Yo(u)ng - Seoul Chronicles

di Banana_Mecha
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Seoul Chronicles - Prologue ***
Capitolo 2: *** Seoul Chronicles - Chapter 1 ***
Capitolo 3: *** Seoul Chronicles - Chapter 2 ***
Capitolo 4: *** Seoul Chronicles - Chapter 3 ***
Capitolo 5: *** Seoul Chronicles - Chapter 4 ***
Capitolo 6: *** Seoul Chronicles - Chapter 5 ***
Capitolo 7: *** Seoul Chronicles - Chapter 6 - Past ***
Capitolo 8: *** Seoul Chronicles - Chapter 7 ***
Capitolo 9: *** Seoul Chronicles - Chapter 8 ***
Capitolo 10: *** Seoul Chronicles - Chapter 9 ***
Capitolo 11: *** Seoul Chronicles - Chapter 10 ***



Capitolo 1
*** Seoul Chronicles - Prologue ***


La signora Kim siede vicino alla vetrina, nella sua caffetteria. 
La porta è stata chiusa dall'interno con una spessa catena allucchettata; eppure non è neanche il tramonto.
Dentro le luci sono accese, e diffondono un caldo bagliore arancione, ma adesso che questo locale è vuoto…
La donna sorseggia del tè caldo da una tazza, e guarda fuori.
Le sembra che siano passati anni da quando quella strada era piena di gente ad ogni ora del giorno e della notte, e tutti entravano alla caffetteria sperando di trovarci Yesung. O semplicemente per portarle il loro amore. 
Ogni tanto qualcuno arrivava con in mano una letterina o un pacchetto, altre semplicemente le stringevano la mano e la ringraziavano. Le sembrava il periodo più felice della sua vita. 
Posa la tazza sul tavolo, con delicatezza.
Che è successo a quella città? 
Fuori il sole sta tramontando velocemente, nascosto dietro pesanti nuvole. Dev'essere così freddo e buio là fuori…
Pensa a suo figlio.
Prima che scatti il coprifuoco c'è ancora chi si azzarda a venire a trovarla. Sono molte meno di prima, certo, però vengono quasi ogni giorno.
Le passano ancora le lettere. Alcune addirittura portano del cibo.
Le si avvicinano e le sussurrano: «Yesung sta bene?»
Gli occhi della signora Kim si riempiono di lacrime. Non lo so, vorrebbe rispondere, mi manca mio figlio e non so niente di lui da mesi.  Però non dice niente. Annuisce, e cerca di sorridere. 
Quando lui se n'è andato sapeva che non l'avrebbe più sentito; il regime ha imposto strette ordinanze contro i cantanti, gli attori e gli artisti in genere. 
La musica è l'unica cosa che faceva respirare un po' d'aria di libertà, perciò è stata bandita. I cd, i poster, ogni cosa ormai è materiale di contrabbando. Nella caffetteria c'è una grande cornice vuota dove prima il poster di Yesung accoglieva i clienti.
Ma la signora Kim sa che in realtà nessuno ha dimenticato suo figlio. Si porta la tazza alle labbra mentre una lacrima le scivola sulla guancia; ora che nessuno la sente, può finalmente cantare.
«Seduto sul tetto, ho cantato da solo. Il mio pubblico erano le stelle che mi facevano risplendere… Lungo un cammino stretto ho corso e corso finchè le mie scarpe non si sono consumate…»
tace, per tirare su col naso mentre gli occhi le si riempiono di lacrime.
«Starò bene, andrà tutto bene. Ho detto queste parole così tante volte . A volte ero stanco e spaventato . Mi sono detto che anche se ero solo o triste non mi sarei messo a piangere…»
Il canto della signora Kim diventa un mugolio incomprensibile fra i singhiozzi. Si rigira fra le mani la foto di suo figlio bagnandola di lacrime. 

Yesung non è che un'ombra, assorbito dall'oscurità di un vicolo. Osserva sua madre dentro la caffetteria, sapendo che non può vederlo.  L'insegna "Händel&Gretel" è spenta, e tutte i cartelli dei menù che una volta stavano fuori sono spariti. Conta mentalmente: tre mesi.
Sono trascorsi tre mesi da quando non sente più il calore dell'abbraccio di sua madre, eppure è là, a pochi metri da lui. Le sue spalle sono scosse da fremiti, sta piangendo. Piange perché le manca suo figlio, e non sa neanche se sia vivo o morto. Piange perché non sa tra quanto potrà rivederlo, ammesso che lo rivedrà.  E che per consolarsi non può neanche sentire la sua voce.
Yesung si nasconde la faccia dietro le mani, e respira lentamente. Un ultimo sguardo alla donna, poi si asciuga gli occhi con la manica della giacca mimetica.
Un attimo dopo è già scomparso nel tombino da cui è uscito.


WARNING Salve a tutti, mi chiamo Banana_Mecha e questa è la mia prima fanfiction in assoluto. Solitamente la pubblico su deviantArt ma mi hanno fatto notare che qui è più facile ricevere dei commenti oggettivi e per me sarebbe meglio visto che come già detto sono una scrittrice alle primissime armi. Nella descrizione c'era veramente poco spazio per parlare a fondo della trama e chiedo scusa se non era affatto interessante. La storia è un po' complicata anche perchè talvolta si tuffa nel passato e torna bruscamente al presente. Tutti quelli che l'hanno letta hanno detto che è tristissima. Io vi avverto, non ci sono scene "forti", però tenete presente che è uno scenario di guerra e che più andrà avanti più l'ambientazione diventerà cruda. Spero di essere in grado di descriverla in modo appropriato. 
Ah! Quasi dimenticavo. I personaggi principali sono i Super Junior, in modo particolare Eunhyuk e Leeteuk, Hyoyeon delle Girls' Generation, Jinyoung dei B1A4, Zelo dei B.A.P. Ovviamente non si parla SOLO di loro, ma sono i personaggi che conducono la storia. Inoltre mi sono permessa di inventare altre figure che spero troverete interessanti, ho lavorato moltissimo su background e carattere, in modo particolare sulle due ragazze-soldato nordcoreane e su Bani, uno dei miei personaggi preferiti. Che dirvi... buona lettura!

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Capitolo 2
*** Seoul Chronicles - Chapter 1 ***


INTRODUZIONE Scusate se al momento è tutto molto trasandato. In realtà sto pubblicando su EFP per un'amica che vorrebbe commentare (lei è gentilissima, sono sicura mi aiuterà un sacco cercatevi le sue fic che sono stupende, si chiama HaruHaru19) ma se qualche anima pia si appassionerà a questa "storia" (se tale si può definire, anche se a Firenze l'è un troiaio) prometto che rivedrò tutto e la modificherò per renderla leggibile. Questo capitolo è il proseguimento del prologo. E' un flash-forward rispetto alla trama, infatti già dal prossimo capitolo inizierò a spiegare cos'è successo effettivamente a Seoul. Bene, ora pubblico anche il secondo :3 Eleonora, quanto mi fai sgobbare u.ù tsk

«Che noia… », esordisce  Soon Mi. 

La ragazza si rigira tra le mani una caramella alla menta, sovrappensiero.  La frangia incolta le copre per metà due sottili occhi da gatto. Non è bellissima; ha ancora i tratti immaturi di una liceale, ed è un po' troppo magra, ma i suoi occhi sono due calamite. Ne si avverte la presenza anche dietro i capelli scuri; inevitabilmente si cerca di capire cosa sia quella luce liquida nelle iridi nere, che sembra colare sulla ciglia corte e fitte.
Min Ji invece è ancora del tutto acerba; i capelli sono corti come quelli di un maschio e gli occhi sono due grandi pozzanghere sporche; niente a che vedere con quelli di Soon Mi. E' sempre stata affascinata da lei. Da quando la conosce le si è attaccata addosso. La segue ovunque, come una fedele discepola. Per lei farebbe tutto.
Anche adesso siede rannicchiata contro delle casse, e osserva in silenzio Soon Mi contemplare la sua caramella.
Le due hanno il turno di guardia questa sera.  
Min Ji si chiede come sia possibile che l'amica non abbia freddo. Rimane lì impassibile, nella sua tuta mimetica sporca e sformata. Scarta la caramella e se la caccia in bocca, poi lascia scivolare la carta verde a terra. Sopra c'è disegnato un piccolo stemma, quasi irriconoscibile per chi non è abituato a vederlo fin da piccolo: lo stemma del regime.
Min Ji sta congelando. Quelle divise non sono per niente adatte ad affrontare una notte di Novembre come quella. Si stringe nelle spalle, sente il metallo duro del fucile contro le scapole. 
Min Ji ha 17 anni. E' un tempo sufficiente perché una nordcoreana capisca cosa è giusto e cosa è sbagliato.
E' giusto: servire la patria, fare la brava donna di casa, non fare troppe domande, ignorare la fame.
E' sbagliato:  ficcare il naso, uscire fuori casa dopo il coprifuoco, rivolgere la parola agli ufficiali, comprare cose dall'estero, ascoltare musica straniera, sapere l'inglese, attirare l'attenzione, avere idee diverse.
Min Ji ha quasi sempre rispettato queste semplici regole; anche quando sembrava difficile la forza dell'abitudine ha preso il sopravvento. Non apre mai bocca, se non quando è necessario, e fa movimenti lenti e torpidi. 
Non ha niente di cui essere rimproverata; è quasi statica. E' robusta e ha fattezze mascoline: questa è l'unica qualità che ha per fare il soldato. Ecco ciò che la gente pensa di lei. 
Min Ji in realtà è solo un'ottima attrice. Meno apre bocca e meno la gente sospetterà che sa qualcosa.
Soon Mi tira fuori dalla tasca della divisa mimetica un accendino. Se lo rigira fra le mani in silenzio, come se con lo sguardo potesse capirne il peso, poi inizia a giocarci accendendolo e aspettando che venga spento dal vento umido che soffia sul campo. 
Le due ragazze custodiscono un segreto. Sanno di potersi ciecamente fidare l'una dell'altra e quello ne è la prova. Non tradirebbero mai la compagna..
«Non potrei vivere senza», aveva detto una volta Soon Mi.
Quell'episodio si sarebbe impresso a fuoco per sempre nella mente di Min Ji. Dopo anni che la conosceva era la prima volta che sentiva quella ragazza dal cuore di ghiaccio aprirsi così. Era l'alba; avevano trascorso la notte a parlare e a guardare le stelle nella soffitta della stalla, nella casa di campagna a Pungsan. Distese nella paglia si accarezzavano la pancia, assolutamente incuranti del fieno nei capelli e nei vestiti. A bassa voce, tanto che facevano fatica a udire le loro stesse voci, parlavano del loro segreto finchè il cielo scuro non si era tinto di un rosa pallido e allora Soon Mi aveva detto quelle parole.
Gli occhi di Min Ji diventano umidi. Al buio Soon Mi non la vedrà. E' troppo presa a fare il suo nuovo gioco. A guardia di quelle casse di armi nessuno potrebbe sospettare che un soldato stia piangendo per un ricordo così insulso.
Ma sapete quanto sia difficile essere un'adolescente in Corea del Nord?, vorrebbe chiedere con rabbia. Sapete quanti bocconi amari si deve inghiottire, quanti sogni soffocare, quante parole ci si sente in colpa di aver anche solo pensato? Sapete cosa vuol dire avere paura di essere traditi dalle proprie azioni, conoscete l'angoscia del rintanarsi in una stanza mentre i soldati mettono la tua casa a soqquadro? 
Si morde le labbra, tirando su col naso. Soon Mi alza appena gli occhi su di lei.
"Non potrei vivere senza", pensa ancora un volta Min Ji, e le sembra di vedersi scorrere davanti l'immagine di una piccola Soon Mi distesa nel fieno che tiene delicatamente tra pollice e indice un dischetto di metallo e lo inclina, in modo che la luce dell'alba, riflettendosi, crei uno splendido arcobaleno.

Ormai le stazioni della metro sono inaccessibili dalle entrate principali; sono state chiuse dopo che il servizio pubblico è stato interrotto. A Seoul però la rete idrica e quella della metropolitana sono strettamente connesse. Ci sono stanze sotterranee che venivano usate per il controllo e la manutenzione di entrambe, almeno fino a qualche mese prima. Grazie a queste è facile passare dalle fognature ai tunnel del trasporto pubblico. 
E' stata una scoperta fondamentale.
Ci si può spostare per tutta la città senza temere di essere visti dai militari nordcoreani, e nessuno sospetterebbe mai che qualcuno si stia nascondendo là sotto. 
Yesung cerca di resistere alla puzza di fogna, mentre si fa luce con una piccola torcia. Ormai conosce il sottosuolo di Seoul come le sue tasche. Ora si gira a destra, si va  un po' avanti, ed eccola, la porta di metallo bianco che cercava. La serratura è forzata; non importa, nessuno gli farà causa se per liberare la Corea del Sud dal regime ha rotto qualche maniglia.
La spinge ed entra. La sua torcia illumina per qualche istante le mappe sotterranee della città appese ai muri e strane apparecchiature di cui ignora la funzione, poi va avanti, fino all'altra porta. Tira, ed esce. Bentornato a casa, pensa con macabra ironia.

Le notti non passano mai, laggiù. Se durante il giorno ogni tanto si sente il rumore di qualche camion, che fa tremare impercettibilmente l'aria, la notte ogni suono è completamente prosciugato. Distesi nelle coperte e nei sacchi a pelo ci si immaginano le guardie con i loro stivali pesanti camminare pochi metri più in alto, sulla strada, ma non giunge alcun rumore. C'è solo il suono dei respiri. 
È in notti fredde come queste che Bani invece di dormire pensa al suo oppa. Se riesce a girarsi nel sacco a pelo senza fare troppo rumore, può vederlo qualche metro più in là che dorme sonni tormentati. Può seguire la linea dritta del suo naso, appena illuminato dalle fioche lampade a gas.
E' bello, il suo oppa. I capelli arruffati gli proiettano delle lunghe ombre sul viso, e sembra un pezzo di stoffa bianco su cui danza un macabro spettacolo di ombre cinesi.
Bani si tira lentamente a sedere, e porta le ginocchia al petto. I lunghi capelli mossi seguono con morbidezza le ritrose, quasi animati di vita propria. 
Jin Young dorme come un bambino. Sente il suo respiro, e ancora una volta si sorprende di quanto sia vero. Vorrebbe poter allungare la mano e sfiorargli una guancia per sapere che non lo sta sognando e che il suo oppa è fatto di carne e sangue come lei.
Non lo farà però. Sa che c'è una barriera invisibile fra loro due. Come se tendendo la mano finisse per incontrare una parete di vetro.
Il cimitero è forse il posto più deserto della città. Nessuno va più a piangere i suoi morti, tutti troppo presi a rimanere vivi, forse. Bani lo attraversa sempre con una strana sensazione dentro; il cielo grigio di Novembre sembra un grosso coperchio che la intrappola fra quelle file di tombe.
La lapide di Jung Jin Sung è una delle più recenti. La data recita 1989-2013, e poi una ragazza bellissima abbraccia un enorme orso di peluche nella foto. 
Bani passa da lì tutti i giorni e con dedizione cambia l'acqua dei fiori e sostituisce quelli secchi con i freschi appena comprati. Recita una preghiera per quella sconosciuta che riposa nella tomba, poi si alza e riprende le sue buste.
Si chiede continuamente chi sia la ragazza della lapide e perché Jin Young oppa ci tenga così tanto a portarle dei fiori ogni giorno. La risposta sembra così ovvia che lascia poco spazio all'immaginazione. Nelle lunghe giornate fuori le capita di ritornare a casa per farsi una doccia e dormire nel suo letto. Sua madre tenta ogni volta di convincerla a rimanere, con scarso successo.
In quei giorni Bani, mentre si prepara per ritornare al rifugio si guarda allo specchio. Guarda le sue linee dolci e gli splendidi capelli; non ha bisogno di trucco per sembrare più bella, la rovinerebbe soltanto. Inclina la testa di lato e pensa che però non è bella quanto la ragazza morta. 
Eccola, la fredda parete di vetro fra loro due. Quella che non le dà neanche il coraggio di toccarlo; lui è ancora innamorato di quella sconosciuta bellissima. Jung Jin Sung, si rivolge alla ragazza della lapide osservando le guance di porcellana del suo oppa, che gli diresti ora per farlo stare bene?
«Bani che fai? Dormi, ti prego…», sussurra qualcuno, poco distante da lei. Allora la ragazza scivola nel suo sacco a pelo, e chiude gli occhi.
Si addormenta, e sogna. E' di nuovo la liceale ingenua di tre mesi fa.

Hyukjae ultimamente ha incubi ricorrenti. Donghae gli ripete che è colpa della puzza stordente dei suoi piedi o altre cazzate simili per sminuirlo, ma per Hyukjae ormai è diventata un'ossessione. Si alza con il fiatone nel bel mezzo della notte, e scappa nel bagno a vomitare. Subito dopo può capitare che gli venga da piangere, ma non ci pensa. Si sciacqua la faccia e torna a letto, senza riuscire però ad addormentarsi. Attualmente lui e i suoi inseparabili amici Donghae, Yesung, Sungmin, Siwon, Shindong, Ryeowook, Kyuhyun, Kangin, Henry e Zhou Mi si trovano a condividere la sala d'aspetto principale della stazione della linea 21 con un'altra ventina di ragazze e ragazzi della loro età. Anche se ce ne sono di più piccoli.
Al mattino il posto si svuota quasi completamente, però. 
La sveglia suona alle 4.00, un'ora prima della fine del coprifuoco, e tutti si preparano a uscire. 
Alcuni ragazzi si infilano subito la divisa di scuola, per raggiungere i loro licei che si trovano anche dall'altra parte della città. 
Hyukjae solitamente ricontrolla che le liste siano complete e che l'organizzazione sia stata efficiente. Lo è quasi sempre.
Là sotto non c'è niente fuori posto; ognuno ha la sua mansione, e ognuno fa quel che deve senza obiezioni. 
Quando tutti escono, rimangono solo loro là sotto. Lui e i suoi amici, che ormai sono suoi fratelli.
Durante quelle interminabili giornate non importa quanto debbano fare per il rifugio, gli allenamenti e tutti gli impegni, ci sarà sempre un momento in cui rimangono da soli senza far niente e allora li prende lo sconforto. Sono solo undici. Chiunque sappia chi sono (e in Corea lo sanno TUTTI) non può fare a meno di notare che ne mancano due. 
Uno degli incubi ricorrenti di Hyukjae riguarda queste due persone, e stanotte puntualmente è venuto a tormentarlo. Si alza a sedere di scatto e si asciuga la fronte sudata. Si alza, cerca di non pestare nessuno degli addormentati e poi corre in bagno.
Da quando sono loro a occuparsene, il bagno della stazione della metropolitana ha assunto un aspetto quasi accogliente. Profuma ed è sempre pulito. Hyukjae ringrazia il cielo ogni volta di non doversi chinare in un cesso sporco e puzzolente per vomitare. Regge spasmodicamente i bordi della tazza e si svuota, con le lacrime agli occhi. L'odore non fa altro che aumentargli la nausea, lo stomaco è sottosopra e il suo corpo trema, come se fosse stato svuotato di tutte le sue energie. Alza la testa e si asciuga le lacrime; rimane qualche secondo in ginocchio prima di trovare la forza di rialzarsi e tirare l'acqua. Esce e si sciacqua la bocca sotto la cannella. Sa che non serve a niente; in gola sente ancora l'orrido sapore della sua cena parzialmente digerita e finita ora nelle fogne. 
Il riflesso nello specchio è spaventoso. Se le mie fan mi vedessero ora si preoccuperebbero, pensa. E' ancora più magro di un tempo. Adesso il cibo scarseggia e anche quel poco che mangia finisce per vomitarlo. Chiude gli occhi e respira a fondo. I polsi sono diventati sottili come grissini e gli zigomi sono ancor più pronunciati. Si ravvia i capelli arruffati, si liscia la maglietta spiegazzata e fa per tornare a letto. 
La porta del bagno si apre lentamente e lo fa trasalire. 
Yesung si chiude dentro e poi si appoggia contro la porta guardando Hyukjae negli occhi. I suoi capelli rossi sembrano fiamme, ma non sono nulla in confronto a quello sguardo. 
«Hyung…», mormora Hyukjae con un fil di voce.
«Non dire niente. Non voglio la tua compassione».
Yesung si siede a terra. Ha già l'aria un po' brilla, gli occhi lucidi e una bottiglia ancora chiusa di soju in mano. Hyukjae si chiede dove l'abbia trovata.
«Secondo te», esordisce Yesung con la sua voce calda, mentre stappa il soju e se ne scola una bella sorsata. «Li tengono in un campo di internamento o li hanno ammazzati subito?»
Hyukjae inizia a sudare freddo. Apre bocca un paio di volte, e poi la richiude. 
«Spero li abbiano uccisi», prosegue Yesung, e Hyukjae scivola a sedere sul pavimento. Non sa più da che parte guardare. E' come se in questo momento qualcosa di pesante gli opprimesse la cassa toracica e gli impedisse di respirare.
«Ho sentito cose orribili su quei posti. Roba che i lager nazisti non sono niente in confronto. Ti usano come cavia umana per esperimenti che non oserebbero condurre neppure sugli animali, oppure si divertono a torturarti. Hanno inventato più tecniche per farti urlare loro dei cinesi. Ovviamente molte le hanno fregate proprio ai cinesi. Una è quella dell'estrarti le unghie una a una e infilarti le dita nel sale…»
«BASTA!», lo interrompe Hyukjae. Inizia a singhiozzare, reggendosi la testa che sta scoppiando. Anche Yesung piange, ma continua a buttare giù il suo soju.
Hyukjae sa bene in cosa consistano i campi di internamento. Pur di non pensare che soffrono, anche lui alla fine ha iniziato a sperare contro ogni logica che Heechul e Leeteuk siano morti.
Yesung lo guarda: nel suo sguardo c'è l'amore di un genitore per il figlio. Gli allunga la bottiglia di soju. 
Hyukjae la afferra e suo malgrado se la porta alle labbra.

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Capitolo 3
*** Seoul Chronicles - Chapter 2 ***


INTRODUZIONE Mi scuso in anticipo. In prim luogo perchè ho ricopiato il capitolo direttamente da deviantArt e quindi non sono stata molto dietro a errori e correzioni. In secondo luogo perchè questo è uno dei capitoli che mi soddisfa meno nella parte relativa ai SuJu. Mi perdonerete?


Forse è opportuno spiegare cosa sia successo, però. 
Alle 21.27 del 6 settembre, ora coreana, Anne McDevory, 16 anni, sta guardando in streaming sul computer la puntata in diretta del nuovo veriety con i Super Junior, nella sua casa nel Vermont. Distesa sul letto, con le finestre tappate sgranocchia popcorn  contraendo le meningi e cercando di capire qualche passaggio dei dialoghi. Da quando Leeteuk è partito per il servizio militare non è più lo stesso, ma i ragazzi cercano di andare avanti. Ora l'MC è Eunhyuk. Mentre chatta su skype con  Stacey, anche lei davanti allo schermo del pc per il solito motivo, entrambe si trovano d'accordo sul dire che oggi il rapper ha qualcosa che non va. Guarda continuamente fuori camera. Ad un tratto si sente un fischio continuo. Tutti gli ospiti della trasmissione alzano gli occhi al cielo.
-Woah, sarà un colpo di scena, una sorpresa?, scrive Stacey. 
Tutti però si alzano in piedi. Sunny delle Girls' Generation sta urlando, ma ben presto quasi tutti le fanno compagnia. Rovesciano panche e sgabelli e corrono via mentre il fischio si fa più forte.
-CHE CAZZO STA SUCCEDENDO?!
Anne per lo spavento ha lasciato cadere i popcorn sulla moquette.
Tutti se ne sono andati, tranne Eunhyuk che dal punto in cui era ha dovuto prima far passare il resto degli ospiti, e ora sta scavalcando le panche in tutta fretta. Un rombo assordante e l'inquadratura che traballa. Sul computer di Anne è comparso per qualche istante il logo della SBS. Poi una schermata nera. 
Nello stesso momento, qualche meridiano più a ovest, Barbara, 20 anni, sta girando per il centro di Roma con il suo cellulare. Sono le due e mezza locali e il sole batte a picco sulle mattonelle della strada. Con il suo gelato in mano sta disperatamente cercando una rete wi-fi, e quando finalmente la trova, ci mette qualche secondo prima di collegarsi a twitter. Scorre un po' la t-list. Sembra che parlino di un programma. Ah, certo, il nuovo variety show con i Super Junior! Perché lei oggi doveva finire il turno alle una? In breve riesce a farsi un'idea di ciò che è successo; perlomeno delle espressioni dei partecipanti, visto che per capirci qualcosa si dovranno aspettare i sottotitoli in inglese.  A un certo punto però la t-list va nel panico. Barbara si avvicina il cellulare agli occhi per vedere meglio. 20 nuovi tweet. 40 nuovi tweet. Impossibile fare in tempo a leggerli tutti.
@Kpop_fan_2000
CHE CACCHIO STA SUCCEDENDO?!
@JJSeoul
C'E' UN TERREMOTO???
@MyBiasIsAJHSAHDFS
Ma cos'è? Uno scherzo?
@Mary_Hallyu
SUNNY STA PIANGENDO!!! ODDIO CHE STA SUCCEDENDO, HO PAURA!
@__SHINee_Boo
Hey! Perché stanno scappando tutti?!?

Nello stesso istante le sorelle Kim, Sehyung, 16, e Youngjoo, 12, vedono la stessa trasmissione in tv, sedute in salotto nell'appartamento in cui vivono con tutta la famiglia, a Seul. La piccola Youngjoo stringe fra le braccia un cuscino con stampata la faccia di Siwon, e i suoi occhi liquidi sono diventati tutt'uno con le immagini sullo schermo. Non sa, o forse non trova rilevante che mezzo mondo sta guardando in diretta quelle stesse immagini, non curante dell'orario o della connessione internet che va a rilento, né tantomeno sospetta quel che sta per accadere.
«Eonnie…», dice la piccola, senza distogliere lo sguardo dalla tv.
«Mhm?», le risponde la sorella.
«Sento un fischio. Non sarà che il tè è pronto?»
Sehyung si alza, liscia i pantaloncini del suo pigiama rosa tenue, si infila le pantofole e si trascina in cucina, legandosi i lunghi capelli in una coda. 
Arrivata ai fornelli alza il coperchio della teiera. 
«Mah…», borbotta perplessa. L'acqua non sta ancora bollendo. Ma allora che cos'è questo fischio? Ora lo sente distintamente anche lei.  Guarda sua madre seduta al tavolo che sta facendo le parole crociate.
«Mamma, cos'è questo rumore?», le domanda.
La donna alza gli occhi e tende le orecchie. 
«Sembra provenire da fuori…»
Con un rapido gesto Sehyung spegne il fornello e si precipita ad aprire la finestra, poi si sporge dal davanzale e guarda il cielo ancora non del tutto rabbuiato.  Lassù, decine di aerei stanno sorpassando le montagne, e dalle loro pance metalliche cade qualcosa che fa un fischio stridulo e assordante. Poi grandi nuvole di fumo si alzano dai grattacieli. Sehyung si gira tremando verso sua madre, che la guarda con gli occhi sbarrati per la paura. 
«PORTA FUORI TUA SORELLA!», le urla la donna alzandosi di scatto e lasciando cadere la sedia a terra. Sehyung scappa in salotto urlando "merda,merda,merda" a più non posso. Un rapido sguardo alla tv dove tutti urlano e scappano, poi afferra la sorellina per il polso e senza neanche darle il tempo per infilarsi le scarpe la trascina a rotta di collo giù per le scale del palazzo. 
«Che succede???», le sbraita dietro la bambina, piangendo. NON LO SO, YOUNGJOO, NON LO SO!!!, vorrebbe urlarle, ma finirebbe per scoppiare in lacrime anche lei. Non è pratica di queste cose, ma è abbastanza sicura di aver visto qualcuno sganciare delle bombe su Seul.

«Cominciamo fra 10 minuti»
«Ok, sono quasi pronto», risponde Hyukjae. La donna con l'auricolare annuisce e richiude la porta del camerino. Il ragazzo sospira, lisciandosi la maglietta sul petto e ravviandosi i capelli. Prende il mazzo di fiori secchi posati sulla specchiera e mentre esce li getta nel cestino.
«Due minuti alla messa in onda!», annuncia la voce metallica della regia. Hyukjae rimette in ordine il suo copione da dietro il bancone dell'MC. Da quando non c'è Leeteuk gli resta ancora un po' difficile fare tutto questo da solo, specialmente oggi che è arrivato in ritardo allo studio.  Passa in rassegna con lo sguardo tutti gli ospiti della trasmissione che hanno già preso posto sulle loro panche. Hyoyeon incrocia il suo sguardo e gli sorride.
Non oggi, ti prego, pensa Hyukjae. Non oggi che è tornato all'agenzia solo per constatare che Yangee non ha preso i suoi fiori. Continua a guardare, sparsi per lo studio ci sono tutti e otto i Super Junior che chiacchierano fra loro come stessero prendendo il tè. Certo, mica sono loro a dover condurre un programma. 
«Eccomi»
Hyukjae si gira. 
«Hodong sunbae, ci siamo tutti»
«Fantastico scusa il ritardo, mia moglie era rimasta chiusa fuori di casa coi bambini…»
Hyukjae sorride divertito al vecchio MC Kang Hodong, e gli sistema il cravattino che per la fretta gli si è spostato.
Per lui ormai è come un amico. Hanno condotto insieme anche Strong Hearts, quando ancora c'era Leeteuk. 
«Tre, due….!», annunciano dalla regia mentre parte il gingle della trasmissione e Hyukjae sfodera il suo miglior sorriso per i telespettatori.
«Buona sera e ben sintonizzati su Star Chat Box!», annuncia. Tanto lo so che mezzo mondo sta ridendo di come pronuncio l'inglese, pensa senza smettere si sorridere.
«Io sono il vostro Jewel Boy, Eunhyuk dei Super Junior, piacere!»
Attacca Kang Hodong e Hyukjae non è più camera. Sospira e legge nel copione le sue prossime battute.
Alza lo sguardo proprio mentre fuori dall'inquadratura , pochi metri più in là, la porta d'ingresso allo studio si apre senza il minimo rumore, una ragazza sgattaiola indisturbata fra il pubblico e va a sedersi nelle prime file. Hyukjae guardandola si è perso la battuta per cui tutti gli spettatori stanno ridendo, e non si è neanche accorto che è inquadrato. Abbozza una risata, lo show deve proseguire.
Mi era sembrato di vedere Yangee per un attimo, ma mi sarò sbagliato. Sono così fissato che ormai la vedo ovunque, si rinfaccia fra sé.
«Il nostro prossimo argomento saranno le vostre love story!», annuncia Kang. Gli ospiti applaudono sorridenti, ormai lo show è entrato nel vivo. Eunhyuk lancia un rapido sguardo al pannello elettronico. E' passata quasi un'ora. La ragazza è troppo in ombra perché possa distinguerla, ma quella sagoma gli è così familiare.
«Dunque Hyoyeon, parlaci delle tue lovestory!»
Proprio lei? Perché?? , pensa disperato Hyukjae anche se fuori è una maschera impassibile. 
«Oddio, no mi vergogno!»
«Una bella ragazza così… c'è un uomo nella tua vita?»
«Sì», Hyoyeon si ravvia i capelli sorridendo e arrossisce. Hyukjae è perplesso. C' stato un tempo in cui erano davvero amici per la pelle. Perché ha dovuto rovinare tutto?
«Possiamo sapere chi è?»
Hyukjae guarda preoccupato in platea. La ragazza non si è mossa.
«Eunhyuk-sshi, ti vedo distratto!», la voce di Kang lo riporta bruscamente alla realtà?
«Cosa?»,balbetta.
«Non è che hai una ragazza che ti frulla in testa anche tu?»
Il pubblico applaude e ride. Solo la ragazza che sembra Yangee non si muove.
«Ah, Hodong Sunbae, ma cosa dici…?»
La ragazza si alza, e il suo volto è finalmente visibile nella penombra.
Hyukjae ha un sussulto, ma sorride. Yangee non ricambia. Yangee sta piangendo. 
«Oh!», interviene Ryeowook. Hyukjae si gira verso di lui, malgrado tutto non deve dimenticare che è in diretta in questo momento. Ma Yangee ha il volto rigato di lacrime e non può fare a meno di sentirsi in colpa.
«Ryeowook-sshi!», Hyukjae lo esorta a continuare, avvicinandosi a lui, nella terza fila di panche.
«Niente, sentite anche voi questo fischio?»
Kang interviene ridendo: «Il nostro piccolo Ryeowook ha le traveggole!»
La gente ride.
«No, seriamente, lo sento anch'io!», esclama Siwon. Due secondi di silenzio.
«E' vero!», iniziano a mormorare tutti.
«Ahahah, pubblico a casa, ecco le scuse che si inventano i vostri idol per non parlare delle loro storie d'amore!», esclama Hyukjae, beccandosi una gomitata da Ryeowook. 
Il fischio però si sente davvero. Lui stesso ora alza gli occhi verso il soffitto, mentre il rumore aumenta d'intensità.
«Che sta succedendo?», mormorano gli ospiti. 
Tutti si guardano attorno sconcertati.
Dalla platea si alza un brusio mentre i tecnici corrono tra le file di poltroncine a rotta di collo urlando alla gente di uscire.
«Scusate, c'è stato un piccolo problema tecnico, stiamo cercando di risolverlo...», Hyukjae non capisce più niente. Il rumore sta aumentando e i cameramen e il regista stanno facendo segni disperati indicando l'uscita di emergenza. Se ci fosse Leeteuk, saprebbe cosa fare ora, pensa il ragazzo. Deglutisce: «… vi preghiamo di dirigervi verso le uscite d'emergenza per precauzione…»
Anche gli ospiti della trasmissione si stanno alzando, nervosi. Il visetto di Sunny è contratto in una smorfia di apprensione e si guarda intorno come se le mancasse l'aria. Poi un botto in lontananza. La ragazza sussulta e caccia un urlo e inizia a piangere aggrappata a Hyoyeon. Stanno correndo tutti fuori.
Hyukjae guarda Yangee. E' ancora lì, in piedi e stringe i pugni. Ogni tanto sparisce dietro la gente in fuga, poi riappare, come se fosse immobile in mezzo a una giostra. Ha il viso rigato di lacrime. Hyukjae vorrebbe correrle incontro e dirle di scappare, ma è paralizzato. E' nell'angolo più lontano e davanti a sé Ryeowook deve ancora liberarsi dagli ostacoli delle panche che si sono rovesciate in mezzo a quel casino, ma appena ci riesce scappa fuori dall'uscita, confondendosi con la massa. Il fischio ormai è diventato assordante. Dura almeno dieci secondi prima del botto. Il frastuono è assordante, tutto trema mentre dal soffitto cadono dei riflettori. La gente rimasta in sala urla, mentre le grosse telecamere sotto il palco cadono a terra con un suono di metallo e vetri in mille pezzi.
Hyukjae ha letteralmente il cuore in gola. Che diamine sta succedendo? Non vede neanche più Yangee. La gente sta gridando e piangendo. Almeno una ventina di persone sono ammassate vicino all'uscita di emergenza.  Perché non escono?
Hyukjae si sente svenire. Una trave del tetto è caduta davanti alla porta, rendendola inagibile. Ecco un nuovo fischio, stavolta così forte da far male.
«Al riparo!», grida invano, e si getta sotto l'unica panca rimasta in piedi, avvicinandosene un'altra rovesciata per coprirsi dal lato. Si tappa le orecchie e stringe i denti. Sta piangendo. 

