Death Note- Hunger for vengeance

di MadLucy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Addio. ***
Capitolo 3: *** Inizio. ***
Capitolo 4: *** Inaspettato. ***
Capitolo 5: *** Nostalgia. ***
Capitolo 6: *** Domande. ***
Capitolo 7: *** Futuro. ***
Capitolo 8: *** Occhi. ***
Capitolo 9: *** Richiesta. ***
Capitolo 10: *** Segreto. ***
Capitolo 11: *** Recita. ***
Capitolo 12: *** Indovinello. ***
Capitolo 13: *** Potere. ***
Capitolo 14: *** Paura. ***
Capitolo 15: *** Ombre. ***
Capitolo 16: *** Ingiustizia. ***
Capitolo 17: *** Fuga. ***
Capitolo 18: *** Inseguimento. ***
Capitolo 19: *** Azzardo. ***
Capitolo 20: *** Bivio. ***
Capitolo 21: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo

Prologo.







Era lì, a pochi metri da lei. Lo chiamò dapprima con voce insistente, poi dubbiosa.
La figura dell'uomo era carponi sul pavimento, come sempre, infagottata nei suoi vestiti candidi -e talmente anonimi da poter essere solo suoi. Le rivolgeva la schiena.
Gli si avvicinò, stupita, mentre le balenava in mente il vago pensiero che si fosse addormentato. Si chinò sui talloni.
-Near. Near? Che...-
Era troppo immobile. Tutto appariva innaturale, un istante intrappolato in una crisalide d'acciaio. Il silenzio echeggiava.
Osò sfiorargli la spalla, stranita.
-Nea...-
La sua testa era riversa su un modellino, un aereo grande quanto un cassettone. Non dormiva. I suoi occhi non erano chiusi, ma spalancati. Nel vuoto. Nel nulla. Non fissavano niente.
Lei ritirò la mano, quasi si fosse scottata. Ma voleva toccarlo, voleva scuoterlo. Voleva la banalità di uno sguardo, qualcosa di semplice.
Voleva un miracolo.
-No, Near.- ordinò in un bisbiglio perentorio. S'immaginava di vederlo sollevare appena il capo e sgranare le iridi profonde come abissi.
Ma non accadde.
Ogni cosa le apparve all'improvviso chiara e incomprensibile.
-Near. Near. Near. Near.- gemette piano. In una supplica, in una preghiera rotta.
Gli tastò freneticamente il polso esile, abbandonato lungo il corpo. Ne rifiutò il nero tacere, sperando in battiti che non avrebbe mai colto.
La consapevolezza sigillava le labbra di lui, serrate in una linea risoluta, in un'ultima espressione di regale fierezza.
Era una morte pulita, l'arresto cardiaco.

E quel giorno tutto finì.
Quel giorno maledetto, che l'aveva rincorsa per quindici anni, invisibile eppure indelebile su un calendario che le si parava dinnanzi ad ogni minima allusione.
Ricordava cosa le era stato detto, ricordava che avrebbe dovuto aspettarselo, ricordava che era inevitabile.
Ma la sua mente rifiutò di ricordare. Rifiutò di pensare. Rifiutò di imporle un ordine.
I suoi muscoli svincolarono al controllo e tremarono vistosamente, attanagliati da fremiti anche quando ormai era a terra. La gola arida la implorò di gridare, le sue corde vocali si spezzarono logorate. Lacrime esauste oscillarono indecise nelle sue iridi.
Un tumulto di impulsi e necessità la travolse fino a stravolgerla. Confusa, fissava una realtà che si era sgretolava con facilità devastante.
Non la sua vita, ma tutto ciò che fino a quel momento lo era stato. Lei chiamava vita il tempo che passava al quartier generale, ormai senza più un capo; lei chiamava vita svegliarsi al mattino richiamata dai suoi ordini lapidari e addormentarsi la notte con la sua voce nella testa.
Lei chiamava vita qualcosa che non sarebbe mai più potuto essere com'era prima.
Era finita un'era, un'epoca. Ogni attimo del suo presente era passato. Finita.
Lo sussurrò a fior di labbra, devastata e inorridita. Finita.
Non realizzava, non ci riusciva. Negare tutto ciò che aveva era qualcosa di rivoltante e grottesco.
Credeva si sarebbe gettata sul suo cadavere a singhiozzare, disperata. Ma rimase ferma, provava per il suo corpo la stessa rispettosa deferenza che aveva sempre avvertito quand'era in vita.
Osservò l'oscurità di quegli occhi morti, ed ebbe paura. La calda sicurezza che fino ad ora l'aveva protetta, come braccia invincibili a cingerla saldamente, era svanita in un nulla senza senso.
Quello che avrebbe sempre voluto chiamare padre era morto con compostezza, senza un gemito. Senza un addio. Senza un perchè.
Le lacrime traboccarono velenose, spazzando via le dighe fragili che erano i suoi occhi, bisognosi di mani a coprirli.
Adesso sì, che era davvero orfana.



































Note dell'Autrice: Questa è una di quelle storie che non si può fare a meno di scrivere, avete presente? Quando delle immagini e delle parole si susseguono nella mente, senza darti tregua, finchè non scrivi. E non sono riuscita a resistere.
Questa storia racconta degli avvenimenti che hanno luogo dopo i manga e l'anime, ovvero una continuazione. I protagonisti di essa saranno, l'avrete capito, gli eredi dei personaggi originali... "eredi" nel senso genetico del termine. Sarà un azzardo, magari, ma io ci provo!
So che il capitolo è un po' corto, però tendo sempre a scrivere prologhi brevi. Spero vi sia piaciuto!
Lucy

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Capitolo 2
*** Addio. ***


1

 Addio.






Winchester, Inghilterra.

Law ci mise pochi istanti a capire che qualcosa non quadrava.
Sbattè le palpebre perplesso, sondando con lo sguardo la valigia spalancata sul letto, in attesa che quel dettaglio decisamente stonato e storto venisse scovato al più presto.
Controllò la pila di camicie ripiegate accuratamente, le giacche senza una grinza e i pantaloni freschi di bucato. E ricontrollò. E ricontrollò, compiacendosi della linda esattezza di ogni particolare. Eppure... eppure c'era qualcosa.
Aggrottò la fronte frustrato, sul punto di svuotarla del tutto e ricominciare daccapo.
E poi, realizzò.
Non si trattava di un capo fuori posto, ma del silenzio. Dello strano lugubre silenzio che infestava come un morbo la camera.
Per un attimo, colto da un presentimento inquietante, pensò di controllare dove fosse la sua inquilina. Infine, scrollando le spalle, decise che non gli importava nulla -purchè si tenesse alla larga dalle valigie e la loro immacolata perfezione.
Non c'era molto altro da sistemarci all'interno. Nonostante dovesse liberare la stanza di ogni suo possedimento, vi rimaneva ancora spazio.
Law lanciò un'occhiata alle pareti spoglie e ormai anonime, con distaccata malinconia. Non riusciva a prendere il sopravvento in lui: impazienza ed euforia avevano la meglio, tormentando il suo animo senza pietà. Quello era sempre stato il suo rifugio, per quanto riuscisse a ricordare.
Lì, su quella scrivania, aveva scarabocchiato relazioni per ogni materia. Lì, su quel letto, aveva dormito per quindici anni. Lì, su quel muro, aveva inciso delle tacche per mostrare la sua progressiva crescita in altezza.
Ora, osservando la mobilia disadorna, si chiese quante cose stesse realmente abbandonando insieme alla sua vecchia casa. Quotidianità, conoscenze, un'infanzia.
Ma la verità, sempre più letale ed incombente, era che ormai alla Wammy's House lui non era più al sicuro; temeva che prima o poi i sospetti sarebbero iniziati a nascere. La stabilità fissa in un solo luogo non l'avrebbe aiutato. Quello era il momento di partire.
Un brivido d'emozione ed adrenalina sospirò ancora sulla sua pelle. Quante volte aveva cercato d'immaginare quel momento, quante volte l'aveva sognato, quante volte l'aveva desiderato?
Troppe.
Scostò lo sguardo verso lo specchio, si fissò per assopire i suoi pensieri tumultuosi. Il viso che vi era delineato aveva una pelle chiara e luminosa, zigomi alti e tratti tanto affascinanti e regolari da sembrare scolpiti. Fini capelli d'un biondo etereo baluginavano sulla superficie, ciocche setose ricadevano in ciuffi ordinati sulla fronte. Gli occhi castani e intensi splendevano, mentre le labbra si incurvarono in un sorriso.
-Cosa fai, ammiri la tua immensa bellezza?-
Law sorrise ancora. -Qualcosa del genere. Piuttosto, tu cos'hai combinato fino adesso? Non ti ho sentita per un po'.-
-Sono andata a prendere una cosa.-
Una figura apparve alle sue spalle. Il mantello viola scuro, che la avvolgeva interamente, era inconfondibile.
Il ragazzo sospirò, trattenendo l'esasperazione. -Non lo sai che rubare è un reato, nel nostro mondo?-
-Certo che lo so.- ribattè lei un po' offesa. -Ma non mi impedisce di farlo. Non sono mica un'umana.-
-Cos'hai... preso, stavolta, Rail?-
Lei sorrise, allegra. -Guarda un po'.-
Una delle sue scheletriche mani dalle lunghissime dita sfiorò appena un ciondolo, appeso all'orlo del mantello insieme a tanti altri. Era piccolo, rifinito di mille sfaccettature, rosa pallido. Un riflesso di luce si spostava fulmineo sul muro, ad ogni oscillazione del gioiello.
-Bello, vero?- proferì Rail orgogliosa.
Law roteò lo sguardo al soffitto. -Come ti pare. Chi era lo sventurato possessore?-
-Tanya, del secondo piano.- rispose la Shinigami annoiata, giocherellando con il nuovo gingillo.
-Significa che le lascerò una cospicua somma di denaro prima di andare.- decise lui, girandosi verso la valigia e chiudendo una cerniera.
Rail strinse gli occhi tondi, gialli come topazi. -Sei un bel tipo, tu. Non accetti un furto, ma ammazzi gente ogni giorno senza farti problemi!-
-Non uccido gente a caso.- relicò Law, stanco di quel discorso affrontato milioni di volte. Rail si divertiva a rinfacciarglielo ogni volta che le faceva comodo.
-A proposito, dove nasconderai il quaderno?- domandò lei, sistemandosi una delle sue lucide ciocche verdi con la punta dell'unghia.
Law si voltò pensoso verso il sottile volume rettangolare, posato sulla scrivania.
-D'ora in poi, rimarrà nel bagaglio a mano. Dopotutto, non c'è alcuna possibilità (nell'assurdo caso che lo esaminassero) che qualcuno possa ricollergarlo al Death Note del precedente Kira. Prima di tutto manca la scritta.- elencò, sollevando un dito. -Poi, non ci sono le istruzioni. Ma, cosa più importante, non vi è all'interno nessun foglio compromettente, dato che man mano che giustizio i criminali li strappo e me ne libero. Invece troveranno fogli bianchi ed altri, tolti da quaderni di scuola e sistematici dentro.- concluse.
Rail liquidò la spiegazione con un cenno impaziente. -Okay, okay. Adesso però raccontami di nuovo perchè andiamo proprio in Giappone.-
-Ma hai una memoria a breve termine?- sospirò il ragazzo. -Alloggeremo per una settimana, circa, da una mia zia che abita là. Non so granchè di lei, non la conosco nemmeno: ad ogni modo, si chiama Sayu Matsuda e vive nel Kanto. Mi basta.-
-Giappone? Non è dove stava quel tizio, quello che era il nuovo L... mmh...- Rail fece una smorfia, nel tentativo di richiamarne a mente il nome.
-Near.- annuì Law placido. -Già. Prima di partire mi sono assicurato che non potesse essermi d'intralcio. Pensavo, onestamente, che sarebbe stato un po' più difficile... E' bastato trovare delle vecchie foto e dei documenti negli archivi più inaccessibili della Wammy's. Ormai il vecchio River stava perdendo colpi, aveva fatto la sua. Era ora che si levasse dai piedi.- commentò con sfacciataggine, riconcentrando l'attenzione sul suo riflesso.
-Se non sbaglio, c'era anche una ragazza con lui.- gli ricordò la Shinigami, svolazzandogli attorno per impedirgli di guardare lo specchio.
Lui cercò di scansarla, innervosito. -Nate River mi doveva una vita... una vita molto importante. La mocciosa di Keehl mi è del tutto indifferente, non vedo perchè dovrebbe pagare. Tanto, se è una perdente quanto lo era lui, non c'è alcun problema.- Sogghignò tetro, con disprezzo. -Appena provasse a mettermi i bastoni fra le ruote, però, non esiterei a spedirla dritta dritta all'inferno, insieme al suo paparino.-
-La tua dolcezza è paragonabile solo al tuo intelletto, Law.- ironizzò Rail, mentre si spostava rassegnata per permettergli di rimirarsi, in un tintinnare di ciondoli. Se avesse dovuto descriverlo con tre aggettivi, avrebbe scelto vanitoso, arrogante... e tremendamente intelligente, doveva ammetterlo. Non aveva mai conosciuto un ragazzo tanto sveglio, fra gli umani (beh, nemmeno fra gli Shinigami, ma non ci voleva poi molto per superarli, cerebralmente parlando).
-E... dopo il Giappone? Dove andremo, che faremo?- insistette ancora.
Law fece un cenno vago con la mano. -Francia, Italia, Canada, Cina. Ovunque. Ci sposteremo parecchio, senza arrivare e partire dallo stesso aereoporto per non destare perplessità. In quanto agli zii del Giappone, sanno bene che gli studenti del mio orfanotrofio sono un po' particolari, e devono mantenere l'anonimato... nessuno immagina che loro conoscano la mia ubicazione. E mai lo riveleranno.- decretò con decisione. -In quanto a cosa faremo, la risposta è quella di sempre. Renderemo il mondo esattamente il luogo che dovrebbe essere, un regno dove la giustizia non sia solo un vago ideale. Ma l'unica, sola legge.-
-Sembra divertente.- approvò la Shinigami, con un sorriso agitato. Sarebbe stata la prima volta che lei e Law si sarebbero avventurati al di fuori della Wammy's House, nell'eccitante pericolo del mondo reale. Non potè fare a meno di lanciare un'occhiata malinconica alla sommità di un armadio ad ante, dove lei abitualmente passava i suoi pomeriggi a leggere romanzi rosa e vedere Beautiful (di cui era grande fan), mentre il ragazzo era impegnato a studiare.
-Mi spiace comunque lasciare tutto questo.- ammise tristemente, sicura che non avrebbe mai più visto quella stanza mai più.
-Lo so.- si limitò a rispondere Law. Ma saremo insieme, diceva quel silenzio.
Il loro legame era innegabile, dato che Rail era entrata nella sua vita quando aveva nove anni. Da allora era stata la sua unica vera amica, confidente, a cui aveva sempre potuto rivelare qualsiasi cosa, e più il tempo passava più l'uno si affezionava all'altra.
-In qualche modo ce la faremo.- comprese Rail, scrollando il mantello pesante di cianfrusaglie.
-Vedrai che andrà tutto bene.- confermò il ragazzo, afferrando la scomoda maniglia di legno della valigia. -Dopotutto, sei in buone mani.-


-Law, siamo davvero spiacenti di non averti più con noi.- Rachel, nuova direttrice della Wammy's House, chinò appena il capo. I capelli neri incorniciavano l'espressione di profondo rammarico disegnata sul suo volto. Il ragazzo biondo sorrise con cortese indulgenza, quasi si trattasse di un adulto che perdona l'ingenuità di un bambino.
Si domandò sarcastico a quali persone si riferisse la donna con quel plurale, più di circostanza che motivato. Gli altri studenti, che l'avevano sempre ignorato? I professori, per i quali non era stato altro che un allievo qualsiasi? No, tutti coloro ai quali sarebbe importato qualcosa di lui erano irrevocabilmente svaniti dalla sua vita, ancora prima di essere apparsi.
-Anche a me, naturale, ma ognuno deve trovare la sua strada prima o poi. Dico bene?- recitò con convinzione.
Rachel lo guardò da dietro le lenti degli occhiali squadrati, afflitta. -Spero solo che tu riesca fin da subito ad imboccare quella giusta.-
Oh, l'ho già fatto da un pezzo, non si preoccupi. Law si perse in chiacchiere che lui stesso formulò con disattenzione.
-Ormai ho diciassette anni, e mi sembra venuto il momento di scoprire cosa davvero voglio dalla vita e impormi dei traguardi. Il mondo è grande, devo trovare il mio posto. Questo è stato il mio inizio, ma non posso restarvi aggrappato per sempre.-
-Hai ragione. Sai, è difficile dire addio ad un ragazzo talentuoso come te.- rivelò lei, addolorata. -E sono pochi, non c'è dubbio. Davvero, sono sicura che saresti stato tu il nuovo successore di L, dopo la terribile tragedia consumatasi da poco.- Sospirò, come se il pensiero le risultasse insopportabile. -Però...-
-...però?- si permise di proseguire Law, incuriosito dalla pausa che ne era seguita.
Rachel era titubante. -Ecco, diciamo che è una faccenda... un po' complessa. Lo stesso L che ha nominato Near suo successore, ha lasciato nel testamento la volontà che, se fosse venuto a mancare, il titolo di L sarebbe dovuto spettare a... una determinata persona.- spiegò esitando.
Law tentò di mascherare quello che le sarebbe sembrato un interesse eccessivo. -Capisco. Non c'è alcun problema, non deve giustificarsi. Come potrei non rispettare la decisione di L?-
Rachel annuì triste. -Se questa era la sua volontà, senz'altro era la scelta migliore da prendere.-
Certo, era strano. In pratica, aveva nominato due successori. Quello più prossimo e un altro... ma non aveva senso. Poteva semplicemente sceglierne uno, fra Near e quest'altro.
Perchè allora inventarsi la storia del... successore successivo? No, non lo convinceva proprio per niente.
Apparte ciò, se esisteva un altro L avrebbe dovuto guardarsi anche da lui. Si ripromise di essere molto cauto.
Il ragazzo sollevò la sua valigia e, osservato un'ultima volta quell'ufficio dalle pareti grigio perla, allungò una mano per stringere quella della donna.
Lei ricambiò il gesto, sorridendo mesta. -Fai sempre ciò che ritieni giusto, Law, e credi in te stesso.-
-Ci può giurare.- Law pensò che non avrebbe mai potuto immaginare quanto fosse vero.
Uscì, con un passato da lasciarsi alle spalle ed un futuro tutto da scoprire, accompagnato dai saluti delle persone che avevano fatto parte della sua vita.
Uscì, e tutto potè avere inizio.


Kyoto, Giappone.


-Possiamo entrare?-
Quella voce, realizzò in ritardo, si stava rivolgendo a lei.
Marion socchiuse appena le ciglia impastate di lacrime versate a stento. Attorno a lei, il mondo rimaneva disgustosamente sbiadito e distante.
Avvertiva ancora un'infida sensazione di freddo, a scorrerle lungo la spina dorsale e le braccia. Proprio per quel motivo si era avvolta fra le coperte, ma non era affatto passata; la lana ruvida e pesante pareva non avere potere sulla sua pelle.
Sollevò la testa dalle ginocchia, con la sensazione di essere rimasta in quella posizione per anni. Poi fissò la porta, indecisa e stanca.
-Sì.- bofonchiò infine, grattando gli ultimi rimasugli di voce nella sua gola.
Dopo qualche secondo, Lidner e Gevanni vi fecero capolino. I loro volti, così familiari eppure improvvisamente estranei, ebbero solo il potere di rigettare nella sua testa un'onda devastatrice di ricordi sempre più precipitosi e vividi.
Marion deglutì, provando l'impulso esigente di scappare a perdifiato via di lì. Si inginocchiarono davanti al suo letto.
-Hai fame? Ti ho portato qualcosa da mangiare.- offrì Lidner con gentilezza, indicando il vassoio che stringeva. Budino al cioccolato, un piatto di biscotti e un bicchiere di latte.
Aveva lo stomaco chiuso. Annuì con la testa di malavoglia, sapendo che così non si sarebbero preoccupati, e prese un biscotto evitando i loro sguardi.
Sotto i suoi denti, era sabbia. Non ne sentì nemmeno il sapore.
-E' dura, Marion, è durissima. E' una delle prove più grandi che la vita ti chiede di affrontare.- tentò Gevanni a disagio. -Ma lui non avrebbe affatto voluto...-
-Oh, vi prego, non iniziate con questi discorsi. Ormai nessuno potrà mai sapere cosa lui avrebbe voluto o no.- esplose, senza riuscire a trattenersi.
Il silenzio che ne seguì fu imbarazzato e sospeso, quasi che tutte le parole che si sarebbero potute pronunciare sembrassero patetiche.
Ed era così. Marion non voleva che parlassero, non voleva che dicessero niente. Perchè non c'era più niente da dire.
-Il funerale è domani. Mi spiace, ma non credo sia il caso che tu venga. Sarebbe terribile, e non sei in condizione di assistere.- spiegò Lidner a voce bassa. Poi le carezzò i capelli biondi, affettuosamente.
-L'avete... l'avete già portato via?!- gemette Marion, incredula. -L'avete... perchè? Io volevo...-
-Sarà sicuramente meglio se in futuro serberai il ricordo di lui da vivo, non credi?- ribattè Gevanni pacatamente.
La ragazza non rispose, sconvolta. -Portato via...- bisbigliò. -... in una bara?-
I loro occhi tristi e rassegnati furono un chiarimento più doloroso di una pugnalata. Le sfuggì un singhiozzo silenzioso, che represse immediatamente.
Non riusciva ad immaginarlo ad occhi chiusi, vestito di nero, con le mani giunte sul petto come tutti i cadaveri. Non riusciva ad immaginarlo sotto terra per l'eternità. Non accettava l'idea di lasciare che i vermi lo divorassero, senza fare nulla. Le sembrava molto più logico mettersi ad urlare di tirarlo fuori di lì.
Lo voleva accanto, non sepolto a metri e metri dal suolo. Lo voleva vivo, e lì ogni pensiero turbinava nella più sconclusionata follia.
-E' stato lui. E' stato Kira.- sussurrò Marion, sicura che continuando a parlare sarebbe prima o poi scoppiata a piangere. Stando zitta era molto più semplice controllarle.
Gevanni strinse gli occhi risoluto. -Riusciremo a fermare anche questo, in un modo o nell'altro. Vedrai.-
-Ci siamo messi a disposizione del nuovo L.- aggiunse Lindner. -Dobbiamo contattarlo al più presto.-
Marion chiuse gli occhi. -Non c'è tempo da perdere. Non pensarete mica che me ne stia in disparte a guardare, vero? Io farò la mia parte. Anzi, noi la faremo. Io e Harmony e Craig.-
Lidner e Gevanni non ebbero il coraggio di contraddirla. Ovviamente ritenevano più sicuro tenerla lontana da questa faccenda, ma... quando si metteva in testa una cosa, non c'era modo di farle cambiare idea nè ordini che potessero fermarla.
Il sentimento che accomunava tutti e tre era, in quel momento, il disorientamento che la perdita di Near aveva causato. Il lavoro, le indagini non sarebbero più stati gli stessi, con un nuovo L. Ma la vita continuava, l'altro Kira era ancora in libertà. E andava fermato, a qualunque costo.
-Ora andate, voglio stare un po' sola.- ordinò Marion con voce pallida.
Entrambi si alzarono. Lidner lasciò il vassoio sul letto e la baciò sulla fronte, prima di andare.
Usciti, si chiusero la porta alle spalle. Gevanni sospirò.
-Pensi che si rimetterà?-
-Ma certo.- mormorò la donna. -E' figlia di suo padre. Niente può scoraggiarla.-
-Chi l'avrebbe mai detto, che sarebbe stata la figlia di Mello a piangere Near?!- commentò il moro, mentre si allontanavano nel corridoio. -Pensando a quanto lui lo odiava...-
Lidner gli lanciò un'occhiata severa, ammonitrice. -Questo Marion non lo dovrà sapere mai.- sibilò minacciosa.
-Altrimenti soffrirebbe ancora di più.- concordò Gevanni. -Adesso contattiamo L?-
Lei annuì senza entusiasmo. -Contattiamo L.-




































Note dell'Autrice: Et voilà! Ho cercato di aggiornare il prima possibile, dato che fra un po' inizia scuola... ne approfitto, adesso che ho più tempo!
Come vedete, qua ci sono le risposte ad alcune domande e nuovi interrogativi. Per esempio, chi sarà il nuovo L? Eheh, temo che dovrete leggere il prossimo capitolo per scoprirlo! Inoltre entreranno in scena anche altri personaggi.
Ho come l'impressione che Law non starà simpatico a tanta gente... Un po' come Light. ^-^ Ah sì, Law ovviamente non è il suo vero nome, ma un soprannome datogli alla Wammy's.
Con questo ho finito. Sono molto curiosa di sapere che cosa ne pensate del capitolo e dei personaggi!
Lucy

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Capitolo 3
*** Inizio. ***


2

Ne approfitto per ringraziare Donychan, yako_chan, chiaraelle99, soniuccia e MikuSama per avere recensito prologo e primo capitolo di questa storia. Siete grandissime e ogni volta che leggo le vostre recensioni mi spuntano le alucce! 

Ringrazio poi Amy_Storm, chiaraelle99, Eru Roraito, Maiko, MikuSama, Selena95, Simmetria8 e soniuccia per avere messo questa storia fra le seguite; Maiko per averla messa fra le ricordate e Gatta Blu addirittura nelle preferite!
Non credevo che questa storia avrebbe avuto così tanti lettori! Grazie di cuore, davvero.

Inizio.



Una bizzarra musichetta ovattata e ronzante insisteva nelle sue orecchie, instancabile.
Spegnetela, avrebbe voluto sbottare Craig, infastidito. Ma un dolce torpore gli impediva di ragionare, e dunque di chiedersi perchè la sentisse e come mai non riuscisse a parl-
La sua suoneria! Sollevò la testa di scatto, sottraendosi bruscamente al sonno. Aprire gli occhi in modo così repentino, senza permettere loro d'abituarsi alla luce vivida della stanza, gli costò un fastidio non indifferente. Ardevano e dolevano, e le palpebre scivolavano per semplice istinto. Ma la musica che lo chiamava dal mondo esterno lo costringeva a resistere.
Rendendosi conto di essere sdraiato (in una posizione alquanto storta ed inusuale) sul suo letto, si mise carponi e cominciò a seguire le tracce uditive dell'infernale cantilena, alla ricerca del cellulare. Le sue mani tastavano con urgenza le coperte calde e sfatte, dato che non poteva contare sugli occhi ancora ciechi e cascanti dal sonno. Li sfregò impaziente con il dorso di una mano e finalmente mise a fuoco il profilo del suo giubbotto, gettato con malgrazia sopra la chitarra elettrica. La tasca gonfia era illuminata e tremava. Allungò il braccio a fatica e vi frugò all'interno, aggrottando la fronte.
Ore 15: 23, segnava il display. Adesso questo mi sente, pensò scocciato. Tutti sapevano che a quell'ora lui detestava essere chiamato. Si maledisse per non avere spento il telefono, e con un gesto stizzito si portò il cellulare all'orecchio.
-Umphf?- brontolò Craig; chiunque gli avesse telefonato, non meritava certo un "pronto".
-Craig? Sono Gevanni.- replicò una voce che aveva riconosciuto subito.
A quel punto il ragazzo tossicchiò. -Ah, sì, ciao.-
-Senti, la situazione qua è critica.- tagliò corto Gevanni, arrivando subito al punto. Craig riuscì a intuire la tensione che la induriva.
-Critica?- Si sistemò seduto sul bordo del letto, poggiando i piedi sul pavimento, e si accorse di avere dormito con le Reebok verdi addosso. Passò poi una mano fra gli scompigliati ricci rosso cupo. -Che è successo?-
L'uomo esitò appena un paio di secondi, come se dirlo fosse una prova troppo dura da sopportare.
-Near è morto.- confessò con voce ferma, ma umida di lacrime già versate.
-Che?- Craig strabuzzò gli occhi, cercando di dare un senso a quelle parole. Non ci riuscì. -Ma vuol dire che... Kira...?-
-Sì, è stato indubbiamente lui. Arresto cardiaco.- confermò Gevanni con amarezza.
Il ragazzo fissò sconvolto la parete davanti a lui. Battè le palpebre, nella speranza di trovarsi in qualche strano incubo, dovuto alle patatine in sacchetto al peperoncino che aveva mangiato a pranzo.
-Significa che siamo tutti nella...- trattenne la parola volgare che gli salì alle labbra. -... nei casini!-
-Già.- ribattè Gevanni asciutto.
Un pensiero gli sorse in mente e lo colpì come un dardo avvelenato.
-E Marion come sta?- domandò, senza nemmeno riuscire ad immaginare la sua disperazione.
-Come credi che stia?- fu la laconica risposta. Craig rabbrividì.
-Siamo lì fra pochi minuti.- promise, riagganciando. E pensare che, prima della chiamata, aveva deciso che si sarebbe rimesso a dormire...
Balzò in piedi, ispezionò rapidamente i suoi vestiti per controllare d'essere almeno presentabile. Jeans, felpa, Reebok. Bene così.
Cacciò il telefono in tasca, si assicurò di avere il portafoglio e uscì di filato dalla sua camera; gli bastarono poche falcate per attraversare il corridoio. Bussò frenetico alla porta che si trovava davanti, senza avere risposta. Conscio della gravità della situazione, la spalancò senza troppe cerimonie.
-Ehi, non sai che gli umani civilizzati bussano?- Una ragazza sedeva a gambe incrociate sul pavimento, attorniata da migliaia di custodie per cd. Aveva dei codini bassi rosso fuoco, a scorrerle sulle spalle, lunghi fino allo stomaco. Il viso diafano era spruzzato d'una moltitudine di lentiggini nocciola, sul naso dritto e le guance magre, e portava delle enormi cuffie celesti per ascoltare la musica. Lo stava fulminando con splendidi occhi azzurri e cristallini.
-Harmony!- Craig le fece un cenno irritato, così sbuffò e spense l'mp3 abbandonato nel suo grembo.
-Cosa vuoi?-
-Kira ha ucciso Near.- riassunse il ragazzo. -A sua Maestà sembra un motivo abbastanza importante per essere interrotta?-
Harmony lanciò le cuffie contro il letto, per poi sgrovigliare agilmente le gambe. -Cazzo.-
-Ecco, direi che è proprio la parola giusta.- commentò il fratello.
La ragazza si infilò un giubbotto di jeans e sistemò a tracolla una piccola borsa, a tempo di record. -Dobbiamo andare al quartier generale.-
-E' proprio per questo che sono venuto a chiamarti!- si lamentò Craig esasperato. -Perchè devi farla sembrare un'idea tua?!-
-Sbrigati, idiota.-
I gemelli percorsero in fretta il corridoio e si lanciarono letteralmente giù dalle scale. Facendo capolino dalla cucina, una donna bionda li osservò stupita.
-Dove andate?-
Harmony la fissò negli occhi, quasi severamente. -Near è stato ucciso, mamma.-
Lei socchiuse le labbra, atterrita. -Oh, no.-
-Prendo le chiavi della macchina.- la avvertì Craig, avvistandole sul mobile che fiancheggiava la porta d'ingresso.
-Guidi tu?- La gemella gli rivolse uno sguardo inorridito.
Lui inarcò le sopracciglia. -Se non ti sta bene puoi sempre andare a piedi, principessa.-
Harmony scrollò le spalle, rassegnata. -E sia. Rigurgiterò tutto quello che ho mangiato da Natale in poi.-
-Ma che carino modo di dire.-
-Temo non sia affatto un modo di dire!- rimbeccò lei.
Linda lasciò che i suoi figli uscissero, senza fermarli. Sarebbero stati attenti, come al solito.
Rimase ad osservare dalla finestra una macchina nera sfrecciare a tutta velocità, finchè non sparì fra i palazzi di Kyoto, poi asciugò qualche lacrima in memoria del vecchio compagno di scuola. Da quando Near aveva scelto di proteggere il mondo, la sua vita era sempre stata appesa ad un filo: ma, in un certo senso, la sua anima era stata promessa al male da tempo. Eh, già, il destino non era stato gentile con lui. 
E nemmeno con Matt, riflettè malinconica, perdendo lo sguardo nel grigio dell'asfalto.


-Qualcosa da bere?- Un'hostess dal sorriso cortese fermò il carrello di fianco al suo sedile.
Law scosse la testa distratto. -No, grazie lo stesso.-
Si voltò di nuovo verso il piccolo finestrino circolare, ad osservare un groviglio di nuvole candide intrecciarsi e districarsi sotto di loro. Non aveva sonno, e nemmeno voglia di leggere: avrebbe preferito passare qualche ora nel più riposante silenzio, a fingere di essere un adolescente normale. Ma era troppo tardi, perciò non potè evitare l'afflusso abbondante di riflessioni che affollarono la sua mente, senza la minima intenzione di uscirne. Rivedeva ogni mossa, ogni spostamento, ogni tappa. Ripeteva in silenzio tutti gli orari e le date dei voli dei seguenti giorni, imparate a memoria. Ripercorreva i suoi ragionamenti, alla ricerca di falle o eventualità sfuggitegli precedentemente, fino a perdere il filo logico da cui era partito.
Tutto era esatto, o almeno così gli pareva. Certo, avere un'altra opinione oltre la sua sarebbe stato confortante, ma dalla sconfitta di suo padre aveva compreso che l'unica persona di cui potesse fidarsi era se stesso.
Il sedile su cui era sprofondato era ruvido ma confortevole, abbastanza da fargli sperare di riuscire a prendere sonno. Non servì molto tempo affinchè capisse che il suo sarebbe rimasto un desiderio inesaudibile.
-Dov'è la televisione? Dov'è?!- Law sollevò la testa, appena reclinata verso la spalla. Quella voce disintegrò ogni brandello di stanchezza dal suo corpo rigido.
Con lo sguardo, cercò Rail lungo lo stretto corridoio che le hostess percorrevano rapide.
-Dov'è, accidenti?! ...voglio la te-le-vi-sio-ne!-
Questa volta il ragazzo riconobbe la direzione da cui provenivano gli strilli. Si mise ginocchioni sul sedile, premendo il petto contro lo schienale, e sconcertato vide la Shinigami scuotere bruscamente la spalla d'un uomo d'affari distinto, con un'espressione corrucciata.
Rail intercettò il suo sguardo e, con ostinazione, ribadì: -Televisione!-
-Ma che diamine...- Law soffocò l'imprecazione, incredulo. Nessuno poteva vederla o sentirla, ovvio, ma i ciondoli che abbondavano sul suo mantello erano più che reali. Anzi, per il resto dei passeggeri stavano dondolando in aria.
Si voltò e risedette composto, rassegnato, ostentando indifferenza. Se Rail voleva cacciarsi nei guai con gli umani, che lo facesse: bastava che lui ne rimanesse fuori.
Ma la Shinigami parve avere afferrato il concetto e svolazzò raso terra, rapida, fino a raggiungere la nicchia fra il sedile di Law e quello davanti. Vi si posizionò, così che i ciondoli non destassero altre perplessità e apparissero, a coloro che li avevano già intravisti, come inganni ottici.
-Ti avevo detto di toglierli e metterli in valigia.- sibilò accigliato, poggiando il gomito sul bracciolo e nascondendo la bocca dietro il dorso della mano per non essere udito da nessun altro.
Rail sbuffò sonoramente, come una bimba capricciosa. Il suo volto affilato, completamente candido, era distorto in un'espressione lamentosa, con le sottili labbra verdi tese. La chioma del colore dell'erba scivolava in una pozza sotto il sedile, mentre il corno ricurvo che ornava il lato destro del capo era rivolto verso il corridoio.
-Me ne sono dimenticata, okay? Tu eri troppo impegnato a fare il farfallone con una mora per accorgertene!-
Lui allungò pigramente le gambe, fingendo un gesto casuale e tirandole un calcio. -Non faccio il farfallone. Io seduco.-
-Ahio! Come ti pare, basta che mi procuri una tv.- piagnucolò la Shinigami, massaggiandosi la testa. In quella posizione il pesante mantello viola di velluto, che le ricopriva del tutto il corpo, impediva i suoi movimenti.
-Ne vedi qualcuna in giro?- ribattè Law sottovoce. -Oppure preferisci acquistarla nel negozio di elettronica a qualche chilometro qui sotto?-
-Mi sto perdendo Beautiful!- sbraitò lei, teatralmente, come se ciò spiegasse tutto. -Va in onda proprio adesso! E non ci sono repliche!-
Il ragazzo scrollò le spalle, sarcastico. -Anche se ti perdessi una cinquantina di puntate, rimarrebbero sempre allo stesso punto.-
-Non è vero!- Rail lo guardò ferita. -La puntata di oggi era cruciale!-
Law non parve molto impressionato, dato che secondo la Shinigami ogni puntata era quella cruciale. Scelse di lasciare perdere lei e i suoi capricci.
-Sta' zitta e non combinare guai.- borbottò. Notò che l'anziana signora del sedile opposto lo stava fissando perplessa.
Non avrebbe usato il Death Note in aereo, per cui avrebbe lasciato molto lavoro da fare in Giappone. Meditò sul nuovo alloggio che li attendeva, in silenzio.
Era curioso di visitare il Giappone, patria dei suoi genitori e sua casa fino all'età di due anni, di cui non ricordava assolutamente nulla. Ma tutte quelle sdolcinatezze passavano in secondo piano, perchè il suo obiettivo era confondere le sue tracce senza dare nell'occhio. Inoltre era proprio in Giappone che si era svolta la battaglia fra Light Yagami ed L, e sicuramente avrebbe trovato qualcosa di interessante in città riguardo questo argomento.
Del modo di agire di suo padre doveva acquisire ogni pregio, ogni qualità vincente. L'abile utilizzo della menzogna, la prontezza nel reagire, il mantenere costantemente lucidità e sangue freddo. Era stato bravo, ma aveva permesso che il rivale lo mettesse alle strette in maniera inesorabile: era divenuto subito il primo sospettato, e in seguito rimanere con la polizia non aveva fatto altro che decretare la sua fine. Certo, così facendo aveva tenuto sotto controllo i movimenti del nemico, ma se non l'avessero preso in considerazione nemmeno l'altro sarebbe riuscito ad arrivare ad una soluzione.
Law sapeva fin troppo bene tutto questo, ed era intenzionato a continuare e perfezionare il progetto ideato dal migliore degli uomini -il più magnanimo degli dèi.
Non avrebbe sbagliato, però. Non sarebbe caduto nelle trappole che avevano ingannato suo padre, aveva imparato molto dai suoi errori. Forse proprio grazie ad essi sarebbe riuscito a vincere.
Questo era il motivo della sua curiosità: maggiori informazioni avrebbe immagazzinato su di lui, maggiori probabilità di adottare una strategia impeccabile avrebbe avuto.
Si arrese ad un po' di normalità, ora elettrizzato alla prospettiva di mettere in atto le prime scene della sua opera, e raccattò dal bagaglio a mano un giornale.
I suoi pensieri laboriosi si assopirono mentre parole e parole, che gli narravano di quello stesso mondo che aveva intenzione di sconvolgere, monopolizzavano la sua mente.


Ad annunciare a Marion l'arrivo dei gemelli fu lo stridio assordante e prolungato di una frenata subitanea, che anche dall'alto dei cieli Gesù doveva avere sentito. Si disse che, chiunque avesse dato la patente a Craig, voleva molto poco bene alla sua città.
Attese con strenua accettazione che scendessero dalla macchina e, dopo aver superato diversi controlli per accertare la loro identità, salissero le scale per raggiungere il piccolo appartamento all'ultimo piano, dove abitava. Li voleva vicino, sì, ma sapeva esattamente quanto scomoda ed ardua sarebbe stata l'atmosfera tra loro. E sostenerla sarebbe stata una fatica inutile per tutti. Era troppo stanca per visualizzare la prospettiva di addossarsi qualsiasi altro peso, non stanca fisicamente ma nello spirito, lì dove davvero faceva male.
Eppure la vita scorreva, il tempo cancellava la tragicità della sua perdita e le pretese si sarebbero fatte sempre più insistenti. Che lei non si chiudesse in camera, che lei parlasse a chiunque, che lei uscisse e che dimenticasse. L'egoismo umano era senza pari.
Anche Marion era egoista, terribilmente egoista. E quindi non voleva vedere coloro che erano venuti soltanto per lei.
Proprio come aveva previsto, con la precisione inconfutabile di un orologio svizzero, un discreto bussare tamburellò contro la porta di camera sua.
-Marion? Sei sveglia?- domandò la voce melodiosa di Lidner, con apprensione materna.
-Sì.- rispose, sforzando la sua, roca dal troppo silenzio.
La donna proseguì. -Sono arrivati Craig e Harmony... vorrebbero tanto vederti. Ma naturalmente devi decidere tu.- Una pausa.
Marion non disse niente, fissando le pieghe della trapunta. Avrebbe voluto annegarci.
-Potrebbero farti sentire meglio, sai? Hai bisogno del sostegno delle persone a cui sei più affezionata.- la incoraggiò Lidner. -Se te la senti...-
-Va bene.- cedette, già esausta. Si rese conto che le lacrime le avevano inumidito gli occhi, sfumando la realtà in un mare di colori indefinibili.
E d'un tratto si sentì una debole.
Colta da un'iniezione di rabbia, contro se stessa, contro Kira che si era preso Near e Near che si era lasciato ammazzare, si alzò in piedi. Aprì l'armadio, e lo specchio applicato sull'anta le presentò l'immagine scialba di una ragazza morta.
Quel rancore irragionevole ma adrenalinico montava dentro di lei sempre più, invece di placarsi. Sfilò sgraziatamente la felpa sformata e i pantaloni del pigiama, lanciandoli poi con impeto sul pavimento; frugò fra le grucce dei suoi abiti, senza cercare qualcosa in particolare. Le saltò subito agli occhi una canotta rossa, con uno scollo a u, che non aveva più messo perchè l'aveva sporcata di macchie d'inchiostro. La trovò in quel momento inaspettatamente artistica, quasi fosse stata creata apposta per subìre tale modifica, così la abbinò ai primi jeans strappati sulle ginocchia che le capitarono sotto mano.
Marion procedette poi prendendo una grossa spazzola dal cassetto nel comodino, per poi conficcarla nella sua chioma sciolta. Strattonò furente ogni ciocca finchè non si considerò ufficialmente pettinata, e si fece una treccia alla bell'e meglio. Concluse l'opera servendosi di una bottiglietta di acqua naturale da mezzo litro, sotto il letto, che non aveva nemmeno toccato: si gettò l'acqua fresca in faccia, con tutta la crudeltà che riuscì ad infondere nel movimento. Infine si riguardò allo specchio.
La pelle pallida scintillava d'acqua, il mento grondava di gocce copiose e qualche ciuffo di capelli era bagnato e arricciato. Gli occhi verdi e seri, torturati da lacrime e rimpianti, erano illuminati da una luce sconosciuta. La lunga treccia di capelli lisci, biondo sabbia, scivolava con flessuosità fino alle scapole. La sua figura alta e snella era immobile, davanti alla superficie riflettente, ma appena scossa da un tremito di rabbia. Tutto in se stessa, dai lineamenti decisi al taglio aggressivo dello sguardo, non le era mai parso tanto familiare.
Così trovò quella forza che non voleva ancora, affrontò il suo destino e aprì la porta.

Craig e Harmony sedevano sul divano di pelle crema del piccolo salotto, arredato interamente da Lidner e il suo buon gusto. La guardavano con occhi sbarrati e terrorizzati, quasi si aspettassero di vederla crollare per terra sbattendo i pugni.
-Ciao.- suggerì Craig cautamente, già convinto di avere detto qualcosa di sbagliato. Marion si sentiva considerata come una bomba ad orologeria, che avrebbe potuto esplodere in qualsiasi momento.
Harmony le lanciò un'occhiata dura. -La prossima volta che la tua vita va a puttane, preferirei scoprirlo da te e non da Gevanni. Chiedo troppo?-
Il gemello conosceva bene i suoi modi schietti, ma temeva che stavolta avesse sbagliato ad aggredire così l'amica. Per un attimo, gli apparve in mente l'immagine di quelle due a scazzottarsi.
Invece Marion incrociò le braccia al petto e prese un respiro profondo, come se non l'avesse sentita.
-Vi avverto. Se siete qui per compatirmi e dirmi quanto vi dispiace, con un sacco di disgustose frasette di circostanza o roba del genere, quella è la porta. Non ho bisogno della vostra pietà.-
-Su, non fare queste commedie da tragedia greca.- tagliò corto Harmony, facendo un cenno annoiato con una mano. -Ci conosciamo da una vita, e secondo te siamo qui per rifilarti le frasette?-
Craig capì che, a quanto pareva, la disinvoltura della sorella nello schiaffare la verità in faccia alle persone si era rivelata l'arma giusta. Infatti Marion si rilassò e li osservò ancora qualche istante, prima di riprendere a parlare.
-L'unica cosa che adesso voglio fare non è piangermi addosso, ma agire. Near è morto, e non ci posso fare nulla.- si interruppe, realizzando la consistenza della sua stessa frase. -Ma Kira è ancora là fuori, cosa che non posso assolutamente accettare. Quindi il mio obiettivo ora è soltanto dargli quello che si merita, non solo a nome di Near, ma di tutti gli esseri umani a cui ha strappato una vita.- I gemelli l'ascoltavano con un'espressione indecifrabile. -Quindi potete intuire la richiesta che sto per farvi. Mi rendo conto che non è una scelta da prendere alla leggera, conosco i rischi che comporta e ho potuto vederne le conseguenze sulla persona che amavo di più. E anche voi. Vostro padre, per fermare il primo Kira, è morto. Il mio anche. Niente vi può garantire che non accada anche a voi. Ma una cosa ve la posso assicurare io.- I suoi occhi verdi erano serrati, lucenti come giade, dalla forma aguzza di una lama. -Sarete dalla parte giusta e farete senz'altro ciò che va fatto. Perciò potrei rigirarvi la domanda in... preferite fare ciò che meglio per voi stessi o per l'umanità?-
I due tacquero, in una pausa che durò cinque lunghissimi e faticosissimi secondi. Infine Harmony si alzò in piedi, tranquilla.
-Direi che è ovvio. Facciamo il culo a Kira. Chi me lo fa fare di starmene in disparte, a lasciarti interpretare il ruolo dell'eroina?-
Craig sospirò, imitando la sorella. -Già, sono d'accordo. Però guido sempre io e nessuno si deve lamentare.-
Harmony evitò abilmente l'occhiataccia indirizzatele, alla parola "nessuno".
Marion si esibì in un sorriso entusiasta, il primo da quel fatidico giorno. -Lo sapevo che siete dei fighi, ragazzi. E che potevo contare su di voi.-
-A dire il vero, non mi hai nemmeno telefonato.- si lagnava Harmony, mentre la bionda afferrava il suo braccio con una mano e quello del ragazzo con l'altra.
-Adesso andiamo giù. Lidner, Gevanni e Rester si stanno mettendo in contatto con il nuovo L.-
-Il nuovo L?!- esclamò Craig sorpreso. -E chi sarebbe?-
-Boh.- ribattè diplomaticamente Marion, trascinandoli nell'ascensore.
E si affidarono al presente, mentre la caccia a Kira iniziava ufficialmente.













































Note dell'Autrice: Ehilà! Per fortuna sono riuscita ad aggiornare presto come speravo. ^-^ Questo capitolo è appena più lungo del primo, se non erro. Ah, tanto meglio.
E qui entrano in scena Harmony e Craig, che credo tutti abbiano capito da chi discendono. XD In quanto a Linda, la loro madre, non è una tipa x. Sarebbe una bambina della Wammy's nominata nel manga, ma visto che non se ne sentirà quasi più parlare, non è di grande importanza. Vi stanno simpatici?
Se Marion non avesse tirato fuori un po' di grinta, non sarebbe stata la figlia di Mello, dico bene? Ecco.
Invece per L dovrete aspettare ancora un po', perchè neanche io so con precisione quanto di lui apparirà nel prossimo capitolo!
Con questo ho finito. Spero che il capitolo vi piaccia e sono ansiosa di scoprire che cosa ne pensate!
Lucy

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Capitolo 4
*** Inaspettato. ***


3

Inaspettato.




-Halle, accenderesti lo schermo, per piacere?-
-Ma certo.- La donna si allungò sulla sedia metallica, cliccando un paio di interruttori, da cui venne scaturita una viva luce verde.
-Grazie.- Gevanni trasse nuovamente dalla tasca un foglietto stropicciato, mentre Rester era chino ad attaccare delle spine alla rispettiva presa.
-A posto?-
-A posto.- annuì l'agente, prendendo posto su una sedia accanto a loro.
-Credete che stavolta risponderà?- chiese Lidner dubbiosa, sistemando nervosamente una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
Gevanni scrollò le spalle, scettico. -Non ne ho idea. Ma, se non ci vuole rispondere, una ragione deve esserci.-
-Come sei negativo. Avrà una spiegazione logica.- lo rimbeccò lei, inquieta all'idea che il nuovo capo non volesse nemmeno sentir parlare di loro.
Rester, che era di poche parole, inarcò appena un sopracciglio biondo.
-Magari è uno schizofrenico paranoico, e rifiuta ogni contatto con l'esterno.- insistette il moro, tranquillo.
Lidner gli lanciò un'occhiata penetrante. -Adesso lo stai facendo apposta per spaventarmi.-
-Forse.- sorrise Gevanni divertito.
-Devo inserire il codice. Vi spiacerebbe?- sospirò Rester, con insofferenza.
L'altro gli tese il pezzo di carta, sopprimendo una risata, quindi si mise a digitare rapidamente i numeri e le lettere indicati. In questo modo avrebbero dovuto essere messi in collegamento con il computer del presunto L, e poter comunicare grazie a dei microfoni. Appena Rester ebbe finito di comporre la password, tutti e tre indossarono delle cuffie con un radiomicrofono ad archetto.
-E adesso aspettiamo.- concluse.
Ci sarebbe voluto un po' di tempo affinchè il segnale venisse trasmesso, così rimasero in un silenzio teso. Nessuno sapeva cosa aspettarsi, ma erano turbati all'idea di lavorare per un altro investigatore nell'ufficio di Near. Lo stesso dove lui si accingeva in costruzioni di dadi e fiammiferi, lo stesso dove giocava imperturbabile inginocchiato sul pavimento. La sua assenza era lampante, e ogni tanto capitava loro di voltarsi per cercarlo, istintivamente. Quel vuoto rendeva le piastrelle nude, incomplete, quasi diverse.
Però solo lì vi erano le più avanzate tecnologie, gli strumenti adatti per poter contattare L. Non c'era altro modo.
-Stiamo facendo la cosa giusta.- bisbigliò Lidner, quasi si sentisse in dovere di giustificare tutto. -Era stato... lui a chiedercelo.-
All'improvviso una voce li interruppe.
-Mamma! Ma sei qui? Mamma.-
Serrò gli occhi in due fessure, mentre la rabbia prendeva lentamente possesso di lei.
-Ah, eccoti. Che fate?-
Le grandi porte d'acciaio dell'ufficio si erano spalancate con un sibilo. Contro la luce del corridoio da cui era arrivato, era ritagliato il profilo di un ragazzo. Era alto e slanciato, con le spalle larghe di chi gioca a rugby un giorno sì e l'altro pure -era effettivamente il suo sport preferito, nonostante fosse popolare in America (patria dei suoi genitori) ma non molto in Giappone. I capelli neri avevano un taglio sbarazzino, che gli sfiorava appena le spalle, e sembravano spettinati ad arte; aveva occhi dorati e vivaci che spiccavano come astri sul volto chiaro.
-Tu non devi studiare, oggi?- replicò Lidner, seccata.
-Ehi, prima di fare domande bisogna rispondere a quelle che ci vengono rivolte.- rispose astutamente, scavalcando il trabocchetto della madre e raggiungendola al computer.
La donna strinse le labbra. -Ci mettiamo in contatto con il nuovo L, va bene? Adesso torna a fare i compiti.-
-Non scaldarti tanto, ha solo chiesto.- la rabbonì Gevanni, guardando con affetto il figlio.
-Non mi sto per niente scaldando.- sillabò Lidner infastidita. -E adesso smettiamola, per favore.-
Il ragazzo osservò lo schermo. -Wow. Posso sentire?-
-I compiti, Tennyson.- ripetè lei.
Tennyson lanciò un'occhiata supplichevole all'uomo seduto accanto a lei. -Tu che dici?-
-Come vuole mamma.- rispose lui, imbarazzato per quella scena inappropriata.
-Però non è giusto che mi teniate lontano da tutta questa gran figata, vecchi.- si lamentò.
Le porte non avevano fatto in tempo a richiudersi che il codice venne digitato di nuovo. Comparve alla soglia Marion, che stringeva ai gemelli un braccio ciascuno.
Lidner fu piacevolmente stupita nell'osservare che si era vestita, con un paio di jeans e una canotta cremisi a chiazze, e si era acconciata i fluenti capelli biondo sabbia in una treccia sottile. Nella sua espressione c'era qualcosa di nuovo... si poteva ancora percepire le crepe della tragedia, ma sembrava fosse riuscita a riunire insieme i frammenti del suo animo spezzato. Dai suoi occhi scaturiva forza, energia, una ferma determinazione. E allora la riconobbe.
-Parlate con L? Che tempismo perfetto.- annunciò, strattonando i due amici.
-Ciao.- salutò Tennyson, facendo un cenno nella loro direzione.
Craig lo notò a malapena, invece Harmony si permise una lenta, languida occhiata per squadrarlo dalla testa ai piedi, con un sorriso sornione.
-Ehi.- mormorò, ammiccando maliziosamente. Il gemello la guardò di sottecchi, sconcertato, poi le allungò una gomitata.
-Ah, ciao.- ricambiò Marion, che era troppo distratta dai suoi pensieri per prestare attenzione alla scena svoltasi. -Resti anche tu?-
Tennyson scrollò le spalle, svogliato. -Quei due non vogliono.-
-Perchè no?- domandò Marion a Lidner.
La donna esitò. -Lui... deve studiare, non può immischiarsi nel nostro lavoro. Si tratta di questioni top secret, non possiamo divulgarle a chiunque. Avanti, vai.-
Il ragazzo infilò i pollici nelle tasche e girò i tacchi, sospirando. -Acida.-
Quando passò di fianco a Marion, lei si affrettò a sussurrargli: -Poi ti raccontiamo tutto.-
Annuì, con un sorriso grato, e le porte gli si chiusero dietro con un tonfo.
A quel punto, Marion prese una sedia e indicò ai gemelli di fare altrettanto. Si sistemarono di fianco agli altri e Rester allungò loro tre paia di cuffie, senza microfono.
Non dovettero aspettare tanto dato che, mentre Tennyson arrivava ed usciva, il segnale era giunto all'altro computer. Una spia arancione prese vita su ognuna delle cuffie, con un bip.
Lidner scambiò un'occhiata veloce con i colleghi: significava che il nuovo L aveva accettato la richiesta di connessione.

-La casa è questa, non c'è dubbio.- dichiarò Law, aggrottando gli occhi, infastidito dalla luce accecante.
Quel giorno non faceva granchè caldo, però il sole pareva fosforescente. In un cielo azzurro slavato, nubi leggere e biancastre lambivano la sfera abbagliante senza riuscire a smorzarne i raggi.
-Molto classica. Sembra uscita da un'immagine di Google.- commentò Rail, svolazzando allegra oltre il recinto basso in legno. C'era un grazioso cortile di medie dimensioni, con piante verdeggianti e piuttosto curate. Era attraversato da una stradina di ghiaia bianca, costeggiata da diversi vasi rettangolari colmi di fiori, e rappresentava in pieno la modesta bellezza dei giardini giapponesi.
Il ragazzo, valigia alla mano, diede una spintarella al piccolo cancello, che s'aprì con un cigolìo di benvenuto. Attraversò il sentiero, lo sguardo color cannella sollevato verso la casa: era piccola, semplice, dal tetto piatto e le mura immacolate di pittura recente. Alcune finestrelle si affacciavano, sia dal piano di sotto che da quello di sopra, e si potevano intravedere le tende gialle a pois.
Arrivato alla porta d'ingresso, Law posò il bagaglio e rimase a fissare la superficie della porta.
-Che fai, non suoni?- lo incitò Rail.
Lui la fissò con severità. -Mi raccomando, stai sempre buona e zitta. Non metterti a spostare gli oggetti, nè a girare per la casa facendo confusione. E non puoi nemmeno accendere la tv. Sono stato chiaro?-
La Shinigami sbuffò, annoiata. -Sì, ho capito. Non sono mica stupida. Però adesso c'è Dirty Sexy Money, e visto che me lo perdo mi devi un favore.-
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. -Se dovessi ricordarti tutti quelli che tu devi a me...-
-Sì, sì, va bene: adesso suona.- tergiversò Rail, in fretta.
Law allungò la mano e premette il campanello, sperando che avrebbe obbedito davvero. Era decisamente volubile, perciò le sarebbe bastato decidere di essere irritata per cambiare idea, oppure ricordarsi di un programma che non poteva assolutamente perdersi per farle rimangiare ogni promessa.
Un suono fiacco si disperse all'interno dell'abitazione. Dei passi affrettati.
Uno schiocco gli annunciò che stava per trovarsi davanti i parenti che non aveva mai conosciuto.
La porta si spalancò di botto, scoprendo la figura di una donna giovane. Aveva una bellezza fresca: il suo volto minuto era illuminato da un pallore lunare, le palpebre degli occhi grandi e scuri erano adornate da ventagli di folte ciglia. I capelli castano mogano erano di media lunghezza, lisci e luminosi; fisicamente invece era esile e magra, con polsi sottili come quelli di una bambina. In definitiva, gli infondeva quell'idea di giovinezza eterna che solo in poche donne aveva potuto osservare.
Lo fissò con sguardo interdetto, genuinamente sorpresa, mentre scrutava affannosamente i suoi lineamenti.
-Lawrence?- chiese, quasi sconvolta. La sua voce da soprano tintinnava squillante, un'armonia di campanelle.
-Sì, sono proprio io.- rispose lui, con un sorriso appena imbarazzato.
Anche Sayu si esibì in un sorriso radioso, emozionata. -Oh, mio Dio... Lawrence! Fatti abbracciare.-
Quella zia che non aveva mai conosciuto, che non l'aveva mai conosciuto, lo avvolse fra le braccia magre con insospettabile vigore.
-Non ci posso credere che tu sia qui. Davvero... pensavo che fosse troppo tardi... la tua chiamata è stata un miracolo!- Balbettava frasi spezzate e sconnesse, la voce tremante dalla gioia. Lo allontanò da sè di qualche spanna, per poterlo osservare per bene. -Sei così grande. E così...- si interruppe, scuotendo la testa.
-Non vedevo l'ora di conoscervi.- mentì Law con disinvoltura, fingendo timidezza.
-Anch'io, te lo assicuro. Anch'io.- Gli occhi di Sayu si riempirono di lacrime inaspettate, che scostò subito con la mano. -Com'è andato il viaggio? Entra, entra!-
Cercò di alzare la sua valigia, ma lui la invitò con gentilezza a desistere. La trascinò nello stretto ingresso, ostentando occhiate curiose in giro, mentre in realtà si limitava a tenere Rail sott'occhio. Non provava grande interesse nei confronti degli zii, ma un adolescente normale probabilmente sì: dunque optò per il comportamento che gli altri si sarebbero aspettati da lui.
Prima che la zia potesse partire con un altro discorso a raffica...
-E' arrivato?- domandò una voce maschile dal piano di sopra.
Sayu sollevò gli occhi, impaziente. -Sì, scendi anche tu!-
Si udì un trambusto non ben identificato, poi un uomo fece capolino dalla cima delle scale. Stringeva per mano un bambino con i suoi stessi capelli arruffati.
-Ehi! Tu devi essere Lawrence.- esclamò, con un sorrisone ampio.
Appena i suoi occhi azzurri e ridenti si posarono su Law parve sussultare, turbato. Un silenzio incerto dominò le stanze per qualche secondo.
Poi quello che doveva essere il marito di Sayu lo raggiunse e gli tese la mano, come se avesse superato un attimo di debolezza.
-Puoi chiamarmi zio Tota, se vuoi! Suona bene, vero? E questo è Kazu.- Strattonò la mano paffuta del bambino di fianco. -Saluta, Kazu!-
Il piccolo gli lanciò un'occhiata timorosa, infine azzardò uno sgaio -Ciao!-
-Su, scommetto che Lawrence ha molta fame. Che ne dite se parliamo davanti ad un bel piatto di pasta?- propose Sayu.
-Va bene.- annuì il ragazzo, osservando attentamente Rail. La Shinigami si era avvicinata a Kazu e gli stava carezzando i capelli, cinguettando moine incomprensibili.
-Pancia mia, fatti capanna!- rise Matsuda, conducendo figlio e nipote verso la cucina.
Law si rendeva conto di quanto tempo perdesse dietro quelle farse familiari, ma erano inevitabili. Così si stampò un sorriso in faccia e seguì gli altri in cucina, rassicurato dal pensiero che presto avrebbe potuto continuare il suo lavoro.

Lidner si affrettò a fare cenno ai tre ragazzi di stare in silenzio, mentre un ronzìo lasciava presagire l'inizio della conversazione. Rester aumentò il volume dei microfoni, rapidamente.
Gevanni annuì nervoso alla donna, che respirò a fondo e iniziò.
-Salve. Siamo agenti dell'Spk, associazione creata allo scopo di fermare il pluriomicida chiamato Kira, guidata da Near. La stiamo contattando dal quartier generale di Kyoto, per informarla purtroppo del recente decesso di quest'ultimo. Le spiacerebbe dirmi se lo conosceva di persona?-
Seguì una pausa colma di tensione e curiosità, spaccata infine dalla tanto sospirata voce.
-Stiamo parlando dell'albino palliduccio? Santo cielo, è morto? Quando l'ho visto l'ultima volta, avrà avuto trent'anni. L'avevo detto, io, che mangiava troppo poco. Era così magrolino...-
La prima cosa che tutti notarono fu che non era contraffatta, ma proprio quella di colei che parlava. Ciò destò stupore, ricordando la prudenza ossessiva di L e Near anche riguardo questi dettagli. Era femminile, da ragazza, energica e leggermente assorta. Aveva una strana cadenza, evidente quando indugiava su certe lettere prolungandole. 
Lidner battè le palpebre, stordita. Il suo sconcerto si rifletteva in tutti i volti. Nessuno si sarebbe mai immaginato un'uscita tanto singolare, detta poi con tono genuinamente sincero e non con sarcasmo.
-A dire la verità, è deceduto per arresto cardiaco. Perciò, ne abbiamo dedotto che può essere stata opera del...-
-... nuovo Kira, già.- concluse la voce, con noncuranza. -Non occorre essere particolarmente arguti nè fantasiosi. Beh, condoglianze, mi spiace molto. Che altro posso dirvi?- aggiunse, un po' annoiata.
Craig lanciò un'occhiata preoccupata al viso di Marion, che si faceva sempre più livido dalla rabbia. Harmony trattenne a stento una risatina isterica.
Lidner, presa in contropiede, tossicchiò. -A dire il vero, Near ci ha dato il codice per contattarla e ha detto che avrebbe dovuto essere lei a prendere il suo posto come-
-Eccoli che tornano alla carica.- la interruppe sospirando la ragazza. -Non è possibile, è una congiura. Adesso anche l'albino ci si mette.- Si prese qualche secondo, come per selezionare attentamente le parole. -Mi ascolti bene, signorina agente dell'Spk, perchè non lo ripeterò un'altra volta. Già il mio vecchio aveva lasciato nel testamento scritto che avrei dovuto farlo io, il suo sporco lavoro, ma le cose stanno come le dico adesso. Non ho la benchè minima intenzione di farmi ammazzare da uno squilibrato seriale, e il motivo non è poi così difficile da immaginare. Soltanto perchè ho un'intelligenza superiore alla media, non vuol dire per forza che non veda l'ora di farmi ammazzare come una bestia da macello. Perchè proprio io? Che ci pensino i cretini, per una volta, a salvare il mondo. O chiunque altro, basta che non me lo chiediate più. Magari L era un eroe, magari l'albino era un eroe: ecco, io non sono un'eroina. Sono egoista e voglio vivere, perciò non se ne parla. Se foste intelligenti, ve ne tirereste fuori anche voi e vi salvereste la pelle.-
Il suo monologo fu così accorato e innegabile che Lidner non riuscì a infilarci una sola parola in mezzo, per convincerla. Effettivamente non aveva tutti i torti... ma questo non era certo un discorso da degna erede di L. Come poteva, Near, avere raccomandato loro di affidare il suo titolo ad una persona tanto indifferente? Eppure doveva avere i suoi motivi, se così era stato.
Aprì e richiuse la bocca un paio di volte, senza sapere che dire.
-Scusate se ho mandato all'aria tutti i vostri piani, ma la vita è una.- tagliò corto lapidaria la voce. -Cercatevi qualche altro idiota suicida.-
-Scusi lei per averle fatto perdere tempo.- replicò Lidner, cortese ma gelida. -Non era nostra intenzione. Arrivederci... e grazie comunque.-
-Se lo dice lei.- salutò l'altra. Un altro bip chiuse la chiamata, la luce arancio si spense su ogni microfono.
I presenti rimasero in un silenzio di pietra, incapaci di realizzare l'accaduto. Pareva assurdo, inconcepibile che qualcuno potesse rifiutare il nome di L, senza nemmeno considerare il fatto che si tratta di un onore enorme.
-Avete sentito anche voi quello che ho sentito io?!- esclamò Craig, interdetto.
-E minchia se ho sentito. Anzi, Halle le ha sentite di brutto! Questa L è proprio una fottuta cazzona.- protestò Harmony, indignata, facendo ampio uso di tutto il suo linguaggio colorito.
Marion era immobile, mentre sul suo volto si alternavano shock e rabbia. Infine spalancò gli occhi, quasi con sfida.
-Non abbiamo bisogno di una codarda come quella.- affermò disgustata, alzandosi.
-Ehi, ehi, rallenta! Cosa intendi?- chiese Craig, sospettoso.
Marion scrollò le spalle. -Che faremo da soli.-
Gevanni scosse la testa. -Non è così semplice... abbiamo bisogno di qualcuno che manovri le operazioni. Da soli siamo inutili. Noi tre non siamo dei grandi investigatori.- ammise, indicando sè stesso e i colleghi. -Dobbiamo contattare la Wammy's House e riferire ciò che ci ha detto, nella speranza che trovino un L alternativo.-
-Mi sembra la soluzione migliore.- approvò Lidner, stancamente.
-Invierò una mail con la richiesta.- si offrì Rester, pensoso.
Marion afferrò di nuovo gli amici, che si lasciarono trascinare docili. -Noi andiamo a consultare gli archivi. Se ci cercate, siamo là.-
Lidner non disse nulla, seguendola con lo sguardo. Le porte si aprirono e chiusero ancora una volta.



































Note dell'Autrice: Eccomi, puntuale puntuale. ^-^ E questo era il terzo capitolo.
Fa un'apparizione di poca rilevanza Tennyson, che sarebbe il figlio di Gevanni e Lidner (perchè io accoppio tutto e tutti), e in seguito darà una mano alle indagini anche lui. Forse avrete notato che Lidner è un po' più dolce e permissiva con Marion che con lui! Povero.
Per quanto riguarda l'arrivo di Law dagli zii, non so come si faccia a trovare una casa in Giappone, dato che da quel che ho capito non esistono gli indirizzi. Perciò, non avendo trovato nulla su Internet, ho lasciato la cosa sul vago. Scusate!
E si scopre anche il vero nome di Law. Ma il senso di questo nome lo spiegherò più avanti!
Ma soprattutto, qui vediamo per la prima volta la nuova L, che poi non vuole nemmeno esserlo. Non ve l'aspettavate, eh? Ma allora cosa accadrà? ^-^
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensate!
Lucy

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Capitolo 5
*** Nostalgia. ***


4

Nostalgia.





