
beviamo. Non per dimenticare, quello è per i deboli, quelli al di
fuori di qua.
Beviamo
per sapere, per ricordare l'Universo.
Beviamo
perché quando l'Universo ci soverchia i nostri problemi appaiono
talmente piccoli che perdono significato.
Beviamo
per guardare oltre quelle montagne che ci impediscono di carpire
l'essenza, il noumeno, ciò che ci è precluso.
I
pensieri. Quelli che ci illudono di poter arrivare alla perfezione e
invece non fanno che allontanarci da essa. Che ostacoli inquietanti,
non trova?
\
\
(Esce.)
|
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Capitolo 4 *** Kyrielle dei falliti ***
IV: "Kyrielle dei falliti"
IV: "Kyrielle
dei falliti"
(Rientra
con indosso un cappotto e un sorriso nostalgico.)
Ah,
buonasera, vedo che anche oggi è qui prima di me. No, questa volta
ho camminato a passo normale. (si siede al banco e si sveste degli
abiti pesanti) Ha visto che nevicata? Tutto imbiancato. Mentre
venivo qui mi sono fermato un po' a guardare i vetri appannati e le
luci calde all'interno delle case.
Ricordo
solo un'altra volta nel recente passato in cui ne sia rimasto così
incantato. È stato un giorno di dicembre di ormai quattro anni fa.
Curioso, non le pare? È proprio la parte di storia che devo
raccontare oggi. Uno direbbe che la natura stessa sia interessata.
\
Bene,
allora\
Che
strana domanda mi fa. In effetti è vero, finora prima di iniziare ho
sempre bevuto. Ma non ricorda quello che le ho detto ieri sera?
L'alcool serve per superare i pensieri, per oltrepassarne la
barriera, per ricordare l'Universo.
Ebbene,
io non voglio farlo. Non stanotte. Non sono legato al Team
Rocket a caso, per un mal disposto senso nostalgico. Non ho
dimenticato il mio crimine nella torre, né il mio fallimento
generale nel guadagnare una qualsiasi posizione di prestigio. Anzi,
non fosse per quello che sto per raccontare odierei i Rocket e il
tempo sprecato in quell'organizzazione. O magari mi sarei suicidato
alla loro caduta, chi lo sa.
Ma
non è così. La storia, o forse il destino stesso si era ritagliato
uno spazio perché potessi cambiare idea. Per questo non berrò
questa notte.
A
questi ricordi io sono legato, ed essi sono legati a me.
Questi
ricordi, che pur tanto sono vicini a quelli che disprezzo, sono
quanto di più caro ho al mondo. Perché, le dico, noi non siamo né
carne né sangue né anima.
Noi
siamo la nostra memoria, è lei che ci differenzia l'uno dall'altro e
senza la quale non saremmo che copie indistinte l'uno dell'altro.
Ecco
perché non li ho persi, ecco perché non ho mai cercato di annegarli
nei fumi dell'alcool, ed ecco perché in questa sera di neve
l'Universo può aspettare.
Perché
se non fosse stato per Amalia oggi io sarei una persona completamente
diversa.
\
\
Lavender,
Marowak a parte, fu una missione tutto sommato riuscita. Dai Cubone
catturati ricavammo parecchio, e poco importava del riuscito
intervento della polizia nella torre che ci aveva fermati presto.
Nessun embargo, questa volta. Ovviamente a parte me.
Io
infatti avevo commesso un reato che raramente al Team Rocket passava
impunito: avevo ucciso un pokémon. O meglio, impunito non è la
parola giusta. Non è che mi guardassero male per averlo fatto.
Inosservato, ecco: un reato che non passava inosservato.
Ora,
se fossi stato, non so, Proton, si sarebbe sorvolato. Ma io ero una
recluta, ero andato in missione solo due volte, e con i possibili
sensi di colpa derivanti ero una mina vagante. Passai i giorni
immediatamente successivi al mio risveglio nell'angoscia. Insomma, mi
avevano fatto stare là dentro due mesi per aver fallito una
spedizione, se quello che Lynn mi raccontava era vero sarei potuto
rimanere là dentro anche anni. Tremavo all'idea.
Invece
la pena fu abbastanza leggera, tutto sommato: sette mesi. Sì,
un'eternità, ma non quanto mi aspettavo. Avevo anche di che essere
felice, insomma.
Non
ricordo se le ho parlato, l'altro ieri, del corso che toccava alle
reclute durante il primo mese. Sì? Meglio, così risparmio tempo. In
breve mi costrinsero a ripeterlo, forse per assicurarsi che la mia
preparazione fosse adeguata. I primi tempi trascorsero così,
imparando nozioni che avevo dimenticato e ricordando quelle che
conservavo solo vagamente. Finito il ciclo di lezioni, per me
abbastanza noioso rispetto a come, da nuovo arrivato, l'avevo seguito
la prima volta, mi ritrovai di nuovo con niente da fare. Non avevo
scontato neanche un sesto della mia prigionia ed ero già
disoccupato. Tutto bene, insomma.
Così,
per ammazzare il tempo, decisi di seguirlo di nuovo da capo. Questa
volta però le lezioni mi importavano poco o niente: mi concentrai
sulle persone. Già nelle ultime settimane avevo smesso di prestare
attenzione, in parte anche perché non sopportavo i tecnicismi che mi
costringevano a imparare, che mi ricordavano troppo l'università; e
già allora mi ero divertito a osservare le altre reclute, a vedere
chi arrivava e chi se ne andava, mentre io nel mio embargo restavo
sempre lì, scoglio tra i flutti. E proprio in questa osservazione,
poco prima della fine del secondo mese, mi soffermai su Amalia.
Allora
ovviamente non sapevo ancora il suo nome. Mi riferivo a lei come
recluta 83, il numero che appariva sulla sua uniforme. Io ero il 215,
il che significava che lei era nei Rocket da abbastanza prima di me.
Già questo avrebbe dovuto mettermi la pulce nell'orecchio, perché
il corso avrebbe dovuto seguirlo appena nel Team, e non anni dopo.
Un'altra cosa però mi fece aprire gli occhi.
Ero
certo di averla notata diverse volte là nell'aula, al punto che non
ricordavo una sola lezione in cui non l'avessi vista entrare dalla
porta. Io ero lì da ben più del canonico mese di indottrinamento:
come si spiegava il tutto? Nei giorni seguenti iniziai a esaminarla
per sempre più tempo, arrivando a ignorare intere lezioni per
dedicarle la mia attenzione.
La
cosa che prima mi saltò all'occhio fu la sua capigliatura, di un
colore tra il biondo e il rame, acconciata a caschetto e con due
ciocche più lunghe che scendevano dalle tempie. Solo poco più
avanti riuscii a scorgerne distintamente il volto, e ne rimasi
sconvolto. Non so se lei ha mai incontrato una ventenne che sembri
aver mantenuto il volto di una bambina, ma sono quasi certo che sia
un evento raro.