Hyukjae trema come una foglia. Non di paura, né di freddo. Quelli che gli percorrono le gambe e gli fanno battere i denti sono più gli spasmi di quando le forze hanno totalmente abbandonato il tuo corpo. Come dopo  essere scesi dal Giro della Morte e sei stato così rigido che ora anche camminare ti costa fatica.
Non ha smesso un attimo di piangere; con i denti stretti e in posizione fetale sotto una panca strettissima non singhiozza più, ma le lacrime continuano a scendere. 
Saranno passate su per giù due ore da quando l'esplosione ha raso al suolo l'edificio: e lui è vivo. Sente un fischio continuo nelle orecchie, dopo quel botto c'è da aspettarsi che sia una  diventato sordo. 
Voglio uscire, voglio svegliarmi, pensa. Ma non è un sogno e lo sa bene. I fumi della nuvola rossa sono penetrati così in profondità che hanno scavalcato anche il suo rifugio improvvisato, e il polpaccio destro gli lancia una fitta atroce. Non importa, sono vivo grazie a Dio, continua a ripetersi. La panca ha retto per miracolo; dal frastuono che c'è stato dev'esserci crollato sopra mezzo tetto, ma evidentemente la bomba è esplosa lontano, sopra la platea.
Adesso però non può continuare a restare qui. Gli manca l'aria, fa caldo ed è nella stessa posizione da troppo tempo.
Lentamente allunga una mano a toccare i calcinacci e i mattoni che crollando gli hanno tappato ogni via d'uscita. Sono ancora caldi. 
Con uno sforzo di volontà, anche se sente le lacrime tornare a pungergli gli occhi inizia a spingerli via con i piedi e scava con le mani disperatamente finchè non si apre miracolosamente uno spiraglio e non sente un getto d'aria fresca accarezzargli il volto ormai violaceo per la mancanza d'aria. Chiude gli occhi umidi e inspira. Poi con ancor più foga di prima riprende a spingere via i detriti, finchè anche l'ultimo non rotola via alzando un nuvolone di polvere. Hyukjae striscia fuori tossendo e avanza carponi sul pavimento che ormai è una distesa indistinta di calcinacci appuntiti. Riprende fiato, e si guarda smarrito intorno tentando di riconoscere in quella distesa di rovine traballanti lo studio televisivo di poche ore prima. Il tetto e un pezzo di muro sono stati completamente strappati via dall'esplosione. Ai piedi della parete ancora intatta, l'enorme megaschermo  dietro il bancone dell'MC giace a terra fumante e con il vetro completamente in pezzi.  Si accorge solo ora di quanta aria gli fosse mancata. La testa gli fa male e continua ad ansimare come fosse stato sott'acqua in apnea per ore. Tenta di mettere a fuoco. La platea è irriconoscibile. Sono solo una cinquantina di file di scheletri fusi di poltroncine che emanano un odore tossico. Le poltrone più lontane non sono ancora del tutto consumate: la stoffa rossa continua a ardere scoppiettando. 
Con uno sforzo incredibile riesce ad alzarsi, anche se procede malfermo e il terreno è irregolare. Zoppica, e ha i pantaloni bruciati fino al ginocchio: il polpaccio è diventato carne da macello. Tenta di ignorare il dolore e raggiunge l'uscita di emergenza. Via via che si avvicina tenta di capire cos'è quella cosa nella penombra. Quando lo realizza è troppo tardi; si regge alla parete con una mano, l'altra la porta al collo mentre qualcosa dentro si smuove, come un vulcano in eruzione. Deve fermarlo, deve riuscirci, ma è più forte di lui: china il capo e vomita, sentendo le lacrime pungergli gli occhi. 
La cosa sono persone. Tutte pressate insieme, come un mostro con tante teste, e non hanno più la pelle da quanto sono bruciate. Non hanno fatto in tempo a uscire e la bomba è caduta esattamente su di loro. Barcollando indietreggia; uscirà dalle quinte. Ma non importa quanto si faccia lontano, sa che la visione lo tormenterà per sempre. Specialmente la ragazza. Sa che la sua memoria si è impressa a fuoco il braccio scheletrico teso verso l'alto, i muscoli del viso contratti in un grido muto e soprattutto gli occhi liquefatti e lattiginosi. Pur senza pupille sembrava che lo fissassero. Chissà quanto rimarrà lì, con i capelli scompigliati dal vento, senza che nessuno senta le sue urla…
Scivolando dietro le quinte, constata che laggiù i danni sono molto più limitati. E' crollato tutto il telaio dei riflettori e delle corde di scena, e ai carrelli sono appese file di grucce infuocate. I vestiti hanno preso fuoco e si sente la puzza insana delle fibre sintetiche fuse. Deve uscire al più presto. Zoppica fino alla porta di metallo. Prima ha visto che un fattorino stava scaricando una tanica d'acqua da lì, perciò presume che dia sulla parallela alla strada principale. Spinge la maniglia e apre. La brezza notturna gli scompiglia i capelli arruffati. Sente che ora potrebbe anche svenire di sollievo. La richiude alle spalle, e rimane in piedi nel vicoletto buio, a respirare l'aria a pieni polmoni. C'è qualcosa di strano stasera. A parte i bombardamenti. L'ha chiaramente percepito anche poco fa, sotto il tetto sbranato. Osserva meglio il cielo, e trattiene il fiato qualche istante. Non ha mai visto una notte così stellata a Seul. I lampioni sono tutti spenti, e sembra di guardare il cielo dalla campagna.
Un piede dietro l'altro, a fatica gira l'angolo  e si ferma in silenzio.
Seduti sul bordo del marciapiede, ci sono tutti e otto. Guardano la strada, dove un'intera colonna di auto bruciate (alcune addirittura capovolte, altre ancora ardenti), sono ferme a un semaforo che non diventerà mai più verde. Non dicono niente, addirittura i loro respiri sono inconsistenti. Posano l'uno la testa sulle spalle dell'altro come se aspettassero qualcosa. Vorrebbe vedere le loro facce, ma sono tutti rivolti di spalle.
«Mhm…», si schiarisce la voce, arrochita dai fumi che ha respirato finora. Tutti drizzano il capo e si girano verso di lui. Sungmin ha il viso rosso e bagnato e lo fissa come se si trovasse davanti a un'apparizione mistica. Tira su col naso, ed è l'unico rumore che si sente. Forse si aspettano che dica qualcosa lui?
«Andiamo a casa…»
Non fa in tempo a finire di parlare che tutti e otto balzano in piedi e gli si attaccano al collo. Sungmin gli singhiozza nell'orecchio e continua a strisciargli le guance umide sul collo.
«Abbiamo passato un'ora terribile, tutti avevamo paura che fossi morto e nessuno aveva il coraggio di dirlo e siamo stati qui ad aspettarti tutto il tempo!», piagnucola Donghae. 
Un'ora. Hyukjae avrebbe detto molto di più. 
«Che è successo?», domanda mentre a poco a poco i Super Junior si allontanano da lui. Solo Sungmin rimane a piangergli sulla spalla. 
«Che ne so. Cioè, è facile dedurre che la città è stata bombardata, ma non siamo sicuri su chi sia stato. L'elettricità è stata tagliata e guarda,» prosegue Shindong  mostrandogli il display del cellulare, «Niente rete. Tutto kaputt.»
Hyukjae annuisce, allontanando delicatamente Sungmin e barcollando fino al bordo del marciapiede dove si siede con un sibilo. Maledetto polpaccio, per un'ustione tutte queste storie?!, sdrammatizza fra sé. 
«La casa più vicina a qui è quella dei tuoi, Yesung. Voi siete tutti interi? Io non credo riuscirò a camminare così a lungo…», tenta di fare mente locale. I ragazzi si guardano negli occhi, ma nessuno apre bocca. 
«Veramente …», alla fine è Shindong, come sempre, a farsi coraggio. 
«Che?»
«La madre di Teuk vive a due isolati da qui».
Hyukjae sospira. Poi suo malgrado annuisce. In fondo non pensa che la signora Park negherà loro l'accoglienza, almeno per stanotte. Anche se Leeteuk non c'è…
«Eunhyuk, non preoccuparti, sorreggiti a me…», Kyuhyun gli tende il braccio per farlo alzare.
«Tu», lo apostrofa Hyukjae, accettando la proposta suo malgrado. «Devi essere realmente sconvolto se ti offri di aiutare me»
«Ah, piantala scimmia o ti lascio qui!»
«Mhm… era troppo bello per essere vero!»

Jinyoung si gira. Non sente più il calore della mano di sua sorella. Gli è scivolata fra le dita come un drappo di seta.
«Noona!», grida correndo sui suoi passi e cadendo i ginocchio vicino all'esile corpo della ragazza.
«Mhm..», è l'unico suono che le esce di bocca prima che con un rigurgito rivoltante dalle sue labbra non inizi a colare un rivolo scuro. La ferita all'addome è troppo profonda, non può camminare.
«Dobbiamo chiedere un passaggio…», singhiozza Jinyoung incespicando per rimettersi in piedi. 
Non passano macchine però. La strada è buia, l'unica luce proviene dal cofano della macchina su cui viaggiavano, in fiamme. Le ferite del ragazzo sono niente in confronto allo squarcio che i detriti dell'esplosione hanno provocato nello stomaco della sorella maggiore. 
«Jin……young…»
«Non parlare», la supplica il ragazzo tornando a chinarsi su di lei e accarezzandole una guancia. Gli occhi liquidi della ragazza non guardano niente in particolare, sono come due pozzi neri in cui danza il riflesso delle fiamme. Continua a ansimare come se non riuscisse più a sentire l'aria.
«Augurami… la buona…notte», rantola e cerca di aggiungere un sorriso debole e privo di sguardo. Jinyoung piange scuotendo il capo, ma la sorella a fatica gli afferra la mano come per esortarlo.
«Baby goodnight, dormi tranquilla, e ora sto ballando, ballando al chiaro di luna…», tira su col naso asciugandosi le lacrime con la spalla, poi prosegue: «Uohohuhoh oh…»
La ragazza chiude gli occhi sorridendo.
Non si sforza neanche più di respirare e appoggia la testa nell'incavo del collo del ragazzo.
«Dì a mamma e papà… che vorrei… che fossero qui».
«Noona non dire sciocchezze. Potrai dirglielo tu», singhiozza Jinyoung. Le gli strofina il naso sul collo, come se stesse scuotendo il capo, e lui le accarezza le scapole fragili.
«Smetti…  sto… morendo…», sussurra con un fil di voce ancor più sottile di prima.
«Smettila tu. E' solo un taglietto, ora montiamo sulla prima macchina e ci facciamo portare all'ospedale…»
«C'erano tante cose…»
«Smetti».
«… che volevo fare…»
«SMETTI! Le farai, LE FARAI! Ti porto in ospedale e quando starai bene troverai un uomo e ti sposerai. Farai il viaggio di nozze in Olanda che hai sempre sognato e al ritorno scoprirai di essere incinta e diventerò zio! E' così che andrà!», urla il ragazzo stringendola più forte. Fa' che arrivi un'auto ora, arriva, ti prego!
«Trova... una brava... moglie...», l'ultima parola è quasi sussurrata. Jinyoung ha smesso di sentire il suo respiro sulla pelle. Le ultime parole di sua sorella sono: «Le canterai per dirle che la ami. Prometti».

Soon Mi osserva dalla cima del monte su cui è atterrato il suo aereo la città, nella valle. Non somiglia a niente di mai visto; le mancano i film americani apocalittici in cui si vedono città distrutte e fumanti come ciminiere. Gli angoli distrutti dei tetti dei grattacieli però le sembrano giganteschi biscotti mordicchiati.
«Tenetevi pronti, si inizia a scendere fra 10 minuti!», annuncia il capitano. 
Min Ji accanto a lei guarda le costruzioni bombardate, ma è come se con i suoi occhi riuscisse a vedere oltre quei muri grigi e spessi. E' come se stesse guardando le vite che le popolavano fino a poche ore prima, le vede dalla nascita e il suo sguardo le segue mentre crescono, trovano un lavoro, si innamorano, mettono su famiglia e magari ogni tanto c'è qualche difficoltà ma la superano. Min Ji riesce a vedere tutto questo nei muri crettati e nei tetti scoperchiati e vorrebbe che lo vedessero tutti. Avete bloccato l'enorme meccanismo creato da queste persone, e avete reso vani anni di vita vissuta con fatica. Non è come schiacciare una formichina sapendo che al resto del formicaio non importerà niente. Qualcuno verserà lacrime fino anche sul letto di morte in memoria di questa sera.
Soon Mi in un certo senso ammira la capacità di Min Ji di immedesimarsi in ogni situazione con tanto pathos; è un dono che a lei manca. Min Ji è sensibile e si perde in pensieri altamente filosofici; Soon Mi ha imparato a leggere la sua espressione e ormai sa quando i pensieri le scorrono in testa come fiumi attorcigliati. Non prova mai a capirla però: al contrario lei è molto pragmatica. I suoi pensieri si dividono in causa-effetto-soluzione, ed è un'ottima stratega, ma quando si tratta di cose più astratte le etichetta come inutili viaggi mentali, e le ignora. Soon Mi sente le cose con la pancia. Mentre Min Ji deve dare un nome a tutto, Soon Mi non si prende neanche la briga di riflettere troppo se quello che sta provando le piace o meno. Lo prova. Punto.
Adesso però vorrebbe dare un nome alla tempesta che ha dentro. Non saprebbe neanche descriverla, ma se dovesse associarla a qualcosa è simile alla sensazione di quando hai la febbre alta.
Si sente una scatola dentro cui è stato liberato un tornado e sente caldo e freddo insieme, la testa gira e qualcosa preme per uscirle dalla gola, qualcosa che non si capisce se è vomito o voce. 
Che faccio? Non posso, non posso!, si sorprende a formulare dentro di sé. Non posso cosa?
Guarda nuovamente la città con un nodo in gola. 
Causa: il regime sta invadendo la Corea del Sud. Effetto: bandiranno la musica anche da qui.
Soon Mi non si apre facilmente agli altri e Min Ji è l'unica a cui ha confessato quel che pensa. Non c'è veramente una ragione dignitosa per cui valga la pena voler vivere in Corea del Nord. Non è raro che ragazzi anche molto giovani tentino di suicidarsi, a volte con successo.
Soon Mi è una capa tosta; ci sono state volte in cui se ne è fregata delle regole e ha fatto valere le sue ragioni alzando la voce. E' finita sempre in punizione.
Quando lavava le pentole della mensa o rimaneva chiusa in detenzione per ore a scrivere intere pagine di codice civile sul quaderno però pensava sempre: non voglio diventare la moglie di un uomo violento come mio padre. Non voglio finire in vecchiaia e non avere neanche più il coraggio di alzare gli occhi dal pavimento. Io valgo più di questo! Sono la studentessa più intelligente della scuola, diamine! Voglio morire piuttosto che finire al servizio di uno stupido. Voglio sposare un uomo che sappia cos'è l'amore. 
Con la punta della penna, quasi senza accorgersene, scriveva "Leeteuk" a bordo pagina. Poi lo sottolineava, faceva per disegnarci un cuore, si fermava, lo cancellava con un frego veloce e tornava al suo castigo. 
A casa però si chiudeva in camera ogni volta, accendeva il vecchio portatile e a volume bassissimo ascoltava il cd lasciatole da Yangee. In quei momenti poteva anche piangere a dirotto, ascoltando le parole d'amore che nessun uomo le avrebbe mai dedicato.
Adesso in un certo senso si sente Min Ji. Con quella pessima sensazione che non fa che gonfiare, pensa a tutte le ragazze che anche lì ormai non riceveranno più una singola dolce canzone dai loro fidanzati. E quando saranno  poveri e affamati, si dimenticheranno anche loro dell'amore e il più debole diventerà succube del più forte.
«Avanti march! Attenti a dove mettete i piedi, nel bosco non ci sarà illuminazione. Muovetevi!»
Nel cuore di Soon Mi il sentimento prende finalmente una forma e una consistenza. Sono tre parole, che pesano come un macigno. Abbiamo rovinato tutto.
Soon Mi caccia indietro le lacrime e avanza, imbracciando il suo fucile.

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Capitolo 4
*** Seoul Chronicles - Chapter 3 ***


La signora Park strizza la garza nella bacinella e poi tampona il polpaccio di Hyukjae. Lui stringe i denti e serra i pugni, ma gli sfugge ugualmente un sibilo. La madre di Teuk fa finta di non sentire e continua.
«Come va la spalla?», gli domanda con la sua voce bassa e ruvida. Hyukjae prende un lungo respiro prima di parlare.
«Bene. Se non te ne fossi accorta tu probabilmente non l'avrei neanche notato».
«Questo polpaccio deve fare male se non ti sei reso conto di avere la spalla lussata…»
I discorsi con la mamma di Teuk sono sempre stati concisi. Da sempre ha avuto l'impressione di non piacergli. Non riuscirebbe a immaginarla nel ruolo di madre affettuosa, e non sa quale infanzia può aver dato a Leeteuk. Forse proprio per non assomigliare a lei, così chiusa e taciturna, lui ha sviluppato quel carattere apparentemente estroverso e loquace. Ovviamente sa che non è così, che in realtà mentre scherza dentro vorrebbe solo urlare: FATEMI DORMIRE!, e sbattere la porta in faccia a qualcuno.
La madre di Leeteuk è così diversa dalla sua. La sua ha i capelli neri non troppo lunghi, ma curati, porta occhiali con lenti rettangolari dalle punte stondate e si mette sempre un filo di rossetto color carne, anche se inizia a invecchiare e intorno agli occhi ha già delle rughe sottili. Si veste in modo semplice ma non è mai trasandata e con l'età che avanza ha iniziato ad avere un profilo più morbido e le guance più piene. Forse è tutto relativo, ma per lui le mamme dovrebbero essere tutte così. 
Quella di Teuk invece no. Ha i capelli corti, di chi non ha il tempo di occuparsene e il viso liscio e senza rughe, ma ugualmente tondo. Non cura il suo aspetto o l'abbigliamento e si veste sempre di tonalità tristi e cupe. La cosa che più lo disturba in effetti però sono gli occhi. Tondi e con le palpebre infossate. Non saprebbe dire se le ha così per la stanchezza perché li ha sempre viste in quel modo, ma sa che il padre di Teuk probabilmente la picchiava. Forse l'alone di dolore lasciato da quel periodo su di lei si è impresso scavandosi intorno ai suoi occhi.
Non ha mai chiesto agli altri membri dei Super Junior come si comportasse con loro, forse una volta che la donna se ne va, non gli rimane altro che un alone di tristezza addosso. 
«L'altro giorno ci ha chiamato Leeteuk». Nessuna reazione. La signora Park continua a disinfettargli la ferita con cura e non cambia espressione.
«Le solite cose. Il cibo che fa schifo e nell'ultimo mese ha perso un altro kilo. E' schizzinoso lui per il mangiare, lo sai… ci tornerà pelle e ossa…»
Hyukjae pensa che la prima preoccupazione di una madre sia che il figlio mangi bene. Almeno funziona così a casa sua. La signora Park però non sembra interessata.
«Poi mi ha detto… di passare a portarti il nostro ultimo album. Anche se non lo canta lui credeva che ti avrebbe fatto piacere. Forse si sbaglia…»
«Portamelo appena puoi».
Hyukjae non fa in tempo a finire che la signora Park, pur senza alzare lo sguardo dalla sua gamba, lo ha interrotto. Suo malgrado il ragazzo sorride…
«Okay. Te lo porto in settimana».
«Ti ha detto cosa vorrebbe mangiare?»
«Ha fatto un accenno ai tuoi frullati di banane».
La donna sorride, bagna di nuovo la garza e la ristrizza.
Hyukjae guarda fuori. Sono in salotto, e lui siede di fronte alla porta finestra che dà sul balcone. Non riesce a smettere di sbalordirsi per quante stelle ci siano. Il cielo è così luminoso che non c'è bisogno di luce artificiale per  vedere. Anche perché non c'è corrente. 
«Sai perchè sto sorridendo?»
«No», ammette Hyukjae. Effettivamente la signora Park non si è tolta quel sorriso di faccia un secondo.
«Ogni volta che Leeteuk passa un momento difficile o è sommerso di lavoro mangia pochissimo. Poi però viene a farmi visita e dice: "Ah, sono contento di quel che ho fatto!", e mi chiede di fargli il frullato di banane per brindare».
Forse ha sottovalutato la madre di Teuk. Forse anche se non lo mostra fuori, sa essere affettuosa e sa godere dei piccoli momenti felici che può avere con suo figlio. Forse prima non era così, ed è colpa del marito.
«Fatto», annuncia dopo averlo bendato. Si alza e porta via la bacinella dell'acqua. Incrocia Ryeowook che sta entrando in salotto. 
«Com'è?»
«Wook, che hai fatto?
«Qui?», domanda il ragazzo indicandosi un cerotto sulla fronte, «Mi è caduto un pezzo di grondaia in testa mentre uscivo. Verrà il bernoccolo…»
Hyukjae annuisce, mentre Ryeowook prende una sedia e la trascina accanto alla sua.
«Siamo gli unici due infortunati, dunque?»
«Grazie al cielo pare di sì».
I due rimangono qualche minuto in silenzio, guardando il cielo, fuori dalla finestra. 
«Sono almeno dieci anni che non mi fermo a guardare un cielo così. Sembra di stare nello spazio da quante stelle ci sono…», sussurra il più piccolino dei due, aprendo la porta finestra e lasciando entrare la brezza notturna.  Hyukjae annuisce.
«Dove sono nato io c'erano meno luci e bastava un quarto d'ora per raggiungere la campagna... mi ricordo che da piccolo con altri bambini montavamo le tende da campeggio e la sera uno dei nostri giochi era guardare le stelle. Quello è il carro dell'Orsa Maggiore se non sbaglio, e quella stella là che brilla più di tutte è Sirio. Non ricordo molto bene però… », bisbiglia Hyukjae guardando con attenzione il cielo. Gli sembra di aver dormito ore, quando forse sono due giorni che non chiude occhio. 
«Il mese scorso sono andato sulla montagna con la mia ragazza. Una notte sola, per vedere le stelle cadenti, ma anche lassù le luci della città erano troppo forti e non siamo riusciti a esprimere un desiderio.  Stasera era venuta a guardarmi, però non l'ho vista fuori. Forse c'era troppa gente…»
Hyukjae abbassa lo sguardo. Meglio che non dica a Ryeowook cosa ha visto. In fondo lo allarmerebbe e basta, e non è in grado di associare con sicurezza uno di quei cadaveri a Hyeyoung. 
«Sarà stata una delle prime a uscire ed è tornata a casa subito».
«No, avrebbe aspettato di vedere che stavo bene».
«Forse lo ha dato per scontato e ha pensato a mettersi subito in salvo».
«Forse».
Altro minuto di silenzio. Hyukjae può solo immaginare le conclusioni orribili a cui sta saltando il suo amico.
«Ah, mi ero scordato di dirti che ho visto la tua Cenerentola mentre uscivo. Era dietro di me, ma poi la gente l'ha sorpassata…»
Parla di Yangee. E' lei la Cenerentola di cui parla, e Hyuk avrebbe voluto renderla una principessa. Se Ryeowook però è stato uno degli ultimi a uscire Yangee… gli si para davanti l'immagine della ragazza morta. Le dita tese verso l'alto e la bocca spalancata. No.
«Non chiamarla più Cenerentola», Hyukjae si alza e va a distendersi sul divano. Pensa che non dormirà, invece come si adagia sull'imbottitura morbida e chiude gli occhi, il respiro gli si fa più lento e profondo e inizia subito a sognare.
Un sogno stupido. E' un collage di cose già vissute che gli balenano in testa senza un apparente filo logico. Episodi dell'infanzia, le litigate con sua sorella, le urla di un pubblico sconfinato e illuminato di blu. Lacrime, gioia. Poi tutto sfuma ed è nella sala prove dell'agenzia. Una ragazza alta e esile sta passando lo straccio sul parquet, e i lunghi capelli neri sono raccolti in una coda lente. Canticchia qualcosa a bassa voce, e indossa un camice blu di almeno tre misure troppo grande. Si gira, ma non appena lo vede si rabbuia. No, fermi. Finora è stato proprio tutto come nei miei ricordi, ma non è mai successo che mi guardasse così. Non qui. 
La ragazza posa il manico contro il muro e a grandi passi esce dalla stanza, urtandogli le spalle.
«Yangee, ferma!»
Niente, lei sta scappando in fondo al corridoio. Questa volta il ricordo appartiene all'ultima volta che l'ha vista. Il suo abito da sera sembra una nuvola e le si avvolge intorno alle gambe mentre imbocca le scale e sparisce. La rincorre fino in strada dove le vede girare l'angolo dell'incrocio. Continua a seguirla, stavolta non la lascerà scappare. Ma come volta l'angolo lui è in mezzo a una distesa di poltroncine bruciate e calcinacci. E Yangee gli tende la mano spellata, e lo supplica con uno sguardo inesistente. E' morta bruciata e non è riuscito a salvarla.
Hyukjae apre gli occhi alle prime luci dell'alba. Non ha dormito quasi dopo il suo incubo, ma è comunque rimasto disteso in silenzio a occhi chiusi. Durante la notte ha pensato a un sacco di cose. Intanto i suoi staranno bene? Sì, sicuramente. Lui e sua mamma sono collegati da una sorta di empatia. Quando uno dei due sta male l'altro lo sente anche a distanza di kilometri. Adesso saranno solo preoccupati per lui, dopo quel che è successo in tv ieri sera. 
Si issa a sedere mentre il piccolo salotto dell'appartamento della signora Park si tinge di rosa pallido. Pare che dopo tutto anche dopo una notte da incubo come quella il sole continui a sorgere come ogni mattina.
Ryeowook è disteso nel terrazzo senza neanche una coperta sotto. Sta ascoltando la musica con le cuffiette, ma forse si è addormentato… 
In cucina la signora Park sta riempiendo delle bottiglie di plastica dal lavandino. Hyukjae  non se la sente di indagare sulla loro funzione. 
«Vado ad aprire il locale», gli mormora, mentre raggruppa tutte le bottiglie sul piano della cucina. 
«Ok. Io pensavo di andare all'ospedale ora…», le risponde il ragazzo. La signora Park annuisce senza alzare gli occhi. La donna esce, chiudendo il portone a chiave dall'esterno. Hyukjae si abbandona su una sedia, alzando con il braccio sano il tovagliolo che copre il vassoio di biscotti sul tavolo, e ne sgranocchia uno sovrappensiero.
Mamma di Teuk, non ti capirò mai. Vai a lavorare anche in un giorno simile?

Le strade sono insolitamente deserte. Seul si è trasformata in una sola notte da metropoli caotica a deserto. Sungmin non si sente a suo agio a camminare da solo. 
L'elettricità è tornata un attimo prima che uscisse dalla casa della madre di Teuk, quando si è riaccesa la spia rossa della tv in standby e il frigo ha ricominciato a ronzare. Eunhyuk, Ryeowook è Kyuhyun se n'erano andati da un pezzo verso l'ospedale più vicino. Il rapper aveva respirato così tanto fumo che per quanto si fosse lavato il naso gli era rimasto nerastro, quindi oltre a farsi medicare la gamba dovrà fare qualche inalazione di ossigeno, pensa Sungmin. 
Ha provato a fare zapping sulla tv, ma nessun canale sta trasmettendo niente. Com'è possibile che di tutti quei canali neanche uno funzioni?
Le saracinesche dei negozi sono abbassate e i chioschi dei giornali chiusi: niente tg o giornali per sapere qualcosa dunque. Non c'è quasi nessuno per strada, specialmente in quelle larghe e invase dal sole, ma Sungmin potrebbe giurare di aver visto delle sagome muoversi nei vicoli secondari.
Affretta il passo mentre la sua ombra si distende lunga sul marciapiede illuminato dal sole mattutino. Non si è nemmeno cambiato di abiti, ha solo fretta di andare a casa, non importa che debba percorrere a piedi quasi un quarto di città. Vuole riabbracciare la sua famiglia e vedere che stanno tutti bene. 
Ha la fronte imperlata di sudore, l'estate non è ancora del tutto finita, e i suoi capelli sono in uno stato orribile, probabilmente. 
Ad un tratto si blocca: in lontananza c'è rumore di pneumatici. Si gira, parandosi il sole con una mano e osserva un puntino in fondo alla strada farsi sempre più grande fino ad assumere le fattezze di un camioncino verde militare. Si guarda intorno, poi si tuffa dietro una fioriera con un oleandro, e osserva in silenzio la vettura sorpassarlo. Sulle portiere c'è dipinto lo stemma del regime del Nord. Si sente mancare. Signore, a questo punto mi andavano bene anche i cinesi, o gli americani. Ma i nordcoreani no, ti supplico…
Rimane nascosto fino a che il camioncino non è del tutto scomparso, poi si alza e inizia a correre più veloce che può. 
Si è fermato ogni tanto per riprendere fiato, con i polmoni in fiamme, ma poi ha proseguito anche più veloce di prima. Mamma mamma mamma. Dimmi che stai bene.
Arrivato sotto il palazzo dei suoi, in una zona residenziale, respira come dopo un'apnea, e ha la maglietta completamente appiccicata al petto. I capelli sono attaccati sulla fronte, e si regge la cassa toracica che sembra voler scoppiare. Non ha il fiato per invocare i nomi dei suoi, ma non serve. Il portone d'ingresso si apre con uno scatto e un'esile donna dai capelli raccolti in uno chignon, seguita da un uomo un po' calvo corrono fuori urlando e gli si gettano al collo baciandolo, e piangendo. Sungmin chiude gli occhi riprendendo fiato, e lascia che sua madre lo inzuppi di lacrime. Che importa se sono in mezzo di strada, sotto gli sguardi indiscreti di vicini di casa ficcanaso e si stanno scambiando effusioni che mai e poi mai si sarebbero sognati di fare fra le loro quattro mura loro, figuriamoci fuori. 
Solitamente a sua madre era sempre stato a cuore di sembrare una donna raffinata, e ora sta urlando in mezzo alla carreggiata della strada.
«Dov'eri? Eravamo così in pensiero… hai mangiato?», lo assilla mentre insieme al marito lo aiutano a salire le scale. Sungmin annuisce perché non riesce ancora a parlare. Il suo cuore sta riprendendo un battito regolare però.
Sotto la doccia pensa se dirlo ai suoi o meno. Sungmin dal canto suo non capisce se stava meglio prima di sapere che i loro invasori erano nordcoreani, o dopo aver dissipato tale dubbio. 
La responsabilità del grande annuncio però evidentemente non spettava a lui. Quando esce dal bagno con i vestiti puliti, in salotto i suoi siedono sul divano davanti alla tv; suo padre stringe le piccole mani di sua madre, ed entrambi tengono le labbra serrate, fino a farle diventare bianche. In tv sulla sedia che abitualmente spetta al conduttore del telegiornale, siede una donna mai vista prima. E' magra, con le spalle ossute e indossa un tailleur verde militare con un ricamo rosso, blu e oro sulla tasca. I capelli neri sono corti a caschetto e lasciati sciolti; non ha un filo di trucco in viso, ma i suoi occhi riescono ugualmente a mettere in soggezione. Sungmin sospira, mentre qualcosa nel suo stomaco si capovolge e affonda.
«… E quindi,», prosegue la donna, che ha un accento duro e a tratti strascicato, «La nostra sarà una convivenza pacifica finchè le leggi del regime saranno rispettate.  Rimanete sintonizzati perché vi forniremo le direttive giorno per giorno. Oggi vi consigliamo di non uscire per alcuna ragione, a meno che non dobbiate recarvi agli ospedali. Rimanete chiusi in casa e non tentate alcun tipo di insurrezione. Al momento nella capitale ci sono seimila soldati, e circa millecinquecento sono presenti in tutte le principali città, tentare la ribellione è impossibile», conclude senza perdere mai il suo cipiglio cupo. Dalle labbra sigillate della madre di Sungmin esce un suono indistinguibile. E' bianca come un cadavere e non sbatte neanche più le palpebre. Senza emettere un fruscio più forte di quello di una foglia secca che cade, scivola distesa posando la testa sulle gambe di suo marito, e rimane così, a fissare il vuoto come una statua di sale.
Sungmin non avrebbe mai voluto vedere sua madre in una simile condizione, e sa che neanche lei avrebbe mai voluto che qualcuno la vedesse così. Ma ha appena saputo di non essere più una donna libera e questo la spaventa anche più di perdere la sua dignità.

Bani assottiglia gli occhi per guardare oltre i raggi della tapparella. Fuori sembra una giornata normale, ma il silenzio è innaturale. Il suo quartiere è intatto, ma ugualmente deserto. 
Sua madre ha riscaldato il ferro sui fornelli e le sta stirando la divisa, ma le ha già detto che oggi non la farà uscire di casa neanche per andare a scuola, quindi la ragazza siede a terra, sorseggiando una tazza di tè giapponese.
Suo padre era giapponese, ed è stato lui a insistere per metterle quel nome assurdo. La casa che ha lasciato loro pur essendo un umile appartamento di periferia è completamente arredata in stile nipponico. 
Bani ha un ricordo preciso di suo padre visto che se n'è andato da appena un anno. Nei tatami, nelle porte di carta di riso e nelle stampe blu, rosse, bianche e oro appese in ogni stanza si sente ancora impregnato il dolore del distacco. 
Sia Bani che sua madre amavano molto il papà. Da quando è morto parlano meno, e camminano più lentamente, come si fosse portato via anche parte della loro vita. 
Così, un bel giorno, niente più partita a koikoi del sabato mattina, né pranzi domenicali a base di zuppa di miso. Nell'ultimo anno non hanno quasi più indossato i loro kimono, quando invece con papà in casa ogni occasione, anche una cena sul piccolo balcone d'estate, era buona per metterlo. Non era un'imposizione di papà, era solo il loro modo di essere una famiglia.
Chissà che avrebbe detto lui vedendo sganciare tutte quelle bombe. Sicuramente avrebbe avuto un'idea brillante delle sue, o le avrebbe portate entrambe alla casa di Kyoutango-shi.
Loro invece si sono tappate in casa come tartarughe, aspettando in silenzio che la soluzione piova loro dal cielo. Le uniche cose che sono piovute finora però erano ordigni esplosivi. 
Bani striscia i piedi in cucina e mette la tazza nell'acquaio, soffermandosi a guardare la foto di suo padre, sull'altarino. 
Di lui ha preso gli occhi, grandi e poco affilati tipici dei giapponesi, mentre l'incarnato pallido è sicuramente il gene coreano ereditato da sua madre. I capelli invece sono un mix perfetto fra i due; i riflessi rossastri di sua madre e la morbidezza di suo padre.
Bani tutto sommato è fiera di questi tratti e riconosce di essere bella, ma a scuola nessuno le si è mai confessato.  Per via del fatto che suo padre era alto quasi un metro e novanta, è più alta di molti dei suoi compagni. Considerando che poi ha un carattere schivo e taciturno ( il primo anno di superiori ci mise quasi una settimana prima che la compagna di banco sentisse finalmente la sua voce un po' roca) teme di incutere una sorta di timore nei ragazzi. Specialmente quelli bassi, che non vorrebbero mai dover uscire per un appuntamento con una stangona di venti centimetri più alta di loro. 
Non importa, si dice, quando mi piacerà davvero un Oppa, troverò il modo per mostrargli quanto sono interessante. Al momento l'unico Oppa che le interessa però è Kim Nam Min, della seconda sezione. Le dà ripetizioni di matematica gratis e a Bani non importa se c'è o meno un secondo fine, fintanto che riesce a prendere la sufficienza.
Bani vuol dire farfalla. Non crede che le sia stato attribuito quel nome come l'auspicio di diventare bella. Suo padre ha sempre avuto una filosofia diversa, meno materiale e al tempo stesso semplice. Tante volte le è capitato, durante le ricreazioni da sola, magari, di interrogarsi sul significato di tale scelta, senza mai trovare una risposta soddisfacente e ora si pente di non averglielo mai chiesto quand'era in vita. Forse sua madre lo sa. Appoggiata sullo stipite della porta la guarda stirare in silenzio, con gli occhi bassi. Ha i capelli più secchi e sembra invecchiata di dieci anni. Non può chiederglielo.
In casa sua sembra quasi che il bombardamento non abbia aggiunto nient'altro che un'altra macchia nera alla loro macabra quotidianità. Bani non si sente così inquieta, complice anche il fatto che le bombe sono esplose lontane dal suo appartamento di periferia, o che forse la sua esistenza è così inutile che da tempo ormai non prova neanche un'emozione. Sa che quando tornerà a sentire qualcosa, quando sorriderà per qualcosa di bello, o succederà un avvenimento così brutto da farla scoppiare in lacrime, sarà più devastante di una tempesta, ma fino ad allora le piacerà essere uno zombie. E' come se avesse sepolto il suo cuore tra dei cuscini perché andando a sbattere non si faccia più male.
Sua madre ha reagito diversamente. Dopo vent'anni di matrimonio, amava Rui come il primo giorno. Si guardavano ancora con lo sguardo imbarazzato e sognante di due ragazzini, che a volte era così melenso da infastidire Bani. Perdere lui è stato come se le avessero strappato il cuore dal petto e l'avessero gettato nella pattumiera.
Bani pensa che così però si è dimenticata di sua figlia sedicenne che non ha amici e va male a scuola, e ora non è minimamente preoccupata di rischiare di esplodere da un momento all'altro.