-Guarda che ore sono.- ordinò seccamente Marion, senza nemmeno sollevare la testa dallo spazioso cassetto contrassegnato dalla lettera M.
Craig si frizionò le tempie con le nocche, brontolando sottovoce insulti contro il dolore che pulsava nella sua testa, poi fece scivolare il telefono dalla tasca. La luce biancastra del display inondò il suo volto, ombreggiandone i lineamenti. Corrugò la fronte, infastidito, e appena gli occhi caddero sui numeretti squadrati trattenne un'esclamazione.
-L'una e dieci.- annunciò, calcolando rapidamente che erano lì da circa sette ore, con la sola compagnia di tre bottiglie di birra vuote e delle confezioni di sushi takeaway.
-Troia.- inveì Harmony, ebbra di sonno, con il volto deformato dalla stanchezza. Gli occhi erano ormai ridotti a due fessure, serrate dalle palpebre pesanti, ed era rannicchiata sul pavimento di piastrelle gelide e polverose. -Andiamo a letto?- pigolò.
Marion rimase zitta, senza dare cenno di avere sentito nulla, e continuò a frugare fra le cartelle. Lo scrosciare della carta era l'unico rumore presente.
Craig guardò la sorella, incerto. -Senti, secondo me per oggi basta così. E' notte fonda, e questa fra due minuti schiatta.-
-Non resisto due minuti, porca puttana!- ruggì fiaccamente la gemella, quasi incosciente.
-Aspettate un attimo. Credo di avere ancora qualche idea su cosa cercare.- ribattè Marion, implacabile. -Su, avanti.-
A quelle parole il rosso gemette un lamento sordo, prima di ricacciare con un sospirone la testa nel cassetto che stava ispezionando.
L'archivio dell'Spk era stato creato da Near, allo scopo di documentare scrupolosamente ogni aspetto del caso Kira, ordinando le informazioni in cartelle. Ogni cartella era relativa ad un dato argomento, come "continuità degli omicidi" o "parametri di selezione delle vittime", e le cartelle erano sistemate in ordine alfabetico nei cassetti a seconda dell'iniziale. Era quasi maniacalmente preciso, dettagliato ed esauriente, senza mai tralasciare nulla: quello era lo stile di Near, impeccabile come era sempre stato.
Marion scostò disinteressata "manipolazione delle vittime" e si accorse, con un tuffo al cuore, che vi era la cartella "Mello". Le sue dita oscillarono indecise sopra di essa, divise dalla curiosità viscerale dello scoprire tutto e il terrore divorante del non volere sapere nulla. Prima che potesse decidersi ad estrarla, Craig richiamò la sua attenzione.
-Marion, andiamo a dormire. Ti prometto che domani torneremo.- la supplicò Craig, prendendo in braccio la sorella, che ciondolava il capo nel vuoto.
-Ehi, aspetta... guarda. Ho trovato qualcosa.- improvvisò alla svelta, conscia di non avere trovato proprio nulla.
-Cosa?- domandò lui stupito.
Marion si affrettò a lanciare un'occhiata verso il cassetto. -Q... uesto.- improvvisò, afferrando una cartella. Sperò mentalmente che non si trattasse di qualcosa di troppo inutile.
Lesse l'etichetta. Recava il nome "Misa Amane".
Craig strizzò gli occhi castani per leggere, perplesso. -E chi sarebbe questa... Misa?-
-Se non sbaglio, la fidanzata di Light Yagami.- rispose lei, delusa per la scelta che la sorte aveva fatto. Cosa le interessava, a lei, di una star del pop cerebrolesa?
-Perdona la mia ignoranza, ma perchè credi sia utile?- aggiunse il ragazzo, poco convinto.
-Non so... me lo sento.- inventò lei. -Vediamo. Vieni qui.-
Craig si arrese e coricò per terra Harmony, che bofonchiò proteste flebili. Si inginocchiò di fianco a Marion, sforzandosi di non esternare il suo dolore alla testa.
Lei sfogliò la prima pagina, la quale recava diverse informazioni di natura generica. Nelle seguenti era raccontato il suo coinvolgimento nell'intero caso, da quando era stata ritenuta il secondo Kira sino al momento in cui era stata lasciata nella suite di un grand hotel, affinchè non intervenisse all'incontro fra Light Yagami e Near.
Entrambi le lessero celermente, senza neanche cercare qualcosa di utile, consapevoli del fatto che lì dentro non ci fosse assolutamente nulla.
All'ultima facciata, Marion lesse stanca.
-Dice che si è suicidata circa un mese dopo la morte di Yagami. Nel suo testamento vi era scritto che tutti i suoi averi sarebbero dovuti andare a...- Lì aggrottò la fronte, confusa. -Deve esserci un errore di stampa.- concluse.
Craig, che aveva il capo stretto fra le mani come un ubriaco, mugugnò. -... che senso?-
-C'è scritto...- Marion voltò il foglio della sua direzione, per permettergli di leggere. -C'è scritto alla Wammy's House.-

-Quindi non dobbiamo chiamarti più Lawrence?- domandò la zia Sayu, confusa.
Law arrotolò sulla forchetta una manciata di spaghetti, rivolgendole un sorriso rassicurante.
-Si tratta di abitudine, più che altro. Gli altri si rivolgono a me chiamandomi Law da una vita...-
-Ma certo, capisco.- annuì lei, versandogli un po' d'acqua.
Matsuda si leccò avidamente le labbra imbrattate di sugo, guardandolo con curiosità.
-Cosa ci racconti del posto dove vivevi? Ti piaceva?-
Sayu gli lanciò un'occhiata severa, sperando che il nipote non avesse cattivi ricordi riguardo esso. Law rispose senza fare una piega.
-E' indubbiamente molto spazioso ed elegante. Si tratta di un edificio del '700, molto antico, che però Quillsh Wammy ha fatto ristrutturare quando l'ha comprato. Infatti l'atrio è anche attualmente in marmo, con delle colonne fatte ricostruire proprio dov'erano nel progetto originario. Vi sono quattro piani, con una biblioteca, diverse sale di musica, alcuni laboratori di scienze, un'aula magna per le riunioni d'istituto...- snocciolò sicuro.
Lo zio aveva un'espressione stranita.
-Ehm...  intendevo dire... ti ci trovavi bene?- riformulò la domanda.
Il ragazzo battè le palpebre, interdetto, come se non riuscisse a coglierne il senso. -Sì, molto.-
-... sono contenta.- commentò Sayu a disagio. -Parlaci un po' dei tuoi interessi, invece. Ti piace viaggiare, da quanto ho capito!-
-Diciamo che, essendo stato chiuso in orfanotrofio per così tanto tempo, ho intenzione di recuperare il tempo perso.- ribattè lui, lo sguardo concentrato sulla pasta. -Comunque sì, trovo che visitare posti nuovi sia interessante. Non ho particolari hobby.-
-Ah no?- sorrise la zia, cercando di mascherare il proprio stupore.
-Leggo, suono qualche strumento...- accennò Law vago, con indifferenza. -Ma non sono proprio delle passioni. Senz'altro il mio passatempo preferito sono i giochi da tavolo.-
-Giochi da tavolo? Sul serio?- Matsuda si animò, ricordandosi d'avere una vecchia scacchiera nel cassetto sotto la tv.
Il ragazzo sorrise dolcemente. -Sì, però solo contro avversari molto ma molto bravi.-
-...ah.- Ripensandoci, lo zio decise che forse non era una grande idea.
-E cosa suoni?- proseguì Sayu.
-Violino, pianoforte, chitarra, organo.- elencò distrattamente, citando i primi che gli vennero in mente.
-Uhm, così tanti?! Sei bravissimo!-
Matsuda si alzò e prese un piatto dalla dispensa, per poi togliere dalla padella una bistecca per Kazu. Il bambino strillava allegro, allungando le manine verso il piatto. Suo padre prese a tagliargliela a pezzettini, sovrappensiero.
Quel ragazzo gli ricordava, in maniera sempre più inquietante, Light. Il suo aspetto, prima di tutto: gli assomigliava terribilmente, e poichè non se lo aspettava appena l'aveva visto non era riuscito a trattenere lo sconcerto. E quegli occhi... castani, intensi e impenetrabili, che fissavano il mondo con malevola innocenza. Esattamente quelli di cui si era fidato per anni, senza nemmeno immaginare i segreti che nascondevano. Esattamente quelli folli e strabuzzati a cui aveva sparato quindici anni prima. I loro sguardi si erano incrociati, e gli era tornato in mente ogni dannato e incontrollabile ricordo.
Ma non solo fisicamente erano molto simili. Il suo modo di parlare, di approcciarsi, persino la controllata gestualità. Sotto qualsiasi parametro poteva trovare fra loro qualcosa in comune. Davano la stessa idea di persona brillante, diligente, sicura di sè... Della povera Misa-Misa non aveva proprio nulla, se non i capelli oro pallido e la piega del sorriso.
Matsuda si riscosse da quei pensieri inquietanti. In ogni caso, per quanto potesse assomigliare a suo padre, non era lui. Era un'altra persona, non la sua reincarnazione. Non meritava di essere giudicato in questo modo solo perchè era figlio di Light Yagami, sarebbe stato ingiusto. Era cresciuto in una scuola, circondato da persone colte e istruite, non da Kira.
Giurò a se stesso che non avrebbe avuto alcun pregiudizio nei suoi confronti, che l'avrebbe trattato come un qualsiasi altro ragazzo. Giurò qualcosa che, nonostante le sue intenzioni, non avrebbe potuto mantenere.
A pranzo terminato, l'ospite chiese a Sayu di indicargli per favore la sua camera e rimase lì, a disfare le valigie. Quando la donna tornò in cucina, Matsuda le sorrise.
-Sembra un bravo ragazzo, vero?- commentò, senza riuscire a convincersi.
Lei non rispose, lo sguardo vitreo sospeso nel vuoto. Gli occhi da bambina in breve s'inumidirono di malinconia.
-Gli somiglia così tanto.- bisbigliò in un singhiozzo, la mente colma del fratello perduto, mentre il marito la abbracciava con affetto.
-Lo so.- mormorò, stringendola contro il petto. Lei vi affondò il viso, e Matsuda le carezzò delicatamente i morbidi capelli castano scuro. L'avrebbe tenuta all'oscuro della verità ad ogni costo, così da non privarla dell'unica cosa che le rimanesse di Light: il luminoso e caldo ricordo dell'eroe che non era mai stato.

-Possibile che non capiate?- Marion sbuffò frustrata, stringendo i pugni e irrigidendo le braccia lungo i fianchi.
Lidner le sorrise pacatamente.
-Abbiamo capito, tesoro. Solo che... non siamo noi a dover decidere se è un'informazione fondamentale o meno.- spiegò titubante, tentando di non scoraggiarla troppo.
-Ma è ovvio!- La ragazza agitò il fascicolo su Misa Amane che stringeva in mano, con decisione. -Significa che alla Wammy's c'è qualcuno legato a Kira! Come fate a dire che non siete sicuri che sia fondamentale?! Più di così!-
Si trovavano ancora nell'ufficio di Near, dove Rester e Gevanni erano affacendati ai computer e Marion aveva subito voluto parlare a tutti della sua scoperta, nel primo pomeriggio.
Craig, dopo aver passato il resto della notte in bianco, come al solito dopo mezzogiorno dormiva. Harmony invece era con lei, si stata fumando in tutta tranquillità una sigaretta: a casa non poteva, visto che la madre e il fratello glie lo proibivano severamente, e al quartier generale si limitavano a guardarla male.
-Chi dice che sia legato a Kira? Alla Wammy's House potrebbe esserci qualcuno che conosce, o un lontano parente.- replicò Gevanni. 
-E poi è il testamento di Misa Amane, non di Light Yagami.- precisò Rester, serio.
Marion era impaziente. -Sì, ma Misa era la seconda Kira. Una sua complice! Qualsiasi sia la persona che lei conosce alla Wammy's, non può essere semplicemente il figlio di qualche amica. Gli ha lasciato tutti i suoi soldi, e dato che era un personaggio della tv non stiamo parlando di quattro spicci.-
-Ne parlerai con il nuovo L, quando la direttrice dell'orfanotrofio ci risponderà.- le promise Lidner, per calmarla.
-Però non c'è tempo da perdere. Noi due ci rimettiamo subito a lavorare, non è vero, Harmony?- esclamò Marion, afferrandola come di consuetudine per il braccio.
-Come ti pare.- borbottò l'altra.
Gevanni scosse la testa. -Potrebbe essere un abbaglio tremendo.-
La figlia di Mello lo fissò con decisione.
-Se mi renderò conto che è stato tutto un errore, lo riconoscerò. Per adesso posso solo vedere dove mi porta questa strada. Con permesso.-
Uscendo dalla stanza, imboccò determinata le scale per l'archivio; stava salendo la seconda rampa, quando una mano le afferrò la spalla.
-Ehi Marion.-
La ragazza sussultò, colta alla sprovvista.
-Aargh! ... Tennyson.- ansimò, voltandosi e riconoscendolo.
-Tennyson.- confermò Harmony compiaciuta, con tono decisamente più languido, perdendo tutto il malumore di un secondo prima.
Il ragazzo moro sorrise ad entrambe, allegro. -Cosa combinate?-
-Indaghiamo nell'archivio.- rispose Marion, nello stesso istante in cui la rossa ribatteva -Niente di particolare.-
Si fulminarono con lo sguardo a vicenda, e Tennyson ridacchiò divertito.
-Okay. Mettetevi d'accordo.-
-Ho trovato una pista, perciò cerchiamo informazioni per verificarla.- sbottò Marion, con tono che non ammetteva repliche. -Stiamo salendo in archivio.-
-Pista.- le fece il verso Harmony, sottovoce. -Mi sento in un telefilm di merda.-
-Non è che vi serve una mano? Tre persone trovano più cose di due.- si offrì lui, vivacemente.
La bionda sgranò gli occhi verde chiaro. -Naturale. Grande.-
-Ma ovvio che sì, tesoro.- sorrise l'amica, soffiandogli appena una spira di fumo sul volto.

Appena arrivati all'archivio, Marion non ebbe dubbi.
-Tennyson, accendi il computer e cerca quante informazioni puoi sulla vita privata di Misa Amane. Niente di vago, mi raccomando.-
Il moro alzò il pollice nella sua direzione e si sedette alla piccola scrivania (in ogni stanza del quartier generale dell'Spk, praticamente, c'era un computer).
-Tu, Harmony,- proseguì la bionda autorevole, -esamina invece il fascicolo relativo a Light Yagami.-
-Fascicolo?! E' un'enciclopedia!- si lagnò la ragazza, lasciandosi scivolare per terra con un borbottìo.
Marion la ignorò e corse subito verso il cassetto contrassegnato dalla M. Lo sapeva che avrebbe dovuto dare la priorità alle ricerche, ma per leggere qualche foglio non avrebbe sprecato troppo tempo. Estrasse la cartella "Mello" e rimase a fissarla, il cuore che batteva frenetico in gola.
Suo padre. Non aveva mai saputo molto di lui, nè aveva fatto domande al riguardo. Odiava dover ammettere che Near non era suo padre biologico e l'idea di doversi scontrare con la verità (sì, Mello era esistito e sì, sicuramente non era nemmeno lontanamente simile ad ogni sua immaginazione) la atterriva.
Però la curiosità era terribile, scavava ed erodeva ogni prudenza e la esortava strillando, una necessità esigente come nessun'altra era mai stata.
Il fascicolo era lì... solido... concreto... reale. Poteva sapere tutto, ogni risposta era a portata di mano. Un sottile cartoncino la divideva dalla persona che le aveva dato la vita.
La sua mente non ascoltò più niente e la spalancò, mentre la vista le si offuscava dall'emozione.
Il respiro le si mozzò in gola.
Vi era un solo foglio, scritto a mano. Marion lo fissò confusa e stordita. Dopo un istante, con una fitta alla gola, realizzò che vi era la calligrafia ossessivamente ordinata e regolare di Near, minuta e leggermente affilata. Deglutì faticosamente e aguzzò lo sguardo annebbiato, per riuscire a leggere.
Sapevo che prima o poi avresti cercato questo fascicolo, era il brusco inizio. La ragazza si ritrovò a sorridere amara: e come avrebbe potuto non saperlo? Lui sapeva sempre tutto. Soltanto tu, Marion, avresti un motivo per rivangare il funesto passato di Mello. Nessun altro potrebbe mai interessarsi a lui, ormai, o addirittura sapere chi fosse. Ma è comprensibile che tu sia curiosa di scoprire le tue origini.
Purtroppo mi vedo costretto, per il tuo bene, a togliere da qui qualsiasi informazione sul suo conto. Non giudicarmi negativamente per questo, te ne prego. Vorrei soltanto che fossi tu a risolvere il suo mistero e fare riemergere dall'oblio il ricordo di Mello, mentre percorri la tua strada.
Però ci tengo a dirti che si trattava di un grande investigatore e, nonostante qualche faccenda discutibile a cui non ti accenno, una persona dal cuore grande.
Spero che tu scopra tutto quello che vuoi sapere e che non rimanga delusa dalla realtà. Credo che lui ti amasse molto, se il mio modesto parere può confortarti.
Sii forte. Una persona che stimavo molto diceva che alla fine la giustizia trionfa sempre. 
N.
Marion sentì una lacrima felice premere urgente le sue iridi, vogliosa di scivolare su quel misero pezzo di carta tanto importante. Era emozionata come poche volte nella sua vita, sentiva l'urgenza di ridere forte a crepapelle e, nello stesso tempo, piangere tutto il dolore che si era accumulato nel suo animo come polvere dimenticata. Near era lì, in quel momento, con lei. Quello che aveva di fronte era un frammento di lui, che le aveva rivelato cose che non aveva mai sentito. Era come se le avesse parlato un'ultima volta. Aveva avvertito la sua voce nella testa, immaginato il suo capo riccioluto chino sul foglio, udito la penna sfrigolare contro la carta...
Sì, la penna. Una penna dal tratto leggero e sottile come un capello, d'un nero tenue e poco deciso. Quella penna le aveva lasciato un indizio. Un puntino, un segnetto appena percettibile subito dopo l'ultima frase. Proprio come se la punta, incerta se scrivere una cosa o meno, vi si fosse posata ma alla fine avesse preferito tenergliela nascosta.
Marion lo fissò bene, il puntino, nella speranza di estrarre le parole che impregnavano la penna in quegli attimi, di succhiarle e dissetare quella morbosa curiosità, quell'impellente desiderio di sentire un altro frammento di Near.
Marion lo fissò bene, il puntino, e si permise di sognare che quelle parole fossero ti voglio bene.
La N con cui lui si firmava sempre troneggiava sull'ultima riga, in tutta la sua maestà, delicata ed elegante. Così familiare che Marion l'avrebbe riconosciuta fra miliardi.
La lacrima maledetta che l'aveva minacciata fino a quel momento sgorgò a tradimento, bagnandole appena la pelle soffice sotto l'occhio.
Amava Near esattamente come se fosse stato vivo, con un'intensità che le faceva dolere il cuore. Amava Near, e senza di lui tutto sembrava perso e finito ancora prima di cominciare.
Aveva bisogno di aiuto, questo era certo. Ma Near si fidava di lei. Credeva in lei. Non voleva tradirlo, non voleva che pensasse di aver cresciuto una bambina incapace. Non voleva essere una delusione per l'unica persona che aveva avuto davvero importanza.
Strinse quel foglio e, vergognandosi un po', lo portò al viso. L'impronta della mano, delle dita, del respiro di lui parevano essersi cristallizzate sulla carta insensibile.
Marion notò all'improvviso un'ombra sul retro del foglio. Lo voltò, di colpo nuovamente incuriosita, e sgranando gli occhi si accorse che c'era un'altra riga per lei.
Devo renderti una cosa che ti appartiene. E' un regalo di tuo padre per te. Lo troverai nel terzo cassetto dal basso, nello scaffale dei giocattoli.
Incredulità ed eccitazione agitarono il pulsare nervoso del suo cuore. Un regalo? Di suo padre?
Come al solito, Near si era reso conto che qualsiasi cassaforte sarebbe potuta essere scassinata in qualunque momento, e argutamente aveva scelto come nascondiglio l'unico dove nessuno avrebbe guardato -e dove Lidner, Gevanni e Rester avevano il categorico divieto di mettere il naso.
Marion sorrise euforica, strinse il foglio al petto e corse giù per le scale, senza dare alcuna spiegazione.
Tennyson sollevò la testa abbassata verso lo schermo, perplesso. -Ma che fa? Ci bidona?-
Harmony sorrise allusiva. -Finalmente soli...-







































Note dell'Autrice: Eccomi! ^-^ Mi sembra che il capitolo sia abbastanza lungo, siete contenti?
Ed ecco un primo, piccolo indizio per Marion&co: c'è un collegamento fra Misa Amane e la Wammy's House, e quindi forse fra il nuovo Kira e la Wammy's House. Ma siamo ancora anni luce dallo scoprire chi è...
Volevo inserire un altro momento un po' malinconico, dato che non è passato molto tempo dalla morte di Near, e non è così facile dimenticare la persona che è sempre stata tuo padre. E poi il regalo di Mello. Cosa sarà? Vi lascio con questa domanda!
Grazie mille a tutti quelli che hanno recensito fin qui, e anche a chi solo legge! Sono davvero felice.
Al prossimo capitolo!
Lucy

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Capitolo 6
*** Domande. ***


5

Domande.



Giugno 2009

-E' incinta.-
La figura di Matt rimase immobile sul divano, dandogli le spalle. Infine, sullo schermo della televisione comparve la scritta "Pause".
-Chi?-
Mello sbuffò sonoramente, accigliato. -E chi, secondo te?! Shannon è incinta, idiota.-
Il ragazzo si voltò, guardandolo con le sopracciglia inarcate. -Fantastico. Complimenti. E' proprio il momento giusto per procreare a tutto spiano, mafioso.-
-Senti chi parla, il bue che dà del cornuto all'asino.- bofonchiò il biondo, scartando nervosamente una barretta di cioccolata.
Matt sospirò, mentre allungava pigramente una gamba sul bracciolo del divano. -E che fa? Lo tiene?-
-Sì che lo tiene.- ribattè seccamente l'amico.
-Ti rendi conto che non sarà facile per niente? Come credi di poter... c'è Kira, e c'è la tua sfida con Near... cazzo, biondo, non puoi metterti a fare il genitore ora!-
Mello morsicò con rabbia la sua tavoletta. -Lo so. Lo so!-
-E come farai? Lascerai il bambino a Shannon?- insistette Matt, lanciandogli un'occhiata severa da dietro le lenti dei goggles.
L'amico ghignò, non troppo divertito. -A Shannon non lascerei nemmeno il gatto per andare in vacanza. Si ricorda a malapena di farsi da mangiare a pranzo, figuriamoci se è capace di occuparsi di un figlio.-
-Quindi? A che conclusione sei giunto?- domandò il rosso, riavviando la sua partita con la Play.
Mello fissò il vuoto, poi scosse la testa, le labbra serrate in una smorfia pensosa. -Nessuna.-

Maggio 2025

Quando Marion giunse davanti a quella porta, la sua corsa sfrenata si arrestò all’improvviso: era ancora lì, terribilmente uguale al solito, con la N incisa sulla targhetta d’acciaio. Per un istante, ma uno solo, il suo cervello le impose l’impulso di bussare rispettosamente. La malinconia strisciò contro la sua pelle ancora, spiacevole ma ormai incapace di prendere il controllo delle sue azioni. Memore della scoperta che stava per fare, strinse i denti e abbassò la maniglia con un gesto brusco. 
Eccola, la camera candida e fredda in cui il proprietario non dormiva mai. La luce filtrava dal vetro vivido di pulito e si rifletteva sul pavimento traslucido, in una pozza di luce adamantina. Particelle di polvere impercettibili danzavano nell’aria, placide, visibili ai suoi occhi solo quando scivolavano nel cono argenteo che il raggio di sole creava. Aveva soltanto ricordi vaghi di quella stanza, dato che non ci era mai entrata fuorchè da bambina, quando cercava Near perché le sanguinava il ginocchio.
Il letto addossato alla parete, che aveva sempre ricordato immenso, era semplicemente un pelo più grande della media. La testiera era in ferro battuto bianco, le lenzuola sembravano un prato innevato.
Ma ciò che balzava subito davanti allo sguardo di chi entrava, attirando inevitabilmente l’attenzione, erano le cataste di giocattoli sistemate ovunque si fosse spazio: su un comò, in cima ad un armadio, allineati a ridosso del muro, affacciati oltre gli scaffali di una libreria, persino ordinati con precisione sul comodino.
Gli occhi a fessura dei robot, i fanali lampeggianti degli aerei, lo sguardo di vetro vuoto di strane minuscole bamboline la sorvegliavano vigili, sussurrando silenziose minacce che non avrebbe mai potuto udire.
In quella camera, la realtà crollata sotto i suoi piedi pareva intatta, intoccabile, un angolo di paradiso protetto da una bolla di sogni infrangibili. Il tempo si era congelato in un istante del suo passato, intestardendosi a non proseguire. Qualsiasi cosa fosse accaduta, nulla avrebbe potuto alterare la sua immobilità perfetta né intuire la verità che la infestava d’ombre. Quelle mura non avrebbero mai smesso di aspettare Near, e Marion invidiò stancamente la loro ingenuità. Il dolore era come una feroce malattia dai denti aguzzi e la fame insaziabile, capace di ferirla quand’era vulnerabile e talmente incontrastabile da far risultare patetica la sua resistenza.
Si riscosse da tali riflessioni e si gettò a terra, di fronte al comò. Aveva cinque grandi cassettoni spaziosi, in cui non vi erano che altri giocattoli. Aprì il terzo dal basso, con il cuore che bruciava nel petto e la sgradevole sensazione di avere miliardi di spilli sui palmi delle mani; vi era la scatola di un gioco da tavolo, ricoperto da caratteri cirillici, una schiera di soldatini di latta rigidi contro il fondo, un modellino dall’aria complicata scomposto… Affondò impazientemente una mano sotto di essi, e le sue dita urgenti trovarono qualcosa di diverso. La estrasse ed era un’ampia busta rettangolare, di porosa carta marrone chiaro, simile a quelle usate per inviare un oggetto per posta. Tastandola, Marion avvertì all’interno qualcosa di ingombrante e pesante che non riuscì ad identificare con nulla in particolare.
Una miriade di pensieri, fugaci ed abbaglianti come flash di una macchina fotografica, si riversarono nella sua mente senza che potesse afferrarne nemmeno uno. In definitiva non seppe a che cosa stesse pensando, a tutto e a niente.
Non riuscì ad aspettare un secondo in più. La strappò malamente e la rovesciò, spalancandovi sotto il palmo aperto. Vi scivolò sulla mano una grossa croce argentata, che scintillava con discreto splendore sotto la luce. Marion increspò la fronte, impreparata all’interminabile filo di pietre che si arrotolò pigro sulla sua mano.
Erano onici, lisci e lucidi come cristallo, bui e densi come gocce d’inchiostro, tondi e grandi come il suo pollice. Non aveva mai visto nulla di tanto semplice e splendido.
Si rese conto con sconcerto che era la catenina di un rosario, con il ciondolo a forma di croce. Lo osservò per un lasso di tempo che non calcolò, forse un minuto o magari un quarto d’ora; esisteva solo quell’oggetto inanimato, ma talmente pregno di emozioni che pareva respirare.
Pulsava nella sua mano tremante, iniettandole la più sconosciuta delle emozioni. Il luccichìo scuro e magnetico del rosario la ipnotizzava, estraneo quanto familiare, facendole avvertire per la prima volta un sentore dell'esistenza di suo padre. Prima era soltanto una figura qualsiasi, poche parole e nessun ricordo. Adesso non era ancora abbastanza reale, ma era qualcosa.
Cercava di sintonizzare il battito del suo cuore con quello lontano e ormai immobile di Mello, chiedendosi in silenzio perchè proprio quel rosario. Aveva un significato per lui? Simboleggiava qualcosa? Era un indizio per rintracciare il suo passato? Era stata una persona molto religiosa? Insieme a lui e Near, erano morte tutte le risposte.
Strinse le pietre con delicatezza, senza neanche provare a distogliere lo sguardo da esse. L'idea che una tale meraviglia, una tale preziosa bellezza le appartenesse la entusiasmava.
Non era più malinconica. Il pensiero di Near si era quietato dentro di lei, mentre quello del padre le infondeva vigore e curiosità, e forse provava anche una specie di nuovo affetto nei suoi confronti.
Quando raccolse la busta al contrario, notò che un piccolo pezzo di carta era sgusciato fuori e stava volteggiando in aria con leggiadrìa. Lo afferrò quand'era ormai rasoterra e lo spiegò, stupita.
Vi erano delle parole in tedesco, e ci mise del tempo per decifrarle. Near le aveva impartito alcune nozioni, ma ricordare i significati era difficile.
Che suo padre fosse tedesco? Dato che anche l'albino si era premurato di insegnarle proprio quella lingua, forse era così.
Alla fine, sconvolta, credette di avere sbagliato qualcosa. La traduzione che aveva formulato era Non metterlo al collo, quello bisogna appenderlo alla pistola.

Nomi, volti, nomi, volti, nomi e ancora volti. Un'accozzaglia di lettere e facce cupe irrompeva nella sua mente senza sosta, per poi divenire superflui ed essere dimenticati. Vite spezzate ed ormai irrecuperabili giacevano sulle righe del Death Note, una dopo l'altra, finalmente giustiziate come meritavano. Ed ecco che la carta ne soffocava altre, istantanea e letale. La morte scorreva come l'inchiostro sulle pagine, imbrattandole di crimini terrificanti.
La mano di Law si muoveva con agilità e decisione, un'arma rapida ed impeccabile, senza mai esitare o sbagliare nello scrivere. C'era persino qualcosa di aggraziato e affascinante nei suoi movimenti fluidi, come in quelli di tutti i predatori, ragionava Rail sovrappensiero, incantata dal suo incessante scribacchiare. Non di pericoloso e ripugnante, ma di semplice e pura eleganza.
Soltanto quando il notiziario trasmesso dal suo iPhone canticchiò la canzoncina di chiusura, le sue dita mollarono la presa salda sulla penna e la lasciarono scivolare sulla pagina immacolata. Sospirò di soddisfazione, stiracchiandosi e portando le mani dietro la nuca.
-Oggi mi sono decisamente messo in pari, nonostante avessi perso molto tempo. Abbiamo lavorato alla grande, vero?-
Rail sorrise pigra. -Già. Bravissimo. Ora posso accendere la tv?-
Il ragazzo scrollò le spalle, sarcastico. -Non volevi altro, eh? Bene, come ti pare.-
Si alzò dalla scrivania e si gettò sul letto, ben comodo nella sua piazza e mezza, ricoperto da una trapunta azzurra e soffice. Il profumo di sapone e lavanda, allegro e ospitale, imbeveva ogni cosa in quella casa.
Rail, sdraiata accanto a lui a pancia in su, accese la piccola tv premendo un tasto del telecomando. Subito cercò il canale dove davano un determinato programma e si mise ad ascoltare, senza distogliere lo sguardo dallo schermo nemmeno un secondo.
Law raggiunse indolente il cuscino e vi sprofondò la testa, socchiudendo gli occhi. Non dover studiare più tutti i giorni e partecipare alle lezioni era meglio, dal punto di vista del poter scrivere sul Death Note, ma i viaggi in aereo erano lunghi e stancanti. Senza contare che i soldi che aveva non sarebbero durati in eterno. Erano sufficienti appena per cinque o sei mesi di viaggi, non di più. L'unica soluzione gratis sarebbe stata rimanere a casa degli zii in Giappone, ma era un suicidio. Nella stessa famiglia di Yagami? Nella stessa città di Yagami? Con un poliziotto in casa?
Il suo sguardo vagò nel soffitto, assente, mentre i suoi pensieri s'inseguivano ed ingarbugliavano senza trovare una risposta. Inoltre, questa improvvisa partenza non avrebbe destato il sospetto degli inquilini? A Law non era sembrato, avendo già spiegato il perchè desiderasse viaggiare, ma forse qualche dubbio era sorto. Magari venire in Giappone era stato un errore.
Sperò davvero di sbagliarsi e si rigirò a pancia in giù, esausto. Da Londra aveva preso un volo per Roma, dov'era rimasto due giorni; da Roma per Mosca, tre giorni dopo per Ulan Bator, in Mongolia, e finalmente da lì per il Giappone. I voli e i fusi orari l'avevano distrutto, ma tutte queste tappe erano anche necessarie per confondere le acque e non far capire la sua vera destinazione, per dare l'idea di non avere proprio una meta precisa. Non aveva idea se qualcuno, prima o poi, avrebbe sospettato di lui, o se questo fantomatico nuovo L l'avesse già scovato. Ad ogni modo, prove non ce n'erano e trovarlo sarebbe stato fin troppo difficile, quindi per il momento si considerava al sicuro. Inutile allarmarsi per nulla, e nello stesso tempo pericoloso dormire sugli allori. Bastava restare tranquilli ma vigili, all'erta, pronti ad agire al primo pericolo.
Stava quasi per assopirsi, conciliato dal brusìo distante della televisione, quando udì un rumore che gli fece sollevare sorpreso le palpebre. Erano dei tonfi deboli e ritmati, come...
-La porta.- lo avvisò Rail, senza guardarlo.
Law si alzò svogliato, credendo si trattasse della zia. Quando aprì, però, fu costretto ad abbassare di parecchio lo sguardo per osservare il piccolo visitatore.
Era suo cugino Kazu, che lo fissava con i suoi occhioni tondi sgranati, sollevando il mento. I capelli nerissimi erano mossi, disordinati sulle spalle, e indossava una magliettina arancione tutta impastricciata di scarabocchi fatti con i pennarelli.
-Ehi, ciao.- salutò il ragazzo gentilmente, senza usare quel fastidioso tono condiscendente che tutti gli adulti hanno con i bambini.
Lui fece un sorriso timido, mostrando i dentini da latte. -Ciao.-
-Vieni, entra.- Si fece da parte, in modo che il piccolo potesse avanzare all'interno. Esaminò la camera come se non l'avesse mai vista.
-Vuoi sederti sul letto?- Law lo prese in braccio, per poi adagiarlo sul bordo del materasso. Kazu sbattè le palpebre, guardandolo con vivace curiosità.
-Papà dice che tu vieni da lontano.- disse infine, impacciato, dondolando i piccoli piedi.
Lui sorrise. -Da lontanissimo. Oltre il mare.-
La bocca del bambino divenne una comica "o". -Oltre il mare?! Come hai fatto?-
-Ho volato.- rispose il ragazzo, in fondo senza dire nessuna bugia. -La città da dove vengo io si chiama Winchester.-
-E' bella come la mia?- domandò Kazu.
-No, non così tanto bella.- lo rassicurò serio.
Il piccolo ridacchiò una risata cristallina, spontanea. Rail, ogni tanto, si distraeva dalla sua amata televisione per sorridere intenerita nella sua direzione.
-Io vado all'asilo.- proferì il cuginetto poi, con aria d'importanza.
-Ma davvero? Ed è divertente?- chiese Law.
Lui storse il nasino. -Sì, ma non tanto. Solo quando si gioca in giardino. Non quando si deve colorare i disegni che dicono le maestre.-
-Capisco. Cosa ti piace fare, allora?- continuò.
-Giocare a palla con papà, mangiare le torte di mamma e andare in biblioteca.- elencò Kazu sulla punta delle dita paffute.
Law gli sorrise. -E che libri leggi?-
Il cugino rise ancora. -Ma no! Legge papà o mamma o nonna, e io ascolto. Mi leggono degli animali della fattoria, dei pompieri e di Lupo Alberto, quando ero piccolo anche della famiglia dei coniglietti, ma adesso sono grande e non mi piacciono più.- affermò orgogliosamente.
-Giusto.-
-Ma poi andiamo sempre nel reparto dei grandi, che papà deve leggere i giornali gialli.- proseguì il piccolo.
Law aggrottò la fronte. -Cosa sono i giornali gialli?-
-I giornali vecchissimi, anche di mille anni fa. Li tengono tutti lì, papà a volte vuole leggerli.- spiegò Kazu.
-Kazu! Kazu, dove sei?!- esclamò la voce di Sayu dal piano inferiore.
-Quiii!- Kazu si girò verso il cugino. -Mi chiama la mamma.-
-Allora è meglio che tu vada.- consigliò Law, scompigliandogli affettuosamente i capelli scuri con una mano. Lo rimise a terra, poi lo osservò correre fuori dalla stanza.
Il ragazzo chiuse la porta alle sue spalle, silenzioso.
Rail sbuffò, cambiando canale. -Adesso dirai: "uffa, un'altra perdita di tempo!" Non è così?-
-No, mi spiace. Stavolta ti sbagli.- Law lasciò che le sue labbra si incurvassero in un sorriso soddisfatto. -Il mio caro cugino mi ha appena dato una bella idea.-

-Novità?-
Marion varcò la soglia dell'archivio, ad ampie falcate. Si rendeva conto di avere un'espressione distante, ma non poteva farci nulla: ogni suo pensiero si riversava inevitabilmente sul rosario nella busta. Eppure doveva riconcentrarsi, non poteva permettersi di farsi gli affari suoi mentre gli altri sgobbavano.
Tennyson voltò la testa verso di lei. -Ah, eccoti! Ma dov'eri finita?! Prima di piantarci in asso, avresti dovuto almeno avvertirci.-
-Scusate. Non l'avrei fatto, se non fosse stato davvero importante.- assicurò lei, notando distrattamente che il ragazzo aveva dei capelli davvero spettinati.
-Ehilà, salve!- Harmony spuntò da dietro uno scaffale, con in braccio una sfilza di fogli impilati. Indossava una t-shirt storta, nonostante prima fosse dritta. -Che è successo?-
-Lasciate stare.- tagliò corto Marion. -Adesso non è il caso di discuterne. Piuttosto, avete trovato qualcosa?-
La rossa sogghignò. -Non proprio grazie a te, però.-
-Dopo ti spiego.- brontolò lei, esasperata. -Potete dirmi cos'avete scoperto, per favore?-
Tennyson si alzò in piedi, avvicinandosi con una cartella.
-Ho ripercorso tutti i mesi della vita di Amane da quando è diventata famosa, cercando qualche elemento riconducibile alla Wammy's House. Non ne ho trovato assolutamente nessuno, tranne il futile dettaglio che anche lei è rimasta orfana. Ma non è comunque un particolare inerente a nessun orfanotrofio, dato che lei non ci è andata. Mi è stato molto utile il fatto che sia stata una pop star, perchè i paparazzi l'hanno sempre perseguitata e non le hanno concesso molta privacy.-
-Capisco.- assentì Marion, attenta.
-Non c'è alcun collegamento fra lei e la Wammy's, questo è certo. Non credo fosse mai venuta a conoscenza della sua esistenza, prima dell'arrivo di Kira.- aggiunse il ragazzo.
-Detto questo, è probabile che sia stato Kira stesso ad indurla a lasciare tutti i suoi soldi all'orfanotrofio. Light Yagami sapeva della Wammy's House, avendo indagato su Near. Il punto è: perchè? Cosa gli cambiava, una volta morto, a chi sarebbero finiti i soldi della fidanzata? Qual'era il suo fine?- si interrogò Marion, confusa e frustrata.
-Non credo volesse fare un'ultima buona azione.- commentò Tennyson. -E, a maggior ragione, non a un istituto che cresce successori di L.-
-Se hai detto che non hai trovato niente, che hai stampato?- domandò la ragazza, indicando la cartella.
Tennyson abbassò lo sguardo su di essa. -Una cosa che forse potrebbe essere utile, inerente all'argomento, in qualche modo. Si tratta di un buco.-
Marion allungò la mano e gli sottrasse la cartella, stupita. -Un buco? Spiegati meglio.-
-Un intervallo di tempo buio, in cui nessuno sa dove è andata Misa Amane. Non c'è nessuna informazione, nè sue fotografie apparse sui giornali. Un buco.- ripetè Tennyson.
-Quando sarebbe, esattamente?- La bionda aprì la cartella.
-Nel 2008, da Marzo ad Agosto. Stiamo parlando di sei mesi, non qualche giorno. Mi è sembrato strano, perchè Misa Amane non ha neanche detto nulla in proposito.-
Marion sfogliò rapidamente. -Interessante. E' possibile che, in questo lasso di tempo, lei abbia preso un aereo per Londra e sia andata alla Wammy's House... ma ne dubito. Prima di tutto, non vedo perchè avrebbe dovuto restarci per sei mesi. Inoltre, se fosse andata in aeroporto, i paparazzi l'avrebbero assalita letteralmente. E se proprio vogliamo dirne un'altra, nemmeno alla Wammy's questa presunta visita sarebbe passata inosservata.-
-Hai ragione.- annuì Tennyson, ammirato.
Marion si voltò verso Harmony. -E tu? Hai trovato qualcosa?-
La ragazza sorrise compiaciuta. -Ovvio. Ad ogni modo, ci ho messo ore a capire come funziona questa specie di dizionario... documenta la vita provata di questo poveraccio in maniera vergognosa, praticamente annota tutte le volte che è andato in gabinetto. Tralasciando i successi delle medie e le fidanzatine... ho letto più attentamente le parti che riguardano la sua vita dal momento in cui è diventato Kira.-
-Logicamente.- ribattè l'altra.
-Non ho trovato niente a proposito della Wammy's che lo riguardi direttamente, però ho notato una cosa. Ha lasciato la città parecchie volte nello stesso periodo, quando non era occupato al lavoro. E questo periodo è...-
-... da Marzo ad Agosto 2008.- concluse Marion, inarcando un sopracciglio. Harmony ammiccò.
-Bingo.-
-Sapete cosa significa questo?- Marion sorrise furba. -Che i due piccioncini avevano un segreto.-



































Note dell'Autrice: Eccomi qua! A postare l'ultimo capitolo delle mie vacanze. o.o Il prossimo lo posterò da studentessa stressata! Siete avvertiti!
Spero vi sia piaciuto. ^-^ Il flashback è appositamente molto vago, ma quando avrò posto ne aggiungerò qualcun altro per ripercorrere la storia di come Mello ha lasciato Marion a Near.
Il prossimo capitolo sarà più dedicato all' "idea" di Law, perciò preparatevi!
Grazie mille per avere letto, spero mi direte cosa ne pensate!
Lucy

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Capitolo 7
*** Futuro. ***


6

Futuro.


Novembre, 2009.

Mello era di fronte a lei, biondo ed immobile. Osservato da quella prospettiva, sembrava davvero alto.
La sua espressione era indecifrabile, un misto fra una contenuta indifferenza e un rigido distacco. La sua bellezza la abbagliò per l'ennesima volta, come fosse la prima. I suoi capelli erano luce pura, il suo sguardo troppo aguzzo per osare incrociarlo. Aveva paura di graffiarsi.
-Come stai?- La sua voce era cauta, diffidente, quasi volesse mantenere un muro fra i suoi sentimenti e lei.
-Niente male, soprattutto ora che mi degni della tua presenza.- rispose prontamente, con un sorriso sarcastico.
Mello la fulminò con gli occhi acuminati ed estrasse una barretta di cioccolata dalla tasca, senza parlare. Glie la porse, con un'espressione tanto insondabile quanto ferma.
-Davvero gentile, grazie. Com'è stato premuroso, da parte tua, ricordarti che non la sopporto.-
-Oh, sta un po' zitta, Shannon. Non è per te. E' per lui.- Mello indicò con un cenno del capo la sua pancia, brusco.
Shannon allungò la piccola mano esile e la accettò, con un sorriso intenerito. -Scommetto che gli piace un sacco.-
-Certo che gli piace, è mio figlio.- tagliò corto il ragazzo. Lei si sorprese: Mello non ne aveva scartata una per sè, nonostante riuscisse ad intravederla nella sua tasca.
Shannon appariva ancora più minuta, su quel divano, con l'ingombrante ventre tondo. Pareva troppo grosso per una ragazzina così mingherlina.
Ma, allo stesso tempo, il suo viso aveva una luminosità serena che prima non c'era mai stata. Un sorriso etereo addolciva vagamente i suoi lineamenti, spiazzandolo. Lei era felice, una felicità dorata ed inturbabile che la faceva splendere.
-Scalcia molto. Il dottore dice che è forte, ed è un bene.- mormorò Shannon, rannicchiando le gambe snelle sul divano.
-E' un bene.- ripetè Mello, assente. Il suo sguardo era fisso sulla pancia gonfia della ragazza, come se non potesse farne a meno. Niente nella sua espressione poteva tradire ciò che stava pensando, però sembrava esitare.
Shannon intercettò il suo sguardo e gli sorrise, per incoraggiarlo. Lui si inginocchiò a terra, lentamente, e posò il palmo aperto sul suo ventre. Per lunghi minuti, rimasero soltanto lì a fissare quel momento innaturale.
Mello non sembrava intenerito nè commosso. Era un po' sorpreso, interdetto. La minuscola creatura che Shannon portava in grembo cresceva pian piano, fragile come la corolla di un fiore, maturando lento verso la luce.
-Quanto manca?- sussurrò.
-Due mesi. E' bello vederti fare il papino premuroso.- lo canzonò divertita lei, che in fondo apprezzava molto il suo gesto.
-Certo che parli davvero troppo.- brontolò il biondo, seguendo il profilo della sua pancia con un dito.
Shannon lo punzecchiò. -Raccontami. Adesso che sono diventata grassa e brutta, ripieghi sul tuo amichetto rosso per spassartela?-
-A volte, quando te ne esci con cose del genere, mi disgusti.- commentò Mello scuotendo la testa. -E poi non dire che sei grassa e brutta soltanto perchè vuoi che io tenti di convincerti del contrario.-
La ragazza ridacchiò, arrossendo. -Ma che dici, stupido, mica è vero.-
Il biondo rialzò lo sguardo. -Il rischio...-
-Minimo.- assicurò lei. -Piuttosto, portami un altro cuscino. Sono comodi.-
Mello, bofonchiando qualcosa che suonava come "prima ero il papino premuroso e adesso sono lo schiavetto", le lanciò il cuscino. Shannon sapeva essere noiosa, irritante, insistente fino alla pazzia, troppo loquace, troppo diretta, troppo poco ordinata, sbadata come una vecchia, ma fra loro vi era una sorta di tacita complicità che solo le persone profondamente infelici ed insoddisfatte possono comprendere.
Shannon si cinse dolcemente il pancione con le braccia magre, i riccioli scuri che le incorniciavano il viso pallido.
-Allora, su, avanti. Facciamo qualche discorso terribilmente banale e adeguato alla situazione. Vorresti che fosse un maschio o una femmina?-
-Ti direi che non ha importanza, se tu non scoppiassi a piangere in preda agli ormoni.- replicò Mello asciutto.
-Guarda che devi rispondere così. Perchè, bambino o bambina che sia, sarà qualcosa di meraviglioso. Di speciale.- I suoi occhi brillarono vivaci.
Nessuno dei due sentiva quella bruma mortale, quel veleno che inquinava la semplicità di un futuro a portata di mano. Ma quel futuro, che erano disposti ad aspettare pazientemente, non sarebbe mai arrivato.

Maggio, 2025.

Era primo pomeriggio, una di quelle ore miti e chiare in cui tutti sono troppo impegnati per ammirare la sua bellezza. I locali deserti della libreria brillavano pacati alle luci del giorno, i pavimenti di ampie piastrelle erano appena sfiorati da fasci dorati e inondati da fiotti d'argento. L'aria intrappolata all'interno era impregnata di un sereno e denso silenzio, piacevole come il rincorrersi di onde calme. Sui lunghi tavoli, sistemati a debita distanza l'uno dall'altro, vi erano accatastati i libri spalancati e gli appunti disordinati di alcuni studenti, assorti nello studio. Giusto qualche persona si accostava all'uno e l'altro ripiano, alla ricerca di titoli perduti, lo sguardo fisso e la mente altrove.
Per Rail tutto ciò era nuovo. Aveva già visto la biblioteca della Wammy's House, ovvio, ma non era affatto in grado di competere con quella. All'orfanotrofio c'erano sempre un sacco di ragazzini, impegnati a memorizzare affannosamente e sfogliare le pagine con rapidità febbrile, che si facevano largo fra la massa per trovare il volume necessario e sudavano pensando al test imminente. Lì non esisteva nulla del genere. Nessun aveva fretta, nè paura. La pace che vi regnava era quasi religiosa, devota, ammirata, e ognuno sembrava avere stretto un tacito accordo con tutti gli altri e con le mura spesse e fresche della biblioteca.
La giovane Shinigami aveva sempre letto soltanto per piacere di farlo, e si stupiva che quegli studenti superdotati non facessero lo stesso. La tensione, dovuta alla strenua competizione e la ferrea rigorosità dello studio, impediva loro di rilassarsi abbastanza per leggere qualcosa che davvero attirasse il loro interesse.
Law era sempre stato poco amante delle storie di fantasia, non tanto per la sua eccessiva razionalità (infatti aveva delle ambizioni piuttosto eccentriche) ma perchè appunto non erano vere. Lui credeva solo in ciò che poteva realizzarsi, in ciò che poteva avere e assaporare: il resto, diceva con sprezzo, erano solo cretinate in cui non valeva la pena sperare. Definiva gli scrittori dei semplici illusi.
A dire il vero, a Rail poco importava se quello che leggeva era vero o no. Lei amava quelle storie, le viveva e le sentiva; si commuoveva per le dolci protagoniste sedotte ed abbandonate, piangeva per i lieti fine, inveiva contro i cattivi che ostacolavano il vero amore. Semplicemente le piacevano le situazioni complesse e intricate, i triangoli amorosi, i tradimenti, gli amori impossibili. Non c'era un motivo preciso, ma era così. Nulla di tutto ciò esisteva, nel mondo degli Shinigami, e si ripeteva convinta che gli umani dovessero ritenersi davvero fortunati.
Svolazzava incantata da uno scaffale all'altro, adorandone in silenzio la magistrale altezza e raffinatezza, sfiorando appena con le lunghe unghie i dorsi dei libri. Ce n'erano davvero un'infinità: antichi, recenti, vivaci, tutti neri, spessi, sottili, rilegati in cuoio e in cartone. Alcuni titoli erano così sbiaditi da risultare illeggibili. Rail sentiva un irresistibile desiderio di leggerli tutti e nessuno in particolare.
Si riscosse e diede uno sguardo affrettato all'orologio circolare affisso alla parete: le tre e ventisei. La distrazione di quel luogo irreale aveva permesso al tempo di scivolare dalle sue mani, come sabbia fra le dita. La Shinigami tornò indietro, svoltando ogni tanto, per raggiungere il tavolo da cui aveva cominciato l'esplorazione.
Era l'ideale per Law: appartato, tranquillo e semibuio. Si trovava nell'angolo di un reparto completamente vuoto, dato che vi erano solo dizionari, ed era protetto da mura e mura di libri.
La fiamma incerta di una candela danzava tremando e riflettendosi sui suoi capelli luminosi, divenuti lingue ramate a lambirgli la fronte. La fronte pallida era increspata dalla concentrazione, le dita lunghe da pianista sfogliavano ciò che stava leggendo con efficienza e rapidità.
-Allora?- sussurrò Rail eccitata. -Hai trovato qualcosa?-
Law non rispose, rapito dalla lettura. Soltanto quando terminò un paragrafo sollevò il mento verso di lei.
-Sì. Effettivamente, c'era proprio quello che speravo.- confermò, con pigra soddisfazione.
-Cioè?- La Shinigami volò alle sue spalle, allungando il volto verso la carta. Era un giornale, un quotidiano, e pareva molto recente. Controllò, e infatti recava la data di pochi mesi prima. -Cosa cerchi, di preciso?- domandò stupita.
Law le sorrise trionfante e iniziò. -Allora, ti spiego. Grazie ai giornali posso sapere ciò di cui la gente comune viene informata, riguardo il caso Kira, ovvero ciò che può essere pubblicato senza destare panico e terrore nelle persone. Buone notizie, anche se molto vaghe.-
-E' vero, ma la maggior parte delle cose viene tenuta nascosta! Per esempio, tutta la faccenda di L morto e di tuo padre.- ribattè Rail.
-Sì, perchè questo è un esempio di cosa terrorizza la gente. Se muore il miglior investigatore del mondo, ucciso da colui che doveva scovare, tutti si sentirebbero in inevitabile pericolo e la situazione parrebbe irrimediabile.- rispose il ragazzo con pazienza. -In ogni caso, si tratta di una percentuale bassa di notizie divulgate pubblicamente.-
-Ecco.-
-Ma a me queste notizie interessano fino ad un certo punto. Voglio dire, se potessi scoprire quale metodo sta adoperando il nuovo L per cercarmi, ben venga. Però non mi illudo di arrivare a tanto. Quello che voglio scoprire io è qual'è il clima generale. Di paura, certo, questo è ovvio. Però intendo rispetto al caso Kira precedente.-
-Ah.- La Shinigami non parve molto interessata. -E cosa ne hai dedotto?-
-Che il mondo, nonostante il timore eccetera, confida troppo in L. Tutti, dai giornalisti alle forze dell'ordine, sono estremamente convinti che riuscirà a fermarmi presto, visto che è già successo una volta. Per loro un Kira vale l'altro, non può essercene uno più furbo.- spiegò Law con un sorriso di scherno. -Non hanno idea di quanto si sbagliano. E io, com'è giusto che sia, ne approfitterò.-
-Bene, ma era tutta qui la tua grande idea?- sbuffò Rail annoiata.
-Ho anche letto qualcosa riguardo il primo caso Kira, ma sono riuscito a scoprire poco su come agiva.- ammise lui. -Ma mi sono reso conto che uno dei suoi errori più gravi è stato non utilizzare da subito ogni risorsa del Death Note e così facendo tradirsi, poichè ciò ha permesso ad L di avanzare delle ipotesi sulla sua identità e sul suo potere. Per esempio ha ucciso tutti di arresto cardiaco, senza modificare di tanto in tanto la causa della morte per sviare un po' i sospetti, e ha giustiziato i criminali ad orari precisi, regolari. Io non ho fatto così, ma era inevitabile che mi riconducessero a Kira e al quaderno, ormai. Però almeno non sanno che sono un ragazzo.-
Law afferrò la pila di giornali che traboccavano dalla superficie del tavolo e iniziò a riordinarli negli scaffali, meticolosamente. Gli cadde l'occhio su un titolo che cominciava, a lettere cubitali, con "Spagna".
-E' la nostra prossima meta, sai?- affermò, fissando il giornale visibile per metà.
-Cosa?- chiese la Shinigami, che non l'aveva visto.
-La Spagna. Sembra raccontino qualcosa di interessante.-
Incuriosito, allungò la mano e lo estrasse dal suo cassetto. Non era molto vecchio, risaliva circa all'anno prima; il titolo di copertina diceva "Spagna: arrestata la killer seriale di Madrid".
-Killer seriale?- fece eco Rail. -E chi sarebbe?-
-Non ne ho mai sentito parlare prima d'ora.- confessò Law, portandoselo sul tavolo. Aguzzò la vista e si concentrò sulle parole.
"La famosa serial killer che ha fatto vivere mesi di terrore a tutti gli abitanti di Madrid è stata finalmente consegnata alla polizia. E' stata trovata sul luogo del delitto insieme all'ultima vittima, fatta a pezzi con un coltello da cucina." Continua a pg 4...
Law inarcò le sopracciglia. -Wow, questa non passa certo inosservata. Coltelli... com'è volgare.-
-Fammi leggere, fammi leggere.- insistette Rail, sgranando gli occhi gialli e bulbosi. -Dài!-
-E d'accordo.- sospirò Law, che era già intenzionato a rimetterlo via. Sfogliò le pagine, distrattamente, e lo voltò verso la Shinigami per permetterle di leggere.
I secondi passarono con pigra calma, scanditi dall'orologio della biblioteca e dallo scorrere lontano dei suoi pensieri. C'erano così tante cose da perfezionare, decidere, sistemare, verificare, da cui difendersi... quello era il debito che il suo compito gli imponeva di portare. Ansia, paura, sospetto, indecisione, responsabilità. Aveva imparato a sopportare e combattere tutto questo molto tempo prima.
Quando Rail risollevò lo sguardo, aveva un'espressione strana.
-Lawry, leggi anche tu.-
-Non chiamarmi così!- ribattè il ragazzo risentito. -Cosa c'è?-
-Tu leggi, poi ne riparliamo.-
Law si stupì per la voce stranamente grave e sconcertata della Shinigami, così chinò il capo e lesse.
"L'ultimo omicidio della killer di Madrid sembrava essersi svolto proprio come gli altri. Dopo averne scoperto l'identità in maniera ignota, ha telefonato alla vittima informandola che la sua morte sarebbe presto arrivata e lei, Marìa Garcias, 24 anni, presa dal panico ha preso una stanza in un motel poco distante dalla città, senza avvisare parenti nè amici. Tre giorni dopo la polizia ha fatto irruzione nella sua camera e ha trovato la vittima in un lago di sangue, a terra. Lo shock: c'era anche l'assassina, poco distante, che incideva caratteri sconosciuti sullo specchio del bagno, con lo stesso coltello da cucina con cui aveva appena macellato la ragazza. Non ha opposto resistenza alla polizia e si è lasciata condurre all'ospedale psichiatrico di Madrid. Non è ancora stata identificata, si sospetta non abbia nemmeno un certificato di nascita. La Spagna tira un sospiro di sollievo, ma ci sono ancora molti interrogativi. Chi è la ragazza che ha fatto tremare una nazione intera? Per quali motivi uccideva? Come mai si è lasciata trovare sulla scena del delitto? Un ultimo, atroce dettaglio ha fatto gelare il sangue: prima di essere arrestata, la killer ha contattato un'altra ragazza che subito ha messo al corrente la polizia. Scoprendo della sua cattura, nessuno si è più preoccupato di ciò. Ma tre giorni dopo è stata investita da un camion, sotto casa sua, da un uomo di 47 anni in stato di ebrezza. La coincidenza è troppo inverosimile per non atterrire l'opinione pubblica, che l'ha definita un oracolo."
Law sollevò gli occhi, frastornato. -Non riesco a capire. Certo, è ben strano.-
Non appena pronunciò l'ultima sillaba, le sue iridi castane s'infiammarono di istantanea consapevolezza. Socchiuse le labbra, incredulo.
-Significa...-
-Già.- replicò Rail, inquieta. -Questa ragazza non è un oracolo, nè un'indovina. Ha gli occhi di uno Shinigami.-


C'era nulla vicino a lei. Nulla. Avvolgente e strisciante e liquido, che la bagnava e le penetrava nella pelle, e la pungeva fino a renderla insensibile, e diventava lei. Era lei.
Nulla. Come si fa a descrivere nulla? Lo stesso termine lo annulla. Nega la sua esistenza.
Nulla. Il nulla allentava i suoi sensi, li rendeva un acquerello slavato e confuso di cui il soggetto si poteva soltanto immaginare. Sapeva di poter vedere, sentire, toccare, ma non come farlo. I suoi nervi erano stati bruciati. Dov'erano i suoi occhi? Dov'era la sua bocca? Dov'era il suo naso, le sue mani? Niente rispondeva ai suoi impulsi. Non aveva più consapevolezza del suo corpo.
Non aveva più consapevolezza di nulla. Non aveva più consapevolezza. Cos'era, in fondo? Lì non c'era nulla da poter rilevare.
Nemmeno i suoi pensieri avevano un flusso, una consistenza. Non ragionava. Non sapeva pensare. Rimaneva lì, esistendo o forse no.
E poi, quella sospensione mai esistita ebbe fine. Una luce grigiastra s'insinuò sotto le sue palpebre: no, non era luce. Era un buio tenue, placido.
Pensò, e ogni articolazione del suo corpo rispose. Le parve di essere scivolata di nuovo sotto la sua pelle, con sollievo.
Il torpore disgustosamente viscido che prima impastava ogni arto si era dileguato. Ciò significava che la morfina l'aveva liberata dalla sua morsa letale.
Le piaceva dormire, ma odiava perdere conoscenza bruscamente. Invece a quelli piaceva tantissimo, perchè la morfina scorreva sempre nel suo sangue e tutto si dileguava, e finiva nel mondo del nulla.
Ma adesso si era svegliata. Tastò il materasso rigido su cui giaceva, fino a trovarne il bordo, poi scostò il ruvido lenzuolo. Allungò esitando una gamba, scoprendola intorpidita e capace solo di limitati movimenti, e non si stupì.
Quando i suoi piedi scalzi premettero sul pavimento un fiotto di freddo le gelò i nervi, risalendo dalle caviglie fino alle braccia. Azzardò pochi passi incerti, tenendo le piccole mani appresso al letto, per evitare di cadere.
La stanza era la solita dove rimaneva rinchiusa di solito, piccola e asettica e anonima. Ne visualizzò mentalmente una pianta, con rapidità, e raggiunse la porta. Dopo averla cercata a tentoni nel buio, afferrò la maniglia: la abbassò, esercitando una lieve pressione, ed inaspettatamente si socchiuse.
Una luce pungente ed abbagliante inondò le sue iridi, così battè le palpebre stordita. Sporse la testa.
Il laboratorio era come sempre piuttosto affollato. Un esercito di scienziati si affrettava da una parte all'altra del corridoio, indaffarati nelle solite faccende. Ronzii di computer, squilli di telefoni, confusione di fogli e penne si sovrapponevano senz'ordine, accompagnati dai tonfi veloci dei passi.
La bambina si guardò intorno, chiedendosi quale fosse la cosa migliore da fare. Senza dubbio tornare indietro pareva la scelta più facile e rassicurante, ma quelle mura strette iniziavano ad opprimerla ed il sapore della morfina a nausearla. Tutto, nella sua stanza, sapeva di siringhe nella pelle e aria viziata, qualcosa di malato e sgradevole.
Camminò, insicura sui pallidi piedi nudi, verso il corridoio di sinistra. La folla proseguiva la sua corsa, ignorandola. Dove sarebbe potuta andare? Non aveva un obiettivo, se non quello di allontanarsi dalla brutta sensazione. Sapeva che esisteva un mondo là fuori, oltre la stanzetta, oltre il laboratorio. Un mondo sconosciuto, con migliaia di colori. Ma erano soltanto immagini in un libro, sogni nella sua testa. Non la realtà, o almeno non la sua. E, se per assurdo ci fosse arrivata, l'avesse trovato, cosa avrebbe fatto...?
Finchè non avvertì una salda mano sulla spalla. Quando si voltò, si trovò di fronte il volto accigliato di una bionda in camice.
-Ma che ci fai qui, piccola?-
Lei si limitò a fissarla, con sguardo apatico e vitreo.
-Lo sai che non devi stancarti troppo... domani ci sono i test. Avanti, torniamo a nanna.- mormorò con voce suadente, prendendole la piccola mano.
Si lasciò docilmente condurre nella sua camera. Il nulla la aspettava, come il mostro nell'armadio, con un ghigno paziente d'inesorabile sazietà.







































Note dell'Autrice: E rieccomi qua! Scusate tanto il ritardo. ^-^" Il ritorno a scuola, come prevedevo, è stato decisamente traumatico...
Voglio ricominciare l'estate daccapo! Regalatemi una Giratempo per il compleanno, vi prego, tanto è fra poco! ò.ò
Tornando seri, che ve ne pare? So che è un po' corto, e dopo tanta attesa non ho scusanti. Mi spiace! Spero vi sia piaciuto lo stesso.
Che ne pensate di Shannon? Non appare molto, ma... che so, un commento a pelle?
E chi sarà mai la bambina dell'ultima scena? ... chissà. Non preoccupatevi, più avanti vedrete!
Grazie a tutti coloro che recensiscono e mi sostengono, è davvero importante per me! Se potete, ci terrei molto a sentire l'opinione dei miei lettori. ^-^
Lucy

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Capitolo 8
*** Occhi. ***


7

occhi.


2 Gennaio, 2010.

Solo in quel momento Mello si rese conto di essere rimasto lì in piedi per tutto il tempo. Ma finora aveva dimenticato la stanchezza, o la semplice esistenza di un corpo che potesse provare tale sensazione. Sollevò bruscamente lo sguardo, assalito da un ricordo che lo fece sussultare.
Shannon giaceva nel letto di fronte a lui, affondata fra un cumulo di coperte e su un cuscino enorme. Voleva potersi illudere che il suo fosse un semplice sonno dovuto alla fatica che aveva appena affrontato, ma gli bastò un istante per realizzare che tutto era molto peggio di come avesse immaginato.
Il rossore violento che durante il parto aveva invaso le sue guance era sbiadito in una sfumatura biancastra, gelida ed innaturale da fare paura. Sottili rivoli di sudore scivolavano dall'attaccatura umida dei suoi capelli fino al mento, con lentezza; un groviglio di ricci scuri era sparso sul cuscino, attorno al suo volto minuto. Teneva gli occhi strizzati, come se avvertisse ancora un dolore fastidioso, e di tanto in tanto schiudeva le labbra aride.
L'inesorabile prova che ogni suo piano sarebbe crollato strinse lo stomaco di Mello in una morsa d'acciaio. Senza la prontezza per reagire, senza la razionalità per accettarla come realtà effettiva, senza la lucidità per ragionare, rimase immobile e impotente a fissare qualcosa di irrimediabile. Non riuscì a colmare il vuoto che lo shock aveva scavato nella sua mente, impreparata ad un simile affondo.
Era come se quel giorno gli orologi avessero perso il potere che solitamente esercitavano su di lui. Il ticchettìo delle lancette non lo scalfiva, limitandosi a scorrere senza poterlo afferrare.
Ad un certo punto, uno qualunque di quel silenzio istantaneo ed infinito, Shannon mosse la braccia. Fu un gesto convulso, fulmineo, un impacciato tentativo di sollevarle. Una coperta impediva i suoi arti, così li lasciò ricadere senza insistere.
Mello fece un passo avanti, osservandola con amara pietà. La ragazza parve udire indistintamente il rumore, perchè ripetè il movimento con maggiore eloquenza.
-Dammela.- farfugliò,
con un'urgenza incalzante che fece tremare appena la sua voce. Era aspra e difficoltosa, come non parlasse da mesi.
Il ragazzo rimase dov'era, senza obbedire, squadrandola con sospetto. Non la riteneva abbastanza forte, nè affidabile, nè consapevole delle sue azioni in quel momento.
-Dammi mia figlia, stronzo! Dammela!- sbottò, rabbiosamente, 
in preda ad un terrore incomprensibile. Il suo volto si contorse in un'espressione di panico e spasmodico dolore.
Mello contrasse le labbra. Si chinò appena verso il letto, scostò la coperta e lasciò un piccolo fagotto bianco fra le braccia frementi della ragazza.
Shannon, appena la avvertì, spalancò gli occhi con inaspettata energia. Il suo sguardo frugò rapido e impaziente sulla neonata che finalmente teneva in braccio, avido d'ogni dettaglio.
Era minuscola, l'essere umano più piccolo che avesse mai visto, tanto da farla ridere dallo stupore e la sorpresa. Il suo visetto era microscopico, ed erano microscopiche anche le guance paffute e il naso, dalle dimensioni dell'unghia del suo pollice. La pelle era scarlatta, d'un colore che le ricordava le fragole di bosco, liscia e morbida e calda come il pane appena sfornato. Era un piacere sfiorarla con le dita. Sul piccolo cranio vi erano pallidi ciuffi d'un biondo tanto chiaro da apparire trasparente. La osservò con i grandi occhi tondi e verde perla, prima di socchiuderli in un'espressione corrucciata.
Shannon aprì la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma le lacrime furono più svelte ad offuscarle lo sguardo.
-E' un miracolo.- bisbigliò con voce fievole. -Un miracolo.-
-Diciamo che è venuta fuori piuttosto bene.- ammise Mello, con un ghigno vago.
-L'interferenza genetica da parte mia non ha fatto troppi danni.- scherzò la ragazza, posandosela con dolcezza al petto. Era un peso quasi impercettibile, soffice e calda. Un sollievo, per la giovane madre, che sentiva il freddo possedere ogni centimetro della sua pelle. Sollevò lo sguardo verso Mello, con un barlume sconsolato e rassegnato nelle iridi smeraldine.
-Sto per morire, non è vero?- La sua voce manteneva una calma rigida e contraffatta che non convinse nessuno dei due.
-Ma che stai dicendo, stupida. Perchè dovresti morire?- Però gli asciugamani impregnati di sangue vivo erano ammassati giusto qualche metro più in là, nascosti alla vista della ragazza.
Mello si sentì un cretino, a dire una bugia tanto evidentemente stupida. Il corpo esile e fragile di Shannon era stato prosciugato di ogni energia: la pelle assumeva un pallore sempre più malato, la voce s'affievoliva pian piano, i movimenti erano goffi e lenti. Sembrava che un torpore stesse cercando di imporsi su di lei, e la ragazza resistesse strenuamente appellandosi ad una forza che non aveva più. Si stava spegnendo.
-Non voglio abbandonarla, non voglio abbandonarla adesso. Io voglio rimanere con lei. Per favore.- implorò a voce fioca, rivolgendosi a dèi sconosciuti che non potevano più rispondere alle sue preghiere.
Mello tacque con distacco. Shannon cullò con dolcezza la bambina, mormorando una ninna nanna flebile. Ma lei non voleva saperne di dormire, e la fissava con i luminosi occhi verdi.
-Andrà tutto bene, Shannon. Hai smesso di soffrire.- sbottò Mello, con freddezza ma sincerità. Lui capiva, anche se non l'aveva mai rivelato esplicitamente.
Capiva come mai lei avesse voluto dimenticare la sua vita, partire dall'America e recidere ogni contatto con il suo passato. Capiva quanto strazianti possano essere certi fantasmi, e con quanta insistenza possano inseguire coloro che li evocano. Capiva il dolore, con quegli occhi spezzati dalle sconfitte. Quando erano insieme potevano fingere che non esistesse. Quando si trattava di fare sesso, bastava lasciare ogni ricordo dietro la porta: l'uno serviva all'altra per impedirsi di pensare.
Non l'aveva amata, e Shannon non aveva amato lui. Ma tutto sommato, che importanza poteva avere in quel momento? C'era la bambina, doveva essere così.
Shannon sfiorò le ciocche bionde della figlia, delicatamente. -Non lasciarla orfana, Mello. Non lasciarla senza famiglia. Non... no.-
-Sì, va bene, d'accordo.- Non aveva problemi a fare promesse ad una morta.
-Marion deve rimanere con te, perchè sei il suo papà. Mi hai capito? Mi ascolti?- La sua voce era un brusìo sempre più sottile.
-Marion?- Mello inarcò le sopracciglia, interrogativo. Lei sorrise faticosamente.
-Ma... rion. Marion. Porta Marion al sicuro. Lontano... al sicuro. Io vivo in lei, adesso.-
Il ragazzo si chiese se non stesse iniziando a delirare.
-La porterò da qualche parte.- promise, senza avere la benchè minima idea di dove andare.
Shannon diede un bacio leggero alla nuca della piccola, in un soffio. -Grazie, Mello. Di tutto.-
-Adesso piantala.- Mello alzò gli occhi al cielo.
-Guarda che se muori, faccio un salto all'inferno e ti gonfio di botte.- bofonchiò minacciosa. Lui la ignorò diplomaticamente, ricordando quanto potessero fare male i suoi pugni.
Qualche istante di silenzio, e la ragazza socchiuse gli occhi esausta.
-Sono tanto stanca. Voglio dormire.- bisbigliò, con un filo di voce.
-Sì, brava, dormi.- ribattè distrattamente Mello.
Il suo cuore cessò i battiti con un sospiro, pochi minuti più tardi. La bambina che aveva fra le braccia scoppiò a piangere, quasi l'avesse capito.
Dopo che ebbe dato fuoco al capannone dove Shannon aveva dato alla luce sua figlia, Mello prese la piccola Marion con sè e salì in moto.
Nemmeno lui sapeva esattamente perchè ci stesse andando, ma il suo inconscio lo stava guidando alla sede dell'Spk. Dimora dell'essere che detestava di più sulla faccia della Terra.
Dimora dell'unica persona che avrebbe potuto aiutarlo.

Maggio, 2025.

