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Buio e freddo. La ragazza sfortunata non sentiva altro. Del
suo passato ricordava solo un grande, grandissimo peso sul cuore, ma quando si
sforzava, nel suo limbo freddo e buio, di concentrarsi, non le veniva alla
mente nient’altro.
Poi la sua vista si schiarì e capì di trovarsi in una
stanza, ma non aveva idea di come ci fosse arrivata.
Era una stanza grigia e fredda, con le pareti di metallo
imbullonate tra di loro. Nell’aria c’erano uno strano
odore ed uno strano rumore. Impaurita, Jennifer si
rannicchiò nell’angolo in cui si trovava, cercando dentro di sé il coraggio di
fare qualche passo. Sul pavimento di legno giacevano dei sacchi vuoti ed alcuni
strumenti sconosciuti. A pochi passi da lei c’era una strana, lunga cassa,
aperta, che puzzava di terriccio.
La ragazza sfortunata tremava di paura, ma non c’era nessuno
che potesse aiutarla: era sola, così come nei suoi vaghi, nebbiosi ricordi. Tranne forse per…
Ma per quanto si sforzasse, non
riusciva a ricordare. Facendosi forza e vedendo che attorno a sé non c’era
nulla di pauroso, si alzò e si avvicinò alla cassa.
Dentro c’era un’altra sacca, ma questa non era vuota: sembrava
contenere qualcosa di rannicchiato, come un animale spaurito. Jennifer sentì un groppo in gola e una sensazione
familiare, come se sapesse cosa ci fosse dentro quella sacca e dovesse tirarlo
fuori subito. Senza esitare, la ragazza sfortunata
afferrò la sacca e ne allargò l’imboccatura, in modo da poterne estrarre il
contenuto.
Il suo grido di orrore risuonò tra
le pareti metalliche della stanza, sovrastando il cupo brontolio che sembrava
salire dal pavimento, ma lei non lo sentì, tanto le sue orecchie erano
assordate dal ronzio del proprio cuore che batteva forte. Si lasciò cadere sul
pavimento e si portò le mani alla bocca, temendo di essere in procinto di
vomitare. Solo dopo qualche secondo si rese conto che le sue mani erano
imbrattate di sangue, e le scostò con un urlo; ma questa volta non riuscì a
trattenersi.
Con gli occhi ancora offuscati dalle lacrime e la gola in
fiamme per il vomito, Jennifer tornò carponi verso la
sacca, chiedendosi se per caso non si fosse trattato solo di un orribile
incubo.
Ma il cuore sanguinante e ancora
caldo era ancora nella sacca dove l’aveva trovato, emanando un odore terribile
di carne cruda.
“C’è qualcuno?” gridò la sfortunata ragazza, in preda ai
singhiozzi, ma non ottenne risposta.
“Vi prego, aiutatemi!” chiamò di nuovo, ma ancora una volta
nessuno rispose.
“Dove sono… dove sono…” si lamentò
infine, rannicchiata nell’angolo in cui si era svegliata, ormai senza
preoccuparsi di insozzare di sangue il proprio vestito.
Il piccolo cacciatore
trascorreva la maggior parte delle sue giornate a liberare dai topi e dai ratti
il seminterrato e la soffitta della reggia delle Principesse…
All’improvviso un rumore sovrastò il borbottio costante e il
pianto di Jennifer, tanto che la ragazza, allarmata,
sollevò lo sguardo.
“Scava, gratta, presto, presto!”
Trattenendo il fiato, la ragazza sfortunata si guardò
attorno, cercando l’origine di quelle parole, sussurrate con un soffio di
fiato, ma era ancora sola nella stanza, mentre il ticchettio che aveva
cominciato a sentire continuava.
“Fuggi, prima che sia troppo tardi!”
Era solo la sua impressione, o fra le ombre negli angoli
della stanza c’era qualcosa che si muoveva?
“Gratta, scappa, presto! Prima che arrivi il Randagio!”
La sfortunata ragazza si sentì tirare una manica e non
riuscì nemmeno a gridare quando vide quegli occhietti neri che la fissavano, il
muso fremente e la piccola, orrida mano bianca che le stringeva l’abito.
“Ti prego,” disse la creatura, “non
lasciare che mi porti via…”
Jennifer balzò in piedi, gridando,
mentre tutto attorno a lei, dall’ombra, uscivano decine di piccole creature
dalla pelle bianca come il gesso e la testa di topo. Le loro piccole unghie
ticchettavano sul metallo delle pareti e sul legno del pavimento, mentre
squittivano eccitati.
“Gratta, scappa, il Randagio è già qui!”
Il grido di panico della ragazza sovrastò l’orribile
cacofonia di squittii e acuti strilli, mentre lei cercava di staccare dal
proprio braccio quell’essere.
I topi la stavano circondando, squittendo, rosicchiando e grattando, e lei sapeva
che non sarebbe riuscita a sopravvivere a lungo se non fosse riuscita a
scappare.
All’improvviso il trepestio si fermò ed anche Jennifer trattenne il respiro dalla sorpresa. In
lontananza, come se si trovasse all’altro capo del mondo, risuonò l’abbaiare di
un cane.
Subito i mostri esplosero in una teoria di
alti gridi, squittii e orridi cachinni mentre
correvano in ogni direzione. La povera Jennifervenne colpita ripetutamente, sballottata da una parte
all’altra della stanza a causa del fuggi fuggi dei suoi
aguzzini, e poco ci mancò che svenisse davvero. Ma quando infine cadde al suolo in lacrime ed il silenzio tornò a regnare
sovrano, i topi mostruosi erano scomparsi, nascosti in qualche misteriosa
intercapedine, lontani dalla vista. Anche il cane
lontano si era zittito, e tutto ciò che la sfortunata ragazza riusciva a
sentire era il borbottio costante che veniva dal pavimento ed il proprio
pianto. Tuttavia c’era qualcosa, in quel momento, che la
rincuorava, che la faceva sentire più sicura, sebbene non fosse in grado di
definirlo meglio. Sapeva solo che nel suo cuore era rinata la speranza,
dopo tanto tempo…
Quando ebbe ripreso fiato e si fu
asciugata le lacrime, la sfortunata ragazza si tirò in piedi. Dopo un ultimo sguardo all’orrendo contenuto della sacca nella
cassa e un brivido, Jennifer si sentì pronta ad
uscire da quella strana stanza, attraverso la piccola porta che solo ora era
riuscita a notare. L’unica cosa che in quel momento le importava era
andarsene da quel posto orribile, anche se la speranza nel suo cuore continuava
a suggerirle che ci fosse qualcos’altro…
Però, poiché era quasi sempre a caccia nei luoghi più polverosi e bui, dove
tutti gli altri non osavano avventurarsi, l’intrepido cacciatore era sempre
solo…
Per quanto assurdo le potesse
sembrare, la sfortunata ragazza si trovava su un dirigibile. L’ultima cosa che
le sembrava di ricordare prima di risvegliarsi in quella strana
stanza era una sensazione di grande calore, insieme ad un dolore al torace.
Forse aveva anche pianto, ma non sapeva dirlo con certezza.
Come se non bastasse, quel dirigibile le sembrava
stranamente familiare, ma non riusciva a ricordare i particolari di ciò che le
faceva capolino nella mente. Era come se si sforzasse di ricordare un sogno che
aveva fatto e che era sparito alle prime luci dell’alba…
All’inizio, convinta chissà perché
di trovarsi sottoterra, Jennifer aveva cercato una
strada che la portasse verso l’alto, ma ben presto si era accorta con stupore
che il borbottio che continuava a sentire era il rumore di un motore, che
rombava in basso, giù, molto sotto di lei. Aveva creduto che fosse una caldaia,
o un generatore, ed era rimasta a bocca aperta quando, attraversando uno strano
ponticello di ferro, aveva visto da una finestra un cielo nuvoloso di notte,
che continuava non solo verso l’alto, ma anche verso il basso.
La sfortunata ragazza allora pensò di dirigersi verso il
cane che aveva sentito prima, sperando di trovare qualcosa o qualcuno che
potesse aiutarla come quando quei mostri l’avevano attaccata. Aveva provato a
tornare sui suoi passi per orientarsi, ma aveva scoperto ben presto di essersi
persa.