Jinyoung sente che il suo corpo non oppone una resistenza maggiore di quella di una maglietta sporca gettata su una sedia. Si sente così abbandonato da qualsiasi energia che anche tenere gli occhi aperti gli costa fatica. Quando finalmente è passata una macchina ed è arrivato all'ospedale, era così affollato che il tempo di far ricoverare sua sorella, ed era già morta. Non sarebbero comunque riusciti a salvarla, gli ha detto un medico.
Bene, lo sapeva già. E' che una parte di lui fino all'ultimo aveva continuato a credere che ci fosse qualche speranza. Se n'è andata, dopo ventun anni che ovunque girasse lo sguardo lei era lì, con le sue stranezze e i suoi colpi di genio, e le sue frasi sdolcinate dette di punto in bianco quando meno se le aspettava. 
Dietro quella porta, il corpo di sua sorella giace freddo e insanguinato insieme a tanti altri corpi, cristallizzato nei suoi venticinque anni. Ha passato la notte in piedi a piangere, da solo.
I suoi genitori ancora neanche lo sanno, i cellulari non prendono. Devono aver tagliato le linee telefoniche per ostacolare l'organizzazione di qualche contrattacco, suppone.
Ma se anche li chiamasse come potrebbe annunciargli che la loro figlia è appena morta?
«Hey ragazzo», un infermiere che passava l'ha notato e si dev'essere mosso a compassione. In effetti Jinyoung ha l'aspetto di un cucciolo abbandonato, con gli occhi lucidi, la maglia sporca di sangue secco e i capelli arruffati.
«E' già la terza volta che passo e stai sempre qui da stanotte. Torna a casa…»
Jinyoung lo guarda, senza cambiare espressione. Muove solo lo sguardo arrossato, e l'infermiere non può fare a meno di sospirare.
«Lo vuoi un tè caldo?»
Jinyoung annuisce appena. Sì, un tè caldo. Non si era reso conto di quanto ne volesse uno finchè qualcuno non glielo ha chiesto. Dopo un tè caldo riuscirà anche ad alzarsi, tornare a casa e dire a mamma e papà quello che è successo.

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Capitolo 5
*** Seoul Chronicles - Chapter 4 ***


INTRODUZIONE Rieccomi con il quarto capitolo. In realtà su dA l'avevo pubblicato da mo', ma l'altra sera non avevo fatto in tempo a metterlo. Eleonora, stasera faccio tutte le correzioni! Ti giuro che leggendo il tuo commento ho pianto perchè sono due mesi che cerco qualcuno che mi dica esattamente QUESTE cose. Davvero, non esitare a dirmi cosa pensi perchè mi ha fatto un piacere immenso e  ora corro a correggere (?). D'altro canto (ovviamente) sono anche felice che ti stia piacendo. Per me è importantissimo perchè a volte mi demoralizzo, penso "oddio, è orrenda, la leggono tre persone al massimo solo perchè mi vogliono bene, forse dovrei darmi alle fic yaoi", invece sentirmi fare i complimenti da te mi ha iniettato un po' d'autostima. Pur essendo alle prime armi mi sforzo davvero tanto di avere idee originali e curo molto i miei personaggi. Qui c'è la presentazione di Hyoyeon, la mia dolcissima bias. Sono andata un po' OOC, ma mi serviva una Hyo confusa dal successo, I'm sorry. In realtà lei è una persona sincera e solarissima, e voglio che nel corso della storia trovi il modo per tornare ad esserlo. Su Zelo (Hong) ho letteralmente inventato. Essendo il maknae di un gruppo rookie si sa davvero ben poco di lui per ora, quindi ho scritto quello che mi ispira "a pancia". L'ultima cosa. Mi sono presa la libertà di lasciare la parte sul sibilo. Il verbo sibilare indica il verso dei serpenti. Si usa anche per i missili perchè quando vengono sganciati fendono l'aria a una velocità tale che quella sembra appunto che sibili come i serpenti. Penso che lascerò intatta quella parte perchè Hyukjae sedendosi sente una fitta alla gamba e per questo stringe i denti soffiando fuori l'aria al tempo stesso. Ah, da descrivere è un bel casino, ma penso di essermi fatta intendere, tutti noi sibiliamo quando ci fa male qualcosa e magari qualcuno lo tocca o sottoponiamo quella parte del corpo a uno sforzo. Sinceramente l'ho sentito usare per le persone altre volte. Bene, credo di aver finito, grazie ancora Ele çAç


Hyoyeon è seduta sul pavimento di camera sua con le gambe contro il petto. Guarda gli scatoloni a terra con le lacrime agli occhi, poi sposta lo sguardo all'armadio spalancato e vuoto. 

Non li butto via, si dice, ma il doversi separare dai suoi abiti la provoca una fitta al cuore.
Piantala, sei davvero così frivola? Ecco perché Eunhyuk ha scelto lei, si rinfaccia, si asciuga una lacrima e chiude gli scatoloni con il nastro adesivo.

Hyoyeon ultimamente non si sente più una Dancing Queen. Il mondo le è crollato addosso nel giro di poche ore, il rapper dei Super Junior le ha spezzato il cuore in due, sente di non avere uno scopo nella vita e neanche il ballo la fa sentire meglio.
Dopo l'attacco poi, ha avuto modo di riflettere molto. Le Girls' Generation sono in pausa. Forzata. 
Sono tornate quasi tutte a casa tranne lei e Sooyoung. Il dormitorio è uno schifo senza le altre e le loro giornate trascorrono a dormire, a mangiare o ad aggirarsi per l'appartamento come fantasmi.
Non conosce le ragioni per cui anche Sooyoung sia rimasta invece che tornare dai suoi. Hyoyeon invece non ha avuto scelta. 
Quella sera – quella notte – è tornata a piedi nel quartiere dei suoi. Con le scarpe in mano, perché i tacchi le stavano massacrando i piedi, è arrivata stanca, spossata e sporca come avesse dovuto strisciare nel fango. Odia sentirsi sporca.
Così, è stata in piedi scalza per un tempo infinito, con le decolté in mano a guardare l'enorme cumulo di macerie ormai fredde che era diventato il condominio dei suoi.
E' una sensazione indescrivibile quella che si prova appena si realizza di essere soli e aver perso tutto.
Inginocchiandosi per terra, poco importava se le calze si sarebbero strappate, le lacrime le sono scivolate silenziosamente lungo le guance. Con gli occhi sbarrati continuava a guardare lo scheletro sventrato dell'edificio, senza riuscire ad aprire la bocca.
Ho fatto mezza città a piedi, di notte, al buio. Volevo solo tuffarmi fra le braccia di mia…
«… mamma…», si è lasciata sfuggire, e ha iniziato a singhiozzare. Si è distesa sul marciapiede, rannicchiandosi come una bambina. Che importa, nessuno mi  vedrà. Non c'è più anima viva qui, ha pensato nascondendosi il volto fra le mani e iniziando a urlare e a battere i pugni a terra. 
In una volta sola ha perso il ragazzo che amava, la casa della sua infanzia e i suoi genitori.

Hyoyeon chiude delicatamente la porta della cantina e gira un paio di volte la chiave. I vestiti prenderanno un po' d'umido, pensa, ma fa niente.
Mentre risale le scale del palazzo, le prime luci dell'alba entrano attraverso la finestra del pianerottolo. Si sente così sciupata, sia fuori che dentro.
Alla fine ha capito che gli unici sentimenti veri che abbia mai provato se ne sono andati via quella sera. I suoi sono morti e Hyukjae... beh, per la verità l'ha perso molto prima.
Nelle lunghe giornate passate a far niente è giunta alla conclusione che deve liberarsi di tutto ciò che l'ha fatta diventare una persona finta e superficiale. Ultimamente è stato tutto così fuorviante che alla fine si è abituata a vivere una vita senza sentimenti, iniziando a riporre fiducia nei suoi beni materiali e ha finito col ritrovarsi col cuore fatto a pezzi senza il tempo di rendersene conto.
Quella Yangee. Si sente una bambina di cinque anni se pensa che ce l'ha davvero avuta a morte con lei. Era solo l'ennesima prova di quanto Hyoyeon fosse diventata infantile.
Apre lentamente la porta di casa e trova Sooyoung spaparanzata sul divano con un sacchetto di patatine fra le mani. Fissa il vuoto e rumina come chissà che animale da traino.
Hyoyeon ha anche smesso di ripeterle che ingrasserà, tanto non la ascolta. 

Quella mattina si è risvegliata esattamente dov'era rimasta. Si è issata a sedere sull'asfalto mentre il sole era già alto nel cielo e alla luce del giorno il quartiere distrutto le è sembrato ancor più triste della sera prima. Sporca, con i capelli arruffati, le calze strappate e ginocchia e gomiti graffiati, si è chiesta dove andare. Passando davanti all'ospedale le è corsa incontro una ragazzina. In quel momento Hyoyeon avrebbe voluto baciarla.
Nonostante avesse l'aspetto di una barbona, la ragazzina ha fatto finta di non vedere niente. Le ha detto che si era preoccupata la sera prima a vederla in tv e che era contenta di saperla sana e salva. Hyoyeon aveva annuito, con gli occhi lucidi.
Che strana sensazione, quella di sentirsi amati. Arriva quando meno ce la si aspetta.
La ragazzina aveva un braccio ingessato, quindi Hyoyeon aveva insistito per accompagnarla nuovamente dentro l'ospedale. Era affollatissimo. Gente ovunque, chi dormiva addirittura per terra, e infermieri impazziti che correvano ovunque.
Alla portineria aveva preso un pennarello e le aveva firmato il gesso.
«Sunbae»
«Che cosa?»
La ragazzina era arrossita.
«Vorrei che scrivessi anche "buona guarigione Seuhyung". E' la mia sorella maggiore. Mi ha messo in salvo ma purtroppo le è crollato addosso un cornicione e ora… è in coma».
Hyoyeon prendendo un bel respiro le ha chiesto di accompagnarla da sua sorella, ed è rimasta a fissare quella sconosciuta dall'altra parte del vetro per ore. Hai messo in salvo le persone a cui tenevi e adesso la tua vita è appesa a un filo. Io avrei potuto salvare Eunhyuk, invece lui è là sotto e io qui. Farei volentieri a scambio con te, piccola Sehyung, aveva pensato.

«Non si mette bene», sospira il signor Kim, gettandosi di peso sulla sua sedia di pelle girevole. 
«Non è finita qui…», prosegue la signorina Lee, la sua segretaria, immersa nella penombra dell'ufficio. Tiene in mano un alto plico di fogli ed ha l'aria anche più tesa del solito.
«Che altro c'è?», il signor Kim si massaggia le tempie, sfilandosi gli occhiali e lucidandoli nervosamente con il bordo della giacca. La signorina Lee prende un lungo respiro, chiude gli occhi e si stringe il pacco al petto.
«E' probabile che inizino a dare la caccia agli artisti. Ormai tutta la merchandise, i CD e le registrazioni televisive sono state bandite. Il passo successivo sarà condannare gli artisti; li accuseranno di aver violato la legge e di aver spinto anche la popolazione a farlo».
«Ma questo non ha senso! Hanno solo cantato in inglese!»
«Lo so», lo interrompe la giovane segretaria a testa bassa. «E' solo che ho paura per loro…», non riesce a finire la frase.
«Signorina Lee… Son Ji sshi…», il tono del signor Kim si addolcisce, si alza e va ad abbracciare la donna, che si copre la bocca con le mani, piangendo.
«Io…. Vorrei non averlo mai fatto. Sono tutti in pericolo. Specialmente i miei ragazzi…», singhiozza. Il signor Kim le accarezza i capelli teneramente. Dopo quasi cinque anni che lavorano insieme, è la prima volta che vede la sua affezionata segretaria piangere. 
E' lei che due anni fa ha proposto di creare un gruppo diverso da tutti gli altri. Voleva dei maschi che si comportassero da maschi e che invece di cantare le solite serenate portassero un messaggio preciso. Al signor Kim sembra ieri quando la vedeva impazzire tra il lavoro di segretaria e la sua idea apparentemente pazza.
E invece. I B.A.P. sono stati con le Secret una delle loro migliori pensate. Capisce perfettamente la signorina Lee. Ora si sente responsabile. Ha fatto cantare a quei ragazzi canzoni di protesta contro la guerra, e ora teme che saranno i primi a finire nel mirino.
«Sono tutti così giovani… direttore, cosa abbiamo fatto?», continua a piangere la donna.
«Adesso respiri, signorina Lee. Noi abbiamo fatto questo, noi vi porremo rimedio. Troveremo una soluzione…»
«Quale, direttore?», la donna tira su col naso, asciugandosi gli occhi con la manica del tailleur.
«Sa bene anche lei che non si può patteggiare col regime. Ci hanno fatto chiudere tutto in meno di un giorno…»
«Signorina Lee. Lei mi conosce bene ormai. Sa quello che faccio per i nostri ragazzi e sa anche che li proteggerò a costo della vita. E per adesso non preoccupiamoci, non fasciamoci la testa prima di rompercela».
La signorina Lee annuisce, tira nuovamente su col naso, si stringe il pacco di fogli al petto e si inchina, poi esce dall'ufficio del suo direttore. 

Tuuu. Tuuu. Tuu.
Yesung riattacca e sospira. Gli altri ragazzi fanno finta di non accorgersi di lui, ma in realtà hanno gettato tutti degli sguardi tesi mentre tentava per l'ennesima volta di chiamare Leeteuk.
«Allora?», domanda Shindong spizzicando il bordo del suo toast. Domanda inutile.
«Mi dà sempre occupato», mormora Yesung, stringendo nervosamente i pugni. Anche questa risposta è inutile. 
Il vocalist si getta sul divano e chiude gli occhi. Il dormitorio è ancora pieno come prima, ma non altrettanto festoso. 
Perché continuiamo a chiamare ogni santo giorno? Sono tre settimane che non lo sentiamo, è OVVIO che gli è successo qualcosa di terribile, pensa il ragazzo, guardando il soffitto con occhi vacui.
E' una di quelle assurde situazioni, come quando sai di aver preso un'insufficienza ma ti auguri fino all'ultimo di essere andato bene al compito in classe.
Tutt'ora sperano che un giorno Teuk risponda dicendo: hey ciao, scusa, non trovavo più il carica batterie del telefono, come state?
Sungmin gira lo zucchero nel latte sovrappensiero. 
In questo momento non sta pensando a Teuk. Guardando la zietta che sta facendo le pulizie, gli è tornata in mente la ragazza di cui Hyuk è innamorato. 
La chiamavano scherzosamente Cenerentola, perché faceva le pulizie all'agenzia. Ora che ci pensa non era un complimento, ma Hyuk la considerava per davvero una principessa.
Gli sembra ancora di vederlo dopo le prove stanco e spossato, con gli occhi gonfi di sonno lavarsi in tutta fretta in bagno, asciugarsi e catapultarsi in chissà quale ala dell'edificio per andarla a vedere.
Sospira, si porta la tazza alle labbra e beve un lungo sorso di latte bollente. 
Anche lui guardandolo avrebbe voluto essere innamorato così di qualcuno. A volte capitava che guardasse il vuoto con un sorriso da ebete immaginandosi chissà cosa, e non toccava i suoi giornalini sporchi da mesi. 
Aveva la pelle distesa, come se non avesse più preoccupazioni. 
Ora anche lui ha le occhiaie però. Mangia pochissimo e si sveglia la notte come se sentisse dei rumori e corre in bagno. Una mattina, verso le cinque, l'ha sentito vomitare. 
Afferra le cose a fatica e gli oggetti gli sfuggono di mano, come se tremasse. Qualcosa in lui non va. Non va affatto. Da quando è tornato da casa dei suoi sembra sull'orlo di una qualche crisi, eppure la sua famiglia sta bene. Sungmin sorseggia il suo latte, corrugando la fronte.
E' difficile per tutti adesso, ma lui sembra abbia visto un fantasma. E, pensa, ultimamente non me ne stupirei affatto.

Jun Hong era fortemente convinto di essere diventato grande. Ormai è quasi un diciassettenne  e non passava la notte a casa dei suoi da almeno due anni. Credeva che la vita in dormitorio con dei ragazzi più grandi  l'avesse fatto diventare indipendente, ma gli era bastato risvegliarsi una mattina con l'odore della colazione preparata da sua madre per capire che era ancora un bambino.
Da qualche settimana ormai l'appartamento dei B.A.P rimane chiuso. Non è più prudente vivere in centro, e comunque l'intera industria dell'intrattenimento ha subito un blocco. Niente televisioni, niente concerti, niente di niente. 
E' così che Hong si è ritrovato nuovamente a casa. Non che dal debutto non ci fosse mai tornato, ma sicuramente non ci ha mai dormito, per questo, rientrando nella sua cameretta dopo tanto, ha visto "Ventimila leghe sotto i mari" di Verne sul suo comodino ancora aperto dove l'aveva lasciato prima di andarsene e ha sorriso di nostalgia.
Ha mollato la borsa a terra, si è rannicchiato sul letto, l'ha preso e ha ricominciato a leggere dal segno.
E' così che ha passato l'intero pomeriggio in silenzio, completamente assorbito dal libro, mordicchiandosi l'unghia del pollice.
Da quando ha debuttato, ha avuto davvero poco tempo per leggere. Fra la scuola e gli impegni del gruppo ha finito per scordarsi quanto sia bello tenere un libro fra le mani, sentirne il peso e l'odore delle pagine.
Nei rari momenti liberi ci ha provato, ma il dormitorio non era il posto adatto. C'era sempre confusione e poi è un luogo spoglio e freddo. La sua cameretta invece è il posto ideale. E' raccolta, colorata, piena di poster e fotografie, la trapunta del suo letto è di un bel patchwork variopinto e se alza gli occhi fuori dalla finestra vede le montagne. 
Da che ha memoria, ogni volta che voleva leggere in santa pace si rifugiava qui, che fossero i suoi primi libri da bambino sia che fossero i primi romanzi "seri".
Per questo appena ha visto il libro sul comodino non ha potuto fare a meno di concluderlo.
La scuola dura meno ora. Un giorno è arrivato un tizio secco e stempiato e ha detto che d'ora in poi avrebbe sostituito il docente di letteratura, e da allora la scuola finisce prima dell'ora di pranzo. Tranne il giovedì, giorno in cui ci si esercita nel piazzale a marciare come stupidi soldatini del regime.
Hong ha idee precise a riguardo, e ormai lui e Jongup sono ospiti fissi dell'aula di detenzione.
Nessuno meglio di loro capisce quanto quella situazione sfiori l'assurdo. Hong in realtà ha paura di tutto quello che potrebbe succedere, di tutto ciò che cercano di inculargli in testa, e prova ribrezzo e pena al tempo stesso. Non riesce a essere del tutto schifato da queste persone. E' come se dalla nascita ti dicessero che esiste solo la marmellata di fragole, e ti nascondessero tutte le altre. Alla fine, quando mi dovrai offrire una fetta di pane e marmellata sarà sicuramente alle fragole, anche se magari a me piace quella di albicocche.
Non è colpa loro, si ripete, ma è arrabbiato ugualmente. 
Ed esplode quasi ogni giorno. A volte riesce a scatenare rivoluzioni di massa, altre è l'unico a essere sbattuto in punizione, ma non importa. Deve sfogarsi, vuole piangere. 
Torna a casa sempre tardi, così. Riaprono l'aula di detenzione alle tre del pomeriggio, e quando esce è così affamato che a malapena riesce a camminare.
In casa mangia quello che sua madre gli ha tenuto al caldo, e la guarda rigovernare.
Qualcosa nel suo quadretto di famiglia non torna. Si ricordava una madre esuberante, sempre sorridente e chiacchierona. 
Seduto a tavola la osserva, assorta e con le spalle curve, in silenzio. Non ha niente a che fare con i suoi ricordi d'infanzia, quando accoccolato nello stesso posto mangiava la sua merenda e la ascoltava senza neanche curarsi di capire davvero cosa gli stesse raccontando. Era un bla bla bla senza fine.
Vorrebbe attribuire la colpa del cambiamento di sua madre alla terribile situazione che stanno vivendo, ma sa in fondo che se ora sorride così poco è anche a causa sua.
La aiuta a sciacquare i suoi piatti e poi si rifugia in cameretta. Fuori piove incessantemente da giorni, segno che ormai l'estate ha ceduto il passo all'autunno.
Ai piedi del letto ha un'alta pila di romanzi; il secondo giorno ha svuotato la libreria di suo padre prendendo anche i libri già letti. Sono quasi tutti d'avventura.
L'avventura è il suo genere  preferito in assoluto. Mentre si sfila la divisa pensa a quale libro potrebbe leggere oggi. Ha finito Grandi Speranze ed è rimasto un po' deluso. 
Vuole una storia con un eroe, che gli faccia immaginare imprese titaniche e coraggiose attraverso luoghi magici e pericolosi. Lui è un sognatore.
Le imprese più eroiche che è riuscito a compiere sono state sommosse studentesche e scioperi dello studio in classe, ed entrambe le volte è stato sbattuto in detenzione, ma conta ugualmente di fare prima o poi qualcosa di grandioso.
Infilatisi gli abiti da casa afferra "Il Re del Mare". Ne liscia la copertina ruvida e sgualcita col pollice e ne sente il peso fra le mani. E' un libro vecchissimo con la costina staccata, ma la copertina illustra un bellissimo veliero con una tigre sulla bandiera.
«Emilio Salgari… sarà spagnolo, o francese», bisbiglia accoccolandosi sulla trapunta. E' un libro di suo padre che non ha mai letto, ma lo attrae. 
Mentre lo apre però, un foglio ripiegato scivola fuori dalle pagine giallognole e si posa sul cuscino.
Hong, quasi automaticamente, lo prende e lo apre, con delicatezza.
Il suo cuore gli manca di un battito. E' una piantina.
Basta uno sguardo per capire che non è una carta stradale, né la mappa di un edificio. E' composta quasi interamente da lunghi corridoi tutti intersecati fra loro, e ovunque sigle e numeri. 
Hong distende la piantina sulla sua scrivania, e negli occhi ha lo stesso luccichio di un pirata che ha appena trovato un tesoro.
Il libro può aspettare.

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Capitolo 6
*** Seoul Chronicles - Chapter 5 ***


WARNING : Sono tornata. E' passato un sacco di tempo, ma nel frattempo ci ho dovuto incastrare la compilazione di un dossier per l'anno in Giappone, forum, occupazioni, lucca comics e ore di sonno (?) per cui ci ho messo un po'. 
Innanzitutto volevo scusarmi tantissimo se non ho ancora risposto ai commenti, provvederò prima possibile. Ammetto che li ho visti da tempo ma tutta questa positività era così inaspettata che lì per lì non sapevo neanche che dire. Non credevo che questa storia sarebbe mai piaciuta a nessuno, e ho visto comunque che alcuni dei recensitori non sono neanche miei conoscenti. Grazie infinite, mi avete fatto sentire importante per un po'. çAç
Con la premessa che è stato un mese di fuoco e che ho riscritto il capitolo qualcosa come 10 volte e tuttora mi lascia insoddisfatta, scusate se farà schifo e ci saranno un sacco di errori. L'ho riletto ma qualcosa sfugge sempre (Eleonora, confido nel tuo occhio di falco!).
In questo capitolo all'apparenza palloso (ooops, passatemi il termine) e banale si nascondono due grandi svolte. La prima: l'incontro fra Bani e Jinyoung. Sono due persone rimaste sole, che non sentono più il cuore battere e si incontrano davanti a delle tombe. Mhm.... non promette bene, per niente!
La seconda svolta, che è probabimente una delle più importanti (e per questo una delle peggio scritte): La dinamica ci è per ora sconosciuta, ma una guardia è morta a casa di Bang Yongguk, leader dei B.A.P, il quale chiede aiuto a Zelo. Zelo gli troverà un rifugio, ma finirà per essere scoperto dalle milizie nordcoreane e pagherà molto caro il suo silenzio!
Ok, dopo questa presentazione da quattro soldi.... buona lettura!


Non sa perché è ancora lì. Anzi lo sa, ma non vuole ammetterlo.

Pensa che il ragazzo, assorto com'è, non si sentirà disturbato se lei indugia ancora un po' lì. Si dondola sulle gambe, si sfrega le mani per scaldarsi e finge ancora un po' di guardare la foto di suo padre sulla lapide di marmo. In realtà, con la coda dell'occhio sbircia il ragazzo. Da un po' di tempo lo ritrova sempre lì, al cimitero. Bani non era solita recarcisi spesso prima. Un sabato pomeriggio, di punto in bianco, lui c'era. Vestito di scuro, con le braccia lungo i fianchi, pietrificato. In mano stringeva un mazzo di rose gialle, fiori insoliti per un cimitero. 
Probabilmente, quel giorno lo ha guardato molto. Il problema dei cimiteri è che non sembrano soggetti a nessun tipo di cambiamento, e non appena se ne varca la soglia si perde la cognizione del tempo. 
Ci sono sempre le stesse tombe, sempre gli stessi fiori, file e file di ceri accesi, e qualche ghirlanda vicino alle lapidi più grandi. Se anche in qualche punto capita di trovare una fossa scavata da poco, è come se fosse stata lì da sempre.
Forse è per questo che lui è sempre lì. Quando Bani se ne va, stringendosi nel suo cappotto rosso, con le mani intirizzite, lui è ancora in piedi davanti alla lapide come quando è arrivata. E quando ritorna, per cambiare l'acqua dei fiori, lui c'è ancora. Quasi anche lui ormai fosse stato inglobato in quello strano mondo parallelo e senza tempo, e non si fosse mai mosso. 
E' bello, di una bellezza triste. Ha lineamenti dolci, ma lo sguardo è pieno di rimorsi. Bani passa di lì ogni giorno ormai, e ogni giorno lui è lì, come sempre; solo i fiori che porta sono diversi.
Oggi ad esempio sono dei crisantemi. Bani è un po' delusa; durante le sue lunghe meditazioni era giunta alla conclusione che lui portasse tutti quegli insoliti fiori proprio come si farebbe con una persona viva, ma i crisantemi sono fiori da morti.
Che c'è? Hai già accettato che questa persona sia sparita davvero? 
Questa cosa va avanti da tre settimane ormai, e Bani si sente una vera stupida. Non capisce neanche cosa le interessi di lui, visto che neanche lo conosce. Allora perché ogni giorno torna lì? Perché sta tutto quel tempo al freddo, immobile, fingendo di non guardarlo?
Bani getta uno sguardo all'orologio. E' lì da un'ora. Si china a riprendere la sua borsa e fa per andarsene quando qualcosa di piccolo e freddo le si posa sulla punta del naso arrossato; in pochi secondi dal cielo bianco e pesante iniziano e scendere lentamente dei piccoli fiocchi di neve. Sono minuscoli, quasi invisibili, ma in poco tempo si impigliano nei suoi lunghi capelli mossi. 
Bani sente qualcosa al cuore. Come se qualcuno stesse bussando per uscire. Per pochi istanti rimane sopraffatta dall'emozione; non ricordava che un cuore potesse battere così forte. Lentamente si avvicina al ragazzo, come se le sue gambe si muovessero da sole.
«Ciao», mormora. «Sei qui al freddo da tanto tempo, e sta iniziando a nevicare… forse è il caso che per oggi torni a casa», gli sussurra. Se ne pente subito dopo, e arrossisce. Non sa cos'è successo, non sa neanche come le sia venuto in mente. Lui per la prima volta le rivolge uno sguardo. E' uno sguardo indecifrabile, ma molto sorpreso.
«S-scusa, non volevo esserti di disturbo! A… Allora ciao, eh?», farfuglia grattandosi la nuca, si inchina un paio di volte, poi si caccia le mani in tasca e si incammina velocemente verso l'uscita del cimitero, coprendosi il volto paonazzo con le mani. 
Stupida, stupida Bani!

Jinyoung sbatte le palpebre, confuso, mentre la ragazza sparisce in pochi secondi nella nebbia. Non gli ha dato neanche il tempo di risponderle. Alza gli occhi al cielo, e si accorge solo ora che sta nevischiando e che non riesce neanche più a muovere le mani tanto sono congelate. Non sa calcolare da quanto è lì.
E' come se si fosse bruscamente risvegliato da un lungo sonno, non si aspettava che qualcuno gli avrebbe rivolto la parola. Forse lei ha confuso la sua espressione sorpresa per uno sguardo infastidito e se n'è andata per quello. 


Hong è disteso a terra, e singhiozza. Non credeva si sarebbe mai più messo a piangere così. Come un neonato, rannicchiato sul pavimento, singhiozza senza quasi più fiato.
Ha sbattuto così forte la testa che è diventato tutto nero. Riesce solo a vedere qua e là delle macchie rosse. Tossisce e le labbra bianche si macchiano di sangue vischioso.
Non riesce neanche più a respirare perché il sangue gli ostruisce la gola, e annaspa grattando spasmodicamente il pavimento, come per trovare un appiglio. Qualcosa nell'addome brucia e non ha il coraggio di toccare.  Ha perso la sensibilità al volto. Sente solo che è bagnato, ma non capisce se di lacrime, di sangue, o se di entrambi. 
Non è per il dolore fisico, bensì sente una ferita dentro. Nel suo mondo, ancora a metà fra adolescenza e età adulta, pensava che la sua giovane età l'avrebbe in qualche modo protetto. Invece  è stato pestato a sangue senza nessuna pietà. Neanche a un animale pensava sarebbe mai stato destinato un simile trattamento; si è sentito un oggetto contro cui qualcuno ha sfogato la sua rabbia. E l'hanno lasciato lì, a piangere, in quella stanza buia e fredda. Non sa da quanto è lì, non sa quanto tempo passerà prima che qualcuno lo trascini fuori. Piano piano il pianto si affievolisce. Non ha più il fiato e la forza di piangere, chiude gli occhi e rilassa le mani. 

Hong apre gli occhi, sbatte le palpebre. La sua cameretta è ancora immersa nell'oscurità. Fuori dalla finestra, la notte sembra il fondo di un oceano. Le nuvole coprono le stelle e sembra davvero che là fuori non ci sia niente se non un nero sconfinato. Quando gli capita di svegliarsi nella notte per il rumore di un aereo guardando oltre il vetro ha paura che aprendo la finestra potrebbe essere risucchiato da quell'oscurità. 
Gli unici pallidi bagliori vengono dalla sveglia luminosa sul suo comodino, che segna le una e tredici, e dal suo cellulare; ci mette un po' prima di capire che sta vibrando. A tentoni lo afferra. Avviso di chiamata: Bang Leader.
«Pronto…», biascica. Dall'altra parte del telefono sente un respiro affannoso.
«Bang, Bang Yongguk?», domanda. Niente.
Sta per riattaccare quando lui risponde. Sta piangendo.
«Jun Hong, aprimi, sono sotto casa tua…»
Yongguk si siede sul letto, con le mani che tremano e lo sguardo terrorizzato. Hong guarda i suoi vestiti insanguinati a bocca aperta. La sveglia luminosa indica le una e un quarto di notte. Come ha fatto Youngguk ad arrivare fino a casa sua? Dopo il coprifuoco uscire è pericolosissimo; incappando in una pattuglia di ricognizione il minimo che può succedere è essere sbattuto in prigione. E poi fuori è buio pesto… Hong sospetta che Yongguk sia arrivato lì correndo. Ha il fiatone e i jeans strappati sulle ginocchia sbucciate. 
Hong fa un lungo respiro. C'è da prendere una decisione razionale e non c'è molto tempo. Yongguk non è riuscito a dire niente, se non a emettere dei mugolii strozzati, ma quel sangue non è suo di certo.
«Alza le braccia, sbrigati», Hong inizia a spogliarlo, poi in silenzio lo trascina sotto la doccia. Yongguk si lascia muovere come se fosse una bambola. E' come se qualsiasi parvenza d'umanità l'avesse abbandonato per lasciare spazio ad un contenitore vuoto e freddo. Hong prende i vestiti insanguinati e li infila in un sacco dell'immondizia, lo chiude e spera che sua madre non lo riapra.

Hong ha appena iniziato a ricopiare in bella il suo tema "Recensione di un libro che ti è particolarmente piaciuto". Traccia fuori luogo dal momento che fatica a pensare che al professore di letteratura, con tutti i casini che deve affrontare, interessi veramente sapere la trama di Starship Troopers, ma è comunque soddisfatto di ciò che ha scritto. Va a capo, e posa la penna sul foglio; traccia due parole quando la porta si apre con un tonfo e tutti gli studenti, immersi fino ad allora in un silenzio immacolato, trattengono il fiato e alzano lo sguardo verso la porta. Anche il professore guarda i due soldati in piedi sulla soglia e ci mette qualche secondo a realizzarlo. 
«Chi è Choi Jun Hong?», domanda un dei due entrando nell'aula a grandi passi, avvolto nella sua divisa nera.  Hong ha smesso di respirare, il suo cuore si ferma per qualche istante, tutto diventa silenzioso. Come se qualcuno avesse tolto l'audio alla tivù. Quando finalmente riprende un respiro e sente il sangue tornare a scorrergli nelle vene, anche i suoni rifanno la loro comparsa. Sente un brusio nervoso tutto intorno a lui.
«Choi Jun Hong», ripete il soldato, con il suo accento metallico. Hong alza la mano e bisbiglia un "io" poco convinto. Pochi istanti dopo i soldati lo alzano bruscamente e lo trascinano via per le braccia. Appena uscito dall'aula, dentro scoppia il putiferio, qualcuno urla, altri piangono per lo spavento. Mi dispiace di avervi spaventati, pensa Hong, ma sarebbero arrivati a prendermi prima o poi.
Hong era stato sbattuto su una vecchia sedia traballante, dentro una sorta di sporco, umido e buio sgabuzzino. Gli avevano malamente sfilato la giaccia della divisa, poi gli avevano legato le mani dietro la schiena.
Hong era rimasto in silenzio, serrando le labbra. Non doveva tradire la sua paura, e soprattutto non doveva tradire Yongguk.
La porta si era aperta ed era entrato un uomo sulla cinquantina a passo marziale che gli si era messo davanti, squadrandolo dall'alto in basso con uno sguardo carico di disgusto.
«Sarò breve», aveva scandito l'uomo. Hong lo trovava terrificante: era ossuto, spigoloso. La divisa nera gli stava palesemente larga, e gli si afflosciava sul bacino. Era brutto, arcigno, aveva la faccia di chi non ha mai sorriso in vita sua, e con le mani secche stringeva una cartelletta sgualcita.
L'aveva aperta, mostrando in prima pagina una vecchia fototessera di Yongguk, presa da chissà quale archivio.
«Bang Yongguk, dimmi tutto quello che sai».
Hong aveva deglutito, poi gli aveva puntato lo sguardo dritto negli occhi.
«E' il leader del gruppo in cui canto, ha 24 anni e ama molto i dolci», aveva risposto impassibile.
Il vecchio soldato aveva alzato gli occhi al cielo, quasi divertito, e aveva abbozzato una risata. Poi era tornato serio e lo aveva schiaffeggiato con forza servendosi della stessa cartelletta. Hong aveva piegato la testa di lato, ma l'uomo lo aveva costretto a guardarlo negli occhi afferrandogli il mento in una morsa d'acciaio. Si era abbassato al suo livello e lo aveva guardato come si guarda un verme sporco di terriccio e aveva ripetuto la domanda.
«Due sere fa ho mandato uno dei miei uomini ad arrestare Bang Yongguk. Quest'uomo è stato ritrovato morto nel suo appartamento, ucciso da un colpo di pistola», aveva sussurrato a denti stretti. Hong aveva iniziato a sentire il sangue ghiacciarsi nelle vene, mentre dalla bocca dell'uomo uscivano pesanti zaffate puzzolenti di tabacco. Voglio vomitare, aveva pensato Hong, ma non aveva tentato di ritrarsi. Sarebbe comunque stato impossibile, quella presa era così forte che da un momento all'altro gli avrebbe staccato la mandibola. 
«L'ultimo numero chiamato da Bang Yongguk è il tuo. Quindi, ora formulerò la domanda in modo che anche uno stupido ragazzino che ha la merda al posto del cervello come te la possa capire: dove hai nascosto Bang Yongguk?».
Hong aveva deglutito. Nega, nega tutto quanto, si era ordinato, e poi sfoggiando il suo migliore sguardo di sfida aveva replicato: «Non so di che parla, io non ho nascosto nessuno».
L'uomo lo aveva afferrato per i capelli. Hong aveva stretto i denti per trattenere le lacrime. 
«Questa è l'ultima volta che te lo chiedo con le buone. Dimmi dov'è».
Hong aveva serrato le labbra fino a farle diventare livide, con le lacrime agli occhi per il dolore. L'ufficiale aveva mollato la presa con uno strattone.
«Ti avevo avvertito ragazzino. Non ci andrò leggero».
Era uscito sbattendo la porta, ed era rientrato pochi minuti dopo con le maniche della divisa arrotolate fino al gomito e uno strano arnese in mano. Hong ci aveva messo un po' per capire cosa fosse. Gli ricordava una cesoia per potare, solo che non aveva due lame, bensì presentava delle estremità curve. 
Una volta realizzatane la funzione però il soldato gli aveva già tirato indietro la testa e glielo aveva cacciato in bocca.
Hong aveva spalancato gli occhi e aveva iniziato a gridare disperatamente e a tentare di divincolarsi, ma l'ufficiale gli aveva già saldamente stretto il molare nella morsa della pinza. Hong aveva iniziato a sentire il sapore ferroso del sangue in bocca.