Marion tamburellò la penna contro il foglio bianco, accigliata. Gli occhi serrati in fessure acuminate, fissava il vuoto frustrante come se volesse disintegrarlo con lo sguardo. Pensieri furiosi si dibattevano nella sua testa, impossibili da intuire. Era china sulla scrivania che Lidner aveva scelto per il piccolo appartamento in cui viveva, nella mansarda piena di luce.
Harmony la osservò a lungo, combattuta fra due possibilità. Qual'era la migliore? Spesso la bionda aveva bisogno di riflettere ed essere lasciata in pace, perchè nessuno avrebbe mai potuto rispondere alle domande che si poneva imperterrita. Ma dall'altra, a cosa servono le migliori amiche se non a raccontarsi tutto? Quindi decise di interrompere quel silenzio, a costo di sentirle e di essere insultata pesantemente.
-Ehi, che hai? Se continui così, ti esplode il cervello.- commentò con leggerezza, ostentando noncuranza.
Marion non rispose e spostò lo sguardo verso di lei, permettendole di notare che erano velati da una stanchezza opaca.
-Harmony, tu sai tracciare un profilo psicologico?- domandò di getto, mentre aggrottava lo sguardo.
Harmony inarcò le sopracciglia. -No, la maestra delle elementari si è scordata di insegnarmelo. Ma sei fuori?! Un che?-
-Profilo psicologico.- ripetè Marion, infastidita dal fatto che non avesse preso troppo sul serio la sua domanda. -Quello che L tracciò per farsi un'idea di chi fosse il primo Kira, e che anche Near ha delineato in altre occasioni. Sarebbe molto utile avere qualche indizio di questo genere, adesso.-
-Di certo non restringerebbe il campo, dato che per ora consiste in tutto il mondo.- ribattè l'altra, scettica, dando un brusco scossone ai codini fiammanti.
Marion assunse la sua espressione da "è-come-dico-io-perciò-taci".
-Male non farebbe. Il problema è che mi sono accorta di non sapere nemmeno da dove cominciare.-
-Ahh!- sbuffò Harmony. E lei, che aveva creduto pensasse a chissà cosa! Altrochè. Pensava ad uno stupido profilo psicologico.
-Senti, non credo che sia un disastro dalle proporzioni universali. Piuttosto, ti stai stressando oltre i limiti dell'impossibile... sarebbe ora che staccassi un po'. Nemmeno riposarti potrà farti male, o no?-
Marion si voltò, scivolando in un silenzio ferreo. La sua espressione era insondabile.
-E' uno spreco inutile di tempo.- decise infine.
Prima che l'amica potesse replicare, un rumore di passi affrettati e tonanti sulle scale le interruppe entrambe.
La testa ricciuta e scarlatta di Craig fece capolino dalla porta. Aveva un sorriso ironico e due scatole unte in braccio.
-Arriva la pizza!- annunciò con brio. -Appena uscita dal forno scassato della bettola qui dietro.-
-Era ora. Pensavo che i proprietari ti avessero stordito per farti a pezzi e metterti sulla pizza di Hannibal Lecter.- fu il saluto di Harmony, intenta a sistemarsi comodamente su una pila di cuscini che avevano sparso per terra.
-Non sei stata così fortunata questa volta.- rispose serenamente il gemello, poggiando le pizze sul basso tavolino di cristallo.
Marion le fissò con occhi affamati. -Perchè non le avete chieste per asporto?-
-Di questi tempi, i fattorini sono tutti cessi.- sospirò Harmony, afflitta. -Mio fratello è molto più bono di tutti loro messi insieme, così preferisco vedere arrivare lui.-
-Parole sante.- annuì il diretto interessato, convinto.
La bionda scosse la testa con disapprovazione. -Siete casi senza speranza. Godetevi la cena, io... io rianalizzerò la lista delle vittime e gli orari delle morti.-
Craig sollevò gli occhi castani dalla chiusura della scatola, scettico. -Tu che ti perdi una pizza all'ananas? Infattibile.-
-Ananas, hai detto?- Marion esitò, spostando indecisa lo sguardo dal computer alla pizza.
Harmony le lanciò indignata un cuscino in piena faccia. -Non si rifiuta mai una pizza all'ananas, ignorante! Su, non morirà il Giappone intero intanto che mangi quattro tranci.-
-Se mi dai ancora dell'ignorante, quella merda che fumi dalla mattina alla sera intraprende un viaggio di non ritorno per lo scarico del water.- la zittì Marion, tranquilla, optando per la cena e sprofondando in uno dei giganteschi cuscini.
Si divisero la pizza equamente (-A me un trancio in più, perchè la bellezza richiede nutrimento,- aveva puntualizzato Marion) e Craig finì per trasformare il coltello con cui l'avevano tagliata in un involtino di mozzarella grosso come un hot dog.
-Dov'è quello gnocco di Tennyson? E' tutta la sera che non lo vedo.- esclamò Harmony, pulendosi il pomodoro dalle unghie.
Marion addentò la pizza con espressione libidinosa. -Gita scolastica.-
-Oh, santo cielo, la scuola cerca di rovinarmi la vita anche quando non ci vado.- esordì la gemella teatralmente.
Craig la fissò con sguardo truce per qualche secondo. -A proposito di Tennyson. Non ti sembra di avere troppa, uhm, confidenza con lui?-
Harmony si esibì nell'espressione innocente migliore della storia del cinema. -Confidenza? Vale a dire?-
Marion trasformò la risatina in un colpo di tosse, nascondendosi dietro un tovagliolo di carta.
-Lasciamo perdere.- si arrese Craig. -Piuttosto, avete novità riguardo quei famosi sei mesi?-
Marion scosse la testa. -Niente, per ora. Comunque, sarebbe utile se tu contattassi chiunque possa avere delle foto riguardo Amane, in quel lasso di tempo.-
-Intendi i paparazzi?- chiese il ragazzo stupito. -Credi le abbiano?-
-Misa Amane potrebbe aver vietato loro di pubblicarle, ma niente avrebbe impedito loro di scattarle.- ribattè lei.
-In questo caso, non le avrebbero tenute. Non ce ne sarebbe motivo.- obiettò Craig.
-Tentare non costa nulla, perciò tu tenterai.-
I gemelli erano abituati alla sua predisposizione a dare loro ordini, perchè in effetti era quella che chiamavano affettuosamente "la loro leader".
-Siete uno più noioso dell'altro. Non sapete proprio cambiare argomento, eh?- si lamentò Harmony, finendo la sua fetta di pizza con un ultimo boccone.
-Già.- rispose seccamente la bionda. -Prima stavamo parlando dei profili psicologici...-
Craig scrollò le spalle. -Onestamente, trovo che siano imprecisi e portino fuori strada. Una descrizione così approssimativa, che non puoi mai dare al 100% per buona, non aiuta più di tanto. Facciamo una prova. Quali sono più o meno gli orari in cui Kira commette gli omicidi?-
-Non ce n'è di specifici. A volte alle otto del mattino, a volte alle undici, a volte alle tre...- Marion fece un cenno vago con la mano.
Craig sorrise. -Bene, allora secondo il profilo psicologico che traccio adesso Kira è uno che si sbatte troppo le palle di scegliersi un orario in cui scrivere sul quaderno, quindi preferisce ammazzare quando gli gira. Perciò credo proprio che sia una persona volubile, o una tredicenne con gli sbalzi d'umore dovuti alla sindrome premestruale. Ha senso?-
Harmony lo osservò, con sarcastica ammirazione. -Wow, Craig. Credo che tu abbia finalmente abbia risolto il mistero sulla sua identità. Ora è tutto chiaro.-
-Non credo funzioni così.- ridacchiò Marion. -Ad ogni modo, prenderemo in considerazione l'idea.-
-E come potresti non farlo...-
D'un tratto udirono bussare.
-Chi rompe, adesso?- protestò Harmony, sgranocchiando pigramente una crosta umida di pomodoro.
-E' Halle.- rispose Marion, che aveva riconosciuto i colpi delicati e ripetuti. -E' aperto!- aggiunse a voce più alta.
Lidner aprì la porta. Indossava uno dei suoi soliti tailleur dalle tinte chiare, i capelli color platino erano impeccabili e splendenti, ma la sua espressione seria non era un gran buon segno.
-Scusate l'interruzione, ragazzi. Nell'ultima ora, Kira ha ucciso undici vittime...-
-Undici?!- Craig spalancò gli occhi, inorridito.
La gemella non fece una piega. -Mi sa che la tredicenne ti ha sentito.- si limitò a commentare.
-E la... come definirla? L'ipotetica nuova L ci ha contattato. Vuole parlare con te.-  concluse Lidner. Tentava di apparire impertubabile, ma la preoccupazione traboccava come lacrime dalle sue iridi.
-Con me?- le fece eco Marion, stupefatta. -Perchè proprio con me? E che vuole dirmi?-
-Qualcosa che a noi non ha voluto dire.- tagliò corto la donna. -Scendi e lo scoprirai.-
La ragazza balzò in piedi, prontamente.
-Venite, ragazzi?-
I gemelli non se lo fecero ripetere due volte. Tutti e quattro scesero rapidi le scale semibuie, sospesi in un silenzio interdetto e impaziente, senza avere idea di che cosa li aspettasse nell'ufficio di Near.


Il rumore di una chiave nella toppa, seguito dall'aprirsi della porta, annunciarono a Sayu che Law era lì.
-Hey, bentornato a casa!- salutò allegra, dalla cucina. Con le mani protette da guanti di gomma bagnati puliva il pesce per la cena, affacendata sul lavello, con un faretto di luce puntato sullo strofinaccio dove si accumulavano i gusci dei molluschi.
Udì passi che varcavano la soglia della stanza. -Grazie, zia.-
Sayu sentiva un affetto profondo nei suoi confronti ancora prima di conoscerlo, ma da quando era arrivato lo adorava. Il solo fatto che fosse tornato a casa la riempiva di gioia, di una calorosa felicità. La sua somiglianza con il ricordo sfuggente di Light la commuoveva, faceva nascere in lei l'impulso di abbracciarlo e non lasciarlo mai. E poi era così dolce e gentile.
-Dove sei stato di bello?- domandò, cercando di non appesantire la domanda e non dargli l'idea di essere una ficcanaso.
Lui si tolse la giacca di jeans, per poi lasciarla su un sedia. -Prima ho fatto un giretto al centro, per rendermi conto di come sono organizzate le città qui da voi. E' tutto molto diverso, rispetto all'Inghilterra, proprio un altro mondo. Però è davvero interessante, dal mio punto di vista. Inoltre i vostri negozi di elettronica sono sbalorditivi...-
-Ah, sì. Quand'ero bambina, compravo centinaia di videogiochi... ma ho sempre preferito i manga.- rise Sayu, rammentando quegli anni.
-Poi sono passato in biblioteca. Volevo vedere se trovavo qualche libro interessante.- concluse Law. -Devo dire che è bellissima.-
-Uh, hanno fatto delle ristrutturazioni cinque o sei anni fa, se non sbaglio.- annuì la donna.
-Come va con la cena? Posso aiutare?- chiese il ragazzo.
Sayu ridacchiò, piacevolmente sorpresa per la proposta e ancora più conquistata da quel nipote adorabile.
-Ma no, figurati! Non c'è assolutamente nessun bisogno che tu faccia nulla, non preoccuparti. Il favore più grande ce l'hai fatto venendo qui. Ma non considerarti ospite, eh!- esclamò, brandendo un mestolo. -Questa è casa tua!-
Law sorrise. -Grazie mille. Sono molto contento di essere qui, e di aver potuto conoscere voi.-
-E noi tre siamo ancora più contenti!- assicurò lei, vivacemente.
Lo sguardo del ragazzo cadde sul pesce che stava lavando.
-Cosa ci prepari per stasera?-
-Donburi accompagnato da sashimi e tofu con salsa di soia, poi ramen e yakitori come secondo piatto. E pensavo a dell'Anmitsu come dessert.- elencò la zia.
Law sgranò gli occhi. -Wow! Mi sembra il menu di un ristorante di lusso. Non immaginavo fossi così brava a cucinare.-
-Infatti appena mi sono sposata ero un disastro! L'unica cosa che sapevo fare era ordinare il sushi qui di fronte. Fra me e mio marito, non riuscivamo a scaldare un pentolino di latte!- esclamò divertita. -Poi mi ci sono messa d'impegno e ho imparato.-
-Allora, se proprio non mi lasci dare una mano, non ti distraggo ulteriormente. Vorrei salire in camera per leggere, se per te non è un problema.-
Sayu lo fissò incredula. -Ma cosa chiedi! Non devi chiedere. Puoi andare dove vuoi e fare quello che vuoi, sempre! Vai pure. Dato che Tota arriva a casa alle otto, mangeremo verso quell'ora. Ti chiamo io quand'è pronto.-
-Grazie ancora, zia.- Law le sorrise di nuovo e si avviò verso il piano di sopra.
Giunto nella sua stanza, chiuse la porta alle sue spalle e sospirò pesantemente.
-Bene! Adesso diamoci da fare.-
Rail svolazzava eccitata di qua e di là, con impazienza, mentre lui si affrettava al computer e premeva il pulsante on. Si sedette di fronte allo schermo, ticchettando ripetutamente le dita sulla superficie della scrivania.
-Sai, a volte quando ti sento parlare con tua zia e mi rendo conto che è tutta una farsa, che non pensi nulla di quello che dici, mi viene malinconia.- commentò la Shinigami, tuffandosi sul letto e puntellando i gomiti.
Law fece una pausa, con un'espressione meditabonda e apatica. -Non si tratta di farse. Soltanto che non li considero la mia vera famiglia, ecco, non li sento legati a me in nessun modo. E' anche perchè li ho con conosciuti due giorni fa, ma soprattutto perchè loro non mi amano per come sono.-
Rail gli lanciò un'occhiata interrogativa. -Cosa intendi, scusa?-
-Intendo che loro credono di provare affetto nei miei confronti solo per come appaio. Cortese e carino e sorridente. Ma se sapessero che sono Kira, sarebbe la stessa cosa? Io non credo proprio.- Law fece una smorfia contrariata, quasi sprezzante. -Ecco perchè mio padre è l'unico che possa davvero amare. Lui capirebbe... lui mi amerebbe lo stesso. Non mi giudicherebbe un mostro, come farebbero tutti gli altri. Vivo in un mondo cieco, ignorante, che finge di non capire e preferisce condannare invece che accettare una logica inconfutabile.-
La Shinigami non disse nulla, stringendosi nelle spalle, e fissò lo schermo buio illuminarsi nel desktop. Law si connesse ad Internet e scrisse rapidamente qualcosa nella casellina vuota di Google. La luce bianca si rifletteva nei suoi occhi, facendoli apparire di vetro.
Mosse appena il mouse stretto nella mano e cliccò uno dei link. -Ecco, dovrei esserci.-
-Allora? Leggi.- ordinò Rail euforica, sgambettando.
Law si accostò allo schermo, in un'assorta concentrazione.
-Qui c'è scritto che l'unica cosa che la polizia sa è il nome con cui lei si rivolge a se stessa. Si chiama Rowena, forse, e si indaga per scoprire dove abitava. Il suo modus operandi era sempre lo stesso, metodico ed infallibile: chiamava la vittima alle ore 14: 23, minacciandole una prematura morte fissata a tre giorni più tardi. Inizialmente, nessuno la prendeva sul serio e la telefonata appariva come uno stupido scherzo; più tardi, quando la storia venne divulgata dai telegiornali, scatenarono il panico più totale. In qualsiasi posto la vittima si rifugiasse, che fosse un'altra città o un altro Stato, un'altra casa o la stazione di polizia, moriva inevitabilmente. La maggior parte veniva trovata smembrata, massacrata, ridotta a un ammasso di carne e sangue. Ad altre accadevano semplici incidenti, come una caduta o un colpo in testa. Fatto sta che le predizioni si sono sempre avverate, anche se la killer non interveniva personalmente: l'unico modo per spiegare un accanimento tanto morboso sui cadaveri, allora, è che soffra di un grave disturbo mentale. Le persone morivano lo stesso, perciò la domanda è perchè si esponesse al pericolo di telefonare ed infierire sui corpi. Semplice desiderio di giocare alla macellaia.-
Rail deglutì. -Madonna, questa sì che è suonata.-
-Di certo approfitta con troppa libertà del suo potere.- replicò Law, continuando a scorrere le righe del testo. -Usarlo così, senza ritegno, è sconsiderato. Ci sono due possibilità, o anche lei possiede un Death Note o ha gli occhi di uno Shinigami dalla nascita. Però qui scrivono... che i suoi sono rossi.-
-Rossi? Allora non ci sono dubbi. Avere delle iridi rosse come colore naturale è una prova schiacciante.- dichiarò Rail, compiaciuta dal fatto di avere detto qualcosa che lui non avrebbe potuto sapere. -Gli occhi sono proprio suoi, nessuno scambio.-
Law lesse ancora qualche dettaglio riguardo le condizioni delle vittime ritrovate. Senza arti, senza testa, squarciate a partire dall'ombelico. Una era stata aperta completamente, spiegata come un foglio di carta. Il cuore del ragazzo infuriava nel petto, accellerato da una nuova adrenalina. Aveva una specie di selvaggio entusiasmo dipinto nei lineamenti.
-Ma che ti prende?- domandò la Shinigami, perplessa.
Il suo sorriso era quasi grottesco.
-Non ci riesco. No. Non posso lasciarmi sfuggire un'occasione del genere. Avere gli occhi a mia disposizione gratuitamente... invincibile. No, sarei un imbecille a non approfittarne. So che devo lavorare da solo, ma il punto è che...- Ansimò e sollevò lo sguardo palpitante. -... la voglio.-







 






 

























Note dell'Autrice: Eccomi qua con il nuovo aggiornamento! ^-^ Spero di non essere troppo in ritardo!
Cosa c'è di nuovo? Un flashback, la richiesta della presunta L e i nuovi propositi di Law.
Ammetto che il flashback mi ha lasciato un po' d'amaro in bocca, avrei tanto voluto scrivere un finale diverso. Ma alternative non c'erano. Solo che non ho potuto fare a meno di mettermi nei panni di Shannon e rabbrividire, all'idea di una simile tragedia.
Spero che il capitolo non vi abbia deluso! Giuro che ce la metterò tutta per postare sempre in tempi brevi e perfezionare il mio stile di scrittura.
Un grazie infinito a tutti coloro che recensiscono e che leggono, anche silenziosamente! Non ce la farei, senza di voi!
Lucy

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Capitolo 9
*** Richiesta. ***


8

Richiesta.



Gennaio, 2010.

Un'ombra sfocata di colore sgargiante si rifletteva sulle piastrelle azzurrine, ai piedi di un robot di metallo. Le esili bacchette dello shangai non si azzardavano ad oscillare, immobili in una torre dalla geometria impossibile. Una scatola vuota giaceva a terra, il coperchio di cartone socchiuso.
La luce che s'insinuava oltre le vetrate ampie e limpide era timida e cauta, nell'ufficio della mente dell'Spk. Le undici avevano da poco battuto i loro ultimi rintocchi, e le stelle s'affacciavano svogliate su un cielo troppo cupo per essere rischiarato. Quella notte la luna era affondata in un banco di nubi indissolubili, senza riuscire ad emergere, e un vento tagliente soffiava turbolento contro le finestre, insistendo e sibilando furioso.
Near, ignorando la tempesta come si fa con una compagna abituale, seguiva lentamente ogni suo movimento con sguardo pesante. Le sue mani da ragazzino, piccole e minute, erano capaci dei più magistrali lavori di precisione e fermavano i cavi del ponte in miniatura che stava costruendo, con minuziosità.
A chiunque sarebbe apparso molto concentrato, ma la verità è che era profondamente annoiato. Persino il caso Kira stava perdendo lo smalto splendente e affascinante, luminoso di mistero, che aveva avuto qualche mese prima. Le giornate scorrevano a rilento, misere e aride d'interesse, senza che nulla interrompesse quel succedersi faticoso e costante.
Con quei modellini, Near riusciva a distrarre completamente le sue mani, ma non la sua mente. Non c'erano più matasse da sgarbugliare. La notte si preannunciava lunga.
-Near.- La voce di Rester giungeva metallica e distante dal piccolo microfono, posto sul pavimento di fianco a lui.
-La ascolto.- ribattè l'albino.
Sembrava perplesso, e un po' contrariato. -Mello è qui, e chiede di vederti. Dice che è urgente. Devo...-
Le dita di Near non interruppero il loro lavoro, fluide e rapide. -Fallo salire.-
La sua mente calcolava quella che sarebbe potuta essere una distrazione sufficiente, oppure una seccatura da evitare. L'avrebbe scoperto di lì a poco.
Era strano: non aveva previsto che gli avrebbe fatto visita un'altra volta. Doveva per forza trattarsi di un motivo che lui non avrebbe mai potuto indovinare.
C'erano scarse possibilità che fosse venuto per fargli del male, per scatenare quella rabbia violenta che fremeva sotto la pelle e fingeva di poter dominare. Dopotutto, Mello sapeva bene che non sarebbe mai riuscito a torcergli un capello lì, al quartier generale.
Venne immesso il codice per entrare e le porte d'acciaio si ritrassero, aprendo un varco. Eccolo lì, Mello, in piedi sulla soglia. Era vestito interamente di nero, come sempre, con una giacca piena di cerniere e un paio di pantaloni di pelle. Rester era piazzato davanti a lui, Lidner e Gevanni alle sue spalle.
-Non è un benvenuto granchè cordiale. Non trovate, signori?- Near posizionò una minuscola asse di sostegno per il suo ponte alla base di esso.
-Se c'è qualcosa che manca decisamente, qui dentro, è la cordialità.- replicò glaciale l'ospite, fissando con intenso rancore la sua figura spettrale.
Rester tagliò corto, innervosito dal sarcasmo. -Devi dire qualcosa a Near?-
-Sì, devo dirgli qualcosa. In privato.- aggiunse sdegnosamente, sollevando il mento.
I tre agenti cercarono lo sguardo di Near, senza riuscire ad incrociarlo.
-Avete sentito? Comportatevi di conseguenza.- si limitò ad ordinare lui, apatico.
-Ci sono delle telecamere, qui dentro.- concluse accigliato Rester, con un avvertimento ben poco velato, prima di seguire i due colleghi fuori.
Mello avanzò di qualche passo soltanto quando udì il tonfo delle porte che si chiudevano.
-Vedi, non saprei proprio da dove iniziare.- esordì.
Near gli rivolse un'occhiata pregna di ossidiana, perforante e gravosa.
-Magari da ciò che hai portato con te. Posso azzardare che sia un tassello fondamentale di tutta la storia?-
Mello fece un respiro breve ma profondo, quasi tentasse di liberarsi della rabbia che già cominciava ad offuscare il suo buonsenso. Il suo sguardo cadde sul fagotto, che teneva contro il petto con un braccio.
-E' una bambina.- rivelò infine.
-Una bambina.- ripetè Near, in un'eco monocorde.
-Già, una bambina.- Mello lo sfidò a stupirsi, con un ghigno. -Mia figlia.-
Vi fu una breve pausa, come se stesse elaborando l'informazione.
-Non sapevo ne avessi una.- affermò.
-Infatti è nata oggi.- ribattè Mello, ticchettando impazientemente l'anfibio contro il pavimento.
Near sollevò appena le sopracciglia, in un'espressione indefinibile. -Congratulazioni, allora.-
-Non è per questo che sono venuto qui.- chiarì il biondo, innervosito dal suo tono secco e disinteressato. Non era mai riuscito, in tutta la sua vita, a sorprenderlo nè smentire i pronostici nei suoi confronti. Era una sconfitta, amara e fastidiosa al pari delle altre. Ce n'erano altre, sì: tante, troppe. Enumerarle tutte avrebbe fatto ancora più male.
-Già quando scoprii che sarebbe nata, sospettavo che non sarei riuscito ad occuparmene. Con il passare del tempo, ciò che è successo ha soltanto confermato la mia ipotesi.- spiegò.
-La madre?- domandò Near, la voce priva d'inflessioni. Raddrizzò di un centimetro un piccolo palo, con la punta del dito affusolato.
Mello scosse la testa, freddo. -Morta.-
Lo sguardo di Near affondò nel suo viso un'altra volta, per breve tempo. Una pugnalata di inchiostro. Non disse nulla, ma i pensieri si agitavano dietro le sue iridi buie.
-Condoglianze.-
-Arriviamo al dunque. Sappiamo benissimo tutti e due che io morirò molto presto. Il mio tempo non è illimitato... e devo chiudere un paio di questioni.-
Mello si avvicinò ancora di più alla figura dell'albino. -La bambina la lascerò qui.- dichiarò.
Near non battè ciglio. -Prego?-
-Qui. A te.-
-Cosa intendi?-
Mello lo guardò, con una strana sofferenza nello sguardo.
-Intendo che non voglio farle fare la stessa merda di vita che ho avuto io. Voglio che abbia un... riferimento, qualcuno. Crescere da soli non è uno spasso come sembra. Voglio che mia figlia non viva in un orfanotrofio schifoso a maledirmi ogni secondo della sua esistenza. Voglio che sia felice, Near! Ti sembra così inconcepibile?!-
-No, non mi sembra inconcepibile che tu voglia una vita serena per tua figlia.- Near non costruiva più il suo modellino. -Mi sembra inconcepibile che tu sia venuto da me. Perchè io, Mello?-
Il biondo esitò, ma fu solo per un istante.
-Perchè... sei l'unica persona che può farlo. Perchè puoi proteggerla. Perchè tu vincerai, vinci sempre, e non la lascerai sola.-
Near non rispose. Il silenzio iniziò a pesare come piombo, i secondi a farsi interminabili agonie destinate a librarsi nel presente per l'eternità.
-Questo è il quartier generale di un'associazione investigativa, non un asilo nido.- sentenziò, apatico.
Mello strinse i pugni, sentendo i muscoli contrarsi dal desiderio di sferrargli un cazzotto su quel volto diafano e impenetrabile.
-Non ti sto chiedendo se vuoi tenerla. Ti sto dicendo che la lascerò qui.-
-Non me ne intendo di bambini.- obiettò Near.
Il ragazzo sorrise ironico. -Imparare è sempre stato il tuo forte, o sbaglio?-
L'albino sospirò, quasi la discussione lo stesse estenuando. Dio solo sapeva quali erano i pensieri che si riversavano incessanti nella sua testa.
Mello non aspettò che analizzasse puntigliosamente la sua proposta. Appena si ritrovò davanti a lui, si inginocchiò e allungò il piccolo fagotto bianco nella sua direzione.
Near sbattè le palpebre, senza distogliere lo sguardo dagli occhi azzurri di Mello. Lui invece guardava la minuscola bambina, con un'indistinta malinconia nelle iridi dure.
Fu strano depositare sua figlia nelle braccia esili di Near, coperte dalle maniche ampie di una delle sue camicie, apparentemente troppo deboli per proteggerla. E fu altrettanto strana la sensazione che provò quando allontanò le mani da lei, lasciandola irrimediabilmente in balìa del suo peggior nemico.
L'incubo che l'aveva tenuto sveglio troppe notti si decise a chinare il capo verso la neonata. Dalla stoffa candida si riusciva a scorgere soltanto il piccolo viso, dalle palpebre chiuse e l'espressione beata in un sonno profondo. La osservò, imperturbabile, e fu la lunga pausa che seguì a far intuire a Mello che Near ne fosse incuriosito.
-Le hai dato un nome?- chiese infine.
-Si chiama Marion.- rispose Mello, ricordando le ultime pacate parole di Shannon.
-Vuoi lasciarle qualcosa?-
Il biondo rimase interdetto. Aveva deciso tutto così di fretta, all'ultimo minuto, che non aveva pensato a quel genere di cose. Cosa lasciarle? Non aveva niente con sè.
Ricordò. Tirò fuori dalla cintura una grossa revolver pesante e lucida.
Near arricciò il naso. -Decisamente diseducativa.-
Mello rise e staccò da essa un rosario di pietre nere, abilmente arrotolato su di essa.
-Ecco qua. Questo va bene?-
-In linea di massima, sì.- ribattè Near atono. Non sembrava troppo entusiasta.
Mello gli tese anche il rosario, che l'albino fissò per qualche secondo prima di mettere al collo della bambina. Era talmente largo, e lei talmente piccola, che per non farlo scivolare oltre le spalle occorsero quattro giri. Il biondo poi afferrò da una scrivania una penna e un foglio, ne strappò un pezzetto e scribacchiò qualcosa. Infine lo piegò e lo lasciò a Near.
-Daglielo con quello.- puntualizzò.
Near la posò sulle ginocchia. La guardava dormire come se non avesse mai visto una neonata in vita sua.
-La renderò quello che io e te saremmo potuti essere insieme.- Era una semplice affermazione, ma suonò come una promessa. 
Mello annuì con la testa, brusco. Non c'era dubbio, sarebbe stata innegabilmente un genio.
-Sarà ora di andare.-
-Va bene.-
Il ragazzo osservò sua figlia per l'ultima volta, imprimendosi bene quell'immagine in mente, in modo da poterla conservare fino all'ora della misera morte che lo attendeva. Così la voleva ricordare. Piccola, fragile, indifesa e bellissima. Fra le braccia di Near.
Sarebbe andato tutto bene. Lei sarebbe stata molto felice.
Il suo sguardo si spostò sul volto di Near.
I loro occhi rimasero fissi gli uni negli altri, a lungo, specchiandosi. Per una volta, non si sentì giudicato nè schernito da quelle iridi d'ossidiana. Forse era finita una guerra.
-Buona fortuna, Marion.- mormorò, quasi inconsciamente. Le porte si aprirono e chiusero, e un attimo più tardi era tutto finito.
I passi di Mello si persero nelle scale, sempre più flebili. Andava incontro la suo destino, com'era giusto che fosse.
Com'era giusto che fosse. Già.
Near rimase lì, immobile, con qualcosa di piccolo e morbido sopito in braccio.
-Buona fortuna, Mello.-

Maggio, 2025.

Quel gigantesco schermo, che capeggiava da sempre su tutti gli altri più piccoli nell'ufficio, non era mai apparso a Marion tanto impenetrabile. Era illuminato di un esasperante azzurro desktop, e lei cercava quasi di dissolverlo e dissiparlo con lo sguardo. Eppure rimaneva così, uniforme e silenzioso, senza decidersi ad annunciarle l'inizio della chiamata che aspettava con tanta impazienza.
-Non succede niente.- dichiarò seccata, incrociando le braccia al petto nervosamente.
Harmony, spaparanzata su una sedia blu imbottita da ufficio, girava su se stessa con placida flemma.
-Non è che se lo dici per venti volte ti danno un premio.- osservò annoiata, lo sguardo abbandonato sullo scomodo bracciolo.
Marion sbuffò nella sua direzione e, dopo un istante di esitazione, prese a camminare avanti ed indietro come una leonessa in gabbia.
-Ha detto che avrebbe richiamato fra dieci minuti.- ripetè Lidner, ancora un volta, rientrando con tre bicchieri di Coca Cola.
Craig fu il primo ad accettare, con un sorriso d'approvazione. Era abituato a passare notti in bianco ingerendo dosi abbondanti di caffeina, così il sapore della bibita frizzante sul palato gli parve piacevolmente familiare e rigenerante.
-Voi donne non sapete aspettare.- commentò, sorseggiandone un sorso e schioccando le labbra soddisfatto.
-E tu non sai mai quando devi tenere la bocca chiusa.- ringhiò la bionda. Grave errore irritarla quando era già irritata.
Gevanni invece gli rivolse una smorfia di comprensione, con un'occhiata eloquente in direzione di una Lidner ansiosa che si torturava le ciocche chiare e perfette.
-Sì, taci, Craig.- brontolò Harmony. -Già questa isterica strilla in modalità fratturazione di balle.-
Marion imprecò qualcosa di poco definito.
Proprio in quell'istante apparve una casella lampeggiante, un ritaglio grigio su quell'azzurro ormai insopportabile.
Gevanni sollevò il capo istantaneamente. -Una richiesta di connessione in arrivo. E' lei.-
Marion si gettò sulla sedia che fronteggiava la scrivania, mentre il cuore accellerava nel suo polso. L'idea di parlare con quella che sarebbe dovuta essere la nuova L, cioè una delle persone più intelligenti del mondo, faceva nascere in lei un desiderio irreprimibile d'essere all'altezza e non deludere sè stessa.
Lidner le sistemò frettolosamente cuffie e microfono, agitata. -Mi raccomando, parla forte e chiaro e non urlare. Altrimenti il suono giungerà troppo stridulo.-
-Perchè mai dovrei urlare?- ribattè lei, risentita. La donna non rispose, scegliendo di tacere la verità: ovvero che la conosceva troppo bene per non sapere che ci si poteva aspettare di tutto.
Nessun altro indossò le cuffie, per rispettare la richiesta della quasi L. Craig e Harmony si affiancarono a lei, uno per parte, curiosi.
Gevanni armeggiò un attimo con la tastiera, prima di aprire la chiamata. La luce arancione lampeggiò sulle cuffie.
Un silenzio sepolcrale invase la stanza, come se d'un tratto l'atmosfera si fosse addensata.
-... sono per caso in comunicazione con M del quartier generale di Kyoto dell'Spk?- La famosa voce cadenzata che ricordava risuonò limpida e definita nelle sue orecchie.
Si stupì per come l'aveva chiamata, con nonchalance, quasi fosse il suo soprannome abituale. M... beh, suonava piuttosto figo.
-Sì.- confermò, freddamente. -Soltanto io posso sentirti.-
-Oh, non c'è bisogno di tutta questa riservatezza. Non è un segreto di Stato.- minimizzò l'altra, pratica. -E' che volevo discuterne personalmente con te, visto che ora il quartier generale è ufficialmente tuo.-
Inizialmente, Marion si infastidì per come avesse liquidato la faccenda "devo-parlarne-con-te-e-solo-con-te", che era stata lei a riferire, trattandola da sfigata. Sentendo l'ultima parte della frase, però, rimase perplessa. Sì, era vero, Near aveva lasciato l'intero edificio dell'Spk (con tanto di dipendenti e fondi) a lei, e ne era davvero grata. Ma come faceva a saperlo, quella L lì? Un brivido le percorse la schiena.
-Okay, allora parla.- la esortò, con nervosismo. Non le piacevano tutti i misteri che circondavano la sua interlocutrice.
Un attimo di silenzio.
-Se pensi che ti abbia contattato perchè ci ho ripensato e intendo sacrificarmi per il bene dell'umanità, hai preso un granchio. Anzi, un'aragosta.-
Marion non apprezzò la triste battuta di spirito. -Lo immaginavo.- ribattè sarcastica.
-Bene. Dunque, ho ragione di credere che al momento voi abbiate fatto delle ricerche riguardo una certa criminale.-
-Spiegati meglio.- ordinò, accorgendosi che la ragazza si era interrotta.
-Si tratta di quella che probabilmente avete sentito nominare come la serial killer di Madrid. Fino all'anno scorso ha creato non pochi problemi alla polizia locale. Mi stai dicendo che non sai chi sia?-
Marion non capiva. Stava insinuando che lei era disinformata? O cos'altro? Insomma, perchè si era messa a parlare di una tizia spagnola? Aveva perso il filo del discorso.
-Dove vuoi arrivare?- domandò sospettosa. Craig e Harmony la fissavano smaniosi, arrovellandosi su cosa potessero stare parlando.
La voce parve esasperarsi della precipitosità della bionda. -Al momento questa losca individua, che per tua informazione si chiama Rowena, è al sicuro al manicomio di Madrid. Ma non lo rimarrà per molto, temo.-
-Vuoi dire che sta per evadere?- domandò Marion, annoiata dalla piega che il discorso aveva preso.
-No.- Pausa drammatica. -Credo che qualcuno cercherà di farla evadere. E quel qualcuno sarebbe Kira.-
Marion non ci capiva più niente. -Cosa?! E perchè dovrebbe?! Kira odia i delinquenti!-
La quasi L sospirò. -Rowena non è una delinquente qualsiasi. E' nata con il singolare quanto terribile dono degli occhi di uno Shinigami.-
La bionda sgranò le iridi color giada, stupefatta. La sua mente iniziò a lavorare furiosamente. Troppe emozioni, fra cui panico e orrore, si confondevano in uno shock che le impediva d'elaborare una frase sensata e adeguata alla situazione. Una cosa del genere era... un incubo, un'assurdità.
-Non ci credo. Ma com'è possibile?- sbottò, furente e sconcertata, colpendo con forza la scrivania con un pugno. Craig fece un balzo indietro, colto alla sprovvista, Harmony sussultò e cacciò una bestemmia. Lidner e Gevanni la osservavano attentamente, preoccupati.
Quasi compiaciuta della sua reazione, la quasi L proseguì. -E' un caso più che raro, se non unico al mondo. Non ho idea di quale sia l'origine di questo guaio, ma solo che si tratta di un carattere ereditario, trasmesso da genitore a figlio. Anche il padre di Rowena aveva questo potere, e guarda a caso era un killer.-
Marion cercò di dominarsi, come Near le aveva insegnato a fare per tutti i suoi quindici anni di vita. Respirò a fondo, dolorosamente, e socchiuse gli occhi. Tentò di riordinare il guazzabuglio di pensieri e pregnostici, di cancellare le immagini catastrofiche che la sua mente proiettava con insistenza. Era un casino, un disastro, ma non la fine.
Ragionò più in fretta che potè.
-Cosa ti fa credere che Kira sappia del suo potere, e che addirittura la voglia liberare?- chiese infine, ostentando uno scettismo che non provava davvero.
-Niente, in effetti. E' soltanto un'ipotesi. Certamente, per accrescere il suo potenziale omicida, sarà alla ricerca di una soluzione... gratis, per così dire. E Rowena sembra esattamente ciò che fa al caso suo.- rispose la ragazza asciutta.
-Sì,- confermò Marion, -però non puoi essere certa neppure che Kira sappia dell'esistenza di esseri umani con il potere degli occhi. Ma per precauzione potremmo avvertire questo manicomio e dire loro di raddoppiare la sicurezza.-
La sua interlocutrice parve poco persuasa. -Al momento, nè tu nè io abbiamo alcun riconoscimento che ci conferisca il permesso di dare ordini a destra e a manca. Telefonando, poi, dovresti spiegare un motivo per cui credi che la paziente stia per evadere, e se ti mettessi a parlare degli occhi degli dèi della morte farebbero internare anche te.-
Marion odiò riconoscere che aveva ragione.
-E allora cosa facciamo, saputella?!- rimbeccò offesa.
La quasi L ignorò l'appellativo. -Se rispondere fosse tanto semplice, non ti avrei contattata.-
-Perchè d'un tratto la questione Kira ti preoccupa tanto, visto che non vuoi aiutarci a catturarlo?- domandò all'improvviso la bionda, trovandolo strano.
-Non è Kira che mi interessa.- fu la secca risposta. -E' Rowena.-
Marion non le chiese nulla, pur essendo sorpresa, e decise di arrivare al dunque.
-Cos'è che vuoi da me, di preciso? Cosa posso fare che tu invece non puoi?-
-Informazioni su di lei, come prima cosa.- rispose pronta. -Ho bisogno di scoprire tutto quello che riesci a trovare, visto che disponi di parecchi mezzi. E non voglio che fugga dal manicomio, ovvio.-
Marion stava per strillarle, incredula e furibonda, come si permetteva di venire a dirle cosa fare dopo la batosta che le aveva rifilato, negandole il suo aiuto. Poi le venne in mente un'idea molto migliore, che le fece formicolare la punta delle dita dall'emozione.
-Per me va bene...- cominciò conciliante e serena, -... se tu accetti di diventare la nuova L, naturalmente.-
Si godette ben sette secondi di silenzio allibito.
-Come?- ribattè infine la ragazza.
La bionda annuì, soddisfatta della propria idea. -Proprio quello che hai sentito. Se vuoi davvero quelle informazioni, devi aiutarci con il caso e sfoggiare le tue incredibili abilità deduttive. Con chi credi di stare parlando, il buon Samaritano?! Non si dà nulla senza chiedere qualcosa in cambio, carina. Questa è la vita.-
-Mi pare di averti già informata che non intendo rischiare la vita per una simile futilità.- replicò l'altra, con fermezza.
Marion non ci vide più. Era stanca di trattenere ciò che pensava, ciò che credeva andasse detto.
-Ascoltami bene, L da strapazzo.- esplose sbraitando. -Per quella che tu chiami "futilità", sono morte più di mille persone. E se qualcuno non fa qualcosa, il numero raddoppierà, triplicherà, proseguirà all'infinito! Se tu rifiuti di essere quel qualcuno, non sono problemi miei. Fatto sta che devi aiutarci, e ammettere una buona volta che la tua vita è una sciocchezza incommensurabile in confronto allo sterminio che Kira farà! Dio, come fai a non capire che qui non si tratta di te, ma dell'umanità?! Come fai a non capire che se nessuno cattura Kira non ci sarà più un mondo in cui vivere?! Abbi un po' di buonsenso e smettila di comportarti come una bambina! Ma, mettendo caso che tutto questo non ti importi minimamente, pensa che non avrai uno straccio di informazione. Se tu non collabori, io non collaboro. Tutto chiaro?-
Niente. Silenzio. Seguì una pausa così prolungata che Marion temette che avesse chiuso la chiamata. Aveva esagerato? Probabile, ma una bella strigliata occorreva.
-Stai cercando di ricattarmi, Marion Keehl?- sibilò d'un tratto.
Lei rimase interdetta, nel sentir pronunciare il suo nome e cognome, ma costrinse la sua voce a restare imperturbabile.
-Sì, esatto.- sentenziò con sfida, mentre il suo sorriso s'incurvava.
-E va bene. Hai vinto. Accetto le tue condizioni.- si arrese l'altra, seccata. -Dopotutto, vedo che siete in alto mare. Di questo passo non prenderete nemmeno un ladro di francobolli.-
Ma la sua era una sconfitta, perciò Marion non badò alla provocazione.
-Sai dov'è il quartier generale dell'Spk, vero?-
-Sì.-
-Allora ti aspetto fra qualche giorno.- la salutò Marion, trionfante.
-Verrò quando mi aggraderà.- fu la risposta, seguita dall'inequivocabile segnale, il quale annunciava che la chiamata era finita.
Mentre le richieste mute e imperiose negli occhi degli altri iniziavano a fluire in un torrente di domande, Marion lasciò scivolare le cuffie sulle spalle e scoppiò in una risata di cuore.

La penna grattava delicatamente sulla carta, un rumore mesto e pacato che pareva non voler disturbare. Il silenzio, gelido e soffocante e assordante, echeggiava ancora e ancora premendole le orecchie. La grossa porta blindata, pesante e spessa, non era mai stata così dolorosamente chiusa.
La stanza era un cubo di cemento e polvere. Gli angoli erano immersi in un buio fumoso, nascosti alla sua vista. Sua. Solo sua. Nessuno entrava mai lì.
Il tavolo era biancastro, bordato di una gomma dura e nera. Scheggiata, strappata qua e là. Oltre alla sedia gracidante in legno su cui era seduta e un armadio di ferro compresso contro il muro, non vi era mobilia.
La luce giallastra che pioveva affogandola rendeva tutto squallido.
Il foglio che aveva davanti era stampato fitto fitto. Minuscole formichine nere.
Equazioni, disequazioni, calcoli che finora erano stati riservati solamente ai computer. E ora a lei.
La penna sussurrava sul foglio. Muoveva la mano, e quella parte della sua mente che non sapeva fare altro le bisbigliava le risposte.
Numeri a cui dare un senso, parentesi e frazioni che scioglievano il proprio enigma in caratteri di evidente semplicità.
Il silenzio era quello di sempre. Ma pungeva, oggi.
I puntini di sospensione, che attendevano con fredda cortesia una risposta, non finivano mai. La sua mano sfiorava la carta, confondendosi con essa. Avevano lo stesso colore.
Ovunque il suo sguardo scivolasse, il risultato fluiva con naturalezza dalla mente alla mano. Non esisteva sforzo. Non esisteva qualcosa di impossibile.
Se avesse potuto attraversare quelle pareti con la stessa facilità, sarebbe stato
stato
come sarebbe stato?
Bello. O forse brutto. Impossibile dirlo.
Non sapeva cosa ci fosse là fuori.
C'era qualcosa, nella continuità ineccepibile della sua esistenza, che non andava più bene. Si sentiva strana, debole, fragile. Stanca? Poteva, lei, esserlo?
Incredibile. Non riusciva a trovare l'errore. Non captava la nota stonata, in una sinfonia consueta.
Quando la donna bionda aprì la porta, aveva finito da tre minuti e quarantasette secondi. Uno spiraglio di luce bianca e pura investì il buio denso e fuligginoso.
-A posto?- le sorrise.
Lei prese il foglio con la punta delle dita e glie lo tese. Quella non sarebbe mai stata capace di controllare le risposte, naturalmente, ma non ce n'era bisogno: perfetto.
-Brava bambina.-
Bambina? Lei non era una bambina.
Lei era un numero. Conciso. Immutabile. Perfetto.
Forse anche lei aveva bisogno di un senso, pensava, mentre allungava il braccio in attesa della morfina.




































Note dell'Autrice: E dopo un'estenuante settimana di scuola e compiti di Latino/Greco, ecco l'aggiornamento. Sì, lo so, non lo dite. Sono in ritardo. -.-
Non sono riuscita ad abbreviare il flashback, spero che vi piaccia anche in versione... integrale. ^-^ Marion è riuscita a convincere la nuova L! (ora possiamo chiamarla così.) Siete contenti? Credo che i fan di Law dovranno cominciare a tremare... o.o
Grazie per avere letto! Spero mi direte cosa ne pensate!
Lucy

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Capitolo 10
*** Segreto. ***


9

Segreto.


2010, Febbraio.

-Lidner, porti qui il biberon.-
-Arrivo subito.-
-Gevanni, dov'è finito quello strano pupazzo di nylon dalle vaghe sembianze di una pecora?-
-... sotto la scrivania, credo, ma... Near, non dovresti accanirtici così, è solo un peluche...-
-Rester, il ciuccio. Presto.-
Inutile specificare che la solita, impeccabile routine al quartier generale dell'Spk venne inevitabilmente stravolta. Pur essendo così piccola, Marion aveva portato ai membri dell'associazione segreta tonnellate di responsabilità e doveri che dovevano essere puntualmente eseguiti. Near era sempre stato insonne -era raro che gli capitasse di dormire per sei ore di fila- ma da quando era arrivata Marion ogni notte Lidner veniva a bussare alla porta della sua camera, stravolta ed esasperata, dicendo che le aveva provate tutte ma continuava a strillare. Nonostante potesse apparire buffo o assurdo, il gracile albino era l'unico capace di calmarla in men che non si dica: non perchè ci sapesse fare con i bambini, ma piuttosto perchè lei gli si era affezionata come a nessun altro.
Preferiva che fosse Near a darle da mangiare, a farla giocare, a passeggiare su e giù per i corridoi del quartier generale con la carrozzina. Ma quando era occupato, oppure Rester sentenziava che aveva bisogno di aria buona, erano pianti e commedie interminabili.
-E' la bambina più viziata che esista.- sospirava sempre Gevanni, vedendo Lidner entrare con uno strano sorriso e almeno dieci borse di vestiti per neonati nuovi.
Però era impossibile non volerle bene, e conquistò in breve tempo tutti gli agenti. Near si divideva fra il suo solito lavoro, casi di omicidio che comunque erano poco interessanti in confronto al caso Kira, e quella minuscola bambina che spesso si vedeva sulle sue ginocchia.
Da subito, l'albino aveva stabilito con voce piatta ma lapidaria: -Se le succede qualcosa mentre è sotto la vostra sorveglianza, siete licenziati.-
Si era sempre dimostrato impassibile ma allo stesso tempo protettivo nei suoi confronti. Aveva la stravagante abitudine di parlarle esattamente come faceva con i suoi dipendenti. Se durante la notte svegliava tutto il vicinato con pianti laceranti, la fissava severamente e ordinava: -Smettila. Non vedi che stai disturbando? Mettiti a dormire, domani riparleremo di questo tuo increscioso comportamento.- Per tutta risposta, la piccola lo osservava affascinata e taceva interdetta.
Quel giorno vi era parecchio fermento, poichè Lidner avrebbe dovuto portare Marion dal pediatra e lei, come se avesse intuito la non troppo gradita visita, si era messa a piangere a dirotto e dibattersi con un vigore inaspettato. Near, impegnato ad annotare su un'agenda tutte le spese affrontate quel mese, teneva la neonata con un braccio solo.
Quando i suoi dipendenti arrivarono con quello che era stato loro chiesto, l'albino tentò di calmarla rispettivamente con biberon, pupazzo e ciuccio. Tutti e tre finirono con un volo non indifferente contro il muro.
-Non funziona.- borbottò Rester, aggrottando la fronte e asciugando la pozza di latte candido spanto a terra.
-Ci vuole qualcos'altro.- ansimò Gevanni, schivando la pecora volante.
Lidner si morse il labbro inferiore, dipinto di rosa perlato, con un'espressione pensosa. D'un tratto, battè le palpebre stupita.
-Come ho fatto a non pensarci prima? Ci vuole una ninnananna!-
-Ninnananna?- Rester era scettico.
-Ma sì!- Lei sorrise, entusiasta. -Incanta tutti i bambini. Basta solo canticchiare qualcosa di carino.-
Near la raggelò con un'occhiata penetrante. -E' escluso. Nè io nè voi ci metteremo a intonare sciocche nenie prive di qualsiasivoglia significato. Sarebbe dannoso come veleno per la sua mente, che in questo momento assimila qualsiasi sciocchezza voi le propiniate. No, nel modo più categorico.-
-E allora? Come la si piazza su questo passeggino?- protestò Gevanni, esasperato.
Near inarcò le sopracciglia argentee, la classica espressione che i suoi dipendenti avevano incominciato a temere come il momento in cui stava per stupirli.
-Non ho del tutto bocciato la sua idea. Le racconterò qualcosa per calmarla.-
-Beh, proviamo.- assentì Gevanni, un po' dubbioso. Impossibile che stesse per esordire un classico quanto immortale "c'era una volta". Per quel poco che conosceva il suo superiore, lo riteneva del tutto incapace di attenersi a stereotipi o, in ogni caso, rientrare nelle leggi della prevedibilità. Ammutolirono tutti e tre, curiosi, in attesa di qualcosa.
Near fissò il piccolo volto corrucciato e paonazzo della piccola, guardandola negli occhi con l'intensità di un incantatore di serpenti.
-Il peso atomico (da non confondere col numero di massa ) o massa atomica  è la massa di un atomo di un dato elemento. In questo caso si parla spesso impropriamente di peso atomico assoluto e viene espresso in...-
Gevanni strinse le labbra il più possibile, imponendosi di non ridere. Rester fissò Near con sguardo vacuo d'incredulità. Lidner aveva un'espressione mista fra l'indignazione e il più assoluto sconcerto. Nessuno osò azzardare parola.
-... sperimentalmente si è ricavato che equivale a 1,660 538 921(73)x 10-27 kg, secondo i dati CODATA del 2010. Questa notazione della massa è nota come peso atomico relativo o massa atomica relativa, spesso abbreviata in massa relativa, e si può ottenere dalla formula...- Near proseguiva implacabile, con espressione apatica ma un'incredibile fluidità di discorso.
La piccola Marion aveva smesso di piangere. Non staccava lo sguardo verde limpido da quello liquido e buio dell'albino, ipnotizzata da un'alchimia che solo loro potevano avvertire, pendendo dalle sue labbra.
-Near, ma che stai dicendo?!- azzardò Gevanni, stralunato.
L'abino lo guardò di storto. -Stai interrompendo. Queste sono nozioni certamente più utili di quel mucchio di fesserie di cui volevate riempirle la testa. Ascolta.-
Nessuno si accorse che il tempo volava, se non quando furono in ritardo per la visita. Near fu costretto a chiudere la sua orazione sul peso atomico, e togliere la piccola dalle sue braccia non fu semplice.
Da allora, il tutore le narrò ogni giorno le meraviglie della chimica e della filosofia, della storia e della matematica. Snocciolava date, nomi, calcoli, leggi. Spiegava e ribadiva. Mormorava con pazienza ogni spiegazione.
Marion ascoltava.
Quel patto tacito non si sarebbe interrotto mai, nemmeno quando lei divenne abbastanza grande per imparare da sola e lui troppo inquieto per trovarne la forza.

2025, Maggio.

All'età di quarantasei anni, Tota Matsuda poteva dichiararsi ufficialmente felice. Tutto andava come ogni persona al mondo spera possa andare la sua vita: aveva sposato la donna che amava, e il sentimento che provava per lei diventava sempre più intenso e solido; aveva un figlio che era la luce dei suoi occhi, una casa meravigliosa, un lavoro che lo appassionava e gli dava un sacco di soddisfazioni. Era realizzato sotto ogni aspetto. Proprio nulla sembrava poter guastare un'armonia priva di stonature.
Ma lui sapeva bene di essere davvero fortunato, di dover ringraziare la sorte per ogni giorno sereno che passava, per la salute e la felicità concessi a lui e la sua famiglia. Non era un ingrato. Nel suo piccolo, svolgendo al meglio il suo lavoro, sperava di poter risarcire la vita della gioia che aveva ricevuto.
Quel mattino si svegliò di buonora, prima rispetto al solito, per compensare l'assenza di un collega. Erano le sei e trenta quando la sveglia sul comodino, di smalto blu, iniziò a canticchiare la consueta nenia. Sayu si rigirò fra le lenzuola fruscianti, inconsciamente, affondando il volto contro la stoffa del cuscino, e il marito si permise di osservarla intenerito per qualche istante. Le baciò delicatamente i capelli scuri e profumati, sentendola mormorare qualche parola in risposta. Poi si affrettò ad alzarsi, sfilare rapidamente il pigiama spiegazzato, indossare la divisa da lavoro e sciacquarsi il volto sotto il rubinetto. Come sempre, ci fu poco da fare per la chioma ribelle e indomabile.
Si avviò per il corridoio, di buona lena. Il sole si intrufolava dalle fessure delle tapparelle abbassate, creando riflessi sottili come lamine sul pavimento lucido. La giornata si preannunciava serena.
Lo sguardo di Matsuda, d'un tratto, scivolò sulla parete. Proprio lì, in bella mostra, stava un piccolo quadro dipinto da un formidabile artista di Venezia, dove lui e Sayu erano andati in viaggio di nozze otto anni prima, e raffigurava un mare di sinuose onde verdi e grigie che si increspavano con grazia contro una scogliera, luccicante d'acqua e salsedine. Gli pareva che fosse leggermente storto. Osservò attento, da diverse angolazioni: era un po' spostato verso sinistra, così lo raddrizzò con le mani e lo rimirò soddisfatto.
Stava giusto per proseguire verso le scale, quando udì un brusìo leggero. Lo identificò in breve come una voce che parlava piano, quasi sussurrando. Proveniva, ovviamente, dalla stanza che si trovava di fianco, quella di Law.
Matsuda si chiese, stupito, come mai fosse alzato a quell'ora. E con chi parlava? Era al telefono?
Rammentando le sue scarse abilità nell'origliare, pensò che sarebbe stato meglio andarsene e farsi i fatti propri ma, per pura curiosità, accostò l'orecchio alla porta.
Effettivamente sembrava avere un interlocutore, visto che diceva una frase e poi stava in silenzio un attimo, quasi ascoltando una risposta.
-... visto che mi vuoi tanto bene, potresti anche farmi un piccolo favore, per una volta.- diceva Lawrence, con voce conciliante.
Silenzio assoluto. Nessuna risposta.
-Lo sapevo che avrei potuto contare su di te... dopotutto, sei l'unica persona di cui mi fidi.- sospirò il ragazzo, quasi stancamente.
Matsuda battè le palpebre, sconcertato. Il suo tono era così strano... un'amarezza inconsueta, per la sua giovane età. Somigliava più a quella di un vecchio che regge sulle spalle gli errori di una vita passata troppo in fretta. Certo, trovava che suo nipote fosse piuttosto diverso dai suoi coetanei, però non gli era mai apparso così inquieto.
Invece di placare la sua curiosità, sentiva il desiderio di ascoltare ancora quella bizzarra conversazione. Che razza di problemi poteva avere?
-No, non penso. Il sistema di sicurezza è la difesa più ardua da superare, e se non dovrò preccuparmene guadagnerò parecchio tempo. Se tutto andrà bene, non ci metterò più di tre quarti d'ora.-
E lì Matsuda non capì. Sistema di sicurezza? Guadagnare tempo? Ma voleva rapinare una banca?! Quasi gli venne da ridere, a quel pensiero. Un ragazzo di diciassette anni che ruba a Kyoto?! E poi, parlando per assurdo, non ne avrebbe avuto alcun motivo. I soldi non gli mancavano.
Forse si trattava di un linguaggio in codice, e voleva in realtà dire qualcos'altro... Si riscosse: non era un mafioso nè un narcotrafficante, non aveva alcun motivo di creare simili sotterfugi.
Ma con chi cavolo stava parlando? Da solo? Un compagno di orfanotrofio al telefono?
-Non riesci a capire, eh? Lei è il massimo a cui posso ambire, per i miei scopi. Se l'avessi, nessuno potrebbe più contrastarmi! Non ci sarebbe nessun bisogno di metterla al corrente dei miei piani, o di farle prendere una qualsiasi decisione. E' completamente pazza, posso incantarla e manovrarla o chissà, magari lei mi stupirà e si rivelerà meglio di quel che credo. Che gusto ci sarebbe, a giocare una partita di cui si conosce già l'esito?- Rise, una risata breve e cupa. Una risata poco innocente, pregna di qualcosa di antico ed insano.
La stessa risata che, quindici anni prima... Matsuda avvertì un brivido percorrergli le braccia, la sgradevole sensazione di deja-vu che strillava sulla sua pelle ogni volta che osservava quel ragazzo dal passato così sventurato.
I suoi scopi. I suoi piani. La sua partita.
Finalmente quel fastidioso ricordo che non riusciva a pescare, nella sua confusionaria memoria, riaffiorò vivido. Uno schermo, che proiettava le immagini riprese da una telecamera. Higuchi, in una macchina, che cianciava imperterrito. Light che esordiva "ma con chi sta parlando?"
Già, con chi stava parlando? Non c'era nessuno con lui.
Con Rem.
Con una Shinigami.
Il tempo si fermò, per un secondo interminabile, che assecondò l'arresto di un solo battito del suo cuore.
Non era possibile. Il respiro si mozzò strozzato nella sua gola, in un rantolo silenzioso e soffocato.
Assurdità. Che assurdità. Anche lui?! Non era mica una malattia trasmissibile. Non poteva essere. Una coincidenza troppo ovvia, troppo...
Lawrence non sapeva neanche chi era realmente suo padre, e poi c'era Sayu che gli voleva così bene... Sayu.
Matsuda si odiò per avere pensato una cosa tanto terribile. Che quel giovane ragazzo potesse essere... essere... che avesse invitato a casa sua...
Interruppe il flusso furioso dei suoi pensieri. Attanagliato da un terrore opprimente, percorse l'ultimo tratto di corridoio e scese precipitosamente le scale. Stava morendo di paura, ma era deciso a non pensarci in quel momento.
Era un'idea stupida ed insensata, e lui era giunto a conclusioni troppo affrettate.
Forse sarebbe riuscito a convincersi.

Marion non usciva molto spesso. Near le aveva sempre ripetuto, in una cantilena che non aveva potuto fare a meno di imparare, che il mondo esterno riservava troppe insidie a coloro che avevano un passato travagliato e ricco di segreti, come lei, e che nelle grandi città anche i muri bisbigliavano le trame delle tragedie di cui erano stati spettatori.
Così quell'energica e vitale bimba bionda che era stata aveva dovuto crescere fra le mura d'acciaio di un mondo silenzioso e perfetto, dove la tranquillità non poteva essere turbata e il calore del sole non riusciva a filtrare, giocando con bambole di plastica e rampe di scale. Quando il tempo era davvero bello e non c'era troppo traffico, poi, le era concesso di scendere nel vasto giardino che Near aveva comprato per lei, proprio accanto al quartier generale. La figura silenziosa e onnipresente di Lidner o Gevanni si stagliava sempre con chiarezza nei suoi ricordi, e soprattutto rievocava la sensazione del loro sguardo vigile a pungerle la nuca.
Ma era stata felice sul serio. Tutti volevano soltanto il suo bene, e Marion obbediva grugnendo perchè l'idea di deluderli la inorridiva.
Quando usciva di casa, da sempre, non si era mai trovata a suo agio. Le parole di Near l'avevano persuasa, così osservava tutto con sospetto e diffidava di chiunque la fiancheggiasse su un marciapiede. Era un mondo che non sentiva totalmente suo, ma di tutti gli esseri umani eccetto lei. Aveva finito per ritenerla rumorosa, caotica e sfuggente, dove soltanto le persone più superficiali potevano essere felici.
E Harmony era superficiale? Diciamo di sì. Non per natura, però: per scelta. Era la sua filosofia.
-Ehi, cavernicola! Guarda cosa ti ha comprato la tua migliore amica, in avanscoperta nel terribile mondo dei Terrestri.- La rossa emerse dalla tromba delle scale, con un paio di Rayban indubbiamente nuovi e almeno tre borse per mano. Sfoggiavano i nomi dei più famosi negozi di abbigliamento della città, ovvio.
Marion squadrò l'amica, poco impressionata. -Non voglio niente, grazie per l'offerta. E smettila di chiamarmi così, se non vuoi un cazzotto in bocca.-
-Parli come un campione di box.- bofonchiò l'altra. Sollevò un dito, perentoria. -Punto primo: ti chiamo cavernicola perchè, quando uscirai da questo cubo di Rubik gigante dove abiti, mio fratello avrà fatto in tempo a imparare che non si mangia con la bocca piena. Punto secondo: la mia non è un'offerta ma un regalo, perchè tu hai bisogno di vestiti nuovi e tu metterai quello che ti ho comprato. Chiaro?-
-Cristallino.- ribattè la bionda, con uno sbuffo svogliato. Harmony le allungò due borse, con con un sorriso trionfante.
-Vuoi vederli?-
-Lasciameli nell'armadio.- mormorò lei, disinteressata.
Stava archiviando vecchi documenti di Near, ammassati da Lidner in un mucchio disordinato per gettarli via -tanto erano di due o tre anni prima, e a lui non sarebbero certo più serviti. Ma Marion era sicura che lui avrebbe disapprovato questa decisione, così aveva intrapreso quel lavoro interminabile quanto noioso; ogni documento andava sistemato in base alla data, l'argomento e il mittente. Perlopiù si trattava di fatture, conti, altre incombenze d'ufficio. Nulla di troppo eccitante, però lo faceva volentieri, sapendo che il suo tutore avrebbe fatto la stessa cosa.
Harmony sbirciò la pila abbondante di carte sulla scrivania e storse il naso.
-Tu non sei normale, ragazza. Fra un po' diventerai un vegetale. Possibile che devi sempre fare tutto quello che una normale ragazza di quindici anni non farebbe?!-
Marion rise brevemente. -Ti sembro una ragazza normale? Ho imparato da qualcuno che, se possibile, era anche peggio di me.-
Eh, già: Near non si era mai comportato come il ragazzo che era. A diciannove anni, invece di andare in discoteca e flirtare nei bar, investigava e dava il biberon a una neonata. A venticinque, le insegnava teoremi matematici e sventava omicidi. Non era mai stato come gli altri, lui era diverso. Lui non voleva quello che i suoi coetanei volevano, non pensava quello che i suoi coetanei pensavano, non sognava quello che gi suoi coetanei sognavano. Viveva in un mondo che si era costruito dal nulla, un mondo cui era stato concesso di fare parte anche a lei. Una lieve fitta al cuore la sconcentrò per qualche istante.
-La parte del tuo cervello dedicata al divertimento o si è fusa col tempo, o non è mai esistita.- sentenziò Harmony. -Ma ti annuncio che da oggi le cose stanno per cambiare, bella mia.-
-Oh no.- sospirò Marion, meccanicamente. Le sue mani muovevano le carte, dividendole nei giusti pacchi.
Lei annuì vigorosamente. -Hai bisogno di svagarti un po' e dimenticare tutte 'ste faccende di Kira eccetera. Non puoi pretendere di prenderlo in tre giorni! Non sei mica Wonder Woman!-
-Non ancora.- la corresse Marion, seria.
-Comunque sia, stasera usciamo a mangiare un boccone da qualche parte. Così ti distrarrai, fuori da questa ferraglia.-
La ragazza emise un lamento sordo, con una smorfia. -Mangiare fuori?! E dove?!-
Harmony alzò le spalle. -Boh, dove ci pare. Fast food, pizzeria, cinese...-
-Cinese no. Sono nauseata di quel pesce schifoso che mi porti sempre.- bofonchiò la bionda.
-Guarda che è schifoso solo per asporto...-
Ma non si accorse che Marion non la stava più ascoltando. Quando i suoi occhi scivolarono sul mittente di una grossa busta bianca, aggrottò la fronte. Era un nome sconosciuto, in caratteri occidentali... inglese, ecco. Qualcosa di inglese, probabilmente una struttura. Le prime parole erano nomi propri, ma riuscì a tradurre quelle che seguirono: laboratorio genetico.
Era ancora più confusa. Laboratorio genetico? Che voleva dire? Come mai un laboratorio genetico avrebbe dovuto contattare Near? Ma la cosa più sorprendente era che la data riportata era 23/5/25. Due giorni dopo la morte del suo tutore.
Incuriosita e sospettosa fece per aprirla, quando un rumore di passi sulle scale le fece voltare la testa. Era Gevanni.
-Marion, ci sono novità.- annunciò, e istintivamente guardò ciò che lei stringeva fra le mani. -Cos'hai lì? E' una lettera?-
-Sì, l'ho trovata fra i documenti di Near. Non so cosa sia, è da parte di un certo laboratorio genetico inglese e risale a poco fa...-
Prima che potesse finire, Gevanni si affrettò ad avvicinarsi e strapparle letteralmente la busta di mano.
-Non è nulla!- esclamò, con un sorriso di scusa per il gesto brusco. La ragazza lo fissò sconvolta.
-Ehi, che c'è scritto? Perchè non vuoi che la legga?-
-Te l'ho detto, niente!- insistette lui, poco convincente. -Lascia perdere. Scartoffie. Piuttosto, dovresti farti un giro con la tua amica.-
Harmony assentì con la testa, e Marion inarcò le sopracciglia.
-Va beh, come vi pare. Queste novità?-
-Abbiamo contattato la Wammy's House, per informare la direttrice che la nuova L ha deciso di collaborare.- spiegò Gevanni, giocherellando con la busta. -Era contenta. Ha detto che ha controllato se ci sono ragazzini dal comportamento sospetto, o che potrebbero ipoteticamente essere in possesso del quaderno, ma per ora nessuno desta i loro sospetti. Raddoppierà la sorveglianza, d'ora in poi, e se noterà qualcosa non esiterà a riferircelo. Ah, sì: presto dovrebbero arrivare via e-mail delle informazioni riguardo questa presunta L, da parte della direttrice.-
-Quando?-
-Quando riuscirà a riunire un gruppo consistente. A quanto pare, non sono facilmente reperibili.-
Marion annuì distratta. Non riusciva a smettere di pensare alla lettera, che Gevanni in quel momento stava riportando dabbasso. Non si era certo arresa, era più che intenzionata a scoprirne il contenuto: ma l'avrebbe fatto con l'astuzia, non con i capricci, come una bambina di sei anni. Cosa poteva esserci, di tanto segreto, che nemmeno a lei era permesso sapere? Erano un po' come i suoi dipendenti, adesso, perciò se voleva leggere qualcosa aveva il diritto di farlo.
Proprio in quell'istante, i passi sulle scale si fecero fragorosi. Le ragazze si aspettavano di veder ricomparire Gevanni, invece era Craig: il rosso aveva i ricci vermigli scompigliati dal vento (era venuto in moto) e un sorriso da vincita alla lotteria in volto.
-Ehi, siamo diventati milionari?- domandò Harmony scettica.
Il ghigno di lui si allargò. -Quasi. Diciamo che abbiamo fatto jackpot.-
Lanciò una piccolo album a Marion, simile a quelli che danno i fotografi quando si ritira le foto sviluppate. L'aprì, e socchiuse le labbra incredula.
-Q... questa è... Misa Amane?- sussurrò, in preda all'emozione.
-Esattamente.- replicò Craig.
La prima, dentro la sottile bustina traslucida, raffigurava una bella ragazza dai fluenti capelli d'oro pallido, con occhi castani e un sorriso dolce. Sedeva sui gradini di una piccola villetta rustica circondata dai prati, e osservava con sguardo amorevole un bimbo di circa un anno, che accennava incerto qualche passo. La sua chioma bionda luccicava al sole.





















































Note dell'Autrice: Sono troppo in ritardo, lo so! Perdooono! Però davvero ho fatto del mio meglio. E' colpa della scuola maledetta, scusate. =(
Ci sono tante novità, però, in questo capitolo! Per Lawrence si mette davvero male... ma confidate in lui, che è furbo! ^-^
Mi piacerebbe che, nelle recensioni, mi diceste se siete del Team Marion o Team Lawrence. Così, solo perchè è una cosa simpatica! Tanto per scoprire chi è apprezzato di più! (perchè è spuntata qualche fan del nostro biondino omicida, eh!)
Per quanto riguarda l'età di Matsuda, ho seguito la data di nascita del 13° manga, ma secondo me ne ha di meno!
So che il capitolo è cortino, ma visto che è pieno di svolte ho deciso di lasciarlo così. E poi, altrimenti, avrei aggiornato per Natale. -.- Mi rifarò nel prossimo!
Grazie a tuuuutti quelli che mi seguono, che hanno messo la storia nelle preferite/ricordate/seguite e un bacio enorme a chi recensisce! Mi dare la carica giusta!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Grazie per avere letto e mi piacerebbe sapere che ne pensate!
Lucy

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Capitolo 11
*** Recita. ***


hu

Mi perdonerete, miei amati lettori, se non vi trascrivo uno per uno? Credo di no, ma ci tengo comunque ad esprimere tutta la mia gratitudine verso le misericordiose anime che hanno messo la mia storia fra le seguite (ben 14!), quella che mi ha messo fra le ricordate e quelle che mi hanno messa fra le preferite, addirittura! (7?! Non ci credo!) Grazie grazie grazie! ^-^ Senza ulteriori indugi, il capitolo 10.

Recita.


2010, Novembre.


-Near!-
Tac. La fragile costruzione di stuzzicadenti che, con la maniacale e scrupolosa attenzione che lo caratterizzava, era stata eretta seguendo lo schema delle fondamenta di un grattacielo ondeggiò pericolosamente. Bastò un tempestivo movimento del dito per ristabilire l'ordine e la rigorosità del suo lavoro.
Tutti sapevano, lì dentro, che odiava essere chiamato a gran voce. Dopotutto erano in un quartier generale, non al mercato del pesce, e la buona educazione esigeva certe regole. Ma in generale le voci troppo rumorose e assordanti lo avevano sempre infastidito. Socchiuse le palpebre, evitando commenti.
-Ha parlato!- strepitò Lidner, facendo capolino nell'ufficio. Stringeva fieramente in braccio, esibendola come un trofeo, una bambina di circa un anno, dai soffici capelli biondo argento acconciati in due lunghe trecce e una salopette di jeans addosso. Anche la piccola aveva un'espressione compiaciuta, quasi realizzasse di avere appreso qualcosa di portentoso.
Near voltò fulmineo il capo, dimentico della costruzione. -Parlato?-
-Oh, sì! Senti!- Lidner si abbassò sulle ginocchia e poggiò delicatamente la bambina a terra. Lei, esitando, riuscì a mantenere l'equilibrio e a rimanere alzata sui piccoli piedi inesperti.
-Coraggio, tesoro, digli quello che hai detto a me prima.- la esortò orgogliosamente la donna, con un sorriso soddisfatto.
Marion osservò il volto dell'albino battendo le palpebre. Near ricambiò lo sguardo in silenzio, serio, attendendo. Dovette passare solo qualche istante.
-Nia!- esclamò infine la piccola, indicandolo con il minuscolo indice, euforica. Lidner battè le mani con foga, deliziata.
Near invece non si scompose per nulla.
-Cos'ha detto?- chiese, piatto e lapidario.
Lidner non si aspettava una domanda del genere.
-Ha detto il tuo nome, naturalmente! Ti ha anche indicato!- spiegò, indignata ed un po' offesa per la mancanza di entusiasmo. -Su, dille brava.-
-No, non le dico brava.- tagliò corto il ragazzo, freddamente. -Non ha detto il mio nome. Ha sbagliato.-
Marion era il ritratto della confusione. Non capiva perchè il suo tutore non l'applaudesse, semplicemente. Lei aveva fatto quello che le era stato detto.
Lidner era sempre più innervosita e sconcertata da un simile atteggiamento.
-In che senso?-
-Nell'unico che possa esistere. "Nia" non vuol dire niente. Si dice Near.- puntualizzò il ragazzo, come si trattasse di un'ovvietà.
La donna era scandalizzata e furiosa.
-E' la prima parola che abbia mai detto!- sbottò. -Sta imparando! Non potresti essere più indulgente?! Ci riuscirà pian piano!-
Near rimase impassibile. -Ebbene, quando ci riuscirà l'applaudirò più che volentieri. Adesso mi sembra inutile e sciocco. Gli errori non vanno elogiati.-
Marion lo fissò, con i grandi occhioni sgranati. L'unica cosa che sapeva era che non avrebbe ricevuto nessun applauso. Near non sembrava felice.
Abbassò la testa, mentre lacrime bollenti e dolorose le rigavano le guance rosee.
-Oh, no, non piangere, amore mio.- Lidner l'abbracciò stretta, con foga, asciugando con la giacca il volto della piccola. -Non è colpa tua.-
-Lidner, le consiglio di non impartire alla bambina simili insegnamenti privi di log... ma che sta facendo?-
La bionda aveva appena scelto uno dei numerosi robot schierati sul pavimento dell'ufficio e l'aveva offerto alla bambina, con un sorriso dolce. Lei, sfregandosi le ciglia bagnate, guardò il giocattolo con stupore curioso.
-La sto consolando, visto che l'hai fatta piangere.- ribattè la sua dipendente, seccamente. Non aveva intenzione di mancare di rispetto al suo superiore, ma ormai lo conosceva abbastanza da ritenersi in diritto di fargli notare il suo cinismo gratuito.
Marion afferrò con le manine umide di lacrime il grosso robot blu, sorridendo felice.
-No, Marion. Mettilo giù.- ordinò Near, perentorio, con tono secco e severo. La bambina non lo sentì nemmeno, presa dalla nuova scoperta.
-Oh, su, non essere infantile. E' un giocattolo, e lei è piccola. Cosa c'è di male?- replicò Lidner, innocentemente, sogghignando tra sè.
Near serrò le labbra, oltraggiato dall'insinuazione, lanciando un'occhiata preoccupata al robot ancora in balìa di Marion.
-Non è un semplice giocattolo! E' un modellino da collezionisti, decisamente costoso. Se glie lo lasciassi lo romperebbe subito. Bisogna insegnarle il valore del denaro.-
Marion scosse il robot per un braccio, ridacchiando. L'albino sussultò.
-Vede? Deve giocare con le sue bestie di nylon, non con i miei modellini.- Calcò con decisione sull'ultima parola, quasi per fare intendere che non di giocattoli si trattava.
-Ce l'hai proprio a morte con i peluche, eh?- sospirò Lidner.
Crack, fece il robot.
Near inspirò ed espirò, con difficoltà.
-Marion.-
La bambina scoppiò a ridere.

