Makani

di Fragolina84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Benvenuta nei Five-O ***
Capitolo 2: *** Penso che il Governatore abbia visto giusto ***
Capitolo 3: *** Non so come gestire questa cosa ***
Capitolo 4: *** Non siamo sbirri. Siamo i Five-0 ***
Capitolo 5: *** Sono troppo egoista per volerti già condividere con gli altri ***
Capitolo 6: *** Sei diabolico, sai? ***
Capitolo 7: *** Questi due mi faranno diventare pazzo, già lo so ***
Capitolo 8: *** Il desiderio di stare con te è più forte ***
Capitolo 9: *** C'è qualcosa che io e Nicole dobbiamo dirvi ***
Capitolo 10: *** Non è solo una collega. É anche la mia ragazza ***
Capitolo 11: *** Ora sì che dovresti dire qualcosa tu ***



Capitolo 1
*** Benvenuta nei Five-O ***


Nonostante questa non sia la mia prima fanfiction su Hawaii Five-0, è la prima che pubblico su questo sito.
A detta di chi l'ha letta è buona.
Voi che ne dite?
Grazie per ogni commento che lascerete.



Ovviamente tutti i personaggi, eccettuato quello di Nicole Kalea Knight, sono di esclusiva proprietà della CBS.
Sono utilizzati senza il permesso degli autori e non a fini di lucro, nè si intende infrangere alcun diritto di copyright.




Capitolo 1

Benvenuta nei Five-0

 
La convocazione nell’ufficio del Governatore non faceva pensare a nulla di buono, eppure Nicole era tranquilla. Sapeva di aver sempre svolto il proprio lavoro seguendo le regole e non vedeva motivo di un richiamo ufficiale.
C’era in lei una sottile vena di aspettativa, come il presagio del vento che cambia sull’oceano. Era come se sentisse che da quell’incontro la sua vita sarebbe cambiata.
Arrivò all’incontro con il Governatore con leggero anticipo. La segretaria la fece accomodare in sala d’attesa e avvisò subito del suo arrivo.
«Il Governatore la riceverà al più presto, signora» le comunicò sorridendo e Nicole assentì.
Sedette sul divanetto e spolverò un immaginario granello di polvere dalla gonna immacolata dell’uniforme.
Il Governatore la fece attendere meno di due minuti. Al suono discreto di un cicalino, la segretaria si alzò in piedi, pregandola di raggiungere l’ufficio del Governatore.
Nicole mise il cappello in testa e oltrepassò la scrivania della donna. Bussò, e la Jameson in persona aprì la porta.
«Benvenuta, guardiamarina Knight. Prego, si accomodi».
«Buongiorno» rispose Nicole, tendendo la mano che la donna strinse.
Il Governatore la fece accomodare e sedette alla propria scrivania.
«Immagino che troverà piuttosto strana questa convocazione» esordì, e Nicole annuì, togliendosi il cappello dell’uniforme.
«Sì, signora» confermò Nicole, al che la donna sorrise.
«Non si preoccupi, non c’è nessun problema. Si tratta semplicemente di una proposta di lavoro».
Una proposta di lavoro? Nicole sentì una folata del vento del cambiamento soffiare più forte.
«So che lei ha già un lavoro e lo sta facendo anche bene. È proprio per questo che ho bisogno di lei. Mi servono le sue competenze».
Nicole si raddrizzò un po’ sulla poltrona.
«Ho visto il suo curriculum e ci sono diversi motivi per cui ho pensato a lei». La Jameson estrasse un plico da una cartelletta e cominciò a sfogliarlo. «Ha frequentato l’Accademia ad Annapolis, laureandosi con il massimo dei voti. E, anche se suo padre era americano, lei ha l’aspetto di una hawaiana, non di una haole [1]».
In effetti, Nicole era hawaiana a metà. Suo padre era un ufficiale americano di stanza alle Hawaii. Aveva conosciuto sua madre e si erano sposati. Nicole era nata e cresciuta a Honolulu e aveva lasciato l’isola solo per frequentare l’Accademia. Da sua madre aveva ereditato i tratti tipici degli hawaiani, che erano però stemperati da quelli di suo padre. Da suo padre aveva ereditato la tenacia e la testardaggine che l’avevano spinta ad arruolarsi.
«Ma non voglio tenerla ancora sulle spine» esclamò all’improvviso il Governatore. «Ho pensato di assegnarla alla squadra dei Five-0. Il comandante mi ha chiesto di assegnargli una persona che coordini le attività dall’ufficio e offra il supporto necessario alle varie indagini».
 Nicole aveva ovviamente sentito parlare della squadra. Era diretta da un ex Navy SEAL, un tipo tosto che aveva dato un’impronta particolare al proprio team. Si diceva che i Five-0 avessero risolto in fretta e bene molti casi, spingendosi a volte al di là del limite. Ma avevano l’appoggio del Governatore e godevano di immunità e mezzi illimitati.
«Vedo dalla sua espressione che li conosce. Avrà sentito sicuramente parlare del comandante McGarrett» disse la Jameson, riscuotendola dai suoi pensieri.
«No, signora. So che era un SEAL, ma non lo conosco».
«Accademia ad Annapolis, come lei. Poi ha fatto il BUD/S ed è rimasto sei anni nei Navy SEAL. È un uomo deciso e tenace, ma non voglio anticiparle nulla. È meglio che lo conosca da sé» dichiarò la Jameson, prima di tendersi verso Nicole. «Sempre che voglia accettare l’incarico».
«Sì, signora. Accetto. Può contare su di me».
Il Governatore si alzò e le tese la mano.
«Molto bene, allora. Direi che può cominciare subito. La sede dei Five-0 è lo Iolani Palace. Mentre lei li raggiunge, avviserò il comandante».
Mentre le stringeva la mano, Nicole sentì un’improvvisa ondata di nervosismo.
«Subito? Io veramente… dovrei essere messa in riserva. Il mio incarico…» ma il Governatore non la fece proseguire.
«Mi occupo io di tutto. Si consideri pienamente in attività con i Five-0 sin da questo momento. Mi faccia sapere al più presto di quali attrezzature informatiche avrà bisogno, gliele farò avere nel più breve tempo possibile». La donna aprì un cassetto della scrivania e ne estrasse un distintivo che porse a Nicole. «Benvenuta nella squadra».
Nicole rimase stordita dalla velocità con cui era successo tutto. Quel mattino si era svegliata come guardiamarina della Marina americana e ora era aggregata ad una squadra di detective. Afferrò il distintivo e lo mise in borsetta.
«La ringrazio per avermi assegnato questo incarico».
Mise il cappello dell’uniforme, fece il saluto militare e si congedò.
La distanza tra il Governatorato e Iolani Palace era veramente breve, perciò Nicole decise di andarci a piedi. Così, avrebbe avuto anche un po’ di tempo per ragionare su quanto le stava succedendo. Non sapeva cosa l’avesse spinta ad accettare su due piedi. Certo, era stata addestrata a prendere decisioni in pochi istanti, però su quelle che avevano il potere di influenzare la sua vita aveva sempre ponderato parecchio. Eppure stavolta non aveva avuto dubbi.
Raddrizzò le spalle, camminando verso la torre di Iolani Palace. Era un nuovo inizio e le novità non l’avevano mai spaventata.
Tra le palme intravide una Camaro argentea che arrivava a tutta velocità, fermandosi nel parcheggio. Ne scesero due uomini.
Nicole rimase colpita da quello che era sceso dalla parte del guidatore. Indossava una camicia azzurra sopra un paio di pantaloni cargo scuri. Era alto e largo di spalle, con i fianchi stretti. L’uomo, impegnato in una conversazione al cellulare, la sfiorò con lo sguardo e le parve di notare, nonostante la distanza, un lampo di luce nei suoi occhi. Fu soltanto un attimo, poi l’uomo si girò e sparì con l’altro all’interno del palazzo.

Steve e Danny stavano tornando da Ala Moana Park. Un corpo era stato ritrovato quel mattino in un angolo del parco, semisepolto sotto una catasta di legna. Avevano lasciato Chin e Kono con Max a completare i rilievi ed erano rientrati alla base.
Steve sorpassò un taxi che secondo lui stava procedendo troppo lentamente, infilandosi in un varco tra quello e l’auto che arrivava in senso opposto. Danny s’irrigidì, aggrappandosi alla portiera.
«Vorrei provare ad arrivarci vivo alla base» borbottò e Steve scosse la testa.
«Ti lamenti come una donnicciola, lo sai?».
«Che male c’è a preoccuparsi per la propria vita?».
L’iPhone di Steve squillò in quel momento. Il display gli disse che si trattava del Governatore.
«McGarrett» rispose Steve.
«Buongiorno, comandante. Mi aveva chiesto di trovarle qualcuno per il suo team, ricorda?».
Il Governatore non era tipo da girare troppo intorno alle faccende.
«Sì» confermò prontamente Steve. «Mi serve qualcuno che ci coordini, ma che al bisogno sappia entrare in azione per supportarci».
Giusto un mese prima, Chin era rimasto ferito in un’incursione. Erano entrati nella casa di un sospetto e l’uomo si era nascosto e aveva sparato contro di loro. Aveva preso Chin al braccio prima che Steve riuscisse a disarmarlo, ma le cose avrebbero potuto andare molto peggio. Steve non voleva rischiare la vita dei suoi in quel modo. Aveva bisogno di un paio di occhi in più.
«Ha in mente qualcuno?» chiese.
«Ho già ingaggiato la persona giusta. Sta arrivando nel suo ufficio proprio in questi momenti».
Steve strinse i denti per impedirsi di imprecare di fronte alla donna.
«Avrei preferito essere consultato, prima» sibilò.
«Mi creda, il guardiamarina Knight è la persona perfetta per questo incarico».
Il fatto che il Governatore avesse scelto un ufficiale di Marina gli piacque, ma in ogni caso avrebbe preferito decidere lui i propri collaboratori.
«Le auguro buona giornata, comandante» esclamò la donna e tolse la comunicazione.
Steve posò il cellulare nel portaoggetti e accelerò bruscamente.
«Problemi?» chiese Danny.
«No. Abbiamo un nuovo collega».
«È arrivato finalmente il nostro esperto informatico? Bene, almeno potrai farti dare qualche lezione: sono sempre convinto che il gancio destro non sia il miglior modo per far funzionare il tuo computer» scherzò Danny.
«Eppure ero quasi certo che fossi tu quello che non riesce nemmeno a mandare un sms con il cellulare» replicò Steve senza scomporsi.
Queste schermaglie erano all’ordine del giorno tra i due. Erano otto mesi che lavoravano insieme e, nonostante in un primo tempo la convivenza fosse stata quantomeno difficile, avevano formato una coppia formidabile. Lavoravano splendidamente insieme perché l’innata riflessività di Danny contrastava perfettamente la naturale impulsività di Steve.
Arrivarono finalmente a Iolani Palace e Steve parcheggiò nel proprio posto riservato. Il cellulare squillò di nuovo. Stavolta era Chin.
«Ragguagliami, Chin» ordinò, scendendo dalla macchina.
Lasciò vagare lo sguardo intorno e i suoi occhi si posarono su una donna in uniforme che camminava tranquillamente verso il palazzo. Il bianco della divisa estiva sfolgorava nel sole contrastando in maniera singolare con il tono della carnagione ambrata della ragazza. Doveva essere giovanissima e, sebbene fosse ancora lontana, Steve notò la delicata struttura degli zigomi e lo splendido taglio degli occhi.
«Che schianto!» mormorò sovrappensiero.
«Come, capo?» domandò Chin dall’altro capo.
«Niente, scusami» esclamò Steve, voltandosi per entrare nel palazzo. «Dimmi tutto».
«La vittima si chiama Anthony Inouye. Lavorava nel parco ed era ben conosciuto. Io e Kono abbiamo chiesto un po’ in giro e tutti ci hanno confermato che non capiscono chi potesse avercela con lui. A detta di Max è stato ucciso con un colpo alla testa, infertogli probabilmente con un pezzo di legno».
«Ok. Raccogliete tutto ciò che potete e tornate alla base».
Entrati nella loro sede si avvicinarono alla scrivania hi-tech in mezzo alla stanza. Steve richiamò la tastiera e digitò il nome della vittima, per avviare una ricerca su di lui. Mentre il computer elaborava i dati, si rivolse a Danny.
«Sembra che nessuno ce l’avesse con il nostro amico Anthony, eppure qualcuno s’è preso la briga di dargli una botta in testa».
Danny stava per replicare quando qualcuno bussò. Entrambi si voltarono e Steve riconobbe immediatamente la donna che aveva visto nella piazzetta pochi istanti prima.
«Avanti» esclamò e la donna esitò un attimo prima di entrare. Nel momento in cui s’era voltato aveva riconosciuto l’uomo che era sceso dalla Camaro.
Lo guardò negli occhi per la prima volta e li vide schiarirsi e diventare della tonalità del cielo hawaiano. I folti capelli scuri si arricciavano alla base della testa e una piccola V gli si disegnò al centro della fronte mentre la osservava. Sembrava corrucciato. Si avviò verso di lui notando il logo della squadra Five-0 sul pavimento, incorniciato dal motto delle Hawaii: Ua Mau Ke Ea O Ka Aina I Ka Pono [2]. Mentre si avvicinava notò come i pettorali riempissero la camicia e come le braccia che spuntavano dalle maniche sembrassero forti e dure.
Dall’altra parte, Steve la stava scrutando con altrettanta attenzione. Era più alta di quello che si sarebbe aspettato, doveva superare il metro e settanta. Però era molto più bella, vista da vicino. Gli occhi dal taglio a mandorla erano di uno straordinario colore viola, i capelli scuri erano raccolti in uno chignon sotto il berretto dell’uniforme.
«Buongiorno. Che posso fare per lei?» mormorò Steve, stentando a riconoscere la propria voce. Era roca e profonda e sentì uno strano calore riempirgli il petto. Era la prima volta, da quando lui e Catherine s’erano lasciati.
«Guardiamarina Nicole Knight, signore. Il Governatore avrebbe dovuto avvisarla del mio arrivo» mormorò Nicole con voce dolce, tendendo la mano verso di lui.
Steve si ricordò improvvisamente della telefonata della Jameson. Chissà perché, aveva dato per scontato che il nuovo acquisto dei Five-0fosse un uomo.
«Oh, certo. Mi scusi, non pensavo… non importa. Capitano di corvetta Steve McGarrett» si presentò, pentendosi subito di aver usato il suo grado. Inspiegabilmente, voleva che la donna fosse subito a proprio agio con lui.
«Buongiorno, comandante» replicò Nicole, stringendogli la mano. Steve sentì che la sua stretta era salda e asciutta come quella di un uomo e l’apprezzò, trattenendola più del necessario.
Danny rimase ad osservarli si accorse subito della corrente che si era sprigionata tra i due.
«Hai intenzione di presentare anche me, comandante?» domandò quindi e Steve ritrasse la mano velocemente, girandosi con uno sguardo imbarazzato.
«Il mio partner, il detective Danny Williams».
«Molto lieto» chiosò Danny, stringendo la mano a Nicole che ricambiò con un sorriso.
«Danny, faccio due parole con il guardiamarina Knight. Attendiamo che Chin e Kono rientrino». Poi si rivolse a Nicole. «Prego» mormorò, facendole strada verso il proprio ufficio.
La fece accomodare e prese posto alla scrivania.
«Immagino che la Jameson le abbia spiegato in cosa consisterà il suo incarico» cominciò Steve ma Nicole scosse la testa.
«No, signore. Ho ricevuto la convocazione e stamattina il Governatore mi ha detto che mi avrebbe assegnata ai Five-0. É stato tutto molto improvviso» replicò la donna.
«Tipico» commentò Steve. «Abbiamo bisogno di qualcuno che ci guidi dall’ufficio quando siamo in missione, che ci coordini attraverso il sistema satellitare. Però mi serve che lei sia in grado di intervenire al bisogno».
«È ciò di cui mi sono sempre occupata, quindi non è una novità. In quanto alle missioni sul campo, non è un problema» rispose Nicole.
«Posso chiederle dove ha studiato?» domandò.
«Annapolis».
Gli occhi di Steve si spalancarono per la sorpresa.
«E allora non ho più bisogno di chiederle altro. So bene come funziona l’Accademia». Anche Steve si era laureato ad Annapolis. «Quando può cominciare?».
«Quando vuole, signore. Il Governatore mi ha pregato di metterla a conoscenza delle attrezzature di cui avrò bisogno, con la promessa che me le farà avere nel più breve tempo possibile» replicò Nicole.
Steve si alzò in piedi e la donna lo imitò.
«Visto che da oggi siamo nella stessa squadra, propongo di evitare le formalità. Ti prego, chiamami Steve. Signore fa così vecchio ammiraglio».
Nicole rise, e Steve si stupì che potesse diventare ancora più bella.
«D’accordo, Steve».
«Bene, Nicole. Benvenuta nei Five-0. Ti mostro il tuo ufficio».
Steve le mostrò l’ampio spazio che aveva pensato di assegnarle, in quel momento completamente vuoto.
«Immagino che le tue attrezzature avranno bisogno di spazio quindi dovremmo rivedere la disposizione degli uffici».
«Sì, questo spazio dovrebbe essere sufficiente» osservò Nicole.
Stavano ancora discutendo quando rientrarono Chin e Kono.
Si riunirono tutti intorno alla scrivania centrale.
«Chin, Kono, vi presento l’agente Knight, la nostra nuova collega. Nicole, l’agente Kelly e sua cugina, agente Kono Kalakaua».
Ci fu un breve scambio di convenevoli prima che Steve si rivolgesse a Chin.
«Allora Chin, abbiamo qualcosa su cui lavorare?» chiese.
«Non molto, capo. Abbiamo interrogato i dipendenti del parco e non ci hanno saputo dire molto. Anthony era un tipo tranquillo e nessuno ha notato stranezze sul suo conto, nei giorni scorsi».
Nel frattempo Kono estrasse la scheda dalla macchina fotografica e la infilò in uno slot su un lato della scrivania. Digitò alcuni comandi e le foto apparvero sugli schermi.
Davanti agli occhi di Nicole, sfilarono lente le foto della scena del crimine. Sebbene i cadaveri non le dessero fastidio, scrutare la morte violenta in quel modo non era cosa semplice. Anche se la vittima era uno sconosciuto, era impossibile non restarne colpiti.
«Danny, sappiamo qualcosa in più di questo Anthony?» domandò Steve.
«Anthony Inouye, cinquantaquattro anni. Lavorava nel parco da vent’anni, nessun precedente, solo una multa per eccesso di velocità comminatagli quando aveva diciannove anni. Non è sposato, ma ha una sorella che vive a Waikiki».
«Perché qualcuno dovrebbe uccidere un tipo come Anthony?» si domandò Steve e Chin trasse di tasca una chiavetta USB.
«Il parco ha un sistema di videosorveglianza. I filmati vengono tenuti per una settimana, poi vengono cancellati. Kono ha scaricato su questa chiavetta tutte le registrazioni fatte ieri. Secondo Max, Anthony è stato ucciso ieri tra le otto e le nove di sera».
Sul video apparvero le immagini delle telecamere di sorveglianza. Nicole rimase accanto a Steve, cercando di entrare nelle dinamiche della squadra, di capire come lavorassero. Si era accorta subito che erano molto affiatati, connessi da un legame di amicizia che andava oltre il semplice essere colleghi. C’era una sorta di comunicazione non verbale tra di loro, come se si intendessero immediatamente senza bisogno di sprecare parole. Eppure Nicole non si sentì per nulla esclusa.
«C’è una telecamera puntata verso il luogo in cui è stato ritrovato il corpo?» chiese Danny.
«Sì, certo» mormorò Chin, digitando velocemente sulla tastiera. Isolò un’immagine e la mandò sullo schermo.
«Se Anthony è stato ucciso tra le otto e le nove, partiamo da lì» disse Steve e Chin cercò il punto esatto. A quell’ora era quasi buio e quindi le immagini erano state registrate con l’infrarosso. La registrazione era sgranata e poco chiara.
Chin mandò le immagini a velocità doppia e tutti si tesero, osservando il monitor, cercando di scorgere movimenti sospetti.
«Ferma, Chin» disse Kono all’improvviso.
Chin fermò il filmato e tornò leggermente indietro. Qualcuno stava trascinando il corpo di Anthony.
«Blocca e ingrandisci» ordinò Steve.
Chin ingrandì, ma la qualità dell’immagine era talmente scadente da risultare praticamente inservibile.
«Non riusciamo ad arrivare a niente di meglio, Chin?» domandò Danny ma l’altro scosse la testa.
«Posso provare?» intervenne Nicole e quattro teste si voltarono verso di lei.
«Certo che sì» esclamò Steve.
Chin le lasciò il posto e Nicole, dopo aver posato il berretto dell’uniforme sul bordo del tavolo, cominciò a battere sulla tastiera virtuale. Accedette in remoto al proprio account privato e scaricò un programmino di sua invenzione. In meno di mezzo minuto l’aveva già installato e stava lavorando sull’immagine, modificando i parametri di contrasto e luminosità.
Il volto prese lentamente forma, schiarendosi progressivamente fino a diventare perfettamente riconoscibile.
«Ecco il nostro uomo» proruppe Nicole. «Avete un programma di riconoscimento facciale?» domandò poi.
Non ricevendo risposta, alzò lo sguardo sui suoi nuovi colleghi. Chin e Kono fissavano il monitor, come se non credessero ai propri occhi.
«Pazzesco» bisbigliò Danny.
Steve la stava fissando e quando incrociò il suo sguardo, le sorrise.
«Bel lavoro, Nicole».
Il complimento la lusingò molto. Gli occhi di Steve si erano fatti più intensi e Nicole sentì una strana chiusura alla gola, come se non riuscisse a respirare bene.
Che ti sta succedendo? Sembri una quindicenne al primo appuntamento, disse a se stessa.
Cercò di distogliere lo sguardo, ma il magnetismo di Steve l’attirava implacabile.
Vedi di calmarti, Romeo. La conosci da cinque minuti e ti ha già fatto perdere la testa? Devi lavorarci con questa donna, non fantasticarci sopra.
Mentre questi pensieri frullavano in testa a Steve, Danny osservava la coppia con gli occhi del detective.
Ho la netta impressione che abbiamo sistemato il comandante, pensò.
Ne era ovviamente felice. Steve aveva preso abbastanza male la rottura con Catherine e, anche se era troppo duro per darlo a vedere, soffriva la solitudine. Con un lampo di preveggenza, capì che Nicole non era lì a caso e che era destinata a Steve. Si rallegrò per l’amico perché si meritava un po’ di felicità, dopo tutto quello che aveva passato.
«Thomas Newton. Piccoli precedenti per detenzione di droga» disse Kono, che nel frattempo aveva lanciato il programma di riconoscimento. Sul monitor apparve la patente dell’uomo, un giovane di appena venticinque anni.
«Direi che possiamo andare a trovare questo Newton» considerò Steve e i suoi colleghi scomparvero nei propri uffici per prepararsi. Poi si rivolse a Nicole. «Riesci ad accedere al sistema satellitare da qui o hai bisogno di computer più potenti?».
«Posso provarci» disse la donna e si tolse la giacca, posandola su una sedia.
Steve l’osservò affascinato mentre le sue lunghe dita brune volavano sulla tastiera. Pochi minuti più tardi, Nicole sollevò la testa per controllare i monitor.
«Dimmi di cosa hai bisogno».
«Se è stato Newton ad uccidere Anthony, potrebbe essere ancora armato. Voglio sapere se è in casa e voglio che tu ci guidi nell’incursione. Chin è stato ferito in una circostanza simile un mese fa. Voglio andare sul sicuro».
Nicole capì immediatamente che Steve le stava affidando la propria vita e quella della sua squadra. Era una bella responsabilità, che però non la spaventò. Piuttosto si sentì orgogliosa del fatto che Steve si fidasse di lei tanto da consegnarle un tale onere.
Nicole digitò le proprie password di accesso e ben presto sui monitor apparvero le immagini satellitari. La donna immise le coordinate della casa di Newton e il sistema zumò su un agglomerato di piccoli appartamenti in Halekauwila Street. Un’auto verde scuro era parcheggiata nel parcheggio e non c’era movimento intorno all’edificio.
«Dalla macchina ferma in strada possiamo presumere che sia in casa, ma non sappiamo né se sia solo né dove si trovi esattamente» brontolò Steve.
«Quanta impazienza, comandante!» esclamò sorridendo Nicole e Steve la osservò inarcando le sopracciglia. Danny usciva in quel momento dal proprio ufficio.
«Ti sta già mettendo in riga, Steve?» domandò Danny in tono innocente mentre si allacciava l’ultima cinghia del giubbotto antiproiettile.
Le immagini sul monitor cambiarono improvvisamente. Tutto divenne di colore bluastro mentre appariva una sagoma umana all’interno dell’appartamento. L’impronta di calore del sospetto si muoveva lentamente, seguita da un’evanescente traccia aranciata.
«Eccolo qui».
«Bene. Tu tienilo d’occhio, avvisaci di qualsiasi movimento strano».
«E la legge sulla privacy?» domandò la donna ricevendo in risposta un sogghigno.
«Non preoccuparti. A quella ci pensa il Governatore» esclamò Steve.
Uscirono tutti e Nicole si trovò da sola in quell’ufficio nuovo. La situazione aveva un che di incredibile eppure si sentiva già parte di quella squadra.
Mentre raggiungevano l’auto, Danny camminava svelto cercando di tenere il passo delle lunghe gambe di Steve.
«Quella Nicole è forte» commentò con noncuranza.
«Sì, è veramente brava. Non avrei potuto scegliere di meglio» rispose Steve.
«Direi che è anche carina. Tu che ne pensi, Steve?» domandò.
«Non ci ho fatto caso» affermò Steve con ostentata indifferenza.
«Sì, ha le gambe un po’ storte però il viso è passabile».
«Gambe storte? Meglio che ti faccia vedere da un bravo oculista. Ha il più bel paio di gambe su cui mi sia capitato di posare gli occhi ultimamente. Quanto al viso, è semplicemente bellissima. Hai visto che occhi?».
La sua reazione così accalorata, stupì Danny. Non era da Steve lasciarsi andare a quel modo. Era evidente che la ragazza l’aveva colpito più di quanto avesse dato a vedere. I due rimasero in silenzio fino a che furono saliti a bordo dell’auto. Steve esitò un attimo prima di mettere in moto.
«Dimentica ciò che ho detto» commentò sottovoce e Danny rise sotto i baffi.
«Tranquillo, sei solo umano; è una buona cosa» replicò e Steve avviò il motore, facendo rombare gli oltre quattrocento cavalli della Camaro. Prima di partire infilarono entrambi l’auricolare.
«Mi senti, Nicole?» domandò Steve.
«Sì, forte e chiaro. Ho agganciato il GPS delle vostre auto, ora vi vedo sui monitor».
Nell’ufficio di Iolani Palace, Nicole osservò le due macchine partire e svoltare su Pinchbowl Street. Avevano da poco lasciato il parcheggio, quando Nicole notò sulle immagini satellitari l’arrivo di un’altra automobile davanti a casa Newton.
«Steve, c’è movimento. È arrivato qualcuno. Aspetta, controllo».
Nicole tornò alle immagini normali e vide due uomini scendere da un SUV scuro. Si guardarono intorno e si avvicinarono alla porta. Nicole zumò sulla targa del veicolo e lanciò una ricerca sul database.
«La macchina è registrata a nome di Tony Alvarez. Alvarez è un pezzo grosso nel giro della droga» annunciò Nicole dopo pochi secondi. «A giudicare dalla foto della sua patente, uno dei due uomini alla porta di Newton è proprio Alvarez».
«Dimmi cosa stanno facendo» ordinò Steve.
«Newton li ha appena fatti entrare. Devo tornare alle impronte di calore».
Nonostante la scrivania su cui stava lavorando fosse uno strumento molto sofisticato e potente, non era sufficiente ad elaborare la quantità di dati che Nicole stava caricando in quel momento.
«Nicole?» chiamò Steve.
«Sì, scusa. Mi ci vuole tempo. Questo computer non è abbastanza potente per farmi lavorare velocemente. Ecco, ora li ho di nuovo sullo schermo. Sembra che stiano discutendo. Piuttosto animatamente, in verità» illustrò la donna.
Improvvisamente, Nicole vide una delle sagome arancioni cadere a terra.
«Steve, credo che abbiano sparato a Newton» annunciò Nicole e sentì in sottofondo il rombo rabbioso del motore della Camaro, mentre Steve accelerava bruscamente.
Nicole li vide svoltare a sinistra su Halekauwila Street e fermarsi davanti alla casa di Newton.
«Sono ancora dentro?» domandò Steve.
«Sì, sembra che stiano cercando qualcosa» confermò la donna.
«Danny, con me» ordinò Steve. «Chin, tu e Kono verificate se c’è modo di aggirare la casa».
Giunsero in fretta davanti alla porta, con le pistole puntate.
«Five-0!» intimò Steve. «Aprite la porta».
Dall’interno giunse del trambusto e la voce di Nicole gli arrivò nell’auricolare.
«Steve, stanno tentando di scappare dal retro».
Steve, con un cenno d’intesa all’indirizzo di Danny, sfondò la porta. Lo slancio lo portò dritto in mezzo alla stanza, mentre Danny entrava dietro di lui, cercando di coprirlo.
Il corpo di Newton era abbandonato sul pavimento. Steve si chinò in fretta, cercando il polso carotideo.
«È morto» mormorò alla fine, rialzandosi.
«Sono usciti, Steve» lo informò Nicole.
«Riesci a seguirli?» chiese, mentre scattava all’inseguimento.
«Ci provo» replicò la donna.
Nicole era già tornata alle immagini normali e seguiva i due malviventi che erano ormai in strada e si stavano allontanando lentamente lungo Ahui Street, in modo da non attirare l’attenzione. Ben presto, dietro di loro Nicole vide comparire i suoi quattro colleghi. Era strano pensare già a loro come a dei colleghi. Gli pareva di conoscerli da sempre.
« Due uomini, capelli scuri, uno indossa una camicia a fiorami. Sono quasi all’angolo della via» gli indicò Nicole.
Steve li notò immediatamente. «Alvarez! Fermo. Five-0!» ingiunse.
Per tutta risposta, i due si misero a correre. Si divisero andando uno a destra e l’altro a sinistra, sparendo così alla loro vista. I Five-0 partirono all’inseguimento.
«Voglio il pesce grosso» mormorò Steve, la voce appena velata dallo sforzo della corsa.
Nicole digitò alcuni comandi sulla tastiera in modo da cambiare angolazione e vide Alvarez correre a perdifiato lungo Pohukaina Street e lo comunicò a Steve.
«Però non posso tenerli d’occhio entrambi», lo avvisò.
«Non preoccuparti» intervenne Chin. «Io e Kono siamo alle calcagna del secondo».
Nicole si concentrò su Alvarez, che si infilò tra due edifici e sbucò infine su Ward Avenue. Danny e Steve gli correvano dietro ma l’uomo aveva un certo vantaggio tanto che, attraversando la strada di corsa, entrò allo Sports Authority.
«È entrato nel negozio di articoli sportivi. Non riesco più a vederlo, Steve. Potrei provare ad entrare nel sistema video del centro, ma avrei bisogno di computer più potenti. Con questi mezzi non riuscirei ad essere veloce e nel frattempo il nostro uomo sarebbe chissà dove» spiegò. «Mi dispiace» aggiunse infine.
«Non preoccuparti» la consolò Steve. «Hai fatto un ottimo lavoro».
«Capo, l’abbiamo preso» s’intromise Kono.
«Ben fatto. Torniamo alla base».