Alla fine di quel massacro, Hong è un pezzo di carne da macello. Sente a malapena il chiavistello girare nella toppa, poi qualcuno lo afferra per i piedi e lo trascina fuori. Sbatte le palpebre cercando di mettere a fuoco qualcosa.
Il signor Kim guarda il corpo di Hong che viene trascinato fuori con le lacrime agli occhi. E' irriconoscibile, sporco di sangue com'è fino ai capelli. Si lascia trascinare per le caviglie inerme, e ha appena la forza di sbattere le palpebre e di puntare le pupille assenti negli occhi del manager. 
Il signor Kim ha come l'impressione che non lo stia davvero guardando. La signora Choi entra in caserma in quell'istante, e senza curarsi di niente e nessuno si getta urlando sul figlio. 
Il signor Kim si lascia ammanettare in silenzio, e viene accompagnato nella stanza da cui è uscito Hong. 

Hyukjae apre gli occhi. Ha il fiatone come se avesse corso, ma è disteso nel suo letto, immerso nella più totale oscurità. Si alza e non accende neanche la luce, tanto ormai sa farlo a occhi chiusi. Corre in bagno, ci si chiude dentro a chiave, china la testa reggendosi ai bordi della seggetta e vomita finchè non sente lo stomaco svuotarsi del tutto. Rimane lì immobile, con le lacrime agli occhi, a fissare la brodaglia mezza digerita che galleggia placidamente nell'acqua del gabinetto.
Giura che non ce la fa più ad andare avanti così, dormire sonni tormentati e alzarsi per vomitare ogni santa notte che Dio mette in terra. Si rannicchia sul tappetino del bagno e inizia a piangere come un bambino.
Si sente un pessimo leader.
Non si è mai sentito veramente all'altezza del posto di Leeteuk, ma i primi tempi aveva tentato di andare avanti bene o male. Ora si sente così smarrito, però. Non è di aiuto a nessuno, sconvolto com'è. Si sente stupido, ridicolo e inutile. 
Si afferra le caviglie e soffoca il pianto mordendosi le ginocchia. 
Per otto anni Leeteuk è stato il suo punto di riferimento, il suo amico e il suo fratello. Era abituato a vedere la sua faccia ogni giorno e a subire pazientemente da lui e da Heechul ogni tipo di trattamento o scherzo. Quando sono partiti è stato come se qualcuno gli avesse imposto di vivere senza un braccio o una gamba, ma ara comunque andato avanti con la convinzione che glielo avrebbero restituito. 
Ma Leeteuk è sparito e anche di Heechul non c'è traccia. Al secondo mancava così poco per tornare… aveva praticamente finito. 
Hyukjae sente lo stomaco stringersi di rimorsi. Vorrebbe tornare indietro per impedire tutto quello, ma sa bene che è un'assurdità. Che lui, così piccolo e stupido, non avrebbe potuto fare niente.
In tutta la sua vita non si è mai sentito così inadeguato come adesso. O forse sì, ma se ne era dimenticato. Stando con Yangee si era sentito una persona così importante, così indispensabile…
Si sorregge la testa con le mani e tenta di calmarsi, non vuole che qualcuno lo senta.  Si alza in piedi, si sciacqua bocca e viso, e torna a letto strisciando i piedi.
Dopo quell'incubo non riprenderà sonno, lo sa. Controlla il telefono sul comodino, e quasi senza farci caso inizia a giocarci, aprendo e scorrendo i nomi nella rubrica. Si blocca.
"Dancing Queen Hyoyeon".
Posa il telefono sul comodino con un sospiro. Per un attimo uno strano pensiero gli ha attraversato la mente. Che sciocco, pensa, in un momento così vuoi vedere Hyoyeon?

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Capitolo 7
*** Seoul Chronicles - Chapter 6 - Past ***


WARNING! Il sesto capitolo è finalmente arrivato, non con poco ritardo. Mi scuso se ci ho messo tanto, ma per me questa fanfiction è un parto. Ce l'ho tutta in testa da mesi, eppure metterla nero su bianco non è affatto facile. Mi spremo le meningi per cercare di esprimere al meglio le emozioni dei personaggi, ma è veramente difficile e mi scuso perchè questo capitolo è veramente uno dei peggiori che abbia scritto. Non è facile parlare di emozioni come l'amore (soprattutto viste le mie grandi esperienze nel campo) e, strano a dirsi, NON SONO SODDISFATTA.
Il capitolo è una sorta di lungo (lunghissimissimo) flashback. Mi dispiace di aver dedicato poco tempo a Super Junior e company, ma questa era una parentesi veramente troppo necessaria per lo svolgimento futuro della storia.
Dunque, da un lato abbiamo Soon Mi, dall'altro Yangee. Della prima per ora sappiamo solo che è una giovane soldatessa nordcoreana che custodisce un segreto molto importante. Di Yangee invece non si sa altro che Hyukjae ne è innamorato e che sicuramente tra i due ci sono stati dei problemi.
Qual è la loro storia, dunque? E soprattutto, qual è il loro importantissimo legame?
Spero che riusciate a leggere tutto, nonostante la lunghezza chilometrica. Penso davvero che nel prossimo capitolo parlerò di Leeteuk, quindi tenete duro, vi prego çAç
Grazie di leggere la mia fanfiction, è importante per me. Buona lettura.
P.S. Mi sono dimenticata di ringraziare HaruHaru19 per l'aiuto che mi ha dato a un certo punto del capitolo, grazie mille Eonnie! Grazie anche a Elisa che mi ha dato il parere prima della pubblicazione. I sarang You.


Cinque anni prima, Pungsan, Corea del Nord.


Pungsan è in una regione molto montuosa. Il paese sta nella valle, circondato dai monti e da una vegetazione incolta; dopo la stagione delle piogge il sottobosco ai margini del villaggio si è impossessato prepotentemente dei cigli delle strade, e la vegetazione traspira umidità. Sì, fa un caldo afoso.
E’ luglio e la scuola sta per finire; sulla strada di casa una piccola Soon Mi gioca a evitare le pozzanghere come una bambina, del tutto incurante che ormai ha già dodici anni.  
Non ha niente di particolare per cui essere felice; la divisa le si appiccica fastidiosamente addosso, è stanca, accaldata e in più ha fame. Tanta. 
Percorrendo la strada sterrata verso casa sua ad un tratto cambia direzione e si  infila in una via secondaria. 
A Pungsan non ci sono tanti soldati; si potrebbe dire che lì in periferia non ce ne siano affatto.
Vengono solo a fine mese; controllano le produzioni, si prendono la loro parte e poi lasciano le tessere per gli approvvigionamenti, nel caso che sia cambiato qualcosa circa la distribuzione dei viveri.  Ultimamente la tessera viene sostituita quasi ogni mese;  ogni volta accanto ai nomi degli alimenti viene scritto un numero sempre più piccolo. 
In sostanza, nessuno si accorgerà se esce un po’ dal paese.
A Pyongyang Soon Mi ricordava soldati in quasi ogni strada. Ricordava soldati cattivi, minacciosi. La casa veniva controllata quasi ogni settimana, messa a soqquadro, depredata e poi, non avendo trovato niente fuori posto, prendevano quel poco che c’era da mangiare e se ne andavano.
E’ contenta di aver lasciato la capitale, anche se è stato difficile. E’ contenta di essersi buttata alle spalle quella vita spaventosa. 
Qui in campagna apparentemente non è molto diverso. Ha la stessa divisa scolastica, con la gonna blu, la camicetta bianca e il fiocco rosso, studia le stesse materie odiose e ha la stessa fame di prima. In pochi le parlano a scuola e continua ad andare male a poesia. 
Però sta bene. Forse è la lontananza da suo padre, un uomo violento che picchiava la mamma. Forse è merito del fatto che qui i soldati si fanno vedere poco e sono gentili e pacati. O forse è grazie a Yangee. 
Come ogni pomeriggio si sta recando da lei, nella casa in cima alla collina. 
Con la sacca dei quaderni in spalla salta; prende lo slancio tirando in fuori il sedere come una papera, e da lontano si potrebbe quasi dire che sia davvero una bambina delle elementari tanto è piccola di costituzione e si muove goffamente. 
Salta le larghe pozzanghere in mezzo alla ghiaia finchè non posa maldestramente i piedi sul primo gradino dell’hanok di Yangee. Alza lo sguardo e soffiando si scosta la frangia dagli occhi.
E’ un pomeriggio soleggiato tanto che dalla macchia si sentono la cicale, anche se è un suono debole e ovattato. Il sole a ovest illumina in pieno la facciata dell’hanok, tanto che il portone laccato di marrone scuro luccica. 
C’è qualcosa di innaturale in quella calma estiva; qualcosa che ha fatto fare le capriole allo stomaco di Soon Mi non appena il suo piede ha toccato il cemento del gradino.
In un attimo quella sensazione le è salita attorno alla gamba come una scarica elettrica e ha sgretolato la felicità di pochi istanti prima.
Non è niente, si dice. Quale stupida presterebbe attenzione a una cosa del genere? Eppure dentro di lei l’ansia cresce ogni secondo in più che passa immobile in piedi su quel gradino. 
Ne sale altri due, bussa; leggermente, con le nocche, non come al solito quando usa tutto il palmo della mano.
Nessuna risposta. Bussa di nuovo. Niente. Allora bussa ancora, più forte, e aspetta con il cuore in gola. 
Inizia a fremere e a sudare freddo. Si guarda intorno, prima dietro, nel sentiero deserto, poi si rivolge alla boscaglia che circonda la casa. 
Bussa ancora, con molta più insistenza e poi con il dito allarga il fiocco intorno al collo che è diventato soffocante. E’ da sola, è certa di essere sola, ma al tempo stesso qualcuno la osserva. 
Spera che arrivi il signor Go ad aprirle la porta così da potersi sottrarre da quello sguardo al più presto.
Ma la porta non si apre e il disagio di Soon Mi cresce. Inizia a chiamare Yangee e il signor Go a gran voce, battendo i palmi delle mani sul portone. Lascia scivolare la borsa a terra per poi lanciarsi con disperazione contro il legno, picchiando i pugni incessantemente e chiamandoli. 
Ad un tratto una folata di vento le scompiglia la frangia e il portone si apre da solo. Soon Mi rimane con i pugni a mezz’aria e la sensazione, nuovamente, che qualcuno la stia osservando. 
Stringe le nocche sbucciate intorno agli spallacci della sacca e varca la soglia a piccoli passi. 
«C’è nessuno?», sussurra, e fin da subito non si aspetta una risposta.
Sono circa le cinque e il sole inizia ad alzarsi; i bambù di cui tutto il perimetro del cortile è circondato allungano le loro ombre fino al vialetto di ciottoli, in mezzo all’erba. 
Nel fazzoletto di prato in ombra la panchina di legno su cui lei e Yangee erano solite sedersi a leggere fiabe  è rovesciata. Ovunque per terra sono sparsi plichi di fogli stampati e oggetti buttati alla rinfusa; tra l’erba, vicino al vialetto, c’è la foto della madre di Yangee. 
Soon Mi si china a raccoglierla, si gira la cornice di legno fra le mani e lucida il vetro incrinato con un lembo della gonna; si chiede come possano averla lasciata lì.
Procede, titubante; teme che se le sue scarpe faranno troppo rumore qualcuno possa sbucare fuori dal nulla e spaventarla.  Posa i piedini sul legno della veranda. Anche lì, sotto la tettoia, sembra che sia passato un uragano. Il divanetto ha i cuscini ribaltati e la fodera lacerata in più punti. Sovrappensiero Soon Mi infila il dito nell’imbottitura pensando che anche mamma a Pyongyang aveva cucito i risparmi nelle fodere dei cuscini perché i soldati non li trovassero.
Il tavolino tondo è rovesciato a terra, poco distante dai frantumi del vaso di cristallo. Continuando la sua esplorazione Soon Mi calpesta un fiore di campo caduto poco più in là. 
La porta scorrevole della cucina è aperta, così come gli sportelli della credenza, quasi interamente svuotati. Scosta delicatamente la sedia di legno e si siede a tavola come avrebbe fatto in un qualsiasi altro pomeriggio aspettando che il signor Go facesse il tè (tè vero, non come le erbe di campo che metteva in infusione la mamma). Distende le braccia sul tavolo, e non sente altro che il rumore dei suoi respiri leggeri.
Nello studio del signor Go neanche entra; si ferma sulla soglia, dove i pesanti tomi della libreria si ammucchiano disordinatamente. Ovunque fogli, scartoffie, libri e mappe buttati alla rinfusa.
E poi c’è la camera di Yangee… la camera di Yangee che è un universo a sé. 
Mentre tutto il resto della casa versa nel più totale caos in quella cameretta il tempo sembra essersi fermato al giorno prima. 
Solo l’armadio è leggermente dischiuso e le lenzuola disfatte. Soon Mi si siede delicatamente sul letto e fissa il vuoto davanti a sé, nella più totale penombra.
Passa in rassegna la scrivania, il comodino con la lampada e gli scaffali pieni di libri di fiabe e romanzi per bambini.  Una stanza che tutto sommato non è cambiata dalla prima volta che ci è entrata, due anni fa.
Allora Soon Mi si era da poco trasferita a Pungsan dalla capitale; papà era morto e mamma era scappata con lei in montagna, dove risiedevano ancora i suoi vecchi genitori.
Soon Mi non era esattamente una bambina socievole; in casa aveva sempre parlato poco per paura di innervosire suo padre e a scuola aveva subito capito di essere diversa dagli altri bambini. 
Perciò anche nella piccola scuola che frequentava ora a Pungsan aveva faticato a fare amicizia; si può dire che non ne avesse fatta nessuna. Aveva circa nove anni e mezzo e al contrario di tutti i suoi compagni faceva il tragitto del ritorno da sola.
Aveva preso l’abitudine, con l’avvenire della primavera, di gironzolare un po’ per la macchia prima di tornare a casa. In città non aveva mai visto tanta natura, in più il nonno le aveva indicato un cespuglio che faceva delle bacche nere dolcissime. 
Fu proprio in uno di questi giri che si imbatté nell’hanok di Yangee. 
Lei era seduta sui gradini del portone, al sole, e leggeva un libro enorme, di quelli con la copertina cartonata e lucida. Si mordicchiava l’unghia del pollice, assorta. 
Soon Mi le si era avvicinata, e allora sembrava davvero una paperina. Era incredibilmente piccola e magra, e chiunque non le avrebbe dato più di sei anni. Leccandosi le dita sporche di succo violaceo, era rimasta con lo sguardo fisso in quello di Yangee per chissà quanto. 
Yangee era alquanto bizzarra. Aveva guance piene e rosee, e portava una salopette di jeans, tessuto che Soon Mi non aveva mai visto da nessuna parte.
Ciò che veramente aveva attratto la bambina però era stato il libro che Yangee teneva sulle ginocchia. 
L’illustrazione raffigurava una ragazza dai capelli lunghi e gialli e gli occhi blu, con un abito a dir poco incredibile; tutto balze, merletti e maniche a  palloncino rosa salmone. La ragazza toccava quello che aveva tutta l’aria di essere il fuso di un telaio.
«Che cos’è?», aveva domandato, lasciando un’impronta violetta dove con il ditino aveva toccato la pagina. 
Fu così che a Soon Mi fu raccontata la fiaba de “La Bella Addormentata”. Da allora tornò lì ogni pomeriggio.
Conobbe il signor Go, con la sua grande libreria e la sua aria calma e affettuosa, divorò tutti i libri di Yangee.
Con il tempo aveva capito che i due venivano dal Sud, ma non ne aveva fatta parola con nessuno; sapeva che sarebbero potuti finire in guai grossi se la voce fosse arrivata ai soldati.
Sinceramente preferiva molto di più passare il tempo nel bell’hanok di Yangee leggendo libri di principesse straniere dai capelli d’oro, bevendo tè e schiacciando pisolini sul divanetto della veranda piuttosto che tornare nella devastante solitudine della vecchia casa dei nonni.
Varcato il portone di Yangee, poteva sognare il Mondo. Tutto quello che c’era al di fuori dei piccoli confini della Corea del Nord rappresentava un miraggio bellissimo che fra quelle quattro mura prendeva vita. 
E ora invece Soon Mi era rimasta da sola. Più volte aveva sperato che la mamma e il signor Go si sposassero, avrebbe voluto che lui fosse diventato il suo papà. Adesso però le viene il dubbio che sia stato tutto un sogno.
Senza Yangee e suo padre quella casa sembra un vecchio relitto abbandonato; nessuno saprebbe dire con certezza se sia stata lasciata la mattina stessa o 20 anni fa, tanto è fredda.
Soon Mi vuole piangere con la consapevolezza che non ne è capace. Sente gli occhi pungere e le lacrime che non si decidono a uscire.
Si alza di scatto e con tutta la rabbia che ha in corpo inizia a  scaraventare via i libri di fiabe. Non contenta rovescia l’intera libreria e inizia a calpestare le copertine dei romanzi, gridando.
Yangee se n’è andata. La sua unica amica se n’è andata via con il suo papà. E’ sparita senza dire niente, senza salutare, senza dirle addio. E’ andata e ha spezzato l’incantesimo; Soon Mi è ancora al Nord, sarà per sempre al Nord. Niente più sogni di libertà, niente più tè caldo per calmare la fame. 
Sente di avere dentro rabbia sufficiente per distruggere tutto ciò che rimane in quella casa. Si alza di scatto e trascina giù la lampada che va in frantumi, prende a calci il comodino, rovescia la scrivania con un fracasso infernale. Lancia via cuscino e materasso, monta in piedi sulla rete e prende uno ad uno i libri sulla mensola strappandone le pagine e lanciandoli contro il muro.
Poi la piccola mano le si stringe intorno a una custodia di plastica, appena in tempo prima di mollare la presa e lanciarla con furia verso il pavimento. 
In un secondo torna lucida. Si rende conto di essere in piedi sulle doghe di legno del letto e di aver appena devastato la cameretta di Yangee. Si accorge di avere il fiato corto e di aver suo malgrado pianto lacrime di rabbia.
Si porta la custodia del CD al viso, mentre cerca di riprendere fiato; ne liscia la copertina con il pollice, poi segue il profilo del bordo zigrinato. Sorry Sorry.
Lei non sa leggere quella scritta, sa che si dice così perché gliel’ha detto Yangee. Vuol dire “scusa, scusa”, in inglese.
Di tutti i CD di Yangee questo è il suo preferito in assoluto. Soon Mi non piange mai; lei stessa è convinta di non esserne in grado.
E invece ora piange, e i singhiozzi le scuotono il piccolo petto con violenza. 
Di tutte le cose che amava dei pomeriggi con Yangee, la più bella era stata la scoperta di quella cosa chiamata “amore”.
C’era una storia d’amore in ogni fiaba, in ogni libro, in ogni film di Yangee. L’amore era quella cosa che teneva unita la gente; era un miscuglio di rispetto, generosità e fratellanza. Era la colla fra le persone, quella che permette a una madre di non abbandonare mai il figlio e di arrivare a morire pur di salvarlo. Era la cosa che Soon Mi respirava in ogni gesto mosso in quella casa. 
La mamma non parlava mai del papà; lei lo odiava. 
La parola d’ordine nel regime non era amore; era “paura”. Per anni Soon Mi non aveva conosciuto altro.
E invece c’era un altro modo per vivere con la gente. Il signor Go teneva una foto della moglie morta sul tavolinetto della veranda e le metteva vicino sempre un mazzo di fiori. Il signor Go abbracciava Soon Mi ogni volta che lei gli tendeva le braccia.
Ascoltando i suoi CD, Soon Mi aveva finalmente iniziato a sentirlo, questo “amore”. Aveva iniziato a comprenderne le diverse sfaccettature, aveva capito che nella sua breve vita era certamente mancato.
Ed eccolo lì, l’amore. Ce l’ha fra le mani, in un dischetto di metallo dentro una custodia di plastica. 
Si asciuga le lacrime con la manica della camicia, poi prende gli altri CD di Yangee e li ficca nella sacca insieme al piccolo lettore portatile nel cassetto dell’armadio. Infine esce dalla stanza, chiude la porta, gira i tacchi e scappa.
Negli anni a venire farà amicizia con Min Ji. Amicizia per davvero. Min Ji sembra stupida, ma in realtà è l’unica che capisce al volo cosa passa per la testa di Soon Mi. Min Ji è buona.
Loro due, da sole, sono riuscite a far nascere l’amore. Si amano come sorelle. Sono come una fiammella guizzante nell’oscurità, una fiammella inestinguibile. Solo la morte potrà dividerle, ma sicuramente non spegnerà quel sentimento.
L’amore è indelebile. E’ come la traccia di un CD che si ripete all’infinito, ogni volta che vuoi, e rimane lì. Per sempre.


Quell’estate, Seoul, Corea del Sud.


Yangee si guarda allo specchio, e per lei è un po’ la prima volta.  Si liscia la gonna del vestito, una bellissima gonna di tulle color tortora.  Fa un paio di giri per ammirare l’abito da tutti i lati, liscia il corpetto di seta color avorio, si scosta la frangia dagli occhi. 
Torna a guardarsi, per convincersi che è lei davvero.
Che quella creatura bella e sorridente è davvero lei, Go Yangee, diciannove anni. 
Si chiede se ora che è truccata, solo un po’, giusto un filo, e si è sistemata i capelli e si è messa quel vestito stupendo e i tacchi… si chiede se Hyukjae le chiederà di ballare con lui.
Chissà se vedendola penserà che è bella, che la ama.
Al pensiero le guance di Yangee diventano rosse. 
E’ così strano sentirsi innamorati; avere le dita delle mani che formicolano e il sorriso stampato in faccia. E’ così strano sentirsi vivi… 
Yangee si sistema la frangia un’ultima volta, poi, traballando sui tacchi, esce sul pianerottolo di casa, si chiude la porta alle spalle e, prendendo un lungo respiro, inizia a scendere lentamente le scale.
Un piede dietro l’altro, con fiducia.
Non è più il fantasma che nel cuore della notte fino a qualche mese prima scendeva quelle stesse scale avvolto in dei vecchi vestiti larghi e sformati. Non è più la ragazza smagrita, con le guance incavate, le occhiaie e le sneakers sgualcite che ogni notte  si trascinava stancamente a lavoro.

Yangee non sa bene come si sia innamorata di Hyukjae. Per la verità le sfugge anche il modo esatto in cui sono diventati amici.
Però per lei Hyukjae è tutto. E quando dice tutto, intende davvero tutto.
C’era stato un periodo nella vita di Yangee in cui si sarebbe potuta considerare una bambina nella norma, con una vita nella norma, ma quel periodo è così lontano che a volte, tentando di ricordarlo, si chiede se la sua mente non stia immaginando tutto. Il volto di sua madre spesso si confonde con i volti delle donne che vede per strada, e non sa dire se il calore che ricorda sia quello del suo petto o quello delle coperte, d’inverno. 
Poi, quando aveva sei anni, sua madre morì. Faceva la giornalista, come suo padre.  Una bomba se la portò via a Kabul, con altri due della troupe. Fu allora che Yangee si rese conto di che uomo meraviglioso fosse suo padre.
Rimasto da solo con lei piccola non si perse d’animo e cercò di farle anche da madre, per quanto poteva. Così, tra alti e bassi, bene o male tutta la sua infanzia era stata un’infanzia bella; il vuoto lasciato da sua madre veniva colmato dall’affetto di cui la riempiva suo padre.
Poi arrivarono dei tempi duri, e papà accettò un lavoro molto rischioso; si trattava di infiltrarsi in Corea del Nord insieme ad un’équipe di medici umanitari giapponesi e stilare un resoconto dettagliato della vera situazione economica del Paese. Yangee aveva dodici anni quando si trasferirono a Pungsan. Le era stato concesso di portarsi poche cose, e quindi i suoi passatempi erano perlopiù la lettura dei soliti libri, qualche film e cinque, sei CD. Non poteva mai uscire di casa perché qualcuno, non riconoscendola tra gli scolari, si sarebbe potuto insospettire. Furono tre anni di noia, salvo che per i pomeriggi con Soon Mi. 
Talvolta Yangee ripensa a lei con rammarico; se ne sono dovuti andare in fretta e furia senza neanche salutarla; senza di lei il tempo non sarebbe mai trascorso. 
Al rientro al Sud però qualcosa era andato storto. La ricerca di papà era incompleta, c’erano stati dei problemi, fatto sta che lui perse il lavoro e con quello crollò definitivamente.
Tutta la sua solitudine, la sua tristezza e i suoi sensi di colpa salirono a galla. Il fatto che forse Yangee fosse ormai grande  gli aveva fatto credere di potersi finalmente lasciar cadere nell’oblio dei sensi di colpa, anche solo per  un po’. E così, aveva iniziato a bere. Chissà cosa rimuginò in quel breve periodo, fatto sta che qualcosa in lui si ruppe; la cosa che lo teneva ancorato alla realtà si spezzò di netto, come una vecchia corda, e da allora Yangee non riebbe più indietro suo padre.
Arrivata da sua zia probabilmente non era pronta a dover condividere la casa con delle perfette estranee, in tutta la sua vita non aveva vissuto che con suo padre, non aveva la minima idea di cosa significasse.
Aveva cercato di non essere di disturbo dando una mano in casa, e aveva finito per diventare la sguattera, nel vero senso del termine. Le cugine la detestavano.
Si era dovuta trovare persino un lavoro in una ditta delle pulizie.
I primi tempi si ripeteva che era solo una cosa momentanea, finchè papà non fosse stato dimesso dall’ospedale psichiatrico; le lettere che riceveva ogni tanto le davano la speranza che si fosse rimesso, poi però ne arrivavano alcune che erano dei veri folli deliri.
Arrivata a compiere 17 anni, davanti a una pasticceria, aveva guardato le torte nella vetrina. Le aveva osservate una ad una, e poi se ne era andata senza prenderne nessuna, quasi con rassegnazione.
Quella sera aveva chiuso tutte le lettere di suo padre in una scatola di metallo, e l’aveva cacciata sotto il letto. Da allora non aveva più aperto neanche una delle sue buste; le aveva riposte nella scatola e mai lette.
E così aveva seppellito tutte le emozioni insieme a quelle carte, dalla rabbia alla stanchezza, dalla tristezza alla solitudine; tutto era stato assorbito da quelle pagine.  
Arrivata a diciannove anni era più simile a un fantasma che a un essere umano. Della Yangee spensierata che era stata durante l’infanzia non era rimasto niente, neanche l’aspetto.
Però poi aveva incontrato Hyukjae, quel mattino.

La sveglia suona e Yangee prontamente la spegne. La sua camera è avvolta nell’oscurità.
Si issa a sedere sul letto e si scosta i ciuffi arruffati dal viso, poi posa i piedi per terra e inforca le sue vecchie pantofole sbucciate. La sveglia segna che sono le quattro in punto del 15 Dicembre 2012.
Ben attenta a non inciampare in tutte le cianfrusaglie che In Hee e le sue figlie lasciano in giro, si fa strada in bagno al buio, e cerca di dare un verso a quel cespo intricato di capelli color ebano. Si lava facendo attenzione a non svegliare nessuno, poi scivola nella sua divisa di seconda mano.
Non si guarda mai allo specchio. Ogni tanto intravede un riflesso in una vetrina, un’ombra nello specchio del bagno, ma non sa che forma abbia il suo naso, né come siano i suoi occhi; se ha la faccia ovale o larga e se le sue orecchie sono normali o appuntite.  Ormai tutto ciò che riguarda sé stessa non le interessa più.
In cucina c’è puzza di fritto. La tavola ha ancora tutti i piatti sporchi della sera prima e nell’acquaio le scodelle si sono accumulate l’una sopra l’altra in pile pericolanti. Yangee afferra una mela, inforca le sue vecchie scarpe da ginnastica e poi esce in strada.
Seoul è una grande metropoli. La gente la trova rumorosa, caotica e affollata, ma c’è un momento, passate le quattro di notte, in cui tutto si ferma. Le strade si svuotano completamente, i rumori cessano e il tempo si congela. 
Yangee è l’unica ombra a scivolare lungo quelle vie di periferia; raramente un autobus o un taxi illumina per qualche istante la carreggiata e scivola via silenziosamente, ma per il resto, nota Yangee, le strade sono così deserte che ci si potrebbe tranquillamente camminare in mezzo senza paura di essere investiti… Com’era quella leggenda metropolitana che andava di moda una decina d’anni fa?, a Yangee è immediatamente venuto in mente. Anni addietro era uscito un film che era diventato piuttosto famoso e le persone si erano fissate con una di queste citazioni tipica del genere: nell’ora in cui il tempo si ferma e la città si svuota, le anime sole scendono e ballano il tango in mezzo alla carreggiata della strada. O era il valzer?, si domanda Yangee. Scuote il capo; non è tempo per riflettere su delle stupide citazioni. 
Imbocca una scaletta di cemento un po’ nascosta in mezzo ai palazzi. Attraversa la strada e si fruga nella tasca del giacchetto in cerca del pesante mazzo di chiavi, con le mani intirizzite dal freddo ne prende una e la infila nella toppa di una porta di metallo. 
Nello sgabuzzino fa freddo. Apre il suo armadietto e raccoglie un post-it giallo che qualcuno le ha messo dentro attraverso le fessure dello sportello: Ho fatto il doppio turno e ho pulito anche il terzo piano. A te tocca il secondo oggi. JungMin. 
Yangee appallottola il foglietto e prende il grembiule blu. E’ un grembiule che le sta largo di almeno tre taglie, puzzolente, sgualcito e macchiato qua e là di vernice. Su una tasca ci sono delle macchie più chiare, testimonianza di un incidente con la varichina, e mancano due o tre bottoni. 
Yangee ama indossare il grembiule; è una delle poche cose che può dire di amare davvero. L’unica. 
Le si affloscia addosso e ci scompare dentro fino a metà polpaccio, ha un odore di vecchio, ma è ciò che di più simile a un abbraccio abbia mai provato. E’ qualcosa di sicuro a cui aggrapparsi, è il suo segno distintivo. Quando indossa il grembiule Yangee non è più un fantasma, è il fantasma con il grembiule blu.
Trascinandosi sulle sue esili gambe prende il carrello, riempie il secchio e si infila i guanti gialli. Anche i guanti gialli le piacciono, non come il grembiule ovviamente, ma le suscitano una sorta di simpatia. Quando li indossa le sue mani sembrano zampe di gallina.
Spinge il carrello lungo i corridoi dell’agenzia. 
L’agenzia è un posto magico; non chiude neanche quando fuori ormai tutto tace. C’è sempre qualcuno. 
In qualche stanza c’è la luce accesa e si sente della musica.
Yangee solitamente pulisce il terzo piano. Sono tutti uffici, raramente sono occupati a quell’ora e non  è mai stata al secondo piano; non ha la minima idea di cosa ci sia. 
Trascina il carrello stancamente fino alla prima porta; il corridoio è illuminato dalle luci esterne che filtrano attraverso una parete a vetro; sembra un luogo magico avvolto di bagliori rossastri di cui lei sola è a conoscenza.
Spinge la maniglia, e i cardini cigolano; Yangee si sente per un attimo Alice prima di cadere nella tana che porta al Paese delle Meraviglie. Trattiene il respiro e accende la luce. 
Lo specchio è lì, su tutta la parete. Non può evitarlo. Ora che ci pensa ha paura del suo riflesso; ha paura che possa sbatterle in faccia chissà quale verità e sa di non poterla accettare.
Però lei c’è. Ci mette qualche istante a capire che è proprio quella nel riflesso. 
Che la ragazza alta, magrissima, con il viso stanco, le occhiaie e i capelli mossi è lei. Che il grembiule le sta veramente troppo grande ma che tutto sommato le dona. Non capisce se è bella o no. Sicuramente è troppo trascurata e stanca, e ha il viso grigiastro. Non ha l’aria molto sana. 
La cosa che più la stupisce però è che ha avuto la prova evidente di esistere. Fino ad ora si è sentita una presenza trasparente che osservava il mondo, ora ha la certezza di avere un corpo tutto suo. 
Che stupidaggine vero? E’ ovvio che ha un corpo, si canzona mentalmente, però sente il cuore che batte. Rimane qualche istante senza respiro, sopraffatta dall’emozione.
Lì in piedi nella sala prove, guarda quella sconosciuta allo specchio e sente gli occhi inumidirsi. 
Perché ti sto maltrattando così?, pensa e si tampona il naso con il dorso della mano.
«Da quando in qua i pavimenti si puliscono con le lacrime?»
Yangee sussulta; presa com’era dalla sua immagine allo specchio non aveva notato la figura appoggiata  allo stipite della porta. Girandosi di scatto urta il secchio e l’acqua si rovescia sul parquet.
Serra i pugni e rimane a guardare la pozza allargarsi; odia l’acqua. Specialmente quella versata, quella che nessuno è stato capace di confinare in un recipiente. E’ come lacrime non trattenute, e Yangee odia non riuscire a trattenerle. Con le labbra che tremano sente l’acqua inumidirgli i calzini.
Sente una dietro l’altra le ingiustizie che subisce, i suoi soldi che finiscono in mano a In Hee, la fatica accumulata e i bocconi amari ingoiati. Si sente in colpa di non amarsi e di essersi fatta tanto male fino ad ora. Le gambe le cedono e cade in ginocchio; poco importa se si bagnerà tutta.
Il ragazzo sullo stipite della porta si decide a muoversi. Prende uno straccio asciutto dal carrello, si china e inizia ad asciugare il pavimento al posto di Yangee.
«Per un po’ d’acqua versata non credo sia necessario piangere», mormora strizzando il canovaccio dentro il secchio. Le esili spalle di Yangee sono scosse dai sussulti.
«Non piango per l’acqua», singhiozza. Piango perché mi stai aiutando, vorrebbe aggiungere, però tace.
Lui è Eunhyuk. C’è stato un periodo prima in cui ascoltava i Super Junior, ma adesso non saprebbe ridire neanche di cosa parlavano le canzoni. Guardando Eunhyuk negli occhi, non occhi particolarmente belli ma con qualcosa dentro, per un attimo vede balenare una luce. Una luce che non c’è mai in nessuno degli sguardi che le vengono rivolti solitamente.
E’ per questo che piange. 

«Grazie»,la ragazza tira su con il naso. Hyukjae si blocca per un secondo e la guarda negli occhi.
Nessuno gli ha mai rivolto un grazie del genere. E’ più un “grazie” che si direbbe a chi ti ha appena salvato la vita. E’ un “grazie” caldo, ruvido, un po’ goffo, ma carico di sollievo. 
Non si sente a disagio, si chiede solo il perché di quello sguardo carico di gratitudine.
La prende per il braccio – un braccio esile e fragile – e la aiuta a rialzarsi con la stessa facilità con cui solleverebbe una piuma.
«Vieni, ti offro un tè caldo».