Dopo l’ultima svolta che portava ad un altro grigio
corridoio, Jennifer si fermò, ansimando per la fatica
e la tristezza. Tutto attorno a lei le sembrava così
strano e assurdo che le venne voglia di piangere, ma sapeva che piangere non
l’avrebbe aiutata. Non c’era nessuno che la consolasse, nessuno che l’aiutasse;
era completamente sola.
Come era sempre stata in passato.
Come sarebbe sempre stata in futuro.
Calde lacrime le rigarono le guance mentre la sfortunata
ragazza si accasciava sul pavimento, singhiozzando. E
se fosse stato tutto solo uno scherzo? Quando le avrebbero fatto la sorpresa di
tirarla fuori da lì si sarebbe arrabbiata, certo, ma
tutto sarebbe finito con delle calorose risate. Ma in
cuor suo sapeva che quello non era uno scherzo, perché nessuno le era tanto
amico da scherzare con lei.
Avrebbe invocato il nome della sua mamma, se solo se lo
fosse ricordato, ma sapeva che era morta tanto tempo prima,
come anche il suo papà, perciò non poté fare altro che rannicchiarsi su se
stessa.
“Aiutatemi,” mormorò fra le
lacrime, stringendosi al petto le ginocchia, disperando di poter essere udita.
“Aiutatemi.”
Ma qualcuno la udì…
Per mesi e mesi nulla
cambiò nella vita del piccolo cacciatore, finché un bel giorno, dalla piccola
finestra del seminterrato, non vide qualcosa che lo lasciò stupito…
“Povera, piccola, sfortunata Jennifer.”
La sfortunata ragazza sobbalzò a quella voce tagliente e a
quelle parole, pronunciate così vicino a lei, ed alzò lo sguardo. Davanti a
lei, con i pugni appoggiati ai fianchi, c’era una ragazza, che la fissava con
un’espressione compassionevole. Indossava un abito scuro a righe ed una
cravatta bianca lassa al collo, ed aveva dei bellissimi capelli
castano rossicci. Jennifer era così stupefatta
di averla vista che non riuscì a spiccicare parola
mentre lei si sollevava la gonna e si esibiva in una semplice riverenza nei
suoi confronti. Non sapeva chi fosse, eppure il suo
aspetto le sembrava stranamente familiare, e le ispirava una specie di sorda
inquietudine.
Quando finalmente ebbe trovato il
coraggio di parlare, la ragazza, che non doveva avere più di quattordici anni,
la anticipò.
“Sei stata molto, molto cattiva, Jennifer,” disse, mentre l’espressione compassionevole che aveva sul
volto si trasformava in un’aria di dura severità, appena mitigata da un sorriso
sottile. “Per questo ti trovi qui.”
Il sorriso della ragazza fece ancora sperare a Jennifer che fosse solo uno scherzo, per
cui si costrinse a sorridere a sua volta ed a smettere di piangere. “Do…
dove siamo?” bisbigliò con tutta la voce che riuscì ad emettere. A quelle
parole l’altra allargò le braccia, esasperata.
“Ma ti senti? Non riesci nemmeno a
parlare in maniera decente, stupida!”
La ragazza sfortunata si zittì improvvisamente, come se
tutto il suo coraggio fosse evaporato. Sentiva che le lacrime stavano tornando
a salirle agli occhi. Ma più di tutto sentiva che
quella strana ragazza aveva ragione.
Lei era una stupida.
Ed era molto, molto cattiva.
Come se si fosse pentita di quello che aveva appena detto,
la ragazza rossa si inginocchiò di fronte a Jennifer, nuovamente comprensiva. Quest’ultima
si ritrasse spaventata quando le mani dell’altra le si
avvicinarono al volto, ma non poté scansarle quando queste la
accarezzarono dolcemente.
“Oh, povera piccola Jennifer,” fece la rossa, avvicinando maggiormente il proprio volto.
“Ti senti in colpa per tutte le cose brutte che hai fatto, vero?”
La ragazza sfortunata avrebbe voluto
chiedere spiegazioni, ma dentro di sé, senza capirne il motivo, non poté
che darle ragione. Impercettibilmente annuì. Il sorriso sul volto dell’altra si
allargò. “E vuoi che la tua Duchessa Diana ti perdoni,
non è vero?”
“S… sì,” riuscì a dire Jennifer con un filo di voce. Le loro fronti si incontrarono con dolcezza, e Diana cominciò a cullarla
delicatamente.
“Però quelle cose brutte le hai
fatte, no? Altrimenti non ti troveresti in questo
posto, giusto?”
Ancora lacrime. Lacrime di coccodrillo, lo sapeva. Sapeva di
meritare tutto questo, ma ciononostante sperava ancora che Diana la perdonasse.
Quando le due fronti si separarono e poté di nuovo
guardarla negli occhi, in quegli occhi duri e taglienti come rasoi, però, seppe
che non avrebbe ottenuto nessun perdono.
“Sporca, lurida, disgustosa Jennifer,” disse la Duchessa con tono di rimprovero. “Ti meriti
tutto questo, e lo sai. Solo la Principessa della Rosa Rossa può perdonarti, ma
non è facile ottenere il suo perdono.”
Sì, lo sapeva. In qualche modo, sapeva tutto, tranne ciò che
avrebbe dovuto fare per uscire da quel posto buio e spaventoso.
“Ti prego, Diana,” la supplicò in
lacrime, mentre l’altra si rialzava in piedi. “Dimmi cosa devo fare…”
“La Legge della Rosa è chiara in proposito,”
le rispose. “Ogni mese devi portare un dono al Club degli Aristocratici,
altrimenti…”
Questa volta fu un sorriso crudele ad allargarsi sul volto
grazioso di Diana, ma non ci fu bisogno di altre
parole: Jennifer aveva capito.
“Ci siamo intese?” chiese ancora la Duchessa, al che la
ragazza sfortunata poté solamente annuire soffocando l’angoscia. “Bene,” riprese Diana mentre le voltava le spalle e si
allontanava lungo il corridoio. “Allora forse non sei così stupida come sembri.”
No, forse no, forse lo era di più.
“A… Aspetta!” chiamò debolmente Jennifer
mentre Diana varcava una soglia lungo il corridoio, ma nel tempo che le servì
per alzarsi e raggiungerla, la Duchessa si era già chiusa
la porta alle spalle. Quando provò la maniglia, la
sfortunata ragazza si rese conto che era stata chiusa a chiave, ed anche
appoggiando l’orecchio sul legno laccato non riusciva a sentire nient’altro che
il proprio respiro e il rombo lontano dei motori.
Con un groppo alla gola, si rese conto che era di nuovo sola.
Lei non era come le altre principesse: era sempre gentile con tutti
e sul suo viso il sorriso era sempre dolce. Ma
nonostante questo, veniva quasi per tutto il tempo e per tutti i giorni
lasciata sola…
Finalmente la vide, ma nel suo cuore non seppe se essere
felice o triste.
Le sembrava di aver vagato per quel misterioso dirigibile
per più di un giorno, salendo e scendendo scale, attraversando strani corridoi
bui e riposando in piccole stanze grigie. Non aveva più sentito nessun cane
abbaiare o mostro squittire, e non aveva visto nessuno
da quando aveva incontrato la Duchessa Diana. Ancora non aveva capito come
faceva a sapere certe cose, ma era convinta che per salvarsi doveva
assolutamente trovare l’ingresso alla Sala del Trono, qualunque cosa essa
fosse. Ed a quanto pareva, l’aveva trovata.
Era una porta diversa da tutte le altre: così bella, di
legno lucido con gli intarsi che a Jennifer erano
sempre piaciuti, ed aveva una targa disegnata sopra, in cui era possibile
leggere le parole ‘Aristocratici della Matita Rossa’.
Sotto di essa era appeso una specie di manifesto, ed
ancora più sotto una scatola di legno, delle dimensioni della base di un
grammofono. Istintivamente, la ragazza sfortunata sapeva di dover varcare
quella soglia, e così con trepidazione vi si avvicinò.