 


[1] Il termine è usato per indicare gli americani del continente o, più genericamente, tutte le persone di pelle bianca
[2] “La vita della terra si perpetua nella Giustizia”

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Capitolo 2
*** Penso che il Governatore abbia visto giusto ***


Capitolo 2
Penso che il Governatore abbia visto giusto

 
Furono Steve e Danny ad interrogare l’uomo che avevano arrestato. Si chiamava Jordan Ramirez ed era giovane, appena ventiseienne.
«Perché hai ucciso Newton?» domandò Danny per l’ennesima volta, mentre Steve se ne stava disinvoltamente appoggiato al muro con le braccia incrociate sul petto.
Ramirez, ammanettato alla sedia, non rispose.
«Sarai processato, Ramirez. Su questo non si discute. Noi possiamo influenzare il giudizio, lo sai. Dipende da quanto vorrai collaborare con noi» spiegò Danny pazientemente.
L’altro continuò a tenere la testa chinata, senza rispondere.
Steve perse la pazienza. Si avvicinò al prigioniero e si abbassò su di lui, parlandogli all’orecchio.
«Abbiamo già interrogato Alvarez. Sappiamo che sei stato tu a premere il grilletto» sibilò.
Era un bluff, ovviamente. Ma Ramirez non poteva sapere che l’altro era scampato alla cattura. Alle parole di Steve si irrigidì e finalmente si decise ad aprire bocca.
«Bastardo! Ha mentito. Non sono stato io, gli ha sparato lui» sbraitò.
Danny si avvicinò.
«Dicci com’è andata. La situazione vi è sfuggita di mano, vero?».
Ramirez parve racimolare il coraggio e poi alzò lo sguardo su di loro.
«Ci ha chiamati Newton. Era preoccupato, voleva confessare».
Danny mise una mano sulla spalla dell’uomo.
«Ora sta calmo, Jordan. Spiegaci tutto dall’inizio».
«Usiamo il parco per trasferire la droga agli spacciatori. Uno dei nostri la lascia in un punto preciso e lo spacciatore la ritira dopo un paio d’ore. Il parco è sempre abbastanza frequentato, quindi è una buona copertura per i nostri movimenti» spiegò.
Steve, che stava passeggiando lentamente nella sala, si fermò di colpo.
«Come fate con il sistema di videosorveglianza? Nessuno si è mai accorto di nulla?» domandò.
«Conosciamo i punti ciechi delle telecamere» sogghignò l’altro.
«Com’era coinvolto Newton?» intervenne Danny.
«Newton avrebbe dovuto ritirare la partita di ieri. Però s’è fatto scoprire. Si è fatto prendere dal panico e ha colpito l’uomo. Pensava solo di metterlo momentaneamente ko, ma deve aver sbagliato i calcoli e l’ha ucciso. Stamattina ha telefonato ad Alvarez, dicendo che non se la sentiva di portare un tale peso e che voleva costituirsi. Alvarez gli ha detto di non farlo e che lo avrebbe raggiunto per parlare dell’accaduto. Quando siamo arrivati da Newton, era chiaramente sotto choc. Ha detto che avrebbe chiamato la Polizia e che avrebbe raccontato tutto. Alvarez ha perso la testa e gli ha sparato. È ciò che è successo, credetemi. Non ho sparato io».
Danny alzò lo sguardo ed incrociò quello di Steve. Gli fece un leggero cenno del capo, invitandolo ad uscire.
«D’accordo, Jordan. Ti crediamo. Diremo al giudice che hai collaborato e questo di certo servirà a ridurre la pena» lo rassicurò Danny e precedette Steve fuori dalla stanza.
«Che ne pensi?» domandò a Steve mentre si allontanavano lungo il corridoio.
«Cosa penso? Penso che Anthony sia morto per niente» sbottò Steve. «E penso anche che ci siamo trovati una nuova indagine. Non è un semplice omicidio. Dobbiamo investigare su questo traffico di droga».
Kono stava prendendo un caffè con Chin nella piccola saletta ristoro e i due uomini si fermarono lì. Danny prese un bicchiere di carta e lo riempì di caffè, mescolandoci una generosa dose di zucchero.
«Dov’è Nicole?» domandò Steve guardandosi intorno.
«Ha fatto un salto a casa. È andata a cambiarsi. Ha detto che voleva mettersi a fare la lista del materiale che le serve. Il caso di oggi le ha fatto comprendere bene di cosa abbiamo bisogno e quindi lavorerà in questo senso».
Steve sedette sul tavolo, lasciando penzolare la gamba.
«A proposito di Nicole, che ne pensate? La prima impressione?» domandò.
Kono si strinse nelle spalle.
«É presto per dirlo. In fondo, non sappiamo neanche se resisterà al severissimo comandante McGarrett» rise la ragazza e gli altri le fecero eco.
«Non preoccuparti, Kono. Ha cominciato a metterlo in riga cinque minuti dopo essere entrata» sottolineò Danny, beccandosi un’occhiataccia dal diretto interessato.
 «No, davvero» riprese Kono. «Sembra in gamba. E poi ero stanca di essere l’unica donna della squadra».
Steve si rivolse a Chin. «E tu? Che ne pensi?».
«Mi pare che sia entrata subito nei meccanismi dei Five-O. E poi è davvero forte con i computer. Penso che il Governatore abbia visto giusto».
Steve annuì, prendendo atto delle affermazioni dei suoi colleghi.
«Abbiamo interrogato Ramirez» cominciò Steve ma Danny lo bloccò immediatamente.
«Ehi! E la mia opinione non ti interessa?» chiese.
«Non sono sicuro di voler conoscere il tuo parere» sogghignò Steve. Sapeva che Danny aveva intuito che la donna l’aveva colpito e aveva paura che lo rivelasse a Chin e Kono.
«Io trovo che sia una bella donna, il che non guasta» cominciò Danny, ignorando Steve. «E, visto che grazie a questo pazzo comandante che ci ritroviamo ultimamente ci sono più conflitti a fuoco che soldi in busta paga, penso ci servisse proprio qualcuno che ci tenesse d’occhio da qui. Un paio di occhi in più sono estremamente utili… e che occhi! Eh, Chin?» esclamò Danny, strizzando l’occhio a Steve.
Chin annuì. «In vita mia non mi era mai capitato di vedere dal vivo occhi di quel colore. Sono davvero particolari. E convengo con te che anche il resto non è niente male» confermò Chin.
«Signori, vogliamo concentrarci sul caso, per favore?» li richiamò bonariamente Steve. Eppure provava un certo fastidio nel sentire quei due che discutevano in quel modo di Nicole, anche se non ne afferrava il motivo. In fondo non la conosceva nemmeno.
«Scusa, capo» mormorò Chin. «Ci stavi dicendo dell’interrogatorio di Ramirez».
Steve espose in breve ciò che erano venuti a sapere dall’uomo che avevano catturato.
«La nostra priorità a questo punto è smantellare quest’organizzazione criminale. Dobbiamo cercare di raccogliere più informazioni possibili da Ramirez». Si voltò verso Danny. «Prosegui con l’interrogatorio, per favore. Io vado da Kamekona. Voglio chiedergli se sa qualcosa di Alvarez».
Recuperò le chiavi della macchina nel proprio ufficio e si diresse verso l’uscita, mentre Danny tornava da Ramirez. Nel corridoio incontrò Nicole.
Indossava una maglietta aderente, di colore verde scuro, e un paio di jeans. Aveva i capelli sciolti che le ricadevano in onde morbide sulle spalle e il nuovo distintivo appeso alla cintura.
«Ciao Steve» lo salutò. «Sei in partenza?» domandò, sentendo tintinnare le chiavi della macchina nella sua mano.
Steve annuì. «Ehi, perché non vieni con me?» domandò. «Non sei dei Five-O se non hai conosciuto il nostro informatore riservato».
«D’accordo» acconsentì la donna.
Steve salì sulla Camaro e Nicole si accomodò sul sedile del passeggero.
«Bella macchina» commentò ammirata, mentre Steve girava la chiave e avviava il potente motore. «Ha un solo difetto, ma proprio a volerglielo trovare: la trazione posteriore la rende molto reattiva, ma a volte difficile da controllare» mormorò quasi fra sé.
Steve la osservò attentamente finché Nicole alzò gli occhi verso di lui. «Che c’è?» domandò.
«È strano sentire una donna parlare di macchine in questo modo» dichiarò. Ed è anche terribilmente sexy, aggiunse fra sé.
«Mio padre mi ha trasmesso la passione per le auto belle e veloci» rispose, con un velo di malinconia nella voce. Dal tono, Steve intuì che il padre doveva essere morto.
«Che lavoro faceva tuo padre?».
«Era nell’esercito, un veterano della guerra del Golfo. Mi resta il rimpianto che non abbia potuto vedermi laureata all’Accademia. È morto in un incidente d’auto nel 2003».
Steve fischiò ammirato mentre percorreva a velocità sostenuta South King Street. «Guerra del Golfo. Quelli sì che hanno servito il paese».
«Sì, però è dura farlo capire ad una bambina di sette anni» replicò Nicole, ricordando come fosse stato difficile accettare che suo padre se ne andasse a rischiare la vita in un paese straniero.
«Lo so, lo capisco. Mio padre era un poliziotto quindi, anche se lui non andava all’estero, rischiava la vita tutti i giorni per gli altri. Per me e mia sorella non è stato facile, soprattutto dopo la scomparsa di nostra madre, anche lei morta in un incidente».
Nicole annuì. «Quando perdi una persona cara in modo così repentino, ti senti crollare il mondo addosso. Quando è successo a me, ero ad Annapolis, lontana da casa, e ho potuto tornare soltanto per poche ore, per il funerale. Il mio ragazzo mi ha aiutata molto. Se fosse stato per me avrei abbandonato il corso».
«Sei fidanzata» constatò, cercando di nascondere la delusione. Sentì un’acuta fitta di gelosia, rimproverandosi immediatamente. Cosa gli stava capitando? Perché questa donna lo intrigava tanto? Era una sottoposta, non avrebbe mai dovuto nemmeno permettersi di pensare a lei in questo modo.
«Non più» dissentì Nicole, e Steve sentì uno strano calore al petto e un impeto di gioia agitargli il sangue. «Era nel mio stesso corso all’Accademia. Una volta laureati ci siamo decisi a fare il grande passo ed eravamo più che pronti. Fissata la data, mandati gli inviti, a due settimane dal matrimonio mi sono resa conto che non l’amavo».
Appena ebbe pronunciato quelle parole si chiese perché l’avesse fatto. Non era da lei lasciarsi andare a confidenze così personali, soprattutto non con un suo superiore conosciuto da poche ore. Il fatto era che Steve la faceva sentire perfettamente a proprio agio.
Steve accostò la macchina al marciapiede. Entrambi scesero e Nicole lo guardò con espressione perplessa.
«Il tuo informatore è qui?» domandò e Steve sogghignò per tutta risposta.
Le lunghe onde oceaniche rumoreggiavano infrangendosi sulla spiaggia, in quel momento affollata di persone. Alcuni ragazzi in costume sedevano ai tavolini del bar, gustando una granita.
Un vero e proprio gigante, con la stazza degna di un lottatore di sumo, stava servendo altre granite ad un tavolo di ragazze in bikini, flirtando spudoratamente con loro che ridevano civettuole.
«Ma che novità! Ogni volta che vengo qui tu ci stai provando con qualche bella ragazza?» esclamò Nicole. Kamekona si girò e sorrise a Nicole.
«Ci ho provato anche con te ma non hai mai avuto il buon senso di accettare le mie avances» rispose, seppellendo la ragazza in un abbraccio.
«Sei davvero troppo per me, Kamekona!» esclamò Nicole.
L’uomo ridacchiò, facendo tremolare la pancia, e parve accorgersi solo in quel momento di Steve.
«Aloha [1]» lo salutò.
Steve continuava a guardare l’uno e l’altra. «Lo conosci?» chiese a Nicole.
«Chi? Kamekona? Certo che sì, e da una vita, direi. Chi non conosce il miglior chiosco di granite dell’isola?» affermò la donna. Poi si avvicinò a Steve, abbassando la voce. «Dov’è il tuo informatore?».
Steve scosse la testa, mostrando i denti bianchissimi in un sorriso.
«È lui il mio informatore. È Kamekona» le spiegò, e Nicole gli restituì uno sguardo perplesso.
«Lavori con McGarrett?» domandò Kamekona e quando la donna si voltò e annuì, il suo sguardo cadde sul distintivo. «La piccola Kalea nei Five-O!» proruppe.
«Kalea?» intervenne Steve.
«È il mio nome hawaiano» spiegò Nicole. «Significa…».
«Gioia» finì per lei Steve, trovando che quel nome le stesse benissimo.
«Parli hawaiano?» chiese Nicole.
«Sì, lo parla. Ma resta pur sempre un haole» s’intromise Kamekona, strappando ad entrambi una risata.
«Senti un po’, Mister Hawaii!» borbottò Steve. «Abbiamo un paio di cose da chiederti».
Kamekona annuì e li guidò nel retrobottega, dove sedettero attorno ad un tavolino.
«Dimmi tutto, fratello» esordì il gigante.
«Conosci Tony Alvarez?» chiese Steve e Kamekona gli fece cenno di abbassare la voce.
«Non così forte, brah [2]. Lo sai che il mondo della polvere bianca ha orecchie dappertutto. Comunque sì, lo conosco. Pattuglia la zona di Ala Moana».
Steve annuì. «Sì, l’abbiamo scoperto. I suoi uomini usavano il parco per consegnare la droga agli spacciatori. Ma ieri sera qualcuno ha scoperto il traffico e c’ha rimesso la pelle».
Kamekona lanciò un fischio. «Alvarez è un tipo tosto, abituato a non lasciare testimoni» commentò.
«Non è stato lui ad uccidere quel poveraccio, ma uno dei suoi spacciatori. Quando ha minacciato di costituirsi, Alvarez l’ha tolto di mezzo».
Kamekona rifletté per qualche momento.
«Oggi eravamo quasi riusciti a prenderlo, ma è fuggito. In compenso i miei hanno arrestato Jordan Ramirez» spiegò Steve e Kamekona mugugnò qualcosa.
«Ramirez è il suo numero due. Un bel colpo, brah» commentò.
«Dove trovo il suo capo?» domandò Steve, ma Kamekona scosse il capo.
«Alvarez è un maledetto topo di fogna. Ha una tana con molte vie d’uscita e non sarà facile acciuffarlo».
Steve sogghignò diventando di colpo ancor più attraente.
«Tu dimmi solo dove lo posso trovare, al resto ci pensiamo io e la mia squadra».
«Tutti i venerdì sera lui e la sua banda si ritrovano in un night club. È lì che pianificano lo spaccio».
Steve sorrise come un monello e si voltò verso Nicole.
«Mi sa che devo chiedere a Danny se questo venerdì ha impegni» commentò, facendola sorridere.
Si congedarono in fretta da Kamekona e rientrarono alla base dove Danny li stava aspettando. Aveva terminato l’interrogatorio di Ramirez e voleva aggiornare Steve con le nuove informazioni.
«Si ritrovano tutti i venerdì al Moonlight» disse Danny.
«Lo so» rispose Steve.
«Se ne stanno pacifici a bere quei meravigliosi drink fatti di frutta e si organizzano la settimana» spiegò Danny.
«Lo so» ripeté tranquillo Steve e Danny sbuffò.
«C’è qualcosa che Kamekona non ti abbia già detto e che avrò il piacere di rivelarti?» borbottò seccato Danny e Steve gli sorrise.
«Non lo so. Stupiscimi, Danno!» ribatté.
«Sbruffone!» bofonchiò Danny e Nicole, che aveva assistito allo scambio di battute, non poté trattenere una risatina.
Danny si voltò verso di lei che era appoggiata allo stipite della porta dell’ufficio di Steve, a braccia conserte. «Stai già dalla sua parte, eh?».
«Scusami» mormorò la donna. «Siete meglio della televisione, ve l’ha mai detto nessuno?» commentò. In quel momento la porta si aprì ed entrarono due uomini. Nicole si voltò e sorrise di piacere nel vederli.
«Aloha, Alex» lo salutò con calore la donna, andandogli incontro e deponendogli un bacio sulla guancia.
«E quello chi è?» domandò Danny.
Steve spinse indietro la poltrona e si alzò in piedi.
«Non lo so» mormorò con tono leggermente stizzito. Di nuovo, si meravigliò di se stesso. Perché mai le effusioni di Nicole con un uomo avrebbero dovuto infastidirlo? La conosceva da poche ore: possibile che quella donna sapesse condizionarlo a tal punto?
Steve e Danny raggiunsero i due nuovi arrivati. Quello che avevano capito chiamarsi Alex aveva i capelli castani tagliati a spazzola e gli occhi nerissimi, tanto che non si riusciva a distinguere la pupilla. Era di bassa statura – era più piccolo anche di Danny – e teneva disinvoltamente un braccio attorno alla vita di lei. Steve pensò che avrebbe potuto spezzarglielo senza fatica.
 «Steve, Danny, questo è Alex Knight. Mio fratello ed il miglior programmatore che conosca. Esclusa me, ovviamente. Alex, ti presento il comandante Steve McGarrett ed il detective Danny Williams».
Steve strinse la mano ad Alex, quella stessa mano che aveva pensato di rompergli quando l’aveva notata stringere il fianco di Nicole.
«Lui è Dennis Caan» disse Nicole, indicando l’altro, un ragazzo magrissimo con un paio di occhiali sul naso lentigginoso.
«Li ho chiamati prima, mentre andavo a casa a cambiarmi. Sono i migliori e mi aiuteranno a reperire e montare tutta l’attrezzatura informatica di cui avremo bisogno qui» spiegò Nicole e Steve annuì.
«Procedete con la massima urgenza. Fra tre giorni abbiamo un appuntamento con il signor Alvarez. Pensi che potrai essere già pronta?» chiese Steve.
«Sì, sicuramente» assicurò Nicole senza esitazione. «Ma dobbiamo metterci subito al lavoro».

 


[1] Tipico saluto hawaiano. Equivale al nostro ciao
[2] Contrazione di brother, fratello. Termine usato amichevolmente

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Capitolo 3
*** Non so come gestire questa cosa ***


Capitolo 3
Non so come gestire questa cosa

 
La sveglia fece il solito mezzo trillo che già la mano di Steve stava cercando il pulsante per spegnerla. Si stiracchiò nel letto e rimase immobile per qualche momento, immerso nella luce del primo mattino che entrava dalla finestra aperta.
Poi si alzò e infilò la canotta blu dei SEAL. Uscì sulla spiaggia e cominciò a correre sulla battigia, facendo alzare in volo dei gabbiani che si stavano disputando la colazione.
Corse per tre quarti d’ora e quando rientrò si sentiva assolutamente rilassato. Fece la doccia e, dopo essersi vestito, scese a fare colazione.
Il tavolo della cucina era ancora occupato dalle carte che aveva studiato la sera prima. Aveva usato il proprio grado per ottenere informazioni su Nicole e si era fatto di lei un’idea abbastanza precisa. Era una donna decisa e tenace, perché altrimenti non avrebbe potuto superare con quei risultati l’Accademia. Lui stesso era stato ad Annapolis e sapeva che i corsi erano abbastanza duri, anche per le donne.
Da quel poco che si erano conosciuti il giorno precedente, era solare e spigliata. Non era semplice ritrovarsi catapultata all’improvviso in una nuova realtà eppure Nicole non si era lasciata intimidire ed era entrata subito nel meccanismo della squadra.
Steve ingoiò il resto della colazione e sciacquò velocemente la tazza nel lavello. Raccolse le carte e le infilò in una cartellina.
In pochi minuti raggiunse Iolani Palace ed entrò. Era sempre il primo ad arrivare eppure le luci erano già accese.
Strano, non mi sembra di aver visto né le auto di Danny e Kono né la moto di Chin, pensò.
In quel momento Nicole spinse fuori da quello che era diventato il suo ufficio una cassa e sussultò quando lo vide.
«Oh ciao, Steve».
C’erano altre casse sparse in giro per l’ufficio e diversi grossi server erano già stati sballati. Alex e Dennis stavano lavorando accosciati a terra, collegando cavi e sistemando tutti quei complessi apparecchi.
Nicole notò che Steve aveva aggrottato la fronte e pensò che fosse irritato per la confusione di casse e scatoloni che ingombrava l’ingresso.
«A che ora sei arrivata?» domandò Steve sbirciando l’orologio.
«Circa un’ora fa» mormorò lei con noncuranza.
Il che voleva dire che era arrivata prima delle sei e mezza.
«Se hai bisogno che io sia operativa entro venerdì, dobbiamo darci da fare», concluse.
Steve lanciò di nuovo lo sguardo intorno e poi lo abbassò su di lei, sorridendole in modo irresistibile. Osservando quegli occhi viola così luminosi non poté impedirsi di pensare che era davvero bellissima e provò l’impulso di chinarsi e baciare quelle labbra carnose appena dischiuse.
Nicole, così vicina in quel momento, vide cambiare il colore dei suoi occhi che si fecero più scuri e intensi e vide ombre agitarsi in quelle profondità, come sagome di squali nell’acqua bassa. Sentì uno strano calore scenderle nel ventre, come una scia di lava infuocata. Capì, senza ombra di dubbio, che era attratta da quell’uomo e nel momento in cui cercava di togliersi dalla testa quel pensiero – era il suo capo, per la miseria! – comprese che era già troppo tardi.
«Hai un momento, sorella?».
Suo fratello Alex la riscosse dalle sue fantasie e Nicole sussultò sorpresa, facendo un passo indietro. Deglutì imbarazzata e vide riflessa sul volto di Steve la stessa confusione.
«Arrivo subito, Alex» disse senza voltare la testa. «Steve, di là ci sono malasadas [1] e caffè caldo».
«Grazie» borbottò Steve e si rintanò nel suo ufficio.
Per i due giorni seguenti, Steve fu intrattabile. Si immerse nel lavoro con concentrazione maniacale dedicandosi a preparare l’operazione di venerdì.
I suoi colleghi capirono l’antifona e lo lasciarono in pace. Danny non ci mise molto a scoprire la causa del malumore dell’amico. L’aveva infatti sorpreso più volte ad osservare Nicole al di là della vetrata del proprio ufficio. La osservava con la stessa bramosia di un tossico per la dose quotidiana finché aggrottava le sopracciglia e si rituffava irato nel proprio lavoro.
Lo conosceva bene e aveva un’idea abbastanza precisa di ciò che gli passava per la testa. Nicole era molto simile a Catherine, anche se – a detta di Danny – era molto più bella. Aveva comunque gli stessi capelli scuri e gli stessi occhi dal taglio a mandorla – anche se quelli di Nicole erano molto più pronunciati e di quel colore mozzafiato – quindi era proprio il tipo di donna che poteva attrarlo. In più, avevano frequentato la stessa Accademia ed erano stati entrambi in Marina. Nicole era un tipo tosto, proprio quello che serviva a Steve.
Sapeva che Steve soffriva la solitudine. Finché era in giro con i SEAL non era mai stato un problema, però con il nuovo incarico con i Five-O risiedeva stabilmente ad Honolulu e si era stancato di attendere che Catherine fosse in licenza per vederla. La loro storia era finita proprio per quello. Steve l’aveva pregata di chiedere il trasferimento a terra, ma lei non aveva voluto sentire ragioni e la rottura era stata inevitabile.
E improvvisamente era arrivata questa Nicole che l’aveva toccato profondamente, a quanto Danny poteva vedere. Immaginava che Steve fosse restio ad ammettere con se stesso ciò che provava, che tuttavia era abbastanza evidente nella luce che non poteva impedire gli illuminasse gli occhi ogni volta che stava parlando con Nicole o tutte le volte – e accadeva spesso – che guardava nella direzione della donna.
Restava da capire cosa provava Nicole. La conosceva poco, quindi poteva fare solo delle supposizioni. Però era un detective e sapeva interpretare ciò che vedeva. Ogni volta che Steve le si avvicinava, il linguaggio del suo corpo suggeriva che era attratta da lui. Era un bell’uomo e aveva quella vena di durezza che molte donne trovano irresistibile. La cosa poteva funzionare e Danny avrebbe senz’altro fatto in modo che funzionasse. Sapeva cosa voleva dire essere soli e, dato che Steve era il suo migliore amico, avrebbe fatto di tutto per avvicinarli. E al diavolo chi diceva che le relazioni sul lavoro non funzionavano mai.
Mentre così rifletteva, Steve si alzò e si diresse proprio verso il suo ufficio. Danny si lasciò andare all’indietro contro lo schienale della poltrona mentre l’amico entrava.
«Danny, ho bisogno di parlarti» mormorò.
Danny gli fece cenno di sedersi ma Steve scosse la testa.
«Non qui» disse, facendo tintinnare le chiavi della macchina.
«Va bene» rispose Danny alzandosi.
Nicole li intercettò mentre stavano uscendo. Da due giorni lei e la sua squadra lavoravano senza sosta per sistemare ogni apparecchio che andava montato e settato nel modo giusto prima di poter essere utilizzato. Il Governatore aveva mantenuto la promessa e le aveva procurato il meglio.
«Siamo pronti, Steve» disse con una nota d’orgoglio nella voce. «Oggi pomeriggio faremo dei test ma direi che siamo in dirittura d’arrivo. Saremo assolutamente pronti per domani sera».
«Molto bene» prese atto Steve e Danny notò di nuovo quel suo sguardo assolutamente morbido con cui accarezzava Nicole.
Penso che non servirà che mi impegni più di tanto per mettere insieme questi due, sono già sulla buona strada. Basterà una spintarella, pensò Danny, notando come Nicole rispondesse a quell’occhiata sporgendo inconsciamente un fianco verso Steve. Era un chiaro segnale che tuttavia McGarrett non parve cogliere.
«Io e Danny stiamo uscendo, ci vediamo più tardi» le comunicò Steve e la donna li salutò rientrando nel proprio ufficio.
«Cerca di tenere a freno gli ormoni, sorella. È un boccone troppo grosso per te» mormorò Alex non appena rimasero soli. Nicole si voltò a guardarlo perplessa.
«Di cosa stai parlando?» domandò, ma sapeva benissimo a cosa si riferiva.
«Sono due giorni che ti guardo flirtare con il tuo capo. Non ti sembra che sia tutto un po’ accelerato?».
Nicole scosse la testa infastidita, ma distolse lo sguardo troppo in fretta. Non stava di certo flirtando con Steve eppure si era accorta di una strana corrente che vibrava tra di loro ogni volta che erano vicini.
«Non sto flirtando con lui» protestò. «È il mio superiore, non potrei mai farlo. Sto cercando di entrare nella sua squadra» borbottò la donna.
«Se lo dici tu» mormorò Alex, sogghignando quando notò la strana espressione sul viso della sorella.
 
Steve rimase zitto per tutta Pinchbowl Street e Danny rispettò il suo silenzio. Sapeva che Steve voleva parlargli di Nicole e capì che, nonostante la grande amicizia che li legava, Steve fosse riluttante a parlarne. Steve svoltò a destra su Ala Moana Boulevard e Danny capì che stavano andando all’Aloha Tower.
«Voglio sperare che sia tu ad offrirmi qualcosa stavolta» bisbigliò Danny. Steve aveva l’allarmante tendenza a scordare sempre il portafogli quando c’era da offrire e toccava sempre a Danny rimediare.
«Sì, tranquillo. Stavolta offro davvero io».
«Allora è preoccupante» commentò Danny.
Steve scalò una marcia ed entrò nel complesso di Aloha Tower.
«Perché?» chiese.
«Non ricordi quand’è stata l’ultima volta che hai offerto tu?» replicò Danny e Steve tacque.
Ricordava benissimo l’episodio, anche perché erano passati meno di due mesi. Catherine se n’era appena andata da casa sua chiudendo la porta dietro di sé. Avevano discusso, come accadeva ultimamente ogni volta che la donna era in licenza.
L’argomento era sempre lo stesso. Steve voleva che si facesse trasferire a terra, ma Catherine non voleva sentire ragioni.
«Capisci che non puoi chiedermi questo, Steve? Tu sei sparito cinque anni. Cinque anni!».
La donna si riferiva ovviamente al periodo in cui lui aveva dato la caccia a Victor ed Anton Hesse, due terroristi internazionali che Steve aveva braccato per mezzo mondo.
«Non sono stato certo a divertirmi, Cathy» aveva mormorato lui, sentendo la rabbia montare.
«Lo so. Era il tuo lavoro e l’hai fatto. Lo capisco. Ma questo è il mio lavoro, Steve».
C’erano già passati. Sembrava ormai che non si parlasse d’altro. Erano lontani i tempi in cui ogni licenza di Cathy riservava solo passione e dolcezza.
«A causa di questo lavoro ho perso tutto, Cathy» aveva bisbigliato Steve con voce spezzata. Durante la missione, infatti, Steve aveva ucciso Anton Hesse e suo fratello Victor si era vendicato uccidendo suo padre. «Puoi capire le mie ragioni? Questa casa è troppo vuota quando non ci sei» aveva affermato Steve.
«È solo per questo, Steve? Per non trovare la casa vuota quando rientri la sera? Lo sai che non sono quel tipo di donna».
Steve si era accigliato. «Che diavolo stai dicendo, Cathy? Che significa che non sei quel tipo di donna?» aveva sbottato.
Catherine lo aveva osservato a lungo, in silenzio, e poi aveva cominciato a raccogliere le proprie cose.
«Ora sei arrabbiato, ne parliamo un’altra volta, d’accordo?» aveva esclamato.
Aveva afferrato la borsetta che aveva lasciato sul divano, ma Steve gliel’aveva tolta di mano.
«No, maledizione! Ne parliamo adesso, non affronterò questo discorso un’altra volta».
«Ne vuoi parlare adesso? E sia». Catherine aveva fatto una pausa. «Mi ami, Steve?» aveva sussurrato poi.
La domanda aveva stupito Steve che l’aveva guardata stranito.
«Che stai dicendo, Cathy?».
La donna aveva alzato le spalle. «Ti ho fatto una banale domanda: mi ami, Steve?» aveva ripetuto.
Steve aveva aperto la bocca per rispondere, ma si era improvvisamente reso conto che non amava quella donna. Si sentiva attratto da lei, ma non l’amava. Non riusciva a pensare ad un futuro con lei che non fosse quello della prossima licenza che probabilmente avrebbero passato a letto.
Aveva richiuso la bocca ed era rimasto immobile a lungo. Entrambi erano chiusi in un mutismo agghiacciante.
«Infatti» aveva preso atto infine Catherine. «Non ci amiamo, Steve».
«Ma noi…» aveva cominciato Steve per poi chiudere la bocca di nuovo.
«Ma noi… cosa, Steve? Andiamo fuori a cena – poche volte, in realtà – e a letto insieme. Che altro facciamo?».
Steve aveva capito solo in quel momento quanto squallida fosse la situazione. Catherine era giunta alla stessa conclusione nel medesimo istante. Aveva sfilato la borsetta dalle mani di Steve e si era alzata in punta di piedi per baciarlo sulla guancia.
«Addio, Steve» aveva mormorato. Poi era uscita, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé.
Steve si era lasciato cadere sul divano, restando per almeno mezz’ora a fissare il pavimento. Poi aveva preso il cellulare che stava sul tavolino e aveva composto il numero di Danny.
«Ciao Danny, sono Steve. Possiamo vederci tra mezz’ora all’Aloha Tower? Ti offro una birra» aveva biascicato.
Steve parcheggiò la Camaro e spense il motore, rimanendo con la mano sinistra sul volante. Danny vide quella mano contrarsi sul volante, quasi a volerlo stritolare.
«Non so come gestire questa cosa» proruppe.
Danny scrollò le spalle, fingendo di non capire.
«Oh, tanto lo sapevo che toccava a me pagare» mugugnò, lanciando a Steve un’occhiata di sottecchi.
Steve sogghignò e lasciò andare il volante.
«So che tu hai già capito. Mi conosci bene e sono due giorni che mi tieni d’occhio cercando di non farti notare, con scarsi risultati tra l’altro».
Steve aprì la portiera e scese. Si incamminò verso il molo, seguito da Danny. Trovò una panchina e vi si abbandonò, gettando la testa indietro e chiudendo gli occhi.
«Vuoi dirmi dov’è il problema?» chiese Danny dopo un lungo silenzio.
«Dov’è il problema? Mi prendi in giro, Danno?».
Danny spalancò gli occhi, scuotendo la testa.
«Non so di cosa stai parlando, Steve. Ti prego, comincia dall’inizio».
Steve, sempre ad occhi chiusi, sogghignò.
«Sei un maledetto figlio di buona donna, Danny. Lo sapevi?».
Si raddrizzò sulla panchina, passandosi le mani fra i capelli. Sospirò e cambiò posizione, decidendo alla fine di alzarsi in piedi. Fece due passi avanti, le mani appoggiate sui fianchi, voltando le spalle a Danny che era rimasto seduto in silenzio.
«Mi piace quella donna» sputò infine.
«Chi?» domandò Danny con tono innocente. Steve si voltò di scatto e Danny riconobbe lo sguardo da super SEAL, come lo chiamava lui.
«Va bene, va bene» si affrettò a tranquillizzarlo Danny. «Ho capito cosa intendi. E ho visto come la guardi, non ci voleva un gran detective per capire una cosa così ovvia».
Steve sedette di nuovo vicino all’amico, con i gomiti appoggiati sulle cosce.
«Però» riprese Danny «ti ripeto: dov’è il problema?».
Steve sbuffò.
«É troppo presto. La conosco solo da qualche giorno, non so praticamente nulla di lei».
«Amico, dieci minuti dopo che Rachel mi aveva tamponato, ero già cotto a puntino» rise Danny dandogli una pacca sulla schiena.
«Sono un suo superiore, Danno. Non dovrei nemmeno permettermi di pensare a lei in questo modo» disse, ma l’altro scosse la testa.
«E chi se ne frega se sei il suo superiore? Sei il capo dei Five-O, le regole le fai tu. Se il mandato ti permette di appendere uno ad un cornicione, ti permette anche di corteggiarla».
«Semmai smetterai di fare il detective, puoi sempre tentare la carriera forense. Come avvocato del diavolo sei perfetto» ridacchiò Steve. Poi si fece di nuovo serio. «Chissà cosa penserebbe Nicole di questa conversazione. È sbagliato, Danny. È tutto sbagliato» tuonò all’improvviso, alzandosi di nuovo in piedi.
«Non c’è proprio niente di sbagliato, Steve. Vieni qui. Siediti e ascoltami, per favore».
McGarrett sedette di nuovo e Danny trasse un lungo sospiro prima di parlare.
«Lunedì, quando Nicole è entrata nel nostro ufficio, ho visto l’occhiata che vi siete scambiati. E mi sono rallegrato. Mi sono detto: finalmente! Non c’è proprio niente di sbagliato, credimi». Posò una mano sulla spalla dell’amico e gliela strinse. «So bene cosa significa essere soli. Non mettere da parte questa cosa solo perché pensi che sia troppo presto o perché pensi che, essendo il suo capo, non possa funzionare. E non sentirti in colpa verso Catherine. È il momento di mettere un punto e di andare a capo».
Steve si appoggiò allo schienale della panchina e voltò il capo verso Danny.
«Devo essere pazzo. Magari non mi ricambierà nemmeno e troverà talmente fuori luogo le avances del capo che correrà dal Governatore a chiedere di essere rimandata su una nave».
Danny si alzò in piedi, scuotendo la testa.
«Sarai anche un super SEAL, però come detective sei davvero scarso. Davvero non hai notato le occhiate che ti lancia? Mi stupisce che in ufficio non sia andato a fuoco nulla» asserì. Poi fece un ampio gesto verso il bar, visibile tra le palme. «Posso avere la mia birra, ora? Ho la gola secca».
 