Era andata a grandi linee così. Avevano preso un tè dal distributore automatico. Lui le aveva detto che era lì a tarda ora per perfezionare una coreografia. Le aveva parlato per circa un’ora, ininterrottamente, finchè Yangee non aveva fatto un sorriso – il primo dopo un tempo incalcolabile – e lui si era sentito soddisfatto ed era tornato in sala prove. 
Da allora avevano preso l’abitudine di incontrarsi ai distributori verso le cinque, andare sul terrazzo e sorseggiare del tè guardando le luci abbaglianti della città.
Yangee no ricordava di essere capace di parlare tanto a lungo, tanto meno di ridere. Ma lui era così… Yangee lo guardava senza trovare un aggettivo che rendesse abbastanza l’idea.
Era l’apice dell’imperfezione; non era bello, affatto. Il viso rifiutava di attenersi ad ogni regola della simmetria; il naso era grande, gli occhi piccoli e le mascelle pronunciate.  Era così disarmonico.
Eppure Yangee non poteva non guardarlo. 
Non sa dire cosa l’avesse fatta innamorare di lui. Hyukjae la trattava da essere umano, no, anzi, di più. Lui la trattava con affetto. Quando gli capitava di doverle porgere un bicchiere di tè, o la aiutava a portare il carrello fino all’ascensore, lo faceva con una tale delicatezza che Yangee non credeva neanche più di meritare. E poi negli occhi aveva qualcosa.
Era qualcosa che le ricordava incredibilmente lo sguardo che le rivolgeva suo padre.  Era il qualcosa che hanno tutte le persone buone e incapaci di mentire.
Davanti a quello sguardo, certe notti, era anche capace di raccontargli di sé. Di rispondere alle sue domande e di piangere con lui, di parlargli di suo padre. 
Davanti a quello sguardo, certe notti, era quasi stata tentata di dirgli che lo amava. Che non le importava di essere ricambiata finchè lui si fermava a parlare un po’ con lei.
Erano passate le stagioni, portandosi via le notti passate insieme a parlare su quel terrazzo. L’inverno aveva ceduto il passo all’aria tiepida della primavera, e infine era arrivata l’estate. 
E quella notte di luglio, lui l’aveva aspettata all’uscita, per strada.
«Lee Hyukjae, che ci fai qui! Vai a dormire!», gli aveva intimato lei, ma lui aveva scrollato le spalle e le aveva teso una mano.
“Vuole che l’afferri?”. “Sì”, gli aveva risposto il suo sguardo, e allora Yangee aveva posato le piccole dita sul palmo della sua mano.
Hyukjae l’aveva guardata, trovandola bellissima; le guance erano tornate piene e si era tagliata i capelli, e in quel momento il suo sguardo innocente gli aveva ricordato il suo primo amore.
E allora aveva pensato di amarla, sì, di amarla così com’era. 
Con l’altra mano le aveva circondato i fianchi, e poi senza dirle niente aveva iniziato a guidarla. Un, due, tre. Un, due, tre.
Come la scena del film, aveva pensato Yangee, con il cuore che batteva a mille. 
Quando Hyukjae si era fermato lei l’aveva guardato come si guarda un sogno che si allontana.
« Tieni i passi bene a mente e balla al mio ritmo, se ci riesci. Sabato prossimo l’agenzia organizza un party e… », aveva preso un lungo respiro e le aveva sussurrato, con il suo brutto sorriso stampato in faccia: «Ho intenzione di premiare la dama che mi concederà un valzer… con un bacio». Poi l’aveva lasciata andare, si era girato e con le mani in tasca si era diretto verso la sua  auto.
«Ah, maledetto! Chi credi che lo voglia un bacio da te!», lo aveva preso in giro lei. Poi però si era morsa il labbro inferiore non appena la macchina era sparita dietro l’incrocio.
Io lo voglio, quel bacio, si era detta. Aveva preso una lunga boccata d’aria e poi si era diretta verso la fermata dell’autobus.

E così. Per la verità Yangee non sarebbe voluta andare; per tutta la settimana si era provata i vestiti da sera di sua cugina mentre lei non c’era, se li era messi e sfilati un’infinità di volte prima di decretare che era ridicola, pazza e illusa. 
Poi però, quella sera stessa, guardando le lancette dell’orologio sulla parete della cucina segnare le otto in punto, qualcosa l’aveva convinta. Aveva aspettato che sua cugina uscisse con le amiche e poi si era intrufolata in camera sua e si era messa il vestito tortora, quello che la faceva sembrare più carina.
Ed eccola lì, sull’autobus, con quel vestito principesco e dei tacchi su cui non si sarebbe mai sognata di montare. Eccola lì, con il cuore in gola che guarda le luci della città sfrecciare fuori dal finestrino. 
Si chiede se la troverà bella o se invece le riderà in faccia per aver anche solo pensato di poterlo sembrare.
Si chiede se ciò che è avvenuto quella notte è stato un sogno, e se non lo è stato, perché l’ha fatto.
Esiste una qualche possibilità che Hyukjae la ami? E’ lei la ragazza che vuole baciare?
Tutti questi pensieri le si aggrovigliano in testa mentre si stringe con forza il lembo di tulle della gonna.
L’autobus la scarica davanti all’agenzia; le porte si chiudono con un suono metallico, il motore soffia e poi riparte lasciandola lì, da sola.
Stringe la pochette e traballa sui tacchi fino all’entrata. Prende un lungo respiro, chiude gli occhi.

Hyukjae controlla l’orologio. Sono già le dieci di sera, la festa è già iniziata da quasi un’ora, e di Yangee neanche l’ombra. Si fa versare un bicchiere di champagne e va a berlo fuori, sull’attico. Guarda la città con le sue luci accecanti. Guarda il punto in cui potrebbe trovarsi la casa di Yangee e sospira.
Ci sono momenti nella vita in cui credi di avere la felicità in mano. Ti sembra di averla presa e di tenerla stretta in pugno, e poi ti accorgi che in chissà quale momento ti è scivolata via fra le dita senza che te ne accorgessi.
Vuota il bicchiere d’un fiato e ingoia lo champagne. Era certo che sarebbe venuta.
Dal primo momento lei lo aveva guardato con quello sguardo… dal primo momento lo aveva fatto sentire così indispensabile, così importante.
«Ah, le pene d’amore».
Hyukjae si volta e vede Hyoyeon che gli sorride, i lunghi capelli biondi le circondano il viso perfetto dal sorriso smagliante. Hyukjae annuisce, abbozzando un sorriso.
C’era stato un tempo in cui quelle stesse pene le provava verso di lei. Un tempo in cui la loro vita era felice e calma, ed erano solo compagni di lezioni di danza. 
«Ma che vuoi saperne tu, Kim Hyoyeon. Il tuo cuore è troppo grande per poterci ospitare un uomo solo», le risponde lui, e si gira di nuovo verso i grattacieli illuminati. Gli occhi della ragazza si velano per un attimo, poi alza la testa: «Hyukjae oppa, senti, hanno messo il valzer!», mormora.
Hyukjae tende l’orecchio; è vero, l’unico valzer della serata, quello che avrebbe voluto ballare con Yangee.
«Aish… peccato che hai già una dama invisibile, o ti avrei chiesto di ballarlo con me», scherza Hyoyeon; in un qualsiasi altro momento Hyukjae avrebbe riso.
Abbi fede, si ripete, arriverà. 
Ma Yangee non arriva e Hyoyeon lo guarda impaziente. Hyukjae annuisce e i due rientrano in sala.
Cinge i fianchi della ragazza e inizia a ballare, pensando al bacio che stasera non darà.

Yangee sale le scale, un piede dietro l’altro, tremante. Sente che il cuore le esploderà in petto. Sente che lo bacerà, stasera gli dirà che lo ama e lo bacerà.
Anche se il respiro inizia a farsi pesante continua ad avanzare, finchè non entra nella grande sala da ballo, gremita di persone.  Inizia a sentire il sangue bollire e andarle alla testa. Avrà il coraggio di farlo?
Deglutisce e inizia a guardarsi intorno, mentre nell’ambiente inizia a diffondersi dolcemente la melodia di un valzer.  
Inizia a farsi strada titubante fra le persone; chi non la riconosce le lancia strani sguardi, ma lei va avanti, finchè non si ritrova in mezzo alla pista.
E lui è lì. 
Ma non le tende la mano come l’altra notte; sta ballando il valzer con un’altra. Una ragazza bellissima per giunta, con cui Yangee non può neanche lontanamente competere.
Quando Hyukjae si gira e la vede, in piedi e con il viso rigato di lacrime, non fa neanche in tempo a realizzare la cosa che lei si è già voltata ed è corsa via, sparendo fra la gente.
Lascia Hyoyeon, mollandola da sola, in mezzo alla pista.
Che cos’ha fatto. Si sente uno stupido.
Alla fine era venuta davvero, era venuta per lui. Era venuta per il suo bacio. 
E lui ha rovinato tutto.
La rincorre giù per le rampe di scale, la vede poco più in giù lanciare via i tacchi e scappare via.
«Yangee, Yangee! Fermati!»
Ma lei non si ferma. Scappa via con il tulle spumeggiante che le avvolge le gambe.
Esce in strada e si guarda un attimo intorno, con la vista offuscata dalle lacrime. Vorrebbe urlare. Vorrebbe odiare Hyukjae per averla fatta innamorare, per averla illusa e per averla presa in giro.
Vorrebbe detestarlo perché per lui si è messa quel vestito che la fa sembrare un’idiota, perché tutti gli stupidi progetti che ha fatto da quella notte si sono rivelati solo le fantasie di una bambina ingenua.
E poi riprende a correre, in una direzione che neanche lei sa, a piedi nudi. Corre via come il vento, singhiozzando, con il cuore a pezzi.
Vuole odiarlo, ma non può. Lui le ha salvato la vita.
Hyukjae esce fuori con il fiatone in tempo per vederle svoltare l’angolo, all’incrocio, e la guarda svanire nel nulla, come una nuvola di vapore. 
«Mi dispiace Yangee, MI DISPIACE!»,grida, ma la sua voce si disperde nell’aria della sera. Sente l’ossigeno mancare e gli occhi pungere. Si siede  sul bordo del marciapiede, prendendosi la testa fra le mani.

Hyoyeon non piange mai è così? Ormai ci è abituata.
Sospira; sarà meglio che liberi il centro della pista alla svelta. Intercetta un cameriere e prende un bicchiere di champagne; lo sorseggia delicatamente con un’espressione vuota. Lo posa sul tavolo e in silenzio se ne va via.
Fottiti, Lee Hyukjae, pensa, nel mio cuore un uomo c’è eccome.

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Capitolo 8
*** Seoul Chronicles - Chapter 7 ***


WARNING: Salve. Finalmente dopo due mesi sono tornata con un capitolo decisamente deludente. Di tutte le cose che ho tentato di scrivere e trasmettere, ne avrò fatte bene al massimo due. Chiedo scusa, so che il capitolo sarà decisamente noioso, ma dal momento che si avranno presto dei colpi di scena vi supplico di pazientare ancora un po'.
Nel capitolo si introduce Leeteuk e poi si parla della "partenza". I nostri idol dovranno rifugiarsi nel sottosuolo di Seul dove c'è poco spazio per le parole e dove dovranno affrontare tanti dei loro scheletri nell'armadio... Ci si sta pian piano riavvicinando allo scenario del prologo e del capitolo 1.
Scusate tanto. so che è noioso. 
Grazie a chiunque leggerà. Ciao ciao. ♥

Confine orientale tra le due Coree.
Il campo di Jeol Mang è un’enorme distesa di prefabbricati intorno ad un vecchio complesso industriale in disuso, in mezzo alle montagne. Qui il regime ha allestito in fretta e furia un campo di internamento circondando l’area di alte reti , filo spinato e cavi ad alta tensione.
Da lontano non si direbbe mai che è un luogo di prigionia, però. Sarà perché non ci si aggira mai nessuno, tutti rinchiusi nelle fonderie a lavorare, o perché forse il rumore dei macchinari e dei pneumatici delle camionette è l’unico suono distinguibile, quasi in quel posto non si aggirasse anima viva.
Il sole dell’alba si appresta a sorgere dietro una spessa coltre di nubi e illumina l’erba bagnata che ricopre la vallata.
Jungsu stringe la mani attorno alla casacca della divisa e se la fa scivolare lentamente sulla pelle, si allaccia le scarpe sdrucite con un vecchio spago ed esce fuori dalla baracca in cui dorme con altri venti, trenta uomini. Non può dare un numero preciso perché alcuni se ne vanno e altri arrivano in continuazione. Trascina stancamente i piedi lungo i vicoli fangosi del campo insieme agli  altri internati che, avvolti nella nebbia mattutina, sembrano tanti fantasmi. Il dedalo di baracche con l’intonaco scrostato e le macchie di muffa sulle pareti ricorda vagamente una di quelle baraccopoli sudamericane che a volte gli era capitato di vedere in TV. 
Sente una goccia di pioggia cadergli sulla punta del naso, con delicatezza; il tempo di sbattere un attimo le palpebre e ha iniziato a piovigginare. 
E’ quella pioggia fredda e leggera che annuncia definitivamente la fine dell’estate. Gli riporta alla mente i ricordi di quando un anno prima, sotto quella stessa pioggia gelida e inconsistente, era entrato nell’esercito.
In quel momento lasciare i Super Junior, il lavoro, sua madre e la sua vita gli era sembrato giusto. Fin da piccolo non avevano fatto altro che imbottirgli il cervello di stupidi ideali patriottici e di modelli di virilità obsoleti a cui non aveva potuto fare a meno di credere. 
“Se non fai la leva, non sei un vero uomo”.
Se ne avesse la forza, ora vorrebbe ridere in faccia a tutti quelli che si sono inventati certe storie. Vorrebbe dirgli “Ehi, guardatemi ora, non vi sembro un vero uomo?”. Poi dopo a pensarci gli viene l’amaro in bocca.
Perché adesso non è un uomo; non è neanche più una persona. Il verbo “essere” non fa più parte di lui, perché a tutti gli effetti lui non è più.
Si lega i capelli incolti con un brandello di corda e cerca di dare aria alla casacca; qui tutto puzza terribilmente. Lui stesso emana un odore acido e insopportabile che gli fa venire voglia di strapparsi la pelle. 
Quando ormai anche la fame e la stanchezza sono diventate parte integrante della sua vita, la puzza di quel posto è qualcosa a cui non riesce ad abituarsi. Si gratta il collo mentre prende posto in mezzo alla fila nel piazzale centrale.
Davanti a quella lunga schiera di relitti umani di cui lui stesso fa parte, appeso al muro degli alloggi dei soldati, un gigantesco tabellone recita incolonnati gli uni sopra gli altri tutta una serie di numeri. Quasi tutti i numeri della prima colonna sono stati barrati di rosso; l’ultimo cancellato è il 134A.
Jungsu ha un numero simile marchiato sul braccio; il suo recita le cifre 351A e quando lo guarda non ricorda più bene neanche come chiamarsi.
Non è la prima volta che gli danno un nome nuovo; saranno passati circa nove, dieci anni da quando successe la prima volta, ormai. Ma allora era diverso.
Leeteuk era un nome che rappresentava qualcosa di ardentemente cercato e voluto; rappresentava il suo riscatto, la sua fama, la sua felicità. Era un nome che di per sé aveva un significato carico di responsabilità. 
Ma il 351 non è neanche un vero nome. Sono solo delle cifre che gli hanno scavato a forza sul braccio. Gli servono solo per sapere quanto tempo ancora gli rimane: un centinaio di giorni, secondo i suoi calcoli approssimativi.
Ogni mattino, prima di caricarli sui camion e portarli a lavorare, sono obbligati a mettersi in fila lì, nel piazzale centrale davanti al tabellone. Non importa quanto freddo fa, che ci sia la pioggia o la neve, loro devono farsi trovare lì all’alba disposti in ordine in base al numero tatuato sul loro braccio. 
Ed ecco che spuntano fuori dalla caserma due soldati, come ogni giorno. Jungsu li guarda attraversare la distanza tra la porta e i primi della fila, accompagnati da un silenzio carico d’angoscia. Prendono i primi tre prigionieri della coda; questi non oppongono la minima resistenza. 
Tra di loro c’è un uomo di mezz’età; Jungsu non sa neanche il suo nome a dirla tutta, ma nonostante ciò non può evitare di abbassare lo sguardo. Ieri sera, dopo il lavoro, quell’uomo è venuto da lui mentre stava pulendo le suole fangose delle scarpe, in un angolo della baracca. Dal momento che difficilmente qui ci si rivolge la parola a Jungsu è sembrato piuttosto strano che qualcuno si avvicinasse a lui con tanta determinazione.
«Tieni», gli aveva detto l’uomo allungandoli un cartellino.
«Che cos-», Junsu non aveva fatto in tempo a finire che l’uomo gli aveva già appuntato il biglietto alla tasca della divisa.
«È un pass per i magazzini. Non tutta la roba che viene confiscata viene distrutta; la maggior parte viene portata qui o in altri punti di raccolta. Con questo pass puoi andare a lavorare nel reparto dove viene smistata. Ti avverto, è un lavoro faticoso, non ti metteranno di certo a stilare un inventario… Però è meglio della fonderia e se sei fortunato trovi anche qualcosa da mangiare. Fanne buon uso, a me non serve più, domani mi portano via», l’uomo gli aveva tirato un paio di pacche sulla spalla e poi si era voltato pronto ad andarsene.
«Aspetta», lo aveva bloccato Jungsu. «Perché a me?».
L’uomo l’aveva guardato con uno sguardo triste, il più triste che avesse mai visto prima e il cuore gli si era stretto dolorosamente in petto.
«E’ per ringraziarti per ciò che hai fatto a mia figlia. La prendevo sempre in giro, sai? Era tutta un “Leeteuk è l’amore della mia vita, Leeteuk è importante…”. Pensavo fossero i soliti discorsi da adolescente», l’uomo ha lo sguardo perso nel vuoto, quasi potesse rivedere la figlia davanti a sé.
«Deve mancarle…», aveva bisbigliato Jungsu alzandosi in piedi lentamente. Gli occhi dell’uomo si erano velati per un istante, poi però gli aveva sorriso.
«È morta di leucemia un anno fa, la mia Jae In. Nell’ultimo periodo però non si sarebbe neanche detto che stesse per morire, sorrideva in continuazione. Ad ogni infermiera che passava vicino al suo letto porgeva una cuffietta e diceva, “Senti il nuovo album dei Super Junior!”. A volte, se non era troppo debole, la sentivamo addirittura ridere se per caso qualcuno le aveva acceso la TV su Strong Heart. In una settimana l’ho vista sorridere, ridere, piangere e guardarti orgogliosa, come quando si guarda un innamorato. Quindi… ti prego di accettare il mio favore, per quanto piccolo. Se non vuoi accettarlo da me, accettalo da mia figlia».
L’uomo aveva annuito fra sé e poi se n’era andato a letto. Chissà con che stato d’animo si va a letto, quando si sa che è la nostra ultima notte?
Jungsu non lo sa; ma sa com’è andare a letto e trovarsi inspiegabilmente a piangere ore e ore la morte di una ragazzina sconosciuta fino a farsi bruciare gli occhi, e non può fare a meno di ripensarci, ora, sotto questa pioggerella fastidiosa.
I tre sorteggiati si fanno legare la mani con una corda e poi vengono trascinati via, a capo chino, fatti montare su una camionetta e infine spariscono con lei oltre i cancelli del campo. Nessuno sa dove vadano, se vengano uccisi o torturati, o ancora usati come cavie per esperimenti. Semplicemente spariscono nel nulla e i loro numeri vengono cancellati dal tabellone con una linea rossa.
Il campo di internamento è qualcosa di così orribile che neanche nel peggiore degli incubi Jungsu se lo sarebbe mai potuto immaginare. Ogni secondo che passa desidera di trovarsi in cima alla fila per essere preso e portato via e così morire il prima possibile pur di non sentire la sete, il freddo e il dolore agli arti. Pur di non sentire l’odore pungente del sudore e i morsi della fame che gli fanno venire voglia di scoppiare a piangere e di urlare. 
Dall’altra parte si chiede se magari non valga la pena resistere ancora un po’. Perché la vita è bella e anche se appare come un ricordo lontano e sfocato dentro di lui c’è ancora la speranza di tornare a sorridere, un giorno. Certo, servirebbe un miracolo e dov’è ora, di miracoli, non ne avvengono. 
E rimuginando questi pensieri viene spinto come ogni giorno nel retro di un camion insieme agli altri e viene trasportato in fonderia; ha il tempo necessario per dimenticarsi chi è, cosa ha fatto fino ad ora e quanto gli manchino i suoi affetti prima di varcare la soglia dell’officina sapendo che non rivedrà il sole, perché quando uscirà sarà già sera tarda. Non gli va di usare il pass, non gli sembra giusto. Per oggi è ancora di quel padre triste e solo. Solo per oggi, finchè non avrà raggiunto la sua Jae In.
 
Caro Jun Hong,
a te, che per me sei come un figlio.
Che ti ho visto crescere e superare tutte le difficoltà che la vita ti metteva di fronte. 
Ti faccio questa richiesta perché conosco il tuo coraggio, la tua tenacia e la tua bontà d’animo. Anche l’altro giorno mi hai dimostrato la tua forza riuscendo a non aprire bocca perfino sotto tortura, e in questa lettera posso decisamente ammettere che tu, nonostante la giovane età, sia davvero l’uomo che stimo di più al mondo.
Nella mia umile esistenza ho fatto ben poche cose degne di nota; una di quelle che mi rende più fiero però è quella di aver in qualche modo creato la musica attraverso di voi.
Jun Hong, la musica è ciò che ci tiene in vita. Le parole nascondono bugie, ma la musica no; la musica comunicherà con la sincerità dei sentimenti. La musica parlerà al cuore di tutti, anche di chi non capisce il testo. Un mondo senza musica è un mondo di bugie.
Per questo ti domando di proteggerla.
Il regime vive di bugie e SULLE bugie. Chi è venuto a cercare Yongguk l’altro giorno voleva metterlo a tacere, perché è una testa calda che non ha paura di denunciare niente attraverso la musica, ma ben presto inizieranno a dare la caccia a chiunque abbia in qualche modo dato un po’ d’aria di libertà a questo Paese. All’agenzia ci sono già arrivati diversi avvertimenti,sono iniziate le confische di tutti i CD e della merchandise e le stazioni televisive hanno chiuso. 
Non mi importa dove hai nascosto Yongguk, non mi importa se dovrai scovare altri nascondigli, giurami,  Choi Jun Hong, giurami sulla tua vita che metterai in salvo quanti più artisti potrai. Non lasciare che qualcuno imprigioni e uccida la musica. Fa’ piuttosto che questa sia la prima cosa che la gente sentirà, una volta liberata questa nazione. 
Hong, oggi mi uccideranno. Sono troppo malconcio per avere una qualche utilità in un campo di internamento. Probabilmente sarai l’ultima persona che vedrò, ma va bene così.
Molto meglio che questa sorte sia toccata a me che a te. Morendo avresti salvato Yongguk, forse. Ma se muoio io non salverò solo te e lui, salverò tutti quelli che riuscirai a nascondere. Fa’ che il mio sacrificio non sia vano. Salutami tutti.
Ti voglio bene.
Kim Taesung.
P.S. Alla Signorina Lee: Son Ji, mi dispiace dovertelo dire attraverso una semplice lettera, ma è un peso con cui non posso morire. Ricordi quella sera tanti anni fa, quando Go Daejung ci presentò, alla festa? Era una bellissima notte di maggio, e tu avevi una rosa bianca fra i capelli. Lee Son Ji, sembravi un sogno. Da allora mi sono ripromesso di fare qualsiasi cosa per tenerti accanto a me. Ti amo da allora, Son Ji-sshi. Ecco, solo questo. Anche adesso, mentre chiudo gli occhi, ti rivedo avvolta in quell’abito lungo e bianco. Ogni volta che tentavo di dirtelo sono stato troppo codardo e ho taciuto per la paura di perderti. Spero davvero che un giorno Dio possa liberarmi da questi rimorsi. Ti amo.
 
Hong siede sul pavimento a gambe incrociate; si inumidisce la punta delle dita con la lingua e inizia a contare quanti fogli ci sono nel grosso plico che ha appena stampato.
Di fianco, la grande fotocopiatrice continua a emettere un ronzio mentre la spia gialla vicino al monitor lampeggia pigramente.
Improvvisamente lo schermo del telefono che si trova sul pavimento si illumina lanciando un bagliore bluastro sul soffitto buio dello studio di suo padre.  Hong lo afferra con la mano fasciata e se lo porta all’orecchio.
«Pronto».
«Ho contattato tutti», risponde la signorina Lee. Poi sospira.
Deve essere molto stanca, non dorme da giorni, ma è davvero riuscita a contattare tutti quanti.
«Signorina Lee la ringrazio infinitamente, vada a letto adesso. Qui finisco io». 
«Ok», risponde la giovane segretaria stancamente. Poi indugia qualche secondo e aggiunge: «Abbiamo fatto un buon lavoro Jun Hong. Il signor Kim sarebbe fiero di noi».
«Già, lo credo anch’io», passano alcuni secondi e poi la signorina Kim bisbiglia un ultimo “ciao” e riaggancia.
Per un attimo la frase della signorina Lee gli ha lasciato un grande vuoto nel petto. Quello è il vuoto che prima occupava il signor Kim. 
L’ultima volta che l’ha visto era uscito dalla stanza dicendogli “allora torno domani”, e il signor Kim aveva annuito, “a domani”. Stringendo quella lettera non aveva avuto il coraggio di aprirla finché non era tornato in casa. 
Hong si alza con non poca fatica, stringendo i denti per il dolore che gli provoca la ferita all’addome, e pian piano si dirige verso la fotocopiatrice che nel frattempo si è fermata del tutto. Estrae il plico di fogli caldi dal cassetto e li distende sulla scrivania di suo padre sotto il fascio di luce della lampadina da lettura.
Arrotola le mappe e le ferma con un elastico di gomma, dopodiché esce e si chiude la porta dello studio alle spalle.
Questo sarà l’ultimo giorno che vedrà sua madre, pensa.
«Mamma, ho bisogno di una mano per il bendaggio», le dice con il tono più pacato che riesce ad avere, posando la cassetta del pronto soccorso sul tavolo della cucina. Sua madre si asciuga le mani e abbassa la fiamma del fornello.
«Siediti», gli sussurra con pacatezza, e lo aiuta a sfilarsi la maglietta.
Quel rituale che i due portano avanti da una settimana è sempre accompagnato da un silenzio angosciante.
La prima volta che è successo, sua madre non aveva neanche il coraggio di guardarlo negli occhi.
“Hai idea di cosa significhi raccogliere il proprio unico figlio da una pozza di sangue? Hai idea di cosa significhi sentire l’unica creatura che hai giurato di proteggere fino alla morte urlare nella stanza accanto alla tua senza poter fare niente per aiutarlo? Riesci minimamente a capire quello che mi hai fatto?”.
Quelle parole continuano a rimbombare nella testa di Jun Hong insieme alle sensazione del volto umido di sua madre nell’incavo della spalla. 
Le sue mani delicate gli tamponano le ferite con del cotone imbevuto di disinfettante. La guarda, guarda il suo volto bellissimo e triste, i lunghi capelli soffici che le incorniciano il volto e il largo golf di lana marrone che le si affloscia sulle spalle esili. Pensa che sia una donna meravigliosa e che avrebbe dovuto trattarla meglio; pensa che non avrebbe dovuto farla soffrire tanto e che gli dispiace infinitamente.
«Mamma, ti voglio bene», bisbiglia.
«Jun Hong, stai cercando di rendermi la separazione meno dolorosa?», sussurra la donna serrando le labbra. «Mamma, guardami negli occhi».
Lei  alza il viso rigato di lacrime e punta uno sguardo supplichevole negli occhi di Hong. Poi però annuisce tirando su col naso.
«Va bene, Jun Hong, vai. Ti preferisco lontano da me che morto», sussurra asciugandosi la guancia sulla spalla.
E’ il 15 ottobre 2013. Mentre Hong esce di casa con lo zaino in spalla e il rotolo di fogli fra le braccia, sua madre  tira fuori un pacchetto marrone dalla credenza.
Non l’ha trovato, si dice, doveva essere il suo regalo di compleanno. Era un libro d’avventura. Come piacciono tanto a Hong.
 
«Vieni con me», mormora Jinyoung.
Quelle parole lasciano Bani spiazzata. Alza gli occhi dalla sua tazza di tè fumante e riesce a sillabare solo un:«Come prego?», del tutto incredulo.
Da qualche settimana sono soliti fermarsi a una caffetteria nei pressi del cimitero; la prima volta, il giorno dopo che lei è scappata in preda all’imbarazzo, quando lui gliel’ha chiesto si è dovuta tirare un pizzicotto per assicurarsi che non fosse un sogno. 
«C’è una caffetteria carina vicino all’incrocio», le aveva spiegato lui, così ci erano andati. Effettivamente era davvero carina; non troppo grande, con le pareti rivestite di legno, tavoli di mogano lucido e poltroncine imbottite. Si siedono sempre nel posto vicino alla vetrina; non che la visuale della strada sia particolarmente bella, solo che da lì si può scorgere la cancellata del cimitero. Bani non capisce questa sua ossessione per quel posto, ma suppone sia qualcosa di talmente personale che se anche lui tentasse di spiegarglielo probabilmente lei non capirebbe. Allora, nelle lunghe pause in cui lui osserva oltre il vetro, lei indugia con lo sguardo sul grande acquario in fondo alla parete in cui nuotano due pesciolini azzurri.
Nella caffetteria non c’è mai nessuno a parte l’uomo dietro al bancone ed è il posto perfetto per due anime sole come loro.
E così, ogni pomeriggio avevano parlato davanti a del tè caldo, guardando le città fredda fuori dalla vetrina.
Parlavano di quello che facevano nella vita – lui era un cantante dei B1A4, in effetti la faccia non le era del tutto nuova– e si erano detti i propri interessi.
Pur essendo conversazioni del tutto superficiali, c’è qualcosa nel modo in Jinyoung le affronta (pacatamente, con interesse nonostante siano argomenti banali) che le fa desiderare non finiscano mai. 
Il volto pallido del ragazzo, che di per sé rappresenta la perfezione, incornicia un’espressione dannatamente triste.  Bani si chiede in continuazione come sarebbe se solo quelle labbra squisitamente piene si curvassero in un sorriso.
Con lui si sente sempre un po’ a disagio; è così bello, grazioso… Si chiede perché mai le chieda tanto spesso di passare del tempo con lui. A lei, che è solo una ragazzina goffa e impacciata, che sicuramente non ha un briciolo di fascino.
«Vieni con me», ripete Jinyoung, a voce ancora più bassa avvicinandosi a lei.
Bani rimane per un attimo a fissare quei grandi occhi liquidi e poi, adottando il suo tono di voce, gli bisbiglia:«Dove?».
«Non lo so. Ma mi devo nascondere se non voglio essere arrestato. Vieni con me», le ripete per la terza volta, con un’espressione di supplica negli occhi. Jinyoung vede la confusione attraversare lo sguardo di Bani e allora le afferra le mani. 
Smettila, non vedi che mi fai battere il cuore all’impazzata? Ti sembra divertente?, vorrebbe urlargli la ragazza. E invece annuisce lentamente, senza smettere di guardare dentro quegli occhi tristi.
Un ragazzo di cui non sa niente, uno sconosciuto, le sta chiedendo di mollare casa, madre e scuola per scappare con lui chissà dove. E’ semplicemente una follia. Ma lui continua a tenerle le mani, e i loro volti sono così vicini che se volesse potrebbe baciarlo.
«Vengo», risponde.
Jinyoung si allontana lentamente e le lascia le mani.
«Grazie», le sussurra, e poi, come se niente fosse, si porta la tazza alle labbra e sorseggia il suo tè, guardando fuori le luci della città che iniziano ad accendersi.
«Perché io?», domanda Bani bruscamente,e Jinyoung si sente improvvisamente riportare alla realtà. Il suo volto è serio e preoccupato.
«Perché sei l’unica capace di capirmi», si limita a rispondere, abbozzando un sorriso. Il primo che Bani gli vede fare. Gli occhi per un attimo si sono incurvati e hanno brillato e le guance si sono riempite. E’ durato un istante, un misero breve istante.
Ma suo malgrado, è bastato ciò perché Bani si sia ormai convinta di amarlo.
Verrò con te, pensa, anche solo per vederti sorridere di nuovo.
 
Hyoyeon scende le scale con il suo zaino in spalla, seguita da una Sooyoung dallo sguardo perso. In strada non c’è nessuno; sono le sette di sera di un mercoledì e probabilmente ora tutti quanti sono in fila per i rifornimenti. Non che si noti particolarmente la differenza dal solito, ultimamente nessuno esce troppo di casa, specialmente ora che il sole tramonta prima e inizia a fare freddo. Con un senso di disagio nel petto Hyoyeon prende Sooyoung per mano, una mano piccola e gelida, e inizia a trascinarla in silenzio lungo il marciapiede. Il sole del tramonto allunga le loro ombre tremolanti a dismisura. 
«Hyo, come ci troverà se ce ne andiamo?», bisbiglia Sooyoung, senza smettere di seguirla. Il suo sguardo è tutt’altro che assente ora. Sarà la decima volta che le pone quella domanda. 
«Ti ripeto che per quando riapriranno le frontiere noi saremo già tornate a casa», la voce di Hyoyeon è tremendamente stanca. Sooyoung abbassa lo sguardo e si morde il labbro senza però lasciarle la mano, quasi non riuscisse a camminare da sola. Le strade deserte la spaventano, e poi sarebbe voluta rimanere a casa; sa benissimo che Tiffany non può tornare in Corea, ma comunque lasciare quella casa, ancora piena della sua presenza, le provoca un enorme senso di abbandono.
Passano davanti a un piccolo giardino pubblico per bambini davanti al quale c’è una baracchino dei gelati chiuso. Hyoyeon guarda altrove, perché i ricordi non riaffiorino; e invece tornano a galla tutti. 
Quello è il posto in cui nell’estate di dieci anni prima lei e Hyukjae avevano preso il gelato quasi ogni giorno. Anche quel pomeriggio erano andati lì. Lui aveva scelto yogurt e fragola, lei invece aveva voluto provare l’arancia; leccando i loro gelati si erano presi per mano per dirigersi alla fermata dell’autobus, ed era la prima volta che succedeva. Qualunque altra ragazza si sarebbe vergognata a passeggiare mano nella mano con uno come lui, ma non Hyoyeon. Hyoyeon era la ragazza più felice del mondo. E si erano baciati, nascosti dietro la penultima fila di sedili, su quel bus deserto. Era stato un bacio impacciato, che a ripensarci fa quasi ridere. Lei aveva sentito il sapore della fragola sulle sue labbra. Perché diavolo se ne ricorda così bene? E’ stato un bacio, un penosissimo primo bacio fra due ragazzini imbarazzati.
«Tutto ok?», domanda Sooyoung.
«Sì tranquilla», le sorride Hyoyeon.
Girano l’angolo e si affrettano a raggiungere le altre sei, che parlano a bassa voce sul ciglio del marciapiede. Le loro parole trasudano nervosismo.
Nessuna parla di Tiffany, della guerra, dei bombardamenti, dei soldati, di ciò che stanno per fare.  Parlano del tempo, del fatto che quest’anno l’aria è diventata fredda prima del solito e che la pioggia ha iniziato a dare un po’ di tregua solo ora. Sinceramente Hyoyeon le capisce; nessuno ha voglia di concentrarsi su questo presente incerto. Di ricordare i bei tempi andati non se ne parla neppure, perciò…
Sospira. Una sagoma compare in fondo alla strada e corre verso di loro.
«Eccoci», sospira Hyoyeon. Sinceramente non ha la minima idea di dove abbiano intenzione di nasconderle; sono in pieno centro della città, a piedi e tra un’ora scatterà il coprifuoco.
Via via che si avvicina la sagoma prende una forma, quella di Jeon Hyosung. Per tutti era sempre stata Hyo, l’altra Hyo. Ma ora le cose sono cambiate e preferisce un più secco Sung. La ragazza le raggiunge con il fiatone e dalle labbra le escono delle nuvolette di vapore.
Hyoyeon non può fare a meno di notare quanto la leader delle Secret abbia messo su peso ultimamente, e quanto nonostante ciò sembri splendida. Non si aspettava di vedere lei, però.
«Che ci fai qui?», domanda Jessica, con il suo solito tono un po’ seccato. Ovviamente non lo fa di proposito, ma Hyosung non può evitare di lanciarle un’occhiataccia.
«Vi metto in salvo, che domande», risponde bruscamente appena finito di riprendere fiato, asciugandosi le mani sudate sui jeans. Poi si china vicino a una grande grata di metallo, ai cigli della strada, e con un rapido cenno del mento le invita ad aiutarla. Hyoyeon si affretta a accovacciarsi accanto a lei afferrando la grata dalla parte opposta.
«Al mio tre tira verso l’alto. Uno, due, tre!»
Le due riescono a spostare il tombino. Con un calcio Hyosung lo scosta quel tanto che basta per farci passare i loro esili corpi, poi estrae una torcia dalla tasca dello zaino e senza dire niente si cala agilmente giù.
«Che aspettate? Muovetevi, non abbiamo tempo!», la sua voce giunge da poco più in basso, avvolta nell’oscurità. 
Raccogliendo il coraggio a quattro mani una ad una si lasciano scivolare nella fessura, e poi con non poca fatica richiudono la grata e iniziano a seguire Hyosung lungo quei corridoi stretti e umidi illuminati dal fioco bagliore della torcia.
«Dove stiamo andando?», domanda Yuri. Hyosung si gira verso di lei per un attimo, poi torna a guardare davanti a sé.
«Nel posto più sicuro di Seul», si limita a rispondere. Yuri intuisce che forse è meglio non indagare oltre e si limita così ad accendere la propria torcia elettrica e a puntarla davanti a sé.
Non dev’essere la prima volta che viene qui, constata Hyoyeon, totalmente affascinata dalla determinazione della leader delle Secret.
Quest’ultima si ferma, si scosta i capelli dal collo e illumina una porta di metallo che all’inizio con quel buio le altre non avevano notato. La serratura è forzata, a Hyosung basta spingerla perché si apra con un cigolio. Al di là non c’è una stanza, bensì una scala a pioli di metallo fissata sulla parete opposta. Il cunicolo è piuttosto stretto, ma sembra sufficiente perché loro ci si possano calare dentro. Hyosung stringe la torcia fra i denti, si assicura di avere afferrato saldamente i pioli della scala e poi inizia lentamente a scendere.
Yuri è l’ultima a calarsi giù.
E’ buio, fa freddo e le sembra quasi di scendere all’inferno. Non sa per quanto dovrà stare lontana dalla luce del sole, tra quanto rivedrà i suoi cari e se mai riuscirà a sopravvivere. Eppure sa che è l’unico modo di salvarsi; nella capitale sono stati arrestati già molti artisti: in prevalenza scrittori e pittori, i primi a ribellarsi al regime. Solo qualche settimana fa hanno iniziato con i cantanti.
Sì, ha tanta paura, ma è anche abbastanza intelligente per capire che non può permettersi di fare altrimenti.
Una volta posati i piedi per terra, dopo una discesa che sembrava interminabile, riprende la sua torcia in mano e illumina il gruppetto che la sta aspettando in silenzio. Appena Hyosung si è accertata di averla dietro riprende il cammino imperterrita.
«Siamo solo noi?», la vocetta squillante di Sunny si propaga per un attimo contro le volte del soffitto.
«Certo che no. Gli altri arrivano da altri punti della città», mormora Hyosung. I corridoi si sono fatti più larghi e le voci rimbombano in modo agghiacciante.
Dopo un buon quarto d’ora passato a camminare in silenzio, finalmente Hyosung si ferma davanti a un’altra porta.
«Benvenute nella vostra nuova casa», mormora spingendo la maniglia mentre una luce rossastra invade il corridoio.
 