La porta però era chiusa a chiave, e per quanto Jennifer si sforzasse non riusciva
a smuoverla. In quel momento lo sguardo le cadde sul manifesto, dove lesse con
stupore e paura quale fosse il dono da offrire al Club
degli Aristocratici per quel mese.
Con una stentata grafia ed il rozzo disegno di una macchia,
il tutto di colore rosso, era scritto: ‘Dono di questo mese: quattro gocce di sangue’.
La sfortunata ragazza, inghiottendo ripetutamente per il
ribrezzo, lesse e rilesse quel messaggio, chiedendosi per l’ennesima volta da
quando tutta quella storia era iniziata se non stesse sognando. Ma la realtà era che non stava sognando.
Con tutto il suo cuore Jennifer
avrebbe voluto allontanarsi da quella porta, scappare lontano da quelle stupide
regole, ma dentro di sé sentiva di non poter fare a
meno del perdono della Principessa della Rosa Rossa, e se voleva essere
perdonata doveva assolutamente ubbidire a quella richiesta.
Quasi meccanicamente si guardò attorno, ma non vide alcun
oggetto tagliente con cui ferirsi. Stava per lasciarsi prendere di nuovo dallo
sconforto quando toccò il colletto del proprio vestito grigio e sfiorò la
spilla rossa che lo teneva chiuso.
Non ricordava quando l’aveva avuta, ma sapeva che si
trattava di qualcosa di molto importante, qualcosa per la quale sarebbe stata
anche disposta a rischiare di morire. Con dita tremanti la slacciò e la guardò,
vagamente stupita. Era poco più piccola del palmo della sua mano e
rappresentava una rosa rossa all’interno di un cerchio dorato. Più la guardava
e più la ragazza sfortunata sentiva nel suo cuore una dolce nostalgia, il
ricordo di momenti di gioia e di caldi giorni di sole, una promessa lontana…
La sensazione di aver perso tutto questo la riportò
bruscamente al presente. Le sembrò quasi che la sua spilla perdesse il colore,
diventando sempre più grigia. Allora la strinse al cuore, come per infonderle
calore. Dopo poco tempo la sensazione svanì e Jennifer
poté tornare a considerare la situazione.
Era giunto il momento di riscattarsi, di rispettare le
regole.
Mordendosi un labbro, la ragazza
sfortunata si punse un dito con la spilla, guardando poi stordita la corposa
goccia di sangue che le sbocciava sul polpastrello. Cercando di
resistere al disgusto che minacciava di sommergerla, fece cadere all’interno
della scatola quattro gocce del proprio sangue, che scesero con esasperante
lentezza.
Quando l’ultima goccia ticchettò
sul fondo della scatola, Jennifer sentì la serratura
scattare. Dopo essersi rimessa scrupolosamente a posto la spilla, strinse con
una smorfia di dolore la mano ferita ed aprì la porta con circospezione.
L’interno della stanza era immerso nell’ombra, ma sembrava
molto grande. La sfortunata ragazza stava per chiedere con timore se ci fosse
qualcuno quando ricevette un forte colpo alla schiena, che la spinse dentro la
stanza mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, lasciandola al buio,
indifesa, sola.
Il piccolo, intrepido
cacciatore osservava spesso quella povera principessa sfortunata e molte volte aveva desiderato avvicinarsi a lei e parlarle per alleviare
la loro solitudine. Ma non l’aveva mai fatto…
Jennifer inciampò su un tappeto
invisibile e cadde in ginocchio, gemendo forte. Strinse gli occhi per la paura,
pensando già che il colpo che aveva ricevuto venisse da uno dei mostri dalla
testa di topo che aveva incontrato in precedenza, ma non accadde nulla. Anzi,
nella stanza regnava il più assoluto silenzio, anche il rumore del motore del
dirigibile sembrava essere sparito. Con titubanza, la ragazza sfortunata aprì
gli occhi, lentamente, e ciò che vide la riempì di stupore.
Si trovava inginocchiata su un tappeto rosso sui cui bordi erano posate delle semplici candele, che diffondevano
nella grande stanza una luce soffusa. Di fronte a lei c’era un grande ammasso
di casse e scatoloni, impilati l’uno sull’altro in modo che fosse possibile
arrampicarsi fino in cima, dove si trovavano due vecchie sedie di legno. Su
quella di destra c’era una splendida bambola vestita di rosso, mentre su quella
di sinistra c’era un orsacchiotto di pezza molto rovinato. Sopra la prima fila
di casse invece c’erano tre bambine, che si produssero in elaborati inchini
quando Jennifer passò lo sguardo su di loro.
A sinistra c’era Diana, che le rivolse un sorriso enigmatico
mentre s’inchinava allo stesso modo di quando l’aveva incontrata la prima
volta. Al centro c’era una bambina bionda, che le sorrise con aria superiore
mentre impegnava nella riverenza una sola mano, dato che
l’altra era occupata a reggere un grosso libro. A destra c’era una graziosa
bambina dai capelli corti, che però mantenne lo sguardo lontano per tutto il
tempo che Jennifer la guardò, restando con
un’espressione seria. Ai suoi piedi c’era una gabbietta, ma sembrava che non ci
fosse nulla dentro.
La ragazza sfortunata si rimise in piedi, vergognandosi così
tanto dei propri stracci e della propria aria trasandata che si dimenticò di
fare la riverenza.
All’improvviso, la ragazza dall’aria saggia aprì il suo
grosso libro e lesse con solennità.
“Gentildonne e gentiluomini, io, la Baronessa Meg, annuncio all’attenzione della nostra Principessa della
Rosa Rossa la presenza della sudicia Jennifer, che
giunge al suo cospetto con l’umiltà e il rispetto che si addicono al suo basso
rango sociale.”
La sfortunata ragazza guardò le tre Aristocratiche con aria
confusa, non sapendo come reagire. La ragazza con la gabbietta allora la fissò
con uno sguardo di ghiaccio, puntandole il dito contro.
“Lurida sciagurata! Inginocchiati e mostra il rispetto che devi alla tua Principessa!”
Disorientata da quelle parole così aggressive, così
inappropriate all’aria indifferente della ragazza, Jennifer
non poté fare altro che ubbidire, e goffamente si inginocchiò
a capo chino, continuando a stringere le mani sulla spilla, come se temesse che
gliela portassero via.
Rimase in silenzio per alcuni secondi, poi
sentìMeg rivolgerle di nuovo la parola,
deliziata.
“Più giù, disgraziata…”
Inghiottendo spaventata, Jennifer
ubbidì, piegando il busto ed appoggiando le mani a terra. Ma
ancora non bastava.
“Hai sentito?” chiese la ragazza con la gabbietta. “Più
giù.”
La ragazza sfortunata sentì nuovamente le lacrime salirle
agli occhi, ma abbassò ancora di più il busto, acquattandosi e poggiando la
fronte tremante sul dorso delle mani.
“Allora non vuoi capire?” chiese Meg,
questa volta arrabbiata, e Jennifer sentì che
qualcuno era sceso dal palco e si dirigeva verso di lei.
‘Vi prego, non fatemi del male,’
avrebbe voluto dire, ma la sua bocca era secca, non riuscì a pronunciare un
suono. Poteva solamente aspettare immobile, indifesa. All’improvviso sentì una forte spinta contro il sedere, che la fece stendere a
terra, ma non osò reagire per timore di rappresaglie peggiori e si limitò a
restare prona, tremante, con le mani davanti alla testa. Dal palco di fronte a
lei le giunsero le risate divertite delle ragazze che
vi erano rimaste. Sobbalzò quando sentì una mano poggiarsi sulla sua testa ed
accarezzarle i capelli.
“Meg, Eleanor,” disse Diana, china sopra di lei, con voce dolce, “non possiamo
pretendere troppo da una lurida mendicante come lei… vero, Jen-ni-fer?”