Eppure
non troverei altre parole per descriverla: tutto, dal sorriso ingenuo
agli occhi verde acqua, sembrava rubato a una ragazza di dieci anni
al massimo, senza il minimo cenno di quei connotati tipici degli
adolescenti. Non so, ha presente lo sguardo? Quello cambia molto
quando si cresce, eppure quello di Amalia pareva rimasto tale dalla
nascita.
E
più scoprivo di lei, più una sola grande domanda mi assillava: come
diamine aveva fatto a finire nel Team Rocket?
Voglio
dire, io, io ero uno adatto a quel mondo assurdo. Io ero quello
incapace di andare avanti con l'università. Io ero quello che non
sapeva gestire la tensione di una semplice missione. Che cosa poteva
aver mai fatto una come lei per essere equiparabile a me?
Con
il tempo decisi che non avrei potuto mai continuare senza saperlo.
Non saprei dire perché, ma sentivo che era una cosa che ero in
diritto, no, in dovere di conoscere. Così la cercai, un pomeriggio
in cui si gelava, per i corridoi nella base. Vagai per un po', e già
mi davo dell'idiota da solo. Cosa vai in giro, mi dicevo, ci sono
cinque gradi, chi vuoi trovare? Se ne saranno tutti usciti, nessuno
resta qua sotto in inverno senza riscaldamento.
Impazzito
prima ancora di parlarle. Non precisamente quello in cui speravo.
Invece,
per un miracolo inatteso, la vidi da sola, seduta a un enorme tavolo,
assorta nei suoi pensieri.
\
\
(si
alza e inizia riprodurre i movimenti descritti nel racconto)
Dapprima mi fermo, poi inizio ad avvicinarmi e mi sento morire
dentro, perché la sto disturbando per una ragione stupida. A un
certo punto penso anche di girarmi e correre via, ma non se ne parla,
mi dico, perché non mi darei pace e sverrei dall'imbarazzo a ogni
incontro. E se poi ci mandassero in missione assieme? No, è proprio
fuori discussione.
D'accordo,
penso, è facile, e nel frattempo mi sono già visto almeno tre volte
la discussione che voglio intavolare. È tutto pianificato. Cosa può
andar storto?
\
A
un certo punto lei alza la testa e dice “Ciao”.
Ecco,
è finita, è saltato tutto. Dovevo iniziare io, ora il piano è
rovinato! E poi dovevo darle del lei, e ora invece devo cambiare
strategia! Sono già impazzito?
“Ciao”,
rispondo per inerzia.
“Ti
serve qualcosa?”.
“Ah,
in effetti… Voglio dire, ho notato che sei sempre alle lezioni, al
corso sulle missioni”.
“Già”.
Sorride. Ha un timbro di voce infantile e maturo al tempo stesso,
qualcosa che non avevo mai sentito prima.
“Io…
ho visto che sei lì da parecchio, anche se il corso dura un mese. Io
ci vado perché non ho niente da fare, non posso uscire per un po' di
tempo”.
“Ah,
anche tu?”.
“Già”.
Già.
Che razza di risposta è? Chiedile perché, chiedile quanto, diamine,
ne hai di opzioni e tu vai su già? È colpa tua, è tutta colpa tua,
hai mandato tutto al diavolo.
“Io
mi chiamo Amalia, tu?”.
Amalia,
che bel nome. Familiare ed esotico insieme. “Io Miguel, piacere”,
rispondo, ma nella mia testa rimbomba la stessa frase: non fare
l'idiota.
Non
fare l'idiota.
Non
fare l'idiota.
“Scusa,
ma tu come mai sei chiusa qui?”.
“Sono
uno scarafaggio”, risponde, “Due mesi fa la polizia mi ha quasi
arrestata per contrabbando. Quindi mi tengono qua”.
\
\
(si
siede) Non so se può capire la sensazione di ingiustizia che
provai in quel momento. Non solo Amalia era in un'organizzazione per
derelitti come i Rocket, non solo era costretta a portare sulle
spalle quell'appellativo che prima mi era sempre sembrato naturale e
che ora mi ripugnava, ma era anche stata segregata come me nel
sotterraneo. Mai come allora io e il Team eravamo stati così
distanti.
Nelle
settimane successive parlammo sempre più spesso. Non so dire se al
tempo mi fossi innamorato, interpretavo ciò che provavo verso di lei
più come un misto di ammirazione e compassione. Una cosa è certa:
con Lynn sempre più preso dalle sue missioni con i Rocket, Amalia
divenne l'unica persona con cui potessi parlare.
Scoprii
molte cose di lei che la sola osservazione non mi aveva rivelato: per
esempio era una scrittrice. Mi spiegò che quello era il motivo per
cui frequentava il corso: i Rocket non le avrebbero mai permesso di
scrivere per conto suo, aborrivano queste pratiche creative, e Dio
solo sa cosa sarebbe successo se fosse stata scoperta. In occasione
delle lezioni, però, poteva dissimulare come appunti i suoi lavori.
Non
era una grande artista, in realtà: io stesso, che non ero
propriamente un letterato, volendo potevo scrivere meglio di lei.
Eppure, per qualche strano fenomeno, quando vedevo la sua mano
muovere la penna sul foglio le parole sembravano acquistare una
profondità del tutto nuova, e apparivano perfette nella loro
collocazione.
Le
settimane che seguirono furono tra le migliori della mia vita. Dico
sul serio, difficilmente ne ricordo di paragonabili. Sembravo avere
trovato una mia collocazione, finalmente, in quel mondo di pazzi. Io,
sempre stato chiuso per natura, stavo prendendo contatto con
quell'Universo al di fuori di me che era altrettanto spettacolare.
Forse
di più?
\
\
E
poi è dovuto crollare tutto. Come un castello di carte distrutto
quando stai per mettere l'ultima al suo posto. È venuto giù tutto.
\
A
dicembre, in un giorno di neve a Celadon, circa a metà dell'embargo,
fu data uscita libera a quelli che come me si trovavano reclusi. Un
giorno soltanto, dalle sette alle diciannove. A quanto ho capito
eravamo in tre o quattro, e pare fosse una cosa abbastanza comune
lasciare uscire in un giorno d'inverno, immagino perché d'inverno si
può fare poco. Giusto evitare di andare in posti più freddi,
diciamo.
Di
prima mattina io e Amalia ci eravamo dati appuntamento nell'atrio
appena prima delle scale che portavano al Game Corner. Lì mi disse
molte cose, e anche se sul momento non capii perché, a posteriori
erano quasi una confessione di quello che stava per fare. Comunque mi
fece promettere di non rivelarle mai a nessuno, quindi temo dovrà
rassegnarsi.
Una
cosa però la posso dire. Quel giorno, non so perché, le chiesi
perché era entrata nei Rocket. Non che mi aspettassi risposte, e
infatti non ne arrivarono.