Rientrati alla base scoprirono che in loro assenza Nicole e i due tecnici avevano completato i lavori. I due uomini erano scomparsi mentre Nicole era seduta con Chin e Kono attorno alla scrivania hi-tech.
«Adesso c’è una rete wireless che copre l’intero ufficio» stava spiegando. «Tutti i nostri computer sono collegati a quella rete e ognuno di noi sarà dotato di tablet. È pratico e maneggevole, perfetto per la nostra attività».
Alzarono tutti lo sguardo quando Danny e Steve entrarono.
«Siamo l’unità più tecnologicamente all’avanguardia del Dipartimento, ormai» rise Chin.
Steve spostò una sedia e si accomodò.
«Tutta questa tecnologia servirà, eccome. Nel nostro lavoro, la differenza tra la vita e la morte delle persone che siamo chiamati a proteggere è infinitesimale. Un solo minuto può fare la differenza» constatò e Danny annuì.
Kono batté affettuosamente una mano sul piano del tavolo.
«Nicole ha potenziato anche questa. Ora è velocissima e molto più efficiente».
«Bene» affermò Steve, con un cenno del capo in direzione di Nicole. «Che ne dite di dare un’occhiata al Moonlight?».
La donna si mise subito al lavoro e ben presto sugli schermi apparve una foto della facciata del locale. Aveva una pensilina da albergo di lusso con tanto di passatoia rossa che portava ai tre gradini d’ingresso. L’interno comprendeva un banco del bar lungo quanto una pista d’atterraggio – come osservò Danny – e un’enorme pista da ballo. Sul sito Internet del night club c’erano diverse immagini di feste con tanto di cubiste in succinti abitini di strass e molte fotografie di VIP che avevano scelto proprio quel locale per i propri party.
«Un posticino tutto da visitare, eh Steve?» sogghignò Danny.
«Direi che potremmo farci un giretto già questo venerdì, no?».
Nicole passò alle immagini satellitari in tempo reale. Era pomeriggio e quindi non c’era movimento attorno al club, anche se c’erano un paio di auto parcheggiate sul retro.
«Cosa sappiamo di questo night?» chiese Danny. «Voglio dire, Alvarez e la sua cricca ci si ritrovano tutti i venerdì per pianificare lo spaccio e nessuno ne sa nulla?».
«Prima ho fatto un controllo» intervenne Kono. «Il night fa parte di una catena di locali. Non risultano esserci mai stati problemi in questo club. Niente disordini, nessuna chiamata alla Polizia. Ci sono stati diversi controlli, ma non è mai saltato fuori nulla. Evidentemente gli spacciatori si trovano in un privée o qualcosa del genere. Se vogliamo entrare, dobbiamo capire che sistema usano».
«Ma noi lo sappiamo che sistema usano. Avete dimenticato il nostro amico Ramirez?». Mentre parlava, Danny si alzò e si diresse nel suo ufficio, recuperando i suoi appunti. «Il night club è soltanto un’attività di facciata. Il vero business si fa nel piano interrato, a cui si accede tramite una scala che è sempre protetta da almeno uno degli scagnozzi di Alvarez. Non fanno passare nessuna faccia sconosciuta».
«Questo potrebbe essere un problema» mugugnò Steve. «L’unica cosa che mi viene in mente è un’irruzione».
Danny sollevò le braccia in un gesto di rassegnazione. «Ma davvero? Strano». Si voltò verso Nicole. «Vorrei un dollaro per ogni volta che ho sentito questa frase. Sarei milionario» borbottò e la donna rise.
«E se utilizzassimo l’aiuto di Ramirez?» chiese Chin, ma Steve scosse la testa.
«Non funzionerebbe. Alvarez ci ha visti tutti in faccia e di certo sa che abbiamo catturato il suo uomo».
«Non ha visto me, però» obiettò Nicole e quattro teste si voltarono all’unisono verso di lei. Il silenzio calò pesante.
Chin guardò verso Steve e la sua espressione lo fece desistere dall’esprimere la propria opinione.
«È assolutamente escluso. Non sei preparata ad una cosa del genere» disse categorico.
Non furono tanto le parole quanto il tono con cui le pronunciò che infastidì Nicole. Certo, Steve era il suo capo ed aveva tutto il diritto di parlare in quel modo. Però le sembrò che le sbarrasse la strada senza nemmeno preoccuparsi di conoscere a fondo le sue competenze. Stava per replicare ma Danny le sfiorò il braccio. Intuì che voleva dirle di tenere a freno la lingua e tacque.
Danny aveva notato che alle parole di McGarrett, Nicole si era irrigidita e aveva compreso che voleva insistere. Ma non conosceva a fondo chi aveva davanti: insistere con lui non serviva a nulla, solo a far diventare di granito la sua decisione. Meglio aggirare la questione e portare Steve a credere che fosse una sua idea. Perciò aveva sfiorato il braccio della donna che aveva immediatamente capito.
«Non è una cattiva idea, Steve. Pensaci». Alzò le mani in segno di resa di fronte alla smorfia di Steve. «Nicole non è un volto conosciuto, potrebbe essere la nostra occasione di entrare senza sparare un colpo».
Steve scosse la testa. «E quando è entrata? Nicole da sola non potrà fare nulla contro Alvarez e la sua cerchia».
«Non ci serve che lo arresti» chiarì Kono. «Ci basta la prova che lì dentro si pianifica il traffico di droga e che Alvarez ne è il capobanda. A quel punto avremo una scusa per entrare».
Danny notò una minuscola incrinatura nella corazza di Steve e affondò il colpo.
«Le mettiamo addosso microfono e telecamera e, non appena abbiamo le prove che lì dentro c’è qualcosa di losco, facciamo irruzione».
«Non lo so, non mi convince» disse Steve, incrociando lo sguardo di Nicole. «E comunque, se l’ingresso al privée è presidiato, perché dovrebbero far passare te?».
Nicole sorrise e il cuore di Steve perse un battito.
«Credo che entro sera il direttore del Moonlight riceverà una e-mail dal capo del personale della catena di locali che avvisa che una nuova cameriera prenderà servizio a partire da domani».
«Puoi farlo?» chiese Danny.
«Se il capo mi dà l’ok, sì» rispose.
Le teste si girarono di nuovo verso Steve.
«Non possiamo fare irruzione mentre Nicole è bloccata là sotto. Dovrai sganciarti prima».
Danny batté una mano sul piano del tavolo.
«Ecco il tuo ok, Nicole» esclamò.
Steve non era per nulla soddisfatto dalla piega che aveva preso la discussione. Non era entusiasta di coinvolgere Nicole così presto ma dall’altra parte in tal modo poteva vedere subito come se la cavava sul campo. Lo rassicurava il fatto che lui e Danny sarebbero stati dentro al club, pronti ad intervenire alla minima avvisaglia di pericolo e Chin avrebbe comandato una squadra di rinforzi.
Dedicarono ancora un’ora a sistemare gli ultimi dettagli, prendendo in considerazione diversi possibili scenari e cercando di prevenire ogni possibile problema. Nicole preparò la falsa e-mail che le avrebbe permesso di entrare come cameriera al Moonlight. Aveva sbirciato la posta del direttore del personale e aveva trovato diverse e-mail sullo stesso tono, perciò fece una velata allusione al fatto era una persona fidata e che poteva essere impiegata per incarichi speciali. Il direttore del night club rispose cinque minuti più tardi accusando ricevuta per il messaggio e comunicando che la nuova ragazza avrebbe dovuto farsi trovare al Moonlight verso le nove della sera seguente. Il club apriva alle dieci.
Alla fine Steve si alzò.
«Direi che siamo pronti, per quanto possibile. Dato che domani sera lavoreremo fino a tardi, prendiamoci la mattinata libera». Sogghignò all’indirizzo di Danny. «Non voglio che tu mi spari addosso giustificandoti con il fatto che non hai dormito abbastanza».
«Se ti sparassi addosso, non avrei bisogno di giustificarmi con te. Cercherei di mirare bene, in modo da liberarmi di te definitivamente».
La tensione di quella riunione operativa si stemperò in un attimo. Ognuno tornò nel proprio ufficio e ben presto Chin e Kono si avviarono verso casa. Anche Danny si congedò e Nicole rimase sola con Steve.
McGarrett finì di stilare alcuni rapporti e dopo aver riordinato la propria scrivania si accinse ad uscire. Il lavoro aveva assorbito talmente la sua attenzione che aveva pensato di essere solo ma le luci erano ancora accese nell’ufficio di Nicole. Sbirciando attraverso la porta aperta la vide mentre, in punta di piedi, cercava di riporre una scatola che aveva l’aria di essere molto pesante sul ripiano più alto di uno scaffale. L’altezza però era decisamente proibitiva per lei e non riusciva a spingere il pacco sul ripiano.
Steve le arrivò alle spalle senza che se ne accorgesse e allungò le mani per prendere lo scatolone.
«Aspetta, lascia fare a me» mormorò.
Era effettivamente piuttosto pesante ma la sua maggiore altezza gli permise di appoggiarlo sulla mensola. Improvvisamente libera dal peso, Nicole barcollò all’indietro e fu costretta ad appoggiarsi a lui per non cadere. Istintivamente, Steve la circondò con le braccia con il risultato di stringerla ancor più a sé.
Era la prima volta che si toccavano e Nicole rimase stupita dalla solidità dei pettorali che sentiva premuti contro la propria schiena e dalla durezza di quelle braccia che pure erano estremamente gentili mentre l’avvolgevano. Percepì il suo profumo, una fragranza speziata che rischiò di farle perdere il controllo.
Dal canto suo, Steve distinse chiaramente la doppia rotondità delle natiche di lei premute contro il proprio bacino e colse le note di vaniglia e cannella del suo profumo. Lei non fece alcun tentativo per interrompere il contatto e Steve la trattenne più del necessario, godendo del calore di quella carne soda premuta contro la sua.
Fu comunque Nicole la prima a staccarsi, riscuotendosi da quel momento di imprevista intimità con un sussulto.
«Ehm, grazie» sussurrò, allontanandosi leggermente e voltandosi. Steve non seppe dire se era arrossita, la sua pelle dorata era troppo scura per capirlo, eppure i suoi favolosi occhi viola luccicavano. Le labbra erano umide e semiaperte e lasciavano intravedere la punta rosea della lingua. Non era mai stata più bella e mentre la fissava negli occhi, Steve capì senza ombra di dubbio che aveva apprezzato quel contatto almeno quanto lui. Le lunghe ciglia scure calarono a velare per un momento i suoi occhi e tanto bastò per liberare Steve dall’incantesimo che lei sembrava avergli gettato addosso.
«Ora va a casa, Nicole. Domani sarà una lunga giornata e la tua parte sarà particolarmente impegnativa. Hai bisogno di riposare».
«Ma…» cominciò lei, ma Steve bloccò la sua protesta sollevando una mano.
«Ah! Il capo sono io e ti ordino di andare a casa» intimò, scimmiottando alla perfezione il tono di uno degli istruttori dell’Accademia. Nicole lo riconobbe immediatamente e scoppiò a ridere.
Steve la aspettò mentre recuperava le proprie cose ed uscirono insieme nel parcheggio.
«Dov’è la tua macchina?» chiese Steve e la donna indicò una sportiva rossa parcheggiata dall’altro lato rispetto alla Camaro di Steve.
McGarrett spalancò gli occhi e si avvicinò alla coupé. «Che macchina è?» chiese.
«Un’Audi» rispose Nicole e l’altro si voltò con una strana espressione sul viso.
«Lo vedo che è un’Audi. Volevo dire: che modello è?» esclamò.
«Scusa, pensavo non la conoscessi, dato che non è un’auto americana. È una RS5 che mio fratello ha leggermente modificato».
Steve sfiorò con la mano il cofano che dava all’auto un’aria aggressiva e potente. Mentre lui sbirciava gli interni dal finestrino, Nicole premette il tasto sul telecomando facendo scattare la chiusura centralizzata. Steve si accomodò al posto di guida e osservò ammirato la plancia e i sedili sportivi rivestiti di pelle bicolore proprio come sulla sua Camaro.
«Bel giocattolino» mormorò ammirato e Nicole sorrise, felice del complimento.
«Attento a chiamarla giocattolino. Potrebbe offendersi e fare qualche scherzetto alla tua Chevy» lo punzecchiò.
«Come minimo è pericolosa come chi la guida» bisbigliò Steve smontando e Nicole non fu sicura di aver sentito bene. «A domani, Kalea» la salutò Steve, dirigendosi verso la propria auto.
«A domani, Steve» rispose lei.
Mise in moto facendo rombare volutamente il motore e partì facendo fischiare le gomme. Lo osservò nello specchietto e vide balenare il lampo di denti bianchi mentre sorrideva divertito dalla sua esibizione.

 


[1] Sono le tipiche ciambelle fritte che gli americani mangiano a colazione. Alle Hawaii si chiamano malasadas

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Capitolo 4
*** Non siamo sbirri. Siamo i Five-0 ***


Capitolo 4
Non siamo sbirri. Siamo i Five-0

 
Erano le quattro del pomeriggio quando si ritrovarono tutti nell’ufficio di Iolani Palace. Ripassarono di nuovo tutto il piano, mettendone a parte anche i membri della squadra di supporto che avrebbe comandato Chin. A lui si sarebbe unita anche Kono mentre Danny e Steve si sarebbero fatti passare per clienti del night e sarebbero stati all’interno, pronti ad intervenire immediatamente in caso di necessità.
Quando ebbero finito, Nicole sparì un istante nel suo ufficio e quando ne uscì indossava un paio di occhiali. Si avvicinò a Steve che abbassò lo sguardo su di lei.
«Carini» borbottò.
Nicole finse di sistemarli meglio sul naso attivando così la microcamera, e l’immagine di Steve apparve sullo schermo centrale.
«Ehi, quella è proprio la faccia da aneurisma!» esclamò Danny e Steve, che non si era accorto di nulla, osservò stupefatto la propria immagine sul televisore.
«Ho nascosto una microcamera in questi occhiali. La squadra vedrà tutto ciò che vedo io. Anche tu, sul tuo iPhone» spiegò Nicole, indicando il cellulare di Steve posato sul tavolo. Lo prese e mostrò a Steve come lanciare l’applicazione.
«Bel lavoro» mormorò. Nicole porse agli altri una minuscola scatolina.
«I vostri nuovi auricolari» chiarì. Erano veramente di dimensioni ridottissime e scomparivano completamente dentro l’orecchio. Nessuno avrebbe potuto notarli. Li provarono e Chin si disse assolutamente soddisfatto della qualità dell’audio.
Il resto della giornata trascorse tranquillamente. Alle otto Nicole si congedò e tornò a casa. Fece una doccia e si truccò con arte, mettendo in risalto gli occhi e le labbra. Aveva visto sul sito la divisa delle cameriere e non era entusiasta di come avrebbe dovuto conciarsi.
Arrivò al Moonlight dieci minuti prima delle nove e, quando affermò di essere la nuova cameriera, uno scimmione di buttafuori la fece dirigere sul retro. Parcheggiò ed entrò nel locale.
Non ebbe molto tempo per guardarsi intorno perché il direttore l’avvicinò subito. Era una vera e propria montagna di muscoli, tutto vestito di nero, con pantaloni e maglietta molto aderenti, che mettevano in risalto i bicipiti ed il torace massiccio.
«Tu sei quella nuova, vero?».
«Makela Akana. Molto lieta» mormorò lei tendendo la mano.
L’uomo le diede poche e semplici istruzioni. Quella sera c’era un incontro speciale nel privée e lei si sarebbe occupata di quello. Il suo compito sarebbe stato semplicemente quello di servire i drink, nient’altro. Gli uomini che dovevano far parte di questo incontro sarebbero arrivati tardi, probabilmente verso mezzanotte, e nel frattempo lei avrebbe dovuto occuparsi dei clienti regolari.
«Se è tutto chiaro, puoi andare a cambiarti. Chiedi alle altre ragazze di darti una divisa».
Nicole raggiunse i camerini e quando entrò c’erano tre ragazze che si stavano preparando. Una sola alzò lo sguardo verso di lei, sorridendole con calore.
«Benvenuta al Moonlight. Sei nuova, vero? Io mi chiamo Ka’eo».
Nicole la trovò immediatamente simpatica e le chiese di darle una divisa che consisteva in un gilet molto scollato che lasciava nuda la schiena e un paio di shorts davvero molto corti. Entrambi i capi erano ricoperti di paillettes nere. Le scarpe erano vertiginosi sandali d’argento con un grosso strass a goccia che brillava ad ogni passo, davvero bellissimi come poté constatare Nicole mentre li legava attorno alla caviglia.
Terminati i preparativi mandò un sms a Steve aggiornandolo su ciò che le aveva detto il direttore. La risposta arrivò pochi secondi più tardi, con Steve che le raccomandava – per la decima volta almeno – di stare attenta. Per tutta risposta Nicole gli inviò una faccina che faceva il saluto militare che lo fece sorridere.
«Hai un’agente conosciuta da meno di una settimana in un covo di spacciatori e trovi il coraggio di sorridere?» domandò Danny, ma Steve non rispose alla provocazione.
«Vatti a preparare, tesoro. Si va in scena» esclamò invece.
Steve indossò un completo scuro con una camicia bianca. Non indossò la cravatta e mise la pistola nella fondina ascellare. Lui e Danny arrivarono al club con la Camaro di Steve. Nicole aveva falsificato per entrambi un pass VIP e il ragazzo all’ingresso li fece passare immediatamente.
Il locale era affollatissimo e la musica tuonava quasi assordante. Diverse cameriere sfrecciavano in mezzo ai tavoli. Nicole, che aveva sentito attraverso l’auricolare che stavano entrando, si avvicinò ai due.
«Buonasera, signori. Benvenuti al Moonlight» esclamò e Steve non poté impedirsi di squadrarla da capo a piedi. Con i tacchi era alta quasi quanto lui e la sua mise era decisamente sexy. «Vi accompagno al vostro tavolo» affermò, voltandosi per precederli.
Gli occhi di Steve scivolarono sulla sua schiena nuda e si fermarono sul fondoschiena a malapena coperto dagli shorts. Li rialzò immediatamente, rimproverandosi di una tale indelicatezza e tuttavia accorgendosi stupito di avere il fiato corto. Nicole li accompagnò ad un tavolo d’angolo, proprio in vista della scala che scendeva nel seminterrato che in quel momento era sguarnita ma bloccata da un pesante cordone rosso.
Appena se ne fu andata, Danny diede di gomito all’amico.
«Niente male, vero?» mormorò, ma Steve non rispose.
In compenso fu la voce di Nicole ad arrivare a loro.
«Ti sento, Danny» bisbigliò, ed entrambi poterono avvertire chiaramente che stava sorridendo.
Verso le undici e mezza entrarono nel locale un paio di uomini in elegante completo nero. Si diressero risoluti verso la scala e l’energumeno che era comparso lì davanti da pochi minuti li lasciò passare.
«Nicole, cominciano ad arrivare» la avvisò Steve.
«Ok» confermò lei.
Trascorse una ventina di minuti e Steve la chiamò di nuovo attraverso l’auricolare.
«C’è il nostro uomo, Nicole».
La donna terminò di servire un tavolo e lasciò casualmente vagare lo sguardo nel locale. Alvarez si stava dirigendo verso la scala, ridendo alla battuta dell’uomo con cui era entrato.
Quando Nicole arrivò al bancone del bar, il direttore la prese per un braccio.
«I nostri uomini sono arrivati. Scendi nel seminterrato e occupati dei drink» ordinò e Nicole annuì.
Quando la vide arrivare, il gorilla di guardia sganciò il cordone e la lasciò scendere.
«Bene, è passata». Steve sfilò dalla tasca il suo iPhone e, attraverso l’applicazione che gli aveva installato Nicole, si collegò con la microcamera dei suoi occhiali.
La scala scendeva torcendosi su se stessa finché Nicole sbucò nell’ampia sala sotterranea. C’erano almeno una ventina di uomini in abito elegante che fumavano costosi Avana. Stavano in piedi o si erano accomodati sui divanetti, chiacchierando a gruppetti di due o tre.
Al centro della sala c’era un grande tavolo ovale a cui si era accomodato Alvarez, circondato da alcuni personaggi che Nicole conosceva come i suoi fidati luogotenenti. La donna si diresse decisa verso di lui, esagerando volutamente il dondolio dei fianchi. Si fermò accanto a lui e gli sorrise.
«Buonasera, signore. Possiamo cominciare?».
La voce di Nicole e le immagini arrivarono nitide al piano di sopra, dove Steve e Danny controllavano discretamente l’iPhone.
«Sei nuova, tesoro?». Alvarez fece scivolare la mano sul retro della gamba di Nicole, accarezzandole il polpaccio e salendo in una lenta carezza.
Steve notò il movimento e Danny lo vide stringere la mascella, tanto che temette che si spezzasse i denti. Sul collo gli s’ingrossò la solita vena che spiccava orgogliosa ogni volta che era particolarmente arrabbiato.
«Sì, signore». Nicole fece mezzo passo indietro, ma protese in avanti l’altro fianco, dando l’impressione di avvicinarsi ad Alvarez ma nel contempo riuscendo a liberarsi dalla sua mano. Il sorriso non abbandonò mai le sue labbra, anche se il suo primo istinto era stato quello di spezzargli le dita.
«Chiamami Tony, dolcezza. Sì, possiamo cominciare. Io prenderò il mio solito whisky on the rocks».
Nicole prese velocemente le ordinazioni e andò verso il fornitissimo bar sul fondo della sala. Gli uomini presero posto e si dimenticarono completamente di lei che armeggiava per preparare i cocktail richiesti. Nicole intuì che la riunione vera e propria sarebbe cominciata non appena lei fosse uscita. Non era un problema, dato che Nicole aveva previsto la soluzione. Nascose una cimice nel bar, celandola dietro il banco, e la attivò.
Quando ebbe finito si avvicinò di nuovo ad Alvarez che cercò di nuovo di allungare la mano verso di lei.
«Puoi andare, dolcezza».
«Grazie, Tony» sussurrò e uscì, sentendo su di sé lo sguardo lascivo di Alvarez.
«Molto bene, Nicole» la complimentò Steve nell’auricolare. «Riusciamo a sentire la conversazione come se fossimo presenti».
Mentre Steve e Danny ascoltavano ciò che accadeva nel seminterrato, Nicole riprese a servire fra i tavoli. Al piano di sotto i discorsi rimasero vaghi ancora per un bel po’, finché finalmente cominciarono ad andare al sodo.
Parlarono di tutto: nomi, luoghi, logistica. Dopo un’ora e mezza, Steve e Danny si reputarono assolutamente soddisfatti. Sapevano che Chin e Kono erano in posizione appena fuori dal club e che Kono, con le nuove apparecchiature di Nicole, stava registrando tutto.
Steve abbassò la testa e si coprì la bocca con la mano.
«Chin, abbiamo tutto ciò che ci serve. Preparatevi all’irruzione. Io e Danny scendiamo a dare la buonanotte a quei signori».
«Ricevuto, capo» mormorò Chin prima di cominciare a dare ordini alla sua squadra.
I due si alzarono e stavano per dirigersi verso la scala quando il gorilla portò la mano all’orecchio. Anche lui portava un auricolare e probabilmente stava ricevendo ordini. All’improvviso annuì e girò lo sguardo nel locale. Sfiorò Steve e Danny senza soffermarsi su di loro, finché trovò ciò che cercava. I due lo videro avvicinarsi a Nicole.
«Tony ti vuole di sotto» borbottò e la donna annuì e lo seguì.
«Danny» sibilò Steve. Danny si accosciò a terra fingendo di allacciarsi una scarpa.
«Chin, sospendi tutto. Hanno richiamato giù Nicole. Ripeto: sospendi tutto» mormorò in tono concitato.
«Ricevuto, Danny. Sospendiamo l’attacco. Restiamo in attesa».
Danny e Steve si appoggiarono con noncuranza al banco del bar e ordinarono una birra. Entrambi avevano l’orecchio teso.
L’invito non stupì più di tanto Nicole; probabilmente volevano altri alcolici. Quando arrivò di sotto, Alvarez le sorrise e le fece cenno di aspettare.
«Signori, a questo punto direi che possiamo sciogliere la nostra riunione. Fate tranquillamente incetta di sigari e brandy».
Spinse indietro la sedia e si avvicinò a Nicole.
«Ho bisogno di parlarti» le sussurrò e sorrise di nuovo. C’era qualcosa in quel sorriso che infastidì Nicole. Alvarez le indicò un corridoio e la donna lo imboccò. Superarono diverse porte aperte, stanze arredate come piccole sale riunioni.
Giunta in fondo al corridoio, Nicole fu costretta a fermarsi di fronte all’unica porta chiusa. Tony la superò, sfiorandole intenzionalmente il fianco con la mano. Abbassò la maniglia e sospinse Nicole all’interno.
Era buio, e Nicole s’insospettì. Alvarez comunque accese subito la luce e lei vide che l’aveva condotta in una camera da letto arredata come un lussuoso boudoir francese. Nicole fece due passi avanti, allontanandosi da lui.
«Non capisco, Tony». Quasi non fece in tempo a girarsi che Tony le fu addosso.
Piombarono sul letto e Nicole si lasciò sfuggire un grido.
Quel grido ebbe su Steve l’effetto di una scarica elettrica. «Chin. Via!» ringhiò nell’auricolare e scattò velocissimo, parandosi davanti all’energumeno che montava ancora la guardia sulla sommità della scala.
«Mi spiace, signori. Questa zona è off limits» mormorò sorridendo.
«Credimi, ti dispiacerà molto di più tra qualche attimo se non mi fai passare».
In quel momento, Chin e la sua squadra fecero irruzione nel locale. Le cameriere gridarono impaurite, sparpagliandosi nel locale, e la maggior parte degli uomini si alzò in piedi. Gli uomini di Chin circondarono in fretta l’area.
Quando il gorilla si rese conto di ciò che stava succedendo, reagì con una velocità insospettata. Appoggiò una mano sul petto di Steve, cercando di spingerlo via ma lui assecondò il movimento arretrando. Nel frattempo agganciò il suo piede con il proprio e gli fece lo sgambetto, mandandolo a cadere pesantemente sul pavimento. Con un movimento altrettanto fulmineo, Danny gli bloccò le braccia dietro la schiena e lo ammanettò.
Steve si precipitò giù per la scala, estraendo la pistola, seguito da Chin con alcuni uomini e, qualche momento più tardi, anche da Danny.
Nella stanza in fondo al corridoio, intanto, Tony si abbassò su Nicole che si dimenava frenetica anche se lui era molto forte e la teneva bloccata con facilità. Cercò di baciarla ma Nicole piegò la testa dall’altro lato, evitando il contatto.
Tony quindi le afferrò il mento, cercando di tenerla ferma, ma di nuovo lei gli sfuggì.
«E sta ferma, puttana!» sbottò e la colpì con uno schiaffo che le fece schizzare la testa. Nicole sentì il sapore del sangue in bocca e avvertì l’auricolare che per il colpo scivolava fuori dall’orecchio.
«E questo cos’è?» chiese Tony, prendendo in mano il piccolo apparecchio. Capì immediatamente di cosa si trattava. «Sei uno sbirro?» sbottò e lanciò l’auricolare contro il muro dove si frantumò. Nel movimento però si era sbilanciato, liberando per un attimo le gambe di Nicole. Velocissima, lei lo colpì all’inguine con il ginocchio.
Tony gridò di dolore e si accasciò sul fianco. Nicole scattò veloce come un furetto e gli bloccò le braccia dietro la schiena, piantandogli un ginocchio sui polsi per impedire che si muovesse.
Nella sala riunioni, Steve e i suoi uomini non incontrarono praticamente resistenza. Quando gli amici di Alvarez videro Steve con la pistola spianata, alzarono le mani in segno di resa.
«Benissimo, signori. La festa è finita».
Fece cenno ai suoi uomini di occuparsi degli arresti e imboccò deciso il corridoio. Sentì la voce di Tony che accusava Nicole di essere uno sbirro e poi un fischio acuto. Giunto davanti alla porta chiusa si fermò un solo istante e la sfondò con un calcio, entrando nella stanza con la Beretta spianata.
Da quando aveva sentito il grido di Nicole si era immaginato gli scenari peggiori perciò gli ci volle qualche secondo per capire cosa stava guardando. Tony era disteso a pancia sotto sul letto e Nicole gli stava praticamente seduta sopra. Aveva i capelli scarmigliati e teneva un ginocchio saldamente piantato nelle reni di Alvarez che stava cercando senza successo di liberarsi.
«Sta fermo, Alvarez. È finita, amico». Tony volse la testa verso di lui e alla vista della pistola che Steve gli puntava addosso, ogni resistenza da parte sua cessò.
Steve si avvicinò lentamente. Staccò una mano dalla pistola e sfilò un paio di manette da sotto la giacca, porgendole a Nicole.
«Il tuo primo arresto» mormorò.
Nicole lo ammanettò e si chinò su di lui. «Non siamo sbirri. Siamo i Five-0» sibilò.
Danny e Chin entrarono in quel momento e, vedendo che la situazione era sotto controllo, abbassarono subito le armi.
«Ben fatto, ragazza!» proruppe Danny e lei sorrise.
Steve rinfoderò la propria arma. «Portalo via, Danno».
«Oh, lo faccio molto volentieri». Danny si chinò su Alvarez e lo sollevò di peso. «Andiamo, bellezza» e Chin lo seguì.
Nicole rimase seduta in mezzo al letto, ansimando per riprendere fiato. Tutto si era svolto in pochi secondi e Steve sedette accanto a lei.
«Stai bene?» chiese e lei annuì, passandosi una mano fra i capelli.
«Sei ferita». Steve lo notò solo in quel momento e Nicole si toccò il labbro inferiore, ritirando la mano sporca di sangue.
«È solo un graffio» minimizzò.
«Fammi vedere» ordinò, tendendosi verso di lei. Le sollevò dolcemente il mento e le sfiorò la bocca con le dita, scostandole con delicatezza il labbro.
«Sì, è solo un taglietto» borbottò, mentre la sua mano indugiava in una lenta carezza sul bordo della mascella. Le accarezzò la guancia con il pollice. «Ma è probabile che qui ti spunti un livido» sussurrò, e la sua mano si posò con leggerezza sul viso di Nicole.
Lei, che era rimasta perfettamente immobile fino a quel momento, si appoggiò alla sua mano, tenendo gli occhi fissi nei suoi, in quel momento di un rassicurante verde mare.
Uno scalpiccio in corridoio li riscosse ed entrambi si scostarono un po’ l’una dall’altro.
«Ehi, stai tremando» constatò, mentre Danny entrava nella stanza.
«È solo una reazione alla scarica di adrenalina, tranquillo» lo rassicurò lei, ma Steve scese dal letto e la fece alzare. Si tolse la giacca e gliela mise sulle spalle. Poi, con estrema naturalezza, la cinse con un braccio e lei gli si appoggiò. Frugò nella tasca dei pantaloni e le porse un fazzoletto.
«Premilo sulla bocca, arresterà il sangue». Poi si rivolse a Danny. «La porto a casa. Recupera le sue cose dal camerino, per favore. Ti aspetto nel parcheggio».
La condusse fuori lentamente. Ben presto il calore di Steve penetrò attraverso la camicia e la giacca e Nicole si rilassò nella sua stretta, mentre il tremore si calmò. Da troppo tempo non permetteva ad un uomo di entrare nella sua vita. Dopo Patrick non c’era stato nessun altro. Era bello lasciare a Steve il comando, almeno per questa volta.
Chin stava coordinando gli uomini del dipartimento ma Steve non si fermò a controllare. Salì le scale e uscì sul retro. Kono la vide e si precipitò al suo fianco. «Tutto bene, sorella?».
«Sì, sto bene». Sorrise e scosse la testa e Steve la guardò con espressione interrogativa.
«Mi sembra di far parte dei Five-0 da sempre». Nicole spiegò il suo sorriso e Steve annuì.
«L’hai detto tu stessa pochi minuti fa. Non siamo sbirri. Siamo i Five-0. Siamo una famiglia, prima che una squadra. E sappi che potrai sempre contare su di noi».
«Mahalo [1]» lo ringraziò commossa.
Finalmente Danny arrivò con la roba di Nicole.
«Guido io», annunciò Steve e Danny alzò gli occhi al cielo.
«A questo dovrai abituarti, piccola. Steve deve sempre avere il controllo della situazione».
«Non è in grado di guidare, Danno. Ora fa’ il bravo». Gli lanciò le chiavi della Camaro. «Seguici con la mia macchina».
Le aprì la portiera dalla parte del passeggero e quando anche lui fu salito ed ebbe messo in moto, si girò a guardarlo.
«Sarei perfettamente in grado di guidare, ma so che muori dalla voglia di provare la mia macchina».
Lui le sorrise in modo irresistibile. «Beccato!».
Gli diede le indicazioni necessarie per arrivare a casa sua e si raggomitolò sul sedile. La tensione di quella giornata le piombò addosso all’improvviso. Steve guidò con calma, diversamente da quanto era abituato a fare di solito.
Quando arrivarono davanti al palazzo dove abitava in Waykolu Way, gli indicò di posteggiare l’Audi nel parcheggio coperto, nel suo posto riservato.
«Ferma lì» intimò lui prima di scendere dall’auto ed aggirarla per aprirle la portiera. L’aiutò a scendere, trattenendo la mano nella sua più del necessario.
«Sei stata grande, stasera. Ora è meglio se vai a riposare».
La Camaro argentea si fermò in strada e Danny abbandonò il posto di guida. Nicole fece per restituirgli la giacca, ma Steve la bloccò.
«Me la restituirai lunedì in ufficio. Non preoccuparti. Piuttosto, pensi di riuscire ad arrivare in casa?».
«Non sono moribonda, comandante». Nicole raddrizzò le spalle e lo guardò negli occhi. «Grazie ancora, Steve».
Lui si strinse nelle spalle e la osservò mentre raggiungeva l’ingresso del palazzo. Lì giunta si voltò e lui la salutò con la mano, prima che sparisse nell’androne.
Le rimase solo la forza per infilarsi sotto la doccia ma il getto d’acqua bollente spazzò via le sue ultime energie. Si buttò a letto e, mentre scivolava nel sonno, risentì sulle labbra il tocco delicato di Steve e rivide il suo sguardo che le accarezzava il viso. Era forse tenerezza quella che aveva visto dipingersi sul volto del comandante Steve McGarrett?

 


[1] Grazie, in lingua hawaiana

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Capitolo 5
*** Sono troppo egoista per volerti già condividere con gli altri ***