La Duchessa aveva pronunciato il suo nome sillabandolo con
cura, come se si fosse rivolta a una persona incapace
di capire le sue parole. Temendo qualsiasi reazione, la ragazza sfortunata si
limitò ad annuire impercettibilmente. Non oppose resistenza quando sentì due
mani che le sollevavano il volto, ed assecondò il movimento finché non si trovò
a fissare i grigi occhi di Diana, che la guardavano con una specie di gioia ferina.
Di sfuggita riuscì a notare che la ragazza sorrideva, a pochi centimetri dal
suo volto.
“Bene,” le sussurrò con un soffio
la Duchessa. “Ora che hai fatto professione di umiltà,
puoi fare la tua richiesta alla Principessa.”
Dette quelle parole la lasciò e si rialzò in piedi, tornando
come se niente fosse al suo posto sulla pila di casse. Jennifer,
ancora semisdraiata, credette di notare uno sguardo
rabbioso rivolto a Diana da parte di Meg, ma non poté
esserne certa perché quest’ultima tornò subito a rivolgersi
a lei, con voce dura.
“Avanti, plebea, fai la tua richiesta alla Principessa della
Rosa Rossa e vattene.”
Jennifer si raddrizzò sulle
ginocchia, rassettandosi brevemente l’abito, e fissò la piccola bambola vestita
di rosso seduta sul Trono. Era finalmente venuto il
momento di fare la sua richiesta…
… Ma con una morsa allo stomaco si
rese conto di non sapere che cosa chiedere.
Sentiva di voler essere perdonata ad ogni costo, ma sapeva
di non poter semplicemente chiedere quella cosa alla Principessa, non dopo quello che le aveva fatto. Che
aveva fatto a tutti.
“Fai la tua richiesta, ho detto,”
ripeté Meg, ma Jennifer la
guardò in preda al panico.
“Non hai niente da chiedere, sudicia miserabile?” fece eco Eleanor, la ragazza con la gabbietta, ma di nuovo la
ragazza sfortunata non seppe cosa dire.
“Oh, che peccato,” fece Diana
scuotendo la testa. “A quanto pare hai disturbato la
Principessa per niente, piccola, sudicia barbona. Dovrai essere punita.”
Quelle parole sembrarono a Jennifer
unaterribile condanna. Si guardò
attorno, alla ricerca di una via di fuga, ma al di fuori del raggio illuminato
dalle candele l’intera stanza era immersa nel buio.
“Sono d’accordo,” commentò laconica
Eleanor, tornando con lo sguardo perso in lontananza.
“Sì, dovrai essere punita,” riprese
Meg, e nei suoi occhi la ragazza sfortunata credette di scorgere la luce della vendetta.
Avrebbe voluto scusarsi, invocare nuovamente il perdono
della Principessa, ma sapeva benissimo che sarebbe
stato del tutto inutile. Con il crimine che aveva compiuto, che sapeva essere
gravissimo anche se non lo ricordava, non poteva permettersi di chiedere ancora
scusa alla Principessa.
Poteva solo aspettare la condanna.
In quel momento un atroce urlo di agonia
risuonò per la stanza, talmente forte da sembrare vicinissimo. La ragazza
sfortunata si guardò attorno in preda al panico, ma non vide nulla che potesse
giustificare un simile grido. In compenso, le ragazze che l’avevano accolta
nella Sala del Trono sembravano aver perso la loro
aria di superiorità: Eleanor si era accucciata e
stringeva fra le braccia la propria gabbietta mentre il suo sguardo, di solito
così freddo, tradiva un terrore profondo; Meg si era
arrampicata verso i due Troni stringendo al petto il suo libro e con la bocca
spalancata in un urlo muto. L’unica che non sembrava spaventata era Diana:
sebbene si fosse guardata attorno anche lei, sembrava più infastidita che
impaurita.
Quando si fu estinta anche l’eco
del terribile grido, nella grande Sala del Trono sì udì un altro suono: una voce
maschile, calma, cantilenante, ed in sottofondo, come se fosse lontanissimo,
l’abbaiare di un cane.
La voce recitava una filastrocca, che per qualche motivo
fece rabbrividire Jennifer.
“E con questa sono otto,
il Randagio fa fagotto.
Ascoltate con orrore,
Fiuta
fiuta
il Cacciatore.”
Trattenendo il fiato per la paura, la sfortunata ragazza si
chiese che cosa stesse per succederle, ma non poté avere una risposta. Infatti,
le orecchie le si riempirono delle grida di panico
delle tre ragazze del Club degli Aristocratici: persino Diana, scossa dai
tremori, aveva abbandonato il suo fare affettato e si era sbrigata a scendere
dalla cassa, subito imitata dalle sue compagne. Nei loro occhi Jennifer vide una paura senza nome, un terrore che lei non
aveva mai creduto possibile, una sensazione fatta di occhi
sbarrati e denti digrignati.
Quando loro furono scomparse e lei
fu rimasta sola, con quella terribile filastrocca ancora nelle orecchie e l’eco
dell’ultimo verso che vibrava ancora nell’aria, la ragazza sfortunata si sentì
pervadere dal panico: qualunque cosa fosse successa in seguito a quelle
inquietanti parole, l’avrebbe trovata sola e indifesa.
Come sempre.
Doveva scappare, il più lontano possibile. Senza esitare
ancora Jennifer balzò in piedi e corse verso la direzione
in cui aveva visto scomparire Meg
ed Eleanor. Non le importava dove l’avrebbe condotta quella strada, l’unica cosa che contava era
fuggire da quel posto pericoloso.
Non capì come aveva fatto ad uscire dalla Sala del Trono,
perché per quel che le era parso aveva sempre corso,
da sola e al buio, senza mai trovare una porta o un muro. Solo la consistenza
del pavimento sotto i suoi piedi era cambiata spesso,
dandole l’impressione di volta in volta di camminare sul legno, sul metallo, su
un tappeto o addirittura sul terriccio. Quando si
fermò per riposare, trafelata, si accorse di trovarsi in un altro corridoio. La
fievole luce della luna era tornata gradualmente ad illuminarle la strada,
attraverso ampie finestre sulla sua sinistra. In basso, sotto la pallida luce
dell’astro, si stendeva un mare di nuvole, mentre in alto si riuscivano a
vedere le stelle più luminose, le uniche che riuscivano a contrastare la luce
lunare. Di fronte a sé Jennifer vide che il corridoio
svoltava quasi subito a destra, e si stupì a considerarsi, nonostante la
situazione, fortunata a non essere andata a sbattere contro il muro di fronte a
lei. Alle sue spalle, invece, il corridoio sembrava continuare all’infinito. La
sfortunata ragazza pensò di tornare sui propri passi e controllare, alla confortante
luce della luna, ma una sorda sensazione di pericolo la bloccò. Era come se si
sentisse braccata da qualcosa di pericoloso che le era molto, molto vicino.
Soffocando un gemito di disperazione si decise a proseguire per la sua strada,
e sperò di raggiungere le altre bambine del Club degli Aristocratici prima che
le succedesse qualcosa di brutto.
Perché c’era davvero qualcosa che
le era molto, molto vicino.
Lei era una
bellissima, sfortunata principessa. Lui soltanto un solitario intrepido
cacciatore sporco di polvere e fuliggine…
Tuttavia, anche se non
le parlava né si avvicinava a lei, il piccolo cacciatore non smetteva di
preoccuparsi per lei e di guardarla da lontano, sentendo crescere giorno dopo
giorno uno sconfinato bene per quella dolce e gentile principessa sfortunata…
La sfortunata ragazza camminò per molto, molto tempo,
perdendosi di nuovo tra i corridoi di quel dirigibile misterioso tanto simile
ad un labirinto. Il suo unico punto di riferimento era il rumore continuo dei
motori, che però sembrava avvicinarsi ed allontanarsi indipendentemente dai
movimenti che lei faceva. Più si addentrava in quell’intrico di passerelle e corridoi grigi e più si
rendeva conto che sarebbe stato meglio se fosse rimasta nella Sala del Trono.
Almeno in quel modo avrebbe potuto affrontare ciò che aveva spaventato le altre
ragazze e recitato quell’orribile filastrocca,
mettendo così fine a quell’incubo… Ma invece era scappata, codarda come sempre.