Però
mi raccontò una leggenda, un mito della tradizione di una civiltà
antica. Secondo quanto raccontava, il mondo non era altro che un
disco piatto che poggiava su una gigantesca tartaruga.
Non
ha senso, risposi, su cosa poggia la tartaruga? Lei rise, come se
avessi chiesto la cosa più ovvia del mondo, e mi spiegò che quello
avrei dovuto capirlo da solo. La ragione per cui era entrata era la
base della tartaruga.
Che
base fosse?
\
\
Non
me lo rivelò mai. (si ferma come sovrappensiero)
\
L'ultima
frase che mi disse prima di salutarmi fu: “Ritrova il contatto con
la Natura”. Poi se ne andò per la sua strada, senza che io avessi
capito che volesse dire.
Era
il mio giorno libero, in ogni caso. Come l'avrei sfruttato, non lo
sapevo. A dire il vero avrei preferito che non ci fosse stato, perché
stavo benissimo con lei là sotto. Ma lei non ci sarebbe stata
comunque, quindi a quel punto che senso aveva ignorarlo? Le prime ore
di libertà le spesi così, a pensare cosa fare delle rimanenti. Una
po' come la vita, non trova?
Poi
a un certo punto mi convinsi che Amalia aveva ragione. “D'accordo”,
mi dissi, proprio ad alta voce, per esserne più sicuro, “sei stato
laggiù per mesi, devi ritrovare la Natura”. Non sapevo bene come,
ma dovevo. Mi misi a riflettere: cosa significava per me la Natura? E
mi risposi: “Beh, da piccolo ti piaceva andare al mare. Da quanto
non ci vai?”. Parecchio.
Così
andai di filato alla stazione di Celadon, senza bagagli e con solo i
soldi per il biglietto, e presi un treno per Fuchsia City, che era
l'unica spiaggia che ricordavo. Quando scesi si ghiacciava, anche se
non nevicava più. Saremo stati vicino allo zero, ma non mi
importava, nella mia testa risuonava quell'ordine categorico. Dovevo
ritrovare la Natura.
La
spiaggia era desolata e coperta di conchiglie rotte, non proprio come
me la ricordavo. Oltretutto era pure nuvolo e l'acqua aveva un colore
spento. Andava bene, comunque.
Mentre
viaggiavo me ne ero sempre più convinto. Dovevo immergermi, fossi
dovuto morire congelato. Mi spogliai, anche se tanto non mi sarei mai
asciugato, ma tornare dai Rocket con i vestiti fradici sarebbe stato
imbarazzante. E poi non vestivo qualcosa di diverso dall'uniforme da
mesi. Non se ne parlava proprio, dovevo preservarli.
Iniziai
ad avanzare verso l'acqua con lenta certezza. Non appena mi sfiorò
un'onda avvertii una fitta gelida. Era davvero fredda, ma fredda da
toglierti il respiro.
No,
devo proseguire, così avanzo fino a quando tutto il mio corpo meno
collo e testa è sprofondato in quel mare glaciale.
\
Non
provo niente.
Sì,
insomma, mi aspettavo chissà quale rivelazione, ne ero seriamente
persuaso. E poi era stata Amalia a dirlo, non potevano essere state
parole al vento.
Poi
un dubbio mi fulmina, così, all'improvviso.
Che
cosa sto cercando?
La
Natura?
E
che cos'è?
Come
posso trovare qualcosa che per sua costituzione non è sussistente,
che i filosofi si sono arrovellati nel definire?
Qualsiasi
cosa io facessi sarebbe una forzatura. Io so quello che
voglio, non sarebbe mai spontaneo. Ma la Natura è spontanea, quindi
senza quella semplicità non potrò mai vederla, mai riuscirò a
scorgerla attraverso la maschera della finzione. Cerco un atto, un
atto genuino e istintivo. Devo essere sicuro di non
interferire.
Ma
non è possibile non interferire. I nostri pensieri sono
incontrollabili, e se io per esempio ora mi soffermo sul cielo o su
un oggetto non sarò mai veramente sincero. Sarà chiaro che
non lo sono. Non posso ingannare la Natura.
\
Forse
ho capito. Devo andare sotto completamente. Se lo faccio il mio
istinto di sopravvivenza non potrà che subentrare impedendomi di
morire e riportandomi alla luce. È il solo gesto autentico che possa
compiere in questa situazione.
Lo
faccio, e via con un'altra fitta e altro fiato mozzato.
\
Ma
ne valeva la pena.
\
Quando
riemersi e inevitabilmente inspirai l'aria aperta mi sembrò di
essere rinato. Riuscivo di nuovo a vedere. Rimasi per un po' fermo a
fissare l'orizzonte immobile e le nuvole che delineavano strane
figure sullo sfondo della cappa grigiastra.
Poi
abbassai lo sguardo fino a notare un solo, unico riccio di mare che
galleggiava sulla superficie trasparente, e rimasi a osservarlo per
un minuto o forse più, lui soltanto, finché un rigonfiamento
dell'acqua non lo sommerse e non lo vidi più risalire.
\
\
Avevo
ritrovato la Natura?
\
\
\
\
\
Non
importò nulla\
perché\
quando
tornai\
crollò
tutto.\
\
La
attesi fuori dal Game Corner, tra le strade innevate e le luci delle
case. Finché fu possibile, finché non giunsero le diciannove. Poi
rientrai, ma anche lì vegliai fino all'alba successiva, nascosto
sotto le scale che portavano di sopra, sperando di vederla scenderle.
Magari era in ritardo. Magari era\
\
(sospira)
No, non lo era. Non puoi essere in ritardo, con i Rocket. Se n'era
andata, era fuggita. Il che, visto che parlavamo dei Rocket,
equivaleva a dire che era morta.
Nessuno
fugge, lo ricordi: “Una volta dentro, dentro per sempre”.
\
\
Amalia
lo sapeva. Sapeva che l'avrebbero uccisa.
Ma
aveva fatto una scelta.
La
scelta tra restare chiusa in un buio sotterraneo in attesa di tornare
a infrangere la legge o rincorrere la libertà per poche ore.
Entrambe le vie conducevano alla morte, era tutto sul dolore il
dilemma.
\
(emozionato)
Perché\
Secondo
lei perché era entrata nei Rocket? Perché si era rovinata la vita?
Se
tutto fosse andato diversamente\
Se
ci fossimo incontrati prima\
Avremmo
potuto essere io e lei, e non ci sarebbe stato bisogno di
quell'illusione del Team Rocket. Avremmo potuto vivere insieme le
nevicate, insieme le notti sotto le stelle, insieme le gioie e
insieme i dolori. I Rocket non ci avrebbero mai rinchiusi nella loro
corruzione, nel loro azzeramento dei sentimenti umani, nella loro
somministrazione di falsi ideali e di emozioni irreali.
Invece
Amalia era rimasta vittima del suo desiderio di indipendenza. Non me
lo disse mai, ma sono quasi certo che fosse entrata nel Team attratta
dalla finta autonomia che offrivano, e alla fine invece ne era
rimasta schiacciata.