2025, Maggio.

Pericolopericolopericolo
, bofonchiava quella voce nella sua testa che si imponeva con fermezza di non ascoltare. Matsuda ignorò le lamentose proteste della sua coscienza e sgattaiolò con un movimento rapido e improvviso nella camera. Respirò a fondo, per compensare quegli istanti passati in apnea, e l'aria fu piacevole e fresca nelle narici. Era stato più facile di quanto immaginasse, pensò sollevato. Poi si guardò intorno.
Lawrence era un ragazzo impeccabile, e la sua camera lo dimostrava. L'ordine regnava sovrano: il letto era rifatto e la coperta ricadeva simmetrica ai suoi lati, nessun capo era gettato sulla sedia o sulla scrivania, il pavimento splendeva di pulito e la lampadina della abat-joure era stata cambiata. Matsuda cercò di scacciare dalla sua testa l'immagine di come tenesse la stanza alla sua età, perchè era qualcosa di indignitoso.
I dubbi riguardo alla vera identità del nipote l'avevano tormentato senza tregua per tutto il tempo, al lavoro, ed a divorarlo erano stati tre sentimenti capaci di procurargli un dolore lancinante. Il terrore, nel pensare ad un pericolo come Kira a casa sua a minacciare la sua famiglia, che lo spingeva a desiderare di tornare subito indietro per proteggere chi amava; quella strana sensazione di tradire i suoi colleghi, che si affannavano alla ricerca di un bersaglio irraggiungibile, di tenere nascosta loro la verità e così intralciare la giustizia; il pensiero del dolore di Sayu, già straziata dalla prematura perdita del padre e del giovane fratello, che amava Lawrence con tutte le sue forze.
Certe volte tentava di convincersi che erano solo sciocche fantasie, telenovelas create dalla sua testa per due stupide frasi, e che si stava preoccupando per niente. Però... c'era il però, e finchè rimaneva nulla avrebbe potuto impedirgli di temere il peggio.
Proprio per quel dannatissimo però aveva atteso il momento in cui il nipote, dopo pranzo, aveva annunciato di voler fare una passeggiata per poter frugare in camera sua, come tutti i bravi investigatori da quattro soldi.
Avanzò furtivo verso i cassetti della scrivania e, dopo un momento d'incertezza, lo aprì con cautela. Blocchi di fogli bianchi, penne, un pacco di gomme candide. Lo chiuse impaziente ed esaminò il contenuto del successivo. Vuoto. Nemmeno negli altri trovò qualcosa che potesse attirare i suoi sospetti.
Provò nell'armadio, dove vide ogni giacca appesa scrupolosamente alle grucce e le camicie piegate sul fondo. Da nessuna parte vi erano scomparti segreti o sportelli per nascondere una cosa, e tantomeno un oggetto che somigliasse vagamente a un Death Note.
Si chinò carponi, goffo, per cercare sotto il letto e abbassò la testa, tendendola verso il buio annidato lì sotto. Proprio in quell'istante, un rumore sonoro squarciò l'aria brusco e l'uomo avvertì il cuore immobilizzarsi nel petto. La porta si era aperta.
-Ho dimenticato la giacca. Ehm... zio? Cosa fai?- La voce di Law non era preoccupata o alterata, solo perplessa e curiosa.
Matsuda non aveva idea di che cosa fare. Per ben tre secondi non si mosse, incapace di ragionare.
Poi voltò la testa, con un sorriso impacciato e disperato.
-Oh, ehi! Volevo... io... vedi, cercavo la cassetta degli attrezzi ma... non l'ho trovata da nessuna parte in casa e pensavo di averla lasciata qui... no?- Gli mancò il fiato ancora e deglutì. Quelle misere parole buttate lì in fretta non avrebbero convinto nessuno. Si alzò in piedi e spolverò i pantaloni.
Il ragazzo non si scompose, anzi non parve insospettirsi. -Non so dove possa essere, ma qui no. Ho passato l'aspirapolvere sotto il letto ieri e non c'era nulla.-
-Ah. Infatti non c'è.- borbottò Matsuda. -Vabbè, pazienza, cioè... cercherò altrove! Scusa per...- Allargò le braccia.
-Non c'è bisogno di scusarsi, è casa vostra. Posso aiutarti a cercare la cassetta?- si offrì invece, gentilmente.
Matsuda ridacchiò, ancora nervoso. -No, no, figurati. Non dovresti nemmeno essere tu a passare l'aspirapolvere! Lascia a Sayu questo genere di faccende, va bene? E... beh, allora vado, e buon pomeriggio!-
Uscì in fretta e furia, desideroso di lasciarsi questa storia assurda alle spalle e convinto di avere avuto un'idea insensata quanto crudele.
Law fissò la porta chiusa, con un sorriso sornione.
-Proprio come immaginavo, sospetta di me.- sentenziò annoiato.
Rail, seduta su un cassettone, dondolava le gambe nel vuoto. -Quindi lo ammazzerai?-
Il ragazzo si gettò sul letto, a pancia in su, e osservò ogni crosta d'intonaco biancastro leggermente in rilievo, seguendone i profili in una ragnatela impossibile.
-Certo che no, sarebbe avventato. Una vittima di Kira che non è un criminale dà nell'occhio, e per chi fosse a conoscenza della mia esistenza sarebbe una prova inconfutabile. Io arrivo, lui muore, il mio legame di sangue con Light Yagami. Fai due più due. E, ultimo ma non meno importante, è innocente.-
-Vuol dire che lo lascerai libero, con il rischio che possa sbandierarlo a chiunque?!- ribattè Rail, poco convinta. Pensava che l'amico tendesse a prendere i pericoli troppo alla leggera.
Law incrociò le braccia dietro la testa. -Ci vuole, più che altro, una prova schiacciante che gli faccia cambiare idea, senza che si accorga che essa è stata creata apposta per depistarlo.-
Rail fece una smorfia. -Ah, una cosina facile.-
-Certo che sì.- Law voltò appena la testa nella sua direzione e inarcò le sopracciglia bionde. -Diamo un senso a ciò che ha sentito.-
Rail non capì esattamente cosa stesse passando per la sua testa, così assunse un'espressione interrogativa. -Come?-
-Ora ti spiego, sciocchina.-

Era appena l'alba al quartier generale di Kyoto. Luce madreperlata trafiggeva un manto di uggiose nubi, addensate da un carico d'acqua che attendeva impaziente di poter scrosciare, e una pennellata di timido rosa combatteva l'ingombrante e tenace grigiore nel cielo. Ma era un accecante bagliore lattiginoso a invadere la cucina, irrompendo vigorosamente dalle ampie vetrate. Quello ibrido, tipico della prima mattina, quando nè il sole nè il maltempo si sono ancora decisi a fare la loro apparizione.
Marion, china sul tavolo d'acciaio con la schiena storta e la testa abbassata, sbocconcellava un grosso pasticcino pieno di crema. Le sue sopracciglia erano aggrottate, apparentemente concentrata sul cibo, ma in realtà si trovava ancora in quello strano stato di dormiveglia in cui non riusciva a rendersi pienamente conto di ciò che faceva, e la sua testa ronzava pensieri che pochi minuti più tardi non avrebbe ricordato. Al suo fianco Lidner la osservava silenziosamente, con un'espressione assorta e seria, e la ragazza quasi non si rendeva conto della sua presenza. Gli unici rumori erano un pacato masticare e lo scandire dei secondi, proveniente da un piccolo orologio tondo sopra il microonde. Indicava le cinque e quarantuno.
Pochi minuti dopo, una figura scompigliata e mogia si trascinò fiaccamente verso di loro. Una mano, avvolta dalla lunga manica della camicia da notte azzurra, tastò la superficie del tavolo in cerca di cibo.
-Buongiorno, Harmony.- mormorò Marion, leccandosi golosamente la punta dell'indice imbrattato di crema. L'amica rispose con un grugnito sordo e rauco, più simile al ringhio di un orso che al lamento di una diciassettenne. Lidner le fece un cenno, distratta, senza staccare lo sguardo dal piccolo piatto sul tavolo.
La rossa si scagliò di getto su una sedia, come un marionetta nelle mani di un burattiniere inesperto. La lunga chioma rossa, che si ostinava sempre a stringere in due code basse durante il giorno, era sciolta e fiammeggiante lungo la sua schiena e le lambiva i fianchi come fiamme vivaci. Lidner si alzò, senza una parola, e preparò rapidamente delle fette di pane tostato e un barattolo di Nutella.
-Tu sì che sei la mia anima gemella.- bofonchiò Harmony, riuscendo finalmente ad articolare una frase. -Tu sì che mi capisci sul serio. Sei da sposare.-
-Dici sempre che il matrimonio è la tomba dei cretini.- le rammentò una voce decisamente più pimpante.
Era Craig, fermo sulla soglia della cucina, che dedicò a tutte le donne nella stanza un sorriso ampio ed amichevole. I suoi, di capelli, sembravano un cespuglio incolto trascurato dal giardiniere da una ventina d'anni, e il pigiama grigio era almeno di tre taglie in più. Lui e la gemella si erano trasferiti al quartier generale per le indagini, in modo da essere sempre a disposizione in caso di emergenza.
-Quanta poesia.- Harmony derise la sua stessa citazione, di cattivo umore. -E tu sei il becchino dell'umorismo. Possibile che devi sempre riciclare battute vecchie? E' un crimine punibile dalla legge, si chiama riesumazione di cadavere.-
Il fratello alzò gli occhi al cielo. -Se il buon giorno si vede dal mattino, cara...-
Lidner sollevò la testa, riscuotendosi. -Craig, per te latte e cereali, giusto?-
-Benissimo, grazie.- annuì lui, prendendo posto accanto alle altre. Era il più sveglio di tutti, per il semplice motivo che non era mai andato a letto. La sua "notte" durava dalle due alle cinque del pomeriggio, per quanto potesse sembrare assurdo. Al contrario, Harmony aveva bisogno di dormire almeno una decina di ore e le capitava di svegliarsi alle undici del mattino. Su questo non avrebbero potuto essere più diversi.
Marion svitò il tappo ad una bottiglietta di tè freddo e ne scolò metà in un sorso, avidamente.
-Fate in fretta. Oggi abbiamo molto da fare.-
Harmony, troppo stanca per obiettare, espresse il suo fastidio sollevando il dito medio. Craig invece assentì con un cenno della testa, docilmente.
Un quarto d'ora dopo, vestiti e pronti, scesero nell'ufficio di Near e accesero i computer. Ben presto, il buio pesto e il profondo silenzio notturno che vi regnavano furono infranti dall'illuminarsi dei numerosi schermi.
Marion sedette su una grossa poltrona con le rotelle e gli amici la imitarono. La bionda fece un breve resoconto delle loro ipotesi.
-Ricapitoliamo. Il motivo della misteriosa scomparsa di Misa Amane sarebbe una presunta gravidanza, trascorsa in una casa distante dalla città ma comunque isolata. Passati sei mesi, per non destare troppo i sospetti dei media, torna in città... lasciando il bambino a chi? Questo è il primo interrogativo.- Sollevò un dito. -Il secondo, ovviamente, è che il figlio potrebbe non essere suo oppure non essere di Yagami, ma i due erano fidanzati e ad ogni modo il piccolo non è poi così diverso da loro, fisicamente. Ma, comunque sia, c'entra sicuramente qualcosa e io sono convinta che sia proprio figlio loro. Le frequenti assenze di Amane e Yagami sarebbero motivate dal fatto che entrambi volevano fare visita al bambino, che vedevano poco per essere i genitori. Yagami muore, e non molto tempo dopo Amane si suicida, pur essendoci il piccolo da crescere: piuttosto sciocco, no?-
Harmony la fissò con sguardo opaco e spento di stanchezza, senza espressione, e Craig sollevò le spalle dubbioso.
-Dicevano che Misa fosse succube di quel benedetto tizio, e quando è morto non riuscisse a continuare a vivere.- replicò lui, a mo' di spiegazione.
-Non importa, questo ci interessa ben poco. La terza domanda è perchè tenevano segreta l'esistenza del bambino. Solamente per proteggerlo dai fotografi?- Marion scosse la testa. -Non mi convince, dev'esserci un altro motivo. E poi, perchè è finito in un orfanotrofio quando aveva dei parenti che avrebbero potuto occuparsi di lui?-
-L'unico modo per saperlo sarebbe parlare con loro, ma la sola che è ancora in vita è la sorella di Light, Sayu Yagami. Purtroppo il rapimento e la morte del fratello l'hanno scioccata un sacco, quindi dicono che abbia crisi di isteria quando le viene nominato l'argomento.- spiegò Craig, che si era informato il giorno precedente.
Marion sospirò, esasperata. -Lasciamo perdere, troveremo altre strade. Questa parente potrebbe non essere nemmeno al corrente della sua esistenza, altrimenti ne avrebbe rivendicato l'affido, o no?-
Il gemello incrociò le braccia al petto, poggiando la schiena alla sedia imbottita. -Come hai intenzione di procedere?-
Harmony si grattava la testa, con aria spaesata.
La bionda aprì la casella di posta, con un cipiglio determinato. -Contatterò ancora la Wammy's e, basandomi sulla misera descrizione fisica che abbiamo, chiederò se c'è un ragazzo che corrisponde ad essa. Ecco, ci sono altri dubbi che mi sorgono spontanei... come mai è finito proprio alla Wammy's House? E come faceva, Misa Amane, a sapere in anticipo che sarebbe andato esattamente lì e quindi lasciare all'orfanotrofio tutti i suoi soldi? Doveva trattarsi di una scelta ben specifica, fatta in anticipo. Non è strano?-
Craig si massaggiò le tempie. -Dimmi una sola cosa, riguardo questo argomento, che non sia strana...-
-Ricordiamo però che nulla ci dice che lui c'entri qualcosa con Kira. Anzi, essendo cresciuto alla Wammy's è più probabile che non sappia neppure l'identità dei suoi genitori.-
Harmony, lì accanto, scuoteva sconsolata la testa e gemeva come una bestiola moribonda. -Ho sonno, mettetemi a dormire.- pigolò.
-Però è l'unica pista che abbiamo.- riflettè Craig abbattuto. -Almeno tentiamo.-
Marion non rispose e scrisse rapidamente cinque o sei righe alla testiera. Il rumore conciliante e irregolare dei tasti, che si succedevano in una melodia scomposta e disordinata, accompagnava il silenzio distaccato dell'ufficio. Il riflesso metallico delle piastrelle era gelido e inospitale, quasi scontrosamente estraneo con chi vi era all'interno. Sì, qualcosa era davvero morto lì dentro, insieme al suo proprietario.
-Quando dovrebbe arrivare la nuova L?- aggiunse il rosso.
-Non le ho imposto una data precisa. Le avevo detto qualche giorno.- rispose lei, quasi esausta. Si passò una mano sul viso pallido, stancamente, e si lasciò sfuggire un sospiro tremulo.
Craig spostò lo sguardo verso di lei, stupito e allarmato. -Marion? Ehi?-
La ragazza scosse ripetutamente la testa, con decisione, rianimandosi. -Nulla, non era nulla.-
-Marion, che hai? Sei stanca? Forse è meglio se torni a dormire.- Scrutò le sue occhiaie profonde, preoccupato. Aveva sempre pensato che il peso il quale si era sobbarcata, alla morte di Near, fosse eccessivo per un'adolescente. Per quanto fosse davvero intelligente e tosta, era pur sempre un essere umano.
Marion gli rivolse un sorriso affrettato e spento, un riflesso di quelli veri. -Affatto, sto benissimo. Adesso faccio qualche ricerca, per vedere se risulta registrato un neonato di cognome Yagami in qualche ufficio anagrafe. Anche se ne dubito, visto che l'hanno tenuto tanto nascosto.- concluse.
Craig non credeva affatto che lei stesse bene. Indubbiamente, oltre alle responsabilità e la fatica, anche la devastazione per la morte di Near non doveva essere ancora del tutto digerita e faceva scricchiolare la sua armatura, di tanto in tanto. Ma lei era fatta così, preferiva tacere e confidare nella sua forza, sperando che prima o poi essa riuscisse a cicatrizzare ogni ferita.
Ma ignorare il dolore, pensò il ragazzo, è come non ascoltare le urla straziate di un bambino chiuso in una stanza buia.

Per quanto stupido, incosciente e avventato potesse sembrare -anzi, lo era proprio- Matsuda aveva stabilito che, per vederci chiaro su quella faccenda, l'unica soluzione era ripetere la poco piacevole esperienza. Così, come uno sciocco studente delle elementari, aveva puntato nuovamente la sveglia alle sei e mezza la sera prima e si era buttato giù dal letto. Si era premurato, ovvio, di non fare sapere a Law di ciò.
Quei giorni erano stati un maledetto inferno, provava la sofferenza di chi avesse dovuto sopportare centinaia di aghi conficcati nelle piante dei piedi. Nemmeno a tavola riusciva a comportarsi normalmente: tutte le volte che sentiva la sua voce sollevava guardingo la testa, seguiva con lo sguardo ogni minimo movimento, pretendeva spiegazioni quando tornava in camera sua, ostentando semplice curiosità. La verità era che coglieva scuse di continuo, non riusciva a credere neanche alle parole più banali, intercettava un perenne luccichìo sinistro nelle sue iridi castane. Più si ripeteva che erano solo sciocchezze, più dettagli impercettibili ma spaventosi richiamavano il terrore alle sue vene.
Lasciarlo solo con Sayu, o con Kazu, lo atterriva. Osservando il sorriso entusiasta ed ingenuo di sua moglie, Matsuda pregava il cielo che il destino le risparmiasse quest'altra delusione, quest'altro immane dolore quale essere tradita dalla sua stessa famiglia -ancora. E aveva paura, pensandola indifesa e ignara del pericolo che correva, a discorrere con Law come se niente fosse.
Ormai l'unico modo per mettersi il cuore in pace, e combattere quei dubbi e quell'angoscia sempre a fior di pelle, era accertarsi che il nipote non fosse un serial killer. Come? Esattamente nella stessa maniera in cui si era ficcato in quel pasticcio.
Con il fiato sospeso e annodato in gola, il cuore che scandiva battiti concitati e violenti nella cassa toracica, si avvicinò titubante alla porta chiusa. Le sue orecchie, ronzanti e offuscate, non riuscivano a concentrarsi su alcun suono.
Poi, con un brivido d'emozione ed orrore, avvertì la voce. Era pallida e distante, dietro la porta. Vi accostò l'orecchio, sentendo in bocca un sapore metallico. Era giunto il momento che tanto aveva temuto e sperato.
-... tutto ciò che dicono è vero. Il sangue chiama altro sangue, e io non posso fare a meno di ascoltarlo.-
Matsuda, per quei terrificanti istanti, credette di avere sentito male. Eppure la voce gli era giunta improvvisamente chiara, definita. Ascoltare ancora fu, se possibile, più straziante.
-E' la morte a seguirmi ovunque, o io a cercare essa? Questo non lo so, ma non posso fare a meno di dare retta ai suoi consigli. Ahimè, ormai è impossibile lavare ogni colpa dalle mie mani!-
La sua voce era colma d'enfasi, di convinzione, e così strana... non aveva mai sentito nessuno parlare in quel modo. Parola dopo parola, lame di fuoco s'impiantavano nel suo petto fino a lasciarlo intontito e stupefatto. Ormai la situazione era sfuggita dal suo controllo, e provava lo stesso confuso irrealizzabile panico di un uomo aggrappato ad un dirupo con due dita. Era divenuto tutto assurdo, un incubo dai contorni sfocati che lo teneva prigioniero e non lo lasciava andare. Le sue orecchie registravano ogni sillaba, senza più nemmeno avvertire il dolore del loro impatto contro la sua mente.
La verità non era mai stata così diretta, così brutale. Così irrevocabile a qualsiasi spiegazione.
-Uccidere, uccidere, uccidere ancora... eppure non avverto la pena di una vita spezzata, ma solo il tronfio compiacimento di una vittoria in più. Sono forse inumano? Sono forse inumane le mie vittime, oppure lo siamo entrambi? Ma niente riesce più a fermare questa sete implacabile, che più viene soddisfatta e più arde nella mia gola!-
Matsuda si chiese cosa stesse dicendo, incapace di accettare la miriade di atrocità che si era obbligato ad udire. Il corridoio vorticava sotto i suoi occhi. Ma suonava tutto così assurdamente grottesco... così falso... c'era qualcosa che non andava. L'unica certezza che aveva era quella di non avere più certezze.
E poi.
-... no, no, stop.- sentì borbottare dall'interno della stanza. -Forse bisogna cambiare intonazione...- si schiarì la voce. -Che più viene soddisfatta... e più arde, nella mia gola! ...mmh.-
Matsuda iniziava a non capirci più nulla. Che accidenti stava succedendo lì dentro? Ogni lettera aveva perso qualsiasi significato.
Senza neanche riflettere un momento, d'impeto bussò alla porta, tentando di calmare i tremiti che lo attanagliavano.
Un attimo di silenzio stupito.
-Sì?- azzardò la voce di Law, stranamente titubante.
-Sono io. Posso... entrare?- domandò, con una voce un po' roca ed assente che non gli si addiceva. Tossicchiò.
-... certo, vieni pure.-
Matsuda abbassò la maniglia, un velo di sudore freddo a sfiorargli la pelle. La stanza era appena illuminata da un chiarore d'avorio, perlaceo e splendente, che inondava la finestra dalle persiane sollevate; il cuscino aveva ancora calcata la forma del suo cranio e il letto aveva le lenzuola sfatte, scansate solo da un lato, esattamente come le scosta una persona appena sveglia. Law era in piedi davanti alla scrivania e stringeva alcuni fogli in una mano, ancora in pigiama. Lo fissava, un po' rosso in volto.
-Zio, ti ho... disturbato? Parlavo troppo ad alta voce?-
Matsuda si riscosse. -Oh, no, no. Mi sono svegliato prima per... sostituire un collega al lavoro... passando ho sentito che parlavi e...-
Law annuì con la testa.
-E cosa stai facendo?- L'uomo guardò prima lui, poi i fogli.
-Ah, ecco, vedi. Io... delle prove.-
-Prove? Di che cosa?-
Lawrence parve imbarazzato. -Una piccola... opera teatrale. Io e i miei compagni di orfanotrofio recitavamo, per hobby. Avevamo creato una specie di club, così tornerò in Inghilterra per una recita con loro quest'estate. E questo è il copione.- Lo sventolò.
Matsuda avvertì ancora una sensazione di vertigine, di stordimento. Ma stavolta non si trattava di un malessere, bensì di un lento quanto rinvigorente sollievo.
Opera teatrale. Opera... teatrale. Ma certo. Logico e sensato. Una recita. Come aveva potuto pensare anche solo vagamente che lui...
Scoppiò a ridere, sentendosi immediatamente un totale cretino. Ovvio! Una spiegazione c'era, alla fine! E lui si era fatto tutti quei problemi, aveva sofferto tutta quell'ansia...
La preoccupazione si disgregò rapida, permettendogli di respirare a fondo. Lawrence era un aspirante attore, non un... assassino. La sua famiglia non aveva mai corso il minimo pericolo. Le cose si erano risolte per il meglio, prima che potesse azzardarsi a parlarne con qualcuno e rovinare la vita di quel povero ragazzo. Solo questo importava.
Ma il nipote parve malinterpretare le sue risate di gioia, e abbassò leggermente il capo avvampando.
-Sì, lo so, è ridicolo...-
Matsuda si riscosse. -Ridicolo?! No, per niente! Non... non ridevo per te, è solo... solo che è fantastico! E' davvero magnifico. E trovo che tu sia bravissimo, sentendoti dire quelle cose da dietro la porta ti ho quasi preso sul serio!- si azzardò a rivelare, senza aggiungere altro.
-Sul serio?- Lawrence sorrise, ironico, e inarcò le sopracciglia.
Lo zio si limitò a ridere ancora. -Già. Beh, vado, altrimenti arrivo tardi! Tu prova pure quanto vuoi, senza problemi.- esclamò vivacemente. Aveva riscoperto un buonumore ed una serenità che negli ultimi giorni l'avevano abbandonato, sostituiti da una cupa inquietudine e una paura divorante. Ora era tutto finito. Quello che aveva fatto era, come aveva sperato, un brutto incubo, ma finalmente poteva svegliarsi. Mai si era sentito così leggero e libero da qualsiasi oppressione.
-D'accordo. Buona giornata.- lo salutò Law. Era bello potergli volere di nuovo bene, e infinitamente facile.
-A dopo!-
Matsuda scese le scale, fischiettando un motivetto improvvisato. Era tutto perfetto. Il mondo aveva ricominciato a girare per il verso giusto. Si arrabbiava, quasi, pensando che la causa di ogni sua ansia era stato lui stesso! Lui e la sua fervida immaginazione.
Uscì di casa con il cuore sereno, dopo una lunga agonia di dubbi e tormenti. Pensava che la questione fosse chiusa, per non venire riaperta mai più.
Ma si sbagliava.






































Note dell'Autrice: Ed ecco il nuovo capitolo, più lungo del precedente! ^-^ Hi ha.
Ecco, il mio tempo è ridotto in briciole, perciò abbiate pietà per i miei ritardi! La scuola è peggio delle tarme!
Che altro dire? Per me questo capitolo non è proprio entusiasmante, però era necessario per legare il tutto. E per liquidare la questione Matsuda. Che, però, verrà ripresa in futuro... non penserete mica che abbia fatto tutte queste commedie per fargli cambiare idea e fine, vero? XD
E dal prossimo capitolo, Law partirà alla volta della Spagna... e la nuova L? Vedremo!
Grazie mille a tutti quelli che continuano a seguirmi, per me significa molto! Spero troverete il tempo per dirmi cosa ne pensate,
Lucy

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Capitolo 12
*** Indovinello. ***


11

Indovinello.



Erano le due e venti, il pomeriggio avanzava timidamente in un cielo bianco e apatico. Una brezza dolorosa e asciutta scivolava fra i suoi capelli, sfiorandogli la nuca. Lawrence comprese che la leggera giacca che indossava lasciava il suo collo esposto.
Aveva faticato a prendere sonno, quella notte. Era eccitato, impaziente ed elettrizzato. Era agitato, semplicemente, e il suo corpo rifiutava di stare fermo e tenere gli occhi chiusi, figuriamoci se cedeva alle lusinghe del sonno. Non sapeva a che ora, finalmente, la sua mente avesse rallentato il ritmo tanto da permettergli di assopirsi: forse quando gli argomenti a cui pensare erano iniziati a diminuire e perdere interesse. Faceva decisamente troppo freddo, quel pomeriggio, ma lui si sentiva forte, energico e pronto. La sfida era allettante.
Matsuda era in piedi, poco distante da lui, un avambraccio abbandonato distrattamente sullo steccato del suo giardino. Stringeva la maniglia di una delle sue due valigie, ignaro di sembrare uno stoccafisso. Lo sguardo di suo zio era lontano, fisso sul grigiore impassibile della strada e perso in un mondo inaccessibile. Magari pensava al lavoro, magari alle bollette, magari a lui. Non aveva motivo di desiderare saperlo.
I negozi erano ancora chiusi, e c'era un'atmosfera di indolenza e stanchezza nelle strade semideserte. Il vento sottile ma tagliente, come la lama di un pugnale, contribuiva a creare quell'atmosfera di disagio. C'era un che di amaro e scostante, in quelle saracinesche abbassate.
Dire addio a qualcosa rende sempre malinconici. Non tanto per l'impossibilità di rivederla, ma per il dover accettare l'idea dell'infinito. E' quel "mai più" che fa male. Law non credeva di perderci granchè, nel non rivedere più i suoi zii (anzi, stare con loro avrebbe presto segnato la sua rovina), però avvertiva il peso consistente quanto insensato dell'eternità scaraventarsi sulle sue spalle.
Matsuda parve destarsi all'improvviso, richiamato alla realtà da chissà che pensiero.
-Sayu, ci sei?- esclamò a gran voce, voltandosi verso la sua casa.
Pochi istanti di silenzio dopo, la porta d'ingresso si aprì e il piccolo Kazu uscì di corsa, ridendo argentinamente, seguito dalla figura goffa di Sayu. Aveva l'espressione spaesata e confusa di una bambina che non vede regali sotto l'albero la mattina di Natale.
Il figlioletto raggiunse il padre e si gettò con contro le sue gambe, facendolo ridacchiare. Matsuda lo prese in braccio e il piccolo osservò il cugino con occhi sgranati e curiosi.
La donna varcò il cancelletto del giardino, chiudendolo con un gesto impacciato.
-Stavo controllando che non avessi dimenticato niente.- si giustificò con un magro sorriso, ben consapevole di averlo già fatto sei o sette volte. Il suo dolore impazziva nelle iridi scure e dense di tristezza. Non erano quelli vivaci di sempre, delle nubi li invadevano senza pietà.
Lawrence ricambiò il sorriso con più sincerità. Era impietosito da tanta sofferenza, per la partenza di un fantomatico nipote che conosceva da una settimana, poi. Da una parte ne era quasi lusingato, dato che non si aspettava di ricevere un'accoglienza tanto entusiasta e che gli si affezionasse così intensamente, proprio lui che all'orfanotrofio preferiva i libri di scuola alle persone. Forse non era una persona così sgradevole per sua zia, quindi. Ma d'altra parte si dispiaceva del legame che era venuto ad instaurarsi: era necessario che non tentassero più di ricontattarlo, in nessun modo.
-Torni a casa tua oltre il mare?- La voce acuta e squillante di Kazu squarciò la coltre di tensione.
Law gli carezzò la testa, affettuosamente. -Vado in giro per il mondo, a vedere tante città diverse.-
Il bambino esibì un sorriso estatico. -Wooow! Posso andare anch'io, papà?-
Matsuda si limitò a ridere. -Sei ancora un po' troppo piccolo, Kazu. E poi non ti mancheremmo io e la mamma?-
Il bambino arricciò il naso. -Io non sono piccolo.-
-Allora, è tutto pronto? I biglietti...- Sayu scrutò il volto del ragazzo, con ansia. Era stato tutto troppo veloce: le pareva di avere appena conosciuto il nuovo nipote, e già doveva lasciarlo andare via... non era ancora pronta a salutarlo, a perdere tutto ciò che le rimaneva di Light. Perchè sì, il suo adorato fratello perduto era impresso nei lineamenti e nell'anima di Lawrence, con un'evidenza innegabile. E, mentre aveva accanto il nipote, era come se non se ne fosse mai andato.
Voleva che le venisse concesso più tempo per amarlo per ciò che era, non solamente per lo spettro che le ricordava. Ma non ne aveva più. Era giusto che lui facesse ciò che voleva.
-Sì, tutto pronto.- confermò Law.
Matsuda si schiarì la voce, imbarazzato. -Beh, come sai... questa è casa tua, la porta sarà sempre aperta per te e potrai tornarci quando vorrai... e se lo vorrai!-
-Lo terrò a mente.- Il ragazzo annuì. -Grazie mille.-
-Macchè, grazie a te! Grazie per la tua compagnia... E' stato bello averti qui con noi, sei un ragazzo stupendo e bravissimo. Non potrei essere più felice!- Sayu sentì le lacrime dolere nei suoi occhi, benchè si fosse ripromessa che non avrebbe fatto commedie ridicole.
-Anche per me è lo stesso, zia Sayu. Mi mancherete.- Lawrence si chiese, per un momento, se fosse davvero così. Certo, non erano proprio la sua famiglia, ma i primi che l'avevano trattato con tanta gentilezza. Avvertiva quel calore che gli era stato offerto abbandonarlo lentamente, sostituito dal frizzante brivido dell'emozione.
-Quando sarò grandissimo, verrò anch'io in giro per il mondo.- annunciò Kazu solennemente.
La zia afferrò le mani del nipote, con impeto, gli occhi umidi. -Tornerai a trovarci qualche volta, vero? Dimmi di sì.-
Law disse di sì. L'abbraccio che ricevette fu un addio che finse di dimenticare con facilità.

Camminava a passo spedito, il capo appena chino contro il freddo, nelle trafficate strade di Kyoto. Il ronzare sordo delle piccole rotelle delle valigie contro l'asfalto accidentato lo seguiva.
Persino Rail era inaspettatamente taciturna, quel giorno, quasi fosse assorta in riflessioni intricate. Law non aveva molta voglia di darci importanza. Era a sua volta pensieroso, perciò non era in vena di chiacchierare. Si trovavano, ormai, davanti all'aeroporto.
Riuscì a stringere entrambe le maniglie dei trolley con la stessa mano, per infilare l'altra nella tasca della giacca. Le sue dita trovarono qualcosa di liscio e sottile, così strinse i due biglietti per l'aereo. A quante novità stava andando incontro? Innumerevoli. La sua nuova alleata, gli occhi dello Shinigami, mesi di fuga e omicidi.
Finalmente avrebbe potuto adempiere al suo compito al meglio e concentrarsi solo su quello, senza ulteriori pensieri. Suo padre avrebbe sicuramente approvato ciò che stava facendo. Anzi, magari l'avrebbe ritenuto un successore degno di lui...
D'un tratto, una figura urtò violentemente contro il suo petto. Gli si era praticamente precipitata addosso, visto che andava anche lei piuttosto svelta.
-Ops? Domando scusa. Ti ho fatto male, per caso?-
La prima impressione di Law fu di stare parlando con un canestro di paglia gigante, per il semplice motivo che fu l'unica cosa che vide. Un ingombrante cappello a falda larga, simile ad un sombrero, carico di grappoli d'uva, ananas, pere e kiwi (presumibilmente finti), celava la persona che lo indossava. Lei sollevò il volto, esponendolo alla luce gelida e biancastra di quella giornata uggiosa.
La pelle era pallidissima, d'un bianco quasi malato, come se non fosse mai uscita di casa prima d'ora, mentre gli occhi erano bicolori: uno nero inchiostro, uno grigio cenere, e le conferivano un aspetto molto inquietante. I tratti del viso erano appena un po' affilati, ma nel complesso non sgradevoli. Notò poi i capelli nascosti parzialmente dalla bancarella della frutta che aveva in testa, ciuffi irregolari e scompigliati che le arrivavano fino al petto, d'un celeste sgargiante e vivace. Indossava una gonna a balze lunga fino ai piedi, con strati e strati di tulle colorato, che dovevano intralciarla parecchio mentre camminava, e una giacca a vento verde mela. Nel complesso, Lawrence non aveva mai visto un personaggio tanto bislacco e si chiese quale mente contorta avesse potuto ideare abbinamenti di colori tanto infelici. A partire dai capelli fino all'orlo della gonna, sembrava uscita da uno di quei cartoni animati senza senso che piacciono tanto ai mocciosi.
-Uh, no. Tutto a posto, grazie.- riuscì a rispondere, modulando la voce ad un tono neutro. Il fatto che tu mi sia venuta addosso non è stato un grande trauma. La parte peggiore è venuta quando ti ho guardata meglio.
Ma la ragazza doveva essersi accorta delle occhiate sbalordite di lui e si limitò a sorridere, ironica.
-Mi spiace, ero sovrappensiero.- In effetti aveva quella voce cadenzata e sognante da artista spostata.
Law sfoggiò uno dei suoi migliori sorrisi ammiccanti.
-Bisogna prestare attenzione quando si cammina per strada. Non si sa mai cosa potrebbe succedere.-
-Sai una cosa? Hai perfettamente ragione, ma credo che se non ti sbrighi ti parte l'aereo.- La sconosciuta replicò con un sorriso altrettanto dolce.
Questa è proprio una sfacciata di prima categoria. Trattenne quello che gli passò per la testa, sconcertato dal fatto che una cretina con la frutta in testa gli stesse rispondendo per le rime.
-Allora arrivederci.- Con un ultimo freddo, educato gesto di saluto congedò la ragazza. Attraversò le strisce pedonali, avvicinandosi all'ingresso dell'aeroporto.
La ragazza dai capelli turchini rimase sul marciapiede a fissarlo finchè non fu inghiottito dalla folla, con sguardo indecifrabile, ma lui non se ne rese conto.

-Cos'è che devo fare, esattamente?-
Marion sbuffò con sufficienza, nel vedere l'espressione confusa di Tennyson.
-Ma niente, solo stare davanti alla porta e avvertirmi se qualcuno rientra a casa. E' così difficile?!-
Il ragazzo scrollò le spalle. -Va bene, ma cosa devi fare in camera di mio padre?!-
Lei non rispose. Si limitò a portarsi l'indice alle labbra, con un sorriso complice, aprire la porta ed entrare di soppiatto.
La camera di Gevanni era quella di un normale impiegato, e nulla faceva intuire che facesse parte di un'organizzazione segreta. Il letto era distrattamente rifatto, dall'armadio socchiuso spuntava la manica inerme di una camicia immacolata e sulla scrivania giacevano blocchetti di post-it e penne, quasi fossero stati abbandonati lì all'improvviso.
Marion lanciò un'occhiata ampia e svelta alla stanza, socchiuse le palpebre irritata nel constatare che non aveva idea da dove cominciare. Aveva già cercato negli uffici, nei cassetti e nella camera di Lidner: ora le toccava provare lì. Voleva trovare, naturalmente, la lettera che le era stata sottratta pochi giorni prima. L'idea dei suoi possibili contenuti la affamava incredibilmente, ma ancor di più scoprire il motivo di tanto mistero.
Provò alla scrivania, nel comodino, nell'armadio. Poteva udire, mentre frugava con frettolosa urgenza, gli sbuffi impazienti di Tennyson dietro la porta. Stava per perdere la speranza, innervosita e frustrata da risultati tanto infruttuosi, quando lo sguardo annoiato le ricadde su una delle giacche nere e lanose appese alle stampelle e un'intuizione balenò nella sua testa come un lampo fugace.
Cominciò ad affondare la mano nelle tasche, alla ricerca di qualcosa, ma le dita trovavano solo la stoffa che le rivestiva. Poi, eccola. Un profilo squadrato e duro.
Marion, con frenesia crescente, estrasse la busta e l'aprì. Il foglio le sfuggì di mano e le ricadde in grembo.
Con occhi bramosi e impazienti, scorse le poche righe scritte a computer.
Signor River, la informiamo che l'esperimento 4091626 è stato dichiarato ufficialmente riuscito. Reagisce ottimamente ad ogni stimolo ed ha soddisfatto le nostre migliori aspettative. Saremo lieti se deciderà di venire ad accertarsene con i suoi occhi. Se potrà tornarle utile per le sue indagini, specialmente quelle riguardo il famoso pluriomicida Kira, non esiti a chiedere e otterrà la sua piena collaborazione. Dopotutto, sarebbe naturale per lei provare una certa curiosità nei suoi confronti.
Distinti saluti.
Marion rimase lì, inginocchiata, le sopracciglia aggrottate e una gran confusione in testa. Perchè Near avrebbe dovuto essere interessato ad un esperimento genetico? Perchè avrebbe dovuto "provare una certa curiosità nei suoi confronti"? E soprattutto, perchè inviare la lettera pochi giorni dopo la sua morte? Potevano non esserne al corrente...
Il bussare basso e furioso di Tennyson la riscosse.
-Marion, ascoltami! Stanno salendo!-
-Sì, ho capito.- La ragazza si affrettò a ripiegare il foglio con cura e rinfilarlo nella busta, poi la rimise nella tasca. Impossibile sospettare la sua incursione.
Uscì in gran fretta, chiudendosi la porta alle spalle. Tennyson le fece cenno di seguirlo, nervoso, e lei obbedì tacita.
Giunti all'ingresso, Marion non si stupì di vedere Lidner, Rester e Gevanni varcare la soglia. Ma, dietro le loro figure, ve ne scorse una più minuta. Battè le palpebre, sgomenta e confusa.
Lidner si scostò, agitata. La sua voce era esitante. -Ehm, Marion, lei è...-
E' arrivata.
Una ragazza dai capelli azzurri come acque limpide avanzò di qualche passo, senza timore. In testa aveva un improponibile copricapo di paglia e frutta, ed indossava una gonna a balze decisamente inadatta per uscire di casa. I suoi occhi la trafissero tranquilli, come se fosse abituata a lanciare sguardi così penetranti, senza sorridere.
-Chiamatemi L.- si presentò laconicamente.
Tennyson ansimò, sgranando gli occhi. Marion incrociò lentamente le braccia al petto, gli occhi che si riducevano in due schegge di sospetto e ostilità.
Il silenzio, imbarazzato e innaturale, calò come una cappa troppo pesante per essere rimossa. I tre agenti dell'Spk erano a disagio, senza sapere esattamente come comportarsi nei confronti di quella ragazzina. Aveva un'espressione impassibile, la durezza dei suoi bizzarri occhi bicolore le conferiva un'autorità misteriosa, un'aura di potere dall'origine sconosciuta. Eppure la stravaganza quasi assurda del suo aspetto era in forte contrasto con tutto ciò. Insomma, come poteva fare sul serio, vestita così?
La bionda la esaminò da capo a piedi, critica, e decise che quella stravagante lì le piaceva ben poco. Quell'ostentata ed esuberante originalità non poteva che essere tradotta come un tentativo disperato di attirare l'attenzione, ma in teoria lei non avrebbe dovuto essere la figlia supersegreta di un detective supersegreta?! 
-Benvenuta a Kyoto.- la minacciò Marion, sgocciolando le parole con freddezza.
L inarcò le sopracciglia. -Ne sono certa.-

Grazie per aver viaggiato con noi e buona permanenza a Madrid, esordì la voce metallica di un'hostess dagli altoparlanti. Law si slacciò la cintura di sicurezza, intorpidito; l'atterraggio l'aveva sorpreso mentre si stava godendo un piacevole sonnellino, la testa reclinata contro una spalla. Era il primo vero sonno ristoratore che era riuscito a fare durante i suoi viaggi, in cui aveva dormito senza mai svegliarsi nè essere assalito dai suoi soliti, insistenti pensieri. La causa fu attribuita alla stanchezza, che gli appesantiva il corpo come un mantello zuppo d'acqua sulle spalle, e di cui aveva bisogno di liberarsi per un po'.
Rail era decisamente troppo elettrizzata per dormire e aveva girellato allegra fra le file dei sedili, ad osservare i passeggeri, svolazzando su e giù per lo stretto corridoio incapace di stare ferma.
Canticchiò per tutto il tempo, mentre Law recuperava il bagaglio a mano e si metteva in fila per scendere dall'aereo. Quando uscì, l'aria fresca gli frustò il volto. Il tramonto sfumava nel cielo, nubi di rame e bronzo cozzavano l'una contro l'altra in una coltre rossastra. Il sole piangeva i suoi ultimi raggi, perdendo luce come sangue contro l'asfalto.
Rail ammirò il cielo scarlatto, con un sorriso ampio. -Davvero fantastico.-
-E non hai ancora visto niente!- ribattè Law, divertito. -Madrid è una splendida città, con una storia molto interessante. Ti piacerà.-
La Shinigami aggrottò la fronte pallida, assorta. -Hai pensato a quando...?-
-Fra una settimana.- rispose prontamente lui, avanzando verso il piccolo bus che li avrebbe portati all'aeroporto. -Due giorni prima di partire.-
-Ecco, volevo chiederti... come speri di farla viaggiare in aereo, quando tutti la staranno cercando e il primo posto che terranno sotto controllo sarà certamente l'aeroporto?- Era parecchio perplessa. Law accennò un sorriso di scherno, guardando l'amica di sottecchi.
-In effetti, mi stupisce che tu me lo chieda solo ora. Insomma, è ovvio che avresti dovuto pormela prima, questa domanda.-
La Shinigami s'irritò.
-Ma allora, me lo dici o no?- sbuffò offesa.
Law attese di salire sul bus e osservò le porte chiudersi, prima di rispondere. Confidava che, in quella calca di gente rumorosa, nessuno notasse il fatto che, apparentemente, stava intraprendendo un discorso con il nulla.
-Sai in che cos'era molto brava mia madre?-
Rail si stupì dell'improvvisa uscita dell'amico.
-No, ma che cosa c'entra adesso? Smettila di divagare, Lawry.-
Il ragazzo parve compiaciuto della sua curiosità.
-Sapeva sfruttare molto bene l'arte del travestimento.-
-Vuoi dire che...- Rail lasciò la domanda in sospeso, dubbiosa. Lui rise.
-Non ci pensare, adesso. Quando sarà il momento vedrai. Per ora pensiamo alle valigie: sai che dicono che, durante il volo, tutti gli aggeggi elettronici nei bagagli finiscano fuori uso?- accennò, con ostentata indifferenza. Sul volto della Shinigami si dipinse l'orrore.
-Non è possibile! La... la mia televisione portatile!-
Ci vollero tre quarti d'ora, un terribile mal di gola e tante occasioni per pentirsi dello scherzo per convincerla che, fortunatamente per il suo Beautiful, non era affatto vero.





































Note dell'Autrice: Inutile proferire le mie solite sciocche scuse, tanto sono inutili! Mi limiterò a ribadire la mia condizione di feccia umana. ç.ç Insomma, ma sono ritardi questi?!
Se posso giustificarmi in qualche modo, in questo periodo sto guardando un nuovo anim... (vede i lettori brandire forconi con sguardi tutt'altro che amichevoli)... no, non posso giustificarmi!
Diciamo che è comparso un personaggio fondamentale, in questo capitolo! E anche molto complicato, per la verità. La famosa L che tanto si è fatta desiderare! E ha avuto anche uno scontro frontale con Law... o.o
Nei prossimi capitoli avrete modo di scoprire di che pasta è fatta, eheh... E Lawrence? Riuscirà nel suo piano d'evasione? Lo scoprirete nella prossima puntata! XD
Se c'è ancora qualche anima gentile che può lasciarmi una recensione, sarò lietissima di leggerla. ^-^
Lucy

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Capitolo 13
*** Potere. ***


Potere.


Settembre, 2017.

A tre anni, Marion si dedicava alla geografia e allo studio della via Lattea. A quattro imparò il principio di equazione, a cinque traduceva antiche iscrizioni runiche, a sei elencava spedita la tavola degli elementi imparata a memoria. A sette, lei e Near confabulavano sottovoce in lingue di cui Lidner non conosceva nemmeno il nome.
-Quella bambina è un mostro.- dichiarò Gevanni convinto, nel vederla scribacchiare e correggere pagine e pagine di spartiti musicali, per poi suonarli impeccabilmente con il pianoforte.
Certamente Marion aveva delle doti e apprendeva con facilità, però è anche vero che Near fu un professore intransigente e inflessibile. La tenera età dell'alunna non gli faceva affatto credere che potesse avere difficoltà: anzi, insisteva a ripetere ai suoi dipendenti che proprio da bambini era importante ricevere un'educazione esemplare, quando la mente è pronta e giovane.
Così, come se fosse perfettamente normale, impose all'alunna almeno sei ore di studio al giorno e la istruì in storia, matematica, fisica e diverse lingue. Dagli otto anni in poi introdusse la filosofia, materia che Marion odiò profondamente ma a cui si dedicò lo stesso per amor del tutore. C'era un'alchimia indefinibile fra di loro: per lei, Near era talvolta un vero mistero, in altre occasioni bastava uno sguardo per intendere ciò che pensava. Lo amava con la devozione spassionata di una figlia innamorata, lo ammirava come gli astrologi fanno con le loro stelle. Un ideale perfetto ed ineguagliabile, di cui cercava sempre e ansiosamente l'approvazione. Se Near le avesse detto che dal quel momento il Sole aveva iniziato a girare intorno alla Terra, ci avrebbe creduto.
Era strano, per lei. Marion era una bambina ribelle e ostinata, che scappava quando Lidner tentava di farle le trecce, che si nascondeva sotto il letto strillando come un'aquila perchè non voleva dormire, risoluta nelle sue idee, riluttante a cambiarle e decisamente sicura di sè. Solo in presenza dell'albino si trasformava, divenendo la piccola obbediente e mesta che non protestava mai e versava sangue sui libri per ricevere un sorriso. Near era l'unica eccezione.
Ma, quando la bimba compì sette anni, Lidner decise che non si poteva andare avanti così ed era ora di cambiamenti.
-Ha bisogno di uno svago, di divertimento! Non può vivere di solo studio, questa povera creatura!- protestava indignata.
Near rispondeva con fredda esasperazione. -Non ha forse tutti i giocattoli che desidera, quando li desidera?-
La donna sbuffò. -Sì, certo, però non bastano quattro robot e un po' di puzzle. A lei serve la compagnia di un amichetto, un coetaneo! Un amico con cui giocare, in carne ed ossa!-
-Non ne vedo la necessità.- tagliò corto lui, apatico. -Non mi sembra che soffra di solitudine. Siamo sempre tutti e quattro con lei, a sua disposizione.-
Lidner cominciava a spazientirsi. Insomma! Solo perchè Near era uno sgorbutico asociale, ciò significava che di conseguenza anche la piccola avrebbe dovuto essere così. Ma invece si limitò a dire che a quell'età tutti i bambini giocavano fra di loro e si divertivano, stringevano rapporti sociali eccetera. Impedirle queste esperienze sarebbe stato l'equivalente di negarle una possibilità di ampliare i suoi orizzonti, fare nuove conoscenze, una ricchezza. Così, pur di malavoglia e poco persuaso dell'utilità di ciò, aveva acconsentito. La condizione, però, era che i suoi compagni di giochi fossero dei bambini svegli e intelligenti, non dei caproni sempliciotti e ignoranti che avrebbero potuto influire negativamente sulla sua formazione.
Lidner, allora, presentò a Marion Harmony e Craig.
Erano decisamente adorabili: lei con tutte quelle lentiggini sul naso, i codini fiammanti e gli occhioni blu; lui con una testolina riccioluta e morbida, un sorriso irresistibile e le fossette sulle guance. Ma mostrarono presto, al quartier generale, di che pasta erano fatti: in un pomeriggio devastarono quello che in origine doveva essere un ufficio, rendendolo il campo di battaglia di uno scontro fra giganti. Riuscirono persino a sfasciare la sedia. Se non fosse stato per il loro quoziente intellettivo, Near li avrebbe spediti a calci nel sedere in un collegio per bambini intrattabili.
Fatto sta che Marion, non abituata a trovarsi di fronte dei coetanei, capace di rapportarsi solo con il libro di scienze, trovò in quella bambina scatenata con un incisivo mancante la sua migliore amica.

Giugno, 2025.

Il respiro di Lawrence, sospeso in gola, si spezzò in ansimi stentati. Si aggrappò allo stipite della porta, gli occhi strabuzzati e le labbra socchiuse. Ci volle almeno un minuto prima che potesse articolare qualche parola.
-... ce l'abbiamo fatta?- domandò infine, una nota di stonato sconcerto nella voce, come se fosse il primo a sorprendersi della riuscita del suo piano. Rise lugubre, un suono sconnesso e scuro.
-Sì.- tagliò corto Rail, inquieta. -Ma adesso muoviti, non perdiamoci in chiacchiere.-
Fin dal primo mattino era stata molto nervosa, irrequieta, scontrosa come solo le ragazze agitate possono essere. Lawrence la canzonò, sarcastico.
-Che cos'hai, adesso i reati ti spaventano? Eppure rubare i ciondolini ti piaceva.-
La Shinigami lo trafisse con un'occhiata lunga, di rimprovero, in contrasto con la sua personalità solare ed allegra.
Il ragazzo desistette, capendo che l'amica non era in vena di scherzi. Si ricompose e osservò pensoso il corridoio che si snodava davanti a lui. Il bagliore metallico e sbiadito delle pareti di ferro si rifletteva l'uno nell'altro, in un groviglio di luce grigistra, ma solo fino ad un certo punto: tenebre pastose e dense si arrampicavano come dita di fuliggine, nascondendolo da un punto in poi in una nebbia nera. Impossibile anche solo immaginare la sua fine.
-Quanto tempo ho?- chiese.
-Circa quaranta minuti.- ribattè Rail, secca.
Lui si accigliò. Erano pochi, visto che avrebbe dovuto presentarsi, ottenere la sua fiducia e convincerla a scappare.
-Fatteli bastare.- aggiunse la Shinigami, bruscamente, prima di svolazzare in direzione del sistema di allarme, seguita dal suo inseparabile mantello a turbinare nell'aria arida e gelida. Dargli una mano le dava davvero fastidio.
Law aggrottò gli occhi, concentrato. Non c'erano scelte da fare, ormai, solo uno schema da seguire. Il fallimento non era contemplato fra le possibilità. Lei sarebbe uscita di lì, a costo di doverla trascinare via.
Camminò. I secondi erano scanditi con sadica placidità, e ticchettavano freddi fra il metallo delle pareti. In quei cavernosi corridoi il tempo rallentava, ogni passo durava troppe pulsazioni. Avanzando, il buio si scostava come una vecchia tenda e rivelava l'opaco baluginare di nuove pareti, nuovi corridoi, tanto ineccepibilmente simili da fargli credere di non essersi mai allontanato dai precedenti, in un'illusione ottica vertiginosa.
Il riflesso grigio scoprì dalla cortina d'ombra la targa sulla porta di una delle stanze: 198, i numeri incisi nel bronzo. La mano di Lawrence afferrò senza esitare il ferro sgradevole della maniglia, e con un gesto netto l'abbassò.
Che i giochi abbiano inizio, annunciò sogghignando fra sè.
 
-E' questa?-
Una voce, tagliente e ruvida come un cavo d'acciaio contro la gola, mozzò di netto i suoi pensieri. A Marion bastò intercettare un lampo azzurro accanto a lei per ricordare chi aveva di fianco.
-Come?!- bofonchiò, lanciandole un'occhiata distratta e scocciata.
-Mi stavo chiedendo se per caso tu avresti potuto dirmi se, magari, questa è la tua camera.- Aveva un leggero scetticismo dipinto nei lineamenti, che non si preoccupava di nascondere nel fissarla. Il suo sguardo era velato dai pensieri malevoli di un'esaminatrice placidamente a suo agio.
La stessa cosa non si poteva dire di Marion, che digrignò i denti nascosti dietro le labbra, nel tentativo di sfogare l'irritazione e di non manifestarla con qualche parola di troppo.
Si limitò ad aprire la porta e spalancarla bruscamente.
-Vieni.- ribattè laconica, omettendo il "simpaticona" che sibilava nella sua testa come un'eco malvagia.
L avanzò con studiata lentezza, voltando appena il mento a destra e sinistra in un movimento di stolida curiosità. Il suo sguardo non si spostava, seguiva semplicemente la rotazione della testa e si soffermava indecifrabile su diversi elementi. Prima squadrò l'armadio di legno, coperto di graffiti e simboli di cui nemmeno la proprietaria ricordava il significato, poi la sedia su cui torreggiava una catasta traboccante di vestiti che si ergeva in un equilibrio precario, infine sulla scrivania, dove il computer era gettato storto e un garbuglio ingombrante di auricolari penzolava dal bordo. Marion si pentì per qualche istante di non avere messo un po' d'ordine quella mattina, ma ripensandoci concluse che non valeva la pena sperare di apparire diversa da com'era, nè scomodarsi soltanto per lei. Non metteva a posto la sua camera da tre anni e cominciare per una L qualsiasi sarebbe stata un'umiliazione. Che si arrangiasse, quell'usurpatrice.
Il silenzio perdurò ancora per pochi attimi di dubbio.
-Che simpatico connubio fra l'accogliente e l'angusto.- commentò pigramente. -Dove dormo?- Sollevò il capo, quasi sperasse di trovare un letto sul soffitto.
Marion rimase stordita dalle sue parole e dovette elaborarle un secondo. Aveva forse detto angusta? Aveva forse detto questo?
Inspirò forte, aria rabbiosa a inondare la sua gola. -Per terra.-
Quelle sillabe erano talmente impregnate di ruvido rancore che lei stessa si stupì della sua durezza.
-Scherzavo.- aggiunse con voce più leggera, tentando un ghigno affilato che parve più una smorfia sarcastica.
L alzò le spalle. -Ne dubito. Se ci saranno problemi di spazio, o di qualsiasi altro tipo, e cercherete di rifilarmi il divano spodesterò qualcuno dal suo letto con queste mani.-
-Davvero un'ospite adorabile.- non si trattenne dal commentare Marion, rendendosi conto che la diplomazia era l'unica arma che potesse funzionare.
La ragazza sbadigliò sonoramente. -Non sono nemmeno entrata, Keehl, calmati. Non ci vuole un'intuitiva per capire che ti sto sulle scatole colossalmente, ma mettiamo subito le cose in chiaro. Io sono il boss qui dentro, ora. Sono io quella venuta per salvarvi il culo, non il contrario: tu hai bisogno di me. Per cui, sono io quella che deve approfittarne vergognosamente e farmi detestare ancora di più. Stop. Ricevuto forte e chiaro?-
Parlò con voce tranquilla ma autorevole, calma ma caratterizzata da un'impronta di potere indiscutibile. Marion non poteva fingere di non avvertirla, ma il suo carattere bellicosamente ribelle la spingeva a combatterla, sfidarla, affrontarla, esaltata dalla sfida. Ma qualcosa in lei la spingeva anche a temerla, ad assumere un atteggiamento guardingo nei suoi confronti, un timore reverenziale che l'esortava a non gettarsi nello scontro come avrebbe voluto. E poi le pareva che, qualsiasi cosa avesse detto o fatto, avrebbe solo fatto la magra figura di una bambina sciocca e arrogante. Forse era la strana maturità stagnante nelle sue iridi, in vivo contrasto con il suo aspetto da adolescente con i capelli colorati, che le conferiva quell'aria autorevole e rendeva la sua voce ferma come il granito e dura come l'acciaio.
Marion aveva ancora capito poco e troppo di lei, e aveva bisogno di organizzare le idee. Si limitò ad un freddo cenno del capo, quasi rude, scontrosamente breve. L affilò lo sguardo malizioso e bicolore. La differenza di tonalità fra i due occhi era, in quel momento, quasi sconvolgente.
-Brava, Keehl. Più occasioni per stare zitta cogli, meglio è.-
La bionda sospirò infastidita. -Potresti evitare di chiamarmi per cognome?! Mi fa sentire una scolaretta.-
L alzò lo sguardo al soffitto. -Ecco. Ne hai appena persa una.-

La camera era bianca, asettica. Un paradiso senza dolcezza, un inferno senza fiamme, una semplice avvolgente neutralità. Le pareti erano prive di qualsiasi cosa, meri ammassi di bianco pulite d'ogni sfregio. La mancanza di finestre e l'ingombrante sovrabbondanza di bianco rendeva l'ambiente vagamente oppressivo, e il respiro sembrava mancare in quello stretto spazio.
Il ragazzo biondo avanzò nel candore sporco, con passi tanto brevi e lenti da risultare esasperanti, comportandosi come se non volesse spaventare un piccolo animale selvatico. Il chiarore luminoso del suo viso, il sorriso morbido sulle sue labbra, la dolcezza pacata nei suoi occhi lo faceva sembrare una creatura ultraterrena. Il suo angelo d'oro giunto per salvarla.
Lo sapeva, lei, e non aveva paura. Voleva che venisse più vicino.
Anche la ragazza seduta sullo stretto letto biancastro era bella. No, non bella, incantevole: Lawrence si stupì genuinamente del suo magnifico aspetto, del tutto diverso dall'idea d'una pazza omicida in manicomio che aveva immaginato.
Una fanciulla filiforme, eterea, snella e sottile, avvolta in una veste immacolata, disadorna ma in grado di mettere in risalto la sua figura delicata. I tratti gentili, scolpiti in un incarnato lunare, scintillavano come le sfaccettature di un diamante sotto la luce. Aveva il viso candido e arrotondato di un angelo sperduto. Boccoli leggeri ricadevano in soffici spirali lungo le sue spalle, le labbra appena schiuse erano fresche e gonfie, del colore delle pesche, in un'espressione di interdetta indecifrabilità. Ma gli occhi, gli occhi... li aveva immaginati sanguigni, dilatati e spaventosi. Niente a che vedere con i suoi, schermati da folte ciglia corvine, della tonalità delle corniole, scuri e densi. Lo osservava con infantile curiosità, e con un altro sentimento luminoso nelle iridi che non avrebbe saputo definire.
Law si fermò poco distante dal letto, in piedi. Una sagoma lucente dipinta nell'opacità del bianco.
-Salve. Tu sei Rowena, vero?- domandò in uno spagnolo perfetto. La sua voce era miele, fusa e suadente. 
Lei lo osservò e basta, senza parlare.
-E' un bel nome. Io mi chiamo Lawrence, invece.-
Rowena scavò con intensità nelle iridi vellutate del ragazzo, quasi cercasse di carpirne i segreti. Ma taque.
-E sai perchè sono qui?- proseguì tranquillo.
Il sorriso della ragazza si allargò, come intendendo un segreto che condividevano.
-Era il mio giochino.- Canterellò queste parole con una voce acuta e musicale, da bambina, e uno sguardo vivace.
L'espressione serena di Lawrence non si scalfì, quasi quell'improvviso cambio di discorso fosse perfettamente normale.
-Come?- esordì dolcemente.
-Era il mio giochino.- insistette Rowena, agitando i polsi esili. -Per terra, così bianchi e belli. Il coltello luccicava... io facevo il mio giochino, e il sangue li rendeva ancora più belli. Rosso e brillava. Così belli...- ripetè sconnessa, battendo le palpebre.
Law la osservava con attenzione. -E adesso?-
-Il mio giochino non c'è più. Me l'hanno rubato.- rispose lei, vacua, ondeggiando i magri piedi che spuntavano dalla gonna a campana del camice fino a sfiorare il pavimento.
-Rubato?-
La ragazza strinse convulsamente il bordo stretto del magro materasso. -Era mio. A loro non piaceva. Loro me l'hanno portato via... ma erano belli e rossi.-
La sua voce stridette, come un disco inciso troppo a fondo. Le sue nocche sbiancarono.
-Chi te l'ha portato via, me querida?- mormorò Law, piano, con pacatezza.
-I cattivi senza volto. I cattivi con le siringhe.- Il tono di Rowena divenne solo un sottile ringhiare. Le sue iridi vacillarono, scosse dal tremore di una follia che andava destandosi.
-Ma io sono venuto per tornarti il tuo giochino. Tanti nuovi giochini.- Il ghigno del ragazzo non riusciva a nascondere l'euforia. Frugò nella tasca dei pantaloni e, come un prestigiatore di strada, ne estrasse abilmente una lunga lama affilata. Creò bizzarri giochi di bagliori opalescenti sulla parete in ombra, un gioiello inestimabile nel freddo della notte.
La reazione di Rowena fu un istinto disperato. Con la rapidità d'un respiro, fece scivolare il coltello fra le sue mani e lo sollevò in alto, con occhi adoranti. Il rosso cupo dei suoi occhi prese vita, e la luce che colmava la lama si riflesse nei suoi occhi, ora solo pozzi di sangue. La ammirò. La portò alle labbra e la baciò. La leccò. La fece scivolare lungo il mento, il profilo della gola. La carezzò con la punta delle dita, finchè una perla vermiglia naque a fior di pelle. Rise, estasiata, e gettò la testa indietro finchè non sfiorò il letto. I boccoli vorticarono attorno alla sua figura piegata in due. Un suono argentino quanto inebriato d'insano, campane dalla promessa sibillina.
Poi si slanciò in avanti, con foga. Il suo corpo, flessuoso come quello di una gatta, era dotato di un'elasticità vaporosa. Puntò l'estremità quasi invisibile del coltello contro Law, con un gesto apparentemente distratto ma incredibilmente misurato, sul suo cuore.
Marrone nel rosso per lunghi istanti.
Non c'erano una pazza e un assassino, in quella stanza: solo due pazzi e due assassini, che si fissavano consapevoli, quasi si conoscessero da tutta la vita. Si impararono a memoria, in quegli istanti.
Il suo demone angelo era giunto a chiamarla, lei rispose.
-Vuoi venire con me, me querida?- Lawrence non guardava il coltello, ma lei. Con occhi forti, occhi che esploravano la sua anima.
Rowena rise ancora, roca e svagata, e si portò la lama alla bocca. Denti candidi e affilati la spezzarono, con un solo movimento netto e secco.
La sua tunica bianca, già violata da una grossa macchia rossastra.

-Allora? Qual'è il mio studio?- esclamò L, procedendo spedita per i corridoi del quartier generale come avrebbe fatto un'allegra turista.
Marion faticava a starle dietro, perciò accennò una corsetta. -Dall'altra parte, ti ho detto! Se ti degni di ascoltarmi, magari ti mostro dove!-
L'altra girò sui tacchi delle sue infradito di gomma e cambiò direzione, senza fare una piega. -E va bene, mi degno di ascoltarti. Sbrigati.-
Le due raggiunsero l'ufficio di Near, fermandosi davanti alle spesse porte d'acciaio. Marion digitò il codice sulla piccola tastiera sulla destra ed esse permisero loro di accedervi.
Luccicava di pulito sotto le insistenti luci sul soffitto e ogni schermo, lucidato alla perfezione, pareva una viva macchia d'inchiostro. Lidner, Gevanni e Rester sedevano al computer principale, voltati verso di loro, mentre Harmony e Craig li attendevano in piedi.
-Era ora! Ho finito tutto il pacchetto di sigarette, intanto che arrivavate.- annunciò la gemella, scrutando incuriosita la nuova L.
-Tutti i pacchetti, vorrai dire.- precisò il ragazzo, scuotendo la testa.
-Ehehm. Vi spiacerebbe finirla? Se non ve n'eravate accorti, devo presentarvi una persona.- li interruppe Marion scocciata. Quando era nervosa bastava ben poco per farla scattare come una biscia, e quei due erano sempre così poco professionali. Sperò vivamente che non le avrebbero fatto fare brutte figure.
Harmony inarcò un sopracciglio. -Beh, insomma, era un po' difficile non accorgersene.-
In effetti, L aveva ancora il suo cappello con la frutta.
-Harmony, Craig, lei è L.- la presentò la bionda, rapidamente.
-Molto piacere di conoscerti. E' bello sapere che sei qui perchè ti abbiamo ricattato, e non perchè vuoi aiutarci.- ribattè Harmony, con un sorriso cordiale.
Craig alzò gli occhi al soffitto. -Non badarla, è nata così, povera. Ignorala e prima o poi la smetterà.-
La ragazza dai capelli azzurri si mostrò apaticamente impassibile per tutta la durata di questa discussione. Infine, con voce misurata, decise:
-E' ora di mettersi al lavoro.-
Lidner annuì. -Se devi accedere a delle informazioni o contattare qualcuno, usa pure questo computer.-
Mentre prendevano delle sedie e le posizionavano davanti al computer, Marion si accostò a Harmony.
-Come ti sembra?- sussurrò.
L'amica fece un sorriso sghembo. -Una figata.-
-Ma per favore.- protestò la bionda, poco soddisfatta della risposta.
I tre agenti dell'Spk si alzarono per lasciare il posto ai ragazzi. L si sedette davanti allo schermo, con sguardo indecifrabile.
-Come intendi procedere?- domandò infine Marion, impaziente.
Non rispose. -Sapete quali componenti della famiglia Yagami vivono a Kyoto?- replicò invece.
Marion battè le palpebre, stupita. -La sorella Sayu con suo marito, e basta. La madre è morta pochi anni fa, e il padre ancora ai tempi del primo caso Kira.-
L cliccò sull'icona di Internet, con l'aria di chi sa perfettamente cosa sta facendo. I gemelli osservavano con interesse, in silenzio, come avrebbero fatto davanti ad un film. Solo Marion si sentiva a disagio nel dover semplicemente affidarsi all'investigatrice, senza avere il controllo della situazione. Essendo all'oscuro dei suoi piani, non poteva contribuire in nessun modo. La sensazione di stare venendo palesemente spodestata si faceva sempre più radicata e fastidiosa.
L scrisse su un motore di ricerca "voli da Kyoto 4 Giugno 2025". Scelse un link che elencasse le partenze da un certo aeroporto di Kyoto, poi lesse con sguardo attento.
Marion era sempre più smarrita. -Ma mi spieghi cosa diamine stai cercando di scoprire?!-
-Ricordi quando abbiamo parlato di quella storia dell'approfittare di ogni occasione per tacere?- ribattè lei, senza distogliere gli occhi dalla tabella delle partenze.
La bionda trattenne uno sbuffo e si mise a braccia conserte, come una bambina redarguita severamente.
Dovettero passare diversi minuti, prima che L parlasse.
-Il figlio di Light Yagami è partito oggi dall'aeroporto Itami, vicino Kyoto.-
Le reazioni furono all'incirca le medesime.
-Che cosa?! Da Kyoto?!- sbottò Craig, sbalordito.
-E' impossibile.- dichiarò Marion stizzita.
-Voci di corridoio mi hanno informata che la famiglia Matsuda ha di recente ospitato un ragazzo, nonostante non l'abbia fatto sapere in giro.- cominciò L, annoiata. -Ed esattamente alle ore 14:33 di oggi è stato visto allontanarsi dalla loro casa con delle valigie, per dirigersi in aeroporto.-
-Chi sarebbero, queste voci?- la interruppe Marion, scettica.
Ricevette uno sguardo fulminante. -Preferiscono rimanere anonime.-
-Hai mobilitato delle persone affinchè lo spiassero?- si stupì Harmony, ammirata. Tutto ciò che riguardava lo spionaggio l'affascinava.
-Non proprio.- la corresse L. -Se fosse stato regolarmente seguito, probabilmente se ne sarebbe accorto. Ho solo ordinato loro di controllare la zona e farmi sapere se avessero notato qualcosa di diverso.-
-Come fai a sapere con certezza che è lui?!- domandò Marion.
-Corrisponde alla descrizione, e inoltre... quale altro ragazzo proveniente dall'estero sarebbe stato ospitato a casa loro?-
Craig seguì il filo logico del discorso. -Quindi stai cercando di scoprire dov'è andato...-
La detective scosse la testa, mestamente. -Solo di ricostruire le tappe. La destinazione temo di saperla già.-
Il silenzio che seguì la esortò a spiegare.
-In Spagna. A Madrid.-
-A cercare la ragazza con gli occhi di uno Shinigami.- concluse Marion, inorridita.







































Note dell'Autrice: Finito, finalmente! ^-^ Ecco un nuovo capitolo per voi. Ne sono abbastanza soddisfatta, spero soddisfi anche voi!
E qui incontriamo la famosa Rowena. E' come ve la immaginavate? Più avanti avrò modo di delineare un profilo più preciso della sua personalità, per quanto si possa fare, visto che è una pazza schizofrenica.
Lawrence fa passi avanti, ma anche la nuova L lo segue a ruota! Cosa combinerà adesso il nostro Kira?
Lo scoprirete solo al nuovo aggiornamento, che sarà al più presto possibile! Intanto, ditemi pure ciò che ne pensate!
Lucy

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Capitolo 14
*** Paura. ***


13

Paura.


Ottobre, 2006.