Jennifer stava rimuginando così
quando si accorse di qualcosa di strano in cima all’ennesima scalinata
metallica che stava salendo, sempre più in alto.
Sulla parete dell’ultima rampa si stagliava una piccola
porta di legno, ma al contrario delle altre porte che lei aveva già incontrato,
questa aveva la superficie lucida ed una maniglia dorata. Quando l’ebbe
raggiunta, Jennifer poté leggere sulla targhetta di ottone che la ornava la scritta “Area passeggeri – Prima Classe”.
Con un tuffo al cuore, la ragazza sfortunata si rese conto
che era la prima volta che vedeva quella porta, che forse l’avrebbe condotta in
una zona diversa rispetto a quell’intrico di corridoi
grigi e bui. Senza esitare, quasi in lacrime dalla gioia, afferrò la maniglia e
spinse.
Dall’altra parte si allungava un altro corridoio, ma questo
non era di metallo o di tela come quelli che la ragazza aveva attraversato fino
a quel momento: le pareti erano rivestiti di pannelli
di un legno lucido simile a quello della porta, il soffitto era abbellito da
cassettoni decorati con motivi floreali ed il pavimento era coperto da un lungo
tappeto rosso bordato d’oro, che a Jennifer risultò
stranamente familiare. Lungo i muri, ad intervalli regolari, spuntavano dei
candelabri dorati che reggevano lampadine, in modo da dotare l’ambiente di
un’illuminazione soffusa e costante. C’erano anche alcuni piccoli mobili con
dei vasi di fiori che spezzavano la monotonia del pavimento.
Ma la cosa che più colpì Jennifer e le fece battere forte il cuore fu la dolce
musica che pervadeva quel luogo, riducendo quasi al silenzio l’onnipresente rombo
dei motori.
Con il cuore in gola, la sfortunata ragazza trattenne il
fiato mentre percorreva il corridoio, che si ramificava di fronte a lei
numerose volte, tendendo l’orecchio verso la musica, certa che avrebbe trovato
la salvezza. Non badò nemmeno alle altre porte che si trovavano lungo i muri
decorati, non badò ai passi felpati attutiti dal tappeto che la seguivano, né
al leggero ansimare alle sue spalle, tanto era desiderosa di trovare la fonte
di quella musica.
Alla fine si trovò di fronte ad una porta simile alle altre,
ma la cui targhetta indicava “Salone”:
la musica, che la ragazza sfortunata non era riuscita ad identificare, sembrava
provenire proprio da quella stanza. Con mano tremante afferrò la maniglia e
spinse. Non si accorse dell’ombra che arrancava inutilmente verso di lei,
ansimando e battendo rapidi e attutiti colpi sul tappeto, mentre la porta si
chiudeva alle sue spalle.
L’ampia stanza era arredata con gusto: un lampadario di
cristallo illuminava con la sua luce elettrica i due divani di raso che si
fronteggiavano, il tavolino di legno intagliato fra di
loro e le poltrone dall’aria comoda sistemate negli angoli. Le pareti ai lati
di Jennifer erano nascoste da librerie, su cui oltre
a grossi volumi facevano mostra di sé alcuni strani strumenti metallici, un
mappamondo e dei soprammobili bianchi. La parete di fronte alla ragazza invece
era occupata da un grosso trumeau dotato di molti cassetti e ante, sopra il
quale, dalla parete tappezzata di stoffa, la guardava arcigno il ritratto di un
uomo barbuto. Sopra il trumeau c’era un grammofono, dal quale si spandeva la
dolce musica che l’aveva attirata lì. Avendo notato la sua entrata, una ragazza dai capelli castano-rossi
e dall’abito in tinta sorrise e disattivò il grammofono.
Subito Jennifer le corse incontro,
non riuscendo a trattenere le lacrime. “Diana!” la chiamò, gettandosi ai suoi
piedi. Lei allora si accucciò di fronte a lei, sollevandole il capo con le
mani.
“Piccola Jennifer,” cominciò, sempre sorridendo. “Sei stata
brava, lo sai?”
La ragazza sfortunata, a quelle parole, sentì il cuore
riempirsi di gioia: dopotutto non era senza speranza, abbandonata da tutto alle
sue disgrazie, al suo dolore, al terrore per ciò che le stava succedendo.
“Grazie, grazie, Diana,” le disse
muovendosi per abbracciarla, ma la Duchessa si ritrasse lievemente. “Ma ciò che hai fatto non può essere perdonato, e lo sai,
vero?”
Il sorriso morì sulle labbra di Jennifer,
che annuì triste. Era vero. Qualunque fosse stato il
suo peccato, sapeva bene di non poter essere perdonata così facilmente.
“Ed inoltre hai dimenticato la gerarchia,”
aggiunse Diana, il cui volto era diventato duro. La ragazza sfortunata la
guardò senza capire, al che l’altra si spiegò. “Il mio rango, mendicante. Non
puoi chiamarmi per nome senza aggiungere il mio rango, lo sai.”
Jennifer annuì con aria colpevole.
“Sì, Duchessa Diana, avete ragione.”
Nuovamente Diana si avvicinò alla ragazza sfortunata,
sollevandole il volto fra le mani con un sorriso. “Così va meglio…”
“Credete…” riprese Jennifer singhiozzando.
“Credete che la Principessa potrà perdonarmi?”
“Oh, piccola, stupida, pezzente Jen-ni-fer,” replicò l’altra come se parlasse con una bambina.
“Conosci già la risposta a questa domanda.”
Jennifer stava per rispondere che
in realtà non la conosceva, ma Diana le posò le mani sulle spalle, quasi
abbracciandola, e le sfiorò un orecchio con le labbra, strappandole un brivido.
“Però posso intercedere per te, se
tu fai qualcosa per me…”
Nonostante la tensione che la pervadeva,
la sfortunata ragazza non trovò la forza di divincolarsi dalla Duchessa e poté
solamente annuire. Diana allora si scostò lievemente per guardarla negli
occhi.
“Portami la crisalide integra di una farfalla, ed io vedrò
cosa posso fare.”
Jennifer rimase in silenzio,
fissando con sorpresa i gelidi occhi della Duchessa. Lei non sapeva nemmeno che
forma avesse la crisalide di una farfalla, non ne aveva
mai viste di intere, e nemmeno credeva di poterne trovare una a bordo di un
dirigibile… ma Diana era la sua padrona, non poteva disobbedirle, tanto più che
avrebbe parlato con la Principessa in suo favore. Chiedendosi già come avrebbe
fatto ad adempiere a quell’incarico,
annuì con scarsa convinzione. La stretta delle mani sulle sue spalle si
accentuò lievemente mentre la Duchessa sorrideva maggiormente.
“Brava, ubbidiente, piccola Jennifer,” le sussurrò. “Sai essere anche una buona suddita,
dopotutto… Portala alla porta della Sala del Trono entro la scadenza,
ci troviamo là.”
La sfortunata ragazza avrebbe voluto chiedere tante cose
all’Aristocratica, ma questa la strinse a sé con fare
stranamente dolce. Poi tornò a guardarla negli occhi, socchiuse le palpebre e
sporse le labbra verso le sue. Jennifer non poté fare
altro che irrigidirsi e scostarsi da lei quel tanto che le permetteva l’abbraccio,
ma un secco tonfo bloccò Diana, che si volse sorpresa verso l’origine del
rumore.
Esso sembrava essere stato provocato dal quaderno di Meg che era caduto al suolo. La Baronessa
infatti era in piedi di fianco alla poltrona più lontana, come se fosse appena
uscita da dietro di essa, e fissava le due ragazze con odio, i pugni stretti
lungo i fianchi.
“Meg!” la chiamò Diana, stupita,
ma la bambina si limitò a stringere le labbra in un’espressione risentita e,
prima che le lacrime potessero cominciare a scorrerle dagli occhi, voltò loro
le spalle e corse via dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle.
Jennifer guardò stordita la
Duchessa, che dal canto suo si alzò in piedi con sguardo sprezzante.