\
E
io\
Io
ero ancora vivo.
Costretto
a portare sulle spalle il peso della Marowak, di ciò che io stesso
avevo scritto. Ero senza un amico al mondo, senza una casa, senza
l'unica persona che in quelle settimane mi aveva capito e che io
avevo amato più di me stesso.
Ma
soprattutto ero vivo senza averle detto niente. Di ciò che ho
raccontato oggi, e di molto altro. Di ciò che mi aveva insegnato, di
ciò a cui mi aveva spinto, del mutamento che aveva innescato. Del
percorso che mi aveva spronato a intraprendere e lungo il quale,
finché aveva potuto, mi aveva accompagnato tenendomi per mano.
Di
ciò che io e lei saremmo potuti essere. Ciò che io avrei voluto che
fossimo.
Che
io che ero e sono una mente razionale ero pronto a rinunciare a ogni
convinzione sull'Universo di fronte all'imperscrutabilità
dell'anima, all'evanescenza delle emozioni.
Che
senza di lei non c'era tempo né spazio, che aveva trasformato
l'inferno in Terra in incommensurabile piacere.
Che
vivevo ogni notte come una morte che perdurava fino al risveglio, che
non sarei riuscito a sorreggermi da solo, che avevo bisogno della sua
voce per non ricadere negli incubi.
Che
lei non valeva questo mondo oppressivo, che era oltre ogni
perfezione, come un angelo intrappolato nella dimensione dei mortali.
Che
non potevo sorridere senza di lei, e che se anche fossi riuscito a
farlo non sarei stato che un verbo in attesa del suo oggetto.
Che
per la prima volta da mesi ero arrivato a ringraziare il Team Rocket
perché l'avevo conosciuta.
\
\
E
la cosa peggiore era che ero sopravvissuto a tutto ciò, ritrovandomi
con tempo e nessun modo per utilizzarlo.
Come
un uomo senza pensieri condannato a un'immortalità meccanica.
(inizia a fissare di fronte a sé ignorando l'interlocutore)
\
\
(Si
riveste con il cappotto ed esce. La pausa tra un atto e l'altro è
più lunga.)
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Capitolo 5 *** Elegia per un albatro abbattuto ***
V: "Elegia per un albatro abbattuto"
V: "Elegia
per un albatro
abbattuto"
(Rientra.)
\
Ah,
buonasera. Questa volta non mi ha anticipato, vero? Sì, non si
preoccupi, sto meglio. D'altronde devo ancora raccontare un buon
pezzo di storia, no?
Bando
agli indugi, direi. (beve)
\
\
Dopo
la scomparsa di Amalia avevo ancora da scontare metà dell'embargo.
Come le ho già detto, non c'era granché da fare ora. Ma in qualche
modo il tempo dovevo pur passarlo, e non ero certo in vena di farmi
nuovi amici. Non che fossi in depressione, ma poco mancava.
Ci
sono certe cose che sono inevitabili. Come mangiare quando si ha
fame. O lo fai o muori, non è che puoi scegliere. Io chiuso là
sotto c'ero già stato per qualche mese, ricorda? Dopo Cerulean. Era
ovvio che sarebbe finita nello stesso modo.
\
Eh
già, la porta.
Fu
come rincontrare un vecchio amico. Ci avrei quasi parlato, tanto non
c'era nessuno, e poi io volevo parlare con qualcuno. Però mi
trattenni.
La
osservai per una settimana buona, lì, fermo, senza più incontrare
Giovanni che era rintanato là dietro. Poi, poi successe
l'imprevedibile.
\
Si
immagini la scena. Saranno le sette di mattina, il riscaldamento non
è ancora acceso da nessuna parte, e io me ne vado lì con l'aria
quasi allegra con l'intenzione di fissare la porta per almeno un paio
d'ore. La conosco già a memoria, ma chi se ne frega? O quello o il
corso di missioni. Ma quello mi ricorda troppo Amalia, quindi no.
Perciò
dicevo, vado lì, e la trovo\
aperta.
Non
so se può concepire la mia faccia.
Era
spalancata, con la luce accesa e tutto, ma di Giovanni non
c'era traccia. Com'è normale, chi si sveglierebbe a quell'ora per
andare a lavorare?
Entrai
in un misto di euforia e panico. L'avevo osservata per giorni, anche
mesi se contavamo il primo embargo, e ora era aperta. Un mondo
completamente nuovo, ero come un bambino che scopre una stanza della
sua casa, o che riceve un nuovo giocattolo. Dovevo entrare,
non c'era alternativa.
Attraversai
quell'infinito corridoio polveroso con una paura che neanche può
pensare. E se mi avessero preso? Mi avrebbero ucciso! Ah, ma che
cambiava? Mi andava quasi bene.
Cado
in trance\
entro\
e
faccio la cosa più stupida che potessi fare.
Spingo
la porta all'indietro. Così, d'istinto.
Tonf-clac.
Un suono sordo e una serratura che scatta. Ci metto qualche secondo a
capire che cosa ho appena fatto. Mi giro terrorizzato per vedere
confermate con orrore le mie peggiori paure.
La
chiave non c'è. Mi sono appena chiuso nell'ufficio di Giovanni.
Frugo
a destra e a manca per cercarla. Non c'è. Ovviamente, chi lascerebbe
la chiave per una stanza dentro la stanza?
È
fatta, mi dico, sono fregato. Non posso uscire. Giovanni è l'unico
che può aprire, entrerà, vedrà che mi sono intrufolato senza il
suo permesso e mi rinchiuderà nelle segrete in un battito di ciglia.
Mi maledico in ogni lingua possibile.
Poi
subentra un'altra voce, più serena, che mi dice: calmati. Non c'è
ragione di deprimersi, ormai la frittata è fatta. Sfrutta bene le
tue ultime ore di libertà.
Non
ha tutti i torti. Mi guardo intorno: è proprio un bell'ufficio.
Spazioso, ben arredato, con una miriade di posti da esaminare. Vado
allo scaffale con i libri e mi metto a scorrere i titoli. Io non
leggo, quindi non li ho mai sentiti, però non importa.
Poi
mi metto a rovistare tra gli scatoloni e ne trovo uno pieno zeppo di
cinture da Poké Balls, probabilmente quelle che usa Giovanni nei
suoi scontri. Non capisco se siano tutte uguali o no, e poi che mi
frega? Ne prendo una da tre sfere, per sentirmi un po' a casa, e me
la lego alla vita. Provo un'ebbrezza mai vissuta prima. Io, Miguel,
che fino a ora ho solo tenuto con me Voltorb e Grimer, ho una squadra
che ha preso in mano il gran capo dei Rocket prima di me! Ora sono io
Giovanni!
Già,
mi dico. Sono io. Getto un'occhiata alla scrivania, affollata da
progetti astrusi sulla Silph Company, e mi sale in testa un'idea
balzana. Senza pensarci su due volte mi metto sulla sedia, anche se
in effetti è più un trono, e mi fingo il boss del Team che riceve
il giovane Miguel.