Capitolo 5
Sono troppo egoista per volerti già condividere con gli altri

 
Il mattino seguente Nicole dormì fino a tardi, contrariamente a quanto faceva di solito. Fu il suono del campanello a svegliarla. Dallo spioncino vide che si trattava di sua madre e le aprì.
«Ciao mamma. Hai dimenticato le tue chiavi?» domandò, ancora assonnata.
«Non le uso mai se so che sei in casa. Preferisco evitare di interrompere qualcosa» mormorò maliziosamente.
Iolana era del tutto uguale a sua figlia, con l’eccezione del colore degli occhi. Era molto giovane perché aveva avuto Nicole appena diciottenne. Quando andavano insieme a fare shopping le scambiavano tutti per sorelle.
«Ti prego, mamma. Non prima di colazione!». Nicole versò il caffè in due tazze e sedettero insieme nel piccolo soggiorno.
«Che hai fatto alla bocca? È gonfia».
Nicole alzò una mano a sfiorarsi le labbra. «Ieri sera ho fatto il mio primo arresto con i Five-O».
«Abbastanza movimentato, da quello che posso vedere». Iolana allungò una mano a sfiorarle la guancia. «Hai un livido qui».
Nicole entrò in bagno e si guardò allo specchio. Il labbro inferiore era in effetti leggermente gonfio e sulla mandibola c’era una vaga ombra violacea.
«Quando eri in Marina ci vedevamo a malapena durante le tue licenze. Anche se mi lamentavo di questo fatto, non sono sicura che il nuovo lavoro mi piaccia più di quello vecchio».
«Non è niente, mamma. Può capitare che ci sia qualche problema, ma lavoro con dei professionisti. Ci copriamo le spalle a vicenda».
«Non molto bene, mi sembra» borbottò Iolana.
«Mamma!».
«Va bene, cambiamo discorso». Iolana prese un sorso di caffè, e l’occhio le cadde su una giacca da uomo abbandonata sul bracciolo del divano. Nicole intercettò il suo sguardo e sorrise.
«Non è come pensi».
«Non penso proprio niente. Sei grande abbastanza».
«È del mio capo. Me l’ha prestata ieri sera quando mi ha riaccompagnata a casa» spiegò.
Iolana si alzò e prese la giacca. La sollevò, guardandola attentamente.
«Spalle larghe e fianchi stretti, eh? Il tuo capo non dev’essere niente male».
Nicole scoppiò a ridere. Il suo iPhone trillò in quel momento.
«È un messaggio di Steve» sussurrò, e a sua madre parve di cogliere una sottile vena di piacere in quella semplice affermazione. «Stasera vorrebbe festeggiare il mio primo arresto con la squadra. Propone di trovarci all’Hilton».
Iolana non disse nulla ma notò il luccichio negli occhi della figlia, mentre rispondeva a Steve che per lei andava assolutamente bene. Sua madre le fece compagnia ancora un po’ poi tornò a casa, lasciandola sola. Nicole trascorse il resto del pomeriggio oziando vergognosamente sul divano, facendo zapping e finendo per addormentarsi davanti al televisore.
Si preparò con calma, coprendo con un leggerissimo velo di fondotinta il livido appena accennato e sottolineando la forma degli occhi con l’eyeliner. Raggiunse l’Hilton Hawaiian Village a piedi – c’era poco più di un chilometro e mezzo dal suo appartamento.
Steve era arrivato da pochi minuti e sedeva ad un tavolo del Tropics Bar. Si stava godendo il tramonto attendendo i suoi amici quando la vide arrivare ed improvvisamente la bellezza del sole che accendeva di riflessi rossastri la baia di Waikiki non ebbe più alcuna attrattiva per lui.
Nicole indossava un vestito in fantasia di colore arancione che si armonizzava perfettamente con il tono della sua pelle, con una stampa di fiori nei toni del verde sul davanti. Le arrivava appena sopra al ginocchio e metteva in risalto la vita stretta. L’abito non aveva spalline, solo un cordoncino di stoffa e perline legato dietro il collo, e le lasciava scoperte le spalle.
Aveva lisciato i capelli con la piastra che le ricadevano dritti e morbidi fino a metà schiena. Con il fiato mozzo, Steve si alzò per accoglierla e quando lo vide e sorrise di piacere, nemmeno l’incantevole panorama poté rivaleggiare con la sua bellezza.
«Aloha, Nicole» la salutò con la voce arrochita dall’emozione che gli si agitava dentro.
«Aloha, Steve» rispose lei e si accomodarono al tavolo.
Ben presto arrivarono anche gli altri e poterono ordinare. Steve gustò la propria cena ma apprezzò molto di più la compagnia. Danny sembrava essersi assunto il ruolo di giullare, dato che non la smetteva di raccontare a Nicole tutti gli aneddoti collezionati in otto mesi di lavoro insieme. Il suo spiccato senso dell’umorismo li fece ridere tutti come vecchi amici, finché Steve si stancò di essere preso in giro. «Ora basta, o alla prossima cena non avrai più niente da raccontarle».
La serata trascorse piacevolmente tanto che si accorsero con sorpresa di essere gli ultimi clienti rimasti. Pagarono il conto e la compagnia si sciolse tra abbracci e pacche sulle spalle.
«Ti accompagno alla macchina» disse Steve quando furono soli.
«Sono venuta a piedi».
«Allora sali con me, ti accompagno a casa», replicò.
«Non ce n’è bisogno, c’è appena un chilometro. Mi faccio una passeggiata», ma Steve scosse la testa.
Uscirono dal bar e si diressero al parcheggio. Nicole alzò lo sguardo verso il cielo, accorgendosi che quella sera le stelle sembravano più luminose del solito: lo spettacolo del cielo blu trapunto di puntini luminosi era così bello che le strappò un’esclamazione di meraviglia. Anche Steve alzò gli occhi.
«Sono bellissime stasera, non trovi?» mormorò e lei annuì. Rimasero in silenzio per qualche istante, poi Steve abbassò il capo. «Ti va una passeggiata sulla spiaggia?».
Nicole annuì con un sorriso.
Raggiunsero la spiaggia e, al limitare del marciapiede, Nicole si fermò.
«Aspetta» lo chiamò, appoggiandosi al suo braccio per slacciare i delicati sandali dorati che indossava.
La sabbia era piacevolmente fresca e l’oceano rumoreggiava tranquillo, facendo da sottofondo alla loro chiacchierata. Camminarono avanti e indietro sul bagnasciuga, parlando come se si conoscessero da una vita.
Ad un certo punto, Nicole sedette sulla sabbia, nonostante Steve protestasse perché si sarebbe sporcata il vestito.
«È solo sabbia, Steve» replicò, e batté una mano accanto a sé. Anche lui sedette a terra e continuarono a chiacchierare. Nicole gli raccontò di suo padre, di come la sua figura avesse dominato – nel senso buono del termine – la sua vita e di come ne avesse sentito la mancanza quando era morto.
«Capisco cosa vuoi dire. Quando persi mia madre, il vuoto che si creò nella nostra famiglia fu incolmabile. Mio padre spedì me e mia sorella sul continente. Io avevo sedici anni e fui allontanato dall’unica casa che avessi mai conosciuto. Ricordo che fu molto dura».
«Sei nato qui, Steve?» chiese.
«Sì, anche se i miei non erano hawaiani. Però mio nonno morì sull’Arizona, io mi sono sempre considerato prima hawaiano e poi americano».
 Entrambi tacquero, ascoltando il rumore delle onde. Nicole guardava verso il mare e Steve guardava lei. Il litorale di Waikiki era affollatissimo ma il punto della spiaggia in cui erano loro due era praticamente deserto.
All’improvviso lei si girò e lui si perse nei suoi occhi. Nicole si accorse che la stava fissando e abbassò gli occhi, sorridendo timida. Allora lui mosse la mano, scostandole i capelli dalla fronte, scendendo in una lenta carezza lungo la guancia e infilando la mano nella massa della sua chioma bruna.
«Sei bellissima, Nicky» sussurrò, usando per la prima volta quel diminutivo.
La attirò lentamente a sé, lasciandole tutto il tempo di ritrarsi se voleva. Nicole non fece alcun tentativo di sottrarsi e Steve si avvicinò un po’ di più, fermandosi a pochi centimetri dalle sue labbra. Non voleva costringerla, perciò attese che fosse lei a fare l’ultima mossa.
Nicole chiuse gli occhi e schiuse leggermente le labbra. Per lui fu un invito sufficiente e la baciò. Il cuore gli rimbalzò in gola, mentre assaporava le sue labbra, avvolto da quel suo particolare profumo di vaniglia. Lei mosse le labbra rispondendo al bacio con dolcezza, inarcando inconsapevolmente la schiena per cercare il contatto con lui. Steve era stordito da quelle sensazioni perciò prima di perdere il controllo si staccò da lei, seppure controvoglia, trattenendola con gentilezza.
«Mi spiace. È stato più forte di me, non sono riuscito a trattenermi» mormorò lasciandola andare.
Nicole riaprì gli occhi e gli posò due dita sulle labbra. «Non dispiacerti per una cosa così bella, Steve» sussurrò e gli cercò di nuovo la bocca. Gli circondò la nuca con una mano, usando il proprio corpo per spingerlo indietro e coricarlo sulla sabbia. Stupito da quella reazione, Steve rimase immobile a godere del contatto con il corpo sottile della donna. Il suo profumo gli ottundeva i sensi, la sua bocca era un dolcissimo tormento.
Gli sfiorò le labbra con la punta della lingua e il suo cuore accelerò la sua già folle galoppata. Nicole era sopra di lui e le circondò la vita con le mani, risalendo sulla schiena finché sentì sotto le dita la levigatezza della sua pelle. Nicole fremette nel suo abbraccio, mentre la mano di Steve risaliva lungo la schiena, sotto i serici capelli, fino a fermarsi sulla nuca. Le tratteneva la testa contro la propria, giocando con la lingua nella sua bocca.
Fu Nicole ad interrompere il bacio per respirare. Posò un gomito sulla sabbia e appoggiò la testa sulla mano. Lo guardò negli occhi, accarezzandogli la tempia con l’altra mano.
«Anche tu sei molto bello, Steve» sussurrò e lui chiuse gli occhi, godendosi la sua carezza, finché la sentì ridacchiare e li riaprì.
«Cosa c’è? Ti faccio ridere?» domandò.
«Non posso crederci. Ti sono letteralmente saltata addosso».
«Veramente sono stato io a baciarti».
Nicole si fece seria. «Sei il mio capo, per la miseria».
Steve la scostò leggermente da sé e si sollevò a sedere. Eccolo, il problema. Improvvisamente, ebbe paura di perderla. Guardò dentro di sé e si accorse che non aveva mai provato quelle sensazioni. Si sentiva inebriato e sapeva che il merito era di Nicole. Se lei lo avesse respinto non avrebbero nemmeno più potuto lavorare insieme: quella serata, quei baci, sarebbero rimasti tra di loro logorandoli a poco a poco.
«È un problema?» domandò freddamente, continuando a guardare l’oceano.
Nicole tacque ma lui sentì che si muoveva. Si inginocchiò dietro di lui e gli posò le mani sulle spalle. Si abbassò e lui sentì i capelli solleticargli la guancia.
«Mi servirà un altro bacio per capirlo» gli soffiò nell’orecchio e Steve voltò la testa. Lei gli stava sorridendo e di nuovo ci furono soltanto le loro labbra, di nuovo congiunte. Nicole fece scivolare la mano nell’apertura della camicia, sfiorandogli i muscoli lisci e sodi del torace, passandoci delicatamente sopra le unghie.
Con un ringhio soffocato, Steve torse il busto e l’afferrò con delicatezza. Senza interrompere il bacio la fece adagiare fra le sue braccia e Nicole rise sulle sue labbra, finché lui le catturò di nuovo la lingua e a quel punto ci furono soltanto sospiri.
Quando Steve le posò la mano sul ginocchio nudo, lei si irrigidì ma lui la trattenne con dolcezza. Pian piano si rilassò di nuovo e la sua mano cominciò a risalire la coscia.
«Non così in fretta, comandante». Nicole si staccò dalle sue labbra e lo fissò.
«Scusami» mormorò ma lei scosse la testa.
«Non scusarti per questo, Steve. È solo che stiamo già correndo a perdifiato» e socchiuse maliziosamente gli occhi. «Non ci resterà niente da fare domani!» esclamò.
Le accarezzò il viso, meravigliandosi ancora una volta della sua bellezza.
«Ti riporto a casa» bisbigliò e lei si raddrizzò.
Steve si alzò, spolverandosi i jeans. Scosse la testa, cercando di liberare anche i capelli dalla sabbia. Poi le tese le mani e la fece alzare. Per un momento, lei aderì completamente al suo corpo e Steve l’abbracciò, abbassando la testa per baciarla di nuovo. Anche Nicole lo circondò con le braccia, infilandogli le mani sotto la camicia.
«Così però mi passa la voglia di portarti a casa» bisbigliò sulla sua bocca e Nicole rise. Si staccò da lui, cercando di ripulirsi dalla sabbia. Poi si incamminarono verso il parcheggio dell’Hilton dove avevano la macchina. Dopo pochi passi, Steve le circondò la vita con il braccio e camminarono così, sfiorandosi ad ogni movimento.
Rimasero in silenzio finché uscirono dalla spiaggia. Non erano imbarazzati: piuttosto ognuno era perso nei propri pensieri. Nicole indossò di nuovo i sandali e Steve le aprì la portiera quando raggiunsero la Camaro.
«Mahalo» sussurrò lei, stupita da tanta galanteria.
Parcheggiò davanti al suo palazzo e scese per accompagnarla fino alla porta. Sapeva che lei non gli avrebbe chiesto di salire e, tutto sommato, era meglio così. Steve aveva appena chiuso una storia in cui non erano andati molto oltre il sesso, ma voleva che con questa donna fosse diverso. Voleva fare le cose con calma; stavolta non si sarebbe accontentato di vivere il presente.
Le baciò leggermente le labbra. «Buonanotte, Kalea». E davvero quella sera lei era stata la sua Kalea, la sua gioia. «Ti chiamo domani».
«Buonanotte, Steve» rispose.
Lo osservò mentre sfrecciava via con la Camaro e salì nel suo appartamento. Si appoggiò alla porta chiusa e rivisse quella splendida serata. Quando ricordò i baci di Steve e le sue mani sul proprio corpo, sentì le farfalle svolazzare nello stomaco.
«Adesso datti una calmata, sembri una scolaretta» borbottò a se stessa dirigendosi verso il bagno per fare una doccia.
 
La mattinata seguente trascorse lenta e tranquilla. Nicole si accorgeva di essere sempre con l’orecchio teso, nella speranza di sentire l’iPhone squillare. Alla fine si spazientì: possibile che gli fosse bastato qualche bacio per farle perdere la testa?
Ritenendosi assolutamente patetica e stanca di aspettare, chiamò Summer, la sua migliore amica.
«Ciao, bellezza. Sei tornata a terra?» le chiese Summer.
«Sì, ma per restarci stavolta. Ho cambiato lavoro».
Sentì la sorpresa nel tono di Summer. «E cosa aspettavi a dirmelo?».
«Te lo sto dicendo adesso, no? Ti va di uscire?».
Si diedero appuntamento all’Häagen-Dasz, in Kalakaua Avenue. Quando Summer la vide le corse incontro, stringendola in un abbraccio.
«Ti trovo veramente in forma, Nicole» esclamò.
Nicole e Summer erano amiche sin dall’asilo. Avevano frequentato le stesse scuole, almeno finché Nicole non era partita per Annapolis. Però si erano sempre tenute in stretto contatto e ogni volta che Nicole era ad Honolulu ne approfittavano per trovarsi.
Nessuna delle due aveva voglia di stare ferma perciò presero un gelato e s’incamminarono per Kalakaua Avenue, sbirciando distrattamente le vetrine e cercando di recuperare i mesi in cui non si erano viste.
«Allora, da quando hai cambiato lavoro? Non sei più in Marina?».
«Da lunedì» rispose semplicemente Nicole.
«Caspita, e già hai un altro impiego? L’ho sempre detto che sei nata con la camicia, sorella». Summer aveva finito il proprio gelato e gettò nel cestino la coppa vuota.
«Pensa che prima ancora di scendere dalla Lincoln, avevo già il posto assicurato, anche se non lo sapevo».
«Mi vuoi dire che razza di occasione ti è capitata?» domandò spazientita Summer.
«Sono entrata nei Five-O, la task force del Governatore Jameson».
«Sul serio? Forte» esclamò l’amica.
«Forte dici? Sì, decisamente» borbottò Nicole, scostando i capelli per mostrarle il livido sulla mascella.
«Che hai fatto?».
«Inconvenienti del mio nuovo lavoro. Venerdì sera ho fatto il mio primo arresto».
Summer trovò una panchina e sedettero insieme.
«Devi raccontarmi tutto».
«Non posso farlo. Sono informazioni assolutamente riservate e ho il segreto professionale».
Summer mise il broncio e si appoggiò allo schienale, incrociando le braccia sul petto. «Che fregatura!» bofonchiò. «I tuoi nuovi colleghi, come sono?» chiese poi e Nicole rispose con una scrollata di spalle.
«Sono ok». Non fu tanto ciò che disse quanto il tono con cui lo disse che fece rizzare le orecchie a Summer. Capì che Nicole nascondeva qualcosa.
«Nicole Kalea Knight, non crederai di poter evitare così la mia domanda, vero?».
«Li conosco solo da lunedì e sono stati tutti molto carini con me. Il detective Danny Williams è il buffone di corte, per così dire. Ha la battuta sempre pronta. Poi ci sono gli agenti Kelly e Kalakaua, che sono stati estremamente gentili con me. E infine c’è Steve McGarrett, il comandante dell’unità».
«Com’è che la tua voce s’è fatta così carezzevole quando hai nominato questo Steve?» indagò Summer, scrutandola attentamente in viso.
Nicole sospirò. «Meglio che te lo dica subito, anche perché altrimenti non mi daresti tregua. Ieri sera sono uscita con tutta la squadra, per festeggiare il mio arrivo ed il mio primo arresto. Poi io e Steve siamo rimasti soli e abbiamo fatto una passeggiata sulla spiaggia».
«L’hai baciato?» strepitò e Nicole la colpì affettuosamente sulla coscia.
«Guarda che a Iolani Palace non hanno sentito» mormorò piccata.
«Lo conosci da meno di una settimana, Nicole. Che cosa ti è passato per la testa? Santo cielo, forse non sei più abituata all’aria di terra, oppure il salmastro ti ha rammollito il cervello».
Nicole cercò sul proprio iPhone la foto di Steve legata al suo contatto. Girò il telefono verso l’amica che interruppe all’istante la sua tirata. Le tolse di mano il cellulare.
«È questo qui?» domandò, e Nicole annuì. «Allora hai fatto bene a baciarlo» concluse dopo un momento di silenzio. Entrambe scoppiarono a ridere.
«E comunque è stato lui a baciare me».
«Ma perché a te capitano sempre tutte le fortune?».
Summer volle sapere tutti i particolari della loro passeggiata in riva al mare. Mentre stavano chiacchierando, l’iPhone che Summer teneva ancora in mano si animò.
«È lui!» esclamò, rendendo il telefono a Nicole che le raccomandò di stare zitta.
«Ciao, Steve».
«Ciao. Mi chiedevo se ti fossi ripresa dalle ore piccole di ieri sera».
«Sì, ho riposato divinamente stanotte. E tu?» disse maliziosamente e Summer sghignazzò in silenzio coprendosi la bocca con la mano.
«Sono stato bene con te ieri sera, e non solo sulla spiaggia» disse lui, evitando abilmente di risponderle. «Hai impegni stasera?».
«Stasera? No, nessun impegno. Avevi in mente qualcosa?».
«Ti va se andiamo fuori a cena?».
Nicole sorrise, strizzando l’occhio a Summer.
«Ma tu e i Five-O andate a cena fuori così spesso?».
«Non mi pare di aver nominato i Five-O. Sto sempre volentieri con Danny, ma preferirei uscire con te stasera» disse con voce dolce.
«Oh» soffiò Nicole. «È un appuntamento, quindi?».
«Ti porto al Pagoda». Steve schivò magistralmente anche questa domanda. «Passo a prenderti alle sette».
«A stasera, dunque».
Si salutarono e Nicole chiuse la comunicazione.
«Sei una donna fortunata, sorella. Maledettamente fortunata» esclamò Summer. «Pensi che stasera lo inviterai a salire da te?» domandò, socchiudendo gli occhi.
«Non credo che questi siano affari tuoi, Sum» proruppe Nicole.
Quando si congedarono – non prima che Summer le avesse riempito la testa di consigli vagamente lascivi per concludere la serata – Nicole rientrò nel suo appartamento.
Mentre si faceva la doccia, ripensò ai frenetici eventi di quei giorni.
Domenica sera era un guardiamarina imbarcata sulla USS Lincoln. Lunedì mattina era già aggregata ai Five-O. E questo, di per sé, sarebbe bastato a farle perdere la testa. Nonostante fosse stata ingaggiata per le sue competenze informatiche, neanche due giorni prima era stata impiegata nella sua prima missione “sul campo”, nel corso della quale aveva effettuato il suo primo arresto. E, da ultimo, appena poche ore prima Steve l’aveva baciata sulla spiaggia di Waikiki e ora già l’aveva invitata fuori a cena.
«E per fortuna che ti sei sempre reputata un tipo riflessivo» mormorò fra sé.
Aveva accettato un lavoro di cui non sapeva assolutamente nulla senza nemmeno pensarci su. Ma la cosa più sconcertante era quello che era successo con Steve. Cercò di analizzare ciò che provava con la massima obiettività.
Non aveva mai creduto all’amore a prima vista. L’innamoramento non è qualcosa che scatta come la scintilla di un accendino: è qualcosa che matura a poco a poco, nel momento in cui impari a conoscere la persona che hai davanti. Però era possibile provare subitanea attrazione per un uomo: e per un uomo come Steve era assolutamente plausibile.
Quindi non poteva dire di essere innamorata di lui però, nonostante le implicazioni di una relazione con il suo capo, di certo non la lasciava indifferente. Da quando lei e Patrick si erano lasciati – erano passati ormai più di cinque anni – non c’era stato nessun altro. Nemmeno una relazione occasionale, dato che Nicole aveva un animo troppo romantico per accontentarsi di qualcuno che le scaldasse semplicemente il letto.
Uscì dalla doccia e aprì l’armadio. Il Pagoda era decisamente un bel locale e Nicole optò per un paio di jeans bianchi a vita bassa, con un paio di sandali anch’essi bianchi tempestati di strass. Indossò un top monospalla blu elettrico che le faceva risaltare la morbida curva del seno completando il suo completo con orecchini e collana di Swarovski.
Si stava controllando allo specchio quando l’iPhone fece uno squillo. Steve era puntualissimo. Scese con l’ascensore e quando uscì dall’atrio e lo vide, capì che si era preparato con altrettanta cura. Aveva abbandonato i soliti cargo per un paio di pantaloni di colore blu scuro. Indossava una camicia azzurra che s’intonava benissimo con i suoi occhi.
 Quando gli si avvicinò, lui sollevò una mano ad accarezzarle la guancia.
«Non serve che ti dica che sei incantevole» mormorò.
«Mahalo» ringraziò Nicole con un sorriso.
Quei gesti di tenerezza avrebbero dovuto farla sentire a disagio eppure Steve li faceva con tanta naturalezza che non le sembravano mai fuori luogo.
«Hai passato bene la domenica?» chiese Steve per iniziare il discorso e lei annuì. Lui avviò il motore e uscì lentamente dal parcheggio del palazzo di Nicole.
«Sono uscita con la mia migliore amica. Non ci vedevamo da un bel po’ anche se, nonostante non fosse semplicissimo, non abbiamo mai perso i contatti. Nemmeno quando ero in mezzo al Pacifico. Le e-mail e gli sms sono una tale benedizione».
Chiacchierarono tranquillamente per tutto il tragitto finché Steve parcheggio accanto al ristorante. Le offrì il braccio ed entrarono a braccetto, mentre Nicole osservava ammirata la serie di laghetti in cui nuotavano le carpe multicolori che rendevano famoso il ristorante.
Il cameriere li fece accomodare ad un tavolo piuttosto appartato, vicino ad una vetrata che dava direttamente sui laghetti. L’atmosfera era rilassata e piacevole e Nicole curiosò nel menu. Steve scelse un piatto di carne mentre lei preferì i crostacei.
Mentre attendevano le loro ordinazioni, brindarono con un bicchiere di frizzante vino bianco. Poi Nicole posò il bicchiere e si tese verso di lui.
«Allora, dove avevamo interrotto la nostra chiacchierata ieri sera?» chiese.
Lui finse di pensarci un po’ su.
«Stavamo parlando della mia famiglia» disse e lei annuì.
«È vero. Mi stavi raccontando di tuo nonno».
Steve prese un altro sorso di vino.
«In quel maledetto sette dicembre, mio nonno era a bordo dell’Arizona. Andò a fondo con gli altri mille ed è ancora là sotto. Mio padre nemmeno lo conobbe perché mia nonna era incinta quando i giapponesi attaccarono Pearl Harbour. Fu un duro colpo per lei, non sapeva darsi pace per il fatto di non avere un corpo su cui piangere».
«È terribile. Anche mio nonno visse quell’esperienza».
Il cameriere arrivò con la loro cena. Il filetto di Steve era cotto alla perfezione mentre Nicole si dedicò al proprio piatto di gamberi, sgusciandoli con destrezza con le lunghe dita affusolate.
«Tuo nonno materno, vero?». Nicole annuì. «Era un militare?» chiese Steve e lei scosse la testa.
«No, aveva una flotta di pescherecci. Beh, a quell’epoca aveva una barca soltanto, le altre arrivarono più tardi. Comunque, quel giorno lui e i suoi uomini non erano usciti in mare. La loro barca aveva avuto un problema quindi erano rimasti in porto. Perciò, seguirono con terribile chiarezza ogni momento dell’attacco. Riconobbero immediatamente che gli aerei non erano americani, ma quando attaccarono, ci fu un momento in cui tutto si bloccò».
Steve l’ascoltava con molta attenzione, senza perdersi un movimento di quelle dita sottili. Nicole pelava ogni gambero con precisione chirurgica, intingendolo poi nella salsa. Eppure, ogni suo gesto era pieno di grazia.
«Sì, la gente sapeva che c’era la guerra» proseguì Nicole. «Però era lontana, dall’altra parte del mondo. Sebbene la flotta del Pacifico fosse in stato d’allerta, a detta di mio nonno i marinai avevano occhi solo per le belle ragazze in costume piuttosto che per il radar».
Entrambi risero e Nicole portò un dito alla bocca. Steve vide balenare la punta rosea della lingua mentre la donna leccava una goccia di salsa. Si chiese se si rendesse conto di cosa quei gesti scatenassero dentro di lui.
«Mio nonno mi diceva sempre che quando cominciò il bombardamento, la maggior parte della gente rimase immobile. Fu come se aspettasse di risvegliarsi da un incubo. Poi tutto fu frenetico. Mio nonno e i suoi cercarono di dare una mano, ma c’era troppo bisogno, ovunque. E per molti non poterono fare nulla, come per quelli dell’Arizona».
«Chissà quanti altri bambini e ragazzi sono cresciuti senza il padre, a causa di quella guerra» mormorò.
Nicole lo fissò per qualche istante.
«Leggo nei tuoi occhi che tu la guerra l’hai vista, vero? Afghanistan?».
Steve non rispose. Sì, lui la guerra l’aveva vista. La peggiore degli ultimi anni. E per quanto non volesse ricordare, quelle immagini di morte gli sfilavano spesso davanti agli occhi.
Nicole inclinò la testa di lato e socchiuse gli occhi.
«Lo so che non puoi dirmi nulla. Non preoccuparti».
Steve tacque, osservandola mentre prendeva l’ultimo gambero.
«Sai, nessuna donna sceglie mai quel piatto in una cena per due» commentò per alleggerire l’atmosfera. Nicole non si scompose, asciugandosi le dita sul tovagliolo.
«Perché si mangia con le mani?» replicò e lui assentì. «È evidente che non sei mai uscito con qualcuna che sapesse godersi una cena» disse soavemente, abbassando le ciglia sugli occhi.
Entrambi avevano finito di mangiare e Steve posò il tovagliolo accanto al piatto.
«Ti va di fare quattro passi?» le chiese e Nicole si alzò.
«Vuoi scusarmi un momento, prima?».
Mentre Nicole si allontanava, Steve non riuscì a toglierle gli occhi di dosso. Pagò il conto e l’attese accanto al tavolo. Quando tornò indietro, più di metà degli uomini presenti la seguì con lo sguardo e Steve sentì montare la rabbia. Non appena Nicole gli fu accanto, le fece scivolare la mano sul fianco attirandola dolcemente a sé. Chinò la testa e la baciò sulle labbra, stringendola possessivamente al petto. Nicole si abbandonò contro di lui, finché Steve interruppe il bacio.
«Andiamo?» bisbigliò.
«Sì» consentì Nicole, facendo scivolare la mano nella sua.
Steve si chiese come mai si fosse lasciato andare a quella manifestazione. Nicole non era la sua donna – non ancora almeno. Eppure si era sentito infastidito dalle occhiate che le erano state lanciate e aveva avvertito l’urgenza di far sapere a quella gente come stavano le cose. E come stanno le cose?, chiese a se stesso.
Una cosa era assolutamente evidente: quella donna scatenava in lui reazioni veementi nonostante Steve non fosse abituato a lasciarsi trasportare dalle emozioni – nel suo lavoro le emozioni non erano proprio previste. Gli tornò in mente una frase di Danny: “tranquillo, sei solo umano; è una buona cosa” e sogghignò.
«Come mai quel ghigno, comandante?» domandò Nicole mentre percorrevano a piedi Rycroft Street.
«Piccola, sarà meglio che tu la smetta di chiamarmi comandante» borbottò Steve.
«Ti mette in imbarazzo?» chiese lei, sollevando il capo verso di lui.
«Tutt’altro, credimi» precisò con voce roca.
Nicole fece vibrare la risata in gola mentre si fermavano sul bordo del marciapiede, aspettando di poter attraversare la strada. C’era un piccolo parco, un’oasi di verde in mezzo al cemento della città. Era estate e, liberi dalla scuola, c’erano molti bambini che si rincorrevano sul prato, arrampicandosi sullo scivolo e sugli altri giochi di legno. Steve trovò una panchina e sedettero. Nicole accavallò le gambe e gli si fece più vicina, tanto che lui le cinse le spalle con il braccio.
Rimasero in silenzio per un po’, osservando i bambini che giocavano e ascoltando le loro risate sovrastare perfino il rumore del traffico.
«Ti capita mai, con il tuo lavoro, di sentirti responsabile anche per loro?» domandò la donna, indicando i ragazzini.
«Ogni momento della mia vita. Anche quando ero dall’altra parte del mondo e stavo braccando un pericoloso terrorista, non potevo fare a meno di pensare che la sua cattura avrebbe reso il mondo un posto più sicuro, anche per loro».
Nicole era appoggiata a lui e sentiva il suo calore sulla spalla nuda. Ma erano state le sue parole a riscaldarla. Non aveva mai avuto dubbi sulla dedizione e sul senso dell’onore di Steve, ma il fatto che esprimesse i propri sentimenti con così tanta facilità glielo fece apprezzare ancora di più. Se Steve era capace di rischiare la vita per degli sconosciuti in virtù del giuramento fatto alla propria Nazione, tanto più avrebbe protetto la sua donna e la sua famiglia.
Nicole sospirò, rilassandosi e stringendosi un po’ di più a lui. Sempre tenendola abbracciata, Steve le sollevò il mento con un dito e la baciò. Si ritrovò come al solito avvolto dal suo particolare sentore di vaniglia e le accarezzò il viso, muovendo le labbra sulle sue che si schiusero subito, come la corolla di un fiore lambita dal sole. Alcuni ragazzi li notarono e ulularono come lupi, fischiando al loro indirizzo. Nicole sorrise, ma trattenne la testa di Steve contro la propria, infilandogli la mano fra i capelli.
Steve non seppe dire quanto durò quel bacio, ma fu ben consapevole di quel corpo premuto contro il suo e del respiro della donna che si mischiava al proprio. Sentì il proprio cuore accelerare il battito, mentre il sangue scorreva più veloce nelle vene. Si accorse di desiderarla, come mai aveva bramato qualcosa in vita sua. Eppure avvertiva una certa resistenza; sapeva che non era ancora pronta per lui e si adeguò ai suoi ritmi.
Fu lei a staccarsi per prima. Nonostante il parco non fosse illuminato se non dalla luce dei lampioni della strada che filtrava attraverso la chioma degli alberi, Steve notò che i suoi occhi erano liquidi e scintillanti.
«Si è fatto tardi» constatò lui. «Non vorrai addormentarti in ufficio domattina, vero?».
Raggiunsero la macchina e Steve fece dondolare le chiavi.
«Vuoi guidare tu?» le domandò. «Io intanto mi godo il panorama» concluse con un sorriso.
Nicole lesse nei suoi occhi che si aspettava che rifiutasse.
«Solo se posso farle distendere un po’ le gambe» rispose.
«Il serbatoio è pieno, puoi andare dove vuoi» consentì lui. A quel punto lei tese la mano e Steve le posò le chiavi sul palmo. Sedette al posto di guida e avviò il motore. Regolò il sedile e gli specchietti e fece retromarcia, fermandosi poi all’imbocco della rampa d’uscita del parcheggio. Si voltò a guardare Steve.
«Pronto?» chiese e quando lui annuì Nicole lasciò andare la frizione, facendo scendere in strada la macchina. La donna dedicò i primi minuti a prendere confidenza con la Camaro, saggiandone i freni e il cambio. Steve la osservava con attenzione mentre uscivano dal traffico cittadino.
«Tutto qui quello che sai fare?» la stuzzicò e nella tenue luce del cruscotto la vide abbassare la testa e socchiudere gli occhi che divennero due fessure. Non la conosceva abbastanza per sapere che quelli erano chiari segnali di pericolo perciò proseguì imperterrito. «Pensavo che la tua RS5 meritasse un guidatore migliore».
Nicole seguì una vecchia Ford bianca sulla Pali Highway e appena la strada si raddrizzò, posò una mano sulla leva del cambio. Scalò una marcia con un gioco sui pedali talmente veloce che Steve si chiese come ci riuscisse con quei tacchi, e il motore rombò potente. La macchina schizzò avanti velocissima e, con la coda dell’occhio, Nicole vide il piede destro di Steve cercare un inesistente pedale del freno. La donna sogghignò divertita e si concentrò sulla guida.
Steve rimase in silenzio, mentre la strada sfrecciava sempre più veloce sotto gli pneumatici. Lanciò un’occhiata al tachimetro che aveva già superato i duecentodieci chilometri orari. Deglutì nervosamente, ma si tranquillizzò quando notò che Nicole guidava in maniera assolutamente rilassata. Non aveva parlato da quando erano partiti, ma la vedeva assolutamente concentrata sulla strada.
Raggiunsero in pochi minuti l’incrocio con la Kamehameha Highway e Nicole svoltò a destra, verso Maunawili. La strada si restrinse, ma la velocità non scemò in maniera proporzionale. Nicole continuò a marcia sostenuta per qualche chilometro, prima di rallentare e fermarsi in una piazzola. Spense il motore e si appoggiò allo schienale, voltandosi a guardare Steve che rimase immobile a fissare il buio davanti a sé.
«Dunque?» domandò infine lei. «La tua opinione sulle mie doti di guida?».
«Promettimi una cosa» replicò. «Promettimi che alla prima occasione farai fare lo stesso giro a Danny. Di certo la smetterà di lamentarsi di come guido io».
Nicole rise felice.
«Chi ti ha insegnato a guidare così?».
«Mio padre» rispose, prima di fissare su di lui uno sguardo malizioso. «Hai avuto paura, Steve?».
Lui si voltò lentamente. «Non lo saprai mai, Nicky» borbottò, facendola ridere di nuovo.
«Vuoi guidare tu?» gli domandò ma lui scosse la testa.
«Penso che ti lascerò divertire ancora un po’».
Tornarono indietro con più calma e finalmente Nicole fermò la Camaro davanti al proprio palazzo. Parcheggiò accanto alla RS5 e spense il motore. Il silenzio li avvolse e ne godettero per qualche istante, finché Nicole sospirò. Steve fece per scendere ma lei lo fermò.
«Aspetta. C’è una cosa che dobbiamo chiarire».
Steve attese che lei si spiegasse.
«Hai intenzione di parlare di noi due agli altri?» mormorò.
Lui ci pensò su per qualche momento. «Non lo so. Insomma, non credo che sia una buona idea».
Notò subito che Nicole si rabbuiò e si tese verso di lei, sfiorandole la guancia con la punta delle dita. «Non fraintendere, ti prego. Il cielo sa quanto mi è piaciuto stare con te in questi due giorni e ciò che vorrei sarebbe dirlo agli altri e stare con te alla luce del sole. Lo vorrei, credimi. Ma sono troppo egoista per volerti già condividere con gli altri. Voglio che questa cosa sia solo nostra, almeno per un altro po’».
L’attirò delicatamente a sé e le sfiorò le labbra con le proprie. «Mi piace, quello che hai detto» sussurrò lei con voce fioca.
«Anche se penso che non ci metteranno molto a capirlo. Chin è un bravo detective e Kono un’ottima osservatrice. Quanto a Danno, aveva già intuito tutto prima ancora che me ne accorgessi io. Lui qualcosa sa. Non che usciamo insieme, ma con lui ho parlato di te».
«Siete molto legati, tu e Danny, vero?».
«Sì. Ma lui non lo bacio come faccio con te» borbottò.
«Lo spero bene» rise Nicole.
Steve l’accompagnò alla porta. «Buonanotte, Nicky».
Nicole si alzò in punta di piedi per baciarlo.
«A domani, comandante» sussurrò e, senza attendere la sua risposta, sparì nell’atrio del palazzo.

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Capitolo 6
*** Sei diabolico, sai? ***


Capitolo 6
Sei diabolico, sai?