“E’ stata colpa tua, lurida pezzente!” le ringhiò contro,
poi le poggiò un piede sulla spalla e la spinse a terra. Jennifer
gridò di sorpresa, più che di dolore, ma quando fu riuscita a rimettersi seduta
Diana aveva già raccolto il quaderno di Meg ed era già sparita dalla stanza, lasciandola sola. La
ragazza sfortunata si sbrigò ad alzarsi e a correre verso la porta, ma quando
uscì nel corridoio non c’era più nessuno. Solo il rumore onnipresente dei
motori rompeva il silenzio.
Ormai era diventata
per lui abitudine lasciare di nascosto nella stanza di lei
i pochi dolci che costituivano le rare ricompense per i suoi servigi. Andò
avanti così mesi e mesi…
“Diana…” bisbigliò con un filo di voce Jennifer,
ma non ottenne alcuna risposta. Senza la musica dolce che l’aveva attirata e la
speranza di incontrare una delle sue amiche, quei corridoi sembravano più bui e
più freddi, anche se sembrava non fosse cambiato nulla.
“Duchessa Diana…” ripeté, stavolta ricordando il titolo, ma
nuovamente le rispose solo il silenzio ronzante del motore. Era proprio rimasta
sola. Sentì lo sconforto montarle nuovamente nel cuore, ma stavolta si sforzò
per trattenere le lacrime e andare avanti: nessuno sarebbe arrivato a
consolarla, ed anzi restare lì a frignare come una bambina piccola poteva solo
farle perdere tempo prezioso. Stringendo le mani sulla spilla a forma di rosa,
si costrinse ad inoltrarsi nei corridoi della prima classe, alla ricerca di una
crisalide integra.
Non passò molto prima che sentisse uno scricchiolio sinistro
provenire da una delle pareti. Con il cuore in gola si voltò, ma nel suo intimo
già sapeva cosa avrebbe visto.
“Rosicchia, rosicchia e scava, il
Randagio si avvicina!”
La sfortunata ragazza urlò e fuggì via dall’orrendo mostro
dalla testa di topo che squittiva il suo strano appello, ma non servì a molto,
perché tutte le pareti della prima classe stavano sfrigolando di passettini, squittii, fruscii e gridolini,
ed i pannelli di legno si crepavano mostrando piccoli e cattivi occhietti
gialli e musi affilati.
“Aiuto… AIUTO!” implorò Jennifer
correndo a perdifiato tra i corridoi che si estendevano in tutte le direzioni,
ma la sua stessa voce si perdeva nell’oceano di suoni stridenti che emettevano
i mostri attorno a lei. Ad un certo punto inciampò sul tappeto e cadde a terra.
Di fronte a lei, uno di quei topi mostruosi si chinò con il naso fremente a
pochi pollici dal suo viso, e le tese le mani. Neppure il suo strillo di
terrore riuscì a sovrastare quel bailamme mostruoso…
All’improvviso i mostri si zittirono e restarono come in
ascolto per un breve momento. La cosa fu così rapida che la stessa Jennifer rimase senza fiato e non osò muovere un muscolo,
nel timore di attirare di nuovo la loro attenzione. Poi risuonò di nuovo un
lontano abbaiare aggressivo, e tutto cambiò. Il pandemonio di grida di panico e
stridii ricominciò, ma questa volta i mostri sciamarono lontano da Jennifer, sparendo all’interno dei varchi nelle pareti,
sotto i mobiletti oppure sotto il tappeto, finché tutto tornò come se non fosse
accaduto nulla. La ragazza sfortunata, ancora sdraiata
tremante sul pavimento, credette di essersi
immaginata tutto. Ma tutto quello che le stava
succedendo era così assurdo che poteva benissimo trattarsi solo di un lungo,
orribile sogno.
Provò a sollevare lo sguardo, ma sembrava davvero tutto
finito: le pareti non recavano tracce di fessure, il tappeto era liscio come se
non fosse mai stato sollevato, ma in fondo al corridoio che stava guardando…
Il cuore le mancò di un battito quando vide una cosa
abbandonata per terra, una cosa lunga e sottile. Per un attimo pensò alla coda
di uno di quegli esseri terribili, ma poi si accorse che non si muoveva. Con
circospezione si alzò e si avvicinò, e solo quando si fu convinta che non c’era
alcun pericolo si accucciò per esaminare il suo ritrovamento.
Era una striscia di cuoio chiaro, un collare, ed al suo
interno era appoggiato un lecca-lecca coloratissimo. Quella vista le ricordò
qualcosa di molto lontano, qualcosa di dolce come quell’oggetto,
ma per quanto si sforzasse non riusciva a trattenere
quel ricordo, che le sfuggiva dalla mente come una saponetta bagnata.
Prese il lecca-lecca, lo guardò titubante ed infine provò a staccarne
un morso. Subito il sapore dolce di quella leccornia le stimolò la lingua e
nella sua mente esplose un ricordo, folgorante come se fosse il più prezioso della
sua vita.
Non aveva ancora visto quel dirigibile strano e terribile ed
i suoi mostri, ma anzi si trovava in una grande casa,
che le sembrava familiare. Era stata appena punita per qualcosa, ma non le
interessava molto. Si sentiva anzi contenta, perché non le piaceva molto dover
fare quello che le si diceva. In quel ricordo tanto
realistico, Jennifer entrò nella sua stanza, al piano
superiore di quella grande casa, e sul letto, accanto
a tutti i panni sporchi che gli altri le avevano lasciato, c’erano un
lecca-lecca e una caramella. Quella vista riempì di gioia il cuore della
sfortunata ragazza, ma proprio quando si stava chinando per raccogliere quei
dolciumi si ritrovò di nuovo nel corridoio di prima classe del
dirigibile, con il lecca-lecca appena raccolto in bocca. Quel ricordo tanto
vivido e felice stava rapidamente svanendo nella sua mente, come un sogno al
risveglio, e già non ricordava più chi fossero gli
“altri” che le avevano portato quei panni sporchi, o perché dovesse essere
contenta di aver trovato i dolci sul proprio letto.
Con un sospiro rassegnato si tolse il lecca-lecca di bocca,
masticando, e se lo infilò in tasca. Poi si chinò e raccolse il collare. Aveva
uno strano odore animale, come se fosse appena stato tolto dal collo di un
cane, e sulla superficie esterna era scritto il nome “Brown”.
A Jennifer anche quel nome
ricordava qualcosa, qualcosa di più dolce del lecca-lecca e più triste di una
poesia malinconica. Lo strinse al seno e chiuse gli occhi, cullandolo:
qualunque cosa significasse quel guinzaglio e l’averlo trovato proprio in quel
momento ed in quelle condizioni, lei sapeva che doveva tenerlo caro più della
sua vita, perché era tutto ciò che le restava di qualcuno molto speciale…
Ma forse, dato che quel collare si
trovava proprio lì…
Sì, doveva essere così!
La sfortunata ragazza si sentì riempita di
una nuova speranza all’idea che quel ritrovamento potesse significare
che il suo amico non fosse perso per sempre. Rimase a guardare ancora a lungo
il guinzaglio che portava il nome “Brown” e le
vennero le lacrime agli occhi dalla gioia: se avesse potuto ritrovare il suo
più caro amico nonostante quello che aveva fatto, non avrebbe avuto più bisogno
del perdono della Principessa della Rosa Rossa.
Con il cuore in gola Jennifer tese
le orecchie, ma nuovamente l’unico suono che si sentiva era il rombo dei
motori. Senza lasciarsi scoraggiare si incamminò lungo
il corridoio, senza accorgersi del basso ringhio rabbioso che risuonava in
lontananza.
Un brutto giorno però
l’intrepido cacciatore fu convocato dalla Principessa della Rosa. In soggezione
e spiazzato, il cacciatore si guardò attorno, notando che gli occhi di tutti i
membri dell’aristocrazia erano puntati su di lui…
“Ha trovato il collare…”
“…”
“Ti porterò dopo da lei, ora abbiamo da fare.”
“…”
Il ragazzo non attese risposta, ma si avviò deciso verso la
porta di fronte a lui, brandendo di fronte a sé il tubo di ferro che aveva
trovato. Trattenendo il respiro strinse la maniglia della porta e la fece
scorrere sui suoi binari, finché il passaggio verso la cucina fu libero.