(si
alza e alterna una voce profonda a quella naturale, mimando un
dialogo)
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“Buongiorno,
giovanotto”.
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“Buongiorno,
signore”.
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“Come
mai qui?”.
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“Vede,
sono rimasto chiuso qua dentro…”.
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“E
cosa intende fare?”.
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“Beh,
come prima cosa ho pensato di chiedere consiglio a lei”.
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“Mi
spiace, temo dovrà cavarsela da solo”.
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“Ma
lei non ha la chiave?”.
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“Purtroppo
no, ho altri che ci pensano. Io poi sono basso, non posso proprio
badare a tutto, ho un Team da mandare avanti”.
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“E
ora che cosa posso fare?”.
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“Se
vuole possiamo parlare un po'”.
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“Ah,
molto gentile, è da una settimana che non parlo con nessuno”.
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“Come
mai?”.
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“Beh,
non sono uno molto socievole. Prima c'era Amalia che mi ascoltava,
ma ora se n'è andata”.
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“Amalia,
eh? Una ragazza?”.
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“Già”.
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“Non
si preoccupi, giovanotto, ne troverà altre. Un bell'uomo come
lei, poi…”.
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“Penso
che come lei non ne troverò più, però”.
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“Non
diciamo fesserie, il mare è pieno di pesci”.
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“Sì,
ma lei era speciale… E poi io sono costretto nei Rocket”.
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“E
quindi?”.
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“Come
faccio a cercarne altre in questo stato?”.
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“Non
apprezza i metodi del Team?”.
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“No,
no, non dico questo”.
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“E
allora qual è il problema?”.
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Mi
faccio coraggio.
“Beh,
mi scusi, signore, ma tanto per cominciare dovreste accendere i
caloriferi un po' di più, perché fa sempre freddo, e io sono fermo
qua sotto da mesi a prendermi raffreddori dietro raffreddori. E poi,
mi scusi, ma non le pare, se posso, stupido rinchiudere qualcuno qua
nella base? E ancora, perché dividere spacciatori e agenti in
missione? E in base a cosa si viene scelti? E ancora, scusi di nuovo,
ma non capisco il vantaggio di uccidere chi cambi idea, perché siamo
uomini e donne, e possiamo sbagliare, non siamo tutti infallibili
come lei”.
Non
ho modo di sentire la risposta perché un nuovo clac risuona
nella stanza. Tutte le paure che mi avevano abbandonato ritornano di
colpo. Ecco, ho sprecato i miei ultimi minuti di vita a parlare da
solo. Ottimo, Miguel, i miei complimenti.
La
porta si apre cigolando. Ecco che entra Giovanni, sono finito. O
magari non è lui? Magari è Proton? Non so cosa sia peggio.
Invece
non è nessuno dei due.
\
\
È
il ragazzo. Quello di Cerulean e di Lavender. Basso, vestito in
rosso, con un Pikachu al seguito e quello sguardo da arrogante. È
proprio lui.
“Allora
sei tu”, mi dice, e io non so che rispondere. Certo che sono io.
Non credevo però che lui si ricordasse di me.
“Finalmente
ci incontriamo, Giovanni”. Capisco l'equivoco. Sono nel suo
ufficio, alla sua scrivania, è ovvio che creda che sia lui. Strano,
perché mi ha pure già incontrato a Cerulean, come fa a non
collegare? D'altronde era buio, e poi io stesso a momenti me ne ero
scordato. Per lui sono solo uno dei tanti.
Per
un momento penso di spiegargli la verità, che non sono io. Ma
ripensandoci, perché dovrei? Ho appena passato un quarto d'ora a
fingermi Giovanni. Questo è il mio spettacolo. Giovanni sono
io.
“Sono
davvero sorpreso che tu ce l'abbia fatta ad arrivare fin qui”, dico
con un accento grave, per fare un po' di scena.
Lui
come risposta nemmeno mi parla e estrae dalla cintura una sfera. Lui
ne ha cinque, io solo tre, insomma parto già sconfitto. Un attimo,
però, sono pur sempre i pokémon di Giovanni. Non mi arrenderò
senza combattere. Ne lancio una anche io.
La
sua prima scelta è un Charmeleon, la mia un Onix. Sono fortunato,
penso, dev'essere la buona stella di Giovanni. Le sue mosse sono
inutili contro un pokémon di tipo Roccia, la vinco facile.
Il
secondo è un Wartortle. Acqua. Contro un Roccia-Terra non ha neanche
senso provare, nemmeno attacco ed è già affossato. Bene, ora ne
rimangono solo due. Prego solo che Giovanni abbia pensato a un piano
B.
Lancio
una sfera che sembra più usurata, come se l'avesse utilizzata di
più. È una Persian. Quantomeno non è debole all'acqua, mi dico.
Quella, al contrario di Onix, sembra accorgersi che non sono
Giovanni, e mi guarda emettendo un verso dubbioso. Ma tant'è, ormai
è in battaglia, quindi si scaglia su Wartortle con una violenza
inaudita. 1-1, palla al centro.
Tocca
a lui, il ragazzo in rosso, e sceglie un Ivysaur. Anche qui nessun
vantaggio di partenza, e infatti è una battaglia parecchio
combattuta. Ma Persian la spunta per un nonnulla. Ora siamo davvero
pari, due pokémon ciascuno. Ma lui non ha ancora giocato il suo asso
nella manica, lo so bene.
Eccolo,
questa volta non lancia nessuna Poké Ball e si limita a stendere la
mano. Tocca a Pikachu. Persian ce la mette tutta, ma è quasi sfinita
contro il cavallo di battaglia del mio nemico, non c'è speranza.
Ora
siamo alla resa dei conti. Ultimo pokémon. O la va o la spacca.
Chiudo gli occhi e spedisco in aria la sfera. Un verso grave e
sofisticato scaccia il silenzio.
Rhyhorn.
Rhyhorn!
Terra-Roccia! Pikachu non ce la farà mai a sconfiggerlo! Con la coda
dell'occhio scorgo la vittoria, ormai è a un passo. Aspettami, le
dico, mentre ordino al pokémon di sconfiggere quel dannato topo.
Massimo
risultato con il minimo sforzo. Grazie, Giovanni. E tu, bambino,
questo è per esserti messo contro Miguel a Cerulean. Ti serva di
lezione! Eccolo che lancia la sua ultima Ball. È tutto inutile,
tanto.
\
\
Mi
si gela il sangue.
Non
l'ho mai visto, quel pokémon. È una specie di trilobita, un
granchio di roccia.
Ma
so da dove viene. O temo di saperlo.
“No,
non può essere!”, mi lascio sfuggire mentre lo esamino dalla
distanza. È debole, non può sconfiggermi, è un miracolo se non
muore a contatto con l'aria. Ma più lo guardo più me ne convinco.