Il corridoio invaso dal buio fece vacillare le sue intenzioni per qualche istante, ma durò solo il tempo di un brivido freddo sotto il pigiama di flanella azzurro. Deglutì nel silenzio della notte e, aggrappandosi disperatamente ai ricordi più luminosi che aveva, si lasciò inghiottire dalla coltre di oscurità liquida e densa. Procedette con passi brevi di bambina, ma affrettati e incalzati da una paura senza ragione, se non un'inquietudine nel profondo delle viscere. Lo scalpiccìo della pelle nuda e tiepida contro le piastrelle d'acciaio si confuse con il tacere ostinato e impassibile del corridoio. Nonostante al suo imbocco apparisse infinito, presto la porta che stava cercando apparve al suo fianco, un'ancora di salvezza. La piccola abbandonò le inospitali e opprimenti tenebre per afferrare la maniglia e bussare, rapida ed intimorita. I secondi che seguirono furono insostenibili, sospesi.
-La porta è aperta.- scandì una voce piatta e monocorde.
Sommersa da un'ondata di calore e benessere nel sentirla, socchiuse la porta e si insinuò nella stanza con timida mestizia. Gli occhi gonfi di sonno, i capelli stropicciati dal cuscino, il pigiama di colore pastello la facevano apparire fuori posto, in quell'ufficio pieno di schermi lampeggianti, computer e altre diavolerie elettroniche.
Una figuretta bianca e consueta, accoccolata a terra, era intenta in qualcosa. Sembrava un piccolo fantasma, ma la bambina non aveva per nulla paura: gli si avvicinò di buon grado, invece, con un sorrisino grato e le guance arrossate di gioia e imbarazzo.
-Non riesci a dormire, Marion?- domandò la voce, incolore quanto lui, senza apparire granchè curiosa.
Marion scosse la testa e si sedette a gambe incrociate di fianco a lui, sul pavimento duro. Poi reclinò la testolina sulla spalla del tutore, socchiudendo gli occhi.
-Ho fatto un sogno brutto.- spiegò con voce flebile, rannicchiandosi contro il suo fianco magro.
Near armeggiava veloce su una tastiera. -Quanto brutto?-
La piccola strizzò gli occhi, come per allontanare quelle immagini. -Tu non c'eri più. Te ne andavi via.- Lo disse così piano che solo da una tale distanza riuscì ad udirla.
-E se un giorno me ne andrò sul serio? Che cosa farai?- Near parlò con tranquillità, come se si stesse rivolgendo ad un adulto e non ad una bambina di sei anni.
Lei si aggrappò ad un lembo della sua camicia candida, stringendolo forte fra le piccole mani e affondandovi il volto. -Non lo fai, vero?-
Il ragazzo sospirò e scostò lo sguardo impenetrabile e scuro contro il suo, azzurro di lacrime, debole e fragile. Acciaio contro cristallo.
-Dopotutto, è una promessa.- concluse, mentre Marion si accoccolava come un gattino sulle sue gambe. Le ci vollero pochi minuti per crollare in un sonno candido e leggero come una piuma, sgombro degli spettri che tanto le facevano paura. Anche se, in futuro, avrebbe imparato a temere di più i mostri veri.
Quegli anni erano stati strani e diversi. Un misto di emozioni vivide ed umane, quasi spaventose, che inaspettatamente Near si era reso conto di riuscire a percepire. Quel qualcosa di rotto e scheggiato che era il suo animo li comprendeva, li accettava. Un fuoco che aveva portato luce e calore, che aveva bruciato le sue resistenze e si era impossessato del suo cuore.
Il sorriso di quella bambina era il riflesso lontano di quello del padre, e spesso mentre la guardava i loro occhi si sovrapponevano fino a confondersi. Ma non di ghiaccio quelli di lei, non affilati dal dolore e temprati dall'odio, solo luminosi.
-Diventa forte, Marion.- bisbigliò, sentendosi molto più vecchio ed esausto di quanto non fosse. 
Una preghiera in attesa di ascolto, che si dissolse come un'illusione in quell'aria asciutta, che mise a nudo tutta la debolezza incrinata impossibile ormai da nascondere nella sua voce. Marion lo aveva reso più fragile e attaccabile, in quegli anni, come solo un affetto puro e felice può ridurre, con tutti gli svantaggi che comportava. Con tutta la libertà che comportava. -Diventa forte.- ripetè, pensoso, sperando che il destino le avrebbe risparmiato ogni dolore e ridendo di sè stesso un momento dopo.

Giugno, 2025.

Rowena fu una fuggitiva docile e, tutto sommato, tranquilla. Si lasciò trascinare come un ramoscello in balìa della corrente, senza opporsi a quella mano che la stringeva saldamente per il braccio.
Nel bagno pubblico della stazione più vicina, alla luce squallida e giallastra di una lampadina ronzante, Law fece rapidamente indossare alla ragazza una folta parrucca ramata, delle lenti a contatto castane, una camicetta ed un paio di jeans. Con una matita usata per il trucco teatrale, disegnò sulle sue guance una moltitudine di lentiggini e giusto qualche altro espediente per modificare un po' i suoi lineamenti. Lei si lasciò maneggiare come una bambola, lo sguardo assente e gli arti inermi.
Rail mostrò subito un'immotivata, viva antipatia per lei, nonostante non avesse neanche aperto bocca. Non fece altro che squadrarla male, per tutto il corso del viaggio che fecero in metropolitana. Erano le quattro e mezzo del mattino e i sedili erano quasi tutti liberi, i vagoni deserti. Pochi ragazzetti dall'aria scossa e qualche uomo d'affari con profonde occhiaie erano disseminati qua e là, imprigionati nella bolla dei loro pensieri.
Rowena finalmente prese a parlare, spezzando il mutismo imperterrito di poco prima.
-Chi è la tua mamma, Lawrence? La mia mamma è una donna bellissima.- raccontò, con uno strano sorriso vivace ed euforico. -Talmente bella che è un'attrice famosissima, e la chiamano a fare i film da tutte le parti del mondo. E' per questo che mi ha lasciata sola. Ma poi torna, ha detto. Le dirai tu dove andiamo, vero, Lawrence? Così quando viene a trovarmi sa dove venire.-
La convinzione era tale nella sua voce che non azzardò alcuna replica, pur rendendosi conto che le sue erano parole senza senso.
-Senz'altro.- confermò dolcemente, con un caldo sorriso. Lei lo ricambiò in maniera quasi oscena.
-La mia mamma è così bella... nei miei sogni mi suggerisce nuovi trucchi per il mio giochino. Mi diverto di più. Loro urlano e supplicano e cercano di colpirmi, quando avvicino il coltello... ma perchè? Non sanno quanto sono belli tutti luccicanti di rosso? Non vogliono essere belli?!- Lanciò al ragazzo di fianco a lei uno sguardo del tutto smarrito, colmo di sincero sconcerto.
-Significa che sono molto stupidi.- osservò Law condiscendente.
-Eh già, pensa un po' che stupidi.- bofonchiò Rail, sarcastica. Si guadagnò un'occhiata severa.
In quanto squilibrata, assecondarla e compiacerla era una delle tattiche migliori per tenere buona Rowena. Notò che il suo linguaggio era sposso sgrammaticato e infantile, il suo vocabolario decisamente ristretto, eppure talvolta si dimostrava incredibilmente sveglia e consapevole. Per esempio, i suoi riflessi erano sbalorditivi. Anche un solo gesto troppo brusco la spingeva a mettersi in posizione di difesa e ideare un attacco rapido e adeguato alla situazione. Con qualsiasi arma faceva meraviglie, trapassando il cranio ad una persona con una lametta a metri e metri di distanza, con una mira impeccabile. L'istinto di uccidere scorreva nel suo sangue, come ad un animale selvatico.
Pochi minuti più tardi, dimentica d'ogni cosa detta in precedenza, spiegò che sua madre era una ballerina alla Scala e che eseguiva qualsiasi balletto meglio di chiunque altra, che giungevano da tutto il mondo ad ammirarla. Poi divenne una cantante, una ladra, una maga, una dea, un angelo, pura materia di sogno nella sua mente confusa. Law seguì svogliatamente queste chiacchiere, stanco ed annoiato, limitandosi ad annuire e aggiungere qualche parola fra una storia e l'altra. Rail era sempre più sprezzante e scettica nei suoi confronti.
-Guarda tu se proprio un'invasata del genere dovevi andare a pescare. Per trovarsi una brava demente, non serviva venire fino in Spagna.-
-Già, bastavi tu.- sbottò a bassa voce infine il ragazzo, esasperato dai suoi continui borbottii e le sue polemiche insistenti. Rail s'indispettì, si voltò di spalle e non gli rivolse più la parola per ore.
Law pensò che non era poi così assurda l'idea che fosse gelosa delle attenzioni rivolte a quella sconosciuta, che la facevano così passare in secondo piano. Ma al momento aveva cose più urgenti e più importanti dei sentimenti feriti di una Shinigami irritante a cui pensare, perciò rimandò eventuali discorsi ad un futuro indefinito.
La madre di Rowena era una spacciatrice di droga stracciona che non racimolava abbastanza soldi nemmeno per mangiare, era strafatta dalla mattina alla sera e non si rendeva conto di ciò che faceva, costantemente in preda alle allucinazioni che gli stupefacenti le procuravano. Era del tutto ignoto come avesse fatto a conoscere il famoso killer Beyond Birthday, dal quale ebbe la figlia, ma Lawrence non si interessò a scoprirlo. Fatto sta che si imbarcò clandestinamente per la Spagna, sperando che gli affari andassero meglio, e quando scoprì di essere incinta si rivolse ad altre mendicanti con fama di "guaritrici" per abortire. A quanto pare le erbe che le furono somministrate non fecero molto effetto, perchè la piccola nacque nel buio e nel freddo dei bassifondi dove la donna cercava rifugio, miracolosamente sana nonostante la quantità spaventosa di droga che la madre assumeva e le sopracitate erbe. Da brava cristiana qual'era, cercò di vendere la neonata al primo mercato nero che trovò ma la polizia ricevette una soffiata e impedì che quegli atroci commerci di persone venissero portati a termine. La donna finì in un ospedale psichiatrico, in cui morì due anni dopo, e Rowena crebbe in un orfanotrofio malfamato riguardo il quale si sentivano brutte storie, fino all'età di dodici anni. Fu allora che fuggì, appena una ragazzina, massacrando le cuoche e usando la finestra della cucina, l'unica non sbarrata. Da quel momento la polizia non aveva più notizie di lei, nonostante l'avesse cercata per un po'.
Fu impossibile ricondurre la famosa assassina di Madrid a quella neonata senza cognome, partorita da una zingara ignorante e cresciuta in dubbie condizioni.
Law provava una sorta di amara pietà per quella ragazza, che probabilmente non mentiva consapevolmente ma era il suo inconscio a plasmare la verità. L'idea che fosse convinta del ritorno della madre, morta ormai da anni, era inquietante e nello stesso tempo patetica. Il ragazzo non fece obiezioni di alcun genere e la lasciò parlare.
Pensava già alle prossime mosse: cambiare almeno tre alberghi, prima di partire per l'Albania. Aveva già pronti carte d'identità, tesserini sanitari e tutti i documenti necessari per passare senza problemi ai controlli dell'aeroporto. Essendo vissuto alla Wammy's, era esperto in queste cose. Sapeva riconoscere dei falsi ben fatti e credibili da quelli scadenti, valutare i prezzi adeguati per non farsi derubare e gli esperti a cui rivolgersi. Tutto sarebbe andato come avrebbe dovuto andare, con un po' di fortuna.
I suoi pensieri si rivolsero poi al fantomatico nuovo L. Che avesse già qualche sospetto su di lui? Che avesse fatto indagini sul suo conto?! Beh, su di lui c'era molto poco in giro. Si era preoccupato di eliminare la maggior parte delle cose, anche alla Wammy's. I professori erano l'ultima spiaggia, ma sapevano cose decisamente irrilevanti, nulla che potesse aiutare a rintracciarlo. Mentre ci stava pensando, il cuore sussultò nel petto dolorosamente.
E se avessero deciso di parlare con Sayu e la sua famiglia?! Certo, loro avevano giurato di tenere nascosta la sua visita, ma se L avesse spiegato loro che temeva che lui, Law, fosse Kira, probabilmente avrebbero ceduto e collaborato. Chi non ha paura di Kira, in fondo?
Per l'ennesima volta, si trovò a pensare se non fosse stato meglio ucciderli. Ma si riprese subito: lui era Kira il giustiziere, il dio del nuovo mondo, non uno sterminatore senza scrupoli. Era quel che era per salvare, non per uccidere. Se avesse iniziato ad ammazzare chi gli pareva, avrebbe dato ragione a coloro che lo definivano un pazzo visionario.
No, avrebbe dovuto pensare a qualcos'altro per mettere fuori gioco L e le indagini. Però in una cosa suo padre aveva avuto ragione, per combattere il nemico avrebbe dovuto conoscerlo e finora non sapeva assolutamente niente di L. Avrebbe indagato a distanza, senza mai avvicinarlo. Avrebbe fatto il possibile per scoprire la sua identità, sempre cauto nel rischiare.
Rowena aveva gli occhi appesantiti dal sonno e, come una bimba, si rannicchiò sul sedile ruvido della metropolitana e premette le ginocchia al petto, quasi per difendersi dal buio addensato dietro i finestrini sporchi. I capelli sintetici e rossastri adagiati sulle sue spalle erano più lunghi dei suoi reali, raggiungevano quasi i fianchi.
Rowena, Rowena, pensò Law divertito. Devo ancora capire cosa sei.

-Passami l'acetone, sorella. Ho combinato una cazzata.- Harmony schioccò la lingua, accigliata, osservando contrariata lo smalto schizzato dalla boccetta che le aveva macchiato le dita di verde fosforescente. Marion, concentrata nell'applicare minuziosamente il mascara sulle ciglia chiare, le allungò distrattamente la confezione senza distogliere lo sguardo dallo specchio, ancora appannato dalla doccia fatta poco prima.
Harmony si sfregò le mani con un batuffolo di cotone imbevuto di acetone, poi riprese in mano la piastra arroventata per proseguire il lavoro sui capelli.
-Dov'è quella schizzata di L, a proposito?- esclamò, con un ghigno allegro.
Marion inarcò le sopracciglia, battendo bene le palpebre per non lasciare grumi. -Non dirmi che ti sta simpatica sul serio.-
L'amica si passò una ciocca appena piastrata fra le dita, velluto morbido e scarlatto. -La simpatia c'entra poco. E' un personaggio e glie lo devi concedere. Dai, una persona che si presenta per la prima volta ad altre che non conosce con un cappello pieno di frutta merita la mia stima.-
-Significa che sei più fuori di lei.- tagliò corto Marion implacabile, lanciando un'occhiata raggelante allo specchio.
-E tu sei troppo tesa.- ribattè Harmony, con una risatina. -Non hai nemmeno risposto alla mia domanda, cazzo.-
La bionda sbuffò. -Ancora in ufficio. Nel suo ufficio, dice. Suo!- Diede con foga un pugno contro il mucchio di asciugamani zuppi reduci dalla doccia, un'espressione di rabbia aspra e piena di disprezzo. -Ha una sola vaga idea di chi è il vero proprietario di quell'ufficio?!-
Trovava vergognoso, oltraggioso e quasi empio il fatto che si fosse trasferita nello studio di Near, profanandolo, inquinando la limpida ed eterea presenza dell'albino. Non ne aveva il diritto, era un atto pieno di superbia e arroganza. Quell'ufficio non era suo e non lo sarebbe mai stato. L avrebbe dovuto capirlo subito.
Harmony non parlò per un pezzo. -E' un po' esagerato lavorare così tanto. Ha almeno cenato, questa povera anima?-
-E chissenefrega. Povera anima.- ripetè Marion, sarcastica e sbalordita. -Povera anima. E' una stronza!-
-Anche noi lo siamo.- esclamò Harmony vivacemente, gesticolando con la piastra.
Prima che la bionda potesse replicare, qualcuno bussò con urgenza alla porta del bagno. Entrambe sollevarono il capo.
-Harmony, sbrigati! Voglio andare a mangiare!- protestò Craig. -Posso entrare?-
La rossa ridacchiò. -Sono mezza nuda, furbastro.-
-Sei mia sorella!- ribattè l'altro, esasperato.
-Io no.- obiettò Marion, alla ricerca dei vestiti. S'udì il rumore fastidioso dello scuotersi imperioso della maniglia.
La ragazza nascose un sogghigno. -Chiusa a chiave.-
Craig imprecò in un bisbiglio. -... però davvero, muovetevi.-
Marion infilò una maglietta e sopra una morbida felpa sformata, poi un paio di spessi pantaloni mimetici. I capelli biondi, ancora bagnati, furono scacciati distrattamente dal viso e raccolti in una coda pesante d'acqua.
-Vai almeno a chiederle se ha cenato.- aggiunse Harmony, passando rapidamente un lucidalabbra color perla.
Rendendosi conto che stava ancora parlando di L, Marion sbuffò sonoramente.
-Non posso accettare che quella parassita si impossessi del quartier generale, delle indagini e adesso anche dello studio di Near!- esplose.
-Non era ciò che volevamo, alla fine?- rispose l'amica, serafica. -Che prendesse il posto di L.-
Lei non disse nulla. Con un'espressione accigliata, smise di discutere e girò la chiave nella toppa per uscire. Fece un solo cenno di frettoloso saluto a Craig, che attendeva sbadigliando appoggiato al muro.
Quando giunse davanti alla porta dell'ufficio di Near, aprì bruscamente senza bussare. Quella era casa sua, in fondo, no?!
L sedeva alla scrivania ed era voltata di spalle. Le sue dita vagavano imperterrite sulla tastiera, scrivendo qualcosa in maniera fluida e concitata. La chioma azzurra ricadeva come un velo turchese sulle sue spalle, morbido e vivido, una macchia di colore prepotente nel pallore di quella stanza grigia.
Marion previde una discussione inutile e sgradevole, perciò si mise a braccia conserte, in un atteggiamento di sfida. Non era disposta a farsi mettere i piedi in testa da quella matta un'altra volta.
-Cos'è, non hai ancora finito o stai cercando di far vedere quanto sei brava?!-
L non interruppe il suo lavoro. -Se sono brava o no ve ne accorgerete dai risultati, non da quanto tempo sto su un computer.-
-Allora il punto è che non ti basta un pomeriggio di lavoro per giungere ad una conclusione.- osservò la ragazza, inarcando le sopracciglia in un'espressione di scherno.
Con un movimento imprevisto e fulmineo, la sedia ruotò su se stessa. L la fissò, con quei suoi strani occhi bicolore e ombrosi. Nel suo sguardo non c'era stanchezza, ma un'ardente determinazione e una durezza inscalfibile.
-No, Keehl. Il punto è che, se mi occupo di un caso, me ne occupo bene. Per risolverlo faccio tutto ciò che è nelle mie possibilità, con il proposito di ampliarne il limite. Stare alzata tutta la notte per scovare informazioni e ricostruire un quadro generale alle quattro del mattino rientra nelle mie possibilità, attualmente. Perchè, cara la mia paladina della giustizia, mentre tu la sera te ne stai sul divano a guardarti la televisione la gente muore. Perciò, prima di accusare gli altri di vigliaccheria e ricorrere a patetici ricatti da quattro soldi per costringerli ad aiutarti, vedi di darti una bella regolata e farti un esame di coscienza. Credi di stare davvero facendo tutto ciò che potresti per trovare Kira?-
Marion schermò appena gli occhi freddi di disprezzo e brucianti di sdegno con le ciglia. Quel frammento di ricordo dove Near giaceva riverso sul modellino che stava costruendo, ciocche candide a scivolargli su guance candide, lampeggiò nella sua mente, affondò acuminato nel suo petto penetrando a fondo.
-Non lo so.- Si stupì lei per prima, nel sentire la sua voce mormorare quella risposta.
L scrollò le spalle. -Non posso essere io a dirtelo. Devi sentirlo tu, perchè solo tu sai quel'è il massimo che puoi fare.-
-Non esiste un massimo.- Ora la sua voce non aveva incertezze. -Io per prendere quel bastardo posso fare qualsiasi cosa.- Near, Near. Quel padre perduto che non avrebbe rivisto mai più. Il suo fantasma.
L'altra parve sorridere amaramente, sotto un ciuffo celeste ricadutole sulla fronte. -Attenta a ciò che dici, Keehl. Qualsiasi cosa... sono davvero tante cose. Saresti pronta a dare la vita, per sottrarla a Kira?-
-Ho detto qualsiasi cosa.- ribattè Marion, con una tale fermezza che anche L non insistette.
-Chi vivrà vedrà.- si limitò a commentare enigmaticamente. -Comunque, domani mattina vi farò vedere cosa sono riuscita a scoprire.- Ruotò di nuovo la sedia; appena il suo viso svanì dalla visuale di Marion la sinfonia di tasti ricominciò dov'era stata interrotta e lei riprese il lavoro istantaneamente.
La bionda annuì vaga, chiedendosi come proseguire quella conversazione. Poi rammentò il motivo per cui era venuta lì.
-Vuoi mangiare qualcosa? Non puoi lavorare tutta la notte a stomaco vuoto.-
-Oh, giustissimo.- esordì l'investigatrice con convinzione. -Non si può fare proprio nulla a stomaco vuoto, tantomeno lambiccarsi su un caso mondiale. Infatti chi ti ha detto che non ho intenzione di mangiare?!-
-Beh, non mi hai chiesto nulla.- iniziò Marion, perplessa, senza capire quando si decidesse a dirle cosa voleva mangiare.
-Mica ho bisogno di chiedere a te, per mangiare.- decretò l'altra.
Proprio in quel momento, qualcuno bussò con discrezione.
-Sì?- bofonchiò L.
-Ehi, è arrivato un fattorino con cibo dal ristorante qui a fianco... ma è per te?!- Era la voce di Tennyson, che sembrava alquanto sbalordito. Cosa c'era di così strano nel fatto che quel cibo fosse per L?
-Ah ah.- annuì l'investigatrice. -Portalo pure qui. Grazie.-
Tennyson entrò. Una torre di confezioni per asporto nascondeva il suo volto. Erano davvero tante! Marion ne contò almeno sei.
-Grazie.- ripetè L, appena il ragazzo appoggiò tutto su un tavolo di fianco alla scrivania, seppur faticosamente.
-Ma cosa hai ordinato?!- domandò Marion sconcertata. -Una mandria di bufali a fettine?!-
La ragazza dai capelli azzurri le tese il chilometrico scontrino sulla cima del grattacielo, e la bionda lesse. Prima a mente, poi non riuscì a trattenere l'incredulità.
-... frutti di mare... peperoni ripieni con spinaci... barbabietole... asparagi... un polpo! Ma che razza di cibo è?! Che schifo!- sbottò disgustata.
L si affrettò ad aprire un cartoccio, da cui estrasse un lungo gambo di sedano ed iniziò a rosicchiarlo di gusto.
-Se ti sentissero i bambini del Burundi.- fu il suo unico commento.
Ma Marion pensava che i bambini del Burundi avrebbero preferito morire di fame, piuttosto che mangiare cavoli e zucchine con tonno e salsa di soia.
-Un bell'hamburger no, eh?-  concluse ironica. L scosse la testa con disapprovazione, quasi stesse parlando con una bambina irragionevole, alle prese con una sogliola ripiena di sakè e fagioli.
-Buon appetito.- augurò Marion. Uscì reprimendo un conato di vomito, ma c'era stato qualcosa nel discorso appena fatto che le fece credere in un cambiamento, seppur lieve, nei loro rapporti.

-Ecco,- esclamò Law, aprendo la porta. -Questa è la stanza in cui staremo stanotte.-
Rowena, dietro di lui, osservò l'ambiente che la circondava con una sorta di pacata curiosità. Entrò con il suo passo svelto e leggero, quasi i suoi piedi soltanto sfiorassero il pavimento.
Era piuttosto banale, con carta da parati gialla a righine bianche e tendine azzurre. C'era un letto matrimoniale dalla testiera di legno, dall'aria piuttosto comoda. Appena lo vide, Rail storse il naso come se sentisse un cattivo odore.
-Ci dormirete insieme, su quello?!- non si trattenne dal commentare acidamente. La presenza di Rowena la rendeva davvero di cattivo umore.
Law scrollò le spalle. -Le singole sono costose, e noi dobbiamo risparmiare il più possibile.-
Rowena, nel sentirlo parlare, mosse gli occhi sanguigni verso di lui ma non disse niente. Ancora non aveva toccato il Death Note, quindi non poteva vedere Rail. Lui si limitò a sorriderle.
-Sì, risparmiare, come no.- commentò la Shinigami fra sè, quasi con amarezza, allungandosi per accendere la sua tv portatile. Lawrence finse di premere un tasto sul telecomando, per non far apparire anomala la cosa.
Rowena, intanto, si avvicinò al grande letto. Oltre ogni previsione non vi si sdraiò, ma si accovacciò a terra e vi scivolò carponi sotto, come una bambina, con la semplice ovvietà di chi lo fa da sempre. Il copriletto s'adagiò sulle sue spalle mentre passava, poi scivolò al suo posto nascondendola da ogni sguardo.
Law fissò il punto dov'era sparita, confuso e dubbioso, chiedendosi cosa sarebbe stato più furbo fare in quel momento. Assecondarla andava bene, ma non poteva solamente lasciarla lì sotto ed ignorarla, al pari di un cane. Per prima cosa, il suo spirito cavalleresco gli impediva di farlo, e secondo sicuramente era pieno di polvere.
-Non avere paura, Rowena. Nessuno vuole farti del male. Vieni fuori.- bisbigliò, con voce tanto carezzevole da prosciugare l'ordine d'ogni durezza.
Si era informato sulla vita in manicomio prima di farla evadere, per sapere che cosa aspettarsi, e aveva scoperto che i malati di mente passavano la maggior parte del tempo sedati, sotto effetti di pesantissimi calmanti, relegati in stanza claustrofobiche e minuscole a fissare pareti bianche. Inoltre il fatto che gli avesse accennato a degli uomini con le siringhe gli aveva fatto capire che non aveva lieti ricordi.
-Il buio è felice.- rispose la ragazza, con voce nient'affatto spaventata, ma piuttosto vivace ed argentina. -Io amo il buio.-
Rail emise uno sghignazzo derisorio. Law pensò che, se avesse continuato così, per cena si sarebbe concesso uno stufato di Shinigami. Non si arrabbiava particolarmente per il fatto che insultasse Rowena, ma più che altro perchè insisteva così pesantemente nel rendere note le sue impressioni e perseverasse in questi estenuanti sberleffi, alquanto poco privi di fantasia, poi.
-Ma il letto è molto più comodo del pavimento.- spiegò.
Rowena rise brevemente, di gusto, come se avesse detto qualcosa di esilarante. No, okay, pensò Law perplesso. Meglio gli acari della trapunta. Lasciò perdere e decise di concederle libertà in ogni scelta, poi si levò le scarpe e si sdraiò sul letto, temendo quasi di schiacciare la ragazza. Notò di avere detto precedentemente la pura verità: il materasso era molto molleggiato e davvero confortevole sotto il suo corpo stanco. La fatica di una notte insonne, l'ansia per l'evasione e lo sfinimento per i lunghi viaggi in lungo ed in largo per la città ricaddero senza pietà sulle sue spalle e scoprì di faticare a tenere gli occhi aperti. Lanciò giusto un'occhiata annoiata al piccolo televisore: trasmetteva una puntata di Una mamma per amica, quale programma più banale e intellettualmente misero esistesse. Rail per una volta fissava senza emozione lo schermo, ostentatamente, le iridi in apparenza impassibili ma scintillanti di un rancore irragionevole.
A quel punto si lasciò travolgere dal sonno che urgeva sulle sue palpebre e si permise di rilassarsi, di soddisfarsi per il successo ottenuto. Perse beatamente conoscenza, mentre sotto il letto una voce sottile canticchiava una filastrocca dimenticata.

Quando Marion, Harmony e Craig fecero capolino nell'ufficio, L non disse loro nemmeno buongiorno.
Ruotò sulle sua sedia come aveva fatto la sera precedente, gli occhi densi di decisione, niente affatto arrossati o gonfi dalla stanchezza. Eppure, pensò la bionda sconvolta, pareva proprio non essersi alzata da lì dalla sera precedente. Che fosse abituata alle notti in bianco? Probabile. Mucchi di scatole di cibo vuote giacevano accatastate l'un sull'altra, di fianco al computer. Come aveva fatto a mangiarsi tutta quella roba, era un mistero.
-Ho fatto passi avanti.- annunciò laconica, con voce solenne. Harmony, per tutta risposta, sbadigliò sonoramente -ancora non si capacitava delle levatacce mattutine.
-Bene.- ribattè Marion, seccata dal fatto che lo facesse apparire così semplice, che ci avesse messo così poco tempo. -Allora, cosa aspetti?-
Dopo averle indirizzato un'ultima occhiata ammonitrice, L cominciò ad esporre le sue scoperte.
-Il figlio di Light Yagami giunge alla Wammy's House all'età di due anni, per volontà del padre, e viene cresciuto sotto lo pseudonimo di Law.- esordì, con naturalezza.
La testa di Marion scattò verso l'alto, come fosse stato strattonato il filo di un burattino, con gli occhi strabuzzati. -Come fai a saperlo?!-
-Mi sono semplicemente fatta inviare una lista degli studenti attualmente presenti all'orfanotrofio o usciti negli ultimi anni. Calcolando che ora dovrebbe avere diciassette anni, mi sono basata anche su questo. In definitiva, il ragazzo chiamato Law corrisponde alla descrizione fisica, all'età, ed una settimana dopo che è partito dalla Wammy's House è arrivato un ospite a casa di Sayu Yagami. Inutile ricordarvi quanto tempo ci vuole per giungere dall'Inghilterra al Giappone. Traete le vostre conclusioni.-
-Law.- ripetè Marion. -E' possibile rintracciarlo?-
-Certo che no. Usciti dall'orfanotrofio, i ragazzi acquistano la più totale indipendenza. Non esistono sue foto nè altri documenti di rilevante importanza. Per viaggiare, ne utilizza di falsi e probabilmente, per essere assolutamente sicuro di non essere rintracciabile, li cambia ad ogni viaggio.-
Craig annuì. -Logico. Beh, che cosa possiamo fare per scoprire altro?-
-Tu puoi parlare con Sayu e suo marito. Con discrezione, mi raccomando. Ti lascio campo libero sui particolari, trova la scusa che preferisci.-
Il ragazzo annuì con la testa, serio. Harmony guardò biecamente l'investigatrice.
-Vuoi per caso dividerci? Guarda che non posso sopravvivere una mattinata senza di lui.-
-No, seguilo pure.- acconsentì lei annoiata. -Tu, Marion, mi aiuterai nel seguire gli spostamenti di Kira. Ci possiamo basare sulla maggioranza di vittime di una determinata nazionalità decedute in un certo momento, ma visto che Kira è furbo e questa una banalità sconcertante, è possibile che cerchi di sviare le nostre indagini proprio grazie a questo espediente. L'unica sicurezza che abbiamo è la sua attuale posizione: Spagna, Madrid.-
-Adesso? Ne sei certa?!- insistette Marion, le sopracciglia aggrottate.
L aveva uno sguardo buio. -Stanotte Rowena è evasa dal manicomio. Mi sono mossa troppo tardi.- L'amarezza pesò consapevole e tagliente nella sua voce, come veleno oscillante sul palato.
-La colpa non è tutta tua. E' nostra. Nelle squadre funziona così.- osservò Craig, con l'intento di rianimarla e un sorriso poco allegro.
La ragazza non rispose, nè diede segno di averlo ascoltato. Con uno scatto brusco e quasi rabbioso, si rigirò sulla sedia e la chioma di capelli turchini impedì alla loro vista la piega aspra e spezzata dei suoi lineamenti.
-Ho fallito. Questo è tutto.- li congedò lapidaria, con voce indefinibilmente inflessibile.
Marion osservò la sua figura immobile e rigida. Più che il dolore per le perdite che questa alleanza avrebbe causato, si sentiva umiliata ed offesa per i progressi dell'avversario e la piccola sconfitta inflittale. Era una mentalità da giocatrice, la sua. Ma questa vittoria di Kira non avrebbe fatto altro che alimentare la sua smania di vincere.
Dopo un attimo di esitazione, si sedette di fianco a lei. Quello era il fallimento di tutti, e un giorno forse l'avrebbe capito. Ma ora era giunto il momento di darsi da fare.









































Note dell'Autrice: Ehilà, buon Halloween! (in ritardo...) Come state? ^-^
Io bene, ieri pomeriggio ho visto due film horror e la sera ho dormito con due mie amiche. Sapete com'è, con i film horror. u.u
Vabbè, tornando a noi! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Nei prossimi inizierà, come posso definirla... un caccia al gatto e topo fra L e Kira. Law deve scoprire più cose che può su L, L deve trovarlo (ma dai!) e ancora bisogna parlare del suo rapporto con Rowena!
Perciò vi aspetto al prossimo capitolo! Grazie per avere letto e recensite, mi raccomando!
Lucy

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Capitolo 15
*** Ombre. ***


15

Ombra.



-Bene, fermiamoci qui per stanotte.- ripetè Law per la tredicesima volta, notando poi con indicibile sollievo che Rowena aveva sollevato la testa e pareva averlo ascoltato.
Si limitò a sorridere, l'ennesimo dei suoi strani sorrisi dai motivi inindovinabili, tirati in una piega derisoria ma offuscati da un'ombra di malinconia. Poi, dopo essersi allungata e averlo baciato con spiazzante disinvoltura sulle labbra, nascose di nuovo la testa sotto il copriletto.
Law sospirò in silenzio, esasperato. Non sapeva davvero più che fare con Rowena. Assecondarla voleva dire arrivare al limite di ogni sopportazione umana, ed era più facile a dirsi che a farsi: negli ultimi giorni non l'aveva mai contraddetta, ma in cambio non aveva dormito nemmeno una notte. La ragazza era capace di seguire i suoi discorsi, però diciamo che li selezionava. Se si accorgeva che Law stava dicendo qualcosa di vagamente interessante dal suo punto di vista gli prestava attenzione, altrimenti sorrideva con aria enigmatica e si girava dall'altra parte. All'inizio questa cosa era stata soltanto un po' irritante, ma poichè con il tempo era diventata un'abitudine radicata il ragazzo, frustrato e a bocca asciutta, si chiese se fosse il caso di riportarla dove l'aveva presa.
Per sua fortuna (o sfortuna?) scoprì che inspiegabilmente, secondo le contorte leggi che regnavano nella psiche caotica di quella pazzoide, di notte era disposta a dargli retta. Ciò che davvero era fastidioso era che Rowena aveva capito al volo il suo compito, alla faccia di tutto quel tempo in cui si era limitata a non ascoltarlo, e Law non potè fare a meno di maledirla per tutto il tempo prezioso che gli aveva fatto perdere. Guardava nello schermo dell'iPhone, osservava i volti dei criminali e leggeva i nomi che vi galleggiavano sopra. Facile e veloce. Già, peccato che ci fosse un altro problema, se possibile il perfetto contrario di quello già riscontrato: se cominciava, non c'era modo di farla smettere se non colpendola ripetutamente con una sedia o distruggendo il cellulare. Ma Law escogitò presto un metodo altrettanto efficace e meno cruento, cioè darle un vasetto di marmellata. Appena la vedeva, Rowena mollava il cellulare all'improvviso (destando nel proprietario amabili istinti assassini) e vi si gettava letteralmente addosso, per infilarci le mani e sbranarla in modo poco ortodosso, come avrebbe fatto un leone con la carcassa di una povera gazzella. L'unico problema che persisteva era quello degli orari, ovvero Law non aveva idea di come convincerla ad aiutarlo anche di giorno. Se avesse continuato a passare le notti in bianco, sarebbe diventato una sorta di vampiro.
Rail assisteva a tutte queste sceneggiate quotidiane senza commentare esplicitamente, ma ostentando un'aria tanto seccata che il messaggio era piuttosto chiaro. Di notte dormiva, o almeno ci provava, visto che Rowena tendeva a elencare i nomi da scrivere sul Death Note consumando le unghie sulle pareti, in uno strìdio insopportabile. Ancora Law non aveva fatto toccare alla ragazza il quaderno, ma aveva due buoni motivi. Temeva che potesse o tradirsi in pubblico, parlando con Rail, o che la Shinigami la facesse arrabbiare con i suoi soliti commenti aspri, ottenendo  reazioni che preferiva non immaginare.
Ah, sì, e poi c'era la storia dei baci. Rowena lo baciava sempre sulla bocca, spesso e volentieri anche in pubblico, ma senza malizia nè sentimento. Si comportava più come una bambina, del tutto ingenua e inconsapevole del significato di un gesto simile. Inutile dire che Rail lo trovava disgustoso quanto sgradevole, e scostava sempre lo sguardo sdegnata. Ma, pensò Law mettendo in carica il telefono, avrebbe potuto abituarcisi: le sue labbra erano carnose, soffici e sapevano di marmellata di fragole.
-Mi porti nel posto di ieri?- La voce di Rowena squillò all'improvviso, riscuotendo il ragazzo dalle sue riflessioni. Lui la osservò stupito, cercando di rammentare a cosa alludesse, ma non era così semplice. Lei sembrava sempre attratta da tutto, le fontane in piazza, le statue nella chiesa, i fiori nelle aiuole.
-Quale posto, me querida?- chiese pazientemente, strofinandosi gli occhi estenuati da una notte insonne. Lei raggiunse la finestra chiusa, lo sguardo corniola a vagare nel panorama fuori, il suo respiro sottile a formare una pozza di condensa sul vetro. Nelle sue iridi si addensava un velo opaco di pensieri ronzanti.
Si voltò, e i boccoli setosi danzarono attorno a lei. -Quello con le luci. Con i divani rossi, dove c'erano le persone eleganti che bevevano.- Uno strano entusiasmo scintillava vivace nella sua voce.
Law annuì con la testa, profondamente annoiato. Si trattava solo dello stupido bar dell'albergo, che Rowena aveva intravisto il pomeriggio del giorno prima passando per la reception. L'aveva strattonata via stringendole il braccio, ma l'aveva sentita canterellare flebili proteste. Probabilmente aveva promesso di portarla.
-Ogni tuo desiderio è un ordine.- rispose, accorgendosi che non era poi uno scherzo così divertente. -Andiamo.-
Rowena, intrappolata nella ragnatela viscosa delle sue riflessioni, si lasciò in silenzio truccare e indossò l'ennesima parrucca, di ricci neri. Le lenti a contatto lasciavano intuire un vago baluginare rossastro.
Dieci minuti più tardi, sedevano su uno dei famosi divani rossi attorno ad un tavolino circolare di granito a chiazze. Law ostentava un'aria da turista rilassato che per un istante ingannò anche lui stesso; in realtà non gli andava tanto a genio l'idea di farsi guardare bene in faccia lì all'hotel, ma in fondo nessuno aveva motivo di osservarlo e ricordarsi di lui. E poi, non conosceva ancora abbastanza la sua arma per potersi permettere di negarle qualcosa. Lei era pericolosa, letale, e dimenticarselo ancora di più.
Il cuscino era comodo, velluto dolce su cui riposare. Rowena osservava divertita e allegra le luci della stanza proiettare disegni sulle pareti, il bagliore dorato del primo mattino bagnare il pavimento di marmo candido. Una fragranza stucchevole di cappuccino e brioches scivolava nell'aria come un nastro di seta, morbida e sinuosa.
Quando arrivò la cameriera ordinarono qualche dolce, un caffè, pane abbrustolito e marmellata.
-Dove sono i tuoi amici, Law?- Rowena parlò con sicurezza, quasi li avesse conosciuti, e non dubitò nemmeno per un istante della loro esistenza. Law sorrise.
-Non ho amici, io. Solo nemici.- ammise, con un pizzico di compiacimento.
La ragazza battè le palpebre. -Nemici... nemici.- La parola suonava strana e stonata sulla sua lingua, estranea, come se la stesse pronunciando per la prima volta.
-Già.- Law giocherellò con il manico finemente intagliato di una tazzina di porcellana. -Cosa mi dici di te, Rowena? Hai nemici?-
Lei gli lanciò un'occhiata rapida e insinuante da sopra il bordo di una tazza, un segreto nascosto nelle iridi, e sorseggiò del latte gelido.
-No. Nessuno mi odia. Ci siamo sempre state solo io ed L.-
La tazzina cadde sonoramente sulla superficie di granito del tavolo, senza infrangersi. Law la fissò, e i suoi occhi castani specchiavano il volto innocentemente sereno della ragazza di fronte a lui. Un riso euforico affiorò alle sue labbra.
-L? Hai detto L?-
Rowena sorrise ancora.

Harmony tamburellò le dita sul cruscotto, rivestito di pelle nera. -Ehi, fratello.-
-Dimmi.- Craig spense il motore.
-Stiamo davvero per fare visita a delle persone che non conosciamo e chiedere loro se hanno notato una certa predisposizione per gli omicidi nel nipotino?-
Il gemello sorrise. -Mi sembra una sintesi piuttosto efficace.-
-Fantastico.- La ragazza spalancò la portiera, osservando con sguardo critico la piccola casa di Sayu Yagami. Pareva circondata da una luminosa bolla di felicità, una dolce serenità di cui solo loro potevano godere. Un piccolo paradiso che stavano per infrangere. Sospirò contrariata, scrollando la chioma fiammante al sole, e percorse al fianco di Craig il sentierino che conduceva all'ingresso.
Fu il fratello a suonare il campanello. Harmony non potè fare a meno di credere di stare per fare qualcosa di davvero brutto.
Dopo qualche istante, Sayu aprì la porta. Ai gemelli piacque a prima vista, aveva l'aria di una donna gentile quanto tosta. La corporatura minuta era in contrasto con la luce intensa che brillava nei suoi occhi scuri.
Vedendoli, battè le ciglia stupita. -Buongiorno. Posso fare qualcosa per voi, ragazzi?-
Craig sfoggiò il sorriso più luminoso che gli riuscì. -Lo spero, signora Matsuda. Non si spaventi, non è nulla di grave...- cominciò. Poi s'interruppe e ci riflettè un secondo. -Mi correggo, forse sì. Ma l'importante è che lei sappia che noi non stiamo accusando nessuno di avere fatto niente, per ora. Possiamo entrare?-
Sayu era il ritratto dello smarrimento. -... accusare? Ma di cosa stai parlando?-
-La prego, se ci concede qualche minuto le spiegherò tutto.- ribadì Craig, con fermezza.
-Si tratta di... Law. Sa di chi stiamo parlando, vero?- intervenne Harmony.
La donna sussultò, come le avesse sferrato un pugno nello stomaco. Strabuzzò gli occhi, quasi impaurita, e arretrò.
-Voi... come?... non dovreste sapere!- farfugliò piano. La fronte le si increspò dall'ansia e lo sgomento.
Una macchina accostò di fronte al marciapiede e avanzò fino al parcheggio nel giardino della casa. Lì si fermò e ne uscì un uomo moro, dall'aria gioviale. Aguzzò la vista verso l'ingresso, e appena vide le sagome dei ragazzi sorrise incuriosito.
-Ehilà!- salutò allegro. -Chi sono, tesoro?-
Sayu, pallida come un lenzuolo, scosse la testa lentamente. -Non... ne ho idea.-
Matsuda notò la sua espressione sconvolta e si accigliò. -C'è qualcosa che non va?-
-Vogliono parlare di... Law.- replicò lei, inquieta, incrociando le braccia contro il petto.
-... come Law?- L'uomo, colto di sorpresa, guardò prima Harmony e poi Craig. -Come fare a conoscerlo? Siete suoi amici?-
Harmony inarcò un sopracciglio. -Non credo che Kira abbia amici, signor Matsuda.-
Craig scosse la testa, indulgente. -Non accusiamo nessuno: ricordi, sorella?-
-Un cazzo.- fu la diplomatica risposta.
Sayu li fissò disperatamente. -Non ci capisco più niente! Potete cercare di parlare in maniera comprensibile, per favore?!-
Craig annuì. -Ha ragione. Permetteteci di spiegare.-
Sayu, quasi in trance, si fece da parte e li lasciò entrare. Il suo pallore era pericolosamente cadaverico. Matsuda rimase inaspettatamente impassibile, le labbra contratte.
Fermò Harmony, sfiorandole un braccio e attirando la sua attenzione.
-Near.- bisbigliò. -E' lui, vero? Near sta facendo delle indagini su Law.-
Lo sguardo di Harmony era indecifrabile e penetrante. -Near è stato ucciso poche settimane fa.-
Lui chiuse gli occhi, avvertendo le lacrime addensarsi contro le palpebre. -Mio Dio.-
Poi entrarono tutti in casa, senza parlare, una tensione elettrica che vibrava nell'aria. Craig osservò Sayu, quegli occhi tormentati e traboccanti di preoccupazione, e provò una gran pietà per quella donna buona a cui era capitata una famiglia di pazzi. Gli ricordava sua madre, in qualcosa nel viso e nell'atteggiamento che non avrebbe saputo definire con certezza.
-Andrà tutto bene.- mentì quasi di riflesso, senza volere. Quello non era che l'inizio dei suoi guai, e darle false speranza non sarebbe servito a nulla.
Lei non rispose, un'espressione vuota in viso, quasi intuisse la bufera che si stava destando dietro i vetri del suo mondo perfetto.
-Volete qualcosa da bere?- mormorò nervosamente, seguendo una prassi di buona educazione che avrebbe preferito sorvolare. I due ragazzi scossero la testa e ringraziarono.
-Allora raccontate. Vi ascolto.- Cercò di infondere un po' di coraggio nella voce pallida.
Harmony socchiuse gli occhi, sperando che sarebbe finita in fretta e sicura che non sarebbe stato così, e cominciò a parlare.

Rowena sfiorò con le labbra l'orlo della tazzina di porcellana, senza bere. Era vuota, eccezion fatta un rivolo di schiuma brunastra sul fondo. Il suo sguardo giaceva sulla superficie del tavolo laccato di bianco, e al loro interno vorticava un fiotto cremisi.
Law cercò di contenere il fremito nelle mani. Le strofinò ansiosamente, il cuore a martellare ad un soffio dal petto. Non fare troppi castelli in aria, si rimproverò, mentre una voce dentro la sua testa sbraitava una vittoria schiacciante. L. L?! Rowena conosceva L?! Ma come poteva essere?! Lei non era certo un genio, nè una studentessa modello. Non poteva avere complessi d'inferiorità, come suo padre aveva avuto con il precedente L. Vero? E comunque non sarebbe stato facile per lei incontrarlo, se non impossibile. Come avrebbe fatto a scoprire la sua ubicazione?! Quando?! Il ragazzo aveva tanti dubbi, ma nello stesso tempo il vuoto esasperante che si affacciava sull'identità di L lo spingeva a credere con disperato accanimento a quelle poche sillabe stentate. Però qualche speranza c'era: Law non le aveva mai parlato di lui, non ne aveva mai nemmeno accennato. Allora come poteva essere spiegata quella frase...?!
Attese, con il fiato sospeso, trattenendosi dallo scuoterla per le spalle.
-Hai detto L, me querida?- ripetè, con voce calma e un sorriso teso.
Rowena sghignazzò in silenzio, come una bambina divertita, e si coprì la bocca con un palmo della mano.
-Sì, L. Sono andata a giocare a casa sua ieri.-
A Law il pavimento crollò sotto i piedi. Ma che diavolo stava dicendo? Non era mai andata proprio da nessuna parte, il giorno prima. Era stata con lui, all'hotel, praticamente tutto il tempo. Ma come faceva a sapere di L?! Era impossibile... che lui stesso se lo fosse lasciato sfuggire così, in una frase? Impossibile, non avrebbe mai fatto un errore tanto stupido.
Poi pensò che aveva letto da qualche parte che gli squilibrati, specialmente quelli molto gravi, hanno delle difficoltà a collocare nel tempo ricordi ed episodi, da quelli remoti ai più recenti, e confondono molto spesso l'ordine degli avvenimenti. In special modo se essi hanno avuto una particolare importanza, o se costituiscono quello che scientificamente può essere definito un trauma. Poteva essere quella la chiave dell'enigma? Incerto su come procedere, intrecciò le dita sul tavolo.
-Bene. E vi siete divertiti?- domandò con indifferenza, come se non avesse molta importanza. La sua mente, in realtà, ronzava: doveva comportarsi come se la sua versione distorta del tempo fosse quella effettiva, e non obiettare mai. Solo così avrebbe avuto qualche possibilità di ricavare qualcosa, da quello snervante discorso privo di logica, estenuante quanto avrebbe potuto essere se fosse stato intrapreso con una bambina di cinque anni un po' ritardata.
Rowena non rispose. Aggrottò la fronte, contrariata, quasi si stesse sforzando di diradare una nebbia tenace fra i suoi ricordi.
-A L non piace giocare. E non le piace essere guardata. E' timida. Scappa sempre.- spiegò, come se stesse elencando la lista della spesa. Era incredibile come riuscisse a raccontare assurdità tanto fantasiose con un'espressione di impassibile noia.
Law non riuscì a trattenere una smorfia di impazienza. Non ne poteva davvero più di cercare di decifrare il suo strano linguaggio in codice senza alfabeto. Qualsiasi cosa avrebbe potuto voler dire tutto. Era come avere tra le mani una scatola contenente tutte le risposte e non riuscire ad aprirla.
Però, pensandoci bene... "non le piace essere guardata".
-Rowena, tu sai come si chiama L?- domandò a voce alta, pensieroso.
Lei scrollò le spalle con un sorriso di scusa. -Lei ha detto che si chiama L.-
-Ma tu hai letto L? Voglio dire, con i tuoi occhi.-
Rise, più o meno come faceva al 90% dei casi sentendo le sue domande. -L sa come si chiama, Lawrence.-
Law comprese. Probabilmente "non le piace essere guardata" voleva dire che lei aveva fatto in modo di non farsi osservare in volto. Cioè che sapeva del potere di Rowena.
Cioè che probabilmente quella di cui stavano parlando era proprio la vera L.
-Vieni, me querida. Andiamo ad ordinare dell'altra marmellata.- mormorò soddisfatto, con un sorriso aguzzo da lupo.

L sollevò il capo, nel sentire che qualcuno stava digitando il codice d'ingresso. La luce del computer le inondò il viso., -Sono tornati.-
Marion annuì distratta, intenta a sfogliare delle pagine su Internet. La sua stanchezza doleva e pesava su ogni lineamento del viso, pronunciando le occhiaie come se le calcasse con una matita.
Le porte d'acciaio si aprirono, rivelando le sagome dei gemelli. I capelli rossi lampeggiavano di sangue sotto le luci a neon, e i loro volti erano inaspettatamente cupi. Vederli di cattivo umore era inusuale e un po' inquietante.
-Eccovi qui.- esclamò L, facendo rapido segno di avvicinarsi. Craig fece un cenno nervoso con il capo, Harmony sbuffò un soffio di fumo aspro.
-Com'è andata?- si informò la detective, scostando delle carte dalla scrivania.
-Come vuoi che sia andata. L'hanno presa male, molto male.- sospirò il ragazzo, rabbuiato. -E non ci hanno saputo dire nulla, ovviamente. Li abbiamo messi in pericolo e non abbiamo ottenuto niente.-
-Niente?- L inarcò un sopracciglio. -Se Kira non sospetta che noi ci siamo messi in contatto con i suoi zii, quando finiranno i soldi tornerà da loro e noi lo sapremo. Se saprà di non poter tornare, prima o poi dovrà trovarsi un lavoro da qualche parte. Ovvero non scapperà più.-
-Una ben magra consolazione.- bofonchiò Craig, incapace di dimenticare l'espressione devastata di Sayu e la voragine nera che si era spalancata nei suoi occhi.
-Ma pur sempre qualcosa. Si vede che Rowena è entrata in azione, tutti i criminali di cui il nome era irreperibile sono morti di recente e gli omicidi sono diventati molto più frequenti: delle vere e proprie carneficine di massa. Certo, averla con lui comporta anche degli svantaggi. Tutti gli aeroporti sono messi sotto controllo, lei è una ricercata... e una ragazza imprevedibile.-
Harmony gesticolò con la sigaretta, materializzando nell'aria una scia grigiastra, sottile e pallida come uno spettro. -Parli come se la conoscessi.-
-Non è affatto così.- la contraddisse L, seria. -Mi è capitato di incontrarla una volta, in passato, ma nulla di più.-
Marion parve essere ridestata da quell'affermazione e strabuzzò gli occhi azzurri. -Tu?! Incontrato Rowena?! Dove, e perchè?-
-Ti ho detto che è lei a interessarmi particolarmente, non Kira.- puntualizzò l'altra divagando.
Marion pensò che non aveva certo risposto alle sue domande, ma non disse niente. Non sapeva praticamente nulla di L, nemmeno alla Wammy's House erano riusciti a scoprire alcunchè: se non quello che lei, in fondo, aveva iniziato a sospettare. Ovvero che fosse figlia dell'altro L, il primo L. Il vero L, se così vogliamo dire.
Craig s'intromise nel discorso. -Ah, già, che idiota. Sayu Yagami dice che il vero nome di Kira è Lawrence, abbreviato poi all'orfanotrofio in Law. Anzi, lui ha insistito che i suoi zii lo chiamassero con questo soprannome, probabilmente per ragioni di sicurezza.-
-Lawrence?- ripetè Marion, corrugando la fronte. -Che strano. Entrambi i suoi genitori sono giapponesi.-
-Ma lo potranno chiamare come vogliono! Vuoi fare qualche indagine?! Credi che ci sia un rebus nascosto?- rise Harmony, sputacchiando fumo.
L abbassò lo sguardo, pensosa, ma nessuno fece caso alla sua espressione interdetta.
-Poi ha detto di avere aiutato Yagami e Amane con il bambino fin da quando è nato, che i due hanno giustificato tanta segretezza con il pretesto che Misa era una star famosa, e che se i media avessero saputo di Lawrence li avrebbero perseguitati. Sayu voleva tenere il nipote dopo la morte della madre, ma i genitori avevano già lasciato scritto nel testamento quale doveva essere il suo futuro. Light voleva che suo figlio ricevesse un'educazione per genii, per superdotati, che frequentasse la migliore delle scuole. Per diventare poi un detective, o magari un assassino.- concluse Craig, con tono piatto.
-Bene.- annuì Marion. -Ora il passato di Kira ci è chiaro. Bisogna solo prenderlo.-
-Un gioco da ragazzi, visto che potrebbe essere a Hong Kong come in Svezia.- replicò Harmony, avvicinando la sigaretta alle labbra.
L scosse la testa. -Non è impossibile come sembra. Avere una fotografia sarebbe il massimo, ma sperare una cosa del genere significherebbe pretendere un po' troppo. Bisogna...- S'interruppe, gli occhi fissi in un punto impreciso nell'aria vuota.
-... bisogna?- la esortò Marion, impazientemente.
-... bisogna tentare un approccio diretto. Ma ci servono una serie di fortunate coincidenze che difficilmente s'intrinsicheranno.-
Marion inarcò le sopracciglia, delusa. -Allora spiegami cosa dovremmo fare. Affidarci alla sorte? Per questo non avevamo certo bisogno di te.-
Lei la fulminò con lo sguardo. -Non preoccuparti e sta' a vedere, Keehl. Lascia fare ad una investigatrice vera.-
Non si offese, ma anzi ridacchiò. -Forza, ragazzi, la grande investigatrice adesso deve lavorare. Lasciamola in pace.- ordinò, un'ombra di derisione nel tono leggero.
Craig si alzò, ancora quello strano malessere inciso in volto, e Harmony calciò via la sedia irritata. La sua sigaretta si era spenta in un guizzo rossastro e incandescente.
In realtà, Marion aveva una cosa da fare e fretta di congedarsi, così uscì dall'ufficio di Near e si fermò incerta.
-Ehi, voi, sapete dove sono Halle e Rester e Gevanni?- domandò.
Harmony strinse gli occhi, riflettendo. -Rester sta aggiustando un computer guasto al terzo piano, Lidner e Gevanni saranno nell'appartamento sotto a finire di pranzare.-
-Okay.- La bionda si avviò con decisione verso l'ascensore.
-Dove vai?- chiese l'amica.
-Devo parlare con loro. Riguardo la lettera.- precisò Marion, assorta.
La rossa sapeva esattamente di quale lettera stesse parlando: l'amica le aveva fatto una testa come un pallone per giorni, su cosa poteva o non poteva significare.
-D'accordo.- Non propose di accompagnarla. Aveva come lo strano presentimento che si trattasse di qualcosa di intimo, di personale.
Ed era proprio così.

Quando Marion face irruzione nella stanza, Halle stava lavando i piatti al lavello. Soltanto lei poteva farlo con classe, indossando un grembiulino firmato e grattando con dignità un'ostinata macchia incrostata sullo smalto della ceramica. Gevanni sedeva scomposto sul divano, una gamba accavallata sull'altra, e seguiva distrattamente un notiziario alla tv. Tennyson, al tavolo della cucina, fissava la pagina del libro di scuola che aveva di fronte con sguardo vacuo e vuoto, come se non l'avesse mai visto prima in vita sua. Il che era probabile.
Nel sentirla entrare, Lidner voltò la testa e le sorrise. -Come vanno le indagini?-
-Bene.- tagliò corto Marion, osservandola con gravità. -Ma non sono qui per questo. Dobbiamo parlare.-
-E di cosa?- La donna aggrottò la fronte, nel vedere il cipiglio determinato e cupo di lei. -Ma è tutto a posto?-
Si limitò a scuotere la testa. -Potremmo parlarne di sopra? Con te e Gevanni.-
Lui si sentì chiamato in causa. -Uhm? E va bene. Tu vedi di studiare, signorino.-
Tennyson sprofondò la testa mora contro il libro. -Non è giusto che mi escludiate sempre tutti, però. Che gusto c'è ad avere degli agenti supersegreti come genitori, allora...?!-
I tre lo ignorarono ed uscirono, salendo al piano superiore. Una tensione palpabile serpeggiava fra di loro, e l'espressione imperscrutabile di Marion tentava di non lasciare trasparire nulla. Lidner e Gevanni si scambiarono un'occhiata dubbiosa e appena intinta d'un timore che, sperarono, non avrebbe trovato fondamenta.
Giunti in uno dei numerosi uffici dei dipendenti, Marion fece loro segno distrattamente di sedersi. I due obbedirono, seguendo le leggi di un atteggiamento che si sarebbe potuto definire condiscendente. La ragazza iniziò a camminare avanti ed indietro, indecisa su come iniziare. Le parole ronzavano nella sua testa come uno sciame di api e fuggivano dalla sua lingua, perciò non riuscì a pronunciarne nessuna. Era un argomento che suonava spinoso, e non riusciva a dimenticare il gesto brusco e nervoso con cui Gevanni le aveva sottratto la lettera. E poi avrebbe dovuto confessare l'incursione senza permesso nella camera, di cui non andava granchè fiera. Rendendosi conto della necessità ferrea di quel discorso, radunò tutto il coraggio disposto ad ascoltarla.
-Sentite,- proruppe senza preamboli, -un giorno ho trovato fra le carte di Near una lettera che mi ha insospettito, proveniente dall'America.- Osservò attentamente le loro reazioni. Entrambi si accigliarono, il volto contratto da un inquieto disagio. Si intimò di proseguire. -La stessa che hai preso e hai portato in camera tua, lasciandola nella tasca della giacca.-
Gevanni battè le palpebre confuso. -Come fai a-
-Sono entrata di nascosto nella tua stanza e l'ho cercata.- ammise Marion, combattendo contro il rossore di vergogna che pungeva sulle sue guance. -E meno male che l'ho fatto!- aggiunse, sulla difensiva, decisa a giustificare il suo gesto politicamente scorretto.
Lidner tamburellava le unghie perfette contro un bracciolo della sedia su cui sedeva, mordendosi il labbro inferiore. Gevanni si agitò sul sedile e strofinò il naso con una mano.
-In realtà non ho capito granchè il significato, il contenuto era criptico e piuttosto vago. Parla di un certo esperimento, contrassegnato da una specie di codice, e dice che è riuscito. E che Near avrebbe dovuto esserne incuriosito, che avrebbe potuto aiutarlo con le indagini... Insomma, cose così. Allora?! Chi vuole spigarmi cosa succede?! Cosa sono tutti questi segreti?!-
Marion sondò i loro volti con sguardo severo e glaciale, le mani sui fianchi. I due agenti non dissero niente. Il silenzio che cadde nella stanza era di piombo, toglieva il respiro soffocando l'aria.
Gevanni pensò che, con quell'aria inquisitoria e implacabile, sembrava una versione appena più bellicosa di Near. Socchiuse la labbra ma le richiuse subito, incapace di trovare la forza per parlarle di una cosa del genere. Quella storia non avrebbe dovuto mai essere raccontata; fondamentalmente, era nata per essere dimenticata. A Marion non sarebbe piaciuto per niente.
Lidner si fissò le ginocchia, gli occhi mesti e bassi. Quando li risollevò, splendevano di qualcosa che sembravano lacrime.
-Evidentemente, era destino che venisse fatta giustizia. Avremmo preferito risparmiartelo.-
-Basta divagare. Parlate!- sbuffò la ragazza, frustrata.
Così la donna represse un singhiozzo e iniziò a parlare, con voce sommessa.
-Quella lettera è arrivata il giorno dopo la morte di Near, con una puntualità che mi parve subito lampante. Inizialmente, prima di aprirla, credetti infatti che fossero condoglianze da parte dalla Wammy's. Ma notai subito il mittente, un nome americano e sconosciuto. Mi parve strano... e dopo averla letta, le perplessità divennero una sorta di terrore. Mi chiesi chi potesse avere contatti del genere con Near, tali da sapere il suo vero nome e il suo indirizzo. Parlavano appunto di un esperimento, e nemmeno noi sapevamo di che si trattava, lì per lì. Così abbiamo fatto delle ricerche. La verità è emersa dal suo passato.- Deglutì, quasi fosse difficile da digerire. -In effetti, la Wammy's è coinvolta in tutto questo. Quando Near era ancora un ragazzino, sì e no dodici anni, una scienziata che lavorava come dottoressa nell'orfanotrofio gli chiese il permesso di prelevare il suo DNA per un esperimento che sperava di realizzare in futuro. Dopo una lunga riflessione lui accettò, consapevole del fatto che un investigatore che prende il nome di L potrebbe avere vita breve. Non ci trovava niente di male, anche se immagino pensava fosse una cosa di cattivo gusto.-
Marion aprì la bocca e la voce morì. Il disorientamento si dipinse sul suo viso. Accennò una risatina scarna e poco convinta. -Stai cercando di farmi credere forse che...?!-
-Sì, l'esperimento che è stato dichiarato riuscito è stato creato con il suo DNA. Vale a dire che... beh, quel... coso... è una specie di suo figlio.-

 




































Note dell'Autrice: Ehilà! Eccomi qui, non mi sono mica dimenticata di voi! (anche se visto il ritardo sembrava... -.-)
Questa volta niente flashback, ma la prossima sì. ^-^ Che dirvi? Law scopre che c'è un collegamento tra Rowena ed L. Che possa sfruttarlo a suo vantaggio?
E poi l'origine dell'esperimento genetico è svelata. Ve lo aspettavate? Sì? No? (saltella felice) Che cosa farà Marion, nello scoprire una cosa simile?
Tutto e questo e molto altro nel prossimo, avvincente episodio! (neanche fosse una fiction. -.-")
Mi raccomando, cari lettori, ditemi che ne pensate!
Lucy

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Capitolo 16
*** Ingiustizia. ***


16

Ingiustizia.

Febbraio, 2022.

Marion aggrottò la fronte, concentrata, contemplando gli scarabocchi a matita cancellati e sovrapposti sui fogli bianchi, in un disordinato ordine mentale.
-La risposta è... 6782, 0481123?- chiese, reggendosi la testa con una mano. Near non distolse gli occhi dal castello di carte che stava diligentemente erigendo.

-6782, 0481729, in realtà. Cerca di essere più attenta nei calcoli. Questi sono errori di distrazione.- S'interruppe e riflettè per un istante. -Sei stata brava lo stesso, comunque.-

Lidner glie l'aveva detto, l'altro giorno, di incoraggiarla e farle complimenti. Così nello studio si sarebbe sentita più motivata. Però lui lo trovava piuttosto diseducativo, oltre che sciocco. Si rese conto, quasi con sgomento, che il tempo di educarla era passato ormai: era una ragazzina, un'adolescente. E stava diventando in gamba.
Marion, dal canto suo, represse a fatica un gemito disperato. Distrazione?! Distrazione?! Distrarsi significava la morte in quel tipo di esercizi. Lei non era attenta, era attentissima! Ricontrollava sempre ogni singolo risultato, calcolo, prodotto, persino i più banali. Si soffermava a lungo e ragionava su quelli complessi. Revisionava gli appunti per trovare gli errori, quando aveva finito. Com'era possibile che sbagliasse comunque?! Che apparisse agli occhi del tutore come una... scansafatiche pigra che si distraeva durante gli esercizi?! Non c'era niente di più importante dello studio, per Marion. Lo prendeva molto sul serio.
-Lo rifaccio.- decise infine, decisa a far quadrare il risultato. Non si sarebbe lasciata sconfiggere così, senza combattere, da quella stupida trigonometria.
Near scosse impercettibilmente la testa, assorto. -Non è il caso. Sei stanca. Vai a dormire e riposa.- ordinò con voce autoritaria ma pacata.
Marion lo osservò, tormentata. -Senti, Near, io... io mi impegno, mi dispiace che tu pensi...-
-Lo so.- la interruppe lui, quasi annoiato. -Non preoccuparti. Lo vedo. Però, se non impari a sfruttare le tue capacità al cento per cento e mettere in gioco il tuo potenziale per intero, finirà sprecato. Tu sei intelligente, Marion, molto intelligente. Se così non fosse, non pretenderei tanto da te.-
Quelle parole furono rigeneranti per lei. Un balsamo fresco, a lenire le sue ferite pulsanti. Sentì d'un tratto il cuore più leggero e la stanchezza avvincerla meno tenacemente.
Annuì, compiaciuta ed orgogliosa. Sentirsi dire una cosa del genere da Near era ciò che sperava più di qualunque altra cosa! Le venne quasi da ridere dalla felicità.
-Anche tuo padre era intelligente.- aggiunse Near inaspettatamente, rigirandosi nervosamente una ciocca candida fra le dita. Il suo sguardo era cupo. -Ma sbagliò tutto. Sprecò la sua vita, sprecò le sue energie... si sprecò.-
Prima che Marion potesse azzardarsi a chiedere cautamente cosa intendesse (non poteva dire una cosa del genere e non aspettarsi domande!), la porta si spalancò all'improvviso, senza che nessuno chiedesse il permesso. Near parve sorpreso, ma non innervosito. La figura di Gevanni si stagliò come un'ombra fredda nella lucentezza azzurra dell'ufficio. Il suo volto esibiva un'espressione inorridita e sconvolta, i suoi lineamenti contratti e tesi in un terrore sgomento attirarono lo sguardo gravoso del suo principale.
-Qualcosa la turba?- domandò asciutto, con voce più fredda che interessata. Come se non fosse evidente, pensò Marion. Era un po' interdetta, nel vedere Gevanni in un simile stato, e si chiese curiosa ma riluttante cosa potesse essere accaduto. In quel millesimo di secondo che precedette la risposta, sperò di cuore che non fosse capitato nulla a Lidner o Tennyson: la sola idea faceva echeggiare cupamente una cavernosa voragine nel suo petto.
Gevanni fissò Near, aggrappandosi ai suoi occhi, un'angoscia antica incisa nello sguardo che Marion non comprese. Quasi una vecchia ferita, una cicatrice ancora visibile.
-Kira è tornato.-
Quelle parole, poco più di una confessione spezzata dall'ansia, provocarono nella ragazzina una vuota indifferenza. Kira? Forse parlava di quel criminale che Near aveva messo spalle al muro all'inizio della sua carriera? Sapeva poco o nulla di lui, se non che aveva combinato parecchi fastidi all'Interpol.
Near, invece, rimase immobile nella sua posizione. Non battè le palpebre nemmeno una volta.
-Hai delle prove a fondamento di ciò?- chiese infine, con un tono indecifrabile.
-Tutti i giornali ne parlano.- ribattè Gevanni, inquieto.
Near abbassò lo sguardo. A chiunque sarebbe apparso apatico, ma Marion sapeva bene distinguere i calcoli e i pensieri fulminei che in quel momento saettavano dietro le sue iridi d'onice.
Osservò il suo castello di carte, seguendo ogni profilo della trama complessa.
-Immaginavo che prima o poi la storia si sarebbe ripetuta, ma non così... presto.- La sua voce parve incrinarsi appena, ma fu una flessione impercettibile. -Bisogna andarci cauti. Ciò presupporrebbe un altro quaderno, altri genocidi... trarre conclusioni affrettate mi pare fuori luogo. Farò tutti gli accertamenti necessari.-
Marion, di quella criptica discussione, capì poco o nulla. Parlavano seguendo un codice che non conosceva. Ma quel Kira non era morto, alla fine? Che significava allora "è tornato"?! E soprattutto, perchè Near avrebbe dovuto aspettarselo? Cosa diavolo c'entravano i quaderni ed i genocidi?! Era così frustrante non sapere le cose.
-Ma di cosa state parlando?!- ebbe il coraggio di domandare, confusa. Il tutore la zittì con un'occhiata penetrante.
Gevanni non le badò. -E... se la notizia fosse vera?-
Near non rispose subito. Soppesò stancamente un dado, scrutando con attenzione il piccolo punto bianco posizionato al centro di una delle facce. Lui era stanco, erano passati anni. Non ne aveva più diciannove, e non aveva più nè la forza nè la prontezza di un tempo. La noia l'aveva estenuato, fino a trasformare i suoi giorni in una lineare, piatta successione senza curve.
-Se malauguratamente la notizia fosse vera,- riprese, -torneremo a combattere.-
Ma sapeva che quella non era la sua guerra, non più. Cambiano i nemici, cambiano gli eroi. La gloria gli era già spettata un tempo.
Gevanni parve esitare. -Per quanto riguarda, invece... Marion? Bisogna portarla al sicuro, trovare un modo per proteggerla...-
Questa volta lo sguardo di Near lo stordì, trafiggendolo rapido e acuminato come un dardo.
-Nessuno torcerà un capello a Marion, fintanto che lei sarà qui di fianco a me.-
E Marion, perplessa e dubbiosa, iniziò ad avvertire una sottile viscerale paura, che scivolava placida nel suo sangue come un veleno certo della propria efficacia.


Giugno, 2025.