 
Nicole parcheggiò l’Audi in un posto libero, accanto alla Camaro grigio scuro di Danny. Anche lui era appena arrivato e aspettò che scendesse, in modo da entrare insieme.
«Buongiorno, raggio di sole. Ti sei ripresa dal divertimento di venerdì?» le disse a mo’ di saluto.
«Sì, ma mi dispiace che il Moonlight resti chiuso. Potevamo farci una capatina anche venerdì prossimo».
Si incamminarono verso l’ingresso.
«Pensavo che stamattina venissi con quel completino di paillettes» osservò Danny.
«Non era della tua taglia, non avresti potuto provarlo neanche lo stesso» lo schernì. «Il completino è finito nella spazzatura. Ma ho tenuto le scarpe: nessuna donna saprebbe mai gettare nel bidone un paio di scarpe del genere».
Danny rideva ancora quando imboccarono il corridoio che portava ai loro uffici. Due agenti stavano scortando Tony Alvarez fino alla macchina che lo avrebbe portato al penitenziario di Halawa, dato che il giudice aveva convalidato il fermo. L’uomo aveva i polsi ammanettati ma quando Nicole gli passò a fianco, si liberò con uno spintone delle mani che lo tenevano per le braccia e l’afferrò per i capelli, torcendole la testa di lato e mandandola a sbattere contro il muro.
«Ti giuro che ti ucciderò per quello che hai fatto» le sibilò, strattonandole i capelli tanto che Nicole lanciò un grido.
Era successo tutto in pochi secondi ma a quel punto Danny estrasse la pistola e la puntò alla tempia di Alvarez.
«Mollala, Tony. O daremo un’occhiata al tuo cervello».
Alvarez la lasciò andare, e gli agenti lo trascinarono via che ancora sogghignava.
Danny rinfoderò la pistola. Nicole era ancora appoggiata al muro e si teneva la testa; Danny la prese dolcemente per le braccia.
«Stai bene?» domandò.
«Credo di sì. Il Governatore avrebbe dovuto dirmi a cosa andavo incontro, prima di chiedermi se volevo accettare l’incarico» rispose.
«Tesoro, non hai ancora visto niente». Danny la sospinse verso l’ufficio.
Quando entrarono, Chin si accorse subito che era successo qualcosa. «Buongiorno, ragazzi. Ehi, Kalea. Che è successo?».
«Ha avuto un altro incontro ravvicinato con Alvarez» rispose Danny per lei. Anche Steve uscì dal proprio ufficio.
«Aloha, Nicole. Tutto bene?» chiese, cercando di non far trapelare la sua preoccupazione.
«Sì, è tutto ok».
«No, non è tutto ok» intervenne Danny. «Non minimizzare, Nicole».
Steve allontanò una sedia dal tavolo facendole cenno di accomodarsi e poi sedette di fronte a lei.
«Cos’è successo?».
Nicole spiegò in fretta ciò che era accaduto. Steve e Chin l’ascoltarono con attenzione.
«Che diavolo ci fa quell’idiota ancora qui?» chiese Steve.
«Sembra che il giudice ci abbia pensato un po’ prima di decidere di trasferirlo ad Halawa». Chin era seduto sul bordo della scrivania.
«Ti ha detto qualcosa?». Steve si rivolse di nuovo a lei che abbassò gli occhi.
«Sì, le ha ringhiato qualcosa, ma non sono riuscito a sentirlo» si intromise Danny prima che Nicole potesse rispondere.
«Non è niente» protestò Nicole ma Steve scosse la testa.
«No, Nicole. Ho bisogno di sapere cosa ti ha detto Alvarez. È importante».
Nicole sospirò, guardandoli in faccia.
«Ha giurato di uccidermi» sputò infine.
Steve rimase in silenzio per un po’, poi si lasciò andare contro lo schienale, incrociando le braccia sul petto. «Che ne pensi, Danno?».
«Di certo ha il dente avvelenato con lei. Per lui i Five-0 non c’entrano, è Nicole la responsabile di ciò che è accaduto. Detto questo, ho visto come l’ha guardata: non lascerà perdere».
«Andiamo, Danny» borbottò Nicole. «Alvarez soggiornerà per il resto della sua vita in carcere».
«Ricordi cosa ci ha detto Kamekona?». Steve si alzò in piedi, prendendo a camminare avanti e indietro. «Alvarez è uno potente. Se vuole farti fuori non gli servirà uscire di prigione. Può benissimo coordinare tutto da là». Tacque un momento e poi afferrò il cellulare. «Ti faccio mettere sotto protezione, almeno finché dura il processo».
«È escluso». Anche Nicole si alzò, fronteggiando Steve. «Non smetterò di vivere a causa di un esaltato».
«Stiamo parlando della tua sicurezza, Nicole. E non ho chiesto la tua opinione, ho semplicemente formulato un ordine». Le voltò le spalle e si rinchiuse nel proprio ufficio.
«Se stai pensando di farlo ragionare, sappi che non ci riuscirai. È un McGarrett, non torna mai indietro sulle proprie decisioni» disse Chin. Aveva lavorato con il padre di Steve e i due, per molti versi, erano identici.
«Lo conosco poco, ma so che hai ragione» rispose la donna.
«E ha ragione anche su Alvarez. Fidati di lui, Nicole». Chin saltò giù dalla scrivania. «Abbiamo un bel po’ di lavoro da fare: ci sono tutte le registrazioni di venerdì sera da sistemare, in modo che possano essere usate come prova al processo».
Nicole annuì e i due si misero al lavoro.
Steve li vide dirigersi verso l’ufficio di Nicole e cercò sul cellulare il numero del Governatore. La donna rispose al secondo squillo.
«No, nessun disturbo, comandante. Ne approfitto per congratularmi con lei per l’ottimo lavoro che avete svolto venerdì. Sembra che il guardiamarina Knight sia già entrata a pieno titolo nella sua squadra».
«La chiamo proprio per questo Governatore».
Spiegò alla Jameson il ruolo avuto da Nicole nell’arresto di Alvarez e le raccontò di ciò che era accaduto quel mattino, chiedendole infine il permesso di assegnarle una scorta. La donna si disse d’accordo e confermò che se ne sarebbe interessata immediatamente.
«La farei sorvegliare dai miei, ma non posso permettermi di impiegare così le poche risorse che ho».
«Non si preoccupi. Ci penso io, telefonerò subito al capo della Polizia».
«Con il dovuto rispetto, signora: gli uomini del Dipartimento sono bravi, ma voglio dei professionisti per questo lavoro. Ho bisogno di persone che sappiano mimetizzarsi completamente con l’ambiente, in modo che Nicole sia tranquilla. Inoltre, Alvarez potrebbe sentirsi libero di agire, in modo che possiamo incastrarlo».
«Capisco. Ha in mente qualcuno?» chiese la Jameson.
«Ho un amico che si occupa di queste cose».
«Proceda pure, Steve». La donna non lo fece nemmeno finire. «Mi fido di lei, chiami pure questo suo amico».
«Grazie, Governatore».
Non appena ebbe riagganciato, Steve compose il numero di Elliot Reeds.
«Ciao, Elliot. Come stai, amico?» esclamò quando l’altro rispose.
«Ciao Steve! Sì, lo so: avevo promesso di chiamarti. Sono in debito di una birra. Sono state settimane molto intense, scusami».
«Non fa niente, tranquillo. Anche io sono stato molto impegnato». Steve si alzò in piedi e prese a girare per l’ufficio. «In verità ti chiamo perché ho un lavoro per te. Come sei messo?».
«Si può fare. Dimmi tutto» rispose l’altro restando ad ascoltare mentre Steve gli spiegava ciò che voleva da lui. «Sì, non è un problema. Ho solo una domanda: perché non può occuparsene qualcuno del Dipartimento?».
«Lo sai anche tu come lavorano gli agenti della Polizia. Se si fermassero a sorvegliare il palazzo di Nicole, anche tua nonna li riconoscerebbe come agenti da un chilometro di distanza» chiarì, ma intuì che la sua spiegazione era poco convincente. C’era un altro motivo per il quale voleva che fosse un esterno a tenere sotto sorveglianza Nicole. E si rassegnò a spiegarlo a Elliot. «C’è anche un altro motivo. Nutro, diciamo, un certo interesse personale per Nicole. Ma preferirei che il Dipartimento e i miei colleghi non ne venissero ancora a conoscenza».
«Ah, ho capito. Quindi scommetto che i miei uomini avranno il sabato e la domenica liberi, giusto? Immagino che durante il weekend ti occuperai tu della sicurezza della signora. O sbaglio? Non hai bisogno di dire altro, Steve. Dimmi solo quando devo cominciare».
Steve ci pensò su un po’. «Direi che possiamo partire da domani sera. Intanto ti mando un po’ di informazioni su di lei».
Dedicarono ancora qualche minuto ad accordarsi e poi si salutarono.
«Ti ringrazio, Elliot. Salutami Cynthia».
Dunque, la questione Nicole era sistemata. Steve si mise al computer e preparò l’e-mail per Elliot. La corredò di alcune foto e la inviò. Poi uscì e si affacciò nell’ufficio di Nicole. Era sola e stava lavorando ai filmati che avevano girato la sera precedente e alle registrazioni audio.
«Ho chiamato un amico. Sarà lui ad occuparsi della tua sicurezza». Nicole aprì la bocca per protestare di nuovo ma lui la bloccò sollevando una mano. «È un professionista, non ti accorgerai di niente e non dovrai rinunciare a niente». Poi sogghignò. «E poi così non saremo costretti a seminare gli agenti quando vorremmo vederci».
«Sei diabolico, sai?» ridacchiò Nicole.
Anche Steve rise e aggirò la sua scrivania, avvicinandosi a lei e osservando il suo lavoro. Steve vide passare sullo schermo le immagini del venerdì precedente, quando la microcamera montata sugli occhiali di Nicole aveva registrato ogni cosa.
«Sono stato un pazzo» mormorò all’improvviso. Nicole ruotò sulla sedia e lo guardò con espressione interrogativa. «Ti ho mandata in quell’inferno senza sapere praticamente nulla di te. Non abbiamo nemmeno pensato a fornirti un’arma… tu sai sparare, vero Nicole?».
«Non so se hai notato che razza di completino indossavo» disse Nicole. «Dove avrei nascosto la pistola?».
Steve stava per replicare che aveva ben presente quel succinto vestito di paillettes, ma ebbe il buon senso di tacere.
«E comunque» proseguì lei, «è ovvio che so sparare. Mi sono diplomata ad Annapolis, mica per corrispondenza» scherzò e Steve sorrise.
«Ok. Vieni con me».
«Dove andiamo?».
«All’armeria e poi al poligono. Voglio vedere come sai sparare».
La donna si strinse nelle spalle.
All’armeria del Dipartimento, Steve le fece assegnare un’arma. Una Beretta 9mm proprio come la sua, pistola che la donna disse di aver già usato in passato. Nicole agganciò la fondina al fianco e insieme uscirono per dirigersi al poligono.
«Ah no, stavolta usiamo la mia macchina» disse Nicole e Steve acconsentì.
Avviò il motore e uscì lentamente in South King Street.
«Sarà anche il caso di dotare questa macchina di sirena e lampeggiatori. Non si sa mai».
Arrivarono al poligono della Polizia e Steve salutò l’inserviente all’ingresso. Condusse Nicole in una stanzetta ed entrambi indossarono occhiali e cuffie di protezione. Steve le fece cenno di prendere posto e la donna si parò di fronte al bersaglio che Steve le aveva sistemato a settanta metri.
«Premetto che è da un po’ che non sparo».
Nicole allargò leggermente i piedi per avere un appoggio il più solido possibile e respirò profondamente un paio di volte. Poi espulse tutta l’aria e alzò la pistola con entrambe le braccia tese davanti a sé. Dedicò un solo istante a prendere la mira e sparò tre colpi, ben distanziati l’uno dall’altro.
Quando Steve recuperò il bersaglio, notò che i tre colpi creavano una perfetta rosellina al centro del petto del bersaglio. Si voltò a guardarla con un sopracciglio sollevato.
«Un colpo di fortuna» borbottò lei, ma distolse lo sguardo troppo velocemente.
«Sì, è proprio ciò che stavo pensando io» commentò asciutto. Steve spedì il bersaglio ad ottantacinque metri. «Di nuovo. Ma stavolta spara con una mano sola».
Nicole si mise in posizione, tenendo l’arma abbassata lungo il fianco. Poi alzò il braccio destro finché la tacca di mira fu allineata con il bersaglio e sparò altri tre colpi in rapida successione. Steve si accorse immediatamente che aveva fatto centro di nuovo.
«Non dirmi che è un altro colpo di fortuna» mugugnò e per tutta risposta, Nicole recuperò la propria borsa e ne estrasse il portafoglio, porgendogli una tessera. Era il suo abbonamento al poligono di tiro.
«E poi quello diabolico sarei io, vero? Perché non me l’hai detto subito?».
«Perché sapevo che volevi stare da solo con me» mormorò, sbattendo le lunghe ciglia.
«Canaglia!» rispose ridendo, prima di tornare serio.
Stavolta posizionò il bersaglio a cento metri. Erano praticamente al limite di precisione dell’arma. Fece girare Nicole verso di sé, spalle al bersaglio.
«Ora voltati di scatto e colpiscilo alla testa. Un solo sparo».
Nicole eseguì, piroettando velocemente su se stessa, alzando la pistola e sparando con lo stesso movimento. Centrò il bersaglio ma il colpo finì un po’ troppo basso, a livello del collo.
«Resta in posizione» intimò Steve e si avvicinò. Standole dietro, fece scivolare la mano lungo il braccio teso e le afferrò la mano. «Tieni il busto leggermente all’indietro, in modo da compensare il peso del braccio». Corresse in fretta la sua posizione e poi le disse di ripetere il colpo, sempre partendo spalle alla sagoma.
Stavolta il colpo finì al centro della fronte della sagoma di cartone.
«Molto bene» la complimentò.
Steve sentì la vibrazione dell’iPhone in tasca e tolse le cuffie per rispondere. Era Danny.
«Steve, abbiamo un caso. Omicidio all’Hawaii Theatre».
«D’accordo, arriviamo» rispose e chiuse la comunicazione. «Abbiamo un caso di omicidio».
Nicole cambiò velocemente caricatore e mise la sicura. Ripose la pistola nella fondina e, prese le sue cose, precedette Steve alla macchina.
Partì facendo fischiare le gomme sull’asfalto, evitando abilmente il contatto con un altro automobilista che le indirizzò un gesto volgare dal finestrino aperto.
«Quanto vorrei avere una sirena» sussurrò Steve.
«Puoi sempre mettere fuori la testa e farla tu» replicò e lui scoppiò a ridere.
Alcune auto della Polizia bloccavano Bethel Street e Nicole abbassò il finestrino, mostrando il proprio distintivo all’agente in uniforme.
«Agente Knight, Five-0» si qualificò e l’uomo le fece cenno di passare. Lei ringraziò e si fermò davanti all’ingresso.
Danny li stava aspettando nell’atrio.
«Cosa abbiamo, Danno?».
«È meglio se lo vedete con i vostri occhi. Seguitemi».
Mentre seguivano Danny lungo i corridoi, Nicole si rivolse a Steve.
«Perché lo chiami Danno?».
«Perché si diverte a sfottermi» intervenne il diretto interessato. «È mia figlia Grace che mi chiama così» spiegò infine. «È un soprannome che è rimasto da quando aveva tre anni e non riusciva a pronunciare il mio nome se non chiamandomi Danno».
«Trovo che Danno gli stia così bene, non credi?» chiese Steve a Nicole.
Nicole alzò gli occhi al cielo e non rispose.
Passarono davanti ai camerini degli attori finché Danny li precedette giù per una scala.
«Stiamo andando a visitare le cantine?».
«No, ti sto portando nel covo del fantasma dell’opera» replicò Danny. «Siamo sotto il palco. È qui che è stato ritrovato il cadavere».
La giovane donna bionda giaceva a terra, supina, i capelli dorati sparsi come una colata di monete appena coniate. Aveva gli occhi sbarrati e ormai opacizzati dalla morte. Portava un vestito bianco, una replica del famoso abito svolazzante di Marilyn Monroe, su cui il sangue spiccava in modo osceno.
«Dov’è Max?» domandò Steve.
«Sta arrivando» disse Danny. «Chin e Kono sono di sopra e stanno cercando di raccogliere informazioni».
Steve si voltò verso Nicole.
«Ok, Nicole. Dimmi cosa ne pensi».
Lei si accosciò accanto al cadavere, osservandolo attentamente.
«Ad una prima analisi, sembra che la causa della morte sia dovuta ad una ferita al collo, probabilmente inferta con un punteruolo, o comunque con un oggetto sottile e appuntito. Anche se…» e lasciò la frase in sospeso.
«Che cosa, Nicole?» la sollecitò Steve.
«Forse non è niente». Steve sbuffò, irritato.
«Devi toglierti questa abitudine di minimizzare tutto. Ogni dettaglio, anche il più insignificante potrebbe essere risolutivo».
«Dalla posizione della ferita e dal colore del sangue, direi che l’arteria è stata perforata. Eppure qui c’è troppo poco sangue».
Steve scambiò un’occhiata con Danny.
«Potrebbe essere stata uccisa da qualche altra parte» obiettò Danny ma Nicole scosse la testa.
«Guardati intorno. Non ci sono altre tracce di sangue che facciano pensare che sia stata trascinata qui dopo essere stata colpita. Trascinare qui un corpo con un’arteria che spande sangue ne avrebbe creato una considerevole scia».
«Quindi, secondo te cos’è successo?» incalzò Steve.
«La ferita è stata procurata post mortem».
Non era stata Nicole a parlare e tutti e tre si girarono in direzione della voce. Apparteneva ad un orientale di bassa statura, con i capelli nerissimi. Aveva il viso rotondo e portava un paio di occhiali dalla montatura nera. Indossava un camice bianco e teneva in mano una valigetta di acciaio.
«Buongiorno, Max» lo salutò Steve.
Il dottor Max Bergman posò a terra la ventiquattrore e salutò Steve e Danny. Poi tese la mano verso Nicole.
«Non credo che siamo stati presentati. Sono il dottor Max Bergman».
«È il nostro medico legale. Max, lei è Nicole Knight, il nuovo acquisto dei Five-0».
Nicole gli strinse la mano. Max abbassò gli occhi sul cadavere.
«Direi che hai centrato esattamente il problema, mia cara».
Danny strabuzzò gli occhi e si voltò verso Steve, indicando Max con il pollice. «Mia cara?» sussurrò sorpreso e Steve alzò le spalle.
«Potrò essere più preciso solo dopo l’autopsia», proseguì Max che non si era accorto dello scambio, «ma direi che non è morta per quella ferita al collo. E direi che è morta meno di due ore fa, a giudicare dal colorito».
Max parve dimenticarsi all’istante di loro e si chinò sul corpo, aprendo la valigetta ed estraendone la macchina fotografica con cui cominciò ad immortalare la scena del crimine. Steve fece cenno ai suoi compagni di allontanarsi.
«Direi che hai fatto colpo anche su Max» commentò Danny, strizzando l’occhio a Steve.
«Non credi che sia meglio concentrarci sul caso?» domandò soavemente Nicole e Steve ridacchiò divertito.
Raggiunsero Chin e Kono in uno dei camerini.
«Chin, cosa abbiamo?» chiese Steve.
«Amy Clark, venticinque anni» disse Chin, consultando un taccuino su cui aveva preso appunti. «Era la protagonista dello spettacolo che la compagnia sta tenendo attualmente all’Hawaii Theatre, la rivisitazione teatrale del film Quando la moglie è in vacanza. L’ha trovata uno degli inservienti mentre si stava recando lì per un controllo delle botole del palcoscenico. Questo è il suo camerino».
Steve indossò un paio di guanti di lattice e cominciò ad aprire i cassetti del tavolo da trucco di Amy, in cerca di qualche indizio.
«Danny, Chin: cominciate con gli interrogatori, per favore. Kono, cerca di illustrare a Nicole come ci si muove in questi casi».
«Sì, capo» disse la donna, prima di avvicinarsi a Nicole e porgerle dei guanti.
«Grazie, Kono». Nicole indossò i guanti e prese a muoversi per la stanza seguendo le indicazioni dell’amica.
Su una sedia c’era la borsetta di Amy. Kono la rovesciò sul tavolo, prendendo in mano il portafoglio. Nella borsa c’erano meno di cinquanta dollari e pochi spiccioli, i documenti di Amy, la tessera della videoteca. C’erano anche uno scontrino spiegazzato del supermercato, del giorno precedente, un rossetto, un pacchetto di fazzoletti di carta e pochi altri effetti personali, tutti frammenti di una vita ormai spezzata. Nicole alzò la testa, socchiudendo gli occhi. Steve lo notò e si avvicinò.
«A cosa stai pensando?».
Nicole non rispose ma girò lo sguardo intorno. Nel piccolo camerino non c’era molto altro, eccettuato un piccolo guardaroba aperto con i costumi di scena e alcune parrucche che indossava Amy per rappresentare il suo personaggio.
«Manca qualcosa» mormorò infine. «Non c’è il suo cellulare. Quale ragazza di venticinque anni, nel ventunesimo secolo, non ha il cellulare?».
Anche Steve si guardò intorno. «Hai ragione. Potrebbe averlo preso l’assassino. Ragazze, direi che è evidente che Amy non è stata uccisa qui. Raggiungiamo gli altri e vediamo se loro sono riusciti ad arrivare a qualcosa di concreto».
Steve si fermò sulla soglia del teatro dove Chin stava interrogando il direttore della compagnia teatrale. Era un tipo sulla quarantina, che vestiva un costoso completo di sartoria.
«Non riesco davvero a crederci» mormorava in continuazione. «La scomparsa di Amy mi sconvolge profondamente».
«Signor Masters, capisco la sua confusione. Ricorda di aver notato qualcosa di strano sul conto della signorina Clark?».
 «No, nessuna stranezza» rispose, passandosi una mano fra i capelli brizzolati. «Era una ragazza a posto, niente colpi di testa. Non capisco come possa essere successo».
«C’era qualcuno che poteva avercela con lei?», insisté Chin.
Masters lo guardò stranito. «Non saprei. Credo di no».
«Va bene, grazie signor Masters».
L’uomo uscì ciondolando, raggiungendo alcuni attori che facevano capannello nel foyer. In quel momento il cadavere di Amy sfilò racchiuso in un sacco di plastica nera. Max salutò i Five-0, assicurando che avrebbero avuto i risultati dell’autopsia al più presto.
Danny uscì da un’altra stanza e si avvicinò a Steve.
«Forse abbiamo qualcosa. Ho interrogato una delle attrici. Ricorda che due giorni fa Amy e la sua migliore amica, Jenny Huston, hanno litigato in maniera piuttosto animata. Pare che siano quasi venute alle mani».
«La causa del litigio?» chiese Steve.
Danny scosse la testa. «Non lo sa. Ma dice che Jenny era gelosa di Amy».
«Credo sia il caso di interrogare questa signorina Huston» evidenziò Steve. Poi si voltò verso le due donne. «Kono, tu e Nicole perquisite il camerino della Huston».
Nel frattempo, Danny aveva chiesto alla ragazza di farsi avanti. Jenny Huston aveva più o meno la stessa corporatura di Amy. Aveva i capelli castani e gli occhi arrossati dal pianto. Si soffiò il naso mentre Danny la faceva accomodare gentilmente su una delle poltrone del teatro.
Steve rimase in piedi davanti a lei, facendo cenno a Danny di cominciare.
«Signorina Huston, sappiamo che era molto in amicizia con la vittima. È così?».
Jenny annuì, facendo traboccare le lacrime dagli occhi. «Sì, eravamo molto amiche. Condividevamo un appartamentino a pochi isolati da qui. Non era il primo spettacolo a cui lavoravamo insieme e non sarebbe stato l’ultimo».
«È vero che avete avuto un litigio qualche giorno fa?» indagò Danny, e la donna alzò la testa sorpresa.
«No… o meglio sì, abbiamo avuto una discussione. Niente di più».
«Ci è stato riferito che il vostro confronto è stato piuttosto acceso» intervenne Steve. «Qual è stato il motivo della lite?».
Jenny soffiò di nuovo il naso. «Nell’ultima settimana, Amy era diventata strana. Rientrava a casa tardissimo e sembrava assente. Arrivava tardi alle prove, dimenticava le battute. Non era più lei».
«È stato questo il motivo per cui avete litigato?» chiese Danny e la ragazza annuì.
«Due giorni fa, stanca di questa situazione, l’ho affrontata. Le ho chiesto il perché di quello strano comportamento e mi ha risposto di non immischiarmi nei suoi affari. Poi è arrivato Masters e mi ha ordinato di smetterla e lasciarla in pace».
«Masters?» chiese Steve. «Il direttore? Perché avrebbe dovuto intimarle di lasciare in pace Amy?».
«Amy era la sua stella» mormorò Jenny con una punta di acidità nella voce, tanto che Danny e Steve si scambiarono un’occhiata. «Era una brava attrice e lui aveva una predilezione per lei. Ci teneva che non si stressasse troppo, che la sua bellezza non si sciupasse. Amy era la sua gallina dalle uova d’oro».
Il tono di Jenny nascondeva una sottile vena di astio, che non sfuggì ai due detective.
«Signorina Huston, dov’è stata nelle ultime due ore?» chiese Steve.
«Nel mio camerino. Ho ripassato la parte perché oggi avremmo avuto la prova generale». Lo sguardo della ragazza vagava da Danny a Steve. Sembrava impaurita.
«Qualcuno può confermarlo?».
«No, ero sola» mormorò Jenny con voce spezzata.
In quel momento però Nicole comparve sulla soglia e fece loro un cenno, invitandoli ad uscire. Steve si scusò e seguì Danny fuori dalla stanza.
«Cosa c’è?» chiese e, per tutta risposta, Nicole gli porse un sacchetto trasparente. Dentro c’era pennello da trucco. La parte posteriore era sottile e acuminata ed era chiaramente imbrattata di sangue.
«L’abbiamo trovato nascosto sotto il guardaroba del camerino di Jenny. Dobbiamo verificare che il sangue sia di Amy e che le impronte coincidano con quelle della ragazza».
Danny prese il sacchetto, rigirandolo tra le mani.
«Vediamo di fare un po’ di chiarezza. Quella che potrebbe essere l’arma del delitto la troviamo nel camerino di una ragazza che ci ha appena fatto capire di avere un possibile movente per l’omicidio, la gelosia per il trattamento di favore che Master riservava ad Amy. Hai colto anche tu?» chiese a Steve che annuì. «Per finire, ha un alibi che non sta in piedi nemmeno se puntellato. Che intendi fare, Steve?».
Steve sospirò e prese le manette. «Non credo di avere molta scelta».
Rientrarono e Jenny alzò la testa. Aveva ancora gli occhi rossi per il pianto e continuava a torcere il fazzoletto fra le mani piccole e delicate.
«I miei agenti hanno perquisito il suo camerino. Hanno trovato l’arma del delitto sporca di sangue» disse lentamente Steve. «Si alzi, signorina Huston».
La donna parve non capire. Scosse la testa aprendo la bocca per parlare e richiudendola immediatamente.
«Prego, si alzi» ripeté Steve e Jenny scosse ancora il capo.
«Non sono stata io. Non l’ho uccisa. Ma come potete pensare una cosa del genere?» sbottò infine e Steve la fece alzare tenendola fermamente per un braccio. Torse con delicatezza quello stesso braccio all’indietro, facendo scattare le manette ai polsi della ragazza.
«Jenny Huston, la dichiaro in arresto per l’omicidio di Amy Clark. Ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualunque cosa dirà potrà essere usata contro di lei in tribunale».
Steve la sospinse fuori e la consegnò ad uno degli agenti tra il brusio stupefatto degli altri attori della compagnia.

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Capitolo 7
*** Questi due mi faranno diventare pazzo, già lo so ***


Capitolo 7
Questi due mi faranno diventare pazzo, già lo so
 

Nicole era nell’ufficio di Steve quando arrivarono Chin e Kono. Erano stati nell’appartamento che Jenny condivideva con la vittima e si erano guardati un po’ in giro, nella speranza di trovare qualche indizio.
«Non abbiamo trovato niente, capo» esclamò Kono. «Però nella rubrica del cellulare di Jenny abbiamo trovato il numero di Amy. Il suo cellulare comunque non si trova, nemmeno nell’appartamento. Abbiamo provato a chiamare il numero ma non risponde».
«Però abbiamo recuperato il suo computer portatile» disse Chin, porgendolo a Nicole.
«Davvero non riesco a credere che sia stata lei. Sembrava così provata, così disperata per la scomparsa dell’amica» borbottò Nicole.
«Non hai visto ancora nulla, Nicole. Ci sono assassini che nemmeno se presi in flagranza di reato confesseranno mai il loro crimine, continuando a mostrarsi angosciati dalla perdita» intervenne Chin.
«Sarà. Ma sono convinta che ci sfugga un particolare». Poi si rivolse a Kono. «Se mi dai il numero di Amy posso recuperare l’elenco delle ultime chiamate effettuate e ricevute».
Mentre Nicole si dedicava a questa ricerca e ad esaminare il computer di Amy, rientrò anche Danny che aveva terminato gli interrogatori. Diverse attrici avevano confermato che Jenny era stata messa da parte per l’ultimo spettacolo in favore di Amy e ricordavano che non l’avesse presa per niente bene.
 Nicole recuperò l’elenco delle ultime chiamate. Nell’ultima settimana aveva ricevuto molte chiamate da uno stesso numero, telefonate a cui non aveva risposto. Nicole provò a lanciare una ricerca sul numero ma non riuscì a trovare nulla. Quando entrò nell’ufficio di Steve per comunicargli i risultati della ricerca, l’uomo era al telefono ma le fece cenno di entrare e accomodarsi, terminando la chiamata dopo un meno di un minuto.
«Ho preso appuntamento per la tua macchina all’officina del Dipartimento, in modo che possano montarti sirena e lampeggianti. Domattina devi portarla al deposito, passo a prenderti io. Mi hanno assicurato di riuscire a prepararla per domani sera».
«Mahalo. Spero che non mi rovinino la macchina. Potrei uccidere per molto meno» ridacchiò e Steve si affrettò a tranquillizzarla.
«Mi sono raccomandato che il lavoro sia completamente invisibile, come sulla mia Camaro».
«Bene. Senti, ho controllato il numero di Amy. Risultano molte chiamate a cui non ha risposto, tutte fatte da uno stesso numero. Ma deve trattarsi di un cellulare non registrato. Non posso rintracciarlo».
«D’accordo. Vai avanti con i lavori del caso Alvarez. Per il resto, attendiamo i risultati dell’autopsia».
La giornata trascorse tranquillamente. Con l’aiuto di Chin, Nicole catalogò tutti i filmati registrati durante la retata al Moonlight. Il giorno seguente avrebbero steso i rapporti e consegnato il tutto al giudice. Nicole non si accorse del tempo che passava finché Chin non si strofinò gli occhi.
«Direi che per oggi può bastare. Ma come fai a stare tutto il giorno davanti al computer? Io ci vedo doppio».
«Questione di abitudine» rispose Nicole, cominciando a spegnere le sue apparecchiature. Poi salutò Steve e Danny e uscì.
Mentre entrava nel suo appartamento, ricevette un sms. Steve l’avvisava che l’avrebbe chiamata dopo cena, cosa che fece. Rimasero a chiacchierare per un bel po’ prima di darsi la buonanotte.
Il mattino seguente Nicole consegnò l’Audi al meccanico del Dipartimento, raccomandandogli di fare un bel lavoro. Steve arrivò subito dopo e si diressero insieme in ufficio. Mentre guidava, Steve prestava pochissima attenzione alla strada, più occupato a chiedersi come mai fosse così contento di vedere Nicole.
«Cosa ti frulla per la testa, Steve?» domandò la donna quando parcheggiarono la Camaro.
«Mi chiedevo se domenica avessi già qualche altro impegno».
«Sono assolutamente libera. Dove mi porti?».
«Ti va di passare la giornata con me?» chiese Steve guardandola negli occhi. «Però vorrei farti una sorpresa. Ti fidi abbastanza?».
Nicole si passò una mano fra i capelli, scostando dal viso alcune ciocche ribelli. «Certo che mi fido, Steve» sussurrò. La sua voce sembrava miele che cola e fece scorrere un brivido lungo la schiena dell’uomo.
Quando arrivarono in ufficio, Danny li bloccò in mezzo alla stanza.
«Max ci ha fatto avere i risultati dell’autopsia. Avevi visto giusto, Nicole: Amy non è morta a causa della ferita al collo. È stata strangolata».
«Dimmi che Max ha trovato qualcos’altro» supplicò Steve.
«Ha analizzato le impronte sul pennello da trucco e non ce ne sono altre se non quelle di Jenny. Però ci sono tracce di DNA sotto le unghie della vittima, segno che si è difesa dal suo aggressore. Max sta facendo analizzare il tutto».
I risultati dell’analisi del DNA arrivarono nel pomeriggio. Max inviò una e-mail a Danny con i risultati. Il DNA non coincideva con quello di Jenny, anzi apparteneva ad un uomo.
«Lo sapevo che non poteva essere stata lei» mormorò Nicole.
«Non è ancora detto che non sia coinvolta in qualche modo. È molto probabile che Amy sia stata uccisa da uno degli uomini presenti nel teatro. Danny, voglio che li convochi per la prova del DNA».
«D’accordo» rispose Danny, prendendo subito in mano la cornetta del telefono.
Trascorse mezz’ora prima che Danny chiamasse Steve mentre Nicole, che aveva recuperato un bel po’ di informazioni dal laptop di Amy, ne stava discutendo proprio con McGarrett.
«Amy aveva una storia con un uomo sposato a cui voleva mettere fine e ci sono diverse e-mail in cui spiega a questo tizio che vuole lasciarlo. Non ci sono nomi e l’indirizzo da cui scriveva quest’uomo è anonimo. Ho già lanciato la ricerca».
Danny li raggiunse in quel momento. «Abbiamo un problema. Ho provato a contattare Masters ma non sono riuscito a parlare con lui. La sua segretaria, dopo avermi tenuto in attesa un’eternità, mi ha detto che è dovuto partire per il continente».
«Che strana coincidenza, non trovi, Danny?» constatò Steve.
«Controllo subito se ha acquistato un biglietto aereo» esclamò Nicole e sparì nel suo ufficio, lasciandoli a bocca aperta.
«Esegue i tuoi ordini senza che tu li esprima a voce alta? Il sogno di ogni uomo» scherzò Danny, lanciando un’eloquente occhiata all’amico.
Nicole ritornò qualche minuto più tardi.
«Ho controllato tutti i voli in partenza da Oahu. Nessun biglietto prenotato a nome di Masters. A meno che non abbia usato un nome falso, è ancora sull’isola».
«Bene. Allora penso che sia il caso che andiamo a fare un giretto a casa di questo Masters».
Attraverso il sistema satellitare, Nicole controllò l’indirizzo di Masters. La sua Mercedes era parcheggiata davanti alla porta.
«Il nostro uomo è in casa. Andiamo, Danny. Nicole, avvisaci se si muove».
Erano ormai in prossimità della casa quando Nicole vide che Masters stava uscendo. Caricò una valigia nel bagagliaio e si mise al volante. Nicole riferì a Steve quanto stava accadendo.
«Tranquilla, siamo qui».
Il cancello elettrico della casa si stava aprendo e il muso della Mercedes fece capolino sulla soglia. Steve fece ululare una volta la sirena, attirando immediatamente l’attenzione dell’uomo al volante. Li guardò sbalordito per un istante e all’improvviso accelerò, uscendo in strada.
«Tipica reazione di qualcuno che ha qualcosa da nascondere» commentò Danny, mentre Steve premeva sull’acceleratore lanciandosi all’inseguimento della Mercedes. Sentirono nell’auricolare la voce di Nicole che chiedeva rinforzi.
Percorsero velocemente Waialae Avenue ma non riuscivano a guadagnare terreno. Masters superò un’utilitaria e svoltò a destra sulla Nona Strada. L’auto che aveva superato lo seguì.
«Steve, svolta sull’Ottava» gli ordinò Nicole.
«Non posso. È un senso unico» rispose.
«Lo so. Svolta».
Le immagini rivelavano a Nicole che la via parallela era deserta.
«Non ci pensare, Steve» borbottò Danny.
«Fidati di me» disse Nicole.
Con un grugnito, Steve lanciò la Camaro in una curva strettissima, imboccando la strada a tutta velocità. Danny si aggrappò alla portiera ma non disse nulla.
«Ok, Steve. L’hai superato. Ora svolta a sinistra, dovresti riuscire a sbarrargli il passo».
McGarrett sterzò bruscamente a sinistra e corresse la leggera sbandata della Camaro. Premette il pulsante per far aprire il finestrino e mentre quello scendeva automaticamente estrasse la pistola. Steve pestò sul pedale del freno e la macchina si fermò, bloccando del tutto la via. Lasciò andare il volante e puntò la pistola verso la Mercedes.
Masters stava guardando nel retrovisore e quando girò lo sguardo davanti a sé e si vide la strada bloccata, frenò di colpo arrestandosi a meno di un metro dalla Camaro.
«Tieni entrambe le mani sul volante» gli intimò Steve, spalancando la portiera della berlina. Lo trascinò fuori dall’auto e lo sbatté senza troppi complimenti contro la carrozzeria, rimettendo la pistola nella fondina e prendendo le manette.
Nel frattempo arrivò un’auto della Polizia e ne scesero due agenti a cui Steve affidò Masters, pregandoli di portarlo al quartier generale dei Five-0.
«Bel lavoro, Nicole» disse a beneficio della donna che sapeva lo stava ascoltando.
Quando rientrarono alla base, Danny andò risolutamente verso la donna, scostando una sedia dal tavolo e sedendole accanto, cingendole le spalle con il braccio.
«Tesoro, voglio spiegarti una cosa: il comandante McGarrett è già abbastanza fuori di testa per conto suo. Ti prego di astenerti, in futuro, dal consigliargli di prendere un senso unico contromano o di fare qualsiasi altra manovra strana quando sul sedile del passeggero c’è il sottoscritto».
Nicole era rimasta ad ascoltarlo in silenzio ma quando ebbe finito, scoppiò a ridere.
«Non devi preoccuparti, Danny. Avevo le immagini satellitari sui monitor, non vi avrei mai messi in pericolo».
«Non farci caso, Nicole» intervenne Steve. «Deve sempre trovare qualcosa per cui lamentarsi».
«Nessuno ti ha chiesto niente, McGarrett» sbottò Danny, prima di lasciarsi andare contro lo schienale, passandosi sconsolato una mano sulla fronte. «Questi due mi faranno diventare pazzo, già lo so» borbottò, facendoli scoppiare a ridere.
In quel momento l’agente a cui Steve aveva affidato Masters entrò, spingendo avanti l’uomo ammanettato. Danny lo prese in consegna e lo portò in una delle salette destinate agli interrogatori.
«Perché scappava, Masters?» lo attaccò subito Steve.
«Non stavo scappando» mormorò l’uomo senza troppa convinzione.
«Niente balle, Masters. Ha accelerato appena ci ha visti».
L’uomo scosse la testa. «Ho avuto paura» confessò infine.
«Perché avrebbe dovuto aver paura di noi? Cosa nasconde, Masters?» lo incalzò Danny.
«Non ho nulla da nascondere» esclamò l’uomo ma l’esitazione nella sua voce non sfuggì a nessuno dei due.
«Dove stava andando?».
«Io… veramente…» borbottò, prima di ripiombare nel silenzio.
«Abbiamo trovato la valigia nel suo baule. Stava partendo?».
Masters chinò la testa, restando muto di fronte ai due. Mentre attendevano che l’uomo si decidesse a parlare, qualcuno bussò alla porta. Nicole si affacciò.
«Steve, posso parlarti un attimo? È importante» disse.
Quando l’uomo uscì, Nicole gli disse che era riuscita a risalire all’indirizzo anonimo e gli porse un foglio che lui scorse velocemente. Tutti i tasselli finirono in un attimo al loro posto. «Ottimo lavoro, Nicky» mormorò, e rientrò nella stanza dove Danny stava ancora provando a far parlare Masters.
Steve gli batté sulla spalla per farlo spostare e si piazzò a gambe larghe di fronte all’uomo.
«Avevi una storia con Amy, vero? Ma lei era stanca, voleva qualcosa di più. Così ti ha chiesto di lasciare tua moglie, ma tu, da codardo quale sei, non hai voluto. A quel punto, Amy ti ha detto che voleva lasciarti, ma nemmeno questo ti andava bene. Hai insistito per avere un faccia a faccia con lei, in modo da poterle spiegare il tuo punto di vista. Vuoi terminare tu?».
Masters tacque a lungo e né Steve né Danny proferirono parola. Poi, l’uomo parlò.
«La storia con Amy proseguiva da un po’. Sapevo sin dall’inizio che per Amy non sarebbe stato sufficiente. Però speravo di farmi perdonare agevolando la sua carriera. Sbagliavo. Quando Amy ha detto di volermi lasciare, non ce l’ho fatta. Le ho chiesto se potevamo vederci e lei ha acconsentito. Non volevo ucciderla, ma quando ha continuato a ribadire che voleva troncare, ho perso la testa». La voce di Masters si spense in un singhiozzo.
«E per tentare di scagionarti hai provato a fare incolpare la Huston, vero?» sollecitò Danny.
«Le avevamo viste tutti litigare qualche giorno prima, poteva essere un movente. Così ho rubato il pennello dal camerino di Jenny».
Danny alzò la testa verso Steve. «Abbiamo sentito abbastanza. Portalo via, Danno» mormorò schifato, uscendo dalla stanza. Raggiunse Nicole e gli altri in sala relax e prese una tazza di caffè.
«Masters ha confessato l’omicidio. Ha tentato di far incolpare Jenny, ma è stato lui e ha fatto tutto da solo. La prova del DNA lo inchioderà definitivamente».
Kono diede un pugnetto scherzoso sulla spalla dell’amica. «Complimenti per l’intuito, Nicole».
«Era solo un’impressione, niente di più» si schermì la donna ma Chin liquidò l’affermazione con un cenno della mano.
«Nel nostro lavoro l’intuito conta molto. Avevi visto giusto, e questo è un fatto».
«Sì, tu avevi visto giusto» bofonchiò Steve. «E io ora devo andare a chiedere scusa a Jenny Huston per averle fatto passare una notte in cella».
Quando Steve tornò, la giornata volgeva al termine. Nicole lo avvisò che avevano chiamato dall’officina: la RS5 era pronta. Insieme salutarono i colleghi ed uscirono. Chin li osservò mentre percorrevano il corridoio.
«Sono una bella coppia, non credi cugina?» disse, rivolto a Kono.
«Pensi che loro se ne siano già accorti?».
Chin sollevò un sopracciglio. «Dico, hai visto come si guardano?».
«Lo sapete che sembrate due comari?» li rimproverò bonariamente Danny.
Danny sapeva dell’attrazione che Steve provava per Nicole. Dopo quella chiacchierata sul molo all’Aloha Tower però, Steve non gli aveva più parlato della donna. Capì che Steve voleva tenere per sé quella relazione ed era certo che gliene avrebbe parlato non appena fosse stato pronto. Nel frattempo, lui non avrebbe mai rivelato agli altri le confidenze di Steve.
«Coraggio, pettegole. Andiamo a casa» li prese in giro Danny. E uscirono insieme.
Il resto della settimana trascorse tranquillamente e quel venerdì pomeriggio Elliot Reeds telefonò a Steve chiedendogli se, dato che era in zona, poteva fermarsi a scambiare quattro chiacchiere con lui. Steve acconsentì.
Elliot arrivò nel giro di dieci minuti. Kono lo salutò con calore, stringendogli la mano. Sapeva che era un amico di Steve e avevano già lavorato insieme.
Nicole lo sbirciò con curiosità. Era decisamente un bel ragazzo. Sembrava più giovane di Steve, ma aveva lo stesso fisico asciutto e muscoloso. Quando Steve uscì dal suo ufficio per andargli incontro, si accorse che era solo leggermente più basso, nonostante i capelli castani fissati con il gel lo facessero apparire più alto.
«Aloha, Elliot. Vieni, ti faccio conoscere una persona».
Gli presentò Nicole ed Elliot girò su di lei uno sguardo di un inusuale color nocciola, costellato di pagliuzze dorate.
«Aloha, Nicole. Sai, sei decisamente più carina vista da vicino».
Il complimento la zittì. Guardò Steve e lui si mise a ridere.
«Elliot e i suoi uomini si stanno occupando della tua sicurezza ormai da quasi una settimana».
«Oh… penso di doverti ringraziare, allora. Anche se avevo detto a Steve che non era necessario».
«Da quel che ho capito, il tuo nuovo capo è abbastanza protettivo nei tuoi confronti» mormorò, facendole l’occhiolino.
Steve roteò gli occhi al cielo. «Sì, ok. Andiamo nel mio ufficio prima che tu cominci il tuo solito spettacolo».
Elliot ridacchiò e salutò Nicole, facendosi sospingere nell’ufficio di McGarrett.
«Come mai questa visita, Elliot? Ci sono problemi?» domandò, mentre si accomodavano.
«Problemi? No, Steve. I miei uomini hanno compilato i rapporti sulla sorveglianza. Visto che le foto di Nicole mi avevano incuriosito, ho pensato di portarteli di persona».
Steve sogghignò. «Cynthia lo sa che sei venuto per questo?».
«È un colpo basso, brah!» esclamò Elliot. «Comunque anche lei ha visto le foto… e infatti mi ha proibito di occuparmi personalmente della sorveglianza».
«Saggia decisione» approvò Steve. Poi si fece di nuovo serio. «Scherzi a parte, niente da segnalare?».
Steve non aveva nessuna voglia di leggere quei rapporti. Nicole aveva diritto alla sua privacy e lui non voleva invaderla in quel modo.
«No, niente da segnalare. Questa settimana è stato tutto tranquillo. Posso dare il weekend libero ai miei?» domandò Elliot con un sogghigno, ma Steve scosse la testa, ignorando la battuta sibillina dell’amico.
«Sabato dovrai garantirle protezione tutto il giorno. Per quanto riguarda domenica, la passeremo insieme, quindi non voglio vedere in giro né la tua brutta faccia né quella dei tuoi uomini. Ma domenica sera, quando tornerà a casa, voglio che siano in posizione».
Elliot inarcò un sopracciglio. «Domenica sera tornerà a casa da sola?» domandò con una punta d’incredulità nella voce. Steve sollevò una mano a parare qualsiasi battuta. Risero insieme.
«D’accordo, Steve. Ci teniamo in contatto».
Elliot si congedò salutando la squadra che si stava preparando ad uscire. Nicole salì in macchina e Steve si abbassò per parlarle attraverso il finestrino aperto.
«Ci vediamo domenica?» domandò e la donna annuì.
«Ti aspetto al porto. Alle otto».
«Davvero non vuoi dirmi dove mi porti?» domandò e Steve scosse la testa. «Dimmi almeno se devo portare qualcosa» proseguì.
«Tu sarai più che sufficiente» mormorò Steve. «Ma metti il costume da bagno».
Non aggiunse altro e prima che Nicole potesse replicare era già salito sulla sua auto ed era partito.
 