Richiamo
Rhyhorn e getto a terra la cintura. Vorrei andarmene, ma mi ricordo
che sono ancora Giovanni, dopotutto, e quindi chiudo dicendo: “Vedo
che alleni i pokémon con molta passione. Un bambino però non
capirebbe mai ciò che spero di ottenere… Questa volta ti faccio
passare”.
Poi,
prima di lasciare la stanza, soggiungo: “Spero che ci
rincontreremo”. Così Giovanni ti schiaccerà, completo
mentalmente. (si siede)
\
\
\
Quel
pokémon si chiamava Kabuto, scoprii anni dopo. È estinto, non c'è
modo di catturarlo normalmente. Avevo visto giusto, una volta tanto.
\
In
non so che modo aveva estratto quel pokémon dal fossile che io gli
avevo dato. Ricombinazione genetica, chi lo sa. Non è importante.
Fino
ad allora avevo solo un grande peso sulla coscienza: la Marowak. Con
il tempo avevo imparato ad affrontarlo, ma restava. Perlomeno, però,
era uno.
Ora
invece spuntava che da quel fossile era nato un pokémon. Ma non
c'era un solo fossile tra quelli da me estratti quella notte: ne
avevo due. Che dire dell'altro, l'Helixfossile? Anche da quello
sarebbe stato possibile ricreare un pokémon? In quel caso io,
cedendolo ai Rocket, l'avevo ucciso.
E
tutti gli altri fossili? Solo nella missione di Cerulean ne avevamo
estratti a decine. Erano tutti pokémon anche quelli? Quante ali
avevamo tarpato con la nostra ignoranza? Perché non ci avevano
avvertiti?
\
\
\
\
Dopo
quel giorno smisi di osservare la porta dell'ufficio e mi rintanai
nella mia stanza per i mesi rimanenti di embargo. Non facevo niente,
stavo ore a fissare il soffitto, oppure a pensare ad Amalia, anche se
per la verità quello era più dannoso che altro. Cercavo di dormire
il più possibile, tranne l'ultima settimana in cui mi rimisi in
sesto in vista della liberazione.
Combinazione,
proprio per il primo giorno di nuovo da Rocket fu stabilita quella
che fu rapidamente ribattezzata la missione delle missioni.
Cos'era? Un attimo e ci arrivo. Non fu l'unica cosa che successe in
quelle ventiquattr'ore.
La
mattina rividi Lynn. Erano passati sette mesi dal nostro ultimo
incontro, là nella Pokémon Tower. Ci parlammo, ma fu un dialogo
freddo. Per carità, lui era rimasto sempre lo stesso, ciecamente
devoto alla causa del Team.
Ero
io a essere cambiato. Io avevo vissuto la più alta gioia e il più
profondo dolore, io avevo scoperto la verità sui fossili, io ero
stato Giovanni per un'ora. Non ero più lo stesso, ed ero io quello
che non andava. Lui invece era stato promosso a ufficiale, se non
sbaglio. Ufficiale Lynn. Suonava bene, devo dire.
Ci
scambiammo pochissime parole e poi ci salutammo. Non so se comprese
mai cosa mi fosse successo, ma io di certo non glielo dissi. Non
potevo più fidarmi, dal mio punto di vista lui era il morto vivente
che era divenuto parte integrante dell'organizzazione.
Ma
tant'è, Lynn era pur sempre un superiore, e allo squadrone in carico
a lui fui affidato anche io. Insomma, la grande missione fu una
riunione forzata. Sotto la sua scorza di affabilità penso che anche
per lui fosse un peso, credo percepisse che qualcosa non andava.
Comunque non si fece problemi. Ci mettemmo in marcia per Saffron di
buon'ora, sotto una primavera che si preparava a rinascere.
Perché
Saffron? È molto semplice: la Silph Company. La conosce, immagino,
la più grande società di Kanto. Lo scopo era prendere possesso
della sede centrale, quella in centro città, per estorcere qualcosa
al presidente. Non ce lo dissero mai, però io ero stato nell'ufficio
di Giovanni e avevo visto tra le scartoffie che doveva riguardare un
nuovo tipo di Poké Ball. Tanto alle reclute non serviva avere una
ragione: si agiva e basta.
Però
io non avevo ancora scordato il ragazzo. Mi aveva battuto perché
Kabuto era legato a me, quindi contro il boss in teoria non avrebbe
avuto speranza. In teoria.
Ma
sapevo che ci sarebbe stato, perché era da lui, ed era inevitabile
che mi ci sarei scontrato. Chiedere di sorvegliare i piani più alti
sarebbe stato inutile, perché avrebbe sgominato tutte le reclute
inferiori e prima o poi sarebbe arrivato a me. Non c'era via di
scampo, ero come un albatro ferito che cerca di non schiantarsi al
suolo.
Così
chiesi a Lynn con il sorriso più disarmante che potessi mostrare di
essere messo al pianterreno. Il suo gruppo era destinato al quarto, e
io con esso, ma per me avrebbe fatto un'eccezione. Giusto?
Lui
acconsentì senza troppe insistenze, tanto non importava, disse,
nessuno avrebbe potuto fermarli. Forse ero fissato, ma ci vidi una
frecciatina a me. Come a dire: sei una pezza, ti asfalteranno, ma
abbiamo qui tutto il Team Rocket in abito da cerimonia, quindi
possiamo permettercelo.
Quindi
mi diedero una cintura con un Drowzee
e un Machop e mi posizionarono a lato dell'entrata, da solo, a
scambiare due parole con la piscina del piano terra, pronto a tendere
un agguato allo sventurato che entrasse. Per il primo quarto d'ora fu
calma totale, tutto lo staff era stato segregato e nessun
imprenditore, impiegato o bambino in rosso varcarono la porta.
Ma
era solo questione di tempo, lo sapevo, ero un pianeta che aspetta la
collisione con il suo satellite. Si avvicinava sempre di più,
sentivo la sua forza attrattiva sollevare gli oceani. L'albatro era a
due passi dal suolo.
\
Ed
ecco che entra, altezzoso come sempre, con il suo Pikachu al seguito,
con lo sguardo disorientato. Sono l'unico, laggiù. I miei occhi
incrociano i suoi, non c'è bisogno di dire una parola, dubito mi
abbia riconosciuto comunque. Parte la sfida.
\
È
veloce, per certi versi indolore. Io mando subito il mio Drowzee,
lui…
Lui
sceglie un pokémon nuovo. O meglio, non nuovo del tutto.
È
Kabutops. L'evoluzione di Kabuto, cioè del fossile che gli ho dato.
Un segno del destino, non trova? Voglio dire, lui non sa che io ho
impersonato Giovanni, eppure mi manda contro proprio la mia nemesi.
Combatto
senza trattenermi, voglio dare il meglio di me, anche se del Team non
mi importa niente, perché lotto per me soltanto. Tutto inutile: è
migliorato in modo sostanziale e io non ho più la squadra di
Giovanni. Per Drowzee prima e Machop poi non c'è alcuna speranza.