Faceva davvero caldo. Law sbuffò, infastidito dal sottile strato ardente di sudore a fior di pelle, e utilizzò uno dei giornali di gossip che aveva comprato a Rail per farsi aria, avvolgendolo su sè stesso. Rowena non pareva avere problemi del genere: correva allegra ed energica, senza dare segno di essere importunata da quel sole infame e prepotente, e più che una ragazza adulta e matura sembrava una bambina ad un picnic. Però come darle torto? L'incontaminata e lussureggiante distesa verde di Central Park era davvero un luogo perfetto per fare le capriole sull'erba.
Era una giornata afosa a New York. L'aria era soffocante, immobile, e nemmeno la più lieve delle brezze giungeva a regolarizzare la delirante temperatura di quella mattinata stagnante. I turisti si radunavano a frotte davanti ai baracchini dove vendevano l'acqua, ansiosi di attaccarsi ad una bottiglietta di minerale e placare l'arsura nella gola.
Però, nonostante le condizioni climatiche che poco entusiasmavano Law, il ragazzo era convinto di avere fatto una scelta azzeccata a fare tappa nella Grande Mela. Quale città migliore per disperdersi e passare inosservati? I turisti erano migliaia e migliaia.
Anche Rail mal sopportava il caldo terribile, ma i negozi e le novità di quella città frizzante e piena di vita le avevano restituito un po' di buonumore. In quel momento era sdraiata sornionamente su una panchina, sul naso i grossi occhiali da sole presi in un negozio di souvenir, e osservava in silenzio il sole spandersi sul colore vivace dei prati.
Rowena saltellò fra gli alberi finchè le gambe non iniziarono a dolerle; si lasciò scivolare fra le margherite, che erano sbocciate furiosamente le une contro le altre, a spintonarsi fra l'erba. Terra umida e scura macchiò irreparabilmente i jeans che Law le aveva imposto di indossare (aveva fatto mille capricci, perchè proprio non li poteva soffrire) e la rugiada le imperlò la pelle.
Law si avvicinò, lasciando Rail al suo bagno di sole. Vestita così, come una ragazza normale, Rowena era ancora più bella. Era un peccato, pensò lui, che ci fosse quella parrucca biondastra a coprire i suoi boccoli castani, e quelle lenti a contatto grigie sulle sue iridi fiammanti. Aveva un'espressione assorta, lontana, come al solito.
-Sei felice?- le chiese dolcemente, guardandosi bene dall'inginocchiarsi anche lui. Non voleva certo sporcare in quel modo disgustoso anche i suoi, di vestiti.
La ragazza battè le ciglia diverse volte, come se la realtà iniziasse a sfrigolare e farsi indistinta ai suoi occhi.
-Non voglio tornare a casa.- affermò con decisione. Artigliò l'erba bagnata con le mani, a quel pensiero.
L'altro si affrettò a tranquillizzarla. -E non ci ritornerai, piccola. Adesso andrà tutto bene. Vedremo un sacco di città nuove e continueremo a fare il nostro lavoretto. Ti va?-
Le parlò con pazienza e condiscendenza, così come avrebbe potuto fare con suo cugino. Ma pensare a lui, e quindi a Sayu e la sua famiglia, fu un errore. Scacciò malamente la loro immagine dalla testa.
Rowena tacque e fissò la cresta dell'orizzonte frastagliata dai grattacieli, stancamente, come se fosse una routine durata tanti anni e ormai noiosa. Ormai, per lei, era ovvio attendere che Law le infilasse la parrucca e la vestisse, prima di uscire. Non strappò l'erba, come immaginava che avrebbe fatto, ma la sua presa s'indebolì e ci lasciò scivolare le dita attraverso.
-Faremo anche le passeggiate la sera, vero?- chiese, aggrottando la fronte, come se l'idea di un suo diniego la inquietasse.
-Ma certo.- Law si rilassò in un sorriso. -Ora, che ne dici di parlarmi di L?-
-L non mi chiede più di venire a giocare da lei.- osservò, più confusa che contrariata.
Lui decise di insistere. -Quindi è una ragazza?-
Rowena spostò gli occhi su di lui e lo fissò con sguardo vuoto, inespressivo, come se quell'osservazione fosse stata fatta in russo. Law si sentì un po' stupido, cosa che non capitava molto spesso.
-Già. E... sai chi sono i suoi genitori?- Non credeva di essere così fortunato da ottenere una risposta, men che meno di senso compiuto, ma forse avrebbe potuto trarre qualcosa. E Rowena era la sua unica speranza di arrivare ad L, in fin dei conti.
La ragazza increspò la fronte, scavando in ricordi remoti. Riuscì a recuperare solo brandelli, frammenti.
-Suo padre... non c'è. E anche sua madre. Lei è orfana. Come me.- concluse, in un attimo di fugace e sorprendente lucidità. Abbassò lo sguardo sulle sue mani lucide di rugiada e imbrattate di terra, quasi cercandoci qualcosa che aveva perso.
Law annuì lentamente con la testa. Non era poi granchè, come risposta. Calibrò bene le parole nello scandire: -E... dove... abita?-
-Viaggia.- mormorò Rowena, spelacchiando con noncuranza una margherita. -Tanto, troppo, così non sa più dov'è la sua casa. Però io... posso sempre scriverle una lettera.-
Il ragazzo annuì, come se avesse proposto di andare a bere un cappuccino. -Perchè no.-
Lei sgranò un sorriso ampio, quasi trasognato, prima di alzarsi di scatto e fare un'altra corsa. Le sue gambe lunghe e snelle scintillavano al sole di Giugno.
Rail, dalla sua panchina, inarcò le sopracciglia e svolazzò rapidamente verso di lui. Lo osservò di storto.
-Come, "perchè no"?! E a che indirizzo, scusa? Speri davvero che la lettera arriverà ad L?!-
Law sorrise, vagamente, come intendendo qualcosa di divertente fra le righe. -Lasciamola fare, ti dico. Mai sottovalutare i pazzi. Qualcosa mi dice che funzionerà, Rail... questa ragazza vuole trovare L almeno quanto lo voglio io.-
Osservarono in silenzio la ragazza correre, saltellare nell'erba, come fosse l'oracolo di un futuro troppo torbido per intuirne i profili.


Marion non volle sentire nemmeno una parola in più. Rifiutò ogni scusa patetica che Halle tentò di propinarle, quali "Non è proprio un essere umano, tesoro... non possiamo esserne sicuri!" e se ne andò in uno stato di stordimento. Procedette per il corridoio senza avere idea di dove andare, confusa, e nessuno dei due agenti la seguì.
Quella nuova scoperta le ingombrava la mente, offuscandole la vista e impedendole di realizzare un qualsiasi altro pensiero. Non era possibile, non lo era, non lo era.
Una figlia. Near aveva una figlia! E non l'aveva nemmeno mai saputo! Quegli stronzi del laboratorio genetico si erano guardati bene di spedire la lettera quand'avevano la certezza che fosse morto, e non potesse avanzare diritti su di lei. Sicuramente era un genio, quella bambina sconosciuta, e veniva sottoposta regolarmente a test ed esperimenti. Nei laboratori è così.
Sconvolta, Marion si passò una mano sul volto. Qualcosa nel suo petto scottava e pulsava orribilmente. Con un po' di romanticismo, si sarebbe potuto affermare che fosse il cuore.
Una patina di lacrime sciocche e fugaci le incrostò le iridi cristalline. Come avevano potuto, Lidner e Gevanni, tenerla all'oscuro di tutto?! Come avevano potuto ignorare l'esistenza di una piccola Near nascosta da qualche parte?! Come avevano potuto sentirsi con la coscienza a posto, dopo averla abbandonata al suo destino?!
E poi, che diavolo significava "non è un essere umano"?! Certo che lo era! Come si permettevano, loro, di dire una simile cattiveria?! Cosa c'entrava il modo in cui era nata? Aveva gli stessi identici diritti di tutti loro.
Digrignò i denti, infuriata e sbalordita e ancora incapace di inquadrare la situazione. Un incubo, solo un incubo dai colori troppo vivaci.
Una figlia... Near sarebbe stato contento di scoprirlo? In ogni caso, l'avrebbe presa con sè. Non si era mai sottratto a nessuna responsabilità, figuriamoci occuparsi di una creatura che aveva il suo sangue. Ma la verità era che ormai era tardi: lui non si sarebbe svegliato mai più, non avrebbe mai neppure sospettato la sua esistenza.
Come avrebbe mai potuto essere, questa bambina? L'immagine di una piccoletta con le trecce candide e una scatola di puzzle in braccio le si affacciò in mente, e Marion l'accolse con sgomento.
Ancora non sapeva come procedere. Si accorse di essere scesa e salita dalle scale in maniera ossessiva, e cercò di darsi una calmata. Appoggiò il gomito al corrimano e riordinò i pensieri, nervosa. Ne avrebbe parlato con gli altri, prima di tutto, con Craig e Harmony e L. E insieme avrebbero organizzato le mosse successive.  L'unica certezza che aveva, incrollabile e tenacemente salda come nient'altro mai, era che quella bambina avrebbe abitato la casa che le spettava. Ovvero il quartier generale.
Forte del suo proposito, si diresse nuovamente al piano superiore. Trasse il cellulare dalla tasca dei jeans e compose al volo il numero di Harmony. Rispose dopo qualche squillo, in sottofondo brusii e chiasso da locale.
-Ancora tu! Siamo usciti per avere un po' pace e rompi lo stesso!- esclamò la ragazza, ridacchiando distrattamente.
Marion alzò gli occhi al soffitto. -Dove accidenti siete?!-
-Pizzeria.- borbottò l'amica.
-Novità. Sbrigatevi a venire.-
-Comandi.- sbuffò l'altra, riagganciando.
Per la precisione arrivarono circa un quarto d'ora dopo -con tutta la calma del mondo- le mani sprofondate nelle tasche uno, l'immancabile sigaretta fra le labbra l'altra, i capelli spettinati dal vento entrambi. La bionda li fulminò con lo sguardo azzurro vivo, irata.
-Cosa c'è in "sbrigatevi-a-venire" che non vi torna?!-
Craig le mise un braccio attorno alle spalle, conciliante. -Dai, su, cara. Non fare la puntigliosa. Siamo curiosi di scoprire questa famosa novità.-
-Certo, non vedevamo l'ora.- rincarò la gemella, aggiustandosi un codino mezzo sciolto.
Marion fece una smorfia. -Andiamo di sopra, così ne parliamo anche con L.-
I due scrollarono le spalle in un assenso e la seguirono placidi. Raggiunto l'ufficio di Near e composto il codice, la visuale che si presentò ai loro occhi non era molto diversa da prima, l'investigatrice dalla chioma celeste era china sulla scrivania. Marion notò che però non stava scrivendo niente.
-L, ho scoperto una cosa.-
Lei si voltò, gli occhi bicolori sgranati. -Stai per mettermi al corrente dell'esistenza della figlia del tuo tutore, se non erro.-
-E quando mai erri.- ribattè Craig, osservando divertito l'espressione stupefatta di Marion. Poi sgranò gli occhi. -Eh?! Che?!-
Marion lo ignorò. -Te l'ha detto Lidner?!-
-A dire la verità, me ne ha informato la Wammy's House un po' di tempo fa.- rispose la ragazza.
L'unica che non sa le cose sono io, alla fine, pensò Marion risentita. Poi riprese a parlare.
-Sì, Near ha una figlia. O meglio, questa bambina è nata dal suo DNA... Si trova in un laboratorio genetico in America, al momento, ma ho intenzione di tirarla fuori. L'unico problema è come.-
Harmony inarcò un sopracciglio, dubbiosa. -Oooo...k. Sembra di essere in un film horror. E com'è che Near non ti ha mai detto niente? Insomma, se ha tenuto te poteva ben tenersi anche l'altra.-
-Perchè Near non ha mai saputo della sua esistenza. Questi famosi scienziati hanno inviato solo dopo la sua morte una lettera, dove dicevano che l'esperimento era riuscito. Sospetto che il motivo sia il desiderio di tenersi la bambina.-
-Che è una specie di Near in miniatura, ci scommetto,- aggiunse Craig, -e tornerebbe utile in un laboratorio genetico.-
-E' quello che penso io.- confermò Marion contrariata.
L la fissò intensamente. -E' vero quello che dici? Vuoi andarla a prendere?-
-Non ho idea di come fare, è per questo che sono qui.- ammise la ragazza, aggrottando gli occhi. -Io... io voglio trovarla. E conoscerla. E invitarla a vivere qui.-
-Non è facile come sembra. Non è mica una bambina come tutte le altre, non puoi andare lì e portartela via.- obiettò la detective, poco convinta.
-Sì, ma pur sempre bambina è. Merita di crescere in una casa vera, no? Dimmi tutto quello che sai di lei.- ordinò Marion, curiosa.
L sospirò. -Ha nove anni. Reagisce molto bene ai test che le vengono sottoposti, oltre ogni aspettativa. Poichè Near non ha richiesto di tenerla con sè, continuerà a vivere in laboratorio fino alla maggiore età. Le verranno concessi documenti particolari, ovviamente, non potrà essere considerata come una donna normale.-
-E' un'ingiustizia!- sbottò la bionda, indignata, incrociando le braccia.
-La vita è un'ingiustizia.- tagliò corto L. -Dubito che tu, da sola, potresti trovare il modo di ottenere la custodia della bambina. Ma ci sono io qui.-
Harmony fece un sorriso graffiante di scherno. -Eh, meno male che ci sei tu.-
-E cosa puoi fare?!- esclamò Marion, sgranando gli occhi.
-Ho contatti con una persona fidata alla Wammy's, che può risolvere questa faccenda in quattro e quattr'otto. Visto che sono colei che Near ha designato come sua erede, posso prendere delle decisioni che sarebbero dovute spettare a lui. Quella bambina è nata per il bene dell'umanità, quindi quale occasione può essere migliore del caso Kira?-
Marion la ascoltò senza fiatare, poi le sorrise. -Beh, grazie. E' davvero importante per me. E, come hai detto tu, potrebbe darci una grossa mano.-
-Allora è deciso.- commentò Harmony.
-Quando sarà possibile averla qui?- chiese Marion.
L ci pensò un momento. -Credo fra qualche giorno. Inoltre, propongo che sia Craig ad andarla a prendere.-
Craig sussultò improvvisamente, l'attenzione destata dalle sue parole. -Ma... che?! Io, perchè io?!-
-Perchè di sì.- replicò L, laconica.
-Chi sarebbe questa tua conoscenza alla Wammy's, poi? Dài, ce lo puoi dire. Stiamo dalla stessa parte.- insistette Marion, spazientita da tutti quegli enigmi.
L'esitazione non durò a lungo, e la detective cedette. -Si chiama Travis,- rivelò infine, -ed è il nipote di Quillsh Wammy. Il figlio di sua sorella. Fa diverse cose per mio conto.-
Marion aggrottò la fronte. Aveva notato la schermata del computer: la posta. Il mittente dell'ultima mail le balzò agli occhi.
-Parlando del diavolo...Ti ha appena spedito un'e-mail, guarda. C'è scritto Travis. L'hai letta?-
L osservò assorta l'icona, una piccola busta gialla. -Sì. L'ho letta.-

***
14 Giugno 2025, Londra, studio                                          
              ore 15:03 pm                                          
L, ho trovato una lettera nella tua cassetta della posta, al tuo indirizzo di Sarajevo. Te la riporto. Non c'è mittente, ma immagino che tu leggendo lo intuirai.

L? Toc toc! Come stai?
Perchè non vieni più a giocare da me? Era così divertente. Sei cattiva, L.
Forse è meglio ricoprirti di rosso e farti stare zitta sempre. Perchè non mi vuoi bene, L?
Non credi che sia ora di smetterla di scappare?
Tu hai la mia vendetta e io ho il tuo criminale. Come la mettiamo?
Facciamo cambio, L. Dammi la mia vendetta.
Mi è piaciuto venire a trovarti, ma perchè ti nascondevi? Tu sei bella, L, non hai bisogno delle maschere.
Io ti darò il tuo criminale, L.
Vieni a trovarmi tu, stavolta. Oppure
La vendetta
hai forse paura?

***

L sospirò apatica, rileggendo quelle poche righe. Travis aveva annotato che sul retro della lettera c'era un indirizzo, a Kyoto. Oppure hai forse paura?
Scosse la testa, tentando di cacciare via dalla testa quei frustranti sussurri. Rowena era tornata, irrompendo bruscamente nel suo presente, quasi facendosi largo con un coltello. Ancora, come molti anni prima. D'altronde, avevano parecchi conti in sospeso e dovevano essere pareggiati tutti.
Pareggiati significava una cosa sola. Una di loro due avrebbe perso.
E una avrebbe vinto. Una vecchia storia già raccontata, di cui Rowena credeva di poter cambiare il finale.
Per distrarsi, cercò il cellulare in mezzo ad un ammasso di fogli svincolati dalle loro pile e compose un numero in fretta.
Ascoltò impaziente l'apatica sinfonia, che canticchiava lentamente, come avesse tutto il tempo del mondo. Poi qualcuno si degnò di rispondere.
-S...sì?- bofonchiò Craig, probabilmente premendo il cellulare all'orecchio grazie a qualche strana e inquietante manovra.
-Dove sei?- tagliò corto la detective. Udì un sospiro esasperato.
-Sto uscendo dall'aeroporto... c'è una folla allucinante. Ti sento abbastanza male. Adesso fermo un taxi e mi dirigo al laboratorio... sperando che il tuo amico abbia fatto tutto quel che avrebbe dovuto fare.-
-Indubbiamente.- ribattè L. -Mi raccomando, devi sbrigare tutto in meno di due ore. Il tuo aereo parte alle sette di stasera.-
Craig sbuffò, scostandosi un ricciolo fulvo dalla fronte. -Non me lo dimentico, capo. Filerà tutto liscio. Saluta Harmy.-
-Non fallire.- fu il laconico saluto.
Lui chiuse la chiamata, infilando il cellulare nella tasca sformata dei jeans e squadrando con disappunto la calca davanti a sè, a spintonarsi davanti all'uscita. La storia sembrava essere destinata a durare ancora a lungo, e così fu. Solo due ore e un quarto dopo, per l'esattezza, scivolò giù dal vecchio sedile in vinile del taxi porgendo qualche banconota all'autista.
La brezza che lo accolse non era fredda, ma satura, pesante d'umidità. Gli sfiorò le guance con pallida malinconia, quasi delusa dallo spettacolo di un cielo plumbeo e apatico. A dire la verità, Craig sarebbe stato ben felice di passare due o tre settimane lì, viaggiare da una parte all'altra dell'America, che amava tanto; ci era già andato alcune volte, e ci aveva lasciato il cuore. Era una specie di tortura, quindi, avere la possibilità di andarci (gratis, per lo più) e non poter vedere nemmeno New York da lontano. Ma, con il cuore spezzato, si costrinse a concentrarsi sulla sua missione.
Il laboratorio genetico di cui tanto si era parlato, una minacciosa struttura grigiastra e piatta così lunga da sembrare un serpente, si ergeva lapidaria davanti ai suoi occhi scettici. Attorno ad essa nulla, nè una città nè qualsiasi altro edificio, una desolante e deprimente distesa attraversata da un'autostrada deserta. Il silenzio era disarmante, e per un ragazzo vissuto tra l'allegro traffico di Kyoto quasi assordante. Dopo una camminata che gli parve interminabile, sotto il cielo di piombo denso, si ritrovò di fronte all'entrata. Vide di fianco alla porta d'acciaio un pannello con un piccolo pulsante, così lo premette a lungo. Attese, ma non sapeva nemmeno lui bene cosa.
-Prego.- Una voce metallica e gelida sibilò quella parola, dal piccolo microfono che notò giusto sotto il bottone. Incerto, non seppe bene cosa rispondere.
-Vengo in nome di L.- rispose Craig nervosamente. -Io ho un... uh... foglio.-
Frugò nello zaino che portava sulla spalla e ne estrasse una cartella. Esibì il foglio che conteneva, un documento protetto dalla plastica. Lo sventolò davanti alla piccola telecamera, sperando bastasse.
Dopo una pausa sconfortante, un campanello squillò e la porta si socchiuse.

Ci vollero tre quarti d'ora buoni a Craig per convincere tutta l'equipe degli scienziati e delle segretarie diffidenti che il documento era valido e non c'era nessuna irregolarità. Dopo aver controllato un migliaio di volte il foglio in cui L lo dichiarava suo assistente e la sua carta d'identità, si decisero a mostrargli la bambina.
Craig guardò nervoso l'orologio da polso: quattro e quarantaquattro. Doveva far presto. Sperava che, superata la noiosa burocrazia, le cose si sarebbero svolte con più rapidità, altrimenti L l'avrebbe disumanato.
Seguiva con passo placido e stanco la dottoressa in camice che l'avrebbe dovuto condurre dalla figlia di Near, ma i labirintici corridoi sembravano intrecciarsi l'uno con l'altro senza condurre da nessuna parte. I minuti scorrevano inevitabili, vischiosi, interminabili. Le pareti asettiche e le scrivanie ordinate che si presentavano ai suoi occhi erano una successione poco interessante.
Stava pensando vagamente che aveva fame, che non aveva mangiato niente in aeroporto e che il cibo sull'aereo è disgustoso, quando d'un tratto la donna che gli faceva da guida si fermò.
Gli parve così strano, dopo tutto quel tempo, che quasi le finì addosso. Sbattè le palpebre e fissò la porta sulla cui maniglia lei posò la mano.
-Da questa parte.- affermò seccamente, estraendo dalla tasca del camice un mazzo di chiavi e rigirando un paio di volte una di quelle nella serratura. Aprì la porta con un cenno annoiato della mano e lo invitò ad entrare.
Craig avanzò titubante nella stanza, e gli bastarono pochi secondi per dubitare che una bambina vi stesse all'interno. Prima di tutto, la sola luce che la illuminava era quella filtrata dal corridoio, quindi prima che lui entrasse a rigor di logica avrebbe dovuto essere invasa da un buio pesto. Poi era piccola, angusta, le pareti erano un po' annerite dal tempo e non c'era nemmeno un mobile.
Come era possibile che una bambina rimanesse da sola, al buio, in una stanza dall'arredamento così minimale?!
Si guardò intorno, improvvisamente con il cuore in gola, quasi in ansia. Si sentì in colpa, per avere pensato così poco al motivo del suo viaggio, di averla considerata come un pacco. Mille e mille domande mute attraversarono la sua mente, mentre i suoi occhi perlustravano la stanza e realizzavano che era vuota.
Poi la porta cigolò sui cardini e si accostò allo stipite, attutendo la luce. Sussultò letteralmente di paura nello scorgere, fra le tenebre addensate nell'angolo, il profilo di una figuretta minuta.
Pensò subito che era piccola, molto piccola. Non aveva mai visto nessuno così... piccolo. Anche se era seduta, poteva calcolare che in piedi sarebbe arrivata all'incirca al suo gomito. Il suo corpo era magro e sottile, come un'ombra filiforme, e le sue braccia ossute -che parevano fin troppo deboli- cingevano strette le ginocchia. Il pallore del suo volto era qualcosa di spaventoso, era... cerea. Cadaverica. I suoi lineamenti nascosti nelle tenebre erano familiari, i suoi occhi ancora di più: pozzi, voragini. Pupille grandi come macchie d'inchiostro spante nelle iridi. I capelli, un caschetto ordinato e regolare che le carezzava delicatamente il mento, erano corvini come onice bagnato.
Lo fissava con quei suoi occhi enormi, rannicchiata dietro la porta, le piccole spalle contro il muro.









































Note dell'Autrice: Dopo una viiiiita, ecco questo nuovo capitolo. ^-^
E adesso che cosa succederà? L incontrerà davvero Rowena? E la figlia di Near cosa combinerà al quartier generale?
Vi prego, miei lettori, il vostro sostegno è vitale per me! Vi adoro,
Lucy

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Capitolo 17
*** Fuga. ***


17

Fuga.


Damasco, 2004.

La luce moriva lenta sui vetri delle finestre, dissolvendo il suo pacato bagliore in un buio torvo. Le ombre sul pavimento divorarono ogni ritaglio di sole e si addensarono a ridosso del pavimento e delle pareti, come pennellate di un pittore distratto. Suo padre fissava implacabile la notte fiorire, spandersi come una macchia d'inchiostro nel cielo, e non si mosse.
La bambina accettò quel silenzio senza discutere e non volle nemmeno tentare di violarlo, convinta che non ci sarebbe riuscita. L'orologio che aveva al polso ticchettava distrattamente le ore scadere, senza calma nè fretta, il ritmo monocorde di quel pomeriggio silenzioso. Sul tavolo stampe ed appunti giacevano sparpagliati, come scossi da una folata di vento, un muffin al cioccolato su cui spiccava un bel morso e una tazza di caffè troppo zuccherato ormai gelido. Il silenzio stagnava fra di loro, forse aspettando o forse no.
Infine, L sospirò impercettibilmente e allontanò il pollice dalle labbra, lo sguardo ancora assorto oltre il vetro, in contemplazione di qualcosa che sfuggiva a tutto il resto del mondo.
-Devo andare, adesso. Ma domani non tornerò alla solita ora.-
La bambina dai capelli chiari sollevò la testa, un po' sorpresa dal sentire il suono della sua voce dopo tante ore, un po' da quella rivelazione.
-E quando?-
-Mai più, probabilmente.- ammise L, con franchezza. -Devo andare a risolvere un caso.-
La piccola esitò, strofinando con i polpastrelli una ciocca di capelli. -E morirai?-
-Credo di sì.- L si alzò in piedi, affondando le mani nelle tasche e esibendo la sua caratteristica postura, storta quanto un ramo autunnale. Non incrociava il suo sguardo.
Lei rimase zitta, cercando qualche obiezione. Non si stupì troppo nel non trovarla: suo padre era nato per salvare il mondo, e lei non era certo nata per cambiare il suo destino. Sapeva, forse, che quel giorno prima o poi sarebbe arrivato. Quello in cui la morte sarebbe venuto a portarlo via, come debito per tutte le anime che lui stesso le aveva sottratto.
Lo osservò e si chiese quante volte avrebbe rivangato nella memoria quegli istanti, in futuro.
-Non potrò contattarti altre volte, c'è pericolo d'intercettazione. Se vuoi dirmi addio,- proferì L con voce atona, -forse questo è il momento giusto per farlo.-
-Addio.- disse la bambina, con voce priva d'inflessioni.
L'investigatore le si avvicinò lentamente e si chinò di fronte a lei, con espressione indefinibile.
-Finora mi hai sempre risposto senza badarci troppo, ma ora rifletti. Vorrai prendere il mio posto, quando Near non ci sarà più?- La sua voce era ridotta ad un mormorìo. Il frastuono della notte, auto che ringhiavano sull'asfalto e luci aspre di lampioni e pesantezza di sonno placido nell'aria, quasi la sovrastava con insofferenza.
La figlia frugò incuriosita in quegli occhi pieni di buio, più che fuori dai vetri. Erano traslucidi -poteva scorgere un profilo vago dei suoi lineamenti- ma colmi di qualcosa di ferreo.
-No, non voglio.- dichiarò, con voce limpidamente ferma. L annuì con il capo, piano, quasi non avesse mai avuto dubbi della risposta.
Si chiese, un po' interdetta, come mai non tentasse di persuaderla. O, se davvero rispettava la sua decisione, perchè le avesse fatto quella domanda.
-Lo so che la tua vita non è stata il massimo negli ultimi quattro anni.- iniziò il padre, tranquillo. Lei inarcò un sopracciglio.
-Io ho quattro anni.-
-Credi che non lo sappia? Fammi finire, per piacere.- L fece una pausa, poi riprese. -So che non è stata il massimo, ma non era mia intenzione farti mancare nulla. Non credo di essere stato poi così male, pur non essendo un esperto di bambini. Mi auguro almeno non sputerai sulle mie fotografie, da grande.-
La bambina scosse la testa, con sussiego. -Non esistono tue foto, d'altronde.-
L la guardò.
-No, non sei così male, penso.- confermò infine la piccola, alzando gli occhi al cielo.
-Ancora prima che nascessi, ero convinto che farti nascere sarebbe stato soltanto un inevitabile supplizio. Per me, per te.- L parlò con lentezza, e per la prima volta nei suoi occhi apparve qualcosa di significativo a spezzare la sua imperturbabilità, una coltre di nubi, uno strato di polvere.
-Per la mamma.- Anche la voce della figlia era cauta.
L si riscosse bruscamente. -Sì, anche per lei. Ora ascoltami, perchè non potrai farlo mai più. La tua vita non sarà facile e non sarai tu a rispondere di te stessa, e tutto questo solo per colpa mia. Ti chiedo perdono per tutto quello che ti toccherà, o semplicemente per ogni istante della tua vita che mi perderò. Ma il motivo lo sai.-
Si alzò, in uno scricchiolare impressionante di ginocchia. La fissò per qualche istante, pensoso, prima di baciarle la fronte con labbra fredde e leggere.
La piccola socchiuse gli occhi, imprimendo quel contatto nella memoria e tenendosi ben aggrappata al ricordo, affinchè non si dileguasse. Quel bacio lasciò un segno, un'ustione, una ferita. Rimase lì, come una cicatrice destinata a non lasciarla mai.
Prima di uscire dalla sua vita, prima di chiudersi la porta alle spalle, suo padre parlò.
-Ti elogeranno, ti malediranno, ti odieranno, sarai rovina e salvatrice. Il tuo sarà il compito più importante del mondo, L.-
Queste parole scivolarono lente come foglie morte al vento. La porta si chiuse, il buio ripiombò energico.
L. La bambina sospirò, rassegnata, realizzando che non era mai esistita nessuna scelta da fare.
L.

Damasco, 2013.

Non si era ancora addormentata quando lo udì. Un rumore appena percettibile, sottile quanto le fusa di un gatto. La finestra che si apriva, scassinata fin troppo abilmente.
L si sollevò rapida dal materasso, sgranando gli occhi, spaventata ma ben consapevole di ciò che doveva fare. Come suo padre le aveva raccomandato molti anni prima, frugò nell'armadio che fiancheggiava il letto e tastò il fondo alla cieca. Lo sentì, qualcosa di freddo e liscio: una maschera di porcellana candida. La strinse fra le mani, poi con un attimo di esitazione afferrò anche quello che vi era sotto e richiuse l'armadio, appellandosi a tutto il coraggio possibile, per poi aprire la porta e mettersi a correre lungo un corridoio buio. Il silenzio era distaccato e spaventoso, come una trappola in attesa di scattare. La tensione attese, sfibrante, dolorosa.
L indossò la maschera e camminò in punta di piedi. Il suo obiettivo era la porta in fondo, che conduceva alla scale della cantina, dove lei sapeva esserci una botola che l'avrebbe condotta fuori. Dubitava che ci sarebbe potuta arrivare, d'un tratto quella distanza le parve infinita. Le piastrelle erano fredde sotto le piante dei suoi piedi, l'aria arida nella gola riarsa.
Nella cortina del buio, due occhi rossastri seguivano la sua fuga.
-Ciao, L. Che bello conoscerti.- La sua voce risuonava limpida come gocce d'acqua in una grotta cavernosa.
L sospirò rassegnata, un rivolo di paura sottile a scivolare lungo le sue ossa. Scosse la testa.
-Perchè sei venuta qui? Torna a casa, Rowena.- replicò secca, con fermezza. Ma la paura strappava ed inghiottiva la sua determinazione, brandello dopo brandello.
-Come perchè? Come perchè?- Emerse, dal buio rannicchiato in fondo al corridoio, la figura di una ragazzina magra, esile, dai capelli castano pallido sforbiciati malamente in ciocche disuguali. Il volto cadaverico era contratto in un'espressione di giubilo, euforia, esaltazione quasi folle. Alla luce spettrale di una luna pallida gli occhi non sembravano rossi, piuttosto neri; erano strabuzzati grottescamente, in maniera convulsa, spaventosa. C'era qualcosa di malsano nel suo viso, poco infantile, quasi una frenesia deleteria.
Doveva avere all'incirca la sua età, forse un po' più giovane. Non era bella, quell'emozione che deturpava il suo volto.
-L, L...- canticchiò trasognata, fissandola con un'intensità dolorosa, incidendola a fondo, come se desiderasse sottrarle i pensieri dagli occhi. -Quanto parlava di L, mio padre. Sempre L. E poi si arrabbiava, perchè allo specchio vedeva qualcuno...- Iniziò a camminare, senza fretta, esaurendo a passi misurati la distanza sempre più breve che le divideva. Non aveva un'espressione palesemente minacciosa, ma i suoi occhi erano ancora sgranati ed ora, grazie ad un soffio fugace di luna, L riuscì ad intuirne all'interno una sfumatura corniola. Aveva un'espressione assente, assorta, e la sua voce leggera e sfibrata si perdeva nell'aria rigida di tensione.
Si impose di non arretrare. Dimostrare paura era sbagliato. Rendeva deboli, fragili agli occhi dell'avversario. Ma era dannatamente difficile guardarla e rimanere fermi, mentre una voce cauta nella sua testa le bisbigliava come un disco rotto di scappare lontano.
-... qualcuno,- ripetè in un sussurro che sfiorò il silenzio, -che assomigliava molto ad L. Sembrava L. Socchiudendo un po' gli occhi, sarebbe potuto essere L. Ma non... era L.-
Un bagliore di ferro, freddo e acuminato, fendette la cortina del buio rapidamente. Rowena lo fece scivolare dalla manica con naturalezza, senza gravità, quasi non fosse quel che era. Nemmeno quel gesto fu fatto con rudezza, ma ormai la situazione era inequivocabile.
-Perchè tieni quella addosso, L? Perchè ti nascondi? Fuggi da me?- La sua voce si fece appena acuta, facendola assomigliare paradossalmente ancora più ad una bambina.
-Fai la cosa giusta e vattene. Rowena, ascoltami.- L stabilizzò la voce, adirata, ma scossa da un tremito. -La guerra è finita.-
Rowena ora le sorrise. Se possibile, la curva sulle sue labbra fu così morbida e spontanea che per un attimo dubitò della pericolosità della persona che le stava di fronte. Un attimo.
Quella era una ragazza pazza. Dimenticarlo poteva essere letale. 
-La guerra non finirà finchè ci sarà qualcuno disposto a combatterla.-
Quando le si avventò addosso, non la vide. Fu come il balzo di una tigre, istantaneo e improvviso, così che la sua mente non ebbe nemmeno il tempo di realizzare quel movimento. In un secondo, sentì la testa colpire bruscamente la durezza implacabile del pavimento e si trovò a guardare il riflesso della sua maschera candida nelle iridi eccitate di Rowena.
-Cos'è questa? Perchè la tieni sulla faccia? Scommetto che sei bella, L. Fammi vedere che bella che sei. Fammi vedere che bel nome che hai.-
Sfiorò, con la punta delle dita e una curiosità quasi morbosamente vogliosa, la porcellana.
Era spaventosamente consapevole e padrona dei suoi movimenti; fluida, rapida, efficace. Una guerriera, una macchina da guerra. Fu una fortuna, per L, che la ragazza indugiasse a deliziarsi dell'immagine di lei a terra, debole e impotente: colse l'attimo e afferrò la pistola lungimirantemente infilata nei pantaloni del pigiama.
La premette contro il mento di Rowena, e non tremava. Le sue iridi erano immobili, ferme, decise.
-Vai via.- ripetè, piano, con voce bassa e risoluta. Rowena spostò lo sguardo sulla canna della pistola, con disappunto, più infastidita che spaventata, e le afferrò il polso fulminea.
L se lo aspettava. Altrettanto rapidamente le sparò, con precisione, all'avambraccio che reggeva il coltello: Rowena gemette come gemono le bambine, con voce squillante e lamentosa, quasi incredula davanti al dolore, e strizzò gli occhi forte. La lama esitò fra le sue dita, ma non cadde. L approfittò della sua distrazione e svincolò da sotto di lei, rialzandosi, la pistola stretta fra le dita. Rowena sollevò la testa, le iridi spalancate di sorpresa e amarezza, come delusa da quel comportamento.
L'altra la ignorò, non si voltò nemmeno indietro. Scappò, con urgenza dettata dal terrore, come solo chi teme d'essere inseguito può fare. Le sue gambe erano incerte, ma lei corse lo stesso. La maniglia della porta finalmente arrivò, insperata, e vi si aggrappò forte. Aprì. Guardò solo un'ultima volta la figura di quella ragazza a terra, che si stringeva convulsamente il braccio, poi la salutò mormorando anche se sapeva perfettamente che non l'avrebbe sentita.
Era un arrivederci, il suo saluto.

Kyoto, 2025.

Craig non sapeva davvero che dire. Come poche volte in vita sua, le parole si squagliavano sulla punta della lingua non appena si accingeva a pronunciarle.
Fissò stranito quella minuscola bambina e i suoi occhi bui, simili a pozzi senza fondo. Erano stranamente consapevoli, adulti, quasi lei avesse la situazione molto ben chiara. Infatti lo osservava senza curiosità, con cupa rassegnazione e insieme un'opaca indifferenza, in maniera tutt'altro che propria ad una della sua età.
Craig si strofinò il naso a disagio. -Ehi, ciao. Ehm, io mi chiamo Craig, e... sarei una specie di... agente segreto. Figo, eh?-
La bambina non battè nemmeno le palpebre. Aveva uno sguardo quasi severo. Okay, no.
-Ehhhm... senti, ci sarebbe una persona che vorrebbe conoscerti. Si chiama Marion e... beh, sarà lei a spiegarti bene chi è. Non è facile dirlo così su due piedi.-
Tossicchiò, con un sorriso nervoso. La piccola non rispose, limitandosi a trafiggerlo con quegli occhi gravi imbrattati di nero. Iniziava ad apparirgli inquietante. Che avesse qualche problema? Che fosse sorda, o muta? Eccheccazzo, non aveva ancora battuto le palpebre!
La dottoressa alle sue spalle, le braccia conserte contro il petto, sorrideva sprezzante. -Non sottovalutare la sua capacità di apprendimento. Trattarla come una ritardata mi sembra leggermente inadeguato.-
Craig avvampò furiosamente, lanciando un'occhiata sconcertata prima alla dottoressa, poi alla bambina. -Ma... ma non è assolutamente quello che stavo facendo! Io non penso affatto che...- Sbuffò. -Non andiamo molto lontano, così. Perchè non mi rispondi? Ti prego, dimmi ciao. Muovi una mano. Fammi capire che sei viva.-
L'espressione della piccola era indecifrabile, una maschera priva di lineamenti. Lo ignorò in maniera spiazzante. Craig non sapeva più che fare, che dire, o come reagire.
-Non è una novità. Lei non parla mai.- commentò la dottoressa, intervenendo di nuovo. -Compila soltanto i test che le vengono sottoposti. Lavoro qui da quando è stata creata, e credo di non avere mai sentito la sua voce.-
Il ragazzo rabbrividì istintivamente sotto la giacca. Era qualcosa di conturbante, indubbiamente, inconcepibile e insieme spaventoso. Come poteva una persona non parlare mai?! Era proprio di ogni essere umano esprimersi attraverso un linguaggio, non farlo era innaturale. Non ci avrebbe creduto, se non si fosse trovato in quel preciso momento davanti all'oscurità nascosta in quelle iridi di pietra.
-Sicura che capisce quello che diciamo?- chiese, osservandola dubbioso. Non esprimeva la minima reazione, era questo che induceva Craig a pensarlo. Sarà anche stata un genio, ma doveva per forza avere qualche problema.
La dottoressa inarcò un sopracciglio. -Meglio di me e te.-
Lui decise di lasciar perdere: ogni cosa al suo tempo. Avrebbe avuto tutto il viaggio in aereo per ideare una strategia, per cercare di strapparle una parola di bocca.
-Beh, sarà ora di andare. Anche se non mi parli... facciamo che io ti tendo la mano. Okay? La mano destra. Tu adesso la guardi per benino e decidi se ti fidi e vuoi venire con me, oppure no.-
Craig le sorrise, allungando appunto la mano nella sua direzione, gli occhi castani a riflettere quelli vuoti e immensi di lei. Anche la dottoressa osservava la scena, vagamente incuriosita.
Come avrebbe reagito il loro esperimento? Avrebbe accettato quella che sembrava una vera e propria evasione da una vita tranquilla e sicura, e si sarebbe avventurata in un mondo che non aveva mai visto? Sarebbe rimasta con i ricercatori o avrebbe seguito un perfetto sconosciuto? Si limitava ad una scelta fra noto ed ignoto.
La piccola non lo guardò nemmeno per sbaglio. Dopo pochi istanti si mosse, alzandosi su due gambette che parevano davvero troppo magre per sostenere un corpo.
Fece un passo verso di lui, ma non gli strinse la mano. Rimase solo lì, a fissare la luce giallastra ed insistente che filtrava dalla porta. Sui suoi capelli lucidi e corvini comparvero riflessi argentei.
La dottoressa in camice scosse la testa, sorpresa. -Una reazione interessante. Forse dovremmo annotarla.-
Craig la fulminò con un'occhiata indignata. Non poteva soffrire quel suo atteggiamento del tutto distaccato, quasi fosse una mera cavia da laboratorio e non un piccolo essere umano. Non che lei facesse granchè per smentire questa convinzione, avvolta dal suo manto d'apatia.
Gli venne in mente una cosa ovvia, talmente ovvia che gli parve assurdo non essersela domandata prima. E che neanche Marion l'avesse domandata.
-A proposito, come si chiama?-
La dottoressa sorrise di nuovo, freddamente, quasi lapidaria. -Lei è l'esperimento 4091626. Non ha un nome, naturalmente.-

Il padre di L era l'omonimo investigatore famoso in tutto il mondo, la madre una delle peggiori delinquenti che Damasco avesse mai visto. Alia aveva una vera e propria fama, in città, era la leggenda che faceva tremare i bambini sotto le coperte. Una ragazza d'una bellezza ombrosa ed esotica, non troppo appariscente, con una carnagione ambrata e lisci capelli d'ebano, all'apparenza; la sgozzatrice, la chiamavano nei notiziari: nessuno capiva come riuscisse a tranciare le teste alle vittime in quella maniera. Tagli netti, precisi, quasi millimetricamente perfetti, mutilazioni spaventosamente esatte, indici di una genialità perversa. Le vittime da due divennero cinque, poi dieci, poi venticinque, poi sessantasette; corpi scempiati - con quella mutilazione inconfondibile e una certa macabra eleganza- venivano trovati nelle vasche da bagno, nel letto con le coperte rimboccate, nei laghetti del parcogiochi, nelle vetrine dei negozi, appesi come burattini di una lugubre recita.
E poi arrivò L.
Non ci mise granchè a scoprire quello a cui nessuno era arrivato. Alia usava cavi d'acciaio, spessi, robusti, e li faceva scorrere sulle gole delle vittime fino a reciderle. Dopo un'intensa partita a gatto e topo la trovò e la catturò, assegnandola alla giustizia. Otto mesi dopo, in un penitenziario per psicopatici, lei diede alla luce una bambina dagli occhi di colori diversi.
La piccola venne affidata al padre naturale grazie ad un giro di conoscenze intricatissimo, Alia rimase in carcere a scontare l'ergastolo, in quel momento era ancora lì e, con un po' di fortuna, non ne sarebbe uscita mai più. Ma forse, come rimuginava L a proposito, era troppo dignitosa per passare tutta la sua vita a fissare i muri, ed immaginare come poteva essere diventata intanto quella figlia che le era stata strappata di braccio appena nata, perciò poteva anche stare organizzando una fuga, per quanto ne sapeva.
La piccola L creebbe quindi con L senior, che a volte restava con lei ed altre era in giro per il mondo a risolvere casi. Di Alia si parlò poco o nulla, non per reticenza del padre ma piuttosto per l'indifferenza quasi glaciale della figlia.
-E' una criminale. Tanto mi basta.- affermava con disapprovazione.
A tenere compagnia ad L c'era talvolta Watari, che si comportava come un nonno affettuoso, oppure il nipote di lui Travis, un ragazzo alla mano ma efficiente che svolgeva il suo lavoro con grande zelo. In definitiva, non aveva un padre granchè normale ma nemmeno una vita molto diversa dal consueto. I problemi, e le responsabilità, arrivarono quando fu costretta -per mezzo di un abilissimo ricatto- ad accettare il ruolo di nuova L.
Tutte queste cose vennero scoperte da una sgomenta Marion grazie ad una e-mail da parte della Wammy's House. La ragazza scorse un paio di volte l'intera pagina di informazioni con il cursore, su e giù, sbalordita. Una delinquente?! L aveva avuto una figlia con una delinquente, che tra l'altro aveva pure piazzato in carcere?! Inconcepibile.
Scoperta la storia della bizzarra ragazza con cui era stata costretta a convivere, la curiosità che le aveva suscitato si placò e sentì di avere la situazione sotto controllo, almeno più di prima. Rimaneva solo da scoprire cosa c'entrasse Rowena con L, come si conoscessero.
Marion lanciò un'occhiata impaziente all'orologio: otto del mattino. Fra poco Craig sarebbe tornato, con la figlia di Near. Quel pensiero accelerò appena il battito cardiaco nel suo petto.
Capì che il modo migliore per tenersi impegnata era parlare con qualcuno, così (visto che Tennyson era fuori per un allenamento di rugby e Harmony ancora a letto) decise di affrontare la questione Rowena con L, una volta per tutte, in modo da fugare ogni dubbio.
Uscì dalla sua stanza, lasciando il computer in stand by e chiudendo la porta. Una sfilza di corridoi e scale dopo si trovò davanti alla porta dell'ufficio di Near; aprendo, pensò distrattamente che la cicatrice della sua morte doleva senza stillare sangue. Qualcosa in lei la stava lentamente accettando, senza ancora essere insensibile alla sua asprezza ma sopportandola a denti stretti.
Osservò lo studio che si presentava davanti ai suoi occhi e dovette realizzare, sorpresa, che era vuoto. Si guardò intorno, confusa, quasi si aspettasse di vederla spuntare all'improvviso da qualche parte. Ipotizzò a mente lucida che fosse andata in bagno, o in camera, o ad ordinare qualcosa da mangiare come al solito, e decise di aspettarla lì. Titubante, si avvicinò alla grande sedia girevole accostata alla scrivania, che ormai era considerata proprietà dell'investigatrice turchina. La cosa, stranamente, non la infastidiva: non la vedeva più come una potenziale rivale, nemica, rivale con cui competere ma una persona interessante. Un'amica no, probabilmente, non avendo mai parlato di faccende personali o cose del genere, piuttosto una collaboratrice fidata e preziosa. Sedette, quasi sperando di evocare L grazie a quella provocazione, e girellò annoiata sulla sedia con lo sguardo perso a vagare sul soffitto. I minuti si succedevano faticosamente, trascinandosi uno dopo l'altro, e Marion detestava restare con le mani in mano e perdere tempo.
Era sul punto di alzarsi e andare a cercarla, risentita e nervosa, quando il suo sguardo cadde su un post-it appiccicato in bella mostra sul bordo della scrivania. Non ci aveva fatto molto caso, prima, perchè trovare un appunto in un ufficio poteva stupirla quanto vedere sabbia in spiaggia, ma notò che pareva messo lì affinchè qualcuno lo guardasse.
Scorse con gli occhi ciò che vi era scritto e gelò.
Deglutì, rileggendo, incredula e sconvolta. Rilesse. Rilesse.
Poi strappò rudemente il foglietto dalla superficie di legno e si precipitò fuori, a svegliare Harmony.
Vado a risolvere il caso. Se tutto andrà bene, tornerò a brindare per l'arresto di Kira.
Se le cose andranno diversamente, i nostri nomi saranno vicini in un necrologio.
Solo tu, stupida arrogante detective, potevi lasciare un messaggio tanto melodrammaticamente egocentrico, pensò Marion, spaventata a morte.

Quando i passi di qualcuno iniziarono a farsi sonori sulle scale, Marion rammentò con un sussulto. Craig. La bambina. Dopo la gran cazzata che aveva combinato L, si era completamente dimenticata di loro. Come aveva potuto?! Oh, c'erano così tante cose da dire, e così poco tempo per scoprire cos'avesse quella svitata in mente... Perchè tutto nello stesso giorno?!
Harmony parve accorgersene insieme a lei. Sollevò la testa e si alzò, mentre Craig apriva la porta.
La gemella gli si gettò fra le braccia, appendendosi al suo collo. -E' tornato quel figo del mio gemellino! Che cazzo, non puoi sparire così per un secolo e non farmi nemmeno una minchia di telefonata!- protestò, la voce lamentosa soffocata contro la sua spalla.
Lui abbozzò un sorriso ironico. -Un secolo sarebbe un giorno, per l'esattezza, e ti ho chiamata sia ieri sera che oggi a mezzogiorno... alla faccia degli eufemismi.-
-Stai zitto e dammi ragione.- bofonchiò la rossa. 
Marion non sentì nulla di questo scambio. Da quando la porta si era aperta, il suo sguardo era crollato sulla piccola esile figura accanto a Craig e non era più riuscito a scostarsi.
Immediatamente, la sua mente confusa sovrappose il viso che stava osservando a quello del suo tutore. Nell'affondare in quegli occhi che credeva di avere perso per sempre udì una stridula lacerazione nel petto, come vetro preso a morsi, e la nostalgia squartò tutto i coraggio che finora era riuscito a cicatrizzare le sue ferite.
Sì, su quel piccolo volto Near era presente: negli occhi di buio e silenzio, indubbiamente, occhi che sapevano tutto e non dicevano nulla. E poi nella piega rigida e impassibile delle labbra, nell' espressione di apatia lontana, di sinistra consapevolezza. Lo stesso incarnato cereo, la stessa ossatura fine, la stessa fisicità minuta. Le parve di averlo davanti, Near, e le venne voglia di piangere.
Craig incontrò gli occhi stracciati e storditi della ragazza e capì, preoccupato. Pensò che fosse ora delle presentazioni.
-Questa è Marion, quella di cui ti ho parlato.- disse, rivolto alla piccola. Stava guardando Marion, senza curiosità nè stupore, formulando solo una vaga distaccata analisi della persona che aveva di fronte. Nessuna domanda scintillava nelle sue iridi nere.
Harmony squadrò la piccola, con incredulità crescente. -Ma come è vestita?!-
Indossava un paio di jeans dall'aria un po' hippie, adornati da arabeschi ricamati e perline intessute nel denim azzurro chiaro, e una maglietta spiegazzata a maniche corte di un vecchio concerto dei Sex Pistols. Craig si strinse nelle spalle, divertito.
-Glieli ho comprati io all'aeroporto. E' stata ubbidientissima, li ha messi senza dire beh.- proferì orgoglioso, quasi il merito fosse tutto della sua abilità di educatore.
-Tu non sai nemmeno cosa sono, i vestiti.- ribattè Harmony scuotendo la testa. -Dopo glieli trovo io, dei vestiti veri.-
Marion non disse nulla. Rimase a fissare le sue guance magre, la frangetta che ricadeva ordinatamente coprendole la fronte, il caschetto d'ebano che le sfiorava il mento. Non riusciva a concepire l'idea, però sì, quella ragazzina minuscola e diffidente davanti a lei era la vera figlia del suo tutore. Una parte di lui, un frammento di lui, un ricordo di lui intrappolato in iridi opache.
La ragazza aveva un nodo in gola. Deglutì.
-Come ti chiami?- domandò con voce stentata. La piccola rimase a fissarla, quasi annoiata, un'impronta di maturità estenuante nello sguardo ombroso.
-Non parla.- annunciò Craig, con esasperata rassegnazione. -Ho provato a farle spiccicare parola fin da quando siamo usciti dal laboratorio, ma non ha pronunciato mezza sillaba. Anche la dottoressa che mi ha portato da lei non l'ha mai sentita dire alcunchè.-
Marion annuì con la testa, pensosa. Non lo trovava poi così strano, al contrario dei gemelli. Near parlava poco e malvolentieri, preferiva di gran lunga passare interi pomeriggi da solo, a costruire torri impossibili e impalcature meglio congegnate di quelle vere. Rigirò la domanda a Craig.
-Allora, come si chiama?-
Il ragazzo fece una smorfia. -Al laboratorio non le hanno dato un nome. Solo esperimento quattro-zero-qualcosa. Un branco di svitati senza nè cervello nè cuore.-
Lei annuì di nuovo. Nulla riusciva a stupirla, in argomento di crudeltà umana, e se lo aspettava dopo le cretinate che avevano detto Lidner e Gevanni. Non vedeva l'ora di dimostrare loro quanto si erano sbagliati sul conto di quella bambina. La guardò negli occhi di nuovo e, con decisione, le si rivolse.
-Se ti stai chiedendo come mai ti ho fatto portare qui,- iniziò, -sappi che conoscevo molto bene una persona... tuo... un tuo parente. E visto che volevo molto bene a lui, adesso voglio bene anche a te. Non sei obbligata a rimanere, naturale, però ti prometto che qui sarai trattata come meriti e cercheremo di fare il possibile per farti stare bene. Io sarei felice se rimanessi... ma puoi fare come preferisci.-
Craig le sorrise. La piccola la soppesò con lo sguardo, osservandola con la gravità seria e composta degli adulti.
Dopo una lunga pausa gravida d'attesa, allungò la piccola mano sottile di fantasma verso Marion, più un gesto per sancire un accordo che una richiesta di aiuto.
La bionda ricambiò con una stretta vigorosa, stingendo le dita contro la carne debole di quella bambina fragile, e decise che nessuno al mondo le avrebbe fatto del male finchè ci fosse stata lei a difenderla. Non come con Near.
Non era riuscita a difendere il suo tutore, no. Ma in quel momento era diverso.

Mentre una svogliata Harmony era stata obbligata a far fare alla piccola un giro per la casa, Marion raccontò cosa aveva combinato L. Craig ascoltò, visibilmente in ansia, poi aggrottò le sopracciglia confuso e si piazzò davanti al computer.
-Cosa hai intenzione di fare?- chiese Marion con voce tersa, incrociando le braccia.
-Sicuramente qualcuno le ha riferito delle novità rilevanti, per farla prendere ed andare via. Un'informazione preziosa... essenziale. Potrebbe essere stato Kira stesso a contattarla.-
La ragazza s'irrigidì nervosamente. -Kira?! Impossibile. Deve essere stato per forza qualcun altro... quel suo amico, quello... aspetta... Travis. Ieri le è arrivata una sua mail, ti ricordi?- rammentò euforica.
Lui non rispose. Aprì la pagina riservata alle mail e non si stupì per niente nel trovarla chiusa. Chi, se non L, poteva voler custodire i suoi segreti?!
-Password.- annunciò con voce neutra. -Mi toccherà inventarmi qualcosa.-
Marion annuì. Sentì qualcuno digitare il codice per entrare, così si accostò alla porta: alla soglia comparvero Harmony e la bambina, la prima piuttosto annoiata, la seconda caparbia nella sua indissolubile apatia.
-La signorina sballo, dopo un giro di trenta secondi, conosce la pianta di casa meglio di noi.- annunciò con voce piatta la rossa.
La ignorò. -So che non è troppo accogliente, ma spero ti piaccia. Vedi, noi qui passiamo il tempo perlopiù a lavorare.- spiegò.
La bambina osservò con i suoi occhi immensi la ragazza che aveva di fronte. Poi si voltò e, risoluta, indicò il computer con l'indice esile.
Marion si sorprese. -Vuoi vedere?-
Nessuna risposta, così la ragazza si fece da parte per farla passare e le indicò una sedia, stupita. Craig non la sentì nemmeno, chino sulla tastiera del computer a scrivere incessantemente sulla tastiera.
-Come va?- domandò Marion, rivolgendogli uno sguardo preoccupato. Lui scosse la testa e basta, cupo.
La piccola fissava lo schermo, senza dire niente, e le due ragazze si sedettero. Il silenzio era duro e stanco mentre i secondi svanivano, rubati dall'impietà del tempo, sempre più incalzanti. Marion si fissò le mani, inutilmente abbandonate in grembo, cercando di disperdere la folla scomposta di pensieri nella testa, la cui protagonista assoluta era L e tutto ciò che poteva starle accadendo. Fissò con disperata insistenza le dita di Craig digitare lettere e numeri ossessivamente, rumore metallico sempre seguito da uno strano verso stridulo che lo avvertiva dell'ennesima risposta sbagliata. Lui cancellava e ricominciava, imperterrito, senza esitare; la bambina strana di fianco a lui osservava il suo lavoro con sguardo impassibile.
D'un tratto le porte d'acciaio si aprirono con un sibilo e permisero a Tennyson di entrare: il ragazzo aveva il fiato corto e il petto scosse da vigorosi ansimi. Si chinò su se stesso, esausto, e si permise di respirare.
Marion lo scrutò, sorpresa. -Ehi, ciao. Cos'è successo? Hai già saputo di-
-Kira è in Giappone!- sbottò lui, interrompendola, le iridi luminose di terrore. -Gli omicidi sono ricominciati in massa qui. Nelle ultime tre ore sono morti ottanta detenuti, fra quelli rinchiusi nel carcere di Kyoto!-
-E cosa sarebbe? Un avvertimento?- ribattè Harmony, persino lei troppo preoccupata per mettersi a flirtare con il ragazzo.
Marion strinse le labbra. -Una conferma. Quella che L stava aspettando... per raggiungere Kira. Si sono messi in contatto, in qualche modo, e sospetto che possa esserci Rowena di mezzo. E' l'unica a conoscere entrambi, Kira sarebbe stato stupido a non sfruttare questa cosa.-
Craig inarcò le sopracciglia fulve, l'ombra di un sorriso trionfante sulle labbra. -Scacco matto.-
Qualsiasi virus illegale avesse utilizzato, funzionò. Marion, quasi inconsapevolmente, lo attirò a sè e gli stampò un bacio sulla bocca con uno schiocco sonoro.
-Bravo. Bravo, bravo, bravo.- Il ragazzo aveva le guance paonazze e la lingua annodata. Sbattè le palpebre come se non potesse credere ai suoi occhi.
Marion si chinò verso il computer, individuò subito la mail il cui mittente era Travis e l'aprì in fretta. Alle sue spalle, Tennyson e Harmony spiavano ansiosi.
Lei lesse ad alta voce, con stupore crescente, in modo che tutti sentissero. Quando arrivò a leggere l'indirizzo, la sua voce si incrinò come un vetro colpito da una pietra.
-A Kyoto. E' qui. Avrei dovuto aspettarmelo.- concluse Marion, in un sussurro. -Vuole incontrare L.-
-Vuole uccidere L.- precisò Tennyson, con voce increspata.
Marion lesse e rilesse quell'indirizzo, convulsamente. Era un po' accigliata. -Cosa credeva di fare, quella stupida, andando da sola?! Vuole interpretare l'eroina?! Noi saremo più veloci. Dopotutto abbiamo un vantaggio.-
Harmony le sorrise.-E cioè...-
-Cioè, Kira non sa della nostra collaborazione con lei. Percui non si aspetterà il nostro intervento.- chiarì lei, impaziente.
Craig parve svegliarsi dal suo torpore confuso, e fissò con occhi nuovi quelle parole.
-Aspetta. Quest'indirizzo...- La sua voce si spezzò. Con gesti affrettati, aprì la pagina di Internet.
-Che succede?- chiese Tennyson.
Craig digitò l'indirizzo nel motore di ricerca, poi fissò i risultati scuotendo la testa lentamente.
-Come credevo.- borbottò fra sè. -Questo indirizzo sarà un po' difficile da trovare.-
Marion era allibita. -Cosa intendi, scusa?-
-Non esiste.-
















































Note dell'Autrice: Sì, lo so, sembrava che fossi morta. E invece no, mica mi dimentico di voi! ^-^
Bah, queste note diventano sempre più inutili. Non so mai che dire. Quindi ecco svelata la storia di L, e a proposito: che sorpresa avrà in serbo Rowena per lei?
Eheh, lo scoprirete... sicuramente dopo Natale. Buone feste a tutti in anticipo!
Lucy

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Capitolo 18
*** Inseguimento. ***


18

Inseguimento.


C'era un silenzio piatto nella stanza, nè gradevole nè spiacevole. Quieto, placido, come un mare stanco di oscillare. Stagnava, quel silenzio, sfiorandoli senza toccarli.
Law giocherellava con il polsino della camicia, lo sguardo attentamente assorto; Rail era affacciata alla finestra e seguiva con occhi distaccati le automobili apparire e svanire dietro i palazzi. Rowena misurava la stanza con passi scomposti e saltellanti, come una bambina euforica, ma sembrava voler tacere un segreto.
-Non funzionerà mai.- sentenziò Rail, freddamente, gli occhi ridotti a fessure.
Law esitò. -Sei sicura che verrà?- domandò nervoso, quasi dando ascolto alla Shinigami.
Rowena sorrise, trasognata, come vedesse attorno a sè la scenografia di un sogno che nessun altro poteva cogliere.
-Verrà.- disse semplicemente, con la ferma tranquillità di una veggente. -E' ora di cominciare.-
Law annuì con la testa, pensoso. Gli riusciva ancora difficile credere alla riuscita di un piano tanto elementare quanto assurdo, ma la ragazza aveva afferrato con efficienza le redini della situazione e lui non aveva avuto la voglia o il coraggio di dissuaderla. Dopotutto non conosceva L, lei sì. Per la prima volta nella sua vita, occorreva fidarsi.
Si alzò in piedi e, preceduto da Rowena, uscì dalla porta di quella stanzetta muffita, spoglia, scrostata da anni: nessuno abitava, in quella palazzina a pezzi. Un semplice condominio, che però nascondeva qualcos'altro. Scendendo le scale, nessuno parlò.
Rowena, raggiunto il piano terra, lasciò che Law svanisse in una stanza e si fermò davanti alla porta. Aveva una vecchia amica da riabbracciare.
Rise, sul palato il sapore di un giorno pregustato per troppo tempo, e decise di dare il via agli ultimi atti di quella commedia. All'ultima battaglia di quella guerra.

Marion fissò con insistenza le parole sullo schermo, imprigionata in un silenzio irato. La sua fronte si corrugava e distendeva, mentre tentava di dare un senso a ciò che aveva davanti.
-E' un indovinello, suppongo.- sbuffò infine, scocciata. -Un rebus.-
Harmony sogghignò. -Pane per i tuoi denti, direi. Sei o non sei la grande figliastra di Near eccetera eccetera?-
Per tutta risposta la ragazza la fulminò con lo sguardo, prima di spostarlo stancamente sulle parole immobili nello schermo.
via kuromi Dokoi 49, Kyoto
Marion, dopo un lungo indecifrabile sguardo all'indirizzo, iniziò a parlare.
-Ci sono due cose che mi saltano subito all'occhio. Uno, è scritto in caratteri occidentali: perchè mai, visto che siamo in Giappone? Secondo. L'errore di grammatica.-
Indicò con il pallido indice una lettera. -Perchè scriverla in minuscolo, visto che sembra un nome proprio? E mettendo caso che sia una distrazione, perchè scrivere l'iniziale seguente in maiuscolo? E' una contraddizione.-
La bambina seduta accanto a lei le strattonò imperiosa la manica. Una scintilla nuova improvvisamente baluginava nei suoi occhi, qualcosa che sarebbe potuta essere brama o urgente intensità.
-Cosa c'è?- esclamò Craig, preoccupato. -Ti senti male?-
Marion sorrise lentamente, comprendendo all'istante. -... macchè male. Datele una cartina! Su!-
Tennyson, interdetto, obbedì comunque senza fiatare. Frugò in un cassetto della scrivania ed estrasse una cartina di Kyoto, spiegazzata e sbiadita; poi la spiegò rapidamente davanti alla piccola.
Marion, precipitosa, le tese una penna biro. Lei fissò la pianta, che si riflesse nello specchio degli occhi terribilmente neri. Silenzio.
Con un gesto brusco e improvviso, paragonabile al boato di un tuono, la bambina tracciò una sbarra lunga e netta sull'intera cartina. La sua espressione non si increspò.
Craig sobbalzò, Harmony imprecò, Marion aggrottò gli occhi e Tennyson la guardò male.
-Non è a Kyoto.- mormorò Marion. Il suo cervello lavorava. Non aveva voglia nè tempo per gli indovinelli, L era in guai seri... come aveva potuto essere così avventata, così sprovveduta?! Cosa aveva con sè? Qual'era il suo piano? Perchè diamine non li aveva coinvolti?! Tutte quelle domande affollavano la sua mente e si affacciavano ripetutamente alle sue labbra, ma le reprimeva infastidita: nessuno dei presenti conosceva le risposte. Per quel che ne sapeva, L poteva essere bella che spacciata. Eppure una vocina nella sua testa, quella positiva e fiduciosa, le ricordava quanto sveglia e sorprendente fosse la detective e la esortava a confidare in lei, che sicuramente sapeva cosa stava facendo...
La piccola attese, le iridi immobili. Tennyson si voltò verso la bionda, in attesa di un ordine.
-La cartina del Giappone.- ribattè lei, domando la confusione nella sua testa. -L'abbiamo?-
Lui ci pensò un attimo, prima di estrarla da un mobile e poggiarla sul tavolo. Aveva uno sguardo circospetto, quasi temesse che anche quella facesse la fine della precedente.
Ma la bambina, senza esitazioni, allungò la penna e con un gesto preciso e misurato cerchiò una città.
Marion impallidì. -Yokohama.-
-Yokohama?- ripetè Harmony, confusa. -E che c'entra adesso Yokohama?-
Marion capì. Un'idea fugace le illuminò le iridi verde pallido, così prese a scribacchiare freneticamente nei frammenti bianchi della carta. Vi fu una pausa sgomenta, in cui la bambina osservava tranquilla la soluzione apparire sul foglio e tutti gli altri cercavano di capire cosa fosse saltato in testa a Marion. Nessuno fiatò, per non sconcentrarla.
-E' un anagramma.- esclamò infine lei, fissando esultante la risposta. -Dando alle lettere un ordine diverso, compare "molo di Daikoku".-
Harmony squadrò le lettere, sospettosa. -C'è solo una d, sister. Non può esserci quel "di".-
L'amica esordì un sorriso ampio, euforico, come se sperasse in quell'obiezione.
-Guarda il numero! 49. "D" non è forse la quarta lettera dell'alfabeto? E "i" non è forse la nona?-
-Sbalorditivo.- ribattè Tennyson stupito. -Una cosa davvero ben congegnata.-
Marion fece una smorfia. -Beh, a dire il vero rimangono fuori delle lettere... avanzano una "v" di via e due "i".-
Lanciò un'occhiata interrogativa alla piccola vicino a lei, una domanda muta negli occhi. Lei allungò nuovamente la penna sulla cartina e, lì dove Marion aveva ricomposto il nome, con una grafia inaspettatamente tonda ed infantile, scrisse 7.
La bionda rimase in silenzio una decina di secondi, mordicchiando il labbro inferiore, con sguardo corrucciato. Poi capì e battè le palpebre.
-I numeri romani. Certo... VII in numeri romani è sette! V, i, i.-
Harmony alzò gli occhi al cielo. -Minchia, che roba contorta. Solo tu potevi arrivarci...-
-No, non solo lei.- replicò Tennyson, facendo un cenno verso la piccola silenziosa, che sembrava essersi ritirata nuovamente nella sua apatia e stava per essere riavvolta in una cappa impenetrabile.
-Sette dev'essere il numero civico.- affermò Marion, alzandosi in piedi. -Su, andiamo.-
Craig e Tennyson si alzarono dalle sedie e la seguirono a ruota, senza una parola; Harmony sollevò il capo, una protesta dipinta in volto.
-Ma puoi spiegarmi, per piacere?! Il numero civico di che cazzo?!-
-Ma non hai ancora capito?- Marion le lanciò un'occhiata penetrante, un po' tetra. Il suo volto s'era rabbuiato, e la linea rigida delle labbra s'inasprì. -Kira ha dato appuntamento ad L esattamente dove è avvenuto il primo scontro finale.- Prima che Harmony potesse mormorare quel nome, lo fece lei. -Yellow Box.-
Si voltò, facendo per uscire, ma Tennyson la prese per il braccio. -Aspetta! Partiamo così?! Dobbiamo prendere delle armi... e la bambina? La lasciamo sola?-
Marion riflettè in silenzio, osservando il viso bianco della piccola. -Qui è più al sicuro che in qualsiasi altro posto al mondo.- gli fece notare. -Comunque hai ragione, prendi in cassaforte quattro pistole.-
Mentre il ragazzo si affrettava ad ubbidire, la porta dell'ufficio si aprì. Chi accidenti è adesso? pensò esasperata, battendo impaziente un piede a terra. Ogni minuto era prezioso: Yokohama era terribilmente vicina a Kyoto, e probabilmente L era già arrivata. Nella sua mente le più atroci immagini si increspavano e inarcavano e infrangevano l'una contro l'altra, come onde di un mare inquieto, in un terrore confuso e stordito che prima si attutiva e poi imperversava con frenetica insistenza. Era nella rete di Kira che si era imprudentemente avventurata, L, come vittima inconsapevole e dannatamente temeraria, armata solo della sua inflessibile presunzione. Dovevano sbrigarsi, sbrigarsi, fare più in fretta, una cantilena rotta nelle sue orecchie.
Lidner e Gevanni fecero capolino dal corridoio, e le loro espressioni spaventate affilarono ancora di più la smorfia di Marion.
-Ragazzi! Ma cosa avete intenzione di fare?!- sbottò Lidner, negli occhi un'ansia che oscillava fremente tra la rabbia e la preoccupazione. C'erano delle telecamere, nell'ufficio, perciò avevano ascoltato tutta la conversazione. Tennyson sbuffò silenziosamente, prevedendo la sfuriata che stava per essere loro propinata, e sperò che almeno finisse il prima possibile.
Marion tagliò corto, bruscamente. -Dobbiamo andare adesso. Non abbiamo tempo di fermarci a chiacchierare. L è in pericolo.-
Credeva che Lidner l'avrebbe sgridata, minacciata, supplicata, dissuasa. E credeva sbagliato. La donna la fissò negli occhi, leggendovi la stessa determinazione di ferro aguzzo che l'aveva fatta infatuare, un tempo, di Mihael Kheel. La fissò negli occhi e comprese. Era una storia a cui bisognava dare un finale: a cui lei doveva dare un finale. La sua bambina, la frugoletta minuscola e indifesa fra le sue braccia, la piccola con le trecce bionde che giocava con i puzzle del suo tutore. Grande, ormai.
-Veniamo con te.- disse, con una voce incrinata che non ammetteva repliche. La ragazza annuì, ma la sua espressione non si ammorbidì.
Gli occhi di Gevanni caddero sulla bambina seduta lì dietro, al computer. Avvertì la bocca inaridirsi, mentre lei rispondeva al suo sguardo con apatia imperturbabile.
-E'... è lei?- domandò con voce esitante. Harmony ridacchiò fra sè.
-Ahah... sensi di colpa.-
Marion le lanciò un'occhiata bieca. -Tu datti una mossa, Sirenetta.- L'appena citato soprannome veniva attribuito a Harmony solo quando qualcuno si innervosiva nei suoi confronti, ed era riferito alla bella chioma fiammeggiante di cui andava tanto fiera.
Anche Lidner vide la piccola. La osservò circospetta, dubbiosa, un po' incerta, quasi non sapesse come comportarsi con lei e provasse una sorta di timore cauto.
-Forse conviene che venga con noi.- commentò infine, distogliendo in fretta lo sguardo da lei. -Potrebbe rivelarsi ancora utile.-
-Vero. Marion?- Craig si voltò verso la bionda, arrossendo ancora per ciò che era successo poco prima, sapendo che spettava a lei l'ultima parola.
Marion aveva notato l'atteggiamento dei due agenti verso la figlia di Near, non le erano sfuggite quelle occhiate colme di disagio e nervosismo.
-Fate decidere a lei.- concluse, con voce aggressiva e tagliente, quasi per ribadire il fatto che lei era una persona e poteva benissimo scegliere cos'era meglio per sè.
Tutti si voltarono verso di lei. La bambina invece non guardava nessuno mentre si alzò e, con passi leggeri, affiancò Craig. Ormai, per lei, corrispondeva ad una figura affidabile e familiare.
E, dopo aver svolto gli ultimi brevi frettolosi preparativi, quella strana comitiva prese l'elicottero e partì.