Domenica mattina Nicole arrivò puntualissima al suo appuntamento. Steve le aveva mandato un sms spiegandole dove parcheggiare l’Audi e infatti la stava aspettando, disinvoltamente appoggiato a braccia conserte al bagagliaio della Camaro. Indossava un paio di pantaloncini da bagno verdi e una maglietta dello stesso colore. Alla luce del sole i suoi occhi sembravano riflettere il colore del cielo, più chiari e limpidi del solito.
«Buongiorno» la salutò, facendo scivolare lo sguardo sulla sua figura snella. Indossava un abito bianco di cotone che le arrivava a metà coscia e un paio di sandali bassi, sempre bianchi. Il bianco faceva ovviamente risaltare ancora di più il tono ambrato della sua pelle.
«Che occhi grandi che hai, nonna!» esclamò, segretamente compiaciuta da quell’occhiata di evidente apprezzamento, costringendolo a distogliere lo sguardo.
Lasciarono le auto nel parcheggio e Steve la guidò lungo il molo fino ad un piccolo motoscafo ormeggiato. Saltò a bordo e si girò per aiutarla a salire nonostante fosse agile quanto lui, prendendola per i fianchi e facendola scendere sulla tolda. Lei gli si strinse brevemente contro e poi lo aiutò a sciogliere le cime che legavano il motoscafo alle bitte. Steve avviò il motore e manovrò per staccarsi dalla banchina, uscendo poi lentamente dal porto. Non appena fu in mare aperto, aumentò la velocità.
«E adesso che non posso più sfuggirti, vuoi dirmi dove siamo diretti?».
«Makapu’u» rispose Steve e poi abbassò gli occhi su di lei che lo aveva affiancato al timone. «Davvero pensavi di potermi sfuggire?» domandò.
«Non ci penso nemmeno, Steve» sussurrò, allontanandosi da lui.
Mentre Steve era impegnato a mettere la barca su una rotta adatta a circumnavigare l’isola – Makapu’u era dalla parte opposta rispetto ad Honolulu – Nicole si tolse l’abito, rimanendo in bikini. Quando Steve la vide al suo fianco, il fiato gli si mozzò in gola. Nicole indossava un bikini color cioccolato con un disegno di cuoricini di una tonalità leggermente più scura, decorato con una bordura di roselline fucsia.
Ciò che notò immediatamente fu il modo in cui Nicole “indossava” il sole. La luce sembrava avvolgerla di un alone dorato, scivolando sulla sua pelle come se la donna fosse una creatura uscita da un luogo fantastico. I capelli ondulati splendevano di riflessi bordeaux, e si dispiegavano come un vessillo nel vento relativo. Al centro della distesa piatta del suo ventre occhieggiava la fossetta dell’ombelico, che lo scrutava come l’occhio di un gigante solitario.
«Non ti sembra il caso di tenere gli occhi sulla rotta, capitano?».
«È colpa tua. Non dovresti incantare le persone in questo modo» borbottò Steve e lei rise, facendo balenare i denti bianchissimi.
Steve aumentò ancora la velocità. Il motoscafo batteva sulle onde oceaniche e minuscole goccioline d’acqua li colpivano. Nicole gli posò la mano sul braccio.
«Non credi di essere troppo vestito?» domandò e Steve si sfilò la maglietta, restando in pantaloncini. Nicole lo sbirciò di sottecchi finché Steve, continuando a guardare davanti a sé, sogghignò.
«Ho superato l’esame, agente Knight?».
La donna non rispose ma gli sfiorò il bicipite sinistro.
«Un fiore di loto e un uomo in meditazione… un tatuaggio impegnativo, molto spirituale». Poi si alzò in punta di piedi per sussurrargli all’orecchio, premendogli il seno sul braccio. «Io però preferisco questo» mormorò suadente, sfiorando con la mano aperta l’ampio disegno tribale che aveva tatuato nella parte bassa della schiena, visibile sopra l’orlo dei pantaloncini.
Nicole gli regalò un sorriso e raggiunse il solarium a prua, bilanciandosi perfettamente sulle lunghe gambe.
«Posso godermi un po’ di sole?» domandò e, senza attendere risposta, si coricò sui cuscini. Mentre chiudeva gli occhi era perfettamente consapevole dello sguardo di Steve e non nascondeva a se stessa che si divertiva a provocarlo.
Quando la costa di Makapu’u fu finalmente in vista, Steve diminuì la velocità e prese ad avvicinarsi alla spiaggia. Nicole avvertì il cambiamento di rotta e tornò al suo fianco.
Steve diresse l’imbarcazione verso una stretta lingua di sabbia. Era un posto che aveva frequentato spesso da quando era tornato ad Honolulu perché era abbastanza isolato, accessibile solo dal mare. Sul lato destro c’era un basso promontorio di nera roccia vulcanica che gettava la propria ombra su una spiaggia di sabbia chiara. Steve mise in panne a distanza di sicurezza dal litorale, gettando l’ancora. Il motoscafo prese a dondolare pigramente sull’acqua.
La fortuna era dalla loro perché la spiaggia era deserta.
«Sai nuotare, vero?» ironizzò Steve. Nicole sbatté una volta le lunghe ciglia e scattò verso poppa. Scavalcò il parapetto e si tuffò, scomparendo sott’acqua. Riemerse subito, con i lunghi capelli scuri incollati alla testa, lisci come il manto di una lontra.
Steve si sporse da poppa e Nicole lo raggiunse nuotando a rana. La fissò negli occhi e non riuscì a resistere all’impulso di baciarla perciò si protese ancora di più verso il basso. Nicole si spinse verso l’alto ma prima che le loro labbra si sfiorassero, lo schizzò con l’acqua e nuotò via ridendo.
McGarrett si sollevò, scrollando la testa. Aveva già preparato una borsa impermeabile con il necessario da portare sulla spiaggia. Ci infilò dentro lo zainetto di Nicole e se la assicurò alla schiena. Poi si tuffò. In contrasto con il sole cocente che aveva picchiato sulle loro teste da quando erano usciti dal porto, l’acqua era piacevolmente fresca sulla pelle.
Raggiunsero la spiaggia e Steve la guidò all’ombra delle rocce. Stese a terra due asciugamani che aveva preso dalla borsa e sedette. Nicole raccolse i capelli in una coda e li strizzò dall’acqua in eccesso. Poi sedette al suo fianco con le gambe ripiegate sotto di sé in una posa molto femminile.
«Allora, quante altre donne hai conquistato su questo paradiso?» chiese maliziosa.
«Se riuscirò a conquistare te… una!» esclamò. In effetti, si rese conto di non essere mai andato lì con Cathy né con nessun’altra.
Nicole girò lo sguardo verso il mare aperto. «Ti rendi conto della fortuna che abbiamo a vivere in un posto così?».
«Prova a dirlo a Danny» ridacchiò Steve. «Lui odia le spiagge. Preferisce i grattacieli del New Jersey».
«Non ci credo!» proruppe la donna, spalancando gli occhi. Poi il suo sguardo si addolcì. «Nonostante vi stuzzichiate continuamente, tu e Danny avete un ottimo rapporto, vero?».
«È il mio migliore amico» rispose semplicemente. Poi, di punto in bianco, prese a raccontarle di come si fossero conosciuti e inevitabilmente il discorso andò sulla morte di suo padre. Nicole lo ascoltava tenendo gli occhi fissi nei suoi, incoraggiandolo con qualche mormorio o con qualche pacata domanda quando si bloccava, preda di un’incertezza che non gli aveva mai visto addosso.
«Ma non voglio annoiarti» disse all’improvviso. «Raccontami qualcosa di te. Perché hai deciso di entrare in Marina?».
Nicole si passò le mani fra i capelli ormai asciutti, ravviandoli.
«Potrei dirti che è stato per servire il mio Paese, ma non è così. O meglio, non è stato così all’inizio. In un primo momento si è trattato solo di spirito di contraddizione. Vedi, mio fratello è più giovane di me di appena un anno e mio padre ha sempre pensato che avrebbe seguito le sue orme e che sarebbe entrato nell’Esercito. Ma ad Alex non è mai interessato tutto questo. Perciò, visto che mio padre non mi aveva nemmeno presa in considerazione, decisi di fargli vedere che potevo farcela».
Continuarono a chiacchierare per tutta la mattinata, raccontandosi aneddoti della loro infanzia sull’isola, scoprendo di avere moltissime cose in comune.
«Stai scherzando, vero? Mi chiedi se conosco Mamo? Certo che lo conosco. È stato lui ad insegnare a me e a mia sorella Mary a surfare».
«Hai una sorella?» domandò Nicole, e ricominciarono a parlare finché lo stomaco di Steve brontolò.
«Ehi! Hai fame, Nicky?» chiese.
Steve aveva preparato dei sandwich che consumarono seduti sugli asciugamani, mentre i gabbiani veleggiavano sopra di loro, planando sulle grandi ali. La strada passava abbastanza distante da quel punto della spiaggia perciò il rumore delle auto arrivava a loro attutito, tanto che avevano l’impressione di essere completamente soli.
Quando ebbero finito il pranzo, si distesero sull’asciugamano. Non si toccavano eppure erano acutamente consapevoli l’uno dell’altra. Steve le raccontò di come era stato avvicinato dal Governatore Jameson quando era rientrato ad Oahu per il funerale di suo padre e di come aveva precipitosamente deciso di accettare l’incarico che la donna gli aveva proposto.
«Per me è stata la stessa cosa. Si è svolto tutto in maniera così veloce che in meno di un’ora ero passata da guardiamarina ad agente dei Five-0».
Steve rise fra sé. «Quando il Governatore mi ha telefonato per dirmi che stavi arrivando, avevo dato per scontato che fossi un uomo. Non mi aveva nemmeno detto il tuo nome. Perciò ero così perplesso quando sei entrata in ufficio».
La loro chiacchierata deviò verso il periodo dell’Accademia. Risero di piacere nel ricordare i loro insegnanti ed istruttori. Mentre Nicole gli raccontava di quegli anni, la sua voce ebbe su di lui un effetto rilassante tanto che chiuse gli occhi e, cullato dalle sue parole, si appisolò.
Nicole si accorse che si era addormentato quando non rispose ad una domanda. Si mise a sedere con un movimento lento, stando attenta a non disturbarlo, e lo osservò. Per la prima volta lo vedeva completamente rilassato e la bellezza di quel viso la colpì di nuovo.
Nonostante in quel momento Steve fosse assolutamente abbandonato, forza e decisione restavano incise nel suo volto. Una leggerissima ombra di barba gli copriva le guance e la donna si trattenne a stento dal baciare quelle labbra morbide di cui non aveva certo scordato il sapore.
Sospirando, Nicole girò lo sguardo verso l’oceano. Recuperò il proprio zaino e ne estrasse un piccolo blocco. Trovò una pagina libera e cominciò a disegnare, tratteggiando il promontorio alla cui ombra stavano riposando. Abbozzò la sagoma del motoscafo, aggiungendo gli uccelli che volteggiavano su di esso e un grosso transatlantico che stava passando all’orizzonte.
Steve aprì gli occhi e si sollevò.
«Scusami, mi sono lasciato andare» mormorò, esaminando poi il suo lavoro. «Sei brava» la complimentò.
«Mahalo» lo ringraziò, voltando la testa verso di lui.
Di colpo furono vicinissimi. Le labbra di Nicole erano umide e dischiuse e i suoi occhi si erano fatti più intensi, di uno stupendo color indaco. Stavolta Steve non fece nulla per resistere e la baciò. La sua bocca gli sembrò fresca e rovente al tempo stesso, ghiaccio e fuoco insieme. Si inebriò di lei, lasciando che fosse Nicole a scegliere i tempi. Senza interrompere il bacio, la donna posò blocco e matita sulla sabbia e gli infilò le mani fra i folti capelli scuri. Poi si lasciò andare all’indietro, attirandolo su di sé.
Steve cercò di sostenersi con un braccio, in modo da non pesarle addosso, ma Nicole inarcò la schiena e Steve la sentì contro di sé. Si abbassò su di lei, sentendo il seno premere contro i muscoli del petto e chinò il capo per sfiorarle la pelle delicata del collo con le labbra, sentendola tremare al tocco.
«Steve» esalò.
Lui si fermò, sollevandosi e guardandola negli occhi. Aveva il respiro accelerato e lui sentiva chiaramente ogni ansito, ogni sussulto di quel corpo premuto contro il suo.
E all’improvviso lei alzò il capo e catturò di nuovo la sua bocca. Steve avvertì una nuova urgenza in quel bacio, una sorta di frenesia che lo contagiò, sicché quando lei schiuse le labbra affondò la lingua nella sua bocca. La risposta di Nicole fu immediata.
Spostò una gamba intrecciandola alla sua e, spingendolo con il bacino, lo rovesciò sulla schiena. Con lo stesso movimento si mise a cavalcioni su di lui, lasciando che i capelli scendessero a solleticargli il viso.
Steve rimase immobile. Sapeva che in lei c’erano ancora delle resistenze e non voleva fare nulla che potesse spaventarla. Lei gli passò le mani sul petto e stavolta fu lui a fremere.
Si baciarono di nuovo e mentre Steve cercava di mantenere una parvenza di lucidità in quel turbine di emozioni che li stava travolgendo, lei si abbassò ancora di più e gli sfiorò il lobo dell’orecchio con la punta della lingua. Tanto bastò per ridurre a brandelli la ferrea decisione di un ex Navy SEAL ed il proposito di McGarrett di restare immobile fallì miseramente. QQuasi animate di vita propria, le sue mani si sollevarono a cingerle i fianchi.
Le accarezzò la schiena liscia, sfiorandola con le dita. Le sue mani si fermarono sul gancio del reggiseno e, mentre si chiedeva fin dove poteva spingersi, entrambi udirono delle risate. Nicole sollevò la testa, girandola in direzione del rumore.
Dall’altra parte della spiaggia c’era un gruppo di ragazzi. Avevano sceso la scogliera e ora si stavano togliendo i vestiti. Ben presto furono tutti in costume e si lanciarono in acqua tra urla e strepiti. Era evidente che, nonostante la presenza del motoscafo, non si erano resi conto di non essere soli.
«Ho la pistola nello zaino: potrei spaventarli» bofonchiò Steve con voce roca e Nicole ridacchiò. Poi, con unico movimento fluido, si alzò in piedi.
«Ti va una nuotata?» chiese, tendendogli le braccia.
Entrarono in acqua tenendosi per mano e si immersero insieme. L’acqua era di una limpidezza straordinaria e la barriera corallina scintillava di colori. I pesci multicolori nuotavano placidamente attorno a loro, per nulla spaventati dalla loro presenza, o sfrecciavano tra i coralli scolpiti in forme bizzarre e fantastiche.
Quando tornarono a riva, il calore si era fatto meno intenso perciò spostarono gli asciugamani e si stesero a prendere il sole. Anche il gruppetto di ragazzi era uscito dall’acqua e ora stavano seduti sulla sabbia. Avevano portato una radio e la musica arrivava smorzata fino a loro, facendo da sottofondo alla loro conversazione.
Ad un certo punto Steve controllò l’orologio.
«Mi spiace piccola, ma credo sia meglio rientrare».
Raccolsero in fretta le loro cose e tornarono a nuoto alla barca. Steve ritirò l’ancora e avviò il motore. Mentre rientravano il cielo si colorò di rosso e arancione, gettando riflessi aurei sul mondo. Nicole si mise al timone e Steve rimase dietro di lei, appoggiato alla sua schiena, baciandole teneramente il collo mentre lei ridacchiava, mostrandogli la pelle d’oca che gli provocava sugli avambracci.
Una volta entrati in porto, assicurarono l’imbarcazione al molo e tornarono alle auto. Steve si appoggiò alla fiancata della Camaro aprendo le braccia per accogliere Nicole, intrecciando le mani dietro la sua schiena e bloccandola contro di sé.
Nicole sospirò soddisfatta. «Direi che puoi ben dire di aver conquistato una donna sulla spiaggia di Makapu’u» mormorò, alludendo alla battuta che aveva fatto appena arrivati.
«Ti ho già conquistata, Kalea? Non è stato poi così difficile».
Nicole fremette nel sentirgli pronunciare il suo nome hawaiano. «Mi avevi già conquistata ancor prima di partire, comandante».
Si salutarono con un bacio. Nicole si mise al volante e avviò il motore. Poi aprì il finestrino opposto e lo chiamò.
«Spero che tu non abbia impegni per sabato prossimo. Ti porto fuori a cena. Ci stai?».
«Certo che ci sto. Dove mi porti?» domandò, e Nicole rise.
«Non sei l’unico capace di fare sorprese, sai? Ci vediamo domani in ufficio» esclamò, facendo rombare il motore e allontanandosi velocemente.
Steve rimase a guardarla poi salì in macchina e chiamò Elliot per sincerarsi che i suoi uomini fossero in posizione.

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Capitolo 8
*** Il desiderio di stare con te è più forte ***


Capitolo 8
Il desiderio di stare con te è più forte

 
Nicole era stata reticente per tutta la settimana sulla destinazione di quella sera. Steve aveva provato a farla parlare ma non era riuscito a scucirle nulla.
Nella sede dei Five-0 era regnata calma piatta. Era la prima volta in otto mesi che riuscivano a trascorrere una sola settimana senza casi speciali da risolvere. I Five-0 avevano trascorso quelle giornate in parte sistemando rapporti che erano andati accumulandosi in quei mesi di lavoro e in parte allenandosi nella palestra e al Poligono del Dipartimento.
Dopo la gita in barca, Steve e Nicole si erano rituffati nel lavoro evitando di mostrare la loro situazione agli altri. Non si sentivano ancora pronti ad uscire allo scoperto, anche se ad entrambi dispiaceva mentire così agli amici.
Ma per quanto cercassero di non farsi notare – o forse proprio per questo – risultavano assolutamente evidenti le occhiate che si lanciavano e il modo in cui si sfioravano non poteva essere preso per involontario.
Per la cena di quel sabato, Steve si preparò con più cura del solito. Nicole l’aveva pregato di vestirsi casual perciò aveva indossato un paio di jeans neri e una camicia bianca. La donna gli aveva chiesto di passare a prenderla e lui arrivò sotto il suo palazzo in Waykolu Way e la chiamò.
«Nicky, sono appena arrivato. Ti aspetto in macchina».
«Ehm… Steve, sono un po’ in ritardo. Scusami» rispose lei.
«Non c’è problema. Aspetterò».
«Ti prego, sali. Quattordicesimo piano, appartamento A».
Nicole insisteva, perciò Steve parcheggiò la Camaro ed entrò nel palazzo. Prese l’ascensore e raggiunse il quattordicesimo piano. Il suo appartamento era proprio di fronte e lui suonò il campanello. Nicole aprì la porta e il suo cuore perse un battito.
Indossava un vestito con le spalline sottili dello stesso tono di viola dei suoi occhi. Era pochissimo truccata – non ne aveva bisogno, in effetti – e i capelli ondulati erano raccolti e tenuti fermi da uno spillone.
«È assolutamente inconcepibile che tu sia così bella» mormorò Steve, abbassandosi per baciarle la guancia. Lei rise di piacere e si scostò per lasciarlo entrare.
«E komo mai [1]» lo accolse, mentre Steve si guardava intorno incuriosito.
L’anticamera d’ingresso era delimitata da un muro di vetrocemento azzurro. Nicole gli fece strada, introducendolo in un ampio soggiorno in cui era piazzato un divano blu che faceva da divisorio rispetto alla zona cucina. Sulla parete di destra si apriva una portafinestra che dava su un piccolo terrazzo. L’arredamento era di tipo moderno, con i pensili della cucina di colore azzurro, e un tavolo rotondo in cristallo. Dietro il tavolo si apriva un arco oltre il quale s’intravedeva la camera da letto. Nicole era rimasta in silenzio mentre lui si guardava intorno.
«Allora? Che ne pensi?».
«Hai un bellissimo appartamento». Steve raggiunse la finestra e osservò la città dall’alto. Il rumore del traffico arrivava smorzato e ovattato. «Ti piacciono il blu e l’azzurro, eh?».
«Erano i miei colori preferiti ancor prima di incrociare il tuo sguardo» sussurrò in risposta, e Steve sorrise ma non disse niente, continuando a guardarsi intorno. Alle pareti erano appesi alcuni quadri, vedute sognanti ed eteree di spiagge e paesaggi che ricordavano molto le Hawaii. Nicole seguì la direzione del suo sguardo.
«Li ho fatti io», spiegò.
«Sono bellissimi, davvero».
La donna lo sogguardò per un momento, mordicchiandosi nervosamente l’unghia del pollice.
«Sai, ti ho mentito, Steve. Stasera non usciamo a cena».
Steve corrugò la fronte e solo in quel momento si accorse del tavolo preparato per due e del buon profumo di cibo che aleggiava dentro la casa.
«Ho cucinato per te» disse lei semplicemente e Steve sorrise.
Nicole lo fece accomodare sul divano e gli servì un cocktail. Somigliava ad un Blue Hawaii ma doveva aver usato pochissimo Curaçao perché l’alcol si sentiva a malapena.
Per cena mise in tavola un succulento piatto di pollo accompagnato da una gustosa crema all’ananas. Erano gusti tipicamente hawaiani che Steve apprezzava moltissimo. Il cibo era squisito, la compagnia deliziosa, tanto che Steve si sentì completamente a proprio agio.
Mentre gustavano il dessert, una morbida torta al cocco, Steve le fece di nuovo i complimenti per i quadri e lei si allontanò un attimo. Quando tornò aveva in mano un voluminoso album e propose di spostarsi sul divano, in modo da potergli mostrare i suoi lavori.
McGarrett sfogliò con reverenza l’album che lei gli porse. C’erano molti paesaggi in stile fantasy, ma alcuni erano reali e Steve ne sollevò uno, una veduta di montagne ammantate di vegetazione.
«Sembra la zona di Ko’olau» e Nicole confermò che si trattava proprio di quella località.
«Mio padre mi ci portava spesso. Abbiamo passato diverse domeniche a scalare quelle cime e quando l’ho battuto mi è sembrata la cosa più bella del mondo. Una volta ci ho portato anche Danny. E siamo riusciti a trovarci da lavorare anche lì» rise lui.
Così le raccontò di quando lui e Danny erano saliti per osservare i petroglifi che rendevano famoso il luogo. Avevano trovato un corpo e Steve si era calato lungo una sporgenza rocciosa per esaminarlo. Nel risalire si era aggrappato ad una roccia mobile che era franata, facendolo precipitare. Si era rotto il braccio sinistro e Danny era salito in cima alla montagna finché era riuscito ad agganciare il segnale e a chiamare aiuto.
«Certo che voi due i guai li andate proprio a cercare» scherzò la donna.
Steve lanciò uno sguardo all’orologio. «Caspita, sono quasi le due».
La serata era davvero volata via e Steve si alzò per congedarsi. Nicole lo accompagnò alla porta e lui abbassò il capo e le sfiorò le labbra con le proprie.
«Buonanotte, piccola» sussurrò.
«Buonanotte» rispose lei sorridendo e lo osservò mentre si allontanava verso l’ascensore.
All’improvviso quei cinque anni di solitudine le caddero addosso e ne sentì il peso come mai prima di allora. Nello stesso istante, capì con estrema chiarezza che era innamorata di Steve e che non poteva lasciarlo andare via, non quella sera. Lui era già arrivato all’ascensore quando lo chiamò.
«Steve».
Ai suoi orecchi suonò come una preghiera e si voltò. Lei era ancora lì, sulla porta. In tre lunghi passi la raggiunse e le prese il viso fra le mani. La baciò, mentre la sospingeva in casa e con il piede faceva chiudere la porta. La bloccò contro il vetrocemento, continuando a baciarla, interrompendosi di tanto in tanto per guardarla negli occhi. Lei gli si aggrappò e Steve sentì il calore delle sue mani attraverso il cotone della camicia.
Sembrava passata un’eternità quando Nicole lo allontanò da sé e, senza dire una parola, lo prese per mano. Chiuse a chiave la porta e lo condusse in camera. Non aveva acceso la luce, ma quella che filtrava dalla portafinestra aperta era più che sufficiente. La stanza aveva i mobili chiari ma le pareti erano dipinte di azzurro tanto che a Steve parve di essere immerso in uno dei suoi quadri.
Non aveva comunque né tempo né desiderio di guardarsi troppo intorno, completamente preso dalla donna che si fermò davanti a lui. Lei lo baciò, ma stavolta Steve avvertì che era cambiato qualcosa. Nicole gli si strinse contro, aderendo a lui per tutta la lunghezza del suo corpo, e le sue mani lo accarezzarono sulla schiena e sui fianchi.
Nicole afferrò la camicia e gliela tirò fuori dai pantaloni, andando poi a cercare i bottoni. Aprì lentamente un bottone alla volta finché infilò le mani nell’apertura e gli circondò i fianchi, salendo poi sulla schiena, accarezzando i muscoli lisci e sodi del dorso. Senza mai interrompere il contatto con la sua bocca, gli accarezzò il ventre e il petto finché posò le mani sulle sue spalle e fece scivolare a terra la camicia.
Per tutto quel tempo le mani di Steve erano rimaste posate sui fianchi di lei, ma ora le mosse, sfiorandole la schiena fino a quando si fermarono sulla cerniera del vestito. La tirò delicatamente verso il basso e poi le sfilò le spalline dell’abito finché cadde a terra, allargandosi ai suoi piedi come una pozza di colore. Si liberarono entrambi delle scarpe e Steve la spinse verso il letto, mentre la bocca di Nicole non gli dava tregua.
Steve sfilò lo spillone che le tratteneva i capelli, lasciando che quella cascata le scendesse sulla schiena e lei lo fece sedere sul letto. Si liberò della biancheria e gli regalò la visione del suo corpo. Steve si accorse che fremeva, come se il suo sguardo la stesse materialmente accarezzando. Tese le braccia e Nicole si stese su di lui, riprendendo a baciarlo, mentre lui la accarezzava, assaporando la levigatezza della sua pelle che sembrava seta sotto le dita.
Le mani e la bocca della donna erano una dolce tortura, il suo profumo di vaniglia gli ottundeva i sensi, rendendogli difficile restare cosciente. Di una cosa era del tutto certo: la desiderava, ma non come aveva desiderato le altre donne della sua vita. L’atto fisico dell’amore non era più uno sfogo o un semplice divertimento: era un modo per farla sua, per sancire qualcosa di ben più profondo. E all’improvviso non poté più nascondere a se stesso che era follemente innamorato di lei.
Le mani di lei arrivarono alla fibbia della cintura. Steve inarcò la schiena per aiutarla cosicché potesse sfilargli i jeans e quando fu nudo la fece rotolare sulla schiena, in modo da averla sotto di sé.
Nessuno dei due aveva più parlato, il silenzio rotto soltanto dai loro respiri accelerati. Nicole sollevò le braccia a cingergli la nuca e lo sentì contro di sé.
«Ti prego, Steve. Sono stata sola così a lungo» implorò e lui seppe di non poter resistere oltre.
Cambiò leggermente posizione, ma non la prese ancora. Invece, avvicinò il viso al suo perché c’era una cosa che doveva dirle, qualcosa che gli premeva dentro, qualcosa che chiedeva insistentemente di uscire.
«Aloha au la’oe [2] Kalea» sussurrò e i suoi splendidi occhi viola si spalancarono, diventando tanto grandi da riempirle tutto il viso. Nonostante la scarsa luce, Steve vide una lacrima scenderle dall’angolo dell’occhio e l’asciugò con un bacio, sentendone il sapore salato sulle labbra. Turbato dalla sua reazione, fece per scostarsi ma lei lo bloccò.
«Ti amo» rispose con voce dolcissima e finalmente lo sentì dentro di sé.
A Steve sembrò talmente calda che rischiò di perdere immediatamente il controllo e mentre lei assecondava ogni movimento, sentì una morsa stritolargli il petto, impedendogli quasi di respirare. Capì che era lei che aveva atteso così a lungo e nel momento in cui si stringeva a quel corpo sottile, dopo tanti anni, non si sentì più solo e fu come se lei avesse rimesso insieme i cocci del suo cuore spezzato.
Nei lunghi momenti che seguirono, Steve fu solo vagamente consapevole di ciò che lo circondava, assolutamente concentrato sulla donna che giaceva sotto di lui. E quando lei pronunciò per l’ennesima volta il suo nome, stavolta quasi gridandolo, rallentò il ritmo e la baciò, intrecciando la lingua alla sua.
Nicole arcuò la schiena sotto di lui, rovesciando la testa all’indietro, gli occhi serrati, mentre gli stringeva i fianchi con le ginocchia. Mentre quella bolla di piacere esplodeva nell’intimo della donna, Steve la seguì a ruota, abbandonandosi alla stretta di quelle braccia sottili, respirando il suo respiro, mentre entrambi ansimavano per riprendere fiato.
Quando il cuore di Steve finalmente rallentò la sua galoppata, si scostò da lei con estrema dolcezza, coricandosi al suo fianco. Nicole gli si rannicchiò contro, posandogli la testa sulla spalla muscolosa. Rimasero così, immobili, per un tempo lunghissimo mentre la tenda della portafinestra si muoveva pigramente nella leggera brezza che veniva dall’esterno. Poi la donna si girò verso di lui, posandogli le mani intrecciate sul petto e appoggiando il mento su di esse. Steve le scostò i capelli dalla fronte con una carezza.
«Vorrei essere più bravo con le parole, per poterti dire ciò che sento dentro». Fece una pausa, come se stesse racimolando il coraggio. «Venti giorni fa, quando sei entrata nel mio ufficio, ti confesso che ti ho guardata come penso ti guarderebbe qualsiasi uomo sano che ti incontrasse. Sei una bellissima donna, su questo non ci sono dubbi. E, per di più, io avevo chiuso da due mesi la mia storia con Catherine». Si pentì immediatamente di averla nominata e Nicole dovette avvertirlo perché gli baciò delicatamente il petto e lo incoraggiò a proseguire. «Ma appena ti sei avvicinata, ho sentito un richiamo diverso. Non era un semplice bisogno fisico, quanto piuttosto un’attrazione che mi impediva di starti lontano a lungo. Nonostante ti conoscessi appena, mi sentivo integro soltanto quando eri al mio fianco. Ma a tutto questo andava aggiunto che eri una mia sottoposta e non era né etico né professionale pensarti in certi termini».
Steve piegò un braccio sotto la testa, continuando a guardarla negli occhi mentre proseguiva.
«Spaventato da quello che sentivo e incapace di riconoscere che mi stavo semplicemente innamorando di te, ne ho parlato con Danny». Steve sogghignò al ricordo della conversazione avuta con il suo migliore amico. «Per lui non c’erano dubbi: dovevo lasciare da parte qualsiasi preconcetto e farmi avanti con te».
«Sono contenta che Danny ti abbia spinto a farti avanti» ridacchiò la donna.
«Quella notte al Moonlight, quando Alvarez ti ha aggredita, mi odiai per averti mandata allo sbaraglio in quel modo. Quando ti ho sentita gridare nell’auricolare, mi si è mozzato il respiro. Detestavo che tu fossi lontana da me. Tu te la sei cavata splendidamente, ma quei secondi per me sono stati lunghissimi».
Con la mano libera le accarezzò il viso che la luce della luna che filtrava dalla finestra faceva apparire pallido e sereno. «E poi ti ho baciata sulla spiaggia. Cosa c’è di più scontato di un bacio a Waikiki Beach?».
Nicole si tese su di lui, sfiorandogli il petto con il seno nudo, baciandolo teneramente sulla bocca.
«Non avevo previsto assolutamente che quella serata finisse così. Non c’era nulla di premeditato, eppure quando ti ho baciata, ho sentito che era giusto e naturale che fossimo lì».
Posò le mani ai lati del suo viso, trattenendola accanto a sé.
«I miei dubbi permangono ancora. Ma mi impegnerò con tutto me stesso per far funzionare questa storia con te».
Nicole taceva e Steve fu preso da una certa ansia. Sebbene fosse stato più facile del previsto, non era abituato ad esprimere i propri sentimenti a cuore aperto e improvvisamente ebbe paura che lei non lo ricambiasse allo stesso modo. Aprì la bocca per parlare ma lei gli posò due dita sulle labbra.
«Adesso tocca a me». Trasse un respiro, come preparandosi per un’immersione. «Dopo Patrick non c’è stato più nessun altro. Ho tenuto tutti a distanza, forse per paura di fare di nuovo gli stessi errori. Ma quando ho incontrato te, non è stato più possibile tenerti fuori. Se dicessi che non sono stata colpita dal tuo aspetto fisico mentirei, ma c’era qualcosa di più in te. Leggevo sul tuo viso una forza particolare ed è stato questo carisma ad affascinarmi». Lo baciò di nuovo. «I tuoi dubbi sono anche i miei, credimi. Ma il desiderio di stare con te è più forte».
 Steve l’attirò a sé e la baciò. Fecero di nuovo l’amore, ma stavolta in modo diverso. Ciò che prima era stato tempesta e frenesia, ora lo assaporarono dolcemente, centellinando il piacere, finendo per provare la sensazione di essere slegati dai propri corpi e di fluttuare in un sogno. E quando ritornarono sulla terra, Steve tirò su entrambi il lenzuolo e rimasero a parlottare finché il chiarore del primo mattino s’insinuò nella stanza, dedicando quel tempo ad esplorare le loro menti come avevano fatto con i loro corpi, finendo poi per addormentarsi abbracciati.
 