Aveva
ragione Lynn, mi ha asfaltato.
Il
satellite mi ha perforato, l'albatro si è sfracellato.
Il
bambino se ne va, pronto a sgominare per l'ultima volta i piani dei
Rocket. Ho atteso per tre mesi una battaglia durata tre minuti.
\
\
Ma
sono in pace. È come essersi liberati di un peso che ti opprimeva.
Mi ha sconfitto, ma io ho vinto.
Ho
vinto contro i Rocket. Non sono più loro schiavo. Tutto è compiuto.
Non provo più rancore verso il ragazzo, non provo più astio per il
Team, non provo più fastidio nei confronti di Lynn. Tutto è pace.
La penna e il foglio non servono più perché non sono più
prigioniero della stanza fredda. Sono all'aria aperta. Ho ritrovato
davvero contatto con la Natura, con il mondo, con l'Universo.
Ora
c'è solo Miguel, non più la recluta numero 215.
Mi
volto. Il ragazzino sta per prendere l'ascensore. Prendo coraggio:
“Ehi, tu! Come ti chiami?”.
“Red”,
risponde con tono distaccato, poi oltrepassa le porte automatiche e
preme un pulsante.
Mi
giro nuovamente, scorgendo il raggio di sole primaverile che penetra
dalla porta in vetro della Silph.
“Grazie”,
dico, e non so se parlo con lui, o con Amalia, o semplicemente con
quel tutto al di fuori di me con cui mi sono finalmente ricongiunto.
\
(Esce.)
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Capitolo 6 *** Tutte tartarughe ***
VI: "Tutte tartarughe"
VI: "Tutte
tartarughe"
(Rientra,
ha in mano una ventiquattrore.)
(si
ferma a metà strada) Ah,
buonasera. La valigia? (prosegue
fino al bancone, si siede, resta in silenzio per un po')
Doveva
succedere, no? Stanno iniziando ad andare a fondo sui nostri crimini.
Pare che la Lega Pokémon abbia dato il lasciapassare per perquisire
gli archivi del Game Corner, dopo qualche anno di litigi sulla
privacy e cose così. C'è il mio nome, là dentro, non posso più
restare qua a Kanto. Prenderò un treno fino a Saffron e da lì un
aereo.
Curioso,
vero? Lì dove tutto finì.
Dove
andrò? Beh, non si offenda, ma non glielo posso dire. Mi dia retta,
meno sa di me, meno se interrogato dovrà mentire. È un vantaggio
per entrambi. Però posso dirle che l'idea che ha avuto la mia
fidanzata è stata Unova, una regione ben lontana da qua. L'ideale
per farsi una nuova vita lontano dai Rocket.
Come?
No, non penso ci saranno problemi di foto o che altro, anche perché
dalla mia entrata nel Team sono un po' cambiato. E poi dopo gli
avvenimenti di Viridian gran parte delle documentazioni sulle reclute
furono bruciate.
Ah,
non gliene ho ancora parlato? Rimediamo subito, allora. Ah, prima che
me lo chieda, non penso berrò stasera. Sa, preferirei evitare di
ubriacarmi prima di una fuga per la vittoria.
Red,
come può intuire, sventò il piano dell'attacco alla Silph. Con mia
sorpresa riuscì persino a sconfiggere Giovanni, quello vero, non la
sua controfigura sbandata. Ciononostante il boss non si arrese,
dicendo a noi tutti che aveva altri piani, che i Rocket non finivano
lì.
Naturalmente
io sapevo bene che non era vero, perché la sua scrivania non aveva
altro che progetti sulla Silph. Aveva puntato tutto su quella
missione e aveva fallito. Ma cosa vuole, certa gente non sa perdere,
così fui confinato ancora un po' in quel sotterraneo che ormai era
in fibrillazione.
L'avevano
capito tutti, credo. La gente faceva le valigie, salutava i propri
amici, vagava a caso per i corridoi. L'unico che ostentava sicurezza
era Proton, che continuava a predicare calma, dicendo che non era
finito niente. Ma ovviamente nessuno lo ascoltava.
Nel
frattempo Giovanni non si vedeva mai, nessuno sapeva perché. Lo
scoprii tempo dopo: era tornato alla Palestra che gestiva a Viridian.
Come,
non lo sa? Aveva una doppia vita, una copertura per il suo ruolo di
boss dei Rocket. Solo che la Palestra era sempre vuota, perché lui
passava il tempo nel suo ufficio a Celadon. Negli ultimi tempi penso
che qualcuno avesse iniziato a chiedersi perché il più importante
Capopalestra di Kanto non ci fosse mai, e quindi aveva iniziato a
presenziare di più. Forse per quello avevo trovato il suo posto
vuoto, quella mattina.
Fu
in un giorno freddo, non troppo diverso da quello in cui avevo
parlato con Amalia per la prima volta, che arrivò la notizia:
Giovanni era stato sconfitto a Viridian. Non so se mi spiego, non era
mai accaduto da quando si era insediato. L'ultimo a passare la prova
di quella Palestra era stato Lance, ma al tempo il Capopalestra era
un altro che oltretutto si era dimesso dopo quella sconfitta.
No,
non ce lo dissero mai, com'è ovvio, ma sia io che lei sappiamo che
fu certamente Red a batterlo. Qualche tempo dopo, tra l'altro,
divenne anche Campione, in un giro di ruoli che non se ne vedeva di
simili da generazioni. In pratica questo ragazzo sconfisse Lance, e
quasi subito dopo Red prese il suo posto. Tre campioni in trenta
minuti, roba mai vista.
Tornando
a quel famoso giorno, Giovanni sciolse il Team. Per tutta la mattina
là sotto fu solo un viavai dei generali che bruciavano documenti e
quant'altro, ma nessuno aveva la chiave dell'ufficio di Giovanni,
quindi gli archivi massimi rimasero intatti.
Io?
Come può immaginare non ne fui altro che felice. Potevo finalmente
farmi una nuova vita. Ripresi a frequentare la gente, incontrai la
mia fidanzata, dopo un po' andai a convivere con lei e via
discorrendo. Tutto tornò alla normalità, se tale si poteva definire
un mondo senza Rocket. Fu una cosa strana, all'inizio, non dover
rendere conto a nessuno di quello che facevo, e c'è da dire che i
primi tempi quasi avevo paura a uscire di casa, temendo aggressioni
da parte dei civili. Poi la serie di suicidi non aiutò certo, si
parlava addirittura di una maledizione.
Poi
la cosa si stabilizzò e per tre anni non successe più nulla. A un
certo punto, non si sa come, il Team tornò alla ribalta. Non a
Kanto, o meglio, qui ci fu soltanto un furto di qualcosa dalla Power
Plant, nulla di che. Ma a Johto si fu davvero vicini alla rinascita
di quell'incubo.