Craig non era un codardo.
Nella sua famiglia, non si conosceva il reale significato della parola vigliaccheria: tante volte, nel periodo ombroso e confuso della sua infanzia, due bambini dalle chiome rosse e scompigliate avevano chiesto a Linda di raccontare la storia di Mail Jeevas. E lei, una stanchezza sfocata ad offuscare il bagliore vivido dei suoi occhi celesti, mormorava con voce pallida e sfibrata le sue emozionanti e pericolose avventure -era stato lui stesso a narrargliele, molti anni prima, giocherellando con i suoi capelli biondi e fumando sigarette dal sapore aspro; Linda non sapeva quali fossero vere e quante semplici favole per incantarla, ma le riferiva senza imprecisioni, paziente e forte. Già, forte, Linda, forte nonostante avesse visto il sangue del padre dei suoi figli imbrattare l'asfalto, nonostante quei piccoli gemelli dai capelli scarlatti li avesse cresciuti da sola. E il finale della storia, sempre, inesorabilmente, era quello in cui l'eroe si sacrificava per aiutare il suo migliore amico. Ma i suoi figli non piangevano mai. Erano felici, loro, di avere avuto un papà così coraggioso, proprio come quelli dei film. Quando ormai erano cresciuti e riuscivano a rendersi conto della loro perdita, non erano più capaci di trovare spregevole quella morte solitaria.
Craig aveva sempre stimato suo padre e sperava di poter fare qualcosa di simile anche lui, di rendere onore alla sua memoria salvando a sua volta coloro che amava . Ed ora quel desiderio sembrava essersi avverato.
Pareggiare i conti con Kira... l'idea a volte sembrava esaltante ed altre spaventosa. Ma in quel momento particolarmente spaventosa. Non era così impavido da rimanere indifferente, davanti alla prospettiva di morire, ma chi lo sarebbe stato? L'idea che a lui, o alle persone a cui voleva bene, venisse fatto del male era inconcepibile e atroce.
Smise di agitarsi nervosamente sul sedile di stoffa grigia e volse lo sguardo dietro di sè: Harmony, la testa reclinata contro il petto, era scivolata in un sonno inquieto. La chioma fiammante era drappeggiata sulle spalle ed adagiata contro le setole dello scomodo cuscino; la sua fronte si corrugava febbrilmente, come incalzata da un incubo. Craig sorrise, quasi inconsapevolmente.
Il desiderio disperato, la necessità strenua di proteggere sua sorella era come un affondo di spada nel suo petto, un dolore tormentoso a cercare un sollievo irraggiungibile. A volte provava l'orrenda sensazione che le sue braccia fossero troppo deboli per stringerla e sottrarla ai pericoli, che ricadessero come oggetti inservibili lungo i suoi fianchi. Aveva bisogno di saperla al sicuro, aveva bisogno di quella sola certezza, che in mezzo al delirio Harmony sarebbe stata bene. Ma era chiedere troppo, e benchè ragazza era forte, forse più di lui. Non poteva imporre alcuna autorità su di lei, nè pretendere che rimanesse in disparte. Tanto non l'avrebbe fatto. Era sicuro che, se le fosse capitato qualcosa, sarebbe stata una parte di lui a morire. Immaginare la vita senza Harmony significava spogliarla, mozzarla a metà, districare i fili che la tessevano e lasciare solo un ammasso di confusione incolore.
Poi si girò dall'altra parte. Sul sedile opposto sedeva la bambina senza nome, che fissava con occhi imperturbabilmente assorti il cielo vorticoso oltre il piccolo oblò tondo. Sul vetro era ombreggiato uno sbiadito riflesso delle sue iridi d'ebano, e la sua espressione era gesso inafferrabile. Un vero mistero, come lo era stato Near prima di lei, d'altronde. Craig si chiese quanta della sua freddezza fosse dovuta alla sua indole e quanta alla sua vita probabilmente terribile nel laboratorio genetico, e se fosse stato possibile sciogliere lo strato di brina che la isolava dal resto del mondo. Provava una strana e piuttosto irragionevole responsabilità nei suoi confronti. Forse perchè era stato lui ad andarla a prendere in America, a rivolgerle per primo la parola. In ogni caso, gli sarebbe sembrato assurdo che una bambina così piccola fosse costretta a versare il suo sangue innocente in quella guerra folle, combattuta a causa di folli.
Scostò gli occhi da lei e, con un sospiro spezzato, lo riconcentrò verso lo schermo del computer sulle sue ginocchia. Respirò a fondo, ma l'odore asprigno del sangue sul palato non lo abbandonò, come uno spettro nefasto a girargli intorno. La sua espressione rimaneva accigliata, mentre i minuti scorrevano lenti e faticosi con beffarda freddezza.
Quasi non sentì i passi irrequieti contro il pavimento rivestito di moquette lisa e scura.
-Hai trovato qualcosa?- Una voce lo fece sobbalzare, vibrando vicina al suo orecchio. Una voce vigorosa e fresca che conosceva bene.
Sorrise a Marion. -Niente di che. Soltanto, ho scoperto che lo Yellow Box è stato trasformato pochi anni fa in un palazzo, con l'intenzione di farlo divenire un grande centro commerciale. Poi però il progetto è stato abbandonato, così al momento rimangono solo grandi locali vuoti, in attesa che l'intero edificio venga smantellato o ristrutturato. Ma ci vogliono tanti soldi.-
La ragazza annuì distrattamente, poi lo guardò negli occhi con intensità. -Dovresti spegnere questo affare e riposarti un po', prima dell'atterraggio.-
-Troppi pensieri per la testa.- Abbozzò un mezzo sorriso, appena un po' nostalgico.
Marion battè le palpebre, le iridi verde perla luminose di un polveroso senso di colpa, e abbassò lo sguardo verso il bracciolo del sedile.
-Ti capisco. Mi sembra... beh, mi sembra quasi di essere stata io a trascinarvi in questo casino, di non avere agito pensando al vostro bene ma solo alla mia vendetta... e se dovesse capitare il peggio, non so come farei a sopportare questo pensiero.- Scosse la testa, affranta.
Craig impresse con forza gli occhi castani in quelli di lei, finchè non li incontrò. -Scherzi, vero? Ascoltami: siamo grandi abbastanza da rispondere delle nostre azioni e delle nostre scelte, quindi tu non c'entri un cavolo. La colpa è solo nostra, se ci succede qualcosa. E credi forse che noi non agiamo in parte per vendetta?! Abbiamo sopportato ma non dimenticato, Marion.-
La ragazza lo fissò per un po'. -Deve andare tutto bene. Deve. Abbiamo una sola possibilità di successo, una sola occasione. O si vive o si muore. Voglio farla pagare a Kira più di qualsiasi altra cosa, ma mi capita di voltarmi indietro, vedere voi... ho già perso Near. Non sto facendo tutto questo per piangere altre morti.-
Era vero, e tacquero entrambi sotto il peso gravoso di quelle parole. Craig la osservò con la coda dell'occhio, cauto, cercando di non farsi cogliere in flagrante: Marion aveva raccolto i capelli in una lunga coda, che ricadeva come un fascio di grano spiegazzato contro la sua spalla. Il loro colore era sempre stato strano: un oro pallido rilucente però di una certa adamantina trasparenza, come vetro dorato, una stella fredda sotto la luce. Probabilmente era dovuto alle origini tedesche di suo padre. Aveva le guance sbiancate dalla preoccupazione e il suo labbro inferiore era arrossato per i troppi morsi. Anche le ombre bluastre pennellate sotto le palpebre erano scavate dal tormento. Però la scintilla metallica e inflessibile conficcata nei suoi occhi persisteva, con una tenacia immortale, quella che si era accesa nel vedere il corpo senza vita di Near e non si sarebbe spenta finchè il suo assassino non avesse fatto la stessa fine. Era la sua forza inarrestabile ciò che la rendeva così speciale agli occhi di Craig, quella ruvida durezza che sapeva essere arma e scudo secondo le circostanze, quell'atteggiamento di costante ed insfaldabile sfida nei confronti della vita, nonostante le terribili batoste che si erano abbattute su di lei. Marion marciava di notte sotto la tempesta da tempo, ma proseguiva senza lasciarsi sopraffare, barcollava senza cadere.
Marion, soffocata dai suoi pensieri insistenti e impetuosi, si lasciò scivolare sul sedile accanto al suo. Il suo sguardo vorticava sul sedile di fronte a lei senza cercare niente nè trovare nulla.
Craig avvertì un nodo di parole non dette strattonare impaziente nella sua gola. Si rese conto che era il momento di liberarsene.
-Senti, Marion, io... sono cresciuto con te, e non avrei mai potuto immaginare...- Sospirò, ridacchiando del suo stesso imbarazzo. -Credevo che tu fossi la mia migliore amica, ma... non è affatto così. Sei molto più importante di quando finora non abbia mai ammesso con me stesso.-
La ragazza lo fissò sgranando appena le iridi, interdetta, quasi tentando di metabolizzare il significato delle sue parole. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma si bloccò e le strinse lentamente.
-Insomma, adesso sono qui come un idiota a cercare le parole giuste per dirti che sono innamorato di te, e non ci riesco nemmeno troppo bene.- concluse Craig, tutto d'un fiato, e la sua voce si affievoliva man mano che la frase scorreva.
Sul viso di Marion prese forma un sorriso pieno e sincero, inaspettatamente dolce. Inaspettatamente morbido sul suo viso accigliato.
-Beh, e che cosa aspettavi per dirmelo? Che morissimo?-
Con un movimento un po' troppo svelto per i sensi annebbiati di Craig, si allungò verso il suo viso e lo baciò sulle labbra, un bacio lento e lungo che la bambina sul sedile opposto pudicamente non osservò. E intanto Harmony russava poco beatamente dietro di loro, ignara di ciò che stava succedendo ad un sedile da lei.

L infilò i pollici nelle tasche del largo poncho in lana multicolore. Già, di solito un poncho non ha le tasche, ma Travis l'aveva fatto confezionare apposta, su misura per lei: un regalo pensato, un gesto gentile e caloroso, colmo di quel sentimento che la pelle di L non conosceva più. Disperatamente innamorato di lei, Travis. Sospirò e fissò l'asfalto bagnato del marciapiede, strofinando la punta della scarpa contro quella pietra sgretolata e intaccata e consumata dai troppi passi, con accigliata assorta distrazione. Se avesse potuto evitargli tutta quella sofferenza gettata in un pozzo senza soluzione, l'avrebbe fatto. Gli aveva sempre voluto bene, ma mai come lui sperava. Non c'era futuro per lei e un uomo: L sapeva qual'era il suo destino e taceva una rassegnazione disarmata senza protestare. E poi, nonostante non avesse mai imparato ad interpretare i suoi sentimenti e ad interessarsene, poteva affermare con una certa sicurezza di non essere innamorata di lui. Ad essere sinceri, nè lei nè suo padre avevano mai capito bene cosa l'amore fosse.
Era un pomeriggio uggioso, grigio ed umido di un'apatia consueta. Il cielo, una cappa inquinata e fetida come acqua sporca, ammantava le strade incombendo sulla città con insoffribile pesantezza, gravando in nubi stanche e sporche di quella pioggia che non avrebbero liberato, non oggi. Le macchine, di colori opachi e spenti, attraversavano la strada di fronte a lei con misurata velocità, nè lente nè rapide ma con prevedibile tempismo, e i semafori lampeggiavano avvertimenti stinti. L'unico negozio all'angolo, un antiquariato buio, era vuoto. Il silenzio imperfetto che regnava sapeva di consuetudine già vissuta incapace di stupire.
L giocherellò con le frange del suo poncho, con le nappe che vi penzolavano senz'arte. La zona attorno allo Yellow Box non era più disabitata come un tempo -in quindici anni cambiano un sacco di cose, gli abitanti di Yokohama avevano deciso di sfruttare quel terreno per costruire fabbriche ed istituire quartieri periferici, ma non era nemmeno il fulcro dell'attività. La ragazza si guardava intorno senza interesse, e nulla tratteneva il suo sguardo per più di tre secondi di orologio. Era giunta lì in treno (la stazione sorgeva a pochi isolati dal luogo d'incontro prestabilito) e ci aveva messo all'incirca tre ore, passate a rimuginare sulla politica e sfogliare vecchi manuali di cucina su come cucinare il tacchino -informazioni che acquisì senza esserne particolarmente interessata, ma il portariviste nello scompartimento era quello che era. Si era anche chiesta a che ora sarebbero arrivati Marion & Co: non metterli al corrente della sua partenza era stata semplicemente una cortese dimostrazione di tenere alle loro vite, e perchè no? magari una specie di test. Sapeva benissimo che avrebbero risolto l'enigma dell'indirizzo e l'avrebbero raggiunta al più presto per aiutarla. Anzi, era tutto previsto nel suo piano.
Così adesso era lì. La porta dell'edificio che un tempo fu lo Yellow Box era chiusa con diversi catenacci, che avevano sferragliato mugghiando infastiditi appena lei aveva tentato di bussare; affacciata al marciapiede, attendeva qualcosa.
Stava giusto pensando che aveva intenzione di comprare quel bel frigorifero a forma di cabina telefonica rossa londinese che aveva visto su un catalogo, quando avvertì una mano minuta e forte artigliarle la spalla con delicatezza. L non distolse lo sguardo fisso in alto, verso il cielo plumbeo.
-Buon pomeriggio, Rowena. E' un po' che non ci vediamo.- esordì a voce bassa, colloquiale e un po' distratta. La sua disinvoltura non era artificiosa, la spalla sotto la pressione delle dita era ferma e salda. La paura che aveva provato a tredici anni di fronte alla ragazza dagli occhi rossi era scemata gradualmente, fino ad esaurirsi in mera sprezzante compassione. Esisteva al mondo molto peggio della sua spasmodica insanabile pazzia e di un ragazzetto vanaglorioso dalle distruttive manie di grandezza, lei non stava certo combattendo i veri mostri annidati nell'universo ma soltanto due spostati arroganti e violenti. Avere paura era sciocco e controproducente, e comunque in quel momento non sarebbe servito a nulla.
-L.- La voce di Rowena era un sibilo euforico, che vibrò intenso nelle sue orecchie come una scarica elettrica. Dopo qualche secondo gravido di trepidante impazienza, la voltò stringendole le braccia con uno scatto fulmineo. Rowena aggrottò le sopracciglia, contrariata. Al suo sguardo ombroso di disappunto si presentava una maschera immacolata e liscia, che copriva interamente il volto di L. Solo gli occhi bicolori ammiccavano sarcastici verso di lei, e irregolari ciuffi di capelli celesti ricadevano sulle sue spalle coperte dal poncho.
Ma la ragazza si ricompose subito, la delusione nel vedere quel viso di nuovo nascosto parve dissolversi e si affrettò a sogghignare, battendo le ciglia con troppo vigore.
-L, L... che gioia vederti, finalmente. Tu sei come l'aria, L: sei ovunque ma da nessuna parte, ti cerco e mi scappi sempre, anche se sei proprio lì, intorno a me... poi allungo le mani e non riesco mai ad afferrarti.-
L la esaminò con un'occhiata fredda, quasi ammonitrice. Non era cambiata per nulla, in tutti quegli anni, sembrava la stessa tredicenne che l'aveva aggredita come un animale nella sua casa a Damasco. Il suo viso non era maturato, non dimostrava affatto la sua età, e gli occhi di sangue scuro sarebbero sempre stati oltre ogni classificazione.
-Vogliamo procedere? Siamo qui per uno scambio, se non erro.- dichiarò spazientita. Gli inutili, gingillanti preamboli di cui abusava in continuo per divagare scioccamente la esasperavano.
Lo sguardo rossastro di Rowena si ravvivò, come braci che riprendono ad ardere sotto la cenere. -Niente scambio, cara L. Ti ho ingannata... hihihi! Ti ho ingannata, sciocchina di una L. Ovvio che non ti do lui! Lui è mio, L! Lui è mio... E tu mi hai creduta e adesso sei qui!-
La sua risata era acuta, trillante, stridula in maniera improbabilmente irritante e il suo divertimento era incomprensibile ma sincero; strillando quelle parole, invasa da uno spasmo di entusiasmo quasi isterico, saltellò sul posto e battè le mani bianche e sottili. Con un gesto subitaneo a cui era impossibile sottrarsi le strinse il polso e la attirò nel buio dietro la porta, socchiusa poco prima senza che L se ne accorgesse.
Intanto Law aspettava paziente, e all'elicottero diretto a Yokohama mancavano solo venti minuti per giungere a destinazione.







































Note dell'Autrice: Mamma mia che ritardo! ^-^" Ah, mi vergogno immensamente. Ma che dire, il mio tempo è davvero ridotto ai minimi storici!
Ho cercato di curare il capitolo il più possibile, anche perchè ci stiamo inesorabilmente avvicinando alla fine. Manca poco allo scontro finale: che cosa succederà, che parte avranno i diversi personaggi? E inoltre ci sarà il primo incontro tra Law e Marion...
... = guai. XD
Scusate se non ho nemmeno risposto alle vostre recensioni, sono davvero un'ingrata! Giuro che non succederà più! Mi inchino al vostro giudizio,
Lucy

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Capitolo 19
*** Azzardo. ***


19

Azzardo.

Kyoto, 21 Maggio 2025.

Quando Marion entrò, Near era inginocchiato sulle piastrelle azzurrate ed era voltato verso la grande vetrata che permetteva uno spettacolare panorama dell'intera città. Le luci delle strade lampeggiavano multicolori contro l'asfalto buio e bagnato, la folla sciamava lenta ed inesorabile e dall'alto tutti sembravano nessuno. Da quella distanza, le macchine erano solo giocattoli inghiottiti dai palazzi. Sovrastando quelle case di bambole il cielo pulsava violento, gonfio, di una notte fredda che s'insinuava nelle ossa dei passanti e le infiammava di ghiaccio: era Maggio e la temperatura era a picco. Nonostante ciò, la pioggia indugiava cedendo la scena ad un vento che frustava le strade e rapiva il calore dai letti.
Marion non sapeva cosa il suo tutore stesse guardando, e non le importava nemmeno molto. Era accigliata e combatteva contro un brontolìo annidato nel petto.
-Sono arrivati da Sidney i dati sui decessi dei criminali che hai chiesto Martedì.- La sua voce era racchiusa in una sdegnosa freddezza.
Near non si girò a guardarla. -Puoi lasciarli sulla scrivania. Grazie.-
Quella risposta aveva un tono così definitivo -come un "bene, adesso vattene, ciao"- che Marion non riuscì a trattenere l'esasperata indignazione.
-Eviti l'argomento, per caso?- sbottò, la voce di colpo ruvida ed ostile.
Un indifferente silenzio di pochi secondi. -Non so di che argomento stai parlando.-
-Ma insomma!- La ragazza cacciò un sospiro breve, come se esalasse il soffio della sua ultima dose di pazienza. -Perchè non posso avere il dannato motorino? Qualsiasi ragazza di quindici anni può guidarne uno! Cosa vuoi che sia?! Mica è un arnese di tortura! E poi-
-Questo non è un argomento,- La voce di Near gocciolò fra le sue parole come acido, sgretolandole, -bensì un argomento chiuso, perchè ne abbiamo già parlato.-
Marion fremette e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi con brusca stizza. -Non ti fidi di me, non è così? Credi che mi farei tirare sotto la prima volta che ci salgo, vero?!-
-Non si tratta di non avere fiducia in te, ma negli automobilisti.- la corresse il tutore, apatico. La reazione esuberante della ragazza non ne provocava alcuna in lui. -Ci sono fin troppi ubriachi al volante e stolti che parlano al telefono mentre guidano. Kyoto è una città trafficata, Marion, e tu la conosci decisamente poco. Perciò la mia risposta non cambia.-
-Se non conosco Kyoto, non è certo per colpa mia.- ribattè Marion aspramente. -Non sono io ad impedirmi di uscire di casa.-
-Ciò è irrilevante.-
-No invece! Irrilevante un corno! Tutte le ragazze del mondo escono e hanno il motorino. Indovina chi è l'unica che non può?!-
-A me non interessa che cosa ritengono meglio per i loro figli gli altri genitori. Io sono il tuo tutore e mi è stato chiesto di impedire che tu ti possa trovare in situazioni potenzialmente pericolose, di controllarti e prendere tutti i provvedimenti necessari affinchè tu sia sempre al sicuro. Il motorino mi sembra una scelta poco consona a ciò che ho appena elencato.-
Il silenzio che scivolò tra loro tremava.
-Non si tratta del motorino, vero?- La sagoma di Near, pallida ed immobile, era ritagliata contro il vetro. Sembrava un'ombra.
Marion si arrese al suo intuito e chinò la testa contro il petto. -Sono stanca di essere quella strana, Near. Voglio un po' di normalità.-
Ora, nel suo tono prima burrascoso, rimaneva solo l'amarezza sfinita di una supplica. Nei suoi occhi verdi era calato il buio.
Near tacque. Sulle sue spalle ciò che opprimeva Marion non era mai stato un peso. Il suo sguardo disarmato era una visione a cui aveva imparato a cedere.
-Facciamo tutti parte della stessa trappola, Marion, siamo pedine dello stesso gioco. Se potessi fare qualcosa per cambiare le cose, lo farei. Mi credi?-
Si era voltato e la guardava. Era incredibilmente serio e nel suo sguardo c'era qualcosa di indefinibile e gravoso, qualcosa di tetro e copioso come malinconia raggrumata. La ragazza lo osservò ed avvertì uno spasmo d'amore doloroso per quel Near che rimaneva sempre lo stesso, piccolo e bianco e serio, e la sua espressione di candore infrangibile era la sua più preziosa e solida certezza. Lui non prendeva nessuna decisione solo per farle un dispetto: quei gesti che a lei sembravano sempre privazioni ingiuste erano il suo modo di amarla, in silenzio, perchè Near era fatto così. Niente parole sdolcinate, niente abbracci e baci. 
-Sì. Scusa.- Gli sorrise debolmente e arrossì, pensando alla brutta sceneggiata di poco prima.
-Non fa niente. Sei nata sotto una cattiva stella, purtroppo, nel bel mezzo di questa scacchiera. Ma nè io nè tuo padre lo abbiamo chiesto.- Near fece vagare lo sguardo fra le piastrelle. Per la prima volta sembrò nostalgia il marchio infuocato che lasciò un'impronta, un'ustione suoi occhi infrangibili, dov'era impossibile curarla. 
Marion lo costrinse ad incontrare il suo sguardo, interdetta. Non era solito del suo tutore, reagire così. -Mio padre, dici... e...-
Curiosa ma frenata dalla consueta cautela, s'interruppe incapace di proseguire. Non sapeva cosa chiedere, ma le sarebbe piaciuto sentire cosa Near pensava di suo padre, cosa aveva da dirle riguardo a lui.
Near non rispose, impassibile. Le sue iridi languivano in anni perduti, prigioni di ricordi che sbeffeggiavano la sua storia finita nel sangue.
-A volte mi sembra di sentirlo, quando parli. Sotto certi aspetti, siete sorprendentemente simili. Ahimè, hai ereditato anche i suoi difetti, che puntualmente ho insistito a combattere in questi anni, nel tentativo di correggerli.-
Marion pensò a ciò che il tutore le rimproverava sempre: la caparbietà irremovibile, la pericolosa impulsività, la mancanza di lucidità in determinate situazioni. Ma non riuscì in alcun modo ad immaginare che tipo di persona potesse essere stato Mihael Keehl.
-E ci sei riuscito?- osò insinuare. Near fece una smorfia amara e storta, che Marion sapeva decifrare come una specie di grottesco sorrisino.
-No, Marion, non ci sono riuscito. Se c'è qualcosa che la vita ha potuto insegnarmi è che le persone non cambiano mai. Ma forse è stato meglio così.-
La ragazza sorrise, cogliendo la tenerezza occultata abilmente in quelle parole. -Forse. Beh, io scendo a cenare, Lidner si starà chiedendo dove sono finita.-
Near annuì, distraendosi. Con movimenti lenti e contenuti, iniziò ad estrarre da una capiente scatola di cartone pezzi di modellino ed a posizionarli sul pavimento, seguendo chissà che ordine dettato dalla sua mente insondabile. Non disse niente.
-Mi raccomando, ricordati anche che devi mangiare, oltre che stare dietro ai tuoi giocattoli.- aggiunse Marion, stuzzicandolo un po' malignamente. -Non stare qui da solo fino a mezzanotte.-
-Oh, ma non sono affatto solo.- Near proseguiva nell'allineare i suoi pezzi. -Ci sono fin troppi fantasmi con me.-
Marion alzò gli occhi al soffitto. A volte, con i suoi discorsi enigmatici, la esasperava. -Tu non andare a dormire tardi lo stesso, va bene? Buonanotte.-
Lui annuì con la testa, quasi fra sè. Non distolse l'attenzione dal suo lavoro. -Buonanotte, Marion.-
La ragazza compose il codice della porta ed uscì. Quelle furono le ultime parole che si scambiarono.
Il  modellino che Near stava componendo era un aereo. Non l'avrebbe più rivisto vivo.

Yokohama, 21 Giugno 2025.

La rampa di scale si inerpicava nell'oscurità densa di muffa e abbandono, rafferma nell'aria, fino a dove i suoi occhi non erano capaci di vedere. I gradini sbeccati, non ancora rifiniti, erano infide trappole sui quali era troppo semplice scivolare, soprattutto a causa di quel buio rancido e freddo. L doveva fare molta attenzione a dove metteva i piedi.
Rowena però strattonava con brusco, assorto entusiasmo il suo braccio, costringendola ad arrampicarsi su tre gradini alla volta. Ogni tanto farfugliava qualcosa fra le labbra, parole che le sfuggivano quasi dall'inebriante eccitazione; altre volte canticchiava strane cantilene su pastorelle dai riccioli biondi e agnelli morti. Ad un tratto, con un gesto imperioso, si fermò salda su un gradino e la attirò vicino a sè: così vicino che L, da quella distanza così insulsa, riusciva a percepire il profumo stucchevole di marmellata del suo respiro e poteva osservare i suoi occhi sgranati e tutte le pagliuzze dalle loro preziose tonalità, come sfaccettature di un rubino scuro. La ragazza sorrise sfrontata, le labbra a incurvarsi di maliziosa freddezza, le guance pallide di alabastro, e la fissò con una sorta di selvaggia esaltazione; L ebbe l'assurda e fugace impressione che l'avrebbe baciata. Invece Rowena parlò, con voce sottile e confidenziale.
-Da quando mi fa male il braccio, ho sempre voluto che tu venissi ancora a trovarmi. Per finire... Vorrei subito mettermi a giocare con te, ma lui dice di no, dice che prima vuole discutere.- Arricciò il naso, come se quella notizia avesse un cattivo sapore. -Quindi prima si discute e poi si gioca. Lui ha detto così.-
L sorrise a sua volta, con sarcasmo. -Da quando ti fai dare ordini, Rowena?-
La ragazza battè le palpebre, contrariata, lanciandole un'ultima, indignata occhiata prima di riprendere a saltellare sulle scale e trascinarla dietro di sè.
-Oh! Non vedo l'ora che tu muoia, L.-
E forse per la prima volta la detective riconobbe nella sua voce una spiazzante e razionale lucidità, ad inquinare il vigore della sua follia.
Ma l'impressione si diradò presto e Rowena prese a canterellare di nuovo la sua nenia sulle pecore smembrate nel prato.

-Mi sa che stiamo facendo una stronzata.-
Gevanni sospirò. La pioggia iniziò a scendere cautamente, gocce grigie e pesanti nell'aria umida che formavano rivoli scuri ai margini della strada e ruscellavano gorgogliando nelle grate rugginose dei tombini. Pioveva ormai da dieci minuti, ma nessuno aprì un ombrello.
Lidner, ciocche bionde incollate alle guance dall'acqua, gli rivolse una distratta occhiata inquieta. Le ciglia erano graziosamente imperlate, e sembravano ancora più lunghe di quanto non fossero. Le labbra erano piegate in una smorfia di vago scontento.
-E' esattamente la stessa cosa che mi dicesti quindici anni fa.- L'affermazione voleva essere ironica, ma la sua voce aveva un sapore amaro. Gevanni scosse la testa, scrollando le ciocche corvine che grondavano gocce sgradevoli lungo la nuca. Le sue viscere non smettevano di torcersi, come sottomesse ad un supplizio senza sollievo.
-Adesso è diverso, e lo sai benissimo. Ci sono Tennyson e Marion... Avremmo dovuto impedirglielo.- La sua voce si gonfiò di una ruvidezza inutile, che morì non appena le parole vennero pronunciate. Era irritato contro sè stesso, contro Kira, contro quei ragazzi che volevano sempre fare di testa loro e atteggiarsi da eroi, e alle loro vite non pensavano nemmeno. Ma non lo sapevano, loro, cos'era la morte. Che odore avevano i cadaveri squarciati per terra, come schizza il sangue dopo un colpo d'arma da fuoco. Non li avevano mai visti, gli occhi di un morto.
Se avessero conosciuto tutto questo non si sarebbero imbarcati in simili avventure.
Lidner soffiò un respiro saturo di un'esasperazione digerita a fatica. -Non sono bambini, Stephen. Non possiamo continuare così... con questo atteggiamento. Con quest'idea che sono troppo piccoli e hanno bisogno di protezione non potranno mai fare scelte autonome. E se loro hanno deciso di affrontare Kira...-
-... scelte autonome?! Questa specie di missione suicida ti sembra una scelta autonoma, adulta?! Responsabile?!- Si rese conto di stare alzando troppo la voce.
Lei strinse gli occhi, la pioggia a picchiettarle sulle spalle e scivolarle sulla fronte. -Adesso non esagerare. Ci siamo noi qui con loro.-
-Loro non sanno a cosa stanno andando incontro, Halle! Non ne hanno idea! Per loro è tutto... tutto un gioco!-
La donna penetrò gli occhi con i suoi, in cui era imprigionata una furia contenuta. -Non lo dire. Questo non lo puoi dire.-
Marion era a capo del gruppo, avanzava oltre a tutti con ampie falcate. La sua espressione era aggrottata di decisione ed agitazione insieme, che si contendevano la sua mente ormai da ore.
I suoi occhi verdi e nebulosi dai troppi pensieri assillanti, distrazioni costanti verso la realtà, perlustravano la via con metodica e scrupolosa fretta, annotando tutto ciò che era importante e distogliendo lo sguardo dalle realizzazioni irrilevanti. Cercò con impaziente impeto la targhetta con i numeri sulle facciate degli edifici, scoprendo in continuo con disappunto che era quello sbagliato. La sua testa sapeva recitare solo una cifra in quel momento. Sette, sette, sette, sette, sette, sette. Si sentiva soffocare dai troppi respiri trattenuti nel petto, che si ammassavano nella cassa toracica in un unico blocco ad opprimerla alla bocca dello stomaco. Non si era mai sentita così esaltata, carica, mai vittima di un'euforia così adrenalinica e spaventosa. E, allo stesso tempo, la sua mente era fragile come carta velina. Lo interpretò come un cattivo segno: glie l'aveva sempre detto, Near, che la forza non sta nel corpo. Non deve stare nel corpo, per la buona riuscita dell'operazione. La cosa più importante è la calma e la lucidità, che permette di ragionare e calcolare. E Marion non credeva di riuscire a fare nemmeno due più due, in quel momento.
L'idea che Kira fosse così terribilmente vicino non le ispirava che un impeto feroce e assordante, mentre la sua mano scattava a stringere la pistola infilata nella cintura; non poteva fallire, non poteva fallire, non poteva fallire, non più. Tutti quei giorni consumati in sudore e lacrime convergevano a quello stesso momento. Non avrebbe avuto una seconda opportunità.
Vietato sbagliare, dunque; e nella ferrea rigorosità di quella constatazione, di quell'editto riusciva a scorgere gli occhi senza fondo nè orlo di Near che la fissavano con penetrante inesorabile severità, negli squarci perduti della sua memoria ferita. L'esito di quella saga sanguinosa doveva essere scritto dal suo pugno.
Alle sue spalle, Hermony e Craig scherzavano a bassa voce, mormorando risolini che resentavano l'isteria. Craig le bisbigliò qualcosa accostandosi al suo orecchio e la sorella sorrise forte, abbandonando la testa ciondolante contro la sua spalla. La tensione fremette senza sciogliersi.
Marion svoltò ad un edificio e arrestò la sua marcia a passo di carica, mentre un'ombra di confusione le percorreva il viso, prendendo momentaneamente il sopravvento sul resto delle emozioni.
Lo sbigottimento si fece strada nei suoi occhi, squarciando le sue riflessioni in un luccichìo di sgarbato cauto sospetto.
-Che succede? Guai in vista?- Craig si fermò, osservandola con sguardo interrogativo. Harmony non sollevò la testa dalla sua spalla, sorniona, quasi si trattasse di uno sforzo eccessivo. Oppure come se credesse di non poterlo fare mai più.
Marion contemplò ciò che aveva destato il suo interesse. -Polizia.- spiegò laconica.
-Polizia?- Lidner la raggiunse, ansiosa. -Impossibile, come hanno fatto a...?-
Gevanni, al suo fianco, battè le palpebre. -Siete sicure che siano poliziotti? Cosa ve lo fa pensare?-
-Quell'uomo con i capelli neri,- replicò Marion serrando gli occhi, -è Tota Matsuda. Il marito di Sayu Yagami. E' in incognito.-
Infatti Matsuda, con indosso una semplice giacca e anonimi jeans, camminava di qua e di là misurando con passi affrettati il marciapiede. Vicino a lui stavano altri quattro uomini dallo sguardo indagatore, come in attesa di una qualche calamità. 
-Vediamo se è come credo.- Marion, dopo aver mormorato questo ai suoi compagni, fece dei vigorosi passi avanti. -Ehi, lei!-
Matsuda sollevò lo sguardo tormentato e la guardò, senza che alcun barlume di riconoscimento si accendesse nei suoi occhi. Sarebbe stato strano il contrario, in effetti.
-Buongiorno, posso aiutarla?- rispose infatti, distrattamente.
Marion conficcò i suoi occhi verdi ed aguzzi in quelli del poliziotto, decisa ad evitare i preamboli. -E' stato L a dirvi di venire qui, vero? A lei ed ai suoi colleghi.-
L'uomo sussultò appena, sconcertato, aggrottando il volto e cercando di riconoscerla. -Ma... ma tu come fai a...-
-Forse è meglio che mi presenti.- Esibì un sorriso storto, agitato, come un ramo autunnale. -Mi chiamo Marion e sono... la figlia adottiva di Near.-
Matsuda ci mise parecchi secondi ad elaborare quelle parole. -Figlia... adottiva? Oh, giusto, i tuoi amici mi hanno parlato di te. Eccoli là! -
-Sì, ma non abbiamo tempo. Le spiegazioni dopo. Le ho fatto una domanda.- gli rammentò impaziente, ticchettando il piede a terra.
-E' stata L a contattarmi.- ammise il poliziotto, perplesso, passandosi una mano fra i capelli. -Dopo che i tuoi amici sono venuti a... raccontarci la verità, mi hanno anche dato un numero per tenermi in contatto con L, nel caso che La... Kira si facesse vivo da noi, ecco. Poi oggi mi è arrivata una chiamata da parte di L, appunto, e mi ha detto di recarmi a questo indirizzo con quattro degli uomini di cui mi fido di più. Però mi ha detto anche di non fare irruzione per nessun motivo, ma anzi di arrivare in borghese e non attirare l'attenzione in nessun modo. E quando le ho chiesto quando saremmo dovuti entrare allora, ha risposto qualcosa di evasivo e confuso... ehi, credo che voi siate il nostro segnale!-
Marion ascoltò attentamente, concentrata. -Capisco. Beh, L è lì dentro da sola, quindi direi di non indugiare oltre.-
Sollevò lo sguardo alla facciata dell'edificio diroccato e grigiastro di fronte a lei, dalle finestre sbarrate con delle assi, mentre la pioggia si insinuava negli occhi e sulle labbra strette in una smorfia nervosa.
Numero sette.

Rowena, con un ultimo violento strattone, la assestò su un pianerottolo che gracidava acuto sotto i loro piedi. Il buio, oltre una scheletrica ringhiera di lamiera affilata, stagnava imperturbabile e le soffiava sul viso ventate tiepide di polvere spessa come sabbia. Il profilo delle travi, rose dalle tarme, affiorava dallo spesso manto di caligine ruvida e sporca. Crepe nere e disordinate come serpenti si aggrovigliavano sulle pareti annerite e incrinate, offuscate nel buio e del tutto indistinguibili.
L rigirò gli occhi nelle tenebre intessute di stoffa opaca, invano. La pelle di Rowena riusciva ad intravedersi ugualmente, così come l'oscurità dei suoi occhi aveva un'essenza più liquida ed umida della cappa polverosa alle sue spalle. Un baluginare di denti candidi e triangolari in un sorriso acuminato.
-Prega e sorridi, cara L.- La sua voce stridette come la lama che avrebbe tanto voluto conficcarle nel petto, e L capì di essere giunta a destinazione.
La sua rapitrice saettò su se stessa e cercò con le mani una maniglia, che evidentemente trovò. Attese che la porta si aprisse ed un ventaglio di strana luce plumbea schiarì sul pavimento che mugolava sotto anni di abbandono grigio. Quel sospiro d'ombra fioca definì la stanza come avrebbe fatto un lampo e sbiancò cruda ogni dettaglio della miseria dell'edificio con la spietatezza della verità.
La porta rimase aperta e semiaccostata allo stipite scassato. L avanzò, prima che a Rowena venisse la perversa idea di strattonarla ancora.
La stanza in cui l'aspettavano rifletteva un grigio imprigionato fra quelle mura, lo stesso che il cielo sprigionava da qualche parte là fuori. Era spoglia esattamente come tutto il resto del complesso, ma il pavimento non era tappezzato da centimetri di polvere e ciò significava che qualcuno aveva dato una sbrigativa spazzata per terra. Le finestre inchiodate erano ossidate d'una crosta di sporco che nemmeno il più tenace degli spray avrebbe potuto dissolvere, e filtravano quel tempo ibrido e inquieto. Echi di umidità sgorgavano dal soffitto bucherellato come lacrime rade, prezzo fin troppo modesto di anni ed anni di disinteressato abbandono.
Non c'erano mobili alle pareti graffiate dal tempo fino alle fondamenta, ma al centro vi era un tavolo quadrato e traballante a cui nessuno si era premurato di pareggiare una delle gambe appuntite.
Un ragazzo biondo sedeva, le mani intrecciate sulla superficie di legno accidentato disseminata di chiodi. Il suo sorriso era morbido e affabile, come se stesse attendendo una vecchia amica. Era bello, ma le sue iridi feline erano un'eredità atroce e il debito che aveva con la vita ammontava a una cifra che le sue iridi ossidate di morte non riuscivano a nascondere. 
Lei rimase alla soglia, esaminandolo con sguardo indecifrabile. Le sue iridi bicolori tacevano sotto la maschera priva di espressione.
-Ciao, Kira.- mormorò infine. La sua voce suonò incredibilmente limpida e armoniosa nell'aria satura di trascuratezza e muffa. Il sorriso del ragazzo s'incurvò ancora di più, con divertita ironia, fino ad assomigliare ad un pugnale troppo vicino alla sua gola.
-Ciao, L.- I loro occhi si riflessero gli uni degli altri, in un'attrazione magnetica ed inevitabile. Le loro pupille si spansero in un unico pozzo di domande e risposte tacite. Il loro silenzio pulsava come un cuore risorto dalle sue ceneri, e l'atto che si stava svolgendo in quella stanza era tanto familiare che sembrava un ricordo.
Law fece un cenno leggero con la mano, come un abile uomo d'affari. -Siediti, prego. Parliamo.-
La sua era una voce che aveva imparato ad incantare, e suonava cesellata come una musica composta per farlo. Faceva paura, la gentilezza velenosa che gocciolava dalle sue parole misurate, e il suo atteggiamento di cortese condiscendenza appariva quasi la suadente moina di un assassino con la pistola dietro la schiena. Nei suoi occhi baluginanti di pensieri impetuosi, la sete di sangue era stata ammansita e smussata.
L fissò la sua mano, ancora sospesa in un gesto cordiale, con contegnoso disgusto. Ad attraversarle la mente fu il vago pensiero di tutto il sangue essiccato di cui si erano macchiate. Spostò di nuovo lo sguardo contro quello del ragazzo e procedette con passi decisi ma cadenzati. Il ritmo dei suoi anfibi a forma di rana verde contro il pavimento era quello dei secondi che li separavano.
Infine, quasi avesse gli arti intorpiditi, L allungò senza fretta il braccio e scostò una sedia malandata dal tavolo, prima di sedersi senza mai spezzare il contatto visivo.
La scena appariva irreale ad entrambi i protagonisti, ma qualcosa nella spregiudicatezza delle loro espressioni, nell'indicibile calma dei loro lineamenti immobili, diceva che si stavano divertendo. Dopotutto, era l'atto che il mondo stava aspettando da quindici anni.
Ancora ferma allo stipite della porta, Rowena muoveva con scatti bruscamente affrettati gli occhi dall'uno all'altra, in trepidante eccitata attesa che qualcuno parlasse, sentendosi nello stesso tempo evidentemente esclusa da ciò che si stava svolgendo in quel momento fra loro due. L'immagine effettiva di Law e L nella stessa stanza, così vicini, faccia a faccia, la sconvolgeva parecchio emotivamente: nella sua mente erano due elementi inconciliabili. Il suo sguardo era così attento e rapito, palpitante, da resentare l'avidità.
Law, dopo un interminabile gravoso minuto, volse a malavoglia lo sguardo verso di lei, che fremette e sgranò le iridi di nero rossastro.
-Rowena?- domandò con voce strascicata, appena un po' beffarda. Lei vide le parole invisibili che il ragazzo aveva lasciato sottointese e annuì con il capo, apparendo per brevi istanti una giovane perfettamente normale; ma ormai L aveva imparato, si trattava di un'illusione troppo breve per essere caricata di speranze che non avrebbe mai sostenuto. Rowena piroettò ancora su se stessa, come la prestigiatrice di un circo, e balzò fuori dalla sua visuale -dietro la porta e poi giù per le scale- in un soffio.
Law sorrise alla detective che lo fronteggiava, in maniera affilata e un po' spregevole, e quella brama di morte stilettò un tremito malcelato nei suoi occhi belli ma inquinati.
-Ti ho pensata un sacco, anche se non ti ho mai più rivista, dopo quel fugace incontro in aeroporto.- cominciò con tono confidenziale. -Oserei dire che sei stata sempre nei miei sogni.-
-O magari nei tuoi incubi.- L gli rifilò un'occhiata fredda di sarcasmo, atono quasi come la sua voce. Lui socchiuse gli occhi.
-Non lo nego, inizialmente ero... titubante all'idea di incontrarti. Però ho avuto modo di rivedere questa mia idea.-
-Rivedere.- Quello di L sembrava più un verso di scherno che semplice scettismo.
Gli occhi di Law ridevano. -Se ignori un morbo perchè hai paura del dottore, prima o poi muori per terra. L'unico modo per liberartene è estirparlo dalla radice.-
-Sono perfettamente d'accordo.-
-Sono lieto di constatare che la pensiamo allo stesso modo.- Il ragazzo le rivolse un sorriso amabile e L contrasse la mascella. -E' per questo che ho deciso di affrontare il problema... di petto. Di andargli incontro, anzichè fuggirlo finchè non mi rimarrà più fiato per correre. Di eliminarlo prima che diventi insanabile.-
-L'unica malattia insanabile che ti assale,- ribattè L con voce piatta, -la stai covando nel cervello. E di quella, Lawrence Yagami, non ti libererai mai.-
Il ragazzo non disse nulla e inarcò le sopracciglia, quasi offeso, mentre il taglio sprezzante delle sue palpebre a schermare gli occhi la invitava a continuare.
-Lawrence.- ripetè lei, scavando nelle sue iridi immobili con un cinismo divertito, quasi un medico legale che affonda il bisturi in un cadavere. -Che nome inconsueto ti hanno dato. Tante persone direbbero che non meriti affatto di portarlo.-
-Davvero? A me non è mai piaciuto.- Ora il tono di Law si era indurito.
-Una beffa del destino che tuo padre abbia deciso di chiamarti come il suo peggior nemico.-
-Mio padre era una persona con un tetro senso dell'umorismo.- tagliò corto il ragazzo. -Ma torniamo a noi, cara L. A noi ed al nostro fortunato incontro.-
L sospirò, quasi spazientita. -Posso farti una domanda?-
-Sono tutto tuo.-
-Perchè non hai ordinato a Rowena di strapparmi la maschera subito? A dire la verità, avresti potuto farmi ammazzare immediatamente, ma a quanto vedo vuoi prima recitare questa pantomima  dell'invito.-
Law parve molto turbato. -Pantomima? Così mi offendi, L. Io ho davvero voglia di parlare con te, prima di...- Abbozzò un sorriso di scusa tanto poco sincero che a L si strinse lo stomaco.
-Uccidermi.- concluse lei, sfregando con le dita un grosso chiodo rugginoso conficcato nel legno.
In quel momento, il gracidìo lamentoso del pavimento e il fischio sottile di uno spostamento d'aria polverosa annunciò il ritorno di Rowena. La ragazza percorse la stanza a passi leggeri e non si fermò finchè non fu accanto a Law. Gli tese ciò che stringeva fra le braccia: una borsa di cuoio marrone, un po' consunta, dalla lunga tracolla spessa che penzolava inutilmente contro le sue ginocchia. Lui le rivolse un sorriso gentile, tanto bello da mozzare il fiato, e la guardò negli occhi come se nella stanza non ci fossero che loro due. Ma L, nella dolcezza condiscendente spanta nelle sue iridi, lesse la furbizia malevola di un domatore di tigri.
Law prese la borsa e la posò sul tavolo, in modo che anche l'investigatrice potesse vederla bene, e assunse un'espressione di divertita importanza. Lo sguardo di L era pietra inscalfibile.
Slacciò la fibbia che chiudeva la borsa, l'aprì e ne estrasse un quaderno di Hello Kitty azzurro ricoperto di strass, scoprendo un centimetro per volta con lenta compiacenza.
Il ragazzo lo brandì, beffardo, con uno sguardo di sfida. -Sai cos'è questo, vero?-
L non si scompose. -L'hai camuffato piuttosto bene, direi.-
-Vero? Un lavoretto niente male, di tutto rispetto.- Law ghignava in una maniera quasi indecente. La sprezzante derisione che distorceva i suoi lineamenti magnifici e regolari lo faceva apparire finalmente ciò che era, svelava la reale identità nascosta sotto quella facciata di cartapesta: un pazzo, un esaltato, un malato di mente assolutamente uguale a tutti gli altri.
-Che c'è? Non tenti nemmeno di strapparmelo di mano?-
L fece una smorfia scettica. -Chissà come mai una vocina nella testa mi suggerisce che, non appena tentassi di fare un movimento troppo brusco verso di te, Rowena mi aprirebbe il cranio a mani nude.-
La ragazza dagli occhi rossi, sentendosi chiamata in causa, le indirizzò un amabile gesto quale passarsi il dito indice sotto il mento, percorrendo la breve larghezza del collo, mimando una simpatica ghigliottina. Law sorrise compiaciuto, quasi avesse avuto una riprova del suo indiscusso controllo sulla situazione.
-Rispondendo alla tua domanda di prima, L, non ti ho tolto la maschera semplicemente perchè non sento alcun bisogno di concludere in fretta la faccenda. Ho tutto il tempo che voglio per ucciderti e se qualcosa dovesse andare storto, come mi hai appena fatto notare, mi basterebbe aprire bocca per far sì che la mia amica qui presente ti tagliasse la gola. Ho chiesto a Rowena di controllare se fossi armata mentre avreste salito le scale, e lei a quanto pare crede che tu non lo sia. Ma anche se fosse, contro di lei non hai mezza speranza di sopravvivere e spero tu l'abbia sempre saputo.- L annuì con la testa, docilmente. -E poi, affrettare la tua morte sarebbe noioso. Io voglio sapere chi è la ragazza che mi ha fatto passare tutti questi guai e mi ha tormentato fin dall'inizio.-
Si fissarono, quasi nel tentativo di estirpare l'un l'altra i segreti dai rispettivi occhi. Avidità vorace e palpitante eccitazione in quelli di Law, ferma severità e ferrea risoluzione in quelli di L.
-Chi sono?- La voce della ragazza era ridotta ad un sussurro inconsistente, troppo fragile in quell'aria pesante. Appena un filo di vetro. -Io non sono nessuno. Forse avrei potuto esserlo, se mio padre fosse stato una persona diversa. Ma così sono solo l'ombra di qualcun altro, destinata ad addossarmi il suo futuro perduto, a vivere la sua vita interrotta. Niente più che un'ombra, Lawrence, e anche tu lo sei.-
Il silenzio si fece instabile, esitante, mentre le parole di L venivano confusamente elaborate e una risposta adeguata attendeva d'essere composta. Una davanti all'altra, due ombre di carne e sangue, due echi di una canzone soffocata, e quegli occhi che si esaminavano con intensità appartenevano ad altri.
Law si prese diversi secondi per cercare una replica. -Può sembrare così, certo, ma loro erano loro e noi siamo noi. La loro epoca è finita, e rivangarla è inutile almeno quanto fare confronti. Io sto compiendo questa missione perchè è quello che ritengo più giusto per il mondo che mi circonda, non perchè anche mio padre lo faceva. Se non fossi stato d'accordo con la sua logica, non l'avrei abbracciata.- La sua espressione si era leggermente increspata di nervoso disappunto.
L sogghignò con scettismo, sotto la porcellana bianca della maschera. -Permettimi di dubitarne. L'idea di ottenere l'approvazione di uno spettro ti ha davvero perseguitato, Yagami, e ad un certo punto il tuo lacerante e deleterio bisogno di amore mai esistito ha iniziato a fare del male anche agli altri, oltre che a te stesso. Un'emulazione tanto disperata che oserei definire patetica. Imitandolo cosa cerchi, il rispetto di un morto? L'ammirazione di chi non può ammirare più nessuno? Vuoi sentirti dire bravo da papà? A quanto pare non hai imparato la lezione che a Light è costata la vita. Non ho mai visto una persona più tormentata di te, lo sai? Si vede nei tuoi occhi che ti stai facendo a pezzi. Insieme a tutti quegli uomini che definisci feccia, hai ucciso pezzo per pezzo tutta la tua umanità. E cosa ti resta? Ti sei mai chiesto cosa accidenti vuoi, Yagami?-
Il silenzio fra loro cadde come una tagliola. Sepolcrale, imponente, che pietrificò su volto di Law tutto il suo sbigottimento. L tacque e rimase a fissarlo con uno sguardo distaccato e privo di veli, quasi crudo. Rowena, in piedi alle spalle del ragazzo, ansimava piano con le labbra socchiuse, in preda ad un'ansiosa esaltazione.
Vi fu un minuto che non iniziò nè finì mai, oltre al tempo ed allo spazio, un vuoto inclassificabile dall'insipido sapore dell'incredulità che sottrae, impedisce la parola. Rowena e Law sembravano soffocare in un incantesimo implacabile, mentre L li squadrava con noncurante disapprovazione. Era una nebbia atrofizzante, una coltre anestetizzante che stagnava e faceva effetto in silenzio, costringendoli ad inghiottire le parole in fondo al petto.
Poi Law rise. Una risata sguaiata, insolente, sferzante, quasi quel suono tagliente dovesse fare del male ad L. Gettò appena la testa all'indietro, incapace di contenere l'esagerata ilarità, e quando riuscì appena ad affievolire i suoi sghignazzi contagiosi le conficcò negli occhi uno sguardo tanto violento, brutale, iniettato di una follia così spaventosa che solo una persona audace e contegnosa come L riuscì a non arretrare sulla sedia.
-Ahah! Sei incredibile, L. Ti ho proprio sottovalutata. La tua capacità retorica è eccellente, dovresti darti alla politica. Incanteresti certo quella massa ignorante e stolida che sta appiccicata ai televisori come se fossero oracoli. Ma me?! Me?! Non sono il solo ad avere sottovalutato qualcuno, qui. Sul serio credevi che ci sarei cascato? Che mi verrà una crisi di coscienza per le tue toccanti parole?! Affascinanti, davvero, in un libro farebbero la loro figura. Abbiamo capito, insomma, che avresti dovuto fare un altro lavoro!-
Riprese a ridere, senza controllo alcuno, perdendo del tutto la compostezza ostentata nei primi momenti del loro incontro. Anche Rowena ridacchiava, in maniera stridula e un po' isterica, ma con meno enfasi e convinzione del ragazzo. L non sembrava affatto offesa o scalfita dalle frecciate e continuava a guardarlo con un misto di accusa e apatia, senza azzardare alcuna emozione se non quell'impassibile aspro biasimo.
-E' inutile, L. La tua psicologia per matti non attacca con me. Tientela pure. Se hai complessi di inferiorità nei confronti del tuo defunto genitore, non deve essere per forza anche un mio problema. Io so quello che faccio e perchè lo faccio. Mio padre sì, è stato il mio maestro, colui che ha ideato questo progetto di depurazione. Ma sai cos'è che conta? Che ha fallito. Fallito. Light Yagami ora è solo un fallito! E io non ho di sicuro bisogno della sua ammirazione, piuttosto dovrebbe essere il contrario! Perchè sarò io, Lawrence, a riuscire dove lui ha fallito. Io sarò il vero dio del mio nuovo mondo, e nessuno -nessuno!- potrà essere considerato più grande di me! Ti è chiaro?-
L ascoltò senza interrompere la sua pazzia farsi parole spezzate, un delirio nauseante dove almeno cento patologie si fondevano in un'unica analisi impietosa. Capì, senza stupore, che parlargli ormai era inutile: la tela di ragno in cui era riuscito ad invischiarsi era tessuta troppo abilmente. Sarebbe stato divorato dai suoi stessi inganni. Lawrence Yagami stava marcendo.
-E ti chiedo un'altra cosa. Sai qual'è il dettaglio esatto che rese Light Yagami un perdente e me un vincitore?- Il suo volto trasfigurato era irriconoscibile.
L non rispose. Fu come se non le avesse rivolto la parola. Quegli occhi bicolori specchiavano la sua insanità, una sentenza lapidaria.
Law non attese troppo a lungo la sua risposta. Si allungò verso di lei, chinandosi sul tavolo, finchè i loro volti non furono abbastanza vicini.
-Che lui non riuscì ad annientare il suo nemico in tempo.- sibilò piano con voce ardente. I suoi occhi erano fiamme, a bruciare la maschera di carta che non riusciva più a portare. -Invece tu sei qui, L. E stai per morire.-


Bastarono poche spallate ben assestate affinchè le assi inchiodate alla porta iniziassero a cedere ed incrinarsi. Gli agenti che accompagnavano Matsuda le strapparono fino a creare un passaggio sufficientemente grande per far passare una persona a testa china. Marion era inquieta e continuava a spostare lo sguardo di qua e di là, sospettosa, anche verso il cielo, quasi temendo franasse.
-C'è qualcosa che non mi quadra.- sentenziò. -Come può Kira essere stato così sconsiderato da non supporre che L avrebbe chiamato soccorsi?-
Craig scosse la testa, assente. Harmony canticchiava fra sè, ma i suoi occhi erano torvi. Quello che c'era fra loro era un silenzio nervoso.
Matsuda tentò un sorriso d'incoraggiamento. -Beh, allora? Entriamo?-
-Aspetta. Là dentro c'è una ragazza con il potere degli occhi. Abbiamo qualcosa per coprire il volto?- li interpellò Lidner, lanciando loro un'occhiata ammonitrice.
Fu in quel preciso istante che lo udirono. Era un grido femminile, una voce spezzata ad esplodere come sangue, che lasciò dietro di sè un'eco all'interno del buio edificio e nelle loro menti.
Gli occhi di Marion corsero a sondare invano le tenebre impenetrabili come pietra, spasmodicamente. -L.-
-Era L?!- le fece eco Craig allarmato. Marion scosse la testa, interdetta. Non l'aveva mai sentita urlare, o anche solo parlare a voce alta, e poi quell'urlo era stato troppo fulmineo ed inaspettato per permetterle di ascoltarlo bene ed identificarlo con certezza.
-Non ne ho idea,- ammise, -ma... chi altro può essere, sennò?-
Nessuno si mosse, gli sguardi truci ed aggrottati in maniera che Marion trovò insopportabilmente stolida; trattenendosi dall'insultarli, si avvicinò al varco e sporse una gamba verso il buio indistricabile dall'altra parte. La sua espressione era rigida ed irremovibile, intagliata nel marmo di una determinazione tediata e sofferta, graffi e graffi ad esasperare la sua sopportazione strenua ed esausta. La sua smorfia di vitrea certezza invitava a sopprimere ogni parola stesse per essere pronunciata.
-Dove accidenti vai, ma sei impazzita?!- Craig fece per afferrarle in braccio. Lei si voltò ed i suoi occhi erano avvelenati da un'asprezza violenta e tremante.
-Faccio quello che siamo venuti a fare! L'abbiamo cercato per un casino di tempo, noi e Near, e adesso è qui! Perciò io entro e gli faccio saltare le cervella. Cos'è, è sparito tutto il coraggio?!-
Fulminò con lo sguardo i presenti, con una sorta d'ira sprezzante, e si voltò chinando la testa per entrare nell'edificio. La cortina di buio si scompose e riavviluppò attorno a lei quando il buco nella porta la inghiottì, come un sipario nero. Craig la seguì senza esitare con la piccola figlia di Near al fianco, Harmony fece lo stesso con blanda inquietudine. Matsuda fece un cenno nervoso con la testa ai suoi uomini, così precedettero Lidner e Gevanni all'interno.
Craig, appena posato il piede sinistro sulla catasta di vetro e cemento che soffocava l'intero pavimento in una pozza di frammenti, si affrettò ad avanzare alla cieca: fu caldo e magnanimo sollievo quello che irradiò i suoi muscoli come un astro nuovo, quando le sua mani allungate cautamente in avanti cozzarono contro un impedimento che non tardò a riconoscere come la schiena di Marion. La ragazza si era fermata lì, in silenzio. Era stato il buio a frenare il suo impeto?
-Che c'è?- le sussurrò piano.
-Datemi una torcia.- tagliò corto lei freddamente. Craig si voltò. Uno dei poliziotti aveva sentito e, dopo aver lottato con la cintura dov'erano appesi diversi strumenti, tese al ragazzo una piccola pila tascabile con poche pretese. Lui ringraziò sommesso e tese il piccolo oggetto a Marion, che l'accettò e accese subito; proiettò fascio cereo abbacinante e pallido come un fantasma, che strappò un brandello di buio con artigli biancastri. La ragazza mosse la luce con circospetta rapidità, di qua e di là, rivelando pareti nude che abbandonavano pezzi d'intonaco come fanno i soffioni e ammassi di ghiaia e polvere e macerie, che talvolta raggiungevano l'altezza delle loro ginocchia. Marion esaminò con sguardo muto e impietoso quella rovina e volse la torcia a sinistra: sporgenze goffe e malamente abbozzate nel cemento grezzo, ancora informi, che volevano assomigliare senza riuscirci granchè bene a dei gradini, ostentando persino una sottospecie di corrimano di lamina, sottile e acuminato come un fioretto -l'idea di aggrapparcisi rievocava in mente soltanto tagli sanguinanti e tetano. Allora, senza scalfire la sua espressione d'indecifrabile disgusto, provò verso destra. Una porta scarna e scura come una bara era un'ombra spettrale contro il muro ingrigito dagli anni e dalla muffa, la maniglia ruvida di ruggine sporgeva promettendo un ausilio decisamente poco affidabile. Marion volse lo sguardo prima da una parte e poi dall'altra, indecisa.
Fu allora che lo sentirono di nuovo: l'urlo, acuto, potente, penetrante nella carne e nelle orecchie come un proiettile. Nessuno riuscì a trattenere un sussulto. La loro vicinanza ravvicinata lo fece risuonare fra quelle pareti nere in maniera ancora più energica.
-Ma proveniva da destra o da sinistra?- Craig parve confuso. Marion si infastidì non poco.
-Non ho capito. Sembrava... sembrava da entrambe.-
Harmony s'intromise, abbracciandosi le spalle per il freddo infido. -Ma è impossibile, è ovvio che era una voce sola, una persona sola e non due.-
Il fatto che non ci fosse nemmeno una parola politically scorrect o un'imprecazione colorita in un'intera frase dimostrava la sua visibile preoccupazione. E se si preoccupava Harmony, la situazione era davvero disperata, ragionò Marion amaramente.
-Lo so.- brontolò. -Però l'ho sentita sia a destra che a sinistra.-
-E' vero.- concordò Tennyson, accigliato. -Anche a me è parso così. Però... non mi sembrava la voce di L.-
-E quando mai l'abbiamo sentita urlare?- ribattè Craig. -Impossibile dirlo.-
-Fatto sta che Kira è qui, da qualche parte, e noi dobbiamo muoverci.- puntualizzò Marion impaziente. -Ci sbrighiamo sì o no?-
-Il punto è- esclamò Matsuda con disappunto, più indietro di lei, -se non sappiamo da dove viene quella voce, dobbiamo andare a destra o a sinistra?-
Il silenzio durò solo l'istante necessario per formulare la classica proposta che porta sempre guai.
-Non ci resta che dividerci.- dedusse Marion, senza esitazione.
Craig afferrò la mano della sorella e quella della piccola. -Noi veniamo con te.-
-E io pure.- aggiunse Tennyson asciutto, quasi sfidando qualcuno a contestare.
-Puoi giurarci, sister.- sorrise Harmony.
Lidner e Gevanni rivolsero loro un'occhiata sconvolta e severa, da qualche parte fra le tenebre. Matsuda, vicino a loro, le intercettò.
-Non preoccupatevi, vado io con loro. Così siamo sei e sei. Voi andrete con i miei uomini ed io con i ragazzi.-
Gevanni fece per replicare, piccato, ma Lidner gli posò una mano sulla spalla in un gesto di tenera fermezza. -Lascia che vada lui.- gli bisbigliò.
L'uomo esitò, ma infine annuì stancamente. Quando Matsuda si voltò verso Marion, aveva un sorriso entusiasta che lo fece assomigliare ad un bambino eccitato.
-Da che parte andiamo??- domandò sollecito. La ragazza inarcò appena un sopracciglio, ironica, ma non commentò.
-Saliamo le scale.- si limitò a rispondere. -Quindi gli altri varcheranno la porta.-
Accordati su ciò, i due gruppi si salutarono brevemente (Gevanni abbracciò Tennyson come se fosse stato certo di non rivederlo più, e Lidner guardò lui e Marion in maniera tanto indicibilmente intensa che la ragazza non potè fare a meno di sorriderle nel tentativo di rassicurarla) e si avviarono per le rispettive vie.
Le scale, in stato di abbandono da più di un decennio, da quand'erano ancora in fase di costruzione, cigolavano e gemevano in maniera così pietosa e raccapricciante che fu impossibile per Marion e gli altri correre o almeno procedere in fretta come avrebbero preferito, ma saggiarono ogni gradino con sospetto e attenzione prima di appoggiarcisi; Craig ripeteva di continuo alla bambina di stare aggrappata forte a lui e di non lasciarlo mai, ed era tentato di chiedere la stessa cosa a Marion, se non fosse stato per ovvie ragioni fraintendibile -e poi, conoscendo il tipo, si sarebbe indispettita a morte e non gli avrebbe rivolto la parola per mesi, offesa (-Ti pare che io abbia bisogno di aiuto?! Chi credi che sia?!-). Harmony invece veniva generosamente aiutata da Tennyson, che con un sorriso compiaciuto e paziente la portava praticamente in braccio, e se la situazione non fosse stata così grave gli altri avrebbero riso della loro azzardata spudoratezza, tutti tranne Craig s'intende. Matsuda era in coda alla fila e lanciava occhiate timorose nel buio insondabile, senza però riuscire a nascondere un bizzarro entusiasmo.
Quando finalmente quelle scale magre e inaffidabili terminarono in un piano di legno male inchiodato, tutti parvero sollevati. Poi giunsero alle loro orecchie brusii, frammenti confusi di suoni indistinti, come una radio mal sintonizzata... ma che sì, avrebbero benissimo potuto essere parole.
Marion lanciò un'occhiata eloquente ai suoi compagni, agitata. Matsuda si portò subito l'indice alle labbra, un avvertimento deciso nello sguardo, e allungando un passo con più lentezza e accortezza possibile per avvicinarsi tese l'orecchio, concentrato. Le voci provenivano da una porta socchiusa, che filtrava uno spiraglio di luce sporca.
Nessuno osava respirare: quel ronzìo indecifrabile era Kira. Kira che parlava. Kira era lì.
Craig strinse la mano alla piccola fino a sbiancarsi le nocche quanto le guance, mentre lei non scomponeva un lineamento della sua espressione costantemente apatica e assorta nella cupa coltre dei suoi pensieri, sicuramente troppo adulti e gravosi per la sua età. Harmony si tastò automaticamente le tasche, alla ricerca dl pacchetto di sigarette come sempre quand'era nervosa, e Tennyson la fermò con un gesto precipitoso ed un sorriso incerto. Matsuda continuava ad aggrottare la fronte, intestardito nel tentativo di carpire qualche parola, e sembrava un po' un allocco.
Fu allora che Marion fece l'azione più sconsiderata e stolta dei suoi quindici anni di vita, "mandando allegramente a puttane tutti gli insegnamenti di Near, e buonanotte al cazzo", come disse Harmony in seguito sghignazzando.
Avanzò sulle tavole di legno polverose, scatenando com'era prevedibile un gracidìo e compassionevoli lamenti dal pavimento, causando un attacco di cuore ai presenti. Ma niente e nessuno avrebbe potuto fermarla, in quel momento; era la sete di sangue quella che scavava la sua espressione. Come in un sogno, strattonò la maniglia e scagliò la porta contro lo stipite, spalancandola.
Interdetto e rapido, uno sguardo incredulo e vagamente incuriosito d'occhi castani incontrò il suo, tagliente di un odio che nessuna parola che potrei tentare d'usare descriverebbe davvero.
Il silenzio, per lunghi secondi o forse per fulminei anni, fu pesante ed immobile come un blocco di cemento. Occhi negli occhi.
Con la calma placida dei gatti Law sorrise, con dolcezza maliziosa; era aguzzo quel sorriso, e il sangue esplose nelle vene di Marion in una rabbia sorda, che non conosceva più limiti nè cautele e s'increspò in onde sempre più imponenti e fragorose, fino a travolgere la sua mente di fiamme liquide. Non ci vide più.





















































Note dell'Autrice: Ed eccomi qui!!! Per farmi perdonare del ritardo, capitolo lungo. ^-^ Vi è piaciuto? Spero tanto di sì, perchè mi ci sono impegnata il più possibile.
E, a titolo informativo, questo era il penultimo. Il prossimo sarà l'ultimo e poi ci sarà l'epilogo. u.u
Quindi, il prossimo sarà il capitolo decisivo... cosa accadrà?
Mi raccomando recensite, miei cari lettori, che ormai siamo quasi alla fine! Ci tengo tanto a sapere che ne pensate!
Lucy

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Capitolo 20
*** Bivio. ***


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Bivio.