Nicole fu la prima a svegliarsi. Rimase immobile per non disturbare Steve, che respirava profondamente al suo fianco. Con l’orecchio incollato al suo petto ascoltò i battiti regolari del suo cuore, richiamando alla mente ogni magico momento di quella notte.
Poi, cercando di non svegliarlo, si alzò. Erano le undici e venti e, nonostante le poche ore di sonno, si sentiva assolutamente riposata. Si gettò addosso la vestaglia e si diresse verso il bagno. Ne uscì cinque minuti più tardi, non prima di aver preparato un asciugamano pulito e uno spazzolino nuovo per lui accanto al lavandino.
Steve dormiva ancora perciò tornò a letto e si appoggiò ad un gomito, restando ad osservarlo. Ben presto però non le bastò più e si chinò per baciarlo ma prima che potesse farlo, gli angoli della bocca gli si sollevarono in un sorriso. Steve aprì gli occhi, fissando su di lei i suoi limpidi occhi color verde acqua.
«Aloha» sussurrò lui.
«Eri sveglio, allora» lo accusò la donna e lui sogghignò.
«Era un po’ difficile riuscire a dormire con te che non stai mai ferma».
Nicole sbuffò e gli pizzicò il fianco. «Ti va di fare colazione?».
McGarrett ci pensò su un po’. «Solo se posso cucinare io».
Lei si strinse nelle spalle. «Oh, certo. Fa come se fossi a casa tua. Faccio una doccia mentre tu fai lo chef, ok?».
«E se la doccia la facessimo insieme?» chiese lui con un’occhiata maliziosa.
«Hai sempre idee così interessanti, Steve?» replicò lei.
Si infilarono insieme nell’immensa cabina doccia di Nicole. Ovviamente riuscirono a restare seri per meno di un minuto.
«Ma non avevi detto di volermi lavare la schiena?» chiese Nicole all’improvviso.
«È quello che sto facendo».
«Non mi sembra. Sei decisamente a sud, comandante». Ovviamente tutto terminò fra ansiti e sospiri.
Quando finalmente uscirono dal bagno – Nicole aveva osservato che probabilmente avevano consumato tutta l’acqua del palazzo – erano entrambi affamati come lupi. Steve, vestito solo dei jeans, si mise a rovistare nel frigo per preparare dei pancake. Nicole gli ronzava intorno e lui ogni tanto si chinava a baciarla. Aveva appena messo una cucchiaiata di pastella nel tegame che suonò il campanello. Nicole alzò gli occhi al cielo e gli gettò le braccia al collo.
«Facciamo finta di non essere in casa, che dici?» propose mentre il campanello suonava ancora, premendosi spudoratamente contro di lui. Ma il suo proposito venne subito vanificato.
«Lo so che sei in casa, c’è la tua macchina» urlò Summer, bussando alla porta.
Stringendosi nelle spalle con rassegnazione, Nicole lo guardò negli occhi.
«Scusami. Me ne libero in un secondo».
Nicole spalancò la porta mentre Summer si accingeva a bussare di nuovo. Steve, appoggiato al bancone della cucina, osservava la sua sagoma distorta dal vetrocemento.
«Ciao, Sum» esclamò. «Di certo anche gli inquilini del primo piano ora sanno che sono in casa» borbottò.
La ragazza cercò di entrare ma Nicole le sbarrò il passo. «Come mai da queste parti?» chiese Nicole, cercando di prendere tempo.
«Avevi promesso di chiamarmi. Aspettavo notizie del bel comandante. E su, fammi entrare».
Steve, che aveva inteso benissimo il commento di Summer sul bel comandante, ridacchiò silenziosamente. Di nuovo, Summer cercò di aggirarla, ma Nicole la bloccò.
«Non è un buon momento, Summer». A quel punto, prima di rischiare di rompere un’amicizia, Steve decise di intervenire, dirigendosi verso le due donne.
«Nicky, dove trovo il phon?» domandò, fermandosi di botto quando vide Summer. «Oh, salve» mormorò con cortesia.
I riccioli rossi di Summer sussultarono per la sorpresa mentre i suoi occhi verdi saettavano dai pettorali di Steve al viso di Nicole.
«Scusate, non volevo interrompervi» si giustificò Steve.
Summer ritrovò la voce. «No, dispiace a me di avervi interrotto».
Con un gesto della mano, Nicole li presentò. «Sum, questo è il comandante Steve McGarrett. Steve, la mia amica Summer».
Si strinsero la mano finché Nicole mise fine a quella pantomima.
«Ti chiamo io, Summer».
L’amica capì l’antifona e li salutò in fretta, girando sui tacchi e raggiungendo l’ascensore. Nicole richiuse la porta e scoppiò a ridere.
«La sua espressione mentre ti squadrava era a metà tra quella di un bambino la mattina di Natale e quella di chi sta subendo un colpo apoplettico! Impagabile».
Dopo colazione uscirono e bighellonarono per Kalakaua Avenue, passeggiando mano nella mano. Per chi li osservava era evidente che erano una coppia, e chi li incrociava coglieva immediatamente il legame che li univa. Mentre ritornavano verso il palazzo di Nicole, lo squillo del cellulare di Steve li riportò entrambi sulla terra.
«È Danny» mormorò Steve e accettò la chiamata. «Ciao, Danno».
«Ciao, Steve. Hai qualche impegno stasera?».
Steve strinse i denti. «Ma non avevi Grace questo weekend?».
«Infatti. È proprio lei che mi ha pregato di chiamarti. Vorrebbe che uscissimo per una pizza. E per quanto il mio stomaco si ribelli all’idea che voi due prendiate ananas e prosciutto, mi farebbe piacere la compagnia del tuo brutto muso».
In sottofondo si udì la voce di Grace. «Ti prego, zio Steve». La bambina aveva una vera e propria adorazione per Steve, che chiamava addirittura zio. Dall’altra parte, anche lui le voleva molto bene e in passato avevano trascorso molte serate divertenti in pizzeria o semplicemente a casa sua. Si sentiva combattuto: da un lato non voleva scontentare la piccola – che non vedeva da un paio di settimane – mentre dall’altro c’era Nicole. Fu proprio la donna a risolvere la questione. Aveva sentito la conversazione e ora annuì, facendo cenno a Steve di accettare.
«Ok, Danny. Passi a prendermi tu?». Guardò l’orologio. «Va bene, ti aspetto alle sette. A dopo».
Ripose il telefono in tasca e cinse con un braccio le spalle di Nicole, mentre riprendevano a camminare.
«Mi spiace». Si fermarono accanto alla Camaro e Steve pescò le chiavi dalla tasca dei pantaloni. «Pensavo che avremmo concluso la giornata in maniera diversa».
«Non posso monopolizzarti in questo modo. Anche se nemmeno a me sarebbe dispiaciuto poter passare un altro po’ di tempo insieme. Ma è giusto che tu vada. Ci vediamo domattina, in ufficio».
Rimase in strada finché scomparve alla sua vista, mentre il sole gettava l’ultima luce sul mondo. Poi, con un sospiro di beatitudine, rientrò nel suo appartamento.

 


[1] Benvenuto, in lingua hawaiana
[2] Ti amo, in lingua hawaiana

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Capitolo 9
*** C'è qualcosa che io e Nicole dobbiamo dirvi ***


Capitolo 9
C’è qualcosa che io e Nicole dobbiamo dirvi

 
Steve non ricordava di aver mai vissuto tre settimane più splendide.
I Five-0 erano sempre più stimati in seno al Dipartimento. Erano veloci ed efficienti nella risoluzione dei casi ed erano abbastanza flessibili da sapersi adattare senza problemi alle diverse situazioni. In quelle settimane si erano ritrovati per le mani un altro caso di omicidio con movente passionale e un caso di rapimento a scopo d’estorsione. In entrambe le circostanze, l’aiuto di Nicole si era rivelato preziosissimo.
Parallelamente, sebbene non avessero ancora rivelato ai colleghi che si frequentavano, Steve e Nicole continuavano ad uscire insieme. Si rendevano conto che non era giusto continuare a tenere la cosa sotto silenzio, ma non riuscivano a decidersi a parlarne con loro.
Agli occhi di Danny, che era l’unico a sapere ufficialmente dell’interesse di Steve nei confronti della donna, era evidente che i due avevano fatto qualche progresso. Ma rispettava il silenzio di Steve e non gli avrebbe chiesto spiegazioni. Chin e Kono si limitavano ad osservare la situazione, e si rallegravano del fatto che Steve sembrava aver trovato una serenità nuova.
Era un martedì mattina e Steve stava rientrando allo Iolani Palace dopo un incontro con il capo della Polizia. Elliot lo chiamò mentre era ancora in macchina chiedendogli se potevano vedersi.
«Sono in macchina, se vuoi in cinque minuti sono da te» propose Steve e l’altro acconsentì.
Cynthia lo stava aspettando e lo accolse con un abbraccio. Era alta e sottile, con una soffice corona di riccioli castani ad incorniciarle il volto.
«Aloha, Cynthia. Stai benissimo con i capelli ricci».
Elliot, che l’aveva sentito entrare, venne verso di loro.
«Ehi, ancora non ti sei stancata di questo farabutto?» chiese Steve, con un cenno del capo verso Elliot che nel frattempo li aveva raggiunti e aveva cinto con un braccio la vita della compagna.
«Sì, ma anche volendo cambiare, non potrei: mi ha detto che tu sei già impegnato» rise la donna.
«La tua discrezione è ammirevole, sai?» sbottò Steve e gli altri scoppiarono a ridere.
«Ti va un caffè?» domandò Cynthia, mentre i due uomini si accomodavano nell’ufficio di Elliot. Arrivò pochi minuti più tardi con due tazze di caffè fumante e sedette sul bordo della scrivania, lasciando penzolare una gamba nel vuoto.
«Di cosa volevi parlarmi, Elliot?».
L’amico ruotò sulla sedia, afferrando una cartellina che aprì.
«Sono cinque settimane che sorvegliamo Nicole. In tutto questo tempo non abbiamo riscontrato nulla. Tra l’altro, ho sentito che ci sono ottime probabilità che il soggiorno di Alvarez presso il carcere di Halawa diventi definitivo».
In effetti, il processo era ancora in corso ma sembrava che la condanna all’ergastolo fosse indubbia.
«Pensi che lei sia al sicuro?».
Elliot si strinse nelle spalle. «Se Alvarez avesse voluto davvero farla fuori, avremmo visto qualcosa. Credimi, ho assegnato a Nicole i miei uomini migliori». Mentre parlava allargò le mani. «Ehi, parlo a mio sfavore: se decidi di terminare qui, perdo un lavoro».
Steve prese un sorso di caffè. Il Governatore l’aveva chiamato appena pochi giorni prima e, tra le altre cose, gli aveva chiesto per quanto ancora intendeva tenere l’agente Knight sotto sorveglianza. In effetti, per quanto limitata ai soli momenti in cui Nicole era sola – che tra il lavoro e la relazione con Steve non erano molti – l’operazione che Elliot stava conducendo aveva un costo, che gravava sul Dipartimento. E per quanto la Jameson si coccolasse i Five-0 e fosse sempre pronta a fornire loro assistenza e mezzi, Steve capiva che la cosa non poteva andare avanti in eterno.
«Forse hai ragione. Penso che, dato che non hai registrato nulla di anomalo in queste settimane, possiamo sospendere la vigilanza».
Cynthia annuì. «Di casi come quello di Nicole ne abbiamo visti parecchi. Se non succede qualcosa nei primi giorni, è molto difficile che accada poi».
McGarrett si disse d’accordo. Rimase con loro ancora un po’, prima di rientrare al quartier generale. Quel pomeriggio i Five-0 avevano in programma una riunione a cui il Dipartimento di Polizia li aveva invitati. Nonostante la libertà di movimento di cui godevano, erano equiparati alle forze dell’ordine delle Hawaii e quindi dovevano essere aggiornati su alcune nuove procedure.
Mentre raggiungevano il luogo destinato ad ospitare la riunione, Steve raccontò a Nicole dell’incontro avuto con Elliot.
«Finalmente ti sei deciso. Non ne potevo più di pensare a quei poveretti costretti a passare la notte a sorvegliarmi».
«Poveretti? Evidentemente non hai idea degli stipendi che paga Elliot!» esclamò Danny.
«Beh, non voglio certo pesare sul bilancio del Dipartimento. E poi non ho mai corso alcun pericolo».
 
La sera seguente, al rientro dal lavoro, Nicole parcheggiò la RS5 nel suo posto riservato e salì fino al quattordicesimo piano. Uscì dall’ascensore borbottando irritata perché non riusciva a trovare le chiavi di casa nella borsa.
Mentre avanzava verso il proprio appartamento, cercando a tentoni il mazzo di chiavi, lo sguardo le cadde sulla maniglia della porta, che pendeva verso il basso. Si bloccò e, per istinto, la mano destra andò subito in cerca della pistola, chiudendosi automaticamente sul calcio. La estrasse lentamente dalla fondina, tenendola puntata verso il pavimento.
Camminando con passi felpati si avvicinò all’ingresso, notando che la porta di casa sua era stata forzata. Fece un profondo respiro, lasciò scivolare la borsa dalla spalla e la posò a terra, e alzando la pistola davanti a sé, si preparò ad entrare.
Spinse decisamente la porta e usando la parete di vetrocemento per proteggersi, sbirciò all’interno. Non poteva soffermarsi troppo perciò si sporse, controllando che la stanza fosse libera. Non c’era anima viva ma ciò che notò immediatamente fu lo scempio che era stato fatto dei suoi quadri che giacevano a terra, strappati e lacerati probabilmente con un taglierino. Le tende erano state strappate dai sostegni e gettate intorno. I pensili della cucina erano stati aperti e le stoviglie fracassate sul pavimento.
Controllò il terrazzo e, con il dito pronto sul grilletto, raggiunse la camera da letto. Anche quella era deserta, ma i danni erano i medesimi. Il grande quadro appeso di fronte al letto sembrava essere stato dilaniato da qualche belva mentre i suoi vestiti erano stati tolti dall’armadio e gettati in giro. I cassetti del comò erano stati sfasciati e i pezzi erano sparsi per la stanza. Il portagioie con i suoi gioielli – un regalo di suo padre – era stato con tutta evidenza lanciato contro il muro finendo in pezzi. Collane e orecchini giacevano in un mucchio disordinato e scintillante.
Nicole ispezionò in fretta il bagno – dove lo specchio era stato infranto e i vasetti di cosmetici gettati a terra – e il ripostiglio e poi sedette sul bordo del letto sfatto. Provando un senso d’irrealtà, recuperò il cellulare e chiamò Steve.
«Dimmi, piccola» esclamò con evidente piacere.
«Steve, è meglio che tu venga da me. Qualcuno si è introdotto in casa mia».
«Non muoverti, ok? Arrivo immediatamente».
Steve non perse tempo e tolse la comunicazione. Infilò il giubbotto antiproiettile e si assicurò che la pistola fosse carica. Mise la sicura, afferrò le chiavi della macchina e corse fuori. Partì a sirene spiegate e mentre percorreva come un fulmine le strade di Honolulu, chiamò Danny mettendolo al corrente della cosa. Gli diede l’indirizzo di Nicole, pregandolo di raggiungerlo con Chin e Kono.
Quando uscì dall’ascensore e vide la porta spalancata, il cuore gli balzò in gola. Dimentico della propria sicurezza, si lanciò nel locale.
«Nicole!» la chiamò e la risposta provenne dalla sua stanza.
«Sono qui, Steve».
La trovò ancora seduta sul letto. Aveva tra le mani un pezzo stracciato di tela che Steve riconobbe essere un frammento di uno dei suoi quadri. Quando entrò, alzò su di lui lo sguardo che traboccava di lacrime. Lasciò cadere il brandello di tela e si alzò, facendo un passo verso di lui che colmò in fretta la breve distanza che li separava e la prese fra le braccia.
La strinse al petto, accarezzandole dolcemente i capelli, mentre lei continuava a piangere. Non un singhiozzo scosse il suo corpo, ma le lacrime continuarono a sgorgare sommessamente dai suoi occhi per lunghi minuti. Steve la condusse in salotto, raddrizzando una delle sedie e facendola accomodare.
«Stai bene, piccola?» domandò, e quando lei annuì le accarezzò la guancia. «Non avresti dovuto entrare da sola. Cosa sarebbe successo se fossero stati ancora qui?».
In quel momento risuonò la voce di Danny. «Steve! Nicole!».
«Siamo qui, Danny. È tutto ok».
Quando entrarono, Kono si precipitò dall’amica.
«Stai bene?» le chiese.
Nicole, che nel frattempo si era calmata, si asciugò le lacrime con il dorso della mano. «Sì, ma avrei voluto mostrarvi casa mia in un’altra circostanza» mormorò.
«Com’è andata, Kalea?» chiese Chin.
«Non c’è molto da dire. Mi sono accorta subito che la porta era stata forzata e sono entrata. Non c’era ovviamente nessuno, soltanto questo disastro» spiegò Nicole, con un gesto circolare a indicare la devastazione che era stata operata.
 Con naturalezza, tutti sedettero intorno al tavolo, meno Steve che rimase in piedi, appoggiato a braccia conserte contro il frigorifero.
«Kono, vediamo se riusciamo a recuperare qualche impronta» dispose ma Nicole bloccò l’amica che già stava andando a prendere i suoi attrezzi.
«Non ne troverai» disse semplicemente. «Non è una rapina. È un gesto deliberato».
«Spiegati meglio» replicò Danny.
«I miei gioielli sono tutti di là, sparsi sul pavimento. Però hanno distrutto i miei quadri e fatto volare per la stanza i miei vestiti. L’obiettivo era farmi sapere che erano passati e non si sono nemmeno preoccuparti di camuffarla come una rapina».
«Di chi stai parlando?». Steve slacciò il giubbetto, lasciandolo aperto sul petto.
«Dai, non è difficile capire chi è stato. O meglio, chi è il mandante». Nicole girò lo sguardo su di lui ma notando la sua espressione perplessa si affrettò a spiegarsi meglio. «Il mandante è Alvarez».
«Non mi sembra nel suo stile» obiettò Steve e Nicole si passò una mano fra i capelli.
«Pensaci, Steve: da quanto non sono più sorvegliata?». Di fronte al silenzio di McGarrett, la donna proseguì. «Ieri, per la prima volta, gli uomini di Elliot non hanno vegliato su di me e oggi mi trovo la casa scassinata. Bella coincidenza, non credi? È ovvio che è un messaggio. Alvarez vuole farmi sapere che può arrivare a me in ogni momento».
Il silenzio calò nella stanza mentre ognuno meditava sulle sue parole.
«Potrebbe avere ragione, Steve» intervenne Kono.
Steve non rispose ma raggiunse il terrazzo e rimase a guardare fuori.
«Hai un posto dove stare?» chiese Danny e Nicole sospirò.
«Non posso andare né da mia madre né da mio fratello. Di certo Alvarez si sarà informato su di me e sulla mia famiglia, ma non voglio coinvolgerli più di quanto già non lo siano». Nicole posò i gomiti sul tavolo, chiudendo gli occhi e appoggiando la fronte sulle mani giunte. «Dovrò andare in albergo» mormorò.
«Nicky».
La donna aprì gli occhi e lo fissò. Era la prima volta che Steve usava quel nomignolo in presenza degli altri. Anche Danny inarcò le sopracciglia ma non disse nulla. Nicole lesse nel suo sguardo tranquillo le sue intenzioni e annuì impercettibilmente. Steve si avvicinò e le posò una mano sulla spalla.
«C’è qualcosa che io e Nicole dobbiamo dirvi. Credetemi se vi dico che volevamo comunicarvi questa cosa in modo diverso, ma non c’è tempo per fare le cose per bene».
Nicole colse una leggera esitazione nel suo tono e gli strinse la mano che teneva ancora sulla sua spalla.
«Noi due ci frequentiamo da circa un mese» espresse infine tutto d’un fiato.
Il silenzio che seguì fu lunghissimo e fu Nicole ad interromperlo. «Siamo dispiaciuti di avervi tenuta nascosta la cosa. Siamo stati egoisti, volevamo vivere un po’ di tempo come una coppia normale».
Nessuno ancora parlava ed entrambi cominciarono a preoccuparsi. I Five-0 si erano sempre considerati prima di tutto una famiglia e soltanto ora si rendevano conto di averli in qualche modo traditi. Improvvisamente preoccupato dalle conseguenze, Steve si tese verso Danny.
«Danny, dì qualcosa, ti prego» mormorò e l’altro fissò su di lui i suoi occhi azzurri.
«Non posso parlare per gli altri, però io mi sento profondamente offeso» sbottò.
«Hai ragione, Danny. Ma noi…» cercò di dire Steve ma l’amico lo bloccò alzando una mano.
«Sono decisamente offeso dal fatto che abbiate pensato di poterci fregare. Che gran detective saremmo se non avessimo notato certi strani atteggiamenti sul vostro conto! In un mese non abbiamo fatto nemmeno un’irruzione e non abbiamo appeso nessuno ad un cornicione. La tua faccia da aneurisma sembra essere svanita del tutto, sostituita da un’espressione che prima ti avevo visto solo maneggiando un fucile d’assalto. Quanto a te» e si rivolse a Nicole, «sei stata un’ottima attrice al Moonlight ma quando guardi super SEAL non puoi impedire che i tuoi occhi di glicine scintillino come il sole sull’oceano».
Tanto Nicole quanto Steve erano rimasti immobili ad ascoltare la tirata di Danny. Sulle labbra di Chin e Kono comparve un sorriso ed entrambi annuirono quando Steve li guardò. Scosse la testa, sorridendo a sua volta.
«Te l’avevo detto che se ne sarebbero accorti» disse a Nicole.
«Davvero, ragazzi: non volevamo tenervelo nascosto».
«Non dovete giustificarvi. Penso di poter dire che, nella stessa situazione, ognuno di noi avrebbe fatto lo stesso» affermò Chin.
Steve si raddrizzò in tutta la sua statura.
«Dobbiamo muoverci ragazzi. Kono, tu e Chin fate comunque un controllo, vediamo se troviamo qualche indizio. Nicky, raccogli un po’ di cose. Vieni a stare da me».
Nicole non trovò nulla da obiettare sulla sua decisione. Anzi, il fatto che lui avesse preso saldamente fra le mani la sua vita la fece sentire sicura e protetta. Recuperò il borsone dal ripostiglio e ci mise dentro un po’ di biancheria e qualche vestito che raccolse dal pavimento.
Steve incrociò lo sguardo di Danny.
«Non è una buona idea» borbottò quest’ultimo.
«Non sto pensando proprio niente» ribatté Steve, ma Danny scosse la testa.
«Ti si legge in faccia».
Steve si chinò a raccogliere uno dei quadri, mettendolo in piedi contro la parete.
«E cosa avrei in mente, dottor Freud?» domandò ironico.
«Dimmi che non vuoi prendere la macchina e raggiungere il penitenziario per parlare con Alvarez» disse Danny, squadrandolo.
«Voglio far chiaro su questa faccenda, Danny» esclamò Steve, ma l’amico scosse di nuovo il capo.
«Non ti dirà niente. E, se davvero è lui il mandante, precipitandoti lì non farai altro che confermargli il tuo interesse per lei. E non credo sia il caso».
«Non posso essere semplicemente un capo preoccupato dell’incolumità della sua sottoposta?» domandò Steve e Danny lo scrutò per qualche secondo.
«Una volta ti ho visto gettare uno sconosciuto in una gabbia di squali. Come affronterai uno che ha minacciato la tua donna?».
Steve aprì la bocca per replicare ma la richiuse senza dire nulla.
«Vedi? Ho ragione» fece notare Danny.
Ben presto Nicole fu pronta e tornò in salotto con la sua valigia.
«Gli squali comunque erano fuori dalla gabbia» concluse Steve mentre Chin e Kono li raggiunsero. Avevano fatto alcuni rilievi, ma non avevano trovato nulla di significativo.
«Sei pronta?» chiese Steve e quando lei annuì, le prese la borsa.
«Kono, metti i sigilli alla porta».
Uscirono tutti e rimasero davanti alla porta mentre la donna apponeva i sigilli all’appartamento. Poi scesero fino al parcheggio dove Steve caricò la borsa nel bagagliaio della RS5. Ma bloccò Nicole prima che salisse.
«Aspetta. Chin, verifichiamo che sia sicura».
Entrambi si stesero a terra ed esaminarono il fondo della vettura, in cerca di una bomba che qualcuno poteva aver messo. Non trovarono nulla, ma prima che potesse partire Steve le fece aprire il cofano ed controllò minuziosamente anche il motore.
Finalmente fu soddisfatto ma rimase ad osservare con un filo di apprensione mentre lei premeva il pulsante di accensione. Il motore al minimo prese a fare le fusa tranquillo e Steve le chiuse la portiera, abbassandosi per parlarle attraverso il finestrino aperto.
«Vado avanti io. Danny e Chin ti seguiranno».
Nicole stava per dirgli che le sembrava un po’ esagerato ma la sua espressione la indusse a tacere.
Il corteo di macchine raggiunse in fretta la villetta di Steve in Piikoi Street. McGarrett tirò fuori dal garage la Mercury Marquis del padre, segnalando a Nicole di entrare con la sua macchina. Che fosse Alvarez il mandante dell’atto di vandalismo era tutto da dimostrare, ma era meglio non correre rischi. Meglio evitare che qualcuno potesse avvicinarsi alla sua auto durante la notte.
Salutarono gli amici e Steve recuperò la valigia dal bagagliaio dell’Audi, precedendo Nicole in casa. C’era ovviamente già stata però stavolta era qualcosa di diverso. Per un certo periodo – e non si poteva prevedere per quanto – avrebbero abitato insieme, vivendo a stretto contatto, come una coppia. Una prospettiva che da un lato poteva celare tutta una serie di maliziosi sottintesi mentre dall’altro era abbastanza importante da metterli entrambi leggermente in imbarazzo.
Steve gli portò la valigia al piano di sopra, posandola sul letto. Si voltò e lei si rifugiò nel suo abbraccio.
«Mi dispiace molto per il tuo appartamento. Soprattutto per i tuoi quadri» le disse e Nicole scrollò le spalle.
«Ne dipingerò degli altri» mormorò.
Steve le depositò un bacio sulla sommità del capo, continuando a tenerla abbracciata.
«Preparo la cena, ok?» disse.
«Ti spiace se faccio una doccia?» domandò Nicole.
«Non devi neanche chiedere. Fa come se fossi a casa tua, piccola» rispose.
Le procurò un asciugamano e scese al piano di sotto. Si liberò del giubbotto antiproiettile e si recò in cucina, dove mise sul fuoco una pentola d’acqua. Mentre attendeva che bollisse per buttare gli spaghetti, preparò l’insalata.
Nicole scese poco più tardi, con i capelli ancora umidi sciolti sulle spalle. Mentre lui affettava le verdure, lei preparò la tavola. Poi si appoggiò al bancone della cucina, osservandolo lavorare.
«Grazie» disse all’improvviso.
«E di cosa?» chiese lui, alzando la testa.
Lei si strinse nelle spalle. «Del fatto che mi fai stare qui, che ti occupi di me. Sai, non è male lasciare le redini ad un uomo, ogni tanto».
Dopo cena Nicole disse che avrebbe chiamato la madre per raccontarle l’accaduto e per farle sapere che stava bene.
«D’accordo. Fa’ pure con comodo. Ti aspetto di sopra».
Quando Nicole arrivò in camera, lui sollevò il lenzuolo per accoglierla. Lei gli si raggomitolò accanto e Steve la cinse con il braccio. Rimasero in silenzio e ben presto Steve sentì che la donna si rilassava. Il suo respiro divenne profondo e regolare, segno che si era addormentata. Rassicurato dalla sensazione di quel corpo stretto al suo, si addormentò anche lui.
Si svegliò qualche ora più tardi. Erano quasi le quattro del mattino e Nicole era scivolata giù, rannicchiandosi al suo fianco. Le scostò delicatamente i capelli dal viso e lei sospirò nel sonno.
Muovendosi lentamente per non disturbarla si alzò e scese. Aprì il frigo e bevve un paio di sorsate di succo d’arancia. Fece un breve giro della casa controllando le serrature e sbirciando fuori dalle finestre. Sembrava tutto assolutamente tranquillo, l’unico movimento era quello della risacca che si infrangeva lenta sulla spiaggia.
Quando salì in camera, Nicole continuava a dormire tranquilla e Steve rimase per un po’ in piedi accanto alla finestra. Sentiva un forte senso di protezione verso di lei. Era stato così facile dirle di venire a casa sua. Ma dentro di sé avvertiva una sensazione di disagio. Come un brutto presentimento, come se all’orizzonte si profilasse un’oscura minaccia. Steve possedeva una specie di sesto senso, un’abilità extra che gli permetteva di percepire i guai a chilometri di distanza e questa capacità gli aveva salvato la vita in più di un’occasione. E ora c’era un piccolo campanello d’allarme che suonava nella sua testa, ma il trillo era ancora lontano e lui non sapeva inquadrarlo con sicurezza.
C’era una bestia che si aggirava nel folto, ma era ancora troppo buio per riuscire a scorgerla e a darle una forma. Finché non si fosse rivelata, avrebbe protetto Nicole cercando di essere pronto nel momento in cui questa fosse balzata fuori dall’oscurità.
La voce assonnata di Nicole lo riscosse dai suoi pensieri. «Steve» lo chiamò e lui si voltò.
«Ti ho svegliata io?» sussurrò, avvicinandosi al letto e sedendosi sul bordo.
Nicole scosse la testa. «Problemi?».
Steve le accarezzò la fronte. «No, controllavo la situazione».
«Vieni a letto» lo pregò.
Lui aggirò il letto e si coricò. Nicole gli si fece subito vicina e ben presto si riaddormentò. Ma Steve non riuscì a riprendere sonno così facilmente e rimase sveglio finché la prima luce del mattino fece capolino nella stanza.