Al centro della stanza la massa di carne tremava e gemeva.
Il Cacciatore ed il suo amico entrarono con circospezione, ma non sembravano turbati
da quella vista. Poi, un attimo dopo, la massa di carne si mosse, e da essa spuntarono quattro arti ed una testa umana, che fissò
il ragazzo con aria vacua.
“C’era una volta un cacciatore che ingannò la sua regina,” mormorò l’uomo a bassa voce. “Sai cosa successe a quel
cacciatore?”
Il ragazzo non prestò attenzione a quelle farneticazioni ma
scattò in avanti, sferrando un potente colpo sulla grossa testa dell’uomo.
Questi si alzò in piedi, enorme, ringhiando per il
dolore e la rabbia, e per poco non colpì il suo aggressore con un grosso pugno.
Ma il ragazzo aveva passato molto tempo ad addestrarsi
ed era diventato più agile di quanto l’energumeno si aspettasse. Sgusciò sotto
il pugno e colpì di nuovo con il tubo, questa volta al fianco. L’uomo tentò di
afferrare quel fastidioso moscerino, ma lui non esitò: si gettò nel suo
abbraccio, ma prima che avesse il tempo di stringerlo in una morsa, affondò il
tubo nella bocca dell’uomo. Il ruggito che echeggiò fu infranto dal rumore di ossa spezzate e da un gorgoglio orribile. Con aria
disgustata, il Cacciatore estrasse la sua arma dai resti fracassati della testa
e rimase a guardare il corpo che si contraeva negli spasmi della morte.
“E nove…” si limitò a commentare,
appena affannato.
Il suo amico, che era rimasto in disparte per evitare di
rimanere colpito, gli si avvicinò per sincerarsi che stesse bene, ed una volta rassicurato non badò più alla carcassa in mezzo
alla stanza, ma si diresse verso una delle uscite dalla cucina. Il ragazzo,
prima di imitarlo, afferrò un pesante coltello arrugginito, lo saggiò e, con
aria soddisfatta, se lo infilò nella cintura.
“Facciamo presto, dobbiamo trovarla
prima che la trovi…” esitò e gettò un’occhiata al cadavere. Dalla parte
opposta, la porta si aprì e ne uscì un bisbiglio confuso. Un volto privo di occhi e dalla bocca spalancata fece capolino all’interno,
brandendo uno spazzolone. Subito sciamarono nella cucina
quattro di quegli esseri disgustosi, diretti con circospezione verso
l’uomo morto. “Lui…” concluse infine, funereo ma non
intimorito, quindi aprì la porta ed uscì dalla cucina insieme al suo amico.
Solo quando il suo
sguardo cadde sulla figura tremante e piangente della bellissima principessa
sfortunata, la Principessa della Rosa parlò…
Jennifer aveva ormai attraversato
tutta la prima classe di quello strano dirigibile, ed anche il deposito
bagagli, la sala macchine ed i ponti per la manutenzione, ma non aveva ancora
visto nessuna farfalla e cominciava a scoraggiarsi.
Nonostante tenesse stretto in mano il collare che aveva
trovato e camminasse con molta più decisione di prima, cominciava a sentirsi tanto stanca. Avrebbe voluto arrendersi, che tutto quello
finisse, ma sapeva che se si fosse arresa non avrebbe
trovato nessuna crisalide, e quindi non avrebbe ottenuto nessun perdono. Ma soprattutto, se si fosse arresa non avrebbe avuto nessuna
possibilità di ritrovare il suo amico.
Mentre ragionava in quel modo per l’ennesima volta, ormai
senza la più pallida idea di che ora fosse, la sfortunata ragazza
si accorse di un rumore che non aveva ancora sentito. Con il cuore in gola
trattenne il fiato e si avvicinò in punta di piedi all’angolo del corridoio da
cui sentiva provenire quel suono. La voce di una bambina.
“Sì,” bisbigliava tra risatine
eccitate. “Come sei bella… ti porterò dalla Duchessa,
così daranno anche a me la Matita Rossa… Sì sì, e poi
punirò quella lurida sciagurata come merita!”
Jennifer svoltò l’angolo per
incontrare colei che stava parlando, forse per chiederle di accompagnarla da
Diana e di consegnarle insieme la crisalide, ma l’unica cosa che riuscì a
vedere fu una figura bassa e robusta in abito rosa che spariva correndo dietro
una porta. La ragazza però non si perse d’animo e corse in quella direzione,
spalancando la porta e prendendo fiato per chiamarla…
Ma restò senza fiato quando entrò in una vastissima stiva,
illuminata fiocamente da alcune alte lampade simili a lucernari ed invasa di bagagli tenuti fermi da corde, tralicci e alberi.
Era soprattutto la presenza di questi ultimi a sconcertare Jennifer:
le pareti della stanza erano letteralmente invase dall’edera, che si
arrampicava sulle valigie e le casse per poi pendere dal soffitto come strani
festoni verdeggianti; sul terreno c’erano sparse delle foglie secche; al centro
della stanza svettava un albero altissimo, i cui rami
si piegavano al contatto con il soffitto e si intersecavano con l’edera, dando
l’impressione di un lugubre gigante che si chinava verso di lei con le braccia
spalancate. Della ragazza di poco prima non c’erano tracce.
“Ehi…” chiamò Jennifer con poca
convinzione, salvo poi ripetersi con maggior enfasi. Quasi in
risposta al suo richiamo, un oggetto scuro cadde dalla sommità dell’albero,
rimbalzò sui rami ed atterrò sul pavimento con un piccolo tonfo. Titubante, la
sfortunata ragazza si avvicinò, gettando ogni tanto occhiate attorno a sé per
precauzione, ma trattenne a stento un’esclamazione di gioia quando si accorse
che l’oggetto caduto aveva la forma segmentata che ricordava di aver visto in
un nebuloso passato, solo che non sembrava lacerato, ma integro. Doveva essere
la sua crisalide!
Le corse incontro in preda alla
gioia, ma si fermò con orrore quando vide l’oggetto cominciare a pulsare e ad
ingrandirsi a vista d’occhio.
Con un orribile rumore di risucchio e uno
scricchiolio, l’oggetto traslucido cominciò a deformarsi, mentre qualcosa di
molto grosso fremeva al suo interno. In men
che non si dica era diventato grande come Jennifer, la quale vi si scostò con orrore. Poi l’involucro
si spezzò con un disgustoso schianto, e dai resti della crisalide emerse una cosa avvolta nelle proprie, bellissime
ali.
All’inizio essa rimase immobile, nascosta, tanto che la
sfortunata ragazza accennò ad avvicinarsi, ma all’improvviso le ali si
dispiegarono e l’essere si appoggiò sulle proprie sei zampe. Ad eccezione delle
dimensioni, sembrava in tutto e per tutto una farfalla
dalle ali verdi e con la testa gialla, ma poi quella testa si sollevò verso Jennifer, e questa non poté trattenere un grido di orrore.
I capelli biondi, gli occhiali fusi sul cranio e la forma
del volto erano quelli della Baronessa Meg, ma gli
occhi rossi e la bocca dalle molte mandibole frementi appartenevano ad un
mostro.
La farfalla mostruosa lanciò un acutissimo richiamo che ferì
i timpani di Jennifer, per poi alzarsi in volo con
pochi poderosi battiti d’ala. Volteggiò più volte attorno
all’albero centrale, smuovendo l’edera con le sue ali, poi si librò su Jennifer senza smettere di gridare. La sfortunata ragazza
contemplò per un attimo quel volto semiumano distorto dall’ira e dall’invidia
prima di urlare d’angoscia e gettarsi a terra, subito prima che le mascelle
della farfalla-Meg si chiudessero
fameliche nel punto in cui c’era la sua testa.