«Una stazione della metro?», esclama incredulo Donghae. Ha fatto un po’ di fatica a mettere a fuoco l’ambiente, visto che è illuminato solo da qualche lampada da campeggio.
In effetti si era sempre chiesto a che conducessero quelle porte di metallo sempre chiuse che si trovavano ai lati delle piattaforme; beh ora che è sbucato da una di quelle lo sa.
Il gruppetto si guarda intorno incredulo; sì, non c’è dubbio che si trovino proprio su una piattaforma della metropolitana; sulle pareti sono ancora affissi i manifesti pubblicitari di qualche mese prima accanto ai grandi schermi spenti dove solitamente comparivano gli orari e i percorsi dei trasporti sotterranei.
Hong si china e apre la cerniera dello zaino, estraendo un plico di fogli dalla tasca anteriore.
«Ecco, ce ne dovrebbe essere una per ognuno», dice mentre li distribuisce fra i Super Junior.
«Di che si tratta?», chiede Hyukjae.
«Sono mappe del sottosuolo della città», risponde Hong srotoloando la propria e illuminandola con il fascio luminoso della torcia.
«Il tracciato verde chiaro sono le fognature, mentre quello blu sono i cunicoli della metropolitana. Dove vedete questi segni rossi troverete delle porte che comunicano fra i due sistemi sotterranei… oh, beh, ovviamente sono quasi tutte da scoprire, noi abbiamo avuto poco tempo per esplorare tutta la zona e…»
«Cosa?!», lo interrompe Sungmin. «Avete esplorato tutta quell’area in meno di una settimana?».
Hong annuisce. Illuminato appena dalla luce della torcia, i suoi occhi appaiono visibilmente segnati dalla stanchezza. Ha ancora dei lividi e delle ferite sul volto e una mano fasciata. 
«Le lineette gialle invece sono i punti da cui si accede alla superficie; vi ho scritto tutti i nomi delle strade. Questi grandi quadrati invece sono le stazioni della metropolitana. Adesso noi siamo qui», indica un punto della mappa vicino a un segno rosso, « e dobbiamo arrivare alla fermata di Oksu, dove abbiamo stabilito il quartier generale. Dopodichè vi accompagnerò a Yaksu insieme agli MBLAQ… spero abbiate portato provviste sufficienti per qualche giorno visto che ancora non sappiamo bene come gestire la questione dei rifornimenti. Bene è tutto, andiamo, da qui a Oksu sono solo un paio di kilometri», annuncia Hong riponendo la mappa nella tasca del giacchetto e girandosi per riprendere il cammino.
«Cosa? Ancora due kilometri?», piagnucola Kyuhyun trascinando i piedi stancamente.
«Magari è la volta buona che dimagrisci», lo canzona Shindong.
«Ma senti chi parla!», sbotta Kyuhyun. Le loro voci rimbombano in maniera agghiacciante e l’eco si propaga lungo i tunnel bui della metropolitana.
Hong si siede con non poca fatica sul bordo della piattaforma e si cala sulle rotaie. L’addome continua a dargli delle fitte a causa delle quali non fare smorfie di dolore è difficile. Chissà quanto starà sanguinando… Merda.
«Prendete tutte le lampade da campeggio che trovate, servirà luce», ordina con la voce un po’ incrinata.
Seguendo le rotaie si addentrano fra i bui tunnel della metropolitana. Non inciampare nelle rotaie è difficile.
«Questo posto dà i brividi», la voce di Ryeowook giunge da qualche punto indefinito della galleria, rimbombando contro le pareti. 
Sungmin sussulta e un attimo dopo china il capo, contento che nessuno in quell’oscurità possa vedergli le guance arrossate.
Si sente una ragazzina stupida, è solo che in quell’attimo gli è bastato sentire la voce di Ryeowook per dimenticarsi di essere in un tunnel spaventoso e pieno di topi. 
Ultimamente negli occhi dei Super Junior c’è tristezza, rassegnazione, ma più di tutto rabbia. Una rabbia incontenibile.
Non era mai successo, e tutto ciò spaventa Sungmin enormemente. 
Quando incontra lo sguardo di Ryeowook si sente trafiggere da una fitta di nostalgia.
Odiava Hyeyoung, oh se la odiava. Odiava ogni sua risatina infantile, ogni suo vestito rosa, ogni suo fiocco “adorabilmente vintage”, come avrebbe detto lei. Odiava il fatto che fosse carina come una bambola e che avesse una risata da bambina ingenua, e detestava il modo in cui guardava Wookie. Con quegli occhi languidi di chi è pronto a scoppiare a piangere per ogni minimo rifiuto.
Ma la cosa che odiava di più in assoluto, era il fatto che Ryeowook la amasse. Nonostante  tutti quei difetti era riuscito a vedere in lei qualcosa, qualcosa che non aveva visto in Sungmin. 
Non si era sentito in colpa di averla odiata neanche al suo funerale. Certo, non è così sadico da affermare che il fatto lo rendesse felice, ma ecco, guardando la sua foto odiosa su quella bara bianca non si era affatto pentito di aver pensato tante cattiverie su di lei.
Perché non solo gli aveva portato via Ryeowook, il SUO Wookie, ma adesso gli aveva anche spezzato il cuore. Ed era stata una banale casualità, non l’aveva fatto apposta; chi poteva immaginare che sarebbe rimasta intrappolata nello studio televisivo e che la bomba le sarebbe esplosa addosso? Nessuno. 
Ma Ryeowook non sorride più, e Sungmin DEVE dare la colpa di ciò a qualcuno. Non è una questione affrontabile razionalmente, sa solo che deve prendersela con qualcuno.
Negli ultimi tempi ha realizzato di non poter vivere senza la solida certezza che almeno Ryeowook è felice; ha provato in tutti i modi a farsi passare quella che all’inizio aveva pensato fosse solo una semplice cotta tra amici. Aveva respinto l’idea in tutti i modi finchè non aveva addirittura deciso di passare il minor tempo possibile con lui, lasciando persino la radio. Inutile. 
Si sente il protagonista secondario di un drama, quello che ama più di tutti e al tempo stesso rimane il più solo, alla fine. Sospira.
Qualcosa nella tasca di Hong inizia a emettere dei suoni elettronici, e tutti sussultano spaventati. Il ragazzino tira fuori un walkie talkie:«Pronto, qui Hong».
«Lo so, babbeo, l’ho digitato io il numero», la voce di Himchan giunge frusciante ma è piuttosto comprensibile.
«Senti giraffa», prosegue Himchan, «Noi siamo già a Oksu e la situazione è piuttosto affollata… ».
«Arriviamo tra poco… Chi manca?»
«Mhm… Non vedo Hyosung ancora…».
«Mhm, credo sia normale, arrivavano da Seobinggo. A dopo, chiudo», Hong spegne il walkie talkie e se lo rimette in tasca. 
Seobinggo, riflette Hyukjae. Il nome non gli è nuovo… Era il posto dove lui e Hyoyeon erano soliti andare a prendere il gelato quand’erano ancora dei trainees. Ora che ci pensa la baciò anche, una volta, ma è stato così tanto tempo fa che ricordare i dettagli è quasi impossibile. All’epoca Hyoyeon gli piaceva un sacco. E’ stato forse il suo primo amore, se così si può chiamare. Ricorda che pensò parecchie volte di chiederle di diventare la sua ragazza, ma che non ne ebbe mai il coraggio… Perché ci sta pensando ora? E’ passato così tanto tempo, si ripete di nuovo.
In fondo alla galleria si inizia a intravedere una luce fioca.
«Ci siamo», annuncia Hong, «Benvenuti nella vostra nuova città, Seoul Underground».

«Che guardi?», domanda Min Ji.
Soon Mi è rimasta con il suo sacco di cemento a mezz’aria, con lo sguardo fisso in un punto indefinito, oltre l’angolo della strada. Min Ji allora gira intorno al furgoncino per poter scorgere anche lei la scena che, nella perpendicolare all’incrocio, ha attirato tanto l’attenzione di Soon Mi.
«Quelli laggiù…», sussurra la ragazza, «Non sono i Super Junior?».
Min Ji assottiglia gli occhi per mettere meglio a fuoco le sagome minuscole in fondo alla strada.
«Potrebbero essere loro come chiunque altro, sono troppo lontani per distinguerli…», risponde, scrollando le spalle.
«Mhm», Soon Mi si limita ad annuire e torna con noncuranza al suo sacco di cemento. Con un ultimo sforzo riesce a buttarlo dentro al camioncino e chiude lo sportello con un tonfo. Si stringe il colletto della divisa intorno alla gola e trema di freddo, poi prende posto sui sedili del furgoncino insieme a Min Ji.
«Puoi partire», dice quest’ultima.
Il soldato al volante gira la chiave nel quadro senza dire una parola e mette in moto.
«Allora, domani partite?», domanda a un tratto.
Min Ji annuisce: «Sì. Ci trasferiscono chissà dove. Peccato, la città mi piaceva».

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Capitolo 9
*** Seoul Chronicles - Chapter 8 ***


WARNING! Ciao a tutti, la vostra Banana è tornata. Dopo un sacco di tempo. Lo so mi dispiace! Ma sono veramente impegnatissima con i preparativi per il Giappone e in fondo chi la legge questa storia.... ?! Il prossimo capitolo spero arrivi prima del 28 agosto (data della mia partenza). Per i 10 mesi seguenti aggiornerò il più possibile, ma sarò super impegnata a mangiare takoyaki e sul mio tablet è un po' scomodo scrivere... fatto sta che ho promesso a un amico di finirla entro giugno, quindi non mi abbandonate! Ci eravamo lasciati con tutti quanti che scendono nel sottosuolo di Seul per mettersi in salvo dal regime... vediamo cosa succede... e nel frattempo che ne è stato di Heechul? Muahahah, buona lettura chiquitas <3




“Io non mi innamorerò mai”.

Questa era la frase con cui si concludeva una pagina del suo primo e unico diario segreto.
La data recitava il 5 giugno di sette anni prima, esattamente il giorno del suo decimo compleanno.
In quella occasione aveva dato una festicciola in casa e la sua migliore amica aveva passato l’intero pomeriggio con un altro bambino, il suo “fidanzato”, ignorandola del tutto.
Bani ne era rimasta così indispettita che in quella pagina di diario ci era andata decisamente pesante, finché non le era uscita fuori quella frase.

«Attenta a non perdermi di vista».
Bani afferra un lembo della felpa di Jinyoung e lo segue in silenzio fra la folla che gremisce la sala d’aspetto principale della stazione di Oksu. I due si fanno strada a fatica scansando la gente seduta sul pavimento.
Non c’è molta confusione, solo un brusio di sottofondo, come se tutti stessero bisbigliando.
Bani si guarda intorno nervosamente. La stazione è quasi irriconoscibile… è buia e nonostante sia enorme è talmente affollata da sembrare rimpicciolita. Non può credere di aver lasciato il suo tiepido appartamento per venire ad abitare in un posto del genere. Posa gli occhi sui sacchetti della spazzatura neri attaccati alle vetrate con del nastro adesivo per oscurarle, e per sbaglio non inciampa sulla mano di qualcuno.
«Scusa, al buio non ti avevo vista», si volta bisbigliando, ritrovandosi a due centimetri da un volto perfetto.
«Bani!», esclama Jinyoung.
La ragazza si spiccia ad alzarsi in piedi, inchinarsi verso la ragazza che ha urtato e corre ad afferrare di nuovo la felpa di Jinyoung.
«Cerca di non distrarti, non ti voglio perdere, qui c’è tantissima gente e dopo non ti ritroverei più», le sussurra Jinyoung.
«Scusami», bisbiglia lei di rimando, cercando di capire dove può aver già visto la ragazza di poco prima. 
Bani tace, e guarda la nuca di Jinyoung con uno sguardo stanco. Le sembra di aver camminato ore in quei cunicoli bui e umidi, per andare chissà dove. Ha stretto la felpa di Jinyoung per tutto il tempo, nella speranza che potesse trasmetterle un po’ di calore. Il profumo appartiene allo stesso detersivo che usa sempre anche sua madre. 
Non sa perché, ma a forza di guardare le spalle larghe del suo Oppa andare su e giù, le è tornata in mente quella pagina di diario.
E’ curioso come l’unico sentimento che si era ripromessa di non provare mai sia stato il primo che è stata capace di sentire dopo tanto. Il primo che è stato capace di farsi velocemente strada fra i cuscini fra cui si era imbottita il cuore.
Lei e i membri dei B1A4 camminano in fila indiana dietro ad un ragazzo particolarmente alto, dalle spalle larghe. Ha detto di chiamarsi Daehyun. 
Bani lo ha trovato particolarmente bello, di una bellezza diversa da quella tristemente perfetta di Jinyoung. Lui è una bambola di porcellana, sembra disegnato. Ha un volto privo di imperfezioni e lo sguardo vuoto, di chi non sta realmente guardando ciò che ha davanti.
Il ragazzo di nome Daehyun invece ha un viso irregolare, un naso grande e le labbra particolarmente marcate. Ma è armonioso, specialmente quegli occhietti penetranti. C’è qualcosa nel suo modo di essere che le piace e le dà sicurezza. Al contrario di Jinyoung, Daehyun ha gli due occhi piccoli che però sembrano fuochi scoppiettanti; ha quel tipo di sguardo che non si perde mai nel vuoto, neanche quando pensa: le pupille saettano da una parte all’altra attente a non lasciarsi sfuggire niente. 
Quando si erano incontrati in strada circa un’ora prima lui si era presentato gentilmente e poi le aveva piantato gli occhi in faccia. Bani era rimasta a fissarlo immobile, con la sensazione che con quel semplice sguardo le stesse scavando dentro fin dove neppure lei aveva mai avuto il coraggio di andare e, quando pochi secondi dopo la bocca di lui si era piegata in un sorriso soddisfatto, la sensazione di prima si era trasformata in una certezza. Bani non aveva potuto fare a meno di arrossire.


«Bene,  sedetevi qui», Daehyun indica loro uno spiazzo libero sul pavimento.
«Tra cinque minuti iniziamo».
Iniziamo che cosa?, si chiede Bani prendendo posto a sedere fra Jinyoung e un altro membro del suo gruppo di cui ancora neppure ricorda il nome.
Jun Hong sale in piedi su una panchina verde addossata al muro, e si rivolge alla fiumana di persone che affollano ogni angolo della stazione di Oksu. Sono veramente tantissimi; il pensiero di avercela fatta, anche se solo in parte, gli fa palpitare il cuore all’impazzata.
Appena lo vedono portarsi il megafono alla bocca, tutti tacciono improvvisamente.
«Sarò breve e conciso», la sua voce rimbomba contro le volte del soffitto e sente lo stomaco fare una capriola all’indietro. Calmo, hai gestito pubblici decisamente più problematici, pensa.
«La situazione là fuori non è più sicura. Anche se i bombardamenti sono finiti corriamo dei grossi rischi. Il regime che ci ha invaso non pare disposto a tollerare nessuna forma di libertà di espressione, compresa la nostra; ciò significa che da ora in avanti uscire da questo posto è severamente vietato a chiunque di voi abbia fatto parte del mondo dello spettacolo. Il regime vi considera trasgressori della legge e vi posso assicurare che, se vi prenderanno, non ci andranno piano», detto questo si alza un lembo della maglietta con la mano fasciata e dalla folla si leva un’esclamazione sconvolta. Lascia passare qualche secondo, giusto per assicurarsi che tutti abbiano potuto distinguere chiaramente le costole che si intravedono fra un brandello di pelle tumefatto e l’altro, sul lato destro del torace, poi si copre. 
«Questo è il posto più sicuro che abbiamo trovato, ma tuttavia non è perfetto. Mancano tantissime cose. Il problema dell’acqua potabile  si può ovviare bevendo dai lavandini dei bagni, ma, come vi sarete presto accorti, il posto gode di una scarsissima illuminazione, manca il cibo e tante piccole accortezze per rendere la vita un po’ meno difficile. Spero vi siate portati provviste a sufficienza per almeno quattro, cinque giorni. Alla fine della riunione seguite le vostre guide, vi porteranno alle vostre personali stazioni della metropolitana, le vostre case. Vi prego di averne cura, perché non sappiamo per quanto dovrete viverci. Entro due giorni voglio anche sapere i nomi dei vostri rappresentanti, massimo tre per ogni stazione. Grazie», Hong scende dalla panchina e spenge il megafono.
Le persone iniziano ad alzarsi e dalla folla si leva un brusio indistinto.  Hong si china per infilare il megafono nello zaino, ma poi si volta perché si sente picchiettare leggermente una spalla.
«Mi chiamo Bani Tomohisa», dice la ragazza che ha cercato di attirare la sua attenzione. Hong si alza in piedi  e fa per infilarsi lo zaino in spalla, ma una fitta di dolore al torace lo piega in due per qualche secondo.
Bani gli prende lo zaino in tutta fretta e se lo carica sulla schiena.
«Grazie», ansima Hong appoggiandosi al muro per riacquistare l’equilibrio.
«Io posso darvi una mano… per trovare le cose che mancano insomma», afferma Bani sorreggendolo per un gomito. Hong arrossisce, ma fa finta di niente.
In tutta la sua vita non ha mai conosciuto una ragazza così straordinariamente alta da poterla guardare negli occhi senza piegare il collo. E poi, nota quasi vergognandosene, è proprio bella. Di una bellezza vera e senza artefatti, di quelle che non hanno bisogno di rossetti e fondotinta. Ha dei lunghissimi capelli castani che le scendono dolcemente lungo il viso, come le onde dell’oceano.  Forse è proprio per questo che è arrossito, appena lei l’ha toccato.
Piantala Hong, tieni a freno i tuoi schifosi ormoni da diciassettenne, si rimprovera.
«A-ah, davvero?», si limita a domandare con la faccia più ebete che gli sia mai uscita. La ragazza di nome Bani Tomohisa non sembra averlo notato, e si limita ad annuire.
«Sì. Posso uscire di qui quando voglio, non sono ricercata… Posso andare io a procurarmi le cose che servono».
«Ma qui dentro siamo tantissimi, e tu da sola…», Hong ci pensa su un secondo.
«Serve un piano», conclude.
«Sì, lo so», si limita a rispondere la ragazza. Poi si fruga nella borsa che porta a tracolla e ne estrae un flacone di disinfettante e delle garze.
«Non credo mi servirà di qui a poco. Tienilo tu, nel caso finissi le tue medicazioni. E… questo zaino è veramente pesante. Fallo portare a qualcun altro, non dovresti affaticarti, sei troppo ferito», mormora porgendogli il flaconcino di liquido verde.
Hong lo prende con mano tremante e la ringrazia.
«Bani, dov’eri? Credevo di averti persa… oh, ciao Zelo». Hong trasale; da dove accidenti è spuntato Jinyoung e come mai conosce Bani?
«Voi due vi conoscete?», domanda sorpreso.
«Siamo amici, l’ho portata io qui», dice Jinyoung con la solita aria priva di vita. Alla parola amici Hong non può fare a meno di notare la scintilla negli occhi di Bani.
«Dai andiamo, Daehyun è già pronto a portarci nella nostra stazione».
«Arrivo!», esclama Bani, poi posa lo zaino di Hong per terra e lo saluta con un mezzo sorriso. «Se mi cerchi, io sto con loro», sussurra indicando i B1A4 radunati poco più in là. Un cenno della mano ed è già corsa via.
La guarda per un po’, prima che sparisca in mezzo alla folla, e si ritrova improvvisamente malinconico senza neppure sapere il perché.
«Proprio carina…», mormora Yongguk caricandosi lo zaino di Hong in spalla.
«Accidenti, e tu da dove sbuchi?!», impreca Hong trasalendo. Sente immediatamente le guance colorarsi di rosso.
«Ero qui dietro, pronto a prendermi la tua sacca, quando ho visto che ci aveva già pensato quella…»
«Bani», conclude Hong.
«Lei. Ho pensato che non sarebbe stato carino interrompervi, e poi guardarti annuire come un deficiente è stato piuttosto divertente», Yongguk lo saluta con un cenno del capo e si allontana, con due zaini giganteschi in spalla. Uno dei quali è di Hong.
Lui lo sa, per quanto Yongguk cerchi di fingersi tranquillo, il pensiero di Hong che è stato torturato al suo posto e  la morte ingiustificata del signor Kim lo tormenteranno per sempre. I rimorsi e i sensi di colpa non lo lasceranno mai. Mai più.
E poi, più di tutto, il pensiero di aver ucciso qualcuno di sua mano non gli fa più chiudere occhio. La notte scappa a vomitare e batte i pugni contro il muro del bagno finché le nocche non gli sanguinano.
Hong suo malgrado non ce l’ha con lui se è stato picchiato a sangue finché la pelle sulla cassa toracica non gli si è completamente maciullata, se adesso deve riuscire a mangiare senza molari, o se il signor Kim è stato ucciso. Non è colpa di Yongguk. 
Lui è solo stato sfortunato.
Se un soldato si fosse introdotto in casa sua puntandogli una pistola alla tempia, forse anche Hong avrebbe cercato di divincolarsi. E, forse, anche lui per sbaglio tentando di disarmare il soldato avrebbe finito con il premere accidentalmente il grilletto.
Ma non importa quante volte lui e gli altri glielo ripetano. Da quella notte Yongguk è cambiato per sempre e non tornerà mai più quello di prima. Mai più.



Hyukjae distende il suo sacco a pelo sul pavimento polveroso della sala d’aspetto di una stazione qualunque, uguale a tutte le altre. Stesse seggioline di plastica tutte in fila, stessi tabelloni bianchi appesi ai muri con sopra i vari percorsi della metro. Ci sono solo un po’ più di ragnatele fra una colonna gialla e grigia e l’altra, ma alla fine ha un aspetto piuttosto anonimo.
La dividono con i membri degli MBLAQ, con cui non può dire di avere una vera e propria amicizia, ma che sicuramente non gli dispiacciono come coinquilini. A parte Cheol Yong, in arte Mir. Lui a essere onesti lo spaventa un po’, specialmente perché si è portato dietro un’iguana gigante spiegando che se l’avesse lasciata a casa sarebbe morta presto di fame. 
La stazione di Yaksu era sempre stata piuttosto sporca un tempo, ma appena arrivati avevano cercato di pulirla un po’ alla meglio con le poche cose che si erano portati. Era stato Ryeowook a insistere, visto che c’erano delle ragnatele grandi come arazzi tra i muri e il pavimento. Per un paio di ore tutti e sedici si erano dati daffare a spiaccicare ragni e insetti e a disinfettare un po’ per terra aiutandosi con l’illuminazione delle loro torce. Ora sono tutti esausti.
Kyuhyun, che aveva solo fatto finta di lavorare, è quello che si butta più rumorosamente sul suo sacco a pelo. 
«Ciccione», bofonchia Zhou Mi mezzo insonnolito con il suo accento cinese. 
«Ma piantala, è l’offesa più pesante che sai in coreano?», ribatte Kyuhyun scartando una merendina.
«E’ difficile pensare a qualcosa di più pesante del tuo culo».
«Cinese del cacchio», Kyuhyun lancia la cartaccia della merendina addosso a Zhou Mi. 
«Kyuhyun, guarda che ha ragione… da quando ti ho conosciuto avrai messo su almeno dieci chili», si intromette Lee Joon, che sta estraendo il cuscino dallo zaino. Anche  nella penombra il suo fascino è un pugno nello stomaco. Sungmin lo guarda con gli occhi lucidi, quasi si trovasse davanti a una visione divina.
«Il tuo neo invece è più peloso».
«Acido».
«E’ per questo che vinsi io la gara dei sacchi a pelo».
«State zitti, l’iguana si sta infastidendo».
«Mir, sei un deficiente».
«E tu Cheondung invece hai la testa troppo grande rispetto al corpo».
«Woah, avete intenzione di offendervi per tutta la notte?», esclama Hyukjae. Per un attimo si sente solo il “crunch crunch” di Kyuhyun che mastica.
«Di’ la verità, hai paura di quando arriverà il tuo turno?», lo punzecchia infine Donghae. 
«Figuriamoci, non c’è assolutamente niente di cui prendermi in giro».
Passano due secondi e poi la sala si riempie di quindici fragorose risate.
«Vaffanculo, scemi», borbotta Hyukjae rigirandosi su un fianco.
«Mi manca la risata di Jungsu», bisbiglia Sungmin, facendo cadere improvvisamente un silenzio carico di angoscia. «Quando ridevamo tutti insieme, la sua risata era quella che si sentiva più di tutte».
«E’ vero, anch’io ci ho pensato proprio adesso», bisbiglia Siwon. «Vi ricordate quella sera in dormitorio quando eravamo tutti un po’ sbronzi perché Wookie ci aveva corretto il tiramisù e iniziammo a imitarlo? E lui rideva ancora di più…»
«E quella volta che Hangeng inciampò sul gatto di Chul, rovesciandogli addosso la coca cola?»
«Già, Hangeng… chissà come sta, sembra così solo adesso…»
«L’unico con cui si sentiva raramente era Heechul…»
Il silenzio si fa ancora più pesante. Nessuno dei membri degli MBLAQ osa romperlo. Qualcuno inizia a soffocare i singhiozzi nel cuscino, ma al buio non si vede chi sia. Forse Ryeowook.
«Buonanotte», sussurra Hyukjae rintanandosi dentro il sacco a pelo. Questa è l’ultima parola che viene proferita prima dell’alba.
Una volta Yangee gli aveva detto che fin da bambina, tutti gli eventi importanti della sua vita erano stati segnati dalla fiaba di Cenerentola. 
«In che senso?», le aveva chiesto Hyukjae.
«L’ultimo regalo di mia madre prima di morire fu un libro con la fiaba illustrata di Cenerentola. Leggevo quel libro il giorno in cui conobbi la mia migliore amica. Quando mi sono trasferita a Seul, quando ancora vivevo con mio padre, di fronte al nostro palazzo c’era un gigantesco cartellone pubblicitario del musical Cinderella. Da allora sono convinta che sia una specie di messaggio che il destino mi lancia», aveva risposto lei riscaldandosi le mani sulla lattina di tè caldo che lui le aveva offerto. 
Stupidamente quella volta aveva pensato di invitarla alla festa, illudendosi di essere lui, il suo principe. 
Con il tempo però ha capito che la chiave non stava né nel ballo, né nel principe. La chiave stava nella scarpetta di cristallo. 
Era quello il messaggio; un giorno sarebbe successo un avvenimento, una svolta inaspettata, qualcosa che l’avrebbe aiutata a rialzarsi dalla polvere e dal fango in cui era stata costretta fino ad allora. Lui non era stato capace di portarle quella scarpetta; l’aveva solo fatta scappare via, lasciando che si rinchiudesse ancora più giù, ancora più nel buio. Possibile che quella svolta potesse essere solo la morte? 
Anche stanotte la sogna. Sogna il suo viso dolce e pulito da bambina quando si sedeva per terra, sul tetto dell’agenzia, tutta avvolta con la sua sciarpa rossa – gliel’aveva regalata lui – e sorseggiava il suo solito tè in lattina. Il rumore delle bombe che cadono ed esplodono tutto intorno a lei non sembrano intaccarla. Gli sorride e appoggia la mano per terra, di fianco a sé, come per invitarlo a sedersi.
«Stanotte fa un bel freddo, vero?»
«Yangee, non dovresti essere qui. Scappa, o una di quelle bombe ti ucciderà!», esclama lui.
Lei scrolla le spalle, e si porta la lattina fumante alle labbra.
«Non possono farci niente, questo è solo un sogno», si limita ad osservare la ragazza. Si alza lentamente in piedi spolverandosi il sedere, e poi si gira a guardare oltre la rete che circonda il tetto, lontano verso gli edifici illuminati. Un aereo vola sopra di loro con un frastuono assordante, e li sorpassa. L’aria si riempie con quell’odioso fischio, e un attimo dopo arriva il fragore di un’esplosione. Hyukjae la raggiunge e si mette a guardare quella scena apocalittica al suo fianco. E’ come se quella recinzione di metallo potesse proteggerli per sempre.
«Darei qualsiasi cosa perché non fosse un sogno... Perché tu fossi davvero qui, in carne ed ossa», bisbiglia Hyukjae, sentendo gli occhi sul punto di bagnarsi. 
«Oppa, sei proprio scemo. Preoccuparti per me che sono morta… che senso ha? Non c’è modo per riportarmi indietro-». 
«Non sei morta. Io lo sento, tu… tu sei salva, da qualche parte, là fuori», la interrompe lui trattenendo a forza le lacrime. Yangee gli rivolge un sorriso dolcissimo, di quelli che sfoderava sempre quando lui la faceva sentire importante. 
«Hey, Oppa. Finché è solo un sogno, è ok che tu mi tenga in vita. Ma una volta sveglio devi imparare a vivere anche senza di me. Pensa piuttosto alle persone che puoi ancora salvare», mormora lei con il tono più dolce che lui le abbia mai sentito usare. Poi lentamente gli prende la mano (e a Hyukjae sembra di sentire di nuovo il suo tocco gelido) e gliela chiude intorno alla lattina di tè ancora calda. Poi si china a prendere lo zaino e scivola via. Hyukjae neanche si gira quando la sente richiudersi la porta di metallo alle spalle. Guarda il cielo con gli occhi umidi. Dannazione, è un fottuto sogno, pensa.
Però nella sua testa va a finire che sembra tutto sempre così reale… anche ora che gli aerei sono lontani e le luci della città spente e in cielo brillano un’infinità di stelle.