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Capitolo 10
*** Non è solo una collega. É anche la mia ragazza ***


Capitolo 10
Non è solo una collega. È anche la mia ragazza

 
Nicole non si era resa conto delle ore che passavano, talmente concentrata nel suo lavoro. Perciò, quando Kono si era affacciata nel suo ufficio, aveva sussultato sorpresa.
«Te ne vai di già?» aveva chiesto prima di guardare l’orologio e rendersi conto di quanto fosse tardi.
«Direi che è il caso che vada anche tu» aveva replicato l’amica.
«Direi di sì» aveva confermato ridendo, cominciando a spegnere i suoi computer.
«A domani, allora».
«Ciao, Kono».
Nicole mise la borsa a tracolla e si diresse verso l’ufficio di Steve. Lui e Danny erano impegnati con il Governatore ma quando Steve la vide al di là della porta di vetro si scusò e uscì.
«Ne avremo ancora per un po’, Nicole».
«Ok, fa’ pure con calma. Io intanto vado a casa. Sono stanca e ho voglia di fare una doccia» disse, ma lui storse la bocca in una smorfia.
«Lo sai che preferisco non lasciarti sola, Nicky».
Nonostante fosse passato più di un mese dall’irruzione nell’appartamento di Nicole e, sebbene in questo mese non avessero avuto nessun segnale di pericolo, Steve non si rassegnava ad abbassare la guardia. La donna viveva ancora con lui e, anche se non ne avevano mai parlato apertamente, entrambi erano stupiti dalla facilità con cui avevano affrontato la convivenza, cosa che spaventava non poco Nicole.
Continuava a ripetere a se stessa che non si trattava di una vera e propria convivenza quanto piuttosto di una situazione determinata da cause di forza maggiore, ma non poteva negare di trovare davvero piacevole la routine che s’era instaurata. Era bello svegliarsi e fare colazione insieme al mattino, andare al lavoro insieme, rientrare la sera e dedicarsi a preparare la cena. E poi c’erano le notti passate a fare l’amore ma soprattutto ad esplorarsi reciprocamente le anime, confessando l’un l’altra delusioni del passato e progetti per il futuro.
La vigilanza di Steve sulla sua sicurezza comunque non si allentava mai e ora, di fronte alla sua affermazione, Nicole sbuffò.
«Oh, andiamo. È passato più di un mese, Steve. Davvero non posso stare un’ora senza che tu mi ronzi intorno?» domandò.
Lui sogghignò. «Ti dà così fastidio che ti ronzi intorno?».
«No, che non mi dà fastidio. Però, provi mai a metterti nei miei panni?».
«Nicky, ho già sottovalutato la situazione una volta quando ho detto ad Elliot di ritirare i suoi uomini. Non capiterà di nuovo. Non ci metterò molto, mezz’ora al massimo».
Nicole alzò lo sguardo verso di lui, scatenandogli contro tutta la potenza di quegli occhi a cui lui non si era ancora abituato.
«Steve, lo so che quanto stai facendo lo fai per il mio bene e per la mia sicurezza. Però non possiamo pensare di continuare così per sempre».
Ne avevano parlato anche un paio di sere prima quando Steve le aveva proibito di uscire con Summer. Lei l’aveva accusato di essere troppo protettivo, ma alla fine aveva ascoltato il suo consiglio e aveva invitato Summer a casa loro.
«Io ho bisogno di un po’ di tempo da sola, Steve. Capisci cosa intendo?».
Sì, certo che la capiva. Ma non riusciva ad abituarsi al pensiero di lasciarla sola, anche se solo per un breve periodo.
«Ti prego» mormorò lei, e di fronte a quella supplica si rese conto di stare esagerando.
«E sia. Va pure. Ma tieni la pistola carica e a portata di mano» cedette infine, consegnandole le chiavi della Camaro, e lei sorrise. Gli porse la bocca da baciare. «Ti aspetto a casa».
La seguì con gli occhi mentre usciva e poi, con un sospiro, rientrò nel suo ufficio, riprendendo la riunione dal punto in cui l’avevano interrotta. Anche se in un angolo della sua mente era sempre presente il pensiero di Nicole, il consueto incontro con il Governatore lo assorbì del tutto. Sicché, quando il suo iPhone squillò, osservò l’orologio e si accorse che era trascorsa un’ora e mezza da quando Nicole se ne era andata.
«McGarrett» rispose, senza nemmeno controllare chi fosse.
«Comandante, sono Duke». Duke Lukela fungeva da intermediario tra il Dipartimento e i Five-0. «Signore, abbiamo un problema con Alvarez».
Steve sentì un brivido corrergli giù per la schiena. «Di che si tratta, Duke?».
«È evaso».
McGarrett scattò in piedi. «Quando è successo?».
«Un’ora fa. Stava ritornando ad Halawa dopo un’udienza al processo e alcuni uomini armati hanno assaltato il blindato su cui lo stavano trasportando. Due dei nostri sono morti e il terzo è ridotto abbastanza male. Ci hanno messo un po’ ad avvisarci ma appena mi è giunta la notizia ho pensato di chiamarla. So che il caso Alvarez era vostro».
«Ha fatto benissimo, Duke. Grazie» esclamò Steve e riattaccò.
Compose subito il numero di Nicole e mentre portava il cellulare all’orecchio, spiegò a Danny e alla Jameson cos’era successo. Il telefono squillò a lungo ma Nicole non rispose. Steve lo lasciò squillare finché entrò in funzione la segreteria e poi riattaccò.
«Maledizione!» imprecò. «Governatore, ci scusi ma dobbiamo andare. Danny, ho bisogno della tua macchina».
Entrambi si precipitarono fuori e Steve si mise al volante dell’auto di Danny, una Camaro identica ma di un grigio più scuro. Mise in moto e mentre si avviava, lasciando sull’asfalto buona parte degli pneumatici, Danny fece partire la sirena e i lampeggianti.
«Danny, chiama un’ambulanza. Dì che ci raggiunga a casa mia»
«Suvvia, Steve. Credi davvero che servirà?».
«Dipende» replicò Steve.
«Da cosa?» chiese Danny mentre faceva partire la chiamata.
«Alvarez è a piede libero da due ore. Se ha deciso di vendicarsi subito e ha tutto questo vantaggio su di noi, potrebbe bastarle il medico legale» ringhiò in risposta, premendo più a fondo l’acceleratore.
 
Nicole uscì dalla doccia e avvolse i capelli in un telo per farli asciugare. Mentre si vestiva, si compiacque di quel momento di libertà che Steve le aveva concesso. Certo, doveva ammettere che la vicinanza di Steve le faceva piacere in modo vergognoso, però lo vedeva spesso teso e nervoso, come se si aspettasse chissà quale attacco da un momento all’altro. Era felice che si fosse tranquillizzato abbastanza da permetterle almeno di tornare a casa da sola.
Si spazzolò i capelli all’indietro, lasciandoli sciolti sulle spalle. Scese al piano di sotto e tirò fuori dal frigorifero le bistecche che aveva messo a marinare quel mattino. Le finestre della cucina affacciavano direttamente sull’oceano che, nella luce del crepuscolo, rumoreggiava inquieto, sbattendo con forza sulla spiaggia.
Si chinò per prendere una padella, ma si bloccò quando una voce che riconobbe immediatamente la salutò.
«Aloha, Nicole».
La donna si voltò e se lo ritrovò di fronte. La parte razionale del suo cervello ci mise un po’ a rendersi conto di ciò che stava vedendo. Alvarez avrebbe dovuto essere in prigione, non era possibile che fosse lì. Eppure, senza alcun dubbio, sapeva che Alvarez era lì solo per lei. La luce fanatica che gli illuminava gli occhi non lasciava dubbi sul destino che le avrebbe riservato.
La mente corse subito alla pistola che aveva lasciato di sopra, nel primo cassetto del comodino dove la riponeva tutte le sere quando tornava dal lavoro con Steve. Ma stasera Steve non c’era. Non aveva nemmeno il cellulare, che aveva lasciato nella borsa che aveva posato sul divano accanto alla porta d’ingresso.
Aveva un’unica possibilità: tentare di prendere tempo. La notizia dell’evasione di Alvarez sarebbe presto arrivata a Steve. E, ne era certa, lui si sarebbe immediatamente precipitato a casa.
«Il ricordo che serbavo di te era imperfetto» disse Alvarez. «Non ricordavo che fossi così bella. Probabilmente il merito è di questa novella storia d’amore con il comandante McGarrett».
Durante quei lunghi giorni in prigione, Tony Alvarez era progressivamente scivolato verso una sorta di pazzia. Aveva sviluppato una morbosa ossessione per Nicole, la donna che reputava l’unica responsabile del suo arresto. Con le sue conoscenze ed i suoi agganci era stato un gioco da ragazzi manovrare ogni cosa dal penitenziario. Anzi, era rimasto abbastanza stupito di riuscire benissimo a muovere i fili anche da lì.
Alcuni dei suoi uomini, scampati all’arresto nel blitz del Moonlight, avevano progressivamente rimesso in piedi la sua organizzazione. Ma restava il fatto che questa donna gli aveva tolto la libertà e nella sua mente malata era diventata la vittima sacrificale. Aveva giurato di vendicarsi e quindi aveva chiesto ai suoi di tenerla d’occhio, di raccogliere ogni minima informazione su di lei, attendendo il momento propizio per fargliela pagare.
Si era pentito di averla aggredita quel lunedì mattina perché aveva in qualche modo rivelato le sue intenzioni, ma l’odio gli aveva incendiato le viscere e non era stato capace di trattenersi. In seguito, era stato subito informato del fatto che la donna era costantemente sorvegliata da un paio di guardie del corpo. Così aveva ordinato di evitare ogni contatto. Voleva che lei si sentisse al sicuro e che abbassasse la guardia.
E non appena l’aveva fatto, aveva chiesto ai suoi di penetrare nel suo appartamento. Dovevano evitare qualsiasi approccio con la donna, ma solo farle sapere che erano passati di lì.
Lei si era quindi trasferita in Piikoi Street, confermando così di avere una relazione con il suo capo – cosa di cui peraltro lui era già stato messo al corrente. A quel punto, Alvarez si era reso conto che la vendetta era diventata più difficile. Conosceva la fama del comandante Steve McGarrett e sapeva che con lui non poteva permettersi errori.
La sua evasione era un piano che avevano escogitato da tempo, ma Alvarez aveva raccomandato di continuare a tenere d’occhio Nicole. La vendetta andava gustata fredda e lui aveva tutta l’intenzione di assaporarla sino in fondo, anche se avesse dovuto aspettare.
Quando, due ore prima, i suoi uomini avevano assaltato il cellulare che lo stava riportando ad Halawa, tutto era già pronto per farlo uscire dall’isola di Oahu nel più breve tempo possibile. Ma quando alla notizia che Nicole era finalmente sola, lui non aveva resistito, la coincidenza era troppo ghiotta per lasciarsela scappare.
Quando era arrivato alla villetta di McGarrett, lei era già in casa. Aveva forzato la porta della veranda ed era entrato. E ora ce l’aveva davanti e sentiva la rabbia e l’odio ardere nel petto.
«Sai, sono contento che tu e il comandante abbiate una relazione. Così prenderò due piccioni con una fava. Uccidendo te – perché io ti ucciderò, su questo non c’è dubbio alcuno – colpirò anche lui. Non avrei potuto sperare in una vendetta migliore».
«Ascoltami, Tony». Nicole cercò di assumere un tono rassicurante. «Non ne vale la pena. Perché rischiare un’ulteriore condanna?». Cercò di spostarsi lentamente verso il salotto; sperava di riuscire a prendere in qualche modo il cellulare e chiamare Steve. Ma non si illudeva che sarebbe stato così facile.
Alvarez intuì la sua mossa e si spostò velocemente nella stessa direzione, costringendola a compensare dall’altro lato, in modo da stargli il più lontano possibile.
«Non provare a fare giochetti con me, Nicole» ghignò. «Pensi davvero che sarò condannato per il tuo omicidio? I miei uomini mi stanno aspettando. Ho intenzione di sparire, ne ho abbastanza delle Hawaii».
«Lui non lascerà perdere, Tony. Ti troverà e te la farà pagare» disse Nicole e lui rise.
«Hai un’opinione troppo alta del tuo uomo, sai? Credo che…».
Nicole non seppe mai cosa volesse dire perché in quel momento udirono entrambi il suono di una sirena in lontananza. Nicole era certa che si trattasse di Steve perciò scattò verso il salotto, ma Tony fu più veloce e non le riuscì di oltrepassare la soglia.
Aveva sperato di poter fare le cose con calma ma ora si rendeva conto di doversi accontentare. La colpì con un pugno al ventre, facendola piegare dal dolore. Nicole rimase senza fiato e Tony l’afferrò per il collo, spingendola contro il muro. Cominciò a stringere la presa, schiacciandole la trachea e impedendole di respirare.
Il viso della donna si fece più scuro mentre sentiva le forze venire meno. Nicole aveva istintivamente afferrato i polsi di Tony cercando di liberarsi. Ora staccò una mano e, con riserve di energia che non sapeva di possedere, cercò di graffiargli il viso per indurlo a lasciarla. Tony resistette ma quando lei gli infilò il dito nell’occhio, gridò di dolore e la lasciò andare.
La sirena sembrava ora vicinissima e Nicole trasse un respiro, portandosi le mani alla gola dolorante. Era stordita per la mancanza di ossigeno perciò non vide nemmeno partire il potente manrovescio che la colpì al viso. Nicole perse l’equilibrio e cadde, sbattendo violentemente la testa contro il fianco del frigorifero e scivolando a terra, priva di conoscenza.
Anche Tony aveva sentito la sirena più vicina. Gettò uno sguardo alla donna che giaceva a terra ed estrasse la pistola che uno dei suoi uomini gli aveva lasciato. Avrebbe preferito farlo in un altro modo, con più calma. Ma ormai non aveva più tempo. Tolse la sicura e abbassò l’arma.
In quel preciso momento la porta d’ingresso si spalancò e sulla soglia apparve Steve con la Beretta puntata davanti a sé. Vide Alvarez con l’arma puntata verso terra e, d’istinto, sparò due colpi. Lo prese al petto e per la violenza del colpo ravvicinato il corpo finì contro il tavolo della cucina, scivolando poi a terra.
Steve corse in cucina, gettando un fugace sguardo verso Alvarez e lasciando a Danny, che era entrato subito dietro di lui, il compito di verificare che fosse morto.
Con il cuore in gola si chinò su Nicole.
«Nicky! Nicky, rispondimi!» la chiamò, senza avere alcun cenno di risposta. Steve la fece girare dolcemente, cercando di metterla supina. Nel movimento, la testa della donna ciondolò e Steve notò un sottile filo di sangue che le usciva dall’orecchio e che aveva formato una piccola pozza sul pavimento.
«Oh, mio Dio!» invocò e Danny si accosciò al suo fianco.
«Vieni via, Steve» lo pregò, afferrandolo per le spalle e togliendolo di mezzo, facendo spazio ai paramedici che erano già entrati. Questi si affaccendarono attorno alla donna e ben presto poterono assicurarla alla barella e portarla fuori, caricandola sull’ambulanza.
Steve salì con lei e l’autista partì a sirene spiegate. Raggiunsero l’Hawaii Medical Center in cinque minuti e Nicole fu subito assistita.
Anche Danny, dopo aver chiamato Chin e Kono e averli incaricati di coordinare le cose nella villetta di Piikoi Street, raggiunse l’ospedale e rimase a fare compagnia a Steve su una dura seggiola della sala d’attesa. Trascorse quasi un’ora prima che un medico uscisse per parlare con Steve, tempo che l’uomo aveva occupato passeggiando nervosamente avanti e indietro, mentre Danny lo seguiva con lo sguardo.
«Comandante, la situazione è critica, ma Nicole non è in pericolo di vita. Ha subìto un serio trauma cranico. Le abbiamo fatto una TAC che ha evidenziato la presenza di un discreto ematoma all’interno della scatola cranica».
Steve si passò una mano sul volto. «Potete intervenire?» chiese, ma il dottore scosse la testa.
«Purtroppo no. L’unica cosa da fare è aspettare che si riassorba da solo. La terremo in terapia intensiva fino a quando l’ematoma non si sarà riassorbito».
McGarrett sedette pesantemente.
«Potrebbero esserci danni al cervello?» chiese e il dottore lo osservò a lungo prima di rispondere.
«È presto per dirlo. Nicole è stata fortunata perché è stata soccorsa in fretta. È giovane e perfettamente in salute e questo di sicuro aiuterà nella riabilitazione. La terremo in coma farmacologico finché la situazione non si sarà stabilizzata. Quanto ai danni cerebrali, non potremo verificare se ce ne siano e di quale entità finché non si risveglierà. Voglio essere sincero fino in fondo con lei: potrebbe recuperare al cento per cento tutte le funzionalità, e questo è lo scenario migliore. Nel caso in cui dovesse riportare dei danni, dipenderà dall’area colpita». Il dottore posò una mano sulla spalla di Steve. «Non si preoccupi, comandante. Nicole sarà assistita nel modo migliore. Tra qualche giorno la sua collega si risveglierà e potremo valutare meglio la situazione».
Steve alzò gli occhi verso di lui. «Non è solo una collega. È anche la mia ragazza, quindi per me è una questione molto personale».
Il medico ritrasse la mano. «Capisco. Faremo il possibile, mi creda».
«Posso vederla?».
Il dottore stava per respingere la richiesta ma ciò che lesse negli occhi di Steve lo dissuase. «Va bene. Ma cinque minuti soltanto. Mi segua, comandante».
Prima di seguire il medico, Steve si rivolse a Danny.
«Per favore, chiama Kono. Chiedile di rintracciare il numero di sua madre».
«Vuoi che mi occupi io di telefonarle?» domandò Danny ma l’amico scosse la testa.
«No, è compito mio».
Nel reparto di terapia intensiva regnava una calma assoluta, interrotta soltanto dai continui bip degli strumenti medici. Steve indossò un camice sterile e seguì un’infermiera che lo introdusse nella camera singola che era stata assegnata a Nicole.
«Cinque minuti. Ordine del dottore» ricordò la donna che poi uscì chiudendo la porta.
Steve si avvicinò al letto. Nicole respirava autonomamente, anche se aveva la cannula nasale che l’aiutava nella respirazione. Aveva gli occhi chiusi e sembrava addormentata. Un braccio era appoggiato sul copriletto e ad esso era collegata una flebo che gocciolava pigramente.
Non c’erano segni esteriori dell’ematoma e, a dispetto della situazione, a Steve sembrò ancora una volta bellissima. Avvicinò una sedia al letto e sedette, prendendole delicatamente la mano fra le proprie.
«Ciao, piccola» sussurrò e rimase lì, immobile, aspettando stupidamente che quelle dita si stringessero comunicandogli che lo aveva sentito.
Raramente nella sua vita gli era capitato di sentirsi così impotente. Nutriva un forte senso di responsabilità nei confronti di ognuno dei componenti della sua squadra, ma ovviamente per Nicole provava qualcosa di diverso.
I suoi cinque minuti scivolarono via velocissimi tanto che, quando l’infermiera bussò con discrezione e socchiuse la porta, la guardò stranito.
«Mi dispiace, comandante» mormorò la donna, una biondina giovanissima. «I cinque minuti sono passati».
«Va bene» rispose Steve e si alzò. Le accarezzò la testa e si chinò per baciarle la fronte. «Torno il prima possibile, piccola».
Quando uscì, Danny lo stava aspettando. Steve sedette di nuovo sulla sedia di plastica blu della sala d’attesa, nascondendosi il volto fra le mani.
«Come sta?» chiese Danny, accorgendosi subito di come quella domanda suonasse inadeguata.
«Sembra una bambina, in quell’enorme letto, collegata a tutti quei tubi. Me l’hanno lasciata per appena cinque minuti».
La voce gli si spezzò e Danny gli posò un braccio sulle spalle.
«Vedrai che andrà tutto bene, Steve. Nicole si riprenderà».
«È colpa mia. Non avrei dovuto lasciarla sola. Se fossi stato con lei, Alvarez non sarebbe mai arrivato a toccarla».
«Steve! Non puoi incolparti di questo. Non potrai proteggerla sempre da tutto. Ciò che conta è che siamo arrivati in tempo e lei è ancora viva. E ora Alvarez non potrà più farle del male».
McGarrett balzò in piedi.
«Sì, però se fossi stato lì…» cominciò ma Danny lo bloccò subito.
«Ora smettila, super SEAL. È inutile piangere sul latte versato, a Nicole non serve a nulla. Ora, Kono mi ha mandato il numero della madre di Nicole».
Steve compose il numero e la chiamò e quando rispose si presentò come il comandante McGarrett. Iolana capì immediatamente che c’era qualcosa che non andava.
«È successo qualcosa a Nicole?» domandò.
«Purtroppo Nicole è rimasta ferita oggi in una colluttazione. Non è in pericolo di vita ma dovrà essere tenuta per qualche giorno in terapia intensiva. Ha la possibilità di raggiungerci qui in ospedale? Se vuole, posso mandare il mio partner a prenderla».
«No, grazie. Vi raggiungo immediatamente».
Steve non aveva mai visto Iolana ma appena la donna apparve nel corridoio dell’ospedale la riconobbe immediatamente. Era una versione adulta di Nicole, ma la bellezza e la grazia nei movimenti era la stessa. Steve pensò con piacere che Nicole sarebbe invecchiata allo stesso modo. Steve sapeva che Iolana era al corrente della relazione che aveva con sua figlia, ma era la prima volta che si incontravano.
«Mi spiace conoscerla in questo modo, comandante McGarrett» disse la donna, stringendogli la mano.
«Mi chiami Steve, la prego. Dispiace anche a me per questa situazione, mi creda. Nicole ed io avevamo in programma di invitarla a cena una di queste sere» spiegò. Poi indicò Danny con un cenno della mano: «Le presento il mio partner, il detective Danny Williams».
Terminati i convenevoli, Iolana fissò su Steve i suoi occhi nerissimi.
«Come sta mia figlia?».
Steve le illustrò brevemente la situazione.
«Crede che potrei vederla? Almeno per un attimo».
Steve sospirò.
«Non so se la lasceranno entrare. Comunque venga, proviamo».
Le infermiere di terapia intensiva furono irremovibili: Nicole non doveva essere disturbata. Perciò, Iolana dovette accontentarsi di guardarla attraverso la finestra. Steve rimase al suo fianco e, quando notò una lacrima scendere lentamente lungo la guancia, la cinse con un braccio.
«Stia tranquilla, Iolana. Nicole si riprenderà» disse, ripetendo la stessa rassicurazione che aveva sentito prima dalle labbra di Danny.
Quando uscirono dal reparto, Chin e Kono li avevano raggiunti. Chiesero notizie di Nicole e Steve li ragguagliò. Poi allargò le braccia. «Al momento non c’è nulla che possiamo fare qui. Nicole è assistita dai migliori medici e ho preso accordi con il primario perché ci avvisi immediatamente in caso di cambiamenti. Direi che possiamo tornare a casa».
 
I giorni che seguirono furono i più lunghi della vita di Steve. Ogni mattina raggiungeva l’ospedale per stare un po’ con Nicole. Dato che nessuna delle infermiere sapeva resistere al suo sorriso, le aveva convinte a lasciarlo entrare al di fuori dell’orario di visita; perciò aveva preso l’abitudine di andarci di primo mattino, in modo da poter passare qualche tempo da solo con Nicole, prima che arrivasse sua madre.
Poi si tuffava nel lavoro e tornava alla sera, prima di andare a casa. Ogni sera restava al capezzale della donna, struggendosi nel vederla bloccata in quel letto.
Nicole non mostrò alcun segno di miglioramento, anche se il dottore confermò che l’ematoma si stava riassorbendo senza problemi. Trascorse una settimana finché un mattino il primario fermò Iolana per parlarle. Steve fece per allontanarsi per lasciarle un po’ di privacy ma la donna lo trattenne.
«È giusto che stia qui anche tu, Steve» disse.
Seduti attorno al letto di Nicole avevano infatti avuto modo di parlare e di conoscersi e Iolana aveva subito capito che Steve era davvero innamorato di sua figlia. Non era difficile intuire i sentimenti che stavano dietro lo sguardo con cui Steve guardava Nicole o che erano nascosti nelle carezze e nei baci che le regalava sempre prima di andarsene a malincuore.
«Ho buone notizie» cominciò il dottore. «L’ematoma è completamente riassorbito e abbiamo deciso di interrompere la terapia farmacologica. Lo faremo progressivamente e Nicole dovrebbe svegliarsi».
«Dovrebbe?» domandò Steve.
«Purtroppo non ci sono garanzie e restano ancora da stabilire eventuali danni cerebrali. Però siamo fiduciosi. Nicole ha reagito molto bene alle cure e quindi non ci sono motivi per pensare che non si sveglierà. Non posso però darvi una data, ogni persona reagisce a suo modo. In ogni caso la faremo uscire da terapia intensiva, così sarete più liberi negli orari di visita».
A Nicole fu ridotto gradualmente il dosaggio dei medicinali che la tenevano in coma farmacologico finché furono sospesi del tutto. Il medico avvertì Steve e Iolana che la donna avrebbe potuto svegliarsi in qualsiasi momento e Nicole fu finalmente fatta uscire dalla terapia intensiva, anche se non dava alcun cenno di volersi svegliare.
Steve e Iolana cominciarono a fare a turno per restare sempre al fianco di Nicole, in caso si fosse svegliata. Ma passavano i giorni e lei non reagiva. Il medico non si diceva preoccupato perché potevano passare anche delle settimane prima che Nicole aprisse gli occhi, ma Steve smaniava.
Tutte le mattine andava a dare il cambio a Iolana che trascorreva la notte con la figlia.
Danny, che aveva provvisoriamente assunto il comando affinché Steve potesse badare a Nicole, cercava di sollevarlo il più possibile da qualsiasi incombenza e lo chiamava più volte al giorno per essere aggiornato sulle condizioni di Nicole.
Da quando la donna era stata trasferita, Steve aveva preso l’abitudine di portare un mazzo di fiori freschi ogni mattina. Ogni giorno erano fiori diversi e la donna delle pulizie gli faceva sempre trovare il vaso pronto sul comodino di Nicole.
Un mattino – erano trascorse più di tre settimane dall’incidente di Nicole – Steve arrivò con un bouquet di orchidee. Salutò Iolana che aveva fatto la notte e, come di consueto, baciò delicatamente le labbra di Nicole. «Ciao, piccola» le sussurrò, stringendole per un attimo la mano.
Diversamente dal solito, quel giorno non c’era il vaso sul comodino. Steve scrollò le spalle, appoggiando il mazzo sul tavolino e riservandosi di andare a cercare un contenitore prima di uscire.
Iolana raccolse le proprie cose e li lasciò, dopo averli salutati.
Steve sedette accanto a Nicole, tenendole la mano. Le parlava in continuazione, raccontandole dei nuovi casi dei Five-0, di come lei gli mancasse. Poi le raccontava di se stesso, della sua infanzia, del periodo all’Accademia e di tutto ciò che gli passava per la testa. Nicole era sempre immobile, con gli occhi serrati, ma Steve era sicuro che lei lo capisse e sapesse che le era vicino.
Verso metà mattina si alzò per sgranchirsi le gambe e notò i fiori ancora appoggiati sul tavolo. Temendo che si sciupassero, uscì dalla stanza e chiese all’infermiera dove poteva procurarsi un recipiente per i fiori.
Quando rientrò in camera, si bloccò sulla soglia. Nicole aveva gli occhi aperti e la testa girata verso di lui. Steve rimase immobile, senza nemmeno respirare. Nicole lo fissava con espressione imperturbabile ma non aveva idea di cosa le passasse per la testa, né se lo avesse riconosciuto.
Si fissarono per cento lunghi battiti del cuore agitato di Steve poi lei sorrise.
«Aloha, Steve» sussurrò.
Il vaso di plastica cadde dalle mani dell’uomo che si precipitò accanto a lei. Le posò le mani sul viso guardandola in quei suoi splendidi occhi viola che da tanti giorni agognava di vedere.
«Ciao, amore» rispose, posandole un bacio sulle labbra con la delicatezza di un volo di farfalla. «Come ti senti?» le chiese.
«Come se mi avessero investito con un camion» sussurrò. Poi girò lentamente lo sguardo intorno. «Dove mi trovo?».
«Sei in ospedale, piccola. Da tre settimane ormai».
«Tre settimane?» domandò incredula.
Steve annuì, mentre si allungava per premere il pulsante di chiamata.
«Ricordi cos’è successo?» le domandò, ma Nicole fece segno di no con la testa.
L’infermiera entrò nella stanza e quando constatò che Nicole si era svegliata disse che avrebbe avvertito immediatamente il dottore e sparì.
«Alvarez ti ha seguita a casa, ricordi?» la stimolò Steve e lei gli strinse convulsamente la mano. «Tranquilla» si affrettò a rassicurarla. «Alvarez non può più toccarti».
Il medico entrò in quel momento, seguito da un nugolo di persone vestite di bianco. Allontanarono Steve senza troppi complimenti e si affaccendarono attorno al letto. Nicole lo seguì con gli occhi e si agitò irrequieta. Lui cercò di incoraggiarla con lo sguardo pur restando in disparte ma quando gli infermieri gliela celarono e la sentì gemere sommessamente non resistette più. Scostò quasi di peso il dottore e tornò al fianco della donna che si calmò subito.
«Nicole, siamo molto felici che sia tornata fra noi» disse il dottore. «Certo che Steve non mi aveva detto che i suoi occhi erano così belli». Rise. «Ora la lasceremo riposare. Tornerò a visitarla più tardi».
Nicole spostò lo sguardo su di lui.
«Steve può restare con me?» chiese con un filo di voce.
Il medico sorrise. «Certo che può restare. In verità sarebbe difficile allontanarlo».
Quando finalmente li lasciarono tranquilli, Steve abbassò la sponda del letto e sedette sul materasso. «Dovremmo avvisare tua madre, non pensi?».
Mentre aspettavano che arrivasse, Steve le raccontò ciò che era successo. Nicole rimase ad ascoltarlo in silenzio mentre le descriveva di come avesse ucciso Alvarez appena prima che lui le desse il colpo di grazia.
«Appena ti ho vista a terra, con il sangue che ti usciva dall’orecchio, ho avuto la terribile sensazione di essere arrivato tardi. Pensavo di averti perduta e non me lo sarei mai perdonato. Non riuscivo a pensare alla mia vita senza di te perché ormai sei diventata parte di ciò che sono».
Nicole vide i suoi occhi diventare umidi e lucidi e alzò una mano. Gli accarezzò i capelli, attirandogli la testa contro il suo petto e stringendolo teneramente a sé.
«Sono qui, Steve. Non vado da nessuna parte» mormorò.
Lui alzò la testa e si tese su di lei, sfiorandole il naso con il proprio.
«Ti amo, Nicole» disse con semplicità.
Lei sorrise, radiosa. Lo attirò più vicino e lo baciò sulla bocca.
«Ti amo» rispose e rimasero così finché si aprì la porta della stanza e Iolana entrò trafelata. Steve si alzò dal letto e le lasciò il posto. Mentre usciva con la scusa di telefonare ai colleghi, la vide mentre si abbassava ad abbracciare la figlia, con le lacrime che le traboccavano dagli occhi.

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Capitolo 11
*** Ora sì che dovresti dire qualcosa tu ***


Epilogo
Ora sì che dovresti dire qualcosa tu

 
L’acquazzone li aveva sorpresi mentre stavano rientrando dalla corsa quotidiana. La pioggia colpiva la sabbia creando minuscoli crateri e scrosciava su di loro, piacevolmente tiepida sulla pelle. Quegli acquazzoni erano molto comuni alle Hawaii ed entrambi amavano correre sotto la pioggia.
Steve si fermò e si girò, facendo un cenno all’indirizzo di Nicole. «Sei lenta, Nicky!».
La donna si arrestò e si chinò in avanti, posando le mani sulle ginocchia, ansimando per riprendere fiato. Erano trascorsi quasi quattro mesi dal suo incidente con Alvarez. Grazie a Dio, Nicole non aveva riportato danni cerebrali; quando era uscita dall’ospedale però era debolissima dopo la lunga convalescenza. Ora stava lentamente cercando di tornare in forma.
Abitava ancora in casa di Steve ed entrambi erano assolutamente appagati da questo felice stato di cose. Steve si era assunto il compito di allenatore e i risultati non avevano tardato ad arrivare. Quel giorno aveva voluto forzare un po’ di più, ma ora la vedeva davvero stanca.
«Sei grassa e fiacca. Datti una mossa» le gridò. Non era vero, ovviamente. Nicole non era mai stata così in forma e i muscoli giovani non ci avevano messo molto a ritrovare tonicità. Ma Steve si divertiva a stuzzicarla e ottenne ciò che voleva.
La vide raddrizzarsi e portare le mani sui fianchi. Riprese a correre e in breve lo raggiunse. Non lo degnò di uno sguardo e proseguì imperterrita sotto la pioggia. Steve sogghignò e la seguì, restando qualche passo dietro di lei, osservando affascinato la maglietta bagnata che aderiva al suo corpo snello e il movimento delle lunghe gambe brune.
Arrivarono finalmente a casa e Nicole si fermò sotto la veranda. Strizzò i capelli fradici e torse la maglietta, allagando il pavimento di legno. Steve le si fermò accanto e le sfiorò la spalla.
«Sei offesa?» domandò.
Nicole si scostò, evitando il contatto.
«Vado a fare le valigie. Sono grassa e fiacca, quindi di certo non ti interesso più» mormorò piccata, ma si voltò in fretta, nascondendo il sorriso che le incurvava le labbra. Allungò una mano per aprire la porta ed entrare in casa, ma Steve la bloccò. La fece girare verso di sé e la baciò con passione, stringendola al petto.
Il bacio durò un bel po’ e fu Steve ad interromperlo. Aveva smesso di piovere e un raggio di sole bucò le nuvole rade e le colpì il viso. Steve le era vicinissimo perciò vide le pupille contrarsi diventando due capocchie di spillo e il color lavanda dei suoi occhi intensificarsi.
«Ti basta come risposta?» chiese, la voce spezzata dal nodo che avvertiva in gola. «Lo sai benissimo che non sei grassa. Non ho mai posato gli occhi su qualcosa di più bello e sexy di te».
Nicole intrecciò le braccia dietro la sua nuca, sorridendo.
«Sono solo questo per te?» domandò, socchiudendo gli occhi.
No, non era solo quello. Dal giorno in cui l’aveva vista insanguinata sul pavimento della cucina, aveva capito che la loro relazione era ben diversa da quella che aveva sperimentato con Catherine e con le altre donne che aveva frequentato. Non faticava a scorgere un futuro con questa donna ed erano ormai settimane che rimuginava su un pensiero.
«Vieni con me», sussurrò e la prese per mano, trascinandola in casa. La portò al piano di sopra, nella loro camera, e la fece sedere sul letto. Nicole lo guardava perplessa perché notava una certa agitazione e non riusciva a capire di cosa si trattasse.
Lui le voltò le spalle e si avvicinò al comò.
«Ti sembrerà strano» cominciò, sempre voltandole le spalle, «ma da quando sei entrata nel mio ufficio, il mio mondo ha cominciato a girare più in fretta». La guardò riflessa nella specchiera sopra il mobile. «Sei stata come un uragano nella mia vita e sei stata la mia medicina dopo la rottura con Cathy. A sentire Danny, mi è perfino sparita la faccia da aneurisma».
Nicole abbassò gli occhi, ridendo sommessamente, improvvisamente intimidita dalle sue parole.
«Non ho fatto nulla di speciale» mormorò.
Steve la raggiunse e sedette sul letto vicino a lei.
«Ti prego, non interrompermi. Quello che voglio dire è che mi sono innamorato di te e ringrazio Dio ogni mattino quando apro gli occhi e ti vedo accanto a me».
Le accarezzò il viso. Il discorso che aveva preparato con tanta cura si sbriciolò di fronte a quegli occhi viola. «Ti amo» bisbigliò sulle sue labbra e la baciò.
Mentre la sentiva rispondere al bacio con tenerezza, le prese la mano sinistra e lentamente le infilò l’anello che aveva tenuto celato nel palmo fino a quel momento. Accorgendosi della cosa, Nicole si staccò da lui e abbassò gli occhi.
Al suo anulare spiccava uno stupendo anello d’argento con incastonate tre ametiste circondate da un pavé di brillanti.
«Sono quasi dello stesso colore dei tuoi occhi» sussurrò Steve mentre la donna rimaneva immobile a fissare l’anello, come se non capisse cosa stava guardando. Allora Steve si mosse, abbassandosi a cercare il suo sguardo.
«Nicole Kalea Knight, mi faresti l’uomo più felice della terra se accettassi di sposarmi» disse semplicemente.
La donna tacque, incapace di pronunciare parola. Le sembrava di stare sognando e non riusciva a capacitarsi di ciò che stava succedendo. Senza che potesse fermarle, calde lacrime cominciarono a scendere dai suoi occhi tanto che Steve si preoccupò di quella strana immobilità.
«Tesoro, ora sì che dovresti dire qualcosa tu» disse e Nicole parve riscuotersi dalla sua apatia.
Gli gettò le braccia al collo. «Certo che ti sposo, Steve», singhiozzò.
Steve la circondò con le braccia, stringendola al petto e cullandola dolcemente. Dopo un po’ si separò da lei e la guardò negli occhi.
«Lo diciamo agli altri?» chiese e Nicole annuì.
«Sì, certo. Non voglio più che teniamo nascosto nulla».
Steve si mise in piedi e tese le mani, facendo alzare anche lei.
«Comincia a prepararti. Andiamo fuori a cena. Io chiamo Danny e gli altri».
Mentre Nicole si infilava in bagno per fare la doccia, Steve compose il numero di Danny.
«Danny, sono Steve. Sei libero stasera? Ti offro la cena, andiamo al Duke’s» esclamò.
«Mi offri addirittura la cena?» domandò Danny incredulo. «Che hai combinato stavolta? Vi siete lasciati? Se l’hai fatta soffrire ti sparo, hai capito?».
Steve roteò gli occhi al cielo.
«No, non ci siamo lasciati. Non possiamo aver semplicemente voglia di vedere gli amici? Ci vediamo al Duke’s alle otto» rispose Steve, riattaccando prima che l’altro avesse tempo di replicare.
Chiamò in fretta anche Kono e Chin che confermarono entrambi la loro presenza. Poi prese l’asciugamano ed entrò nella doccia assieme alla donna che amava.

 

Si conclude qui questa fanfiction che spero vi sia piaciuta.
Ringrazio tutta la mia famiglia che ho tediato all'inverosimile con questa storia!
E ringrazio anche te, caro lettore! Grazie per ogni commento che mi avrai lasciato.
Alla prossima!
Fragolina84

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