La sfortunata ragazza, folle di paura, riuscì ad alzarsi in
piedi e corse, gli occhi sbarrati, verso l’albero al centro della stanza,
sperando di trovare riparo. Il mostro la inseguì planando, ma non riuscì a
ghermirla a causa dei rami più bassi che gli
ostacolavano il movimento. Il suo urlo acuto scemò e si tramutò in un orrendo
ronzio infastidito, mentre saliva di quota e prendeva a scandagliare le fronde
più alte per trovarvi un passaggio.
Jennifer, stringendo
forsennatamente la spilla al petto, non smetteva di seguire i movimenti della
farfalla, temendo che da un momento all’altro sarebbe morta. Le sembrava tutto
così assurdo… La sua ragione le gridava che quel mostro non poteva
trovarsi lì, che doveva essere solamente la sua immaginazione che la ingannava,
ma lei aveva sentito sulla pelle l’aria smossa dalle sue ali, aveva sentito
l’odore nauseabondo che emanava… non poteva essere solo un’illusione.
“Jenni…fer!!” chiamò la bestia, che si era appollaiata su un
ramo sopra la sfortunata ragazza. Questa sollevò lo sguardo e fissò gli occhi
nei suoi, iniettati di sangue e colmi di invidia, ed
urlò, accucciandosi contro il tronco e premendosi le mani contro le orecchie,
ma non si mosse dal suo nascondiglio. Il mostro, infuriato, si scosse e gridò a
sua volta, facendo cadere sulla ragazza una pioggia di foglie morte. Lei
tuttavia continuò a restare dove si trovava: nella sua mente devastata dal
terrore, qualcosa di istintivo, primordiale le
ordinava di non uscire in campo aperto, dove sarebbe stata una facile preda.
“Jennifer!” sentì di nuovo, ma
questa volta si trattava dell’esortazione di una voce maschile. Stupita, la
ragazza aprì gli occhi in tempo per vedere qualcosa di luccicante brillare
nell’aria e caderle davanti ai piedi: era un grosso coltello da cucina con la
lama arrugginita. Si guardò alle spalle, da dove era stato gettato l’oggetto, ma
il tronco dell’albero era troppo largo per permetterle
di vedere qualcosa. L’unica cosa che contava era il coltello…
La farfalla-Meg fischiò e si alzò
di nuovo in volo, ma Jennifer fu abbastanza veloce da
sgusciare dal suo nascondiglio e gettarsi sul coltello. Era un oggetto pesante
e grosso e la ragazza temeva di farsi veramente male, ma sapeva anche che non
aveva altra possibilità di sopravvivere che usarlo.
“JENNIFER!!” sibilò
l’essere precipitandosi su di lei con le ali spiegate. La sfortunata ragazza gridò
di terrore, cadde a terra e chiuse gli occhi, il coltello teso di fronte a sé,
aspettando la morte. Ma quella non venne. Invece
qualcosa di viscido e caldo cominciò a scorrere sulle
mani di Jennifer, che aprì le palpebre di appena uno
spiraglio. Sopra di lei si agitava silenziosamente l’enorme farfalla, pugnalata
al volto. Dalla ferita, che spezzava una delle lenti fuse con la testa, colava
un disgustoso liquido scuro, che scendeva lungo l’impugnatura e lungo il
braccio della ragazza. Le zampe si agitavano pazzamente nell’agonia, mentre le
ali sbattevano senza fermarsi, tenendo il corpo bizzarramente in equilibrio
sulla lama del coltello. Anche l’addome si contorceva,
piegandosi ripetutamente verso il basso, verso le gambe di Jennifer.
L’unico rumore che la ragazza riusciva a sentire era il fruscio delle ali della
farfalla.
Sopraffatta dall’orrore, Jennifer
strinse di nuovo gli occhi ed estrasse con uno sforzo il coltello dalla
carcassa fremente, aspettandosi di essere sommersa da quella massa ributtante,
ma questo non avvenne. Il fruscio si spense subito, così come la sensazione di umido sulle braccia, e lei sentì solamente un piccolo
tonfo sull’addome. Titubante, provò a guardare. Il mostro era sparito, la lama
del coltello era asciutta come pure le sue braccia, e sul proprio addome c’era
una piccola crisalide scura, intatta.
Quasi non credendo ai propri occhi, la ragazza toccò con un
dito quell’oggetto e trasalì quando la percepì calda
al tatto, ma a parte quel particolare sembrava una
comunissima ed innocua crisalide. La strinse nella mano libera e si alzò
a fatica, per poi guardarsi attorno, ma sembrava che la bambina con il vestito
rosa fosse scomparsa, così come il grande albero che le aveva offerto protezione; al suo posto c’era solo una grossa pila
di bagagli accatastati e tenuti legati da robuste funi. Anche
nel resto della stanza tutte le piante erano sparite, lasciando la sfortunata
ragazza con la sensazione di aver vissuto un sogno. Ma
il coltello arrugginito che teneva nella mano destra testimoniava che era stato
tutto reale…
Non appena si fu incamminata, con la crisalide stretta nella
mano sinistra e il coltello in quella destra, verso l’uscita dalla stiva, Jennifer si sentì afferrare le spalle da una morsa ferrea
ed urlò.
“Shh,” le
sussurrò una giovanile voce maschile all’orecchio, in qualche modo familiare.
“Va tutto bene, non voglio farti del male.”
Nonostante quelle parole, la
ragazza tentò di divincolarsi, ma la presa era troppo solida, anche se non le
faceva male. Non riuscì nemmeno a sollevare il coltello per difendersi, ma anzi
poté a stento voltare il capo per accorgersi che colui che
la teneva ferma per le spalle era più alto di lei, aveva i capelli castani ed
il braccio destro insanguinato.
“Presto finirà tutto, vedrai,”
disse l’uomo misterioso. “Il tuo amico è salvo.”
Jennifer stava per tentare
nuovamente di divincolarsi, ma lui la precedette, spostandosi dietro di lei e
quasi travolgendola. Avrebbe voluto gridare, ma il fiato le
si bloccò in gola quando il suo sguardo fu rapito dall’intenso occhio
destro del ragazzo, un bellissimo occhio verde, mentre lui le posava un soffice
ed umido bacio all’angolo della bocca.
Quel bacio durò un attimo, ma a Jennifer
parve un attimo infinito: dopotutto, era il suo primo bacio, per quanto ricordasse…
E tuttavia, quella voce, il limpido verde di quell’unico occhio che aveva visto, e che ora era di nuovo
svanito dal suo mondo, la presa di quelle braccia le ricordavano
qualcosa, ed avrebbe sacrificato anche la crisalide che aveva trovato con tanta
fatica per sapere di cosa si trattasse. Si accorse a mala pena che anche la
presa sulle sue spalle era svanita, ma quando si voltò
e si guardò attorno alla ricerca del misterioso ragazzo vide solo la grigia
stiva, senza alcuna traccia del verde smeraldo di quell’occhio.
Per quanto sforzasse l’udito, la sfortunata ragazza
non sentì alcun rapido passo in lontananza, ma solo il solito rombo dei motori.
Si portò la mano sinistra alla guancia, dove le labbra di lui
le avevano toccato la pelle, e vi tolse una piccola traccia di sangue, che
rimase a fissare a lungo.
Era stato lui ad averle lanciato il
coltello con cui aveva sconfitto la cosa-Meg?
Era stato lui ad averla chiamata per nome durante il
combattimento?
Che cosa significava il vago senso di inquietudine
paradossale che aveva provato subito dopo aver visto una parte del volto del
ragazzo, come un ricordo spiacevole che stentava a ritornare?
Ma soprattutto, che cosa voleva
dire il ragazzo quando le aveva detto che il suo amico era salvo?
Jennifer si asciugò il bordo della
mano sul vestito e si infilò la crisalide in tasca.
Era così confusa che avrebbe avuto voglia di sedersi da qualche parte a
riposare, a chiedersi e a chiedere all’aria immobile qualche spiegazione, ma
sapeva che non avrebbe ottenuto nulla in quel modo. Per
quanto spossata ed inquieta si sentisse, il collare che aveva in tasca e
l’affermazione del ragazzo sul suo amico le infondevano un’insperata speranza,
che la spinse a stringere nella mano destra il coltello arrugginito e ad
avviarsi verso la porta.