«Allora», mormora una voce femminile dal timbro profondo. «Kim Heechul. Sembra proprio che tu sia l’unico sopravvissuto al nuovo farmaco. Complimenti».
Heechul apre gli occhi a fatica ma si trova costretto a richiuderli immediatamente. Sopra la sua faccia qualcosa emette una luce bianca accecante. 
Il semplice tentativo di tornare padrone dei suoi sensi gli ha provocato una fitta lancinante alle tempie, tanto che per un attimo gli sembra di essere nuovamente sul punto di svenire. 
Qualcosa di morbido gli sfiora la guancia.
«Sai, sono proprio contenta che tu ce l’abbia fatta. Un bel ragazzo come te…», sussurra lei afferrandogli il mento. Qualcosa si intromette fra lui e la luce, e allora tenta di riaprire gli occhi, con difficoltà.
Guarda il volto della giovane donna a pochi centimetri dal suo, i suoi occhi glaciali, la montatura metallica degli occhiali e la pelle candida.
Se potesse le vomiterebbe in faccia, o quantomeno le urlerebbe di non toccarlo con quelle luride mani. Fa per aprire bocca, ma l’ennesima fitta alle tempie gli impedisce di proferire parola.
«Shh… lo so cosa stai pensando. Riesco a leggere tutto l’odio che provi per me dall’espressione della tua faccia. Confesso che, più mi guardi così, e più ti trovo attraente», gli bisbiglia la donna posandogli le labbra sull’orecchio. 
«Sai cosa ho pensato, Kim Heechul?», domanda ad un tratto ad alta voce, tornando in piedi. Heechul è nuovamente costretto a chiudere gli occhi per colpa della lampada che la donna gli tiene puntata in faccia.
«Mi arrivano decine di cavie umane ogni settimana per condurre i miei test, ma nessuno di loro finora aveva superato il mio nuovo virus, specialmente con l’uso di quel farmaco sperimentale diciamo… poco ortodosso».
«Mi hai drogato», biascica a fatica Heechul sentendo la stanza intorno a lui andare su e giù. 
«Drogato…», lo scimmiotta la donna decidendosi finalmente a spegnere il potente faretto bianco e permettendo a Heechul di mettere a fuoco la stanza d'ospedale in cui si trova.
«Se ti avessi addirittura drogato dopo la roba che ti ho iniettato in vena per impedirti di farti esplodere le arterie, a quest’ora avresti del minestrone al posto del cervello, intesi?», sibila con la sua voce fredda. 
Heechul cerca di alzarsi, quando realizza di essere legato polsi e caviglie al lettino.
«Liberami…», mugola. Si sente il corpo pesante come un macigno, quasi qualcuno gli fosse caduto addosso dal terzo piano.
«Per darti modo di tentare la fuga come l’ultima volta?», sbotta la donna lasciando cadere con stizza il bisturi che aveva appena preso in mano dentro un vassoio metallico. 
I continui sbalzi d’umore della Dottoressa lo terrorizzano. 
Ci sono state volte in cui gli ha tenuto il volto serrato nella sua stretta gelida così forte che si è messo a supplicarla di lasciarlo, singhiozzando come un bambino.
Vorrebbe scappare, ma non gli è permesso. Morirà in quella piccola stanzetta bianca e fredda dal soffitto alto, in quel letto di ferro battuto con lo smalto sbucciato. Oppure morirà qualche metro più in là, magari vicino alla ciotola de riso, accasciato sul pavimento di linoleum grigio e ci metteranno così tanto giorni a trovarlo che sarà già mezzo decomposto.
Heechul è prigioniero in quella stanza d’ospedale da chissà quanto. Mesi, anni, poche settimane.  Non sa dirlo.
Neanche ricorda come ci è arrivato. Chissà come riesce ad avere un quadro chiarissimo di cosa sia successo, e del perché una pazzoide in camice lo usi come cavia umana per esperimenti senza che venga denunciata all’ONU per violazione dei diritti umani, ma non ricorda assolutamente come sia finito in quella schifosissima stanza d’ospedale sempre chiusa a chiave. Sospetta di essere stato drogato durante il trasferimento.
Ma che diamine dice, è CERTO di essere stato drogato. Se gli facessero un prelievo ora risulterebbe avere un tasso di morfina nel sangue talmente alto che per disintossicarsi non basterebbe una vita intera.
Da quando è lì è come se il resto del mondo fosse stato inghiottito in un buco nero. Quando non è solo, giorno e notte, la Dottoressa è l’unico essere umano con cui gli sia concesso entrare in contatto. Solo una volta ha cercato di scappare, mentre lei apriva la porta per uscire, ma era talmente intontito dalla roba che gli dava che a metà corridoio era svenuto per lo sforzo.
Da allora la donna aveva preso l'abitudine di incatenargli le caviglie al letto costringendolo a strisciare per terra come un cane. 
Nonostante la finestra con le tende sempre scostate, Heechul è arrivato al punto di non distinguere più il giorno dalla notte. Passa le giornate rannicchiato contro la parete a guardarsi riflesso nel vetro con la stessa intensità con cui si fisserebbe un morto. No, non sono io quello, si ripete sempre. Ha il viso di un bianco cadaverico e gli occhi totalmente spenti cerchiati da profonde occhiaie scure. Non era mai stato così magro... la pelle sulle braccia sembra non riuscire a contenere neppure le ossa. I capelli gli scendono incolti fino a sotto le spalle e sono perennemente sporchi a causa della febbre che gli sale a giorni alterni.
A volte si sveglia scoprendo di essere stato lavato e di avere la barba fatta, o constata di avere un pigiama pulito, ma non ricorda mai niente. Pensa a tutto la Dottoressa. 
Sospetta che non si limiti a lavarlo, quando è sotto l'effetto della droga, ma ringrazia il cielo di non ricordare niente. Non sopporterebbe anche l'umiliazione di uno stupro.
Le luci si accendono e si spengono a intervalli irregolari, e per la metà del tempo è intontito dalle strane sostanze che gli inietta in vena quella donna raccapricciante.
La Dottoressa.
Nella lontana ed improbabile ipotesi in cui lui riuscisse ad uscire di lì sano di mente, o quantomeno vivo, lei popolerebbe senz’altro i suoi incubi ogni fottuta notte fino alla morte.
Ogni volta che apre gli occhi lei è lì. Come una maledizione, uno di quegli incubi che continuano anche quando ti svegli. E’ lì che gli parla con la sua voce profonda, che gli punta il suo gelido sguardo in faccia, che gli mette le sue mani ossute simili a grossi ragni addosso.
E’ incredibilmente alta, e da sotto il camice spuntano due gambe sottilissime. Porta immancabilmente  i soliti pantaloni bianchi di cotone, sempre incredibilmente candidi. Raccoglie i capelli lunghi in un’anonima coda di cavallo sulla nuca, e porta un paio d’occhiali dalle lenti ovali e la montatura in alluminio. 
Se l’avesse semplicemente incontrata per strada, un giorno, probabilmente l’avrebbe scambiata per la tipica madre casalinga con tre figli.
Ben presto ha capito di essersi sbagliato.
«Sai, Heechul», riprende la donna, tornando del tutto calma e rivolgendogli uno sguardo carico di compassione. «Credo davvero che alla fine non ti ucciderò».
«Ah no», biascica Heechul sbattendo più volte le palpebre. Ha bisogno di acqua.
L’angolo della bocca della donna che si piega in un sorriso sadico è forse una delle visioni più agghiaccianti che Heechul abbia mai potuto osservare.
«No. Perché in fondo sarebbe un peccato, un bel ragazzo come te… Mi servi molto di più da vivo che da morto», mormora baciandogli la fronte.
Heechul sente che vorrebbe urlare. Vorrebbe alzarsi, rovesciare tutto e iniziare a colpirla con tutta la violenza possibile, romperle le ossa e ucciderla. Ma non basterebbe. Non basterebbe a pareggiare i conti.
Per tutte le torture sadiche a cui l’ha sottoposto, per le volte in cui l’ha lasciato giorni senza mangiare né bere, per gli esperimenti, gli elettro shock, per tutte le volte in cui gli ha drogato il cibo e dopo l’ha costretto a fare chissà cosa. Non basterebbe per avergli lasciato incisa sull’addome la frase: “c’è un solo modo per liberarsi da un desiderio ormai ossessionante; soddisfarlo”, come un tatuaggio indelebile.
E l’ossessione della dottoressa è lui. Quella donna incarna la follia più pura, cambia stati d’animo con una rapidità terrificante, niente è troppo estremo per lei ma, di tutte la malsane, malate, sporche, perverse ossessioni che ha, Heechul è in assoluto la più grande.
«In confidenza, nessuna delle cavie che ho avuto finora, soffre in un modo più sublime del tuo. Mi piace vedere il tuo corpo perfetto che si contorce dal dolore e le tue grida mi fanno girare la testa… Hai una voce così… sensuale», gli sussurra accarezzandogli il volto e chinandosi per baciarlo sulle labbra.
«Mi fai vomitare», risponde lui con voce debole. 
«Lo so, e il tuo totale disprezzo nei miei confronti non fa altro che eccitarmi di più…», risponde la Dottoressa con il suo sguardo folle. Si china ad afferrare la pesante catena che pende dal capezzale del letto e la lega stretta intorno alla caviglia di Heechul, dove le maglie di ferro hanno già leso la carne, dopodiché slaccia le cinghie con cui lo teneva bloccato al materasso. Appena ha i polsi liberi Heechul scivola giù dal letto e si accascia per terra in preda a un calo di pressione che per un attimo gli annebbia la vista.
«Ma guardati... non ti fai neanche un po' pena... che creatura inutile che sei diventato, Kim Heechul», lo canzona la Dottoressa chiudendosi la porta alle spalle e dando due mandate di chiave alla serratura.
Heechul si distende sul pavimento portandosi le ginocchia al petto e inizia a singhiozzare. Come quella volta che Hangeng se n'era andato ed aveva pianto una notte intera abbracciando il suo cuscino sperando che ritornasse. 
Ma lui non era tornato mai più. Inutile mandargli mail, messaggi o telefonargli in piena notte, per tutti quegli anni lui non si era mai più fatto vivo. Perché dovrebbe succedere ora, stupido di un Heechul?, si maledice mentalmente. 
Fuori dalla finestra la luna riesce a farsi spazio fra le nuvole e lo accarezza con il suo bagliore tenue. A poco a poco Heechul si calma e scivola in uno dei suoi sogni tormentati.


Hangeng fissa il cielo, disteso scompostamente nel suo letto. Guarda le nuvole che coprono la luna, fuori dalla grande finestra del suo appartamento, pensando di aver sbagliato tutto nella vita.
In una mano tiene il giornale di oggi, dove in prima pagina c'è l'ennesimo articolo sull'occupazione della Corea del Sud. Da un mese ormai non chiude più occhio per via dell’angoscia che lo attanaglia. In Corea ha lasciato cose… ha lasciato persone… che forse avrebbe dovuto salutare con un po’ più di riguardo. O che semplicemente avrebbe fatto meglio a non conoscere.
No, forse non ha sbagliato tutto, pensa. Si è comunque concesso di amare. E l'ha fatto senza riserve, si è completamente abbandonato a quel sentimento e ha lasciato che lo sballottasse da una parte all'altra finché lui non gli ha spezzato il cuore. Ma in fondo preferisce un cuore spezzato, ad un cuore gelido e incapace di amare.
Sospira, sbattendo le palpebre. Heechul era come la luna. Come lei, ogni giorno cambiava faccia ed atteggiamento, e sembrava voler nascondere la sua vera natura dietro quell'aria misteriosa e fredda. La verità era che, come la Luna, era incredibilmente solo. Attratto sia dal sole che dalla Terra, ma troppo distante da entrambi per toccarli, girava in tondo costantemente alla ricerca di qualcosa che potesse curare la sua solitudine. 
Come aveva potuto pensare in qualche modo di riuscire a colmare quel vuoto, pensa Hangeng con amarezza, mentre dalla spessa coltre di nuvole filtra un raggio di luce bianca e va ad accarezzargli una guancia. Perché ogni singola notte deve sentire questo vuoto opprimente nello stomaco? Aspetta che la luna sparisca di nuovo inghiottita dalle nubi, ma invece rimane lì. 
«Dannazione!», esclama in un impeto di rabbia. Si tira in piedi lanciando a terra il giornale e copre a grandi passi la distanza che lo separa dalla finestra. Afferra un lembo della tenda con tutta la sua forza e fa per tirarla, ma qualcosa lo blocca. Rilassa i muscoli e a passi lenti torna a buttarsi sul letto, guardando il disco lunare con rassegnazione. 
«Morirai come Li Po»,gli diceva sempre sua madre quand'era piccolo. «Annegherai cercando di afferrare la luna riflessa nel fiume». Allora non l'aveva capita, era solo un bambino, ma ora il significato di quelle parole gli è così chiaro... Sospira mettendosi una mano sul petto cercando di fermare il suo improvviso e frenetico batticuore.
La verità è che sta davvero annegando. 
«Non ce la faccio più...», sussurra con un fil di voce abbracciando il cuscino.



Hyoyeon è andata afare un giro per la metroplitana. Il breve scambio di sguardi tra lei e Hyukjae poco prima alla stazione di Oksu l'ha lasciata così frustrata che non è riuscita ad addormentarsi. Mappa alla mano, si fa luce con una torcia elettrica lungo i cunicoli bui della rete sotterranea della città, ignorando gli squittii dei topi e i fruscii inquietanti. Confronta sulla mappa se la porta di metallo che ha trovato corrisponde effettivamente all'uscita. Pare di sì. 
Non è prudente uscire, ma non sente rumore di camion provenire da fuori e starà attenta a non farsi scoprire. Per precauzione lascia la mappa dentro, in modo che in caso di arresto non gliela trovino addosso, poi spinge silenziosamente la maniglia e sguscia fuori. Non si era resa conto di quanto fosse pesante l'aria dentro finché l'aria gelida di ottobre non le ha riempito i polmoni. Si stringe nel cappotto e si guarda intorno; la strada è completamente deserta e i lampioni sono spenti. Per terra i marciapiedi sono coperto di uno spesso strato di polvere, inevitabile dopo aver ridotto in frantumi gli edifici di mezza città. Sotto la suola delle scarpe, la polvere e i detriti scricchiolano sempre in modo sordo e Hyoyeon si chiede spesso se non stia calpestando le ceneri dei suoi genitori. Da quel tragico giorno, Seul si è trasformata in un città fantasma, come una di quelle isole piene di fabbriche abbandonate che ci sono in Giappone, diventando lo scenario perfetto per un thriller un po’ apocalittico. Solo che Hyoyeon in questo momento è dentro al film, la sola creatura vivente in mezzo a due file di edifici altissimi, e il suo cuore batte così forte che teme possa rimbombare contro le pareti di cemento di cui è circondata.
Alza lo sguardo verso il cielo, un cielo nuvoloso e coperto, e poi si dirige pian piano verso l'angolo fra le due strade. Quando sta per svoltare però, sente un rumore di pneumatici; si volta, con il cuore in gola, e vede un camion in fondo alla via che le si avvicina lentamente. Per un attimo il terrore le attanaglia lo stomaco, fa in tempo a sussurrare un’imprecazione a denti stretti, e poi inizia a scappare più veloce che può. Non sa neppure se hanno fatto in tempo a illuminarla, ma a scanso d'equivoci deve mettersi in salvo. Per quale assurdo motivo è uscita? Stupida di una Hyo. 
Corre come il vento, quasi saltando, fende l'aria e imbocca le strade più strette e buie che riesce a trovare. Quando si sente sufficientemente al sicuro rallenta un po' la corsa, anche perché sente i polmoni che stanno per scoppiare. Si volta indietro giusto per assicurarsi di averli seminati, e proprio mentre sta per girarsi nuovamente in avanti va a a sbattere contro qualcosa di morbido, inciampa e cade a terra rovinosamente. Rimane acquattata sull'asfalto per qualche istante, giusto il tempo di riprendere un po’ di fiato, poi alza gli occhi per vedere contro cosa è finita.
Il ragazzo, venticinque anni al massimo, la osserva dall'alto in basso avvolto in una aderente divisa nera da militare nordcoreano; ha ancora la mano ferma su un mazzo di chiavi inserito nella toppa di un portone.
Hyoyeon si affretta ad alzarsi decisa a scappare nuovamente via, ma una mano calda le afferra il polso.
«Lascia-», prima che possa urlare qualsiasi cosa il ragazzo le ha tappato la bocca e l'ha sollevata di peso trascinandola  fin dentro il portone. Pochi secondi dopo, nella strada è nuovamente calato il silenzio.

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Capitolo 10
*** Seoul Chronicles - Chapter 9 ***


WARNING! Sono tornata dopo un'assenza di più di 10 mesi. Chiedo scusa, ma ero in Giappone a spassarmela (più o meno). Sono tornata, più agguerrita che mai e decisa non solo a finire questa fanfiction lunga chilometrica, ma a scriverne altre e migliorarmi al punto da poter finalmente pubblicare un romanzo, che è il mio sogno dall'età di 7 anni... xD Sono rimasta commossa dal fatto che molte persone si siano appassionate a questa storia anche durante la mia pausa e che mi abbiano sostenuto con delle parole bellissime. Giuro che non dirò mai più che quello che scrivo fa schifo, e che mi impegnerò a migliorare! Parola di Banana!
Quanto al nuovo capitolo, scritto in fretta e furia, nei prossimi giorni lo ricontrollerò in quanto non avendo parlato altro che giapponese per 10 mesi, il mio italiano si è un po' arrugginito. Come sempre sono aperta a correzioni!
Dal momento che penso molti di voi non rileggano la storia da agosto, e riassumerla tutta mi costerebbe almeno 10 pagine di word, mi limito a rinfrescarvi la memoria sulla fine dell'ultimo capitolo.
Hyoyeon esce fuori dal nascondiglio sotteraneo durante il coprifuoco ma viene sorpresa da una camionetta piena di soldati, scappa e viene però rapita da un baldo giovine nordcoreano e trascinata dietro un portone.
Buona lettura! 
E... vi voglio bene :)))

Banana




«Se prometti che non urli ti lascio andare… promettilo».

 La manica della giacca che il rapitore le preme contro la bocca è fatta di un materiale ruvido, ma profuma di una fragranza nostalgica, che le aveva vagamente ricordato un vecchio ammorbidente che usava la mamma quando lei era piccola.
Hyoyeon sente la testa che inizia a girare. Non ha più neanche la forza di scalciare e dibattersi, desidera solo poter tornare a respirare di nuovo.
Tenta per l’ultima, disperata, patetica volta di divincolarsi, poi suo malgrado annuisce piano con il capo.
Le mani che le tappano la bocca si rilassano, le braccia che la stringono si distendono e in pochi istanti torna a posare i piedi sul pavimento e l’ossigeno riprende a fluirle nei polmoni. E’ freddo, brucia quasi.
Le mani dietro di lei arrivano prontamente a sorreggerla stringendole appena le spalle, prima che l’improvviso giramento di testa la faccia cadere a terra.
Hyoyeon può constatare che, nonostante tutto, il suo rapitore è una persona gentile.
Ha ancora il cuore in gola per la corsa, lo spavento, la paura di essere presa dai soldati e il panico del venire rapita da uno sconosciuto. Pensa di non aver mai avuto così tanta paura in vita sua, tanto da non riuscire a muovere le gambe.
I pensieri che sta cercando farneticamente di mettere in ordine sono coperti dal frastuono del sangue che pulsa nelle orecchie.
Deve velocemente architettare un piano…
E’ buio pesto, ma giurerebbe di essere in un sottoscala. Il suo respiro affannato echeggia sulle pareti, il che le fa intuire che non ci siano pezzi da mobilio. Non saprebbe dire in che direzione sia la porta, però, e non deve dimenticare il giovane alle sue spalle...
In sostanza, è impossibile scappare.
 «Non voglio farti del male… Se adesso io accendo la luce e tu scappi fuori, quei soldati ti prenderanno e né io né tu vogliamo che accada, giusto?», bisbiglia il ragazzo dietro di lei. Ora che ci fa caso, la parlata è inconfondibilmente del Nord. Il sangue le si gela nelle vene; ecco, è fatta, pensa sentendo qualcosa dentro disintegrarsi, polverizzarsi, scorrere via come cenere. E’ così che ci si sente quando non si può più scegliere tra vivere o morire, dovevo immaginarmelo…, deduce mentalmente con rassegnazione.
«Tu sei uno di loro», mormora Hyoyeon con un fil di voce, pronta ad abbandonarsi a qualsiasi destino. Il desiderio di vedere, di scappare, di correre via, tutto è sparito nel giro di pochi istanti. Per un attimo ha valutato l’opzione B). L’opzione di smettere di affannarsi, di non apprestarsi a vivere come un topo nelle fogne della città, di smettere di soffrire la solitudine, i sensi di colpa. Ha considerato l’opzione di scivolare via dal dolore. Se adesso lui la uccidesse, davvero le dispiacerebbe?
Ripensa a quando si è sbucciata le ginocchia, rovistando fra le macerie del palazzo dei suoi, quella notte. Ripensa al nero della polvere sulle guance, all’umiliazione dello strisciare fra i cumuli di cemento piangendo.
Ripensa a Hyukjae. Hyukjae che non la ama, e i muscoli si distendono, il sangue torna a scorrere.
Calma piatta.
La tempesta è finita. Finita per sempre forse.
«Prima che “uno di loro”, io sono l’uomo che ti ha appena salvato la vita»,il giovane rapitore dietro di lei le risponde, interrompendo bruscamente il filo dei suoi pensieri.
«Questo è tutto da vedere», ribatte Hyoyeon, riacquistando parte del suo solito modo di fare spudorato. Vuole SICURAMENTE farle del male. Potrebbe anche solo aver rimandato il momento della sua cattura per poterne prima abusare sessualmente.
«D’accordo, allora rimarremo in piedi tutta la notte al buio e al freddo perché qui qualcuno non vuole fidarsi di “uno di loro”», il ragazzo, che parla in modo duro per natura, pronuncia l’ultima parola quasi con disprezzo.
Hyoyeon per la prima volta legge in quella parlata qualcosa di… umano. Si rende conto che, e magari si sbaglia, potrebbe quasi averlo ferito. E se avesse davvero avuto delle buone intenzioni? Se non tutti i nostri invasori fossero dei barbari?
E se davvero ora stesse rischiando la sua vita per me?
Hyoyeon si morde il labbro inferiore, sentendosi a disagio. Non vuole sperarci ma… l’opzione A) è ancora in gioco?!
Torna a sentire una stretta d’ansia alla bocca dello stomaco. Perché realizza in un istante di non sapere neanche in cosa consista veramente, l’opzione A). Ecco. E’ un salto nel vuoto, e la paralizza dalla paura.
 Ma lei è maledettamente orgogliosa per cedere e aprire bocca. E’ troppo stanca e provata per riuscire a prendersi la responsabilità delle conseguenze dell’una o l’altra scelta.  Lascerà che sia lui a decidere per lei.
Rimangono lì in piedi per dieci, forse venti minuti.
Passa il tempo.
Passa così tanto tempo che quasi tutta la paura svanisce di nuovo, rimpiazzata da una grande noia priva di pensieri. Lui potrebbe averle fatto qualsiasi cosa; l’avrebbe potuta riafferrare e portare da qualche parte contro la sua volontà. Avrebbe potuto tramortirla e trascinarla via di peso. Chiamare qualche soldato.
Ma invece no.
Scorrono i minuti, e chissà, forse anche le ore, eppure lui la sta aspettando pazientemente in un punto poco distante dietro di lei.
Forse è vero che non ha cattive intenzioni.
Ma Hyoyeon è ostinata, ostinata e testarda. Se ha deciso che non si umilierà oltre, non lo farà.
Aspetta ancora e ancora.
Fa freddo, e ha sonno. Le gambe le fanno male. Si chiede se il poverino lì dietro non stia anche peggio di lei.
Le mani e i piedi sono talmente infreddoliti da non muoversi neanche più.
Pensa che comunque andrà, è solo colpa di Hyukjae.
E’ solo colpa di quello stupido scemo, che non deve neppure pensarci, tanto gli viene naturale farla soffrire.
E’ colpa di quell’idiota se oggi morirà. Fa niente, tanto era già morta dentro. A casa nessuno soffrirà la sua mancanza, perché sono morti tutti.
E se non morirà… c’è l’opzione A). Un’opzione il cui pensiero le fa male. Perché, pensa con stizza, perché non voglio vivere? Io, che amavo la vita…
In quell’istante le vengono in mente, come delle vecchie diapositive, i tempi in cui lavorava giorno e notte per il suo sogno. Quell’epoca in cui era una bambina acerba e semplice, ma in cui brillava di una luce fortissima. Le manca, quella Hyoyeon che amava vivere la vita giorno per giorno, non importava quanto dura fosse, quanto si stancasse a perfezionare i soliti passi difficili…
Quella Hyoyeon che concludendo una giornata difficile andava a letto pensando che tanto domani sarebbe andata meglio, che gioiva se il manager le concedeva uno strappo alla dieta, che mordeva la vita come una torta alla frutta, che ha un sapore diverso ma sempre dolce ad ogni morso.
Senza renderne conto inizia a singhiozzare piano. Uno di quei pianti trattenuti a forza, che fanno male al torace e ti fanno sussultare le spalle.
«Sicura di non volere neanche una tazza di tè caldo?», domanda ad un tratto lui. La voce è completamente ferma, di chi non sente né il freddo né la stanchezza. Hyoyeon si era quasi dimenticata della sua presenza.
«No», rispondelei, anche se un tremolio nella voce la tradisce.
«Neanche una coperta?»
«Neanche una coperta», ripete lei.
 «Stai piangendo». Non è una domanda.  Hyoyeon non è tenuta a rispondere; si copre il volto con le mani tentando di soffocare i singhiozzi.
Odia piangere davanti a qualcuno, è una cosa che non sopporta.
Un interruttore scatta, e la luce si accende con un ronzio un po’ assonnato. Hyoyeon riesce a intravedere fra le dita che non si era sbagliata riguardo al sottoscala; il pavimento è di marmo bianco e lucido.
«Se vuoi puoi andartene, il portone è a sinistra», dice il ragazzo.
Hyoyeon non riesce a muoversi.
Non sa se vuole andarsene.
Fuori è così buio che forse non ritroverebbe neppure la strada per il rifugio, e c’è sempre il pericolo delle camionette che girano per le strade. E poi, fuori da quel portone, l’abissale incognita dell’opzione A) la inghiottirebbe di nuovo.
«Allora che fai, non vai?», le domanda il ragazzo in tono sarcastico. Hyoyeon, suo malgrado, scuote la testa. Non ha il coraggio di scoprirsi il volto, rosso per la vergogna.
Sente il rumore di passi leggeri che pian piano iniziano a salire i gradini e si allontanano sempre di più.
«Questo tè lo prendi o no?... Prima di salire spegni la luce», la voce del ragazzo rimbomba da un punto in alto, sopra la sua testa.
Hyoyeon si asciuga le lacrime, poi con gli occhi gonfi e arrossati cerca l’interruttore della corrente e lo preme. Il sottoscala ripiomba nell’oscurità.
Con le mani gelide afferra il corrimano e lentamente inizia a salire le scale, un gradino dietro l’altro, seguendo il suono dei passi del giovane.
Non l’ho ancora visto bene in faccia, pensa con un misto di ansia e curiosità.
Non fa in tempo a finire di formulare il pensiero che lui si ferma su un pianerottolo e lei lo imita di conseguenza, barcollando appena. Si sente tintinnare un mazzo di chiavi, e Hyoyeon si domanda come sia possibile che lui le distingua al buio.
Si sente il suono di un lucchetto che scatta e poi un lieve tepore misto al profumo di cibo si diffonde nell’aria.
«Benvenuta in casa mia… metto a bollire l’acqua per il tè», il ragazzo accende la luce dell’ingresso, e poi si gira verso di lei.
Finalmente Hyoyeon può guardarlo in volto.
«Che aspetti a entrare? Forza, prima che si disperda tutto il calore», la esorta lui sfilandosi un paio di stivali neri da soldato, per poi sparire dietro una porta a destra.
Suo malgrado, con titubanza, Hyoyeon entra e si chiude la porta alle spalle.
 
Il tè odora di fieno. Hyoyeon lo beve malgrado tutto, sperando che possa riscaldarla un po’.
Guarda le spalle larghe del ragazzo mentre lava delle pentole con una spugna ridotta a brandelli.
E’ un soldato. Si è sfilato la giacca della divisa poco prima, gettandola malamente sul bracciolo di una poltroncina dalla tappezzeria a fiori un po’ sbiadita. La casa emana lo stesso odore che Hyoyeon ha potuto annusare prima dalla giacca di lui (che venga forse da pochi indumenti stesi malamente su un filo appeso sopra l’acquaio della cucina?) misto al profumo del riso appena cotto.
Hyoyeon si ricorda di quando da piccola andava a casa della nonna, e quando tornava a casa indossando uno dei maglioncini che lei puntualmente le confezionava si ritrovava addosso quello stesso odore.
La nonna era morta di un tumore quando Hyoyeon aveva 8 anni, e da allora questa è la prima volta che si è ricordata di quell’odore.
Un orologio di plastica bianco di forma esagonale appeso sopra la porta della piccola cucina segna le nove di sera. La lancetta dei secondi è quasi rumorosa, constata Hyoyeon sentendosi sempre più a disagio.
Nessuno dei due apre bocca.
Forse aspetta che cominci io, pensa Hyoyeon guardandosi disperatamente intorno cercando una via di fuga.
Il suo sguardo si posa su un taccuino sgualcito di colore verde bottiglia appoggiato sul tavolo sotto una fruttiera con poche mele un po’ ammaccate. Qualcuno ha scritto sulla copertina di cartoncino ruvido la frase “le mie poesie” con un pennarello nero.
Mentre il giovane soldato non la guarda, presa da un’irrefrenabile curiosità (assolutamente da me, pensa Hyoyeon con sarcasmo) fa scivolare il taccuino fin sulle sue ginocchia e ne apre una pagina a caso.
«Stamattina all’alba
gli dei hanno visto la mia miseria
e mi hanno sussurrato di aprire gli occhi
», sussurra recitando i versi scritti a mano sulle righe del quadernetto.
Il soldato si gira appena verso di lei, per poi tornare alle sue faccende.
«Non ti hanno insegnato che non si prendono le cose altrui senza chiedere il permesso?», le domanda. Non sembra particolarmente infastidito, per cui Hyoyeon suppone di poter continuare a leggere.
«Mi hanno condotto fuori dal mio letto,
lontano  dai miei pensieri.
Ho posato i piedi nudi sulla terra umida
e ho guardato il Sole farsi largo tra le vette dei monti
e tingere le risaie d’arancione,
trasformare la valle in una distesa di luce.
E gli dei mi hanno sussurrato
che da oggi non ero più nella miseria,
ma nell’abbraccio caldo del Sole.
Stamattina all’alba
ho pianto la fine della mia solitudine
», Hyoyeon conclude la poesia ma non alza lo sguardo dal taccuino. Non sa dire cosa le abbia suscitato quella poesia. Non sa dire neppure se le è piaciuta o meno.
Il ragazzo nel frattempo posa la spugnetta e chiude il rubinetto. Non si gira verso di lei quando le parla.
«Che coincidenza… », mormora, per poi voltarsi e sorriderle. Sorriderle raggiante.
Hyoyeon ha notato fin da prima che, a dispetto della parlata così dura, ha un viso gentile.
Anzi, ha un bel viso, oserebbe dire. Un ovale liscio, con gli zigomi leggermente pronunciati, un naso dritto e due occhi sottili e lunghi. Quando sorride sembra un ragazzino.
«Che c’è, ho qualcosa in faccia?», domanda scherzosamente. Hyoyeon realizza di averlo osservato troppo.
«Niente di particolare. Stavo solo pensando che hai un bel viso», risponde Hyoyeon, quasi con innocenza. Al contrario di quanto molti possono pensare di lei, è molto onesta nel dire ciò che pensa.
«Grazie. Sei sorpresa che “uno di loro” abbia un bel viso e ti stia offrendo una tazza di tè dopo averti salvata da una camionetta piena di soldati?», domanda lui senza perdere il suo tono giocoso.
Hyoyeon arrossisce violentemente e guarda altrove, portandosi la tazza alla bocca.
«Sinceramente sono più sorpresa che “uno di loro” non solo abbia un bel viso, mi stia offrendo del tè e FORSE  mi abbia salvata da una camionetta piena di soldati, ma sappia anche scrivere poesie», bofonchia Hyoyeon una volta posata la tazza vuota sul tavolinetto di plastica a cui i due sono seduti. Lui afferra la teiera e la riempie di nuovo.
«Puntualizziamo intanto una cosa; puoi smettere di dubitare della mia buonafede. Diciamo che ho sempre odiato il coprifuoco; la notte mi piace, mi aiuta a pensare. E’ proprio una cosa stupida impedire alle persone di uscire a vedere le stelle, mi dico. Per cui mi sono sentito in dovere di salvare una povera ragazza innocente uscita a farsi una passeggiata al chiaro di luna», risponde incrociando le braccia sul tavolo e sorridendole ingenuamente.
Hyoyeon apre la bocca. La tenerezza di quel sorriso le ha tolto per un attimo il fiato.
«Punto secondo, non è che sappia scrivere poesie. E’ solo il mio modo…» aggiunge sbadigliando.
«Il tuo modo per cosa?», domanda Hyoyeon confusa.
«Il mio modo per sopravvivere, ovvio. Ognuno deve trovarsene uno, altrimenti puoi non morire fuori, ma dentro… beh, lo sai come funziona un regime», bofonchia lui sbadigliando di nuovo. E’ stanco, evidentemente.
Hyoyeon abbozza un sorriso triste. Ha iniziato a provare simpatia per quel giovane.
«C’è chi di nascosto canta, chi dipinge, e chi scrive poesie su quant’è bello il mondo», prosegue il soldato lanciando un’occhiata alle stelle fuori dalla finestra.
«A me il mondo non piace. Voi l’avete ridotto a un cumulo di macerie e ossa», replica Hyoyeon. Il soldato la guarda negli occhi abbozzando un sorriso malinconico.
«Mi dispiace», bisbiglia alzando le spalle, «Mi dispiace molto. Se ti dicessi che mi ripugna guardare le mie stesse mani ora non ci crederesti forse. Ma io non volevo uccidere nessuno; amo la vita, io. Perdona almeno me, che oggi ti ho salvata…».
Hyoyeon annuisce, mordendosi il labbro inferiore.
«Come si chiama l’uomo che devo perdonare?».
«Eejun».
«Eejun, io ti perdono. Ti perdono a nome dei miei genitori, che sono morti. Ti perdono a nome di Sehyung, che ora è in coma. Che tutti gli spiriti delle persone che hai ucciso vedano quanto il tuo cuore è puro e il tuo animo buono, ti perdonino e smettano di tormentare le tue notti», bisbiglia Hyoyeon. Chiude il taccuino e lo riposa sul tavolo, vicino alla fruttiera.
«Grazie», mormora il soldato Eejun, abbozzando un sorriso malinconico.
«Prima hai parlato di una coincidenza», gli ricorda Hyoyeon, sperando di spezzare la situazione un po’ imbarazzante appena creatasi.
«Giusto. Stavo pensando che quella è stata la prima delle mie poesie felici. Prima ci sono solo pagine piene di tristezza e angoscia. Mi sono detto che forse è un segno del destino; che da oggi anche le  tue pagine tristi e piene d’angoscia siano giunte alla fine?», le sorride lui scrollando le spalle.
Hyoyeon rimane a fissarlo a bocca aperta, incredula, mentre lui esce dalla cucina.
«Vado a prenderti una coperta… puoi dormire sul sofà», le dice da qualche parte della casa.
 Il tepore nel cuore di Hyoyeon torna pian piano a freddarsi. Per un attimo le è sembrato che la semplicità di Eejun avesse potuto vedere in lei quello che nessuno aveva mai capito fino in fondo.
Allora c’è davvero una fine alla solitudine?, si domanda mentre si rannicchia sul divano, sotto una spessa coperta di lana.
Prima di dormire rimane un po’ a guardare il cielo stellato fuori dalla finestra. I versi della poesia le riaffiorano alla mente per qualche istante e pensa; chissà se gli dei stanno tenendo nascosto un tesoro anche per me?...
Con un sospiro stanco si copre fin sopra la testa, ringrazia di essere ancora viva e si addormenta.
 


Heechul apre lentamente gli occhi.
E’ solo. La luce è spenta.
Si porta una mano alla fronte, colto da una fitta più lieve del solito.
Che strano, pensa, devo avere la febbre molto bassa.
In bocca sente un sapore strano, che non sa di medicina. Sembra quasi… quasi il retrogusto dolciastro del riso.
Con un enorme sforzo si issa a sedere sul letto e cerca di mettere a fuoco la sua stanza, nel buio; la catena con cui è avvolta la sua caviglia tintinna appena.
Anche oggi c’è la luna piena; ora che si è abituato al buio, nota che la luce filtra fra le sbarre della finestra illuminando debolmente le sagome degli oggetti.
Per terra la sua ciotola da cani giace al contrario, i resti della sua cena sparsi per terra; si ricorda di averla rovesciata senza quasi averla mangiata.
E’ stato proprio la fame a fargli aprire gli occhi, ora.
Getta uno sguardo alla porta; è chiusa, come sempre.
Ora ricorda; la Dottoressa ha smesso di drogarlo per qualche giorno per evitare che i veleni del virus reagissero e si… come aveva detto? Ah, ecco. Che si ritrovasse del minestrone al posto del cervello.
Heechul non ricordava quanto essere cosciente potesse stancare. Il desiderio di ributtarsi a letto è forte, ma non può.
Lotta contro la sua volontà e scivola giù dal letto; la caviglia incatenata gli lancia una fitta lancinante e per poco non urla. Si morde un braccio e geme.
Striscia lentamente sotto i deboli raggi lunari e cerca di respirare a fondo.
Gli sfugge una risatina debole e nevrotica osservando le catene intorno alla sua caviglia maciullata. E’ diventato così magro che potrebbe infilare due dita fra quelle e la caviglia tumefatta.
 Chissà da quanto non gliele slaccia, pensa iniziando a spingerle via con la poca forza che gli è rimasta. Il dolore per un attimo gli annebbia la vista; stringe i denti e continua a spingere finchè il piede non gli scivola fuori.
Deve rimanere almeno due minuti a occhi chiusi prima che il dolore si affievolisca un po’. Quando li riapre, guarda il cielo fuori dalla finestra con le sbarre.
Striscia fino ad aggrapparsi al davanzale e si issa faticosamente in piedi. Con la mano ossuta e tremante tenta di far scorrere la finestra di lato; non ci riesce. Riprova con due mani, la apre.
Torna ad appoggiarsi al davanzale con il fiato corto, mentre una ventata gelida gli scompiglia i capelli lunghi.
Sente le lacrime pungergli gli occhi dalla commozione; sembra come se un’entità superiore che regola l’Universo (Heechul non crede propriamente in Dio) gli avesse appena dato l’opportunità rinascere.
Va bene, pensa Heechul. Ho capito, non sprecherò quest’occasione.
Le sbarre in realtà sono un po’ sporgenti rispetto alla finestra, come una piccola gabbia attaccata al muro. Heechul inizialmente aveva pensato che non sarebbe mai riuscito a passare  nella fessura di circa venti centimetri fra esse e il davanzale, ma adesso giurerebbe di poterci liberamente sgusciare attraverso, con un po’ d’impegno. Zoppica fino al letto e tira via il lenzuolo sgualcito.
Lo arrotola in diagonale, in modo che venga più lungo, e poi lo lega alle sbarre della finestra. Per assicurarsi che il nodo regga il suo peso (quale peso, poi? Trenta chili? Meglio essere prudenti comunque) stringe la presa il più possibile, il che lo lascia con il fiato corto. Guarda giù un’ultima volta, poi si arrampica sul davanzale e inizia a calarsi attraverso lo spazio fra la finestra e l’inferriata.
 