Io
stesso andai a indagare, lasciando Kanto per la prima volta in vita
mia. Non volevo riunirmi, ci mancherebbe altro, dopo tutta la fatica
fatta per uscirne… Ero solo curioso. E poi là vendono Iramelle a
chili, e io vado matto per quei dolci. Non potevo mica tirarmi
indietro.
A
quanto pare lo scioglimento dei Rocket non era stato granché inteso
come tale. Mi spiego, quella di Kanto era sì la divisione più
importante del Team, ma pur sempre una divisione. Quando Giovanni
dichiarò lo sbando alcuni, tra cui quasi tutti i generali,
confluirono nella sezione di Johto, che continuò ad agire
nell'ombra.
Fino
appunto a tre anni dopo, quando decisero di uscire allo scoperto con
una serie di crimini senza capo né coda, si faticava a definirlo
Team Rocket senza la brillante mente di Giovanni a guidare il tutto.
Così
ebbero la trovata di richiamare il loro boss. Attaccarono la
Goldenrod Radio Tower, sperando di diffondere il loro messaggio su
scala nazionale e rintracciare così Giovanni. Forse sarebbe anche
andato a buon fine, come piano non era niente male. Se mi hanno
raccontato bene però un ragazzo li sconfisse costringendoli alla
ritirata. No, non Red, non è chiara la sua identità, ma non era
sicuramente lui.
Ma
tanto era un progetto destinato a fallire in partenza. In confronto
ai Rocket originali erano un esercito di mosche cieche, un tentativo
di resuscitare ciò che è già morto e sepolto. I morti restano
tali, se lo ricordi, per questo so che il Team non tornerà mai più.
È
un bene?
Non
ne sono sicuro. È un bene per me, lo sarebbe stato per Amalia,
arrivo a dire che tutti prima o poi potranno dire di averci
guadagnato. Ho aperto gli occhi. Non facevamo il bene della gente,
questo è certo.
Ma
non facevamo nemmeno il male per loro. Eravamo egoisti, forse, ma non
malvagi. Ciò che i secondi Rocket non compresero è che il volere di
Giovanni non era ostentare la propria potenza, bensì arricchirsi
alle spalle degli altri. Era un uomo molto lucido, nel suo
egocentrismo.
E
che dire delle reclute con poca personalità, i sottomessi quale ero
io al mio arrivo nei Rocket? Per loro senz'altro non è stato
piacevole ritrovarsi catapultati nel mondo senza una guida. Ci
saranno sempre gli impauriti, quelli che hanno bisogno di essere
comandati, ma a differenza nostra non avranno nessun Proton, nessun
Archer, nessun Petrel a indicare loro la via della maturità.
Qualcuno forse prenderà il loro posto, ma quando? E quanto saranno
vicini al loro carisma?
Io,
io sono maturato. Il prezzo che ho pagato è stato altissimo, ma
senza esso sarei ciò che sono adesso? O sarei un disilluso, uno che
ha scoperto che il mondo è troppo brutto per i suoi propositi? Io
sono sceso nei bassifondi di Celadon e poi ne sono risalito: per
questo la civiltà mi è apparsa idilliaca quando i Rocket sono
caduti.
Non
so davvero dire se sia meglio o peggio non avere il Team che
imperversa per Kanto. Immagino che, come tante cose in questo mondo,
solo il tempo potrà dare una risposta.
Ma
non sarà mai definitiva. Rimarremo per sempre nel dubbio,
nell'incertezza. E questo sospetto sarà ciò che manterrà ancora i
Rocket vivi, come accade per i mostruosi regimi autoritari che nella
mente dei posteri vengono distorti in positivo.
Sarà
tutto sbiadito, come in una vecchia foto in cui il sangue è celato
dall'usura e dalla tinta di seppia.
(guarda
l'orologio da polso, si alza) Beh, credo che sia giunta l'ora di
andare. Il mio treno partirà tra poco.
(inizia
ad allontanarsi verso le quinte, poi si ferma a metà strada)
Come dice?
Sì,
le hanno riferito bene. La Silph aveva un sistema di sicurezza che il
Team ha provato a usare per bloccare eventuali interventi.
Vede\
\
\
Io
feci trovare l'Apriporta a quel ragazzo. Non avevo più niente da
regolare con lui. Ho fatto ciò che Amalia avrebbe fatto.
(sorride
malinconicamente) Ha ragione, forse non sono stato tanto inutile
dopotutto.
\
\
\
Sa,
ricorda la storiella delle tartarughe? La trovai, la risposta.
Durante la mia permanenza a Johto soggiornai a Ecruteak City, una
bella cittadina molto legata alle tradizioni. È un mito cinese, se
ho ben capito da quel monaco che incontrai.
“Da
lì in poi sono tutte tartarughe”.
(ride)
Non ha senso, vero? Ha perfettamente ragione. È assurdo. L'ultima
tartaruga dovrà pur poggiare su qualcosa, altrimenti cadrebbe nel
vuoto.
Eppure\
(si
volta e rivolge uno sguardo beffardo all'interlocutore immaginario)
Eppure il mondo sta su, dico bene?
\
\
\
\
Quel
giorno\
Amalia
mi diede anche qualcos'altro. (estrae il pezzo di carta riposto in
tasca all'inizio) Lo rileggevo poco prima di incontrare lei in
questo bar. È la sua poesia, quello che scriveva durante le lezioni
a Celadon. Una specie di prefigurazione di quello che il Team poi
sarebbe diventato, dannatamente profetica per quando fu scritta.
Ma
non ha importanza. Per me resterà sempre e solo l'unica prova che ho
della sua esistenza. Non importa quanto possa invecchiare, quanto la
mia memoria possa vacillare, perché lei sarà sempre impressa qui,
tra le mie mani.
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Crede
che sapesse quello a cui stava andando incontro?
Immagino
resterà un quesito senza risposta per entrambi, vero? Rimarrà
sempre una storia incompleta, frodata dal tempo e da
un'organizzazione che forse nemmeno aveva compreso quanto fosse
profondamente marcia al suo interno.
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Addio,
dunque. Chissà che non ci incontriamo di nuovo, un giorno. (torna
ad avviarsi verso le quinte)
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(Esce.)
Qualcuno
entrava nei Rocket perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa
di nuovo.
Perché
sentiva la necessità di una morale diversa.
Perché
forse era solo una forza, un volo, un sogno.
Era
solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la
vita.
Perché
con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso,
Era
come due persone in una.
Da
una parte la personale fatica quotidiana,
E
dall'altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare
il volo
Per
cambiare veramente la vita.
No,
niente rimpianti.
Forse
anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di
volare,
Come
dei gabbiani ipotetici.
E
ora,
Anche
ora ci si sente in due.
Da
una parte l'uomo inserito,
Che
attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza
quotidiana,
E
dall'altra il gabbiano senza più neanche l'intenzione del volo,
Perché
ormai il sogno si è rattrappito.
Due
miserie in un corpo solo. |
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