Quando Marion sollevò la pistola stretta convulsamente fra le sue mani sudate, le braccia fremevano troppo forte. Non sarebbe mai riuscita a prendere la mira, anche all'occhio più inesperto appariva evidente. Le sue pupille dilatate erano iniettate di sangue e respirava forte, dolorosamente. La gola di Craig invece era mozzata e non credeva sarebbe mai riuscito a rendersene conto.
Un secondo. Due. Tre. Il suo cervello impazzì ed affogò in un'incalzante ed opprimente follia, come se il sangue avesse rotto ogni vena nella sua testa, fosse uscito dai suoi canali e avesse inondato e desensibilizzato ogni capacità di comprensione fino a ridurlo sul ciglio di un panico vertiginoso e famelico. Si gettò fuori dal suo nascondiglio senza nemmeno prendere coscienza d'avere due gambe. La mano di Harmony scattò e gli afferrò la maglia con un vigore ferreo ed inaspettato, un impedimento che lo stordì e confuse, ma si strappò alla sua presa con la forza della disperazione più irrecuperabile. Marion non si accorse nemmeno di lui. Le tremavano anche gli occhi, forse di lacrime o forse di rabbia o forse d'entrambi.
-Non muo-verti. No-non azzardarti. Stai zitto. Dov'è quell'altra?-
Il ragazzo biondo ed adorabile seduto al tavolo sorrise affabile, come avrebbe fatto un vicino di casa gentile, e lei sentì la rabbia montare nel petto ed affluire nelle dita come una scarica elettrica. Mani incuranti estirpavano senza pietà ogni emozione che prima infestava il suo petto, ansia e paura e quella freddezza calcolata che sapeva bene non avrebbe mai saputo ostentare, e avvertiva quelle dita fredde lasciare un vuoto nero dentro di lei capace di divorare ogni pensiero e riflessione. Le rimanevano solo un groviglio di nervi roventi e istinti fugaci e mutevoli come onde d'un mare tempestoso, ad affiorare contro la sua pelle, prima una, poi l'altra, poi un'altra. Non capiva più niente, non realizzava niente se non quel calore a scottare sul tessuto dell'epidermide.
Un'ustione. Soffocava nel fuoco bianco nello sguardo di Law.
Near e i suoi occhi impietriti di morte. Near voltato di schiena che le diceva buonanotte per l'ultima volta.
Il dito calcato sul grilletto esitò tremando senza riuscire nè ad allontanarsi nè a sparare.
Poi Rowena apparve, da una piccola porta laterale nella stanza che non aveva notato. I suoi occhi sgranati la inquadrarono con curioso stupore, e sembravano tonde bolle di sangue. La pelle era troppo bianca, i capelli dolci e sinuosi le lambivano il petto. La bambola di porcellana di un film dell'orrore, ma era impossibile non sentirsi bizzarramente attratti da lei.
Marion le puntò la pistola contro con uno scatto nervoso e simultaneo: un errore decisamente fragoroso, che di sicuro in una situazione nella quale si fosse sentita più a suo agio non avrebbe mai e poi mai commesso. Craig allora puntò l'arma contro Kira, una muta minaccia intimata nello sguardo.
-Se provi a dire il mio nome ad alta voce, ti sparo in un orecchio e ti faccio saltare le cervella dall'altro.- Marion scoprì che la sua voce graffiava con inconsueta foga rancorosa, violenta, come la rabbia di un animale selvatico. Incatenò bene lo sguardo a quello di Rowena. Lei dopo una pausa azzardò l'accenno di un sorriso e inarcò le sopracciglia, senza scomporsi.
-Ecco qual'era il tuo asso nella manica, L... hai degli alleati. Mi chiedevo come mai la figlia di Keehl non si facesse sentire, e adesso ho capito.- Law le sorrise con una sorta di sarcasmo leggero.
-Zitto!- sibilò Marion in un sussurro vibrante di strizza. A Rowena sfuggì una risatina sottile.
-Cazzo ridi, bastarda!-
Craig capì che l'amica stava dando di matto e che non avrebbe sostenuto a lungo una situazione simile. Era stremata psicologicamente e tremava da capo a piedi. Era uno straccio, la concentrazione era ridotta ad una strenua resistenza a quegli eventi che la stavano travolgendo incontrastabili. Reagiva istintivamente senza pensare nè provarci. Così non andava bene. Decise di procedere con cautela.
-State lì dove siete. Matsuda, le manette.- Sperò che avere chiamato solo Matsuda fosse stato indicativo come lui avrebbe voluto che fosse: infatti sua sorella, Tennyson e la bambina rimasero dov'erano. Tirò mentalmente un sospiro di sollievo. Matsuda avanzò con circospezione accigliata, e appena incrociò lo sguardo di Law il suo viso fu attraversato da uno spasmo doloroso.
L'uomo si avvicinò a Rowena estraendo, con un flebile tintinnìo metallico, le manette dalla tasca. Marion e Craig non distolsero le pistole dai loro volti. Quando Matsuda fu a quattro passi da Rowena, lei abbassò il mento e sorrise spudorata.
Fece un balzò in avanti che nulla aveva d'umano -felino, casomai, d'una pantera o di un ghepardo- e colpì con una gomitata fulminea la testa dell'uomo, facendolo sussultare sorpreso, e poi lo spinse contro il pavimento con un calcio stranamente aggraziato. Con la stessa impareggiabile rapidità si avventò contro Craig. Inconcepibile immaginare di seguire la traiettoria dei suoi movimenti con la pistola, e tantomeno di riuscire a spararle. Craig non la vide staccarsi dal suolo o estinguire la distanza che li divideva, ma capì confusamente di avere picchiato la nuca contro le assi per terra. Odore di polvere e muffa. Rowena, premuta sul suo petto, sorrise dolcemente dei suoi deboli tentativi di scrollarsela di dosso e gli accarezzò le spalle con un movimento languido, lasciando salire poi le mani alla gola e circondando con le dita la fragilità del collo. Craig si sentì perduto in quella stretta d'acciaio di ragazza, mani piccole e delicate come marmo, e si accorse che la pistola gli era stata sottratta. Capì, con lucida isteria, che Rowena era una macchina da guerra. Stava accadendo tutto così in fretta. Vide Marion, sconvolta, puntare la sua arma contro la schiena della ragazza ma esitare meditando del fatto che erano così vicini che rischiava di ferirli entrambi. Era finita. Ogni attimo impregnato di significato della sua vita gli passò davanti agli occhi. Sua madre che gli carezzava i capelli prima di dormire, lui e Harmony quando scorrazzavano in autostrada a velocità spaventosa, Marion che lo guardava negli occhi e lo baciava...
Poi Rowena contrasse le labbra in un'espressione infastidita e sciolse la presa al collo di Craig per portare le mani alla nuca. Alle sue spalle Harmony le aveva colpito la testa con una lunga asse di legno disseminata di chiodi, probabilmente strappata dal corridoio, e le stava rivolgendo un'occhiata malvagiamente compiaciuta. Craig si divincolò mentre Rowena afferrava i polsi di Harmony e li storgeva fino a farla gemere, e l'asse di legno cadeva con un tonfo per terra.
L approfittò della confusione e afferrò il Death Note che Law, concentrato sugli improbabili eventi, stringeva distrattamente fra le mani e si alzò in piedi, arretrando dal tavolo. Law sollevò lo sguardo e, realizzando l'accaduto, sgranò gli occhi e maledisse la propria sbadataggine. Però non potè fare nemmeno un tentativo di raggiungerla, avvertiva la canna della pistola di Marion premere sulla nuca: provò una frustrante quanto familiare sensazione d'impotenza e digrignò i denti, trafiggendo con lo sguardo gli occhi irremovibili di L.
-Non provarci, non provarci nemmeno.- sibilò Marion alle sue spalle, troppo vicina. Come fare? Se anche avesse tentato di colpirla, sarebbe partito un proiettile che gli avrebbe attraversato il cranio. Come se non bastasse, Matsuda si era alzò in piedi dopo l'aggressione di Rowena e si avvicinò ad L. Il suo sguardo era rotto da una patetica delusione.
-Lawrence, perchè stai facendo tutto questo? Che senso ha?! Perchè stai ripetendo gli errori di tuo padre?! Non stai facendo del bene al mondo, stai soltanto contribuendo a renderlo un universo infido e crudele...-
-Non fare finta di poter capire.- La voce di Law spezzò le sue parole come un dardo velenoso, come non era mai stata, dura di rancoroso distacco. -Se sei venuto qui per catturarmi insieme a loro, significa che non comprenderai mai mio padre... nè me. Non giudicare ciò che non conosci! Non riesci nemmeno ad immaginare come sia sollevante per le persone oneste sapere che c'è chi le protegge dalla cattiveria gratuita dei criminali, dalla pazzìa di certi individui... sono loro il pericolo! Sono loro la malattia da estirpare, l'errore della natura... non io.-
-Ignoralo.- ribattè L a Matsuda con voce piatta. -Non c'è niente che possiamo fare per lui.-
Law volse lo sguardo verso ciò che si stava svolgendo a pochi metri da loro. Ormai Rowena era la sua unica speranza di poter ribaltare la situazione.
-Rowena, il Death Note!- esclamò, sbattendo i palmi contro il tavolo, fingendo di non accorgersi di quanto lei fosse impegnata al momento.
Tennyson, il volto paonazzo di rabbia, uscì allo scoperto e colpì Rowena in faccia con un cazzotto potente da giocatore di football, che come minimo avrebbe potuto sfasciarle il naso; ma la ragazza arretrò abbastanza velocemente da non riportare troppi danni e piroettò su sè stessa, tirando un calcio a Craig dietro di lei.
Rowena indietreggiò fino ad urtare il muro con le spalle, in modo che nessuno potesse colpirla a tradimento, e saettò lo sguardo di qua e di là: fece un rapido riepilogo della situazione e realizzò le posizioni dei suoi nemici, per pianificare un contrattacco. Craig era a destra, verso le finestre, ed era disarmato. Di fronte a lei, a circa sette otto passi, c'era Harmony con una pistola. A sinistra stava Tennyson, imbracciando l'asse chiodata: anche lui aveva una pistola appesa alla cintura, però. L'uomo chiamato Matsuda affiancava L e stava dicendo qualcosa a Law con tono supplicante -al momento non costituiva un problema per lei. I tre ragazzi la fissavano con spaventato rancore. All'improvviso comprese cosa doveva fare, e non riuscì a trattenere un sorriso allegro ed eccitato. Questo gioco le piaceva tantissimo.
Fece una perfetta capriola nell'aria che sbalordì tutti e tre e, all'urto con il suolo pochi passi più avanti, allungò un calcio fulmineo ma violento alle ginocchia di Harmony -che, del tutto presa alla sprovvista, sparò mancandola di qualche centimetro e cacciò un urlo di dolore perdendo l'equilibrio. Craig e Tennyson scattarono praticamente nello stesso momento e Rowena, scoprendo con brio che stava andando come aveva previsto, lasciò che si avvicinassero pericolosamente prima di scartare all'indietro, afferrare le loro teste ed urtarle con energia l'una contro l'altra. Poi approfittò del loro stordimento per spingerli a terra e fregare a Craig la pistola. Tennyson invece non allentò la stretta sulla sua asse e la brandì alla cieca, sferzando soltanto l'aria inutilmente. Senza dare loro il tempo di rimettersi in piedi, Rowena sollevò il piede e con l'esaltazione negli occhi lo affondò contro la tempia di Tennyson, strappandogli un lamento; il colpo inferto gli annebbiò lo sguardo di rosso, mentre una parte della sua nuca pulsava e si arroventava orribilmente, e la confusione lasciava posto ad un dolore sempre più nitido ed acuminato, una lama a penetrargli il teschio gradatamente.
Con un abile balzo Rowena sorpassò i loro corpi a terra e fronteggiò Harmony, che le puntava contro la pistola.
-Assaggia qualche proiettile, troia.- La ragazza dai capelli rossi sparò un colpo, due, tre. Rowena li evitava saltando e storgendo il suo corpo flessuoso in maniera improbabile, slanciando la testa avanti ed indietro, piegando il busto orribilmente, come non avesse ossa. Harmony imprecò sottovoce: stava esaurendo i proiettili, e anche ogni certezza di poterla colpire. Lei si esercitava da anni, ma quella strana ragazza sembrava appartenere ad una razza sovrumana ed eludere qualsiasi legge di gravità. Come poteva essere minuta ed esile eppure forte, terribilmente giovane eppure esperta come una lottatrice professionista, matta da legare eppure abbastanza lucida da combattere in maniera così efficace?
Sparò ancora, almeno per prendere tempo: infatti Craig e Tennyson si stavano rialzando. Ma Rowena aveva intuito il loro gioco e si stava dirigendo verso la porta d'ingresso che dava verso il corridoio, fuori dalla portata di tutti loro. Harmony strinse gli occhi ed abbassò la pistola, furente e sdegnata. Quanti proiettili potevano esserle rimasti?
I due ragazzi si affrettarono ad avvicinarlesi.
-Come stai?- domandò Tennyson preoccupato, la fronte aggrottata. Lei sorrise sarcastica, rassicurandolo.
-Le gambe sono un po' doloranti e la dignità appena maciullata, ma non c'è male. Voi?-
-Siamo ancora vivi.- replicò Craig, massaggiandosi la testa con disappunto. -Per ora.-
Rowena però aveva avuto un'altra idea. Uscì in corridoio, attraversò correndo la passerella traballante ed adocchiò una vecchia finestra dal vetro pesante ed opaco d'un manto di polvere. Strinse la mano destra in un pugno e, noncurante, lo scagliò contro la finestra con tutta la sua forza. Quello s'incrinò in una ragnatela di crepe e si infranse crollando a terra con uno strepito.
La ragazza sorrise alla vista delle chiazze color rame che fiorivano sulle sue nocche, si chinò ed esaminò le schegge di vetro. Infine raccolse un lungo frammento dal profilo frastagliato ed irregolare, aguzzo come un rasoio. Lo saggiò sul polpastrello dell'indice e tornò sui suoi passi soddisfatta, ma prima di rientrare lanciò la pistola rubata a Craig giù per la tromba delle scale. Il buio l'assorbì.
Harmony, Craig e Tennyson stavano attendendo il suo ritorno, interdetti dal fatto che fosse uscita così all'improvviso. Quando varcò la soglia non notarono l'arma di Rowena, dato che l'aveva infilata abilmente nella manica, con l'ausilio dell'apposito bracciale di ferro indossato nell'eventualità di dover nascondere coltelli. Lo sguardo della ragazza corse ai riccioli scompigliati di Craig: non si era lasciata sfuggire il fiotto di sangue che gli gocciolava lungo il collo dalla ferita inferta sulla nuca. Si leccò bramosamente le labbra, quasi incantata. Craig sentì un brivido freddo d'orrore percorrergli le braccia istintivamente. Anche Tennyson aveva di certo la pelle arrossata sotto la chioma corvina e a Harmony sarebbero rimasti diversi lividi sulle ginocchia.
Rowena avvertì la mano destra inumidirsi di sangue e la nascose allo sguardo dei tre.
Tennyson tentò di coglierla alla sprovvista gettando con vigore l'asse di legno contro di lei. Rowena non si degnò nemmeno di schivarla e la fermò urtandola con le dita tese e poi prendendola al volo. Harmony sparò un colpo sperando fosse distratta, ma lei parò come scudo davanti a sè l'asse stessa. Craig da sinistra le si avventò sul braccio e lo strinse forte, Rowena lo sollevò da terra e dopo avergli fatto descrivere un arco a mezz'aria lo schiantò al suolo a destra. Tennyson puntò la pistola contro il suo piede e Rowena lanciò l'asse contro di essa, facendogliela saltare di mano. Entrambi si gettarono per raccoglierla e Rowena lo impedì ficcandogli le dita negli occhi. Mentre Tennyson si afferrava il volto borbottando, lei balzò in piedi ed analizzò l'attuale situazione.
Craig giaceva carponi a terra, stordito dalla caduta, e la gemella gli si era accostata ansiosa. Lui era disarmato e lei aveva solo un paio di proiettili nella pistola. Tennyson aveva recuperato la sua asse, strofinandosi gli occhi dolenti, ma la pistola gli era stata sottratta. Rowena fissò l'arma, sogghignando, la sollevò in alto e la scagliò tanto energicamente che scivolò sul pavimento del corridoio e cadde nel baratro buio delle scale, facendo la stessa fine dell'altra.
-Beh? Perchè non la usi?- domandò Tennyson, sospettoso. Lei sorrise angelica: non conosceva neanche una parola di giapponese.
Le piaceva di più tirare i pugni e strappare la pelle. Odiava le armi da fuoco, Rowena. Causavano morti così rapide e pulite che non c'era nè tempo nè modo di divertirsi.

A Marion bastò un'occhiata circospetta verso i suoi amici per capire che la situazione stava precipitando. Quella Rowena era davvero terribile: non avrebbe scommesso dieci yen su una ragazzina così delicata e sottile, ma era riuscita a stendere niente meno che Tennyson. Matsuda stava persistendo nel recitare un appello disperato per far capire a Law che tutto quello che aveva fatto finora era controproducente. L seguiva con lo sguardo il combattimento accanito fra Rowena e gli altri, sapendo bene di non poter contribuire in alcun modo, e attendeva con fiducia il momento in cui sarebbero riusciti ad immobilizzarla. Il problema era che quella ragazza, al contrario di molti pazzi ed al pari dei grandi esperti, combatteva ragionando. I suoi colpi non erano casuali nè improvvisati. Ogni suo movimento la favoriva concedendole tempo o spazio. Pur essendo tre contro uno, Craig e gli altri erano decisamente svantaggiati. Per quanto riguardava la figlia di Near, era ancora lì dove L le aveva intimato di restare senza muovere un muscolo: sulle scale, nascosta nella nicchia fra un gradino e l'altro.
Marion si stava ancora arrovellando su un particolare che non era riuscita a spiegarsi. Premette con più insistenza la pistola contro la nuca di Law.
-Chi era ad urlare prima?! E perchè si sentiva da due direzioni?- domandò con voce brusca. Lui sorrise fra sè.
-Rowena, naturalmente. Quando si è accorta che qualcuno era entrato, le ho detto di confondervi con l'ausilio del condotto di areazione nell'altra stanza. L'edificio non è affatto costruito compiutamente, perciò vi sono soltanto intricati tunnel di metallo che attraversano quasi tutti i locali della struttura: se un rumore risuona all'imbocco di una di queste gallerie, esso è distinguibile in corrispondenza di tutti gli altri imbocchi. Riecheggia ovunque, insomma. Ma credevo fosse la polizia, non mi aspettavo certo una vostra visita.-
Marion s'irrigidì. -Non è una visita. E' un'esecuzione. Sono venuta per spararti un colpo in testa, Yagami.-
-E allora perchè non l'hai ancora fatto?- Marion s'infiammò d'uno stupore rabbioso pensando che certi idioti sono capaci di fare del sarcasmo anche con una pistola alla tempia.
-Perchè devo farlo passare per un incidente.- replicò.
Law scosse la testa appena, mentre la canna della pistola incideva la sua pelle. -Oh, non credo che Near avrebbe apprezzato un comportamento del genere... e tu davi retta a Near, giusto? Gli volevi bene, vero?-
-Stai zitto.- Marion tentò di placare i vistosi tremiti lungo le braccia, mentre gli occhi prendevano fuoco in una lenta consueta agonia. Non avrebbe pianto. Quel comando risuonò imperioso e sferzante, da una voce come una lama di ferro arroventata -voce del suo orgoglio o delle sue cicatrici, nella sua mente ovattata ed incapace di rilevare la realtà attorno a sè. Solo Law esisteva, in quel preciso istante, e non riusciva a mettere a fuoco null'altro se non la sua nuca bionda e la canna nera della pistola premuta contro. Quella voce cattiva e acuminata la tagliuzzava poco per volta.
-Ah, povero Near. Una persona così di buon cuore! Peccato mi abbia messo i bastoni fra le ruote. Non avrebbe dovuto fare una fine così misera, la stessa di tanti stupratori e mafiosi da quattro soldi... lui, il grande eroe... di cui il mondo non serberà nemmeno il più pallido ricordo. Come se non fosse mai esistito.-
Marion contrasse le mascelle e combattè una battaglia spietata contro l'arsura umida ad impastarle gli occhi. -Zitto, Yagami, taci, stai zitto.- La sua voce si assottigliò e stonò.
Law si sentì all'improvviso padrone della situazione -nonostante l'arma non si fosse spostata di un millimetro da lui- e un calore piacevole gli colmò il diaframma. Ogni parola pronunciata in una cantilena strascicata era una delizia, come miele sul palato.
-Un vero peccato, no? Che una tale mente, un tale uomo sia destinato a svanire nel nulla. Beh, sarà stata una punizione del destino. Forse non avrebbe dovuto opporsi a Kira. Dopotutto lo sapeva benissimo cosa gli sarebbe successo... eppure ha perseguito nel suo nefando scopo. Che dire, era un tipo bizzarro: come si spiega altrimenti che abbia cresciuto la figlia del suo peggior nemico?-
Marion non riusciva più a distinguere bene i profili delle ciocche bionde del ragazzo. Lo sguardo era diventato una pozza increspata, si disfaceva in mille frammenti come un mosaico, scioglieva i contorni della realtà. La coltre di lacrime rabbiose in precario equilibrio contro le sue iridi minacciava e ondeggiava. A quelle parole, battè le palpebre confusa ed una lacrima assunse consistenza, precipitando dalle palpebre dolenti.
-... cosa vai blaterando?! Quale nemico?!- Riuscì a controllare la voce il più possibile, dandosi un contegno. Era grata del fatto che il ragazzo fosse di schiena e non potesse vederla. Spazzò la lacrima fuggitiva con stizza: era stanca di piangere, stanca di svelare quella debolezza terribilmente umana che Near avrebbe disprezzato sinceramente.
Law sentì il trionfo ruggire da qualche parte nel suo sangue ribollente e capì che aveva appena trovato, fra le carte nelle sue mani, quella che gli avrebbe permesso di salvarsi. Si trattava solo di giocarsela al meglio. Si trattenne dallo schiarirsi la voce.
-Oh? Significa che non lo sai? Non ci credo. Impossibile che Near non te ne abbia mai accennato... impensabile. E' praticamente l'unica informazione indiscutibile riguardo tuo padre. Tutti lo sanno, compresi gli agenti dell'Spk. Anche troppo bene. Significa che davvero non hai idea di ciò di cui sto parlando?-
Era una goduria infinita. Marion impallidì. Si dimenticò delle lacrime, si dimenticò di essere arrabbiata e rimase solo una sospensione bianca e pulsante. Il suo cervello lavorava freneticamente, ma non riuscì a ricordare nulla su suo padre a cui tutti le avessero accennato, o in generale di sapere qualcosa di sicuro e specifico. Solo dati evasivi.
-Vieni al punto, Yagami, accidenti! Cosa cazzo intendi dire?! Cos'è?!-
-Dunque Near non era poi così impeccabile come voleva fare intendere... questa è la prova che anche i più intransigenti hanno i loro segreti. E a quanto pare il tuo tutore te ne ha nascosto uno parecchio importante... chi l'avrebbe mai immaginato? Il grande Near, un bugiardo.-
-Non osare! Non osare più, Yagami, che ti faccio schiantare il cervello al suolo!-
Law fece per voltarsi. Marion premette così forte la pistola contro il suo cranio che trattenne a stento un gemito.
-Come definirlo, altrimenti?- proseguì insinuante, -Come avrebbe potuto, una persona onesta, nasconderti che Nate River era il nemico giurato di Mihael Keehl? Che tuo padre ha passato la vita a cercare di surclassarlo senza riuscirci e l'ha perduta nel tentativo?-
Marion non reagì. Quelle parole non avevano valore. Le incassò senza commentare. Non capiva.
-Near e Mello crebbero insieme, non sai nemmeno questo? Alla Wammy's House, fabbrica fondata per duplicare un pezzo unico. Caserma per piccoli aspiranti L. Come credi che fosse Near a quei tempi? Esattamente come l'hai conosciuto, indiscutibilmente ed ineccepibilmente perfetto. Sempre se possiamo ancora azzardare che tu l'abbia conosciuto. Come può non averti parlato del modo in cui Keehl, all'epoca Mello, ridusse la sua esistenza al disperato e invano tentativo di eguagliare e superare quella perfezione devastante? E come dargli torto. Chi può amare una persona incapace di sbagliare? Chi può sopportare di vivere al fianco di una tale esasperazione? Mello non riusciva ad accettare che qualcuno fosse migliore di lui. Versò sudore e sangue per ottenere un risultato irraggiungibile, combattè con tutte le sue forze per realizzare, alla fine, di essersi soltanto frantumato le ossa. Mello era molto intelligente, certo. Ma non era Near.- Fece una pausa gravosa d'importanza, prima di proseguire. Marion si rese conto di avere aggrottato la fronte e di stare scuotendo la testa meccanicamente.
-Cosa... significa?!- sbottò. Quelle maledette rivelazioni erano solo frammenti sconnessi, che non potevano combaciare in alcun modo gli uni con gli altri. Il suo mondo tremava, scosso da parole come meteore. Suo padre... odiava Near?! Law proseguì imperterrito.
-Quando L morì e Near iniziò a dare la caccia a mio padre in titolo di suo erede, Mello dichiarò guerra aperta. Aveva lasciato che Near ricoprisse il ruolo di L per poter camminare nel mondo con le sue gambe. Era entrato in una banda mafiosa e non si faceva scrupoli a ricorrere ad ogni sorta di vandalismo e crimine per raggiungere i suoi scopi, in fondo era fatto così. Fra le tante accuse che gli si possono rivolgere, fra le quali furto e possesso illecito d'armi da fuoco, c'è quella di omicidio. Cercò di arrivare a Kira utilizzando le sue risorse e suoi mezzi, che pur essendo impropri funzionavano abbastanza spesso. E che dire della drammatica quanto plateale conclusione di questa storia?- Spalancò le braccia in un gesto teatrale, ma Marion non reagì. Ogni rivelazione che aggiungesse un dettaglio a quel racconto inverosimile di mostri e battaglie stordiva, frastornava memoria, passato e presente. La sua vita non era affatto ciò che le era stato insegnato. Era qualcos'altro.
Conosceva il finale di quella storia. Stridette i denti gli uni sugli altri.
Law pronunciò quelle ultime parole con lenta, minacciosa solennità. -Mello trovò una falla nel piano di Near. La sanò rapendo Kiyomi Takada. Fu ucciso consapevole che sarebbe successo. Near vinse.-
Marion arretrò, come se tutto ciò le ispirasse repulsione. Una negazione fragile morì prima ancora di essere presa in considerazione come appiglio. La aspettava solo un burrone.
Si perse fra quelle parole, senza che nessuna delle immagini da esse evocate riuscisse a prendere forma nella sua immaginazione. Near il ragazzo troppo perfetto odiato da Mello? Mello a consumarsi nell'odio ispirato dalla persona che Marion riteneva suo padre?
-Ora, alla luce di queste nuove scoperte, davvero te la senti di schierarti dalla parte del nemico peggiore di Mello? Se lui fosse stato ancora vivo, probabilmente avrebbe messo di persona fine alla vita di Near. Rovinò la sua vita di bambino, ragazzo e poi uomo. Come sarebbe arrabbiato nello scoprire che tu ti stai mettendo in pericolo per vendicare proprio lui...-
-Smettila, cazzo, non parlare! Non parlare... Stai zitto!- Marion strizzò gli occhi esasperata, scuotendo vigorosamente il capo. Tutti quei discorsi mellifui stavano mettendo in discussione qualsiasi cosa lei credesse di sapere riguardo il suo passato, e voleva che il mondo smettesse di ruotare per il verso sbagliato. Voleva fermarsi, inquadrare tutta quella situazione vertiginosa e sconvolgente, fermare quella giostra vorticosa...
Come aveva potuto, Near, tenerle nascosto tutto questo? Come poteva averlo solo fatto per il suo bene, per proteggerla? Non era una spiegazione sufficiente per giustificare tutto. Quel silenzio testardo, una vita in silenzio, era peggiore di qualsiasi bugia. Perchè il suo tutore non le aveva raccontato la verità? Aveva temuto così tanto il suo giudizio, la sua opinione? Oppure c'era dell'altro? Near le aveva sempre parlato poco di Mello, ma visto ch'era stata cresciuta da lui Marion aveva immaginato che fra loro due ci fosse stata una bella intesa, se non addirittura una grande amicizia, idea consolidata dal fatto che il suo tutore sembrava malinconico quando il discorso divergeva su Mello. Dopotutto una figlia non si affida ad un nemico, no?
-Stai mentendo.- affermò con voce tremante di sdegno e shock, mentre la più flebile delle speranze si materializzava senza rinfrancare. Law, beffardo, fece un cenno con la testa a Matsuda.
-Tu a quel tempo c'eri, no? Facevi parte della squadra di mio padre. Sicuramente hai sentito questa storia. Allora, è vero o no? Chiariscile le idee, che di me non si fida.-
Matsuda si trovò colto alla sprovvista. Sussultò e spostò lo sguardo da lui a Marion. Era colmo di una pietà annichilita. Dire quanto segue gli costò non poca fatica.
-Ecco, vedi... effettivamente... credo sia vero. Quando indagavamo su Mello, più volte ci è capitato di osservare che sembrava gareggiare contro Near per la cattura di Kira... tutto ciò che gli interessava era trovarlo prima di lui. Mi dispiace.- aggiunse, rosso in volto.
Marion sentì il mondo ondeggiarle sotto i piedi. Near. Mello. Lei. D'un tratto le parve di stare vivendo la vita di un'estranea.
-Posso capire che in questo momento tu sia confusa.- proseguì Law. -Rifletti. Near rovinò la vita di tuo padre. Lo annientò, causò la sua morte... se non l'avesse rincontrato, Mello sarebbe ancora vivo. Pensaci. Ti ha strappato l'opportunità di crescere con il tuo vero padre. A conti fatti, ha cercato di rovinare anche la tua, di vita. Vale davvero questa vendetta? Vale davvero tanto dolore?- Con un gesto eloquente, indicò Rowena intenta a pestare gli altri. Marion aguzzò gli occhi preoccupata: le parve che Craig perdesse sangue dalla testa. Raggelò.
L'immagine grottesca di Near con un ghigno perverso in volto attraversò fugace la sua mente. L'accartocciò con impeto, con rabbia. Non bastavano quattro parole di un assassino per farle cambiare idea su suo padre.
Ma per un attimo s'immedesimò in Mello, scivolò nei suoi panni e immaginò quanta frustrazione dovesse aver provato nello sfidare Near: come picchiare un muro di sassi. Sassi che crollano e colpiscono alla testa. Provò un'infinita tenera pietà per quel ragazzino di cui non conosceva il volto, che tanto doveva aver odiato Near ma mai quanto aveva disprezzato se stesso. Provò un'infinita tenera pietà per l'uomo che le aveva dato la vita. Riavvertì quella bizzarra sensazione di vicinanza, come se il suo fantasma fosse accanto a lei e le stesse accarezzando una guancia.
-Sì, vale questa vendetta, bastardo. Near vale qualsiasi cosa. Near vale mille volte la tua misera vita. Io non riuscirò mai a saldare il debito che ho nei suoi confronti. Lui mi ha dato tutto... lui è stato tutto... e non ha mai chiesto niente.- Deglutì a fatica. -Speri di ingannarmi con qualche trucchetto di retorica?! No, non mi abbindoli, razza di viscido verme. E se oserai ingiuriare ancora il suo nome, giuro che sarà l'ultima cosa che farai.-
E poi uno sparo tagliò l'aria.

Sentì lo sparo terribilmente vicino. Lì, accanto a lei. Il cuore non esalò più respiri e l'ossigeno divenne cemento.
Marion non avrebbe voluto voltarsi mai, ma lo fece con lento stordimento. Ebbe paura. Paura abissale, paura nelle viscere, paura dell'inevitabile. Ogni pensiero crollò e uno shock paralizzante irrigidì il suo corpo.
Harmony aveva gli occhi leggermente sgranati, come chi inaspettatamente colpisce uno spigolo, ma la sua espressione non mutava. Il braccio era sospeso a mezz'aria, immobilizzatosi nell'atto di compiere un gesto, senza riuscire a portarlo a termine. Il colorito abbandonò le guance. Barcollò incerta sulle gambe e tentò un respiro spezzato, mentre lo sguardo di Marion cadde sul foro che la pallottola aveva lasciato nella sua spalla. Craig urlò come se un ferro incandescente gli fosse stato impiantato in gola.
Rowena, colei che aveva sparato a Harmony dopo averle sottratto la sua stessa pistola, rise allegra e fece per slanciarsi contro la ragazza ferita; Craig si gettò sulla sua gemella coprendola col suo corpo e spalancò le braccia, una follia rotta negli occhi dilatati.
Marion fece scattare la pistola contro Rowena e, pietra nei lineamenti, sparò tre colpi. La ragazza li schivò senza nemmeno girarsi a guardare la loro traiettoria, sfoderò il frammento di vetro dalla manica e lo slanciò verso il petto di Craig. Tennyson si scagliò contro la sua schiena, un rancore bruciante nello sguardo, e iniziò a colpire ripetutamente la nuca di Rowena con l'asse, dalla parte dov'erano infilzati i chiodi. La ragazza sollevò le braccia sopra la testa, afferrò l'asse con entrambe le mani e la sollevò con tutte le sue forze fino a colpire Tennyson al mento.
Matsuda estrasse la sua pistola di servizio e la puntò contro Rowena. Law con un movimento fulmineo si allontanò dal raggio visivo di Marion e si avventò su L, strappandole di mano il quaderno.
-I nomi, Rowena!- urlò eccitato.
E fu allora. Harmony si accorse, nella sua immobile lucidità, che il volto di Rowena era vicinissimo al suo ed era del tutto distratta, ancora intenta a lottare contro Craig e la sua asse. Era il momento perfetto. Con il braccio sano frugò nella borsa che aveva con sè, le sue dita toccarono qualcosa di metallico e liscio: la estrasse. Era una bomboletta spray al peperoncino che sua madre le aveva rifilato con il pretesto che c'erano tanti malintenzionati in giro. Si diede mentalmente della stupida per aver creduto che fosse inutile. La puntò premendola contro gli occhi della ragazza e la azionò. Prima di poter anche solo pronunciare una sillaba Rowena cadde all'indietro, gridando come un'invasata e contorcendo le palpebre sugli occhi avvelenati.
Law imprecò accigliato e allontanò L con un calcio, portando il Death Note fuori dalla sua portata, ma l'uscita era assolutamente impossibile da raggiungere: per farlo avrebbe dovuto passare in mezzo al gruppo composto dai ragazzi. Calcolò rapidamente il da farsi.
Marion, atterrita dall'immagine di Harmony a terra, fece un cenno a Matsuda. -Puntagli la pistola alla testa, ammanettalo e prendigli il quaderno. Tennyson, tieni ferma quel demonio di ragazza.-
I due si affrettarono ad obbedire. Matsuda un po' titubante ordinò al nipote di voltarsi, con una tristezza più copiosa dell'autorità nella voce, e fece scattare le manette ai suoi polsi; Law non oppose resistenza e tacque un silenzio risoluto mentre ragionava in gran fretta. Invece Tennyson con parecchia foga spinse la schiena di Rowena a terra, le impiantò un ginocchio fra le scapole e le fermò i polsi con un altro paio di manette. Poi, senza lasciare la presa sul suo corpo, rivolse lo sguardo a Harmony. Craig, inginocchiatosi accanto, aveva sbrindellato la sua maglietta per improvvisare delle bende d'emergenza e sistemava con delicatezza e pazienza le strisce di stoffa contro la ferita alla spalla di lei, imponendo precisione alle sue mani tremanti.
Marion si avvicinò, ansiosa. -Come l'ha colpita, è grave?! Come sta?!-
-Non posso dirlo con certezza, ma mi pare che la ferita non le abbia procurato danni letali. Dopotutto le ha colpito la spalla. Comunque il proiettile è penetrato piuttosto a fondo.- mormorò il gemello, legando strettamente le bende alla spalla della ragazza.
A quel punto Harmony socchiuse gli occhi e stiracchiò un sorriso indolenzito. -Prego, eh, è stata una cretinata mettere fuori gioco Lara Croft, figuratevi, non c'è di che...-
-Grazie.- ammise Marion sorridendole di rimando. -E' stata un'idea decisamente geniale. Soprattutto per impedirle di vedere i nomi.-
-Lo so, lo so.- Craig roteò gli occhi al soffitto: sì, sua sorella stava ufficialmente bene, se aveva anche le forze per scherzare. Anche Marion si tranquillizzò nel sentirla parlare così.
-Dobbiamo scendere subito, cercare gli altri e sotterrare questi due deficienti in prigione.- sentenziò con freddezza. -Harmony ha bisogno di un'ambulanza.-
-E di una sigaretta.- brontolò lei. Tennyson scosse la testa, divertito e sinceramente sollevato nel vederla comportarsi al suo solito modo.
Fu in quel momento che Rowena spalancò gli occhi brucianti, velati da una patina rossa. Le bastò uno scatto simultaneo e deciso dei polsi nelle opposte direzioni per fare in modo che la catenella si tendesse, vibrasse ed esplodesse in schizzi di anelli di ferro; prima che qualcuno potesse realizzare l'accaduto, colpì con un calcio poderoso Tennyson e scattò verso Matsuda. Gli afferrò i capelli corvini e lo slanciò violentemente contro il muro, senza che la loro differenza di altezza e stazza le creasse un benchè minimo problema, poi lo stordì con un pugno contro i denti che le permise di recuperare il quaderno con disinvoltura mentre l'uomo perdeva i sensi; poi, in un gesto tanto fulmineo che dimostrò d'essere avvenuto solo quando gli altri videro Lawrence libero, Rowena liberò il ragazzo dalle manette.
Marion si rese conto della situazione e la sua mano scattò alla pistola: esaurite le munizioni. Tennyson, nella fretta, non aveva controllato quanti proiettili avesse ciascuna arma. Inoltre a quel punto, con Rowena libera, sarebbe servita a ben poco. Ormai rimaneva loro solo la pistola di Matsuda, che era però svenuto.
L rivolse un cenno eloquente a Craig: il ragazzo si affrettò a sorreggere la sorella e metterla in salvo fuori dalla stanza, in corridoio, dietro la parete. Marion lo aiutò. Tennyson trovò rapidamente rifugio nella stanzetta accanto, quella dove si trovava il condotto d'areazione, sgattaiolando senza farsi vedere.
L stava sollevando Matsuda ancora privo di sensi quando si rese conto di essere l'unica rimasta nella stanza, e che Law la stava osservando con un sorriso ironico e malevolo.
-Ed eccoci tornati al punto di partenza, cara L.- commentò entusiasta. -Devo dire che l'inaspettata entrata in scena dei tuoi amici è stata divertente. Ha reso le cose più eccitanti e il finale meno scontato, te lo concedo. Ma è stato solo un modo per tergiversare inutilmente. Sai la fine che farai, no?-
L non reagì. A terra, Matsuda mugolò incosciente.
Law sorrise lento, godendosi il sapore del momento.
-Mettiamo fine a questa recita e a questo capitolo della storia. Basta divagare, è giunto il momento di ricapitolare. Rowena, toglile la maschera.-
Rowena esibì un ghigno famelico di denti candidi ed aguzzi. Avanzò con la graziosa eleganza, con la flessuosa elasticità di una ballerina fino a trovarsi ad un palmo da lei. Immerse lo sguardo fra le luci e le ombre annidate negli occhi della sua peggior nemica: giorno nell'argento a destra, notte nella pece a sinistra. Ma era un'eroica, regale, maestosa trasparenza a rilucere nello sguardo di L, una sicurezza infrangibile davvero poco adeguata alla situazione. Guerriera infallibile che non si arrende, quasi sentendosi protetta da quella difesa inutile calata sul volto.
Rowena rise tutta la frustrazione accumulata come polvere di famiglia sgretolata, come macerie di vita abbattuta, come carcasse di persone lasciate indietro. Lì ancora nel suo petto il fumo acre della sua coscienza arsa e le radici mozzate di sentimenti mai nati. Un cadavere sotto la sua pelle, quello della ragazza che avrebbe potuto essere: ma era troppo tardi, solo una perfetta estranea che guarda con occhi pietosi quell'ultimo atto finale.
Marion, dietro la porta, strinse lo stipite finchè le sue nocche impallidirono. Nessuno respirava.
Rowena toccò con la punta delle dita la maschera di L, come se le stesse accarezzando le guance. Law assisteva con occhi affamati, la penna in pugno e il quaderno spalancato.
La fine.
La fine, finchè una figuretta minuta non si stagliò alla soglia della porta. Era troppo bassa per essere Craig, Marion o Harmony.
Quando la vide apparire agli occhi di Law, Marion trattenne un grido. Craig fece per alzarsi in piedi. L sorrise di nascosto, cautamente.
Law osservò con sguardo aggrottato e indagatore la minuscola, gracile bambina davanti a Rowena. Aveva un ordinato caschetto corvino ad accarezzarle la linea delicata del collo ed occhi spalancati in cui si precipitava, che parlavano di una maturità spaventosamente precoce e gravosa. Sguardo antico di adulta mentre puntava, con risoluta asciutta calma, una revolver davanti a sè.
La prima reazione del ragazzo, non appena la vide, fu smarrimento totale ed interrogativo. Chi diavolo era? Com'era entrata lì? Subito dopo aveva notato la pistola e quell'espressione agghiacciante. Che ci faceva una bambina armata? Una specie di baby agente dell'Fbi? Non aveva mai visto una ragazzina così piccola con una pistola in mano, e soprattutto con quegli occhi così duri. Per un attimo fu il timore ad invaderlo, che però scemò con la stessa fretta con cui era arrivato. Prima di tutto, L dava le spalle alla porta e si trovava proprio di fronte a Rowena: impossibile sparare a quest'ultima senza colpire anche l'altra. Lui, poi, era ancora dietro a Rowena, perciò non correva nessun rischio. Inoltre era pur sempre un bambina, cosa poteva mai fare? Quando mai una bambina sa sparare?! E poi Rowena avrebbe saputo difendersi egregiamente da un'arma da fuoco, l'aveva già dimostrato quel giorno.
-Un'altra entrata in scena? Incredibile, una giornata piena di sorprese.- ironizzò quindi. -Come ti chiami, piccola? Non riesci a trovare la mamma?-
Il suo volto rimase privo d'espressione. Non azzardò parola. Rowena non le prestò la minima attenzione e sfilò una parte della maschera di L, lasciandola scivolare giù... Un istante dopo un proiettile esplose e lei si piegò, colpita alla coscia.
Law non riusciva a raccapezzarsi davvero di ciò che era successo. Quel dannato proiettile aveva sfiorato la gamba di L di pochissimi millimetri -una distanza insignificante, nulla- ma era andata a conficcarsi con precisione puntigliosa nella carne di Rowena. Ancora un dettaglio raccapricciante: Rowena aveva scansato la gamba d'istinto, al suono del proiettile, ma esso era indirizzato esattamente nel punto in cui si era spostata. C'erano due possibilità. O quella stramaledetta bambina aveva avuto una fortuna sfacciata, oppure era un mostro che a dieci anni sparava meglio dei poliziotti professionisti. E che prevedeva le mosse degli avversari. E che mirava a distanze molto ampie riuscendo ad evitare i soggetti che non voleva colpire. Law era terrificato.
Rowena cacciò uno strillo lacerante, e lui decise di stroncare sul nascere quella strana quanto inaspettata minaccia. Gli sembrava una specie di incubo.
-Il nome, Rowena, dimmi come si chiama!- sbottò. Rowena spalancò gli occhi stralunati di dolore e fissò la strana bambina in volto come volesse estirparle il nome dall'anima. L, di fronte a lei, non si mosse. Nemmeno la bambina.
Gli orologi ai polsi scandirono sette aridi secondi in ineguagliabile armonia. Law attendeva con le labbra secche e contratte, la penna umida del sudore che bagnava il suo palmo.
-Rowena!- tuonò esasperato con petulanza. -Come straccidenti si chiama?!-
L pensò che qualcosa si stava inevitabilmente incrinando in lui e le crepe si stavano sgranando in voragini. Rowena, a terra davanti a lei, scuoteva la testa con scatti nervosi e convulsi. Il suo volto era distorto orribilmente.
-Non vedo.- bisbigliò con voce fievole.
-Cosa?!- strepitò Law allucinato.
-Non vedo! Non vedo! Non leggo niente! Non c'è scritto niente! Non vedo, non vedo! Non vedo!- Rowena bisciacava e ondeggiava il capo afferrandolo con le mani, come una bambina in preda al panico.
Law non capiva più nulla. Che diamine significava che non c'era scritto niente?! Che accidenti...
Sollevò lo sguardo verso L, lentamente. La consapevolezza si disegnò netta e definita sui suoi tratti. La ragazza rispose ai suoi occhi, sostenendoli con tranquillità.
-E' una tua complice.- proferì con voce neutra e svuotata. Lei annuì con la testa, docilmente.
-L'hai fatto apposta. C'è un trucco. Tu sapevi che sarebbe finita così.- Ora era sparita la rabbia, l'esaltazione, la furia appassionata e invincibile nella sua voce. Era prosciugata di ogni emozione.
L confermò di nuovo con un cenno affermativo ed un piccolo, pacato sorriso. I suoi occhi dichiaravano ed esultavano composti, contenuti, in silenzio.
Law precipitò dal trono della vittoria con una velocità stordente. Era la polvere della sconfitta quella in cui si schiantò e si ruppe le ossa.
-La figlia di Near.- sussurrò L. Il ragazzo rimase immobile. Quella storia era sbagliata, un copione già letto. La figlia di Near aveva in eredità i suoi occhi cattivi e dannati. E l'aveva sconfitto.
Tennyson, comparendo dietro di lui dalla stanzetta, gli afferrò i polsi e lo ammanettò nuovamente. Il quaderno gli fu strappato di mano e la penna cadde a terra. Non si mosse nemmeno. La sconfitta lo sopraffece e non trovò la forza di opporsi a quel destino insistentemente ostile, avverso all'unico dio che avrebbe potuto dissipare la cortina di morte drappeggiata dal fato stesso sul mondo.
Rowena a terra gridava come un animale morente, mentre il sangue sgorgava copioso dalla ferita alla gamba e imbrattava la polvere di nero. Piegata anche lei.
La figlia di Near avanzò di qualche passo, un vuoto deleterio inciso nei tratti di gesso, la pistola ancora puntata: stavolta contro il viso di Law. E accadde l'impensabile, un avvenimento che sconvolse Marion nel profondo.
-Lawrence Yagami, sei in arresto. Consegnati spontaneamente o saremo costretti a farti del male.-
La voce della ragazzina riecheggiò come un'eco maledetta, e Marion avvertì la terribile sensazione che quelle medesime parole fossero già state pronunciate quindici anni prima, fra quelle pareti.
L si inginocchiò davanti a Rowena. I suoi occhi erano irremovibili ma in essi vi era una luce riverente, un barlume di rispetto.
Rowena allungò le mani con un gesto delicato. La maschera di porcellana candida scoprì il suo viso.
La guardò a lungo, intensamente, negli occhi bicolori. Sorrise, e quello fu probabilmente il primo davvero sincero.
-Ciao, Lisbeth.- Adesso potevano conoscersi davvero. L sorrise a sua volta nel sentire quel nome che solo suo padre aveva mai pronunciato.
-Ciao, Rowena.- ribattè piano in spagnolo. La ascoltò esalare difficoltosi respiri insanguinati.
-Hai vinto.- sussurrò Rowena con un sorriso rossastro.
L scosse la testa, vitrea. -Ti sbagli. Non c'è mai stata nessuna battaglia. Non verserai mai abbastanza sangue da capirlo.-
Rimase lì, seduta sul pavimento, il capo della sua peggior nemica abbandonato in grembo; sollevò lo sguardo verso la scena che stava per svolgersi.
Marion avanzava, negli occhi ferro a proteggere una ferita spalancata. Lawrence era davanti a lei, il capo sollevato con la fierezza, con la dignità intagliata di un re sconfitto e condotto in catene. Come se quella vista le risultasse insopportabile, la ragazza sollevò la pistola rabbiosamente. L'unica supplica suadente che sibilava nella sua mente era cancellare nel sangue l'altezzosa maledetta superbia sul suo volto.
Craig scosse la testa inorridito, intendendo. -Oh no, Marion. Non lo fare.-
Near che le correggeva un'equazione. Near che la sconfiggeva clamorosamente a scacchi. Near riverso a terra con gli occhi sbarrati. Marion non si mosse e le sue iridi fremettero.
-Tu non sei al suo livello! Non sei un'assassina! Se spari, te ne pentirai per tutta la vita.- insistette Craig. Iniziava a preoccuparsi sul serio. Non ne dubitava: Marion avrebbe avuto il coraggio di ucciderlo, se ne fosse stata davvero intenzionata. E la perdita di Near era per lei un tumore senza cura, che rimaneva lì vuoto e pulsante. Il dolore c'era, la rabbia c'era. E, purtroppo per lui, anche Law c'era. Adesso che se lo trovava davanti, sarebbe stato troppo difficile per lei non cedere alla tentazione di annientarlo. Craig contrasse le labbra e pregò in silenzio.
Near che le diceva brava. Near che accettava pazientemente la sua presenza, durante le lunghe notti popolate di incubi. Near che prometteva di difenderla ad ogni costo.
La pistola tremava di rancore fra le sue mani. Marion strinse i denti convulsamente. L'espressione di Law era quasi una sfida silenziosa, fredda e risoluta.
-Molla quella pistola. Non sei come lui e non lo sarai mai. Non godi nell'uccidere, non sei una bestia. Sei superiore. Dimostraglielo, Marion. Ti prego. Dico sul serio!-
Near che la guardava negli occhi, con uno strana malinconia in fondo alle iridi. Near che mormorava formule matematiche e costruiva torri di stuzzicadenti. Near che sorrideva ai suoi fantasmi.
Marion puntò la pistola bene in faccia a Lawrence. Un rivolo di sudore le inumidiva una tempia. Una vampa di rossore furioso le invadeva le guance. Quando i suoi occhi verdi si colmarono di nebbia, i presenti realizzarono che aveva preso una decisione e trattennero il respiro.
Marion gettò la pistola a terra con tutta la forza che le sue braccia tremanti le concessero. Un tonfo spaventoso vibrò nell'aria, spezzando la tensione stagnante. Le ginocchia non la sostennero più e ricadde a terra, devastata. Urtò la fronte contro il pavimento e strappò la voce in un urlo liberatorio, per la prima volta dopo un mese di dolore incrostato e raffermo.



































Note dell'Autrice: Ed ecco l'ultimo capitolo di questa storia. Mi ci sono impegnata molto, volevo che fosse assolutamente come me l'ero immaginato! Bisognava infilarci un sacco di azione, oltretutto. ^-^ Che dire, e così scopriamo il nome di L e che la figlia di Near sa parlare. XD
Spero vivamente che vi sia piaciuto e che abbiate il cuore di lasciarmi una piccola recensione!
Vedrò al più presto di postare l'epilogo. Grazie mille per avere letto,
Lucy

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Capitolo 21
*** Epilogo. ***


epilogo.

Dunque... ringrazio HellGirl96, Maiko e neki niku_dango, coloro che hanno ricordato la storia; Angel666, balim_hnevz, Black98, chiaraelle99, ChibiRoby, Cichan, Devil_Inside, DPotter, Eru Roraito, Isangel, Kira4ever, Maiko, Mars_16, MikuSama, Robthereaper, sbrixi, Skylar87, soniuccia, St_rebel, SuorMaddy2012, Synapsis, Wiamy e yako_chan per averla seguita e Alexiel94, balim_hnevz, ChockyLawliet, Deneuve, Donixmadness, FullmetalBlue13, Gatta Blu, Namine23, Robthereaper e _Eileen per averla preferita. Un grazie speciale a Robthereaper per aver recensito ogni capitolo! Questa storia, miei lettori, è per voi. Ora prego, vi lascio alla lettura.

Epilogo.




Kyoto, 21 Maggio 2030.

Si accingeva a dare una superficiale spazzolata alla chioma bionda, che proprio quel mattino opponeva una tenace resistenza ai denti di plastica del pettine, quando il cellulare attaccò a strillare una musica a tutto volume che la irritò e che si appuntò mentalmente di cambiare nell'immediato futuro. Proveniva da sopra la lavatrice e ciò la stupì; frugò disorientata in mezzo ad un groviglio di asciugamani umidi e t-shirt da smacchiare e finalmente sgusciò fra le sue mani, lampeggiante e scosso dalle vibrazioni. Rammentò d'averlo dimenticato lì mentre faceva il bucato e scrutò sospettosa il display. Ecco, appunto. Craig. Marion accettò la chiamata stringendo i denti, già pronta ad un'eventuale sfuriata.
-Pronto?-
-Ehi, bellissima!-
-Cosa è successo?! Ti prego, dimmi che non sei riuscito a distruggere la macchina nelle ultime dodici ore!- supplicò ringhiando.
Craig scoppiò a ridere. -Tranquilla, è tutto a posto. La tua macchina sta meglio di me. Non te la chiederò in prestito più, se devo essere sottoposto a queste intimidazioni ogniqualvolta ti chiami...-
Marion tirò un sospiro di sollievo. -Grazie a dio. Allora, stai arrivando?-
-Ti chiamavo per dirti che sono qui sotto. Voi siete pronte?-
Marion lanciò un'occhiata preoccupata al suo riflesso allo specchio macchiato di dentifricio, osservando con disappunto l'ammasso di capelli scomposti e arruffati che ricadevano senz'arte oltre le spalle. Poi allungò lo sguardo oltre il corridoio, intercettando con gli occhi una Harmony saltellante dalle lunghe gambe nude sotto l'orlo della felpa color carota che indossava.
-Più o meno... facciamo in un lampo! Dacci tre minuti.- concluse con le sopracciglia aggrottate.
Craig si limitò a sospirare. -O magari venti... fa niente, attenderò con fiducia.-
-Arriviamo fra un attimo.- ripetè Marion in fretta, facendo per riattaccare.
-Ah, sì, Marion?-
-Mmh?-
Immaginò un sorriso increspare le labbra di Craig. -Ti amo.-
Marion non riuscì a trattenere il rossore di piacere che si diffuse sulle sue guance come una goccia di vino sulla stoffa.
-Sì, lo so.- rispose alzando lo sguardo al soffitto. Terminò la chiamata, mollò con malgarbo il cellulare sul ripiano dello spazzolino, afferrò la spazzola e la appese nella chioma, strappando e tirando bruscamente finchè gli occhi non bruciarono di lacrime. Mentre le ciocche scompigliate si lisciavano e volteggiavano leggere ed inerti, arrendendosi all'ordine, iniziò ad accertarsi che fosse tutto a posto.
-Harmony! Ti sei vestita?! Craig ci aspetta giù!-
Le giunse all'orecchio un silenzio esitante, spiazzato. -Ehm... see.- rispose infine la voce di Harmony, asciutta di convinzione.
Marion scosse la testa con aria di rimprovero. -Muoviti.-
Dopo un attento esame decise di lasciare i capelli sciolti. Sistemò un cerchietto rosa carne sul capo e sorrise a disagio alla sua immagine riflessa: un sorriso pallido, quasi la Marion nello specchio s'impietosisse al pensiero di dove l'alter ego sarebbe andata e volesse infonderle un po' di coraggio.
Si riscosse da quell'inquieta malinconia e uscì dal bagno, dirigendosi in salotto. Harmony stava infilando un paio di pantaloni mimetici, i codini fiammanti a sferzare l'aria ai lati della sua testa.
-Hai finito?-
Nel vederla arrivare, l'amica sorrise divertita. -Mio fratello vuole invitarti a cena, stasera.- cominciò con tono insinuante.
Marion scrollò le spalle. -Ah, okay.-
-E farti la proposta. Ho visto l'astuccio del gioielliere ieri sera nella sua giacca.- esplose, come incapace di trattenersi, con un barlume di feroce entusiasmo negli occhi azzurri.
Lei avvampò, sconcertata. -Ma cosa dici... sei proprio una deficiente. Potrebbe essere qualsiasi cosa! Cosa ti dice che sia un...- Deglutì, e il fiato per pronunciare l'ultima parola le mancò.
-Credi che non sappia riconoscere la custodia di un anello?! Fidati, fidati. Vuole mettere su famiglia, quel marpione...- sghignazzò Harmony, cogliendo nell'intera storia qualcosa di estremamente esilarante che a Marion sfuggiva. Lei scosse ancora la testa, con scettica decisione. Non poteva essere... semplicemente, non poteva.
Ma se fosse...?
Il citofono strillò impazzito, segno che Craig si stava spazientendo. Marion decise di rimandare ogni riflessione e di lasciar perdere, per il momento. Dopotutto, Harmony poteva anche esserselo inventato per farle pigliare prima un infarto e poi un'infantile delusione. Era proprio nel suo stile, in effetti, fare uno scherzo tanto spietato.
Harmony infilò distratta il suo giubbotto di jeans e Marion fece lo stesso con un piumino avorio; poi avanzò in corridoio e picchiettò con le nocche sulla superficie di una porta.
-Emi? Ci sei? E' ora di andare.- chiamò.
All'interno della camera, una ragazzina sollevò lo sguardo dal libro di biologia e lo spostò verso l'orologio da polso, realizzando di avere perso la concezione del tempo. Si alzò in piedi lasciando tutto com'era, il libro aperto e l'evidenziatore abbandonato nella rilegatura delle pagine, così da poter riprendere il lavoro appena tornata a casa; aggiustò con un gesto rapido la sua lunga coda di cavallo corvina e si diresse verso la porta, una giacca celeste stretta in una mano. In corridoio, Harmony e Marion la aspettavano.
Le guardò con gli immensi occhi senza fondo, gli stessi occhi che Marion tanto aveva amato e si era abituata a rivedere ogni giorno anche dopo la morte del suo tutore, da quando Emi era stata prelevata dal laboratorio genetico ed aveva deciso di restare ad abitare con loro dopo la cattura di Kira. Ormai non era più una gracile, silenziosa bambina di nove anni, ma una quattordicenne alta e graziosa che portava i capelli lunghi ed andava a scuola nell'istituto poco lontano. Marion l'aveva lasciata libera di scegliere, e lei aveva deciso di non farsi mancare nessuna delle esperienze che ogni adolescente affrontava a quell'età ed aveva accettato. A scuola eccelleva spaventosamente, com'era ovvio, e avrebbe potuto tenerle lei le lezioni, ma non era per imparare che ci andava. Si era fatta diverse amichette, sebbene continuasse a preferire gli indovinelli e i rebus.
C'era una sorta d'interrogativa attesa in sospensione nel suo sguardo immobile e inflessibile.
-Andiamo?- domandò, mentre la pallida fronte si corrugava sotto la frangetta mora, quasi aspettandosi un no come risposta.
Marion annuì con il capo e, con la solita risoluta stanchezza con la quale aveva sempre affrontato la nostalgia dell'eternità, precedette le altre verso l'ascensore che le avrebbe condotte al piano terra.


Sotto le suole la ghiaia sibilava a bassa voce scricchiolii di pietra rotta, nelle orecchie una brezza fugace sospirava le sue storie senza trama intinte di nostalgia palpabile. Il silenzio era calato con l'ineluttabilità compunta d'un ordine silenzioso ma inderogabile, e nessuno fece intendere di volerlo contrastare. Le parole erano fuggite dalle loro labbra, sostituite dai pensieri duri e gravosi che scorrevano difficili negli occhi meditabondi. Le lapidi erano troppe, e davanti all'evidente inesorabilità della morte nessuno osava parlare. L'atmosfera impregnata di malinconia e rispetto si trascinava viscosa fra i viali sterrati del cimitero, colmando le narici dei presenti e inoculando negli animi quella stagnante opprimente compassione per i morti, i vivi e sè stessi.
Marion avanzava con un coraggio freddo ma logoro davanti alla prospettiva di doversi voltare di nuovo indietro, a scrutare quel passato come una pozzanghera di pece. Non temeva più di rimanerne sconfitta, ma era una ferita lunga e instabile quella che i ricordi stuzzicavano armati di rasoio e realtà. Era esausta, però non poteva risparmiare quelle poche gocce di sangue ed energia che il dolore le stillava dalla carne e rifiutare di fare visita ad una delle persone più importanti della sua vita.
Cercò di non pensare a nulla mentre procedeva a passo lungo e fermo, ma era suggestionata troppo dall'esile figura di Emi a camminare accanto a lei, dai suoi occhi d'ombra tondi e indecifrabili. Le aveva procurato un duro colpo ed insieme una sommessa commozione riconoscere Near nei più semplici, comuni gesti di vita quotidiana della sua figlia legittima. Ora le sembrava che quel qualcosa che la morte di Near aveva strappato alla sua vita fosse stato, in parte, recuperato. Perchè l'anima nera e magnanima del suo tutore scintillava acuta in quegli stessi occhi che Emi sembrava quasi avergli rubato.
Marion aveva vissuto anni di serena, piatta felicità e ne pretendeva molti altri. Un giorno Kira sarebbe tornato, magari, perchè è impossibile che non venga versato del sangue dove appare un Death Note. Però non lì, non in quel momento, non lei. Altra gente, altre vite. Un'altra era.
Era venuto il momento di tributare le lacrime che doveva al suo passato ed a quella storia sorta e affogata negli omicidi, nella quale aveva fatto una comparsa breve eppure decisiva.
Un libro chiuso da sfogliare, una leggenda macabra da raccontare. Gli altri la seguivano, una processione di silenziosi perchè comprendevano di non comprendere.
Sorrise con nostalgia davanti ad una lapide adamantina, colpita dalla luce sbiadita e polverosa di un sole assorto. Marmo bianco venato di grigio e azzurro, una dignità altisonante e diritta nella sua eleganza asciutta e disadorna. N. Una lettera, una vita seppellita ai ciechi occhi di un mondo ignaro e indegno.
N. Le persone che avrebbero saputo dire a chi apparteneva quella lapide si potevano contare sulle dita di una mano.
Non è giusto, pensò Marion. E ancora: troppe cose non sono giuste. Emi, al suo fianco, le strinse delicatamente la mano come intuendo i suoi pensieri. Le sue dita bianche e sottili erano tiepide al tatto e la sua presa era gentile e partecipe. Marion rispose al gesto imitandola, mentre quell'unica lettera incisa nel marmo diveniva troppo gravosa da sostenere con lo sguardo.
-Eccoci qui, anche quest'anno. Tu l'avresti voluto, vero? Avresti voluto così.- La voce raschiò dolorosamente la gola otturata delle stesse lacrime aspre che premevano all'altezza delle sopracciglia contro le palpebre, ed uscì sottile e roca. Fissò con insistente aspettativa il marmo, nell'insfaldabile speranza che ovunque Near fosse l'avesse udita e sorridesse il suo sorriso raro e prezioso. Avrebbe dovuto conoscerla, sua figlia. Emi, che avrebbe potuto fare parte della sua vita ed era arrivata troppo tardi, contrasse le labbra alle parole di Marion. Le emozioni erano state una novità amara per lei, e nonostante con gli anni si fosse rassegnata all'idea che ogni essere umano poteva e doveva combattere il malessere disordinato, inquieto e faticoso che a volte travolgeva e frastornava il suo animo, non riusciva ancora a dosarle, controllarle e valutarle come avrebbe voluto, come sapeva fare con la trigonometria e la grammatica russa.
Entrambe avvertivano l'urgenza dolorosa di piangere, ma nessuna delle due lo fece perchè non sarebbe servito a nulla.
Marion si chinò e posò sul prato fresco di verde squillante, ai piedi della lapide, un piccolo giglio bianco che dondolò leggiadro nell'aria prima di posarsi con la ineguagliabile grazia delle farfalle al suolo, impigliandosi fra gli steli d'erba. La ragazza sorrise con forza, piegando la malinconia, e Emi tentò di fare lo stesso. Nei suoi occhi si agitavano troppe domande, troppi dubbi.
Marion si rendeva conto che, pur essendo sua figlia biologica, di lui non sapeva praticamente nulla e non l'aveva mai nemmeno incontrato: cercava perciò di rispondere a tutti i suoi interrogativi, la esortava a chiedere ogni cosa le interessasse sapere, le raccontava tutto ciò che poteva. Ma la verità era che Near era troppo imperscrutabile per essere oggetto di analisi e descrizioni, e c'erano domande alle quali Emi non avrebbe mai trovato risposte. La capiva.
Spostò lo sguardo verde salvia sul piccolo memoriale accanto, dedicato a M. Sorrise con maggior serenità, pensando all'uomo che stava imparando a conoscere attraverso i ricordi ed i racconti degli altri e riconoscere in sè stessa. Stava costruendo con pazienza l'intero passato di Mihael Keehl, alla ricerca della sua anima, alla ricerca di lui. Dalla nascita alla Wammy's House a Kira. Tutto. Molte persone, fra cui Linda, la madre di Craig e Harmony, si era dimostrata disponibile a parlarle di Mello.
Nella sua tasca, giaceva una pistola scarica. Alla quale è attaccato un rosario di pietre nere, pensò intenerita fra sè. E fu felice, felice, di non aver sparato quel dannato giorno in cui si era ritrovata il male davanti ed aveva trovato la forza di voltargli le spalle. Non perdonare, non dimenticare. Voltare le spalle.
-Sarebbero felici di vederci insieme.- commentò Marion, lanciando un'occhiata ad Emi. -Dopotutto, penso che si fossero riappacificati.-
Tante cose durano per sempre, pensò, ma non l'odio. Non l'odio. Avvolse la mano di Emi con la sua, forte.
-Pace.- mormorò Emi, come se sentenziasse un'imposizione al futuro, come se stringesse una promessa con il destino.

Vienna, 21 Maggio 2030.

Un prolungato, metallico biiip annunciò che qualcuno aveva accesso al sotterraneo del carcere di sicurezza di Vienna. E il detenuto speciale della cella numero 113 sapeva anche chi era, il misterioso visitatore, semplicemente perchè la stessa persona si presentava lì da due anni allo stesso giorno alla stessa ora d'ogni mese.
Una figura ammantata di nero, un lungo soprabito a svolazzarle insistentemente fra le caviglie e un cappuccio calato sul volto, scese le alte e ripide scale tonando passi svelti ad ogni gradino lucido d'umidità, infrangendo il silenzio sepolcrale che fino ad un secondo prima gravava nelle gallerie. Molti dei prigionieri che sonnecchiavano svogliatamente dentro le loro celle si scossero ed affacciarono alle fessure sbarrate sulle grosse porte blindate, nel vano tentativo di intravedere l'ormai abituale visitatore: ma era troppo denso e fuligginoso il buio che soffocava il sotterraneo, troppo scuro ed indefinibile il suo mantello per riuscire a distinguere la persona che lo indossava, troppo stretta la finestra a loro disposizione verso i corridoi infestati di nebbia buia ed odorosa di muffa. La figura proseguì, sfilò spedita davanti ad una serie di celle e poi, ad un angolo, svoltò a sinistra. Ancora avanti. Il suo passo era affrettato, breve, quasi nervoso. Il soprabito si gonfiava alle sue spalle, i tonfi sonori e attutiti dal buio delle calzature contro il pavimento tracciavano il suo percorso e si perdevano urtando le pareti ed il soffitto.
Arrivato davanti alla cella numero 113, il visitatore si fermò d'un tratto. Rimase un attimo lì davanti, fermo in piedi, il suo sguardo nascosto dal cappuccio a fissare la porta.
Il detenuto della cella 113 sogghignò. -Sei in ritardo di nove secondi.- Era un appuntamento, ormai.
La figura s'inginocchiò a terra, nella stessa posizione che dall'altra parte della porta anche il prigioniero assumeva, così che il suo volto fosse all'altezza della fessura attraverso la quale due occhi castani la osservavano sarcastici. La figura lasciò scivolare il cappuccio: una chioma di folti capelli azzurro cielo, dai ciuffi irregolari, fu scoperta e ricadde contro il mantello nero.
-Stai diventando sempre più patetico.- commentò con voce incolore.
Lawrence si passò una mano fra i capelli biondi, spettinandoli. -Già. E' la monotonia, L. Queste pareti ormai mi stanno strette, e ci sono solo i miei noiosi pensieri a distrarmi... potrei descrivere questa stanza con la stessa precisione di chi l'ha costruita, non scherzo. Ho iniziato anche a contare le piastrelle, a dire la verità, ma ho fatto un segno fin dove sono arrivato perchè mi sono stufato, ad un certo punto. Per tua informazione, l'ultima che ho contato era la trecentosettantotto.-
-Smettila con questi melodrammi, Yagami, come se la colpa fosse mia. Se sei qui dentro, c'è solo una persona responsabile.- L lo fissò con i suoi occhi bicolori, con seccata severità.
-Non sono completamente d'accordo. O almeno, non sono stato io a chiudermi in una cella muffosa di tre metri per tre. Diciamo che non ce la faccio proprio, a perdonarti.- si lagnò Law, con un'espressione placida. L scosse la testa, accigliata.
-Ricorda che era la condanna a morte ad attenderti dopo l'arresto. Se non fosse stato per me, a quest'ora staresti ad annoiarti in una bara dieci metri sotto terra. E' stato patetico quanto infruttuoso sperare in una tua redenzione, o qualcosa di simile... non sei cambiato per niente. Il tuo pensiero non è cambiato. A nulla sono serviti questi cinque anni di reclusione, e chissà se altri cinque serviranno... spiegami a cosa è servito tenerti in vita, allora, Yagami.-
Law la osservò negli occhi bicolori, quello pallido e argenteo e quello scuro e buio, e premette il viso contro la grata rugginosa della finestrella. Le sfiorò fugacemente le labbra attraverso essa; L non si ritrasse ma sostenne il suo sguardo, come in un gioco di sfide e audacia. Il contatto delle loro labbra fu impercettibile ma inequivocabile, nonostante la coltre d'oscurità che li avvolgeva. 
-Oh, ma non c'è alcuna ragione nobile... tu mi hai salvato per tuo capriccio, L. Perchè ti sei invaghita di me. Anche le eroine hanno le loro debolezze... le loro frivolezze... anche loro sono umane, in fondo, ed umano è il loro gretto desiderio. Cosa sarei, cara la mia detective, il tuo gingillo? Il tuo trastullo?- Sorrise sprezzante.
L ricambiò il sorriso tristemente. C'era qualcosa di vero in quello che lui diceva, ma la devastante religiosità di quel prepotente sentimento, stucchevole di acerba e infantile ingenuità, non si poteva liquidare con tale impietosa arroganza, con tali condiscendenti parole. L non aveva mai rinnegato sè stessa, nemmeno quando aveva scoperto di non riuscire a consegnare Kira al boia, di gradire il contatto caldo e vibrante del suo respiro sul viso.
-Un giorno non ti accontenterai più di baciarmi, Lisbeth.- sussurrava il ragazzo, con il cipiglio indolente e serafico dei veggenti. -Un giorno mi farai evadere, e io attenderò finchè non arriverà.-
-Attendi, attendi. Se preferisci convincerti di queste fantasie per avere ancora qualcosa in cui sperare, nessuno può proibirtelo.- L inarcò le sopracciglia divertita.
Ormai quelle visite troppo rare e brevi, che si faceva violenza per ridurre ad una al mese e basta, erano continuo oggetto di riflessione e ossessioni incomprensibili se non adducendovi come causa febbre e follia. Sognava il suo sorriso, sognava le sue dita. Attraenti incubi che le toglievano il fiato e la ragione al mattino. 
-Il tempo darà ragione ad uno dei due.- Law allungò l'indice oltre le strette sbarre e le sfiorò il labbro superiore, il suo sguardo magnetico una ragnatela rappresa del sangue di troppe vittime. L pensò a Rowena, suicidatasi due settimane dopo l'arresto. Si era strappata gli occhi e aveva aspettato una morte esasperante e miserevole, che non sarebbe augurabile neanche nei confronti del proprio peggior nemico. L ricordò la frustrazione paralizzante e torbida che le aveva assalito le braccia inerti e al morso che le aveva chiuso lo stomaco alla visione di quel cadavere straziato dalle sue stesse mani, imbrattate di un copioso viscido rosso.
-Tu marcirai per tutto il resto della vita in questo buco schifoso, Yagami.- pronunciò beffarda lentamente, incidendolo con gli occhi.
-Lo vedremo.- ripetè Law con voce mellifua, carezzandole lascivo una guancia. -Finchè la mia carceriera resti tu, nulla è perduto.-
L ghignò, davanti alla sua invincibile sfacciataggine. -Stai zitto.-
Riaccostò le labbra a quelle di Kira ed entrambi tacquero, soffocati dalla potenza disarmante ed implacabile di quel qualcosa più grande di loro che, in un'altra situazione, in un altro posto e in un'altra epoca, altre persone avrebbero definito amore. In quell'istante dilatato ed impigliato nel punto più sottile del collo della clessidra, lo giudicarono solamente l'alchimia ribelle di due elementi destinati a respingersi ancora prima di nascere.



Mondo degli Shinigami, 21 Maggio 2030.

Molto, molto lontano da lì due Shinigami pensosi erano affacciati al buio, invitante portale che conduceva al mondo degli umani.
Uno dei due, con un sospiro che somigliava ad uno sbuffo, addentò un frutto grigiastro ed avvizzito. L'altra sollevò gli occhi, apatica.
-Mmh. Buona?-
-Proprio no. Fa schifo.- bofonchiò l'altro dio della morte, fissando con sguardo truce l'odiosa merenda. -Come mi mancano le mele, accidenti! Non hai idea di quanto fossero deliziose... rosse, lucenti, succose... Non hai proprio idea.- Scosse il capo, disintegrando quella fantasia con rassegnata stanchezza.
-Oh sì, che posso.- ribattè la Shinigami laconicamente.
-Cosa? Anche tu sei scesa nel mondo degli umani?- si stupì Ryuk. Lei annuì con il capo, malinconica.
-E cosa ti manca di più, Rail?- domandò ancora lui, lieto di avere trovato qualcuno che potesse capire la sua nostalgia.
Rail aveva un'espressione insondabile. Un volto le attraversò la mente, un ricordo troppo lontano e troppo prossimo; e ricordi erano anche le emozioni che aveva provato quel tempo, capaci solo di sfumarsi in un vortice di atroce, alienante nulla.
Sorrise, una smorfia di infelice amarezza che fece rabbrividire Ryuk.
-Vorrai dire chi, Ryuk.- concluse Rail in un sussurro, mentre mentalmente scriveva la parola fine al termine dell'ultimo capitolo di quella storia e ne chiudeva con le unghie lunghe il libro.















Fine.



































Note dell'Autrice: Ed ecco a voi il finale, cari lettori. Con questo epilogo la storia si conclude. ^-^
E sì, Marion e Craig si sposano. Non potevo mancare di confermarvelo! *-* Come potete vedere, è stato dato un nome alla figlia di Near (ovviamente!): Emi in giapponese significa bellissima benedizione, se non sbaglio. Anche Law può dirsi contento, in fondo lui ed L hanno il loro lieto fine. L'idea di concludere la storia con un accenno a questa eccentrica relazione, senza specificare come potrebbe evolversi, mi intrigava un sacco, così l'ho fatto. ^-^ Volevo scrivere un finale che chiarisse bene alcune cose, ma fosse anche aperto, sotto altri aspetti. Che lasci anche spazio all'immaginazione del lettore. Le uniche che non possono dirsi troppo soddisfatte del finale della storia sono Rowena e Rail. Inizialmente avevo pensato di aggiungere la scena del suo suicidio nel capitolo precedente, poco prima che la arrestassero, ma così sarebbe risultato esageratamente lungo e non avrebbe avuto nemmeno troppo senso, che una si ammazzi così. Ma che dovesse morire, purtroppo, era già in programma da un po'. Oh, non credetemi insensibile, eh. Sono pur sempre i miei personaggi, mi spiace farli soffrire, però! Però qualcuno doveva.
Rail invece, come tutti gli Shinigami, non poteva proprio restare lì. Doveva tornare al suo mondo. Però ho voluto che l'estrema conclusione fosse la sua amareggiata malinconia, perchè questa storia a causa sua è iniziata e con lei doveva finire. Che dire, Law le manca. T.T Poooovera Rail.
Con questa lunga nota volevo rifarmi per tutte le volte che vi ho un po' trascurati, miei adorati lettori! Spero che questo finale vi sia piaciuto e vi sia sembrato adeguato. Se qualcosa non vi sembra giusto/non vi va a genio/non vi soddisfa potete insultarmi a piacimento con l'ausilio delle recensioni. La vostra opinione ha grande rilevanza per me!
Grazie mille per avere letto fin qui, per me è stato molto importante il vostro appoggio. Adesso che è giunto il momento di lasciare i personaggi proseguire per la propria strada, senza più rendervi note le loro avventure, la malinconia è inevitabile. Anche per voi è così?
Mi interesserebbero molto delle vostre opinioni conclusive sulla storia... personaggio più simpatico? Più odioso? Robe così. 
Grazie, grazie mille volte ancora. Spero che qualcuno sia disposto a lasciarmi un'ultima recensione. ^-^
Lucy
ps: I capitoli di questa storia sono ventuno. Ventuno. Come il giorno della morte di Near.
Spaventoso. o.o Non l'ho fatto apposta, chiaro. Non sono così macabra. XD

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