La Dottoressa stamattina se l’è presa più comoda del solito; il sabato sera lei e gli altri medici del laboratorio si attardano a bere alcool aggiornandosi sui progressi del regime e, quando non sono troppo stanchi, sui risultati delle loro ricerche.
Ieri la Dottoressa era particolarmente fiera; il nuovo virus che ha sviluppato, ha ucciso tutte le sue cavie tranne una. Certo, per avere un risultato efficacie al cento per cento, andava perfezionato e reso letale anche se somministrato in dosi minori, ma era piuttosto soddisfatta.
Tutti si erano complimentati, facendo battute su chi di loro alla fine avrebbe ucciso più Americani, o Russi.
Avevano riso, dopodiché si erano coricati per smaltire gli effetti dell’alcool.
Quando la Dottoressa si è svegliata stamattina, erano già le otto e mezza. Per tutto il tempo mentre mangiava e si vestiva, aveva pensato a Heechul, che oramai doveva essersi ripreso dai postumi del virus.
Il poterlo incontrare la mandava in fibrillazione, tanto che si era quasi dimenticata di mescolare la droga al riso, prima di uscire di casa.
Con una mano regge la ciotola nuova, con l’altra gira la chiave nella toppa e spalanca la porta.
Quello che vede la fa gridare di rabbia, un urlo raccapricciante, da animale. Lancia il riso contro la parete opposta con una forza tale che la porcellana va in frantumi che schizzano da tutte le parti. Gridando furiosamente, si scaglia contro il letto vuoto di Heechul e inizia a prendere materasso e cuscino a pugni, a morsi a unghiate. Rovescia il letto di ferro battuto con una sola, furiosa spinta e inizia a prenderlo a calci.
Delle mani la afferrano, lei si divincola, lotta, ma alla fine viene trattenuta braccia e piedi. Qualcuno le sta dicendo qualcosa, ma lei non sente, continua a gridare anche mentre viene trascinata fuori dalla stanza.
Poi tace di colpo; prima di chiudere gli occhi vede una siringa conficcata nella coscia; L’aveva lasciata sul tavolinetto fuori, e dev’esserci andata contro mentre tentava di divincolarsi.
Sente delle voci rimbombare in sottofondo, come se le parlassero da una palla di cristallo: «Che roba è questa?»
«HD301G?»
«Sarà un tranquillante?»
No, pensa la Dottoressa poco prima di chiudere gli occhi definitivamente, non è un tranquillante. Era l’ultima dose del suo virus letale.


 
Soon Mi odia il campo di Jeol Mang.
Prima ragione; non è Seul.
Assomiglia molto al posto in cui viveva lei, su al Nord. Montagne, campagna, fiumi, e poi l’altopiano brullo su cui sorge il campo. Fa sempre freddo, piove in continuazione tanto che ha sempre i pantaloni perennemente  infangati, il cibo fa schifo, i letti sono scomodi, e, quel che è peggio, scendendo dal furgone, appena arrivata, ha sentito in pancia il subbuglio di chi sta rivivendo il proprio passato e ha la certezza che sarà anche il suo futuro.
Peccato, aveva pensato ancora una volta, peccato che anche Seul debba vivere tutto questo, un giorno o l’altro.
Seconda ragione; Jeol Mang puzza.
Puzza tremendamente. Non solo di fango, di cibo puzzolente, di cadaveri ammucchiati (sì, Soon Mi ha intravisto una sagoma di cadaveri ammassati l’uno sull’altro poco fuori dai cancelli a nord, ma fortunatamente erano stati richiusi subito prima che potesse scorgerne i particolari), neppure l’odore della spazzatura o i fumi delle fornaci in cui i prigionieri lavorano notte e giorno per costruire chissà quali armi.
No. A quegli odori prima o poi si fa l’abitudine.
L’odore peggiore, è l’odore delle lacrime. Soon Mi è lì da meno di due settimane, ma è ormai convinta che quella puzza siano lacrime non versate che stagnano negli occhi della gente.
Non è più acqua e sale, è acqua e paura, rabbia, disprezzo, solitudine, disperazione. E’ acqua e sentimenti.
Guardando i volti della gente, pensa che non devono essere vivi, o quantomeno, non umani. Ecco perché non piangono più. Hanno fatto scivolare tutti i loro sentimenti nelle lacrime che ora stanno lì a marcire, scavando loro gli occhi e le guance, seccandogli le braccia.
E’ come se nessuno vedesse dove cammina, nessuno ascoltasse ciò che sente. Gli sguardi scivolano via come sanguisughe che si nascondono sotto massi melmosi.
Che schifo, pensa Soon Mi, vorrei che morissero tutti pur di non vederli stare così.
Terza ragione; qui non c’è niente da fare. L’hanno chiamata da Seul perché servivano mani piccole nei magazzini per rovistare fra le apparecchiature elettroniche confiscate e separare i veri tipi di metalli.
Lei e Min Ji, insieme ad altre tre ragazze, passano le giornate in silenzio in una stanzina dei magazzini a smontare cellulari, ipod e televisori e a pesare sacchetti pieni di fili di rame, argento, oro e così via.
Non tutti ovviamente. La sera del primo giorno avevano deciso all’unanimità di nascondere quanti più ipod e telefoni possibili nelle loro sacche non appena le altre tre erano distratte, e così avevano fatto; adesso, sotto il materasso, ne avevano circa una ventina. La notte sgattaiolavano fuori in silenzio e passavano dieci, venti, a volte anche quaranta minuti cercando di far funzionare quegli aggeggi con cui avevano poca dimestichezza, ma che avevano visto spesso usare nella capitale, e ascoltavano musica che non conoscevano ancora. Se erano fortunate, trovavano che uno di quei dispositivi aveva canzoni dei Super Junior che loro non conoscevano.
In quei momenti ridacchiavano piano, e poi tacevano, ascoltando le canzoni con il fiato sospeso. A volte avevano pianto.
Quelli erano gli unici momenti a Jeol Mang in cui le due tornavano ad essere le amiche di sempre, unite dal loro segreto.
Poi tornavano a letto e quando riaprivano gli occhi tornavano ai magazzini. E per il resto della giornata continuavano a separare fili di rame, argento, oro e così via.

Anche oggi lei e Min Ji sono sedute sul pavimento freddo della stanzina del magazzino, con le altre tre ragazze. Armeggiano tutte con forbici e cesoie, strappano le parti di metallo e le gettano nei vari sacchi al centro della stanza.
«Il sacco del rame è pieno, va pesato», dice la più grande delle tre ragazze. Min Ji non la sente, troppo assorta da un bullone particolarmente difficile da svitare. Soon Mi si alza con un sospiro, «Vado io», prende il sacco del rame, se lo carica in spalla sbuffando per lo sforzo e poi si avvia fuori dalla stanza lentamente.
Al centro dei magazzini, fra soldati e fantasmi indaffarati a portare carriole piene zeppe di roba, c’è una grande bilancia arrugginita su cui Soon Mi scarica il suo sacco, lo chiude e poi prende nota davanti del numero indicato dall’ago e scrive “RAME”.
Adesso deve trovare solo la persona responsabile del… eccolo!
Uno dei fantasmi sta trasportando una carriola piena di sacchi di metallo.
«Da questa parte” C’è un altro sacco!», gli grida. Il fantasma inverte la marcia e barcolla verso di lei.
Strano, pensa Soon Mi, che aria familiare. Lui si avvicina sempre di più.
Quando le arriva abbastanza vicino da poterlo vedere in faccia e tende le braccia per passare il pesante sacco dalla bilancia alla carriola, a Soon Mi prende un capogiro.
No, pensa. Mi sto sicuramente sbagliando.
Il fantasma passa oltre, senza fermarsi neanche davanti al suo sguardo incredulo. Soon mi si deve appoggiare al piatto della bilancia il cui ago schizza in avanti, poi subito indietro dal momento che le ginocchia le cedono e scivola giù carponi, mentre il riso acquoso della colazione le risale su per la gola. Si porta una mano alla bocca; è troppo tardi.
Il sangue le è sparito dalle vene freddandole mani e piedi nel giro di pochi istanti. Ha sentito lo stomaco chiudersi, come se l’orrore provato arrivata a Jeol Mang si fosse moltiplicato per dieci e le fosse caduto addosso dal quinto piano di un palazzo. Le ha schiacciato le ossa.
Qualcuno le corre incontro e la scuote, ma lei non ci vede più, non ci sente più.
Non è possibile, continua a ripetersi, incapace di respirare. Tende una mano verso il buio, vorrebbe supplicare a qualcuno di darle dell’ossigeno, poi un punto della testa le lancia una fitta, come se l’avessero colpita con una bastonata, chiude gli occhi e rilassa i muscoli.
 
Quando si sveglia è nell’infermeria del campo, su un letto duro e freddo con la vernice sbucciata. Fuori ha iniziato a piovere. E’ sola, segno evidente che Min Ji sta ancora lavorando.
Constata di essere ancora viva, e l’unica presenza nella stanza. Lo shock dev’essere stato tale da procurarle un mancamento, una perdita dei sensi. E’ contenta che Min Ji non fosse stata lì.
Sente di non stare ancora bene. L’uomo che ha visto prima è (o quel che resta) senza ombra di dubbio Leeteuk. Ricorda di aver guardato la sua foto migliaia di volte, di aver scritto il suo nome ovunque, di aver pensato che un po’ lo amava; non sapeva niente di lui, ma per lei rappresentava un’ideale irraggiungibile, un essere umano dotato di sentimenti meravigliosi. Aveva desiderato incontrarlo almeno una volta nei suoi sogni.
Scivola giù dalle coperte e si avvicina alla finestra, guardando le gocce d’acqua battere contro il vetro sporco.  Fuori tutto è avvolto da una lieve foschia.
Grazie cielo, di piangere al posto mio. Anch’io altrimenti diventerei uno di quei fantasmi puzzolenti, che non liberano il loro dolore.
Deve dirlo a Min Ji. Devono tirarlo fuori di lì. E poi deve anche metterci un taglio. Sente che se non lo farà lei per prima, non si ribellerà nessuno.
E’ stanca, deve far conoscere a tutti ciò che la dittatura gli ha rubato: la libertà non è un concetto astratto, è la capacità di scegliere di amare.
 


Hong corre lungo i tunnel delle rotaie. E’ notte fonda, tutti dovrebbero dormire. Solo lui, la mappa alla mano, illumina il percorso con una torcia e corre a perdifiato.
Ha bisogno di Bani, e sa di poterla trovare solamente la notte, quando non esce per andare a scuola.
Ha bisogno di lei, perché è l’unica che può uscire fuori dal rifugio durante il giorno.
Hanno poco tempo, le provviste stanno finendo, non possono più derubare i negozi la notte, è troppo rischioso.
Quando giunge alla stazione della metro in cui dovrebbe trovare Bani, diminuisce l’intensità della torcia e inizia a passarla sui volti degli addormentati. La trova.
Lei dorme, e ha il viso bellissimo di un angelo. Le si avvicina piano e le scuote una spalla.
Apre gli occhi, gli sorride.
Il cuore di Hong manca un battito, ma lui lo ignora.
«Andiamo fuori», le bisbiglia e poi le tende una mano.

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Capitolo 11
*** Seoul Chronicles - Chapter 10 ***


WARNING! E’ tornata la vostra banana meccanica! Mi sono interrotta ancora per parecchio tempo, scusate.
Ho scritto il seguente capitolo un po’ per forza di inerzia perché DEVO finire questa maledetta fan fiction.
Forse lo modificherò presto, o forse no, voglio solo finirla alla svelta. xD
Vi ringrazio per tutto l’amore che mi dimostrate continuando a leggere e recensire. Ogni volta che vedo il numerino delle visualizzazioni o delle recensioni crescere il mio cuore salta un battito.
Voglio ringraziarvi poiché il prologo ha ad oggi raggiunto le 1042 visualizzazioni.
Buon anno di cuore a tutti.

3/1/15: Modifica sostanziale al capitolo. Un bacione a tutti voi. 

 
 
Hong e Bani hanno due lunghi cappotti neri da soldato; se li sono procurati la prima notte di perlustrazione in un  lampo di genio passando davanti a una camionetta parcheggiata.
Bani se la stringe addosso, pensando a quanto sia cambiata in poco meno di una settimana di perlustrazioni.
Anche Hong la guarda; ha lo sguardo preoccupato. Bani gli sorride, mentre le strade cominciano a tingersi di blu pallido.



Bani guardava Jinyoung, sempre.
Lo faceva di nascosto, quando lui parlava con qualcuno, quando mangiava.
Non lo fissava, certo, ma ogni tanto il suo sguardo scivolava sul suo viso perfetto e bianco; era come una calamita.
Non era tanto la bellezza sconvolgente di quel volto, né la morbida lucentezza dei suoi capelli neri, né la calma suadente della sua voce.
Jinyoung emanava un’aurea incredibilmente sola. Era come se la sua anima avesse mangiato ogni particella intorno a sé creando il vuoto, un abisso fra lui e il mondo.
Anche quando qualcuno lo sfiorava, lui non se ne accorgeva quasi.
Guardarlo circondato dalle persone o immaginarselo da solo in mezzo al niente era esattamente la stessa cosa.
E Bani aveva creduto per un attimo di aver trovato qualcuno come lei, qualcuno che potesse capire la sua solitudine e il suo senso di abbandono e si era ingenuamente innamorata di lui.
Ma più che passava il tempo, là sotto, nel silenzio e nella tremenda noia dei sotterranei della città, più iniziava ad avvertirlo distante, lontano. Assente.
Quel sentimento che per lei era stato la scintilla che aveva riacceso la vita nel suo cuore, per lui non c’era mai stato.
La loro affinità, che aveva tanto riscaldato il cuore di Bani, era rimbalzata sul guscio di Jinyoung e si era dispersa nell’aria.
Bani poteva solo guardare l’abisso crescere divorandosi Jinyoung un pezzetto alla volta, un sentimento alla volta.

«Sai Oppa, hai fatto proprio bene a portarmi con te… Hong dice che sono un aiuto prezioso per lui, stanotte usciamo per procurarci provviste. Non lo trovi elettrizzante?», gli aveva detto intorno al terzo giorno che lei e il gruppo di Jinyoung erano nascosti in una stazione della metropolitana.
Jinyoung l’aveva guardata con calma e le aveva sorriso, un sorriso assente.
«Divertiti, mi raccomando», le aveva risposto lui con tono pacato, come sempre.
Nel petto di Bani si era aperta una voragine.
“Non mi hai ascoltata neppure, di’ la verità… che razza di risposta è questa? Dovresti dirmi di stare attenta o…”.
«Grazie, ci proverò».
Bani aveva sospirato ed era tornata a dedicarsi alle ultime pulizie.
L’unica spiegazione che riusciva a darsi era la foto della lapide, al cimitero.
Quella ragazza occupava ogni atomo di Jinyoung e lo trasportava con sé verso la dissolvenza.


Quella sera Hong era venuto a prenderla.
Bani lo trovava estremamente tranquillizzante; c’era qualcosa in quella figura così alta e dalle braccia lunghe che trasmetteva sicurezza, come un abbraccio sempre pronto.
Hong aveva uno sguardo serio, ma era uno sguardo intenso, forte, ribelle.
Anche i lineamenti appuntiti, gli zigomi delineati, le dita delle mani lunghe esprimevano una sorta di uragano interiore.
La prima volta che l’aveva visto gli aveva ricordato vagamente suo padre; inizialmente non capiva perché ma poi era giunta alla conclusione che Hong era quel tipo di persona.
Il tipo di persona che è disposta a credere negli altri. Il tipo di persona che può far sbocciare la vita degli altri se solo si ha abbastanza fede per aprirsi a lui.
Il solo fatto che tutte quelle persone fossero salve grazie a lui era il miracolo che solo certi esseri umani possono compiere.
Bani si era avvolta nel suo cappotto, aveva preso la sua torcia e un coltellino svizzero. Senza dirsi una parola lei e Hong avevano guardato un’ultima volta i componenti dei B1A4 intenti a chiacchierare a bassa voce, poi si erano diretti nel buio di una galleria.
«Siamo solo noi?», aveva domandato Bani dopo un po’ che camminavano immersi nel buio, solo due raggi di luce blu a illuminare le rotaie davanti a sé.
«I miei compagni si sono divisi altre zone della città, quindi sì, siamo solo io e te. Hai paura?», aveva risposto Hong sempre con il suo tono fermo.
Bani aveva ignorato la sua domanda; no, non aveva così tanta paura. Non più di lui. In fondo anche Hong aveva paura, non era un incosciente.
«Posso portarti lo zaino?», Bani si era limitata a cambiare discorso.
«Eh?!», Hong sembrava colto alla sprovvista per l’improvvisa richiesta all’apparenza così bizzarra.
«Sembra pesante, e tu sei gravemente ferito… non penserò che non sei un vero uomo se me lo lasci portare, ne hai tutto il diritto», aveva replicato Bani.
E così, non senza lottare, alla fine Hong aveva dovuto cederle la borsa.
Erano passati da un cunicolo della rete fognaria piuttosto breve, anche se non abbastanza perché Bani evitasse di sentire i conati di vomito, dopodiché erano sbucati in un grande parcheggio sotterraneo e buio. Qua e là macchine coperte da uno spesso strato di polvere parcheggiate da mesi riflettevano il bagliore azzurrognolo delle torce assumendo le fattezze di fantasmi.
I loro passi erano riecheggiati contro le volte del soffitto basso.
Avevano salito le scale, lentamente, finché non si erano trovati davanti a una grande porta di metallo con la serratura forzata.
«Qualcuno è già passato di qui, vedo…».
Hong aveva ridacchiato, poi aveva spinto la maniglia.
Bani aveva sentito il vento sfiorarle il viso, l’odore dell’aria pulita e fresca, l’immenso silenzio della notte. Per qualche istante lei e Hong erano rimasti sulla soglia a contemplare il miracolo dell’aria che si muove animata di vita propria, poi erano usciti e avevano iniziato a percorrere le vie deserte della città.
Avevano scassinato un paio di botteghe – un centro commerciale sarebbe stato meglio, ma era troppo difficile entrarci, e troppo rischioso per via di alcune telecamere ancora in funzione – e avevano riempito di provviste vari sacchi che per praticità portavano nel parcheggio sotterraneo, in modo da muoversi meglio in caso fossero stati scoperti.
Mentre depredavano gli scaffali intanto chiacchieravano del più e del meno. Hong aveva una capacità strabiliante di mantenere i nervi saldi e una sopportazione del dolore notevole; lui non lo dava a vedere, ma Bani insisteva comunque per aiutarlo a portare i carichi più pesanti.
«Hong, perché ti hanno fatto tanto male?», aveva chiesto ad un tratto.
Lui aveva taciuto. Bani aveva illuminato il suo volto con la torcia, spinta dall’irrefrenabile voglia di vedere che genere di espressione avrebbe potuto causare una domanda del genere.
Ciò che aveva visto l’aveva fatta impallidire. Il viso del ragazzo era diventato una maschera d’odio; aveva serrato la mandibola e corrugato la fronte, e per un attimo il suo sguardo burrascoso si era perso, come se stesse guardando la scena di un film violento e insensato.
«Perché ho protetto un amico», aveva risposto.
Bani aveva abbassato la torcia; non avrebbe mai dovuto vedere quell’espressione.
Per un attimo il volto apatico di Jinyoung si era sovrapposto a quello di Hong, che rifletteva ogni emozione umana amplificandone l’intensità.
Qualcuno che odia così tanto è senz’altro capace di amare con la medesima forza, aveva constato. Un po’ come il dragone gentile della leggenda, che per salvare un villaggio dalle fiamme sacrifica il proprio orgoglio e accetta di perdere la gara.
Se dovesse dare un nome alla forza passionale e gentile che Hong sprigiona, un dragone non gli sembra un paragone poi così sbagliato.
Per un secondo pensa a Jinyoung, il suo Oppa, era stato completamente svuotato da qualsiasi sorta di sentimento.
Non l’avrebbe mai amata, questa era la verità.
«Andiamo, per oggi basta così».
La voce di Hong l’aveva riportata alla realtà.
Una volta usciti per strada però erano stati sorpresi da un rumore di pneumatici in lontananza. Hong l’aveva afferrata per un braccio e l’aveva trascinata di corsa dietro il colonnato di cemento del porticato di un condominio. L’aveva spinta contro uno dei larghi pilastri, si erano appiattiti, avevano trasformato i respiri in sussurri.
Bani aveva chiuso gli occhi, mentre con il volto schiacciato contro il petto di Hong sentiva finalmente l’irregolarità del suo respiro, spezzato dalle fitte al petto.
I fari del furgone avevano illuminato il porticato per un istante, poi erano passati oltre. Hong e Bani erano rimasti immobili finché il rumore di pneumatici non era completamente svanito.
Allora si erano staccati, piano, e con cautela avevano ripreso il cammino finché a un tratto non si erano nuovamente imbattuti nella camionetta.
Era vuota, e nessuna traccia di soldati attorno.

Avevano rischiato grosso ad avvicinarvisi con quel buio senza una copertura ma Bani aveva insistito.
Si era rannicchiata tutta e era sgattaiolata fino alla portiera, aveva sbirciato dentro, aiutata dalla luce della luna.
Poi l’aveva aperta piano, aveva allungato la mano, aveva sfilato le giacche dai sedili.
Tre bastano?, - No prendine anche un altro paio, - Ce ne sono quattro e basta.
Bani era sgattaiolata di nuovo nell’ombra in cui era nascosto Hong, con in braccio quattro pesanti giacche nere.
«Quando si accorgeranno del furto credi ci daranno la caccia?», aveva bisbigliato Bani passando due delle pesanti giacche a Hong.
«Può darsi; ma cominceranno comunque a farlo se continuiamo a fare incursione di notte; inizieranno a sorvegliare negozi e strade», aveva risposto Hong. Era la sua più grande preoccupazione; dovevano trovare un metodo alternativo per procurarsi acqua e beni alimentari senza dare nell’occhio.
«Hong, sai che penso?», dalla bocca di Bani era uscita una nuvoletta di vapore. Il fatto che avesse nominato il suo nome gli aveva annebbiato la mente per un attimo, come se la nuvoletta scaturita dalle sue labbra avesse fatto una capriola e gi fosse entrata nell’orecchio.
«Cosa, Bani?»
«Concordo che dobbiamo smetterla con i furti di notte se non vogliamo che ci scoprano; ma nascondersi e basta non ha senso. Noi siamo potenti, Hong. Siamo giovani, siamo coraggiosi… noi abbiamo il dovere morale di fare qualcosa».
La voce di Bani vibrava del timbro del fuoco, e dei tamburi di Capodanno. Il sangue di Hong aveva iniziato a pulsare velocemente nelle arterie e la punta del naso si era tinta di rosso.
Bani emanava una luce potente mentre si frugava nelle tasche in cerca di qualcosa; aveva tirato fuori un taglierino piuttosto spesso, e i suoi occhi neri avevano scintillato.
Hong era stato capace solo di rimanere a fissarla, completamente assorbito dalla sua aurea. Bani aveva lasciato i cappotti a terra e si era diretta furtivamente verso la camionetta; con gesti rapidi e decisi aveva squarciato gli pneumatici anteriori sotto lo sguardo incredulo di Hong.
Poi aveva inciso qualcosa nella fiancata destra, qualcosa che Hong non riusciva a vedere.
Bani era ritornata; aveva il fiatone per la paura, ma ciò non era bastato a spegnere il fuoco nel suo sguardo.
Hong si era come risvegliato dal suo sonno; aveva ripreso lo zaino carico di provviste in spalla, afferrato i cappotti e con la mano libera aveva afferrato Bani per il polso e avevano iniziato a correre mentre in lontananza iniziavano a udire le voci dei soldati di ritorno dalla perlustrazione. Quanto ci avrebbero messo ad accorgersene? Sperava il tempo necessario per permettere a loro due di sgusciare di nuovo nel buio del parcheggio sotterraneo da cui erano usciti.
Avevano corso a perdifiato fino a dentro al parcheggio dopodiché si erano gettati a sedere contro una delle grandi colonne di cemento, col fiato corto. C’era buio pesto.
Hong aveva acceso la sua torcia e aveva illuminato Bani. Lei aveva tossicchiato un paio di volte, poi l’aveva guardato e aveva sorriso. Un secondo dopo i due erano scoppiati a ridere.
Hong non rideva da quanto ormai? Il suono della sua risata, che per un attimo gli era parso estraneo, ora gli sembrava non se ne fosse mai andato.
I due avevano riso così dal cuore che le loro anime erano uscite fuori dalle loro bocche rotolandosi e saltellando finchè non si erano scontrate ed erano ritornate rimbalzando dentro i loro corpi mentre le risate si spegnevano gentilmente.
«Posso chiederti solo una cosa? Che cosa hai inciso sulla fiancata?», aveva domandato Hong guardando Bani negli occhi. Lei aveva fatto un sorrisino furbo e Hong per un attimo era rimasto impigliato nella trama delle sue ciglia.
«Yong. La nostra firma, noi siamo i giovani Dragoni di Seul», aveva risposto Bani.
Yong, una sola sillaba tonda, perfetta, potente. Hong aveva pensato che non avrebbe potuto trovare nome migliore per una ribellione.
Aveva guardato ancora una volta il viso di Bani illuminato dalla luce bluastra della torcia; tre mesi fa non avrebbe resistito e avrebbe provato a baciarla. Ma ora non era più tempo per fare i ragazzini.
Da stanotte la libertà di una nazione dipendeva da loro.
Si erano alzati in piedi, avevano scostato la grata da cui erano usciti e si erano calati nelle fogne.


E’ già il quinto giorno e le provviste iniziano a scarseggiare.
I due scivolano per le strade protetti dalla loro divisa militare, ma non per questo con meno prudenza.
«Allora, mi raccomando, se ti scoprono distruggi la lista», le raccomanda un’ultima volta Hong. Bani annuisce; non c’è paura sul suo volto. Hong per qualche ragione si sente fiero di lei.
«Voglio che parli di persona a ognuno di loro, niente messaggi scritti ok? Sono persone di cui mi fido immensamente e che non ci tradiranno».
Bani si sfila il cappotto nero e lo rende in mano a Hong. Lo guarda un’ultima volta.
«Ti ritroverò qui fuori all’ora prestabilita?», si limita a domandargli. Hong sa che qualsiasi sarà la sua risposta, avrà la valenza di un giuramento.
«Non ti lascerò sola, Bani». Ecco, è fatta. Mentre la guarda sparire inghiottita oltre i muri di cinta della scuola e il cielo inizia a dipingersi di un blu pallido, rimugina sul significato delle parole che ha appena detto.
Quel “non ti lascerò sola” è rimasto sospeso nell’aria; vuol dire “non ti lascerò sola finchè uno dei due non morirà”. E Hong sente il cuore stringersi nel petto, perché realizza quanto veramente le vite di ognuno, anche la sua, anche quella di Bani, ogni vita di quella città sia precaria e passeggera, di quanto nel giro di pochi istanti le persone possano essere spazzate via e rimangano solo le promesse come quella a tormentare i ricordi di chi rimane.
E allora desidera tornare indietro e cancellare le sue ultime parole, perché nessuno dei due possa sentirsi abbandonato dall’altro un giorno.
Ma ormai è troppo tardi. Perché ha commesso la sciocchezza di innamorarsi di una guerriera disposta a morire in battaglia.
Hong si cala nel tombino da cui è uscito mentre l’alba sorge sulla città distrutta.
 


Il soldato scelto Kim Eejung fa un po’ di tutto; a volte è di pattuglia, altre è incaricato di ispezionare le case.
La maggior parte del tempo però, lui fa il farmacista. Passa in rassegna, cataloga, distribuisce i medicinali, prepara infusi  e opera piccole medicazioni.
Lui era sempre stato il migliore della sua classe, tanto da aggiudicarsi un posto all’Università di Medicina.
Non è riuscito a laurearsi, la Guerra è scoppiata prima.
A ventitre anni ne dimostra già molti di più; è l’effetto del vivere sotto un regime che segretamente odia. Solo quando ride l’espressione accigliata si distende e riaffiora la sua vera età.
Negli ultimi giorni ha la mente assente.
Una notte che tornava a casa si è scontrato con una ragazza del Sud, che vagava per le strade dopo il coprifuoco. L’aveva salvata, e avevano parlato. Era stata la prima volta che aveva parlato a cuore aperto  con il nemico.
E aveva avuto la conferma di ciò che in cuor suo aveva sempre sospettato; il Regime poteva averli privati di tutto, fatto il lavaggio del cervello, costretti a commettere atti ignobili ma di fatto erano esseri umani. E gli esseri umani sono fatti per vivere insieme.
E’ un’idea folle e insensata credere di poterli separare dividendoli in gruppi diversi, in ideali diversi, sotto nomi diversi.
Perché quella notte non erano stati un Nordcoreano e una Sudcoreana, un soldato e il suo nemico… erano stati due giovani uniti dalla stessa solitudine.
 Il mattino dopo, come aveva sospettato, lei non c’era già più. Aveva lasciato un bigliettino nel suo taccuino delle poesie.
“All’essere umano Eejun, che scrive poesie per non morire dentro. Grazie di avermi salvato la vita e aperto il tuo cuore.
Grazie anche di avermi ricordato di ciò che mi fa vivere. Voglio ricominciare a ballare.
A presto.

K.H.”
Quel “a presto” sembrava sincero, ma al tempo stesso Eejun sapeva di non poterci credere. Perché per nessuno dei due aveva senso rivedersi in un mondo che li teneva separati e li costringeva a odiarsi.
Forse una volta morti entrambi ci ricongiungeremo in un posto in cui non saremo più divisi, aveva pensato.
Era trascorsa quasi una settimana dal fatto.
Eejun sta spingendo un carrello colmo di scatole di medicine confiscate fuori dalla caserma centrale finché qualcosa non lo costringe ad arrestarsi di colpo.
Un soldato semplice sta inscatolando degli oggetti di forma quadrata e piatta insieme a dei manifesti arrotolati. E’ stato proprio uno di quasi manifesti che il soldato arrotola ad aver catturato l’attenzione di Eejun. Glielo strappa di mano prima che il soldato se ne renda conto e lo srotola.
Cosa… non capisce, non ha senso. La ragazza del manifesto… è la stessa che l’altra sera dormiva nel suo salotto!
«Che diamine…»
«Chi è?», Eejun zittisce il soldato bruscamente.
«E che ne so, leggi in basso… sarà una cantante o che so io. Se vuoi il poster io te lo lascio anche, basta che non mi fai scoprire».
Eejun non si prende nemmeno la briga di ascoltarlo. Cerca il nome, che è scritto piccolo piccolo in basso: Kim Hyoyeon. K.H. 
«Aspetta un attimo… se state confiscando questa roba è illegale, giusto? E’ ricercata?», domanda con il cuore in gola.
«Certamente… l’hai per caso vista?», domanda il soldato.
Eejun si rende conto di essersi tradito… se ora negasse di averla vista risulterebbe troppo sospetto.
«Sì, l’ho vista un paio di settimane fa che passeggiava lungo il fiume Han con un cagnolino… mi erano rimasti impressi questi capelli biondi, avrei fatto meglio ad arrestarla…», si affretta a inventare.
«Non disperarti, compagno, la troveremo presto… e poi una ragazza così è innocua», gli aveva risposto il soldato semplice, prima di riavvolgere il manifesto e chiuderlo nello scatolone.
«Non preoccuparti compagno, sto uscendo, questo scatolone lo carico io sul camion», dice Eejun.
Uscendo dalla caserma però inforca subito la strada di casa, spingendo il carrello pesante; nessuno si prenderà la briga di verificare se tra tanti scatoloni di medicine c’è anche qualcos'altro.
E così si appropria dello scatolone, lo porta a casa e lo nasconde sotto il letto.


 
«Mamma, un cadavere!».
Strilla di bambini, passi che si allontanano di fretta.
Non sono un cadavere, vorrebbe dire Heechul, ma sentirebbe di mentire. La verità è che magari è morto davvero, ma il suo spirito è rimasto attaccato al suo cadavere.
In tal caso sarebbe comunque felice. Meglio morire libero.
Non sa quanto ha camminato, strisciato, non sa da quanto è lì disteso, al freddo.
Sente passi pesanti che si avvicinano, qualcosa lo volta a pancia in su con estrema facilità. Heechul sbatte le palpebre, ma non mette a fuoco niente, solo immagini sfocate di un cielo plumbeo e un volte chinato su di lui.
Lo sconosciuto grida:«E’ vivo, presto!». E’ la voce di una giovane donna. Gli afferra un polso per contare i battiti. Ommioddio, bisbiglia sfilandosi la giacca per distendergliela addosso. Heechul non sente assolutamente niente, però, il freddo lo ha anestetizzato; meglio, la caviglia non fa male.
La sagoma sfocata si avvicina ancora un po’, gli scosta i capelli sporchi dalla faccia.
«Heechul?!», bisbiglia.
Sì, vorrebbe esclamare, mi chiamo Heechul!
La dolcezza con cui la sconosciuta ha pronunciato il suo nome non ha nulla a che vedere con la voce disgustosa della Dottoressa. Heechul vorrebbe alzarsi, ballare, abbracciarla, ma riesce solo a fare un sorriso simile a una smorfia.
«Oddio, sì, sei tu! Ora ti porto a casa,eh…», farfuglia la sconosciuta, poi con estrema facilità se lo carica in braccio.

Heechul riapre gli occhi, poi li richiude. Si trova in un letto – un letto vero. Al caldo. Gli gira la testa. Qualcuno gli sorregge la nuca e gli porta un bicchiere alle labbra; beve. L’acqua è zuccherata.
La testa gira tantissimo, e la gamba è tornata a fare male ma sente che non sta per morire.
«Heechul… come stai? Mi senti?».
Qualcuno gli posa una benda bagnata sulla fronte.
«A… sce…».
«Shh… sei ancora troppo debole… bevi un altro po’ d’acqua e zucchero»,la giovane gli porge nuovamente il bicchiere da cui Heechul beve un altro sorso d’acqua fresca.
«Grazie», riesce a biascicare a fatica. Una mano piccola gli accarezza i capelli.
«Ti preparo un bel frullato di verdure dell’orto… so che non è il massimo, ma sono buone e non dovrebbero farti troppo male, okay?».
La giovane si alza, Heechul socchiude gli occhi per guardarla uscire. Ha lineamenti dolci e rotondi, la sua voce è gentile. Se ripensa alla Dottoressa, non c’è paragone.
Sente qualcosa di molto simile alle lacrime pungergli gli occhi. E’ scappato ed è in buone mani.
Fuori dalla finestra non splende la luna bensì un sole pallido e debole.
Chiude gli occhi e per la prima volta si concede il lusso di immaginarsi i campi intorno alla casa, e le montagne con le vette già innevate, e i cimiteri di campagna, e le scuole di legno e la visione che si crea stende un velo di pace sul suo animo. Il mondo, quel mondo meraviglioso che gira incessantemente alternando il sole e la luna e le stagioni, ora è suo. E’ libero.

Heechul è come la Luna, che non può smettere di orbitare intorno alla Terra senza mai toccarla, poiché significherebbe distruggere entrambi.
Heechul è come la splendida Luna che può esistere solo se accetta la propria solitudine.
E non si è mai sentito così solo, ma è una solitudine felice perché questo è il suo modo di essere vivo.
E adesso gli sembra un prezzo dolce da pagare poiché ha visto la morte in faccia.

Levando la coppa, invito la pallida luna.

Ora siamo in due e, con la mia ombra,addirittura in tre.

La luna - è vero - non osa bere.


Ma, almeno per un poco ho trovato dei compagni: 
la luna, l'ombra,
disposti a fare allegria, per arrivare alla primavera.

Mi metto a cantare, e la luna tenta in modo maldestro qualche 
passo di danza.

Mi metto a ballare, e l'ombra si agita scompostamente.

Finché sono stato lucido, direi che ci siam fatti buona  compagnia.

Ma poi ho preso una bella sbronza, 
e ciascuno se n´è andato per conto suo.

Ormai legati per sempre, senza passioni,

ci diamo appuntamento, lontano, sul fiume delle nuvole.
- Tratto da “Bevendo da solo sotto la luna” di Li Bai.
 

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